Nel mio cuore qualcosa morì

di AlbaD___
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Salto nel passato ***
Capitolo 3: *** Un istante per sempre ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


E l’Eterno disse:
«Che hai fatto?
La voce del sangue di tuo fratello
grida a me dalla terra.»
[Ge 4, 10]

«Mi chiamo Dan Scott,
ho ucciso mio fratello.»

 

PROLOGO



A differenza di quanto abbia preferito far credere all'intera comunità, non sono un bravo padre, un buon marito, un politico affidabile o un uomo di successo. Nonostante da sportivo abbia fatto della competitività la mia migliore alleata e della vittoria la mia massima aspirazione, alle mie spalle non ho accumulato altro che insuccessi. Contrariamente a quanto avessi immaginato, le decisioni prese mi hanno spinto in un'arrestabile spirale verso il basso. L'aver perso la dignità e l'unica donna che abbia mai amato, dopo aver rinnegato di essere padre, è nulla in confronto all'aver perso completamente me stesso, nell'istante in cui ho premuto quel dannato grilletto. Quando il proiettile ha trapassato il petto di Keith, conficcandosi nel suo cuore, ho posto fine anche alla mia vita. Ma sebbene queste quattro mura costituiscano la tomba nella quale sarò costretto a trascorrere il resto dei miei giorni, la mia memoria non sarà onorata e non verranno versate lacrime per me. La voce nella mia testa, che continua a dirmi non ci sia alcuna via d'uscita, forse si sbaglia, c'è un'unica via d'uscita. Se la mia non è più vita, allora non merito di averne una.

Sollevo gli occhi verso il soffitto e lascio che le parole di Keith si facciano largo tra i miei pensieri, "Andrà meglio", continuo a ripetermi. Dopo aver stretto un lenzuolo tra i denti, comincio a strappare il tessuto fino a dividerlo a metà. Poggio un lembo sul materasso, lego l'altro ad una trave del soffitto, facendo un doppio nodo, e con l'estremità penzolante formo un cappio della grandezza del collo. Salgo sulla branda, in punta di piedi poggio la testa all'interno del cerchio di stoffa e mi lascio andare, librando nell'aria. La pressione esercitata dalla fune attorno alla gola mi smorza il respiro e, prossimo alla perdita dei sensi, attendo di porre fine alla mia brutale esistenza, fin quando un sordo tonfo non mi riporta inesorabilmente alla realtà. Sul pavimento, accanto al mio corpo, giace il lenzuolo lacerato venuto giù dal soffitto. In preda alle lacrime comprendo di essere costretto a scontare la mia pena più severa.

Sono condannato a vivere.


(https://www.youtube.com/watch?v=5UlC8pnGWsw&feature=youtu.be)

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Capitolo 2
*** Salto nel passato ***


PARTE I
NEGAZIONE


1. SALTO NEL PASSATO



Come ogni mattina mi voltai dalla parte opposta del letto, per far cessare il tintinnio della sveglia delle 6:30. Dopo essermi rialzato, afferrai la tuta che sbucava da un cassetto lasciato aperto, la infilai prima di scendere al piano inferiore e, quando raccolsi una bibita energizzante, strizzai gli occhi alla vista della luce proveniente dal frigorifero. Una volta uscito di casa mi apprestai a percorrere le strade di Tree Hill, dando inizio alla mia routine giornaliera. Il riuscir ad osservare il repentino cambio di sfumature nel cielo contribuì a suscitarmi una sensazione di calma, seppur momentanea e apparente. Amavo cominciare presto la giornata e attraversare la città non più addormentata ma neanche sveglia al punto da essere immersa nella sua frenesia. Con le strade deserte riuscivo a percepire gli odori degli alberi e quelli più invitanti provenienti dai locali appena aperti, in cui veniva preparata la colazione. Persino la scuola sembrava un luogo più accogliente, priva della solita ressa che si formava ogni giorno davanti al suo ingresso. Percorso più di un miglio, mi ritrovai davanti la piccola abitazione di un verde stinto appartenente ai genitori di Karen, la mia fidanzata. Abbozzai un sorriso alla vista dell’eccentrica cassetta delle lettere a forma di gallo e osservai la staccionata bianca che recintava il giardino trascurato, ricordando di come una volta fosse colmo di rigogliosi cespugli di rose. La famiglia Roe aveva sempre abitato lì, la casa era appartenuta in precedenza al nonno di Karen ma in seguito alla sua morte era passata in eredità al suo unico figlio. Anche Karen era figlia unica e viveva sola da quando i genitori avevano abbandonato Tree Hill per impegni di lavoro. Era appena cominciato l’ultimo anno scolastico quando il signor Roe, dopo il fallimento e la successiva chiusura della fabbrica in cui lavorava come operaio, aveva ricevuto un'offerta da un'impresa avente sede in Europa. Abbandonare la scuola durante l’anno del diploma avrebbe potuto rappresentare un rischio, per questo motivo Karen aveva scelto di terminare gli studi e attendere la consegna dei diplomi, prima di raggiungere i genitori. In cuor mio ero ben consapevole di essere la principale causa della sua decisione, prima ancora della scuola. Per evitare che restasse spesso sola, un paio di volte la settimana mia madre andava a farle visita, per accertarsi fosse tutto a posto, mentre io trascorrevo la maggior parte delle giornate a casa con lei per tenerle compagnia, talvolta protraendo la mia presenza per tutta la notte.
Essendo uno studente all’ultimo anno, ormai quasi al termine, non era difficile riuscire a provare una sensazione di libertà, di avere ancora tutta la vita davanti, per crescere, sbagliare, rimediare. Se a tutto ciò si aggiungeva l’essere il ragazzo più popolare della scuola, capitano della squadra di basket, nonché fidanzato della capo cheerleader, ad essa era possibile affiancare una sensazione paragonabile all'invulnerabilità. Con l’avvicinarsi della finale del campionato di Stato, però, non mi sentivo affatto libero e la mia passione per il basket si era trasformata in vera e propria ossessione. Le pressioni cui ero stato soggetto negli ultimi anni, in quei giorni avevano raggiunto livelli altissimi e non facevano altro che aumentare il mio senso di oppressione. Contrariamente alla sera della finale, l'offerta di una borsa di studio da parte di un college diventava sempre più lontana. Non ero mai stato particolarmente attratto dalla scuola, rispetto al poter giocare a basket qualunque lezione mi sembrava noiosa. Riuscivo a prestare attenzione soltanto durante le ore di matematica, invece in quelle di storia e letteratura la mia concentrazione si azzerava completamente. Ecco perché l’unico modo per frequentare il college e continuare a giocare era riuscire ad ottenere una borsa di studio, altrimenti oltre alla mia carriera scolastica avrei potuto dire addio anche a quella sportiva. Dovendo poi continuare a guadagnare la stima di mio padre, avrei dovuto inevitabilmente vincere, perché tutto ciò che mi rendeva migliore ai suoi occhi era proprio la possibilità di riuscire a diventare un campione. Dai suoi racconti orgogliosi sapevo di aver cominciato a giocare a basket all’età di tre anni, nel campetto dietro casa, facendo rimbalzare una piccola palla o mettendo a segno canestri con dei calzini appallottolati. Due anni più tardi ero già nella Tree Hill Junior League in cui mi venne assegnata la maglia con su scritto trentatré, come il numero della mia registrazione. Tredici anni più tardi continuavo ad indossare quello stesso numero, mostrandolo con orgoglio durante ogni gara dei Ravens, la squadra della mia scuola.



Tornato a casa salii nella mia camera per fare una doccia e sistemare il borsone da palestra, nel quale infilai le scarpe e la divisa bianca con strisce laterali blu e nere.
– Buongiorno, Danny. – mi salutò mia madre, vedendomi entrare in cucina per la colazione.
Nonostante il mio nome completo fosse Daniel Robert Scott, era solita usare un diminutivo, in senso affettuoso. A differenza di mio padre, aveva un carattere calmo, paziente, rappresentava l'ago della bilancia della nostra famiglia, era lei a ristabilire l'equilibrio nei momenti di maggior tensione. Dopo più di vent'anni di matrimonio, non era mai riuscita ad opporsi al volere di mio padre ma nonostante ciò, in situazioni complicate, riusciva a renderlo maggiormente ragionevole. A guardarla, era difficile dedurre fosse mia madre, essendo di statura media con capelli biondi e occhi color ghiaccio rappresentava il mio opposto. Era un'ottima cuoca e difficilmente riuscivo a ricordarla in un ambiente differente da quello della cucina, in cui trascorreva gran parte del suo tempo destreggiandosi tra i fornelli, desiderosa di sperimentare nuove ricette.
– Buongiorno. – le risposi, scostando una sedia dal tavolo per potermi sedere.
– Sei stanco dopo la corsa? – mi domandò, intenta a preparare l’impasto dei pancake.
– No, in realtà mi sento in forma. – ribattei, afferrando dal centro della tavola una brocca con del succo d'arancia per versarmene un po' in un bicchiere – Sono passato davanti casa dei Roe, il giardino avrebbe bisogno di un tuo intervento. – aggiunsi dopo essermene ricordato.
– Ci penserò al più presto, non preoccuparti. – mi rassicurò, abbozzando un sorriso.
Da quando i genitori di Karen avevano lasciato la città era molto premurosa nei suoi confronti e cercava di darle una mano con le faccende domestiche, sapendo quanto fosse impegnata, non solo con la scuola ma anche con il lavoro.
– Come mai sei ancora qui? – intervenne mio padre entrando in cucina, ripiegando il giornale locale e poggiandolo sul tavolo.
– Whitey ha annullato gli allenamenti mattutini per lasciarci più tempo per prepararci agli esami di fine anno. – risposi con tono annoiato – Te l’avevo detto. – gli ricordai, voltandomi verso di lui con sguardo ammonitorio.
– Credevo scherzassi – replicò per poi occupare il posto sulla sedia accanto alla mia – Dato che ritengo sia assurdo. – affermò, scuotendo la testa.
– È assurdo che per una volta pensino più allo studio che al basket? – domandò mia madre, provando a prendere parte alla discussione.
– Senza basket non potrà ricevere la borsa di studio e senza borsa di studio può anche dimenticarsi di andare al college. – ribatté seccamente rivolgendosi a mia madre ma continuando a tenere lo sguardo fisso su di me.
– Non tutti hanno questa fortuna e per andare al college possono contare solo sullo studio. – aggiunse mio fratello Keith, una volta aver raggiunto il resto della famiglia e preso posto anche lui attorno al tavolo.
Forse neanche io avrei avuto quella fortuna, la borsa di studio, stranamente, tardava ad arrivare e temevo di potermi giocare tutto nella finale del campionato.
– Basta parlare di basket. – intervenne mia madre, servendo in tavola i pancake e invitandoci a mangiarli.


Terminata la colazione, mio padre uscì per recarsi nell’ufficio del sindaco poiché dal giorno della sua elezione era il suo assistente, mentre mio fratello raggiunse il body shop, l’officina della città in cui lavorava da un paio d’anni, da quando terminata la scuola aveva preferito trovare un impiego piuttosto che continuare gli studi.
Prima di andare a lezione salutai mia madre, ritornai a compiere lo stesso tragitto fatto poco prima di corsa e a metà strada passai per il Tree Hill Cafè, il locale in cui lavorava Karen.
– Lo so, sono in ritardo – mi disse frettolosamente, mentre sfilava da un lato all’altro del bancone.
– Buongiorno – dissi, afferrandola per darle un bacio sulle labbra – Ti manca ancora molto? – domandai, sedendomi sull’unico sgabello libero.
– Consegno questi ordini e arrivo. – m’informò, strappando alcuni fogli da un block notes, prima di sparire in cucina.
Per i dieci minuti successivi osservai l’orologio, posto sulla parete di fronte al bancone, muovere ritmicamente le sue lancette. Il tempo scorreva, eravamo sempre più vicini all’inizio delle lezioni ma Karen tardava a ritornare.
– Eccomi. – esclamò, sbucando improvvisamente alle mie spalle, reggendo lo zaino che poi infilò a tracolla.
– Tutto bene? – domandai, preoccupato per quel ritardo e per la sua espressione.
– Non… – provò a dire, abbassando lo sguardo – Non mi sentivo molto bene. – riuscì poi a terminare – Ma non preoccuparti, ora sto meglio. – mi rassicurò, afferrandomi per un braccio mentre ci incamminavamo verso l'uscita.
Non essendo molto lontana dal locale, arrivammo a scuola giusto in tempo per l’inizio delle lezioni. A metà del corridoio salutai Karen, occupata a raccogliere alcuni libri dal suo armadietto, e mi diressi verso l’aula in cui si teneva il corso di letteratura. Solo una volta in classe, cercandolo inutilmente all’interno dello zaino, mi resi conto di aver dimenticato ancora una volta il libro sul quale stavamo lavorando, ‘Il grande Gatsby’. Dopo essermi voltato attorno, nonostante non riuscissi a controllare fino alla prima fila, dovetti constatare fossi l’unico a non averlo, perché i secchioni di certo non potevano aver avuto una tale distrazione.
– Scott! – sentii nominare inaspettatamente alcuni minuti dopo l’inizio della lezione.
Essendo una voce maschile, di certo non poteva trattarsi della signora Meyer, l'insegnante di letteratura, e quando sollevai lo sguardo mi accorsi di uno studente che sbucava dalla porta.
– Coach Whitey vuole parlarti. – aggiunse, guardando dritto verso di me.
Il mio ruolo in squadra e le mie prestazioni durante ogni match avevano contribuito a rendermi popolare all’interno della scuola. Fu questo il motivo per cui quel ragazzino paffutello, con le guance punteggiate da piccole lentiggini, era stato in grado di riconoscermi, sebbene fosse solo al primo anno e non avessi mai avuto occasione di parlare con lui.
– È proprio necessario? – domandò la signora Meyer, annoiata per quell'interruzione.
– Ha detto che è urgente. – aggiunse la matricola, utilizzata da Whitey come tramite.
Il ragazzo tornò nella sua aula, mentre io percorsi il corridoio fino all’ufficio di Whitey, l'allenatore della squadra.
– Coach, devo ringraziarla – esclamai, dopo aver aperto la porta – Mi ha salvato da una noiosissima lezione di letteratura. – gli spiegai, sedendomi sulla sedia accanto alla sua scrivania.
– L’anno prossimo non sarò più in grado di farlo – disse, placando il mio entusiasmo – E ragazzo mio, farai meglio ad impegnarti duramente in ogni materia – aggiunse con tono paterno.
Lo scrutai cercando di capire il motivo di quelle affermazioni, senza riuscirci.
– Questa è per te – mi comunicò, poggiando sulla scrivania una grossa busta di un giallo spento – È da parte dell’UNC. – aggiunse, picchiettando con un dito sull’intestazione, per mostrarmela.
Afferrai la busta e cominciai ad aprirla con la mia solita impulsività, senza neanche fermarmi un attimo a riflettere sul suo possibile contenuto. Estrassi il foglio che era al suo interno, lo spiegai e iniziai a leggere mentalmente, spostando rapidamente gli occhi da una riga all’altra.
– Hanno accettato la mia richiesta per una borsa di studio – esclamai a gran voce, informando Whitey, riassumendogli il contenuto di ciò che avevo appena letto – Il prossimo anno giocherò con i Tar Heels. – dissi, quasi non credendo alle mie orecchie.
– Sapevo ce l’avresti fatta. – ammise, mentre un sorriso soddisfatto comparve sul suo volto.
Quello tra me e Whitey era un rapporto molto particolare, a seconda del nostro stato d’animo oscillava tra ammirazione e avversione. Sapevo riponesse gran parte della sua fiducia in me, soprattutto in previsione della finale, e che mi stimasse come atleta piuttosto che come uomo. Eravamo entrambi testardi, ci scontravamo spesso, specialmente durante gli allenamenti, a causa dei nostri differenti punti di vista sulle tattiche da adottare durante le gare, ma nonostante ciò riuscivamo sempre a giungere ad un compromesso.
– Mi hanno anche offerto di partecipare ad un camp estivo, subito dopo la fine della scuola – ripresi, proseguendo nella lettura – Per prepararmi meglio all’inizio del campionato. – aggiunsi.
– Sono davvero contento per te, figliolo – affermò, rialzandosi per poi colpirmi con una pacca sulla spalla in senso affettuoso – Cerca soltanto di non perdere di vista la… – provò a dire, riferendosi alla finale del campionato.
– Non lo farò. – lo anticipai scuotendo la testa.
In seguito alla notizia appena ricevuta ero più motivato che mai.
– In realtà ci sarebbe dell’altro – mi disse, facendosi serio – È stato tuo padre a consegnarmi la busta – continuò, dopo un attimo di esitazione, riprendendo il suo posto sulla sedia – Non voleva la trovassi prima di giovedì sera. – confessò, riabbassando lo sguardo, dispiaciuto per aver smorzato il mio entusiasmo con quella rivelazione.
– Perché avrebbe dovuto farlo? – domandai, non riuscendo a comprendere quel gesto.
– Forse temeva potessi distogliere la tua attenzione da uno degli obiettivi più importanti degli ultimi quattro anni – provò a dedurre, sollevando le spalle – Al contrario, credevo potesse servirti da stimolo per dare il massimo. – affermò, sperando di non sbagliarsi.
– Perché lei, a differenza di mio padre, ha fiducia in me – ribattei, convinto di ciò che avevo appena detto – Avrei dovuto aspettarmelo da lui. – proseguii con rabbia, stringendo i pugni.
– Ora faresti meglio a ritornare in classe – mi consigliò Whitey – Non vorrei suscitare dell’ulteriore astio nei miei confronti, da parte degli altri insegnanti – continuò ridacchiando – Visti i preparativi per il ballo, gli allenamenti sono anticipati di due ore. – aggiunse, rammentandomi di quel cambiamento.
– Sarò puntualissimo. – replicai, stringendogli la mano e ringraziandolo, dandogli appuntamento al termine delle lezioni.
All’uscita dell’ufficio, fui sorpreso nel ritrovare Karen davanti alla porta del bagno delle ragazze.
– Karen? – la chiamai, affinché si voltasse verso di me – Che cosa succede? – domandai, preoccupato per la sua espressione malaticcia.
– Continuo a non sentirmi molto bene. – rispose, stringendosi l’addome con un braccio.
– Forse faresti meglio a ritornare a casa – le suggerii – Vuoi che ti accompagni? – le proposi, cingendole le spalle per sorreggerla.
– Devo aiutare le ragazze con l’allestimento della palestra – rispose immediatamente, senza lasciarmi il tempo di insistere – Non preoccuparti, starò meglio. – provò a rassicurarmi nuovamente, accennando un sorriso, determinata a non mancare a quell’appuntamento – Come mai non sei in classe? – mi domandò dopo qualche istante, deviando il mio discorso.
– Whitey aveva bisogno di parlarmi – la informai, senza rivelarle troppi particolari – Ti dirò tutto stasera al ballo – continuai, suscitandole della curiosità – Passo a prenderti alle sette. – affermai, scoccandole un bacio su una guancia.
Prima di fare il mio ritorno in classe, le presi il volto tra le mie mani e la guardai dritto negli occhi, per assicurarmi ancora una volta che stesse bene e si trattasse soltanto di un malessere provvisorio. Ingannato dal suo sorriso rassicurante ed esaltato per la notizia di aver ottenuto la borsa di studio, mi convinsi che non ci fosse alcun problema.
Non ero neanche minimamente vicino a sospettare ciò cui stavo andando incontro.

Si dice che la cosa più triste
che un uomo debba mai affrontare
sia ciò che avrebbe potuto essere.
Ma se l’uomo dovesse affrontare ciò che era?
O quello che forse non sarà mai?
[Dan Scott 5x14]

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Capitolo 3
*** Un istante per sempre ***


2. UN ISTANTE PER SEMPRE


– Fermi! – si sentì urlare dopo un assordante fischio che riecheggiò per tutta la palestra, immobilizzandoci all’istante – Sembrate un ammasso di caproni – continuò Whitey, stringendo ancora il fischietto tra le dita – È questo lo spirito con il quale credete di vincere una finale? –
– Coach, non riusciamo più a respirare – rispose uno dei miei compagni di squadra, a più riprese a causa del fiatone – Sono settimane che ci alleniamo senza sosta, siamo esausti. –
– Parla per te, Wilson! – ribattei zittendolo, iniziando a palleggiare pur restando fermo sul posto – Non osare pensare di parlare a nome della squadra. – dissi risentito.
In quanto capitano, trovai inaccettabile e fuori luogo il suo intervento, soprattutto perché si trattava della mia di squadra. Adirato, cominciai a correre senza sosta da una parte all’altra del campo, schivando avversari immaginari per poi ritrovarmi di fronte al tabellone. Con uno scatto repentino, mi sollevai e schiacciai con foga la palla all’interno del canestro. La osservai attraversare la rete e, una volta sfilata, la raccolsi, ripresi a palleggiare e guardai Wilson dritto negli occhi in segno di sfida. Riuscii a divincolarmi da ogni tentativo di ostruzione da parte sua, raggiungendo il canestro opposto ma, quando mi ci ritrovai di fronte, provando ad infilarne una da tre punti ruotai troppo il polso, la palla rimbalzò sull’anello di ferro e cadde fuori dall’area. “Merda”, pensai accumulando sempre più rabbia. Non ebbi neanche il coraggio di voltarmi verso Whitey, temendo di incrociare il suo sguardo, e preferii fare della palla il mio unico obiettivo. – Questa volta non ti farò un altro favore. – mi rivolsi con tono superbo al mio avversario, per poi sottrargliela con un inaspettato tocco alle spalle. Era stato troppo facile. Per quanto potessi esserne contento in quel momento, ero molto preoccupato in previsione della finale. La mia era di certo bravura, ma dall’altro lato si trattava anche d’inesperienza da parte del mio compagno di squadra, inesperienza che avrebbe potuto rivelarsi fatale.
 
 
Al termine degli allenamenti filai dritto a casa, contento di non trovarvici mio padre, ancora impegnato con il lavoro. Avrei dovuto affrontarlo ma non volevo accadesse quel giorno, preferivo concentrarmi sui consigli fornitimi da Whitey e su Karen. Sapevo quanto tenesse a quella serata e non volevo deluderla. Il ballo di fine anno era l’evento più atteso dalle ragazze. Addobbi floreali, abiti eleganti, lustrini, paillettes e un cavaliere sotto braccio. Karen ed io eravamo candidati alle elezioni di re e reginetta, il campione di basket e la cheerleader, un classico. Data la nostra popolarità la vittoria era quasi del tutto assicurata.
Una volta salito in camera vidi il mio smoking e la camicia con jabot agganciati ad un’anta dell’armadio, avevo chiesto a mia madre di ritirare il completo al negozio. L’avevo scelto qualche settimana prima, ad accompagnarmi era stato mio padre e anche in quell’occasione, in uno dei momenti padre figlio che bisognerebbe ricordare, a me erano rimaste impresse soltanto le pressioni cui ero stato sottoposto prima dell’inizio dei play off. A volte odiavo me stesso per l’influenza che gli permettevo di avere sulla mia psiche. Ero un giovane ragazzo, atletico, popolare, avevo davanti una florida prospettiva di vita accanto alla ragazza di sempre, eppure non riuscivo a non essere turbato. Non si trattava delle tipiche agitazioni adolescenziali bensì di un timore di fondo accumulato anno dopo anno, a partire dall’età infantile. Avevo timore dell’uomo che mi aveva messo al mondo, temevo il suo giudizio, le sue reazioni e le ripercussioni che avrebbero avuto su di me, ma soprattutto sapevo che qualunque azione avessi compiuto non sarebbe mai stata abbastanza, io non sarei mai stato abbastanza per lui. L’ammissione nella squadra del liceo non avrebbe avuto alcun valore se non fossi diventato capitano, così come non ne avrebbe avuto la vittoria del campionato se non fossi stato ammesso al college. Qualunque sforzo risultava vano confrontato alle sue attese. Purtroppo non ero mai riuscito a comprendere chi dovesse essere il reale destinatario di quelle aspettative.
Una doccia tiepida, oltre a rilassare i muscoli, fu capace di aprire la mente ai più profondi pensieri e ciò non mi rendeva per niente entusiasta, per questo preferii uscire rapidamente per avvolgermi nel mio accappatoio. Una volta essermi riasciugato, indossai lo smoking e restai per un po’ a fissare compiaciuto la mia immagine allo specchio fin quando due leggeri colpi fecero sì che il mio sguardo si spostasse verso la porta.
– Vuoi che ti dia una mano a sistemarti? – domandò mia madre, facendo capolino nella stanza – Vieni qui. – continuò, avvicinandosi per sistemarmi il colletto della camicia.
Si trattava di una delle rare volte in cui indossavo un completo, ero solito farlo solo prima e dopo le gare, da quando Whitey aveva deciso che giacca e cravatta avrebbero migliorato l’immagine della squadra.
– Ne eri a conoscenza? – domandai rabbioso – Della lettera da parte del college. – aggiunsi, notando lo sguardo stupito di mia madre.
– Danny… – provò a dire.
– Come hai potuto? – urlai, non lasciandole il tempo di terminare la frase – Ora sei anche tu dalla sua parte? – chiesi profondamente risentito.
– Lasciami spiegare. – tentò nuovamente.
– Credevo di poter contare su di te, invece sei proprio come lui. – continuai, ignorando una seconda volta le sue parole.
– Sono stata io a trovare la busta nella cassetta delle lettere, quando l’ho mostrata a tuo padre me l’ha strappata via di mano dicendo che, qualunque fosse stato il contenuto, sarebbe stato meglio se tu non ne fossi venuto a conoscenza, per evitare distrazioni. Ho insistito tanto affinché cambiasse idea, ma sai quanto riesce a essere testardo e, sebbene volessi parlartene io stessa, non sapevo dove l’avesse nascosta. In quel modo ti avrei solo reso ancora più agitato – spiegò – Mi dispiace. –
– No. – affermai scuotendo la testa – Sono io ad essere dispiaciuto – ammisi, poggiandole un braccio sulle spalle – Venerdì sera non ti deluderò. – le promisi, stringendola a me.
– Figliolo, c’è un’unica persona a questo mondo che non dovrai mai deludere, prima di me, di tuo padre, di Keith e Karen. – disse premurosamente – E non solo nel basket, ricordalo sempre. –
Ogni qualità negativa appartenuta a mio padre riusciva a essere oscurata dalla bontà insita nel nobile animo di mia madre e non potevo far a meno di rivederla in Karen, per questo me ne ero follemente innamorato.
 
 
Prima di passare a prendere Karen mi sistemai il papillon, non avendolo mai indossato non ero sicuro di averlo annodato perfettamente. Annusai le piccole rose del bouquet da polso, comprate dal fioraio in fondo alla strada, ed emozionato bussai alla porta di casa di Karen. Quando venne ad aprire sospirò e sorpresa fece un passo indietro, come ad osservare per intero la mia figura. Era stupenda, semplice ma al tempo stesso elegante. Aveva i capelli ondulati sistemati con perfetta cura, fissati ai lati della testa da due forcine ricoperte di brillanti e indossava un vestito lungo di seta, di un rosa tenue che metteva in risalto le sue forme.
– Sei bellissima. – esclamai quando la vidi sull’uscio di casa, mentre le sue guance prendevano sempre più colore.
– Bel papillon. – osservò imbarazzata.
– Come futuro re del ballo non potevo non indossarlo. – risposi sicuro di me, per poi poggiarle una mano sul fianco, avvicinandomi per stamparle un bacio sulle labbra.
– I risultati non sono ancora stati svelati. – mi corresse, tenendo a bada la mia sfrontatezza.
– Andiamo – cominciai sorridendo – Stiamo parlando di Dan Scott, stella del basket locale, detentore del record del maggior numero di canestri messi a segno in una sola gara e capitano dei Ravens – ammiccai – Nonché fidanzato della più bella capo cheerleader che il liceo di Tree Hill abbia mai avuto. – aggiunsi con orgoglio, riuscendo a suscitarle nuovamente dell’imbarazzo.
– Deve trattarsi di un ragazzo davvero fortunato. – affermò, cingendomi il collo con le braccia per attirarmi a sé.
– Non immagini quanto. – dissi, dandole un altro bacio.
Una volta sciolta la presa attorno al mio collo, le afferrai delicatamente il polso sinistro per avvolgervi il bouquet di rose, intrecciando i due fili di raso color panna di cui era composto, poi le offrii il mio braccio, ci avvicinammo all’auto e da vero gentiluomo aprii lo sportello per aiutarla a salire.
 
 
La palestra della scuola, addobbata per l’occasione da Karen e il resto delle cheerleader, era colma di decorazioni che richiamavano l’azzurro scuro e il color ghiaccio, in tema con il motivo invernale del ballo. Finti pupazzi di neve e abeti spuntavano da ogni angolo, mentre il pavimento era ricoperto da piccoli fiocchi bianchi, forse di cotone, a ricordare la neve. In quell’ambientazione, con indosso lo smoking, somigliavo ad un pinguino al polo sud. Non amavo i balli né le feste a tema e di sicuro preferivo vedere la palestra gremita soltanto durante le partite. Seppur per poche ore, però, Karen avrebbe potuto distogliere il pensiero dalla lontananza dei genitori, inoltre sapevo quanto ci tenesse, non aveva parlato d’altro per settimane. Quando si tratta di indossare un bel vestito e sistemarsi i capelli è risaputo che le ragazze siano incapaci di tirarsi indietro.
La serata procedette all’insegna di canzoni anni ottanta, concessi a Karen un paio di balli ma in seguito preferii starmene in disparte, con alcuni dei miei compagni di squadra, discutendo riguardo la finale che avremmo dovuto affrontare durante il fine settimana successivo. In qualsiasi occasione fossi coinvolto, in qualunque luogo mi trovassi, non riuscivo a smettere di pensare al basket. Si trattava dell’ultimo anno di liceo, per tutti gli altri studenti rappresentava la fine della scuola, per me, invece, l’ultima possibilità di riuscire a conquistare il titolo di campioni di Stato. Eccetto alcuni elementi, era la squadra migliore che potessimo avere e i miei compagni erano i più forti con i quali avessi mai giocato nei quattro anni di liceo. Se avessimo voluto vincere, sarebbe stata l’occasione giusta per farlo.
Ebbi la sensazione che le ore successive fossero trascorse troppo lentamente, forse perché mi sentivo fuori contesto e, come se non bastasse, non potetti sfuggire al momento dell’incoronazione durante la quale, come previsto, io e Karen fummo eletti re e reginetta del ballo. Con mio stupore, sentirmi acclamato dal resto della scuola, nonostante non riguardasse la mia prestazione durante una gara, fu piacevole e contribuì ad ingigantire per un attimo il mio ego. Subito dopo il verdetto, Meg Price, capo redattrice del giornale della scuola, ci raggiunse sul palco seguita da Harry Jones, improvvisatosi cameraman per quella sera, per farci alcune domande.
– Il re e la reginetta del ballo sono Daniel Scott e Karen Roe – cominciò, presentandoci – Karen, qual è il segreto del vostro successo? – continuò, porgendole il microfono.
– Il segreto del nostro successo? – ripeté Karen pensierosa – Non saprei, bella domanda – aggiunse – Dan? – chiese dopo alcuni istanti, mentre le cingevo la vita con un braccio.
– Del buon sesso. – sdrammatizzai, tendendomi verso il microfono.
– Sii serio. – mi ammonì Karen, sorridendo per la mia battuta.
– Karen, credi che un giorno vi sposerete? – domandò Meg in maniera disinvolta, mostrando la sua solita impertinenza.
– Se credo che io e Dan un giorno ci sposeremo? – ripeté, ancora una volta, cercando forse di prendere tempo per fornirle una risposta adeguata – Chi può dirlo! – affermò, alzando le spalle. – È il ragazzo più dolce del mondo, quindi ci sto pensando – ammise, mentre un largo sorriso le si apriva sul volto – Venite a trovarci fra dieci anni, vedrete i nostri figli, la nostra grande e bella casa, e soprattutto la nostra felicità. – aggiunse con orgoglio, mentre mi chinavo su di lei per baciarle la fronte.
Quello appena descritto era il futuro che aveva sempre desiderato, me ne aveva parlato più volte, durante le notti trascorse a casa sua, mentre ce ne stavamo distesi a letto, l’uno accanto all’altra. Aveva le idee molto chiare in proposito e sembrava tutto perfetto, a patto che si fosse trattato di un lontano futuro in cui avevo terminato il college diventando un popolare atleta. L’unica aggiunta da parte mia, in quell’immaginario quadro idilliaco, era stato un canestro in giardino, se mai avessi avuto un figlio non avrei potuto non lasciarlo giocare a basket.
– Adesso è il momento del ballo degli studenti – esclamò a gran voce Meg, rivolgendosi al resto dei ragazzi presenti in palestra – Ad aprire le danze saranno il re e la reginetta del ballo – continuò – Un bell’applauso per Dan e Karen. – li incitò, mentre la sua voce veniva coperta dagli applausi.
Presi Karen per mano, scendemmo dal palco e ci ritrovammo al centro della palestra, danzando sulle note di ‘Every rose has its thorn’ dei Poison.
– Grazie. – sussurrò, lasciando sprofondare la testa nel mio petto.
– Per cosa? – domandai sorpreso per quell’affermazione, continuando ad ondeggiare a ritmo di musica.
– Per tutto quello che hai fatto e continui a fare per me – spiegò, sollevando per un attimo la testa, per darmi un bacio – Soprattutto negli ultimi mesi – continuò, riprendendo la posizione precedente – Non sarei stata in grado di superare la partenza dei miei genitori se non ci fossi stato tu. – confessò.
– Non avresti dovuto farlo, se non ci fossi stato io. – dissi con tono rammaricato.
Avevo sempre temuto che la decisione di non seguire i suoi genitori fosse dipesa dalla mia presenza ma questo, se da un lato mi inorgogliva e rassicurava, dall’altro contribuiva a suscitare in me un senso di colpa nei suoi confronti. Sapevo quanto fosse stato difficile per lei aver dovuto dire loro di no e accettare di restare a Tree Hill solo per me. Per questo motivo, dal momento della loro partenza, mi ero impegnato ogni giorno affinché non si pentisse di quella scelta.
– Non devi fartene una colpa – mi rassicurò, accarezzandomi una guancia – Sono stata io a prendere questa decisione e lo rifarei altre mille volte. Se mai dovesse esserci per me un futuro lontano da Tree Hill, vorrei che fosse accanto a te. È con te che voglio stare, Dan. – ammise, prendendo il mio volto tra mani – Mi dispiace che questo abbia comportato l’essermi dovuta allontanare dai miei genitori ma sono in grado di superarlo, proprio grazie a te. –
Rassicurato dalle sue parole, attesi affinché i battiti dei nostri cuori e i nostri respiri si regolassero, prima di chiederle di ripensare all'incontro avvenuto quella stessa mattina nel corridoio della scuola.
– Ero stato convocato da Whitey – continuai, tenendo viva la tensione – Mi ha consegnato la busta che conteneva la mia borsa di studio per il college. – le confessai, e un largo sorriso si aprì sul mio volto.
– Oh, Dan – sospirò – Sono davvero contenta per te. – ammise, stringendomi a sé, mentre i suoi occhi brillarono per l’emozione.
Seppur i nostri sogni comuni avrebbero inevitabilmente subito un rallentamento con il mio trasferimento a Chapel Hill, ne sembrò realmente entusiasta. Giocare a basket al college si sarebbe rivelato molto impegnativo, le partite e le trasferte avrebbero reso difficile il poter ritornare periodicamente a casa. Avrei potuto decidere di non alloggiare al dormitorio e cercare un appartamento non lontano dal college in cui vivere con Karen, ma quando si trattava di pensare al futuro non riuscivo a spingermi troppo oltre, preferivo concentrarmi esclusivamente sulla mia carriera sportiva.
 
 
Di ritorno dal ballo, un improvviso temporale scagliatosi sulla città mi costrinse a guidare con cautela, impiegando il doppio del tempo per raggiungere casa di Karen. Gli scrosci d’acqua, accompagnati dall’alternarsi dei tergicristalli, impedivano una corretta visuale della strada ma anche dell’abitacolo. Non potevo voltarmi alla mia destra per osservare l’espressione di Karen, ma di tanto in tanto udivo profondi respiri pieni di apprensione. Preferivo ritenere fosse preoccupata di ritornare presto a casa, per sentirsi al sicuro, poiché l’alternativa remava contro di me. Solo nell’istante in cui le avevo confidato di aver ottenuto la borsa di studio, mi ero reso conto della gravosità di quella notizia. Il mio destino, da tempo segnato, stava prendendo forma ma restava pur sempre il mio e, qualora avesse voluto farne parte, Karen avrebbe dovuto rinunciare ai suoi sogni per me, così come aveva già rinunciato al poter vivere con i suoi genitori in Europa.
Quando arrivammo, sfilai la giacca per utilizzarla in sostituzione dell’ombrello, essendone sprovvisti, scesi di corsa dall’auto e cercai di riparare Karen dalla pioggia fino al raggiungimento del portico.
– Sei bagnato fradicio – affermò una volta entrati in casa, mentre l’acqua che aveva inzuppato i miei abiti cominciava a gocciolare sul parquet – Vado a prenderti degli asciugamani. – continuò, dirigendosi verso la sua camera.
La seguii, tentando di non lasciare altre tracce e, quando mi sfilai la camicia per asciugarmi e indossare un maglione pulito, Karen mi rivolse uno sguardo smanioso, per poi fiondarsi tra le mie braccia e baciarmi.
– Voglio trascorrere la mia vita con te – ammise, dopo aver staccato le sue labbra dalle mie – Non so cosa ci riserverà il futuro ma sarei disposta a seguirti ovunque – continuò, facendo probabilmente riferimento alle possibili risposte da parte dei college.
Non riuscendo comunque a rilassarsi del tutto, intuendo che le parole non sarebbero bastate a rassicurarla, le cinsi la vita, l’attirai a me e cominciai a baciarle una guancia, fino a scivolare lungo il collo.
– Resterò sempre al tuo fianco, te lo prometto. – le sussurrai all’orecchio e finalmente sentii il suo nervosismo dissolversi.
Si lasciò andare tra le mie braccia, con l'abbandono di chi si affiderebbe completamente alla persona che ama, passò una mano tra i miei capelli per poi farla cadere lungo la schiena, mentre la sua bocca si muoveva sulla mia e tocco dopo tocco i nostri corpi si fusero l’uno con l’altro.

La canzone del nostro ballo era ‘Ogni rosa ha le sue spine’.
È stata la sera in sui ti ho detto che andavo via per giocare a basket.
Voglio che tu sappia che per diciassette anni ho finto che la mia fosse la scelta giusta.
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