Con i tuoi occhi

di EsterElle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Su Lorenzo ... ***
Capitolo 2: *** Riguardo Harry ... ***
Capitolo 3: *** Mia Maryna ***



Capitolo 1
*** Su Lorenzo ... ***



 

 Con i tuoi occhi



 
 




Capitolo 1
Su Lorenzo …
 

 


Oltre il vetro si dipana uno scenario fantasma. Racconta sussurrando la più terribile storia di amore e odio di tutti i tempi; quella tra il Mondo e noi.
La Natura è la moglie tradita: eccola lì, che pretende il suo amato, lo rivuole tutto per sé e desidera dominarlo una volta per tutte. Lo abbraccia, lo soffoca, lo divora senza pietà, lo ama e lo odia.
Noi, umanità così piccola, l’abbiamo tradita in nome del progresso, della velocità, della facilità, l’ho capito infine. L’abbiamo pugnalata alle spalle infinite volte, millennio dopo millennio, e meritiamo questa punizione. Lei, invece, è insieme gloriosa e crudele mentre si arrampica e aggroviglia sui muri delle case, cresce e distrugge le strade, domina dai tetti le piccole città fantasma cresciute per sua grazia e distrutte senza preavviso. Non esiste più un solo campo coltivato, ma sterpaglie e rovi e arbusti, non fringuelli ma corvi, non il sole ma le nubi. Pesa, il cielo lì fuori, plumbeo e secco, grigio e scuro tanto quanto la pelle dei morti, la freddezza delle loro labbra, l’assenza di parole e suono. Sono passati più di otto mesi dall’ultima volta che ho messo piede nel mondo che una volta era mio e che ora nemmeno riconosco. La Base è calda e luminosa, piena di persone sole, di sorrisi tristi, di bellezza artificiale … è l’unica salvezza per questa umanità e l’unico luogo in cui si può ancora coltivare il futuro. Ma che futuro? Non credo ne esista più uno.
Sparse in ogni angolo del mondo, le Basi ci hanno accolto subito dopo la Seconda Ondata, quando il pericolo dell’estinzione totale della specie umana non sembrava più solo fantascienza. Così spiega il nostro Istruttore, almeno, che parla a noi tutti radunati nell’anello più esterno della Basa Europea, mentre teniamo gli occhi puntati sulla natura selvaggia che ci attende lì fuori. Non è semplice ascoltare, le parole sono coperte dal rumore dei depuratori che filtrano l’aria esterna prima di spingerla sotto la cupola. Posso dirlo? Non me ne frega niente di quel che dice: la storia della nostra rovina la conosco a memoria.
 
 
“La Terra è stremata: sono trascorsi quasi trent’anni da quando il Gas ha iniziato a fuoriuscire dalle sue viscere. Prima lentamente, come molti di voi ricorderanno …”
 
 
 
Come dicevo, un racconto a prova di idiota.
Ho diciassette anni, sono nato respirando questo schifo. Quando sono arrivato alla Base, i miei polmoni, i miei tessuti, ogni particella del mio corpo era zuppa di Gas. Ho passato quaranta giorni in isolamento per disintossicarmi, insieme agli altri che erano stati avviati con me alla salvezza. Si capisce, è severamente vietato portarsi dietro il veleno quando si viene ammessi alla Base.
L’omino dalla faccia grigia, spenta quasi quanto il cielo, continua a parlare e le mie orecchie a ronzare, sintonizzate su altre emozioni.
 

“Molti di voi ricorderanno quanto sia stato facile – e sciocco – sottovalutare il problema. Qualche oncia di inquinamento in più non cambierà certo la nostra vita, ci siamo detti. Poi è arrivata la Prima Ondata.
Oh, se la ricordo! L’aria ardeva nei polmoni, scendeva come infuocata nelle nostre carni, gli occhi lacrimavano, le mani erano scosse da tremori. La percentuale di Gas nell’aria, per giorni e giorni, è stata insostenibile. I fortunati che sono riusciti a trovare un rifugio sufficientemente ermetico sono sopravvissuti. Più della metà della popolazione umana, invece, non ce l’ha fatta”.
 
 
Cinque giorni chiuso in cantina, ecco cosa ricordo della Prima Ondata.
Avevo otto anni ed Elena appena due. Mamma e papà non erano pronti, nessuno le era; abbiamo rischiato di morire di fame mentre ci rubavamo l’aria l’un l’altro.
 

“Il mondo non è più stato lo stesso da allora.
Le migliori menti del pianeta hanno lavorato instancabilmente; in ogni angolo del mondo il genio si è messo a servizio del bene comune per arginare il disastro. In quegli anni è iniziata la costruzione della Base in cui vi trovate oggi e delle sue sorelle gemelle, sparse in tutto il mondo. Ma sappiamo bene che il Gas è stato più veloce di noi, purtroppo. La Seconda Ondata è stata crudele, impietosa: tutti abbiamo perso qualcuno, ognuno di noi ha sfiorato la morte. Eppure, siamo qui.
Voi siete i sopravvissuti.
Dopo il disastro, con coraggio e fiducia avete sepolto i vostri cari e vi siete messi in viaggio per raggiungere i punti di raccolta. Avete abitato una tenda, mangiato cibo in scatola, lottato per la sopravvivenza mentre aspettavate il vostro turno, il momento in cui sarebbero venuti a prendervi per portarvi alla Base, per portarvi finalmente in salvo”
 
 
Mi sento minuscolo mentre osservo il trionfo di acciaio e vetro sopra la mia testa. Ogni punto di accesso è blindato, tutte le giunture chiuse ermeticamente: è come stare sotto un’enorme scodella rovesciata, incastrata nel terreno in modo che neanche il più piccolo flusso d’aria possa penetrarvi. Esattamente come un insetto sotto un bicchiere. Sono questi i pensieri che mi mandano a male: mi hanno salvato? O mi hanno imprigionato per sempre? Che diavolo sta succedendo alla mia vita?
Noi volontari siamo radunati in uno stretto recinto, proprio davanti al tunnel che ci porterà fuori; siamo pigiati all’inverosimile. Mi guardo intorno, perché sento il bisogno di sentirmi tra amici. C’è Tomàs, poco distante, un tipo a posto; io e lui abbiamo vissuto spalla a spalla durante la quarantena. Lì vicino ecco sua sorella Linda che snocciola un rosario, pallida in volto. Laggiù riconosco anche Lizzy Brown, una signora di mezz’età che stava con noi al D12; deve essere arrivata da poco.
Tutti aspettano, tutti hanno paura, ognuno a modo proprio. Non esiste conforto: vedere chi soffre le mie stesse pene non mi fa sentire meglio. Ho sempre freddo, le mani tremano e le budella sono così attorcigliate che respirare, persino, fa male. Ansia, paura, tristezza: ne ho diritto, vero? Questa è la fine del mondo, del mio mondo.
Solo il ragazzo accanto a me, uno alto e coi capelli a spazzola, riesce ad attirare di nuovo la mia attenzione: non riesce a stare fermo. Ora si è persino accorto che lo sto fissando.
“Oh, hai una sigaretta?” mi chiede torcendosi le mani.
Perfetto, ha perso ogni attrattiva.
“No idiota” non mi trattengo di aggiungere. “C’è già abbastanza merda lì fuori, eh?”
Va bene, va bene. Non dovrei prendermela con questi poveracci. Mi sono meritato il vaffanculo, va bene!
Ma possibile che la nostra razza non riesce mai ad imparare dai suoi sbagli? La mia famiglia non esiste più, la mia vita non esiste più, solo perché non siamo stati in grado di fermarci in tempo, solo perché abbiamo creduto di essere immortali, di essere Dei.
Oh sì, l’Istruttore dice belle parole … ci chiama sopravvissuti!
Sono solo balle, quelle che qui ci rifilano ogni giorno, quelle che mi perseguitano da due anni a questa parte, quelle che non ti lasciano nemmeno morire in pace.
Dicevano che vivere ai campi di raccolta sarebbe stato bello come essere in campeggio, dicevano: immaginate, gridavano alla televisione, immaginate la bellezza del restare immersi nella natura, disintossicarsi dalla vita frenetica, condividere e recuperare la nostra umanità! Immaginate questa nostra rinascita … dicevano.
La mia famiglia doveva restare al campo D12 per tre settimane e invece siamo rimasti bloccati lì per due anni e mezzo. Sono stati giorni di fango, di fame, di lacrime amare, giorni in cui ho conosciuto la bestia che tutti nascondo sotto strati di civiltà, sotto i bei vestiti e i bei sorrisi. La bestia che prende il sopravvento e che è pronta a sopprimere chiunque pur di sopravvivere.
Qualche volta sogno la nostra tenda, sogno l’oscurità, la paura, la fatica quotidiana: incubi che ancora mi perseguitano. È in questa merda che la mia famiglia è morta per sempre. Vengo scosso dai brividi perché sono così idiota da non essermi ancora abituato a questa devastante verità: sono rimasto solo, solo in un mondo in rovina. Mi sforzo di reprimere un grido, ma i tremori non fanno che aumentare. Stringo i pugni e il mondo si fa sfocato ai miei occhi, annebbiato da lacrime e spasmi.
Ok, pausa.
Pausa.
Andiamo, ripigliati, guardati intorno: sono tutti poveracci come te, tutti con dolori privati, immensi, che nessuno può comprendere davvero. Respira.
Respira a fondo.
I cattivi pensieri hanno la capacità di rimbambirmi completamente e quindi ci impiego un attimo ad accorgermi che il ragazzo alto e iperattivo mi fissa. Ma che gli frega di me?
“Che vuoi?” gli chiedo, scazzato.
“Non so se ce la faccio”
“Eh?”
Merda, non sono in vena di fare lo psicologo; se c’è una cosa che alla Base non manca sono gli strizzacervelli.
“Non so se ce la faccio ad arrivare in tempo. Me la sto facendo sotto e non ne posso più di stare ad ascoltare questo idiota; come fai ad essere così calmo?” spiega il ragazzo, facendo cenno all’Istruttore.
“Nella mia testa non sono calmo proprio per niente”.
Ritiro tutto; mi sta già più simpatico.
“Chi vai a prendere?” gli chiedo
Sì, chiacchierare va bene, mi rilassa.
“La mia ragazza. Si chiama Cathy, è alta e bruna, ha un quadrifoglio tatuato sulla spalla sinistra; se dovessi beccarla in giro dille che la sto cercando”.
“E tu sei … ?”
“Harry, Harry Boodman”
“Va bene amico, ma solo se mi giuri che molli quello schifo di tabacco per sempre” rilancio.
Sì, forse mi sto persino sforzando di essere simpatico. Certe volte mi stupisco da solo.
“Andata” dice lui, sorridendo. “Posso ricambiare il favore, lì fuori, se ti va”.
Questa è una pugnalata, dritta al cuore e fa male da morire. Hai fatto un grosso passo falso, amico. 
“No. Non credo ce ne sarà bisogno” mormoro.
Non c’è più nessuna allegria tra me e lo sconosciuto Harry, nulla che mi distolga dei demoni neri che mi perseguitano. È per loro che torno là fuori, per scacciarli una volta per sempre, per spingerli nelle viscere della terra, insieme ai corpi delle persone che più ho amato.
Harry torna a guardare l’Istruttore; che diavolo starà dicendo, ora?
 
 
“Per alcuni di voi l’attesa ai campi è stata lunga, è vero. Questa consapevolezza deve rendervi più forti; voi siete sempre stati destinati a questa Base e, infine, l’avete raggiunta.
I primi a trovare la Terra Promessa sono stati i bambini, i ragazzi, i giovani fino ai trent’anni: in loro sono deposte le speranze per un futuro migliore. Poi è venuta l’ora di accogliere le braccia forti e la solidità degli adulti, a metà del percorso della vita. Infine, la sconfinata saggezza degli anziani.
Ci siamo salvati, dobbiamo esserne fieri”
 
 
Un mormorio si diffonde nel nostro gruppo.
Andiamo, con che coraggio questo stronzo blatera la propaganda del Programma? Guardandoci in faccia, poi, sorridendo, anche! Se mi vien da ridere credo che sia per isterismo.
Non hanno salvato tutti.
Non. Hanno. Salvato. Tutti.
La mia storia è un buon esempio di quanto il sistema ideato dai governi mondiali per assicurare la salvezza della specie sia stato disumano e crudele … una trappola, una vera merda.
È andata che un bel giorno, ai tempi del D12, io e mia sorella Elena siamo stati convocati alla tenda-ospedale. Di solito era sempre chiusa, sempre vuota, ma quel pomeriggio c’era un medico e tutti i ragazzi del nostro blocco ordinatamente in fila davanti all’ingresso. Ci hanno visitato uno a uno e una donna, tajer grigio e mascherina sul viso, prendeva appunti su una cartellina. Accanto al mio nome, l’ho visto, ha tracciato una spunta e nel giro di una settimana sono partito alla volta della Base insieme agli altri ragazzi idonei. Al D12 ho lasciato tutto, tutto: i miei genitori, per esempio, che dovevano ancora attendere il loro turno. Ho lasciato indietro Elena, la mia sorellina, che non aveva superato quella maledetta visita. Colpa del Gas, ovvio; sapevo già che lei non stava bene e credevo che proprio per questo avrebbe avuto un posto in prima fila per la Base. Ero persino geloso, invidioso di lei! La mia famiglia confidava nella compassione, nella pietà di questi burocrati, e ha sbagliato.
Non l’hanno salvata, non ci hanno salvati.
Al campo, esposti al Gas com’eravamo da anni, le persone si ammalavano come mosche; ma - e qui sta il dramma - la Base è vietata agli infermi. La malattia iniziava sempre allo stesso modo, con qualche colpo di tosse, una febbricola leggera, sonnolenza: i medici potevano ancora intervenire, almeno quei pochi che erano disposti a sporcarsi le mani. Al sopraggiungere delle macchie, però, la malattia degenerava in fretta e portava alla morte in poche settimane. Il giorno in cui me ne sono andato, Elena era bollente di febbre, tra le braccia di mia madre.
Quindi, sono partito da solo. Sono rimasto solo per otto mesi; sono stati loro a dividere centinaia di famiglie come la mia, a condannarle per sempre. Loro hanno ucciso mia sorella e mia madre. Sono mani sporche di sangue, le loro.
 
 
“Voi tutti sapete che i nostri scienziati hanno colto i segnali che preannunciano una Terza Ondata e sapete bene che nessun umano potrà uscirne indenne: eppure siete pronti a tornare lì fuori.
Voi siete la nostra forza, il motivo per cui esseri come noi non soccomberanno mai alla natura. Partite volontari, ritornate ai campi di raccolta, con la speranza di ritrovare coloro che, al momento opportuno, non sono risultati idonei per essere ammessi alla Base.
Trovateli. Fate in fretta. Le nostre porte sono aperte.
Portate alla Base i vostri cari ma non fate del vostro compito una missione di salvataggio: ad ognuno sarà concesso di portare con sé solo le persone dichiarate in uscita. Noi ci impegniamo a prenderci cura di loro e faremo in modo che il male che li affligge non si diffonda: ora che abbiamo assicurato un futuro all’umanità, possiamo permetterci il lusso di essere caritatevoli.
La salvezza non verrà preclusa a nessuno: noi siamo gli artefici della nostra salvezza”.
 
 
“Se potessi lo metterei a tacere a suon di cazzotti” mormora Harry, il mio vicino.
Sono felice che la pensi come me sull’Istruttore.
Che possa morire, questo idiota, ammasso di sterco di vacca, vigliacco bugiardo, voce del sistema.
Lui è uno di loro, uno del Programma; lo pagano per ripetere queste balle almeno una decina di volte al giorno.
Anche al campo la pubblicità era martellante. “Non lasceremo indietro nessuno” gridavano i poster tra le tende. “La Base è stata concepita per accogliere tutti, giovani e vecchi, ricchi e poveri. Tutti abbiamo bisogno d’aiuto” diceva una scritta rosa shocking su sfondo giallo, proprio dietro la nostra abitazione.
Ma non è andata così.
La selezione medica è stata inflessibile; il più piccolo colpo di tosse era percepito come sintono di infermità e quindi come condanna.
“Torneremo a prenderli” ci rassicuravano. “Torneremo!”
Ma chi è pronto a correre il rischio di tornare fuori?
Ad oggi anche il più decrepito vecchiaccio in buona salute è stato accolto qui; gli è stata data una bella casa al Secondo Anello, ha sperimentato la gioia di ricongiungersi ai suoi e di salvarsi.
Ed Elena? Mia madre? Chi ha avuto a cuore il loro destino?
Nessuna squadra ufficiale è stata mai organizzata per salvare chi ancora aspetta ai campi di raccolta perché ci vuole troppo fegato a tornare lì, ora che la Terza Ondata sembra così vicina. I volontari siamo un caso a parte; tutti qui hanno qualcuno che amano, laggiù.
Io sono l’eccezione che conferma la regola, invece; io non ho speranze. Le ho perse tutte quattro mesi fa e da allora convivo con la consapevolezza che loro non possono essere sopravvissute. Non ho prove materiali, ovvio, né qualcuno è venuto da me con la faccia da funerale e il cappello in mano a comunicarmi la triste notizia. Non è servito: la verità l’ho letta direttamente negli occhi di mio padre.
Avevamo stabilito tutto. Sarebbe stata mamma a sacrificarsi al fianco di Elena e così papà è partito alla volta della Base quando è arrivato il suo momento. Veniva da me, per non lasciarmi solo.
Il giorno in cui hanno imbarcato la seconda fascia ero incollato alla vetrata del ballatoio principale, insieme a decine di altri ragazzi; guardavamo di sotto, gli occhi puntati sulla fila troppo corta di uomini e donne sfiniti che mettevano piede per la prima volta nell’anello più esterno della Base. Li stavano portando ai quartieri destinati alla quarantena e non potevano entrare in contatto diretto con nessuno di noi. Ero felice; ho seguito mio padre con gli occhi, passo dopo passo. La memoria non può rendere giustizia a quel calore, quell’emozione, quelle lacrime; non saprei dire da dove venissero ma mi scaldarono il cuore, bisbigliando “lui è qui per te”, lavando via ogni sofferenza.
Ad ogni famiglia ricongiunta quelli del Programma concedono una casa nel Secondo Anello della Base, con un giardino piccolo e il tetto rosso di tegole; io non vedevo l’ora di lasciare la Dimora dei Ragazzi e per quaranta giorni non ho fatto che sognare il momento in cui avrei trovato rifugio tra le braccia salde di mio padre. L’ennesima illusione; la verità è stata più che terribile.
Finito il periodo di quarantena mi hanno accompagnato da lui, guidandomi verso una bella casa bianca a cui non avevo mai fatto caso prima, con giardini pieni di rose, panchine e sonagli di conchiglie mossi dal vento artificiale. È un mondo incantato, quello che hanno ricostruito qui sotto.
Mio padre non viveva lì da solo però, e questo era strano; lui occupava semplicemente una stanza. Era seduto sul letto e fissava il vuoto, mormorando parole incomprensibili, gli occhi cerchiati, le labbra secche, il volto scavato dal dolore. Non mi ha nemmeno riconosciuto.
Allora, semplicemente, ho capito; solo il dolore più grande avrebbe potuto ridurlo in quello stato.
Quando sono tornato al mio alloggio, la camerata era vuota. È  stato in quel momento che ho iniziato a fare i conti con il vero dolore e con l’odio.
 
 
 
 
 
 
 



Note
Benvenuti, lettori!!
A voi che siete giunti fin quaggiù, va tutta la mia riconoscenza.
Avete appena fatto conoscenza con il primo capitolo di questa nuova idea, questa storia un po' distopica un po' altro che è nata nella mia testa parecchi mesi fa. Ringrazio qui, in pubblico, Najara 87 che sul forum di Efp ha creato il contest da cui questo racconto è nato: "E' una storia sai ...". Compito di noi partecipanti era di ispirarci ad una famosa canzone Disney per scrivere storie diverse dall'originale ma fedeli ai sentimenti e alle emozioni delle melodie. Alla base di questa storia si nasconde, quindi, "Il mondo è mio" di Aladin ... spero risulterà chiara, in futuro, la maniera in cui ho manipolato questo bellossima testo!  In ogni caso nelle note del terzo capitolo (l'ultimo!) fornirò tutte le spiegazioni del caso nelle note :)
Spero che la lettura sia stata piacevole e spero ancor di più di sentirvi e vedervi al prossimo capitolo!
Saluti,
Ester











 

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Capitolo 2
*** Riguardo Harry ... ***








Capitolo 2
Riguardo Harry …
 



 
 
 
“Tomas Ariza ”
“Presente!”
“François Mercier”
“Presente!”
“John Evans”
“Presente, signore”
 
Il mio nome sembra non arrivare mai. Me ne sto qui, bardato dalla testa ai piedi, in fila tra questo mucchio di stranieri. Io, così sano e pulito nella mia tuta bianca a tenuta stagna, con il casco sotto il braccio ma pronto a calarmelo sulla testa per non soffrire ancora. Quelli che aspettano, laggiù ai campi di raccolta, direbbero che sono un ragazzo fortunato.
 
“Lorenzo Archi”
Questo sono io.
“Presente!”
 
In un attimo, sono fuori.
Calo il casco e avvio il sistema che mi permette di respirare l’aria buona della mia bombola. Non basterà, ce l’hanno detto, ma per ora la concentrazione di Gas nell’aria non è letale. Lo diventerà presto, ovvio.
Mi concentro e mi riprometto di non sentire; lascio andare solo la mente, mi occupo del presente e accartoccio i sentimenti in un angolo di me. Salgo sulla camionetta che ci condurrà al campo di raccolta B24 insieme ad altre nove persone, irriconoscibili dentro le tute. Non è ancora l’alba, ma avremmo tempo solo  fino a sera per compiere la nostra missione volontaria; se tardiamo, neanche a dirlo, nessuno si curerà di noi. Non sono onesti, quelli del Programma, ma non serve un genio per capire che non vogliono riproporre il sovraffollamento terrestre anche alla Base; un uomo in meno è spazio guadagnato.   
Faccio l’ennesimo respiro profondo.
Sono spalla a spalla con gli altri, nel buio del furgone, e ho l’impressione di percepire l’impazienza e la speranza di certi miei compagni mentre la strada dissestata ci sballottola tra le pareti scure; questo non fa altro che farmi sentire un estraneo, un diverso. Il motore romba possente mentre aggiriamo il tronco di un albero caduto; tutto sembra ricordarmi che sto rischiando troppo per nulla. Ma che ci posso fare se la mia coscienza non si spegne, se non mi permette di lasciare mia madre e mia sorella senza un ultimo saluto degno di questo nome? Glielo devo o non potrò continuare a vivere, non come se non fossero mai esistite.
Merda, per fortuna avevo detto nessuna emozione.
Respira, avanti.
Ripasso il mio piano: dal B24 camminerò verso sud-ovest per raggiungere il campo di raccolta D12, dove ho abitato con i miei, perché credo che le possibilità di trovare i loro corpi lì siano elevate. Ho fatto i conti e dovrei impiegarci più o meno tutta la mattina; avrò il tempo necessario per fare ciò che devo e tornerò al B24 in tempo. È semplice, non posso sbagliare.
Con un ultimo suono rantolante il motore della camionetta si spegne e ci avvisa che la corsa è finita; quella comoda e veloce, perlomeno.
Quando ci scaricano è un fuggi fuggi generale; come fantasmi bianchi, ognuno prende la sua strada in mezzo a questa boscaglia, soli tra la natura selvaggia e nemica, consapevoli dell’importanza vitale della missione. Come fantasmi ci disperdiamo, ombre di quello che eravamo in un mondo ormai giunto alla fine. Pensieri che mi mandano a male, ancora una volta.
Perché nessuno mi ha detto che ritrovarsi nel bel mezzo di un film di fantascienza fa così schifo? Perché diavolo piacevano tanto, a me e a papà? Non ci rendevamo conto, credo, di quanto poco mancasse alla nostra tragedia personale. Con questa tuta addosso mi sento ancora di più un astronauta, un alieno e un idiota. Devo imparare a conoscere da capo questo mondo che una volta era mio perché non appartengo più a questo pianeta che vuole liberarsi di noi.
Sono familiari i tremori che, dalla punta delle dita iniziano a risalire le mani, le braccia, pur protette dalla tuta di avanzata tecnologia. Merda, non è il momento di perdere il controllo. Basta friggersi il cervello con queste idiozie Lorenzo!
Do inizio alla mia missione; sposto i rami bassi e controllo ancora una volta la bussola che porto attaccata al braccio. Per precauzione cerco di stabilire dei punti di riferimento; un tronco spezzato, una collinetta ricoperta di vegetazione, la tana di qualche animale. Cammino e mi faccio trasportare dal movimento ritmico dei miei passi; passano i minuti, le ore, ed io neanche me ne accorgo.
La storia sembra correre al contrario, penso, immerso in tutto questo verde; non va avanti ma indietro, verso le notti senza luce e i bivacchi intorno al fuoco, mi riporta al Medioevo e in tutte quelle epoche in cui gli uomini non potevano fare affidamento che in se stessi.
Che enorme cagata che è stato, il progresso!
Camminare con questa tuta addosso è un inferno. Mi rallenta, lo zaino pesa, vedo il mondo tinto di una sfumatura blu attraverso la visiera del casco: a che serve aggiungere altro orrore a quello che abbiamo già davanti agli occhi? Mi sento talmente a disagio da accorgermi solo ora che qualcuno mi sta seguendo. Fa rumore, lo sconosciuto, si ferma quando mi fermo io, cammina quando avanzo, resta sempre troppo vicino; un tipo antisgamo, insomma.
Mi girò d’un colpo e lo trovo, quatto e bianco, colto sul fatto.
“Chi sei?” dico.
La mia voce suona meccanica attraverso il casco e capisco che la mia trasformazione in mostro procede senza problemi.
“Tranquillo, sono io” dice l’uomo nella tuta e la sua voce è altrettanto innaturale.
Che idiota. “Io chi? Non posso vederti”
“Harry Boodman”
Ancora lui. Ma che diavolo vuole da me? Innervosito sfilo il casco e lui mi imita; i capelli zuppi di sudore mi restano sgradevolmente appiccicati alla fronte. Anche lui è pallido ma sorride e nasconde bene la paura.
“Scusa, non arrabbiarti” inizia, alzando le mani. “Non volevo seguirti ma non mi piaceva l’idea di vagare qui in mezzo da solo. Tu mi sembri un tipo a posto, che sa quello che fa”.
“Potevi dirmelo” ribatto, gelido.
Mi rinfilo il casco e faccio per proseguire, mentre Harry mi affianca. Ma sì, vieni: dopotutto che male c’è?
“Dove sei diretto tu?”
“Al campo E05”
“Io al D12. Dovremmo separarci, prima o poi”
“Sta bene”
Ovvio che ti sta bene; sei un eroe tu, uno che corre a salvare la sua damigella in pericolo. L’idiota sono io, che accetto di essere il perfetto diversivo alla tua angoscia, che mi sorbirò la codardia segreta di un cavaliere senza macchia e “senza paura”.
“Ehi amico”
“Che c’è?”
“Pensi che sia pericoloso camminare qui fuori?”
Domanda idiota.
“Nel senso …potremmo imbatterci in qualche animale … che so, geneticamente modificato dal Gas?” precisa infatti lui.
Non ci avevo mai pensato, in realtà.
“So per certo che è pieno di sciacalli. Sciacalli umani, intendo” dico ed è vero.
I racconti che circolano alla Base sul mondo di fuori sono moltissimi, ma questa storia me l’ha raccontata la vecchia Dalina Carp, una tra le ultime ad essersi imbarcata. Fare volontariato al Centro Anziani era piuttosto interessante, infatti.
“In che senso?
“Alcuni di quelli scartati alla selezione hanno formato della gang” racconto. “Sai, per sopravvivere. Derubano quei pochi uomini del Programma che ancora mettono il naso fuori dalla Base ma anche i poveracci che sono più morti che vivi nelle loro tende. I nostri zaini, il casco, la tuta devono fargli un sacco gola”.
Dovrei essere più magnanimo ed evitare di raccontare storie del genere ad uno già mezzo morto di paura. Sono spaventato anch’io, però, e questo è il mio modo di farmi forza: non illudermi.
“Almeno i bastardi ci hanno dato questo per difenderci” borbotta Harry, picchiettando sul taser elettrico che penzola al suo fianco.
Anche io ce l’ho, certo, ma non ho nessuna intenzione di usarlo e nessuno da difendere, dopotutto.
“Dai, muoviti inglesino” borbotto. “Dobbiamo mantenere il ritmo finché il lupo nero resta alla larga; accelera il passo”.
Lui annuisce e io gli leggo negli occhi che non riesce a comprendermi; non gli ho mai detto che i miei familiari sono già morti, ma deve averlo intuito da sé. Apprezzo che non faccia sciocche, sentimentali domande. Anche perché sapere che mi segue, che è al mio fianco ed è spaventato tanto quanto me non è poi così male.
 
 
***
 

“Maledizione!”
Grido, lo so, e non dovrei. Ma la testa mi scoppia e il sangue non smette di uscire dal taglio sul sopracciglio.
“Inglesino?”
Lui è ancora steso a terra, incosciente.
“Harry mi senti?”
Il primo schiaffo sembra avere un qualche effetto; lui muove le palpebre e mugola qualcosa. Ecco perché ne faccio seguire subito un altro.
“Diavolo, che fai?” biascica.
Bene, almeno è sveglio.
“Che è successo? Merda, è sangue quello?”
È così maledettamente banale questa situazione! Poche ore prima stavo spiegando al mio amico come funzionano le gang del posto e meno di dieci minuti fa una di queste ci ha aggredito e derubato. Confido troppo nel mio sesto senso e questa è la terribile conseguenza.
Abbiamo perso tempo; il cielo grigio piombo del mattino inizia a lasciare spazio al grigio scuro che annuncia il pomeriggio.
“Andiamo dai, ti spiego strada facendo” dico, aiutandolo a tirarsi su.
“Ehi, il mio casco! E dove sono i nostri zaini?”
“Prova a immaginare …” ribatto, già avanti.
“Ti rendi conto che stiamo respirando il Gas?” continua Harry, affannato.
Mi raggiunge di corsa, sgraziato e ansante.
“Sei tardo o cosa? Ci stiamo avvelenando un’altra volta!” urla, ancora e ancora, isterico.
“Merda, merda, merda! Moriremo, lo sai?”
“Smettila!”
Lui lo fa davvero. Bene.
“Piantala. Cosa credi, che non la sento, la puzza? Uova marce e benzina, l’odore del Gas, no? Te lo devo dire io, quanto ne ha respirato la tua Cathy in tutti questi mesi? La vuoi salvare o no?” e tutto questo glielo grido in faccia.
Quando faccio per asciugare le gocce di sangue dalle guance, porto via anche le lacrime. Sinceramente ora non mi interessa che Harry se ne accorga; perché fa terribilmente male sapere che non c’è nessuno ad attendermi, al D12. È un vuoto immenso quello che sento ora che sono solo al mondo. Harry non lo sa, non sa che la paura più grande, in realtà, è il desiderio di annegarci, in questo Gas, e non sentire più nulla.
Tutto questo non glielo dico, ma lui tace e riprende a camminare.
Il sangue, le lacrime, la botta; chilometri dopo tutto diventa confuso e d’un tratto mi ritrovo per terra.
“Amico?”
Sì, sono davvero inciampato.
“Vuoi una mano?” dice Harry e il suo tono è remissivo, quasi colpevole.
“No. Tra un momento sono lì da te”
Voglio continuare ad osservare il cielo esattamente sopra di me, incorniciato dalle fronde scure degli alberi, plumbeo, pieno di nuvole. Il sole, una palla rosso fuoco, cala lentamente, troppo debole per ravvivare il grigio con la sua luce sanguigna. Non c’è consolazione, non c’è aiuto dall’alto; l’umanità intera precipita verso l’estinzione mentre l’universo continuerà ad esistere. Si prende beffe di me, questo mondo, e della mia sofferenza.
Chi noterà la mia mancanza quando me ne sarò andato?
 
 
***
 

“Tu non hai fame?”
Harry rompe così il lungo silenzio sceso tra noi da molti chilometri, ormai.
“Non molta”
“Io sto morendo di fame, invece” continua lui.
Il cibo fornitoci dalla Base era negli zaini; credo che Harry sarà costretto a tenersi i crampi.
“Non prendere i frutti che trovi qui in giro” mi raccomando, anticipandolo.
“Non sono proprio così idiota, sai? Ma magari in qualche tenda troviamo ancora qualcosa …”
Potrebbe essere, certo, ma non ho intenzione di fermarmi a controllare. Stiamo attraversando il campo D07 e sembra deserto, un cumulo di tende lacere e sfondate, un mucchio di fango e silenzio. Sono stati fortunati, i suoi abitanti, o possono essere fuggiti chissà dove.
“Sei uno tosto, tu, eh?”
Ecco, Harry ha di nuovo voglia di far conversazione. Nell’aspetto dimostra tutti i suoi ventidue anni eppure esprime un infantile desiderio di comunicazione, di vicinanza; l’idea di perdere la sua Cathy deve davvero spaventarlo molto.
“Ok, ho capito; niente commenti su di te” continua da solo.
Forse un po’ comincia a conoscermi, finalmente.
“Puoi dirmi almeno come ti chiami? Saranno ore che viaggiamo insieme e non ti sei ancora presentato”
“Lorenzo” rispondo, lapidario, con l’intenzione di mettere fine ad ogni polemica.
“Sì, l’avevo capito che eri italiano”
A lui invece polemizzare piace proprio, sembra.
“Perché, c’è qualcosa di male?”
“Ehi, tranquillizzati” dice e alza le mani. È un gesto che ripete spesso.
“Volevo solo dire che si sente dal tuo accento quando parli inglese” continua.
“Non è certo colpa mia se i governi internazionali hanno scelto la tua lingua come lingua comune”
“Vero, vero” dice lui e non nasconde una certa baldanza.
Tutti in Europa parlano un buon inglese e io ho sempre odiato la miriade di corsi che mi toccava seguire da bambino. Alla Base, però, è un gran vantaggio; almeno non abbiamo problemi di comunicazione.
Quando avvisto il limite sud del campo E07 e la vegetazione che si estende al di là della recinzione, mi fermo. È importante calcolare bene la direzione, ora che sono così vicino al mio obbiettivo e dopo che quei ladri bastardi ci hanno portato via le cartine. Harry invece non dovrebbe avere problemi, dato che deve proseguire verso sud di diversi chilometri ancora. Infatti, poco interessato ai miei calcoli, il mio compagno di viaggio esamina un paio di tende alla nostra sinistra, non meno lerce e puzzolenti delle altre che abbiamo incontrato. Un angolo della mia mente non può fare a meno di chiederselo di nuovo: ma come diavolo hanno fatto a credere che potevamo essere felici vivendo in questa merda? Proprio qui accanto se ne sta una tenda disabitata e crollata, infestata dagli insetti. Tutto intorno pentole, vestiti, uno specchietto rosa, tracce di vite perdute immerse in terra e fango, una bambola, una bottiglia verde, un pezzo di stoffa ormai marrone. Non mi addentrerei là dentro un'altra volta nemmeno per il più sontuoso dei banchetti.
Dopo qualche minuto sono quasi certo che, per raggiungere il D12, devo proseguire ancora di alcuni gradi verso ovest, separandomi dall’inglesino; vorrei dirlo ad Harry, ma lui non è ancora tornato dalla sua esplorazione.
“Ehi!” lo chiamo.
Nessuno mi risponde e allora mi azzardo a gridare un po’ di più: “Harry! Dove diavolo sei?”
Lo massacrerò di botte se per colpa sua veniamo di nuovo avvistati e assaliti dalle gang del posto. Per sua fortuna risponde al richiamo dopo pochi secondi.
“Lorenzo!” esclama.
Ancora una volta dimostra di essere un vero idiota: lo so come mi chiamo!
“Torna qui, stupido!”
“No. Vieni tu, un attimo”
La sua voce proviene dal mucchio di tende.
“Manco morto. Guarda che ti mollo qui!”
“Devi venire a vedere, ti prego”
Alla fine decido di raggiungerlo solo per farlo smettere di gridare. L’ultima cosa che voglio ora è incappare in qualche guaio, anche perché il tempo che ci resta è poco e la puzza del Gas inizia ad essere nauseante.
La mia tuta non è più bianca e immacolata da un pezzo ma attraversare questo campo desolato imbratta più i miei pensieri che i miei vestiti. Non dovevo accettare di portare con me quel bamboccione di Harry, penso.
“Ehi! Dove sei?” bisbiglio.
Ormai sono dentro al labirinto delle vecchie tende e intorno a me vedo solo marrone e grigio, finché un fruscio alla mia destra mi fa rizzare tutti i peli in corpo. Mi preoccupo all’istante ma, quasi subito, capisco che le gang di sciacalli non c’entrano nulla questa volta. Me la trovo davanti all’improvviso; mi guarda con due occhi grandi, liquidi di paura, piccola, sporca, sola.
Una bambina, insomma.
Una bambina?
Subito dopo i corti capelli a spazzola di Harry sbucano fuori dall’apertura di una tenda semi crollata; lui sorride e posa una mano sulla spalla della ragazzina.
“Ti presento la mia nuova amica” dice.
Con questo abbiamo davvero toccato il fondo: “Stai scherzando?”
Forse ho alzato troppo la voce, perché la bambina distoglie lo sguardo, trema e si porta le mani al volto. Andiamo, l’ho spaventata? Bene, bravo Lorenzo.
“Harry che diavolo … ?”
Lui, d’altra parte, batte una pacca sulla spalla della piccola e le indirizza un bel sorriso, di quelli rassicuranti. Poi fa un cenno a me e ci allontaniamo di qualche passo. Subito l’inglese prende a bisbigliare in gran fretta.
“Senti, non devi agitarti” inizia. “Sono entrato nella sua tenda e l‘ho trovata lì, tutta sola. Mi ha fatto una gran pena, davvero: credo non abbia più nessuno qui o non vivrebbe in questo schifo”.
Non ha ancora finito di parlare che io già immagino ciò che sta per dirmi.
“Andiamo, non fare quella faccia!” esclama lui, infatti.
“Tu sei pazzo” sillabo chiaramente, casomai il mio accento impedisse il passaggio di questa fondamentale comunicazione.
“Sei pazzo. Che dobbiamo fare con lei, eh? Non possiamo portarla alla Base, né aiutarla in nessun modo. Dimmi che non le hai promesso nulla …” supplico.
“Certo che sì!” esclama lui.
Se potessi, lo strozzerei.
“Non vorrai lasciarla qui a morire intossicata? Sempre se non schiatta prima per la fame. È una bambina, maledizione!”
Va bene, l’amico si sta scaldando; ma che diavolo vuole da me? Non ho la minima intenzione di combattere questa battaglia.
“Senti, per me puoi fare quello che vuoi. Sai che mi interessa?” dico, deciso. “Io vado ad ovest, buona vita”
Mi volto e percorro la strada al contrario per tornare sul sentiero. Quando passo davanti alla bambina, ancora ferma davanti alla sua tenda, non posso fare a meno di lanciarle uno sguardo. Si è accucciata per terra e tiene tra le braccia un micio scheletrico: noto con sorpresa che quel gattino porta al collo un nastro rosso con tanto di campanella. Ero convinto che certi lussi fossero dimenticati, quaggiù. Comunque, distolgo lo sguardo e tiro dritto per la mia strada.
Mi ero ripromesso di spegnere i sentimenti e voglio farlo fino in fondo.
Non faccio che pochi passi, poi qualcuno mi afferra per le spalle e mi obbliga a fermarmi. È Harry, di nuovo.
“Ehi, ehi! Che hai capito? Non puoi andartene così” mi dice.
Ha il volto arrossato e gli occhi sgranati e io proprio non capisco che diavolo gli prende.
“Tu fai quel che ti pare, io faccio quel che mi pare” metto in chiaro.
Peccato che lui non ne sembra consapevole: in un sol gesto mi afferra le mani e mi trascina con sé, fin dentro una tenda. La bambina sembra confusa, ma ci segue e ci indica un’asse di legno poggiata sulla cerata in quella specie di casa per nani.
“Dai, accomodati” fa eco Harry.
Quel ripiano di legno deve essere una sorta di tavolo da pranzo per lei; proprio al centro c’è un bicchiere sbeccato, colmo d’acqua e pieno di papaveri rossi. I fiori, così colorati e belli in mezzo a quel marciume, non sono gli unici ad attirare la mia attenzione; noto subito un avanzo di pizzo poggiato sul consunto sacco a pelo, una bambola senza un braccio, un frammento di specchio.
“Lei abita qui” spiega Harry, seguendo il mio sguardo.
“Signore, siediti”
È la bambina che ha parlato stavolta e ammetto che non me l’aspettavo. Il suo inglese ha un accento strano, che non riconosco subito, mentre la sua voce porta tracce della paura quotidiana. Comunque, mi siedo.
“Ti rendi conto che stiamo perdendo minuti preziosi?” mormoro al mio compagno, sistematosi proprio davanti a me. “Che ci facciamo qui?”
“Hai detto tu che non dobbiamo attirare l’attenzione lì fuori, no?”
“Harry non abbiamo tempo per questo. Io non ne ho” ripeto, guardandomi intorno.
“Certo che no. Proprio come quelli del Programma non hanno mai avuto tempo per tornare a prendere i tuoi, giusto?”.
Questo è un colpo basso; osa paragonarmi a quei bastardi? Osa usare la mia sorellina morta come arma di convincimento?
“Sì” continua Harry.  “Sì, gli somigli quando ti comporti in questo modo”.
Da dove diavolo ha tirato fuori questa arroganza, questa stronzaggine? Solo lo shock mi impedisce di rompergli il naso a suon di pugni.
Un rumore di plastica stracciata attira la nostra attenzione; è la bambina, che ha appena aperto un pacchetto di cracker. Sorridendo ne posiziona due davanti a me e due davanti ad Harry, mentre tiene per sé il quinto.
Ne mordicchia un po’ e ci fa cenno di imitarla.
“Grazie” commenta subito Harry.
Si sono messi d’accordo per fregarmi, questi due?
“Io vado via. Non voglio più avere nulla a che fare con un bastardo come te” dico.
Non mi alzo subito, però. Merda, perché sono così sentimentale? Una mociosetta mi offre un cracker e io mi rammollisco all’istante; il mio amico tira fuori gli attributi e io divento un agnellino. Che fine ha fatto la mia determinazione, la mia rassegnazione?
“Amico, devi fermarti” e, ora, il tono dell’inglesino è più dolce.
“Fermarmi?”
“Non puoi mica scappare per sempre. La vita è questa ormai; fa schifo e noi stessi non siamo che burattini in mano ai bastardi del Programma dato che dobbiamo a loro la nostra salvezza”.
“Lo so bene, non credi? Meglio di te, anche, credimi” ribatto. “Cosa vuoi fare, la rivoluzione? Vuoi mandare all’aria le regole introducendo una clandestina a bordo?” dico, indicando la bambina.
Non so se lei capisce quello che dico, ma non mi importa. Mi sento confuso, oltremisura. Mi sento giudicato e, per la prima volta dopo mesi, devo rendere conto delle mie azioni ad un’altra persona.
“No. Ti propongo un solo, minuscolo atto di bene. Se non per lei, per te stesso; così potrai trovare il modo di salvarti e di farla pagare agli stronzi che ci hanno ridotto in questo stato. Non è la rivoluzione, ma è una possibilità di non essere parte del sistema”.
“Perché io? Che ti frega della mia coscienza? Fallo tu, il bene”
“Non ti piace, signore?”
Sta parlando con me, la scimmietta? Ci mancava solo lei, ora, col viso triste perché non mangio i suoi stupidi cracker.
“Lo sai che io non posso” risponde invece Harry alla mia domanda.
Sì, posso arrivarci. Lui non può davvero fermarsi qui con la bambina dato che una ragazza alta e mora di nome Catherine lo sta aspettando al’E05. Io, d’altra parte, sono solo, giusto?
“Se non per lei, Lorenzo, devi farlo per te” ripete
Con questo Harry si alza, bisbiglia qualcosa all’orecchio della piccola e fa per andarsene.
“Ehi!” mi vien da gridare.
“Harry non provarci neanche” continuo.
In un attimo sono in piedi ma, nella furia della corsa, inciampo e quasi calpesto il povero micio; mi ritrovo con la faccia incollata alla cerata sudicia. Ovviamente non sono il tipo che si lascia buttare giù per così poco. Mi lancio all’inseguimento di Harry e non impiego molto ad arrivare al limitare del campo. Lo vedo, l’inglese, giù per la scarpata, mentre corre verso sud. Schifoso traditore, codardo, buonista da due soldi!
Mi volto ma so già che la bambina mi ha seguito; la trovo ferma dietro di me, col gatto in braccio e le labbra cosparse di briciole di cracker.
“Beh? Che vuoi? Tornate a casa”
Lei abbassa il volto e si mordicchia un labbro, annunciando un bel pianto. Prima ancora che possa sfuggirle una lacrima mi giro verso la foresta; non posso guardarla piangere, non posso davvero.
La verità è che non voglio portarmela dietro, non voglio rogne con quelli del Programma, di nessun tipo. Sono un asservito al sistema? Seguo la logica criminale che pubblicizzano, appoggio la crudeltà, l’interesse e tutto ciò che di male la Base rappresenta? Non mi lascerò scalfire.
Lo penso, lo ripeto come un mantra: non mi scalfisce, non mi interessa vivere né vivere bene. Spengo i sentimenti, come da copione, prendo un bel respiro e parto, diretto ad ovest.
La rabbia verso Harry mi dà da pensare per parecchi minuti e procedo senza esitazioni, né interruzioni.
Come diavolo si è permesso di cacciarmi in una simile situazione? Proprio io, che l’ho preso con me in questa spedizione folle, io che gli avevo offerto il mio aiuto! Ancora una volta rifletto sull’egoismo delle persone disperate. Ovviamente diventa imperativo mettere a tacere la voce della coscienza che bisbiglia: “Egoista, lui?”.
I pensieri macerano nella mia mente a lungo, in accordo con i miei passi ritmati. Quando, infine, la rabbia scema, la confusione, i rimorsi e la tristezza hanno la stessa consistenza di cocci, che affiorano delle sabbie mobili della mia anima, neri e sporchi, pronti a trafiggermi.
La prima volta pungono: chi sono diventato? mi chiedo.
La seconda trapassano: chi voglio diventare?
Griderei, se potessi, urlerei ciò che non posso e non riesco ad afferrare, ciò che non so esprimere a parole: che fare, quando la mia logica inflessibile e insensibile mi dice “Va avanti” mentre quel residuo di bontà, quell’umanità che tanto voglio – e non voglio -  soffocare afferma appassionatamente “Torna indietro”?
Non posso continuare a prendermi in giro.
Non faccio che ripetermi di spegnere i sentimenti, di trasformarmi in un guscio vuoto, che tanto non mi è rimasto nulla nella vita. Eppure senza la mia umanità non sarei diverso dagli assassini della mia famiglia. Non è vero che non mi scalfisce: devo prendermi cura di me e della mia coscienza.
Quello stronzo di Harry mi conosceva fin troppo bene: non sono un mostro, non ancora. Non sono un uomo del sistema, non ancora.
La bambina, che non ha smesso di seguirmi, è rimasta diversi metri indietro, impigliata, sembra, tra le fronde di un grosso albero storto e deforme. Si dimena ma non grida né chiede aiuto; il suo gatto spelacchiato l’aspetta dall’altra parte con rassegnata disperazione.
Vado ad aiutarla? Davvero lo voglio? Che direbbe papà se fosse qui con me? Che farebbe l’eroe dei film di fantascienza?
Ovvio, correrebbero in suo soccorso, sacrificando tutto e tutti.
Fallo per te ha detto Harry.
Non la conosco né provo nulla per lei. Non mi sta a cuore la sua vita, la sua felicità, il suo futuro; da mesi non mi curo nemmeno di me stesso. Intendeva forse questo, l’inglese? Lei può salvarmi?
Tremo tutto, dalla testa ai piedi.
Infine la bambina si libera da sola di foglie e rami, solleva il micio tra le braccia e riprende a camminare verso di me, che ora resto fisso a guardarla. Avanza piano e, passo dopo passo, riconosco un sorriso spuntare sul suo viso sporco e magro. Infine accenna ad una lieve corsetta fino a fermarsi ad un passo dalle mie mani.
Mi guarda.
Beh, che ci vuole, Lorenzo? Prendila e portala in salvo.
Chi mi crederà quando dirò che questo semplice gesto è frutto di così grandi sacrifici? Chi penserà bene di me? Forse loro che non ci sono più: perché questo mondo in rovina non può, davvero, decretare la fine della mia umanità. Non può, questa crudeltà continua, ridurmi a bestia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Mia Maryna ***





Capitolo 3
Mia Maryna
 




 
 
 
La bambina fischietta.
Non è normale. Non può essere così felice mentre camminiamo da ore per terre infette, respiriamo il Gas e soffochiamo per colpa della puzza nauseabonda. Persino il suo gatto sembra allegro e fa le fusa tra le sue braccia. Se poi ci imbattiamo in qualche ostacolo e mi tocca afferrarla da sotto le ascelle per sollevarla, lei ridacchia e agita le gambe scheletriche, neanche fossimo al parco divertimenti.
Io non potrei essere più preoccupato, invece. Non resta più molto tempo e il B24 sembra lontanissimo ora che devo adattare il passo a quello della bambina. Le ombre si affollano sulla strada e anche solo camminare è piuttosto pericoloso. Ogni rumore sospetto mi spaventa e temo al pensiero di un nuovo assalto; per fortuna la scimmietta sembra abbastanza silenziosa.
“Mi aiuti?”
Come non detto.
Il suo inglese ha un forte accento slavo ma non saprei dire di dove. Continua a stringersi le braccia intorno al corpo e inizio a pensare che potrebbe avere freddo. Con la mente fissa su di lei, le libero il piede dai rami e dalle foglie che ha raccolto nell’ultimo miglio e le lascio indossare i miei guanti.
Sono giganti in confronto alle sue manine da bambola.
“A posto?” chiedo.
Più le parlo, più mi sento un idiota.
“Sì, signore”
Santa pazienza … “Non chiamarmi signore, ok?”
“Come, allora?”
“Il mio nome è Lorenzo”
“Lawrence?” prova in inglese.
“No. Lo-ren-zo”
“Lor, va bene. Io mi chiamo Maryna” dice e tende la sua manona guantata.
A vedere la scena, così irrimediabilmente comica, si mette a ridere da sola.
“Da dove vieni?” le chiedo io invece, troppo curioso.
“Sono polacca”.
Riprendiamo a camminare; o meglio, io avanzo e lei arranca sulla mia scia.
“Quanto manca?”
“Sei stanca?”
“Solo un po’. Ma dove stiamo andando?”
“Alla Base”
“Va bene. Quanto manca?”
Sembra una mociosetta decisa ad avere le sue risposte.
“Non lo so. Abbastanza”
“Abbastanza tanto o abbastanza poco?”
Chissà che fine ha fatto quell’imbecille di Harry! Mi farebbe piacere rivederlo … giusto per assestargli un bel pugno sulla faccia per avermi abbandonato in questa situazione di merda.
“Lor”
“Mmm?”
“Sto pensando ad una cosa”
Sembra che camminare le sciolga la lingua.
“Me la devi anche dire?”
“Ma certo!” mi risponde lei, quasi scandalizzata.
Perché mai non l’abbiamo studiato a scuola come far conversazione con una bambina sconosciuta, in mezzo ad una maledetta foresta, col rischio di restarci secchi entrambi? Stare al suo fianco mi mette a disagio, mi fa sentire un vero incompetente, quasi un ragazzino. Era da un pezzo che non mi sentivo un diciassettenne in fondo al cuore; sarà per questo che, tra la matassa delle mie emozioni, sento riaffiorare l’invidia. Sì, invidio Maryna spaventosamente: vorrei prendere il suo posto ed essere tanto sereno e fiducioso da chiacchierare amabilmente.
“Ma tu sei sempre così felice?” mi scappa di dire.
“Io non sono felice. Io sono io” risponde Maryna, con assoluta facilità.
“La vuoi sapere la mia cosa?” insiste.
“Dimmela …”
“Mi dispiace un po’ di andare via da qui …” ammette, senza rendersi conto di aver sganciato una vera e propria bomba.
Che diamine si agita in quella testolina bacata?
“Questo è il tante grazie …” borbotto.
Nel profondo, mi sento persino offeso: non sono parole da dire, almeno non a me che sto rischiando tutto pur di portarla in salvo.
“Ma no, che hai capito? È che la Base mi fa un po’ paura …” spiega lei, con lo sguardo di chi, ormai, ne ha passate davvero tante.
“Non è che così suona meglio”
“Guarda che anche la foresta è bella” ribatte, con l’aria da saputella. “Senza la foresta non avrei mai conosciuto Mr. Prosciutto, il mio migliore amico” continua, mettendomi il gatto sotto il naso.
“Mr. Prosciutto? Davvero?”
Solo una pazza come Maryna poteva dare un nome tanto idiota al gatto.
Lei quasi arrossisce di vergogna: “Avevo fame quando l’ho trovato … che c’è di male?”
“Potevi mangiartelo, quel coso spelacchiato” la stuzzico.
“Ma dai, che dici?” si inalbera subito, stringendosi al petto il micio scheletrico.
Così l’ho messa anche alla prova: offeso il gatto, dubito che possa esistere affronto peggiore per lei. Inizio a pensare che trotterellerebbe al mio fianco qualunque cosa dicessi, qualunque cosa facessi. La guardo a lungo, dall’alto della mia altezza; poi, proprio mentre la sto fissando, lei solleva lo sguardo e mi sorride.
Mi fido davvero di te sembra che sussurri.
Per la prima volta mi chiedo perché una bambina di sette anni vivesse sola in quello squallore.
“Dove sono i tuoi genitori?” le domando, impegnandomi nella ricerca di un tono pieno di tatto.
Ho sempre pensato che tutti soffrano allo stesso modo di fronte ai drammi della vita, che tutti vivano disperatamente i propri dolori personali: invece Maryna quasi sorride mentre risponde.
“Sono andati”
Non credo di voler capire: “Andati dove?”
“In un posto più bello della Base, più bello della foresta. Sono felici” risponde, lo sguardo rivolto al cielo.
Mi mordo la lingua pur di non dar voce al riso amaro, pur di non spezzare, una dopo l’altra, le sue illusioni. Solo io potevo accollarmi una ragazzina che ancora ha fiducia nelle favole.
“Tu ci credi?” mi scappa comunque, nonostante i mie sforzi.
“Certo! Tu no?”
Alzo le spalle.
“Ma dai, allora come te lo spieghi il mondo?”
Ci voleva proprio Maryna per portare a galla i miei pensieri più oscuri, quelli che mi mandano a male e che mi fanno tremare dalla testa ai piedi. Pur di far qualcosa, accendo la pila incorporata al braccio della tuta, illuminando un piccolo tratto di strada davanti ai nostri piedi. Non appena viene colpito dalla luce, un animale strisciante corre via verso il folto degli alberi.
“Lo hai visto?” esclama immediatamente Maryna, tutta entusiasta.
“Come no” rispondo, con il cuore che ancora scandisce i battiti della paura.
“Non era un serpente comune, sai? È uno degli animali nuovi … aveva delle piccole corna sulla testa” mi spiega, battendo le mani una contro l’altra per la felicità.
“Vedi? La foresta è la casa degli animali che sono stati abbandonati; è il posto in cui c’è sempre il sole, anche se è nascosto dalle nubi. È il luogo più magico che conosco perché tutto cambia e tutto è nuovo, c’è sempre una sorpresa. La foresta è casa mia” mi dice, in un eccesso di parlantina.
La notte di ferro sta calando sulle fronde degli alberi, nascondendo la rovina che la foresta ha sempre rappresentato ai miei occhi. Due luci continuano a brillare in questa oscurità crescente: la pila elettrica e la voce allegra Maryna che canticchia filastrocche a Mr Prosciutto.
Mi sembra quasi assurdo rendermi conto, passo dopo passo, che lei ha ragione.
La ammiro. Come me, ha perso ogni cosa; peggio di me, viveva con nulla, abbandonata da un sistema che avrebbe dovuto proteggerla da ogni male. Eppure ha conservato la fede: in Dio, negli uomini, nella natura.
Aprire la mente fa quasi male, fisicamente male. Nuove idee mi travolgono con la forza di treni in corsa.
Alla Base viviamo come ombre di quello che siamo stati in passato, pieni di rimpianti e rimorsi, assaliti dalla nostalgia di una vita che non riavremo più indietro. Qua fuori, invece, il tempo non ha mai smesso di scorrere e il desiderio di vivere è rimasto integro. La speranza, così forte in Maryna, così minuscola in me, è la vera preziosità di questo posto dimenticato da Dio. Sempre che Lui esista, ovviamente.
“Scimmia …”
Lei interrompe la nenia sconosciuta e mi guarda: “Lor?”
“Perché vuoi venire alla Base?” le chiedo, quindi.
“Perché mi sono stancata di essere sola”
“E Mr. Prosciutto?”
“Oh, lui è un bravo gattino, ma a me piace tanto parlare con le persone, cantare, giocare con gli altri bambini …”
Più mi parla, più mi rendo conto di cambiare. Così in fretta, così all’improvviso, sento che rinascere e ricominciare è possibile. Maryna lo sta facendo, l’ha sempre fatto, e diamine, ha solo sette anni! Mi sento persino pronto a confessare.
“Maryna?
“Si?”
“Posso dirti una cosa?”
Lei annuisce, il visino affilato e pallido alla luce della pila.
“Anche mia mamma è morta”
È la prima volta che lo ammetto ad alta voce. Lei mi sorride e, maledizione, mi sembra di tornare a respirare.
“Sarà diventata amica dei miei genitori, magari” dice, con un’ingenuità devastante.
“Sono venuto qui fuori per seppellire lei e mia sorella, poi le cose sono cambiate e ora sto tornando alla Base con te. Credi che questo possa fare di me una brutta persona?”
È un pensiero che non ha mai smesso di infuriare nella mia testa. Sono un mostro ad andare ancora una volta verso la salvezza lasciando coloro che amo dietro me? Di certo mi sto rimbecillendo se credo che una settenne possa dare la risposta ai miei tormenti.
“Lor tu sei il più buono che conosco!” esclama invece lei. “Tua mamma ti ha messo sulla mia strada, vedi? Ora che siamo insieme posso essere io la tua sorellina”.
Non posso rispondere, la voce è incastrata in un posto indistinto tra la gola e la pancia. Senza smettere di camminare, Maryna mi prende la mano e la stringe. No, non ha le risposte che cerco, ma ha di meglio: ha la fiducia, di cui io sono così disperatamente a secco.
Attimi di silenzio dopo, trova lei qualcos’altro da dire: “Posso farti una domanda?”
Annuisco.
“Secondo te sono una bambina cicciona?”
Resto di stucco: perché diavolo deve cambiare argomento così di botto? Ancora non ho mandato giù il magone per le sue ultime dolcissime parole che già devo rispondere alla più idiota delle domande. Chi ha detto mai che i bambini sono meravigliosi? Sono degli squilibrati, ecco la verità.
“No, Maryna” dico, tirando fuori le parole dal centro esatto della mia esasperazione.
“E allora perché non mi porti sulle spalle? Mi fanno male i piedi, adesso…” si lagna.
Ci fermiamo e la guardo bene in faccia per capire quanto fa sul serio. Non appena scorgo due lacrimoni ai lati dei suoi occhi, però, mi chino sulle ginocchia e le faccio segno di arrampicarsi sulla mia schiena. Non ce la posso fare a gestire un capriccio, proprio no.
“Che bello!”
Lei è felicissima, ovviamente, già lontana mille miglia dal pianto annunciato. Senza sforzo mi alzo in piedi con lei addosso, circondato dai suoi gridolini di gioia.
“Aspetta!” esclama poi, calmati gli entusiasmi.
“Non puoi lasciare giù Mr. Prosciutto” continua.
Colmo dei colmi, cammino in una foresta ostile con una bambina in groppa e un gatto in collo. Spero di non rivedere mai più Harry, adesso, perché sarebbe troppo difficile evitare di fargli davvero male.
Solo il verso spettrale di qualche uccellaccio è capace di distogliere i miei pensieri da una situazione così ridicola: mi ricorda quanto sia pericoloso stare qui fuori e quanto sia urgente non perdere la concentrazione. Da un po’ me ne dimentico con troppa facilità. L’orologio della bussola segna le ventitré e quindici. Quarantacinque minuti di cammino disponibili prima di perdere ogni speranza di rivedere la Base. Mentre cammino a passi svelti sento il respiro di Maryna farsi sempre più regolare e la sua testa afflosciarsi sulla mia spalla.
“Mi sa che dorme, Mr. Prosciutto” bisbiglio al gatto.
Doveva essere davvero sfinita, penso. Rido. Sto davvero parlando con un gatto?
Quando sono partito, non credevo che un solo giorno nella natura selvaggia potesse essere così sconvolgente. Il ragazzo che ero questa mattina trovava di impiccio la sua stessa tuta; ora cammino agilmente con Maryna sulla schiena e la cosa non mi irrita. È quasi bello essere stato eletto a guardiano del suo sonno; il suo fiato caldo sul collo sembra riscaldarmi fin nell’anima, la mano penzoloni sul mio petto, i mormorii inconsapevoli, persino il leggero filo di bava che le macchia il mento è rassicurante. Mi ricorda che non sono solo, mi ricorda che quel tremore che mi scuoteva dalla testa ai piedi, quella paura, quella disperazione folle, erano solo nella mia mente.
I miei occhi sono malati; nel bel mezzo del disastro, al centro esatto dell’inferno, non sanno fare altro che vedere fiamme e dannazione, dolore e condanna. I suoi sono molto meglio, i suoi occhi sono magici: dal suo punto di vista qualsiasi mondo è sorprendente.
Il chiarore al di là della mia torcia giunge inaspettato dopo aver percorso la curva dolce di un sentiero scavato da decine di stivaloni come i miei. Non credo di illudermi pensando che sì, ce l’ho fatta: quella di fronte a me è la luce del B24, sono i fari delle camionette, la luce gelida delle pile degli uomini della Base e del Programma. Non accelero il passo solo perché credo che un’occasione come questa non capiterà più. Non sarò mai più a contatto con l’aria puzzolente ma vera, né con le stelle della notte - nascoste dalle nubi ma presenti - non proverò ancora la consistenza della terra sotto i piedi. Improvvisamente ogni parte di me rigetta la Base, così artificiale, così isolata, così triste. Che razza di salvezza potrà mai offrirci un posto tanto arido?  Procedo solo per portare lei in salvo, solo per avere la possibilità di crescere ancora alla sua luce.
Su una cosa avevo ragione questa mattina: come un bambino, devo imparare a conoscere da capo questo mondo che, nella sua brutalità, resta pur sempre mio. Un mondo crudele ma equo: quello che mi ha tolto ora mi restituisce.
Un Istruttore, bardato dalla testa ai piedi, mi scruta con aria sospetta dalla sua postazione vicino al filo perimetrale del campo, poco distante dalla luce delle camionette.
“Indentificati” grida, mentre sono ancora distante.
“Lorenzo Archi, matricola 23935”
“Dov’è il tuo casco, ragazzo?”
“Me l’hanno rubato”
Mi sono avvicinato quel tanto che basta da guardare da vicino la sua visiera schermata e l’arma che imbraccia con una sicurezza spaventosa.
“Dovrai sottoporti di nuovo al regime di quarantena, temo” grugnisce, di malumore come se toccasse a lui restarsene isolato per il prossimo mese.
Non ha idea di quanto veleno mi sia già lasciato dietro le spalle, oggi.
Accanto a noi, altre figure bianche e sporche di terra si aggirano. Sono gli altri volontari, certo; qualcuno di loro è circondato da uomini e donne magri e brutti quanto Maryna, altri se ne restano in disparte, preda degli stessi demoni che tormentavano me e di cui solo ora inizio a liberarmi. Lascio viaggiare il mio sguardo tra di loro, alla ricerca …
 “Ehi, ragazzo!”
L’Istruttore con cui ho a che fare sembra un tipo nervosetto.
“Si, signore” rispondo, meccanicamente.
La domanda che mi rivolge, però, non la sento. Qualcuno fa un lungo fischio ed io volto automaticamente la testa per seguirlo. Il suono viaggia nell’aria scura intorno a noi per poi fermarsi all’altezza di un’altra torcia, un getto di luce potente che illumina il viso tondo e i capelli a spazzola di un ragazzo sulla ventina.
“Harry!” mi ritrovo a gridare, felice come non avrei mai pensato.
Lui sorride e mi saluta agitando un braccio. Come me porta un carico prezioso sulle spalle; di Cathy riesco a intravedere solo i lunghi capelli scuri ma il sorriso del mio nuovo amico non lascia dubbi sul fatto che lei sia davvero stupenda.
Sono davvero felice che ce l’abbia fatta: devo la vita a quell’idiota di Harry Boodman.
La pazienza dell’Istruttore, invece, deve essere arrivata al limite dato che, pur di attirare la mia attenzione, mi pungola con la canna della sua arma di morte.
“Ehi, ehi, piano” gli faccio notare.
“Chi porti con te, ti ho chiesto” sbraita, accennando a Maryna ancora addormentata sulla mia schiena.
Questa risposta non potrebbe essere più semplice. Subito pronuncio le tre parole che, lo sento, metteranno a posto i pezzi della mia vita.
“Maryna, mia sorella”.
Benvenuta, piccola, nella mia famiglia.
Benvenuto, mondo nuovo.
 
 

 
FINE



 
 
 





Note
Ed eccoci alla conclusione! :) 
Spero che questa storia semplice e breve sia piaciuta a voi lettori che siete giunti fin qui ... ho ancora molte idee e molti personaggi da ambientare in questo mondo e un giorno, magari, scriverò altre storie che andranno ad esplorare le Basi sparse per il mondo. 
Ringrazio tantissimo chi legge e e sarò ancor più felice di farlo di persona qualora passaste a lasciare il vostro parere ;)
A presto,
Ester 





... dalla canzone "Il mondo è mio"
Della canzone ho estrapolato soprattutto i temi che ho sempre percepito come fondamentali; la fiducia e la meraviglia.
Le parti, nel mio racconto, sono invertite. Come Jasmine Lorenzo si sente prigioniero; prigioniero della sua tragedia familiare, rifiutato dal mondo che conosceva e impreparato ad affrontarne uno nuovo. Lorenzo non ha vissuto quello che ha vissuto Maryna, così come Jasmine non conosce il mondo di Aladin. Maryna, sola e abbandonata, costretta a cavarsela da sola, ha mantenuto quello sguardo positivo, fiducioso e pronto a meravigliarsi per le cose del mondo che Lorenzo, nei lunghi mesi trascorsi al campo e nella solitudine della Base, non ha mai provato.
La bambina ha dato fiducia a Lor, ma cioè che è più importante è che Lor ne ha data a lei. Lui le ha permesso, durante il viaggio insieme nel mezzo alla natura selvaggia e sorprendente, di mostrargli un mondo nuovo, ancora bello, ancora pieno di possibilità. Maryna, in poche parole, lo ha accompagnato, gli ha detto “ora vieni con me … verso un mondo d’incanto”.
Lorenzo inizia così la sua rinascita e “non tornerà mai più laggiù”, tra i suoi torbidi pensieri neri.
 
 
 
 

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