Un patto di sangue (Amuto)

di kissenlove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Colloquio ***
Capitolo 2: *** Una telefonata inaspettata ***



Capitolo 1
*** Prologo - Colloquio ***



 
— PATTO DI SANGUE (AMUTO)
                                                                          capitolo 1






 
Se mi avessero detto che saresti entrato nella mia vita
non c’avrei mai creduto.
Perché proprio tu...
di tutti quelli che popolano la terra, tu.. 
che sei così diverso di me? 









 
C’era un leggero vento a scompigliarmi i capelli, colpendomi ripetutamente le guance rosse e quella piccolissima quantità di aria veniva sopraffatta dal mio respiro pesante, il corpo teso come la corda di un violino ad ogni passo, risultato della mia indecisione. 
Seduta sulla sedia di plastica, in una sala d’attesa, osservavo un po’ turbata la porta.
Macinavo con le dita calde piccoli pezzettini di carta, che si raccoglievano sul grembo, mentre assottigliavo gli occhi color cremisi nell’intento di studiarne i dettagli. Mi guardai intorno circospetta, la sala era vuota, c’ero soltanto io; afferrai un lembo del vestito, sollevando un po’ per scuoterne via i pezzetti e farli scivolare ad uno ad uno nella piccola borsetta. Alzai lo sguardo, sistemando la borsa sulla clavicola, per poi dirigermi verso quella porta. Una porta di salvezza, ma anche l’entrata per l’inferno. Afferrai la maniglia d’ottone, la mano sudata. Il cuore di una leonessa, i piedi anchilosati, la testa e lo stomaco sottosopra.
Dovevo entrare e rischiare di coprirmi di ridicolo?
Sono sempre stata una ragazza intorno cui aleggiava un barlume di durezza. Una bambina che si era imposta di diventare donna alla svelta, che a otto anni aveva smesso di andare sulle giostre, ma che soffriva nonostante tutto per non essere capace di smascherarsi. Ora non dovevo far altro che oltrepassare quella soglia. Dovevo farlo. Anche se le gambe avessero minacciato di cedere. Il gioco, questa volta, valeva la candela e molto... molto di più. Sapevo che se ne sarei pentita.
Lui mi aveva sempre preso in giro, si era impossessato più d’una volta delle mie lenzuola, ma di quel gattastro un po’ pervertito ne sentivo la mancanza quando spariva.
Ora cosa mi cambiava una volta in più se potevo salvare lei

–Signor Tsuyikomi? É arrivata l’ultima candidata.– mi riferì l’assistente facendo capolino dal vetro traslucido.
–Falla entrare– sistemai le cartelle delle altre cento, senza nemmeno rivolgergli uno sguardo. Quel giorno avevo esaminato più di cento aspiranti, ma nessuna sembrava adatta a quel ruolo. Ero veramente esausto ed ero tentato di mandar via la successiva.
–Si accomodi, signorina— lo sentii dire, mentre le apriva la porta del mio studio.
Mi voltai dandole le spalle e guardai per qualche altro secondo il cielo che mi veniva offerto dalle grosse finestre. Mi piaceva il tramonto. Mi ricordava qualcosa che stava per finire, il preludio della sera, mentre il sole calava tra gli anfratti delle montagne o nelle acque del mare.
Quei colori chiari, rosso e giallo, confondersi e dar vita a un magico spettacolo di luce, che sfumava nel malinconico arancione, e infine, in una prima passata di blu.
In qualche modo, mi rilassava e mi alleggeriva il cuore.
Calata la notte mentre il buio si espandeva a macchia d’olio sfioravo le corde fragili del violino
, diffondendo una melodia mesta e un po’ lugubre, anche quello mi giovava. 
Udii il lento strisciare della sedia sulla moquette; ero così preso dai miei pensieri che non avevo guardato in faccia l’ultima possibile candidata. Inavvertitamente un sorriso sornione mi curvò le labbra e pensai che se mio padre adottivo,— poiché quello naturale scappò — fosse stato ancora in vita mi avrebbe dato del pazzo. Quello che ancora non aveva capito era che il pazzo non è colui che distingue dalla massa per le cose che dice o fa, ma chi si crede invulnerabile. Perché la vita pian piano fa precipitare nel vuoto ogni certezza finché non si rimane completamente soli. Ormai avevo ventisette anni suonati, lo avevo capito da tempo ormai cosa mi serviva per sentirmi vivo.
Ero stanco di essere solo. Per questo stavo tentando di salvarmi con un piano, per certi versi, assurdo e disumano, ma che forse avrebbe portato gioia, amore e la completezza
Avrei trovato la miglior madre surrogato che ci stava sulla piazza e finalmente sarei diventato padre. Ikuto padre? Un gatto nero, sfortunato e pervertito che vuole un bambino? Yoru non era d’accordo, diceva che gli bastavo, non voleva condividere niente con un poppante. Ma a me non interessava, il mio cuore mi suggeriva che un bambino era quel che ci voleva ed io l’avrei avuto con o senza l’appoggio del mio Shugo Chara e con qualunque mezzo.
Volevo diventare padre non per capriccio, ma per dimostrare a me stesso, a Yoru e a Utau che sono in grado di far fronte ai bisogni di una creatura così piccola e innocente, un mini me. Ma non si trattava solo di questo, semplicemente volevo qualcuno che tenesse davvero a me. Non avevo ancora trovato quella giusta... l’avevo avuta, tanti anni fa, ma era più piccola di me di qualche anno.
Con lei non avevo concluso nulla, ma con mio figlio invece sì, perché lui – o lei– non mi avrebbe mai tradito o pugnalato alle spalle, fingendo di amarmi. Amu l’aveva fatto molte volte, ma ero così ceco da non vedere oltre la punta del mio naso, oltre la barriera di quel che provavo per lei.
Mi girai lentamente e studiai, con una punta di sorpresa, la donna di fronte a me.
Cosa
Una massa di capelli, sul rosa chiaro, le sfiorava il petto, gli occhi oro, la bocca dolce e tentatrice, che mi ha sempre negato un solo bacio. Non c’era alcun dubbio era lei, il mio pensiero fisso, la Joker dei guardiani, quella che mi aiutò tantissime volte, e che mi fece soffrire altrettante volte.
Negli anni era cambiata, adesso quelle immature forme di ragazzina bisbetica si erano tramutate in curve delicate e precise di una donna. Era bellissima. Forse lo era stata anche prima, quando la conobbi in quel cantiere per sottrarle le uova o a scuola quando passeggiava con quell’aria da finta dura, intimorendo chiunque ma non me, ma il fatto che fossimo prima nemici e la sua vicinanza con quel principino l’avevano tenuta lontana da me, se non in quei sporadici momenti... quando trovavo il pretesto per dormire nel suo letto. La fissai, era tesa. Le sue gambe snelle e proporzionate si muovevano frenetiche assieme al tessuto della gonna, che saliva più su. 
Non si sentiva a suo agio nella tana del gattastro pervertito. 
–Hinamori, che ci fai qui?– dissi, fingendo indifferenza. 
–Sono venuta qui per l’annuncio, Tsukiyomi.– dritta al punto, pensai compiacendomi che tutti quegli anni non l’avessero portata a cambiare. 
–Quale annuncio, Hinamori?– ribattei io, fingendomi sorpreso, come se non sapessi di cosa stesse parlando. –vorresti venire a letto con me per caso...?– lei mi guardò torva, pronta a uccidermi. 
–Non scherzare, Ikuto!– mi supplicò lei. 
Lei, Amu Hinamori, quella che minacciava di darmi un calcio nel sedere tutte le volte che mi intrufolavo senza permesso nel suo letto... ora mi supplicava?
Era davvero gratificante.
Ma nei suoi occhi dorati non brillava la stessa luce di sempre. Albergava una spaventosa oscurità, una determinazione indistruttibile, in un corpo sul punto di marcire. 
–D’accordo Amu, d’ora in poi sarò serio– mi guadagnai un suo flebile sorriso. 
–Grazie– rispose semplicemente, in un filo di voce.
–Passiamo a cose più importanti... mi hai portato la documentazione?– mi schiarii la voce, tamburellando le dita sulla scrivania. La vidi estrarre dalla borsa un plico, che prontamente afferrai. Sfogliai velocemente il fascicolo. Riportava tutti i dati e le informazioni. Era nata il ventiquattro settembre. Anche se qualche anno fa avevo vissuto fra le sue mura, sapevo poco del conto di quel confettino. Guardai la sua cartella clinica, i vari fascicoli, le analisi, immacolata, in pratica diceva chiaro e tondo che aveva una salute di ferro. Era strano, sembrava capitata a fagiolo nel mio studio, la ragazza per cui a diciassette anni avevo una cotta. 
–Allora?– mi chiese titubante.
–Allora cosa?– risposi io, confuso levando gli occhi dalle scritte nere.
–Hai intenzione di scegliermi o posso levare il disturbo... per sempre?– era un po’ seccata visto che erano dieci minuti buoni che guardavo la cartella in silenzio religioso, soppesando ogni riga.
–Non prenderò una decisione prima di domani sera. Devo ancora analizzare le ultime cinquanta candidate e dopodomani telefonerò personalmente alla prescelta–
Annuì convinta e fece per alzarsi. 
–Aspetta.. Amu–
–Cosa vuoi?– ringhiò.
–Un’ultima domanda prima che tu vada via– le dissi e ci guardammo negli occhi per un microsecondo, come se il tempo non fosse mai passato.
–Perché... vuoi darmi un figlio?– una semplice e coincisa domanda.








–Perché... vuoi darmi un figlio?– una domanda a cui faticavo a rispondere.
Mi sarebbe piaciuto rispondere, togliendomi di dosso il peso che mi portavo dentro, ma non mi andava di mostrarmi ancora più debole di quanto non mi fossi già dimostrata, sopratutto a uno come lui.
La verità è che mi stavo sacrificando per lei.
–Non sono fatti tuoi, Tsukiyomi– risposi brusca.
Tentò di aprire bocca per replicare.
–Limitiamoci al contratto, è questo quello che conta. Cancella qualsiasi cosa riguardi il passato, perché da parte mia non c’è più niente. Avremo in comune solo questo bambino, io sarò il mezzo di progettazione con cui verrà al mondo.–
Il suo sguardo s’indurì ma quando rispose tornò ad essere pacato. 
–Sono d’accordo. Ti informo che dopo la fine della gravidanza, ammesso che tu venga scelta, non avrai alcun diritto sul nascituro.–
–Lo so, Tsukiyomi. Non sono qui perché desidero essere mamma. Ho un gran bisogno di soldi, questo è il modo più veloce per farli. La tua ricompensa per questo lavoro è il genere di somma che mi serve– ci guardammo intensamente per un istante, i suoi occhi blu mi erano mancati come l’acqua nel deserto, ma non glielo dissi per orgoglio.
L’aria incominciò a farsi stantia e irrespirabile, e così uscii con la coda tra le gambe dall’ufficio della Easter, chiudendomi la porta alle spalle.









****

Mi siete mancati tantissimo, ho dovuto far molto spazio per piazzarci questa nuova storia, che.. vi lascerà molto di sasso.. non vi dico cosa accadra, ma è logico no? Si tratta di Amuto, quindi colpi di scena dietro l’angolo! Vi invito a farmi sapere cosa ne pensate, quindi lasciatemi un commentino. Vi amo tutti, la vostra Love.


 

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Capitolo 2
*** Una telefonata inaspettata ***





 
— PATTO DI SANGUE (AMUTO)
                                                            capitolo 2








                                                            [Ikuto’s pov]



Erano parecchi minuti che facevo ondeggiare il liquido nel bicchiere, ma non riuscivo a rilassarmi. Avevo, finalmente, ultimato di esaminare le candidate, ma nessuna donna mi era piaciuta più di lei. Quando i miei occhi avevano incontrato i suoi cremisi, mi è parso di tornare indietro nel tempo... a quando avevo diciassette anni e lavoravo per l’Easter. Come potevo non preferirla alle altre? Quella mocciosa, di soli dodici anni, mi faceva fremere il cuore nel petto, rendeva le mie giornate un inferno e non faceva altro che starmi per tutto il tempo fra i piedi per impedirmi di portare a termine il compito che mi era stato affidato. Era testarda, – lo è tuttora –, sapeva far piombare la mia difesa nel vuoto e regalarmi momenti di intensa gioia. 
Non c’era giorno in cui non litigassimo, ringhiandoci a vicenda il nome “nemici.”
Era la mia nemica, infatti. Voleva ostacolare i piani subdoli, ed evitare che venissero sottratte altre uova del cuore. Non potevo che considerarla tale, anche se, a dir la verità, io ero il gatto e lei il gomitolo con cui giocavo per tutto il tempo. Lei era bella, intelligente, una roccia direi, tutte le qualità migliori che avrei voluto per mio figlio. Ma c’era qualcosa a fermarmi. Non era la sua amicizia con quel principino, per cui lei in passato aveva avuto una cotta, forse nemmeno il suo ruolo di Jolly nei guardiani, piuttosto temevo il confronto spinoso. Era inevitabile, mi ricordò Utau, quando le dissi che volevo diventare padre, e lei mi rise bellamente in faccia.
— Tu, un gattastro pervertito... maledetto, vuoi avere un bambino?— mi fissò come se mi fosse spuntata una seconda testa aliena. — esci da questo corpo, chiunque tu abbia fatto impazzire mio fratello — facendo il segno della croce, neanche lei lo credeva possibile, reputò il mio “uno scherzo” ma nel giro di una settimana dovette ricredersi per ciò che aveva detto. Inoltre, per tentare di persuadermi da questa follia, mi disse che un giorno mio figlio, o figlia, mi avrebbe domandato della sua mamma. Ed io cosa avrei risposto? Che visto che non ho le palle per sposarmi con una donna, ero ricorso ad una madre surrogata, oltretutto la mia vecchia fiamma, che non aveva più diritti su di lui o lei? Che sua madre era una guardiana che difendeva il mondo, mentre io ero solamente un gatto che porta sfortuna a chi lo avvicina? Stavo ripetendo quel discorso nella mia mente da quando ero tornato a casa. Non dovevo prenderla sul personale, mio figlio non avrebbe mai potuto odiarmi, soprattutto perché avevo trovato un corpo perfetto, dove impiantare le cellule per crearlo e se avesse preso dalla madre, non mi sarei di certo lamentato. Avrei avuto una parte di lei, molto piccola, quasi insignificante, sempre con me. Una mini lei o un mini me.
Ora non restava che farle quella telefonata ma nel mio cervello risuonava la frase, dove ammetteva col capo chino di aver bisogno di soldi ed io mi chiedevo in maniera ossessiva il perché. Si era infilata in qualche guaio? No... non poteva essere, lei che ci metteva un secolo per decidere cosa indossare quando uscivamo insieme. Era una persona scrupolosa, a differenza mia, che non ci pensavo due volte a intrufolarmi fra le sue lenzuola, per osservarla dormire, col volto seppellito sul cuscino ed i capelli attaccati alle guance. Quante volte imprimevo il suo ricordo, il ricordo di lei, il suo corpo nascosto dalle lenzuole, le gote illuminate dal fioco pallore lunare. Con la morte nel cuore, il sapore del suo ultimo bacio, l’abbandonavo di nuovo

Ma... a cosa poteva servirle tutto questo denaro?
Ero molto avido di sapere, ma lei non me l’avrebbe mai confessato.
Decisi su due piedi, in uno slancio di coraggio, di chiamarla per chiederle di cenare insieme, con il pretesto di comunicarle che presto nel suo grembo sarebbe cresciuto il mio futuro figlio. Afferrai la sua cartella, lasciando scivolare nel secchio le altre, e com’era prevedibile, aveva lasciato il suo recapito telefonico.
Un sorriso mi piegò le labbra, mentre componevo quel numero sul cellulare.
— Fratellino — il forte rumore di una porta che viene chiusa mi distolse dai ripetuti squilli del telefono. Il ticchettio delle sue scarpe risuonò per tutte le stanze, mentre si toglieva il cappotto di dosso. — Stasera si mangia sushi!– mi avvisò, appoggiandosi con una scapola al cornicione del salotto, e mi osservò interrogativa. 
– Fammi indovinare, Ikuto. Quella ridicola storia... — 
Non è ridicola. É una mia scelta, penso.
— Sh. Utau, mi sto mettendo in contatto con la madre surrogata – le vidi alzare gli occhi al cielo, mentre si liberava i piedi dai tacchi e si accasciava sul divano.
—E chi sarebbe la fortunata?—
— Amu– al nominare il suo nome, mia sorella quasi soffocò. 
— Amu? Quella... Amu? Hinamori — farfuglia. 
— Esattamente — confermai, allontanandomi verso la finestra col cellulare premuto all’orecchio, tentando di celare una risata. Ma non era semplice. 







                                                              [Amu’s pov]

Bussai piano, perché forse lei starà riposando come tutti i pomeriggi.
– posso entrare?– chiesi, facendo capolino dalla porta, rivolta all’evanescente figura che occupava il centro del letto matrimoniale.
– certo tesoro, entra pure– mi rispose, le sue sottili labbra opache si piegarono in un sorriso a malapena visibile. E vederla così non faceva altro che stringermi il cuore.
Non appena avanzai verso di lei, notai il suo drastico cambiamento.
– ciao, mamma–, mormorai in un filo di voce, e lei si limitò ad allungare il braccio ossuto nella mia direzione. Aveva perso la sua gioia di vivere, la pelle,— rimasta poca —, era diventata opaca, la massa muscolare di prima era un vano ricordo, così pure quasi tutti i capelli che le erano caduti per via delle chemio.
– come ti senti oggi?– la stessa domanda, mentre mi posizionavo accanto a lei. Sapevo che la sua risposta non sarebbe stata di certo incoraggiante, i miglioramenti erano minimi e a volte assenti. Il tumore la consumava. Ogni giorno peggiorava e, purtroppo, non rispondeva più alla terapia prescritta. 
– sono stata meglio... altre volte.. Amu– ansimò, tentando di appoggiarsi alla tastiera del letto, anche se avvertiva sempre di più la stanchezza come un macigno. 
– so che le cose non si mettono bene per me – mi disse, a un certo punto.
– mamma, non è vero– le mentii, come tutte le volte che parlavo con un medico, e ricevevo una doccia fredda che m’investiva puntualmente. Il cervello perdeva sempre più facoltà, ogni semplice azione per lei risultava difficile da compiere. Non poteva camminare per lunghi tragitti, sforzava gli arti inferiori e si affaticava. Anche afferrare saldamente gli oggetti era ormai un’impresa. Se ne stava andando... 
Sospirai rassegnata, avevo poche possibilità di salvare mia madre e speravo con tutto il cuore che qualcuno — possibilmente un gattaccio pervertito pieno di soldi, mi desse la possibilità di far guarire mia madre. Lei necessitava di un’operazione specifica che mirava a spiantare il tumore maligno dal cervello, ma trovare una cifra così elevata per sottoporla all’intervento non era una passeggiata. Non per tutti almeno, visto che Tsukiyomi ne offriva addirittura il doppio per l’affitto dell’utero.
Come spesso accade, parli del diavolo e spuntano le corna.
Il mio cellulare cominciò a squillare. 
–scusami mamma, ma è una chiamata importante– inventai una scusa, e lei ci credette senza problemi, poiché non le avevo riferito dei miei piani per ottenere la cifra, e preferivo che non sapesse nulla. 
– vai tesoro. Ne approfitto per dormire un po’– 
– ti lascio sola, allora – mi rimisi in piedi, e piegandomi le lasciai un bacio al centro della fronte, per poi dirigermi verso la porta. Poi me la chiusi alle spalle. Il display rivelò la chiamata di un numero che non conoscevo, e seppur poco convinta risposi.
– pronto?–
– finalmente ti degni di rispondere, confettino.– riconoscerei quella voce tra mille, è la sua. Quella di Ikuto. Un brivido mi corse lungo la schiena.
– cosa vuoi?–
– domani sera, alle sette in punto, fatti trovare sotto casa tua. Indossa qualcosa di elegante perché ceneremo insieme..– 
Presi a scendere le scale, diretta in cucina.
– chi ti dice che io non abbia preso altri impegni con così poco preavviso, gattastro?–
–Il sottoscritto– mi rispose con fare arrogante, come da copione. –e, comunque... pensavo volessi conoscere i risultati della selezione– strabuzzai gli occhi, fermandomi sul penultimo scalino. Mi aveva scelta? Non l’aveva detto in maniera molto esplicita perché è sempre stato un tipo pragmatico e misterioso, ma infondo ci speravo, era per una buona causa. 
– ci vediamo domani– gli mormorai, scendendo l’ultimo scalino, giunta quasi nella cucina. 
– a domani, confettino– sentii la sua voce calda, quasi carezzevole dalla cornetta e non mi resi conto che mentre chiudevo la chiamata, sulla mia bocca si andava allargando un sorriso. E se fossi stata scelta come madre surrogato?








|angolino #Love|
Ehi, ci tenevo a ringraziare le persone che hanno commentato il precedente capitolo di questa storia e quelli delle precedenti storie... @Lory_Iv e anche @EmmaHinamori, grazie per il vostro incredibile sostegno!
Spero che vi piaccia anche questo capitolo, e che vi abbia chiarito un po’ le idee... nel frattempo fatemelo sapere con dei commentini. <3





 

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