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Lista capitoli: Capitolo 1: *** La città senza sorrisi *** Capitolo 2: *** Angeli all'infermo *** Capitolo 3: *** I colori della libertà *** Capitolo 4: *** La solitudine dell'eroe *** Capitolo 5: *** Destini incrociati ***
Salve
a tutti, gente di EFP. Vi presento il primo capitolo del mio secondo romanzo,
nonché primo che verrà davvero pubblicato! Sono davvero entusiasta, e sono
certo che la maggior parte di voi possa capirmi. Fin da piccolo ho sempre
sognato di diventare un vero scrittore, e adesso finalmente è quasi fatta. Il
romanzo sarà pubblicato nelle prossime settimane, mi piacerebbe però avere un
parere da parte vostra, così ho deciso di pubblicare qualche capitolo alla
volta (non penso più di 4-5). Quindi se vi va, recensite e fatemi sapere cosa
vi piace e cosa no. Grazie davvero per regalare alla mie parole il vostro
tempo.
Buona
lettura.
Capitolo 1
La città senza sorrisi
E
velyn aspettava da così tante ore che
ormai ne aveva perso il conto. Se ne stava lì, tremante, in coda per un pezzo
di felicità. Intanto nuvole minacciose si stavano lentamente avvicinando verso
quella città di inermi prigionieri. Sembrava quasi volessero beffarsi di loro
derubandoli della timida luce delle stelle, la sola che rischiarava quella
triste e fredda notte priva di luna.La
giovane ragazza dai capelli color fuoco cominciò a credere che non sarebbe
rincasata in tempo prima che un prepotente acquazzone le strappasse via anche
quel pizzico di salute rimasto. Magari si sarebbe rivelato l’ultimo ostacolo di
una vita che era stracolma di difficoltà, ma che non si era ancora spenta
grazie a una volontà continuamente in lotta con un corpo bisognoso di morte.
Stavolta però Evelyn non era certa che la sola determinazione sarebbe bastata,
perché mai come in quel momento il suo fisico supplicava una tregua che però
non poteva concedergli. E se gli occhi stanchi imploravano riposo, la mente,
per quanto offuscata, non poteva che ordinare di resistere.Con quel briciolo di lucidità rimasta
osservava il mondo ostile che la circondava e ovunque si voltasse vedeva uomini
molto più grandi di lei; ne scrutava i volti. Per mantenere occupata la mente e
non farsi dominare dal sonno cercava di coglierne l’essenza, di scoprire quale
fosse l’emozione a essi incatenata. Erano visi da cui trasparivano chiaramente
le più diverse sensazioni, ma Evelyn era perfettamente in grado di percepire
anche quell’unica caratteristica che li accomunava davvero. Dietro ogni
smorfia, ogni lacrima, ogni sospiro si celava infatti una prigionia alla quale
tutti gli uomini erano costretti. Ma allora qual era il loro vero volto? Di
certo non quello che mostravano superficialmente…Riusciva bene a comprendere quella situazione
di assoluto disagio, però in quel momento non era capace di esserne pienamente
triste, o quantomeno non era libera di farlo. Tutto ciò che riusciva ad
avvertire chiaramente e senza alcun filtro era una pressante agitazione che
come Evelyn non si riposava mai, e che esplose quando uno degli uomini che
stava scrutando incrociò il suo sguardo. Lei abbassò immediatamente il capo,
cercando invano di reprimere la sua emozione, ma l’ansia non sembrava avere la
benché minima intenzione di abbandonarla. Ora più che mai si sentiva torturata
da essa, come se una voce nella sua testa le assicurasse che tutto sarebbe
andato nel peggiore dei modi.Ma in
fondo le restava solo un’ora di prigionia, solo un’ora prima che fosse
obbligata ad assumere un’altra pillola.Tirò fuori dagli indumenti le tre restanti, scrutandole come fossero il
suo bene più prezioso, sebbene nessuna di queste prevedeva effetti
soddisfacenti. Con i loro diversi colori era semplice essere tratti in inganno,
pensare che potessero rappresentare qualcosa di gustoso e saporito, o comunque
positivo, ma la verità era che quei confetti erano quanto di più crudele e
spaventoso esistesse al mondo… Quando la fila tornò a muoversi, la ragazzina
svuotò il contenuto della sua mano per riporlo nella stessa tasca da cui fu
estratto. Ormai mancava poco a mezzanotte e differentemente da quasi dodici ore
prima, adesso riusciva a vedere perfettamente la meta ma non più la partenza.
La coda umana, seppur lentamente, non smise un attimo di avanzare, finché
finalmente anche l’ultimo uomo davanti a lei andò via. Se ne fosse stata in
grado avrebbe provato un gran sollievo, ma per il momento - o meglio - per gli
ultimi minuti, tutto ciò che poteva avvertire era un’ansia struggente.
“Una pillola, grazie” fece la ragazzina,
senza mettere da parte l’agitazione nemmeno nel tono di voce. L’uomo al di là
del vetro prese uno dei tanti sacchetti a disposizione e lo portò fuori dalla
piccola apertura. Lei allungò la mano per afferrare la busta di carta, ma
proprio quando quell’individuo lasciò la presa per cederla a Evelyn, il
sacchetto cadde a terra. Lei rimase immobile.
“Senti, inutile donna, non siamo qui per
perdere tempo!” minacciò l’anziano e irruente signore alle sue spalle. La
strattonò violentemente di lato, facendola cadere a terra. Il vecchio la
osservò un momento, digrignando i denti parecchio ingialliti, poi le sputò
vicino per accentuare il suo impeto violento, finché finalmente pensò a sé e ai
propri affari. Evelyn, ancora scossa, raccolse il suo pacco velocemente e si
discostò in fretta dalla lunga fila. Estrasse la pillola dal sacchetto, il
quale fu immediatamente gettato al suolo con noncuranza, aggiungendo l’ennesima
goccia a un oceano di rifiuti. Si voltò un attimo indietro nella speranza di
incrociare di nuovo lo sguardo di quell’uomo, ma non ebbe successo. Tornò a
guardare dritto davanti a sé nascondendo la pasticca azzurro cielo nella tasca
vuota, senza uscirne mai la mano e senza smettere di toccarla, per avere la
costante certezza di non perderla. Ripensò subito a quello che le era successo,
al volto del signore oltre il vetro. Al suo sorriso. Era talmente raro trovarne
uno in quella folle città che il solo vederlo la stupì enormemente: in quasi
ventiquattr’ore, quella era stata l’unica occasione in cui non aveva avvertito
alcuna forma di ansietà. E più ci rifletteva sopra, più si rendeva conto di
essere sempre meno vittima di inutili paure, e questo poteva significare solo
che l’effetto della pillola ingerita ore prima stava scemando. Era convinta di
avere a disposizione un po’ più di tempo, ma a quanto le rimaneva una manciata
di minuti per tornare a casa. Aumentò la velocità, mentre una goccia d’acqua le
colpì la guancia. Solamente dopo poche decine di metri anche una leggera brezza
investì il suo corpo, via via più bagnato da una pioggia sempre più insistente.
Il terreno si fece presto fangoso; poteva sentire l’acqua sporca, filtrata
dalla suola consumata, che le inumidiva la pianta dei
piedi. Ma qualunque disagio fisico avesse potuto incontrare, non sarebbe stato
sufficientemente forte da cacciar via quella stupenda quanto indescrivibile
sensazione. Ormai era totalmente svincolata da ogni obbligo e non esisteva
momento migliore di quello, per un cittadino di Distòpia.
Fu in grado di liberare un sorriso, per poi incupirsi un attimo dopo vedendo un
uomo cadere al suolo e morire. La gente non faceva più molto caso ai morti
sull’asfalto, era sempre più frequente trovarne in giro. Evelyn non poteva fare
a meno di riflettervi sopra e rammaricarsene, ma questo la portò immediatamente
ad assaporare la gioia. Poteva imbattersi in qualunque tipo di emozione, senza
essere soffocata da una in particolare. Per quanto potesse sembrare
paradossale, era lieta di aver provato tristezza perché era sua, reale. Era
consapevole però che, come sempre, la libertà durava poco, troppo poco, ma
nonostante ciò per lei era inevitabile non essere contenta per la fugace
indipendenza ritrovata, anche adesso che le mancavano poco più di tre minuti
prima che il suo corpo perdesse per sempre conoscenza.Accelerò ulteriormente il passo, ignorando la
disperazione di una donna che piangeva senza motivo, evitando di avvicinarsi a
un uomo urlante e spaventato anche dalla propria ombra. L’effimera felicità
raggiunta si affievolì presto. Provava pena per la sua gente, commiserazione
per se stessa. Adesso che poteva analizzare con chiarezza ciò che le stava
intorno, non poteva evitare di soffrire. Una lacrima scivolò suo volto, la
quale si confuse con quelle delle nuvole, mentre l’ansia tornò prepotente.
Stavolta però non era per nulla irrazionale, stavolta derivava dal suo vero io.
Odiava quel mondo, detestava la sua vita. Uomini senza arbitrio che per vivere
dipendevano da quegli odiosi confetti colorati, questa era la realtà a cui
erano tutti condannati. Adesso aveva paura. Adesso era confusa. Non era mai
stata soggetta a tante emozioni in una volta, non era più in grado di gestirle.
Sentiva di aver bisogno di quelle pastiglie, avvertiva per la prima volta la
necessità di essere prigioniera.Due
minuti ancora.Forse non sarebbe
arrivata in tempo. Continuò a correre, con fare sempre più frenetico. Una madre
non poteva evitare di ridere istericamente mentre abbracciava la salma del
proprio bambino appena morto. Per Evelyn era chiara la pazzia che la donna era
costretta a manifestare, ma sapeva anche che nel profondo piangeva, sebbene non
potesse in alcun modo mostrare il suo vero volto. Presto, molto probabilmente,
avrebbe raggiunto il figlio, si sarebbero rivisti in un mondo migliore di
quello schifo di città. Un ultimo minuto. La pioggia era diventata
particolarmente aggressiva, sarebbe potuta sfociare in diluvio entro pochissimo
tempo.Aveva appena lasciato la maggior
parte della gente alle sue spalle, ma non riusciva ad abbandonare con loro
anche le sue paure. Chissà, forse la sua vera natura era la codardia. Evelyn
non lo sapeva, non conosceva chi fosse davvero, ma d’altronde cinque minuti non
potevano bastarle per crearsi un’identità. Trecento secondi erano troppo pochi
perché il suo volto potesse conoscere i segni delle sue vere emozioni. Suo
fratello minore l’aspettava da troppe ore, ma i due si erano ripromessi di non
assumere una nuova pillola fino a che non fosse stato davvero necessario.
Avrebbe voluto passare quei pochi attimi di libertà con lui, come faceva
sempre, ma stavolta forse non ne sarebbe stata in grado.Quando finalmente vide la sua modesta baracca
alla fine della strada, una prematura felicità la pervase. Non le importava più
la stanchezza, il dolore fisico, il freddo, i vestiti zuppi. L’unica e sola
cosa che adesso davvero era necessaria si trovava dentro quella casetta.
“Sam!” urlò Evelyn quando spalancò la
porta, volendo illudersi di avercela fatta. Si guardò subito intorno, ma nel
monolocale non c’era anima viva. Qualunque fosse l’emozione positiva sfiorata,
si allontanò immediatamente. Tornò fuori nella disperata ricerca del fratello,
mentre mancavano ormai solo una ventina di secondi. Guardò la felicità nella
sua mano, ma decise di riporla nuovamente in tasca. Estrasse le pasticche della
noia, della rabbia e del rimorso: non aveva altra scelta.
“Sam!” tornò a gridare per un’ultima
volta disperata, sebbene fosse tutto inutile. Pioggia e vento sembravano
essersi alleati per generare una tempesta di quelle che non si vedevano da
tempo. Ma i capelli di Evelyn continuavano ad ardere di rosso anche sotto la
pioggia, la sua determinazione si manteneva ritta anche alla volontà della
corrente d’aria di piegarla. Ecco chi era, ecco qual era il suo vero volto. Era
una ragazza, una giovane donna, ma soprattutto una sorella. Nel suo viso
prendevano forma il coraggio e la risolutezza che forse non possedeva, ma che
si costringeva ad avere. Anche adesso che era libera, quello che mostrava non
rappresentava la sua vera natura, ma almeno stavolta si trattava di una sua
scelta. Per quegli ultimi istanti, la verità che nascondeva il suo sguardo
fiero non sarebbe stata affatto prigionia, ma affetto puro e sincero per un
fratello che amava più di ogni altro individuo. Prese poi fra le tre compresse
sulla sua mano quella blu notte. La guardò pochi istanti con disprezzo,
inghiottendola subito dopo a malincuore, giusto in tempo per non morire.
Violentemente iniziò a divampare in lei il rimpianto di non aver corso più
rapidamente, di non essere arrivata prima. E dov’era finito suo fratello?
Accusava pesantemente se stessa di non aver portato Sam con sé, così che
avrebbero potuto condividere la pillola subito dopo averla ottenuta.Era tutta colpa sua. Sua e di nessun
altro.E mentre il rimorso la
schiacciava senza pietà, lei continuò a chiamare l’unico essere a cui voleva
bene con tutta la voce che aveva in corpo, ma le sue parole non fecero altro
che disperdersi nel vento, così come la sua libertà.
l redivivo custode del cadente
orfanotrofio non sembrava voler proprio imparare la lezione. Dopo ben due
infarti e un lungo periodo in coma, risvegliatosi per non si sa quale
disgrazia, continuava con la sua perfidia gratuita. Adorava prendersi beffa di
quei “mocciosi”, torturarli mentalmente e fisicamente fino a farli piangere.
“Ehi tu, sguattera, qui non hai pulito
bene” sogghignò sadicamente una tiepida mattina, orgoglioso della scia di fango
lasciata dai suoi stessi scarponi. La ragazza voltò immediatamente il capo,
facendo incrociare i propri occhi con quelli dell’uomo. Lo sguardo fiero della
giovane, per niente intimorita da chi si trovava di fronte, vinse perfettamente
lo scontro psicologico con quel vecchio bastardo, che volse il capo in un’altra
direzione. Nonostante non le incutesse soggezione da anni ormai, non aveva mai
smesso di darle fastidio poiché sperava ancora di vederla piangere o cedere. Ma
non accadeva mai. Non davanti ai suoi occhi, perlomeno.
“Ha perfettamente ragione, sono stata
davvero una stupida a non accorgermene!” disse Jenny con una palese quanto
fiera ironia. L’uomo così tornò a scrutarla per un breve momento, grugnì e fece
per andarsene. Ma ecco che quasi finì a terra se non fosse stato
sufficientemente svelto da afferrare la maniglia della porta alla sua destra.
“Mi scusi tanto, non era mia intenzione
farla inciampare sulla scopa!” si mortificò falsamente lei, spacciando il tutto
per un incidente. Lui si risollevò a fatica ma ancora integro, e con un
grugnito più forte di quello precedente si congedò. Jenny sorrise per la
piccola vittoria ottenuta, ma sul suo volto si affievolì presto quel segno di
trionfo. Erano solo attimi di luce in un tunnel destinato a rimanere buio per
sempre. Per quanto potesse compiacersi di quei momenti, restava pur sempre lei
l’orfana. Restava lei quella sola. E Jenny sapeva perfettamente che alla
solitudine piaceva la compagnia. Le piaceva festeggiare, e non mancavano mai
invitati speciali come la tristezza o la disperazione. No, la solitudine non
era mai sola, a differenza della povera Jenny, che rassegnata tornò a pulire
per più di un’ora senza un briciolo di felicità che segnasse il proprio volto.
Quando finì di svolgere i suoi incarichi, la zona assegnatale non sembrò
più la stessa di prima. Era stata rimessa a nuovo, in modo che la signorina
Finnegan non potesse accusarla di nulla. Fra le due donne - perché sì, Jenny
era molto più vicina a essere una donna che una bambina - c’era infatti una
costante rivalità. D’altronde, con i suoi diciassette anni, Jenny era la più
grande degli orfani e l’unica in grado di affrontare gli adulti là dentro.
Spesso e volentieri si ribellava a loro, alle ingiustizie a cui veniva
sottoposta ogni giorno. Stavolta però era convinta che non avrebbero potuto
trovare alcun motivo per punirla, aveva svolto il suo compito in maniera
davvero eccelsa. Posò perciò gli attrezzi da lavoro in quel vecchio armadio dal
precario equilibrio a cui mancava un piede da anni, e si diresse verso il
dormitorio comune. Attraversò il corridoio che si affacciava sull’immenso
cortile vietato agli orfani, e come sempre si voltò per osservarlo. Era un
luogo assolutamente ostile, con una gran sovrabbondanza di alberi talmente
cresciuti che sembravano quasi beffarsi della sua piccolezza. All’infuori di un
piccolo orticello gestito con dedizione della cuoca dell’orfanotrofio, non vi
era alcuna traccia di intervento umano, niente che mitigasse la furia di una
natura fin troppo autonoma e ribelle. Un tempo ne era davvero terrorizzata, le
sembrava costantemente di sentire voci e sussurri, come fossero gli stessi
alberi a discutere misteriosamente fra di loro. Adesso invece era ben diverso,
perché quel luogo rappresentava per lei l’unico legame col mondo esterno,
l’unica speranza di essere un giorno libera. Voleva scoprire cosa ci fosse al
di là di quella spropositata vegetazione, bramava sfidare l’ignoto. Ma sapeva
molto bene che non c’era alcuna via di fuga. Quella in cui aveva sempre vissuto
era una prigione vera e propria e Jenny si sentiva assolutamente disarmata.
Quel giorno, il sole che filtrava dalle
finestre e che disegnava sul pavimento griglie d’ombra sembrava essere meno
luminoso del solito, il che conferiva al pomeriggio un aspetto assai più
deprimente. Jenny strofinò una mano sui suoi capelli scuri per spostare
all’indietro la ciocca che le copriva gli occhi, mentre teneva lo sguardo
basso. Camminava immersa nei suoi pensieri, cercava di trovare costantemente
delle alternative alla sua prigionia, ma non faceva altro che imbattersi
puntualmente in vicoli ciechi. Come sarebbe stato il suo futuro? Per quanto
ancora avrebbe vissuto in quel terribile orfanotrofio? Le domande si
susseguivano una dopo l’altra, le quali si arrestarono solo quando la ragazza
sentì il lamento soffocato di uno dei bambini che cercava di resistere al
pianto, mentre veniva brutalmente trascinato per una mano.
“Le conosci le regole, ragazzino!”
rimproverò la signorina Cooper, l’infermiera dell’orfanotrofio, mentre
obbligava il piccolo a seguirla contro il suo volere.
“Jenny, ti prego aiutami” sussurrò lui
quando le passò vicino.
“Lo lasci andare!” esclamò perciò la
giovane coraggiosa. La donna in bianco la osservò ostile, per poi fermarsi.
“Jennifer, non ti intromettere, o verrai
punita anche tu. Conosci le regole. Nell’istituto della signorina Finnegan non
si piange!” puntualizzò aspramente l’infermiera. Poi si voltò nuovamente e
riprese il cammino obbligando il piccolo a seguirla.
“Perché lo fa? Lo sa cosa gli succederà
se lo porta nel suo ufficio! Lei più di altri dovrebbe pensare alla nostra
incolumità!” esclamò spinta da una momentanea follia. Sapeva chi aveva di
fronte, perciò era ben consapevole che se c’era una cosa che non le importava
era la salvaguardia degli orfani.
Allora la signorina Cooper si arrestò
per una seconda volta, stavolta senza voltarsi.
“Jennifer, farò finta di non aver
sentito, ma che non si ripeta mai più!” minacciò lei.
“Non mi chiami mai più Jennifer, io sono
Jenny” sussurrò allora rabbiosa, stringendo i pugni. La crudele infermiera aprì
la bocca per ribattere, ma non emise alcun suono. La richiuse, modellando
subito dopo un perverso sorriso sul suo viso. Mise la mano libera in tasca, per
poi uscirne un oggetto che la diciassettenne conosceva bene. La giovane
distolse lo sguardo, puntandolo fuori dalla finestra. Gli occhi presto le si
riempirono di lacrime, ma evitò di emettere un qualunque tipo di suono: non si
sarebbe mai perdonata se avesse mostrato all’infermiera anche solo un briciolo
di paura. Lasciò andare la donna mentre il piccolo, rassegnato e deluso, si
fece accompagnare senza opporre più alcuna resistenza. Jenny terminò il suo
pianto in bagno, in compagnia di se stessa. Impiegò parecchi minuti per
riprendere il controllo di sé, ma una volta calmatasi si lavò per bene il viso
e uscì dalla stanza per dirigersi finalmente al dormitorio, dove attese per
tutto il pomeriggio che il piccolo orfano scontasse la sua punizione.
“Stai bene? Cosa ti ha fatto?” domandò preoccupata la più grande dei
minori dopo cena, mortificata per non aver aiutato il piccolo Jason. Questi
mostrò chiaramente le mani a tutti gli orfani. Erano ancora rossi i segni della
violenza che aveva subito, ma nonostante il dolore fosse ancora forte non lo
dimostrò piangendo. Jenny si scusò, ma il bambino le spiegò di non dover essere
rammaricata. Poi la abbracciò e lei quasi si commosse.
“Ehi, vi va se vi racconto qualcosa?”
propose dopo essersi svincolata dalle piccole braccia del bimbo.
“E stavolta scegli tu la fiaba che
preferisci” disse a Jason accarezzandogli la guancia.
Gli orfani mostrarono tutta la loro
gioia e si misero attorno alla ragazza. Per tutti loro rappresentava un punto
di riferimento essenziale, per i più piccoli quasi una madre. Ogni sera
raccontava storie avventurose capaci di portarli fuori da quelle mura e
renderli liberi almeno per alcuni minuti. Nessuno di loro conosceva la libertà,
e tutto quel che potevano fare era crearsene una. Era la loro unica possibilità
di essere vivi, perché in realtà erano molto più simili a dei morti. Erano
angeli privati delle loro ali, costretti a vivere nella prigionia dell’inferno.
Ma Jenny diceva no alle torture che erano costretti a subire, ed era così da
molti anni ormai. Da tempo si era stancata di abbassare il capo ad ogni
ingiustizia per innocenza o paura. Aveva dimostrato che anche gli angeli
giocano d’azzardo, che anche i più puri riescono a combattere. Essere buoni non
voleva dire affatto essere deboli. E finché il corpo glielo permetteva, era ben
lieta di accogliere qualunque punizione pur di dimostrare la sua forza. Cercava
di trasmettere questo con le sue narrazioni, e quando anche l’ultimo bambino si
addormentava, la ragazza faceva quel che ormai da quasi sei anni era solita
fare. Ogni notte, da ben sei anni ormai, saliva sempre al piano superiore e
senza farsi accorgere da nessuno entrava nella stanza dell’orfanotrofio a lei
più cara. Si trattava di una grande biblioteca nata molti anni prima per volere
del signor Finnegan, ma che Jenny aveva scoperto solo quando era una dodicenne.
Non aveva mai sviluppato preferenze precise, qualunque genere letterario le
andava bene, purché leggesse: dalle fiabe inventate ai libri di storia, dai
corsi di lingua alle enciclopedie scientifiche. Notte dopo notte la sua cultura
cresceva e ogni volta che terminava con la sua lettura non poteva evitare di
ringraziare quell’uomo che le aveva donato questa passione. Ricordava
perfettamente il suo volto, nonostante fosse passato tanto tempo da quando
l’aveva incontrato. Purtroppo se ne andò con la stessa velocità con cui si
presentò. Solo tre settimane, ma le migliori di tutta la sua vita. Dopo averlo
sentito leggere ed essere stata catapultata in quelle avventure con un lieto
fine, non aveva potuto resistere alla necessità di imparare a decifrare quelle
lettere che non aveva mai capito cosa significassero, per poter essere in grado
di vivere quelle emozioni anche senza il suo aiuto. Imparò in pochissimo tempo
e da allora non smise mai più di rifugiarsi in quei mondi. Anche quella volta
non dimenticò di esprimere gratitudine per quell’uomo, seppur solo nella
propria mente, ma poi, proprio mentre stava per andarsene, un prepotente rumore
di passi la bloccò.
Perché il vecchio custode aveva deciso
di controllare proprio quel piano a quell’ora? Sentiva il pavimento
scricchiolare e i soliti grugniti che caratterizzavano il signor Foster fin dal
suo primo infarto. Iniziò a canticchiare un’inquietante melodia, mentre
spalancava le porte del piano che stridevano fastidiosamente. Lentamente
indietreggiò nell’angolo più remoto della stanza, portando con sé la lampada
che le aveva illuminato la lettura. Tenerla accesa forse era rischioso, ma se
l’avesse spenta non avrebbe visto a un centimetro di distanza. La biblioteca,
infatti, come tutte le stanze sul lato che non si affacciava in giardino, era
senza finestre, caratteristica che però avrebbe potuto sfruttare a suo
vantaggio. Si sarebbe potuta nascondere fra gli scaffali e confidare nella
parziale cecità del vecchio. Pensandoci bene, però, Jenny sapeva quanto
quest’ultimo avesse un orecchio sviluppato. L’età avanzata e le malattie gli
avevano portato via molte cose, tra cui vista, sensibilità in alcune dita e
forza, ma certamente non udito. Era in grado di sentire uno spillo cadere sul
pavimento a molti metri di distanza e per la ragazza questo era davvero un
problema, giacché a dividerla da lui vi era solo una sottile parete.
“Dove sei, piccolo stronzetto?” disse
poi acidamente lui, ma sufficientemente forte perché anche Jenny lo sentisse.
Stronzetto? Non si era mai rivolta a lei in questo modo. E poi perché
utilizzare il maschile? Forse non stava cercando lei, ma allora che ci faceva
là? Ad ogni modo, se l’avesse trovata in quella stanza sarebbero stati problemi
seri, che stesse cercando lei o meno. A questo punto era davvero confusa e
intimorita più che mai, non tanto per quel che le avrebbe fatto la signorina
Finnegan, quanto di dover dire per sempre addio al suo amato rifugio. Adesso il
custode era entrato nell’ultima stanza prima della biblioteca, proprio davanti
a quest’ultima. Non sapendo cosa fare si nascose sotto la scrivania, per
precauzione. Teneva il lume ancora acceso e pericolosamente vicino al corpo, ma
in quello spazio ristretto non poteva fare di meglio. Cercò di utilizzare al
massimo quei pochi secondi per trovare una soluzione alternativa a quella che
aveva trovato. Forse avrebbe potuto distrarre il custode in qualche modo, ma
non aveva idea di come fare. Allora ripensò alle piantine dell’edificio che
aveva trovato casualmente qualche mese prima nell’ufficio della signora
Finnegan, cercando di focalizzarle al meglio nella propria mente. Rapidamente
sempre maggiori dettagli si delinearono, finché non ricordò un particolare
fondamentale. Uscì di scatto dal nascondiglio e diresse il proprio sguardo
verso l’alto. Impresse nella mente l’immagine che aveva davanti e spense il
lume. Senza fare rumore salì velocemente sopra uno degli scaffali poggiati su
una parete e lo utilizzò a mo’ di scala, con estrema scioltezza nonostante
l’ambiente immerso nell’oscurità. Arrivata in cima, sapeva perfettamente che le
restavano pochi secondi, ma ormai si sentiva stranamente calma, dominata da una
risolutezza del tutto irrazionale: in qualche modo era convinta che ce
l’avrebbe fatta. Spostò un pannello del vecchio controsoffitto e, cercando di
distribuire nel miglior modo possibile il proprio peso, si nascose nell’incavo,
chiudendo appena in tempo l’apertura dalla quale era agilmente entrata. Jenny
restò immobile, non muovendo neanche un muscolo. Il custode controllò
attentamente la stanza e senza dubbio aveva dato un’occhiata anche sotto la
scrivania.
“Quella megera i topi ce li ha nel
cervello!” disse poi tra sé e sé. Jenny allora capì finalmente cosa avesse
portato il vecchio Foster in quel piano a ispezionare stanza dopo stanza, e non
era a causa sua. La signorina Finnegan, donna altezzosa e severa, aveva una
sola paura e questa erano i ratti. Probabilmente aveva sentito o visto chissà
cosa, obbligando il suo custode a setacciare il piano in cerca del roditore
sospetto. Seppur involontariamente, la sua più grande nemica era riuscita
ancora una volta a crearle problemi. Ma anche in quest’occasione Jenny riuscì a
non uscirne sconfitta, e quando il vecchio si allontanò dalla biblioteca ecco
che di nuovo tornò la luce. Aveva vinto di nuovo e questo la rendeva felice,
seppur per poco. Poi passò dalla posizione supina a quella prona, poggiandosi
sul telaio del controsoffitto con molta cautela, sperando che questi reggesse
il suo peso. Con molta più difficolta dell’inizio rimosse il pannello mobile,
ma non scese subito. Se n’era accorta solo adesso, ma l’interno
dell’intercapedine era vagamente illuminato. Non capiva da quale stanza potesse
provenire l’illuminazione, nessuno nell’orfanotrofio sarebbe mai rimasto alzato
fino a quell’ora. La curiosità di Jenny, unita alla sua sete di conoscenza, la
spinse a gattonare fino alla verità. Ogni tanto emetteva versi di disgusto per
aver toccato qualcosa di viscido o schifoso, sperando che non fosse qualche
orrendo animale. Avvertiva sotto le proprie mani polveri e chissà quali altre
sostanze, ma non per questo si arrestò. Proseguiva molto lentamente, nella
costante paura di venir giù. D’altronde, se avesse scaricato il suo peso
all’infuori della griglia di base che reggeva l’intera struttura, sarebbe
certamente caduta. Realizzò solo dopo alcuni passi che stava gattonando ben
oltre il muro della biblioteca, nonostante quella flebile luce non desse una
chiara percezione della grandezza di quello spazio. Ma com’era possibile? Poi
finalmente raggiunse l’origine del raggio luminoso e con un gran batticuore si
avvicinò al foro da dove usciva quel bagliore, e ciò che vide la lasciò senza
fiato.
n altro
sbadiglio. Ormai ne aveva perso il conto, ma Evelyn non riusciva proprio a
evitarli. Anche il secondo giorno di ricerche stava volgendo al termine, eppure
non era ancora riuscita a trovare la benché minima traccia del fratello. Non
aveva idea di dove potesse essersi cacciato,
ma spesso questa sua preoccupazione passava, almeno momentaneamente, in secondo
piano. Finiva sempre per coricarsi su ogni vecchia panchina in cui s’imbatteva
lungo la strada, per quanto essa potesse essere scomoda o danneggiata; si
seccava troppo a muovere anche un singolo passo e ogni scusa era buona per
riposarsi e smettere di pensare per un po’ ai suoi problemi. Forse non era
stata una grande idea conservare per ultima la pillola della noia, ma Evelyn
pensava e sperava che avrebbe trovato il fratello prima che fosse stata
obbligata ad assumere questa terza pasticca. Oltre alle tre di cui disponeva da
tempo, le sarebbe rimasta solo quella della felicità, ma desiderava
ardentemente condividerla con il piccolo Sam. Dunque, spinta da questo forte
desiderio, si rialzò per riprendere immediatamente le ricerche in mezzo a
quella città del terrore. Senza smettere un secondo di lottare con
le proprie noie, giunse nello stesso luogo in cui aveva acquistato la pasticca
azzurro cielo. Tutto era sparito, sia la bancarella che l’infinita confusione
che questa aveva causato. L’elargizione si era prolungata per tre giorni
abbondanti, ma certamente un evento del genere non si sarebbe ripetuto tanto
presto. Evelyn si chiese se tutti i cittadini avessero ottenuto la pasticca
della felicità, e soprattutto se tutti l’avessero già utilizzata. Ancora non
aveva incontrato nessuno che sembrasse minimamente felice, ma la sua speranza
continuava a resistere, perché avrebbe preferito di gran lunga parlare con un
uomo soggiogato da un’emozione positiva piuttosto che con gente come quella
incontrata fino ad allora. Superata anche la piazza, non trovando alcun sorriso
nei volti di nessuno, continuò a chiedere informazioni a chi le sembrava
quantomeno più calmo, evitando coloro che urlavano senza motivo o correvano
forsennatamente.
“Mi scusi
tanto signora, ha per caso visto passare in questi giorni un bambino di circa
sette anni?” domandò Evelyn avvicinandosi alla donna.
“Fermati! Non
fare un altro passo! Sei sporca, non devi toccarmi!” le urlò lei, formando
subito una smorfia di ribrezzo sul viso. La giovane allora si scusò, mentre uno
sbadiglio storpiava le sue parole.
“No!” gridò
lei ancora più forte, dapprima allontanandosi di qualche passo e poi raccogliendosi
in se stessa a mo’ di uovo, per proteggersi con le braccia da chissà
cosa.
“Ormai i tuoi
germi schifosi staranno camminando sulla mia pelle!” piagnucolò disperata e
visibilmente tremante. Poi ecco che urlò una terza volta, lanciandosi in
maniera estremamente rapida sopra una cassa di legno, ora più spaventata che
mai.
“Ammazzalo!
Ti prego ammazzalo! È orrendo!” fece lei, non smettendo di osservare il piccolo
scarafaggio muoversi là vicino.
“Se lo
uccido, mi ascolterà?” domandò cercando di trovare un compromesso. La donna
accettò senza molta convinzione, pregando la ragazza di sbrigarsi. Lei, con
molta calma e spossatezza, sollevò il piede sopra al piccolo insetto e lo fece
fuori. Al secco rumore che provocò il corpo calpestato dell’animale, l’intimorita
signora arricciò le narici, rovesciò le labbra e tirò fuori la lingua,
allargando la bocca come per espellerne qualcosa. E infatti fu esattamente
così, quando vide ciò che restava dello scarafaggio. Si voltò indietro e sembrò
vomitare l’anima. Era ormai ovvio che la pillola del disgusto facesse
particolarmente effetto su di lei, come se accentuasse caratteristiche che la
donna già possedeva. Era ripugnata, infatti, dalle cose più stupide, come
sporcizia o normali comportamenti. Ma quelli non erano problemi di Evelyn,
poiché il suo unico pensiero era di riuscire a strappare un qualche tipo
d’informazione, anche se dubitava di poterla ricevere da colei che ancora le
tremava davanti. La ragazza infatti non si sbagliò, perché la donna dichiarò di
non aver mai visto alcun bambino da così tanto tempo che faticava a ricordare.
A quel punto Evelyn si congedò senza pronunciare nemmeno una parola, mentre
anche il sonno si faceva largo dentro di sé. Tra le troppe ore sveglia e la
noia che la induceva a voler oziare solamente, il bisogno di dormire si fece
sempre più prepotente. Continuava ad avanzare barcollante, con gli occhi che
tendevano a chiudersi. Teneva poggiato il palmo della mano sinistra sulle
pareti che aveva a fianco, con i capelli sugli occhi che accentuavano
ulteriormente le scarse visibilità e attenzione che aveva in quel momento. Le
restavano solo tre ore, d’altronde la pillola della noia aveva una durata di
solo mezza giornata. Si diede un paio di schiaffi sulla guancia e vagamente
riacquisì un briciolo di lucidità in più.
“Ha visto…
mio fratello? …Un bambino…” cercò di formulare lei a un uomo che sembrava
stranamente pacato. Questi sollevò il capo, poi si avvicinò alla giovane
davanti a lui. Di scatto la afferrò violentemente, avvicinando il suo orecchio
alla propria bocca, cosa che portò Evelyn nuovamente alla realtà.
“Ci stanno
osservando” sussurrò lui.
“Osservando?
Chi?”
“Tutti! Ogni
cosa qui ci controlla. Siamo tutti sotto il suo potere, non capisci?” continuò
abbassando ulteriormente la voce e inarcando la schiena.
“Sotto il
potere di chi? E perché crede una cosa del genere?” chiese allora la ragazza,
sebbene gliene fregasse ben poco.
“Perché è
così! Guarda, anche quel corvo ci osserva!” disse lui indicando l’innocente
volatile che sembrava quasi osservare la scena da sopra un tetto.
“Le riferirà
ogni cosa. Nascondiamoci, presto!” urlò allora lui, prendendo per il polso la
giovane. Quest’ultima però si divincolò presto dalla presa, ma l’uomo non tentò
di convincerla a seguirla. Si limitò a fuggire senza mai voltarsi. Pazzia? No,
non era quella. Era qualcosa di molto vicino, ma allo stesso tempo di parecchio
diverso. Quell’uomo era infatti condannato a vivere nella paranoia per otto
ore. Secondo Evelyn quella era una delle pasticche più temibili, perché in
grado di portare a più emozioni negative. Era una delle poche capace di fare
una cosa simile, perché un uomo paranoico era indotto ad avere una paura
irrazionale, la quale è spesso capace di renderlo rabbioso e violento.
Ricordava bene quando l’aveva divisa con Sam e quasi si erano uccisi. Se quella
volta avessero ingerito una pasticca a testa, senza dubbio non sarebbero
sopravvissuti. Ingerendone metà, infatti, si dimezzava anche la durata degli
effetti, cosa che li aveva fortunatamente salvati. Ricordò quando per la prima
volta si spartirono la falsità, e specialmente il rischio a cui andarono
incontro. Evelyn allora assunse un paio di minuti prima di Sam la pillola e
quando consegnò al fratello ciò che ne restava, questa non ebbe conseguenze e
per poco il piccolo non superò i cinque minuti di libertà che gli spettavano.
Da quell’esperienza capirono che potevano condividere il potere di un confetto
solo se si fosse assunto pochi istanti dopo averlo tagliato in due e ancora,
probabilmente, rimanevano i soli a conoscere questa loro bizzarra
caratteristica. D’altronde, a Distòpia non
esistevano famiglie. Non vi era alcuna possibilità che nascessero nuclei
familiari; tuttalpiù si poteva trovare qualche occasionale caso di donna in
attesa, vittima di uomini spinti dal desiderio carnale. Tutti pensavano per sé,
nessuno condivideva nulla di propria volontà. E proprio per questo Evelyn aveva
necessità di ritrovare immediatamente il piccolo Sam, per essere felici
insieme. Nonostante questa sua priorità, però, fu inevitabile concedersi un
minimo di riposo dopo essere riuscita a evitarlo ormai da parecchi minuti. Si
seccava troppo a proseguire ancora, per lei era una gran scocciatura anche
muovere un solo muscolo. Le sarebbe tanto piaciuto stare comodamente in quella
baracca che chiamava casa, stando agiatamente sdraiata a non fare nulla che non
fosse riposare o mangiare. Sapeva però molto bene che doveva riuscire a
combattere con tutte le sue forze quell’emozione tanto ostile, anche se si
volle illudere che pochi minuti di sonno non avrebbero interferito con le sue
ricerche. Si sdraiò sull’ennesima panchina e, noncurante del mondo avverso che
la circondava, si addormentò. Entrò nell’unico luogo in cui poteva essere se
stessa, in cui poteva essere libera. Non era però in grado di capire cosa
accadesse all’infuori della dimensione onirica, non poteva rendersi conto del
tempo prezioso che le scivolava dalle dita. Senza saperlo, le restava solo
un’ora quando fu strappata via dal sonno da quello che sembrava il lamento di
un bambino. Evelyn si sollevò bruscamente dalla panchina, per poi gridare il
nome del fratellino. La preoccupazione la colpì, la speranza si fece largo
dentro di lei. Vide poi una donna molto minuta e dalla voce sottile correrle
accanto mentre piangeva disperata, rendendosi immediatamente conto che non
fosse chi si aspettava. Poggiò la mano destra sul petto, sentendo il cuore
battere. Credeva per un attimo di aver trovato Sam, ma a quanto pareva era
stato soltanto un ennesimo buco nell’acqua. Fece un sospiro profondo, poi comprese
quel che le era appena accaduto: aveva avvertito altre emozioni. Che stesse già
scadendo il suo tempo? Riprese a camminare in fretta, ma pochi secondi dopo
sentì un forte mal di testa che la fece cadere a terra. Tornò la voglia di
dormire, annunciata da un nuovo grande sbadiglio. Cercò di rimettersi in piedi,
sebbene avesse preferito rimanere a terra e continuare a riposarsi. Perché era
tornata la noia a dominarla? Evelyn non capiva cosa stesse succedendo, ma cercò
di ragionarci su, mantenendo l’immobilità. L’unica idea che le venne in mente
era che forse il risveglio brusco aveva contribuito ad annullare
momentaneamente la prigionia a cui era obbligata. Ma qualunque fosse la vera
risposta, quel che era certo era che adesso si ritrovava al punto di partenza,
e come se non bastasse con molto meno tempo a disposizione. Riprese il cammino
che non poteva più posticipare e in una decina di minuti trovò una situazione
non molto diversa da quella a cui si era imbattuta fino ad allora. Uomini
soggiogati dalle più orrende emozioni non le diedero alcun aiuto e sempre sola
dovette continuare una ricerca che non sembrava destinata ad avere un buon
esito. Aveva setacciato ogni angolo della città ormai, finché non raggiunse il
Confine. Poche volte si era spinta fin laggiù e nonostante non tornasse in
quella zona da molto tempo, tutto era rimasto come se lo ricordava. L’immenso
muro di pietra divideva il lato est, quello povero e immerso nelle peggiori
emozioni, da quello ovest, ricco e perennemente felice. Questo almeno era ciò
che aveva sempre sentito dire. E se Sam si fosse diretto in qualche modo oltre
il Confine? Ma perché avrebbe dovuto farlo? No, non era una cosa possibile.
Evelyn si rendeva conto di quanto fossero stupide le sue supposizioni, ma non
aveva altro modo di giustificare la scomparsa del fratello. Inoltre, se la sua
folle idea fosse stata vera, suo fratello avrebbe dovuto necessariamente
passare per la spaventosa foresta che collegava gli ingressi delle due città.
Non vi era altro passaggio, nessun portone, nessun ponte che congiungesse le
due parti in maniera immediata. Evelyn allora diresse il proprio guardo verso
la sovrastante collina che dominava la zona boscosa sottostante. Era così alta
che le nuvole ne coprivano sempre l’estrema sommità. Si trovava a sud, e dalla
sua posizione assolutamente centrale rispetto al Confine, sembrava osservasse
le due città. La ragazza continuò a fissarla per pochi secondi ancora, poi
avvertì la noia scemare velocemente, fino a scomparire del tutto. Ormai era
inutile cercare in cinque minuti chi non aveva trovato in poco più di due
giorni. Fece scivolare la schiena sull’imponente parete, per poi sedersi per
terra. Rimase ad ascoltare il silenzio, cercando di trovare la tranquillità in
un momento buio come quello. Aveva cinque minuti per essere libera e non voleva
assolutamente sprecare quel poco tempo che aveva a disposizione. In quella zona
tutto era calmo, deserto. Assolutamente perfetto. Dopo aver trascorso molto
tempo costretta a subire gli attacchi di quegli uomini privi di arbitrio, tutto
quello di cui aveva bisogno adesso era la pace. Cercò di viverla appieno,
riuscendoci per due minuti scarsi.
“Non si vede
spesso una ragazzina in questa zona” disse una voce che spezzò il silenzio.
Evelyn sussultò, rimettendosi subito in piedi e rinunciando alla tranquillità
in cui si era appena rifugiata.
“Ma lei è…?”
chiese sorpresa all’individuo che si avvicinò lentamente.
“Sì. Sono
l’uomo che ha distribuito la pillola della felicità in città” confermò lui,
sebbene Evelyn ricordasse perfettamente il suo volto. Da quando aveva
incontrato il suo sorriso, lo aveva pensato spesso, chiedendosi chi fosse e
perché avesse aiutato i distopici. Avrebbe tanto voluto chiederglielo, ma
adesso che era proprio di fronte a lei le parole non riuscivano a fluire.
“Tutto bene?”
“Ecco… Non…
Non mi aspettavo di rivederla, a dire il vero” ammise lei goffamente.
“Beh, nemmeno
io pensavo che sarei rimasto qui in città tanto a lungo, a essere sincero”
“Cosa vuole
dire? E poi… Perché ha deciso di venire a Distòpia e
a donarci tutte quelle pillole se non abita qui?”
“Mi spiace,
ma non posso dirti nulla. Non dovrei essere nemmeno qui in questo
momento”
“Non
capisco…”
“Non devi
capire, non adesso almeno” disse lui, mentre si metteva una mano in tasca per
uscirne qualcosa.
“E questa?”
chiese la piccola osservando attentamente la sfera bianca.
“Questa è la
tua più grande opportunità” iniziò lui.
“Questa è la
migliore in assoluto fra le pillole, il bene più prezioso che tu avrai mai: la
libertà”
A
quell’ultima parola la ragazza sgranò gli occhi, esterrefatta. Il cuore
cominciò a battere più violentemente che mai nel sentire quelle che per lei
erano le sette lettere più belle del mondo.
“Che cosa
vuol dire? Mangio quella e… Starò ben ventiquattr’ora libera da ogni emozione?”
“Non
esattamente. Vedi, una volta ottenuta la libertà, non si torna indietro”
“Questo
significa che…?”
“Sì. Saresti
libera per sempre”
“Per… Per
sempre? Sarei davvero libera per tutta la vita?” domandò lei attonita,
afferrando la pillola bianca.
“Sì, certo.
Tu sei ancora molto giovane, puoi goderti la libertà fino in fondo, in ogni sua
sfumatura, in ogni suo colore. E puoi salvare questa città” disse lui con tono
particolarmente serio. Evelyn rimase perplessa dall’ultima frase. Salvare la
città? Da cosa? Non fece nemmeno in tempo a chiederlo che lui tornò a parlare.
“Non ti
rimane molto tempo. E nemmeno a me. I tuoi cinque minuti stanno scadendo, non
perdere tempo e mandala giù. Sono certo che ce la farai”
“Ma…” iniziò
Evelyn in dubbio, osservando la sfera sulla sua mano. Si sentiva catturata
dalla perfezione nella forma e nel colore di quella sfera, senza la minima
macchia o impurità. Era bellissima, almeno quanto la libertà. Poi alzò lo
sguardo per dire all’uomo qualcosa che neanche lei sapeva di preciso, ma notò
che questi se ne fosse già andato. Non lo aveva nemmeno sentito allontanarsi,
forse perché troppo concentrata sui suoi stessi pensieri. A quel punto non
poteva fare altro che seguire il consiglio di quel signore, ma si volle
prendere qualche altro momento prima di andare fino in fondo con questa
decisione. Non poteva evitare di ricordare cosa le fosse accaduto pochi giorni
prima, quando le emozioni avevano preso troppo violentemente il controllo sulla
sua persona. Aveva paura, forse troppa, e per quanto avesse sognato
un’occasione del genere, averla di fronte la metteva decisamente in difficoltà.
Qualunque cittadino di Distòpia avrebbe
sacrificato qualunque cosa per ottenere una ricompensa del genere, eppure quel
privilegio spettava solo a lei. Ma sarebbe stata in grado di sfruttarla
davvero? Ce l’avrebbe fatta a sopravvivere da libera in un mondo dominato da
prigionieri? Sarebbe stata degna di un dono simile? L’uomo con cui aveva
parlato ne era convinto, in qualche modo sapeva che Evelyn sarebbe riuscita a
vedere perfettamente i mille colori della libertà. Il problema era che quella a
esserne in dubbio era Evelyn stessa. Ma c’era qualcosa che andava oltre ogni
suo timore, e questo era suo fratello. Doveva trovarlo, ed era perfettamente
consapevole che se fosse rimasta legata alla prigionia delle pillole non ce
l’avrebbe mai fatta. Perciò, proprio sul filo di lana, ingoiò senza neppure
provare a masticare. Quello che per chiunque si sarebbe trattato di un gesto
egoistico, per lei rappresentò un atto d’amore. Cercò di ricordare in ogni
dettaglio il volto di Sam, mentre attendeva con paura gli effetti della
pillola. Nulla sembrava mutare, né fuori né dentro di lei. Però non era morta.
Che fosse davvero già libera? E poi accadde. Avvertì un
nodo alla gola e tossì un paio di volte. Percepì che l’ossigeno avesse qualche
difficoltà a filtrare, così cominciò a premere le dita sul collo. Tossì
nuovamente, con un colpo secco. Sembrava che qualcosa ostruisse il passaggio
dell’aria, e in pochi attimi iniziò a mancarle il respiro. Provò a tossire
nuovamente, ma questa volta non riuscì a sprigionare alcun suono. Nulla
riusciva più a uscire dalla sua bocca, né tanto meno a entrare. Le mancò del
tutto il respiro, così dispose le mani attorno al collo come per cercare di
estrarne fuori qualcosa. Il viso divenne paonazzo, le forze cominciarono presto
ad abbandonarla. Si accasciò a suolo, iniziando a piangere ma senza emettere
nessun tipo di rumore. Sbatteva i pugni sul terreno per la disperazione,
tenendo gli occhi chiusi. Credette seriamente che sarebbe morta entro pochi
secondi. Poi prese prepotentemente a tossire e un’ondata d’aria riempì i suoi
polmoni. Pian piano tornò a respirare normalmente, senza però riuscire a smettere
di piangere e tremare se non prima di qualche minuto. Continuò col prendere
grandi boccate d’aria, finché il suo cuore tornò a battere a ritmi regolari.
Finalmente poi, quando si calmò, fu in grado di analizzare con lucidità ciò che
le era accaduto. Nessuna pillola aveva mai avuto un effetto del genere sul suo
corpo, ma se questo era il prezzo della libertà, era ben disposta ad
accettarlo, anche ogni giorno. In quel momento non capiva ancora cosa provasse
davvero, troppe emozioni volevano emergere contemporaneamente. Era libera,
quindi sarebbe dovuta essere felice. Ma allora perché non era così? Il pensiero
di essere ancora sola combatteva con la gioia di essere rinata. Entrambe le
emozioni volevano coesistere, ma questo confondeva soltanto la povera Evelyn.
Poi ecco che, da un momento all’altro, una fra le due vinse sull’altra. Capì
che non c’era più motivo di essere triste, finalmente disponeva del mezzo
migliore per trovare suo fratello. Poteva agire come preferiva, non essere
soggiogata da nessun sentimento che non le appartenesse davvero. Adesso che non
era condizionata da niente poteva svolgere le ricerche senza alcun ostacolo.
Era libera. Libera davvero. Ma proprio quando si convinse che tutto fosse
andato nel migliore dei modi, che finalmente la sua vita potesse prendere una
piega positiva, uno spavento improvviso le fece riacquistare
quell’insopportabile sensazione di paura e smarrimento. Che cosa
poteva essere stato stavolta? Aspettò pochi secondi finché il battito cardiaco
tornò nuovamente alla normalità. Si rimise cautamente in piedi e con fare molto
pacato si avvicinò a quella vecchia casa diroccata da cui era provenuto il gran
tonfo.
enny fissava l’orrenda poltiglia nella sua
ciotola senza muovere un muscolo. Sembrava incantata dalla sequenza casuale di
bollicine di quel pasto disgustoso e per nulla omogeneo, ma in realtà la sua
mente era concentrata su ben altro.
“Vuoi rimanere davanti a me tutto il
giorno, stupida ragazzina?” domandò acidamente la cuoca ultrasessantenne,
riportando l’orfana alla realtà. Questa non rispose, si limitò semplicemente a
spostarsi dirigendosi verso il solito tavolo.
“Piccoli ingrati… Non solo preparo loro un
cibo da leccarsi i baffi, ma per giunta si lamentano!” sbuffò lei, cercando di
nascondere un sorriso compiaciuto. Neanche la cuoca, infatti, si discostava dai
canoni del tipico adulto là dentro. Anche lei si divertiva a torturarli, ma
mentre il custode o l’infermiera erano nemici che potevano essere in qualche
modo evitati, lo stesso non valeva per quella grassa e leggermente barbuta
donna. I poveri orfani, infatti, non potevano evitare di mangiare e ogni giorno
erano costretti a nutrirsi di pasti orrendi, puntualmente modificati dalla
cuoca per essere difficili da mandar giù. Stavolta si era divertita aggiungendo
una spropositata quantità di sale, rendendo praticamente immangiabile quella
brodaglia già stomachevole di suo. Eppure la cuoca non era affatto inesperta,
perché quando preparava i pasti per i suoi colleghi si vedeva chiaramente come
fosse abile ai fornelli. Riusciva a fondere perfettamente in un unico squisito
pasto tutto ciò che coltivava nel suo orticello, dove passava più tempo che in
cucina. Peccato che questo trattamento non fosse riservato agli orfani… E tutto
questo perché? Per pura malvagità, la stessa che avvolgeva il cuore di chiunque
lavorasse là dentro.
“Jenny, è scomparso anche Steve” disse un
bambino sedutosi nello stesso tavolo della ragazza.
“Da quant’è che non si fa vedere?” chiese
allora Jenny con aria un po’ assente, giocando senza nemmeno rendersene conto
col braccialetto di gomma che teneva al polso.
“Ieri mattina è stato portato nell’ufficio
della signorina Finnegan senza alcun motivo e non è più tornato” Jenny abbassò
il capo pensierosa. Tutti i bambini là dentro si erano sempre preoccupati di
cosa capitasse a quelli che sparivano. La ragazza più grande era consapevole di
cosa succedesse, sapeva che era un nuovo inizio per quei poveri angeli, il solo
modo per spezzare le catene della prigionia e permettergli nuovamente di
volare. Aveva detto tante volte ai più piccoli che l’adozione probabilmente
rappresentava per loro l’unica possibilità di essere liberi, ma gli orfani non
potevano evitare di preoccuparsi ugualmente. Erano convinti che tutti gli
adulti fossero malvagi, esattamente come quelli che lavoravano in quell’inferno
di orfanotrofio. Per quanto si volessero fidare di Jenny, il loro timore era
comunque grande e avrebbero preferito rimanere per sempre là con la loro
protettrice che da soli in chissà quale terribile famiglia. La ragazza però
sapeva che non tutti gli uomini erano come quelli dell’istituto. Ricordava
benissimo quando la signorina Finnegan si ammalò gravemente e fu costretta a
lasciare l’antico ospedale per recarsi in uno vero e funzionante. Per quasi tre
settimane fu sostituita dapprima da una donna molto cordiale, poi da quell’uomo
che le aveva fatto comprendere l’importanza di un buon libro. Il custode allora
era in convalescenza per il primo infarto, l’infermiera ancora non era stata
assunta. Solo la cuoca era rimasta a sorvegliare l’operato del temporaneo
direttore. Allora a Jenny sembrò che si conoscessero, ma anche che non si
piacessero particolarmente. Furono comunque giorni di assoluta felicità, ma
questa non era destinata a durare a lungo. Non appena la signorina Finnegan
venne a conoscenza di come l’orfanotrofio veniva gestito fece di tutto per
tornare il prima possibile. Il sostituto si prese perfino la libertà di
assumere un neolaureato e giovane pediatra perché riteneva che la presenza di
un medico fosse essenziale per la corretta formazione dei bambini. Inizialmente
si rivelò un bel problema e per cacciarlo fuori la signorina Finnegan fu costretta
ad assumere una nuova ragazza. Fortunatamente per lei trovò un’infermiera
adatta al suo orfanotrofio infernale, la quale era quasi più crudele della
stessa dirigente. Fu proprio questa infatti a suggerire gran parte delle folli
regole che gli orfani erano costretti a rispettare.
“Jenny, hai capito cosa ti ho detto?”
domandò poi lo stesso bambino, riportandola al presente.
“Sì scusami, riflettevo. Non devi
preoccuparti per lui, ti assicuro che andrà tutto bene” fece lei, sollevandosi
dalla sedia.
“Ma se l’hanno consegnato a uomini
cattivi?” chiese il piccolo dubbioso. Allora qualcosa scattò in Jenny, una
rabbia repressa da tempo.
“Ti ho detto che è meglio così! Hai solo
otto anni, io più del doppio, credo di sapere molte più cose di te! E smettila
con questo tono lamentoso, non ne posso più!” e dopo avergli sbattuto in faccia
queste parole se ne andò dalla mensa, senza aver nemmeno toccato l’orrenda
brodaglia.Contavano tutti su di lei,
solo su di lei. Un buco nero con il dovere di risucchiare tutti i loro problemi
e demolirli, ecco quel era il suo ruolo. Ma chi pensava ai suoi di problemi?
Nessuno. Appena giunse in una zona della grande struttura priva di qualunque
fonte di vita si fermò, mettendosi le mani sul volto e massaggiandosi gli occhi
con la punta delle dita. Aveva raggiunto il limite di sopportazione, non era
più in grado di farsi carico di altri tormenti, soprattutto adesso che si
sentiva schiacciata dal peso della scoperta della notte passata. Era un
fardello troppo grande da sopportare da sola e la sofferenza per la mancanza di
qualcuno con cui confidarsi, di un suo coetaneo, si presentò a lei con
particolare ferocia. Non aveva da tempo alcun amico con cui condividere davvero
problemi o segreti, ma ne aveva davvero bisogno. Si era sempre detta e ridetta
che se solo non fosse stato per quelle sbarre che ostacolavano la fuga avrebbe
provato a scappare, ma adesso che aveva trovato una nuova strada per la libertà
aveva paura di affrontarla. Aveva troppa paura, la stessa felicità le sembrava
fin troppo utopistica per lei perché, per quanto la rincorresse, non riusciva
mai a raggiungerla. Si sarebbe rivelato l’ennesimo buco nell’acqua? Jenny ne
era convinta. Poi però si rese conto che questi suoi ragionamenti erano
semplicemente molto egoistici, perché il suo agire non serviva solo a se
stessa. In quel momento realizzò che in qualità di unica ragazza capace di
poter cambiare le cose, aveva il dovere di combattere. Fino ad allora era stata
cieca di fronte all’ovvietà, forse non voleva vederla. Credeva di essere una
guerriera là dentro, lottando ogni giorno contro ogni avversità, ma solo in
quel momento capì di essere stata solo una codarda. Il suo ruolo non poteva più
essere quello di una combattente: ribellarsi e basta non portava da nessuna
parte. Era arrivato il momento di evolversi, di diventare chi davvero sarebbe
dovuta essere da tempo.Era il momento
di diventare un eroe.Ormai aveva
deciso, sapeva finalmente come agire. Non si sarebbe più accontentata di brevi
spiragli di luce, doveva puntare molto più in alto e trovare una soluzione per
far chiudere per sempre quel luogo molto più simile a una prigione che a un
orfanotrofio. Convinta e fiera della sua decisione s’incamminò nuovamente
diretta in camera con l’intenzione di organizzare i preparativi necessari. Era
certa di potercela fare, vogliosa di cambiare il proprio destino e di diventare
una vera eroina per quelle povere creature. Quando giunse nel lungo corridoio
che si affacciava al cortile, gettò un’occhiata su quel trascurato giardino.
Stavolta però notò qualcosa di diverso, forse preoccupante. Si bloccò e osservò
attentamente quell’albero sospetto. Qualcosa, o più probabilmente qualcuno, si
era mosso e adesso era nascosto dietro quella pianta. Che fosse il vecchio
custode? Tornò perciò sui suoi passi, sperando di riuscire a scoprire chi fosse
quell’ombra fugace. Nonostante avesse cambiato angolazione, non sembrava
esserci più nessuno. Che se lo fosse immaginato? Eppure credeva di aver
intravisto un volto, ma non era familiare. Dovette accantonare i suoi pensieri
quando si ritrovò la stessa scena del giorno prima, ma stavolta aveva
intenzione di fare qualcosa di concreto. Nonostante non potesse permettersi il
lusso di ascoltare e rassicurare i piccoli, non riusciva a ignorare la violenza
fisica che rischiavano di subire.
“Che ha fatto stavolta?” chiese Jenny
spavalda.
“Non sono affari che ti riguardano”
rispose l’infermiera.
“Lo lasci, prendo io il suo posto” disse
subito la ragazza senza pensarci troppo. La donna la scrutò perplessa e
sorpresa, abbandonando poi la mano del bambino.
“Sai la strada” disse lei soddisfatta. La
giovane la osservò per un attimo, per poi dirigersi in quel luogo che ormai
conosceva bene. Ripensò per un momento a quella regola assolutamente malvagia,
provenuta dalla malata mente dell’infermiera. Lo scambio di pena, infatti,
consisteva nel poter subire una punizione al posto di qualcun altro. Jennifer
sapeva perfettamente la verità di questa norma e la crudeltà con la quale era
stata proposta. Era ovvio che dei bambini piccoli come quelli là dentro non
avrebbero mai fatto alcuno scambio, infatti la regola colpiva sempre e solo la
più grande di loro. Per anni ormai si immolava di pene altrui, subendo
fisicamente quelle che sembravano molto più simili a torture che punizioni. Era
chiaramente stata creata apposta per colpire l’anello più forte di una catena
già debole. In casi davvero estremi, in cui Jenny non ne poteva proprio più, i
bambini cercavano di aiutarla con la regola della divisione di pena, che
consisteva nel subire in due una pena più leggera, al posto di una più severa
riversata a un unico orfano. Sembravano quasi dei modi per aiutarsi a vicenda,
quando in realtà erano ulteriori pene psicologiche. La ragazza sospirò, pronta
a far entrare nella sua collezione altri lividi o cicatrici. Salì le scale fino
ad arrivare all’ultimo piano raggiungibile con queste. Il suo percorso però non
era ancora terminato, doveva affrontare anche l’interminabile e strettissima
scala a chiocciola che portava all’isolato e altissimo ufficio della signorina
Finnegan. Ad ogni scalino che si lasciava dietro sentiva battere più forte il
cuore, sebbene si comandasse di resistere alla paura. Non voleva farsi
sconfiggere dalle emozioni, doveva essere lei a dominarle. Arrivò di fronte
alla porta, respirò ampiamente e bussò dando tre colpi di nocca al legno.
“Avanti” fece un’algida voce. L’avrebbe
riconosciuta fra mille. Jennifer entrò, chiudendo immediatamente l’accesso. La
donna era di spalle e non sembrava aver fretta di voltarsi. La giovane avrebbe
di gran lunga preferito che rimanesse in quella posizione, ma era consapevole
che non sarebbe mai accaduto. Non era necessario vederla in volto, tanto la
conosceva già incredibilmente bene. Capelli nerissimi raccolti in uno chignon,
abiti rigorosamente scuri, mento pronunciato, viso smunto, occhi perfidi. Per
non parlare poi di quella spilla che costantemente portava con sé, quella
specie di brutto gufo scuro e dagli occhi verde smeraldo. Era scontato che con
quell’aspetto non avesse trovato marito, non altrettanto normale era che
obbligasse tutti a definirla signorina nonostante i cinquant’anni suonati.
Stava esaminando la libreria alle spalle della scrivania, esattamente accanto
all’elemento più misterioso dell’ufficio e, probabilmente, dell’intero
orfanotrofio. Si trattava di una grande porta di ferro, come l’anta di un
caveau di massima sicurezza. Si era sempre chiesta cosa contenesse, ma riteneva
difficile si trattasse solo di denaro o gioielli.
“Bene, bene… Era da tanto che non la
vedevo, signorina Jennifer. Speravo che dopo tanti anni finalmente il suo
comportamento iniziasse a prendere una giusta piega, e invece…” sprezzò
girandosi.
“A dire la verità non ho fatto nulla di
male, ho semplicemente dato il cambio” informò lei pacatamente. La donna
osservò l’orfana, sollevando in maniera disumana il sopracciglio. Questa però
non disse altro, ma si voltò nuovamente per sistemare l’archivio alle sue
spalle.
“Ancora non ha trovato nessuno che voglia
adottarmi?” domandò allora alla direttrice.
“Jennifer, lo sa benissimo che ormai lei
non ha più alcuna possibilità di essere scelta. Le coppie vogliono i bambini
piccoli, non se ne farebbero niente di una come te” puntualizzò acidamente.
“Non importa. Sono abituata a stare da
sola, e poi… Fra un paio di mesi sarò maggiorenne e potrò andarmene comunque”
disse lei con aria pressoché assente.
“Cosa hai detto?” domandò la donna
voltandosi immediatamente, rivolgendosi per la prima volta col tu. Jenny aprì
leggermente la bocca, ma subito dopo la richiuse, indirizzando il proprio
sguardo verso il basso. Come aveva potuto commettere un errore simile?
“Le ho fatto una domanda!” insistette la
signorina Finnegan, ritornando al lei.
“Non capisco cosa ci sia di strano in
quello che ho detto, comunque vorrei sapere quale punizione mi aspetta, così
che possa scontarla e andarmene subito” asserì in maniera del tutto evasiva. La
donna accigliò gli occhi che come lame trafissero il suo corpo.
“Può andare” sentenziò dunque
inaspettatamente.
“Cosa?”
“Mi ha capito benissimo. Sparisca prima
che cambi idea” Jenny si alzò e in fretta lasciò lo studio della donna,
consapevole che stesse tramando qualcosa. Avrebbe preferito di gran lunga le
bacchettate, i lavori forzati, ma non quello. Non c’era punizione peggiore del
dubbio, perché certamente non l’avrebbe scampata così facilmente. Scese le
scale lentamente, mentre veniva logorata da timorosi pensieri, finché non
raggiunse il piano della sua amata biblioteca. La fissò da lontano.
“A stasera” sussurrò lei, come se quel
luogo potesse comprenderla. Poi se ne andò a mettere in ordine alcune delle
stanze assegnatele, finché poche ore più tardi si diresse finalmente in
dormitorio, dove ormai tutti gli orfani si erano ritirati. Un gran fremito si
manifestò all’entrata di Jenny, la voce del suo sacrificio si era già sparsa.
Lei disse loro semplicemente che il giorno dopo avrebbe dovuto pulire da sola
un intero piano, così da non dover dare troppe spiegazioni a quei bambini che
probabilmente non avrebbero neanche capito.
“Adesso tutti a cena, svelti! O saremo
costretti a digiunare un giorno intero” spronò Jenny, cercando di far terminare
le insistenti domande. Accompagnò perciò tutti i bambini in mensa e là riuscì a
stare per alcuni minuti tranquilla.
***
Quando anche l’ultimo degli orfani si
addormentò, Jenny si sentiva pronta per affrontare la sua missione. In fondo,
ciò che aveva scoperto la sera precedente rimaneva un mistero anche per lei, ma
allo stesso tempo sapeva che rappresentava l’unica strada per raggiungere
finalmente la libertà. Preparò uno zaino con dentro tutto ciò che le potesse
essere utile. Nonostante non fosse padrona di nulla, possedeva molte cose che
nel tempo aveva trovato in giro per l’edificio o che era riuscita a rubare agli
adulti, specialmente al vecchio custode. Uscì perciò con molta cautela dalla
grande stanza e fece lo stesso percorso che da anni era solita fare. Non le
serviva alcuna luce per il momento, conosceva a memoria dove collocare ogni
singolo passo anche nel buio più assoluto. Stavolta, a ogni scalino che
lasciava alle sue spalle, crescevano adrenalina e speranza. Raggiunse il piano
giusto e pochi passi dopo arrivò di fronte alla porta della biblioteca. Fece un
respiro profondo, pronta a mettere la parola fine una volta per tutte alla
prigionia degli orfani, poi spinse per aprire e… Chiusa. Com’era possibile?
Prese in fretta un lume e un fiammifero e in pochi secondi riuscì a irradiare
la zona circostante. Rivolse dunque lo sguardo di fronte a sé, scoprendone l’amara
verità. Le maniglie delle due ante erano legate assieme da una robusta catena
bloccata da un pesante catenaccio. La ragazza provò a spezzare gli anelli
d’acciaio per la disperazione, sebbene si rendesse conto dell’inutilità della
sua azione.
“Sapevo che saresti uscita allo scoperto,
prima o poi” fece dal nulla la stessa familiare e fredda voce. Jenny si
pietrificò.
“Mi sei sempre sembrata fin troppo
intelligente per essere una ragazza cresciuta senza alcun insegnamento. Non
avrei mai pensato che sfruttassi questa stanza per studiare… Esattamente come
facevo io anni fa” proseguì lei uscendo dal suo nascondiglio.
“Che fine ha fatto il suo tono
distaccato?” domando Jenny senza voler mostrare la sua paura.
“Il lei
si dà a chi merita rispetto, e tu, mia cara Jennifer, hai disubbidito a troppe
regole. Mi hai sempre creato problemi, non avrei mai potuto venderti a nessuna
famiglia. Non sei come gli altri bambini, possiede cose che loro hanno”
“Davvero? A me sembra di non avere proprio
nulla. Mi è stato tolto tutto, la mia giovinezza, la mia purezza, la mia
libertà!”
“Questo è dipeso solo da te. Posso
affidare gli altri bambini a delle coppie perché so che non metterebbero mai in
pericolo quest’orfanotrofio, perché a loro mancano tre caratteristiche che tu possiedi:
carattere, intelligenza e l’affetto sincero dei bambini. Sei troppo pericolosa,
devo prendere provvedimenti”
“E cosa vorresti farmi allora?” domandò
perciò enfatizzando l’utilizzo della seconda persona. A quel punto l’ira della
signorina Finnegan raggiunse il culmine, prese per i capelli la ragazza e la
rinchiuse con una velocità fulminea dentro un minuscolo stanzino molto vicino a
lei. Jenny non riuscì a reagire in tempo e cade a terra, sbattendo subito la
testa contro la parete, tanto era piccolo quel posto. Poteva essere più o meno
largo mezzo metro e lungo due. Quando si rimise in piedi, la stanza era già
stata chiusa a chiave. “Per i prossimi giorni starai qui. Niente cibo. Niente
acqua. E questa è solo una minima parte della tua punizione!” sbraitò la
malvagia signorina Finnegan mentre scendeva per le scale. Jenny urlò, si
ribellò, iniziò a gettarsi contro la porta sperando riuscisse ad abbatterla. Da
lì nessuno poteva sentirla, ma lei non pianse, non aveva bisogno di nessuno. Si
accasciò a terra, prendendo fiato. Il breve sconforto iniziale mutò velocemente
in qualcosa di strano e del tutto imprevisto. Ospiti diversi dal solito erano
stati accolti dalla solitudine. Sembrava quasi che tristezza e disperazione non
fossero i benvenuti stavolta, ma che coraggio e determinazione avessero preso
il loro posto. Jennifer si risollevò fiera di se stessa, contenta di essere
sola. Voleva stare nella solitudine, vivere nella solitudine, abitarla. Voleva
essere un tutt’uno con essa e trovare in sé la forza di reagire. Desiderava
bastarsi più che mai, senza nessuno che le tendesse la mano. Era pronta a
diventare un eroe e a compiere quel destino che fino ad allora non era mai
riuscita a cogliere. Basta commiserarsi, basta avere rimpianti. Era pronta
finalmente a diventare il cambiamento che sognava da tempo. Buttò a terra tutti
gli utensili dello stanzino per creare un cumulo quanto più alto possibile.
Dopo essere riuscita a modellare una precaria piramide, posizionò all’apice
della caterva un secchio capovolto. Vi salì sopra e raggiunse a malapena il
soffitto, riuscendo a spostare il pannello mobile con la punta delle dita. A
quel punto si lanciò con un balzo atletico e fece appena in tempo ad
aggrapparsi al controsoffitto che però al suo peso tese a piegarsi. Nonostante
questa piccola difficoltà riuscì a intrufolarsi nell’incavo, sebbene un pannello
rischiò seriamente di spezzarsi sotto il suo peso. Agilmente ricollocò i propri
arti sul più resistente reticolo, iniziando a gattonare. Dall’esterno si notava
chiaramente il suo passaggio, ma tanto quello stanzino sarebbe rimasto chiuso
per almeno due giorni. Non aveva un’idea precisa di dove andare, stavolta non
vedeva alcuna luce che la indirizzasse verso la giusta direzione, ma intanto
lei camminava come se sapesse benissimo la strada da dover percorrere. Se ne
fregava di tutto ciò che calpestava, le interessava solo raggiungere l’ala
segreta dell’orfanotrofio. Era determinata, nulla l’avrebbe fermata. Pochi
metri e sarebbe probabilmente arrivata. Ma proprio quando la convinzione di
farcela raggiunse il culmine, ecco che questa sprofondò immediatamente, così
come successe alla povera Jenny che rovinosamente cadde giù, al cedere di un
pannello troppo consumato dal tempo.
onostante fossero passati pochi secondi da
quando aveva spezzato le catene della prigionia, la piccola Evelyn aveva già
vissuto una miriade di emozioni diverse. Adesso grande dubbio e timore
s’imponevano con veemenza, ma questi non furono sufficienti a far demordere la
giovane nell’andare fino in fondo alla sua decisione. Schiuse la porta di legno
con qualche difficoltà, poiché strisciava sull’asfalto per via dei cardini
ormai logori, ma non entrò subito. Rimase qualche centimetro davanti l’uscio,
non volendo rischiare di essere attaccata da qualche strano individuo. La
minuscola casa diroccata aveva una sola stanza, al centro della quale si
ammassava una gran quantità di assi di legno, rocce e polvere. Dalla sua
posizione, Evelyn riusciva a esaminarne gran parte, aiutata dalla forte luce
della notte. Sul momento non capì cosa avesse causato un tale frastuono, ma se
ne sarebbe resa conto entro pochi minuti.
“Sam?” azzardò lei, sperando in qualche
modo che il fratello fosse lì. Ma nessuno rispose. Evelyn sospirò, poi fece
qualche passo indietro finché non si voltò nella direzione opposta. Tornò a
osservare l’alta collina, pensando che sarebbe dovuta passare per il bosco a
essa sottostante per rintracciare il fratello. Non aveva altra scelta, anche se
l’idea la terrorizzava. Dopotutto era ancora poco più di una bambina, quando
una prova del genere sarebbe risultata ardua anche per il più forte degli
adulti. Poi però ecco che la sua attenzione fu nuovamente richiamata
all’interno della casa, poiché catturata da quello che sembrava un lamento di
dolore, una richiesta d’aiuto. Notò che qualcosa, o più probabilmente qualcuno,
cercasse di uscire da quel gran cumulo di detriti. Evelyn allora pensò di
seguire l’istinto, come sempre, e cercare di dare una mano a chiunque fosse
stato là sotto in difficoltà. Entrò in casa senza pensarci due volte e iniziò a
spostare tutti i legni più leggeri per poi procedere con le pietre e i sassi
più pesanti. Dopo poco, la giovane iniziò a vedere una mano e pochi secondi più
tardi anche altre parti del corpo di quella che sembrava una ragazza di qualche
anno più grande di lei. Quest’ultima riuscì a togliere la trave che le
schiacciava la testa, potendo finalmente tossire e liberarsi di tutte le
polveri inalate.
“Come stai?” chiese preoccupata Evelyn
alla misteriosa ragazza. Quest’ultima tossì nuovamente, poi si toccò la testa
dalla quale fuoriusciva un po’ di sangue.
“Per favore, aiutami a togliere
quest’ultima roccia” disse lei senza nemmeno rispondere alla domanda. Evelyn
perciò provò a sollevare la grande pietra che le era stata indicata dalla
ragazza, ma senza il minimo successo.
“È troppo pesante!”
“Okay, non importa. Devi usare una leva”
suggerì perciò la sconosciuta.
“Una leva?”
“Sì. Prendi la pietra più grossa che
riesci a spostare e portala vicino al masso che mi blocca il piede” spiegò la
più grande. La più piccola ascoltò il consiglio, facendo esattamente come
richiesto.
“Bravissima. Adesso prendi la trave più
lunga e resistente che trovi e inserisci una delle due estremità sotto la
roccia, mentre fai appoggiare l’asse sulla pietra che hai spostato. A quel
punto tira verso il basso il secondo estremo” Evelyn seguì alla lettera le
indicazioni e con sua grande sorpresa alzare quel macigno le sembrò
incredibilmente facile.
“Grazie” sussurrò la ragazza una volta
liberatasi, mentre si massaggiava il piede che per fortuna era solo
indolenzito.
“Di niente… Io sono Evelyn comunque”
“Piacere di conoscerti Evelyn… Io mi
chiamo Jenny” si presentò lei sorridendo fugacemente. “Dovremmo fare qualcosa
per le tue ferite. Sarà meglio medicarle” disse poi l’altra preoccupata.
“Non sono molto gravi, ma non ti do torto…
Non vorrei che si infettassero. Ma dimmi una cosa invece, come mai sei venuta
solo tu in mio soccorso? Non ci sono altri orfani con te?”
“Orfani? Ehm… No, io e mio fratello siamo
i più piccoli di qui” rispose Evelyn perplessa per la bizzarra domanda.
“Dici sul serio? Ma allora dove sono
finita?” si domandò confusa, mentre tentava di rimettersi in piedi.
“A cosa serve questa struttura? È stato
sfruttato nuovamente come ospedale?” chiese pochi istanti dopo.
“Struttura? Ospedale? Di che stai
parlando?”
“Sono arrivata qua intrufolandomi nel
controsoffitto dell’orfanotrofio in cui vivo, poi però sono caduta qui, da
lassù…” svelò Jenny indicando sopra. Ma quello che vide la lasciò attonita. Non
vedeva più lo stesso soffitto a cui era abituata, l’intera stanza era
completamente diversa. Era tutta in pietra e legno, come se non fosse un’opera
architettonica moderna. Inoltre, tutte le macerie che erano crollate non
potevano essere soltanto del controsoffitto. Era infatti venuta giù una
porzione di tetto. Nulla sembrava avere senso. Anche se durante il percorso
nell’intercapedine non riusciva a vedere nulla, era stata comunque in grado di
percepire il reticolato portante in ferro e i pannelli di cartongesso sotto le
sue mani. Ora invece, sopra la sua testa, c’era solo un tetto, costruito con
dei materiali molto più rudimentali, venuto giù e che apriva una finestra nel
cielo che illuminava la camera.
“Dove diavolo sono finita? E come ci sono
arrivata?” domandò confusa più a se stessa che alla ragazzina. Intanto l’altra
giovane che si trovava nella stanza non poteva evitare di domandarsi la stessa
cosa che si chiedeva ogni volta che osservava qualcuno, finché non si sentì
costretta a esporre il suo dubbio.
“Scusa se mi permetto, ma potresti dirmi
che pillola hai assunto? Non riesco proprio a capirlo”
“Pillola? Di cosa stai parlando? Vi
drogano qua dentro?” chiese quindi Jenny indietreggiando.
“Hanno drogato anche me?” continuò poi,
sempre più preoccupata che qualcuno potesse spuntare all’improvviso per
obbligarla ad assumere qualche strano farmaco.
“Ti hanno cosa?” enfatizzò Evelyn, non
conoscendo nemmeno il significato di quella strana parola.
“Ma certo! Hai ingerito la pasticca della
pazzia!” pensò dunque, non essendoci altra spiegazione al suo strano
comportamento. Jenny a quel punto la guardò esterrefatta, incredula di ciò che
aveva sentito.
“Tranquilla, non voglio farti del male.
Sai dirmi però quanto ti resta prima che le sue conseguenze finiscono?” domandò
a quel punto, sperando che sulla ragazza gli effetti non fossero troppo
evidenti come in tutti gli uomini incontrati negli ultimi giorni.
“Pazzia? Non capisco di che parli! E poi…”
ma Jenny si bloccò non appena si rese conto di cosa ci fosse fuori la porta.
Subito si diresse verso l’esterno, scoprendo la verità. Si guardò intorno,
realizzando di essere in un luogo che non solo non c’entrava nulla con
l’orfanotrofio, ma che con grandi possibilità non aveva niente a che fare
neanche con la sua città, sebbene non la conoscesse per niente. Avvertiva però
delle differenze nell’aria, lo sentiva chiaramente. Qualcuno certamente l’aveva
portata fino a lì dopo essere svenuta, ma non ne conosceva il motivo.
“Come ti senti?” domandò Evelyn un po’
intimorita.
“Confusa… Sai dirmi dove ci troviamo? In
che città quanto meno?”
“Ci… Ci troviamo a Distòpia.
Dunque vuoi dirmi che non sei di queste parti?”
“No, non credo almeno… Non ho mai lasciato
l’edificio in cui vivo, ma ne dubito fortemente” “Capisco… La tua storia è
sicuramente molto strana, e da come hai reagito poco fa credo di capire che tu
non hai bisogno delle pillole per vivere… Dico bene?” azzardò lei, seppur lo
ritenesse praticamente impossibile.
“Ancora con questa storia? Mi potresti
spiegare meglio? Perché non ho idea di cosa tu stia parlando” “Quindi è vero?”
“Che cosa?”
“Che non usi le pillole!”
“Ti ho già detto che non ne so nulla!”
esclamò con il solo volto interrogativo, e stavolta le risposte non tardarono
ad arrivare. Le raccontò tutto, dalle condizioni in cui viveva la sua gente
alla sua particolare esperienza.
“Non dire assurdità, è una cosa
impossibile!” esclamò la diciassettenne con fare scontroso, percependo falsità
in quelle parole fin troppo fantasiose.
“Per me è assurdo il contrario invece. Se
da dove vieni tu ci sono altre persone libere da ogni vincolo come te, vuol
dire che siete molto fortunati… Noi tutti invece siamo destinati a una perpetua
prigionia” Jenny sorrise.
“Non credere che quella in cui hai vissuto
tu, ipotizzando che sia la realtà, sia l’unica forma di schiavitù… Neanche io
sono mai stata libera e non so nemmeno se riuscirò mai a esserlo. Almeno tu
adesso ce l’hai fatta, secondo quanto mi hai detto” disse lei, mantenendo una
costante nota di scetticismo.
“Sarà anche vero, ma in un mondo di
prigionieri cosa importa non esserlo? Ho sognato tanto la libertà, ma se non
posso condividerla che me ne faccio?”
“Sai, la tua storia non è così diversa dalla
mia. Ti è stata data una grande opportunità, hai ricevuto un dono che nessun
altro qui in città possiede. Purtroppo però c’è un prezzo da pagare per questa
tua fortuna. Esattamente com’è successo a me, rischi che questa tua diversità
ti possa isolare. Io ho studiato molto negli ultimi anni, ma così facendo mi
sono costruita barriere inviolabili. Potevo tenere le conoscenze che acquisivo
solo per me e l’impossibilità di condividerle mi distruggeva. Ma poi ho capito
una cosa importante. Chi possiede un grande dono, possiede anche una grande
responsabilità. Io sono l’unica che possa salvare quei bambini e ritengo che
adesso tu sia l’unica che possa fare lo stesso con i tuoi concittadini” spiegò
la maggiore, cominciando pian piano a convincersi.
“Sì ma… Io non so come fare! E poi non so
nemmeno se esistono altre pillole della libertà” ammise Evelyn. Jenny allora
abbassò il capo e iniziò a riflettere.
“Se le tue storie sono vere vuol dire che
conosco davvero molto poco la realtà. Non ho mai visto il mondo, quindi non
posso avanzare ipotesi premature. Tutta la mia conoscenza si basa sui libri che
ho letto, ma certamente non possono avermi dato ogni tipo di nozione che
esista. Perciò ti voglio credere Evelyn, voglio essere tua amica… E soprattutto
voglio aiutarti”
“Dici sul serio?” esclamò entusiasta
l’altra, avendo trovato qualcuno con cui condividere la sua libertà. Jenny
annuì sorridendole. Non ne era del tutto convinta, ma avrebbe verificato la
realtà dei fatti il prima possibile.
“Devo trovare però anche un modo per
tornare a casa, non conosci qualcuno di affidabile con cui parlare?”
“No, qui sono tutti vittime come lo ero io
fino a pochi minuti fa. Ma onestamente non credo esista qualcuno
sufficientemente lucido e pacato da poterci dare una mano”
“Capisco…” fece l’orfana iniziando a
camminare e a riflettere sulle informazioni di cui era in possesso. Toccò la
spessa parete che divideva i due lati della città di cui le aveva parlato poco
prima la nuova amica. “Hai detto che forse tuo fratello si trova oltre il
Confine giusto? Propongo di dirigerci là per prima cosa” “Ne sei sicura? Ti ho
già detto che dovremmo affrontare una foresta incredibilmente ostile… Tutti qui
ne parlano come se fosse impossibile sopravvivere là dentro. E poi… La mia è
soltanto una disperata ipotesi, effettivamente non avrebbe avuto molto senso
scappare nel lato ovest”
“Io credo invece l’esatto opposto” ammise
Jenny.
“E perché mai?”
“Beh, è semplice… Mi hai detto che avevi
consegnato a tuo fratello la pillola della sfiducia, quindi probabilmente avrà
creduto che con la pastiglia della felicità in tuo possesso saresti scappata da
lui e avresti cercato di costruirti una nuova vita in un luogo migliore. Avendo
perso fiducia nei tuoi confronti è normale pensare una cosa del genere… E poi magari
lì potresti riuscire a ottenere delle pasticche migliori di quelle che
circolano qui a Distòpia”
La ragazza aveva proprio ragione, ma
questa possibile verità preoccupava l’amorevole sorella. Stavolta non si
trattava di una banale ipotesi, ma di un logico ragionamento. Sapere che molto
probabilmente il piccolo Sam si era recato nel bosco la turbava enormemente,
così come il pensiero di poter condividere con i suoi concittadini emozioni
positive la rincuorava.
“Non abbiamo altra scelta. L’unico mezzo
per raggiungere i nostri obiettivi è la conoscenza. Più sappiamo, più siamo
forti. In questa zona della città la gente è annebbiata dalle emozioni
negative, se riuscissimo invece a raggiungere la parte migliore di questo
strano posto, potremo parlare con persone che ci daranno retta e che non
avranno timore di noi” spiegò saggiamente la ragazza, sperando di convincerla
davvero a seguire il suo piano.
“Molto probabilmente hai ragione tu, ma
pensa un momento cosa accadrebbe se Sam non se ne fosse andato… Il viaggio non
sarà breve, quindi starà da solo per molto tempo. Oh Jenny… Non so come
comportarmi!”
“Lo so, non è sempre facile prendere una
decisione. Se ti può fare stare meglio, magari potremmo lasciare un biglietto a
casa tua, dopotutto è il vostro unico punto di riferimento e certamente vi
ritornerà”
“Sì, sarebbe fantastico! Mi farebbe stare
certamente più tranquilla!”
“Bene, allora non c’è problema! Prima di
andare però vorrei sapere come raggiungere l’altro lato della città, se non ti
dispiace”
“Certo che no! Dunque… Il cancello che
porta alla foresta si trova molto vicino ai piedi di quell’alta collina, in
posizione perfettamente apposta a quello del lato ovest. Dovremo seguire le
mura di Distòpia puntando verso nord e poi scendere a
sud, lungo le mura dell’altra città”
“Ma non sarebbe molto più veloce passare
sotto le pendici del colle?”
“Questo è vero, ma la zona sottostante la
collina è molto più pericolosa. Conviene fare più strada che attraversare quel
breve tratto”
“Dici sul serio?”
“Sì. Questo è quello che ho sentito dire,
almeno…”
“Meglio evitare il rischio allora. Vorrà
dire che seguiremo il percorso più sicuro… O sarebbe meglio dire meno
pericoloso. Sono però convinta che insieme ce la faremo!” disse Jenny
fiduciosa. Anche Evelyn adesso credeva che avrebbero realmente potuto farcela
perché finalmente aveva un’amica su cui fare affidamento, ma soprattutto era
felice di poter godersi pienamente questo rapporto grazie alla libertà
acquisita.
“Sai una cosa?” continuò sempre la
maggiore.
“Dimmi!”
“Nella mia vita ho sempre avuto a che fare
con gente più piccola di me… Mi sono sempre sentita un po’ sola, ma in te vedo
qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri orfani con cui sono cresciuta”
“Anche tu sei molto diversa da chiunque
altro io abbia incontrato. Sarà bello affrontare quest’avventura insieme, e una
volta aver ritrovato mio fratello, ti prometto che farò di tutto per aiutarti
con l’orfanotrofio!”
E dopo quest’ultimo scambio di battute le
due nuove compagne partirono, pronte ad affrontare un viaggio a cui la
solitudine non avrebbe mai partecipato.
… Nota Autore …
Questo
è l’ultimo capitolo che posto, ma non appena uscirà il libro caricherò il link
sulla mia pagina EFP. Spero vi sia piaciuto fin qua!