I've been waiting forever that day never came

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In Your Shadow ***
Capitolo 2: *** Rescue Me ***
Capitolo 3: *** Invaded ***
Capitolo 4: *** Zoom Into Me ***
Capitolo 5: *** Elysa ***
Capitolo 6: *** Love And Death ***
Capitolo 7: *** Automatic ***
Capitolo 8: *** That Day ***



Capitolo 1
*** In Your Shadow ***


I'VE BEEN WAITING FOREVER THAT DAY NEVER CAME

CAPITOLO PRIMO: IN YOUR SHADOW I CAN SHINE

I hate my life,
I can’t sit still for
One more single day
I’ve been here waiting for
Something to live and die for
Let’s run and hide

Bill guardava la gente. Non sapeva perché, ma la guardava comunque, seduto sulla panchina nell’unica, piccolissima, stazione di Loitsche, una bambina obesa in braccio e una canzone degli Scorpions da cantare a mezza voce, verso un pubblico fantasma che non avrebbe mai avuto davvero. Non parlava, non chiedeva, semplicemente guardava. Osservava i loro modi di fare, origliava gli stralci di discorsi che poteva cogliere, seguiva le loro destinazioni, a volte aiutava qualche vecchia signora a caricare le valigie sulle carrozze. Tutti conoscevano Bill, alla stazione. Tutti cercavano, anche solo inconsciamente, quel ragazzo anoressico coi capelli corvini sparati dappertutto e il viso troppo androgino pesantemente truccato che se ne stava accoccolato sulla panchina scrostata con quella bambinetta che avrà avuto suppergiù due anni, orribilmente grassa e perennemente sorridente, una macchina da scrivere accanto e un biberon con cui ogni tanto nutriva la bambina. Sì, indubbiamente tutta Loitsche lo conosceva, ma nessuno avrebbe saputo dire chi fosse davvero, di chi fosse la bambina grassa, del perché stessero sulla panchina tutto il giorno, dalla mattina prestissimo, quando solo i pendolari erano in piedi e la bruma era fitta sino alla sera, a quando la stazione chiudeva e nessun treno sarebbe più passato, quando finalmente Bill si alzava sospirando, si caricava la bambina in braccio, afferrava la borsa e si trascinava a casa, ciondolando sui tacchi.
Loitsche accudiva Bill e la bambina obesa, come un guscio di protezione che li avvolgeva e li proteggeva dal mondo esterno, senza sapere nulla di quei due fantasmini che popolavano la stazione ogni giorno, che fosse piena estate o pieno inverno, persino a Natale o al primo dell’anno, aveva creato un microcosmo apposta per loro, in cui nessuno poteva entrare. Il vagabondaggio era proibito, ma nessun agente si era mai sognato di dire a Bill di lasciare libera la panchina, come mai nessun operatore sociale aveva mai indagato sulla sua persona e sulla situazione sociale nella quale viveva quella strana bambina. La figlia di Bill, dicevano, ma era poi vero? Nessuno avrebbe potuto stabilirlo con certezza. A volte, non era raro che qualche anziana signora offrisse loro qualcosa, che Bill accettava con un sorriso dolce, ma poi nessuno gli parlava mai. Lo lasciavano chiuso nella sua bolla di vetro, silenziosa e malinconica. A volte il capotreno aveva tentato di chiedergli perché stesse lì, se volesse aspettare nella sua guardiola, ma lui aveva sempre educatamente scosso la testa, sospirando un po’ più forte, portandosi un grande ombrello rosa quando pioveva e una buffa pelliccia nera quando nevicava. Credevano tutti che Bill fosse pazzo, ma nessuno aveva mai osato farlo ricoverare, come mai nessuno aveva tentato di scoprire qualcosa su di lui e sulla bambina grassa, che, immobile e pacifica come un Bodhisattva, attendeva silente accanto a lui. C’erano stati dei ragazzini che lo avevano seguito quando la sera si alzava e tornava a casa, ma non c’era nulla di strano nella sua figura che ciondolava sui tacchi vertiginosi, il corpo anoressico messo a dura prova dal peso della bambina, e nemmeno quando entrava in una delle tante casette a schiera, chiudendosi la porta alle spalle come ogni persona normale. Non c’era nulla di assurdo nel suo giardinetto curato, e nemmeno nel suo aspetto, forse troppo eccentrico, fosse troppo da transessuale, ma niente di così pesante da considerarlo pericoloso. No, Bill non aveva nulla di strano all’apparenza. Era quello che nascondeva che era strano, illogico e irrazionale, quel suo silenzio coronato dalla malinconia e dalla nostalgia che emanava a onde dal suo essere, la tristezza insita che brillava nel suo dolce sorriso, nei suoi enormi occhi scuri appesantiti dal trucco, nelle lunghe mani che accarezzavano la bambina grassa. Nessuno sapeva cosa facesse per vivere e per mantenere la bambina, e nemmeno perché fosse tornato a Loitsche dopo tutti quegli anni; c’erano alcuni ragazzi e qualche persona che lo conoscevano quando era bambino e viveva lì con sua madre, ma tutti ne avevano perso le tracce quando Simone si era trasferita a Berlino portandosi dietro il piccolo Bill, chiudendo per sempre la porta della vecchia casetta a schiera, illudendo la cittadina di un impossibile ritorno. Ma poi Bill era tornato. Senza Simone, senza bagagli, senza parole e senza racconti, con una bambina in braccio e la chiave della vecchia casa, un sorriso triste dipinto sulle labbra piene e qualche canzone da canticchiare alla sua bambina a mezza voce, una sigaretta tenuta tra le dita lunghe e magre, uno sguardo perso oltre a ogni orizzonte e ad ogni sogno possibile e nessuna risposta alle mille domande che non fosse la novità di starsene sulla panchina. Era tornato a casa da due anni, con la bambina che era appena nata, un mutismo eccezionale, niente da dire e niente da dare, solo tanta malinconia e un sorriso triste per tutti. Nessuno aveva più visto Simone, né l’aveva sentita, tanto da pensare che forse era morta nel frattempo, nessuno che era riuscito a scoprire dove fossero finiti per tutti quegli anni la dolce Simone e il suo bambino, bambino che era riapparso dalle nebbie di Berlino cambiato come solo i sopravvissuti a un incubo possono fare. Aspettava qualcosa, lì alla stazione, qualcuno, si diceva che aspettasse un uomo, come diceva Gustav, un ragazzo che era stato suo amico, quando ancora Bill viveva a Loitsche con sua madre e che pareva sapere misteriosamente qualcosa che nessun altro sapeva. Bill guardava ogni persona, la studiava attentamente come a cercare di trovare in ognuno di loro uno stralcio di familiarità che però sembrava non trovare mai. Guardava, canticchiava, e una lacrima di mascara gli colava sulla guancia ogni sera, prima di alzarsi e tornare a casa, senza aver trovato quello che cercava così disperatamente. Bill era un parte inscindibile della stazione ormai, uno del paese che non si sarebbe staccato da quella panchina e che era protetto da tutta quella gente che se lo ricordava e che aveva deciso di difendere la sua apparente follia dai mali del mondo e da quello che nascondeva quella bambina grassa, per molti chiave del mistero che aveva circondato il giovane ragazzo. C’era chi diceva che quella bambina l’avesse trovata per caso, abbandonata da qualche parte, e che l’avesse adottata per salvarla da morte certa, c’era chi pensava che fossero due fantasmi tornati dalle sabbie del tempo e costretti in terra da una maledizione, chi addirittura era convinto che la bambina fosse solo una proiezione incantata. Ma era comunque un mistero, come l’intero Bill, d’altronde, che viveva ogni giorno alla stazione guardando persone che non conosceva, aspettando demoni che nessuno percepiva.
Però, se nessun abitante di Loitsche si stupiva oramai più della presenza vagamente grottesca del moro e della sua bambina, ci facevano assai caso gli stranieri che giungevano in paese, come quel ragazzo rasta che era appena sbarcato dal treno quella triste mattina d’inverno, la chitarra appesa alla spalla, i dread legati in una coda di cavallo, il berretto da skater calcato in testa, uno zaino militare ai piedi e quell’espressione sul viso bruciato dalla sabbia e dal deserto bollente. Tom Kaulitz era tornato a casa, finalmente. Dopo due anni di assenza aveva rivisto la sua patria, sentito la sua lingua per le strade, respirato l’aria della sua terra natia, aveva mangiato i crauti come quelli che faceva sua nonna, aveva visto di nuovo la sua Berlino. Sì, Tom era tornato a casa. Con la P38 schiacciata dentro ai pantaloni, perché certe abitudini non si dimenticano, le cuffie nelle orecchie con i Led Zeppelin che tentavano inutilmente di sovrastare il rimbombare dei caccia, delle piastrine appese al collo che non riusciva ancora a togliersi. Era tornato, ma si sentiva così fottutamente fuori posto. Perché la guerra faceva male, e Tom lo sapeva, faceva male come una spina che si rompe sottopelle, un dolore impossibile da togliere, un’infezione purulenta e continua che ammorbava il suo sangue e lo avrebbe fatto finché non sarebbe morto. Tom si guardò attorno, inspirando a pieni polmoni l’odore fresco della gelida brezza della pianura pannonica, quel profumo che gli era mancato così tanto, sostituito dalla polvere da sparo e dalla sabbia grigia, l’opprimente calore del Medio Oriente soffocato dal freddo selvaggio e dal profumo dei krapfen nell’aria.  A Tom era mancata casa, gli era mancata follemente. Gli mancavano le strade, la gente, la pace, gli mancava la piccola Loitsche dove passava le estati a casa dei nonni, la sua lingua madre parlata da tutti, la musica libera nelle orecchie, i krapfen e le sacher appena sfornati, la sua chitarra da strimpellare per le strade, il suono del vento della pianura, lo sferragliare del treno, l’acqua del fiume, anche se forse, inconsapevolmente, sapeva che il calore del deserto, il bruciare del sole afghano, le capre che fuggivano ai bombardamenti, il rumore delle granate che scoppiavano, i mitra da ricaricare, quei bambini terrorizzati da salvare anche se forse non avrebbe dovuto, quegli ordini rigidi a cui obbedire, forse erano più suoi di quanto volesse davvero ammettere. Voleva tornare al fronte? Tom avrebbe voluto urlarlo, quel “No, col cazzo”. Ma sapeva che una piccola, infinitesimale, parte di lui suggeriva un lieve “Sissignore” che avrebbe voluto uccidere, ignorare, aborrire ma che inconsciamente resisteva stoico. La guerra fa male, e Tom lo sapeva, ma era come una droga da cui, sapeva anche questo, difficilmente avrebbe potuto disintossicarsi. Era tornato a casa, perché lui laggiù aveva finito, era tornato dalla sua famiglia, aveva cominciato a risentire la sua musica e a suonare la sua chitarra, ricordando con nostalgia tutte le canzoni che suonava prima di partire per l’inferno e non tornare davvero intatto, si era fatto di nuovo i suoi amati dread e aveva ricominciato a mettersi i vestiti da skater, e ora, stava tornando dalle estati che popolavano i sogni afghani. Era tornato ad essere Tom, il buon vecchio Tom, aveva lasciato dietro di sé il soldato senza nome, relegandolo a un fantasma abbandonato nel deserto a cuocere sotto il sole e agli spari senza senso. Anche se, lo faticava ad ammettere, sembrava che l’Afghanistan non l’avesse davvero abbandonato, lasciandogli incatenato nelle narici l’odore del sangue, le orecchie ovattate dal rumore degli aerei, la gola sempre secca in ricordo del vento caldo del deserto che soffiava incessante. E gli aveva lasciato lei, un tangibile e tragico marchio che sembrava volergli urlare sempre “Io sono qui, non ti puoi liberare di me”, che lo legava indissolubilmente alla guerra in cui si era trovato catapultato e dalla quale non si sarebbe mai potuto salvare.
Tom si grattò distrattamente il retro del collo, ritraendo di scatto la mano quando entrò in contatto con la piastra metallica sottopelle, sentendo di nuovo la detonazione tragica, gli occhi di nuovo infiammati dalle vampate di fuoco, un improvviso senso di nausea che non lo lasciava più quietare da quella notte in cui, nella durata di un battito di ciglia, si era trovato a dover affrontare un nuovo pericolo e una nuova storia da scrivere col sangue e con la polvere da sparo invece che con le note di una chitarra elettrica e di una risata. Si guardò intorno, lo skate legato allo zaino militare che non aspettava altro di correre di nuovo per le stradine di Loitsche. Era tutto rimasto uguale alla sua infanzia, la stazione sempre piccola come la ricordava, col vecchio capotreno baffuto che correva avanti e indietro, il treno ormai quasi prossimo “alla pensione”, con i graffiti dei ragazzi del luogo (sì, forse quel graffito poteva anche averlo fatto lui), il cielo della pianura che turbinava di quell’azzurro selvaggio che a Tom era mancato come può mancare l’acqua a un fiume, le nuvole grigio sporco che si rincorrevano nell’immensità del cielo, amalgamandosi e liberandosi come catene celesti, il vecchio baracchino dei krapfen sempre preso d’assalto dai bambini, l’odore forte e caratteristico che solo le vecchie cittadine di confine possono avere, il rumore del treno che sferragliava e della gente che rideva, il vago suono di qualche canzone degli Einsturzende Neubaten che risuonava da qualche casa nelle vicinanze, il lento scorrere del fiume grigio perla che faceva il suo corso pacifico, una pace e una tranquillità che impregnava ogni dove, il suono delle campane della chiesa che suonavano gioiose un nuovo giorno. Quella era casa, per Tom, il luogo pacifico di estati di cui aveva scordato il sapore.
Si incamminò lungo la stradina che usciva dalla piccola stazione, lasciandosi alle spalle il treno e la strada per Berlino, immergendosi nell’atmosfera sognante della piccola Loitsche, con il profumo delle rose e dei ciclamini in fiore appesi ad ogni finestra, un tripudio di rossi e viola, e tenui bianchi dappertutto, così diversi dai cardi inerpicati sulle brulle colline afghane. Aveva voglia di sedersi per terra e suonare la chitarra, a quel punto, suonare fino a farsi sanguinare le dita, cantare le vecchie canzoni della sua infanzia alla gente, dimenticare la guerra, il passato, il fronte, di tornare ad andare sullo skate a fare buffi graffiti sui muri, a bere birra scura nel vecchio pub della nonna di Gustav, già, il vecchio Gustav, chissà che fine aveva fatto in tutti quegli anni. Sarà stato sempre al bancone, con una buona parola per tutti, qualche occhiata ai fianchi di Claudia, il pacchetto di patatine sempre in mano e gli occhiali unti? Sembrava non essere cambiato niente, in paese, tutto rimasto immutato come se da quando fosse partito per l’Afghanistan l’intera Germania si fosse chiusa in una bolla temporale per aspettarlo e ricominciare a vivere una volta che pure lui era tornato in patria. O forse no. Lanciò un’occhiata alla vecchia panchina scrostata, dove solitamente si facevano le dichiarazioni alle ragazze quando erano adolescenti, e dove ora invece stava seduta un ragazzo coi capelli corvini sparati dappertutto, che canticchiava una canzone a una bambina obesa, accarezzandole i capelli neri accuratamente acconciati in piccole treccine. Tom non si ricordava assolutamente che a Loitsche ci fosse una figura così effeminata e grottesca, che canticchiava Leuchtturm, quella di Nena, che piaceva a tutti all’epoca e di cui Tom ricordava ancora gli accordi per la chitarra, che la si intonava sempre la notte di Ferragosto, giù al fiume, due chitarre, un fuoco e tante risate, quel ricordo bellissimo che lo faceva resistere nell’inferno di fuoco del Medio Oriente. Si passò una mano tra i dread, scuotendo la testa, continuando a camminare lungo la stradina, diretto alla locanda della nonna di Gustav, quel bellissimo edificio con i gerani rossi alle finestre e il porticato di legno, con la stalla dietro dove dormicchiava imperituro l’asinello che si usava per il presepe vivente. Entrò dentro, il caldo profumo del gulasch con le patate arrosto che invadeva l’aria satura di birra e patate fritte, le solite panche di legno scuro con i cuscini ricamati a mano bianchi e rossi, il bancone dove stavano i soliti vecchietti che parlavano della guerra e della politica, gli spinatori sempre in funzione, le bottiglie di liquore e di superalcolici sempre mezze vuote che decoravano il retro del bancone, le finestre piccole con appese sotto le gavette di stagno di soldati morti al fronte, qualche fucile da caccia incrociato al muro, la testa di un cervo che incoronava il centro della sala bassa e fumosa. Tom ricordava così bene le serate passate alla locanda, i discorsi sulla politica, i sogni e le speranze affogate nella birra e nel juke-box rosso e giallo che ancora resisteva impavido in un angolo, un po’ scassato, le canzoni che passavano alla radio, e le partite della Germania da vedere tutti insieme ammassati sui divani rossi un po’ bucherellati.
-Tom? Sei … oh cazzo, Tom!
Il rasta non fece nemmeno in tempo a registrare la voce che un barile biondo con gli occhiali unti e un sacchetto di patatine in mano lo travolse con un abbraccio portentoso e un urlo rauco.
-Gustav? Cristo, Gus, mi hai venire un infarto!
Tom strinse il biondo amico, collassandogli addosso lo zaino e la chitarra, il viso tondo e roseo di Gustav mai cambiato davvero, una valanga di ricordi dolceamari a colpirlo come la marea. Loro la notte di Capodanno a farsi praticamente esplodere in mano i fuochi d’artificio, loro giù al fiume a fare le gare di resistenza sott’acqua, loro a correre in bicicletta per andare a comprare il pane dalla vecchia Hilde, loro nella casa sull’albero a leggere i fumetti di Spiderman, loro a nascondere i giornaletti porno sotto le scale, loro a fare finta di fare i compiti e invece via, giù al fiume a nuotare e a seguire la corrente. Loro, e tutti i ricordi di Tom che lo sopraffacevano, i ricordi di un mondo che si era lasciato sfuggire dalle mani come un perfetto idiota quando si era arruolato nell’esercito.
-Schifoso pezzo di merda, sei tornato, finalmente.- Gustav lo guardò, un sorriso franco stampato sul viso grassoccio, quella che lui non avrebbe mai ammesso essere una lacrima di gioia a corrergli lungo la guancia.
-Sono tornato, amico. Dopo due anni all’inferno.- sospirò Tom, un magone che aveva imparato a controllare che tornava a premergli nel fondo della gola, la gioia di non essere stato dimenticato dagli amici di una vita. Sì, era tornato, tutto lo stava urlando, tutti i sensi all’erta. L’odore della guerra che lo impregnava. – Sei … sei lo stesso di prima, eh?
Gustav lo guardò, guidandolo al bancone, una frecciatina che forse era amara o forse era ironica, il rasta non lo capì mai
-Solo tu sei cambiato, amico. Qui siamo rimasti tutti ad aspettarti. Allora, cosa mi racconti di questi due anni?
-Tutto e niente, Gus. Inferno. E questa.
Tom si sedette al bancone, e picchiettò con le dita dietro l’orecchio destro, lasciando che Gustav lo guardasse con aria inorridita, non stupendosi nemmeno quando lo afferrò per le spalle e urlò, sputando pezzi di patatina, agitato e spaventato esattamente come suo padre quando lo aveva visto
-Tu … tu mi stai prendendo in giro! Che cazzo hai in testa!?
-Una granata.- rispose Tom, scuotendo i dread, un sorriso amaro stampato sul viso ancora bellissimo, ancora innocente, ancora infantile. Guardò il biondo, amareggiato, lo stesso sguardo e la stessa voce piatta che sfoderava ogni volta che qualcuno gli chiedeva qualcosa su quella guerra per cui era partito senza un motivo, senza una morale – Un’esplosione al campo, di notte. Ci avevano bombardati. E io ne porto la prova tangibile, per sempre. Se la tolgono, sono morto davvero.
-Non sei morto perché hai sempre avuto un culo della madonna, no?- Gustav lo guardò storto, forse arrabbiato, forse terrorizzato, forse solo stanco di aspettare un amico perduto.
-Non guardarmi così, Gus. Lo sapevi, quando sono partito ma ora sono di nuovo qui, quindi, per favore, sorridi. Ho visto fin troppe lacrime in Afghanistan per poter sopportare le tue.- Tom sorrise dolcemente, occhieggiando le solite birre.
Gustav scosse la testa, cominciando a spinare una rossa, leggendo negli occhi scuri del rasta tutto quello che non avrebbe voluto esserci letto. C’era traccia di rimorso, per una vita strappata e lacerata, per una scelta assurda e incomprensibile, per una serie di eventi concatenati che non avevano fatto altro che rovinare esistenze, c’era la polvere di ricordi brucianti e presenti esattamente come la scheggia di bomba conficcata nella testa, qualcosa che avrebbe perseguitato i suoi sogni per tutta la sua esistenza, un morbo incurabile che gli aveva attecchito alla mente come un cancro, c’era la consapevolezza di appartenere oramai a un  mondo inconciliabile con quello in cui era nato, di aver buttato tutta la sua giovinezza nel fuoco, di essersi ucciso con le proprie mani, come se quella scheggia se la fosse infilata da solo nella testa. Senza nemmeno rendersene conto, Gustav guardò le mani di Tom, quelle mani lunghe e callose, che ricordava correre sulle corde della chitarra, dare pacche sulle spalle, stringersi attorno ai boccali di birra scura, ma ora non poté fare a meno di immaginarle sporche di sangue, polvere da sparo e sabbia, incrostate di odori e microbi che non si sarebbero mai potuti cancellare. Glielo sentiva addosso, l’odore della guerra, della distanza, l’odore dei soldati, dei reduci, lo stesso odore che avevano gli anziani del posto quando erano bambini, che raccontavano delle vecchie storie della Seconda Guerra Mondiale, l’odore che loro, i figli della pace, pensavano di non dover mai avere addosso ma che, guarda caso, quello che tra loro più predicava la pace, la musica libera, il movimento punk degli esordi, portava appiccicato ai vestiti e alla pelle come una cortina di fumo impenetrabile. Tom puzzava di guerra, Gustav lo sentiva. Puzzava di morte e di notte insonni sotto le stelle afghane a piangere lacrime che cadevano su terre infeconde. Erano tanti, gli amici del rasta che erano rimasti sconvolti quando lui era partito. Avevano tutti passato due anni a chiedersi perché proprio lui fosse andato verso un destino incerto e drammatico, perché lui fosse crollato così, chi o cosa lo avesse spinto a fuggire dalla Germania per imbarcarsi verso l’Acheronte. C’era chi aveva detto che era partito per protesta contro il sistema, come diceva sempre quando erano ragazzini, per prestar fede ai suoi giuramenti di rivolta. C’era chi era convinto che fosse partito costretto da suo padre, spedito verso la morte e l’orrore da un uomo che non l’aveva mai amato come si dovrebbe amare un figlio. C’era chi diceva che l’avesse fatto per sperimentare nuove cose, per la sua fissa di provare sulla pelle tutto quello che leggeva e che vedeva al cinema. E poi c’era Gustav, che aveva sempre sospettato che fosse scappato per l’amore di un uomo. Ma in fondo erano tutte storie, perché Tom non aveva mai risposto a nessuna delle loro domande.
-Mi eravate mancati tutti, lo sai?- Tom bevve un sorso di birra, giocherellando distrattamente con un dread, guardando con aria sognante fuori dalla finestrella.
-Come tu eri mancato a noi, ovviamente.- Gustav sorrise, guardando l’amico e la sua espressione persa nel vuoto azzurro del cielo. – Siamo rimasti tutti ad aspettare il tuo ritorno, la tua chitarra e le tue cazzate punk.
-Non sono cazzate.- mugolò Tom, sorridendo stancamente – Sono i fondamenti. Comunque, Gus, prima di chiamare gli altri … ho notato una cosa strana.
-Che cosa, T.? Non dirmi che sono ingrassato, perché lo so da solo, grazie.
-A parte quello, no, è che è tutto rimasto uguale a quando sono partito. Tranne per una cosa.- Tom si alzò, portando il biondo dalla finestra, indicando la stazioncina dove il piccolo treno era oramai fermo. C’era quel ragazzo che sembrava un trans seduto sulla panchina scrostata, le lunghe gambe accavallate, la bambina obesa in braccio, impegnato a farle bere il latte dal biberon, il capo dolcemente piegato da un lato, la cascata di capelli neri con le ciocche bianche sparate dappertutto che lo facevano sembrare uno strano angelo caduto. – Chi è quel ragazzo? Non me lo ricordo assolutamente.
Gustav sospirò, togliendosi gli occhiali dal naso e pulendo le lenti, lentamente
-Si chiama Bill.- rispose, inforcando gli occhiali – E’ un ragazzo del posto, solamente che si era trasferito a Berlino quando  eravamo piccoli, avremmo avuto suppergiù sette anni. Tu venivi ancora troppo poco per ricordartelo. E’ tornato due anni fa.
-Ah.- Tom assottigliò gli occhi, scuotendo la testa – Ha un che di familiare, credo … ma quella bambina è sua figlia?
-Non lo so, in realtà.- il biondo alzò le spalle, sospirando triste – E’ strano, T.
-Ma che ci fa laggiù su quella panchina, con sto freddo?- Tom si affacciò dalla finestrella.
-Sono due anni che non fa altro che stare lì seduto con la piccola, che piova o ci sia il sole, che nevichi o che ci sia tempesta.- Gustav guardò Bill che stampava un bacio sulla fronte della bambina e le prendeva le manine grasse tra le sue.
-Ma … è normale?- Tom strabuzzò gli occhi, seguendo con lo sguardo Bill che si alzava dalla panchina, barcollando incerto, mentre prendeva la piccola in braccio, caricandosela con evidente fatica tra le braccia, senza vedere le grosse lacrime di mascara che gli correvano lungo le guance pallide.
-Certo, amico.- Gustav fece un sorriso amaro – Lo conoscevo benissimo, quando eravamo bambini, non è pazzo. Sta solamente aspettando.
-Che cosa dovrebbe aspettare?- Tom lo guardò incuriosito, un improvvisa fitta alla testa che ogni tanto il pezzo di granata gli infliggeva.
Gustav scosse la testa, continuando a seguire con lo sguardo Bill che ciondolava verso casa con la sua piccoletta abbarbicata in braccio.
-Sta aspettando il ritorno di un soldato.

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Capitolo 2
*** Rescue Me ***


CAPITOLO SECONDO: RESCUE ME
I trusted in you in every way
But not enough to make you stay
Turn around, I lost my ground
The walls are coming closer
My senses fade away
I’m haunted by your shadow
I reach to feel your face
You’re not here … are you here?
 
-Mamma, mamma, guarda che bello!
Bill si massaggiò il ponte del naso, guardando la sua bambina zampettargli vicino, un enorme sorriso sul viso rotondo che gli ricordava così tanto il suo, di viso, lo stesso sorriso un po’ sbarazzino e un po’ deciso che lo aveva fatto innamorare anni prima e lo aveva distrutto ogni giorno di più. Ogni volta che guardava, baciava, coccolava sua figlia, Bill non poteva fare a meno di vedervi lui, quel ragazzo che aveva amato e che amava ancora così tanto da infliggersi ferite sempre peggiori ogni giorno di più. Aveva il suo stesso taglio d’occhi, la stessa luce orgogliosa ma innocente che aveva lui, quelle guance rotonde e grassottelle, quel sorriso così bello … più la guardava, più si rendeva conto di quanto gli mancasse, di come si ancorasse a quella bambina come alla proiezioni dell’uomo che l’aveva abbandonato senza una lettera, un ricordo, un addio.
-Che cosa, Mackenzie?
Non avrebbe voluto alzarsi dal divano, non in quel momento. Ma poi, quando mai voleva alzarsi dal divano, con la televisione sempre accesa su soap opera e programmi di cucina che non guardava mai veramente? Sospirò, alzandosi lentamente, le membra doloranti, gli occhi gonfi e stanchi, i capelli piastrati tutti arruffati, la camicia da notte spiegazzata. Bill era stanco, come sempre. Stanco, annoiato, depresso, un fantasma che tirava avanti senza nemmeno saperne il vero motivo. La sua svogliatezza era oramai diventata patologica, se ne rendeva conto da solo, ma non aveva la più pallida idea di come liberarsene, di come uscire dal pantano nel quale si era affogato da solo. Mackenzie gli indicò un enorme castello di carte che faceva la sua bella figura in mezzo al salotto, un po’ pericolante ma pur sempre d’effetto, circondato dal disordine che gravava in casa.
Bill sorrise mestamente, accarezzandole la testolina
-Che carino, tesoro, è bellissimo.- non sapeva quanto la sua voce fosse sicura di sé, e nemmeno se poteva davvero definirsi una voce orgogliosa, ma non gliene importava molto. Era stanco, tanto stanco.
-Giochiamo col castello?- Mackenzie gli si appese alle gambe, tirandogli con le manine paffute il bordo della camicia da notte azzurro pallido – Facciamo l’assalto dei cavalieri? E la togna per i cattivi?
-Si dice gogna, amore, non togna. E comunque oggi no, la mamma è stanca.- sospirò Bill, ributtandosi a peso morto sul divano, lasciando la bambina sedersi per terra con uno sbuffo arrabbiato.
-Anche ieri eri stanca, mamma. E anche l’altro ieri. E ieri prima ancora.
Mackenzie guardò attentamente Bill, semi sdraiato sul divano a guardare programmi che poi nemmeno seguiva, con quella tazza di the che diventava freddo e che buttava via, quelle pastiglie che prendeva sempre e che secondo Mackenzie contribuivano a stancarlo più di quanto dovesse essere un ragazzo di ventitre anni, quelle sigarette che fumava sempre e che riempivano la casa di cenere.
-Lo so, tesoro, ma è un brutto periodo questo, non ho voglia di giocare.- mugolò Bill, mordicchiandosi il labbro inferiore, fingendo di stare attento allo stupido programma di cucina che andava in onda.
-Ma mamma, per te non è mai un buon periodo.- gli ricordò tristemente Mackenzie, alzandosi e barcollando sulle corte gambe grassottelle gli andò vicino, ricadendo seduta per terra come un sacco di patate. Da che avesse memoria, Bill era sempre stato così. Vittima delle sigarette, delle pastiglie di Xanax, della televisione per il popolino, del divano e della stazione. Da quando era nata, non faceva altro che stare alla stazione ad aspettare qualcuno, nata praticamente su quella panchina, guardando ogni viso che si alternava dinnanzi a loro, prendendosi qualunque tempo, dalla nebbia, alle tempeste, al bollente solleone, senza capire chi fosse la persona che tanto dovevano attendere. Vedeva tristemente Bill sgonfiarsi sempre di più, appeso spasmodicamente alla speranza di vedere quella persona sconosciuta che, a giudicare da quel poco che Bill diceva, avrebbe dovuto essere suo padre. Mackenzie non lo sapeva. In realtà, non gli sarebbe nemmeno troppo interessato saperlo, ma qualcosa le diceva che se questa persona si fosse mai palesata, allora forse sarebbero finite le sigarette, le pastiglie, la televisione e soprattutto l’apatia.
-Sono sicuro che quando papà tornerà da noi, tutto si aggiusterà.- Bill la prese faticosamente in braccio, stampandole un umido bacio sulla fronte pallida – Aspettiamolo ancora, cucciolina mia, e quando sarà arrivato, la mamma non sarà più stanca, va bene?
-Lo dici sempre, mamma.- Mackenzie si appese alla vestaglietta di Bill, lasciandosi avvolgere dalle sue braccia delicate – Dov’è allora papà?
-E’ andato lontano, tesorino, tanto lontano … - Bill fece un sorriso mesto, una lacrima solitaria a percorrergli la guancia. – Ma tornerà, non ti preoccupare.
Erano due anni che non faceva che dire così, registrò Mackenzie, sistemandosi meglio in braccio al moro, eppure sembrava che nessun cambiamento avvenisse. Bill, dal canto suo, si accoccolò meglio sul divano, accarezzando dolcemente la bambina e pettinandole con le dita i sottili capelli corvini. C’era stato un tempo, che oramai pareva così lontano nella sua memoria confusa dallo Xanax e dalle ragnatele di lacrime che si affollavano nei cristalli della sua depressione, in cui era stato così felice di aspettare Mackenzie, così pieno di gioia di essere lì, con la pancia gonfia e la certezza di poter avere finalmente una famiglia. Non si vergognava, non faceva altro che sorridere alla vita, accarezzarsi la pancia, farsi orribili congetture su come sarebbe stata bella la sua vita con il figlio che portava in grembo e … lui. Certo, lui, che popolava i suoi giorni e le sue notti, lui che gli appariva in sogno come una chimera e che gli sfuggiva dalle dita ogni mattina, quando apriva gli occhi ed era solo, in quel letto freddo, non più riscaldato dal suo corpo caldo, solo con una pastiglia da ingoiare e la speranza vana di vederlo arrivare, una mattina, col treno, lui che non faceva che farlo stare male ogni minuto di più, che lo costringeva a indebolirsi così, che gli torturava la psiche e che l’aveva abbandonato così, da solo, con una figlia a carico, la costrizione di tornare in un luogo che aveva dimenticato e di lasciare Berlino, la sua casa, tutto, l’aveva obbligato a scomparire, lui e la loro bambina, schiavi dell’attesa estenuante. Bill era perso, senza di lui, non si capacitava di come potesse essere stato lasciato dal ragazzo che pensava lo avrebbe amato e protetto per sempre. Non gliel’aveva forse detto? “Bill, ti proteggerò per sempre, lo sai, vero? Ti amo tanto, piccolo mio”. Ricordava la sua voce, squillante e dolce. Ricordava il suo profumo, giovane e inebriante, che sapeva di menta fresca, voglia di rivolte e di cambiamenti generali, di rock’n’roll, quello un po’ rockabilly che suonava nella sua chitarra elettrica, quelle canzoni americane così allegre, un po’ country, che lo facevano così divertire. Ricordava il suo sorriso, largo e affettuoso, vivace, sempre positivo, mai triste, ricordava le sue labbra morbide sulle sue, sulla sua pelle, sui suoi capelli, ricordava le sue mani grandi, callose, belle, che lo stringevano, che lo accarezzavano  dolcemente, che lo toccavano dappertutto. Ricordava semplicemente lui, la sua bellezza, la sua voglia di vivere, la sua allegria. Bill si struggeva per quel ragazzo che aveva amato di un amore così folle da consumarsi, si annientava da solo ancorandosi ai ricordi vividi che fino a due anni prima coloravano la sua vita sul baratro, vi si appendeva con le unghie e con i denti, si lacerava le carni, come un folle, si strappava i capelli pur di poter dondolare appeso a quegli stralci di ricordi confusi che costellavano quella mente ferita e frustrata. Avrebbe potuto dirlo che lo faceva per sua figlia, ma sapeva da solo, odiandosi per questo, che non sarebbe mai stato così nobile e così abnegante, non sopportava il modo in cui la trattava ma non riusciva a fare altro che stare chiuso nel suo tetro torpore dettato dai farmaci, eppure era certo che se lui fosse rimasto, la loro bambina sarebbe stata più felice di come lo poteva essere vivendo con una madre depressa e abbandonata. Avrebbe potuto dire che lo faceva per lui, per tenere viva la passione e l’ardore che bruciavano all’epoca per quando sarebbe tornato, ma non era così spumeggiante e positivo come lo era ai tempi di Berlino, non esisteva più il ragazzo frizzante e divertente che aveva calcato la capitale con i suoi stivali col tacco e le sue pellicce di quarta mano, che non pensava a niente che non fosse vivere i propri vent’anni come se non ci fosse un domani. No, Bill lo faceva solo ed esclusivamente per se stesso, per non affogare in pensieri suicidi, per non decidere di andare a dormire stringendo Mackenzie a sé per non svegliarsi mai più, per non lasciarsi cadere giù dal ponte sul fiume, per non buttarsi sotto il treno che tanto odiava, tentava di pensare a lui e ai tempi in cui era stato felice per resistere alla vita che gli era completamente avversa. Era una vita che detestava, che si trascinava ormai da due anni, una vita fatta di giorni tutti uguali, che si confondevano nella sua testa malata e stanca, fatta di un’attesa tanto speranzosa quanto dilaniante. Lo aspettava con così tanto ardore da aver perso il conto delle stagioni. Aspettava che scendesse da quel treno e che gli corresse incontro, che lo prendesse in braccio e lo baciasse come faceva a Berlino, quando lo veniva a prendere fuori dall’università, aspettava che vedesse sua figlia e che la stringesse, che le baciasse i sottili capelli neri e che quando gli avrebbe cinguettato “Ti assomiglia così tanto, ciliegina”, lui gli avrebbe risposto “Rock’n’roll”, la sua risposta a tutto, e avrebbe sorriso e si sarebbero avviati a casa a braccetto, con Mackenzie in braccio e finalmente un sorriso. Ogni giorno si illudeva che questa scena, oramai vivida e bruciante in ogni suo sogno, così precisa da illuderlo a volte che fosse già accaduta, potesse succedere ma ogni giorno i suoi sogni si sgretolavano come cenere al vento e scomparivano nell’ultimo treno.
Bill sospirò rumorosamente, alzandosi dal divano e trascinandosi in bagno, guardandosi allo specchio con aria triste. Cosa c’era, in quello specchio? Un ragazzo di ventitre anni che ne dimostrava almeno il doppio, troppo effeminato per non suscitare domande nei cuori della gente, i capelli arruffati, il viso scavato dallo Xanax e dalla depressione, lo sguardo di un ragazzo morto che non trova pace, la vuotezza di un’anima sola e deserta come il Gobi. Si passò una mano sul viso pallido, stringendo l’altra attorno al bordo del lavandino, mentre Mackenzie gli saltellava accanto, appendendosi alla vestaglietta.
-Mamma, ho fame.
-Sì, patatina, mi preparo per il Kalende May e ti faccio la merenda.
Sorrise dolcemente, afferrando le creme per la pelle, facendo un profondo respiro. No, Mackenzie non stava bene, lo sapeva. Era grassa per un’ anomalia, quei mille problemi di salute che aveva, quel metabolismo disfunzionale che la faceva ingrassare senza un motivo apparente, ogni volta che la guardava Bill pensava a come sarebbe stato diverso se lui fosse rimasto. La malattia della bambina sarebbe stata meno opprimente da sopportare, se fossero stati in due a farsene carico, e non fosse stato da solo, incapace di affrontare quel mondo avverso. Cominciò a truccarsi, lentamente, come ogni giorno, a ricoprirsi di creme, fard, rossetti, mascara, eye-liner. Amava truccarsi, indubbiamente, ma oramai non c’era più un motivo tangibile per farlo, non lo faceva più per sembrare alternativo, non lo rendeva più bello e affascinante come ai tempi di Berlino, anzi, forse lo abbruttiva ancora di più, inchiodandolo come fosse un pagliaccio che tira fino agli estremi il suo spettacolo fricchettone. Non si truccava più per il ragazzo che amava, per gli amici che aveva abbandonato senza una spiegazione, per i locali punk della capitale, no, ora lo faceva solo per un lavoro squallido che non gli piaceva fare, costretto ad abbandonare i suoi studi per crescere la bambina, obbligato a lasciare e dimenticare i suoi sogni di ragazzo per sacrificarsi a una precoce e drammatica vecchiaia dello spirito, che lo rovinava ogni giorno di più. Se lui fosse rimasto, sarebbe restato a Berlino, avrebbe continuato a studiare, avrebbe potuto avere un lavoro in cui avrebbe eccelso, la bambina sarebbe stata felice. Ma lui era partito, invece, lasciandolo lì sulla soglia di una casa, le mani strette sulla pancia, l’orrore dipinto nelle pupille di vederlo scomparire giù dalla tromba delle scale verso un futuro incerto come il fumo di una sigaretta.
 
-Amore, credi che se mi proponessero di trasferirmi a New York per continuare gli studi dovrei accettare?
Si inginocchiò sul letto dove lui stava seduto, accarezzandogli la schiena nuda e muscolosa, guardando i suoi grandi occhi scuri persi in un mondo tutto suo. Gli accarezzò il viso, poggiandogli il mento su una spalla.
-Cosa dici?- insisté, baciandogli delicatamente la tempia, sussurrandogli quelle parole direttamente sulla pelle calda – Mi ameresti lo stesso, vero?
Lui non rispose, limitandosi a grattarsi una guancia, continuando a leggere quei fogli che teneva tra le mani, ignorando le sue mani lunghe e belle che lo stringevano e che lo pettinavano, ignorando le sue labbra sulla nuca e la sua voce naif.
-Ehi, amore, mi stai ascoltando?- si alzò, frusciando sensualmente nella vestaglia rosa pompelmo, scivolando verso la finestra. La aprì, guardando Berlino sotto di lui, con i suoi parchi, la sua storia, la sua magia, inspirando l’aria fresca di una sera marzolina. Si sedette sul bordo della finestra, accendendosi una sigaretta lunga, un po’ anni ’30, un po’ hollywoodiana, lasciando le chimere di fumo perdersi nel vento della primavera che timidamente si affacciava. Si sentivano i Budgie risuonare da qualche parte nella strada, mentre sentiva lui respirare profondamente dietro di lui, le lenzuola ancora sporche dopo che avevano fatto l’amore, il lento scorrere della Sprea laggiù verso il tramonto, il profumo del suo dopobarba che gli era rimasto sulla pelle, quel profumo di menta, rivolta e rock’n’roll. Si voltò verso di lui, con un sorriso malizioso, i capelli arruffati, i grossi orecchini tintinnanti
-Oppure potresti venire con me. Io e te, insieme nella Grande Mela, non sarebbe meraviglioso? Coronerebbe il sogno d’amore di ogni amante. Ci verresti con me?
Lo guardò, sempre concentrato su quei fogli, l’espressione corrucciata. Si avvicinò, ancheggiando, sedendoglisi accanto, un sorriso timido sul viso
-Cucciolino mio, hai capito qualcosa di quello che ti ho detto?
-Hai detto qualcosa, Bill?- lo guardò incerto, scuotendo la testa, per poi alzarsi e dirigersi verso il bagno – Scusa, ma devo andare, mi aspettano.
Non fu sicuro se vide l’ombra di incerta incredulità che attraversò il sorriso di Bill, piegandoglielo in una smorfia, prima che gli zampettasse dietro mugolando.
 
Tom si chiedeva da tempo se non avesse forse dovuto tornare in Afghanistan, se non fosse davvero là la casa che cercava disperatamente da quando era nato. Non c’era stato momento in cui il ragazzo non aveva smesso di cercare un luogo a cui sentirsi di appartenere veramente; aveva bisogno di trovare un luogo, una persona, un oggetto che avrebbe potuto chiamare “casa”, da cui fuggire ogni volta, come se farebbe con il seno di una madre. Aveva Berlino, ma sapeva che era troppo mondana per lui, l’aveva già vissuta e spremuta fino all’ultima goccia, non c’era più niente con cui dissetarsi nella sua città natale. Aveva Loitsche, ma era solamente la meta di vacanze di cui doveva rinverdire il sapore, il mondo utopico che lo faceva sopravvivere ma che era fatto di sogni e ricordi felici, niente a che vedere con quello che doveva ospitarlo. E poi c’era l’Afghanistan, c’era la sabbia e il vento che frustava le colline brulle, c’erano le capre montane che rosicchiavano i cardi, c’era il deserto, c’era la guerra che l’aveva coinvolto nel suo giro di morte, eppure, Tom non riusciva del tutto a separarsi da quel mondo che lo aveva ospitato per due anni di fila. Si chiedeva se forse la sua casa a quel punto non fosse diventato il deserto afghano, la crudezza di quella luna fredda che illuminava la sabbia impregnata di sangue, il sapore metallico del vento che urlava in notti gelide come la morte. Voleva di nuovo il suo Afghanistan, non riusciva a non pensarci, non riusciva a liberarsi del soldato che era in lui e che si era ancorato al suo cuore e gli stava urlando di tornare sotto i bombardamenti e vivere quell’incubo fino in fondo. Tom si voleva male, forse, ma aveva bisogno del deserto. Aveva bisogno di soffrire come un cane perché sembrava che il mondo che odiava alla follia fosse contemporaneamente l’unico in cui poteva venire a patti con la sua natura tormentata e vagabonda.
Guardò con aria vacua Georg alzarsi dal tavolo e dirigersi verso il bancone, mentre registrava solo con un orecchio i discorsi dei suoi vecchi amici e le loro moine. Aveva creduto che gli fossero mancate quelle serate, ma ora si sentiva soffocare in mezzo alla gente e alle loro storie alle quali annuiva distrattamente, ridendo ogni tanto. Dicevano che uscire da una guerra poteva rovinarti per sempre. Tom non era affatto sicuro di essere sopravvissuto davvero, a quel punto. Continuò a guardare Georg, in mezzo alle luci del vecchio locale della sua adolescenza, quello dove si erano fatte le scommesse più stupide, dove aveva baciato il suo primo ragazzo, dove si era scopato la prima ragazza, dove si era ubriacato sul serio. Ricordava l’odore di sudore, profumi alla vaniglia e patatine fritte di cui era sempre invaso il Kalende May, il locale da giovani dove si andava se non si aveva voglia di stare sotto il severo occhio della signora Schafer, implacabile proprietaria della locanda di Loitsche. Bevve un sorso di birra svogliatamente, anche se aveva sognato per due anni di poter tornare a ubriacarsi come prima. Eppure  quella stessa birra che aveva osannato anni prima, ora la trovava rivoltante come un pugno nello stomaco. Le luci che si riproiettava nella mente durante i bombardamenti, non facevano che fargli pulsare la testa ancora di più. La vicinanza dei suoi amici, che aveva così tanto desiderato mentre era lì coi suoi commilitoni a raccontarsi della loro vita, ora erano soltanto i fantasmi slavati del suo passato. Tom era triste, assurdamente. Si sentiva perso, nella civiltà. Si alzò, lentamente, la solita scusa di fare un giro per il locale per vedere se se lo ricordava davvero bene, avviandosi mollemente, con quell’aria sempre vigile e attenta, forse anche spaventata, che non riusciva a cancellare, come se da un momento all’altro dovesse ricominciare a sparare su qualcuno. Si avvicinò con nonchalance al bancone e guardò la bambina che stava seduta dietro al bancone, grassa e rotonda, il viso simile a quello di un piccolo Buddha ridente, avvolto in un grosso vestito di pizzi e crinoline rosa confetto, i capelli corvini accuratamente pettinati con la riga da un lato, i grossi occhioni a mandorla che rilucevano alle luci basse del locale.
-Ciao, piccolina.- sussurrò, captando l’occhiata incuriosita ma quasi saccente che la bambina gli lanciò. Lei si voltò verso di lui, sfarfallando gli occhi d’inchiostro, lasciando perdere per un momento il peluche con cui giocava e concentrò le sue attenzioni sul ragazzo.
-Ciao.- cinguettò di rimando, con quella vocina da bambina che a Tom suonava così estranea. – Chi sei?
-Mi chiamo Tom, tesoro.- il rasta si avvicinò, cercando di parlare col tono più dolce possibile. Ma la guerra non era dolce – E tu, come ti chiami?
-Mackenzie. Ciao, Tom.- la bambina sorrise, un buffo sorriso sottile, come quello di un vero Buddha tibetano, battendo le manine grassottelle.
C’era qualcosa, in Mackenzie che stupiva Tom, senza un vero motivo tangibile. Forse quegli occhi, quello sguardo che gli sembrava di conoscere, di aver visto chissà dove e chissà quando, in un momento passato e dimenticato nel deserto. C’era un ricordo, nel viso rotondo della bambina, un fantasma, nel suo sorriso infantile, un demone, nel suo sorriso dolcissimo. Eppure non riusciva a capire chi potesse ricordargli quella bambola vestita di rosa, che stringeva il peluche di un dromedario.
-Che bello il tuo pupazzo.- Tom le sorrise, toccando il pelo morbido del giocattolo.
-Si chiama Dhakira. Vuol dire “ricordo” in arabo. Me l’ha detto la mamma.
Mackenzie sorrise orgogliosa, agitando il dromedario.
-Oh, la mamma viene da là?- disse il ragazzo, accarezzando la testolina mora della bambina.
-No, è tedesca.- rispose Mackenzie – Sa tante cose e tante storie bellissime.
Tom conosceva una persona così, ricordava. Quando ancora viveva a Berlino, c’era stato un ragazzo nella sua vita che sapeva tante cose, e che raccontava storie bellissime. Aveva il genio che solo i matti possono avere, e aveva la loro incertezza. Sapeva cose che nessuno avrebbe saputo. Se gli avessero chiesto di descrivere con una sola parola come fosse quel giovane glamster, allora sicuramente avrebbe detto “è un poeta”, ma un poeta di quelli veri, di quelli dannati e maledetti che si possono incontrare solamente nella Parigi di Baudelaire, nella Londra degli anni ’60 e  nei quartieri nuovi della ex Berlino Ovest. Non era un tipo facile, come tutti i poeti, d’altronde, saturo della sua poesia che diceva aver ereditato da una notte passata sul Caer Idris, anche se Tom non sapeva se credergli o no, la luce smaliziata eppure sognatrice che brillava nel profondo di quelle iridi nere come l’inferno, degli occhioni così simili a quelli di quella bambina, ugualmente profondi, vagamente saccenti, avvolti da un’aurea misteriosa che sicuramente non era per tutti. Sapeva che la poesia era il suo sangue, che le storie e le leggende uscivano a fiotti dalla sua bella bocca come fosse un fiume in piena che sgorga da una sorgente inesauribile, che la sua magia era proprio nell’impalpabilità dei suoi discorsi. Potevi non credergli, e schernirlo come folle. O potevi credergli, e allora l’avresti fatto con tutto te stesso. Era un leader, a modo suo, un moderno Hölderlin che aveva rivoluzionato sé stesso da solo, come avesse anche lui uno Scardanelli da tenere a bada, dentro di sé. Ricordava la sua mente brillante, quelle parole che sembravano venire direttamente dal suo grande cuore appassionato.
 
L’aveva guardato attentamente, le lunghe gambe fasciate nei jeans neri aderentissimi, le mani pallide fasciate da eleganti guantini di pelle borchiati, seduto come una modella sul muretto, che fumava distrattamente una sigaretta, il viso rivolto alla luna come se potesse cogliere da lei i segreti dell’esistenza.
Aveva allungato un dito verso di essa, le lunghe unghie smaltate di nero con le stelline a decorarle, un sorriso sensuale ma incantato a illuminargli il viso, e lo aveva guardato dritto negli occhi, esalando un sospiro che sapeva di fumo e marshmellow
-Wa’iiblis hu aleawda.
Aveva sorriso ridacchiando, forse un po’ ubriaco, forse solo poeta
-Che hai detto?- gli aveva risposto, cercando di cogliere quello che guardava lui. Ma come fai a vedere la luna se guardi il dito?
-E’ arabo, tesoro.- cinguettava così bene che sembrava un usignolo, lo dicevano tutti – Ho detto che l’Iblis è tornato.
-Non ci stai con la testa, fattelo dire.- aveva riso, ubriaco, bevendo un altro sorso di birra, stringendoselo possessivamente contro, strofinandogli il viso nel collo da cigno. Non sapeva se gli facesse effettivamente piacere o no, in fondo.
-Sì che ci sto, cucciolo.- gli aveva avvolto le gambe al bacino, infilandogli le mani tra i capelli – Sono io il tuo Iblis, infatti.
Non gli aveva mai detto chi o che cosa fosse effettivamente un Iblis, e lui, beh, aveva sempre avuto troppa paura per andarlo a cercare.
 
-Ho capito; e la mamma è qui con te?- Tom si inginocchiò accanto a Mackenzie, guardando i fiocchetti rosa confetto che aveva sulla testolina mora.
-Certo! La mamma canta qui ogni sera.- la bambina agitò il peluche verso il palco dove, fino a un momento prima, aveva cantato una ragazza con la voce meravigliosa, con una favolosa maschera a nasconderle il viso, con un lungo naso aquilino nero e enormi farfalle dorate decorate con perline e diamantini finti, un gigantesco drappo bianco e nero a nasconderle le forme, solamente dei capelli corvini che sbucavano come elettrizzati da dietro la maschera di farfalle. L’aveva guardata distrattamente per tutta la serate, osservando le mosse sensuali anche se appesantite e falsate dal drappo simile a una gigantesca toga, ascoltando quelle canzoni della sua giovinezza cantante da una voce angelica e demoniaca allo stesso tempo. C’erano state le cover di Nena, che Tom ricordava essere un po’ l’idolo di tutti, lì dentro, quelle canzoni che tutti sapevano a menadito e che si cantavano in compagnia, con due birre e la sua chitarra sotto mano, magari seduti al fiume o prima della radura, intorno a un fuoco da campo, la voce dei loro sogni. Quelle degli Scorpions, che si cantavano tornando a casa la sera tardi, o quando finiva l’estate e tutti avrebbero voluto stare ancora un po’ in quello stralcio di paradiso dimenticato nella pianura, quelle che si cantavano il 5 novembre seduti sul muretto a sud di Loitsche. C’era stata l’ultima cover degli Oasis, la canzone che per eccellenza tutti conoscevano, quella che invece era l’implacabile hit dell’estate del 2005, ripetuta fino alla nausea in ogni momento, come se dovessero predicare un nuovo movimento un po’ figlio dei fiori. Sembrava quasi che la cantante fosse stata lì con loro, a sperimentare tutti i momenti che coloravano il passato del rasta come raggi di luce che adesso faticavano a farsi largo nell’oblio della guerra.
-E’ brava, vero?- disse Mackenzie, sorridendo felice. – Mi canta sempre delle belle ninnananne.
-E’ bravissima, sì.- rispose Tom, per poi sussurrarle, quando cominciò a sentire i suoi amici chiamarlo a gran voce – Ora devo andare, piccina. Sono contento di averti conosciuto, lo sai?
-Anche io, Tom.- la bambina batté le manine grassocce, ridendo, quelle buffe risate di gola dei bambini – Tornerai?
-Certo, piccoletta, tornerò a trovar …
Non fece in tempo a finire la frase che sentì una voce, una voce che non gli era del tutto nuova, oltretutto, risuonare alle sue spalle
-Mackenzie, ma chi è questo qui? Lascia stare la mia bambina, tu!
Tom si voltò, un sorriso che non era più sicuro fosse quello rassicurante e un po’ strafottente che aveva prima di arruolarsi, visualizzando la cantante, con addosso sempre la lunga toga bianca e nera, la maschera un po’ storta, come se l’avesse appena rinfilata in fretta e furia
-Ehi, tranquilla, non le ho fatto niente, le ho solo tenuto un po’ di compagnia. Comunque, complimenti, un’ottima prestazione …
Eppure, il rasta non fece nemmeno in tempo di finire di parlare, che vide la cantante irrigidirsi completamente, come se l’avessero appena uccisa con un colpo di pistola dritto nel cuore, cadere per terra in ginocchio come fosse una marionetta a cui vengono tagliati colpo i fili, esattamente come il suicidio tragico della Petrushka dei balletti russi, e gemere un nome tra quelli che poteva presumere fossero singhiozzi
-T … Tom? Tom, sei tu?
-Cosa? Beh, sì, mi chiamo Tom, ma non … - il rasta la prese delicatamente per le spalle, scuotendola con gentilezza, incerto sul da farsi, prima che la figura mascherata non cominciasse a piangere a dirotto. E Tom avrebbe davvero scommesso di tutto, in quel momento, ma non sarebbe mai potuto arrivare a indovinare il viso truccatissimo che gli apparve non appena la ragazza, che poi era pure un ragazzo a dire il vero, si strappò la maschera dorata da dosso. Non avrebbe mai potuto immaginare che una volta tornato a casa, lontano dalla guerra, lontano dall’Afghanistan, lontano dal deserto, il suo peggior incubo gli si manifestasse così, di colpo, come una lacerazione a ciel sereno della sua giovinezza. Non avrebbe mai potuto sognare di risentire quel “Tom, Tom amore mio!” urlato tra le lacrime che tanto aveva sperato di dimenticare nella polvere da sparo. Non avrebbe mai potuto pensare che l’Iblis era tornato per vendicarsi di lui.

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Capitolo 3
*** Invaded ***


CAPITOLO TERZO: INVADED
Dead all the pain that we shared
Dead all the glory we had
It’s over, It’s over but I always be
Lost in today in the past
Lost in the future we had
 
-No, no, scusami io … io non ti conosco.
Una scure. Un processo. L’ergastolo. La sedia elettrica. Il marchio di Caino. Un coro di voci che lo chiamava Giuda Iscariota. Vogliamo Barabba, soldato, vogliamo Barabba. Tom non riusciva a immaginarsi altre pene per il peccato che aveva appena commesso, davanti a Dio e davanti agli uomini, mentre era lì, livido, che si allontava impercettibilmente da lui, da Bill. Gli parve come se tutto quello che aveva vissuto in Oriente gli si stesse rovesciando addosso come un pentolone di olio bollente, una marea di sensazioni che lo travolgevano con la forza che solo gli oceani in tempesta potevano avere. Si sentiva soffocare, in quel momento, il ricordo ustionante della granata che esplodeva, il fumo che lo soffocava, il calore immenso che lo travolgeva, il sangue dei suoi compagni che schizzava dappertutto, bollente e ancora vivo. La guerra stava prepotentemente prendendo piede nella sua testa, non appena aveva rivisto in faccia il ragazzo dal quale aveva tentato di fuggire ma che, inesorabile come la Morte, lo aveva trovato, anche nel luogo più intimo che poteva esistere. Chiuse gli occhi, sentendo il calore bollente del deserto infuocargli la pelle bruciata, il metallo caldo di un fucile appena usato a scaldargli le mani sudate e callose, le esplosioni e gli ordini del comandante rimbombargli nelle orecchie, la sabbia infilarglisi nel naso e nella bocca, il fumo a ostruirgli le vie respiratorie tanto da farlo boccheggiare anche in quel momento, lontano dal conflitto, lontano dalla devastazione. Il solo aver visto quelle iridi nere come il cielo afghano nelle notti di luna piene, gli occhi che lo avevano tanto dannato, gli occhi che avevano firmato la sua condanna a morte, lo aveva ritrasportato nelle gelidi notti negli avamposti sulle colline brulle, in compagnia di qualche capra sperudta che ruminava i cardi che ferivano loro la pelle, le miriadi di stelle che punteggiavano il manto di velluto d’inchiostro che era la volta celeste, milioni di luci che li fissavano dall’alto delle loro altezze siderali e giudicavano, silenti, il destino cupo degli uomini che si sparavano tra di loro in mezzo alla sabbia e sotto la benedizione di una luna di latte che piangeva comete che si andavano a infrangere in pianeti dove vanno a morire gli astronauti. Aveva sognato quegli occhi fiammeggianti e meravigliosi, mentre era lì in mezzo ai suoi compagni, sdriaiato in scomode brande a guardare le stelle dalla finestra della caserma, a collegare le stelline bianche fino a creare il nome che lo aveva torturato. Se li era visti davanti ogni volta che faceva la ronda nel campo, quando aveva incrociato lo sguardo fiammeggiante dei due giovani ragazzini afghani che aveva trovato seduti tra le macerie di un piccolo villaggio, che lo avevano quasi fatto piangere, con i loro grossi occhi di tenebra che urlavano vendetta, smagriti, pieni di odio, di paura, di rivolta, abbracciati, che lo avevano guardato come si può guardare a un assassino seriale rimasto impunito per anni. Non li avrebbe dimenticati, i due ragazzi, come li avesse superati abbassando lo sguardo, sconfitto, come aveva chinato semplicemente il capo, lasciandoli stare, loro, i vincitori di una piccola battaglia, di come li avesse osservati di nascosto da lontano, guardando con rimorso, forse pentimento, i due ragazzi baciarsi piano, in mezzo al silenzio della morte, stretti uno all’altro per tenersi in piedi nella sabbia grigia che mulinava rasoterra, tra cartucce usate e la puzza di cadaveri e polvere da sparo a impestare l’aria, un solo bacio, un briciolo di passione adolescenziale, un giuramento di resistenza all’inferno che li aveva travolti e aveva strappato loro tutto quello che avevano, se non l’amore, quello no, che erano ancora insieme e interi, dopotutto, nel cimitero della loro casa, le mani intrecciate mentre sgattaiolavano via, silenziosi come gatti, veloci come ombre, un ultimo sguardo a Tom, che li fissava con il fantasma di una lacrima a brillargli tra le lunghe ciglia, un minimo gesto di saluto con le mani lunghe e olivastre, nessun sorriso, solo tanta depressione e una fuga, per mano, nel deserto, come i più pazzi degli amanti e i più sconsiderati dei sedicenni.
Gli occhi di Bill erano il pozzo di lava dove era annegato, la sua voce melodiosa il suono che aveva tentato di dimenticare tra gli spari e le esplosioni, ma era stato anche il primo a sovvenirgli quando avevano bombardato il campo. In mezzo al calore diabolico delle bombe, al fumo che lo aveva attanagliato come morse assassine, al sangue che sprizzava, alle urla dilanianti dei suoi commilitoni, aveva sentito Bill parlare, dire frasi senza senso, parole, un suono angelico in mezzo a tanto infernale disastro. Ricordava il terrore, i soldati che correvano impazziti, e ricordava il dolore lancinante alla testa, il suolo duro contro il quale sbatteva cadendo come una marionetta, i rumori fattisi così forti da farlo impazzire, e quella voce che lo cullava, l’improvviso gelo di quelle mani lunghe e pallide che aveva desiderato alla follia che gli accarezzavano il viso bruciato dal calore e dal sangue suo e non che lo ricopriva, gli occhi che si chiudevano e le labbra martoriate dal caldo che gemevano un nome, lo stralcio di un nome … quel “Bill” che aveva sussurrato tra gli spasmi nell’ospedale di campo dove lo avevano ricoverato in fin di vita, la granata incastrata in testa e corpo ustionato. Aveva aperto gli occhi, il solo in quel disastro, e non aveva fatto altro che mormorare il nome di quello che lo aveva mandato al fronte a morire, vedendo i suoi occhi di brace truccatissimi e il suo viso da bambola che un tempo era stato sicuro di amare galleggiargli davanti agli occhi offuscati dal dolore.
E ora, dopo la guerra, dopo l’orrore, lui era ritornato, lui, a cui aveva pensato in punto di morte, a cui aveva sacrificato ogni notte sul campo, a cui aveva rivolto una preghiera spezzata quando si era svegliato dal coma. Non voleva ammetterlo a se stesso, ma Bill era inquietantemente stato presente in ogni attimo, come un cancro di cui non riusciva a liberarsi. Lo vedeva ogni notte nelle stelle e nell’infinito cielo del deserto, i suoi giganteschi occhi che lo guardavano da sopra le stelle. Lo sentiva accanto a lui nelle azioni militare, la sua voce dolce che li ricordava che doveva tornare a casa per lui, che non avrebbe dovuto abbandonarlo. Percepiva le sue belle mani attorno alle sue in elicottero, che volevano farlo volare come un gabbiano nel Mar Baltico, lontano dal Rigestan una volta per tutte. Sentiva il suo corpo lungo e flessuoso contro il suo nella branda, le sue bellissime gambe da gazzella avvolte attorno al sua bacino, le braccia che lo stringevano, le sue labbra piene, col rossetto nero, che lo baciavano con delicatezza, il suo profumo che gli inondava le narici di vaniglia, essenze da donna, musica punk e zucchero filato dei lunapark. Il suo calore fittizio lo riscaldava di notte, la sua voce lo faceva dormire; a volte si svegliava in un bagno di sudore, vittima di sogni che avevano Bill, l’Iblis, come protagonista indiscusso, e lo lasciavano sconvolto e soffocato, incubi che lo perseguitavano come una falce nera che tentava sempre di sgozzarlo ma dalla quale lui riusciva a fuggire.
A volte si svegliava persino quasi eccitato, senza ricordare minimamente che ruolo avesse avuto il suo incubo nel sogno. Eppure, adesso era lì e non era un sogno, una visione fugace nella sabbia, un miraggio: no, era Bill in carne ed ossa, che piangeva e strepitava, appeso ai suoi pantaloni sfondanti, la bambina grassa che cinguettava qualche “mamma, mamma” preoccupato, stringendo il peluche. E Tom stava fingendo di non riconoscerlo, di ignorare il ragazzo stella che lo aveva salvato e dannato come nessuno mai. Tom era scappato in Afghanistan, per lui. Non era tornato per scappare di nuovo dalle sue grinfie smaltate.
Non sapeva se il suo sguardo fosse di puro orrore, mentre continuava a negare l’evidenza, una nausea terrificante che gli aveva attanagliato lo stomaco a vederlo strillare e piangere, appeso al bordo dei suoi jeans sformati, un’improvvisa voglia di scappare fuori dal Kalende May e prendere il primo treno per Berlino e poi un aereo per Kabul e sfuggire forse una volta per tutte a quei capelli neri con le ciocche bianche sparati in tutte le direzioni e a quel visino effeminato e truccato. Si guardò intorno, tutta la folla di amici che si era radunata attorno a loro, le voci di tutti che si confondevano nella testa confusa del rasta, quei vari “Ma è Bill?” “Dio Mio, non avrei mai pensato che fosse lui quella cantante bravissima!” “Ma chissene importa se è lui la cantante, Claudia, è impazzito del tutto!” “Qualcuno lo porti via!” che non avevano forma e dimensione, gli occhi accecati dalle luci che aveva disimparato a sopportare, una triviale mondanità che non sentiva più sua.
-Tom, ehi, Tom, ti senti bene?- si svegliò dalla trance autoindotta quando Georg lo afferrò per un braccio, scuotendolo nervosamente, la solita espressione preoccupata nei confronti del suo squinternato amico che gli rivolgeva sin da quando erano bambini. – Stai tranquillo, Bill non è pericoloso.
-Eh?- Tom si riscosse, passandosi una mano sul viso, guardando con orrore i suoi amici che avevano circondato Bill, in lacrime, disperato, vittima di quelle crisi isteriche che il rasta ricordava così bene e che la sua mente tentava di rifiutare categoricamente – Io … no, amico, non c’è problema. Lui …
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase, cercando di distogliere lo sguardo colpevole dal corpicino anoressico di Bill e dalle sue lacrime, quella voce straziante che ormai aveva anche smesso di chiamarlo, di fronte alla sua ostentata quanto falsa perplessità, dibattendosi impotente tra le forti braccia di Gustav, che una delle sue vecchie amiche gli disse, con un sorriso dolce
-Non ti spaventare, Tom, tesoro, Bill è solo … un po’ strano. Qui a Loitsche lo sanno tutti. Non sapevamo nemmeno che fosse lui a cantare qui al locale.
Tom annuì, con aria persa, sentendo le vertigini coglierlo come nemmeno quando aveva ucciso il suo primo uomo. Certo, Bill poteva essere strano quanto volevano, ma nessuno poteva sapere quanto in quel momento fosse lucido e presente a sé stesso, molto di più di quanto non lo fosse lui. Alto tradimento, soldato Kaulitz. Solo la corte marziale avrebbe potuto punirlo per la sua infedeltà.
-Ehi, Bill, Bill stai calmo, non è successo niente, calmati.
Al rasta sembrava di guardare dietro a uno specchio le vicende che si svolgevano di fronte a lui, i suoi amici che cercavano di calmare il moro in preda agli spasmi dei singhiozzi, il locale che sembrava aver assunto una dimensione paradigmatica che non era sua, un insieme di elementi che lo aveva distaccato dal mondo reale, come in guerra, quando serviva dimenticare tutto quello che l’essere umano aveva fondato e isolarsi da tutto. Quella era un’altra guerra che Tom doveva combattere contro sé stesso e il suo passato che tentava di relegare agli sporchi demoni di un inverno mai vissuto e in una fine mai arrivata.
-Ragazzi, lo porto a casa sua, sta male, l’aver visto una persona nuova lo deve aver mandato fuori asse.
Certo, pensò Tom, annuendo distrattamente nel marasma della gente che guardava Gustav, l’unico che secondo loro, poveri illusi, conosceva meglio Bill, prenderlo sotto braccio. Certo, se non fosse che lui forse era la persona meno nuova a Bill nell’intero paese. Guardò la sagoma imponenente del biondo amico uscire lentamente trascinandosi dietro la figura distrutta del moro e per un attimo pensò che al suo posto, a Berlino, in un’epoca che faticava ancora a definire solamente di due anni prima, ci sarebbe stato lui, magari con quell’aria beffarda che l’Afhganistan gli aveva cancellato, magari tenendogli una mano sul fondoschiena perfetto, magari accendendogli strafottente una sigaretta e sentire la sua stridula risata nell’orecchio come la peggiore delle bagascie. Ma quel Tom lì non esisteva più. Non esisteva il rasta gagliardo che ascoltava musica punkrock, che andava contro il sistema, che si sballava tutta la notte e non ne aveva mai abbastanza, che si portava a letto la Principessina Araba, come chiamavano Bill nel loro giro no global berlinese, che si ribellava e spingeva tutti ad andare contro il mondo, che aveva lo spirito da leader che tutti invidiavano, che se ne stava a lavorare in un’officina pensando al comunismo utopico di Marx ed Engels. E tutti si chiedevano dove fosse finito quel Tom, che aveva lasciato il posto a un militare che tentava di dimenticare e di tornare a seppellirsi nel deserto afghano. Che motivo c’era di cambiare, si erano chiesti tutti.
-Mamma! Mamma!
Tom sobbalzò, girandosi verso la bambina, che in tutto quel trambusto nessuno aveva calcolato, gli enormi occhi neri a mandorla che fissavano la porta sconvolti, qualche grossa lacrima terrorizzata a rigarle la guance rotonde, un’espressione di puro sconcerto dipinta sul viso tondo. Dio, povera piccoletta. Si abbassò accanto a lei, accarezzandole timidamente i capelli corvini e mormorò, un dolore indicibile che gli stringeva il cuore e gli attorcigliava lo stomaco
-Ehm, la mamma non sta tanto bene, Mackenzie. Ti porto da lei, va bene?
-Ma sei sicuro, Tom?- Georg lo guardò dubbioso – La portano le ragazze a casa, io non credo che tu …
-Seguo Gustav, Geo. Voglio portarla io da sua … ehm, da Bill.- rispose Tom, scuotendo la coda di dread biondicci – Stai tranquillo,  bello. Voglio solo respirare la vita normale, ok?
Nonostante lo sguardo incerto dell’amico, Tom concentrò le sue attenzioni sulla bambina che ballonzolava lentamente verso la porta, stringendo il dromedario di peluche come fosse un arma e la sollevò di peso, grato del fatto di aver sviluppato una forza non indifferente. Se la caricò in braccio come poteva, forse un po’ rudemente, tentando goffamente di non farle male, guardando quei grandi occhi già asciutti dalle lacrime fissarlo espressivi come due perle oceaniche, così simili agli occhi di Bill, ugualmente neri e ugualmente totalizzanti.
-Andiamo a casa, eh, piccina?- sussurrò, sentendo le manine paffute attaccarsi al colletto della felpa e un sorriso vago illuminarle la labbra.
-Che cos’ha la mamma, Tom?
Abbassò lo sguardo su di lei, guardando la pelle lattea che brillava alla triste luce dello spicchio di luna argentea incorniciata nel cielo mai davvero buio del tutto, sporcato dalle luci della città. Gli mancavano i selvaggi cieli sconfinati dell’Afghanistan dove potevi trovare tutte le lacrime piante incastonate nelle stelle.
-Niente, tesoro … solo una crisi isterica, ma si rimetterà subito.- tentò di rassicurarla, sorridendole il più teneramente possibile e avviandosi dietro la sagoma di Gustav che macinava rapidamente terreno tenendo a braccetto Bill.
-E’ malata, credo.- mormorò Mackenzie, appoggiando la testolina alla spalla del rasta e stringendo le dita grassottelle al collo della felpa sformata – E’ tanto triste, lo sai? Sta tanto male, la mamma.
Tom strinse i denti, sentendo un’improvvisa fitta di dolore alla bocca dello stomaco. Ogni parola di quella grassa bambina era come una stilettata al cuore; si sentiva colpevole, un lurido giuda, un assassino, il peggiore dei bastardi perché se Bill stava male la colpa era solo sua, e della sua codardia che lo aveva fatto prima scappare e ora nascondersi come un coniglio dietro la sua presunta sanità mentale. Ma non lo sa la gente che se ti arruoli per scappare tanto in bolla non ci stai con la testa?
A volte si chiedeva ancora perché cercasse la guerra fino allo svenimento, come mai non avesse fatto come ogni ragazzo normale, perché non avesse rotto tutto con una partenza, un trasferimento, anche all’estero se voleva stare tranquillo, invece di buttarsi in una guerra non sua e in un ordine sociale che aveva sempre odiato. Tom aveva bisogno di combattere, questo lo sapeva. Era l’unico, la sera, in mezzo ai suoi commilitoni, a non lamentarsi delle fatiche giornaliere, come era l’unico che si sentiva pervaso da una strana euforia quando era ora di entrare nel vivo dello scontro. Se lo diceva da solo, “sadico”, “perverso”, “bestia” ma non riusciva a placare la sua sete di combattimento, non per uccidere, non per distruggere, ma solo per avere qualcuno contro cui lottare fino alla morte, così sfrontatamente coraggioso da sfiorare l’imprudenza, accecato dalla voglia di stare nella sabbia, le orecchie all’erta, il fucile imbracciato. Non gli importava di vincere o di morire, gli importava solo sfidare l’ignoto fino allo svenimento, alla ricerca di qualcuno che lo volesse mettere brutalmente alla prova. Non aveva la minima traccia di istinto di conservazione, si buttava nelle fauci del lupo senza pensare, bramando, anelando, alla rivolta e alla battaglia selvaggia. A stento sapeva per cosa stesse guerreggiando, e non gli importava, non quando questo gli permetteva di tenere a freno la sua smania di guerra e la sua insaziabile voglia di sentirsi libero. Solamente laggiù, nel deserto infuocato, poteva dirsi felice, alato, distaccato dalla mondanità che lo nauseava e che gli stringeva lo stomaco. Certo, gli mancava la Germania, i suoi amici, la sua vita di prima, esisteva ancora una parte di lui che voleva tornare a casa e calmare gli ormoni, rifarsi una vita normale, acquietarsi, mentre l’altra metà ruggiva per restare in Afghanistan a farsi crivellare di colpi e morire forse felice, forse finalmente libero, tra la sabbia grigia, in mezzo alle capre montane e alle notti d’infinito, senza tomba, fiori o ricordi. Non voleva onori militari o gloria immortale: voleva la guerra, e l’aveva avuta. Ma non ne aveva mai abbastanza.
-A volte le persone stanno male, Mackenzie, ma questo vuol dire che presto starà di nuovo bene e starà ancora meglio di prima.- le sorrise, accelerando il passo per tenere dietro a Gustav senza farsi notare troppo. – Ora portiamo te e la mamma a casa, così si riposa e domani starà bene, va bene?
La guardò, tentando di sembrare il più convincente possibile, quando si rese conto di una cosa. Una piccolezza, certo. Però il viso di quella bambina innaturalmente malinconica gli ricordava così tanto il suo di viso. Gli pareva quasi di specchiarsi dentro quegli occhi così simili a quelli di Bill, eppure quel sorriso, quelle fossette, quel naso a patatina, quel modo di piegare la testa … sì, gli ricordava sé stesso, e non poteva farci niente. Era una sensazione strana, quella di rivedersi in una bambina di due anni col vestito rosa, eppure così assurdamente realistica da lasciargli l’animo inquieto, intento a svoltare per le stradine piccole e cupe di Loitsche, veleggiando come in un sogno dietro due ombre incerte. Sembravano due fantasmi, per chi li avesse visti. Un ragazzo rasta reduce di guerra e una bambina obesa che percorrevano furtivamente le viuzze di un piccolo paese della pianura a notte fonda, illuminati fugacemente dai vecchi lampioni intermittenti, bagnati dalla brina umida che scendeva insieme alla notte, incerti come vecchi fotogrammi di un film degli anni ’20 che nessuno ha mai visto, vaghi come le note di una vecchia canzone punk di un gruppo di teenager dimenticati nella periferia di una metropoli svedese, figure di fumo che si confondevano con le ombre dell’oscurità e coi fantamsi che percorrevano le strade appena calava il buio, alla ricerca delle loro case, timidi ma presenti come solo le anime dei morti in terra sconsacrata lo possono essere, luci fuggevoli di un paradiso in via d’estinzione, un legame fragile come uno sguardo ma profondo quanto quello che ci può essere tra … un padre e una figlia che non si conoscono? No, non era possibile. Un involontario brivido di incredulità e shock gli percorse la spina dorsale. Era assurdo tutto quello. Non aveva senso, era solo lui che stava impazzendo dopo che l’Iblis era tornato a prenderlo. Gliel’aveva detto, lo ricordava come fuoco nella mente, gli aveva detto di abortire, che già poi come aveva fatto a rimanere gravido Tom se lo sarebbe chiesto fino alla fine dei suoi giorni (“Ma non era forse un Iblis?” Gli ricordava la sua coscienza, subdola “Non è forse al di sopra di tutte le vostre stupide convenzioni umane?”). Comunque, era stato chiaro, quella cupa notte di marzo, con la tempesta che infuriava su Berlino e sui loro cuori. Abortisci, Bill. Me ne sbatto del resto.
 
Era notte fonda, pioveva a dirotto, come se Dio, sempre ammesso che esistesse, avesse voluto frustare Berlino come un padrone frusta lo schiavo inerme. Cadevano lampi, che illuminavano la Porta di Brandeburgo, e illuminavano anche quel piccolo appartamento. Illuminavano un rasta a torso nudo, appoggiato al muro, gli occhi fuori dalle orbite per lo sconcerto. Rimbombavano, le sue urla, insieme a quel vecchio disco dei Depeche Mode che non piaceva a nessuno al piano inferiore. C’era anche un ragazzo coi capelli corvini sparati, accucciato sul letto matrimoniale sfatto, che si teneva la pancia con le mani e singhiozzava.
-Abortisci, Bill. Non capisco un cazzo di questa faccenda, ma comunque abortisci. Non mi interessa come, basta che lo fai.
Ogni debole lamento che Bill provò a sputare tra le lacrime fu zittito dalla porta della camera da letto che sbatteva, rumorosa come uno sparo nel petto. Anche i suoi deboli singhiozzi, quegli sconclusionati “no, no bambino mio, questo no, questo mai” venne soffocati dall’infuriare del vento fuori dalla finestra. Berlino voleva il suo tributo di sangue, ma l’Iblis non era pronto a versarlo.
 
-Senti, Mackenzie, ma … la mamma è da sola? Non hai nessun altro?- chiese titubante, sospirando di sollievo quando vide Gustav e Bill fermarsi di fronte a una delle villette a schiera tutte perfettamente uguali.
-Sì. Aspetta qualcuno, credo, ma non lo so.- rispose la bambina, per poi agitare le braccia rotonde verso la villetta e strillare – Casa!
Tom deglutì rumorosamente, affrettandosi verso Gustav che lo guardava con tanto d’occhi, Bill appeso al braccio oramai distrutto dagli spasimi del pianto, in stato quasi catatonico.
-Tom! Ma che ci fai qui, perché hai portato tu la bambina? Sei appena tornato e …
-Va tutto bene, Gus.- il ragazzo zittì il biondo con un gesto della mano – Ho voluto portarla io a casa, vero piccoletta?
Mackenzie annuì compita, agitando il fido peluche Dhakira. Tom sorrise mestamente, cercando di tenere a freno la voglia di mettersi a urlare e piangere istericamente. Non perdere la calma, soldato Kaulitz. Solo le donnicciole lo fanno.
-Ho capito T., vuoi tornare a essere il vecchio coglione che conoscevamo.- Gustav sorrise, ma non era allegro. Si girò verso Bill, che gli cadeva come morto tra le braccia, spezzato come una bambola e sospirò a lungo, prima di estrarre un paio di chiavi da un grosso mazzo e aprire la porta della villetta, spiegando, quasi al nulla, come si spiegherebbe a un bambino a far di conto – Mia mamma ha continuato a controllare la casa di Simone e Bill dopo che se n’erano andati, aveva le chiavi e ora le ho prese io. Senza Simone, dobbiamo prenderci noi cura del piccolo Bill.
Aprì piano la porta, facendo entrare dentro il moro con delicatezza, seguito da un Tom riluttante e svasato, la bambina sempre in braccio che guardava Bill con un misto di rassegnazione e tanta paura infantile.
-Scusalo, amico mio. Probabilmente il fatto che tu sia un viso nuovo per lui e per il fatto che stavi parlando con la piccoletta l’ha spaventato. Ha grossi scompensi psicologici, li ha sempre avuti, non averne a male.
Scompensi psicologici? Bill? Il ragazzo più brillante di tutta la capitale, che sapeva più cose di tutti gli onorevoli delle università e che prendeva sempre 30 e lode ad ogni esame, che parlava arabo come parlava tedesco? Oh no, quello non era il Bill che conosceva lui, di certo. Era … la versione sola di Bill, che aveva sempre anelato alla fama, alle telecamere e all’attenzione della massa più di quanto avrebbe dovuto. Era stata questa sua ossessione feroce per le luci della ribalta che l’aveva rovinato.
Mackenzie si fece mettere giù, e ballonzolò verso Bill, adagiato mollemente sul divano, saltando faticosamente tra le sue braccia
-Mamma! Mamma, stai bene? Ci hanno portati a casa, mamma!
Gustav e Tom si guardarono, arrossendo, immobili in quella casa buia, a guardare come i peggiori dei voyeur la scena lenta e nauseantemente claustrofobica di Bill, catatonico, morto nell’animo, accoccolato su se stesso guardare la bambina e per un orribile momento i due amici furono quasi certi che la spingesse via strillando. Ma Bill non lo fece, anzi, si limitò a stringerla come un pelouche e singhiozzare qualcosa di incomprensbile, una ninnananna forse, un’antica melodia araba dimenticata, accarezzando i capelli corvini di Mackenzie, sussurrandole qualche vaga parola in quella lingua lontana che sembrava un dialetto incantato parlata da lui. Non li guardava nemmeno, sembrava essersi scordato perfino che esistessero, chiuso nel suo guscio protetto fatto di pianto e ninnananne perdute.
Tom sarebbe rimasto a fissare quella scena per sempre, come una fotografia, un fotogramma di un film mai distribuito, in bianco e nero per il buio della casa e la luce della luna lattea, una madre con la sua bambina, il silenzio spezzato solo da una musica antica com’è antico il tempo, una bolla di infrangibile perfezione umana. Forse quella era la sua famiglia, in quella fotografia d’epoca. Forse avrebbe dovuto esserci lui, lì, a stringere il ragazzo che aveva amato tra le braccia e dire qualcosa alla bambina grassa. O forse no. Perché lui era un soldato, si portava dietro tutto il sangue, le urla, l’orrore di una dimensione sconosciuta e terrificante. Lui sarebbe stato il demone impastatore dell’eterno splendore di quel quadro incancellabile. Lui portava odio, violenza, lotta. A Bill e a Mackenzie servivano amore, dolcezza, pace.
Davvero, Tom sarebbe rimasto lì congelato a guardarli se Gustav non lo avesse preso delicatamente per un braccio e lo avesse sospinto fuori, nella notte fredda della Pianura Pannonica, chiudendosi la porta alle spalle. Due amici, un ricordo, la luna.
-Se la caverà, tranquillo. Lo fa, ogni tanto. Routine.- disse Gustav, passandosi una mano tra i corti capelli biondi – Vogliamo tornare dagli altri? Mi dispiace davvero che al tuo arrivo tu abbia dovuto …
-Raccontami di lui, Gus.- lo interruppe Tom, afferrandogli le mani, guardandolo negli occhi, come faceva il giovane Tom dei bei tempi andati, che sognava tanto e raccontava almeno il doppio, che voleva le leggende e le storie come fossero miele prelibato che colava dal favo – Ho tutto il tempo, amico mio. Raccontami di Bill.

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Capitolo 4
*** Zoom Into Me ***


CAPITOLO QUATTRO: ZOOM INTO ME

Is there anybody out there walking alone?
Is there anybody out there ut in the cold?
One heartbeat lost in the crowd
Is there anybody shouting what no one can hear?
Is there anybody drowning pulled down by the fear?

Mackenzie guardava incredula Bill che finiva di pettinarsi i lunghi capelli corvini con le ciocche bianche sparati dappertutto, il trucco appena rifatto nel migliore dei modi, i vestiti più attillati e sexy che aveva nell’armadio, i piercing e i gioielli luccicanti come diamanti sulla sua pelle pallidissima, il primo vero sorriso che la bambina avesse mai visto sulle belle labbra piene, gli occhioni truccatissimi luccicanti di qualcosa che sembrava tanto eccitazione e qualcosa che sapeva di felicità. Lo guardava, seduta sul pavimento, il vestitino blu e bianco tutto pizzi e crinoline, i capelli legati in due treccine striminzite, gli occhi piegati all’ingiù malinconici. Non capiva esattamente cosa fosse successo la sera prima, se non che stare in braccio a Tom fosse così bello, perché effettivamente riusciva a stringerla e a portarla come si dovrebbe, senza barcollare e senza ansimare per la fatica di trasportare il suo peso che faceva Bill ogni volta che la prendeva in braccio. Gli piaceva, Tom. Le piacevano i suoi grandi occhi color nocciola così buoni e rassicuranti, le piaceva il suo abbraccio caldo, le piaceva la sua voce tranquilla e pacata, le piaceva il suo viso confortante e infantile, le piacevano quei buffi capelli a tubi morbidi con cui aveva distrattamente giochicchiato mentre tornavano a casa.
-Mamma, dove stiamo andando?- chiese, leccandosi le manine paffute sporche di Nutella, alzandosi a fatica e barcollando verso la porta del bagno, dove Bill stava finendo di spazzolarsi i capelli e sistemarsi meglio il piercing al sopracciglio.
-Andiamo a trovare Tom, amore mio. Pensi che stia bene così?- Bill si accucciò per terra, sfarfallando le lunghe ciglia incrostate di mascara, sorridendo quando la bambina annuì con fare compito.
Quella era stata una mattina strana per Mackenzie; non era stata svegliata a un’ora improponibile del mattino, ma Bill l’aveva lasciata dormire beatamente fino a tardi, come forse si converrebbe a una bambina di appena due anni, Bill sembrava decisamente felice, visto che sorrideva, canticchiava tra sé e sé e sospirava teatralmente come si converrebbe a qualsiasi ragazzo giovane e innamorato, e, soprattutto, non erano andati alla stazione. Per Mackenzie era stato un evento così assurdo da averla lasciata sbalestrata: perché non erano andati ad aspettare il treno da cui sarebbe dovuta sbarcare la persona che avrebbe aggiustato le loro vite? Che Bill fosse di colpo impazzito e avesse rinunciato a quell’attesa che oramai era tutta la loro vita? Aveva provato a chiederglielo, a colazione, ma l’unica risposta che aveva ottenuto era stato un bacino sulla testolina mora e un trillo che non aveva capito, per poi vedere il moro saltellare in bagno avvolto nella sua vestaglietta azzurra.
Perché sì, la piccola Mackenzie non lo sapeva, ma Bill aveva appena trovato le chiavi della sua felicità, che si chiamava Tom Kaulitz, aveva dei dread improponibili e andava sullo skateboard. Aveva passato la notte a piangere e singhiozzare, invaso da una gioia così sfrenata da essersi trasformata in crisi di nervi di portata epocale. Se ne era stato a letto, sua figlia accoccolata vicino che dormiva pacificamente, le lacrime di trucco sfatto che insozzavano il cuscino insieme ai gemiti spezzati che uscivano a stento dalla sua gola martoriata dall’isterismo. Tom era tornato. Certo, non come se l’era aspettato, non era sceso dal treno correndogli incontro e prendendolo in braccio di peso come ai tempi di Berlino, ma era comunque lì, era tornato da lui e dalla loro bambina, aveva finalmente adempiuto al suo dovere e si era ripresentato di fronte agli occhi di cristallo e al cuore di ragnatele di Bill, pronto di nuovo a prendersi cura di lui come aveva fatto all’epoca, di nuovo lì per amarlo, coccolarlo, proteggerlo e salvarlo da sé stesso. Gi avrebbe portato Mackenzie, finalmente l’avrebbe potuta abbracciare, baciare, avrebbe finalmente conosciuto la figlia che non aveva visto nascere, sarebbe tornato a essere il rasta che conoscevano tutti, con la sua famiglia. Bill era pieno, in quel momento. Tutte le lacrime di cui si era dissetato in quei due anni sembravano finalmente aver saziato il suo animo ferito e violentato dalla depressione. Non aveva nemmeno preso i suoi antidepressivi, quella mattina, limitandosi solamente a una sigaretta fumata romanticamente alla finestra della cucina, tenendola tra le lunghe dita, appoggiato sensualmente al davanzale come faceva fino a due anni prima, sentendo il vento soffiargli tra i capelli e scompirgliarglieli dolcemente, il fumo che si innalzava delicato nel pallido cielo azzurro di Loitsche, così finto e così infinito, un oceano impercorribile dove si nascondevano tutti i sogni, i segreti, le paure di tutti i ragazzi che avevano visto la luce in quel villaggio fuori dal mondo e che si erano dichiarati per la prima volta a quel cielo inifito più azzurro dell’azzuro. Aveva fumato così, tranquillo, la vestaglietta che ondeggiava nel vento, un sorriso perso sulle belle labbra, gli occhi persi nell’infinito, e aveva pensato a Tom, il suo Tom, che era tornato a casa dall’Afghanistan ed era andato a Loitsche a riprenderselo. Tutti gli avvenimenti della sera prima si confondevano nella mente di Bill solo come l’immagine dell’uomo che amava stampata a fuoco nelle retine.
Aveva pregato, sperato, pianto, sofferto, si era distrutto con le medicine e con l’alcol, si era affondato con le proprie mani, ma adesso, forse, avrebbe avuto lo straccio di una speranza. Si sarebbe rincollato tutto insieme a un bacio tanto desiderato e a una ventata di venticello della capitale. Bill non riusciva nemmeno più a concepire quanto gli fosse mancato Tom. Quando, prima di dormire, guardava la luna e piangeva una e una sola lacrima che cadeva silenziosamente sul pavimento, rimbombando come mille cocci che si infrangevano al suolo. Quando non poteva fare a meno di figurarsi il viso del rasta in quello di Mackenzie, nel suo sorriso e nel suo naso rotondo. Quando guardava l’ultimo treno scomparire all’orizzonte, nel tragico tramonto di una sera tedesca, e lui era ancora lì, da solo, seduto sulla vecchia panchina scrostata, con gli occhi gonfi e un pianto incrostato nel cuore. Quando cantava nel vecchio locale, e ricordava con strazio quando i suoi amici berlinesi lo trascinavano sui palchi di locali alla moda a fargli cantare qualche hit di Nena da ubriaco, e si metteva in mostra come la troia che era, perché Bill Kaulitz era il più bello, il più intelligente, il più geniale di tutta la compagnia, e doveva essere di conseguenza anche il più freak di tutti, mentre ora doveva nascondere sé stesso dietro a una toga e a una maschera veneziana, cantando per un mondo che aveva tentato di scordare ma che lo aveva riportato crudelmente indietro, obbligandolo a ricordare le sue origini e a non rinnegare il sangue che gli scorreva nelle vene. Quando pensava a quanto scopavano, nel vecchio appartamentino, alle loro labbra che si incontravano nella passione di un amore che Bill aveva pensato potesse essere indistruttibile ma che sembrava essersi disciolto come cera al sole d’agosto, mentre da quando se ne era andato non si era mai più fatto sfiorare da nessun uomo, nella santificazione del suo corpo come di un tempio in attesa del suo unico sacerdote. A volte, la sera tardi, dopo che erano rincasati dal Kalende May e dopo che aveva messo a letto Mackenzie, raccontadole qualche antica leggenda del deserto, si faceva un bagno caldo, e pensava, pensava al suo Tom, pensava al fatto che aveva solo ventritrè dannati anni e non era giusto tutto quello, e si toccava, si toccava e piangeva, in silenzio, figurandosi i suoi dread, il suo viso, la sua risata e la sua chitarra, vergognandosi immanamente di qualcosa che fino a due anni prima avrebbe fatto senza nemmeno pensarci troppo sopra. Certo, ma tanto due anni prima sarebbe stato a Berlino, all’università, avrebbe fatto una cosa comune a tutti i ragazzi di questo mondo. Ma lui oramai non lo era più. Si era giocato tutto quella volta, e non sarebbe più potuto tornare indietro, il passato era stato scritto in stelle che erano già deflagrate in tutta la loro potenza distruttiva e avevano sparso la loro polvere di stelle nelle lacrime di Bill, che si mescolavano con la cenere delle sigarette a poco prezzo. Avrebbe smesso tutto quello, finalmente la fine della sua tortura era giunta. Non avrebbe più pianto, aspettato alla stazione, preso antidepressivi per togliersi pure la voglia di farla finita, non si sarebbe più toccato nella vasca da bagno, non sarebbe più rimasto solo con la bambina. Poteva riappropriarsi della sua giovinezza una volta per tutte, e avrebbe lottato per ottenerla. Non sapeva perché il fato avesse designato proprio lui, ma oramai non si piangeva più addosso perché aveva avuto l’occasione per riscattarsi per sempre e l’avrebbe presa al volo.
Si inginocchiò per terra, pulendo le manine paffute di Mackenzie, per poi prenderla per mano e infilarsi la giacchetta di strass più bella del suo repertorio, insieme a una borsetta di pelliccia vuota, sorridendo radioso come un sole
-Forza, patatina, sei pronta?
La bambina annuì, dubbiosa, stringendo la bella mano di Bill, lunga e sottile, le unghie smaltate di nero e bianco e i grossi anelli a decorarle; barcollarono così fuori, lui incerto sui tacchi vertiginosi e lei incerta sulle corte gambotte grasse, una coppia molto freak per uno show che doveva ancora avere luogo.
Bill non si stupì nemmeno quando la gente cominciò a guardarli, stranita, sospettosa, spaventata. Tutta Loitsche aveva imparato a venire a patti con lui e sua figlia, li aveva amati e protetti dal mondo per preservarli per sempre nella loro bolla di incredua aspettativa, erano così abituati alle due bambole da tenere al riparo che vederle muoversi sembrava un’eresia. Non li riconoscevano più come il ragazzo malato di mente e la bambina obesa, avevano scombinato finalmente la capsula del tempo che aveva permeato il paese da due anni a quella parte. Guardò il cielo, che improvvisamente, da quell’azzurro terso con le nuvolette bianco panna distribuite ad arte, era diventato grigio perla, i cirri si erano minacciosamente ammassati uno sull’altro e pareva che il costante sereno che ogni mattina benediva quello stralcio di Germania da quando Bill e Mackenzie erano sbarcati dal treno avesse deciso di cambiare radicalmente, crudele. Le persone si fermavano a fissarli, sentiva le loro voci soffocate e stranite, quei “Ma è Bill?” “Come mai non è alla stazione?” “Sarà successa una disgrazia!” “Che sia forse tornata Simone?” che rimbalzavano da villetta a villetta come un flipper, si scontravano sulle pareti di calce bianca e ritornavano alla vecchia chiesetta protestante con la cipolla nera, per poi scivolare sugli orticelli privati di ognuno e finire il loro viaggio nel piccolo meleto. Bill non rispondeva, come al solito. Si limitava a dispensare dolcissimi sorrisi, le guance pallide un poco vermiglie, le ciglia lunghe e truccate pudicamente abbassate, un radiosità nel volto e nelle gentili movenze che nessuno aveva mai riscontrato in lui.
Lo guardavano, e lui ignorava tutti, danzando il suo personale calendimaggio in mezzo a un turbine di farfalle turchesi e un mare di fiordalisi che piovevano dal cielo e gli acconciavano i capelli corvini, perle d’acqua che gli illuminavano l’abito da sposa che tanto aveva sognato di indossare, lui, vedova ancor prima di sposarsi, sposa abbandonata all’altrare senza che nessun ve lo avesse mai portato, fidanzato tradito e bistrattato senza nessun anello a confermarlo.
-Mamma, perché stiamo andando dalla signora Schafer?- Mackenzie zampettò dietro alle lunghe gambe di Bill, stringendogli più forte la mano.
-Andiamo da Gustav a chiedergli dove sta Tom, così gli facciamo una sorpresa. Sei contenta, tesorino mio?- cinguettò il ragazzo, guardandola con un affetto che Mackenzie non era nemmeno sicura che Bill potesse provare per lei. Annuì distrattamente, tirandosi le striminzite treccine con grossi fiocchetti blu in fondo.
Per una volta in vita sua, Bill sentiva che gli sarebbe bastata la sua sola presenza e la manina di sua figlia per affrontare un universo che, in fondo, non aveva mai combattuto da solo, sempre spalleggiato e sorretto da persone che lo avevano chiuso nelle loro bolle di sapone e lo avevano tirato su come elio nel cielo, il centesimo palloncino di Nena che era fuggito dagli altri, l’unico ospite dell’Hotel California che era scappato in tempo, il soldato Johnny che scendeva in città. Per riprendersi la sua vita era pronto addirittura a mettersi in gioco senza protezioni e senza scuse, come aveva fatto sino a quel momento.
Ignorando le occhiate incredule e vagamente spaventate degli anziani del vilaggio seduti diligentemente davanti al pub a commentare i fatti invisibili di quel paesotto di ombre, entrò ondeggiando nel locale che ricordava ancora dai tempi della sua infanzia, quando sua mamma andava a parlare alla madre di Gustav e lo portava con sé, in quel posto che profumava di mele e cose buone. Lo lasciava insieme agli altri bambini, diligentemente seduti attorno alla vecchia televisione a tubo catodico che c’era nel retro, in mezzo una brocca di succo di mirtillo che nessuno beveva e un piatto di fettine di strudel che venivano divorate con gola. Bill ricordava, a malincuore, quei momenti di spensieratezza infantile, legati indissolubilmente al ricordo di sua madre e del suo sorriso triste, a quei giorni in cui ancora poteva dirsi un bambino normale, in mezzo agli altri, a fare da anfitrione con le sue storie della buonanotte che tutti ascoltavano silenti, annuendo ogni tanto, a volte ridendo, a volte semplicemente sussurrando “Bill, ma tu come le fai a sapere ste cose?” con quel reverenziale e candido tono che solo i bambini di cinque o sei anni possono avere. Gli mancava anche quella rabbia innocente e cristallina che solo se hai meno di dieci anni puoi provare, e le litigate che lui sedava tranquillamente, mettendosi in mezzo con il suo sorriso un po’ storto, sorriso che nessuno a Berlino aveva mai potuto vedere, sempre nascosto da uno sexy e costruito per sembrare affascinante, alla moda, cool. Sorrideva quando era bambino, e illuminava il cielo plumbeo di Loitsche con quei dentini storti che luccicavano allegri e spensierati, per poi smettere definitivamente non appena era precipitato a Berlino come una meteora e si era trovato sperduto in un inferno urbano che non sentiva suo. La capitale era stata la morte, per il giovane Bill, come Gropiusstadt e i suoi palazzoni di stampo sovietico che lo avevano soffocato e martirizzato per anni, insegnandogli a vivere la vita che lui non avrebbe mai voluto nemmeno conoscere. Gli aveva fatto male al cuore dover sopportare le angherie dei ragazzi più grandi, dover crescere alla velocità della luce quando a Loitsche a quindici anni eri ancoa un bambinetto poppante, però, anche se gli doleva ammetterlo, era proprio grazie al Gropiusstadt e alla sua aria insalubre che era diventato quello che era. Erano state le canne e le sigarette che gli infilavano a forza in bocca che gli avevano acceso quel lezioso sguardo malizioso e sempre un po’ ammiccante, erano stati i ragazzi polacchi dell’appartamento sotto il suo a iniziarlo al sesso ad appena quattordici anni e a crescerlo per diventare quella troia che poi in fondo era, era stato l’hashish che aveva spacciato per conto del vecchio usuraio ebreo ad averlo svegliato dal suo torpore campagnolo e ad avergli acuito tutti i sensi, erano state le prostitute estoni e kirghize a svegliare in lui quel naturale eppure sopito stimolo alla conoscenza e alla curiosità di mille culture e mille storie, erano state le universitarie della casa sopra la sua a istruirlo con loro nella moda più volgare e stupenda che ci potesse essere. Era stata la periferia a dare alla luce il Bill che tutti conoscevano, quello che si portava a letto tutti i ragazzi più belli della città, che era l’eminenza grigia dell’università, che sapeva sempre come cavarsela in ogni situazione, che ti strizzava l’occhio e ridacchiava con quella sua stridula risatina. Chi avrebbe mai potuto pensare che dietro si erano nascosti anni di fatica e di sudore per arrivare a quel livello di sconcia perfezione assolutistica e incredibile? Chi avrebbe potuto immaginare tutte le lacrime, le derisioni, la paura, la sofferenza che si nascondevano dietro un trucco impeccabile e dei vestiti alla moda? Come potevi concepire che per arrivare ad avere quegli occhioni allucinati eppure scaltri, si era lasciato attirare dalle droghe che gli somministravano e che lo avevano fatto stare così male da aver temuto per la sua stessa vita? O sapere che tutto il suo sapere in materia di sesso era dovuto a intere notti passate da solo in casa di quei due giovani gemelli polacchi che gli avevano fatto fare cose che avrebbero imbarazzato persino un politico? C’erano tanti segreti nascosti dietro agli occhi neri di Bill, dietro a un colpo di fianchi o a una strizzata d’occhio, una marea di orrori e segreti inconfessabili che lui teneva gelosamente rinchiuse nel suo cuore, la chiave buttata via ancora prima di poter rendersene conto. Ogni diva ha i suoi segreti, e Bill si era sempre sentito una diva. Una nuova e frizzante Marylin Monroe, una fine tragica per un novello James Dean, un Jimy Hendrix versione bambolina. L’arte scorreva nelle sue vene, arte che nessuno avrebbe mai potuto sperimentare ed ammirare, un compendio della cultura pop racchiuso gelosamente nella sua anima vagabonda e ferita a morte.
Sospirò, avvicinandosi al bancone dove Gustav puliva indaffarato i boccali, e cinguettò, con voce stanca
-Buongiorno, Gustav.
Il biondo sobbalzò e quando lo vide quasi rischiò di far cadere il bicchiere che aveva in mando. Si pulì nervosamente le lenti degli occhiali e ansimò
-B… Bill? Ma che ci fai qui? Non dovresti essere in stazione?
Se non fosse che giusto il moro fosse stato l’unico e vero simbolo che differenziava Loitsche da tutti gli altri villaggetti pannonici e che gli abitanti proteggevano con coraggio e sprezzo delle considerazioni altrui, la scena avrebbe anche quasi fatto sorridere, una drag queen depressa con una bambina obesa vicino e un giovane barista instupidito.
-E’ successo qualcosa? Sono venuti i ladri? La piccola sta male? Hai bisogno che ti accompagni all’ospedale?
Gustav fece rapidamente il giro del bancone, prima che Bill dicesse, un brivido di eccitazione che non riusciva a dissimulare
-Oh no! Mackenzie sta benissimo, vero alhubb al’umm?1
-Nem ‘um. ‘Inna bikhayr.- cinguettò Mackenzie, mentre Bill la prendeva faticosamente in braccio e la sedeva sul bancone, accarezzandole la guancia pallida ma florida. Oramai la bambina era praticamente bilingue, e Bill ne gioiva segretamente, quando aveva colto il guizzo di prematura genialità di quella splendida figliola che gli era toccata in sorte. Era come lui, in fondo: splendidamente intelligente, con una madre depressa e una casa in un villaggio dimenticato nella Germania più piatta e selvaggia. Era collassato pure lui nel tentativo cieco e disperato di non finire come sua mamma, convinto di avercela fatta quando, per qualche motivo assurdo e inspiegabile, era rimasto gravido di Mackenzie, e viveva a Berlino, circondato da amici adoranti, una carriera da antropologo davanti e un fidanzato spettacolare. Avrebbe avuto la vita che Simone si sarebbe meritata, sarebbe risorto dalle ceneri della fenice sua genitrice, avrebbe riscattato il prezzo da pagare per quella famiglia maledetta da generazioni che erano. Ma le maledizioni, si sa, sono fatte per rovinare tutto e far cadere in rovina imperi e sovrani, come avevano rovinato la via di Bill. Tutte le sue convinzioni erano crollate quando si era ritrovato da solo, abbandonato dall’unico uomo a cui aveva davvero aperto il cuore, lasciato in una trafficata stazione berlinese con la pancia oramai abbastanza visibile nascosta da orribili magliette da skater rubate dal suo armadio, che profumavano così tanto di menta, rivolta e rock’n’roll, il trucco sciolto per le lacrime che lo scuotevano come un fuscello, nelle orecchie che fischiavano la vaga reminescenza di qualche vecchia canzone dei My Chemical Romance. Bill in quel momento si era reso conto di non essere più nessuno, che tutto era crollato come le torri di sabbie che i jinn edificavano nel deserto. E pianse, come Alessandro Magno.
-Ma che razza di lingua è questa?- chiese esterrefatto Gustav, scuotendo la testa a guardare la buffa coppia che gli era apparsa nel pub. Non lo avrebbe mai ammesso, ma segretamente sperava che se ne andassero rapidamente, chè lui di averci proprio Bill tra i piedi non ne aveva nessuna voglia.
-Arabo, Gustav. Semplicemente arabo. Ora, per favore, stammi a sentire.- Bill si appoggiò languidamente al bancone, sfarfallando le lunghe ciglia truccate, nel clownesco rimasuglio della sensualità perduta nelle nebbie di Berlino. Era sempre stata affascinato dai segreti che nascondevano le popolazioni tribali dei deserti, e ne aveva pian piano preso le usanze, ne aveva appreso la lingua bevendola dai testi universitari come miele prelibato che cola dal favo, ne leggeva le storie e le leggende per aprirsi a storie di principesse velate e carovane di cammelli, per cullarsi negli antichi suoni di civiltà perdute da secoli e vedere favolosi arabeschi nei suoi sogni selvaggi. Quante volte si addormentava e sognava le rocce del Wadi Rum giordano, un cavallo nero come l’inferno che cavalcava selvaggio sollevando un rosso polverone che si andava a perdere nei cieli infiniti del Medio Oriente, e lui, vestito con una lunga kefiah bianca e truccato come le antiche principesse dei racconti che cavalcava verso l’infinito, da solo, finalmente libero dai legami che lo avevano assicurato a una Germania che non aveva mai sentito come sua, non tanto quanto il deserto. Cantava ninnananne arabe alla sua bambina, le raccontava storie di impavidi cavalieri con la pelle color dell’ambra e di civiltà nascoste al centro della Terra, sfociando persino nella sua personale visione di Agharti per la gioia di quei grandi occhi così simili ai suoi. Si scollava dal suo mondo di tutti i giorni per potersi appropriare di quelle mille e una notte che nessuno gli avrebbe mai dato, trasfigurarsi in regni di sette assassine che seguivano i dettami di oscure divinità fenicie, città costruite nella roccia rossa di Petra, jinn fatti di sabbia e antichi regni nascosti sotto la sabbia bollente, misteriosi templi di fanciulle vergini nel Karakum, e fughe attraverso gli altipiani. Bill parlava arabo come il tedesco perché in fondo era la vita che non aveva mai avuto, era il suo modo per estraniarsi da una realtà che non faceva che ferirlo e pugnalarlo ogni istante. – Devo assolutamente sapere dove vive ora Tom.
-Tom? Ma … ma stiamo parlando di Tom Kaulitz, il rasta?- Gustav lo guardò boccheggiando, senza nemmeno pensare a fermare Mackenzie che aveva golosamente attaccato il piatto di stuzzichini che avrebbe dovuto servire a quella famigliola in vacanza. – Il soldato?
-Certo, che domande. Qui c’è solo un Tom, ed è lui.- rispose gelidamente Bill, ritrovando per uno straccio di secondo una briciola della sua algida fierezza che sfoggiava come una tigre bianca quando poteva ancora dirsi vivo. Drizzò le spalle, acquistando quei centimetri che lo facevano sembrare un palo della luce, battendo impercettibilmente con le lunghe unghie nere e bianche sul bancone, gli occhi improvvisamente congelati nella sua alterigia che si era scavato in tanti anni di sopravvivenza estrema nella giungla della capitale. Ma Bill aveva sempre voluto il silenzio del deserto, non il caos della giungla. Poteva fare paura, quel ragazzo, con i suoi capelli corvini sparati dappertutto come un’aureola, la mascella serrata e quel qualcosa di nobile negli occhioni feriti dal pianto e dalle medicine.
-Dio, Bill … ma che ti è successo?- sospirò Gustav, lasciando la bambina ingozzarsi delle tartine come se nulla fosse, osservando tristemente da dietro gli occhiali unti quel ragazzo che si ricordava come un bambino sensibile e innamorato del bello, e che aveva ritrovato come un ventenne depresso e schoccato da cose che nessuno avrebbe mai potuto scoprire. C’erano così tanti interrogativi che la popolazione di Loitsche si faceva, nella sua ostinata protezione del loro figlio perduto. Dov’era sparita Simone, tantissimi anni prima? Come mai non era ritornata, senza farsi mai più sentire? Perché Bill era tornato a vent’anni da solo, senza nulla da dire e nulla da ricevere? Chi era Mackenzie? Chi era l’uomo che Bill aspettava così ardentemente? Che cosa aveva distrutto quella perla di bambino che tutti ricordavano? Ma in fondo, erano tutti smorfiosi capricci da chiedersi per passare il tempo e per alimentare la leggenda che proteggeva il loro piccolo fenomeno da baraccone, se qualcuno fosse stato davvero interessato a lui avrebbe potuto scoprire il vespaio di segreti e di scandali che si nascondeva dietro quella figura grottesca che infestava la stazione come un fantasma dei tempi che furono.
-Voglio sapere solo dove vive Tom. Per favore, Gustav. Dimmelo.
Lo guardò, piegando le lunghe ciglia e la testa, accarezzando distrattamente i capelli di Mackenzie, che, con la sua aria saggia e vissuta che proprio non si addiceva a una bambina di due anni, li fissava dal bancone come un dio delle steppe siberiane avrebbe potuto fissare i suoi sfortunati discepoli. Metteva inquietudine, la bambina grassa, con quel suo sorriso inquietantemente dolce e vecchio, i suoi occhi troppo profondi e tristi, il suo modo di porsi esageratamente assennato e giudizioso. Era la bambina che rappresentava la generazione distrutta di una porzione di Germania dimenticata da Dio e dagli uomini, si faceva baluardo di una decadenza estrema, dove lei, l’infanzia, era più sostenuta di qualsiasi altro adulto. Quella sua pazienza e il suo silenzio innaturale mettevano il timbro alla fine di un mondo distrutto, un capovolgimento dei ruoli che nessuno poteva comprendere ed attuare ma che, in qualche modo, si era già attuato da solo.
-Perché vuoi andare da lui? Bill, non lo conosci, che cosa …
Gustav venne interrotto da un lungo dito pallido e inanellato sulle labbra
-Affatto. Ci conosciamo benissimo, io e Tom. E ora dimmi il suo indirizzo. Insomma, ti pare che io e la mia bambina potremmo fargli qualcosa di male?
I due ragazzi si guardarono negli occhi, un paio dardeggianti come lo possono essere solamente le fiaccole della Regina di Saba che illuminano la sabbia dorata nelle infinite notti etiopi e un paio abbandonati alla routine abitudinaria e assassina di un mondo incolore e bigio come la Pianura Pannonica. Ma come poteva la Pannonia sperare di vincere contro il più grande e favoloso regno leggendario?
-L’indirizzo è questo.- grugnì infine Gustav, sconfitto dalle mille sciabole affilate che lo avevano trapassato da parte a parte non appena aveva incotrato le pupille ardenti dell’altro, scribacchiando nervosamente un appunto su un pezzo di carta unta e allungandolo tristemente a Bill, vittorioso e quasi sorridente.
-Grazie mille!- cinguettò, caricandosi Mackenzie in braccio e depositandola per terra – Alrriah yataghayar. Wanahn nutabie.2
Uscirono di nuovo in strada, la mamma e la bambina appesa ai jeans, che caracollavano per le strade uggiose e bagnaticcie di rugiaga della vecchia Loitsche che avrebbe sempre accolto i suoi emigranti nel suo sterile e infame grembo bigotto. Affrontavano le tristi mattinate, col vento che soffiava da est e le nuvole che si affollavano fuggendo nel cielo infinito di un azzurro malato come l’anima di Bill, turbinando nel loro destino evanescente come quello di una cometa, sciogliendosi poi nella tristezza di un bacio mai dato, di un sorriso mai restituito, di un “ti amo” mai sussurrato. Barcollavano verso casa di Tom, tenendosi per mano, un sorriso sapiente sul viso di Mackenzie
-Mamma, ma perché oggi non siamo andati alla stazione?- mormorò la bambina, saltellando una pozzanghera, quei suoi occhi tristi che si specchiavano nell’acqua lurida della strada. – Non dovevamo aspettare papà?
Bill sorrise, radioso, per una volta, sollevando faticosamente Mackenzie tra le braccia e stampandole un umido bacio sulla fronte pallida, sullo sfondo di una tragedia delle anime e di un funerale delle nuvole e della libertà di pensiero
-Oggi no, patatina mia, perché lo andiamo direttamente a trovare. Tom è tuo padre, tesoro. Finalmente è tornato da noi.
 
1Amore della mamma // Certo mamma, sto benissimo.
2Il vento sta cambiando. Noi lo seguiamo.

 
 
 

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Capitolo 5
*** Elysa ***


CAPITOLO CINQUE: ELYSA
I miss your feeling
I miss you, every single day
If you can hear me, come back and stay
I wanna blame the sky for every time I think of you,
I wanna blame every goodbye that

Made me drown into my blues
 
Tom si stupì non poco quando sentì il campanello della vecchia casa appartenuta ai suoi nonni squillare con insistenza, svegliandolo dal dormiveglia in cui si era dolcemente assopito non appena aveva cominciato a sfogliare un vecchio album di fotografie di sua nonna. Si sfregò una mano sugli occhi assonnati, sbuffando, e si trascinò alla porta senza nemmeno curarsi di vestirsi rapidamente, ma rimanendo con l’asciugamano attorno ai fianchi, i dread sciolti sulle spalle e un’espressione ancora insonnolita. Strisciò lentamente alla porta, massaggiandosi distrattamente il retro della testa. Si era svegliato con un dolore insopportabile che gli infliggeva continue scariche di male lungo la spina dorsale e che gli riverberavano nel cervello. Era stato fortunato a uscirne vivo, gli avevano detto i medici, sei un giovanotto molto forte, borbottavano dandogli qualche pacca sulla spalla muscolosa. Toccò con un brivido di fastidio la placca metallica incastrata nella sua scatola cranica, l’unica cosa ancora capace di mantenerlo in  vita: appena la scheggia di bomba fosse stata rimossa, per lui sarebbe stata la fine definitiva. Quanto era stato in coma, laggiù nel deserto dei tartari, in mezzo al caldo infernale e al gelo notturno, fino al giorno in cui aveva potuto aprire gli occhi, sulle labbra il suo nome e negli occhi il suo viso demoniaco e bellissimo. Poteva sembrare un visionario, ma quando gli avevano detto che i commilitoni al campo come lui erano morti in quell’esplosione e che era stato l’unico a uscirne vivo, era quasi caduto in ginocchio, in preghiera, le mani giunte, gli occhi allucinati. Ricordava il generale, un brav’uomo, in fondo,  che gli aveva stretto la spalla, con un sorriso, un banale “molto religioso, ragazzo mio”. Religioso, certo. Ma non stava pregando nessun dio e nessuna Madonna, solamente un ragazzo che un tempo aveva conosciuto a Berlino e che parlava arabo. Lo sapeva, una parte di lui percepiva che era stato solamente il volere di quell’angelo con le ali nere e il trucco pesante ad averlo salvato in mezzo al mare di sangue e morti che lo aveva circondato quando i nemici avevano attaccato il campo. I suoi compagni non lo conoscevano, non potevano pregare quel dio bizzoso e volubile come faceva lui ogni giorno, come stava facendo anche nel momento in cui era esplosa la bomba, seduto con gli altri a parlare delle loro vite precedenti all’inferno, e lui era lì che pensava a Bill, al suo corpo, al suo abbigliamento, ai suoi capelli sparati, alla sua risata, al … loro bambino. Aveva tentato di dimenticarlo nella sabbia e nel dolore, negli spari e nella vita del soldato ma non ce l’aveva fatta, perché ogni notte, al sopraggiungere del sonno arrivavano i suoi occhi neri come l’inchiostro a tormentarlo e a dilaniarlo vivo. Pensava al ragazzo che aveva abbandonato con mille false promesse in Germania, alle sue lacrime amare e innamorate, alla sua voce cristallina, pensava al figlio che Bill aspettava, suo figlio. Sperava che avesse abortito, non lo negava mai a sé stesso: Tom non era capace di amare una supernova come Bill, come avrebbe mai potuto amare un bambino nato per sbaglio? Continuava a dirsi che era meglio così, che lui era un’isola e non era fatto per arenarsi da nessuna parte, non sarebbero stati loro a fermarlo, lui era un vagabondo sotto le stelle che non accettava legami con nessuna terra esistente, però c’era una parte che lo rimproverava per quello, la parte che odiava il militare, quella che usciva la notte a ricordargli di come stava uccidendo lentamente una persona in Germania peggio di come stesse facendo lì in Afghanistan, la parte che gli sussurrava che lui aveva un figlio da cui ritornare, un figlio che non aveva visto nascere, un figlio che aveva ripudiato quando nonera nemmeno ancora venuto al mondo. Hai una specie di famiglia, Tom, diceva la voce, torna a casa, vatti a riprendere Bill che si strugge d’amore per te, vai ad abbracciare tuo figlio, torna indietro. Non sei fatto per restare, Tom, diceva l’altra voce, scappa, cosa ti importa di Bill, era solo una cotta giovanile, e del bambino, potrai anche averci messo qualcosa, ma è lui la “madre”, no? Allontanati e trovati una dimensione. Lo stava anche dicendo, addirittura, prima che scoppiasse il finimondo. Tutti i suoi compagni erano morti sentendo nelle orecchie la sua voce, addolcitasi per un attimo, quella frase un po’ aggiustata per risultare meno assurda, detta così, la parte buona di lui che aveva preso il sopravvento sul soldato e gli aveva fatto dire, tra le pacche di incoraggiamento e gli auguri,“La mia fidanzata è incinta, aspettiamo un bambino”. Niente di più falso e di più vero contemporaneamente. Niente di più tragico per Tom, ricordare che con quella frasetta buttata lì si era aperto l’orrore da cui lui era riuscito a scampare per miracolo. Dicevano che l’amore non salvava le vite, in guerra, ma lui, andato in Afghanistan per fuggire, dall’amore, aveva imparato che forse non era del tutto vero, che Bill dall’alto della sua infinità bontà d’animo l’aveva salvato da quella che sarebbe stata morte certa. Ogni volta che ci pensava, rivedeva i due ragazzini afghani in mezzo alle macerie del villaggio distrutto: rivedeva gli occhi di quello con la pelle più scura, che lo fulminavano con un orgoglio e una furia così forti che Tom tremava ancora, nel silenzio della distruzione, in mezzo alla polvere e alla morte che aleggiava dappertutto, rivedeva gli occhi pieni di lacrime di quello con la pelle poco più chiara, stretto all’altro, che invece pareva implorarlo, quasi, di lasciarli stare lì, abbracciati, di concedergli un attimo di tregua nel loro tempio di disperazione. E Tom era rimasto lì a fissarli, senza fare nulla, drogato di quella visione quasi onirica nel vento del Rigestan, di come aveva assistito al timido bacio che i due ragazzini si erano scambiati sulle labbra, di quei loro corpi smagriti e feriti che si confondevano tra le ombre mentre scappavano, lanciandogli un ultimo sguardo, un tacito ringraziamento, forse. Un attimo che il rasta non avrebbe dimenticato per tutta la vita, tanto gli aveva lasciato il segno nel cuore e che ogni tanto sognava, quando si assopiva con le medicine che tentavano di sopire le fitte lancinanti che la scheggia gli infliggeva. A volte, quando rimaneva sveglio a fissare il soffitto, si chiedeva in fondo lui chi fosse davvero: un reduce dell’Afghanistan, ventritrenne con un passato felice, una scheggia di granata in testa e una figlia di cui non conosceva l’esistenza. Cosa aveva in mano se non polvere e pallottole? Cosa sognava se non l’estati di Loitsche e una vita a Berlino che sarebbe stata bellissima se non avesse deciso di ustionarsi con la stella più luminosa? Cosa avrebbe potuto raccontare con la sua chitarra, adesso che aveva ucciso?
Tom sospirò, e aprì lentamente il portoncino, sbiancando quando si trovò davanti agli occhi quello che la notte prima lo aveva così completamente sbalestrato. Eccolo lì Bill, il suo Iblis, che teneva Mackenzie per mano e lo guardava con i suoi occhi tristi e velati, il trucco impeccabile, i capelli sparati dappertutto, il solito abbigliamento tirato e sexy, il sorriso quasi timido, un rossore appena accennato sulle guance, le lunghe ciglia ricurve che ombreggiavano gli occhi infernali.
-Ciao, Tom.
La sua voce. Al rasta sembrò di essere tornato indietro di qualche anno, quando quel miele melodioso era la voce che lo cullava prima di dormire, che lo prendeva in giro, che gli faceva mille moine, che cantava nei bar alternativi, che raccontava storie. era semplicemente la voce che amava e che lo aveva salvato dalla guerra, la voce che lo aveva salutato in stazione, sventolando il fazzoletto anche se lui lo aveva ignorato, ancora troppo arrabbiato, spaventato, per poter rendersi conto dell’errore che stava per compiere.
Lo guardò, quel viso così femmineo che lo aveva fatto innamorare, quel corpo magrissimo e slanciato che lo aveva fatto impazzire, quel trucco pesante, quei piercing e quei tatuaggi che lo avevano fatto capitolare. Bill era tornato, allora, come gli aveva promesso anni prima, quel “tornerò da te” che aveva detto tra i denti, le dita incrociate, mentendo spudoratamente nella certezza che non sarebbe tornato mai più e che l’Iblis sarebbe rimasto solo un trip di LSD della sua giovinezza. Eppure, eccolo lì, sempre uguale, con una bambina obesa accanto e quell’espressione innamorata che Tom avrebbe voluto cancellargli una volta per tutte. Lui non se l’era mai meritato, Bill. Non era giusto che soffrisse così tanto per la sua persona.
-Bill.- rispose, strozzandosi con la sua stessa voce. Non avrebbe voluto vederlo, ma ora che era lì, l’unica cosa che gli veniva in mente era quella di prenderlo in braccio e baciarlo, nutrirsi di quelle labbra piene e belle che conosceva così bene, sentire quelle gambe da modella attorno al suo bacino, stringergli le cosce, affondargli le dita nei capelli che ricordava così morbidi e profumati di shampoo.
-Tom!- abbassò lo sguardo su Mackenzie, che gli era capitombolata ai piedi, un largo sorriso sul viso da luna piena, i tristi occhioni a mandorla che lo fissavano dal basso e non poté fare a meno di sorriderle dolcemente. Sua figlia. Faceva così strano pensare che a ventitre anni aveva già un bambina di due, che non aveva mai visto in faccia e che ora lo osservava, avvolta in un ridicolo vestito rosa tutto crinoline, appesa ai jeans aderentissimi di Bill.
-Ehi, tesoro, buongiorno.- si inginocchiò all’altezza della bambina, accarezzandole la testolina mora e guardando il suo sorriso deliziato, per poi rialzarsi lentamente e trattenere un secondo il respiro. Sei arrivato alla fine, soldato Kaulitz. La corte marziale alla fine non ti ha risparmiato. Devi tornare a scendere a patti col tuo passato che come promesso quando è morto il punk ti ha aspettato sino alla fine, paziente, nel luogo dove avevi giurato che non avresti mai rimesso piede. Ma il punk non è forse morto quando Sid Vicious si è suicidato? E i giuramenti adolescenziali non sono forse fatti per essere distrutti da un colpo di vento più forte? Cosa ci fai ancora qui, soldato Kaulitz? Dov’è il tuo Afghanistan? Dov’è il tuo fucile? Dov’è quel luogo sotto le stelle che avevi deputato a tua tomba?
-Sei tornato, dunque.
Sentire la voce di Bill dopo anni era una deliziosa tortura per le orecchie del rasta, una melodia dannata che tanto lo aveva salvato quanto lo aveva mandato a morire. Era più soffocata di come la ricordava, forse perché parlottava invece che strillare come era solito. Nemmeno più il sorriso sensuale e vincente era più al suo posto, sostituito da uno triste e abbandonato, velato di lacrime e di rimorsi. Stava lì sull’uscio, torcendosi le belle mani pallide, cosa che il vecchio Bill non avrebbe mai fatto. Lui gli avrebbe tirato un  ceffone, si sarebbe fatto largo, forse lo avrebbe baciato appassionatamente, ma non sarebbe rimasto lì, tremante e ferito come un cucciolo di lupo siberiano lasciato dal branco. Quello non era Bill, decise Tom. Quello era la sua brutta copia slavata e debole. Assaporò per un attimo la delicatezza del timbro, la voce melodiosa, così musicale e strana, l’accento vezzosamente berlinese che gli era rimasto, nulla a che vedere con il volgare strascico di Loitsche.
-Sono tornato.- mormorò, arrossendo profondamente. Non sapeva come affrontare la situazione, a quel momento. Non sapeva nulla se non che avrebbe voluto chiudere la porta e scappare lontano, riprendere il treno, fuggire lontano dall’Iblis e da tutto quello che portava di brutto. Sentiva l’oscurità del deserto cominciare a gravargli addosso, portata dagli occhi troppo neri di Bill e di Mackenzie. Giusto, Mackenzie. Quella che pregava non fosse sua figlia ma che più guardava più si rendeva conto con orrore sempre più crescente di quanto si assomigliassero. Non voleva sobbarcarsi un peso del genere. Non voleva un uomo fisso, non voleva diventare padre, non voleva quel tipo di responsabilità. Aveva solo ventitre anni, dio santo. Solo ventritre anni.
-Possiamo entrare, Tom?                                                                                                                                                                                                                                                                                                    
Aveva un modo di pronunciare il suo nome che lo faceva sospirare ogni volta, così innocente e lascivo allo stesso tempo. Un ricordo così vivido da averlo salvato.
Si scostò dall’uscio, lasciando quella buffa coppia entrare, e richiuse la porta con un tonfo sordo, un rintocco a morte della fine della sua esistenza. Li guardò, la mamma e la bambina, che scivolavano nel suo appartamento. Gli ricordavano tanto due jinn del deserto, che seguivano i venti della tempesta e i mulinelli di sabbia, accompagnandosi nel lento vagare seguendo i canti degli altipiani del Kurdistan. Due fantasmi morti durante la guerra, costretti a vagare per l’eternità in un limbo d’orrore perché nessuno aveva pensato a seppellire i due corpi sconosciuti ritrovati mutilati da una bomba esplosa nel sottosuolo, forse dai loro stessi compatrioti. Due zingari di un freak show che girava l’Europa su colorati carrozzoni, rimasti soli a fissare le macerie della loro gente e i carri in fiamme, tra la puzza di carne bruciata e olio. Due esuli del Mayflower abbandonati sulle isole del Terranova che osservano l’oceano che li separa dalla loro vecchia, amata Inghilterra, il gelo canadese che gli ustiona le pelli baciate dalla luna e dalle stelle. Erano così belli, pensava Tom, per quanto potessero sembrare belli una bambina obesa e una drag queen spaurita che si guardavano in giro con aria persa e solitaria, due animaletti braccati che non sapevano più come uscire dalla tana del cacciatore. Emanavano un alone di luce lunare così potente da ferire gli occhi, qualcosa che voleva contemporaneamente scacciare gli eretici e avvicinare i pochi adepti a questa setta dimenticata nel cuore della Siberia, un antico culto mediorientale persosi nelle sabbie del tempo, un demone venerato da pochi pastori del Tash Rabat kirghiso, una filosofia sperduta a Samarcanda. Parevano tutto quello, Bill e Mackenzie, un misto di culture e di passati così vario da far girare la testa, un potpourri di spezie mai assaggiate e musiche mai ascoltate, più variopinti dei mercati di Bankok e più nascosti della Terra del Fuoco. Tom aveva amato Bill anche per quel motivo. Non importava che fosse nato in un villaggio al confine con la Polonia, come non importava che fosse cresciuto nel vortice di orrore che si nascondeva nel Gropiusstadt: importava solo il fatto che dentro di sé nascondeva le lacrime e la polvere di epoche e di reami incantati persi tra le cupe reminescenze del passato. Bastava guardarlo, con i suoi capelli sparati in aria, la sua parlata volgare e sboccata, i suoi gioielli dark, la sua espressione leziosamente annoiata, e non avresti mai immaginato che da quelle labbra grosse e sensuali, spennellate di rossetto, potessero fluentemente uscire tutte le più oscure leggende mediorientali, i segreti della Mongolia e del Tibet, il folklore kirghiso e tagiko, ninnananne arabe, non avresti immaginato che quegli occhioni neri si illuminassero delle stesse luci che costellano i cieli giordani, non avresti immaginato quelle mani lunghe e belle scrivere preziosi aneddoti che solo pochi dotti sanno. Lo aveva amato anche per la sua intelligenza spiccata e vivace, invero.
-Mamma, ho fame.- il cinguettio di Mackenzie interruppe l’imbarazzante silenzio che era calato tra i due ragazzi, e li fece quasi sobbalzare.
-Hai fame, patatina? Ma hai già fatto colazione, e da Gustav hai anche divorato il tagliere che c’era sul bancone … - Bill la guardò dispiaciuto, aggrottando le sopracciglia – Non so se …
-Mamma, ho fame.- ripeté la bambina, più ferma, stringendo il bordo dei jeans del moro e dandogli una tiratina extra.
-Sì, amore, certo.- Bill sospirò mestamente, scuotendo la testa, per poi voltarsi verso Tom, le gote soffusamente arrossate – Non vorrei chiedertelo, Tom ma … avresti qualcosa da dare a Mackenzie? Qualsiasi cosa, davvero.
Il rasta annuì troppo velocemente, facendo strada nella piccola cucina ordinata e linda, quel silenzio fastiodoso che era calato tra loro due e che non poteva essere cancellato. Avrebbe forse dovuto baciarlo subito? Avrebbe dovuto accettarlo il giorno prima, al Kalende May? Avrebbe dovuto prenderlo in braccio e scoppiare in lacrime? Avrebbe dovuto starsene in Afghanistan? E Bill, avrebbe dovuto farsene una ragione? Avrebbe dovuto abortire? Avrebbe dovuto restarsene a Berlino e rifarsi una vita? Troppi condizionali nella vita di Tom e Bill, troppe cose non dette e idiozie fatte. Non potevano raggiustare quello che era successo tra loro in quella maniera, non dopo due anni passati così, non …
-Penso che questa torta vada benissimo.- guardò quasi ebete Bill che afferrava una fetta della torta che gli aveva fatto la mamma di Georg e la metteva in mano a Mackenzie, dopo averla faticosamente seduta su una delle sedie attorno al vecchio tavolo di legno.
-Grazie, Tom.- cinguettò di rimando la bambina, attaccando come una piccola idrovora la torta al cioccolato, sorridendo come uno di quei grassi Boddhisatva nei templi tibetani. Bill la guardò dolcemente, accarezzandole la testolina, per poi girarsi lentamente verso il rasta, una nuova tristezza tornata ad ombrargli gli occhi. Si guardavano, semplicemente, standosene uno di fronte all’altro senza avere il coraggio di fare nulla che non fosse fissarsi con aria colpevole. Svuotati da tutto, incapaci di chiedersi scusa, di odiarsi, di amarsi. Incapaci di vivere e di morire.
-Bill.- Tom non si riconobbe nemmeno qundo parlò, un tono soffocato che gli era estraneo, un dolore nuovo a pesargli nel petto. Quando si rese conto di essere ancora con l’asciugamano drappeggiato intorno ai fianchi – Ahem, scusami, magari, magari mi vesto e …
-Non c’è n’è bisogno.- lo fermò Bill, sorridendo delicatamente – Non mi pare che tra noi possa più esserci la minima forma di inibizione, trovi?
Non aveva affatto torto: come faceva a vergognarsi così di fronte al ragazzo con cui un tempo aveva addirittura convissuto? Ricordava vividamente tutte le volte che avevano fatto sesso, in tutta la casa, dappertutto, impregnando l’ambiente piccolo e angusto con tutta l’eccitazione che due giovani studenti sulla cresta dell’onda potevano avere dentro, sesso che non aveva più provato, che aveva tentato di dimenticare con qualche ragazza afghana che lo andava addirittura a cercare, ma ogni volta pensava a lui, solo a lui, alle sue smorfie, ai suoi gemiti, solo ed esclusivamente all’unica persona che poteva effettivamente appagarlo del tutto, che conosceva tutto di lui, che sapeva quello che davvero voleva; tutte le volte che si erano fatti la doccia insieme, il suo corpo muscoloso e caldo schiacciato contro il corpicino debole e freddo di Bill, stretti uno all’altro in un abbraccio solido e apparentemente indistruttibile come il Muro dietro al quale erano nati, quel “Freiheit 89” che Bill aveva tatuato sul braccio e che ogni tanto si accarezzava, distrattamente, quelle pelli pallide che si infiammavano a vicenda, l’acqua che scrosciava su di loro portando via la loro rabbia e la loro indipendenza, i loro occhi chiusi e le mani intrecciate. Tom si morse il labbro inferiore, facendo un vago gesto ad indicare il piccolo e accogliente salotto, dove Bill andò, ondeggiando sui tacchi vertiginosi, quella vaga camminata ancheggiante non più sicura e decisa come ai tempi di Berlino. Lo guardò sedersi sul divanetto rosso, accavallando le gambe lunghe e snelle, le mani intrecciate in grembo, i ciuffi di capelli sul viso. Era così bello e così prezioso che Tom si chiedeva ancora come avesse fatto a farselo lasciare scivolare via dalle mani in quel modo orribile, come aveva potuto far piangere quell’angelico jinn del deserto.
-Sono contento di vederti.- cinguettò il moro, sfarfallando le lunghe ciglia ricurve – Mi eri mancato così tanto, Tommuccio, così tanto.
Eppure, più lo guardava, più al rasta sembrava che Bill non fosse affatto arrabbiato o deluso da lui, come invece avrebbe dovuto essere. La sua espressione tradiva una certa rassegnazione di fondo, come se in fondo si fosse convinto che amarlo era l’unica cosa che importava, e che lui facesse pure quello che gli pareva, che lo abbandonasse nel momento del bisogno, che lo odiasse, che lo ripudiasse, lui sarebbe stato sempre lì ad aspettarlo, con la porta aperta, le braccia tese e un sorriso stanco e bruciato dallo Xanax, questo a Tom faceva più male che uno schiaffo, un calcio nelle parti basse, un insulto velenoso. Non era cambiato, in fondo, dal Bill che ricordava lui. Poteva essere stato esuberante, prima, accattivante e pieno di risorse ed idee libertine e sfrenate, mentre ora non era altro che il fantasmino slavato di un villaggio della Pannonia, ma quell’ombra di cupa mestizia, quel suo chinare la testa, non erano cambiati. Tom ricordava di come nessuno potesse mettergli i piedi in testa, ma come si facesse maltrattare dal suddetto con inaudita pazienza, e di come ogni volta tornasse ad amarlo come lo amava prima. Una cosa del genere, Tom non avrebbe mai dovuto farsela sfuggire, ma era così giovane e stupido, convinto di avere il mondo in mano e la luna ai suoi piedi, così vanitoso e borioso, pieno di ideali di lotta e giustizia che non aveva avuto l’umiltà, la semplicità, anche la semplice correttezza morale di vedere quando in realtà Bill fosse dipendente da lui, di come lo amasse di un amore che Tom non provava nemmeno verso la sua stessa madre. Non aveva percepito la dipendeza che Bill aveva nei suoi confronti, il bisogno fisico e psichico del ragazzo di avere un punto di riferimento che gli era sempre mancato. Ma gli bastava guardare i suoi occhi e sentire la sua voce, adesso che oramai era cresciuto e quel ragazzo sempre in prima linea con ideali utopici e musica punk nelle orecchie era tramontato con i ricordi slavati di Berlino, ora capiva di quanto potesse essere vasto, smisurato e paziente l’amore di Bill, di quanto avesse perso e di quanto fosse un bastardo a starsene lì in piedi, sempre fingendo di non conoscerlo davvero, quando invece l’unica cosa che avrebbe dovuto fare sarebbe stato buttarsi in ginocchio e cominciare a baciargli i piedi implorando di perdonarlo tra le lacrime che teneva incastonate nel cuore di pietra. Però non pianse, e non gli cadde in ginocchio davanti, l’ultimo appigglio del suo orgoglio bastardo e del suo ego smisurato che lo reggevano in piedi e gli avevano congelato le lacrime negli occhi.
-Cosa ci fai qui, Bill? Perché non sei a Berlino?- gli chiese, gelido, scostandosi i dread dal viso. Perché un Iblis avrebbe dovuto scegliere la periferia dell’impero e lasciare da parte Samarcanda? – Io … perché, Bill?
-Perché te ne sei andato, semmai.- il moro lo guardò, alzandosi lentamente e fronteggiandolo, con quei suoi diabolici occhi di brace, il pianto spezzato di una sirena a cui hanno ferito la coda, di una selkie a cui hanno rubato la pelle, di un elfo a cui hanno strappato le ali – Perché non hai mai risposto alle mie lettere? Perché mi hai lasciato da solo?
-Non capisco di che stai parlando, sinceramente.- per chi mente, nell’esercito, la punizione è delle più dure. Soldato Kaulitz, per te non c’è altra via che non sia la Corte Marziale. Degradato, Soldato. Tom non aveva mai avuto il vero coraggio di ammettere di essere scappato in Afghanistan perché aveva paura di diventare adulto; poteva fare il ragazzino ribelle quanto voleva, ma alla fine la sua famiglia lo aveva richiamato all’ordine: sei un Kaulitz, Thomas, come tutti gli uomini della tua famiglia, diventarai un militare graduato. Poteva aver detto quello che voleva, a Berlino, aver parlato di libertà, di muri abbattuti, di diritti umani, ma infine l’accetta era calata sul suo collo e lui non era stato nemmeno lontanamente pronto a dire di no davvero, ma aveva chinato subito il capo, partendo per una guerra che non sentiva sua. Se avesse avuto più coraggio, si sarebbe opposto, avrebbe lottato controcorrente per scappare a quelle costrizioni, si sarebbe fatto un’altra vita, invece no, aveva scelto di sottostare, per combattere, per sfogare la sua rabbia e la sua follia che nei comizi berlinesi non riuscivano mai davvero ad esternarsi, aveva scelto di seguire la sua natura raminga e selvaggia, rimanendo ancora un bambino e cercando di allontanare l’adulto che lo osservava, quello che diceva, hai già ventun’anni, sei abbastanza grande per decidere. Tom non era pronto, ecco tutto. Non quanto lo era Bill, almeno. Gli si strinse lo stomaco a pensare alle lettere. Già, le lettere. Quella miriade di buste sporche di sangue, sabbia e polvere da sparo che custodiva gelosamente in un bauletto antico, tutta quella carta che Bill gli aveva spedito per due anni, indefesso, senza che gli avesse mai risposto una sola volta. Ma puntualmente, ecco una lettera. E poi un’altra. E un’altra ancora. Nessuna chiamata, nulla, se non lunghissime lettere fittamente scritte con la sua calligrafia bella e morbida, ognuna più innamorata e speranzosa dell’altra. C’erano delle foto di Mackenzie, all’inizio, dello stesso Bill. Ogni volta che arrivava allo spaccio e gli veniva allungata una lettera, si sentiva male dentro. Le leggeva controvoglia, non rispondeva mai, nella speranza vana che Bill si stufasse di lui, che lo lasciasse in pace, che la piantasse di perseguitarlo, che si rifacesse una vita, lui e quella dannata bambina che nessuno di loro aveva mai voluto. Ci piangeva sopra, all’inchiostro, alle ripetitive parole di ogni missiva, la notte, quando nessuno sentiva. Dopo un po’ aveva addirittura smesso pure di leggerle; le prendeva e le riponeva via, limitandosi a sentire l’odore di vaniglia di Bill che rimaneva appeso alla carta, quel odore così dolce che prima gli si attaccava alla pelle e ai vestiti ma che in quel momento non era altro che una visione olfattiva. Nelle prime lettere, quelle che ancora apriva e leggiucchiava c’erano addirittura delle fotografie, con scritto “Torna presto”, “Ti sto aspettando, amore mio”, “Sono sempre bello, trovi?” e lui le guardava e si mordeva il labbro perché mentre il suo cervello vomitava quanti più insulti possibile, il suo cuore sanguinava. Ce n’era una, così eterea, così sensualmente straziante che lo aveva convinto a tenersela sempre nell’uniforme, in qualche modo, per permettergli ogni tanto di guardare Berlino, la sua bellissima Berlino, quella città che lui aveva cavalcato, solcato, amato e violentato in tutti i modi possibili, alla quale aveva assorbito tutte le energie, e di maledire la grazia leggiadra di Bill, seduto con la sua solita finezza su una delle altalene nascoste del Ehrolungspark, le gambe accavallate, gli occhi bassi, i capelli sul viso, quel sorriso timido sulle belle labbra, qualcosa che gli aveva ricordato il motivo per cui era scappato dalla Germania e che lo aveva ferito oltre ogni dire. Però era una bella foto, quella, che aveva resistito anche all’esplosione della bomba, miracolosamente, nonostante l’avesse avuta in tasca in quel momento. Nemmeno a quella aveva osato rispondere, lasciando che le parole vagassero per gli infiniti cieli del deserto e si perdessero nell’oscurità della guerra e della morte. Le ultime lettere nemmeno le aveva aperte, troppo spaventato, annoiato, stufo di tutto quel panegirico inutile che Bill trascinava morbosamente. Non voleva più rivederlo, ma ora che era lì, a Loitsche, la vera periferia dell’impero, cosa poteva fare se non venire a patti definitivamente con sé stesso e con il suo Iblis?
-Tom, io ti ho aspettato per due anni. Io e Mackenzie ti abbiamo aspettato. Non …
La vocetta ovattata della bambina interruppe Bill, e Tom le fu sinceramente grato, perché spezzò per un secondo la tensione che si era instaurata nel salotto, quel vago hard rock del vecchio grammono della nonna con il vinile che macinava lentamente, la nebbia che saliva dalla pianura. Andarono in cucina, in silenzio, fianco a fianco, come due cavalieri di ventura, due corsari, due zar, e c’era Mackenzie seduta sul tavolo, il piatto con la torta praticamente finito in  mano, nessuna briciola o macchie a sporcare né lei né il tavolo.
-Mi ricorda qualcuno … - sussurrò Tom, lasciandosi sfuggire un sorriso dolce che avrebbe voluto ingoiare. Gli ricordava così tanto Bill e la sua precisione millimetrica, quella sua pulizia eccezionale. Puntualmente Bill si girò, un lampo di felicità a brillargli nelle iridi d’inferno, uno scatto di gioia che nessuno dei tre aveva mai sperimentato veramente.
-Ha preso da me, ovviamente.- cinguettò il moro, prima di spazzolare i capelli di Mackenzie e cinguettare – Però, amore della mamma, non dovevi mangiare tutta la torta di Tom.
-Avevo fame.- rispose candidamente la bambina, muovendo le grasse manine, per poi girarsi verso Tom con i suoi occhi di braci ardenti.
Tom strinse i denti, passandosi una mano sul volto stanco e bruciato dal deserto. Aveva tergiversato abilmente tutto il tempo sul tema principale, ovvero la loro figlia, che li guardava sorridendo dal tavolo, con quello sguardo più vecchio del tempo e più triste del vento. Era così bella, pensò il rasta. Così bella. Non riusciva ancora a credere davvero che quella fosse la sua bambina, gli sembrava una cosa così assurda, così inconcepibile. Era andato in guerra per fuggire proprio a quei grossi occhioni neri e malinconici, a quel sorriso triste, a quell’espressione un po’ abbattuta, però ora eccolo lì, davanti ai suoi due incubi che lo fissavano curiosamente una e dolcemente l’altro, in casa sua, dove non poteva fuggire, dove non poteva sparare, dove non poteva fare nulla che non fosse fronteggiare la cruda realtà. Non c’era sabbia, quella volta. Non c’era il deserto, il campo, le mine. Non c’era l’Afghanistan, e lui non si sentiva a casa.
-Tom, mi sei mancato tanto.- ripeté Bill, avvicinandoglisi tanto che Tom si sentì pervadere da un sentimento così forte da fare male. Da un lato, avrebbe voluto allontanarlo, spingerlo via, cacciarlo con violenza e cattiveria, ma dall’altro non voleva fare altro che stringerlo a sé, baciarlo, fare di nuovo suo quel corpicino guizzante e fresco. Un senso di repusione e attrazione così forte da essere doloroso, l’amore odio che da sempre li aveva legati e allontanati, la passione maniacale e assassina che era sempre stato il nettare delle notti berlinesi. Lo voleva follemente, e allo stesso momento lo voleva morto, lontano da lui con la loro obesa figlia.
Lo guardò, le sue belle mani che quasi gli sfioravano il petto, il suo odore così forte che dava alla testa come le spezie dei mercati afghani, i suoi occhi che grondavano sentimenti così tumultuosi da stupire, più luminosi delle notti del deserto e più turbinosi delle tempeste del Rigestan, le sue labbra socchiuse così erotiche da essere sconce ma allo stesso tempo così pure da essere innocenti, i suoi capelli sparati dappertutto ancora baluardo di un’esistenza punk-rock nella capitale. La sua bellezza leggendaria superava tutte le leggende arabe e mediorientali che narrava, Tom lo aveva sempre sostenuto e non se lo sarebbe lasciato sfuggire in quel momento. Non se lo lasciò sfuggire, quando lo guardò fisso in quegli occhi di tenebra e braci, e sebbene il soldato gli stesse urlando di staccarsi, di non lasciarsi corrompere da quell’Iblis che tentava di sedurlo e portarlo via per sempre nelle grotte del Kizilkum turkmeno. Ma non ce la fece, non quella volta, non dopo due anni di rimorsi, ripensamenti e incubi notturni. Non dopo che vide quel viso che lo aveva perseguitato. Gli bastò un secondo per prendergli il viso tra le dita e sussurrargli  un vago “Anche tu, Iblis”, prima di stampargli un delicato eppure irruento bacio sulle belle labbra dischiuse. 

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Capitolo 6
*** Love And Death ***


CAPITOLO SEI: LOVE AND DEATH
All the pain that we’ve been through
I’ve been dying to save you
Feel the blood in my veins flow
I’ve been dying to save you
I’ve been watching you swim
I’ll just seeing you drown
Is it tragedy or comedy?
 
Bill non sapeva come sentirsi in quel momento. C’era solamente un vuoto nauseante nella sua mente, lì appeso alle spalle larghe e abbronzate di Tom, le loro labbra di nuovo unite in un bacio che mendicava da anni a questa parte. Aveva fantasticato tantissimo su quel momento, immaginandosi scene cinematografiche alla stazione del treno, con baci tutti lingua, lacrime e passione, le mani che tastavano i rispettivi corpi, la gente che li guardava con un sorriso spento, una canzone di Nena come sottofondo delicato, e invece si stava svolgendo tutto in un modo così diverso, soli in una cucina dove solamente la loro figlia poteva guardarli, il grammofono con della musica rock che ricordava troppo i tempi andati, un bacio lungo e malinconico, che sapeva di sabbia e di addio per sempre. Non se l’era aspettato, ma ora che finalmente aveva potuto bearsi della pressione delle labbra di Tom sulle sue, gli pareva che il Paradiso gli avesse appena consegnato le chiavi. Aveva sofferto, in quei due anni. Aveva pianto fino a non avere più lacrime, si era imbottito di antidepressivi e barbiturici fino a scoppiare, aveva passato le sue notti a bere vodka a canna dalla bottiglia, aveva ricorso continuamente all’autolesionismo, eppure era ancora lì, a pezzi ma in piedi, di colpo tamponato da tutto l’orrore in cui era sprofondato. C’era Tom, adesso. Tom e il suo profumo di menta, ribellione e rock’n’roll, Tom che lo stava stringendo piano, per non romperlo, e che finalmente lo stava baciando. Era tornato davvero, dunque. Si era materializzato a Loitsche per portarlo via e salvarlo dall’alcolismo, dalla depressione, dall’apatia, a prendersi carico della loro bambina. Improvvisamente, il suo corpo si rilassò del tutto, come se milioni di piccole tensioni nervose si fossero sciolte a contatto con la pelle bollente e ustionata dalla guerra del rasta, si lasciò quasi cadere tra le sue braccia, infilandogli le dita tra i dread che era così abituato a toccare e a spupazzare, gli forzò la bocca con la lingua. Chiedeva disperatamente di più, voleva sentirlo completamente suo come a Berlino. Gli pareva di aver toccato il cielo con un dito, ad assaporare le labbra che lo avevano fatto loro, a stringere l’uomo che lo aveva dannato. Sentì Tom stringerlo più forte, accarezzargli la schiena, intrecciargli le dita ai capelli corvini, riempirgli la bocca con i suoi baci ustionanti. Non sapeva nemmeno se il suo cuore avrebbe resistito a una tale gioia, ma per lui poteva anche morire felice, a quel punto. Aveva più volte meditato il suicidio, in quei due anni, era sempre arrivato a un niente dalla morte, che fosse per la droga, il coma etilico, o anche per la volta che aveva tentato di annegarsi nella vasca, ma ogni volta qualcosa lo aveva salvato.  Una volta Gustav, che lo aveva trovato e portato in ospedale prima che fosse troppo tardi, una volta Georg, che lo aveva fermato facendogli vomitare anche l’anima, un’altra volta Mackenzie che lo chiamava nel silenzio della casa, superando il rumore dell’acqua della vasca dove si era immerso e che l’aveva costretto ad andare da lei prima di morire. Allora era tutto un segno, si ritrovò a pensare, mordicchiando la lingua di Tom. Un segno per dirmi che sarebbe tornato, bastava solo pazientare a lungo e attendere alla stazione il suo palesarsi. 
Si staccarono solo un secondo per respirare, le fronti attaccate, le lunghe ciglia che si intrecciavano, le lacrime di trucco di Bill che gli sporcavano le guance pallide, gli ansimi leggeri che si mischiavano, le labbra che continuavano a giocare in un sottile velo di impalpabile tenerezza e solitudine, gli occhi di Mackenzie che li fissavano senza capire. Bill rivedeva Berlino negli occhi dorati di Tom. Rivedeva la Sprea illuminata dalle stelle la notte, i locali alternativi di Spandau, il loro appartamento impregnato di fumo, la facciata dell’Università di antropologia, la moto un po’ vecchiotta e un po’ vintage con cui veniva scarrozzato. Ma vi rivedeva anche il Gropiusstadt, il cimitero dove giaceva Simone, i ragazzi polacchi del piano di sotto, l’eroina da spacciare, la violenza e le finestrelle di alluminio rovinate. Per Bill, Berlino era sempre stata una maschera, un Pantalone, e lui era solamente una tenera Colombina con le sottane alzate, era uno specchio liquido di cui lui era l’Alice strafatta di acido lisergico, era un protettore crudele eppure necessario, e lui non era altro che la sua prostituta più riverita, infiltrata nelle classi agiate ma in realtà figlia di un letto a pochi centesimi. Non era la sua città, ma aveva sempre preferito dire “berlinese” invece che raccontare di venire dalla piccola Loitsche, il villaggetto dimenticato di provincia. Bill non voleva ricordare le sue umili origini, fingeva, glissava sul passato per concentrarsi sul suo fulgido presente, aveva sempre mentito a chi gli chiedeva di dove era. Perché ricordare Loitsche quando aveva la capitale ai suoi piedi? Eppure, incredibilmente, sembrava che Loitsche avesse avuto la sua vendetta, strappandolo con violenza dalla sua patria acquisita e riproiettandolo nell’orrore provinciale che lui aveva sempre tentato di dimenticare. Avrebbe tanto voluto rivedere Berlino, perdersi di nuovo nei suoi viali, girare per i rave con Tom sulla vecchia moto vintage, starsene nell’immensa biblioteca dell’università a leggersi i suoi libri in arabo, fare l’amore fino a sfinirsi nel piccolo appartamento da studenti, fino a vedere le luci dell’alba rischiarare la finestra e svegliare dolcemente la loro città, dare i suoi esami sapendo che poi avrebbe passato tutto il resto del tempo a scrivere i suoi libri in biblioteca, libri che non aveva mai pubblicato, dopo che era rimasto da solo e abbandonato. Voleva sentire ancora il rumore della gente, le risate con gli amici, i discorsi politicamente impegnati, gli Scorpions e i Rosenstolz a tutto volume nelle casse, cantando Perfekte Welt, quella degli Juli che conoscevano tutti a memoria. Voleva di nuovo sballarsi di LSD, voleva farsi voluttuosamente accendere le sigarette dagli altri, voleva respirare l’aria primaverile mentre portava una rosa sulla tomba di sua mamma. Voleva la città che l’aveva cresciuto trasformandolo in quello che avrebbe dovuto essere, non quella che lo aveva partorito nel suo sterile e bigotto grembo e che lo aveva reso quello che era in quel momento. Voleva … sentì le mani di Tom, quelle mani lunghe e grandi bruciate dalla guerra, stringerli possessivamente le natiche sode, impossessandosi della sua bocca con una voracità che Bill ricordava ancora come un fuoco inestinguibile che li aveva animati entrambi dal primo momento in cui si erano messi gli occhi addosso, in quella discoteca di Spandau. La loro storia era passione, lo era sempre stata, animata da sentimenti così tempestosi da lasciarli entrambi spossati. “E’ come se noi scopassimo anche con i nostri cuori, B.” gli aveva detto una volta il rasta, e lui aveva pensato che non c’era frase più vera. Si aggrappò alle sue spalle, diventate più muscolose e larghe rispetto a due anni prima, facendosi prendere in braccio come una bambolina, allacciandogli le gambe al bacino com’erano soliti fare nella loro cucina, un tempo. Tom era tornato e lo amava come lo aveva amato un tempo, lo voleva come lo aveva voluto, per Bill quello era abbastanza. Gli mise le mani tra i dread che tanto aveva sognato di poter ritoccare, si fece baciare il collo da cigno, ansimando, quasi stranito da quell’onda di passione che in un secondo si era presa possesso del suo corpo e della sua mente. Erano due anni che rimaneva intoccato, nella costante attesa di Tom, l’unico che aveva il diritto di amarlo, di toccarlo, di possederlo. Bill non aveva lasciato nessuno nemmeno avvicinarsi lontanamente al suo corpo, chiudendosi nel suo guscio di amante abbandonato, che finalmente ora gioire nuovamente, tra le braccia di colui che lo aveva salvato e dannato. Probabilmente, se fosse stato per Tom, per la sua brutalità che Bill ricordava sempre con un brivido di eccitazione segreta, tutto si sarebbe concluso in quella cucina, su quel vecchio tavolo, ma non fu così. Gli bastò girare l’occhio per intravedere la figura di Mackenzie, seduta sul tavolo, che li fissava con la sua solita aria malinconica che nessun bambino di due anni dovrebbe avere, un biscotto in mano e un altro in bocca. Si irrigidì un secondo, allontanando impercettibilmente Tom da sé, mordendogli le labbra, facendogli un gesto col capo in direzione della bambina. Non seppe se Tom sbuffò o altro, seppe solo che aumentò la presa sulle sue cosce e lo staccò dal ripiano, trascinandolo verso la camera da letto come fosse un peluche.
Bill si sentiva così strano in quel momento; non riusciva ancora a percepire chiaramente il ritorno di Tom, il fatto che stesse per ripetersi quello che lo aveva tenuto in vita fino ad allora. Se non fosse stato sicuro che quella mattina non si fosse imbottito di barbiturici come tutti i santi giorni, avrebbe pensato che era tutta un’allucinazione. Non era nemmeno la prima volta che, in preda alle visioni dei narcotici, sognava Tom che rientrava dalla porta di casa. Eppure, ogni volta, lo vedeva entrare vestito da soldato, con un fucile in spalla, la faccia sporca di sangue  e polvere, le mani mangiate da una granata, e lo vedeva piangere. Si risvegliava piangendo, aggrappato al divano, la televisione ancora accesa, la testa pesante, il trucco sfatto. Un'altra pastiglia, e di nuovo sprofondava nei suoi incubi. Ma ora non riusciva a risvegliarsi da nulla; quello non era uno dei folli sogni che oramai popolavano la sua mente rovinata e bruciata dalle medicine, quella era la pura realtà, per una volta, più vivida e ustionante di qualsiasi sogno. Il ragazzo semi nudo che lo stava schiacciando sul letto fresco e profumato, così diverso dal suo perennemente impregnato di fumo, non aveva le mani sfatte dalle bombe, non era sporco di sangue e terriccio, non si distruggeva in mille schegge davanti a lui. No, era vivo, pulsante, un fascio di carne e muscoli che nulla aveva a che fare  con la figura di impalpabile nebbia che varcava le porte dei suoi sogni notturni. La sua bocca vorace, le sue mani nervose che lo spogliavano, erano tutte sensazioni che Bill riesumava alla mente solamente ogni tanto, quando sentiva il bisogno quasi fisico di prospettarsi il suo Tom sotto le dita. Gli si arpionò alla schiena, trovando finalmente l’appoggio a cui aveva disperatamente anelato ogni giorno alla stazione, quando si sentiva svenire, la sera, vedendo l’ultimo treno partire e il capostazione chiudere il gabbiotto. Non sapeva nemmeno dire se avesse avuto davvero voglia di farlo non appena si fossero rivisti. Nei suoi sogni, tutto era molto calmo: c’era la cena, c’era il mettere a letto la bambina, c’era il sedersi sul divano e accocolarglisi in braccio, c’era il parlare fino a tarda notte, c’erano dei baci sparsi, e poi, solo poi, ci sarebbe stato il letto dove consumare il rapporto che divorava entrambi. Ma quelli non erano i sogni, appunto, quella era la realtà, che voleva una cosa del genere, e lui era pronto a dargli tutto quello che voleva, pur di riaverlo nuovamente al suo fianco.
Si lasciò afferrare per i capelli, facendosi togliere la camicia, mentre le sue belle mani nervose vagavano sul suo corpo, studiando le cicatrici di guerra, infilandosi tra i dread biondicci tornati diligentemente al loro posto, slacciandosi concitatamente i jeans neri aderentissimi. Gli piaceva il profumo che aveva la pelle nuda di Tom, quel profumo di sapone alla menta, l’odore della sabbia del deserto, del rock’n’roll che era il suo biglietto da visita, la colonia delicata e la rivolta che covava sotto i muscoli guizzanti sottopelle. Non respirava nemmeno, in mezzo ai suoi baci e alla loro passione repressa che sembrava dovesse deflagrare in tutta la sua potenza su quel letto della vecchia casetta di Loitsche.
Venne ritrascinato brutalmente fuori dal suo mondo di sogni dalla voce di Tom, soffiata sulle sue labbra arrossate dai baci, il suo immobilizzarsi sopra al suo corpo eccitato oltre ogni dire, gli occhi di entrambi lucidi e splendenti.
-Bill, io … te la senti?
Il vecchio Tom non l’avrebbe mai detto, pensò il moro, ma si ritrovò a far fare capolino sulla bocca un delicato sorriso. Il vecchio Tom aveva il comando assoluto sulla camera da letto, non si era mai davvero preoccupato di cosa potesse pensare o avere in mente Bill, che d’altronde non se ne era mai nemmeno lontanamente lamentato.
Per tutta risposta, Bill lo rovesciò sul piumone e gli si sedette a cavalcioni sopra, ingabbiandolo tra le sue braccia, gli occhi pieni di lacrime di felicità, che gli avevano trasformato gli occhi di ossidiana in due pietre più preziose di qualunque diamante. Perché quell’enorme paio di perle d’inchiostro illuminate da lacrime pure come una cascata di diamanti, luccicanti come lucciole nelle notti d’estate e misteriose come un branco di lupi siberiani, erano accesi da tutta la passione, la gioia segreta, l’emozione ingestibile di un ragazzo che era tornato a vivere dopo un coma durato due anni. Splendeva, Bill, splendeva come i gioielli della Regina di Saba, come la sabbia sotto le costellazioni invernali, come le carovane che si perdevano nelle montagne kirghize.
-Sono anni che aspetto per questo, tesoro mio. Sono tuo, Tom, lo sono sempre stato e lo sarò per sempre.
Bill non si accorse di quanto, con quella frase, mormorata sulle sue labbra giusto un  momento prima di inginocchiarglisi in mezzo alle gambe e prendergli in bocca il membro gonfio e duro, lo avesse pugnalato al cuore. Gli aveva fatto male sentirglielo finalmente dire, la frase che aveva sempre temuto più di tutte. Gliel’aveva sempre detta, come fosse la frase di salvezza delle anime, quella che riaggiustava tutto il suo passato scombinato, vissuto in completa solitudine, e lui l’aveva sempre liquidata in qualche modo, senza rendersi mai conto di quanto Bill ci credesse veramente. Ma lui era il classico ragazzo stupido, a cui non era mai davvero interessato del moro, e aveva sempre accettato quelle frasi senza capirle nel profondo, senza vedere quanto fossero importanti per la vita di un’altra persona, solo la guerra era riuscito a raddrizzarlo in modo da fargli capire cosa davvero Bill avesse sempre nascosto dietro ai piercing e al trucco pesante. Non gli piaceva ammetterlo a sé stesso, ma poteva dire “casa” solamente all’Afghanistan, che gli aveva insegnato a essere quello che davvero era e gli aveva risvegliato gli istinti più puri e naturali. Ma adesso, non era più laggiù, ora era tornato in Germania, e doveva fare i conti con Bill e con la piccola Mackenzie, rimettersi in carreggiata quel tanto per staccare Bill dalla sua condizione di malato d’amore. Ansimò, afferrandolo per i capelli e lo sdraiò sul letto, accarezzandogli le cosce, baciandogli il petto scarno e ossuto, più di quanto si ricordasse, sentendolo gemere come il gattino che era quando gli infilò la mano in mezzo alle gambe, guardando quel viso bellissimo e delicato tramutarsi in una smorfia di puro piacere, gli occhioni spalancati e lussuriosi, la bocca arrossata, le guance dolcemente paonazze, le unghie che lo arpionavano con violenza e gli graffiavano la schiena. Quando nessuno dei due ce la fece più, e Tom cominciò a sbatterlo su quel letto, si rese conto che era quello che stava aspettando più di tutto il resto. L’aveva sognato, in Afghanistan, l’aveva desiderato quando stava ore sdraiato nella polvere a fissare ombre invisibili che gli danzavano dinnanzi agli occhi stanchi, e ora ce l’aveva di nuovo sotto. Le strilla di Bill gli si infrangevano sul viso, ed era sicuro che era il suono più bello che avesse sentito da anni a questa parte. Gli fece tornare in mente Berlino, e le notti di passione nell’appartamento, anche se in quella c’era un sapore diverso. Qualcosa che sapeva di rimpianto, di lacrime, di voglia infinita di possedersi finalmente di nuovo, aveva il retrogusto amaro della nostalgia e dell’inganno, l’afflizione della giovinezza rovinata dalle loro stesse mani, la malinconia della pianura, l’insicurezza di un cuore che amava con troppo trasporto e di uno che odiava con altrettanto trasporto. Bill era troppo solo per non avere un disperato bisogno di qualcuno, Tom era troppo indipendente per volere qualcuno. Bill aveva troppi segreti per poterli tenere dentro di sé, Tom ne aveva troppo pochi per poterli raccontare. Bill era la decadenza della musica punk, Tom era il ritorno in auge del rock’n’roll. Ma il punk è morto quando è morto Sid Viciuos, e il rock’n’roll ha smesso di esserlo quando sono tramontati gli anni ’60. Uno era la Germania dell’Est, e l’altro quella dell’Ovest. Erano troppo diversi per poter davvero sopravvivere insieme come nelle allucinazioni di Bill, ma erano anche troppo, tragicamente simili per potersi separare come nei sogni di Tom.
Non gli importavano le unghie del moro conficcate a sangue nella sua schiena, non gli importava il letto che quasi sbatteva contro il muro, non gli importavano i loro ansiti, non gli importava Bill che rovesciava la posizioni e cominciava a cavalcarlo con una forza e una passione che Tom ricordava dettata dall’alcol e dall’ecstasy ma che ora sembrava dettata solo dalla felicità di riavercelo sotto le lunghe unghie smaltate di nero e bianco, non gli importava l’orgasmo così oscenamente impetuoso che li travolse e li lasciò letteralmente a pezzi. Gli importava dell’Iblis, però, che era riuscito, ancora una volta, ad assoggettare al suo volere.
 
Bill era letteralmente stravolto, ma era felice. Felice di una felicità così dolorosa da fargli male al cuore, da lasciarlo senza fiato, completamente abbandonato tra le braccia di Tom, raccolto come un pulcino in mezzo al piumone sporco e stropicciato. Dormicchiava, beandosi del profumo esotico del rasta, sentendo il cuore battere vicino al suo orecchio, la sua mano grande accarezzargli i capelli come facevano a Berlino. Teneva gli occhioni chiusi, un sorriso ebete e appagato sulle labbra. Non c’era nulla che lo facesse sentire più al sicuro che le braccia di Tom che lo abbracciavano come se fosse l’ultimo giorno delle loro vite. Intrecciò le lunghe dita alla collanina con le piastrine militari appesa al collo del rasta, mugolando un pochino di disappunto quando Tom si mosse per afferrare il pacchetto di sigarette sul comodino. Aprì gli occhi, e Tom gli sorrise, baciandogli la fronte, facendolo squittire di piacere; sentì la pioggerellina gentile della pianura cominciare a battere sulla finestrella e si accoccolò più stretto al rasta, facendosi infilare voluttuosamente in bocca una sigaretta. Finalmente, dopo due anni di serrata castità, aveva potuto dare sfogo a tutta la libidine che aveva accumulato. Ne voleva ancora, decise, dimentico di qualsiasi altra cosa che non fosse Tom, il suo sorriso, i suoi muscoli decisamente sviluppatisi rispetto a Berlino. Gli fece scivolare la mano sul basso ventre, con un sorrisetto malandrino di nuovo uguale a quello che sfoderava quando era ancora la reginetta della capitale. Improvvisamente, gli venne anche voglia di prendere uno dei suoi libri arabi e leggergli una storia, lì a letto, come erano soliti fare dopo una nottata particolarmente sfiancante. Tom fumava, e sorrideva, lui leggeva prima in arabo e poi traduceva in tedesco, ridacchiando, solitamente gli Scorpions che facevano da colonna sonora al loro amore.
-Mio Dio, Bill, non ti è bastato?- Tom sorrise, roteando gli occhi, ma Bill sapeva benissimo che probabilmente aveva anche più voglia di lui. Gli si sedette a cavalcioni, accarezzandogli i dread e la guancia, con un sorriso dolce.
-Non mi basta, mai, Tomi, dovresti ricordatelo, no? Sono il tuo Iblis, tesoro.
Tom gli posò una mano sulla coscia pallida e snella, dandogli uno schiaffetto affettuoso, e Bill gli strofinò il naso nel collo
-Un giorno o l’altro dovresti spiegarmi che cosa vuol dire …
-Dopo. Adesso ti voglio, ti voglio, ti voglio!
Risero e gemettero insieme, e Tom lo accontentò, ributtandolo sul letto e facendogli aprire le gambe, stampandogli un bacio sulle labbra piene, quando una vocetta di cui si erano entrambi, brillantemente, scordati, li fece bloccare di colpo
-Mamma? Mamma, dove sei?
Mackenzie fece capolino dalla porta, barcollando sulle gambette grasse, quel sorriso triste e misterioso stampato sul visino rotondo, una tavoletta di cioccolata ripescata non si sa dove in mano. I due ragazzi si immobilizzarono, prima che Bill cacciasse uno strillo e si avvolgesse di scatto nel piumone, rosso di vergogna come un pomodoro. Tom rimase per un secondo boccheggiante, osservando la loro figlia che li scrutava vagamente perplessa, prima di infilarsi un paio di boxer il più rapidamente possibile e alzarsi da letto
-Cosa c’è, tesoro? Bill ora è a letto, hai bisogno di qualcosa?
Le si inginocchiò accanto, e la bambina gli sorrise, tirandosi le treccine nere
-Non riesco a prendere un libro di storie, voglio che la mamma me ne legga qualcuna. Tom, me le leggi tu?
Bill nel frattempo si era alzato, sempre drappeggiato nel piumone, tutto arruffato e imbarazzato come mai lo era stato in vita sua, e si accucciò per terra, con il sorriso più incerto che avesse mai fatto
-Oh, ehm, patatina, vedi, noi stavamo parlando … cinque minuti e vengo a leggerti la storia, va bene?
Mackenzie lo guardò con un lampo di sospetto negli occhi, come se avesse capito che i cinque minuti di Bill corrispondevano ad almeno tre quarti d’ora di tutto il resto della gente, e Tom quasi scoppiò a ridere a vedere il moro che mercanteggiava con una bambinetta di due anni senza riuscire a cavare un ragno dal buco.
-Ma io la storia la voglio ora, mamma. I tuoi cinque minuti sono lunghissimi, mentre una storia è corta.
-Va beh, Mackenzie, facciamo così.- intervenne Tom, prendendola in braccio,  e guardando con un lampo di colpevolezza le manine grasse arpionargli i dread  - Ora io vengo di là e ti leggo tutto quello che vuoi, poi lasci me e Bill da soli a parlare, va bene?
Mackenzie sembrò ponderare l’opzione, assottigliando gli occhi vagamente a mandorla, e poi, evidentemente convinta, annuì con un mezzo sorriso.
Tom rise divertito, trasportando la bambina in salotto, mentre Bill, si rimetteva qualcosa addosso e si riassettava rapidamente i capelli sparati. Aspettò che Tom fosse uscito dalla stanza, guardandosi nel grande specchio della camera, e sospirò. Gli era bastato un niente, anche solo uno sguardo per rinfrancarsi, ma ora che aveva di nuovo fatto quello per cui aveva resisito tutti quegli anni, si sentiva e si vedeva come una persona nuova. Improvvisamente, gli occhi avevano cominciato a splendere, dimentichi di quella opachezza malata e da quelle ombre che glieli appesantivano e abbruttivano. La bocca era piegata in un sorriso tenero e innamorato, dopo tanto tempo in cui nemmeno l’ombra di un riso si era fatta largo. La pelle e i capelli stessi sembravano ringiovaniti, brillanti di una luminosità propria, nuovamente elastici, morbidi, vivi, i suoi tatuaggi parevano nuovamente aver acquistato il nero inchiostro che gli pareva essersi scolorito. Guardò il suo “Freiheit 89” sull’avambraccio, e vi passò una mano sopra, ripensando a pochi momenti prima, quando Tom aveva baciato tutto il contorno della parola. Il suo corpo sottile stava ricominciando a vivere come ai tempi senza l’ausilio di pastiglie e alcol, completamente rigenerato. Sorrise, di fronte allo specchio, e vi rivide finalmente la principessina araba che Berlino conosceva. Era riapparsa da dietro il fantasmino della Pannonia, ed ero eccolo lì, il Bill che parlava arabo, stava per laurearsi col massimo dei voti e avrebbe già avuto un posto di lavoro incredibilmente redditizio come ricercatore. Era tornato, col suo sorriso vincente e affascinante, la sua moda stravagante e sensuale, il suo corpicino da favola, la sua espressione che faceva capitolare chiunque gli si parasse davanti. Roteò di fronte allo specchio, contento. Avrebbe tanto voluto essere di nuovo a Berlino, per far vedere a tutti che la principessina araba era tornata e avrebbe fatto mangiare la polvere a tutti. Poteva tornarci, adesso, pensò, e una scarica di felicità lo fece tremare come un giunco. Ora che Tom era venuto a riprenderseli, sarebbe andato nella capitale, avrebbe ricominciato tutto quello che aveva abbandonato. Si sarebbero sposati, avrebbero vissuto in una bella casa a Charlottenburg, in quattr’e quattr’otto avrebbe recuperato quei due anni di studi e si sarebbe potuto riappropriare della sua vita vincente e splendida. Mackenzie avrebbe potuto stare con i genitori di Tom, quando lui era in Afghanistan e lui recuperava l’università. E tutto sarebbe andato per il meglio, finalmente, nella vita di Bill tutta sbagliata e rovinata. Si aggiustò la collana al collo, e i braccialetti, sfarfallando gli occhioni truccati, sentendo la voce di Tom in salotto che leggeva qualcosa a Mackenzie, e si morse il labbro inferiore. La famiglia perfetta avrebbe finalmente preso il volo come desiderava da sempre.
Saltellò in salotto, coperto con una delle gigantesche felpe del rasta, così impregnata del suo odore e così enorme sul suo corpo anoressico, e guardò Tom spiaggiato sul divano con in braccio Mackenzie, impegnati a leggere una storia, a ridere, a essere così dolcemente simili. Arrossì di piacere, scivolando a sua volta sul divano, stringendo la bambina tra le braccia e stampandole un bacio sulla testolina
-Allora, cosa stiamo leggendo?
-Una storia dove c’è gente con nomi impronunciabili.- grugnì Tom, sventolando il libro – Sinceramente, ma sto coso da dove sbuca?
-Dalla tua libreria, tesoro. Non sei mai stato un gran lettore, eh?- cinguettò Bill, dandogli un affettuoso schiaffetto sulla testa. Quanto era che non scherzava più?
-Non sono nomi difficili; è la storia dell’ alf laila wa laila. Con la principessa Shahrazàd e il re Shahriyàr. – rispose rapidamente Mackenzie, battendo le manine grasso, e Bill rise a vedere Tom roteare gli occhi all’indietro. Ma poi arrossì delicatamente, a vedere il libro che teneva in mano, con la copertina verde preziosamente impreziosita da ricami dorati con una splendida miniatura araba e il titolo accuratamente avvolto in mezzo a tralci di vite stilizzata. Guardò dentro, la traduzione in tedesco col testo a fronte in arabo, ogni pagina decorata con un delicato disegnino dorato. Sì, era proprio quello che gli aveva regalato lui, almeno quattro anni prima. Ricordava ancora di averlo fasciato nella carta di riso, con una piccola dedica all’interno, e di come Tom se lo fosse rigirato tra le mani con un sorriso incantato. Non sapeva nemmeno lui bene perché glielo avesse dato. Forse per non farsi dimenticare mai, per lasciargli un segno tangibile che la principessina araba era passata di lì, che lui l’aveva amata e che lei non l’avrebbe dimenticato. Era segretamente contento che lo avesse tenuto in così alta considerazione.
-Ma perché le hai insegnato l’arabo?- si lamentò Tom, sorridendo – Non bastavi tu?
Bill lo zittì con un bacio a stampo sulle labbra, guardando teneramente il rasta che sbuffava e riprendeva a leggere Le Mille E Una Notte a Mackenzie, che lo ascoltava con un’attenzione quasi maniacale. Qualunque errore, si disse Bill, lo avrebbe corretto: non c’era bambino che sapesse “Le mille e una notte” bene come lei. Si sistemò meglio sul divano, stringendo Mackenzie a sé, e si accoccolò accanto a Tom, appoggiandogli il capo sulla spalla, sentendosi cullare dalla sua voce che raccontava la storia, guardando la loro figlioletta ridere e battere le manine, ogni tanto. Si rilassò, chiudendo gli occhi, sentendo per la prima volta il sonno sopraggiungere senza l’aiuto di medicinali di nessun tipo, ma solamente aiutato dalla stanchezza dovuto al sesso, al calore dolce di Mackenzie e della felpa, e della voce del ragazzo che amava a cullarlo come nel migliore dei sogni.

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Capitolo 7
*** Automatic ***


CAPITOLO SETTE: AUTOMATIC
You’re automatic, and your heart’s like an engine
I die with every beat
You’re automatic and your voice is electric
Why do I still believe?
It’s automatic every word in your letter
A lie that makes me bleed
It’s automatic when you say things get better
But they never …

(Tom, why do I keep loving you?)

Tom aveva appena finito di sistemare Bill a letto, lasciandolo riposare in pace, e gli aveva messo vicino Mackenzie, collassata dopo la quinta storia delle Mille e una Notte. Non sapeva bene come coprirli entrambi senza svegliarli, come sistemargli i cuscini, ma aveva visto che, nonostante stessero dormendo profondamente, si erano perfettamente aggiustati da soli, abbracciati e raggomitolati uno all’altra come due grossi gatti bisognosi di affetto. Sorrise, sciogliendosi i dread e posò un bacio delicato sulla testa arruffata del moro, accarezzando la guancia pallida della bambina. Erano così perfetti, pensò Tom. Così belli che non sapeva nemmeno lui come avesse fatto a meritarseli. Eppure … eppure non gli andava giù. Scese silenziosamente in salotto, e si vestì rapidamente, uscendo di casa e incamminandosi fuori da Loitsche. Erano tornate le nuvole grigio perla, il freddo vento della pianura, il cielo infinito e soffocante, e i pensieri turbinosi e opprimenti. Non capiva nemmeno più lui cosa provasse davvero per Bill e Mackenzie: quanto da un lato era incantato da loro, come lo sarebbe potuto essere nei primi tempi di Berlino, tanto ne era terrorizzato e nauseato. C’era un motivo se lo aveva abbandonato, ed era molto semplice: si era stufato del fatto che Bill gli stesse così appiccicato. Piano piano aveva cominciato a infastidirlo quella voce smielata che ripeteva a tutti “Sono il suo fidanzato”, quando lui era uno spirito libero a cui importava solamente avere una bomba sexy da portarsi a letto e da mostrare come trofeo. Ma Bill non era mai stato così sotto come le sue prime ragazze, no, lui si era imposto, facendo notare la sua stellare presenza, mettendosi sul suo stesso piano senza timore. Non aveva più voglia di sentirselo sempre appresso, di svegliarsi la mattina e di trovarselo seduto accanto, con la colazione già pronta e il suo sorriso costruito per essere sensuale, di addormentarsi con lui accoccolato sopra, di andare a prenderlo all’Università, di starci sempre in coppia fissa. Lo infastidiva quel suo modo di essere così servizievole e arrendevole che aveva solamente con lui, mentre con tutti gli altri era il Bill che lo attizzava sul serio, quello vivace, primadonna, con una volontà di ferro e una grinta da paura. Sembrava che il moro cambiasse non appena stava col rasta, diventando quello che quest’ultimo aborriva, e lui si era rotto definitivamente di sopportare le sue smancerie da gattino innocente. Bill pensava al futuro, mentre a Tom non interessava che il presente, quel suo vivere ogni secondo che non lo stancava mai ma che lo rendeva lo sporco punk che era un tempo. Quanto Tom voleva che la loro storia fosse basata sul sesso, sulla droga, sul rock’n’roll, sulle rivolte, sui rave party, quanto Bill sembrava che oltre a quello volesse qualcos’altro. Delle basi, delle promesse, forse un anello che Tom sapeva non gli avrebbe mai messo al dito. Non voleva catene, ma il moro sembrava sempre pronto ad infilargliene una attorno al collo. Trovava sempre più opprimente dormire insieme dopo il sesso, guardare i suoi broncetti smorfiosi quando lo ignorava volutamente, avercelo addosso anche nei rave party, dove avrebbe voluto farsi qualcun altro, sballarsi con i suoi amici, ma i suoi occhi più neri dell’inferno erano sempre lì, a scrutarlo, come un fantasma, che il rasta non poteva più reggere. Ma la batosta finale, era stata la bambina. Perché quella era davvero la catena che non avrebbe potuto spezzare e che l’avrebbe costretto a stare in un solo porto, con la stessa battona, per tutta la vita. Non voleva quel figlio, non voleva diventare padre a ventun anni, aveva ancora tanti muri da distruggere, canzoni da suonare e rivolte da guidare. Ma poi aveva visto gli occhi di Bill, che dietro le lacrime, nascondevano una luce, quella sua felicità di aver finalmente creato la famiglia con il ragazzo che amava ma dal quale non era amato abbastanza. Beh, non che Tom non lo avesse mai amato, ma si era sempre reso conto che il loro amore era diverso. Quello di Bill era quello per la vita, quello che lo uccideva e lo torturava, l’amore di un ragazzo pronto al sacrificio estremo, a qualunque sevizia pur di creare la situazione ideale per loro due, per costruirsi un futuro insieme, l’amore struggente e disperato come una ballata degli Scorpions, che risentiva ancora tanto del vento che cambia e dell’amore che tiene vivi. E poi, quello di Tom, l’amore da un’ora, quello selvaggio dettato dalla giovinezza, dal sesso, quello che lega due ragazzi che vogliono lottare e scappare in America, sulla Route 66, con una moto, nessun  soldo in tasca e tanti ideali di cui cibarsi la sera con un chitarra e una scatola di tonno. Come avrebbero potuto riuscire a trovare un accordo di pace, proprio non lo capiva. Si massaggiò il retro del collo, strascicando i piedi per le solitarie stradine della piccole Loitsche. Non poteva ancora rendersi davvero conto che adesso era di nuovo legato a qualcosa, al ragazzo che sperava fosse scomparso e da sua figlia. Dio, faceva così strano dirlo. Ripensò con un sorriso alla grassa Mackenzie, le sue manine burrose, il suo sorriso infantile, le sue treccine nere, i suoi occhi tristi. Non poteva mentire a sé stesso che la trovava così perfettamente imperfetta, come lo erano lui e Bill, e non poteva nemmeno costringersi a dire che non le piaceva. Le piaceva, eccome. Non sapeva perché, se fosse l’istinto primordiale del sapere che comunque lei era sangue del sangue, ma sin dal primo momento in cui l’aveva vista, in quel pub, e ancora non sapeva nulla, le aveva immediatamente voluto bene. Eppure, lui non voleva metter su famiglia. Si rendeva conto della sua infantilità, della sua bestialità, ma non l’avrebbe fatto. Voleva essere ancora libero, libero di morire in Afghanistan, dove aveva trovato la sua vera casa, libero di tornare a casa ubriaco e strafatto senza rimorsi di coscienza, libero di prendere e scappare lontano, libero di vivere la propria esistenza come meglio credeva, cosa che, con una figlia piccola a casa e un fidanzato iper apprensivo non poteva nemmeno sognarsi. E Tom era troppo egoista per potersi permettere anche solo il lusso di pensare a come sarebbe stato avere una famiglia. Voleva la sua indipendenza e l’avrebbe ottenuta, non gli importava come.
Però, un’antipatica vocina nella sua testa, continuava a ricordargli che oramai non sarebbe più riuscito a vivere come avrebbe voluto, sapendo che comunque loro esistevano. Egoista sì, ma non totalmente bastardo. Quante notti avrebbe potuto dormire sapendo che da qualche parte sua figlia stava avendo incubi terribili ma sua madre non l’avrebbe nemmeno guardata perché sarebbe stata impegnata a imbottirsi di barbiturici per farla finita? Come avrebbe potuto pensare di morire tranquillo sotto le ombre di Kabul vedendosi davanti agli occhi i fantasmi danzanti di un glamster fuori tempo e di una bambina grassa? Chi avrebbe più avuto il coraggio di guardare in faccia, fingendo che andasse tutto bene quando sapeva che non era vero? Tom sospirò, aggiustandosi il berretto da skater in testa, e guardò il pallido cielo tedesco, con le sue nuvolette a pecorelle grigiastre che galleggiavano nell’infinito, così monotone, così nauseanti, e pensò al cielo afghano, alle sue notti stellate, ai suoi mezzogiorni infuocati, alla sua potenza deflagrante sopra al deserto montano. Si chiese come sarebbe stato andare in Afghanistan come civile, portandosi dietro Bill; come l’avrebbe trovato, cosa si sarebbero detti sotto la luna di latte che illuminava le capre al pascolo, se la loro storia sarebbe stata diversa oppure identica. Imboccò qualche strada a caso, e si chiese cosa avrebbe dovuto fare adesso: se rimanere, e prendersi cura di quello che in fondo lui aveva creato, oppure scappare ancora, per non fare davvero più ritorno. Avrebbe tanto voluto che ci fosse una via di mezzo a tutto quello, ma sapeva che non ci sarebbe stata: era diventato un “do or die”. Bill e Mackenzie, o la libertà? Crescere definitivamente, o rimanere il solito Peter Pan? Era qualcosa che gli faceva male al cuore, ma sapeva da solo cosa avrebbe scelto, in fondo.

Bill, nel frattempo, si era svegliato ed era rimasto un po’ indispettito dall’assenza di Tom, ma si era comunque alzato da letto, stiracchiando le membra di nuovo giovani ed elastiche come sarebbero dovute essere. Aveva ancora voglia di lui, dopotutto, ma poco male: gli sarebbe saltato addosso quando sarebbe rincasato. Sorrise tra sé e sé, e scese in salotto, portandosi Mackenzie in braccio. La depositò sul divano, ancora semi addormentata e cominciò a guardarsi intorno, incuriosito. Era ovvio che non fosse la casa di diretta proprietà del ragazzo, tutto troppo ordinato per esserlo. Ricordava quanto Tom fosse disordinato, a Berlino, di come fosse solito buttare tutto all’aria, e toccava sempre a lui mettere tutto a posto. Era bello piegargli i vestiti, ogni tanto, e sentire il profumo di menta, ribellione e rock’n’roll impregnargli i suoi, di abiti. Era un profumo che non aveva mai più sentito, se non nei suoi deliri post-antidepressivi.
-Mamma?- la voce di Mackenzie lo distolse dai suoi pensieri. Le andò vicino, stampandole un sonoro bacio sulla testolina.
-Sì, patata, dimmi. Hai fame? Vuoi che ti preparo la merenda?
-Uhm, magari sì. Però adesso voglio giocare. Giochiamo?- la bambina lo guardò con quei suoi grandi occhi nati per essere tristi e mai felici.
-Giocare? Oh, sì, amore, va bene.- Bill si stupì quasi di sé stesso. Lui non aveva mai giocato con la bambina, sempre troppo stanco, stufo, depresso per poter fare qualcosa che concernesse l’alzarsi dal divano e il fingere di sorridere. A volte provava svogliatamente a farle costruire dei castelli di carte, ma arrivati al secondo piano si stancava e se ne andava, lasciandola da sola a continuare. Ma quel giorno, quel giorno il moro si sentiva anche in grado di sostenere un gioco. Anche se non sapeva quanto la sua libidine schizzata a mille lo potesse trattenere a giocare una volta che Tom fosse rincasato. – Andiamo su a cercare qualcosa, sì?
Si avviarono al piano superiore, zampettando su per le scale, ed entrarono in quello che Bill pensava potesse essere lo studio, per cercare un mazzo di carte con cui fare l’ennesima fortezza. Lasciò Mackenzie sgattaiolare in giro, guardando in mezzo ai libri accumulati in pile disordinate, mentre lui si concentrò sulla scrivania. C’erano alcune vecchie foto di persone che non conosceva, qualche libro aperto e intoccato da anni, vecchi documenti che probabilmente appartenevano ai nonni di Tom, una vecchia lampada verde, e tanti fogli scritti, che uscivano da ogni cassetto.
-Mamma, ho trovato gli scacchi. Possiamo?- cinguettò Mackenzie, agitando faticosamente una scatola degli scacchi. Bill sorrise e annuì distrattamente
-Certo, patatina. Portalo giù, io arrivo subito.
Mackenzie lo guardò un po’ stranita, ma poi annuì, stringendosi nelle spalle e scese rotolando sulle gambette grassottelle insieme agli scacchi.
Rimasto solo, il ragazzo si guardò attorno, passandosi una mano tra i foltissimi capelli sparati dappertutto. Non sapeva bene perché, ma il suo sesto senso di Iblis gli stava dicendo che avrebbe dovuto guardarsi meglio intorno, che quella stanza nascondeva qualcosa che lui avrebbe dovuto scoprire.
Guardò la scrivania, quando, sotto a un libro, intravide qualcosa di familiare. Di molto, familiare. Spostò delicatamente tutto quello che c’era sopra per riesumare un pacco piuttosto nutrito di lettere. Delle sue lettere.
Sbarrò gli occhi, leggendo nervosamente la prima, riconoscendo ovviamente la sua calligrafia rotonda e precisa, la carta da lettere color crema, l’inchiostro nero con riflessi verdi. Le sfogliò rapidamente, e cercò di soffocare uno strillo scioccato. Le sue lettere che gli aveva mandato in quei due anni, erano tutte lì. Impilate con precisione, con le fotografie  che gli aveva mandato, le sue, quelle di Mackenzie appena nata, tutte lì a prendere polvere. Lui. E la loro bambina. Eppure … istericamente, cominciò a buttarle per aria, afferrando tutta quella carta che lui aveva pazientemente scritto nella speranza che Tom gli rispondesse, si facesse sentire. Vide l’indirizzo, i numeri di telefono che gli aveva spedito, nella speranza che prima o poi gli facesse uno squillo, rispondesse a una lettera, anche con un telegramma, con un rapido “sto bene, mi manchi”. Gli si strinse il cuore in una morsa quando guardò la fotografia di lui sul letto dell’ospedale, gli occhi segnati sotto il solito trucco impeccabile, i capelli meticolosamente sparati e Mackenzie stretta al petto, così grossa anche appena nata, con quegli occhi assurdamente spalancati e un sorriso. A differenza di tutti i neonati piangenti, lei era nata ridendo, come Mago Merlino, o almeno così gli avevano detto le infermiere quando si era risvegliato dopo il cesareo. Effettivamente, quando gliel’avevano messa in braccio, la bambina rideva pacifica, e gli si era appesa addosso con un sorriso sornione. Ricordava ancora quando aveva timidamente chiesto all’infermiera di fargli una foto, “per mandarla a suo padre, è un militare, sa? Adesso è in Afghanistan, vorrei fargli vedere la nostra bambina lo stesso, però”. Aveva mandato quella bellissima foto fiducioso di ricevere una risposta entusiasta, e invece nulla era pervenuto nella sua cassetta. Solo silenzio, lacrime e un’attesa che l’aveva consumato. Alla fine, si era convinto che non gli fosse mai arrivato nulla, che tutte le lettere fossero andate perse e con loro le foto, che due anni della sua esistenza ora non fossero altro che polvere afghana e che Tom non le avesse mai potute vedere. Invece, eccole lì, tutte, non ne mancava nessuna. Tranne la prima foto che gli aveva inviato, quella dove se ne stava seduto sull’altalena dell’Erholungspark, la pancia ancora invisibile e una salda vita a Berlino, che si era sgretolata dopo pochissimi mesi, quando si era reso conto che Tom non sarebbe tornato. Quella mancava all’appello, e non sapeva dov’era andata a finire, anche se, in quel momento, non gli importava nemmeno più tanto. Perché, al posto della totalizzante gioia di poco prima, era subentrato un altro sentimento, orribile, lacerante, distruttivo: la rabbia. E una nuova, inaspettata, ondata di terrore e di depressione che lo avviluppò come se fosse appena precipitato dentro a un mare di alghe nere che lo soffocavano e cercavano di trascinarlo sul fondo e fagocitarlo per sempre. Faceva fatica persino a respirare, in quel momento, e tutto gli era come chiaro, limpido anche se il buio gli opprimeva la vista. Tom lo aveva volutamente ignorato. Se ne era sbattuto di quelle lettere, di quelle foto, non aveva nemmeno risposto al suo richiamo di dolore, alle lacrime che sporcavano l’inchiostro, alla figlia che lo aspettava trepidante, a niente. Sapeva tutto, eppure aveva lasciato che lui si struggesse nel suo dolore senza nemmeno provare a consolarlo. Gli aveva mentito spudoratamente, l’aveva di nuovo usato come faceva ai tempi di Berlino. Bill si sfiorò il collo pallido, ornato da un succhiotto violaceo e rabbrividì: c’era cascato ancora, come il malato di Tom che era, credendo ciecamente alle sue bugie continue, convinto che il rasta fosse tornato a prenderlo, che per tutti quegli anni non avesse pensato ad altro che a lui. Si fece schifo da solo pensando a poche ore prima, quando gli era venuto addosso urlando il suo nome come la peggiore delle troie, quando aveva goduto infinitamente a stare tra le sue braccia calde e forti, a sentirselo completamente dentro, quando aveva pensato che tutto si sarebbe risolto. Ebbe un conato di vomito, e, in un impeto d’ira, scagliò il pacco di lettere per terra, scoppiando in lacrime. Di nuovo. Come se in quei due anni non avesse pianto abbastanza, tanto da pensare di averle finite. Ma per Tom, Tom Kaulitz il soldato, le lacrime non bastavano mai. Bill si morse il labbro, precipitandosi fuori dallo studio, gli occhioni accecati dal pianto e dalla furia sconosciuta che cominciava a bruciargli nel petto, la furia di un ragazzo tradito, usato, violato in ogni modo possibile dall’unico ragazzo che amava tanto da essersi quasi suicidato per lui. Corse giù dalle scale il più rapidamente possibile, e recuperò Mackenzie
-Patatina, molla qui il gioco, dobbiamo tornare a casa!- strillò istericamente, cercando di asciugarsi nervosamente il pianto nella manica della felpa. Non appena si accorse che però aveva ancora addosso l’indumento del rasta, se la strappò di dosso con un gemito inconsulto, lanciandola per terra mentre si reinfilava la sua maglia e i suoi jeans aderentissimi, cercando di infilare le scarpette alla bambina che lo guardava senza capire, anche se non era troppo stupita da quella inaspettata crisi di nervi.
-Perché, mamma? Tom non è ancora tornato. Voglio salutarlo.- cercò di opporsi Mackenzie, cercando di capitombolare dietro a Bill che raccattava in fretta e furia la sua roba gettandola alla rinfusa nella borsa.
-No, amore, siamo stati anche troppo, lo saluterai un altro giorno.
“Non lo rivedrai mai più, altro che, bastardo maledetto” pensava invece, cercando di sorridere tra il pianto e il trucco che colava miseramente. Mackenzie lo guardò senza capire, prima di venire afferrata letteralmente di peso e trascinata come una furia fuori dalla porta. Bill le strinse forte la manina paffuta, ravviandosi i lunghissimi capelli con una mano, e cercò di aprire la porta per lasciarsi alle spalle quella casa e quella scoperta straziante per il suo cuore distrutto una volta per tutte. Eppure proprio mentre lui tirava, la porta si aprì da sola, lasciando palesare Tom sull’uscio, che guardò abbastanza perplesso Bill che si stampò letteralmente su di lui tanta era la foga con cui cercava di scappare.
-Ehi, ehi, Bill che ma che hai?- disse, prendendolo delicatamente per le spalle, guardando con orrore i lacrimoni che correvano sulle guance pallide del ragazzo – Ma ti senti bene, Mackenzie, tesoro, cos’è successo?
-Vaffanculo, schifoso bastardo, non mi toccare, lascia stare mia figlia, ingrato figlio di troia! Lasciala stare ti ho detto! Mollami!
Tom non aveva ancora fatto in tempo a realizzare la caterva di insulti che Bill gli stava rovesciando addosso con una furia degna solo di un jinn particolarmente innervosito che vomitava sabbia per tutto il deserto, che si ritrovò la guancia arrossata da uno schiaffone epocale. E, in un secondo, capì tutto. Le lettere. Le aveva trovate. Prima di ricevere un secondo schiaffo che gli lasciò il segno, riuscì solo a pensare che bene, sì, ora che l’Iblis si era arrabbiato, lui era decisamente fottuto una volta per tutte.

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Capitolo 8
*** That Day ***


CAPITOLO OTTO: THAT DAY
That day never came
That day never comes
I’m not letting go
I’ll keep hanging on
Everybody says that time heals the pain
I’ve been waiting forever …
That day never came
 
-Mi devi delle risposte, Tom. Delle risposte serie. Cos’è tutta sta roba? Lettere … le mie lettere! Le mie foto! Tutto … mi avevi … mi avevi detto di non averle mai ricevute! Di non saperne nulla! Invece guarda qua, sapevi tutto, tutto!
Bill stava girando in tondo nello studio, le mani tra i capelli, lacrime di trucco a sporcargli il volto pallido, le labbra frementi e lampi di furia a sgorgargli dagli enormi occhi dilatati e lucidi. Tom, semplicemente, lo fissava, con la solita espressione un po’ colpevole e un po’arrogante, com’era sempre stato suo solito. Si torturava distrattamente un dread, mordicchiandosi il piercing al labbro e lo guardava da sotto le lunghe ciglia, aspettando che si desse una calmata. Solo in quel momento, furibondo e a pezzi per l’ennesima volta, lo riconosceva come la Principessina Araba che aveva conosciuto a Berlino, forte come una pantera, altera come una zarina, la rabbia distruttiva che solamente lui poteva far scaturire da quel corpo anoressico che si spandeva in onde assassine per la stanza. Non avrebbe voluto pensarlo, ma lo trovava eccitante. Gli ricordava troppo la prima notte in cui si erano conosciuti, in quel locale di periferia dove si sentiva musica industriale e si parlava di politica alternativa, tra alcol e cannabis di ottima qualità. Ricordava con nitidezza quella notte, come avesse subito notato il look estremo di Bill in mezzo a tutti gli altri, come fosse stato subito affascinato dall’espressione graffiante, come fosse stato calamitato da quegli occhi d’inferno. Ricordava sé stesso che si avvicinava, strafottente e sicuro di sé, e si intrometteva nel discorso, andandogli contro, facendolo arrabbiare, e ricordava ancora meglio la smorfietta eccitata e furiosa di Bill, e i loro circoli di amici che si stringevano per guardarli dibattere furiosamente, una scommessa in mezzo, una sigaretta estratta da un pacchetto di alta classe, una leccata di labbra di troppo, uno sguardo ammiccante, due anime che si riconobbero e si scontrarono con la stessa forza distruttiva di due oceani in tempesta al Capo di Buona Speranza. Erano cozzati uno contro l’altro, litigando, ringhiandosi contro, forse anche odiandosi, ma chissà come mai ricordava con uguale nitidezza che la notte stessa Bill era sotto di lui, in un letto sfatto, e strillava di dargli di più, graffiandogli la schiena. E poi … e poi. Poi erano lì, due anni dopo, una bambina, lettere, odio e amore a unirli e allontanarli come era sempre successo. Poi erano soli a dover affrontare demoni che nessuno dei due voleva veder riaffiorare.
Lo guardò in lacrime, e si sentì il cuore stretto in una morsa di ferro. Faceva male vederlo così, eppure non abbastanza da smuovere la sua coscienza bastarda. Insomma, se l’era cercata. No, sto cazzo. Tom si morse il labbro, ma continuò a non dire nulla, lasciando Bill continuare la sua sfuriata da solo.
-Tu … tu! Come hai potuto?! Sapevi che io ti stavo aspettando, che mi stavo uccidendo per te, sapevi di avere una figlia, sapevi che era nata, sapevi che io ho passato l’Inferno per causa tua, qui, in questo posto orribile che volevo dimenticare, e non hai mai fatto nulla per consolarmi! Mai una lettera, una telefonata, un telegramma, nulla! Un silenzio atroce! E io che ti aspettavo con gioia, che pensavo che le lettere fossero andate perse chissà dove, che ho vissuto tutto questo tempo senza fare altro che pensare a te, a pregare che fossi ancora vivo, che un giorno saresti tornato a casa, che saresti tornato da me, da Mackenzie, dalla tua famiglia!
Perché? Perché mi hai ignorato? Perché tutto questo? Perché mi odi, Tom?
Tom avrebbe voluto poter trovare una scusa valida, un motivo che potesse reggere, poterlo stringere tra le braccia e sussurrargli che era tutto un brutto sogno, ma non disse nulla, invece. Lo guardò, sospirando, aspettando che finisse la sfuriata e si sgonfiasse come aveva fatto anni prima, spegnendosi come la marionetta a carica che in fondo era. Bastava aspettare che si scaricasse la batteria e poi metterla via, in qualche cassapanca, per non tirarla mai più fuori. Da un lato, sperava che Mackenzie, relegata di sotto a giocare a scacchi da sola con un pacco di biscotti, non stesse ascoltando le strilla inconsulte di Bill, perché, in fondo, lei non c’entrava nulla.
-Parla, per piacere!- Bill lo stava fissando con gli occhi a palla, in lacrime – Cosa ti ho fatto per meritarmi questo? Io, che ti ho amato e ti amo più di me stesso, io, che ho dato tutto quello che avevo per te! In cosa ho sbagliato, si può sapere?
-Ma cazzo, Bill, possibile che tu non te ne sia ancora reso conto?!
Tom era letteralmente esploso a quel punto, sbattendo un pugno contro il muro, i dreadlocks che si agitarono come impazziti. Non sapeva nemmeno lui se sentirsi furibondo, deluso con sé stesso, semplicemente stufo di tutta quella faccenda che lo stava torturando orribilmente ormai da anni a quella parte. Ogni volta che guardava Bill, adesso, non vi vedeva più la sensuale principessa araba piena di risorse che vedeva a Berlino, ma solo un pagliaccetto patetico e penoso con la sua bambina che sembrava un fenomeno da baraccone.
-Io non ti voglio più!
Quella frase risuonò nel silenzio della stanza e rimase lì, come l’ultima foglia appesa all’albero prima dell’inverno, come l’ultima lacrima di una madre, come l’ultimo respiro di un moribondo. Bill si era immobilizzato, fissando Tom come se lo vedesse per la rprima volta, la bocca spalancata, gli occhi vitrei di pianto congelato, e Tom … Tom era fermo immobile, il labbro fremente e si sentiva addosso l’espressione bestiale che gli stava ordinando di fare il soldato che era nato per fare. Bill era l’ostacolo. Bill sarebbe stato eliminato. In quel momento, sembrava non importargli più della sua salute mentale, della bambina grassa, niente di niente. Voleva solo mettere fine a un incubo che lo perseguitava ogni notte come un orrido fantasma che non riusciva ad esorcizzare. Finalmente, l’aveva detto. Non si sarebbe aspettato che sarebbe finito così, ovviamente, con loro due in una stanza a urlarsi contro come la peggiore delle vecchie coppie, loro, i padroni di Berlino, che erano esplosi insieme a una bomba nelle sabbie dei regni di Persia. Dovevano ancora raggiungere la loro Samarcanda, varcare porte infuocate di regni perduti, seguire Babilonia e vederla bruciare sotto ai loro sguardi. Dovevano ancora fare tirare giù la capitale e ricostruirla secondo le loro folli leggi. Invece erano lì, che litigavano come due idioti.
-Bill, dannazione, ma è possibile che tu sia così stupido?! Io non ti amo, non ti voglio, non me ne frega nulla di te!
Non l’avrebbe mai voluta mettere in quel modo infame, non avrebbe nemmeno mai voluto riaffrontare l’argomento, ma ora eccolo lì, gli occhi di fiamma e la rabbia che sgorgava amara dalla sua voce arrochita dalla guerra. E Bill, di fronte a lui, bellissimo e distrutto come una ninfea ultima su un lago salato. L’ultimo fiore del Caspio. L’ultimo rubino della regina di Saba. L’ultima stella del Wadi Rum. L’ultima principessa araba fuggita a Berlino a dorso di un cammello.
-Tom … Tom, cosa stai dicendo?
La voce di Bill si era improvvisamente spezzata, come il suo giovane proprietario, che si era lasciato cadere per terra, in ginocchio, come se le lunghe gambe da gazzella non fossero più in grado di trattenerlo. Era così bello, il sangue che sgorgava come lacrime dai suoi occhi d’inchiostro, le mani aperte come quelle di una Madonna 2.0 che fissava il cielo sporco di Loitsche, le labbra semi aperte come a mormorare un’antica poesia araba morta da tempo. La perfezione incarnata di un Botticelli, l’espressione di un Raffaello, i colori di un Turner, l’assurdità inquietante di un Dicks, la passione mal riposta di un Dalì, l’orrore senza tempo di un tardo-gotico, il parossismo del dolore innaturale di un Ernst, tutto contenuto dentro il corpicino di Bill, splendido e decandete come ogni zarina che si rispetti. Tom lo guardava, inginocchiato di fronte a sé, sotto al suo comando come era sempre sato, il ragazzino di periferia che si nascondeva dietro solenni facciate per poi capitolare come il debole che era quando arrivava lui, la sua forza, la sua brutalità, la sua … la sua anima bastarda e borghese.
-Quello che ho detto.- gli bruciava la ferita dietro alla testa, ma la ignorò. – Cristo, Bill, cerca di renderti conto. Se non ti ho mai scritto, se non ti ho mai risposto, era per un semplicissimo motivo: non ti volevo più vedere. Perché credi che sia andato in Afghanistan? Perché?- si era reso conto che stava urlando, ma non gli importava più di tanto. – Perché mi ero rotto di averti in giro, di dover stare sempre con te appeso al collo, perché mi stavi uccidendo, Bill!
Bill non rispose subito. Si limitò a piegare la testa da un lato, come fosse perplesso. Assottigliò gli occhioni, e fece una dolce smorfia innocente
-Co … cosa? Tom … Tom, non ho capito. Io ti amavo, non avrei mai voluto la tua morte!
Tom si mise le mani tra i capelli, guardandolo con quello che avrebbe voluto essere disprezzo ma che non era altro che disperazione e dolore così forte da starlo soffocando da dentro. Gli veniva da vomitare, come quando aveva visto i due ragazzini afghani nel villaggio distrutto. C’era qualcosa in Bill che lo aveva sempre attirato e nauseato contemporaneamente, qualcosa di così forte da essere atroce.
Lui non voleva fargli del male, non aveva mai voluto, ma voleva essere lasciato in pace. Bill sembrava essere ossessionato da lui, non riusciva a spiegarsi nemmeno perché, era qualcosa di orribile che non poteva più reggere.
-E’ proprio questo quello che non capisci, Bill! Io non ti amo! Non quanto mi ami tu, almeno.- Tom non sapeva più dove sbattere la testa – A Berlino era tutta un’altra storia, eravamo ragazzini, ora non lo siamo più! Tu sei diventato madre, io sono un soldato, non possiamo più pretendere che possa tornare tutto come prima. Come potrebbe?
-Potrebbe benissimo, Tom, non hai capacità di astrazione!- Bill si stava impuntando, come prima cocciuto come un mulo e troppo risoluto, come al solito – Mi porti a Berlino, a casa tua, non ti darò mai fastidio, sarà la mamma e la moglie perfetta, se vuoi non mando nemmeno Mackenzie all’asilo, aspettiamo le elementari, starò buono a casa, scriverò i miei libri in silenzio, e …
-E basta! Cazzo, Bill, ma la puoi smettere? Ti rendi conto di quanto tu sia schifosamente patetico e francamente penoso? La risposta è no, sempre e solo no!
Non me ne sarei andato e non ti avrei ignorato se avessi avuto il piano di sposarti e portarti a vivere con me, insieme alla bambina. Ma non ce l’avevo. Ho ignorato tutti quei piagnistei per farti capire che di te non ne volevo più sapere niente. Perché sei così caparbio?- Tom gli aveva afferrato le spalle, scuotendo la sua figura così sottile e delicata come fosse un delicato fuscello. Si stava arrabbiando, i lunghi dread che frustavano l’aria come tentacoli di Medusa. Più guardava il moro in faccia più non vi vedeva che la sua rabbia e il suo nervosismo, gli errori e i ripensamenti che aveva fatto e che voleva cancellare una volta per tutte dalla sua esistenza, il primo essere capitolato appunto ai piedi della principessina araba ed essersi messo nei casini con lei.
-Perché ti amo!- Bill stava urlando istericamente in quel momento – E ti amavo, e non capisco perché tu abbia smesso di farlo! Non vorrai farmi credere che a Berlino era tutta una farsa, perché mi ricordo come mi guardavi, mi ricordo come mi baciavi, mi ricordo tutto di te!
-Non ti ho mai detto questo.- Tom aveva abbassato gli occhi, aggrottando le sopracciglia. Perché parlare con Bill si era fatto così faticoso e avvilente? Perché anche solo guardarlo in faccia faceva dolere la ferita che aveva in testa? – Ma non capisci che io e te ragioniamo su due linee d’onda diverse. Fino a due anni fa eravamo diversi, entrambi annoiati, famosi nel nostro piccolo mondo berlinese, osannati come idoli da teenager. Ma ti rendi conto che siamo uomini, adesso? So che è difficile crederlo, ma se sono andato in Afghanistan era proprio per questo motivo: convincerti in maniera diretta che io e te non possiamo stare insieme. Non posso darti quello che cerchi, Bill, non posso, o forse non voglio, non lo so. Io … non sono fatto per avere qualcuno, per essere padre.
Bill lo guardò con astio, un astio vecchio e malato, da sotto la cortina di capelli corvini arruffati. Sembrò invecchiato di almeno vent’anni sotto lo spesso strato di trucco che gli raffinava i dolci tratti femminili, ma in fondo era sempre stato così. Il moro era sempre parso molto più grande di tutti loro, forse per lo sguardo ferito che tentava di nascondere, per le rughe invisibili che gli vergavano il corpo perfetto, l’aria abbattuta di una regina che ha perso il proprio impero nella sabbia ed è stata costretta a fuggire in groppa a un dromedario stanco. Proprio in quel momento Tom vi rileggeva quel dolore che non lo aveva mai abbandonato, il dolore che era stato così bravo a nascondere per così tanto tempo ma che ora riaffiorava pericolosamente, senza più la presunta fama a cancellarlo.
-Però Mackenzie, che tu la voglia o no, è pur sempre tua figlia.- aveva la voce spenta, non c’era più rabbia, furia e nemmeno dolore. Era solo vuota – Sei tu che me l’hai messa dentro, sei tu che hai contribuito a darla alla luce e non te ne puoi fregare così. Ma come fai a essere così senza cuore, Tom?!
L’ultima frase gliela urlò praticamente in faccia, piantandosi le unghie nei palmi, e il rasta non potè fare a meno di pensare che, effettivamente, aveva ragione. Lui era senza cuore, ma non poteva dare colpa alla guerra per quello. In fondo, lo era sempre stato. Egoista, freddo, esigente verso gli altri ma mai verso sé stesso. Viziato, e incapace a prendersi le proprie responsabilità, come al solito.
-E allora come fai tu ad essere innamorato di me?- gli rispose, scostandosi i dread dal viso con un gesto della mano.
-Può anche non esserci un motivo, sai? Anche se effettivamente me lo sto chiedendo anche io.- Bill sfarfallò gli occhioni umidi e arrossati dal pianto. – E cosa intendi fare, adesso? Tornare a Berlino?
-No, Bill. Intendo tornare in Afghanistan.- Tom si strinse nelle spalle, con quella sua solita aria scanzonata che non riusciva mai a togliersi dagli occhi dorati. – Anzi, vogliamo essere precisi? Torno a Berlino, e appena posso torno laggiù. Lontano dalla Germania, lontano dal mondo. Lontano da una vita che odio, Bill.
-Ah, davvero? Tu odi la tua vita?- l’occhiata di disprezzo che il moro gli lanciò fece male, male come del veleno – E io cosa dovrei dirti? Vivo all’inferno, quando avrei potuto avere il paradiso. Prendo tonnellate di barbiturici per dormire la notte, mia figlia è malata, e non so come tirare avanti. Vogliamo parlare di chi odia la vita?
I due ragazzi si guardarono negli occhi, uno distrutto dal suo orgoglio assassino, l’altro distrutto da un amore che lo stava divorando vivo giorno per giorno. Erano così belli, a vederli così, con occhio profano, due ragazzi così giovani e così disperati, ridondanti una luce oscura che ammantava il silenzio tombale della casa abbandonata a Loitsche, le nuvole nere che si rincorrevano nel cielo di piombo e che si rifletteva nell’atmosfera di perlacea angoscia che pervadeva la casa e il loro silenzio di metallo. Sarebbe bastata una goccia di rugiada per spezzare quell’incubo ad occhi aperti che loro due avevano disegnato insieme, col loro amore finto, con le loro chimere opposte, con i loro sogni divergenti, con i loro deserti e i loro cieli arabi infiniti. Bill si sentiva come Alice, ma un’Alice stupida, che era andata a letto col Cappellaio e ne era rimasta scottata, un’Alice che non voleva tornare a casa ma si costringeva a correre in giro per una Wonderland distrutta e in rovina, piangendo e urlando, rimanendo incastrata tra i rami cercando una salvezza che avrebbe trovato soltando trovando il coraggio di tornare nel mondo reale oltre allo specchio. Ma che non voleva lasciare il bambino mostruoso che aveva partorito laggiù, nella terra di tutto e di niente, nelle braccia di nessuno. Tom, invece, si sentiva esattamente come il Gatto del Cheshire, un sorriso fuggitivo nella nebbia, che andava e veniva, che ingannava, incapace ad amare ma anche ad odiare, un’impalbabile figura nell’orrore che si nascondeva nel Paese delle Meraviglie che lui aveva creato ma che lui aveva mandato al macero senza tanti ripensamenti, un gatto, appunto. Che nulla aveva di umano. Non avrebbero mai rotto quel silenzio, forse, continuando a fissare le loro vite sgretolate come un paio di fenici che non riescono più a risorgere dalle loro misere ceneri lanciate nel vento. Erano morti dentro, e nessuno li avrebbe più salvati. Nessuno avrebbe più portato Tom nelle braccia di chi veramente sarebbe stato in grado di amarlo, nessuno avrebbe più tirato Bill fuori dalla depressione.
Erano fatti uno per l’altro, ma, per qualche motivo, lo Specchio si era chiuso e Wonderland era caduta in rovina mattone per mattone. Sogno per sogno. Lacrima per lacrima.
 
2 settimane dopo, stazione dei treni di Loitsche
 
-Sei venuto, alla fine.
Tom stava guardando Bill con Mackenzie, in piedi di fronte a lui, in una brumosa mattina della pianura. Lo guardò, la sua sposa degli incubi, bello come nessuno e morto dentro. Una regina di Saba con nessun Salomone da venerare. Gli occhi spenti truccati come una maschera da pagliaccio, i guanti sulle mani meravigliose, i vestiti più provocatori del suo guardaroba di dubbio gusto. Bill era la Principessina Araba, e quello nessuno glielo avrebbe mai tolto.
-Siamo venuti.- voce spenta, lacrime di piombo. La regina dice addio, ma non piange altro che spine avvelenate.
-Tom, vai via?- Mackenzie lo fissò, coi suoi grandi occhioni tristi di bambina, avvolta da trine e merletti come al solito, il sorriso già vecchio sul suo viso di luna piena. Agitò le manine grasse verso di lui, e, timidamente, si decise a prendere una, accarezzandole i capelli corvini.
-Sì, tesoro. Ma tornerò, un giorno o l’altro.
Sapeva che era una bugia, e sentì una fitta dolorosa alla testa, ma non gli importava. In fondo, chi sarebbe stato lui? Un padre assente, un soldato, un ragazzo sconsiderato. Un idiota che le avrebbe solamente fatto del male. Lui non sarebbe tornato per lei, e nemmeno per Bill. Era un addio, quello, ma non ne aveva il vero sapore.
-Ciao, allora.- Mackenzie sorrise ancora, muovendo le manine, e il rasta sentì una sorta di magone spingergli sotto la gola. Già, ciao. Quando la parola giusta sarebbe stata “addio”. Chissà cosa le avrebbe detto Bill quando sarebbe cresciuta, se si sarebbero mai incontrati, dopo dieci, quindici, vent’anni. Se fosse riuscito a riconoscerla. Se avrebbe avuto il coraggio di dirle chi era davvero. O se oppure se la sarebbe dimenticata, nel deserto afghano, sotto stelle che sentiva sue. Se avrebbe visto i suoi occhioni mentre moriva nella sabbia di deserti lontani.
Si girò verso Bill, e sapeva che era già morto. Glielo leggeva negli occhi. Bill, che stava ringraziando il cielo di avere una bambina che lo stava tenendo ancorato per un filo al mondo normale. Bill, che sentiva il suo cuore spegnersi una volta per tutte. Bill, che guardava il ragazzo che un tempo aveva amato pugnalarlo così. Bill, che strinse Mackenzie a sé con tutte le sue forze e lasciò una sola lacrima di trucco rigargli il visino perfetto.
-Allora … addio.- Tom si morse il labbro a dire quella parola orrenda, e sapeva, con le sue piastrine al collo, la chitarra su una spalla e lo skate appeso allo zaino militare, che stava facendo il suo più grosso errore. Ma oramai aveva deciso, e sapeva anche che, in fondo, non si sarebbe davvero pentito di svoltare pagine e relegare il fantasma del ragazzo a una vecchia vita della quale non voleva più sentir parlare. Sapeva tutto, ma in quella mattina brumosa, sospeso in una realtà sognante e impalpabile, gli sembrava tutto uno strano sogno. Un sogno orribile, che sembrava non avere fine, ma che dal quale, forse, sarebbe riuscito a svegliarsi prendendo quel vecchio treno fermo in stazione, tutto scritto e puzzolente.
-Addio.- Bill stava piangendo, in silenzio, a capo chino. Aveva perso, quella volta. Anzi, aveva perso per sempre, e se ne capacitava in maniera ovattata, triste, dietro a uno specchio di bugie dal quale non riusciva a districarsi ma dal quale veniva avviluppato con forza sempre maggiore. Con orrore sempre maggiore.
Guardava Tom, guardava la sua vita, guardava l’uomo che lo aveva dannato girargli le spalle, per sempre, imprimendosi nella mente quel viso che non avrebbe dimenticato, il viso che avrebbe visto ogni giorno, ogni notte, fino alla fine dei suoi giorni orribili. Il viso bellissimo del suo demonio, del suo dio, del suo tutto. Guardò il suo corpo, i suoi dread ciondolanti, lo guardò avviarsi verso il treno e per un attimo gli sembrò che esitasse a salire. Per un attimo, fu sicuro che si sarebbe voltato, che avrebbe mollato tutto per terra e gli sarebbe corso incontro di nuovo, che lo avrebbe stretto a sé e che gli avrebbe chiesto scusa in ginocchio.
Ma quello, ovviamente, non avvenne. Avvenne solo di vederlo esitare dolorosamente, e poi salire sul treno, senza guardarlo, lasciandolo lì, da solo, con la bambina in braccio e il cuore a pezzi, a guardarlo scomparire per sempre dalla sua Wonderland, lasciandolo senza una guida, una luce, una speranza. Lasciandolo nel buio più totale a lottare contro demoni che cominciavano a riaffiorare davvero, questa volta. La volta in cui Tom Kaulitz, il soldato, lo aveva seriamente abbandonato al suo destino.
-Mamma? Mamma, cosa facciamo?- Mackenzie gli toccò il viso teneramente, col suo sorriso così uguale a quello di Tom e gli asciugò le lacrime con le piccole dita – Perché piangi, mamma? Aspettiamo Tom di nuovo? Tornerà prima questa volta?
La guardò, e poi guardò il treno. E il cielo, il cielo infinito con le sue nuvolette che si rincorrevano nell’azzurro che lui non si sarebbe mai goduto davvero. Il mondo che odiava e che sorrideva alla sua sfortuna, alla sua morte interiore, al suo dramma personale che si concludeva in quella lurida stazione di periferia.
-Niente, tesoro.- guardò Mackenzie, e le posò un bacio delicato sulla testa, osandola delicatamente a terra, accanto a sè – E’ solo che … non dobbiamo più aspettare. Tom … Tom non tornerà mai più. Mai più.
L’ultima cosa che Bill vide prima di accasciarsi al suolo senza più vita dentro al suo fragile e martoriato corpo, fu il treno che partiva alla volta di Berlino.

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