Il tema di Lara

di rossella0806
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hotel Astor ***
Capitolo 2: *** Risveglio ***
Capitolo 3: *** La barca in miniatura ***
Capitolo 4: *** Lenta come una tartaruga ***
Capitolo 5: *** Bugie e Marsiglia ***
Capitolo 6: *** Voci di corridoio ***
Capitolo 7: *** Dubbi, dubbi e ancora dubbi ***
Capitolo 8: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 9: *** Presagio funesto ***
Capitolo 10: *** Perfetti sconosciuti ***
Capitolo 11: *** Mal di testa e panzerotti ***
Capitolo 12: *** La terrazza sul Duomo ***
Capitolo 13: *** La notte stellata ***
Capitolo 14: *** L'essenziale ***
Capitolo 15: *** Il tram ***



Capitolo 1
*** Hotel Astor ***



Scesi dal taxi che erano le quattro.

All'appuntamento mancava ancora mezz'ora, così mi feci lasciare un paio di vie prima del ritrovo che lui aveva scelto.
Non conoscevo minimamente la zona in cui mi trovavo, ma la signora che mi aveva accompagnato fino a lì era stata così disponibile da fornirmi qualche indicazione utile, in modo da non perdermi in quella caotica metropoli.
Cominciai a camminare lungo uno dei ponti che sovrastava il Naviglio, mentre il traffico tutto attorno mi scansava con sapiente eleganza e maestria.
Indossavo un vestito blu chiaro che arrivava poco sopra le ginocchia e dei sandali beige con dei minuscoli strass sul dorso.
Più proseguivo e più sentivo le mani sudarmi: mi toccai istintivamente i capelli castano chiari, raccolti in uno chignon sgangherato, in un gesto che tradiva tutta la tensione che mi faceva assomigliare ad una corda di violino; ero emozionata, non potevo negarlo neppure a me stessa, ma anche desiderosa di incontrarlo.
Per una frazione di secondo, però, la mia mente fu attraversata dall'incertezza: era giusto quello che stavo per fare? Quanto mi avrebbe fatto soffrire l'attrazione magnetica e senza riserve che avvertivo per lui? E, soprattutto, quanto tempo sarebbe durata quella storia ai limiti della clandestinità?
Ma non ebbi alcuna remora a rispondermi immediatamente, convincendomi che lo amavo, che il mio era vero amore, e che questo sarebbe bastato per l'avvenire ed oltre.
Guardai con ansia l'orologio nero da polso, accorgendomi che erano già trascorsi venti minuti.
Mi incamminai finalmente verso la meta tanto agognata, domandando per sicurezza ad una ragazza che stava portando a passeggio un barboncino se quella fosse la strada giusta e, ricevendo risposta affermativa, proseguii ancora per qualche decina di metri.
Arrivai davanti all'insegna spenta e poco rassicurante dell'albergo che, di lì a breve, ci avrebbe accolti, il cuore talmente in fibrillazione che temevo sarebbe uscito dal petto.
Hotel Astor rappresentava la mia terra promessa, era ciò per cui avevo lottato negli ultimi anni, il posto che bramavo da tempo infinito.
Un brivido di piacere e paura percorse la mia schiena, mentre fissavo la scritta davanti a me: mi ero immaginata un ritrovo diverso, una sorta di nido d'amore a cinque stelle, in contrasto quindi con le tre che poteva vantare, ma era pur sempre meglio di una pensioncina di second'ordine, e persino di un infimo motel costruito ai lati dell’autostrada.
Non puoi e non vuoi tornare indietro ... continuavo a ripetermi, tormentandomi le dita.
In quei momenti, l'unica cosa per cui pregavo era di piacergli: speravo infatti di aver scelto l’abito giusto, di essermi spruzzata il profumo migliore, né troppo dolce e neppure troppo amaro, di aver acconciato con eleganza i capelli.

Avrei voluto avere uno specchietto in cui riflettermi, in modo da poter ritoccare il trucco appena accennato che avevo deciso di spalmarmi sul viso.
Stavo aprendo la borsetta bianca alla ricerca del telefonino, l’unico oggetto che avrebbe potuto servire al mio scopo, quando avvertii dei passi avvicinarsi alla mia persona, e di scatto mi voltai.
E fu il paradiso, perché lui era lì.
“Ciao …” mi salutò con un sorriso un po’ tirato, sfiorandomi il braccio sinistro con una mano.
“Ciao …” ero così nervosa che non mi uscì null'altro di più sensato.
“Che dici, entriamo?”
Annuii felice, gli occhi verdi trasognanti in quelli ambrati e vivaci di lui.
Salimmo i cinque gradini che ci dividevano dalla soglia, facendo il nostro ingresso in quell'albergo di fine anni Sessanta, la hall dalla forma circolare e le tonalità dell'oro ad attenderci.
Dall’esterno, avrei giurato che saremmo sembrati la più normale delle coppie, magari spossata dopo un infinito giro turistico per la città.
Certo, poteva apparire tutto perfettamente normale, eccetto per un particolare: io non ero la sua compagna ufficiale, ero solo la sua nuova amante.


La camera che aveva prenotato si trovava al quarto piano, in prossimità dell'uscita di sicurezza.
Era la stanza più discreta del lungo corridoio che percorremmo per raggiungerla, adornato da riproduzioni di quadri di Van Gogh e minuscoli tavolini rotondi da cui strabordavano piante grasse.
Le cifre sulla porta immacolata recitavano il numero 433.
Mentre lui apriva l'ingresso, di nuovo avvertii quella strana sensazione e quel brivido d'incertezza infantile percorrermi la schiena, esattamente come pochi minuti prima.
Deglutii nervosa ed eccitata, non potendo far altro che ammirare la bellezza di quelle mani che mi invitavano ad entrare.
Il rumore della porta che si richiudeva dietro di noi era come musica per le mie orecchie, come una delle sinfonie di Beethoven che adoravo ascoltare nei momenti di riflessione.
“Se vuoi, faccio portare dello champagne …” propose, avvicinandosi pericolosamente a me.
“Non lo so, cioè, non credo sia necessario, però …”
“Sei nervosa?”
La sua voce flautata risuonò nella stanza, formata da un ampio letto con il copriletto rosso, un armadio che occupava un'intera parete ed uno scrittoio con due sedie, sopra cui era stata posizionata una televisione dallo schermo ultrapiatto.
Lui mi abbracciò con quella dolcezza che tanto avevo amato, fin dal primo istante, e mi ritrovai con il capo sul suo petto, avvolto da una camicia azzurrina.
Il profumo che gli avevo sempre sentito addosso mi stava inebriando i sensi, risaliva come un piacevole effluvio per le narici e si addentrava tra i miei neuroni, tanto che, per un istante, temetti di svenire.
“Non devi avere paura. Andrà tutto bene, te lo prometto”
Mi allontanò con dolcezza e, le mani ai lati del mio viso, lo avvicinò al proprio, per baciarmi subito dopo.
Fu un bacio bellissimo, un bacio lento e calibrato, che esprimeva tutto il calore che fuoriusciva dai nostri corpi vagamente sudati per il caldo.
Ero così felice, così stordita, che desideravo solamente che quel momento non avesse mai fine.
Volevo rimanere lì per sempre, non mi importava del resto: l'unica cosa che mi interessava era che lui fosse con me, che mi stringesse tra le sue braccia e mi amasse, fino alla fine dei tempi, fino allo stordimento, fino alla stanchezza più totale.
Cominciammo a retrocedere verso il nostro giaciglio, che ci premurammo di scoprire dal copriletto infuocato che lo avvolgeva.
Senza guardarlo negli occhi, presi a sbottonargli la camicia, mentre lui si slacciava i pantaloni.
Quando finimmo quel primo passo, aspettai che mi calasse le spalline del vestito, gesto che non attardò ad arrivare, rivelando la voluta assenza del reggiseno sotto di esso.
L'abito si adagiò su se stesso, attorcigliandosi sul parquet scricchiolante come un serpente in preda all'ipnosi degli incantatori indiani.
Mi tolsi i sandali e lui fece lo stesso con i mocassini Lumberjack color castagna.
Finalmente fummo pronti per adagiarci sul letto, il momento che maggiormente avevo temuto e, in tutta sincerità, ancora temevo.
Lui mi attirò a sé, continuando a baciarmi e sovrastando il mio corpo protetto solo da un paio di slip bianchi.
Cominciai a respirare affannosamente, durante un attimo di tregua in cui le nostre bocche avevano smesso di cercarsi, mentre mi sussurrava ad un orecchio di stare tranquilla, di non preoccuparmi di nulla, promettendomi ancora una volta che sarebbe andato tutto per il meglio.
Poi, spostò le sue belle labbra sui miei occhi, quindi sul naso, sul collo e sulle spalle, regalandomi continui sprazzi di sogno.
In quei momenti, pensavo solamente a quanto fossi felice, veramente felice ed appagata: non desideravo niente se non lui, lui che era diventata la mia ossessione, lui che era lì insieme a me, lui che mi avrebbe protetta da tutto e da tutti.
Mi prese le mani e le intrecciò alle sue, stringendo con forza e delicatezza le mie dita, come se non volesse più lasciarle andare.
Inarcai la schiena in un brivido di piacere, aspettando che tutto finì.
E così accadde, infatti.
Ma quella, ero convinta, non era la fine di nulla, era piuttosto l'inizio di tutto.

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Capitolo 2
*** Risveglio ***


Ho visto un posto che mi piace, si chiama Mondo
Dove vivo non c’è pace ma la vita è sempre intorno
Più mi guardo, più mi sbaglio, più mi accorgo che
dove finiscono le strade è proprio lì che nasce il giorno
Ma questo è il posto che mi piace, si chiama Mondo …
Sì, questo è il posto che mi piace …

(Cesare Cremonini, “Mondo”, 2010)


Il giorno in cui mi risvegliai, ormai quattro anni fa, lui fu la prima persona che vidi.
Ero sdraiata in un letto asettico, circondata da strani macchinari e pompe infusionali, con le braccia fasciate per nascondere gli aghi che, in quei mesi, mi avevano alimentata ed idratata.
Sbattei le palpebre più volte, perché non riuscivo a mettere a fuoco tutti i particolari che mi attorniavano: era come se avessi un velo di nylon che mi impedisse di guardare, che mi dividesse dai presenti, eclissandomi nel mio forzato obnubilamento.
Cercai di alzare la testa, facendo leva sui gomiti, ma dei dolori laceranti mi impedirono di realizzare il mio intento.
Era infatti come se avessi delle lance che puntassero ferocemente contro le tempie e la nuca, oltre ad una vaga nausea che mi permeava la bocca e la gola.
Pensavo che, di lì a poco, avrei vomitato, tanto che urlai di portarmi un catino, uno straccio, insomma qualcosa per non sporcarmi.
Ma la mia voce non voleva sentire ragione di uscire, era come se le mie corde vocali si fossero atrofizzate.
Mi ritrovai a boccheggiare alla stregua dei pesci, mentre le mie pupille riprendevano lentamente a mettere a fuoco.
“Eccola qui la nostra campionessa! Come ti senti, Lara? Sono il dottor Cavani, il neurochirurgo che ti ha seguito in questo periodo. Sei in ospedale, nel reparto di Terapia Intensiva, perché tre mesi fa hai avuto un piccolo incidente. Abbiamo dovuto indurti il coma farmacologico, in modo da non rischiare che il tuo sistema nervoso subisse delle ripercussioni. Adesso, però, la cosa più importante è avvertire la tua famiglia che ti sei risvegliata e che è andato tutto bene. È fuori che aspetta di entrare, al resto penseremo dopo, non preoccuparti”.
Mi sfiorò una guancia e mi fece l'occhiolino.
Tanto bastò perché quell'uomo sui trentacinque anni, la barba castana incredibilmente curata e gli occhi color ambra, mi apparisse come l'angelo salvatore: lo so che potrebbe sembrare melenso e, forse, addirittura esagerato, ma vi posso assicurare che, conciata com'ero in quel momento, lui incarnava davvero colui che mi aveva sottratto alla morte.
E poi, non bisogna dimenticare che, sebbene fossi stata estubata, ero ancora sotto l'effetto della morfina, che mi aiutava a non sentire troppo dolore -nonostante il ricordo delle recenti fitte alla testa fosse ancora ben vivido dentro di me-, custodendomi in quel guscio attutito che divide la realtà dalla fantasia.
Il mio eroe si abbassò su di me ed estrasse da una mano una piccola torcia: la accese senza preavviso, puntandomi contro la luce fastidiosa che emanava, muovendola di lato, in alto ed in basso e, infine, direttamente nelle iridi.
Le mie pupille reagirono malamente a quello stimolo, chiudendosi all'istante, ma questo doveva essere stato un buon segno, perché annuì soddisfatto.
Mormorò qualcosa alle due infermiere lì presenti e al collega anestesista, quindi uscì attraverso la porta automatica, le mani affondate nelle tasche del camice immacolato.
Mi sembrò di vedere un sorriso di trionfo e di dolcezza affiorare sul suo bel viso, simbolo che il suo lavoro era stato ricompensato dal mio risveglio, ma forse era stata solo una mera suggestione.
E fu in quel momento che, finalmente, pensai alle parole che mi aveva detto: ero stata in coma per tre mesi, avevo avuto un incidente – quale, di grazia? Perché io, per quanto mi sforzassi, davvero non riuscivo a ricordare cosa fosse accaduto- e mi trovavo allettata nel reparto di Terapia Intensiva.
Beh, forse l'ordine delle parole non era proprio lo stesso con cui lui si era espresso, ma il risultato non cambiava, un po’ come recitava la famosa proprietà commutativa dell’addizione, una delle poche regole matematiche che ancora ricordo.
Sdraiata, con le infermiere poco più mature di me che mi rivolgevano sinceri sorrisi in stile “Bentornata nel mondo dei vivi, cara”, cercai di portarmi una mano alla testa, questa volta con più calma.
Scelsi l’arto destro, quello meno riempito di tubicini e fili, e ciò che scoprii non fu affatto piacevole.
Dovevo essere un mostro, mi convinsi, perché avevo parte della testa coperta da una benda elastica, sotto cui si estendeva un impacco di garze che, venni a sapere poco tempo dopo, celava l'ingresso della mia derivazione ventricolare esterna, una sorta di ennesimo catetere con la funzione di drenaggio per rimuovere il liquor in eccesso nel mio cervello, e collegata ad una specie di colonna di plastica numerata per controllarne costantemente la quantità.
Sempre più tardi, mi venne spiegato che, nelle ore immediatamente successive al mio incidente - di cui, però, tutti si premuravano di non lasciarsi sfuggire nemmeno una sillaba-, avevo dovuto subire un intervento all'encefalo, per questo avevo i capelli cortissimi.
Chiesi uno specchio, ma ancora la mia voce faticava a farsi sentire, forse per colpa del sondino naso gastrico, l’ennesima diavoleria da cui ero stata colonizzata.
“Non avere fretta, Lara” si premurò di rassicurarmi una delle infermiere, alta, la chioma riccia e gli occhiali, avvicinandosi per controllare la sacca vescicale ai piedi del letto.
Ma certo che ho fretta! Avrei voluto risponderle, accidenti!
Come avrei potuto subire passivamente tutto ciò che mi stava accadendo? Avevo il diritto di sapere, di conoscere cosa mi fosse successo, eppure nessuno si premurava di spiegarmi nulla.
In quel momento, a risollevarmi dall’angoscia e dal senso di smarrimento che stavo cominciando a provare, entrarono i miei genitori e i miei fratelli, Giada e Matteo, l’entusiasmo fatto persona.
A pensarci bene, forse non si riversarono tutti in massa, perché lo spazio in cui mi trovavo non era per nulla agevole, a causa dei macchinari e delle due infermiere ancora presenti.
Quello che mi ricordo ancora molto bene, invece, fu l'abbraccio e le lacrime di mia madre, che mi strinse talmente forte da temere di perdere i sensi.
Non riesco a quantificare, invece,  per quanto tempo la mia famiglia poté fermarsi, probabilmente poco, perché poi caddi in un sonno profondo, dove le voci arrivavano ovattate, fino a scomparire del tutto.
Quando mi svegliai, lui era lì, e mi disse che avevo dormito quattro ore.
Era seduto sul bordo del mio letto, in fondo ai piedi, come se non volesse disturbare.
Aveva le mani intrecciate sulle ginocchia, e mi salutò con il solito sorriso caldo e suadente che avevo adocchiato prima.
“Come stai, Bella Addormentata?”
Deglutii qualche volta, sperando che la voce fosse ritornata.
“Bene … ma …. sono … stanca” riuscii a mormorare.
Avevo il respiro lievemente in affanno, sebbene mi accorsi di aver calato sul viso una sorta di maschera trasparente, con gli elastici che si congiungevano dietro il capo.
“Ti aiuta a respirare meglio” mi spiegò indicandola, intuendo i miei pensieri.
“Contiene del semplice ossigeno, che però permetterà ai tuoi polmoni di espandersi come facevano fino a pochi mesi fa”
Cercai di annuire, ma una fitta in prossimità della derivazione mi costrinse ad assumere un'espressione di sofferenza.
“Quel tubicino, invece, serve per non farti gonfiare la testa come un pallone! Te lo abbiamo messo dopo l'operazione a cui sei stata sottoposta”
Sorrise nuovamente e si alzò dal suo angolino, per venire a controllare la mia interessantissima fasciatura.
“Direi che va bene … se premo così, in questo modo, ti fa male?”
“No”
Sotto il suo tocco delicato e professionale, chiusi gli occhi, avvertendo per la prima volta quel profumo che tanto avrei amato.
“Questa la toglieremo tra qualche giorno, dopo che faremo la TAC di controllo: non devi preoccuparti, è un esame indolore e breve, che ci aiuterà a capire come sta il tuo cervello”
“Quanto … tempo … dovrò … rimanere … qui?”
Lui tornò al suo posto, in fondo al mio letto, ma questa volta rimase in piedi.
“Beh, a questa domanda non so ancora risponderti. Diciamo che una buona parte dipenderà dalla tua volontà di ripresa, che sono sicuro non mancherà, ma molto sarà determinato dall'esito degli esami strumentali a cui ti sottoporremo, per valutare le condizioni del tuo cervello. Ah, ovviamente dalla prossima settimana verrai trasferita in reparto, dove potrai iniziare le sedute riabilitative con la logopedista ed i fisioterapisti”
Cercai di annuire, immaginando il calvario che mi avrebbe aspettato.
“Che … giorno … è … oggi?”
“Mercoledì, precisamente le diciotto e trenta di mercoledì 20 aprile”
Nell'udire le sue parole, puntuali e tinte di una vaga sfumatura ironica, mi sembrò di essere un'extraterrestre proveniente da un pianeta lontanissimo, un pianeta in cui il tempo e le stagioni non esistevano.
O meglio, esistevano, ma erano profondamente dilatati e soggettivi.
“Adesso ti lascio riposare. Ciao, Lara, ci vediamo domani mattina”
Mi accarezzò una mano, anche se sarebbe meglio dire che me la sfiorò e, sorridendo mestamente, uscì attraverso la porta automatica.
Attesi che la sua ombra svanisse nel corridoio, quindi richiusi gli occhi, solo per qualche secondo.
Mi sentivo sfinita ed intontita: mi ricordo che cercavo di stringere le mani a pugno e di sollevare le gambe, ma i movimenti che ne seguivano risultavano incredibilmente rallentati.
Avevo sentito in un programma TV, qualche tempo prima, che le persone in coma perdono le capacità cognitive in virtù di quelle non cognitive: possono insomma continuare a sentire, a percepire delle presenze attorno a loro, così come la respirazione e la circolazione sono pressoché mantenute intatte, però non riescono ad interagire con l’ambiente che le circonda.
Io credo che dipenda molto dalle caratteristiche del singolo: ad esempio, per quanto riguarda la mia esperienza, non ho visto alcuna luce irraggiarmi prima del mio fatidico risveglio, sebbene posso azzardare di affermare che, forse, in quei tre mesi, mi era stato possibile per davvero distinguere rumori, suoni e voci, a cui ero comunque impossibilitata restituire un volto.
Scacciai quelle riflessioni troppo profonde per quei momenti delicati, concentrandomi sulla forza di volontà che avrei impiegato per riprendermi completamente, il più presto possibile.
Speranzosa e piena di iniziative, voltai il viso verso la parete alla mia destra, dove mi accorsi che si apriva un’ampia vetrata, le tapparelle abbassate a metà: lo so, appena atterrata dal mio nuovo Paese straniero, non vi avevo fatto caso, ma quello scorcio anonimo, composto dal cortile interno dell'ospedale e macchiato di qualche abete e aiuola in fiore, era la cosa più bella e più pura che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Ciò che era accaduto prima, infatti, per me rappresentava ancora l'oblio.
Don’t give up, because you want to be heard. If silence keeps you, I ... I will break it for you.
Don’t give up, it’s just the hurt that you hide. When you’re lost inside, I ... I will be there to find you.
Già, neppure io mi sarei arresa, ma avrei lottato per riappropriarmi del passato che mi era stato tolto.



La canzone finale è di Josh Groban, “You Are Loved (Don’t Give Up)", 2006 

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Capitolo 3
*** La barca in miniatura ***


Abbiamo gambe
per fare passi
trovarci persi
e avvicinarsi e poi
Abbiamo bocche per dare baci
o meglio dire
per assaggiarci […]
Abbiamo mani per afferrarci
girare insieme
come ingranaggi e poi
Abbiamo occhi
con cui vediamo
ma se li chiudi
ci riconosciamo

                                                                                                            (Nek, “Fatti avanti amore”, 2015)




Mi sentivo frastornata. Piacevolmente frastornata.
E felice. Tanto felice.
Lui si staccò da me, dopo avermi regalato l'ennesimo bacio su una spalla.
Eravamo entrambi supini, incollati l'uno all'altra, e sudati per il caldo e l'eccitazione dei momenti appena trascorsi.
Avevo paura di sfiorare la sua mano, il suo corpo, perché temevo che, da un momento all'altro, si sarebbe alzato, rivestito in fretta e furia, lasciandomi lì da sola, in quell’anonima stanza d'albergo.
Se ciò fosse accaduto, mi sarei sentita per davvero una poco di buono, una novella prostituta che aveva semplicemente soddisfatto i suoi bisogni sessuali, e che adesso rischiava di essere scaricata con qualche banconota come mera ricompensa materiale.
Ma non volevo che finisse così, non era giusto.
Dopo tutto quello che avevo aspettato per averlo con me, dopo che avevo lottato affinché lui si accorgesse di me, perché almeno in parte mi appartenesse, contavo che non mi avrebbe delusa.
“Ti amo …” mormorai, ben conscia che quelle due parole disinteressate avrebbero potuto suscitare una reazione ignota.
Lui voltò il viso verso di me, sorridendomi in quel suo modo suadente ed ironico.
Era stato così dolce, lui era così dolce, che quasi mi faceva tenerezza.
Si mise comodo su un fianco, reggendo il peso con il gomito, e mi fissò negli occhi, continuando a mantenere quell'espressione sorniona sul volto ricoperto di barba, fino a quando mi baciò con una passione talmente inaspettata che cercai quasi di respingerlo, ma ovviamente non lo feci.
Si adagiò nuovamente su di me, intrecciando le sue dita con le mie, e riprendemmo da dove avevamo concluso, appena pochi minuti prima.
“Sei il mio piccolo angelo …” sospirò ad un orecchio, il respiro lievemente in affanno.
In tutta risposta, grugnii qualcosa che avrebbe dovuto assomigliare ad un “tu sei il mio angelo”, ma la felicità e l'appagamento che sentivo invadermi non mi permisero di formulare una frase di senso compiuto.
Stavo toccando il Paradiso con un dito, anzi, con tutte e dieci le dita.
Perché tutto questo dovrebbe finire? mi domandavo, perché esiste il tempo che, con le sue ferree e imperturbabili regole, ci impedisce di vivere a nostro piacimento, di scegliere quando e se fermarci?
Scacciai quei pensieri filosofici, anzi, forse non li formulai nemmeno in quel momento, intontita com'ero, ma sicuramente vi riflettei più tardi, quando appunto tutto finì.
Erano trascorse più di due ore, ormai, e fuori dalla finestra accostata si udiva distintamente il traffico della metropoli.
Era strano, riflettei, che non mi fossi ancora accorta dei rumori che provenivano dalla strada sottostante, ma mi consolai dicendomi che ero stata occupata da ben altre questioni.
Preoccuparmi della gimcana di automobili impazzite, della sfilata di motorini truccati, del corteo di tram ed autobus affollati all'inverosimile, infatti, attualmente non rientrava tra le mie priorità.
Uscimmo dalla stanza 433 che erano quasi le sette di sera.
Prima, però, facemmo una doccia veloce, rigorosamente separata, e ci rimettemmo gli stessi abiti che ci eravamo quasi selvaggiamente tolti: io il mio vestito di cotone blu chiaro, e lui la sua camicia azzurra Ascot e i suoi pantaloni Levi’s color terracotta.
Recuperammo sandali e Lumberjack, la borsetta a tracolla che non ricordavo neppure dove fosse andata ad imboscarsi -ma che ritrovai dispersa sulla minuscola poltrona a fiori semi nascosta dietro la porta d'entrata- e, finalmente, potevamo considerarci pronti per ritornare tra la gente.
Quando arrivammo alla reception, il mio accompagnatore mormorò qualcosa al concierge, restituendogli subito dopo la chiave con cui avevamo sigillato il nostro nido d’amore.
“Gli ho detto di tenerci la stessa camera anche per la prossima settimana …” mi spiegò innocentemente, passandomi la mia carta d'identità con cui avevamo dovuto registrarci.
Io annuì con un sorriso, confermando il mio entusiasmo con un semplicissimo bene.
Uscimmo nella giungla cittadina con il sole che ci abbagliava: mi coprii la fronte con una mano, socchiudendo infastidita gli occhi verdi.
“Ti va di andare a mangiare qualcosa?”
Lui mi prese la mano libera, intrecciandola in quel suo modo che ormai conoscevo così bene, quindi mi spinse sul marciapiede, in attesa di attraversare la strada e raggiungere il ponte che sovrastava il Naviglio.
“Sì, sempre che tu abbia ancora un po’ di tempo …”
Già, ecco che il fattore tempo tornava a farsi vivo in maniera subdola e prepotente, ricordandomi che, almeno ufficialmente, non ci appartenevamo.
Anche se, dopo quello che c'era stato tra di noi, faticavo per davvero a convincermi del contrario.
“Ti ho già detto che non devi preoccuparti. Oggi esisto solo per te. Per te e per nessun altro, capito?”
Speravo che mi baciasse, un modo infantile e decisamente romantico per suggellare quelle frasi, ma comprendevo quanto si stesse già esponendo, passeggiando insieme e, per di più, mano nella mano.
Camminammo una decina di minuti, fino a quando si fermò, indicandomi un piccolo ristorante alla nostra sinistra.
Era molto grazioso, almeno a vederlo dall'esterno, abbellito da una barca in miniatura rossa, blu e bianca.
Vi era un gazebo con le pareti e il tetto decorati da motivi intrecciati, sotto il quale stava mangiando una mezza dozzina di coppie straniere.
“Che ne pensi? A me ispira, e a te?”
Anche a me piaceva, non potevo negarlo, però non sapevo se fosse la soluzione più giusta.
Insomma, l'ospedale in cui lavorava distava meno di due chilometri in linea d'aria, e non avrei mai voluto che qualche suo collega o conoscente ci incontrasse.
Temevo di fargli fare una pessima figura, soprattutto dopo avermi confessato che, quel giorno, era uscito prima dalla struttura con la scusa di un improrogabile impegno personale fuori città.
Volevo solo il meglio per lui, non desideravo in alcun modo ferirlo o impedirgli di fare carriera.
“Allora? Entriamo?” mi risvegliò dai miei pensieri, stringendomi un braccio ed alzando un sopracciglio.
“Sì, si certo”
Un cameriere più o meno della mia età ci venne incontro con aria professionale, domandandoci se preferissimo cenare all’interno o all’esterno.
Lui ed io ci guardammo, d'accordo a farci apparecchiare sotto il bel gazebo dietro di noi.
Il ragazzo ci fece accomodare in un angolo appartato, forse intuendo la natura del legame che ci univa.
Quando fummo seduti, lui mi sorrise e mi prese una mano.
“Sono molto contento di averti qui con me. Oggi pomeriggio mi hai reso felice come non lo ero da tempo”
Lo guardai negli occhi ambrati, soffermandomi per qualche istante in quel mare di purezza che lui rappresentava per me.
Arrossii, almeno era la sensazione che avvertii: mi sfiorò una guancia semplicemente con un dito, come a voler cancellare quel pudore così infantile ed inaspettato che mi aveva colorato le gote.
“Tu mi rendi sempre felice con la tua sola presenza ...” replicai, incoraggiata dal suo gesto.
In quel momento, arrivarono i menù, distogliendoci dalle nostre melense dichiarazioni reciproche.
Non ebbe il tempo di rispondermi, ma forse non c'era poi molto altro da aggiungere.
Prenotammo due antipasti misti e due primi piatti, innaffiando il tutto con una caraffa di vino bianco.
Finimmo di cenare un'ora e mezza dopo, quando il locale era ormai gremito di turisti e avventori del posto.
Andò a pagare e, sussurrandomi ad un orecchio, mi promise che la prossima settimana avremmo di nuovo fatto una capatina lì.
Poi, sottobraccio, ci avviammo verso la sua automobile, una Lancia Flavia grigia che aveva parcheggiato a una quindicina di minuti dall'albergo.
Non ripercorremmo lo stesso itinerario, però, preferendo addentrarci lungo le strade parallele in cui si trovava l’Hotel Astor, camminando al chiaro di luna, in una serata ancora vagamente afosa.
Procedevamo fianco a fianco, incontrando qualche raro passante in compagnia del suo amico a quattro zampe, e comitive di ragazzi in attesa di sbronzarsi.
Mi sentivo leggera ed appagata: pensavo che era bello far finta di essere una qualunque coppia di ritorno da una cenetta romantica, che aveva appena condiviso momenti tanto intimi.
“Uno di questi giorni mi piacerebbe portarti a mangiare in un locale che ha aperto da poco, vicino al Duomo. Si mangia molto bene e c’è una vasta scelta di take-away
“E’ giapponese?” volle sapere, dedicandomi un’occhiata dubbiosa.
“Sì, ma non solo. Perché me lo chiedi? Non ti piace la cucina asiatica?”
“Tutt’altro, la adoro. La mia era semplice curiosità”
Stavamo quasi inciampando in un avvallamento del marciapiede, quando io lo sorressi e ci mettemmo a ridere come due stupidi.
“Forse abbiamo bevuto troppo!” esclamò retoricamente, anche se posso giurare che non avevamo affatto esagerato.
“Saremo ubriachi d’amore …” azzardai, facendo spallucce e trascinandomi dietro di lui.
La luce artificiale dei lampioni rischiarava i nostri visi: nei suoi occhi leggevo la felicità, l’entusiasmo del momento, mentre mi domandavo che cosa avrebbe potuto decifrare sul mio volto.
Compiacimento? Allegria? Incredulità? Non glielo domandai, probabilmente perché mi andava bene così, qualunque fosse la sua interpretazione, perciò continuammo la passeggiata notturna come se nulla fosse.
Mezz'ora più tardi, arrivammo davanti al convitto in cui alloggiavo durante l'anno accademico, un ex convento di suore benedettine ristrutturato negli anni Ottanta.
Si sporse per baciarmi sul collo e poi sulla bocca, ringraziandomi per la bella serata che gli avevo regalato.
“Grazie a te” gli accarezzai il viso e lo abbracciai, inspirando il profumo che traspariva dalla sua camicia.
“Ti chiamo domani, dopo che ho finito il turno”
Io annuì, abbozzando un sorriso, e finalmente scesi.
Recuperai la chiave del portoncino dalla borsetta, quindi mi voltai per salutarlo con la mano.
Lui era ancora lì, pronto a ricambiare il mio gesto, sgommando subito dopo per tornare dall'altra.

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Capitolo 4
*** Lenta come una tartaruga ***


Spesso è la tenacia, non il talento, che governa il mondo.

                                                            (Julia Cameron, giornalista, regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica americana, 1948)




Due settimane dopo il mio risveglio, mi stavo lentamente riprendendo.
Ero stata trasferita in Neurochirurgia, dove condividevo la camera con una sessantenne isterica, che non faceva altro che tiranneggiare il povero malcapitato del marito.
Lei era una donna minuta, la carnagione lattea e ricca di efelidi, ma vantava un tono di voce incredibilmente acuto: era logorroica fino allo sfinimento, mentre il consorte era alto e timido, occhialuto, la testa brizzolata e mezza calva che ricordava un uovo.
Quel giorno diluviava ed io ero profondamente delusa di me stessa e dei miei non progressi: come ogni mattina e pomeriggio, infatti, erano venute la logopedista, la dottoressa Mazza -una donna di qualche anno più grande di me, i capelli biondi tagliati a caschetto e gli occhi scuri nascosti dietro un paio di occhiali D&G- e le due fisioterapiste, Marzia e Simona, che godevano di un'immensa pazienza nei miei confronti, qualità che non ricambiavo minimamente.
Dal canto mio, quel paio di ore giornaliere -suddivise equamente tra le tre donne- non faceva altro che irritarmi.
Non riuscivo, infatti, a notare alcun minimo miglioramento, se non che la voce mi era ricomparsa quasi completamente, ma dal punto di vista muscolare era come se mi fossero rimasti solo ossa e tendini.
A riprova del mio sconforto, ad esempio, posso riportare un episodio davvero frustrante.
Marzia, qualche giorno prima, aveva cercato di rimettermi in piedi, convincendomi che ero pronta per quell’importante traguardo.
“Insomma” mi spronava “non puoi continuare a muoverti su questa dannata sedia a rotelle come se fossi una novantenne avvizzita!”
Ed io, mi lasciai fiduciosamente convincere, dicendomi che era lei l’esperta, e che facevo bene a fidarmi, che era quello che volevo anch’io.
Tuttavia, nonostante le fossi abbarbicata come l'edera su una parete di mattoni, l'intera stanza cominciò a girare vorticosamente, la vista mi si annebbiò, tanto che urlai di farmi sdraiare, di lasciarmi in pace, che ero stanca di quelle torture senza senso.
Perché non mi reggevo neppure in piedi? Perché mi trovavo chiusa lì dentro? Non riuscivo a rispondere ad alcuna di queste domande, tanto meno ricordavo che cosa fosse accaduto più di tre mesi prima, quando tutto aveva avuto inizio.
I medici, dal canto loro, si appellavano all'opportunità che la mia amnesia lacunare sarebbe lentamente svanita, permettendomi di far luce sugli avvenimenti misteriosi che mi avevano costretta a rimanere in coma, per mantenere in stand-by il mio cervello.
Tutti imputavano la mia debolezza all'evidente situazione di allettamento forzato a cui ero stata sottoposta: i muscoli di braccia e gambe, infatti, si erano in gran parte atrofizzati, per non parlare di quelli del collo, che quasi non mi permettevano di mantenere sollevato il capo per un minuto di fila.
A farmi compagnia, inoltre, ci pensava una continua e fastidiosissima tosse stizzosa, testimonianza di quanto i miei polmoni fossero ancora ristagnanti di secrezioni e poveri d'aria.
Avevo la pressione arteriosa sotto i piedi, tanto che, ormai, rinunciavo spesso a farmela rilevare quotidianamente, nonostante, alla fine, venissi puntualmente obbligata dalle infermiere.
La mia derivazione ventricolare, invece, stava decisamente bene, a tal punto che, entro fine settimana, l'avrebbero rimossa, almeno era ciò che mi aveva detto il dottor Cavani, il quale, per scrupolo, aveva deciso di tenerla in sede ancora un po’.
Anche i primi esami strumentali a cui ero stata sottoposta avevano dato esito molto soddisfacente: il mio cervello era in ottima forma, sicuramente migliore della sottoscritta, persino il liquor si stava man mano riassorbendo.
Se continuavo di questo passo, entro tre o quattro settimane sarei potuta ritornare a casa.
A patto che mi fossi rimessa in piedi da sola, ovviamente, e che fossi riuscita a compiere un tragitto accettabile di qualche decina di metri, senza sembrare un’ubriaca la notte di Capodanno.
Ritornando a quel pomeriggio di diluvio universale, i miei torturatori travestiti da giovani fisioterapiste erano finalmente andati via, lasciandomi sdraiata a mezzo busto sul mio ormai inseparabile letto elettronico.
Avevo il capo rivolto verso la finestra -il cui paesaggio era lo stesso del reparto in cui mi trovavo prima, ovvero uno scorcio del cortile interno dell'ospedale, spruzzato di abeti, pini e aiuole inzuppate d'acqua- quando avvertii dei passi sicuri entrare nella stanza.
Mi voltai istintivamente, notando che la porta era rimasta aperta.
La mia vicina di letto isterica era a passeggiare per il corridoio, in attesa di effettuare un esame radiologico di controllo, quindi non aspettavo nessuno, tanto più che all'orario di visita mancava ancora un'ora.
“E’ permesso? Ciao, Lara! Come è andata la seduta riabilitativa?”
Era lui, il dottor Cavani, splendido nella sua divisa verde di sala operatoria e con la barba perfettamente curata.
Quel giorno, ancora, non lo avevo visto, e la cosa un po’ mi dispiaceva.
Mi ero sentita trascurata, temevo di essere passata in secondo piano, ma capivo anche che doveva rispettare delle responsabilità da cui non poteva esimersi.
Cercai di sorridergli, spiegandogli che non ero stata brillante come avrei voluto, ma ci stavo lavorando.
“Ci vuole tempo, lo sai anche tu”
La comprensione che traspariva dalle sue parole, quasi mi indusse al pianto: non sarei mai più ritornata come prima, sarei rimasta invalida per sempre, senza poter camminare e muovermi in autonomia come una qualunque persona della mia età!
E se non mi fosse ritornata la memoria? Ricordavo a malapena i giorni precedenti il mio incidente, mentre l'unico punto fermo era rappresentato dalla mia famiglia e dai miei studi, che avevo dovuto abbandonare in maniera tanto brusca.
“Ehi, di nero voglio vedere solo questo cielo. Mi hai capita?”
Lui si avvicinò e mi sfiorò una guancia, abbozzando un sorriso di incoraggiamento.
Non volevo che mi vedesse così avvilita ed intristita, ma davvero non potevo farci nulla.
Sarà stata colpa di quel tempaccio, del rumore molesto della pioggia che ringhiava contro i vetri, o magari di quelle nubi oppressive che sembravano voler ingoiarmi, ma non riuscivo a partecipare a quella innocente conversazione.
“Se non hai voglia di parlare, ti lascio da sola. Ci vediamo domani mattina”
Lo lasciai andare passivamente, il capo rivolto dalla parte opposta, senza nemmeno ringraziarlo per la gentilezza che mi aveva dimostrato.
Non era tenuto a venire a trovarmi alle cinque del pomeriggio, dopo una giornata trascorsa ad aprire scatole craniche e a tamponare sangue, nessuno lo costringeva ad asciugare le mie lacrime, che tra l'altro avevo orgogliosamente trattenuto, nessuno gli imponeva di essere così disponibile ed affabile nei miei confronti.
In fondo, ero una tra le tante pazienti, una tra le centinaia che aveva incontrato e già dimenticato.
Eppure lui, nonostante tutto e tutti, c'era sempre.
E io, forse, mi stavo innamorando …
Scacciai quel pensiero inaspettatamente piacevole e a dir poco stupido, recuperando dal cassetto del comodino bianco e azzurro l’iPod fucsia.
Mentre riflettevo che avrei dovuto cambiarlo perché quel colore era vergognosamente adolescenziale, vidi la mia immagine sfumata riflessa sullo schermo del piccolo apparecchio elettronico.
Un’infermiera mi aveva pesata, la settimana precedente, e così avevo scoperto che ero dimagrita di otto chili, l’unico risvolto positivo in tutta quella faccenda.
Il viso ovale era ancora emaciato, ma le guance non apparivano più incavate, come pochi giorni prima; mi sfiorai i capelli, quel mucchietto di ciuffi castano chiaro che ricordava la mia lunga e folta chioma, reprimendo un sospiro impotente.
La bocca, almeno quella, era sempre carnosa come un tempo, sopra cui si disegnava la fossetta che la divideva dal naso, l'elemento che maggiormente odiavo del mio volto: lo trovavo troppo grande, a patata, e avrei fatto una rinoplastica molto volentieri, ma decisi che quell’intervento avrebbe potuto aspettare un momento più propizio.
Infilai il filo delle cuffiette nell'apposito spazio circolare, e accesi il lettore musicale.
Chiusi gli occhi verdi, cominciando ad inspirare ed espirare come mi avevano insegnato Marzia e Simona.
Che non mi si venga a dire che non faccio gli esercizi, sdrammatizzai.
Insomma, stavo pur unendo l'utile al dilettevole, cercavo di convincermi, mentre speravo che la malinconia volasse via.
Ma l’unica cosa che svanì, di lì a breve, fu l'armonia indotta dalla Sinfonia n°40 di Mozart, lasciando invece il posto all'immagine radiosa del dottor Cavani.
Aprii le palpebre in un impeto di spaesamento: che strano effetto mi stava regalando la musica classica, l'unica che riuscisse a rilassarmi veramente quando ero così nervosa e depressa? Avevo bisogno di pace, di tranquillità, non di sognare l'impossibile.
Volevo rimanere lucida, continuare a soffrire, se fosse stato necessario, ma stando con i piedi per terra.
Non riuscivo a togliermi dalla mente la figura atletica e sorridente di lui, i passi decisi che si avvicinavano al mio letto, quel profumo inebriante di cui ignoravo il contenuto floreale.
Smettila, mi dissi, la tua è solo riconoscenza!
Inaspettatamente, però, mi ritrovai a mormorare le stesse parole di pochi minuti prima …
Eppure lui, nonostante tutto e tutti, c'era sempre.
E io, forse, mi stavo innamorando.

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Capitolo 5
*** Bugie e Marsiglia ***


Vi sono le bugie che hanno le gambe corte
e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto
è di quelle che hanno il naso lungo

(Frase tratta da “Pinocchio” di Carlo Collodi)



Una settimana dopo la nostra prima fuga d'amore, ci rincontrammo all’Hotel Astor.
Questa volta raggiunsi l'albergo con il tram, avendo capito vagamente meglio come orientarmi in quella giungla caotica di gomme stridenti e generose suonate di clacson.
Dal convitto in cui risiedevo, impiegai una ventina di minuti ad attraversare la città, ma alla fine giunsi vittoriosa alla meta.
Come il venerdì precedente, riempii il tempo che avrei dovuto aspettare passeggiando per le vie interne, spostandomi sui ponti che collegavano i Navigli e godendo del sole di metà pomeriggio.
Ad un certo punto, però, la mia solitudine venne interrotta senza preavviso.
Mi girai di scatto, dando le spalle ad un gruppetto di tre ragazze: due di esse, infatti, erano delle mie compagne di corso alla Facoltà di Lingue che stavo frequentando, e non avevo alcuna intenzione di farmi riconoscere o, peggio ancora, di attaccar discorso.
Certo, non eravamo grandi amiche, anzi, forse sarebbe meglio precisare che eravamo semplici conoscenti, che qualche volta avevano condiviso i posti vicino e mangiato un panino insieme, ma la sostanza di fatto non cambiava.
Avevo il terrore di dover rispondere alle loro eventuali domande, temevo di ingarbugliarmi da me stessa e, soprattutto, non era mia intenzione raccontare bugie, perché tutti sanno che le bugie hanno le gambe corte e, prima o poi, volente o nolente, si viene scoperti.
Feci finta di concentrarmi sulla vetrina di un negozietto pakistano, osservando la merce esposta come una vera intenditrice di cibo asiatico.
Sbirciai l'inconsapevole nemico a ore tre, intento a gustarsi delle coppette di gelato, e a ridere per chissà quale motivo.
Così, in un momento di distrazione, approfittai delle loro cospirazioni per defilarmi senza dare nell'occhio, ripercorrendo la strada a ritroso.
Che cosa avrà voluto dirmi il Destino con quell'incontro appena sfiorato? Per quanto tempo avrei ancora potuto evitare di dare spiegazioni? Avrei retto ai continui sussulti giornalieri che rappresentavano la diretta conseguenza di messaggi e telefonate che, per un motivo o per l’altro, tardavano sempre ad arrivare?
All'improvviso, mi sentii in colpa, ben sapendo che stavo facendo tutto per amore, che non volevo far soffrire nessuno, anzi, in quella storia chi aveva sofferto era stata solamente la sottoscritta.
Alle quattro meno dieci, stanca delle mie elucubrazioni, mi presentai davanti all'Hotel, dimenticando all'istante i dubbi e le incertezze che mi avevano attanagliata fino a pochi minuti prima.
Lui era già lì, le mani in tasca.
Quel pomeriggio, se possibile, era ancora più luminoso della volta precedente, ma forse la mia sensazione era dettata dal fatto che fossi stata lontana da lui per una settimana.
Indossava una Polo albicocca e dei pantaloni beige sulle solite Lumberjack castagna.
Mi venne incontro sorridendomi.
“Ciao …” ci salutammo, quasi all'unisono.
Gli sfiorai il viso ricoperto dalla barba curatissima che tanto mi faceva impazzire, e poi lo abbracciai.
Non ci fu né un bacio né un'ulteriore carezza, perché sapevamo che a quei gesti d'amore e di passione avremo pensato poco dopo.
Entrammo senza dire nulla e, come la volta scorsa, ci dirigemmo verso la hall, per registrarci.
Quel pomeriggio non c'era il solito concierge di mezza età, basso e con le spalle larghe, ma una donna sui quarant'anni, alta e mora, con un sorriso da modella.
Mentre lui effettuava la solita procedura, rimasi un po’ in disparte, chiedendomi a cosa stesse pensando la receptionist davanti a noi, circa la natura del legame che univa quei due sconosciuti.
Mi ripromisi che, appena in camera, la stessa 433 che aveva appena richiesto, gli avrei domandato quale scusa si fosse inventato per giustificare la nostra toccata e fuga settimanale all’Hotel Astor.


“Le ho detto che sono un pilota d'aerei e che ho pochissimo tempo per stare con la mia fidanzata … ti basta come spiegazione?”
Lui si avvicinò pericolosamente, e cominciò a baciarmi il collo.
Mi portò verso il letto e, abbassandomi le spalline dell'abito color panna che indossavo, puntò la sua bocca nell'incavo dei miei seni, facendomi rabbrividire di piacere.
Le sue parole, per quanto pronunciate in tono scherzoso, tradivano un sottofondo di incertezza.
Non era imbarazzo, questo no, ma probabilmente la mia domanda lo aveva colto impreparato, ed io avevo semplicemente sbagliato a porgergliela.
“Rilassati …” mi sussurrò, mentre con le dita mi aggrappavo al copriletto rosso.
Sospirai e ricambiai i baci con tutto l'ardore e il desiderio che provavo.
Gli presi i capelli, avvicinando il suo viso al mio, per poi concentrarmi sui bottoni della Polo.
Dopo avergliela sfilata, ci adagiammo sulle lenzuola immacolate, spoglie del copriletto che avevo gettato da una parte.
Tutto il resto è inutile scriverlo: fu travolgente, appassionante e dolcissimo come la settimana precedente.
Lui era sempre così impeccabile e premuroso, così perfetto, che mi domandavo quanta ancora naturale maestria sarebbe traboccata dai suoi gesti.
“Lunedì partirò per un congresso in Francia … torno giovedì”
Ci eravamo appena rivestiti, il sole che trapassava dalle asticelle delle persiane, ed io stavo pensando alla nostra cena nel solito ristorantino con la barca vicino al gazebo, quando quella frase mi colse del tutto impreparata.
“E dove vai di preciso?” indagai, il tono incolore.
“A Marsiglia. Di Milano saremo in otto, più o meno, ma dipende se qualcuno cambierà idea all’ultimo minuto …”
“C'è il mare a Marsiglia, vero? E siete solo colleghi ad andare?”
Eravamo l'uno di fronte all'altra, in piedi: io davo le spalle alla finestra accostata, mentre lui si stava infilando le scarpe.
Descrivere cosa provai in quei momenti è completamente difficile: ero delusa che non me lo avesse detto prima? Ero arrabbiata perché non mi aveva chiesto di andare con lui? O, forse, ero gelosa che quel fantomatico ritrovo tra cervelloni fosse solamente un pretesto per fare una vacanza con l'altra?
Mi risposi -e anche adesso mi risponderei allo stesso modo- che tutte e tre le possibilità erano più che corrette, anzi, che avrei fatto bene a non lamentarmi, perché avevo sempre saputo con chi avrei avuto a che fare e, soprattutto, a cosa sarei andata incontro, scegliendolo.
“Certo che siamo tutti colleghi, Lara! Secondo te, con chi dovrei andare ad un convegno internazionale di Neurochirurgia, se non con dei medici specializzati in tale branca?!”
Mi guardò allargando le braccia, l'espressione a metà tra l'ironico e lo scocciato.
Annuii poco convinta, aprendo la bocca per ribattere, ma lasciai perdere.
“Scusa, non volevo insinuare nulla … sono solo un po’ stanca”
Si avvicinò a passo sicuro e mi abbracciò dolcemente, sospirando sui miei capelli.
Accanto a lui ogni dubbio svaniva: non ero più insicura, indecisa, fragile, ero forte come una roccia, come le radici di una quercia.
Niente e nessuno mi avrebbe piegato, o meglio, mi avrebbe spezzata, fintanto che saremmo stati insieme.
Chiusi gli occhi per qualche istante, assaporando l'ormai famigliare profumo che sapeva inebriarmi i sensi, e affondai la testa nel suo petto accogliente.
“Andiamo a mangiare e divertiamoci. Anzi, sai che ti dico? Se vuoi, possiamo vederci anche domani pomeriggio. Ti va?”
Mi prese il volto tra le mani, e poi mi baciò la punta del naso.
“Va bene” riuscì a dire, sebbene non fossi del tutto convinta della risposta che avevo appena dato.
Insomma, perché accontentarmi delle briciole, dei ritagli di un tempo rubato a chissà chi, quando avrebbe potuto semplicemente portarmi con sé?
Ormai non aveva più senso rimuginarci su, quello che aveva deciso non sarebbe cambiato, non poteva cambiare.
Notando la mia incertezza, pronunciò ciò che temevo di più, ovvero sentirmi diversa, apparire come l'altra era per me.
In una parola, l'intrusa.
“Ascolta, Lara, lo sai perché non ti porto. Se tu venissi, non avremmo un solo minuto di tempo per noi. Questi congressi sono fitti di conferenze, banchetti e cene in comune, riusciremo a vederci solo la notte, e non è questo ciò che meritiamo.
E poi, non voglio dare adito a maldicenze sul tuo conto, a pettegolezzi che farebbero soffrire non solo te, ma anche me. Credimi, andremo a fare la migliore delle vacanze, dovunque tu voglia, ma non adesso”
Mi abbracciò e mi sorrise comprensivo.
Ricambiai senza convinzione, sentendomi l'eterna bambina che ancora temevo di apparire ai suoi occhi.
Controllammo di non aver dimenticato nulla nella stanza e, finalmente, uscimmo a riveder le stelle.

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Capitolo 6
*** Voci di corridoio ***


I can fake a smile
I can force a laugh
I can dance and play the part
If that’s what you ask
[…]
But I’m only human
and I bleed when I fall dawn
I’m only human

(Christina Perri, “Human”, 2014)




Era ormai la metà di maggio.
Dal mio risveglio nel mondo dei vivi, avrei presto festeggiato un mese, esattamente di lì a quattro giorni.
Avevo ripreso peso - non tutti gli otto chili che avevo perduto, ma per quello c'era tempo- il tono muscolare era notevolmente migliorato, e di conseguenza anche il mio umore poteva considerarsi sollevato.
Finalmente, dopo settimane in cui non riuscivo a vedere nemmeno un singolo progresso, adesso ero soddisfatta dei grandi passi in avanti che avevo fatto e che ancora stavo facendo.
Riuscivo infatti ad andare in autonomia non solo in bagno, ma persino in corridoio, muovendomi più veloce della quasi totalità dei pazienti.
Da una settimana, avevo definitivamente abbandonato la sedia a rotelle per muovermi esclusivamente sulle mie gambe, conquista che mi aveva regalato un nuovo senso di libertà.
Al mattino, ad esempio, dopo la visita medica, mi piaceva scorrazzare da una parte all'altra del reparto, andando a curiosare in un angolino vicino al soggiorno, in prossimità di uno degli ascensori, dove erano state collocate delle piante molto belle, di cui nessuno aveva mai saputo dirmi il nome, ma che rappresentavano il vanto delle infermiere, pronte ad annaffiarle con cura quasi genitoriale.
Quando ero stanca di tutta quella situazione, e non avevo voglia di tornare subito in camera, mi sedevo su una delle sedie del salottino dedicato a noi fortunati ospiti, e guardavo la strada che si snodava sotto di me.
Era una via interna, a traffico limitato, quindi non caotica come il resto della città.
A parte le due fila di parcheggio per gli autorizzati, potevo scorgere quello che scoprii, una volta dimessa, essere il giardino di una scuola media paritaria.
Rimasi un po’ stupita da quella rivelazione perché, per tutto il tempo che ero stata confinata lì, non ero riuscita a vedere nemmeno un ragazzino entrare con gli zaini rigonfi sulle spalle o sgusciare fuori con l'aria esausta ed allegra, ma solo suore in abito grigio, che passeggiavano beatamente all'ombra degli abeti e dei cespugli di rododendro.
Proseguendo a narrare le mie rocambolesche avventure, posso raccontarvi di quelle due o tre volte in cui ottenni l'autorizzazione per recarmi al bar interno dell'ospedale, ovviamente accompagnata da una guardia del corpo, ovvero da Simona, una delle fisioterapiste che mi seguiva nella riabilitazione.
Quando raggiungemmo l'ingresso, le porte automatiche sbarrate per permettere l'entrata e l'uscita di qualche rifornitore, un istinto irresistibile mi spinse a scappare, dimenticandomi che ero ancora in convalescenza, e che con un tubo che mi usciva dalla testa avrei potuto fare ben poca strada.
“Che cosa guardi? Non penserai mica di scappare, eh?! Guarda che la responsabilità è tutta sulle mie spalle! Poi chi li sente il primario e il bel dottor Cavani?!” scherzò Simona, non sapendo quanta verità ci fosse nelle sue parole.
La rassicurai con un sorriso forzato e, facendo spallucce, ripresi a sorseggiare il cappuccino macchiato di cacao che avevo ordinato.
A parte quelle due o tre volte eccitantissime in cui avevo potuto fare merenda al bar, la mia reclusione non era poi così brillante ed emozionante come cercavo di farla apparire.
La vicina di letto isterica era stata dimessa una decina di giorni prima, e al suo posto era arrivata un'altra signora ancora più anziana, i capelli corti di un biondo sbiadito e gli occhi di un colore indefinito.
Aveva una voce flebile e molto dolce, tutto il contrario rispetto al tono nevrotico della mia ex compagna di disavventure; tuttavia, quando ci si metteva, anche lei era logorroica da far paura, riuscendo a stordire chiunque si trovasse nel raggio di cinquanta metri dal suo cospetto.
In più, portava la dentiera, e di notte, se doveva alzarsi per andare alla toilette -come definiva elegantemente quel bugigattolo bianco e azzurro con la luce tremolante che rappresentava il nostro bagno- cominciava a mormorare parole indefinite senza sosta, fino a quando io non accendevo la luce e lei poteva finalmente trovare la strada che la conduceva ad espletare i propri bisogni corporali.
Insomma, a parte queste due caratteristiche negative che la contraddistinguevano, mi trovavo molto bene a dividere la camera con lei, forse perché mi permetteva di detenere il primato assoluto di possesso del telecomando per la TV.
Ritornando a quel mattino di metà maggio, dopo che avevo fatto colazione e mi ero data una sistemata, stavo aspettando che passassero i medici per farmi sapere qualcosa sul mio destino.
Mi ricordavo con estrema chiarezza le parole del dottor Cavani pronunciate quasi un mese addietro, il quale aveva promesso che sarei potuta tornare a casa quando fossi stata sufficientemente autonoma da non aver bisogno di nessuno che mi aiutasse nell'eseguire le più semplici azioni quotidiane.
Erano quasi le dieci, il reparto era in gran fermento, quando finalmente entrò il mio eroe -di cui ero ormai convinta di essere invaghita, tanto che a volte lo sognavo persino la notte-, seguito da uno stuolo di colleghi, specializzandi, infermieri e caposala.
Mancava solo il primario (in ferie chissà dove) e poi la squadra sarebbe stata al completo.
“Permesso … Buongiorno, signore!”
Dedicò qualche momento alla mia vicina, che si era riappisolata seduta sulla sedia, poi l'angelo salvatore si rivolse alla sottoscritta.
“Lara, come andiamo questa mattina?”
“Bene …”
Quanta inventiva, dovevo davvero farmi i complimenti per quel termine così innovativo che avevo tirato fuori dalla mia boccuccia!
Sorrise soddisfatto, quindi attaccò a spiegare il mio caso a un nuovo medico che non avevo mai visto, grasso e con i capelli bianchi.
Omise, ovviamente, spiegazioni su ciò che mi aveva portato lì, perché la mia amnesia lacunare era ancora ben presente.
“Allora, ho una buona notizia da darti!”
Ritornò a concentrarsi su di me, il tono di voce allegro e squillante, mentre quel suo profumo misterioso aleggiava prepotente nella stanza.
“Domani mattina avremmo pensato di portarti in sala per rimuovere la derivazione, sempre che tu sia d'accordo. Sarà un piccolo intervento in anestesia locale, TAC guidata, che non durerà molto. Di solito viene fatto al letto del paziente, ma avendola sostituita già due volte per problemi tecnici quando eri ancora in coma farmacologico, preferiamo evitare inutili complicanze.
Questo ci permetterà di accelerare il tempo per le tue dimissioni, così, se tutto andrà bene come mi auguro avverrà, giovedì pomeriggio potrai andare a casa! Cosa ne pensi, è un’idea accettabile?”
Boccheggiai per qualche istante, non sapendo quali parole pronunciare.
Con lui, tutto appariva semplice e naturale, scevro delle negatività che nell'ultimo periodo avevo conosciuto.
“Sì, certo, va bene”
“Perfetto! Allora ci vediamo più tardi, di là in sala medica, per discutere le modalità dell'intervento e farti firmare il consenso! Signore, arrivederci”
Salutò me e la mia vicina come se ci trovassimo ad un ritrovo tra amici di lunga data.
Lo guardai uscire dalla camera, seguito dalla laica processione, intontita dalla bella notizia che mi aveva dato: sembrava davvero che fosse riuscito a mantenere la parola data …
“È proprio un bel ragazzo! Alto, con quella barba così curata e quegli occhi buoni. E poi, così giovane ha già tutta questa responsabilità sulle spalle! Si vede che è in gamba, vero Lara?” mormorò la vecchietta, scuotendomi dalle mie riflessioni.
Annuii convinta, ma anche un po’ delusa: con le mie dimissioni, sarebbe tutto finito? Lo avrei rivisto? Si sarebbe dimenticato di me? E io, mi sarei scordata di lui?
Come potevo, in quel momento, pensare delle frasi sconclusionate come quelle?! Avevo rischiato la vita, la mia esistenza era stata interrotta bruscamente senza saperne il motivo, ed io mi preoccupavo del fatto se avrei mai più incontrato quell'uomo?!
Dovevo essere impazzita, non c'era altra spiegazione.
All'improvviso, mi vennero in mente le parole che mi aveva sussurrato durante uno dei miei innumerevoli pomeriggi di sconforto, una decina di giorni dopo che ero stata trasferita in reparto.
Era entrato in camera dopo il pranzo che non avevo consumato, a causa del mio ennesimo svenimento dovuto alla pressione bassa e ai tentativi di fisioterapiste ed infermieri di mettermi sulla sedia a rotelle.
Salutò con la sua solita aria gioviale, chiedendomi subito dopo che cosa fosse accaduto.
Ero infatti girata su un fianco, dandogli le spalle, e piangevo disperata.
Lui non disse altro, semplicemente si sedette sulla sporgenza di marmo che c'era alla base dell'ampia vetrata che dava sul giardino interno, e rimase in attesa, le mani intrecciate.
Dovevo aver appena fatto cadere un tovagliolo di carta (pulito spero), perché lo raccolse e me lo porse, in modo da soffiarmi il naso che stava per scoppiare.
Lo ringraziai mestamente, continuando a non guardarlo negli occhi, vergognandomi invece come una delinquente colta in flagrante a compiere un delitto.
Stavo facendo la figura della maleducata, della lagnona, della bambina viziata, ma ero talmente delusa ed amareggiata che non m'importava nulla di tutto il resto.
Poi, dopo che gli sembrò mi fossi calmata a sufficienza, mi spiegò dolcemente:
“Non ci sarà mai più un'altra Lara come te, con la tua storia, le tue debolezze, la tua forza. Anche se per noi sarà un grande dispiacere lasciarti andare e non vedere più il tuo sorriso, è giusto che tu ti riprenda al meglio e presto. Non ti scoraggiare, Lara"
Attese una manciata di secondi, forse aspettando una replica da parte mia, quindi sospirò e continuò nel suo monologo.

"Sai, anch'io, con quello che ti è successo, mi comporterei esattamente allo stesso modo. Anzi, quando noi medici ci facciamo male, ti assicuro che siamo di gran lunga peggio! Pensa che una volta, per un taglietto, mi sono lamentato per due giorni!”
Ecco, se c'è stato un momento, uno dei tanti, in cui finalmente capii che mi stavo innamorando di lui, questo appena riportato fu uno di quelli.
Nessuno mi aveva mai detto parole tanto pure, parole tanto sincere.
Ancora una volta mi domandai che cosa lo spingesse a comportarsi in modo tanto affettuoso nei miei confronti.
Era semplice cortesia? Era la sua indole a suggerirgli naturalmente di fare così? Oppure, in fondo al suo cuore, anche lui provava qualcosa di speciale per me?
Scacciai dalla mente quei piacevoli e dolorosi ricordi, arrendendomi ad aspettare che arrivasse Marzia, pronta a vessarmi per la seduta mattutina di riabilitazione.


Tornai dalla sala medica che erano le undici e mezza.
Ormai, non avevo più bisogno della dottoressa Mazza, la logopedista, e in realtà neppure di Simona o di Marzia, perché, come detto anche prima, ero ormai autonoma in tutto e per tutto, ma vi era una sorta di contratto non verbale che obbligava noi pazienti a svolgere fisioterapia fino al giorno stesso della dimissione.
Entrai in camera e vidi Marzia che mi attendeva in piedi: se non ricordo male, stava parlando con la mia vicina di disavventure di qualche ricetta di dolci.
Appena mi vide, mi rimproverò con un sorriso più serio del normale, chiedendomi dove fossi stata.
L'appuntamento per le nostre sedute, infatti, era stato fissato per le undici, mentre Simona sarebbe arrivata a torturarmi alle quattro del pomeriggio.
La guardai interdetta, blaterando che il ritardo non era stato colpa mia, che il dottor Cavani mi aveva chiamata e trattenuta di là per …
“Ma sto scherzando, Lara! So benissimo dov'eri, me lo hanno detto le infermiere! Quella dell'intervento di domani è una notizia fantastica, perché vuol dire che prestissimo andrai a casa!”
Mi abbracciò con gioia, ed io ricambiai sollevata il suo gesto.
Marzia era davvero simpatica, oltre ad essere molto brava, e non mi andava di deluderla, soprattutto dopo gli importanti traguardi che mi aveva aiutata a raggiungere.
Aveva qualche anno più di me, i capelli ricci e scuri, gli occhi azzurri, tutto l'opposto di Simona, chioma tinta, occhiali, non molto alta e vagamente robusta, con tre gravidanze alle spalle.
“Vieni, sdraiati sul letto che ti mobilizzo un po’ …”
Obbedii al suo invito, sistemandomi dietro la schiena il pigiama color panna, decorato con dei ricami in pizzo.
“Oggi sei proprio elegante, sai? Ah, vedo che ti sei anche truccata!”
“Ma se è lo stesso straccio che mi avrai visto indossare almeno altre cinque volte da quando sono qui! E anche il trucco è sempre lo stesso! Lo sai anche tu che ogni mattina mi piace mettere un po’ di mascara e di lucidalabbra!”
“Rossetto, vorrai dire. Cos'è, hai trovato qualcuno?!”
Continuò a flettermi la gamba e, facendo l’occhiolino, mi disse di stare rilassata, che ero una contrattura unica.
Non so se arrossii, sicuramente poco ci mancò.
“Allora? Non vuoi confidarti con la tua fisioterapista preferita?!”
La fissai scuotendo la testa, per poi rivolgere lo sguardo fuori dalla finestra.
“Allora è vero!” gracchiò entusiasta, stringendo con troppa forza il mio polpaccio.
La vecchietta, intenta a leggere una rivista, sussultò, ed io mi vergognai per tutta quell'attenzione priva di senso che mi stava subissando.
“Che cosa dovrebbe essere vero?” si animò la vicina, pronta ad origliare qualche pettegolezzo.
“Oh niente, signora, non si preoccupi!” tagliò corto lei, con fare cospiratorio.
Marzia si rivolse nuovamente alla sottoscritta, assunse un'espressione di donna vissuta e, socchiudendo gli occhi, si abbassò per dirmi ciò che mai mi sarei aspettata di sentire.
“Voci di corridoio dicono che ti sei invaghita del dottor Cavani! Anzi, per essere più precisi, si dice che tu sia una sorta di raccomandata, perché lui viene a trovarti anche nelle ore meno impensabili, come fuori il giro visite, per intenderci. Senza contare che, spesso e volentieri, ti accompagna anche giù in Radiologia! Io non credo a queste malignità, Lara, ma che a te un pochino piace, beh, a quello posso crederci eccome! A chi non piace? Anche io ci farei un pensierino, se solo mi guardasse!”
Scrivere che avrei voluto sprofondare nel magma terrestre, non credo renderebbe l'idea: ma chi, come e quando era venuto a sapere della mia impossibile cotta per lui?!
Non lo avevo mai confessato ad anima viva, a nessuno!
Cominciai a pensare di essere diventata una sonnambula, quasi mi convinsi di aver cominciato a parlare durante la notte, o che magari qualche componente del personale godesse del potere straordinario di leggere nella mente … in che altra maniera si sarebbe potuta spiegare una fuga di notizie tanto riservata?
“Si vede così tanto?” mi rassegnai a domandarle.
“Ogni volta che lo intravedi, almeno quando ci sono io, diventi rossa come un pomodoro maturo! E il trucco lo usi solo quando c'è lui in giro! È una bella cosa, peccato che sia già impegnato”
Non c'era bisogno che me lo dicesse Marzia: sempre voci di corridoio, infatti, mormoravano che il bel dottor Cavani fosse stato mollato dalla moglie un paio di anni prima, e che dallo scorso inverno aveva cominciato a consolarsi con una collega della Cardiologia.
Cuore spezzato presto riparato, mi ritrovai a pensare con una punta di amarezza.
“E poi lui, a pensarci bene, è un po’ troppo grande per te … “
In quel momento, giuro che avrei voluto urlare e piangere: perché nessuno si faceva mai i fatti propri? Io non mi impicciavo delle faccende altrui, non andavo a ficcare il naso nell'intimità degli altri, non stravolgevo i sentimenti di persone che a malapena conoscevo, per cui pretendevo che anche queste fantomatiche voci facessero lo stesso!
Avevo solo bisogno di dimenticarlo, di lasciare alle spalle tutta quella brutta storia che avevo vissuto.
Ma ce l'avrei fatta? Mi auguravo proprio di sì.




NOTA DELL'AUTRICE

Buongiorno a tutti, miei carissimi lettori!
Ne approfitto per ringraziarvi tutti, compresi i due recensori e coloro che hanno inserito la storia in una delle liste!
E' un racconto un pò particolare, per cui mi farebbe tanto piacere se voleste dedicare qualche istante per lasciarmi un vostro parere (positivo o critico che sia)!
Bene, allora a presto e buona giornata!

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Capitolo 7
*** Dubbi, dubbi e ancora dubbi ***


Se fossi tu
chissà se riusciresti ad indossare per un’ora i miei occhi
e fissarti fino a che non ti stanchi
[…]
Guardo il cielo sopra la città che sta morendo
penso che forse non te l’ho mai detto
ma era una vita che ti stavo aspettando

(Francesco Renga ,“Era una vita che ti stavo aspettando”, 2014)




Avevo trascorso il pomeriggio a studiare.
Ero stanca ed annoiata, anche per il caldo che cominciava, solo allora, a diminuire.
La verità è che ero nervosa: aspettavo che lui mi chiamasse, che mi facesse avere sue notizie.
L'indomani sarebbe tornato in città, dopo il congresso a cui aveva preso parte a Marsiglia, e contavo le ore che ci separavano con una spasmodicità che quasi non riconobbi come mia.
Quella mattina, verso le otto e mezza, ci eravamo sentiti per messaggio, prima che si recasse all'ennesima conferenza di cervelloni da cui mi aveva volutamente esclusa per non ferirmi, come mi aveva ripetuto più volte.
Buongiorno, piccolo angelo. Mi manchi. Ci vediamo presto.
Nell'arco della giornata, rilessi quelle frasi spezzate almeno una decina di volte, solamente per convincermi che ancora mi pensava, che non si era dimenticato di me, e che non poteva mettersi in contatto con maggiore assiduità per il semplice fatto che esistevano degli impegni a cui doveva fare fronte.
Portavo il cellulare appresso ovunque andassi, persino in bagno, per paura che la suoneria fosse ad un livello troppo basso da impedirmi di rispondere nell'arco di un nanosecondo.
Verso le undici, stanca di quella cappa emotiva a dir poco opprimente, uscii dal convitto per andare a fare qualche acquisto in libreria: nel negozio in fondo all'angolo, infatti, comprai due volumi di una scrittrice triestina che tanto avevano acclamato sui giornali e in alcuni programmi TV, e ne approfittai per prenotare il seguito di una saga norvegese che mi stava appassionando come pochi.
Mi distaccai dal locale di malavoglia, giusto in tempo per il pranzo, sebbene continuassi ad avere lo stomaco in subbuglio.
All'una, infatti, avevo appuntamento con una mia amica per mangiare una piadina in uno dei bistrot cosiddetti di ultima generazione, poco lontano dal centro, ma in realtà non avevo per niente fame.
Così, con una scusa banale quale può essere un improvviso mal di testa, rimandai all'indomani, scusandomi infinitamente per averla avvisata tanto in ritardo.
Di ritorno al convitto, andai di filato nella mia stanza, pregando di non incontrare anima viva.
Condividevo la camera con un'altra mia coetanea, Alessia, in città per svolgere lo stesso corso di potenziamento estivo offerto dalla Facoltà, corso che avrei dovuto frequentare anch’io, se non fossi stata impegnata ad inventarmi escamotage d’amore uno dietro l'altro.

Dribblai la sala comune, incredibilmente affollata, in cui noi ospiti passavamo gran parte del tempo libero, e sorpassai altrettanto fulmineamente la cucina, dove quella mattina, dopo colazione, avevo avvisato
le consorelle addette ai fornelli, suor Fabrizia e suor Augustina, che avrei pranzato fuori.
Ma la buona sorte, purtroppo, decise di voltarmi le spalle.
Non appena aprii la porta della mia camera, convinta di trovarla assolutamente vuota di qualsiasi presenza umana, mi si parò davanti Alessia, reduce da una doccia.
Aveva ancora i capelli lunghi e mossi umidicci, il phon in una mano, e indossava una maglietta bianca su dei pantaloncini turchese che ricordavano senza troppo difficoltà il colore dei suoi occhi.
“Lara! Che ci fai qui?”
“Io … non avevo fame. Cioè, non ho fame, e ho preferito tornare indietro. Tu, piuttosto, perché non sei ancora a mangiare?”
Lei fece spallucce, per poi levare lo sguardo disperato al soffitto immacolato.
“Suor Fabrizia ha di nuovo rischiato di far saltare in aria la cucina. Hanno chiamato il solito elettricista, ma sembra che questa volta ci vorrà più tempo: sono saltati dei fili di non so quale importanza, perciò ci tocca aspettare pazientemente
Mi tolsi i sandali, mettendoli nell'apposita apertura della portafinestra, quindi buttai la busta con i miei preziosi acquisti sulla scrivania che avevamo in comune, controllando subito dopo che non avessero subito danni.
“Ma che cos'hai?”
Alessia aveva riacceso il phon, e urlava per sovrastare il rumore dell'apparecchio.
In effetti, mi rendevo conto di quanto la mia tristezza fosse palese e senza un motivo apparente, ma tale doveva rimanere, perché non potevo raccontarle nulla.
“Te l'ho detto, non ho fame …”
Rovistai nell’armadio di pino alla destra dell’ingresso, alla ricerca di un vestito più informale rispetto a quello rosso che avevo infilato per uscire.
Ne scelsi uno verde oliva, sbracciato, e lo indossai silenziosa, per poi sdraiarmi sul letto e coprirmi gli occhi con un braccio, in modo da riflettere.
Il cellulare era rimasto nella borsetta a tracolla, abbandonata su una delle due sedia di legno davanti allo scrittoio: non era mia intenzione alzarmi per recuperarlo, nonostante vibrassi di curiosità e di ansia dettate dall’avere sue notizie, ma mi imposi un certo contegno.
“C'è qualcosa che ti turba, Lara, lo so” cercò di indagare la mia amica, spegnendo il phon.
Erano tre anni che ci conoscevamo e che condividevamo la stessa camera: inoltre, era stata una delle poche persone a rimanermi veramente vicina, a supportarmi e a consolarmi silenziosamente in quei mesi ormai lontani in cui avevo lottato per riprendermi, per questo detestavo ulteriormente doverle mentire.
“Lasciami stare, Alessia, non ho voglia di parlarne. Credimi, te lo chiedo per favore”
Mi si avvicinò irriducibile, sorda alle mie insistenze, e si sedette sul letto, alzandomi il braccio che mi proteggeva metà viso.
“È per un ragazzo? Fino alla scorsa settimana eri così euforica, invece adesso sei diventata mogia e apatica ...”
Voltai lo sguardo contro il muro alla mia sinistra, per non fissarla negli occhi, mentre avvertivo il senso di colpa divorarmi.
“Non è niente, stai tranquilla. Semplicemente sono stanca e non ho fame”
“Sì, ma io …”
Il suono della campanella che avvertiva le venti ospiti del convitto che il pranzo stava per essere servito, arrivò come un lenitivo sulle mie ferite del cuore.
Alessia rimase a guardarmi ancora una manciata di secondi, indecisa su cosa dire, se insistere o lasciar perdere, quindi si alzò e si guardò allo specchio a muro, sistemato in un angolo della stanza, vicino alla scrivania davanti a noi.
“Guarda che non finisce qui … non mi piace il tuo comportamento”
Il suo tono di rimprovero era più che giustificato, ma in quel momento l'unica cosa che desideravo era che lei se ne andasse.
Appena uscì, grugnendo all'ennesimo rimprovero, mi sollevai dal letto, disposto parallelamente a quello della mia coinquilina, con i comodini di legno bassi e tozzi ai lati delle due brande.
Ringraziai mentalmente l'elettricista che aveva riparato così velocemente i fornelli, sorridendo per la sbadataggine che contraddistingueva suor Fabrizia.
La verità era che non sapevo cosa fare, anche se mi rendevo conto che non potevo continuare a vivere nell'incertezza, nella speranza che lui mi chiamasse, nell'attesa di trascorrere qualche ora insieme, il tutto solamente una volta la settimana.
Mi rimisi distesa, lo stomaco che cominciava a brontolare, e fissai il soffitto, da dove pendeva uno striminzito lampadario bianco.
Quella stanza mi era sempre piaciuta, fin da quando ero venuta a vederla, ormai quattro anni prima, dopo l'ultimo anno delle superiori nella mia città.
Aveva le pareti di un rosa pallidissimo, che sembravano un tutt'uno con il mobilio di legno chiaro che poteva vantare, arredamento che si componeva della coppia di letti e di comodini sopra citati, di uno specchio dalla cornice nera anni Settanta, da due sedie bianche, da una scrivania del medesimo colore e dall'armadio di pino a cui ho accennato poco fa.
Ci muovevamo a malapena, Alessia ed io, ma a me piacevo lo stesso, forse per il senso di famigliarità che emanava, e anche per il minuscolo bagno attiguo decorato minuziosamente a mosaico, ideato per ospitare un piccolo lavabo ed un altrettanto WC in miniatura.
Rimasi a fissare il soffitto ancora per qualche istante, le braccia dietro la testa, poi decisi di raggiungere le altre ragazze in sala mensa, sperando che fosse rimasto qualcosa anche per me.
Lo so che sarebbe potuta sembrare una pazzia, anzi, un controsenso, ma improvvisamente mi resi conto di aver bisogno di compagnia, di qualcuno che mi aiutasse a dimenticare la solitudine che avvertivo rodermi senza ritegno il corpo, il cuore e l'anima.
Liberare la mente dal pensiero ossessivo di lui non mi avrebbe fatto altro che bene, ne ero convinta, anche se ciò avrebbe implicato un notevole quanto disumano sforzo.


Come scritto all'inizio, passai il pomeriggio a studiare.
Verso le sei, dopo che mi ero arresa e stavo per andare a fare una doccia nei bagni in comune situati nel corridoio, sentii il cellulare squillare.
Avevo ancora una mano sull'anta dell'armadio che avevo appena richiuso, indecisa se considerarmi preda di un sogno oppure no.
Quando mi resi conto, però, che quel suono penetrante e costante non era il frutto della mia immaginazione, buttai tutto sul letto per fiondarmi a rispondere, acchiappando il telefonino sul comodino con la rapidità di un ghepardo.
Ciao, Lara
Era lui, finalmente era lui!!
“Ciao. Come è andata oggi?”
Avrei voluto salutarlo con un "allora ti ricordi di me!", ma non volevo fare la parte della ragazzina asfissiante e morbosa.
Bene. Oggi è toccato ad un collega di Napoli intervenire. Sai, abbiamo appena finito: è stata una giornata lunghissima ed interessante, però stancante come poche. Ho mangiato un pessimo panino e ho la testa che mi rimbomba, ma adesso basta, non parliamo di me. Come stai? Mi manchi, non vedo l'ora di rivederti
Sembrava un vecchio bollettino telegrafico. Ciao. Stop. Passo e chiudo.
Nemmeno un accenno al fatto che fosse praticamente sparito, che da quasi dieci ore non dava sue notizie.
“Anch'io sto bene. E mi manchi. Stamattina sono andata alla libreria all'angolo e ho comprato due volumi che sono osannati dalla critica come non capitava da anni, poi dovevo pranzare con una mia amica, ma non avevo voglia di incontrare nessuno, e così sono tornata al convitto. Com'è il tempo? Qui ci sono trentadue gradi”
Mi diedi della stupida: mi ero lamentata fino a un minuto prima perché aveva ritardato a cercarmi, ed io cosa avevo di meglio da fare? Nulla, se non raccontargli il resoconto della mia interessantissima giornata.
Lui è un uomo, mi dissi, non desidera sentirsi dire queste cose, lui vuole altro, vuole … già, che cosa voleva?
Il tempo è bello e fa molto caldo. Il mare l’ho visto praticamente solo dalla finestra dell’albergo. Mi è dispiaciuto non fare nemmeno una nuotata: domani dovremo essere in aeroporto per le undici e … Lara, sei ancora lì?
“Sì, scusa"
Avevo trattenuto il respiro senza accorgermene, preda di uno sconforto che non sapevo spiegare, a tal punto da avergli trasmesso la sensazione di parlare ad una cornetta vuota.
"Comunque sono contenta che tutto stia andando bene. Vorrei tanto che fosse già venerdì, così potremo vederci”

Morsi il labbro, sperando di non aver detto qualche altra sciocchezza, e rimasi in attesa.
Ho voglia di te, Lara. Ho bisogno di te
“Anche tu. Sapessi quanto. Le mie giornate sono vuote, praticamente vivo aspettando un tuo messaggio, una tua chiamata ...”
Ecco, lo avevo confessato. A rischio di risultare stucchevole o melensa, gli avevo espresso tutto il mio spaesamento senza di lui.
Sei il mio piccolo angelo, ricordatelo sempre. Ora devo andare, mi devo cambiare per la cena. Ti scrivo per le undici, quando andrò a dormire. Se non mi senti, è perché sarò sprofondato in un sonno talmente profondo che nemmeno le cannonate potrebbero svegliarmi!
Annuii meccanicamente, e lo salutai con un banale torna presto, reprimendo il desiderio di dirgli "ti amo".
Gettai il cellulare sul letto, pronta come un automa a recuperare il cambio dei vestiti per andare a fare la doccia, prima che Alessia tornasse dalla sala comune e mi facesse il terzo grado.
Mi avviai lungo il corridoio con l'entusiasmo di uno zombie, pensando che, probabilmente, avrei dovuto dirgli comunque che lo amavo, superando la timidezza che mi aveva inaspettatamente colta.
Dalla nostra prima volta, due settimane prima, non lo avevo più ammesso se non a me stessa, ma vivevo in funzione della sua approvazione, esistevo solo per i nostri passionali ed intensi incontri.
E se non avesse gradito? Se non gli avesse fatto piacere? continuavo a ripetermi, rimuginando se avevo fatto davvero bene a non essere più disinibita.
Aprii il getto dell'acqua fredda con quel dubbio che mi rimbombava in testa, mentre le miriadi di gocce si diffondevano ed abbracciavano vigorosamente il mio corpo, desideroso solamente del contatto delle sue mani e della sua bocca.

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Capitolo 8
*** Un nuovo inizio ***


Meraviglioso
ma come non ti accorgi
di quanto il mondo sia
meraviglioso
[…]
Ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto:
ti hanno inventato
il mare
tu dici non è niente
ti sembra niente il sole!
La vita
l’amore

(Negramaro, “Meraviglioso”, 2008)




Giovedì 19 maggio, il pomeriggio dopo pranzo, venni ufficialmente dimessa.
L'intervento di rimozione della derivazione ventricolare (il mio incubo per intere settimane) era riuscito alla perfezione, gli esami ematici erano ottimi, e le mie condizioni generali si potevano definire largamente soddisfacenti, come aveva sottolineato lo stesso primario.
Insomma, dopo quattro mesi, ricominciavo a vivere.
Quella mattina, non senza un briciolo di malinconia, avevo dovuto salutare Marzia e Simona, abbracciandole e promettendo che saremo uscite a mangiare una pizza, appena avrei ripreso la mia solita vita al convitto.
Ci scambiammo i numeri di cellulare e, cercando di reprimere qualche lacrimuccia che insisteva per uscire, le salutai un'ultima volta, riconoscente per tutto ciò che avevano fatto per me.
Mia madre e mio padre vennero a recuperarmi verso le due: entrambi sprizzavano gioia da ogni poro, e non vedevano l'ora di riportarmi a casa, lontano da quella brutta e ancora misteriosa vicenda che mi era capitata.
Naturalmente salutai anche la mia vicina di letto, la vecchietta che non smetteva di abbracciarmi e accarezzarmi le guance, benedicendomi come fosse stata una santa in preda al delirio mistico, quindi dedicai qualche minuto anche alle altre tre pazienti con cui avevo stretto rapporti di amicizia e solidarietà, termine forse più appropriato per descrivere ciò che ci aveva legato.
Infine toccò alle infermiere e ai medici in turno, ai quali la mia solerte genitrice aveva portato due enormi vassoi con biscotti e pizzette artigianali che avrebbero potuto sfamare tranquillamente l'intero ospedale.
Stavo finalmente tornando in quella che ancora per pochi istanti sarebbe stata la mia camera di degenza, in modo da recuperare l'ultimo borsone che mancava all'appello, quando mi imbattei nel mio angelo salvatore.
Lo avevo incontrato qualche ora prima, quando era venuto per portarmi la lettera di dimissione e spiegarmi i successivi follow-up che mi avrebbero attesa di lì a molti mesi in avanti.
Ero riuscita a non arrossire, quella mattina, ed era mia ferma intenzione non dargli a vedere quanto ormai fossi succube di lui.
Cercai di concentrarmi sul camice immacolato che indossava, le tasche colme di penne e altri oggetti non meglio definiti, mentre il suo afrodisiaco profumo mi stordiva.
“Lara! Sei ancora qui?” mi domandò, con una punta di stupore nella voce allegra.
“Sì, stavo andando in camera perché ho dimenticato una cosa, ma adesso me ne vado”
Balbettai una frase del genere, sciocca ed infantile come solo io, in quel momento, sapevo di essere.
“Stai tranquilla, nessuno ti caccerà! Allora a presto, continua con la fisioterapia e buon rientro a casa!”
“Grazie per tutto quello che ha fatto per me. Arrivederci”
Lui mi guardò con un'espressione ambigua, indeciso se aggiungere qualcos'altro.
“Grazie a te. Ah, ovviamente ci vedremo per i controlli, ma nel frattempo tu fai la brava, mi raccomando!”
Mi strinse la mano e si avvicinò a me, baciandomi inaspettatamente su entrambe le guance.
Il contatto con la sua pelle ricoperta di barba -incredibilmente soffice, per nulla pungente- mi colse impreparata, e avvertii un brivido di piacere percorrermi la schiena.
Avrei voluto non lasciargli andare la mano, continuare a stringere quelle dita, ma l'incantesimo si spezzò senza preavviso.
Lui, infatti, se ne andò verso la sala medica, il passo sicuro che risuonava nel corridoio vuoto, e si richiuse la porta alle spalle.
Rimasi ancora per qualche istante a fissare la direzione in cui si era dileguato, sapendo che, almeno nell'immediato, non lo avrei più rivisto.
“Io faccio sempre la brava …” mormorai più a me stessa che ad altri, reprimendo con incredibile forza di volontà il pianto che sentivo affacciarsi negli occhi.
Così, scrollando la testa in un gesto di rassegnazione, tornai per davvero in camera, presi il borsone e salutai ancora una volta la mia ex compagna di stanza.
I miei genitori mi attendevano nell'ingresso, davanti agli ascensori principali, impettiti ed orgogliosi come se stessero per assistere alla prima mondiale dello spettacolo della figlia.
Subito mio padre prese la sacca che avevo tra le mani, aggiungendo per la centesima volta che non dovevo sforzarmi in alcun modo, mentre mia madre continuava ad elargire complimenti all'intero staff sanitario, soffermandosi ad elogiare la bravura del dottor Cavani, bravo quanto era bello, che avevano incontrato appena pochi minuti prima.
Finalmente, l'ascensore arrivò: mi fiondai all'interno, desiderosa solo di andarmene, e soprattutto di non farmi vedere in quelle condizioni dai miei genitori, che già cominciavano a darmi sui nervi.
Sapevo benissimo che non avrei dimenticato tanto presto quel posto, anzi, che non avrei dimenticato lui.
Quando le porte si chiusero, tirai un sospiro di sollievo.
Dopo centodiciannove giorni, l'incubo era finito.
Chissà se, prima o poi, sarei riuscita a superare e a sbrogliare anche il groviglio di sentimenti che provavo per quell’uomo…


Arrivammo a casa circa un'ora dopo.
Vissi il breve tragitto fino all'automobile come se mi trovassi in un sogno: l'aria calda di fine maggio era la sensazione fisica più bella che avessi mai provato negli ultimi mesi.
Il mio corpo venne percorso da brividi di entusiasmo, mentre tutto mi appariva nuovo e bellissimo.
Straordinari erano i rumori del traffico, meravigliose erano le voci dei passanti e dei pazienti che attraversavano il cortile dell'ospedale, inebrianti erano i profumi che provenivano dal bar.
Era come se fossi atterrata su un nuovo pianeta: dovevo riabituarmi alla moltitudine di colori, odori e suoni che formavano il mondo, un mondo che, fino a quel momento, mi era giunto attutito dalle vetrate della finestra della mia stanza.
Avrei voluto abbracciare tutti, gridare di felicità, ma mi limitai a sorridere come un ebete.
Il viaggio in macchina fu altrettanto piacevole e pressoché privo di lunghe code autostradali.
Interpretai quella sorta di calma piatta come un biglietto di benvenuto virtuale in cui la gente, sapendo del mio ritorno, si era premurata di liberare le strade per permettere il mio passaggio indisturbato.
Una volta a casa, temetti di ritrovarmi invischiata in una festa a sorpresa, piena di parenti e conoscenti, ma gli unici ad attendermi furono mia sorella gemella Giada, mio fratello Matteo e il mio gattone Syria.
Tutti e tre mi vennero incontro e mi stritolarono con abbracci e baci di giubilo: anche la mia micia si profuse in miagolii e strofinamenti contro le gambe, fino a quando non la sollevai e la strinsi forte a me, sbaciucchiandole la testolina.
Mia madre aveva preparato la pasta che tanto adoravo, un’ottima torta salata e uno squisito tiramisù, che divorai come se fossero anni che non mangiavo.
Per gran parte del pomeriggio e anche dopo cena, dovetti rispondere a dozzine di telefonate di parenti e amici che volevano sapere quando avrebbero potuto venire a trovarmi.
Andai a letto distrutta ma felice, preda di una sorta di euforia che imputavo alla riacquistata libertà.
Sopportai a fatica le gentilezze di Giada, che continuava ad insistere se poteva fare qualcosa per me, se volevo dell'altro dolce, o magari dell'acqua, se preferivo la finestra chiusa o aperta, se la tapparella era sufficientemente abbassata …
La ringraziai, assicurandole che non mi mancava nulla.
Lo stesso feci con Matteo, mamma e papà, che arrivarono all'attacco subito dopo di lei.
L'unica compagnia che desideravo era quella di Syria, che si era già acciambellata in fondo al letto, vicino ai miei piedi.
Guardai l'orologio sul comodino, constatando che erano appena le dieci meno un quarto.
In realtà, non avevo molto sonno, ma mi sentivo stanca ed emozionata dal cambiamento che avevo vissuto in sole poche ore.
Ripercorsi con la mente il mio ritorno, soprattutto quando avevo rivisto la sagoma del mio condominio color mattone, un'oasi nel deserto dell'incertezza che avevano rappresentato quegli interminabili mesi.
Calcolai mentalmente di aver trascorso un terzo dell'anno chiusa in ospedale: quando ero ripartita per il convitto, dopo le vacanze natalizie, non avrei mai immaginato di dover stare lontano da casa tutto quel tempo, e non di certo per una vacanza piacevole in qualche luogo esotico dal nome impronunciabile.
Ogni cosa mi sembrava più bella, persino la chincaglieria con cui mia madre aveva riempito il soggiorno, persino quell’improponibile giallino dei divani era luce per i miei occhi.
Assaporai ogni stanza come fosse un appartamento a me sconosciuto, un posto che avevo visto solamente attraverso fotografie sbiadite appartenenti ad altre persone.
Temevo, infatti, di non riconoscere più nulla, di essermi dimenticata come si facesse a vivere in un posto che non fosse un ospedale.
Quel silenzio, quel buio in cui mi trovavo, erano inaspettatamente inusuali.
Dovevo riabituarmi alla normalità, a non svegliarmi di notte perché qualche campanello tuonava improvviso in corridoio, a non spaventarmi per le luci che venivano accese per permettere agli infermieri di eseguire i prelievi quotidiani, a non soffocare un'imprecazione quando la mia vicina di letto cominciava a blaterare per andare in bagno, a non sopportare le voci del personale che, alle sei e mezza di mattina, era come se stessero andando a fare la spesa al mercato, a non indovinare a chi appartenesse lo scalpiccio che avvertivo avvicinarsi alla mia camera …
Accarezzai Syria, nella speranza di scacciare quei frammenti di ricordi che pesavano come macigni.
Il suo manto soffice, però, mi indusse a pensare alla barba del dottor Cavani, e di conseguenza anche a lui in quanto uomo.
Che cosa starà facendo? mi domandai, mi ha già dimenticata? Almeno qualche volta penserà ancora a me?
Ammisi la stranezza del mio comportamento, incomprensibilmente ambiguo, forse addirittura da pazzi: al posto di essere pienamente contenta del mio ritorno -e giuro che ero felice, pazzamente felice- la mia gioia veniva turbata dall'immagine radiosa di quel giovane medico.
Cosa c'era in me che non andava? L'amnesia che non accennava a dissolversi, prima o poi, avrebbe avvolto nell'oblio anche lui?
Mi ritrovai a pensare che, tutto sommato, ero semplicemente spaesata: avevo trascorso quattro mesi sotto l'ala protettiva di persone che sapevano come prendersi cura di me, che mi indicavano quali passi fare, quale comportamento fosse meglio adottare, a volte persino quale cibo fosse meglio mangiare!
Era ovvio, conclusi, che adesso ogni cosa sarebbe cambiata, che avrei dovuto completare il mio percorso verso l'autonomia di cui godevo un tempo nemmeno troppo lontano.
Eppure, pensare e rendermi conto che l'indomani non avrei rivisto il mio angelo salvatore, che non avrei udito la sua voce, che non avrei incrociato il suo sguardo e il suo sorriso, mi riempiva il cuore e la mente di angosciosa tristezza.
Avevo ancora bisogno di lui, magari non come medico, piuttosto come confidente, come una certezza fisica e un supporto emotivo.
Mi girai su un fianco, desiderosa di addormentarmi e risvegliarmi senza quegli stupidi pensieri che mi ronzassero intorno.
Chissà, forse era stato tutto un incubo, un brutto sogno che sarebbe svanito con il sole della mia città.
Sbuffai impotente e chiusi gli occhi, Syria che si accoccolava meglio contro la mia gamba, mentre il rumore del silenzio riempiva la stanza.

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Capitolo 9
*** Presagio funesto ***


Voglio farti un regalo
qualcosa di dolce
qualcosa di raro
[…]
Per ricordarti che il mio amore è importante
che non importa ciò che dice la gente
[…]
Perché il regalo più grande
è solo nostro per sempre.

(Tiziano Ferro, “Il regalo più grande”, 2008)




“Ti ho portato un regalo… spero ti piaccia”
Eravamo placidamente sdraiati nel letto di quella che ormai consideravo la nostra camera d'albergo, in un pomeriggio estivo di pioggia leggera e sbarazzina.
Avevo la testa appoggiata sul suo petto, gli occhi semichiusi, e una mano che giocherellava con le sue dita.
Mi ritenevo davvero fortunata a potergli stare accanto e a sentire il ritmo rassicurante del cuore che batteva dentro di lui, tanto che per un istante riuscii a percepire solamente quel rumore.
Quindi, mi baciò la chioma e si alzò per andare a recuperare dalla tasca dei pantaloni beige un pacchettino grigio con il nastro rosso.
Dopo avermi dedicato un’occhiata eloquente che esprimeva l'ansia dettata dalla sorpresa che aveva deciso di farmi, tornò a sdraiarsi, e subito dopo mi porse il regalo.
Lo guardai sorridendo, mettendomi seduta a mezzobusto, il lenzuolo che lasciava scoperto il mio seno, incuriosita e fremente di scoprire cosa celasse quella carta.
Mi ritrovai tra le mani un astuccio da gioielleria, le iniziali dorate JR ricamate sull'elegante confezione di velluto blu.
Ero emozionata al pensiero di aprirlo, ma anche sicura che contenesse qualcosa di molto prezioso, qualcosa che di certo mi sarebbe piaciuto.
Una collana, riflettei, data la forma della custodia che ospitava il misterioso oggetto, oppure un braccialetto
Cominciai a fantasticare sul significato di quell'improvviso gesto, che mi appariva come il più romantico del mondo: mi sentivo sprofondare in un mare di felicità, cullata dall'abbraccio di una soffice nuvola che, pura ed eterea, ero convinta mi avrebbe portato solamente gioia e tranquillità.
"Non lo apri?"
Gli lanciai uno sguardo pieno d'amore, quindi mi affrettai a scartare il pacchetto, il cui contenuto mi spiazzò.
Non si trattava infatti di nessuno dei due gioielli che mi ero prefigurata, bensì di un magnifico orologio in argento e oro bianco, con il quadrante tempestato di minuscoli Swarovski.
“Ti piace? Non volevo scegliere qualcosa di banale come un collier o un braccialetto… ti direi che puoi cambiarlo, ma Marsiglia non è proprio dietro l'angolo”
Indossai immediatamente il cinturino intrecciato a nido d'ape, ammirando soddisfatta quell'esempio di perfezione meccanica.
“In realtà, non mi piace molto…”
Riuscivo a fatica a reprimere l'entusiasmo per quel gesto d'affetto -o d'amore?- che lo aveva portato a scegliere un pensiero tanto bello e prezioso, qual era ciò che indossavo al polso.
Sbirciai l'espressione sul suo volto, alla ricerca di una smorfia di imbarazzo o di incredulità, smorfia che non tardò ad arrivare.
“Oh, scusa… credevo ti potesse piacere. Forse era meglio se ti inviavo una semplice cartolina”
A quelle parole di giustificazione, però, non riuscii a resistere oltre: gli saltai addosso, ridendo come una matta, e cominciai a baciarlo lentamente sulla bocca.
“Sei davvero stupido! Ma certo che mi piace, come potrebbe non piacermi? Quello che intendevo dire è che tu mi piaci molto, molto, ma molto di più”
Continuai con tutto l'ardore di cui fossi capace, colma dell'amore che scaturiva dal mio cuore per un uomo che rappresentava la mia stessa vita, mentre sentivo la passione annebbiarmi la mente ed i sensi.
“Lo hai capito o no che ti amo?” proseguii, mentre mi rassegnavo alle sue carezze.
“Certo che l'ho capito, piccolo angelo. E lo sai che anch'io ti amo”
Lo respinsi per un minuscolo istante, il mio viso vicinissimo al suo, e lo guardai interrogativa negli occhi ambrati.
Avevo aspettato quel momento da anni, avevo atteso di sentirgli pronunciare quelle due brevi parole da tempo infinito, e adesso lui mi aveva accontentata.
Lo strinsi con forza, baciandogli il collo, lasciando che mi sovrastasse e intrecciasse le mani alle mie.
Ero così felice da sembrarmi tutto irreale.
Mi lasciai andare, sorridendo, mentre fuori la pioggia lasciava il posto all'arcobaleno.


Cominciavo ad esaurire le scuse da rifilare ai miei genitori per giustificare il mio ritorno in città in piena estate.
Avevo detto loro che la Facoltà offriva dei corsi gratuiti di potenziamento per lingue straniere, cosa in effetti vera, e che quindi mi sarei fermata al massimo tre settimane.
Ma quella sera, dopo che lui ed io avevamo cenato insieme e mi aveva riaccompagnato al convitto, mi resi conto che l'ultimatum che scioccamente mi ero prefissata sarebbe scaduto prestissimo, dopo appena sette giorni.
Ad Alessia -lei sì che stava seguendo delle lezioni intensive che non avrebbero fatto male neppure a me- non ero riuscita a confessare nulla, sapendo che avrei dovuto sorbirmi i suoi rimproveri e il suo punto di vista così lucido e veritiero.
Dopo l'inaspettato agguato che mi aveva visto coinvolta appena due giorni prima, quando ero tornata dalla mia passeggiata mattutina per negozi e suor Fabrizia aveva quasi fatto saltare in aria la cucina, non era mia intenzione ripetere l'esperienza tanto presto.
Insomma, non avevo paura di rimanere ferita, di sentirmi dire che cosa avrei dovuto o non dovuto fare, perché lo sapevo perfettamente da me, ma l'amore e la dedizione che provavo per lui erano più grandi e più immensi di qualsiasi recriminazione, giusta o sbagliata che fosse.
Mi ritrovai a constatare che ricoprire il ruolo dell'amante non mi pesava affatto: era una parte di me che non mi faceva né caldo né freddo, ormai ci ero abituata.
La cosa che mi era praticamente impossibile da sopportare, invece, che detestavo e che avrei voluto cambiare all'istante, era poter passare così poco tempo insieme all'uomo che osannavo: semplicemente cercavo di abituarmi al dato di fatto di doverlo vedere una volta alla settimana, come fossimo due delinquenti a cui era concessa la vitale ora d'aria.
Ma quando lo sconforto aveva il sopravvento, quando sprofondavo in una sorta di amaro vortice molto simile alla depressione tipica della mia età, mi consolavo dicendomi che non potevo assolutamente lamentarmi, che dopo tutte le speranze e le preghiere che avevo rivolto ai santi del Paradiso, quelle ore che riuscivo a trascorrere con lui mi sembravano un autentico miracolo terrestre.
L'unico vero problema, come scritto poche righe fa, era rappresentato da quale ennesima scusa avrei propinato alla mia famiglia.
Forse, con un po’ di fortuna, mi sarebbe venuta in mente un'idea sensazionale, un'idea che sarebbe sembrata così fattibile da ritenerla solamente una mezza bugia.
Sdraiata sul letto della mia stanzetta, cominciai a costruire castelli in aria che mi aiutassero a realizzare un piano degno di tale nome: per prima cosa, ad esempio, avrei domandato ad Alessia se fosse stato ancora possibile iscriversi al suo stesso corso, perché se mi avesse dato risposta affermativa, cosa che speravo ardentemente, avrei risolto all'istante i dubbi della mia coscienza, che avrebbe continuato a tacere ancora per un bel po’.
Ma la mia compagna di stanza era tornata a casa, quel fine settimana, perciò avrei dovuto aspettare fino a domenica per sapere se le mie congetture si sarebbero potute concretizzare.
Guardai il mio bellissimo regalo francese che ancora avevo al polso, e di cui non volevo affatto liberarmi.
Mi accorsi che il quadrante si illuminava al buio: era mezzanotte meno dieci, la mia serata da Cenerentola non era ancora conclusa.
Certo, purtroppo il mio Principe Azzurro si trovava già nel suo palazzo, ed io non avevo perso nessuna scarpetta che mi aiutasse a rintracciarlo, ma la carrozza della mia fantasia avrebbe atteso qualche minuto prima di trasformarsi in una avvizzita zucca di campo.
Non avevo sonno, quindi decisi di leggere qualche pagina di uno dei libri che avevo acquistato pochi giorni prima.
Mentre mi alzavo dal letto per prenderlo, la lampada rossa accesa sul comodino, un impulso irresistibile mi spinse a recuperare il cellulare dalla borsetta.
Volevo scrivergli un messaggio, mandargli il famoso bacio della buonanotte, ma poi pensai che non fosse la mossa giusta.
Se l'altra ci avesse scoperto, rischiavo che tutto il mio mondo fatato si sgretolasse, ed io non avevo la minima intenzione di rovinare il mio sogno.
Lasciai perdere il telefonino, sospirando contrariata, per poi tornare a concentrarmi sul volume rilegato che avevo tra le mani.
Lessi per quasi un'ora, sebbene dovessi riprendere diverse volte intere pagine, dal momento che nella mente si aggirava in agguato l'immagine di lui, così attraente e magnetica.
Alla fine, vinta dal sonno, spensi la luce, l'orologio marsigliese a tenermi compagnia
.
Quella notte, come da copione, sognai di essere una moderna Cenerentola, ma un presagio oscuro mi impedii di dormire serenamente.
Quando all'alba mi svegliai, avvertii la cupa sensazione che un'ombra avesse vegliato su di me, spianandomi la strada ad una terribile rivelazione.
Infatti, non immaginavo nemmeno lontanamente che cosa mi avrebbe aspettato di lì a breve.
E mai avrei voluto immaginarlo...

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Capitolo 10
*** Perfetti sconosciuti ***


Un giorno qualunque
sarai solo un ricordo spazzato da questa corrente
scommessa mancata che non vale niente
Da un posto qualunque
quando provi a pensare al futuro ma ti torna in
mente la nostra bellezza
Un ricordo è per sempre
quanto è amara adesso la felicità
In questa stanza il silenzio è solo
100 mila watt

(Dolcenera, “100 mila watt”, 2016)




Ho riflettuto molte volte sul fatto che, probabilmente, senza di lui non sarei riuscita a sopportare la tortura di quei giorni lontani.
Spesso, nelle esperienze negative della vita, avere accanto una persona estranea è più importante di un amico, di un conoscente, persino di un parente.
La persona estranea non ti deve nulla, e tu non devi nulla a lei, non è costretta a indorarti la pillola prima di fartela ingoiare, non tira l'acqua al suo mulino e non finge di credere che tutto andrà bene, per il semplice fatto che, non conoscendoti, non sarà mai in competizione con te.
Sapere che lui era lì, in quella sorta di prigione riabilitativa, essere certi che ogni giorno lo avrei anche solo intravisto, significava molto di più che i minuscoli passi in avanti che, tra difficoltà insormontabili, riuscivo a compiere a fatica.
Due settimane dopo le mie dimissioni -erano i primi di un giugno piovoso ma afoso- ritornai in ospedale per il follow-up programmato.
Mi accompagnò mia madre, agitata come al solito, e arrivammo all'ingresso della struttura appena dieci minuti in anticipo sull'orario prefissato.
Sul foglio che il dottor Cavani mi aveva dato, c'era scritto che avrei dovuto recarmi alle nove e mezza presso l'ambulatorio B, piano terra, seguendo il percorso blu che si snodava sul pavimento.
“Aspetta, vado a chiedere” ebbe la brillante idea mia madre, più che altro per rassicurare se stessa e arginare l'ansia che cercava di rifilare anche a me.
Annuii poco convinta, mentre si defilava in mezzo alla folla, quindi mi accomodai su una delle sedie plastificate all'ingresso, di un non meglio specificato giallo sporco.
Mi guardai attorno, travolta dalla marea di gente -pazienti, medici e magazzinieri- che fluiva davanti ai miei occhi.
Dentro di me, però, stavo pregando di poterlo rivedere, che ci fosse lui ad attendermi per visitarmi.
A casa, in quei giorni, ero riuscita a non pensarlo troppo, sebbene parte della notte ed il risveglio fossero praticamente sempre accompagnati dalla sua immagine, sorridente e carismatica.
E quando capitava, rimanevo a fissare il soffitto immerso nel buio, domandandomi che cosa mi spingesse a torturarmi l'esistenza con il ricordo di un uomo che, in tutta sincerità, praticamente non potevo affermare di conoscere.
Ai miei interrogativi, trovai diverse risposte, ma ognuna riassumeva un'unica spiegazione a metà tra il razionale e l'irrazionale: ero innamorata, il perché e il come non lo sapevo, ma nemmeno m'importava scoprirlo.
D’altronde, cos'è che ci spinge a dire che quella persona, a pelle, ci piace più di un'altra che conosciamo da una vita? Ecco, nell'amore ero e sono convinta che i meccanismi che subentrano siano i medesimi, misteriosi ed ancestrali, difficili da comprendere alla mente umana.
“Trovato!” esclamò mia madre, scuotendomi dalle mie suppliche mentali.
Tornò entusiasta della sua scoperta, brandendo il foglio su cui erano appuntate le informazioni relative alla visita.
Guardai l'orologio, scoprendo che alle nove e mezza mancava solo un minuto, e ci precipitammo verso il corridoio alla nostra destra, mentre lei mi trascinava a forza, allo stesso modo di come faceva quando ero piccola, quando mi rifiutavo di tornare a casa, dopo la festa di compleanno di qualche amichetta.
Percorremmo il tragitto che ci separava dalla meta in un tempo record, scansando le file asimmetriche di pazienti e potenziali tali, che stavano attendendo il proprio turno in maniera incredibilmente ordinata.
Scendemmo una decina di gradini di marmo nero, angusti e poco illuminati, quindi arrivammo in una larga sala d'attesa, le sedie di plastica arancione e un immenso schermo a LED su cui brillavano lettere e cifre.
“Mamma, credo dobbiamo fare l'accettazione. Non ce la faremo mai...”
Guardai affranta il bancone da reception che svettava a pochi metri di distanza, lucido e degno di un hotel Hilton.
Mi stavo avvicinando alla schiera di tuttofare che, abbaglianti nelle loro divise rosse e bianche, già mi stavano rivolgendo un sorriso da pubblicità, quando la mia solerte genitrice mi bloccò, spiegandomi con aria sorniona che ci aveva già pensato lei al piano di sopra.
“Abbiamo il numero E178” concluse soddisfatta, mettendosi a sedere e invitandomi a fare lo stesso.
Sospirai agitata, cominciando a torturare la tracolla della borsa antracite che avevo abbinato ad un vestito color panna.
Sbirciai il LED, accorgendomi che era proprio il mio numero a lampeggiare, e mi lasciai sfuggire un sorriso nervoso.
Scattai in piedi, controllando sullo schermo il numero della stanza in cui sarei dovuta andare, pronta ad avviarmi verso il destino e, speravo ardentemente, anche verso di lui, quando la voce irritata di mia madre mi spinse a fare dietrofront.
“Lara! Aspettami, no? Che fretta hai?!”
“Nessuna, a parte il fatto che stanno chiamando il mio numero… ma non vorrai venire, vero?”
Una sensazione di puro terrore mi attraversò la mente, all'idea abominevole di averla tra i piedi, come guardia del corpo del tutto sgradita.
Si alzò per cercare di far valere i suoi diritti di accompagnatrice ufficiale, ma fu inutile, perché continuai a rimanere irremovibile sulla mia decisione.
Le scoccai un'occhiata fin troppo eloquente che la convinse a desistere e, alla fine, mi avviai verso l'ennesimo corridoio, più stretto dei precedenti, con le pareti tappezzate di manifesti salutisti.
Avevo percorso appena pochi passi, cercando il numero della stanza che si celava dietro le porte scure laccate, quando lo vidi, splendido nel suo camice bianco.
Era in mezzo al passaggio, le mani dietro la schiena, e mi stava attendendo con un ampio sorriso di benvenuto sul bel volto ricoperto di barba.
Stupidamente, ricambiai con una infantile alzata di mano, e subito mi diedi dell'imbecille.
“Ciao, Lara …”
La sua voce aprì un baratro sotto i miei piedi, e il contatto dei nostri palmi fu un piacevolissimo déjà-vu, mentre gli rispondevo con un semplice quanto banale buongiorno.
Mi ritrovai a pensare che, stranamente, non avevo il cuore in tumulto, né tantomeno le guance arrostite dall'emozione, ma l'atmosfera che avvertivo era ugualmente eccitante.
“Allora, come stai? Come andiamo?”
Ci accomodammo uno di fronte all'altra, la scrivania di fòrmica color pesca a dividerci.
“Bene, molto bene …”
Accolse la mia risposta annuendo soddisfatto, le dita incrociate ed il busto leggermente proteso in avanti.
Mi domandò se a casa avessi avuto qualche disturbo, quali dei mal di testa improvvisi, giramenti del capo, annebbiamento della vista, turbe dell'equilibrio, persino febbre e vomito, ma io lo rassicurai, dicendo che non vi erano state problematiche di sorta alcuna, a parte qualche rara volta in cui facevo difficoltà a concentrarmi su più argomenti in contemporanea.
Scrisse a computer qualcosa che non potei vedere, quindi tornò a concentrarsi su di me.
Passò infatti a visitarmi, facendomi sdraiare su un lettino di pelle.
Il suo tocco delicato rappresentava un piacevole lenitivo e una più che lauta ricompensa alle mie aspettative di rivederlo.
Era così bello essere lì con lui…
“Adesso mettiti seduta, Lara, così ti controllo i riflessi patellare e pupillare”
Infatti, aveva appena concluso di mobilizzarmi gli arti superiori ed inferiori, e adesso mi stava aiutando ad alzarmi.
Con il martelletto che picchiettava su gomiti e le ginocchia e la minitorcia tascabile puntata nelle iridi, concluse la prima parte della visita, perché poi mi disse di fare una serie di esercizi ad occhi chiusi e di camminare sul pavimento di linoleum, fingendo di seguire una linea immaginaria tracciata per terra.
“Stai recuperando davvero in fretta!” constatò, invitandomi a rivestirmi.
“Sto facendo fisioterapia, come mi ha consigliato”
“E va benissimo, infatti. Ascolta, avrei pensato di indirizzarti verso un centro specialistico. Si trova sempre qui a Milano ma, rispetto a noi, si occupa esclusivamente di pazienti che sono stati in coma”
Aveva appena finito di lavarsi le mani nel lavandino posto su una parete piastrellata della stanza, e mi stava dando le spalle.
Il suo tono non era più allegro, o forse era solo una mia sensazione, ma il fatto che non mi guardasse negli occhi, mi fece presupporre che non fosse così entusiasta di darmi quella notizia.
“Che cosa vuol dire?” domandai in apprensione, temendo di non rivederlo mai più.
Lui tornò a girarsi verso di me e, ad occhi bassi, mi accennò a riprendere posto.
“Significa che, da adesso in poi, i prossimi controlli li farai da loro, e che qui verrai solo se strettamente necessario”
Deglutii e distolsi lo sguardo, reprimendo le lacrime che avvertivo pungermi la congiuntiva.
Mi diedi della stupida, dell’inguaribile romantica, per aver pensato di potermi accontentare dei follow-up pur di stargli vicino, pur di continuare a vederlo.
Adesso, invece, il castello di sogni che avevo realizzato nella mente andava sgretolandosi, distruggendosi piano dopo piano, stanza dopo stanza.
“Lara, questo non vuol dire che smetteremo di occuparci di te, nel modo più assoluto. Rimarremo sempre in contatto con i colleghi dell'altra struttura, in modo da avere tue notizie. E poi, se tu vorrai, potrai venire a trovarci”
Avrei voluto gridargli che non mi sarei accontentata, che non poteva trattarmi come un pacco postale, che io lo amavo e… ovviamente non feci nulla di tutto questo, a malapena riuscivo a sopportare lo sguardo ambrato che aveva di nuovo posato su di me.
“Nel resoconto della visita di oggi, ti scriverò anche il nome della struttura e la collega a cui puoi rivolgerti. E' un' ottima professionista, credimi, e sono più che convinto che con lei ti troverai a meraviglia”
Dissi che andava bene, anche se avrei voluto sparire, anzi, avrei voluto non averlo mai incontrato, desideravo solamente che lui non fosse mai esistito.
Aspettai che la stampante sputasse fuori il foglio a cui aveva accennato pochi istanti prima, mentre nel frattempo mi imponevo di mantenere un certo contegno.
“Ecco a te. Allora arrivederci, Lara. Se hai bisogno di qualunque cosa, sai dove trovarmi”
Ci stringemmo la mano, il sorriso tirato di lui che si raccomandava di portare i suoi saluti ai miei genitori.
Lo ringraziai, più per cortesia che per necessità, e tentai di abbozzare un’espressione soddisfatta.
Mi tenne aperta la porta per farmi uscire, mentre i nostri occhi s'incrociavano ancora una volta.
Poi, ripercorsi a ritroso il tragitto lungo il corridoio, senza mai voltarmi indietro.
“Finalmente! Ma quanto tempo ti ha tenuta dentro? Sono le dieci e un quarto!” mi punzecchiò mia madre, venendomi incontro.
“È andato tutto bene? Cosa ti ha detto? Ti ha trovata bene?”
Mi accarezzò una guancia, indagando con uno sguardo preoccupato che cosa fosse accaduto di talmente grave da giustificare l'espressione di smarrimento che avvertivo avere sul volto.
“Sì, è tutto a posto, mamma, non preoccuparti. Ho solo voglia di tornare a casa. Dai, andiamo”
La precedetti senza spiegarle altro, continuando a camminare.
Risalimmo gli angusti gradini di marmo nero, quindi zigzagammo tra la folla in coda agli sportelli di prenotazione e accettazione.
Sentivo che non avrei retto ancora a lungo: mi morsi le labbra e, con una mano, mi asciugai le lacrime, arricciando il naso in una smorfia di dolore.
Mi sentivo usata, trattata come una qualsiasi paziente.
Ma che cosa ti aspettavi? mi domandai, che ti supplicasse di rimanere per sempre con lui? Tu sei solo una paziente come migliaia di altre che si sono susseguite, e che ancora si susseguiranno.
Non sei nulla per il grande dottor Cavani, non vali niente per lui, significhi meno di zero nella sua lista degli affetti.
“Aspettami, Lara! Insomma, mi vuoi dire che ti succede?” sbottò mia madre, mentre mi raggiungeva nel cortile dell'ospedale.
Scrollai le spalle, porgendole il foglio che quell'uomo ormai odiato aveva compilato.
Lo lesse d’un fiato, mormorando le parole che vi erano impresse, e assunse un'espressione dubbiosa, subito seguita da un sorriso.
“Beh, non sei contenta? Insomma, è uno dei centri più rinomati per questo tipo di problema, almeno da quello che dicono TV e giornali. E poi, è anche vicino allo svincolo autostradale, così non dovremo ogni volta attraversare mezza città!”
La guardai sbuffando e, riprendendo il pezzo di carta incriminato, salii in macchina, mentre nella testa mi rimbombavano alcune strofe della canzone della Mannoia, “Perfetti Sconosciuti”, il colpo di grazia di quella mattinata inconcludente.
Quando i silenzi si mettevano tra noi e ognuno andava per i fatti suoi come perfetti sconosciuti.
Doveva andare tutto così anche se adesso ci troviamo qui sulla stessa strada, dopo una vita già spesa...
Non mi ero mai sentita così sola e depressa, mai.

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Capitolo 11
*** Mal di testa e panzerotti ***


Non lo so
perché ci si innamora
     Non so
perché si vola
Non sono mai cresciuto
Ma io amo te
non chiedermi perché.

(Luca Carboni, “Happy”, 2015)




Domenica sera, due giorni dopo il terzo incontro all’Hotel Astor e il meraviglioso orologio che mi era stato portato come souvenir da Marsiglia, tornò anche Alessia.
Trascorremmo la serata nella nostra stanza, sdraiate sulla pancia ad abbracciare il cuscino e a chiacchierare: continuava a ripetere di quanto fosse felice, talmente felice che ballerei davanti a tutti, perché aveva fatto pace con quella specie di rammollito che incarnava il suo fidanzato, un tizio di qualche anno più grande di noi che lavorava come meccanico nell'officina dello zio, ma la cui autentica vocazione era rappresentata dal poltrire e sgraffignare i soldi alla famiglia di Alessia.
Per non rovinare l'atmosfera che si era creata, decisi di rimandare all'indomani le mie indagini per scoprire se fosse ancora possibile iscrivermi al suo stesso corso, in modo da servire ai miei genitori l'ennesima scusa su un piatto d'argento.
Così, la mattina seguente, fui ben felice di accompagnarla in giro per negozi e, quando ci fermammo su una panchina del parco vicino al convitto, approfittai del suo buonumore per sfoderare le mie arti persuasive.
“Sai, dato che quel lavoretto di cui ti ho parlato scadrà questo fine settimana, che ne dici se ti facessi compagnia alle lezioni che stai seguendo? Almeno non dovrei tornare a casa e sorbirmi le lamentele amorose di Giada!”
In realtà, non mi avevano assunta da nessuna parte, né tantomeno mia sorella aveva ragione di piagnucolare per qualche pena d'amore, semplicemente era l'ennesima bugia che stavo propinando anche alla mia amica, ma era sempre meglio che dover litigare con lei.
“Non è possibile, Lara, le iscrizioni ai corsi si sono chiuse dieci giorni fa”
Nonostate il tono di voce secco che aveva usato, aprii bocca per domandarle se fosse davvero sicura delle sue parole, ma mi uscì un ebete ah, certo, se lo dici tu.
Alessia, una T-shirt verde mela e dei pantaloncini beige su delle sneakers grigie, mi piantò addosso i suoi occhi azzurri.
“Che c'è? Mi sembrava una bella idea!” le domandai, sforzandomi di sorridere.
Lei si passò una mano tra i capelli castani raccolti in una coda e, mettendo da parte le due borse colme di acquisti, continuò a fissarmi, senza dire una parola.
“Beh, allora magari c'è qualche altro corso che mi puoi consigliare. Che ne dici?”
Non volevo ancora demordere, dovevo ad ogni costo trovare una soluzione, un'alternativa che mi permettesse di rimanere lì ancora per un paio di settimane, fino a quando lui sarebbe partito per le agognate ferie estive.
“Può darsi, se vuoi m’informo, ma non è di questo che mi volevi parlare, vero? Ormai ti conosco, Lara, e a me non puoi mentire, anche se lo stai facendo da giorni”
Sgranai gli occhi, aggrottando le sopracciglia in una smorfia di incredulità.
“Ma che cosa stai dicendo?! Io... io non ti sto mentendo, non ho nulla da nasconderti!”
Voltai lo sguardo nella direzione opposta, mentre un gruppo di ragazzini in bicicletta sfrecciava davanti a noi.
Mi concentrai sulle chiome di una mezza dozzina di salici, a pochi metri di distanza, appena mosse da una brezza calda e leggera.
Cominciavo ad essere insofferente, forse per il sole di mezzogiorno che, alto ed immenso nel cielo, si muoveva lentamente lungo una traiettoria invisibile a lui solo conosciuta, riscaldandoci in maniera quasi brutale.
“Se fosse stato per un ragazzo, a quest'ora me lo avresti già detto, ne sono sicura. È per quel medico, quello che ti ha curato tempo fa, che ti sei ridotta così?”
Trassi un profondo sospiro, poi chiusi gli occhi per un istante: perché ero sempre così trasparente? Perché non riuscivo a mantenere un segreto solo per me? Se da una parte avrei voluto gridare al mondo, all'universo, quanto amassi profondamente ed incondizionatamente quell'uomo, d'altro canto non volevo apparire come una stupida ragazzina che si era lasciata abbindolare, poiché non vi era nulla di più lontano dalla verità.
Per questo, a malincuore, decisi di capitolare.

“Come lo hai capito?” volli sapere, tornando a guardarla.
All'improvviso, oltre ad una rabbia ancestrale, provai una punta di vergogna ad essere stata scoperta, tanto che mi domandai per quale motivo non glielo avessi detto prima.
Di lei sapevo di potermi fidare, ero certa di poter contare sulla sua amicizia, eppure ciò non era bastato a convincermi.
“Diciamo che non è stato per nulla difficile. E poi, non puoi negare che sono un'ottima osservatrice!"
"Dai, non scherzare..."
Lei si umettò le labbra e sospirò in quel suo modo saggio che sapeva sempre rincuorarmi.
"L'ho capito dal tuo comportamento, Lara, lo stesso di tre anni fa quando me ne hai parlato per la prima volta. Eri malinconica e felice, poi felice e malinconica, ed è esattamente lo stato d'animo in cui versi in questi giorni. Lo sai che detesto fare la parte della moralista, ma quello che stai facendo, qualunque cosa tu stia facendo, ti porterà solo del male”

“Dici che non vuoi fare la parte della moralista, però è esattamente quello che stai facendo” sbottai, scuotendo la testa.
“Allora raccontami che cosa è successo! Voglio solo aiutarti, e lo sai!”
Mi grattai la punta del naso, come spesso mi capitava quando ero indecisa su qualcosa.
Volevo fidarmi di lei, sapevo di potermelo permettere, ma temevo di lasciarmi condizionare dai suoi giudizi.
“Se non hai voglia, io non ti obbligherò. Però, nel caso succeda qualcosa, non venire a piangere sulla mia spalla o a lamentarti che avevo ragione!”
Si alzò dalla panchina, recuperando le due borse con gli acquisti, quindi mi fissò per qualche istante, per poi andarsene in direzione del convitto, cinquecento metri più in là.
“Alessia, dai, aspetta! E va bene, ti racconterò tutto, ma torna indietro, per favore!”


In quei quattro anni, rividi il dottor Cavani solamente altre due volte.
Collaborò a delle visite durante un paio di controlli che feci nell'altra struttura, ma non si fermò mai più di dieci minuti, ed io non andai a cercarlo dove lavorava, sebbene un week end che uscii a mangiare una pizza con Marzia e Simona, dopo che ebbi ripreso a frequentare la Facoltà, passai a salutare le infermiere del reparto.
Inutile dire quanto fossi affranta e delusa dal suo comportamento, ma mi consolavo in fretta e senza troppa convinzione, dicendomi che, dopotutto, lui non mi aveva mai promesso nulla.
Ero io, piuttosto, ad essermi costruita un film su di noi, io che continuavo a fare progetti su progetti, senza vederne realizzati neppure la metà.
Ma un lato positivo, in tutta questa storia, non tardò ad arrivare.
Qualche mese dopo le mie dimissioni, infatti, un fine settimana che ero rintanata sul divano di casa a poltrire come la maggior parte dei sabati ed ero intenta a guardare un film incentrato sui ricordi, mi tornò la memoria, tanto da riuscire a ripercorrere cosa mi fosse successo quel maledetto giorno di fine gennaio, nella mia stanza del convitto.
Mi fiondai in cucina, dove mia madre stava stirando, e le urlai entusiasta che adesso mi appariva tutto più chiaro, definito.
Lei mi guardò incredula e titubante, come se avesse avuto a che fare con una passante incontrata per caso, pensando che fossi sotto l'effetto di qualche strana sostanza d'abuso.
Non le ci volle molto, però, a capire a cosa mi stessi riferendo: per un attimo, credetti che lanciasse il ferro in aria, talmente si affrettò a raggiungermi e a stringermi, mentre gridava al miracolo e mi stritolava tra le sue grinfie.
Insistette perché mi sedessi, quindi prendemmo posto al tavolo, e la inondai delle mie parole.

Era un mercoledì pomeriggio, ed io ero appena tornata da una lezione, mentre Greta -la coinquilina di allora- era a farsi la doccia nei bagni che si affacciavano sul corridoio, quando all'improvviso mi girò la testa e mi si annebbiò la vista.
All'inizio non capii la gravità della situazione, anzi, mi limitai a sedermi sul letto e ad aspettare che passasse, continuando a sistemare gli appunti che avevo disordinatamente ritirato nel quaderno ad anelli.
Ma qualche attimo dopo, avvertii un dolore intermittente alla nuca, delle specie di pulsazioni che mi costrinsero a piegarmi in avanti, pur di cercare di attutirle.
Poi, non passandomi, mi arresi a sdraiarmi, sperando in un
minimo miglioramento, che purtroppo non avvenne.
Solo allora mi resi conto che qualcosa non andava, che avevo bisogno di qualcuno, così tentai di alzarmi e di aprire la porta della camera, il modo migliore per gridare aiuto e richiamare l’attenzione.
Sfortunatamente, riuscii solamente a compiere qualche passo, perché caddi a terra, svenuta.
Mi trovarono Camilla e un'altra ragazza, le quali chiamarono immediatamente suor Fabrizia e l'ambulanza.
Le loro voci mi arrivavano attutite e non riuscivo a metterne a fuoco i volti, mentre alternavo riprese di conoscenza a nuovi e più duraturi svenimenti.
Poi, l'oblio.
Il resto della vicenda, ormai, è diventato dominio anche vostro.

Capite anche voi che non potevo aspettare il follow-up seguente per raccontare che la mia amnesia lacunare era finalmente scomparsa, per cui, il lunedì successivo, fissai un appuntamento più ravvicinato con la dottoressa Lentini, la neurofisiopatologa che mi seguiva.
Escludendo la causa accidentale e quella colposa, decise di approfondire il mio quadro immunologico ed autoimmune, come lo definì, sottoponendomi ad una serie di esami ematologici molto specifici e mirati: erano talmente tanti che temetti di svenire dissanguata.
Il risultato di tali prelievi fu abbastanza sconcertante, almeno per quanto mi riguardava: si scoprì, infatti, che il mio povero cervello era stato preda di una neurotossina vegetale, una sostanza che mi aveva avvelenato poco a poco.
Il responsabile di tutto, quindi, era una bestiolina microscopica, dal nome impronunciabile, che ama ricreare il suo habitat ideale nelle acque inquinate, nel cibo avariato e negli scarti alimentari infestati da escrementi.
La Lentini mi spiegò che i miei anticorpi non potevano essersi sbagliati: tuttavia, dall'abnorme quantità che era emersa dalle analisi, era assai probabile che il mio malessere fosse stato il risultato di una sorta di lungo avvelenamento.
Le conseguenze che avevano provocato al mio cervello, infatti, rimanevano comunque molto rare, tanto che, in oltre la metà della popolazione, si sarebbe verificata una banalissima intossicazione con febbre elevata e sintomi gastrointestinali.
Una volta appurata la mia sfortuna, cercai di fare mente locale, ricostruendo dove avrei potuto subire quel misterioso avvelenamento.
Di certo non al convitto, mi convinsi, perché sia suor Fabrizia che suor Augustina erano delle cuoche superlative, ed inoltre,
nelle settimane precedenti il mio svenimento, nessuna di noi venti ragazze si era mai sentita male.
A pranzo, invece, ero solita mangiare sempre al medesimo posto, anche se… ma certo! Il bar Quattro Stagioni aveva chiuso per ristrutturazione prima di Natale, e quando tornai in città, dopo le vacanze, lessi sul cartello all'esterno che sarebbe rimasto serrato ancora per un altro mese.
D'un tratto, mi fu finalmente limpida ogni cosa: avevo dovuto scegliermi un altro locale, un bugigattolo coloratissimo qualche centinaio di metri più in là.
Era davvero minuscolo, ci stavano solamente quattro sedie appoggiate al bancone di plastica bianca, ma preparava degli involtini di melanzane e pomodoro davvero squisiti.
Raccontai i miei ricordi e i relativi dubbi alla neurofisiopatologa, che fece scattare una denuncia ai NAS.
Qualche giorno dopo, infatti, ascoltai in televisione che al posto incriminato erano stati messi i sigilli, a seguito delle indagini dei Carabinieri, i quali avevano evidenziato come la quasi totalità del cibo utilizzato fosse avariato, scongelato e ricongelato, pronto da servire agli ignoti clienti come la sottoscritta.
Insomma, lì non si preparavano esattamente quelle che si definiscono "ricette di alta cucina", ma almeno giustizia era stata fatta.
A breve, definiranno una data per l’inizio del processo, e io sarò chiamata in causa come parte lesa.
Tutta questa storia, però, Alessia la conosceva già.
Quello che nessuno sapeva, invece, era che circa un mese e mezzo prima degli eventi che ho cominciato a narrare con il primo incontro all'Hotel Astor, mi ero rivolta al dottor Cavani.

Negli ultimi quindici giorni, infatti, avevo accusato dei forti mal di testa, di cui non riuscivo a spiegare l'origine.
Cominciai a temere che potessero essere dei postumi collegabili alla mia vicenda di quattro anni prima e, spaventata, decisi di contattare la dottoressa Lentini, la quale però stava partendo per le ferie.
Secondo lei, era comunque una questione da discutere con i chirurghi, in quanto l'ultimo follow-up di due mesi prima rientrava assolutamente nella norma.
Mi consigliò, perciò, di contattare lui, il mio angelo salvatore.
Non mi sembrava vero che avrei avuto la possibilità di rincontrarlo, così non me lo feci ripetere due volte.
Chiamai la segretaria per fissare un appuntamento, anche privatamente mi sarebbe andato bene.
Mi disse che c'era un posto per il mercoledì successivo, alle dodici, e confermai all'istante.
Trascorsi quei giorni d'attesa come se fossi in una bolla di sapone: tutto mi arrivava attutito, ogni cosa mi appariva piacevolmente deforme.
Mi domandavo in continuazione se fosse cambiato, addirittura se lo avessi riconosciuto. Mi sarebbe piaciuto ancora? E lui, di me, che ricordi conservava?
Mi feriva il fatto di non riuscire più a rammentare la sua voce e neppure la perfezione dei suoi lineamenti, ma il suo profumo e la dolcezza delle sue mani continuavano a rimanere vividi nella mia mente.
Mi risposi che non vedevo l'ora di rivederlo, di parlargli, di fargli sapere che esistevo.

Pensavo, guardavo la TV, ascoltavo la musica, leggevo, ma era come se avessi sempre davanti la sua immagine, ora sbiadita.
Quel fatidico mercoledì, uscii dalla biblioteca della Facoltà alle dieci; con la metro tornai al convitto, mi feci una doccia veloce e mi cambiai, recuperando dalla sedia il vestito rosso che avevo scelto di indossare la sera prima.

Optai per un trucco leggero ma visibile, composto da mascara, matita azzurra e pochissimo fard.
Ero indecisa sul colore del rossetto, concludendo alla fine per un brillante prugna.
Fissai la mia immagine nello specchio, i capelli raccolti in morbide ciocche, e mi ritenni soddisfatta del risultato d'insieme.
Arrivai all'ospedale in netto anticipo, così ne approfittai per chiudermi nel primo bagno disponibile a ripassare le battute che mi ero immaginata di pronunciare.
Non prendetemi per pazza, semplicemente volevo fare bella figura, volevo che lui fosse felice di rivedermi, che rimanesse affascinato dalla mia presenza.
Ovviamente, speravo che non mi trovasse nulla, che i mal di testa che erano improvvisamente e fortunatamente diminuiti, non celassero un cattivo presagio.
Spruzzai sul collo e sui polsi l'acqua profumata al muschio bianco che avevo portato nella borsa.
Ora sì che mi sentivo abbastanza pronta, ma anche tanto emozionata: mi ripetevo che dovevo stare tranquilla, che quella era la mia grande occasione, che tutto sarebbe andato per il meglio.
Inspirai ancora una volta ed uscii dal bagno.


La visita era andata bene, il dottor Cavani era stato molto contento di rivedermi.
Mi aveva rassicurato, dicendomi che poteva capitare assai di frequente che si verificassero questi episodi.
L'importante era tenerli sotto controllo e parlarne con chi mi seguiva, per il resto potevo stare assolutamente tranquilla.
Stavo già uscendo, pensando ad una scusa che mi trattenesse ancora qualche minuto, quando lui, in piedi davanti a me, mi fece una proposta a cui non pensai nemmeno un istante di dire di no.
“Se ti va, possiamo andare a mangiare qualcosa. Oggi ho un'ora in più di libertà!” scherzò, sorridendomi.
Non era cambiato nulla, mi convinsi a ragione, non avevo mai smesso di pensarlo, e nemmeno di amarlo, adesso ne avevo la conferma.
Sebbene il suo ricordo fosse diventato ogni giorno più sfocato, sebbene il tono della sua voce fosse rimasto sommerso dentro di me, quel sorriso amabile e quel profumo eccitante continuavano a provocarmi un brivido di puro piacere.
Deglutii felice, immensamente soddisfatta per quel colpo di fortuna che avevo avuto.
“Sì, certo, mi farebbe molto piacere” risposi, cercando di celare l'entusiasmo travolgente che avvertivo scombussolarmi.
“Bene! Allora andiamo!”

Mangiammo dei panzerotti giganti e un gelato al pistacchio e cioccolato ad un bar lì vicino, in una stradina tipica, con l'acciottolato di sampietrini e i locali colorati dai tetti a pergolato.
Mi pregò di dargli del tu, in quanto lo imbarazzava questa forzata distanza rappresentata dalla forma di cortesia: naturalmente, acconsentii di buon grado, perché la cosa non mi dispiaceva affatto, tutt'altro.
Offrì lui, come mi aspettavo, e parlammo di molte cose, anche banali, quali il gusto preferito della pizza o il posto che avremmo voluto visitare durante le prossime vacanze.
Mi sembrava di essere in un film, era tutto così sospeso, quasi impossibile.
Fluttuavo in un limbo a metà tra la realtà e la mia immaginazione più sfrenata, e non riuscivo a decidermi quale delle due fosse meglio.
Uscimmo dal locale che erano le due, il sole di luglio che batteva sulle nostre teste.
Lo riaccompagnai in ospedale, dove ci salutammo all'ingresso, in mezzo al cortile, tra la folla di sconosciuti che andava e veniva.
Non può finire così, continuavo a ripetermi, devo trovare un modo per non farlo scappare.
“Mi piacerebbe ricambiare il tuo invito…” proposi, speranzosa nella sua risposta.

“Sì, certo, piacerebbe anche a me. Però, offro sempre io!”
Mi morsi le labbra e fissai il colletto della sua camicia rosa antico, aspettando che facesse il primo passo.
“Ti lascio il mio numero” dissi alla fine, non riuscendo a resistere oltre.
Lui annuì e tirò fuori dalla tasca un iPhone di ultima generazione.
Gli dettai le dieci cifre, il cuore in tumulto, pregando mentalmente che mi chiamasse al più presto.
“Ti faccio uno squillo…” continuò, mentre estraevo il cellulare dalla borsetta.
“Perfetto, allora ti chiamerò una di queste sere. Adesso vado, buon lavoro”
Ci stringemmo la mano, poi lui si avvicinò e mi stampò un bacio sulla guancia.
“Mi ha fatto piacere rivederti, Lara. A presto”
Lo salutai ancora una volta, agitando la mano, mentre lo guardavo allontanarsi, per scomparire poco dopo oltre le porte scorrevoli.
Alzai gli occhi al cielo, sorridendo e reprimendo la voglia di saltare.
Stavo toccando il paradiso con un dito, ed era una sensazione stupenda!

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Capitolo 12
*** La terrazza sul Duomo ***


Friends will be friends,
when you’re in need of love
they give you care and attention
[…]
When you’re through with life and all hope
is lost,
hold out your hands ‘cos friends will be
                                                                                                                              friends right till the end

(Queen, “Friends will be friends” 1986)




Le parole mi fluivano come se ci fosse una mano invisibile intenta a farmele uscire dalla bocca.
Non provavo più alcun dubbio, alcuna vergogna o timore a confessare ad Alessia ciò che mi era accaduto, perché ogni frase mi appariva sorprendentemente naturale ed ovvia.
“E dove vi incontrate? Perché vi siete incontrati, vero?”

La mia amica mi guardava con aria in parte incredula ed in parte entusiasta: capivo infatti che, tutto sommato, appoggiava i miei colpi di testa e, da innamorata qual era, comprendeva i sentimenti che mi legavano a lui.
“Ci siamo rivisti tre settimane fa. L'ho chiamato due giorni dopo che siamo andati a pranzo. Lo so, forse ho fatto passare troppo poco tempo, ma non volevo perderlo un'altra volta, non me lo potevo permettere, capisci?”
Lei annuì pensierosa, ed arricciò bocca e naso, come a voler rifletterci un attimo.
“E poi? Cos'è successo?”
Distolsi lo sguardo da lei, mentre le campane del convitto suonavano la mezza, e mi immersi nei ricordi.


Non sembrò stupito dalla telefonata che gli feci quel pomeriggio in questione, tanto che pensai che la stava aspettando con la stessa trepidazione che, almeno per me, aveva caratterizzato quelle ore di lontananza.
Ci accordammo per rivederci la sera successiva, lasciando che fosse lui ad organizzare tutto.
Con Alessia tentai di comportarmi allo stesso modo, ma tanto lei passava la maggior parte del mattino e del pomeriggio rintanata in Università a seguire i corsi di perfezionamento di Lingue, quindi non mi preoccupai più di tanto di apparire naturale e spigliata.
In cuor mio, però, ero elettrizzata! Che cosa avrei dovuto mettermi? Gli era piaciuto il profumo al mughetto bianco che mi ero spruzzata quando ero andata alla visita? Dovevo truccarmi in modo leggero o sarebbe stato meglio forzare la mano?
Passai la notte che ci separava a rigirarmi nel letto, a prepararmi un discorso che risultasse efficace e maturo, ad immaginare come si sarebbe svolto il nostro incontro.
Finalmente, il momento tanto atteso arrivò, lasciando alle spalle tutti gli interrogativi.
Per telefono, il pomeriggio precedente, gli avevo spiegato dove alloggiavo e, alle sette, passò puntuale a prendermi.
L'orario era inusuale per i miei standard, ma temevo che la scelta gli fosse stata dettata dal fatto che, a casa
ad aspettarlo, ci fosse l'altra.
Mi portò a cena in un locale dall'altra parte della città, un ristorante molto grazioso, con la terrazza panoramica dalla quale si intravedevano le guglie del Duomo: per l'intera serata, fortunatamente, non accennammo mai alle nostre vite sentimentali, parlammo invece di libri e di film, di viaggi e di cibo.
Gli domandai come andasse il lavoro, se il personale fosse sempre lo stesso (a questo proposito, mi tenevo aggiornata grazie alle informazioni che mi passavano Marzia e Simona, le mie ex fisioterapiste, ma glielo chiesi per prolungare la conversazione e, quindi, il momento in cui avremmo dovuto separarci) e se ci fosse qualche novità che aveva piacere di condividere con me.
“Non è cambiato nulla, se non che ti ho ritrovata”
Mi sorrise mestamente, cercando un contatto con la mia mano destra impegnata a recuperare il bicchiere per bere, e lo lasciai fare.
Abbassai gli occhi in un gesto di schermo, lusingata dalle sue parole, sebbene avrei voluto precisare di non essere stata io quella ad essersi allontanata, dal momento che mi era stato imposto ormai quattro anni prima, seppure per il mio bene.
In quel ristorante, ogni volta che voltavo la testa, mi imbattevo in coppiette o allegre famiglie perse gli uni negli sguardi degli altri, e tirai un sospiro di sollievo accorgendomi che anche lui, proprio come quelli sconosciuti, sembrava essere così tanto a propio agio.
Alle dieci eravamo già sulla strada di ritorno: il coprifuoco al convitto scattava un'ora dopo, ma era inutile girovagare per la città come una qualunque coppia, perché di fatto noi non eravamo una qualunque coppia.

Le mille luci che emanavano i lampioni, che animavano le insegne o i cartelloni pubblicitari, si sommavano a quelle provenienti dalle abitazioni, creando uno spettacolo davvero incantevole, che mi spingeva ad ammirare ovunque quel panorama luminosissimo.
Insolitamente, non c'era molto traffico, e l'atmosfera che si era creata tra di noi era davvero piacevole.
Guardavo fuori dal finestrino leggermente abbassato, la brezza notturna che mi scompigliava le ciocche dei capelli lasciate libere dal morbido chignon.
Era calato il silenzio, ma capivo che entrambi avremmo voluto parlare, soprattutto lui, che approfittava ogni minuto per lanciarmi occhiate fugaci.
Feci finta di sistemarmi l'abito nero che mi ero comprata per l'occasione, cercando di pensare ad una battuta che risollevasse un po’ l'umore.
Qualche secondo dopo, però, fermò la sua Lancia Flavia davanti al convitto, e di nuovo l'emozione mi assalì prepotente.
“Allora, grazie mille per la serata” abbozzai timidamente.
Ci girammo, trovandoci l'uno di fronte all'altra: avrei dovuto avvicinarmi per baciarlo su una guancia? Avrei dovuto fare finta di niente, augurargli la buonanotte e scendere dalla macchina come se nulla fosse?
Ma fu lui a togliermi dall'imbarazzo o, dipende dai punti di vista, a mettermi in imbarazzo.
“Lara, ascolta, devo dirti una cosa. Sono stato benissimo questa sera con te: mi piace passare del tempo in tua compagnia, mi è sempre piaciuto, ma… uffa, è difficile dirtelo senza rovinare tutto”
Voltò per un istante la testa e appoggiò le mani sul volante, accarezzandolo.
Percorsi il profilo della sua fronte, del naso, della mascella puntellata di quella barba curatissima, fino a concentrarmi sulla camicia bianca firmata Zegna, che metteva in risalto l'incarnato già abbronzato.
Avrei dato qualsiasi cosa pur di stringerlo tra le mie braccia, qualsiasi cosa, lo giuro…
“Se mi vuoi dire che sei già impegnato, lo so. Con una cardiologa, giusto? O forse ne hai trovata un'altra?”
Lui tornò a guardarmi con aria stupita, poi sorrise sornione.
“Ho sempre pensato che oltre ad essere bella fossi anche intelligente. E, ammetto volentieri, che non mi sono sbagliato”
Cercai di sorridere a mia volta, anche se, dentro di me, avrei voluto schiaffeggiarlo, imporgli di lasciare l'altra, gridargli che ero io la migliore, quella che lo amava e lo aveva sempre amato.
“Siete sposati?”
“No… Anzi, a questo proposito, c'è un'altra cosa che devo dirti…”
“Lo so, cioè so che sei separato”
“Chi te lo ha detto?” si stupì, mentre i fari di una macchina che passava illuminavano il suo viso piacevolmente sorpreso.
“Diciamo che l'ho scoperto grazie alle famose voci di corridoio”
Aspettai che proseguisse, ma non disse più nulla, quindi ripresi io la parola.
“Per me non è un problema, davvero. Voglio dire, non mi importa se tu sei impegnato con un'altra persona: non ti imporrò nulla, non ti assillerò, se è questo che temi, né sarò gelosa, almeno cercherò di non esagerare. Insomma, non ti chiedo nulla, solo di stare con me. Se tu lo vuoi, ovviamente”
Mi guardò per qualche secondo negli occhi, mentre avvertivo il cuore scoppiarmi nel petto.
Poi, finalmente accadde: avvicinò la sua bocca alla mia, baciandomi lentamente, le mani che mi accarezzavano il viso.
Non ero stupita dal gesto, perché era ciò che desideravo dall'inizio della serata, la fantasia proibita che, da quando lo avevo rivisto tre giorni prima, speravo si realizzasse.
Ci allontanammo sorridendo, scrutandoci forse con una punta di imbarazzo, per poi abbracciarci e respirare l'uno il profumo dell'altra.
Avrei voluto stare lì tutta la notte, andare via insieme e perderci per la città, ma non volevo rovinare tutto e, soprattutto, dovevo schiarirmi le idee, razionalizzare la mia immensa felicità.
“Ora devo andare… quando ci rivedremo? Oh scusa, ho appena promesso che non ti avrei assillato!” sdrammatizzai, abbassando lo sguardo e costringendomi a non urlare di gioia.
“Presto, molto presto. Ti scrivo domani, d'accordo? Sono di guardia, così avrò più tempo”
Mi baciò ancora una volta, quindi scesi dalla Lancia, salutandolo con un sorriso.
Quella notte, com'era prevedibile, mi addormentai molto tardi: presi sonno che erano le tre meno un quarto.


“Oh Lara, che storia incredibile” sospirò trasognata Alessia, mentre appoggiava la schiena alla panchina del parco.
“Ma ancora non ho capito come e dove vi incontrate…”
Ecco, mi dissi, lo sapevo che sarebbe arrivato il punto dolente.
“Beh, in un albergo, che tra l'altro non è neppure molto distante dall'ospedale in cui lavora”
“Che cosa?!! Sei impazzita?! In un albergo come… come… sì, insomma, hai capito come chi!”
Le presi le mani, intente a gesticolare, e la rassicurai con un sospiro, suggerendole di calmarsi.
“È l'unico posto che abbiamo trovato. Qui al convitto non posso di certo portarlo:
in quella camera ci siamo strette noi! E a casa sua… beh, lo sai perché non possiamo, te l'ho appena detto”
Mi grattai una tempia con fare nervoso, sperando che almeno lei mi capisse e non ricominciasse a tediarmi con la solita morale.
“Ma Lara, non credo sia una bella cosa! Voglio dire, immagina che qualcuno ti riconosca, che metta in giro delle strane voci sul tuo conto, che figura ci fai? Tu vali molto di più, non meriti di essere paragonata ad una… beh, ci siamo capiti, no? O cavoli, non ci voglio nemmeno pensare!”
“Cosa c'entra, Alessia?! Lo stesso discorso vale anche per lui, anzi, è lui quello che rischia di più in tutta questa storia! Non pensi al suo lavoro, alla sua reputazione? Io sì, io ci penso ogni giorno ed ogni volta che ci incontriamo!”
Mi stavo arrabbiando, ma sapevo che la mia amica non c'entrava nulla, che non dovevo sfogare la mia frustrazione su di lei.
Era tutta colpa del tempo, delle circostanze in cui lo avevo conosciuto, forse persino della differenza di età.
Ma se non fossi stata in coma, lo avresti mai incontrato?
Quella domanda cominciò a ronzarmi in testa in modo prepotente e martellante, tanto da non poterla ignorare.
Mi risposi di no, che probabilmente non lo avrei mai incontrato. O forse sì, chi può dirlo?
E allora, come sarebbe stata la tua vita?
A questo era impossibile rispondere, com'è tutt'oggi inutile e privo di senso tentare di farlo.
“Scusami, non volevo ferirti” mi abbracciò Alessia.
Ricambiai quel gesto affettuoso con trasporto: avevo bisogno di confidarmi con qualcuno, avevo bisogno che qualcuno mi capisse e non mi giudicasse, ma accettasse le mie scelte, per il semplice fatto che fossero scelte dettate dall'amore profondo, totale e incessante che provavo per lui.
“Grazie che ci sei sempre” dissi semplicemente, sciogliendomi dall'abbraccio e guardandola negli occhi azzurri.
“Lo sai che su di me puoi contare. Posso anche non condividere il tuo punto di vista, Lara, ed è così, ma se questo ti fa stare bene, se vi amate, adesso è questo l'importante, quello che conta veramente. Sono sicura che, prima o poi, troverete una soluzione. Ma ora torniamo al convitto: mi sto arrostendo con tutto questo sole, sembra di essere nel deserto!”
Ridemmo entrambe a quella battuta, stanche di sopportare quella calura dettata dai raggi dell'una.
La aiutai a recuperare le borse piene di acquisti, e ci avviammo verso il convitto, le fronde dei salici immobili.



Adesso, con il tanto odiato e saggio senno del poi, continuo a ripensare a quei giorni come se mi fossi trovata su di un altro pianeta, dalla cui superificie misteriosa scorgevo ciò che invece mi stava accadendo sulla Terra, non riuscendo però a razionalizzare e ad affrontare l'intera situazione con la serietà che necessitava.
E' strano e alquanto difficile da spiegarvi senza rischiare di affrettare i tempi di questa storia, ma non so in quale altra maniera potrei raccontarvi ogni cosa.
Anzi, ad essere completamente sinceri, mi sono accorta di non averlo mai chiamato con il suo nome di battesimo, ma sempre e soltanto appellandomi a lui con il titolo di dottor Cavani.
Dio santo, quanto amavo e quanto amo quell'uomo!
Ero come ossessionata da lui, tanto da rifiutarmi di incontrare qualsiasi altro ragazzo che mi degnasse di vaghe attenzioni o che mi attraesse
anche solo lontanamente.
Io volevo e voglio solo lui, come ve lo devo dire?!
Certo, è buffo pensare che non so neppure dove abita, insomma, non conosco né il suo indirizzo e nemmeno l'albero genealogico della sua famiglia (non tutto, ovviamente, ma almeno sapere chi sono i suoi genitori).
Di lui, praticamente, non so quasi nulla.
Prima di rincontrarci, non mi vergogno a dire che passavo interi pomeriggi a navigare sui siti delle rubriche telefoniche per cercare di rintracciare il suo numero di fisso, senza mai riuscirci, e cadendo puntualmente nello sconforto più nero.
Avevo persino immaginato di assumere un investigatore privato che mi aiutasse a rintracciarne l'abitazione, che lo pedinasse, che mi sapesse dire che targa di automobile avesse, ma fui costretta a demordere a causa delle mie ristrettezze finanziarie.
Pensate che io sia una stalker, vero? Beh, non mi importa!
Io so solo che non ho mai provato nulla di simile per un'altra persona, che il sentimento viscerale che nutro nei suoi confronti è talmente immenso e sincero che quasi mi spaventa e mi stordisce!
Bene, ora devo interrompere questa parte del racconto, ma proseguirò presto per aggiornarvi su un avvenimento che ha letteralmente cambiato la mia visione delle cose, sconvolgendole ancora una volta.

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Capitolo 13
*** La notte stellata ***


If you were here beside me
[…]
I’d tell you that I loved you before I ever
knew you
‘cause I loved the simple thought of you
[…]
There’s so much this hurt can teach us
both,
There’s distance and there’s silence, your
words have never left me,
they’re the prayer that I say every day

(Snow Patrol, “New York”, 2011)


Quattro giorni dopo le mie confessioni ad Alessia, mi incontrai con lui.
Stesso posto, stesso orario, stessa camera.
Era un venerdì incredibilmente afoso, facevo persino fatica a parlare e a muovermi, talmente il livello di umidità era insopportabile.
Avevamo appena finito di fare l'amore, e adesso lui si era alzato per spalancare la finestra socchiusa.
Erano quattro settimane, ormai, che quell'albergo era diventato il nostro piacevole ritrovo, e continuava a conquistarmi sempre di più.
Mi guardai attorno, accarezzando con lo sguardo il lampadario, l'armadio, lo scrittoio con la TV, persino le sedie e la poltroncina rivestite di velluto blu, il tutto adagiato sul parquet, fino a soffermarmi sui due grandi quadri di Van Gogh.
Il primo raffigurava "La stanza di Arles", e tappezzava quasi interamente la parete di fronte al letto; l'altro, invece, riproduceva "La notte stellata", ed era stato appeso proprio sopra il baldacchino rosso che proteggeva i nostri corpi ancora mezzi nudi.
“Mi piacciono molto queste stampe” considerai ad alta voce, mentre mi mettevo a sedere.
Lui tornò indietro, il torso nudo e i pantaloni non allacciati sui piedi scalzi, ma non disse nulla, nemmeno mi guardò.
“Che cos'hai? È per via di questo caldo?”
Mi avvicinai, l'accappatoio indosso che mi ero messa dopo la doccia, e gli accarezzai una guancia, cercando di sorridergli e di capire l'origine di quell'improvviso silenzio.
A dirla tutta, era da quando era arrivato che sembrava strano, ma non avevo insistito per sapere il motivo di un comportamento tanto diverso dal solito.
“Se ti ho fatto qualcosa, non credi che dovrei saperlo?!” sbottai forse esageratamente, dopo l’ennesima assenza di risposta.
Era sovrumano reprimere il moto di stizza che avvertivo salirmi fino all’esofago e che mi faceva prudere le mani: ma per quale ragione si ostinava a rintanarsi in quel dannato mutismo?! Cosa stava succedendo tra di noi? Che cosa gli avevo fatto di così terribile da indurlo a non rivolgermi nemmeno una semplice sillaba o una banale parola?!
Avevo di nuovo davanti la sua schiena, e questo fatto che non si girasse a guardarmi mi stava dando davvero sui nervi.
Ripercorsi velocemente con la mente le ore precedenti, persino l'ultima settimana che non ci eravamo visti, ma non mi sovveniva alcuna spiegazione degna di una logica a me ignota.
“Tu non mi hai fatto niente, Lara, non mi hai mai fatto niente se non del bene…”
Perché temevo che quelle parole celassero una terribile notizia? Perché aveva quel tono basso e, seppure si fosse finalmente voltato verso di me, mi stava fissando con quegli occhi d'ambra insolitamente sofferenti?
“E allora per quale motivo ti comporti così?! Dammi un motivo, una spiegazione che mi aiuti a capirti!”
“Lei...”
“Lei chi?”
“Lei è incinta di quasi quattro mesi. Dovrebbe essere una bambina, cioè, è una bambina”.
Aprii la bocca in una smorfia di smarrimento, retrocedendo verso il letto.
All'improvviso, sentii mancarmi l'aria, la testa mi girava e nelle orecchie continuava a rimbombarmi quell’assurda frase.
Non ci potevo credere, non volevo crederci… era un incubo, forse avevo capito male, forse si riferiva a qualche altra donna…
“Lara, ascoltami, io l'ho saputo il giorno dopo che sono tornato da Marsiglia: ti giuro che prima non sapevo nulla! Era da due anni che insisteva per avere un figlio, ma non ci riuscivamo. Per questo me lo ha tenuto nascosto fino ad allora… perdonami”
Tentò di sfiorarmi il braccio, ma io lo respinsi.
Mi misi invece a sedere sul letto, stordita, nervosa, vergognandomi di tutto questo.
Avevo pensato che, con la mia sola presenza, ogni cosa sarebbe cambiata, ne ero pazzamente convinta.
Credevo che quello che ci aveva legati sarebbe bastato a superare le difficoltà, le differenze che ci univano e, allo stesso tempo, ci dividevano.
Per l'ennesima volta, avevo fatto la figura della stupida, perché io ero una stupida, una poco di buono, una persona senza un briciolo di cervello!
L’occhio mi cadde sull’orologio in argento e oro bianco, con il quadrante tempestato di minuscoli Swarovski e il cinturino intrecciato a nido d’ape, simbolo dell’amore che avrebbe dovuto unirci per sempre.
Inconsciamente, avrei voluto prenderlo e scaraventarlo contro il muro, contro di lui, calpestarlo per poi gettarlo dalla finestra: tuttavia, una strana forza mi inchiodava la mano sulle ginocchia nude, mentre l’accappatoio scivolava dalle spalle.
In quelle ultime due settimane non aveva fatto altro che ingannarmi, cercandomi e parlandomi come se nulla fosse accaduto, desiderandomi e coprendomi di baci e carezze con la stessa sensualità e trasporto che lo avevano contraddistinto fin dal primissimo istante.
“Dimmi qualcosa, ti prego…” mi supplicò con voce strozzata, in piedi davanti a me.
Non riuscivo più a trattenere le lacrime, ma mi imposi di ricacciarle indietro: non volevo dargli alcuna soddisfazione, non potevo mostrarmi ulteriormente debole e succube.
“Ti faccio i miei migliori auguri. Spero possiate essere felici”
Cercai di alzarmi e di andare in bagno per rinfrescarmi il viso, però lui mi bloccò il polso con un movimento repentino.
“Lara, aspetta, io non so cosa fare, so solo che non voglio perderti”
Quella frase così comune ebbe l’unico effetto di farmi ribollire ancora di più: era come la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, come l’insana curiosità di Pandora che aveva scoperchiato il prezioso contenitore donatole da Zeus.
In breve, gli riversai addosso tutta la mia delusione, gridandogli contro senza riserve.
“Forse adesso è troppo tardi, non credi?! Quello che mi fa più male, che non riesco a sopportare, è che ho atteso di stare con te per quattro interminabili anni! Per tutto questo tempo, ho pensato solo a te, ho immaginato e voluto solamente te! Quando quel mercoledì ti ho rivisto, ho capito che per me non era cambiato nulla, che non avevo mai smesso di amarti, nonostante la lontananza, nonostante le nostre vite così diverse, nonostante ci fosse lei! Non mi importava nemmeno di fare la parte dell'amante, pensa che sentimentale! E non mi interessava cosa avrebbero potuto dire o pensare gli altri, perché io ero sicura del mio amore! E adesso non lo so più! Giuro che se tu me lo chiedessi, io non esiterei a rimanere, anche se ho paura di te, ho paura di lei! Adesso ci sarà sempre qualcosa che vi unirà, qualcuno di cui dovrete prendervi cura, della cui esistenza deciderete insieme! Ti avrà sempre in pugno e, quando vedrai tua figlia, penserai che avevo ragione!”
Ripresi fiato, passandomi nervosamente le mani tra i capelli, orgogliosa di non aver pianto, sebbene la voce fosse incrinata dall'emozione.
“Allora resta, semplicemente resta…”
Lasciai che mi attirasse a sé, accennando solamente ad una lieve resistenza, poi desistetti e mi lasciai abbracciare.
Lo odiavo, odiavo l'altra, odiavo persino quella bambina non ancora nata.
In quel momento, però, la verità era che non sapevo neppure io cosa realmente provassi.
Rabbia? Frustrazione? Delusione? Amarezza? Perdita?
Era tutto questo e molto altro. Era la fine di un sogno. Era la fine del mio sogno.


Nei due giorni successivi al nostro disastroso incontro, evitai accuratamente di rispondergli.
I suoi messaggi e le sue telefonate si accumularono nella memoria del mio cellulare come la posta nella buca delle lettere quando si parte per una lunga vacanza, senza prima premurarsi di affidare le chiavi a qualche parente.
Non ero ancora pronta per affrontarlo: avevo timore di cedere alle sue richieste, proprio come quel venerdì nero in cui alla fine mi lasciai convincere a fermarmi un'altra ora in quella stanza d'albergo, nel silenzio di quel letto che mi appariva immenso e privo di qualsiasi significato.
Rimasi seduta per un tempo che mi parve infinito, poi mi sdraiai, mentre lui non accennava a smuoversi dalla finestra lasciata aperta.  
Non andammo a cenare, sarebbe stata una scelta di cattivo gusto, oltre ad essere completamente insensata.
E poi, avevo bisogno di riflettere, dovevo capire cosa sarebbe cambiato tra di noi.
Tutto, mi spronava a rispondere una voce interiore, ma non ne ero completamente convinta.
Insomma, l'amore per una donna è diversissimo da quello per un figlio, e mai e poi mai, per nessuna ragione, gli avrei imposto di scegliere tra me e la bambina, ma tra me e lei, beh, quello sì.
Sapevo che avrei dovuto aspettare ancora molto tempo, però mi consolavo dicendomi che ormai ero diventata la Regina dell'attesa.
Iniziò così un periodo fatto di congetture e di notti insonni, passate a rigirarmi nel letto e a fissare il soffitto senza trovare una via di uscita.
Piangevo, mi mordevo le labbra e stringevo i pugni come se volessi picchiare qualcuno.
Ascoltavo l’mp3 con il solo intento di stordirmi, ma non riuscivo a concentrarmi oltre la prima o la seconda canzone, quindi lo spegnevo e lo gettavo stizzita sul comodino, riprendendo a piangere e a tormentarmi.
Avrà i suoi occhi? O magari il suo stesso naso e il suo sorriso così dolce. Che nome sceglieranno?
E se non nascesse? Se lei perdesse la piccola?
Era un pensiero orribile, lo so, ma non privo di una logica, almeno per me.
La verità era che io lo amavo, e l'unica cosa davvero importante era non perderlo.
Trascorsi le mie giornate a vagare per il centro, entrando in decine di negozi e ad uscirne dopo nemmeno due minuti per un profondo senso di oppressione che temevo finisse per schiacciarmi.
Domenica sera, poco prima delle otto, ero ancora sdraiata sul letto della mia camera, la porta finestra spalancata e il sole ormai oltre la linea dell’orizzonte: avvertii la vibrazione del cellulare, fin troppo simile ad una spada che mi trafiggeva il petto.
Inizialmente lo ignorai, poi fissai il telefono come se avesse potuto aprirsi da un momento all’altro e liberare il Genio della lampada che avrebbe esaudito i miei desideri.
Dopo qualche secondo di esitazione, mi decisi a mettermi seduta e ad afferrare lo strumento elettronico con riluttanza e ansia, leggendo l’ennesima delle sue chiamate andate perse.
Sospirai e chiusi gli occhi, ma alla fine optai per rispondere almeno agli SMS.
Forse è meglio che non ci vediamo per un po’, tanto più che tra due settimane partirai per le ferie.
Lui mi scrisse dopo nemmeno un minuto.
Se è questo che desideri, rispetterò la tua decisione, ma non lasciare che tra di noi finisca. Non lo sopporterei, amore mio. E poi, prima che parta, abbiamo ancora tempo per vederci.
Mi grattai la punta del naso e sospirai, travolta dal solito vortice di passione che mi provocava anche il suo più vago segnale.
Perché dovremmo incontrarci? Adesso tu hai altro a cui pensare. E stai tranquillo che anch'io non ho alcuna intenzione di perderti. Se sarà necessario e se tu lo vorrai, lotterò per te.
Sentii un rumore nel corridoio del convitto, quindi troncai la conversazione: aspettavo che tornasse Alessia per metterla al corrente di quello che era successo, dal momento che prima avevo dovuto metabolizzare in autonomia ciò di cui ero venuta a conoscenza.
Ora devo andare a cena. Buona serata.
La risposta non attardò ad arrivare.
Ti amo. Un abbraccio ed un bacio al mio piccolo angelo.
Non mi soffermai più di tanto a leggere le sue parole, sebbene fino a pochi giorni prima mi avrebbero fatto saltare di gioia.
Dovevo cominciare ad abituarmi a stargli lontana, a non far dipendere più le mie giornate dalla sua presenza, fisica o virtuale che fosse.

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Capitolo 14
*** L'essenziale ***


La bellezza dell'essere indecisa è l'oppressione che si prova a non riuscire a manifestarla.

(Anonimo XX secolo)


L'istante dopo che avevo posato il cellulare nella borsa, appoggiandola su una delle due sedie vicino alla scrivania di legno di fronte ai nostri letti, la mia amica aprì la porta, spalancandola con l’entusiasmo che stava contraddistinguendo la riappacificazione eterna con il meccanico scansafatiche.

“Lara, sei pronta? Abbiamo già apparecchiato e tra cinque minuti si mangia!”
La guardai appena, reprimendo quel nodo alla gola che mi spingeva a piangere ogni minuto, cercando di concentrami sulle parole che mi erano state appena dette.
Toccava a noi ragazze preparare a turno la tavola della sala comune, un lavoro cadenzato ed ipnotico, che aveva il potere di rilassarmi e di trasformarmi in una sorta di ragazza con manie ossessivo- compulsive: quella sera, per l'appunto, il compito era spettato ad Alessia, che sembrava averlo svolto con insolita felicità, invece di lamentarsi dei logori sottobicchieri che le suore insistevano per farci mettere.
“Sì, arrivo…”
Mi alzai a sedere sprimacciando il cuscino che avevo repentinamente catturato per l’infantile gusto di avere qualcosa su cui concentrare la mia scarsa attenzione di quei momenti.
Forse è meglio se attendo più tardi, pensai, convincendomi che almeno non l'avrei turbata con le mie solite e lagnose paturnie amorose.
“Cos'è quella faccia? Il tuo bello non ti ha chiamata?” mi punzecchiò con aria cantilenante, facendomi il solletico per indurmi a sorridere.
“Più o meno…”
“Che cosa vuol dire più o meno? O sì o è no!” continuò a canzonarmi, incrociando le braccia sulla T-shirt rossa e aggrottando le sopracciglia chiare.
La sua aria da investigatrice aveva preso il sopravvento sul pesce lesso innamorato, spingendomi ad irritarmi e a sentirmi ulteriormente impotente.
“Non preoccuparti, ne parliamo dopo. Adesso andiamo a mangiare: mi è venuta fame”
Uscimmo dalla camera abbracciate, nonostante le insistenze della mia amica che cominciava ad intuire che fosse successo qualcosa di catastrofico.
Così, quando tornammo dalla cena, sedute a gambe incrociate sul mio letto, le raccontai ogni cosa.
“Oh cielo, Lara, che mascalzone…”
“Beh, non è proprio quello che volevo sentirmi dire, però non hai tutti i torti”
“Sei troppo buona con lui, troppo”
“È che io non voglio perderlo, non sono pronta a lasciarlo andare” spiegai con enfasi, mentre il vociare allegro e contagiante delle nostre compagne si diffondeva lungo i corridoi.
“Dici così perché sei innamorata e, credimi, ti capisco. Ma penso anche che sia giusto che tu cominci a camminare per un po’ con le tue gambe, che riprenda a respirare in autonomia, senza aspettare sempre il suo aiuto o quello di chiunque altro”
Sbuffai e mi morsi il labbro inferiore, alzando gli occhi al soffitto in un gesto meccanico di scarsa fantasia.
“È proprio per questo che mi sono rifiutata di vederlo, ma è così difficile…”
“Devi resistere e sforzarti di ricostruirti una vita lontana da lui”
 “Non so per quanto tempo riuscirò a resistergli: sai, a volte ho come degli impulsi assassini nei suoi confronti, è come se volessi vederlo morto, e ti giuro che non mi viene alcuno scrupolo ad augurargli il peggio che possa pensare, però…”
“Sei davvero innamorata, amica mia, irrimediabilmente e perdutamente innamorata” mi sorrise Alessia, lanciandomi il guanciale sulle gambe.
“Non è una semplice infatuazione, non lo è mai stata. E poi, lo sai, non voglio perderlo, non ce la farei”
In quel momento, mi accorsi di quanto fossi fortunato ad averla lì con me, pronta a consigliarmi e a sostenermi, sebbene comprendessi l’enorme costo che ciò comportava alla sua razionalità sempre impeccabile.
“In tutto questo, che cosa dice il latin lover? Perché dal suo punto di vista si possono capire molte cose, sai?” analizzò puntuale.
Mi allungai sul comodino per recuperare il cellulare e glielo porsi, in modo che potesse farsi un’idea leggendo la nostra ultima conversazione di nemmeno un’ora prima.
“Beh, direi che nessuno di voi due è così tanto confuso da non sapere che cosa vuole: qui ci saranno almeno dieci messaggi e quindici telefonate a cui non hai risposto. E da quello che vi siete scritti stasera, sembrate entrambi decisi a non lasciarvi andare… ma per quanto tempo sarete sicuri dei vostri sentimenti? Mi riferisco in particolar modo a lui, Lara. Un figlio cambia tutto, almeno nell’immediato…”
Annuii nervosa, grattandomi la punta del naso, il mio abituale gesto per indicare che stavo riflettendo.
“Tutto questo non fa altro che confondermi. La delusione per quello che è successo si mischia alla rassegnazione per il modo in cui mi ha trattata, ma allo stesso tempo voglio lottare per il nostro amore. E’ tutto così complicato ed ingiusto! Tu che cosa faresti al mio posto?” la supplicai con lo sguardo, mentre al vociare allegro delle altre ragazze si univano i timbri squillanti di suor Fabrizia e suor Augustina.
“E’ difficile mettersi nei panni altrui, soprattutto se non ti è mai capitato di vivere quella determinata situazione. Comunque, se vuoi davvero un mio consiglio, io ti direi di seguire il cuore e poi la mente, ma anche di considerare i pro e i contro della vostra relazione, separatamente, è ovvio, senza incontrarvi e rischiare di mandare a monte i buoni propositi. Solo dopo, una volta che hai capito cosa ti aspetti, potrai incontrarlo. Ecco, io farei così, ma naturalmente sei tu che dovrai decidere”
Di nuovo mi morsi il labbro inferiore, sbuffando sonoramente.
Perché non riesco a lasciarlo, a dimenticarlo? Sarebbe tutto più semplice, mi riapproprierei della mia vita, e non sarei più ingabbiata nei ricordi, nelle recriminazioni, preda dei ma e dei se. Certo, soffrirei, soffrirei in maniera indicibile, però dopo sarei una donna nuova, una donna libera.
Cercavo di convincermi con queste frasi astrattamente concrete, sebbene in quel momento fossi ancora molto confusa.
Inoltre, mi era impossibile distinguere i vantaggi di stare con lui dagli aspetti negativi, sempre che ce ne fossero…
Guardai la mia amica e le inviai un bacio volante.
“Grazie, Ale, ti voglio bene”

***


È trascorso quasi un mese dall'ultima volta che l'ho visto.
Mentre lui era via, in ferie chissà dove, con la famigliola al seguito, ritornai a casa, per godermi qualche giorno in famiglia e provare ad allontanare la presenza costante di quell'uomo che era diventata la mia ossessione.
Almeno una dozzina di volte, infatti, mi bloccai in mezzo alla strada, convinta di aver visto il profilo del suo volto, di aver riconosciuto l’ampiezza della spalle e la sua falcata così sicura e carismatica, per ricredermi l’istante successivo.
Era ormai la fine di agosto, le giornate erano scandite da temperature meno afose e temporali serali.
Trascorsi una settimana al mare con mia sorella Giada e mio fratello Matteo: affittammo una casetta molto graziosa in Liguria, su un promontorio da cui si godeva una vista spettacolare della piccola baia sottostante.
Scendevamo in spiaggia attraverso un percorso nell’abetaia, e passavamo le giornate immersi nell'acqua, a bagnarci del sole tiepido e a giocare a racchettoni o a pallone come fossimo stati dei ragazzini.
L'ultimo giorno ne approfittammo per bighellonare in paese, in attesa di salire sulla corriera che ci avrebbe portati alla stazione centrale di Genova e, da lì, alla nostra cittadina.
Dopo aver fatto una seconda colazione in un bar dalle pareti affrescate con dei ritratti improponibili degli artisti del Rinascimento, vagammo tra le botteghe incastonate nelle strette viuzze.
Trovai un negozietto tipicamente di mare, con le borse e i cappelli di paglia appesi a dei grossi ganci all’esterno, e mi ci fiondai, sperando di trovare qualche piccolo regalo da elargire una volta a casa.
Lì dentro comprai dei magneti e un foulard per mia madre e per me, più qualche confezione di biscotti tipici per zii, nonne e papà.
Mancava una mezz’ora scarsa alla nostra partenza, così mi divisi da Giada e Matteo per addentrarmi nella parte alta del paese, dove una leggenda che avevo appena letto su un arco di granito roseo, all’imbocco di un passaggio pedonale, mi spiegava che quella zona corrispondeva al porto vecchio del borgo, le cui tracce si erano perse da oltre quattro secoli.
Feci un giro lungo la piazzetta esagonale, al cui centro svettava una fontana di epoca medioevale, presa d’assalto da turisti assetati, quindi trascorsi gli ultimi minuti a visitare l’unica chiesetta ancora in piedi, un esempio di architettura romanica con la parete di pietra intonacata e la cupola in laterizio.
Scattai qualche fotografia al meraviglioso abside dorato del Seicento, per poi uscire e ricongiungermi ai miei fratelli.    
Durante il viaggio di ritorno, il sole infuocato che filtrava osceno dai finestrini, ripensai alla meravigliosa settimana che avevo trascorso.
Ero riuscita a rilassarmi, a non pensare troppo, e dovevo ammettere che mi sarebbe piaciuto rimanere lì ancora per qualche giorno.
Per la prima volta da quando era ricominciata tutta quella storia, però, avevo realmente paura.
Se non mi avesse più cercata? Se mi avesse già dimenticata, assorbito dal suo futuro ruolo di genitore?
Ecco che cosa temevo, che i suoi sentimenti fossero radicalmente cambiati.
Non è il momento di pensare ad una cosa del genere, mi convinsi.
Decisi quindi di ascoltare la musica scaricata sul mio iPod, dal momento che Giada si era addormentata e Matteo era intento a leggere un libro di Ken Follett.
Fino alla stazione della nostra città, tra uno spiffero d’aria condizionata e l’altro, mi fecero compagnia gli Snow Patrol, Marco Mengoni, i Coldplay, Zucchero, The Ark, Lucio Battisti e l'immancabile musica classica di Debussey, Mozart e Beethoven.
Se le orecchie venivano accarezzate da quelle piacevoli e suadenti note, la vista era occupata ad apprezzare il paesaggio marittimo e collinare che sfilava davanti a noi, in quelle quattro ore di viaggio che si alternavano tra corriera e treno.
Lately, I’ve been, I’ve been losing sleep, dreaming about the things that we could be. But baby, I’ve been, I’ve been praying hard. We’ll be counting stars.
Le strofe di “Counting stars” degli OneRepublic, mi stavano rovinando i timpani, devo ammetterlo, ma erano anche le uniche parole che sapevano infondermi una certa carica emotiva, ormai latente sotto strati di depressione che avevo accumulato nell’ultimo mese.
Sarà stato per la musica che rimbombava nelle cuffie, per la voce entusiasmante del solista, però in cuor mio speravo che non tutto fosse perduto.
Che sarebbe arrivato il momento, anche per noi, di contare le stelle.
Tornai a casa abbronzata e con le idee sempre meno confuse: sarei tornata a Milano la settimana successiva, e dentro di me mi auguravo che lui mi avrebbe cercata.
E così, infatti, fece, distraendomi da una lezione di ripasso sulla letteratura norvegese.
La biblioteca era semivuota, per questo avevo approfittato di rifugiarmi tra le sue mura, per riuscire a studiare in pace.
O, perlomeno, era quello che cercavo di fare, fino appunto all’arrivo del messaggio incriminato.
Sei tornata in città? Quando possiamo vederci? Mi manchi, piccolo angelo.
Guardai l'orologio: erano le dodici e mezza, probabilmente lui era in pausa, ed io presto avrei fatto lo stesso.
Alle due può andare bene? Ti aspetto nel bar fuori l'ospedale.
Attesi la risposta con una tranquillità irreale, mentre riordinavo quaderno e libro, e mettevo il tutto nello zaino, insieme all’astuccio su cui avevo scarabocchiato, tanto per cambiare, le nostre iniziali.
Se mi ha cercata, mi dissi, è perché tiene al nostro rapporto.
Uscii dalla biblioteca con il cellulare in mano, l’SMS ancora presente sul display.
D'accordo. A più tardi.
L’essenziale era sempre stata una sua dote...

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Capitolo 15
*** Il tram ***


It's the price I guess
For the lies I've told
That the truth it no longer thrills me


And why can't we laugh?
When it's all we have
Have we put these childish things away?
Have we lost the magic that we once had?


In the end, in the end
There's nothing more to life than love, is there?
In the end, in the end
It's time for us to lose our weary minds.

(Snow Patrol, "In the end", 2011)




Puntuale, e non in anticipo come sarebbe stato nelle mie corde appena qualche settimana prima, lo raggiunsi alle quattordici al bar nel cortile dell'ospedale.
Non ero elettrizzata, questo lo posso assolutamente giurare, ma una buona dose di nervosismo mi impediva di comportarmi in maniera genuina.
Insomma, ero pur sempre nell'arena, con il leone che mi puntava, nel campo del nemico, a pochi passi da lui e dal suo mondo che, con estrema fatica e difficoltà, mi ero gettata alle spalle.
Ci salutammo con un gesto della mano, evitando accuratamente la sua tattica di avvicinarsi quel tanto che bastava da strapparmi un bacio sulla guancia a tradimento: non ci sfiorammo neppure per un istante, non gli permisi di ridiventare la sua preda preferita.
Prendemmo posto in un angolo del locale, stretto ed allungato, dove svolazzavano camici bianchi e divise immacolate o verdi.
Forse è stata una pessima idea venire fino a qui, cominciai a dirmi, forse è meglio che scappi fino a quando sono in tempo.
Non volevo pentirmi di essermi lasciata sopraffare dalla curiosità, dovevo ammetterlo, però c'era qualcosa dentro di me che mi impediva di muovere un solo passo verso la porta e, di conseguenza, verso la salvezza morale.
Rimasi sulle mie ancora per un po’, fino a quando dovetti cedere la mia postazione in favore di un donnone che, altrimenti, mi avrebbe sopraffatto con la sua delicata mole da un quintale.
Spostai leggermente in avanti, e con una certa dose di irritazione che mi prudeva le dita, la sedia su cui mi ero accomodata, recuperando lo zaino che era scivolato dalla spalliera.
"E' tutto ok?" si azzardò lui ad esordire, notando l'imbarazzo che stava divorando la mia persona.
Annuii meccanicamente, sbuffando con aria contrita, e finalmente fummo pronti per ordinare ad uno dei camerieri che ci ronzava intorno da quando eravamo entrati.
Mangiammo due tranci di pizza accompagnati da una dissetante aranciata, trascorrendo i primi due o tre minuti praticamente in silenzio.
“Cosa hai fatto in questo mese che non ci siamo visti?” mi domandò a bruciapelo, accarezzandomi una mano.
Ingoiai il boccone che stavo masticando con una lentezza degna di una tartaruga e di un bradipo messi assieme, quindi risposi mantenendo la calma.
“Sono tornata a casa, e poi sono andata una settimana al mare con i miei fratelli”
Lui annuì sorridendo, intanto che io mi sforzavo di non guardarlo troppo negli occhi.
La verità è che non volevo cedere, non ancora almeno.
“Io invece sono andato in Calabria, a Tropea. Eravamo con degli amici…”
Eravamo, quanto detestavo quel verbo.
Assaporai la sua voce, accorgendomi di quanto risuonasse incantevole e brutale, ma anche di come la declinazione che aveva utilizzato fosse la più appropriata, perché non ero stata io ad aver trascorso le ferie insieme a lui, ma lei.
“Me la ricordo Tropea, sono andata con i miei quando ero piccola”
Approfittai del suo silenzio per bere un sorso d'acqua che avevo recuperato da una tasca dello zaino, dal momento che la lattina di aranciata era finita.
“Se ti dico che mi sei mancata, che avrei voluto andare con te, mi credi?”
“Avrei qualche motivo per non farlo?”
Lui scosse la testa, cercando di stemperare la tensione con una battuta.
“Risposta errata, hai ragione. A questo punto, però, avresti dovuto dire una frase simile alla mia. Che ne so, del tipo ho pensato anch'io la stessa cosa in Liguria?
Mi passai una mano sulla fronte, per sistemare ciocche invisibili di capelli: conta fino a dieci, ripetei come una formula magica, grattati la punta del naso e morditi il labbro, solo allora potrai ribattere.
E così, infatti, feci, seguendo quel mantra personalissimo, e gli sputai contro tutto ciò che avevo sofferto in quel periodo.
“Va bene! Se è questo che vuoi, ti accontento subito! Mi sei mancato da morire, non riuscivo a pensarti lontano da me, in compagnia di… di quella! Avrei voluto chiamarti, scriverti un messaggio o un’antiquata cartolina che ancora tanto mi piacciono! Ero tentata persino di mandarti una fotografia mentre osservavo il mare perdersi all’orizzonte, immaginando che fosse lo stesso in cui ti eri tuffato poche settimane prima di me! Adesso sei contento, eh? Adesso che mi sono resa abbastanza ridicola, mi vuoi finalmente lasciare in pace?!"
Non finii di vomitargli addosso tutto ciò che pensavo, temendo di calamitarmi addosso le dozzine di occhi che gravitavano attorno a noi: volevo infatti proteggermi da lui, stanca di ripetere le medesime cose, di tentare di fargli capire i sentimenti che provavo, ma ogni singola parola che gli avevo inveito contro corrispondeva alla stupida quanto razionale -o irrazionale, dipendeva dai punti di vista- verità.
“Lara, io sono sempre qui. Per me non è cambiato nulla, lo sai! Ma adesso... insomma, adesso è anche il momento di far fronte alle mie responsabilità…”
“Non ti ho mai chiesto di non assumerti i tuoi doveri, non è da me! Io ho solo bisogno di sapere che cosa tu desideri, che cosa ti aspetti da noi!”
“Desidero rimanerti accanto, non voglio modificare niente, credimi! Che cosa devo fare perché tu lo capisca?!”
Il suo bicchiere mezzo vuoto di aranciata si rovesciò sulla tovaglietta marrone, espandendo una macchia scura ed irregolare, che mi ricordò i disegni che adoravo fare con le tempere quando ero piccola, quando piegavo il foglio con una punta di colore nel mezzo, e aspettavo che fosse la carta a fare il resto.
Si lasciò sfuggire un’imprecazione, ma tornò subito in sé, chiedendomi scusa per aver perso le staffe.
“Vuoi davvero sapere che cosa avresti dovuto fare per darmi prova del tuo amore? Beh, per esempio, quel giorno in cui ci siamo visti l'ultima volta -te lo ricordi, vero?- avresti dovuto dirmi subito della gravidanza, appena ci siamo incontrati fuori dall'hotel, e non aspettare che avessimo fatto l’amore! Mi sono sentita usata, messa da parte! Sentivo il mio corpo sporco, la mia mente non era più mia, ma la avvertivo imprigionata sotto l'influenza di un burattinaio, di un... bugiardo! Lo capisci questo, riesci a capire almeno questo?!”
Lui abbassò lo sguardo, scuotendo il capo con aria colpevole.
“Scusa, hai ragione. Ma non volevo che tu pensassi che ti avessi dato appuntamento solo per dirtelo, solo per scaricarmi la coscienza. Ho sbagliato, Lara, lo so, e ti chiedo perdono, però sai anche tu che non merito il tuo disprezzo. Non lo merito...”
“Ma io non ti disprezzo, niente affatto!"
Abbassai il tono di voce nell'istante in cui un paio di colleghi passarono a salutarlo, seguiti a ruota da uno stuolo di svolazzanti camerieri.
"Io ti amo" ripresi nervosa, non riuscendo a guardarlo negli occhi "e non ho alcun dubbio su questo. Però, spesso, l’amore non basta a cambiare le cose…”
“Non dire così, ti prego”
“E’ la verità. In questi quattro anni ho sperato in un miracolo d’amore e, quando è capitato, avevo paura che mi scivolasse tra le dita, che sparisse senza lasciare traccia, come se si trattasse di una delle numerose folate di vento autunnali"
Forse avresti potuto risparmiarti il paragone poetico, devo aver pensato.
Mi concentrai quindi sulla perfezione della circolarità del bicchiere, ruotando l'indice su di esso come fossi ipnotizzata, per poi passare a raccogliere briciole invisibili dalla tovaglietta davanti a me.
"Con quello che ci sta succedendo" ripresi con maggiore sicurezza, guardandolo negli occhi "ho capito che è proprio ciò sta accadendo alla nostra storia, sempre se di storia possiamo parlare. Per questo ho detto che l’amore non è sufficiente… non sempre, almeno”
“Stai cercando di dirmi che ciò che c'è stato tra di noi appartiene al passato? Che tu lo hai già cancellato?! Dio mio, Lara, vorrei solo tornare indietro, credimi!” sospirò, coprendosi il volto con le mani.
“Piacerebbe anche a me, ma non si può. Dimmi solo una cosa: tu la ami? Sii sincero, ti prego”
Mi guardò per un istante, poi scosse la testa e fece spallucce, la voce roca e lo sguardo perso.
“Se me lo avessi chiesto prima di incontrarti, prima di tutto questo, ti avrei detto di sì. Forse non alla follia, ma l’amavo. Adesso, invece, non so più che cosa rispondere. Voglio dire, le sono affezionato, certo, non voglio che soffra, soprattutto perché sarà la madre di… di mia figlia, però non so più se la amo”
In quel momento, una domanda assurda mi balenò nella mente: è possibile essere innamorati di due persone contemporaneamente? Si possono provare i medesimi sentimenti di passione, dedizione ed affetto per donne o uomini differenti con cui entriamo in contatto nel medesimo periodo?
Non seppi darmi una risposta, anzi, anche adesso non saprei in quale direzione indirizzare i miei interrogativi.
“Ora è meglio che vada”
Lanciai un'occhiata fintamente concentrata all'orologio a muro del bar, che segnava le tre e un quarto, mentre un mix di delusione e di rabbia impotente mi avviluppava le viscere.
Perchè ero stata così sfortunata? Perché l'amore mi aveva giocato quel brutto scherzo? Non avrei dovuto illudermi, sarei dovuta essere maggiormente cauta e riflessiva, come ero sempre stata d'indole. E invece, quella volta, qualche cosa mi aveva spinto a comportarmi diversamente.
“Vuoi che ti riaccompagni?” mi propose, alzandosi con troppa foga.
“No, non ce n’è bisogno. Ci sentiamo presto, buon lavoro”
Ci sfiorammo per un solo istante, nel momento in cui uscii dal locale e lui era appoggiato alla cassa, intento a pagare.
Avvertii il suo sguardo accarezzarmi la nuca, ma evitai accuratamente di voltarmi, perché sapevo quanto mi avrebbe fatto male.
Camminai in direzione della metro, sospesa da una forza invisibile che mi spronava a proseguire.
Incontravo i passi di dozzine di persone, incrociavo i loro sguardi distratti, però era come se non li vedessi, come se fossimo diventati tutti invisibili.
Senza sapere il motivo, all’ultimo minuto decisi di cambiare itinerario.
Attraversai il marciapiede che mi divideva dalla fermata del tram e, appena questo arrivò, salii sul mezzo affollato di gente.
Trovai un posto a sedere sul fondo, lasciandomi sprofondare sopra, lo zaino sulle ginocchia e protetto dalle mie braccia stanche, reduci da una battaglia interiore.
La testa mi diceva che avevo fatto bene a lasciarlo lì, a non cedere, però il cuore gridava il contrario.
All'improvviso, passammo davanti all’Hotel Astor, che si ergeva beffardo ed anonimo nella via parallela a quella che stavamo percorrendo.
Quasi senza volerlo, mi ritrovai a chiedermi se e quando avrei rivisto quel posto, e quali emozioni avrebbe suscitato in me, ma non smaniavo affatto di ritornarci, perlomeno non desideravo farlo con la predisposizione d'animo che avvertivo in quei momenti ormai lontani mesi.
Adesso devo pensare solo alla mia felicita, per tutto il resto c'è tempo.
Anche per noi due, amore mio. Soprattutto per noi due.



NOTA DELL'AUTRICE


Ecco che siamo giunti alla fine del racconto.
Da quando l'ho scritto, mesi fa, era già mia intenzione farlo così breve, quindi tengo a precisare che non è stato accorciato in nulla. Tuttavia, mi scuso con i lettori ed i recensori se, ultimamente, non ho aggiornato di frequente, ma ho trascorso gli ultimi due mesi in maniera assai difficoltosa e complicata, essendo stata ricoverata in ospedale.
Ringrazio di tutto cuore alessandroago_94 per esserci sempre stato ad ogni capitolo, ringrazio Lady_Sticklethwait per aver saltuariamente recensito e venere2000 per averlo fatto con un pò più di assiduità.
Ovviamente, ringrazio anche coloro che hanno inserito la storia tra le preferite:
1 - angyblu
 2 - NothingElseMatters

e le seguite:

1 - alessandroago_94
 2 - Claire_Shee_Bright
 3 - elspunk93
 4 - Fraa1994
 5 - ineedofthem
 6 - Lady_Sticklethwait
 7 - pinkprincess
 8 - sil_1971
 9 - venere2000

Vi auguro una buona fine 2016 ed un buon principio 2017.
A presto con altre mie e vostre storie!

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