Causa sui

di Ruta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


l'essenza del problema

Norbury.

E’ stata quella parola a frenare i suoi passi, dopo che lui, nel suo stato di inquietudine e agitazione, si stava allontanando da lei. Ora, all’alba dei suoi sessanta anni, Sherlock Holmes si ritrova a fare i conti con i fantasmi del passato. Sembra giusto e fatalmente appropriato che la persona che lo costringerà a farlo sia la versione in miniatura di una vecchia amica, la più cara al suo cuore dopo Molly.

Ma quel pensiero è ingiusto, non è forse così?

Rosamund Watson non è la versione in miniatura di nessuno. E’ una persona a tutto tondo e anche se c’è così tanto di Mary in lei - nella piega solitamente fiera della sua bocca indignata, nella profonda saggezza del suo sguardo mercuriale, nella personalità pungente ed estroversa ed autoritaria, nel modo in cui sta lì, in piedi al centro del salotto ed è pronta a dare battaglia per i valori in cui crede, postura da soldato e un cipiglio perseverante che non lascia adito a dubbi sulla sua paternità – anche così, ci sono isole inesplorate nel mare della sua individualità che la rendono un essere umano unico e svincolato da ciò che i suoi genitori sono, rappresentano.

“Voglio che mi racconti la verità e voglio che tu lo faccia adesso. So che hai mentito a lui, a me, a tutti noi. Finalmente lo so, ma voglio sapere il perché. C’è sempre un perché e muoio dalla voglia di sentire il tuo.”

Lui la osserva senza battere ciglio. La guarda e i ricordi gli piombano addosso con l’ineluttabilità del masso di Sisifo. Ricorda il giorno in cui è nata, ricorda la luce di intima felicità che soffondeva il viso di Mary quando l’ha tenuta in braccio, la tranquilla determinazione nei suoi occhi mentre pronunciava il suo voto silenzioso – ti proteggerò. Ti proteggerò, piccola mia, anche a costo della vita. Ricorda la prima volta che l’ha portata al poligono di tiro e i sentimenti contrastanti che ha provato, mettendole in mano la sua prima pistola, insegnandole come impugnarla e poi usarla. Ricorda e ricorda e ricorda.

Ventitré anni si dissolvono in un’esplosione di immagini segmentate e poi si ricompongono nella giovane donna che gli sta di fronte.

Arrabbiata. Ferita. Disperata. Pertinace. Sherlock chiude gli occhi mentre un insostenibile peso gli grava sul petto e squarcia e taglia tutto ciò che c’è al suo interno. “La verità non ti piacerà.”

Rosamund scrolla le spalle con pratica convinzione. “E’ ovvio che non mi piacerà, ma la situazione corrente non è una prospettiva migliore. Voglio cambiarla, devo.”

“Perché dovresti – oh. Naturalmente. Lo ami.” Tutto ha senso. Non che prima non ne avesse, ma questo nuovo dettaglio è determinante, aggiunge un’ulteriore prospettiva al contesto, influendo sulla cornice narrativa.

“Lo amo,” lei dice con quieta risoluzione. I suoi occhi, grandi e fragorosi e limpidi, ispirano l’enormità del sentimento che le sue parole lasciano soltanto trapelare. “Da sempre, credo.”

Il terrore che lo attanaglia alla bocca dello stomaco è bilioso. La rabbia, il senso di colpa sono rivolti a se stesso e sono vecchi compagni d’avventura, familiari quasi quanto John. “Ma è tuo amico. Hamish è il tuo migliore amico.”

“Sì, lo è. Lui è la mia famiglia e io lo amo in tanti modi diversi che mi completano e mi rendono la persona che sono, ma negli anni i modi diversi in cui lo amo non hanno davvero lasciato spazio a un eventuale frammento di amore da riservare ad altri.” Il suo sguardo scivola sui mobili del salotto in una carezza gentile, affettuosa prima di serrarsi agli angoli, indurirsi. “Lo amo e vedere come si logora, giorno dopo giorno, in quelle sue passeggiate infinite di vagabondaggio solitario, smarrendosi nei suoi libri come se sperasse che basti a catapultarlo al loro interno per vivere quello che gli sembra che gli sia stato strappato via - la sua sofferenza mi spezza il cuore.”

Se servisse a qualcosa, lui indulgerebbe in un gesto confortante che rassereni il suo turbamento. Ma non servirebbe e non è neppure sicuro che lei glielo permetterebbe, perciò…  Fa una smorfia, portando le braccia dietro la schiena e congiungendo le mani. “La verità non sarà gentile o dolce o pietosa.”

“Non lo è mai.”

“Se lui sapesse cosa ho fatto per proteggerlo, quali vette sono arrivato a scalare per farlo, la scoperta cancellerebbe tutto ciò che conosciamo di lui, lo distruggerebbe. Distruggerebbe sua madre e sua sorella e-”

Te. Distruggerebbe te.”

“Sì.” Sherlock deglutisce e gli sembra di ritornare a respirare, tanto grande è il sollievo che lei abbia capito. Se intraprenderanno questa strada, lo faranno insieme. Quello che rimane da stabilire è in quale veste succederà: in quella di nemici o complici? “Sei identica a lei, a tua madre. Mary.”

“Lo so. Me lo dici spesso.”

“Non abbastanza, forse. Anche lei lo avrebbe fatto.”

“Metterti all’angolo?” Il sorriso di lei, per quanto piccolo e stanco possa essere in quel frangente, rimane uno spicchio di sole nella landa di ombre in cui si sta addentrando.

“Convincermi ad essere migliore, costringermi a fare la cosa giusta,” lui la corregge. “Ma come si fa a fare la cosa giusta quando le opzioni a tua disposizione non sono giuste? Come fai a prendere una scelta impossibile, sapendo che in qualsiasi caso ferirai i tuoi amici, le persone a te care?” La sua mano si solleva per allentare il colletto, ma in ultimo trova posto nei suoi capelli in un equivocabile gesto di ansia. (E lui lo sa. Del linguaggio del corpo, dopotutto, ha fatto uno dei capisaldi del suo lavoro.)

“Come si fa?” Rosamund chiede con una scintilla di interesse e per un attimo lui può cullarsi in un’illusione. Fare finta che si tratti di una serata qualunque e che le stia insegnando uno dei concetti astratti della vita, impartendole una lezione che lei poi deciderà se far propria o rifiutare.

“Non c’è una lista di pro e di contro. Agisci in base al senso del dovere, alle promesse che hai fatto. Un giorno di molti anni fa, al ricevimento di un matrimonio, ho fatto un voto. Ho giurato che avrei protetto la famiglia Watson con tutto ciò che ero, con la mia stessa vita, se necessario. Negli anni a venire, ho fatto una promessa molto simile a Molly, alla nascita dei nostri figli.” Sherlock si interrompe e l’inganno svanisce in un’improvvisa e dolorosa consapevolezza. Quella non è una serata qualunque, Rosamund non è più la bambina che lo guardava come gli alberi guardano al sole e dopo la sua confessione tutto cambierà in modo terribile e assoluto. Non ci sarà una via del ritorno. Dietro la schiena, serra le mani a pugno.

Lei fa un passo verso di lui. “Sherlock-”

Lui fa un breve cenno di diniego e Rosamund ammutolisce, congelandosi sul posto. “All’epoca,” lui riprende a voce bassa, pastosa, “non potevo sapere che avrei dovuto difenderli dalle mire di un nemico portentoso e invisibile contro cui era impossibile vincere, anche schierandogli contro tutte le armi del mio arsenale. Non sapevo che avrei dovuto proteggerli da loro stessi.” Sospira profondamente, strofinandosi gli occhi. Non sa come procedere e la cosa lo disturba e mette a disagio. “La storia è molto lunga.”

Rosamund lo scannerizza come se la sua espressione facciale fosse un puzzle. Si avvicina e gli prende la mano. La mano di un’adulta, tiepida e salda – e che fine ha fatto la bambina a cui Molly acconciava i capelli in trecce, codini e pettinature complicate? Che fine ha fatto la bambina che lo sgridava se dimenticava di dire ‘grazie’ o ‘per piacere’?      

“Abbiamo tempo,” Rosamund dice e lui ritrova quella bambina nei tratti del suo viso serio e pallido, eppure sereno. “Abbiamo tutta la notte.”

 

 

 

Causa sui.

 

 

 

 

“Sapevi che Sherlock è il secondo nome di tuo padre? Tecnicamente parlando, s’intende.”

Sono nel salotto - lui seduto di traverso sui braccioli della poltrona più comoda, lei a gambe incrociate sul pavimento.

E’ un piovoso pomeriggio di metà ottobre. Il mondo al di fuori delle finestre è una gora d’acqua che cade scrosciante da un cielo plumbeo, riversandosi in rigagnoli di sporco nelle strade trafficate e con un’umidità che si appiccica alle ossa, sdiaccia nei respiri condensati dei passanti frettolosi; l’interno del 221B di Baker Street, invece, è un camino acceso in un salotto confortevole e piacevolmente sospeso nel silenzio, una terza edizione in condizioni mediocri della Critica della ragion pura e la migliore cioccolata del mondo – quella della signora Hudson.

Hamish volta una pagina senza alzare gli occhi dal libro che sta leggendo. “Non dire assurdità.”

Anche così, senza guardarla, lui può sentire fisicamente l’irritazione che le sta attraversando il volto come una saetta, la parola idiota che le danza sulle labbra piegate all’ingiù. 

“Guarda,” Rosamund insiste e con l’indice picchietta un punto a caso di un vecchio pezzo quadrato di carta ingiallita che sembra un attestato di laurea. “È scritto qui, nero su bianco. William Sherlock Scott Holmes, nato a –”

“Morto il 15 gennaio 2012,” lui la interrompe, allungando il collo per osservare meglio quanto lei gli sta indicando e sbarrando gli occhi l’attimo successivo. “È un certificato di morte. Perché mio padre dovrebbe averne uno?”

Lo sguardo di Rosamund è eloquente, nell’inarcamento del sopracciglio destro riesce a compendiare alla perfezione il ‘te lo avevo detto’ e ‘avevo ragione io, come al solito’ che sono le sue frasi preferite, specie quando può indirizzarle a lui. “La domanda più corretta è perché lo conserva.”

No, Hamish vorrebbe replicare quando lei glielo passa, ce n’è un’altra persino più interessante e cioè: perché in fondo, dove è richiesta la firma del medico dell’ufficio sanitario, è apposta la segnatura del Dottor M. Hooper?

“Oh.”

Questa volta lei attira subito la sua completa attenzione. “Cos’altro c’è?”

Fissa senza battere ciglio la linea della sua schiena sottile, incurvata sopra lo scatolone in cui stava rovistando – memorie impolverate, carteggi e gingilli raccolti nell’arco di una carriera decennale di casi criminosi -, l’accesa tonalità di rosso del maglione lavorato a maglia che indossa, i ricci capelli biondi che le cadono a spiovente ai lati del volto, nascondendolo al suo sguardo.

“Ne hai uno anche tu.”

“Ho un certificato di morte?”

“Non essere deliberatamente ottuso,” la sente sbuffare, come qualsiasi altra volta che la provoca di proposito con domande stupide. “Hai un secondo nome. Due, per la precisione.”

“Un secondo nome?” 

Scrolla le spalle, serafica, ignara dello stato di confusione che ha appena innescato con quella rivelazione. “Apparentemente.”

Hamish mette da parte Kant con un sospiro interiore e si inginocchia accanto a lei sul tappeto. Hamish A. Victor Holmes, è scarabocchiato in un’antiquata grafia sul suo certificato di nascita. All’alba dei suoi dodici anni sembra inverosimile scoprire di avere un secondo nome oltre a quello di battesimo, figurarsi averne due. “Per cosa credi che stia la A.?”

“Non lo so. Potresti sempre fare la cosa più ovvia. Domandare.”

Lui scuote piano la testa e la frangia scura gli cade fastidiosamente sopra un occhio. Suo padre avrebbe dovuto accompagnarlo dal barbiere, ma un caso dell’ultima ora l’ha trattenuto a Scotland Yard.

Domandare, pensa tra sé con un sentimento sfuggente che è un amalgama di amarezza e autoironia. Sherlock Holmes ha sempre una risposta per i quesiti del resto del mondo, ma tende ad ignorare con plateale frequenza ognuno dei suoi.

*

“Hugo,” è la risposta immediata di Sherlock Holmes e suona come il messaggio registrato di una segreteria telefonica.

“Lo scrittore?” lui indaga, interdetto.   

Suo padre tende una mano con fare imperioso. Hamish gli passa meccanicamente il preparato, il corpo allampanato proteso sul tavolo della cucina nell’attesa spasmodica di una replica.

Sherlock mormora sovrappensiero ritagli di ragionamenti mentre studia il campione biologico sul vetrino sotto il fascio di luce del microscopio.

“Perciò mi avete chiamato Victor per lui?”

Il vago mormorio si spegne in un sibilo di disappunto. Senza che lo richieda, un’altra mano, piccola e bianca come un raggio di luna, gli passa un secondo preparato. La mano appartiene a una bambina dal viso appuntito e un naso impertinente, con grandi occhi scuri e intelligenti, vestita d’azzurro. Pochi istanti più tardi l’acciglio sulla fronte di suo padre si spiana e un sorriso di compiacimento trova posto sulle sue labbra. Si alza dallo sgabello con un’esclamazione trionfante, prende Agnes in braccio e la solleva in aria come se fosse fatta di carta, trascinandola con sé in una giravolta che la fa scoppiare in risate trillanti di pura delizia.

Appoggiato con il fianco contro una delle porte scorrevoli, Hamish osserva la scena, sentendosi un ospite indesiderato, il terzo incomodo. Sa che è stupido e obiettivamente sbagliato provare quello che prova – cupidigia, gelosia, delusione – ma non può farne a meno. Volta loro le spalle e torna in camera sua.  

“Di cosa volevi parlarmi?” suo padre domanda l’indomani mattina, mentre versa in una delle tazze del servizio di porcellana con la mappa del Regno Unito il caffè per sua madre – lo fa ogni volta che lei ha un turno di notte, una delle sue rare dimostrazioni di affetto: preparare la colazione e portargliela a letto.

Hamish addenta un angolo del toast, senza provare realmente lo stimolo della fame, evitando gli occhi che sono uguali ai suoi, ma il cui spirito di osservazione è moltiplicato all’infinito. “Di niente,” mormora, lo sguardo basso.          

*

“Frankenstein,” suo padre dice con un tono grave e coscienzioso, il tipo di voce che utilizza per far colpo sugli insegnanti di Agnes nelle rare occasioni in cui sua madre gli permette di partecipare agli incontri scuola-famiglia.

Alle sue spalle, la risata di Rosamund, appollaiata sul davanzale della finestra come un barbagianni, è così repentina e genuina che gli fa diventare rosse le orecchie.

Si volta di scatto con un’occhiata d’astio e lei mima le parole mute ‘scienziato pazzo’, al che lui rotea gli occhi e decide che per quella giornata il mistero che si nasconde dietro il suo secondo nome può aspettare senza diventare il bersaglio delle spiritosaggini di Rosamund Watson.

*

L’unica occasione in cui prova a chiederlo a sua madre, Molly gli rivolge un triste sorriso di scuse, gli occhi stropicciati per le troppe notti insonni di doppi turni al Barts. “Vorrei poterti dire che è in onore di Victor Babes, ma non è così.”

Quando lui insiste, l’espressione di lei si fa contrita e si rinchiude dietro un muro di ombre e malinconie. La mano che gli poggia sopra la spalla è lieve e consolante, ma la sua voce ha il sapore e il peso di vecchi segreti. “È una storia che non tocca a me raccontarti.”  

L’unico difetto di Molly Hooper Holmes è anche uno dei suoi migliori pregi: è impossibile serbarle alcun tipo di animosità o rancore.

*

Una notte, dopo che un incubo particolarmente vivido l’ha fatto svegliare di soprassalto, con brividi di sudore freddo e un martellare incipiente dietro i bulbi oculari, Hamish scosta le lenzuola aggrovigliate e scende le scale in punta di piedi per andare a prendere un bicchiere d’acqua.

Non ricorda i dettagli del sogno, ma non riesce a scrollarsi di dosso il retrogusto che gli ha lasciato sulla punta della lingua: aspro e inquietante. Sa solo che c’era una donna bella e sinistra come la morte, dalla voce cantilenante. Ricorda vagamente un pozzo e poi nient’altro, solo il buio di una notte senza stelle.

Si accorge della loro presenza quando è già sul pianerottolo. Qualcuno sta discutendo. Non è sua intenzione ascoltare di nascosto, ma il desiderio di sapere è troppo forte per sopraffarlo con pensieri che riguardino l’etica, il concetto di giusto e sbagliato. Le voci appartengono a suo padre e a suo zio e dai loro toni lui intuisce immediatamente che quella è una conversazione che non dovrebbe origliare, soprattutto se, a giudicare dall’insolita aria di solennità, riguarda affari di sicurezza nazionale. 

“Non riesci davvero a vedere,” Mycroft sta dicendo, annoiato, “o eviti volutamente di affrontare la realtà?”

“Non c’è niente da affrontare. Niente di cui discutere o che giustifichi la tua presenza a quest’ora della notte.”

“Ho verificato. Molly è al Barts e i bambini dormono.”

“Hanno il sonno leggero.”

“Mi chiedo da chi lo abbiano ereditato,” Mycroft ribatte sarcasticamente.

“Arriva al punto.”

“Sta accadendo quello che temevamo. Dobbiamo predisporre un piano d’azione prima che si verifichi il peggio.”

“Che si verifichi il peggio?” Suo padre scoppia in una risata rauca. “Questo è il peggio che potrebbe accadere, il che mi riconduce alla dichiarazione iniziale. Non è successo niente,” scandisce a denti stretti.

Una pausa di silenzio. Hamish arrischia un’occhiata all’interno della stanza. Osserva suo zio poggiare sul tavolo un plico, aprirlo e disporre in un ventaglio ordinato i documenti che contiene. Sembrano fotografie. “Questo lo chiami niente?”

“Dove le hai trovate?” suo padre ribatte con freddezza, ma con meno compostezza del solito. Se Hamish non lo conoscesse, crederebbe che, malgrado ogni sforzo per nasconderlo, lui sia agitato, quasi spaventato. Quanto orrenda deve essere la situazione per farlo reagire in quel modo?  

“Per favore, fratello, non insultare la mia intelligenza. Hai cercato di tenermelo nascosto. Perché?”

“Non avrò questa conversazione con te, soprattutto dal momento che non è strettamente indispensabile.”

“Parlerai con me o mi troverò ad agire di conseguenza.”

“Non oseresti.”

“Dimmi.” La voce di suo zio diventa pericolosamente bassa, simile a un’intimidazione che è anche una provocazione. “Molly sa delle attività ricreative in cui indulge la vostra progenie?”

“È giovane. Non capisce quello che fa.” La risposta frettolosa di sua padre, il tentativo inequivocabile con cui sta cercando di sminuire, è una pietra che va ad addizionarsi  alle altre che si sono insediate in fondo alla sua gola. Stanno parlando di loro, di lui e di Agnes. I battiti del suo cuore diventano l’unica fonte di rumore nell’appartamento. 

“I bambini raramente lo sanno. Il problema è che non rimangono a lungo bambini. Arriva un momento in cui non si può più scusare quello che hanno fatto, indulgendo nell’attenuante dell’ignoranza dovuta alla giovane età. Questo non adduce motivazioni valide a particolari comportamenti e impulsi. Processo di causa ed effetto. Per adesso si tratta di lievi increspature nell’acqua, ma tarda a prendere una posizione e le conseguenze saranno catastrofiche.”

“Ricorda con chi stai parlando. Di chi.”

“È esattamente per questo che sono qui.”

“Per minacciarmi?”

“Avvertirti.”

“Non lascerò che la storia si ripeta. Non lo permetterò.”

“E io farò lo stesso, se dovesse diventare necessario. Farò quello che devo, come sempre.”

*

Hamish non ricorda il momento preciso in cui ha capito che sua sorella è diversa da qualunque altra persona conosca. Non è come Molly – nel caos frenetico che tendenzialmente è la vita al 221B, sua madre è un punto fermo dalle risorse preziose, con sorrisi morbidi, orecchie sempre disposte ad ascoltare e insospettate capacità dialettiche in grado di rimettere in riga perfino l’ego di suo zio (parole di suo padre, non sue) – né come Sherlock – un ingegno temporalesco e poliedrico, attitudine irascibile, una miniera che nasconde vene segrete, inesauribili al punto da inspirare il coraggio di esplorarne gli abissi.

Non è un intenditore di personalità, ma l’essere speciale di Agnes ha qualcosa di difforme rispetto all’essere speciale di chiunque altro. La differenza è sottile, ma inequivocabile. Una volta rilevata, è impossibile evitare di notarla. Il dolore che ne consegue è acuto e scava buchi e gallerie profonde dentro di lui, getta disagio e malessere su ogni ricordo. 

Non c’è una data a cui fare riferimento. La scoperta non è immediata, piuttosto è la lenta consapevolizzazione di una realtà che lo diventa procedendo per gradi, assumendo forma concreta con dettagli macabri. A undici anni, quando dopo un pomeriggio trascorso insieme a giocare, chiuse nell’appartamento riadattato del 221C, la compagna di banco di Agnes scoppia in singhiozzi (il giorno dopo è vittima di un inspiegabile incidente con l’altalena, frattura all’omero); a tredici, quando i canarini della scuola muoiono all’improvviso e la colpa viene data a un’improvvisa gelata (il ricordo di sua sorella, in piedi davanti alle sbarre, in mano il mangime e lo sguardo vacuo e immobile con cui considerava i piccoli corpi morti sul fondo della gabbia). L’accettazione arriva più tardi, a diciassette anni.    

E sua sorella, ormai, le cose che fa e le mille cose che non è, sono diventate la sua oscura, segreta ossessione.

*

Norbury, lei ha detto senza la minima esitazione. Lo vede fermarsi come se fosse scattata una molla, dentro di lui, si fosse verificato una sorta di inceppamento; vede la sua schiena irrigidirsi e le sue spalle incurvarsi impercettibilmente come sotto un peso invisibile. (Norbury. Un ricordo della sua infanzia: è seduta nella poltrona di suo padre e Sherlock la osserva con occhi inscrutabili, come capita ogni volta che un pensiero insidioso gli occupa la mente. No, non un pensiero, ma un sentimento. “Promettimi che la userai, se lo riterrai opportuno.”)     

Fino a un attimo prima, lui era pronto a fiondarsi fuori dall’appartamento, immergersi nella fredda notte londinese per correre in un luogo che altri, prima di lui, hanno definito l’inferno dei vivi, ma che nella sua personale opinione è più vicino ad essere uno Château d’If.

Sa che Hamish è in pericolo. Lo sa da mesi, anni, se volesse essere del tutto sincera con sé stessa e ammettere il presentimento strisciante che assedia la sua pace da tempo immemore.

Sa dove Hamish si trova, cosa sta cercando di fare e anche se il pensiero le fa sfrigolare lo strato sottocutaneo dell’epidermide per l’apprensione, resiste all’impulso del cuore per assecondare quello della ragione. Non lo aiuterà in alcun modo, lasciando che Sherlock lo segua e intralci i suoi piani.

Può aiutare Hamish. Può rendersi utile e il modo migliore è scoperchiare il vaso di Pandora. O meglio, farlo fare a suo padre.

 

 


N/A:

Sono già tornata. Che dire, tranne che mi sento terribilmente ispirata? Terribilmente, in questo caso specifico, non in senso buono.

Avvertenze del caso che reputo doverose: se l’angst non fa per voi, se pensate che dopo “Il Problema Finale” Sherlock Holmes e Molly Hooper si siano meritati il tanto sospirato lieto fine, forse questa non è la storia che fa per voi. O forse sì, non sta a me dirlo, davvero. Se invece amate i drammi a carattere familiare, se pensate che un figlio di Sherlock Holmes non potrebbe mai evitare di essere una drama queen come il padre perché è genetico, se amate gli intrighi e almeno un pochino il personaggio di Eurus, allora rimanete sintonizzati.

In cantiere c’è il secondo capitolo sul quale sono già al lavoro, che dovrebbe essere anche l’ultimo, a meno che all’ultimo minuto io non decida (o meglio, l’ispirazione non decida per me) di aggiungere un epilogo.

Causa sui, il titolo, è un’espressione in latino e tradotta letteralmente significa “causa di sé stessa”. E’ un concetto filosofico per indicare una realtà oggettiva che racchiude causa ed effetto, essenza ed esistenza, pensiero e realtà.

Indizi nel titolo? E chi lo sa! ;)

Età:

Rosamund Mary Watson: ventitré anni

Hamish A. Victor Holmes: venti anni

Agnes M. A. Holmes: quattordici anni        

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Capitolo 2
*** II ***


ii

Sembrano passate intere ore. 

Sa come funziona il tempo, che la sua percezione è relativa. Più vorrai che trascorra velocemente, più ti sembrerà che proceda a rilento, eppure mai prima d’ora le è sembrato in battuta d’arresto come in quel momento. 

Il sole morente del pomeriggio traccia linee oblique di grigio torpore tra le tende socchiuse, il momento in cui il giorno appare indeciso sul da farsi, se crogiolarsi ancora un po’ nei suoi ultimi momenti di gloriosa luminosità o cedere del tutto il passo alla sera che avanza a ritmo di danza. 

Rosamund osserva il pulviscolo ondeggiare nello spazio tra lei e Sherlock, si costringe a non incalzare una spiegazione, a pazientare ancora un po’. Cosa sono una manciata di minuti, in fondo, in confronto a un intero anno di sofferenze, diatribe e investigazioni? 

Quando Sherlock parla, finalmente, la sua voce risuona stanca e atona, come probabilmente sarebbero le ultime parole di un morto raccolte dal fondo della sua bara. “Ho una sorella.”

Qualcosa in Rosamund scatta. E’ senz’altro preoccupazione, ma anche rabbia, inutile negarlo. “Dimmi qualcosa di cui non sono già a conoscenza,” ritorce bruscamente, pentendosene quasi subito. Il poco colore rimasto sul viso contratto di Sherlock sembra scomparire del tutto, rendendolo cereo e persino più teso. Forse sono gli ultimi residui di speranza ad essersi dissolti, forse desiderava davvero che la sua apprensione si trasformasse nella paranoia di un uomo vicino al pensionamento e non nella voce di una ragione ancora del tutto funzionante. 

“Eurus è un genio, con una predisposizione all’apprendimento cognitivo e deduttivo come ne nascono ogni cento anni.”  Lui trae un respiro profondo, raddrizza le spalle e sembra ritornare in sé, di nuovo alto come un albero, come i giganti di pietra delle storie che le raccontava da bambina, intoccabile e inaccessibile.  “Loro sono simili.”

Rosamund vorrebbe provare qualcosa di diverso dall’impotenza, ma una parte di lei è come annientata, mentre la restante è anestetizzata, entrambe lo sono state dalla prima volta che Hamish ha manifestato i propri timori, esprimendo con lei l’orrore del peggiore incubo a cui si possa pensare e avvalorandolo con prove tangibili e via via più concrete. “Lo sappiamo. Perché credi che sia andato a Sherrinford? Voleva incontrarla per capire come salvarla.”

Da principio Sherlock appare confuso prima che le sue parole si facciano largo nella sua coscienza tramortita e la confusione ceda il passo ad un sentimento che è panico e inquietudine. “Salvare chi?” domanda e l’anestesia scompare e il cuore di Rosamund comincia a pulsare come una ferita infetta, le sue ginocchia sembrano venire meno e non riuscire a sostenere più il peso del suo corpo.   

La verità è sempre stata sotto i loro occhi, nero su bianco, proiettata nei silenzi, nelle opposizioni inspiegabili. In un recesso della sua mente, una vocina sussurra senza malizia che lei lo sapeva, l’ha sempre saputo

“Non è mai stata Agnes,” lei sussurra e guardando negli occhi scavati di Sherlock trova il riflesso dell’abisso che le sta squarciando il petto, impedendole di respirare normalmente. Serve che sia qualcuno a dirlo ad alta voce e sa che non può essere Sherlock a farlo. Lui sa cosa questo significhi per lei, è come condannarsi all’harakiri e Sherlock la ama al punto che non riuscirebbe mai a infliggerle un danno simile. “E’ sempre stato Hamish.”

*


Occhi di un azzurro spettacolare. Rosamund ricorda che sia stato quello il suo primo pensiero, anche se sicuramente meno articolato e complesso, all’epoca, guardando Hamish Holmes. 

Con le mani strette attorno alle sbarre di legno chiaro della culla, in punta di piedi per rubare un’occhiata più approfondita della veloce sbirciata data nella nursery dell’ospedale quando, in braccio a suo padre, John le aveva indicato con un sorriso il fagotto in prima fila. In mezzo a una marea di marmocchi urlanti e paonazzi, Hamish era stato l’unico a non recriminare a pieni polmoni contro l’insensatezza di quel mondo nuovo, troppo chiassoso e freddo e colorato. Quieto e immobile, non si dimenava né scalciava, ma fissava ad occhi sgranati il soffitto con le sopracciglia lievemente aggrottate, come se stesse cercando di trovare una ragione logica al drastico cambiamento avvenuto nell’ambiente circostante. 

Il sorriso di John si era fatto più pronunciato e parte della malinconia che mai abbandonava il suo viso segnato dalle intemperie era diluita in una gioia autentica e quasi esultante. “Tale padre,” aveva mormorato, voltandosi inspiegabilmente alla sua destra come per condividere con qualcun altro il suo divertimento. Nonostante l’ombra di rammarico nel trovare il posto accanto a sé vuoto, la sua risata era risuonata ugualmente fragorosa nel corridoio altrimenti silenzioso.

Anni più tardi, l’abitudine di quel vezzo continuo sarebbe diventata per lei semplice routine – quell’imperterrito cercare sua madre al suo fianco, sempre e ovunque – e la straziante consapevolezza del suo significato sarebbe stata levigata in qualcosa di appena tollerabile dalla ferrea volontà di non lasciarsene abbattere. 

Ma sarebbe stato solo molto più tardi, al crepuscolo della sua adolescenza, che Rosamund avrebbe afferrato completamente il doloroso smarrimento che John doveva provare ogni singola volta, come se in ciascuna occasione l’assenza di Mary fosse nuovamente una rivelazione, qualcosa che niente l’avrebbe mai convinto ad accettare. 

L’avrebbe capito, scoprendosi a fare altrettanto con Hamish. Condividere uno sguardo complice, compendiandoci dentro un’infinità di parole; lanciargli un’occhiata e osservare al volo la comprensione farsi largo negli occhi chiarissimi di lui come piccole rifrazioni di luci e ombre; condividere la giocosità di una considerazione irriverente, arcuando semplicemente un sopracciglio; prendere parte a una conversazione e sapere in anticipo l’espressione che avrebbe colto sul viso angolare di Hamish: il modo in cui lui avrebbe aggrottato le sopracciglia se in preda alla rabbia o all’incredulità o quella buffa smorfia di disapprovazione che avrebbe fatto con la bocca quando la stupidità di qualcosa che gli era stato detto trascendeva ogni umana tolleranza o ancora come si mordeva la lingua per evitare di affermare le proprie idee con una convinzione così assoluta da non lasciare adito a repliche di sorta o come si passava una mano in mezzo ai capelli per la frustrazione o come arricciava il naso per lo scetticismo o nascondeva il suo imbarazzo dietro la cortina della frangia troppo lunga. 

Di Hamish conosceva ogni segreto, ogni peccato, tutto ciò che lo rendeva Hamish.  

Conosceva le sue paure più intime, aveva combattuto i suoi terrori notturni come se fossero i propri, le battaglie di lui erano diventate anche le sue. Hamish poteva dire lo stesso di lei. La conosceva meglio di chiunque altro al mondo. Sapeva cose di cui neppure John o Sherlock o Molly erano a conoscenza. 

Erano confidenti, amici, compagni, i reciproci custodi di quella parte nascosta al resto del mondo che raramente vedeva la luce del sole, ma che entrambi avevano visto e che non aveva in nessun modo modificato la percezione che l’uno aveva dell’altra e viceversa.

Hamish aveva imparato a riconoscere i sintomi del bisogno che a volte si impossessava di lei, capiva la sua esigenza di scappare da tutto e tutti, isolarsi e allontanarsi da casa sua, quella casa che era anche un tempio alla memoria e in cui il ricordo onnipresente di sua madre aleggiava in ogni stanza come un’eco di profumo, dietro ogni foto e cornice, opprimendola in una morsa da boa constrictor da cui doveva sottrarsi ad ogni costo. 

Rosie amava suo padre, lo idolatrava quasi quanto Hamish venerava Sherlock, ma a volte la rabbia irragionevole di dover condividere il suo amore con lo spettro di una donna defunta le montava dentro a tal punto da farglielo quasi detestare. Suo padre, il dottore. Suo padre, il soldato. Suo padre, il blogger. Suo padre che niente riusciva a far impallidire o tremare o smuovere. Suo padre la cui unica fragilità era la morte di una moglie così amata che ancora oggi, a distanza di vent’anni, il solo sentire pronunciare il suo nome aveva il potere di trasformarlo in una statua di sale. 

Era terrificante, terrificante e al contempo straordinario, l’idea di un amore del genere, di arrivare ad avere un tale potere su un’altra persona. Assistere agli effetti sconvolgenti di un amore di quella portata. Amare così profondamente e completamente qualcuno, al punto che perdendolo si provava la sensazione di essersi privati di una parte di sé, come l’amputazione di un arto. 

In quei casi Hamish adottava una tattica ormai consolidata per risollevarle lo spirito. 

La sua ironia non era caustica come quella di Sherlock, la cui capacità provocatoria era ormai un’arte affinata che si poteva provare a imitare con scarsi risultati né tendente al macabro come quella di Molly, la cui insolita vena umoristica – in aperto contrasto con il suo carattere espansivo e solare e apparentemente accondiscendente – tendeva a passare pressoché inosservata agli estranei. 

No, l’umorismo di Hamish era sferzante senza risultare sarcastico, una critica al malumore il cui messaggio era chiarissimo. Perché sprecare tempo ed energie ad essere tristi quando si poteva trascorrerlo più efficacemente? E ciò nonostante Hamish la rispettava anche in quello e la lasciava uggiolare come un cane abbandonato sotto la pioggia fino a quando era lei a decidere diversamente. 

Non avrebbe mai dimenticato la volta in cui aveva suonato uno degli organi a canne all’abbazia di Westminster. Era l’estate dei suoi diciotto anni e un periodo non propriamente facile. Suo padre insisteva affinché quell’autunno lei iniziasse l’anno accademico, contrariamente al suo desiderio di trascorrere un anno sabbatico in un monastero tibetano. Quindici anni e un improbabile gilet in cashmere nonostante le temperature moderate, un ragazzo magro e dinoccolato con il primo accenno di peluria sul mento e la solennità che derivava da un carattere schivo, non necessariamente introverso o cupo. Eppure, seduta di fronte al cenotafio delle sorelle Bronte, mentre le prime note di Don’t worry be happy avevano profanato il silenzio assorto della navata, Rosie non aveva nutrito il minimo dubbio sull’identità dell’esecutore. Era perché lo aveva sentito fischiettare lo stesso motivo a Aggie un paio di settimane prima per farla sorridere dopo che aveva discusso con una delle sue compagne di classe?

Era stato allora? Allora che aveva capito? Sicuramente aveva incominciato a intravedere i confini del loro rapporto, o meglio a comprendere che non esistevano, non erano mai esistiti in effetti e che nessuno avrebbe mai potuto scalzare il posto che lui occupava nella sua vita. Hamish era insostituibile.  

O forse era stato due anni più tardi. Quando nella galleria dei bisbigli lui era rimasto volutamente indietro per fare in modo che fossero gli unici presenti e le aveva confessato i suoi sentimenti. Pronunciando le parole vicino al muro, lei aveva potuto sentirle rimbombare da qualsiasi punto della galleria, come se a ripeterle fossero un’infinità di versioni di Hamish, giovani e vecchie, da punti diversi sparsi nelle loro vite, passato e presente e futuro a mescolarsi in un amalgama inscindibile. Dopo, entrambi si erano comportati come se non fosse successo nulla, ma Rosamund non aveva dimenticato l’emozione violenta che aveva provato, di completezza e pace, per aver definito qualcosa sulla cui importanza non aveva mai esitato, ma che sarebbe stato comunque necessario formalizzare prima o poi. Uscendo, lo aveva preso per mano, un gesto familiare compiuto milioni di altre volte prima di quel momento e che non avrebbe dovuto affatto sconvolgerla, eppure c’era stato qualcosa di diverso e sconcertante. Per la prima volta aveva notato quanto fosse cresciuto, quanto poco del ragazzo fosse rimasto nell’uomo che era diventato, che torreggiava sopra di lei, severo e ostentatamente blasé e con quel sorriso segreto nello sguardo e nella curva appena accennata della bocca decisa.

Hamish

Un pomeriggio speso a studiare nella camera di Hamish nel pianterreno. In un raro momento di ozio, lei si era stesa sulla vecchia moquette verde palude. Il suo sguardo fisso sul poster di Karl Marx sul soffitto senza realmente osservarlo. I suoi piedi si muovevano avanti e indietro a tempo di musica. Qualcosa di rumoroso e pop, dal ritornello orecchiabile, che Hamish avrebbe detestato cordialmente, motivo per il quale lo stava ascoltando mentre lui era salito a procacciare tè e snack. A ristagnare nel punto più alto della libreria, occultato tra i trattati e i testi di filosofia di Hamish, lei aveva notato un libro minuscolo. Si era quasi dovuta arrampicare su uno degli scaffali più bassi per trarre in salvo quello che alla fine si era rivelato essere un volume di poesie.  Deteriorato come lo sono le vecchie edizioni rilegate, sgualcito dall’usura, tra le sue mani aveva cominciato a spaginare fino ad aprirsi a poco più di metà su una poesia di Tennyson. A margine, scarabocchiato nella scrittura spigolosa di Hamish, lei aveva trovato il suo nome. 
Stammi vicina
, lei aveva cominciato a leggere, sentendo il mondo intero implodere nella sua testa. 

Hamish. 

Rosamund chiude gli occhi con forza. Si sente vacillare. Dentro di sé sente un vortice di contraddizioni e le sembra impossibile che l’appartamento attorno a lei rimanga così statico, inalterato. 

Hamish

Quello che Sherlock le ha appena raccontato non dovrebbe avere il minimo senso, eppure ne ha. Rosamund non vorrebbe, ma poco alla volta, con una lentezza esasperante, i pezzi di un puzzle a cui non sapeva di star lavorando si ricompongono formando il quadro completo. 

Anni e anni di episodi isolati, di stranezze vengono inquadrati alla luce delle nuove rilevazioni che le sono state appena fatte. Piccole cose. Dettagli quasi insignificanti, ma che adesso assumono un loro perché, diventano orribilmente ragionevoli. Il divieto di andare in obitorio a trovare Molly. Il fatto che Sherlock avesse smesso di suonare da un giorno all’altro il violino. La regola che Lestrade non potesse cominciare a parlare dei casi in presenza dei bambini. La morte improvvisa di Toby e la richiesta inconsueta da parte di Molly di non prendere altri animali per rimpiazzarlo. Ricorda un pomeriggio. Aveva sedici anni probabilmente ed era di ritorno da una scena del crimine con Sherlock. Era stata la prima volta, lui non le aveva mai permesso di accompagnarlo prima per cause che le erano ignote. Ricorda come se fosse successo solo il giorno precedente la sensazione di euforia e orgoglio. Dopo aver risolto il caso, lui l’aveva portata a comprare una porzione di patatine in un fish and chips sulla Marylebone Road.

Dio, pensa e si costringe a ricordare, anche se non vorrebbe, anche se si sente come se le stessero trafiggendo il cuore. 

Quando rincasando lei era corsa da Hamish, in salotto e impegnato a leggere un libro più grande di lui, e aveva cominciato a raccontargli i particolari più interessanti, l’espressione tradita e amareggiata di lui, troppo intensa per un ragazzino di appena tredici anni e il modo in cui l’aveva guardata, tormentato, quasi a chiederle: Perché tu? Cosa c’è che non va in me? E Rosamund non aveva potuto trovare una spiegazione ed era ammutolita. Sherlock non le aveva più permesso di unirsi a lui e al pari di Hamish, lei era stata lasciata da parte. Finché era la presenza di entrambi a non essere ammessa, lui doveva aver pensato, quell’esclusione sarebbe stata meno evidente. Non era stato così, non per Hamish, almeno, che aveva attraversato tutta l’infanzia e l’adolescenza nell’attesa spasmodica che giungesse il suo momento, sognando il giorno in cui suo padre lo avrebbe portato a vivere le sue avventure. Il momento non era mai arrivato e Hamish aveva imparato a nascondere la rabbia e la delusione crescenti dietro un muro di indifferenza che si era trasformato in distacco. Leggendo l’opposizione di Sherlock a portarlo con sé come un rifiuto, Hamish aveva rinunciato e smesso di insistere, ma quell’anelito di avventura, l’adrenalina della caccia e del pericolo, seppur confinati, lo avevano reso indisponente nei confronti di quello che gli era stato negato e se un tempo era stato il più incalzante nel reclamare i resoconti dei casi risolti da suo padre, da un giorno all’altro aveva smesso di domandare, diventando persino più riservato.

 Perché non me ne sono accorta prima? 

Sherlock sta continuando a parlare e lei si sforza di prestare attenzione. Deve capire – come si è arrivati a quel punto e soprattutto perché - per escogitare un piano che salvi Hamish. Ma come può salvarlo da se stesso? Come si può uccidere il mostro se mostro e vittima coincidono? E l’ho mandato da un altro mostro e se ora lo perderò la colpa sarà unicamente mia. 

“Quando è cominciato?” La sua voce è irriconoscibile, flebile e arrochita dalle lacrime che non ha intenzione di piangere. Non sa cosa trovi più sfiancante, se la lotta in atto contro il proprio corpo per riprenderne il controllo o la compassione e la pena con cui Sherlock la sta guardando. La fa sentire piccola e fragile ed è qualcosa che non sopporta. “Quando ha smesso di essere –”

Normale, vorrebbe chiedere, ma non riesce a pronunciarlo, la parola le è rimasta incastrata tra i denti. Sherlock ovviamente intuisce lo stesso la natura della sua domanda, ricominciando a snocciolare fatti in fretta, in tono febbrile e senza interrompersi. Rosamund, che lo conosce come se fosse un secondo padre, sa che ha la propensione a farlo quando è in preda all’agitazione.   

“Non ha avuto problemi fino ai nove anni, poi qualcosa è andato terribilmente storto. Non abbiamo mai capito chi fosse il rapitore, ho le mie teorie, ma nulla di comprovato e dopo che lo abbiamo trovato non ha più avuto importanza. Quello che conta è che da allora non è più stato lo stesso. Ha cominciato a comportarsi e a parlare in un modo inconcepibile per un bambino della sua età. Si sono verificati episodi, casi isolati. Non sembrava in sé quando accadeva e una volta posto di fronte alla realtà dei fatti, reagiva con orrore come se ne fosse sconvolto. Gli psicoterapeuti e i trattamenti erano inefficaci. Aveva smesso di mangiare e dormire. Molly era disperata.” 

E’ difficile non concentrarsi sull’ultima frase, soprattutto non leggere tra le righe il non detto ‘come lo ero anch’io’. Rosamund non ricorda un granché di quel periodo sennonché… Non è stato l’anno in cui suo padre l’aveva convinta a frequentare il Malborough College? Era riuscita a farsi accettare, nonostante uno dei requisiti indispensabili per l’ammissione fosse che gli alunni dovessero avere tredici anni compiuti. Ricorda di essersi trasferita nel Wiltshire controvoglia, di aver trascorso il viaggio di andata piangendo per la rabbia e la solitudine, per la repentinità del cambiamento, per il fatto che nessuno avesse trovato il tempo di accompagnarla, per non essere neppure riuscita a salutare Hamish e Aggie e perché l’avevano messa sul primo treno in partenza dalla stazione di Paddington come un pacco sgradito. C’era stato un caso urgente, le sembra di ricordare adesso. Non è quello che le avevano detto? E Molly era sembrata così pallida e fuori di sé quando l’aveva abbracciata – un abbraccio vigoroso che per un attimo l’aveva lasciata senza fiato -, prima di affidarla ad Anthea, che Rosamund aveva ingoiato il rospo. 

Molly era disperata. 

Rosamund deglutisce. “Cosa hai fatto? Sherlock, cosa gli avete fatto?”

Sherlock non distoglie gli occhi dai suoi, la sua bocca ha una piega feroce e dura. Lei riconosce quella smorfia, è la stessa che ha visto su un volto identico seppur più giovane. Come se stesse mandando giù un boccone impossibilmente amaro. “Ho fatto una scelta impossibile. Dissonanza cognitiva. E’ quello che ho cercato di ottenere, ma alla fine è diventato un disturbo dissociativo dell’identità.”

*    


Dall’elicottero Hamish osserva spassionatamente la distesa grigio piombo del mare che stanno sorvolando. La pioggia ha fatto alzare la foschia e rende la visibilità scarsa, ma il pilota non sembra preoccupato, al contrario è in vena di chiacchiere. A quanto pare è un fan di suo padre. Quando lo hanno avvisato che avrebbe scortato il signor Holmes, non aveva sicuramente immaginato che si sarebbe trattato del signor Holmes Jr.. Hamish lo ha visto dissimulare a malapena la sorpresa quando è sceso dalla macchina con Anthea, ma si è ripreso subito e quando gli ha stretto la mano, chiedendogli se era la sua prima volta in elicottero, alla sua riposta affermativa gli ha sorriso in modo cordiale e gli ha assicurato di non preoccuparsi e che non ci sarebbero stati incidenti di percorso.

“C’è un po’ di turbolenza, più del previsto, intendo. Se dovesse coglierti la nausea, tieni questo.”

Quando gli passa un sacchetto di carta, Hamish si limita a prenderlo senza una parola e continua a fissare ostentatamente il panorama.

Cercando di concentrarsi sulla bufera che impervia all’esterno, spera di soprassedere su quella che gli scalpita nella testa. Chiude gli occhi e poggia la fronte contro il vetro. Istantaneamente le immagini si sovrappongono come una mandria impazzita sulle sue palpebre dolorosamente serrate. Sangue. Le lacrime di paura di Aggie. Il turbamento e lo shock sul volto di Rosamund.

Pensa ad altro, si ordina con fermezza.

Rosamund. L’abbraccio che gli ha dato prima che uscisse da Baker Street. Si sforza di soffermarsi sul calore del suo corpo, sulla fragranza floreale impressa nella sua pelle, sull’acciaio delle sue braccia avvinte strettamente attorno al suo diaframma. Sembrava che volesse strappargli una promessa di qualche tipo. Se si trattasse di chiunque altro, Hamish sarebbe a corto di spiegazioni, ma il punto è proprio quello, che non si tratta di chiunque altro. E’ Rosamund e lui ha ascoltato ogni pensiero che le ha attraversato la mente come se fosse stato uno dei suoi.

Torna.

Sii cauto.


Ti amo. 

Quando lei aveva sciolto l’abbraccio e fatto un passo indietro per porre un minimo di distanza, l’aveva vista raddrizzare le spalle in un gesto deciso, ma non era bastato a convincerlo. I suoi occhi raccontavano una storia diversa, vulnerabili e contriti esattamente come lo erano stati la prima volta che lui le aveva confermato le sue paure. Non aveva potuto fare a meno di baciarla. L’aveva sentita irrigidirsi sotto le sue mani, ma aveva messo a tacere sul nascere il mugolio di protesta, causato principalmente per la sorpresa di quel gesto così repentino e raro da parte sua. Di solito non si lasciava andare facilmente a manifestazioni così esuberanti, ma non era naturale per lui trovare conforto nell’unico posto in cui era sicuro di riceverlo? 

Nelle ultime ventiquattrore aveva scoperto di avere una zia disfunzionale e psicopatica, la cui esistenza era stata abilmente obliata per preservare – 

“Cosa?” aveva chiesto, rivolgendo un’occhiata incandescente a Mycroft. 
Suo zio non aveva battuto ciglio, limitandosi a mimetizzarsi dietro uno dei suoi perfetti sorrisi da repertorio. “Ogni famiglia ha uno scheletro nell’armadio.” 
“Peccato che i nostri siano vivi,” lui aveva persistito piccato. Come avevano potuto? 
Il sorriso plastificato si era liquefatto come neve al sole. “Cosa avresti preferito?” aveva ritorto e poi, quasi crudele nella sua schiettezza, gli aveva esposto in modo inequivocabile le altre soluzioni ‘meno eleganti’. Ancora adesso sentiva il sangue congelarsi nelle vene. 
“Non dimenticare,” Mycroft aveva concluso, spietato e inesorabile, “che la famiglia è famiglia.”

“L’atterraggio è previsto tra dieci minuti.”

Hamish non riapre le palpebre. Se lo facesse cosa vedrebbe se non gli occhi di Rosamund e di suo padre, a fissarlo dalle onde vorticose dabbasso o dalle nuvole temporalesche che abbattono contro l’elicottero frustate d’acqua e cercano di sopraffarli? 

All’ennesimo violento scossone, lo stomaco di Hamish si attorciglia e la bile gli invade la gola e le narici. Quando atterrano, è questione di secondi prima che lo stomaco si rivolti contro di lui e gli faccia rigettare anche l’anima nell’insulso sacchetto di carta che il pilota – Jeff, rimprovera a se stesso. Il nome del pilota è Jeff – gli ha dato.

“Qualunque cosa tu debba fare là dentro, ragazzo, non sei costretto. Chiunque ti abbia fatto credere il contrario –”

“Aveva ragione,” lo interrompe Hamish, non con scortesia, ma abbastanza energicamente da evitare repliche. “Non sono costretto,” aggiunge con maggiore gentilezza, “ma devo ugualmente.” Con un’alzata di spalle e un sorriso di circostanza, aggiunge: “La famiglia è famiglia.”


*

Nel momento in cui mette piede nella struttura, è accolto da un uomo alto e robusto, sulla sessantina, che indossa un completo che odora di naftalina. “Paul Wang,” si presenta. Non gli porge la mano e non sorride. Per qualche motivo gli ricorda il suo insegnante di ginnastica alle scuole elementari. “Supervisiono la struttura. Saranno vent’anni quest’autunno. Fare la sua conoscenza è un piacere, Signor Holmes.”

“Il piacere è mio,” risponde Hamish educatamente, forse troppo educatamente a giudicare dall’incredulità con cui il sig. Wang reagisce. Hamish ci ha fatto il callo. Essere il figlio di Sherlock Holmes lo ha abituato a reazioni peggiori. Ma dopotutto non è solo il figlio di suo padre, è anche il figlio di sua madre. Il rispettabile, conciliante, stimato Dottor Molly Hooper.

“Se vuole seguirmi,” lo invita il sig. Wang con insospettata solerzia. E’ come se volesse sgravarsi della sua presenza il prima possibile. Hamish non può fargliene un torto. Dietro tutta quella naftalina, l’odore del pranzo che ha interrotto sembra davvero invitante.

Il sig. Wang gli fa strada e mentre comincia a descrivere particolareggiatamente la storia del forte napoleonico in cui si trovano, del suo utilizzo come posizione militare durante la prima e la seconda guerra mondiale, Hamish prende nota del personale e del numero di telecamere interne, dei sistemi di sicurezza allestiti. Quando il sig. Wang lo rassicura sull’affidabilità dell’impianto di detenzione della prigione, Hamish vorrebbe evidenziare già tre falle che ha notato.

“Siamo arrivati. Ultimo livello, il più isolato nonché il più sorvegliato dell’intera struttura. Ora, mi permetta qualche raccomandazione.” Il sig. Wang elenca tutta una serie di moniti, alcuni dei quali Hamish trova francamente ridicoli e tra i quali spiccano la necessità di mantenere una distanza di almeno due metri dal vetro protettivo e il divieto all’utilizzo di una serie esorbitante di parole. E poi arriva il più assurdo di tutti. “E un ultimo avvertimento. Non la guardi troppo a lungo negli occhi. Molti grandi uomini si sono smarriti dietro quelle porte e alcuni, mi dispiace dirlo, non hanno più fatto ritorno. E’ ancora di sicuro di voler procedere?”

Hamish non ha la minima esitazione. Con un cenno sicuro, conferma: “Sono sicuro.”

“Buon pro le faccia,” è la sfacciata replica e il sig. Wang scuote la testa come per dire che per quel che valga, lui ha fatto la sua parte e ha provato a dissuaderlo. Ma la scelta è sua e quando striscia la tessera magnetica nel lettore e mette piede nella cella di contenimento, Hamish sa che era l’unica possibile. 

*


La donna all’interno della cella non è per niente come se l’era aspettata. Ma cosa ti eri aspettato, sciocco? Bellatrix Lestrange e la sua risata da invasata? O la violenza cattiva di Bertha Mason? Indesiderata, gli sovviene alla memoria una citazione di Pope. I pazzi osano dove gli angeli temono d’andare.

La rassomiglianza con suo padre, inutile a dirsi, è impressionante. La forma degli occhi, così peculiari e ovviamente i tratti somatici del viso e il colore dell’iride che, lui scommette, come nel caso di suo padre, a seconda della luce cambierebbe da verde chiaro ad azzurro intenso per quella tipologia di eterocromia che li contraddistingue.

Eurus Holmes, il genio pazzo la cui intelligenza rivaleggia con quella di Isaac Newton. Nonostante tutto il resto, per la prima volta da quando ha scoperto la verità, lui si sofferma a riflettere sullo spreco di quella vita distrutta precocemente.      

Eurus lo sta esaminando con la circospezione del predatore in attesa del momento più propizio per attaccare. “Buongiorno, Alexieres.” La sua voce è pastosa e vagamente ipnotica. Il serpente di Eva doveva avere una voce simile.   

Hamish fa un passo in avanti, incurante dei suggerimenti del sig. Wang. “Quello non è il mio nome.”

Il sorriso di lei si schiude come il miracolo di un bocciolo in pieno inverno. “Certo che lo è. Ricordo perfettamente quando l’ho suggerito ai tuoi genitori. È stato un Natale carino, quello. Ma un nome è solo un nome, non è così? Definire è limitare. Sherlock mi ha detto che sei un filosofo. Cosa pensi degli assoluti?” Il suo sorriso si incrina agli angoli, i suoi occhi sembrano arricciarsi e le rughe che si formano sono indicatrici dell’età che il suo volto altrimenti levigato non lascerebbe intuire. “Sembri confuso.”

Non lo è. “Non lo sono.”

Lei sembra compiaciuta dalla risposta. “Ma stai provando un’emozione. Sono diventata piuttosto brava a registrare i cambiamenti umorali, ma Sherlock rimane l’unica persona in cui riesco a riconoscerli. Perciò, cos’è? Che emozione stai provando?”

La curiosità cede il passo a qualcos’altro, qualcosa che lui è lesto a identificare e tenere a bada. “Rabbia,” la classifica malvolentieri. Le sta permettendo di infilarsi nei suoi pensieri, di entrargli sottopelle. “Sto provando rabbia.”

“Dimmi perché.”

La rabbia si smorza in una fitta di noia. “Tu sei il genio nella stanza. Dimmelo tu.”

“Non credo di poterlo fare. Non sei adeguatamente preparato per questo genere di gioco. Ti romperei e poi Sherlock non suonerebbe più per me. Mi sono affezionata alla sua musica.”

Lei continua a testarlo. E’ come il gioco del gatto col topo. Saggiare i limiti, sperimentando strategie differenti. Hamish si richiama alla calma, pensando all’unica altra persona, oltre a Rosamund, capace di stabilizzarlo. Il pensiero di sua madre, però, dato il contesto attuale, è un errore tattico. Dopotutto -  “È colpa tua se non le dice mai che la ama.”

Lei poggia i palmi aperti contro la superficie di vetro, ai lati del suo viso e continua a fissarlo senza battere ciglio, senza mutare espressione. E’ sconcertante quasi quanto è inquietante. “Tu sei quello emotivo, proprio come Sherlock. Ma lei, lei è diversa, proprio come me. Cosa farai, Alexieres? Quando lei ti si rivolterà contro? Impugnerai le armi e combatterai contro di lei o ti lascerai annientare per amore e spirito di sacrificio?”

Un improvviso groppo in gola, il groviglio di allarme e tensione che ha tenuto a bada nelle ultime settimane sembra crollargli addosso. Il peso del mondo che gli è caro, poggiato sulle sue spalle e la fonte del problema che potrebbe diventare anche la sua soluzione. Il pensiero di Aggie, agguerrita e dolce e perspicace e troppo sveglia per il resto del mondo. Aggie e i suoi momenti di buio, ma ora che l’ha vista, che ha visto il mostro alla bocca dell’inferno, ne è sicuro. “Lei non è come te,” dice e nel momento in cui le parole lasciano la sua bocca sa che è vero e il fardello diventa sopportabile. 

“Ma lo diventerà. O potrebbe. Non è questo il motivo per cui sei qui?” Senza offrirgli la possibilità di rispondere, lei prosegue, gli occhi magnetici che lo trapassano da parte a parte, che lo sfidano a non distogliere lo sguardo. “Cosa vuoi diventare da grande, Alexieres? Un uomo di azione o di ragione, di poesia o di scienza?”

“Sono il figlio di Sherlock Holmes e di Molly Hooper. Posso essere entrambi.”

“Cosa mi dici di tua sorella? Cosa diventerà lei? Axia. Significa…”

“Degno di valore in greco antico. Lo so.”

Un lampo le attraversa lo sguardo e qualcosa dentro di lui sembra tremare in risposta, non riesce a capire se sia per piacere o per il suo esatto opposto. Con Eurus, lui ha già capito, la distinzione diventa problematica. “Il bravo ragazzo ha studiato la sua lezione prima di venire qui. Dimmi, cos’altro sai?”

“So perché ti hanno rinchiusa qui dentro. Perché sei il male e ferisci le persone.”

Lei aggrotta la fronte e comincia a scuotere lentamente la testa. Nel dondolio, i lunghi capelli scuri le cadono davanti al viso in ciocche scomposte e disordinate. Il bisogno di rimetterli al loro posto è prepotente e quasi fisico.  “No, no. Stavi andando così bene. Non essere come loro, noioso e banale. Cos’è il male?” lei chiede e la sua voce ha acquisito una nota cantilenante. 

“L’attributo che viene dato a un comportamento ritenuto moralmente scorretto,” lui risponde d’impulso.

Lei lo ricompensa con un sorriso penetrante. “Attributo, non un assoluto.”

“E’ anche quello,” lui concede.

“Cosa si intende per moralmente scorretto?”

Anche questa volta, a lui non occorre riflettere prima di trovare una risposta soddisfacente. “Uccidere. Mentire. Rubare,” elenca con prontezza. “Tutto ciò che implica una effrazione del sistema giudiziario.”

“Oh, è tutto così buffo! Tu e le bugie che racconti come se fossero verità dissacranti. Sai qual è la cosa ancora più buffa?” La risata tintinnante di lei muore con un silenzio fragoroso. Spalanca la bocca e mostra i denti come se fossero le fauci di un animale pronto ad azzannarlo alla giugulare. “Che tuo padre ha trasgredito a tutte e tre eppure rimane il tuo eroe, l’uomo che aspiri a diventare. E tua madre non è da meno. Tua madre che - ”

“Basta così,” interrompe una voce alla sue spalle e il cuore di Hamish fa una capriola. Quando si volta è per incrociare lo sguardo saldo di sua madre. Non sa bene perché, ma si sente arrossire sotto gli occhi limpidi di Molly, come se lei lo stesse mettendo a nudo. Gli occhi di sua madre sono indagatori quanto quelli di Eurus, lo scandagliano con la stessa intensità con la sola differenza che sono quelli di una madre e perciò contengono un miracolo di cui quelli dell’altra sono completamente sprovvisti. Sono gli occhi della memoria, gli occhi di chi ha seguito ogni tuo passo dal tuo primo giorno di vita. Sono il risveglio della coscienza e dei suoi rimorsi, che ti rammentano ogni tua caduta e celebrano ogni tuo successo. Sono gli occhi dell’amore e del perdono, entrambi illimitati. 

Da un secondo all’altro Eurus ha cambiato atteggiamento. Il suo approccio è meno invasivo, più sottile. Sorride e sembra quasi un sorriso naturale, autenticamente felice. “Molly Hooper,” scandisce con attenta scrupolosità e attraverso i muscoli del braccio che sua madre gli ha appoggiato sulle spalle, tirandolo al suo fianco, Hamish sente la trazione nel corpo minuto di lei, così rigido che nel caso di chiunque altro lui temerebbe l’inevitabile rottura.

“Eurus,” Molly dice nel tono amabile che le è consono, rispondendo al sorriso di lei con uno di liquida contentezza. “Spero che perdonerai questa visita non concordata.”

“Non trattarmi come un’estranea, Molly. Dopotutto siamo famiglia.”

“Lo siamo,” Molly accetta in tono conciliante, il suo sorriso è una stilettata di garbo e grazia, “e ti pregherei di ricordartene la prossima volta che cercherai di turbare mio figlio.”

Senza una seconda parola, Hamish si sente tirare per il gomito. “Andiamo,” sua madre gli sussurra in tono accorato all’orecchio.

Ma la cella è grande e non hanno percorso neppure metà del tragitto che la voce di Eurus li raggiunge. “Non puoi sfuggire alla verità, Molly Hooper! Ti inseguirà nella tomba se necessario e sarà quella che ti sei costruita con le tua stesse mani! Non è di un Moriarty che stiamo parlando, ma di me. Lui è come me! Me!”

*

Fuori dalla cella, Hamish non fa in tempo a parlare. “Mamma,” incomincia, ma l’accenno di scuse non sembra sufficiente.

Molly si volta e non c’è parte di lei che non sussulti quando lo colpisce con forza sul viso, una volta e poi una seconda. “Hai la minima idea,” lei sillaba, tenendo a stento a bada la rabbia che la fa tremare da capo a piedi. “La minima idea,” lei ripete, gli occhi che scintillano come specchi, “di quello che hai innescato venendo qui? Qui, tra tutti i posti al mondo? Hai idea di quello che lei avrebbe potuto farti se non fossi arrivata?”

Umiliato, mortificato, pentito, lui non si massaggia la zona colpita anche se pulsa e sente il rossore comincia a imporporargli gli zigomi. “Non sarebbe successo nulla. Sarei stato perfettamente in grado di gestire la situazione.”

Quando Molly solleva di nuovo il braccio, prevedendo l’ennesimo manrovescio, Hamish chiude gli occhi e si prepara al contraccolpo. Quello che non si aspetta è il peso morbido del corpo che lo attira al suo, la dimensione confortevole e familiare delle braccia di sua madre attorno alle spalle che lo tirano verso il basso. La sorpresa è stordente, mai quanto la sensazione avvilente di umido che gli attraversa il golfino. Se c’è una cosa che non sopporta è far piangere sua madre, quella dopotutto è prerogativa di suo padre. “Mai più,” la sente dire in un singhiozzo rotto. 

Hamish sospira e passa le sue lunghe braccia attorno alla piccola schiena di sua madre, sentendola tremare per il sollievo contro il suo petto come se fosse appena sopravissuta a un’esperienza traumatica.

Ci sono tanti segreti della sua famiglia che gli sono ancora preclusi, conversazioni da fare e cose da mettere in chiaro, torti da raddrizzare, ma qualcosa da sistemare è già a portata di mano ed è la promessa che non agirà più alle spalle di sua madre. “Mai più,” acconsente con un sospiro.

E’ solo molto più tardi, quando l’elicottero di Jeff decolla dalla zona della spiaggia adibita a pista di atterraggio, mentre seduta nel posto di copilota e credendosi non vista, Molly lo osserva con la code dell’occhio e chiacchiera amabilmente con Jeff dell’ultimo cadavere di cui ha identificato le ragioni di morte, è solo osservando in lontananza Sherrinford trasformarsi nel profilo massiccio di uno grosso cumulo di pietre, che le ultime parole di Eurus fanno breccia nella sua mente. 

Lui è come me, l’ha sentita urlare. Lui, non lei

 



N/a:

Sì, lo so, guardate il figliol prodigo che torna all’ovile. Spero davvero tanto che questo capitolo riesca a farmi perdonare il mio essere stata uccel di bosco così a lungo. Dio, non ci credo, ma la data di pubblicazione non mente. E’ trascorso un anno mezzo dal primo capitolo. Che fine ha fatto il tempo? Sono alla ricerca disperata di tutto quello che ho perduto xD

Tornando a noi, cosa pensate di questo secondo capitolo? Vi ho colti alla sprovvista almeno un pochino? Dite la verità, non vi aspettavate questo ribaltamento di prospettive! Perciò, ricapitolando, ora tutti sanno che non si è mai trattato di Agnes, sono al corrente della terribile verità, compreso Hamish. Cosa succederà adesso? In che modo questo andrà a scalfire i rapporti familiari e a modificare l’affiatamento del  dinamico duo?

Fatemi conoscere la vostra opinione e mi risolleverete il morale alle stelle.

Un abbraccio forte

 

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