The dawn of madness

di heather16
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The beginning ***
Capitolo 2: *** phoenix ***
Capitolo 3: *** long life to the quinn ***
Capitolo 4: *** pins ***
Capitolo 5: *** Blood. ***
Capitolo 6: *** fuck me. ***
Capitolo 7: *** what do you want? ***



Capitolo 1
*** The beginning ***


Il rumore dei tacchi sul pavimento liscio risuonava nel silenzio del corridoio. Solo la luce biancastra di una linea perpetua di neon. La dottoressa Quinzel camminava nervosa verso la stanza. Era arrivata da un paio di giorni ad Arkham; un grande passo avanti per la sua carriera lavorativa, in fondo non poteva chiedere di meglio. Il direttore, grande amico di quel porco del docente universitario del corso di psichiatria, era stato convinto da quella sua vecchia conoscenza ad assumere Harleen in una sola telefonata. Le camicette attillate e le gonne corte erano servite al professore per fargli ricordare le grandi doti della neodottoressa. Il direttore, il signor Arkham, le aveva voluto affidare un paziente dei più complessi; i colleghi avevano riscontrato in lui talmente tanti disturbi da avergli affibbiato il nome di “fabbrica degli arcobaleni”. Averlo in terapia era il rito di iniziazione di Harleen, e per lei la sua occasione di mostrare a tutti che cosa era in grado di fare.
Arrivò davanti alla porta. Era bianca. Al centro, il numero diciassette impresso a grandi caratteri neri. Sistemò il badge al taschino del camice con meticolosa attenzione, lisciò la gonna; riportò una ciocca bionda sfuggita dalla coda bassa in cui aveva raccolto i capelli dietro ad un orecchio. Respirò, chiuse gli occhi, entrò.
La stanza vuota, la luce bianca, il tavolo spoglio. Sulla sedia, in divisa arancione, un uomo. Le spaventose testate su quel folle terrorista erano apparse sui giornali per mesi interi. Il viso, iconico per quella densa crema bianca che lo ricopriva, era struccato e pulito. I capelli, sporchi, ricadevano sugli occhi. Il capo era reclinato verso il basso. Cercava forse di nascondersi?
-Buongiorno.-
Il paziente non rispose, a malapena sembrava vivo. Il torace si muoveva in su e in giù, con un ritmo irregolare che Harleen non aveva mai visto in nessun essere umano. Si fermò, respirò, si sedette.
-Sono la dottoressa Quinzel, il suo nuovo medico per questa sessione terapeutica.- doveva parlare lentamente, dare un senso di calma e sicurezza.- Allora, come si sente?-
Rimase impassibile, di pietra. C’era da aspettarselo. Harleen si era preparata, si sarebbe quasi stupita di una reazione differente al silenzio. Gli avrebbe parlato dell’efficacia della terapia, forse gli avrebbe chiesto del suo di nome. Invece, quando con gli occhi scintillanti di sicurezza e determinazione stava per parlare di nuovo, Lui si mosse. Inclinò il busto in avanti, allungando il collo verso la donna, mentre i suoi capelli si spostavano dal viso. Le cicatrici erano spaventosamente evidenti, e dei tagli recenti si stavano cicatrizzando sulla fronte. Una fila di punti che attraversava il naso teneva ben stretti i lembi di una ferita dura a rimarginarsi. Infine, sorrise. –Guarda un po’, una matricola! Io me li sono passati tutti, qui ad Arkham. Non credo che ci combinerai molto con me, pasticcino. Tanto vale prendere la tua cartellina e i tuoi tacchi a spillo emuovere quelle belle gambe fuori da qui, o i dottoruncoli più grandi ti prenderanno in giro! Chissà, potrebbero anche rubarti i soldi della merenda!-
-Il mio compito è quello di aiutarla, sia collaborativo.-
Il Joker si passò la lingua sul labbro superiore, sorridendo. –Lo vuoi sapere come mi sono fatto queste cicatrici?-
-Conosco già tutte e quindici le versioni che ha dato nel tempo. Perché non parliamo invece del motivo per cui è qui?-
-La… società, è rimasta delusa. Ho mostrato a tutti come è fatto in realtà ognuno di loro. In fondo tutti sono come me, solo che io dipingo il mio lato interiore sul mio lato esteriore1! Come un moscerino all’orecchio continuavo a far ronzare la mia evidenza nei loro cervelli, tutti uguali. Io sono la vittima, immolata per il bene del falso comune!- nel dirlo gesticolava vivacemente con le mani. A guardarlo sembrava persino serio.
-Quindi lei sostiene di essere stato portato ad Arkham ingiustamente?-
-Io credo solamente che ci sia stato.. un semplice malinteso.-
-Lei non si ritiene colpevole di nulla?-
-Tutti in fondo sono colpevoli. Vedi pasticcino, in una società… utopistica, come i grassi sindaci pelati sostengono sia Gotham, tutto dovrebbe girare secondo i piani. Se qualcosa non va, è colpa di tutti. È uno dei fondamenti basilari della democrazia. Lo sai, c’è una tribù africana dove quando qualcuno fa un errore, viene circondato da parenti e amici, che gli ripetono tutte le buone azioni che ha compiuto. Credono in una bontà di fondo. –
-Lei quindi ritiene che per un processo di guarigione efficace dovremmo incoraggiarla, prenderla per il suo lato buono?-
-Sarebbe assurdo. Io non ho un lato buono1.-
-L’esempio della tribù africana quindi non è applicabile per lei.-
-Non ho detto che non ho fatto buone azioni. Ho favorito l’eutanasia di tanti poveri malati terminali.-
-Ha fatto esplodere un ospedale.-
-Beh, in ogni caso sono morti, no?-
-Non tutti coloro che vogliono promuovere una campagna posizionano della dinamite nei reparti di un ospedale.-
-Non tutti ne hanno le possibilità.-
Harleen si tolse gli occhiali, cercando di non sembrare nervosa. La testa le scoppiava. Quel paziente era davvero complicato come le avevano detto.
-L’ho irritata, dottoressa?-
-Sto solo cercando di capire e ascoltare. È il mio lavoro.-
-Sono un paziente difficile, doc.-
-Sì, lo è.-
Harleen osservò meglio il Joker. I capelli verdastri sulle punte. Una ricrescita castana, riflessi biondi2, gli arrivava fino all’altezza delle orecchie. Gli occhi erano scurissimi. Le braccia piene di lividi. Le mani grandi.
-La frutta è davvero incredibile se ci pensi, sai? Le madri tengono in grembo i figli, che crescono nelle loro pance dure e gonfie. Quando un seme inizia a formare intorno a sé il frutto, è come se portasse avanti un processo di gestazione, giusto? La maternità per la frutta è crudele. Il bambino cresce, cresce intorno alla madre,in poche parole… La ingoia. Perche è la madre ad essere dentro il bambino, no? Non è terribile?-
- Come le è venuta in mente questa considerazione?-
-Un pensiero come un altro. Ho avuto una visione in un sogno.-
- Il suo inconscio produce pensieri interessanti.-
-Oh, non lo vuoi sapere che cosa c’è nel mio inconscio.-
-Invece vorrei. Come le ho detto, è il mio lavoro.-
L’uomo la studiò, socchiudendo gli occhi e arricciando le labbra.-Come si chiama sua madre, dottoressa?-
-Io non credo sia il caso di…-
-Oh, quante storie per un nome!-
La donna  sospirò. –Si chiama Jane.- Il calore della cioccolata che le fumava sul viso, il rumore della scatola dei biscotti che si apriva sprigionando un intenso profumo di burro. Perché quei ricordi erano stati seppelliti dalle malignità nella mente di Harleen?
-Beh, è un bel nome. Un nome da mamma. Conoscevo una mamma che si chiamava Jane- il Joker si sporse di nuovo verso la dottoressa, poi le sussurrò- è morta. Shh!-
-Da quanto tempo è stato portato qui?-
-Oh, andiamo! È mai possibile che tu sappia fare solo domande, pasticcino?-
-Dottoressa Quinzel, prego.-
-Giusto, giusto, dottoressa Quinzel.-
-Allora, da quanto lei è qui?-
-Andiamo, sicuramente lei lo sa già, è inutile. Non mi faccia perdere tempo, sono un uomo impegnato, Io!-
Harleen non riuscì a sorvolare. –Non vuole collaborare per niente, non è vero?-
-Non sono interessato così tanto a queste interviste intime. Dovrebbe lasciar perdere, sa?-
-La speranza è l’ultima a morire.-
-Non dica così! La speranza delude, sempre. La cosa migliore sarebbe ucciderla, soffocarla! La speranza, intendo. Solo una volta spenta di può affrontare la vita con un sorriso.-
-Beh, ci sono vari punti di vista.-
-Oh, vedrà che il mio è quello giusto! Glielo dimostrerò.-
-Lei mi sembra pieno di fiducia, al contrario di ciò che dice.-
-Io ho fiducia in lei, dottoressa!- con uno scatto d’istinto, il Joker poggiò la sua mano su quelle pallide e delicate di lei, che teneva incrociate sul tavolo. Il primo istinto di Harleen fu quello di scostarsi, ma pensò che una reazione troppo impulsiva le sarebbe costata in campo di professionalità. Spostò lentamente la mano del Joker, così fredda, di una consistenza strana e più liscia di una normale pelle, sul banco del tavolo.
-La sessione è finita per oggi.-
-Se ne va così presto dottoressa?-
-Per questa prima visita sì, ho richiesto un colloquio più breve. Alla prossima settimana, paziente 44791.-
Il clown sorrise maligno. -Arrivederci, dottoressa!-
Harleen uscì dalla porta. Camminò lungo il corridoio, illuminato dalla perpetua linea a neon. Chiamò l’ascensore, attese, entrò: era sola. il suo corpo, finalmente lontano da occhi indiscreti, cominciò a tremare. La tensione, l’impossibilità di seguire gli schemi fissi dei test di colloquio all’università, quell’uomo così diverso dai pazienti del dottor Murdock, di cui era stata apprendista. Quegli occhi fissi, intensi ed incredibilmente canzonatori. Non aveva ottenuto nulla da quel colloquio, mezz’ora di parole sprecate. Harleen  si tolse gli occhiali, premendo le dita contro le palle degli occhi, mentre le lacrime dell’isteria cominciavano a bagnare le nocche bianche. Sarebbe andata meglio la settimana successiva. Era solo il primo approccio, era normale sentirsi così. La donna andò a casa, mangiò, dormì. Come al solito.
Ma due occhi, ancora svegli, preparavano la sua rovina.

1= riferimenti ad una web serie su youtube, intitolata “Joker Blogs”, che fra l’altro vi consiglio caldamente.
2= i capelli biondo scuro forse non sono molto nello stile del Joker, ma il mio è un misero omaggio al grande Heath Ledger, a mio parere il miglior Joker fino ad ora.

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Capitolo 2
*** phoenix ***


-Harleen Quinzel!- il Joker aveva un’aria entusiasta. Sul suo viso lo stesso sguardo di sorpresa di un bambino.
-Come?- La donna bionda era pallida, stanca. Aveva passato una settimana d’inferno, i pazienti erano tanti, nella sua testa diagnosi e disturbi si fondevano in una confusionale Babele. Il camice era di un candido bianco, e i bottoni slacciati lasciavano vedere un tailleur grigio ben stirato. Le calze erano trasparenti, e conferivano alla sua pelle un colore opaco ed omogeneo. Era distratta, ma sapeva di doversi concentrare al massimo. La sera prima aveva litigato con la sua migliore amica. Clare era una ragazza buona, intelligente, ma aveva idee talmente diverse dalle sue ; Harleen non aveva le forze per discutere, l’aveva trattata con fastidio.
-Harleen Quinzel! Non sapevo si chiamasse così, dottoressa. È un nome così bello, giocaci un po’ e salta fuori…  Arlequinn!-
La dottoressa abbozzò un sorriso.-Come si sente oggi?-
-Alla grande dottoressa! Lo sa che io vivo per questi momenti qui con lei.-
- Veramente questa è solamente la seconda seduta che facciamo, e la prima volta che ci siamo visti non abbiamo nemmeno iniziato a lavorare su di Lei. Non vedo come possa avere già riscontrato dei miglioramenti emotivi.-
-Oh dottoressa, qualsiasi momento speso a pensare a lei vale come un antidepressivo!-
Harleen tentò inutilmente di nascondere il suo apprezzamento.-Come passa la sua settimana?-
Quel giorno il Joker era pettinato. I capelli non sembravano sporchi come al solito. I punti sul naso erano stati tolti; al loro posto un grosso cerotto. L’innocenza su quel viso terribile sembrò, solo per un attimo, quasi sincera: -Beh, deve considerare che io trascorro sedici ore al giorno dormendo; do fastidio alle guardie! I dottori mi cucinano grosse porzioni di sonniferi e calmanti, Xanax, Valium, Amital, Butisol e a volte, seguendo il consiglio dello chef, mi iniettano della classica morfina, perché le ricette tradizionali sono sempre le migliori. Solitamente riesco a stare sveglio nelle prime ore del mattino, poco prima dell’alba; allora chiacchiero con Steve, il mio sorvegliante; sono sveglio anche a mezzogiorno; mangio e parlo nella sala comune con il mio amico, il dottor Crane. Appena quello inizia a gridare però ci riportano in cella. Martedì sera invece niente iniezioni, perché la mattina dopo c’è Lei!-
-Non avevo idea che i detenuti venissero sedati.- Harleen decise che ne avrebbe parlato con il dottor Arkham.
-Non tutti, solo quelli più fastidiosi! È come con gli insetti: nessuno da’ fastidio ad una formica, ma guai se arriva una cimice! La schiacciano, e il suo microscopico corpo esplode contro la superficie di un giornale, o la suola di una ciabatta. La vedo stanca dottoressa, si sente bene?-
-Oh, non ho dormito. Ma sto benissimo.-
-Di solito quando non si dorme c’è sempre una brutta ragione, a meno che… lei è fidanzata dottoressa?-
-Non mi sembra affatto appropriato.-
-Chiedo scusa.-
Harleen sospirò. -Proviamo a fare un piccolo test. Le va?-
- Amo i giochetti, dottoressa.-
-Bene. Le mostrerò un paio di schede. Vorrei che lei mi dicesse che cosa vede tra le macchie impresse sulla carta.-
-Ah, le macchie di Rorschach. Quelli sono i giornaletti pornografici degli psichiatri, sa?-
-Le macchie di Rorschach sono un valido aiuto per l’analisi della personalità. Le chiedo semplicemente di dirmi ciò che vede subito. Si affidi solo ai suoi sensi. Non ci deve pensare; mi dica solo la prima cosa che ci vede.-
La dottoressa tirò fuori un plico di schede. Sollevò la tavola III
L’uomo fissò l’immagine con attenzione, socchiudendo gli occhi. Si leccò il labbro superiore.      -Un medico. La sua faccia assomiglia a quella del mio vecchio professore di liceo. Lui… non ha un occhio. Sì, gli manca.-
-Bene. Cosa ci vede in questa?-
-Una farfalla… anzi no! Vedo un luogo oscuro… Ci sono dei mostri, delle  figure grottesche di arenaria. Sembra l’ingresso di un locale.- ad Harleen parve di essere già stata in un luogo del genere. Doveva essere un bar di Gotham.
 
-Qui cosa vede?-
-Una ragazza. È bionda, bellissima.. ha in mano qualcosa: un pezzo di stoffa, sembra un ricamo. Lo sta mostrando ad un’altra bionda, che lo fissa intensamente.- Anche quest’immagine le sembrò particolare; non seguiva nessuno dei modelli di Rorschach, eppure le ricordava qualcosa…. Qualcosa che aveva già sentito, più e più volte.
-Lei ha davvero delle intuizioni interessanti.-
Il joker alzò lo sguardo e sorrise: - più uniche che rare, direi! L’intuizione è qualcosa che capita, se capita, una volta sola nella vita!-
 
Allora lei capì. Die Traumdeutun. Freud.
 
 –Lei si sta prendendo gioco di me, paziente 4479?-
 
-Io? Prendermi gioco di lei? E perché mai?-
 
-Tutto ciò che mi ha descritto sono  esempi portati da Freud, nel suo trattato sull’interpretazione dei sogni.-
 
-Coincidenze?-
 
-Ha citato parola per parola una frase dell’introduzione al capitolo quattro.-
 
- Conosce il libro a memoria? Ma lei non usciva mai quando andava all’università?-
 
-Non andiamo avanti, se lei si dimostra talmente poco collaborativo.-
 
-Che le devo dire doc, forse non mi piacciono poi così tanto questi giochini. Sono stupidi.-
 
-Le macchie di Rorschach servono ad analizzare i pazienti, se solo lei rispondesse seriamente avrei potuto capire molte più cose sulla sua personalità!- Harleen cominciava ad alzare la voce. Il sangue pompava sempre più velocemente.
 
-Oh, lei crede davvero di poter conoscere uno come me con un test come quello?-
 
-Mi sono laureata con il massimo dei voti, credo di sapere bene ciò che faccio!- il Joker non era più un paziente. Harleen era tornata al liceo, quando la chiamavano “la bomba”, perché ogni disputa la animava a tal punto da portarla ad urlare, a diventare rossa in viso e ad agitarsi confusamente. La sua foga, la sua esuberanza, che tanto aveva represso per dare ai pazienti un senso di calma e tranquillità stavano riemergendo, quella voglia di parlare che aveva perso per la stanchezza, stanchezza che non le permetteva nemmeno di chiacchierare con la sua Clare, stavano rinascendo da quella fenice uccisa da termini e definizioni.
Il Joker sorrideva, leccandosi il labbro.
 
-Non lo metto in dubbio dottoressa, ma ci vuole anche la capacità di scavare in qualcosa di contaminato e altamente infettivo!-
 
-Cosa vorrebbe dire?-
 
-Vorrei dire, che deve essere pronta a spogliarsi della sua divisa, del suo studio, se vuole sapere cosa sono io! Una rinascita, la regina è morta, ecco la nuova donna, Alleluja!-
 
-Non è affatto necessario questo, se si è forti di spirito e capaci.-
 
-Lo vedremo.-
 
-Lo vedrà!- Harleen ormai era balzata in piedi, con le mani premute contro il tavolo. L’uomo la guardava divertita. La porta dello studio si aprì cigolando.
 
-Dottoressa Quinzel, il signor Arkham ha bisogno di vederla.-
 
Harleen ritornò in sé. –Certo. Io…. Arrivo.-
 
-A martedì, dottoressa Quinzel!-
 
La porta si richiuse cigolando, mentre due occhi neri fissavano la donna, che gonfia di adrenalina spostava dietro all’orecchio una disordinata ciocca bionda.

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Capitolo 3
*** long life to the quinn ***


-Vorrei delle spiegazioni sulla scelta di sedare il mio paziente.- Harleen, rossa in viso,  tentava di mantenere un atteggiamento professionale.
Il dottor Arkham sedeva di fronte a lei. Si sistemò gli occhiali sul naso, passò la sua grande mano magra sul lucido cranio rasato. –Dottoressa Quinzel… il nostro, il suo paziente, è un caso molto difficile, come lei avrà di certo notato. Nei primi tempi non veniva sedato, ma ci sono state delle complicazioni. Ha convinto le guardie a lasciarlo uscire per ben due volte; e la cosa più scomoda per noi dell’Arkham Asylum, è stata il fatto che LUI non se ne è banalmente andato via, anzi, non ha nemmeno lasciato l’edificio. Semplicemente si è recato nella sala controlli, e ha aperto le celle di tutti i detenuti. Poi, mentre gli agenti di sicurezza tentavano di bloccare le uscite, lui è sparito. Quando siamo riusciti a ripristinare l’ordine, ci siamo resi conto della sua mancanza. Lo abbiamo trovato negli spogliatoi dei dottori. Aveva rubato dei trucchi da una borsetta e si era mascherato da clown. Ci sono voluti quattro uomini per riportarlo… al sicuro nella sua area di detenzione. È finito in massima sicurezza per un paio di settimane, poi ci siamo resi conto che dava problemi anche lì. Finiva sempre per assalire gli inservienti che gli consegnavano i pasti. Abbiamo pensato che fargli cominciare delle sessioni di terapia, impiegando un dottore dopo l’altro, sarebbe potuta essere la soluzione. Durante le sedure ha ripetuto soltanto, fino allo sfinimento “gondolieri”. Abbiamo capito il suo ultimatum, voleva tornare in minima sicurezza. Lo abbiamo accontentato, ma non potevamo avere gli stessi problemi dell’inizio. Sedarlo è stata l’unica scelta possibile.-
-Le sembra etico, dottor Arkham?-
Il direttore sospirò. Si tolse gli occhiali, li piegò, li poggiò sul tavolo. Incrociò le mani, poi si rivolse ad Harleen con un tono sinceramente formale. –Ascolti Harleen. Io ho sempre avuto un obbiettivo, sin da quando ero piccolo. Volevo dirigere l’Arkham Asylum, perché speravo e spero ancora che grazie alle nostre cure i pazienti possano un giorno… guarire, inserirsi nuovamente nella società. Ma il Joker…. Mi creda, io ci ho provato. Sono stato io il suo dottore, per le prime sedute. Quello che ho visto, o meglio quello che non ho visto, mi ha lasciato scioccato. In quell’essere non c’è nulla di umano, di curabile. Non uno spiraglio di sentimenti, nulla. È qualcosa che io non ho mai riscontrato in nessun paziente. Potrei stare ore ad elencarle le patologie di questo detenuto, e lei potrebbe fare lo stesso, ma al termine di questa lunga lista entrambi  arriveremmo alla conclusione che tutto ciò che abbiamo potuto riscontrare di sbagliato in lui è assolutamente inutile per aprire uno spiraglio nel processo di terapia. Io le ho voluto dare questo paziente perché… lei è giovane, una ventata di aria fresca per quest’ospedale, e ancora nutro dei buoni presentimenti riguardo al suo arrivo qui ad Arkham, ma forse nemmeno Lei è ingradodi aiutarlo. In tutta franchezza, se lei volesse lasciar perdere con questa terapia, io la appoggerei totalmente, e  la sua carriera non ne sarebbe compromessa.-
Harleen guardava con occhi sbarrati il direttore. Una parte di lei, nonostante le parole dell’uomo fossero tutt’altro che critiche, vedeva l’intervento di Jeremiah Arkham come un affronto alla sua intelligenza. E quel pensiero, Harleen non riuscì proprio ad ignorarlo. Sul collo le comparve una vena pulsante. La sua voce era decisa, brillante di arroganza. –Io credo invece che la mia terapia curerà il paziente. Ho colto tante sfaccettature del suo carattere, sfaccettature non da poco. Dottor Arkham, esistono dei sistemi creati da professori, da geni, che danno esiti soddisfacenti a livello matematico. La mente è scienza, e la scienza non ammette interpretazioni. Per quanto danneggiato, alterato, il suo cervello è un organo assolutamente normale, conosciuto e studiato nei minimi dettagli da chirurghi, neuropsichiatri, studiosi. Le chiedo soltanto del tempo.-
-Dottoressa Quinzel…-
-E di leggere più informazioni su di lui. Sento che non mi è stato detto tutto. La prego, direttore! Il mio unico scopo è quello di guarire questo paziente!-
il vero obbiettivo della dottoressa era in realtà quello di dimostrare, provare a quell’essere che lei sarebbe riuscirla a piegarlo, a capirlo, che la medicina avrebbe vinto sulla mente, che lei avrebbe vinto su di lui! Ma questo il direttore non lo sapeva. E in fondo, non lo sapeva neanche Harleen.
L’uomo sospirò.
-Bene, Le lascerò ancora questo paziente.-
-Elimini la sedazione.
-D’accordo.-
-E vorrei un’autorizzazione per visitaregli archivi della polizia.-
-Lei gioca con il fuoco, dottoressa.-
-La vera abilità non sta nel giocare con il fuoco, ma nel riuscire a non scottarsi.- “Ma cosa dico?” Harleen rimase stupita da se stessa. Aveva appena detto una di quelle frasi brillanti che non riusciva mai ad usare per rispondere a tono a chi se lo meritava. E ora lo aveva appena fatto, con il suo datore di lavoro. Ma il signor Arkham era un uomo buono, paziente. Non disse nulla. Sorrise, si congedò dalla dottoressa.
Quando Harleen uscì dall’ingresso dell’ospedale un freddo vento invernale le schiaffeggiò il viso. Era stanca, e non aveva mangiato nulla per pranzo, ma non voleva andare a casa. “Voglio quelle cartelle della polizia. Voglio parlare con chi lo ricercava.”
Salì in macchina. Il caldo elettrico del riscaldamento la avvolse in un abbraccio. Si tolse la sciarpa arancione, appoggiandola sul sedile del passeggero. Pulì il vetro appannato con il gomito della giacca. Sotto indossava ancora il camice. Si diresse alla stazione di polizia. I corridoi erano freddi, spogli alle pareti, illuminati da una triste luce bianca e pieni di gente. Uomini seduti su scomode sedie di legno, prostitute scortate malamente da un agente, persino un uomo in manette.
-Posso aiutarla?- dall’altra parte del vetro dell’ufficio un ragazzo. Magrissimo, i capelli a spazzola.
-Vorrei accedere agli archivi. Sono una psichiatra, ho in cura un soggetto di cui sicuramente avete qualcosa.-
-Senza un’autorizzazione non posso consegnarle materiale dello stato, mi disp…-
-Io ho un’autorizzazione... La avrò! Domani il mio capo chiamerà chi di dovere, e sarà tutto a posto. Ma io ne ho bisogno ora, di quei fascicoli!-
-Signorina, le ripeto che purtroppo non è possibile.-
-Il Joker! È lui il paziente che ho in cura! È più importante rispettare una sciocca formalità o guarire un pazzo criminale?-
-Mi dispiace, non le faccio io le regole qui.-
 Harleen si allontanò a passi veloci e pesanti.
La sua casa era al terzo piano di una lussuosa palazzina. Aveva cercato di rendere quel posto il più accogliente possibile, voleva poter credere di essere al sicuro. Da piccola suo padre le diceva sempre “niente è bello come tornare a casa propria e lasciarsi i brutti pensieri alle spalle”; ma i brutti pensieri di Harleen erano ben ancorati al suo cervello, e la sua famiglia la faceva sentire tutt’altro che a casa. A quindici anni aveva incominciato a fumare. La madre lo sapeva, e Harleen sapeva che lei sapeva. Nessuno ne parlò mai.
I suoi genitori dicevano un sacco di bugie. Ai parenti, agli amici, ai colleghi di lavoro. Ad Harleen la cosa faceva ridere da bambina, i suoi erano come degli agenti segreti, ma crescendo iniziò a chiedersi se tutte quelle bugie non fossero state raccontate anche a lei. E da allora mamma e papà vestirono per lei le maschere dell’ambiguità, della bugia. L’adolescente bionda così alta rispetto alle altre ragazze iniziò a vivere nell’angoscia, nella paranoia. Di chi fidarsi? E se fossero stati tutti bugiardi? Tutti falsi?
Solo quando il telefono squillò Harleen alzò lo sguardo verso l’orologio. Le nove e un quarto, e non aveva ancora mangiato. Sollevò la cornetta del telefono. La voce squillante di Clare risuonò distorta dalla linea.
-Harl, ti ho chiamato questo pomerggio, dov’eri?-
-Al lavoro, dove vuoi che fossi?-
-Ah giusto, che stupida! Ti va di uscire?-
-Lo sai che non posso! Devo studiare! Ho in caso difficile che davvero non…-
-Sì, come ti pare.-
La bionda sospirò. –Scusami. Lo sai che sono incasinata. Questo lavoro mi sta uccidendo, è come se dovessi  dimostrare ogni giorno di sapere qualcosa di più!-
-Harl, sei tu che te lo immagini, non puoi fare più di così! Smettila di farti tanti problemi! Comunque dimmi tu quando sei libera, ci dobbiamo vedere!-
-Assolutamente. Ti faccio sapere!- Harleen sperò tanto di non essere come suo padre; si augurò di mantenere la promessa, di non aver detto una bugia.
Andò in cucina, mise nel microonde la tazza di caffè ancora piena che non aveva fatto in tempo a bere quella mattina a colazione. Aprì il frigorifero: prosciutto, pane, un po’ di formaggio. Tanto, tantissimo yogurt.
Per la prima volta Harleen odiò il suo frigorifero. Tutto era così banale. Così… tipico.
“Deve essere pronta a spogliarsi della sua divisa, del suo studio, se vuole sapere cosa sono io! Una rinascita, la regina è morta, ecco la nuova donna!”
Quelle parole frullavano nella sua mente, senza volersene andare via. Il telefono squillò di nuovo.
-Pronto?-
Una voce maschile, allegra, dall’altra parte del telefono. Così familiare che le sembrava di averla già sentita.
-Hai chiesto di mister J. Bambolina!-
Harleen fece per buttare giù la cornetta, ma una strana forza di agghiacciante terrore la costrinse a restare immobile. La voce parlò ancora:-Sono stati cattivi con te alla polizia, non è vero? Sono dei maleducati quelli, lasciali perdere! Ascolta me. Al numero quindici di Wale Avenue. È un bel posticino, ti divertirai. E non dimenticare gli spilli.-
La linea cadde. La voce familiare ed allegra sparì. Harleen rimase immobile per un secondo. Le sue gambe cedettero. Un brivido gelido le corse su per la schiena. La seguivano. Ma chi? Come? Sapevano cosa stava cercando.
E poi, di nuovo quella forza, quell’energia che le tornò in circolo come una botta di adrenalina. Non sapeva nemmeno quel che faceva, ma lo fece. Sollevò la cornetta, compose il numero.
-Pronto?- la voce stupita all’altro capo del telefono.
-Clare, vestiti. Stasera usciamo.-

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Capitolo 4
*** pins ***


La strada era buia e sporca. Il quartiere decisamente non raccomandabile. Uno di quei luoghi dove volevi tanto andare da ragazzina, che tua madre indicava come “quartieracci, brutti posti”.
Clare si guardava intorno spaesata. L’amica le aveva davvero dato appuntamento in quel posto? Perfino l’autobus che l’aveva portata alla fermata sembrava pericoloso. Dopo un paio di minuti, da dietro l’angolo sbucò una piccola utilitaria blu. La ragazza sospirò sollevata. La macchina accostò di fianco a lei. Il finestrino si abbassò, e un profumo di gelsomino si disperse nell’aria fredda della sera. Clare intravide l’amica nell’oscurità dell’auto, le sorrise ed entrò.
-Harl, ma dove cavolo mi hai fatto venire?-
-C’è un posto dove devo assolutamente andare.-
-Ovvero?-
-Al momento non lo so ancora.-
Clare indossava un vestito nero, sopra il ginocchio. Ai piedi un paio di scarpe basse rosse, al collo una collana di legno dipinta di rosso. I capelli, rossi, erano sciolti e lisci sulle spalle.
-Cosa vuol dire che non lo sai ancora?-
-Che ho l’indirizzo di un posto, ma non so ancora cosa sia.-
-Stai scherzando?-
-Non lo trovi avventuroso?- nelle parole di Harleen c’era il velo dell’ansia e della preoccupazione. Clare percepì la sua tensione, fiutò qualcosa che non andava. Ma non disse nulla. Non lo faceva mai. Con l’amica era sempre difficile parlare. Harleen passava da momenti in cui non smetteva di chiacchierare, dove spiattellava tutti i propri segreti come la trama di un libro; ma sempre più spesso teneva tutto per sé. Non che non mostrasse i suoi stati d’animo, ma non voleva mai parlarne. Clare non chiedeva, forse non voleva nemmeno farlo. Nella sua filosofia c’era la libertà di parola, e anche lasciare che Harleen si aprisse quando voleva faceva parte di quella sua massima di vita. Se solo avesse saputo cosa c’era in realtà nell’inconscio di quella bionda sorridente e un po’ ansiosa, forse avrebbe violato i suoi principi. Ma a volte l’opinione personale rende ciechi, la convinzione assoluta di un principio, ottusi.
-Sarà…-
La macchina si fermò davanti ad un locale. Non c’erano finestre. Dalla porta semiaperta provenivano luci blu notte. Un’insegna azzurra, con un carattere un po’ retrò, riportava la scritta “Iced Nightmare”. Fuori dal locale un paio di uomini, le giacche rigonfie e chiuse, le mani in tasca, i visi scavati. In quel momento uscirono un uomo , o almeno una figura con una grossa maschera da mucca che doveva essere un uomo e una donna che indossava un abito di piastre di plastica interamente trasparente. Sul vosto una maschera veneziana.
-Harl, non mi piace questo posto.- alla luce dell’insegna, Clare potè finalmente osservare la sua amica.
Harleen amava farsi vedere, amava sentire gli occhi fissi su di lei. Contemporaneamente si odiava, sottovalutava ogni perte di sé, detestava il modo in cui appariva; ne era ossessionata. Clare la osservò stupita. Quella sera i suoi capelli cadevano disordinatamente sulle spalle. Indossava un abito di lamè, corto, stretto. Le calze leggere velavano le sue lunghe gambe sottili. Un paio di sandali dai tacchi vertiginosi che la rossa non le aveva mai visto addosso.
-Andiamo, è una cosa nuova! Sarà divertente!- ancora quella voce tesa, ancora quegli occhi spaventati, ancora il silenzio di Clare.
Le due entrarono. Sembrava una sorta di magazzino, dai soffitti altissimi. Un soppalco al secondo piano, con una serie di stanze che facevano da privè. Sulla sinistra un bancone. Il resto della sala era occupato da una pista da ballo e da un’infinita serie di gabbie. Dentro, donne vestite di pelle che frustavano uomini mascherati da boia. Ad una parete erano appese fruste, flagelli, borchie e grosse scatole di candele. Un ossessivo blu penetrava da luci e fari, disposti dappertutto.
Harleen cercò di studiare le informazioni che le erano state date. Chi le aveva suggerito di andare lì voleva aiutarla, sapeva qualcosa sul Joker che le sarebbe potuto essere utile per il suo processo terapeutico. Probabilmente l’Iced Nightmare era un locale di assidua frequentazione da parte del suo paziente.
-Andiamo a bere qualcosa!- Clare ma decise di dare corda all’amica. Non se la sentiva di contraddirla, non lo voleva fare mai. Harleen era sempre così determinata nel fare le cose che nessuno aveva il coraggio di dirle di no. Le ragazze si avvicinarono al bancone. Le basi degli sgabelli erano illuminate con un cerchio di luce blu. Gli scaffali degli alcolici erano rivestiti di led blu. Quel colore che imbrattava l’intero locale nauseava e dava il capogiro.
-Cosa vi porto, bamboline?- il barista era un trentenne con gli occhi lucidi. Si sfregava nervosamente il naso, e le sue mosse scattanti ricordavano una luce stroboscopica.
-Un martini dry e un cuba libre.-
-Subito!-
Harleen realizzò che se quella voce al telefono l’aveva fatta andare lì, sicuramente il Joker non solo si recava al locale spesso, ma doveva anche essere conosciuto molto bene. –Scusa, dovrei farti una domanda!-
Il barista si girò verso di lei e tornò verso il bancone. Poggiò gli avambracci tatuati sul piano davanti alla ragazza. L’odore acido di un dopobarba scadente contro quel persistente aroma di gelsomino. –Che c’è piccola?-
-Sono una giornalista, devo portare un pezzo interessante, altrimenti il capo mi licenzia…. Mi aiuteresti?-
-Se posso.. Ma lo sai che sei proprio bella?-
La ragazza continuò con il suo teatrino: - Il famoso criminale Joker è stato appena incriminato, mi hanno deto che frequentava questo  locale. Mi chiedevo se per cas…-
Il ragazzo cambiò sguardo, per un attimo il suo sorriso languido si oscurò del compiacimento del sadismo. –Se vuoi sapere qualcosa del genere, devi andare dal mio capo. Lui ti dirà tutto quello che vuoi sentire, e anche di più… lo trovi oltre la porta blu, di fianco ai bagni delle donne.-
-Grazie.-
Harleen era troppo concentrata su quello che doveva fare per rendersi conto della situazione in cui si trovava. Si alzò dallo sgabello, ignorando il barista che continuava a guardarla. Si rivolse all’amica:- Clare, torno subito!-
La rossa non voleva rimanere sola, ma la folla aveva inghiottito in un attimo la bionda, che si muoveva determinata a lunghi passi tra la gente.
Arrivò alla porta vicino ai bagni. Era blu, un blu che martellava le tempie nella sua insistenza onnipresente. La ragazza bussò una prima volta, poi una seconda. Nessuno rispose. Eppure qualcuno doveva esserci. Girò la maniglia. La spinta del suo polso sorprendentemente mosse la porta. Era aperta. Harleen strinse ancora di più la maniglia fra le dita pallide. Riuscì appena a rendersi conto che la stanza era buia, perché una mano bollente e ruvida l’afferrò per un il polso, un braccio la trascinò dentro. La ragazza non fece nemmeno in tempo ad opporre resistenza, il buio diede la possibilità all’aggressore di confonderla per il tempo necessario ad infilare in quel collo candido l’ago sottile di una siringa. Subito la testa di Harleen cominciò a girare. Non riusciva ad urlare, e le sue gambe iniziarono a cedere. Barcollando cercò di tornare verso la porta, orientandosi con i sensi che si stavano sempre più attenuando, ma ancora quella mano calda la spinse lontana. Una luce si accese. Era una pila, appesa ad un soffitto. Apriva nell’oscurità un cono tremolante, e Harleen, che cercava attraverso quella tenue luminosità di orientarsi, ci si avvicinò, barcollando su quei tacchi che brillavano, mentre la testa le sembrava sempre più pesante. Tentava di urlare, ma ancora la sua bocca era impastata. O forse stava gridando, ma non riusciva a sentire il suono della sua voce? Poi, intorno a quel cono luminoso, tre figure si presentarono una dopo l’altra. Erano uomini, mascherati da clown. Si misero intorno alla ragazza. Lei provò a fuggire, ma i tre figuri cominciarono a spingerla da una parte all’altra. Harleen non riusciva ad opporre eccessiva resistenza, forse li pregava di smetterla, ma le uniche parole che riusciva a sentire erano quelle pronunciate dai pagliacci.
-Gioca con noi bambolina!-
- Sì, perché non vuoi giocare, bella bionda?-
-Ragazzi, non trattiamola così! È una donna, non un pezzo di carne!-
-Oh no, lei è una donna in carne ed ossa, mica come quelle che vediamo noi! Quelle come lei, quelle ricche, sono EMANCIPATE, mentre le poveracce del ghetto sono solo misere puttanelle! Non è vero bambolina bionda, che lo pensi anche tu?-
-Già! Sei tu che le vedi solo come pezzi di carne!-
-Ragazzi, perché non la squartiamo?-
-Sì, e poi la facciamo ballare davanti a tutti, così lo vedrà cosa vuol dire essere guardata davvero come un misero pezzo di carne!1-
-Lo vuoi sapere come mi sono fatto queste cicatrici?-
-Oh, perché sei così seria?-
-Mettiamo un bel sorriso su quel faccino!-
Finalmente Harleen si udì gridare, mentre con una spinta più potente delle altre uno dei clown la scaraventava contro la porta, che un istante prima di essere colpita dal suo corpo si era spalancata, facendola poi cadere sul lurido pavimento della discoteca. La porta blu si richiuse dietro di lei. Quando la ragazza alzò lo sguardo, la luce le rivelò una realtà mostruosa. Nelle vene le erano stati iniettati occhi nuovi forse? Mostri dalle gambe lunghissime, senza busti, con grosse lingue che uscivano dalle bocche in giù, enormi e dentate, che le si avvicinavano continuamente. Insetti, migliaia di insetti che le correvano su, su per le gambe. Le sue orecchie riuscirono a sentire, fra la musica assordante, una voce che gridava il suo nome.
Ma la cosa peggiore fu che prima di perdere i sensi, il suo corpo veniva scosso e infilzato da un esercito di migliaia di spilli.

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Capitolo 5
*** Blood. ***


-Era lei al telefono, non è vero?- Harleen non si sedette nemmeno. I suoi capelli erano scompigliati, il viso stanco e struccato, la camicia candida stropicciata, lo sguardo pieno di sentimenti che non sarebbero dovuti trasparire.
Davanti a lei il Joker. Lui sorrise, si sfregò le mani.
-Non so di cosa lei stia parlando, dottoressa Quinzel.-
- Come ha contattato quegli uomini perché mi aggredissero? Non le è permesso fare telefonate.-  Harleen sapeva che quello era un atteggiamento sbagliato,ma si illudeva che con un tono più rilassato non avrebbe tolto la sua maschera di professionalità. Si sedette finalmente al tavolo. Dall’altra parte lui, accasciato e apparentemente di ottimo umore, non smetteva di guardarla negli occhi.
- Nessuno Le ha mai detto di non accettare consigli da uno sconosciuto? E poi- le si fece più vicino, abbassando il tono di voce- con quel bel vestitino nero non mi stupisco che lei abbia incontrato dei brutti ceffi.-
-Volevi che io morissi, mi stai perseguitando!- Harleen si pentì immediatamente delle sue parole. Come aveva potuto essere così antietica e poco professionale? Ritornò composta sulla sua sedia, preparando una scusa. Doveva ridurre al massimo il danno di quell’uscita. Fece per parlare, ma il clown la interruppe. Il suo tono era rabbioso:-No Harleen, io ho fatto esattamente quello che mi hai chiesto tu! Non volevi forse conoscermi? Non volevi entrare nella mia mente? Lo hai fatto, ormai non si torna più indietro!-
-è forse una minaccia?-
-Una constatazione Harleen. Tu vuoi sapere da dove viene la mia testa. C’è un filosofo, non ricordo il suo nome; per lui il mondo esiste quando l’Amore e l’Odio sono forze che si equiparano. Altrimenti è tutto Sfero e Caos, l’assenza di vita e di realtà. Quando l’Amore agisce sull’Odio, nascono creature mostruose permeate di realtà, e poche di loro riescono a sopravvivere nel mondo.-
-Quindi lei si considera un mostro reduce dal Caos che è riuscito a sopravvivere come un emarginato in un mondo dominato da suoi dissimili?-
Il Joker rise. –Assolutamente no. Volevo solo vedere che conclusioni avrebbe potuto trarre. E lo sai Harley, non mi hai deluso neanche un po’.-
Harleen si sfregò gli occhi. Forse il dottor Arkham aveva ragione. Forse quello era davvero un caso incurabile. Non c’era niente da fare. Eppure lei non se la sentiva di lasciar perdere. Inoltre, da quando era entrata nella stanza, era sorta in lei una strana sensazione. Una fitta in mezzo al torace, in prossimità della bocca dello stomaco, che la faceva sentire svuotata. Una fitta di dolore.
-La sorveglianza aumenterà. Non le è più concesso avere contatti con membri al di fuori dello staff di Arkham.-
-Come se fosse diverso da come sono trattato ora, zuccherino.-
-La prego di rivolgersi a me come “dottoressa”. non è la prima volta che glielo chiedo.-
-Prima era un po’ più accondiscendente, dottoressa.- Il clown rivolse il capo verso l’alto, fissando il soffitto. La gola chiara era piena di macchie di colore bianco. Una cicatrice dal mento arrivava fino al pomo d’adamo. –Stanotte ho fatto un sogno.-
Harleen tentò di concentrarsi, di scacciare il disagio. voleva, doveva sapere di più sull’aggressione, ma riuscì solo a domandare con una voce troppo acuta “cosa?”
-Ho sognato una ragazza. Doveva guadagnarsi da vivere, ma non era nè bella né intelligente. Andò in un locale, serviva ai tavoli. Ogni sera guardava quelle bambole vestite di perle che danzavano sui tavoli, acclamate da maiali in foia, con le cravatte troppo strette per quei colli grassi da impiegatucci sedentari e mediocri. Si chiedeva perché quelle ballerine potessero attirare tutti gli sguardi, far aprire tutti i portafogli. Le disse una vecchia: “Quelle non sono donne; solo pezzi di carne.” La poverina era sciocca, voleva solo essere ricca e ammirata. Così si staccò tutta la faccia. E allora sì che la guardavano tutti. Nessuno l’ha mai fatta sentire come un pezzo di carne, dottoressa?-
“Sì, e poi la facciamo ballare davanti a tutti, così lo vedrà cosa vuol dire essere guardata davvero come un misero pezzo di carne!”
Quelle parole riecheggiarono nella testa della giovane donna, che non riuscì più a controllarsi.
-Farò aprire un’indagine!-
-Fai pure, ma non credo che ti servirà a molto. Non hai alcun tipo di prova. E poi pasticcino, se so organizzare uno scherzo come quello vuol dire che qualcuno che gioca dalla mia parte in questo lurido buco c’è, e ti assicuro che non ti piacerebbe avere problemi al lavoro. I dissidi con i colleghi sono davvero scoccianti, figuriamoci poi quando uno sa bloccare ascensori e maneggiare coltelli.-
-Che senso avrebbe uccidermi? Cosa ti ho fatto?-
Il Joker sorrise, si alzò e guardò negli occhi azzurri di lei:-Dolce Harleen, è proprio perché mi piaci che voglio farti scoprire come suona l’Inferno!-
Harleen si sollevò, facendo cadere con un rumore assordante la sua sedia di plastica sul pavimento liscio. Le gambe tremavano. Si girò, camminando verso l’uscita.
-Aspetta, dottoressa! Non vuoi sapere come me le sono fatte queste cicatrici?- mentre la porta sbatteva, la risata del clown si fissava nella mente della donna.
Harleen si mosse, camminò, corse fino allo studio del dottor Arkham. Vietò al paziente l’ora d’aria, i contatti con gli altri detenuti, impose che non gli venissero dati i cosmetici che tanto chiedeva. Doveva pagare. La vendetta non era professionale, ma lei era un essere umano. E lui no.
 
Il telefono lampeggiava nella borsa. Tre messaggi da Clare, una chiamata persa. Forse voleva solo chiarimenti, ma Harleen non se la sentiva di parlare con nessuno. In quel momento aveva soltanto bisogno di essere abbracciata, protetta; sentiva il bisogno di nascondersi fra le braccia del suo fidanzato. Ma quale? John non c’era più: “non erano fatti per stare insieme” diceva lei, “Harleen era troppo stressata” sicuramente spiegava lui, “non era alla tua altezza” le mentivano gli amici. La verità è che Harleen non era fatta per stare con nessuno. Tutte le sue relazioni erano state un fallimento. Ogni volta che lei riusciva a fidarsi davvero, ogni volta che si apriva rivelando la sua insicurezza e i suoi sentimenti finiva per allontanare gli altri. harleen lasciò che la ventola dell’auto le facesse tornare la sensibilità ai piedi, mentre il motore si scaldava borbottando. Chiuse gli occhi, e quelle braccia di cui tanto sentiva il bisogno cominciarono a formarsi intorno all’immagine del proprio corpo. Ma poi, con un agghiacciante sorriso, su un collo pallido e magro si reggeva quella testa, di quel pazzo terribile. La bionda aprì gli occhi sussultando. Il piede schiacciò con foga l’accelleratore.
Il suo appartamento era caldo, profumava di casa. Harleen si tolse la giacca, la sciarpa, le scarpe. Per un attimo intravide il suo viso stanco e sciupato nello specchio, e ne ebbe ribrezzo. Davanti alla porta della cucina vide un biglietto. Era un piccolo cartoncino bianco, delle dimensioni di un biscotto. A caratteri eleganti, una sola lettera: “J.”
Harleen non ci badò troppo. Poteva essere qualunque cosa, una strana pubblicità caduta da un giornale, o una sorta di appunto che si era dimenticata di aver preso. Quando aprì la porta della cucina un odore acre la fece retrocedere. Accese la luce, e guardò dentro: sul tavolo c’era un’immensa cesta di rose. Potevano benissimo essere cento, così rosse e lucenti.1 Quell’odore persisteva nell’aria. Harleen non capiva chi poteva essere stato. Non era il suo compleanno, ma era quasi arrivato il 14 di febbraio. Forse suo padre aveva pensato di farle una sorpresa e portarle in anticipo le rose che le regalava sempre ogni San Valentino. Quell’odore intenso ammorbava l’aria. Harleen si avvicinò al tavolo. Quelle rose erano così rosse e lucenti che sembravano finte. Sfiorò un bocciolo, e uno strano liquido appiccicoso le rimase sulle dita. Harleen arretrò accasciandosi alla parete.
Tutto era chiaro, il biglietto, l’odore e le rose. Quel rosso che poteva sembrare finto, quelle dita sporche, quel bocciolo che dove era stato toccato ora sembrava aver perso colore. Quelle rose non erano rosse:
era soltanto sangue.
 
 
1= riferimento alla scena del fumetto “mad love”, dove apparve per la prima volta Harley Quinn.

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Capitolo 6
*** fuck me. ***


Harleen aprì gli occhi e si riscosse. La macchina parcheggiata davanti ad Arkham borbottava, emettendo una nube di fumo dal tubo di scappamento, che si librava nell’aria gelida di febbraio. Si era addormentata. Solo un incubo, un brutto sogno. In fondo non dormiva bene da quasi una settimana, la sera prima c’era stato quell’incidente in discoteca. Era crollata. Le guance erano calde e bagnate. Aveva pianto nel sonno. Harleen tirò su col naso, cercò di ricomporsi. Si guardò nello specchietto retrovisore, sistemando alla meglio il trucco che aveva cominciato a colarle sugli zigomi. Mise la retro, uscì dal parcheggio. Una volta a casa inspirò profondamente. Odore di incenso al cocco, sapone e caffè. Niente sangue. Niente strani biglietti in corridoio. Niente rose sul tavolo della cucina. Era stato solo un incubo. La donna si spogliò lì, davanti al tavolo in cucina. Nuda arrivò fino al bagno, fece scaldare l’acqua della doccia. Una volta dentro appoggiò la fronte contro la parete. Un getto bollente le scottava la schiena.
“Ok Harl, calma. Sei solo molto stanca e molto nervosa. L’ansia ti provoca incubi, non è niente di che. Va tutto bene, sei a casa.”
Aspetto che anche l’ultima goccia di acqua tiepida uscisse dal telefono della doccia, poi si avvolse nell’accappatoio giallo. Seduta sul pavimento del bagno, prese il telefono.
-Pronto?-
-Ciao mamma, sono io!-
-Tesoro, dov’eri finita? Ti ho chiamata stamattina!-
-Scusa, mi sono svegliata tardi e avevo una seduta alle nove, non ho avuto tempo di guardare il cellulare.-
-Come stai? Ti sento stravolta.-
Harleen tirò nuovamente su col naso. La voce tremò. –Sono solo stanca, mamma. Ho..ho un paziente molto difficile da trattare.-
-Aggressivo?-
-No, no. È solo che sono così stanca! Vorrei solo tornare a casa!-
-Oh tesoro, mi dispiace così tanto! Questo weekend io e papà veniamo lì, così parliamo un po’.-
-No, non ho tempo, è un paziente troppo impegnativo!-
-Se ti mette così tanto sotto pressione, forse non è il caso che tu lo segua più…-
-Non posso mamma! Ne va della mia carriera lavorativa!-
-Così però ne va della tua salute Harleen!-
Harley sospirò. Sua madre non poteva capire, non poteva nemmeno immaginare quanto quel paziente fosse importante. Il suo lavoro era una cosa seria. Sospirò. –Senti mamma, devo andare. Mi devo asciugare i capelli e rischio di prendermi un raffreddore. Ci sentiamo domani.-
-Va bene Harleen. Ma riflettici, rischi di perdere la testa. Sai che quando ti impunti così tanto finisci per stare male.-
-E tu sai che quando mi impunto così tanto riesco sempre ad averla vinta. Saluta papà.-
-Certo…. Ci sentiamo domani!-
-Ciao.- Harleen pensò alla sua adolescenza, a quando stava seduta sul pavimento della cucina a riprendersi da una festa mentre la mamma faceva da mangiare. –Ti voglio bene mamma!-
Aveva già riagganciato.
Quella sera la donna non riuscì a mandar giù nulla. Scrisse un messaggio di scuse a Clare, dove diceva che non si sentiva per niente bene e che l’avrebbe richiamata il giorno dopo. Non riusciva a dormire, così si mise a guardare la televisione.
Erano le due di notte, quando un rumore provenne dalla cucina.
Harleen abbassò il volume. Era un rumore metallico, come lo scatto di una serratura. Pensò alla porta finestra. Senza fare rumore si alzò dal divano e prese dal muro la mazza da baseball che usava quando giocava al college. Il rumore era cessato. Si avvicinò alla porta della cucina, brandendo la mazza. Entrò lentamente. Non c’era nessuno. La finestra era spalancata sul balcone e la pioggia di stravento bagnava le mattonelle del pavimento. Harleen uscì. Nessuno. Ritornò in casa, guardò verso il salotto. Una sagoma scura schizzò davanti alla porta. Il cuore le esplose nel petto.
-Chi sei?-
Un rumore provenne dal fondo del corridoio. Harleen pensò che chiunque fosse, poteva essere solo andato in camera. In quel momento pensò che l’unica cosa che potesse tentare di fare era correre. Si precipitò fuori dalla cucina, lasciando cadere la mazza sulla moquette del salotto. Arrivò alla porta al buio, trovò a tentoni la maniglia e fece girare le chiavi nella serratura una volta, due volte, tre. Girò la maniglia, quando un braccio la prese, sbattendola violentemente contro la parete. Con un calcio la figura richiuse la porta. Paralizzata dal terrore, Harleen non riusciva ad urlare. L’intruso le si schiacciò contro: era un uomo, più alto di lei, magro. I suoi vestiti fradici e gelidi. Odorava di ferro, come le piogge estive. Era febbraio. Le strinse le braccia, indirizzandola verso il salotto. Harleen riuscì solo ad arretrare, facendo esattamente come lui voleva.
-Ti prego, ti darò tutti i soldi che vuoi, ti dirò dove tengo i gioielli ma non farmi del male.-
L’uomo respirava pesantemente. poggiò un piede davanti a lei, Harleen cadde all’indietro e lui le si sdraiò sopra. La donna finalmente riuscì ad urlare e cercò di dimenarsi. L’uomo era incredibilmente forte, e avvinghiò le sue gambe al bacino di lei, impedendole di muoversi. Si tolse la maglietta, la fece cadere sul viso di Harleen, che se ne liberò agitando il collo. Le sollevò la maglietta iniziando ad accarezzarle il ventre, mentre lei tentava di spingerlo via.
-Ti prego farò tutto quello che vuoi ma non farmi del male, ti scongiuro, perfavore io…-
-Zitta! Se chiudi la bocca non ti apro la pancia.- Harleen sentì una lama fredda appoggiarsi un centimetro sopra il suo ombelico. Cominciò a singhiozzare in silenzio, immobile e terrorizzata. Sentì l’altra mano di lui accarezzarle la guancia, spostarle i capelli che, bagnati di pianto, le si erano appiccicati al viso.
-Harley, tu sei una povera ingenua. Io ti tormenterò finchè,- le si avvicinò all’orecchio. I suoi capelli bagnati le sfiorarono la fronte, il naso le toccò appena lo zigomo- finchè tu, piccola mia, non mi implorerai di fotterti finchè non ti si spezzeranno le gambe, finchè i tuoi lombi non bruceranno, finchè non avrai nemmeno più voce per ridere. E allora non avrai nulla da me Harley, perché il tuo più grande piacere sarà  la sofferenza.- una voce inconfondibile, così familiare. Harleen sentì la lingua dell’uomo morbida poggiarlesi sulla guancia, e gridò.
Era sul divano, la televisione stava dando la pubblicità di una dieta dimagrante. La donna si alzò, corse in cucina. La finestra chiusa, il pavimento asciutto. Si diresse verso la porta d’ingresso. Tre giri di chiave la tenevano chiusa. Si accasciò alla parete e si sedette sul pavimento, mentre le lacrime sgorgavano dal suo viso. E poi la vide. Ci si avvicinò, stringendola fra le mani, sentendone il profumo. Cominciò a ridere, ridere istericamente, poi scoppiò in lacrime ed infine, lanciando un grido di terrore, cadde sfinita e addormentata sul pavimento.
Tra le braccia stringeva una maglietta bianca e fradicia.

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Capitolo 7
*** what do you want? ***


-Cosa vorrebbe ottenere con questo? Mi spieghi!-
J la guardava sorridente. –Non ti sei truccata dottoressa. Mi piaci così, sembri una liceale innocente.-
Harleen, in piedi davanti al tavolo, picchiò i pugni sulla superfcie bianca. –Voglio sapere come è riuscito ad evadere da Arkham, ora!-
-Sai, forse hai ragione ad arrabbiarti. Le liceali non sono poi così innocenti.-
La donna teneva in mano una tracolla da cui estrasse la maglietta. –questa come me la spiega, signor J.?-
-è come le macchie di Rorschach? Ci vedo una piccola bimba del Pakistan di dodici anni che si buca le dita con la macchina da cucire e spera in una vita migliore. O forse è stata fatta in Cina?-
Harleen tentò di calmarsi.-Non solo lei mi sta tormentando, ma sta anche ledendo alla mia professionalità di psichiatra. Ho già ritardato troppo, sarò costretta ad avvertire il direttore delle sue uscite notturne.-
Il Joker appoggiò i piedi sul tavolo con un espressione soddisfatta.-Io non lo farei se fossi in te.-
-È una minaccia forse?-
-Non era mia intenzione che lo fosse. Ma se la vuoi prendere così, chi sono io per fermarti?-
-E allora cosa voleva intendere con quelle parole?-
-Sai Harleen, la mente umana non è fatta di capacità retoriche e sofismi; dovresti concentrarti sulle emozioni più che sulle parole, chiederti cosa provo, non cosa dico.-
Harleen rise sprezzante.-Allora mi scusi mister J. Come si sente dopo aver fatto irruzione in casa mia e avermi aggredito?-
-Non sia sarcastica, dottoressa. Inoltre non so di cosa stia parlando. Comunque se lo vuol proprio sapere, è stato molto eccitante sentirti piangere pregando che ti scopassi.-
- Parlerò con il direttore, ti metteranno in massima sicurezza! Non vedrai mai più la luce del giorno.-
L’uomo sembrava sempre più eccitato e divertito. –Visto? Ti ho appena mostrato come utilizzare l’arte oratoria per scopi pseudopsicologici. Con la volgarità ho suscitato in te una reazione. Non è esilarante?-
-Cosa vuoi da ME?- la voce di Harleen si ruppe. La donna guardanda negli occhi l’uomo sorridente. Cominciò a sentire le lacrime sgorgarle lungo le guance, tinte di un violento rosso. Anni di studio, libri su libri e una laurea mandati affanculo. Valeva tutto meno di carta straccia. Perdere il controllo, piangere davanti a un paziente. Chiuse gli occhi abbassando la testa, umiliata e sconfitta. Avrebbe lasciato il lavoro, cambiato casa. Sarebbe scappata, sarebbe tornata a vivere con i genitori. Non le importava più nulla della carriera, degli amici. Voleva solo un po’di pace. Sentì quattro nocche fredde sfiorarle una guancia, ma non si mosse.
-Che c’è, dottoressa? Queste sedute stanno diventando troppo pesanti?-
Harleen finalmente alzò la testa, e si ritrovò il viso del Joker a qualche centimetro.
-Te lo avevo detto che ero un paziente troppo difficile. Sai, vorrei dirti che mi dispiace, ma è stato davvero divertente incontrarti.. e poi Harley, abbiamo appena incominciato.-
Harleen lo guardò, sfinita. Le occhiaie profonde, non dormiva da giorni. –Io volevo solo aiutarti…-
-Non ho bisogno di essere aiutato, Harley. Pensa, non me ne sono ancora andato per non perdermi i nostri appuntamenti ogni martedì mattina alle nove.-
Non era vero. Mister J non era mai uscito da Arkham prima di quella notte. Steve era stato così gentile da farlo uscire. Ma poi lui aveva ucciso Steve, e non c’era nessun altro che gli avrebbe permesso di andare a farsi un giretto1.
-Allora perché non lascia che io l’aiuti?-
-Perché vedi, Harley, se faccio quello che le altre persone vogliono, non mi diverto più.-
La baciò. Con violenza, schiacciò il suo viso contro quello di lei. Harleen era paralizzata, mentre la lingua del Joker vagava nella sua bocca. Poi si riscosse. E sarebbe stata l’ultima volta.
Gli morse il labbro violentemente, per costringerlo a staccarsi. L’uomo la guardò sorridente, un fiume di sangue lungo il mento. Harleen arretrò, mentre lui cominciava a ridere. Rideva, lei arrivava alla porta. Rideva, lei finalmente si girava e correva, correva fuori nel corridoio, fino all’uscita, fino alla macchina.
Voleva tornare a casa, ma non ci riusciva. Girò in auto per due ore: senza mangiare, senza fermarsi. Ritornò ad Arkham.
-Devo vedere il paziente 44792.-
-Dottoressa, avete avuto una seduta appena stamattina.-
-Devo vederlo. Fa parte della terapia.-
L’infermiera la fece passare. Guardò la donna. I capelli biondi ricadevano disordinati sul viso. Portava un paio di jeans neri, una camicia bianca stropicciata. Una macchia di caffè vicino al terzo bottone.–Dottoressa… si sente bene?-
Harleen si voltò verso di lei:-Certo. Sto benissimo. Adesso vuole anche insegnarmi il mio lavoro?- Non attese una risposta, avviandosi verso la stanza numero diciassette, in fondo al corridoio sulla destra. Non c’era ancora nessuno. Attese in piedi, camminando avanti e indietro. Una guardia condusse dentro Lui, lo fece sedere.
-Perché ha la camicia di forza?-
-Quando l’abbiamo riportato nella sua stanza ha reagito con la forza. Non è il caso lasciarlo libero e solo con una donna disarmata.-
Harleen guardava il Joker. Il Joker guardava dritto davanti a sé, in un punto tanto preciso da non esistere nemmeno. –Gliela tolga.-
-Dottoressa, non ritengo sia la decisione adatta.-
-Gliela tolga, ci vorrà un momento.-
La guardia sospirò. Si avvicinò a mister J, slegò i lacci della camicia di forza.
-So che ti piace il bondage Bob, ma sarà per la prossima volta.- gli disse.
L’uomo se ne andò senza dire nulla. Lanciò uno sguardo alla dottoressa, che lei non ricambiò.
Chiuse la porta.
-Giochiamo ad armi pari. Niente paziente, niente dottore. Sei libero, esattamente come me.-
-No bambolina. Se potessimo paragonare questa stanza ad una partita a scacchi, tu tiri avanti a case di fuga mentre io continuo a sferrare attacchi di scoperta ad ogni tua mossa. Sono decisamente in vantaggio.-
-Questa faccenda va risolta.-
Il Joker si fece serio per un istante, poi crudele.- Risolta? Come credi di risolverla? Guarda in faccia la realtà, Harleen. Non hai fatto alcun progresso con me, lo sai. Ti ho dato anche l’illusione di avere delle risposte, con lo scherzo dell’Iced Nightmare, le chiamate, la visitina notturna. In realtà tu non hai in mano nulla. Sei sola, sei confusa e stanca, e l’unica cosa che in effetti puoi dichiarare di avere è quel sacco di guai che la mia conoscenza ti porterà. Perché non credere che io abbia finito con te, Harleen Quinzel.-
-Perché mi fai questo?-
-Ti risponderò solo se tu riesci a dirmi perché non dovrei.-
La donna lo guardò dritta negli occhi. Il joker si era alzato, era tornato verso di lei. Mormorò, con un fil di voce:-Perché io cercavo solo di aiutarti…-
L’uomo sorrise:-Ah, povera illusa… deve esserti proprio piaciuto quel bacio.- Le si avvicinò ancora di più. Harleen si sentiva palpata, abbracciata, ma lui non la stava toccando nemmeno.
-Adesso lo vuoi sapere come me le sono fatte queste cicatrici?- al silenzio, il Joker rispose- Ero un ragazzo, andavo al college. Ho incontrato una ragazza bellissima, di quelle a  cui non puoi dare nulla, perché hanno già tutto. Proprio come te. Io provavo a parlarle, ma lei nemmeno mi vedeva. La guardavo, circondata da galli ridacchianti. Tutti sorridevano, soltanto per farle piacere. Volevo avere il sorriso più grande di tutti. Forse allora mi avrebbe notato. Lo vuoi sapere il tuo grande problema, Harley? Tu continui a chiedermi cosa voglio da te. Io più volte ti ho risposto. E nonostante ti abbia detto che non mi fermerò, nonostante ti abbia fatto drogare, picchiare, ti tormenti di giorno e di notte tu, piccola Harley, non te ne sei ancora andata. Mi viene spontaneo pensare che la vera domanda sia cosa vuoi tu da me.-
 
1 & 2 = citazioni della web serie “The Joker’s Blogs”

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