Promise me, this is forever

di asia_mia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1° ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2° ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
Non esistono amori sbagliati.
Esistono amori difficili, amori improbabili, amori disperati, ma non sbagliati.
 
(B. Goti)
 
 
 
 
C’è una leggenda a New York.
Si narra che quando una persona è infelice, per qualunque motivo, possa ritrovare la serenità attraversando il ponte di Brooklyn, ma debba farlo da sola, di notte e camminando da Brooklyn a Manhattan. Mai il percorso contrario, perché si perderebbe la bellezza, lo stupore, le luci dei grattaceli che si accendono, il tramonto che ti entra negli occhi,il profilo della città che emerge contrastato come in una delle migliori fotografie d’autore.
E mai farlo con scarpe scomode, procedere per due chilometri con tacchi vertiginosi non è di certo l’ideale e se si arriva a metà e si vuole tornare indietro, non c’è possibilità di prendere un autobus o chiedere un passaggio, bisogna procedere in avanti e percorrerlo tutto, fino alla fine.
Lo sapeva lei, eppure non aveva avuto tempo di cambiarsi, infilarsi le sue amate e ormai rovinatissime converse e scappare via.
L’aveva fatto di corsa, per non ripensarci e giustificare ancora, per questo ora procedeva a piedi nudi, con quelle scarpe di un’altezza vertiginosa in mano, riparandosi come meglio poteva dalle folate di vento di fine estate, dentro quell’elegante vestito nero a bretelline lungo fino le caviglie.
Scalza, sola, infreddolita, in una città che non era la sua, con un cuore che non le apparteneva più.
New York non perdona.
New York ti piomba addosso con una forza unica, un uragano da cui non puoi salvarti, né vuoi.
E se non sei pronto o sei uno sprovveduto, bè allora, New York non fa per te.
 

«Signorina Gilbert! Signorina Elena Gilbert ha dimenticato il passaporto!»
 
Eccola lì che trascina con una mano una valigia enorme, appena ritirata dal tapis roulant, dopo un’attesa di quaranta minuti prima dello sbarco dei bagagli provenienti da Atlanta, e con l’altra mano sorregge un trolley, decisamente più piccolo, ma oltremodo pesante, sulla spalla sinistra la sua borsa personale e un borsone con gli attrezzi del lavoro, dentro il quale non ha trovato spazio quella macchina fotografica che si porta sempre dietro e ha dovuto appendere al collo.
Si blocca così, carica di bagagli, quando un agente della sicurezza e del controllo passeggieri la chiama, rincorrendola per non farle varcare la soia d’uscita dell’aeroporto. Non riesce nemmeno a voltarsi per ringraziarlo, tanto il rischio di rompere quel flebile equilibrio di pesi raggiunto.
 
«E’ sicura di non aver bisogno di aiuto? O di un carrello?»
 
Glielo chiede gentilmente, mentre le porge il passaporto dimenticato e nota l’incertezza con cui quella ragazza alza una mano per afferrarlo e mantenere in equilibrio la borsa sulla spalla.
 
«No, la ringrazio, mi sono venuti a prendere, devo solo uscire sana e salva da qui dentro.»
 
Se lo mette tra i denti quel documento, mentre cerca di aprire la lampo della borsa ed infilarcelo.
L’agente la osserva sorridendo, pensa sia una strana ma divertente ragazza, carica di sogni e buoni propositi, ma impreparata a sorreggerli.
Ne vede milioni lui di persone come lei, anzi a dir la verità riesce ormai a riconoscere i tratti di chiunque gli passi sotto gli occhi. Basta un’occhiata per tracciarne il profilo, per distinguerlo da un newyorkese doc, un turista, uno di passaggio, per sapere se amerà o odierà New York, se riuscirà a cavarsela o soccomberà.
Le persone che arrivano per la prima volta lì le riconosce subito, hanno lo sguardo perso e il naso all’insù, è così che se ne vanno in giro per l’aeroporto e per la città, è così che si cammina a New York, dimenticandosi la terra sotto i piedi e assaporando l’imponenza.
Gli abitanti del luogo, invece, ci sono fin troppo immersi in quella grandezza, sembrano non farci più nemmeno caso, ce l’anno dentro ormai, camminano veloci, con gli occhi dritti e decisi, un vestito per l’ufficio di un paio di taglie più grande, le scarpe da ginnastica e le cuffiette nelle orecchie.
Quella ragazza invece…
E’ una ragazza stramba, una combinazione che non gli torna, sprovveduta è sprovveduta, si guardava intorno prima di attraversare il metal detector incerta sulle uscite, sbadata, con troppi bagagli per essere una turista, ma sicura, determinata, come volesse mangiarsela quell’enorme città, come fosse la sua scelta definitiva.
L’ultima possibile.
La osserva ancora mentre lei gli rivolge un sorriso gentile ma frettoloso.
E’ impaziente, ha negli occhi la smania di chi sa di star facendo un passo più grande delle proprie possibilità, eppure lo fa lo stesso.
Vuole assicurarsene, quel controllore dai capelli bianchi e gli anni addosso che iniziano a pesare, un po’ per curiosità un po’ per testare il suo infallibile intuito, che il bagliore negli occhi di quella ragazza sia puro e non ci siano incertezze.
New York può tagliarti le gambe se non hai quella forza dentro di grattare la vita fino in fondo, di prenderti ciò che vuoi, può escluderti e farti sentire solo al mondo anche in mezzo ad una folla sconfinata che non ti fa neanche respirare, e gli occhi di quella ragazzina sono troppo buoni per tutto questo.
 
«E’ in visita a New York?»
 
Elena torna a fissare quell’uomo, indaffarata e sovraccarica com’è, non capendo dove voglia arrivare o cosa voglia ancora da lei, è una semplice domanda, la sua, eppure la colpisce andando a sfiorare un punto ancora fresco e non ancora ben definito, ma sorride.
Piega la testa da un lato, lasciando che le sue labbra si schiudano in un sospiro elettrizzato ma pulito ed ingenuo.
 
«Sono qui per lavoro. E sto raggiungendo il mio fidanzato, spero proprio di restarci a New York.»
 

Percepisce la vibrazione del suo telefono nella borsa e sa già chi sia a chiamarla.
Lo sente dentro, prevede ogni sua mossa ormai, lo conosce e sapeva l’avrebbe fatto.
Ha troppa paura di perderla davvero, di perdere la sicurezza che le dà.
E’ troppo presuntuoso per ammetterlo e troppo egoista per pensare alle conseguenze delle sue azioni.
Eppure la ama, in un modo profondamente contorto, possessivo, intenso, istintivo.
E lei lo sa, sa anche quanto sia malato ed imperfetto tutto questo, dovrebbe allontanarsi definitivamente da lui, cancellare il suo numero, prendere tutte le sue cose nell’appartamento in cui vive con lui e andarsene il più lontano possibile. Vorrebbe farlo, vorrebbe lo facesse lui, in modo da liberarla, da non sentirsi in colpa o sbagliata o vigliacca, sarebbe la soluzione più giusta, per tutti e due. Sa che non dovrebbe infilare la mano nella borsa alla ricerca di quel dannato telefono, sa che è sbagliato ma il suo corpo e il suo cuore non fanno più parte di lei da quando lui li possiede completamente, se lo ripete di non farlo anche mentre si porta il telefono vicino l’orecchio e lascia scorrere il dito sullo schermo.
Lui lo capisce dal modo in cui si interrompono bruscamente gli squilli a vuoto e gli arrivano i rumori della strada, che lei ha ceduto, ancora una volta, l’ennesima.
 
«Dove sei?»
«No, non farlo…»
«Sono già in moto
«Non va bene Damon, non possiamo vivere così, io…»
«L’idea di vivere senza di te non è contemplata in questa vita, quindi, per favore, dimmi dove sei.»
 
Non le lascia spazio, è una corda che non si allunga, un fiato che si spezza ma non si spegne mai, una strada senza uscita, un legame che scorre dentro, nella pelle, nelle vene, fino alle viscere.
Dannazione, farebbe l’amore con lui in questo momento se potesse, anche in mezzo alla strada, anche incazzata com’è, non riesce a fermarsi, a fermarlo.
Perché lui torna sempre, se la va a riprendere dappertutto, in qualunque posto sbagliato, con qualsiasi stato d’animo, non può fare altro che piegarsi a lei.
 
«Lo sai.»
 
Lo sai dove sono, vorrebbe dirgli, è sempre lo stesso posto quello dove vieni a riprendermi, a pretendermi, ad implorare un perdono senza senso, come potessi mai toglierti da dosso sul serio.
 
«Sono già lì.»
 
Lo sa pure lui dov’è la sua Elena, prevede ogni sua mossa, sa esattamente cosa pensa e cosa non farebbe mai, tipo andarsene davvero da lui.
Ed Elena sente solo la linea telefonica che si interrompe e, prima di potersi rendere conto di come si sia arresa di nuovo, di quanto potere abbiano l’uno sull’altra, di quanto sia deleterio ma tremendamente indissolubile quello che c’è tra loro, lo sente.
Appena varca la fine del ponte e mette piede tra i confini di Manhattan, sente il rombo di quel motore ormai così familiare a lei, non si volta nemmeno, lascia cadere le scarpe a terra con un tonfo sordo, indifferente.
Damon l’aveva riconosciuta a metri di distanza, l’aveva seguita nell’ultimo tratto, spiandola dalla propria carreggiata, aveva aspettato fosse pronta, ad arrivare dall’altra parte, a farsi prendere.
Ferma la moto, molla il casco sulla strada e non le lascia tempo di dire niente, di bloccarlo, indietreggiare, correre via, piangere, urlare, sbattergli i pugni addosso, le va incontro, la afferra per un braccio fino a farla voltare e la bacia.
Con una forza, un possesso, una disperazione tale da toglierle il respiro e lei piange, sfinita, e lo bacia, con le lacrime che le riempiono gli occhi, la bocca e le guance e scivolano sulle mani di lui, strette a tenerle il volto, poi si stacca per riprendere fiato e lo guarda immobile con gli occhi gonfi, rossi, annebbiati come a digli, tu, tu mi hai ridotto così.










*******

Forse è il caldo o l'irrequietezza... e so che ho un'altra storia da portare avanti, ma.
Questo è quanto è uscito fuori in questo periodo.
Provvisorio, titolo, storia a capitoli... per ora volevo solo lasciare andare questo.
Grazie e intanto buone vacanze a tutte voi.

Ale_

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Capitolo 2
*** Capitolo 1° ***





 
Capitolo 1°

E’ appena l’alba, quando le prime luci del mattino si intrufolano tra le tende del loro appartamento, una delle suite presidenziali del Gansevoort Park Avenue, tra i grattaceli più maestosi di tutta Manhattan, di cui lui è il proprietario.
I vestiti sono sparsi per terra, tra i cuscini e le pieghe del lenzuolo.
C’è ancora l’odore di lacrime e sudore, il profumo di vaniglia di lei misto a quello forte e pungente di lui, c’è un casco, gettato sul tavolino dell’ingresso, un paio di tacchi incastrato tra le trame del tappeto, il rossetto rosso sbaffato sul bianco del cuscino.
C’è un uomo, che tiene stretta a sé una donna, nudi entrambi, intrappolati l’uno nell’altro, come a non poter respirare senza dar ossigeno anche all’altro.
La luce che penetra appena illumina solo lei, il suo viso, i suoi occhi serrati, la bocca socchiusa, i suoi capelli scuri e scompigliati che invece nascondono e danno riparo al volto di lui.
Il lenzuolo, aggrovigliato tra i loro corpi, lascia scoperta la schiena e i piedi di lui e copre appena il seno nudo di lei, un braccio che la tiene stretta per la vita e la schiena che aderisce completamente al torace di lui. Lo sente muoversi impercettibilmente, respira insieme al suo respiro, sente ancora pulsare il suo basso ventre e la sua pancia contrarsi appena, per la notte passata, ha il suo profumo addosso e lui, dopo il sesso, ha un odore che le fa girare la testa.
Non sa quanto ancora durerà, il mattino l’ha già svegliata e ha gli occhi già ben aperti, sotto quelle palpebre chiuse.
Prende un respiro più lungo degli altri prima di aprirle del tutto, infastidita più da quello che sente dentro che da ciò che c’è fuori.
Osserva immobile quella stanza, ormai conosciuta a memoria, quella foto sul comodino, sul ponte di Brooklyn, abbracciati ed euforici come due turisti in vacanza, con il bisogno di immortalare ogni angolo di quella immensa città. In realtà, per loro, fu il giorno in cui lui le chiese di trasferirsi lì, erano mesi ormai che lei soprattutto, per il suo lavoro ma anche per vedersi, faceva avanti e indietro da Atlanta, era l’ultima sera quella, l’indomani sarebbe partita di nuovo, era stata più un’affermazione casuale, quella di lui, buttata lì per carpire la sua reazione, che una proposta vera e propria, del genere ‘beh dopotutto sono il proprietario di un grattacielo, una stanza per trasferirti definitivamente qui potrei anche concedertela.’
Lei, invece, aveva colto la sua di intenzione e il viaggio successivo fu quello definitivo, lasciò la sua città, i suoi genitori a cui era affezionatissima, suo fratello, i suoi amici e iniziò una nuova avventura, assieme all’uomo della sua vita.
Questo era lui per lei, da sette anni ormai, eppure l’aveva capito subito, la prima volta che l’aveva visto, era una stagista e le era stato chiesto di affiancare un fotografo e scattare delle foto al nuovo proprietario di un famoso hotel newyorkese subentrato al padre, si era ritrovata davanti l’uomo più affascinante ed ammaliante che avesse mai visto.
 Aveva dovuto impiegare tutte le sue arti amatoriali però, lui, e tutta la sua pazienza per farsi concedere anche solo un appuntamento in quei giorni.
Sentiva di non potersi fidare, di non dover mollare il controllo, sapeva di dover stare attenta, perché lui la invadeva, le faceva perdere ogni riferimento, la mandava in estasi solo pronunciando il suo nome, in quel modo basso e sexy da toglierle il fiato.
Poi, l’ultima sera, le aveva offerto una cena nella terrazza privata all’ultimo piano del suo grattacelo, in cui lei alloggiava, le aveva acceso candele e regalato la vista di una New York mozzafiato, le aveva raccontato di suo padre, di come quel grattacelo era finito per ereditarlo lui, di suo fratello, sposato con quella che poi sarebbe diventata una delle migliori amiche di lei, perfino di sua madre, morta quando lui aveva solamente dieci anni.
Lei si era lasciata cullare dalle sue confessioni, aveva visto l’uomo che era davvero, non quello che fingeva di apparire, aveva solo vent’anni all’epoca eppure, in quegli occhi che la fissavano spudoratamente e profondamente, in quel sorriso storto ma pulito, nel modo in cui la sfiorava e leggeva, sapeva di non avere scampo.
Le aveva rubato un bacio prima di andare via e un appuntamento in un caffè di Atlanta, sarebbe arrivato in capo al mondo per quella ragazzina e lei gli aveva concesso entrambi.
C’era qualcosa nei loro occhi, che li avrebbe incastrati per sempre.
Si chiede ora cosa ne sia di quelle due persone, travolte dalla passione e da promesse d’amore così facili e possibili, a cinque anni dal suo trasferimento in quella città e in quella casa, ripercorre i loro alti e bassi in un modo cosciente e stanco, si domanda dove sia finito tutto questo e perché abbiano così bisogno di ferirsi e farsi male per dimostrarsi di amarsi così tanto.
 
«Elena…»
 
Fa ancora lo stesso effetto alle sue orecchie, il modo in cui lui pronuncia il suo nome, il tono che usa, la definizione e completezza che le dà.
Aveva sentito il suo respiro farsi più corto ed irregolare, aveva capito fosse sveglio ma col timore di destarlo completamente era rimasta immobile, con il corpo incollato al suo.
Ha bisogno di socchiudere gli occhi per poter prendere fiato e rivelargli l’unica cosa che sente premergli in gola.
 
«Non sto bene Damon, non va bene così.»
 
Lui fa pressione sulle sue costole, con la mano poggiata sotto il suo seno, per farla voltare lentamente, incastra le sue gambe tra le sue e i suoi occhi dentro i suoi.
Le accarezza piano la schiena, scivola sulla sua pelle di seta, inebriato da come lei odori di lui dopo aver fatto l’amore, da quanto lei gli appartenga e vorrebbe liberarla da tutta la sofferenza che prova, vorrebbe essere l’uomo che si aspettava e per cui ha lottato.
Farebbe di tutto, tranne lasciarla andare.
 
«E’ presto, restiamo ancora un po’ così.»
 
Sa, Damon, di non poter chiedere ancora il suo perdono, di non avere più possibilità se non arrendersi a lei, ma ci prova lo stesso a trattenerla lì, ad accendere qualche bagliore ancora nascosto. Le delinea i contorni del viso con il palmo della mano, le accarezza la fronte, l’occhio sinistro che lei socchiude al suo passaggio, la guancia arrossata, il naso, le labbra socchiuse, le sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si sofferma tanto, troppo a lungo, sul suo collo e poi con un cenno del pollice le alza il mento e lei si ritrova a sfiorare le sue labbra, con un’intimità e una complicità soltanto loro. Si sporge un altro po’ Elena, fino ad approfondire ancora quel contatto, a riprendersi ciò che è suo da sempre, incastra le sue mani tra i capelli corvini di lui e lo attira a sé fino a sentire di nuovo il peso del suo corpo sopra di lei e le sue mani su tutto il corpo. Se ne accorge di nuovo Damon quanto lei sia pronta per lui, sempre, in qualsiasi circostanza, e la guarda stupito e lusingato, ancora una volta, prima di entrare in lei e amarla nel solo modo che conoscono per non farsi del male.
 
 
Abbottona l’ultimo bottone in basso della camicia bianca, appena indossata dopo una doccia frettolosa, se la sistema dentro i jeans e dà un’ultima occhiata al suo aspetto nello specchio del bagno. Ha il volto stanco, le occhiaie appena pronunciate, la barba di qualche giorno e i capelli ancora un po’ bagnati che gli gocciolano appena sulla camicia, se li tampona un’ultima volta con l’asciugamano e torna in camera, in cerca del telefono e del portafoglio finiti chissà dove la notte prima.
Lo rintraccia sotto il vestito nero ed elegante di Elena, ancora a terra, grazie alla vibrazione e alla chiamata in arrivo in quel momento.
Lo afferra e se lo porta all’orecchio appena un attimo prima che la persona dall’altra parte attacchi.
 
«Non ti dirò che sei un incosciente perché te ne sei andato ieri sera e mi hai lasciato da solo a parlare con i tuoi acquirenti, ne conosco il motivo e sono riuscito a tenerli buoni, ma ti verrò a prendere dovunque e in qualunque condizioni fisiche tu sia, se non ti presenti immediatamente in ufficio entro quindici minuti
«Tranquillo, sto arrivando.»
 
Lo rassicura ancora un po’ impastato dal sonno e non troppo convincente.
Poi si blocca un momento, sembra tornare ad avere le sembianze di un essere umano capace di provare sentimenti e gratitudine.
 
«Eh, io, beh… grazie fratello, ti devo un favore.»
 
Lo liquida così, attaccando in gran fretta e infilando tutto nella sua ventiquattro ore.
Impiega ancora cinque minuti per finire di prepararsi, girando come una trottola tra la camera, il suo studio e il bagno. E’ enorme quell’appartamento, curato e arredato con una raffinatezza maniacale, nella sala tra i due divani color petrolio vi era perfino un caminetto a bioetanolo e, da qualsiasi finestra si guardasse, la vista della città da quell’altezza era incommensurabile, non a caso lui l’aveva scelto per viverci.
Di certo, non era un tipo a cui piaceva stare con i piedi per terra.
 
«Problemi?»
 
La voce titubante di lei lo blocca poco prima di abbassare la maniglia della porta ed uscire dall’appartamento.
Si volta piano, trovandosela davanti, con i capelli raccolti in una coda alta e con addosso una sua camicia di seta blu che le arriva sotto il sedere, lasciando scoperto il decolté e le lunghe gambe fino ai piedi scalzi.
E’ bella da togliere il fiato e se non fosse così in ritardo non ci penserebbe due volte a trascinarla in camera o sotto la doccia o sopra il tavolo della cucina, o in qualsiasi altro posto della casa.
Fa un passo indietro per mettere una distanza inutile.
 
«Solamente Stefan e le sue ansie mattutine.»
«Damon.»
 
Lo ammonisce lei, costringendolo a dirle la verità.
 
«E’ tutto ok, Stefan ha mantenuto il controllo della situazione e nessuno si è lamentato per la mia assenza di ieri sera.»
«Era una serata importante… non avresti dovuto…»
 
Adesso sì, ora è costretto a mangiarsela quella distanza, a riempire i timori di lei che si sente perfino in colpa per qualcosa di cui è lui l’unico responsabile. Le bacia le labbra e le blocca le parole nella gola, per non farle uscire, per non fargliele sentire.
 
«Anche la tua. Va tutto bene, ok?»
 
Elena annuisce solamente e si allontana di un passo per farlo andare.
 
«Lavori oggi?»
 
Glielo chiede per perdere tempo, per non lasciarla ancora, per sentire che tutto ancora di lei gli appartiene.
 
«Devo finire di montare un video per la presentazione di quel profumo di cui ho scattato le foto la settimana scorsa, poi sono libera, penso me ne andrò un po’ a trovare Caroline e la piccolina.»
«Ok, dalle un bacio da parte mia. Ci vediamo stasera.»
 
Non è una richiesta, né un ordine. E’ semplice routine, consuetudine, sicurezza.
Galleggiano sulla superficie di un Oceano in cui non ha il coraggio di buttarsi, perché affogherebbero entrambi.
Le sfiora le labbra con un ennesimo bacio e finalmente esce per dirigersi al ventesimo livello dell’hotel e chiudersi nell’ufficio assieme a suo fratello.
Lo attendeva da più di un’ora, Stefan, con gli occhi fissi sugli ultimi documenti da visionare e la schiena poggiata sulla poltrona di pelle accanto la grande finestra.
Avevano entrambi una scrivania e delle poltrone, in quell’ufficio, condividevano invece una libreria in mogano, un mini bar e il grande biliardo al centro della stanza, dove si concedevano momenti di svago soprattutto a fine giornata, sorseggiando un bourbon con ghiaccio, eppure, la poltrona di Damon accanto la finestra era il posto preferito di Stefan per riflettere e revisionare scocciature.
 
«Dalla tua faccia mi sembra non abbia dormito granché neanche tu, fratello.»
 
Neanche il rumore della porta e la ventiquattrore gettata sulla scrivania, avevano destato Stefan dalla sua lettura, solo la voce del fratello gli aveva fatto alzare gli occhi e accennare un sorriso ironico.
 
«Beh sai, se tuo fratello ti molla durante una cena d’affari finita all’una di notte e poi torni a casa, pensando di dormire almeno qualche ora, invece tua figlia di nove mesi decide di avere mal di pancia e piangere tutta la notte… sì, penso proprio sia esattamente questa la faccia che uno dovrebbe avere!»
«Non fare la vittima, lo stress ti fa male alla cute! E non prendertela con mia nipote, già ha una madre pazza e un padre pappamolla come te!»
 
Lo rimbecca sarcasticamente, sapendo benissimo qual è la verità e la capacità di suo fratello di leggerla tra le righe.
‘Grazie per avermi coperto, per avermi lasciato andare a riprendere una donna che mi fa impazzire, ah sì e grazie anche per essere il fratello che sei, nonostante me.’
Questo vorrebbe dirgli e purtroppo o per sua fortuna, lo sanno entrambi.
 
«Allora, cosa mi sono perso?»
 
Damon si siede sul divano antracite ad angolo, difronte suo fratello, accavalla le gambe ed entra in modalità imprenditore milionario.
 
«Mikaelson ha proposto un accordo, che mi sembra abbastanza fattibile per tutti.»
 
Anche Stefan si alza dalla poltrona e raggiunge suo Damon sul divano, gli porge i documenti che inizia a sfogliare attentamente.
 
«Vorrebbe una porzione dell’hotel, precisamente tutto il settimo e ottavo livello, che noi non utilizziamo, per avviare il suo progetto del Casinò. Gestirebbe tutto in completa autonomia e a noi pagherebbe spese e quota di affitto, siamo arrivati anche ad un semi accordo riguardo il prezzo.»
«Non mi piace per niente quel Klaus.»
«Neanche a me Dam, ma abbiamo bisogno di sfruttare quella parte di albergo, ci costa troppo in questo modo. E loro sono disposti a pagare, anche bene.»
«Il marchio e la catena di Casinò sarebbe nuova o importerebbero quella che già hanno?»
«Importerebbero la loro, già conosciuta e consolidata qui a New York.»
 
Damon sospira, analizza quei fogli come ne andasse della sua stessa vita, perché in fondo è così.
Suo fratello aveva rinunciato ad essere il proprietario di quell’impero, non sarebbe mai stato in grado di gestire il peso di un’impresa del genere, anche il loro padre ne era consapevole quando decise di mollare l’imprenditoria e viaggiare per il mondo sul loro yatch con la fidanzata di turno. L’egoismo, la furbizia e il fiuto per gli affari di Damon aveva spinto Giuseppe Salvatore a lasciare tutto nelle sue mani, a patto che suo fratello ne curasse ogni parte burocratica e legislativa, da avvocato quale era.
Andare a fondo per Damon, quindi, avrebbe significato portare con sé anche suo fratello e questo fardello era ciò che serviva per renderlo responsabile e non fare sciocchezze.
Sapeva suo padre, di dover esporre Stefan per tenere buono Damon.
Questo equilibrio funzionava bene da dieci anni ormai.
Ora però, sentiva puzza di bruciato il maggiore dei fratelli, era con le spalle al muro, doveva assolutamente trovare una soluzione per ricavare un guadagno da quella porzione di albergo inutilizzata e l’unica offerta davvero appetibile era stata presentata dall’unica famiglia, in tutta New York, da cui era meglio tenersi a distanza, soprattutto nei rapporti d’affari.
 
«Voglio essere coperto da ogni tipo di responsabilità Stef, non voglio essere messo in mezzo neanche se un loro dipendente si rompe un’unghia mentre serve un cocktail. E voglio di più di quanto offrono.»
«Vedrò cosa possiamo ottenere.»
«Ovviamente, niente traffici loschi, questo va messo nel contratto. Controllerò di persona chi entra e chi esce da quel posto e non ammetto confusione per tutta la notte, devo tutelare i miei clienti. Ci dobbiamo accordare sugli orari e sulle percentuali di guadagno.»
«Fisseremo un ultimo incontro con Klaus e il suo avvocato per queste cose, glielo avevo già accennato.»
 
Damon lo guarda con orgoglio, poggiandogli una mano sulla spalla per complimentarsi.
 
«Hai pensato già a tutto! Non hai più bisogno di portarti dietro me allora!»
«Ho bisogno di una baby sitter infatti, non di te!»
«So che Elena voleva andare a trovare le tue donne oggi pomeriggio.»
«Bene, le portasse qualche dose di morfina.»
«Addirittura così male vanno le cose?»
 
Stefan sprofonda sempre di più tra i cuscini del divano, calibra bene le parole prima di dargli voce, e poi si lascia andare come non aspettasse altro.
 
«No Dam, è fantastica la vita da padre, da marito, Care è una mamma meravigliosa e Florence è… lo sai, sono perdutamente innamorato di lei. Eppure, sono mesi che non riusciamo a dormire cinque ore di fila, sua madre è sempre a casa nostra, non abbiamo più un’intimità, lei ancora la allatta di notte. L’appartamento è un disastro e…»
«Stai parlando come una casalinga disperata Stef, lo sai questo vero?»
 
Prova ad alleggerire un po’ la situazione mentre lo osserva con tenerezza e fierezza allo stesso tempo. Ha sempre ammirato la capacità e il coraggio dimostrato decidendo di sposare la donna amata da una vita, costruirci una famiglia e buttarsi a capofitto nei problemi della vita quotidiana.
 
«E’ che… sono solo un po’ stanco e in tensione per questo accordo con i Mikaelson.»
«Di questo ora me ne occuperò io, tu accertati che sia solo tutto in regola. E poi, vai a dormire un paio d’ore, sei inguardabile!»
«Beh neanche tu sei messo benissimo se proprio vuoi saperlo!»
«Almeno io ho ancora un’intimità!»
 
Si scansa appena in tempo per evitare un cuscino del divano prontamente lanciatogli contro da suo fratello, scoppiano a ridere insieme e un attimo dopo, sono di nuovo pronti per discutere di lavoro.
 
 
Quando Elena scende dalla macchina, ha tra le mani più buste di quante le sue dita e la sua forza possano contenere.
Con un piede chiude lo sportello e si dirige verso il portone di una deliziosa villetta a schiera, in una strada periferica dell’Upper East Side, circondata da piante rampicanti e glicine.
C’è uno strano e inaspettato silenzio in casa, la porta socchiusa la invita ad entrare, poggia le buste a terra e se la chiude alle spalle. Nella sala non scorge nessuno, se non un gran disordine, tra giochi a terra e la tavola del pranzo ancora apparecchiata, sbircia alla sua destra, in cucina, con lo stesso risultato, nessuna presenza e piatti da lavare.
Sale lentamente le scale difronte a lei, dirigendosi alle camere da letto, un po’ inquieta a dire la verità, nella cameretta della piccola Florence il lettino è vuoto e disfatto, in bagno non c’è nessuno, nella camera degli ospiti nemmeno, è solo quando arriva sulla soia della camera da letto che il sorriso le nasce dolce sulle labbra.
Caroline tiene sua figlia stretta tra le braccia, addormentate entrambe nel grande lettone, la camicia da notte ancora addosso e i cuscini a fare da sponda per impedire a Florence di girarsi e scivolare a terra.
Si ferma a godersi quella tenera vista, Elena, sono le quattro del pomeriggio, non è proprio dalla sua amica dormire a quest’ora, sapendo che lei stava arrivando, lasciare la casa in quelle condizioni non era poi una cosa neanche lontanamente contemplata un tempo, adesso invece, qualcosa è riuscita a scalfire e limare i contorni anche della sua incrollabile e perfetta amica, ed è ciò che tiene gelosamente tra le braccia e che ha appena perso il suo ciuccio.
Elena si avvicina pianissimo per prenderlo prima che inizi a piangere e finisca quel momento di quiete, lo avvicina alle labbra della piccolina e lei lo afferra istintivamente ricominciando a ciucciare poi, sistema il lenzuolo stropicciato a coprire entrambe e, con la stessa lentezza, torna indietro, chiude la porta e scende di nuovo al piano inferiore.
Caroline sente le manine di sua figlia muoversi e toccarle viso e capelli, più che altro tirarli, sì sente tirarsi i capelli, tanto che, prima ancora di aprire gli occhi, è costretta ad allungare una mano e afferrare quella minuscola della piccola per farle aprire piano le dita e mollare la presa.
 
«Vuoi proprio farla fuori la tua mamma, è?»
 
Glielo sussurra vicino quelle orecchie minuscole, mentre finalmente i loro occhi azzurro mare si aprono e si fondono gli uni negli altri. Florence le regala uno dei suoi migliori sorrisi e Caroline le mordicchia le fossette per riflesso.
E’ la cosa migliore che le sia capitata in tutta la sua vita, la cosa che ama di più al mondo, un pezzo di cuore che vive, respira e cammina al di fuori di lei, più di suo marito, più di chiunque altro.
E non l’ha capito subito Caroline come la sua vita potesse cambiare e quanto un amore potesse essere così potente, era intenta a comprare vestitini, organizzare la nascita, dipingere di rosa cipria le pareti, arredare la cameretta… e’ stato quando, dopo un dolore lancinante, l’ostetrica gliel’ha poggiata sul seno e lei ha iniziato con le sue piccole labbra ancora livide, a cercare il suo capezzolo per succhiare, come fosse già programmata per farlo e invece ha trovato i suoi occhi ed è rimasta incantata a fissarli, quello, quello è stato il momento in cui Caroline è diventata di colpo mamma.
E ci si sente ancora e sempre di più, nonostante le notte in bianco, il rapporto con Stefan che vacilla, le lavatrici da fare, la casa in disordine e i piatti da lavare.
Ed è proprio questo che le ricorda di aver mandato via sua madre, per avere un po’ di spazio con la piccola e soprattutto con il suo papà, e la spinge a sospirare mentre si obbliga ad alzarsi dal letto, prendere tra le braccia sua figlia e scendere al piano di sotto.
Scende appena l’ultimo gradino delle scale quando le viene in mente un altro particolare, o meglio quella che è la sua migliore amica, che sarebbe dovuta passare quel pomeriggio.
Si maledice per essersi addormentata e aver staccato il telefono, cerca di andare a recuperarlo in salotto e dapprincipio non si accorge di essere arrivata al camino, sopra il quale lo aveva lasciato, senza incappare in nessun gioco.
Si guarda attorno non trovando nulla fuori posto, il box di Florence è pieno dei giochi che fino qualche ora fa erano sparsi per il pavimento, la tavola è sparecchiata e al centro è tornato il vaso di fiori scomparso da giorni, non ricorda di aver chiesto a sua madre di mettere in ordine, anzi, glielo aveva vietato tassativamente, per questo non capisce.
Avanza piano, attraversa il corridoio fino ad arrivare in cucina, da dove proviene una luce tenue, scosta appena la porta ed è lì che la vede.
La trova di spalle, davanti al lavandino, intenta ad asciugare gli ultimi piatti prima di riporli.
Le formicola il cuore e quasi allenta la presa su Florence, ancora stretta tra le sue braccia, per l’emozione.
 
«Elena Gilbert, tu… tu sei l’amica migliore del mondo!»
 
Elena sorride per la voce che le arriva commossa alle spalle, si volta e si ferma ad osservarla prima di parlare.
Scalza, con i boccoli appena scompigliati, il viso stanco ma gli occhi accesi e la piccolina che sorride di riflesso e tende le braccia verso lei.
 
«E tu sei la peggior casalinga che esista!»
 
Ma glielo dice mentre già Caroline la stringe a sé con il braccio libero e si commuove quasi.
 
«Sarei potuta essere un ladro, avrei agito indisturbata con te che dormivi! Sei pazza a lasciare la porta aperta!»
«Mia madre! E’ stata lei! Flo dormiva e le ho chiesto di non fare rumore mentre usciva... deve aver interpretato male la richiesta! Mi sei mancata tantissimo!»
«Ci siamo viste questo fine settimana!»
«Sì ma oggi è giovedì e ieri era una serata importante per te, sarei voluta venire!»
 
Elena allenta l’abbraccio, colpita dalle parole dell’amica, perché tutto avrebbe voluto, tranne ciò che era successo.
 
«Non preoccuparti, so che Flo non è stata bene, non è colpa tua.»
 
Le stampa un sonoro bacio sulla guancia e poi rivolge finalmente la sua attenzione a quella meravigliosa creatura che non smette di fissarla e sorriderle.
 
«Adesso basta, fammi coccolare un po’ la mia nipotina!»
 
Non fa in tempo ad allungare le mani per prenderla, che lei si lancia sul suo petto ed Elena non resiste alla tentazione di riempirla di baci, solletico e abbracci.
E’ la bambina più bella che abbia mai visto, e forse è ciò che dicono tutti se che i bambini in questione hanno un qualche legame affettivo con loro, eppure Florence lo è davvero bella, ha preso il meglio di Caroline, gli occhi limpidi e azzurri, i capelli chiari e quelle fossette che spuntano ogni volta che sorride, e presumibilmente il carattere buono e dolce del papà.
Elena l’ha fotografata in ogni sfaccettatura, ha un intero servizio fotografico del pancione di Caroline dell’ultimo mese, della nascita e poi a pochi giorni di vita, insieme alla mamma e al papà. La sala da pranzo è cosparsa di foto scattate da lei, di Florence, di Caroline e Stefan con lei e di tutti e tre insieme, ci sono solo alcune foto del matrimonio, il resto è tutto dedicato alla loro bambina.
Non se la ricordano quasi una vita precedente senza di lei, il modo in cui si sentono completi nonostante tutto, è qualcosa che Elena ammira e a cui aspira nel profondo di se stessa.
 
«Allora, come stai?»
 
Sono ormai sedute sul divano, davanti al camino, con Florence che gattona sul tappetone ai loro piedi e gioca con i suoi giochini, e in mano una tazza di caffè preparato da Elena poco prima.
 
«Sono stanchissima Elena! Ho un bisogno di dormire che mi divora! Quest’ultime settimane poi sono state infernali… con Stefan che lavora tutto il giorno, mia madre in casa che amo tano e vorrebbe aiutarmi ma crea ovviamente un po’ di scompiglio, Flo che non è stata bene e non è andata al nido… insomma sto alla grande!»
 
Ridono entrambe, soprattutto della capacità di Caroline di non perdersi mai d’animo, è l’unica persona che conosca a non aver mai visto crollare e disperarsi tanto da lasciarsi andare nel fondo del baratro. In un modo o nell’altro, anche nelle peggiori situazioni, è sempre riuscita a rialzarsi, a mantenere quel minimo di amore per sé che le ha consentito di sopravvivere.
Si conoscono da sette anni ormai, Elena ha conosciuto prima lei di Stefan, l’ha chiamata una mattina, mentre era ancora a letto nell’appartamento di Damon, in una delle sue innumerevoli trasferte, chiedendole di accompagnarla in alcuni negozi del centro, visto che entrambi i fratelli avrebbero lavorato tutto il giorno e loro sarebbero state da sole. Lei aveva accettato immediatamente, c’era qualcosa di brioso e leggero nella sua voce da portarla a fidarsi e a volerla conoscere.
Era stata amicizia a prima vista la loro, opposte quasi in tutto, si completavano a vicenda e sapevano leggersi senza neanche parlare.
 
«Dimmi di te ti prego, non faccio altro che parlare di pappe, bambini e pannolini, ricordami come si vive fuori da qui!»
 
Ed eccolo lì, appunto, il velo di tristezza che cala nello sguardo di Elena e non passa di certo inosservato dalla sua amica.
Sta per parlare ma lei fa cenno di no, alza la mano davanti la sua bocca come a fermarla, non vuole sentire Elena, ha parlato e sentito fin troppo, non ne può più, vorrebbe solo che le cose tornassero come un tempo.
 
«Non capisco cosa ti infastidisca così tanto di lui, cosa ti manchi, posso capire prima, ma ora ci sei solo tu Elena, sei sempre stata solo tu.»
 
Non c’è modo di fermare il suo fiume in piena quando vuole scoprire qualcosa, anche questo lo sa Elena e sa anche che, nonostante Caroline non straveda per Damon, l’amore che lui prova per lei è l’unica cosa mai stata messa in discussione da parte di nessuno.
 
«Care lo so, lo so a pelle, lo sento. Sento lui come sento me, so che si sta allontanando, che è cambiato qualcosa.»
«Pensi troppo mon ami! Vivi di più, non stare sempre nella sofferenza o a cercare qualcosa che non va’, non essere così insicura, vai avanti…»
 
Caroline ha affrontato l’argomento Damon con Elena almeno un milione di volte, non si è mai negata, né le ha mai risparmiato il suo parere, anche spiacevole o in disaccordo, ne hanno sempre parlato molto liberamente, solamente Caroline aveva un modo di vivere le cose in generale con più leggerezza, che non era superficialità, Elena no.
 
«Non sono come te, vorrei tanto credimi, ma le cose che sento mi toccano troppo e non riesco a passarci sopra. Continuiamo a parlarne, lo sa che non sto bene, però non riusciamo a lasciarci andare o ad andare oltre. Non so quanto reggerò ancora Care…»
 
Lo confessa sinceramente, in tono consapevole ma ancora pieno di amore, come se questo fosse in una botte di ferro incastrata e nascosta da qualche parte nel cuore e qualunque cosa accada fuori, non potesse essere assolutamente scalfita.
 
«Dai raccontami della serata di ieri sera! Prima di scappare a piedi nudi da Brooklyn e camminare come una barbona sul ponte!»
 
Le è grata Elena per aver spostato l’argomento su altro e per lo spirito positivo che emana in ogni circostanza. E allora inizia a raccontare, sicura di poter correre dalla sua migliore amica in caso di bisogno, sicura come la mano di Caroline che sente stringere il suo polso e che la tiene salda, impedendole di precipitare nei suoi pensieri e nelle sue paure.
Non vorrebbe più andarsene Elena e anche la piccola Florence, che l’ha costretta a giocare con lei per tutto il resto del pomeriggio, non vorrebbe lasciarla, solamente che è tardi, è passata da un pezzo l’ora di cena e Stefan sta per arrivare.
Hanno cenato con farro, orzo, legumi e spropositate verdure miste, prendendo la propria porzione da una ciotola di cibo vegetariano con cui Caroline si è fissata ultimamente, solo la piccola Florence ha ricevuto l’onore di un pasto caldo cucinato, che ha decisamente apprezzato molto di più.
Si promettono di rivedersi al più presto, di organizzare una giornata al lago nella casa della famiglia Salvatore, per dar modo anche ai due fratelli di staccare dal lavoro e vedersi al di fuori, in abiti come dire ‘civili’.
Dà un ultimo bacio Elena alle donne di casa e si avvia per la via di ritorno.
Le fa sempre bene al cuore vederle e passare del tempo con Caroline, la fa sentire a casa, anche lontana chilometri e chilometri, sente quella familiarità che si acquisisce solo con persone conosciute da anni e anni, quando un gesto condiviso o un’azione come pulire la casa e fare i piatti, o togliersi le scarpe sul divano, rientrano nella normalità, nella complicità, nell’essere a casa, senza bisogno di dover apparire o la paura di essere fraintesi.
 
E’ già a letto Damon quando Elena rientra nell’appartamento, eppure è ancora sveglio perché la stava aspettando.
Lo fa sempre, non riesce ad addormentarsi se lei non è nel loro letto e lei lo stesso, ha bisogno di sapere che lui è lì, anche dopo la peggiore delle giornate, che è tornato comunque da lei.
Si chiude in bagno per qualche minuto, il tempo di struccarsi, infilarsi una canottiera e dei pantaloncini che usa come pigiama, e sdraiarsi accanto a lui.
Lui lo sente dall’avvicinarsi dei rumori e dal livello del materasso che si abbassa, che lei ha preso posto lì accanto, si volta nella sua direzione e apre gli occhi per guardarla, nonostante il buio pesto.
Non la vede ma la sente respirare.
 
«Ehi…»
«Ehi.»
«Com’è andata la giornata?»
«Non mi hai chiamata, per niente.»
«Tu non avresti voluto sentirmi.»
 
E’ la verità, lo sanno entrambi, solo che lei non può fare a meno di chiedere conferme e lui di leggerla come un libro aperto.
 
«Sono una da portare alle cene per fare bella figura e con cui scopare durante la notte, e basta? Siamo davvero diventati solo questo Damon? Perché è questo che siamo ora.»
 
Lo provoca, sono mesi che lo fa, solo per avere una verità da poter usare contro di lui.
 
«Perché non possiamo andare avanti e basta?»
«Perché siamo io e te. E noi non andiamo avanti e basta.»
 
Lui la disinnesca, sempre, le toglie le armi da sotto le dita senza che lei se ne accorga o possa usarle davvero. Eppure lei è tenace, testarda, innamorata e non ci riesce a lasciar andare.
Ed è un gioco di lame non di testa, non cercano spiegazioni, ma un modo per sopravvivere.
 
«Mi dispiace Elena di non essere venuto alla tua premiazione. Lo sai che avrei fatto di tutto per arrivare, anche solo un attimo prima della mia cena. Non ho potuto, non…»
«Non dire, non è dipeso da me. Perché tutto ultimamente non dipende da te. Non hai mai responsabilità tu. Mi hai lasciato da sola, a ricevere il secondo premio per un concorso nazionale in cui ho vinto un assegno di quasi duemila dollari e non ho potuto neanche voltarmi ed essere felice con te. Non c’eri Damon, non avevo il tuo sguardo addosso e ce lo avevo sempre prima, dovunque andassi, qualsiasi cosa facessi tu eri lì, anche da lontano, io ti cercavo e tu eri già lì a chiamarmi. Non ci sei più, e non ti sei neanche degnato di chiamarmi o congratularti con me, sei così impegnato ad essere te che…»
«Ti ho chiamata. E sono stato il primo a congratularmi con te, nel momento in cui hai saputo di questo premio. Ce l’hai sempre addosso il mio sguardo, sempre Elena. Ho mollato una cena di lavoro per venire da te, proprio perché non mi rispondevi.»
 
Inizia ad alterarsi Damon, a cambiare il tono della voce per mettersi sulla difensiva, perché quando lei lo attacca in questo modo, quando lo mette in discussione così, lui ha solo il suo amore per ribattere. E lei non risponde ma si lascia guardare.
Ed è insopportabile per lui averla lì, respirare il suo odore se non può toccarla, per questo le sfiora il viso, in un gesto istintivo, familiare, passa le mani sulla sua pelle e non esiste più nulla per lei, il mondo si placa di colpo quando lui la tocca così.
Eppure, nessuno dei due lo dice, ma entrambi lo sentono e quando qualcosa si insinua sotto la pelle è quasi impossibile lavarlo via.
 
«Non avresti avuto bisogno di farlo prima Damon, mi avresti assillato con la tua presenza, chiamata, saresti stato con me mentre mi premiavano e poi te ne saresti andato alla tua stupida cena, non avresti avuto bisogno poi di venire a riprendermi.»
«Mi dispiace.»
«Dov’eri… dov’eri Damon?»
 
E adesso è lei a modulare la sua voce, glielo chiede come fosse una bambina ferita, con gli occhi lucidi, fissi in quelle pozze così azzurre anche nell’oscurità della loro camera.
 
«Mi hanno trattenuto, ed ero così incazzato e nervoso che…»
«Eri così incazzato con me da non poter tornare un po’ prima e accertarti di riuscire ad arrivare in tempo?»
«Ero incazzato con me, non con te. Non avremmo mai dovuto discutere ieri mattina, io non me ne sarei mai dovuto andare in quel modo.»
«Non lo avresti fatto prima Damon, lo sai anche tu.»
«Ma prima di cosa Elena?»
 
Ed è un respiro lo spazio che li divide dalla verità e, una volta colmato, sa Elena di non poter più tornare indietro.
 
«Prima che lei tornasse.»














*****************

E niente... è andata così!
Questa parte di storia si sta scrivendo da sola e freme.
Io ho solo assecondato questo bisogno!
Arriverà, arriverà anche l'altra!

Un bacio a tutte!
Ale_

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2° ***


 
Capitolo 2°


La prima volta in cui Elena entrò in una camera oscura aveva a nove anni.
Aveva scattato delle fotografie insieme a suo padre, lui le aveva mostrato il modo esatto per tenere in mano una reflex, come comporre teoricamente una buona foto, dove posizionare fisicamente un soggetto all’interno della griglia del mirino e come variare la prospettiva, poi le aveva lasciato la macchina fotografica e si erano incamminati per il bosco vicino casa.
Elena aveva scattato tutte e ventiquattro le foto contenute nel rullino, lo aveva riavvolto e saltellando si era diretta verso lo studio di suo padre, nel quale aveva osservato attentamente ogni suo movimento mentre, lentamente e con una leggerissima luce soffusa, faceva nascere le sue prime foto.
Così si innamorò della fotografia, osservando suo padre scattare foto, stando dietro e davanti l’obiettivo, scattando a sua volta e vedendole nascere, impresse sulla pellicola, come fosse una magia.
Si sentiva libera mentre teneva in mano la sua macchina fotografica, in grado di fermare il tempo, imprimere ricordi, raccontare il mondo esattamente come lo vedeva lei, cogliere un particolare per altri insignificante, fotografare invece di parlare.
Le piaceva maggiormente fotografare volti, quanto lo amava, catturare espressioni, azioni, emozioni, era come entrare dentro l’anima di una persona senza toccarla, spiarla senza avvicinarsi troppo, avvertendo quello che provava in quel preciso momento. Forse per quello si era dedicata al ritratto, alle foto in studio, percorrendo quella strada era diventata fotografa di moda ma aveva conservato la sua passione per i boschi, la natura, il paesaggio che le aveva trasmesso invece suo padre.
La passione di suo padre era rimasta tra le mura della loro casa, quella di Elena invece aveva preso la via per il mondo.
Certo, avere a che fare con modelle snob e uomini narcisi e pieni di sé, non era il massimo, ma ormai aveva imparato a gestirli e ad un ottenere un perfetto prodotto finale, uno di quegli uomini d’altronde, se l’era perfino accalappiato.
 
«Ok, grazie Nadia abbiamo finito.»
 
Elena controlla un ultima volta le foto scattate dall’anteprima del computer collegato alla sua macchina fotografica, congeda la modella dopo due ore di shooting fotografico e finalmente si siede per i primi cinque minuti della giornata.
 
«Ehi tutto ok?»
 
Riawna si avvicina cauta mentre porge alla sua amica un caffè fumante appena fatto.
 
«Oh, sei la mia salvezza.»
 
Respira l’aroma infilando quasi tutto il naso dentro la tazzina, lo beve gustando fino all’ultimo granello di zucchero e poggia il bicchiere vuoto sul tavolino accanto il pc.
 
«Sempre pronta a correre!»
«Ricordami perché combattiamo, ogni giorno, con queste modelle con la puzza sotto il naso che guadagnano dieci volte più di noi!»
«Perché amiamo il nostro lavoro. E perché saremmo disoccupate altrimenti!»
 
Elena scoppia a ridere per la leggerezza con cui la sua amica riesce sempre a tirarla su di morale, lavorano insieme da cinque anni ormai, Riawna come make-up artist, lei come fotografa, è da lei che corre per ogni evento, cena, festa, compleanno, serata speciale, lei è la sola ad avere il permesso di mettere le mani sul suo viso e sui suoi capelli, nessun’altro.
 
«Scherzi a parte come stai? Il trucco copre le occhiaie ma non lo sguardo amica mia.»
 
Elena prende un respiro, tornando lentamente alla sua realtà.
 
«Sono un po’… provata lo sai, ma sto bene adesso. Mi sento un po’ più… leggera.»
«Una nottata di fuoco in cui vi siete scatenati?»
 
Le guance di Elena avvampano immediatamente, stupendosi ogni volta per la semplicità e la libertà disarmante con cui quella donna riesce ad essere così limpida e disinibita.
 
«No, non per quello!»
«Peccato, quindi cos’altro è successo?»
 
La prima cosa che le viene in mente è l’immagine di quella donna, non può farne a meno, non perché sia esclusivamente lei la causa dei loro problemi, ma per ciò che rappresenta, per quello che Elena non sarà mai.
Per la superficialità, la capacità di non creare problemi, di essere affascinante e ammaliante, anche solamente respirando.
 
«Quella donna…»
«Gli hai detto che è cambiato da quando lei è in città?»
«Sì, non ce la facevo più.»
«Bene, e lui?»
«Niente. E’ rimasto in silenzio, mi ha abbracciata e ci siamo addormentati. Lo sa anche lui che è così, io lo conosco, so dov’è la sua testa anche se fisicamente lui è con me.»
«E cosa intendi fare?»
«Cosa dovrei fare?»
 
Le gira la domanda perché realmente non lo sa, non sa cosa sia giusto, fin dove poter pretendere o lasciare andare.
 
«Non penso di essere la persona giusta per consigliare, data la mia disastrosa vita sentimentale… ma si vedono da soli che tu sappia?»
«No, assolutamente. Me lo avrebbe detto, credo… io mi fido di lui.»
«E allora lascia solo che le cose facciano il loro corso, se ha bisogno di schiarirsi le idee lascialo fare. Lui è innamorato di te Elena, lo vedrebbe anche un cieco.»
«Io non sarò mai abbastanza per lui.»
«Tesoro, è lui che non è abbastanza per te, se ti lascia pensare questo.»
 
Come è strana a volte la mente.
Un momento prima sei pronto a mollare tutto, pensi di non riuscire a tollerare più niente, neanche il più piccolo errore o la più irrilevante incertezza, senti il limite che preme e strabocca dopo essere stato superato ancora e ancora, senti il dolore, le ferite provocate e vorresti non avvicinarti mai più a quel fuoco che ti ha bruciato e poi, poi più niente.
E’ come quando non ce la fai più a correre e tutti intorno ti gridano di continuare, di andare avanti, ancora un po’, ancora un passo davanti l’altro, ancora un altro pochino, ma tu sai di poter scoppiare da un momento all’altro e allora, all’improvviso, ti fermi.
 
Non ce la faccio più.
 
Lo dici, semplicemente, lo dici e loro sono costretti a sentirlo e farci i conti.
Tu te ne sei liberata e puoi fermarti, puoi camminare, ritirarti, tornare indietro, puoi perfino sederti.
Sei tu a decidere, a sapere dove sta il tuo limite, a guardarlo in faccia, sembri quasi galleggiare tanto non senti più niente, nessuna pressione, nessuno che urla, niente, puoi non sentire più niente.
Ed è proprio questo che prova Elena adesso.
Il suo silenzio ha preso voce, le sue paure hanno trovato luce, non deve più fingere di non star morendo dentro, non ha più bisogno di nasconderlo o di sperare che altri se ne accorgano, le è uscito fuori e basta.
Quel tarlo che la stava divorando non c’è più, non è più soltanto una sua responsabilità, la sua incolumità non dipende più unicamente da lei.
Potrebbe anche tornare ad essere felice, tanto non sente più quella pressione che le strozza il cuore, è come aver ristabilito un equilibrio.
Per questo quando lui la chiama al cellulare, intorno l’ora di pranzo, non capisce perché sia così tranquilla, la sua voce non tradisce emozioni, non è neanche piatta o nervosa, forse solo un po’ stanca ma dolce.
 
«Sicura di stare bene?»
 
Di nuovo insiste, non sapendo bene come reagire.
E’ brava lei a passare la palla a lui, a lasciarlo affrontare i suoi sensi di colpa e le sue responsabilità verso di lei.
 
«Sì Damon te l’ho detto.»
«Passi da me quando stacchi dal lavoro?»
 
Ha bisogno di vederla, è la paura di non sapere cosa le passi per la testa, vuole leggere il suo sguardo, sentirla vicina sempre e nonostante tutto, vuole la sicurezza che sia davvero nulla sia cambiato.
 
«Ci provo, ho un servizio alle tre, poi dovrei aver finito.»
 
Anche lei vuole lui, vuole tutto di lui.
Quel timore di lasciarlo solo, di allontanarsi, o che lui possa andarsene veramente da lei, l’ha tormentata per anni, ci ha combattuto con le unghie e con i denti, si è morsa la lingua a sangue pur di non stare al suo gioco, alle sue provocazioni, pur di essere la parte matura e disinnescare invece di prendere fuoco insieme a lui, a volte ci riusciva, altre meno.
Negli ultimi anni si era decisamente affievolito, proprio in quelle ultime settimane invece era tornato a bussare, ad infiltrarsi tra le pieghe della pelle.
E’ tardi quando esce dal lavoro, la preparazione degli outfit per il servizio di moda e del set fotografico hanno richiesto più tempo del dovuto, ha scattato con concentrazione e minuziosità come sempre, eppure le mani le fremevano, il suo cuore era da un’altra parte, il bisogno di non poter essere con lui era più forte di qualunque cosa.
Damon guarda l’orologio per l’ennesima volta, la aspetta sempre con meno illusioni, non ha idea di cosa le passi per la testa, seppur conoscendola da anni sa di essere un estraneo quando si tratta di giudicare se stesso, è spietato lui, rigido e lapidario.
Per questo quando esce dall’ufficio, ormai costernato, è pronto ad un’ennesima discussione e si avvia all’ascensore di servizio, aspettando arrivi al suo piano.
La prima cosa che sente è la sua voce fresca, poi la sua risata, infine, quando le porte si aprono, se la ritrova davanti gli occhi.
Lì, in piedi, in tutta la sua bellezza.
Una camicia leggera appena slacciata sul decolté, dei jeans a fasciarle le gambe e quei tacchi vertiginosi su cui è perfettamente a proprio agio.
Lo sguardo di sempre, scuro, tagliente e profondo, i lineamenti marcati, quel piccolo neo sullo zigomo destro e le labbra piene e perfette, contornate dal mosso dei capelli scuri che le arrivano alle spalle.
E’ talmente donna da rendere insignificante chiunque al suo confronto.
Damon la scruta da capo a piedi, incredulo e disorientato, non è la prima volta che la vede, ma mai l’aveva incontrata insieme a suo fratello.
Il sorriso di Stefan muore tra le sue labbra e d’istinto sfugge allo sguardo di Damon, abbassando gli occhi sul pavimento.
 
«Katherine.»
 
La chiama.
La saluta, la interroga sulla sua presenza lì, le mette distanza.
Tutto in un nome, nell’intonazione con cui lo pronuncia.
Quanto l’ha amata lui, prima di Elena, quella donna.
Così tanto da impazzire, da umiliarsi, distruggersi la vita prima di poter risalire.
Un’amica di famiglia, questo era, la passione travolgente dei vent’anni, un prendere e lasciarsi per anni, fino all’arrivo di Elena e a tratti anche dopo.
Se non fosse stato per lei, per Stefan, che lo trascinava letteralmente via dai locali di tutta New York ogni sera, per Caroline, per i suoi lavaggi del cervello su quanto lei fosse una stronza, egoista, capace unicamente di pensare ai propri interessi invece che a loro due, non si sarebbe più rialzato, sarebbe ancora in fondo al baratro.
Un baratro che la prima volta in cui l’ha rivista in città, gli si è riaperto letteralmente da sotto i piedi.
Avanza lentamente, lei, seguita da Stefan ancora con lo sguardo basso, escono dall’ascensore che vede richiudersi le porte in alluminio e tornare al piano terra.
 
«Ce ne hai messo di tempo per presentarti a lavoro, presidente
«Ero a pranzo. Che ci fai qui?»
 
Ma lo dice fissando Stefan, intento a deglutire e prendere in mano la situazione.
 
«E’ passata per avere la planimetria e le misure delle stanze del Casinò, per progettarne gli interni per conto di Klaus. L’ho accompagnata per verificare i vari spazi.»
 
Katherine ravviva i capelli che le riscendono appena a sfiorare le spalle e gli sorride indecifrabile.
Damon li supera entrambi dandogli le spalle, arrivando all’interruttore dell’ascensore che preme nervosamente, imbarazzato e combattuto per la presenza costante di lei ultimamente, per questo progetto con Klaus, incazzato, anche, per la complicità con suo fratello.
 
«Sei passata al nemico.»
«Klaus mi ha offerto un lavoro, e un compenso, che non potevo rifiutare.»
 
Stefan capisce di doversi allontanare, mormora di dover tornare in ufficio e qualcos’altro che in ogni caso non arriva alle orecchie di Damon, intento a fissare le porte metalliche dell’ascensore.
 
«Forse ti ho messo un po’ nei guai l’altra sera.»
 
Lo chiede, certa di quale sia la risposta, sicura altrettanto di non poter averla.
 
«Vorresti averlo fatto?»
 
Non può cedere con lei, non può darle nessuna certezza.
Lo sa lui, ma anche lei, quanto potere abbiano l’uno sulla vita dell’altro, ammetterlo sarebbe una confessione inaccettabile, insostenibile.
Non cambierebbe nulla, è certo Damon di amare Elena con tutta la pelle, lo stomaco, la pancia, il cuore e la testa, per questo non vuole dargliela la soddisfazione di essere ancora un po’ protagonista nella sua vita.
Katherine infatti scuote la testa ironica, prima di poter rispondere qualsiasi cosa lui la incalza, prendendola alla sprovvista.
 
«Che ci fai qui Kat?»
«Sono venuta per la pla…»
«No, intendo, qui…»
 
Ci mette un attimo in più per cercare la risposta giusta, quella adatta, non la trova, non sa mentire, non come lui vorrebbe.
 
«Ci andiamo a prendere un caffè?»
 
Deve lavorare Damon e poi sta ancora aspettando Elena, eppure è più forte di tutto, la rivalsa, il riconoscimento che lei non gli ha mai dato, forse è questo a muoverlo, sa quanto sia sbagliato, tuttavia lo fa, accetta.
 
«Ho solo qualche minuto.»
 
Quando le porte dell’ascensore finalmente si aprono, entrano entrambi, in silenzio e con lo sguardo altrove.
Arrivano in uno dei bar delle terrazze del grattacielo, quello più appartato, meno turistico, dove poter parlare ed essere osservati il meno possibile.
Ordina un caffè al vetro macchiato freddo, lei, come al solito, mentre lui la osserva e non capisce.
Attende che arrivi la sua ordinazione al tavolo, appena a ridosso del muro da cui parte una vista spettacolare, e anche il bourbon liscio per lui, prima di parlare.
 
«Cosa vuoi sapere Damon? Perché non sopporti l’idea che io sia qui?»
«Perché non dovresti esserci, non è questo il tuo posto.»
 
Soffia appena nella sua tazzina e ne beve una goccia, giusto per bagnarsi le labbra.
Alza gli occhi neri su di lui, fregandosene di mostrargli come riesca a farle ancora male.
 
«Sono qui per lavoro. Sono passati sette anni Damon, forse dovresti andare avanti, non credi?»
«Sei la solita stronza.»
«Non essere sgarbato con me.»
«Perché sei qui Katherine?»
 
E’ quel tono duro e diretto con cui si rivolge a lei, il motivo per cui abbassa lo sguardo e concentra tutta la sua attenzione su quel caffè ancora integro.
Fa tintinnare la tazzina mentre la solleva e ne beve ancora un po’, resta a mezz’aria con gli occhi che vagano sull’Empire State Building colorato dalle prime luci del tramonto.
Parla, senza neanche guardarlo.
 
«Non ricordavo quanto potesse essere mozzafiato la vista di questa città, da quassù. Forse perché non mi ci hai mai portato, ci siamo lasciati troppo presto io e te, non sono stata così lungimirante ed egoista come credevate tutti.»
 
Poggia di nuovo la tazza ormai vuota sul piattino e, finalmente, riesce a guardarlo negli occhi, porgendogli una domanda che la assilla da anni e cogliendolo decisamente alla sprovvista.
 
«Che ci facevi sotto il mio appartamento, a Providence, due anni fa?»
 
 
«Io spero tu stia scherzando Damon.»
 
Elena è incredula, fuori di sé, pronta a scaraventarglielo addosso quell’anello appena trovato nel cassetto.
La ricerca di un asciugamano pulito si è trasformata nella visione di quel pacchettino, voleva solo sbirciarci dentro, con il cuore in gola per il peso e la responsabilità attribuita a quel piccolo brillante.
Non fa in tempo però a rimetterlo a posto, Damon entra proprio in quel momento e le blocca il respiro con un solo sguardo.
Inutile dirle che quell’anello fosse lì da mesi, che aspettava il momento giusto, che, nonostante le troppe discussioni, con lei voleva passarci il resto della vita.
E’ intelligente Elena, scaltra, fiuta la paura e i sotterfugi a miglia di distanza, scopre le intenzioni prima ancora si palesino nella mente di lui.
Per questo non crede ad una sola parola, a nessun progetto di vita insieme, le appare tutto come una menzogna, un riparare che non porta a niente.
 
«Ho visto la tua espressione al matrimonio di Caroline, so quanto sia importante per te e…»
«E tu pensi di risolvere i nostri problemi chiedendomi di sposarti?»
«No, penso di risolvere le tue insicurezze su di me.»
«Con qualcosa che non vuoi? Bel modo complimenti!»
 
Sono giorni che vanno avanti sempre e solo sullo stesso punto.
Non lo sopporta Elena il bisogno che ha lui di dover ammaliare e scherzare con ogni donna che respiri, parli o gli si muova intorno.
Continua a metterla alla prova Damon, invece, testandone la resistenza, il limite, verificando fino a quanto possa amarlo realmente.
La spinge fino all’orlo, poi, quando lei impazzisce, se la riprende, raffredda la sua ansia e torna docile come un cagnolino.
Non ce la fa, ci sono momenti in cui si sente stretto, in cui tutto l’amore che lei può dargli, lo fa sentire troppo, troppo responsabile, troppo forte, troppo in alto. Ha bisogno di spezzare le aspettative, di smontarle e poi ricostruirle pezzo per pezzo.
Lei lo sa, dannazione se lo sa, ha imparato a disinnescare i suoi atteggiamenti, a non alimentarli, a spegnere quel fuoco che lui lascia in giro per vedere chi ci si può bruciare, ad amarlo oltre il suo egoismo, ad andare oltre quel limite che lui spinge sempre un po’ più in là.
Solo che è un carico troppo grande da portare da sola.
 
«Elena ma che vuoi da me? Io ci sto provando, io ho rinunciato a tutto per te, ti sto offrendo la possibilità di avere la famiglia che vuoi, la vita che sogni.»
«Io non la voglio Damon. Possibile non capisci che a me basteresti solo tu?»
 
Somiglia ad una pazzia, lei che non chiede niente, lui che vorrebbe darle in mondo e non ci crede di poter bastare in questo modo.
 
«Non sai quello che dici Elena e io non voglio un giorno sentirmi rinfacciare tutto ciò che non ho potuto darti.»
 
Sbatte la porta e se ne va.
Sa di ferirla, lo capisce benissimo e lei è troppo stanca per evitarlo, per fermarlo prima. Ci sono in mezzo i suoi sentimenti, la sua anima ed è troppo il lavoro che lui le chiede di fare, ogni volta, per tutti e due.
Non sa perché si ritrova lì.
E’ salito sulla sua macchina ed ha iniziato a guidare senza meta, senza pensare a niente, voleva solo correre, con i finestrini aperti e la musica alta, tanto da non sentire i suoi pensieri.
Sfreccia sull’autostrada che lo porta fuori New York, con il bisogno di andarsene, cambiare aria, tornare l’uomo che era.
Ci si ritrova per caso, o forse no, forse perché quella strada l’ha percorsa per anni, avanti e indietro.
Se la ricorda chiaramente quell’uscita, quella via che lo porta in un quartiere al centro di Providence.
Quel portone, sotto il quale ha aspettato ore.
Ferma la macchina e spegne il motore, chiude gli occhi e non gli importa del tempo che passa.
Si domanda se sia giusto, dove abbia sbagliato, perché lei non voglia trascorrere il resto della sua vita con lui, si dà dello stronzo egoista, dopotutto è lei che ha rinunciato a tutto per lui, ha cambiato città, lasciato la sua famiglia, i suoi amici, non ha altro che lui e il suo lavoro da fotografa.
Lui ha ancora tutto, ha perfino un passato che ogni tanto torna a bussargli il cuore e dal quale non dovrebbe tornare.
Sa anche questo Damon, eppure il suo corpo e il suo istinto lo portano sempre lì quando le cose non vanno, nell’illusione di qualcosa di incompiuto, di un definitivo che non si era mai risolto del tutto.
Ad un rapporto nel quale non aveva fatto altro che farsi male.
E’ sbagliato, tutto completamente sbagliato, se lo ripete per ore mentre è lì sotto la sua finestra, non lo sa ancora cosa muova le sue mani che sfilano la chiave dal quadro della macchina e afferrano la giacca per andare a scoprirlo.
Ma eccola lì, Elena, che lo reclama.
E’ tardi, è l’una passata, lei è ancora sveglia e non riesce a prendere sonno se lui non è lì, se non sa dove sia.
E’ un bisogno fisico, una dipendenza emotiva, anche dopo tutte le parole urlate l’uno contro l’altro, lei, ma neppure lui, riesce a lasciarlo andare, ha bisogno di sapere dove sia, se quel filo si è spezzato o se lo sente tirare anche lui.
E Damon non può non rispondere a quel telefono che sta squillando, anche incazzato com’è, non la lascerebbe mai arrovellarsi nei dubbi e nelle ferite.
Lui è la cura e la lama allo stesso tempo, lei lo stesso.
 
«Ehi.»
«Torna da me, per favore, dove sei?»
 
E gli bastano quelle semplici parole, gli basta sentire il cuore a pezzi tra le sfumature della sua voce e le lacrime incastrate nei singhiozzi, per tornare razionale, per correre da lei.
 
«Sto arrivando.»
 
 
«Lo so che eri lì, sei rimasto in macchina per un’ora intera, poi hai fatto inversione e te ne sei andato. Perché eri lì Damon?»
 
Lo chiede di nuovo Katherine, per essere sicura gli sia arrivata chiara e precisa la domanda. Se lo è chiesto per due anni, lei, sarebbe voluta scendere in strada per correre a salutarlo, eppure non ne aveva avuto il coraggio, era rimasta a guardarlo dalla finestra, al buio, finché la sua Camaro non era ripartita e lui non era più tornato.
Non lo aveva programmato di trasferirsi momentaneamente a New York, non aveva intenzione di risentirlo, né rivederlo, tuttavia, quando Klaus l’aveva richiesta per quel lavoro di design, il suo primo pensiero era stato Damon.
 
«Avevo discusso con Elena e avevo bisogno di prendere aria.»
«Ero io la tua aria?»
«Non lo so cos’eri Katherine, so cosa sei ora.»
«Io non credo, non saresti qui altrimenti.»
 
Incassa il colpo e ruota lo sguardo Damon, se lo ricorda bene quell’episodio, ricorda anche la sera in cui è tornato, la colpa esplodergli dentro e le scuse a fior di labbra, sussurrate tutta la notte mentre faceva l’amore con Elena.
Non ha più pensato a Katherine, non ha più tirato fuori quell’anello, ha provato a ricostruire un rapporto con l’unica donna della sua vita, ha imparato a restare, a lasciargli certezze su ogni singolo lembo di pelle e di cuore.
Non avevano mai più discusso in quel modo, lui non se ne era mai più andato via per così tanto tempo, fino…
Fino alla telefonata di Katherine, due mesi prima, in cui gli annunciava di aver accettato il lavoro e del suo trasferimento a New York per qualche tempo.
Di nuovo discussioni, distanza, provocazioni.
Non aveva ancora capito Elena cosa stesse accadendo, finché una sera a cena, a casa di Stefan e Caroline, il maggiore dei fratelli si era lasciato sfuggire di quella collaborazione con Klaus e del ritorno di Katherine.
Quella notte la prima di tante altre liti e quel filo sottile, tra di loro, che torna a tirare e tirare fino allo stremo.
Pazzesca la paura di Elena del confronto con lei, il modo in cui la teme, il cuore come si assottiglia e si ferma, quasi, per non farsi sentire appena avverte il suo nome o vede Damon leggere un messaggio sul cellulare. Non è mai stata così tanto gelosa o possessiva Eleva, non è nella sua natura, nella sua morale, questo, però, è qualcosa di istintivo, primitivo, incontrollabile.
E il fatto che lui non ne parli, non affronti mai l’argomento della loro rottura, non ammetta mai di aver pensato a lei durante le loro litigate, o di averla sentita durante i primi anni della loro relazione. Ed Elena le sa queste cose, è la poca chiarezza a mandarla in confusione, a renderla insicura e vivere nell’imprevedibilità.
Per questo, poi, quando lo sente un po’ più lontano del solito, lo tira a sé, lo chiama, lo pretende, non lo lascia andare.
Anche quel pomeriggio, nonostante tutto, lo fa.
E’ ancora sul divano Damon quando lei torna.
In mano ancora la copia del giornale che stava sfogliando, negli occhi di nuovo lei, l’altra.
Elena non dice una parola, lo capisce dal modo incerto in cui respira, in cui corruga appena lo sguardo quando lei gli appare in salotto, dall’esitazione che ha nel salutarla, che c’è stata lei, anche oggi, ancora oggi.
Sono cose minuscole, impercettibili, ma lei Damon ce lo ha dentro, lo conosce meglio di se stessa, sa cosa prova e pensa senza neanche guardarlo.
Non dice niente, non vuole discutere, sa di non averne bisogno, è consapevole di essere lei e basta la sua scelta, l’unica donna della sua vita, eppure…
Se avesse finito di lavorare prima, se fosse passata da lui, se non avesse così paura del confronto.
Si avvicina al divano, slaccia i sandali, li lascia cadere sul tappeto e si rannicchia accanto a lui, Damon d’istinto solleva un braccio e lei si infila tra questo e l’altro, si sdraia quasi sul suo petto, accavallando le proprie gambe sulle sue e poggiando l’orecchio destro sul petto di lui.
Damon ha ancora le mani sul giornale e, quando prova a staccarne una per abbracciala, lei lo ferma.
 
«Leggi qualcosa per me, qualsiasi cosa. Per favore…»
 
Così torna con lo sguardo sull’articolo di economia che stava esaminando e inizia a leggere a voce alta.
Parla di spread, borsa, oscillazioni, cose di cui lei non capisce nulla ma non è quello ad interessarle.
Passa a leggere dell’ultima partita di basket dei Knicks e poi arriva al meteo e agli ultimi spettacoli a teatro.
Elena lascia che la voce, dal petto di lui, rimbombi nelle sue orecchie e gli arrivi allo stomaco, si lascia cullare, con gli occhi chiusi, fino a non distinguerle nemmeno più le sue parole, regolarizzando i suoi battiti con quelli di lui e finendo per addormentarsi così.
Tra le sue braccia, con il suo respiro addosso e le vibrazione della sua voce fin giù nella pancia.
Lì, nell’unico posto in cui si sente a casa.
Damon le accarezza i capelli e la pelle di porcellana, è così assuefatto al suo odore da provarne la mancanza quando lei non c’è.
E’ ancora la ragione di ogni sua scelta, la morale con la quale cammina per il mondo, gli appartiene talmente tanto da rendersi fallibile e giudicabile, da non riuscire più a mentirle, né a farle male.
 
«Ho preso un caffè con Katherine questo pomeriggio.»
 
Ed eccola la bolla che esplode in mille pezzi.
Non riusciva più a tenersela dentro, non con l’unico amore della sua vita tra le braccia. E poteva evitarselo, eccome se poteva, le aveva già omesso alcuni particolari in passato, non sarebbe stato difficile, il silenzio era sempre stata una buona carta da giocare, eppure non adesso.
Non dopo essere stato smascherato, non dopo essersi preso la responsabilità della crisi del loro rapporto, non dopo l’onestà e la sincerità con cui lei aveva ammesso di essere distrutta e disarmata.
Glielo deve, le deve la sua intera esistenza.
Ed Elena lo fissa e basta, lo sapeva, se lo sentiva, non poteva pensare di aver sganciato una bomba ed uscirne indenne. 
Eccola la verità che voleva, quella che tutti chiedono ma non vorrebbero mai ascoltare realmente. Eccoli quei graffi sul cuore che sanguinano di nuovo.
Quei motivi validi per andarsene.
 
«Per favore non guardarmi così, dì qualcosa…»
 
Lei non riesce neanche a respirare, non perché lui non possa prendere un caffè con qualcuno, ma per ciò che rappresenta, per ciò che c’è dietro, per tutte le bugie e le verità nascoste, perché è lei.
Per quelle sensazioni che prendono improvvisamente corpo.
 
«Elena…»
 
E’ il suo della sua voce, il modo in cui suona fuori dalle sue labbra, non ci prova neanche a dirle ‘tu non sei venuta, sarei stato con te altrimenti…’, lo avrebbe fatto in passato, avrebbe dato la colpa delle sue azioni, alle mancanze di lei, non adesso però, non al punto in cui era la loro relazione.
Elena fa per allontanarsi, si divincola dalle sue braccia, gli toglie il contatto con le sue gambe ma lui le blocca il polso con la mano obbligandola a fermarsi, a non scappare da lui, da loro.
 
«Non è niente Elena, dovevamo chiarire delle cose, non è successo niente.»
«Quante volte? Quante volte l’hai vista da solo da quando è arrivata?»
 
Lo sa, adesso riesce a leggere anche questo nei suoi occhi, non voleva crederci, non lo pensava possibile, invece vuole sapere per metterlo alle strette, per capire, per sapere, adesso che tutto è uscito allo scoperto, non vuole più menzogne.
 
«Non… non è importante questo, è che…»
«Damon, quante volte?»
 
Dannazione quanto ama la determinazione di quella donna e quanta paura ha di perderla e non avere più niente.
 
«Tre.»
«Dove e cosa vi siete detti?»
 
Non lo sopporta, non tollera doverlo dividere con altre, non adesso, non dopo tutti quegli anni. All’inizio forse sì, conosceva bene l’entità delle relazioni che intratteneva, sapeva quanto bisogno avesse di essere adulato e apprezzato, era consapevole dell’effetto che produceva nelle donne e di quello che loro provocavano in lui. Ha dovuto farci i conti, ha convissuto per anni con lo spettro di altre donne, di una in particolare, l’aveva superato, perché il bisogno di lui di essere amato da lei, spazzava via tutto il resto, lui l’aveva scelta, tra mille aveva scelto lei ed Elena si era lasciata andare del tutto solo in quel momento.
Con il cuore straripante e senza difese si era concessa a lui, lui era la misura con cui giudicava gli altri e se stessa, era il bisogno di essere vista e riconosciuta, era l’amore che non aveva mai provato, quello oltre se stessa, oltre la propria morale, l’amore che perdona, che si merita, che dà senza volere niente.
Tutti glielo avevano detto, chiunque lo conoscesse le aveva intimato di stare attenta, di andarsene finché avesse potuto, di quanto lui fosse egoista e non sapesse amare, lei invece era rimasta.
Lo vedeva com’era realmente, non come voleva mostrarsi, vedeva la sua anima, non la pelle, aveva intravisto la persona che poteva essere se lo avesse scelto e lui l’aveva fatto. Aveva scelto di essere com’era, di essere se stesso perché lei lo amava proprio per ciò che nascondeva al mondo, lei gli tirava fuori la sua vera natura e lui amava lei anche per quello.
Aveva bisogno di essere visto da lei, per essere l’uomo che entrambi desideravano.
 
«Elena sei solo tu, sei tu e nessun’altra.»
 
Per questo sbotta lei, per il modo sincero con cui dice quelle cose e per il bisogno, nonostante quella verità, di volere ancora altro, di non renderla mai abbastanza.
 
«Smettila! Non mi rifilare questa stronzata adesso. Rispondi alla mia domanda e basta.»
«Perché? Perché vuoi farti del male così…»
«La sera in cui hai fatto tardi per venire alla mia premiazione, eri con lei?»
 
Eccola la domanda che la assillava da giorni, per cui non riusciva a darsi pace, quella che non avrebbe mai voluto fare, quella per cui non avrebbe mai voluto ascoltare la risposta.
 
«Sì.»
 
Una pugnalata al cuore le avrebbe fatto meno male.
E’ un castello che si sgretola sotto i piedi.
Uno schiaffo che lascia finalmente il segno visibile ed indelebile.
 
«Perché non me lo hai detto?»
«Non mi sembrava il caso, avevamo già discusso, stiamo sul filo di un rasoio e…»
«Ci stiamo quando c’è lei di mezzo Damon! Ci stiamo per colpa tua! Per i tuoi bisogni narcisistici! Io sono sempre la stessa, non ho dubbi, non voglio trascorrere il mio tempo con altri uomini, non ho bisogno di un bel niente!»
 
La rabbia che la investe è il risultato degli ultimi mesi in cui tutto è viaggiato sotto pelle, in cui nulla si poteva dire ma dove le urla e le discussioni avevano un solo nucleo centrale, quella donna, quella dannatissima donna.
 
«Io non ho bisogno di lei, tantomeno di passarci il mio tempo.»
«Dannazione Damon, sai cosa mi fa incazzare più di tutto? Il fatto che tu non ammetta di avere dei dubbi, di avere ancora dei conti in sospeso con lei! Pensi sia una cretina completa da non accorgermi di ciò che fai o di dove sia la tua testa? Pensi ti voglia in questo modo?»
 
Damon resta in silenzio, per la prima volta non sa cosa dire, non sa a cosa appigliarsi, non trova un margine in cui insidiarsi. Non è in grado di ammetterlo neanche a se stesso, per questo non può darle la verità che invece vuole lei, ha troppa paura di perderla, di essere messo di nuovo in discussione.
Non riesce ad amare in modo non egoistico stavolta.
 
«Tu non riesci mai a fidarti completamente di me.»
«E faccio bene, mi sembra.»
«Il problema non è Katherine, il problema siamo io e te Elena, sei tu che mi metti sempre in discussione…»
«Quindi sarebbe colpa mia? Sono io che non mi fido di te, il problema?»
 
Non ce la fa a fagli male, sa che gioco stanno facendo, sa di dover smettere, di doversi fermare, la ama a tal punto da non riuscire a ferirla in questo modo.
Non riesce più ad immaginare cosa ne sarebbe di lui, del suo mondo, se fosse possibile non amarla così, non aver così bisogno di lei.
Tira un pugno sullo stipite della porta per scaricare la tensione, per fare male a se stesso piuttosto che a lei e resta fermo, mentre il petto si alza su e giù nell’atto spasmodico di respirare aria che non ha più.
Come sia possibile rovinare sempre tutto, non lo capisce Damon, come si faccia a vivere nel felice e contenti è un mistero per lui e forse anche per lei.
 
«Dammi un motivo Damon, solo un motivo per rimanere.»
 
E’ la sua voce a muoverlo, farlo voltare verso di lei, rossa in volto, con gli occhi gonfi e il cuore tra le mani.
Ne avrebbe mille da darle, altrettanti per farla andare via.
La questione è, che il dolore accade. Non c’è modo di evitarlo, non esistono mai certezze, ci sono le speranze, le aspettative, ma il dolore accade. Ed è imprevedibile e nessuno è mai preparato a questo, alla sua forza, alla sua durezza, bisogna essere pronti e saperlo fronteggiare.
Inutile nascondersi, cercare sotterfugi, raccontarsi balle, bisogna affrontarlo.
 
«Per le mattine…»
 
Non capisce Elena, corruga la fronte mentre tira su con il naso e si asciuga una stupida ed infantile lacrima.
 
«Per le mattine in cui apro gli occhi e ti trovo abbracciata a me. Per quanto mi dici vieni a dormire, e io vengo, o per quando lo dico io a te, tu ti infili sotto le lenzuola e io ti allungo il braccio sinistro e tu ci poggi la testa. Perché lo so che dormi solo su quel lato, e non è per il sesso, è perché mi basta dormire con te accanto. E’ perché mi sveglio la mattina e il mio primo pensiero è sapere che sei lì.»
 
Damon fa un passo verso di lei, poi un altro fino ad arrivarle di fronte, inginocchiarsi e nascondere la testa sopra le sue ginocchia.
Ed Elena non riesce a controllarlo il suo corpo quando lui le è così vicino, quando il dolore è troppo da affrontare da soli, quando l’amore è troppo grande per entrambi.
Gli carezza i capelli, la schiena e poggia a sua volta la testa su quella di lui, stanca, respirando profondamente, consapevole e disarmata.
 
«Lasciami andare Damon… se devi farmi ancora questo, ti prego lasciami andare.»
 
L’unica cosa che fa Damon, è stringere di più le mani intorno le sue gambe, stringere tanto e forte e ancora di più.









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A volte ritornano...
E sperano di trovarvi ancora!

Lo so che forse ancora non è ben chiaro tutto, man mano capirete alcune cose e alcune 'paura' di Elena soprattutto, e del perché Damon si comporti così.
Ma prevalentemente, questa è una storia che ha a che fare con sentimenti incasinati, con l'amore che non riesce a lasciare distanze, con le paure e le sicurezze. E' difficile da scrivere perché con la testa andrebbe in un modo, con il cuore in un altro ed è il filo sottile su cui viaggerà questa storia.
Non sarà sempre così lo prometto!
Per il resto, un capitolo esclusivamente incentrato su di loro, con l'apparizione di questa 'lei' che porterà non pochi problemi!

Vi abbraccio intanto, vi aspetto, mi scuso e... portate pazienza!
Ale_

 

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