L'altro lato della mia anima

di LydiaBones
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***



Capitolo 1
*** I ***


I

 

Uscii dalla classe adirata non appena la campanella suonò la fine della lezione. Non potevo sopportare le mie compagne di corso per altro tempo e soprattutto gli insegnanti.

I professori erano la razza peggiore per me, sempre così falsi e uguali al resto della massa.

Mentre a passo sostenuto mi facevo largo tra la gente stringendo i libri al petto, sentivo ancora i cori di scherno che provenivano dall’aula.

Non ci restavo più male come una volta, però convertivo tutto in rabbia. Perchè dovevano essere così ignoranti e stupide?

Essere la figlia del preside non mi aveva mai messo sotto una buona luce, soprattutto quando delle voci infondate sulla sua omosessualità avevano cominciato a diffondersi nel collegio.

Ero sempre stata trattata da tutti con finto rispetto, soprattutto dai professori che non facevano che lodarmi nei momenti meno opportuni, e questo avrebbe potuto essermi d’aiuto in alcuni casi, ma la verità è che la maggior parte delle volte avrei tanto voluto essere una ragazza qualsiasi, per evitare le loro false opinioni sul lavoro del preside che avrebbero sminuito appena io mi fossi girata.

Senza poi contare che ero sempre sotto gli occhi vigili di mio padre. Per questo motivo non riuscivo a farmi delle vere amiche; le ragazze stavano con me per ingraziarsi lui oppure mi stavano lontane per paura.

Senza contare, poi, le sue ossessioni: dovevo camminare sempre dritta, dovevo avere sempre con me un libro per non sprecare del tempo ad oziare e, infine, grazie a lui non avevo quasi mai avuto un contatto diretto con il mondo maschile, infatti, andavo in un collegio dove ragazze e ragazzi erano volutamente separati da mio padre.

Nonostante tutto avevo un ragazzo, Kenton, se proprio si poteva definire così.

Era un mio amico d’infanzia di cui mio padre si fidava enormemente, ed era l’unica persona di sesso opposto che potessi frequentare.

Ero l’unica che poteva superare il confine da ragazzi a ragazze nella scuola, semplicemente perchè Kenton si trovava dall’altra parte del’edificio, e mio padre aveva concesso di vederci durante i cambi d’ora dato che di pomeriggio si supponeva studiassimo troppo per uscire.

E infatti, fu la prima persona da cui pensai di andare e dopo poco lo trovai davanti all’aula del corso di matematica avanzata a parlare con un suo compagno.

Erano nel mezzo di un’accesa discussione sul risultato di una funzione e potevo capirlo dal gesticolare particolarmente accentuato di Kenton, che usava ogni volta che riteneva di aver ragione e nessuno lo prendeva in considerazione.

Mi vide e il suo sguardo si accese, ma quando notò la mia espressione si fece scuro anche lui.

Liquidò il suo interlocutore, nonostante la discussione non fosse terminata e mi venne incontro.

Quando fummo vicini non ebbe nemmeno il bisogno di chiedere cosa fosse successo.

“Sono degli idioti, Jade” disse.

“Lo so, ma perchè non cambiano un po’?” chiesi retorica alzando gli occhi al cielo.

Mi strinse con un braccio a sé e sussurrò nel mio orecchio “se ti arrabbi, la dai vinta a loro”.

“Come posso non arrabbiarmi? Reagiresti così anche tu se continuassero a dire che tuo padre è gay in modo così cattivo, quando non è vero”

Ridacchiò vedendomi irritata e io gli tirai uno schiaffo sul braccio con il quale mi stringeva.

“La cosa che odio è che a volte ci si mettono pure i professori, poi mi vengono a chiedere scusa”

“Non è cosa nuova” disse.

“Devo distrarmi, raccontami di cosa parlavi con il tuo amico” cercai di mostrarmi serena.

Mi guardò e rise ironico.

“Amico? Quello è tutt’altro che un amico!” si stava innervosendo al ricordo del ragazzo “ogni volta che parlo quello mi interrompe per dire la stessa cosa che stavo cercando di spiegare io, e il professore premia sempre e solo lui”

“Se ti arrabbi, la dai vinta a lui” lo imitai cercando di usare la sua stessa voce.

Mi spinse via con leggerezza cercando di trattenere un sorriso.

“Lo sai cosa intendo dire” continuò attirandomi da lui di nuovo.

“Hai provato a parlarne con il professore?”

“Sì, ma dice che se non sono abbastanza sveglio allora è meglio che cambio corso” sospirò ancora visibilmente offeso.

“Allora svegliati e fai a quel ragazzo ciò che lui fa a te” incitai.

Mi guardò come se non ci avesse mai pensato e subito un’espressione di vendetta oscurò il suo viso.

Quella visione mi fece ridere e lui si unì a me.

“Che lezione hai ora?” domandai.

“Chimica e tu?”

Suonò la campanella.

“Anch’io” sorrisi.

Kenton era due anni più avanti di me con gli studi, perciò non frequentavamo mai gli stessi corsi.

“Che ne dici se oggi studiassimo insieme?” domandò speranzoso.

“Lo sai che devo prima chiedere”

Annuì e mi disse che avrebbe aspettato una mia risposta a fine mattina.

Scivolai dalla sua presa, gli lasciai un bacio sul collo e corsi a lezione ormai in ritardo.

 

Avevo imparato ad amare chimica perchè non potevo odiare tutto le materie, e anche perchè era quella che Kenton mi sapeva spiegare meglio.

Nonostante fossi la figlia del preside, non ero un genio a scuola e avevo delle difficoltà in certi argomenti, anche per questo motivo potevo stare del tempo con il mio ragazzo a studiare.

La lezione passò comunque lentamente, mentre nella mia testa cercavo di formulare la richiesta da fare a mio padre per stare quel pomeriggio insieme a Kenton.

Speravo non dicesse di no, perchè in quel periodo non ci eravamo potuti vedere molto e mi sentivo sola.

Però mio padre voleva essere a casa con noi mentre eravamo insieme, perchè nonostante tutto eravamo un ragazzo e una ragazza.

Alzai gli occhi al cielo a quel pensiero.

“Gardiner, l’argomento non è di tuo gradimento?” la professoressa interruppe il mio flusso di pensieri.

Tutti si girarono per vedere cosa avesse scatenato l’interesse di questa.

“No, mi scusi”

Lei mi lasciò con un sorriso forzato e continuò la sua spiegazione.

Dopo poco mi sforzai di prendere appunti, e questo aiutò a far passare il tempo più velocemente.

Quando la campanella suonò non persi tempo e uscii diretta in presidenza.

Solitamente non andavo mai durante l’orario scolastico da mio padre, però quel giorno avrei fatto un’eccezione.

Camminavo a passo svelto, per non arrivare in ritardo anche ad un’altra lezione, ma avrei preferito correre, anche se una delle regole lì era proprio non farlo.

Quando arrivai davanti alla porta feci un respiro profondo.

Non avevo paura, solo mi avrebbe riempito di domande e la cosa spesso mi turbava. Inoltre, il suo sguardo era molto autoritario e durante il lavoro poteva essere nervoso, ma  ce la potevo fare, alla fine era solo una richiesta, al massimo avrebbe potuto dire di no, quindi entrai.

Sperai di non averlo fatto.

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Capitolo 2
*** II ***


II


Sperai di non averlo fatto, di poter sparire prima che mi vedessero, ma i miei occhi avevano visto tutto e il mio cuore si era già bloccato.
Mio padre e il bidello, Mark, erano completamente nudi e adagiati uno sull’altro sulla sua scrivania.
Fogli, penne e quaderni erano sparsi a terra, mentre loro con movimenti ritmici continuavano senza vedermi, scambiandosi dei baci interrotti da gemiti.
La porta si chiuse di scatto e i due spostarono lo sguardo verso di me.
Fu come se il tempo si fosse fermato. 
Le emozioni che provavo erano contrastanti e mi veniva da piangere.
Non potevano almeno chiudere a chiave la porta? 
E io perché non avevo bussato? 
D’un tratto capii tutti gli sguardi che quei due si scambiavano e le voci che giravano per la scuola.
“Jade” tentò mio padre.
Si stava rivestendo e Mark insieme a lui.
Era la prima volta che lo vedevo insicuro e imbarazzato.
Sulla sua scrivania c'erano ancora le orme di calore dei due corpi che piano piano si dissolvevano.
Non riuscivo a guardarlo negli occhi dopo aver visto quella scena, così tentai di uscire, ma la sua voce impassibile e fredda mi bloccò.
“Jade, voglio che resti” 
Lasciai andare la maniglia della porta che mi ero tanto affrettata a prendere e mi voltai.
I due avevano i capelli scompigliati, labbra e guance rosse.
Mark lasciò uno sguardo, che non seppi decifrare, a mio padre e se ne uscì sfiorandomi il braccio.
Quando la porta si chiuse, mio padre si sedette dietro la scrivania mettendo in ordine quel poco che non era a terra.
Lo fissai senza dire niente, perché davvero non sapevo che cosa sarei riuscita a pronunciare. 
“Dovresti imparare a bussare. Anche se sono tuo padre, questo è pur sempre l’ufficio del preside…” cominciò.
“È colpa mia, quindi?” sbottai.
Il suo sguardo si indurì, ma poi fu come se un pensiero lo attraversasse e si addolcì.
“No, certo che no” si guardò le mani. 
Cercai di capire cosa stesse pensando, ma era impossibile entrare nella sua mente.
“Io non..” le parole non si mettevano in fila nella mia testa.
Aspettava la fatidica domanda.
“Ma da quando?” mi feci piccola nel chiederlo.
Lo vidi sollevato, e passandosi una mano sul mento disse “da quando l’ho assunto” 
Non realizzai subito, ma poi sì.
Mark lo conoscevo da sempre.
“COSA?” cercai di moderare la voce “anche quando c’era la mamma?” 
Non rispose a quella domanda, anzi si incupì. 
“Un giorno lo avresti scoperto, e sinceramente speravo fosse in un modo diverso”.
Era imbarazzato e sapevo quanto odiasse non avere il pieno controllo delle situazioni, ma in quel caso sembrò essere davvero umano, con sentimenti ed emozioni.
Feci un respiro profondo e cercai di trovare qualcosa da dire che non lo offendesse.
“Avresti potuto dirmelo” sussurrai.
Alzò lo sguardo appena in tempo prima che lo abbassassi io e notai che aveva il viso rosso.
“Mi dispiace, non volevo che tu pensassi…” si interruppe.
Lo guardai per farlo continuare, ma capii ugualmente.
Aveva paura del mio giudizio come quello di tutti gli altri, e mi sentii un po’ ferita nel profondo per quella mancanza di fiducia.
Mi avvicinai e gli posai una mano sulla spalla cercando di essere il più confortante possibile, mentre lui di colpo si alzò e mi abbracciò.
Era un contatto goffo il nostro, e subito mi irrigidii perché erano rare le situazioni in cui mostravamo affetto l’uno per l’altro.
Infatti, questo non durò molto, ma bastò a fargli comprendere che non lo giudicavo affatto, piuttosto era il modo in cui l’avevo scoperto ad avermi sconvolto.
Il silenzio che seguì fu un po’ imbarazzante.
L’immagine che avevo visto poco prima era proiettata nella mia mente e non riuscivo a cacciarla. Da piccola pensavo che mio padre riuscisse a leggermi i pensieri, e in quel momento speravo tanto che non fosse così.
Poi, aggiustandosi i gemelli dei polsini della camicia, parlò con voce ferma.
“Vorrei farti conoscere Mark e la sua famiglia” 
Rimasi basita.
Leggendomi nei pensieri - sperai di no - aggiunse “Sai, lui ha tre figli”
Non ero pronta ad affrontare Mark così da vicino e per di più i suoi figli, ma cercai di mostrarmi impassibile.
Dopo quella chiacchierata sembrava essersi tolto un peso dal petto. Era più sorridente e prima di farmi uscire dal suo ufficio mi poggiò le mani sulle spalle, come per darmi forza, per poi spingermi fuori.
In corridoio vidi Mark, poco lontano, seduto sulla sua scrivania che mi guardava con occhi indagatori per capire cosa stessi pensando di lui.
Tentai un sorriso per rassicurarlo e istintivamente si fece passare una mano tra i capelli, mentre io mi voltavo dalla parte opposta per andarmene a casa.
L’unica cosa che volevo fare era starmene a leggere libri, che mio padre avrebbe classificato come inutili, fino al suo ritorno quando avrei fatto finta di essere stata immersa nello studio da tempo. 
Quel pomeriggio non lo avrei passato con Kenton, volevo stare da sola e lui era l’ultima persona che desiderassi vedere in quel momento. Conoscendolo mi avrebbe fatto la predica per come ero entrata nell’ufficio e avrebbe dato ragione a mio padre in principio.


***
Nel tardo pomeriggio mio padre rientrò a casa, ma non era solo.
Con lui, ovviamente, c'era Mark. 
Li sentivo chiacchierare al piano di sotto.
Chissà quanto erano in confidenza ormai, e io non me lo ero mai minimamente immaginato.
Scesi lentamente le scale, indecisa se far finta di non essere in casa o il contrario, ma prima di prendere una decisione, mio padre mi chiamò e fu sorpreso di trovarmi già lì.
“Jade, stasera Mark cena con noi” disse.
Io annuii, incapace di aggiungere altro.
“E vengono anche i suoi figli” il suo tono fu incerto. 
Non ero sicura di sentirmi pronta ad un passo del genere. 
Era successo tutto così di fretta e la mia normalità era stata destabilizzata, ma come potevo dire di no senza risultare maleducata?
Così accettai e fui costretta ad aiutare i due a preparare la cena.
Mi sentivo talmente in imbarazzo, al contrario loro che continuavano a scambiarsi occhiate e battute nauseanti a doppi sensi.
Prepararono la tavola, mentre io tagliavo le verdure e quando suonò il campanello andarono ad aprire come se vivessero insieme da sempre.
Ero ancora intenta a tagliare le carote, quando la casa si riempiva, quindi fui costretta, dallo sguardo di mio padre, a lasciare il mio lavoro e andare dare il benvenuto agli ospiti. 
Feci un respiro profondo e uscii dalla cucina.
Nel corridoio c'erano Mark e mio padre che aiutavano due bambini a sfilarsi le giacche e un ragazzo che si limitava a guardare le foto appese alla parete.
Senza dire niente restai a fissare la scena, fino a quando mio padre non ritenne giusto fare delle presentazioni.
“Lei è Jade, mia figlia” disse sorridendomi.
Abbassai lo sguardo non appena tutti si girarono verso di me.
“Mentre loro sono Dawn e Benjamin” indicando i bambini che mi sorrisero timidi.
“E lui è Adam” il ragazzo non si degnò nemmeno di girarsi, come se nessuno lo avesse nominato.
Ci spinsero tutti in sala da pranzo mentre andavano a recuperare le portate per la cena.
Mi sedetti di fianco a Benjamin e di fronte mi ritrovai Adam che guardava i fratelli con fare annoiato.
Non avevo la minima idea di come cominciare un discorso. Era come se tutte le lezioni di buone maniere che mi aveva fatto mio padre, non fossero servite a nulla.
Persi la speranza di trovare qualcosa da dire, così mi limitai a fissare il vuoto.
Dopo poco mi accorsi che il vuoto era diventato il viso di Adam.
I suoi capelli neri erano disordinati come se fosse appena uscito dalla doccia e non se li fosse pettinati, ma i suoi occhi erano azzurri e freddi e sembravano uno specchio sul mare.
Aveva due tatuaggi visibili sul collo e un piercing al labbro inferiore.
Non pensavo che Mark potesse avere un figlio così ribelle.
Si accorse che lo stavo guardando e sperai di non essere arrossita, mentre lui fece un sorriso compiaciuto più a sè stesso che a me.
Anche lui mi ispezionò per bene, e mi ritrovai a sperare che mi trovasse carina o almeno non disgustosa.
Anche se avessi provato a parlare, non ci sarei riuscita; il suo sguardo mi zittiva ogni volta che tentavo di aprir bocca.
I suoi occhi erano talmente freddi e determinati che mi ritrovai a sperare che quella serata finisse ancora prima che fosse cominciata.
Finalmente i due uomini arrivarono portando la cena e la serata si animò un poco.
Un brusio leggero riempì la sala, ma sia io che Adam restavamo in silenzio.
Mi concentrai sul mio piatto e sulla precisione del taglio delle verdure, cercando di non curarmi dello sguardo di Adam fisso su di me che mi procurava un grande senso di insicurezza.
Ogni mio movimento era seguito da un enorme sensazione di imbarazzo.
Questa agonia continuò fino a quando mio padre non chiamò l’attenzione di tutti.
“Io e Mark abbiamo una proposta da farvi: ormai ci conosciamo da tanto e sapete tutti che siamo una coppia, quindi, vi trasferireste tutti qui?” sorrise amichevole.
I bambini gioirono, perché, per qualche strano motivo avevo notato, adoravano mio padre.
Notai solo dopo Adam irrigidirsi, e quando i nostri sguardi si incrociarono, lui si alzò e uscì dalla stanza, lasciando dietro di sè un enorme silenzio.

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Capitolo 3
*** III ***


III

 

Mio padre che urlava dal piano di sotto mi svegliò. Ero troppo destata dal sonno per capire cosa stesse dicendo.
Stava già litigando con Mark?
Ci misi un po' a realizzare che quest’ultimo se n'era andato la sera prima per seguire Adam, e quelle urla erano rivolte a me.
A fatica mi alzai e cominciai a vestirmi per un altro giorno di scuola.
Un paio di jeans e una maglietta, e mio padre entrò come una furia nella stanza.

Balzai per lo spavento e fissai spaventata la sua espressione arrabbiata e le sue mani strette ai fianchi.

“Che c'è?” chiesi con la voce ancora impastata.

“È un’ora che ti chiamo! Sei in ritardo!” urlò.

Allora finii di prepararmi il più velocemente possibile, mentre lui continuava a ripetere che non avevo privilegi anche se ero la figlia del preside.

Dieci minuti dopo ero già in macchina diretta verso la scuola, con un padre irritato e un’espressione di chi sta ancora dormendo.

Quando arrivai, mi diressi a testa bassa nella mia aula ed entrando nessuno mi riprese per il mio ritardo.

Alcune delle ragazze mi guardarono con aria scocciata, ma io ero troppo stanca per irritarmi, e quindi, mi sedetti in un banco completamente vuoto facendo finta di essere interessata alla lezione.

Mi ritrovai a pensare agli eventi della sera precedente, a come tutto fosse capitato così di fretta. Ora avevo una famiglia più grande; avrei dovuto sentirmi felice, ma perché tutto quello mi dava un grande senso di insicurezza?

La mia vita era stata stravolta in un giorno e non potevo considerarlo come qualcosa di positivo per me. Vivevo nel mio piccolo mondo felice, e le uniche mie difficoltà erano la scuola e la severità di mio padre; ma in quel momento realizzai che, nelle ultime ore, avevo provato una serie di emozioni negative che mi facevano detestare tutta quella situazione.

L’ansia nello stare nella stessa stanza con la famiglia di Mark, l’inadeguatezza sotto lo sguardo di Adam e l’agoscia che mio padre da un momento all’altro si infuriasse.

Non ero abituata a tutto quello, ma avrei dovuto farne un’abitudine, prima o poi.

 

***

Durante la pausa colsi l’occasione per andare da Kenton, l’unica mia sicurezza.

Nel mezzo del tragitto mi ritrovai ad avere le palpitazioni ogni qualvolta vedevo da dietro un ragazzo dai capelli neri. Adam. E quando questi si giravano, non sapevo dire se ciò che provavo fosse sollievo o delusione.

Appena vidi Kenton, i miei muscoli si rilassarono e solo lì capii quanto fossero rimasti tesi tutta la mattina. Gli corsi incontro - beh camminai veloce - per rifugiarmi tra le sue braccia, ma lui non ne sembrò felice.

Mi strinse a sé come se fosse costretto e quando mi lasciò, trovai della delusione nei suoi occhi.

“Cos’hai?” gli chiesi ciò che lui avrebbe dovuto domandare a me.

“Niente” sospirò.

Alzai gli occhi al cielo trattenendolo vicino a me.

“Non è vero” cercai il suo sguardo.

“Beh sono arrabbiato e deluso, va bene?”

Rimasi in silenzio pochi secondi.

“Ancora quel ragazzo ti ha rubato la gloria durante la lezione?” tentai.

“No, sei tu che mi hai deluso” rispose.

Restai spiazzata dalla sua risposta, non potevo aver rovinato qualcos'altro.

“Come, scusa?”

“Non mi hai raccontato niente di quello che è successo con tuo padre e lo ha fatto lui. Mi ha anche detto come hai reagito quando l’hai scoperto” scosse la testa disgustato.

Non sapevo cosa dire. Quello che mi irritava di più era che mio padre ne avesse parlato con lui con tanta facilità, e non con me, che dopo tutto ero solo sua figlia.

Oltretutto osava anche giudicare la mia reazione.

“Hai una vaga idea di come io mi possa sentire in questo momento?” chiesi sapendo già da che parte stava lui.

“Sicuramente soddisfatta, per essere riuscita a discriminare tuo padre solo perché è omosessuale”

“Discriminare? Kenton, cosa stai dicendo?” sentivo una stretta alla gola, come se il mio corpo stesse cercando di auto uccidersi.

“Ho bisogno di tempo, Jade. Non posso stare con una persona di questo genere” cercò di allontanarsi.

Lo afferrai per un braccio e lo trascinai in un angolo remoto del corridoio.

“Perché non mi chiedi come sto io, invece? Per non chiedi anche la mia versione dei fatti?” le lacrime avevano cominciato a rigarmi le guance “ sei troppo accecato dal fatto che l’unica opinione che conti è quella di mio padre, perché pensi di non poterlo contraddire”

Non mi lasciò finire e se ne andò, senza un abbraccio, una carezza o uno sguardo. Se ne andò come se io non fossi rimasta in mezzo al corridoio a piangere con tutti i ragazzi che mi guardavano.

Raccolsi le mie cose e me ne andai dalla parte opposta.

Se era tempo ciò di cui aveva bisogno glielo avrei dato, ma da quel momento in poi io sarei rimasta da sola.

 

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Capitolo 4
*** IV ***


IV

“Jade?” mi chiamò mio padre.
Sollevai lo sguardo verso di lui. 
“Dove sei?” chiese.
Aggrottai le sopracciglia e dissi “qua”.
“Stavi fissando il vuoto da un po’... sarebbe meglio impiegassi il tuo tempo in qualcosa di più utile” tornò a sfogliare i fascicoli che teneva in mano.
Il suo commento mi irritò perchè stavo ripercorrendo con la mente l’ultima conversazione tenuta con Kenton cercando di capire come fare pace, ma lui aveva interrotto il flusso dei miei pensieri.
Mi alzai dal divano sbuffando, il che mi fece guadagnare un’occhiata severa da parte sua, e me ne andai in camera. Lì mi buttai sul letto e passai il mio tempo a guardare il soffitto bianco.
Conoscevo Kenton da così tanto tempo, eppure non capivo dove avevo sbagliato con lui. Forse dovevo farmi seriamente degli amici, pur falsi che sarebbero stati, ma dovevo farmeli. Ero sola e la cosa non mi dispiaceva perchè ne ero abituata, ma in quel momento sentimenti contrastanti combattevano dentro di me e non sapevo con chi parlarne. Probabilmente non ne avrei accennato nemmeno a Kenton, però il solo pensiero che lui mi avrebbe ascoltata e consolata, mi faceva sentire meno in balìa di me stessa. 
Presi il cellulare e composi il suo numero senza pensarci.
Attesi due squilli e lui riattaccò senza nemmeno rispondermi.
Cosa stava succedendo?
Era davvero tutta mia la responsabilità? Perchè, allora, io non mi sentivo così colpevole?
Tentai nuovamente, ma scattò la segreteria. 
Mi si formò immediatamente un nodo in gola, non potevo aver davvero rovinato tutto.
Senza riuscire a frenarle, le lacrime che ero riuscita a reprimere per così tanto tempo, uscirono allo scoperto rigandomi le guance. 
Scossa dai singhiozzi nascosi il mio viso tra i cuscini, e lì restai finchè non ebbi necessità di respirare più profondamente.
Quello che successe dopo fu semplicemente il vuoto. Mi sentivo malissimo ed estremamente in errore nel non ritenermi in qualunque modo colpevole. Da un lato sapevo di non aver commesso nessun errore, ma perchè allora ero io in quella situazione penosa? Perchè non era Kenton che cercava di chiedermi scusa? Era lui che aveva aggravato la situazione.
E se invece quello fosse stato semplicemente un espediente per allontanarmi? Magari era stanco di me.
Mentre la mia mente lavorava attraversando strade sempre più contorte e paranoiche, mi accorsi del trambusto che proveniva dal piano di sotto.
Mi asciugai di fretta le guance e dopo essermi guardata allo specchio per assicurarmi che il mio aspetto non fosse così orrendo come sentivo dentro, mi affacciai dalle scale per guardare di nascosto cosa stesse succedendo.
Adam e Mark erano all’entrata che parlavano freneticamente con mio padre.
Scesi cercando di apparire normale e serena.
Mark mi salutò senza vedermi, mentre suo figlio mi studiò come se avesse capito ciò che avevo appena passato.
Abbassai lo sguardo rendendomi conto che la mia sceneggiata non aveva funzionato, e nel frattempo appresi alcuni frammenti della loro conversazione.
“...li ha presi, ma non è tornata” 
“Dobbiamo cercarla immediatamente!” 
Mio padre si infilò la giacca.
“Che succede?” chiesi preoccupata. 
Tutti si fermarono a guardarmi accorgendosi solo in quel momento della mia reale presenza.
“Viene con noi?” chiese Mark a mio padre.
Lui annuii correndo all’uscita.
Mi infilai le scarpe e la giacca di getto e li seguii.
I due entrarono nella macchina di mio padre e Adam mi fece segno di andare con lui in quella che doveva essere di Mark.
Fui sorpresa dalla sua iniziativa di portarmi con sè, ma quello non era decisamente il momento di pensare a quello.
Accese il motore ancora prima che chiudessi la portiera, e partì seguendo l’auto davanti a noi.
Andava davvero più veloce del normale, il che mi fece aggrappare alla maniglia della portiera per non essere continuamente sballottata da una parte all’altra.
“Cosa sta succedendo?” domandai poco dopo.
Lui esitò a parlare, ma finalmente sentii la sua voce: era roca e profonda.
“Mia madre ha portato via Benjamin e Dawn” 
Mi vergognai di essere stata ammaliata dalla sua voce, invece di intendere subito ciò che aveva detto.
“Come portato via?” chiesi ingenua.
Mi guardò scocciato.
“Se parliamo la stessa lingua, hai capito” 
Quello mi zittì, anche se volevo saperne di più.
Era sempre così scontroso?
Lo fissai di soppiatto e lo vidi contrarre la mascella.
Frenò di colpo davanti ad un semaforo rosso mentre la macchina dei nostri padri era riuscita ad andare avanti.
Lo vidi stringere il volante con forza attendendo il segnale per partire, mentre io colsi l’occasione per rilassare il braccio che aveva afferrato la maniglia della portiera.
“Non capisco come sia possibile” si passò una mano tra i capelli.
Presi quasi uno spavento quando parlò, ormai ero abituata al suo silenzio.
“Tutta colpa di mio padre” la sua voce si fece più dura.
“Non credo che…”
“Tu non ne sai niente, quindi stanne fuori” mi liquidò.
Rimasi un attimo senza parole, poi la rabbia cominciò a salire anche dentro di me.
“Non posso starne fuori ora che sto andando con te proprio a cercare tua madre e se solo mi spiegassi forse potrei saperne di più e potrei… aiutarti” 
Il semaforo divenne verde e lui accelerò di colpo.
Dopo pochi minuti avevamo raggiunto gli altri e finalmente mi rispose.
“Non ti conosco, non posso fidarmi” guardò fisso la strada mentre svoltava a destra.
“Dovresti, dato che ormai siamo fratellastri” 
Sterzò bruscamente facendomi balzare.
“Non ricordo nemmeno il tuo nome” 
La sua affermazione mi fece male in qualche modo, perchè io il suo lo ricordavo molto bene. 
Rimasi in silenzio e lui mi guardò.
“allora?” 
“cosa?” 
“come ti chiami?” 
Con un sospiro dissi “Jade”.
Da lì nessuno parlò più.
Per la seconda volta, quella giornata, il mio umore era stato calpestato senza pietà.
Le persone ce l’avevano con me o era il mondo che girava nel verso sbagliato?
L’auto accostò davanti ad una casa molto piccola in vendita.
Nessuno si mosse per quelli che sembrarono millenni, mentre io guardavo fuori cercando di capire qualcosa.
Adam si mosse e sganciò la sua cintura seguendo i due che si trovavano già nel cortile, e io feci lo stesso.
Non stavo capendo niente. 
Il vento soffiava come non mai e le luci dei lampioni illuminavano a scatti quella casa vuota.
“Cosa stiamo aspettando?” chiesi.
Adam mi guardò freddo e io mi sentii tremendamente sciocca e fuori posto.
Quel ragazzo mi avrebbe creato dei seri complessi.
Mark si diresse verso l’ingresso ed infilando una chiave nella toppa si accorse che questa era già aperta.
Rivolgendo uno sguardo al suo compagno la spinse e questa si spalancò.
L’interno era vuoto e buio, ma senza un accenno di paura lui entrò.
Mio padre lo seguì e anche Adam, che però tornò indietro pochi secondi dopo avendo, probabilmente, notato la mia assenza.
“Jade, muoviti” 
Gli corsi incontro e lui chiuse la porta dietro di noi.
Il buio ci avvolse e non mi feci prendere dal panico grazie alla torcia del suo cellulare che aveva acceso immediatamente.
Lo seguii e intravidi nella penombra una rampa di scale che lui salì, come se sapesse già della sua esistenza.
Più gradini salivo più il rumore di alcune voci si amplificava.
Adam avvertii il mio respiro irregolare e attese alla fine della rampa facendomi luce sugli ultimi gradini. Forse fu la prima volta in cui provai gratitudine per lui.
Mi aspettai di trovare lì anche Mark e mio padre, ma di loro nessuna traccia.
“Dove sono?” sussurrai.
“Nel seminterrato, ma penso che lei sia qui”
Si fermò davanti ad una porta dietro la quale si sentiva una voce che canticchiava una melodia.
Percepii dell’angoscia in Adam e istintivamente gli sfiorai una mano.
Con più coraggio, afferrò la maniglia ed entrammo. 

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Capitolo 5
*** V ***


V

 

“Adam sei arrivato, finalmente! Com’è andata a scuola?” sorrise la donna che stringeva Dawn tra le braccia.

Il ragazzo non le rispose e con lo sguardo perlustrò tutta la stanza alla ricerca del fratello.

“Dov’è Benjamin?” chiese con voce ferma.

Fu come se non avesse parlato, lei ricompose il suo sorriso e tornò a dondolare Dawn tra le sue braccia.

La bambina sembrava addormentata.

Mentre attentamente osservava la creatura che teneva in braccio, parlò.

“Perché hai portato lei?” disse piano.

Mi voltai verso Adam, mentre questo guardava la donna.

“Perché hai portato lei?!” urlò e sobbalzai per lo spavento.

Indietreggiai qualche passo cercando di togliermi dal suo raggio visivo, ma lei mi guardava come se fossi un mostro. I suoi occhi erano pieni di rabbia e non sapevo cosa avessi fatto per aver provocato tutto quello.

Adam aveva uno sguardo grave, ma non disse nulla, come se stesse pensando avidamente a cosa potesse fare.

“Portala via...SUBITO!” si alzò di scatto e la bambina crollò a terra.

Solo in quel momento mi resi conto che era impossibile che stesse dormendo, altrimenti si sarebbe certamente svegliata.

Adam scattò in avanti per prendere la sorella, ma lei lo fermò.

Il suo sguardo era di nuovo dolce e calmo mentre lo guardava.

“Non svegliarla, sta dormendo” accarezzò la bambina che si trovava in una posizione scomposta a terra.

“Anne, non…” cominciò lui.

Gli occhi della donna saettarono verso di lui.

“Io sono tua mamma” poi continuò aumentando l’ira nella sua voce “è tuo padre che ti racconta tutte quelle cose su di me, non è così? Lui è un verme! Non devi ascoltarlo, Adam! Vieni via con me!”

Mentre questa parlava si era presa la testa tra le mani e dopo un po’ cominciò a sussurrare cose incomprensibili stringendosi le tempie sempre più forte.

Guardavo Adam che era pietrificato davanti a lei, poi sentii delle voci in corridoio avvicinarsi.

Non riuscivo a staccare gli occhi da lui; il suo sguardo era perso nella vista di sua madre che stava letteralmente impazzendo.

Nella stanza entrarono correndo mio padre e Mark che si fiondarono dalla bambina, e due uomini che presero la donna per le braccia e la trascinarono via, mentre questa urlava e bestemmiava.

Il mio cuore batteva all’impazzata, ma nonostante tutto mi sentivo come se qualcosa dentro di me si fosse spezzato.

Vidi portare via la bambina mentre mio padre mi urlava qualcosa disperato, ma io restai lì a pochi passi da Adam.

Le sue mani erano strette a pugno al contrario delle mie che tremavano terribilmente.

Non tentai nemmeno di immaginare cosa stesse provando nell’aver visto una simile scena di sua madre.

Mi rassicurava la vista delle sua spalle che leggermente si alzavano ad ogni respiro, ma non dava nessun altro segno di vita.

Non so per quanto tempo restammo lì, ma fu lui a muoversi e quando si girò per uscire, esitò rimanendo sorpreso nel vedermi ancora dietro di lui.

Mi superò senza parlare, e solo dopo mi resi conto che i suoi occhi erano lucidi, ma la sua espressione completamente impassibile.

 

***

“Kenton, non puoi evitarmi per sempre. Ti prego, rispondimi” riattaccai il telefono dopo aver lasciato un messaggio nella segreteria.

Quel giorno non mi ero sentita di andare a scuola, perciò avevo passato la mattinata a guardare serie tv mangiando gelato.

Non ero triste, ma non sapevo cosa stessi provando. Gli eventi del giorno prima erano fissi nella mia mente e la cosa che più mi feriva era il pensiero di Adam.

Mi venne l’impulso di chiamarlo, ma non avevo il suo numero e non avrei nemmeno saputo cosa dirgli.

Mi dispiaceva per lui, ma era così odioso che il dispiacere si fece superare dallo spregio.

Lui mi faceva sentire inferiore e quando mi guardava non riuscivo a parlare senza perdere il filo del discorso o senza sbagliare pronuncia delle parole, perchè i suoi occhi erano duri e freddi.

Era impenetrabile. Le sue espressioni non facevano trapelare niente di quello che provava dentro e questo lo faceva sembrare un insensibile e un orgoglioso.

Era odioso parlare con una persona del genere, ma il punto era che non aveva nemmeno spiccicato parola.

Esisteva un comportamento peggiore? Capivo la rabbia, la delusione e la disperazione che probabilmente provava in quel momento, ma io volevo solo essere d’aiuto, e lui non era stato altro che un impertinente.

Avrei voluto essere rimasta a casa o essere rimasta zitta nell’auto con lui, almeno mi sarei risparmiata questi pensieri, mentre mi ritrovavo a farmi paranoie su cosa avrei dovuto dirgli o meno.

Ero delusa dal fatto che riuscissi a ricordare perfettamente solo ciò che mi aveva fatto sentire la sua presenza e non quello che era accaduto a Dawn. Dopo ciò che era successo, nessuno mi aveva più dato sue notizie; ero stata riportata a casa e tutti erano spariti, lasciandomi sola con i miei pensieri.

Sentii vibrare il cellulare tra le mie mani e lessi il nome di Kenton sullo schermo.

Il mio cuore sussultò un poco.

“Kenton?” chiesi aspettando la sua voce.

“Jade, non mi va di parlare con te”

“Ma mi hai chiamata” risposi delusa.

“Sì, solo per dirti di non cercarmi più… per un po’” e riattaccò.

Restai di pietra di fronte a tanta freddezza.

Come poteva essere così distaccato? In quel periodo non lo riconoscevo più, ma nonostante tutto ne sentivo la mancanza. Avevo voglia di parlare con qualcuno perchè la mia testa stava scoppiando dai troppi pensieri, ma lui non voleva avere a che fare con me in quel momento.

Così mi lasciai trascinare dal flusso dei miei ricordi tanto che mi addormentai con il viso di Adam e il rifiuto di Kenton impressi nella mente.

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Capitolo 6
*** VI ***


VI

 

Mi sentivo tremendamente sola. I miei pensieri erano rivolti ad Adam e non riuscivo a tenerli a freno.

L’episodio accaduto il giorno prima era stato così scioccante che non riuscivo a liberare la mente. Era qualcosa troppo impensabile, eppure era successo con una tale casualità da non sembrare vero.

Avrei davvero voluto stargli accanto, ma non era possibile soprattutto dal momento che lui sembrava non sopportare la mia presenza.

Ogni volta che la mia mente mi rimandava a lui mi si formava un nodo allo stomaco, un misto tra nausea e mancanza, che non faceva altro che incrementare i pensieri e il sentimento di solitudine che li seguiva.

La maggior parte della giornata la passavo a guardare nel vuoto perchè la mia testa era appesantita dalla sua immagine e mi sentivo una stupida, perchè probabilmente lui non era così incentrato su di me da pensare a come potessi aver reagito. E allora provai rabbia perchè ero sempre l’unica a cui importava qualcosa delle altre persone, ma delusi me stessa ancora una volta quando, dopo poco, alla rabbia erano già stati sostituiti altri pensieri che mi inebetivano.

Nascondevo la testa sotto al cuscino, nella speranza che almeno quello riuscisse a sopprimerli, ma non c’era nulla da fare. L’unica cosa che avrebbe cessato la mia agonia era vederlo.

Così indossai scarpe e giacca e andai a casa di Mark.

 

Camminai velocemente sotto lo sguardo degli sconosciuti che si godevano una passeggiata tranquilla, al contrario io ero ansiosa e già pentita della mia scelta, ma ormai ero in strada e non volevo tornare indietro.

Non sapevo cosa gli avrei detto, ma ero certa che la delusione che mi sarebbe stata fornita dal suo comportamento avrebbe cessato ogni mia immaginazione.

Arrivai davanti alla casa ansimante e con i polpacci doloranti, poi mi lasciai un minuto per riprendermi e suonai il campanello.

Dovetti suonare una seconda volta e come previsto, con una faccia scocciata venne ad aprire Adam.

Forse immaginai, ma il suo sguardo per un attimo era cambiato vedendomi, ma era praticamente impossibile che lui potesse provare qualcosa anche solo minimamente positivo perciò seppellii le speranze.

“Ciao” disse.

Aprì il cancello e entrò di nuovo in casa lasciando la porta aperta.

Seguii il suo percorso e mi ritrovai da sola, non mi aveva aspettata, ma dopo pochi secondi la sua testa sbucò dalla cucina e intravidi nuovamente quello sguardo.

Mi schiaffeggiai mentalmente.

“Mi stavo preparando un tè, vuoi favorire?” domandò con estrema gentilezza.

Annuii e seguii il fischiettio della teiera fino alla cucina.

L’ambiente era caldo e accogliente.

Lo guardai mentre versava con cautela l’acqua bollente nelle due tazze, per poi infilare una bustina di tè in ognuna.

L’acqua si infiltrò nel tessuto e diffuse in sè il colore delle erbe.

“Scotta” mi avvertì prima che afferrassi la bevanda.

Si appoggiò al banco della cucina e mi guardò attendendo che parlassi.

Sorseggiai dalla mia tazza, ustionandomi il palato, e lui dovette vedere le lacrime agli occhi che mi si erano formate perchè si mise a ridere e mi porse dell’acqua fresca.

“Grazie” risi anch’io.

“Allora? Il motivo della tua visita?” chiese con un accenno di sorriso ancora marchiato in viso.

L’acqua portò sollievo al mio palato e la vista di un Adam sorridente lo portò agli occhi.

“Ero in pensiero” pronunciai semplicemente.

“In pensiero per me?”

“Sì, sai dopo quello che è successo” guardai dentro alla mia bevanda temendo la sua reazione.

“Come vedi, con un po’ di tè si risolve tutto” sorrise di nuovo.

Era strano vederlo in quel modo.

Ricambai il suo sorriso, ma abbassai lo sguardo in fretta perchè il nodo allo stomaco era tornato.

Mi spaventava l’effetto che aveva su di me in quel momento e provai il profondo desiderio di andarmene.

“Allora io vado” dissi appoggiando la tazza vicino al lavandino.

Lui fece uno sguardo confuso.

“No dai”

Mi voltai e lo ritrovai pochi passi più avanti.

“Sei appena arrivata”

La necessità di andarmene era solo un tentativo per scappare da lui, ma invano perchè i pensieri mi avrebbero assillato lo stesso.

Perchè non era stato scontroso come sempre? Sarebbe stato molto più semplice odiarlo, ma non altrettanto togliermelo dalla testa.

Ci spostammo in salotto dove ci accomodammo e iniziammo a parlare.

Scoprii in lui un ottimo intrattenitore di ospiti e assolutamente il contrario di uno scorbutico e insopportabile ragazzo.

Ascoltavo ciò che mi diceva e rispondevo con entusiasmo a quello che mi chiedeva, cercando di non fissare i suoi occhi troppo a lungo.

Ad un certo punto del suo racconto mi sfiorò addirittura il ginocchio con il suo, ma fui io a spostarmi un poco.

Avevo paura di quello che stavo provando, non più di lui.

Mi sentivo febbricitante e il suo costante sorriso non smetteva di farmi sentire un’altra persona.

Mi chiesi come potesse essere così spensierato dopo quello che era accaduto il giorno prima, ma non domandai perchè non volevo rovinare tutta l’atmosfera.

Dopo poco non resistetti più e dopo la sua ultima occhiata, domandai dove fosse il bagno e me lo indicò.

A passo svelto mi ci infilai dentro e accorsi al lavandino dove l’acqua gelida uscì di getto per bagnarmi la faccia.

Guardai allo specchio il mio volto che gocciolava e mi sentii un’assoluta idiota.

Mi passai l’asciugamano sul viso e ricomposi i capelli.

Dovevo smetterla con quelle sciocchezze e convincermi che era tutto nella mia testa.

Lanciai un ultimo sguardo severo al mio riflesso e uscii.

Adam si trovava ancora nello stesso punto di prima.

“No, ora non può rispondere” chiuse una telefonata.

“Eccomi” sorrisi e mi sedetti nuovamente di fianco a lui, cambiando espressione quando vidi che quello che aveva appena appoggiato era il mio telefono.

“Continuava a squillare” si giustificò con espressione seria.

Vedendo che non dicevo nulla aggiunse “Era Kenton”

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