THE WALKER SERIES - The Railroad

di Crilu_98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The railroad ***
Capitolo 2: *** The delegation ***
Capitolo 3: *** The attack ***
Capitolo 4: *** The name ***
Capitolo 5: *** The job ***
Capitolo 6: *** The saloon ***
Capitolo 7: *** The story ***
Capitolo 8: *** The journey ***
Capitolo 9: *** The pack ***
Capitolo 10: *** The tribe ***
Capitolo 11: *** The bow ***
Capitolo 12: *** The choice ***
Capitolo 13: *** The horse ***
Capitolo 14: *** The courtship ***
Capitolo 15: *** The totem ***
Capitolo 16: *** The warning ***
Capitolo 17: *** The run ***
Capitolo 18: *** The training ***
Capitolo 19: *** The meeting ***
Capitolo 20: *** The secret ***
Capitolo 21: *** The brothel ***
Capitolo 22: *** The home ***
Capitolo 23: *** The wolf ***
Capitolo 24: *** The collapse ***
Capitolo 25: *** The prisoner ***
Capitolo 26: *** The plan ***
Capitolo 27: *** The trap ***
Capitolo 28: *** The fight ***
Capitolo 29: *** The escape ***
Capitolo 30: *** The end ***



Capitolo 1
*** The railroad ***




Misi piede nello Stato del Wyoming nel 1866 e neanche me ne resi conto.
Attraversai infatti la linea immaginaria che lo separa dal Nord Dakota in uno stato di incoscienza, steso in una barella e portato a mano da due dei miei compagni di squadra. Costruire la ferrovia era un lavoro pericoloso e quella volta era toccato a me finire sotto i ferri del medico, bestemmiando e sputando sangue per un'esplosione fuori controllo. Ne avevo visti morire tanti dei miei compagni, così: bastava una distrazione, o attardarsi un istante di troppo prima di allontanarsi dalla dinamite... E si saltava in aria in mille pezzi.
Ricordo che mentre mi trasportavano in infermeria - che poi era una tenda più grande delle altre, dove si respirava il tanfo della malattia e della morte - imprecavo contro l'incompetente che mi aveva quasi ammazzato e che ci aveva rimesso le penne.
-Stai buono, Walker!- aveva sbraitato Abraham, un ex-schiavo burbero e irascibile che con un po' di buona volontà potevo considerare un amico. Abraham aveva la pelle scura segnata dalle cicatrici di innumerevoli frustrate e due occhi che scattavano da una parte all'altra alla ricerca di un possibile pericolo; era più vecchio di me, che avevo da poco compiuto trent'anni, e non mancava mai di farmelo notare. Ad unirci, due anni prima, non era stato il monotono picconare nelle gallerie, né le bottiglie di whiskey condivise la sera; eravamo vicini, io ed Abe, per ciò che avevamo passato durante della guerra civile. Nel suo sguardo era ancora visibile l'umiliazione e la rabbia nei confronti dei suoi padroni, mentre io la notte sognavo lo scontro in cui mi ero procurato la cicatrice che attraversava la mia schiena.
Devo confessarlo: quando aprii gli occhi e sentii quel dolore lancinante passarmi da parte a parte, caddi in preda ad un terrore cieco. Ero infatti sicuro che la ferita che già una volta mi aveva quasi portato alla morte si fosse riaperta quando l'esplosione mi aveva sbalzato indietro di diverse miglia e che fossi quindi spacciato.
Invece mi risvegliai in Montana, appunto, e subito mi resi conto che quello sarebbe stato uno dei tratti più difficili affrontati dalla Union Pacific da quando i lavori erano iniziati, quattro anni prima.
A causa della guerra i lavori avevano proceduto a rilento e la competizione con la Central Pacific, la compagnia che ci stava venendo incontro da ovest, era sempre più pressante: il nervosismo degli investitori si rifletteva sulla compagnia e quindi su noi poveri diavoli costretti a lavorare - spesso anche tutto il giorno - in condizioni pietose.
Uscii dall'infermeria del campo socchiudendo gli occhi dopo tanti giorni di penombra e osservai con occhi critico la catena montuosa che si dispiegava all'orizzonte: anche da lontano appariva imponente e minacciosa rispetto al nostro piccolo accampamento e immaginai che da lassù la nostra ferrovia doveva sembrare un unico, sottile filo argentato.
Abraham mi riconsegnò il piccone e mi accompagnò mugugnando dagli altri: la nostra squadra era composta per la maggior parte da tarriers* come me, e da qualche ex-schiavo sfuggito alla schiavitù prima del 1861 o liberato al termine della guerra. I nostri rivali, invece, sfruttavano i coolies, gli immigrati cinesi che, si diceva, lavoravano instancabilmente procedendo molto più velocemente di noi. A preoccupare me e i miei compagni, però, non era tanto la gara in corso tra le due compagnie, ma problemi molto più immediati e vicini: le condizioni di lavoro disastrose, la spinosa questione di come attraversare le Montagne Rocciose e le bellicose tribù indiane, tra cui quella dei temibili Cheyenne. La costruzione della ferrovia era problematica anche per questo: i terreni su cui sarebbe passato il treno in breve tempo sarebbero valsi una fortuna, ma in gran parte appartenevano agli Indiani.
-Ben tornato, Russell!- esclamò Chuck Turner, sputando per terra e asciugandosi il sudore dalla fronte. Era mio coetaneo, ma non era stato richiamato alle armi perché da bambino era rimasto cieco ad un occhio in un incidente; era perciò rimasto a lavorare alla ferrovia ed era esperto di tutto ciò che riguardasse i treni. Era anche l'unico a chiamarmi per nome; gli altri al campo mi apostrofavano con il cognome, o con il soprannome di "Colt", per la pistola che mi portavo sempre dietro. Non era da tutti possedere un'arma del genere, o saperla usare, e per questo ne ero molto geloso: mi ero guadagnato il diritto di portarla negli orrori della guerra, sebbene poi fossi risultato un fallito con un lavoro duro e umile. Guardandola rievocavo non solo gli spari, il dolore della ferita e l'amarezza di quegli anni, ma anche l'abilità che aveva colpito i miei commilitoni e i superiori. Ero un bravo tiratore e forse avrei potuto fare carriera nell'esercito, se le cose fossero andate diversamente.
Iniziammo a lavorare sotto il sole di mezzogiorno e anche se era autunno inoltrato, ben presto mi ritrovai con la camicia fradicia di sudore e il respiro mozzato: ero ancora indolenzito dall'incidente e non avevo la forza neanche per intonare i canti di lavoro, l'unica distrazione concessa dai controllori. I controllori rappresentavano, nella rigida gerarchia della ferrovia, il gradino appena superiore al nostro: ugualmente poveri e spesso con un passato poco pulito alle spalle, ma dotati di polso e capaci di usare una pistola, avevano il compito di dirigere gli scavi e coordinare le squadre di lavoratori. Alcuni erano brave persone, ma Bernard King non era tra questi: crudele e marcio fino al midollo, avevo sempre sospettato che fosse un bandito messicano in incognito, per la carnagione scura e l'accento nascosto nella voce rauca. Di certo, molti al campo lo volevano morto e non ne facevano mistero.
-Perché non cerchi di fregargli il posto?- chiese Chuck per l'ennesima volta, mentre picconavamo una roccia particolarmente dura. King aveva appena colpito col calcio del fucile Javier, un ragazzino pelle e ossa di appena diciott'anni, perché si era fermato troppo a lungo durante la pausa.
-Te l'ho detto mille volte, Chuck, conciato come sono non mi affiderebbero mai dieci, undici uomini da sorvegliare.-
-Però ti fanno picconare, furbi, eh? E poi noi ti conosciamo, ce ne staremmo buoni!-
-Questo lavoro l'ho chiesto io, idiota, e ringrazio il cielo che me l'hanno dato!-
-Lascialo stare Chuck!- intervenne un altro operaio davanti a noi, Lee Morris -Colt tira sempre fuori la scusa della ferita di guerra se si tratta di King!-
Evitai di rispondergli a tono, anche perché King ci teneva d'occhio, e mi concentrai sul mio lavoro. "Non capiscono." mi dissi "Non potranno mai capire."
-Dai, Russell! Non vedi che ci tratta come schiavi? Basterebbe un colpo della tua pistola e ce ne libereremmo per sempre!-
Alla parola "schiavi" Abraham aveva alzato gli occhi dal terreno duro e polveroso e aveva iniziato a seguire in silenzio la conversazione. Allora anche io mi fermai per un attimo, e dopo essermi accertato con un'occhiata che King fosse distratto fissai Chuck negli occhi.
-Non sono un assassino. Non lo sono mai stato e non lo diventerò mai, anche se tutti starebbero meglio se King si beccasse una pallottola tra gli occhi!- sibilai. Chuck sbuffò e tornammo a lavoro. Solo Abe, di tanto in tanto, si soffermava su di me per carpire i miei pensieri.
 
Quella sera stessa, seduto nella mia tenda, mi rigiravo tra le mani la piccola scatola di legno che racchiudeva tutti i miei averi più preziosi. Era da tempo che non avvertivo più la smania di aprirla e accarezzare i ricordi che conteneva; avvertivo sul petto il contatto freddo della chiave che portavo legata al collo con un laccio di cuoio, ma non mi decidevo ad usarla. Ad un tratto vidi la figura di Abraham stagliarsi contro il tessuto della tenda e mi affrettai a nascondere la scatola tra le mie coperte. Il nero si chinò per affacciarsi dentro: era alto e robusto, caratteristiche che avevano permesso ai mercanti di schiavi di venderlo a peso d'oro. Mi squadrò e sogghignò nel vedermi seduto compostamente sul mio giaciglio; non so come facesse, ma Abraham era perfettamente in grado di capire quando un uomo mentiva. La maggior parte delle volte, però, teneva le sue opinioni per sé.
-Vieni a bere con noi? E' una bella serata e fa troppo freddo per starsene da soli.-
Assicurai la fondina alla cintura e lo seguii dagli altri che, in cerchio attorno ad un bivacco, erano già alticci. C'era tutta la squadra: Chuck, Lee, Javier, i due fratelli irlandesi Bryan e John Lynch (due ragazzini dai capelli rossi e dagli occhi verdi che reggevano l'alcool molto meglio di un uomo adulto), Kasper Nowak, taciturno immigrato polacco, Eric Collins, Scott Adams e Jacob Fano. Mi fu passata una bottiglia di whiskey scadente che mi fece bruciare gli occhi e a malapena udii Javier domandare timidamente:
-Secondo voi gli indiani ci attaccheranno?-
-Anche se fosse, noi abbiamo qui Colt!- rispose ridendo Jacob, che con l'allegria tipica degli italiani mi passò un braccio sulle spalle e mi scompigliò i capelli. Gli rifilai un'occhiata ammonitrice e sbuffai contrariato per la sua battuta.
-Dai, Colt, non te la sarai mica presa? Lo sai che ci pensa l'esercito, agli indiani!-
-Sì, ma ancora non abbiamo visto l'ombra di un soldato... Eppure lo sanno che i Cheyenne non gradiscono la presenza dei bianchi sul Bozeman Trail**!- commentò cupo Adams.
-I soldati arriveranno non appena saranno riusciti a tranquillizzare i coloni e i cercatori d'oro abbastanza incauti da avvicinarsi al Wyoming.- intervenne Lee accendendosi la pipa -Quelli sì che rischiano lo scalpo! Credetemi, agli indiani interessa la loro terra, non certo la ferrovia.-
-Sì, ma è sui loro terreni che dovremo poggiare le rotaie!- replicò Javier.
-Robinson, andiamo, davvero credi che il governo degli Stati Uniti riconosca queste terre come proprietà degli indiani? Il treno è più importante, ragazzo, e di sicuro porta più soldi. I Cheyenne dovranno farsene una ragione.-
Mentre Lee diceva queste cose, io lasciavo vagare lo sguardo sopra il fuoco, oltre il campo, fino ad abbracciare con lo sguardo le colline che portavano al Wyoming, al territorio degli indiani Cheyenne. Avevo già incontrato degli indiani, ma solo in grandi città e di sfuggita: erano ombre che si trascinavano stanche nei vicoli bui attorno ai saloon, uomini spezzati dal gioco d'azzardo e dall'alcool. Non avevo mai visto dei veri guerrieri indiani, insomma, né tantomeno donne o bambini. Fu quindi con un brivido che vidi stagliarsi tre fiaccole sulla sommità di una collina, quella notte.
Erano molto lontani e io non potevo distinguere altro che le loro figure a cavallo, ma seppi con certezza che non erano lì per caso. Probabilmente erano stati mandati a vedere cosa combinavano i bianchi nel Nord del loro paese, e probabilmente ciò che vedevano non gli piaceva per niente. Non dissi nulla per non allarmare i miei compagni, ma da quella sera mi mantenni vigile e pronto ad impugnare la pistola anche durante le ore di lavoro: i Cheyenne sarebbero arrivati presto.
 
 
 * gli ex-soldati della guerra civile e gli immigrati (polacchi, irlandesi e italiani, per la maggior parte) che lavoravano per la Union Pacific erano detti "tarriers" come assonanza con i cani terriers, che scavano fino a trovare l'osso come loro scavavano il tragitto per le rotaie. Nonostante le condizioni di lavoro proibitive, se la passavano meglio dei loro colleghi/avversari cinesi, costretti a costruire la ferrovia quasi a mano.
 
**Il Bozeman Trail era una strada battuta dai cercatori d'oro e dai pionieri che andava dal Sud Dakota al Montana e attraversava i territori dei Lakota, che insieme ad altre tribù (tra cui i Sioux ed i Cheyenne) non gradirono la presenza degli invasori. Si scatenò quindi una guerra che durò dal 1866 al 1868 e si concluse con il trattato di Fort Lamaine che formalmente riconosceva agli indiani il possesso del Bozeman Trail e l'area del Powder River.
 
 
Angolo Autrice:
Adesso che Hereditas sta finendo, nonostante abbia altre long da continuare, l'idea di questa storia ha iniziato ad infastidirmi come un tarlo e quindi, dopo essermi documentata sulla First Transcontinental Railroad, eccomi qui!
Premetto che è un contesto stimolante su cui scrivere, perché è un periodo in cui alla Storia con la S maiuscola si intrecciano tante "storie" più piccole: l'accesa competizione tra la Union Pacific e la Central Pacific, le due compagnie incaricate di costruire la prima ferrovia che unisse le due coste degli Stati Uniti; l'immigrazione da tutte le parti del mondo, che fece confluire nel West polacchi, irlandesi, italiani, tedeschi, cinesi; gli strascichi della guerra civile e la ferita ancora aperta della schiavitù; il dramma dei numerosi nativi americani, schiacciati dagli europei. E poi vedere Hell on Wheels ha dato un incentivo non indifferente alla nascita di questa storia (mi è stato d'aiuto anche per rendermi conto dell'ambientazione e di come poteva essere vivere accanto ad una ferrovia in costruzione)
Non so con che cadenza potrò pubblicare... Ammesso e non concesso che questa storia vi piaccia! Perciò fatemi sapere, sono ansiosa di vedere se The Railroad vi ha incuriosito almeno un po'!
 
Crilu
 
P.S. Il Russell Walker del banner, che spero vi piaccia, è Tim Rozon, ovvero Doc Holliday nella serie tv Wynonna Earp :)  

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Capitolo 2
*** The delegation ***




Dopo una settimana di notti insonni e di scatti improvvisi al minimo rumore sospetto, Abraham mi prese da parte e mi chiese a muso duro:
-Si può sapere che ti prende? La tua mano scivola verso la pistola molto più spesso di quanto dovrebbe, Walker!-
Mi guardò con severità: sebbene fosse abituato alla violenza, il mio amico la aborriva con tutto sé stesso ed era uno dei pochi che la domenica presenziava con costanza alla messa.
-Dimmi un po', non penserai davvero di uccidere King?- domandò poi abbassando la voce.
-Ma come ti viene in mente?- sbottai, poi sospirai:
-Ho visto degli indiani, l'altra notte.-
-Cazzo! E cosa aspettavi a dircelo!?-
-Erano lontani, Abe, sulle colline, ed erano solo in tre. Forse erano stati mandati in avanscoperta, forse si erano allontanati per cacciare... Quel che è sicuro è che adesso sanno che siamo qui e non ci metteranno molto a scendere sul piede di guerra.-
Abe si grattò la barba, pensieroso, e non rispose subito.
-Non puoi comunque ridurti così. Se continui a logorarti nell'attesa di veder arrivare il pericolo, quando sarà il momento i pellirossa ti coglieranno di sorpresa. E poi non è detto che non cerchino prima una soluzione pacifica: non gli conviene attaccarci, se non vogliono tirarsi addosso l'ira della popolazione americana!-
Io annuii e promisi che mi sarei rilassato almeno un po', ma non ci contavo molto: da quando la guerra era finita il senso di allerta non mi aveva mai abbandonato e di certo non sarei riuscito a tenerlo sotto controllo ora che prevedevo un attacco imminente.
Quella sera, con l'intento appunto di farmi rilassare, Lee e Chuck mi trascinarono nel bordello. Attorno al campo si muovevano centinaia di individui che con la ferrovia non c'entravano affatto: prostitute, preti, fuorilegge, perdigiorno... Tutti erano attratti da ciò che l'accampamento poteva offrire e si accampavano, chi da una parte, chi dall'altra, fino a formare la versione malandata di una città. Probabilmente se gli investitori di Chicago e di Washington avessero visto che razza di gente aveva in mano il destino della loro preziosa ferrovia sarebbero inorriditi.
L'obiettivo di Lee e Chuck era far conoscere al timido ed inesperto Javier le meraviglie dell'universo femminile e, al tempo stesso, spendere lì quei pochi soldi che non avevano dilapidato in whiskey. A differenza di Abraham, che considerava la prostituzione alla stregua della schiavitù, io apprezzavo la compagnia di quelle ragazze dalle forme generose ed invitanti, che potevano appagarmi anche per tutta la notte; il problema sorgeva quando iniziavano a fare domande. Al campo ero famoso come "Colt" e la mia reputazione di tiratore si era sparsa in fretta da quando, per scommessa, avevo centrato una bottiglia posta a sette iarde* di distanza, ma avevo cercato di mantenere un basso profilo per quanto riguardava la mia ferita. L'avevo vista con i miei occhi una volta sola, ma avevo percorso il suo bordo frastagliato migliaia di notti e diventavo nervoso se una puttana la sfiorava o, peggio, iniziava ad accarezzarla: sapevo che doveva essere orribile a vedersi e gesti del genere mi davano la nausea. L'ultima volta mi ero rialzato e rivestito in fretta, pagando però quanto avevamo pattuito ed ero uscito, respirando a pieni polmoni l'aria fresca della notte, mentre le mie mani si contraevano nervose sopra la Colt che portavo con me.
Per questo mi rifiutai di entrare nel bordello con i miei compagni e bighellonai verso i limiti del campo, seguendo le rotaie che erano già state posizionate. Avevamo percorso molte miglia dalla prima posa ad Omaha, Nebraska: le rotaie all'orizzonte convergevano in un'unica linea e scintillavano argentee nell'oscurità. Un fruscio e un'ombra acquattata nei cespugli risvegliarono i miei sensi: senza neanche pensare impugnai la pistola e la puntai verso gli alberi, ringraziando poi il Signore che avessi l'abitudine di portarla sempre carica e pronta all'uso. In quel momento non avrei avuto tempo, infatti, di infilare la polvere nella canna.
-Ho sei colpi in canna e sono pronto a scaricarteli addosso se non ti fai vedere subito!- ringhiai, sperando con tutto il cuore che fosse un operaio ubriaco attardatosi in mezzo alle frasche. Invece la figura che sbucò dalla boscaglia mi ghiacciò il sangue nelle vene. Non perché la ragazza che mi osservava con curiosità e paura fosse spaventosa, no, tutto il contrario: ma anche alla luce scarsa della luna potevo notare la tunica in pelle di bisonte, la pelliccia di lupo che le copriva le spalle e le piume che portava infilate nei capelli. Era un'indiana.
Dopo il primo momento di sconcerto la osservai meglio e capii che c'era qualcosa di strano in lei: sebbene la carnagione scura, i capelli neri e lisci e l'abbigliamento non lasciavano dubbi sulla sua appartenenza ad una tribù indiana, i suoi lineamenti non erano schiacciati ed allungati come quelli di molti nativi americani, ma più simili a quelli degli europei. Quando incontrai il suo sguardo, poi, rimasi sbalordito e la mia presa sulla pistola tremò: quella donna aveva degli occhi azzurri che brillavano inconfondibili nell'oscurità! Rimanemmo a fissarci in silenzio per qualche altro istante, poi chiesi:
-Chi sei?-
Lei scosse la testa, facendo segno di non capire. Mi scrutò a lungo, piegando la testa di lato, così che io potei vedere una macchia scura sul collo, sotto l'orecchio sinistro.
"Un tatuaggio." pensai, ma da quella distanza non riuscivo a capire cosa rappresentasse.
-Chi sei?- chiesi di nuovo, incuriosito -Cosa ci fai qui?-
La ragazza sembrò riscuotersi da una sorta di torpore e spalancò gli occhi azzurri, puntando la sua attenzione sulla mia Colt. Non feci neanche in tempo ad abbassarla, che lei era nuovamente sparita tra gli alberi.
Tornai al campo scosso, girandomi a controllare ogni due passi per paura di essere sorpreso alle spalle. Lee, Chuck e Javier non erano ancora tornati, mentre gli altri dormivano profondamente: se li avessi svegliati per raccontare del mio incontro con una ragazza indiana dagli occhi azzurri mi avrebbero creduto ubriaco e dopo avermi insultato si sarebbero rimessi a dormire. Perciò rimasi seduto davanti alla mia tenda a riflettere, come instupidito. Cosa ci faceva quella ragazza lì? Era forse il segno che gli indiani erano più vicini di quanto pensassimo? Ma no, non si sarebbero mai portati dietro una donna, se avessero voluto attaccarci. Ma allora perché? E perché aveva gli occhi azzurri?
Il pensiero di quelle iridi limpide e vivaci mi rendeva inquieto, era un'anomalia che non mi riuscivo a spiegare. Per la verità, tutto l'incontro mi sembrava irreale, e iniziai a pensare di essermelo sognato.
"Eppure stasera non ho bevuto neanche un goccio di whiskey!"
Con pensieri simili, mi appoggiai al palo della tenda e mi addormentai.
 
La mattina dopo mi svegliai indolenzito e di cattivo umore: la schiena mi doleva per la scomoda posizione in cui avevo dormito e la giornata di lavoro si prospettava pesante ed interminabile.
Mi stavo dirigendo verso gli scavi, quando Eric Collins si avvicinò scuro in volto: aveva una folta barba bruna e portava sempre un cappello malandato, perciò nell'insieme il suo aspetto era poco rassicurante.
-Che succede, Collins?-
-Gli indiani. Sono arrivati e vogliono trattare.-
In breve tempo ci radunammo tutti vicino alla ferrovia, dove il generale Dodge, con l'uniforme trasandata e la barba non fatta per il brusco risveglio, stava soppesando la delegazione indiana.
Erano sette uomini in tutto, tre anziani con i copri capi di piume di corvo e quattro giovani guerrieri dal corpo dipinto. Accanto al cavallo di uno di loro sostava la ragazza che avevo incontrato la sera prima: accarezzava dolcemente il muso dell'animale e osservava gli uomini bianchi davanti a lei senza timore, anzi, sosteneva le nostre occhiate con fierezza.
Uno dei capi si fece avanti con i palmi aperti verso l'alto, in segno di pace, e lei si affrettò a seguirlo: quando egli iniziò a parlare, infatti, fu lei a fargli da interprete. Nell'udirla parlare in inglese mi sfuggì uno sbuffo innervosito:
"Quindi ha fatto solo finta di non capirmi!"
-Lui è Viho, uno dei saggi della nostra tribù. Viho vi chiede cosa state facendo alla nostra terra.-
Dodge sembrava in difficoltà, ma rispose con il massimo della fermezza:
-Stiamo costruendo una ferrovia, dillo al tuo capo: porterà grande fortuna al popolo dei Cheyenne.-
Lei si voltò e riferì perplessa all'anziano.
-Non sappiamo cosa sia questa... Ferrovia. Ma se l'uomo bianco dice che porta fortuna, significa che porterà molto oro all'uomo bianco e molta sventura ai Cheyenne, perché così è per le cose che l'uomo bianco costruisce. E i nostri padri hanno stretto un accordo con gli uomini bianchi: queste terre appartengono al nostro popolo finché l'erba continuerà a crescere e l'acqua a scorrere!-
Sentir risuonare nella voce di quella ragazzina le parole del trattato che garantiva ai nativi il possesso di gran parte del Kansas e del Nebraska fece perdere del tutto la pazienza al generale.
-Questa è la strada più veloce per far passare il treno quindi continueremo il nostro lavoro, che vi piaccia o no! Ho degli ordini da rispettare e una ferrovia da costruire... Perciò ora andatevene!-
Nell'ascoltare quelle parole cariche d'ira il vecchio Viho chinò il capo, mentre i guerrieri si agitavano irrequieti sui cavalli; quando il saggio riprese a parlare, la sua voce vibrava di minaccia. La ragazza fissò Dodge con uno sguardo di ghiaccio che lo mise a disagio e scandì bene le ultime parole:
-Avete mancato di rispetto alla vostra parola e al popolo dei Cheyenne. Tutto quello che ora accadrà ve lo siete procurato con il tradimento e la menzogna.-
La tensione era palpabile ed io strinsi di riflesso le dita sulla Colt che tenevo nascosta sotto la giacca. Ma dopo qualche istante di silenzio la ragazza salì sul cavallo di uno dei guerrieri e il vecchio Viho montò a fatica sul suo pony; la delegazione si allontanò ignorando i fischi e le urla di scherno degli operai e in breve tempo sparì oltre gli alberi.
Il lavoro riprese in fretta, visto che eravamo già a metà mattinata e mentre picconavamo l'argomento della discussione erano, ovviamente, gli indiani.
-Pensate che ci attaccheranno subito?- chiese Chuck, imprecando nel tentativo di smuovere un masso incastrato nel terreno.
-Il tempo di radunare la tribù e ce li troveremo addosso, ve lo dico io!- sbuffò Lee. -E l'esercito troverà i nostri scalpi!-
-Lee, stai spaventando il ragazzo!- lo rimproverò Abraham, indicando con il piccone un pallidissimo Javier.
-Fa bene ad essere spaventato, cazzo! Anche io lo sono! Avete visto come digrignavano i denti quei selvaggi? Morivano dalla voglia di saltarci addosso!-
-Secondo voi chi è quella ragazza?-
Ci fermammo tutti un istante, stupiti, rischiando di attirarci l'ira di King: Kasper Nowak rispondeva sempre a monosillabi, tanto che spesso ci eravamo chiesti se sapesse parlare l'inglese. Non era mai successo che intervenisse spontaneamente nei nostri discorsi. Il primo a riprendersi fu Bryan Linch, che si grattò il mento pensieroso:
-Bella domanda, Nowak... Forse è una ragazza europea che hanno rapito!-
-Ma sei scemo?- lo apostrofò suo fratello John, dandogli uno schiaffo sulla nuca per incitarlo a riprendere il lavoro -Non hai visto la sua pelle? E i capelli? Ha sangue indiano nelle vene!-
-Forse è una delle loro streghe, allora!- esclamò Jacob, quasi facendosi il segno della croce.
-Non ti ci mettere anche tu, Fano!- sbottò Abraham -No, quella ragazza mi ricorda qualcuno...-
-Chi?- chiesi, incuriosito. Fino a quel momento non avevo voluto intervenire per non tradirmi ed essere poi costretto a raccontare del mio incontro con l'indiana... Quel pensiero, non so perché, mi ossessionava. Abe sospirò:
-Nel Sud gli schiavi si dividevano in due tipi: quelli che stavano in casa e quelli che stavano nella piantagione. Le donne di casa, beh, non era raro trovarle nel letto del padrone! E nella fattoria dove lavoravo io c'era una bambina che aveva i lineamenti dei neri, ma la carnagione più chiara della nostra e due occhi verdi, tali e quali a quelli del padrone!-
-Stai dicendo che è una mezzosangue?- chiesi, affascinato.
-Sì, io credo di sì. Questo spiegherebbe anche perché sa parlare l'inglese...-
-Parlare, bah! Sa qualche parola, ma non credo che riuscirebbe a sostenere un discorso con noi!-
Gli indiani furono motivo di preoccupazione e discussione per qualche giorno, poi la nostra attenzione fu assorbita dal percorso da tracciare, e non se ne parlò più. Almeno fino a quando, qualche settimana dopo, non fummo svegliati dallo sbraitare del generale Dodge, che bestemmiava ed imprecava in tutti i modi sconosciuti.
-Ma che ha da urlare in questo modo?- chiesi ad una prostituta che fermai per la strada.
-I Cheyenne hanno attaccato i carri del rifornimento. Sono morti tutti.-
"E così è questo il loro piano." pensai "Non attaccano il campo, preferiscono prenderci per fame e per disperazione!"
E senza quasi rendermene conto, iniziai a pregare il Signore affinché l'esercito si desse una mossa ad arrivare in nostro soccorso.
   
 
* una iarda è un po' meno di un metro... Sono totalmente ignorante in fatto di armi da fuoco, perciò chiedo scusa in anticipo se la distanza è esagerata o, al contrario, troppo piccola.
 
 
Angolo Autrice:
Gli indiani sono arrivati, e Russell ha incontrato da vicino un membro molto particolare della loro delegazione... Cosa succederà ora che le contrattazioni pacifiche sono saltate?
Ho due piccole precisazioni storiche da fare.
Quando Russell dice di non avere tempo di caricare la pistola con polvere da sparo è perché fino al 1873 le pistole erano "ad avancarica", ovvero la polvere andava infilata nella canna e non nel cane. Ciò rendeva il loro utilizzo più difficile (specie con le mani bagnate) e più lento, sebbene i modelli che disponevano di più colpi in canna (come la Colt in questione) permettessero comunque una certa autonomia durante lo scontro.
Il generale Dodge, poi, è una figura storicamente esistita e il cui contributo è stato fondamentale alla Union Pacific; purtroppo le notizie su di lui sono molto scarse (su Internet ho trovato giusto il nome e una sua foto) e quindi per la mia storia lavorerò di fantasia.
Che ne dite del secondo capitolo? Aspetto le vostre recensioni e nel frattempo ringrazio OldKey che ha già recensito il primo capitolo :)
A presto
 
Crilu  

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Capitolo 3
*** The attack ***




Erano passati tre giorni dall'attacco degli indiani ai nostri rifornimenti: i corpi dei conducenti dei carri riposavano sotto rozze croci di legno, sperdute in mezzo ai freddi campi del Montana. Potevo quasi respirare la cupa tensione che gravava sui miei compagni e sul nostro lavoro: il campo era avvolto da un'atmosfera di allerta e terrore. Eravamo tagliati fuori dal resto del mondo e non sapevamo se e quando sarebbero arrivati i rinforzi promessi... Senza contare che senza i rifornimenti avremmo dovuto procurarci da soli il cibo e polvere da sparo e proiettili erano razionati.
Fu in questo clima che uno dei nostri esploratori, la sera, entrò al galoppo al campo e smontò al volo davanti alla tenda del generale Dodge: aveva avvistato il bivacco di una brigata Cheyenne.
Ci fu un gran caos non appena la notizia si sparse per il campo, un misto di rabbia e paura che fu sedato solo dalla proposta del comandante.
-Gli uomini capaci di sparare mi seguano come volontari e riceveranno una ricompensa di quindici dollari!-
La folla rumoreggiò impressionata: era l'equivalente di un mese di lavoro!
Abraham si rifiutò di partecipare, ma Chuck, Lee e i fratelli Lynch furono tra i primi a mettersi in fila.
-Tu che fai, Colt? Non vieni?- mi chiese John. Riflettei per una manciata di secondi sotto lo sguardo insistente dei miei compagni di squadra. Ad allettarmi non era tanto il pensiero dei soldi che avrei guadagnato, né ero infiammato da un qualche ardore patriottico, sebbene la morte di quei poveri diavoli mi avesse indignato; no, il mio unico pensiero, da tre giorni a quella parte, era l'interrogativo rappresentato dall'indiana dagli occhi blu. Non appena mi stendevo sul giaciglio la sera, quando il mio unico desiderio era sprofondare in un sonno tranquillo, il suo sguardo fiero e sorpreso mi appariva davanti agli occhi e mi perseguitava anche in sogno.
Se partecipando a quella spedizione avessi avuto anche solo una possibilità di vederla e porle le mille domande che mi assillavano...
-Vengo con voi!- esclamai, deciso, mentre Abraham scuoteva la testa perplesso.
-Sta' attento alla tua ferita, Walker, non fare gesti avventati!- si raccomandò mentre io sellavo il cavallo che mi avevano affidato.
-Sei peggio di una vecchia comare, Abraham!- scherzai.
 
Gli indiani erano una ventina in tutto e sostavano in una conca tra le colline, un luogo riparato ma molto adatto, per nostra fortuna, ad un'imboscata. Avevamo dalla nostra parte il vantaggio numerico e l'effetto sorpresa, ma i Cheyenne erano noti per essere combattenti agguerriti ed instancabili, perciò l'esito dello scontro non era così scontato come si potrebbe pensare.
Il generale Dodge si accarezzò la lunga barba scura valutando la situazione e decidendo come attaccare:
-Bene, signori, preparatevi a lanciarvi su quei selvaggi con tutta la forza della cavalleria!-
Inarcai le sopracciglia e mi feci avanti:
-Con tutto il rispetto, signore, sarebbe una mossa avventata.-
Udii i miei amici imprecare sottovoce e il resto degli uomini trattenere il fiato: non si era mai visto un picconatore che teneva testa al generale Dodge! Lui mi squadrò da capo a piedi:
-E tu chi saresti?-
-Il mio nome è Russell Walker, signore, ma al campo mi chiamano Colt!- risposi con un cenno beffardo del capo.
-Colt eh? Ho sentito parlare di te: hai combattuto contro i sudisti.-
-Sissignore.-
-E dimmi, Colt, perché sei contrario a schiacciarli con la forza dei numeri?-
-Perché per quando riusciremo ad avvicinarli il nostro numero sarà stato decimato dalle loro frecce. Siamo in una posizione sopraelevata che da un lato ci favoreggia, ma dall'altro è una vera e propria trappola: non sono poi così pochi rispetto a noi, questi indiani, e lanciandoci giù dal pendio saremmo un bersaglio perfetto.-
-Tu cosa suggeriresti, allora?- domandò Dodge ammirato.
-Aggiriamoli senza farci notare, passando dal bosco. Poi, quando saremmo sullo stesso piano, potremo circondarli e sopraffarli con la forza del numero!-
Il generale annuì, soddisfatto.
-Mi piace, Colt. Seguiremo il tuo suggerimento e, se avremo fortuna, la tua ricompensa è raddoppiata!-
Nonostante ci fosse stato un notevole alleggerimento della tensione dopo quelle parole, Lee mi tirò comunque uno schiaffo sulla nuca.
-Dico, vuoi finire nei guai? E' lui che ti permette di guadagnarti lo stipendio, cretino!-
-Lo so, Morris, ma perché per una volta, invece di farmi la morale, non mi ringrazi di aver salvato lo scalpo a tutti quanti voi?-
Scendemmo silenziosamente la collina lungo un sentiero nascosto che ci permise di inoltrarci tra gli alti pini indisturbati. Poi, ad un cenno di Dodge, ci lanciammo sull'accampamento indiano, cogliendo i guerrieri di sorpresa ed impedendo loro di reagire con prontezza. Non nego che fu un vero e proprio massacro e che ogni colpo della mia pistola segnò la fine della vita di un indiano...
Mi acquattai dietro un albero per ricaricare la polvere e i sei colpi e fu allora che la vidi: la ragazza indiana stava correndo verso i cavalli, forse con l'intenzione di montarne uno e fuggire.
-Pazza sconsiderata!- ringhiai, iniziando a correre verso di lei. Le bestie erano terrorizzate dallo scontro e dagli spari e l'avrebbero calpestata non appena si fosse avvicinata; oppure, nell'improbabile caso in cui fosse riuscita a domarne una, i miei compagni le avrebbero sparato per impedirle di chiamare rinforzi. E io questo, non so per quale motivo, non potevo permetterlo.
Le piombai addosso giusto in tempo per evitare una freccia vagante e rotolai con lei lontano dalle zampe dei cavalli che battevano il terreno nervosi, nel tentativo di liberarsi dal palo al quale erano legati.
La ragazza si dibatté ed urlo inferocita, ma io ero molto più forte e pesante di lei, quindi non mi fu difficile tenerla inchiodata al suolo.
-Sta' ferma!- le intimai -So che capisci la mia lingua, perciò smettila di agire senza pensare altrimenti ti farai ammazzare!-
Lei mi capì e smise di agitarsi, ma il suo sguardo rimase venato di disprezzo e diffidenza. Da quell'angolazione potei finalmente vedere bene il tatuaggio che aveva sul collo: era il disegno di una stella realizzato con inchiostro blu. Mi guardai intorno e vidi che la carneficina era finita: nessuno dei nostri era rimasto ucciso, c'era solo qualche ferito lieve, mentre tutti i guerrieri Cheyenne giacevano a terra. A quella vista sentii il corpo della ragazza, ancora stretto al mio, tremare e notai che si mordeva a sangue le labbra per non piangere. Mi alzai in piedi, tirandola su con me e incontrai lo sguardo del generale Dodge mentre si avvicinava:
-Bene, bene... L'interprete. Bel colpo, Colt. Su, legatela e portatela al campo.-
La ragazza si lasciò sfuggire un gemito e con mia estrema sorpresa si nascose dietro le mie spalle; io lanciai una rapida occhiata agli uomini che la osservavano bramosi e compresi che se l'avessi consegnata in quel momento la sua vita sarebbe diventata un inferno. Ma cosa potevo fare, con gli occhi nocciola del generale puntati addosso?
"Maledetta ragazzina, già lo so che se ti do a loro non riuscirò più a dormire la notte per colpa tua!" pensai arrabbiato. Ad un tratto mi venne un'idea geniale:
-Ho una proposta da farvi, generale!-
Dodge inarcò un sopracciglio e mi fissò bonario:
-Hai uno strano modo di tentare la fortuna, Colt, ma va avanti.-
-Rinuncio alla ricompensa...- udii i mormorii increduli dei miei compagni -In cambio della ragazza!-
Dodge si incupì:
-Non posso, Walker. Quella ragazza potrebbe essere una preziosa fonte di informazioni, non posso farla diventare la tua puttana personale, mi dispiace.-
Mi avvicinai al suo cavallo, abbassando la voce in modo che mi potesse sentire solo loro lui:
-Lei non parlerà adesso, generale, lo sappiamo entrambi. E cosa le accadrà quando voi la butterete in mezzo alla strada, eh? Non la potete certo rimandare indietro dai Cheyenne, sarebbe un invito ad attaccarci! Resterà confinata al campo, probabilmente in un bordello, e morirà presto per mano di un operaio che ha alzato troppo il gomito. Non la voglio nel mio letto, glielo giuro sulle ossa di mia madre... Ma se sono davvero le informazioni che vuole da lei, lasci che io la protegga. Mi serve del tempo per indurla a fidarsi di me.-
-Ciò che dici è giusto, ma perché dovrei affidarla proprio a te? Se volessi educarla e guadagnarmi la sua fiducia io opterei piuttosto per padre Floyd...-
-Perché sono io che l'ho catturata e queste sono le mie condizioni!- replicai esasperato. Avvertivo lo sguardo pungente della ragazza indiana sulla nuca: sebbene non la stessi più trattenendo non aveva accennato a fuggire, limitandosi a sostare a qualche passo da me. Potevo quasi sentire l'odore della sua paura, sola in mezzo ad un gruppo di uomini nemici.
Dodge rifletté sulla mia proposta per un tempo che mi parve infinito, poi sbuffò:
-Visto che la tua strategia si è rivelata vincente, puoi tenerti la ragazza, ma puoi scordarti la ricompensa! E se scappa, Colt, ti riterrò personalmente responsabile come se l'avessi scortata fino al campo indiano, mi sono spiegato?-
Si era spiegato perfettamente: equivaleva ad una condanna per tradimento.
Afferrai rudemente la ragazza per le braccia e l'aiutai a montare in sella davanti a me. Per tutta la durata del viaggio non parlò mai, né si mosse, mentre io ignoravo le battute e i complimenti volgari dei miei compagni.
Quando Abraham ci vide tornare al nostro gruppo di tende insieme alla ragazza, sulla sua faccia comparve una smorfia severa:
-Cosa ci fa lei qui?-
-Il nostro Russell, qui, ha scambiato la ragazza per trenta dollari di ricompensa!- esclamò Chuck, quasi arrabbiato con me per aver rifiutato quella fortuna -Trenta dollari, capito? E tutto per non farla finire a gambe aperte nella baracca delle puttane!-
-Tu sei pazzo, amico!- sentenziò Jacob, soppesando la ragazza. Lee e Chuck avevano già chiarito durante la cavalcata che per loro non valeva neanche la metà di quei trenta dollari, mentre Javier e i fratelli Lynch, cioè i più giovani, erano ipnotizzati dal suo incedere sinuoso e felpato. Era molto silenziosa, quando si muoveva non si udiva nemmeno il frusciare delle vesti.
Solo Kasper sembrava, come al solito, disinteressato alla novità. Era stata una giornata pesante e piena, perciò mi stancai presto dell'attenzione che ci veniva rivolta. Scortai la ragazza fino alla mia tenda e le mostrai il giaciglio; lei si accomodò titubante e mi rivolse uno sguardo infuriato.
"Forse pensa che voglio violentarla!"
Le legai i polsi con una corda ed assicurai l'altra estremità alla fibbia della mia cintura. Quando lei si lasciò sfuggire un'imprecazione in lingua indiana sorrisi e le feci l'occhiolino:
-La prudenza non è mai troppa, dolcezza!-
Mi accovacciai vicino all'entrata della tenda e mi accertai con una rapida occhiata che non avesse vicino a sé armi o oggetti con cui avrebbe potuto tagliare la corda. Fu lei a rompere il silenzio:
-Non c'era bisogno di legare. Tu hai salvato la mia vita e scappando metterei a rischio la tua: non sarebbe onorevole.-
Lee aveva ragione, la ragazza non sapeva benissimo l'inglese e faceva difficoltà a trovare le parole per esprimere i suoi pensieri.
-Ho sentito che parlavi con Camicia Blu: io non ti darò le informazioni che cerchi, puoi anche uccidermi!- mi provocò. Aprii un occhio e la osservai divertito:
-Non tentarmi, ragazzina. Già so che sarai una costante fonte di guai e, senza offesa, non mi fido di te, quindi resteremo legati così!-
Lei sbuffò e mi voltò le spalle.
-Qual è il tuo nome?- borbottai, mentre il sonno mi avvolgeva. La sua voce risuonò secca e decisa nel buio dell'accampamento:
-Namid.-
 
 
Angolo Autrice:
Ciao :)
Finalmente si viene a sapere il nome della ragazza indiana, Namid! Come evolverà la strana situazione tra lei e Russell?
Non so con esattezza quanto prendessero gli operai della ferrovia, ma quindici dollari a quel tempo era una vera e propria fortuna!
A presto
 
Crilu 

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Capitolo 4
*** The name ***




Un fruscio, vicino al mio fianco. Una presenza si muoveva silenziosamente verso di me. Aprire gli occhi ed estrarre la pistola fu questione di un attimo... E fu così che mi ritrovai a puntare l'arma contro gli occhi sgranati di Namid. Imprecai, scrollandomi di dosso la ragazza.
-Maledetta indiana! Stavi cercando di slacciare la corda, non è così?- ringhiai, strattonandola. L'unica risposta fu il suo ostinato ed indifferente mutismo. Mi passai una mano sulla fronte, adirato più con me stesso che con lei:
-Cosa mi è saltato in mente?- borbottai. In realtà sapevo bene perché l'avevo salvata e non era stata solo la curiosità a muovermi, sebbene tentassi di convincere la mia coscienza che quella fosse l'unica motivazione di tante grane. Mentre ero ancora perso in quelle riflessioni, con uno strattone Namid tentò di guadagnare la libertà, ma le fui subito addosso ed iniziammo a lottare come due bambini, avvinghiati l'uno all'altra sul terreno polveroso.
Quando Abraham si affacciò nella tenda, la sua espressione diventò un misto tra sorpresa, divertimento e severità:
-Walker! Da te proprio non mi aspettavo un comportamento del genere!- ghignò.
-Abe, è stata lei ad iniziare...-
-Eh? No, non intendo questo bisticcio con l'indiana! Sei in ritardo, e King è su tutte le furie!-
-Merda!- esclamai, alzandomi in piedi e rassettandomi la camicia e i pantaloni. Uscii velocemente dalla tenda, sempre trascinando Namid ancora legata per i polsi, e mi incamminai correndo verso la ferrovia. Abraham aveva ragione, il controllore mi aspettava infuriato:
-Colt! Dove eri finito?- sbraitò rosso in viso, stringendo la presa sul fucile. Poi il suo sguardo si posò su Namid e un barlume di lussuria gli illuminò il volto:
-Cosa hai intenzione di fare con la ragazza?- chiese interessato. Io, che nel frattempo avevo legato strettamente la corda alla mia cintura, come la sera prima, presi posto accanto ai miei compagni.
-Resterà qui, dove la posso tenere d'occhio!- replicai.
Namid sbuffò e si sedette a gambe incrociate poco lontano da me. I miei compagni le rivolgevano occhiate curiose, ma lei teneva gli occhi fissi sul terreno. Poi ad un tratto si rivolse a me:
-Ho fame!-
-Mi dispiace, ragazzina, ma chi si sveglia tardi salta la colazione! Forse, se tu non mi avessi fatto perdere tempo, avrei potuto trovarti qualcosa, ma adesso... Spera che durante la pausa ci diano un pezzo di pane!-
-Se ce n'è ancora, di pane!- intervenne Chuck -Non si vedono né i rifornimenti né l'esercito all'orizzonte!-
-Potreste andare a caccia!- replicò Namid con semplicità. Io la osservai divertito, indicandole i nostri vestiti sudati e le facce sporche di polvere.
-Dimmi, ragazzina, ti sembra che abbiamo del tempo per andare a caccia, come gli uomini della tua tribù? Il nostro lavoro è qui!-
-Lavoro inutile!- disse lei, punta sul vivo -Gli uomini bianchi rendono tutto più complicato di quanto è nei progetti del Grande Padre...-
-Si chiama progresso, ragazzina.-
-Ma ce l'ha un nome? O intendi continuare a chiamarla ragazzina per sempre?- sghignazzò Bryan.
-Si chiama Namid.- borbottai, riprendendo a picconare sotto lo sguardo torvo di King. Ben presto Namid si stufò di stare seduta ad un metro da noi e si avvicinò alle rotaie, osservando con curiosità le sbarre di ferro che venivano poggiate sul terreno che noi avevamo preparato.
-A cosa servono?- chiese, avvicinandosi a me di soppiatto, tanto che per poco non la colpii con il gomito mentre picconavo.
-Si chiamano rotaie. La vedi quella cosa nera e grande laggiù? Quella è una locomotiva, un treno. E' una macchina che permette di spostare persone e merci molto velocemente.-
-Rotaie, locomotiva, treno.- ripeté lei assorta -Più velocemente dei cavalli?-
Lee rise:
-Molto più velocemente, piccola indiana!-
Namid sobbalzò e istintivamente si nascose dietro di me: forse il cipiglio scuro di Morris l'aveva spaventata, perciò ritenni fosse giunto il momento di farle conoscere i miei compagni. La pausa era appena iniziata ed io le indicai uno per uno gli uomini che si buttavano per terra attorno a noi, esausti.
-Allora, ragazzina, è ora di imparare un po' di nomi!-
-Grazie, non mi interessa.- ribatté. Per tutta risposta l'afferrai per le spalle e la costrinsi a guardare il gruppo.
-Chuck Turner e Lee Morris li hai già visti ieri!- dissi, indicando i due che sorrisero e si toccarono il cappello in segno di saluto -Tranquilla, non ti farebbero mai del male!- sussurrai poi a voce più bassa, in modo che solo lei potesse sentirmi.
-Loro sono Bryan e John Lynch, sono fratelli.- Gli occhi blu di Namid, nonostante la sua faccia imbronciata, si accesero di curiosità:
-Vi siete bruciati la testa?-
-Cosa?- chiese John, confuso.
-I capelli. Hanno il colore del fuoco!-
Le risa che contagiarono tutto il gruppo la misero in imbarazzo e la pelle delle guance, che pure era scura, si tinse di rosso, perciò intimai loro di smettere.
-Veniamo dall'Irlanda, lì quasi tutti hanno i capelli colore del fuoco!- rispose Bryan con gentilezza.
-Dov'è l'Irlanda?-
-Molto lontano da qui, dall'altra parte del mare.-
Intuii che avrebbe voluto fare più domande, ma la sua ritrosia la frenava, perciò continuai con il mio elenco:
-Anche Kasper Nowak viene da lontano, è polacco. Non credo che udirai la sua voce tanto presto, non parla mai!-
Kasper, impassibile, mi gratificò di un'occhiata ammiccante e divertita, ma non aprì bocca.
-Jacob Fano, Eric Collins, Javier Robinson e poi, ovviamente, c'è questo colosso di nome Abraham!-
Namid si voltò verso di lui e lo squadrò attenta:
-Tu non hai un secondo nome?-
-Si dice cognome!- la corressi sbuffando -E poi no, non ce l'ha, Abe è un ex-schiavo.-
Lo sguardo di lei si incupì e con mia estrema sorpresa poggiò una piccola mano sul braccio di Abraham:
-Mi dispiace.- bisbigliò. Il mio amico sgranò gli occhi e sorrise, rivelando i denti bianchissimi.
-Non ti preoccupare, piccola indiana. E' passato!-
Mentre riprendevamo a lavorare Namid mi indicò con il dito King che passeggiava nervoso in su e in giù:
-Quello chi è?-
-Bernard King. Tieniti alla larga.-
-Perché?-
-Perché è un uomo cattivo.-
-Perché porta il fu... Fucile?-
Riflettei un attimo:
-No. Anch'io porto una pistola, ma non sono cattivo. Lui invece lo è.-
-Però anche tu hai ucciso.-
Non risposi, stringendo la presa sul piccone.
Anche tu hai ucciso.
Dio, perché quelle parole mi avevano colpito tanto? Era vero, del resto, in guerra avevo ucciso molte persone. Avevo massacrato diversi indiani solo il giorno prima, eppure io non ero come King. No, mi rifiutavo di esserlo: non ero meschino, non pensavo solo al guadagno e ad infierire sugli altri, neanche quando ero un soldato l'avevo mai fatto.
-Scusa.-
Mi voltai verso Namid, che mi fissava colpevole.
-Non scusarti, hai ragione.-
-Mi terrò lontana dall'uomo cattivo, va bene?- proseguì lei, ansiosa.
-Proprio non ti capisco, ragazzina: mi odi, ci odi tutti quanti, eppure non puoi fare a meno di essere curiosa e di parlare! E ora ti stai anche scusando con me! Cos'è, un modo per indurti a fidarmi di te e poi farti scappare?-
-Non è vero!- strillò la ragazza, arrabbiata -Mi hanno insegnato a cercare l'armonia, anche nei tempi difficili. Ma tu rovini tutto!-
Si allontanò da me a grandi passi e non mi rivolse più la parola fino a sera; in compenso, non poté fare a meno di sorridere a qualche battuta dei miei compagni e a gironzolare intorno a loro, curiosa.
Mentre tornavamo alla tenda con la nostra razione, Namid mi chiese:
-C'è una cosa che non mi hai detto.-
-Cosa?-
-Qual è il tuo nome? Ti chiamano tutti in un modo diverso: Walker, Colt... Come ti devo chiamare io?-
Mi sedetti davanti alla tenda: era giorno di paga e gli altri avevano deciso di andare a bere nel saloon mobile e poi al bordello e io avevo rifiutato per ovvie ragioni.
-Il mio nome è Russell Mark Walker, e Colt è il mio soprannome. Tu puoi chiamarmi come vuoi.-
Namid si sedette accanto a me, tentando di mangiare la minestra con le mani legate. Io sbuffai, poi le tolsi la ciotola ed il cucchiaio dalle mani ed iniziai ad imboccarla: mi sentivo incredibilmente stupido, ma lo sarei stato di più se, impietosito, le avessi sciolto le mani.
-Russell...- mormorò la ragazza tra una cucchiaiata e l'altra. Sembrava divertita dalla situazione!
-Cosa significa?-
-E che ne so io? Perché, un nome deve avere per forza un significato?-
-Certo!- rispose lei, seria e composta -Il tuo nome è ciò che sei, ciò che sempre sarai.-
-Penso che fosse semplicemente un nome che piaceva a mio padre. Namid cosa significa?-
Lei chinò la testa verso l'alto:
-Quelle- disse, indicando il cielo -Come si chiamano?-
-Stelle.-
-Il mio nome è "Stella che balla", allora.-
Le sfiorai il tatuaggio sul collo, comprendendone finalmente il significato.
-E' un bel nome.- mormorai. Lei mi fissò dubbiosa ed incerta ed io ritirai la mano: l'aria tra noi era strana ed io mi stavo lasciando affascinare un po' troppo da quelle iridi azzurre.
-Perché la tua pelle è così?- chiesi bruscamente, allontanandomi un po' da lei e poggiando a terra le stoviglie.
-Così?-
-E' chiara, diversa da quella degli indiani. E poi, i tuoi occhi... Lo sai, sì, che nessuno della tua gente ha gli occhi di quel colore?-
-Lo so bene... E ti stai chiedendo anche perché io parlo la tua lingua, giusto?-
-Tra le altre cose...- sogghignai. Namid puntò il suo sguardo sulle braci davanti a noi, attirando le gambe al petto.
-Mia madre era del vostro popolo, una donna bianca. Mio padre, Waquini*, la rapii insieme agli altri guerrieri e la fece sua sposa.-
-E tua madre non ha mai tentato di fuggire?-
-Sempre. Non ho mai capito perché, però: cosa avete di così prezioso che noi non abbiamo? Cosa si può chiedere di più che cibo abbondante e un buon posto per piantare le tende? Mia madre fuggì, una notte, e tentò di portarmi con sé. Ma mio padre ci trovò prima degli altri e le propose un patto, perché la rispettava e l'amava come sposa: se avesse lasciato me alla tribù, lui non l'avrebbe più cercata.-
-Forse era solo un pretesto per tenerla con sé: una madre non si separa facilmente dalla propria figlia.-
-Forse hai ragione, ma mia madre lo fece.-
Soppesai le sue parole per un po'.
-Adesso potresti parlare tu!- propose lei. Sollevai un sopracciglio:
-Come mai questo interesse?-
-La notte è giovane e i tuoi amici non ci sono: non abbiamo molto da fare.-
-Io devo dormire, perché King non tollererà un altro ritardo domani. Buonanotte.-
Mentre Namid entrava nella tenda - io per sicurezza sarei rimasto fuori, quella notte - mi venne in mente una cosa:
-Namid! Qual'era il nome di tua madre?-
Lei aggrottò la fronte:
-Elizabeth... Cox, mi sembra. Perché?-
-Nulla, ti ho appena trovato un cognome.-
Il suo sguardo si addolcì, malinconico:
-Non voglio restare qui, Russell. Non voglio un... Un cognome. Mi dispiace.-
 
 
Angolo Autrice:
Cosa ne pensate della caparbia Namid e della sua storia???
Hereditas sta finendo e io mi consolo con questi due :(((
 
Crilu
 

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Capitolo 5
*** The job ***




P.O.V. Namid
 
Namid Cox. Nonostante ciò che avevo detto a Russell il giorno prima, quel nome mi era rimasto in testa per tutta la notte.
La mattina dopo udii il campo svegliarsi e pensai che forse era ora di chiamare anche l'uomo, per evitargli un'altra sfuriata. Avevo odiato Russell, il giorno prima, e avevo cercato di sfruttare ogni occasione per fuggire; non negavo di volerci provare ancora, eppure quell'uomo bianco mi piaceva. Mi aveva salvata, si era preso una grande responsabilità con Camicia Blu ed era rispettato dai suoi compagni: era davvero un uomo buono, anche se aveva ucciso. Anche se non lasciava mai la pistola nella tenda.
All'improvviso fui stordita da un ricordo e rimasi paralizzata a stringere con forza le coperte sotto di me.
Non erano passati neanche due inverni da quando mia madre se n'era andata, lasciandomi sola con mio padre. Stavo giocando con le altre bambine, quando il vecchio Viho si avvicinò alla nostra tenda ed io mi nascosi lì vicino per origliare: mi piaceva il vecchio Viho, era saggio e buono con noi bambini. Ma quando andava a parlare con qualcuno della tribù, senza chiamare un consiglio, allora la cosa era personale e segreta.
-Waquini, questa notte il Grande Padre mi ha fatto visita in sogno, sotto forma di un magnifico cavallo dal mantello dorato.-
-E' una grande cosa, Viho, ma perché sei venuto a dirlo a me?-
-Perché il Grande Padre mi ha parlato di tua figlia.-
-Della piccola Namid? Perché?-
-Sai il perché, Waquini. Non ha solo il tuo sangue nelle vene, ma anche quello di sua madre... Una donna bianca.-
-Elizabeth se n'è andata, ormai. Non tornerà e la bambina crescerà con la nostra tribù. Così deve essere, è mia figlia!-
-La nostra tribù è forte perché apparteniamo a questa terra come un branco di lupi, o una mandria di bisonti. Ma lei? Lei non appartiene alla terra dei Cheyenne. Forse non appartiene neanche al popolo degli uomini bianchi, ma arriverà il giorno in cui sentirà il suo richiamo.-
-E quindi cosa suggerisci di fare? Non ha nessuno al mondo, anche se il suo sangue è misto sta bene qui!-
-Non devi fare nulla, tu. Sarà lei a dover intraprendere la sua ricerca, per capire chi è, e cosa vuole veramente.-
-Mia figlia non lascerà mai il suo popolo!-
-Lo spero, Waquini, lo spero.-
 
-Namid? Cosa succede?-
Russell mi fissava perplesso dall'ingresso della tenda. Lo guardai smarrita, mentre la mia mente iniziava a collegare i pensieri e a comprendere le parole di Viho; senza rendermene conto le lacrime iniziarono ad uscire dai miei occhi, mentre io maledicevo il destino che mi aveva messo in quella situazione. Russell si avvicinò cauto, ma io non volevo avere a che fare con lui o con gli uomini bianchi: io ero una Cheyenne, maledizione!
-Namid!-
La sua voce era bassa e roca, impossibile da ignorare. Incrociai nuovamente il suo sguardo e vi lessi tutta la preoccupazione che in quel momento dovevo procurargli, rannicchiata sul giaciglio pallida e tremante.
-Maledizione, ragazza, parla! Di' qualcosa!- ruggì, mentre io continuavo a sfuggirgli.
Lui si passò una mano sul mento, poi fece una cosa che mi stupì: sciolse la corda che mi legava dalla sua cintura e me la lanciò.
-Basta!- sbottò -Non ne posso più di te! In due giorni mi hai confuso abbastanza, ragazzina! Vattene, scappa, torna dalla tua gente e digli di venire a scotennarci: è questo che vuoi, no? Vederci tutti morti! Beh, non me ne frega un cazzo! Tanto io sarò già stato impiccato per tradimento, che se la vedano gli altri!-
Avrei potuto fuggire in quel momento. Avrei dovuto, anzi. Ma non lo feci, perché avrebbe significato la morte di Russell e anche se la sua indifferenza a quel pensiero mi spaventava, non volevo vederlo morto. A dirla tutta, non volevo vedere morto nessuno degli uomini che avevo conosciuto il giorno prima: erano rozzi e umili, ma simpatici. Non ero ingenua, sapevo che se non ci fosse stato Russell non sarebbero certo stati così gentili, ma non avevo percepito astio o odio in nessuno di loro e tanto bastava.
Gattonai verso Russell e gli riconsegnai la corda.
-Farai tardi di nuovo e l'uomo cattivo si arrabbierà.-
Lui fissò prima me poi la corda, stupito.
-Non vuoi scappare?-
Scossi la testa:
-Non ti voglio morto. Non voglio morto nessuno di voi, anche se state calpestando la nostra terra.-
Era forse un tradimento nei confronti del mio popolo, quello? Non ne ero sicura, ma sentivo di star facendo la cosa giusta. Russell parve riflettere, poi cautamente chiese:
-E' una trappola? Se adesso io ti sciolgo i polsi, tu scapperai?-
-No. Ti seguirei, come ho fatto ieri. Un Cheyenne non viene mai meno alla parola data.-
Molto lentamente, Russell mi slegò i polsi. Poi, sfiorandomi la pelle con incertezza, me li massaggiò per alleviare il dolore e l'indolenzimento dovuti allo sfregare della corda: la pelle era screpolata e arrossata.
Lo osservai bene mentre faceva tutto questo: i capelli scuri gli ricadevano in modo scomposto sulla fronte e gli occhi verdi erano fissi sulle mie braccia.
-Bene, ora possiamo andare. Spero davvero che tu non mi stia ingannando, ragazzina.-
Lo seguii assorta nei miei pensieri, scossa dall'evolversi della mattinata: prima quel confuso riemergere delle parole del vecchio Viho, poi le parole dell'uomo cariche di amarezza e stanchezza ed infine la mia parvenza di libertà e lo spaventoso, orribile desiderio di rimanere lì. Dove potevo andare, altrimenti? I guerrieri che erano con me, compreso il mio promesso sposo, erano tutti morti.
"Namid Cox." pensai. "Forse la tua ricerca è finalmente iniziata."
 
P.O.V. Russell
 
Attraversai il campo della ferrovia con la consapevolezza che tutti ci stavano guardando: il veterano Colt seguito spontaneamente dalla ragazza meticcia. Ah, chi la capiva era bravo! Quando ero entrato nella tenda sembrava spaventata da qualcosa, forse da un incubo, e mi sfuggiva come la peste... Mi aveva fatto tenerezza e la cosa mi aveva stupito, perché mi ero sempre vantato di essere un uomo molto razionale, perciò le avevo donato la libertà, ben sapendo che così attiravo una taglia sulla mia testa e che mi sarei dovuto sbrigare a fuggire anche io. Ma Namid aveva rifiutato, e ciò mi aveva fatto capire che forse, nonostante le premesse incerte, anche lei poteva trovare uno spazio nella società dei bianchi. Non mi fidavo del tutto e continuavo a tenerla costantemente d'occhio, anche durante i lavori. Abraham era stato l'unico ad azzardarsi a farmi qualche domanda sulla ragazza che quel giorno vagava tranquillamente attorno a noi, senza allontanarsi troppo.
-Walker... La piccola indiana non è legata.-
-Lo so, Abraham.-
-L'hai sciolta tu?-
-Sì, Abe, smettila di parlarmi come se fossi un vecchio rincretinito.-
-Sai cosa stai rischiando, sì?-
-Sì e so anche che non fuggirà.-
La conversazione si era chiusa lì: iniziavamo ad avvicinarci alle prime propaggini delle Montagne Rocciose ed il terreno si faceva man mano più duro e difficile da lavorare.
Ma ad un tratto, vidi con la coda dell'occhio Namid alzarsi ed avvicinarsi a Bernard King, che ghignò soddisfatto. Lee mi intercettò prima che potessi anche solo abbandonare la mia postazione:
-Non pensi di esseri messo abbastanza in pericolo per quella ragazza, Colt?-
-Levati di mezzo!- ringhiai, abbandonando il piccone in mezzo alla strada.
Namid appariva tranquilla, ma dai suoi movimenti nervosi si intuiva che era in difficoltà: King le stava troppo vicino e aveva iniziato a pizzicarle il fianco. A quella vista sentii il sangue ribollirmi nelle vene. Senza troppi complimenti mi piazzai tra lui e la ragazza e lo fissai con la fronte aggrottata: il ghigno compiacente sparì, sostituito da un'espressione irata ed infastidita.
-Colt, torna al lavoro.-
-Nel caso in cui non te lo ricordassi, Namid è sotto la mia tutela.-
-Beh, è evidente che se non la tieni legata come una cagnolina, la ragazza va in cerca di ciò che le piace, Walker! E non mi mancare di rispetto!-
La tentazione di estrarre la pistola e finirla lì era fortissima, ma mi imposi la calma: minacciare Bernard King non avrebbe giovato né a me né a Namid.
-Namid.- dissi glaciale e la ragazza fu percorsa da un fremito -Cosa volevi chiedere al signor King?-
-Io... Io volevo solo... Aiutare.- balbettò -Volevo lavorare con voi.-
King ridacchiò:
-Sentito? E' una richiesta assurda, Colt: come potrebbe fare il vostro lavoro, con quelle braccia?-
-Infatti.- ripresi, rilassando i muscoli: temevo che avesse cambiato idea un'altra volta e stesse cercando aiuto per scappare. -Lei non vuole fare il nostro lavoro, ma lavorare insieme a noi. Sono sicuro che saprai trovarle una mansione adeguata: non ti stavi lamentando, giusto l'altro giorno, di quanto tempo perdiamo per andare a riempire le borracce d'acqua durante i turni?-
King mi fissò spiazzato, poi iniziò a mugugnare:
-Sì, beh, è vero, ma...-
-Hai trovato la persona adatta allora, non è vero, Namid?-
Lei mi rivolse un sorriso aperto e sincero e mi venne spontaneo risponderle allo stesso modo, incurvando leggermente le labbra. Il controllore, livido di rabbia, riprese il suo atteggiamento normale:
-Cosa state facendo qui, eh? Colt, torna al tuo posto e tu, ragazza, corri a vedere chi ha bisogno di acqua!- sbraitò allontanandosi.
-King!-
-Cosa c'è ancora?-
-Assicurati di richiedere al generale Dodge una paga adeguata... Questa povera ragazza dovrà correre avanti e indietro sotto il sole, non vorrà certo che la sua fonte d'informazioni venga sfruttata in questo modo!-
Avevo usato un tono minaccioso e la pistola brillava alla luce del sole, bene in vista: non avevo dubbi che quella sera anche Namid avrebbe ricevuto la sua misera paga.
Mi voltai verso di lei, scuro in volto:
-Una cosa ti avevo ordinato, ragazzina, una sola: di tenerti alla larga da King.-
Lei abbassò il capo, colpevole.
-Lo so, ma volevo...-
-Aiutarci, sì, ho capito. La prossima volta, però, parlane con me, prima di agire di tua iniziativa.-
Drizzò la testa, orgogliosa:
-Nella tribù dei Cheyenne le donne non vengono trattate come King ha trattato me!-
-Non sei più tra gli indiani, ma tra gli uomini bianchi!- borbottai, poi le sistemai una ciocca di capelli scuri dietro le orecchie -E temo che tu sia troppo ingenua per sopravvivere.-
Mi riscossi ai richiami arrabbiati dei miei compagni, che procedevano a rilento a causa della mia assenza:
-Stai attenta, Namid: la maggior parte degli uomini qui ti considera una bella preda, proprio come King.-
Continuavo a ripetermi che tutta la preoccupazione che quella ragazza mi ispirava fosse dettata da quel ricordo lontano della donna che si era presa cura di me durante la guerra, e in parte era vero, perché gli occhi di Namid somigliavano molto ai suoi; ma mentre la osservavo correre via per assolvere zelante al suo nuovo compito, l'agitazione che mi montava nel petto non aveva nulla a che vedere con i ricordi. Ero solo triste di non averla più al mio fianco, sotto controllo... E la cosa che più mi impensierì, mentre lavoravo, fu che non avevo pensato, neanche per un attimo, che Namid potesse fuggire.
 
 
Angolo Autrice:
Namid trova lavoro, sfuggendo per un pelo alle attenzioni di King (ma non preoccupatevi, il cattivo avrà modo di rifarsi :)) e Russell inizia a non capirci più nulla xD
Come Isibéal in Hereditas, anche Namid è combattuta tra due popoli, ma questa è una lotta molto più forte poiché si tratta di veri e propri legami di sangue... Sono curiosa di sapere cosa ne pensate:)
Alla prossima
 
Crilu 

 

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Capitolo 6
*** The saloon ***




P.O.V. Namid

 
Ritrovai Russell solo la sera, mentre vagavo disorientata tra i numerosi lavoratori che tornavano al campo. Ero stanca, i piedi mi facevano male per aver corso a lungo ed ero spaventata dalle minacce che mi sentivo rivolgere mentre procedevo; per questo, non appena vidi la squadra di Russell mi infilai in mezzo a loro, al sicuro. Lui mi scruto da capo a piedi, alla ricerca di qualcosa fuori posto:
-Tutto bene?- grugnì poi. Io annuii con la testa e continuai a camminare a capo basso.
-Colt, almeno stasera ci raggiungi?- chiese l'uomo che rispondeva al nome di Eric Collins. Russell mi lanciò un'occhiata furtiva:
-Non lo so, devo vedere se non sono troppo stanco..-
-Ho capito, l'indiana ti porta via troppe energie!- rise Chuck. Mi sembrò che lo scherzo avesse infastidito più l'uomo che me:
-Ma che stai dicendo! Va bene, se insistete tanto stasera verremo a bere al saloon!-
-Verremo?- bisbigliò Abraham. -E' una donna, ed è indiana, Walker: non credi che per oggi abbia causato abbastanza grane? Vuoi davvero inimicarti tutto il campo?-
-Me ne frego, Abraham: non posso certo lasciarla nella tenda!-
Sul momento pensai che non si fidava abbastanza di me per lasciarmi da sola di notte, ma poi, quando mi accorsi degli sguardi lascivi che non abbandonavano un attimo la mia figura, capii che l'aveva fatto per proteggermi.
Arrivati alla nostra tenda Russell mi ordinò, borbottando, di darmi una rinfrescata con l'acqua che avevamo a disposizione: in serata era arrivato un altro convoglio, che la mia tribù non era riuscita ad intercettare. Mentre mi lavavo il viso mi sentii pizzicare gli occhi al pensiero di mio padre, che era sicuramente disperato.
"Ti crede morta. Come puoi essere così stupida, Namid? Tu qui sei solo una prigioniera, perché non cerchi di scappare?"
Perché l'avevo promesso a Russell, ecco perché. E nonostante una parte di me volesse disperatamente tornare alla tribù, non riuscivo a pensare ad un concreto piano di fuga.
Fu in quel momento che la mia attenzione fu attratta da qualcosa nascosto tra le coperte; rammentavo che la notte prima qualcosa di duro mi aveva dato fastidio mentre dormivo, ma avevo pensato che fosse un sasso... Invece era una scatola di legno. Molto semplice, senza fregi, chiusa da una serratura in ferro; probabilmente Russell portava la chiave addosso. Me la rigirai per le mani per un po', sebbene ero consapevole di non poterla aprire: noi indiani non avevamo oggetti del genere e la tecnica e la precisione con cui era stato realizzato mi incuriosivano...
Quando l'uomo entrò nella tenda, però, si incupì nel vedermi e mi strappò la scatola di mano:
-Chi ti ha dato il permesso di frugare tra le mie cose?-
-Nessuno, io non stavo...-
-Non mentire! Quella scatola era ben nascosta!-
-Ma se spuntava ben visibile tra le coperte!- replicai, piccata. Lui scrutò me, poi la scatola, poi di nuovo il mio viso.
-Non lo fare mai più: non ti avvicinare mai più a questa scatola, sono stato chiaro? E ora muoviamoci, sono già stanco di questa serata!-
Lo seguii in silenzio, per non infastidirlo ancora di più: avevo già messo alla prova la sua pazienza molte volte quel giorno e nessuno mi garantiva che non diventasse violento, quando si fosse stufato.
Il saloon mobile era una costruzione un po' sbilenca che poteva essere smontata e rimontata in poche ore, spostandosi su una piattaforma su ruote. Non era molto grande, perciò molti uomini sostavano nei suoi dintorni, limitandosi ad entrare per prendere da bere. Mi strinsi alla schiena di Russell, intimorita dagli sguardi truci che mi venivano lanciati, e pensai che forse non era stata una grande idea da parte sua accettare l'invito dei suoi amici. Trovammo la squadra già mezza ubriaca, seduta ad uno dei tavoli.
-Ehi, Namid!- esclamò Javier, sedendosi accanto a me. Era solo un ragazzo, forse anche più piccolo di me, ma il liquido dall'odore forte che stava ingurgitando lo rendeva più ciarliero ed audace.
-Hai mai provato il whiskey?- mi chiese facendomi l'occhiolino. Io feci cenno di no con la testa, timorosa: dove era finito Russell?
-No? Stai scherzando, spero! E' una delle cose più utili mai inventate dall'uomo! Lenisce gli affanni e porta l'allegria!-
Annusai la bottiglia, incuriosita:
-E' una bevanda magica quindi?-
Le mie parole scatenarono l'ilarità generale ed io chinai il capo: poi, sotto insistenza di Javier, avvicinai la bottiglia alle labbra e mandai giù un sorso di whiskey.
Tossii, mentre la gola bruciava e gli occhi mi si appannavano:
-E' forte!-
-Solo perché non ci sei abituata, piccola indiana! Avanti, da brava, un altro sorso!-
Continuai a bere, incitata dagli altri, completamente dimentica dell'assenza di Russell: sentivo la testa leggera, i pensieri sconnessi e il corpo lento e pesante.
-Bene, piccola indiana, ora basta però!- esclamò Lee, vedendo che la cosa mi stava sfuggendo di mano. Io ridacchiai e alzai il braccio sopra la testa, allontanando la bottiglia da lui.
-Namid!- mi ammonì Abraham, preoccupato. Io mi alzai in piedi, barcollante:
-Bella serata... Davvero, buono... Whiskey, bevanda magica! Ora, signori, torno alla tenda!- esclamai allegra, e mi diressi fuori. Abraham provò a seguirmi, ma fu intercettato da un altro uomo di colore, o almeno così mi fu raccontato: io, infatti, non ricordo quasi nulla di quella notte, se non che ad un tratto, a metà strada tra il saloon e la tenda di Russell, mi ritrovai stretta in un cerchio di uomini capeggiato da Bernard King.
-Bene, ragazzi, guardate chi se ne va a spasso da sola nel cuore della notte: dove hai lasciato il tuo cane da guardia, sgualdrina indiana?-
Un briciolo di lucidità illuminò la mia mente quando incrociai lo sguardo crudele del controllore: lui si leccò le labbra e srotolò la frusta che portava alla cintura.
 
P.O.V. Russell
 
-E voi l'avete lasciata andare via ubriaca?- ruggii, stringendo i pugni fino a farmi entrare le unghie nella carne. I miei compagni si agitarono sulle sedie, evidentemente imbarazzati e forse anche spaventati dalla mia reazione. Era bastata una mezz'ora in cui mi ero distratto a giocare a carte, e Namid era sparita: era tornata alla tenda, secondo quello che dicevano loro.
-Abraham ha provato a seguirla, ma non l'ha trovata!- borbottò Chuck. Ringhiai, frustrato, mentre immagini di orribili violenze affollavano la mia mente; repressi perciò l'istinto di picchiare qualcuno e andai a cercare l'indiana.
Iniziai a correre attraverso il campo, chiamandola a gran voce, ma mi rispondeva solo il silenzio e ogni istante che passava sentivo la preoccupazione aumentare: che avesse colto l'occasione per scappare? In quelle condizioni non sarebbe comunque andata lontano.
Poi li vidi, quasi per caso, in un punto isolato ai margini del campo: Namid rannicchiata a terra tra King e i suoi uomini, con le vesti strappate. E quando mi accorsi del sangue divenni una belva.
Piombai in mezzo a loro con la pistola carica e puntata alla testa di King; gli uomini smisero di ridere e si immobilizzarono, tesi e spaesati.
-Cosa stai facendo, Colt? Anche noi siamo armati e siamo in molti!- sogghignò King.
-Non mi importa quanti siete, sarete morti prima ancora di poter estrarre le pistole dalle fondine se osate muovervi.- ringhiai in direzione degli altri, ma mantenendo lo sguardo fisso sul controllore e stringendo la presa sulla pistola. King deglutì a vuoto e all'improvviso i miei sensi si dilatarono: percepivo il suo terrore, il battere furioso del cuore sotto la camicia sporca e vedevo scintillare chiaramente le gocce di sudore sulla sua fronte; riuscivo a cogliere anche l'odore acre della polvere da sparo e ad immaginare con esattezza il contraccolpo che avrebbe avuto il proiettile nel lasciare la canna e conficcarsi nel suo petto.
Ma le braccia tremanti di Namid, improvvisamente avvolte attorno al mio torace, mi fecero abbassare gli occhi su di lei: la ragazza aveva nascosto il volto nella mia camicia e bisbigliava:
-Non lo fare... Russell, non lo fare...-
-Ti ha fatto del male, Namid.- replicai, gelido. Ero infuriato con lei, con King e con me stesso e se non avessi trovato presto un modo per scaricare la rabbia avrei perso il controllo. Come durante la guerra...
Una mano dell'indiana si alzò ad accarezzarmi il volto e con un movimento dolce ma deciso mi costrinse a fissarla negli occhi: erano pieni di lacrime e contenevano una muta preghiera. Senza smettere di puntare l'arma contro King ordinai:
-Adesso ve ne andrete tutti, lentamente. Non provate a sorprendermi, perché state sicuri che il malcapitato si ritroverà i miei colpi nel corpo.-
Uno dopo l'altro mi obbedirono: King fu l'ultimo e se ne andò regalandomi uno sguardo carico di odio. Solo allora Namid si permise di lasciarsi andare ai singhiozzi: osservai le sue spalle scosse dai tremiti e capii che la sbornia doveva esserle passata in fretta. Ad un tratto si piegò in due e vomitò per terra, stringendosi il corpo con le mani. Rimasi a fissarla con il respiro accelerato, incapace di reagire o di aiutarla.
-Sei arrabbiato con me?-
La sua voce, poco più che un sussurro, mi strappò ai miei pensieri e mi riportò alla realtà.
-No- risposi, prendendola per un braccio e rialzandola. E per far sì che ci credesse sul serio, la baciai.
Mi resi conto solo in quel momento di aver desiderato quelle labbra dalla prima volta che l'avevo vista al chiaro di luna; adesso mi beavo della loro morbida consistenza e della sua inesperienza mentre si abbandonava contro il mio corpo. Quando però le sfuggì un gemito di dolore, mi accorsi che le mie mani, premute sulla sua schiena, erano intrise di sangue. La voltai bruscamente e un grido soffocato mi sfuggì dalle labbra.
-Animali!- ringhiai, vedendo i segni obliqui e rossi delle frustate.
-Russell, io...-
-Zitta!- ruggii, mentre cercavo di rimanere lucido. Senza esitazione la presi in braccio e la riportai alla tenda.
 
Osservavo preoccupato le ferite sulla schiena di Namid: l'aria fresca della notte avrebbe alleviato il dolore e la crema che il dottore del campo le aveva spalmato sopra le avrebbe presto ridotte a cicatrici. Ma rimanevano comunque il segno del mio fallimento e questo mi fece stringere i pugni. Namid, che io credevo addormentata, sollevò la testa e si accorse della mia tensione.
-Mi dispiace... Non avrei dovuto bere e andare via in quel modo. Ti ho fatto problemi...-
-No. Sono io che non avrei dovuto perderti di vista. Adesso riposa.- sussurrai, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte e perdendomi nei suoi occhi blu. Lei scosse il capo:
-Non riesco a dormire. Parla con me.-
-Non saprei cosa dirti, ragazzina.-
-Dimmi perché hai fatto quella cosa, allora.-
-Di che stai parlando?-
-Prima, dopo... Avermi salvato, tu...- Era frustrata perché non aveva le parole per esprimersi e borbottava in lingua Cheyenne, perciò la aiutai.
-Intendi chiedermi perché ti ho baciato?-
-Baciato...- mormorò assorta -Sì, perché?-
-Perché avevo voglia di farlo.-
Ci fissammo a lungo in silenzio e mi parve di scorgere delusione nel suo sguardo.
-E ad essere sincero- bisbigliai avvicinandomi al suo viso -Lo desidero anche adesso.-
Namid sogghignò amaramente, ma quando provai a baciarla di nuovo si ritrasse.
-L'uomo bianco trova sempre il modo di ottenere ciò che vuole, giusto?-
Ecco, l'aveva fatto di nuovo: si era allontanata da me, chiudendosi nel suo mondo. Sbattei un pugno a terra, frustrato e insoddisfatto.
-Sei una costante fonte di problemi!- borbottai, maligno. Namid voltò la testa, guardandomi con sfida:
-E allora perché non mi lasci andare?-
-Ma dico, sei stupida? Mi impiccherebbero! Fino a ieri dicevi che non volevi farmi alcun male ed adesso...-
-Io non so niente di quello che potrebbe interessare a Camicia Blu! E anche se fosse, non parlerò mai!-
Ignorando le ferite alla schiena si girò completamente su un fianco e si aggrappò a me:
-Vieni con me, Russell. Portami a casa e ti concederò tutto ciò che vuoi...-
-Tu sei pazza!- sbottai, sbalordito e anche deluso dal fatto che fosse pronta a vendersi così. Socchiusi gli occhi, roso da un dubbio: aveva già fatto ad altri quella proposta? Magari mentre io ero distratto, mentre non c'ero...
Sospirai pesantemente e mi allontanai dal giaciglio senza augurarle la buona notte.
 
 
Angolo Autrice:
Povera Namid, se l'è vista brutta... E Russell ha reagito, ehm... In maniera un poco gelosa ^.^
Mi dispiace per OldKey, ma l'amore è in arrivo yeeeeaaah
A presto
 
Crilu

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Capitolo 7
*** The story ***




P.O.V. Namid
 
La mattina dopo Camicia Blu venne alla tenda e lo sentii parlare e discutere con Russell; non capii tutto quello che si dissero, ma poco dopo l'uomo entrò nella tenda e senza dire una parola mi voltò sulla schiena, iniziando a pulire le mie ferite.
-Non vai a lavoro oggi?- chiesi a bassa voce. Mi ero comportata da sciocca, la sera prima, spinta dalle emozioni e non sopportavo che Russell fosse arrabbiato con me.
-No. Ho chiesto il permesso al generale Dodge per rimanere qui con te questa mattina e me l'ha accordato. Ovviamente sarà detratto dalla mia paga.-
Mi morsi il labbro:
-Mi dispiace.-
-Non fa niente.-
Sbuffai, irritata, e mi voltai, impedendogli di svolgere il suo compito. Volevo parlargli, ma quando vidi il suo sguardo esterrefatto fisso sul mio petto mi accorsi si essere completamente nuda dalla cintola in su. Afferrai la coperta e mi coprii, imbarazzata, ma così facendo la scatola segreta di Russell cadde a terra. Entrambi ci chinammo a raccoglierla così velocemente che le nostre mani si sfiorarono.
-Mi dispiace.- ripetei, in un sussurro. Russell sospirò e si passò una mano sul mento.
-Come faccio ad essere sicuro che tu non ti sia già venduta a qualcuno in mia assenza?-
Rimasi sbalordita ed offesa da quell'insinuazione, ma gli risposi con calma:
-C'era un'unica persona a cui potessi fare quell'offerta, ed eri tu. E tu mi hai rifiutata.-
-Non ho rifiutato te!- ringhiò -Ho rifiutato il tradimento, porca miseria, non lo capisci?-
-Sì. Capisco che i nostri mondi sono troppo diversi perché io possa amarti.-
Russell impallidì.
-Cosa hai detto?-
-Ho detto che non posso... Amarti.- balbettai, confusa ed imbarazzata. Russell si sedette accanto a me, senza sfiorarmi.
-Quello che hai detto non è vero: il mio mondo può essere il tuo, se lo vuoi. Hai anche sangue bianco nelle vene. Ma c'è un motivo per cui non puoi amarmi ed è legato a questa scatola.-
Si sfilò la chiave di ferro dal collo e me la porse insieme alla scatolina di legno.
-Ecco, tieni: aprila.-
Non me lo feci ripetere due volte ed obbedii: dentro c'era quella che gli uomini bianchi chiamavano "fotografia" e rappresentava una giovane donna. Insieme alla fotografia c'erano anche un medaglione d'argento e un pettinino d'avorio. Mi voltai verso l'uomo, che aveva gli occhi lucidi.
-Di chi sono queste cose? E chi è questa donna?-
Lui sospiro e mi prese la scatola dalle mani:
-Devo raccontarti una storia. Devo farlo, così poi starai lontana da me.-
Aggrottai la fronte e mi preparai ad ascoltare.
-Ho fatto cose di cui non vado fiero, durante la guerra.- mormorò Russell, distogliendo lo sguardo dal mio -Un giorno i sudisti mi fecero prigioniero: sai cosa è Andersonville? No, certo, tu non puoi saperlo. E' una prigione spaventosa, che ti annienta e ti rende l'ombra di ciò che eri... Ero così disperato per la sorte che mi aspettava che in un attimo di distrazione dei carcerieri mi buttai giù dal treno che mi avrebbe portato là: fui sbalzato lontano dalle rotaie e mi ritrovai in mezzo al deserto, con diverse ossa spezzate e ferite di vario genere. Ero convinto che fosse giunta la mia ora, invece la ragazza che vedi in quella foto mi trovò e ordinò ai suoi schiavi di portarmi nella sua villa: mi sfamò e mi curò, nonostante la divisa sbrindellata che indossavo indicasse chiaramente che fossi un nordista. Quando mi fui ripreso abbastanza da articolare qualche parola le chiesi perché lo avesse fatto e lei mi rispose che le ricordavo suo fratello: anche lui era soldato e Grace sperava che trovasse qualcuno che mostrasse nei suoi confronti la sua stessa carità. Da quando lui era partito, viveva da sola in quella grande casa e portava avanti la loro piantagione di cotone. In breve tempo fui in grado di stare in piedi ed iniziai a dare una mano, per sdebitarmi... E anche perché quella ragazza così pratica e risoluta, diversa da tutte le altre che avevo conosciuto, iniziava a piacermi. Ma poi le cose precipitarono.-
Il suo tono si fece distaccato, sofferente ed affannato ed io mi strinsi nella coperta, conscia di stare per udire qualcosa di orribile.
-Un gruppo di soldati sudisti si fermarono a salutarla: Grace tentò di nascondere la mia presenza, ma non ci riuscì. Quei bastardi la additarono come traditrice della causa sudista e stavano per uccidere me e violentare lei, quando reagii: tirai fuori la pistola, che avevo nascosto fino a quel momento, ed iniziò una sparatoria. Io... Non so come abbia fatto a non accorgermene, ma Grace si mise in mezzo, pregandoci di smetterla ed io sparai. La uccisi sul colpo.-
La voce gli si incrinò sull'ultima frase, diventando un sussurro spezzato. Lentamente - molto lentamente - mi sporsi verso di lui e gli poggiai il capo sulla spalla.
-Mi dispiace.- mormorai, come una cantilena -Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace...-
Russell si scostò bruscamente, come se l'avessi minacciato.
-Capisci, ora, perché non mi importa poi tanto di morire? Capisci perché allontano Abe, Lee, Chuck e tutti gli altri? Comprendi, Cristo santo, perché non ti voglio vedere legata a me?- ringhiò con gli occhi lucidi -O almeno, sì, lo voglio, ti voglio... Ma sono un mostro, ho ucciso una persona che mi aveva mostrato solo pietà e affetto!-
-Basta!- sbottai e mi alzai in piedi, ignorando sia le fitte alla schiena sia il fatto di rimanere senza vestiti di fronte a lui. Russell era ipnotizzato dai miei movimenti e non si oppose quando gli poggiai una mano sulla camicia, dove sentivo il cuore battere forte.
-Dovrei odiarti, Russell Walker.- dissi, con voce ferma -Dovrei molto odiarti. Hai portato guerra alla mia tribù, mi hai rapita, hai ucciso il mio promesso sposo...-
A quelle parole l'uomo si irrigidì e strinse i pugni affannosamente.
-Ma non ti odio.- sussurrai poi, avvicinandomi e circondandogli il torace con le braccia, in modo che il mio corpo aderisse al suo. -Ormai ho scelto, e quando un Cheyenne sceglie non torna indietro. Ho deciso che il mio posto è con te, perché con te sono sicura e anche se mi scaccerai, io tornerò indietro. Non importa tuo passato, non importa tuo presente... Importa solo il futuro e io so che il mio sarà al tuo fianco.-
 
P.O.V. Russell
 
Poteva prendermi un colpo al cuore, in quel momento, e sarei morto con il sorriso. Un sorriso che Namid non poteva vedere, perché il suo capo era poggiato all'altezza del mio petto, ad ascoltare il battito frenetico del mio cuore, aspettando una risposta.
Era il discorso più lungo che le avessi mai sentito fare, eccetto la storia di sua madre, e non doveva essere stato facile per lei esprimere le sue emozioni in una lingua estranea; eppure ci era riuscita, e con che chiarezza!
Si era abbarbicata a me con cocciutaggine e non l'avrei potuta allontanare neanche se l'avessi voluto; ma io desideravo solo averla vicina. Proteggerla. Accarezzarla, farla mia. Forse, come pensai in quel momento, eccitato dalla sua vicinanza, forse l'avrei anche amata come una creatura del genere meritava.
Ma erano pensieri troppo complessi da fare con una ragazza che si strusciava pericolosamente contro di me.
-Namid...- borbottai con voce strozzata. Lei alzò i suoi incredibili occhi azzurri su di me.
-Cosa c'è?- Quasi ridacchiai nell'avvertire l'ansia della sua domanda.
-E' ancora valida la tua proposta? Dimmi di sì, perché io devo averti adesso!-
Namid sorrise ed io pregai con tutto il cuore che non avesse un altro dei suoi sbalzi d'umore; ma i secondi passavano e lei sembrava convinta delle sue intenzioni.
-No. Le mie condizioni sono cambiate.-
Mi sentii svenire:
-Come sarebbe, scusa?-
La ragazza si passò una mano tra i capelli, bella e sensuale senza saperlo:
-Sì, sono cambiate. Non voglio più andare via. Voglio che tu accetti di farmi rimanere con te, qui.-
-Qui? Ma questo non è un posto adatto ad una ragazzina!- sogghignai, iniziando a giocare con lei. La spinsi verso il giaciglio, sovrastandola e impedendole di coprirsi. Sembrava improvvisamente vergognarsi della sua nudità.
"Un po' in ritardo!" pensai, divertito.
-Non mi interessa.-
-Bene. Ma sappi che rimanere con me comporta alcuni obblighi...-
-Ad esempio?-
-Ad esempio, piantarla con questi movimenti d'anguilla e farsi toccare con tranquillità!-
Per tutta risposta, Namid si inarcò verso di me, strappandomi un grugnito d'approvazione.
-Poi?-
-Poi, vediamo... Togliermi questi abiti, mi sembra soddisfacente.-
Era imbarazzata e io godevo della sua indecisione.
"Hai voluto giocare, Namid? Gioca, allora!"
Titubante mi slacciò la camicia e me la sfilò, ma si trovò in difficoltà con i pantaloni e la cintura.
-Noi non conosciamo queste cose!- sbottò, frustrata, indicando la fibbia. Ridendo me ne occupai io e mi stesi accanto a lei, osservandola con attenzione.
-Qualche altro obbligo?- mormorò, confusa.
-Sì.- risposi, anch'io con un tono di voce basso -Baciarmi.-
Lo fece. Lo fece davvero e a quel punto, sicuro delle sue intenzioni, mi lasciai scivolare dentro di lei. Soffocai i suoi gemiti con la mia lingua, esplorandola e venerandola come una dea.
Stava andando tutto bene ed io ero molto vicino all'apice, quando lei mi sfiorò la schiena e si irrigidì:
-Che cos'è?-
-Nulla di importante, ti prego, continuiamo.-
Le impedii di rispondermi con un bacio e non mi staccai da lei fino a quando non la sentii contorcersi per il piacere. A quel punto mi alzai per prendere dell'acqua: la perdita della purezza le aveva macchiato le gambe di sangue.
-Aspetta un attimo, vediamo di pulirti...-
Ma quando incrociai i suoi occhi capii di aver commesso uno sbaglio veramente stupido: mi ero voltato, offrendole il macabro spettacolo della mia schiena martoriata.
Il sangue mi pompava impazzito nelle vene davanti al suo sguardo spaventato ed intimorito.
-Cos'è?- ripeté, sgomenta.
-Una ferita di guerra... Il risultato di quando mi sono buttato dal treno.- sospirai, con rammarico, pulendole con delicatezza le cosce.
-Mi dispiace, non volevo che te ne accorgessi così. So che è orribile a vedersi...-
Sfiorò i bordi della cicatrice con le dita tremanti, prima di sgusciare via dalle mie mani - come un'anguilla, appunto, avrei dovuto cambiarle soprannome - e poggiare un bacio casto e delicatissimo sull'estremità destra della ferita.
-Le ferite di guerra, presso la mia tribù, provano il valore di un uomo!- bisbigliò, con gli occhi fissi nei miei, accarezzandomi il mento. Feci un timido sorriso:
-Credo sia così presso tutte le tribù del mondo, Namid.-
 
P.O.V. Namid
 
Avevo appena voltato le spalle alla mia tribù, al mio credo, alla mia vita. Eppure ero felice come mai lo ero stata prima, grazie a Russell. Non era un uomo facile da sopportare, e la ferrovia rimaneva un posto estremamente pericoloso per me, ma ero fiduciosa e piena di speranza per il futuro, tanto che neanche la vista della schiena martoriata del mio uomo mi aveva fatto perdere l'allegria. A metà giornata Russell si era deciso ad abbandonare il letto - ed il mio corpo - per vestirsi e raggiungere la sua squadra. Mi aveva baciato a lungo, prima di imboccare l'uscita, raccomandandomi di non fare sforzi per irritare le ferite alla schiena, già provate dal sesso continuo.
-Siamo due poveri invalidi!- aveva esclamato, strizzandomi l'occhio.
Sì, ero proprio felice e rilassata. Così rilassata che non mi resi conto della presenza di due uomini nella stanza fino a quando le loro mani non si chiusero sulla mia bocca e sulle mie gambe, facendomi dibattere e sbarrare gli occhi. E la voce che udii prima di svenire mi ghiacciò il sangue nelle vene.
 
 
Angolo Autrice:
Russell fa un po' di luce sul proprio passato, e quando finalmente i due sembrano aver raggiunto un equilibrio stabile... Namid scompare. Chi l'ha rapita? E che ripercussioni avrà la sua sparizione su Russell?
Spero che la storia continui a piacervi
A presto
 

Crilu

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Capitolo 8
*** The journey ***




Quando Abe mi venne a chiamare serio in volto, pensai subito che fosse accaduto qualcosa a Namid ed abbandonai il piccone e la squadra. Ma mai mi sarei immaginato che se ne fosse andata.
"Stupido!" pensai, sconvolto "Stupido! Stupido! Stupido! Ti ha fottuto alla grande!"
Mi passai una mano sul viso, cercando di ragionare ed inspirando a pieni polmoni: improvvisamente mi sentivo mancare l'aria. Abraham rientrò nella tenda.
-Devi sbrigarti: non hai molto tempo per andare!-
-Andare dove, Abe?-
-A riprenderla.-
Dalla mia gola uscì una risata priva di allegria ed ero sicuro che se avessi incrociato i miei occhi avrei trovato le iridi vuote di un pazzo. Mai, in tutta la mia vita, mi ero sentito così tradito e sconfitto; neanche quando l'esercito mi congedò perché la ferita mi rendeva impossibile partecipare a qualunque scontro avevo provato una tale umiliazione.
-Sarà lontana ormai, Abe, avrà trovato la sua tribù... Meglio per me finire con un cappio al collo, è quello che mi merito per la mia stupidità!-
Il nero mi scrollò violentemente per le spalle:
-Vuoi aprire gli occhi? La ragazza ha sicuramente trovato i Cheyenne, o per meglio dire, i Cheyenne hanno trovato lei!-
Aggrottai la fronte:
-Eh?-
-Guarda, per la miseria! Non li vedi, i segni della lotta?-
Era vero: la terra vicino al giaciglio era smossa e calpestata e fuori dalla tenda erano ancora leggermente visibili le impronte di due uomini nella polvere. Due uomini scalzi.
-Non ci sono orme che portano alla tenda, sai cosa significa questo?-
-Sì...- mormorai, infilandomi il cappello sulla testa -Significa che quando se ne sono andati erano più pesanti perché portavano Namid di peso.-
Un sorriso astuto si aprì sul mio volto:
-Abe, dobbiamo compiere un furto.-
 
P.O.V. Namid
 
Quando mi svegliai e vidi attorno a me degli alberi, il ricordo di ciò che era successo mi piombò addosso con violenza tale da farmi spuntare le lacrime. Mi tirai in piedi, pronta a tutto pur di tornare alla ferrovia.
"Russell penserà che l'ho tradito! Oh, per lo spirito del Grande Padre, lo impiccheranno!"
-Piano, Namid: potrebbe girarti la testa.-
Mi voltai e sul margine della radura vidi Hevataneo* e Kuckunniwi** che mi fissavano perplessi: li conoscevo bene, erano di poco più grandi di me e Hevataneo aveva sposato Ayasha, una delle mie migliori amiche. Sospirai e mi passai una mano sulla fronte: era un gesto che avevo spesso visto fare a Russell e massaggiarmi le tempie con le mani, oltre a farmi rilassare, me lo fece anche sentire in qualche modo più vicino.
-Hevataneo, Kuckunniwi, so che vi sembrerò pazza, ma dovete riportarmi indietro, o per lo meno lasciarmi andare.-
Come supponevo, entrambi i guerrieri balzarono in piedi esterrefatti.
-Cosa stai dicendo? Waquini è quasi morto dal dolore nel saperti nelle mani degli Uomini Bianchi! Devi tornare con noi, devi tornare da tuo padre!- esclamò Hevataneo con gli occhi sbarrati.
-Non posso, mi dispiace... Comprendo il grande rischio che avete corso, e il mio cuore piange al pensiero del dolore che arrecherò a mio padre, ma non posso andarmene così!-
Kuckunniwi mi fissò a lungo, prima di prendere la parola: era molto riflessivo, oltre ad essere un valente guerriero e cacciatore.
-C'è qualcosa tra te e l'uomo bianco padrone della tenda.-
Non era una domanda, ma una semplice affermazione. Hevataneo iniziò ad imprecare velocemente:
-Ti ha fatto del male, Namid? Ti ha violentata?- sbraitò.
-No!- sbuffai, sbattendo i piedi per terra. Così facendo, però, risvegliai il dolore di muscoli che non sapevo neanche di avere, sicuramente un risultato della mattinata. Non potei evitare di piegarmi in due e gemere e questo, per i miei compagni, fu una risposta evidente.
Kuckunniwi si avvicinò serio e, con mia grande sorpresa, mi legò i polsi, mentre Hevataneo scuoteva il capo, incredulo ed arrabbiato:
-E' evidente che tu non sei in te, Namid.- sentenziò Kuck -Abbiamo visto le ferite sulla tua schiena, siamo addolorati per l'umiliazione e il dolore che hai dovuto sopportare, ma sappi che pagheranno fino all'ultima goccia il sangue che ti hanno fatto versare. Credici, lo facciamo per il tuo bene: una volta arrivati presso la tribù troveremo il modo di spezzare il maleficio che l'uomo bianco ti ha fatto.-
Scossi la testa, ma non trovai le energie per rispondergli o divincolarmi: ero stanca e sul punto di crollare, come avrei potuto convincerli che non c'era nessun maleficio, ma semplicemente amore?
Chiusi gli occhi, mentre venivo assicurata dietro a Kuckunniwi sul suo cavallo: in poche ore avrebbero scoperto la mia fuga, e Russell sarebbe morto. Non sapevo quale fosse il pensiero peggiore: sapere che sarebbe stato impiccato per colpa mia, o la certezza che sarebbe salito sul patibolo odiandomi per averlo tradito in quel modo.
 
P.O.V. Russell
 
Avevo convinto Abraham a non seguirmi, affidandogli un compito forse anche più pericoloso: riferire a Dodge il motivo della mia "fuga". Non sapevo come l'avrebbe potuta prendere il generale, o se avrebbe creduto al fatto che Namid non se ne era andata, ma era stata portata via contro la sua volontà... Speravo solo di non aver coinvolto il mio amico in un guaio più grande di noi. Stavo andando incontro ad una tribù di feroci indiani, dannazione!
"E tutto questo per una donna....!" sbottai mentalmente. Il ricordo di Namid, però, mi toglieva il fiato: la volevo di nuovo con me, volevo il suo sguardo ingenuo e luminoso, volevo il suo corpo sotto il mio, volevo la sua voce seccata e l'indole orgogliosa... Per lei avrei corso quel rischio senza esitazione.
"Come ha fatto a fregarmi in così poco tempo?" mi chiesi sbalordito. Perché sì, ero totalmente fregato!
Quando vidi i resti di un misero accampamento smontai dal cavallo che avevo rubato - altro motivo per cui Dodge se la sarebbe presa con me, una volta tornato al campo - e iniziai ad esaminare le tracce.
Capii che gli indiani erano due e che avevano sostato lì per un po' di tempo: si vedevano ancora le braci rosseggianti del fuoco.
"Non devono essere ripartiti da molto!" pensai, tirando un sospiro di sollievo: con un po' di fortuna, li avrei raggiunti prima che si ricongiungessero con il resto della tribù.
Mentre stavo per risalire a cavallo, però, l'animale si scostò sbuffando, irrequieto: drizzò le orecchie verso la foresta e si lasciò sfuggire un nitrito spaventato. Quando mi voltai, capì il perché del suo terrore: dagli alberi emerse lentamente un enorme orso bruno. Imprecai, estraendo la Colt e tentando di caricarla. L'orso, però, sembrava particolarmente infuriato: forse aveva fame, o forse ero arrivato troppo vicino alla sua tana. Fatto sta che mentre il cavallo fuggiva via imbizzarrito, io fui colto alla sprovvista da una zampata potente che mi fece volare la pistola di mano. Con la testa che pulsava dolorosamente, feci solo in tempo a vedere la bestia che si avvicinava circospetta a me, prima di sprofondare nel buio.
 
P.O.V. Namid
 
Il galoppo sfrenato di un cavallo mise Kuckunniwi ed Hevataneo in guardia, facendogli incoccare una freccia: ma il cavallo che sbucò tra gli alberi non aveva cavaliere. Il povero animale era sudato e gli tremavano le zampe; gli occhi erano iniettati di sangue e la bava alla bocca suggeriva che aveva corso a lungo, in preda al panico.
-Ha la sella degli Uomini Bianchi!- constatò Kuck, pensieroso.
-Probabilmente è fuggito, il padrone dev'essere qua vicino!-
Hevataneo tirò fuori il coltello, mentre io, imbavagliata e legata, sgranai gli occhi: e se fosse stato... No, impossibile.
"Sarà nelle carceri dell'accampamento, a quest'ora... Se non è già morto!"
I due guerrieri decisero di seguire le tracce dell'animale a ritroso, per scoprire l'inseguitore. Sperai con tutta me stessa che avessero il buonsenso di non ucciderlo e di farne solo un prigioniero: un uomo bianco morto avrebbe solo peggiorato la situazione con il popolo dei Cheyenne.
Quando però vidi la figura stesa, immobile, nel mezzo della radura, iniziai a dimenarmi e a mugolare talmente forte che Hevataneo si girò verso di me, preoccupato: tutti i miei pensieri sulla delicata tregua tra indiani e visi pallidi erano sbiaditi, lasciando il posto al terrore e al dolore.
-Lo conosci, Namid?- chiese Kuckunniwi, allentando il bavaglio. Gli diedi una spallata e mi buttai a terra per scendere dal cavallo su cui mi avevano confinata: ignorando le loro imprecazioni e il dolore delle frustate che ancora bruciavano sulla mia schiena strisciai fino al corpo inerte, sbattendo anche contro la pistola abbandonata a qualche passo di distanza. Gli occhi mi si riempirono di lacrime:
-Russell...- singhiozzai, poggiando il capo contro la sua camicia, alla ricerca di un battito che mi avrebbe dato la flebile speranza della sua sopravvivenza. I miei due amici si avvicinarono, confusi e sospettosi.
-Oh, Russell, ti prego!- esclamai, strusciandomi contro di lui, notando con orrore i segni profondi del graffio di un orso che gli avevano strappato una manica e ferito anche il torace.
Fu allora che, con mio estremo sollievo, Russell tornò in sé. Lentamente la sua mano si alzò ad accarezzarmi il viso e le palpebre sbatterono un paio di volte prima di rivelare i suoi profondi e meravigliosi occhi verdi:
-Namid... Ti ho trovata!- mormorò, con voce roca e spezzata. Doveva essere a pezzi, ma non sembrava importargli:
-La mia piccola stella danzante... Stai bene?- chiese, cercando di alzarsi a sedere e stringermi tra le sue braccia. Ma Hevataneo e Kuckunniwi furono più veloci: senza molte cerimonie lo tirarono in piedi e legarono anche lui.
-Lasciatelo! Non vedete che è ferito!?-
Kuck mi lanciò un'occhiata terribile, colma di biasimo e rimprovero:
-Zitta, tu! Sei una traditrice! La tribù deciderà cosa farne di te e di quest'uomo!-
Non potei far altro che lanciare al mio amante uno sguardo disperato, mentre Hevataneo mi caricava sul cavallo e Kuckunniwi assicurava la corda che stringeva i polsi di Russell al pomo della sua sella. Sospirai e chiusi gli occhi: avrei finalmente dovuto affrontare il giudizio della mia gente... E soprattutto, quello di mio padre. 
 
*"corda di capelli"
**"piccolo lupo"
 
Angolo Autrice:
Ciao,
allora, che ne dite dei due rapitori? Di certo adesso lo scenario cambierà drasticamente: dalla ferrovia ai campi indiani del Montana... Ma il viaggio per arrivare alla tribù è ancora lungo e nel prossimo capitolo un pericolo incombente porterà risvolti inaspettati.
Aspetto di sapere i vostri pareri sulla storia, cari/e lettori/lettrici e ringrazio tutti coloro si fermano ogni volta a recensire :D
A presto
 
Crilu

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Capitolo 9
*** The pack ***




P.O.V. Namid
 
Provai più volte a comunicare con Russell, nelle seguenti ore di viaggio, ma ogni mio tentativo era vanificato dalla stretta sorveglianza di Kuckunniwi. Hevataneo, invece, sembrava confuso e spaesato e lanciava occhiate incuriosite a Russell: probabilmente stava cercando di giudicarne le qualità fisiche che potevano avermi ammaliato. Kuckunniwi proseguiva con la mascella contratta e lo sguardo severo ed ignorava ogni mio tentativo di spiegazione. Alla fine, stanco delle mie parole a raffica, mi rimise il bavaglio e udii distintamente Russell ringhiare. Mi voltai a guardarlo e mi si strinse il cuore: era pallido e madido di sudore e sebbene la sua ferita fosse stata bendata alla meno peggio con i resti della sua camicia, il sangue continuava a colargli lungo il torace nudo.
Per fortuna dopo la prima zampata l'orso aveva concluso che non costituiva più una minaccia per lui e se n'era andato...
Stava calando la sera quando udimmo distintamente un tramestio lontano dietro di noi. Ci voltammo tutti a guardare di scatto la collina coperta di abeti che avevamo appena superato: nella pianura gli alberi si facevano più radi e avevamo una buona visuale in tutte le direzioni, ma dalle nostre spalle poteva arrivare un pericolo di qualsiasi genere.
All'improvviso Hevataneo mi sciolse i polsi ed io immediatamente allentai il bavaglio, facendolo scivolare sul collo:
-Zitta, Namid!- si raccomandò il mio amico, serio in volto. Annuii e scesi dal cavallo, avvicinandomi a Russell che si era seduto per terra e gli accarezzai dolcemente i capelli. L'uomo alzò lo sguardo su di me, scrutandomi con affetto e lanciandomi un muto segno d'intesa:
"Non ti preoccupare." sembravano dire quelle iridi verdi.
Finalmente scorgemmo una figura scura stagliarsi contro il cielo che volgeva all'imbrunire, appollaiata in cima alla collina: Russell imprecò a denti stretti quando alla prima se ne aggiunse una seconda, poi un'altra, e un'altra ancora... Finché il crinale dell'altura fu occupato da un intero branco di lupi.
I cavalli iniziarono ad innervosirsi, fiutando il pericolo quando le bestie sparirono dall'orizzonte, iniziando a scendere verso di noi.
-Presto!- esclamò Russell balzando in piedi. Kuckunniwi gli piantò velocemente la punta del coltello sotto la gola ed io trattenni il fiato. Russell mi guardò, calmo e allo stesso tempo quasi eccitato: ogni traccia di stanchezza sembrava sparita.
-Di loro di accendere un fuoco e di calmare i cavalli: uno lo prenderai tu ed io monterò con uno di loro due.-
-Cosa gli fa credere che non lo lasceremmo in pasto ai lupi?- chiese Kuck scettico, dopo che gli ebbi esposto il piano. Io ricambiai gelidamente la sua occhiata: 
-Provaci, e perderai anche me.-
Hevataneo, seppur incerto, sembrava d'accordo con l'uomo bianco:
-La proposta del viso pallido è intelligente: Namid sarebbe comunque al sicuro e noi potremmo tenere d'occhio lui.-
Kuckunniwi sbuffò insofferente, iniziando ad accendere il fuoco:
-Fate come volete, ma il viso pallido cavalcherà con te: io ho bisogno di sentirmi sicuro per combattere!-
Prima di partire, Hevataneo consegnò a Russell un involto e vidi gli occhi del mio uomo brillare nell'accarezzare la Colt che il mio amico aveva raccolto nella radura.
Hevataneo si voltò verso di me:
-Digli che spero di non aver sbagliato, nel riconsegnarli la sua arma. Spero anche che non la voglia usare per tradirmi, visto che dovremo cavalcare insieme.-
Russell osservò Hevataneo, che era più basso di lui di una spanna abbondante, con un mezzo sorriso sulle labbra: poi sorrise e caricò la pistola con la polvere che portava legata alla cintura.
 
P.O.V. Russell
 
Non potei nascondere il mio sollievo nel riavere nuovamente con me la mia pistola, nonostante le occhiate omicide dell'indiano più alto, Kuck-qualcosa, e la diffidenza ostentata dell'altro, Hevataneo, con cui mi ritrovavo a dividere il cavallo.
Gli ululati del branco si fecero improvvisamente più vicini e il mio compagno di sella lanciò un fischio a Namid, gridandole qualcosa in lingua indiana. Lei scosse la testa, e mi indicò col capo. Io sbuffai:
-Namid, se il pellerossa qui presente ti ha detto di allontanarti, è bene che tu faccia quello che dice.-
-No. Non ti abbandonerò adesso che siamo di nuovo insieme!-
Sorrisi per la sua ingenuità, la sua tenerezza, il suo amore: sembrava inconsapevole delle difficoltà che sicuramente avremmo incontrato, se fossimo sopravvissuti a quella notte, ma forse era meglio così. Io ne ero attratto proprio per il suo candore, impossibile da sporcare.
-Namid, per favore... Non ho rubato un cavallo della ferrovia, attraversato territori sconosciuti e affrontato un orso per vederti morire!-
Lei affiancò il suo cavallo al nostro senza rallentare l'andatura:
-Io non morirò. E neanche tu.- mormorò, allarmata dalle figure dei lupi in avvicinamento.
-Se davvero ci credi...- mormorai in risposta. Poi, con un agile capriola all'indietro, mi lanciai giù dalla sella. Atterrai sulla spalla ferita e imprecai, ma non persi tempo prezioso: la pistola era già carica e dovevo sfruttare bene gli ultimi istanti di luce. Puntai, sparai, colpii: cinque bestie rotolarono a terra uggiolando e rimasero immobili. Il sesto proiettile si perse tra gli alberi ed io imprecai di nuovo: avevo poco tempo a disposizione per ricaricare l'arma e mettere la polvere, prima che i lupi mi attaccassero.
A salvarmi fu l'arrivo di Hevataneo a cavallo, che brandiva la torcia che Kuckunniwi aveva precedentemente acceso. Ci scambiammo un'occhiata significativa, mentre Namid continuava ad urlare insulti in entrambe le lingue e tentava di calmare il suo cavallo imbizzarrito. Kuckunniwi era alle prese con tre esemplari piuttosto affamati, ma il grosso del branco puntava noi. Hevataneo fu costretto a scendere dal cavallo impazzito con un balzo, piantandosi al mio fianco.
-Se questo essere tua prova di fuggire, uomo bianco, tu no conosci Hevataneo!- esclamò fiero, lanciando uno dei suoi pugnali contro la belva che gli si era posta davanti mostrando le fauci spalancate. Io sbuffai e puntai nuovamente la pistola carica verso i lupi: il suo intervento era stato il diversivo perfetto per rimettere in sesto la mia Colt. Certo, al buio la mia mira non era un granché, però udii comunque guaiti di dolore e il cerchio degli animali si fece meno folto. Colsi l'occasione per ribattere:
-Non ho intenzione di abbandonare Namid.-
-Perché?- chiese lui, ingaggiando poi una feroce lotta corpo a corpo con una bestia nera e particolarmente affamata che gli era balzata addosso. Mi buttai sopra di loro e stordii il lupo con il calcio della pistola, prima di finirlo col coltello che tenevo nascosto nella cintura.
-Perché Namid è mia.- replicai con un ringhio.
All'improvviso Hevataneo mi strappò il coltello dalle mani e si lanciò contro di me, premendo sulla spalla ferita e facendomi finire a terra. Per un attimo pensai che volesse uccidermi, ma in realtà squarciò la gola del lupo che ci si era avvicinato di soppiatto.
Ci guardammo ansanti negli occhi alla luce della luna, mentre i superstiti del branco rinunciavano alla caccia e tornavano verso le colline. La linea delle labbra di Hevataneo si distese impercettibilmente e stava per dire qualcosa, quando mi sentii soffocare: era Namid che mi stava stringendo col viso nascosto nel mio petto.
-Stupido!- singhiozzò -Sei uno stupido!-
Ridacchiai, pensando che se avesse conosciuto insulti peggiori in inglese non avrebbe esitato a urlarmeli contro. Ma il divertimento fu presto sostituito da fitte laceranti alla spalla e al fianco ferito, tanto che scivolai a terra, portando la ragazza con me. La sua voce preoccupata fu l'ultima cosa che udii prima di sprofondare nell'incoscienza.
 
Quando rinvenni, Namid non c'era, e neanche Kuckunniwi e questo mi fece montare dentro rabbia e una buona dose di preoccupazione: gli sguardi di quel muso rosso non mi piacevano neanche un po'. Provai ad alzarmi di scatto, ma un dolore lancinante in tutto il corpo e la mano salda di Hevataneo sulla mia spalla mi costrinsero di nuovo a terra.
-Buono, uomo bianco!- ridacchiò il ragazzo, passandomi una borraccia d'acqua fresca.
-Namid?- chiesi con voce roca, mentre l'acqua calmava l'arsura della mia gola. Lui parve riflettere su come tradurre il concetto in parole:
-Namid. Kuckunniwi. Acqua... Fiume, erba per cavalli. Parlare.-
-Dovevano parlare? E di cosa?- domandai, sempre più allarmato.
Hevataneo si agitò, sembrava in imbarazzo. Poi si poggiò una mano sul petto nudo:
-Uomo bianco no essere primo per Namid, lei ha quasi marito morto. Grande dolore per tribù, grande dolore per Waquini: figlia scomparsa, marito morto.-
Socchiusi gli occhi, la testa mi faceva male e faticavo a dare un senso alle sue parole sconnesse e dal terribile accento:
-Il promesso sposo di Namid è morto, eh?- mormorai, ricordando vagamente che la ragazza vi aveva fatto cenno.
"Non doveva esserne così innamorata, però, se non me l'ha mai nominato e se non ha mai pianto per lui..."
-Cosa vuole Kuckunniwi?-
-Essere marito per Namid...-
-Che cosa!?- ruggii, balzando in piedi. Non mi importava nulla delle ferite che tiravano e dolevano su tutto il mio torace, della cicatrice sulla schiena che pulsava, volevo solo raggiungere quell'indiano e farlo a pezzi. Hevataneo mi fermò con facilità, essendo io ancora molto debole.
-Calma, uomo bianco.- ridacchiò. Sembrava divertirsi, il bastardo!
-Essere speranza e fortuna per te. Sì, sì, molta buona fortuna!-
-Ah sì? E dove, di grazia?- grugnii, arrabbiato. Hevataneo si indicò con le braccia larghe:
-Tu essere forte guerriero, Hevataneo piace. Hevataneo no piace Kuckunniwi: pensare troppo, parlare poco, no pensieri come acqua di sorgente... Sue parole come acqua di stagno, vecchia e nera.-
-Uhm...- mormorai, incuriosito dalla piega degli eventi. Squadrai l'indiano: non era molto alto ma aveva un corpo allenato e scuro come il bronzo, totalmente glabro. I capelli neri erano portati lunghi e una ciocca sul lato sinistro della faccia era intrecciata con pezzi d'osso e piume; gli occhi neri brillavano di sincera curiosità. Decisi di fidarmi, perciò gli tesi una mano, gesto che lui accolse con perplessità. Tirai indietro il braccio, imbarazzato e mi limitai ad un mezzo sorriso:
-Bene, Hevataneo. Tu sei amico di Namid, giusto? Allora voglio anch'io esserti amico.-
Lui inclinò il capo:
-Mia moglie amica di Namid, io amico di Namid... Tu molto più che amico per lei. Ma può Hevataneo fidarsi dell'uomo bianco?-
-Può l'uomo bianco fidarsi di Hevataneo?- replicai con tono di sfida.
Hevataneo sorrise e, con mia estrema sorpresa, mi riconsegno il coltello. Era fatta.  
 
Angolo Autrice:
Si delineano meglio le due personalità di Kuckunniwi ed Hevataneo: inutile dire chi io preferisca... xD ora che si avvicinano alla tribù, un alleato in più non può che far comodo al nostro Colt. Ma cosa avranno da dirsi Namid e il guerriero scorbutico? Nel prossimo capitolo arriveranno finalmente al campo indiano...
 
Crilu 

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Capitolo 10
*** The tribe ***




P.O.V. Namid
 
I cavalli pascolavano tranquilli l'erba della riva con le zampe immerse nell'acqua: il galoppo ed il terrore che li aveva colti durante lo scontro con il branco di lupi li avevano sfiancati. Io riempivo in silenzio le borracce d'acqua da appendere alle selle, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo di Kuckunniwi, fisso su di me.
Era poco più grande di me ed eravamo cresciuti insieme, ma restare in sua compagnia mi inquietava: ricordavo che una volta lo trovai nel bosco, intento ad osservare un serpente a caccia. La bestia aveva appena catturato un piccolo topo ed io stavo per tirargli una pietra ed ucciderla, ma Kuck mi aveva fermato, sussurrando:
-Sarebbe una disgrazia se un predatore così elegante venisse privato del suo meritato premio, non credi?-
Da allora non potevo fare a meno di legarlo a quell'animale: forte e temibile, sì, ma silenzioso ed imperscrutabile.
Mi rialzai e tornai a riva, richiamando i cavalli con un fischio; gli animali mi si avvicinarono docili e io li gratificai con delle leggere e carezzevoli pacche sul muso.
-Avonaco è morto.- esclamò ad un tratto Kuckunniwi. Io chiusi gli occhi con un brivido:
-Sì.-
Non avevo mai amato Avonaco e mi ero opposta quando mio padre me l'aveva suggerito come sposo, ma ero dispiaciuta per la sua morte: era un ragazzo tranquillo e timido, non meritava di essere ucciso a quel modo, durante il viaggio che sarebbe servito anche a conoscerci meglio.
-I compagni dell'uomo bianco l'hanno ucciso. Forse l'ha colpito lui stesso...- continuò Kuck con voce bassa. Lo fissai freddamente:
-Russell è un uomo buono e onesto. E di queste cose risponderò solo a mio padre e ai vecchi saggi.-
-Sei certa della sua bontà? Della sua onestà?- sbottò l'uomo avvicinandosi pericolosamente a me. -E' un viso pallido, Namid. I visi pallidi sono infidi, sono cattivi: la tribù non ti lascerà mai sposare uno di loro, meglio che ti abitui all'idea. A tuo padre si spezzerà il cuore nell'apprendere che sua figlia lo ha tradito in questo modo, ma non temere: troverà ben presto un uomo per sostituire Avonaco. Troverà me.-
Gli diedi le spalle e mi diressi verso l'accampamento quasi di corsa, ignorando la roca risata che mi seguiva.
Arrivammo al cerchio di tepee verso mezzogiorno e tutta la tribù si radunò per vederci arrivare. Io con gli occhi bassi e il cuore gonfio di angoscia e preoccupazione; Kuckunniwi con lo sguardo impassibile e il portamento fiero; Hevataneo sorridente che cercava con gli occhi la sua Ayasha; e infine Russell, semi svenuto per la fatica e le ferite, che strascicava i piedi in fondo al corteo.
Scivolai giù dalla sella nel silenzio totale della tribù e mi feci incontro a mio padre, che aveva le lacrime agli occhi:
-Namid...- mormorò, commosso. -Vieni con me, figlia mia: abbiamo molte cose di cui parlare.-
 
P.O.V. Russell
 
Legato al palo dei cavalli, sfinito dalla fame e dalla sete, mi rendevo pienamente conto dell'enorme cazzata che avevo fatto: non solo ero partito alla ricerca di Namid da solo, finendo prevedibilmente nelle mani degli indiani, ma mi ero anche fidato di uno di loro. Che rabbia... Se avessi avuto modo di cancellare quello stupido sorriso dalla faccia di Hevataneo!
Come se l'avessi evocato, l'indiano comparve al mio fianco e io digrignai i denti.
-No essere arrabbiato con Hevataneo!- esclamò -Io potere niente davanti tribù, ma ho portato te questo!-
Mi mostrò una borraccia d'acqua e un pezzo di carne essiccata, che io accettai con famelica ansia.
-Cosa stanno dicendo?- chiesi, indicando con il capo la tenda più grande del campo in cui Namid era scomparsa insieme a Kuckunniwi, a quello che presumevo fosse suo padre, e ad altri indiani. 
-Parlano di Namid e di te.-
-Lo immaginavo... Sai qualcosa sulla mia sorte?-
Hevataneo mi guardò confuso ed io sbuffai.
-Cosa mi farete?-
L'indiano si strinse nelle spalle:
-Loro diranno te. Ma non preoccupare: Namid ha molto coraggio e lingua veloce, parla bene per te. E suo padre meno ostile ai visi pallidi, lui...-
-... Ha amato una donna bianca, sì, lo so.-
Proprio in quel momento il consiglio uscì dalla tenda e si diresse verso di me: cercai con gli occhi quelli di Namid, che mi rivolse un mezzo sorriso. La sua espressione, però, era tutt'altro che allegra e capii che aveva dovuto sostenere una prova molto dura per il suo animo, in quella tepee; il mio cuore accelerò quando pensai a quanto stava sacrificando per me. Molto probabilmente, infatti, la tribù non l'avrebbe più guardata allo stesso modo. La ragazza si fece avanti, iniziando a tradurre le parole di un uomo che sostava accanto a suo padre:
-Dicono che sei uno strano viso pallido, perché hai rischiato molto pur di raggiungermi. E ti sei dimostrato coraggioso e leale nel lottare contro i lupi. Mio padre Waquini e l'onorevole capo Otoahhastis* sono stati molto colpiti da questo, ma la tribù è dubbiosa... Hanno bisogno di tempo, per capire chi sei. Resterai con noi, non come prigioniero, ma come ospite, affinché tu comprenda noi e noi te.-
-Mi sembra un buon compromesso!- esclamai quando due guerrieri indiani mi slegarono. -La mia pistola?-
Lo sguardo di Namid si adombrò:
-Non puoi averla, per il momento. Forse quando si fideranno di più... Stai attento, Russell: Kuckunniwi è furioso, la tribù mi guarda con disprezzo e molti ti vorrebbero morto!-
-Beh, lo immagino, piccola indiana: tutti vorrebbero il mio scalpo da appendere davanti all'entrata della tenda!-
-Russell!- sibilò lei, adirata -Vedi di comportarti bene. Io non potrò aiutarti.-
-Cosa vuoi dire?- chiesi, aggrottando la fronte. D'improvviso mi vennero in mente le confidenze di Hevataneo -Tuo padre ha già deciso a chi darti in sposa?- ringhiai.
Diamine, se ero spaventato da quella prospettiva: avrebbe significato perderla per sempre.
Namid scosse la testa, mettendo in evidenza il tatuaggio sul collo:
-No, ovviamente, ma non ci vorrà molto perché Kuck si faccia avanti. Intendo dire, piuttosto, che non sarò io a guidarti mentre starai presso la tribù.-
-E chi allora?- domandai di nuovo, mentre un pensiero positivo, il primo della giornata, si faceva strada nella mia mente. Non dovetti neanche girarmi per sapere che il sorriso sul volto di Hevataneo si era allargato a dismisura.
 
Mi permisero di lavarmi e una vecchia donna indiana, guardandomi di sottecchi, si prese cura delle mie ferite, spalmandoci sopra un unguento che bruciava da morire, ma che fece effetto, fermando definitivamente il sangue.
Quando ebbe finito, Hevataneo mi porse una casacca e delle brache in pelle di bisonte, che indossai volentieri al posto dei miei indumenti stracciati. Nel fare ciò, fui roso da un dubbio: stavo agendo nella maniera giusta? Cosa avrei fatto una volta stabilita la mia posizione in quella tribù? E la ferrovia? La mia squadra? L'esercito? Se mi avessero trovato lì sarebbe stata la fine per me. E anche per Namid, ovviamente. Era una situazione spinosa e delicata, qualsiasi via d'uscita mi venisse in mente era impraticabile e insoddisfacente.
Desideravo moltissimo, in quel momento, la presenza massiccia e saggia di Abraham al mio fianco. E, incredibile a dirsi, mi mancavano anche le altre teste calde del mio gruppo, sebbene non li avessi mai considerati degli "amici": la ferrovia era un ambiente difficile, dove la fiducia non poteva essere accordata a cuor leggero. E non mi illudevo che presso la tribù indiana le cose per me fossero più semplici.
Hevataneo aveva uno strano cipiglio quando mi girai verso di lui e subito compresi che era per via della cicatrice. Tuttavia non avevo voglia di discuterne con lui in quel momento, perché mi faceva venire in mente Gracie, perciò gli feci cenno di indicarmi dove avrei potuto stare.  
L'indiano mi portò in un punto riparato tra le tende e il recinto dove riposavano i cavalli, in cui era stato approntato un giaciglio: non era un grande riparo contro il rigido inverno del Montana, ma considerato che in quello stesso momento il mio scalpo avrebbe potuto abbellire davvero una tepee non sognai neanche di lamentarmene. Del resto, capivo anche la loro diffidenza e io stesso non avrei lasciato dormire uno straniero, un nemico, nel bel mezzo del cerchio di tende.
Mi guardai intorno e vidi Namid e un'altra ragazza sedute sotto l'ombra di un albero; quando ci notarono, scorsi una scintilla di felicità negli occhi della mia indiana. L'altra, invece, mi scrutò con timore e curiosità. Provai ad avvicinarmi, ma Hevataneo me lo impedì:
-Mi spiace, amico bianco: tu e Namid no vicini. Essere ordine di capo Otoahhastis.-
Ringhiai e con uno strattone mi liberai dalla sua presa, ma non accennai alcun movimento verso le due ragazze: Namid mi aveva chiesto di seguire le loro regole ed io lo avrei fatto, anche se questo comportava il doloroso obbligo di starle lontana.
-Quella è Ayasha**, mia moglie.- esclamò Hevataneo, più rilassato.
Ma io avevo occhi solo per Namid. Avevo assaggiato una sola volta il calore del suo corpo e già ero schiavo di quella sensazione; ricercavo il suo sguardo come un assetato va in cerca dell'acqua e non ne ero mai sazio. Erano sensazioni spaventose, che mi sgomentavano: mi chiesi se valesse la pena di mettere a rischio le nostre vite per qualcosa malvisto da due interi popoli, per un amore così fragile ed instabile. Poi Namid mi rivolse un mezzo sorriso e immediatamente decisi che sì, ne sarebbe sempre valsa la pena.
 
 * "toro alto"
** "piccola"
 
 
Angolo Autrice:
Beh, le cose sembrano non essere poi così tragiche presso la tribù dei Cheyenne, giusto? Almeno all'apparenza... La maggioranza dei nativi odia Russell e Namid, Kuckunniwi non fa mistero dei suoi progetti e per finire i due sono anche separati! Ma non vi preoccupate, con un po' di pazienza e di impegno da parte di Colt le cose miglioreranno!
Ah e cosa ne pensate di Hevataneo, che sta pian piano rivelando la sua importanza nella storia?
Fatemi sapere!
A presto
 
Crilu 

 

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Capitolo 11
*** The bow ***




P.O.V. Namid
 
-Il sangue dell'uomo bianco si è risvegliato...-
-... Traditrice, bugiarda...-
-L'ho sempre detto io che era troppo superba e altezzosa! E adesso, il povero Avonaco è morto e lei giace con lo straniero!-
-E quegli occhi? Dovevamo capirlo subito che portavano sfortuna! Waquini doveva abbandonarla non appena è venuta al mondo!-
Alzai il mento e affrettai il passo, superando senza degnarle di uno sguardo le donne che, sedute davanti alle loro tepee, stavano conciando delle pelli di bisonte. Non appena mi videro si zittirono, ma i loro sguardi pesanti e malevoli rimasero puntati su di me fino a quando non raggiunsi la capanna di Ayasha ed Hevataneo. Una volta dentro sospirai e la mia amica mi guardò con occhi compassionevoli.
-Vieni qui, povera piccola. Non ascoltarle, quelle hanno la lingua biforcuta come i serpenti!-
Ayasha chiamava tutti "piccoli", nonostante mi arrivasse a malapena alle spalle; l'aveva fatto fin da ragazzina e adesso mi faceva sorridere il pensiero che anche Hevataneo fosse apostrofato a quel modo. Scrollai le spalle e con un sorriso mi sedetti a gambe incrociate accanto a lei, nella penombra della tenda.
Dopo la fuga di mia madre alcuni si iniziarono a lamentare della mia presenza nella tribù: i miei occhi spaventavano tutti e molte bambine si rifiutavano di giocare con me, accusandomi di portare il malocchio. Ma grazie all'amore di mio padre e al supporto dei miei amici, prima tra tutti Ayasha, non ero stata toccata più di tanto da questo pesante giudizio; crescendo, avevo dimostrato di essere una ragazza sveglia, forte, intelligente, capace di rendere fiero il proprio padre e la propria tribù. Mi ero anche sforzata di non dimenticare la lingua di mia madre, che tornava molto utile nelle sporadiche trattative commerciali con gli uomini bianchi, e per questo il vecchio Viho mi aveva voluta con sé... Beh, anche per convincermi a sposare suo nipote Avonaco, ma ormai non aveva più importanza: erano morti entrambi nell'agguato.
-A cosa pensi?- La voce cristallina di Ayasha mi strappò a quei pensieri. Stava decorando una pelle che Hevataneo avrebbe usato come sella e io la osservai per un attimo rapita: non ero mai stata molto brava in quel genere di lavori, ma presa da un'improvvisa ispirazione le chiesi:
-A niente. Mi presteresti una delle tue pelli?-
Ayasha sgranò gli occhi scuri e annuì basita. Poi mi rifilò un'occhiata sospettosa, mentre io iniziavo a ricamare.
-E' per l'uomo bianco, vero?-
-Il suo nome è Russell. Sì, è per lui.-
Ayasha sbuffò. Era uno sbuffo particolare, che io conoscevo bene: il malcapitato che le si ritrovava davanti quando la mia amica buttava fuori l'aria dalle labbra in quel modo, come un bisonte infastidito, sapeva che lo aspettava una ramanzina speciale.
-Ti stai cacciando in un bel guaio, Namid. Sei la luce degli occhi di tuo padre, e Otoahhastis ti rispetta per l'aiuto che gli hai sempre fornito, ma hai rischiato molto nel prendere le sue difese: è un nemico, lo sarà sempre. Ti ricordi cosa hanno fatto ai nostri fratelli, non più di due inverni fa? Donne e bambini massacrati senza pietà, mutilati... E tutto questo per la terra. Questo vogliono, gli uomini bianchi: terre, ricchezze, ancora terre... Non tengono in nessun conto la vita degli altri se non per il loro tornaconto, non rispettano la Madre Terra, non rispettano niente di ciò che è sacro!-
-Perché per loro sono sacre altre cose!- replicai.
-Esatto: loro, Namid. Tu fai parte del nostro popolo.-
-Ne sei così sicura?- mormorai, interrompendo il lavoro appena iniziato e mordendomi il labbro inferiore.
-Certo!-
-Io no. Non più, per lo meno. Sai anche meglio di me che la tribù non ha mai amato mia madre e che di conseguenza mi ha sempre trattato con sospetto... Ma io non ho mai dubitato che il mio posto fosse qui, che la mia gente foste voi. E in parte è ancora così, credimi: non potrei mai rinnegare l'amore che provo per mio padre, per te, per Hevataneo, per Otoahhastis... Però... Dall'altra parte...-
-... Dall'altra parte c'è quello che provi per lui, non è vero?-
-Sì.- ammisi, arrossendo -Sai, a me non è successo ciò che aspettavamo da bambine, come a te: Hevataneo ti ha seguita mentre andavi al fiume, ti ha corteggiata, ha chiesto a tuo padre il permesso di dividere la coperta con te davanti al fuoco la sera... E adesso eccovi qui. Invece io e Russell i primi giorni non facevamo altro che litigare, lo odiavo. Ma allo stesso tempo avvertivo il forte tormento che lo perseguitava e non potevo fare a meno di chiedermi la causa di quel dolore e di quella rabbia. E' davvero un uomo buono, Ayasha. Mi ha salvato senza ottenere nulla in cambio, mi ha difeso innumerevoli volte... E nonostante non credo sia pronto ad ammetterlo nemmeno a se stesso, io so con certezza che mi ama allo stesso modo in cui lo amo io.-
Ayasha sospirò, in segno di resa.
-Credi che ce la farà a conquistare la fiducia della tribù?-
-Lo spero. E' l'unico modo che abbiamo per stare insieme.-
-Non sarà facile...-
-Lo so. Ma a tuo marito Russell piace, non l'hai visto? Con il suo aiuto ce la farà.-
 
P.O.V. Russell
 
-Basta, non ne posso più!- sbottai, accasciandomi sull'erba. Ben presto fui seguito da Hevataneo, che si distese accanto a me con le braccia incrociate dietro la nuca.
-Tua lingua è molto difficile!- commentò. Io alzai il sopracciglio destro:
-Ah, la mia, eh?-
Avevamo passato la mattinata, come del resto i giorni precedenti, a trovare un modo decente di comunicare. Mi era parsa un'ottima idea, quella di Hevataneo: imparare la lingua dei nativi era il primo passo per una convivenza più rilassata. Dall'altra parte, io avrei insegnato a lui i rudimenti dell'inglese, per far sì che bene o male riuscissimo a capirci. Ma dopo ore di scambi linguistici avevo la testa che mi pulsava e la gola in fiamme.
Hevataneo ridacchiò e riprese a parlare in lingua Cheyenne:
-Per il nostro popolo il linguaggio e soprattutto i nomi sono molto, molto importanti. E con "popolo" non intendo solo la nostra tribù, ma ogni uomo, donna o bambino delle varie tribù Cheyenne.-
-Siete tanti?-
-Prima che arrivaste voi, sì. Eravamo numerosi come le stelle nel cielo; poi ci siamo divisi, allontanati... Adesso alcune tribù non parlano neanche la nostra lingua, ma siamo comunque amici.-
"Sì, i Cheyenne hanno sempre avuto buoni rapporti con i Sioux" pensai.
-E poi l'uomo bianco ha portato tante cose cattive: malattie, guerra... Morte.-
La sua faccia si era fatta seria; anche se nessuno l'aveva nominato, lo spettro del Massacro del Sand Creek aleggiava tra noi. Mi misi a sedere sbuffando, a disagio, cercando di portare l'argomento lontano dagli attriti tra le nostre razze.
-Namid ha detto che il suo nome significa "stella che balla", il tuo?-
Hevataneo riacquistò il suo solito sorriso gioviale e prese tra le mani la treccia che portava ad un lato del capo: in essa erano intrecciate piume, pezzi di conchiglia e di sassi, e alcune punte erano impastate con l'argilla. A me dava solo un senso di sporco, ma lui sembrava andarne molto fiero, mentre traduceva in inglese il significato del suo nome:
-Corda di capelli!-
Mi grattai il mento, perplesso:
-Sono confuso, Hevataneo: voi non date forse i nomi ai bambini quando nascono?-
-Certamente.-
-E allora come è possibile che i nomi rispecchino alcune... Volte... Così bene le vostre caratteristiche da adulti?-
-A volte è il contrario: siamo noi a cercare di onorare il nostro nome, ed è per questo che io non ho mai tagliato i miei capelli. Altre volte, invece, la tribù o l'individuo stesso, ad un certo punto della sua vita, decide di cambiare nome. Dipende... Da ciò che fai, da qualcosa che hai. -
-Oh, allora anche noi abbiamo qualcosa di simile!- ridacchiai, e spiegai perché al campo mi chiamavano Colt. Avrei voluto dargli una dimostrazione pratica, perché l'indiano sembrava sinceramente incuriosito dalla mia abilità con la pistola, ma ovviamente non avevo idea di dove avessero nascosto la mia amata Colt. Provai a spiegarlo ad Hevataneo e lui subito balzò in piedi:
-No ho idea di dove hanno messo pistola!- esclamò concitato in inglese, affrettandosi verso il campo e facendomi segno di seguirlo -Ma mostrerò te qualcosa che farà te felice... Spero!-
Piegai le labbra in un mezzo sorriso divertito: per quanto lo avessi visto in azione e sapessi che fosse tutt'altro che ingenuo o sprovveduto, non potevo fare a meno di associare Hevataneo ad un bambino perennemente entusiasta.
"Un bambino con scarsa conoscenza degli articoli" pensai tra me e me, con ilarità crescente. Il soggiorno presso la tribù Cheyenne si stava rivelando più ameno del previsto: nonostante diverse occhiate torve, l'impossibilità di avvicinarmi a Namid e la fondata sensazione dell'odio di Kuckunniwi sulla pelle, non avvertivo il bisogno impellente di scappare. Tutt'altro, in poco meno di una settimana ero caduto in uno stato di torpore e abitudine. Quel pensiero mi scosse:
"Colt, non puoi dimenticare che qui sei un nemico, e che neanche Namid è al sicuro. Mantieniti concentrato sull'obiettivo: tornare al campo, sperare nella clemenza di Dodge..."
Proprio in quel momento Hevataneo uscì dalla sua tenda, dove scorsi Namid seduta compostamente accanto ad Ayasha, con in mano arco e frecce. Nel vederle risi apertamente:
-Oh no, amico, non sono proprio capace di utilizzare uno di quelli!-
Hevataneo me li mise in mano, accompagnandomi vicino al fiume, dove diversi alberi giovani si prestavano a fare da bersagli.
-Tu provi!- esclamò, dopo avermi mostrato come tenere in mano quell'arma. Sospirai, fissando il bersaglio davanti a me e l'incerta oscillazione della punta della freccia: era quello che noi bianchi chiamavamo "long bow", arco lungo, fatto in un legno chiaro e leggero, non troppo difficile da maneggiare anche per chi, come me, non ne aveva mai visto uno così da vicino. Tesi la corda, ignorando le piume attaccate sull'estremità superiore dell'arco che mi solleticavano una tempia, mirai l'alberello e tirai. Con mia estrema soddisfazione, la freccia tracciò una traiettoria curva nell'aria, conficcandosi nel tronco.
-Bene! Forse un po' più a destra, la prossima volta!- commentò Hevataneo, andando a recuperare la freccia.
-Hevataneo!- ruggì una voce dietro di noi. Mi voltai: il capo tribù, Otoahhastis, procedeva nella mia direzione scuro in volto.
 
Angolo Autrice:
Beh, il capo tribù non può essere poi così entusiasta del fatto che il suo prigioniero sia armato, no? Nel prossimo capitolo Otoahhastis sottoporrà Russell ad una scelta gravosa e (sembrerebbe) definitiva... Mentre per l'uomo bianco il soggiorno presso la tribù scorre tutto sommato tranquillamente, Namid è alle prese con l'ostentata diffidenza delle donne indiane: cosa ne pensate delle parole di Ayasha? Sia lei che Hevataneo fanno riferimento al Massacro di Sand Creek del 1864 dove le truppe americane trucidarono un numero di nativi stimato tra i 125 e i 175: si trattava per lo più di donne e bambini. L'arco lungo è una delle armi preferite dagli indiani, per lo meno per combattere o cacciare a piedi: diventava infatti molto scomodo se si andava a cavallo, ragion per cui i nativi svilupparono un altro tipo di arco, più corto e massiccio.
Spero che questo primo assaggio di vita Cheyenne vi piaccia!
Alla prossima
 
Crilu
 

 

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Capitolo 12
*** The choice ***




-Perché l'uomo bianco è armato?- chiese Otoahhastis. Qualche ciocca bianca nella folta chioma corvina lasciata libera sulle spalle e l'intrico di rughe attorno agli occhi erano gli unici segni evidenti della sua età non più giovane: ad occhio e croce gli avrei dato quarantacinque anni. Nonostante ciò, Otoahhastis aveva un fisico possente ed era molto più alto della media dei nativi: svettava su Hevataneo di tutta la testa. Gli occhi erano penetranti e più chiari di quelli che si incontravano in giro per il campo: variavano su una particolare tonalità di grigio e mi scrutavano con severità e dubbio. Nell'insieme mi ricordava qualcuno, ma non riuscivo a capire chi...
Io ed Hevataneo ci guardammo negli occhi, come due bambini sorpresi a fare una marachella: leggevo nei suoi occhi che neanche lui aveva pensato che potessi puntare l'arma contro il suo petto. Il mio amico provò a parlare, ma la mano alzata di Otoahhastis lo fermò.
-Vai via, Hevataneo: devo parlare con l'uomo bianco. E devo farlo da solo.-
Hevataneo mi lanciò un'occhiata preoccupata e provò a discuterne con il capotribù, ma un perentorio e minaccioso sguardo di quest'ultimo lo spinse ad obbedire.
Otoahhastis non parlò subito. Ebbi così modo di osservarlo con più attenzione: vidi che attorno al braccio aveva un laccio di cuoio annodato e scolorito dal tempo, carico di chissà quale significato, e che sul petto lasciato scoperto campeggiava l'immagine stilizzata di un wapiti*.
Hevataneo mi aveva detto che per loro i simboli e gli animali avevano un significato particolare, diverso da persona a persona: mi chiesi per qualche istante cosa significasse quel tatuaggio, poi fui folgorato da un'illuminazione.
-Il vecchio che era venuto a parlare con Dodge!- esclamai, facendo aggrottare la fronte al capo.
-Tu... Mi ricordi una persona. Anziano, saggio, venuto a parlare agli uomini bianchi.-
Le labbra sottili di Otoahhastis si distesero in un sorriso fiero e allo stesso tempo beffardo:
-Viho.-
Sì, quel nome mi suonava familiare, perciò annuii.
-Era mio fratello. Morto nell'imboscata in cui tu hai catturato Namid.-
Il mio coinvolgimento nell'attacco era evidente, inutile negarlo, perciò mi limitai a distogliere lo sguardo dal suo, chinando il capo in un gesto di cordoglio. Quell'uomo mi era sembrato molto fragile ed anziano... Mi chiesi chi dei nostri l'avesse colpito.
-Ora siamo rimasti senza sciamano. Senza la guida di mio fratello è difficile capire dove andare a cacciare, cosa fare con voi uomini bianchi...- mormorò, sovrappensiero. Poi si riscosse:
-Namid ha parlato molto bene di te, e io sono molto stupito nel vederti.-
-Perché?-
-Perché sei uno strano uomo bianco.- Quella criptica frase iniziava a darmi sui nervi, ma cercai di non darlo a vedere, aspettando che continuasse.
-Strano il tuo comportamento: difenderla dai tuoi compagni, salvarla più volte. Poi la vieni a cercare e non ti ribelli quando ti catturano... Sì, sì, strano. E anche in questi giorni, ho visto un uomo tranquillo, intelligente, propenso ad imparare - il fatto che intendi le mie parole lo dimostra. Eppure so per certo che molti spiriti maligni ti hanno toccato e che ne porti ancora il segno; so che non avresti dubbi nell'usare l'arma a cui tieni tanto per eliminare chi si pone sulla tua strada. Per questo mi sono arrabbiato quando ho visto che Hevataneo ti aveva dato l'arco. Ma tu non l'hai usato contro di lui.-
-Certo che no! Non l'avrei mai fatto!- sbottai, infastidito dalla sua descrizione poco lusinghiera.
Otoahhastis indicò con una mano il lungofiume:
-Vieni, uomo bianco, camminiamo.-
-Il mio nome è Russell Walker, comunque.- borbottai, seguendolo.
-Vorrei parlare con te di una cosa, e ti prego di essere sincero.-
"Nei limiti del possibile" pensai, ma assentii con un cenno del capo.
-Waquini è stato un forte guerriero ed è tutt'ora un abile cacciatore. So che non hai ancora parlato con lui, perché Namid gliel'ha impedito: credo volesse lasciarti il tempo di abituarti a noi. Allora parlerò io al suo posto: conosco Namid fin da quando era bambina e prima di allora conoscevo sua madre, la donna bianca Elizabeth Cox. Io c'ero quando Waquini la riportò al campo in lacrime, sfidando tutte le tradizioni pur di tenerla con sé... E Namid, in parte, è come lei. Bella, senza dubbio, ma anche intelligente e forte. Per questo mi è stata d'aiuto molte volte nelle trattative con gli uomini bianchi: Namid non si è mai limitata a tradurre delle semplici parole, non è mai riuscita a frenare l'istinto di esprimere la propria opinione. Io la rispetto molto per questo, e la tratto come una figlia: vorrei quindi sapere a che tipo di uomo si è legata.-
Aggrottai la fronte, riflettendo sulle sue parole.
-Io tengo molto a Namid...- iniziai, cauto, ma Otoahhastis sbuffò, stizzito.
-Lo so, lo so questo. Se non fosse così non avresti corso tutti questi rischi per lei, Russell Walker. Io credo che tu tenga a lei molto più di quanto tu stesso sia disposto ad ammettere, ma non è questo il punto. Ti chiedo una cosa, per permetterti di entrare nella mia tribù: sei disposto a lasciare alle spalle il tuo passato per lei? Tutto il tuo passato da uomo bianco, i tuoi dolori, le ferite e le gioie. Voglio che Namid sia al sicuro, e temo che tra la tua gente non lo sarà mai.-
Mi fermai di botto, mentre l'acqua del fiume mi lambiva le caviglie scoperte.
"Lasciare tutto?" pensai, sgomento. Avrei dovuto dimenticare ogni cosa, Grace, la guerra, i miei compagni, la ferrovia... Era una vita intera da cancellare. D'altro canto, avevo constatato fin troppo amaramente che la vita al campo ferroviario non era adatta a Namid: sarebbe stata sopraffatta da una realtà troppo cruda per lei.
Poi pensai ai suoi fiduciosi occhi blu che credevano in me, alla morbidezza del suo corpo di giovane donna, a tutto ciò che amavo di lei: non potevo rinunciarci, non dopo tutto quello che avevamo affrontato insieme.
-Va bene, accetto. Dimenticherò chi sono, pur di stare con lei.-
Otoahhastis mi osservò stupito, poi abbozzò un sorriso e si allontanò senza aggiungere altro.
Ebbi perciò modo, mentre continuavo da solo a percorrere il lungofiume, di riflettere sulla gravosa scelta che avevo appena compiuto e dalla quale non sarei più potuto tornare indietro... O almeno così credevo. Analizzai la questione sotto diversi punti di vista, ma non riuscii a stabilire se la decisione che avevo preso fosse giusta o meno. Da quando Namid era entrata nella mia vita era tutto così complicato...
Non avrei potuto sopportare la compagnia di Hevataneo in quel momento, perciò continuai a seguire il corso del fiume, osservando con distratta curiosità il paesaggio che mi circondava, piuttosto nuovo per me.
Sono nato a Cleveland, nell'Ohio, dove gli unici animali selvatici degni di nota erano le volpi esposte sul banco di qualche cacciatore di pelli. Sono quindi cresciuto in un ambiente mercantile e industriale, un vero esempio di civiltà americana: strade ben curate con negozi per signore, fabbriche, sale da tè e circoli... Davvero, c'è da chiedersi come mai una città così all'avanguardia, piena di vita e ricca di stimoli sia riuscita a produrre un individuo chiuso e grezzo come me. Da bambino non ho mai realmente conosciuto mio padre, che passava gran parte dell'anno presso i Grandi Laghi del Michigan a far fiorire il suo commercio ittico; solo quando sono tornato a casa dal fronte, spezzato nell'animo, mutilato nel fisico e improvvisamente anche orfano di madre, scoprii di essere un figlio illegittimo. Ascoltai quello sconosciuto che qualche volta avevo chiamato 'padre' commentare stancamente la morte di mia madre come un affare di poco conto, un divertimento, prima di voltargli le spalle, raggiungere la periferia della città e salire su un treno con un biglietto di sola andata verso Ovest. Avevo attraversato territori brulli e duri da lavorare, aree paludose e terre fiorenti, ma nulla era paragonabile al selvaggio Montana: dovunque posassi gli occhi vedevo alte distese d'erba battute dal vento, alberi scuri e maestosi che dovevano essere lì da decine, se non centinaia di anni. E poi le rocce che affioravano dalla rapida corrente del fiume, diversi uccelli che si innalzavano in volo lanciando i loro richiami, contribuendo a cullare i miei pensieri preoccupati... Per un attimo mi sembrò di intravedere anche le corna di un cervo stagliarsi tra gli alberi. Ma fu solo un attimo, appunto, interrotto da un rumore molto più vicino a me e sicuramente di origine non naturale: mi voltai appena in tempo per vedere Kuckunniwi emergere dai cespugli in un sommesso crepitio di foglie secche.
Mi irrigidii, stringendo di riflesso la presa sull'arco che ancora tenevo in mano: l'espressione neutra dell'indiano non mi convinceva per niente. Ci studiamo per qualche minuto, poi lui distese le labbra in un sorriso beffardo:
-Un uomo bianco che veste come un Cheyenne e porta un'arma dei Cheyenne. Che visione... Singolare!-
-Spero che la visione ti piaccia, perché credo che rimarrò qui per un po'!- replicai tranquillamente. Il sorriso di Kuckunniwi scomparve:
-Oh sì, che ci rimarrai. Forse ti è sfuggito, uomo bianco, ma nonostante questa tua libertà, tu sei un nostro prigioniero: non puoi andartene.-
-Non voglio andarmene.-
-Non ti credo.- ringhiò l'indiano, poi sembrò riacquistare la calma e sogghignò -Sai, un lupo può anche fingersi cane, se lo vuole. Può sedersi accanto alla tepee e dormire davanti al fuoco; correrà dietro ai bambini e si dividerà le ossa con gli altri cani... Ma basta la luce della luna, o una bella preda che gli corre davanti al naso, e lui tornerà ad essere lupo, come è sempre stato. Come sempre sarà.-
Quelle parole mi fecero scendere un brivido ghiacciato lungo la schiena.
"Calmati, Russell, hai preso la tua decisione!"
-Hai detto bene, un lupo rimane un lupo, sa ciò che vuole ed è sempre fedele a se stesso. I serpenti, invece, cambiano pelle in continuazione.-
L'insulto neanche troppo velato gli fece perdere il controllo: scoprì i denti in un ringhio selvaggio e gli occhi si accesero di rabbia.
-Tu vuoi portare Namid via da qui, lo so io e lo sa la tribù. Ma se credi che suo padre le permetterà di sposarti finirai per perire! E' tempo che lei scelga un nuovo sposo, uno di noi...-
-Avvicinati a Namid e sarò più che felice di farti a pezzi, muso rosso!- urlai, facendo istintivamente un passo verso di lui. L'aria tra di noi vibrava ed entrambi socchiudemmo gli occhi preparandoci a scattare l'uno contro l'altro, cercando di prevedere le mosse dell'avversario...
-Ehi! Uomo bianco!- mi sentii chiamare da lontano. Riconobbi immediatamente Hevataneo: quando mi raggiunse, vidi che era sollevato, se per l'esito positivo della chiacchierata con Otoahhastis o per avermi ritrovato prima che fuggissi, non avrei saputo dirlo.
-Cosa ci fai qui? Ti ho cercato dappertutto, vieni, ho una cosa per te!-
-Stavo parlando con...-
Ma quando mi girai, vidi che Kuckunniwi era scomparso nelle fronde senza lasciare traccia del suo passaggio.
 
 
Angolo Autrice:
Secondo capitolo di "integrazione" nella tribù dei Cheyenne: Russell è stato messo davanti ad una scelta difficile e per Namid ha rinnegato il suo passato (sul quale adesso abbiamo anche qualche informazione in più)... Ma è davvero così irremovibile, la sua decisione? Per Kuckunniwi, a quanto pare, no. Cosa ne pensate di Otoahhastis? E cosa avrà in serbo Hevataneo per Colt? Lo scoprirete nel prossimo capitolo...!
A presto
 
Crilu

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Capitolo 13
*** The horse ***




-Ho parlato con Otoahhastis... E mi ha detto che abbiamo qualcosa da regalarti.- esclamò Hevataneo con fare misterioso.
-Cos'è, un arco tutto per me?- chiesi beffardamente. Invece Hevataneo mi condusse al recinto dei cavalli, dove riposavano placidamente circa una ventina di bestie. Notai che tutti loro avevano dei simboli sul muso o sul petto e ne chiesi il motivo.
-Quelli laggiù- disse Hevataneo, indicando un gruppo di cavalli più attivo e irrequieto -Sono i cavalli dei guerrieri, utilizzati solo da loro per le battaglie, e i simboli che hanno indicano diverse cose: il numero di guerrieri abbattuti, la velocità, la forza, la sicurezza... Questi qui, invece, sono i cavalli per i cacciatori: sono animali speciali, miti e forti, che non si spaventano davanti ad una mandria di bisonti arrabbiati. Vedrai tu stesso quanto la loro pazienza sia importante in questi casi!-
-Lo vedrò? Ciò significa che...-
-Che uno di questi cavalli è per te!- confermò Hevataneo entrando nel recinto -Mi raccomando: un cavallo non è una cosa, come pensate voi uomini bianchi, ma un amico fedele. Dovrai farlo abituare a te e imparare a pensare come lui: solo così puoi essere certo che non ti farà mai cadere, e che ti porterà anche fino al punto dove tramonta il sole!-
Si avvicinò ad uno stallone possente dal manto isabella e iniziò a sussurrargli qualcosa che non riuscii a comprendere, forse per tranquillizzarlo della mia presenza; la bestia si lasciò avvicinare con tranquillità ed Hevataneo mi spiegò i vari segni tracciati sul pelo. I cerchi attorno agli occhi erano per garantirgli una buona vista della preda, quelli attorno alle narici per fiutare prima i pericoli, mentre le frecce pitturate sugli zoccoli auguravano la velocità.
-E' un animale magnifico...- mormorai in inglese, sovrappensiero, ma Hevataneo dovette capirmi, perché sorrise apertamente.
-Come si chiama?-
-Tasunke. Lo abbiamo ottenuto circa un anno fa scambiando delle pelli conciate con una tribù nemica, per stabilire la pace.-
-Perché non l'ha reclamato nessuno di voi? E' un bell'animale, renderebbe bene nella caccia.-
Hevataneo si grattò il capo, per la prima volta a disagio.
-Beh, vedi... E' molto docile quando ti avvicini, ma se provi a montarlo diventa una furia. Credo che ce l'abbiano ceduto apposta... In un anno nessuno è riuscito a cavalcarlo!-
-Ah. E quindi lo affidate a me, mi sembra ovvio.- borbottai, cercando di avvicinarmi di soppiatto alla groppa di Tasunke; come previsto, il cavallo scartò di lato, nitrendo infastidito.
Hevataneo mi batté una mano sulla spalla, divertito.
-Considerala una... Prova di fiducia. Io vado dalla mia Ayasha, buona fortuna.-
 
Provai ad issarmi in groppa a Tasunke per due giorni, ma puntualmente il cavallo eludeva i miei sforzi. Il terzo giorno riuscii sorprendere lui e i curiosi che mi osservavano dal recinto, aggrappandomi alla sua criniera e tirandomi su; Tasunke si impennò e nitrì furioso, e io finii a terra. Quando riaprii gli occhi, a poca distanza dal mio viso c'era Namid che mi sorrideva indulgente, scostandomi i capelli dalla fronte. Pensai fosse un sogno, ma il dolore alla schiena mi provò che ero ben sveglio.
-Tasunke ti ha fatto fare un bel volo!- ridacchiò la ragazza, aiutandomi cautamente a mettermi a sedere. Lanciai un'occhiata in tralice al cavallo che percorreva con fierezza il perimetro del recinto, dopo essersi scrollato di dosso la pelle conciata e decorata che gli indiani utilizzavano come sella.
-Uno di questi giorni ti domerò, dannato cavallo!- sibilai tra i denti. Namid scosse la testa con disapprovazione:
-Così non otterrai niente, Russell.-
Tornai a guardarla, soffermandomi su quei particolari che non ricordavo e che rendevano preziosa la sua vicinanza: la scia di leggere lentiggini sotto gli occhi, la complicata geometria del suo tatuaggio, il profumo di pulito che emanava...
-Perché sei qui? Credevo ti avessero ordinato di restarmi lontana!- mormorai ad un tratto, sfiorandole delicatamente il collo. Namid sorrise e si strinse a me:
-Otoahhastis ha cambiato idea...-
Il mio battito accelerò a quelle parole:
-Significa che non ci separeranno più? Che sei mia?- esclamai, alzandole il mento per poterla guardare negli occhi. Lei arrossì e si ritrasse, alzandosi in piedi:
-Non proprio, o almeno non nel senso che vuoi tu. Però hai il permesso di corteggiarmi, come un qualsiasi altro maschio della tribù!-
-Che cosa?- ringhiai -Devo mettermi in fila per ottenere qualcosa che ho già avuto?-
Il suo sorriso si spense e la voce si fece più incerta:
-Messa così mi fai sembrare una cosa, Russell, un oggetto che si può anche buttare via una volta usato...-
Mi alzai in piedi anch'io e la abbracciai, spingendo la sua testa contro il mio petto e baciandole i capelli.
-Perdonami, perdonami Namid. Sono stato sciocco ad usare quelle parole, ma tu sai che tipo di uomo sono, la cortesia non è proprio il mio forte... Ti prego, dimentica quello che ho detto: è solo che il pensiero che un altro uomo possa diventare tuo marito mi fa andare in bestia! E poi, io non so nulla di come funziona un corteggiamento Cheyenne, non saprei neanche da dove cominciare...-
-Non ti devi crucciare per questo: Hevataneo ti sarà d'aiuto. Ed è bene che tu sappia che presso i Cheyenne è la donna a decidere quale dei suoi corteggiatori sarà suo marito, non la sua famiglia, come fate voi...-
-Come fai a sapere cosa facciamo noi bianchi?-
-Mia madre.- Il suo sguardo era puntato lontano e l'espressione sognante traboccava d'affetto: mi fece tenerezza il suo amore incrollabile per una donna che l'aveva abbandonata. Poi i suoi occhi tornarono su di me ed io sorrisi.
-Ciò significa che se ti faccio arrabbiare, potresti rifiutarmi?- scherzai. Le labbra piene di Namid si aprirono, rivelando la dentatura scintillante:
-Già. Dovrai stare attento, uomo bianco!-
-Posso baciarti, Namid?- chiesi d'impulso, sorprendendo me per primo. Non gliel'avevo mai chiesto prima, l'avevo sempre baciata senza fermarmi a riflettere; ma in quell'ambiente a me così estraneo e a lei familiare appropriarmi delle sue labbra senza preavviso mi sembrava rozzo e imbarazzante.
-Russell... No, ci guardano, non va bene!- mormorò la ragazza, rossa in viso, staccandosi da me come se si fosse resa conto solo in quel momento dei vari indiani che bighellonavano lì intorno, attirati dal mio spettacolo con Tasunke.
-Ho una cosa per te!- aggiunse poi, raccogliendo da terra un fagotto che prima non avevo notato. Quando Namid lo dispiegò, capii che era una sella: una pelle decorata con motivi geometrici e colorati che per me non avevano significato, ma che complessivamente erano molto belli da vedere. Namid sembrava in imbarazzo, spostava il peso da una gamba all'altra e mi scrutava ansiosa:
-Non sono molto brava con il... Recamo? Ho cercato di fare del mio meglio...- balbettò in inglese, così che i suoi vicini non la capissero. Le accarezzai la guancia con il palmo aperto della mano, fermando il flusso delle sue parole:
-E' bellissima, Namid, grazie. Anche se non penso mi potrà servire a molto, con quel diavolo di cavallo...-
Lei parve riflettere:
-Sai cosa significa Tasunke?-
-No.-
-Vuol dire amico. Ed è esattamente ciò di cui ha bisogno quel cavallo: in un anno che sta qui non ha ancora trovato una compagna, né un cavaliere. Evidentemente sta aspettando qualcuno...-
 
Era l'alba, quando poggiai la sella fatta da Namid sulla groppa di Tasunke: l'erba intorno a noi riluceva di un colore dorato, come se andasse a fuoco, e le ombre degli alberi iniziavano a distaccarsi dall'oscurità informe della notte.
-Va bene, amico!- esclamai, posizionandomi a poca distanza dagli occhi scuri e acquosi dell'animale -Vediamo di andare d'accordo, ti va?-
Percorsi con il palmo della mano il suo profilo fremente, che si tendeva sotto il mio tocco: mi sembrava di accarezzare per la prima volta il corpo di una donna.
Ripetei quel gesto meccanico più e più volte, con fermezza ma senza severità: avevo pensato che potesse tranquillizzarlo e infatti Tasunke piegò all'indietro le orecchie, sbuffando soddisfatto.
Ad un certo punto, quando ormai il sole si era levato oltre le montagne, provai a fare leva con le braccia sul dorso del cavallo: tenevo i piedi ben piantati a terra per essere pronto a balzare all'indietro, ma quello non ebbe alcuna reazione. Allora, con il cuore che batteva forte per l'eccitazione, gli montai in groppa e serrai le gambe attorno al suo torace. Tasunke scrollò il capo e la criniera e soffiò dalle narici, ma non si mosse: si limitò a battere per terra con gli zoccoli, come per saggiare il mio peso. Rimasi estasiato dalla strana sensazione liberatoria che provai: sotto di me l'insieme di carne e vita che era Tasunke respirava e pompava veloce il sangue nelle vene.
Infilai le dita tra le morbide ciocche della sua criniera: gli indiani non conoscevano neanche l'uso delle briglie. L'animale drizzò le orecchie e sbuffò, come se avesse intuito quello che stavo per fare. Con prudenza, perché avevo comunque timore di cadere, mi sporsi ad aprire lo steccato del recinto, poi con una decisa spinta dei talloni lanciai il cavallo al galoppo, verso le colline. Era strano, cavalcare senza sella, perché temevo sempre di scivolare, anche se mi reggevo saldamente. Capii anche cosa intendesse Hevataneo: io e Tasunke procedevamo insieme, come seguendo la stessa mente lungo i sentieri invisibili attorno al campo indiano. Per tutta la durata di quella folle corsa mi sentii un ragazzino e pensai che avrei potuto vivere così per sempre: anche Otoahhastis dovette pensare la stessa cosa, perché uscì dalla sua tepee mentre io attraversavo di gran carriera il cerchio di tende e mentre riconducevo Tasunke al recinto udii l'eco della sua risata.
 
 
Angolo Autrice:
Ta-da!!!! Poteva mancare un cavallo, per entrare appieno nella cultura Cheyenne?
Le informazioni che ho inserito nel capitolo a proposito del legame degli indiani con i cavalli sono vere: anche se i nativi americani non entrarono in contatto con questo animale prima dello sbarco degli europei, esso divenne in breve tempo un compagno inseparabile e insostituibile. Erano infatti essenziali sia per la caccia sia per il combattimento. I simboli che gli indiani pitturavano sul manto, sul muso e sugli zoccoli dei cavalli sono davvero tanti, impossibile elencarli tutti, vi basti sapere che erano si diversificavano in base all'utilizzo degli animali (in uno scontro o in una battuta di caccia).
Tasunke non è un nome Cheyenne (l'ho "preso in prestito" dal dialetto Dakota) e il manto isabella è quello di Spirit, per intenderci xD
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere cosa ne pensate! :)
 
Crilu

 

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Capitolo 14
*** The courtship ***


-Non è difficile, davvero! Tu ti avvicini alle donne, sorridi a Namid, le lanci dei sassolini...-

-Lanciarle dei sassi?- sbottai, incredulo -Voi siete matti!-

La colonna di donne indiane che procedevano verso il fiume per attingere l'acqua si faceva sempre più vicina, ma le parole di Hevataneo non mi convincevano neanche un po': sembrava che stesse parlando del comportamento di una coppia di animali selvatici a primavera. Ci mancava solo che mi consigliasse di portarle un uccellino morto come regalo...

Sospirai: che altra scelta avevo?

-Non mi stai prendendo in giro, vero?-

Il mio amico tratteneva stento le risate:

-Per il Grande Spirito, Russell, no, certo che no! Questo è il primo passo per far capire a Namid che sei interessato a lei!-

-Lei lo sa che sono interessato a lei!- puntualizzai, irritato.

-La vostra non è una situazione normale. Comunque, se lei ricambia - e noi sappiamo che ricambia - non ti scaccerà e ti permetterà di seguirla sulla strada del ritorno. Mi raccomando, non toccarla più del dovuto, sarebbe imbarazzante e disdicevole!-

-Va bene, me l'hai già detto questo... Ma voi non le toccate mai le vostre donne?- borbottai, preparandomi ad affrontare gli sguardi affilati come coltelli delle compagne di Namid.

L'espressione di Hevataneo si fece sognante:

-Ma certo, Hiamovi... Le donne sono importanti, sai? Senza di loro non esisterebbe la tribù! Credo che da voi le cose siano diverse: qui la donna sceglie suo marito, e lo rispetta. Così come lui rispetta la moglie e il suo corpo. Ah, i corpi delle nostre donne sono meravigliosi, amico!-

-Frena la fantasia e continua la spiegazione!-

-Nervoso, eh? Comunque, tra qualche giorno, la sera, ti presenterai al campo, davanti alla tenda di Waquini, e gli chiederai di poter dividere la coperta con Namid. Se lui acconsentirà - questa la vedo più difficile - è fatta!-

-Va bene.-

"Seguirla al fiume. Dividere una coperta. Parlare con suo padre."

Di colpo l'idea della preda morta mi sembrava molto allettante.

 

P.O.V. Namid

 

Lo vidi subito, quando scesi al fiume. Ero immersa nelle chiacchiere delle donne, ma non potevo esserne più lontana: Ayasha, come al solito, era l'unica che di tanto in tanto mi includeva nella conversazione. I miei occhi furono attirati dalla sua figura prima ancora di riconoscerlo bene. Era appoggiato al tronco di un albero, una gamba piegata all'indietro per sorreggersi, il capo reclinato per l'attesa e le forti mani strette sulle cosce.

Nei giorni precedenti era andato a caccia con Hevataneo (con scarsi risultati), perciò non l'avevo visto neanche di sfuggita: saltava in groppa a Tasunke che il sole non era ancora sorto e tornava che era già tramontato.

Istintivamente rilassai le mie membra e le mie labbra si schiusero in un sorriso spontaneo: tutto in lui urlava che era a disagio, e sapere che stava affrontando questo per me mi riempiva di tenerezza e di orgoglio.

Quando gli sfilammo davanti alzò la testa e il suo sguardo non si distaccò un attimo da me. Ebbi la forte sensazione di aver già vissuto quella scena, e in un certo senso era così: anche Avonaco mi aveva corteggiato a quel modo. Mi aveva guardata amorevolmente, ma io avevo accettato la sua compagnia più per quieto vivere che per un reale affetto; sapevo che era un giovane giusto, coraggioso e anche bello, ma l'amore per Russell aveva spazzato via ogni illusione che avevo avuto prima di incontrarlo.

E anche il suo sguardo era diverso: profondo, malizioso, possessivo. Mi sentivo bruciare dal suo desiderio e dalla sua potenza: sarebbe andato fino in fondo pur di avermi. Per alcuni versi Russell mi spaventava: sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male, ma due caratteri così impetuosi come i nostri non potevano portare altro che guai.

"Smettila di preoccuparti per il futuro Namid: vivi qui e adesso."

Perciò voltai il capo verso di lui e con un piccolo cenno lo invitai a seguirmi: il suo sorriso mi fece accapponare la pelle e scaldare il ventre. Mentre attingevo l'acqua, ormai dimentica di tutte quelle che mi stavano attorno, misi una cura particolare nel muovermi: volevo che lo sguardo di Russell rimanesse incollato su di me per tutto il tempo. Quando mi rialzai - dopo essermi strizzata l'orlo del vestito bagnato, sciacquato le braccia e rinfrescato il collo - notai con soddisfazione che il mio uomo mi osservava con un'espressione intontita e affascinata. Ripresi il cammino nel senso inverso e questa volta Russell mi affiancò:

-Sei una piccola strega, ragazzina!- mormorò a denti stretti, in inglese. Io sbattei le ciglia, con fare innocente:

-Perché?-

-Oh no, non puoi fare così!- gemette, alzando gli occhi al cielo -Non mentre non posso averti!-

-Ma io non sto facendo proprio nulla!- continuai, ridendo.

-Namid, basta.- Il suo sguardo si era fatto serio -Sto cercando di fare le cose nel modo giusto, per favore, non rendermi questa sceneggiata più difficile.-

-Hai ragione, scusa.- dissi, fissando i ciottoli del sentiero. -Di cosa vuoi parlare, allora? Abbiamo ancora un po' di tempo prima di arrivare al campo.-

-Vorrei saperne di più su cosa significhi essere tuo marito...- borbottò impacciato. Gli sfiorai delicatamente il braccio con le dita, mentre l'emozione rischiava di sopraffarmi. Richiamai alla mente tutte le nozioni che avevo sul matrimonio:

-L'uomo e la donna si promettono reciproca fedeltà: se la donna tradisce il marito lui può tagliarle una treccia. Due, se è particolarmente geloso.-

-Mmm, siete molto più tolleranti di noi sull'adulterio!- commentò -E se a tradire è l'uomo?-

-Dipende. La donna può anche decidere di lasciarlo.-

-Come?- Russell sembrava confuso -Ma non è un percorso lungo e difficile?-

-Cosa, separarsi? No, assolutamente. Devi capire che il matrimonio consiste semplicemente nell'andare a vivere insieme: la donna tiene in ordine la tenda e bada ai bambini, l'uomo va a caccia e le riporta pelli da conciare. Se quest'armonia dovesse venire meno, e la colpa fosse di lui, la moglie può a buon diritto buttarlo fuori dalla tepee.-

Russell si lasciò andare ad una mezza risata:

-Lo trovi divertente?- sbottai, piccata.

-Sto immaginando te che cerchi di buttarmi fuori da una tenda, ragazzina!- sghignazzò.

-Ne sarei capace!-

-Oh sì, certo...-

Nel frattempo eravamo arrivai ad una biforcazione del sentiero: sul lato destro ci aspettava Hevataneo con i cavalli già sellati, noi donne avremmo proseguito verso sinistra.

Al momento di separarmi da lui rimasi ferma, indecisa ed imbarazzata:

-Tornerai al fiume, domani?- chiesi poi, con un filo di voce. Russell salì in groppa a Tasunke e mi strizzò l'occhio:

-Puoi contarci piccola!-

 

P.O.V. Russell

 

Era da poco calata la sera e io mi avvicinai per la prima volta ai fuochi del villaggio. Solitamente infatti, quando Hevataneo tornava alla sua tenda, io accendevo un piccolo bivacco, consumavo la mia cena frugale e mi addormentavo sotto le stelle senza troppe lamentele. La solitudine non mi era mai pesata, anzi, trovavo estremamente rilassante assopirsi nel buio della notte circondato solo dal fruscio delle foglie.

Mi avvicinai al cerchio delle tepee sotto lo sguardo sospettoso di alcuni anziani; cercai comunque di non farmi intimidire e procedetti spedito verso la tenda di Waquini. Erano cinque giorni che seguivo Namid al fiume e mi sentivo finalmente pronto per il passo successivo. Ero quasi arrivato, quando quattro giovani guerrieri Cheyenne mi sbarrarono il passo; tra di loro c'era Kuckunniwi che mi squadrava quasi compiaciuto.

-Il lupo si è avvicinato al focolare...- mormorò malevolo, in modo che solo io potessi sentirlo.

-Spostatevi!- sbottai, brusco -Non ho tempo da perdere con voi!-

-Attento a come parli, uomo bianco!- ringhiò uno dei guerrieri, facendo un passo avanti con aria minacciosa. -Kuckunniwi ci ha detto che pretendi Namid in sposa dopo averla violentata, e come se non bastasse lo fai come se fossi uno di noi, e questo non possiamo permetterlo!-

-Chayton*!- tuonò Hevataneo, d'improvviso comparso accanto a me -Sai bene che Kuckunniwi arde di gelosia e di amore per la figlia di Waquini, non prestare ascolto alle parole del suo animo ferito!-

"Però!" pensai "Oltre all'allegria di un bambino, Hevataneo possiede anche la lingua di un poeta!"

L'indiano che rispondeva al nome di Chayton tentennò ed Hevataneo sorrise, riprendendo a parlare, stavolta rivolto all'intera tribù:

-Russell Colt Walker è un uomo bianco, sì, è vero. Ma è l'uomo bianco più coraggioso che abbia mai conosciuto, amici: era prigioniero, e ha combattuto con me contro i lupi. Fianco a fianco, come fratelli.-

I suoi occhi nocciola si fissarono nei miei, ardenti e fiduciosi. Io ricambiai lo sguardo con pari intensità e ringraziai silenziosamente il Cielo di avermi fatto incrociare la sua strada: sarebbe stato tutto più difficile senza di lui. I componenti della tribù si erano intanto avvicinati, incuriositi da quella parte della storia che nessuno aveva ancora raccontato:

-Era buio e i lupi erano molti e affamati, lui invece era ferito e stanco e aveva pochi colpi nella pistola. Eppure, pur di proteggere la donna che ama, non ha esitato a lanciarsi contro le belve e anche... A salvarmi la vita. Per questo vi dico che Russell Walker non è un nemico della tribù: farebbe di tutto per le persone a cui tiene, non l'avete forse visto con i vostri occhi? Non avete visto come anche Tasunke l'ha accettato come compagno? Allora lasciate cadere le ostilità, amici. Chayton, ragazzi: io vi chiedo di lasciarlo passare, perché vuole solo dividere la coperta con Namid, se lei lo accetterà, come è giusto. Ma se non lo farete, beh, allora dovrete mettervi anche contro di me.-

Lentamente e senza emettere un suono, i guerrieri si spostarono ed io potei avanzare; lanciai un'occhiata a Kuckunniwi, livido di rabbia, ma abbastanza saggio da restare in silenzio dopo le parole di Hevataneo. Mi fermai titubante davanti a Waquini, un indiano leggermente in sovrappeso e molto vecchio: i capelli erano completamente grigi e diverse rughe gli solcavano il volto. Mi chiesi perplesso come potesse Otoahhastis considerarlo ancora buono per combattere. Il padre di Namid continuava a fissarmi con espressione indecifrabile, perciò tossii e dissi:

-Ecco...Io...- A pochi passi da me, quella maledetta ragazzina trattenne a stento una risata. -Volevo... Com'è che dite voi? Dividere la... Coperta con Namid, certo, è ovvio. Se per te va bene.-

Waquini si voltò verso Namid, come a rivolgerle una muta domanda.

-Ah, sì, anche se per te va bene, Namid!- aggiunsi, a mezza voce. La ragazza prese il suo tempo per rispondermi e proprio quando pensavo al peggio si risolse ad aprire le braccia e a sorridere:

-Per me va bene, padre, lascialo pure passare.-

Tirai un sospiro di sollievo e mi sedetti accanto a lei.

-Questa me la paghi, ragazza!- borbottai, mentre mi infilavo sotto la pesante coperta che avrebbe tenuto al caldo entrambi per tutta la sera. Ma quando Namid poggiò la testa nell'incavo del mio collo ogni fastidio scomparve: c'eravamo solo noi e il fuoco che crepitava lanciando scintille nell'aria.

 

*"falcone"

 

 

Angolo Autrice:

Ed ecco, in breve, il corteggiamento Cheyenne!

Mi dilungherei anche a parlarne di più con voi ma ho avuto una giornata da cancellare e il computer ha addirittura disinstallato i programmi… Ho salvato i files per miracolo :(

Spero comunque che non ci siano troppi errori e che questo capitolo vi piaccia, anche perché sancisce la definitiva accettazione di Russell nella tribù… O quai xD

Vedremo, anche il prossimo capitolo riserva una piccola sorpresa :)

Alla prossima

 

Crilu 

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Capitolo 15
*** The totem ***




Tasunke si fermò sbuffando vicino al corpo del piccolo bisonte che avevo appena abbattuto ed io scivolai a terra soddisfatto. Il rumore della mandria che correva spaventata verso sud era sempre più lontano e i bisonti erano diventati un'unica macchia indistinta all'orizzonte.
Avevo fatto progressi nel tiro con l'arco, sebbene non fosse equiparabile al mio talento con la pistola. Pensai alla mia Colt con affetto, nostalgia e anche una punta di preoccupazione: non avevo idea di dove gli indiani l'avessero messa e se maneggiassero con cura la sacchetta di polvere da sparo. Ero anche infastidito dal fatto che nonostante l'atmosfera tra me e i nativi si fosse fatta più distesa dopo il discorso di Hevataneo, a nessuno era venuto in mente di riconsegnarmi la mia arma. Non perché avessi intenzione di usarla, ben inteso: era solo che mi sentivo quasi nudo senza di lei.
Mi stavo abituando alle giornate con i Cheyenne e la mia vita alla ferrovia era diventata un sogno ovattato e lontano: credevo veramente che avrei potuto vivere nelle praterie con quella gente tutto il resto della mia vita. Del resto, quella era la casa di Namid e io non potevo separarla da suo padre, anche se lui si rifiutava ancora di rivolgermi la parola dopo un mese di conoscenza.
Certo, qualche volta i progressi della scienza mi mancavano e mi sentivo a disagio nei panni in pelle di bisonte degli indiani...
Fui raggiunto da Hevataneo e altri cacciatori al galoppo.
-Bella preda, uomo bianco!- si congratulò Bidziil*, beccandosi un'occhiata astiosa da parte di Kuckunniwi. Io abbozzai un sorriso e mi preparai ad aiutarli per fare a pezzi l'animale, ma i miei compagni si bloccarono, fissando qualcosa dietro di me. Perplesso, mi voltai e vidi uno strano individuo muoversi a scatti ai margini della foresta.
Aveva il corpo interamente dipinto con varie misture colorate e un copricapo di piume di uccelli gli copriva la testa e buona parte della schiena: indossava solo una pelliccia di lupo malamente annodata attorno alla vita e al busto e mi chiesi come facesse a non sentire il freddo pungente di fine autunno. Agitava scompostamente le braccia e le gambe, gridando frasi incomprensibili in una lingua che - avrei potuto giurarlo - non era quella Cheyenne. Eppure i giovani della tribù sembravano conoscerlo bene, perché quando si avvicinò gli fecero spazio, chinando il capo con rispetto.
Da vicino mi accorsi che l'uomo era molto vecchio: i radi ciuffi di capelli che spuntavano sotto le piume erano bianchi e sotto la pittura la pelle era grinzosa e secca. Gli occhi erano davvero inquietanti: neri come la pece, due pozzi senza fondo che mi misero in agitazione, perché sembrava quasi che volessero risucchiare il mio animo. Solo in un secondo momento mi resi conto che puntavano due direzioni diverse: per essere precisi, il destro rimaneva fisso su di noi, mentre la pupilla sinistra schizzava da tutte le parti come dotata di vita propria.
Hevataneo si avvicinò e bisbigliò al mio orecchio:
-Il vecchio Chuchip** vive solo e si fa vedere raramente: probabilmente ha sentito la tua presenza e si è avvicinato per questo.-
-Ha sentito la mia presenza?- chiesi, iniziando a capire.
-Sì. Chuchip è stato toccato da giovane dal Grande Spirito, che gli ha donato una sapienza al di sopra delle comuni menti degli uomini e un comportamento che noi non capiamo, ma che cela una grande saggezza!-
-Insomma, è pazzo.- mormorai tra me e me. Chuchip mi squadrò intensamente e sebbene fossi certo che non poteva capire l'inglese, fui sfiorato dal dubbio che mi avesse sentito e compreso. E che fosse rimasto molto offeso dalle mie parole.
Sbraitò qualcosa talmente veloce che non riuscii ad afferrarne  il significato ed Hevataneo sussultò:
-Vuole parlare da solo con te, uomo bianco...- mormorò Chayton, sbalordito e anche un po' invidioso. Hevataneo mi prese per un braccio mentre io accennavo a seguire il vecchio Cheyenne matto:
-Chuchip non dice e non fa mai cose a caso, anche se lo possono sembrare. Rispettalo e non contraddirlo. Soprattutto, serba il suo insegnamento per te: sarai tu a doverne fare buon uso, anche se non so ancora quando.-
Annuii e con un fischio imposi a Tasunke di affiancarmi mentre mi inoltravo nel boschetto.
Chuchip continuò a camminare senza voltarsi, saltellando da un sasso all'altro con le sue gambe lunghe e scheletriche, borbottando nel chinarsi a raccogliere foglie e pietre che per me non avevano nulla di speciale.
"Ma cosa vuole da me questo vecchio?" mi chiesi, confuso.
Finalmente arrivammo davanti ad una capanna costruita con legno, pelli e fango essiccato: non sembrava molto solida e i vari utensili ed erbe sparse nei dintorni contribuivano a dare alla radura un aspetto abbandonato e quasi sinistro.
Il vecchio pazzo si girò di scatto verso di me e a gesti mi fece segno di sedermi su una stuoia di fronte all'entrata della capanna; obbedii, e per poco non mi venne un colpo quando vidi un serpente strisciare fuori dall'abitazione del vecchio ed avvicinarsi sibilante a lui. Ignorando il mio scatto e le mie imprecazioni, Chuchip sorrise e si chinò vicino all'animale, permettendogli di salire sul suo braccio e avvolgersi intorno ad esso come se fosse un viticcio di legno. Lo fissai allibito mentre, sempre con la serpe addosso, si adoperava per sistemare davanti a Tasunke un fascio di erba fresca, per poi sedersi a gambe incrociate davanti a me. Di nuovo i suoi occhi cercarono di scandagliarmi l'anima e la mia schiena fu percorsa da un brivido.
-Benvenuto, Enapay.- esclamò infine, tendendomi uno strumento sottile, simile alle nostre pipe. L'avevo visto usare al campo da alcuni anziani, ma non avevo la minima idea di cosa fosse.
Esitai a prenderlo, ma rammentai l'avvertimento di Hevataneo e me lo poggiai in grembo. Chuchip annuì compiaciuto e continuò, accarezzando la testa del serpente:
-Qualche giorno fa gli animali mi hanno parlato di te e ho pensato che fosse ora di conoscere l'uomo bianco che non ha esitato a diventare Cheyenne per amore.-
"Questo è messo ancora peggio di quanto credessi alla prima occhiata!" pensai, ma non lasciai trasparire nulla del mio scetticismo.
-Devo dire che sono molto compiaciuto da te: non ho dubbi che riuscirai a condurre Namid in salvo attraverso i pericoli che vi aspettano. E non credere che io parli solo dei vostri nemici, ma anche, e soprattutto, di cosa si nasconde dentro i vostri cuori. C'è qualcosa di rotto sia nella tua anima, sia in quella della tua donna, Enapay.-
-Namid sta bene, ora.- ringhiai, con il battito accelerato da quelle frasi oscure -E il mio nome è...-
-Russell Walker. Sì lo so, ma per me sei Enapay.- ribatté il vecchio, senza scomporsi.
-Perché? Cosa significa? E cosa vuoi da me?-
-Voglio farti un regalo prezioso, qualcosa che ti sarà d'aiuto per continuare il tuo cammino. Ed Enapay, nella tua lingua, significa "colui che non ha paura".-
"Allora non mi ero sbagliato: comprende l'inglese!"
-Ma è assurdo. Senti, vecchio, io ho visto cose che tu e i tuoi animali non potete neanche immaginare, impegnati a saltellare in questa pacifica foresta. E ti assicuro che ho avuto una paura fottuta, mentre combattevo: è normale, nonostante le chiacchiere che ci raccontiamo ognuno ha paura di fronte alla morte.-
Potevo avvertire il biasimo di Hevataneo per quelle parole irrispettose, ma Chuchip non se la prese, anzi, si lasciò andare ad una mezza risata:
-Sì, bravo Enapay, tutti sono spaventati da qualcosa. Ma c'è paura e paura e tu, quando si tratta di lottare, amare o sopravvivere, non ne hai. Me lo dicono i tuoi occhi e il dolore della tua schiena. Per questo sei un uomo raro, sia tra i bianchi che tra i Cheyenne.-  
Rimasi muto e paralizzato dalla verità che il vecchio aveva appena esternato.
-Adesso ascoltami e fuma il calumet senza protestare.-
-Cosa c'è dentro?-
-Qualcosa che ti aiuterà a raggiungere il tuo totem.-
-Il mio che?-
-Il tuo spirito guida. Forza, su!-
Obbedii, incerto e frastornato. Quasi subito iniziai ad avvertire una sensazione di sonnolenza e leggerezza e nonostante mi sforzassi sentivo il mio capo ciondolare sul petto.
-Non contrastarlo, assecondalo!- tuonò la voce di Chuchip, più vicina che mai -Fra poco incontrerai la guida che ti porterà nel tuo luogo interiore. Qui incontrerai vari animali: quello che non ti mostrerà le zanne, ma anzi, che ti si avvicinerà, sarà il tuo totem.-
 
Chiusi gli occhi e mi ritrovai all'imbocco di una caverna: davanti a me, nel buio, scintillava una stella luminosa. Seguendo la sua scia attraverso dei cunicoli scavati nella terra, mi ritrovai in un bosco simile a quello in cui viveva Chuchip. C'era un ruscello d'acqua limpida e una leggera brezza che faceva frusciare i rami degli alberi: sembrava tutto estremamente reale. Mi guardai intorno, ma la luce che mi aveva condotto fin lì era sparita. Iniziai a camminare lungo un sentiero e mi concentrai sulle ultime parole del vecchio... Vidi un falcone appollaiato a pochi passi da me, ma quando provai a toccarlo aprì le ali e volò via gridando. Una volpe, appostata poco più avanti, ringhiò e tentò di azzannarmi. Continuavo a camminare e il paesaggio mi sembrava sempre uguale, perciò iniziai a preoccuparmi.
"Dove sono realmente? Come faccio a svegliarmi?"
Un rumore di piante spezzate e un grugnito mi fecero voltare verso sinistra, dove un immenso orso bruno sostava pigramente seduto in mezzo alle frasche. Non cercò di aggredirmi, ma io fui attraversato da un brivido nel ricordare il mio precedente incontro con quell'animale.
"No, non può essere." Invece l'orso si alzò in piedi e si avvicinò, spingendo in avanti il naso nero ed umido per fiutare il mio odore. I suoi occhi piccoli e tondi si fissarono nei miei, poi mi superò, sfiorandomi il fianco, e si diresse verso una grotta che prima non avevo notato. Lo seguii e mi ritrovai in un ambiente caldo e accogliente, dove, stranamente, mi sentivo tranquillo e riposato. L'orso si accoccolò nel punto più lontano dall'entrata e dopo avermi squadrato un'ultima volta poggiò la grossa testa sulle zampe e si addormentò.
 
Aprii gli occhi di scatto e la luce del sole che filtrava attraverso gli alberi mi ferì. Chuchip era sopra di me, l'espressione impassibile:
-Cosa hai visto?-
Gli raccontai la mia visione e il vecchio sorrise:
-Lo immaginavo, anzi, ne ero quasi certo.-
-Come?- balbettai, ancora insonnolito.
-Vedi, Enapay, io credevo che tu avessi già incontrato il tuo totem, ma non ne ero del tutto sicuro. Ecco, ora ti spiego: tu hai sperimentato sulla tua pelle i due insegnamenti dell'orso, che dovrai custodire per tutta la vita. Da un lato, esso è la ferocia, la furia cieca che a volte si impossessa anche di te, oscurandoti la mente e rendendoti una belva pronta ad uccidere: non è possibile controllarla né fermarla, poiché viene scatenata da qualcosa che ti ha ferito o spaventato. Forse credi che avresti potuto fare a meno di quest'esperienza, ma ragiona: se l'orso non ti avesse aggredito, avresti mai ritrovato Namid?-
Mi toccai con una smorfia il torace, dove la zampata dell'orso aveva lasciato tre profondi solchi: sì, l'avevo decisamente sperimentato sulla mia pelle.
-Dall'altro, l'orso è l'animale che per eccellenza ricerca un rifugio durante l'inverno, dove riposarsi e leccarsi le ferite. E' bene che tu tragga il massimo insegnamento da ciò: non andare avanti fino allo stremo, quando non avrai più forze per far fronte ai problemi...-
-Mi dispiace, ma non mi sembra un comportamento adatto a me!- borbottai, alzandomi nonostante mi girasse ancora la testa -Io sono fatto per agire, non per restare fermo a meditare!-
Accarezzai il collo di Tasunke e procedetti spedito fuori dalla radura, deciso a raggiungere gli altri e a tornare al campo, ma la voce di Chuchip mi raggiunse lo stesso:
-Non è una cosa che puoi scegliere, Enapay, ci sei già dentro fino al collo. Sfrutta bene questa pausa di tranquillità per fare ordine dentro di te: il tempo che ti è stato concesso sta finendo.-
Tornai alla tribù da solo, con la testa ancora confusa dallo strano incontro. Nonostante le insistenze dei vari uomini, mi risolsi a seguire il consiglio di Hevataneo. Non raccontai nulla di ciò che mi aveva svelato Chuchip, neanche a Namid: mi limitai a descrivere la sua strana capanna e il nome che mi aveva affibbiato. Fu così che, da quel giorno, i nativi presero a chiamarmi Enapay.  
 
 
*"egli è un duro"
** "spirito del cervo"
 
Angolo Autrice:
E con questo capitolo si chiude la parentesi sulla cultura Cheyenne: spero di non aver tralasciato nulla di importante nel tratteggiare questo popolo ormai scomparso… Ma che rispettava davvero molto i “matti”, come li definiamo noi: li ritenevano uomini in grado di comunicare direttamente con gli spiriti, scavalcando anche i poteri degli sciamani. Era una visione comune a molte civiltà antiche, soprattutto quelle dalla struttura più semplice. Nel calumet, utilizzato per importanti celebrazioni, venivano generalmente bruciate salvia e graminacee, perciò è probabile che Chuchip abbia aggiunto qualche… Ehm.. ”Sostanza speciale” per favorire la visione di Russell (a proposito: non me la sono inventata, è una tecnica di meditazione che dovrebbe indicare il totem che gli indiani credevano vegliasse su ogni individuo.. Provateci se vi va xD )
Come ha detto il vecchio Cheyenne, il tempo che Russell ha per ragionare sulla sua posizione è agli sgoccioli: cosa succederà?
 
Crilu 

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Capitolo 16
*** The warning ***




P.O.V. Namid

 
Sembrava andare tutto per il meglio, eppure io non riuscivo ad essere completamente felice. La tribù era finalmente scesa a patti con la presenza di Russell, lui si era integrato (quasi) alla perfezione e anche mio padre, solitamente taciturno e chiuso in sé stesso, ultimamente aveva ripreso a discorrere con me del possibile matrimonio. Ayasha fantasticava già sul mio futuro con l'uomo bianco, ma le sue parole, invece di rallegrarmi, mi riempivano il cuore di ansia e di angoscia: mi sembrava di fare un torto a Russell nell'immaginarmi appagata davanti alla tepee, ad accudire i nostri bambini e il nostro focolare e a mormorare preghiere al posteriore di Tasunke*.
"Lui non è come te. Lui non è come te." ripeteva ossessivamente una voce nella mia testa. Una voce che, fin dall'infanzia, avevo associato al volto di mia madre. Socchiudendo gli occhi riuscivo ancora a vederla nitidamente: i capelli di un biondo così chiaro da sembrare quasi bianco, il volto perennemente arrossato dal sole delle pianure, gli occhi blu e profondi identici ai miei. Aveva un profilo da perfetta donna bianca, il naso all'insù, labbra carnose e una vita sottile. Ho sentito raccontare che fu per questo che la mia nascita fu difficile e straziante per lei, tanto da spezzare definitivamente il suo carattere fragile. L'unico colpo di testa che fece mia madre in tutta la sua vita fu tentare di portarmi via dalla tribù... Non seppi mai spiegarmi perché, visto che poi era stata pronta ad abbandonarmi senza remore pur di riconquistare la libertà. Dopo aver vissuto con Russell lungo la ferrovia avevo compreso che per Elizabeth Cox sarei stata solo un peso nella società dei bianchi; temevo che se un giorno i miei figli avessero dovuto integrarsi nel mondo di loro padre avrebbero pagato caro la loro ascendenza mista. Forse avevano ragione le donne del campo, forse c'era davvero qualcosa che non andava in me: ero sempre pronta a scattare, ad andarmene, a tentare una nuova strada... Sembrava che per me non ci fosse un luogo in cui potessi fermarmi, neanche con Russell.
Più mi sforzavo di scacciare i brutti pensieri, più loro mi attanagliavano e quando un giorno, all'incirca due settimane dopo l'incontro di Russell con Chuchip, mi svegliai con l'acchiappasogni che sibilava furioso sull'entrata della tepee, capii che qualcosa stava per succedere e che dovevo essere pronta.
La mattina dopo mi svegliai che il campo era ancora immerso nell'oscurità. Scivolai attentamente oltre il corpo addormentato di mio padre e mi diressi con piccoli passi veloci verso la grande tenda di Otoahhastis: come pensavo, anche il capo-tribù e la sua famiglia stavano dormendo serenamente.
Attenta a non fare il minimo rumore - spiegare la mia presenza lì sarebbe stato quantomeno imbarazzante - arrivai fino al punto in cui era adagiata la Colt del mio uomo; in fretta controllai che nella fondina ci fossero sia proiettili che polvere e mi affrettai ad uscire dalla tepee.
La brezza fresca del mattino mi accompagnò nella mia corsa verso il punto in cui era solito bivaccare Russell. Per tutto il tragitto avevo stretto l'arma al petto fino a farmi sbiancare le nocche, pungolata dall'orribile sensazione di essere spiata. Mi voltai anche un paio di volte, ma il sentiero era deserto.
Anche Russell era già in piedi e stava spegnendo i resti del fuoco che lo aveva tenuto al caldo durante la notte; alzò gli occhi sorpreso quando mi sentì arrivare. Mi fermai ansante accanto a lui che scattò in piedi allarmato:
-Namid! Cosa ci fai qui a quest'ora? Cosa è successo?-
I suoi occhi verdi si fecero torbidi quando videro la Colt:
-Cox, che cosa hai combinato?- mormorò, passandosi una mano tra i capelli che in quel periodo si erano allungati fino a raggiungere le spalle.
-Prendi la pistola, Russell, e non chiedere perché. Penserò io a parlare con Otoahhastis...-
-Ho il coltello e l'arco con me, Namid: la pistola ha per me solo un valore affettivo ormai. Non vorrai nuovamente inimicarmi i tuoi compagni con questo furto, no?-
-Il furto è stato compiuto ai tuoi danni... Prendila, ti dico! C'è qualcosa di strano nell'aria, io le sento queste cose e non sbaglio quasi mai! Anche prima, mentre venivo qui, avevo l'impressione di essere seguita...-
-Non dire sciocchezze Namid, qui ci siamo solo io e te.-
-E invece ti sbagli, Colt!- esclamò una voce dietro le nostre spalle. Mi voltai e il mio corpo si tese in un fremito:
-Lee! Abraham!- disse Russell, sbigottito -Cosa ci fate voi qui?-
 
P.O.V. Russell
 
I miei amici si liberarono delle ultime foglie che erano rimaste impigliate nelle loro casacche.
-Siamo venuti in avanscoperta, Colt, per vedere se in qualche modo eri ancora vivo. Eravamo sicuri che la ragazzina, qui, non ti avrebbe mollato così facilmente!- ridacchiò Abraham, strizzando l'occhio a Namid. Lee, invece, aveva la faccia scura.
-Diamine, Walker, cosa ti passa per quella testa bacata? Perché non sei tornato al campo? Dodge pensa che tu sia morto e sepolto e in tuo nome ha costituito un piccolo battaglione di tagliagole e mercenari per abbattere gli indiani! Stanno arrivando qui!-
Vidi Namid sbiancare e aggrapparsi al mio braccio con disperazione:
-Che facciamo, Russell?- balbettò, terrorizzata.
-Quanto sono distanti da qui, Lee?- chiesi, la voce ferma che non tradiva nulla del contrasto lacerante che provavo. Da una parte c'era il senso di colpa nei confronti dei Cheyenne, perché in fondo era anche un po' colpa mia se un drappello di delinquenti era pronto per massacrarli; dall'altra, rivedere le due facce familiari di Lee e di Abraham aveva acuito la nostalgia per il mio mondo. 
Morris si asciugò il sudore dalla fronte, riflettendo:
-Noi li abbiamo distaccati due giorni fa, con la scusa di studiare la situazione, ma sicuramente non avranno aspettato il nostro ritorno per procedere.-
-Noi però siamo stati fortunati!- intervenne Abe -Vi abbiamo trovato senza difficoltà, non è certo che anche Dodge individui la tribù così in fretta!-
-Sarebbero disposti a trattare?-
L’ex-schiavo chinò il capo, sconsolato:
-Non credo proprio, amico.-
-Bene, allora non resta altra soluzione che la fuga.- esclamai, dirigendomi a passo spedito verso il campo.
-I guerrieri non accetteranno mai una cosa del genere, Russell!- mi gridò dietro Namid, ma mi imposi di non ascoltarla, deciso ad evitare uno spargimento di sangue.
 
Purtroppo la mia donna aveva ragione: nessuno dei Cheyenne sembrò disposto ad ascoltarmi.
-Che vengano pure, gli uomini bianchi!- urlò Chayton, bellicoso -Non abbiamo paura di loro!-
-Li convinceremo a parlare con noi!- intervenne invece Otoahhastis, più pacato -Enapay è vivo e vegeto e da questo momento è libero di tornare dalla sua gente, se lo ritiene giusto. I visi pallidi non possono utilizzare questo pretesto per attaccarci.-
-Voi non capite!- ringhiai, scuotendo la testa frustrato -A loro non serve un pretesto, bastano le armi che portate in giro per accusarvi di aver attaccato il convoglio ferroviario dei rifornimenti. Otoahhastis, mi rivolgo a te perché sei saggio e sei responsabile dell'incolumità di questa gente: se restate qui sarà un massacro! Allontana almeno le donne e i bambini!-
Il capo tribù sembrò colpito dalle mie parole, ma fu allora che intervenne Kuckunniwi:
-Sembri ben informato, Enapay, ed è davvero curioso che gli amici che ti hanno avvertito del pericolo non si siano avvicinati al campo. Curioso, già!-
Sorrise e si voltò verso il resto dell'assemblea:
-Non vi pare strano che vogliano allontanarci dalla nostra terra? Secondo me è una trappola, secondo me l'uomo bianco è d'accordo con i suoi simili!-
-Oh, al diavolo!- sbottai, afferrandolo per il collo della tunica e sollevandolo qualche centimetro da terra: l'intera tribù rumoreggiò intimorita, ma nessuno intervenne per separarci.
-Ascoltami bene, Kuckunniwi: i miei amici sono tornati indietro a prendere tempo e ad organizzarsi con gli altri della mia squadra per darvi il tempo di scappare! Io non sono d'accordo con nessuno, maledizione, io non voglio uno scontro, non voglio Sand Creek! Io non voglio un'altra guerra da combattere, perché... Perché non saprei da che parte stare.- Ammisi, sconfitto.
Mi guardai attorno, studiando quei visi tesi e muti:  non ce l'avrei mai fatta a convincerli. Anche Hevataneo taceva, l'espressione per una volta triste. Perciò abbandonai l'assemblea con furia, vacillando solo davanti agli occhi pieni di lacrime di Namid:
-Russell...- balbettò -Io...-
-Va da tuo padre, Namid.- borbottai puntando lo sguardo dritto di fronte a me -Spendi bene il tempo che vi rimane.-
 
Osservavo il fuoco con occhi assenti, impegnato a mettere a tacere le varie voci che gridavano nella mia testa. Qualsiasi soluzione mi venisse in mente mi sembrava inaccettabile: non potevo combattere i miei stessi compatrioti, ma neanche trucidare il popolo della donna che amavo; scappare era da codardi, rimanere senza fare niente era anche peggio.
Mi presi la testa tra le mani e mi lasciai sfuggire un grido di disperazione.
-Namid...- dissi e sentii le lacrime che premevano per uscire dai miei occhi -Come faccio? Come faccio a salvarti?-
-Il modo di salvarla c'è.- mi rispose la voce di Waquini poco lontano. Uscì dall'ombra notturna, sedendosi accanto al mio bivacco.
-Quale?- chiesi, senza troppo interrogarmi sul perché quel vecchio scontroso che a malapena mi aveva rivolto la parola due o tre volte, all'improvviso mi fosse venuto a cercare. Era chiaro che l'attacco immediato aveva messo tutti alle strette.
-Non so se lo accetterai, uomo bianco. Fare ciò che ti sto per suggerire significa tradire non solo noi, ma anche te stesso.-
-Mi avete dato il nome di Enapay, giusto? Ebbene, parla: se c'è anche la minima possibilità di portare Namid via di qui sana e salva, la seguirò.-
-Sappiamo entrambi che i Cheyenne perderanno questa battaglia, ma il nostro onore ci impedisce di abbandonare così la nostra terra. Per andare dove, poi? No, no, meglio morire qui che peregrinare in eterno... Una volta Viho, il fratello di Otoahhastis, mi disse che invece Namid non apparteneva ai boschi, ai fiumi e a queste montagne come il resto della tribù. Sono certo che, con qualche difficoltà, saprebbe integrarsi nella tua società.-
Pensai ai suoi giorni alla ferrovia, la curiosità, la velocità con cui apprendeva le cose... Annuii, speranzoso.
-C'è un sentiero, nel bosco, che ad un certo punto curva verso Nord, aggirando la pianura.-
-Ci porterebbe dritti alla ferrovia!-
-Esatto. Non intervenire nella battaglia, Enapay: lascia credere a tutti che combatterai, ma al momento dello scontro vattene, prendi Tasunke e Namid e scappa. Arrivato dalla tua gente dirai che eri già partito da qualche giorno e che del gruppo di guerrieri bianchi non sapevi nulla.-
Meditai un attimo sulle parole: una morsa di angoscia mi attanagliava il petto al pensiero di lasciare Hevataneo, Ayasha e gli altri al loro destino, ma Namid era più importante ai miei occhi.
-Va bene, vecchio, accetto: seguirò il tuo piano.-
 
 
Angolo Autrice:
Per prima cosa vorrei specificare che l'acchiappasogni cui Namid fa riferimento nella cultura Cheyenne e Dakota non era inteso come una rete per trattenere gli incubi, appunto: in realtà stabiliva la professione di chi abitava la tenda, quindi, nel caso di Waquini, di un guerriero. Era comunque intriso di simbolismo e magia, perciò non credo di aver esagerato di molto, nel presentarlo come portatore di una notizia tanto funesta. Il riferimento alla preghiera pronunciata al posteriore del cavallo è un’usanza indiana che augurava buona caccia.
Con questo capitolo si chiude la parentesi sul mondo Cheyenne (beh, più o meno): Russell ha appreso tutto ciò che doveva apprendere e lui e Namid adesso dovranno imparare ad equilibrare i loro due mondi… Ma come si intuisce dagli attriti di questo capitolo, non sarà facile. Russell è pronto a tradire la fiducia del popolo che lo ha accolto?
Temo che per scoprirlo dovrete pazientare un po’: tra una settimana compio diciotto anni e tra la festa, l’ultimo anno di liceo e impegni vari le mie pubblicazioni saranno un po’ irregolari xD.
Alla prossima
 
Crilu

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Capitolo 17
*** The run ***




Fu difficile far credere agli indiani che avrei combattuto con loro: la diffidenza nei miei confronti era tornata quella dei primi giorni. Gli unici a credere in me erano Namid ed Hevataneo ed ogni volta che incrociavo i loro sguardi di incoraggiamento mi sentivo morire: avrei lasciato morire un mio amico per salvare la ragazza che probabilmente mi avrebbe odiato a vita.
Stavo scendendo a patti con l'idea che con l'arrivo del drappello di Dodge sarebbe cambiato tutto, anche tra me e Namid: non speravo più di poterla tenere con me, il suo carattere non avrebbe mai accettato il piano di suo padre e quindi neanche me che l'avevo assecondato.
L'avrei portata via da lì, lontana dal pericolo, e poi l'avrei lasciata andare.
Avevo già fatto i miei preparativi: avevo chiesto a Bidziil, che si occupava degli animali, di rimarcare le pitture sul manto di Tasunke in previsione dello scontro. Poteva sembrare una cosa stupida, ma guardare quei segni e pensare al buon augurio che rappresentavano mi calmava i nervi. Avevo nascosto nelle bisacce vicino al mio bivacco quante più provviste possibili, nella speranza che nessuno andasse a frugare lì dentro: sarebbe stato difficile spiegare come mai mi preparavo a fuggire.
Fuggire.
Dio, come aborrivo quel piano! Ma avevo promesso a Waquini che sua figlia sarebbe stata salva ed intendevo mantenere la mia parola.
Stavo giusto accarezzando il muso di Tasunke, quando Hevataneo mi si avvicinò: aveva perso del tutto la sua aria scherzosa da bambino, in quei giorni, e mi dispiaceva pensare che l'ultimo ricordo che avrei avuto di lui sarebbe stato triste e velato di vergogna.
-Devo chiederti un favore, Enapay!- iniziò con aria grave.
-Dimmi.-
-Tu sei l'unico che probabilmente sopravvivrà a questo scontro...-
-Non ne sarei così sicuro: sai, se combatto con voi sarò considerato un traditore e trattato come tale... E quindi giustiziato!-
-Ma noi sappiamo bene entrambi che tu non combatterai, amico mio.-
Mi voltai a guardarlo con gli occhi sbarrati: un mesto sorriso lasciava intravedere la sua dentatura candida.
-Ho seguito Waquini, l'altra notte, quando è venuto a parlarti. Mi sembrava strano che abbandonasse così la tepee dove Namid dormiva indisturbata... E ho sentito ciò che ti ha detto.-
-Hevataneo, io..-
-No!- mi interruppe, poggiandomi una mano sul braccio -Ti capisco. Non puoi combattere una guerra che non è tua, non è giusto. L'hai già fatto una volta e ti porti ancora dietro le cicatrici... No, fai bene ad andartene, non pensare a noi. Però ti devo chiedere un favore.-
-Va bene... Farò qualsiasi cosa tu mi chieda.- sospirai, tentando di far rallentare il battito del mio cuore. La tensione e l'ansia non mi davano tregua e temevo di non essere all'altezza dei compiti che mi venivano affidati.
-Ayasha è incinta: me lo ha rivelato due giorni fa. Ti prego, porta con te anche lei! So che potrebbe rallentare la tua fuga, ma salvala! Salva mio figlio!-
Rimasi sbalordito dalla sua rivelazione, ma mi ripresi in fretta:
-Non potrei mai lasciare tua moglie in mano a quei soldati. Veglierò su tuo figlio come se fosse il mio, te lo giuro.-
Le membra di Hevataneo si rilassarono un poco, ma la presa sul mio braccio si fece più forte, commossa:
-Grazie, Russell Walker. Morirò sereno, sapendo che la mia famiglia è in buone mani.-
Fece per andarsene, ma io lo fermai:
-Mi avete dato tanto e io invece vi ho portato solo guai. Accetta questo, in segno della mia gratitudine.-
Gli misi in mano la chiave che portavo al collo, quella che apriva la scatola dei miei ricordi: era il segno tangibile dell’uomo che non ero più. Hevataneo chiuse le dita sul minuscolo oggetto di ferro, sorrise e si avviò verso i compagni.  
 
Il drappello arrivò alle prime luci dell'alba: dalla mia postazione lo individuai subito e vidi che Otoahhastis, circondato dai guerrieri, andava incontro agli uomini bianchi per trattare. Non avevo tempo da perdere, dovevo agire prima che lo scontro iniziasse. Mi avvicinai alle tende ed ebbi un colpo di fortuna insperato: Ayasha e Namid sostavano insieme presso la tenda di quest'ultima, con aria preoccupata. Non potei fare a meno di notare che Ayasha si teneva le mani premute sul ventre. Le afferrai entrambe per un braccio, strappando loro dei sussulti spaventati:
-Presto!- sussurrai strattonandole -Non abbiamo tempo da perdere!-
-Russell, cosa stai facendo?- sibilò Namid, gli occhi stretti in una fessura furente.
-Vi porto via di qui.-
-No! Mai! Come puoi pensare che verremo con te?- strillò Ayasha indignata.
-Ordini di tuo marito!- sbottai, severo, premendole una mano sulla bocca -E di tuo padre!- aggiunsi, rivolgendomi alla mia donna.
-Dovevo saperlo che non avresti mai combattuto contro di loro!- mormorò Namid, chinando la testa. Forzai me stesso a non sfiorarle la guancia per raccogliere l'unica lacrima sfuggita dalle sue ciglia.
-Mi dispiace, non puoi chiedermi questo. Ci sono i miei amici là in mezzo... Sono sicuro che faranno il possibile per contenere i danni.-
-Anche Hevataneo è tuo amico. Non ti importa di lui?- singhiozzò Ayasha. Ormai eravamo arrivati al recinto dei cavalli e costrinsi le ragazze a salire in groppa ad una giumenta che se ricordavo bene rispondeva al nome di Saqui*. Una volta assicurati i due cavalli grazie ad una corda e dopo essere salito su Tasunke mi voltai a fronteggiare le donne:
-Mi importa molto di lui e mi sento un codardo ad andarmene in questo modo. Ma gli ho giurato che avrei protetto la sua famiglia ed è quello che farò: se vuoi salvare il tuo bambino devi seguirmi, non hai altra scelta, Ayasha!-
La donna indiana sbarrò gli occhi e voltò il capo verso le colline, da dove si udivano riecheggiare i primi spari: la speranza di pace di Otoahhastis era andata in fumo. Anche vicino alle tepee iniziava a serpeggiare una certa agitazione: le donne cercavano spaventate un riparo per i figli e gli anziani.
-Non possiamo più aspettare...- mormorai, addolorato - Andiamo!-
 
Cavalcammo ininterrottamente per tutto il giorno, seguendo la strada nascosta che mi aveva indicato Waquini. Ayasha piangeva sconsolata, ma sembrava aver accettato l'ultimo atto di amore di Hevataneo nei suoi confronti: evidentemente anche il suo istinto materno le suggeriva che restare con me era il miglior modo per salvare il bambino. La sua presenza era un sollievo e una preoccupazione insieme: averla salvata alleggeriva la mia coscienza, ma non sapevo che scusa inventarmi una volta arrivato al campo. La vita alla ferrovia sarebbe stata molto dura per lei, molto più che per Namid.
Namid, già. Namid che non mi aveva rivolto più la parola, che sfuggiva ogni mio sguardo, che si scansava al mio tocco. In parte la capivo, perché io stesso mi sentivo disonorato dal mio comportamento, però le sue accuse silenziose mi facevano infuriare.
Io, alla fine dei giochi, ero un uomo bianco e lo sarei sempre stato: ero nato e cresciuto in una società civilizzata molto più complessa di quella dei Cheyenne e nonostante mi fossi trovato bene tra loro - forse meglio di quando ero tra i miei simili - non facevo parte della tribù.
"Namid, amore mio, perché non riesci a capirlo?" pensavo tra me e me, ma evitavo con cura di lasciar trapelare la mia pena. Se la ragazza avesse deciso di andarsene, una volta fuori pericolo, non l'avrei fermata.
 
P.O.V. Namid
 
Appena scesa da cavallo mi sgranchii un po' le gambe, poi, approfittando del fatto che Russell stava badando a Saqui e a Tasunke, scattai e mi inoltrai di corsa nel bosco. A nulla valsero i richiami angosciati di Ayasha.
"Lei può anche tenere fede alla volontà di Hevataneo e seguire Russell per salvare il bambino che porta in grembo" pensai "Ma io no. Io non posso stare con un uomo del genere, nulla mi lega più a lui!"
Dopo un po' mi accorsi che l'uomo bianco non era dietro di me e mi fermai, ansante. Mi venne in mente il nostro primo incontro al chiaro di luna: nel buio non avevo potuto vederlo bene, ma ero rimasta incantata dai suoi occhi verdi che scintillavano di curiosità. Era stato quello sguardo a far sì che lo riconoscessi quando mi aveva catturato: d'istinto capii che tra tutti gli uomini bianchi lui non mi avrebbe fatto del male. Forse era stata questa mia istintiva fiducia nei suoi confronti a trascinarci lì, in quel bosco; forse, se si fosse trattato di un altro uomo bianco, avrei davvero cercato di scappare... Forse ci sarei anche riuscita. Forse sarei tornata alla tribù sana e salva da sola. E se così fosse stato sarebbero ancora tutti vivi, senza dover costringere Russell a scegliere da che parte stare. Ciò che gli avevo chiesto era ingiusto e disumano, ne ero consapevole, ma allora mi era parsa una decisione accettabile, quasi felice: stavamo bene alla tribù, insieme.
"Dovevi saperlo che non poteva durare!" mi rimproverai, vagando alla cieca tra gli alberi.
Ad un tratto mi fermai, folgorata da un pensiero: Russell non mi aveva seguita di proposito! Mi stava lasciando libera di decidere del mio destino, senza costringermi a seguirlo in un mondo che non mi apparteneva!
Valutai attentamente le alternative che avevo: il mio cuore mi spingeva verso quell'uomo che non aveva esitato a sacrificare tutto, anche il proprio onore, per me; la ragione, invece, rifiutava l'idea di lasciarmi il ricordo della mia vita Cheyenne alle spalle per sempre.
"Lui l'ha fatto per te!" mi ricordò una voce nella mia testa, maligna.
Sospirai: era vero, così come era vero il fatto che non avrei saputo che fare senza di lui. Le parole che gli avevo sussurrato quando avevamo fatto l'amore nella sua tenda erano ancora valide: il mio posto era accanto a lui, dovunque fosse diretto.
Perciò ripresi a correre in direzione contraria, verso lo spiazzo dove ci eravamo fermati: quando arrivai era già calata la notte e Ayasha dormiva profondamente accanto ad un piccolo fuoco. I cavalli erano legati ad un albero e pascolavano sferzando l'aria con le lunghe code, mentre Russell faceva la guardia dando le spalle al fuoco.
Alzò la testa di scatto sentendomi arrivare e la mano corse velocemente alla fondina; poi il suo viso si tese in una smorfia di puro stupore:
-Sei tornata!- esclamò, incredulo, alzandosi in piedi. Si fermò dopo pochi passi, incerto: leggevo nei suoi occhi la paura di vedere la sua speranza dissolversi.
Sorrisi timidamente ed annullai la distanza che ci separava... Ci muovemmo in simultanea, unendo le labbra nel bacio più lungo e profondo che ci fossimo mai scambiati. Russell fece scivolare le mani lungo tutto il mio corpo per poi risalire a sfiorarmi le guance:
-Volevo tanto che scegliessi me...- mormorò con voce spezzata -Ma non ho avuto il coraggio di chiedertelo.-
Poggiai la fronte contro il suo petto, lasciando libere le lacrime che per tutto il giorno erano rimaste segregate sotto la rabbia e l'impotenza.
-Brava, così, piangi... Piangi, bambina... Ti farà bene!- disse Russell, stringendomi più forte.
Sarei rimasta così anche tutta la vita.
 
 
*"favorita"
 
 
Angolo Autrice:
Ero in procinto di pubblicare ieri, poi però ho riletto il capitolo e mi dispiaceva condividere una storia così triste proprio nel giorno in cui compivo diciotto anni xD perciò lo faccio oggi, complice questo tempo deprimente… Però, almeno Namid, Russell e Ayasha si sono salvati. Resta da vedere dove li porterà la loro fuga e come faranno a reintegrarsi nel campo ferroviario…
Aspettatevi un ritorno della ferrovia in grande stile, perché ho in serbo dei personaggi nuovi che spero vi piaceranno!!!
A presto
 
Crilu 

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Capitolo 18
*** The training ***




L'alba del quinto giorno di cammino illuminò in lontananza la linea scintillante dei binari ferroviari. Avevo rallentato di molto la marcia nella speranza che il drappello fosse già rientrato: non sapevo chi facesse le veci di Dodge in quel momento al campo e non ci tenevo a scoprirlo.
Mi voltai verso Ayasha e Namid, che cavalcavano poco dietro di me:
-Siamo arrivati, ma state in guardia: non sarà facile convincere Dodge della mia innocenza.-
Quando arrivammo più vicini, gli uomini che avevano già iniziato il loro turno di lavoro lasciarono cadere i picconi, esterrefatti:
-Ma è Colt! E' tornato Colt!- udivo bisbigliare da tutte le parti. In breve si formò un nutrito gruppo di persone che seguiva la nostra placida marcia verso il vagone-alloggio del generale, posto sullo spiazzo centrale del campo della ferrovia. Riconobbi in quel mare di volti lucidi per il sudore i visi preoccupati dei miei amici: Lee, Abraham e Chuck, in particolare, mi sembravano furiosi, probabilmente non avendomi trovato al campo indiano avevano pensato al peggio.
Dodge arrivò in fretta, non appena avvertito del mio arrivo: solo un'aria leggermente sfatta e la benda che gli teneva il braccio sinistro fermo contro il petto segnalavano che era appena rientrato da un combattimento.
-Russell Walker!- esclamò, con un luccichio sorpreso negli occhi, mentre io smontavo dalla groppa di Tasunke. -Ti credevamo tutti morto.-
-Invece sono vivo e vegeto, e pronto a riprendere il mio lavoro!- risposi, ostentando una sicurezza che non avevo.
-E come mai porti i vestiti degli indiani?-
"Ecco, adesso arriva il bello!"
-I Cheyenne erano riusciti a prendere la ragazza, generale, ed io non appena li ho scoperti mi sono lanciato al loro inseguimento... Ma sono stato catturato. Per settimane ho aspettato, costretto ad adattarmi alla loro cultura e ad indossare questi abiti perché non avevo nient'altro con cui coprirmi. Sei giorni fa sono riuscito a recuperare la mia pistola, a rubare dei cavalli e a partire, portando con me queste donne.-
-Gran parte degli uomini che vedi intorno a te sono appena rientrati da una spedizione punitiva contro la tribù che ti ha catturato... Una spedizione di vendetta.- mormorò cupo il generale, scrutando attentamente Ayasha e Namid. Sembrava a disagio nel sostenere il loro sguardo insieme fiero e ferito; fui sfiorato dal pensiero che forse sterminare i coraggiosi Cheyenne non era stata una sua idea, ma l'ordine di qualcuno più potente, che vedeva nella ferrovia il pretesto perfetto per sbarazzarsi definitivamente di un popolo scomodo.
-Io non potevo saperlo, signore!- continuai, mentre rivoli di sudore ghiacciato mi scendevano lungo la schiena, causandomi impercettibili brividi. -Altrimenti state pure certo che vi avrei aspettato invece di tentare la fuga in questo modo!-
-Già, già...- borbottò Dodge, lo sguardo momentaneamente perso nel vuoto. Poi i suoi occhi tornarono su di me:
-Sei stato fortunato, Colt, davvero fortunato... Perciò ora io mi chiedo: come mai hai rubato due cavalli invece di uno, riportando al campo non solo la prigioniera fuggita, ma anche un altra squaw?-
Ayasha sussultò quando Namid le tradusse il significato di quelle parole e strinse più forte le braccia attorno al proprio corpo; vedere quelle due giovani donne accerchiate da uomini poco raccomandabili fece aumentare la velocità con cui il sangue scorreva nelle mie vene... Dovevo garantire un rifugio sicuro per Ayasha e suo figlio, lo dovevo ad Hevataneo!
-Perché si trovava lì quando sono andato a prendere Namid, non potevo lasciare che desse l'allarme!- replicai con finta noncuranza. -Non darà problemi, la conosco, è una ragazza tranquilla!-
-Ancora una domanda, Colt, poi ti lascio andare a riposare nella tua tenda: perché riportare la ragazza?-
Presi un respiro profondo e dopo aver lanciato una veloce occhiata a Namid alzai la voce per far sì che tutti quelli radunati intorno a noi mi sentissero bene:
-Perché è la mia donna.-
Dodge annuì, come a dire che aveva già compreso, e mi lasciò andare.
I ragazzi della squadra si congratularono con me con pesanti pacche sulle spalle e frasi ambigue che lasciavano capire come fossero a conoscenza della verità celata al generale e che allo stesso tempo non mi avrebbero tradito. Javier, in particolare, mi osservò procedere in mezzo alla folla con gli occhi sgranati: data la giovane età Dodge gli aveva impedito di partecipare al massacro dei Cheyenne e tirai un sospiro di sollievo per questo.
-Vi credevamo morto, signor Colt!- balbettò il ragazzo, ma il suo sguardo fu presto catturato da Namid, che mi aveva affiancato.
-Ciao, Javier!- mormorò la ragazza, con un sorriso stanco. Javier arrossì ed io mi persi a fantasticare di cavargli gli occhi… Ma poi scorsi da lontano anche il ghigno crudele di King e quella vista - oltre a farmi prudere le dita dalla voglia di conficcargli una pallottola nel cervello - mi ricordò di un'idea che avevo avuto la sera prima, mentre guardavo Namid dormire indisturbata accanto a me.
"Non credo che avrai possibilità di dormire sonni così tranquilli qui, ragazzina!"
Abe mi prese da parte, spalleggiato da Morris:
-Avvertirci del tuo piano campato in aria no, eh? Che gran figlio di buona donna!- sbottò il nero. La sua mole e la sua faccia arrabbiata spaventarono Ayasha, che scoppiò in lacrime per la tensione accumulata.
-Ma perché ti sei trascinato dietro anche questa femmina?- bofonchiò Lee, salutando Namid con un brusco cenno del capo -Sappi che non ce la beviamo la storia dell'ostaggio! Sarebbe stato facile metterla a tacere con un colpo alla testa ben assestato!-
-E' la moglie di un mio amico.- tagliai corto, ignorando le loro facce incredule -Ed è in stato interessante, non potevo certo lasciarla lì a morire! Ma Ayasha è un problema mio, non vostro, quindi tornate a lavoro prima che King utilizzi la vostra assenza come scusa per piantare grane!-
Abraham aggrottò la fronte:
-Avverto che stare in mezzo agli indiani ti ha cambiato, Russell: probabilmente in meglio, visto che cadere più in basso di come eri prima sarebbe stata la rovina, per uno come te. Staremo a vedere.-
Sbuffai infastidito e senza neanche degnarli di un saluto procedetti spedito verso la mia tenda.
 
-Allora, tutto chiaro?- chiesi, sondando con gli occhi le espressioni delle mie ospiti. Ayasha, nel vedere le tende, così simili in fondo alle familiari tepee, si era un po' tranquillizzata. Nonostante le avessero indirizzato insulti ed oscenità durante il tragitto, nessuno si sarebbe azzardato a toccare lei o Namid. O almeno così speravo.
Proprio perché non ero del tutto convinto del fatto che la mia Colt avrebbe tenuto lontani personaggi sgradevoli, fermai Namid prima che si recasse dall'impiegato di Dodge che registrava i nuovi dipendenti: aveva intenzione di riprendere il lavoro interrotto alla ferrovia, e io l'avevo assecondata. Così avrei potuto tenerla d'occhio ed evitarle una penosa convivenza forzata con le donne bianche che giravano al campo, che si dividevano in due categorie: prostitute e puritane. Non sapevo da quale delle due specie bisognasse guardarsi di più...
La ragazzina mi guardò spaesata, quando le mormorai all'orecchio:
-Vieni con me.-
-Perché mi hai portato qui?- chiese, non appena fummo giunti ad uno spiazzo ai limiti del campo. Le lanciai l'involto che mi ero portato dietro e vidi sorpresa e timore alternarsi sul suo viso mentre si rigirava tra le mani una pistola. Poi alzò i suoi occhi blu verso di me:
-Perché?- ripeté.
-Perché non voglio che tu e Ayasha dobbiate dipendere totalmente da me, in quanto a sicurezza. So che le vuoi bene come se fosse tua sorella e non voglio che accada nulla di male a nessuna di voi due, mai... Perciò, se io non fossi nelle vicinanze... O se qualcuno, un giorno o l'altro, mi fa fuori...-
-Non dirlo neanche per scherzo!-
-Poche chiacchiere, ragazzina! Quella è la tua migliore garanzia di restare viva in questo posto, perciò adesso imparerai ad usarla, volente o nolente!- ringhiai.
Le mostrai come ricaricare la polvere da sparo dalla canna e come impugnare l'arma per sparare:
-E' una Remington un po' malandata, non ci vuole molta forza per premere quel grilletto; però stai attenta che non ti partano colpi accidentali. Ecco, ti posizioni di fronte all'avversario, così...-
Mi accostai alle sue spalle e le corressi la posizione del braccio vicino al fianco: attorno a me avvertivo solo la fragranza della sua pelle e la delicata carezza dei suoi capelli che mi sfioravano le guance.
"Walker, concentrati! Se la ragazzina sbaglia la mira ammazza qualcuno!"
-Allora, lo vedi quel tocco di legno laggiù? Bene, quello è il tuo bersaglio: non è un uomo, ma meglio cominciare dalle cose che non si muovono!-
Namid mi lanciò un'occhiata in tralice, perplessa, ma fece come le avevo detto... E mancò di molto il bersaglio.
-Ancora!- esclamai, imperturbabile.
-Russell, è una perdita di tempo!-
-Fa come ti ho detto e basta! Almeno una volta, dannazione, dammi ascolto! Ecco, questi sono i proiettili: tu apri il tamburo, così, e ricarichi. Hai sei colpi di "autonomia", quindi se ti trovi invischiata in uno scontro a fuoco vedi di trovarti un riparo sicuro dove puoi nasconderti a ricaricare...-
La ragazza provò di nuovo a sparare e riuscì a scalfire il legno del ceppo che le avevo indicato come bersaglio.
-Bene, per oggi può bastare: non voglio lasciare Ayasha da sola troppo a lungo!-
-Russell, dimmi la verità: temi che ci possa davvero accadere qualcosa?- chiese Namid con voce incerta, mentre tornavamo alla tenda. Feci passare il mio braccio attorno alle sue spalle e l'attirai più vicina, in modo da poterle lasciare un bacio rassicurante sulla fronte:
-Non si può mai sapere... Molti mi temono, qui, ma ho anche diversi nemici. Sta' tranquilla, comunque: chiederò ai ragazzi della squadra di darmi una mano!-
-Sappiamo cavarcela da sole!- puntualizzò lei, soffiando l'aria dalle labbra come un gattino infuriato. La sua espressione seria ebbe il potere di farmi ridere di gusto, spensierato come non mi capitava da troppo tempo:
-Oh, lo so! Ma sarei sollevato se tu imparassi davvero ad usare quella pistola... E mi raccomando, fai in modo che nessuno venga a sapere della sua esistenza!-
-Perché? Dove l'hai trovata?- borbottò sospettosa. Io sogghignai:
-Me l'ha procurata John Lynch... Non hai idea di quanto sia estesa la rete degli irlandesi, qui al campo: se ti serve qualcosa, stai pur sicura che loro hanno il modo di fartela recapitare!-
-Immagino anche in maniere non del tutto pulite!-
Sorrisi, in parte felice del suo acume, in parte intristito dal fatto che il mio mondo l'avrebbe contaminata in fretta.
 
 
Angolo Autrice:
Russell, Namid ed Ayasha sembrano essere accettati bene al loro arrivo alla ferrovia, ma… Dodge sarà davvero stato convinto dalle parole di Colt? Scusate se il capitolo è un po’ di passaggio, mi serviva tempo per re-inserire i personaggi nel campo ferroviario prima di riprendere con la narrazione vera e propria.
Come sempre, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate e visto che è un po’ che non ve lo dico… Grazie di cuore a tutti voi lettori! :D
 
Crilu 

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Capitolo 19
*** The meeting ***




P.O.V. Namid
 
La mattina dopo fui svegliata da un rumore metallico e dalle imprecazioni soffocate di Russell. Sbattei le palpebre, ancora assonnata e ferita dalle lame di luce che penetravano dall'esterno della tenda: l'uomo stava raccogliendo la pistola che era caduta a terra con tutta la fondina, per poi fissarla alla propria cintura.
-Già pronto?- chiesi, sollevandomi a sedere e stropicciandomi gli occhi. Poco distante da me, Ayasha riposava ancora, avvolta in una calda coperta. Gli occhi verdi di Russell brillarono maliziosi nello scrutare la porzione di pelle lasciata scoperta dalla mia posizione: la sera prima si era infilato nel mio giaciglio quando stavo per cedere al sonno e incurante della ragazza che dormiva accanto a noi aveva iniziato a spogliarmi. Un brivido caldo mi scivolò lungo la schiena e sorrisi al ricordo di come avevo dovuto soffocare i miei gemiti mordendogli la spalla.
-Devo andare, non voglio litigare con King il primo giorno: ci vorrà un po' prima che tutti tornino ad abituarsi alla mia presenza senza essere diffidenti. Tu fai le cose con calma: l'arsura inizia a darci fastidio solo nelle ore più calde del giorno, quindi puoi riposare un altro po'.-
Annuii, chiedendomi cosa avrei potuto fare per ingannare il tempo. Russell si chinò a mordicchiarmi il lobo dell'orecchio un'ultima volta prima di andarsene:
-Ah, quando si sveglia puoi chiedere ad Ayasha di badare a Saqui e a Tasunke? Sono legati qui fuori. Forse avere qualcosa da fare le risolleverà un po' lo spirito!-
Voltai il capo verso la mia amica, che non accennava a svegliarsi: aveva un'espressione serena, forse sognava la tribù ed Hevataneo, perciò decisi che non avrei interrotto la sua illusione.
Mi infilai la mia solita tunica ed uscii fuori dalla tenda, rabbrividendo per l'aria fredda del mattino: presto sarebbero arrivate le prime nevicate e non dubitavo che il lavoro degli uomini bianchi si sarebbe fatto molto più difficile. Intravidi delle donne che trasportavano ceste di panni verso i margini del campo: dal loro abbigliamento provocante intuii che fossero le prostitute di cui mi aveva parlato Russell. Sospirai: provavo pena per loro e non avevo alcuna intenzione di avvicinarmi, ma se volevo avere qualche speranza di integrarmi in quella strana società dovevo legare con qualcuno. Eccetto i compagni di squadra di Walker, infatti, non conoscevo nessuno in quel campo e la cosa avrebbe potuto rivelarsi pericolosa.
Decisi perciò di impiegare le mie ore libere ad esplorare i dintorni della nostra tenda, senza allontanarmi troppo: Ayasha si sarebbe allarmata oltre misura se non mi avesse trovata da nessuna parte, al risveglio. Non potevo certo immaginare che quella giornata mi avrebbe offerto subito quei contatti di cui avevo bisogno.
Mi imbattei infatti in una tenda enorme, simile a quella di Otoahhastis: poteva contenere un gran numero di persone e davanti ad essa c'era un palo verticale su cui era stata inchiodata un'altra asse all'altezza dei miei occhi. Girai intorno a quello che credevo fosse un simbolo di qualche genere, affascinata: non avevo proprio idea di cosa potesse significare. A risolvere i miei dubbi fu una voce dall'interno della grande tenda:
-E' una croce. Il simbolo di Nostro Signore Gesù Cristo.-
Mi voltai ed incrociai lo sguardo di una ragazza più o meno della mia età: non dimostrava più di diciassette primavere, mentre io stavo per entrare nella ventunesima. Aveva due occhi neri e ravvicinati, labbra sottili e un incarnato pallido che sbatteva un poco con il colore scuro degli occhi e dei capelli, raccolti dietro la nuca in una crocchia severa. Indossava un abito nero e sobrio chiuso fino al collo: sembrava di buona fattura, ma i gomiti delle maniche erano lisi e l'orlo della gonna sembrava essere stato ricucito più volte.
-Non ho capito ciò che hai detto.- ammisi, francamente. La ragazza sorrise con benevolenza:
-Lo immaginavo, voi nativi non conoscete il Verbo, ma se vuoi sarò felice di insegnartelo. Sei la ragazza indiana di Colt?-
Annuii:
-Sì, il mio nome è Namid... Cox. Namid Cox.-
Sorpresi me per prima adottando il cognome di mia madre, ma mi dissi che se avessi voluto farmi strada tra gli uomini bianchi, essere una mezzosangue era decisamente meglio che essere un indiana Cheyenne.
La ragazza assentì col capo, facendo un passo verso di me:
-Io invece mi chiamo Annabeth e sono la figlia del pastore.-
-Pastore?- ripetei, confusa, assimilando il suono di quella nuova parola.
-Sì, padre Andrew è il pastore di questa comunità. E' colui che guida le anime di questa povera gente alla luce del Signore.-
-Chi è questo... Signore?-
-Il nostro Dio. Voi credete negli spiriti, noi nel Signore, che si è rivelato a noi molti secoli fa attraverso suo Figlio... E' questa la differenza tra le nostre religioni, che noi abbiamo la sua Parola scritta sui nostri libri, perciò sappiamo con certezza della sua esistenza.-
-Anche i nostri sacerdoti ascoltano la parola degli spiriti, ma nessuno di noi ha mai pensato che dovesse essere messa per iscritto!- replicai, lanciando un'occhiata curiosa all'oggetto che Annabeth teneva stretto al petto: era ciò che gli uomini bianchi chiamavano "libro". La ragazza sorrise di nuovo, cogliendo la direzione del mio sguardo:
-Tu non sai leggere, vero?-
Scossi la testa, quasi imbarazzata, e lei rifletté per un momento, prima di esclamare:
-Mi sembri una ragazza simpatica, perciò ecco cosa ti consiglio di fare: adesso ho poco tempo, devo raggiungere mio padre che si sta occupando degli ammalati del campo, e non posso fermarmi a parlare con te. Ma se torni qui uno di questi giorni ti potrei parlare della nostra religione e, perché no, anche insegnarti a leggere e a scrivere! Lo sanno fare in pochi, qui al campo, ed io mi sento sola, a non poterne parlare con nessuno...-
-Va bene, perché no?- risposi sorridendo. Annabeth mi fece un ultimo cenno col capo, prima di avviarsi in fretta verso la sua meta, senza perdere mai la sua aria composta: in breve sparì in mezzo alle tende.
 
Mi asciugai il sudore dalla fronte, mentre un uomo mi lanciava un grido per ottenere la mia attenzione. Mi avvicinai e presi le borracce vuote dei quattro uomini che stavano sorreggendo una pesante sbarra di ferro: con molta probabilità al mio ritorno l'avrei trovata già posizionata sui binari, pronta per essere saldata. Avevo appreso molte cose, quella mattina, dopo aver lasciato Ayasha intenta a strigliare con cura il manto infangato di Tasunke: a parte qualche battuta spinta e alcune occhiate torve, nessuno faceva troppo caso alla ragazza indiana che portava l'acqua.
Io, solerte, me ne restavo in silenzio ad ascoltare i discorsi che carpivo correndo da una parte all'altra della ferrovia. Era un lavoro abbastanza noioso di per sé, ma ero stata in grado di raccogliere numerose informazioni interessanti: ora sapevo piuttosto bene come era strutturato il campo ferroviario, ero in grado di distinguere i soldati dai dipendenti e iniziavo a riconoscere i volti delle varie squadre di uomini. Ero impressionata: la ferrovia era un meccanismo organizzato in maniera specializzata, di modo che ognuno avesse la sua parte di lavoro da svolgere efficientemente per raggiungere la meta. Il fatto che mi aveva colpito di più era stata proprio la sfida con l'altra compagnia: avevo imparato che io e Russell lavoravamo per la Union Pacific, mentre dall'altra parte del continente, molto più lontano di quanto io, piccola Cheyenne, potessi immaginare, stava procedendo la Central Pacific.
Riconsegnai le boracce piene d'acqua alla squadra, che dopo avermi ringraziato con dei grugniti stanchi, colse l'occasione per riposarsi prima di andare a prendere una nuova sbarra.
Fu in quel momento che un fischio, seguito da una voce ben nota, mi fece voltare verso il limite estremo della ferrovia in costruzione:
-Ehi, piccola indiana, di qua!-
Brian Lynch mi stava facendo segno di avvicinarmi scuotendo il piccone in aria. Controllai che King non fosse nei paraggi - avevo avuto molta cura di evitare di incrociarlo, non sapevo come avremmo potuto reagire se ci fossimo trovati faccia a faccia - e mi accostai all'irlandese con un sorriso:
-Brian!- lo rimproverai amichevolmente -E' la quinta volta in poco più di due ore che mi chiami: se continui così finirai l'intera riserva d'acqua del campo!-
L'irlandese rise, insieme al fratello e a Jacob Fano, che gli lavoravano affianco:
-Che importanza ha? Il fiume è vicino, la riempiono in fretta! Forse è solo perché voglio vederti, piccola indiana!- ridacchiò, strizzandomi l'occhio mentre mi tendeva la borraccia. Un ringhio di avvertimento mi fece capire che Russell, qualche passo più avanti, non aveva apprezzato la battuta. Chuck, accanto a lui, alzò la testa e sorrise al mio indirizzo. Scossi la testa, l'animo rallegrato dai tentativi di quella compagnia di farmi sentire a mio agio, e pensai che Russell fosse troppo chiuso in sé stesso e pessimista per vedere la verità: l'ambiente in cui viveva era pericoloso, senza dubbio, ma lo era un po' meno con degli amici del genere, pronti a coprirgli le spalle nel momento del bisogno. Era difficile spiegare il legame che univa quegli uomini: erano tutti molto restii a comunicare con le parole, la loro amicizia si basava sui gesti e sulla fatica condivisa. Mentre procedevo spedita verso la cisterna dell'acqua, posizionata vicino all'alloggio del generale Dodge, mi ritrovai ad invidiarli.
Stavo finendo di riempire la borraccia di Brian quando un'altra donna si avvicinò, in attesa di poter usare anche lei la leva che spruzzava acqua sul terreno, che lì intorno da terra arida si era trasformato in una fanghiglia umida.
La squadrai per bene, allibita, mentre senza alcun pudore si tirava su la gonna fino alle cosce e si lavava le gambe chiare, attirando gli sguardi di numerosi uomini che passavano di lì. Aveva una costituzione robusta e gambe ben tornite, ma la sua giovinezza stava sfiorendo: dalle piccole rughe attorno agli occhi stimai che fosse vicina alle quaranta primavere. La sconosciuta si accorse del mio sguardo e alzò le sopracciglia:
-Cos'hai da guardare, indiana?-
Osservandola bene, vidi che aveva il volto pesantemente truccato e che il suo vestito, scollato e molto più morbido di quello di Annabeth, era uguale a quelli delle donne che avevo visto la mattina:
-Sei una prostituta?- chiesi, mordendomi la lingua subito dopo.
"Ma che domande fai, Namid?"
La donna rise, facendo vibrare la massa di boccoli rossi che portava sciolti sulle spalle:
-Oh no, dolcezza! Lo sono stata, questo sì. Ma adesso sono quella che gestisce il bordello di questo campo...-
-Scusami, io... Non volevo essere scortese!- balbettai, poi aggrottai la fronte, perplessa:
-Una donna è a capo del bordello? Ma Russell aveva detto... Io pensavo...-
-Che fosse un'attività da uomini?- mi anticipò la donna, ammiccando divertita -Se ti sai muovere puoi arrivare facilmente in cima. Ora, tu hai davvero un bel faccino...!-
Mi tirai indietro di scatto, spaventata, e l'altra scoppiò a ridere:
-Va bene, indiana, lo so che non sei interessata, e io non ci tengo a vedere da vicino la famigerata pistola di Colt.... Stavo scherzando. Dio, quanto sei ingenua!- scosse di nuovo la testa, divertita, scrutandomi poi con gli occhi celesti e scaltri -Mi chiedo come possa durare un'anima candida come te in questo lurido posto. Vieni da me, se hai bisogno di qualche dritta!-
Riprese la sua strada, ma io la fermai, l'espressione seria e tesa:
-Perché dovrei accettare il tuo invito? Cosa ti importa di me?-
La donna piegò le labbra pitturate di rosso in un mezzo sorriso:
-Mi ricordi molto me stessa quando arrivai qui e mi fai tenerezza, ragazza... Vorrei evitarti i miei stessi errori. A parte ciò che si dice in giro, Russell Walker è un brav'uomo, tienitelo stretto! E forse per questo i miei consigli ti potrebbero tornare utili!-
Rise di nuovo, liberandosi dalla mia stretta:
-Chiedi della signora Rachel e mi troverai facilmente, dolcezza!-
La guardai andare via, mentre gli uomini la salutavano con il desiderio di averla scritto a chiare lettere sul viso, e capii che quella donna nascondeva molte cose sotto il carattere forte che l'aveva portata dov'era.
 
 
Angolo Autrice:
Questo è uno dei capitoli che mi è piaciuto di più scrivere, perché è veramente un punto di svolta: potrei dire che qui si chiude la prima parte di The Railroad, con Russell e Namid che tornano definitivamente ad abbracciare la società bianca. Un po' mi è dispiaciuto dover lasciare la realtà indiana ma purtroppo la Storia ha deciso così.... :(
Dall'altro lato mi ha entusiasmato introdurre questi due nuovi personaggi femminili, che acquisteranno più importanza di quanto possiate immaginare, nonostante siano agli antipodi: casta e morigerata la prima, spigliata e spregiudicata la seconda. Come farà Namid a bilanciarsi tra due caratteri così diversi? E voi chi preferite, Annabeth o Rachel?
Fatemi sapere, sono curiosa xD
 
Crilu

 

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Capitolo 20
*** The secret ***




P.O.V. Namid

 
La piccola campanella in ferro, suonata dalla solerte Annabeth, indicò la fine della cerimonia che gli uomini bianchi chiamavano messa domenicale.
-Grazie a Dio!- sbottò Russell, alzandosi di scatto dalla panca in legno dove era seduto, accanto a me e ad Ayasha, in fondo alla chiesa. L'uomo era rimasto molto stupito dalla mia richiesta di insegnarmi a distinguere i vari giorni e non era stato molto contento di scoprire che la mia curiosità era stimolata dalla figlia del pastore: da quanto avevo capito, non era un assiduo frequentatore della chiesa, a differenza di altri suoi compagni.
Ero affascinata dal fatto che gli uomini bianchi avessero davvero un nome per ogni cosa, anche per il tempo, scandito fin nelle sue più piccole forme: secondi, minuti, ore, giorni, mesi... Anni. Era un concetto così grande ed estraneo che mi faceva girare la testa.
Annabeth aveva mantenuto la sua promessa di spiegarmi meglio gli usi e le tradizioni della società dei visi pallidi, che erano molto più complicati dei nostri: era partita dalla religione, ovviamente, che non mi aveva però persuaso molto, per poi spaziare su cose fuori dalla mia comprensione, come leggi, governi, Paesi. Mi resi conto in fretta che per quanto il nostro territorio, l'America, fosse sterminato, il mondo si era sviluppato anche oltre il Grande Mare Oceano, che anzi, i mari erano due e portavano a terre altrettanto grandi e meravigliose.
Anche Ayasha si alzò dalla panca, sollevata quanto Russell: capiva poco o niente della lingua inglese e ci aveva accompagnato solo per non restare sola.
-Io torno alla tenda, i cavalli devono mangiare!- commentò, pacata. -Tu vieni?-
-No, mi fermo un altro po' con Annabeth!- risposi, salutando con un cenno del capo Abraham, che stava passando circondato da altri lavoratori neri.
Ayasha mi lanciò un'occhiata per metà preoccupata e per metà sospettosa, ma non commentò e affiancò Russell per tornare al nostro alloggio. La mia amica mi preoccupava non poco: ben presto la manutenzione delle bestie non sarebbe bastata a riempire le sue giornate e allora cosa avrebbe fatto? Aveva perso il suo incrollabile ottimismo e questa nuova Ayasha, spenta, silenziosa e restia a mescolarsi con il mondo bianco mi faceva scendere dei brividi lungo la schiena. La vita alla ferrovia non sarebbe stata facile se non si fosse impegnata ad integrarsi almeno un poco: capivo che il dolore e la rabbia per la perdita del marito le rendevano odiosa quella situazione (io stessa, a volte, sentivo le guance bagnate di lacrime al ricordo della nostra tribù massacrata), ma avrebbe potuto fare uno sforzo almeno per il bambino: era quello il mondo in cui sarebbe venuto alla luce.
Annabeth mi riscosse dai miei pensieri:
-Sembri angustiata, Namid. C'è qualcosa che posso fare?-
Se c'era una cosa che apprezzavo della morale cristiana, era l'obbligo a fare del bene e a prendersi cura degli altri e mi rammaricavo che un precetto di così grande bontà venisse spesso ignorato: forse era così solo al campo ferroviario, forse nelle città era diverso. Comunque Annabeth si sforzava di essere sempre gentile e disponibile con tutti, anche più del suo burbero padre, il Reverendo Andrew, che in quel momento stava riassettando gli strumenti necessari alla messa.
Non mi era piaciuto il suo discorso, infarcito di termini troppo dotti perché io e la maggior parte dei presenti potessimo comprenderli.
-E' per la mia amica, Ayasha. Ho paura che non troverà mai il suo posto qui.-
-Tu ci sei riuscita, perché lei non dovrebbe?-
Sorrisi mestamente:
-Guarda i miei occhi, Annabeth! Sono una mezzosangue, mi adatto per natura ad entrambi i miei popoli, ma Ayasha... Lei è una vera Cheyenne, temo che non cambierà mai e che suo figlio correrà grandi pericoli, nonostante la protezione di Russell, se lei deciderà di crescerlo secondo le nostre antiche leggi.-
Vidi un lampo di incomprensione passare negli occhi scuri della ragazza e mi resi conto che avevo chiamato mie le leggi degli indiani.
"Non puoi cancellare il tuo passato, nessuno può. Anche quello di Russell è tornato a prenderlo, alla fine. Devi imparare a tenerti stretta la tua antica vita, ma di nascosto: solo così riuscirai a sopravvivere senza impazzire!"
Annabeth riacquistò in fretta il suo sorriso gentile:
-Temo che al momento non mi venga in mente nessuna soluzione plausibile: forse, con il tempo, la tua amica arriverà ad accettare la sua condizione. Ora, perché non procediamo con la nostra prima lezione di grammatica?-
 
P.O.V. Russell
 
Dopo essermi accertato che nessuno avrebbe dato fastidio ad Ayasha che meditava (o pregava, non avrei saputo dirlo) davanti alla tenda, mi ritrovai nell'imbarazzante situazione di non sapere cosa fare per impiegare il tempo che Namid avrebbe trascorso lontana da me. Non mi era mai capitata una cosa simile, alla ferrovia: la domenica, di solito, dormivo fino a tardi e passavo il pomeriggio perso tra l'alcool e i ricordi per poi finire le mie serate al saloon o attorno al bivacco con la squadra. L'essere stato costretto a partecipare alla messa aveva sovvertito le mie abitudini e a dirla tutta non ero del tutto convinto dell'operato di Namid: voglio dire, perché una donna dovrebbe voler imparare a leggere e a scrivere? Io sapevo firmare e riconoscere i titoli delle notizie sui giornali e non avevo mai avuto problemi.
"Invece no, quell'indiana e la figlia del prete vogliono leggere libri! Libri veri, che idiozia!" pensai, scuotendo la testa allibito. Ma in realtà sapevo che non avrei mai impedito a Namid di fare qualcosa che desiderava, non ci sarei proprio riuscito; tanto più che l'amicizia con Annabeth velocizzava il suo inserimento nella vita del campo. In cinque giorni con lei aveva imparato molte più cose di quante io avrei avuto la pazienza e il tempo di spiegarle.
L'unica cosa di cui proprio non voleva disfarsi erano i suoi abiti ed io allo stesso tempo apprezzavo e disapprovavo la sua scelta: la parte più bassa e istintiva di me si beava della vista delle sue gambe guizzanti che si muovevano agili da una parte all'altra del campo, ma ringhiavo tra me e me come un orso infuriato al pensiero che qualche altro uomo avrebbe potuto esserne attratto. Avrei dovuto sposarla, ma Namid non era battezzata e non sembrava propensa a farlo: forse avrei potuto proporle una religione di facciata, solo per formalizzare la nostra unione, del resto io non credevo più di tanto in Dio...
Nei miei vagabondaggi senza meta mi ritrovai di fronte al bordello ed assistetti ad una scena singolare: Rachel, la matrona, scivolò fuori da una porta laterale della baracca, stando ben attenta a non farsi vedere da nessuno. Namid mi aveva riferito sia del loro strano incontro sia delle sue impressioni su quella donna ed io, incuriosito, decisi di seguirla: non avevo mai avuto contatti con lei - nonostante mi fosse giunta voce delle sue notevoli prestazioni - ma la mia faccia le era sicuramente ben nota e perciò dovetti fare molta attenzione mentre la pedinavo.
La donna procedeva spedita tra i rifiuti abbandonati ai margini del campo, avvicinandosi sempre di più alla boscaglia che cresceva lungo il torrente che costeggiava il percorso della ferrovia: solo una volta la vidi rallentare il passo e portare di scatto una mano ai bottoni del corsetto che le chiudeva i seni, aprendoli e respirando un po' a fatica.
"Dove sta andando con questa corsa? Sembrerebbe un appuntamento di lavoro, ma la signora Rachel si concede molto raramente e solo a chi sa pagarla bene... E poi, se sta veramente andando ad incontrare un uomo, perché non al bordello? Perché in mezzo agli alberi?"
Le mie domande trovarono quasi subito risposta e fu una cosa che mi lasciò stupefatto: inoltratasi oltre i primi arbusti, infatti, Rachel era stata raggiunta da Abraham che l'aveva stretta tra le braccia e spinta contro un tronco, senza mai smettere di baciarla. Rimasi fermo dov'ero, poco lontano da loro, troppo inebetito per pensare di allontanarmi mentre la prostituta si spogliava:
"Abraham?" pensai, confuso "Ma Abraham non può permettersi una come Rachel! Allora..."
Fu l'occhiata sorpresa e spaventata che il mio amico mi lanciò a darmi la spinta finale verso la soluzione del mistero: Rachel e Abraham erano amanti, sì, ma non per denaro, solo... Per amore?
Non riuscivo a crederci, ma rassicurai il nero con un cenno del capo e mi allontanai. Non avrei parlato con nessuno di ciò che avevo visto, neanche con Namid: se la voce dei loro incontri clandestini nel bosco si fosse sparsa, rischiavano entrambi la vita.
 
P.O.V. Namid
 
-Quindi...- mormorai, pensierosa, stringendo incerta tra le dita l'elegante penna che Annabeth mi aveva prestato e concentrandomi sulle lettere che avevo davanti. Riconobbi la "n", poi la "a"...
-Complimenti, Namid! Hai appena scritto il tuo nome!-
Sorrisi compiaciuta, ma non mi fermai. Annabeth si sporse sulla stretta scrivania di legno, curiosa: quella ragazza mi piaceva, perché sotto la rigidità dei suoi vestiti e delle convenzioni a cui era assuefatta nascondeva un animo gentile e spontaneo.
La mia amica aggrottò la fronte, imporporandosi:
-Amore? E' davvero questa la prima parola che ti è venuta in mente adesso che sai scrivere?-
Scossi la testa ridendo:
-Beh, mi sembra il minimo, visto che è per amore che sono finita qui. E ti dirò, spesso la mia vecchia vita mi manca, ma mi basta vedere gli occhi verdi di Russell, o fare l'amore con lui e...-
-Namid!- strillò Annabeth scandalizzata, voltando di scatto la testa per controllare che suo padre non fosse ancora tornato dal suo solito giro di prediche agli ammalati, ai poveri e alle prostitute. Era l'unica incombenza in cui non voleva la figlia al suo fianco, anzi, le proibiva tassativamente di seguirlo quando entrava al bordello. Padre Andrew non mi dava l'idea di una persona cattiva, solo molto chiusa ed antipatica... L'esatto contrario di Annabeth, insomma.
-Cosa c'è?-
-Non puoi parlare di queste cose in giro! Non è decoroso e poi tu... Tu... Tu non sei sposata, ecco!-
balbettò, chinando il capo e tamburellando nervosamente le dita sul ripiano di legno scuro che aveva davanti -Non sta bene!- conclusa, a voce bassa.
Mi sistemai meglio sulla sedia, voltandomi verso di lei ed osservandola:
-Non mi sembra che questo sia un problema per qualcuno, qui al campo. Forse nelle città da dove vieni tu sì, ma qui... Tuo padre permette anche alle puttane di venire a sentire la messa, se lo vogliono, e Russell mi ha detto che è una cosa che non si è mai vista da nessuna parte! Perciò no, non è questo il punto... Tu mi nascondi qualcosa!-
Annabeth sobbalzò vistosamente e divenne, se possibile, ancora più rossa:
-Io? Namid, stai dicendo delle sciocchezze, sai bene che per noi mentire è peccato!-
Io sorrisi, sorniona:
-Appunto. E tu non vuoi peccare, vero, piccola Annabeth?-
La ragazza sembrò strozzarsi con la sua stessa saliva, presa in contropiede. Infine sospirò, abbandonando la sua postura composta e adagiandosi pesantemente contro il rigido schienale della sedia:
-Hai ragione tu. Ho commesso un terribile sbaglio, ma forse parlarne con te mi farà bene: sembri ingenua, ma conosci molte più cose di me sulla vita...-
-Sbaglio? Di che sbaglio stai parlando?-
-Mi sono innamorata.- rivelò.
-E allora? E' una cosa bella, Annabeth, non te ne devi vergognare!-
-Tu non capisci! Mi sono innamorata di un uomo che non potrò mai sposare! Mio padre mi caccerebbe via se scoprisse che mi sono infatuata di lui...-
Aggrottai la fronte:
-E' forse un criminale?-
-No! Certo che no! Oddio, non è che io ci abbia mai parlato, ma sembra una persona così perbene... E molto sola.-
-Per il Grande Spirito, se non è un malvivente, perché tuo padre dovrebbe opporsi al matrimonio? Non può essere una questione d'interesse, ritirandosi a vivere in mezzo a noi sapeva che se ti fossi sposata non gli avresti portato nessun vantaggio materiale!-
-Mio padre non si è mai interessato ad un mio possibile matrimonio e credo che in fin dei conti, non gli interesserebbe molto quali e quanti vantaggi questo porterebbe alla sua parrocchia. Ma una cosa del genere non la può accettare. Io... Io... Dio mi perdoni, io mi sono innamorata di Kasper Nowak!-
-Il polacco!?- esclamai stupita -Continuo a non vedere l'ostacolo!-
Annabeth mi fissò con gli occhi tristi e un sorriso mesto:
-Namid, lui è cattolico.-
-Ed è grave?-
Vidi le lacrime rendere lucide le iridi scure della ragazza:
-Non sai quanto.-
 
 
Angolo Autrice:
Allora, allora, allora! Ci sono parecchie cosucce da dire su questo capitolo, ma cercherò di essere breve: dopo l'incontro con Rachel e Annabeth, la vita al campo si fa più frenetica per Namid! Ho cercato di rendere l'idea della ferrovia in modo verosimile, ma ovviamente, lavorando di fantasia e con poche basi storiche, posso solo sperare di non aver fatto un totale disastro...
E' vero, comunque, che le relazioni tra neri e bianchi erano malviste, se non addirittura proibite e severamente punite: non bisogna dimenticarsi che la guerra civile era finita appena l'anno prima e che i  numerosi ex-schiavi dovevano fare i conti con la mentalità degli yankee, tollerante ed egualitaria solo a parole! Sul "lavoro" di Rachel ci tornerò prossimamente, per un po' mi starà a cuore più l'amore travagliato di Annabeth: superare una barriera come quella tra protestanti e cattolici non sarà facile, ma forse, con l'aiuto di Namid e Colt... A proposito, questi due temo si vedranno di meno insieme nei prossimi capitoli, perché voglio lasciare più spazio al mondo in cui vivono e agli altri personaggi, spero che non vi dispiaccia se gli faccio vivere un po' la loro relazione con calma xD
Il segreto del titolo fa riferimento sia alla relazione di Abraham e Rachel, sia alla passione della figlia del pastore, più innocente ma ugualmente condannata...
Che note chilometriche, sommate al capitolo più lungo del solito... Smetto di annoiarvi, alla prossima!!!
 
Crilu 

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Capitolo 21
*** The brothel ***




-Colt, che fai, batti la fiacca? Guarda che se ti fermi così spesso lo riferirò al tesoriere e puoi scordarti la paga, a fine settimana!- ruggì King, arrivandomi alle spalle proprio mentre appoggiavo il piccone a terra. Si era tenuto alla larga per quasi quindici giorni, ma vedendo che non lo avevo cercato si era fatto più baldanzoso e sicuro di sé: in realtà io ricordavo bene lo scempio che aveva compiuto sulla schiena di Namid e solo il pensiero che avesse toccato la mia donna mi faceva andare il sangue al cervello come un orso infuriato!
Ma, memore della profezia di Chuchip, avevo imparato a riconoscere i momenti di tregua: lo spettro della strage dei Cheyenne era ancora troppo vicino, e la mia posizione al campo troppo debole perché io potessi permettermi un colpo di testa come affrontare Bernard King alla luce del sole.
Perciò mi limitai a lanciargli un'occhiata di puro odio per zittirlo e ripresi a lavorare: il sudore si raffreddava velocemente a contatto con il vento che spazzava il campo quel giorno e sperai di non prendermi un malanno. Le condizioni del terreno, sempre più accidentato, mi preoccupavano: presto saremmo arrivati ai piedi delle montagne e per allora saremmo stati in pieno inverno.
"Sarà impossibile lavorare coi picconi con la neve che cadrà, per non parlare delle rocce fastidiose che incontriamo!" ragionai, incaponendomi proprio su uno spuntone tenacemente infossato nella terra "Dovranno usare la polvere...!"
Rabbrividii, ricordando il dolore che mi aveva attraversato da parte a parte quando quel coglione inesperto, pace all'anima sua, mi aveva fatto saltare in aria: iniziavo a pensare che fosse stato un avvertimento, un presentimento dei guai che avrei dovuto affrontare dopo.
Comunque, se si fosse arrivati al punto di dover far saltare il terreno per scavare le gallerie, mi sarei assicurato che Namid e Ayasha non lasciassero per nessun motivo la tenda.
Abraham lavorava al mio fianco ma nessuno di noi due aveva accennato alla scena del bosco, anzi: erano due giorni che ci parlavamo a malapena. Forse avrei dovuto sconsigliargli quella relazione, dicendogli che non gli avrebbe portato nulla di buono, ma avevo visto e riconosciuto la luce sui loro volti: era la stessa che animava me e Namid e se mi avessero detto che non potevo averla avrei sfidato il mondo intero pur di dimostrare il contrario.
"Veramente lo hai già fatto..." mi corresse una voce nella mia mente.
Durante la pausa decisi che il momento giusto per parlarne non sarebbe mai arrivato, perciò presi Abe da parte e lo fissai negli occhi molto seriamente:
-Tu sei pazzo!- sentenziai.
-E' la stessa cosa che dicono di te!-
-La situazione tra me e Namid è totalmente diversa e lo sai: lei è indiana ed io... Beh, provassero ad avvicinarsi e assaggeranno la mia pistola! Ma tu sei un nero, Abraham, un ex-schiavo, alcuni ai piani alti non ti considerano neanche un uomo, lo sai sì?-
Abraham non abbassò lo sguardo, consapevole sia del colore della sua pelle, sia di ciò che aveva passato in virtù di esso:
-Lo so.-
-Bene. Lei, invece, è una donna bianca. Una prostituta, certo, ma pensi che questo importerà a qualcuno se la vostra storia esce fuori? Ti uccideranno, Abe, forse linceranno anche lei e questa... Questa è una follia, cazzo! Un'assurda follia!-
Abraham sospirò e per un attimo sembrò accartocciarsi su se stesso, schiacciato da quel peso; ma l'istante dopo era lo stesso di sempre, una montagna incrollabile.
-Ti giuro che non me la sono andata a cercare, Russell. Lo sai che quelle povere ragazze mi fanno pena e non ne ho mai sfiorata una neanche con un dito... Ma del resto, chi si sarebbe lasciata mai toccare da uno sporco negro? Però, a forza di accompagnare Chuck, Eric e gli altri quelle hanno iniziato a riconoscermi e a scambiare due parole con me tra un cliente e l'altro. Rachel si è avvicinata per curiosità, voleva capire come mai fossi sempre così gentile con le sue ragazze... Ed è successo. Non so quando, non so come, so solo che mi sono ritrovato a sognare il suo corpo ogni notte, vedevo boccoli rossi dietro ogni angolo e se chiudevo gli occhi avevo davanti i suoi occhi che mi ammiccavano divertiti! Stavo impazzendo! Poi tu sei sparito sulle tracce di Namid e Dodge mi ha fatto una lavata di capo coi fiocchi davanti a mezzo campo, urlando come un ossesso e picchiandomi in preda alla rabbia. Quando si è chiuso a telegrafare con Washington per decidere cosa fare, lei è stata l'unica ad avvicinarsi per darmi una mano. Ha poggiato le sue dite fresche sulla mia guancia, mi ha accompagnato al bordello e mi ha tamponato le ferite con acqua fresca... Ero in paradiso.-
-E immagino che da quel momento sia stata solo una corsa verso l'inevitabile!- mormorai, sentendomi lievemente in colpa per quello che era successo al mio amico.
-Sì. Nessuno di noi due ci ha potuto fare nulla, ma stiamo molto attenti a non farci scoprire: cambiamo sempre posto e orario... Stai tranquillo, amico: è una cosa che posso gestire da solo.-
Il fischio seccato di Lee ci fece capire che era ora di riprendere il lavoro, ma prima di riprendere in mano il piccone sospirai:
-Se c'è una cosa che ho capito in questi ultimi mesi, è che con le donne i casini sono così grandi e complicati che non potrai mai riuscire a gestirli da solo...-
 
P.O.V. Namid
 
Annabeth si fermò in mezzo alla strada: aveva il viso pallido, gli occhi sbarrati e le labbra tremanti.
-Mi dispiace, non ce la faccio!- mormorò con un filo di voce, lanciando occhiate spaventate a destra e a sinistra. Probabilmente temeva di incontrare suo padre. Io sbuffai ed incrociai le braccia al petto, Ayasha si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Non avevo creduto alle mie orecchie, quando mi aveva chiesto se poteva accompagnarci: non aveva mai mostrato segni d'interesse per un bianco, prima di allora, ma Annabeth sembrava riscuotere le sue simpatie.
Visto che l'unico linguaggio con cui riuscivano a comprendersi era quello dei segni, la mia amica scosse leggermente la figlia del pastore per le spalle, prima di tirarla con convinzione verso l'entrata del bordello, dove alcune prostitute ci scrutavano curiose e divertite.
-Questa non è una buona idea...- pigolò ancora la ragazza bianca, ma nessuna di noi due le prestò attenzione. Mi rivolsi ad una donna grassa e sfatta che stava fumando un sigaro:
-Cerchiamo la signora Rachel.-
La prostituta mi soffiò in faccia del fumo scuro che mi fece tossire, prima di gracchiare:
-Non so di chi stai parlando, indiana, e a meno che tu e le tue compari non vogliate divertirvi un po' come noi, andatevene!-
-Ehi, Jane, ma le hai viste bene in faccia?- intervenne un'altra, interessata.
-Guarda, guarda se questa non è la figlia di Padre Andrew!- esclamò una terza, mostrando la dentatura ancora miracolosamente bianca sotto le labbra avvizzite -Cosa ci fai qui, eh?-
-Va bene ragazze, lo scherzo è finito. Fuori dai piedi!-
La voce autoritaria di Rachel si impose sulle altre e bastò un'altra occhiata severa perché le prostitute sparissero brontolando dietro le tende che separavano i loro cubicoli.
Rachel uscì alla luce del sole, strizzando gli occhi ed osservandoci con curiosità:
-Non credevo che avresti accettato il mio invito, dolcezza!- mi disse, ridacchiando. -Non pensavo che avresti davvero avuto bisogno d'aiuto con quello stallone di Colt!-
Arrossii davanti a quell'insinuazione neanche troppo velata, ma non mi persi d'animo:
-Non sono io ad aver bisogno di un consiglio, infatti!-
Gli occhi verdi di Rachel si spostarono su Annabeth, che quasi cercò di sparire dentro la stretta ferrea ma gentile di Ayasha, e la sua espressione mutò:
-Forza, venite sul retro, prima che padre Andrew ci veda!-
Una volta sistemate al riparo da occhi indiscreti sul lato nascosto della baracca, Rachel, Ayasha ed io ci sedemmo sull'erba; l'unica a rimanere in piedi, rigida ed immobile come un palo, fu Annabeth. Prima che io o lei potessimo parlare, Ayasha alzò una mano per richiamare la mia attenzione e mi chiese, in lingua Cheyenne:
-Chiedile perché gli uomini vengono a fare l'amore con le sue donne, sporche, vecchie e per nulla desiderabili... Che piacere c'è in questo?-
Quando le riferii la domanda della mia amica, Rachel alzò le sopracciglia, come se non si fosse mai posta quel problema:
-Gli uomini sono degli animali, e quelli che girano al campo lo sono più di tutti gli altri! E quando le mie ragazze sono le uniche disposte ad aprire le gambe davanti a loro nel raggio di centinaia di miglia, beh.... Nessuno ci va troppo per il sottile. Allora, qual è il problema di questa graziosa e puritana fanciulla?-
Annabeth sobbalzò, poi iniziò a balbettare:
-Ecco, nessuna di noi ha grande esperienza di uomini... Voglio dire, Ayasha aveva un marito ma era un indiano e Namid... Beh, Colt non assomiglia per nulla a... A ciò di cui vi volevo parlare e voi... Voi siete così esperta...-
Fu interrotta dalla risata squillante della prostituta, che però finì in un attacco di tosse che le scosse il petto e la fece piegare in due.
-Tutto bene?- chiesi preoccupata, chinandomi verso di lei. Rachel fece un gesto vago con la mano:
-Solo un po' di tosse e d'affanno: quest'inverno sembra più rigido degli altri e io non sono più una ragazzina come voi, purtroppo! E smettila di darmi del voi, per favore! Non l'ha mai fatto nessuno e non ne vedo la ragione! Namid, spiegami tu cosa c'è che non va, altrimenti non ne verremo a capo prima del tramonto.-
Le spiegai brevemente dell'amore di Annabeth per Kasper Nowak, il taciturno polacco che lavorava con Colt, un sentimento reso ancora più difficile da esternare a causa delle loro diverse religioni. Avevo impiegato diverso tempo per capire cosa significasse essere cattolici e perché fosse una vergogna così grande per Annabeth essersi innamorata di uno di loro: ancora non comprendevo appieno il significato della "scissione" tra due religioni che predicavano la stessa cosa, ma mi ero arresa al fatto che cattolici e protestanti convivessero forzatamente disprezzandosi a vicenda.
-Non capisco perché vi siete rivolte a me: io non so nulla di credo, di preghiere e di battesimi vari! Sono una prostituta, diamine, per convertire il polacco cercatevi un prete!-
Ayasha scosse la testa, sorridendo: evidentemente aveva capito il succo della discussione.
-Spiegale cosa ti era venuto in mente, Namid!- ridacchiò ed io sorrisi. Era bello vedere che la mia amica stava uscendo dall'apatia in cui si era confinata grazie alle pene d'amore di Annabeth: potevo quasi sentire i suoi pensieri che dicevano "per il Grande Spirito, piccola, vai a prenderti quest'uomo!"
Ma ovviamente non avrebbe mai interagito con i bianchi, neanche con le donne che ci affiancavano.
-Rachel, siamo qui perché ci serve la tua esperienza per capire se Nowak può essere interessato ad Annabeth o meno... Tutto qui.-
La donna parve riflettere, poi si rivolse direttamente alla ragazza:
-Lo incontri spesso?-
-Ogni tanto, in giro... Non si fa mai vedere alla chiesa, ovviamente, come gli irlandesi, ma a volte l'ho incontrato vicino alla cisterna dell'acqua.-
-E vi siete mai parlati?-
Annabeth arrossì:
-No, ovviamente! Non ci siamo mai presentati... Però quando mi vede mi fa sempre un cenno rispettoso col capo!-
Rachel sospirò, ma sorrideva:
-C'è tanto lavoro da fare, qui! Oh, indiana, non sai che favore mi hai fatto venendo da me: erano anni che non mi capitava qualcosa di così divertente tra le mani!-
 
 
Angolo Autrice:
Russell parla di "polvere" perché la parola dinamite sarebbe diventata di uso comune solo dopo qualche mese (Alfred Nobel, infatti, la brevettò nel 1867).
Questo capitolo è un po’ di passaggio, credo che l’unica nota saliente sia l’avventurarsi di Namid, Ayasha e Annabeth nel bordello alla ricerca di Rachel… Cosa staranno architettando queste donne? Nowak ha le ore (da scapolo) contate xD
Fatemi sapere cosa ne pensate e come al solito grazie per le recensioni e le numerose letture che questa storia riceve : )
A presto
 
Crilu 

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Capitolo 22
*** The home ***




Quando arrivai alla mia tenda e non trovai né Ayasha né Namid caddi in preda al panico: sapevo per certo che Namid aveva smontato prima, perché non era stato un giorno particolarmente caldo o faticoso, ma non avevo idea di dove potessero essere andate. Iniziai a correre per il campo, ignorando le occhiate curiose di chi mi passava accanto, cercandole disperatamente con gli occhi, ma senza arrischiarmi a chiamarle a gran voce. Finalmente le trovai davanti alla chiesa, a parlare fitto con Annabeth e il sollievo si tramutò velocemente in rabbia. Afferrai Namid per un braccio e senza replicare alle sue proteste la trascinai con me, fino ad un punto in cui ero certo che nessuno ci avrebbe udito.
-Cosa credevi di fare?- ringhiai, stringendola per le spalle. Colsi un lampo di paura attraversare le iridi blu della mia donna, ma poi Namid spalancò le labbra, stupita.
-Eri preoccupato per noi! - comprese. Alzò una mano a sfiorarmi il viso ma io la bloccai e la costrinsi a fissarmi negli occhi, ancora adirato. La ragazza sospirò:
-Scusami, Russell... Avrei dovuto avvertirti che saremmo andate da Rachel. -
-Sì, avresti dovuto! - sbottai, mentre la cappa di ansia e di angoscia che mi aveva attanagliato fino a quel momento iniziava a dissolversi, lasciandomi libero di respirare normalmente. -Tu non sai cosa ho provato nell'ultimo quarto d'ora, ragazzina! Sono tornato e tu e Ayasha eravate sparite, Cristo! Pensavo vi avesse rapito qualcuno, pensavo che non sarei arrivato in tempo...-
Namid liberò il polso dalla mia stretta e le sue dita raggiunsero la mia guancia resa ispida dalla barba ed io, rabbonito, le permisi di accarezzarmi.
-Mi dispiace così tanto! - sussurrò concitata, con le lacrime agli occhi -Ma tu non puoi fare così, Russell, non ci accadrà nulla di male! -
Poggiai la testa contro la sua, ispirando a fondo il suo odore di pelle e natura: non era cambiato, nonostante la ragazza si trovasse alla ferrovia da quasi un mese.
-Come fai ad esserne sicura? - mormorai, terrorizzato all'idea di vedere i suoi occhi blu spalancati e fissi come quelli di Grace. Sussultai, colpito da quel ricordo come da una frustata: era la prima volta da quando mi ero confessato con Namid che la guerra tornava a tormentarmi. -Io non posso perderti, Namid, io devo... Devo proteggerti, a qualsiasi costo e tu non mi aiuti affatto in questo! Tratti gli uomini come tuoi pari senza capire che così facendo li istighi a saltarti addosso, accidenti! E poi sparisci così, trascinandoti dietro Ayasha, per andare dalla signora Rachel, senza dirmi niente... Aspetta un attimo, dove siete andate voi? -
Aggrottai la fronte, mentre realizzavo finalmente ciò che mi aveva detto.
-Voi siete state al bordello? - strillai, allibito, mentre Namid si mordeva colpevole il labbro inferiore.
-Non ci posso credere, non ci posso credere! - borbottai, passandomi una mano sulla fronte per calmarmi.
-Non pensavo fosse tanto grave, insomma, non ci siamo mica andate per...-
-Non ha importanza il perché! - gridai, facendole fare un passo indietro, fino a schiacciarsi contro la parete di un vagone abbandonato -Sai cosa sarebbe successo se qualcuno vi avesse viste entrare? Pensi che si sarebbero fermati a controllare se foste andate lì per una chiacchierata innocente? No, vi avrebbe prese per puttane e a quel punto... Dio, non ci voglio nemmeno pensare! -
"Stai perdendo il controllo, così non va bene, Russell! La spaventerai a morte!"
Ma Namid non era spaventata. Si limitò a farsi avanti a capo chino e ad affondare il viso contro il mio torace, stringendomi con tutta la forza delle sue braccia.
-Non puoi risolvere sempre tutto così...- bisbigliai, accarezzandole i capelli -Adesso mi dici cosa sei andata a fare lì! -
La ragazzina alzò gli occhi di nuovo luminosi verso di me, sorridendo in modo strano:
-Speravo che me lo chiedessi! -
 
Il saloon era chiassoso e pieno come al solito e non potei trattenere un brivido nel pensare a come si era conclusa la mia ultima serata passata in quel posto. Ma non ero lì per bere o per giocare a carte, avevo una missione da compiere. Mi sentivo uno sciocco mentre passeggiavo in mezzo ai tavolini e a uomini ubriachi, alla ricerca della persona a cui avrei dovuto estorcere informazioni.
"Namid, come è possibile che io mi riduca a fare tutto questo per te?" mi lamentai. Quando l'indiana mi aveva chiesto aiuto per la sua amica, io mi ero fermamente rifiutato di entrare a far parte del suo piano sgangherato: avevo già una pericolosa relazione da proteggere, non me ne serviva un'altra che per di più avrebbe coinvolto la figlia di padre Andrew. 
Poi, senza sapere bene come, mi ero fatto convincere e ora mi trovavo al saloon, più confuso ed incerto che mai.
Kasper Novak sedeva insieme ai nostri compagni, silenzioso come al solito, ma attento a tutto ciò che lo circondava: avevo sempre pensato che sapesse tutto di tutti, vista la sua attenzione ai dettagli, ma non avrebbe mai rivelato nulla di ciò che pensava o vedeva.
Mi sedetti accanto a lui, sforzandomi di sfoggiare la mia solita espressione sorniona e disinteressata. Jacob Fano, completamente ubriaco, stava intonando una melodia italiana dal suono struggente ed io colsi l'occasione per chinarmi verso il polacco:
-Non ti manca la tua casa? -
Per la prima volta da quando l'avevo conosciuto, l'ombra di un'emozione passò sul viso di Novak.
-Non è rimasto più nulla di ciò che io chiamavo casa.- sussurrò con voce priva di sfumatura e gli occhi grigio-azzurri fissi sul fuoco scoppiettante.
"Dio mio, come fa una ragazza vitale come Annabeth ad essere infatuata di questo pezzo di ghiaccio?"
-Beh, mi dispiace! Ma sai come si dice: casa è dove ti senti bene.-
-Allora, certamente la mia casa non è qui!- commentò pacatamente lui, e solo un leggero tremito che gli incurvò le labbra mi fece capire l'ironia sottintesa.
-Non è un granché, ma ho visto di peggio!- sbuffai, guardandomi intorno per assicurarmi che nessuno facesse caso alla nostra improvvisa e strana confidenza. -Ci sono anche lati positivi, qui!-
Novak si voltò verso di me:
-La piccola indiana ti ha stregato il cervello, Walker!- esclamò con uno sbuffo. Io sogghignai:
-Le donne sono così, amico, ma sai che ti dico? Essere stato ammaliato da quella ragazzina è la cosa più bella che mi sia capitata da molto tempo a questa parte!-
-Dev'essere... Una bella sensazione.- mormorò il polacco, mandando giù un sorso di whiskey, e questa volta percepii chiaramente della malinconia nella sua voce.
-Già. Ti auguro di provarla un giorno!- esclamai con noncuranza, allungando una gamba e facendo lo sgambetto a Fano che, preso dalla nostalgia per la sua patria, continuava a cantare a voce sempre più alta. Risi davanti alle sue imprecazioni e fu allora che Kasper diede inizio al discorso più lungo che gli avevo mai sentito fare:
-Io la provo già, Colt. E mi sento davvero un idiota a parlarne con te, che tra tutti sei sempre stato un uomo duro e cinico. Ma credo che la piccola indiana ti abbia cambiato, come ha detto Abraham, e di sicuro l'ha fatto in meglio.... Perciò, guardandomi intorno, credo che tu sia l'unico di cui io possa fidarmi nel raccontare una cosa del genere. L'unico che probabilmente non mi giudicherà.-
Strabuzzai gli occhi, colpito:
"Che mi venga un colpo, Namid... Avevi ragione!"
 
P.O.V. Namid
 
Visto dall’esterno, io ed Annabeth ci comportammo in modo veramente stupido: invece di restare ad aspettare che l’indagine di Russell portasse i suoi frutti, come Ayasha e Rachel ci avevano consigliato, decidemmo di vagare nei pressi dei bivacchi per intercettare qualche informazione utile su Novak. Io in realtà avevo anche una sorta di presentimento che mi pungolava l’animo, ma lo ignorai per assecondare la luce vivida e per la prima volta libera che vidi negli occhi della mia amica: in tutta la sua vita non aveva mai disobbedito ai precetti del padre e della Chiesa e pensai che un po’ di vita le avrebbe fatto bene.
Di certo non immaginavo che nella nostra passeggiata avremmo incontrato Bernard King attorniato dai suoi compagni, tutti piuttosto alticci:
-Buonasera, belle fanciulle!- sghignazzò il controllore –Allora, piccola indiana, ci hai preso gusto a questi nostri incontri notturni, non è vero?-
Annabeth si strinse  a me in cerca di supporto, contando sul mio coraggio e sulla mia lingua tagliente, ma sentivo gli arti atrofizzati. Solo le cicatrici sulla schiena bruciavano come se qualcuno vi avesse sfregato del sale sopra: il terrore che avevo provato sotto la frusta di King non era stato mitigato neanche da ciò che era successo con Russell il mattino dopo.
Fortunatamente per noi, questa volta Colt arrivò in tempo e dopo avermi scoccato un’occhiata per metà rassicurante e per metà furiosa si rivolse a King:
-Credevo di essere stato chiaro: alla larga dalla mia donna.-
Scandì bene ogni parola per far sì che tutti lo capissero e si premurò anche di far scintillare la pistola che aveva alla fondina alla scarsa luce dei fuochi. Poi sul suo volto si fece strada un sorriso sarcastico:
-Mi sto stancando di vederti girare intorno a Namid, King, per non parlare del fatto che avete spaventato a morte la figlia di Padre Andrew… Che comportamento vergognoso, non credi, Novak?-
Il polacco emerse dalle ombre, il viso stretto in una smorfia rigida e severa: i lineamenti erano brutalmente definiti da un gioco di ombre che li rendeva ancora più spigolosi ed inquietanti.
Lo osservai per un po’, capendo come mai Annabeth fosse attratta da lui: non solo era un bell’uomo, alto e ben piantato, con corti capelli biondi e due occhi azzurri duri come il ghiaccio, ma emanava un’aura di forza contenuta e tranquillità. Avevo il sentore che nel suo passato si annidavano demoni simili a quelli di Russell, ma nessun segno di rabbia o dolore represso emergeva dal suo comportamento, riservato e solitario al limite della cortesia.
Quando riportai lo sguardo su King, vidi che si era dileguato insieme ai suoi compari. Russell mi si avvicinò tirandomi uno schiaffo sulla nuca:
-Mi hai fatto male!- piagnucolai, cercando di trattenere il sorriso e le lacrime che sembravano voler spuntare sulla mia faccia nello stesso momento.
-Te lo sei meritato!- sbottò, risentito –Hai molte cose da farti perdonare, ragazzina, e io ho in mente svariati modi in cui tu potrai fare ammenda… Andiamo?-
Alzai una mano, intimandogli di fare silenzio ed aspettare: nella semi-oscurità del piazzale deserto, Kasper ed Annabeth si studiavano a vicenda. Nessuno dei due sembrava intenzionato ad aprire bocca: l’uomo sostava a gambe larghe e braccia incrociate da un lato, senza distogliere lo sguardo dal viso della ragazza che invece lo scrutava di sottecchi, tenendo il capo basso e spostando nervosa il peso da una gamba all’altra.
Alla fine fu la mia amica a prendere l’iniziativa e con uno scatto che fece sobbalzare il polacco coprì rapidamente i passi che li separavano. Dopo aver piegato il capo in un lieve inchino mormorò:
-Vi sono immensamente grata per il vostro aiuto, signore.-
-Non ho fatto nulla.- mormorò lui con un accenno di divertimento nella voce. Annabeth arrossì furiosamente:
-Beh, sì… Ma… Vedete, io… Oh, lasciate perdere. Buonanotte, signore.-
Fulmineo ed inaspettato, Kasper l’afferrò per un braccio, gesto che fece imporporare la ragazza ancora di più:
-Il mio nome è Kasper. Ma penso che voi lo conosciate, non è vero, Annabeth? Mi chiedo perché.-
-Oso dire che probabilmente il motivo è lo stesso per cui voi usate il mio!-
Allontanandomi silenziosamente dalla scena, lasciando i due a fissarsi con un sorriso ebete sul viso, mi voltai dubbiosa verso Russell:
-Cosa hai detto a Novak, esattamente?-
L’uomo rise a bassa voce e mi strinse a sé prendendomi per i fianchi:
-Non ha importanza… Ti basti sapere che gli ho semplicemente mostrato la via di casa.-
 
 
Angolo Autrice:
Ve lo sareste mai aspettato Russell nei panni di Cupido? xD Io non molto, infatti non sono per niente sicura di questo capitolo… Ma c’est la vie, non tutte i capitoli escono col buco ahahah!
E adesso che anche questa coppia ha ingranato (beh, più o meno, c’è ancora quel piccolo particolare della religione…) possiamo procedere con la storia!
A presto
 
Crilu  

 

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Capitolo 23
*** The wolf ***




La zuffa avvenne circa un mese dopo il nostro ritorno al campo: era ormai pieno inverno e arrivati alle pendici delle Montagne Rocciose il lavoro della ferrovia si era arenato. Il terreno era impossibile da lavorare e bisognava attendere l’arrivo della polvere da sparo che ci avrebbe permesso di scavare facilmente gallerie nelle montagne: era una soluzione pericolosa sia per l’imprevedibilità degli scoppi (che io avevo già sperimentato) sia per i probabili crolli durante la successiva messa in sicurezza dei cunicoli. D’altra parte, aggirare le montagne, che si estendevano per miglia e miglia, era impossibile e correvano voci su un nuovo mezzo di esplosione, la dinamite, di cui si raccontavano meraviglie; per il momento evitavamo di preoccuparci troppo del futuro e ci limitavamo a sopravvivere al gelido inverno del Montana, bloccati in una delle zone più inospitali dello Stato.
La mia esperienza di caccia presso i Cheyenne mi fu molto utile per garantire spesso a me e ai miei compagni dell’ottima selvaggina da mettere sotto i denti, perché i convogli di provviste tardavano ad arrivare, ostacolati dalla neve e dalle frequenti tempeste. Erano quindi un paio di settimane che il campo era attraversato da un moto di malcontento, che Dodge e i suoi uomini si sforzavano di ignorare pur tenendolo sotto controllo.
-Speriamo che il convoglio arrivi presto…- mormorò Namid un mattino, scrutando con preoccupazione il cielo grigio.
-Non ci sperare troppo, ragazzina: quest’inverno durerà ancora per un bel po’ e sarà dura per i nostri arrivare fin quassù… Non credo potremo riprendere il nostro lavoro prima che si sciolga la neve. E questo sarà un grande problema per la compagnia.-
-Perché siete così desiderosi di arrivare prima della Central?- chiese all’improvviso la ragazza, sospettosa -Cosa c’è sotto?-
Io sorrisi malinconico, sfregandomi le mani davanti al fuoco della nostra tenda e lanciando un’occhiata ad Ayasha che cercava di mettere al riparo i cavalli dal vento sferzante: la pancia iniziava a farsi evidente e il suo umore era sempre più chiuso e solitario, non era rimasto nulla della ragazza attiva e risoluta che avevo conosciuto.
-Lo Stato non può permettersi di pagare tutto il lavoro delle due compagnie, perciò quando hanno iniziato a costruire, nel 1863, hanno raggiunto un accordo: oltre ad una somma prestabilita per ogni miglio raggiunto, la compagnia ferroviaria ottiene la proprietà del terreno circostante per un raggio di venti miglia… E’ un profitto enorme.-
-No, non credo!- obiettò lei, corrugando la fronte -La maggior parte dei territori dove passa il treno sono disabitati e vuoti…-
-Lo sono adesso.- la corressi -Ma quando la ferrovia sarà finita, varranno una fortuna perché dove va il treno lo seguono coloni, pastori, imprenditori e molta altra gente che vuole cambiare vita. Persone che sarebbero disposte a pagare questi terreni a peso d’oro! Sorgeranno numerose città lungo i binari e in breve la compagnia guadagnerà milioni… Ecco perché sono così ansiosi di posare più binari della Central, capisci?-
-Sì.- esclamò dura la ragazza, guardandomi con espressione triste -Sì, capisco che ben presto il mio popolo sarà scacciato nuovamente dalle sue terre e condannato a morte.-
Rimasi senza parole nell’udire quelle parole: non mi illudevo che avesse dimenticato la sua tribù, ma speravo che la sua vita con me l’avesse aiutata a lasciarsela alle spalle. Evidentemente era una ferita più aperta di quello che avevo immaginato e capii le oscure parole di Chuchip: Namid era costantemente lacerata tra Cheyenne e bianchi, in una lotta che forse non avrebbe avuto mai fine. Fui preso dallo sconforto al pensiero che non potevo aiutarla in nessun modo.
Ma un clamore improvviso mi distolse dalla conversazione: diversi uomini correvano gridando verso la chiesa. Fermai Lee al volo:
-Che succede? Sono arrivati i rifornimenti?-
-No, purtroppo. Non ho capito bene, ma uno dei nostri è stato beccato con una donna che doveva lasciare stare…-
“Abraham!” pensai, imprecando mentalmente. Sapevo che quella mattina si sarebbe visto con Rachel, non poteva essere che lui!
-E’ spacciato!- borbottai, infuriato, entrando nella tenda per prendere al volo la pelliccia da buttarmi sulle spalle -Sono andati tutti e due!-
-Ma di chi stai parlando?- chiese Namid, affiancandomi preoccupata.
-Di Abraham e di Rachel!- sbottai, seguendo la folla. La ragazza sbarrò gli occhi:
-Vuoi dire che loro…?-
-Sì.-
Non parlammo più finché, a forza di spintoni, non riuscii a farmi largo tra le persone per assistere ad uno spettacolo inaspettato: Kasper Nowak fronteggiava in silenzio padre Andrew che invece sembrava posseduto e urlava come un ossesso, stringendosi spasmodicamente la Bibbia al petto. Dietro di lui, Annabeth singhiozzava, premendosi la mano sulla guancia, dove iniziava già a vedersi il segno rosso di uno schiaffo; Namid provò a raggiungerla, ma io la fermai. Avevo visto infatti Dodge avanzare verso i due.
-Ebbene, cosa sta succedendo qui?- tuonò il generale.
-E’ questo miscredente corrotto!- ululò il pastore, puntando il dito contro il polacco -Ha sedotto mia figlia, l’ha portata sulla strada della perdizione!-
-Senti chi parla!- la voce di Brian si alzò in difesa del compagno -Siete voi che vi siete allontanati da Roma, non noi!-
-Zitto, paddy*!- ringhiò padre Andrew, tornando a rivolgersi a Nowak:
-Come hai osato avvicinarti alla mia Annabeth?-
Kasper inspirò profondamente, prima di prendere a parlare, verso Dodge però:
-Non ho alzato un dito sulla fanciulla, signore, non l’avrei mai fatto. Mi sono semplicemente fermato a salutarla.-
-Chi ti ha dato il diritto di rivolgerle la parola?- continuò il pastore, indignato.
-Io, padre!-
Annabeth avanzò nel silenzio generale, superando il padre e ponendosi al fianco di Nowak:
-Sono stata io, perché ne sono innamorata. E se voi non ci aveste scoperti, oggi, avremmo potuto evitare tutto questo: Kasper è disposto a convertirsi, per me… Per sposarmi.-
Grida di protesta si alzarono dal gruppo degli irlandesi, cattolici e profondamente avversi alla dottrina protestante, ma Kasper non mutò espressione neanche quando padre Andrew, boccheggiante, aveva fatto qualche passo indietro per appoggiarsi alla croce infissa nel terreno davanti alla chiesa.
-Padre!- esclamò Annabeth preoccupata, vedendolo cadere a terra con le mani sul petto. Kasper e Dodge si affrettarono ad aiutarla, sollevando l’uomo e trasportandolo verso il suo letto, mentre quello rantolava e mormorava parole sconnesse:
-Tradimento… Peccato… La mia bambina… Tradimento, tradimento…-
Annabeth li seguì in lacrime ed io sussurrai a Namid:
-Adesso va’ da lei, se vuoi!-
Poi, insieme a Chuck, Javier e ad  Abraham che era giunto in fretta e furia, iniziai ad allontanare i gruppi di curiosi.
 
L’annunciata conversione di Kasper aveva innalzato il malumore alle stelle e padre Andrew era stato quasi stroncato dall’infarto che lo aveva colto. Appena si era ripreso aveva voluto accertarsi che sua figlia fosse ancora illibata, proibendole poi di avere alcun contatto con il mondo esterno finché non si fosse sposata con il polacco. Namid mi riferì che si riteneva fortunata, perché il pastore non l’avrebbe separata da lui, spedendola lontano dal campo.
Pur sapendo che sarebbe andata a finire così, quella storia mi aveva lasciato dell’amaro in bocca: Nowak era stato costretto a fuggire dalla miseria e dalla fame in patria, solo e con la sua fede come unico ricordo. Adesso avrebbe dovuto rinunciare anche a quella.
La mia frustrazione aumentò quando riconobbi le impronte lasciate sulla neve smossa vicino ai vagoni ferroviari fermi:
-Lupi!- ringhiò Chuck, sputando per terra. Io alzai lo sguardo verso le rocce imbiancate di fronte a noi, alla ricerca del branco. Da quando Namid aveva espresso la nostalgia per la tribù i miei pensieri tornavano con insistenza su Hevataneo e la cosa affossava ulteriormente il mio animo.
Avvistammo il branco un paio di giorni dopo, ma fu subito chiaro che non avevano alcuna intenzione di attaccarci: sembravano grassi ed in salute, ed erano troppo pochi per riuscire a sopraffare anche solo un paio di noi. I lupi sono animali intelligenti, e quegli esemplari si limitarono a fiutare il nostro odore rimanendo a distanza di sicurezza; quando uno degli uomini provò ad ucciderne uno per la pelliccia si defilarono senza lasciare traccia. O almeno così pensavo.
Il mattino dopo, infatti, uscii dalla tenda di corsa, allarmato dalle esclamazioni di Namid: la trovai accucciata a terra, intenta a parlare con qualcuno che si rivelò essere un giovane esemplare di lupo.
-Sei impazzita, donna? Mi hai fatto prendere un colpo!- urlai, cercando di allontanarla dall’animale. Ma osservandolo da vicino compresi perché la ragazza non ne fosse stata spaventata: aveva una taglia molto più piccola del normale, il pelo sporco e corto ed era talmente magro da potergli contare le costole.
Mi passai una mano sul mento, mentre Namid riprendeva a coccolarlo:
-Come ha fatto ad arrivare fin qui? E perché è ridotto in questo modo?- mormorai.
La ragazza mi indicò la zampa anteriore del lupo, piegata in modo innaturale:
-Il branco è feroce con i più deboli, devono averlo lasciato qui a morire! Guardalo, poverino, è stremato, non ce la fa neanche a reggersi in piedi!-
-Bene, così morirà in fretta e potremo mangiarlo!- esclamai, soddisfatto, ma Namid inorridì.
-Stai scherzando, vero?-
-No, perché?-
-Il lupo è uno dei nostri animali sacri, lo mangiamo solo in condizioni di grave carestia! Non puoi lasciarlo qui a morire e poi pretendere che io lo cucini!-
Sospirai: quella situazione iniziava ad assumere una vena comica e la cosa peggiore era che la mia arrendevolezza mi rendeva ridicolo ai miei stessi occhi!
-Cosa suggerisci di fare, allora?-
Le labbra di Namid si schiusero in un sorriso raggiante:
-Tenerlo con noi, naturalmente! E’ poco più che un cucciolo, non dev’essere più nato più tardi dell’ultima primavera… Sarà un buon compagno per la caccia!-
-Sì, come no!- sbuffai sarcastico -Con quella zampa non riuscirà mai a correre dietro ad una preda, Namid! Ma fa’ pure come ti pare, l’importante è che non morda nessuno e che non mangi più cibo del necessario.-
-Bene. Vedrai, alla fine sarai contento di questa scelta: sento che questo cucciolo saprà esserti riconoscente!-
-Se lo dici tu!-
“Le donne e le loro sensazioni, bah!”
-Russell?-
-Cosa c’è?-
-Come si chiama?-
Alzai gli occhi al cielo: tra la relazione clandestina di Abraham da proteggere, il pericolo latente di King e la preoccupazione per l’apatia di Ayasha, non avevo davvero tempo per quelle idiozie, ma Namid aspettava, sorridente e fiduciosa, così…
-Ti va bene Hutch?- chiesi, pronunciando il primo nome che mi venne in mente. La ragazza rise e vedendola così, seduta a gambe incrociate in mezzo alla neve con il lupacchiotto placidamente adagiato sul suo grembo, mi parve una bambina felice.
“Non sei un po’ troppo vecchio per fantasticare?” mi dissi, riscuotendomi dalla visione che avevo avuto: io e Namid lontani dalla ferrovia, in una casa vera, Tasunke e quel dannato lupo che scorrazzavano nel prato… Una famiglia.
Ma avevo imparato che la vita non dà mai niente per scontato e il mio sogno avrebbe dovuto aspettare.
 
 
Angolo Autrice:
Questo capitolo è veramente di passaggio e per farmi perdonare sia di questo sia dell’incredibile ritardo (xD) vedrò di pubblicarne due la prossima settimana! Intanto fatemi sapere cosa ne pensate!!!
Alla prossima
 
Crilu  

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Capitolo 24
*** The collapse ***




Detestavo ammetterlo, ma Namid aveva ragione: Hutch si riprese in fretta dalla ferita e ben presto iniziò ad accompagnare me e gli altri uomini nelle battute di caccia. Nonostante l’iniziale diffidenza i miei compagni impararono ad apprezzare il suo fiuto e in breve il lupo divenne una sorta di mascotte; solo King era perennemente infastidito dalla sua presenza e l’animale reagiva di conseguenza, ringhiando e drizzando il pelo non appena lo vedeva apparire all’orizzonte.
Fu seguendo il fiuto di Hutch che scovammo i resti spenti di un bivacco a poca distanza dal campo.
-Indiani!- esclamò Chuck, osservando le orme di mocassini che si sovrapponevano attorno ai resti del fuoco. Anche il giovane Javier si accucciò ad esaminarle: gracile com’era, sembrava sparire all’interno della folta pelliccia che indossava e sotto il fucile che portava a tracolla.
Chuck piegò le labbra in una smorfia divertita, ma non disse nulla; tutti sapevano che il ragazzo era troppo inesperto per maneggiare quell’arma, o per essere di una qualche utilità nel seguire delle tracce. Ma dato che era orfano ed aveva trovato in noi una nuova famiglia nessuno aveva mai pensato di fargli notare quanto fosse imbranato.
-State calmi, ragazzi. E’ uno solo.-
Le impronte erano troppo confuse per indicarci dove l’indiano fosse diretto, ma una punta di freccia spezzata e gettata in mezzo agli arbusti secchi ci confermò che era armato.
Tornammo al campo preoccupati e tesi, pronti a scattare al minimo rumore, e riferimmo a Dodge la cattiva notizia: in breve tra le tende iniziarono a circolare i suoi uomini in divisa, che tenevano d’occhio la boscaglia alle nostre spalle.
Io ero estremamente confuso e nervoso: avevo fermamente rifiutato di proseguire la battuta di caccia per catturare l’indiano e i miei compagni mi avevano lanciato delle strane occhiate oblique. Evidentemente si stavano chiedendo quanto la mia permanenza tra i Cheyenne influisse nella mia riluttanza a partecipare alle ricerche. Ritenevo anche che il campo si fosse troppo allarmato per un semplice bivacco freddo su cui aveva sostato un solo individuo: nessun indiano di nessuna tribù sarebbe stato così stupido da lanciarsi in mezzo ai bianchi con intenzioni bellicose.
-Forse è il clima- mi suggerì Abraham, mentre appoggiati all’ingresso del saloon osservavamo il via vai teso della gente -Questo inverno e questa solitudine in mezzo alle montagne stanno iniziando a stancare gli uomini. Dodge fa finta di non vedere niente, ma la situazione mi preoccupa: se restiamo fermi qui troppo a lungo qualcuno ne uscirà pazzo.-
-Hai ragione…- mormorai, osservando il mio respiro che si condensava e saliva in pigre volute verso il cielo -Spero solo che la polvere arrivi presto.-
 
Le mie speranze furono esaudite un paio di giorni dopo, quando il convoglio dei rifornimenti (che trasportava anche delle strane candele che potevano esplodere, la famosa dinamite) fece il suo ingresso trionfale al campo. Si fermò poco, giusto il tempo di scaricare la merce, ma fu abbastanza per tranquillizzarci: non avevano incontrato nessuna tribù di indiani.
Era quindi da escludere che quello che girava intorno alla ferrovia fosse una specie di vedetta, e che un gruppo di guerrieri stessero pianificando di attaccarci.
-Non è necessariamente una buona notizia!- commentò invece cupo Eric -Potrebbe essere qualche pazzo svitato, sai, uno dei loro sciamani… O una strega, il Signore ce ne scampi e liberi!-
-Modera i termini, Collins!- ringhiai, notando i lineamenti di Namid irrigidirsi mentre passava con la borraccia dell’acqua.
Il lavoro era ripreso a velocità aumentata per recuperare i giorni persi: la roccia delle montagne veniva fatta saltare per un breve tratto, poi si procedeva a picconarla e a puntellarla affinché non cadesse quando sarebbe passato il treno.
Gli incidenti di quei primi giorni furono diversi, perché usare la dinamite era difficile e pericoloso e i crolli continui: John Lynch ci rimise due dita della mano destra e buona parte della sua vista.
Ogni sera, quando tornavo alla tenda, Namid ed Ayasha tiravano un sospiro di sollievo.
-Ho troppa paura!- mi confidò una sera la mia ragazza, mentre la stringevo a me alla ricerca di una posizione comoda per addormentarmi.
-Di cosa?-
-Che una sera da quella tenda spunti Abraham, o Kasper, o Lee, e mi dicano che tu non ce l’hai fatta, che quell’orribile legno che scoppia ti ha ridotto a brandelli!-
Era evidente che l’idea la terrorizzava e la riempiva d’orrore, perché aveva gli occhi pieni di lacrime, ma io non avevo rassicurazioni certe da darle. Potevamo solo sperare di terminare quel tratto in fretta, per scendere nella valle sottostante e riprendere a picconare in pianura: certo, la paga era minore, ma adesso che c’era Namid con me non avevo alcuna fretta di morire lavorando per quella stupida ferrovia…
 
Successe tutto troppo in fretta, in un momento in cui nessuno di noi stava prestando molta attenzione alla galleria. Eravamo quasi tutti all’aperto, a preparare il nuovo carico di dinamite da portare dentro. Si respirava un’aria rilassata, quasi scherzosa: lo spettro del bivacco indiano si stava allontanando e dopo un mese di duro lavoro e sacrifici avevamo quasi finito di trivellare il primo picco. Riuscivamo già quasi a vedere la montagna successiva…
Iniziò con un rumore basso e sordo, come un tuono lontano. Io mi fermai, seguito da Chuck, che reggeva il manico opposto della cassa di dinamite che stavamo trasportando. Il rumore si fece più forte e gorgogliante e fu subito chiaro che veniva dalle viscere della roccia.
-Crolla!- urlò un uomo accanto a noi, correndo più lontano dalla galleria. Aveva ragione: rombando un pezzo della galleria che avevamo pazientemente costruito si staccò e precipitò al suolo, chiudendo l’ultimo tratto. Quando la terra si fermò e la polvere si fu posata, si spezzò anche il silenzio che si era impadronito di noi lavoratori: ci risvegliammo e iniziammo a girare in lungo e in largo, alla ricerca di strumenti con cui riparare al danno.
In mezzo alla confusione e alle grida, cercai con gli occhi i miei compagni: Chuck e Jacob erano proprio vicino a me, i fratelli Lynch stavano correndo verso le tende per chiamare aiuto, Kasper ed Abraham erano già impegnati a rimuovere i sassi che erano rotolati fino all’entrata, Adams cercava di scuotere Lee che fissava attonito la galleria…
Mi avvicinai a loro:
-Cos’hai?- chiesi, battendogli una mano sulla spalla. -Dai, che hai visto di peggio!-
Morris scosse la testa e provò ad aprire la bocca per parlare, ma ne uscì solo un rantolo soffocato.
Mi voltai verso Scott:
-Ma sta male? Ha ingerito della polvere?-
-Non lo so! Eravamo qui tutti e due quando è crollato il soffitto e quando tutto era finito mi sono girato verso di lui e l’ho trovato così… Sembra che non riesca a parlare, trema soltanto!-
-Lee, mi spieghi che succede?-
L’uomo finalmente riuscì a mettermi a fuoco e subito delle lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance nere di fuliggine.
“Lee Morris sa piangere?”
-Javier…- balbettò -Lui è… E’ dentro.-
Lasciai andare la sua spalla come se scottasse, incespicando alla ricerca di equilibrio; con le orecchie che fischiavano, mi voltai verso la galleria crollata, su cui si stavano affaccendando ormai diversi uomini. Lavoravano in un silenzio cupo e religioso di cui adesso capivo perfettamente la motivazione: le orecchie di tutti erano tese a captare eventuali grida d’aiuto. Ma le pietre rimasero mute.
 
P.O.V. Namid
 
Russell si tirò indietro i capelli, inumidendoli con le dita bagnate; osservandosi nel frammento di specchio appeso davanti ai suoi occhi si passò una mano sul mento accuratamente rasato. Aveva i vestiti puliti e in ordine e aveva messo così tanta cura nel prepararsi da farmi stringere il cuore: a Javier non sarebbe importato di come si sarebbe presentato al suo funerale.
Nessuno era riuscito a capire come mai il ragazzo si trovasse nella galleria al momento del crollo: probabilmente aspettava che gli altri uomini della squadra finissero di scaricare le casse, troppo pesanti per lui. Non fu l’unico a morire in quell’incidente, ma fu il solo per cui i compagni non si arresero mai; non tornarono alle tende neanche quando scese la notte, continuando a scavare alla luce delle lanterne. Quando arrivai io, trovai Russell intento a picconare un masso con una forza di cui non lo ritenevo capace. Aveva gli occhi fissi sulla galleria e le unghie spezzate e coperte di sangue. Avevano tirato fuori diversi uomini, alcuni morti, alcuni solo feriti, ma di Javier non c’era traccia.
Lo trovarono con le prime luci dell’alba e il mio primo istinto fu di distogliere lo sguardo per combattere la nausea che risaliva lungo la mia gola. Javier aveva i capelli neri e riccioluti e due grandi occhi bruni sormontati da ciglia lunghissime, avrebbe potuto fare strage di cuori se non fosse stato così timido ed inesperto; il corpo che fu deposto davanti alla galleria, invece, era grigio di polvere e coperto di sangue, i lineamenti deformati, le ossa spezzate. Era un fagotto inerte che negli ultimi istanti di vita aveva testo le braccia verso l’esterno, come per chiedere aiuto.
I ragazzi della squadra gli si strinsero intorno, escludendo da quella veglia tutte le altre persone del campo: per me che li osservavo qualche passo più indietro, fu chiaro che tra loro serpeggiava il rammarico di non aver fatto abbastanza. Non solo per salvarlo da quel maledetto crollo, ma anche per dargli una vita migliore.
Alla cerimonia funebre dei morti partecipò tutto il campo, ma si tenne all’aperto, non all’interno della chiesa, perché non c’era spazio.  Javier fu sepolto in una piccola fossa al lato della ferrovia e sulla sua tomba fu piantata una semplice croce di legno, indistinguibile da ogni altra. Mi fece rabbrividire il pensiero che quando la ferrovia sarebbe stata completata e il treno avrebbe attraversato quei luoghi nessuno avrebbe saputo che sotto quei pochi metri di terra giaceva un ragazzo che aveva dato la vita per quell’ammasso di lamiere.
 
-Mezz’ora prima era tutto intero.-
Il sussurro di Russell spezzò la quiete della notte e mi strappò dal dormiveglia. Accanto a me, Ayasha non aveva sentito nulla, ma io mi chinai ugualmente verso il mio uomo, steso rigidamente dall’altra parte del giaciglio.
-Cosa hai detto?-
-Mezz’ora prima era vivo, era attivo. Gli ho parlato, capisci? Gli ho anche dato uno schiaffo sul collo perché si era incantato a guardare le gambe di una prostituta… E adesso Javier è morto.-
Si voltò verso di me, gli occhi verdi che rilucevano di lacrime nell’oscurità.
-Non mi ero mai reso conto di quante cose avrei potuto insegnare a quel ragazzo: cavalcare, sparare, come ricevere un pugno… E’ importante per gli uomini imparare ad incassare i colpi, lo sai? Inizio a credere che io non lo sappia fare, perché fa male, cazzo… Ed io che mi credevo ormai al di fuori di ogni emozione umana questo non riesco a sopportarlo. Aveva diciott’anni… No, non è affatto giusto.-
Seppellì la faccia nel cuscino e respirare affannosamente. Poi, quando iniziavo a credere che si fosse addormentato, lo sentii mormorare per l’ultima volta il nome di Javier.
 
 
 
Angolo Autrice:
 
E’ difficile spiegare questo capitolo, che nella trama originaria non era presente. Niente di tutto ciò era previsto, eccetto la scena del bivacco che doveva essere il punto centrale della narrazione e su cui tornerò poi; cosa è successo, quindi?
Molto semplicemente, la terra ha tremato. Una, due, infinite volte: credevo di essere stata fortunata, perché non avevo vissuto direttamente le scosse di agosto, ma avevo sentito la paura nei racconti di amici e parenti. Invece no, il terremoto continua, imponderabile, improvviso, violento: ci sveglia nel cuore della notte, ci sorprende al bar o durante una cena in compagnia. Mette addosso un terrore che fatica a svanire, un’agitazione continua… Ma non credevo di doverla esorcizzare in qualche modo fino a quando quest’idea non ha preso forma nella mia mente; solo quando ho finito di scrivere il capitolo mi sono resa conto che le immagini che avevo descritto mi erano in qualche modo familiari.
Perciò, ecco, Javier non è solo Javier, è la personificazione di chi in questo maledetto terremoto ci ha perso la vita che era appena iniziata. Questo capitolo è per Accumuli, Amatrice, Pescara del Tronto, Norcia, Castelluccio e tutti gli altri paesi sventrati dal sisma, per tutte le loro vittime.
 
Le note storiche sono quasi del tutto inesistenti, salvo la grande frequenza di crolli e scoppi nell’usare l’instabile dinamite e la differenza del salario in base al terreno su cui si lavorava.
 
Crilu 

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Capitolo 25
*** The prisoner ***





La morte di Javier mi lasciò stordito: era come se ci fossi finito io, sotto quelle macerie. A volte dovevo interrompere il lavoro perché sentivo le orecchie che mi fischiavano e la vista sfocava… E avevo notato che non ero l’unico, nella squadra, a poggiare il piccone e ad osservare con la coda dell’occhio il posto vuoto tra Chuck e Jacob.
Con il passare dei giorni e la galleria ormai terminata, ci preparammo a spostare il campo oltre quel primo picco: in breve tempo saremmo scesi nel bacino del Gran Lago Salato e ne ero sollevato, perché istintivamente sapevo che quelle montagne scure ed imponenti erano un luogo insidioso sotto molti punti di vista. Fu mentre aiutavo Ayasha a caricare i cavalli che ebbi per la prima volta la sensazione di essere osservato: durò un attimo, ma fu abbastanza forte da indurmi a voltare la testa verso gli alberi del bosco.
Nei giorni seguenti la fitta sulla nuca si fece sentire più volte ed io divenni irrequieto e paranoico: vedevo pericoli in ogni ombra, agguati dietro ogni angolo e avevo insistito affinché Namid riprendesse ad allenarsi con la pistola.
Agli occhi dei miei amici sembravo pazzo e Namid stessa una sera mi disse, seria in volto:
-Io lo so chi cerchi, quando guardi indietro.-
-Ah sì?-
-Sì, lo so che cerchi Javier, che ti aspetti che spunti da un momento all’altro dalla curva del sentiero, gridando di aspettarlo perché è rimasto indietro…-
Aggrottai la fronte:
-Ti sbagli, Namid: sono sicuro che qualcuno ci segua e ci spii… Ma non vado a caccia di fantasmi. Non credo negli spiriti, io.-
La mia risposta sgarbata sembrò ferirla e le impose di non chiedermi oltre, ma il suo sguardo sospettoso e preoccupato continuò a seguirmi anche mentre lavoravo.
-Tutta questa situazione non mi piace.- sbottai un giorno ad Abraham, mentre esaminavamo altri candelotti di dinamite.
-Cosa, esattamente, non ti piace di questa situazione, Russell? L’aria che si respira al campo o le tue fantomatiche spie?-
-Il mio istinto non mi ha mai tradito!- ringhiai -Qualcuno ci segue, lo so, lo sento! Ma anche restare qui è difficile… Ayasha si spegne di giorno in giorno e il rapporto con Namid è peggiorato dopo la morte del ragazzo, sembra che questa società di colpo le risulti intollerabile! Neanche Annabeth è riuscita a risollevarle il morale… Rachel ti ha detto niente?-
Abe si guardò intorno con fare circospetto prima di parlare:
-Sono alcuni giorni che non la vedo, credo stia male… Sai, l’indisposizione delle donne: debolezza, languore, irascibilità… No, no, meglio starle lontano!-
Mi fermai:
-Sei sicuro che la signora Rachel sia semplicemente in quel periodo del mese?-
-Certo, perché?-
Mi grattai la testa, confuso:
-Perché io l’ho vista uscire dalla tenda del dottor Thompson non più di un’ora fa.-
-Gli sarà andata a chiedere una dose di laudano in caso i dolori si facciano troppo forti…-
-Il dottor Thompson non è il tipo di medico che regala dosi del suo prezioso laudano a tutte le donne indisposte del campo…-
-E allora avrà avuto da lavorare!- sbottò il nero, irritato più dalle mie insinuazioni che dall’idea che Rachel fosse andata a letto con un altro uomo. Del resto, era il suo lavoro.
-Cristo, Abraham, neanche il più disperato di questi relitti toccherebbe una donna in quelle condizioni, è… Disgustoso!-
-Senti, Rachel sta benissimo!- ruggì il mio amico -Dove vuoi andare a parare?-
-Hai preso in considerazione l’idea che possa essere incinta?- continuai, imperterrito, afferrando la maniglia della cassa di dinamite. Abraham sbarrò gli occhi:
-No, io… Io ci sto attento. Non voglio rovinarle la vita, io…-
-Stare attenti non basta, Abe. Io proverei a parlarle. Seriamente, questa volta… Mettila alle strette, vedi cosa ne esce. Un consiglio da amico: un vostro eventuale figlio sarebbe condannato e voi con lui, perciò se è veramente incinta, fai in modo che quel bambino non veda mai la luce del sole.-
 
Ero seduto con Namid su un masso ed osservavamo il maestoso paesaggio che si estendeva davanti a noi: le montagne si diradavano fino a diventare dolci pendii coperti dalla vegetazione e la superficie piatta del lago ai nostri piedi rendeva l’orizzonte una linea scintillante. In silenzio, stretti l’una all’altro, ci godevamo quel momento di intimità che nella confusione del campo ci era spesso precluso; mi sentivo strano mentre le accarezzavo la guancia, perché non mi ero mai considerato un uomo capace di tanta dolcezza. E credo che anche la ragazza, quando la portai per la prima volta in quell’angolo nascosto, rimase sorpresa dalla mia aria rilassata e dall’attenzione che avevo nei suoi confronti. La verità era che l’amavo in una maniera che non avrei mai creduto possibile: Namid era diventata in poco tempo il centro della mia vita, altrimenti vuota, e per lei mi ero sforzato di mitigare il mio carattere. Vivere con i Cheyenne mi aveva dato gli strumenti per comprenderla e la freddezza che aveva iniziato a mostrare nei miei confronti mi aveva spinto a coltivare la passione istintiva ed incosciente che provava nei miei confronti.
-Sposami, Namid.- mormorai ad un tratto, tenendo gli occhi fissi sul tramonto. La ragazza alzò il capo di scatto:
-Dici sul serio?-
-Sì.-
-Ma… Perché? Io ti amo e tu mi ami… Non basta questo?-
Cambiai posizione in modo da poterla guardare facilmente in viso:
-Credevo che bastasse, sì. E la vita che conduciamo, così precaria e sempre in movimento, ci ha spinto a vivere alla giornata, senza preoccuparci del domani. Ma prima o poi questa ferrovia finirà e ci dovremo fermare da qualche parte: io cercherò un nuovo lavoro e vedrò di mantenerti… Voglio una famiglia con te, Namid, voglio dei figli, una casa vera, voglio essere legato a te per tutto il resto della mia vita.-
Le iridi azzurre di Namid si spalancarono e io vi lessi commozione ma anche tanta paura e reticenza: sembrava terrorizzata all’idea di dover pensare al futuro e al pensiero di doversi fermare stabilmente in un luogo. Sapere che nonostante tutto il conflitto tra le sue due identità non era ancora sopito fu un duro colpo per me: non avevo nient’altro da offrirle se non me stesso e un mondo frenetico e corrotto… Cosa avrei fatto se Namid avesse deciso di andarsene?
-Cosa c’è, ragazzina? Perché non dici nulla?-
-Io… Non lo so.- ammise con franchezza -E’ qualcosa di estraneo alla mia cultura… Per sposarmi con te dovrei essere battezzata, giusto?-
-Sì.- sospirai -Ma sarebbe solo una formalità, non ti costringerei mai ad abbandonare i tuoi riti!-
Lei parve riflettere un attimo:
-Devo pensarci, Russell, ma non fraintendermi: anche io voglio passare la mia vita con te, solo… Non capisco questa grande necessità del matrimonio. Noi ci amiamo e non ha importanza che lo sappia anche il resto del mondo.-
Quando tornammo al campo, io pensieroso e Namid con il capo appoggiato alla mia spalla, trovammo un grande fermento:
-Cosa è successo?-
-Oh, ti sei perso una grande cosa, Colt: hanno preso l’indiano!-
Io e la ragazza ci guardammo negli occhi:
-Vai alla tenda!- le intimai, iniziando a correre nella direzione della folla.
-Non ci penso neanche!- replicò lei aggrappandosi al mio braccio. Io sbuffai ed alzai gli occhi al cielo, ma ormai mi ero abituato alla sua testardaggine.
Tutto il buonumore, però, sparì non appena riuscimmo a scorgere le due figure vicino a Dodge.
Namid spalancò la bocca, stupefatta, e la voce le uscì fuori prima che avessi il tempo di fermarla:
-Hevataneo! Kuckunniwi!-
I due indiani si girarono verso di noi. Hevataneo era in catene e sorvegliato a vista da due soldati, mentre Kuckunniwi sogghignava con le mani incrociate dietro alla schiena, sostando in piedi accanto al generale.
-Colt!- mi apostrofò Dodge con voce cupa -Proprio la persona che stavo per mandare a chiamare! Quest’indiano afferma di conoscerti.. E di sapere molte cose che ci avevi taciuto!-
Mi separai da Namid e mi avvicinai di qualche passo al generale:
-Conosco bene quest’uomo e posso affermare senza ombra di dubbio che è un bugiardo e un ingannatore!-
Kuckunniwi digrignò i denti, ma non perse la sua aria trionfante.
-L’indiano che tu accusi ci ha invece portato questo suo simile, che a suo dire si aggirava con fare sospetto nei dintorni del campo. Ha anche aggiunto che la tua permanenza non è stata poi così… Penosa come tu hai raccontato. Dice che ti sei integrato nella tribù dei Cheyenne, addirittura fraternizzato con loro, tanto che ti hanno anche dato un nome nella loro lingua! Enapay… Giusto? E che questo ragazzo- disse il generale, indicando Hevataneo con un gesto vago della mano -Era in realtà qui per tuo conto!-
-Sciocchezze!- tuonai, aggrottando la fronte -Che motivo avrei di far girare quell’uomo nei dintorni della ferrovia? E’ qui per un unico motivo, e cioè che Ayasha, la squaw che è arrivata insieme a me e a Namid, è sua moglie e il bambino che aspetta suo figlio. Generale, perché credete alle parole di questo muso rosso?-
-Perché, a differenza tua, lui ha le prove.-
Riconobbi con orrore l’oggetto che brillava nella mano del generale: la chiave che avevo regalato ad Hevataneo in segno di amicizia.
-La riconosci, già: numerose persone qui al campo te l’hanno vista al collo, Colt, e questo è sufficiente a supportare le parole dell’indiano Kuckunniwi. Arrestatelo!-
-No!- l’urlo di Namid superò il rumoreggiare della folla sorpresa e contrariata e da lontano vidi Abraham e Chuck trattenerla mentre si slanciava verso di me. Con uno strattone la ragazza si liberò e mi raggiunse, lottando contro i soldati di Dodge che mi stavano ammanettando. Piangendo, mi prese il volto tra le mani e io strofinai la fronte contro la sua:
-Andrà tutto bene, ragazzina: troverò il modo di uscirne anche questa volta, ho fatto troppa strada per languire in un carcere o morire sul patibolo. Tu però devi stare attenta. Tieni sempre con te la pistola, non andare al lavoro e trasferisciti con Ayasha da Annabeth: è il luogo più sicuro per voi, adesso.-
-Russell, ti prego…- balbettò tra le lacrime -Ti prego, torna da me!-
King la afferrò per un braccio, strattonandola indietro e spingendola a terra.
-Stai lontano da lei!- gli intimai, ma il controllore ridacchiò, mettendo in evidenza i denti marci.
-Non sei esattamente nella posizione giusta per minacciarmi, Colt!-
Prima che potessi replicare le guardie mi spinsero insieme ad Hevataneo, che mi guardava con espressione colpevole, verso il vagone merci adibito ad occasionale prigione. La voce di Namid risuonò chiara e ferma nelle mie orecchie:
-Io ti sposo, Russell Walker. Hai capito? Fosse anche l’ultima cosa che faccio, ti sposo!-
 
 
Angolo Autrice:
Beh, le precisazioni che ho da fare sono più di trama che di sfondo storico: la reticenza di Namid è dovuta ovviamente al fatto che, come ogni essere umano, gli improvvisi e sconvolgenti cambiamenti che le sono capitati l’hanno resa alquanto timorosa nei confronti del futuro. E poi il matrimonio come lo intende Russell è qualcosa di totalmente estraneo per lei; ci tenevo  a precisare quindi che non rifiuta perché non è innamorata, solo perché dubbiosa (e infatti alla fine del capitolo cambia idea).
Hevataneo è vivo, ma questa non è necessariamente una buona notizia, perché sia lui che Colt rischiano di finire sul patibolo: fraternizzare con gli indiani era un atto gravissimo soprattutto in un ambiente, come quello ferroviario, che era governato da un regime militare.
Come si muoverà Kuckunniwi? E che farà Namid per liberare Russell?
Fatemi sapere cosa ne pensate xD
Alla prossima
 
Crilu 

 

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Capitolo 26
*** The plan ***




P.O.V. Namid

 
Quando vidi gli uomini di Doge ammanettare Russell e portarlo via da me credetti di impazzire. Le ore seguenti furono lunghe ed estenuanti: Ayasha innalzava altissime grida di dolore e piangeva senza sosta, Annabeth era ancora tenuta segregata dal padre, Rachel sembrava sparita… Ero sola, completamente sola. E i miei pensieri tornavano a vorticare furiosamente sulla proposta di matrimonio di Russell, quella proposta su cui avevo stupidamente sorvolato. Non mi era sfuggito il lampo di tristezza e delusione che aveva attraversato i suoi occhi quando aveva capito che non ero ancora pronta per quello… Mentre ero seduta a gambe incrociate nella tenda, con in grembo la pistola, mi maledicevo per non aver reagito diversamente: avrei dovuto abbracciarlo, baciarlo, fargli capire quanto anche io desiderassi la stabilità necessaria per vivere in pace! Invece le mie paure mi avevano frenata, ricordandomi la mia natura di Cheyenne e tutte le piccole cose che mi differenziavano da lui.
-Ayasha, basta!- ringhiai, in lingua indiana. La mia amica mi fissò con gli occhi sbarrati:
-Come posso smettere? Li uccideranno, Namid!-
-No!- esclamai, alzandomi in piedi -No, noi lo impediremo! Gli uomini bianchi non l’avranno vinta, non stavolta!-
Sentii Hutch uggiolare amichevolmente e poco dopo Chuck si affacciò impacciato dal lembo della tenda.
-Come stai Namid?-
Nascosi la pistola nella sacca che portavo al fianco e feci cenno all’uomo di uscire. Fuori fummo oggetto di diverse occhiate sospettose, ma non me ne curai: un piano aveva iniziato a prendere forma nella mia mente e avevo bisogno di tutto l’appoggio possibile per portarlo a termine.
-Ho avuto giornate migliori… Cosa sai di Russell?-
-Brutte notizie: Dodge è un uomo molto accorto e sospettoso e l’ha fatto arrestare perché non era stato convinto della sua storia fin dal principio… Rischia di essere accusato di tradimento e giustiziato.-
Gemetti, serrando gli occhi davanti all’orribile immagine di Russell su un patibolo.
-D’altro canto, però, il generale non è neanche propenso a credere a cuor leggero alle parole dell’indiano…-
Mi lasciai andare ad un mezzo sorriso:
-Perfetto, allora!-
-Come, scusa?-
-Chuck, l’unico modo per salvare entrambi è tirare Russell fuori di lì in maniera legale: poi sono sicura che lui troverà il modo di far liberare anche Hevataneo. L’unica possibilità che abbiamo è dimostrare il vero carattere di Kuckunniwi.-
Chuck aggrottò le sopracciglia.
-Ma l’indiano dice la verità…-
-Non sempre, amico mio, e se lo conosco almeno un poco, cadrà nella nostra trappola. Dimmi, che cosa ha chiesto a Dodge in cambio della sua delazione?-
-Non so se ti piacerà… Vuole te e Ayasha come ricompensa.-
-Lo immaginavo…-
-Hai qualcosa in mente, vero, piccola indiana?-
-Forse. Ma avrò bisogno di tutto il vostro aiuto per realizzarla.-
 
Kuckunniwi stava osservando incuriosito la canna di un fucile, protetto dall’ombra di una quercia… E da un paio di soldati di Dodge che gli ronzavano intorno. Repressi a stento un sorriso, nel vedere come il generale tenesse sott’occhio il suo informatore-prigioniero.
Kuckunniwi mi notò subito e stirò le labbra in un ghigno compiaciuto:
-Namid… Chi l’avrebbe mai detto che le nostre strade si sarebbero incrociate di nuovo? Sei ancora più bella di quanto ricordassi!-
-Tu, invece, sei sempre lo stesso, Kuck. Molto abile la tua mossa di consegnare Hevataneo per incastrare Russell.- mormorai addolcendo la mia espressione ed avvicinandomi a lui. Con la coda dell’occhio vidi gli uomini di Dodge avvicinarsi per capire cosa stavamo dicendo, ma era inutile, perché parlavamo in lingua Cheyenne.
-Cosa sei venuta a fare da me? Cerchi forse la mia pietà per liberare l’uomo bianco che ti ha sedotta?-
-Chi, Russell?-
Alzai le spalle con una smorfia indifferente:
-Non credo che uscirà tanto presto da lì e io ho bisogno di protezione ora. Una protezione che solo tu mi puoi dare…-
Kuckunniwi mi scrutò sospettoso:
-Non è da te questo comportamento. Sei sempre stata così… Buona, e pronta a credere nella bontà degli altri. Eri ingenua. Perché adesso ti svendi così?-
-Cosa ti posso dire?- ridacchiai con un sorriso tirato -La vita dei bianchi mi ha cambiata. Sono cresciuta, non sono più la ragazza che conoscevi…-
Mi avvicinai ancora, scusandomi mentalmente con Russell, in quanto anche io ero disgustata da ciò che stavo per fare: avvicinai le labbra all’orecchio di Kuckunniwi, facendo in modo che i nostri corpi strusciassero l’uno contro l’altro attraverso le vesti.
-So molte cose in più, adesso. Ho bisogno di qualcuno in grado di garantirmi la sopravvivenza. Portami via da qui, Kuck, e ti darò tutto quello che vorrai…-
L’uomo si scostò, pur con uno scintillio di pura cupidigia nello sguardo:
-La tua idea è interessante ma… No, grazie. Ti avrò lo stesso e presto, grazie a Camicia Blu. Soprattutto, ti avrò alle mie condizioni. Ah, e avrò anche quel piccolo fiore delicato che è Ayasha! Non vedo l’ora di mostrare ad Hevataneo e ad Enapay le loro donne come trofeo!-
Intimamente sospirai di sollievo: era esattamente la risposta che volevo.
Perciò mi tirai indietro e piegai la testa con un sorriso compassionevole:
-Povero Kuckunniwi, sei tu l’ingenuo tra noi due, adesso: credi davvero che Dodge ci cederà a te?-
-Perché non dovrebbe farlo? Siete indiane, chi mai potrebbe volervi?-
-Oh, gli uomini bianchi sono strani: vedono un corpo femminile e diventano pazzi! Ma non c’è problema: volevo proporti un affare e scappare con te, ma visto che sei di questo avviso… Aspetta pure invano la tua ricompensa, Kuckunniwi: io vado a cercare la protezione che voglio da qualche altra parte. Addio.-
Mi allontanai senza permettergli di replicare e ridacchiai con gioia trionfante quando lo sentii imprecare e lanciare grida soffocate.
La prima parte del mio piano era andata in porto: c’era solo da sperare che Kuckunniwi abboccasse e che riuscissimo a mostrare a Dodge chi fosse in realtà.
 
P.O.V. Russell
 
La mattinata volgeva al termine e nulla lasciava presagire un cambiamento nella nostra condizione: da quando eravamo stati imprigionati, la sera prima, né io né Hevataneo avevamo aperto bocca. C’erano troppe cose non dette tra noi, lo spettro di un massacro e un’armonia incrinata… Alla fine fu lui a rompere il silenzio:
-Mi dispiace, Enapay.-
Io sbuffai, amaramente divertito:
-E per cosa? Siamo noi ad aver catturato te.-
-Sì, ma se io non avessi voluto raggiungervi a tutti i costi a quest’ora tu saresti insieme a Namid. Mi sono fatto sorprendere da Kuckunniwi come uno stupido… Non sapevo che fosse sopravvissuto allo scontro.-
-Già…- mormorai, assorto -E tu come hai fatto, invece?-
Hevataneo si sgranchì le gambe, facendo cigolare le catene che le stringevano:
-Mi hanno colpito alla testa con il calcio di un fucile e sono caduto da cavallo, come morto, per quello mi hanno lasciato stare. Dopo giorni di incoscienza mi sono risvegliato nella capanna di Chuchip: mi aveva raccolto dal campo di battaglia e mi ha curato fino a quando non sono stato capace di rimettermi in piedi. Allora mi sono messo sulle vostre tracce ma quando sono arrivato alla ferrovia ve ne eravate già andati… Per tutto questo tempo vi ho seguito costantemente, io… Volevo assicurarmi che tu avessi mantenuto la tua promessa, mi dispiace! Davvero!-
-Adesso basta!- ringhiai, voltandomi verso di lui -Hai fatto ciò che avrei fatto anche io, se ti avessi affidato Namid in punto di morte! Non avrei sopportato di sopravvivere senza averla al mio fianco… Ma avresti potuto trovare una maniera meno vistosa di venirti a riprendere tua moglie!-
Hevataneo abbozzò un sorriso:
-Come sta?-
-Non bene. Ho fatto il possibile per proteggerla, ma le manchi terribilmente.-
Il mio amico sussultò e chiuse gli occhi, irrigidendo le membra:
-Credi che ci libereranno, prima o poi?-
-Non lo so. E’ più probabile che liberino te, se proprio il Signore ci concederà questa grazia!-
-Non capisco…-
-Kuckunniwi ha rivelato al generale Dodge la verità sulla mia permanenza presso di voi e… Diciamo che non l’ha presa bene. C’è la pena di morte per chi tradisce lo Stato e Dodge qui è lo Stato.-
-Cos’è lo Stato?-
-Oh, lascia perdere!-
Hevataneo fissò il suo sguardo annoiato nelle feritoie lasciate aperte dalle assi sconnesse del vagone:
-Sai, mi sei mancato anche tu.-
Feci una smorfia:
-Così mi commuovo…-
L’indiano riacquistò un poco della sua solita aria allegra:
-Dico davvero! La mia tribù è distrutta ormai… Ho visto morire i miei amici, i miei fratelli di caccia, ho visto Otoahhastis venire ucciso da decine di colpi di fucile… Non ho più nessuno, solo voi.-
Fui attraversato da un brivido nell’udire il suo racconto e mi sforzai di far uscire ciò che covavo dentro di me da quando lo avevo visto incatenato in mezzo al campo della ferrovia:
-Hevataneo.-
-Mmm?-
-Sono felice che tu sia sopravvissuto.-
 
Nel pomeriggio fui risvegliato dal dormiveglia in cui ero caduto da dei colpi energici alla porta della prigione:
-Russell? Sono io, Abraham!-
-Abe! Cosa ci fai qui?-
-Non ho molto tempo, volevo solo assicurarmi che stessi bene.-
-Come vuoi che stia? In prigione, ecco come sto!-
Lo sentii ridere, ma di una risata spenta:
-Non ti preoccupare, la piccola indiana ha già trovato il modo di tirarti fuori dai guai!-
-Abraham, non permettere a Namid di fare qualcosa di avventato, hai capito? Anzi, non farle prendere nessuna iniziativa!-
-Troppo tardi! Ma se ti può consolare il suo piano per abbindolare l’indiano sta riuscendo alla perfezione!-
-Si è avvicinata a Kuckunniwi?- urlai, rosso di rabbia. Sapevo che Namid non si fermava davanti a niente quando voleva raggiungere un obiettivo, ma in quel momento mi sembrava troppo rischioso lasciarle fare di testa sua: doveva essere sconvolta e io non potevo aiutarla in nessun modo se si fosse messa nei guai con Kuckunniwi, o con King, o con Dodge…  
-Russell, calmati, attirerai l’attenzione! Non arrabbiarti, tutta la squadra è con te, la proteggeremo, vedrai… Ci siamo affezionati a quella ragazzina, non permetteremmo a nessuno di torcerle un capello, devi credermi! Pensa solo che se tutto va bene domani a quest’ora sarai un uomo libero!-
-D’accordo…- borbottai, poco convinto. Poi, insospettito dal tono dimesso dell’ex-schiavo, lo richiamai indietro:
-Abraham, c’è qualcosa che non va? Qualcosa che ha a che fare con una certa donna bianca, magari?-
Abe inspirò bruscamente e in quel gesto colsi un dolore che mi mise in allarme:
-Avevi ragione, Russell, Rachel non è semplicemente in quel periodo del mese.-
-E’ incinta, lo sapevo!-
-No. E’ malata… Ha la consunzione.-
 
 
Angolo Autrice:
Per Russell ed Hevataneo non tutto è perduto, ora che Namid si è mossa per salvarli… Ma come intende attrarre Kuckunniwi nella trappola?
Consunzione era il termine più usato, nelle classi meno agiate, per indicare la tisi, una malattia debilitante molto diffusa nell’Ottocento…
A presto
 
Crilu 

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Capitolo 27
*** The trap ***




P.O.V. Namid
 
Kuckunniwi era un codardo e un subdolo doppiogiochista, ma non era stupido. Non si sarebbe mai lanciato in un’impresa rischiosa se avesse potuto ottenere ciò che voleva in un altro modo. Digrignai i denti dalla rabbia al pensiero che il generale Dodge credeva di poter disporre di me e Ayasha a suo piacimento solo perché eravamo donne! Ma oppormi apertamente avrebbe solo peggiorato la posizione di Russell, perciò non mi rimaneva che agire in fretta e sperare che la trappola che avevo ideato funzionasse.
Mancavano poche ore al calare dell’oscurità, quando avrei agito con la complicità dei compagni di Russell; dopo che alcuni uomini avevano provato ad aggredirla, Ayasha aveva trovato rifugio nella chiesa, da Annabeth, e quando ero passata ad accertarmi delle sue condizioni (avevo infatti il terrore che gli ultimi tragici avvenimenti potessero farle perdere il bambino) avevo notato con sollievo che Nowak sostava nei pressi della tenda e sorvegliava attentamente chiunque si avvicinasse. Evidentemente temeva per la sua promessa sposa e sarebbe di certo intervenuto se qualche operaio poco sano di mente avesse avuto l’idea di “dare una lezione all’indiana”, come sentivo dire in giro per il campo.
Mi diressi perciò da Rachel, tenendo sempre la mano vicino alla mia borsa per afferrare la pistola in caso di pericolo: avevo bisogno del suo aiuto per somigliare il più possibile ad una delle sue ragazze, per quanto l’idea mi facesse rabbrividire, e poi ero preoccupata per lei, dato che non la vedevo da giorni ormai.
Quando arrivai al bordello, però, una delle prostitute mi tagliò la strada:
-Non oggi, indiana. La signora Rachel non vuole vedere nessuno!-
-Ho bisogno di lei!- replicai -E tu non puoi impedirmi di passare!-
-Pauline, lasciala passare…-
La voce della mia amica si sentì appena oltre la porta chiusa e Pauline si fece da parte con espressione preoccupata.
Mi stupii di trovare Abraham in piedi davanti alla porta, quasi invisibile nella penombra in cui la stanza era immersa: Rachel giaceva nel letto con gli occhi socchiusi e i capelli sparsi sul cuscino.
Mi voltai verso l’ex-schiavo, che teneva gli occhi bassi:
-Cosa succede, Abe? Perché sei qui? E perché Rachel non si fa vedere in giro?-
-Sono malata, non sorda!- borbottò Rachel bonariamente, scoppiando poi a tossire in modo convulso, tenendosi un fazzoletto premuto sulla bocca. Quando lo poggiò sul comodino notai con orrore che era macchiato di sangue!
La donna colse la mia occhiata spaventata e sorrise:
-Si chiama tisi, dolcezza.-
-E’ grave?- balbettai, indecisa se avvicinarmi o meno. -Morirai?-
Rachel lanciò un’occhiata ad Abraham, che restava ostinatamente muto:
-Il dottore è stato parecchio misterioso ma… Sì, morirò, anche se non so bene quando. Forse non supererò l’inverno, forse arriverò al prossimo, chi lo sa? La consunzione è una malattia che ti sfianca lentamente. Direi che i tuoi problemi sono molto più urgenti, non è vero? Colt è in galera.-
Rimasi a bocca aperta nell’udire il tono distaccato con cui parlava della sorte che pendeva implacabile su di lei:
-Ma ci dev’essere una cura, qualcosa che si può fare! Voglio dire, la vostra società è così… Così avanti in tante cose e…-
-Non abbastanza avanti per questo, temo.- replicò dolcemente Rachel e fu in quel momento che iniziai a piangere silenziosamente. La donna sospirò:
-Abe, per favore, puoi lasciarci sole? Utilizza la porta sul retro e fai sì che nessuno ti veda, mi raccomando.-
Il nero si riscosse dalla sua immobilità e dopo aver lanciato un’ultima occhiata addolorata alla prostituta imboccò la porta: vederlo così silenzioso e fragile nel suo dolore aumentò l’angoscia che mi pervadeva.
-No, non avvicinarti!- ringhiò Rachel tra un attacco di tosse e l’altro, mentre si sistemava a sedere sul letto. Obbedii, notando comunque la pelle pallida delle sue braccia e le mani quasi scheletriche.
-Non senti freddo?- chiesi, vedendo che indossava solo una leggera veste da camera.
-Al contrario, muoio di caldo, la notte non riesco neanche a dormire… Perché eri venuta da me, Namid?-
-Avevo bisogno di un consiglio, ma adesso… Non so se è il caso.-
-Oh, andiamo, non sono ancora morta! Ho già reso chiaro alle ragazze che finché non mi si chiudono gli occhi sarò io a mandare avanti la baracca; convincere quel bisonte testardo di Abraham a non vederci più è stato più difficile, ma sono riuscita anche in quello. Quindi non sarai certo tu a trattarmi da povera invalida, indiana!-
Ridacchiai, sedendomi a gambe incrociate sul pavimento e lanciando un’occhiata all’ambiente che mi circondava: la stanza, a differenza di tutto il resto del campo, era piena di oggetti. Lampade spente, numerosi specchi di ogni forma e dimensione, biancheria, vestaglie e camicie sparse su ogni sgabello e appendiabiti, pantofole ordinatamente disposte in fila in un angolo, buffi cappelli con le piume, spazzole, trucchi, gioielli e profumi… Tutto, lì dentro, parlava di lei e della sua storia. Invece di vergognarsi e rassegnarsi a subire il suo destino Rachel si era fatta strada a testa alta in un ambiente dominato dagli uomini: aveva esperienza, fascino e un buon fiuto per gli affari, era bella anche se la sua giovinezza stava sfiorendo e in un luogo marcio e corrotto come la ferrovia era riuscita a trovare anche un uomo che l’amava, seppure di nascosto. 
Ed ora che stava per perdere tutto trovava comunque del tempo per me.
-Non sei spaventata da ciò che ti aspetta?- chiesi, di getto. Rachel piegò la testa da un lato:
-Ha senso preoccuparsi per qualcosa che non posso evitare? Ascolta: ho vissuto intensamente ogni attimo della mia vita, anche quando ero solo una volgare donna di piacere. Ho fatto molte scelte, alcune giuste, altre decisamente sbagliate; ho pianto, ho riso, ho amato… E di tutto ciò che ho passato non c’è una sola cosa di cui mi rammarico. Ho avuto una bella vita, Namid: non la migliore, certo, ma è stata ricca di persone e di luoghi e difficilmente una come me avrebbe potuto ottenere qualcosa di più. L’unico vero, grande consiglio che ti posso dare è questo: non avere mai rimpianti. Mai. Mi dispiace solo per Abraham, sì, per lui mi dispiace molto.-
Alla fine di quel discorso le lacrime premevano di nuovo ai bordi dei miei occhi, impazienti di uscire, ma mi sforzai di ricacciarle indietro: ero sicura che Rachel avrebbe disapprovato quello che considerava un gesto di debolezza.
-Vorrei avere anche solo la metà della tua sicurezza!- sospirai, chiudendo gli occhi -Me ne servirà molta stasera… Insieme a qualcosa che solo tu mi puoi prestare!-
Gli occhi della mia amica si accesero di curiosità ed io, lanciando un’occhiata preoccupata al sole che si avviava rapidamente al tramonto, iniziai a parlare.
 
Il vestito che una delle ragazze di Rachel mi aveva prestato era estremamente scomodo per una che, come me, per tutta la sua vita non aveva indossato altro che una morbida tunica di pelle di bisonte. Era stretto e rigido, ma allo stesso tempo lasciava scoperta più pelle di quanto fosse lecito; soffocante e ingombrante, ma sembrava attirare l’attenzione degli uomini. Pregai tutti gli spiriti affinché non incontrassi King o uno dei suoi compari: sarebbe stata la fine per me e quindi anche per Russell. Dovevo agire quella sera stessa per evitare che Kuckunniwi rivelasse i suoi dubbi a Dodge e questi subodorasse l’inganno. Sospirai di sollievo quando, in mezzo alle battute crudeli che ironizzavano sulla condizione di Russell e sulla soluzione che sembravo aver trovato, udii le risate rassicuranti dei ragazzi della squadra. Presi un respiro profondo, adocchiando l’indiano che sostava accanto ad un bivacco qualche iarda più in là: non mi aveva ancora notato, perché la visuale gli era coperta dalla sua “scorta”.
“Forza, Namid: sei tu ad essere in vantaggio. King non è nei paraggi, e tu conosci gli uomini bianchi, Kuckunniwi no. Il tuo piano riuscirà e lui perderà la testa!”
Sorrisi e mi avvicinai ad Eric Collins che mi strizzò l’occhio con fare complice, sfiorandomi il braccio: sperai che nessuno notasse quanto fossero discreti. Tra il tessuto frusciante che mi accarezzava le braccia sentivo comunque il peso rassicurante della Remington, la mia ultima e più solida garanzia di sopravvivere. Bryan Lynch mi afferrò per i fianchi ridendo:
-Mi raccomando, non farne parola a Colt!- sussurrò nervoso, continuando a fingere di toccarmi. In breve mi furono tutti intorno, proteggendomi e allo stesso tempo aiutandomi nella mia farsa, beccandosi le lamentele degli altri lavoratori.
-Avanti, lasciatela un po’ anche a noi!- si sentiva gridare da tutte le parti. Fu allora che Kuckunniwi si accorse di cosa stava succedendo: vidi i suoi occhi di serpente scandagliare la folla fino a posarsi su di me ed improvvisamente rallentai i miei movimenti, come se fossi ammaliata dal suo sguardo furioso. Con un ringhio degno di un lupo iniziò a spintonare i presenti per farsi largo verso di noi e quando un ragazzo provò a richiamarlo senza esitazione lo buttò a terra, continuando imperterrito ad avanzare. Gli uomini rumoreggiarono infastiditi e Kuckunniwi, con uno slancio, spedì a terra Jacob Fano che stazionava coraggiosamente davanti a me nonostante la figura bassa e magra. Le sue mani mi afferrarono i capelli e gemetti per il dolore, mentre sentivo la lama fredda del suo coltello premermi sulla gola:
-Stella-che-balla viene con me.- urlò in un inglese stentato -Lasciatemi andare o l’ammazzo!-
La folla iniziò ad indietreggiare, colpita – nessuno voleva rischiare tanto per una donna. Anche i ragazzi della squadra, ad un mio cenno, si dispersero con un’ultima occhiata preoccupata: ero sicura che Abe sarebbe andato da Russell, mentre Lee correva in direzione dell’alloggio di Dodge.
Kuckunniwi mi strattonò lontano dai fuochi, nell’oscurità ai limiti del campo: aveva rotto i patti con gli uomini bianchi e sapevo bene che Dodge avrebbe reagito duramente. Non tanto per la mia incolumità, quanto per l’onore: farsi ingannare e sottomettere da un indiano non era una cosa che il capo della ferrovia avrebbe mai potuto accettare.
La mia idea si era quindi rivelata vincente, ma quando Kuckunniwi mi lasciò andare con un ghigno soddisfatto sorse un nuovo problema, per il quale non avevo ancora trovato una soluzione: come avrei fatto ad uscire incolume da quella situazione?
Fortunatamente non dovetti attendere molto perché dalla ferrovia giungessero esclamazioni rabbiose e ordini urlati dalla voce inconfondibile del generale Dodge.
Mi voltai verso Kuckunniwi:
-Hai commesso un grande errore.- urlai, affinché i soldati che stavano giungendo in quel momento mi sentissero e non mi scambiassero per sua complice. Vidi Dodge a cavallo che guidava i suoi con una fiaccola accesa e continuai a gridare:
-Non sei mai venuto meno alla tua natura. Bugiardo! Spergiuro! Ingannatore!-
Ma Kuckunniwi non attese che le truppe di Dodge lo circondassero: mi sferrò un colpo alla nuca che mi stordii e mi prese in braccio, correndo agilmente nelle fronde scure ed impenetrabili della foresta.
 
 
Angolo Autrice:
E niente, sono bloccata a casa con influenza, tosse e raffreddore, perciò mi consolo pubblicando in anticipo xD
Il piano di Namid è riuscito solo a metà: Kuckunniwi non ha rispettato i patti e si è inimicato Dodge, ma l’ha anche rapita, trascinandola chissà dove! Come reagirà Russell quando lo verrà a sapere?
 
Crilu 

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Capitolo 28
*** The fight ***




Quando la voce affannata di Abraham si fece sentire accanto alla nostra prigione, per istinto intuii subito che qualcosa, nel piano di Namid, era andato storto.
-L’ha portata via, Russell!- esclamò il mio amico, affranto -E’ sparito con lei nel bosco, non siamo riusciti a rintracciarlo. Complice la notte, le sue impronte sono praticamente invisibili…-
-Non può essere!- urlai, fuori di me, scagliando un pugno contro le assi di legno, che scricchiolarono. Sottili e pungenti schegge si infilarono nel palmo della mia mano, ma non me ne curai: come avevo previsto, Namid era da sola nel momento del pericolo ed io ero inerme, incatenato in un vagone chiuso a chiave, mentre Kuckunniwi poteva fare di lei ciò che voleva.
Crollai in ginocchio, la testa mi girava vorticosamente e non sentivo più i richiami preoccupati di Abe, né le esclamazioni di Hevataneo; volevo solo poter chiudere gli occhi e vedere nuovamente la mia ragazzina accanto a me, libera e viva.
“Potrebbe ucciderla. Potrebbe averlo già fatto.” Pensai, terrorizzato.
Per alcune ore alternai stati di apatia a momenti di furia cieca, nei quali mi lanciavo rabbiosamente contro la porta chiusa della prigione, senza curarmi del dolore che le catene ai polsi e alle caviglie mi procuravano.
Poi, verso metà mattinata, io ed Hevataneo ricevemmo una visita inaspettata: sulla soglia del carcere apparve infatti Dodge, con i capelli brizzolati in disordine e la divisa impolverata e cosparsa di foglie. Restammo qualche minuto ad osservarci in silenzio: il generale era impassibile e i suoi occhi restavano fermi su di me per soppesarmi e giudicarmi; io, invece, fremevo di rabbia e il mio sguardo era carico di accusa.
-Temo di aver dato un giudizio affrettato.- mormorò infine Dodge, facendo qualche passo all’interno del vagone. Con la coda dell’occhio, vidi Hevataneo che lo fissava teso e incuriosito: il generale era un uomo alto e ben piazzato e se teneva la testa e la schiena diritte cozzava contro il tetto del vagone, perciò procedeva incurvato.
-Ti ho fatto un torto, Walker, ne sono consapevole: del resto, la storia di quell’indiano suonava convincente e quella chiave era sicuramente tua… Ma prima che tu possa lanciarti contro di me, ti dico che sono pentito del mio errore. Ora abbiamo un problema più urgente da affrontare e che richiede il tuo intervento.-
-Non vedo il motivo di tanta preoccupazione!- esclamai con astio -In fondo si tratta solo di una donna indiana senza valore, giusto? E il suo uomo è stato sbattuto in galera, perciò perché darsi tanta pena, generale?-
Gli occhi di Dodge fiammeggiarono d’ira:
-Nessuno cerca di imbrogliarmi e la passa liscia!- ringhiò con severità -Nessuno, Colt, faresti bene a ricordartelo. Tanto meno quel bastardo di un muso rosso! Mi riprenderò la ragazza perché è bene che questi selvaggi conoscano la forza del nostro pugno e questa sarà l’ultima offerta che ti farò: dopo di che ti volterò le spalle e andrò a cercare la tua donna da solo!-
 
Qualche ora dopo procedevo con determinazione nella foresta alla testa di un piccolo drappello di soldati, tenendo per le briglie Tasunke. Le orme di Kuckunniwi erano state difficili da scovare perché era stato abbastanza furbo da cancellarle non appena aveva accumulato un po’ di vantaggio; ma con la fretta non era stato abbastanza accorto e adesso procedevamo silenziosamente dietro ad Hutch e agli altri cani che, con il naso sul terreno, seguivano l’odore di Namid. Stavamo scendendo a valle: tutto intorno a noi si sentiva un lontano scrosciare delle acque dei torrenti che correvano verso i Grandi Laghi.
Ogni istante era prezioso: in qualsiasi momento Dodge avrebbe potuto tornare sui suoi passi, decidendo che in fondo la vita di Namid non valeva abbastanza per mobilitare tutti quegli uomini e che gli Stati Uniti d’America si elevavano molto al di sopra delle nostre piccole, misere esistenze. Ma io non potevo cedere o desistere: anche se fossi rimasto solo in quella boscaglia sarei andato avanti, finché non avrei raggiunto Kuckunniwi e non gli avrei piantato con grande soddisfazione una pallottola nel cervello. Una parte di me, soffocata ed ignorata, era anche furiosa con Namid, per il suo piano sconclusionato che voleva mettere in luce l’inaffidabilità dell’indiano:
“C’erano mille altri modi per provare la sua natura, ragazzina! Modi più diplomatici e meno pericolosi!”
Mi stupivo della piega che prendevano i miei pensieri, io che ero sempre stato un uomo istintivo e sanguigno; ma forse Chuchip ci aveva visto giusto ed io avevo imparato davvero ad apprezzare i momenti di calma per riflettere e pianificare.
Purtroppo, quando i cani drizzarono le orecchie e uggiolarono puntando una direzione precisa io non ero ancora giunto ad una conclusione: non avevo idea di come poter sorprendere Kuckunniwi e renderlo inoffensivo prima che facesse del male a Namid.
“Sempre che sia ancora viva!”
Non c’era più tempo per ragionare, ad un cenno di Dodge sbucammo dai cespugli e la scena che mi si presentò davanti mi fece balzare il cuore in gola: Namid era viva e apparentemente illesa, ma era saldamente tenuta prigioniera da Kuckunniwi. Sotto il tozzo e scosceso spuntone di roccia su cui l’indiano si era arroccato ruggivano le rapide di un fiume che, dopo aver perso velocità nelle cascate, si buttava nel Lago Superiore.
Ci fermammo tutti, impietriti dal ghigno di Kuckunniwi che strinse la presa sul collo della ragazza tanto da strapparle un gemito di dolore. Senza curarmi dei richiami di Dodge, feci qualche passo avanti: lesto, l’indiano si tirò ancora più indietro, sempre più vicino al bordo del precipizio.
-Vai via, Enapay.- ringhiò in lingua Cheyenne, brandendo il coltello e facendolo scivolare lungo la clavicola di Namid. Non avrei mai fatto in tempo ad estrarre la pistola prima che le affondasse la lama nel petto…
-Sei circondato, Kuckunniwi. Sei solo. Arrenditi, e avrai salva la vita!-
-Non ci si può fidare dell’uomo bianco: Otoahhastis l’ha fatto, Otoahhastis si è fidato di te, e guarda a cosa è andato incontro! Guarda a cosa è andata incontro la nostra tribù! No, Enapay, non mi arrenderò: allontana i tuoi uomini, lasciami libero il cammino e Namid sarà salva.-
-Lascia andare lei e vattene da questi luoghi: non ti sarà fatto alcun male.-
Kuckunniwi scoppiò a ridere e fu in quel momento che vidi un lampo di coraggio, o forse di puro istinto, attraversare gli occhi blu di Namid: con un grido animalesco la ragazza fece scattare il capo all’indietro, colpendo Kuckunniwi sul naso e stordendolo per qualche istante. Poi saltò lontana da lui, tentando di mettersi in salvo: io e l’indiano scattammo nello stesso momento, mentre Lee, dietro di noi, urlava:
-Non sparate, idioti! Colpirete Colt!-
Neanche io avevo avuto la prontezza di riflessi di tirare fuori la pistola e impegnato in un corpo a corpo disperato con Kuckunniwi non riuscivo a raggiungere la fondina. La roccia sotto i miei piedi era umida e coperta di muschio e lottare lì sopra diventava ogni momento più complicato, immerso nel vapore del fiume ed attento a schivare i continui colpi di coltello. Fu così che scivolai, perdendo la presa sulla casacca dell’indiano e in un attimo mi ritrovai con il suo braccio stretto attorno al collo, pronto a strangolarmi.
-Kuckunniwi!- gridò Namid, sovrastando il rombo delle acque. Il respiro mi stava venendo meno e faticai a metterla a fuoco: emerse dalla nebbia reggendo saldamente in mano la Remington puntata a terra, tra lo stupore degli uomini bianchi. Il petto di Kuckunniwi fu scosso da una risatina rauca:
-Vuoi uccidere quest’uomo con le tue stesse mani? Sei libera di farlo!-
 
P.O.V. Namid
 
Dietro di me gli uomini bianchi mormoravano, indicandomi, ma io non li sentivo. Avevo occhi e orecchie solo per il viso paonazzo di Russell e per il cuore che batteva impazzito nel mio petto: Kuckunniwi fece qualche altro passo indietro, pronto per gettare l’uomo nelle rapide del fiume.
Dovevo agire, anche se sapevo di non essere pronta.
“Saresti disposta a convivere con la colpa di aver ucciso l’uomo che ami?” mi chiese una voce dentro di me. Chiusi gli occhi e il braccio che reggeva la pistola vacillò leggermente:
“Devo correre il rischio, anche se ho un’unica possibilità!”
Con  dita tremanti rovistai nella sacca che portavo appesa sotto la gonna che mi aveva prestato Rachel,  tirai fuori un rotolo di carta lubrificata che conteneva polvere e pallottola, lo aprii con i denti e caricai la pistola; feci un respiro profondo, puntai l’arma contro Kuckunniwi ed incrociai lo sguardo di Russell. Vi lessi un tale orgoglio ed amore che per un attimo vacillai, poi l’indiano voltò il capo verso di me e prima che potesse reagire sparai. La detonazione rimbombò sulle pareti rocciose delle montagne, perdendosi nella valle. Mentre un sibilo fastidioso persisteva nelle mie orecchie vidi Russell e Kuckunniwi cadere a terra, senza più muoversi.
-No!- urlai, sconvolta. Ma quando mi avvicinai vidi che l’uomo bianco si stava faticosamente mettendo a sedere, passandosi una mano sul collo e tossendo per riuscire a respirare normalmente. Lo abbracciai piangendo e ridendo insieme, le spalle scosse da un tremito incontrollabile: per un momento avevo davvero creduto di non poterlo toccare mai più.
-Va tutto bene, piccola stella che balla…- mormorò dolcemente lui, stringendomi a sé -Sei stata formidabile!-
Un lamento appena udibile ci riportò alla realtà e mentre i compagni di Russell si avvicinarono per aiutarlo, io mi voltai verso Kuckunniwi: il proiettile aveva centrato il torace e un copioso rivolo di sangue si riversava dalle sue labbra, tese nello sforzo di pronunciare le sue ultime parole.
-Io salirò al Grande Spirito, Namid… Io sono un vero Cheyenne, mentre tu… Che hai rinnegato… La tua gente… Sarai giudicata dal consiglio degli antenati e…-
-Il nostro mondo non esiste più, Kuckunniwi!- replicai con amarezza e un pizzico di compassione -Presto nessuno si ricorderà degli antenati e degli spiriti che governano la natura e l’uomo bianco regnerà sulle nostre terre. Ma io porterò i Cheyenne nel mio cuore per sempre, anche se non faccio più parte della tribù…-
Con un ultimo sussulto, Kuckunniwi giacque immobile, lo sguardo spalancato verso il cielo. 
Sentii le braccia calde e forti di Russell stringermi e sollevarmi, allontanandomi dal cadavere:
-Vieni, Namid: torniamo a casa.-
 
 
 
Angolo Autrice:
Infine, Namid si è “salvata da sola” grazie agli insegnamenti di Russell, che ha ottenuto il perdono di Dodge… O almeno così sembra. Kuckunniwi è morto e con lui è perito anche uno degli ultimi legami di Namid con le tradizioni Cheyenne… Ora resta il problema di come liberare Hevataneo!
Nel frattempo, buon 2017 a tutti!!!
 
Crilu 

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Capitolo 29
*** The escape ***




Entrammo nel campo in un silenzio surreale: si udivano solo i passi degli stivali e i guaiti eccitati dei cani. Io procedevo subito dietro a Dodge, stringendo con una mano le spalle di Namid che non aveva smesso neanche per un attimo di tremare. Non era ancora buio e uno alla volta gli abitanti del campo – operai, soldati, prostitute e strozzini – si fecero incontro al nostro drappello, per osservare con curiosità me e la ragazza indiana che eravamo andati a salvare.
All’improvviso due figure si distaccarono dalla folla, correndo verso di noi. Ayasha strinse Namid tra le braccia, strappandola letteralmente alla mia presa, le accarezzò le guance e la fronte, strillando in lingua Cheyenne:
-Stai bene? Che è successo? Oh, ero così preoccupata!-
Namid si limitò a tendere le labbra in un sorriso mesto, poggiando il capo nell’incavo del collo dell’amica, mentre Annabeth, qualche passo più indietro, non riusciva a frenare le lacrime.
Kasper si accostò a noi uomini:
-Dov’è l’indiano?-
-Morto!- commentò pacatamente Abraham, sputando per terra. Gli occhi del polacco luccicarono di soddisfazione e si voltò verso di me:
-Ben fatto, Colt.-
-No.- mormorai -Non sono stato io, stavolta…-
E mi voltai a cercare gli occhi della mia allieva, che mi fissavano commossi tra l’affetto delle sue amiche.
“Non ho dimenticato che hai promesso di sposarmi, dolcezza!” pensai, ridendo tra me e me. Un discreto colpo di tosse mi fece tornare con i piedi per terra; mi accorsi che accanto a me sostava anche il generale Dodge e che le persone accorse per la nostra entrata trionfale al campo stavano velocemente scemando, tornando alle loro occupazioni quotidiane.
Mi passai una mano tra la barba che in quei giorni di prigionia era cresciuta più del solito:
-Dove sono le guardie per riaccompagnarmi alla mia cella, signore?- domandai, con una lieve nota di sarcasmo. Sapevo di osare più del consentito, ma il generale sembrava apprezzare la mia audacia, infatti ghignò:
-Sei davvero temerario, Colt: è un peccato che tu non abbia potuto continuare a servire nell’esercito, avresti fatto carriera!-
Alzai le spalle con aria indifferente: c’era stato un periodo, nella mia vita, in cui avevo davvero accarezzato l’idea di seguire quella strada, ma ormai era morto e sepolto, come Grace Campbell.
-Non tornerai in prigione!- chiarì poi Dodge, sbuffando. Come la maggior parte degli ufficiali, non era un uomo a cui piaceva ammettere di aver preso una cantonata. -Devo ancora capire una cosa, però: se Kuckunniwi mentiva, come mai aveva quella chiave?-
Rabbrividii, e non certo per la temperatura che stava scendendo rapidamente: avevo capito che con la risposta a quella domanda mi stavo giocando la libertà e la possibilità di un futuro tranquillo per Namid. Avrei dovuto mentire su due piedi e in modo convincente, perciò optai per qualcosa che non si discostasse troppo dalla verità:
-Quando sono arrivato al campo indiano ero ferito e solo l’intervento di Namid ha impedito ai nativi di massacrarmi. Mi hanno però perquisito e preso ogni cosa che avevo indosso: non solo gli abiti e la pistola, ma anche quella chiave.-
Dodge mugugnò, tirando fuori dal taschino della camicia proprio quel misero pezzo di ferro:
-Beh, adesso è tornata a te.-
-Non la voglio.-
-Uh?-
Lo guardai diritto negli occhi e ripetei, lentamente:
-Non la voglio. Non mi serve più. La tenga lei, la butti, che so io… Insomma, ci faccia quello che vuole, ma non la dia a me.-
Il generale continuò a rigirarsi tra le mani la piccola chiave, poi borbottò, sorpreso:
-Sei un uomo misterioso, Russell Walker. Di valore, ma misterioso. So per certo che mi stai nascondendo qualcosa, ma non credo che riuscirò mai a scoprire la verità.-
Fece per andarsene, ma io lo richiamai:
-Signore! E l’indiano?-
Dodge aggrottò la fronte, pensieroso:
-Non so esattamente cosa ne sarà di lui, Colt. Ma è un muso rosso e ha combattuto contro di noi, ha cercato di ucciderci. Probabilmente finirà sulla forca.-
 
Quella notte Namid scivolò accanto a me per fare l’amore, ma io la fermai con delicatezza.
-Non fare rumore!- bisbigliai, muovendomi silenziosamente ed afferrando la Colt -Dobbiamo liberare Hevataneo!-
-Cosa!? Adesso?- chiese la ragazza, allibita -Russell, no, lascia passare un po’ di tempo, altrimenti…-
-Non abbiamo tempo, lo capisci?- sbottai, stizzito -Lo potrebbero impiccare da un giorno all’altro! Sveglia Ayasha e preparate Saqui, ma non fatevi assolutamente vedere!-
-E tu? Come pensi di liberarlo, da solo?- chiese, socchiudendo gli occhi.
-Il vagone è chiuso da una catena e da un pesante chiavistello: mi basterà scassinarlo e far credere che il lavoro sia stato fatto dall’interno…-
-Vengo con te!-
-Assolutamente no: se mi beccano, questa volta mi uccidono.-
-Appunto, quindi…-
-No.- ringhiai fissandola dritto negli occhi che anche nell’oscurità brillavano -Io voglio che tu viva, Namid, con o senza di me. Sei la cosa più preziosa che ho, non potrei sopportare di vederti accadere qualcosa di male. Perciò resterai qui.-
La ragazzina sembrò colpita dalle mie parole e non insistette, ma disse:
-Portati almeno Hutch: sarò più tranquilla se hai qualcuno a guardarti le spalle!-
-E’ un lupo, ragazzina, non un essere umano e farebbe troppo rumore! No, andrò solo. Voi aspettatemi qui e non attirate l’attenzione di nessuno.-
 
Sembrava filare tutto troppo liscio: nonostante il campo a quell’ora fosse deserto – anche gli alcolizzati più incalliti dormivano a lato della strada – avevo preso mille precauzioni per arrivare alla prigione.
Hevataneo dormiva, ma si destò subito al suono della mia voce:
-Cosa ci fai qui, Enapay?-
-Che domanda idiota, ti do una mano a scappare, no?-
Mi misi subito all’opera sul chiavistello e dopo numerosi scricchiolii finalmente quel pezzo di metallo scassato cedette. Aprii la porta e mi affacciai sulla soglia: fu allora che percepii la pressione di una pistola puntata alla schiena.
-Non un suono, Colt!- la voce di King trasudava soddisfazione maligna.
-Che colpo, signori! Ero sicuro che tenerti d’occhio fosse una buona idea!- ridacchiò poi.
“Come diavolo ho fatto a non accorgermi di lui?” pensai, sconfitto. Era tutto perduto: Namid, Ayasha ed Hevataneo erano stati condannati dalla mia stupidità:
-Entra, forza: poi andrò a chiamare Dodge e vedremo se anche stavolta saprai cavartela coi bei discorsi!-
Obbedii, facendo due passi all’interno del vagone e King mi seguì, tenendo sempre l’arma puntata sulla mia schiena. Fulmineo e silenzioso, Hevataneo sbucò dall’ombra e serrò le catene che gli stringevano i polsi attorno al collo del controllore. Mi voltai e gli strappai la pistola di mano, ma non c’era bisogno di combattere: in pochi istanti il suo viso paonazzo divenne cereo e gli occhi si rovesciarono all’indietro. Il corpo di Bernard King scivolò sul fondo del vagone con un fruscio leggero.
-Adesso cosa facciamo?- chiese il mio amico, ansimando.
Mi rigirai la pistola di King tra le mani, pensieroso, poi mi venne un’idea: non era il piano migliore che avessi mai ideato, ma poteva funzionare. Un’ultima occhiata al cadavere del mio crudele superiore mi convinse a tentare il tutto per tutto.
-Sta’ indietro e tendi le mani in avanti!-
Con due secchi spari che risuonarono nel silenzio spezzai le manette che lo tenevano imprigionato: solo un minuscolo rivolo di sangue colò lungo i polsi di Hevataneo, che mi fissò sconvolto.
-Così ci avranno sentito tutti!-
-Esatto, muoviti!- sibilai, consegnandogli la pistola. Ci muovemmo furtivi tra le ombre della notte, mentre da qualche parte nel campo chi era stato svegliato dagli spari gridava, chiedendosi cosa fosse successo. Arrivammo alla tenda sfiniti, ma non avevamo tempo da perdere: Saqui era già pronta ed Ayasha si concesse giusto un attimo per abbracciare suo marito, prima di montare in sella con tutte le difficoltà dovute alla gravidanza. Hevataneo mi strinse il braccio in una morsa commossa:
-Non avrai problemi per la mia fuga, vero?-
-Dirò che hai scassinato la porta della prigione, non ci voleva poi molto. Dopo di che hai assalito King e gli hai rubato la pistola, con la quale hai poi minacciato me e Namid, rubandoci il cavallo. Se la berranno, vi ritengono capaci di ogni azione malvagia!-
-Non dimenticherò mai tutto ciò che hai fatto per noi, Enapay!- mormorò, salendo sulla giumenta -Sei davvero uno strano uomo bianco!- 
Sorrisi, mentre il mio amico spronava Saqui. All’inizio la giumenta non sembrava in grado di correre con il peso che le gravava sulla groppa e si allontanavano troppo lentamente dal campo; strinsi i denti e poi rilasciai con un sibilo il fiato che avevo trattenuto quando li vidi prendere velocità. Galopparono spediti nella direzione che la ferrovia si era lasciata alle spalle, mentre i primi raggi del sole illuminavano un campo in pieno fermento: era stato dato l’allarme della fuga dell’indiano e da tutte le parti si sentivano grida ed imprecazioni.
Giunto in cima alla collina che dominava la valle, prima di proseguire verso le montagne, Hevataneo fece impennare la giumenta ed insieme ad Ayasha lanciò un alto grido in lingua Cheyenne; strinsi Namid a me per trarre conforto dalla sua vicinanza, ma mi accorsi che stava piangendo. Quell’immagine – Hevataneo che alza un braccio in un estremo segno di saluto, immerso nella luce soffusa dell’alba – si stampò per sempre nella mia memoria: non li avremmo rivisti mai più.
 
 
Angolo Autrice:
E così il mondo indiano prende commiato dalla vita di Colt e Namid. Piaciuto il capitolo? Per una volta, a me è piaciuto molto xD Voglio dire, non sono quasi mai soddisfatta fino in fondo di quello che scrivo, ma l’addio di Hevataneo è uno dei pezzi migliori di questa storia, almeno secondo me!
Sono perciò molto curiosa di sapere cosa ne pensate. Siamo ormai alla fine, il prossimo capitolo sarà l’epilogo… O forse no, visto che ho una sorpresa per voi, miei cari lettori :D
A presto
 
Crilu  

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Capitolo 30
*** The end ***




P.O.V. Namid
 
-Resista, signora Walker!- mi ordina la levatrice, imperiosa. Stringo i denti fino a far scricchiolare la mascella, trattenendo un grido di dolore: Mark, il mio primogenito, è sicuramente seduto fuori dalla porta della camera padronale, chiedendosi perché gli sia stato proibito di entrare.
Il primo parto, sei anni fa, mi lasciò spossata e dissanguata, tanto che Russell temette di perdermi: girava per la tenda con Mark in braccio e masticando imprecazioni, ordinandomi di rimanere con lui. Nonostante ciò, avevo apprezzato fin dai primi mesi di gravidanza quell’atmosfera di cospirazione ed orgoglio tutto femminile che circondava una donna incinta e le amiche che le stavano attorno. Annabeth, finalmente sposata ed appagata, sfogava i suoi istinti materni su di me, viziandomi in ogni maniera immaginabile e procurandomi ogni cosa che ai suoi occhi sembrasse imprescindibile per una donna in attesa; in questo momento osserva con ansia crescente i movimenti della levatrice, che invece non la degna di uno sguardo.
Mentre inarco la schiena per le doglie una lacrima scivola oltre le mie palpebre chiuse: ricordo con esattezza che sei anni fa anche c’era anche Rachel con me e mi fissava con un sorriso malizioso e benevolo, incoraggiandomi a non mollare. Aveva guardato il neonato con curiosità e una sorta di rimpianto, senza mai avvicinarsi: aveva solo accarezzato con lo sguardo ciò che le era stato negato per sempre.
La malattia l’aveva indebolita fisicamente, ma non perse mai la lucidità: proprio come aveva predetto, continuò a mandare avanti il nuovo bordello di Rosenville anche dal letto di morte.
Da quando la cittadina era sorta dal nulla lungo i binari della ferrovia, Rachel si era rifiutata di incontrare nuovamente Abraham, sebbene anche l’ex-schiavo si fosse stabilito qui. Una sera di tre anni fa, mentre io le detergevo la fronte con un panno bagnato e lei delirava sui suoi amanti passati con lo sguardo perso, Abe era scivolato silenziosamente nella sua stanza e si era fermato ad osservarla con tenerezza e disperazione: poche ore dopo, la mia amica aveva chiuso gli occhi e si era arresa alla tisi.
Spesso avverto anche la mancanza di Ayasha, la sua presenza confortante e tranquilla al mio fianco; spesso mi chiedo dove siano ora lei ed Hevataneo, come facciano a portare avanti le tradizioni dei nostri avi Cheyenne mentre la cultura dei bianchi si diffonde dappertutto, implacabile.
-Adesso, signora Walker! Spinga!- strilla la levatrice, riportandomi bruscamente al presente. Il mio corpo trema e si contorce e io grido, tentando di spingere finalmente quella creatura fuori dal mio ventre. Le orecchie mi fischiano, ma potrei giurare di aver sentito Russell che mandava Mark a giocare in giardino, prima di prendere il suo posto davanti alla porta chiusa. Posso quasi vederlo, seduto su una delle sedie che lui stesso ha costruito, che si regge la testa tra le mani e medita sul forzare la serratura.
Tutto ciò che abbiamo l’ha tirato su lui: dopo il completamento della ferrovia si è dato da fare, contribuendo a creare il piccolo villaggio di Rosenville (situato a poca distanza dalle Montagne Rocciose) costruendo questa casa e quasi tutto ciò che contiene, per poi trovare impiego nell’unica fabbrica dei dintorni, che dà pane e disperazione alla maggior parte delle famiglie che ci abitano.
E’ un uomo diverso da quello che mi si era buttato addosso per catturarmi durante uno scontro a fuoco: oltre alle rughe che iniziano a segnare la sua pelle, Russell ha imparato a mitigare gli aspetti più spigolosi del suo carattere, pur rimanendo taciturno e poco incline alla spensieratezza.
Il mio battito accelera, tanto che adesso riesco solo a sentire il sangue che scorre veloce nelle mie vene: è un suono che copre tutti gli altri, almeno fino a quando un vagito sorpreso non risuona nella stanza.
-E’ una bambina!- trilla la levatrice tutta contenta, porgendomi mia figlia. Sorrido, sapendo già che nome darle:
-Benvenuta al mondo, Elizabeth Walker!- sussurro.
 
P.O.V. Russell
 
-Forza, Mark!- dico, invitando mio figlio ad entrare nella stanza con un cenno della mano -Vieni a conoscere tua sorella!-
Il bambino, che ha gli occhi chiari di sua madre e la mia stessa ritrosia, si affaccia titubante e si acciglia nel vedere Namid che stringe al seno la piccola Elizabeth.
Poiché il nostro primogenito ha il nome di mio padre, ci era sembrato giusto che un’eventuale figlia femmina portasse il nome della madre di Namid, sebbene so che mia moglie rimpianga di non poter dare ai suoi figli un nome Cheyenne.
Rosenville è un centro piccolo e abitato da persone tranquille, ma non voglio che i miei figli subiscano i pregiudizi e il sospetto che Namid aveva dovuto sopportare prima di integrarsi nella comunità.
So che alcune delle donne che frequentano assiduamente la parrocchia storcono il naso davanti ai suoi vestiti, più morbidi di quelli tradizionali, ma io non le ho mai imposto nulla, né preteso che si adattasse ai nostri costumi all’improvviso: sono passati sette anni da quando ci siamo conosciuti, e a volte ci ritroviamo distanti come la prima notte al campo ferroviario. Altre volte, invece, non riusciamo a smettere di fissarci, quasi inebetiti, come quando assistemmo alla posa dell’ultimo binario della ferrovia a Promontory Point, nello Utah. La vittoria sulla Central Pacific fu schiacciante: nonostante le difficoltà, il freddo e la fatica avevamo costruito più di mille miglia di ferrovia!
Durante i festeggiamenti Namid si era fatta improvvisamente pensierosa e stringendosi il piccolo Mark al petto mi aveva chiesto:
-Adesso cosa faremo, Russell? Non abbiamo né un lavoro né una casa!-
-Troveremo un modo, mia piccola stella che balla!- l’avevo rassicurata, stringendola a me.
E l’avevo trovato davvero, un modo per andare avanti: io, Abraham e pochi altri della squadra ci fermammo in una valle rigogliosa ai piedi delle Montagne Rocciose, decisi a stabilirci lì. Proprio come i Big Four* avevano immaginato, diverse cittadine iniziarono a sorgere dal nulla lungo i binari, crescendo in fretta ed attirando coloni ed imprenditori da entrambe le coste d’America.
Non potrei mai rinunciare a questo posto o alla mia famiglia: per la prima volta nella mia vita assaporo una felicità completa, priva di inquietudini, rimpianti e recriminazioni.
-Mark, tesoro, avvicinati!- esclama Namid con voce carezzevole, sporgendosi verso il bambino. Per fortuna Annabeth e la levatrice, prima di andarsene, hanno provveduto a cambiare le lenzuola e a far sparire gli asciugamani sporchi: in occasione della nascita di Mark credetti di impazzire, perché Namid era debolissima, quasi priva di sensi, e vedevo sangue dappertutto.
Obbedendo docilmente alla madre, Mark si arrampica sul letto, mentre io mi siedo su una poltrona, beandomi della vista della mia famiglia: il bambino gattona verso quel fagottino scalciante che è mia figlia.
“Mia figlia!” penso gongolando. Un primogenito maschio mi ha ovviamente riempito di gioia ed orgoglio, ma desideravo davvero una Namid in miniatura da poter viziare; da quando ho abbandonato il mondo duro e violento della ferrovia ho scoperto di essere un uomo molto più incline alla dolcezza di quanto avessi mai immaginato.
Mark infila un dito tra le manine di Elizabeth, che subito si aggrappa al fratello con forza.
-Guarda, Elizabeth ti vuole già bene!- ride Namid, scrollando la testa -Sa che suo fratello la proteggerà sempre, come un bravo ometto, vero?-
Mark annuisce lentamente, rapito da non so quale pensiero:
-Lizzie…- mormora poi, con l’ombra di un sorriso sulle labbra.
Io mi rilasso, socchiudendo gli occhi: la mia donna ed i miei figli sono al sicuro, ho un lavoro, una casa, degli amici - cose che prima non sapevo neanche di desiderare. Hutch sonnecchia nel portico, Tasunke pascola sul retro, la cicatrice alla schiena non mi provoca più così tanti dolori… E all’improvviso capisco tutto, come se una luce sconosciuta avesse illuminato ogni singolo evento della mia vita, mostrandolo ai miei occhi sotto un nuovo punto di vista.
“Ho imparato a meditare, Chuchip, ho imparato a mediare; ho equilibrato le due anime di Namid, perennemente in contrasto, ho calmato la mia irruenza. Sono Russell Colt Walker, colui che i Cheyenne chiamano Enapay, e ho trovato la mia pace.”
 
THE END?


*Sono i quattro grandi imprenditori che permisero la costruzione della First Transcontinental Railroad.
 
Angolo Autrice:
E così siamo giunti al termine anche di questa storia… Per amor di precisione, va detto che la Union Pacific coprì 1.086 miglia del percorso ferroviario, mentre la Central Pacific solo 689! Rosenville è una città inventata, ma perfettamente verosimile: la costruzione di questa ferrovia fece sorgere nuove cittadine (quelle stereotipate dei film western, per intenderci) come tanti piccoli funghi.
Dopo Hereditas (a proposito, per chi non avesse letto l’avviso, Hereditas verrà pubblicata!!! :D) questa è la storia che più mi ha coinvolto: mi ha permesso di esplorare più scenari e situazioni storiche uniche, come la cultura indiana, la guerra civile americana, la conquista del West… Oltre alle sfaccettature dei vari personaggi, che sono ciò di cui vado più fiera!
Ero molto riluttante a lasciar andare così facilmente la famiglia Walker e così… Ho immaginato il seguito xD
Osservate bene i piccoli Mark ed Elizabeth, perché li rincontrerete presto nella sfavillante San Francisco di primo ‘900 alle prese con mafia, sindacati e swing!
Last but not least, grazie a tutti voi che avete seguito Russell e Namid fino a qui e in particolare a OldKey (come hai fatto a sopportare i miei sproloqui fin dal primo capitolo? Ahahah xD), Old Fashioned, MissF, Eilan21, AmiensTraveller, ladyathena e Alessia Krum che l’hanno recensita!
Quindi…. A presto!
 
 
Crilu  

 

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