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La
pioggia scendeva copiosa da ore e secondo le previsione metereologiche avrebbe
continuato ancora per giorni. Uscendo dalla fermata della metropolitana la
ragazza sollevò il cappuccio e aprì immediatamente l’ombrello allo scopo di
evitare anche la più insignificante delle gocce d’acqua.
La
stazione di Baker Street era sorprendentemente trafficata, per motivi che lei non
riusciva a comprendere. Doveva ancora abituarsi all’aria di Londra, così come
al suo caos perenne, alla moltitudine di persone presente ovunque, al clima di
insicurezza che aleggiava delicato ma costante nei luoghi più affollati.
Superato
l’ingresso della stazione ed evitata la folla maggiore, la ragazza e il suo
ombrello giallo proseguirono lungo Baker Street con passo insicuro per i cinque
minuti che separavano la metropolitana dal numero 221B.
Appena
ebbe raggiunto il noto indirizzo si bloccò, osservando la facciata e la porta
d’ingresso oltre l’ombrello. Ripensò mentalmente a quello che avrebbe dovuto
dire; aveva preparato un discorso che secondo lei poteva funzionare, eppure
ogni volta che tentava di ripeterlo qualcosa cambiava e, soprattutto, le
sembrava perdere di senso. Respirò a fondo, eliminò l’aria in eccesso e si
abbassò il cappuccio. I capelli mossi, gonfi, rossi come ciliegie, le
scivolarono sulle spalle del cappotto nel momento esatto in cui lei prendeva
forza e colpiva la porta con il battente.
Aspettò
un po’, sempre sotto la pioggia, con il cuore che le martellava contro il petto
e la convinzione di non avere un’argomentazione sufficientemente valida a suo
favore. Oltre quell’ingresso c’era Sherlock Holmes, qualsiasi cosa lei avrebbe
potuto dire quell’uomo l’avrebbe sicuramente passata ai raggi X e resa
traballante. Sapeva il suo modo di lavorare e sapeva anche alla perfezione che,
quasi sicuramente, sarebbe stata allontanata da quell’indirizzo con un nulla di
fatto.
Finalmente
la porta si aprì. Davanti a lei comparve Mrs. Hudson, che aveva già avuto modo
di intravedere alla televisione o sui giornali – oltre ad aver letto di lei sul
blog di John Watson.
La
signora la guardò, sorrise e chiese: «Hai bisogno di qualcosa?»
I
suoi modi parvero immediatamente garbati alla ragazza. Era come l’amabile
proprietaria di casa, quella che fa trovare il tè sempre pronto e ripiega sul
caffè nel caso fosse rimasta senza. Tuttavia il suo cuore non ne voleva sapere
di calmarsi, benché ad aprirle non fosse stato l’uomo per cui era andata fin
lì.
«Ehm,
sì, grazie. Mrs. Hudson, giusto?»
Attese
il cenno affermativo della donna prima di ricominciare a parlare: «Mi chiamo
Emily, Emily Price. Sono qui perché… ehm…»
La
sua argomentazione cominciò a vacillare fin da subito. Come si poteva spiegare
senza troppi problemi il perché lei era lì? Come poteva fare a illustrare a una
signora come Mrs. Hudson quello che aveva intenzione di fare? Cercò di
riordinare in fretta i pensieri e ci stava quasi riuscendo quando la donna si
accorse che la sua interlocutrice era ancora sotto l’acqua.
«Oh,
vieni dentro cara. Sta piovendo proprio forte. Entra, possiamo parlarne in casa
mia.»
Fece
accomodare Emily, che la ringraziò mentre chiudeva l’ombrello e lo posava
accanto alla porta. La ragazza lanciò un’occhiata alle scale che procedevano
verso il primo piano, immaginando Sherlock Holmes salirle, il cappotto lungo,
suggestivo, ondeggiare a ogni gradino.
«Per
di qua.»
Sentendo
la voce della donna si ridestò dai suoi pensieri e seguì la signora Hudson fino
alla sua cucina, piccola ma accogliente, sedendosi al tavolo, su indicazione
della donna.
«Cosa
ne dici se ti preparo un po’ di tè?»
Emily
la guardò, piacevolmente colpita da quelle premure. Si sentiva umida per colpa
della pioggia ed era anche piuttosto infreddolita, tuttavia non voleva abusare
della cortesia di quella signora.
«Ah,
no, non serve, la ringrazio» disse.
Mrs.
Hudson parve non dar peso a quelle parole. Prese una tazza e vi versò dentro
del tè appena fatto, lasciando al colino il compito di filtrarne le foglie.
«In
casa mia c’è sempre del tè pronto» rivelò alla ragazza, strizzandole l’occhio.
Emily
le sorrise, ispirando l’aroma che saliva dalla sua tazza. Rifiutò il latte e
bevve subito un sorso di tè nella speranza di sentirsi rinvigorire. La signora
Hudson si sedette di fronte a lei, la sua tazza fra le mani e diede una lunga
occhiata a Emily prima di chiederle: «Sei qui per parlare con Sherlock,
immagino.»
C’era
una nota di affetto nel modo in cui lei pronunciava il nome del detective. La
ragazza si sentì rincuorata dall’accoglienza che la donna le stava riservando.
Tuttavia erano tornati alla conversazione iniziale, ovvero al perché lei si
trovava lì in quel momento, al numero 221B di Baker Street.
«Sì,
esattamente» cominciò Emily, cercando di capire da che parte le conveniva
iniziare a spiegare la situazione alla sua interlocutrice. Decise di cominciare
dal principio: «Vede, Mrs. Hudson, mi sono trasferita a Londra solo poche
settimane fa. Mi sono laureata in criminologia e sono venuta fin qui per poter
conseguire un master sempre in questo settore.»
La
signora Hudson la guardò, sorpresa e incuriosita. «Fin qui da dove?»
«Newport.»
«Ho
capito. Ma, tutto questo cosa c’entra con Sherlock? Per caso hanno ucciso uno
dei tuoi professori?»
Emily
la guardò confusa per un momento, aggrottando leggermente la fronte.
Fortunatamente Mrs. Hudson non se ne accorse, troppo intenta a sorseggiare il
suo tè.
«No,
niente del genere. I miei professori stanno tutti bene. Perché… uno di loro
sarebbe dovuto morire?»
La
donna sollevò le spalle. «Oh non lo so. Altrimenti perchè avresti bisogno di
parlare con Sherlock?»
Quella
frase spiegò molte cose a Emily, come il fatto che, con tutta probabilità, ogni
estraneo agli occhi della signora Hudson che entrava in quella casa lo faceva
esclusivamente per portare lavoro a Sherlock Holmes, e anche sulla spiegazione
del motivo per cui, nelle storie di John Watson, la donna parlava sempre tanto
poco. Faceva tenerezza, ma non si poteva ignorare il fatto che fosse piuttosto
ingenua.
«Ho
bisogno di parlare con lui per i miei studi. Il master» precisò infine, a
seguito dell’occhiata dell’altra. Capì che non sarebbe servito a molto
continuare su quella strada e decise di arrivare subito al punto: «In poche
parole, voglio scrivere la tesi di laurea per il mio master su Sherlock
Holmes.»
Si
zittì, in attesa di una reazione. Mrs. Hudson la guardò un momento, prima di
dipingersi un’espressione dispiaciuta in volto, cosa che rese immediatamente
incerta Emily.
«Ma
cara, c’è già John che scrive di Sherlock.»
«Oh,
no, no. Non voglio scrivere dei casi che risolve. Voglio scrivere della sua
psicologia.»
«La
sua psicologia?»
«Sì,
esatto» replicò subito la ragazza, sentendosi rinvigorita. «Mrs. Hudson, io ho
studiato psicologia criminale. Sono in grado di riuscire a comprendere e
analizzare il modo in cui ragionano certi criminali. Anche il signor Holmes riesce
a fare questo e ci riesce mille volte meglio di me. La sua mente è
incredibilmente evoluta, lavora come un computer, forse addirittura meglio. È
la sua psiche ad affascinarmi ed è di questa che vorrei studiare, di cui vorrei
parlare nel mio master. Vorrei cercare di capire in che modo il suo cervello
riesce ad assorbire ed elaborare in così poco tempo molteplici informazioni, di
come riesca ogni volta ad analizzare la moltitudine di scenari che gli si
parano davanti e di come sia in grado di trovare la soluzione giusta al
problema. Ho affrontato la psiche criminale, ora vorrei affrontare quella
dell’eroe. È per questo che sono qui.»
La
sua interlocutrice rimase in silenzio per un po’. Emily bevve un altro sorso di
tè nella speranza di alleviare quella strana atmosfera.
«Dovresti
parlare con Sherlock di questa cosa, io non è che ne capisca molto» disse
infine la signora Hudson.
«Lui
non c’è, quindi?»
«No.
È uscito questa mattina presto e non è ancora tornato. Ma non pranza quasi mai
a casa, quindi non mi sorprende.»
Emily
annuì leggermente con il capo, segnandosi in testa questa informazione.
«Perciò,»
riprese la signora Hudson, «se vuoi studiare la mente di Sherlock dovrai venire
qui spesso.»
La
ragazza puntò immediatamente lo sguardo su di lei, con improvviso interesse.
Erano giunte alla seconda parte del suo discorso, quella che le avrebbe dato il
più importante dei suoi biglietti: quello per andare, o per restare.
«Sì»
cominciò, cercando le parole migliori. Aveva già capito che girare intorno
all’argomento non sarebbe servito, perciò decise di non farlo. «So che il
signor Watson non vive più qui e che, quindi, c’è una stanza vuota.»
«Eh,
già. John adesso vive con Mary. Credo che Sherlock ne abbia sofferto parecchio
anche se si rifiuta di darlo a vedere.»
Emily
segnò un altro appunto mentale a riguardo. Tuttavia si rese conto che la
signora Hudson non aveva abboccato all’amo e, nuovamente, preferì dirle tutto
subito.
«È
stato il signor Holmes a informarmi della cosa. Della camera libera, intendo.»
«Sherlock?
Credevo non lo conoscessi.»
«Infatti
è stato Mycroft.»
«Ah,
conosci Mycroft?»
Mrs.
Hudson parve improvvisamente interessarsi alla cosa, notò Emily sorridendo.
«Già.
È più corretto dire che lui ha conosciuto me. Quando sono arrivata a Londra con
l’intenzione di scrivere su Sherlock Holmes non sapevo bene come muovermi.
Mycroft, in un modo o nell’altro, è riuscito a sapere dei miei progetti e mi ha
informato che al 221B di Baker Street Sherlock non aveva più il coinquilino,
che viveva da solo e che quindi c’era una stanza libera. Mi ha anche detto che
se dovesse servirmi aiuto con l’affitto mi avrebbe potuto dare una mano lui,
purché tenessi d’occhio suo fratello.»
Sentirsi
pronunciare quelle parole le fece uno strano effetto, ma mai come quello che le
provocò la signora Hudson quando dimostrò di aver ignorato completamente tutta
la faccenda chiedendole solo: «Vorresti trasferiti qui?»
Emily
annuì. «Se c’è la possibilità, sì. Significherebbe stare a stretto contatto con
l’argomento della mia tesi, riuscire a…»
Non
terminò la frase. Mrs. Hudson scosse la testa. «Oh, cielo, vivere con
Sherlock.»
Emily
si preparò al classico discorso sul fatto che una ragazza non dovrebbe vivere
sotto lo stesso tetto di un uomo, specie se sconosciuto e così via, ma a quanto
pareva i discorsi convenzionali non erano il genere della donna che aveva
davanti in quel momento.
«Dovresti
vedere in che condizioni riduce sempre casa sua. Nel frigorifero ci sono pezzi
di corpo umano.»
Emily
inclinò leggermente la testa, prendendosi un nuovo appunto mentale.
«E
il disordine, non ti dico. Sai che non mi permette nemmeno di spolverare? “La
polvere parla”, dice, e non posso toccargliela.»
La
donna era in procinto di continuare ancora quando, fuori dalla porta, si
sentirono dei rumori. L’ingresso di Baker Street era appena stato aperto e
richiuso e il rumore di passi lungo le scale non lasciavano adito a dubbi.
«È
tornato. Ti conviene parlarne con lui. Ma io te lo sconsiglio» le sussurrò Mrs.
Hudson.
«Di
trasferirti qui. Non fa bene ai nervi, credimi.»
La
ragazza si alzò, lasciando il tè non ancora finito sul piano del tavolo. Seguì
la signora Hudson lungo le scale, sentendosi sempre più insicura. Cominciò ad
agitarsi molto più di prima, di quando era in strada davanti all’ingresso della
casa. Contò i gradini, ascoltò il loro cigolio sommesso mentre li percorreva
uno dopo l’altro. Arrivati in cima, davanti alla porta lasciata aperta, Mrs.
Hudson bussò un paio di volte contro lo stipite.
«Si
può, Sherlock?»
La
donna entrò nel piccolo soggiorno, seguita dalla ragazza. L’uomo era in piedi
davanti al camino, di spalle.
«È
una cliente?» chiese all’improvviso, senza voltarsi.
Emily
non rispose, fu la signora Hudson a farle capire che il detective parlava con
lei.
«Non
esattamente» disse poi la ragazza, quando ebbe capito che era compito suo dare
la risposta.
A
quelle parole Sherlock Holmes si voltò. Il loro primo contatto visivo fece
fremere completamente Emily. L’uomo era di poco più basso di come se lo era
immaginato, ma rimaneva il fatto che era decisamente più alto di lei. I capelli
spettinati, scuri, facevano risaltare i limpidi occhi celesti, striati di
verde, fissi sul volto di Emily.
Lei
lo sapeva. Sapeva alla perfezione che quegli occhi chiari la stavano
scandagliando alla ricerca di dettagli, informazioni utili, ogni possibile cosa
che potesse svelare la sua presenza in quella stanza. C’era dell’interesse nel
viso di Sherlock e lei intuì che doveva essere nato nel momento esatto in cui
aveva dato la sua prima risposta.
«Lei
dev’essere la ragazza con l’ombrello giallo1» affermò poi l’uomo.
Emily
sorrise, annuendo.
«Mrs.
Hudson di solito in queste circostanze si offre del tè» riprese a dire
Sherlock, senza smettere di guardare Emily, mentre lei era troppo affascinata
all’idea di vedere Holmes in azione per sentirsi a disagio dal modo in cui lui
continuava a scrutarla.
«Gliel’ho
già servito» lo informò la signora Hudson.
«Mi
riferivo a me, infatti. Del tè, per favore.»
La
donna si avviò lungo le scale borbottando qualcosa di molto simile a un “Per
l’amor del cielo”, lasciando Emily da sola nella stanza con Sherlock.
«Galles,
eh?» chiese lui.
La
ragazza sorrise. «Esattamente.»
«Di
dove?»
«Newport.»
«Avrei
detto Cardiff.»
«Ho
studiato là, in effetti.»
Sherlock
distese leggermente le labbra. Invitò Emily a sedersi sul divano, cosa che la
ragazza fece guardandosi intorno.
«Non
ci siamo presentati» le fece notare Sherlock appena lei si accomodò.
«Mi
chiamo Emily Price, Mr. Holmes.»
«E
a cosa devo la sua presenza qui?»
«La
prego mi chiami Emily. Odio tutta questa formalità, mi fa sentire vecchia.»
L’uomo
acconsentì con un rapido cenno, ma prima che potesse fare altro la signora
Hudson ricomparve nel soggiorno, il vassoio con il tè per Sherlock fra le mani.
Lui si servì, infine si sedette sulla sua solita poltrona, mescolando
accuratamente il contenuto della sua tazza.
«Dicevi?»
incalzò poi la ragazza. Lanciò un’occhiata a Mrs. Hudson per farle intendere di
lasciarlo solo con Emily, dopodiché tornò a concentrare la sua attenzione sulla
giovane.
«Vuole
sapere perché sono qui, quindi» esordì lei, cercando di mettere in fila le
parole nel modo migliore.
«Non
ci trovo niente di male. Sei a casa mia e penso che sia tuo dovere informarmi
del perché.»
Emily
respirò a fondo, cercando di riordinare le idee. Sapeva che quel gesto non era
sfuggito al detective, ma non gli diede peso. Ricominciò dal principio. Spiegò
a Sherlock della sua laurea in scienze criminologiche e della sua intenzione di
conseguire un master lì, a Londra. Arrivata al punto cruciale si fermò di
colpo, sentendosi improvvisamente in imbarazzo. Sherlock l’aveva osservata in
silenzio per tutto il tempo; aveva sorseggiato un po’ il tè, poi l’aveva posato
e aveva congiunto le mani davanti alla bocca. Emily lo aveva guardato fare
tutto ciò con inquietudine sempre crescente e, con molta probabilità, tutto
quello aveva contribuito notevolmente a renderla improvvisamente insicura.
Rimase
in silenzio alla ricerca delle giuste parole. Il detective non le diede il
tempo di trovarle, però.
«Perciò
tu sei qui perché vuoi che ti aiuti a conseguire il master? Che ti dia una
mano, magari parlandoti dei miei casi?»
Il
tono della sua voce era serio, il suo volto impassibile. Emily lo guardò a
lungo cercando di capire cosa si nascondesse dietro quell’apparente maschera di
indifferenza, ma non riuscì a individuare un granché.
«No.
Non voglio scrivere dei suoi casi, né di qualcuno degli assassini che ha
aiutato a far arrestare» rispose lei, con sicurezza.
Quelle
parole parvero confondere il detective. Abbassò le mani e sollevò un
sopracciglio. «Allora di cosa vorresti parlare?»
«Di
lei.»
Sherlock
si bloccò, sorpreso. Schiuse le labbra ma non disse nulla; si puntellò con i
gomiti sulle ginocchia, tornando a congiungere le mani.
«Di
me» disse poi, come a soppesare le parole. «Mi risulta strano credere che tu
non sappia che c’è già John Watson a farlo. Pare che il suo blog nutra di un
notevole successo.»
Emily
si strinse nelle spalle, con tranquillità. «Certo che conosco il suo blog. Lo
seguo anche, se è per questo. Ma, come le ho già detto, non sono qui con
l’intenzione di usare i suoi casi. Io vorrei poter scrivere di lei Mr. Holmes, della sua mente e del
perché la sua psiche è in grado di elaborare una tale quantità di informazioni
con simile rapidità e con una percentuale di esattezza costantemente elevata.»
«Spirito
di osservazione e un buon intelletto. Se si impara a osservare e non solo a
guardare si possono capire molte cose» replicò Sherlock, asciutto.
«Sappiamo
benissimo entrambi che c’è molto di più » disse Emily, guardando Sherlock con
improvvisa sicurezza. Era certa di aver scatenato il suo interesse, lo aveva
intuito dal modo in cui il suo volto si era fatto più serio e il suo sguardo
aveva cominciato a rimanere fisso nei suoi occhi. Era perfettamente a
conoscenza, inoltre, che le prossime parole pronunciate da entrambi sarebbero
state le più importanti.
«Hai
detto di aver scritto la tua tesi di laurea sulla psicologia criminale, giusto?
Su cosa, esattamente?» chiese Sherlock, senza apparente motivo.
«Ho
analizzato la mente di alcuni dei più noti serial killer della storia. Da Jack
lo squartatore fino ai giorni nostri, includendo anche Jim
Moriarty.»
Emily lasciò cadere la frase, nella viva
speranza che la cosa scatenasse una qualsiasi reazione nel suo interlocutore.
Sherlock, infatti, strinse appena gli occhi sentendo il nome della sua nemesi e
tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona, cosa che la ragazza intese
come un leggero disagio; quando non si è perfettamente padroni di sé
significava che qualcosa ha turbato la proprio serenità.
«Moriarty
non si può definire esattamente un serial killer. Non agiva mai direttamente,
dava semplicemente agli altri gli strumenti necessari per mietere vittime»
disse piano il detective.
«Ciò
però sottintende che, se avesse voluto, lui avrebbe potuto essere a capo di ciascuno
di quei delitti. Commissionarli, diciamo così, a qualcun altro non implica
obbligatoriamente che lui non li abbia ideati.»
Prese
una pausa, guardando attentamente l’uomo. «Una mente brillante, la sua. Per
quanto insana, era assolutamente geniale.»
Emily
si zittì, non sapendo come altro proseguire. Non c’era molto da aggiungere a
quello che già aveva detto; non possedeva cose che le avrebbero garantito il
libero accesso al numero 221B di Baker Street. Lodare la nemesi di Sherlock
Holmes era stato il suo jolly, quello che l’avrebbe fatta vincere o l’avrebbe
distrutta.
Fra
i due calò il silenzio, che si propagò lungo e sospeso nella stanza. Sherlock
continuava a tenere i propri occhi fissi su Emily mentre lei, consapevole che
qualunque cosa stesse pensando l’uomo di certo non avrebbe potuto
impedirglielo, prese a guardarsi intorno, soffermando lo sguardo con più
attenzione sui soprammobili della stanza e sui dettagli della carta da parati.
Dopo quella che le parve un’eternità il detective inspirò a fondo, accavallò le
gambe e tornò a rivolgersi alla ragazza: «Dunque, Emily. Ammetto che mi hai
incuriosito. Vuoi scrivere di me, quindi, della mia mente» disse, picchiettando
un paio di volte con l’indice la propria tempia. «Potrebbe essere
interessante.»
La
ragazza spalancò gli occhi, sorpresa. «Sta dicendo che mi permetterà di farlo?»
«Sì»
rispose lui, quasi annoiato.
Emily
ebbe un’esitazione, una leggera incertezza. Come si ringraziava uno come
Sherlock Holmes? Di certo non era uno da abbracci, ma strette di mano?
«Non
so come ringraziarla, dico davvero» si decise a dire infine.
Sherlock
sollevò una mano, senza dare importanza alle sue parole.
«Avrai
bisogno di venire qui spesso» le fece notare lui.
«Beh,
so che Watson non abita più qui. C’è…» ebbe una leggera indecisione, «c’è una
stanza libera, no?»
Sherlock
la guardò attentamente, fece lavorare il suo cervello in fretta, come da
abitudine, dopodiché disse: «Questo appartamento non è esattamente a buon
prezzo. Spero per te che Mycroft voglia aiutarti adeguatamente e pagare la tua
parte d’affitto se decidi di restare.»
«Come
sa di Mycroft?» domandò Emily, realmente sorpresa ora. Sapeva perfettamente di
non aver accennato al fratello di Sherlock nemmeno una volta e benché il suo
interlocutore fosse il famoso detective, le sembrava ugualmente impossibile che
riuscisse a risalire a una tale informazione. Tuttavia l’uomo non si scompose.
Sollevò impercettibilmente un sopracciglio e riprese a parlare: «Non sono molti
quelli che sanno che John non abita più qui da un po’. Mycroft è uno di questi
e sono piuttosto certo che per lui la studentessa intenzionata a scrivere la
tesi su Sherlock Holmes fosse la più indicata a tenere sotto controllo il suo
fratellino. Conclusione? Lui ti ha
messo in testa l’idea di trasferirti qui, ma lo ha fatto in modo tale che tu ti
convincessi che fosse un’idea totalmente tua fin dal principio, ed eccoti.»
Fece
una breve pausa. «Perciò dimmi, si è offerto di pagare la tua metà
dell’affitto?»
La
ragazza lo guardò a lungo, sconvolta e sorpresa dalla capacità analitica di
quell’uomo. Vederlo in azione le metteva i brividi e la intrigava al tempo
stesso.
«Sì,
lo ha fatto» rispose infine.
«Bene,
ottimo. Questo potrebbe essere positivo anche per me. Ho diverse spese
ultimamente che stanno prosciugando le mie finanze più del dovuto» disse
Sherlock, rivolgendosi più a se stesso che alla ragazza. «Immagino tu sia
abituata a vivere con degli uomini in casa, non dovresti sentirti troppo a
disagio a trasferirti qui, sbaglio?» chiese poi.
Emily
aggrottò la fronte, guardando Sherlock sempre più sorpresa. «Come lo sa?»
«Cosa?»
«Del
fatto che vivo con degli uomini.»
Sherlock
sollevò le spalle, con indifferenza. «Oh, beh, si capisce. Innanzitutto il tuo
atteggiamento, il modo in cui ti sei seduta sul divano e il fatto che non hai
mantenuto gli occhi esclusivamente su di me mi fanno capire perfettamente che
sei abituata ad avere uomini intorno, persone che ti hanno permesso di
acquisire una certa disinvoltura con l’altro sesso, quindi non fidanzati, no,
qualcuno che hai più vicino, il padre, ma non solo, perciò hai dei fratelli,
due almeno. Da cosa capisco che sono fratelli? Il tuo orologio. Stona
completamente con il tuo look, con quella camicia e quei jeans non avresti mai
messo un orologio con il cinturino in plastica e probabilmente non lo
indosseresti effettivamente mai, eppure lo hai indosso in questo preciso
momento e a giudicare dai graffi del quadrante e da quanto sia rovinato il
cinturino vuol dire che tendi a indossarlo spesso, forse sempre. È impossibile
che te lo abbia regalato una ragazza, ma un uomo, un uomo sì che potrebbe
sbagliare così bene quello che voleva essere un presente importante. Potrebbe
essere un regalo del tuo ragazzo, vero, ma non lo è, così come non può essere
di tuo padre, che avrebbe certamente speso di più per un orologio da donare
alla figlia. È più probabile che sia un regalo di uno dei tuoi fratelli, forse
anche perché un ragazzo non lo hai. Ti sei traferita da Newport a Londra solo
per un master, chi ha una relazione non farebbe un simile gesto, né tantomeno
andrebbe a convivere di punto in bianco con un uomo più grande di lei. Se ti
senti di farlo è perché non hai simili legami, hai una certa sicurezza e perché
sai come comportarti con un uomo di cui non conosci il carattere. Quest’ultima
cosa è proprio dovuta la fatto che hai avuto intorno maschi adulti a
sufficienza per sapere come comportarti, quindi si torna alla questione
iniziale: gli uomini in casa tua. Devono essere più di uno, perciò solo il
padre e il fratello non bastano, quindi dico che di fratelli devi averne almeno
due, ho indovinato?»
Emily
rimase in silenzio, sorpresa. Aveva appena visto Sherlock Holmes in azione e
non riusciva a crederci. Quell’uomo era sorprendente, non avrebbe saputo
definirlo in modo diverso e gliene aveva appena dato la dimostrazione. Sorrise,
eccitata come non si sentiva da tempo. Finalmente aveva incontrato qualcuno in
grado di scatenare il suo interesse, e non uno qualunque, ma l’uomo per cui era
venuta fino a Londra, l’uomo di cui avrebbe voluto scrivere e parlare.
«Incredibile,
dico davvero» si complimentò.
Sherlock
parve non fare caso al complimento. «Allora, ho indovinato?»
«Quasi.
I fratelli che ho sono tre, io sono la figlia più piccola quindi sì, so cosa
vuol dire avere degli uomini più grandi intorno e so come comportarmi con
l’altro sesso, usando le sue parole.»
«Tre!
Maledizione, avrei dovuto capirlo.»
Emily
era sul punto di dirgli che non avrebbe potuto capirlo, ma lasciò perdere,
limitandosi a sorridere nuovamente. Guardò l’uomo un momento e gli chiese:
«Perciò, Mr. Holmes…» cominciò, ma lui non la lasciò finire.
«Sherlock»
precisò.
Emily
acconsentì, lievemente stupita. «Perciò… Sherlock… ho libero accesso al 221B di
Baker Street?»
Il
detective si alzò di scatto dalla poltrona, come se si fosse improvvisamente
annoiato della conversazione. Afferrò il cappotto – il suo elegante cappotto,
osservò Emily – e lo infilò in fretta.
«La
signora Hudson ha una copia delle chiavi, chiedila a lei. Ti mostrerà
sicuramente anche la stanza. Non stare ad ascoltare quello che dice sul
disordine o presunti resti umani nel frigorifero, per favore. Fino a prova
contraria questo appartamento è casa mia.»
Si
avviò verso l’ingresso, mise la mano sul pomello della porta, poi parve
ripensarci e tornò a rivolgersi alla ragazza: «Sarebbe grandioso se Mycroft ti
desse in anticipo la tua metà dell’affitto di questo mese, diglielo stasera
quando gli racconti cos’è successo. A più tardi.»
Non
aspettò una risposta. Si chiuse la porta alle spalle e uscì di scena, lasciando
Emily basita sul divano di quello che era appena diventato, in parte, il suo
primo appartamento londinese.
Note:
1la ragazza con l’ombrello giallo: sono
piuttosto certa che quasi tutti abbiate compreso il riferimento. Nella mia vita
– finora – ho amato realmente solo tre serie tv: Sherlock, Scrubse How I metyourmother. Quest’ultima è una delle mie preferite e mi ha
letteralmente aperto il cuore. L’ho semplicemente voluta citare attraverso
l’ombrello giallo, un po’ il simbolo di tutta la serie tv.
_______________
Ciao
Sherlockian!
Ringrazio
quanti di voi hanno letto questo primo capitolo di un mio nuovo lavoro. So che
iniziare a pubblicare una fan fiction su Sherlock a cinque giorni dall’uscita
della quarta stagione potrebbe essere un’idea da fuori di testa – più che altro
perché, conoscendomi, so già che poi vorrò tanto inserire cose relative proprio
alla quarta stagione – ma non ce l’ho fatta. Al momento sono presissima dalla
stesura di questo racconto e non sono riuscita a resistere alla tentazione di
ripresentarmi qui, su Efp.
A
ogni modo, spero che questo lavoro vi piaccia, almeno un po’. Essendo nuova nel
fandom e non avendo mai scritto nulla del genere ci
sono buone possibilità che abbia sbagliato tutto. In quel caso vi prego di
farmelo sapere, saprò farmene una ragione.
Erano
trascorsi quattro giorni dal primo incontro fra Sherlock ed Emily e due
dall’insediamento di quest’ultima al numero 221B di Baker Street. La ragazza
aveva raggiunto Londra con solo un paio di valigie al seguito, per tale motivo
le era risultato piuttosto semplice abbandonare il dormitorio in cui aveva
temporaneamente prenotato una stanza e trasferirsi nel suo nuovo appartamento.
L’idea di convivere con un uomo non la preoccupava più di tanto, al contrario.
Era eccitata al pensiero di condividere le stesse stanze di Sherlock Holmes,
così come di respirare la sua stessa aria e di averlo sotto gli occhi di
continuo, con l’assoluta libertà di poterlo studiare, vederlo in azione e
carpire il più possibile della sua psiche.
Quel
mattino, intorno alle dieci, la ragazza era accoccolata sul divano, le gambe
incrociate, il portatile in braccio. Teneva sotto controllo la piccola cucina
di tanto in tanto, senza smettere di ascoltare i suoni prodotti da Sherlock
che, con inforcati camice e occhiali, aveva preso dominio della stanza per
effettuare alcuni dei suoi esperimenti.
Era
bastato poco a Emily per capire che l’uomo con cui aveva deciso di convivere
non era quello che si poteva definire esattamente un “tipo convenzionale”. La
casa era indubbiamente sua, lo si capiva dai suoi oggetti sparsi praticamente
ovunque in ogni stanza – fatta eccezione per la camera della ragazza al piano
superiore – così come era evidente che per lui, avere un coinquilino, non
implicasse automaticamente il fatto di dover modificare almeno in parte le
proprie regole e il proprio stile di vita. Aveva dei modi di fare curiosi, notò
fin da subito la ragazza, eppure le piaceva; si poteva dire che fosse unico nel
suo genere, qualcuno che non si può incontrare facilmente in giro e che, e questa
per lei era la parte più interessante, non fosse affatto semplice da
analizzare. In soli due giorni, Emily era riuscita a capire che Sherlock Holmes
non era molto ferrato nei rapporti umani e che preferiva circondarsi
esclusivamente di poche persone che non lo intralciassero più del dovuto. Una
volta capito questo per lei fu facile decidere come comportarsi; era comunque
cresciuta con tre fratelli più grandi che erano stati tre adolescenti
intrattabili e che necessitavano dei propri spazi e di non avere fra i piedi la
sorella piccola, perciò sapeva come stare lontana da qualcuno facendo
ugualmente parte della sua vita. Sherlock era come i suoi irascibili fratelli
in piena pubertà.
Bevve
un sorso di caffè dalla sua tazza – preparato in extremis prima che il
detective monopolizzasse la cucina – e riprese a scrivere qualcosa sul
portatile quando sentì dei passi salire lungo le scale. Sospettò si trattasse
della signora Hudson, ma la velocità con cui stava percorrendo la rampa non era
riconducibile alla donna. Si voltò verso l’ingresso nel momento esatto in cui
questo veniva aperto, introducendo nella stanza John Watson. I secondi che
seguirono quel primo momento furono notevolmente strani, per l’uomo molto più
che per Emily.
«Buongiorno
Dottor Watson» lo salutò infine la ragazza, sorridendo.
John
la guardò basito per un momento, fece scorrere gli occhi sull’abbigliamento di
lei – una normale camicetta da donna e un paio di pantaloni neri – e sollevò
dubbioso la mano destra in un cenno di saluto.
Subito
dopo Sherlock comparve dalla cucina, un vetrino da laboratorio in mano. Sollevò
gli occhiali protettivi e osservò l’amico. «Buongiorno.»
Il
medico lo guardò, mentre il detective scompariva nuovamente in cucina,
dopodiché lo seguì nell’altra stanza. Lo fissò a lungo, in silenzio, indicando
brevemente in direzione del soggiorno, dove Emily aveva ripreso a lavorare al
pc.
«Sherlock,
posso… posso parlarti un momento?» domandò infine John, riacquisendo pieno uso
delle parole.
«Non
ora, sono impegnato. Devo isolare questa particolare spora fungina evitando di
contaminarla» replicò l’uomo, asciutto.
John
si guardò intorno. Il caos regnava sovrano e si chiese come sarebbe riuscito
l’altro a non contaminare una spora in quel marasma che era la sua cucina. Attese
paziente che Sherlock ultimasse la sua impresa e quando questo ci riuscì,
invece di complimentarsi, John gli si avvicinò ancora, abbassando ulteriormente
il tono di voce.
«Possiamo
parlare, ora?» domandò, lanciando veloci occhiate in direzione del soggiorno.
«Sì,
possiamo» rispose Sherlock, posando occhiali e vetrino sul tavolo.
Senza
troppe cerimonie John afferrò l’altro per il camice, sospingendolo verso la
camera da letto di Sherlock e ignorando completamente le deboli proteste che
l’uomo sollevò in quel breve tratto di strada.
«Non
mi risulta di averti autorizzato a entrare in camera mia» sbottò il detective,
sistemandosi il camice.
«Quanti
anni ha, Sherlock?» domandò John, fissando serio l’altro da sotto in su. C’era
una nota di severo rimprovero nella sua voce, che Sherlock ignorò
completamente.
«Chi?»
chiese in risposta.
John
lo colpì alla spalla. «Non prendermi in giro, hai capito di chi parlo. Ora
dimmi, quanti anni ha?»
Sherlock
alzò gli occhi al cielo, senza preoccuparsi di farsi vedere dal medico. Alle
volte John Watson gli pareva così ottuso da essere irritante.
«Venticinque.»
«Ven…» cominciò l’altro, allontanandosi dal detective e
passandosi rapidamente le mani sul volto. «Venticinque, Sherlock? Fai sul serio?»
esclamò, mantenendo controllato a fatica il tono di voce.
Il
suo interlocutore inarcò un sopracciglio, leggermente infastidito, senza
proferire altra parola. Rimase a guardare John che cercava di ricomporsi in
fretta, andando avanti e indietro per brevissimi tratti nella stanza. Quando questi
parve aver ritrovato una buona parte del suo controllo si stropicciò
rapidamente gli occhi con la mano destra, espirò a pieni polmoni e tornò a
fissare Sherlock negli occhi.
«Senti,
io… posso capire che magari sono successe delle cose che…» esordì, cercando di
collegare correttamente pensieri e parole fra loro. «Dopo Janine,
immagino che, comunque…» si arrestò. Respirò a fondo ancora una volta e si
decise a concludere: «Sei umano, dopotutto, e comprendo perfettamente che tu
abbia degli… stimoli.»
Sherlock
sollevò entrambe le sopracciglia, ora, decidendosi a parlare. Tuttavia John lo
bloccò con una mano.
«Ma
questo è troppo anche per te. Ha venticinque anni, Sherlock, venticinque!» urlò
infine.
Il
detective attese che John smettesse di vaneggiare quell’ultima volta, infine,
con il suo consueto tono di chi è alle prese con qualcuno di veramente stupido
disse: «Immagino che mantenere un basso profilo non fosse nelle tue intenzioni»
gli fece notare, lanciando una rapida occhiata in direzione della porta
socchiusa della sua stanza da letto, per far capire all’altro che la sua ultima
esplosione non poteva certo essere sfuggita a Emily. «Ora, se vuoi calmarti, ti
spiego per quale motivo hai sbagliato ancora una volta.»
«È
una cliente?» chiese John, improvvisamente insicuro.
«Neanche.
Le tue opzioni sono sempre così limitate, John. È una cliente, se non lo è
allora è un’amante.»
«Senti
smettila di girare intorno all’argomento. Vieni al punto. Chi è quella ragazza
è perché è seduta sul nostro divano?»
«Sul nostro divano?» ripeté Sherlock.
Tuttavia appena vide l’espressione dell’amico capì che era meglio arrivare
subito al dunque. «Si chiama Emily ed è la mia nuova coinquilina.»
«Coinquilina?»
esclamò John, più sorpreso di quanto si fosse aspettato da se stesso. Sapere
che Sherlock aveva un nuovo coinquilino, per di più donna e così giovane, lo
sorprese più di immaginare il detective alle prese con una relazione
sentimentale dispari per età.
Sherlock
diede un’ultima, lunga, occhiata a John poi, stancatosi improvvisamente di
quella situazione, si avviò per superarlo e uscire dalla camera. Il medico lo
fermò: «Fermo, pensi di non dovermi delle spiegazioni?»
Il
detective aggrottò la fronte. «Senti, se ti preme tanto sapere perché si è
trasferita qui chiedilo a lei. Io ho da fare.»
Conclusa
la frase si liberò dalla presa di John e tornò in cucina. L’amico, invece,
impiegò più tempo per ricomparire e lo fece solo quando la sorpresa iniziale
per quella scoperta – a suo parere assurda – venne metabolizzata a sufficienza
dalla sua mente. Tornato in soggiorno trovò Emily nell’esatta posizione in cui
l’aveva vista la prima volta, con l’unica differenza che la sua tazza era
vuota. La ragazza sollevò gli occhi su di lui e gli sorrise. Anche John le
sorrise e andò a sistemarsi su quella che era sempre stata la sua poltrona,
rimanendo a fissare a lungo Emily. Quest’ultima si grattò leggermente il naso,
infine chiese: «Cosa vuole sapere?»
Lo
domandò con voce calma, dolcemente, perfettamente consapevole che la sua
presenza al 221B di Baker Street era un quesito enorme per coloro che
conoscevano Sherlock Holmes. John si mosse a disagio sulla poltrona,
distogliendo lo sguardo. La prima impressione che ebbe della ragazza fu quella
di una persona tranquilla, perbene, qualcuno che, effettivamente, aveva davvero
poco a che fare con Sherlock. Tornò a domandarsi cosa ci potesse fare lì lei e
mentre continuava a non darsi pace per quella situazione non fu in grado di
notare Emily che lo fissava con intensità, sorrideva divertita e appurava
mentalmente quanto John Watson fosse sorprendentemente simile all’idea che lei
si era fatta dell’uomo.
«Mi
chiamo Emily Price, sono di Newport» esordì infine la ragazza, cercando di
stemperare l’atmosfera. Il medico la guardò, ma ancora non seppe con esattezza
cosa dire e ciò diede modo a Emily di continuare: «So che le può sembrare
strano che sia venuta a vivere qui, ma le garantisco che ha molto più senso di
quanto possa pensare.»
Si
accorse che le sue ultime parole avevano completamente catturato l’attenzione
di John e lo preso come il giusto pretesto per dirgli per quale motivo era
venuta a Londra. Gli disse ciò che aveva già detto a Mrs. Hudson e a Sherlock,
ma la reazione del medico fu la migliore che potesse sperare di ricevere. Si
dipinse in volto un’espressione ammirata, colpita, come se lei gli avesse
appena detto di aver conseguito una laurea in ingegneria aerospaziale. Tuttavia
quando gli spiegò che aveva deciso di scrivere la tesi su Sherlock Holmes –
motivando di conseguenza il suo trasferimento in quell’appartamento –
l’espressione dell’uomo mutò nuovamente, divenendo indecifrabile agli occhi di
Emily.
Alla
fine la ragazza si zittì e quando lo fece non seppe esattamente quale reazione
aspettarsi dall’altro. Rimase in attesa mentre il medico annuiva con la testa,
per poi sospirare.
«Emily…
posso?» cominciò, sottintendendo la sua intenzione di evitare formalità con una
ragazza così giovane. Lei lo autorizzò con tranquillità, esibendo un rapido
gesto.
«Tu
sai, vero, del manicomio in cui hai deciso di infilarti?» le chiese alla fine,
scandendo con cura tutte le parole.
Di
risposta Emily lanciò un’occhiata in direzione di Sherlock, ancora nascosto in
cucina, sorrise e si strinse nelle spalle. «L’ho intuito, sì. Ma non basterà a
fermarmi. Sono cresciuta in mezzo a quattro uomini Dottor Watson.»
«John,
per favore» precisò, ricevendo di rimando un gesto affermativo. «E vorrei
sottolineare che quegli uomini non erano
Sherlock Holmes» concluse, indicando dietro di sé.
Nuovamente
la ragazza non si scompose, ma sorrise al suo interlocutore stringendosi per
l’ennesima volta nelle spalle.
«Mi
fa sentire lusingata il fatto che si stia preoccupando tanto per me, ma non
serve. Posso sopravvivere a questo» replicò, indicando la stanza con un ampio
cenno.
Rendendosi
conto che continuare a insistere non avrebbe portato a niente, John decise di
rinunciarvi, acconsentì, si alzò dalla poltrona e raggiunse Sherlock in cucina.
Il detective lo guardò un momento. «Sei soddisfatto, ora?» domandò.
John
annuì con il capo senza aggiungere altro.
«Come
mai qui?» lo incalzò Sherlock poco dopo. John continuava a raggiungere Baker
Street abbastanza spesso anche in seguito al suo matrimonio e alla nascita
della sua primogenita, ma quella domanda se la sentiva dire ogni volta che
rivedeva l’amico, come se Sherlock temesse di sentirsi dare improvvisamente una
risposta inattesa.
«Ero
di passaggio» rispose il medico, come ogni altra volta.
«Dovresti
smetterla di lasciare Mary e la piccola da sole» lo rimbeccò subito l’altro.
«Oh
è Mary che mi ha costretto a uscire. Dice che in casa sono insopportabile.»
Sherlock
si esibì in un mezzo sorriso sentendo le sue parole e pensando alla donna che
le aveva pronunciate.
«Congratulazioni
Dottor Watson. Non sapevo fosse diventato padre» giunse dal soggiorno, con la
voce femminile di Emily. John si sporse verso di lei, comparendo da dietro la
parete.
«John»
la corresse. «E grazie.»
L’uomo
tornò a rivolgersi verso Sherlock. Era in procinto di dire qualcosa quando sentirono
la porta aprirsi e la voce della signora Hudson introdurla nel soggiorno. «Si
può, ragazzi?»
John
ricomparve nuovamente nella stanza, salutò la signora e subito dopo l’uomo che
era insieme a lei: Greg Lestrade.
«Dov’è
Sherlock?» domandò Mrs. Hudson, mentre Emily prese a osservare con interesse
quella situazione.
Sentendosi
chiamato in causa anche l’uomo fece la sua comparsa nel soggiorno, guardò
annoiato tutti i presenti, infine sentenziò: «Comincia a essere un po’ troppo
affollata questa casa.»
Lestrade
non si scompose. Si sistemò meglio il cappotto e chiese: «Sei impegnato ora o
possiamo parlare?»
Gli
occhi di tutti si spostarono su Emily, che per Lestrade altro non poteva essere
se non una nuova cliente del detective; Sherlock, invece, posò i suoi sul
becher che teneva in mano. «Possiamo parlare.»
Mrs.
Hudson uscì dalla stanza sentendo quelle parole e tornò al piano di sotto,
Emily, invece, chiuse il portatile, lo posò sul tavolino che aveva davanti e si
mise più comoda sul divano. Né Sherlock, né Lestrade, né Watson si misero a
sedere, ma rimasero tutti e tre fra soggiorno e cucina a guardarsi in un
triangolo mal organizzato.
«Vorrei
che venissi con me. Mi serve la tua opinione per un cadavere» cominciò
l’ispettore.
«Se
è come quello dell’altra volta risparmiamelo. Ci ho messo due minuti e
trentotto secondi a capire come avevano fatto a provocargli quell’emorragia
interna» replicò Sherlock.
«Questa
volta è diverso.»
«Ogni
volta è diverso, Glen» gli fece notare il detective con voce piatta.
Lestrade
non si prese neanche la briga di correggere Sherlock per aver sbagliato il suo
nome l’ennesima volta. Pensò che una volta terminati tutti i nomi che
iniziavano per G avrebbe certo azzeccato il suo. Respirò a fondo e si decise a
lasciar perdere, probabilmente non lo aveva trovato in un buon momento. Sollevò
le mani in segno di resa e si apprestò a salutare tutti quando lanciò una
rapida occhiata in direzione di Emily. Sherlock notò il suo gesto, osservò
nuovamente il becher che teneva in mano e qualcosa nella sua mente scattò.
«A
ripensarci potrebbe essere interessante» disse infine, posando il becher in
cucina e togliendosi il camice. Prese il cappotto dall’attaccapanni e lo
infilò, afferrando poi anche quello della ragazza.
Lestrade
lo guardò sorpreso. Ormai conosceva Sherlock a sufficienza, eppure i suoi
repentini cambi di idea no, quelli ancora non riusciva a spiegarseli.
«Forza,
Emi, è ora» continuò Sherlock, lanciando il cappotto in direzione della ragazza
e colpendola giusto in faccia. «Questo potrebbe rivelarsi molto importante per
il tuo lavoro: la prima uscita sul campo.»
Emily
riemerse da sotto il suo cappotto, alzandosi in piedi davanti a un confuso
ispettore di polizia. Lui, infatti, la indicò. «Che significa?» chiese, rivolto
a Sherlock.
«Significa
che ho deciso di venire. Anche John, naturalmente. Noi prendiamo un taxi, lei
sale in macchina con te» tagliò corto. Superò Lestrade e scese lungo le scale,
lasciando questi visibilmente basito. Emily gli si avvicinò e gli tese la mano:
«Emily Price, ispettore. Molto piacere» si presentò sorridendo.
Lestrade
le diede la mano e rimase a guardarla mentre seguiva Sherlock lungo le scale.
Infine fissò John, nella speranza di ricevere da lui qualche risposta utile.
«Sì,
la situazione lascia tutti così» gli disse quest’ultimo, indicando poi la porta
e invitandolo ad avviarsi, cosa che l’ispettore fece in modo decisamente
incerto.
In
strada i quattro si separarono come aveva stabilito Sherlock. Emily salì
sull’auto della polizia insieme all’ispettore Lestrade, Sherlock e John,
invece, fermarono il primo taxi che passò loro davanti. Una volta montati
sull’auto nera dissero al conducente dove andare e si accomodarono per bene nei
seggiolini. Per un po’ nessuno dei due parlò, tuttavia, alla fine, John non fu
più in grado di trattenersi e decise che quella poteva essere una buona
occasione per incalzare Sherlock e costringerlo a dargli qualche informazione
aggiuntiva.
«Sii
sincero» esordì, senza guardare l’altro. Il detective si voltò appena verso di
lui.
«Davvero
hai preso quella ragazza a vivere con te solo per via della sua tesi?»
«Dovrebbe
esserci dell’altro?» domandò in risposta.
«Oh
sì, potrebbe eccome» esclamò il medico.
Sherlock
sospirò, rassegnato; alla fine si decise a dare qualche informazione aggiuntiva
al suo amico, dopotutto si parlava di John Watson e, come se non bastasse, una
parte di sé si sentiva ancora in colpa ripensando a quello che aveva dovuto
passare il medico negli anni della sua presunta morte – anche se, dopotutto, in
quel lasso di tempo aveva pur sempre conosciuto Mary. Costrinse la sua mente ad
arrestarsi e diede finalmente qualche delucidazione aggiuntiva.
«Mycroft
l’ha contattata appena ha messo piede a Londra. Inutile dire che sapeva già che
lei era intenzionata a scrivere di me e l’ha informata del fatto che a Baker
Street c’era una stanza libera. Sono certo che abbia rigirato l’argomento a
sufficienza per far credere a Emi che sia stata una sua idea fin dal
principio.»
«Emi?»
chiese perplesso l’altro.
«Si
chiama Emily, no? Lei mi ha detto di chiamarla così. Ti sorprende più questo
della storia di Mycroft? Il tuo cervello è davvero un’oasi felice.»
John
lo guardò di sbieco. «Mycroft perché lo avrebbe fatto?» chiese, fingendo di non
aver sentito la provocazione che gli aveva rivolto Sherlock.
«Per
lo stesso motivo per cui ti aveva offerto dei soldi appena saputo che eri
diventato mio coinquilino» replicò con ovvietà l’altro.
«Ma
Emily è solo una ragazza» esclamò sorpreso.
Sherlock
si voltò verso di lui, guardandolo con intensità. «È qui che sbagli. È giovane,
certo, ma molto intelligente e capace. È anche per questo che ho accettato di
averla per casa: mi ha incuriosito. Sai che appena si è laureata è stata subito
contattata dalla South Wales Police? Per via delle sue conoscenze, del suo
lavoro di tesi. Voglio davvero vedere che cosa è in grado di mettere insieme su
di me, sulla mia mente. Può essere la mia miglior sfida, vedere se esiste
qualcuno in grado di decifrarmi nello stesso modo in cui faceva Moriarty.»
John
rimase a fissare il detective senza dire nulla, mentre quest’ultimo tornava a
rivolgere il suo sguardo sulla strada. Per un lungo istante parve completamente
assorbito da qualcosa di invisibile agli occhi e tremendamente pesante.
«E
poi avevo bisogno di qualcuno che pagasse per me parte dell’affitto, è questo
che Mycroft si è offerto di fare per Emily. Probabilmente lui sapeva che la
ragazza mi avrebbe incuriosito al punto di accoglierla in casa mia, per tale
motivo ha orchestrato tutto questo teatrino. Anzi, lo conosco, posso affermare
con certezza che le cose sono andate così.»
«E
non ti disturba?» chiese con curiosità John, perfettamente conscio dei rapporti
spesso tesi fra i due fratelli Holmes.
«Assolutamente
no. Quella ragazza prepara il tè, non parla troppo e paga metà dell’affitto.
Sotto certi punti di vista è una coinquilina migliore di quanto lo sia stato
tu» concluse, strizzando l’occhio all’amico, il quale si limitò a sbuffare un
po’ d’aria, per poi tornare a ignorare Sherlock, concentrando la sua attenzione
fuori dal finestrino.
Quando
giunsero a destinazione si ricongiunsero all’ispettore, intento a conversare
amichevolmente con Emily. Sherlock li guardò di traverso, soffermando la sua
attenzione sull’uomo.
«Vedo
che non hai perso tempo» disse, sarcastico.
Lestrade
non replicò, ma si zittì di colpo.
«Da
questa parte» disse poi, facendo strada agli altri.
Emily
si introdusse per la prima volta nel St. Bartholomew's
Hospital, in cui Sherlock si recava più spesso. Si guardò intorno lungo i
corridoi, memorizzò la strada, osservò attentamente la sicurezza con cui sia
Sherlock sia John compivano i propri passi lì dentro, a dimostrazione che in
quel posto erano soliti venirci di frequente. Al termine dell’ennesimo
corridoio imboccato, mentre Lestrade varcava la porta, Sherlock si fermò, si
voltò verso Emily e venne imitato da un confuso John.
«Come
te la cavi a contatto con dei cadaveri?» chiese il detective alla ragazza,
senza notevole curiosità o preoccupazione.
«Se
sei preoccupato possa svenire o cose simili puoi stare tranquillo. Ho studiato
alcuni degli omicidi più efferati della storia, posso garantirti di aver visto
dei corpi ridotti in maniera a dir poco irriconoscibile» replicò lei, ferma.
«Le
immagini di rado sono impressionanti quanto la realtà. Non credo tu possa
capire se non hai mai respirato la loro stessa aria.»
«Non
mi risulta che i morti siano in grado di respirare.»
Le
labbra di Sherlock si incurvarono in un mezzo sorriso, dopodiché, senza dire
nulla, tornò a rivolgersi alla porta e introdusse gli altri nella stanza.
All’interno
dell’obitorio Lestrade era fermo accanto a Molly, gli occhi fissi sulla soglia
da cui i tre avevano appena fatto il loro ingresso. John e Sherlock salutarono
Molly, che dopo aver risposto di rimando finì anche lei con l’osservare
incuriosita Emily. Sherlock e John si avvicinarono al lettino accanto a cui
Lestrade e l’anatomopatologa erano fermi e su cui, al di sotto di un telo nero,
era perfettamente percepibile la sagoma del corpo di un uomo.
L’ispettore
non attese alcuna parola; sollevò il telo nero e rimase in silenzio a guardare
Sherlock che faceva scorrere rapido lo sguardo sul volto del cadavere. Il
detective lo analizzò in fretta in un primo momento, come era solito fare, ma
poi i suoi occhi si spostarono involontariamente sul viso di Molly, ancora
intenta a scrutare dubbiosa Emily.
«Molly,
ti presento Emi» disse infine, pensando fosse meglio fare le presentazioni. Si
rivolse a Emily: «Lei è Molly Hooper» concluse,
tornando poi a dedicare la sua attenzione al cadavere.
Emily
strinse la mano a Molly, scandendo silenziosamente il proprio nome per far
capire alla donna che lei non era solo “Emi”. Nessuno ebbe tempo di dire altro,
Sherlock parlò nuovamente: «Qualsiasi cosa vogliate chiederle, per favore,
fatelo quando io non ci sono. Non voglio sentire per l’ennesima volta la storia
sul perché lei si è trasferita qui» disse, senza guardare o rivolgersi a
qualcuno in particolare.
Nell’obitorio
non parlò più nessuno, ma Emily, Lestrade e Molly si scambiarono un’occhiata.
John, invece, aveva raggiunto l’amico accanto al lettino e, insieme a lui,
stava analizzando il corpo dell’uomo.
«È
il giudice Walker» osservò John, appena gli fu accanto.
«Sì,
esatto. Mi risulta avesse uno stile di vita sano, dubito abbia avuto un
infarto» rispose Sherlock.
«Cosa
pensi possa essergli successo?» gli chiese poi il medico.
Il
detective si avvicinò ulteriormente al viso del morto, scrutandone il colorito
della pelle. «Non è detto che io debba saperlo.»
«Allora
perché ti avrebbero chiamato qui?»
Sherlock
guardò l’altro, sollevò un sopracciglio, ironico e lievemente lusingato. Alle
sue spalle Emily continuava a osservarlo attentamente, catturata; ne studiava i
movimenti, la gestualità, il modo in cui sfiorava i particolari, perfino le
oscillazioni del suo cappotto. Dentro di lei c’era un’emozione crescente,
inestinguibile. Voleva registrare ogni possibile cosa riguardasse il detective
per essere certa di non tralasciare neanche la più misera delle informazioni
che le sarebbero potute servire per portare a buon fine il suo lavoro. Era
convinta – fermamente convinta – che i segreti per riuscire ad afferrare
veramente Sherlock Holmes fossero racchiusi nei dettagli, quelli più insignificanti
per chi non era in grado di interpretarli.
«È
morto affogato» informò improvvisamente Molly.
Sherlock
si voltò a guardarla, tornando a erigersi in tutta la sua statura. «Affogato?
Quando è successo?»
«Ieri.
Il giudice era solito andare a nuotare in una piscina privata prima di recarsi
a lavoro» disse Lestrade. «Ha fatto due vasche, alla terza è affogato.»
«Ha
avuto un arresto cardiaco per caso?» volle sapere John.
Molly
annuì: «Proprio così. L’annegamento ne è stata la conseguenza.»
«Com’è
possibile? Avevo incontrato quest’uomo e sono certo che non corresse il rischio
di avere infarti» precisò Sherlock, dubbioso ma serio.
«È
per questo che ti ho fatto venire qui, Sherlock. Non chiedermi perché ho avuto
questa idea, potrei non volerti rispondere, ma ho chiesto a Molly di svolgere
specifiche analisi» riprese Lestrade.
«A
che pro?»
«Per
capire se c’era qualcosa di sospetto oppure no. È comunque un giudice, non
godono di buona fama fra molte persone. A ogni modo, gli esami che Molly mi ha consegnato
prima che venissi da te confermano che Walker è stato avvelenato.»
«Avvelenato?»
domandò John.
L’anatomopatologa
acconsentì. «Botulino. È stata la causa del suo arresto cardiaco.»
Sherlock
spalancò improvvisamente gli occhi, mentre gli altri, consapevoli, lo
guardarono. Quello che il detective si trovava davanti era un omicidio, puro e
semplice, eppure in quel delitto era racchiuso interamente il suo più recente
passato. A Sherlock parve di essere riportato indietro a solo pochi anni prima,
a quando i pezzi di un puzzle complicato avevano cominciato a incastrarsi fra
loro con perfezione millimetrica, a quando la sua mente, la sua psiche, erano
state spinte talmente al limite da aver sfiorato spazi per lui ancora
inesplorati.
«Il
grande gioco» mormorò Emily. Lo disse piano, fissando oltre il detective, sul
lettino. Tuttavia la sua voce fu sufficientemente chiara da essere percepita
alla perfezione da tutti. Sherlock la guardò, serio.
«Lo
hai capito» disse piano.
Emily
annuì con il capo, mentre il silenzio si era ormai impadronito in modo tetro
dell’intera stanza. Fra i presenti aleggiava una consapevolezza impossibile da
ignorare, poiché aveva toccato tutti quanti almeno una volta, Emily esclusa.
Eppure anche lei lo sapeva, anche lei lo aveva capito. Le era bastato poco per
intuire che il decesso di Walker non poteva essere solo una sorprendente
coincidenza, ma che racchiudeva dentro di sé qualcosa di ben più grande e
tetro. Vi era un legame fra quel nuovo omicidio e uno passato, un legame che
tuttora era in grado di azionare ogni ricettore nella mente sempre reattiva di
Sherlock Holmes. Quel legame era Jim Moriarty.
Quella
mattina John raggiunse il 221B di Baker Street intorno alle nove. Aveva spento
la sveglia e si era riaddormentato prima di trovare la forza di alzarsi dal
letto, cosa che lo aveva portato a essere in ritardo sulla sua tabella di
marcia immaginaria.
La
sua intenzione di raggiungere il suo ex appartamento era legata principalmente
al giorno precedente, a quello che era avvenuto nell’obitorio e a ciò che ne
era seguito. Dopo che Molly e Lestrade avevano informato i presenti di ciò che
era accaduto al giudice Walker ben poche cose erano rimaste tranquille.
Sherlock si era improvvisamente fatto serio, aveva raccolto quante più
informazioni possibili e si era allontanato da solo, prendendo un taxi e
dirigendosi da qualche parte, probabilmente con l’intenzione di rinchiudersi
nel proprio Palazzo mentale il più a lungo possibile. John aveva quindi
riaccompagnato a casa Emily – anche lei fattasi improvvisamente seria – solo
per appurare che Sherlock non era rientrato nel proprio appartamento. Quando
aveva lasciato il 221B due ore più tardi dell’amico non c’era ancora traccia.
Non era rimasto sorpreso da quell’atteggiamento, conosceva Sherlock, tuttavia
sapeva anche bene che le lunghe assenze dell’uomo erano legate a qualcosa in
grado di tenere impegnata la sua mente e non sempre si trattava di un bene. In
quel caso, poi, non poteva di certo esserlo. Erano trascorsi mesi dall’ultimo
messaggio di Moriarty, dal video che aveva costretto Sherlock a fare ritorno a
Londra meno di cinque minuti dopo il suo esilio, e l’omicidio di Walker poteva
essere ben più serio e importante di quanto già non fosse.
John
superò in fretta la porta d’ingresso, urlò un rapido saluto a Mrs. Hudson,
dopodiché salì di corsa le scale ed entrò nel soggiorno di Sherlock. Trovò il
detective fermo, seduto sulla sua poltrona, le gambe accavallate, le mani
congiunte davanti alle labbra, gli occhi celesti fissi in un punto imprecisato;
non spostò neanche lo sguardo quando sentì John e continuò a rimanere
impassibile anche dopo. Il medico individuò Emily nella stanza, seduta sul
divano con il portatile in grembo, intenta a scrivere qualcosa. Lei salutò
l’ultimo arrivato con la mano, sorridendo. John le si avvicinò, sempre fissando
Sherlock.
«È
così da questa mattina» volle informarlo Emily, guardando il detective. «Quando
mi sono svegliata era lì. Gli ho preparato del tè, del caffè, non ha preso
niente.»
«È
nel suo Palazzo mentale» le rispose John. «Quando avrai imparato a conoscerlo
meglio questo suo atteggiamento non ti sorprenderà più. Piuttosto è strano che
ti consenta di rimanere nella sua stessa stanza» osservò infine, incuriosito.
«Non
gli ho parlato molto, l’ho solo guardato» precisò lei osservando Sherlock con
rinnovato interesse. Il Palazzo mentale? Poteva essere ottimo materiale per il
suo lavoro.
John
acconsentì, perplesso. Trovava Emily sempre più curiosa. Ciò che lo sorprendeva
di più era il fatto che la ragazza non pareva mai stupita o infastidita dagli
atteggiamenti di Sherlock. Viveva sotto il suo stesso tetto da tre giorni,
eppure sembrava già essere completamente assuefatta alle cose che rendevano
Sherlock Holmes, Sherlock Holmes. Sotto molti punti di vista Emily si stava dimostrando
una persona unica – forse addirittura preziosa.
Accanto
a lui la ragazza chiuse il portatile, si voltò verso il medico e chiese: «John
posso parlarti un momento?»
«Sì,
certo» rispose lui.
«Non
qui, però. Possiamo andare in camera mia.»
Si
avviò al piano di sopra seguita dal medico. Lo introdusse in quella che per
tanto tempo era stata la sua stanza e John poté osservare quanto fosse
cambiata. Gli abiti, gli oggetti, la disposizione del mobilio, perfino la luce
erano diversi.
«È
così diversa da come la ricordavo» si lasciò sfuggire l’uomo, sorridendo.
«Devo
ancora finire di sistemarla, ma c’è tempo» rispose lei, strofinandosi le mani
sulle cosce, come imbarazzata. Guardò un momento il medico, dopodiché abbassò
il tono di voce: «Tu sai cosa prende a Sherlock meglio di me, vero?» domandò
dopo aver chiuso la porta della stanza.
«È
più complicato di quanto si possa pensare» le disse lui, pensando si riferisse
al Palazzo mentale del detective.
«Credimi,
so cos’è successo fra lui e Moriarty, lo so molto bene. Ma qui non si tratta di
lui, o sbaglio?»
John
si bloccò a quelle parole. Prese tempo alla ricerca della cosa giusta dire e,
soprattutto, su quanto poter dire.
«Emi
è… è complicato.»
«E
non posso saperlo, immagino.»
«Tu
non sai cos’è successo dopo Magnussen. Dopo quello
che ha fatto Sherlock.»
«So
che potrebbe essere implicato nella sua morte» gli rivelò la ragazza, calma.
Nuovamente
John si zittì, guardando a lungo Emily. Non gli importava sapere di come avesse
fatto quella giovane a scoprire la verità, tuttavia una buona parte di lui si
chiedeva che cosa avrebbe potuto rivelarle. Era pur sempre una sconosciuta, una
ragazza giovane di cui lui sapeva pressappoco nulla. Tuttavia gli tornarono in
mente le parole di Sherlock “È giovane, certo, ma molto intelligente e capace”;
se il detective, che era in grado di conoscere chiunque anche solo
trascorrendovi accanto cinque minuti, si fidava di lei al punto di prenderla
nella proprio casa, perché lui non avrebbe dovuto? In fin dei conti l’ultimo
con cui Sherlock aveva condiviso l’appartamento era stato lui e sapeva
benissimo com’erano finite le cose: per quanto assurda la loro amicizia era
innegabile.
«Ok,
va bene, vuoi sapere come sono andate le cose? Ti accontento. In fin dei conti
lui ha accettato di averti in giro per casa quindi immagino che un po’ di dietro
le quinte sia giusto fartelo avere.»
Respirò
a fondo prima di riprendere a parlare, sperando con tutto se stesso di non
essere in procinto di complicare le cose. «Dopo ciò che è accaduto fra Sherlock
e Magnusses, Mycroft ha pensato fosse una buona idea allontanarlo
per un po’ da Londra. Lo avrebbe spedito nell’est Europa per qualche mese, poi
chissà.»
Fece
un’altra pausa, preparandosi a vuotare definitivamente il sacco: «Fatto sta che
poco dopo la partenza di Sherlock è arrivato un messaggio, da Jim Moriarty.»
«Un
messaggio da Moriarty?»
«Non
lo hai visto? Era su ogni singolo schermo televisivo in tutto il Paese» le
chiese sorpreso.
«Io
ero a Newport1, impossibile che lo abbia visto.»
«Beh,
il messaggio era chiaramente rivolto a Sherlock, per questo lui è tornato
indietro, per cercare di capire cosa potesse significare. Tuttavia per mesi non
ci sono stati altri segnali. Sherlock ha provato a cercarli ma non c’è stato
niente, nessun movimento. Fino a ieri. Quel delitto, l’omicidio di Walker, non
può essere una coincidenza.»
«John,
questo non è possibile. Moriarty è morto» disse lei, fermamente convinta.
«Anche
Sherlock lo era, eppure ora è di sotto in soggiorno» cercò di farla ragionare
lui.
«Ma
Moriarty si è sparato in testa. Ho letto il tuo blog, ho letto i giornali, so
cosa è successo. Ho studiato la cosa a sufficienza per mesi.»
«E
come puoi spiegare quello che è successo a Walker, allora?»
«Moriarty
è morto. Emily ha ragione» intervenne Sherlock, comparso improvvisamente sulla
soglia della porta. Sia Emily che John sussultarono al suono della sua voce:
nessuno dei due lo aveva sentito avvicinarsi.
«Chiunque
abbia ucciso Walker lo ha fatto a quel modo solo per richiamare Moriarty, ma non può essere stato lui» riprese a dire,
scandendo accuratamente le ultime sei parole.
«Perché
avrebbero dovuto farlo, allora?» chiese con enfasi John.
«Per
provocarmi, ovvio. O forse per cercare di spaventarmi in qualche modo. Non so
perché lo abbiano fatto, John, ma ho già elaborato qualche teoria.»
Detto
ciò fece dietro front e uscì dalla stanza, avviandosi lungo le scale per poter
tornare in soggiorno.
«Quando
avresti iniziato a formulare queste teorie?» gli urlò dietro il medico,
avviandosi seguito da Emily.
«Più
o meno un minuto dopo che Molly mi ha detto il modo in cui si erano garantiti
che Walker affogasse.»
«E
a che conclusioni sei arrivato?» domandò Emily, curiosa come mai.
«Devo
ancora affinare le mie ricerche, ma è chiaro che chiunque sia stato è legato
sia a me che a Walker. Ho lavorato in più occasioni su casi che sono poi finiti
a lui e lui si è sempre premurato di mettere in prigione ognuno di quegli
indagati. È possibile che chiunque lo abbia ucciso, lasciando a me quel sottile
messaggio, sia qualcuno di vicino a uno dei suddetti criminali.»
«Certo!»
esclamò Emily. «Semplice.»
«Eppure
così complesso» concluse per lei il detective. Si sistemò la giacca dell’abito e
protese una mano verso la coinquilina. «Prestami il tuo portatile, Emi, servirà
a John. Sarebbe grandioso se mettessi su anche un po’ di tè.»
Lei
eseguì subito, entusiasta. La ricerca del possibile indiziato era appena
cominciata e si trattava di un altro passo fondamentale per comprendere il più
possibile della mente di Sherlock Holmes. Adorava quella casa.
«Guarda
che Emily non è la tua cameriera» gli fece notare John, in piedi al centro del
soggiorno, gli occhi fissi su Sherlock, seduto alla scrivania. «E non penso
proprio che ti aiuterò questa mattina. Mary e la piccola stanno venendo qui a
prendermi.»
Sherlock
lo guardò, sollevò le sopracciglia, si esibì in un mezzo sorriso. «Mary
potrebbe aiutarci eccome, invece. È intelligente, ne capisce di queste cose.»
Si
concentrò poi sul computer, cominciando la sua ricerca. John lo fissò
indispettito per un lungo momento, dopodiché, sbuffando, si sedette di fronte a
Sherlock e avviò il portatile di Emily.
Appena
fu pronto, la ragazza servì il tè ai due uomini e si fermò in piedi alle spalle
del detective, a osservare ciò che stava cercando.
«Ricordi
tutti quelli che hai mandato a processo da Walker?» gli chiese.
«Sì»
rispose monosillabico l’uomo, bevendo un sorso del suo tè.
Per
lunghi minuti non disse più nulla nessuno. Nella stanza si sentivano solo le
dita dei due uomini battere sulle tastiere dei portatili in cerca di risposte e
informazioni, mentre Emily, accanto a loro, continuava a fissarli con vivo
interesse, concentrata.
Improvvisamente
qualcuno bussò alla porta.
«Cucù»
disse la signora Hudson, entrando nella stanza. Dietro di lei comparve Mary,
che teneva in braccio un fagottino avvolto di rosa.
«Si
può?» chiese la padrona di casa.
John
si alzò dalla sedia, andò a salutare Mary e diede un bacio sulla fronte al
contenuto del fagotto, sua figlia.
«È
veramente una meraviglia, caro» osservò Mrs. Hudson, riferendosi alla bambina.
«La
ringrazio.»
Mary
si avvicinò a Sherlock, gli diede un bacio sulla testa appena lo ebbe
raggiunto. «Troppo impegnato per salutarmi, eh?» lo rimproverò.
Lui
sollevò lo sguardo e le sorrise. «Come sta?» chiese, indicando con un cenno la
figlia, fra le braccia di John.
«Fin
troppo bene» rispose ridendo Mary, dopodiché si voltò verso Emily. La guardò
attentamente, mentre tutti i presenti assistevano alla scena. La ragazza si
sentì inevitabilmente sotto esame mentre la donna la osservava. Tuttavia nello
sguardo di Mary c’era un’evidente nota di dolcezza e il modo in cui tutti
l’avevano guardata o le avevano rivolto la parola – Sherlock incluso –
lasciavano perfettamente intuire che i sentimenti che si potevano provare verso
quella donna era solo positivi. Quel primo sguardo che le due si scambiarono fu
benaugurante per entrambe e diede loro modo di avere una buona impressione di
chi avevano di fronte.
«Tu
devi essere Emily. John mi ha parlato di te» disse infine Mary, avvicinandosi
verso la ragazza con la mano tesa.
«Piacere
di conoscerla signora Watson» rispose l’altra, sorridendo e stringendole la
mano.
«Oh,
ti prego, Mary. Chiamarmi “signora” mi fa sentire tremendamente vecchia.»
«D’accordo,
Mary. Lei è la piccola, quindi. Cielo, guarda che piedini.»
Sherlock
staccò solo in quel momento gli occhi da Emily, un leggero sorriso a solcargli
il volto. Tornò a concentrarsi sulla sua ricerca mentre Mrs. Hudson offriva a
Mary il tè appena fatto da Emily e quest’ultima era accanto a John a coccolare
la bambina.
«Allora,
Sherlock, si può sapere in cosa sei invischiato adesso?» chiese infine la
signora Watson, mescolando il suo tè.
«Tuo
marito non ti ha detto niente? Sorprendente» replicò il detective.
«Ha
accennato qualcosa sull’omicidio del giudice Walker, ma ammetto che avevo altro
a cui pensare.»
«Capisco»
disse semplicemente. Inspirò un po’ d’aria e si voltò verso il suo blogger.
«Beh, cosa ne dici di raccontarle bene le cose, allora?» gli chiese, un
sopracciglio alzato.
John
annuì e cominciò a raccontare tutto alla moglie, mentre Sherlock riprendeva a
lavorare al pc. John non omise nulla, né su quello che era accaduto
all’obitorio, né su quella stessa mattina. La cosa permise a Emily di intuire
che, con molta probabilità, Mary era molto più che una moglie che comprendeva
il lavoro del marito a contatto con Sherlock. Così come le permise di capire
che per il detective lei era una persona fidata, una di quelle che non
necessitavano di essere tenute all’oscuro nemmeno del più misero dettaglio.
Quando
John ebbe finito di raccontare tutto, Mary aveva appena ultimato il tè. Non
disse nulla finché non venne incalzata dal marito. A quel punto arricciò le
labbra e si voltò verso il detective. «Penso che la pista di Sherlock sia
quella giusta da seguire» sentenziò.
John
fece per dire qualcosa, ma lei lo bloccò con un gesto. «Saltare a conclusioni
affrettate può essere un grave errore, John. Non pensi che prima sia meglio
accertarsi che nessuno dei vivi abbia ucciso Walker e, solo in un secondo
momento, andare a vedere se la colpa è di un cadavere?» domandò, riferendosi
chiaramente a Moriarty.
L’uomo
replicò, ricordando alla moglie che Moriarty era comunque sufficientemente
intelligente per rendere credibile perfino per Sherlock Holmes la sua ipotetica
morte, eppure nessuno gli diede corda. Il fatto che la nemesi di Sherlock si
fosse sparata in testa proprio sotto agli occhi inorriditi del detective
giocava totalmente a favore di quest’ultimo.
Il
medico non insistette più del dovuto, si arrese e si sedette sul divano,
proprio mentre Mary si alzava dalla poltrona.
«Beh,
avrai modo di rimanere aggiornato su tutta questa faccenda» disse lei,
prendendo la figlia dalle braccia di John.
Sentendo
quelle parole Sherlock si voltò verso di lei. Mary rispose al suo sguardo.
«Scusami,
Sherlock. Ma la domenica mattina io e John siamo soliti andare a spasso insieme
alla bambina. Non ti disturba, vero, se me lo porto via per qualche ora? In fin
dei conti hai la tua nuova assistente che può aiutarti nella tua ricerca» disse
poi, facendogli l’occhiolino.
Sherlock
ed Emily si dipinsero in volto la stessa espressione stupita.
«Assistente?»
dissero all’unisono.
Mary
sorrise vedendo le loro facce e lo prese come il giusto via libera per andare.
Invitò il marito a vestirsi, lanciò un bacio in direzione dei due inquilini di
Baker Street e, appena John fu pronto, uscì dalla casa insieme al medico, alla
bambina e alla signora Hudson, la quale si richiuse la porta alle spalle.
Emily
rimase a osservare la porta dell’appartamento, in silenzio, le braccia conserte
e la mente che lavorava in cerca di quanti più possibili segnali nascosti in
ciò che era appena successo.
«Non
fraintendere» le disse Sherlock di punto in bianco.
Emily
si voltò. L’uomo la stava guardando, serio, i limpidi occhi celesti a scavarla
nel profondo. I suoi occhi azzurri – più scuri di quelli di Sherlock –
risposero allo sguardo, dopodiché lei si strinse nelle spalle. Era indubbio che
quella casa le piacesse, che essere coinquilina del famigerato detective Holmes
la eccitasse, tuttavia quei primi tre giorni le avevano anche fatto capire che
da lì in avanti molte cose le avrebbe dovute scoprire da sola. Mezze parole,
frasi all’apparenza senza senso parevano essere all’ordine del giorno al 221B. Eppure
le importò poco.
«Non
so neanche cosa dovrei fraintendere»
fece infine notare a Sherlock.
Lui
continuò a guardarla. Emily non poté fare a meno di sentirsi leggermente a
disagio davanti a lui in quel momento. C’era una tale intensità nel suo sguardo
che metteva quasi i brividi.
«Non
ti ho accettata come coinquilina perché mi serviva un’assistente» disse lui,
continuando a guardarla.
«No,
lo so. Lo hai fatto perché avevi bisogno di una mano per le spese. Ciò non
significa che non mi stia bene, tranquillo. Sono pur sempre dove volevo essere»
replicò lei, calma.
Sherlock
rimase a studiarla ancora, in silenzio. Emily resistette e analizzò quello
sguardo per un po’, tuttavia alla fine non fu più in grado di reggere oltre.
«Ti
aiuto con la tua ricerca» gli disse infine.
Il
detective parve ridestarsi a quelle parole. La seguì con gli occhi mentre
prendeva posto alla scrivania di fronte a lui, al proprio pc su cui, fino a
pochi minuti prima, stava lavorando John. Oltre il computer, Emily lo guardò.
«Dimmi
qualche nome» lo invitò la ragazza, le dita già pronte sui tasti.
*
Intorno
all’una di pomeriggio dello stesso giorno le ricerche di Sherlock ed Emily
erano ultimate. I due avevano raccolto quante più informazioni possibili sulle
sette persone che, per merito di Sherlock, erano finite sul banco degli indagati
prima e dietro le sbarre dopo a causa del giudice Walker. Secondo le teorie del
detective quasi certamente l’omicida del giudice si trovava fra uno di quei
nomi o in qualcuno a loro vicino.
Entrambi
gli inquilini del 221B di Baker Street stavano pensando reciprocamente a chi
potesse essere il maggior indiziato sulla base degli elementi raccolti.
Sherlock
era concentrato, sovrappensiero; faceva avanti e indietro per il soggiorno
suonando il violino, lo sguardo fisso sempre oltre ciò che aveva davanti.
Emily,
invece, era sdraiata sul divano a pancia in su, le mani intrecciate in grembo,
le gambe distese, i capelli rossi sparsi sul cuscino. Ragionava anche lei su
quello che aveva raccolto, indecisa se esporre o meno al detective la propria
opinione. Da qualche minuto lo stomaco le brontolava per la fame, ma l’idea di
uscire di casa per andare in cerca di cibo non l’aveva ancora minimamente
sfiorata. Ogni tanto lanciava qualche occhiata in direzione di Sherlock e si
fermava a guardarlo per brevi attimi suonare. Le era sempre piaciuto il suono
del violino e il modo in cui il detective lo suonava, seppur concentrato su
altro, rendeva quel momento unico. Guardandolo si fermò a contemplarne i
dettagli, ciò che aveva deciso di tenere sempre sotto controllo a contatto con
l’uomo. Sherlock era in maniche di camicia, aveva arrotolato la stoffa fino ai
gomiti con precisione millimetrica. Le dita della mano destra erano avvolte con
delicata sicurezza intorno all’archetto, mentre quelle della mano sinistra si
muovevano con rapida abilità sulle corde del violino. Emily stava osservando il
modo in cui i tendini si tiravano per dare il compito di formare le note quando
Sherlock si fermò. Fece stridere il suo ultimo sol, come se lo avesse appena
ucciso, dopodiché si voltò rapido verso la ragazza.
La
guardò, risoluto, indicandola con l’archetto del violino. «Secondo te chi può
essere stato?» le chiese.
Emily
fu presa alla sprovvista da quella domanda. Guardò il detective sorpresa, mettendosi
a sedere.
«Vuoi
davvero la mia opinione?» gli chiese, più lusingata che perplessa.
Sherlock
incurvò appena l’angolo sinistro della bocca. «Sì, te l’ho appena chiesta.
Vedi, mi piace sapere bene con chi ho a che fare e, soprattutto, vedere se è
capace o meno di fare un ragionamento che possa essere definito tale.»
Le
diede le spalle. «Hai studiato criminologia dopotutto e la South Wales Police ha
espressamente domandato di te solo a poche settimane dalla tua laurea, perciò
non dovresti sorprenderti se ora chiedo la tua opinione.»
«Beh,
mi sorprende perché ero convinta che Sherlock Holmes fosse sempre piuttosto
certo delle sue deduzioni» si motivò lei con tranquillità.
Il
detective si voltò, lo stesso mezzo sorriso ancora sul volto. «Ti sto solo
mettendo alla prova, Emi. Dimostrami che ciò che immagino tu sia è corretto»
disse, fattosi improvvisamente serio.
Emily
fu attraversata da un brivido a quelle parole; lo ignorò completamente, ma
distolse ugualmente lo sguardo dagli occhi tanto chiari quanto intensi
dell’uomo.
«Io
sono propensa a pensare che chiunque ha ucciso il giudice Walker c’entri con Darrell Scott.»
«Perché?»
la domanda uscì impassibile dalle labbra dell’uomo.
«Perché
è l’unico a essere morto» replicò lei.
Notò
il lieve movimento di sopracciglio di Sherlock e dedusse di aver fatto centro –
o, per lo meno, di essere andata sufficientemente vicina a dare la risposta che
si aspettava. Decise di non attendere che fosse lui a invitarla ad andare
avanti. «Insomma, fra i sette che sono finiti in prigione per colpa di Walker
lui è l’unico a essersi ucciso. La cosa mi lascia pensare che qualcuno a lui
vicino, come la compagna o possibili figli, possano volerlo vendicare facendo
fuori chi lo ha fatto rinchiudere, vale a dire il giudice, che lo ha fatto
finire dentro e..»
«E
me» concluse Sherlock per lei. Subito dopo fece un rapido movimento con
l’archetto, annuendo con la testa. «Ottimo, i miei complimenti.»
«Era
semplice» gli fece notare Emily.
Sherlock
posò lo strumento musicale e la guardò. «Il fatto che per noi sia semplice non
significa che lo sia per altri. Non dare mai le tue capacità per scontate.»
Lei
lo fissò, perplessa. Non aveva capito bene se Sherlock le aveva appena fatto un
complimento o l’aveva rimproverata, a ogni modo la cosa era stimolante.
«Quindi
anche tu sei dell’idea di cominciare da Scott?» domandò infine la ragazza,
seguendo con gli occhi il detective, che aveva cominciato a muoversi nella
stanza in cerca di qualcosa.
«Naturalmente»
rispose secco lui. «Lo hai detto tu, era una deduzione semplice da fare. So
anche dove posso andare» disse poi. Scostò la tenda della finestra e guardò
fuori, su Londra. Oltre i vetri, sulla città, nubi scure stavano scaricando
grosse masse d’acqua. Il ticchettio delle gocce accompagnò i secondi di
silenzio che si formarono fra i due. Sherlock guardò Emily di sottecchi; la
ragazza era distratta, guardava il soffitto, sovrappensiero. L’uomo impiegò
qualche altro secondo a decidere che cosa fare. Alla fine optò per portarla con
sé. Non si trattava della tesi che lei stava scrivendo, ma del motivo
principale che l’aveva spinto ad accettarla al 221B nonostante lei avesse
contatti con Mycroft. Emily lo incuriosiva, notevolmente. Nei modi di fare
tranquilli e rilassati della ragazza c’era sempre molta attenzione e la sua
mente, quella, indubbiamente lavorava a pieno regime, proprio come la sua.
«Fuori
piove parecchio, Emi. Faresti meglio a prendere l’ombrello» le disse infine,
tornando a sistemare le tende e voltandosi verso di lei.
«Aspetta,
cosa?» chiese la ragazza, sorpresa.
«Ho
detto che fuori piove. Andiamo a fare un po’ di ricerca sul campo per vedere se
la nostra idea è corretta, che ne dici?»
«Posso
venire?»
Era
davvero stupita dall’invito che aveva appena ricevuto. Di certo non aveva messo
in conto di aiutare Sherlock anche nelle indagini sul campo, era sempre stata
convinta che fosse John la sua spalla. A lei bastava poter raccogliere
informazioni sul detective vivendo sotto il suo stesso tetto, ma addirittura
accompagnarlo sul campo, quello era a dir poco pazzesco.
«Sì
che puoi venire» rispose lui asciutto, come se non si spiegasse il quesito. «Ma
vorrei che cominciassi a porre meno domande se ti fosse possibile. Delle volte
sei irritante.»
Andò
ad afferrare il cappotto e lo infilò, sempre sotto agli occhi di una stupita ed
emozionata Emily.
«Non
stare lì impalata, vestiti» la incalzò.
La
ragazza si ridestò. Si alzò di gran fretta dal divano, si sistemò al meglio i
vestiti, dopodiché andò a prendere il suo cappotto e lo mise rapidamente.
Sherlock era già sulla porta.
«Muoviti,
Emi, dobbiamo andare. Il gioco è iniziato» disse e si avviò lungo le scale.
Note:
1
Newport: ci tengo a fare una piccola
precisazione. Nella serie tv, quando il video di Moriarty appare, dicono che si
trovi su ogni schermo televisivo del Paese. Quando però Sherlock chiede a
Mycroft chi ha bisogno di lui, questi gli risponde “L’Inghilterra”. Dato che
per la Gran Bretagna Inghilterra e Galles sono come due nazioni a parte ho
voluto circoscrivere il ritorno di Moriarty alla sola Inghilterra ed è per
questo che Emily non sa nulla di quel video.
Cinque
giorni. Tanto erano durate le ricerche di Sherlock nella speranza di riuscire a
ottenere informazioni sul possibile assassino del giudice Walker. Sebbene
avesse raccolto una moltitudine di informazioni, nonostante il suo cervello
avesse srotolato quantità impensabili di possibilità, dopo cinque giorni si era
trovato ad avere fra le mani un nulla di fatto. L’omicidio del giudice gli era
parso fin da subito qualcosa di comprensibile; era convinto sarebbe giunto alla
soluzione corretta in breve tempo, eppure così non era stato. Il suo primo
sospettato, ovvero qualcuno vicino a Darrell Scott
era stato un sonoro buco nell’acqua. Scott era praticamente solo al mondo e
benché Sherlock avesse fatto il possibile per trovare dei legami fra lui e
altre persone al di fuori della prigione, non aveva ottenuto nulla. Perfino la
sua infallibile rete di senzatetto non gli aveva fornito risposte, il che diede
all’uomo la sicurezza sufficiente per convincersi del fatto che, con tutta
probabilità, il nome di Scott poteva venir depennato.
Eliminato
il più probabile degli indiziati il detective aveva quindi spostato le sue
ricerche sugli altri nomi che aveva a disposizione. Tuttavia anche gli altri
sei indiziati avevano smontato le sue teorie come ghiaccio al sole. Pareva che
nessuno di loro potesse essere adeguatamente sospettabile, molti, oltretutto,
avevano alibi così di ferro da rendere intoccabili
se stessi e i famigliari dei gradi più lontani pensabili.
Nel
pomeriggio del sesto giorno di indagini inconcludenti Sherlock era seduto alla
sua poltrona, al 221B di Baker Street, come ogni pomeriggio prima di quello.
Era di umore intrattabile da ormai due giorni e quella mattina aveva sollevato
la soglia dell’indagine da uno a due cerotti alla nicotina.Per qualche motivo che sfuggiva a tutti
quelli vicini al detective, quella ricerca lo stava perseguitando. Per quanto
fosse convinto che le modalità con cui Walker era stato assassinato fossero
solamente un richiamo all’operato di Jim Moriarty,
una parte di lui non si dava pace. Voleva
sapere chi c’era dietro a quell’omicidio, a costo di perdere il sonno per altri
giorni interi.
Ricominciò
a leggere mentalmente tutte le informazioni che aveva raccolto per l’ennesima
volta, scorse ogni indizio in cerca di qualcosa che potesse essergli sfuggito,
ma nulla cambiava.
Frenò
il suo cervello di colpo appena sentì dei passi farsi strada lungo le scale.
Riconobbe lo scricchiolio tipico del settimo gradino della rampa. Puntò
istintivamente gli occhi all’ingresso dell’appartamento che, una volta aperto,
permise all’ispettore Lestrade di entrare nel soggiorno. I due uomini si
guardarono.
«Non
sei occupato, vero?» chiese l’ispettore, una leggera nota sarcastica nella
voce.
«Cosa
vuoi?» replicò Sherlock, senza scomporsi.
Lestrade
sollevò le sopracciglia con fare infastidito. «Bel modo di accogliere gli
amici.»
Sherlock
era pronto a replicare, ricordando a Lestrade che i suoi amici erano un numero
molto ridotto e che, con tutta probabilità, lui non era fra loro, quando vide
l’uomo estrarre dalla tasca del cappotto un pacchetto di sigarette. Focalizzò
la sua attenzione su quelle; l’improvvisa voglia di nicotina lo aggredì, al
punto che l’inutilità dei cerotti divenne palese come non mai.
«Posso?»
chiese Lestrade indicando la poltrona di Watson.
Sherlock
gli diede il via libera con un gesto e si mise a fissare con intensità la
sigaretta appena presa in mano dall’ispettore. Lestrade osservò il detective di
rimando, capendo che aveva il permesso – oltre alla benedizione – di portare
una ventata di fumo malsano nel piccolo soggiorno.
Per
qualche minuto nessuno disse nulla. L’ispettore inspirava ed espirava lunghe
boccate dalla sigaretta, sentendosi in pace almeno per quei brevi istanti;
Sherlock, di fronte a lui, si inebriava il più possibile dell’odore acre che
saliva lento nella stanza e si mescolava all’ossigeno presente.
«Sei
qui per darmi qualche notizia che reputi “brutta”, lo so. Perciò fossi in te mi
toglierei il dente subito» lo incalzò poi il detective, dopo essersi assuefatto
a sufficienza al fumo argenteo espirato dall’altro.
Lestrade
diede un colpetto alla sigaretta e guardò la cenere cadere.
«Lo
hai capito dalla sigaretta?» chiese, retorico. Sherlock, infatti, non gli
rispose e l’uomo riprese a parlare: «Dove hai messo Emily?» domandò, cambiando
completamente argomento.
I
muscoli facciali di Sherlock si tesero impercettibilmente, irritati. Non
sopportava che si girasse intorno all’argomento apposta, specie se per farlo si
tirava in ballo una questione di cui gli importava poco.
«È
in facoltà, ha iniziato a seguire le lezioni per il master questa settimana.
Fossi in te cercherei di sopprimere il prima possibile ogni eventuale desiderio
di approfondire la conoscenza con quella ragazza, se capisci a cosa mi sto
riferendo.»
Lestrade
aggrottò la fronte a quelle parole. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma
prima di farlo scosse la testa con fare incredulo.
«Sherlock,
ha venticinque anni. Non mi passerebbe neanche per la mente di “approfondire la
conoscenza”» disse, facendo segno di virgolette in aria. «Ti ho chiesto dov’è
semplicemente perché mi è simpatica e perché non sarebbe stato male avere davanti
qualcuno di socievole almeno per una volta, visto che non c’è neanche John.
Credevo fossi più intelligente.»
Sherlock
ignorò completamente le parole dell’ispettore. Si limitò a fissarlo
infastidito, senza replicare. Lestrade, allora, prese l’ultima boccata dalla
sua sigaretta e decise di accontentare il detective.
«Non
hai scoperto nulla su Walker?» domandò.
Sherlock
si sentì ulteriormente irritato da quelle parole. C’era della provocazione
nella voce di Lestrade, non molta, ma sufficiente per farlo sentire
improvvisamente un incapace. Non aveva scoperto molto, era vero, ma con che
coraggio quell’uomo si presentava in casa sua per metterlo all’angolo a quel
modo? Lo guardò per un lungo momento, austero. Lestrade, però, non si scompose.
«Non
ho finito di indagare» disse infine Sherlock, gelido.
«Oh,
non ne dubito. Ma questa volta mi permetto di dirti che certamente potresti
impiegare ancora parecchio tempo.»
«Come
fai a dirlo?»
L’ispettore
si strinse nelle spalle. «Mi piacerebbe dirti che questa volta ti ho battuto,
ma non ho tutto il merito.»
«Vieni
al dunque» lo incalzò il detective, confermando a Lestrade di essere
particolarmente intrattabile.
«L’assassino
ha confessato.»
Sherlock
si bloccò di colpo, fissando Lestrade. Nella sua testa qualcosa gli diceva che
non poteva essere possibile.
«Chi
ha confessato?»
«Un
certo Erik Horvat, un croato che vive qui da un pezzo.»
Il
detective si esternò dalla conversazione. Tornò con la mente all’elenco dei
nomi raccolti in quei cinque giorni, li rilesse tutti, senza alcuna eccezione.
Fra quell’elenco di nomi, fra tutte quelle persone che lui aveva considerato
sospettabili poiché vicine a ognuno dei sette indiziati per l’omicidio di
Walker nessun Horvat figurava.
«Per
quale motivo lo avrebbe fatto?» chiese poi a Lestrade, nella speranza di capire
qualcosa di più. Non gli sembrava possibile, si rifiutava di credere che
davvero qualcuno di cui lui non conosceva neanche l’esistenza avesse commesso
un simile omicidio.
«Conti
in sospeso. Abbiamo indagato un po’ sui retroscena della vita del giudice. A
quanto pare era molto bravo a tenere nascosto a tutti che aveva un giro di
prestiti in nero. Pare che Horvat si fosse invischiato per bene in un grosso
debito e non riuscisse più a ripagarlo. Droga e gioco d’azzardo. Al nuovo
sollecito di Walker il croato ha pensato di ucciderlo» gli spiegò Lestrade.
Nuovamente
Sherlock si rifiutò di credere a quella storia. Nei suoi brevi contatti con il
giudice aveva avuto modo di capire che non era un uomo totalmente onesto, ma la
cosa non gli era mai importata più di tanto. No, in quel caso non era il
traffico illegale di soldi del giudice a innervosirlo, ma il fatto che fosse
entrato in gioco qualcuno che lui non aveva previsto nonostante, come suo
solito, avesse tenuto conto di una moltitudine di scenari.
«Sei
venuto fin qui solo per dirmi questo, quindi. Per farmi vedere che, una volta
tanto, Scotland Yard è riuscita a concludere qualcosa» disse Sherlock
all’improvviso, il fastidio palpabile nella voce.
Lestrade
lo guardò, più sorpreso del solito. «Non sei di buon umore, vedo. Non sono
venuto qui per questo, sono venuto qui per chiederti di venire con me in
centrale per interrogare Horvat.»
Il
detective sollevò un sopracciglio. «Perché dovrei? Ha confessato, no?
Sbattetelo in cella e prendetevi il merito.»
L’ispettore
sospirò, prese quanta più forza possibile preparandosi a dire una cosa che non
avrebbe voluto dover dire: «È stato troppo semplice, Sherlock. Pensala come
vuoi ma io non credo alla storia di quell’uomo. Forse trascorro troppo tempo
insieme a te, ma credo che se lo arrestiamo, sbagliamo. In centrale cominciano
già a pensare che io sia pazzo e venendo qui ti dico subito che non sto facendo
altro che alimentare le loro credenze.»
«Allora
non dovevi venire. Se quell’uomo ha confessato c’è poco che possa fare.»
«Vieni
almeno a parlare con lui. Ti basterebbe guardarlo per capire se mente o no.»
Sherlock
si alzò dalla sua poltrona, improvvisamente irritato. Non c’era niente di
positivo in quella giornata, assolutamente niente. Raggiunse la porta
dell’appartamento, l’aprì e fece segno a Lestrade di andarsene.
«Non
ho nessuna intenzione di venire con te» scandì accuratamente. «Se avete
arrestato il reo confesso, per quanto mi riguarda, il caso è chiuso» concluse,
rinnovando l’invito ad andarsene.
L’ispettore
lo guardò a lungo, senza muoversi di un millimetro. Non credeva a Sherlock. La
sua irritazione crescente mano a mano che lui gli raccontava come era evoluta
la situazione era il chiaro segnale che il detective si era lambiccato il
cervello inutilmente per giorni e che la cosa lo innervosiva.
I
due uomini rimasero a osservarsi a lungo, entrambi seri, entrambi
imperscrutabili. Fra loro si sollevò un silenzio ostinato, che venne interrotto
dalla porta d’ingresso del 221B. Sentirono la chiave girare nella serratura, la
porta venire aperta e le voci di Emily e John riempire lo spazio, un gradino
alla volta, fino al soggiorno. Sherlock teneva ancora la porta aperta quando
Emily raggiunse il pianerottolo; osservò confusa il detective e lo ringraziò,
dopodiché entrò nel soggiorno e sorrise all’ispettore, salutandolo. John entrò
dietro di lei e salutò a sua volta Lestrade.
«Che
succede?» volle informarsi John.
«L’ispettore
se ne stava andando» rispose Sherlock.
Lestrade
si alzò. «Abbiamo preso l’assassino di Walker.»
«Davvero?»
chiese Emily.
«Sì,
esatto. Ho chiesto a Sherlock di venire con me per interrogarlo, ma pare non sia
in una buona giornata.»
John
e la ragazza si voltarono verso di lui, il quale sbuffò un po’ d’aria senza
replicare.
«Perché
non vuoi interrogarlo?» domandò John.
«Perché
ha confessato. C’è veramente bisogno di porre altre domande a qualcuno che ha
già detto tutto?»
Emily
si rivolse a Lestrade: «Chi è stato?»
«Un
certo Erik Horvat.»
La
ragazza si voltò verso Sherlock; si accorse che l’uomo la stava già guardando e
lesse nei suoi occhi il suo stesso pensiero. Lei era stata accanto al detective
mentre raccoglieva informazioni e tesseva indagini; la parete alle spalle del
divano si era riempita poco a poco di indiziati e sospetti, ma nessun Erik
Horvat vi figurava. Si era confrontata con Sherlock in più occasioni nell’arco
di quei cinque giorni, scoprendo con sua grande sorpresa che, più volte, il
detective aveva considerato le sue osservazioni interessanti – benché lui ci fosse
sempre arrivato svariati minuti prima di lei – eppure, entrambi, avevano
sbagliato. C’era qualcosa di sospetto in quel risvolto e lei era certa che
fosse sospetto anche per Sherlock. Eppure non capiva per quale motivo, ora, lui
si rifiutasse di andare più a fondo nella faccenda.
«Cos’ha
detto esattamente questo Horvat
quando è venuto a confessarsi?» domandò infine, sempre rivolta all’ispettore.
Lestrade,
non aspettandosi quella domanda, rispose in modo incerto, incuriosito, e non
riuscì a notare l’improvviso bagliore d’interesse che si riaccese negli occhi
di Sherlock. Lo notò John, invece.
«Gli
ha appena chiesto quello che volevi sapere tu, vero?» gli domandò quest’ultimo,
indicando in direzione di Lestrade. «Se ti premeva tanto sapere la risposta
perché non glielo hai chiesto tu?»
Sherlock
lo guardò. Sollevò le sopracciglia con fare sorpreso. «Oh andiamo, John. Non
sono il tipo da perdere l’occasione di mettere in ridicolo per l’ennesima volta
Scotland Yard solo perché non ho voglia di porre una domanda a Gavin.»
«No,
invece sei proprio il tipo» replicò il medico, guardandolo di traverso.
L’ispettore
non si scompose per l’ennesima storpiatura del proprio nome, ma rimase fermo a
osservare gli altri uomini. Emily, invece, si sbottonò il cappotto e fece per
sfilarselo quando Sherlock la bloccò: «Non toglierlo, Emi, dobbiamo uscire.»
Lei
lo guardò, senza capire. Indicò dietro di sé con il pollice dicendo: «Sherlock
sono appena tornata a casa. Ho bisogno di andare in bagno.»
Il
detective afferrò il suo cappotto scuro e lo infilò. «Alla centrale di polizia
hanno i servizi igienici, puoi usare i loro. John, anche tu sei dei nostri,
ovviamente. Muoviamoci ispettore» concluse, facendo un cenno a Lestrade. Questi
guardò gli altri due confuso, scosse la testa e borbottò sarcastico: «Quindi
adesso viene. Grandioso.»
I
quattro scesero in strada, dove ad attenderli c’era la berlina dell’ispettore.
Montarono tutti in auto, diretti verso la stazione di polizia.
Una
volta giunti all’edificio entrarono e seguirono Lestrade lungo i corridoi più
interni. L’ispettore fece loro strada con passo sicuro e Emily non poté fare a
meno di notare le occhiate che le persone lanciavano nella loro direzione,
sicuramente per via di Sherlock. Da quando aveva scoperto dell’esistenza di
quell’uomo e da quando aveva cominciato a interessarsi a lui, la ragazza non
aveva potuto fare a meno di sospettare che per molti l’alta figura del
detective – o consulente investigativo, per usare le sue parole – non poteva
essere vista di buon occhio da tutti. Sherlock aveva la capacità di riuscire
dove gli altri fallivano e questo, con il tempo, lo aveva portato a rendersi
sgradito a molti, proprio come dimostravano le occhiate che continuavano a
lanciargli. Tuttavia per qualche curioso e apprezzabile motivo ciò non valeva
per Lestrade.
L’ispettore
aprì un’altra porta e raggiunse una donna dalla carnagione mulatta e dagli
indomabili capelli scuri.
«Non
mi dica che lo ha portato qui per interrogare Horvat. Ha confessato, non
abbiamo bisogno di lui» disse la donna, indicando irritata verso Sherlock. «E
poi, cos’è? Ti sei portato dietro la scorta, chi è la ragazzina?»
Emily
la guardò, impassibile. Non avrebbe stretto la mano a quella donna; le era
bastato veramente poco per capire che non sarebbe stata mai ben vista da lei
solo per via del suo legame con il detective.
«Donovan,
per favore. Ho le mie ragioni per averlo portato qui» replicò secco
l’ispettore. Scostò la donna e riprese a camminare lungo il corridoio,
fermandosi poco prima della fine di esso. Davanti a loro un’ampia vetrata dava su una
stanza piccola, grigia e spoglia. Dentro, seduto dietro un tavolino, un uomo li
stava osservando. Lestrade lo indicò oltre il vetro. «Vi presento Erik Horvat,
a quanto pare l’assassino di Walker.»
Sherlock,
John e Emily lo osservarono, mentre Horvat ancora rispondeva al loro sguardo.
«Se
vuoi entrare è tutto tuo. Dieci minuti dovrebbero bastarti» disse al detective
l’ispettore.
«Sono
anche troppi. John e Emi vengono con me» rispose Sherlock, senza guardare il
suo interlocutore.
«Cosa?
No. Non è un’amichevole rimpatriata, Sherlock, non possono entrare tutti.»
«Ho
bisogno che ci siano entrambi» replicò l’altro calmo.
John
guardò un momento Emily, cosa che fece immediatamente anche Lestrade. La
ragazza era certa di porsi la loro stessa domanda, ovvero cosa potesse
c’entrare lei in quella faccenda. Si sentiva lusingata di sapere che Sherlock
la voleva, ma non riusciva a spiegarsi bene perché. Il detective rimaneva
ancora un mistero, una delle persone che stava impiegando più tempo di tanti
altri per riuscire a comprendere, anche solo nei tratti più rilevanti.
Sherlock
aprì la porta appena ebbe il via libera ed entrò nella stanza, seguito da John
ed Emily. Dentro Horvat continuava a fissarlo, serio; lo seguì con lo sguardo
mentre prendeva posto nella sedia libera davanti a lui, dopodiché incrociò le
braccia e fece un cenno in direzione dell’unica ragazza presente.
«Lei
mi piace molto» disse.
Sherlock
lo guardò, serio. Portò i gomiti sul tavolo e congiunse le mani. «Ti posso
garantire che non ha alcuna voglia di condividere dell’LSD insieme a te.»
Horvat
rise. «Sei bravo, davvero.»
«Parlando
di cose serie. Tu, quindi, avresti ucciso il giudice Walker.»
«Sì,
infatti.»
«E
hai confessato.»
Horvat
annuì semplicemente, senza staccare gli occhi dal detective.
«Perché
lo avresti fatto?» domandò poi Sherlock, abbassando la voce.
L’altro
si strinse nelle spalle. «Ero pieno di debiti con lui. Non sapevo come
restituirgli i soldi e mi aveva detto che se non li avesse rivisti entro fine
mese avrebbe chiamato la polizia.»
«Mi
riferivo al perché hai confessato di averlo ucciso.»
Le
ultime parole di Sherlock presero alla sprovvista Horvat; tuttavia si ricompose
in fretta e rispose: «Oh, beh. Non è che goda di buona fama fuori da qui.»
«E
passare un po’ di anni in prigione ti garantisce protezione, certo.»
«Finché
sono qui dentro tutti quelli con cui ho conti in sospeso non possono farmi
molto.»
«Una
logica stringente, lo ammetto. Hai avuto questa idea solo dopo aver ucciso
Walker?»
Horvat
annuì.
«Ucciso
con il botulino» mormorò Sherlock
«Proprio
così» si limitò a dire l’altro.
Sherlock
si appoggiò allo schienale della sedia, inspirando. Lanciò un’ultima occhiata
all’indagato, infine si alzò, sistemandosi il cappotto. Si voltò verso gli
altri due e sentenziò: «Abbiamo finito» dopodiché uscì dalla stanza con loro al
seguito. Una volta fuori, oltre il vetro, Horvat continuava a fissarli.
«Ci
hai messo solo due minuti» gli fece notare Lestrade appena Sherlock si fu
chiuso la porta alle spalle.
«Te
lo avevo detto che dieci erano troppi.»
L’ispettore
guardò Horvat, poi tornò a rivolgersi agli altri: «Andiamo nel mio ufficio»
disse, cominciando a fare loro strada.
L’ufficio
di Lestrade era silenzioso e cominciava a essere avvolto dalla penombra. Dentro
John ed Emily avevano preso posto sulle sedie disposte di fronte alla scrivania
dell’ispettore, alle loro spalle Sherlock camminava avanti e indietro, come un
leone in gabbia. L’ultimo a entrare fu proprio Lestrade, una tazza di caffè
fumante in mano. La porse a Emily quando le passò accanto e lei lo ringraziò
mentre l’uomo andava a sedersi al suo posto e si appoggiava allo schienale
della sedia.
«Quindi,
Sherlock, cosa mi puoi dire di Horvat?» chiese poi, di punto in bianco.
Il
detective si fermò di colpo, il cappotto lo avvolse. «Mente, ecco cosa posso
dirti.»
Lestrade
si sentì leggermente sollevato al suono di quelle parole, ma anche se avesse
voluto non lo diede a vedere.
«Bene.
Vale a dire che non ti ho fatto venire qui inutilmente.» Si grattò un momento
la testa e riprese: «Ora, però, come posso dimostrare che sta mentendo?»
Sherlock
si avvicinò alla scrivania, posò entrambe le mani sullo schienale della sedia
di Emily e si avvicinò ulteriormente. «Come?
Oh, andiamo ispettore. È palese che sta mentendo. Lo dovresti aver capito
perfino tu. John ed Emily lo hanno capito senz’altro.»
John
lo guardò. «Cosa? Come fai a dire che l’ho capito anche io?»
Sherlock
rispose alla sua occhiata. «Per favore, John. Mi rifiuto di credere che tu non
abbia imparato niente da quando stiamo insieme.»
Il
medico aggrottò la fronte su quel “da quando stiamo insieme”. Era pronto a
replicare, ma il detective prese parola prima: «A ogni modo, John può anche non
averlo capito, ma Emi sì.»
La
ragazza smise improvvisamente di sorseggiare il suo caffè. Si sentì chiamata in
causa, consapevole che tutti la stavano guardando: Lestrade davanti a sé, John
accanto, Sherlock dietro. Posò la tazza sulla scrivania e guardò l’ispettore.
«Lo
credo anche io, ispettore.»
Non
aggiunse altro. Lestrade guardò prima lei, poi il detective e chiese:
«D’accordo. Ma ho bisogno di poterlo dimostrare, perciò, come fate a dirlo?»
scandì con cura.
«Come
facciamo a dirlo? È evidente» replicò Sherlock.
«Oh,
ti prego! Non fingere che sia chiaro per chiunque se lo è solo per te.»
«Anche
per Emily.»
Calò
il silenzio, improvviso. Lestrade tornò a rivolgere la sua attenzione sulla
ragazza, che si sentì improvvisamente avvampare.
«Di’
un po’,» esordì poi, parlando con Emily, «hai voglia di dirmi tu quello che, a
quanto pare, non ha voglia di farmi sapere Sherlock?»
La
ragazza annuì. «Beh, non so se la motivazione sia la stessa di Sherlock ma, io
penso che stia mentendo per il modo in cui confessa di essere il colpevole.»
«Il
modo?» domandarono all’unisono John e Lestrade.
«Sì.
Insomma, quello che dice di aver commesso è un omicidio molto articolato, ben
studiato. Qualcosa per cui deve aver lavorato molto. A me viene difficile
pensare che possa liquidare il suo lavoro con un semplicissimo “proprio così”.»
«Ma
lui non ha inventato niente. Ha semplicemente copiato ciò che Moriarty ha fatto
a Carl Powers» disse John, voltandosi verso Emily.
«È
comunque più complicato di così» si intromise Sherlock. «Uno come Horvat non
avrebbe perso tempo a informarsi sulle abitudini di Walker, a cercare il
botulino e a fare in modo che lo ingerisse giusto in tempo per affogare alla terza
vasca a nuoto.»
Riprese
a camminare per la stanza. «Non avete notato le sue mani, o il suo naso? No,
certo che no. Deve essersi rotto il naso e più di una volta mentre le sue mani,
beh, quelle sono assuefatte a graffi, tagli e botte, il che cosa significa? Che
è un uomo rude, abituato alla violenza fisica, che la pratica spesso e,
sicuramente, dà più che ricevere. Ciò vuol dire che uno così se avesse voluto
davvero uccidere Walker affogandolo gli avrebbe semplicemente tenuto la testa
sott’acqua, non avrebbe architettato un’azione del genere.»
Si
fermò. Guardò dritto negli occhi di Lestrade e si portò l’indice alla tempia.
«Gli assassini, quelli seriali, quelli veramente pericolosi hanno bisogno di un
pubblico, lo bramano. Qualcuno in grado di commettere un simile omicidio non
avrebbe mai, mai, sminuito il proprio
lavoro a quel modo. Horvat non può averlo ucciso, sono pronto a scommettere che
qualcuno lo ha pagato per addossarsi la colpa.»
«A
che scopo, scusa? Farsi sbattere in cella non è il modo corretto per spendere
dei soldi» gli fece notare John.
«Ma
è un posto sicuro per rimanere fuori dai guai per un po’. È probabile che il
vero assassino abbia pagato Horvat per prendersi la colpa, garantendogli che
una volta uscito di prigione – ovvero abbastanza presto in caso di buona
condotta – avrebbe avuto a disposizione i soldi, oltre a essere dimenticato da
buona parte delle persone con cui lui ha attualmente dei debiti. Tutto torna,
ispettore.»
Lestrade
lo stava guardando, in silenzio. Ripensò alle sue parole e dovette ammettere a
se stesso che, anche quella volta, le cose si incastravano fin troppo bene.
Tuttavia sospirò, sconsolato. «D’accordo, Sherlock, ti credo. Ma finché non
abbiamo prove serie c’è poco che posso fare. Quell’uomo ha confessato.»
Sherlock
lo guardò, lievemente irritato. «Allora perché mi hai fatto venire fin qui?»
«Perché
speravo potessi aiutarmi.»
«E
cosa ho appena fatto?»
Lestrade
non rispose. Si strinse nelle spalle e sospirò nuovamente. «Mi spiace,
Sherlock. Ti ringrazio per il tuo tempo, ma questa volta ho le mani legate.»
L’ispettore
e il detective si guardarono a lungo, in un silenzio teso e palpabile. Alla
fine Sherlock si ricompose, si lisciò il cappotto e uscì dall’ufficio di
Lestrade senza aggiungere altro.
*
Il
taxi accostò davanti all’ingresso del 221B. Sherlock ne scese di fretta e
altrettanto in fretta girò la chiave nella serratura ed entrò in casa. Emily,
ancora seduta sul mezzo accanto a John, guardò il medico. Quest’ultimo le
sorrise. «È fatto così, lo avrai capito. Non gli piace perdere tempo e sono
certo che sia convinto che Lestrade gli abbia proprio fatto perdere tempo.»
La
ragazza lanciò un’occhiata in direzione dell’ingresso di casa aperto, ma
deserto. «Sai, John, impiego sempre poco per capire chi ho davanti, ma con
Sherlock… davvero non riesco ad afferrarlo, nemmeno nei suoi tratti più
evidenti. Non credevo fosse così complicato» ammise.
«Si
beh, è un tipo particolare. Ma tutto sommato è una brava persona. Solo un po’
arrogante, stronzo e saccente. Un po’ molto in verità.»
«Eppure
sei suo amico» gli disse lei, sorridendo.
John
rispose al suo sorriso. «Commettiamo tutti degli errori» scherzò. «Non
preoccuparti, Emi. Con Sherlock puoi stare tranquilla. E imparerai a
conoscerlo, vedrai.»
La
ragazza ci pensò su, infine annuì. Salutò il medico – anche da parte del
detective – e scese del taxi, che ripartì subito per accompagnare John a casa.
Emily
salì le scale fino all’ingresso dell’appartamento e, una volta lì, vide subito
Sherlock intento a togliere con foga tutte le carte, le foto e gli articoli di
giornale che i due avevano raccolto durante la loro ricerca sul possibile
assassino del giudice Walker. Sentì una fitta al petto a vedere l’uomo che
staccava con indifferenza e fretta i fogli, la carta che si lacerava di tanto
in tanto. Le sembrava sbagliato ciò che Sherlock stava facendo; quella era la
sua prima indagine insieme al detective, non voleva vederla sparire così,
soprattutto perché non era realmente finita. Il vero assassino di Walker era
ancora in libertà, Sherlock lo sapeva perfettamente, proprio come lei. Le
sembrava irreale che l’uomo accettasse così l’esito di quel pomeriggio da Lestrade,
che cancellasse con così tanta freddezza i dati di un caso che poteva essere
ancora risolto. Quello non era lo Sherlock Holmes che lei immaginava e c’era
qualcosa che la insospettiva. Perché non riusciva a capirlo? Perché continuava
a essere un mistero?
«Che
stai facendo?» gli chiese infine, guardandolo.
Lui
si voltò. Sollevò le sopracciglia come se non comprendesse la domanda. «Hai
sentito l’ispettore. Non possono fare niente. Horvat verrà processato e loro
avranno il loro assassino. Per quanto mi riguarda il caso è chiuso.»
Riprese
a staccare le carte dalla parete, tornando a ignorare la ragazza. Lei ebbe un
fremito. Voleva impedirgli di cancellare tutto il loro lavoro così. Era certa,
in un modo per lei incomprensibile, che anche per Sherlock quel caso non poteva
definirsi “chiuso” e che lui si stesse comportando così solo perché irritato.
«Non
te lo permetto»esclamò d’improvviso
Emily, parandosi davanti al detective e impedendogli di proseguire nelle sue
azioni.
Sherlock
si fermò di colpo, guardandola. Un lampo di curiosità attraversò i suoi occhi
mentre fissava Emily con intensità crescente. Lei fece del suo meglio per
resistere allo sguardo dell’uomo, tentando di rimanere il più ferma possibile
nella propria convinzione.
«Non
me lo permetti?» mormorò Sherlock.
La
ragazza annuì, lievemente incerta. Resistere agli sguardi di Sherlock le
riusciva difficile molte volte e quel momento era una di quelli.
«Non
voglio che tu distrugga tutto il lavoro che abbiamo fatto solo perché Lestrade
ha deciso di lasciar perdere. Insomma, ci abbiamo lavorato a lungo no?»
Sherlock
sorrise, lievemente. «Vero. Ma non ho alcuna intenzione di spendere altro tempo
inutilmente su qualcosa che Scotland Yard ha deciso di ignorare, per cui
considero questo caso chiuso.»
Emily
lo guardò, senza sapere cosa pensare. Si sentiva confusa e incerta; sapeva solo
che non voleva vedere tutto ciò sparire così, di punto in bianco, senza averle
dato le risposte che sperava di ottenere.
«Beh,
e se per me non fosse chiuso il caso?» domandò con forza, avvicinandosi di un
passo al detective. Se ne pentì subito, però, poiché l’uomo era decisamente più
alto di lei. Sherlock, infatti, dovette abbassare lo sguardo. Rimase in
silenzio per quella che a Emily parve un’eternità, infine schiuse le labbra,
respirò e disse: «Vorrei ricordarti che questa è una mia indagine. Non nego che tu mi abbia aiutato, ma se per me la
faccenda è chiusa, allora è chiusa. Oltretutto vorrei anche sottolineare che
questa è casa mia.»
La
ragazza si sentì sotto accusa, tuttavia incassò l’affondo con eleganza e
replicò subito: «Tecnicamente la casa appartiene a Mrs. Hudson. Noi due ne
siamo ugualmente affittuari, il che vale a dire che siamo coinquilini. Ciò
significa che questa casa è anche mia, così come lo è metà di questa parete…
possibilmente quella senza lo smile» disse, indicando alle sue spalle. «Perciò
ti proibisco di togliere le informazioni raccolte dalla mia metà del muro.»
Sherlock
non replicò. Si limitò a stare in silenzio, un mezzo sorriso in volto e gli
occhi fissi in quelli di Emily. Alla fine, dopo un gioco di sguardi all’apparenza
infinito, annuì con il capo. «Come vuoi» concluse.
Riprese
a staccare i fogli di giornale e gli appunti solo nella “sua” metà del muro,
facendo ricomparire lo smile giallo sulla carta da parati, il tutto davanti a
una perplessa e incredula Emily, che si sentì strana nell’aver vinto la sua
prima faida contro Holmes. Quando il detective ebbe finito si spostò in cucina
e la ragazza ebbe modo di vedere la precisione con cui la parete era stata
divisa: metà spoglia, metà sovraccarica di carte. E nella sua metà, fra tutti
gli articoli di giornale e i possibili indiziati, il nome di Darrell Scott, figurava ancora.
I
primi due mesi di convivenza fra Sherlock ed Emily erano trascorsi piuttosto in
fretta e calmi. In quell’arco di tempo nulla di eclatante era accaduto e la
cosa aveva dato modo ai due nuovi coinquilini di approfondire la propria
conoscenza, per quanto possibile. In quei giorni, infatti, il rapporto fra la
studentessa e il detective non aveva preso svolte decisive. Sherlock aveva
avuto fra le mani cinque diversi casi a cui lavorare, cosa che gli aveva dato
la possibilità di non mostrare troppo del suo lato da sociopatico iperattivo
alla ragazza. Emily, invece, aveva seguito passo passo
il detective nella corretta conclusione delle indagini con entusiasmo
crescente, alternando le lezioni allo studio sui libri e all’analisi sul
diretto interessato per la sua tesi. In quei mesi aveva avuto modo di
immergersi nel mondo di Sherlock Holmes, qualcosa in continuo bilico fra
l’intrigante, il misterioso e il deduttivo, un mondo che l’aveva sorpresa e che
la esaltava sempre di più. Frequentando Sherlock aveva approfondito l’amicizia
con John Watson – e che si era dimostrata una persona ancora più apprezzabile
rispetto alle sue più rosee aspettative – con la moglie Mary – donna capace,
intelligente e pratica -e perfino con
Molly e Lestrade – che le piacevano di più a ogni nuovo incontro. La nuova vita
della ragazza a Baker Street si stava dimostrando entusiasmante e ogni giorno
che trascorreva in quelle mura si trovava sempre più desiderosa di passare lì
dentro l’eternità. Per quanto Sherlock fosse instabile nell’umore, facilmente
irritabile e anestetizzasse la noia con metodi discutibili lei era felice di
averlo come coinquilino. Allo scadere del suo secondo mese si sentiva parte di
quella casa e aveva notato, con sua piacevole sorpresa, che anche il detective
sembrava considerarla in tale maniera. Non che le dedicasse attenzioni
particolari, ma rispetto ai primi giorni di convivenza, Emily si era accorta
che Sherlock aveva iniziato a vivere nella consapevolezza di condividere la
casa con qualcuno. Una parte della ragazza – piuttosto piccola e insicura –
avrebbe giurato che il merito fosse esclusivamente di quel primo faccia a
faccia vinto da lei sull’uomo, quando il motivo della loro disputa era la
parete ingombra di fogli di carta, riconducibili al “loro” primo caso.
Quella
parete, da cui Emily pensava fosse iniziato realmente tutto, era tornata a
essere spoglia solo poche settimane dopo quella sera. La metà del muro che la
studentessa aveva strenuamente difeso – incrementando in quel momento
l’interesse che il detective provava per lei – si era poi svestita poco a poco
delle carte e degli articoli di giornale. Tuttavia non erano stati eliminati,
ma riposti con cura dalla ragazza in una valigetta – nascosta sul fondo del suo
armadio – come ricordo.
Fuori
dal civico 221B il clima si era irrigidito in quei due mesi; aveva dato l’avvio
a quello che pareva già essere un inverno freddo, mentre la pioggia,
immancabile su una Londra novembrina, bagnava la città a intervalli regolari.
Quel venerdì pomeriggio, dopo le quindici, l’acqua sembrava non volerne sapere
di smettere di scendere sulla città. Un vento freddo sferzava l’aria e fra il
via e vai di persone lungo Baker Street, il riconoscibile ombrello giallo di
Emily si faceva strada accanto a uno grigio dalla trama scozzese. Nulla sarebbe
sembrato insolito, se non fosse stato che l’ombrello giallo e la sua luminosa
nota di allegria, erano fra le mani di Sherlock Holmes.
L’uomo
si faceva largo lungo il marciapiede, cercando nella tasca del cappotto il
mazzo di chiavi per poter rientrare e togliersi dalla strada – e dalle persone
– il più in fretta possibile. Accanto a lui John parlava del più e del meno,
senza aspettarsi esattamente una risposta dall’altro.
Entrarono
al 221B, salutarono Mrs. Hudson e percorsero la rampa di scale fino in cima.
Una volta dentro John si fermò, si guardò intorno e senza riuscire a
trattenersi disse: «Mi sembra difficile credere che Emily ti permetta di
lasciare questo casino ovunque.»
Sherlock
lo guardò, confuso. «Non dovrebbe sembrarti strano. Non è molto diverso da
quando vivevi qui tu.»
«Lo
vedo. È solo che lei è una ragazza e mi pare tanto ordinata. Pensavo che almeno
con una donna in casa avresti smesso di lasciare le tue cose in giro. Giusto
per buona educazione.»
Il
detective sollevò un sopracciglio, dopodiché con l’ombrello, indicò un punto
del soggiorno. Accanto al tavolino una pila di voluminosi libri, dispense e fogli
era ammonticchiata malamente, in un ammasso disordinato e traballante.
«Come
puoi ben vedere neanche lei è molto ordinata. I suoi libri sono sparsi ovunque,
ma da leggere sono interessanti. Ora capisci come mai non è ossessionata
dall’ordine?»
«Almeno
il frigorifero è sgombero da resti umani?» chiese John, incerto. L’ultima
scoperta su Emily lo aveva lasciato un po’ confuso, soprattutto perché non
aveva fatto mai caso prima alla cosa.
Sherlock
fece una smorfia, borbottò qualcosa e, incrociando l’occhiata dell’amico,
rispose rassegnato: «Al momento non ho cadaveri a disposizione.»
La
risposta fu sufficiente a tranquillizzare un minimo John. Il fatto che qualcuno
dovesse convivere in quella casa insieme a Sherlock non lo faceva stare sereno,
soprattutto perché lui sapeva bene a cosa si andava incontro nel condividere lo
stesso tetto del detective. Cominciò a sfilarsi la giacca quando sentì
l’ingresso di casa aprirsi. Si trattava certamente di Emily, ma la foga con cui
stava salendo le scale, per un momento, lo fece dubitare del fatto che si
trattasse realmente di lei. Tuttavia dalla porta, nel soggiorno, comparve
proprio la ragazza, il cappotto imbevuto d’acqua, i capelli zuppi e una luce
furente negli occhi. Josh rimase sconvolto appena la vide. Rivoli rossi le
rigavano il volto, scendendo dalle tempie. Anche Sherlock si accorse del rosso
che macchiava il viso della coinquilina, ma la sua reazione fu decisamente più
controllata di quella del medico, dato che aveva perfettamente capito cos’era
successo a Emily.
La
ragazza raggiunse il detective con un paio di falcate decise, gli strappò di
mano l’ombrello che lui ancora teneva e lo guardò dritto in faccia. «Sono certa
che uno come te fosse molto comico con un ombrello giallo per strada.»
«Emi
che ti è successo?» chiese finalmente John, preoccupato.
Lei
lo guadò, poi tornò a dedicare la sua attenzione al detective. «Sherlock sa
benissimo cosa mi è successo» disse, prendendo ad agitare l’ombrello sotto al
naso dell’uomo. «Questo è il mio
ombrello, Sherlock. Non a caso lo tengo sempre in camera mia, per evitare che
mi succeda questo!» tuonò, indicando la sua faccia.
Improvvisamente
fu chiaro anche per John. I capelli di Emily erano tinti e quel rosso che le
rigava il viso non era sangue come lui, in un primo istante, aveva temuto, ma
la colorazione dilavata dai capelli.
Il
detective non replicò – cosa positiva, pensò John, poiché c’era il rischio che
lui volesse ugualmente aver ragione nonostante fosse nel torto – ma rimase a
guardare Emily, in un gioco di sguardi teso. La ragazza, alla fine, si arrese;
sbuffò infastidita e si avviò verso la sua camera annunciando: «Vado ad
asciugarmi.»
Appena
scomparve lungo la rampa di scale John si voltò verso Sherlock e lo guardò
corrucciato. «Se lo sapevi, perché le hai preso l’ombrello?»
Il
detective sollevò gli occhi al cielo. «John, per favore, evita di farmi la
paternale. Se Emily voleva evitare di farsi scolorire i capelli in faccia
poteva benissimo chiedere un ombrello a Mrs. Hudson.»
«Potevi
chiederglielo tu.»
«E
deviare la perfetta traiettoria lineare che porta dalle scale alla porta?
Cielo, no. Hai visto che ombrello avevo quando siamo usciti e non hai detto
niente, perciò parte della colpa è anche tua» concluse con indifferenza,
svestendosi finalmente del cappotto.
John
si irrigidì, represse il desiderio di dare un pugno in piena faccia all’amico e
ispirò a fondo, tentando di calmarsi. «Senti, Sherlock, Emi è una brava ragazza
e mi piace, molto. Almeno con lei, almeno per una volta, potresti cercare di
essere meno te stesso del solito?»
«È
la richiesta più sbagliata che tu possa farmi» rispose immediatamente l’altro
in tono ovvio. «Emi sta scrivendo un tesi su di me. Chiedermi di “essere meno
me stesso del solito” significherebbe falsare il suo lavoro.» Si sistemò la
camicia, con fare vittorioso. «E noi non vogliamo che ciò accada» concluse.
John
rimase a guardarlo, fortemente infastidito. Alla fine sbuffo e si arrese
all'evidenza che Sherlock non avrebbe mai cambiato una sola virgola di sé pur
di far felice qualcuno.
«Fa'
come vuoi. Ma io adesso vado a parlarle. E sappi che lo faccio nella speranza
di riuscire a parare il culo a te.»
«Ammirevole.»
Il
medico ignorò la provocazione di Sherlock e si avviò lungo le scale, verso la
sua ex stanza. Arrivato davanti alla camera di Emily, si fermò. Sentì il suono
del phon e dedusse che la ragazza si stava asciugando i capelli nella speranza
che questi non macchiassero ulteriormente il suo viso o degli abiti puliti.
Provò a bussare ma non ricevette risposta, così optò per infilare la testa
nella camera e dare un'occhiata. Emily era seduta sul letto, il volto coperto
dalla vaporosa massa di capelli rossi, non più bagnati ma solo umidi. L'aria
del phon li faceva muovere come fiamme in un gioco ipnotico. Il medico si
schiarì la voce un paio di volte prima di ricevere l'attenzione della ragazza.
Emily lo notò, spense il phon e gli sorrise.
«Si
può?» domandò lui. Attese il via libera ed entrò nella stanza con tutto il
corpo. La ragazza lo invitò a sedersi accanto a lei, battendo alcuni colpi
leggeri sul copriletto. John la raggiunse, si sedette e sfregò un paio di volte
le mani sulla superficie dei suoi jeans, pensando a cosa dire.
«Un
manicomio vivere con Sherlock, visto?» si decise a dire infine, nella speranza
che scherzare sull'avvertimento che lui le aveva fatto al loro primo incontro
potesse servire a qualcosa.
Emily
rise e la cosa aiutòmolto John a
distendersi. Non aveva ancora imparato bene a consolare una giovane che ne
aveva bisogno, ma gli conveniva imparare se sperava di diventare un buon padre,
un giorno.
«Non
sono arrabbiata con Sherlock, John. Ma è molto dolce da parte tua voler mettere
una buona parola su di lui.»
L'uomo
si irrigidì. Guardò Emily perplesso e disse: «Io non sono venuto qui per
mettere una buona parola su Sherlock. Anzi, se tu fossi arrabbiata ti darei
perfettamente ragione.»
Ripensò
un momento a quello che aveva appena detto, rendendosi conto di aver mentito su
tutta la linea: era proprio per sperare che Emily non si arrabbiasse con
Sherlock che l'aveva raggiunta.
«Beh
ma anche se fosse? È il tuo migliore amico, è comprensibile che tu voglia
prendere le sue difese.»
John
fece per replicare, prese fiato e si apprestò a dire la sua. Borbottò qualche
parola poi si bloccò di colpo. «Aspetta un momento» disse serio. «Li hai fatti
tu questi?»
Il
medico teneva gli occhi fissi sulla parete di fronte a loro. Due mesi prima non
era così, avrebbe potuto giurarlo. In quell'arco di tempo la carta da parati
era stata lentamente sostituita da foglietti di carta, localizzati in un unico
punto ma che lasciavano già intendere di essere intenzionati a invadere anche
lo spazio intorno a loro. Erano disegni. Piccoli acquerelli dipinti con pochi
tocchi decisi; disegni a tratteggio fatti con pennino o penna a sfera su
foglietti di carta improvvisati, angoli di articoli di giornale, retro di
scontrini. I soggetti erano vari, persone principalmente e fra tutti spiccava
l'immagine di Sherlock Holmes. Il detective era ripreso in diverse pose: mentre
suonava il violino, leggeva, o guardava da qualche parte. Su di lui c'erano bellissimi
acquerelli, ma anche rapidi lavori fatti a tratto. John li guardò tutti, finché
un altro non attirò totalmente la sua attenzione. Era un acquerello eseguito
con sicuri gesti di pennello, le figure contornate da inchiostro nero,
l'atmosfera sospesa e l'amore palpabile: erano lui, Mary e la loro bambina.
«Ti
piacciono?» chiese poi Emily.
La
ragazza riportò John alla realtà. Lui la guardò colpito. «Quando li hai fatti?»
domandò anziché rispondere.
«Oh,
quando riesco. Di solito abbozzo i ritratti dal vero e poi li coloro la
mattina, prima di andare a lezione. Mi piace molto farli. Ti piace quello di te
e Mary? Puoi tenerlo se vuoi, ne sarei felice.»
«Sono
tutti meravigliosi, Emi. Sei bravissima.»
La
ragazza sorrise, raggiante. «Grazie.»
«Hai
studiato arte?»
«No,
nulla del genere. Sono solo appassionata.»
«E
anche molto talentuosa» rispose lui, alzandosi e staccando il ritratto della
sua famiglia. Emily gli aveva permesso di portarlo a casa e lui lo avrebbe
fatto, gli piaceva troppo. Diede un'occhiata anche agli altri lavori; gli
acquerelli su Sherlock erano altrettanto belli. Uno dell'uomo che suonava il
violino, poi, gli parve un quadro miniatura.
«Sherlock
sa che lo disegni?» domandò incuriosito.
La
ragazza si strinse nelle spalle. «Sicuramente» rispose tranquilla. «Mi macchio
sempre le dita quando lavoro con il pennino, dubito che Sherlock non l'abbia
notato. Forse non gli interessa.»
John
annuì appena a quelle parole, tornò a sedersi accanto a Emily, il disegno fra
le mani.
«Sai,
John» prese a dire poi la ragazza. «Sono piuttosto certa che Sherlock abbia già
capito tutto di me, o per lo meno quasi tutto. Eppure io, in questi due mesi,
sono riuscita a capire così poco di lui.»
Puntò
lo sguardo sui suoi disegni, zittendosi. John riuscì a percepire una leggera
nota di amarezza nel tono della sua voce. Cercò qualcosa da dire, ma Emily
pareva non aver bisogno di essere consolata.
«Credevo
sarebbe stato più semplice, lo ammetto. Mi sono illusa che sarei riuscita a
raccogliere sufficienti informazioni su di lui solo perché sono stata capace di
fare un buon lavoro scrivendo di altri geni – geni a modo loro, erano pur
sempre assassini. Forse ci sono riuscita solo perché altri avevano già parlato
di Jack lo squartatore o TedBundy,
forse questa volta ho voluto esagerare nel cercare di afferrare una psiche come
quella di Sherlock, una psiche mai affrontata prima.» Sospirò, scuotendo
leggermente la testa. «Ho raccolto così poco materiale. Non credevo di
sentirmelo dire, ma è una delle persone che mi riesce più difficile da
comprendere, nonostante sia quello che desidero capire meglio di chiunque
altro.»
John
si voltò appena per osservare il profilo della ragazza. Non gli parve
demoralizzata, solo pensierosa.
«Non
so a quanto possa servire,» le disse infine, «ma sebbene conosca Sherlock da un
po’ di anni e sia, assurdamente, il mio migliore amico, sono certo di non
capirlo alla perfezione il più delle volte nemmeno io. Insomma, lo hai visto
anche tu: cambia idea di continuo, a volte non parla per giorni, altre tende a
essere monosillabico a meno che non debba mostrare a tutti quanto è
intelligente e il più delle volte, anzi, sempre, spara le sue deduzioni
brillanti senza ritegno e senza essere interpellato. Io, davvero, non capisco
come tu riesca a essere ancora così adorabile pur vivendo insieme a lui»
esclamò.
Come
ebbe concluso si rese conto di aver deviato l’argomento e preferì rimanere in
silenzio. Emily gli sorrise, dolcemente.
«Sono
d’accordo,» rise appena, «però ti posso garantire che nonostante tutto,
Sherlock mi piace.»
John
la guardò, allibito. «Ti… piace?» balbettò.
La
ragazza capì immediatamente la situazione. Spalancò gli occhi e rispose subito:
«No. Non in quel senso lui… no» disse, aggrottando la fronte come per
accertarsi della sua risposta. «Mi piace vivere con lui, indagare insieme a
lui, ascoltarlo suonare il violino, saperlo in giro per la mia stessa casa»
ammise serena, dopodiché tornò a rabbuiarsi leggermente. «È solo che non lo
riesco a capire ancora bene. Mi sono sempre sentita brava nel riuscire a intuire
con chi ho a che fare, ma con Sherlock mi riesce così complicato e non capisco
perché. Eppure, per quanto questa cosa mi infastidisca, sono contenta di avere
a che fare con lui.»
«Magari
è proprio perché non sei riuscita ancora ad afferrarlo appieno che ti piace»
propose all’improvviso John, senza sapere bene perché lo avesse detto.
Emily
lo guardò nuovamente, incuriosita. «Vuoi dire che se mai riuscissi a
comprenderlo veramente allora smetterebbe di piacermi?» chiese, sollevando un
sopracciglio.
John
si alzò dal suo posto, il disegno ancora in mano. Si passò una mano fra i
capelli e si strinse nelle spalle. «O forse potrebbe piacerti di più» concluse
lui, facendole l’occhiolino e ripensando a se stesso e ai suoi trascorsi con il
detective. «Ti va di tornare di sotto? Possiamo preparare un tè» propose
infine.
La
ragazza rimase a guardarlo un momento, poi sorrise. Anche John Watson le
piaceva, decisamente. E il fatto che la sua prima impressione sull’uomo si
dimostrasse via via sempre più corretta la rassicurava. Non era lei che stava
perdendo la sua capacità di intuire in fretta con chi aveva a che fare, era
Sherlock Holmes che ogni giorno si dimostrava la sfida più intrigante che lei
avesse potuto lanciare a se stessa.
Scese
le scale seguendo il medico, rinvigorita: avrebbe fatto un ottimo lavoro,
avrebbe capito perfettamente Sherlock e la sua mente geniale.
In
fondo alla rampa i due si trovarono davanti proprio l'oggetto della loro ultima
conversazione. Il detective era fermo al centro del soggiorno, rivolto verso di
loro.
«I
tuoi capelli sono nuovamente asciutti, Emi. Ottimo» disse con eccessivo – e
decisamente sospetto – entusiasmo. «Usciamo» annunciò poi, un gesto della mano
a far intendere che erano inclusi in quella gita fuori porta tutti, anche John.
«Bene,
usciamo. E dove dovremmo andare?» chiese scettico quest'ultimo, consapevole che
c'era ben altro in gioco; probabilmente un cadavere dato il luccichio eccitato
negli occhi dell'amico.
«
Al St. Bartholomew's Hospital. Molly ha qualcosa per
me.»
*
John
chiuse la chiamata proprio mentre stavano per varcare la soglia dell'ospedale.
Il cielo si era rischiarato sopra la città e il blu del tardo pomeriggio cominciava
a virare verso toni sempre più scuri.
«Non
mi fermo a lungo. Mary deve uscire più tardi e non posso certo lasciare sola la
bambina» informò il medico, affiancando Sherlock. Emi, un passo dietro ai due,
li seguiva osservandoli.
Di
nuovo il St. Bartholomew's Hospital, un posto che lei
aveva imparato a conoscere fin troppo in fretta. Doveva esservi entrata come
minimo sette volte da quando frequentava Sherlock.
«Molly
ha cosa per te, esattamente?» chiese
all'improvviso John, destando l'interesse di Emily. «Spero non qualche pezzo
umano da lasciare nel frigorifero a marcire.»
Sherlock
arricciò le labbra. «Sai, ho pensato di svolgere altri studi sui legamenti
delle mani. Devo tenere aggiornato il mio sito anche sotto questo punto di
vista» rispose con tono ovvio.
«Veramente
non sono così sicuro che esista qualcuno seriamente interessato a questi tuoi
studi» gli ricordò John per l'ennesima volta.
Il
detective lo guardò, radioso. «E
qui ti sbagli, di nuovo. Per il lavoro che Emily sta scrivendo su di me il mio
sito è molto importante.»
John
si voltò verso la ragazza. Quest'ultima si strinse nelle spalle e abbozzò un
mezzo sorriso. «Ha ragione.»
Il
medico sbuffò davanti alla nuova vittoria di Sherlock.
«Ok,
ma non ci avrai fatto venire tutti solo per recuperare delle mani, spero.»
L'altro
si fermò di colpo a quelle parole. John, abituato a questo genere di
sceneggiate, si arrestò in tempo ma Emily, colta di sorpresa, per poco non finì
addosso a entrambi.
«Non
essere stupido, John. Siamo qui per qualcosa di meglio» lo rassicurò Sherlock.
La
cosa non servì a tranquillizzare molto il medico, al contrario. Fu la conferma
che c'era un cadavere di mezzo – con tutta probabilità la conseguenza di un
omicidio – ovvero qualcosa che, più volte, era stato sinonimo di guai per loro due.
I
tre ripresero a camminare e raggiunsero il laboratorio, dentro il quale Molly
li stava aspettando. Sherlock fu il primo a entrare.
«Buon
pomeriggio, Molly» disse varcata la soglia.
La
donna si irrigidì appena nel vederlo. Lo salutò un po' impacciata, per poi
estendere il saluto anche ai due che erano con lui. Sherlock si svestì del
cappotto e lo lasciò nell'attaccapanni accanto alla porta, subito imitato da
Emily. John, invece, si rivolse all’anatomopatologa: «Cos'avresti per Sherlock,
quindi?»
Lo
chiese con un po' troppa foga. Molly, infatti, lo guardò nervosamente. «Dei
campioni di sangue di Horvat.»
Emily
si avvicinò all'improvviso sentendo quel nome.
«Horvat?
Il presunto assassino del giudice Walker?» chiese alla donna, sinceramente
incuriosita e improvvisamente interessata.
«Sherlock
non ci ha detto niente» intervenne John, sempre rivolto a Molly.
Il
detective lo affiancò. «Eravate troppo impegnati a parlare di me quando sono
stato informato. Non mi sembrava opportuno interrompervi. Ebbene, Horvat è
stato ritrovato nella sua cella privo di vita.»
Sentendo
quelle parole John si voltò e lo guardò di sbieco. Venne completamente
ignorato.
«Quindi
Horvat è morto» mormorò Emily, sovrappensiero.
«Già.
Avvelenato anche lui a quanto pare. Pensano si tratti di suicidio» disse Molly.
La
notizia fece scattare molte cose nella mente di Emily, prima fra tutte il fatto
che quella, per lei, era una morte fin troppo sospetta. La faccenda di Horvat
le era parsa dubbia fin dall’inizio e di certo quel “suicidio” le dava modo si
pensare che dietro tutto ciò si nascondesse qualcosa di ben più grande. Nella
sua mente qualcosa le disse che Horvat non si era affatto ucciso e che chiunque
gli avesse somministrato il veleno era, con tutta probabilità, lo stesso che
aveva ucciso il giudice Walker e pagato Horvat per addossarsi la colpa. Si
accorse con la coda dell’occhio che Sherlock la stava guardando. Rispose al suo
sguardo e lui rimase lì, a osservarla ancora, i limpidi occhi azzurri a
indagare ben più in profondità di quanto chiunque altro riuscisse a fare.
«Ti
ho preparato dei campioni di sangue, Sherlock. Sono sul tavolo, accanto al
microscopio e ai reagenti» dichiarò Molly.
Il
detective si rivolse a lei e la ringraziò.
«Credo
dovremo stare qui per diverse ore» disse poi. «John fra poco dovrà andare via,
ma tu rimani, non è vero, Molly? Ho bisogno di qualcuno che ci sappia fare.»
La
donna annuì e a Emily non sfuggì il sorriso lievemente imbarazzato e il
gesticolare febbrile delle mani, nascoste dalle maniche del camice. Capì che i
suoi sospetti – formulati nelle settimane precedenti – erano fondati. Molly era
interessata a Sherlock e il fatto di conoscerlo da anni non l’aveva ugualmente
aiutata a rendere ininfluente i suoi sentimenti a contatto con lui. La cosa le
fece tenerezza, oltre ad aumentare ulteriormente la simpatia che lei nutriva
nei confronti del medico.
Sherlock
non aveva finito di parlare, si sistemò al microscopio e prese in mano una
delle provette contenente il sangue di Horvat. «Cerca di non disturbarmi, però.
E se hai voglia di parlare c’è Emi. È molto socievole» concluse, con la sua
consueta faccia tosta.
«Vuoi
renderci partecipi della cosa, di grazia?» sbuffò John in direzione dell'amico.
«C'è
poco di cui rendervi partecipi» replicò asciutto Sherlock. «Horvat è morto
avvelenato. Ora analizziamo il suo sangue per cercare di capire cosa,
esattamente, lo ha ucciso. Una volta ottenuta questa informazione iniziamo a
fare delle supposizioni.»
Mise
una goccia di sangue su un vetrino da laboratorio e lo spostò sotto al
microscopio, cercando poi fra i reagenti la sostanza giusta per verificare la
sua prima teoria.
«Lavoro
così da sempre, possibile che tu senta ancora il bisogno di pormi certe
domande?»
John
lo ignorò completamente e si rivolse a Molly: «Non è stato ancora analizzato
questo sangue, quindi?»
La
donna scosse la testa. «No, non ancora. Hanno trovato Horvat questa mattina. La
prima autopsia mi ha consentito di capire che è stato avvelenato ma non so
ancora con cosa. Prima che potessi svolgere altre analisi l'ispettore Lestrade
mi ha detto di contattare Sherlock.»
«Anche
Lestrade sospetta un omicidio, allora» propose Emily, con una lieve incertezza.
Guardò
l'anatomopatologa, che annuì. «Esatto, ma non può fare molto. In centrale sono
tutti propensi a credere all'ipotesi del suicidio e lui sa già che se
proponesse di indagare senza prove certe glielo impedirebbero.»
Emily
si voltò verso Sherlock in cerca di una qualche possibile reazione da parte
dell’uomo. Quello che Molly aveva appena detto loro lasciava intuire che
Lestrade non solo si fidava del detective, ma era anche consapevole che lui
fosse l’unico in grado di far luce su quella situazione. Era tutto decisamente
più complicato di quanto apparisse. Tuttavia Sherlock non batté ciglio, ma
continuò a osservare attentamente il campione di sangue e la sua reazione sotto
al microscopio. La ragazza, allora, gli si avvicinò; si posizionò al suo fianco
e rimase a guardarlo lavorare, in silenzio. Osservò i suoi occhi fissare con
intensità il sangue attraverso le lenti dello strumento, la matita muoversi sul
taccuino mentre prendeva appunti senza guardare ciò che stava scrivendo. Il
detective era di nuovo nel suo elemento, dove dimostrava di sapersi
destreggiare alla perfezione. Era impassibile, fermamente risoluto ed Emily sentiva,
nel più profondo di sé, che lui aveva scoperto già molte più cose di quanto non
volesse dare a vedere.
Quello
dell’omicidio di Horvat non era un nuovo caso, ma solo un nuovo filo di una più
vasta e intricata rete in cui lei, leggendolo nello sguardò di Sherlock, capì
di essere appena rimasta incastrata.
Su
Emily la notte aveva sempre avuto un fascino unico. Quando era piccola non
aveva paura del buio, al contrario, era sempre stata attratta dalle strane
ombre che si proiettavano sulla parete della sua camera al passaggio di una
macchina. I suoi genitori erano convinti fosse stato proprio quella sua
immotivata “non paura” a renderla la ragazza che era e a far sì che i lati più
oscuri di una persona potessero avere tanto fascino su di lei. Il fratello più
grande, addirittura, era stato certo per anni che, un giorno, la sua unica
sorella sarebbe stata annoverata nel vasto elenco di pazzi che a lei piaceva
tanto studiare. Per Emily, però, non era stato così. Nella notte lei stava bene
per via del buio e del silenzio, perché solo in quelle condizioni i mille
pensieri e le centinaia di fantasie che le riempivano perennemente la testa
nell’arco del giorno, potevano essere ascoltate veramente. Si sentiva un’anima
notturna, un puntino di rosso nel buio, incomprensibile a molti.
Aveva
sciolto il suo sguardo nella Londra delle nove di sera quando il caffè riempì
della sua aroma il cucinino in cui lei si trovava. Quell’ala del St. Bartholomew's Hospital era ormai deserta e con il cervello
che lavorava a pieno regime in cerca di chiarezza sulle nuove scoperte, la
ragazza versò due generose tazze di caffè nero, zuccherandone una come piaceva
a lei e preparando l’altra per Molly. Le afferrò entrambe e tornò in
laboratorio, dove Sherlock stava ultimando le sue ricerche sui campioni di
sangue di Horvat. L’anatomopatologa lo stava aiutando mentre Emily, in
disparte, aveva raccolto quante più sfumature possibili di quella sera, nella
continua speranza di riuscire a carpire la mente del detective. John era andato
via da un paio di ore e la sua assenza si sentiva nel laboratorio di ricerca.
Appena
Emily rientrò sfilò accanto a Sherlock per portare la tazza di caffè a Molly.
La donna la ringraziò e come la ragazza si voltò notò l’uomo con la mano tesa
nella sua direzione, in attesa. Non la stava guardando, continuava invece a
fissare il portatile, su cui varie formule chimiche si alternavano in cerca di
una compatibilità.
«Cosa
vuoi?» domandò infine Emily, dopo aver osservato a sufficienza la mano
spalancata di Sherlock.
Lui
si voltò e le lanciò un’occhiata di sufficienza. «Il mio caffè.»
Di
tutta risposta la ragazza osservò la tazza, poi di nuovo l’uomo. «Questo è mio,
Sherlock. Quando ho chiesto chi voleva un caffè non mi hai risposto, quindi non
te l’ho fatto.»
«Noi
due zuccheriamo il caffè esattamente alla stessa maniera. Due zollette. Non
puoi essere certa che quello che tieni in mano sia proprio il tuo» concluse, in
tono ovvio.
Emily
lo guardò sbigottita per un lungo momento, infine alzò gli occhi al cielo,
sbuffò e mise la tazza in mano al detective. «Spero si sia raffreddato» disse
acida.
Non
notò il sorriso sornione di Sherlock mentre si sistemava nello sgabello accanto
a lui, proprio davanti al pc. Rimase a osservare varie formule chimiche che si
accavallavano fra loro: i risultati di una ricerca lanciata poco prima dal
detective. Anche Molly li raggiunse, si fermò alle spalle dell’uomo e fissò
anche lei gli occhi sullo schermo.
Quello
era l’ultimo atto di ore di analisi. Sherlock e l’anatomopatologa avevano
eseguito diversi test sui campioni di sangue di Horvat e, una volta isolato
quello che aveva tutte le probabilità di essere il responsabile del decesso del
croato, il database informatico era stato avviato. Le indagini avevano portato
a isolare una complicata molecola, appartenente alla famiglia dei terpeni, una
famiglia sconfinata, che stava richiedendo molto tempo per essere scandagliata.
D’improvviso
il detective si fermò. Posò la tazza e digitò rapidamente qualcosa sulla
tastiera del portatile, bloccando la ricerca. Emily trattenne il respiro e si
allungò sulla scrivania per vedere meglio lo schermo.
«Aconitina»
mormorò, scandendo meglio che poteva la parola. Non aveva mai sentito nulla del
genere, tuttavia la sua formulazione coincideva alla perfezione con quella che
Molly e Sherlock avevano isolato.
«Si
estrae da una pianta» disse poi Sherlock, senza rivolgersi a qualcuno di
preciso. «É considerato uno dei veleni più potenti al mondo e non se ne conosce
antidoto.»
Sentendo
quelle parole la ragazza rabbrividì. «Volevano proprio essere certi che Horvat
morisse, vedo.»
«Non
è una neurotossina, però. Ero convinta che fosse morto a causa di un altro tipo
di veleno.»
Molly
posò la tazza di caffè con quelle parole. Si sentiva confusa. Il modo in cui
l'uomo era morto, la paralisi che lo aveva colpito e il soffocamento come causa
finale del decesso, l’avevano condotta a pensare che il veleno avesse intaccato
il sistema nervoso e per tale motivo aveva seguito inizialmente quella pista.
«Hai
ragione, non è una neurotossina. Tuttavia il principio è più o meno lo stesso.
Anche questo attiva i canali del sodio» la rassicurò il detective.
Emily
non ne capiva molto di tutto ciò, eppure quell'indagine la stava affascinando.
Nuovamente vedere Sherlock fare supposizioni, ideare teorie e disegnare scenari
l'elettrizzò. Sotto i suoi occhi c'era ancora una volta l'uomo per cui aveva
raggiunto Londra, quello per cui aveva lasciato la propria città nella speranza
di poterlo comprendere e di poterne raccontare le qualità.
«Pensi
che sia stata una scelta o solamente un caso? In fin dei conti si estrae da una
pianta, lo hai detto tu» propose la ragazza, sovrappensiero.
«Dubito
che qualcuno abbia agito con casualità. Questo veleno si estrae dai fiori di
aconito napello ed è pericoloso anche solo a contatto con la pelle. Oltretutto
questa specifica razza cresce ad altitudini ben maggiori di quelle di Londra» la
informò Sherlock, serio. Congiunse le mani davanti alle labbra e si mise a
pensare, gli occhi fissi sui legami chimici della molecola, ancora disegnata
sul portatile. «Può darsi che il colpevole volesse camuffare il veleno usato.
Se a una prima occhiata appare una morte causata da una neurotossina forse
voleva proprio che apparisse come tale» proseguì, rivolto più a se stesso che
alle due donne che aveva accanto.
«Ma
a che scopo? Se dalle analisi si scopre che è morto per avvelenamento da...aconitina,»
lesse incerta Emily, «che senso ha fingere che abbia usato qualcos'altro?»
Sherlock
la guardò. Era molto serio, concentrato. Nella sua mente si accavallavano mille
ipotesi diverse fra loro, complicate, impossibili, inspiegabili. Alcune le
scartò subito senza ritegno, sempre tenendo gli occhi fissi sulla ragazza.
«Era
un criminale, Emi. Per quanto possa sembrare senza cuore da dire, non è il
primo e non sarà l'ultimo a togliersi la vita in prigione. Casi come questo,
che hanno tutto l'aspetto di un suicidio, sono destinati a finire nel
dimenticatoio in fretta. Di rado ricevono le attenzioni che dovrebbero
ricevere, ciò vale a dire che spesso non si va a indagare a fondo sulla reale
causa del decesso.»
Lei
si irrigidì alle parole del detective. Sapeva che lui aveva ragione, ma la cosa
era comunque demoralizzante. Guardò un momento Molly, che rispose al suo
sguardo.
«Lestrade,
allora? Perché vi ha chiesto di andare più un fondo alla faccenda? Lui pensa si
tratti di un omicidio, duplice a questo punto» propose poi, in cerca di
conferme ai suoi sospetti.
«Beh,
sì. Ma pare sia il solo in centrale» le rispose Molly.
«Per
una volta sono d’accordo con l’ispettore» intervenne infine Sherlock. «Si
tratta senz’altro di un omicidio, sicuramente collegato a quello del giudice
Walker. Tuttavia c’è qualcosa che non mi torna e mi hai appena fatto notare che
non torna nemmeno a te, Emily.»
La
ragazza spalancò gli occhi appena si sentì chiamata in causa. Incontrò lo
sguardo del detective e si sentì improvvisamente nervosa. Sherlock la stava
coinvolgendo di nuovo e le piaceva, Dio quanto le piaceva. Eppure in quella
specifica situazione l’idea di essere coinvolta dall’uomo la agitava. C’erano
troppe cose che non tornavano e lei non si sentiva sicura di voler indagare in
tutto ciò, perché aveva capito che era qualcosa di sconfinato e oscuro. Due
morti avvelenati chiaramente legati fra loro, un assassino che era riuscito a
far passare entrambi gli omicidi sotto silenzio e che, cosa talmente
impensabile da poter essere vera, sembrava voler dialogare direttamente con
Sherlock proprio attraverso i suoi crimini. Per lei la morte di Horvat non
poteva essere l’ultimo capitolo di un assassinio finito male, ma l’inizio di
qualcosa di molto più ampio; era la superficie del lago più nero che avesse mai
visto.
«Andiamo,
sai la risposta» la incalzò Sherlock.
«Il
fatto è che io non capisco perché se l’assassino è lo stesso abbia usato due
veleni diversi » azzardò alla fine la ragazza. «Se invece gli assassini fossero
due, beh, bella coincidenza, no? Il veleno sarebbe tornato di moda» concluse,
sarcastica.
Sherlock
distese lievemente le labbra. «Anche io non credo a una nuova primavera dei
veleni. Dietro questi delitti c’è lo stesso uomo, potrei scommettere qualsiasi
cosa.»
«Ok,
mettiamo caso che sia lo stesso» disse Molly, introducendosi nella
conversazione e osservando Sherlock dall’alto. «Allora perché usare due veleni
diversi? Su Walker il botulino era stato efficace, perché non usarlo anche su
Horvat?»
Emily
annuì alla sua domanda. Anche quello era un altro fattore che non riusciva a
spiegarsi. Aveva letto di molteplici omicidi nell’arco dei suoi studi e quando
si parlava di assassini seriali praticamente tutti erano stati fedeli a una
sola cosa nell’arco della storia: il metodo. Chi uccideva premeditando
l'omicidio, senza lasciare nulla al caso, aveva nell'arma il proprio biglietto
da visita. Sebbene nei casi in questione il principio della morte dei due
uomini fosse lo stesso non lo era l'arma. Oltretutto si trattava di due casi
studiati, non improvvisati, qualcosa che era stato preparato e poi messo in
pratica con cura e nei tempi prestabiliti. Il fatto che il veleno usato non
fosse lo stesso era decisamente sospetto per Emily. Doveva esserlo anche per
Sherlock a giudicare dalla luce che aveva inondato i suoi occhi a seguito della
domanda di Molly.
«Tu
cosa ne pensi, Sherlock?» tentò di richiamarlo la ragazza. «Perché avrebbe
usato un veleno differente questa volta?»
Il
detective rimase in silenzio ancora, gli occhi nuovamente fissi sulla formula
chimica dell' aconitina. Le mani erano ferme in una posa sicura a contatto con
le labbra, il suo respiro aveva rallentato. Qualunque cosa fosse successa,
Emily sapeva che non avrebbe dovuto interromperlo con nessuna domanda da quel
momento in poi. Una delle poche certezze che aveva accumulato su Sherlock
Holmes dal giorno in cui lo aveva conosciuto, era quella di aver imparato a
capire quando l'uomo entrava nel suo Palazzo mentale. Ed era ciò che era appena
accaduto. Emily si zittì di colpo, cercando di mantenere a freno anche i propri
pensieri, con la bizzarra intenzione di non farli interferire con quelli del
detective.
Tuttavia
la sua permanenza all'interno del Palazzo durò poco. Sherlock si voltò verso la
ragazza solo pochi attimi dopo essersi esternato, una scintilla faceva
splendere i suoi occhi chiari di una strana, ma quanto mai determinata, luce.
«Perché
sta cercando di dirci qualcosa» disse infine, affascinato.
*
La
caffetteria dell'ala est della London
Metropolitan University era affollata di gente. Il chiacchiericcio
continuo si levava da ogni angolo dell'edificio, portato da gruppi di studenti
intenti a conversare, persone al telefono e al continuo rumore di tazzine e
piatti posati sul banco e sui tavoli. Fra questo caos tipico di persone, seduta
sola a uno dei tavoli vicini alle ampie finestre che davano su uno dei cortili
interni della struttura, il portatile aperto davanti, c'era Emily. Aveva appena
terminato di bere il suo caffè delle quattordici e stava controllando alcune
cose prima di tornare a casa, a Baker Street. Gli scompigliati capelli rossi
erano acconciati in modo confuso sulla sua testa, alcune ciocche le ricadevano
ostinate sugli occhi; era stretta nell'abbraccio di un maglione dolcevita, gli
occhi assonnati di chi aveva ascoltato la notte ancora una volta.
Nei
giorni precedenti non era riuscita a darsi pace in seguito al ritrovamento di
Horvat e alla scoperta della causa del suo decesso. Esattamente come Sherlock,
anche lei era convinta del fatto che i due più complicati omicidi in cui si era
imbattuta da quando aveva conosciuto il detective – vale a dire quello del
croato e quello di Walker – fossero non solo collegati fra loro, ma anche più
articolati di quanto apparissero e con una mente invidiabile a tirarne i fili
come a una coppia di marionette. Tuttavia negli ultimi due giorni non avevano
scoperto altro. Sherlock era convinto di aver già avuto a che fare con un
assassinio a base di aconitina, solo non riusciva a ricordare in quale
circostanza e per lui, riuscire a risalire a quell’omicidio, poteva essere la
chiave con cui iniziare a decifrare correttamente i nuovi casi.
Lestrade
si era fatto vivo il giorno dopo le analisi sul sangue di Horvat. Aveva
annunciato che il suo superiore aveva archiviato il caso, definendolo un banale
suicidio, e che quindi c’era poco altro che si poteva fare. Aveva infine detto a
Sherlock che poteva tranquillamente smettere di ragionare su tutta quella
faccenda. Il detective, di tutta risposta, lo aveva ringraziato impassibile e
aveva chiuso la chiamata; si era poi sistemato sulla sua poltrona, aveva
impugnato il violino e si era messo a suonare, riempiendo delle note di Bach il
soggiorno del 221B. Per Emily era stato il chiaro segnale che l’uomo non
avrebbe chiuso tutto così, su due piedi. Se non lo avesse fatto per Scotland
Yard allora avrebbe scovato l’assassino da solo e lei era intenzionata ad
aiutarlo. Nonostante tutto, però, c’era qualcosa in tutta quella situazione che
non la faceva stare calma. Dentro di sé, in punto profondo e lontano, c’era
qualcosa che la rendeva nervosa. Tuttavia, in preda a un impeto di voglia di
fare che solo lavorare con Sherlock Holmes riusciva a darle, la ragazza aveva
avviato una sua personale ricerca nella speranza di poter aiutare il detective,
anche solo dandogli qualche possibile ispirazione. Usando il suo consueto
metodo di studio era partita con l'effettuare alcune ricerche, dai risultati,
però, pressoché nulli.
Così,
al termine della lezione del martedì mattina, si era rintanata nella
caffetteria del college e lì aveva iniziato a rileggere per l'ennesima volta il
blog di John, in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa. Stava rileggendo Uno studio un rosa, che era uno dei suoi
lavori preferiti scritti dal medico – oltre a essere un'indagine altamente
intrigante – quando si sentì salutare da qualcuno. Sollevò lo sguardo, convinta
che non si stessero rivolgendo a lei – in fin dei conti aveva a malapena
conosciuto i suoi compagni di corso, dato che a ogni fine lezione scappava a
casa per trascorrere più tempo possibile con Sherlock – ma quando si accorse
che invece era proprio a lei che si stavano rivolgendo, ci mise un po' a riemergere
dal mondo di John Watson. Davanti si trovò un ragazzo che doveva avere
pressappoco la sua età, i capelli castani ben curati e i lineamenti del volto
fin troppo marcati. Emily fece scorrere con rapidità gli occhi sulla felpa
rossa che portava chiusa fino al collo, individuando lo stemma del club di
calcio del suo college. Non erano compagni di corso, non riusciva a ricordarsi
il suo viso nella sua stessa aula di lezione.
«Ciao»
ripeté lui infine.
La
ragazza gli sorrise, salutandolo di rimando. Decisamente non aveva mai
incontrato quel ragazzo, ma forse lui l’aveva notata già più volte in
caffetteria – in fin dei conti per lei quella era una tappa obbligatoria ogni
giorno.
«Posso
offrirti qualcosa?» le chiese poi.
Emily
capì che i suoi sospetti erano fondati. Lanciò un’occhiata al portatile, poi di
nuovo allo stemma cucito sulla felpa del giovane davanti a lei e si chiese per
quale motivo ogni volta che qualcuno tentava di abbordarla sbandierava fin da
subito alcune cose su cui, e lei lo sapeva, non sarebbero mai andati d’accordo.
Suo padre e i suoi tre fratelli erano tutti giocatori di rugby, cosa che
rendeva, nella sua casa e anche nella sua mente, il calcio come l’ultimo sport
di possibile interesse, quello a cui ci si appassiona solo perché tutti gli
altri sono scomparsi all’improvviso dalla faccia del pianeta. Non solo, forse
per centinaia di ragazze quello che le aveva appena rivolto la parola era uno
dei ragazzi più belli pensabili, ma non per lei, che aveva sempre trovato nei
volti non convenzionali delle bellezze nascoste.
Tuttavia
si rese anche conto che la sua vita sentimentale era da troppo tempo un
autentico disastro e decise di lasciar perdere le sue eccessive convinzioni e
di provare a non partire prevenuta verso un ragazzo almeno per una volta.
Sollevò
il suo bicchiere di caffè ormai vuoto e sorrise imbarazzata al suo
interlocutore. «Arrivi tardi, mi spiace. Non penso mi convenga farmi un’altra
dose di caffeina, almeno per il momento. Ma se vuoi puoi sederti» concluse,
indicando la sedia libera al suo tavolo.
Lui
si sistemò nel posto appena indicatogli, un nuovo sorriso – fin troppo sicuro –
a illuminargli il viso. Tese la mano a Emily sopra il tavolino. «Sono Eddie.»
«Emily,
piacere.»
«Ti
vedo spesso qui, in caffetteria. Cosa studi?» domandò Eddie, dimostrando una
certa sicurezza; con molta probabilità, pensò la ragazza, la caffetteria doveva
essere il suo terreno di caccia preferito.
«Criminologia.
Sto seguendo il master» rispose lei, con sicurezza. Di solito tendevano a
ignorarla una volta scoperto il suo corso di studi, perciò rimase in attesa di
sentire che scusa si sarebbe inventata il ragazzo per girare i tacchi e
andarsene. Tuttavia lui non lo fece.
«Criminologia,
interessante. E stai leggendo qualcosa sull’argomento?» le chiese, indicando
con un cenno il portatile.
Emily
lanciò istintivamente uno sguardo al suo notebook, scorrendo in fretta le righe
scritte del blog di John senza soffermare la sua attenzione su qualcosa di
preciso. Nonostante la rapidità con cui guardò lo schermo, però, una parola
attirò la sua attenzione, una su tutte. Era nell’ultima riga, una di quelle
che, proprio per via dell’arrivo di Eddie, lei non aveva fatto in tempo a
leggere. Quella parola era lì, in mezzo alle altre, apparentemente innocua ma,
in quel frangente, decisamente fin troppo importante: aconitina.
Spalancò
gli occhi come la lesse, mentre la sua mente le disse di andarsene, andare via
da lì subito e riferire quello che aveva scoperto a Sherlock il più in fretta
possibile. Scattò immediatamente, si alzò in piedi facendo quasi cadere in
terra la sedia, dopodiché chiuse il portatile e lo infilò in fretta nello
zaino, sotto agli occhi di un confuso Eddie.
«Scusami
tanto, davvero» disse, raccogliendo le sue ultime cose e infilando il cappotto
con una fretta sconsiderata. «Rimarrei volentieri con te a parlare del club di
calcio del college, ma ho appena scoperto una cosa che non posso assolutamente
ignorare.» Si fissò lo zaino in spalle e si abbottonò per bene. «Se mai la
prossima volta.»
Concluse
con un leggero sorriso e si avviò in gran fretta fuori dalla caffetteria, senza
aspettare una risposta.
*
Sebbene
il cielo su Londra fosse cristallino, Emily aveva con sé, come sempre, il
proprio ombrello giallo. Con tutta probabilità con esso aveva infilzato diverse
persone dato che, all’uscita della stazione metropolitana di Baker Street, si
era fatta strada in fretta e in malo modo fra i presenti. Tuttavia non le
importava; il suo unico pensiero, in quel momento, era raggiungere subito
Sherlock Holmes.
Arrivata
al 221B estrasse in fretta le chiavi ed entrò, urlo letteralmente un saluto a
Mrs. Hudson e salì i gradini a due a due, fino a raggiungere il pianerottolo di
casa. Spalancò la porta e si trovò subito davanti agli occhi Sherlock. L’uomo
era seduto alla sua consueta poltrona, fra le mani teneva l’archetto del
violino, su cui stava stendendo la pece.
La
ragazza lo guardò, rapita per un momento. Aveva il fiato corto per via della fretta
e delle scale ma per un breve istante quasi si dimenticò per quale motivo.
«Avresti
potuto portarmene uno. Dicono che il caffè dell’università sia ottimo» disse
l’uomo, con nonchalance.
Lei
non capì come Sherlock fosse riuscito a intuire che aveva appena bevuto un –
ottimo, quello sì – caffè, ma in quel momento la curiosità di sapere la
risposta non poteva certo competere con il suo desiderio di informare
immediatamente Sherlock di cosa aveva scoperto.
«Devi
vedere una cosa» gli disse lei, ignorando le sue parole di poco prima.
Si
avvicinò a lui, estrasse il notebook dallo zaino e lo posò sul tavolino accanto
alla poltrona dell’uomo. Dopo un primo momento di indecisione il portatile si
riavviò, caricando la pagina del blog di John Watson nel punto esatto in cui la
ragazza lo aveva lasciato in standby. Sherlock posò lo sguardo sullo schermo e
lesse rapidamente il titolo del blog.
«L'aconitina
è lo stesso veleno usato dal killer di Uno
studio in rosa1» lo informò Emily.
Il
detective la guardò. «Lo so» rispose, calmo, dopodiché ricominciò a occuparsi
del proprio archetto.
La
ragazza aprì bocca per replicare, ma non le venne in mente nulla da poter dire
subito.
Sherlock
lo sapeva già? Quando era successo? Si sentiva stupita, addirittura sconvolta
da quella recente scoperta.
«Lo
sai?» domandò alla fine, con eccessiva foga. «E quando lo avresti capito?
Appena terminate le analisi avevi detto che non ricordavi dove avevi già
sentito questo veleno.»
«Vero,
ma poi mi è venuto in mente. E prima che a te.» Si alzò dalla poltrona e posò
l'archetto accanto al suo prezioso strumento. «Però alla fine ci sei arrivata
anche tu, sei stata brava.»
Alla
ragazza caddero visibilmente le braccia. Non poté fare a meno di sentirsi presa
in giro. Aveva capito ormai da un po' che Sherlock era diverso sotto tanti
punti di vista, ma lo apprezzava ugualmente anzi, le piaceva proprio. Tuttavia
in quel momento lui fu in grado di irritarla come non le era mai accaduto
prima. Certo, quei due assassinii erano una sua indagine, ma allora perché
l'uomo la stava coinvolgendo ogni volta per poi non tenerla aggiornata sulle
novità o sulle nuove scoperte? Non poteva neanche essere una questione legata
alla sua tesi di laurea, tutto ciò che riguardava Sherlock era fondamentale per
il suo lavoro e lei era certa che, non solo lui lo sapesse benissimo, ma non
fosse neanche quello il motivo. Si trattava di altro, ma non capiva di cosa.
Sebbene John le avesse detto più volte che il detective era decisamente
particolare, lei non aveva mai pensato possibile lo fosse a tal punto.
«Perché
non me lo hai detto?» chiese infine, arrendendosi all'evidenza che, con tutta
certezza, non sarebbe stata l'ultima volta.
Sherlock
la guardò, imperscrutabile. Gli occhi celesti si misero ad analizzare Emily, ma
in quel momento gli riuscì più semplice che mai; il suo respiro non si era
ancora regolarizzato per bene, gli abiti scomposti, il cappotto ancora indosso, gli permisero di comprendere
con troppa semplicità che lei era rientrata di fretta per riferirgli quello che
aveva scoperto. Inoltre il modo in cui lo stava guardando, un misto di supplica
e rabbia, lo aiutò a capire che lei non era John Watson e che, per quanto anche
Emily fosse brava a convivere con lui, di tanto in tanto qualcosa di simile a
delle scuse per via del suo comportamento se le meritava.
Distolse
un momento lo sguardo dalla ragazza e prese fiato.
«Se
può servire a consolarti, anche a John non dico sempre tutto. E lui fa molte
più domande di te.»
«É
una magra consolazione» gli fece notare la ragazza nonostante, in una zona
piccola dentro di sé, si sentì rinfrancata.
Sherlock
lo dedusse, poiché incurvò l'angolo destro della bocca in un mezzo sorrise e ricominciò
a parlare: «Dai vecchi documenti di Scotland Yard che ho raccolto su quel caso
– quello di Uno studio in rosa per
citare il mio “blogger” – ho avuto effettivamente conferma del fatto che
l'assassino usasse offrire pillole a base di aconitina e che quindi John, sul
suo blog, non ha scritto una fesseria.»
Frugò
in uno dei cassetti del tavolino in cerca di qualcosa e alla fine ne tirò fuori
una piccola e stretta fiala, piena di polvere giallognola. «Inoltre la
colorazione tipica di quel veleno è la stessa che era presente nelle
microcapsule poste all'interno delle pillole che ho appena citato. Lo so perché
ne ho tenutain mano una anche io.»
Emily
spalancò gli occhi e li fissò sulla fiala. «Dimmi che quello non è veleno»
mormorò.
Sherlock,
di tutta risposta, le sorrise. «Oh no, invece lo è. Ti sconsiglio di ingerirlo
se vuoi continuare a vivere, ma sono certo che tu lo sappia perfettamente. È
aconitina pura, l’ho presa al mercato nero. Se vuoi svolgere delle buone
indagini devi sapere dove trovare ciò che ti serve. Ora, vedi il colore di
questa polvere?»
«Non
possiamo tenere del veleno in casa» gli fece notare la ragazza.
«Se
eviti di farlo sapere a tutto il quartiere forse sì» replicò lui, con evidente
stizza. «Senti, tralasciamo questa cosa. Ti basti sapere che questa è aconitina
e che, sì, è il veleno usato dall’assassino di Uno studio in rosa. I miei sospetti erano fondati. Chiunque ci sia
dietro questi nuovi omicidi sta cercando di dirci qualcosa.»
«Perciò
ora che sappiamo questo, da che parte indirizziamo le ricerche?» domandò infine
Emily, rendendosi conto che insistere sulla questione del veleno in casa non
avrebbe portato a nulla. Oltretutto l’idea di ricominciare a svolgere delle
ricerche era decisamente più allettante.
Tuttavia
Sherlock non reagì come lei aveva sperato. Si fece serio di colpo, come se si
fosse reso conto di qualcosa. Si diresse in cucina e lì mise la fiala con il
veleno dentro una bustina a chiusura ermetica, scrivendo sopra di essa il
contenuto con un pennarello indelebile.
«Aspettiamo»
disse poi, senza guardare Emily.
«Aspettare?»
esclamò lei. Lo raggiunse nella stanza e gli si parò davanti. «Non possiamo
aspettare, Sherlock. E se dovessero esserci altre vittime?»
«So
che non hai idea di come muoverti in questa situazione» rispose lui, guardando
la ragazza con aria superiore e un’incomprensibile luce negli occhi, «e ti
garantisco che al momento anche io sono un po’ bloccato. Non ho indizi
sufficienti.»
«Non…»
tentò di dire lei, ma non solo non seppe come proseguire, Sherlock non gliene
diede neanche il tempo.
«Horvat
e Walker sono due omicidi ben collegati fra loro, ma abbiamo analizzato ogni
possibile pista intorno raccogliendo davvero poche informazioni. Al momento
aspettare può essere la cosa giusta da fare.»
Mise
la bustina con la fiala dentro una valigetta, accanto al tavolo, infine tornò a
rivolgersi a Emily con evidente consapevolezza. «Bisogna avere pazienza quando si
svolge un'indagine. Se l'assassino vuole comunicare con me troverà il modo di
farlo ancora una volta» disse, lanciando un’ultima occhiata sicura alla
ragazza. «Ma non temere, continuerò comunque a indagare su questa faccenda, non
mi farei mai scappare un caso invitante quanto questo.»
Si
avviò verso la sua stanza, senza aggiungere altro. Emily lo guardò, mille
pensieri a riempirle la testa. Alla fine uno fra tutti prese il sopravvento,
facendola sentire più preoccupata che mai.
«E
se fosse Moriarty?»
Le
parve di essersi sentita dall’esterno mentre nominava la nemesi di Sherlock.
Non aveva mai pensato che fosse possibile un’implicazione di Moriarty in quel
caso, era sempre stata convinta del suo suicidio, tuttavia era tutto così
strano, così confuso, che anche nella sua mente quell’ipotesi non veniva più
scartata.
Notò
Sherlock fermarsi lungo il corridoio, a pochi passi dalla porta della sua
camera da letto. Si voltò appena, mostrando il profilo sicuro e subito guardò
la ragazza. Emily si fece forza, ignorò l’angoscia che il possibile coinvolgimento
di quell’uomo le stava portando e riprese a parlare: «Non puoi negare che tutta
questa faccenda sia sospetta. I veleni usati in questi omicidi sono anche stati
usati in delitti collegabili a Moriarty. E se fosse stato lui?»
Con
grande sorpresa di Emily, Sherlock sorrise. «Proprio questo mi conferma
nuovamente che Moriarty è morto. Lo hai studiato, dovresti sapere anche tu che
uno come lui non commetterebbe mai degli omicidi fotocopia di quelli a cui ha
già preso parte. Non lo farebbe neanche per me, non sarebbe nel suo stile.»
La
ragazza incassò il colpo. Tentò di far ragionare la sua mente anche alla luce
delle parole appena pronunciate da Sherlock, ma quell’improvviso dubbio si era
appena istillato dentro di sé e si stava espandendo come una macchia
d’inchiostro, annichilendo le opzioni più sensate.
«Sì,
questo sì, è solo che…» farfugliò.
Il
detective attese per qualche istante che la sua interlocutrice trovasse le
parole. Alla fine, capendo che non sarebbe accaduto, tornò a darle le spalle,
riprendendo a camminare.
«C'è
qualcun'altro, Emi. E chiunque sia sono sicuro che sa già che lo sto aspettando»
disse, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Note:
1
Uno studio in rosa: nell’episodio in
questione non viene mai citato il veleno usato dal tassista per uccidere le
persone, così mi sono permessa un po’ di libertà – nel caso, invece, venisse
nominato e io non me ne fossi resa conto chiedo venia e prometto che tornerò a
guardarmi l’episodio per punizione. Ho scelto l’aconitina perché il colore
della polvere è molto simile a quello del veleno nella serie tv e anche per via
del fatto che provoca reazioni abbastanza simili a quelle che nomina John
quando analizza il cadavere della donna in rosa.
Quel
sabato mattina Emily si rigirò a lungo nel letto. Le nove erano prossime ad
arrivare, ma lei non riusciva a trovare la voglia di mettere piede fuori dalle
morbide coperte che teneva tirate fin sopra alla testa. I rumori della Londra
mattutina entravano dalla finestra in modo ovattato, ma comunque incessante.
Alla fine la ragazza riaffiorò da sotto le coperte e lanciò un’occhiata alla
parete alla sua sinistra, dove era solita appendere i suoi acquerelli. Ne aveva
fatti altri e aveva ulteriormente incrementato la parte di muro coperta dai
suoi lavori. Fece scorrere gli occhi su di essi, dopodiché si decise ad
alzarsi.
Il
sabato mattina Sherlock era quasi sempre a casa, principalmente per il fatto
che Molly non era mai al St. Bartholomew's Hospital e
quindi non poteva autoinvitarsi al suo laboratorio per svolgere delle analisi
su cose che sapeva solo lui. Emily decise quindi di trascorrere quelle ore
insieme al detective, nel tentativo di ampliare ancora un po’ il suo lavoro di
ricerca che, nelle ultime settimane, stava cominciando a prendere una forma
maggiormente definita – sebbene rimanesse un’accozzaglia di appunti, note,
post-it e indicazioni. Si vestì con una delle sue abituali camicette e un paio
di jeans, si legò i capelli in un improvvisato chignon, e, infilate le proprio sneakers, uscì dalla camera. Appena fu all’inizio della
rampa di scale, però, si accorse che in soggiorno Sherlock non era solo. Stava
parlando con qualcuno, qualcuno che non ne aveva intenzione di alzare il
proprio tono di voce. Quella che si stava svolgendo al piano di sotto era una
delle conversazioni più mormorate che la ragazza avesse mai sentito,
soprattutto perché non riusciva a comprendere una sola parola. Scese le scale
cercando di fare abbastanza rumore, nel caso i due presenti stessero parlando
di argomenti di cui lei avrebbe fatto meglio a rimanere all’oscuro e,
sull’ultimo gradino, fu in grado di vedere chi aveva raggiunto il 221B quella
mattina.
Mycroft
Holmes era in piedi, in linea d’aria, proprio davanti alla porta. Era vestito
con l’impeccabile eleganza riconducibile ai membri della sua famiglia e stava rivolgendo
il suo sguardo al camino dove, immaginò Emily, si trovava di sicuro il fratello
minore. L’uomo la sentì e si voltò verso di lei. Le fece un cenno con il capo e
le diede il buongiorno.
«Salve,
Mr. Holmes» lo salutò di risposta lei, entrando nella stanza.
Sherlock
la stava già guardando e la ragazza gli rivolse un saluto. Mycroft aveva come
suo solito la consueta aura di sicurezza e superiorità a rivestirlo e a Emily
non servì molto tempo per intuire che in quel momento vigeva un’atmosfera
piuttosto tesa nella casa. Sperò di poterla alleviare in qualche modo.
«Posso
offrirle del tè?» domandò al più grande dei fratelli Holmes.
Quest’ultimo
declinò l’offerta con un elegante gesto. «No, ti ringrazio. Mrs. Hudson ha già
provveduto» rispose, per poi rivolgersi a Sherlock: «Per fortuna in questa casa
continua a esserci qualcuno che sa cosa sono le buone maniere, a differenza di
te, fratellino.»
La
ragazza notò Sherlock irrigidire la mascella, lo sguardo fisso su Mycroft. A
ben pensarci lei non era mai stata a contatto con entrambi contemporaneamente e
le fu evidente la poca simpatia reciproca che provavano l’uno per l’altro –
come John le aveva già detto tempo addietro. Eppure era certa che Mycroft
volesse bene a Sherlock, altrimenti non sarebbe stata in grado di spiegarsi
perché qualcuno fosse disposto a spendere soldi con l’intenzione di chiedere a
una sconosciuta – lei, in quel caso – di sorvegliare il proprio fratello.
«Ha
un incarico per Sherlock o è qui per una semplice rimpatriata» tentò poi Emily,
respirando perfettamente il clima presente e chiedendosi se non fosse meglio
scappare finché ne aveva il tempo.
«Nessuna
delle due cose» intervenne il detective, lanciando un’occhiata torva in
direzione di Mycroft. «Ho già detto al mio adorato
fratello che può andarsene perché non ho alcuna intenzione di accettare il
caso.»
L’interesse
della ragazza esplose sentendo quelle parole. Un caso, non poteva chiedere di
meglio. Considerando poi il ruolo ricoperto da Mycroft e le sue capacità
deduttive – sempre John l’aveva informata della cosa – era certa che si
trattasse sicuramente di qualcosa che valeva la pena approfondire. Un caso
certamente delicato e complesso per Sherlock Holmes significava anche una
raccolta di quante più nozioni aggiuntive possibili sul modo pensare del
detective. D’improvviso il caso Horvat – come lei e Sherlock lo avevano
denominato – che le aveva tenuto impegnata la mente per giorni passò in secondo
piano.
«Un
caso?» chiese, l’eccitazione palpabile nella voce.
Entrambi
i fratelli Holmes la guardarono, le loro espressioni erano una l’opposto
dell’altra. Mycroft sorrise a quell’improvviso interesse da parte della
ragazza, mentre Sherlock si irrigidì ulteriormente.
«Emily,
per favore, evita di porre domande a riguardo. Come ho già detto a Mycroft non
sono interessato» la rimbeccò quest’ultimo, prendendo parola per primo.
«Suvvia,
Sherlock, è solo curiosa. Cosa c’è di male a darle qualche informazione
aggiuntiva sulla questione?»
Il
detective guardò suo fratello esterrefatto; l’unico motivo per cui poteva
comprendere che Mycroft raccontasse di cose che definiva egli stesso “top
secret” era solo per via del fatto che Emily poteva, in qualche modo,
convincerlo ad agire. A quanto pare al fratello importava relativamente poco
dell’incolumità della giovane ragazza. A ogni modo Sherlock non aveva
intenzione di accettare, non si sarebbe mosso da Baker Street per risolvere un
caso che proprio il fratello stava cercando di propinargli.
«Quindi
posso saperlo?» incalzò Emily, sempre più esaltata.
Sherlock
alzò gli occhi al cielo di fronte all’improvvisa stupidità della sua
coinquilina. Mycroft era sempre stato bravo a manipolare le persone, gli
bastavano poche parole e una gestualità ben calibrata per riuscire a
conquistare il proprio interlocutore. Nel caso della ragazza, invece, era
bastato attirare la sua attenzione con qualcosa che bramava – nel suo caso uno
Sherlock Holmes alle prese con delle indagini – per catturarla per bene.
«Si
tratta del Vice Primo Ministro. Ha ricevuto una busta anonima contenente una
minaccia di morte. Come comprensibile Scotland Yard brancola nel buio e io
vorrei che il colpevole, chiunque esso sia, uscisse di scena il più in fretta
possibile» disse Mycroft, rivolgendosi solo a Emily.
«Perché
le stai dicendo queste cose?» intervenne Sherlock.
«Perché
me lo ha chiesto.»
«No,
non è vero. Tu glielo vuoi dire perché sei convinto che possa indurmi ad
accettare» sibilò il detective.
La
ragazza si chiese se aveva capito correttamente ciò che Sherlock aveva appena
detto. Non aveva mai pensato di poter essere in grado di convincere l’uomo a
fare qualcosa e quello che aveva sentito, in un certo senso, la lusingava.
«Vuoi
veramente farmi credere che una ragazza come Emily può riuscire a farti fare
cose che non vuoi?» domandò Mycroft, con finta sorpresa. Sherlock strinse gli
occhi.
«A
malapena John ci riusciva. Ma è pur vero che lui non ha mai scritto una tesi
intera su di te» concluse poi il maggiore dei fratelli, sorridendo sornione.
«Mr.
Holmes» prese infine parola Emily. Aveva visto abbastanza di quel bizzarro
teatrino e non ne aveva capito molto. L’unica cosa di cui era sicura era che
non voleva vedere i due fratelli battibeccare ancora, ne tantomeno rimanere in silenzio
mentre il più grande umiliava il più piccolo. «Se Sherlock non vuole accettare
il caso credo di essere l’ultima persona in grado di dissuaderlo, mi creda.»
L'uomo
la guardò, facendosi improvvisamente serio. Il silenzio che si formò nella
stanza durò diversi secondi e smise pochi attimi prima che Emily potesse
convincersi di aver detto la cosa sbagliata.
Alla
fine Mycroft sospirò. Guardò il fratello che, di tutta risposta, lo fissò con
uno dei suoi sguardi più fermi.
«C'è
in gioco la vita di un uomo, Sherlock» mormorò.
«Allora
risolvi tu il caso dato che ti piace vantarti di essere più intelligente di me
nel fare deduzioni» replicò gelido l'altro.
«Sai
che non ho tempo.»
«Trovalo.
Oppure cerca di indirizzare Scotland Yard nella direzione giusta.»
Si
zittirono entrambi. Emily rimase a guardare i due studiarsi, impassibili e
imperscrutabili. Si sentì in mezzo a uno scontro silenzioso, mentale, e proprio
per quello ben più spaventoso.
Con
tutta probabilità fu Mycroft il primo a cedere. Ispirò a fondo e distolse lo
sguardo da Sherlock, infine recuperò il proprio cappotto, infilandolo senza
dire nulla.
«Se
dovessi cambiare idea sai dove trovarmi. Nel caso non volessi contattarmi
direttamente anche Emily ha il mio numero» disse infine, avvicinandosi alla
porta d'ingresso. Si fermò a un passo dalla ragazza e le sorrise. «Tu fammi
sapere se dovesse cacciarsi nei guai, mi raccomando.»
«Conti
su di me.»
L'uomo
salutò i presenti avviandosi lungo le scale. Sherlock rimase in attesa di
sentire la porta chiudersi, guardando Emily. Alla ragazza parve di trovare una
leggera nota d'intesa in quello sguardo, ma cercò di non illudersi più del
dovuto.
«Preparo
un caffè» disse lei, decidendo anche di fare colazione.
Anche
quel giorno la cucina era un disastro, tuttavia in quei mesi di convivenza la
giovane aveva imparato bene a ritagliarsi un angolo salubre sul tavolo in cui poter
inzuppare i biscotti in tutta tranquillità. Davanti ai fornelli, però, decise
di prepararsi un tè. Mise sul fuoco il bollitore e rimase a guardarlo
distrattamente, pensando. Sapeva che in soggiorno Sherlock si era sistemato sulla
poltrona, con tutta probabilità intento a leggere il giornale del giorno.
Appena il tè fu pronto Emily se ne versò una tazza fumante, lo zuccherò e prese
dalla sua metà di credenza la confezione di biscotti, ben più sgonfia del
giorno prima – probabilmente per opera del coinquilino.
Aveva
appena addentato il primo biscotto quando Sherlock si presentò nella stanza.
Rimase sulla soglia, a osservare Emily come se davanti a sé ci fosse un
bizzarro, ma quanto mai interessante, animale. La ragazza sopportò quella
situazione più a lungo che poté, poi, sull'orlo dell'esasperazione, sbuffò: «Cosa?»
L'uomo
non si scompose. «Tu volevi che io accettassi il caso. Perché non hai dato
manforte a Mycroft? Siete quasi amici dopotutto.»
Lei
si strinse nelle spalle. «Non mi piace insistere con qualcuno quando ha già
preso una scelta» disse, afferrando un altro biscotto.
Il
detective le si avvicinò, calmo. Si sedette di fronte a lei e la guardò, un
misto di divertimento e interesse negli occhi.
«Tu
vuoi che io accetti» rivelò poi, consapevole.
Nuovamente
Emily cercò mostrarsi indifferente. «Ovvio che vorrei tu accettassi. Sto
scrivendo di te. Più casi risolvi e più vari sono questi, più informazioni
articolate raccolgo io per il mio lavoro.»
Sherlock
sorrise lievemente, stringendo appena gli occhi chiari.
«No,
non è solo per questo» disse sicuro. «Una minaccia di morte anonima, Scotland
Yard che brancola nel buio. Questo caso ti intriga come pochi altri. Tu
vorresti che io accettassi anche perché vorresti indagare sulla situazione, non
solo perché vuoi vedere come opero in una simile circostanza.»
La
ragazza si sentì colta in flagrante. Forse un po' era così, anzi no, lo era.
Non aveva affrontato mai direttamente un simile caso e nel momento in cui se lo
era trovato davanti subito ne era rimasta rapita. Tuttavia era compito di
Sherlock accettare, lei non aveva parola in merito e ne era consapevole. Si
sforzò di fingere indifferenza alle parole del detective ma sapeva di non riuscirci.
Lui la capiva troppo in fretta. Emily allora si concentrò sul biscotto, che
inzuppò nel tè.
«Perché
non svolgi tu l'indagine al posto mio?» domandò poi l'uomo, di punto in bianco.
Il
plop del biscotto troppo imbevuto che
cadeva nel tè fu piuttosto esaustivo per descrivere l'atmosfera del momento.
Curiosità e consapevolezza per Sherlock e incredulità, pura e semplice, per
Emily.
Quest'ultima
imprecò sottovoce appena vide dove era finita la metà del suo biscotto e cercò
di recuperarla con il cucchiaino. Appena fu riuscita nel suo intento guardò
Sherlock, che aveva dipinta in volto ancora quella stessa, pacata, espressione
di poco prima.
«N-non
posso accettare un caso io, Sherlock. Con che scusa Mycroft me lo affiderebbe?
E poi lui non mi conosce affatto, dubito che si fidi di me a tal punto.»
Il
detective sbuffò un po' d'aria. «Mi deludi. Rinunciare così.»
«No,
ehi» scattò subito lei «Non ho rinunciato, ti ho solo fatto notare che è
impossibile che possa essermi affidato un caso. Quello, in particolare.
Parliamo del Vice Primo Ministro, non può occuparsi di qualcosa che riguarda la
sua incolumità l'ultima ragazza appena giunta da Newport. Non scherzare.»
L'uomo
rimase a guardarla. Notò il leggero rossore affiorato alle sue gote,
l'improvviso e debole tremolio che aveva colpito le mani e il suo sguardo che
aveva cominciato a fissare con insistenza il contenuto della tazza. Emily si
era innervosita, anche se, per lui, era ben più corretto dire che si era
agitata. Aveva colto nel segno per l'ennesima volta e, oltretutto, era riuscito
a farle dire ciò che si aspettava.
Alla
fine si alzò da tavola. «Non lo dare così per scontato» le disse, tornando in
soggiorno.
*
Nel
pomeriggio, intorno alle diciassette, sia Emily che Sherlock erano in
soggiorno, ognuno intento a trascorrere il tempo a modo proprio. L'uomo, seduto
alla poltrona, alternava suonate al violino a momenti di assoluto silenzio
mentre la ragazza, accoccolata sul divano, era concentrata su uno dei suoi
voluminosi libri di psicologia, che aveva aperto dopo aver terminato di
schizzare l'ennesimo ritratto di Sherlock sul retro di un vecchio foglio
stampato.
Entrambi
si misero sull'attenti quando sentirono l'ingresso del 221B aprirsi, ma
Sherlock ignorò il tutto praticamente subito. Emily, invece, ascoltò
felicemente i passi farsi strada lungo le scale e le voci dei nuovi arrivati
farsi sempre più vicine. Con il suo caloroso e tipico sorriso, Mrs. Hudson
entrò in casa, dietro di lei i coniugi Watson e la loro piccola bambina.
La
ragazza chiuse immediatamente il libro quando li vide e sorrise verso di loro,
salutandoli. John e Mary salutarono di rimando, provando anche a coinvolgere in
quello scambio di convenevoli Sherlock. Quest’ultimo, come prevedibile, si
rivelò piuttosto restio ai saluti, ma per Emily fu palese che la comparsa di
John e Mary – e, perché no, anche di Mrs. Hudson – lo aveva ravvivato. Come
prevedibile la signora Hudson si spostò in cucina, borbottò un paio di mezze
preghiere una volta vista la situazione che vi aleggiava dentro e mise sul
fuoco il bollitore per preparare del tè. Mary si sedette sulla poltrona che era
sempre stata di John, la bambina fra le braccia e il marito in piedi dietro di
lei.
«Allora
Sherlock, ci sono novità?» domandò lei all’uomo che aveva di fronte.
Il
detective la guardò aggrottando leggermente la fronte. «Sii più precisa, per
favore» la invitò.
La
donna si strinse nelle spalle. «In generale. Hai accettato nuovi casi, hai incontrato
qualche possibile cliente? Cose del genere» disse. Non attese però una
risposta, si voltò verso Emily, rivolgendosi a lei: «Ti sta facendo impazzire?
Sai che, nel caso, a noi puoi dirlo.»
La
giovane di risposta sorrise allegramente. «Sarete i primi a cui lo dirò, se
dovesse succedere.»
Sherlock
sbuffò leggermente dopo quel rapido botta e risposta e, alla fine, si decise a
parlare. Da lì la conversazione si snodò in fretta, coinvolgendo tutti i
presenti e arricchita dall’Earl Gray preparato da
Mrs. Hudson.
Il
gruppo continuò a chiacchierare per tutto il resto del pomeriggio, finché la
sera non si affacciò alla finestra e Londra venne illuminata dalle migliaia di
luci colorate che la caratterizzavano nelle ore notturne. Erano quasi le
diciannove quando John e Mary annunciarono di dover andare. La donna si alzò
dalla poltrona, stiracchiandosi per bene e andò a recuperare la figlia che
dormiva tranquilla fra le braccia di Emily, la quale aveva chiesto di poterla
tenere in braccio per un po’ e aveva finito per non volerla più lasciare.
«Penso
che tu le piaccia molto» disse Mary alla ragazza, appena riprese la figlia.
Emily
le sorrise, dolcemente.
«Chissà
se lo stesso si può dire di Sherlock» ipotizzò John, guardando l’amico.
Quest’ultimo sorrise ironico, senza rispondere, ma salutò sinceramente i
coniugi Watson quando questi si vestirono e si avviarono lungo le scale.
Il
silenzio che si formò subito dopo, piuttosto tipico al 221B, fu improvvisamente
triste per Emily. Si avvicinò alla finestra, scostò le tendine e osservo la
coppia avviarsi lungo la strada, John a sospingere il passeggino lungo il
marciapiede, Mary accanto a lui, stretta al suo braccio. La ragazza li guardò
allontanarsi finché non sparirono, sentendo una strana fitta dentro di sé; era
un misto di amarezza e desiderio, qualcosa che non provava da mesi ma che,
ripresentandosi così d’improvviso, non le lasciò scampo. Tornò a tirare le
tende sulla finestra e si avvicinò al divano; lì prese il proprio libro di
psicologia e il foglio di carta dove aveva abbozzato un ritratto di Sherlock e
su cui, nelle ore precedenti, era anche comparso un disegno di Mary e della
bambina. Emily non era riuscita a resistere al desiderio di disegnarla. Il
ritratto raffigurava Mary intenta a osservare davanti a lei, la figlia stretta
in braccio che la guardava con gli occhi luminosi di chi è profondamente
innamorato e, alle spalle della donna, la sagoma di John era appena abbozzata.
La ragazza non capì per quale motivo le riuscisse così semplice raffigurare
quella purezza di sentimenti che caratterizzava la famiglia Watson, eppure era
così. Le bastavano pochi tratti e un chiaroscuro accennato per caricare di
amore i disegni che faceva su di loro perché di quello, fra loro, ce n’era molto
ed era perfettamente percepibile. Si rese conto solo in quel momento che i suoi
disegni di Mary e Sherlock erano stati fatti uno di fronte all’altro e sembrava
quasi che la cosa fosse voluta. Senza farlo apposta Emily aveva disegnato una
scena ben più ampia, sebbene lo avesse fatto involontariamente.
Sapeva
di essere ferma in piedi a osservare il suo disegno da troppo, così, prima che
Sherlock potesse definitivamente insospettirsi, disse: «Vado in camera mia.»
Salì
le scale e subito si chiuse la porta alle spalle, cercando di ricomporsi in
fretta. La spiacevole sensazione che l’aveva aggredita al piano di sotto
sembrava non volersene andare, al contrario, con tutta probabilità stava
crescendo. Raggiunse l’armadio, lo aprì e vi si inginocchiò davanti, afferrando
dal fondo di esso la sua valigetta. Era una vecchia valigetta in cuoio,
appartenuta a suo nonno. Le piaceva particolarmente e fin da quando l’aveva
ricevuta – a tredici anni – vi aveva sempre riposto dentro alcune delle sue
cose più preziose, tenendola ben chiusa a chiave. Aveva deciso di portarla con
sé a Londra con l’intenzione di raccogliervi dentro le cose più rilevanti della
sua presenza nella capitale ed era proprio lì dentro che aveva riposto tutti i
documenti che lei e Sherlock avevano accumulato nella speranza di scoprire
l’assassino di Walker; quello che l’uomo non aveva gettato via era ancora
custodito lì.
Si
sfilò dal collo la catenina a cui era legata la chiave che serviva per aprire
la valigetta e che portava sempre con sé. Fece scattare la serratura e l’aprì,
lanciando un’occhiata ai fogli ammucchiati dentro e alla consueta stoffa
damascata che rivestiva l’interno. Vi posò il disegno che aveva fatto quel
pomeriggio, sentendo dentro di sé che per quei ritratti il posto giusto non era
la parete, ma quello e infine richiuse tutto.
Fu
proprio mentre chiudeva la valigetta e la spingeva sul fondo dell'armadio che
si rese conto di cos'era quella sensazione che l'aveva colpita: malinconia.
Aveva
lasciato tutto a Newport, lontano da Londra, tuttavia in quel momento si chiese
cosa, esattamente, ci avesse
lasciato. A parte la sua famiglia, che per quanto le volesse bene non aveva mai
nascosto di considerarla la pecora nera, c'era poco altro in quella città per
lei. Di amici ne aveva sempre avuti pochi e nessuno di loro la considerava
preziosa o insostituibile, lo aveva sempre saputo. La sua vita sentimentale,
inoltre, era intralciata proprio perché lei era sempre, ed esclusivamente, se
stessa. Delle volte, pensando a tutto ciò la sua innata gioia veniva spazzata
via, proprio come in quel momento. Le si formò un nodo alla gola mentre
infilava la collana al collo e nascondeva la chiave sotto alla camicia, come
sempre. Intorno a lei il buio che entrava dalla finestra, per quanto
sopraffatto dalla luce della camera, la costrinse, come sempre faceva, a
pensare, pensare e basta, scavare nelle proprie profondità e cercare delle
risposte. Sebbene lo facesse spesso e le sue ambizioni riuscissero sempre a
vincere sulle incertezze e i dubbi, in quel momento non ci riuscì affatto.
Semplicemente si sentì sola.
Il
nodo alla gola le si strinse ulteriormente mentre lei, ancora inginocchiata in
terra, fissava ostinatamente davanti a sé con gli occhi che le bruciavano. Non
appena la prima lacrima riuscì a liberarsi, Emily non fu più in grado di
frenare le altre. Si lasciò andare a un pianto silenzioso, raggomitolata contro
al letto, le ginocchia strette al petto, per minuti interi, finché non si sentì
svuotata di ogni possibile emozione. Soltanto allora prese una lunga boccata
d’aria e si alzò da terra, sistemandosi meglio che poté i vestiti e decidendo
di uscire dalla propria camera nonostante tutto, pur di non rimanere sola.
Arrivata
al piano di sotto fece una deviazione in bagno, passando dalla cucina, così da
evitare di incrociare Sherlock. Non voleva vedesse che aveva pianto,
soprattutto perché non aveva voglia di rispondere a possibili domande o di
dover resistere al silenzio consapevole di chi sa qualcosa ma a cui non
importa.
In
bagno si lavò il viso con acqua ghiacciata nella speranza di ridurre il rossore
degli occhi. Quando questo le sembrò sufficientemente diminuito decise di
tornare in soggiorno per riprendere a leggere il suo libro nella speranza che
lo studio e la presenza di Sherlock – l’uomo che racchiudeva le sue ambizioni –
potessero aiutarla a farla sentire meglio.
Era
sulla soglia della cucina quando il detective la fermò. «Hai pianto» disse
semplicemente.
Aveva
il viso coperto dal giornale che ancora non aveva finito di leggere e non degnò
la ragazza di uno sguardo. Eppure la sua era stata un’affermazione, non certo
una domanda e per Emily fu inevitabile chiedersi come ci fosse riuscito ancora
una volta. Tuttavia, in quel caso, la ragazza non aveva voglia di dirgli la
verità e ripiegò su una delle scuse più efficaci in casi del genere. «No, mi
sono solo data un collirio.»
«Uhm,
beh, in tal caso ti consiglio di cambiare marca. Potresti esserne allergica
dato che non solo ti ha fatto arrossare gli occhi ma te li ha anche fatti
gonfiare» replicò lui, in tono piatto.
Emily
non fu in grado di rispondere prontamente. Si zittì e rimase a guardare il
profilo dell’uomo davanti a lei, concentrato sul suo quotidiano. Alla fine
distolse lo sguardo, sospirando leggermente.
«Come
lo hai capito?» chiese, anche se sospettava di conoscere la risposta.
Sherlock
abbassò il giornale e si voltò verso di lei, un mezzo sorriso in volto.«Capire quando una persona ha appena pianto è
fin troppo semplice. Spesso, poi, lo si intuisce più facilmente dal naso che
dagli occhi.»
Sentendo
quelle parole la ragazza si toccò istintivamente la punta del naso,
smascherandosi definitivamente. Nuovamente nella stanza cadde il silenzio e
alla fine Emily si avviò verso il divano, con l’intenzione di riprendere la
lettura. Sherlock l’aveva scoperta, d’accordo, ma sperò con tutta se stessa che
non volesse approfondire ulteriormente la cosa.
Prima
che potesse sedersi, però, la voce del detective si sollevò di nuovo: «Perché?»
«Cosa?»
domandò in risposta lei.
Sherlock
sollevò impercettibilmente gli occhi al cielo. «Perché hai pianto» scandì.
«Non
ti interessa saperlo veramente» gli rispose la ragazza, in tono piatto.
«No,
infatti» disse l’uomo, sospirando e ripiegando il giornale. «Ma Mary e John vogliono
che sia più... gentile con te. Ho detto loro di pensare prima alla propria
vita, ma a quanto pare ne faccio parte anche io e trovano opportuno darmi
"consigli". A ogni modo, se non vuoi dirmi niente, fa' pure» concluse
con sufficienza.
Emily
rimase a guardarlo a lungo, pensando. Alla fine si decise a dirgli cosa le era
appena accaduto, aprendosi così a Sherlock. Puntò lo sguardo fuori dalla
finestra prima di prendere parola, osservando la sera.
«Quello
che hanno John e Mary... Lo vorrei anche io» ammise alla fine.
«Una
figlia?» domandò l’uomo, sollevando un sopracciglio confuso.
Sentendo
quella risposta Emily si lasciò sfuggire una leggera risata e tornò a guardare
Sherlock.
«No,
o meglio, non solo. Parlo dei sentimenti che ci sono fra loro, sono quelli che
vorrei poter vivere anche io. Il loro legame, il loro conoscersi così bene. È
questo che vorrei. Riuscire a trovare qualcuno che mi faccia sentire davvero
speciale.»
Sherlock
rimase a guardarla, in silenzio. Per un istante si pentì di aver chiesto a
Emily per quale motivo avesse pianto. Lui non era pratico di queste cose, dei
sentimenti. Li considerava solo dei difetti chimici e non aveva certo voglia di
approfondirli o cercare di comprenderli. Tuttavia si rese conto che non poteva
più tirarsi indietro in quel momento. «Credo
ti convenga solo avere un po' di pazienza. Anche John ha impiegato diversi anni
prima di incontrare Mary» disse infine, sperando fosse sufficiente per
consolare la ragazza.
Lei
si strinse nelle spalle, scuotendo debolmente la testa. «Non è questo,
Sherlock. Gli uomini tendono a evitarmi quando capiscono come sono fatta. Hanno
paura di me» informò Sherlock, sentendosi nuovamente triste come lo era nella
sua stanza poco prima.
Fra
di loro calò un nuovo silenzio, ben più pesante dei precedenti. Emily decise di
riempirlo finendo di raccontare al detective quella che era la verità sui suoi
rapporti umani: «Io sono in grado di capire quando qualcuno mi sta mentendo.
Riesco a intuire con chi ho che fare in fretta. Questa cosa non va bene per
nessuno, in pratica. All'inizio di una relazione si tende sempre a nascondere
una parte di sé all'altro, per preoccupazione, per ansia. Ma se l'altro sono
io, che riesco a intuire se il ragazzo che mi ha chiesto di uscire è sincero
oppure no, allora la cosa diventa un problema e tutto finisce.»
Aveva
alzato la voce sul finire della frase, ma tornò ad abbassarla subito. «Sono
andata oltre il primo appuntamento solo due volte e solo in un caso mi sono
innamorata» rivelò infine a Sherlock, senza sapere esattamente perché lo stesse
facendo. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e ripercorse la linea della vita
della mano sinistra con l’indice destro. «Di solito riesco a non pensarci, ma
stasera è andata così» concluse. Tornò a guardare il detective e gli dedicò un
sorriso abbozzato. «Scusa se ti ho fatto perdere tempo dicendoti queste cose, di
certo avevi di meglio da fare. Però grazie per avermi ascoltata. Ti lascio
finire di leggere il giornale.»
Si
avviò verso la sua stanza senza aggiungere altro. Sherlock la sentì chiudere la
porta e rimase a fissare l’inizio delle scale in silenzio, ripensando a quello
che Emily gli aveva appena rivelato. In quel momento si sentì strano ed era
certo di provare dispiacere per la ragazza. Cominciò a pensare ad altro abbandonando
completamente il giornale.
Il
lunedì trovava sempre un modo per essere detestabile a qualcuno e ci riusciva
puntualmente. In quello specifico caso era toccato a Emily.
La
ragazza si era svegliata di buon’ora come era solita fare all’inizio della
settimana. Si era fatta una doccia, aveva preparato il tè sia per lei che per
Sherlock mettendo la sua parte di bevanda in un thermos e, afferrata una
manciata di biscotti, si era avviata fuori di casa, l’ombrello giallo
agganciato al gomito.
Arrivata
alla London Metropolitan
University, un sole pieno sopra la testa, Emily aveva raggiunto
l’aula pronta per la lezione solo per scoprire che il suo professore era
ammalato. L’università aveva avvertito tutti gli studenti dell’annullamento
della lezione prontamente, tramite e-mail, ma nel caso della ragazza la sua
mail era finita nello spam e lei non aveva avuto modo di visionarla. Terminato
il lungo elenco di imprecazioni soffocate che Emily aveva recitato in seguito
alla scoperta, la ragazza si era diretta verso la caffetteria del campus con
l’intenzione di farsi una dose extra di caffè nelle speranza di poter essere
sollevata nell’umore. Ottenuta la sua bevanda si era sistemata nel tavolino più
isolato che aveva trovato e aveva affondato il naso in uno dei suoi libri di
criminologia, pur non riuscendo ad afferrarne una sola parola.
Si
sentiva giù di corda da un paio di giorni, esattamente dal sabato sera in cui
aveva deciso di aprirsi a Sherlock Holmes. Da quella sera loro due non si erano
quasi più rivolti parola, principalmente perché lei tendeva a evitare l’uomo.
Era certa che Sherlock avesse capito ben più di quello che lei gli aveva detto,
sebbene lui si ostinasse a dire che i sentimenti non erano il suo settore. Il
desiderio di Emily di riuscire a vivere una storia come quella di John e Mary
racchiudeva un significato ben più profondo, anche se era più corretto dire che
nascondesse la sua paura più grande: la paura di rimanere sola. Le avevano
sempre insegnato a essere se stessa e lei aveva fatto tesoro di
quell’insegnamento, tuttavia, a venticinque anni, era arrivata a domandarsi
perché essere sé fosse così sbagliato.
Scosse
improvvisamente la testa, con forza, cercando di non pensarci più. Non si era
mai trascinata così a lungo le sue tristezze e non avrebbe certo iniziato ora.
Decise di smetterla di rimuginare sulla faccenda e dedicarsi allo studio, che
l'aveva sempre fatta sentire realizzata, ricordandole qual era il suo scopo.
Avrebbe lasciato da parte quella spiacevole sensazione di malinconia mista a
tristezza che l'aveva pervasa nelle ultime ore – e che era stata poi arricchita
dalla frustrazione per il suo viaggio a vuoto in facoltà – e sarebbe rientrata
a casa per studiare e trascorrere nuovamente del tempo con Sherlock il quale,
dopotutto, non aveva commesso niente di male e non meritava di essere evitato
come gli era successo - sebbene, e Emily ci avrebbe giurato, la cosa pareva
lasciarlo indifferente. Aveva raggiunto Londra con uno scopo ben preciso, che
esulava completamente dalla propria vita sentimentale ma c’entrava
esclusivamente con quello che era il suo desiderio: vivere facendo ciò che le
piaceva di più. C’era tempo per trovare qualcuno con cui mettere su famiglia o
con cui trascorrere in casa le piovose serate gallesi e non dubitava che un
giorno, quel qualcuno, sarebbe arrivato.
Improvvisamente
la ragazza si sentì rinata. Ringraziò mentalmente il caffè, che ingollò fino
all'ultima goccia, guardò il limpido cielo che si affacciava fuori dalla
finestra e si dipinse un sorriso in volto, pronta a rientrare al 221B.
Per
lasciarsi dietro le spalle qualcosa di brutto niente era meglio di lavoro e
amici ed entrambi – sebbene la seconda cosa forse valeva solo per lei – si
trovavano a Baker Street.
Mise
il libro nello zaino e si alzò dal suo posto. Appena fu in piedi si accorse di
un giovane comparso accanto a lei. Lui la guardò e le sorrise. Non si trattava
di Eddie – Emily non lo aveva più incrociato dopo la sua rocambolesca uscita di
scena al loro primo incontro – ma di un altro ragazzo che lei non aveva mai
visto. Doveva essere di poco più grande e, la ragazza non riuscì a non notarlo,
era sorprendentemente affascinante. Aveva lineamenti sfuggenti e piacevoli,
nascosti appena sotto una lieve barba incolta. Gli occhi scuri e limpidi e i
capelli castani facevano risaltare notevolmente il suo sorriso.
Emily
si ricompose subito, sorridendo appena.
«Stai
andando via?» le chiese poi lui.
Lei
ci pensò un momento. Non le sarebbe dispiaciuto trascorrere un po' di tempo con
quel ragazzo, tuttavia la sua voglia di stare con Sherlock, in quel momento,
era più forte. Qualcosa in lei le stava dicendo che se fosse rientrata a casa
avrebbe avuto una bella sorpresa.
«Sì,
stavo proprio andando» rispose alla fine, mettendosi in spalla lo zaino. Le
parve di notare un leggero dispiacere negli occhi del ragazzo, ma capì di
essersi sbagliata quando lui, di tutta risposta, abbozzò un sorriso e disse: «Ah,
ok. Mi siedo qui allora, grazie.»
Prese
posto al tavolino, con visibile disappunto di Emily. Veramente si era illusa
che uno tanto carino volesse offrirle qualcosa? O che fosse dispiaciuto per la
sua improvvisa uscita di scena? Dopotutto rimaneva pur sempre il fatto che lei
non nascondeva il suo essere "diversa", perennemente concentrata su
altro e con un’assurda fissazione per le deviazioni altrui e la cosa, a quanto
pareva, teneva ben alla larga le persone, perfino quelle che non la conoscevano.
Sospirò
leggermente, avviandosi verso l'uscita del campus.
Durante
il viaggio di ritorno in metropolitana si ritrovòa pensare al ragazzo della caffetteria. Le fu
innegabile dover ammettere di esserci rimasta un po' male per come erano andate
le cose, con lui sì che avrebbe preso volentieri un caffè. Alla fine si
costrinse ad arrendersi all'evidenza: non avrebbe trovato il ragazzo giusto in
facoltà; con molta probabilità quello giusto per lei era mezzo matto e nascosto
nel più impensabile dei posti – forse un parco divertimenti. Sorrise da sola a
quel pensiero, sentendo il suo innato buonumore fare ritorno da lei. Quel
lunedì poteva anche essere iniziato per il verso sbagliato, ma stava
stranamente recuperando.
Si
avviò lungo Baker Street una volta scesa dalla metro. Davanti alla porta di
casa notò una berlina nera parcheggiata, ma non le diede il peso che avrebbe
dovuto. Frugò nello zaino in cerca delle chiavi, tuttavia non fece in tempo a
trovarle che la porta le si aprì davanti al naso. Da dietro l'ingresso comparve
Mycroft Holmes, il quale si arrestò di colpo vedendo Emily. Quest'ultima
collegò solo in quel momento l'uomo alla macchina.
«Buongiorno
Mr. Holmes» lo salutò.
Lui
uscì definitivamente dalla casa, salutandola di rimando.
«È
per caso successo qualcosa?» volle sapere la ragazza chiedendosi per quale
motivo Mycroft avesse raggiunto Baker Street.
L’uomo
le sorrise, tranquillo. «Assolutamente niente. Diciamo che c’è stato un
semplice scambio di favori fra me e il mio fratellino.»
Superò
Emily, raggiungendo la berlina. Ne aprì la portiera prima di voltarsi verso la
ragazza e farle un cenno con il capo. «Credo di doverti ringraziare, mia cara.
Ci sei riuscita.»
Salì
in macchina senza aspettare una risposta e scomparve dietro al vetro oscurato. Emily
rimase a guardare l’auto allontanarsi, perplessa. Era riuscita a fare cosa? In preda alla più assoluta
curiosità entrò in casa e salì in fretta le scale. Raggiunto il soggiorno aprì
la porta e vi trovò Sherlock fermo in piedi, lo smartphone in mano. L’uomo alzò
lo sguardo e la vide.
«Ah,
eccoti qui. Stavo per scriverti» disse, posando il cellulare.
«Ho
incrociato Mycroft di sotto. Cosa intendeva con “ci sei riuscita”? Tu lo sai
vero?» domandò, consapevole che lo aveva appena chiesto all’unico che, oltre a
Mycroft, poteva conoscere la risposta.
Sherlock
corrugò la fronte sentendo quelle parole, infastidito.
«Mai
una volta che Mycroft si tappi la bocca» borbottò, voltandosi per afferrare
qualcosa dal tavolo alle sue spalle. Da sopra il caos di carte, lettere, fogli
di giornale e altro che ricopriva la scrivania, sollevò una busta trasparente,
contenente un foglio A4. Emily si avvicinò di un paio di passi, lo sguardo
fisso su quel foglio.
Era
una lettera scritta con ritagli di articoli di giornale, accostati fra loro a
formare un messaggio: morirai nel sonno.
Tre parole inquietanti se accostate così, per quanto quella combinazione
apparisse scontata.
Contro
ogni possibile previsione – tranne per quella di Sherlock – la ragazza sorrise.
Capì subito cos'era quella lettera, così come capì cosa significava. Non poteva
che essere la lettera che aveva raggiunto il Vice Primo Ministro, quella con la
minaccia di morte che un paio di giorni prima Mycroft aveva sottoposto a
Sherlock senza successo. Improvvisamente le parve di intuire cosa intendesse il
maggiore dei fratelli Holmes con quello che le aveva detto, sebbene ancora non
le era chiaro come potesse essere merito suo se Sherlock aveva accettato;
probabilmente l'uomo lo aveva fatto solo perché si stava annoiando e, in tal
caso, lei certo non ne aveva merito. Tuttavia quella questione passò
completamente in secondo piano.
«Hai
accettato il caso?» domandò radiosa, sorridendo in direzione del detective.
Quella mattina stava decisamente recuperando alla grande.
Di
tutta risposta, però, l’uomo fece una smorfia. «L’ho già risolto, in realtà.»
Emily,
aprì bocca, attonita. «Cosa? Ma… subito non ti interessava e ora, non solo lo
accetti, ma lo risolvi ancor prima che io possa venire a sapere che quella
lettera è in casa nostra?» esclamò. «C-che ne è della mia tesi, Sherlock? Lo
sai che ho bisogno di vederti lavorare per riuscire a scrivere qualcosa.»
Il
dispiacere nella sua voce era palpabile. Non aveva fatto in tempo a essere
felice per la notizia che l’uomo le aveva dato, che subito lui aveva detto
qualcosa in grado di ribaltare completamente il suo umore. Ciò che, oltretutto,
la faceva stare peggio era lo sguardo impassibile con cui Sherlock la stava
guardando.
Quest’ultimo,
come se non bastasse, sollevò un sopracciglio e inspirò. «È un caso banale e,
te lo assicuro, anche noioso. Ci ho messo talmente poco a capire chi ha
confezionato questo bigliettino che, posso garantirti, non avresti raccolto
molto sul mio modo di lavorare. Era per questo che non volevo accettarlo quando
Mycroft me lo ha sottoposto, non c’era gusto nel risolverlo.»
A
quelle parole la ragazza aggrottò la fronte, confusa. Perché doveva essere
sempre tutto così poco chiaro con Sherlock?
Sospirò.
«Ok, non ci sto capendo niente» ammise alla fine, arrendendosi all'evidenza. «Perché,
se era un caso tanto semplice, Mycroft voleva affidartelo a tutti i costi?
Poteva risolverlo lui.»
«Il
problema di mio fratello è che si sente superiore a queste cose. Le considera
una perdita di tempo, ma visto le figure che vi sono in ballo non può tirarsi
indietro, perciò viene da me. Se non ci fosse stato di mezzo il Vice Primo
Ministro ti garantisco chenon si
sarebbe neanche mosso dal suo prezioso ufficio.»
Sentendo
quelle parole Emily si ritrovò ancora più confusa. «Certo che voi due siete
strani» disse infine, perfettamente consapevole del fatto che si era
volutamente infilata in quella casa – anche se, nonostante tutto, la cosa
continuava a piacerle.
«No.
Mycroft è strano» replicò subito l'uomo, dopodiché agitò la busta trasparente
che ancora teneva in mano. «Allora ti interessa o no?»
«Certo
che mi interessava. Ma tu lo hai già risolto» sbottò.
«Il
tuo ragionamento non fa una piega» disse Sherlock, sarcastico. «Tuttavia tu non
sai chi abbia inviato questa lettera al Vice Primo Ministro.»
«Arriva
al punto, ti prego.»
L’uomo
le tese finalmente la lettera. «Ho accettato il caso per te.»
Emily
si bloccò, incredula. Non aveva certo immaginato di potersi sentir dire una
cosa del genere e non fu in grado di rispondere all’affermazione appena fatta
dal detective – per quanto asciutta fosse stata.
Sherlock
riprese parola: «So perfettamente quanto ti aveva incuriosita e non venirmi a
dire che non è vero. Ho solo pensato che, dato che è un paio di giorni che mi
sembri meno euforica del solito – e non per colpa mia, vorrei sottolineare –
lavorare a qualcosa che fosse di tuo gradimento avrebbe potuto tirarti un po'
su il morale.»
Lo
disse con una tale disinvoltura da essere addirittura sorprendente. Emily,
infatti, si sentiva proprio sorpresa. Quello che Sherlock aveva fatto per lei,
per quanto al resto delle persone sarebbe potuto apparire insensato, era
qualcosa di insolitamente premuroso e lei non poté fare a meno di provare un
improvviso moto di gratitudine – e affetto – nei confronti del suo coinquilino.
«Non
fraintendere,» riprese lui, davanti al silenzio vagamente imbarazzato della
ragazza, «l'ho fatto solo perché vorrei che finissi di girare per casa come una
specie di ameba. Mi deconcentri.»
La
magia si ruppe proprio in quel momento. Tuttavia, alle parole di Sherlock,
Emily sorrise radiosa. Il detective le stava dando la possibilità di indagare
da sola al suo primo caso, qualcosa che, oltretutto, non aveva mai avuto modo
di affrontare e che, proprio per tale motivo, la incuriosiva ancor più di
quanto lei stessa aveva creduto possibile. Forse si stava sbagliando, ma lei
volle credere che, nel gesto di Sherlock, si racchiudesse qualcosa di più.
«Posso
indagare sul caso, quindi?» domandò poi, con entusiasmo crescente.
L'uomo
si strinse nelle spalle. «Mycroft mi ha lasciato le cose apposta. E prometto di
evitare di dirti chi è il colpevole.»
A
quelle parole lei afferrò la lettera dalla mano di lui e gli sfilò accanto per
raggiungere la scrivania. Si tolse zaino e cappotto e si mise seduta, gli occhi
fissi sulle parole composte dai ritagli di giornale.
«C'è
anche questo» le disse poco dopo Sherlock, indicando un plico di fogli puntati
fra loro sulla scrivania. «Non per offenderti, Emi, ma senza non penso tu
riesca a risolvere granché.»
«Come
fai a dirlo?» domandò lei, fingendosi offesa.
«Ci
sono i risultati delle analisi che hanno svolto sulla lettera. Ti serviranno,
credimi.»
Detto
ciò si allontanò in direzione della cucina. Emily afferrò il plico a quelle
parole, cominciando a sfogliarlo. Rimase quasi sorpresa nel vedere la quantità
di cose che erano riusciti a scovare sulla superficie di un foglio A4. Lesse
alcune formule chimiche e azionò il suo portatile per poter iniziare la
ricerca.
Era
eccitata. Decisamente non c'era più traccia della tristezza che l'aveva
posseduta per i due giorni precedenti e il merito di tutto ciò era di Sherlock
Holmes.
*
Come
Emily aveva già avuto modo di verificare, le modalità per combattere la noia usate
da Sherlock erano a dir poco inusuali e, anche in quel momento, nulla le
avrebbe permesso di dubitare della cosa. L’uomo, infatti, sebbene vestito di
tutto punto come lo era nella mattina, era disteso sul divano da un paio d’ore.
Mentre Emily continuava a studiare la lettere di minaccia inviata al Vice Primo
Ministro come se fosse vitale riuscire a individuare chi fosse il mittente –
nonostante, anche scoprirlo, non sarebbe più servito a molto dato che per
merito di Sherlock questi era già stato certamente arrestato – il detective
aveva prima letto più capitoli di uno dei più complicati libri di psicologia
criminale della studentessa e poi, probabilmente stufo di nozioni che
certamente già sapeva, aveva cominciato a borbottare che si stava annoiando e
aveva preso a lanciare contro il muro una pallina da tennis comparsa come per
magia fra i cuscini del divano.
Dopo
quello che, con tutta probabilità, doveva essere il cinquantesimo rimbalzo
della pallina contro la parete, Emily raggiunse il limite.
«Sherlock,
ti prego» sbottò, abbandonando sul ripiano della scrivania i fogli e gli
appunti che aveva messo insieme sul caso, anche grazie a internet.
L’uomo
afferrò al volo la pallina al termine del suo rimbalzo e la bloccò nella mano.
«Ci
sei sopra da tre ore, com’è possibile che ancora non hai capito chi è il
colpevole?» le domandò, una leggera nota di nervosismo a condire la voce.
«Beh,
non siamo tutti come te a fare intuizioni» rispose lei, acida. «Se tu ci sei
riuscito in dieci minuti è solo perché sei tu.»
«Quello
che hai appena detto non ha alcun senso.»
Di
tutta risposta Emily sbuffò un po’ d’aria, tornando a dedicarsi alle sue carte.
«Ti
stai concentrando sulla cosa sbagliata. Usa quei maledettissimi fogli che
Mycroft ti ha lasciato e ragiona in senso più ampio. Immaginati gli scenari,
osservali» riprese a parlare lui. Lasciò andare la pallina da tennis che cadde
in terra e rotolò fino ai piedi della ragazza. Lei lo guardò, incuriosita.
Sherlock stava cercando di darle qualche suggerimento o si era semplicemente
stancato di non poter dire niente a riguardo perché lo aveva promesso lui
stesso?
Osservò
il suo profilo, gli occhi chiari fissi al soffitto. Lo vide sospirare sonoramente
e passarsi le mani sul volto, dopodiché tornò a concentrarsi sul suo lavoro.
Tuttavia,
solo pochi minuti dopo, qualcosa attirò nuovamente la sua attenzione. Era un
suono metallico, uno scatto, qualcosa che aveva sentito un numero sufficiente
di volte in film e documentari per capire che non era un buon segnale. Sollevò
nuovamente lo sguardo su Sherlock e la sua paura si materializzò esattamente
davanti a lei, con il volto annoiato e indifferente del suo coinquilino.
L’uomo
teneva in mano una pistola calibro 22 semiautomatica –valutò rapidamente la ragazza – di cui lei ne
aveva viste a bizzeffe durante i suoi studi. Il suono che aveva sentito poco
prima le permise di capire che altro non poteva essere se non il caricatore che
veniva incastrato al suo posto, pronto. Il suo cuore accelerò i battiti di
colpo, mentre le sue sicurezze vennero meno.
«S-Sherlock»
lo chiamò, incerta.
Lui
si voltò a guardarla. Emily si accorse che nei suoi occhi non c'era nulla di
simile al desiderio omicida e la cosa l'aiutò a tranquillizzarsi un po', ma
comunque molto poco.
«Dove
hai trovato quella pistola?» chiese, cercando di mantenere il proprio
autocontrollo.
«Sotto
il divano» rispose calmo l'altro.
«Sotto
il divano?» ripeté sconvolta Emily, salutando il suo autocontrollo. «Perché
tieni una calibro 22 sotto il divano?»
Nuovamente
Sherlock non si scompose. «È di John. Probabilmente l'ha dimenticata qui un
giorno in cui era di fretta.»
Sentendo
il suo tono impassibile Emily si alzò, decidendo di fermarlo prima che potesse
fare qualcosa di sconsiderato. Raggiunse il divano con fare sicuro e tese la
mano in direzione di Sherlock «Ok, dammi la pistola» disse, cercando di apparire
il più ferma possibile.
Di
tutta risposta lui le lanciò un'occhiata infastidita. «Perché mai?»
«Vorrei
evitare che ti metessi a sparare per casa, ecco perché. Non credere che mi
siano sfuggiti i fori sparsi sulla parete. Ho capito che sono stati causati da
dei proiettili e John non ha mai detto niente per convincermi del contrario.»
Si
sentì improvvisamente come la sorella maggiore alle prese con il fratello
piccolo e la cosa le procurò una strana sensazione.
«Non
sai neanche se la pistola è carica» le fece notare Sherlock.
«Preferirei
scoprirlo in un modo che non implichi necessariamente l'atto di dover sparare.
Ora dammela.»
Il
detective si puntellò sui gomiti, mettendosi poi a sedere, ma sempre rivolto
verso la parete alla destra del divano. GuardòEmily con una sorta di sfida, senza muoversi, la pistola ancora in mano.
«Basta.
Dammela» riprese a dire la ragazza. Si fece forza e afferrò il calcio dell'arma
con la mano desta, con l'intenzione di strapparla all'uomo. Non si era, però,
aspettata la sua presa salda, sicura, al punto che i due si trovarono
reciprocamente a strattonare la pistola nella propria direzione finché, per
colpa di chi non furono in grado di stabilirlo, partì un colpo. La
deflagrazione spezzò l'aria, un suono sordo che fece sussultare Emily,
terrorizzandola. Liberò la presa dall'arma è si lasciò sfuggire un urlo per lo
spavento, allontanandosi inoltre da Sherlock e imprecando a gran voce per la
paura. L'uomo, invece, era fermo al suo posto, impassibile come se non fosse
successo nulla e ripercorse con lo sguardo la traiettoria del proiettile,
individuando il punto esatto in cui esso si era conficcato nel muro.
«Sei
impazzito?» urlò la ragazza in direzione di Sherlock.
Quest'ultimo
sollevò le sopracciglia. «Prego? Fino a prova contraria tu hai cercato di
strapparmi la pistola di mano. Se fossi stata ferma non sarebbe successo niente
di tutto questo.»
Emily
era pronta a replicare quando, dalle scale, sopraggiunse la voce di Mrs. Hudson:
«Che sta succedendo lì sopra?» domandò, preoccupata.
«Niente
Mrs. Hudson» risposero prontamente e all'unisono i due. Sentirono la donna
chiudere la porta del proprio appartamento e capirono di averla fatta franca
almeno per quel momento.
Si
scambiarono un'occhiata, seri. Alla fine, sentendo l'adrenalina scivolare via
insieme alla tensione, Emily scoppiò a ridere. Si lasciò andare a una delle
risate più disinibite che ricordasse da tempo, al punto che non riuscì a notare
lo sguardo perplesso lanciatole da Sherlock.
Quando
si fu risistemata il detective sentenziò: «Poi sarei io quello strano.»
Si
alzò dal divano e posò la pistola sul tavolino, borbottando un: «Tanto è
scarica» davanti allo sguardo della ragazza.
La
raggiunse alla scrivania – dove lei era tornata a sistemarsi – e osservò quello
che aveva raccolto da quando aveva cominciato a indagare sul caso. Lesse gli
appunti e i piccoli scarabocchi che lei aveva lasciato sugli angoli delle
pagine, scoprendo che aveva cominciato ad andare nella direzione giusta. Con
tutta probabilità avrebbe scoperto il colpevole entro sera.
Emily
cercò di ignorare la consapevolezza di avere Sherlock fermo alle sue spalle,
come se fosse stato il suo esaminatore dell'università. Si concentrò su quello
che aveva, convinta di essere vicino alla soluzione: avrebbe finalmente risolto
il suo primo caso da sola.
Tuttavia
non fu così. L'ingresso del 221B venne aperto da qualcuno, qualcuno che sia
Emily che Sherlock ebbero modo di poter identificare come John Watson non
appena lo sentirono salutare la padrona di casa passando davanti alla sua
porta. John salì le scale con calma, facendo cigolare a dovere i gradini e
infine entrò nel soggiorno dove incontrò il detective e la ragazza.
«Ciao»
li salutò.
Entrambi
risposero in modo distratto, concentrati sul lavoro di Emily.
«Avete
saputo l'ultima?» riprese poi John, provando ad avviare un discorso e
sentendosi inspiegabilmente di troppo in quel momento.
«Quale
ultima?» domandò la ragazza, improvvisamente incuriosita.
Il
medico parve rianimarsi. «Del Vice Primo Ministro. La minaccia di morte
gliel'ha scritta la domestica.»
Nel
soggiorno del 221B di Baker Street era calato il silenzio. Emily era
impietrita, sconvolta dalla rivelazione che John le aveva fatto così, a
bruciapelo. Si era lambiccata il cervello per tre ore, aveva sopportato uno
Sherlock annoiato alle prese con una pallina da tennis e una pistola - una
pistola! - e poi, proprio quando si sentiva vicina a ottenere un primo e
meritato successo in un campo che l'affascinava sempre di più, il migliore
amico del suo coinquilino rovinava tutto.
John,
dal canto suo, non era in grado di capire cosa avesse bloccato così la ragazza,
né tantomeno perché Sherlock lo stava guardando a quel modo. Aveva detto
qualcosa di sbagliato, quella era la sua unica certezza.
«Ben
fatto, John» si complimentò sarcastico Sherlock.
«Cos...
Ho detto qualcosa che non dovevo dire, vero?»
Gli
sguardi di entrambi gli uomini si posarono su Emily e lì rimasero, in attesa di
una sua reazione. Lei si riprese dopo diversi, lunghi, secondi di silenzio.
«La
domestica» esclamò. «Ovvio! Ecco com'è stato possibile che la lettera venisse
recapitata. È talmente banale che è paradossale che Scotland Yard non ci sia
arrivata» disse, tutto d'un fiato.
«Ah,
allora convieni con me che Scotland Yard si trova in difficoltà su cose da
nulla» cercò improvvisamente manforte Sherlock.
John
continuava a guardarli senza capire bene cosa fosse accaduto. Dopo il suo lungo
silenzio Emily si era ridestata e pareva essere più energica e coinvolta che
mai. Oltretutto lo stava completamente ignorando, cosa che gli risultò
improvvisamente strana, sebbene gli diede modo di convincersi del fatto che,
forse, non aveva fatto uno sbaglio tanto grande.
«Posso…
posso sapere cosa succede?» domandò infine, avvicinandosi ai due inquilini del
221B.
«Stavo
lavorando a quel caso» rispose Emily, alzando serenamente lo sguardo sul
medico. «Quello del Vice Primo Ministro» aggiunse poi.
«Come,
scusa? Perché ci stai lavorando tu? Vuoi dire che in realtà non è stato
risolto?»
«No,
no, niente del genere. È stato risolto, è stato Sherlock.»
Il
detective si esibì in un’espressione piuttosto esaustiva, come a ricordare a
John che molto spesso c’era lui dietro a certi articoli di giornale.
«Io
stavo semplicemente cercando di risolverlo da sola, giusto per la soddisfazione
di poter dire di essere riuscita a risolvere un caso» proseguì la ragazza,
sempre in direzione del medico. «Solo che, adesso, serve a poco.»
John
si sentì a disagio a quelle parole. Era vero che non aveva smascherato il
colpevole di proposito, così come non poteva sapere che Emily stesse lavorando
a quel caso – anche se solo per il piacere di farlo – eppure non poté fare a
meno di sentirsi in colpa, come se avesse sottratto la ragazza a qualcosa che
la faceva stare bene.
Tuttavia,
come spesso capitava, Emily era tranquilla, senza la minima traccia di
irritazione in volto per quello che era appena accaduto. Era ancora seduta alla
scrivania, le carte sparpagliate sul piano, i capelli rossi spettinati,
malamente raccolti sopra la testa. Alle sue spalle Sherlock era in piedi, una
specie di elegante protettore dietro di lei.
«Mi
dispiace molto» si scusò infine John, realmente dispiaciuto.
La
ragazza, di tutta risposta, gli regalò uno dei suoi sorrisi più dolci. «Ti
perdono. Ma solo perché non potevi saperlo.» Gli puntò contro la matita e
assunse un’espressione fintamente minacciosa. «La prossima volta, però,
gliel’ha farò pagare cara dottor Watson.»
John
le sorrise. Quella ragazza gli piaceva davvero molto, più la conosceva, più si
convinceva di ciò.
Emily
riprese a guardare i suoi appunti, rivolgendosi a Sherlock: «Come posso avere
conferma del fatto che la colpevole sia stata la domestica? A parte per il
fatto che ha aggiunto la lettera alla posta ordinaria ricevuta dal Vice Primo
Ministro e questo spiega come sia riuscita a evitare la sorveglianza con tanta
semplicità.»
Il
detective cercò alcune informazioni sul plico di carte puntate fra loro e,
trovato ciò che cercava, lo indicò alla giovane. Anche John si mise in ascolto,
interessato.
«Questo»
disse il detective. «Ammonium oleate. Lo hai cercato su internet?»
Emily
frugò fra i suoi appunti, trovando ciò che cercava. «Vagamente» rispose,
incerta.
«Beh,
è uno degli elementi che sta alla base della stragrande maggioranza di prodotti
per lucidare l’argenteria. È risaputo che il Vice Primo Ministro ha la bizzarra
fissazione per i fermacarte in argento, ne ha una collezione intera.»
Indicò
con l’indice sulla lettera, seguendo una scia invisibile. «Tracce di quella
sostanza sono state trovate qui, lievi. Si riescono a intravedere a luce
radente.»
«Un
fermacarte pulito male» mormorò la ragazza sovrappensiero. «Deve aver lasciato
tracce di quella sostanza sul primo foglio di un gruppo di carte, forse una
risma, e quando la domestica lo ha preso non se n’è accorta e ha comunque usato
quel foglio.»
«Molto
bene» si complimentò Sherlock, davanti a un colpito John.
«E
ora questo» proseguì, indicando un’altra cosa sul plico delle analisi.
«Amido
di mais» lesse Emily. «Nella colla?» tentò.
«No.
Il collante è di natura sintetica. L’amido di mais è stato trovato sparso solo
in alcuni punti, quindi proveniva da un’altra fonte.»
La
ragazza ci pensò, a lungo. Tuttavia non le venne in mente nulla di attendibile.
«Non
saprei» si arrese infine.
«L’amido
di mais è usato come polvere lubrificante nei guanti in lattice» le rivelò
Sherlock. «Ne sono stati trovati pochi residui, in corrispondenza di alcuni
punti di colla al di sotto dei ritagli di giornale. Considerando, però, che la
colla è industriale non può essere amido presente nel legante, perciò viene da
qualcos'altro, i guanti ad esempio.»
«Guantiche deve aver usato per evitare di lasciare
impronte sul foglio» concluse la ragazza.
«Esatto.
Peccato per lei che invece delle impronte abbia lasciato molti altri elementi
per permettere di essere individuata. Alcune lettere, ad esempio, sono tratte
da giornali costosi come dimostra la qualità della carta e della stampa, il che
vale a dire che deve aver preso qualche pagina utile alla sua lettera
direttamente dai giornali di cui il Vice Primo Ministro aveva deciso di
sbarazzarsi.»
«Sorprendente,
Sherlock» si complimentò Emily.
«Hai
capito anche tu le cose più importanti. Se John non avesse sbandierato tutto ci
saresti riuscita da sola. Te lo avevo detto che non era difficile» tagliò corto
l'uomo, dirigendosi verso la cucina.
La
ragazza lo guardò incuriosita, non capendo se aveva appena ricevuto – nuovamente
nel giro di poche ore – un complimento da parte del detective. Decise da sola
di sì, che le parole pronunciate da Sherlock in quell'ordine e con quel tono
disinvolto, quasi annoiato, valevano come complimento.
Raccolse
le carte che aveva sparpagliato in giro, ammonticchiandole in una piccola pila
e lasciandole in vista affinché si ricordasse di conservarle. Infine si rivolse
a John, che la stava guardando con un confortante sorriso paterno; gli sorrise
di rimando, afferrando la calibro 22. «A proposito, John, temo tu abbia
dimenticato questa, non so quando. Io e Sherlock abbiamo già avuto modo di
appurare che funziona perfettamente, sebbene ora sia scarica.»
Lo
disse tranquillamente, leggermente divertita a ripensare alla scena di poco
prima, quando lei e Sherlock si erano contesi una pistola carica come due
bambini si contendono una macchinina.
John
afferrò la semiautomatica e la sfiorò delicatamente, guardando Emily con lo
sguardo preoccupato di chi aveva capito tutto.
«Dimmi
che non è successo niente» supplicò, nonostante fosse consapevole del fatto che
fosse avvenuto il contrario.
Sherlock
si affacciò dalla cucina, un paio di biscotti in una mano e uno rosicchiato
nell'altra. I due amici si guardarono e il detective sollevò un indice per
indicare un punto sulla parete accanto alla finestra. «Abbiamo inaugurato un
altro muro» sintetizzò.
John
rimase spiazzato da quella nuova rivelazione. Osservò il punto incriminato,
dopodiché si concentrò su Emily. Gli parve sorprendentemente tranquilla, come
se fosse abituata a spari, pistole e pareti. Continuò a guardarla senza che
nessuno dei due dicesse nulla mentre Sherlock, in cucina, cominciava a lavorare
con la sua attrezzatura scientifica. John si sentì confuso alle prese con tutto
quell'insieme di elementi acquisiti dal suo ultimo arrivo nella casa. Sempre
osservando Emily, che ancora rispondeva rilassata al suo sguardo, si pose una
sola domanda: era il 221B di Baker Street a rendere inconsuete le persone o
tutti loro si erano ritrovati in quel soggiorno proprio per il loro essere inconsueti?
*
Finire
l'ultima lezione settimanale prima dello stop per le vacanze natalizie era
sempre piaciuto particolarmente a Emily, ma non questa volta. Di solito,
infatti, significava abbandonare le lezioni per concedersi un po' di sano ozio
nella propria casa di Newport, senza bisogno di raggiungere ogni mattina la
capitale Cardiff. Ora, invece, per la prima – e ultima, dato che si parlava del
master – volta la sospensione delle lezioni stava lasciando dentro la ragazza
un senso dolceamaro, legato non tanto al fatto di dover interrompere gli studi
nel settore – dopotutto quando si scrive una tesi non si può mai parlare di
interruzione – quanto più che altro all'idea di lasciare Londra, Baker Street, Sherlock
Holmes e John Watson, sebbene per pochi giorni.
Il
mattino seguente, infatti, sarebbe partita per tornare a Newport e trascorrere
le vacanze natalizie insieme alla propria famiglia, lasciando Sherlock nella
sua casa.
Aveva
passato buona parte di quell’ultima mattina di lezione pensando a come
trascorrere il tempo una volta rientrata a casa, stabilendo che avrebbe
comunque proseguito con il proprio lavoro, magari cominciando a dare un senso
compiuto a quell’ammasso di appunti di ogni genere preso nei primi tre mesi di
convivenza con Sherlock.
Si
avviò verso la caffetteria per concedersi anche un ultimo caffè prima delle
vacanza – trovava incredibilmente buono quello del bar del campus – continuando
a rimuginare sul da farsi.
Si
trattava solo di due settimane, lo sapeva perfettamente, eppure non riusciva a
fare a meno di dispiacersi della cosa. Adorava il 221B di Baker Street, adorava
il suo caos, il disordine; adorava le persone che vi entravano e seguire
Sherlock in giro per la città alla ricerca di qualcosa invisibile a tutti
tranne a lui. Sapeva che tutto ciò le sarebbe mancato, ma si ricordò anche che
si trattava pur sempre di poco tempo e che, tutto sommato, la sua famiglia le
mancava.
Superò
l’ingresso del caffè sempre pensando a tutto ciò, cercando di riordinare
l’accozzaglia di sentimenti che le si accavallavano dentro. Arrivata al bancone
si fermò, si sistemò un momento i capelli e prima che potesse guardare negli
occhi uno del personale per poter ordinare, qualcuno la raggiunse.
Istintivamente si voltò, trovandosi davanti il ragazzo che aveva incontrato in
quella stessa caffetteria tempo prima, quando lei si era convinta che lui
volesse fare conversazione mentre, invece, voleva semplicemente sedersi al suo
posto. Da quel loro primo incontro Emily lo aveva intravisto con frequenza
sempre maggiore nel locale e sempre da solo. Prendeva posto dopo che lei
arrivava e non lo vedeva mai andare via prima. Le capitava di tanto in tanto di
soffermarsi a guardarlo, al punto che era riuscita a registrare quasi
perfettamente i suoi lineamenti sfuggenti, e la sfumatura di bruno dei suoi
occhi, trovandolo ogni giorno sempre più carino.
Rimase
spiazzata quando lui, in quel preciso momento, le sorrise, tendendole uno dei
bicchieri di carta in cui venivano abitualmente servite le bevande in quel
posto. Leggermente titubante – più per la sorpresa che per la diffidenza – la
ragazza afferrò il bicchiere, sentendo il calore propagarsi fino alle sua mani.
Dopodiché sollevò lo sguardo sul ragazzo e rispose al suo sorriso.
*
L’avvicinarsi
del natale era da sempre un motivo di stress aggiuntivo per Sherlock. Era
riuscito a declinare l’invito a trascorrere le festività con i propri genitori,
tuttavia gli era stato impossibile impedire a Mrs. Hudson di mettere in
ghingheri perfino il suo appartamento con ghirlande, lucine varie e fiocchi di
neve.
Rannicchiato
sulla sua poltrona, il detective teneva gli occhi fissi sulla porta di casa, in
attesa del rientro di Emily. La ragazza era in ritardo rispetto al solito e lui
si ritrovò a sperare che rientrasse in fretta giusto per avere qualcuno da
analizzare, movimentando un po’ il proprio cervello. Erano giorni che non gli
passava fra le mani un caso eccitante e la cosa cominciava a renderlo
irascibile. Il caso Horvat era stato accantonato poiché non era accaduto
nient’altro di riconducibile a esso e sebbene Lestrade gli avesse sottoposto un
paio di volte qualcosa di succulento, appena trovato l’elemento discordante
Sherlock aveva sempre risolto la questione con eccessiva semplicità. Perché
doveva essere così difficile, ogni volta, riuscire a trovare qualcosa che non
fosse scontato, prevedibile e banale? Cos’era successo ai criminali realmente
interessanti?
Si
mise a sedere sulla poltrona con un gesto fluido, tirando a sé la vestaglia e
fasciandosi meglio il corpo, gli occhi sempre puntati verso l’ingresso. D'improvviso
sentì la porta aprirsi. Vide nitidamente nella mente Emily varcare la soglia, avvicinarsi
alla porta di Mrs. Hudson e salutare la padrona di casa: «Salve Mrs. Hudson» e
avviarsi, infine, lungo le scale. Sherlock controllò l'ora, scorse mentalmente
gli orari della metropolitana e formulò già una prima idea. Non appena Emily
arrivò nel soggiorno salutò l'uomo, sorridendo e si sfilò il cappotto. Lui
rispose monosillabico a quel saluto, continuando a scandagliare attentamente la
sua coinquilina in cerca di elementi in grado di conformare i suoi sospetti.
Prima ancora che lei potesse raggiungere le scale per salire in camera sua ne
trovò diversi, ma non fu abbastanza rapido per individuare la prova definitiva.
Emily, infatti, con la naturalezza di chi sa come muoversi, salì lungo le scale
diretta alla sua stanza, sparendo alla vista di Sherlock.
Nel
tempo che impiegò per tornare nel soggiorno l’uomo ebbe modo di far lavorare
ulteriormente il proprio cervello, giungendo a una conclusione. Non poteva
certo dire che fosse stata un'indagine avvincente, ma era arrivato a un tale
livello di noiachequalsiasi cosa gli sarebbe andata bene, pur
di tenere in moto la mente.
Appena
Emily scese le scale e rientrò nel soggiorno Sherlock la raggiunse e le afferrò
il polso destro, sollevandole la mano. Analizzò rapidamente le sue dita, infine
guardò la ragazza con l'espressione di chi aveva già capito tutto.
«Come
si chiama?» le chiese.
Lei
guardò la propria mano, sollevando le sopracciglia. Era piuttosto certa di aver
capito dove l'uomo volesse arrivare, ma dato che non ne era così convinta
preferì evitare di esporre spontaneamente tutto quanto.
«Mano?»
disse con tono incerto e poco convito, in risposta alla domanda di poco prima.
Sherlock
alzò gli occhi al cielo, nella perfetta imitazione di un se stesso esasperato
dalla stupidità umana – espressione che divertiva sempre molto Emily.
«Lui come si chiama. Non fare la finta
tonta, per favore.»
Le
lasciò andare il polso, erigendosi poi in tutta la sua statura, le braccia
dietro alla schiena.
«Da
cosa lo avresti capito?» chiese Emily, realmente incuriosita. Sherlock aveva
indovinato – cosa scontata, dopotutto – tuttavia, come ogni altra volta, il come interessava terribilmente alla
ragazza.
«Ti
sei mai resa conto di avere un leggero tic nervoso quando ti senti in
imbarazzo?» le chiese.
Con
grande sorpresa della ragazza, la risposta era no.
«Tendi
a tormentare con le unghie quello che hai fra le mani, indipendentemente da ciò
che sia. Sotto le unghie della tua mano destra ci sono minuscoli residui di
carta, il che mi lascia intendere che te la sei presa, appunto, con della
carta. Non un foglio normale, ma con qualcosa che devi per forza esserti
trascinata da sinistra verso destra. Sapevi che, se insisti sul punto di
giunzione nei bicchieri di carta, questi si strappano? Direi di sì, perché è
proprio quello che hai fatto prima. È da uno di quei bicchieri che vengono i
pochi residui di carta che hai sotto le unghie.»
Si
voltò, cominciando a passeggiare lungo la stanza. «Il punto è: perché hai
tormentato un povero bicchiere di carta? Perché di fronte a te c'era qualcuno
che era in grado di metterti in imbarazzo. Considerando, però, che sei una
ragazza sicura delle proprie capacità e che si trova a proprio agio anche con
gli uomini, la sola cosa che può averti creato imbarazzo in questa circostanza
può essere un ragazzo che ti piace, nient'altro.»
Concluse
voltandosi vittorioso in direzione di Emily, la quale, non volendo dargliela
vinta tanto facilmente, incrociò le braccia e lo guardò con sufficienza. «E se
avessi tormentato quel bicchiere per rabbia verso il mio docente di psicologia?»
chiese, con una tale sicurezza da lasciar intendere che quella fosse la verità.
Sherlock
rispose al suo sguardo alla stessa maniera, consapevole della sua farsa. «Hai
anche un leggero rossore alle gote, che non può essere dovuto al fatto che sei
rientrata di fretta. Sei arrivata qui otto minuti dopo l'arrivo della metro in
stazione, il che significa che hai percorso il tragitto con molta calma, forse
addirittura sovrappensiero.»
«Forse
ho corso per prendere la metropolitana dall'università.»
Sherlock
sollevò un sopracciglio, guardandola come si guarda un bugiardo quando si
conosce la risposta. «Quando passa puntualmente ogni tre minuti? Per favore,
non lo avresti mai fatto.»
Emily
lasciò cadere il silenzio, colpita ed eccitata di fronte all'ennesima
dimostrazione del genio che era l'uomo che aveva deciso di studiare.
«Ti
stai annoiando, vero?» domandò poi, consapevole che lui aveva appena dato prova
di sé proprio perché non lo faceva più da un po' e non perché fosse realmente
interessato a sapere chi avesse offerto un caffè a lei e, soprattutto, se a lei
quel chi piacesse o meno.
«Terribilmente»
sbuffò in risposta il detective.
«Beh,
ti tocca avere un po' di pazienza. Vedrai che ci sarà un bel omicidio di natale
su cui potrai indagare, non disperare» cercò di consolarlo lei, in un modo
abbastanza grottesco.
Sherlock
la guardò con un sopracciglio inarcato, un leggero sorriso a solcargli il
volto.
«Non
cercare di deviare l'argomento, so di aver indovinato. Allora, chi ti ha
offerto da bere?» la incalzò.
Emily
si arrese. Sapeva che a Sherlock non importava niente del suo incontro in
caffetteria, nonostante tutto, però, si ritrovò a sperare che in realtà lui
continuasse a chiederglielo perché almeno un po' gli interessava.
«Richard»
sospirò infine. «Si chiama Richard.»
Si
scoprì a sorridere al pensiero del ragazzo, del caffè bevuto insieme e della
loro conversazione, al punto da non accorgersi del fatto che Sherlock era
diventato improvvisamente serio al solo sentire quel nome. Non avrebbe potuto sospettarne
l’esatto motivo, non in quel momento, perciò quando lo guardò e lo trovò lì,
pensieroso, si disse che la cosa, come aveva creduto, non gli interessava
affatto.
«Comunque,»
disse, cambiando argomento, «c'era questa sotto la porta. È indirizzata a te,
sospetto siano auguri di natale. Da un’ammiratrice, probabilmente» concluse,
sorniona.
Allungò
a Sherlock una piccola busta in carta marrone, chiusa con un sigillo in ceralacca
rossa. Non vi era scritto alcun indirizzo, se non il nome del detective con
precisa calligrafia e inchiostro blu.
L’uomo
afferrò la piccola busta che Emily gli stava tendendo, accigliandosi
ulteriormente. Appena l’ebbe fra le mani la osservò attentamente in ogni sua
angolazione, facendosi aiutare dalla luce affinché ogni possibile segreto
racchiuso sulla carta potesse affiorare.
La
ragazza si accorse dell’improvviso cambiamento di Sherlock. Da annoiato che era
si era fatto improvvisamente taciturno, concentrato, addirittura cupo.
«Qualcosa
non va?» gli chiese infine, improvvisamente preoccupata.
Lui
si voltò a guardarla. Teneva ancora la busta in carta fra entrambe le mani,
come se fosse vitale. Lei portò istintivamente gli occhi su di essa,
costringendo il suo cervello a lavorare. Doveva esserci qualcosa in essa, anche
solo un collegamento, qualcosa di infinitesimale ma ugualmente in grado di far
scattare la mente del detective al punto di fargli recepire un messaggio
impossibile da comprendere per chiunque altro. Emily continuò a fissare con
insistenza quella busta, sentendo sempre lo sguardo vigile e serio di Sherlock
su di sé.
Come
se avesse letto nella mente della ragazza, all’improvviso l’uomo strinse con
forza maggiore la busta marrone e lo fece nel momento esatto in cui lei capì
quando Sherlock Holmes e John Watson avevano già incrociato qualcosa di simile.
Pioveva.
Il cielo sembrava essere la perfetta fotocopia di quello che aveva accolto
Emily il primo giorno al suo arrivo a Londra. Era come venir trasportati
indietro nel tempo: la pioggia copiosa, il frettoloso via e vai delle persone,
la stazione metropolitana di Baker Street, l’ombrello giallo sopra la testa.
Emily si sentiva quasi strana a camminare in quel déjà-vu, se non fosse stato
per il fatto che era ben consapevole che in realtà era tutto diverso rispetto a
quella prima volta.
Camminando
a passo sicuro, facendosi largo come era ormai diventata abitudine, la ragazza
risalì Baker Street in fretta, raggiungendo il civico n° 221B. Si fermò di
colpo, davanti all’ingresso, sentendosi emozionata. Non tornava in quella casa
da due settimane e le era mancata moltissimo. Aveva trascorso un piacevole
natale con la propria famiglia, capodanno con la sua ristretta cerchia di
amici, tuttavia non aveva smesso di pensare per un solo giorno a quello che
aveva lasciato a Londra, a quella casa.
Aprì
la porta d’ingresso raggiante ed entrò, chiudendo l’ombrello.
Mrs.
Hudson si affacciò e appena la vide la raggiunse per salutarla.
«Ben
tornata, cara» le disse.
Emily
l’abbracciò istintivamente. Non riusciva a capire bene nemmeno lei il perché di
tutta quella sua felicità, fatto sta che non riusciva a tenerla a freno.
«Come
sta Mrs. Hudson? È successo qualcosa durante la mia assenza?» le chiese.
La
donna si strinse nelle spalle, preparandosi a rispondere. Alla fine, però,
pensò fosse meglio invitare la ragazza in casa per un tè, come usava sempre
fare.
Davanti
a una tazza di Earl Grey fumante sia Emily che la padrona di casa si
raccontarono a vicenda quelle che erano le novità delle ultime due settimane.
In quel lasso di tempo non era successo molto a Baker Street e fu semplice per
la ragazza capire che, con tutta probabilità, ciò significava anche
ricongiungersi con uno Sherlock Holmes sull’orlo di una crisi.
Terminato
il tè e i convenevoli, Emily si avviò verso il primo piano dell’edificio,
quella che sentiva a tutti gli effetti come una casa. Si trascinò lungo le
scale il piccolo trolley in cui aveva stipato quanti più vestiti possibili e
raggiunta la porta che dava sul soggiorno, l’aprì sorridendo.
Dentro,
tuttavia, non trovò nessuno. Controllò l’orario; erano le dieci del mattino,
c’erano buone possibilità che Sherlock fosse in giro, eppure le sembrò strano
non trovarlo lì, magari a sedere sulla sua poltrona a pizzicare annoiato le
corde del violino, oppure a fissare intensamente un punto guardando, in realtà,
ben al di là di esso.
«Sherlock»
provò a chiamarlo.
Non
ricevette risposta e questo le bastò per convincersi del fatto che il detective
non fosse in casa. Istintivamente guardò la parete alla destra dell’ingresso,
trovandola spoglia. Ciò significava che Mrs. Hudson aveva ragione, ovvero che
nessun caso interessante era stato sottoposto al suo coinquilino. Si mosse nel
soggiorno osservando attentamente intorno a sé, alla ricerca di qualcosa di
diverso, inatteso. Sopra al camino tutta una serie di carte era, come da
abitudine, infilzata da un lungo coltello a serramanico, da cui alcuni fogli
pendevano oltre il bordo del ripiano. Fra quelle carte miste la ragazza
individuò la busta marrone che aveva dato a Sherlock il giorno prima della sua
partenza, quella che aveva trovato sotto la porta e che aveva ingenuamente
scambiato per la lettera di qualche ammiratrice. Era lievemente sorpresa di
vedere che il detective l’aveva tenuta, più che altro perché, nonostante quello
che avrebbe potuto racchiudere, poteva essere stato solo uno strano scherzo.
Si
avvicinò ulteriormente al camino e toccò il lembo della busta che sporgeva
oltre la mensola.
Carte
di cioccolatini e briciole di pane; quello era il contenuto della busta, un
contenuto che appena lei e Sherlock avevano avuto modo di vedere li aveva
immediatamente catapultati indietro, a un’avventura che Sherlock aveva vinto e
che Emily aveva vissuto perfettamente grazie alle parole di John Watson: Le cascate di Reichenbach.
Avrebbe
voluto rimanere con il detective per andare maggiormente a fondo sulla
situazione, dato che il modo in cui l'uomo si era irrigidito alla vista della
busta prima e del suo contenuto poi, le avevano fatto intendere che, forse, la
cosa non andava presa con eccessiva leggerezza. Tuttavia aveva un biglietto per
Newport il mattino successivo e per tale motivo era dovuta partire.
Ora
trovare quella stessa busta ancora presente nella casa, in mezzo all'insieme di
carte che componeva la serie di "lavori in sospeso" di Sherlock le
fece intendere che, con molta probabilità, lui stava continuando a pensare a
tutta quella situazione e che – e la cosa era bene nonescludere assolutamente – c'erano buone
possibilità che lui avesse già formulato molteplici scenari, fra cui si poteva
celare anche quello esatto.
Tuttavia
non avrebbe ottenuto risposte da sola. Se voleva sperare di sapere cosa pensava
il suo coinquilino di quella storia doveva prima incontrarlo e di lui non c'era
traccia nella casa.
Andò
in camera sua per risistemare le proprie cose, optando anche per farsi una
doccia. Liberò il trolley dei vestiti, li mise al posto giusto, dopodiché
afferrò qualche abito e tornò di sotto. Mentre scendeva le scale sentì il
telefono trillare, la nota suoneria di un messaggio e lo andò a prendere nella
speranza che si trattasse di Sherlock. Non si erano sentiti molto in quel lasso
si tempo, per lo più perché lui rispondeva di rado ai suoi messaggi e, se lo
faceva, era vago, incomprensibile e sintetico. Aveva sentito molto di più John,
che spesso rispondeva proprio a nome dell'amico.
Appena
ebbe il telefono in mano Emily si accorse che il messaggio non era di Sherlock,
ma di Richard e si trovò istintivamente a sorridere.
Loro
due si erano scritti sempre più spesso a seguito del loro ultimo incontro in
caffetteria dove si erano conosciuti a tutti gli effetti. Da quel giorno
avevano cominciato a scambiarsi brevi messaggi, fino a sentirsi con frequenza
maggiore ogni giorno. Tutta quella situazione stava generando dentro Emily un
piacevolissimo stato e l'aveva convinta del fatto che il ragazzo fosse
seriamente interessato a lei; non solo, Richard le piaceva molto. In solo due
settimane si era ritrovata a pensarlo spesso e a scrivergli molte volte per
prima.
Sei rientrata a Londra?
Emily
rispose di sì, dopodiché domandò a Richard come stava per avere una valida
scusa e cominciare una nuova conversazione. A ogni modo non attese impaziente
la risposta, ma si diresse verso il bagno così da concedersi una doccia prima
del rientro di Sherlock, con cui aveva una voglia matta di trascorrere del
tempo.
Si
infilò sotto la doccia non appena il getto divenne caldo, lasciando l'acqua
libera di scorrere lungo il suo corpo.
Era
tornata a Baker Street. Non riusciva a credere che una semplice casa le potesse
mancare a tal punto, sebbene fosse chiaro che quello che le era mancato tanto
non fosse stata la casa, ma chi vi era dentro. Da quanto era scesa alla
stazione di Paddington, per poi andare a prendere la
metropolitana per arrivare lì, non aveva potuto fare a meno di sorridere al
pensiero di rivedere Sherlock, John e tutti gli altri. Non ne capiva
esattamente il motivo, ma tutto ciò che ruotava attorno a Baker Street la
faceva sentire speciale, come se a lei fosse dedicato un onore che nessun altro
aveva.
Mentre
si insaponava la porta del bagno si aprì all'improvviso. Sebbene fosse dietro
la tendina della doccia si coprì istintivamente le zone più intime, sorpresa.
«Ciao
Emi» fu la voce che riempì il piccolo bagno a seguito di quella invasione.
Fu
inevitabile, per la ragazza, sentirsi ancora più in imbarazzo. Sherlock era
atipico, lo sapeva, ma non si era mai spinto fino a quel punto.
«Sherlock,
maledizione!» esclamò esasperata. «Mi sto facendo la doccia, sei impazzito?»
Il
tono disinvolto con cui l'uomo le rispose ricordarono a Emily le cose più
esasperanti che le erano accadute dalla prima volta che aveva messo piede nella
casa.
«Suvvia,
credi che non abbia mai visto il corpo di una donna? E poi non sto nemmeno
guardando.»
La
ragazza tentò di sbirciare appena, cercando di interpretare la sagoma del
detective da oltre la tendina. In effetti le parve essere di spalle, fermo
davanti allo specchio.
Lui
non proferì altra parola.
«Senti,
questo è il tuo modo di darmi il bentornata?» chiese, decisamente poco convinta
della cosa.
«No»
replicò monosillabico lui. «Lestrade mi ha sottoposto qualcosa di interessante
e voglio che tu venga. Ci troviamo lì fra mezz'ora.»
Se
ne andò senza aspettare una risposta, richiudendosi la porta alle spalle.
Emily, ancora interdetta per l’improvvisata del detective non riuscì a fermarlo
in tempo per ricordargli che se voleva che lo raggiungesse da Lestrade doveva
anche dirle dove si trovava l’ispettore.
Scostò la tendina della doccia titubante, accertandosi prima di essere
effettivamente sola nella stanza.
Un
sorriso divertito le uscì spontaneo quando si accorse che Sherlock era stato un
passo avanti a lei ancora una volta. Sullo specchio, dove il vapore dell’acqua
calda si era depositato, con evidente sicurezza era scritto un indirizzo: il
luogo dell’appuntamento.
*
John
Watson era fermo immobile accanto all’amico. Osservava a tratti il profilo di
Sherlock, il cielo che si stava rischiarando lentamente, poi l’orario e di
nuovo Sherlock. Quest’ultimo lo aveva informato che sarebbero entrati nel
vecchio stabile solo dopo l’arrivo di Emily, che sarebbe giunta a breve.Dopo il ritorno in scena del detective sul
luogo del ritrovamento del cadavere avevano atteso una quindicina di minuti, in
silenzio.
«Sei
sicuro che Emily stia arrivando?» domandò di punto in bianco il medico.
«Naturalmente»
rispose asciutto l’altro, gli occhi fissi sull’ingresso al cortile della
struttura.
«Le
hai dato solo mezz’ora» gli fece notare.
Sherlock
non replicò subito. Continuò a guardare avanti finché, a un certo punto, guardò
l’orologio e sorrise, soddisfatto. Dal cancello la sagoma di Emily si
avvicinava via via, facendosi più grande e definita. I capelli rossi risaltavano
sul cielo ancora in gran parte grigio, l’ombrello giallo ben saldo nella mano
destra.
«I
mezzi pubblici londinesi sono molto puntuali, John. Oltretutto Emily è più
veloce di tante altre a prepararsi.»
Detto
ciò si avviò verso l’interno dell’edificio, lasciando John in attesa della
ragazza. Quando questa lo raggiunse sorrise in direzione del medico e lo
abbracciò come si abbraccia un vecchio amico.
«Sono
molto felice di rivederti» gli disse, trattenendosi dal rivelargli che le era
mancato.
John
rispose allo stesso modo, chiedendole come avesse trascorso le festività.
Con
quei brevi convenevoli – decisamente piacevoli per Emily in compagnia del
medico – entrarono dentro il vecchio capannone dove Lestrade e la scientifica
stavano lavorando.
«Sai
già di cosa si tratta?» domandò Emily, camminando al fianco di John.
Quest’ultimo
scosse la testa. «Solo Sherlock lo sa.»
Più
o meno al centro dell’ampia sala di quella vecchia fabbrica in disuso un novero
di uomini era intento a prendere misure, scattare foto e conversare. Grosse
lampade erano appoggiate al terreno, i fari fissi su un unico punto, al loro
incrocio esatto. Gli uomini della scientifica, con la loro caratteristica
divisa bianca, si muovevano sicuri intorno a un corpo disteso a terra, parendo
alieni approdati con un intento ben preciso. Leggermente distanti da quel
gruppo di persone c’erano due figure note, entrambe ferme in piedi, sicure, i
cappotti lunghi e scuri a dar loro un’aria austera.
Emily
sentì l’eccitazione crescerle dentro alla vista di quella scena, degli esperti,
dell’atmosfera, di Sherlock e Lestrade concentrati a parlare. Per molti poteva
essere strano provare simili emozioni in una circostanza del genere, ma per lei
non lo era affatto. Da quel punto di vista lei e Sherlock Holmes si
assomigliavano.
Lestrade
si accorse della ragazza e di John mentre i due si avvicinavano. Fece un cenno
in direzione del medico e salutò Emily da vero gentiluomo.
«Posso
chiederle di che si tratta, ispettore?» domandò lei al termine dei convenevoli
di rito.
Lestrade
sorrise, lanciò un’occhiata al detective e tornò a guardare la ragazza. «Un
morto affogato» disse con semplicità.
Emily
guardò istintivamente l’ambiente. Il capannone in cui si trovavano era nella
parte di Londra più distante dal Tamigi, perciò escluse subito la possibilità
che il fiume fosse in qualche modo implicato. La struttura era abbandonata da
tempo – come il suo essere fatiscente testimoniava bene – e le parve
improbabile che l’acqua fosse ancora collegata per consentire a qualcuno di
riempire una vasca e affogarci dentro una persona; oltretutto il punto in cui
si trovava il cadavere era decisamente isolato da qualsiasi cosa.
«Affogato?»
mormorò incerta.
Non
si accorse dello sguardo di Sherlock, né di quello di Lestrade, che, provando
simpatia per la ragazza, trovava sempre semplice coinvolgerla. Si permetteva di
farlo soprattutto perché Sherlock stesso gli aveva detto che poteva, sebbene
glielo avesse confessato per vie traverse e facendogli intuire che non voleva
fosse reso noto ad altri.
«Mi
permetto di correggerti Gerard» si intromise Sherlock.
«Greg.»
Il
detective non diede peso alla correzione di Emily; Lestrade invece parve
gradirla particolarmente.
«Non
c'è ancora l'effettiva certezza che la causa del decesso sia dovuta ad
annegamento. Lo si sospetta perché il corpo del malcapitato lo lascia credere.»
«Sì,
corretto» confermò l'ispettore, leggermente indispettito dal perfezionismo di
Sherlock. Sebbene ormai sentiva che il detective fosse suo amico gli capitava
ancora di venire esasperato dall'eccessiva conoscenza che spesso ostentava.
«Come
Sherlock ci tiene a precisare» riprese poi parola l'ispettore, rivolgendosi non
solo a Emily ma anche a John, «l'esatta causa del decesso non è stata ancora confermata,
sebbene la scientifica sia abbastanza unanime nel sostenere che, date le
condizioni del corpo, l'annegamento sia l’opzione più probabile.»
Sherlock
si esibì in un'espressione tronfia alle ultime parole di Lestrade.
John
guardò l'ambiente, il pavimento dell'ampia struttura rotto in più punti, in
corrispondenza dei quali erba e terra stavano tornando a spuntare.
«È
difficile credere che possa essere affogato in un posto simile» disse dopo aver
analizzato l'area a sufficienza.
«Non
rimane che scoprire se le cose sono andate effettivamente così» affermò poi
Sherlock. Non attese nessuna reazione da parte dei presenti; si incamminò in
direzione del cadavere, il colletto del cappotto nero sollevato e il passo di
chi sapeva esattamente cosa cercare.
*
Tutta
la possibile euforia di Sherlock Holmes si era esaurita intorno alle tre del
pomeriggio. Verso quell’ora il detective si era alzato dalla poltrona, aveva
attraversato l’ingresso ed era uscito dal 221B, lasciando Emily in casa da
sola.
Il
sospetto annegamento che Lestrade aveva sottoposto a Sherlock gli aveva dato,
subito, quella carica che contraddistingueva il detective quando era alle prese
con qualcosa di molto interessante e in grado di azionare quanti più ricettori
presenti nella sua mente. Tuttavia proprio per tale motivo era stato in grado
di analizzare la situazione e individuare le risposte invisibili ai molti in
breve tempo. Emily aveva cercato di studiarlo al meglio mentre lui riconosceva
dei leggeri segni sul collo – resi meno percepibili a causa del rigonfiamento
del corpo – che lo portarono a ipotizzare una morte da strangolamento per mezzo
di qualcosa di molto simile a una corda. Oppure mentre notava che da una delle
grandi porte della struttura, fino al cadavere, la terra e l’erba erano state
smosse da qualcosa, poiché gli steli verdi erano piegati, come soffiati con
violenza.
Sherlock
era arrivato alla conclusione che l’uomo era probabilmente stato ucciso
strangolato, che il corpo era stato lasciato per giorni all’aperto, forse nel
cassone di un camion – come aveva sospettato trovando piccole tracce di ruggine
in diversi punti – dove l’acqua aveva avuto modo di sommergerlo – può darsi
anche aggiunta dal colpevole – e che infine, sempre all’interno del cassone era
stato portato fino a quella fabbrica dismessa, dove il contenuto era poi stato
svuotato a terra senza ritegno. Il detective sosteneva che la cosa era in grado
di motivare tutto. La massa d’acqua presente sul camion aveva spostato la terra
e piegato l’erba, oltre ad aver trascinato il corpo del malcapitato nel punto
in cui era stato ritrovato. Non solo, aveva anche rinvenuto dei solchi da
pneumatico in alcuni punti dove l’asfalto aveva ceduto il passo alla terra a
ulteriore supporto della sua ricostruzione.
Davanti
all’incredulità generale aveva sostenuto talmente bene la sua teoria che
nessuno era stato in grado di ribattere in alcun modo e Lestrade aveva
convenuto con lui che, come al solito, la sua ipotesi poteva funzionare. Aveva
comunicato in centrale di iniziare a cercare un camion che potesse essere
passato in quella zona prima ancora di sapere se, effettivamente, ciò che
Sherlock aveva immaginato fosse confermabile dai risultati delle analisi.
Terminato
di esporre la propria teoria il detective aveva stretto a sé il cappotto e
aveva annunciato che sarebbe rientrato a casa, seguito a breve distanza da John
e Emily, che avevano prima salutato Lestrade e poi si erano incamminati. John
era andato alla clinica dove Mary si trovava al lavoro – passando prima a recuperare
la figlia dalla babysitter – mentre la ragazza era rincasata, trascorrendo solo
pochi minuti in compagnia di Sherlock prima che questo si avviasse fuori dal
221B senza dare informazioni aggiuntive riguardo al luogo in cui era diretto.
Dal
momento che Emily era ormai a conoscenza di quel genere di comportamenti non ne
era rimasta né sorpresa, né infastidita. Aveva capito ben prima del suo ritorno
a Newport per le vacanze che Sherlock stava soffrendo di una sorta di astinenza
da casi intriganti al punto da riversare spesso il suo bisogno di indagare su
di lei, analizzandola a fondo ogni volta che rientrava in casa. Proprio per
questo riuscì a immaginare che il detective – in un primo momento chiaramente
eccitato per il nuovo e, probabilmente avvincente, caso – era in realtà rimasto
deluso nello scoprire che quello che poteva apparire un intrigante mistero era
invece qualcosa che aveva trovato subito una spiegazione e in modo, per lui,
fin troppo semplice. Era già accaduto in più occasioni e ogni volta Sherlock si
era comportato all'incirca in quello stesso modo. Tuttavia per Emily era
comunque interessante vedere i suoi comportamenti in simili circostanze, perché
le avevano permesso di capire che uno come lui necessitava di stimoli continui,
stimoli, però, di un certo spessore.
Stava
appuntando distrattamente quei pensieri sul proprio portatile, chiedendosi
anche quale fosse il comportamento di Sherlock una volta raggiunto il limite di
sopportabilità per la mancanza di sproni, quando il suo cellulare trillò allegramente.
Lo afferrò sperando che si trattasse del coinquilino, ma si rese conto che era
un nuovo messaggio da parte di Richard. Troppo presa dall’indagine di Sherlock
si era dimenticata di rispondere al suo ultimo messaggio e lui le aveva appena
chiesto se fosse tutto a posto.
Si
misero a scriversi, conversando del più e del meno, finché a un tratto la porta
di casa si aprì. La ragazza tese l’orecchio per individuare chi potesse essere
entrato – anche considerando che erano le sei del pomeriggio e Sherlock mancava
da ore – e sentì la voce di Mary. Subito dopo i coniugi Watson entrarono nel
soggiorno, la piccola stretta fra le braccia del padre.
«Ciao»
li salutò Emily, abbandonando il portatile sul tavolino.
La
donna la salutò di rimando, mentre John, dopo essersi guardato intorno, chiese:
«Dov’è Sherlock?»
«È
uscito poco dopo le tre. Non ho idea di dove sia.»
Il
medico annuì distrattamente, sedendosi alla sua poltrona.
«Volete
qualcosa?» domandò Emily.
«Oh
no, grazie cara» rispose Mary.
I
tre rimasero in silenzio per diversi secondi, sovrappensiero.
«Sapete
cos’ha Sherlock?» chiese infine Emily.
John
la guardò. «In che senso?»
«Beh,
è da prima che io partissi che è più irascibile del solito.»
«Quello
è semplicemente dovuto al fatto che non ha fra le mani qualcosa di avvincente
da un po’. È normale» cercò di tranquillizzarla Mary.
«E
se ci fosse altro? Insomma, io sto ancora pensando a Walker e Horvat. E poi c’è
quella busta, quella che gli hanno recapitato prima di natale. È tutto così
strano» ammise dopo un momento di silenzio la ragazza.
«Quale
busta?» volle subito sapere John.
Emily
lo guardò, sorpresa. «Sherlock non te ne ha parlato?»
«Non
che mi risulti» rispose, mascherando a stento una nota infastidita.
La
ragazza si alzò dal divano, raggiungendo il camino con pochi passi. Lì afferrò
la busta marrone ancora infilzata sotto il coltello a serramanico e la portò al
medico, lascandogliela in mano e prendendo lei in braccio la bambina. Anche
Mary si avvicinò a John e guardò la busta con espressione dubbiosa. Lei, forse,
non sapeva cosa potesse rappresentare quel normalissimo oggetto, ma Emily
sapeva che la cosa non poteva valere per John. Quest’ultimo, infatti, rigirò
fra le mani la carta, guardandola attentamente, soffermando la sua attenzione
sul sigillo di ceralacca.
«Cosa
c’era dentro?» domandò.
«Carte
di cioccolatini e briciole di pane.»
John
si irrigidì. Tornò a guardare Emily che rispose al suo sguardo, facendosi
preoccupata.
«Potreste
spiegare anche a me perché questa cosa sembra allarmarvi tanto?» domandò infine
Mary, attirando l'attenzione dei due su di sé.
John
le raccontò tutto, Le cascate di Reichenbach.. Mary conosceva la storia, ma lei non
aveva collegato così chiaramente la busta da poco ricevuta da Sherlock con
quelle che Moriarty gli aveva fatto trovare durante quel caso.
I
tre passarono l'ora successiva a interrogarsi sulla situazione; a chiedersi se,
e quanto, bisognasse preoccuparsi e a motivare il perchè la nemesi di Sherlock
non potesse essere coinvolta – la sua morte era la giustificazione maggiore.
Tuttavia più ne parlavano fra di loro più Emily sentiva che c'era qualcosa di
sospetto, come se qualcuno di molto preparato e che sapeva esattamente come
muoversi, stesse realizzando una specie di grande minaccia ai danni di
Sherlock. Proprio per questo motivo il fatto che in quel periodo il detective
fosse tanto instabile, irascibile e rimanesse solo per così a lungo non la
faceva assolutamente stare tranquilla.
«Credete
che Sherlock sospetti qualcosa a riguardo?» chiese infine Emily,
sovrappensiero.
Mary
la guardò e le sorrise, dolcemente. «Penso proprio di sì, lo conosco. Se sotto
c'è qualcosa saprà scoprire cosa, a meno che non l’abbia già fatto.»
Emily
annuì leggermente, solo in parte rinfrancata dalle sue parole. Non riusciva più
a zittire una strana voce dentro di sé, qualcosa che continuava a ripeterle che
c'era molto di più di quanto apparisse in superficie e che, qualunque cosa fosse,
li aveva ormai condotti a sé.
«Piuttosto,»
prese poi parola Mary, rivolgendosi a Emily. Quest'ultima si ridestò dai suoi
pensieri e guardò la donna che ricominciò: «vuoi dirmi come si chiama?»
La
ragazza rimase fortemente sorpresa nel capire che Mary aveva intuito che c'era
un "qualcuno" in grado di distrarla anche in una simile circostanza.
Era sicura che la donna avesse intuito la cosa perché lei non era stata in
grado di resistere alla tentazione di rispondere immediatamente ai messaggi di Richard.
Non solo Mary era capace e intelligente, ma era anche una donna e una simile circostanza
non poteva certo esserle sfuggita.
«Come
si chiama chi?» si intromise John, perplesso.
Mary
lo guardò. «Lascia perdere» lo ignorò subito. «Allora, Emi?»
Per
la ragazza fu inevitabile sorridere davanti al volto desideroso di informazioni
della donna, così come le riuscì complicato trattenere quel sorriso ostinato
che le si riproponeva ogni qualvolta pensava o parlava di Richard. Non le era
mai capitato di invaghirsi tanto in fretta di un ragazzo, ma lui le sembrava
diverso da qualsiasi altro.
Tornò
a sistemare la busta marrone sul camino, trafiggendola nuovamente con il grosso
coltello a serramanico. Dopodiché tornò a sedersi e si decise a raccontare la
storia a Mary e John, accantonando per un momento la sua preoccupazione per
Sherlock.
Nelle
tre settimane successive all'ultimo caso interessante sottoposto da Lestrade a
Sherlock – quello del presunto morto affogato rinvenuto nel vecchio capannone –
l'umore del detective era sceso ulteriormente. Nell'arco del giorno si muoveva
nervosamente per casa, parendo un leone chiuso in una gabbia troppo stretta,
oppure suonava il violino per brevi istanti, osservando fuori dalla finestra
con sguardo infastidito, come se ci fosse qualcosa di snervante proprio sotto
casa. Negli ultimi giorni, poi, aveva anche cominciato a stare fuori di casa
per ore, senza annunciare né dove andava, né chi incontrava.
Davanti
al suo atteggiamento Emily – che nel mentre continuava a seguire le lezioni del
master e a lavorare al suo scritto – si faceva via via più preoccupata.
Sospettava che ci fosse altro oltre alla mancanza di casi interessanti che
stava provocando un simile stato d'animo al proprio coinquilino e sentiva che
non si trattava di un bene. Quando aveva riferito le sue preoccupazioni a John,
il medico le aveva detto che anche secondo lui c'era sotto qualcosa e le aveva
promesso con un sorriso che avrebbe fatto il possibile per scoprire di cosa si
trattasse.
Consapevole
che John poteva essere di vero aiuto all'amico, Emily si era quindi rilassata e
aveva trascorso gli ultimi due giorni concentrandosi interamente sul proprio
lavoro, facendo il possibile per ignorare la preoccupazione che le ore di
assenza di Sherlock le procuravano.
Ogni
sera, prima di prendere sonno, rimaneva in ascolto per cercare di percepire i
rumori dell’uomo al piano inferiore, mentre la sua mente vagava alla ricerca di
possibili spiegazioni per il suo comportamento. Pensava a ogni cosa possibile:
all'omicidio di Walker, a quello di Horvat, alla busta con le carte di
cioccolatini e le briciole di pane. Quei tre elementi erano gli unici a cui
Sherlock ancora non aveva dato la giusta collocazione e lei sentiva che dietro
di essi si racchiudeva qualcosa di ben più ampio. Il detective una volta le
aveva detto che l'assassino “sta cercando di dirci qualcosa" e forse tutto
ciò faceva parte del messaggio rivolto a Sherlock dal killer. Tuttavia lei non
riusciva a trovare un nesso sensato fra quegli elementi.
Era
probabile che, a differenza di lei, il detective invece ci fosse riuscito, ma
per il momento non le stava dando quell'idea. L'unica cosadi cui era certa in tutta quella situazione
era che non riusciva a togliersi dalla mente il fatto che – in qualche modo a dir poco assurdo – Moriarty
vi fosse coinvolto.
Era
seduta al tavolo della cucina quando, all’una di un nuovo sabato pomeriggio, il
suo cervello rimuginava ancora su quella faccenda, impedendole di concentrarsi
a dovere sul suo lavoro. Le sembrava di essere seduta a un campo di battaglia;
fra il caos tipico mai sistemato da parte del detective e tutta la serie di
libri e dispense che lei aveva ammonticchiato nel poco spazio libero, non c'era
più un solo centimetro visibile della superficie del piano.
Guardò
distrattamente ciò che aveva davanti. La sua mente era scostante da ore;
faticava a rimanere concentrata su un'unica cosa per un tempo sufficiente e di
tutto quello che aveva scritto da quando era davanti al portatile aveva tenuto
ben poco, cancellato e riscritto innumerevoli volte. L'unico pensiero che le
riempiva la testa e le impediva di focalizzare la concentrazione su altro, in
quel momento, era Sherlock Holmes e il suo stato d'animo attuale, così palese
eppure totalmente indecifrabile.
Alla
fine, consapevole che non sarebbe stata in grado di scrivere una sola riga in
più, si alzò da tavola e prese fra le braccia tutte le sue cose, riportandole
in camera. Nella stanza non fu in grado di ignorare a lungo i morsi della fame
tanto che decise di uscire per andare a comprare qualcosa. Il frigorifero al
piano inferiore era desolatamente vuoto, occupato solo da misteriose fialette e
vetrini pieni di organismi colorati collezionati da Sherlock. Era consapevole
di quanto fosse pericoloso afferrare qualcosa da lì dentro e preferì non
rischiare. Optò per la tavola calda che c'era sotto casa e che faceva ottimi
sandwich.
Tornò
in soggiorno dopo aver messo sterline a sufficienza nel proprio portafoglio e
quando entrò nella stanza trovò Sherlock nella stessa posizione in cui era
fermo da ore: sdraiato sul divano, gli occhi celesti fissi al soffitto, le mani
congiunte adagiate alle labbra. Proprio per via della sua alta figura distesa
Emily si era vista costretta a studiare in cucina, in mezzo al caos, anziché
poter stare accoccolata comodamente sul divano come faceva ogni giorno.
Rimase
a guardare il detective a lungo, in silenzio, mentre i suoni di Londra
entravano ovattati dalle finestre, unendosi al rumore di stoviglie
nell'appartamento di Mrs. Hudson. Rimuginò sul da farsi per altri secondi,
finché non si rianimò, decidendo di invitare Sherlock a mangiare qualcosa
insieme a lei. Per quanto lui fosse sociopatico non poteva continuare in quel
modo, ignorando lei e ciò che c'era al di fuori di quel soggiorno. Per via del
lavoro e della vita genitoriale John non riusciva a passare spesso al 221B ed
Emily sentiva che avrebbe fatto bene a tentare di risollevare da sola il morale
di Sherlock in qualche modo. Sapeva non sarebbe stato semplice – si trattava
pur sempre di un personaggio unico nel suo genere – ma determinazione e
cocciutaggine erano sufficientemente radicati nel suo DNA da farla provare
ugualmente.
«Sherlock»
lo chiamò. Attese una risposta, ma l'uomo pareva non averla sentita.
Emily
gli diede tempo per riflettere, andò a infilarsi il cappotto e,
dall'attaccapanni, prese anche quello del detective, dopodiché tornò da lui.
«Sherlock
che ne diresti di andare a mangiare qualcosa?» tentò nuovamente, alzando anche
il tono della voce.
Di
nuovo l'uomo non si scompose, continuando a fissare il soffitto anche mentre
rispondeva: «Non ho fame» in modo asciutto.
«Oh
andiamo. Non tocchi cibo da ieri a pranzo. Devi mangiare qualcosa.»
«Non
hai altro di meglio da fare che disturbarmi? Sto pensando» la bacchettò,
allontanando le mani dalle labbra e allargandole in un gesto di stizza.
«Non
sei nel tuo Palazzo mentale. Ormai capisco quando ci sei» sottolineò di tutta
risposta la ragazza, servendosi dello stesso tono ovvio spesso usato da
Sherlock.
«Il
mio cervello pensa in continuazione.»
«D'accordo.
Fatto sta che quando non sei nel tuo Palazzo mentale posso disturbarti.»
A
quelle ultime parole il detective si voltò a guardarla, infastidito. Si trovò
davanti Emily che gli tendeva il cappotto, mentre lei era già ben fasciata nel
suo.
«Scendiamo
a prendere un sandwich. Prometto che non ti costringerò a interagire con le
persone e che ascolterò ogni tua possibile frecciatina.»
Lui
continuò a guardarla senza dire nulla.
«Ti
prego, Sherlock. Sono giorni che non facciamo qualcosa insieme.»
«É
stato John a dirti di farlo, vero? A dirti di insistere tanto.»
Di
tutta risposta la ragazza scosse la testa. «No. Lui mi ha detto che quando fai
così devo mandati al diavolo. Ma prima di farlo voglio almeno provare a vedere
se riesco a farti muovere da quel divano.»
A
quelle parole il detective aggrottò ulteriormente la fronte, senza replicare.
I
due rimasero a guardarsi ancora, in silenzio. Sherlock analizzò a lungo Emily,
facendo ragionare la sua mente come sempre, osservando anche i dettagli più
insignificanti, forse sconosciuti perfino a Emily stessa. Alla fine, però, con
sorpresa della ragazza l'uomo si alzò dal divano, sbuffando sonoramente nel compiere
quel gesto. Raggiunse Emily e afferrò il cappotto che continuava a tendergli.
A
lei parve ancora contrariato per l'iniziativa che aveva avuto il coraggio di
prendere, tuttavia le importò poco, sentendo di aver ottenuto – per quanto
insignificante – una nuova vittoria sul detective.
Sherlock
si sistemò il cappotto con un paio di gesti decisi, infine guardò Emily con
superiorità «Però paghi tu.»
Lei
sorrise, acconsentendo con il capo e avviandosi lungo le scale seguita
dall'uomo.
La
tavola calda sotto il 221B era piuttosto piena, come spesso capitava durante
l'ora di punta. I due coinquilini entrarono, prendendo posto in fila per poter
effettuare l'ordine. Mentre aspettava il suo turno Emily lanciava di tanto in
tanto brevi sguardi di sottecchi a Sherlock, tentando di interpretarlo. Era
serio, imperscrutabile; i suoi occhi chiari scrutavano severi e impassibili le
persone nel locale, mentre la sua mente lavorava come sempre a gran velocità,
elaborando più volte tutto ciò che captava. La ragazza non avrebbe potuto
sapere cosa c'era nella testa del detective in quel preciso momento, né che ciò
che lo circondava lo stava, in realtà, coinvolgendo molto più di quanto dava a
vedere.
Sherlock
era ancora perfettamente ricettivo quando lo speaker radiofonico della stazione
che tenevano sempre accesa come sottofondo nel locale annunciò il titolo della
canzone che stava per lanciare. Fra il chiacchiericcio continuo e il
disinteresse generale dei presenti probabilmente nessun altro oltre al
detective sentì le note incalzanti di Stayin’ Alive levarsi. Sentendo quella canzone Sherlock si
irrigidì ancor più di quanto già non fosse, affondando le mani nelle tasche del
cappotto e tendendo i muscoli come in attesa di un imminente attacco a
sorpresa.
Era
irrequieto; non c'era solo la canzone a rimescolargli i pensieri nella mente in
quel momento, ma anche altro. Alla sua destra, inconsapevoli di quello che
stavano scatenando nelle profondità di Sherlock Holmes, due giovani ragazzi, la
divisa della tavola calda indosso, erano chini su un grosso borsone nero,
incerti.
«Pensi
che dovremmo chiamare la polizia?» chiese uno dei due, probabilmente da poco
assunto, notò istintivamente Sherlock guardando il suo atteggiamento.
«No,
non penso. Forse qualcuno l'ha semplicemente dimenticata. Proviamo ad aprirla»
replicò l'altro, chiaramente più affascinante che intelligente.
Mentre
la canzone continuava a risuonare silenziosa ai più, ma non al detective, i due
aprirono titubanti il borsone, lanciando uno sguardo preoccupato al suo interno.
Subito dopo, uno di loro ne estrasse una bomboletta di vernice spray.
«Non
capisco,» lo sentì dire Sherlock, «è piena di bombolette gialle.»
A
quelle parole l'uomo si voltò verso di loro, ma venne subito ricondotto alla
realtà da Emily, che posò una mano sul suo braccio per ottenere la sua
attenzione.
Era
arrivato il loro turno. Dietro il bancone un giovane un po' allampanato era in
attesa, sorridente.
«Tu
cosa prendi?» gli chiese lei.
Teneva
gli occhi fissi sul menù, senza guardare in volto il proprio coinquilino. Se
invece lo avesse fatto, con tutta probabilità, si sarebbe accorta di quanto
Sherlock fosse teso in quel momento. Quel posto gli stava andando stretto, lo
rendeva nervoso e stava portando la sua mente al limite.
Guardò
Emily, che non rispose al suo sguardo, infine puntò gli occhi sul ragazzo di
servizio, facendoli scorrere rapidamente sul volto, la divisa, le mani,
guardando infine il cartellino con il suo nome: James.
Prima
ancora che il collegamento potesse scattare nella testa dell'uomo, la porta
d'ingresso nel locale si aprì; non sapeva chi l'aveva varcata, ma lo sentì bene
mentre, chiaramente rivolgendosi a qualcun altro, esclamò: «Ti sono mancato?»
Quella
fu la molla che fece scattare irrimediabilmente Sherlock. Sentì ogni muscolo
del proprio corpo, anche il più infinitesimale, irrigidirsi per la tensione.
Serrò la mascella, ispirando forte l’aria dal naso, dopodiché, con voce ferma e
severa, in grado di camuffare il suo stato d’animo attuale, sentenziò:
«Dobbiamo andarcene.»
Emily a quelle parole si volse verso di lui.
«Cosa?» domandò.
Appena incrociò lo sguardo dell’uomo capì che
qualcosa in lui non andava, ma non fu in grado di identificare quale fosse il
problema. Non era ancora così brava nel capire cosa turbasse Sherlock, sebbene avesse ugualmente capito che
qualcosa lo stava turbando.
L’uomo prese la via della porta prima ancora che
lei potesse formulare quei concetti.
«S-Sherlock» cercò di fermarlo lei, ma era già
uscito.
Emily si scusò in gran fretta con il ragazzo che
ancora attendeva il loro ordine e uscì dal locale per seguire subito il
coinquilino. Appena fu fuori notò la porta del 221B ancora aperta e capì che
Sherlock doveva essere risalito in casa. Vi entrò anche lei, salendo le scale
in fretta e raggiungendo il soggiorno. Dentro trovò il detective, fermo nella
sua alta figura, le mani fra i capelli, gli occhi chiusi. La ragazza sentì una
fitta attraversarla a quella visione e si sentì improvvisamente impotente. Ne
era certa, qualcosa in lui non andava, ma non riusciva a capire di cosa si
trattasse.
Si avvicinò incerta all’uomo, che ancora non
dava segni di averla sentita entrare.
«Sherlock» lo chiamò, piano.
Dopo alcuni secondi di silenzio, lui scattò.
Spalancò gli occhi e li puntò immediatamente in quelli della ragazza, tendendo
una mano verso di lei come a volerla allontanare.
«Esci» le disse.
Il suo tono non ammetteva repliche, così come la
severa – e quasi minacciosa – luce che aveva da poco inondato i suoi occhi
chiari.
Emily lo guardò, incredula. Non riusciva a
capire cosa gli stesse prendendo, prima di allora non le aveva mai dato un
simile ordine. Aprì bocca per parlare ma non le riuscì di dire nulla. Si guardò
intorno, incerta, infine tornò a rivolgersi al detective: «Si può sapere che ti
prende?» domandò, cercando di essere il più ferma possibile. Le riuscì complicato,
nonostante tutto. Lo scatto di Sherlock di poco prima l’aveva spaventata; non
lo aveva mai visto rivolgersi a lei in quella maniera, tanto che ogni sicurezza
che nutriva sul loro rapporto cominciò a vacillare improvvisamente.
Lui non diede minimamente peso alla domanda che
la ragazza gli aveva posto. Aggrottò la fronte come gli capitava di fare spesso
in presenza di qualcuno che lo innervosiva, infine alzò la voce: «Esci. Devo
rimanere solo!»
Emily sussultò al modo in cui Sherlock le si era
appena rivolto. Irrigidì il corpo, nervosa.
Lui continuava a osservarla, austero, in un modo
in cui non aveva mai fatto prima.
Davanti a quello sguardo Emily capì che avrebbe
fatto bene a non contraddirlo e che forse – almeno così sperava lei – Sherlock
potesse avere i suoi buoni motivi per ordinarle di uscire di casa senza
un'apparente ragione.
Si sistemò il cappotto, cercando di trovare la
sua consueta sicurezza, infine acconsentì con un gesto del capo. -«D'accordo,
ti lascio solo» disse.
L'uomo non replicò in alcun modo, rimase fermo a
seguire Emily con gli occhi mentre lei si avvicinava alle scale.
«Però, se dovessi avere bisogno di qualcosa,
fammelo sapere, ok?» domandò lei, facendo così un ultimo tentativo. Consapevole
che non avrebbe ottenuto una risposta non l'attese nemmeno; si chiuse la porta
alle spalle e scese le scale, uscendo infine dal 221B di Baker Street.
Sherlock continuò a rimanere immobile nel
soggiorno, rivolto alla porta. Sapeva che Emily non sarebbe rientrata per
pregarlo di dirle cosa c'era che non andava e non ne rimase né sorpreso né
dispiaciuto. Una delle differenze
maggiori fra lei e il suo migliore amico era che Emily capiva quando era ora di
smetterla di insistere. Tuttavia, ciò, non sempre era una buona cosa.
*
Emily aveva vagato per una buona mezz'ora prima
di decidere di chiudersi in una caffetteria e tentare di calmare i nervi con
del tè. La fame le era completamente passata e non degnò di attenzione neanche
il più invitante dei biscotti che le avevano portato insieme all'infuso.
Soffiava distrattamente sul contenuto della
tazza, guardando solo il fumo argentato che si muoveva in spirali caotiche
salendo dalla bevanda. La sua mente era da un'altra parte, in un altro tempo;
era ancora davanti a Sherlock a Baker Street, alla sua figura ferma di fronte a
lei, ferrea, all'ordine che le aveva dato e a come lo aveva fatto.
Lui non si era mai comportato a quel modo nei
suoi confronti e quel pensiero le fece male. Ripensò inevitabilmente al modo in
cui le aveva detto di andarsene, alla luce severa, addirittura minacciosa, che
aveva pervaso i suoi occhi. Non riusciva a togliersi quell'immagine da davanti,
come se la stesse vedendo ancora.
Cercò di non pensarci e fece il possibile per
cacciare tutto ciò dalla sua testa, ma non ci riuscì: più si sforzava di non
pensarci, più tutto le si ripresentava davanti inesorabilmente.
Si chiese nuovamente cosa avesse potuto
scatenare un simile atteggiamento in Sherlock e non si diede alcuna risposta
attendibile. Era convinta di conoscerlo, ormai, o perlomeno di aver capito le
situazioni che lo facevano scattare e il modo in cui queste si ripercuotevano
su di lui. Aveva capito che la mancanza di casi stimolanti lo rendeva
irrequieto, così come l'assenza di risposte certe, eppure le sembrava impossibile
che un simile fattore potesse scatenare in lui un livello di frustrazione mista
a rabbia tale da farlo esplodere contro chi non ne aveva colpa.
Si chiese anche se si fosse mai comportato così
con John e, a quel pensiero, decise di provare a chiamare il medico per potersi
confrontare con lui.
Estrasse il cellulare e cercò il numero
dell'uomo. Si scoprì delusa quando si accorse che il messaggio che le era da
poco arrivato era di Richard e non di Sherlock e lo ignorò.
Chiamò John e rimase in attesa mentre il suono
tipico dello squillo a vuoto le rimbalzava nella testa. Era tesa, nervosa;
desiderava che il medico rispondesse, sperando che lo facesse in fretta e che
le potesse consigliare cosa fare – o che le dicesse che avrebbe raggiunto
subito Baker Street.
Tuttavia gli squilli si susseguirono senza
sosta, uno dopo l'altro. Mano a mano che questi si protraevano Emily si sentiva
sempre più persa.
Allontanò il telefono dall'orecchio quando la
segreteria rispose per John e rimase a guardarne lo schermo finché questo non
diventò nero.
Cosa poteva fare?
Sherlock non voleva il suo aiuto e pareva quasi
che in quella situazione non volesse proprio averla fra i piedi. Eppure lei
voleva aiutarlo. Sentiva che Sherlock aveva bisogno di qualcuno che gli stesse
accanto in una simile situazione ed Emily si disse – con quanta più convinzione
possibile – che se John al momento non poteva aiutare né lei né il detective,
allora lei stessa avrebbe dovuto fare qualcosa.
Si alzò dal tavolino e sorseggiò in fretta un
lungo goccio di tè caldo, dopodiché abbandonò il corrispettivo in sterline
della bevanda sul tavolo – come aveva visto spesso fare nei film – si rivestì
in fretta e uscì, diretta verso casa.
Volente o nolente Sherlock si sarebbe dovuto
arrendere all'idea di avere Emily accanto, così come avrebbe dovuto accettare
il fatto che lei era intenzionata ad aiutarlo. Non gli avrebbe concesso di
cacciarla di casa una seconda volta, lo avrebbe costretto ad arrendersi al
fatto che, ormai, lei faceva parte del 221B e della sua vita.
Percorse rapidamente le vie di Londra, facendo a
ritroso il tragitto che l'aveva portata alla caffetteria. Quando svoltò in
Baker Street accelerò ulteriormente il passo, pensando mentalmente a cosa dire
in presenza di Sherlock per potersi imporre alla volontà del detective.
Si fermò solo un momento davanti all'ingresso di
casa, dove prese una lunga boccata d'aria prima di girare la chiave nella
serratura ed entrare. Mentre saliva le scale tese l'orecchio, cercando di
captare possibili rumori o movimenti dell'uomo, ma non sentì nulla finché non
arrivò davanti alla porta. Aprì quest'ultima dopo una leggera indecisione,
raggiungendo così il soggiorno.
In un primo momento la stanza le parve
completamente deserta, ma si accorse che non era affatto così. Sherlock era
disteso in terra, su un fianco, la giacca dell'abito abbandonata malamente sul
pavimento accanto a lui.
Emily si sentì gelare il sangue vedendolo così.
Capì subito che qualcosa non andava, che l'uomo non avrebbe dovuto essere lì,
immobile. Con il cuore che le batteva all'impazzata contro lo sterno cercò di
riacquistare il controllo di sé, ricacciando indietro la paura e raggiunse
subito Sherlock, inginocchiandosi accanto al suo corpo. Guardò il suo petto
alzarsi e abbassarsi seguendo il respiro dell'uomo. Si tranquillizzò appena, ma
la mano le tremava ancora quando la sollevò per posarla sulla spalla di lui.
Emily
non aveva mai provato tanta angoscia come in quel momento, inginocchiata
accanto al corpo all'apparenza incosciente di Sherlock.
Guardava
il suo volto, gli occhi chiusi, mentre la sua mano ancora posata sulla spalla
dell'uomo seguiva il lento moto del suo respiro. Per un lungo momento temette
di non rivedere mai più il limpido sguardo celeste del detective e prima di
alzarsi e chiamare un'ambulanza – o chiedere aiuto a Mrs. Hudson – fece
l'ultimo tentativo per richiamare Sherlock.
«Sherlock.
Andiamo svegliati!»
Lo
percosse maggiormente pronunciando quelle parole, alzando anche il tono della
voce. Passarono attimi che le parvero eterni, finché non sentì sotto il proprio
tatto il corpo dell'uomo scuotersi debolmente. Sherlock aprì gli occhi,
puntandoli vacui davanti a sé. Emily ai ritrasse perlasciargli spazio sufficiente affinché
potesse muoversi, rimanendo però sempre inginocchiata sul pavimento.
L'uomo
si puntellò sui gomiti, ruotò il corpo e guardò la ragazza. Non disse nulla.
Lei
rispose al suo sguardo, preoccupata. Il detective aveva gli occhi lucidi, la
fronte imperlata e sembrava completamente privo di forze. Emily lo stava
vedendo sotto una luce a lei sconosciuta.
«S-stai
bene?» gli chiese poi, incerta.
«Ti
avevo detto di lasciarmi solo» disse lui, gelido. Aveva la voce bassa e roca.
La
ragazza trattenne il fiato a quelle parole, preoccupata. Non riusciva a
capacitarsi di ciò che stava accadendo, né di come avrebbe dovuto comportarsi.
L'uomo che aveva davanti non le sembrava nemmeno lo Sherlock che aveva imparato
a conoscere.
«Volevo
solo... Ero preoccupata per te» gli rivelò, sperando che potesse servire in
qualche modo.
Lui
la guardò, austero. «Non è necessario. So badare a me stesso» replicò freddo.
Emily
era in procinto di rispondergli, dirgli che da soli non si può neanche sperare
di riuscire a risollevarsi da quell'umore nero in cui lui pareva essere
sprofondato. Tuttavia non fece in tempo. Sherlock si mosse per potersi alzare
in piedi, sollevando maggiormente il busto. In quel frangente la ragazza si
accorse di qualcosa che risplendeva leggermente alle spalle dell'uomo. Si
sporse appena, quel tanto che bastava per permetterle di identificare
l'oggetto. Era una sottile siringa da insulina, usata e vuota.
Istintivamente
tese la mano verso di essa, totalmente pervasa dalla curiosità.
Sherlock
fu più veloce di lei. Intuì subito cosa stava per fare e la fermò. Afferrò il
colletto del cappotto che la ragazza ancora indossava e l'avvicinò a sé.
«Non
toccarla» le disse.
Emily
non replicò. Spalancò gli occhi quando vide il volto del detective tanto vicino
al suo, il cuore che le batteva all'impazzata mentre viveva una situazione che
non avrebbe mai potuto immaginare.
«Cos'è?»
chiese infine, quando si fu ripresa da quel momento di shock.
Sherlock
non le rispose. Lasciò la presa dal cappotto, allontanando la ragazza e si alzò
in piedi afferrando la siringa. Emily riuscì a notare il leggero barcollare
dell'uomo nel compiere quel gesto e non le sfuggirono nemmeno il colorito
pallido della pelle e la strana tensione dei muscoli. Si alzò anche lei,
rimanendo a guardare l'uomo con crescente ed evidente preoccupazione.
«Si
può sapere che ti prende?» esplose infine, non riuscendo a trattenersi oltre.
Il modo in cui lui la stava ignorando le era insopportabile.
Sherlock
si voltò a guardarla, ma ancora una volta non disse nulla, rimanendo a fissare
Emily con intensità.
«Sto
cercando di aiutarti. O meglio, vorrei poterlo fare» proseguì lei, facendosi
forza.
«Vuoi
aiutarmi? Allora porta questo a Mycroft» rispose lui, estraendo un piccolo
bigliettino dalla tasca dei pantaloni e tendendolo sbrigativamente a Emily. «Che
dica ciò che vuole, ma non che non mantengo la parola data.»
Prendendo
il foglietto la ragazza non riuscì a resistere alla tentazione. Lo aprì con foga,
sotto agli occhi del detective, nella speranza di ottenere delle risposte sul
momentaneo stato d'animo di Sherlock.
Lesse
l'unica parola che l'uomo vi aveva annotato e si sentì mancare il fiato.
«Dimmi
che non è vero» mormorò, gli occhi spalancati per l’incredulità.
Teneva
lo sguardo sulla parola riportata su carta, a cui non voleva credere: eroina.
Si
rifiutava di concepire l'idea che Sherlock fosse arrivato a tanto, tuttavia
l'aspetto e l'atteggiamento dell'uomo – ora che ne aveva avuto conferma –
lasciavano intendere abbastanza bene che quella fosse la realtà.
«Per
quale motivo ti sei fatto questo?» esclamò Emily in direzione di Sherlock,
ancora sconvolta.
«Perché
ti dovrebbe premere tanto saperlo?» replicò lui, impassibile.
«Perché
credevo fossimo amici. O qualcosa di molto vicino all'essere amici! Potevo
aiutarti.»
«Oh.
Per favore! Non mi conosci affatto, come puoi sperare di aiutarmi?» ribatté
lui, una forte nota infastidita nel tono di voce.
«Questo
non è vero. Forse non alla perfezione, ma ti conosco ormai» insistette lei,
certa che fosse la realtà.
«Ah
sì? Io non credo proprio. Non sai cosa c'è qui dentro, non puoi capire tutto
quello che quotidianamente ho in testa!» tuonò, picchiettandosi la tempia con
l'indice. I suoi occhi celesti erano inondati di una luce furente, come lei non
aveva mai visto.
Alla
fine, in preda alla frustrazione e all'irritazione, Emily sentì un modo
formarsi in gola.
«No
invece,» urlò prima che la sua voce si rompesse definitivamente, «ora lo
capisco fin troppo bene!»
Non
attese alcuna replica. Diede le spalle al detective e si avviò in gran fretta
verso la sua stanza, salendo i gradini di corsa e sbattendosi la porta alle
spalle.
Sherlock,
sempre immobile, rimase in ascolto dei rumori che provenivano dallastanza della ragazza. La sentì camminare
avanti e indietro, finché non si fermò, con tutta certezza sedendosi sul letto.
Il
suo umore era nero, adirato e nervoso come non lo era da tempo. Abbassò gli
occhi sulla mano che stringeva la siringa e la guardò a lungo. Sentì la rabbia crescere,
mescolarsi ad altre sensazioni contrastanti dentro di sé. D'improvviso, con il
montare di un nuovo impeto di rabbia, lanciò la siringa contro la parete,
guardandola scontarsi contro la carta da parati e cadere al suolo.
*
Volendo
stare lontana dal 221B – il più lontana possibile – Emily non aveva trovato
altro posto se non il campus universitario in cui, sapeva, fra il via e vai di persone
lei e il suo stato d'animo sarebbero passati inosservati.
Sebbene
fosse sabato pomeriggio molti studenti stavano affollando la zona
universitaria, approfittando della biblioteca e delle aule studio sempre
aperte.
La
ragazza era seduta su una delle panchine del cortile interno, quella
maggiormente esposta al sole, stretta nel proprio cappotto più per la ricerca
di un conforto che per il freddo.
Dopo
la lite con Sherlock la ragazza era rimasta una buona mezz'ora nella propria
stanza, sopprimendo a fatica il desiderio di gridare per la rabbia, così come
aveva fatto il possibile per reprimere le lacrime, naturale conseguenza dello
statoin cui si trovava. Prima di
crollare definitivamente era corsa fuori di casa, scendendo le scale senza
neanche degnare il soggiorno di una veloce occhiata.
Tuttavia,
una volta essere giunta al campus e aver preso posto sulla panchina, lontano
dagli sguardi e dall'interesse delle altre persone, era crollata. Aveva
cominciato a piangere, soffocando il più possibile i singulti nel tentativo di
non attirare nessuno.
Sebbene
si fosse calmata, anche in quel momento la sua mente continuava a riproporgli
in continuazione lo screzio avvenuto con Sherlock, come un film trasmesso in loop. Rivedeva tutto in modo nitido, rivivendo ogni istante
e provando una morsa continua allo stomaco, un senso di dolore e sofferenza.
Nelle
ultime ore aveva ignorato completamente i messaggi di Richard e le telefonate
di John, così come aveva evitato di raggiungere Mycroft per dargli il biglietto
su cui il detective aveva appuntato il nome di ciò che si era iniettato in
vena.
Emily
si sentiva confusa, oltre ad avere il morale a terra. Non capiva come potesse
un uomo come Sherlock, dotato senza dubbio di un intelletto superiore,
sottoporsi volontariamente a sostanze in grado di distruggere le percezioni e
alterare la conoscenza. Ancora peggio era la consapevolezza che avesse
sottoposto il suo corpo a qualcosa che lo avrebbe potuto uccidere in qualsiasi
momento.
Ripensando
a tutto ciò si sentì nuovamente mancare. Si portò una mano alla bocca, cercando
di arrestare il tremore che aveva cominciato a scuoterle debolmente le labbra;
gli occhi tornarono a bruciarle e lei si strisce ulteriormente al proprio
corpo, tentando di resistere.
Vide
il marciapiede su cui teneva gli occhi fissi farsi via via più indefinito e
appannato; sapeva di essere sul punto di scoppiare a piangere un'altra volta,
ma qualcuno la chiamò prima che fosse troppo tardi.
«Speravo
di trovati qui.»
Emily
si voltò verso quella voce, riconoscendo la figura di Richard.
Provò
una fitta al cuore quando incrociò il suo sguardo. Richard era fermo in piedi e lo stava guardando,
tranquillo. Tuttavia in quel momento, per quanto una parte della ragazza fosse
felice – addirittura emozionata – per aver incontrato il ragazzo, non fu in
grado di mantenere gli occhi su di lui. Li fece vagare per lo spazio intorno, senza
dire nulla. Non sapeva come comportarsi, non aveva idea di che cosa poter dire
a Richard senza smascherare in alcun modo quello che era successo con Sherlock
e tutto il dolore che provava dentro di sé per com’erano appena andate le cose.
Fece il possibile per farsi forza, sperando di riuscire a nascondere tutti
quegli elementi in grado di testimoniare come si sentiva. Tuttavia sapeva che
non sarebbe stato facile e che, con tutta probabilità, non sarebbe riuscita a
nascondere assolutamente niente a Richard. Da quando lo aveva sconosciuto aveva
capito che era un ottimo osservatore, in grado di notare i dettagli.
Lui,
infatti, non ebbe troppi problemi a capire che nella ragazza qualcosa non
andava. Emily lo stavo ancora guardando quando si fece improvvisamente serio.
«Ehi,
è tutto a posto?» le chiese.
La
ragazza non poté fare meno di annuire sebbene nulla, in quel momento, stesse
andando bene.
Non
ebbe il coraggio di guardare ulteriormente negli occhi il ragazzo. Sì volto tornando
a fissare il marciapiede sotto di sé. Poco dopo sentì Richard sedersi accanto a
lei sulla panchina.
«Si
può sapere che succede?» insistette lui.
Ancora
una volta Emily non fu capace di rispondergli. Sentì nuovamente formarsi nei
suoi occhi delle lacrime, mentre la mente tornò a riproporle la lite con
Sherlock.
«Va
tutto bene» disse infine, la voce leggermente incrinata. «Ho soltanto avuto una
piccola lite con il mio coinquilino. Niente di grave, è solo che non era mai
successo prima» mentì.
Sapeva
che quella non era la realtà e che la lite con Sherlock era avvenuta per motivi
seri. Tuttavia una parte di sé sentiva che raccontare a Richard com’erano
andate le cose non era la soluzione migliore. Sebbene quel ragazzo le piacesse
e lei si fidasse di lui, qualcosa dentro le diceva che era meglio non
raccontare della sua convivenza con Sherlock, così come della situazione che
l'aveva portato a rovinarsi con le sue mani solo poche ore prima. Si trattava
di faccende troppo personali, di qualcosa che lei sentiva suo e di cui, forse,
era troppo gelosa per volerlo condividere con altri. Nonostante la lite con il
detective, Emily era ancora profondamente legata a lui e sebbene lo screzio
l'avesse ferita rimaneva il fatto che la ragazza non riusciva a ignorare
l'affetto che sentivano nei suoi confronti.
A
parte la sua famiglia e le persone vicine a Sherlock, nessun altro era a
conoscenza del fatto che lui, proprio lui, fosse il suo coinquilino.
«Mi
dispiace» disse poi il ragazzo, risvegliando Emily dai suoi pensieri.
Lei
lo guardò. Le parve realmente dispiaciuto, come se soffrisse nel trovare la
ragazza in quello stato d’animo. Se non avesse avuto un tale subbuglio dentro,
probabilmente, Emily si sarebbe sentita lusingata a quell’idea.
«Se
c’è qualcosa che posso fare…» si offrì Richard, lievemente incerto.
Sembrava
quasi avesse paura di dire la cosa sbagliata, di ferire ulteriormente Emily.
Quest’ultima si voltò verso di lui, abbozzando un sorriso. Quel ragazzo le
piaceva veramente e dal modo in cui si erano evolute le cose fra loro
nell’ultimo periodo era addirittura arrivata a sperare che potesse nascere
qualcosa di ben più serio dell’amicizia che si stava via via rafforzando. Non
le capitava più da tempo di sentirsi apprezzata da qualcuno sotto tutti gli
aspetti – fisico e mentale – specie da uno poco più grande di lei.
Si
fece forza per scacciare dalla sua mente tutto quello che era avvenuto prima a
Baker Street, dicendosi che non valeva la pena di farsi rovinare l’occasione di
trascorrere del tempo con Richard tornando a rimuginare su qualcosa che le
procurava solo del gran dolore.
«Sei
molto dolce,» gli rispose, «ma non penso tu possa aiutarmi con il mio
coinquilino, non in questo caso» concluse, amareggiata. «Sistemeremo tutto, non
preoccuparti. È stato solo un piccolo screzio.»
Sorrise
con convinzione in direzione del ragazzo, che rispose allo stesso modo. Parlare
con lui la stava aiutando, facendola sentire meglio. Trovò sorprendente come la
compagnia di una sola persona potesse influire tanto positivamente sull’umore.
«Non…
non sapevo convivessi con un ragazzo» disse poi Richard, guardandola con i suoi
occhi scuri.
A
Emily parve leggermente imbarazzato.
Lei
si strinse nelle spalle, sempre decisa a non raccontare l’esatta verità. «È così, invece. Non te l’ho mai detto ora che ci
penso.»
Lui
si tormentò un momento le mani, distogliendo lo sguardo. «Devo esserne geloso?»
chiese.
La
ragazza si lasciò sfuggire un sorriso, abbassando gli occhi con un leggero imbarazzo.
Ripensò a Sherlock, allo Sherlock che a lei piaceva di più, quello delle
indagini, delle deduzioni, quello che suonava il violino e la guardava con i
suoi ammalianti occhi celesti.
Si
strinse nelle spalle. «Non è il tipo a cui piacciono le ragazze come me»
rispose infine, convinta fosse la verità.
Per
Sherlock, con tutta probabilità, lei altri non era se non una semplice
coinquilina; la snervante ragazza che dormiva al piano di sopra, preparava il
tè ogni mattina e pagava metà dell’affitto. La lite di prima gliene aveva dato
la conferma. Si sentì nuovamente avvolgere dalla tristezza a quel pensiero, ma
Richard prese parola prima che le sensazioni peggiori potessero tornare ad
assalirla definitivamente.
«Beh»
esordì. Emily si voltò a guardarlo. «Non sa quello che si perde.»
Detto
ciò si avvicinò con sicurezza alla ragazza e la baciò. In un primo momento
Emily non fu in grado di capire se tutto ciò stesse avvenendo realmente o solo
nella sua testa, tuttavia alla fine si rese conto che era reale. Si sentì
fremere, scaldare completamente. Chiuse gli occhi e si concentrò solo su quel
bacio, quel momento, mentre tutto il resto passava in secondo piano.
*
John
affrettò il passo appena imboccò Baker Street, schivando in maniera impeccabile
tutti coloro che gli passavano vicino o gli venivano incontro. La sua
espressione risoluta e determinata e la luce presente negli occhi avrebbero
permesso a chiunque di capire che qualcosa lo stava rendendo irrequieto.
John,
infatti, stava procedendo ad ampie falcate verso la sua ex residenza mosso
dalla strana sensazione che qualcosa non stava andando per il meglio. Si era
trovato sul cellulare la chiamata di Emily – cosa che non gli garantiva
l'avesse cercato proprio lei, dal momento che Sherlock usava spesso il telefono
di altre persone – tuttavia quando lui l'aveva cercata per sapere se c'era
qualcosa di cui doveva essere messo al corrente – e non si era limitato a un solo
tentativo – non aveva mai ricevuto risposta. Un simile atteggiamento da parte
di Emily, unito al suo protratto silenzio, lo avevano convinto che doveva
essere accaduto qualcosa e per cercare di capire cosa si era spinto fino a
Baker Street.
Raggiunto
il civico 221B il medico aprì la porta con la copia delle chiavi che Sherlock
gli aveva impedito di restituire e si avviò lungo le scale dopo aver salutato
la padrona di casa.
Raggiunto
il soggiorno, davanti alla porta aperta, si fermò. Vide subito Sherlock a
sedere sulla sua poltrona, immobile e imperscrutabile come spesso gli capitava
di trovarlo. In un primo momento si convinse che fosse nel suo Palazzo mentale,
ma il detective gli diede immediatamente conferma del contrario, puntando gli
occhi nella sua direzione.
I
due amici si guardarono per il tempo sufficiente a convincere John che,
effettivamente, qualcosa non andava.
«Ciao»
provò a salutare.
Il
detective non si scompose, limitandosi a guardare il medico con sufficienza.
John
sospirò, strofinando nervosamente le mani sulle cosce. Si sarebbe dovuto
impegnare per l'ennesima volta nella speranza di riuscire a capire cosa non
andava. Sebbene ci fosse passato abbastanza spesso da sapere come agire, la
cosa era ugualmente snervante. Partì guardando attentamente Sherlock, i
lineamenti stanchi, gli occhi lucidi, i bei vestiti più sciupati del solito. I
sospetti di John vennero definitivamente confermati.
«Dov'è
Emi?» domandò, sperando di riuscire a parlare almeno con la ragazza.
Il
fatto che lei lo avesse chiamato sul cellulare gli suggerì che lo avesse
cercato proprio per discutere dello stato attuale del coinquilino. Sherlock
stava certamente affrontando una di quelle crisi che lo colpivano ogni volta
che si trovava in una sorta di astinenza da casi interessanti. Diventava
intrattabile, irascibile e scontroso, oltre a trascorrere le proprie ore chiuso
in se stesso. John aveva già vissuto quelle situazioni, ma sapeva che per Emily
era la prima volta, per cui non si sarebbe sorpreso nello scoprire che lei lo
avesse cercato proprio per discutere di quella situazione.
«Fuori»
rispose asciutto l’interpellato.
«Fuori
dove?»
Sherlock
si limitò a fare spallucce, apparentemente non interessato.
Quell’atteggiamento
da parte del detective fece insospettire ulteriormente John. «C’è qualcosa che
dovrei sapere?» lo incalzò.
«Non
so, c’è?» replicò l’altro stizzito.
John
perse la pazienza. «Sherlock piantala di fare l’idiota. Cos’è successo?»
Il
detective sbuffò. «Emily è uscita di casa senza dire nulla. Ma ti posso garantire
che anche se fosse qui se ne starebbe certamente chiusa in camera sua.»
«Cosa
le hai fatto?» domandò subito il medico.
Sherlock
lo guardò, un misto di stupore e fastidio nell’espressione. «A lei?
Assolutamente niente.»
A
quelle parole John corrugò nuovamente la fronte, distogliendo lo sguardo da
quello infastidito e irritante dell’altro. Mentre lo faceva vagare per il
soggiorno si accorse della siringa abbandonata sul pavimento, accanto alla
parete. Si avvicinò all’oggetto, raccogliendolo da terra prestando particolare
attenzione all’ago. Appena l’ebbe in mano lo analizzò un momento, dopodiché
tornò a rivolgersi al detective: «Dimmi che non è ciò che penso.»
Sherlock
fece scorrere lo sguardo dalla siringa all’uomo, esibendosi poi in
un’espressione di ovvietà. «Non so a cosa tu stia pensando, allora, perché
quella è chiaramente una siringa.»
«Ti
ha trovato. Ti ha trovato mentre eri sotto l’effetto di droghe. Come hai potuto
permettere che accadesse? Credevo ti fossi deciso a ripulirti dopo che sei quasi
morto!»
Il
medico non riusciva a credere a quello che Sherlock aveva appena ammesso né,
soprattutto, al modo in cui lo aveva fatto. Ripensò al giorni in cui lo aveva
trovato in quel covo di tossicodipendenti, di tutto quello che era avvenuto con
Magnussen, dell'overdose che aveva quasi rischiato
sul jet privato. Infine pensò a Emily e al modo in cui si doveva essere
sentita.
Lanciò
a terra la siringa, con forza.
«Quando
smetterai di comportarsi così?» ringhiò in direzione di Sherlock il quale
sollevò un sopracciglio con fare infastidito. «Non pensi mai alle conseguenze,
non è vero? Se di te stesso ti importa così poco da accettare di iniettarti in
corpo questa merda, almeno pensa a come fai stare gli altri ogni volta che lo fai.»
«Gli
altri?» scandì con cura il detective. «So che parli di Emily, quindi chiamala
per nome.»
John
corrugò la fronte, un misto di rabbia e stupore in volto. «Allora se sai quanta
ammirazione prova per te perché diavolo ti comporti così?»
«Ne
abbiamo già discusso una volta, John. Gli eroi non esistono e anche se fosse io
non sarei uno di loro. Se Emily mi ha elevato a suo eroe ha sbagliato e
sbagliava sapendo esattamente di farlo, te lo posso garantire» replicò
freddamente l’altro.
John
allargò le braccia. «Però è successo. Anche se non avesse voluto alla fine è
successo! Sherlock, quella ragazza ti vuole veramente bene. Anche se
inizialmente non era così, lo è ora. Non puoi ignorare questa cosa, ne
tantomeno sperare che la ignori lei.»
«E
con questo cosa vorresti dire?»
Il
medico sbuffò, infastidito dalla domanda.
«Voglio
dire che non puoi fingere di non averla intorno. Non puoi fingere che le tue
azioni non condizionino lei e i suoi sentimenti» rispose infine.
A
quelle parole Sherlock si alzò di scatto dalla poltrona, palesando tutta la sua
irritazione.
«Non
le ho chiesto io di provare sentimenti
per me» sbottò, scimmiottando la parola “sentimenti”. «Per quale motivo ora
dovrei preoccuparmi di non ferirla?»
A
quelle parole John si bloccò di colpo, corrugando di nuovo la fronte in quell’espressione
che Sherlock gli aveva visto fare un’infinità di volte. Il medico posò le mani
sullo schienale della sedie che si trovava in mezzo al soggiorno, tentando di
mantenere la calma e prese parola dopo aver inspirato a lungo: «Io non posso
credere che tu sia veramente così ottuso. Le persone che ti vogliono bene si
preoccupano per te. Soffrono se ti vedono buttare nel cesso la tua vita per tua
stessa mano. Emi ne soffre. Io e Mary ne soffriamo. Mrs. Hudson, tuo fratello
ne soffrono.»
«A
Mycroft non è mai importato niente di me» mormorò gelido Sherlock.
A
quelle parole John perse definitivamente la calma. Sbatté con foga la sedia,
guardando il detective adirato. «Solo perché a te non importa di lui non significa
che valga lo stesso per Mycroft! Dio, come fai a non capire? Il mondo non è
come lo vedi tu, Sherlock! Solo perché per te una cosa non funziona in una
certa maniera non vuol dire che valga anche per gli altri! Cosa c’è di così
incomprensibile in questo concetto che la tua mente superiore non è in grado di
afferrare?» tuonò.
Nel
soggiorno calò un silenzio teso, palpabile al punto di rendere la stanza ancora
più piccola. I due ex coinquilini rimasero a guardarsi a lungo, nessuno dei due
aveva intenzione di cedere per primo.
Alla
fine Sherlock prese fiato e parlò: «Non capisco perché insistete tanto a farvi
problemi sulla mia vita se la cosa vi fa soffrire quanto dite. Io non ve l’ho
mai chiesto.»
Il
tono con cui aveva pronunciato quelle parole era tagliente come una lama. Nei
suoi occhi chiari non si riusciva a leggere alcuna sfumatura, mentre i
lineamenti si erano fatti duri.
A
quelle parole John lasciò lo schienale della sedia. Guardò l’altro con sguardo
severo, di rimprovero, infine sollevò le mani in segno di resa. «D’accordo, fa’
come vuoi. Ammazzati da solo e muori da solo» disse, scandendo con cura le
ultime tre parole. «Mi sono stancato di litigare con te.»
Non
attese alcun tipo di replica. Lanciò un’ultima occhiata a Sherlock, il quale rispose
impassibile a quello sguardo, senza scomporsi. Infine il medico gli diede le
spalle e si avviò lungo le scale, senza voltarsi.
Era
un cielo serale plumbeo quello sotto al quale Emily era ferma in attesa,
l'ombrello giallo piantato a terra usato come sostegno sebbene non ve ne fosse
alcun bisogno. Davanti a lei l'ingresso di casa della famiglia Watson, a cui
aveva appena suonato.
Dopo
tre giorni di allontanamento volontario dal civico 221B – da cui usciva al
mattino e rientrava la sera tardi, salendo direttamente in camera sua e senza
degnare di attenzione il soggiorno – la ragazza aveva deciso di raggiungere la
casa di John e Mary, pronta finalmente a parlare di ciò che era accaduto con
Sherlock. Nei giorni precedenti il medico le aveva scritto tutta una serie di
messaggi in cui la pregava di farsi viva, dicendole che aveva discusso con il
detective per ciò che aveva fatto ed evidenziando anche quanto, sia lui che la
moglie, fossero preoccupati per il suo improvviso allontanamento.
Emily,
dal canto suo, non aveva mai risposto, continuando a studiare in facoltà e
trascorrendo quanto più tempo possibile con Richard. Quest'ultimo era da ormai
tre giorni l'unica cosa in grado di farla sentire bene. Insieme a lui non
pensava a Sherlock, a quello che si era fatto e alla lite che avevano avuto.
Richard la faceva stare bene anche se, nonostante tutto, lei non l'avesse
ancora informato della sua convivenza con il detective, ne tantomeno delle
reali motivazioni per cui lei e il suo coinquilino avevano litigato.
Tuttavia,
allo scadere del terzo giorno, Emily aveva deciso che non poteva continuare a
tenersi tutto dentro.
Attese
pazientemente che la porta si aprisse e appena avvenne si trovò davanti Mary.
Il viso della donna si distese in un sorriso quando incrociò gli occhi di Emily
e subito dopo l'abbracciò affettuosamente.
«Grazie
per essere venuta» le disse poi, invitandola a entrare.
La
ragazza la seguì dentro casa, osservandosi intorno. Rivedere Mary le aveva
fatto piacere, non avrebbe potuto essere altrimenti, così come sapere che a
breve avrebbe anche rincontrato John la caricò di nuova euforia. Non poté
mentire a se stessa per l'ennesima volta: John e Mary le erano mancati anche
solo in quei tre giorni e, nonostante tutto, anche Sherlock le mancava.
Il
medico era in soggiorno, intento a leggere alcune carte a sedere su una
poltrona. Si alzò in piedi quando vide entrare Emily e le andò in contro.
«Grazie
al cielo ti sei decisa a farti viva» la rimproverò pacatamente.
«Mi
dispiace» rispose lei, senza aggiungere altro.
Mary
le fece cenno di sedersi e la ragazza si sistemò sul divano dopo aver lasciato
ombrello e cappotto su una sedia lì vicino. Si sentiva nervosa per motivi che
le sfuggivano.
Mary
e John se ne accorsero, capendolo dal modo in cui Emily evitava accuratamente
di guardarli.
«Vuoi
qualcosa, Emi?» si offrì Mary, cercando di stemperare un po' l'atmosfera.
«No,
grazie» rispose prontamente l'altra.
A
quel rifiuto i coniugi presero posto di fronte a lei.
«Come
stai?» domandò John dopo un breve silenzio.
La
ragazza si strinse nelle spalle. «Fisicamente sto bene» rispose, dopodiché un
lampo di determinazione attraversò i suoi occhi azzurri. «John, non girare
intorno all'argomento, ti prego. Tu sai perché Sherlock si è comportato a quel
modo? Sapevi che faceva uso di droghe?»
La
nota di dolore era perfettamente intuibile nella sua voce. John e la moglie si guardarono
per un momento.
«Te
l'avevo detto di arrivare subito al punto» disse infine Mary al marito,
sorridendo. Subito dopo si rivolse alla ragazza, posandole una mano sul ginocchio,
cercando di confortarla. «Lo sapevamo» ammise infine.
Emily
spalancò gli occhi a quella notizia. Avrebbe voluto dire qualcosa ma non le
venne in mente niente.
«Sherlock»
prese parola John, «ha delle debolezze. Come tutti gli uomini» disse, senza
però guardare Emily.
Ormai
conosceva la ragazza abbastanza da avere la certezza che di lei ci si poteva
fidare, totalmente. Così, alla fine, decise di raccontarle tutto quello che non
le aveva ancora detto sulla storia di Magnussen. Le
disse del ritrovamento di Sherlock in quella casa abbandonata frequentata dai
tossici, di quanto lui sostenesse che si trattava di un'indagine e di tutto
quello che ne era conseguito, evitando comunque di dichiarare che proprio il
detective era la vera causa della morte di Magnussen.
Emily
lo ascoltò incredula, indecisa se credere o meno a quello che il medico le stava
dicendo ma perfettamente consapevole fosse la realtà.
«Tuttavia,»
proseguì John, «ti posso garantire che nonostante ciò, nonostante tutto,
Sherlock rimane uno degli uomini migliori in cui io mi sia mai imbattuto. Non
esiterei un solo attimo a mettere una buona parola su di lui.»
Mary
sorrise sentendolo pronunciare quelle parole e tanto bastò a Emily per capire
quanto valessero anche per la donna. Dal canto suo, invece, continuava a
sentirsi insicura sul modo in cui potersi rapportare con il detective dopo
quello che era accaduto fra loro. Temeva che qualcosa si fosse definitivamente
incrinato, che dopo quella lite nulla sarebbe più tornato a essere lo stesso.
Aveva paura – sì, era paura – di incontrare di nuovo Sherlock Holmes.
Si
fece forza, decidendo di affrontare la questione con Mary e John, sperando che
potessero aiutarla a chiarire quella situazione e, perché no, riunirsi al
detective.
«Io
volevo solo provare ad aiutarlo» disse infine, cercando di motivare così le sue
intenzioni.
«Non
lo stiamo mettendo in dubbio» la rassicurò Mary. «Ma dovresti aver capito che
per uno come Sherlock questo genere di intenzioni passano spesso in secondo
piano.»
«Emi»
intervenne John, risoluto, «io ho bisogno di sapere perché avete litigato.
Perché so che lo avete fatto.»
«I-io...non
lo so» rispose affranta la ragazza, abbassando lo sguardo. «Era intrattabile da
giorni, non usciva mai. Sono riuscita a convincerlo a venire con me a prendere
qualcosa da mangiare alla tavola calda sotto casa, ma una volta là dentro è esploso»
raccontò, rivivendo con la mente quei momenti. «Ho cercato di capire cosa non
andasse ma si è rifiutato di dirmelo e mi ha cacciata via.»
Sentì
la gola chiudersi a parlare dell'argomento. Ignorò quella dolorosa sensazione e
riprese a parlare: «Quando sono rientrata, un'ora dopo più o meno, l'ho trovato
disteso a terra, incosciente. Ho avuto così tanta paura» si lasciò sfuggire
davanti allo sguardo premuroso di John.
«Quando
Sherlock si è ripreso e ho capito cos'aveva fatto abbiamo iniziato a discutere.
Gli ho detto che volevo aiutarlo, che credevo fossimo amici. Mi ha urlato in
faccia che non so niente di lui, che non so cosa continuamente ha in testa.»
La
sua voce si fece improvvisamente più debole. Prima che potesse rompersi del
tutto Emily guardò Mary. «E me ne sono andata.»
Si
zittì, distogliendo nuovamente lo sguardo. Nonostante il nodo alla gola sapeva
che non avrebbe pianto, tuttavia stava ugualmente male. Non riusciva a darsi
pace al pensiero di ciò che era accaduto con Sherlock.
«Primadonna»
borbottò poco dopo John.
Emily
lo guardò, confusa. «Come?»
«Sherlock
è una primadonna. Deve essere sempre al centro dell'attenzione, si deve sempre
parlare di lui. È anche per questo suo modo di fare che ti avevo detto che
viverci insieme è un manicomio.»
Con
sua stessa sorpresa, a sentire quelle parole Emily scoppiò a ridere. Si
ricompose subito, però, tornando a prestare attenzione al medico.
«Lo
penso davvero» insistette l’uomo a sostegno della sua teoria.
«Il
punto è, Emi,» prese poi parola Mary, «che nonostante ciò che è successo a
Sherlock e con Sherlock non devi
temere che sia ancora arrabbiato con te. John ci ha litigato un’infinità di
volte.»
«Confermo.»
«Eppure
sono molto uniti. Certo, voi due avete avuto uno screzio, ma sono sicura che
lui è disposto a fare pace con te. Anche se non lo ammetterà mai di sua
spontanea volontà.»
La
ragazza si sentì in parte rincuorata dalle parole della donna, ma solo per
poco.
«Non
è tanto per questo, Mary. Ha assunto droga. È questo che mi fa stare peggio.»
I
coniugi non replicarono. Rimasero in silenzio, scambiandosi uno sguardo veloce.
«A
voi non importa?» domandò stupita Emily davanti al loro silenzio.
«Non
è che non ci importa. Cielo, non potremmo mai rimanere indifferenti davanti a
una cosa del genere. Ne soffriamo, devi credermi» replicò Mary.
«Quella
di Sherlock non è dipendenza, nel caso ciò ti preoccupasse» intervenne John. «Le
sue sono ricadute. Ricadute in qualcosa che non è propriamente un vizio, ma una
debolezza. Sherlock non ne ha bisogno veramente.»
«Come
puoi definirla debolezza?» chiese Emily subito, sbalordita dalle parole di
John.
«Perché
lo conosco. Molto bene» replicò serio il medico. Nei suoi occhi c'era determinazione,
l'intenzione di voler far prendere sul serio ciò che lui stava fermamente
sostenendo.
La
ragazza rimase a guardare John, senza dire nulla. Sapeva che lui aveva ragione,
che qualsiasi cosa potesse sostenere l'uomo su Sherlock era certamente reale
dato che in pochi potevano conoscerlo bene quanto lui. Tuttavia una parte di
lei continuava a soffrire per quello che era avvenuto con il detective al punto
di impedirle di provare ad andare immediatamente a cercare di riappacificarsi
con lui.
Il
silenzio che si era formato nel soggiorno venne improvvisamente interrotto. Da
una delle stanze si sollevò un pianto, quello della piccola Watson. Mary fece
per alzarsi, così da andare a calmare la bambina, ma il marito la fermò con un
gesto.
«Vado
io» disse e si allontanò.
Le
due donne rimaste sole si scambiarono un lungo sguardo, in silenzio. Mary fu
perfettamente in grado di intuire come si sentiva Emily: i sentimenti femminili
erano il suo forte. Capì che la giovane provava certamente un senso di impotenza
davanti ai fatti che le avevano da poco scombussolato ogni certezza. Per lei
Sherlock era sempre stato una garanzia, un uomo forte, spinto da convinzioni
sicure, qualcuno in grado di muoversi in qualsiasi ambiente con la più totale
sicurezza. Scoprire che, invece, proprio la sua mente era la sua più grande
fragilità l'aveva senz'altro stravolta. Non si trattava del suo lavoro di tesi,
non in quel caso. Per la ragazza era diventata una questione personale. Non
aveva solo scoperto che l'uomo che stava studiando e analizzando aveva una
simile debolezza, ma aveva capito che era un suo amico ad averla.
Pensò
che Emily avesse bisogno di informazioni aggiuntive, fornitele da qualcuno che non
avrebbe voluto mentirle.
«Le uniche volte che ha assunto droga da
quando lo conosco io hanno sempre coinciso con periodi difficili per lui. Senso
di solitudine, frustrazione. Non voglio giustificarlo, non sia mai, ma una
volta che lo hai conosciuto ti rendi anche conto di quanto delicato sia il suo
equilibrio e di quanto abisso ci sia nella sua mente. Tu lo stai studiando,
dovresti capire questo concetto perfino meglio di me» le disse poi, il tono
materno e dolce.
La
ragazza la guardò, soppesando le sue parole. Stava per dire qualcosa ma fu
preceduta dalla voce di John.
«Ha
bisogno di aiuto.»
L'uomo
era in piedi sulla soglia del soggiorno, la figlia, fra le sue braccia, si era
completamente chetata. Guardò Emily e fece una smorfia, consapevole. «Dopotutto
è pur sempre un essere umano, anche se si rifiuta di crederlo. Domani andrò a
parlare con lui.»
Concluse
la frase come un'ammissione, come a voler rivelare di aver preso una scelta
importante.
L'attenzione
di Emily fu nuovamente attratta da Mary, davanti a lei, che le sorrise con fare
astuto.
«Promettimi
che farai pace con lui» disse la donna, rivolgendosi alla ragazza. «Non siete
fatti per tenervi il broncio voi due. Andate troppo d'accordo.»
Emily
non seppe come replicare, nell'immediato. Si chiese se davvero lei e Sherlock
andavano tanto d'accordo o se fossero solo molto bravi a deviare la realtà dei
fatti in presenza di altri.
Fatto
sta che le parole pronunciare da Mary avevano animato qualcosa in lei. Per la
prima volta si fermò a immaginare Sherlock Holmes alle prese con i suoi
tormenti interni, tormenti che lei non aveva mai pensato potessero provarlo
fino a tal punto. Capì che nonostante la sua mente brillante e i suoi modi di
fare unici e taglienti dentro di lui si celavano paure e insicurezze come in
ogni altro essere umano. Si sorprese del fatto che proprio a lei – che aveva
raggiunto Londra con il preciso intento di capire quell' uomo – fosse sfuggita
la natura più umana del detective.
Riflettendo
su tutto ciò, nell'assoluto silenzio do casa Watson, capì che comportandosi
così non lo stava di certo aiutando come aveva detto di voler fare e, ancora di
più, capì quanto in realtà Sherlock le mancasse. Erano passati solo pochi mesi,
ma già non era più in grado di accettare una vita senza la consapevolezza che
il detective ne facesse parte.
Inspirò
a fondo e annuì silenziosamente con la testa.
«Credo
tu abbia ragione, Mary» sentenziò infine. «Anzi, sicuramente hai ragione.»
«Non
dimenticarti di John» le disse la donna sottovoce, facendole l’occhiolino.
Emily
sorrise, dopodiché si rivolse al medico: «Grazie John» disse semplicemente.
L’uomo
si strinse nelle spalle, abbozzando un sorriso.
Davanti
alla famiglia Watson Emily riusciva sempre a sentirsi meglio. Si sentì spronata
da una forza nuova, una determinazione che aveva quasi dimenticato di
possedere. Caparbia com’era da sempre quasi si sorprese di aver attraversato
quel periodo di incertezza – per quanto breve.
Avrebbe
dovuto cambiare un po’ quello che aveva scritto fino a quel momento nella tesi
su Sherlock di fronte alle sue ultime scoperte che aveva fatto in quei pochi,
tremendi, giorni, ma la cosa positiva dei programmi di scrittura dei computer
era che spostare e risistemare le cose richiedeva relativamente poco tempo.
*
Emily
scesa dall’auto proprio davanti all'ingresso di casa. John aveva insistito per
chiamarle – e pagarle – un taxi perché non voleva che tornasse a casa sola alle
otto di sera, soprattutto dal momento che Baker Street non era proprio dietro
l'angolo.
Durante
il tragitto la ragazza aveva avuto modo di ripensare a quello che le era stato
detto da John e Mary riguardo Sherlock, sentendosi sempre più sicura di sé mano
a mano che scendeva in profondità nella sua analisi.
Se
quello che le avevano detto era vero – e visto chi glielo aveva detto, perché
dubitare? – il modo per impedire al detective di farsi del male era stimolarlo,
dargli qualcosa per impedire alla sua mente di sprofondare ancora.
Emily
infilò la chiave nella serratura solo dopo aver preso una lunga boccata d'aria.
Sentiva di averne bisogno e le parve che la cosa la potesse aiutare. Nella sua
mente si affacciarono una miriade di frasi fatte riguardo a cosa dire a
Sherlock nel momento in cui avrebbe nuovamente incrociato il suo sguardo.
Una
volta dentro superò la porta d'ingresso di Mrs. Hudson, iniziando a salire le
scale. A ogni gradino sentiva l'ansia crescere sempre di più, mentre i saluti e
le possibili parole di riconciliazione venivano scartate una dopo l'altra,
parendo sempre superflue, insensate o prive di importanza.
Raggiunti
gli ultimi gradini sentì lo stomaco chiudersi definitivamente, mentre il suo
cuore accelerò tremendamente i battiti. Come accadeva spesso, la porta era
aperta ed Emily la oltrepassò titubante. Nel soggiorno non vide nessuno, se non
il mobilio silenzioso, disposto al solito modo. Sparse sopra il tavolo e i vari
piani c'erano una moltitudine di carte, molte più di quante, la ragazza ne era
certa, ne avesse viste nell’ultimo periodo.
Al
centro della stanza Emily rimase in ascolto di rumori in grado di smascherare
la possibile presenza di Sherlock, tuttavia non sentì nulla. Non provò a
chiamarlo, consapevole che non avrebbe ricevuto risposta. Le bastò guardare
l'attaccapanni accanto alla poltrona di John per avere conferma dell'assenza
del detective. Lì, infatti, il suo cappotto non c'era.
Si
sentì stranamente sollevata dal fatto di essere riuscita a ritardare l'incontro
con Sherlock. Nonostante tutto, però, la cosa le dispiacque. Guardò il violino
del detective, adagiato sopra il ripiano del camino, desiderando di rivedere
Sherlock mentre lo suonava. Ripensare al male che l'uomo si era fatto da solo
la faceva soffrire, ma animò ulteriormente in lei l'intenzione di stargli
vicino. Emily sapeva che John e Mary avevano ragione e per tale motivo era
decisa a chiarirsi con il detective.
Si
svestì del cappotto e andò in cucina. Erano quasi le nove e sebbene la ragazza
si sentiva ben più in forma rispetto agli ultimi giorni, non aveva ugualmente
molta fame. Mise sul fuoco il bollitore dell'acqua, riempiendolo a sufficienza
per due persone: lei e Sherlock. Sentiva che sarebbe tornato a breve e voleva
aspettarlo con il tè pronto come faceva sempre.
Una
volta che la bevanda fu pronta si sedette in cucina, portando con sé anche il
suo pacco di biscotti. Si sentì scaldare dal tè a ogni sorso più del
precedente, mentre placava la poca fame che aveva con i suoi biscotti
preferiti.
Il
221B di Baker Street non le era mai parso tanto vuoto. Aveva bevuto spesso un
tè da sola al tavolo della cucina, ma in quel momento la mancanza di certezze –
certezze sul suo legame con il coinquilino, principalmente – la facevano
sentire strana, come se fosse arrivata in quella casa per la prima volta e non
fosse ancora riuscita ad ambientarsi.
Fra
un biscotto e l'altro ebbe modo di rispondere all'ultimo messaggio di Richard
e, appena si sentì sazia e scaldata, andò a sistemarsi sul divano.
Si
sdraiò, aspettando, gli occhi fissi prima al soffitto e poi alla parete a cui
lei e Sherlock avevano accidentalmente sparato tempo prima. Si lasciò sfuggire
un sorriso a quel pensiero e si ritrovò a ripercorrere alcune delle cose più
bizzarre, avvincenti e interessanti che le erano accadute dal giorno in cui
aveva conosciuto il detective. Provò a delineare il profilo psicologico dell’uomo
anche alla luce delle parole di Mary. Era quasi strano pensare a Sherlock sotto
quella luce, eppure contribuiva a renderlo più vero, più umano.
Chiuse
gli occhi pensando a ciò, desiderando di sentire il detective rientrare in casa
presto. Le mancava, non poteva negarlo e tanto le bastò per capire che avrebbe
accettato Sherlock qualsiasi fosse stato il suo difetto peggiore.
*
Fu
il suono di un clacson quello che riuscì a svegliare Emily, strappandola a un
sonno profondo e privo di sogni.
Quando
la ragazza aprì gli occhi ci mise un po' ad ambientarsi e a riconoscere il
posto in cui si trovava. Vide davanti a sé la moltitudine dei suoi piccoli
lavori ad acquerello, disposti sulla parete accanto alla finestra e ne dedusse
di conseguenza che si trovava nella sua stanza.
Si
mise a sedere e il suo abbigliamento colpì la propria attenzione. Portava gli
stessi vestiti della sera prima, quando era tornata a casa e aveva deciso di
aspettare il rientro di Sherlock. Con tutta probabilità doveva essersi
addormentata prima di riuscire a rivedere il detective. La cosa motivava
perfettamente perché lei fosse ancora vestita, sebbene non spiegasse come mai
si trovasse in camera.
Scivolò
sul bordo del letto, posando i piedi a terra. Portava le scarpe. Lei non si
sarebbe mai messa a dormire con le scarpe, anche se fosse tornata da sola nella
sua stanza sopraffatta dalla più assoluta incoscienza. Capì che l'unica
spiegazione sensata doveva per forza essere che Sherlock l'aveva portata in
camera, dopo averla trovata addormentata sul divano.
Alla
luce di quel pensiero si sentì rincuorata e le parve di riuscire a sentire
ancora il profumo dell'uomo sul proprio corpo. Il gesto che Sherlock aveva
compiuto, per lui forse spontaneo, significava molto per Emily.
Si
alzò con un gesto deciso, pronta come non mai a chiarire finalmente le cose con
il detective. Pronta anche ad assumersi le sue responsabilità e a scusarsi per
il suo comportamento.
Scese
le scale, lisciando con le mani i vestiti mentre superava in fretta gli
scalini. Raggiunto il soggiorno, però, si fermò di colpo. La stanza era vuota,
illuminata dal sole che entrava dalle finestre, ma deserta. Dal resto della
casa non saliva alcun rumore e il cappotto del detective non si trovava sul
l'attaccapanni nemmeno in quel momento.
«Sherlock»
provò ugualmente a chiamarlo.
Come
sospettava non ricevette alcuna risposta di rimando. Fece un secondo tentativo
lungo il corridoio che portava alla sua camera, ottenendo solo nuovo silenzio.
Si guardò intorno, dispiaciuta. Sherlock non c'era e la sua assenzala fece sentire ferita. Tuttavia si fece
forza, consapevole che prima o poi l'uomo sarebbe rientrato a Baker Street e
che, quando fosse avvenuto, lei si sarebbe fatta trovare vigile, sveglia e
pronta a far pace.
Controllò
l'orario, scoprendo che le dieci di mattina erano ormai trascorse da una
ventina di minuti. Fece mente locale, ricordandosi che la lezione del mercoledì
sarebbe stata solo nel pomeriggio quella settimana, ma si disse che valeva la
pena perderla nel caso Sherlock non fosse rientrato in tempo.
Si
avviò verso l'ingresso di casa di Mrs. Hudson, intenzionata a chiedere alla
donna da quanto il detective era uscito di casa. Davanti alla porta bussò un
paio di volte, senza ricevere alcuna risposta. Nel modo più educato possibile
girò la maniglia ed entrò. Si guardò intorno, trovando la stanza vuota e
perfettamente ordinata – tutto il contrario della casa che condivideva con
Sherlock – e provò a chiamare la donna. Anche da lei non ricevette alcuna
risposta e la cosa, in un certo senso, la sorprese.
Scoprendo
di essere rimasta sola in casa, Emily pensò che non poteva fare altro se non
tornare di sopra e mettersi in attesa. Pensò anche che una tazza di tè potesse
essere il modo migliore di iniziare una nuova giornata.
In
cucina afferrò il bollitore – trovandolo vuoto, a differenza di quanto si era
aspettata – e si preparò una generosa dose di tè verde.
Aveva
appena versato l'acqua nella tazza – guardandola cambiare colore mentre
incrociava delicata le foglie di tè – quando qualcuno suonò alla porta
d'ingresso al 221B. La ragazza si avviò dopo il primo trillo del campanello,
accelerando il passo lungo le scale quando al primo seguì un secondo
scampanellio. Aprì la porta quel tanto che bastava per permetterle di vedere
chi fosse e sorrise al suo interlocutore. Anche quest'ultimo le sorrise, ma a
quel gesto il sangue di Emily si congelò completamente.
La
ragazza aveva insegnato alla sua mente a ragionare il più in fretta possibile,
riportando nella realtà tutte le nozioni che aveva imparato in anni di studio,
di osservazione e di analisi. Per tale motivo, prima ancora che il nuovo
arrivato potesse compiere il minimo gesto, prima ancora di riuscire a reagire,
il suo cervello le disse che si trovava in pericolo.
La
luce dei lampioni la faceva da padrona; insieme ai fari delle auto in transito
illuminava una nuova sera londinese, le sette trascorse da poco.
Ai
lati opposti, le ombre allungate proprio da quella luce, le due figure fra loro
tanto differenti di John Watson e Sherlock Holmes si stavano andando incontro,
ciascuno a passo fermo, lo sguardo fisso davanti a sé. Come se avessero
perfettamente progettato quel momento, i due uomini incrociarono le proprie
strade esattamente davanti al civico 221B lì, in Baker Street.
Si
fermarono entrambi, guardandosi in silenzio per diversi secondi.
Il
medico osservò attentamente il detective, in cerca di qualche segnale che
potesse smascherare la continua assunzione di sostanze stupefacenti da parte
dell'uomo. Tuttavia non ne vide traccia. Il suo sguardo era fermo, attento; il
colorito della pelle sano, i muscoli rilassati. Sherlock era indubbiamente in
forma e a John non serviva alcun tipo di conferma ulteriore per dirsi certo
della cosa.
Dal
lato opposto il detective analizzò rapidamente l’amico, la fronte leggermente
aggrottata, le mani nelle tasche, le labbra tirate. Aveva avuto spesso a che
fare con John in quello stato, quando era pronto a chiarire una determinata situazione
ma anche intenzionato a piantare per bene dei paletti su ciò che era disposto
ad accettare ma solo per una volta. A quel pensiero un leggero sorriso affiorò
sulle labbra di Sherlock, il quale fece un cenno leggero con il capo per
salutare l'amico.
«Sei
qui per scusarti dell'altra sera, non è così?»
John,
di tutta risposta, sollevò le sopracciglia. «Non penso che debba essere io
quello che si deve scusare. Non hai fatto un esame di coscienza in questi
giorni?»
«Superfluo»
sbuffò l'altro.
Il
medico alzò gli occhi al cielo, consapevole di essere davanti al solito
Sherlock di sempre. Fece per replicare ma il detective glielo proibì con un
gesto. Sollevò la mano sinistra e senza dire nulla indicò l'ingresso del 221B.
Era il sottile messaggio con cui invitava l'amico a entrare per chiarirsi,
magari anche in compagnia di Emily. John acconsentì in silenzio, rimanendo
dietro a Sherlock mentre questi estraeva le chiavi di casa e faceva scattare la
serratura.
Tuttavia,
appena il detective ebbe varcato la soglia si fermò, ricettivo. Si osservò
attorno con attenzione, respirando l'aria, decifrando la polvere. John si portò
accanto a lui e lo guardò, in un primo momento dubbioso, poi capì dallo sguardo
dell'amico che qualcosa non andava.
«Mrs.
Hudson» chiamò d'improvviso Sherlock, la voce ferma, decisa.
La
donna si affacciò da casa sua poco dopo. Guardò i due uomini e sorrise a
entrambi.
«Oh,
buonasera John, car-»
«Dov'è
Emily?» la interruppe Sherlock.
La
donna parve sorpresa da quella domanda.
«Di
sopra» rispose «Non l'ho sentita uscire, che io sappia. A meno che non sia
andata via questa mattina mentre ero a fare la spesa, ma sono rimasta fuori
così poco che-»
Nuovamente
il detective non la lasciò finire. Percorse a grandi passi gli scalini che lo
separavano dal proprio appartamento, scomparendo. Mrs. Hudson lo guardò
confusa, ma John capì che avrebbe fatto meglio a seguirlo in fretta.
Raggiunse
il piano superiore, trovando il detective intento a mettere sottosopra il
soggiorno. Lo vide spostare fogli, oggetti, vestiti, nervosamente, facendo
scorrere gli occhi anche nei punti più nascosti.
«Che
succede?» domandò fermo John, intenzionato a far capire all'altro che voleva
essere reso partecipe della situazione.
«Emily»
disse solo il detective, continuando a frugare in giro.
Il
medico intuì che quello non poteva essere un buon segnale. Sentì una stretta
allo stomaco quando comprese che poteva essere successo qualcosa alla ragazza.
Si guardò intorno anche lui, in cerca di qualcosa – sebbene non sapesse cosa.
In cucina trovò solo disordine, insieme a una tazza piena di tè. Si girò appena
in tempo per vedere Sherlock avviarsi verso la camera di Emily, salendo le
scale con la stessa fretta di poco prima. John lo seguì immediatamente,
fermandosi oltre l'ingresso della camera da letto. Il detective era fermo
immobile poco oltre la porta.
Il
medico ebbe modo di constatare come nulla nella stanza della ragazza fosse
fuori posto. Era tutto come lo ricordava, i disegni alla parete, alcuni abiti
disposti su un paio di sedie, i libri universitari, gli acquerelli, alcune
foto. Non riuscì a notare l'unica cosa realmente importante solo perché l'alta
figura di Sherlock vi si trovava proprio davanti. Quest'ultimo fece un paio di
passi, portandosi al centro della camera e consentendo di conseguenza a John di
notare l'oggetto della sua improvvisa attenzione. Appesa al soffitto, legata a
dello spago prima e a una lunga e sottile catenina argentata, pendeva una
piccola chiave.
«Che
significa?» chiese John, consapevole che se esisteva una risposta poteva
provenire senz'altro dalla voce del detective.
Sherlock,
infatti, non lo deluse. «É di Emily. La porta sempre al collo. L'ho notata
pochi giorni dopo il suo arrivo.»
Il
medico si avvicinò. Guardò la piccola chiave tenuta in mano dall'amico, sempre
più preoccupato.
«Ci
dev'essere altro» lo sentì mormorare mentre osservava l'oggetto sempre più
concentrato. Gli occhi chiari scorsero a più riprese la sottile superficie
metallica, i lineamenti tesi per la concentrazione.
D'improvviso
scattò. «Una scatola. No, no, è più facile una valigetta, qualcosa di molto
simile a una ventiquattrore» disse risoluto, iniziando a guardarsi intorno.
«Una
valigetta?» domandò John incerto, sebbene si ritrovò anche lui a ispezionare
con gli occhi la stanza.
Sherlock
gli si avvicinò con un paio di falcate decise, mostrandogli la chiave. «Non è
un ciondolo, John, è una chiave. Questa apre qualcosa, forse una valigetta a
giudicare dalla forma. Li vedi i segni sulla sua superficie? Vuol dire che è
stata usata spesso per quello che è: una chiave.»
Ricominciò
a osservarsi intorno in modo febbrile. «Chiunque ha portato via Emily ha
lasciato l'ultimo indizio all'interno di ciò che questa chiave apre» concluse.
Alle
parole di Sherlockil medico si sentì
gelare. Il sospetto si era insinuato in lui già da prima, ma sentire la voce
del detective dare conferma alla questione lo spiazzò. Una moltitudine di
domande si affacciò nella sua mente, una fra tutte si domandava perché qualcuno
avrebbe dovuto coinvolgere la ragazza. Guardò in direzione del detective,
intuendo che Emily fosse stata trascinata in qualcosa ben più grande di lei.
Era diventata l’esca.
«Controlla
sul fondo dell'armadio» ordinò il detective. «Conoscendola se vuole tenere
qualcosa nascosto può averla sicuramente messa lì.»
John
si ridestò, accantonando la preoccupazione. Se Emily era in pericolo avrebbe
fatto il possibile per aiutarla.
Aprì
le ante dell'armadio, si chinò sul pavimento e sporgendosi verso il fondo del
mobile tastò fino a scovare una valigetta di poco più grande di una moderna
ventiquattrore.
«Eccola»
esclamò, estraendola.
La
posò sul letto, dandole una rapida occhiata, mentre Sherlock lo affiancava,
infilando la chiave nella serratura della valigetta. Questa scattò, consentendo
all'uomo di aprirla. Lo fece con calma, quasi con timore reverenziale,
svelandone il contenuto. Dentro vi erano una moltitudine di fogli di carta di
varie dimensioni, impilati l'uno sull'altro. Sopra a tutti, però, ne spiccava
uno. Era un disegno a penna realizzato
chiaramente da Emily, raffigurante Mary e la piccola Watson a un estremo e
Sherlock all’altro. Sopra di esso con un pennarello nero indelebile erano state
disegnate due figure stilizzate. Una, di tipo maschile, sorrideva, puntando una
pistola alla testa dell'altra, rappresentata con sottili e lunghi capelli e il
volto spaventato. Nella parte superiore del foglio con una calligrafia
tagliente era scritto a lettere maiuscole: "Ricordi la piscina?".
Sherlock
si bloccò, sollevando prima lo sguardo, poi erigendosi in tutta la sua statura,
consapevole. John rilesse quelle parole un paio di volte, analizzando il
disegno e sentendosi rabbrividire. Fuori dalla stanza il buio sembrava essersi
fatto più intenso mentre all'interno regnava un silenzio di ghiaccio.
«Dobbiamo
andare» disse infine il detective, con il suo tono più austero. Si avviò fuori
dalla porta senza aggiungere altro, consapevole di essere seguito dall'amico.
Quest'ultimo, infatti, era proprio dietro di lui e lo stava letteralmente
tallonando.
«Vuoi
spiegarmi cosa sta succedendo? Se Emily è in pericolo esigo di saperlo» ordinò,
urlando quasi nell'orecchio di Sherlock.
Questi,
di tutta risposta, si voltò appena verso di lui. «Lungo il tragitto. Ora
dobbiamo muoverci, non c'è tempo da perdere.»
In
strada il detective cercò un taxi, spostandosi lungo Baker Street dal momento
che non ne passarono nell'immediato. Poco più avanti John fu in grado di attirarne
uno che procedeva in senso opposto. Appena si fu fermato i due uomini vi
corsero dentro e Sherlock diede immediatamente al conducente l'indirizzo di
destinazione, aggiungendo di fare in fretta.
Per
qualche secondo nessuno disse niente poi, mentre le case di Londra sfilavano
nei finestrini, John si voltò verso Sherlock.
«Chi
è? E, soprattutto, perché ha rapito Emily?»
«Da
lei non vuole niente. L'ha solo usata come esca per fare in modo che io vada da
lui» rispose, serio. Il suo tono di voce non tradiva alcuna emozione, ma negli
occhi celesti era ben visibile un bagliore di determinazione.
«Lui
chi?» incalzò il medico.
«L'assassino
di Walker e Horvat, lo stesso che mi ha recapitato la busta. Ma non sono così sicuro
di aver capito esattamente di chi si tratta. Ho un sospetto, ma finché non lo
incontro non posso essere certo di avere ragione.»
Il
medico spalancò gli occhi, sorpreso. Che tutti quegli avvenimenti fossero
collegati fra loro non lo sorprese più di tanto, ma quello che gli diede
maggiormente da pensare fu scoprire che erano arrivati per chiedere il conto al
detective attraverso il rapimento della sua coinquilina. Ripensò a quello che
stava accadendo in quel preciso momento. Era successo tutto talmente in fretta
che si sentì quasi spaesato, sorpreso soprattutto dal fatto che meno di mezz'ora
prima aveva raggiunto Baker Street senza neanche immaginare che si sarebbe
trovato lì, seduto su un taxi accanto a uno Sherlock pronto ad agire, con la
mente che gli proponeva scenari su scenari e una gran rabbia dentro al pensiero
che una ragazza innocente era stata coinvolta.
«E
la piscina...» disse poi John, come a voler dare l'abbrivio a Sherlock.
«Sì»
confermò questi «È la stessa in cui abbiamo incontrato Moriarty.»
A
quell'affermazione il medico si fece visibilmente incerto e preoccupato. Già da
tempo – dall'omicidio del giudice Walker – nella sua testa si era istillato il
dubbio che, in qualche modo, la nemesi di Sherlock fosse riuscita a camuffare
la sua morte con la stessa maestria del detective. Ciò che stava accadendo in quel
momento contribuì ad accrescere in lui tale incertezza.
«Tu
continui veramente a essere tanto convinto che Moriarty non c'entri nulla?»
domandò John in direzione dell'amico.
Per
la prima volta da quanto Moriarty veniva tirato in ballo in quella faccenda,
Sherlock non sbuffò. Si volse verso il medico, guardandolo serio, impassibile.
«No.
È morto. Non ho alcun dubbio.»
Posò
lo sguardo davanti a sé inspirando. «Chi ha architettato tutto questo si è
servito di ciò che Moriarty ha fatto a me. L'omicidio di Walker, quello di
Horvat, la busta con le carte dei cioccolatini, tutto. Era tutto studiato nel
dettaglio per mandarmi costantemente un ricordo, un richiamo,
decontestualizzandolo però ogni volta. Voleva costringermi a ricordare
Moriarty, a sospettarlo vivo. Voleva spingere la mia mente al limite
togliendomi la certezza delle mie convinzioni» disse tutto d'un fiato. Vomitò
fuori la sua frustrazione, sebbene una leggera nota eccitata era evidente nella
sua voce per uno che lo conosceva bene quanto John.
«Però
non ha funzionato» ipotizzò il medico, leggermente incerto.
«No.
Anche se devo ammettere che per un periodo ci è andato molto vicino» rivelò
Sherlock, cogliendo impreparato John. «Tuttavia a un tratto ha sbagliato mossa
e lì è stato sufficiente indirizzare la mia rete di senza tetto nella direzione
giusta.»
Chiuse
gli occhi, riflettendo.
«Ma
è furbo, sai? Molto» ammise, riaprendo gli occhi e puntandoli in quelli
dell'amico. «Ho dovuto agire con cura per farlo uscire allo scoperto, oggi.
Emily però ne è rimasta coinvolta.»
A
sentire quelle parole John lo fissò esterrefatto. «Tu l'hai coinvolta?»
esclamò.
Stava
per continuare, ma Sherlock lo fermò prima. «Era già stata coinvolta e non da
me» replicò.
«Cos...»
mormorò il medico, che cominciava a capirci sempre meno.
«Era
solo questione di tempo prima che si arrivasse a questo. Io ho semplicemente
fatto in modo di accelerare i tempi.»
«Vale
a dire?»
Il
detective si limitò a guardare l’amico, senza rispondere. John vide nel suo
sguardo una sfumatura insolita, quasi nuova e ne rimase sorpreso.
Istintivamente capì a cosa si stava riferendo Sherlock.
«La
tua assunzione di eroina» mormorò, senza notare l’occhiataccia che il
conducente gli lanciò nel sentire l’ultima parola. «Hai finto quindi? Non hai
preso niente» concluse, consapevole fosse la verità.
Il
detective si strinse nelle spalle. «Forse» disse solo, senza esporsi più del
dovuto.
John
era pronto a incalzare nuovamente per ottenere altre informazioni, ma il taxi
accostò sul ciglio della strada, fermandosi. I due scesero dal mezzo e dopo
aver pagato l’autista proseguirono per entrare nell’edificio.
Il
medico si sentì strano nel ritrovarsi nuovamente in quel posto. Gli parve di
rivedere davanti a sé quello che era avvenuto anni prima, quando si era
ritrovato vestito di esplosivo, fermo fra il suo migliore amico e quello che,
in brevissimo tempo, sarebbe diventata la nemesi di Sherlock. Ancora più strano
fu l’effetto che gli fece la consapevolezza di essere tornato lì per tirare
fuori dai guai Emily, ovvero ritornare in un posto per la seconda volta e
sempre per affrontare qualcosa di pericoloso e determinato a fare del male a
qualcuno.
L'edificio
in cui si trovava la piscina era collegato con una palazzina al cui interno vi
erano uffici e una palestra, facenti tutti parte del medesimo complesso. I due
uomini varcarono la soglia insieme, trovando il posto deserto e silenzioso,
avvolto da una minacciosa penombra. Sherlock analizzò il posto con attenzione,
scorrendo le differenze che vi erano fra quel luogo ora rispetto alla prima
volta che vi aveva messo piede dentro, alla ricerca di Moriarty. John, invece,
riacquistò il pieno controllo di sé, determinato a salvare Emily.
«Da
che parte?» domandò poi al detective.
«Dobbiamo
dividerci» rispose Sherlock.
«Dividerci?»
Il
detective si voltò a guardare negli occhi l'amico. John riconobbe lo Sherlock
Holmes pronto all'azione che aveva visto spesso e capì che, qualunque fosse
stato il suo piano, avrebbe fatto meglio a seguirlo.
«Lui
ed Emily non si trovano insieme. Tu andrai a recuperare la ragazza, io mi
occupo dell'assassino.»
«Non
possiamo prima occuparci di Emily e poi dell'omicida insieme?»
«No»
rispose categorico Sherlock. «Se andiamo insieme Emily rischia di morire. A lui
non importa niente della ragazza e sono certo che non sta agendo da solo. Ha un
collaboratore, qualcuno che ora sta tenendo Emily in ostaggio. Se andiamo
insieme a salvarla la ucciderà sicuramente e lo stesso vale se raggiungiamo
l'assassino insieme. Devo andare da lui solo.»
«Ma
perché non avvertiamo Lestrade?» esclamò John, il volto contratto per
l'angoscia.
«Non
possiamo per lo stesso motivo» replicò secco il detective. «Chiamando la
polizia non faremo altro che peggiorare la situazione.»
Il
medico si bloccò, sconvolto nell'appurare che se lo scenario era quello che
Sherlock aveva appena delineato c'era davvero poco che si potesse fare. Rimase
a guardare l'altro che infilava la mano nella tasca destra del cappotto,
estraendone una calibro 22, la sua calibro 22.
«Prendi
questa. Usala con moderazione, l'unico caricatore compatibile che avevo in casa
era quasi vuoto» disse il detective, allungando l'arma all'amico.
John
l'afferrò, stringendo saldamente la presa intorno al calcio. Respirò a fondo. Il
soldato era nuovamente chiamato all'azione.
«Perciò
Emily è alla piscina?»
«Sì.»
«E
tu dove te ne andresti?»
Sherlock
lo guardò. Un leggero sorriso animò il suo volto e i suoi occhi si illuminarono.
«Sul
tetto» rispose, tranquillo.
John
analizzò la sua espressione per un breve momento, infine sospirò.
«La
piscina e il tetto...» mormorò.
«Già»
continuò per lui Sherlock. «Il mio primo scontro con Moriarty e quello che
doveva essere l'ultimo, riproposti tutti in un unico posto, in un'unica sera.
Affascinante, non trovi?»
Sherlock
pensava davvero che tutto ciò avesse il suo fascino. Quando aveva cominciato a
intuire in che direzione stavano conducendo gli ultimi avvenimenti si era
scoperto via via sempre più intrigato dalla figura che vi si celava dietro. Trovava
in un certo senso geniale e diabolico che qualcuno riuscisse a destrutturare e
riaccorpare in modo così fluido, naturale, avvenimenti distaccati – in un certo
senso – fra loro per poi giungere a un apice, un gran finale di quel livello.
In un'unica notte, in un unico edificio, Il
grande gioco e Le cascate di Reichenbach si univano l'una all'altra, mettendo alla
prova la mente, i nervi e il sangue freddo di Sherlock come nessuno era
riuscito a fare da tempo.
Si
sentiva quasi lusingato della cosa, di sapere che qualcuno aveva scavato
nell'operato di Moriarty così bene e così a lungo solo per dare a lui la possibilità
di mettersi nuovamente alla prova. Si sentiva fremere come ogni altra volta in
cui era davanti al confronto finale con qualcuno che lo aveva così
magistralmente condotto a sé.
«Chiunque
ci sia dietro tutto questo deve odiarti parecchio» affermò il medico,
controllando il numero di munizioni presenti nel caricatore. «Ma non so se
dargli torto o meno» concluse, sorridendo il direzione dell'amico e incastrando
nuovamente il caricatore al suo posto.
Anche
Sherlock gli sorrise di rimando, facendosi poi nuovamente serio. «Quando hai
salvato Emily chiama Lestrade.»
Il
medico annuì.
«Fa'
attenzione, John.»
«Dovresti
farne di più tu» replicò sicuro questi. Lanciò un ultimo sguardo all'amico e
gli diede le spalle, avviandosi cauto verso l'ingresso della piscina.
Il
detective non rimase a guardare John allontanarsi; si diresse in fretta verso
le scale, percorrendole fino in cima. Raggiunta la porta che lo avrebbe
condotto fuori, sul tetto, ispirò una lunga boccata d'aria e spinse la maniglia
antipanico.
L'aria
della sera lo accolse, insieme ai rumori della città. Dal tetto era possibile
vedere buona parte di Londra, che si estendeva orgogliosa ben oltre
l'orizzonte.
Il
detective si guardò intorno, guardingo. Tese l'orecchio in cerca di qualche
rumore, un segnale. Sentì un movimento poco più avanti e dedicò tutta la sua attenzione
su quel solo, unico, punto. Da dietro uno dei condotti di ventilazione comparve
la figura di un giovane; il corpo forte, i lineamenti sfuggenti, gli occhi
scuri puntati dritti e senza timore –carichi di collera – in quelli di
Sherlock.
Quest'ultimo
rispose allo sguardo impassibile, scoprendo ancora una volta che i suoi
sospetti fondati.
Sorrise
leggermente in direzione dell'altro, facendogli un breve cenno con il capo come
per salutarlo.
«Lasciami
indovinare» gli disse. «Tu devi essere Richard.»
«Ti
dirò, per una come Emily avrei preferito un ragazzo più alto.»
La
voce di Sherlock spezzò l'aria dopo quello che a lui parve un tempo
sufficientemente lungo, nel quale i due presenti si erano reciprocamente
studiati a sufficienza. Il detective puntò sull'umorismo per fare la
presentazione finale, ma notò con disappunto che al giovane la cosa non parve
fare alcun effetto.
Quest'ultimo,
infatti, rimase impassibile a osservare l'altro senza tradire alcuna emozione.
Per Sherlock quello fu il sottile messaggio con cui intese che il ragazzo non
voleva servirsi del palcoscenico che il detective gli stava fornendo e che
l'atto finale era proprio lui.
Richard
– o qualunque fosse stato il suo vero nome – lasciava trapelare totalmente dal
suo sguardo e dal suo atteggiamento l'intenzione di uccidere Sherlock e il
detective capì che per farlo confessare – constatando di conseguenza se le sue
supposizioni erano esatte o meno – avrebbe dovuto lavorare di fino.
«Speravo
di poter fare un po' di conversazione. È una così bella sera» disse poi, dando
così il via alla sua tattica.
A
quelle parole l'altro sorrise. La luce che gli inondò il volto era tutto
fuorché rassicurante e se Sherlock non fosse stato consapevole di ciò a cui
stava andando in contro avrebbe potuto rimanerne scosso anche lui.
«So
cosa vuoi fare Holmes» rispose il ragazzo con il suo tono più tagliente. «Non
sono qui per parlare di me, quindi risparmia il fiato.»
Sherlock
lo vide infilare la mano destra nella tasca della sua giacca a vento nera,
serrare la presa intorno a qualcosa; dal modo in cui la stoffa si era rigonfiata
in corrispondenza della mano il detective dedusse che il giovane aveva appena
stretto con forza un oggetto non tanto grande, probabilmente un coltello a scatto
date le ridotte dimensioni delle tasche.
Tornò
a focalizzare l'attenzione sul ragazzo, capendo che non sarebbe stato semplice
ritardare l'effettivo attacco finale. Preda e cacciatore erano uno di fronte
all'altro e il secondo aveva quanto mai voglia di attaccare.
«Almeno
una cosa me la devi, dato che hai prima sedotto e poi rapito la mia
coinquilina, rendendo la mia convivenza nell'ultimo periodo piuttosto ostica.
Il tuo nome.»
«Quello
vero» aggiunse, davanti all'espressione sprezzante subito assunta dall'altro.
Quest'ultimo
sorrise, stringendosi nelle spalle.
«Nathan
Scott.»
*
Il
cuore di John batteva a volumi spropositati per la tensione del momento, mentre
un passo dopo l'altro procedeva in direzione della piscina. Era teso come una
corda di violino, pronto a scattare in qualsiasi momento. Teneva la
semiautomatica nella mano destra, sollevata e pronta a sparare.
Appena
ebbe raggiunto la soglia oltre cui si intravedeva la vasca di limpida acqua
celeste si fermò. Respirò a fondo e si sporse oltre il muro, cercando di vedere
nell'ampia stanza. Anche lì vi era molta penombra, le poche luci accese erano
alti fari puntati sugli ingressi e illuminavano poco il resto dello spazio
circostante. Nonostante ciò, però, a John non sfuggì affatto la nota figura di
Emily.
Era
seduta su uno dei blocchi di partenza della vasca. Teneva le braccia dietro la
schiena, le caviglie ravvicinate. John capì che era senz'altro legata e,
aguzzando la vista, riuscì a notare alcune fascette da elettricista a
stringerle le caviglie. Alle sue spalle un uomo robusto e dall'aspetto
indiscutibilmente burbero, faceva avanti e indietro nervosamente, la pistola in
mano.
Il
medico si ritrasse dietro il muro, pensando a cosa poter fare. Gli tornarono in
mente le parole di Sherlock; se di Emily non importava nulla a chi c'era dietro
a tutta quella storia, significava anche che la pistola dell'uomo che la stava
sorvegliando era carica e pronta a sparare. A quel pensiero un piano si delineò
nella mente di John. Avrebbe dovuto essere veloce e non commettere il minimo
errore per far funzionare tutto alla perfezione, consapevole che il minimo sbaglio
avrebbe potuto costare caro a Emily.
Respirò
a fondo un paio di volte, contò fino a tre e si sporse oltre il muro quel tanto
che gli bastava per riuscire a stendere il braccio armato. Individuò l'uomo che
stava sorvegliando la ragazza e lo puntò.
«Emi»
urlò.
A
sentire la sua voce Emily alzò immediatamente lo sguardo, sentendosi inondare
di speranza.
«John»
chiamò, appena ebbe riconosciuto la voce del medico.
Il
secondo che seguì quel momento fu uno dei più lunghi e adrenalinici che John Watson
ricordasse dai tempi della guerra. Vide distintamente l'uomo alle spalle di
Emily puntarle alla testa la pistola, pronto a far fuoco. Dal momento che aveva
tenuto in considerazione quella agghiacciante eventualità, John reagì subito.
Avendo già preso la mira sull'altro sparò per primo. Il proiettile fendette
l'aria con un sibilo, mancando il suo destinatario di pochi centimetri.
Tuttavia la cosa bastò per fargli perdere il proprio autocontrollo, come il
medico aveva sospettato e sperato. Si concentrò su John, sparando un paio di
colpi nella sua direzione, che lui riuscì a schivare nascondendosi dietro alla
parete. Prima che John potesse riemergere, solo poche frazioni di secondo dopo,
l'avversario spinse Emily in acqua dandole un calcio al centro esatto della
schiena.
La
ragazza si sentì mancare completamente ogni possibile appiglio. L'acqua fredda
l'avvolse completamente entrandole in parte anche nei polmoni. Tentò di
rimanere a galla, ma con braccia e gambe legate le era impossibile. La paura si
impossessò totalmente di lei mentre la gravità continuava a trascinarla verso
il fondo.
Appena
il medico vide la ragazza annaspare nel liquido cristallino si rese conto che
non poteva perdere altro tempo.Non
sapeva per quanto tempo Emily avrebbe resistito in apnea, tuttavia non doveva sprecare
nemmeno un secondo. Raccolse le forze con un lungo respiro, prese rapidamente
le misure e uscì dal suo nascondiglio, avventandosi sull'uomo.
*
I
due presenti continuavano a studiarsi attentamente, in attesa che uno di loro
facesse la propria mossa.
«Nathan
Scott» disse Sherlock, soppesando attentamente quel nome mentre usciva dalle
sue labbra.
Era
quella la vera identità di Richard. Il ragazzo che aveva conquistato Emily non
era affatto ciò che la ragazza aveva creduto. Il detective si sentì soddisfatto
di sé, come capitava sempre quando appurava che le proprie supposizioni su un
caso stimolante erano esatte. Aveva cominciato a nutrite dei sospetti su di lui
da un po' di tempo, ben prima di giungere alla conclusione che l’assassino che
continuava ancora a cercare era il ragazzo che stava frequentando Emily.
Quell'ultima intuizione, invece, era arrivata troppo tardi; lo aveva
sopraffatto solo nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, quando già aveva
fatto in modo di portare a sé il colpevole. Se avesse indirizzato le indagini
meglio fin da subito Emily sarebbe stata al sicuro. Purtroppo, però, per lunghe
settimane Nathan gli era stato parecchi passi avanti.
«Lasciami
indovinare. Figlio di Darrell Scott, esatto?»
Sherlock
espose la domanda con semplicità, consapevole che gli avrebbe consentito di
guadagnare tempo a sufficienza per elaborare una possibile via di fuga. Non
solo, voleva anche avere tutte le conferme che stava cercando, accertarsi di
aver capito esattamente ciò che aveva spinto il giovane a commettere quegli
omicidi e, soprattutto, per quale motivo architettare un piano così ben
strutturato e studiato sul lungo termine.
Il
detective si era appena addentrato nel sentiero più accidentato, consapevole di
dover agire con fine e calibrata astuzia.
Il
ragazzo estrasse definitivamente di tasca il coltello, che Sherlock ebbe modo
di vedere: un coltello a scatto dalla lama di almeno quindici centimetri,
valutò.
Tuttavia
Nathan aveva abboccato all'esca e glielo dimostrò con il suo commento
successivo: «Non provare a parlare di mio padre. Se lui si è tolto la vita è
solo colpa tua e di Walker. Il giudice è già morto e ora tocca a te» ringhiò,
facendo scattare la lama del pugnale.
Il
suo odio nei confronti di Sherlock era più che evidente. Era chiaro che lo
considerasse l'unico responsabile della morte del padre e che avesse nutrito un
tale desiderio di vendetta da portarlo a voler uccidere il motivo del suo odio
con le sue stesse mani. Tuttavia riuscire a usare la rabbia di qualcuno a
proprio vantaggio non era certo cosa nuova per uno come Sherlock.
«Mi
risultava che Scott non avesse figli» disse, calibrando accuratamente il tono
della voce.
«Questi
non sono affari tuoi» ribatté immediatamente l'altro.
«Eppure
vuoi uccidermi a suo nome, per vendicarlo. Come puoi dire che non sono affari
miei?» chiese, retorico. Non diede tempo al giovane di prendere parola,
decidendo di fare il suo affondo. «Sai cosa penso? Penso che tu abbia elevato
quell'uomo così in alto per il semplice fatto che non hai mai avuto accanto una
figura paterna. Lui non c'è mai stato per te e non penso neanche volesse
esserci. In fin dei conti come dargli torto? La sua vita è sempre stata
notoriamente circondata da traffici illeciti e persone poco raccomandabili,
l'unica cosa buona che poteva fare per te fin da quando eri un bambino era
tenerti lontano da tutto ciò, lasciandoti al sicuro con tua madre.»
«Mia
madre era un'alcolizzata!» esplose Nathan, con una tale rabbia che per un
momento Sherlock temette che gli si scagliasse contro senza dargli il tempo di
elaborare una contromossa.
«Con
lei in casa non sarei mai potuto essere al sicuro. Quando anni fa la portarono
via in pieno coma etilico ne fui solo contento.»
Fu
agghiacciante la freddezza con cui il giovane ammise tutto ciò. Per chiunque
altro le parole di Nathan avrebbero potuto suscitare pena, compassione per il
suo passato, rabbia o paura, ma non per Sherlock. Il detective era una
maschera. Continuava a osservare il ragazzo impassibile, la mente che lavorava
a gran velocità in cerca delle parole giuste da dire per continuare a
trascinare il suo rivale nella strada che aveva così magistralmente aperto.
Nathan stava dichiarando tutto, ammettendo per sua stessa voce che la teoria
elaborata da Sherlock in quei mesi – iniziata con l'assassinio di Walker e
terminata solo pochi minuti prima, faccia a faccia con il killer – era
corretta.
«Allora
è per questo che hai cercato tuo padre tanto a lungo» continuò il detective,
consapevole di dare così nuovo abbrivio alla dichiarazione dell'altro.
«Lui
non mi aveva riconosciuto» ammise con rabbia Nathan. «Ho scoperto chi fosse
facendo ammettere tutto a mia madre una sera che era ubriaca.»
Quelle
parole permisero a Sherlock di capire per quale motivo avesse impiegato tanto a
procedere nella direzione corretta. Nathan aveva il cognome della madre,
nonostante lui si ostinasse a usare quello del padre. Per tale motivo le sue
prime ricerche erano state un buco nell'acqua al punto di portarlo a escludere
Scott dagli indiziati principali. Se avesse tenuto in considerazione maggiore
quell'eventualità, forse, avrebbe potuto giungere a quelle conclusioni ben
prima.
«Mi
stavo riavvicinando a lui, Holmes. Era disposto a incontrarmi, a conoscere
finalmente suo figlio. Ma tu e Walker avete rovinato tutto. Dopo che lo avete
fatto incarcerare si allontanato nuovamente da me. E alla fine si è impiccato»
esclamò, caricò d'ira, muovendo nervosamente la mano che impugnava il coltello.
«Come
hai potuto elevare quell'uomo a tal punto, Nathan. Guardati. Ti ha fatto
diventare un assassino. E pensare che un ragazzo intelligente quanto te avrebbe
potuto fare qualsiasi cosa» rispose il detective, consapevole di essere agli
atti finali.
L'umore
del giovane era diventato nero, vicino al limite e pronto allo scoppio finale.
C'era poco altro che Sherlock poteva fare, ma aveva ancora del tempo.
«Su
questo non posso darti torto, Holmes, devo ammetterlo» disse Nathan, sorridendo
con arroganza. «Avrei potuto fare qualsiasi cosa. Per questo ho scelto di
vendicarmi con tanta cura proprio di te, l'infallibile Sherlock Holmes.»
«Non
ti sei ancora vendicato. Come vedi sono ancora qua» replicò con calma l'uomo,
indicando la sua slanciata figura con un esaustivo gesto della mano.
«Trovi?
Eppure dovresti aver capito anche tu di cosa sto parlando» disse, portando
l'indice sinistro a contatto con la tempia. «Tutti i rimandi all'opera di
Moriarty, tu che litighi con Emily, lei che si allontana da te, la tua
assunzione di droga. Ti ho colpito laddove sei più debole, su quel sottile
confine che separa la tua mente dalla follia.»
«Perciò
mi hai tenuto d'occhio da ben prima dell'omicidio di Walker» affermò
consapevole il detective.
«Oh,
certo, da molto prima. Ogni mossa era perfettamente calcolata nel tempo, fino
all'atto finale» ammise il giovane, sorridendo di puro piacere. «I due omicidi,
la busta, perfino il nome che ho usato con Emily. Tutto quanto, fino a portarti
al gran finale.»
«La
tavola calda» concluse per lui Sherlock.
Nathan
sollevò le sopracciglia, colpito. «Proprio così. Ti è piaciuto? Personalmente
lo considero uno dei miei lavori meglio riusciti» disse, prendendo posto al
centro esatto del palcoscenico che Sherlock gli aveva preparato minuti prima.
«Mi
hai portato a vivere contemporaneamente parte dei miei trascorsi con Moriarty.
Allo scopo di disorientarmi, di convincermi che lui fosse coinvolto in tutto
questo. Volevi che ne avessi paura.»
«La
mia intenzione è sempre stata quella di distruggerti. Prima mentalmente e ora
sto per farlo fisicamente» replicò secco Nathan. La rabbia e l’odio si
ripresentarono violente nella sua voce.
«Pensi
davvero di essere riuscito a scalfire la mia mente?» domandò il detective,
alzando impercettibilmente un sopracciglio davanti alle parole del giovane.
«So
di averlo fatto. Perché credi che Emily ti avesse lasciato solo nell'ultimo
periodo? Era con me. Non mi ha mai detto niente di quello che era successo fra
voi ma mi importava poco. Sapevo del vostro litigio, sapevo tutto. Tenendola
lontano da te non ho fatto altro che accrescere quel senso di rabbia e
frustrazione che ti ha colpito dopo l'episodio della tavola calda.
«Ho
vinto io, Holmes. Sono riuscito a metterti in ginocchio e non intendo lasciarti
andare via di qui vivo» replicò sprezzante, un nuovo fremito percosse tutto il
suo corpo.
«È
qui che sbagli. Sapevo che c'eri tu dietro a tutto questo. Anche se, lo
ammetto, l'ho scoperto piuttosto tardi.»
Nathan
si bloccò, sorpreso per un lungo momento. Prima che potesse riacquistare il
pieno controllo di sé e del suo odio, Sherlock riprese a parlare: «Ho un'ottima
rete di senzatetto qui a Londra. Efficaci ancora di più se sai dove
indirizzarli. Hai compiuto un passo falso nell'elaborazione del tuo progetto,
sai? Ed è stato proprio quello di coinvolgere Emily.»
Il
ragazzi si irrigidì, compiendo un leggero scatto con il corpo, come a voler
fermare l'impulso di scattare.
«La
ragazza una sera si è aperta con me. Mi ha rivelato che molti ragazzi tendono a
evitarla. Che hanno paura di lei.» Per un istante si sentì strano nel
pronunciare quelle parole. «Davvero credi che non abbia voluto capire chi
l'aveva avvicinata e perché? Ammetto che inizialmente non sospettavo che tu
fossi il figlio di Scott, non voglio negarlo. Tuttavia raccogliere informazioni
su Richard è stato fondamentale per farmi capire chi c’era dietro tutto questo.
Se non avessi coinvolto Emily forse non sarei riuscito a capire nulla e invece
non è stato così. Hai commesso un passo falso e quello mi ha permesso di
muovere le carte a mio favore.»
«Non
ti aspetterai che ci creda?» domandò con arroganza il giovane. Nel suo tono,
però, si percepì una lieve sfumatura di incertezza.
Sul
volto del detective si dipinse un sorriso sicuro. «Eppure eccoci qui.»
*
John
non aveva preso in considerazione neanche per un istante il fatto che avventarsi
su un uomo ben più grosso di lui potesse essere una pessima idea. A quanto
pareva, invece, lo aveva fatto l'altro dal momento che era rimasto visibilmente
spiazzato dall'improvvisata del medico da non riuscire a reagire – o sparare –
prima che John gli fosse addosso.
I
due iniziarono un corpo a corpo ravvicinato, sul ciglio della piscina nella
quale Emily, più spaventata che mai, tentava invano di rimanere a galla.
Appena
il medico fu sull'uomo gli bloccò immediatamente il polso destro, puntando
verso l'alto il braccio così da non poter mai essere a tiro dell'arma da fuoco.
L'idea funzionò per i primi istanti, ma cominciò a vacillare quando il loro
corpo a corpo si trasformò in una vera e propria colluttazione.
L’altro,
infatti, colpì subito John al volto, assestandogli un sinistro preciso allo
zigomo. Questi fece il possibile per mantenere ben salda la presa intorno al
polso e ci riuscì a malapena. Tentò di replicare al colpo di poco prima in
qualche modo, avendo entrambe le mani impegnate, ma l'uomo lo schivò,
abbassandosi e sferrando un altro sinistro all'altezza dello stomaco. Il medico
fece in tempo a evitarlo, allontanando di poco il bacino e sentendo il pugno
del rivale fendere l’aria al suo passaggio. Quel gesto, però, gli fece anche perdere
la presa ferrea dal polso.
Non
si sentiva in una bella situazione, né in vantaggio sullo sconosciuto che aveva
appena cercato di ucciderlo. Il cuore gli batteva all'impazzata, sentiva
l'adrenalina pompata in circolazione, il fiato cominciava a farsi via via più
corto. Nelle orecchie continuava a udire lo sciabordio dell'acqua smossa
convulsamente da Emily. Aveva sempre meno tempo, lo sapeva.
Si
fece forza, stringendo i denti. Riuscì finalmente a dare una ginocchiata allo
stomaco del suo rivale, ma non fu sufficientemente forte da consentirgli di
rimontare sull'altro. Quest'ultimo, infatti, approfittando della sua forza
stava riuscendo a liberare il braccio destro dalla presa di John, così da poter
nuovamente avere controllo sulla propria pistola. Quando ci riuscì non ci pensò
due volte a sparare. Tuttavia non aveva tenuto in conto i riflessi del medico,
scattanti e rodati dall'esercito prima e dalla lunga convivenza con Sherlock
dopo. John, infatti, intuì le intenzioni dell'avversario prima che questo
riuscisse a premere il grilletto. Con tutta la forza che aveva in serbo e
appoggiandosi alla sua velocità, John afferrò nuovamente il polso destro
dell'uomo, puntando la sua mano verso l'angolo inferiore sinistro, in modo che
lo sparo venisse scaricato sul pavimento.
La
deflagrazione partì, secca, con un suono sordo. Solo una frazione di secondo
dopo si sollevò il grido di dolore dell'uomo contro cui il medico continuava a
lottare. Questi allentò improvvisamente la sua forza, abbassando lo sguardo.
John
capì che lo sparo doveva averlo colpito, lasciando però lui totalmente illeso.
Analizzò rapidamente la situazione, il cuore che martellava sempre più forte
contro lo sterno. Notò una leggera macchia scura allargarsi maggiormente
all’altezza dell’addome e capì che lo sparo appena esploso doveva aver colpito
l’uomo. Quest’ultimo, incredulo dall’andamento degli eventi – che forse aveva
immaginato completamente differenti – ignorò istintivamente John per
concentrarsi sulla propria ferita. Fu l’errore peggiore che potesse compiere in
quel momento. Accadde tutto talmente in fretta che perfino il medico si
sorprese della rapidità con cui la sua mente aveva ordinato al suo corpo di
eseguire i comandi. Lo scoppio dello sparo riverberava ancora nell’alta stanza
quando John, perfettamente a conoscenza di quelli che erano i punti deboli del
corpo umano, sferrava un colpo secco con il calcio della pistola alla nuca del
suo avversario, facendogli perdere immediatamente i sensi.
Tuttavia
non ebbe tempo di esultare per la sua vittoria o concentrarsi su
quell’individuo per valutare la gravità della sua ferita. Emily era ancora in
acqua e a giudicare dei rumori sempre minori, non stava affatto bene.
L’uomo
si tuffò subito in acqua, nuotando verso il fondo per raggiungere la ragazza. Quando
riuscì a stringerla a sé si sentì incredibilmente sollevato nel constatare che
era ancora cosciente e risalì in fretta verso la superficie. Appena Emily
riuscì a mettere la testa fuori dall’acqua inspirò una lunga boccata di
ossigeno, riempiendo completamente i polmoni.
«Tutto
bene? Stai bene?» le chiese John, mentre nuotava verso il bordo della vasca
tenendo saldamente la ragazza.
Lei
annuì ripetutamente con la testa, scossa come non era mai stata in vita sua. Il
cuore le batteva così forte da sembrare intenzionato ad abbandonare il suo
corpo, respirava a fatica e la sua mente sembrava rifiutarsi di voler
comprendere quello che era avvenuto nelle ultime ore.
Il
medico aiutò Emily a uscire dalla piscina, non senza qualche difficoltà. Una
volta fuori, la ragazza rimase inginocchiata sul pavimento, tremante per il
freddo improvviso e lo shock. I capelli le avevano macchiato il viso di rosso
ancora una volta, mentre i suoi occhi continuavano a rimanere fissi sul
pavimento davanti a lei.
Era
sconvolta, John lo capì immediatamente. Prima di poterla consolare in qualche
modo, però, voleva liberarla dalle fascette da elettricista che ancora le
imprigionavano polsi e caviglie. Si mise alla ricerca di un paio di forbici o
di qualcosa in grado di lacerare la plastica. Riuscì a trovare un coltellino
nelle tasche dell’uomo che aveva da poco steso e tornò dalla ragazza per
poterla finalmente liberare.
«Stai
bene Emi? Sei ferita?» domandò, mentre con forza calibrata tagliava le
fascette.
«Sto
bene» rispose lei, dopo diversi secondi.
Il
suo tono di voce diede modo a John di intuire che non stava affatto bene.
Tremava visibilmente e non era colpa del fatto che i suoi abiti erano bagnati.
Anche lui era fradicio, ma non sentiva alcun brivido. Inoltre anche la voce di
Emily lasciava perfettamente intuire quanto la ragazza fosse sull’orlo delle
lacrime per la paura. La sua compostezza, nonostante tutto, rimaneva notevole.
Una
volta tagliate tutte le fascette da elettricista, John sollevò lo sguardo su di
lei. Emily non gli rispose, continuava a tenere gli occhi bassi, fissi al
pavimento. Il medico si accorse di una macchia di rosso più scura all’altezza
della tempia sinistra della ragazza. Sollevò lentamente la mano, ma quando si
avvicinò al volto di Emily, lei si ritrasse.
«Non
è niente» mormorò, guardando finalmente l’uomo.
«Sei
ferita» le fece notare quest’ultimo.
«Sì.
Ma sto bene, ora» rispose lei, ostentando sicurezza.
I
due si guardarono in silenzio a lungo, ancora inginocchiati sul pavimento a
bordovasca. Fu Emily a interrompere quel silenzio: «Mi hai salvato la vita,
John. Grazie.»
Il
medico le sorrise. «Non potevo certo lasciarti affogare.»
Riuscì
a strappare un leggero sorriso alla ragazza con quelle parole, ma durò poco.
Emily portò lo sguardo sull’uomo ancora svenuto alle spalle di John,
ricordandogli che in quell’edificio Sherlock poteva ancora avere bisogno di
aiuto. A quel pensiero si ridestò subito, riacquistando la sua risolutezza. Si
alzò, raggiungendo l’uomo a terra. Frugò nuovamente nei suoi vestiti, senza
trovare un solo dato utile; controllò la sua pistola, una calibro 9 e le poche
munizioni rimaste nel caricatore, infine la mise in tasca per poterla portare
con sé. Diede anche un’occhiata alla ferita che l’uomo si era provocato
sparando, constatando che si trattava solo di una bruciatura superficiale e che
aveva già smesso di sanguinare.
Sotto
agli occhi di una Emily che non riusciva a far lavorare degnamente il cervello
per colpa dello shock, John si caricò in spalla il corpo dell’uomo –
trascinandolo poi per gran parte del tragitto – e lo chiuse dentro uno degli spogliatoi
adiacenti alla vasca della piscina. Fece il possibile per bloccare la porta
affinché l’altro, nel caso fosse rinvenuto, non fosse in grado di uscire.
Quando
riuscì nella sua impresa, si voltò verso Emily, il fiato corto. «Devo andare da
Sherlock. Potrebbe avere bisogno di me» disse con sicurezza, stringendo in mano
la sua semiautomatica. «Tu resta qui, d’accordo. Ora che sei al sicuro chiamo
Lestrade.»
Estrasse
il telefono di tasca, constatando solo in quel momento che il bagno in piscina
non aveva fatto bene al suo smartphone. Imprecò fra i denti, decidendo di
chiamare da uno degli apparecchi sparsi per la struttura durante il tragitto.
Aveva
compiuto solo il primo passo in direzione dell’uscita quando venne fermato da
Emily: «No ti prego. Non voglio più stare sola» esclamò lei.
Le
sue parole parvero a tutto gli effetti una supplica e a John si strinse il
cuore nel vedere la ragazza in quello stato. L’aveva conosciuta fin da subito
come una persona solare, innamorata della vita e ottimista. Ora nella sua voce
si sentiva la preoccupazione, nei suoi occhi si percepiva la paura e sul suo
corpo era visibile il dolore.
John
la raggiunse. Si sfilò la giacca e gliela mise sulle spalle, pur consapevole
che fosse bagnata quanto lo era Emily. Eppure lei parve scaldata da quel gesto,
al punto di stingere a sé l’indumento come se fosse vitale.
«Sei
sicura di voler venire? Potrebbe non piacerti quello a cui andremo incontro»
disse poi il medico, con tono calmo e paterno.
La
ragazza lo guardò, dopodiché annuì debolmente con la testa. Le si era chiusa la
gola, stretta da un nodo doloroso. Quello che avrebbe potuto incontrare
seguendo John la preoccupava, certo, ma rimanere da sola dopo quello che le era
accaduto in una sola giornata la terrorizzava totalmente. Le sembrava che
dietro ogni angolo si potesse nascondere una minaccia.
«Va
bene, allora» riprese parola John, aiutando Emily ad alzarsi. «Andiamo a dare
una mano a Sherlock.»
Sulla Londra di quella sera si era alzato un
freddo vento di inizio febbraio. Le brevi e frequenti folate sferzavano il
volto, i capelli e gli abiti dei due presenti, ancora uno di fronte all’altro,
separati solo da pochi metri di pavimentazione.
Nathan era impietrito, sovrastato dal dubbio che
le ultime parole pronunciate da Sherlock avevano istillato in lui. Si rifiutava
di credere che il detective avesse capito il suo piano al punto di sapere
perfettamente a cosa stava andando incontro. Lo aveva studiato talmente bene,
lavorando con cura per poter rimanere nascosto pur operando alla luce del sole
in un modo che neanche il famigerato Sherlock Holmes avrebbe potuto immaginare.
Era certo che stesse bleffando.
Tornò a tendere i muscoli per la rabbia, improvvisamente
stancatosi di quella loro conversazione. Il detective lo aveva fatto ugualmente
parlare nonostante lui si fosse ripromesso di non farlo. Tuttavia gli importò
poco dal momento che non gli avrebbe fatto lasciare quel tetto vivo.
«Poco mi importa» disse infine Nathan, scandendo
con rabbia quelle parola. «Mi sono stancato di parlare con te.»
Detto ciò passò immediatamente all’azione. Si
avventò su Sherlock, la lama del pugnale tesa davanti a sé. Il detective riuscì
a schivare il primo affondo solo per un soffio, facendo affidamento sui suoi
riflessi.
I due ingaggiarono subito un corpo a corpo.
Nonostante Sherlock fosse piuttosto efficace nei combattimenti ravvicinati e a
mani nude, dovette ammettere a se stesso che anche Nathan ci sapeva fare. Il
giovane era scattante, riusciva a schivare con cura ogni pugno, colpo o affondo
a cui era soggetto. Anche il detective non era da meno, sebbene dovesse fare
particolare attenzione alla lama del pugnale. La sentì un paio di volte
fischiare vicino al suo orecchio, mentre si rendeva sempre più conto di essere
in leggero vantaggio sull’altro. Il ragazzo, infatti, stava indietreggiando
verso il cornicione per poter parare i nuovi colpi sferrati da Sherlock.
Forse sentendosi alle strette Nathan riuscì a
rimontare sull’uomo. Gli assestò un paio di mosse decise, che Sherlock riuscì a
parare con il braccio, tuttavia, d’improvviso, l’altro cambiò obiettivo,
puntando il coltello al ventre del detective. Quest’ultimo fece a malapena in
tempo a schivare il fendente; si spostò verso destra in fretta, ruotando il
busto, ma sentì ugualmente la lama conficcarsi nella sua carne. Non andò in
profondità, ma percepì perfettamente il freddo metallo lacerare la pelle,
tagliando i vasi sanguigni più superficiali.
L’improvvisa ferita gli fece perdere la
concentrazione nei secondi sufficienti a Nathan per consentirgli di far perdere
l’equilibrio a Sherlock, portando quest’ultimo a rovinare a terra.
Il detective si puntellò sui gomiti, portando
una mano i corrispondenza del sangue che stava sgorgando dal suo fianco e
alzando lo sguardo per valutare la mossa successiva del suo rivale.
Nathan era esattamente sopra di lui, ora.
Sherlock continuava a tenere premuta la ferita al fianco, benché questa
sanguinasse poco. Sapeva di dover fare qualcosa in fretta e la sua mente
cominciò subito a contare le alternative possibili. Tuttavia non c’era più
tempo. La lama del pugnale si era sollevata alta sopra la testa del suo
aggressore, scintillante anche alla luce artificiale laddove il sangue non ne
increspava la superficie.
Sherlock guardò Nathan, ormai certo di non avere
più via di scampo, mentre la divertita, folle, luce negli occhi dell’altro
quasi gli impediva di poterli guardare.
Quando si preparò alla fine, però, il colpò
tardò. Un suono sordo si sollevò nell’aria: uno sparo. Il detective non sentì
alcun dolore e comprese che il colpo non era stato diretto verso di lui.
Istintivamente guardò meglio il corpo del ragazzo. Quest’ultimo aveva cambiato
espressione; sul suo volto non c’era più il desiderio di uccidere, ma una
smorfia di dolore. Sherlock seguì lo sguardo dell’altro che si abbassava lungo
il suo braccio destro, mantenendo salda la presa intorno al pugnale solo per
inerzia. Una macchia rossa scura cominciò a farsi strada fra sterno e clavicola,
allargandosi rapidamente.
Fu in quel preciso istante che Sherlock reagì.
Piegò la gamba fino a farla aderire al proprio petto, caricandola come fosse stata
una molla; poi, dopo avere appoggiato il piede nel centro esatto dell’addome di
Nathan, spinse per toglierselo di dosso.
Il corpo del giovane venne respinto indietro,
Sherlock cercò di alzarsi, rimase in ginocchio a guardare l’altro, guardarlo
mentre indietreggiava di un passo di troppo, fino al cornicione che delimitava
la fine del tetto dell’edificio. Inciampandovi contro il ragazzo perse
l’equilibrio e cadde all’indietro senza neanche gridare, lasciando che fosse il
suono ottuso del proprio corpo, tre piani più in basso, a far intendere cos’era
appena accaduto.
Sherlock continuava a fissare incredulo il punto
in cui Nathan era appena precipitato, il vento che gli sferzava i capelli, i
rumori della colluttazione di poco prima ancora nelle orecchie.
Questo non lo aveva previsto. Nemmeno Nathan
l’aveva previsto.
Che l’esito del loro incontro fosse stato
inaspettato per quest’ultimo, Sherlock lo aveva capito. Aveva visto il suo
sguardo nei secondi finali prima di volare oltre, di sotto. Aveva notato
l’incredulità, la sorpresa, lo shock che si poteva provare constatando che
qualcosa era appena andato nel modo sbagliato, nel modo in cui non ci si era aspettati.
Nathan non aveva previsto la sua morte, non l’aveva calcolata neanche nelle
possibilità, eppure era avvenuta nelle circostanze più probabili: un colpo
inatteso, una reazione, la fine.
L’uomo si alzò finalmente in piedi, ricostruì
mentalmente quella che era stata la traiettoria dello sparo che gli aveva
salvato la vita e fu infinitamente grato a John Watson per essere stato tanto
veloce.
Quando si voltò verso l’amico lo vide nel punto
esatto in cui sapeva lo avrebbe trovato, gli occhi fissi su di lui, la pistola
abbandonata su un fianco, il fiato corto. Accanto all’amico c’era Emily,
bagnata fradicia quanto il medico, tremante, sconvolta, ma illesa. L’acqua che
le aveva bagnato i capelli aveva striato di rosso il suo volto, come Sherlock
aveva già visto accadere più volte.
No. Non quella volta. L’acqua aveva, sì,
dilavato i suoi capelli, ma non era solo quello il rosso presente sul suo viso.
C’erano parti più scure, di rosso cupo, che lentamente rilasciava il suo colore
più intenso e brillante rispetto alla tinta ciliegia dei capelli della ragazza.
Quello era sangue, incrostato all’altezza della tempia, dove certamente Emily
era stata colpita quella mattina al momento del suo rapimento.
Sherlock corse verso gli amici, il cappotto che ondeggiava
al vento come il mantello di un supereroe. Quando raggiunse Emily le posò
entrambe le mani sulle spalle, ma non appena lei sentì il suo tocco su di sé,
caldo e rassicurante, si inginocchiò sul pavimento, coprendosi il volto con le
mani.
«Mi dispiace» prese a dire, la voce rotta. Era sconvolta
e sull’orlo delle lacrime. «Mi dispiace così tanto.»
Sherlock si inginocchiò di fronte a lei. Sapeva
che la ragazza si sentiva responsabile della loro presenza lì. Sapeva che era
convinta che se Nathan non l’avesse rapita, se lei non si fossa fatta ingannare
dal ragazzo, lui non avrebbe rischiato di morire, così come anche John non
avrebbe corso alcun rischio. Tuttavia quello che Sherlock sapeva con assoluta
certezza era che, indipendentemente da ciò che Emily avrebbe potuto fare, Nathan
avrebbe ugualmente trovato il modo di portarli tutti in quell’edificio.
L’uomo le prese il volto fra le mani,
avvicinandosi di più alla ragazza. «Ehi» cercò di farle forza. «Guardami, Emi, guardami.»
La costrinse a guardarlo negli occhi. La ragazza
era fragile, gli occhi azzurri pieni di lacrime, qualche leggera riga di rosso
ancora visibile sul volto.
Sherlock abbassò il tono della voce: «Non è
stata colpa tua, ok? Non è stata colpa tua» scandì accuratamente.
Lei rimase a osservarlo, senza dire nulla.
L’uomo le sorrise e con lo stesso tono di pochi
istanti prima continuò: «E sono grato che tu sia salva.»
Emily si sentì cedere a quelle poche parole.
Sorrise di rimando all’amico, ma poi non fu più in grado di mantenere
l’autocontrollo. Le lacrime cominciarono a sgorgare, la voce le si ruppe e lei
si lasciò andare al pianto, stringendosi al petto di Sherlock. Lui ebbe un
attimo di esitazione ma si ricompose in fretta. Si sfilò il cappotto e lo
avvolse intorno alle spalle della ragazza, ancora zuppa di acqua, dopodiché,
una mano sulla sua nuca, la lasciò libera di sfogarsi.
Era andato tutto per il meglio; sia lui che Emily
erano salvi e non aveva dubbi su chi fosse il responsabile di un tale successo.
Sollevò lo sguardo alla sua sinistra, quel tanto che bastava per incrociare gli
occhi del suo amico più fidato. John era immobile accanto a loro, intento a
guardarli. Rispose immediatamente all’occhiata del detective, lasciandosi
sfuggire un sorriso di sollievo, che si allargò via via a tutto il suo volto.
Guardandolo, Sherlock non poté fare a meno di replicare alla stessa maniera.
*
Era un continuo baluginare di luce blu quello
che stava illuminando la struttura della piscina e i palazzi confinanti con
essa. I lampeggianti delle volanti della polizia e le due ambulanze quasi
illuminavano a giorno il cortile.
Sherlock aveva già avuto modo di parlare con
Lestrade, di raccontargli quello che era successo e l'identità dell'assassino
del giudice Walker e di Horvat.
Nathan West, quello era il cognome esatto del
ragazzo, il cognome della madre. Lestrade aveva detto al detective che Scotland
Yard lo stava tenendo sotto osservazione da diversi anni, più o meno da quando
avevano cominciato a sospettare che, nonostante l'età, il ragazzo fosse
invischiato in traffici illeciti di droga e riciclaggio di soldi sporchi.
Tuttavia era sempre riuscito a farla franca, forse anche grazie al fatto che
nella Londra di tutti i giorni aveva davvero pochi contatti e, di conseguenza,
poche persone in grado di complicare i suoi alibi.
L'ispettore aveva poi concluso dicendo a
Sherlock che la sua morte sarebbe passata come un incidente – come poi sembrava
essere – dal momento che i primi rilievi della scientifica avevano informato
che il colpo sparato da John non era stata la causa della sua morte. Nathan era
morto in seguito alla caduta dal tetto dell'edificio.
Dopo aver parlato con Sherlock Lestrade si era
fermato da Emily, alla quale stava chiedendo tutta l'evoluzione del suo
rapporto con il killer. Consapevole di dover trattare con una persona in
evidente stato di shock, l'ispettore si era accuratamente preparato. Aveva
fatto in modo che venisse recapitato a Emily un tè caldo, nella speranza di
calmarle i nervi. La bevanda aveva sortito un effetto ridotto, ma stava
comunque funzionando. Dopo un primo momento di impossibilità, più per la paura
ancora radicata in sé che per altro, la ragazza era riuscita ad aprire bocca,
cominciando a rispondere alle domande incalzanti ma calibrate che Lestrade le
stava sottoponendo con tutta la delicatezza di cui era capace. Mano a mano che
raccontava come si erano svolte le cose all'ispettore, senza omettere alcunché,
dichiarando di aver creduto a ogni parola che usciva dalle labbra di Nathan –
per lei Richard – la ragazza si sentiva sempre più stupida. Pensare a quanto
aveva permesso che le venisse fatto, che accadesse, al coinvolgimento di
Sherlock e John che aveva consentito. Tutto la faceva sentire inadatta,
soprattutto per una che aveva sempre sostenuto di essere in grado di capire con
chi aveva a che fare. Dovette farsi forza per non scoppiare in lacrime davanti
a Lestrade mentre lui, ogni volta che si rendeva conto di come lei fosse vicina
al limite, le dava tutto il tempo di cui aveva bisogno, aspettando che
riprendesse parola.
Distante da loro, ma nella perfetta linea d'aria
dell'ispettore e della coinquilina, Sherlock era seduto su un muretto, intento
a osservare i due. Guardava con attenzione Emily, avvolta nella coperta
arancione fornitale dall'autoambulanza, il bicchiere di carta contenente la
bevanda calda fra le mani. Sembrava ancora più piccola di quanto fosse e
fragile come Sherlock non l'aveva mai vista.
Si sentiva strano. Avrebbe tanto voluto che lei
non avesse dovuto vivere niente di quello che le era appena accaduto; non lo
meritava.
Qualcuno si fermò alla sua destra. Sollevando lo
sguardo ebbe modo di notare John, anche lui avvolto nella coperta arancione,
che teneva però aperta come fosse un mantello.
I due si guardarono senza dire nulla, infine
Sherlock tornò a rivolgere la sua attenzione sulle figure di Emily e Lestrade.
«Il figlio di Darrell Scott, quindi?» prese
parola John.
«Già» rispose il detective, dopodiché, senza
aspettare altre domande, raccontò tutto a John. Gli disse ogni cosa avvenuta
sul tetto dell’edificio solo poche ore prima, ogni parola che lui e il killer
si erano scambiati.Gli descrisse le
indagini che aveva iniziato a svolgere, di come non avesse mai accantonato a
possibilità che qualcuno vicino a Scott fosse coinvolto in tutti quegli
avvenimenti. Raccontò al medico di come aveva voluto accertarsi di chi fosse
Richard nel momento in cui Emily gli aveva parlato di lui e di come aveva
capito, anche grazie alla sua rete di senzatetto, che Scott aveva un figlio e
che lui era il responsabile degli omicidi.
Non riuscì, però, a dirgli che gli era servito
tempo ulteriore per collegare i due ragazzi che lui credeva essere due persone
distinte quando invece non lo erano affatto.
«Perciò tu sapevi che lui e Richard erano la
stessa persona?»
Sherlock sospirò di fronte a quella
domanda.
«No» ammise. Quella sillaba parve rimbombare a
lungo nell'aria. «Tenevo d'occhio Emily perché trovavo sospetto quello che le
stava succedendo. Non chiedermi perché, non lo so con esattezza, me lo sentivo
e basta. Sapevo che l’assassino che stavamo cercando era il figlio di Scott, ma
ho capito che si trattava anche di Richard solo questo pomeriggio, quando era
già troppo tardi. Ho collegato tutti gli avvenimenti tardi» concluse,
abbassando la voce sul finire della frase.
«Ma tu avevi detto di "avere un sospetto",
così hai detto, quindi dovevi averlo capito. Quando Sherlock Holmes ha un
sospetto è sempre quello esatto» insistette il medico.
«Io avevo intrappolato il figlio di Scott, era a
lui che puntavo. Non ho litigato con Emily perché lei lo dicesse a Richard,
l'ho fatto perché volevo convincere Nathan che era riuscito a destabilizzarmi
psicologicamente.»
Sospirò a quel pensiero, sentendosi nuovamente
strano. Era dispiaciuto. Davvero era quello il sentimento che stava provando al
pensiero di cosa era accaduto a Emily perché lui non aveva fatto il
collegamento corretto in tempo? Odiava quella sensazione, lo faceva sentire
oppresso.
John notò la frustrazione nella voce di
Sherlock, una nota leggera ma pur sempre presente. Il detective aveva
individuato l’assassino anche quella volta, eppure sapeva che la sua non era
stata una vittoria degna di quel nome. Con molta probabilità ciò era legato a
Emily. Il medico capì che Sherlock non sentiva di aver vinto proprio perché la
sua coinquilina era stata tanto dolorosamente coinvolta in quella storia. John
sapeva che il cruccio del suo amico, in quel momento, era legato al fatto che
se lui avesse capito prima che il vero pericolo era Richard, e lui soltanto,
avrebbe potuto impedire una simile sofferenza a una ragazza totalmente
innocente e tanto sensibile quale era Emily.
John abbassò lo sguardo su Sherlock, ancora immobile
a osservare la coinquilina. Sorrise leggermente rendendosi conto che il suo
migliore amico, notoriamente un uomo distaccato, cominciava a non esserlo più
così tanto.
Dopo lunghi minuti di silenzio, in cui ciascuno
dei due presenti ebbe modo di far lavorare il cervello per conto proprio,
Sherlock riprese parola: «Come sta?» chiese al medico, indicando con un cenno
del capo in direzione della ragazza.
«L’hai vista anche tu, tutto sommato è illesa»
rispose calmo l’altro, consapevole che la ferita alla testa di Emily non era
niente di veramente grave.
A quell’affermazione seguì un nuovo silenzio,
che durò solo pochi secondi.
«No, voglio dire… come… come sta?»
John si voltò verso Sherlock, senza capire a
cosa si stesse riferendo. Fece vagare confuso lo sguardo dal suo amico alla sua
coinquilina, intuendo solo in quel momento a cosa si stava riferendo.
«Oh» esclamò. «È un po’ sotto shock, ma è normale. Starà
benone, vedrai.»
I due si guardarono intorno, a metà fra
l’imbarazzo e il nervosismo. Era un clima curioso quello che si respirava fra
di loro, uno di quei momenti in grado di far sentire le persone impreparate.
Fu nuovamente Sherlock a spezzare l’atmosfera: «Come
ci riesci, John?» domandò.
Non stava guardando il medico, avevano
nuovamente posato lo sguardo davanti a sé, fisso.
«A fare cosa?» chiese in risposta
l’interpellato, non capendo quale fosse l’argomento.
«A convivere con questo ammasso caotico e privo
di senso dentro di te. Come fai a resistere alla tentazione di metterlo a
tacere per sempre, pur di non sentirti uno stupido?»
Nuovamente il medico impiegò un po’ per intuire
perfettamente di cosa stava parlando l’amico. Ci riuscì dopo aver dato una
lunga occhiata a Sherlock, che sembrava essersi irrigidito più del necessario.
Era infastidito da qualcosa e c’era una sola cosa in grado di urtare a tal
punto il detective. «Parli dei sentimenti?»
«Sì, quelli» replicò con fare scocciato.
John si ritrovò a ridere leggermente,
curiosamente divertito dalla piega che stavano prendendo gli avvenimenti. «Imparerai.
Tutti li abbiamo e tutti impariamo a conviverci» rivelò.
«Stronzate. Stavo molto meglio prima.»
Nuovamente il medico si lasciò sfuggire un
sorriso. «Non ne sarei così sicuro. I sentimenti non sono male se accetti di
provarli, prima o poi ti dovrai arrendere a questa idea.»
«Mai» esclamò Sherlock, categorico.
«Eppure eccoti qui, a provarli» riprese con
calma l’altro. Il detective sollevò lo sguardo, puntandolo sull’amico.
«Ti è capitato, Sherlock. Hai incontrato persone
che sono riuscite a toccarti più di altre. Succede così di solito. Conosci
amici, colleghi, qualcuno che per un motivo o per l’altro fa scattare qualcosa
di diverso in te. Può essere un coinquilino, la donna giusta, o la studentessa
che vuole scrivere la tesi sul più improbabile degli eroi» a quelle parole entrambi
guardarono Emily. «Ed è così che si finisce con il provare sentimenti.»
Sherlock non replicò, limitandosi a un sonoro
verso di stizza.
«Ma stai tranquillo» lo rassicurò il medico. «Il
fatto che tu abbia appurato di avere un cuore non significa che non continuerai
a essere lo stronzetto arrogante, saccente e dall’ego smisurato che eri il
giorno in cui ti ho incontrato la prima volta.»
Un leggero sorriso increspò le labbra di
Sherlock, ma si rifiutò di darlo a vedere proprio a John.
Il detective si alzò in piedi, sancendo così la
fine di quel botta e risposta. Si sistemò gli abiti e il cappotto, facendo
scivolare istintivamente la mano destra sul tessuto strappato della sua
camicia, sentendo poi la ferita che Nathan gli aveva procurato. Il sangue si
era coagulato sulla carne; il taglio non bruciava più ma faceva comunque
abbastanza male. Sapeva che sarebbe guarito nel giro di pochi giorni, come per ogni
altra ferita fisica. Guardò Emily ancora una volta, chiedendosi quanto sarebbe
servito a lei per cancellare dalla sua mente tutto quello che era successo.
I sentimenti. Fastidiosi difetti chimici. Lui
era in grado di manipolare la chimica, allora perché non riusciva a riordinare
lo snervante caos che aveva dentro e darlo in pasto alla sua gelida ragione?
Si spettinò i capelli così da poter riavere
controllo di sé. Fissò Lestrade sfiorare con delicatezza le mani di Emily,
abbassare il volto per guardarla negli occhi e sorriderle prima di allontanarsi
da lei. La ragazza rimase seduta sul retro dell'ambulanza, sola e Sherlock capì
che avrebbe dovuto fare qualcosa. Dopotutto era la sua coinquilina.
La raggiunse con passo sicuro, sotto allo sguardo
affabile di John, rimasto in disparte. Appena fu da lei le si sedette accanto,
nello spazio rimasto libero sul retro del mezzo.
Emily osservò il profilo di Sherlock, ma prima
che lui potesse rispondere al suo sguardo, lei tornò a voltarsi. Si strinse
maggiormente nella coperta, serrando anche la presa intorno al bicchiere di
carta ormai vuoto.
«Lestrade è stato gentile con te?» domandò senza
apparente motivo il detective. Forse lo fece più per stemperare l’atmosfera che
per vera curiosità.
«Sì» rispose semplicemente la ragazza.
Fra i due piombò un silenzio pesante, uno di
quelli che non avevano mai vissuto neanche nel loro periodo più teso fra le
mura del 221B di Baker Street. Sherlock si lambiccò il cervello fin da subito
nella speranza di riuscire a dire qualcosa in grado di far sentire meglio
Emily, ma tutto era per lui troppo complesso. Provò a pensare a cosa avrebbe
potuto dire John, o Mary in una situazione del genere, ma la cosa contribuì a
confonderlo ulteriormente.
«Mi sento una stupida» mormorò all’improvviso
Emily. Lo disse piano, come arrendendosi. «Avrei dovuto capirlo. C’erano gli
elementi per capirlo e non l’ho fatto. E pensare che sono sempre stata convinta
di intuire subito con chi ho che fare, forse non sono poi così brava.»
Il detective capì finalmente qual era il
problema della ragazza: il senso di inadeguatezza. Quello, misto alla
frustrazione e allo shock ancora presente in lei, la stavano facendo sentire
impotente. Una volta intuito ciò fu piuttosto semplice per lui capire in che
direzione procedere. Dopotutto sedeva accanto a una ragazza intelligente di cui
conosceva ormai bene le qualitàe sapeva
che tutto poteva essere, tranne inadatta.
«Non devi sentirti in colpa. Nathan ha lavorato
bene e ha agito quando tu eri più vulnerabile. Conosceva bene la psicologia
delle persone ed era molto intelligente. Semplicemente ha saputo come
comportarsi con te per non destare alcun sospetto.»
Alle parole del detective seguì un nuovo, lungo,
silenzio. La mente di Emily tornò inevitabilmente a tutti i momenti che aveva
trascorso con Nathan, quando era convinta che si trattasse di un’altra persona
e, soprattutto, di una buona persona. Cercò di allontanare quei pensieri ma non
ci riuscì; erano lì e lì sarebbero rimasti a lungo, insieme all’ammasso di
sentimenti caotici che le vorticavano dentro ogni volta che ci ripensava,
sentimenti forti, per lo più negativi. Si disse che avrebbe superato quel
momento, ma sentendo la gola chiudersi nuovamente capì che le sarebbe servito
davvero tanto tempo per riuscirci.
«Emi, mi dispiace.»
La voce di Sherlock si sollevò leggera come una
carezza. Colse Emily impreparata e fu in grado di scacciare in un solo istante
tutti i fantasmi e i ricordi che avevano affollato la sua mente.
Si voltò immediatamente a guardarlo, convinta di
aver capito male. «Come?» chiese.
«Ho detto che mi dispiace.»
La ragazza spalancò gli occhi, sorpresa.
Sherlock rimase fermo nella sua posizione, riprendendo parola: «Tu non mi hai
mai chiesto niente in tutto questo tempo. Tuttavia l’unica volta in cui avevi
bisogno di me mi sono comportato nel peggiore dei modi. Sono stato molto, molto
più stronzo del solito e mi dispiace. Non meritavi niente di tutto questo.»
Emily si ritrovò a ripetere quelle parole nella
propria mente, sensibilmente colpita. Non era tanto il fatto che Sherlock si
fosse scusato, bensì il modo in cui si era scusato. Con quelle parole il
detective non aveva fatto altro che assumersi la responsabilità di tutto,
dichiarando che avrebbe potuto evitarlo in qualche modo. La ragazza si sentiva
terribilmente in colpa per il modo in cui si era lasciata ingannare da Nathan,
ma le scuse che Sherlock le aveva appena rivolto le permisero di intuire che
lui non la considerava responsabile. Si erano trovati di fronte a una persona
intelligente ed organizzata, qualcuno che aveva lavorato così bene da riuscire
a prevederli; nessuno poteva averne colpa.
Emily si sentì scaldata dalle parole di
Sherlock, rassicurata. Stavano facendo pace, parlando di quello per cui lei, la
sera prima, aveva aspettato invano il detective. Per quanto assurdo potesse
apparire, quella spaventosa avventura stava diventando il modo per rafforzare
un legame allentato.
I limpidi occhi celesti di Sherlock continuavano
a guardare la ragazza, mentre quest'ultima ritrovava parte della sua sicurezza.
Avrebbe dovuto farsi forza, molta forza, per riuscire a superare quello che le
era accaduto, tuttavia capì che non avrebbe dovuto farlo da sola e,
soprattutto, che aveva accanto qualcuno che non l'avrebbe abbandonata.
Davanti a quella consapevolezza, Emily non poté
fare a meno di sorridere.
«Grazie Sherlock. Mi hai salvato la vita» gli
disse poi.
«Tecnicamente è stato John» le fece notare l’uomo.
Lei si strinse nelle spalle. «Ho già ringraziato
John per quello che ha fatto. Più volte. Però, francamente, credo sia stato tu
a capire di dover venire fin qui. Voglio bene a John, ma non si può negare che
impieghi qualche minuto in più a capire questo genere di cose» concluse, con
dolcezza.
«Sono d’accordo.»
«Poi, un giorno, mi spiegherai come hai fatto a
capire chi c'era dietro a tutto questo e di come sei riuscito a scoprire così
tante cose sul suo conto» proseguì la ragazza, ripensando appena a tutta quella
storia. «Mi servono per la tesi. E poi sono curiosa» aggiunse, davanti
all'occhiata di Sherlock.
«Per la tesi» ripeté lui. «Sì, qui c'è del materiale
che può esserti utile.»
«Lestrade mi ha già detto un po' di cose. Quelle
importanti, per lo più» rivelò Emily.
Il detective fissò torvo in direzione
dell'ispettore, concentrato a raccogliere la testimonianza di John.
«Beh, Greg non sa tutto. Io invece sì.»
La ragazza guardò Sherlock sorpresa. «Lo hai
chiamato Greg» esclamò.
«E allora? Si chiama così» replicò in tono ovvio
l'altro.
«Sì, esatto. Te ne sei ricordato.»
Sherlock si alzò, cercando accuratamente di non
mostrare il sorriso divertito che gli aveva arricciato le labbra. «So che si
chiama Greg, per chi mi hai preso? Però tu evita di dirglielo.»
Emily rise, portandosi una ciocca di capelli
rossi dietro l'orecchio. Per il detective quello fu un segnale. La ragazza
stava meglio, lo shock era passato e il suo innato buonumore era pronto a fare
ritorno da lei. Si sentì rincuorato dalla cosa, ma non lo diede a vedere. Ora
che tutto era finito voleva solo tornare a casa, suonare il suo violino, fare
due chiacchiere con John, magari davanti a un tè e archiviare il caso in uno
dei punti più sicuri della sua mente, portando Emily con sé.
Le
era servito un anno. Tutto quel lungo lasso di tempo era stato necessario per
mettere insieme le duecentocinque pagine della sua tesi, allo scopo di
raggiungere il fatidico giorno del Master.
Ottobre
era prossimo ad arrivare su Londra, mentre gli ultimi giorni di settembre
stavano trascorrendo piuttosto miti e soleggiati.
Emily
si era ricongiunta con la propria famiglia all’ombra della LondonMetropolitanUniversity, la
toga nera bordata di viola e il tocco in testa. Il suo grande giorno era finalmente
arrivato. Aveva discusso1 la tesi di Master quella stessa mattina,
per poi attendere l’esito della commissione e la celebrazione ufficiale insieme
agli altri studenti laureatisi in quella stessa sessione.
Nel
momento in cui aveva dovuto esporre i propri mesi di lavoro, stesi su una
moltitudine di fogli bianchi ben impaginati e rilegati, la ragazza si era
mostrata sicura e capace, mostrando che tutti i suoi mesi di lavoro avevano
portato i propri frutti.
Come
da intenzione, nel momento in cui aveva deciso di iscriversi al Master, era
riuscita a scrivere ciò per cui aveva voluto continuare gli studi. La sua tesi
era un perfetto approfondimento sulla psiche complessa ma quanto mai
affascinante di Sherlock Holmes, una mente che la ragazza aveva studiato e
analizzato per mesi, nella speranza di riuscire a scrivere accuratamente della
sua complessità. Sentiva di esserci riuscita e di essere anche riuscita a
presentarla alla commissione per quello che era veramente: eccelsa. Ne aveva
descritto le qualità, le capacità, la rapidità e la fredda dote calcolatrice,
concludendo che solo in un uomo dotato di umanità, buonsenso e buone qualità,
tutte quelle peculiarità potevano convivere e lavorare per il bene comune.
Quel
disegno di sé aveva lasciato leggermente perplesso il diretto interessato; per
sicurezza, infatti, Sherlock aveva cominciato a rispondere torvo alle occhiate
dei presenti che lo avevano riconosciuto.
Tuttavia,
nonostante la perplessità con cui il detective aveva accolto le considerazioni
della ragazza, Emily credeva fermamente nelle sue parole. Non aveva dimenticato
niente di quello che Sherlock aveva fatto per lei dopo essere stata salvata da
lui e John alla piscina. Il detective non aveva mai fatto niente che lasciasse
trapelare l'intenzione di voler aiutare la ragazza, ma lei aveva imparato a
leggere i gesti e gli sguardi mano a mano che procedeva nell'approfondire la
personalità e la mente dell'uomo con il quale conviveva.
Le
era servito tempo, molto tempo per riuscire a superare la vicenda di Nathan
Scott, per riuscire a non sentirsi ingenua e frustrata ogni volta che tornava
con la mente a quei momenti. Molte cose le ricordavano il ragazzo: il campus,
la caffetteria, la tavola calda sotto casa, perfino Sherlock e John. Riuscire
ad andare avanti quando così tante cose la riportavano indietro non fu affatto
semplice per la ragazza, ma ci era riuscita solo grazie alle due cose in grado
di aiutare chiunque nei momenti peggiori: il lavoro e l'amicizia. Si era
buttata a capofitto nella stesura della propria tesi, lasciando fuori tutti i
possibili rimandi alla vicenda di Nathan. Aveva fatto il possibile per non
rimanere mai sola, appurando con piacere che nessuna delle persone a lei vicine
a Londra sembrava intenzionata a fare lo stesso. John e Mary passavano a
trovare gli inquilini del 221B di Baker Street spesso, portando sempre la
piccola con loro. Mrs. Hudson invitava ogni giorno Emily a prendere un tè nel
suo appartamento e se non scendeva la ragazza allora saliva lei, sfidando il
caos tipico di un'abitazione vissuta da Sherlock Holmes. Quest'ultimo, poi,
nonostante la sua ostentata indifferenza era quello l'aveva aiutata più di
chiunque altro. Il giorno dopo l'accaduto aveva raccontato tutto a Emily, senza
omettere il minimo particolare. Aveva soppesato le parole affinché
l'oggettività della sua esposizione non facesse sentire la ragazza inadatta e
c'era riuscito perfettamente. Alla fine del suo racconto Emily si sentiva
frustrata, certo, ma il sentimento che più la riempiva era l'ammirazione per la
mente brillante di Sherlock e per il modo in cui l'aveva fatta funzionare
ancora una volta.
Da
quel momento in poi le cose fra loro erano tornare a essere le stesse. Emily
continuava a studiare Sherlock; l'uomo, invece, accettava i casi sottoposti a
lui da Lestrade e coinvolgeva la ragazza nelle indagini. Quando non aveva nulla
su cui lavorare allora si dedicava alle sue ricerche, al suo blog o suonava
lunghe melodie al violino. Quest'ultima cosa, soprattutto, aveva iniziato a
farla perlopiù a tarda sera, spesso quando Emily si era appena coricata. Dal
momento che non lo aveva mai fatto prima, la ragazza aveva sospettato che
l'uomo lo facesse per lei, che suonasse meravigliosamente le lunghe
composizioni di Bach solo per consentirle di addormentarsi mentre la sua mente
viveva qualcosa di bello. Non glielo aveva mai chiesto, più per paura di
sentire la vera motivazione che per altro e aveva trascorso i giorni successivi
a crogiolarsi in quell'idea confortante.
Alla
fine, uno dopo l'altro, i mesi erano trascorsi, gli appunti avevano cominciato
a divenire capitoli, le deduzioni di Sherlock materiale nuovo. Una volta aver
individuato il bandolo della matassa Emily aveva cominciato a scrivere senza
sosta, sostenendo gli esami con rinnovato entusiasmo e senza perdere neanche un
giorno utile così da conseguire il suo più grande successo con la
consapevolezza di aver dato tutta se stessa.
Quel
successo era arrivato. La ragazza si sentiva elettrizzata come non mai sotto al
sole di ottobre, in quella città, Londra, che aveva imparato in gran fretta ad
amare. Teneva il tocco fra le mani mentre continuava a parlare con i propri
genitori, i suoi tre fratelli intorno come robuste guardie del corpo.
A
poca distanza John, Mary e Mrs. Hudson osservavano quella piacevole scena
familiare insieme a uno Sherlock che ostentava indifferenza, sebbene il suo
sguardo chiaro fosse ben fisso sul volto della sua coinquilina. Lo fece deviare
per un solo, breve, momento oltre la ragazza, iniziando poi a pensare.
«Trovo
che sia stata così brava» disse d'improvviso Mary. Aveva mostrato fin da subito
di avere un debole per Emily e quel giorno non aveva potuto fare a meno di
sentirsi come un'orgogliosa sorella maggiore davanti alla ragazza in toga. John
le sorrise, mentre Mrs. Hudson le dava ragione.
I
quattro continuavano a stare a distanza dalla famiglia Price per dare loro modo
di stare insieme. Con il trasferimento di Emily a Londra, sebbene Newport non
distrasse che qualche ora di treno, i sei membri di quella famiglia avevano
sempre meno tempo per ritrovarsi riuniti insieme. Davanti allo scambio di
lunghi abbraccia fra la ragazza, i genitori e i fratelli, le amicizie londinesi
di Emily avevano avuto modo di capire quanto fossero uniti fra di loro. La
ragazza aveva poi presentato ogni parente ai suoi nuovi amici, stendendo un
breve elogio per ciascuno a ogni stretta di mano. Aveva descritto John, Mary e
Mrs. Hudson con estrema dolcezza, tenendo un occhio di riguardo per Sherlock,
il reale motivo per cui lei si trovava lì. I suoi genitori avevano poi
conversato con il medico e con un monosillabico detective, ringraziandolo di
cuore per aver salvato la loro unica figlia mesi indietro. Non avevano fatto
loro regali, avevano semplicemente mostrato il riconoscimento più sincero di
cui fossero stati in grado e la cosa, ai due uomini, aveva fatto molto più
piacere di quanto avevano dato a vedere.
A
tutto ciò era seguita la discussione della tesi e l'attesa della proclamazione.
L'ultima cosa era ancora in corso, ma tutti sembravano essere piuttosto certi
del successo della studentessa.
Emily
si staccò dalla sua famiglia, avviandosi in direzione del gruppo di quattro
amici che se ne stava ancora in disparte. Lo raggiunse sorridendo e incassò
radiosa i complimenti delle due donne presenti, che elogiarono anche il modo in
cui la toga le ricadeva.
«Non
credevo che qualcuno potesse essere capace di parlare tanto bene di Sherlock»
osservò Mrs. Hudson, strappando un sorriso a Emily.
«Ho
dovuto lavorare molto per riuscirci, infatti» rispose la ragazza.
«Stai
per conseguire un Master in criminologia, Emi, ci pensi?» domandò Mary.
«Lo
so! Ancora non mi sembra vero» esclamò lei, entusiasta.
«Hai
pensato a cosa fare dopo?» chiese John.
La
ragazza rifletté un momento. Non aveva ancora deciso cosa fare. Non aveva
neanche pensato se tornare a Newport o rimanere lì, a Londra, dove ormai
sentiva di essersi costruita una casa. Aveva cercato spesso di prendere una
decisione, ma la rinviava sempre perché sentiva quel giorno ancora lontano. Ora
che il momento di decidere era arrivato lei davvero non sapeva cosa fare. Pensò
fosse una buona idea rifletterci su ancora alcuni giorni, ma si trovò a
chiedersi se per farlo correttamente sarebbe dovuta tornare a casa, in Galles,
o rimanere lì.
Capì
che l'unica risposta giusta da dare a John era anche la più ovvia.
«Mi
cercherò un lavoro.»
Il
medico sorrise, come consapevole del fatto che avrebbe ricevuto una simile
risposta.
«È
quello che sperava di sentirti dire Lestrade» disse, lasciando perplessa la
ragazza. «Mi ha dato questo per te. Si scusa di non essere potuto venire qui
oggi, ma era di servizio.»
Dalla
tasca della giacca estrasse un foglio di carta A4 ripiegato su se stesso. Lo
tese a Emily, la quale lo afferrò, lo dispiegò ed ebbe modo di notare
immediatamente il logo di Scotland Yard in alto a destra, insieme a un’altra
serie di stemmi della città e del servizio d’ordine.
Era
una domanda di lavoro, in parte già compilata dall’ispettore in persona. Emily
intuì che, proprio come per la South Wales Police, Scotland Yard avesse
valutato l’ipotesi di arruolarla come psicologa criminale. Si trattava
ovviamente di un periodo di apprendistato – lungo anni, sicuramente – ma era
una prospettiva e alla ragazza piacque particolarmente sapere che l’idea era
nata da Greg Lestrade in persona.
«Sono
certo che l’ispettore è più che disponibile a scrivere una lettera di
raccomandazione per te» le rivelò John, osservando soddisfatto il modo in cui
Emily continuava a far scorrere gli occhi sulla scheda in parte compilata.
La
ragazza non riuscì a fare a meno di immaginarsi nelle vesti di psicologa
criminale per Scotland Yard. Si immaginò alle prese con casi emozionanti e
misteriosi come alcuni di quelli che aveva già affrontata stando accanto a
Sherlock. Solo l’idea l’aveva elettrizzata.
«Dirò
a Lestrade che penserò alla sua offerta. Ringrazialo se dovessi vederlo prima
di me» disse infine, rivolgendosi al medico.
Quest’ultimo
acconsentì con il capo, ma non riuscì a dire nulla prima che la voce di
Sherlock si levasse: «Non vorrai davvero lavorare per Scotland Yard, spero.
Quello sarebbe buttare al vento le tue capacità» disse in tono piatto.
Emily
si voltò a guardarlo. Analizzò attentamente l’uomo in cerca di una sfumatura
nei suoi occhi. Sebbene in quell’anno avesse imparato a conoscerlo continuava
ugualmente a non essere semplice riuscire a decifrare i suoi modi di fare.
«Lo
prendo come un complimento, Sherlock» rispose al detective, regalandogli un
sorriso.
In
cambio ricevette solo un’alzata di sopracciglio, ma il resto dei presenti rise
a quel veloce scambio di battute fra una coppia di amici che aveva imparato a
convivere con il tempo. Senza dire nulla, ma intuendo ciascuno le intenzioni
dell’altro, John, Mary e Mrs. Hudson cominciarono a conversare fra loro,
tenendosi in disparte e lasciando i coinquilini del 221B uno accanto all’altra.
Sherlock
guardò gli altri tre leggermente irritato; non sopportava che lo ignorassero a
tal modo o, meglio, che usassero simili trucchetti con uno come lui, che li
prevedeva tutti ma ne rimaneva sempre ugualmente infastidito.
«Cosa
te n’è parso della tesi?» domandò di punto in bianco la ragazza, nonostante
avesse già sottoposto svariati capitoli al giudizio severo del detective.
«L’analisi
psicologica è ben strutturata» rispose impassibile. «La conclusione non l’avrei
assolutamente fatta così.»
«Ma
è la parte più importante, quella in cui spiego che non sei un serial killer
per il semplice fatto che hai buone qualità che ti rendono umano» ribatté
subito lei, stupita.
«Appunto
per questo.»
Emily
notò Sherlock sorriderle, sebbene leggermente. Rimase a guardarlo un momento, alla fine
sospirò.
Pensò
che tornare a Newport significava allontanarsi da Sherlock, dal 221B di Baker
Street e da tutto quello che ruotava intorno a quell’uomo e a quella casa. Non
voleva che avvenisse. Quando un anno prima aveva raggiunto Londra non poteva
immaginare che si sarebbe legata tanto a un soggetto che aveva intenzione di
studiare, né che sarebbe rimasta toccata tanto profondamente dai suoi amici e
dalla sua città. Forse era Londra il suo posto; forse il fatto che Sherlock
l’avesse accettata sotto il suo stesso tetto era stato il momento di svolta
della sua intera vita.
Avrebbe
sentito sempre la mancanza di Newport e della sua famiglia, tuttavia in quel
momento si ritrovò a sentirsi quanto mai spinta a rimanere sotto il cielo
londinese per il resto dei suoi giorni.
Stropicciò
leggermente la domanda di lavoro di Scotland Yard che ancora teneva in mano e
le parve che perfino la carta la stesse chiamando a sé. Aveva una tale amalgama
di sentimenti dentro che per un momento sperò di non provarne più nessuno.
«Penso
che ci sia qualcosa che possa interessarti» riprese parola il detective.
Risvegliò Emily dai suoi pensieri e la ragazza si voltò a guardarlo,
incuriosita.
«Tipo?»
domandò. Il modo in cui lui riusciva a coinvolgerla in fretta non era
paragonabile a quello di nessun altro.
Sherlock
indicò con un cenno più avanti, in mezzo a un gruppo di persone accanto a una
delle porte d’ingresso che portavano all’ampia aula magna. Indicò con estrema
discrezione, tanto che la ragazza non capì dove doveva guardare.
«Lo
vedi quel ragazzo con il maglione nero?» la incalzò l’uomo, lievemente
infastidito dalla scarsa reattività a percepire con esattezza le nozioni della
sua coinquilina.
Emily
individuò il giovane che Sherlock le aveva indicato. Era un ragazzo alto,
robusto, dai lineamenti morbidi e molto belli. Stava in piedi vicino ad altre
persone ma era chiaro che non fosse insieme a nessuna di loro. Teneva le mani
nelle tasche dei pantaloni, mentre una lingua di sole che era riuscita a
sfuggire alla morsa delle pareti evidenziava le sfumature ambrate dei suoi
capelli castani.
«E
allora?» chiese la ragazza, non capendo dove volesse arrivare il detective.
Ecco cosa aveva omesso nella sua tesi, il fatto che spesso – troppo spesso –
Sherlock desse per scontato l'argomento di una conversazione o ciò a cui si
doveva dedicare l'attenzione.
«Allora,»
attaccò, sbuffando, «ha seguito tutta la discussione della tua tesi senza
toglierti gli occhi di dosso un solo attimo, totalmente catturato da quello che
stavi dicendo.»
«Sul
serio?»
«Oh
sì, non vorrai mettere in dubbio la mia dote analitica, spero. Hai appena esposto
centinaia di pagine in cui continuavi imperterrita a elogiarla» replicò
immediatamente lui, punzecchiando la ragazza.
«Io...
No, che c'entra? Volevo solo... lascia perdere» borbottò Emily.
Non
notò il sorrisetto affiorato sulle labbra di Sherlock, il quale riacquisì lo
stesso tono impassibile di pochi istanti prima e riprese a parlare: «Francamente
penso possa essere interessato a te.»
La
ragazza ebbe un leggero fremito al suono di quelle parole. La sua forza
interiore le impedì di pensare a Nathan, ma c'era una leggera incertezza nella
sua voce quando domandò: «Come puoi esserne sicuro?»
«Sono
Sherlock Holmes» disse l'uomo con ovvietà.
Emily
scoppiò a ridere, ma si ricompose in fretta.
«L’ho
osservato» disse il detective. «Ho analizzato i suoi gesti e gli sguardi. Ti
garantisco che è rimasto colpito da quello che hai detto, realmente colpito. Ha
mostrato subito interesse per come sei.»
La
ragazza si sentì strana mano a mano che l'uomo al suo fianco pronunciava quelle
parole. Si chiese addirittura perché lo stesse facendo, sebbene una parte di
lei continuava a ripeterle che era quello il modo in cui Sherlock aveva deciso
di aiutarla. Le lanciava sfide, le dedicava piccole attenzioni all'apparenza
insignificanti. Anche in quel momento stava cercando di aiutarla, spronandola a
incontrare qualcuno che, forse, avrebbe potuto significare molto nella propria
vita.
«Ne
sei sicuro, quindi» disse Emily.
«Naturalmente.
Ha molte qualità che potrebbero andarti bene. Prima fra tutte: è un giocatore
di rugby.»
A
quelle parole l’attenzione della ragazza si fece maggiore, per quanto possibile
dal momento che aveva dedicato già tutto il suo interesse in ciò in cui
Sherlock l’aveva appena coinvolta. Sapeva che l’uomo aveva affermato ciò poiché
lo aveva dedotto, ma Emily era molto curiosa di sapere da cosa lo avesse
dedotto, come sempre del resto.
«Se
lo hai capito dalla stazza non vale. Ha le spalle larghe, questo ti ha aiutato»
lo provocò la ragazza, consapevole che agendo il quel modo il detective avrebbe
svuotato il sacco subito. Pungerlo nell’ego era l’arma più efficace.
«Non
l’ho capito dalle spalle» replicò stizzito. «Guarda la sua postura, è ferreo,
sicuro di sé. Quella è una postura da atleta. Si capisce che è abituato ad
allenarsi e ad allenare proprio la postura. Il suo fisico poi mi permette di
capire non solo che è un giocatore di rugby, ma anche il suo ruolo di gioco. È
una terza linea. Ha diversi graffi e varie cicatrici - lo so perché sono
riuscito a intravedergli le braccia - e la cosa mi permette di intuire che deve
fare spesso delle mischie e delle ruck ma a giudicare dalla stazza non può
essere né un pilone, né una seconda linea. Rimane poco altro che possa fare,
non trovi?»
Emily
guardò il ragazzo, sovrappensiero. Cominciava a essere particolarmente
incuriosita da lui, soprattutto dopo quello che le aveva detto Sherlock.
«Oltretutto
ha anche un cane. Di taglia media a giudicare dai punti in cui ci sono peli sui
pantaloni. Probabilmente non è neanche di razza, ma di certo è a pelo lungo. Ti
piacciono i cani, no?»
La
ragazza lo guardò, perplessa. Di tanto in tanto Sherlock faceva qualcosa in
grado di spiazzarla. Osservò nuovamente il giovane giocatore di rugby. Certo,
era carino e se il detective aveva ragione e lui era rimasto colpito dalle sue
qualità di studentessa di criminologia – qualità che invece sembravano
spaventare le altre persone – poteva essere un segnale positivo. Prima che la
sua immaginazione potesse spingersi troppo oltre, però, la ragazza la frenò
bruscamente.
«Potrebbe
avere la ragazza» disse, sebbene le uscì più come un borbottio che altro.
Non
notò Sherlock sollevare gli occhi al cielo, esasperato da se stesso per essersi
volutamente messo in quella situazione.
«No,
non ce l’ha, fidati. Intanto perché non è di certo venuto a sentire la sua
proclamazione. A giudicare dall’abbigliamento è sicuramente qui per qualche
figura maschile, probabilmente il fratello, oppure un amico. Non è stato vicino
ad alcuna ragazza.»
«Magari
lei non è qui.»
Il
detective non riuscì a resistere oltre. Sbuffò infastidito e guardò Emily come
a dirle di piantarla di fare i capricci. «Senti, a me non importa se non hai
alcuna intenzione di andare a parlare con lui» tagliò corto, ponendo fine alla
questione.
Emily
lo riconobbe immediatamente, lo Sherlock Holmes un po’ burbero, che si rifiuta
di dare a vedere le reali motivazioni che lo spingono a compiere qualche gesto
premuroso nei confronti di altri. Era la versione che la ragazza preferiva e,
soprattutto, quello che non avrebbe mai voluto deludere.
Per
tale motivo si avviò con passo sicuro in direzione del ragazzo, ancora solo
sotto uno spicchio di sole sempre più insistente.
Lui
non la stava guardando, infatti si accorse di lei solo quando si fermò lì
accanto.
La
guardò, lasciando trapelare la sorpresa, anche se per un solo istante.
«Ciao»
esordì Emily, usando il tempo impiegato dal ragazzo per riprendersi dalla
sorpresa per poterlo osservare più attentamente. Aveva gli occhi di una
delicata sfumatura di verde, che si intonava alla perfezione con i lineamenti
morbidi del viso. La ragazza riuscì anche a notare una cicatrice sullo zigomo
sinistro, cosa che contribuì ad accrescere in lei il sospetto che Sherlock
potesse avere ragione.
«Ciao»
le rispose infine lui, regalandole un sorriso e rilassando visibilmente le
spalle.
«Scusa
se ti ho disturbato» riprese parola Emily, senza sapere esattamente cosa dire.
Avrebbe dovuto prepararsi meglio l'ipotetico abbordaggio che stava tentando, ma
per qualche ragione che le sfuggiva aveva agito più per impulso che altro. Capì
che la colpa era di Sherlock e del suo sottile gioco di mente con la quale era
riuscito a provocarla e lanciarle una sfida senza che lei fosse stata in grado
di capirlo.
«Ti
avevo visto qui da solo» proseguì poi, scoprendosi leggermente imbarazzata.
«Ah,
sì» rispose lui. Sorrise di nuovo e si passò una mano sul mento, sfregando con
il palmo la chiara barba di pochi giorni. «Volevo prendere una boccata d'aria.
Sono rimasti tutti dentro, per la laurea di mio cugino.»
Emily
corresse mentalmente Sherlock. Aveva sbagliato: era il cugino, non il fratello.
Stava ancora rimuginando sulla frase con cui avrebbe rinfacciato tutto al detective
che il ragazzo prese nuovamente parola: «Ho sentito la tua discussione prima.
Davvero interessante il tuo lavoro, sul serio. Non credevo fosse possibile
riuscire ad analizzare a tal punto la mente umana. Sono rimasto molto colpito.»
Questa
volta Emily arrossì visibilmente mentre lo ringraziava per il complimento.
Automaticamente i due intavolarono una conversazione sugli studi che aveva
ultimato la ragazza la quale rimase positivamente colpita dal giovane e dal
fatto che fosse realmente interessato a quello che lei gli stava dicendo. Fu
una bella sensazione per Emily.
A
un tratto lui distolse lo sguardo, annuendo. La ragazza capì che stava parlando
con qualcuno alle sue spalle, infatti quando il giovane tornò a dedicarle
l'attenzione disse: «Scusami, tocca a mio cugino. È stato un piacere.»
Le
tese la mano. «Non ci siamo neanche presentati, mi chiamo Daniel.»
«Emily»
rispose lei, stringendogli la mano.
«Beh,
allora alla prossima, se dovesse essercene occasione» concluse lui.
Stava
per incamminarsi quando la ragazza lo fermò, di istinto. Sentiva che quella
poteva essere la sua unica occasione per poter avere nuovamente a che fare con
Daniel e che, forse complici le parole di Sherlock, non voleva sprecare
quell'opportunità.
«Potremmo
prendere un caffè un giorno. Prometto che non parlerò solo io. Se ti va,
ovviamente» aggiunse infine, davanti al silenzio improvviso del ragazzo.
Daniel
sorrise. «Sì, volentieri.»
Infilò
le mani in tasca, come alla ricerca di qualcosa. «Ti... Ti lascio il mio numero»
concluse.
I
due si scambiarono i numeri di telefono, infine si salutarono definitivamente.
Daniel entrò nell'aula magna, Emily invece tornò da Sherlock. L'uomo la stava
osservando con un'espressione a dir poco indecifrabile.
«É
qui per la tesi del cugino» disse la ragazza, sperando di spezzare la curiosa
atmosfera.
Il
detective sollevò un sopracciglio con fare ovvio. «Visto che non si tratta
della ragazza?»
Emily
evitò attentamente di dare soddisfazioni all'uomo. «Questo non vuol dire che
non l'abbia.»
«Vero,
infatti ha preso subito il tuo numero.»
La
ragazza arrossì, pensando a cosa poter dire per mettere a tacere il detective.
Da lontano i suoi genitori le fecero cenno di raggiungerla.
«Che
ne dici di venire anche tu? John, Mary e Mrs. Hudson sono là. O vuoi fare
l'asociale anche con la mia famiglia?» domandò poi, osservando l'uomo.
Lui
non rispose, si limitò a guardarla con sufficienza, dopodiché si incamminò al
fianco della ragazza. Quest'ultima gli lanciò una breve occhiata, sorridendo.
Si sentiva felice come non le capitava da tanto; sentiva dentro di non essere
mai stata tanto soddisfatta prima del suo arrivo a Londra. Strinse con forza
maggiore il foglio che ancora teneva in mano, la domanda per Scotland Yard.
Ripensò a Daniel e lanciò un nuovo sguardo a Sherlock, sempre impassibile al
suo fianco, dopodiché guardò davanti a sé, su tutte le persone che gravitavano
intorno al 221B.
In
quel preciso attimo prese la sua decisione: sarebbe rimasta. Le sarebbe mancata
la sua famiglia, non ne aveva dubbi, ma in cuor suo sentiva che quella era la
decisione migliore per sé e per il suo futuro. La sua vita ormai era lì, dove
avrebbe voluto rimanere: a Londra e a Baker Street.
Ciao
Sherlockian!
La
mia prima fan fiction su Sherlock è finita. Spero vivamente vi sia piaciuta e
che sia stata in grado di intrigarvi. Mi auguro anche di essere riuscita a
caratterizzare i personaggi nel modo migliore, permettendovi di immaginare
senza troppi problemi quelli della serie tv.
Ringrazio
molto chi ha usato parte del suo tempo per lasciare una recensione, davvero
grazie di cuore.
MadAka
Note:
1 discusso: faccio una precisazione dal
momento che qui mi sono concessa una “licenza poetica”. Mi sono voluta
informare sul funzionamento di un Master nel Regno Unito e ho scoperto che non
prevede alcuna discussione. L’elaborato, infatti, viene valutato per i suoi
contenuti e anche per il modo in cui è scritto. Volevo soltanto rendere nota
questa cosa.