Crossed lives - Il funambolo

di AnyaTheThief
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il palloncino blu ***
Capitolo 2: *** La profezia ***
Capitolo 3: *** Josèphine ***
Capitolo 4: *** Monsieur le Grand ***
Capitolo 5: *** In bilico ***
Capitolo 6: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 7: *** Bugie e verità ***
Capitolo 8: *** Narquois ***
Capitolo 9: *** Sebastian ***



Capitolo 1
*** Il palloncino blu ***


“Sahanna la tigre! Venite a vedere Sahanna la tigre!”

“Zucchero filato! Blu, rosa, bianco!”

“Avete il coraggio di fare il giro della morte?”

“Palloncini! Palloncini di tutti i colori! Ecco a te, piccola.”

Quando l’uomo si chinò per prendere la moneta dalle mani della bionda cinquenne che gliela stava allungando in punta di piedi, lei iniziò a scalpitare sul posto, impaziente di afferrare la corda del palloncino.

“Quello azzurro, per favore!” esclamò con fin troppo entusiasmo. Gli occhioni chiari le brillarono quando il signore nel buffo costume glielo porse. “Grazie!” e corse via, nel suo vestitino celeste intonato ora al palloncino svolazzante che si tirava dietro. L’uomo sorrise intenerito, pensando forse che fosse proprio un bel tipo, prima di tornare al suo lavoro.

“Palloncini! Palloncini di tutti i colori!”

“Mammaaaaaaa” come un treno la piccola si faceva largo tra la folla per raggiungere la bancarella dello zucchero filato poco lontana, dove sua mamma e sua sorella la stavano aspettando. O almeno così credeva.

Tra tutte quelle persone altissime ai suoi occhi e scure di capelli, non riusciva ad individuare le teste bionde dei suoi familiari. “Mamma…?” mugolò con voce strozzata, guardandosi attorno, persa. Sussultò e fece per piangere; più si guardava in giro, più si sentiva piccola e soffocata da tutta quella gente che sembrava non accorgersi nemmeno di lei. Le file di luci che decoravano i tendoni la accecavano, confondendola, le musiche si sovrapponevano al vociare della gente intorno a lei.

Non fece in tempo a pensare che forse era meglio legarsi la corda del palloncino al polso per non perderlo, che qualcuno la urtò bruscamente facendola cadere coi palmi aperti sulla terra nuda. Sollevò lo sguardo per vedere il palloncino blu confondersi nel cielo scuro e volare via per sempre.

“Scusa! Mi dispiace, scusa!!” un ragazzino, lo stesso che l’aveva urtata, la stava aiutando a rialzarsi, ma lei stava già piangendo a bocca aperta, urlando a squarciagola contro il cielo. Prima perde sua mamma, poi il palloncino, e in più nella caduta si era persino rotta le collant; il ginocchio le sanguinava attraverso il buco lasciato dallo strappo.

“No, non piangere, dai! Ehi… Bimba, non piangere!”

Non riusciva a vedere chiaramente attraverso le lacrime la persona che cercava di tranquillizzarla goffamente, ma poteva intravedere ricci neri e pelle scura.

“Dai, ti porto dalla tua mamma, vieni!” le tese una mano e lei la prese fidandosi ciecamente, pur continuando a ululare disperata.

“Non… so… dov’èèèèè!!” singhiozzò stringendo un lembo del vestitino nella mano e non preoccupandosi per niente di avere la faccia completamente bagnata dalle lacrime e dal naso colante.

“Okay, okay, se smetti di piangere ti compro un altro palloncino, va bene?”

Questo sembrò calmarla almeno un po’. Si strofinò gli occhi con la mano libera, continuando a tenere stretta quella del ragazzino; in questo modo lo poté vedere più chiaramente. Sembrava avesse l’età dei suoi cugini, pensò, quindi circa dieci anni… I suoi occhi castani le parvero rassicuranti e in quel momento si dimenticò ogni avvertimento della mamma che le ripeteva sempre di non parlare con gli sconosciuti: ma cos’altro poteva fare?

“Ti porto dalla mia mamma, va bene? Lei saprà cosa fare per trovare la tua.” disse con una sicurezza troppo ostentata per un bambino di quell’età, ma sembrava sapesse come muoversi.

Lo seguì tra la gente, senza capire dove stessero andando, poi d’un tratto una piccola tenda davanti a loro le sembrò familiare. Sì, il giorno prima sua mamma voleva entrare lì, ma suo padre le aveva detto che erano tutte stupidaggini; lei non aveva capito di cosa parlassero, voleva solo prendere le mele caramellate, e alla fine se n’erano andati.

“Dai, vieni!” la incitò il bambino, trascinandola dentro. “Mamma!” chiamò poi lui, una volta all’interno. La bimba si guardò attorno curiosa ma intimorita. C’era un odore strano lì dentro e non sapeva dire se era buono o cattivo. C’erano tanti cristalli appesi e degli scacciapensieri che ai suoi occhi apparivano solo come giocattoli rotondi con delle piume colorate. Una bella signora con un lungo velo e dei grandi occhi verdi si alzò dai cuscini sui quali sedeva per andare incontro a suo figlio. “Jad, dove sei stato?” chiese con una nota di preoccupazione.

“Si è persa. Non trova più sua mamma.” spiegò lui, mentre la bambina adesso cercava di nascondersi dietro le sue gambe, timidamente.

La signora iniziò a scrutarla. Quando mosse la testa, la pietruzza che le pendeva sulla fronte ciondolò assieme a lei e la piccola ne rimase incantata. La donna la guardò per lunghi istanti, poi le sue labbra carnose si inarcarono in un sorriso dolce. Allungò una mano verso la piccola; le sue unghie lunghe e pitturate di rosso la spaventarono inizialmente, ma poi si fece accarezzare la testa. La madre di Jad le sfiorò la tempia col pollice, scostandole gentilmente i capelli e poi sorrise ancora di più. “All’altra bancarella dello zucchero filato.” sentenziò infine.

“Cosa?” chiese suo figlio.

“Sua mamma e sua sorella sono all’altra bancarella dello zucchero filato, quella vicino al banco dei popcorn.”

La bimba la guardava a bocca aperta. Come faceva…? Chi le aveva detto…? Ma Jad non sembrava per niente sorpreso. Le riprese la mano. “Andiamo, dai. Poi ti ricompro il palloncino.” e la trascinò fuori dalla tenda di nuovo.

La piccola si guardò indietro più e più volte, sperando di rivedere quella strana signora che doveva essere una maga o una strega (sperò che fosse una strega buona), e quando apparve sulla soglia fece la più strana delle cose: un inchino! Un inchino, rivolto a lei, come quello che Alice faceva alla Regina di Cuori nel cartone che lei tanto amava. Spalancò la bocca e gli occhi mentre cercava di stare al passo con Jad; poi una voce familiare le fece scordare tutto ciò che era appena successo.

“Iris! Iris, dov’eri finita?!”

 

 

 

Porthos appariva più corrucciato del solito. Da alcuni mesi ormai sembrava che un pensiero costante lo ossessionasse tanto da arrossargli gli occhi per il poco sonno e fargli comparire i primi capelli bianchi. Avrebbe potuto facilmente celarli nella sua folta capigliatura corvina, se solo se ne fosse accorto.

Il Capitano fece uno sbuffo che assomigliava vagamente ad una risata sommessa, una di quelle che Porthos non sentiva da quando D’Artagnan era morto. Lo vide scuotere la testa e lanciargli occhiate con aria di sufficienza.

Appoggiò il boccale di birra sul tavolo, bruscamente.

“Cosa?” domandò Porthos, secco.

Athos esitò, come se pensasse che non potesse reggere il peso di ciò che stava per dire, e poi borbottò: “Siamo vecchi.”

L’angolo della bocca di Porthos si sollevò in una smorfia. “Parla per te.” sbottò. Nessuno dei due aveva più l’energia di scherzare come un tempo. La maggior parte delle loro conversazioni si basava su provocazioni che raramente l’altro percepiva come battute, e alla fine si ritrovavano a bere in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri.

Athos non era stato più lo stesso da quando Aramis e D’Artagnan se n’erano andati, ma era diventato ancora più strano dopo che era tornato dall’Inghilterra. Porthos gli aveva estorto la verità quasi con la forza, finché il Capitano non gli aveva gridato contro che lei era morta. Non ne avevano più parlato, nemmeno per sbaglio.

La cosa più straziante era che lui conosceva la verità. Milady non era morta. L’aveva vista, l’aveva cacciata via ed ogni giorno da allora si era chiesto se avesse preso la decisione giusta. Il suo amico non sembrava stare molto meglio di quando pensava che fosse viva, ma allo stesso tempo Porthos ricordava i loro incontri come emotivamente strazianti per Athos: non avrebbe permesso che succedesse ancora, odiava vederlo ridotto in quel modo. E a lui serviva un Capitano, a tutta la Guarnigione serviva.

Porthos era convinto che era solo questione di tempo: prima o poi sarebbe rinsavito, magari avrebbe incontrato un’altra donna e si sarebbe scordato di quella che gli aveva straziato il cuore per tutti quegli anni.

Lo guardò scolarsi l’ultimo goccio di vino direttamente dalla bottiglia. Un musico suonava il violino in un angolo della taverna e Athos teneva il tempo picchiettando le dita sul bancone a ritmo di una melodia che Porthos non conosceva. Gradualmente delle rughe incresparono il viso del Capitano in una smorfia nervosa, man mano che il suo picchiettare sul tavolo si faceva più deciso, finché poi si alzò dichiarando: “Me ne vado.” e si avviò verso l’uscita, come se non potesse sopportare di stare lì un minuto in più.

“Che diavolo di strambo...” sibilò Porthos tra sé e sé, esaurendo il contenuto del suo boccale in un sorso.

Quando una leggera pioggerella primaverile lo scosse con un lungo brivido, sentì il musico ormai già lontano concludere la sua canzone e dichiarare: “E questa era la Foscarina di Marini!” orgoglioso, ringraziando il pubblico che applaudiva.

Athos appariva come una figura sfumata in lontananza nella nebbiolina della pioggia leggera e fitta; non aveva intenzione di raggiungerlo. Ogni tanto gli piaceva autocommiserarsi nella sua malinconia. Da una vietta sbucò un tizio malandato che si reggeva su una stampella, con una latta tintinnante in mano.

“Una moneta per un vecchio soldato?” rantolò in direzione di Porthos.

“Narquois...” mugugnò lui. Sapeva bene cosa c’era in fondo alla via dal quale era sbucato il narquois, il finto soldato zoppo, ma si era ripromesso di non farlo.

Non poteva. Per il proprio bene, non poteva torturarsi in quel modo.

Combatté contro se stesso per qualche istante, guardando il narquois che attraversava lentamente la strada per raggiungerlo. Porthos lo fissava pieno di dubbi, poi alternava lo sguardo dal vicolo alla figura di Athos che svaniva nella pioggia.

“Al diavolo!” sbottò. A grandi falciate si diresse verso la strada tetra, ma non fece in tempo a muovere più di cinque passi. Quando incrociò il narquois, questi allungò la mano davanti a lui, tendendo una lettera e, con voce completamente ringiovanita, disse: “la mia signora manda i suoi saluti ai Moschettieri.”

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Capitolo 2
*** La profezia ***


“Non più tardi delle sette, Iris! Senza discussioni.”
“Ma papà!! Dai, è soltanto due volte l’anno, ti prego!”
“Senza discussioni!”
Iris mise il broncio. Gli occhi le si riempirono di lacrime. “Per fa--” fece per dire, quando sua madre la interruppe. 
“Vengo a prenderti alle sette.” sentenziò, con suo grande disappunto. “E poi possiamo stare ancora un po’, insieme.” aggiunse però. Victor scosse il capo con aria rassegnata, ma semi divertita, mentre Raquel gli fece spallucce sorridendo alla reazione della figlia che ora saltellava attorno allegra. 
“Grazie!! Grazie, grazie!! Prenderò il massimo nel compito di matematica, giuro!” le sue ultime parole svanirono tra la folla, mentre si allontanava verso i grandi tendoni colorati. 
“Quella tizia e suo figlio ancora non mi convincono, lo sai.” disse Victor pazientemente a sua moglie. Era un tipo pacato, non alzava mai la voce, ma non sapeva tenersi dentro quello che pensava. 
“Finiscila. Sono adorabili.” lo zittì Raquel. “Un po’ strani, ma gentili.” ammise, guardando Iris sparire tra la gente. Suo marito ancora fissava il vuoto pensieroso, mentre lei era già pronta a tornare verso la macchina. “Ha già tredici anni, Victor. Celia alla sua età usciva già con Rafael. Lasciala respirare.” tagliò corto.
“Jaaaaad, Jad, Jad!! Ooops!” fece Iris, entrando nel tendone della lettura delle carte come un tornado e realizzando troppo tardi che la madre del suo amico era con un cliente. “Mi spiace… Scusate...” disse a voce bassa. La donna, con una carta ancora sollevata a mezz’aria le sorrise e le fece un cenno con la testa verso il retro della tenda. “Vado… Vado, a dopo...” e si fiondò fuori di nuovo. Fece il giro della tenda e lì trovò il suo amico, sei mesi più grande dall’ultima volta che lo aveva visto.
“Dieci… Undici...” stava contando con gli occhi chiusi. Iris vide un bambino ritrarre velocemente la gamba per nascondersi meglio dietro ad un albero. Già da quando lui stesso aveva poco più di otto anni, il suo compito era sempre stato badare ai più piccoli, figli degli altri lavoratori del circo. Sorrise divertita e gli si avvicinò. “Dodici… Tredici...” si piazzò davanti a lui, scrutandolo per bene. “Quattordici… Quindici...” le sembrava che diventasse sempre più robusto, non ricordava avesse braccia così muscolose… “Sedici… Diciassette...” e c’era qualcosa di diverso anche nella forma del suo viso. “Diciotto...” Un attimo, era anche molto più alto! Oh no, l’avrebbe presa ancora più in giro… “Diciannove...” Quando si avvicinò ancora di più, notò l’ombra di una barba che gli punteggiava le guance. “Venti! Arrivo!” e non appena Jad tolse le mani da davanti agli occhi, Iris gridò: “BUH!”, facendolo sobbalzare con un sussulto. 
“Iris!” esclamò lui, sorridendo. Una cosa non era cambiata sin da quando era piccolo: il suo sguardo rassicurante. Lei gli si fiondò al collo. “Ciao!” 
Ancora un po’ sconvolto, ricambiò l’abbraccio. Poi la allontanò per squadrarla bene, ed infine decretò: “Sì, sei diventata ancora più bassa.” e rise forte, mentre lei gli faceva una smorfia. 
“E quella cosa sarebbe, allora? Scommetto che non ti crescerà una barba decente prima dei vent’anni!” e gli tirò fuori la lingua. Era ancora piuttosto infantile, nonostante il suo corpo stesse iniziando a svilupparsi in fretta. 
Ebbe comunque l’effetto desiderato, perché lui andò a toccarsi il viso con apprensione. “Ehi! Non essere impertinente, rispetta i più grandi.” 
“Non posso, se i più grandi fanno ancora scelte più stupide delle mie!” e cercò di tirargli fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca della camicia. Lui giocosamente le bloccò la mano all’altezza del  cuore, e per un attimo le sembrò di intravedere del cremisi sulla sua pelle bronzea. Ma poi sghignazzò: “fatti gli affari tuoi, bimba.” lasciandole andare la mano. “Andiamo. Ehi, ragazzi! Keivan è alla conta ora!” annunciò poi ai bambini ancora nascosti. Mentre si allontanavano sentirono Keivan uscire dal suo nascondiglio lamentandosi ampiamente. 
“Posso stare fino alle nove!” dichiarò lei orgogliosamente. 
“Allora farai in tempo a vedere lo spettacolo.”
“Mi fai fare un giro sulla moto prima?”




“Non se ne parla!” sbottò Porthos, la lettera nella mano tremante di rabbia. Una Milady incappucciata sorrideva enigmatica, come se l’ira del Moschettiere rientrasse perfettamente nel suo piano. “E mi sembrava di averti detto di non farti più vedere a Parigi.” aggiunse con aria interdetta. 
Lei continuava a sorridere, muta. Le rughe sul suo viso si erano fatte più marcate dall’ultima volta che l’aveva vista, ma Porthos capiva perché il suo amico fosse così pazzamente innamorato di lei; era ancora bellissima e il suo fascino ambiguo gli faceva provare emozioni contrastanti. 
Milady mosse un passo verso di lui, l’espressione immutata e serena. 
“Mi avevi detto di stare alla larga da Athos.” precisò lei. “Fallo per Josèphine.” le bastarono quelle tre parole per per far calare un velo di terrore negli occhi di Porthos, che indietreggiò di un passo. 
“Come lo sai? Cos--” farfugliò confuso, prima di esplodere in un urlo rabbioso. “Cosa le hai fatto?!” e tornare ad incombere su di lei, dall’alto della sua stazza. 
Milady si guardò attorno, temendo che qualcuno potesse averli sentiti; ma il vicolo era deserto e buio come prima. “Datti un contegno. Non ho interesse ad ucciderla.” sputò quelle parole come un boccone troppo amaro, squadrandolo con una smorfia critica. “Intendevo dire che posso aiutarla.”
Porthos scosse il capo incredulo. Non poteva essere vero. E se era vero, era una situazione di merda, perché non poteva chiedergli di scegliere tra Jo ed il suo migliore amico. Continuò a scuotere la testa in movimenti scattosi, incredulo. “Non puoi. Non ti credo.” 
“Posso provarci. Conosco un dottore.” 
Porthos fece uno sbuffo simile ad una risatina ironica. Con una mano si strofinò gli occhi, ed alzò l’altra per fermarla dall’aggiungere altro. “Ho debiti con metà dei dottori in città, e tutto quello che sono riusciti a fare è stato un salasso che l’ha quasi uccisa.”
“Ti assicuro che questo non utilizza metodi convenzionali. Porthos… Forse non è troppo tardi. Pensaci.” Milady gli voltò le spalle e fece per andarsene, ma lui non aveva ancora finito. 
“Perché?” chiese in tono esasperato. Lei si fermò, ma non si voltò a guardarlo. “Perché gli vuoi fare questo? Tornare ad essere l’amante di Louis… Ne hai davvero così tanto bisogno?” 
Porthos rimase senza una risposta, ma per quanto la conoscesse, la risposta a qualsiasi domanda sul perché delle sue azioni si poteva riassumere in “perché sono una grandissima stronza.” 
Si appoggiò al muro. Si sentiva svuotato da qualsiasi emozione, eppur pieno di dubbi. Si parlava di vite umane, e lui poteva avere il potere di decidere quale delle due distruggere.




“Hai perso qualcuno di recente?” Tabatha scopriva lentamente le carte sul tavolo, ma i suoi occhi verdi erano fissi sulla donna di fronte a sé. Sedeva nervosa stringendo la sua borsetta in grembo e fissava inquieta le figure sul tavolo. Annuì incerta, poi deglutì.
“Mia madre, sì.” rispose con voce roca. 
“Rilassati, Raquel.” la rassicurò la donna velata. “La rivedrai. La vita non finisce con la morte.” 
Raquel annuì di nuovo. Era una frase che le avevano ripetuto spesso, ma non ci aveva mai creduto veramente. Ora tutte le carte erano sul tavolo e Tabatha le guardava senza particolare interesse. Poi tornò a fissarla negli occhi. 
Il suo sguardo era così intenso che a Raquel parve stesse invadendo la sua privacy, leggendole nella mente. Non lo resse per più di qualche secondo. 
“Forse dovrei dare un’occhiata ad Iris.” farfugliò, cercando di alzarsi dai cuscini. 
“Resta.” disse Tabatha, con una voce profonda che quasi non sembrava la sua. “C’è qualcosa che devi sapere.” aggiunse, seria, continuando a scrutarla nell’anima con quegli occhi da tigre sfumati da un ombretto scuro. Raquel si pietrificò e tornò a sedersi di fronte a lei, alternando lo sguardo timoroso dalle carte alla mamma di Jad. 
“Qualcuno dal tuo passato ha bisogno di te.” lo sguardo di Tabatha si assottigliò, come se stesse cercando di vedere una figura indistinta negli occhi di Raquel. “Qualcuno che hai temuto e rispettato.”
“Chi?” domandò ora incuriosita la spagnola.
“Lo saprai a tempo debito. Quando ti chiamerà, dovrai partire per un viaggio.” 
Raquel si irrigidì di nuovo sul posto. 
“Ma… Non posso aiutarla ora? Questa persona…?”
“No. Ascolta: è importante che tu vada da lei, quando ti chiamerà.” disse Tabatha con convinzione. Raquel esitò; poi, un po’ perché ipnotizzata dagli occhi verdi, un po’ per concludere quell’imbarazzante teatrino, annuì. “Certo. Lo farò, certo.” 
“Mamma!!” Iris irruppe nella tenda con entusiasmo. “Oh, ma’, dovevi vederlo, dovevi esserci, è stato fantastico!!” 
Fece capolino un Jad molto più contenuto, ma sorridente. Si avvicinò a sua madre, che si alzò in piedi, gli prese le mani tra le sue e gli baciò la fronte. 
“Mi spiace, Jad, sarà per la prossima volta.” si scusò Raquel. 
“Io non so come fa! Era a dieci metri di altezza – dieci metri! Te lo immagini?” Iris era decisamente sovreccitata, saltellava ovunque e poi si mise a fare un’imitazione di un equilibrista sulla fune. “Dici che se mangi troppo la fune si può spezzare?” domandò poi al suo amico con aria ingenua.
“Di certo se ci sali te, dopo tutti quei popcorn...” la prese in giro lui. 
“Scemo! Non è vero, ma’, non ne ho mangiati tantissimi...” 
Raquel la guardò con aria rassegnata. 
“Solo due cartoni interi!” la provocò di nuovo Jad ridacchiando.
“Cretino! Vieni qua!” esplose lei, partendo al suo inseguimento fuori dal tendone. 
Le due donne, rimaste di nuovo sole, risero assieme. Raquel scosse il capo. 
“Non fa altro che parlare di lui tutto l’anno…” confessò, pensando fosse una cosa carina da dire; ma quando voltò lo sguardo verso Tabatha, notò che la sua espressione era cambiata. Una preoccupazione evidente segnava il suo viso solitamente rilassato. 
“Cosa? Ho- Ho detto qualcos--” balbettò Raquel, imbarazzata. 
La veggente scosse il capo, di nuovo tranquilla. “Iris è una ragazzina adorabile. Ma Jad non potrà mai essere l’amore della sua vita.”
Raquel non sapeva cosa rispondere. Non aveva mai pensato che potesse esserlo, ma quell’affermazione uscita dal nulla l’aveva spiazzata. 
“E’ una questione religiosa?” fu l’unica cosa che le venne in mente di chiedere. Ma Tabatha scosse la testa di nuovo. 
“Iris ritroverà l’amore che ha perso. Non c’è posto per Jad nel suo schema.” 
Raquel ora era visibilmente imbarazzata. Non sapeva più di cosa stessero parlando. Guardò fuori dalla tenda per evitare lo sguardo di Tabatha. 
Jad stava legando un palloncino azzurro al polso di Iris. Lei gli rivolse un grande sorriso e lo costrinse a chinarsi per farsi abbracciare. 

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Capitolo 3
*** Josèphine ***


“Iris, apri alla porta!!”

“Un attimo!”

“Veloce!”

“Ho capito!! Ho capito.”

L’afa di quell’agosto era insopportabile. Le tende erano tutte tirate, non solo per riparare l’interno della casa dal sole, ma soprattutto perché potessero sentirsi liberi di girare per casa in biancheria. Iris si infilò una maglietta di suo padre che le arrivava appena sotto al sedere, ma che copriva quelle forme di giovane donna che si erano ormai da anni definite, prendendo il posto del corpicino esile e piatto da ragazzina. Eppure era rimasta innocente di viso; sembrava ancora minorenne, nonostante frequentasse l’università ormai da un paio d’anni.

Non poteva che essere la postina, pensò. Ma il campanello suonò di nuovo quando stava per aprire la porta. Esitò per un istante, perplessa, poi aprì.

Jad le rivolse un sorriso che la sciolse e la immobilizzò allo stesso tempo.

“Jad!” esclamò senza fiato. Si alzò in punta di piedi per abbracciarlo.

Lui rise e le accarezzò la schiena, ma smise subito quando si accorse che le stava involontariamente sollevando la maglietta a scoprire le mutandine bianche che indossava sotto. Non disse nulla, ma arrossì; lei non se ne accorse.

“Cosa ci fai qui? Pensavo foste a Valencia!” Iris ritornò sulle piante dei piedi e notò che l’amico reggeva un palloncino azzurro nella mano destra. Non ne fu più di tanto sorpresa, ma gli rivolse un sorriso adorante, mentre lo accettava.

“Ecco perché abbiamo solo sei ore prima che debba ritornare per lo spettacolo.” disse, guardando l’orologio. Iris spalancò la bocca.

“Sei matto!” disse, tuttavia senza perdere tempo. Salì le scale verso la propria stanza per andare a vestirsi. “Sei tutto matto!” gli urlò da lontano, mentre lui attendeva sulla soglia. “E anche venticinquenne. Non mi sono dimenticata!”

Jad ridacchiò e scosse il capo. In poco meno di tre minuti, Iris fu di ritorno: indossava un vestitino azzurro che la faceva sembrare di nuovo la bambina persa nel circo, semplici sandali bianchi ai piedi ed una borsetta in spalla. Non si era pettinata, né truccata, ma non ne aveva bisogno: era stupenda nella sua semplicità. “Auguri, vecchio.” gli sorrise maliziosa, lanciandogli un pacchetto incartato mentre gli passava davanti varcando la soglia.

Jad rimase solo per un attimo sorpreso, ma poi sorrise e la seguì lungo il vialetto.

“Anche quando voglio stupirti, sei tu che stupisci me alla fine!”

 

 

 

 

La convinzione di Porthos di voler parlare con Athos era sfumata non appena aveva raggiunto la Corte dei Miracoli, e più precisamente Joséphine.

Il cuore gli era andato in mille pezzi vedendo la bambina tentare di sorridergli, ma venire dilaniata dal dolore che le piaghe le provocavano. Il suo viso era completamente ricoperto di pustole simili alle scaglie di un rettile, ma sanguinanti e scure.

“Ehi, principessa.” Porthos si sforzò di sorriderle, avvicinandosi al suo letto, ma sapeva bene che aveva dipinta in faccia un’espressione pietosa: faceva fatica a trattenere le lacrime.

“Ciao.” rispose lei con la sua vocetta roca, dovuta alle piaghe che dovevano essersi formate anche nella sua gola.

Ogni volta che entrava da quella porta, sperava di vederla migliorata, così come era stato per sua madre e per suo padre, che infine erano guariti, ma invece gli sembrava peggiorare di giorno in giorno. Le prese la mano tra le sue: non aveva paura di ammalarsi.

“Come ti senti oggi?” le chiese poi con un sorriso forzato.

“Male… Ho caldo.” replicò la bambina.

Porthos le mise una mano sulla fronte e pensò di star toccando una pentola bollente. Qualcuno era apparso sulla soglia della porta. Porthos si voltò verso l’uscio ed osservò con aria rassegnata la figura di Flea appoggiata allo stipite: aveva gli stessi occhi arrossati di chi non dormiva da giorni, come lui, ed i segni ancora visibili del vaiolo sulla sua pelle.

“Scotta.” le disse Porthos. Ma, come se non riuscisse a reggere lo sguardo di lei per più di qualche secondo, abbassò gli occhi e tornò a guardare la piccola seienne rantolare di dolore. Le strinse ancora di più la mano, ed insieme ad essa strinse le proprie labbra e fece del suo meglio per non piangere. “Cerca di riposare un po’, Jo. Forse ho trovato un altro dottore.” le annunciò speranzoso. “Uno di quelli bravi. Quando guarisci ti prometto che ti porto a vedere i cavalli della Guarnigione!” finse il suo entusiasmo più ingenuo, ma la voce gli tremava.

“Porthos…” lo richiamò Flea in un tono stanco di rimprovero.

La bambina annuì lentamente e lui le sorrise di nuovo. Le lasciò la mano sul letto ed uscì dalla stanza, preceduto da una Flea esausta e rassegnata.

“Basta dottori.” dichiarò, sicura. “Niente sembra funzionare. L’ultimo salasso l’ha solo indebolita… Non ho più soldi né la forza di procurarmeli, io...”

“Senti, senti. Fidati, d’accordo? Non puoi lasciarla andare così, ci dev’essere una cura.” disse, sicuro, come se le parole di Milady si fossero inculcate nella sua testa così a fondo da fargli credere che fossero vere sul serio.

“Anche se ci fosse, non abbiamo tempo. Non mangia cibi solidi da giorni, ormai… Non posso più vederla così...” si portò le mani strette alle tempie e crollò. Porthos la vide piangere per la prima volta dopo molto tempo e gli venne spontaneo abbracciarla.

“Troverò il modo. Troverò il modo.” continuò a ripeterle, finché i suoi squittii disperati si calmarono un po’.

“Flea!” un uomo alto e scuro, molto simile a Porthos per corporatura e colore della pelle, irruppe nella stanza d’un tratto. “Cosa c’è, amore?” domandò preoccupato. E senza pensarci, lei si spostò dalle braccia di Porthos alle sue, continuando a singhiozzare.

“Porthos.” lo salutò con un cenno del capo, indifferente ma non sgarbato.

“Yohan.” disse semplicemente Porthos, senza tuttavia muovere un muscolo, ad eccezione della sua mandibola quando digrignò impercettibilmente i denti nell’osservare la scena.

“Sono qui, Flea… Andrà tutto bene, troveremo un modo.” disse Yohan alla ragazza tra le sue braccia, ripetendo le stesse parole che Porthos le stava sussurrando poco prima, quasi come se le avesse origliate. “Troveremo un modo.”

Le narici di Porthos si dilatarono pericolosamente mentre osservava la scena; sentì la rabbia montare, e prima di esplodere in una scenata, uscì dalla casa come una furia.

Al diavolo Athos. Avrebbe dovuto capirlo ormai da tempo che Milady non era altro che una cagna. Forse gli stava addirittura facendo un favore aprendogli gli occhi in quel modo. Non gli importava che la vedesse di nuovo nelle vesti di amante del Re; in quel momento non gli sarebbe importato nemmeno se il Re in persona fosse morto.

Quella bambina rappresentava la parte di Flea ancora razionale, quella che lo amava ancora; allo stesso tempo voleva dimostrarle che era ancora l’uomo di una volta, che avrebbe fatto di tutto per riprendersela.

Accecato dalla rabbia e dal dolore, l’unica cosa che voleva al mondo era salvare Joséphine, e lo avrebbe fatto a costo di vendere l’anima al diavolo, o ad una stronza.

 

 



“Ci credi agli spiriti, Jad?”

Jad si sollevò da terra con gli occhi fuori dalla testa, per guardare Iris con aria esterrefatta. Ma lei non lo vide: se ne stava beatamente sdraiata sul cofano della sua Seat Ibiza impolverata, a guardare le nuvole sopra di loro.

“Davvero? Ti sembra un discorso da fare ora, qui, in un bosco deserto? Non so se hai visto quella casa inquietante che abbiamo passato poco fa, ma è un’ora che tengo d’occhio il sentiero aspettandomi di vedere sbucare un tizio con una motosega.”

Il corpo esile ed aggraziato di Iris fu scosso dalle risa. Quando sollevò il ginocchio destro, tenendosi gli addominali mentre sghignazzava, Jad intravide di nuovo le mutandine bianche, e ancora una volta arrossì. Ma stavolta non smise di guardare.

“Voglio dire, tua madre deve averne visti parecchi… Mi chiedevo se...”

“Aspetta… Cosa?” la interruppe, distogliendo lo sguardo dalle sue cosce sode e pallide, per tornare a concentrarsi sul discorso. “Mia madre non vede gli spiriti.” disse, come se fosse la cosa più assurda che avesse mai sentito.

“Pensavo di sì. Fa tutti quei discorsi sulla vita dopo la morte, sa sempre quando hai appena perso una persona cara… E poi devo dire che ci prende su un sacco di cose: come fa a saperle, altrimenti? Gliele dicono gli spiriti, no?” ragionò, come se il discorso non facesse una piega.

“E’ un potere innato. Non dipende da… quelle cose.” tagliò corto lui.

“Sentiti… ‘quelle cose’… Hai anche paura di dirlo!” e rincominciò a schernirlo, ridacchiando.

Jad scosse la testa con un sorriso. Lo sguardo gli cadde sul palloncino azzurro all’interno della macchina, legato saldamente alla maniglia della portiera, poi di nuovo su di lei. A occhi chiusi si crogiolava nel tepore del sole sbiadito dalle nuvole.

“Ehi, ancora non hai aperto il mio regalo!” si ricordò lei all’improvviso, scattando come una molla a sedere sul cofano. “Dai, prendilo! Dai!”

“Ce l’ho!” esclamò stizzito dalla sua insistenza, tirandolo fuori dalla tasca. Lo scartò pazientemente, mentre lei allungava il collo per vedere, come se non sapesse cosa ci avrebbe trovato dentro. Jad aprì la scatola blu con il marchio della gioielleria e il suo viso si rilassò in un’espressione piacevolmente sorpresa mentre ne estrasse una collana di caucciù. Le due estremità erano unite da una sottile stecca d’argento che costituiva la corda sulla quale camminava la sagoma di un funambolo, anch’esso argentato.

“Allora?! Forte, vero?” gli chiese eccitata, con un gran sorriso.
Lui le sorrise di rimando. Aveva il viso in fiamme. “E’ fantastico. Grazie.”

“Te la metto io!” disse poi lei, facendogli ampio cenno con le mani di avvicinarsi.

Quando Jad le fu di fronte, quasi pregò che quel momento non finisse mai.

Era tutto troppo perfetto, lei era perfetta, il sole, il suo vestito, le sue mani che gli sfioravano la nuca armeggiando con l’allacciatura della collana, il profumo dei suoi capelli, lui che se ne stava in piedi tra le sue gambe aperte e non poteva fare a meno di abbassare lo sguardo nella sua scollatura, sulle sue labbra invitanti, sui suoi occhi concentrati.

Era proprio come quando camminava sulla fune, c’era soltanto un sottile filo che lo teneva in vita. Ma stavolta aveva un’altra possibilità, oltre a continuare dritto per la sua strada. E decise di buttarsi giù a capofitto.

“Fatto.” disse lei. E in un attimo se lo ritrovò addosso.

Le sue labbra la divorarono affamate, i polpastrelli affondarono nella sua carne pallida fino a lasciare dei marchi rossi, il vestito fu semplicemente fatto scivolare giù, ma questa volta non ebbe tempo di soffermarsi a guardarle le mutandine bianche; era troppo concentrato nel mangiarle i seni, leccare ogni centimetro della sua pelle salata mentre lei gli affondava le unghie nella schiena e mugolava piano. Entrò lentamente, ma subito iniziò a spingere sempre più forte, sempre più a fondo, voleva squarciarle l’anima, le passava le dita tra i capelli e poi le chiudeva in un pugno, tirando quelle ciocche bionde che si disperdevano tra le sue nocche scure, accompagnate da urla di piacere e di dolore. La sbatteva forte contro il cofano dell’auto, ma non pensava di poterle fare male.

Per tutte le volte che lo aveva preso in giro, per tutte le volte che lui aveva preso in giro lei, per quando l’aveva salvata, per quando l’aveva protetta, amata in segreto, spiata, ammirata, adorata, desiderata…

La tirò per i capelli quando giunse al culmine del piacere, costringendola a guardarlo dritto in faccia; voleva che leggesse l’amore nei suoi occhi.

Poi la stese sul cofano. La baciò con più dolcezza, le accarezzò la fronte, le scostò i capelli. Scese a baciarla sul collo, sui seni, intorno all’ombelico. Ogni volta che le sue labbra sfioravano la pelle di Iris, la sentiva tremare e gemere; si spinse ancora più giù, fino a farla ululare e gridare. Inarcava la schiena e la sbatteva sull’auto pesantemente, cercando aria ed emettendo strilli di piacere incontenibile.

Le sollevò le gambe e se le appoggiò sulle proprie spalle. Fece ricadere le mani con un tonfo sul cofano e si trovò faccia a faccia con lei; il suo viso era completamente pervaso da un sorriso enorme e soddisfatto. Entrambi sussultarono quando il palloncino esplose senza preavviso all’interno dell’auto, e poi risero insieme, divertiti dall’ironia del momento.

Jad si chinò su di lei per baciarla teneramente. Poi rincominciò.

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Capitolo 4
*** Monsieur le Grand ***


“E questo signori e signore era Jad l’equilibrista!! Un applauso!!”

Jad si inchinò un’ultima volta, godendosi lo scrosciare degli applausi prima che l’occhio di bue venisse puntato contro qualcun altro.

“Siete pronti per un po’ di magia?! Date il benvenuto al grande THIIIIIBAUD!!”

Jad sorrise a se stesso. Era arrivato tardi allo spettacolo, avevano dovuto anticipare il numero dei giocolieri per dargli tempo di prepararsi, si sarebbe preso una grande sgridata dal direttore, ma non aveva in mente nient’altro che lei; mentre camminava sulla fune la vedeva dall’altra parte ad aspettarlo, nel suo vestitino azzurro tirato giù fino alla vita a lasciarle i seni scoperti, le gambe aperte, invitanti, e quel sorriso malizioso sul volto che aveva cambiato per sempre il modo in cui la immaginava.

Non si sarebbe mai tolto quell’immagine di testa, non poteva credere che fosse successo davvero, e che sarebbe potuto succedere tante altre volte. Ancora prima che aprisse la porta della roulotte, però, ebbe un tuffo al cuore: un brutto presentimento. Non ci badò.

“Mamma...” esordì, pronto a darle spiegazioni. Era sicuro che avrebbe capito, era sempre stata molto aperta in quel senso, ed aveva sempre adorato Iris.

“Eri in ritardo.” la voce fredda di lei lo raggelò. Sapeva già tutto.

“E’ stato per una buona causa.” cercò di giustificarsi, per arrivare subito al punto. Lei era in piedi, come se avesse appena smesso di fare avanti e indietro, impaziente.

“So cosa stai facendo, Jad.” continuò. Lui notò che stava cercando di mantenere la voce su un tono piatto, ma non poté far a meno di sentire un lieve tremolio nel suo nome. Tabatha scosse la testa. “Non è una buona idea.” disse, addolcendo leggermente l’espressione.

“Cosa…?” Jad era attonito. Era l’ultima cosa che si aspettava di sentirsi dire.

Tabatha deglutì, vistosamente nervosa. Gli si avvicinò, i suoi grandi occhi verdi, lucidi ed incerti. Gli posò una mano sulla guancia, mentre gli leggeva l’anima nello sguardo.

“Soffriresti troppo, Jad. Sto solo cercando di proteggerti.” sussurrò. C’era qualcosa nelle sue parole che lo faceva tentennare; se non fosse stata sua madre, se ne sarebbe già andato. Ma Jad sapeva cosa poteva fare quella donna, e soprattutto che non gli aveva mai negato nulla in tutta la sua vita.

“Non puoi farmi questo. Cosa sai?” ebbe un brivido. Aveva guardato nel suo futuro, in quello di Iris: lei sapeva.

La sua mano scese sul collo segnato dai morsi, e corse lungo la collana fino a fermarsi sul pendente. Se lo rigirò nella mano con un sorriso lieve, poi lo strappò.

“Cosa…?!” scattò Jad, nervoso ed attonito. “Perché l’hai fatto?”

“Dimmi: ho mai sbagliato una sola predizione?” domandò, calma ma affranta.

Jad prese qualche lungo respiro, cercando di mantenere il controllo e maledicendo il fatto che fosse una donna e che fosse sua madre; altrimenti l’avrebbe già colpita.

“Sei davvero così presuntuosa… da pensare che ogni cosa che vedi si avveri sicuramente? Hai mai pensato che forse siamo noi a costruirci il nostro futuro? Hai mai pensato che forse possiamo cambiarlo? Che non è tutto scritto?!” alzò la voce man mano che la rabbia montava in lui, sfogandola in gesti ampi e teatrali e stringendo i pugni stretti.

Tabatha contenne una risata, ma i suoi occhi erano pieni di lacrime. “Ci ho pensato, eccome.” confessò. “Non importa, tesoro.” tornò ad accarezzargli la guancia. “Non importa che tu lo capisca ora. Presto ti sarà tutto più chiaro.”

Jad parve calmarsi, nel vedere sua madre così sconvolta ma allo stesso tempo rassegnata. “Non puoi semplicemente dirmi cos’hai visto?” domandò, più pacatamente.

Lei scosse il capo, serena. Lui annuì, sempre più nervoso. Si riprese il ciondolo a forza, in un gesto repentino al quale sua madre non oppose alcuna resistenza. Restò a fissarla col fiato corto ed il cuore in gola, rabbioso, ferito. Poi, inaspettatamente, scagliò la collana a terra ed uscì dalla roulotte a passo svelto; non voleva vedere nessuno.

In fondo sapeva che lei aveva sempre ragione, ma non lo avrebbe accettato, non quella volta.

 

 

Porthos aveva iniziato a tenere d’occhio quell’individuo, il marchese di Cinq-Mars, che si faceva chiamare “Monsieur le Grand”. Probabilmente per via del suo smisurato ego, a parere del moschettiere; la sola presenza di quell’uomo – ed era sempre presente – lo irritava al punto che il Re stesso aveva notato la sua irrequietezza. Quando il marchese gli lanciava frecciatine sul colore della sua pelle, o sulla sua stazza, tutto il disgusto che provava per quel tizio traspariva dalla sua espressione che tratteneva evidentemente dell’astio. Louis cercava sempre di allentare la tensione, dandogli forti pacche sulla schiena e dicendogli, tra le risate, di “non stuzzicare il can che dorme”, e distraendolo con la proposta di una passeggiata.

Non aveva mai visto il Re camminare così tanto come in quel periodo. Adorava passare tutto il suo tempo con il marchese ed aveva persino iniziato a trascurare Gisela, che trascorreva invece le sue giornate a prendersi cura del Delfino. Porthos percepiva vibrazioni negative provenire da lei ogni volta che salutava il marchese in un tono glaciale e distaccato.

Ma pareva che a Monsieur le Grand non importasse del parere di nessuno. Non aveva attenzioni che per il Re e si sforzava così tanto per cercare di compiacerlo ogni volta, che sia Athos che Porthos non riuscivano a capire come Louis non si rendesse conto di quanto falsi fossero i suoi sorrisi ed i suoi complimenti.

Athos giurava che una volta aveva sentito il Re dire che “non ci si può fidare delle donne, mio caro marchese. Anne mi ha spezzato il cuore e non sono sicuro di potermi concedere di nuovo completamente ad un’altra.”

Confessò a Porthos che gli erano venuti i brividi. Era sposato con Gisela da alcuni anni, ormai, e fino a pochi mesi prima pareva che non avesse occhi che per la sua adorata nuova moglie ed il Delfino. Poi era sbucato dal nulla uno sbarbatello poco più che ventenne, e il Re era tornato bambino d’improvviso: tutti lo rincorrevano per fargli firmare carte di cui a lui non pareva importare molto, rimandava riunioni e ridusse le apparizioni pubbliche. Ridacchiava come un ragazzino ad ogni battuta infantile del marchese, ed ogni giorno chiedeva di essere scortato assieme a lui nel cuore dei giardini, in quel piccolo angolo fiorito a cui soltanto lui aveva accesso, dove poi puntualmente congedava la sua guardia. Dopo tre o quattro ore un’altra guardia aveva il compito di tornare nei giardini e scortarli di nuovo a palazzo.

Porthos non riusciva a credere di stare per farlo seriamente; dare retta ad una donna che odiava dal profondo del suo cuore, tradendo gli ordini del suo Re, che forse poi tutti i torti non li aveva: “non ci si può fidare delle donne”. Non c’era altro a cui il Moschettiere riusciva a pensare quando, invece di allontanarsi come gli era stato comandato, si appostò dietro ad una siepe per sbirciare attraverso le sue fronde.

Si sentiva sporco, non era giusto, era come se stesse spiando una donna nuda farsi il bagno in un lago. Continuava a ripetersi che era per Josèphine. E per il Re, ovviamente, il suo Re. Lo stava spiando, sì, ma era per il suo bene.

Milady aveva scoperto la cospirazione attraverso “informatori fidati”, e sembrava piuttosto sicura del fatto che Cinq-Mars avrebbe attuato il suo piano molto presto. Non gli aveva dato molte altre informazioni e molte erano le domande che restavano aperte. Perché avrebbe voluto uccidere il Re, se era il suo favorito? E soprattutto, perché non lo aveva già fatto? Le occasioni non erano di certo mancate.

Louis aveva abbassato decisamente la guardia: in quel momento non era nemmeno armato, mentre Cinq-Mars portava con sé una pistola ed una spada. Le sentì risuonare in un suono metallico, quando cozzarono l’una contro l’altra nel momento in cui il ragazzo si sfilò la cintura dalla quale pendevano, e la posò a terra, accanto al punto dove poi si sedette. Il Re lo imitò, mentre chiacchieravano di quelle che Porthos reputava sciocchezze, e di certo lo erano, in confronto agli affari ben più importanti che Louis non stava sbrigando per stare seduto sul prato con un ragazzino.

Il Moschettiere distolse lo sguardo, annoiato, e si sedette dietro la siepe con l’orecchio teso.

“...Vostra moglie sembra in forma… State pensando ad un altro figlio?”

“… Avrei voluto spedire la cuoca alla ghigliottina...”

“… Una composizione molto interessante, sono sicuro la gradirete...”

“… Dov’è finito il tenebroso dagli occhi chiari che ci scortava settimana scorsa?”

Porthos sollevò le sopracciglia. Di tutto il gossip che aveva dovuto sorbirsi in quei minuti interminabili, forse era arrivata la parte più interessante.

“Athos?”

“Già. Anche se pure il negretto fa la sua figura...”

Porthos fece una smorfia. Ora non sapeva se volerlo uccidere per l’insulto razzista o… Era un complimento quello?

“Fossi in te non lo stuzzicherei più di tanto. Non lo hai visto combattere.”

Ben detto, Vostra Altezza.

“Ci avete fatto un pensiero?”

Cosa? Ma come si permetteva? Eppure il Re non reagì nella maniera in cui Porthos avrebbe pensato. Anzi, si mise a ridacchiare come una ragazzetta.

“Siete il solito!”

“Il solito? Non è forse ciò che volete da me? Che sia sempre lo stesso?”

“Che siate sempre sincero, sì, ma la Vostra sfacciataggine riesce sempre a sorprendermi.”

“Vediamo se riesco a battere me stesso nel sorprendervi, allora.”

Porthos sollevò le sopracciglia in un’espressione più che stupita. Il Re non rispondeva, ma in compenso udì un verso gutturale del tutto inaspettato, come quello che aveva udito molte volte provenire dalla gola di chi viene pugnalato all’improvviso.

“VOSTRA ALTEZ--” scattò immediatamente, saltando in piedi e facendo per intervenire, quando si rese conto del grandissimo errore che lo avrebbe messo in un mare di guai.

In quel momento, guardando Louis e Cinq-Mars mezzi svestiti, avvinghiati in atti che mai avrebbe voluto vedere, oltre alla vergogna non riusciva a provare altro che rabbia verso quella grandissima stronza che lo aveva fregato di nuovo.

Gli fu inoltre chiaro il soprannome di “Monsieur le Grand” che il marchese si era attribuito.

Mai fidarsi delle donne.

 

 

L’adrenalina gli scorreva ancora in corpo quando raggiunse, per la seconda volta quel giorno, la porta di casa di Iris. Era piena notte ormai, era stato in macchina per più di nove ore in totale quel giorno, senza contare tutto il sesso che avevano fatto, e lo show che aveva appena eseguito al circo.

Da qualche minuto fissava la porta, ma man mano che l’adrenalina lo abbandonava, tutta la sua determinazione andava svanendo. Sua madre non sbagliava mai. Ma il suo istinto nemmeno. Mai una volta lo aveva tradito quando camminava sulla corda, altrimenti ora non sarebbe lì come uno scemo, il cellulare in mano e la faccia da pesce lesso.

Aveva davvero guidato di nuovo fin lì, soltanto per poi tornare indietro? Era un dubbio amletico, di nuovo in equilibrio sulla fune. Fissava sul piccolo schermo del telefono il nome di Iris e si chiese cosa avrebbe potuto dirle, realmente.

Per tutto il viaggio si era immaginato lei corrergli incontro, di nuovo nel suo vestitino azzurro, e lui che le diceva qualcosa del tipo: “scappiamo insieme”, oppure “ti amo”. Ma in quel momento, tutto ciò sembrava proprio irrealistico.

Le utopie lo abbandonavano insieme alle sue forze, ma venne riscosso improvvisamente dalla suoneria acuta del cellulare che iniziò a squillare e vibrare, mentre “Mamma” lampeggiava sullo schermo.

Lo zittì con un gesto secco del pollice, rifiutando la chiamata, infastidito. Si sentì immediatamente in colpa. Pensò di mandarle un messaggio, solo per dire che stava bene e che sarebbe tornato subito, ma quando aprì la casella di testo, sentì una voce chiamarlo in un sussurro.

“Jad?”

Sollevò lo sguardo per vedere Iris affacciata alla finestra che lo guardava in un misto di stupore ed allegria. Tutti i suoi dubbi svanirono. Le sorrise malizioso.

Lei sparì per un istante e poi ricomparve, esattamente come se l’era immaginata. Iniziò a pensare che forse l’ipotetico dialogo che si era costruito in testa non fosse così irrealistico come credeva. Gli comparve un sorriso ebete sul volto, che lei riuscì a cancellare con due parole, poco dopo.

“Mi prendi?”

Inizialmente credette che fosse una proposta, ma quando la vide salire in piedi sulla finestra, strabuzzò gli occhi.

“Aspetta! Aspetta, non lo so se...”

“So che mi prenderai.” sorrise, e si buttò.

Aveva ragione, per fortuna. Ancora una volta Jad mantenne l’equilibrio, afferrandola saldamente prima che cadesse a terra. Certo avevano aiutato tutti gli anni ad allenarsi come trapezista, prima di intraprendere la carriera da funambolo. Il telefono gli cadde di mano, la batteria si staccò, così come il retro della cover.

“Tu sei pazza! Pazza!” la rimproverò sottovoce, rimettendola a terra ed andando a rimontare il suo cellulare, senza tuttavia riaccenderlo.

“Dai, muoviti!” lo prese per mano e lo trascinò, ancora incredulo, lungo il vialetto, verso la macchina del ragazzo, parcheggiata in strada. Iniziò a baciarlo già prima di salirvici sopra. Lo tirò a sé, lasciò che il suo corpo la spingesse contro la portiera piacevolmente fresca. Jad si immerse di nuovo nei ricordi di quel pomeriggio; era proprio come lo aveva immaginato.

La spinse dentro all’auto, sul sedile posteriore, e poi la seguì posizionandosi sopra di lei e chiudendo la portiera dietro di sé.

In quel momento le parole di sua madre risuonavano lontane e vaghe, come un sogno confuso; era lui che le aveva rinchiuse in un angolo della sua mente. Non voleva sentirle, voleva dimenticare tutto e stare soltanto così, a leccare il suo seno e farle sentire il suo desiderio, premendo contro il suo corpo esile che si contorceva già dal piacere, tra risolini e sussulti.

“Ti prendo...” le mormorò in una voce profonda, animalesca, affondando le dita nelle sue cosce, mentre lei già gli graffiava la schiena e lo avvolgeva con le gambe.

 

 

 

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Capitolo 5
*** In bilico ***


Jad si ridestò lentamente, scaldato dai primi raggi del sole che raggiunsero il suo viso. Non aprì gli occhi, ma svegliò i muscoli, muovendosi piano. Gli faceva male dappertutto; era seduto in una scomodissima posizione, in un angolo della macchina, ed Iris si era addormentata sopra di lui, usandolo come cuscino.

La sentì muoversi a sua volta, mugolando appena. Sentì la sua mano sfiorargli il viso e scendere sul petto e sorrise. Non gli importava se ogni singola parte del suo corpo fosse dolorante per via della nottata scomoda e di tutte le acrobazie che aveva fatto la sera prima. E non solo quelle sulla fune. Cercò alla cieca la sua testa ed affondò le dita tra i suoi capelli, baciandole poi il capo, gustandosi il profumo del suo balsamo.

D’un tratto lei scattò, destandolo completamente e facendolo persino sussultare.

“Oh no! Oh, merda!” esclamò Iris, cercando i suoi vestiti sparsi per tutta la macchina. Indossava soltanto gli slip, ed in quel momento Jad non riusciva a preoccuparsi troppo per qualsiasi cosa si stesse agitando.

“Non dire le parolacce.” sorrise sornione, afferrandola per la vita e tirandola a sé per baciarle il seno. “Dovrò punirti… Di nuovo...”

“Scemo!” sbottò lei, schiaffeggiandolo col vestito che teneva in mano, ma Jad notò una nota di piacere nel suo urletto. “Dobbiamo spostarci, i miei stanno per uscire per andare al lavoro!! Vai, vai, parti!” lo esortò. A quel punto sì che iniziò a preoccuparsi.

“Cosa?! Ma… Non ho nemmeno...” e anche lui iniziò a cercare con lo sguardo i suoi vestiti.

“Non importa, sposta la macchina! Parti!!”

Jad si spostò goffamente sul sedile del guidatore, facendosi strada in quella macchina troppo piccola per la sua stazza, e l’avviò. Imboccò una strada secondaria e si accostò di nuovo, mentre Iris si rivestiva. Spense di nuovo l’auto.

“Senti...” iniziò a dire, guardandola dallo specchietto retrovisore.

“Scusami. Mi avrebbero uccisa.” lo interruppe lei, spostandosi a sua volta sul sedile del passeggero per stargli vicino. Lui spostò il sedile indietro ed iniziò a rivestirsi a sua volta.

“Beh, quando rincominciamo?” scherzò Iris. Ma forse non scherzava; aveva di nuovo quello sguardo malizioso dipinto in viso.

Jad ridacchiò, mentre si infilava la maglietta. “Dovrei richiamare mia madre, non sa che sono qui, ieri mi stava chiamando...” si guardò attorno e ritrovò il suo telefono ancora spento, abbandonato sul tappetino sotto ai piedi di Iris. Lo accese.

“Ieri è stato...” iniziò di nuovo, ma lei di nuovo lo interruppe.

“Hai perso la collana che ti ho regalato?” domandò all’improvviso, notandone l’assenza.

Ma Jad aveva già altri pensieri per la testa. Il cellulare iniziò a squillare all’impazzata, notificando decine di messaggi non letti. Tutti riportavano più o meno lo stesso testo, o segnalavano chiamate perse. Il viso del ragazzo si contrasse in un’espressione attonita.

“Jad, che succede?” lo richiamò lei.

Ma lui non la sentì. Era lontano con la testa.

Il telefono prese a squillare di nuovo, mentre il nome di Thibaud, il mago del circo, lampeggiava sullo schermo.

“Jad, rispondimi, cosa succede?” insisteva Iris, scuotendolo per un braccio.

Ma lui continuava a non risponderle. Il suo sguardo rimaneva fisso sul cellulare che vibrava e squillava inquieto come lei, che iniziava ad agitarsi.

“Jad!” lo chiamò di nuovo, senza ottenere risposta. Invece lui premette il pulsante verde sulla tastiera e lentamente si portò il telefono all’orecchio, tremante.

“Pronto?”

 

 

 

 

 

Da un paio di giorni Porthos teneva d’occhio quella cella, della quale riusciva a scorgere soltanto un angolo e soltanto premendo il viso contro le sbarre della propria, di tanto in tanto vedeva un’ombra, un piede, il lembo di un vestito. Sentiva i suoi passi camminare avanti e indietro, impazienti, agitati; doveva essere qualcuno di piccola statura, esile e aggraziato. Il Moschettiere si domandò cosa avesse fatto per essere rinchiuso insieme a lui in quell’ala della Conciergerie.

Tutte le altre celle erano vuote; non era stata una scelta casuale quella di ingabbiarlo dove non potesse vedere l’ospite dell’unica altra cella occupata.

Una settimana di isolamento: non gli era andata poi così male. Il Re era stato clemente, aveva tenuto in considerazione tutti i suoi anni di fidato servizio, e forse si era anche bevuto un po’ la scusa che Porthos gli aveva propinato. E non era nemmeno una bugia completa: credeva ci fosse qualcuno che attentava alla sua vita. Aveva soltanto tralasciato di menzionare il fatto che pensava fosse lo stesso Cinq-Mars a complottare…

Era infuriato con se stesso per aver commesso un errore tanto stupido; si vergognava profondamente di ciò che aveva visto, ed allo stesso tempo odiava quella donna sempre di più. Lei lo sapeva benissimo, lo sapeva e non glielo aveva detto, aveva lasciato che lo scoprisse da solo nel peggiore dei modi. Ed ora doveva starsene lì per tutto quel tempo a fare niente, mentre quel viscido verme attentava alla vita del suo Re, e Josèphine…

Non riusciva nemmeno a pensarci, sentiva il cuore annegare e la testa stretta in una morsa. Ma più soffriva, più si costringeva a pensare a lei. Questa era la sua vera punizione. Il suo dolore non sarebbe mai comunque equivalso a quello di Josèphine, e questo lo faceva stare ancora peggio.

Si stese sulla branda. Almeno la cella non era così male: aveva qualcosa che assomigliava ad un letto ed una panca.

Ogni giorno gli portavano della frutta e gli davano una nuova candela, ma comunque regnava il silenzio più totale. Nessuna guardia parlava, l’altro prigioniero non parlava e lui… beh, non aveva poi tutta questa voglia di aprir bocca. Sarebbe comunque stato zittito. Soltanto il rumore dei passi dei soldati che facevano avanti e indietro gli teneva compagnia; di tanto in tanto udiva anche quelli dell’altro prigioniero.

Sentì la guardia di turno lasciare il suo posto e salire le scale. Tre volte al giorno, per alcuni secondi – un minuto al massimo – veniva liberato dallo sguardo dei carcerieri.

Tirò un sospiro di sollievo e rilassò tutti i muscoli per un attimo solo. Ma poi un altro rumore lo fece tornare sull’attenti. Qualcosa aveva colpito le sbarre della sua cella. Si alzò di scatto e guardò incuriosito quella strana palla avvolta in un foglio stropicciato. Un’altra guardia stava già scendendo le scale. Rapidamente la raccolse e la infilò in una tasca interna della giacca, per poi far finta di niente e tornare a sdraiarsi.

Cosa diavolo era? Sicuramente proveniva dall’altra cella occupata. Il foglio sembrava vuoto, ma cosa conteneva, allora? Moriva dalla curiosità di scoprirlo; finalmente qualcosa di meno deprimente teneva la sua mente occupata.

Attese che la guardia passò davanti alla sua cella, dandogli le spalle, poi scartò velocemente la palla, che si rivelò essere… un’arancia. Nient’altro che un’arancia. Cosa poteva significare? Esaminò il foglio, fronte e retro, ma era totalmente in bianco.

D’accordo. O il secondo prigioniero era uno svitato, o a lui sfuggiva qualcosa. Nascose tutto sotto alle coperte, prima che la guardia tornasse indietro, poi cercò di guardare verso l’altra cella, ma non riuscì a scorgere nemmeno l’ombra del suo ospite.

Si sedette ed iniziò a spremersi le meningi. Se voleva soltanto dargli un’arancia, perché avvolgerla in un foglio? A meno che il foglio… Non fosse davvero vuoto. Certo!

Sempre tenendo d’occhio la guardia, avvicinò la candela ed iniziò a passarci sopra il foglio, attento a non bruciarlo; la carta iniziò a scurirsi in alcuni punti. Delle lettere stavano apparendo. Dovette interrompere l’operazione un paio di volte, quando la guardia faceva dietro-front e tornava verso la sua cella, ma alla fine sembrò aver decifrato il messaggio nascosto.

Un messaggio scritto col succo di arancia, semplice ma geniale. Era fiero di se stesso per aver scoperto il trucco, ma non ebbe tempo di gongolarsi troppo; non appena lesse ciò che c’era scritto, un velo gelido cancellò l’espressione soddisfatta dal suo viso. Poche parole in una grafia incerta bastarono per scuotergli la spina dorsale di brividi.

“Cinq-Mars vuole incolpare Athos del tentato omicidio del Re.”

 

 

 

 

Le luci lampeggianti delle autovetture e delle ambulanze si proiettarono negli occhi di Jad così profondamente da ipnotizzarlo e farlo quasi andare a sbattere contro una macchina parcheggiata. Abbandonò la propria senza nemmeno chiuderla e rimase per un attimo infinito a bocca aperta, col petto gonfio di dolore e lo sguardo fisso sui tendoni colorati che però d’un tratto gli apparivano come un brutto quadro ingrigito, in cui spiccava soltanto il giallo del nastro della polizia tirato tutto attorno.

Non si accorse nemmeno di averli scavalcati quando si ritrovò al di là del perimetro contornato, né del poliziotto che cercava di intimarlo di stare indietro. L’unica cosa che riusciva a vedere in quel momento era la ruota panoramica che si stagliava imponente sovrastando i tendoni e le bancarelle. Nonostante il sole alto di fronte a lui cercasse di impedirgli di capire cosa fosse successo, Jad non ci mise troppo ad individuare tra le cabine quella mancante. Seguì con lo sguardo una linea retta fino al suolo, ma non riuscì ad individuare che un ammasso di rottami, coperto parzialmente dalla folla che vi si era radunata attorno.

“Thibaud!” esclamò, individuando il mago tra la gente. Corse verso di lui, ma non appena l’uomo si voltò e lo riconobbe, la sua espressione afflitta mutò in qualcosa d’altro che Jad non seppe interpretare.

“No!” urlò, attirando l’attenzione di altri membri del circo, che vedendolo sembrarono andare nel panico a loro volta. “Jad, stai lontano!” e gli fu addosso. Un francese mingherlino che cercava con tutte le sue forze di spingerlo indietro, lontano dal luogo dell’incidente.

“Cos--? Cosa succede?” Jad era sconcertato. Gli avevano detto che nessuno era sulla ruota in quel momento, perché non voleva fargli vedere?

“Jad, non ti avvicinare!” intervenne il domatore, che insieme ad un paio di altre persone cercò di portarlo lontano da quel posto. Il suo cervello era tremendamente lento nel collegare tutti i pezzi, probabilmente perché lui stesso aveva una paura inspiegabile di giungere alla conclusione. Ma in quel momento gli fu chiara la presenza dell’ambulanza, il tono di voce di Thibaud al telefono, la faccia che aveva fatto quando lo aveva visto, e il perché quattro uomini gli erano ora addosso e lo spingevano con tutte le loro forze verso un tendone.

“Mamma...” mormorò con un fil di voce. Gli occhi gli si riempirono istantaneamente di lacrime. “No...” mugolò come un gattino ferito, guardando i suoi colleghi, uno per uno. “No, non è vero… No… Fatemi vedere, voglio...” ma non lottò per molto contro di loro. Una parte di lui non voleva veramente vedere: si lasciò trascinare via, quasi a peso morto.

Non svenne, ma cadde in uno stato di shock. Quando si riprese vagamente, si ritrovò su una panca a fissare persone che non riconosceva attorno a lui; avevano delle tute arancioni, ma il suo cervello era completamente congelato, tanto da non riuscire nemmeno a ricollegarli ai soccorritori.

“Stai tranquillo.” qualcuno gli prese la mano, un tocco femminile, delicato e rassicurante. L’attenzione di Jad però era stata catturata dai colori vivi delle tute e la vista appannata li mescolava assieme in un vortice confuso: quantomeno stava reagendo e avevano smesso di puntargli la luce negli occhi.

“Riesci a sentirmi?” una voce che cercava di riportarlo alla realtà, ma lui non voleva tornarci. La realtà era crudele, fredda.

Non c’era più quella ragazza bellissima che lo aspettava dall’altro capo della fune, col seno scoperto e le gambe divaricate. Ora riusciva soltanto a vedere l’oscurità sotto ai suoi piedi che inghiottiva la corda fino a fargli perdere l’equilibrio; i piedi nudi di Iris diventavano tentacoli pronti a frustarlo, il suo sorriso malizioso un ghigno diabolico, i suoi morbidi capelli biondi un groviglio ispido. Gli occhi gialli e rossi lo penetravano, terrificanti, una lunga lingua appuntita leccò le labbra violacee come se si stesse per pregustare un glorioso pasto.

“Riesci a sentirmi?” gli diceva qualcuno lontano, sopra di lui. Nel momento in cui si distrasse, i mostro lo colpì con un tentacolo. Cadde nelle ombre, ma riuscì ad afferrare la fune e rimase lì, a penzoloni, con il mostro che lo fissava e sghignazzava ed il buio che pareva risucchiarlo. Non era mai caduto prima d’ora.

“Riesci a sentirmi?” questa volta riconobbe chiaramente quella voce.

“Mamma?” Jad rimase per un attimo incredulo e la mano destra perse l’appiglio, lasciandolo appeso alla corda soltanto con la mano sinistra. Udì un sussulto di terrore da parte di un pubblico inesistente, da qualche parte sotto di lui.

“Mamma...” mugolò, mentre il soccorritore tornava a puntargli la luce negli occhi.

“Jad, mi dispiace. Ma non lascerò che tu cada.”

D’un tratto una forza lo prese per la mano libera e lo risollevò, riportandolo sulla corda. Jad vide una luce rossa come il fuoco, calda ed accogliente. Il mostro sembrava temerla.

“Vai.” la voce di sua madre era sempre più vicina, come se provenisse dall’interno di quella luce tremula. Il mostro terrificante si gettò nell’oscurità, terrorizzato e la luce lo guidò tenendolo per mano fino alla piattaforma.

La gente applaudì, l’occhio di bue puntò su di lui, accecandolo.

A quel punto Jad tornò realmente in sé con un sussulto improvviso. Si voltò per vedere chi gli stesse tenendo la mano, ma si rese conto che nessuno sedeva accanto a lui.

Fissò tutte le persone attorno che preoccupate cercavano di accertarsi delle sue condizioni e di decidere se portarlo in ospedale. Ma lui si alzò come se niente fosse e con una sicurezza irreale, uscì dal tendone sotto lo sguardo attonito dei presenti.

Entrò nella tenda di sua madre. Tutte le sue cose erano ancora lì, il suo profumo ancora nell’aria, delle carte scoperte sul tavolo, una scatoletta di legno incisa ed una lettera appoggiata accanto ad essa.

Lo sapeva. Non voleva crederci, ma in fondo lo aveva saputo dal primo momento in cui aveva visto i nastri della polizia; non poteva essere stato un incidente. Eppure non riusciva a spiegarsi il motivo per cui lo sentiva nel profondo delle sue viscere, una sensazione scomoda, fastidiosa, che lo faceva sentire in colpa, e non era soltanto per aver rifiutato quella che era stata la sua ultima chiamata, e non averla nemmeno rassicurata con un messaggio la sera prima, no. Era qualcosa di più profondo, di più oscuro.
Jad lesse la lettera senza esitazione: doveva sapere subito. Aveva tutta la vita per piangere e disperarsi, ma solo pochi istanti per cercare di afferrare il sentimento di sua madre tra quelle poche righe. Gli occhi scorrevano lentamente, nel tentativo di cogliere qualsiasi sfumatura nella scelta accurata delle parole, qualsiasi piccola macchia d’inchiostro esitante che gli facesse comprendere lo stato d’animo di Tabatha mentre le scriveva.

Quando ebbe finito, appoggiò di nuovo la lettera sul tavolo ed aprì la scatola di legno. Con gli occhi lucidi, si guardò attorno. Sembrava essersi rimpicciolito, come un palloncino sgonfio. Tutto il potere che si era sentito scorrere nelle vene in quei due giorni, la gioia, l’eccitazione, la soddisfazione, tutto perduto. Rimaneva solo lui, con quella lettera e quella scatola, senza Iris e senza madre.

Tornò a guardare l’interno della scatola di legno. Prese un grande respiro, poi afferrò il ciondolo a forma di equilibrista.

E questa volta cadde davvero.  

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Capitolo 6
*** Ritorno a casa ***


Erano stati cinque lunghissimi anni. Cinque anni senza sua madre, cinque anni senza Iris, senza amici, senza camminare sulla fune.

Ma ora Jad sapeva che il momento era giunto: era tempo di tornare al circo e rimettere a posto quello scomodo tassello nel quale inciampava continuamente. Per tutto quel tempo aveva vissuto dei pochi soldi messi da parte e quelli ereditati da sua madre, e della generosità della gente che aiutava volontariamente. A volte non veniva nemmeno ripagato, altre volte era lui stesso a non voler accettare.

Trovava incredibile come le persone reagissero differentemente alle notizie spiacevoli o piacevoli che siano. Ma tutto ritornava sempre allo stesso, maledetto punto: qualsiasi cosa facesse, non riusciva mai a cambiare il destino della gente.

Se diceva ad un genitore che il figlio aveva un cancro che andava curato subito, questi non gli credeva e lo mandava al diavolo scambiandolo per un mendicante squattrinato in cerca di guai; se provava ad evitare degli incidenti, questi avvenivano lo stesso, in un modo o nell'altro. L'unica soddisfazione che poteva trarre dal fare tutto ciò derivava dal fatto che qualche volta le persone gli credevano e, anche se non potevano cambiare il loro destino, lo ringraziavano con pasti caldi, soldi o un rifugio per la notte.

Aveva viaggiato in sette diversi stati, imparato nuove lingue, consumato innumerevoli paia di scarpe e quasi morto di fame, ma non era trascorso un giorno senza che riuscisse a non pensarla. Tutto quello che aveva vissuto lo aveva portato a quel momento: Jad passò sotto al grande arco luminoso che segnalava l'entrata del circo. La ruota panoramica si stagliava di nuovo alta ed imponente, e per un attimo gli parve di scorgere una cabina mancante, ma quando batté di nuovo le palpebre, si rese conto che erano tutte lì.

Era stato per miracolo che il direttore era riuscito a salvare il circo dalle accuse di negligenza e di omicidio colposo. Ed ora eccolo di nuovo lì. Non c'era nessun vuoto tra le cabine appese a mezz'aria della ruota, ma ce n'era uno immenso nel suo cuore, ed un altro tra i tendoni. La piccola tenda sotto la quale sua madre leggeva le carte era sparita, ma gli era stato promesso che non l'avrebbero mai rimpiazzata: con suo grande sollievo ora poteva constatare che avevano mantenuto fede all'impegno. Sapere che sua madre veniva ricordata lo fece sentire un po' meno colpevole.

Si tirò su il cappuccio della felpa. Non aveva voglia di parlare con chiunque incrociasse. Riuscì ad evitare lo sguardo di un paio di persone che conosceva, ma schivò troppo tardi quello di una trapezista, che parve riconoscerlo. Lo fissò sorpresa per un attimo, ma non lo fermò.

Jad udì il tamburellare delle sue dita sulla tastiera del telefono, anche se non sarebbe mai stato possibile da quella distanza. "E' qui." nonostante lei non avesse aperto bocca, la voce della ragazza gli giunse in un sussurro all'orecchio, sovrastando il vociare delle persone attorno a lui. Si voltò a guardarla, e lei gli ricambiò un'occhiata ancora più scioccata. Sì, sapeva cosa aveva scritto nel messaggio, e anche a chi. Tuttavia, gli rimaneva ancora un po' di tempo.

Passò tra i tendoni e raggiunse la roulotte del direttore, alla porta della quale bussò con decisione.

"Jad?" disse una voce sorpresa alle sue spalle. Il ragazzo sorrise debolmente al suo ex capo.

"Direttore." salutò, con un cenno del capo. "La trovo in forma."

L'uomo non era cambiato molto da come lo ricordava; aveva sempre lo stesso sguardo vispo negli occhi e quel pancione che lo faceva sembrare un cartone animato.

"Ragazzo mio, ma dove sei stato?" lo strinse in un abbraccio stritolante, che Jad ricambiò appena, con un sorriso divertito. "Vieni, hai tante cose da raccontarmi. E anche io a te."

In un attimo si ritrovò seduto al tavolino a bere un tè caldo, in silenzio. Aveva tante cose da raccontare, ma nessuna che voleva condividere veramente. Aspettò che fosse Gustav a parlare, e le sue prime parole furono subito un duro colpo da incassare.

"Avresti potuto dircelo, sai? Che un giorno sarebbe piombata qui una ragazzetta e avremmo dovuto spezzarle il cuore al posto tuo." il suo tono era severo, ma lasciava spazio ad una giustificazione da parte sua. Soltanto che non ne aveva una.

"Mi dispiace che abbiate dovuto farlo... Fino a pochi mesi fa, pensavo che mi avesse completamente dimenticato." dopotutto, l'aveva abbandonata per strada quel giorno, dopo che avevano passato la notte assieme, e non si era mai più fatto sentire. Lui stesso non era stato al funerale di sua madre, ma aveva immaginato che Iris ci fosse andata con i propri genitori.

"Quindi è riuscita a contattarti?" domandò Gustav incuriosito.

"A dire il vero, no."

Il direttore gli lanciò un'occhiata sospettosa, addentando un biscotto, e Jad si riempì la bocca di un sorso di tè, lasciandolo a riflettere su quella risposta elusiva.

"Ragazzo, sappiamo tutti bene cos'hai dovuto affrontare. Ma nessuno ha compreso la tua scelta di andartene e di rifiutare qualunque aiuto. Quello che ti è stato donato..." e puntò il dito verso il suo petto, dove spiccava il ciondolo a forma di funambolo. "... non è un fardello da poco."

Jad tornò con la memoria a quei primi giorni, quelli in cui non riusciva a chiudere occhio, attanagliato dalle emicranie, da ricordi confusi che gli vorticavano in testa senza logica, dal dolore per la perdita di sua madre. Ricordò come se n'era andato, perché non riusciva a sopportare di stare in mezzo alla gente, non poteva controllare il flusso di informazioni che entravano nel suo cervello.

"Va molto meglio ora. Riesco a tenerlo a bada, in qualche modo." rassicurò, tentando un altro debole sorriso che si mostrò più come una smorfia. “A volte mi torna anche utile” aggiunse, abbassando la voce.

"Devo dirtelo, quando ti abbiamo trovato sul pavimento a tremare come una foglia, pensavamo avessi preso qualcosa per farla finita." confessò Gustav, addentando un altro biscotto.

Jad dovette strizzare gli occhi per un attimo. Ricordando quel giorno, gli provocò una scossa alla tempia e lo bombardò per un millisecondo di tutte quelle immagini confuse che alla fine era riuscito a riordinare. "Pensavo anche io di non poter sopravvivere." disse, facendo finta di nulla e massaggiandosi la tempia in un gesto naturale.

"Ebbene, sei tornato per restare, quindi?" Jad colse quella nota di speranza nella voce di Gustav, nonostante cercasse di non farla trasparire troppo.

"Temo di no. Ho ancora un paio di faccende da sbrigare."

Il direttore gli lanciò un'occhiata di disapprovazione. "Spero che una di queste sia quella ragazzetta. E' un paio d'anni che non viene più a chiedere di te, ma credo che meriti una risposta."

"La avrà." disse Jad. Il suo sguardo scrutò al di là del finestrino e si posò sui palloncini colorati illuminati dalla debole luce del tramonto.

Gustav si sbafò l'ultimo biscotto e guardò anche lui fuori dal finestrino, verso la ruota panoramica.

 

 

 

Porthos non faceva che fissare tra le sbarre della sua cella, in quell'angolo dal quale in rare occasioni aveva scorto qualcuno muoversi all'interno dell'altra cella. Chi gli aveva mandato quel messaggio? Attendeva con impazienza che la guardia si allontanasse per provare a mettersi in contatto con l'altro prigioniero, ma le ore parevano infinite. Doveva occupare meglio quel tempo, non poteva sprecarlo, mentre Athos ed il Re rischiavano la vita.

Si mise a scrivere. Ma subito si rese conto che quella lettera sarebbe stata controllata e gettata se avesse rivelato i dettagli di un complotto. Pensò e ripensò e alla fine giunse ad una soluzione: Athos avrebbe capito. Già solo il fatto che gli spedisse una lettera dalla prigione, lo avrebbe insospettito. Cercò di renderla il più smielata possibile così da rendere ovvio che nascondeva altro, oltre alle informazioni inutili che gli stava fornendo. Dovette fare vari tentativi, perché le prime parole di ogni riga rivelassero il vero messaggio, ma alla fine ce la fece.

Ora doveva solo pregare che la lettera arrivasse nelle mani del Capitano. Mentre ripiegava la lettera, udì i passi della guardia salire le scale e si fiondò immediatamente nell’angolo, premendo il viso contro le sbarre.

“Ehi!” bisbigliò il Moschettiere. “Fatti vedere!”

Fu una completa sorpresa per lui intravedere nell’angolo dell’altra cella una ciocca di lunghi capelli rossi. I grandi occhi di Liz spiccavano sul viso smorto e pallido, ma lo fissavano pieni di orgoglio.

Porthos rimase a bocca aperta. Tutto gli tornava. Ecco l’altro motivo per cui Milady voleva svelare il complotto: non aveva alcuna intenzione di tornare ad essere l’amante del Re, voleva solamente salvare Athos e Liz.

“Come sei finita qui?” domandò. In quel momento udì i passi della guardia scendere di nuovo le scale.

“Cinq-Mars.” fece in tempo a bisbigliare lei in risposta. Poi rimase in silenzio a fissarlo, leggermente imbronciata, ancora per qualche istante prima di sparire nella sua cella quando la guardia raggiunse la propria postazione.

Porthos tornò a sedersi sulla branda, la sua mente iniziò ad elaborare così tante informazioni che non sapeva da quale di queste dover iniziare a sentirsi in colpa. Liz, conosceva quella ragazza. Era venuta da lui, mesi prima, lo aveva accusato di mentire: era così sicura di sé e del fatto che Athos pensasse ancora a Milady che per un attimo aveva pensato di dirle la verità.
Invece le aveva detto di controllare coi suoi occhi. L’aveva spinta a seguire Athos in una delle sue innocenti visite a Constance, nella sua casetta fuori Parigi dove era stata esiliata dopo tutto ciò che era successo. Liz non aveva idea di chi fosse quella donna, ma le bastò vedere il sorriso sul volto del Capitano per convincersi che doveva essere la sua amante.

Porthos non riusciva ancora a credere di essere riuscito, per la prima e unica volta in vita sua, ad essere più furbo dell’astuzia fatta a persona, ma in qualche modo, complice quell’ingenua rossina, ce l’aveva fatta. Non ci aveva più pensato molto in seguito. Era convinto che le cose avrebbero seguito un corso naturale, che Athos si sarebbe dimenticato di lei prima o poi, e viceversa. Ma non era stato così, affatto.

Se da una parte era ancora convinto che fosse stato per il bene di Athos, dall’altra iniziò a porsi dei seri dubbi, mentre il senso di colpa lo divorava. Se Athos avrebbe saputo, lo avrebbe ucciso. Non poteva dirglielo, non ancora.

Intanto doveva pensare a salvargli la pelle. Chissà che magari sarebbe riuscito ad uscire di lì in anticipo. Non si era mai dimenticato che c’era un’altra vita in ballo in quell’intrico, una vita innocente.

“Josèphine...” mormorò in una sorta di benedizione, stringendo tra le mani la lettera che avrebbe potuto cambiare il destino di molte persone.

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Capitolo 7
*** Bugie e verità ***


Era furente. Avrebbe gridato e pestato i piedi se non fosse stato per il fatto che doveva far finta di nulla: Manuel non sapeva niente di tutta quella storia, soltanto qualche pezzo qua e là, tipo che quello era il circo in cui andava sempre da bambina e che una signora che conosceva era morta nell’incidente della ruota panoramica.

Non poteva dirglielo, non poteva confessargli che fino a pochi anni prima che lo conoscesse era del tutto ossessionata da un altro uomo, e non un uomo qualunque. Lui era Jad, era Porthos, era stato il suo migliore amico e potenzialmente poteva ancora esserlo. Ma non poteva succedere, lei non avrebbe permesso che i due si incontrassero: sarebbe finita in una posizione di merda, non c’era altro modo per descrivere il disagio che avrebbe provato se i due si fossero incontrati.

Lo aveva fatto sembrare un caso. Aveva fatto deviare Manuel sulla via di casa con la scusa di voler vedere se il circo fosse arrivato in città, ma lo sapeva benissimo: Inga aveva adempiuto al suo compito e l’aveva avvertita immediatamente quando aveva scorto la figura di Jad tra la folla.

Tornare in quel posto era diventato troppo doloroso per lei. Dopo anni di inutili visite, domande senza risposta e indagini che non l’avevano portata a nulla, ci aveva rinunciato. Era sparito. L’aveva abbandonata senza una parola e nessuno sapeva dove fosse.

Schiumava di rabbia. Squadrava ogni volto con un broncio irritato, mentre camminava a passo veloce davanti al banco dello zucchero filato.

“E’ qui che venivi sempre da piccola, quindi?” domandò Manuel, cercando di stare al passo.

“Sì!” replicò lei, sfoderando il suo migliore sorriso, come se non volesse prendere a calci chiunque le tagliasse la strada in quel momento.

“Ehi.” la richiamò d’un tratto, prendendole la mano. Lei si fermò, lo guardò negli occhi per un attimo, ma poi si distrasse di nuovo. “Tutto bene?”

“Mh.” annuì lei, sforzando un sorrisino. “Sì, scusami, credo che… quando penso a quello che è successo a Tabatha...” buttò lì la scusa, con aria convincente e mezza affranta. Sapeva che lui se la sarebbe bevuta e si sentì terribilmente in colpa per stargli mentendo in quel modo. Non riuscì nemmeno a finire il discorso, perché la sua attenzione fu attirata da qualcosa alle spalle di Manuel. Un chiaro segnale.

“Forse dovremmo andar--” iniziò a dire, ma lei lo interruppe subito.

“No!” esclamò Iris, forse con troppa veemenza. “Credo che… debba affrontarla questa cosa, prima o poi. Andiamo alla ruota.” e riprese a camminare, trascinandoselo dietro.

Non appena gli diede le spalle, il viso le si rabbuiò. Cosa diavolo aveva in mente quel cretino di Jad?

Passarono in mezzo a due file di palloncini blu, legati attorno ai paletti di una staccionata in un percorso che voleva chiaramente indirizzarla verso la ruota panoramica.

“Iris, sei sicura che...”

“Devo farlo.” spiegò, determinata, continuando a camminare. Un palloncino blu era legato anche sopra il chiosco dei biglietti ed un altro alla cabina che girando si era appena piazzata davanti ad esso. “Ovviamente...” ringhiò ironica, facendo schioccare la lingua. Tutto ciò non faceva che renderla più nervosa: cosa si aspettava? Che gli sarebbe corsa incontro a braccia aperte solo perché aveva piazzato qualche palloncino qua e là? Le mani le prudevano: non vedeva l’ora di mettergliele addosso, ma non nel modo in cui lo avrebbe fatto cinque, forse anche tre anni prima.

“Due biglietti.” chiese al cassiere.

“Mi dispiace, signorina. E’ rimasto solo un posto nella cabina.” rispose l’uomo, chiaramente non un grande bugiardo, dato che si tratteneva a malapena dallo sghignazzarle in faccia. Iris diede un’occhiata alla cabina dai vetri scuri.

“Ma se si è appena fermata… Come può ess--” fece per replicare Manuel, ma fu di nuovo stroncato.

“Non fa niente. Forse è destino che lo faccia da sola.” gli sorrise di nuovo, falsamente, e gli schioccò un bacio sulle labbra. “A dopo.”

“Ma, Iris… sei...” balbettò, spiazzato.

“A dopo!” ripeté con fermezza, prendendo il biglietto e riconsegnandolo all’uomo davanti alla cabina. Quando le aprì la porta, prese un grande respiro, ma non appena varcò la soglia, tutta l’aria che tratteneva in bocca le uscì in un singhiozzo rotto.

Uno schiaffo risuonò all’interno della cabina, poi un altro. Gli si avventò contro dandogli calci e pugni, e per quanto fosse piccola ed esile, facevano male. Gli facevano male al cuore, gli ferivano l’anima come sferzate secche, ma sopportava in silenzio, incassando ogni colpo con le lacrime agli occhi.

“Schifoso… Maiale…” ringhiava lei tra i singulti, il viso già madido ed arrossato. Esplose in un urlo frustrato, rannicchiandosi poi sul pavimento, le mani tra i capelli. Sembrava completamente pazza, ma agli occhi di Jad quella era una reazione perfettamente plausibile. Lui avrebbe fatto di peggio, forse.

“Iris...” iniziò a dire. Parve che la sua voce la ferisse come se frammenti di vetro le fossero appena esplosi addosso.

“Stai zitto!” gridò.

E Jad tacque. La lasciò piangere per un po’, finché poi non la vide rialzarsi e pararglisi davanti. Era minuscola in confronto a lui, ma si ritrovò a tremare, impaurito come un bambino davanti ai rimproveri della madre.

“Cinque anni… Cinque anni, Jad. Mi hai scopata come la puttana all’angolo...” Jad strabuzzò gli occhi: se c’era una cosa che non aveva previsto era proprio quella scelta di parole. “… mi hai lasciata sul ciglio della strada dicendomi che mi avresti richiamata… E sei sparito per cinque fottuti anni! Tua madre è morta e… Oh, non solo non hai pensato di dirmelo… Non ti sei nemmeno presentato al suo funerale! Di tua madre! E adesso? Adesso che cazzo vuoi da me, Jad? Cosa sono tutti questi… palloncini, e...”

Non poté finire il suo sfogo. Non appena si fermò per prendere fiato, lui la avvolse con le sue braccia forti in un caldo abbraccio. Lei era fredda, immobile, ma non tentava nemmeno di divincolarsi.

“Mi dispiace. Ma c’è qualcosa di più grande di noi due in ballo.” le mormorò all’orecchio. Fu allora che lei lo spinse via.

“Noi due?” replicò esterrefatta. “Non esiste più un ‘noi due’, Jad. Io...”

“Manuel. Ben. Aramis. Lo so.” tagliò corto lui. Lei spalancò bocca e occhi. “Non desidero altro che il meglio per voi due. E spero che un giorno tu possa perdonarmi per ciò che ho fatto, ma ora devi ascoltarmi.” le disse, deciso, sfiorando appena il ciondolo a forma di funambolo.

“Come fai a…? E quello è…?” balbettò interdetta.

“Iris.” la richiamò, determinato. “D’Artagnan e Constance.” bastarono quelle due parole per farle quasi dimenticare che era stato uno stronzo.

“Dove sono?” chiese subito, andando a sfiorarsi di riflesso la voglia sulla tempia, nascosta dai capelli che le ricadevano sciolti sulle spalle.

“Sono in pericolo. Ma… Io non posso occuparmene, devi essere tu.” le allungò un biglietto, sul quale c’era scritto un indirizzo. Lei lo lesse attentamente.

“Ma è in Italia! Come pensi che ci possa arrivare in Italia senza dire niente a Manuel?”

“Racconta a Manuel quello che vuoi. E’ la tua anima gemella o no? Rimarrebbe con te anche se gli dicessi di essere una criminale.”

Iris fece una risatina nervosa. Ma sapeva che aveva ragione: prima o poi avrebbe dovuto affrontare l’argomento con lui, ed era sicura che sarebbe andato tutto bene. Era soltanto estremamente imbarazzante dovergli raccontare tutto.

“Devi essere lì tra una settimana. Appena arrivi, chiama la polizia e speriamo per il meglio.”

Iris fissò ancora l’indirizzo, pensierosa. Poi scosse il capo. “Un attimo, cosa devi fare di così importante tu per non poterci andare di persona?”

Jad sospirò. “Devo andare a Londra… Iris, lo so che per te non ha senso, ma… Mia madre sapeva.” concluse, con aria affranta.

“Sapeva cosa?” domandò lei con un fil di voce.

“Sapeva di te e Manuel.” affermò. Lei scosse il capo, in fase di diniego. “Sapeva… della sua morte.” sentiva le lacrime pizzicargli gli occhi, ma doveva dirle tutto.

Iris arretrò di un passo, sconvolta. “Non può essere...”

“Ha voluto tenerci lontani per il nostro bene. Sapeva che quando sarebbe arrivato Manuel, sarebbe stato difficile per me… e per te… Sapeva che sarebbe morta quel giorno, ma non poteva fare nulla per cambiare le cose, se non scrivermi le sue ultime parole e lasciarmi...”

Jad andò a toccare di nuovo il ciondolo che portava al collo e sorrise.

“Ti ha lasciato… Ecco perché sai tutte queste cose… Io non… non avevo idea...” mormorò piuttosto sconvolta, andando a sedersi.

“Iris. Io… ti ho sempre amata.” confessò d’un fiato, strappandosi quel doloroso cerotto d’un colpo.

Lei non lo guardò in faccia. Il suo sguardo era perso nel vuoto.

“Anche io ti ho amato.” mormorarono le sue labbra, mentre ogni altro muscolo del suo corpo era pietrificato. Jad sentì un’antica passione risvegliarsi in lui, un fuoco che gli montò in petto; ma quando stava quasi per bruciargli ogni nervo cerebrale, lei aggiunse: “ma ora non più. Tabatha aveva ragione. Doveva andare così... E forse hai fatto la cosa più giusta per entrambi, andandotene. E io… Oh, che idiota!” scattò in piedi e gli gettò le braccia al collo, stringendolo forte in un abbraccio e bagnandogli la felpa di lacrime.

Con uno sforzo di volontà incredibile, Jad spense quella passione animalesca una volta per tutte. E finalmente, poté mettersi il cuore in pace. Era andato tutto esattamente come sua madre aveva previsto, e non c’era modo di cambiarlo, ma c’erano altre cose che poteva fare, che doveva fare, per potersi redimere completamente.

La ruota aveva quasi concluso il suo giro, ormai. Jad le posò un bacio sulla testa.

“Salutami Aramis, se mai dovessi dirgli la verità. Digli che mi dispiace. E se un giorno sarete pronti, mi ritroverete sempre qui. Il mio numero è sul retro del biglietto.”

La cabina ebbe una leggera scossa quando si bloccò davanti all’ingresso. Iris si asciugò le lacrime, annuì e sorrise. Non poteva credere che fino a qualche minuto fa, in quello stesso punto, lo stava assalendo a pugni e parole, ed ora… Non avrebbe mai voluto lasciarlo andare.

“Sono sicura che ci rivedremo presto.”

Lui annuì. “Salva Tommaso e Beatrice.” disse poi, prendendole le mani ed avvolgendole attorno al biglietto con l’indirizzo.

“A presto.” lo salutò lei, fissandolo profondamente negli occhi, come se volesse imprimersi la sua immagine nella memoria prima che fuggisse via di nuovo.

Lui fece un inchino teatrale. “Vostra Maestà.”

“Scemo.” ridacchiò Iris, aprendo la porta della cabina.

“A proposito, congratulazioni.” aggiunse lui, in tono quasi giocoso.

“Per cos--?” fece per chiedere, quando la voce di Manuel la richiamò.

“Iris!” lei si voltò e lo vide agitare la mano, gioviale. Si accorse che da quell’angolazione forse poteva riuscire a vedere l’interno della cabina, e richiuse la porta velocemente. Lo salutò a sua volta con un sorriso.

Stranamente, non appena mise piede a terra si sentì strana: le girava la testa e lo stomaco le si strinse. Probabilmente era stata colpa dell’altezza… A meno che…

Iris impallidì. Guardò Manuel. Si voltò a guardare la cabina dalla quale era uscita, ma era già ripartita. Si portò una mano al ventre e sgranò gli occhi.

“Bastardo...” sibilò tra i denti, divertita.  

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Capitolo 8
*** Narquois ***


Non c’era molto che Porthos potesse fare da quella cella, ma ogni volta che la guardia se ne andava, bisbigliava una domanda all’altra prigioniera. Presto però si rese conto che era troppo rischioso continuare a parlare in quel modo del complotto ai danni del Re. Chiunque avrebbe potuto sentirli. Così iniziò a farle altri tipi di domande.

“Come stai?”

“Come sei finita qui?”

“Quando uscirai?”

Lei continuava a non rispondere, ma lui poteva vederla dal suo angolo, mentre si aggrappava alle sbarre e lo fissava coi grandi occhi verdi, pensierosa ed imbronciata.

All’ennesima domanda a vuoto, Porthos tirò un sospiro.

“Va bene, non importa. Dopotutto, hai già fatto abbastanza per me...” sorrise, malinconico. Si chiedeva continuamente se Milady sapesse tutto ciò che stava passando per aver indagato su Cinq-Mars, e se a questo punto avesse già mandato un dottore da Josèphine.

Le ore passavano, crudelmente piatte e silenziose. L’ansia rodeva lo stomaco di Porthos, incapace di mandare giù un boccone o di dormire, mentre faceva avanti e indietro nella sua cella o si sdraiava massaggiandosi le tempie per alleviare il mal di testa provocato dai troppi pensieri.

Ad un tratto, udì un clangore inaspettato. La nuova guardia era appena arrivata, ma qualcuno in cima alle scale aveva aperto di nuovo la porta e stava scendendo i gradini.

Il Moschettiere scattò in piedi appena in tempo per vedere Athos scendere le scale. Aveva una mano fasciata, e le bende erano coperte di sangue. Fissò Porthos per un lungo istante, prima che la guardia si interpose tra di loro. Nella mano non ferita stringeva un documento che porse al soldato, non appena gli si parò davanti. Poi tornò a guardare Porthos. Aveva un che di rassicurante, ma notò un certo tentennamento nel cenno che gli fece col capo.

Il soldato non proferì parola, ed aprì la cella di Porthos. Quindi era finita? Era libero di andare? Istintivamente si voltò verso l’altra cella. Che ne sarebbe stato di lei? Ma non poteva dire una parola davanti ad Athos, o avrebbe dovuto raccontargli tutto. Vide per l’ultima volta una ciocca di capelli rossi sparire dietro le sbarre, e si avviò su per la scala verso la libertà.

“Sono contento di vederti vivo.” disse, non appena fuori dalla Conciergerie.

“Ci è mancato poco. Quell’omuncolo di Cinq-Mars… Chi se lo aspettava?” scosse il capo stizzito, forse per non aver intuito lui stesso che qualcosa non andava, prima che Porthos glielo dicesse. “Aveva anche un piano ben studiato… Ha tentato di piazzarmi addosso la boccetta di veleno che il Re avrebbe dovuto bere. Una dose non sufficiente per ucciderlo, ma abbastanza per lasciarlo forse menomato. Pensava che fingendo di smascherare il colpevole, sarebbe stato ricompensato…”

“Scommetto che non era solo quello il suo obiettivo. Voleva screditarti. Perché proprio te, altrimenti? Scommetto che c’è Marcheaux sotto tutto questo.”

“Non possiamo provarlo per ora. Non so come diavolo tu abbia fatto...” iniziò, ma Porthos lo interruppe.

“Non è importante adesso. Devo sbrigare un paio di faccende urgenti. Spero che nel frattempo nessun altro attenti alla tua reputazione.” lo prese in giro, giusto per mascherare la sua reale preoccupazione.

Athos non sembrava molto convinto, ma annuì, con il suo solito broncio e gli occhi tristi. Porthos gli piazzò una manata amichevole sulla spalla e si allontanò, il cuore in gola, lo sguardo cupo.

Imboccò gli stretti vicoli della Corte dei Miracoli appena poté, e presto si ritrovò davanti a casa di Flea. Cercò di calmarsi, invano. Provò a controllare il respiro affannoso, ma non poteva aspettare un attimo di più.

Bussò alla porta. Quando si aprì, si rese conto che non c’era nessuno all’altezza dei suoi occhi, quindi abbassò lo sguardo per vedere una bambina minuta e debole sfoderare un grande sorriso in sua direzione.

“Josèphine!” esclamò, prendendola in braccio. “Lo sapevo… Lo sapevo...” e la fece volteggiare in aria, mentre lei rideva divertita, quella risata che ormai Porthos non sentiva più da molto tempo…

Ma infine si ritrovò di nuovo davanti a quella porta, chiusa, la mano a mezz’aria, indecisa se battere sul legno.

Se quella era la sua aspettativa, forse avrebbe dovuto ridimensionarla. Non era in una favola, era a Parigi. E a Parigi i bambini morivano in continuazione, senza che nessuno si curasse troppo di loro. Deglutì, ma quando si decise finalmente a bussare, una voce alle sue spalle glielo impedì.

“Te lo risparmio.”

Si voltò per vedere Milady venire verso di lui.

“Tu…!” scosse il capo, maledicendola per essere una donna: avrebbe voluto strozzarla in quel momento, nonostante avesse appena salvato la vita di Athos. “Non credi di aver tralasciato qualche informazione, quando mi hai detto che Cinq-Mars era amico ‘intimo’ del Re?” domandò indispettito.

“Avevo soltanto dei sospetti, non ne ero certa.”

Quando stava per replicare, Porthos finalmente elaborò la prima cosa che le aveva sentito dire.

“Cosa… Cosa vorresti risparmiarmi?” le chiese, non sicuro di voler udire la risposta.

Milady sospirò, guardandolo con una certa pietà. Aveva già letto nei suoi occhi tutto ciò che c’era da dire, ma voleva sentirlo, voleva esserne completamente sicuro, voleva farsi del male.

“Il dottore è arrivato due giorni fa. Ma anche se fosse arrivato una settimana prima, non ci sarebbe comunque stato niente da fare. Il vaiolo era in forma maligna, diversa da quella che...” si interruppe, resasi conto che Porthos non era più con lei. Vagava con la mente in un luogo remoto, lontano da lì; una realtà parallela, ma stranamente razionale, che non riusciva ad incolpare nessun altro se non il destino per quella fatalità.

Aveva perso Josèphine, ma era un pensiero che andava al di là di quanto potesse concepire la sua mente. Tornò indietro, nella prigione, si rinchiuse nella cella a spiare le ciocche di capelli rossi e a camminare ossessivamente in quel buco sottoterra. “La ragazza...” biascicò, con una strana calma. “La ragazza in prigione...”

“Liz.” disse Milady. “Sarà presto libera.” aggiunse con sicurezza.

“E’ stata lei a dirmelo… A dirmi che volevano incastrare Athos. L’ha salvato.”

Milady sogghignò. “Se non si fosse fatta cogliere con le mani nel sacco da Cinq-Mars, dopo tutto il tempo che ha passato fingendo di amarlo, non avrei avuto bisogno del tuo aiuto.”

Porthos la guardò confuso e un po’ sconcertato. La stava incolpando, dopo tutto ciò che aveva fatto per lei? Il Moschettiere non aveva idea che avesse dovuto passare mesi come amante di Cinq-Mars, prima di farsi incastrare; se lo avesse saputo, l’avrebbe sicuramente aiutata ad uscire immediatamente.

“Ma devo dire che ho fatto un buon lavoro come mentore.” aggiunse poi Milady, con leggerezza.

“Salutami Athos e la sua nuova...” fece un ghigno sarcastico “...signora.” concluse, sputando quell’ultima parola come se fosse aria velenosa. E lo lasciò in mezzo alla strada, a mani vuote, a braccia vuote, a cuore vuoto, ma con la mente traboccante di pensieri.

Aveva perso tutti. D’Artagnan, Aramis, Athos, Flea… Josèphine…

Aveva perso tutti e se lo era meritato. Aveva fatto scelte da vigliacco, era scappato dalla donna che amava per poi intromettersi nella relazione del suo amico. Per proteggerlo. No. Quella era soltanto la scusa che non faceva che ripetersi per non restare disgustato dal suo stesso comportamento. Lo aveva fatto semplicemente per egoismo.

Athos era l’unica persona che gli era rimasta, e non voleva perdere anche lui, non voleva vederlo realizzarsi in una vita felice con qualcun altro, mentre lui rimaneva ancora a guardare. E quello era il risultato: lo aveva perso comunque.

Rimase solo con se stesso, a fissare impotente i mendicanti che gli passavano davanti.

Si ritrovò ad invidiare il narquois che smetteva di fingere il passo zoppo appena entrava nei vicoli della Corte: almeno lui non aveva mai avuto niente.

Non poteva capire cosa si provava ad avere tutto e perderlo in un attimo.

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Capitolo 9
*** Sebastian ***


Cullato dal movimento del treno, Jad era finalmente riuscito a dormire profondamente, come non faceva da anni. Quella discussione con Iris gli aveva tolto un grandissimo peso dal petto, e finalmente era tornato a respirare, dopo cinque lunghi anni. Anche se non ancora del tutto.

Ma sapeva che presto avrebbe sistemato le cose, e lo avrebbe fatto per bene.

Era arrivato troppo tardi per Vanessa. Era morta da quattro anni quando lui aveva scoperto, o meglio ereditato, il ricordo di un soldato che veniva ucciso a sangue freddo dai suoi compagni fuori dalla stazione ferroviaria di Vienna. Lei era morta senza sapere cosa gli fosse successo, con il dubbio che si fosse dimenticato di lei. Quel pensiero non faceva che tormentarlo, così come lo tormentava il ricordo di quella lettera consegnata troppo tardi, il pugno di Athos, la sua disperazione incontrollata dopo la morte di Milady. Mai se lo sarebbe perdonato.

Ma almeno poteva ancora fare qualcosa per mettere a posto tutti i tasselli.

“La prossima fermata è King’s Cross.” la voce registrata del treno lo ridestò dal suo torpore. Prese dalla tasca il suo nuovo telefono per controllare l’ora, anche se sapeva che non poteva tardare nemmeno se ci avesse provato. Lui era parte di quella storia, si era rivisto chiaramente in quell’immagine nella sua testa; l’aveva studiata a lungo, cercando ogni volta di scorgere sempre più particolari. Non stava cercando di cambiare il destino, lui ne era parte; anche se non avesse voluto, le cose sarebbero andate comunque in quel modo.

L’unico contatto salvato in rubrica era quello di Iris, anche se non era sicuro che utilizzasse ancora quel vecchio numero. Decise di provarci.

“Spero che in Italia faccia meno freddo che qua.” scrisse, cercando di restare il più anonimo possibile. Sapeva che ancora non lo aveva detto a Manuel; dopotutto, aveva qualcosa di ben più importante da dirgli.

Scese dal treno e trovò la propria strada senza difficoltà. Camminò fino a che, svoltato un angolo, una maestosa cattedrale gli si parò di fronte. La sua cupola grigiastra quasi si confondeva con il cielo dello stesso colore cupo, ma le colonnine bianche spiccavano come una fila di denti candidi e perfetti. Inaspettatamente, il cellulare suonò.

“Jad?” diceva il messaggio. “Li abbiamo trovati. Stanno bene e ti sono grati. Manuel sa tutto.”

Dovette fermarsi un istante, perché un altro grande peso che si portava dietro, si volatilizzò, e per un attimo pensò di poter volare via con la prossima brezza gelida che avesse soffiato nel piazzale. Sospirò, poi rispose: “Come la chiamate?”

Mise via il telefono, alzò lo sguardo verso l’enorme chiesa che lo sovrastava imponente, poi entrò. Constatato che aveva ancora del tempo, si divertì a perdersi tra i colori del pavimento, a guardare gli affreschi sul soffitto, a leggere i nomi sulle iscrizioni e sulle statue funerarie. Salì un numero interminabile di scale e si trovò in un’ampia galleria circolare. Si sedette lì ed aspettò.

Controllò il telefono, ma non vi trovò alcuna risposta da Iris. Probabilmente si stava godendo la compagnia degli amici ritrovati, e avrebbe anche rimpianto il non poter essere lì con loro se non fosse che sapeva bene cosa stava facendo e perché.

“Mi scusi...” chiese improvvisamente ad una famiglia di turisti con un bambino a seguito, rivolgendosi al padre di quest’ultimo. “Mi piacerebbe tanto avere una foto del panorama là fuori.” ed indicò le scale che salivano ulteriormente, sbucando su una terrazza esterna. “Ma ho davvero paura dell’altezza. Non è che la farebbe lei con il mio telefono?” dovette trattenersi dal ridere. Un funambolo che soffre di vertigini.

“Oh...” fece l’uomo spiazzato. “E’ che anche nostro figlio ha paura...”

“Ma dai, certo che possiamo farla.” lo interruppe la moglie. “Sebastian può aspettarci qui. Dopotutto, siamo saliti fin quassù, tanto vale fare ancora qualche gradino!” e prese il telefono dalle mani di Jad, impostando la fotocamera.

“La ringrazio, signora. Posso dare un’occhiata io a vostro figlio, in cambio.” sfoderò il suo miglior sorriso conquistatore: sapeva di fare sempre un certo effetto sulle signore più mature.

“Ma sicura che...” sentì l’uomo replicare, mentre si allontanavano.

“Starà bene, ha undici anni ormai.” tagliò corto la donna.

Il ragazzino li guardò allontanarsi leggermente imbronciato. Effettivamente, non avevano nemmeno chiesto il suo parere prima di mollarlo lì con uno sconosciuto. Si sedette sulla panca.

“Ehi… Sebastian.” provò a parlargli Jad. “Vuoi vedere una cosa super forte?” il ragazzino non gli rispose nemmeno. Se ne stava seduto a fissare il vuoto, con una certa tristezza negli occhi che non sembrava coincidere con la sua età. “Okay, lo prendo per un sì. Rimani qua, e quando ti faccio segno, ascolta attentamente!” spiegò con un entusiasmo che non venne per nulla colto dal ragazzino. “Sì, okay, non è cambiato molto, devo dire.” aggiunse Jad affrettatamente. “Stai qui e ascolta.” e si allontanò da lui.

Percorse mezza galleria, fino a giungere all’estremità opposta a quella dove sedeva Sebastian. Lo vide avere una reazione leggermente interessata. Gli fece un cenno con la mano e il ragazzino, ormai incuriosito, si avvicinò con l’orecchio al muro. Jad portò una mano a coppa davanti alla bocca e parlò verso il muro vicino a sé.

“Questa è la galleria dei sussurri.” disse, vedendolo poi strabuzzare gli occhi sorpreso nel sentire la sua voce così vicina, sebbene fossero tanto lontani. “Prova a parlare.” lo esortò Jad.

Un po’ scettico, Sebastian cercò di imitarlo, appoggiando una mano al muro e parlandovi all’interno. “Ciao, mi senti? Prova, prova...”

Il funambolo ridacchiò. “Ti sento forte e chiaro.” fece una breve pausa. “Sei un ragazzino intelligente, vero, Sebastian?” non udì risposta dall’altro lato, ma con la coda dell’occhio lo vide reagire sorpreso. “Scommetto che penserai che io sia pazzo, ma devi ascoltarmi bene.” Lo vide voltarsi verso di lui, lo sguardo serio e confuso. Gli sorrise rassicurante. Non doveva scordare che era soltanto un bambino, ma allo stesso tempo non poteva dimenticare quale anima risiedeva nel suo corpo.

“Guarda all’ingresso della galleria. Sta per entrare una signora alta, bionda, con una giacca grigia, assieme ad una ragazzina di dieci anni, capelli scuri, occhi verdi, cappotto rosso.” non si voltò a controllare che fosse successo veramente, ma dalla faccia impallidita di Sebastian dedusse che ci aveva preso in pieno. “Guardala bene, Sebastian. Quello sarà il tuo primo e unico amore. Non importa quante volte vi lascerete e riprenderete... la vostra storia non sarà mai in discesa. Potranno passare anni tra un incontro e l’altro, ma nei momenti in cui sarete insieme… Fidati, ragazzo, quello è vero amore. Chi pensa di averlo vissuto, non ha idea di cosa possano provocare le vostre due anime quando si uniscono.” disse d’un fiato. Sapeva di non avere molto tempo.

Il ragazzino aprì la bocca per replicare, ma lui lo interruppe subito.

“Ovviamente il vostro primo incontro non potrà essere convenzionale. Guardala.” e Sebastian si voltò a guardare la ragazzina sporgersi leggermente oltre al guardrail per vedere la chiesa sottostante. Anche a distanza, Jad notò negli occhi di Sebastian lo stesso guizzo che passava nello sguardo del suo amico ogni volta che si menzionava Milady, ogni volta che si incontravano, o anche solo quando la pensava. La ragazzina si gettò con fare altezzoso i capelli dietro la spalla e Sebastian parve tornare in sé.

“Ne sei sicuro?” domandò verso il muro. “Mi sembra che se la tiri un po’.”

Jad rise divertito. Certo che ‘se la tirava’. Poteva permetterselo. Era la donna più intelligente che avesse mai conosciuto.

“Sicuro al cento percento. Adesso guarda quell’uomo con la giacca nera e il cappello. E’ nervoso, ha perso sua moglie da qualche parte nella chiesa e non riesce a contattarla. Guardando il cellulare, non si accorgerà di stare per andare addosso ad una bambina, spingendola oltre il parapetto. Vai, non hai molto tempo!”

Lo vide reagire rapidamente come solo il Capitano dei Moschettieri sapeva fare. Guardò l’uomo che camminava nella direzione opposta a quella in cui iniziò a camminare lui, guardò la bambina, poi affrettò il passo. Accadde esattamente quello che Jad aveva previsto: la ragazzina si sollevò in punta di piedi per sporgersi ancora un po’, la pancia schiacciata contro il parapetto, proprio mentre l’uomo inciampava nelle sue gambe, facendole perdere l’equilibrio.

Sebastian corse verso di lei, che stava già annaspando per lo spavento di sentirsi mancare la terra sotto ai piedi. La afferrò per la vita e la tirò verso di sé, facendola cadere sul pavimento.

“Stai bene?” si affrettò a dire l’uomo, porgendole una mano per rialzarsi. Lei si massaggiò il fondoschiena dolorante, tirandosi in piedi da sola.

“Certo che no, mi stava facendo cadere di sotto!” esclamò, attirando l’attenzione di più persone, compresa la madre.

“Emily! Oh, mio Dio, Emily cos’è successo?” accorse la signora bionda, ad abbracciare la figlia.

“Mi dispiace, io...” mormorò l’uomo, mortificato. “Il ragazzino l’ha salvata.” disse poi, indicando Sebastian, che avvampò ed iniziò a guardare tutti con aria quasi colpevole, poi si voltò verso Jad, che se la rideva dal lato opposto della galleria.

“Grazie, grazie!” urlò di gioia la madre di Emily, stringendolo in un abbraccio, che lo lasciò ancor più imbarazzato di prima.

“Mi ha fatta cadere, comunque.” disse la bambina sprezzante, gettandosi di nuovo i capelli dietro le spalle.

Jad scosse il capo continuando a sghignazzare. Non era mai cambiata.

“Grazie per la foto.” disse con tutta calma, riprendendosi il telefono dalle mani del padre di Sebastian appena uscito dalla porta che dava sulle scale. La coppia si guardò attorno e subito notò il capannello di gente radunata attorno a loro figlio. “Sebastian!” chiamarono entrambi, accorrendo allarmati.

“L’ha salvata, l’ha salvata...” ripeteva la madre di Emily, mentre lui si avviava verso le scale. “Vi prego, lasciate che mi sdebiti per questo...”

Non aveva bisogno di stare lì a vedere cosa sarebbe successo, lo sapeva perfettamente. Una benedizione ed una maledizione: la vita non lo avrebbe mai sorpreso, né in bene né in male. O almeno così aveva creduto, fino a quel giorno.

Aveva passato così tanto tempo a concentrarsi su quell’evento, per osservarne ogni dettaglio, che non pensava che altro potesse accadere. Il cellulare squillò di nuovo non appena uscì dalla cattedrale. “Stai dicendo che è una femmina?! Vuoi smettere di rovinarci qualsiasi sorpresa?” diceva il messaggio di Iris, facendolo ridacchiare ancora di più. Si fermò un attimo in piedi sulla gradinata, per digitare la risposta, ma fu a quel punto che una voce familiare interruppe il flusso dei suoi pensieri.

“Quindi si sono ritrovati.”

Per quanto fosse possibile, data la sua carnagione scura, Jad sbiancò. Era la prima volta dalla morte di sua madre che qualcuno riusciva a stupirlo. Sollevò lo sguardo dal telefono. Una ragazza dai lunghi capelli rossi ed il viso pallido cosparso di lentiggini lo scrutava dal fondo della scalinata coi suoi grandi occhi verdi. In un flash nella sua mente rivide i suoi capelli spettinati sparire dietro le sbarre della Conciergerie; gli fece male, sì, quelle visioni così improvvise, per quanto rare, gli facevano sempre male.

“Non dirmi che non te l’aspettavi!” esclamò stupita, prendendolo in giro. “Chi credi abbia suggerito alla madre di Emily di entrare in chiesa?”

“Come hai fatto…?” borbottò incredulo.

Ma lei sospirò, alzando gli occhi al cielo.

“Andiamo, ci puoi arrivare da solo… Ti facevo più intelligente di così.” lo schernì.

“Non ti ho mai ringraziata a dovere. Per quella volta in prigione.”

Lei sbuffò una risatina ironica. “Perché credi sia venuta a parlarti? Andiamo, devo riscuotere il mio debito.” gli fece un cenno con la testa e fece per avviarsi. Intravide un sorriso malizioso, poco prima che lei gli diede le spalle: per quanto poco si intendesse di donne, lo aveva già visto prima d’ora e sapeva cosa significata.

Jad era ancora incredulo, ma dopo un attimo di stupore, scese gli scalini e si incamminarono assieme.

“Davvero, ma che problema hai tu con le bionde? Non riesci a starci alla larga, eh… Certo che la donna del tuo migliore amico… Sei proprio senza contegno.”

“Devi proprio ricordarmelo?”

“Comunque la chiameranno Tabatha.”

“Lo so.”

“Certo, come no… Ma se gliel’hai chiesto!”

“Smettila di leggermi, se non vuoi che faccia lo stesso con te.”

“Tremo di paura. Quello che non sapeva nemmeno che oggi sarebbe diventato il giorno migliore della sua vita.”

“Non esagerare.”

“Parole tue. Ne riparliamo tra tre anni.”

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