Heads on the science apart

di iamnotgoodwithnames
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Human error ***
Capitolo 2: *** Play a new game ***
Capitolo 3: *** Rebuild ***



Capitolo 1
*** Human error ***


 
Avevi smesso, lo avevi fatto, di nuovo.
Poi tutto era andato com’era andato, Mary, l’esplosione, Sherrinford, Eurus, le morti, l’esperimento, la bara, RedBeard, Victor, la verità.
Non si torna indietro, non dalla verità.
Le parole, le parole restano come echi costanti, risuonano nella mente, riproducono sempre lo stesso straziante suono; il rumore della verità.
Lo hai sopportato, lo hai ignorato, sovrastandolo con mille altri suoni, ma è sempre troppo forte, troppo vivido, troppo chiaro e riecheggia, portando con sé bagliori, reminiscenze di una memoria che avevi resettato, modificato, dimenticato.
Ed è diventato insopportabile, intollerabile.
Perché non lo hai compreso, prima.
Perché non lo hai intuito, mai.
Un errore.
Un errore che ti tormenta, non essere stato in grado di osservare, analizzare, dedurre.
Devi anestetizzarlo.
Non bastano più le premure di Mrs Hudson, non sono più sufficienti i casi di Lestrade, non bastano più i tentativi di John di ripetere velate tattiche di mera psicoterapia per affrontare un trauma emotivo, non sono più sufficienti le scuse, mai esplicite, di Mycroft, non bastano più le visite settimanali a Sherrinford.
Neppure più i sorrisi di Rosie sono sufficienti a distrarre la tua mente da quell’eco costante, dai bagliori del passato, dalla verità, dai tuoi errori.
 
“Contesto emotivo Sherlock. Ti distrugge. Ogni volta”

È una costante litania, una melodia sgraziata, una macabra ninna-nanna che accompagna ogni tua giornata.
È il tuo errore.

“è umano Sherlock”

Non serve, non serve che ti rassicurino, sei sempre stato umano, lo hai sempre saputo, non hai mai voluto dirlo; è differente.
Una sottile differenza, una linea invisibile tra l’ammissione e la consapevolezza che non avresti mai voluto oltrepassare.
Lo hai fatto, l’hai oltrepassata.
Ed ora sei qui, è per questo che sei qui.

Evitare l’occhio del grande fratello sopra di te è stato difficile, il brillante consulente investigativo Sherlock Holmes, costretto ad usare le fogne londinesi per sfuggire ad una versione tecnologicamente avanzata, ma ugualmente puerile ed insistente, del comune gioco del nascondino.
Una squallida e maleodorante fabbrica abbandonata, ai margini della periferia londinese, sufficientemente distante da Beaker Street, ma non troppo difficile da raggiungere a piedi, dal sottosuolo.
Le pareti sono incrostate di graffiti variopinti, per lo più scritte infantili, privi di qualsivoglia significato o nesso logico, firme, segni di un passaggio, stati d’animo, nulla di rilevante, né interessante.
I cartoni consumati dal tempo e dall’umidità, poggiati al suolo, hanno ormai assunto una colorazione verdognola, alcuni presentano evidenti segni di impronte sporche di fango, il che suggerisce che sono stati recentemente calpestati e, quindi, per la logica di tale poso sono inutilizzabili.
Le coperte, sparse in modo casuale, al terreno, sono per la maggior parte sfibrate, erose dal tempo e dagli animali, visti i segni presumibilmente roditori, probabilmente topi, di certo non sono igieniche, ma forniscono comunque una maggiore sicurezza rispetto al nudo pavimento, le cui croste di vomito e chiazze di sangue rendono ben chiaro il livello di parassiti che prolifera all’interno della fabbrica.
Dopo una rapida ed attenta analisi stabilisci che quell’unico materasso, residuo di lontane giornate di estivo relax, è l’oggetto meno contaminato che sia presente e lo scegli come tuo.
Ti lasci scivolare sopra la superficie bluastra, ha una consistenza ruvida e, a giudicare dall’elasticità e dalla resistenza alla pressione, è stato trasportato qui di recente.

Sollevi la manica del lungo cardigan nero, la scelta di indossare una semplice maglietta a maniche corte, d’un neutrale color grigio, è volutamente pratica, picchietti la superficie dell’avambraccio con l’indice destro, cercando di individuare la vena, la vedi, la senti pulsare, stringi il laccio emostatico attorno al bicipite, poco sopra al gomito, ti aiuti afferrando un lembo di plastica tra i denti, assicurandoti che il nodo sia sufficiente ad impedire l’afflusso di sangue; bloccando la consueta circolazione.
Sfili la siringa dalla tasca destra del lungo cardigan scuro, picchietti, premendo l’indice al pollice sinistro, alla superficie in vetro, stringendo tra le labbra il sottile tappo che riveste lo sterile ago, ti soffermi, individuando nuovamente il punto esatto, la giusta vena, inietti l’ago sotto cute per poi esercitare una lieve pressione allo stantuffo e lasciare che la sostanza agisca.
Attendi alcuni secondi, prima di sciogliere il laccio emostatico, la soluzione di morfina sta agendo.
Dimentichi l’ambiente malsano poggiando la nuca contro il muro, tra le firme di tossicodipendenti e teppisti di quartiere, inspirando socchiudi gli occhi, ma non c’è più pace neppure qui; nel buio delle sostanze chimiche.
La costante dell’errore umano continua a tormentarti.
Hai ritenuto opportuno ripetere l’operazione una seconda volta, nell’arco di otto ore, fuori sarà già calata la sera, tra poco meno di due ore John ti chiamerà; lasciando intendere che anche Mycroft l’avrebbe fatto.
E, dopo anni di convivenza, deve aver appreso le basi dell’osservazione deduttiva, deve aver compreso la tecnica, perché sembra essere l’unico, oltre tuo fratello, ad avere il forte sospetto che le droghe siano tornate ad assecondare il tuo bisogno di anestetizzare la mente.
Non è più uno stimolante, ora è pura e semplice anestesia.

-l’unico consulente investigativo del mondo, il brillante detective di Baker Street, il geniale Sherlock Holmes, placidamente disteso sopra al mio materasso gonfiabile, a cosa devo tale onore?-

giunge chiaro il suono di quella voce femminile, ma la staticità, la piattezza del tono vocale ti spinge ad aprire gli occhi, sollevando il capo

-la prego di restare, ma potrebbe concedermi un piccolo spazio, se non è chiedere troppo s’intende-

potrebbero essere frasi sarcastiche, così come potrebbero essere reverenziali ed eccessivamente garbate, non riesci a comprenderne appieno il significato ed il fatto che il volto della giovane donna, ritta in piedi di fronte a te, sia una maschera imperscrutabile ti destabilizza ancora di più.
Lasci scivolare le gambe al pavimento, portandoti a sedere lentamente, lasciando un ampio spazio alla giovane

-la ringrazio signor Holmes-

ma non c’è né gratitudine, né gentilezza, né disprezzo, né ironia impressa in quel volto roseo, si siede e i due tagli, all’altezza del ginocchio, che aprono un varco nel tessuto dei jeans si allargano mostrando le spigolose rotule, è magra, per quanto l’ampia felpa, un tempo di uno sgargiante giallo limone, ora sbiadito, le copra le braccia, i sottili polsi e le lunghe dita son ben evidenti, così come è evidente l’ossatura rivestita da quel sottile strato di pelle; che aderisce sin troppo alle ossa.

-che ci fa qui, signor Holmes?-

chiede poi, dopo una manciata di minuti trascorsi nel silenzio, senza tuttavia distogliere lo sguardo dal nulla di fronte a sé

-è qui per un’indagine?-

azzarda l’ipotesi e scuoti il capo, dimenticandoti di rispondere, ma sei certo ti abbia intravisto

-un analisi sulle tossico dipendenze?-

ed è allora che si volta, i suoi occhi sono oceani neri, scuri come la notte, la pelle, osservata così da vicino, è segnata da cicatrici, vecchie iniezioni all’altezza del collo, le labbra sono screpolate, percorse da piccoli tagli, la pelle ha perso elasticità e luminosità, è indubbiamente colpa della tossicodipendenza e, osservandole le unghie ingiallite e le crune annerite, dal fumo di sigarette e dall’inalazione di eroina

-mi sta analizzando, che onore-

e ti ritrovi a capire che non è colpa della morfina se, a dispetto di ciò che lei pensa, non riesci affatto ad analizzarla, o meglio non riesci ad andare oltre alle ovvie deduzioni: tossicodipendente, intorno ai trent’anni, nubile, dall’accento londinese, fumatrice, amante degli animali in particolare dei gatti.
E il resto è un incognita, ti ricorda quel giorno in cui incontrasti la Donna, neppure di lei riuscisti a giungere ad una valida deduzione, ma la differenza che ti incuriosisce è racchiusa in ciò; la Donna era nuda, indossava solo del trucco ben elaborato che ne rendeva ancora più affilati ed ammalianti i tratti somatici, lei invece, lei è vestito, perfettamente struccata; eppure tutto ciò che riesci a dedurre si racchiude in quelle poche parole.

-il mio nome non può intuirlo-

ti ritrovi a fissare nuovamente quelle iridi scure, c’è qualcosa di insondabile, di intangibile

-Diana, ma non in memoria di Lady D, i miei genitori erano più interessati alla mitologia che alla dinastia regale-

e, forse, quella lievissima, quasi impercettibile, increspatura al lato destro delle labbra, che piega l’angolo della bocca leggermente all’insù può essere considerato un accenno, un ombra, un tiepido segno di un sorriso inespresso, bloccato

-tendo sempre a precisarlo, una vecchia abitudine-

sembra quasi volersi giustificare, ma il suo volto è tornato nuovamente inespressivo, questo è l’unico aggettivo che riesci ad attribuirgli

-allora, signor Holmes, non mi ha ancora risposto, cosa l’ha portata qui?-

-lo stesso motivo per cui è qui anche lei-

rispondi con naturalezza, sistemandoti la manica del cardigan blu notte e Diana annuisce, semplicemente

-che tipo di droghe?-

-cocaina, morfina e, stando al pensiero collettivo sociale, tabacco-

-assuefacenti che non creano eccessiva dipendenza, specie in persone come lei-

annuisci, conscio della validità della sua osservazione

-eroina e tabacco-

ti limiti a dirle, Diana socchiude gli occhi, in un tacito segno di conferma

-dipendenza totale e completa-

aggiunge poi, ma le sue parole sembrano essere riscontrabili solo nei segni che riporta sul corpo e non nella mente che, per quanto azzardato ed affrettato possa ritenersi un parere così rapido, ti sembra perfettamente lucida

-fortunatamente non è il genere d’uomo che riserva solo sguardi compassionevoli ai tossici, né tanto meno ci osserva con disprezzo-

-non ne avrei motivo-

-nessuno ne avrebbe, eppure è nella natura umana, non trova?-

chiede, voltandosi ad osservare un punto indefinito del muro a metri dal materasso su cui sedete

-siamo portati a compatire e disprezzare, i nostri occhi ci ingannano, vediamo prima il dolore della ragione che si lega ad esso e compatiamo, notiamo prima il diverso e non l’identità che vi è dietro e lo disprezziamo, la paura e l’incapacità di comprendere ci portano a questo, lei che ne pensa; signor Holmes?-

-la tossicodipendenza è socialmente considerata amorale, logicamente si tende ad associarla a disperazione, povertà e malattie, ovviamente sono potenziali conseguenze, ma il pensiero generale che la società attribuisce al tossicodipendente in sé è quello dell’anima bisognosa di redenzione ed aiuto, dal passato tormentato, segnato da tragedie e…-

-ma cosa ne pensa lei, signor Holmes, non la società, lei-

ti interrompe Diana, impassibile, voltandosi verso di te, senti il suo sguardo attraversarti la pelle, scrolli le spalle continuando ad analizzare i due ragazzi, placidamente sdraiati al suolo, dormienti, probabilmente in estasi da stupefacenti

-riguardo alla tossicodipendenza, ai tossicodipendenti o alle reazioni che entrambe suscitano nella società?-

non ricevendo alcuna risposta decidi di sintetizzare in una semplice affermazione

-non ritengo sia di mio interesse giudicare come qualcuno decide di spendere la vita, la dipendenza è nata con la specie umana-

Diana sospira, non sapresti dire se sia d’accordo con la tua affermazione o se invece la trovi inappropriata, ma in ogni caso sei più che certo che non abbia alcuna importanza, non per te.

Il respiro affannoso, il suono di un gemito, riecheggia nell’area, la suoneria del tuo cellulare causa l’ilarità di un piccolo gruppetto di quattro ragazzini, diciotto anni, tossicodipendenti alle primi armi, probabilmente in cerca di svaghi, nella fase della sperimentazione, nascosti in un angolo, ma Diana invece resta impassibile.
Ricordi lo sconcerto e l’imbarazzo di John, Lestrade e, e gli altri, il giorno di Natale, di anni fa, quando la sentirono, comprensibile; chi mai userebbe un gemito associabile al coito come suoneria del cellulare?
Sherlock Holmes, ovvio.
Risponderebbe John, ma la verità, anche in questo caso, non l’hai mai detta, mostrarti umano era ancora difficile in quei giorni, sapevi di esserlo, ma non superavi mai quel confine, la linea.
E non hai mai, neppure a John, rivelato che, l’unico motivo per cui hai mantenuto quell’assurda, nonché fastidiosa, suoneria era legato solo al puro ed infantile divertimento, vedere l’imbarazzo dipingersi nel volto dei presenti, degli sconosciuti, dei passanti, di chiunque casualmente avesse avuto l’onore di sentirla ti divertiva  e poi, quella notte, il Natale di anni fa, quando l’hai sentita per la prima volta, hai notato, tra tutte quelle reazioni impacciate, la sua.
Le gote arrossate, le labbra dischiuse, prontamente coperte dalle affusolate dita della mano destra, le palpebre sollevate, in una buffa smorfia di ingenuo imbarazzo.
È questa l’immagine che associ a quel suono, non è la Donna; non è mai stata la Donna.
John non lo sa, nessuno sa, neppure tu lo avevi mai davvero saputo; è una scoperta recente.

-non risponde al suo amico?-

-come fa a saper…-

-è ovvio, lei è Sherlock Holmes, chi mai potrebbe cercarla alle undici di un qualsiasi giovedì sera invernale, se non il suo fidato assistente, nonché amico, John Watson? –

e la semplicità con cui risponde alla domanda che non ti ha neppure lasciato finire è tale da convincerti che persino un bambino di appena quattro anni sarebbe stato in grado di giungere ad una simile deduzione, così elementare

-allora, non le risponde?-

dai una rapida occhiata al contenuto del messaggio:

“Mrs Hudson dice che non sei ancora tornato, Mycroft è preoccupato, dove sei?”

il secondo messaggio ti strappa un lieve sorriso mesto:

“per la cronaca, lo sono anch’io”

è solo un istante, un battito di ciglia e l’immagine di Mary, morente, tra le braccia di suo marito, riaffiora alla memoria, il tempo di riaprire gli occhi ed è già svanita, ma il ricordo, il ricordo è sempre lì, brucia, una ferita che non conosce cure

-alcuni diventano tossicodipendenti spinti dalla curiosità, altri lo fanno perché lo scelgono, ma lei, signor Holmes, lei è qui perché è triste, ha bisogno di evadere, mi spiace doverla informare che le droghe non sono una valida cura alle ferite della memoria, ma forse non spetta a me dirlo, perdoni l’insolenza-

riesci ad accorgerti solo ora di quanto suoni istruita e fredda la voce di Diana, forse l’avevi notato anche prima, ma avevi scelto di non dargli alcuna importanza, riponi il cellulare in tasca, decidendo di non rispondere

-da cosa lo deduce?-

-i suoi occhi signor Holmes, il mondo in cui osserva la stanza, il respiro, la reazione involontaria ed istintiva che ha avuto alla vista del messaggio, ma ancor prima al suono del cellulare, i gesti raccontano molto di una persona, ma non credo sia necessario doverle spiegare in ché modo, non a lei-

sentenzia infine Diana, incrociando le gambe, volgendo completamente il busto in tua direzione, in una posizione che non sapresti definire in altro modo se non di analisi

-le sembro triste?-

-non mi sembra triste, so che lei è triste, ma c’è dell’altro-

la osservi puntellare i gomiti alle cosce, incrociando le dita tra di loro, poggiandovi poi il mento sopra

-malinconia, dolore, rabbia, c’è una tempesta nella sua mente, è il caos delle emozioni, un così vasto tormento dell’animo che neppure lei è in grado di analizzare e nel quale sta annegando lentamente, impossibilitato a scoprirne le cause-

-conosco le cause-

-ne è certo?-

vorresti rispondere sì, ne sei certo, sai cosa hai vissuto, cosa ti ha portato a questo, lo sai bene, eppure quella domanda, quell’insignificante domanda, espressa con quel tono neutrale, distaccato, distante, ti blocca, ora riecheggia insieme alle altre parole, alle emozioni che ti affollano la mente.
Ne sei certo? Sei davvero certo di conoscere i motivi di ogni tua singola emozione?

-devo dedurre, dal suo silenzio, di aver ragione, lei non conosce affatto se stesso-

sentenzia Diana, sospirando, assottigliando appena lo sguardo

-ha mai provato a farlo, ha mai provato a conoscersi, signor Holmes? Lei, che osserva tutto, ogni singolo dettaglio, ogni più piccolo indizio nell’altro, ha mai provato ad osservare se stesso?-

ti coglie impreparato, ti sorprende e colpisce, uno schiaffo, una verità che hai evitato, una realtà che hai ignorato a lungo.
Sbatti le palpebre, distogliendo per alcuni brevi istanti lo sguardo da quello di Diana, deglutisci a vuoto, l’effetto della morfina sta cominciando a diminuire e non aiuta

-lo faccia ora signor Holmes, si analizzi-

ed è nuovamente un ombra, un vago accenno, spezzato, quasi impossibilitato a manifestarsi, di quello che forse, azzardando, potresti definire sorriso, che piega un solo lato delle sottili labbra screpolata di Diana

-perché dovrei?-

-lei è una persona incline alla logica, mossa da un’innata e costante curiosità, lo faccia per lo stesso motivo per cui a scelto di diventare il primo ed unico consulente investigativo al mondo, lo faccia per spirito deduttivo e, soprattutto-

inspira, dilatando maggiormente lo sguardo, concentrando le iridi scure nelle tue

-lo faccia per il suo bene, signor Holmes, soprattutto per il suo bene-

la segui sollevarsi lentamente, si aggiusta il lungo maglione giallo spento, tirandone i bordi verso le sottili, quasi scheletriche, gambe, pulendosi granelli di invisibile, ma presente, polvere dai vestiti

-sembra essere convinta di conoscermi, meglio di quanto io stesso possa conoscermi-

esclami, mentre ti volta le spalle, Diana scuote il capo

-non mi creda così arrogante-

volta la nuca, sbattendo le palpebre ripetutamente, la noti inspirare

-nessuno può dire di conoscere realmente qualcuno, non del tutto, mai, ma-

torna a darti le spalle e ne cogli un secondo inspiro, più profondo

-un tempo conobbi una persona molto simile a lei signor Holmes, segua il mio consiglio, lo faccia per lei-

-chi? Chi conosceva?-

chiedi istintivamente, non sai se si tratti di semplice curiosità o di immotivata paranoia, sorprende te stesso l’improvvisa impulsività con cui hai sentito il bisogno di porgere quella domanda

-so che le piacciono le sfide, facciamo un accordo, lei cercherà di analizzarsi a fondo, di conoscersi ed io le risponderò a questa domanda, le sembra abbastanza motivante?-

-sì-

rispondi, semplicemente, sollevandoti rapidamente da terra, senza curarti di aggiustare i bordi del cardigan, raggrinziti e spiegazzati

-dove sta andando?-

-non so lei, signor Holmes, ma io ho bisogno di dormire, mi troverà qui, per i prossimi due giorni, quando vorrà potrà tornare, quello è il mio materasso,
è lì che mi troverà sino alle undici e mezza-

-ho due giorni di tempo?-

-in realtà lei ha tutto il tempo che desidera, ma se vuole potrà tornare qui e riscuotere la risposta che le spetta, come d’accordo, non dubito che impiegherà meno tempo di chiunque altro nell’analisi, infondo è la sua specialità, voi consulenti siete abili osservatori-

sentenzia, allontanandosi da te a passo rapido.

Non hai tempo di aggiungere altro, non hai avuto neppure tempo di pensare a parole adatte con cui controbattere, la tua mente è ora ferma, persino il caos di emozioni si è quietato, permettendo ad ogni singola sinapsi di concentrarsi su quelle ultime parole; voi consulenti.
Un plurale.
Un plurale immotivato, non può trattarsi di un errore, di una distrazione, di un lapsus, non da Diana, nella vostra breve conversazione hai avuto modo di notare come ogni sua parola sia sempre stata ben ponderata, esposta con lucida e sicura consapevolezza.
Un plurale che, se non può trattarsi di casuale, se non può esser frutto di un lapsus, allora può solo celare un’allarmante rivelazione.

Ed è quel plurale a tenerti compagnia, nel tuo viaggio di ritorno.
Ed è quel plurale che ti fa dimenticare le fogne e ti fa optare per un taxi, che permette a Mycroft di rintracciarti.
Ed è sempre quel plurale che torna a far riattivare la tua mente, che scioglie la matassa, il grumo di emozioni che ti impedivano di analizzare con la consueta, rigorosa ed attenta lucidità, che ti impedivano di applicarti alla nobile arte della deduzione.
Ed è da quel plurale che inizi un nuovo gioco.
Un gioco in cui, questa volta, sei tu stesso ad essere al centro, ad essere analizzatore ed analizzato.
Un caso interessante. 





Spazio a fine pagina: 

So che il finale della 4x03 ci ha mostrato un lieto fine, con uno Sherlock nuovamente attivo e sereno insieme a John e alla piccola Rosie, ma io sono una persona orribile e non ho potuto impedire alla mia mente di immaginare un proseguimento, dopo un iniziale periodo di quiete, ben più angosciante e trsiste; in cui Sherlock non riesce a tollerare gli errori di cui si incolpa e gli eventi che si sono succeduti nell'ultimo anno. 
Sarà quindi principalmente un tentativo di analisi dell'uomo, cercherò di mantenere il personaggio il più IC possibile, sperando di riuscirci. 
Avverto che ci saranno accenni a quasi tutti i personaggi presenti, quanto meno ai più importanti.
Sarà presente anche la coppia Sherlock-Molly, anche se non sarà tutto incentrato sul loro rapporto. 
Spero solo che non vi abbia annoiato e che siate curiosi di proseguire. 

Ringrazio anticipatamente tutti coloro che leggeranno e/o supporteranno in qualsiasi modo questa storia. 
Ogni critica costruttiva è ben accetta.

Grazie.


 

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Capitolo 2
*** Play a new game ***


-Watson devi osservare-

sbuffi, poggiandoti contro la mensola in legno, sopra al camino che, ultimamente, John ha deciso di accendere sempre più spesso

-osserva, non guardarlo soltanto, analizzalo, con…-

-Sherlock, ha otto mesi, non sono neppure certo che ti capisca-

sospira John, chiudendo il monitor del computer portatile e poggiandolo al tavolino affianco alla poltrona

-e tu dovresti sapere meglio di me che il gioco è fondamentale nei neonati, non tanto come unica forma di svago, ma come mezzo attraverso cui sviluppare ed allenare capacità logiche e cogni…-

-notte solitaria su google?-

ironizza, sorridendo alla piccola Rosie che, avendo riconosciuto la voce del padre, lo osserva incuriosita lasciando cadere, per la decima volta, il cubo in gomma arancione a terra e sporgendo le paffute mani verso di te, scuoti il capo, senza riuscire a nascondere un sorriso sghembo, chinandoti per sollevarla dal seggiolino

-è da un po’ che Lestrade non ci porta un caso-

borbotta John, tamburellando  le dita contro la superficie del portatile, annuisci, porgendogli la piccola Rosie che si allarga in un ampio quanto solare sorriso sdentato, cominciando a giocare con il bordo del colletto del maglione che indossa il padre

-Sherlock, dove sei stato ieri?-

chiede poi con tono serio, carezzando la nuca della figlia

-so che eri fuori, Mrs Hudson mi ha chiamato e Mycroft…-

-c’è una qualche legge che mi vieta di passeggiare per le vie di Londra a sera tarda?-

controbatti, infossandoti le mani nelle tasche laterali dell’ampia vestaglia da notte che, malgrado siano già le tre del pomeriggio, continui ad indossare con pigrizia, John scuote il capo, sospirando, poggiando le labbra contro la fronte di Rosie

-non fingere di non aver capito cosa intendo-

ti ammonisce, senza distogliere lo sguardo dalla figlia che emette gorgoglii divertiti, contorcendosi in bizzarre pose tra le braccia del padre

-hai rincominciato, non è così?-

non eri preparato a scontrarti con quelle iridi azzurre, striate di sfumature grigie e piccole chiazze nocciola, non eri affatto preparato neppure a quello sguardo carico di apprensione e rabbia, quello sguardo che ti riserva ogni volta che sa che ti stai lentamente distruggendo

-non costringermi a controllare o a chiamare Molly-

soffia e resti in ascolto dell’eco lasciato dalle sue parole, resti in ascolto del ritmo che il tuo cuore ha assunto al suono di quella frase.

È come quel giorno, è lo stesso effetto.
Quando Mrs Hudson ha aperto il cofano dell’auto e ti sei ritrovato a fissare un John visibilmente sorpreso ed adirato, anche oggi, ora, quelle parole hanno lo stesso effetto su di te.
Accelerazione del battito cardiaco, salivazione in diminuzione, tremolio delle mani, un’intensa sensazione di dolore alla bocca dello stomaco, come un colpo ben assestato, ed una conseguente, persistente, fastidiosa ed inspiegabile mancanza d’aria, che degenera poi in un successivo stadio di iperventilazione.
Rispondi all’involontaria reazione deglutendo, spingendo la bile nel fondo dello stomaco, cercando di scogliere tra i succhi gastrici ogni singola sensazione.

-Sherlock?-

la voce di John risuona come un eco distante, ti focalizzi sulle sue parole

-non mi stavi ascoltando-

è una constatazione, sbatti le ciglia, rapidamente, scuotendo il capo, mimando un sorriso plastico che non ha nulla di genuino

-devo portare Rosie dal pediatr…-

-non mi sembra che stia male-

-visite di routine Sherlock, una ogni due mesi-

ti ricorda John, aggiustando il cappotto alle minute spalle della figlia che gorgoglia felice, è ancora strano pensare che quel regalo proviene da Mycroft, annuisci meccanicamente, scivolando alla tua poltrona.

Il suono dei passi di John, che discende lento le scale, ed il rumore della porta principale che si chiude alle sue spalle precedono il tuo ingresso nel palazzo mentale.
Devi concentrarti.
Cosa sai di quella donna, di Diana?
Nulla.
Un nome, qualche indizio irrilevante, è tutto ciò che hai.
Continui a pensare alle sue parole:

“voi consulenti siete abili osservatori”

Quel plurale ha cambiato tutto, è da quel semplice voi che hai deciso di giocare.
Non sei un ingenuo, né tanto meno uno stupido, sai perfettamente di essere l’unico consulente investigativo al mondo e, ricordando lo scambio di battute avvenuto tra di voi, anche Diana ne è a conoscenza e non esistono altri consulenti; non come te.
Ed è ovvio che quel voi si riferisse a qualcuno simile a ciò che sei, ma sei l’unico.

Non c’è più nessun’altro. Non più.
Quella partita è terminata, hai vinto.
Quella partita è finita.
Lo è?
Da quando la paranoia ha una tale influenza su di te?

Ti sei mosso così rapidamente da non esserti neppure reso conto di aver preso un taxi, hai agito sotto l’effetto dell’impulsività ed eccoti qui, di nuovo, di fronte a questa fabbrica dismessa.
Il venerdì è il giorno preferito dai tossicodipendenti, l’ampio spazio è affollato da gruppi di adolescenti alla deriva e adulti ormai consumati, tra tutti quegli occhi rivolti all’insù, tra tutti quei volti distesi dalle droghe, rintracci l’unico che t’interessa.
Avanzi con passo rapido, sicuro, sedendoti al suo fianco aspettando che sia lei a parlare

-non ci è ancora riuscito, non è così?-

forse è il tono piatto, distaccato, con cui parla a farti innervosire, sbuffi, aggiustandoti la vestaglia da notte, sei uscito così avventatamente che non ti sei cambiato

-qual è la difficoltà più grande, analizzarsi o comprendersi?-

assottigli lo sguardo cercando di studiare l’impassibile espressione di totale indifferenza di Diana, inspiri, restando in un testardo mutismo

-deduco che siano entrambi un problema-

ed un cenno, un minimo, quasi invisibile, cenno di sorriso si forma ai lati delle sottili labbra screpolate, percorse da tagli, deve avere l’abitudine a mordersele frequentemente, probabilmente si tratta di un tic nervoso

-vuole che lo aiuti, è qui per questo, mi corregga se sbaglio-

inspiri ed espiri più volte, non hai mai avuto bisogno dell’aiuto di nessuno e, forse, non sei mai riuscito a chiederlo apertamente neppure a John, né alla tua famiglia, non lo hai mai chiesto a nessuno; tranne ad una sola persona, una sola.
Annuisci, socchiudendo gli occhi e senti, distintamente, il respiro di Diana, un soffio che suona quasi divertito, apri gli occhi, certo che l’avresti trovata ridere, ma le sue iridi sono cieli scuri, bui, ed il suo volto è un’imperscrutabile maschera di freddo distacco

-e come pensa di riuscirsi?-

chiedi, scettico

-risponderò nello stesso modo in cui risposi tempo fa, è il mio lavoro, era il mio lavoro, analizzare le persone-

prende un lungo respiro, una pausa, come se con quel gesto volesse scacciare ricordi lontani

-non nello stesso modo in cui è abituato ad osservarle lei, signor Holmes, ma molto più intimo, interiore, introspettivo, mi piaceva definirlo come una lastra all’anima il mio modo di indagare, non avevo bisogno di soffermarmi all’esteriorità, ciò che analizzavo andava ben oltre-

-era una psicologa-

affermi, sicuro di aver compreso il significato nascosto, neppure troppo, dietro quell’ampia introduzione e Diana annuisce, impercettibilmente, scostandosi una ciocca scompigliata dietro l’orecchio, le punte spezzate dei capelli, la scarsa lucentezza del colore, un tempo nocciola tenue, sono solo un rimando sbiadito a ciò che era quella lunga chioma

-lo sono ancora, ho semplicemente smesso di esercitare la professione-

-per quale motivo?-

-irrilevante-

soffia, ma quella lieve, quasi impercettibile, increspatura che dona alla sua voce un tono più acuto, aspro, ti lascia intuire che non sia affatto irrilevante come vorrebbe far credere, non per lei

-l’emozione che non è riuscito ad analizzare a cosa si legava, quale immagine, cosa l’ha scatenata?-

inarchi le sopracciglia, con fare scettico e Diana scuote il capo, sbuffando un mezzo sorriso, un accenno, la consueta lieve increspatura agli angoli della labbra che sei riuscito a scorgere nelle ore che avete trascorso a parlare, non potresti neppure definirlo un vero sorriso, ma probabilmente è quanto di più simile Diana sia in grado di fare

-è chiaro che non si troverebbe qui se non desiderasse riuscire ad analizzarsi, in modo tale da poter scoprire quale segreto nascondo, perché è questo che pensa, vero? Che io sia un asso nella manica di qualcuno, una pedina in una scacchiera-

Dritta al punto, ha compreso perfettamente ogni tuo pensiero, prima ancora che tu potessi esternarlo in alcun modo, deglutisci, nervoso, da quando una persona così comune riesce a renderti agitato?

-riguardava il suo assistente,  John Watson?-

amico, il tuo amico, vorresti correggerla, è da così tanto che non senti più nessuno riferirsi a lui come tuo assistente che non riesci neppure più a sopportare l’aggettivo, palesemente errato, accostato al suo nome

-perdoni, è più opportuno definirlo amico-

se non fossi più che razionale e se la logia e le scienze non fossero le tue migliori armi, nonché alleate, oseresti pensare a quella strana donna come ad una strega, la capacità con cui riesce a prevedere ogni tua singola parola ti destabilizza e disorienta

-è brava nel suo lavoro-

-lo ero-

precisa, mantenendo quell’espressione di rigido disinteresse che stona, incredibilmente, con ogni cosa che conosci della psicoterapia, sai per certo che un volto sereno aiuta ben più di un viso imperscrutabile, ma forse la fredda compostezza di Diana è un recente sviluppo

-allora, signor Holmes, perché non mi parla di ciò che ha fatto oggi?-

sospiri, riluttante all’idea di dover parlare ad una perfetta estranea

-e lei, cosa ha fatto?-

Diana sbuffa un mezzo sorriso acerbo, poggiando la nuca contro il muro alle vostre spalle, scuotendo il capo visibilmente contrariata

-non è così che funziona signor Holmes, deve parlare anche lei, so quanto impegno richieda aprirsi ad un’estranea, ma posso assicurarla che non la costringerò a dire nulla che lei non voglia, inoltre mi aprirò a mia volta in modo tale da scioglierle il tarlo dell’inganno che l’affligge da quando ci siamo incontrati-

Resti a fissarla per alcuni istanti, incerto se procedere o meno, è un nuovo gioco questo, un gioco a cui non sei abituato, che non hai mai praticato, non sai come muoverti, non sei certo di poter prevedere le mosse dell’altro, è una nuova sfida e non puoi tirarti indietro; non è da Sherlock Holmes fuggire.
Inspiri, annuendo meccanicamente

-John doveva portare Rosie dal pediatra, dice che si tratta di visite di routine, non ricordavo che fossero necessarie-

-ne era a conoscenza?-

-a giudicare dal tono di voce con cui John me lo ha ricordato sì, avrei dovuto saperlo-

Diana concentra la sua attenzione sul tuo volto, hai l’impressione che ti stia analizzando, ma infondo questo era il suo lavoro, questo è ciò che fa sin dal primo istante in cui vi siete incontrati

-voleva sapere dov’ero stato, ieri sera, ha il sospetto che stia nuovamente abusando di droghe, non gli ho detto che ha ragione-

-perché?-

è una domanda così stupida, sai perfettamente che conosce già la risposta, sai che non ha bisogno di chiedere, sbuffi, scrollando le spalle

-lo sa-

-ha paura di ferirlo, di deluderlo? Teme che possa perdere la fiducia che ripone in lui?-

annuisci impercettibilmente, è più facile ammettere ciò che provi se non devi dirlo, trattenere ogni sensazione, evitare le emozioni, limitarsi a lasciare che siano gli altri a leggerle, ad esporle, a farlo al posto tuo

-John è a conoscenza del suo problema con le dipendenze, vero? Ed è preoccupato per la sua salute, tiene molto a lei signor Holmes, il vostro è un rapporto intenso che supera, in un certo senso, l’amicizia-

rotei lo sguardo al cielo, annoiato dalle innumerevoli volte in cui hai sentito perfetti sconosciuti insinuare un genere di relazione che supera il consueto affetto, sfociando nel romanticismo, persino nel carnale, se John fosse qui ribadirebbe, con tono seccato, di non essere gay, ti sorprende che Diana abbia commesso un simile errore, ma non hai tempo neppure per formulare una risposta di saccente sarcasmo

-la vostra è una relazione di platonico amore, reciproco rispetto, necessario bisogno, vi completate, ho già visto in passato un simile rapporto, è sorprendentemente profondo ed incredibilmente indistruttibile, non dovrebbe temere di perderlo signor Holmes, neppure la morte riuscirebbe a spezzare una simile unione, mi creda ho visto con i miei stessi occhi quanto le miei parole siano vere-

afferma, c’è sicurezza e amarezza nella sua voce, un’intonazione nuova che non avevi sentito prima, il probabile frutto di ricordi riemersi con lucida vividezza.
Ti sorprendi ad annuire, scuotendo il capo infastidito dalle tue stesse reazioni involontarie, ma quelle parole hanno scavato in te, suscitandoti una nuova sensazione, ti senti compreso, ti senti in perfetto accordo con ogni singola sillaba uscita dalle labbra sottili, rovinate dalle droghe, di Diana.

Non ti eri mai soffermato a riflettere sul rapporto con John, per te era logico, scontato, considerarlo molto di più di un assistente, persino più di un amico.
Era ovvio, è sempre stato ovvio.
Eppure non ti eri mai seduto a rifletterci, non avevi mai cercato di plasmare l’ovvietà dei tuoi sentimenti in parole concrete, in una simile lucida deduzione, probabilmente perché, in fondo, non avresti saputo definire in alcun modo lo stato d’animo, le sensazioni, che la presenza di John suscitano nella tua vita.
Sbuffi un sorriso

-le risponderebbe di non essere gay-

ometti il soggetto, ma sei certo che Diana comprenderà ugualmente

-non lo sto insinuando, la vostra relazione, questo genere di rapporto, supera persino il romanticismo, oltrepassa l’attrazione e l’amore, non riguarda l’orientamento sessuale, è qualcosa di ben più intimo, facilmente fraintendibile e difficilmente comprensibile, è un bene per lei signor Holmes avere un uomo come John al suo fianco, come assistente, come amico, come fratello, come sostenitore-

sentenzia, c’è qualcosa di strano nel sorriso che ti rivolge, è diverso dai soliti, è più ampio, quasi più luminoso, riesci a scorgervi sincerità e genuina empatia, sbatti le palpebre incapace di rispondere a quelle parole.
Le riascolti, mentalmente, conservandole nel tuo palazzo mentale, c’è qualcosa di profondamente vero, qualcosa a cui non avevi mai dato il giusto peso.
Rianalizzi ogni tua azione, da quando hai incontrato John sino a poche ore prima, ora ha tutto più senso, ora è tutto più chiaro, riusciresti persino a definire le giuste emozioni, a chiamarle con i loro nomi, riusciresti a palesare tutto ciò che hai sempre provato, che hai sempre saputo, ma che hai dato per scontato, che hai quasi ignorato.

Leggerezza, come se un peso invisibile, che gravava sulle tue spalle, fossa svanito, permettendoti di ergerti ad una postura migliore che sia in grado di concederti una più corretta osservazione dei fatti, delle azioni, delle conseguenze, delle reazioni.
Ed hai la certezza, la scientifica certezza, che tutto ciò che ora sai John lo ha sempre saputo, che sia sempre stato in grado di definirlo, dev’essere stato difficile gestire una simile consapevolezza, un simile rapporto che per anni è stato menomato, claudicante, privo del tuo appoggio.
Dovresti ringraziarlo, non lo hai mai fatto abbastanza.
Immagazzini le parole, le nuove consapevolezze, ogni singola sillaba nel tuo palazzo mentale e, nel farlo, rintracci una stonatura, una lieve e quasi impercettibile nota sgraziata che risuona come un flebile allarme nei meandri della tua mente.

Dilati lo sguardo, voltandoti rapidamente verso Diana

-chi, chi era?-

domandi con frenesia, devi essere rimasto in silenzio per minuti perché le iridi di Diana sussultano, impercettibilmente, vibrando incerte

-a cosa si riferisce signor Holmes?-

-al motivo per cui ha abbandonato la professione-

esclami con arrogante sfacciatezza, sei certo di aver compreso il nesso, la sottile linea, che unisce i pensieri di Diana, quest’ultima scuote il capo, soffiando uno sbuffo che suona come un’ammissione, la conferma che hai ragione

-ha detto che si sarebbe aperta, lo faccia-

-era solo un uomo instabile affiancato da un uomo ciecamente ammaliato-

non ti basta, quella non è una risposta, racchiude meno indizi di quanti abbia lasciato trapelare nel corso della vostra conversazione, come se, improvvisamente, Diana fosse animata dal timore di rivelare troppo, come se ora preferisse nascondersi dalle sue stesse velate richieste di ascolto

-ha incontrato qualcun altro, oltre John, o ha pensato a qualcun altro?-

l’improvviso cambio di discorso di Diana, ha risposto alla tua domanda, ti ha aggirato, ha risposto senza rispondere, è stata abile glielo concedi, ma la partita è ancora lunga

-signor Holmes, c’è altro riguardo alla sua giornata, qualcosa che non vorrebbe dire?-

qualcosa che non vorresti dire, sebbene sia chiara ormai la figura di John c’è altro, molto, altro di confuso, offuscato nella tua mente che si sta abituando a collegare emozioni e reazioni, ricordi e sentimenti, nel tuo cervello che si sta ancora allenando, adattandosi ad un nuovo modo di vedere, deglutisci a vuoto, distogliendo lo sguardo da quelle iridi scure che continuano a studiarti.

-c’è un’emozione che non è ancora pronto a riconoscere, ad esternare-

afferma certa della corretta diagnosi Diana e ancora, ancora una volta, ha ragione.
Forse c’è altro, ti senti alleggerito, ma non libero, ci sono ancora pesi che gravano su di te, macigni che cerchi di ignorare da un tempo imprecisato, caotiche emozioni che non sai ancora definire

-i sentimenti sono…-

-per l’anima ciò che per il corpo sono le sostanze che ne formano il nutrimento-

ti precede, correggendo la frase che avresti pronunciato, lo fa con una tale rapidità da farti perdere il filo del tuo stesso discorso

-Rudolf Steiner*, reminiscenze universitarie-

un mesto accenno di sorriso ne plasma, appena, i lati della labbra, sbuffi, sollevandoti con un balzo sin troppo frenetico dal materasso gonfiabile

-sono un difetto chimico e sono più che certo che ne sia consapevole anche lei-

affermi, aggiustandoti la vestaglia, mentre gruppi di adolescenti ridacchiano chiassosi in qualche angolo della fabbrica

-non commetta l’errore di demonizzare ogni sentimento come un’imperdonabile debolezza, impari a scinderli, ad accettare quelli giusti o preferisce continuare a restare schiacciato dal contesto emotivo?-

ti fermi, pietrificandoti al suolo.

“Contesto emotivo Sherlock. Ti distrugge. Ogni volta.”

Riecheggia la sua voce, la voce di tua sorella.

Scrolli le spalle, allontanandoti ad ampie falcate

-ha distrutto anche lei-

sentenzi, affrettandoti ad allontanarti dalla tacita conferma di Diana, non hai bisogno che ti risponda, non hai bisogno di voltarti ad osservane la reazione, dal respiro spezzato, mozzatosi a metà, da quelle prime sillabe, segno di parole rotte, incastrate tra le corde vocali, da quel costringersi al mutismo comprendi di avere dedotto con chirurgica precisone.
La tua mente sta cominciando ad adattarsi, rapida, leggere le emozioni altrui non è più così difficile quando ne riesci a comprendere i meccanismi.

Ora, tutto ciò che ti resta da fare, è finire la partita e scoprire se quel gioco, di cui sei vittima da anni, sia finalmente cessato. 





Spazio a fine pagina: 

*Rudolf Steiner --> pedagogo e filosofo, ungherese

Comincio con il ringraziare ogni lettore silenzioso e tutti coloro che hanno aggiunto questo delirio tra i preferiti/ricordati/seguiti.
In questo secondo capitolo mi sono soffermata, in particolar modo, sul rapporto che intercorre tra John e Sherlock, so che non tutti possiamo avere la stessa visione perciò ciò che ho scritto potrebbe non piacere, ma personalmente il loro modo di rapportarsi io non sono mai riuscita ad intenderlo diversamente da ciò che ho scritto. 
Ho inserito, inoltre, piccole informazioni sul personaggio di Diana.
Spero di non avervi annoiata.
Grazie a tutti,
alla prossima. 


 

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Capitolo 3
*** Rebuild ***


Quando sei rincasato, alle sette e quarantadue di sera, Mrs Hudson ti ha elencato una sequela di lamentele su come l’appartamento sia tornato nuovamente in disordine, ricordandoti che i danni alla parete, i fori di proiettile, quei piccoli buchi tra la carta da parati e il cemento, ti verranno addebitati nell’affitto e ti ha poi avvertirti, con un sorriso vagamente inquietante, che stanno tutti aspettando te.
Non hai avuto bisogno di chiederti a chi si stesse riferendo, hai sbuffato, sfilandoti la vestaglia, appendendola all’appendi abiti all’ingresso, tra il silenzio generale.

Lestrade e quella sua incapacità di trattenere sorrisi inappropriati, non è difficile intuire cosa lo diverta, infondo ti sei presentato nella tua peggior tenuta, un paio di pantaloni grigi, sformati, macchiati da chiazze di non ben identificato composto chimico che gli innumerevoli lavaggi non sono ancora riusciti a ripulire, ed una sottile maglietta, bianca, sbiadita, anch’essa reduce da vecchi esperimenti.
Gli occhi di John invece sono troppo concentrati ad esaminare le tue braccia, coperte dalle lunghe maniche della maglietta, a scrutare quell’accenno di barba, mal curata, che ti è cresciuta a contornarti la mascella, e il tuo volto, forzatamente contratto in un’espressione di pacato stupore.

-complimenti, è tutto esattamente come prima-

è la voce di Lestrade a rompere il silenzio, intravedi lo sguardo di Mycroft posarsi su ogni singolo dettaglio presente nella stanza, non è qui per festeggiare, non è qui per congratularsi, è qui per controllare, controllarti.
Forse, forse sono tutti qui per lo stesso motivo.
Annuisci, voltando le spalle ad ognuno di loro, concentrandoti sul piccolo tavolino al centro della cucina, ancora ricolmo di giornali, vecchi di mesi, ampolle in vetro e vetrini sparsi ovunque, non ricordi neppure più che genere di esperimento stessi eseguendo.
Il chiacchiericcio in sottofondo, le voci di Lestrade e John che si confondo tra le risate di Mrs Hudson e il gorgogliare monosillabi sconnessi di Rosie, è un'allegria che non sopporti, una serenità che suona come una melodia incompleta, note disarmoniche, manca qualcosa, un suono, un rumore, manca qualcosa.
Oltrepassi il chiacchierare degli ospiti, oltrepassi il silenzio indagatorio di Mycroft, devi riempire la melodia, devi completarla, devi renderla armonica, afferri il violino, impugnando l’archetto con forza, troppa forza, tanto da far stridere le corde.
Alleggerisci il polso, socchiudendo gli occhi, voltando le spalle alla piccola platea, cercando di completare quell’inspiegabile vuoto, ma neanche le note armoniose, aggraziate, riescono a colmarlo.
Quel vuoto, quella lieve stonatura che pervade la stanza continua a rendere l’aria meno leggera, meno vera.
Ed è una melodia triste quella che risuona, che le tue dita riescono a comporre, una melodia che cattura solo altro denso ed insopportabile silenzio.
I versi di gioia, quei versi che ormai hai imparato a riconoscere, quel particolare mugugnare gioioso di Rosie t’interrompe.

-ciao-

è l’unica voce che riesci a distinguere, ora, chiare, cristallina, una suono in grado di cambiare la melodia.
Non ti volti, non rispondi.

“Non hai vinto, hai perso. Guarda cosa le hai fatto.”

Risuona come un allarme, un monito, un avvertimento e non riesci a voltarti, paralizzato dalla paura.
Battito cardiaco accelerato, scarsità d’ossigeno, tremolio alle mani, salivazione in diminuzione, costante e persistente peso alla bocca dello stomaco sono sintomi di paura, lo sono?
Non ne sei certo, non sei mai stato certo di nessun sentimento, meno che meno dei tuoi.

-Molly, non avresti dovuto-

-oh è solo un pensiero, un augurio per un nuovo inizio-

non la vedi, ma non ne hai bisogni.
Puoi immaginarla, le dita strette tra di loro in una morsa nervosa, lo sguardo impacciato che vaga da un punto all’altro della stanza e un sorriso, un sorriso gentile, cordiale, quel sorriso che solo le persone come lei, buone, forse eccessivamente buone, sanno rivolgere al prossimo

-è perfetto, è l’unico pezzo che mancava-

ridacchia John

-Sherlock-

ti richiama poi e c’è una punta di acerbo rimprovero nel tono pacato che si sforza di mantenere

-potresti anche…-

ti volti, prima che la pazienza di John vacilli ulteriormente, poggi lentamente il violino al nero piedistallo, adagiandovi affianco l’archetto, facendo attenzione a non sollevare lo sguardo ti concentri solo sul piccolo cuscino su cui è ricamata, con minuziosa cura, la bandiera dell’Inghilterra, è un opera manuale, con qualche lieve imperfezione, probabilmente le tremavano le mani mentre lavorava con ago e filo, ma resta comunque una perfetta riproduzione del cuscino che un tempo avevate, andato distrutto nell’esplosione.
Anzi, forse, questo è persino migliore.

-grazie-

è tutto ciò che dici, ignorando volutamente la figura di Molly, la intravedi, affianco a John, indossa un maglione arcobaleno, dal cui colletto emerge una vivace camicetta rossa a pois, i pantaloni in tessuto vellutato, nocciola, e i capelli raccolti in una treccia laterale, spettinati, deve aver terminato il turno al Bart’s e poi, senza passare a casa, si è recata qui.
Intravedi John sorriderle, mentre deposita la piccola Rosie tra le braccia di Molly e, in quel rapido indagare, hai potuto notare come anche lei abbia accuratamente evitato di soffermarsi ad osservarti.
Ne sei quasi sollevato.
Se lo avesse fatto si sarebbe accorta della confusione che vortica frenetica nella tua mente, di un contesto emotivo che non sai definire, a cui non riesci a dare ordine.
Se ne sarebbe accorta, più, meglio, di chiunque altro.
E non saresti stato, poi, in grado di sorreggere lo sguardo rattristato, le iridi nocciola divenire scure, che ti avrebbe rivolto, per empatico dolore.
E non avresti, poi, sopportato d’intravedere tristezza e malinconia plasmargli il volto.

Un tempo era facile, respirare, inspirare ed ignorare.
Mantenere ogni emozione a distanza, crearti un cerchio intangibile, un’area di sicurezza, da cui nessuna emozione poteva né entrare, né uscire.
Un tempo era facile convincersi che i sentimenti fossero un difetto, quasi quanto lo era considerarli irrilevanti, ininfluenti, un disturbo per una mente brillante come la tua.
Ora è tutto diverso.
La tua zona sicura è stata invasa, devastata, brutalmente distrutta.
Ed ogni emozione che a lungo hai trattenuto, chiusa in un vaso dimenticato in qualche stanza inesplorabile del tuo palazzo mentale è riemerse in superfice, Eurus ha scoperchiato il vaso di Pandora ed ora sembra esserci solo caotica confusione e non riesci a definire quanto sia insopportabile, quanto ti senta smarrito in una tempesta che non sai come affrontare.
Ogni ricordo che avevi rimosso, ogni volto che avevi dimenticato, ogni sensazione che hai provato, è tutto nel palazzo mentale.
Ci sono fantasmi che si aggirano come visioni lugubri di una felicità distrutta, che infestano le macerie di un palazzo distrutto dal vento dell’est.

-avresti anche potuto salutare-

il borbottare di John cattura la tua attenzione, sbatti le palpebre, dove sono gli altri?

-sono andati tutti via Sherlock, più di quindici minuti fa-

sbuffa, rispondendo alla tua muta domanda, raccogliendo i giocattoli di Rosie sparsi al suolo

-te ne sei rimasto lì tutto il tempo, a fissare il nulla-

scrolli il capo, sollevandoti lentamente, la piccola Rosie dorme, poggiata al soffice schienale della poltrona del padre, riesce a strapparti un lieve sorriso di tenue serenità

-so quanto possa essere difficile, dopo quanto abbiamo passato, ma vederti così…Sherlock vederti così fa male, a tutti noi-

è la verità, glielo leggi negli occhi, in quello sguardo di rimprovero che John si sforza a mantenere

-non vogliamo restarcene qui a guardarti mentre ti autodistruggi-

esclama poi, in un impeto preoccupato, posizionando la tracolla del borsone color panna alla spalla

-io non voglio e non lo vorrebbe neppure…-

deglutisce, chinando lo sguardo, fa ancora male pronunciare quel nome, fa ancora più male sentirlo

-Mary, se fosse qui ti direbbe che le colpe sono colpi da schivare, che l’unico errore che stai commettendo è martorizzarti e riuscirebbe, in un modo che solo lei conosceva, riuscirebbe a convincerti, ci riusciva sempre, era molto più brava di me anche in quello-

soffia in un sussurro mesto, inspiri, cercando di scacciare il volto pallido di Mary dalla tua memoria, me lei è l’unico fantasma che non riesci mai ad allontanare dalle macerie di ciò che resta del tuo palazzo mentale.
E non dubiti, neppure per un istante, delle parole di John.
A volte, quando il peso che grava sulle tue spalle, che ti mozza il respiro, rendendoti quasi difficile immagazzinare ossigeno nei polmoni, diventa insopportabile le parli, parli a quell’ologramma che si aggira tra le stanze distrutte del palazzo, le chiedi ancora scusa; un’eterna richiesta di perdono

-parla Sherlock, non pretendo che tu ti apra ad una specialista, come ho fatto io, ma parla, non puoi continuare a distruggerti, sei umano, sei stato tu stesso a dirmelo, e come ogni altro essere umano hai bisogno di aprirti con qualcuno e…puoi farlo con me-

usa quel tono, lo stesso che usa con Rosie quando gli tira i capelli o tocca qualcosa che non dovrebbe afferrare, quel tono di paterno ammonimento, perché forse spiegarti come funzionano le emozioni è come spiegare qualcosa di nuovo ad un bambino che non ha mai visto il mondo fuori dalla propria stanza.
Perché forse è questo che sei, un bambino cresciuto precocemente che appreso così tante cose da dimenticarsi di apprendere, prima, le basi della vita umana.
Osservi John chinarsi verso Rosie, accogliendola tra le sue braccia, ti lascia un sorriso sghembo, prima di aprire la porta

-John-

lo richiami, impedendogli di oltrepassare la soglia

-a volte, parlo con lei-

ammetti in un soffio, ti sorride, un sorriso di amare serenità, gioia e tristezza, un’unione che non credevi neppure possibile, che non avevi mai notato e che non saresti stato in grado di notare, prima

-anch’io-

sussurra, carezzando la nuca della figlia, placidamente addormentata, il capo nascosto dietro le spalle del padre

-potremmo parlarle ins…-

-grazie-

lo interrompi, replicando quello stesso sorriso che poco prima di ha rivolto, gli occhi di John vibrano, incerti, sorpresi, illuminandosi poi, seguendo la linea di un sorriso più ampio, meno amaro, annuisce impercettibilmente e non avete bisogno di aggiungere altro.
È un nuovo inizio, una brezza di caldo vento del sud che porta con sé cambiamenti migliori.
È un nuovo inizio e ora sai che puoi, devi, vuoi affidarti a John.
Insieme.
 

-se è vero, dillo-

-dillo tu, dillo tu per primo, dillo come se ci credessi-

Tic, toc. Tic, toc.

-ti amo…ti amo-

Tic, toc. Tic, toc. Tic, toc.

-Molly…-

Tic, toc.

Tempo scaduto.

Strozzi un grido, deglutendo a vuoto, scacciando quell’insopportabile sensazione, rabbia e dolore, paura e terrore.
Era solo un incubo.
Sempre lo stesso, da giorni.
La tua mente non risposa, mai, continua ad elaborare anche quando non osservi.
E nel buio del sonno il tuo subconscio riemerge con travolgente furia, soffocandoti con incubi costanti e tormenti intangibili.
La voce del Diavolo, un timer che cessa di segnare lo scorrere del tempo, un sorriso di cinica perfidia, parole spezzate, l’eco di un’esplosione, fiamme, fumo, vetro, detriti scorrono davanti ai tuoi occhi; accecandoti.
Ed una sola frase, riecheggia, in una stanza che brucia, tra la carcassa di una bara distrutta, un solo metallico oggetto si salva dalle fiamme, riluce la scritta, mentre lento il fuoco divora il legno, annerisce le pareti, infiamma la tua pelle.

Ti strofini il volto con forza, non riuscirai a dormire, non più.
Dal lieve filtrare della luce tra le persiane dischiuse intuisci che sia appena l’alba, non hai orologi con cui poter confutare la teoria perciò ti affidi all’intuito deduttivo, ti attorcigli il lenzuolo, stringendolo tra le mani, in un bozzolo che ti fa sentire un bruco in attesa di metamorfosi.
Strisci lentamente sino al salotto, scosti le sottili tende scure, Londra dorme ancora, solo il camion del panettiere sotto casa ti permette di esser certo della tua iniziale teoria, non può essere più tardi delle sei di mattina.
Ti volti, quasi istintivamente, il cellulare poggiato al tavolo, tra carte stropicciate, foto di casi irrilevanti e bozzoli di proiettili, è esattamente dove l’avevi lasciato la sera prima.
Un impulso ti spinge ad afferrarlo, scorrendo la rubrica dei tuoi pochi contatti, soffermandoti su quel nome.

Molly Hooper.

All’inizio avevi aggiunto patologa, tra parentesi, la prima volta che avevi rubato clandestinamente il suo numero di cellulare dai contatti di Lestrade.
L’avevi ritenuto importante, all’epoca, quando ancora credevi che avresti potuto dimenticarti chi fosse, quando l’unico motivo per cui avevi scelto di memorizzarlo era legato solo al tuo lavoro; otto anni fa.
Aveva ventisette anni, era stata appena assunta al Bart’s, laureata con lode, in poco meno di un mese si era già mostrata più competente di qualsiasi altro patologo che avevi incontrato in precedenza, inoltre nel vostro primo incontro giocò a suo favore quel suo lato ingenuo e disponibile, fu l’unica infatti a non storcere il naso, cacciandoti in malo modo, dall’obitorio quando ti sei presentasti chiedendo delle unghie umane, fresche.
Rise.
Lei rise.
Pensò fosse una battuta, solo dopo capisti che il suo senso dell’umorismo era grottesco, influenzato dal suo lavoro.

Malgrado l’iniziale fraintendimento lei fu l’unica ad assecondare, sempre, le tue richieste.
Nel corso degli anni la dicitura patologa è stata cancellata per lasciare posto al semplice nome, specificare la professione era diventato irrilevante, non era più una patologa, era diventata la patologa.
Ed il solo nome era sufficiente.
Poi, la logica, ti ha suggerito di rispettarla; professionalmente.
E poi, la necessità, ti ha spinto a cercarla, a riporre fiducia in lei quando avevi bisogno di un confidente.
E poi, poi era diventato meccanico, una diretta conseguenza, considerarla molto di più di un volto noto, di un nome, di una professione, un’inconsapevole processo mentale ha agito per te.

Ed un altrettanto inconsapevole processo inconscio che ti spinge, ora, a titubare, a fissare quel nome lampeggiare sullo schermo del cellulare.
Razionalmente sai che sta fisicamente bene.
Eppure senti quasi il bisogno di accertarti che sia reale, che sia davvero ancora viva.
Come se si tratti di una teoria da dover confutare, come se avessi bisogno di prove tangibili, evidenti, dell’effettiva impossibilità di quanto hai appena sognato.
Ne senti l’istinto, ogni volta che ti svegli all’improvviso, ogni volta che quel costante tormento t’impedisce di riposare.
Un impulso a cui ti imponi di non cedere.
Sai che sta bene, fisicamente.
Così come sai che, emotivamente, è distrutta.

Non è stata lei, non ne sarebbe stata in grado, è stato John a dirtelo, un giorno, mentre fuori pioveva, aveva lasciato Rosie da Molly, per poter seguire un caso, un banale omicidio camuffato in un suicidio, con te.
Al ritorno, mentre il contachilometri del taxi girava, dopo aver consegnato i responsi della vostra indagine a Lestrade, lo hai sentito chiedere all’autista di potervi condurre in una via che non era la vostra, una via che tuttavia conoscevi bene anche tu e, nel notare come testardamente tu ti sia rifiutato di scendere dall’auto, ha sbuffato, allontanandosi rapido, facendo ritorno con la piccola Rosie ed il borsone panna.
In quell’occasione ti ha rimproverato, per la prima volta dopo Sherrinford, di essere eccessivamente orgoglioso e ti ha confessato, credendo di non essere ascoltato, quanto Molly si sia premurata di porgerti le sue scuse e di quanta vergogna avesse nel dirlo e di quanta tristezza abbia notato nei suoi occhi nel ricordare.
E hai finto, dissimulando disinteresse, e per tutto il viaggio, mentre salivi le scale, mentre componevi una nuova melodia da suonare per e con Eurus, ha continuato a tormentarti il pensiero di Molly.

Perché, perché chiedere scusa?
Quale colpa può avere, in tutto questo, lei?

Ed è stato in quel momento che hai compreso.
La colpa del suo dolore sei tu, sei sempre stato tu.
Ed è stato in quel momento  che, per la prima volta, dopo Sherrinford, hai cominciato a sentire un peso insostenibile gravarti sulle spalle e i fantasmi dei tuoi errori hanno cominciato ad aleggiare tra le macerie del tuo palazzo mentale.
Ed è stato in quel momento che hai realizzato di essere sempre stato la colpa di ogni cosa.

Stringi il cellulare tra le dita.

È da quel momento che gli incubi hanno cominciato a tormentarti, è da quel giorno che ignori l’impulso, l’istinto, che cerchi di rendere muti gli echi di voci sovrapposte che infestano la tua mente.
Socchiudi gli occhi, sfiorando i cristalli liquidi dello schermo.
Digiti senza soffermarti a riflettere, se lo facessi non proseguiresti oltre.

“sei al Bart’s?”

invii, senza dare tempo alla logica di suggerirti frasi migliori, è solo quando il messaggio è ormai cestinato tra gli inviati che ti rendi conto di aver commesso un potenziale errore, l’ennesimo.
Ti avventi alla porta della camera da letto, gettando le lenzuola al materasso, afferri rapidamente i vestiti, non ti curi neppure troppo della scelta della camicia.
Il tempo di una doccia e sei già fuori, il braccio teso, a mezz’aria, gli angoli inferiori del cappotto mozzi dalla lieve brezza di fine inverno.

-dove la porto signore?-

-al 4 di Brendon Street-

rispondi, lasciandoti scivolare lungo il sedile in finta pelle del taxi, aggiustandoti la sciarpa attorno al collo. 





Spazio a fine pagina: 

Ringrazio tutti i silenziosi lettori, tutti coloro che aggiungono tra le ricordate/preferite/seguite. 
Ringrazio i recensori. 


Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento. 

Grazie a tutti, 
a presto.



 

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