Onironauti Crepe

di Sospiri_amore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Una giornata come le altre ***
Capitolo 3: *** Test ***
Capitolo 4: *** Un futuro segnato ***
Capitolo 5: *** È ora di iniziare ***
Capitolo 6: *** Corri. Corri. Corri. ***
Capitolo 7: *** Stupiscimi ***
Capitolo 8: *** Nuotare nell'aria ***
Capitolo 9: *** Faccia di spugna ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
Alex muove la gamba su e giù come fosse un martello pneumatico, quando lo fa non promette nulla di buono. Si passa le mani tra i capelli cercando di districare i ricci finendo con tirare troppo forte. Non si lamenta del dolore, Alex non si lagna mai. 
Io sto zitto, raramente ho visto mio fratello in questo stato, non voglio stressarlo più del dovuto, mi limito a fissare le stelle nel cielo e giocare con i fili d'erba vicino alle mie gambe.
La roccia su cui sono appoggiato è fredda anche se è inizio estate. 
Sento la superficie irregolare della pietra premere contro la maglietta spingendo la carne e in alcuni punti sfiorare le ossa della spina dorsale. Sono scomodo, ma non mi va di muovermi. Alex ed io veniamo sempre qui a vedere il Grande Salto ogni volta che siamo tristi, lo facciamo da quando siamo piccoli, ci sediamo su queste rocce e parliamo di tutto quello che ci passa per la testa. Casa nostra dista una ventina di minuti, è una bella passeggiata, ma niente di così impossibile da fare. Il nostro posto preferito è vicino al promontorio Nord, questo è il luogo più sicuro prima della recinzione di sicurezza ed è abbastanza in alto per sbirciare l'inizio della Onirocascata. È uno spettacolo ogni volta, miliardi di gocce colorate scivolano giù per il Grande Salto vorticando, mischiandosi e creando giochi di colore indescrivibili. Turbini, gorghi e correnti impetuose si collegano fino a formare la grande cascata color arcobaleno. Un salto di centinaia di metri dicono alcuni, ma Alex dice che saranno al massimo ottanta metri. Lui ha lavorato un anno alla Onirocascata, ha fatto il corso per diventare Onironauta, ma non l'ha passato.

Per questo siamo qui. 
Alex non dorme da due giorni.

«Com'è da vicino?», gli chiedo mentre gioco con un sassolino vicino ai miei piedi.

«Vedi le stelle che ci sono adesso nel cielo? Quando sei vicino alla cascata è come sé tutta la luce delle stelle, tutta la loro luminosità, fosse racchiusa in ogni singola goccia», mi dice Alex.

Il cielo nero puntellato da migliaia di luci mi pare più buio del solito.
Sento la tristezza di mio fratello colpirmi in pieno volto.

«Quando... quando sei a un passo per... per... ecco. Cioè... una persona, non può più farne a meno...». Alex se ne sta con la testa china, balbetta, i suoi ricci cadono in avanti coprendogli il volto.

«Mi dispiace, mi dispiace davvero per te. Il fatto che tu non sia diventato un Onironauta non è un dramma. Guarda la cosa positiva hai un ottimo lavoro negli uffici direttamente al tredicesimo piano interrato, ti hanno assegnato una compagna di vita e un alloggio niente male», gli dico con voce pomposa imitando malamente la Direttrice Xix. «Inoltre sarai vicino a casa, potremo vederci più spesso, tra i miei corsi e il tuo praticantato non ci vedevamo da mesi. Mamma cucinerà qualcosa di decente finalmente, sai che non vede l'ora che tu ti sistemi e metta su famiglia come tutti. Hai ventidue anni caro mio, vedrai che sarai un bravo maritino», gli dico con voce leziosa cercando di alleggerire la situazione.
Alex accenna un sorriso che viene però smorzato da un'espressione cupa dipinta sul suo volto.

«Sarà bello lavorare anche se non sono un Onironauta, vero? Sarò a casa tutt'e le sere, avrò una moglie e cenerò con mamma e papà la domenica. Uno spasso», dice sarcastico.

«Credevo fosse quello che volevi. Sei sempre stato il migliore studente, il più bravo di tutti. Hai rispettato tutte le regole, non hai mai saltato un test. Sei praticamente perfetto. Seguire il protocollo è la tua specialità». Alex è bravo a fare tutto, mamma l'ha sempre preferito a me. Alex non ha mai dato problemi, è sempre stato puntuale, preciso fino all'ossessione, per questo era stato ammesso al corso, lui era il candidato ideale. Purtroppo però qualcosa è andato storto, ma nessuno sa cosa sia successo di preciso.
Alex alza le spalle rassegnato:«È solo che... che... una volta che vedi, ecco, poi non puoi più farne a meno».

«Che vedi cosa?», gli chiedo.

La sofferenza dipinta sul volto di mio fratello è spiazzante, non è da lui comportarsi in questo modo. Le sue mani fremono, non riescono a stare ferme come la gamba che rimbalza su e giù. Sento un vuoto, la distanza tra me e lui è come una voragine che non riesco a colmare.

«Hai solo diciasette anni Nico, hai ancora parecchi anni di studio, questo è il tuo periodo più bello. Se mai vorrai diventare Onironauta ricorda di seguire sempre le regole e il protocollo. Capito? Io non sono adatto, non posso essere come vogliono loro», mi dice mentre con un gesto rapido si alza in piedi mentre ammira da lontano l'Onirocascata.

«Seguire le regole non è proprio il massimo per me, sai che non amo quando mi si dica cosa fare. La mia vita è già organizzata come quella di tutti, a ventidue anni mi daranno una moglie e un lavoro. Tanto lo sanno tutti che sarò un operaio come papà perché dovrei sbattermi tanto a voler diventare un Onironauta?». Detesto quando Alex mi fa la ramanzina, certo non sono proprio uno stinco di santo, ma non sono poi così male. Durante i corsi a scuola non sono il primo che alza mano per dare la risposta e più volte ho saltato le lezioni, ma questo non toglie che sia uno sveglio. Posso arrampicarmi su qualsiasi albero, scassinare anche il più complicato lucchetto e aggiustare ogni macchina dei sogni. Su quest'ultimo punto ci sto ancora lavorando, a volte le cose non vanno proprio come vorrei, fumo, scintille e rumori strani escono spesso dai miei meccanismi. Devo lavorarci ancora  un po', ma prima o poi sarò un bravo meccanico. Questo è il mio destino.

«Dico sul serio Nico. Devi essere come vogliono loro a prescindere del lavoro che farai, non puoi essere troppo strano, diverso. Quando le cose non vanno come dicono loro tutto crolla, io non sarò mai un Onironauta e... e...». Alex si allontana qualche passo da me, il suo tono è duro come non lo è mai stato. Un leggero vento scompiglia i suoi capelli, ha la divisa del corso di specializzazione tutta stropicciata, credo non si cambi da due giorni. Non è il solito Alex, non è il fratello che ho sempre conosciuto.

«Che ti prende? Giuro, non capisco. Sei il più bravo, il migliore in tutto. Il fatto che non abbia superato il corso, beh, che cavolo te ne frega? Hai un milione di opportunità con i voti che hai e la tua intelligenza», sbotto. Mi innervosisce il suo pessimismo.

Alex sta diversi secondi in silenzio, ammira il panorama. Ogni muscolo del suo corpo pare fatto di marmo, è immobile. Mi passano nella testa centinaia di immagini, ricordi di noi due insieme. 
Quella volta che mi ha insegnato ad andare in bicicletta senza rotelle. 
Quelle decine di volte che si è preso la colpa al posto mio. 
Quelle infinite volte che mi leggeva storie su come i Sogni alimentino l'energia della terra.

Alex e Nico. 
Mai desiderato un fratello diverso da lui.
Mai.

«È tardi. Devi tornare a casa. Ecco le chiavi della macchina». Alex mi lancia il mazzo tintinnante che prendo al volo. «Devo prendere una cosa in ufficio. Ho dimenticato solo una cosa». Senza aggiungere altro mi abbraccia con forza. Sento la sua stretta e le sue mani premere sulla schiena. Un paio di pacche sulle spalle poi, come quando ero piccolo, mi sistema la maglietta cercando di rimetterla in ordine. Alex mi fissa, un secondo solo, accenna un sorriso poi scatta verso la parete scoscesa scivolando tra il pietrisco, ma riuscendo a mantenere l'equilibrio nonostante la posa sbilanciata da un lato. Una nuvola di polvere lo avvolge, il rumore disordinato dei sassi rimbomba lievemente nella vallata.

Con le chiavi in mano e la faccia di cera, lo osservo allontanarsi.
Uscite del genere non sono da lui.
Che cavolo gli passa per la testa?

«Merda. Merda. Merda». Dico tra i denti. 

Scalpito sul posto. Mi siedo su una roccia. Scatto in piedi dopo poco. Guardo a destra poi a sinistra. Prendo a calci un rametto secco. 
Non so che fare.

«Alex! Alex!», urlo verso la sagoma lontana di mio fratello che ormai ha già raggiunto la recinzione Nord in una zona lontana da cancelli di ingresso o cose simili. 
Tutta questa storia sta rasentando il ridicolo, non ho idea di cosa mio fratello abbia in mente, ma non posso stare qui a fare nulla.
Dopo un salto ben assestato ricado con forza ammortizzando con le ginocchia, scivolo sulla parete scoscesa senza perdere di vista mio fratello. Mi accorgo, mano mano che mi avvicino, che Alex sta cercando un punto preciso visto che corre appiccicato alla recinzione rinforzata guardando per terra. Dopo pochi secondi scompare come se fosse improvvisamente svanito nel nulla. Provo ad aguzzare la vista, ma non noto nulla di strano. 

Merda, dov'é finito quell'idiota di mio fratello?

Corro senza risparmiare energie verso la zona in cui pochi istanti prima c'era Alex, sono come un treno lanciato a tutta velocità tanto che senza accorgermene mi schianto contro la recinzione rinforzata alta tre metri. Sbam. La faccia, le braccia e l'intero busto sono appiccicati alla sottile trama della dura plastica e metallo color verde. 

«Mi servirebbero un paio d'ali e un'ottima spiegazione per violare un confine così pericoloso», bisbiglio tra i denti.

È impossibile entrare, se provassi a scavalcare la rete rinforzata rimarrei incastrato nel triplo filo spinato che ricopre la parte superiore, senza contare che mi toccherebbe espormi ad almeno duecento metri di radura prima di incontrare un dirupo che si affaccia direttamente sulle Onirocascate. Gli uffici interrati sono nella zona Sud, dalla parte opposta, da questa parte non si accede a nessuna struttura. Oltre a questa fottutissima recinzione non c'è nulla, solo terra, sassi e quel pazzo di mio fratello che cammina in tutta tranquillità verso il nulla.
Senza lasciarmi abbattere provo a ripercorrere la rete, palmo a palmo, come ho visto fare a mio fratello. Non noto nulla di strano per diversi metri poi vicino a un palo di sostegno, c'è una grossa tronchese abbandonata e uno squarcio che deturpa la rete finora inviolata.

«Alex, che combini?», mi dico tra i denti.

Incurante del grave pericolo che corro mi infilo nella spaccatura scivolando agile dall'altra parte della recinzione. Alex non è molto lontano da me, pare non essersi accorto che lo sto seguendo perché cammina calmo verso la Onirocascata.
Cercando di mantenermi il più basso possibile seguo mio fratello accelerando il passo, non voglio che mi scopra, ma neanche si spaventi. Mi sento come quando il mio gatto si apposta nell'erba alta mentre punta la preda. Ho i sensi in allerta.

Cinquanta metri.
Trenta metri.
Dieci metri.

Sono a pochi passi da mio fratello, posso distinguere i ricci scompigliati sulla sua testa. Con estrema cautela muovo mani e piedi cercando di sincronizzare i movimenti, non devo muovere un sassolino, non posso far scricchiolare nessun rametto.
Alex è pericolosamente vicino allo strapiombo che da sulla Onirocascata. Un fumo dalle sfumature azzurre, viola e rosa si alza in aria proprio davanti a lui. Il vapore e la forza di caduta dell'acqua regalano uno spettacolo magnifico che non avevo mai visto da così vicino. Scintillii vivi, splendidi giochi di colore e guizzi vivaci. Credo che non esista niente di più spettacolare al mondo.

«È bello, vero? Dico a te, fratellino. Avrei preferito che tu fossi tornato a casa, ti avrei risparmiato uno strazio, ma ormai ho deciso», dice Alex.

«Credevo di essere stato bravo a nascondermi», gli dico ironico mentre salto fuori dall'erba come un coniglio stanato.

«Sei troppo rumoroso. Prima urli il mio nome, poi sbatti contro la recinzione. Mi chiedo quanto ci impieghino i guardiani prima di arrivare qui. Credo manchi poco», dice tranquillo.

«G-guardiani? Vuoi dire quei tizi con tuta e caschetto nero? Q-quelli con il manganello?». Mi rituffo nell'erba cercando di nascondermi senza smettere di guardarmi in giro.

«Non ti preoccupare, dai tutta la colpa a me», dice Alex ridacchiando.

«Ma... ma... non dire scemenze. Andiamocene prima che arrivino quegli invasati a riempirci di botte». Striscio verso mio fratello cercando di raggiungerlo per poterlo portare fuori dalla recinzione.

«Non farlo Nico. No. Non verrò con te. Ho visto cose... ho visto... io non posso più farne a meno. È una sensazione strana, capisci?», mi dice triste, immensamente triste.

«Che diavolo blateri. Mettiti giù. Andiamocene fuori di qui, subito!», gli intimo senza tanti convenevoli facendo gesti con la mano.
Alex non risponde. Sembra perso in mondi lontani, troppo assorto nelle sue fantasie per rendersi conto che un gruppo di uomini sta arrivando nella nostra direzione.

Passo cadenzato, scricchiolio della divisa di pelle, caschi lucidi.
Siamo nei guai, i guardiani ci stanno raggiungendo.

«Devo andare. Chiedi scusa a mamma e papà». I piedi di mio fratello sono sul bordo del dirupo. Dei sassi cadono nello strapiombo.
Mi avvicino sempre di più ad Alex.

Voci minacciose giungono dai piedi della vallata.
I passi decisi dei guardiani fanno tremare la terra e l'aria.

«Ti sei mai chiesto perché fabbrichiamo sogni? Oltre a fornire energia all'Onirocascata, intendo. E se ci fosse altro?». Alex allunga le braccia verso il vuoto come se cercasse di afferrare un fantasma, come se le sue mani cercassero di catturare ciò che non esiste.
Scatto in piedi, mi lancio verso mio fratello. Inciampo in una radice sbattendo la faccia.

Intimidazioni e urla feroci arrivano nella nostra direzione.
Manganelli sbattono tra loro.
Fasci di torce elettriche danzano sull'erba.

«La vita non è più la stessa. Io ho bisogno di sentire ancora...». I pugni di Alex sono stretti, le braccia morbide lungo i fianchi. Respira sereno, forse sorride. I capelli ricci ondeggiano, la piccola spinta che si è dato lo fa oscillare verso il vuoto.
Cade.
La nuvola di vapore multicolore che riempie lo strapiombo lo avvolge, lo inghiotte.
Attimi e secondi.
Vedo la sagoma del suo corpo confondersi e sparire.

Urlo.
Urlo con fili d'erba appiccicati sul volto.
Urlo.

Uno sciame di fasci luminosi mi colpisce.
Sono le torce dei guardiani.
Inizio a scalciare, sbraitare e colpire tutto ciò che mi trovo a tiro. Con tutta la ferocia che possiedo tiro pugni, spallate. Sento dolore, ma non mi importa. Non mi importa più di nulla.
Poi un manganello mi colpisce in testa.
Sbam.
Adesso c'è solo buio.

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Spero vi piaccia il prologo.

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Capitolo 2
*** Una giornata come le altre ***


Una giornata come le altre
 
A quest'ora dovrei essere in cucina a fare la colazione. 
Sento mamma che sta cucinando le uova, l'odore di bruciacchiato arriva fin qui. Papà le mangia solo ben cotte, non ha mai sopportato quando sono viscide e gelatinose. Me lo immagino leggere concentrato il giornale in attesa di andare in officina mentre divora le sue uova carbonizzate. 

Ogni giorno la solita routine. 

Nessuno di loro bada più a me. Mamma a volte ha gli occhi lucidi, mi vorrebbe diverso, mi vorrebbe come Alex. Lo so io e lo sanno anche loro. Come se fosse colpa mia. Mio fratello si è buttato in quel fottutissimo strapiombo, io non ho potuto fare niente per fermarlo, ma loro non sembrano capirlo. Nessuno sembra capirlo. A scuola, per strada, nei negozi. Io sono quello sbagliato, quello che ha permesso ad Alex di buttarsi giù. Per tutti la colpa è mia, me lo sento dire da così tanti anni che quasi quasi inizio a crederci pure io.

Mi accendo una sigaretta.

A quest'ora dovrei essere in cucina con indosso la mia divisa e un sorriso stampato in faccia.
Credo che dovrei essere felice.
Oggi è l'ultimo giorno dei corsi. 
Oggi ho finito la scuola.
Oggi posso scegliere il mio futuro.

Papà non ci prova più a farmi alzare dal letto in orario, sa che sono un ritardatario cronico, uno con cui non vale la pena discutere. 
Sono un caso perso, uno che non ha niente da offrire.
Come posso dargli torto?
Voti pessimi, disinteressato su tutto, comportamento disdicevole che disattende le aspettative, dice sempre quella cornacchia di professoressa di Meccanica dei Sogni. Come se mi fregasse quello che spiega. Tra poco più di un anno mi daranno una moglie e tra meno di quattro ore avrò un lavoro adatto alle mie capacità. Svuota cestini, raccogli cartacce, se mi va bene. Altrimenti verrò allontanato dalla città e vivrò alla giornata come tutti quelli che non entrano nelle regole del sistema.

Vivrai come un reietto.
Strilla mamma.
Impegnati.
Dice papà.
Se continui così non ti daranno nemmeno una compagna.
Dicono gli altri.
Non mi importa nulla delle loro ansie, non mi importa di quello che pensano su di me.

Aspiro il fumo acre a pieni polmoni.

La porta d'ingresso sbatte. Papà è uscito per andare al lavoro, dalla cucina non arriva nessun suono, mamma si è chiusa in camera in attesa che io esca di casa. Non le va di parlarmi di prima mattina, mi dice che le rovino la giornata. Speriamo mi abbia lasciato qualcosa da mangiare, altrimenti mi comprerò un panino lungo la strada per la cerimonia a scuola.
A fatica infilo le scarpe della divisa scolastica, sbatto la giacca dalla polvere poi mi infilo i pantaloni sgualciti. Nello specchio osservo il mio riflesso cercando di coprire la cicatrice a forma di croce che parte dalla tempia e arriva fino a metà guancia con un ciuffo di capelli. È bianca, fredda. Sembra una crepa su un muro. Sembra una crepa impossibile da aggiustare. È semplicemente il regalo che i guardiani mi hanno lasciato cinque anni fa quando mi hanno riempito di botte vicino all'Onirocascata quando Alex si è buttato. Cose passate, meglio concentrarsi sul presente. 
Già, oggi devo essere perfetto anche se i miei capelli sembrano più ribelli del solito. Non fa nulla, mi prendo a piccoli schiaffi cercando di darmi la carica giusta per uscire di casa. 

Dai Nico.
Dai Nico.

Una foto di me e Alex è incastrata nella cornice dello specchio. La guardo sempre, tutti i giorni. Lì di fianco, su una mensola, un piccolo orso scolpito nel legno mi osserva. L'ha fatto mio fratello, era un asso a intagliare, è l'unica cosa che ho voluto tenere di lui, Alex lo considerava il suo portafortuna. Con me sembra non funzionare, la buona sorte gira al largo da tipi sbagliati come me.
Esco dalla mia stanza, un piccolo corridoio mi porta direttamente in sala, da una parte c'è la piccola cucina a gas su cui mamma si diverte a cucinare pranzi precotti e zuppe insipide.
Un toast e una mela sono in bella mostra sul tavolo.
Oggi ho la colazione pronta, si vede proprio che è un giorno di festa.

Il cellulare squilla.
È Lola.
Dalla finestra circondata da orrende tende in pizzo color miele la vedo seduta nella sua macchina mezza scassata. Mi infilo il toast in bocca e ficco la mela nella borsa, poi corro fuori di casa.
Il sole caldo mi investe di botto, mi metto gli occhiali da sole e a passo rapido entro nel rottame di Lola che con i capelli stranamente acconciati e trucco appariscente mi accoglie con un sorriso.

«Ciao Nico. Giornata splendida, non trovi?», cinguetta tutta pimpante.

«Perché sei così strana? Il tuo aspetto è inquietante», le dico con la bocca piena di formaggio e pane masticato osservandola stranito.

«Ciao Lola. Come sei bella Lola. Avrei preferito tu mi avessi accolta così. E comunque oggi è il giorno delle assegnazioni, finalmente avremo il nostro colloquio e sapremo che lavoro avremo. Non sto nella pelle per l'emozione». Sembra una di quelle oche che girano per scuola, delle bambole vuote e fastidiose. Non riconosco la mia amica.
Alzo le spalle annoiato e infastidito allo stesso tempo.

«Tanto non la bevo. So che non hai chiuso occhio, non sei curioso di sapere cosa ti dirà il colloquio? Metà delle scuole della comunità l'hanno già fatto. Ho incontrato una ragazza del quartiere 46, è la figlia di un'amica di mia mamma, mi ha detto che dopo il test ti portano in stanzette dove devi parlare con gli assegnatori. È...». La interrompo, Lola è capace di parlare per un'ora intera senza mai fermarsi, ma oggi sembra diversa, pare la versione perbene di se stessa, la versione perfettina.

«So cosa succederà e so cosa faremo. Cerimonia. Test. Colloqui. Faccio tutto questo solo per i miei genitori, se non lo facessi credo mi sbatterebbero fuori casa. Prima mi trovo un lavoro, poi me ne vado. Devo solo avere pazienza, appena avrò abbastanza crediti e razioni filerò via come il vento», le dico mentre giro la manovella cigolante del finestrino per far entrare un po' d'aria.

«Sei il solito pessimista, un disastro. Potevi metterti una divisa pulita e pettinare quella massa informe che hai sulla testa. Sembri uno spaventapasseri». Lola mi sgrida, fa sembra così quando la pungo sul vivo.

«Guarda che io sono sempre così, tutti i santissimi giorni. Tu invece sembri una gallina. Perché parli in quel modo e perché sei così truccata e tirata? Vorrei ricordarti che insieme abbiamo fatto quel casino a Onirologia e poi abbiamo manomesso i meccanismi nelle officine scolastiche. Tu non sei così... così...», le dico con la faccia schifata.

Lola frena di colpo.
La macchina dietro di noi strombazza.
L'indice minaccioso di Lola mi punta.

«Caro Nico Songus, sentimi bene. Oggi posso aiutarmi o boicottarmi. Io voglio un futuro migliore di quello di mia madre, non voglio lavorare nelle mense per le Onirocomparse per il resto della mia vita o spaccarmi la schiena come i miei fratelli in officina. No. Io ho progetti più grandi, vorrei... vorrei...», dice con occhi sognanti.

«Prima di tutto credo tu voglia vivere. Se non levi questo catorcio da in mezzo la strada finiremo per essere travolti». 

Una serie di vetture sparate a tutta velocità ci strombazzano infastiditi.
Grugnendo Lola riprende a guidare. Borbotta arrabbiata.
Con la faccia scura, lo sguardo torvo si immette nel flusso del traffico.

Questa è la mia migliore amica.
Adesso la riconosco.
Scontrosa.
Musona.
Testarda.

«Sei un idiota. Un grande idiota. Cosa c'è di male a voler essere diversi, migliori. Potrei... potrei...», Lola ha le lacrime agli occhi.

So benissimo dove vuole andare a parare, la conosco come le mie tasche. «Non sarai mai una Onironauta, toglitelo dalla testa. Hai una condotta pessima, certo i voti non sono male, ma per il corso di addestramento non bastano. Serve forza fisica, intelligenza e controllo. Soprattutto controllo. So benissimo che potresti prendere a pugni chiunque e che sei molto sveglia, ma detesti sentirti dire cosa devi fare, non ami essere comandata. Come potresti reggere lo stress?». Le mie parole sono dure e fredde. Sono cattivo, lo so, ma non deve farsi illusioni, lei non potrà mai aspirare ad un lavoro tanto prestigioso. 

«Guarda che non conta solo il rendimento scolastico, lo sai benissimo. Ho imparato dai miei fratelli a lottare e vivere nel bosco, non mi spavento facilmente e imparo alla svelta», mi dice mentre con una manovra brusca e improvvisa parcheggia fuori dalla scuola lasciando sull'asfalto strisce nere di pneumatici. Una sgommata degna di un pilota di Onirovetture.

«Lo vedi, un Onironauta non farebbe quello che hai fatto tu adesso. Guarda quelli lì», mentre scendo dalla macchina indico alla mia amica un gruppetto di studenti dell'ultimo anno tra cui Kurt Bishop, il ragazzo più popolare dell'istituto. Sono i più importanti della scuola, con i voti migliori, una condotta irreprensibile, campioni dello sport, addestrati fin dalla nascita per essere i migliori: «Se dovessero scegliere tra una come te e uno come loro per diventare Onironauta, chi mai prenderebbero?».

Lola si accascia sul cofano del suo rudere. Ha lo sguardo triste.
Inizia a mangiarsi le unghie.
Mi dispiace vederla in questo stato, ma penso sia controproducente per lei fingere di essere quello che non è. È una persona meravigliosa, deve solo farlo capire durante il colloquio. Capelli, trucco e vestiti non determinano la qualità e la sostanza di una persona.

«Che vadano tutti a quel paese. Kurt e i suoi amici sono solo delle scimmie ammaestrate. Guardali! Con il petto gonfio e tutta quell'arroganza che trasborda da ogni orifizio. Capre». Lola si toglie decine di forcine lasciando liberi i suoi lunghi capelli neri per poi intrecciarli di lato lasciando esposta la rasatura sul lato destro del cranio. Da una scatoletta estrae i suoi piercing che infila rapida nel naso e nel labbro. Con una salvietta umidificata si toglie il fondotinta dalle mani mettendo in luce i suoi tatuaggi per poi slacciare un paio di bottoni della camicia e allentare la cravatta. «Adesso possiamo andare», mi dice mentre si toglie il rossetto color rosa caramella e le ciglia finte.

«Sei più bella così. Fidati. Kurt e compagnia saranno i più popolari, ma nessuno è come te. Sei unica», gli sussurro divertito in un orecchio. Mi piace prenderla in giro.

«Stai zitto. Non sei il mio tipo, sei troppo strano Nico Songus». Lola appoggia la testa sulla mia spalla mentre mi cinge la vita. Ride.
Quando Lola è felice sono felice anche io.

La campanella suona.
È ora di andare.

Indifferente al fatto che questa sia l'ultima mattina che varcherò la soglia della scuola che per ben sette anni ho frequentato, osservo la maggior parte degli studenti dell'ultimo anno fremere. Oggi si deciderà il futuro di ognuno di loro. I voti, lo studio, i desideri sono nulla. Dopo la cerimonia di oggi ci saranno i test e i colloqui colloqui che delineeranno la nostra carriera. Un lavoro per far funzionare l'intero baraccone, un lavoro indispensabile per far sì che l'Onirocascata continui a cadere e produrre energia, un lavoro dal quale non si potrà più fuggire. Mai.

Ogni mio passo risuona grave, pesante.
Ogni mio gesto è fatica.
Non voglio dover scegliere, non voglio essere costretto a fare una cosa che non voglio fare. 
Mi sento così solo.
Ho paura, ma non voglio ammetterlo.
Ho paura, ma tanto tutto è già scritto.

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Capitolo 3
*** Test ***


Test

Seduto su una panchina vicino al palco mi fumo una sigaretta. Il professore di Oniromeccanica ha distribuito le toghe per la cerimonia meno di due ore fa premurandosi che nessuno le rovinasse. Quel nessuno sono io.
Non serviva che lo dicesse, il suo terrore più grande è dover buttare via una toga in poliestere color lavanda da quattro soldi per un mio buco di sigaretta. 
Che idiota. 
Completamente stravaccato allargo le braccia sullo schienale della panchina appoggiando la testa all'indietro. I miei genitori non si sono presentati, hanno pensato non valesse la pena perdere un giorno di lavoro o saltare un ciclo della lavatrice per venire a vedere la cerimonia di diploma. 
Non fa nulla, lo sapevo che sarebbe finita così. 
Il cielo è azzurro. Il sole estivo picchia forte, metà degli studenti sta boccheggiando tra foto ricordo scattate da genitori orgogliosi, abbracci sudaticci e chiacchiere poco interessanti. Riti che servono a dare fiducia agli studenti che, troppo terrorizzati, stanno per affrontare due dei momenti peggiori della loro vita: il test e il colloquio post diploma. 

E se facessi il lavoro di quel fallito di mio padre?
E se mi assegnassero un lavoro che odio?
E se i miei voti non bastassero?
E se i miei genitori si vergognassero di me?

Mi sembra di leggere tutte quelle domande sulle facce pallide e sudaticce degli studenti. La paura di non essere all'altezza o quella di non essere capiti, il terrore di fare un lavoro umile. Deludere. Sbagliare. Non essere abbastanza.
L'ottanta percento di loro vorrebbe essere Onironauta, i più cauti dirigenti alla Fabbrica dei Sogni, i più ambiziosi diventare Oniropolitici. Alla fine quasi la totalità si ritroverà a fare un lavoro semplice, utile alla comunità, niente di esaltante: commesso, operaio, facchino. Se ti va bene insegnante, portaborse o impiegato. Un anno di studio, poi ti assegnano una compagna scelta tra le ragazze disponibili. Una lotteria.

Uno schifo che si ripropone anno dopo anno.
Nessuno prova a ribellarsi perché a tutti va bene così.
Nasci sapendo che ogni azione verrà monitorata, controllata e catalogata.
Cresci sapendo che ogni tuo errore condizionerà il tuo futuro.

C'è così tanta pressione che la vita di ognuno è costruita per questo momento, focalizzata a dare il massimo per ottenere il meglio durante il test e i colloqui.
Alex ha fatto lo stesso a suo tempo, voleva raggiungere il massimo e voleva essere il meglio. Per quanto fossi più piccolo di lui mi ricordo i pomeriggi che passava a leggere libri sulle Onirocascate, sugli Onironauti e sulla fabbrica dei Sogni. Mi raccontava tutto con un tale entusiasmo che finii anche io per appassionarmi. I suoi capelli ricci, sempre scombinati, danzavano sulla sua testa quando mi descriveva la caduta dell'acqua color arcobaleno, i suoi occhi si illuminavano quando mi spiegava come veniva immagazzinata l'Oniroenergia. Io pendevo dalle sue labbra. Lo ammiravo. Insieme andavamo nei boschi vicino a casa per arrampicarci sugli alberi, per costruire trappole. Mi diceva che in questo modo la sua mente  il suo corpo si sarebbero allenati, che serviva un punto di vista diverso per essere notati. Uscire fuori dagli schemi pur restando all'interno del sistema. Alex era un mago a fare questo.
Io no. Sono troppo impulsivo per fingere che tutto questo schifo mi piaccia.

«Ciao perdente. Pronto per sapere se pulirai i cessi o laverai i vetri per il resto della tua vita?». Kurt, il magnifico e popolare Kurt, mi si para davanti.

Non ci sopportiamo dal primo anno di scuola.
Siamo come la luce e il buio. Opposti.

«Che vuoi?», gli rispondo annoiato mentre aspiro una boccata di fumo.

«Oggi finalmente avrai quel che ti meriti. Hai infastidito tutti a scuola con le tue uscite da ribelle di periferia. Grazie alle tue buffonate e scherzi idioti ho perso ore preziose per perfezionarmi. Sai, c'è gente che vuole raggiungere il massimo e non essere un perdente come te». Due ragazzi vicino a lui ridono, paiono due scimmie.

«Senti Kurt. Il fatto che tuo padre sia un Onironauta non significa che lo diventerai anche tu. Non basta avere i muscoli pompati e i capelli plastificati come i tuoi per essere ammessi ai corsi». Adoro vederlo andare su tutte le furie, è talmente codardo che non ha il coraggio di prendermi a pugni per paura di rovinare la sua condotta perfetta.

«Io sono un Bishop. Tutti gli uomini Bishop nella mia famiglia sono Onironauti da generazioni. Non osare offendere la mia famiglia», mi ringhia a pochi centimetri dal mio volto.

Con tutto il fiato che possiedo butto uno sbuffo di fumo direttamente sul suo muso: «Non ho mai offeso la tua famiglia, perché mai dovrei? Credo che tu sia un idiota, non sei neanche in grado di capire quello che ho appena detto».

I due scagnozzi di Kurt trattengono a fatica l'amico che come una furia vorrebbe buttarsi su di me. Ha la faccia rossa, i suoi capelli di solito impeccabili cadono sul suo volto deformato dalla rabbia.

«Vedi? Te lo detto che sei un idiota. Se mi picchiassi il tuo sogno di diventare Onironauta svanirebbe, la tua reputazione sarebbe rovinata. Stai tranquillo. Fumati una sigaretta e rilassati». Infilo il mio mozzicone mezzo consumato tra le sue labbra mentre sgattaiolo via dalla panchina sommerso dagli insulti di Kurt che pare vicino ad un infarto. Le vene sul collo pulsano, il colore del suo viso è di una sfumatura violacea.

Questa volta l'ho fatto davvero arrabbiare.
Non posso farne a meno.
Mi diverte un sacco provocarlo.

Lola e Ahmed mi aspettano poco lontano, hanno assistito a tutta la scena. Lola ride come una pazza, mentre Ahmed scuote la testa con disappunto.

«Nico, il tuo atteggiamento provocatorio innesca reazioni negative capaci di pregiudicare il tuo futuro. Mi sento di consigliarti un metodo che possa risolvere la situazione venutasi a creare. Abbassa il capo e chiedi perdono a Kurt per il tuo gesto impertinente e sfacciato». Ahmed parla con serietà, come fa sempre. Con indosso la sua divisa di poliestere, che gli lascia scoperti parte dei polpacci, sembra un pennacchio con attaccata un'orrenda bandiera color lavanda. 

«Rilassati amico!», gli dice Lola mentre mi alza la mano per batterla contro la mia.

«Quello che è successo è disdicevole e...».
Lola lo interrompe.

«Disdicevole? E tutte le volte che Kurt è i suoi amici ti hanno chiuso nel cesso? E quella volta che ti hanno rovesciato addosso la onirosoluzione durante gli esperimenti in chimica dei sogni? Quello non era disdicevole?». Lola dice l'ultima parola con una vocina stridula e sbattendo le ciglia.

«Quisquilie». Ahmed alto come un palo ci osserva con fastidio, anche se è stato vittima degli scherzi di quei bulli preferisce la strada diplomatica, sempre.

Mi ricordo quando lo abbiamo salvato dalle grinfie di Kurt quattro anni fa circa, mai si sarebbe aspettato che tipi come me e Lola avrebbero mai potuto aiutarlo. Due studenti come noi destinati a pulire i rifiuti degli altri, con una condotta pessima, si sono rivelati i migliori amici che avrebbe mai potuto avere. Certo, lui non commette mai nulla che possa andare contro le regole, è un ottimo studente con una media altissima, ma ha il piccolo problema che non riesce a lasciarsi andare. Tutto libri e cervello, ma con poca esperienza vera. Del resto viene dal quartiere residenziale con villetta e giardino perfettamente curati, genitori insegnanti e con poca fantasia. Credo che stare con noi gli dia quella scossa che vorrebbe dare alla sua vita, ma che non ha ancora trovato il coraggio di fare.

Dal vecchio altoparlante in cima al tetto dell'edificio scolastico gracchia una voce nasale: è la preside che ci invita a raggiungere gli esaminatori per il test finale. 
Ahmed impallidisce. Come la maggior parte degli studenti ha lavorato tutta la vita per questo momento, non può deludere le aspettative dei genitori. 
Tutti e tre ci dirigiamo verso la grande palestra dove sono stati allestiti i punti di smistamento. Kurt ci segue a distanza cercando di ricomporsi, non vuole perdere la sua opportunità di brillare, se non dovesse diventare un Onironauta infangherebbe il buon nome della sua famiglia. 
Lola, Ahmed ed io ci accodiamo ad una delle cinque file fuori dalla palestra mentre ci sfiliamo l'orrenda tunica color lavanda, il professore di Oniromeccanica le requisisce controllandole una ad una. Venti minuti di strazio e di attesa: identificazione e assegnazione.
Posto 137.
Fila 9.
Sono lontano dai miei amici, lo fanno apposta, in questo modo pensano di evitare che si copi l'uno dall'altro. A me non importa molto, non vedo l'ora che finisca tutta questa pagliacciata. 
La preside passa in mezzo alle file di banchi allineati uno dietro l'altro a consegnare i test, il passo pesante della donna fa scricchiolare il pavimento logoro in plastica. Le strisce scolorite per terra, i vecchi attrezzi sportivi ammassati alla parete e la luce al neon rendono l'atmosfera grottesca. Non c'è la minima serietà, è sempre la solita solfa, anno dopo anno si ripete la solita pantomima, un test che dovrebbe delineare le nostre attitudini, verificare le competenze e decidere il nostro futuro. Ridicolo. 
Tra le mani stringo un sottile plico di fogli sigillato, una matita. Ho due ore di tempo per compilarlo.

Via.

Un vecchio orologio scandisce il tempo, i nostri insegnanti si muovono avanti e indietro passando tra i banchi e le file per verificare che nessuno copi le risposte. Sembrano mosche impazzite che volano alla ricerca di una goccia di miele. Si muovono, osservano, cambiano direzione alla ricerca di qualche studente disonesto.
Io non ho la minima intenzione di copiare, ma nemmeno di completare quella sequela inutile di domande. Vado a caso, metto dei pallini con la matita dove capita cercando di esprimere e seguire il mio talento artistico. Il risultato finale? Osservando con attenzione le risposte si può leggere, unendo i pallini, la scritta IDIOTI. 
Dopo cinque minuti sono già al tavolo dei commissari esterni pronto a consegnare il mio foglio. Con un sorriso sfacciato lo consegno al presidente di commissione, un signore con la testa rasata e una divisa da Onironauta perfettamente stirata e tirata a lucido.

«Cosa significa?», mi chiede l'uomo mentre prende il mio test.

«Ho finito. Posso andare?». Tiro fuori dalla tasca gli occhiali da sole poi li infilo sul naso.

L'uomo freme. Con i pugni stretti e lo sguardo torvo mi squadra dall'alto in basso, non credo sia abituato a essere trattato in questo modo:«Nome e cognome», mi chiede asciutto mentre apre un grosso registro pronto a segnare il mio nome.

«Nico Songus», dico mentre mi stiracchio annoiato.

«Songus?». L'uomo si blocca e mi osserva con un'attenzione diversa:«Sei il fratello di Alex Songus?».

Non rispondo.

«È stato mio allievo diversi anni fa. Un'ottima posizione la sua. Vedo che il talento non è di famiglia», mi dice con astio e cattiveria mentre scrive il mio nome sul grande registro.

«Ho pensato fosse troppo per i miei genitori, si immagina se avessero avuto due talenti in famiglia? Sarebbero stati troppo fieri, non sia mai. Io sono la pecora nera, va bene così a tutti». Con le mani in tasca ciondolo sul posto, non ho voglia di stare a parlare con quel pallone gonfiato.

«Forse dovevi fare tu la fine di tuo fratello, no? In questo modo i tuoi genitori avrebbero avuto il figlio giusto ancora vicino a loro». L'uomo chiude con forza il registro, il suo sorriso di sfida si abbina perfettamente all'aria sicura e spavalda che ogni poro della sua pelle trasmette.

«Ma così non sarebbe troppo facile? Mi piacciono le cose difficili e poi è divertente vedere i miei genitori cercare di capirmi». Non voglio dargliela vinta, quel pallone gonfiato vuole provocarmi, ma non sa che le sue parole mi sfiorano come fossero gocce d'acqua. Non mi toccano, non mi importa cosa pensi. 

«Adesso vai ai colloqui», mi dice asciutto.
Con un gesto delle dita lo saluto mentre esco dalla palestra dove il resto dei miei compagni sta finendo di compilare il test. Lola e Ahmed mi seguono con lo sguardo fino a quando sono uscito. Mi prenderebbero a sberle se potessero, odiano quando mi comporto così.

Il sole all'aperto batte forte è quasi accecante.

Solo.
Sono solo.
La luce bianca si riflette sui sassi bianchi del selciato, la polvere pare addormentata. Non c'è un alito di vento. L'eco dei miei passi pare quello di un lupo solitario abbandonato dal branco in cerca di uno scopo. 
I ricordi d'infanzia e le ultime parole di Alex si fondono.

Ti sei mai chiesto perché fabbrichiamo sogni?

I capelli ricci di mio fratello, il suo sorriso dolce, la sua curiosità.

Chiedi scusa a mamma e papà.

Mi accascio contro il muro incandescente dell'edificio principale. La divisa si impolvera mentre cerco di riprendere fiato. Le lacrime che cadono dai miei occhi sono l'unica cosa viva, l'unica cosa vera, l'unica cosa che mi faccia provare qualche emozione.

Sono un lupo senza branco.
Sono Nico.
Sono Nico, il figlio sbagliato.

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Capitolo 4
*** Un futuro segnato ***


Un futuro segnato

Sedia cigolante.
Tavolino in fòrmica verde.
Paravento in cerata grigia.
Secchio di metallo vicino ai miei piedi.
Brusio.
Molto brusio.

La scuola del quartiere 23 conta più di trecento studenti diplomandi. A gruppi di 20 persone ci fanno entrare nella stanza in cui durante l'anno si tengono gli incontri tra professori e genitori, uno stanzone anonimo dalle pareti color verde chiaro e diverse macchie scolorite mai riverniciate.
Io me ne sto seduto in uno spazio ristretto in attesa di iniziare il colloquio per determinare il mio lavoro utile alla comunità. Una donna sui cinquant'anni dall'aria annoiata, con capelli biondi cotonati e dal seno prosperoso, legge il mio fascicolo. Sfoglia le pagine con lentezza senza il minimo entusiasmo. Davanti a lei un computer dall'aria malandata su cui digita i tasti per compilare la mia scheda personale, una fiala di vetro contenente un liquido multicolore e luminoso, un paio di guanti in pelle piuttosto usurati. 
Sono in attesa.
La fioca luce al neon del soffitto e le cerate grigie che dividono lo spazio dagli altri studenti sembrano le pareti di una tomba. Mi manca l'aria. Mi sto addormentando. 
Il ticchettio monotono dei tasti schiacciati dalla signora sembrano una ninna nanna infernale.

«Il secchio serve per chi vuole diventare Onironauta, giusto? Dopo che hanno bevuto l'acqua dell'Onirocascata tutti stanno male, vero?», chiedo dando un colpo di tacco al secchio di metallo che ho vicino ai piedi sperando che due chiacchiere possano svegliarmi dal torpore in cui sono caduto.

«Già. Dopo pochi secondi che il soggetto ingoia l'acqua dell'Onirocascata vomita. È la prassi. Il tempo che sono in grado di resistere, la forza di volontà che mettono è il metro di valutazione. Più resisti e più possibilità hai di diventare Onironauta». Con il dito indica la fiala sul tavolo che sprigiona costantemente una luce potente e scintillante. 

«Non preoccuparti, leggendo il tuo fascicolo non correrai questo rischio, non sei adatto al ruolo. Non ti darò da bere l'acqua perché non diventerai mai un Onironauta, credo resisteresti molto poco. Molti ragazzi studiano seriamente per anni, forgiano la loro volontà per poter provare durante questo colloquio per diventare Onironauti». La voce piatta e senza emozioni della donna è anche più noiosa di tutta questa situazione.

«Non ho le carte in regola vero? Peccato», dico con finta aria sconsolata.

La donna mi guarda di sfuggita senza mostrare il minimo interesse.

«Molto intenso come colloquio. C'è gente che aspetta tutta la vita per questo momento, ovvero vomitare davanti ad una sconosciuta. Il massimo, non c'è che dire». Sono ironico, ma la signora non coglie lo spirito. Digita. Legge. Digita. Legge.

Poi.

«Signor Nico Songus cosa le piace fare normalmente durante una giornata tipo?». La donna ripete a pappagallo la prima di quella che sembra un'intervista molto lunga e noiosa.

«Camminare. Passeggiare. Esplorare. Dormire. Mangiare... Respirare?».

«Quale cosa le riesce meglio?», continua a chiedermi imperturbabile.

«Nulla, non so fare nulla. Voti pessimi e condotta disdicevole». Il mio tono imita quello isterico di mia madre ogni qual volta combino qualche guaio.

«Cosa crede le riserverà il futuro?». La donna mi guarda schifata.

«Passo». Non credo resisterò molto ancora.

«Ha qualche nome che vuole aggiungere al suo fascicolo come sua futura compagna? Se non dovesse darmi nessun nominativo provvederemo noi ad assegnargliene una».

«Passo». Non potrei mai rovinare la vita a Lola è la mia migliore amica è vero, ci divertiremmo un sacco, ma non mi ama come si dovrebbe amare qualcuno di speciale. Sono come un fratello per lei.

«Si sente realizzato più con un lavoro all'aria aperta o dietro una scrivania?». La testa bionda e cotonata della donna si muove ritmicamente seguendo il ritmo della penna sulla carta.

«Passo».

«Quale obbiettivi vuole raggiungere nella vita?», mi chiede mentre continua a prendere appunti.

Sbotto, non ne posso più.

«Il caos. Voglio che ci sia il caos. È abbastanza sconvolgente come risposta? Se il tenore delle domande è questo può scrivere lei al posto mio. Se reputa che sia adatto per un lavoro me lo dia, non mi importa quale sia, l'importante che mi arrivino abbastanza crediti e razioni per andarmene da casa. Pulisco bagni, vetri, cucine. Raccolgo erbacce, cambio lampadine. Farò qualsiasi lavoro umiliante lei ritenga opportuno come... come l'esaminatore finale durante i colloqui di fine scuola. Il lavoro che fa lei, insomma». Dico l'ultima frase con un sorrisetto sarcastico, impertinente e sfacciato. Non posso negare che mi stia divertendo un sacco.

La donna smette di prendere appunti, mi guarda con intensità. Credo che se potesse mi prenderebbe a sberle come il 99% delle persone che mi conosce.

«Bene Signor Songus. Se è questo che vuole le affiderò un lavoro utile alla comunità e perfettamente ritagliato per la sua personalità: c'è carenza di personale alla Fabbrica dei Sogni, le fornaci hanno bisogno di essere alimentate manualmente». La donna avvicina il suo volto al mio schiacciando con il seno abbondante la tastiera del computer. «Marcirà il resto della sua vita all'inferno».

Sorrido e alzo le spalle. Non mi importa di nulla di quello che dice, se è quello che mi tocca lo farò.
Con gesto plateale solleva un grosso timbro con scritto ASSEGNATO che preme con forza sul fascicolo cartaceo che tiene tra le mani dall'inizio del colloquio. 

Bam.
Il mio futuro è segnato.

«Questa è la ricevuta che le indica dove inizierà il suo lavoro il mese prossimo. Mi raccomando, non pensi di saltare il primo giorno o darsi per malato. Noi sappiamo chi mente e chi non vuole lavorare. Noi sappiamo tutto», dice mentre picchietta la targhetta dell'Oniroministero appuntata alla sua camicia. 

Senza neanche salutare esco e percorro il corridoio con stretta in pugno la ricevuta che indica il mio nuovo lavoro alla Fabbrica dei Sogni. Spalare rifiuti dentro la fornace è uno dei lavori più faticosi che esista, dalle voci che girano pare che tra il calore e i gas emanati l'aspettativa di vita si riduca di molto. Bello schifo.
Una valanga di studenti aspetta trepidante il momento del colloquio. Nel corridoio ci sono facce pallide e occhiaie come non ne ho mai viste. C'è chi si mangia le unghie, chi cammina avanti e indietro, chi sembra sull'orlo dello svenimento.
Se sapessero che i loro desideri verranno disattesi non si cruccerebbero tanto.
Domande sciocche e puerili possono decidere il futuro di uno studente?

No.

Cerco Lola e Ahmed, loro hanno fatto il colloquio prima di me. 
Passo dall'ingresso principale per ritrovarmi nell'assolato cortile. Anche se è pomeriggio inoltrato fa ancora molto caldo. Rifugiati sotto l'ombra delle piante che circondano l'edificio ci sono tutti gli studenti che hanno fatto il colloquio. Non ci sono troppe facce felici, leggo molta perplessità sui volti di ciascuno di loro.

«Nico. Nico». Lola sventola un braccio, vicino a lei c'è Ahmed che ha l'aria sconvolta.
Li raggiungo.

«Ciao, come è andata?», chiedo mentre sventolo la mia ricevuta.

«Cameriera in una tavola calda, zona Nord. Servirò cibo agli operai della Fabbrica dei Sogni», dice sconsolata. L'incubo di Lola di è avverato, farà lo stesso lavoro di sua madre.

«Perlomeno ci incontreremo in pausa pranzo. Io lavorerò alle fornaci, direttamente all'inferno», dico ridendo.

«Mi dispiace Nico, veramente. Ti hanno dato un lavoro schifoso». Lola mi abbraccia forte, in quella stretta c'è tutta la tristezza e la frustrazione che sente dentro. Ingabbiata a ripetere la vita di sua madre, schiava del lavoro, troppo distrutta per stare con la sua famiglia e invecchiare in una mensa a servire cibo scadente. Se potessi le darei il lavoro dei suoi sogni, le darei tutto ciò che vuole.
Ahmed mugola.

«Che c'è?», chiedo alla mia amica che con il dorso della mano si sta asciugando una lacrima scivolata tra i suoi piercing.

«Ahmed farà il professore di Meccanica dei Sogni. Tra due anni avrà tra le mani le menti di giovani ragazzi prepotenti, arroganti e supponenti», Lola alza le spalle divertita e preoccupata solo stesso tempo. Ahmed è un ragazzo brillante, intelligente e perspicace, ma incapace di avere un qualsiasi rapporto empatico ed emotivo con qualcuno, a parte noi due.

«I tuoi piani di lavorare negli uffici dell'Oniromimistero sono andati a farsi friggere. Mi dispiace amico». Abbraccio Ahmed che sembra sempre più moscio.

«Avevo calcolato con un algoritmo che gli studenti più ambiziosi desiderassero ottenere un lavoro di prestigio che portasse popolarità e successo cosa che a me non è mai interessata. Indi per cui ho optato per un lavoro noioso, ripetitivo e snobbato come l'archivista all'Oniromistero. Ho studiato la piantina della biblioteca, quella dell'archivio. Ho memorizzato date, nomi, indirizzi. Sapevo tutto ciò che poteva servirmi. Inoltre, in base alle informazioni di cui ero in possesso sono riuscito a creare un testo molto similare a quello che ci hanno sottoposto e...». 

Un urlo interrompe il monologo di Ahmed.

Kurt è in mezzo al cortile sta sventolando un foglietto in aria.
È ovvio.
Kurt è un Onironauta.

La felicità di Kurt mi infastidisce, ma c'era da aspettarselo. Con suo padre e suo nonno Onironauti aveva un bel po' di vantaggio rispetto agli altri. Gli scagnozzi di Kurt lo circondano come cagnolini ammaestrati, lo riempiono di lodi. Metà della scuola si complimenta con lui come con tutti coloro che avranno la possibilità di studiare per diventare Onironauta. 
Il mio tirocinio di un anno sarà come imparare ad alzare la pala per buttare i rifiuti in una fornace, cosa che si spiega in dieci minuti scarsi.

«Allora carissimi, quale stupenda carriera vi aspetta? Due delinquenti e uno sciroccato fanno una persona intera? Io ho resistito per tre minuti e quarantacinque secondi dopo aver bevuto l'acqua dell'Onirocascata. È il secondo miglior tempo che sia mai stato registrato nella nostra scuola da quando è stata aperta. Tre minuti e quarantacinque secondi, ho fatto la storia». Kurt ha la faccia tra il verde acido e il giallo limone, profonde occhiaie e i capelli tutti spettinati. L'aspetto non è certo dei migliori.

«Non ho voglia di discutere, vai via», gli dico mentre prendo a braccetto Ahmed per allontanarlo. Lola è al mio fianco.

«Pulirete i cessi dove piscerò, laverete i piatti dove mangerò. Sarete i miei schiavi». Kurt ride sguaiato, la giacca della divisa è sporca di un liquido giallastro. È vomito, la puzza che emana è nauseabonda.

«Sarai un Onironauta di livello. Tre minuti e quarantacinque secondi, una cosa di cui vantarsi considerando che non sai neanche centrare un semplicissimo secchio. Che dire? Sarai un campione», dico sarcastico.

Kurt si avvicina minacciosamente al mio volto. L'odore acre e pungente mi nausea, mi allontano disgustato: «Calmati amico, non vorrai innescare una reazione a catena. Se mi stai troppo vicino vomito pure io».

«Brutto schifoso pezzente. È da anni che ti voglio spaccare la faccia, che voglio vedere il tuo faccino condito con i miei cazzotti». Kurt mi prende per il bavero scuotendomi con violenza. I suoi scagnozzi si avvicinano a Lola e Ahmed iniziandoli a spingere con forza.
Gli occhi azzurri di Kurt paiono più vuoti del solito. Ignoranza allo stato puro. Non ho intenzione di farmi sfiorare da quel troglodita.
Con un gesto rapido delle braccia mi stacco dalla sua presa, con una spallata lo allontano da me. Raggiungo I miei amici, Lola sta dando una ginocchiata nelle parti basse a uno dei due aggressori mentre Ahmed pare in difficoltà. Prendo per un braccio il ragazzo che sta scuotendo il mio amico poi gli assesto un pugno in volto. Lo scagnozzo cade a terra come una prugna marcia. Lola aiuta Ahmed a riprendersi, nonostante sia alto più di un metro e novanta non sarebbe in grado di fare male nemmeno a una mosca. Kurt e il suo amico si avventano su di me. Uno mi tiene le braccia da dietro, mentre Kurt mi prende a pugni nello stomaco. Il dolore è immenso, ma non voglio darglielo a vedere, non mi piegherò mai a uno come lui.
Lola sorregge Ahmed, è così pallido che sembra stia per svenire.

«Lascia Nico. Kurt non fare il vigliacco», urla la mia amica disperata.

Gli studenti nel cortile si sono radunati tutti intorno a noi, c'è chi urla, chi guarda e chi incita. Sembriamo gladiatori in una arena. Nessuno prova a fermare Kurt, nessuno lo farebbe mai perché significherebbe andare contro tutto ciò in cui credono. 
Kurt è più importante di noi.
Kurt può fare ciò che crede.

«Ne hai avute abbastanza verme», dice Kurt mentre mi colpisce con un pugno.
Una piccola goccia di sangue mi scivola dal lato della bocca. La assaporo. Questa è troppo, non posso sopportare oltre. Infuriato, furioso e totalmente immerso nella follia più pura sferro a Kurt un calcio negli stinchi, quando il ragazzo si abbassa a proteggere la gamba lo colpisco con il ginocchio sullo zigomo destro. Il ragazzo che mi tiene da dietro mi lascia spaventato, indietreggia qualche passo, sa benissimo che adesso tocca a lui. Mi avvicino con decisione. Sto per sferrare un gancio direttamente sul mento di quel codardo quando mi sento sollevare da dietro per il bavero della divisa. Resto con i piedi a penzoloni come fossi un moccioso incapace di difendermi.

Scalpito.
Ringhio.
Strattono.

Con le unghie cerco di liberarmi dalla presa d'acciaio che mi tiene la giacca:«Brutto bastardo, lasciami». La rabbia che provo è a livelli massimi.

«Stai zitto moscerino», un suono gutturale, profondo e cupo echeggia nell'aria.
Non ho idea di chi mi stia sollevando, ma chiunque sia appena posso gli spaccherò la faccia.
Come un aquilone strattonato dal vento vengo lanciato a pochi metri di distanza cadendo rovinosamente per terra tra la polvere secca e gli sguardi attoniti degli altri studenti.
Come una molla mi sollevo da terra con i pugni in posizione di attacco pronto a riprendere la scazzottata. Non mi importa se mi trovo un gigante, non mi importa se è forte come una montagna. A quello gli faccio saltare tutti i denti.

Ma.
Impallidisco.
Le braccia mi scivolano lungo i fianchi.
Allento la presa, le dita ciondolano inermi.

L'uomo che mi ha sollevato è lo stesso che ha ritirato il mio test, quello che ha insegnato a mio fratello, quello che ha detto che non valgo nulla e che era meglio che fossi morto io al posto di Alex. La sua testa rasata riflette la luce, intravedo decine di cicatrici ormai rimarginate, lo sguardo non è più quello contenuto di poche ore fa, ora mostra tutto il disprezzo che prova per me.
Lola e Ahmed si piazzano di fianco a me.

«Caro Signor Songus, sa che aggredire un aspirante Onironauta è reato?», mi dice mentre solleva a Kurt da terra.

«Quel bastardo ci ha insultati e aggrediti per primo», dice Lola d'impeto.

«Posso confermare lo svolgersi della vicenda. Abbiamo reagito solo perché le maniere brute di...». 

Ahmed viene interrotto da Kurt.

«Stai zitto. Voi mi avete offeso e ridicolizzato per il fatto che fossi sporco di vomito. Credete che sia facile resistere all'acqua dell'Onirocascata? Sarete solo dei perdenti, mentre io...».

L'uomo blocca Kurt mettendogli una mano sulla spalla:«Caro Bishop, questi ragazzi non hanno idea della sofferenza che si prova, non capiscono il dolore».

«Sissignore Colonnello Shinko». Kurt scatta sull'attenti. 

L'uomo si avvicina a noi tre. Le mostrine lucide sulla divisa perfettamente stirata, la postura perfetta, il controllo di ogni muscolo lo rendono difficile da decifrare. Sembra un manichino, uno di quei condottieri dipinti nei grandi quadri antichi. Con mossa elegante estrae una fiaschetta di metallo argentato con il tappo a forma di teschio. Con un colpo deciso la fa scattare, delle scintille arcobaleno e dei fumi luminescenti escono frizzando.

Acqua di Onirocascata.
È illegale detenerla a meno che non si abbia l'autorizzazione.
Il Colonnello Shinko non ha bisogno di chiedere niente a nessuno.

«Adesso voi la berrete e vomiterete qui davanti a tutti. A meno che non vogliate che la vostra ricevuta diventi carta straccia facendovi finire a vivere tra i reietti. Niente lavoro. Niente vita». L'uomo non ride è estremamente serio: «Voglio che mi supplicare di smettere di stare male. Chiunque beve quest'acqua prova dolori atroci. Solo corpi allenati e menti solide riescono a reggere lo stress, per questo pochi possono diventare Onironauti. Per questo Kurt è stato male durante il colloquio di prima. Quello che quest'acqua è in grado di fare neanche lo immaginate, resistere per più di tre minuti è molto difficile».

Lola sta per dire qualcosa al Colonnello, ma riesco a impedirle di parlare. Basta un mio sguardo per raccontarle tutto quello che provo. Non mi importa se sarò deriso, non mi importa di nulla, ma Ahmed non potrebbe resistere un giorno da reietto senza un lavoro e Lola non potrebbe vivere sapendo di aver rovinato la vita dei suoi amici.

«Facciamolo. Magari riusciamo a sporcargli la divisa a quello lì». Lola ridacchia anche se ha le lacrime agli occhi per la rabbia.

«Ok. Ci vogliono sfidare? Faremo la miglior figuraccia del mondo. Nessuno la scorderai mai», le rispondo.

«Che vadano tutti a farsi fottere. Io non vi mollo», dice Ahmed con tale cattiveria da stupire me e Lola. Uno di fianco all'altro ci teniamo per mano.

Il Colonnello Shinko si avvicina.
Lola, Ahmed e io apriamo la bocca.
Un sorso di acqua di Onirocascata scivola nella nostra gola.
Per pochi secondi fumi colorati, guizzi luminosi escono dalle nostre bocche.
Pizzicore.
Solletico.
Vertigine.
Vortice.
Risucchio.
Peso.
Peso.
Peso.
La gravità mi schiaccia e deforma.
Vado verso il basso.
Le immagini spariscono.
Divento il nulla.

Poi.

Una stanza buia, non ci sono pareti. Nero, c'è solo nero. Mi muovo a tentoni, ma attaccato a me sento un peso: sono Lola e Ahmed. Provano a parlare, ma dalla loro bocca non esce nessun suono. Flash colorati. Immagini conosciute. Facce forse già viste, ma che non ricordo. Tremo. Lola e Ahmed sono appiccicati a me, siamo un corpo solo. Un fischio lontano aumenta d'intensità fino a diventare tagliente per le nostre orecchie. Urliamo, ma non produciamo nessun rumore. Buio. D'improvviso vengo strattonato cadendo per terra con Lola. Ahmed è sparito. Lo proviamo a cercare, ma il pavimento su cui ci muoviamo sembra non avere sostanza, non esiste. L'urlo ritorna. Mi tappo le orecchie, ma il suono filtra tra le dita. Stringo i denti, gli occhi, ogni muscolo del mio corpo è compresso in uno spasmo di dolore. Altro strattone. Lola non c'è più. Ho paura. Cerco una via d'uscita da quel buio. Corro. Corro. Corro, ma non arrivo da nessuna parte. Poi un bagliore. Una luce fioca. Un angolo di una stanza appare come per magia. Una ragazza con indosso una camicia da notte bianca è accucciata a terra. Piange. Piange perché sento i suoi singhiozzi rimbombarmi nel petto. Piange perché non ho mai visto occhi più tristi in vita mia. Mi avvicino. Le sfioro una mano mentre sembra non vedermi. -Vuoi anche tu farmi del male?- mi chiede mentre muove le mani nel vuoto come per cercare di prendermi. -No. Non potrei mai- le dico. La ragazza accenna un sorriso, non piange più. 

Il mio cuore perde un battito.
Il fiato mi manca.
Provo a muovermi, ma le mie gambe paiono di ferro.
Un colpo.
Un altro colpo.
Vengo trascinato indietro come se fossi legato a una Onirovettura lanciata a tutta velocità.
Poi il vuoto.
Un risucchio.
Il mio corpo stretto in un budello fatto di luci, scintillii e vapori colorati.
Vengo scosso, trascinato, ritorto.
Le mie ossa scricchiolano.
I miei muscoli sono lacerati.
Alla fine atterro in una distesa arida e secca.
Decine di occhi mi fissano, sono di nuovo nel cortile della mia scuola.
Lola e Ahmed sporchi del loro vomito mi guardano sconvolti.
Io mi sento uno straccio, non ho mai provato una stanchezza simile. Niente che conosco può paragonarsi al dolore che sento.

«C-Come hai fatto?», mi chiede Lola.

«Io non ho fatto nulla. Voi eravate con me, avete visto tutto no?», dico mentre sento lo stomaco contorcersi con violenza.

«Guarda», mi dice Ahmed indicando sopra la mia testa.

Una nuvola fatta di scintille e scosse elettriche turbina a pochi centimetri dalla mia testa lanciando bagliori e una luce fortissima come se cento lampadine fossero accese contemporaneamente.

Confuso, stremato e spaventato indietreggio strisciando tra la polvere secca e i sassolini appuntiti. Lo stomaco brontola e si ritorce, un sapore acido e disgustoso mi riempie la bocca. 
Manca poco, sto per vomitare.

Un movimento brusco dietro al bavero mi solleva da terra. Il Colonnello Shinko mi solleva come fossi un gattino appena nato:«Tu sei mio. Undici minuti abbondanti, non c'è male considerando che sei un arrogante sbruffone. Forse sei meno diverso da Alex di quanto pensi. Avete lo stesso talento, Onironauti nati», mi dice con decisione senza aspettarsi una risposta.

Il rimestino scuote il mio stomaco dando il via a quello che mai avrei voluto fare.
Non posso fermare ciò che il mio corpo sente la necessità di fare, la vergogna, il dispiacere per essermi mostrato vulnerabile non è nulla se paragonato alla magnifica sensazione che la ragazza con gli occhi tristi mi ha regalato.
Tutto quello che sento è serenità.

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Ciao!

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Capitolo 5
*** È ora di iniziare ***


È ORA DI INIZIARE


Sono passati trenta giorni da quando il Colonnello Shinko mi ha dato da bere l'acqua dell'Onirocascata nel cortile della mia scuola. Trenta giorni in cui un vago senso di malessere mi ha accompagnato in ogni momento della giornata. Da una parte ho chiaro il dolore fisico, lo sballottamento e la confusione provata. Dall'altro le immagini viste e vissute in prima persona, la ragazza con gli occhi tristi e la sua voce, diventano un ricordo lontano. Fioco.
È come se avessi nostalgia di un qualcosa, come se sentissi la mancanza di qualcuno, anche se non ho la minima idea di cosa io abbia effettivamente visto.

I miei genitori mi sono vicini, siamo tutti e tre sulla soglia della porta di casa. Sembriamo quelle ridicole statuine di gesso che gli abitanti dei quartieri ricchi mettono nel loro giardino. Anche se è mattina presto, mamma e papà, hanno deciso di aspettare Lola che mi venga a prendere per portarmi al primo giorno di tirocinio per diventare a tutti gli effetti Onironauta. Un anno di corso poi scoprirò se ho effettivamente le carte in regola. Alex è stato bocciato all'esame finale e per questo, credo, si è tolto la vita. 
Mamma indossa il suo grembiule migliore, ha arricciato i capelli per poi raccoglierli in uno chignon. Con le mani intrecciate sul ventre osserva la strada mentre papà con il giornale sotto braccio e la divisa da operaio fuma una sigaretta.
Sono rimasti stupiti e spiazzati quando gli ho detto che avrei fatto il corso per diventare Onironauta, una notizia inaspettata. Da una parte credevano che con i miei voti e la mia condotta avrei fatto ben poco, dall'altra parte sono convinti che non durerò più di una settimana al corso. 
Il corso è un massacro.
Lo so io e lo sanno i miei genitori.
Alex ci scriveva lettere in cui ci raccontava le difficoltà che giorno dopo giorno doveva affrontare, ci diceva che molti suoi colleghi rinunciavano o venivano cacciati se non raggiungevano un determinato obiettivo. 

Solo se sei il migliore vai avanti.

Io non sono mai stato migliore in niente, eppure quegli undici minuti in cui sono stato privo di sensi ho provato emozioni mai toccate prima. È come se vivessi una vita parallela, come se fossi in un posto che conoscessi, ma che non so dove effettivamente fosse. I sensi sono appannati, i movimenti rallentati. La cosa più simile che possa spiegare ciò che mi è successo è quando sono immerso nell'acqua. Ovattato. Protetto. Vulnerabile. Fragile. In cerca di equilibrio continuamente.

Undici minuti che hanno formato una sfera di energia sopra la mia testa.
Undici minuti di energia prodotta da un'Onironauta bastano per far funzionare una casa di piccola grandezza.
Undici minuti. Il secondo miglior tempo della mia scuola, il primo è di tredici minuti e ventidue secondi. L'ha fatto mio fratello Alex.

Il clacson di Lola risuona afono per la strada deserta, il suo catorcio cade a pezzi, ma almeno mi permette di andarmene da casa. Non avrei sopportato di essere accompagnato dai miei genitori. 
Mamma timidamente improvvisa un abbraccio, un paio di lievi pacche sulla schiena, e un sorriso tra il trattenuto e il preoccupato. Papà mi allunga una stecca di sigarette, non aggiunge altro.

«Ciao», dico, poi raggiungo Lola e il suo rudere a quattro ruote. 

Ahmed è seduto di fianco a lei, pare stia per vomitare, ha un grosso sacchetto di carta tra le cosce. 
Nessuno parla. 
Non c'è bisogno di dire nulla.
Negli ultimi trenta giorni abbiamo cercato di capire cosa fare, come comportarci e che atteggiamento assumere, ma gli sbalzi di umore e le ansie hanno preso il posto della ragione e del buon senso. Lola ha iniziato ad allenarsi come una matta, ha passato più ore a correre e arrampicarsi di chiunque altro io abbia mai conosciuto. Ahmed non ha staccato la testa dai libri, ha voluto recuperare la lacuna di informazioni sugli Onironauti e sul corso che ci aspetta. Io. Io, ho vagato per i boschi. Ho passato diversi giorni all'aria aperta addormentandomi coperto dal cielo stellato e coccolato dai fili d'erba. Qualche volta ho cacciato, acceso fuochi e raccolto frutti, ma per la maggior parte del tempo ho pensato. Una domanda su tutte non ha trovato risposta: se Alex non ha superato l'esame finale, come potrò farcela io?

«Eccoci». Una grande recinzione fortificata compare all'orizzonte. Il parcheggio esterno all'Onirocascata, di solito occupato solo dai dipendenti dei vari piani interrati, stamattina pare esplodere. Macchine di ogni foggia provenienti dai 53 quartieri della città cercano parcheggio, strombazzano nervosi e stanno fermi in lunghe code. 

«Ci conviene parcheggiare qui. Facciamo due passi a piedi, lì davanti non arriveremo mai». Lola parcheggia in una piccola radura erbosa sul lato della strada. Toglie le chiavi dal quadrante per infilarle nel parasole sopra il volante:«Uno dei miei fratelli passa a prenderla in giornata. Serve più a loro che a me», dice mentre controlla la matita nera intorno agli occhi e il piercing al labbro nello specchietto retrovisore.

«Non hai paura che te la rubino?», chiede Ahmed con una voce da zombie riemergendo dal sacchetto di carta.
Lola lo guarda con il sopracciglio alzato:«Chi mai ruberebbe questa carcassa? Per farla partire devo schiacciare due volte la frizione, il cambio è duro, non ha il servosterzo... solo un pazzo la vorrebbe».

«Lo so che fa schifo, ma allora perché ti inalberi ogni volta che ti diciamo che è da buttare via? Credevo...».
Lola lo interrompe, è furibonda: «Nessuno può offendere la mia macchina. Io posso dire che è un rottame, tu no. Chiaro?».

«Ma...», guaisce Ahmed.

Lola esce dalla macchina sbattendo la portiera, poi prende una sacca con le sue cose dal bagagliaio: «Vi muovete?», ci urla sbattendo un pugno sul cofano.

Ahmed e io ci guardiamo interdetti. È meglio non contraddirla.
Senza battere ciglio prendiamo e nostre cose pronti a iniziare una nuova vita.

La strada per raggiungere la recinzione fortificata non è molto lunga, ma cosa più scomoda è fare lo slalom tra macchine parcheggiate male, parenti che accompagnano i figli e valige ingombranti. Le scene lacrimose e le aspettative che pesano come macigni sulle spalle dei ragazzi sono le stesse per tutti. Tutte quelle smancerie sono talmente ripetitive e noiose che sembra di assistere, metro dopo metro, sempre alla stessa scena.
Ahmed con il suo trolley con rotelle e la sua statura fuori dal normale svetta su tutti. Incurante delle persone intorno a lui spinge e da spallate a chi si trova sul suo percorso. Il pallore e le occhiaie marcate lo fanno sembrare più pericoloso di quanto sia, se poi si aggiunge il fatto che parla da solo, il gioco è fatto. 
Lola ed io lo lasciamo andare avanti, in questo modo ci apre la strada e ci permette di raggiungere più velocemente l'ingresso.
Schierati davanti al grande cancello ci sono, uno di fianco all'altro, i guardiani con la loro tuta nera, il caschetto e il manganello ben stretto in pugno. D'istinto mi tocco la cicatrice sul mio volto, mi fa uno strano effetto essere lì, è da quando Alex si è buttato nel vuoto che non mi avvicino a quella zona del bosco.
Una fila di futuri Onironauti è ben organizzata dietro le transenne. Uno alla volta dobbiamo farci riconoscere e ricevere la nostra assegnazione e un tagliando dove ritirare le nostre divise per gli allenamenti.
L'attesa è abbastanza lunga, dobbiamo solo portare pazienza.
Lola si stropiccia le mani mentre respira e inspira profondamente, Ahmed controlla su un volume chissà quale informazione, mentre io accendo e spengo l'accendino che tengo in mano.

«Sei un piromane? Vuoi farci morire carbonizzati?», dice una voce femminile alle mie spalle.

«Scusa». Metto accendino in tasca poi mi rigiro verso i miei amici.

«Sei uno di poche parole, eh? Io mi chiamo Juli Martini», dice allungando la mano nella mia direzione.
Accenno un sorriso di circostanza.

«Ciao Juli, piacere di conoscerti», cercando di imitare i toni bassi di una voce maschile la ragazza si stringe ma mano da sola.

«Hai sempre voglia di parlare? Io non sono un tipo molto loquace», le dico con aria scocciata.

«Era tanto per fare amicizia. Dalla scuola del mio quartiere solo io sono riuscita a passare per il corso, non conosco nessuno. Mi son detta: Juli, le prime persone che incontrerai fattele amiche. Caso a voluto che fossi tu. Quindi, io sono Juli Martini, tu invece?».

Guardo quella ragazza dai capelli biondi a caschetto perfettamente tagliati come una scodella rovesciata e il viso a forma di cuore con sospetto. È troppo euforica e chiacchierona per i miei gusti. Non voglio correre il rischio di dovermi trovare a fare da baby sitter a una squinternata del genere.

«Ciao. Io sono Lola Bertrand. Questo musone qui si chiama Nico Songus e il tizio che legge è Ahmed Mazur. Da che quartiere vieni?», chiede Lola mentre stringe con vigore la mano di Juli.

«Dal 51. Profonda campagna», dice arrossendo.

«Bello. Lì c'è il lago Tokopapa, mia madre mi ha portata da piccola. Si mangia benissimo, mi ricordo che ho assaggiato una marmellata di...».

«Stop. Lola fermati. Già devo sopportare le tue chiacchiere, se fai amicizia con Juli rischiereste di farmi impazzire. Quindi finiamola qui. Ognuno per la sua strada. Ciao Juli. È stato un piacere Juli. Buon corso Juli. Addio», le dico voltando le spalle alla ragazza e prendendo di peso Lola.

«Idiota!», dicono in coro le due ragazze, poi scoppiano a ridere mettendosi una di fianco all'altra a chiacchierare come fossero due ottime amiche da sempre.

Rassegnato a sopportare le loro voci cerco di distrarmi per non pensare quanto tempo mi tocchi aspettare prima di poter entrare nel campo esercitazioni. Ahmed parlotta da solo a bassa voce, ripete informazioni, nomi e date che nell'ultimo mese ha memorizzato. Non è di molta compagnia, ma è meglio delle due cornacchie parlanti dietro di me.
Un passo dopo l'altro, una raffica di parole dopo l'altra, finalmente arriviamo all'ingresso dov'è diverse guardiole ospitano delle impiegate che scartabellano tra grandi registri e blocchi di carta.

È il mio turno.

«Mi passi la ricevuta che le hanno consegnato durante il colloquio trenta giorni fa», mi dice la donna con grossi occhiali bordati di nero.

«A dire il vero ho solo questo». Allungo un foglio di carta che il Colonnello Shinko ha dato a me, Lola e Ahmed, una specie di nota scarabocchiata velocemente. 
La donna lo osserva con attenzione, poi prende tre cartelle color grigio:«Mi dica il suo nome».

«Nico Songus».

Attraverso gli occhiali mi osserva più volte, apre la cartella grigia sfogliando un paio di fogli. Attaccata con una graffetta c'è una mia fotografia:«Bene. Lei uno dei casi particolari che il Colonnello Shinko ci ha segnalato. Adesso può entrare e andare a ritirare la sia uniforme e tutto quello che le servirà durante il corso. Le spiegheranno dopo nei dettagli», dice mentre sbatte un grosso timbro sulla cartelletta contenente le informazioni su di me.

Recupero velocemente il foglio con le assegnazioni, il mio zaino per poi dirigermi oltre il grande cancello. Diversi guardiani mi squadrano da capo a piedi, alcuni marciano avanti e indietro, lo scricchiolio delle loro tute in pelle sembra il rosicchiare di un cane su un osso. 

Il cuore batte forte, anche se non voglio ammetterlo ho paura.

Lola e Ahmed mi raggiungono dopo pochi secondi. Juli, la chiacchierona, è dietro di noi di qualche metro.

«Andiamo?», chiedo ai miei amici.

Lola mi prende per mano.
Ahmed mi da una pacca sulla spalla.

«Che fai, tu non vuoi entrare?», chiedo a Juli.
La ragazza con i capelli a forma di scodella rovesciata ci raggiunge sorridendo.

È ora di iniziare.

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Capitolo 6
*** Corri. Corri. Corri. ***


CORRI. CORRI. CORRI

«Che taglia porti?». Un ragazzo dall'aria annoiata mi fissa da dietro un vetro, una stretta fessura lunga tutto il bancone è l'unico spazio che mi permette di sentire la sua voce. Da lì sotto mi allunga una grande borsa in tela, due coppie di asciugamani e una serie di saponi e detergenti in buste sigillate.

«Taglia media», dico mentre inizio a prendere le cose che mi serviranno nella mia nuova vita.

Il ragazzo dai capelli biondi e rasati mi allunga tre divise, diverse magliette e biancheria intima. Con poca delicatezza mi lancia alcune paia di calzini: «Se vuoi vestiti puliti basta che ti presenti qui da me, fai la fila a quello sportello, inserisci i capi che vuoi cambiare. Io ti darò i capi puliti. Non farti problemi, presentati quando vuoi. Chiedi pure di me, io sono Daniel». Il ragazzo parla come se ripetesse una lezione a memoria mentre picchietta la targhetta appuntata al duo petto: Daniel O'Bear.

«Va bene, quindi vado lì, porto i capi che voglio cambiare e poi tu me li ridai puliti», ripeto ad alta voce più per essere sicuro di aver capito che altro.

«Bravo, intelligentone. Adesso dammi nome e cognome, grazie», mi dice con aria di sufficienza.

«Nico Songus», gli dico mentre cerco di infilare tutti i vestiti dentro la grossa borsa di tela che mi ha dato prima.

Daniel mi fissa per qualche secondo, inclina la testa da un lato come se cercasse di capire qualcosa, poi immette il mio nome in un grosso computer senza smettere di spiarmi.
«Puoi andare matricola», dice con un tono diverso da quello usato fino ad ora, sembra più mesto.

Con la grossa busta colma di indumenti che profumano di sapone mi metto ad aspettare fuori dal grande capannone in lamiera. Una lunga fila di aspiranti Onironauti sta aspettando il proprio turno. Una cassa di metallo all'esterno della lavanderia è un'ottima seduta, con le gambe incrociate mi metto ad aspettare Ahmed, Lola e quella pazza di Juli.
Il grande cortile terroso perfettamente compattato, i capannoni sparsi ordinatamente uno di fianco all'altro, danno un senso di rigore e ordine. Un'insegna sopra ciascun edificio indica cosa si può trovare all'interno: lavanderia, mensa, bagni, magazzino, uffici matricole. Poco lontano ci sono una serie di palazzine con piccoli appartamenti per tutti quelli che lavorano all'interno della struttura dell'Onirocascata, dagli istruttori, agli impiegati fino agli operai.

Ahmed è il primo ad uscire, con aria diffidente si guarda intorno: «Quanto credi resisteremo qui dentro?».

«Molto poco», gli dico a bassa voce. La maggior parte degli aspiranti Onironauti ha una tempra e un atteggiamento molto diverso dal nostro. Sono tutti arroganti, saccenti e troppo convinti delle loro potenzialità.

«Ho calcolato che ci sono in media 6,13 studenti per ogni quartiere della città selezionati dai colloqui un mese fa. Il che significa che in totale ci sono 325 convocati e meno del 5% riuscirà a completare il corso e diventare Onironauta a tutti gli effetti. Ho preso questa percentuale dai dati degli anni scorsi, c'è una variabile legata al numero di selezionati, come è normale, non è mai un numero preciso. Di questa percentuale tutti i selezionati hanno una cosa in comune: ottimi voti, ottima condotta scolastica, prestanza fisica e ottimo rendimento. Né tu, né io e nemmeno Lola abbiamo tutte queste caratteristiche a livello massimo», mi spiega Ahmed.

«Quindi siamo destinati a diventare reietti o fare un lavoro schifoso. ». Il solo pensiero di vivere ai margini dei quartieri senza la possibilità di poter stare nella città mi spaventa, del resto il lavoro alle fornaci che mi spettava non è certo una opzione migliore.

«Io ho ottimi voti e non credo che la mia condotta sia da meno, come fisicità non sono al massimo indi per cui il mio rendimento al campo potrà avere fasi alterne. Tu e Lola avete forza fisica e credo che nelle prove pratiche andrete alla grande, ma per quanto riguarda la condotta e il comportamento non so come vi comporterete», dice Ahmed.

«Bella fregatura». Prendo una sigaretta e l'accendo. Inspiro il fumo senza però fare in tempo ad assaporare il sapore del tabacco e della carta bruciata. Lola e Juli escono con il loro borsone dal capannone lavanderia. Stanno chiacchierando ancora, sembrano due automi programmati per muovere la bocca e sparare parole a caso. 

La fila si è esaurita, gli ultimi ragazzi stanno finendo di prendere le divise pulite e tutto il resto che servirà durante il corso. Alcuni istruttori gironzolano tra di noi, li riconosco perché indossano la stessa divisa che portava il Colonnello Shinko l'ultima volta che l'ho visto. Ci osservano con attenzione come se prendessero appunti mentali sui nostri modi di fare e atteggiamenti.
Molti ragazzi, se non tutti, stanno in silenzio uno di fianco all'altro sull'attenti come se fossero in posa. Tra questi c'è Kurt Bishop che con fare serio fissa il vuoto tutto concentrato come se cercasse di sembrare più distaccato possibile. Il solito pallone gonfiato.
Lola, Ahmed e Juli ed io, siamo stravaccati uno vicino all'altro come fossimo sul divano a guardare un film.

«Forse dovremmo fare come quelli lì», dice Juli mentre si liscia nervosamente i capelli a forma di scodella.

«Credo che se ci mettessimo vicino a loro avremo qualche chance in più di superare il corso», dice Ahmed.

«Non sono un burattino», dico lanciando la sigaretta per terra. «Adesso cerchiamo di rilassarci, ci sarà tutto il tempo per diventare come loro».

Ahmed mi guarda malissimo, Lola scalpita sul posto mentre Juli non la smette di toccarsi i capelli. Sembrano tutti in preda a qualche ansia da prestazione, non hanno la minima idea di cosa aspetti loro e neanche io a dirla tutta. Tutto quello che conosco sul corso che dovrò iniziare a frequentare sono i racconti che mi ha fatto mio fratello molti anni fa:le sveglie all'alba, la fatica, lo studio ossessivo e il rigore. Molto rigore.

Il solo pensiero mi fa star male.

Tre squilli di tromba risuonano forti per il campo da diversi altoparlanti posti in cima a lunghi pali. L'eco riecheggia tra i capannoni rimbalzando sulle pareti in lamiera. Dal bosco che sale sulle montagne, appena fuori le palazzine, uno stormo di uccelli vola spaventato dal rumore improvviso. Gli istruttori, rigidi nelle loro divise, ci fanno cenno di seguirli. Tutti i trecento e passa ragazzi e ragazze del corso li seguono a passo di marcia. Ahmed, Lola e Juli si accodano cercando di prendere il passo. Io li seguo a distanza con il mio zaino e la borsa con gli indumenti.
In pochi minuti raggiungiamo una zona più interna del campo, una specie di piazza circondata da bassi edifici dall'aria più comune. A prima vista sembrano locali che si potrebbero trovare in un qualsiasi centro quartiere: un bar, un negozio di alimentari, un parrucchiere, più altri negozi che non riesco a capire a prima vista cosa vendano.
Nella piazza iniziano a radunarsi molte persone, alcune escono dagli edifici circostanti, altri arrivano da strade laterali. Si fermano ad osservarci mentre gli istruttori ci dividono in file ordinate. La piccola folla ci fissa con aria tra il divertito e il curioso, c'è chi sghignazza, chi indica, chi ride sguaiatamente. Siamo il bersaglio delle loro prese in giro.

Inizio ad essere nervoso, detesto quando la gente mi guarda come se fossi un cucciolo travestito con un ridicolo cilindro e giacchetta piena di paillettes. 
Detesto essere deriso.
Detesto essere considerato un'attrazione da circo.

Davanti a noi c'è un palco in metallo con una tettoia. Il Colonnello Shinko è in piedi dietro a un microfono, di fianco a lui si piazzano gli istruttori. Nessuno sorride, paiono tutti estremamente controllati e sicuri di loro stessi.

«Benvenuti a tutti e voi futuri Onironauti. Oggi è il primo giorno del vostro anno che passerete qui. Ci piace considerare questo campo, i boschi che lo circondano e l'Onirocascata come fosse casa nostra e da oggi anche la vostra. Come ben sapete ogni casa ha le sue regole e noi ne abbiamo di precise. Prima su tutte riguarda l'acqua dell'Onirocascata: non potete toccarla e avvicinarvi. Solo gli istruttori autorizzati possono maneggiarla, è estremamente pericoloso interagire con l'acqua perché potrebbe causarvi traumi irreversibili. Se qualcuno verrà trovato a smerciare o contrabbandare tale acqua verrà espulso. Non tollererò alcuna infrazione. Mai. Il resto delle regole che la nostra comunità segue le imparerete dai vostri istruttori giorno dopo giorno, sono regole di civiltà, buon senso e di rispetto reciproco. Io veglierò su di voi, vi spronerò a dare il meglio. Il corso che dovrete affrontare sarà duro, ma servirà a forgiare i futuri Onironauti, il pilastro della nostra società, capaci di raccogliere energia per permettere alla nostra civiltà di continuare a prosperare e per fare in modo che l'Onirocascata continui a cadere potente e rigogliosa. L'Oniroenergia è la nostra vita, voi siete i futuri custodi, ho fiducia in voi». 

Appena il Colonnello Shinko finisce di parlare un boato si leva dagli aspiranti Onironauti, accompagnato da battiti di mani e grida eccitate. Moltissimi battono i piedi sul selciato, lo stesso fanno gli spettatori che poco prima ci fissavano e ci schernivano.
Un ritmo sempre crescente coinvolge tutti i presenti, una frenesia sale e si insinua tra i muscoli, tra la carne e i battiti del nostro cuore. È come se fosse un richiamo, un istinto primordiale che esalta i nostri spiriti. Di solito indifferente a tutto ciò che coinvolge le masse e le esternazioni troppo plateali, mi ritrovo a seguire quel ritmo animalesco con lievi movimenti della testa. Lola e Juli saltano come fossero impazzite, mentre Ahmed batte le mani con vigore.

Per la prima volta nella mia vita mi sento parte di qualcosa.
Una sensazione strana filtra dentro me nutrendo angoli del mio animo che credevo inesistenti scoprendo che, invece, erano solo ben nascoste.
Mi piace essere uno dei tanti.
Mi piace essere uno di quei 325.

Il Colonnello Shinko alza il braccio verso l'alto per zittire tutti quanti.
In pochi secondi tutta quell'energia si blocca.
Un silenzio surreale, sospeso e strozzato si spande come acqua in una stanza vuota.

Il mio respiro è bloccato.
Il respiro di tutti è bloccato.
Siamo in attesa.

«Adesso è il momento!», proclama con un ghigno beffardo il Colonnello Shinko abbassando di colpo il braccio.

Tutte le donne e gli uomini nella piazza si avvicinano a noi matricole. Quelle persone non sono semplici spettatori, ma parte di un qualcosa. Sembrano un organo, sembrano consapevoli, sembrano sapere quel che devono fare.
Tra spintoni, insulti, urla nella nostra direzione ci obbligano a rompere le righe e avvicinarci l'uno all'altro. 325 ragazzi e ragazze terrorizzati e senza via di fuga. Siamo stretti, compressi. Ahmed tiene con una mano la sua borsa mentre con l'altra solleva Juli che rischierebbe di soffocare schiacciata da tutte quelle persone. Lola ed io siamo spalla a spalla sommersi da decine di altri come noi.

Falliti.
Perdenti.
Corri.
Non riuscirete mai.
Conigli.
Corri.
Codardi.
Non finirete il corso.
Corri.

Le urla nella nostra direzione sono sempre più aggressive e violente.
Siamo circondati, siamo destinati a venire schiacciati.

Poi.

Qualcosa sembra muoversi. La folla inferocita lascia aperto uno spiraglio, non siamo più del tutto circondati. Una via d'uscita è a pochi metri da noi. Le altre matricole si muovono in quella direzione allentando la pressione tra i corpi. L'istinto di sopravvivenza mi porta a correre in quella direzione, mi porta a cercare una via di fuga.
Lola, Ahmed e Juli sono vicino a me, ci teniamo per mano cercando di non venire trascinati dalla massa impazzita.
La strada selciata della piazza cambia poco dopo diversi metri. Ci troviamo sul retro dei capannoni in lamiera, passiamo tra le palazzine tutte uguali dove vivono coloro che lavorano lì.
Come fossimo bestie al pascolo veniamo indirizzati. Due lunghi cordoni di donne e uomini costeggiano la strada obbligandoci ad andare in una direzione precisa. Sballottato, spinto e insultato seguo il resto dei miei compagni verso i boschi che iniziano sulle pendici scoscese della montagna davanti a me. Arranco e scivolo, la terra entra nelle scarpe e si incastra sotto le mie unghie, i rami secchi si spezzano tra le dita, i sassi lacerano i vestiti. Mi sto arrampicando su una parete così inclinata da farmi camminare a quattro zampe.
La foga per salire, l'ansia e la paura mi hanno fatto perdere di vista i miei amici.

Mi fermo.
Guardo attorno a me.
Vedo solo decine di ragazzi e ragazze sudati, esausti e terrorizzati che si arrampicano.

«Nico. Nico», Lola è solo a pochi passi da me. Le allungo la mano per sollevarla e l'abbraccio stretta.

«Dove sono gli altri?». Non faccio in tempo a finire la frase che vedo spuntare la testa di Ahmed su tutte le altre, vicino a lui c'è Juli.

Appena ci raggiungono iniziamo a percorrere la salita aiutandoci a vicenda, sostenendo le cadute e sollevando chi è troppo stanco per continuare.
Per quindici minuti buoni andiamo avanti così, senza fermarci, senza pensare.
Lola è la più allenata, riesce ad avere un buon ritmo per questo è davanti a tutti noi.
Io e Ahmed aiutiamo a turno Juli che sembra sull'orlo dello svenimento, non so quanto resisterà ancora.

«Benvenuti». Delle voci giungono all'improvviso. Sparpagliati per il bosco, tra gli alberi o seduti su grosse rocce ci sono i nostri istruttori che con aria divertita ci osservano dall'alto in basso mentre ci consegnano delle borracce piene d'acqua fresca.
Tutte le matricole raggiungono, un poco alla volta, il grande spiazzo su cui ci siamo fermati. 325 ragazzi e ragazze ansanti, affaticati e spaesati.

«Questa sarà la vostra nuova casa», dice una istruttrice dai lunghi capelli color rosso rame. La sua mano indica una costruzione di legno imponente, simile a una grande baita di montagna. «Troverete ad aspettarvi una brandina a testa, una cassa per riporre i vostri indumenti, una sala comune e una sala studio. I bagni sono all'aperto», dice indicando sei grossi e lunghi bacili in pietra da cui sgorga dell'acqua limpidissima».

Nessuno ha la forza per dire qualcosa. 
Con il fiato strozzato in gola riesco a malapena a capire quello che sta dicendo l'istruttrice. Il sudore sgocciola dalle mie tempie, scivolando tra le crepe fredde e bianche della cicatrice vicino al mio occhio. Mi sembra di essere sul punto di fratturarmi, spezzarmi. Mi sento fragile, insicuro. Ho voglia di tornare a casa.

Se continua così non sarò mai un Onironauta.

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Pubblico tra tre o quattro giorni in contemporanea su Wattpad.
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Capitolo 7
*** Stupiscimi ***


Stupiscimi


Nonostante le giornate siano ancora calde lavarsi all'aria aperta con gli alberi che fanno da scudo al sole non è proprio il massimo, l'aria di montagna è più fresca e umida. I grandi bacili di pietra vicino la baita possono ospitare fino a quindici persone contemporaneamente, delle piccole sporgenze affusolate di metallo sono il trampolino per l'acqua cristallina e pura della montagna. Le latrine e le docce sono poco distanti situate in piccole casupole di plastica e metallo rivestire con tronchi e rami per mimetizzarsi nel bosco. 

Prima regola: chi sporca deve pulire.
Una volta usata una latrina, la doccia o altre parti comuni è compito della matricola rimettere in ordine la zona utilizzata.
Pena per chi infrange le regole: aggiunta pesi aggiuntivi, pari a tre chili per gamba, per due giorni.

«Non siamo selvaggi. Credo che ci meritiamo un bagno decente». Un ragazzo del quartiere 11, la zona degli uffici e dei palazzi di vetro, si lava il torace e le braccia lamentandosi di continuo. «Se mio padre sapesse cosa mi fanno passare verrebbe qui a ritirarmi. Me lo ha sempre detto papà che essere Onironauta era per pazzi invasati, meglio consulente economico o dirigente. Un sacco di crediti e razioni extra lusso».

Non ho voglia di stare ad ascoltare quella mezza cartuccia, mi innervosisce e basta. Deve solo ritenersi fortunato che l'abbiano ammesso al corso. Certo la vita è dura, ma siamo più di trecento matricole, in qualche modo dovevano fare.
Prendo un grande secchio in metallo pieno fino all'orlo e me lo rovescio sulla testa per sciacquare il sapone che ho suoi capelli e per il corpo, inzuppando un paio di pantaloncini che indosso e i calzini che ho ai piedi. Un brivido scuote tutto il corpo. Ho la pelle d'oca. Gli schizzi vanno da tutte le parti creando una pozza di fango che trascina ramoscelli e aghi di pino verso la parete scoscesa della montagna.

«Stai attento! Mi sporchi tutto? Non potevi farti una doccia come tutti gli altri?», mi dice la mezza cartuccia indicandomi le docce poco distanti.

«Non ci penso minimamente. Prima di tutto dovrei stare venti minuti, se non di più, a fare la fila. Seconda cosa dovrei pulire il bagno dopo averlo usato, il che mi farebbe sudare e sporcare di nuovo», gli spiego porgendogli il secchio. «Dovresti provare il mio metodo, non è male».

«Se non ti fai problemi a lavarti in questo modo deduco che non userai nemmeno le latrine», il ragazzo mi osserva schifato.

Alzo le spalle, poi gli dico a sottovoce indicando poco lontano: «Non andare verso quegli alberi. C'è un posticino niente male dove andrò tutte le mattine». Mi allontano dai bacili per prendere un grande asciugamano appeso a un ramo poco distante. Mi piace un sacco prendere in giro i tipi perfettini come quella mezza cartuccia, non c'è cosa che li scandalizzi di più che i tipi come me.

Con i calzini zuppi, pieni di foglie e piccoli rametti cammino per il piccolo viale che porta alla grande costruzione dove c'è la sala comune, la sala studio e le camerate dove poter dormire. Lola, Ahmed, Juli ed io abbiamo scelto dei posti all'ultimo di tre piani. Le nostre brandire sono vicine l'una all'altra, in questo modo nessuno resta mai solo, ci facciamo compagnia a vicenda. 

«Certo che fai proprio schifo». Juli con un accappatoio giallo limone, perfettamente abbinato ai suoi capelli, e un sacchetto pieno di prodotti per il corpo mi aspetta all'ingresso.

«Che c'è? Ho perso le ciabatte durante la salita di ieri, mi sono cadute dalla borsa. Che dovevo fare, andare in giro scalzo?», le chiedo mentre scuoto la testa come fossi un cane che tenta di togliersi l'acqua di dosso.

«Sei incorreggibile. Me lo ha detto Lola. Tieni e renditi presentabile», mi dice alzando gli occhi al cielo mentre mi allunga delle calze pulite, la mia divisa e gli anfibi.

«Chi ti ha dato il permesso di rovistare tra le mie cose?», le chiedo con un sorrisetto da schiaffi e la voce profonda.

Juli arrossisce. «T-Ti ho visto uscire in pantaloncini e calze. Ho solo pensato c-che potessi averne bisogno».

«Credo tu abbia fatto bene a voler diventare nostra amica, avevo bisogno di una assistente personale», le dico mentre mi tolgo gli indumenti bagnati con l'asciugamano avvolto intorno al corpo.

«Assistente personale?», mi urla Juli mentre gira su se stessa gesticolando come se parlasse a qualcuno di invisibile vicino a lei. Il caschetto biondo oscilla a destra e sinistra mentre le sue dita stritolano un collo invisibile. Potenzialmente il mio collo.
«Non sono mai di cattivo umore. Sono gentile. Cortese. A volte risulto stramba. Lo so...», dice con convinzione ed estrema serietà rendendosi doppiamente comica,«...Ma ti giuro che non ho mai trovato una persona più sgradevole di te».

Rido.
Rido di gusto.

Lola spunta dall'ingresso principale con un piatto di panini ben tostati e una caraffa di latte stretta in pugno: «Smettetela di farvi belli. Se non vi sbrigate rischieremo di fare tardi. Ahmed ha già divorato metà piatto, volete mettere nello stomaco qualcosa oppure no?». Lola parla come se stesse sgridando i suoi fratelli, due tipi grandi, grossi e poco svegli.

Senza farmelo dire due volte, indosso la divisa grigia e nera, infilo gli anfibi poi mi catapulto nella sala comune a mangiare qualcosa prima di iniziare il primo giorno di corso per diventare Onironauta.

-

La discesa dal pendio della montagna è più difficile di quanto pensassi, credevo non avrei avuto problemi visto che ho bazzicato per i boschi buona parte della mia infanzia e adolescenza, ma con le scarpe nuove e dure i miei piedi ne hanno risentito.
Lola ed io abbiamo aiutato come abbiamo potuto Ahmed che con la sua statura e il poco equilibrio ha passato la maggior parte del tempo a strisciare con il sedere. Juli è rotolata un paio di volte senza farsi troppo male. Il resto dei nostri compagni ha fatto il meglio che ha potuto, c'è stato qualche ingorgo, tamponamento, ma alla fine tutti sono riusciti ad arrivare in fondo sani e salvi.

Siamo esausti, con il fiatone e sudati.
Decine di foglie e rametti sono incastrati da tutte le parti del nostro corpo.

L'istruttrice dai lunghi capelli rosso rame ci aspetta con le braccia conserte: «Io sono Sòrio Granada, la capo istruttrice. Potete rivolgervi a me chiamandomi Istruttrice Granada. Vi dico subito che non tollero divise malconce, mani sporche e matricole con l'aria sfinita. Oggi sarò clemente, ma se domani qualcuno di voi sarà conciato nel modo in cui siete oggi avrà una punizione adeguata», dice seria. Il suo sguardo sembra ci stia radiografando è tagliente come lame d'acciaio. «Se per venire qui vi sporcate come foste bambini piccoli, svegliatevi prima. Se per venire qui vi insudiciate come cani randagi, imparate a camminare». La donna urla le ultime parole. La voce è forte e potente. 

Nessuno fiata.

«Adesso andiamo al campo di addestramento. Ognuno di voi prenderà uno zaino che gli altri istruttori vi daranno e lo porterà sulle spalle fino alla meta», dice l'istruttrice Granada con voce ferma.

Tutto il gruppo delle matricole si avvicina agli istruttori che stanno preparando zaini con pesi proporzionati alla stazza di ogni singolo ragazzo e ragazza. Ad Ahmed e me tocca uno zaino molto più pesante di quello di Lola o Juli, lo stesso vale per gli altri.
Dopo meno di venti minuti utili per prepararci e abituarci al peso aggiuntivo marciamo per le vie del piccolo centro tra i capannoni in lamiera e le palazzine. Molte persone che vivono lì si affacciano ai balconi o si fermano per strada. Alcuni ridacchiano, altri ci indicano divertiti.

Seguo i miei amici senza lamentarmi anche se la fatica è molta.
L'unica cosa che sento è il fiato e i respiri affannosi di tutti noi.

Superata la piazza in cui il Colonnello Shinko ha fatto il suo discorso ieri, percorriamo una strada panoramica che mostra dall'alto il Grande Salto. L'Onirocascata. Siamo a trenta metri dal punto in cui l'acqua multicolore sfocia dal lato della montagna per poi cadere giù per decine di metri e sparire e sprofondare nella terra in un labirinto di grotte, anfratti e rocce acuminate. 

Sono a bocca aperta.

Era da cinque anni che non vedevo tale splendore. La magnificenza e la bellezza dell'acqua che vortica maestosa e potente sbucando dalla parete rocciosa per poi tuffarsi  a capofitto nel vuoto è spettacolare ed emozionante.

Lola mi prende per mano: «Andiamo Nico. Dai», mi dice con inaspettata dolcezza.

«Solo un attimo. Era da così tanto tempo che non la vedevo. Mi ero dimenticato quanto fosse bella», le dico con un candore che di solito non mi appartiene.

Ahmed mi mette un braccio sulle spalle: «Dovrai abituarti. Lascia perdere i ricordi, sono cose passate».

Guardo i miei amici confuso. 
Poi capisco.
Alex.
Hanno paura che ripensi al giorno che mio fratello si è lanciato nel vuoto.

No.

Non sto pensando a lui, adesso.
È strano.
È come se l'acqua mi chiamasse, cercasse di sedurmi. So che può sembrare strano, ma voglio poter toccare ancora quell'acqua luminescente, colorata e così preziosa per tutti noi. Voglio berla ancora, nonostante mi abbia fatto star male. È un richiamo flebile, come una voce che sussurra, come un suono lontano che naviga nell'aria e attira l'attenzione. Non posso fare a meno di essere attratto da lei.

Lola e a Ahmed mi scortano lungo la strada insieme alle altre matricole. Gli istruttori  ci precedono e ci fanno vedere il percorso che dobbiamo fare senza proferire parola. 
L'erba alta circonda la strada, a prima vista sembrerebbe una semplice strada di campagna se non fosse per una cupola di vetro e acciaio che compare dal versante sud vicino allo strapiombo.

«Scenderete in gruppi di trenta, lasciate i vostri zaini qui. Piano quarto interrato», dice l'istruttrice Granada.

Uno dopo l'altro, in gruppi ordinati entriamo nella cupola di vetro e acciaio.
L'ascensore trasparente costeggia il lato della montagna, possiamo vedere l'acqua dell'Onirocascata accompagnare il nostro breve viaggio.
È lì, splendida, perfetta, ma non è l'unica cosa ad attirare la mia attenzione.
Il panorama mozzafiato che si presenta ai miei occhi, da quell'altezza, è qualcosa di mai visto prima: ai piedi della montagna, sotto lo strapiombo si allarga una distesa di alberi secolari, immensi, che si perde a vista d'occhio. Un mare verde, vivo, forte. La chiara luce del mattino si riflette su miliardi di piccole foglie. Stormi di uccellini volano da un angolo all'altro di quel immenso verdeggiare, vite nascoste e più antiche di quanto si possa immaginare.

Dlin. Dlon.
Quarto piano interrato.

Una grande stanza simile ad una palestra ci accoglie. Veniamo fatti sistemare uno di fianco all'altro, in due file, intorno a tutto il perimetro della grande stanza. Da un lato c'è una vetrata immensa che mostra il paesaggio e la grande foresta, sulla parete di fronte all'uscita dell'ascensore c'è una porta rossa e un finestrino stretto e lungo. Diversi attrezzi simili a pesi e manubri sono sistemati in mezzo alla stanza coperti da un telo.

L'istruttrice Granada, insieme agli altri colleghi, ci osserva con attenzione:«Siete in molti, troppi. Pochi di voi riusciranno a finire il corso e superare il test finale e diventare Onironauti. Organizzeremo diverse attività a rotazione che svolgerete in gruppi. Esercizi fisici. Esercizi mentali. Lezioni di Onirologia. Test. Se qualcuno di voi si mostrerà debole in una, solo una di queste cose, verrà spedito a casa e gli verrà riassegnato un nuovo lavoro. Se invece riterremo le sue capacità utili alla nostra comunità avrete l'onore di lavorare qui con noi».

Un istruttore dalla pelle color ebano prende la parola: «Ogni persona qui dentro ha un'importanza fondamentale. Operaio. Impiegato. Tecnico Onirologo. Istruttore matricole. Montatore Oniroimmagini. Tutti hanno un unico scopro: raccogliere energia. Quello che....».

L'uomo viene interrotto. 
Dall'ascensore scende il Colonnello Shinko con una donna che non ho mai visto dal vivo, ma che conosco per fama: la Direttrice Xix.
Tutti sanno chi è, da più di vent'anni dirige l'Onirocascata con pugno di ferro e molta serietà. Alcuni sostengono che sia una delle donne più importante della città, più importante dei Sindaci dei 53 quartieri.
I due si mettono a confabulare con gli istruttori piuttosto animatamente, pare vogliano qualcosa e che non siano tutti d'accordo. La tempra del Colonello e l'austerità della Xix hanno la meglio, gli istruttori si zittiscono e abbassano la testa agli ordini imposti.
Nel silenzio generale e nell'ansia generalizzata di tutte le matricole, il Colonello e la Direttrice passeggiano osservando ognuno di noi. Sembra una lenta tortura, sento la paura dei miei amici. Loro sentono la mia.

Un passo.
Il Colonello osserva.
Un passo.
La Direttrice osserva.

Poi.

La donna si ferma davanti a me. Mi fissa con insistenza.
Gli occhi azzurri della donna sembrano fatti di ghiaccio, le rughe sul volto sembrano scavate nel marmo candido, la divisa stretta e perfettamente ritagliata sul corpo della Direttrice è di ottima fattura e di una stoffa color blu notte.

«Bene, tu devi essere Nico Songus», mi chiede.

«Sissignora». Non so bene se alzarmi, fare il saluto militare o stringerle la mano.
La Xix accenna a un sorriso enigmatico, pare soddisfatta.

«Bene undici minuti. Vediamo di che pasta sei fatto. Entra nella Macchina dei Sogni. Stupiscimi», mi dice indicando la porta rossa lì vicino.

Un brusio di alza da tutte le matricole.
Tutti sanno che prima di entrare nella Macchina dei Sogni serve un allenamento di settimane. L'istruttrice Granada mi prende per un braccio sollevandomi di peso.
La seguo accompagnata dallo sguardo spaventato dei miei amici.
Il tragitto pare una lenta discesa verso l'inferno.
La porta rossa si apre appena io e l'istruttrice ci avviciniamo.
Trattengo il fiato.
Non penso altro che a una cosa sola.

Stupiscimi.
Stupiscimi.

Prendo il fiato.
Un passo.
Non posso tirarmi indietro.
Non voglio.

...Continua nel prossimo capitolo...

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Pubblico tra tre o quattro giorni.

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Capitolo 8
*** Nuotare nell'aria ***


NUOTARE NELL'ARIA


 ...Leggete il capitolo precedente, continua quel momento...

Molti mi hanno sempre rinfacciato che mi comportassi da sbruffone solo per attirare l'attenzione. Ne ho combinate di cotte e di crude, lo so, a scuola non brillavo per educazione, ma sono sempre stato convinto che per evitare che la gente scoprisse le cose che volevo tenere nascoste era necessario distogliere l'attenzione dai veri problemi.

Manomettere un esperimento. 
Saltare qualche giorno di scuola.
Tenere gli occhiali o fumarmi una sigaretta durante la lezione.

Cose stupide, ma almeno tutti hanno sempre evitato di fissarsi su di me. Sul mio volto. Sulla cicatrice vicino al mio occhio. Sono segni che suscitano la curiosità di tutti, se poi hai un fratello morto suicida nell'Onirocascata le domande si sprecano.

Ho provato a fingere.
Ho provato a disinteressarmi.
Ogni domanda era una stilettata al cuore.
Ogni curiosità una valanga di dolore.

Il ricordo della caduta di Alex dallo strapiombo è la cosa più dolorosa che abbia mai vissuto.

Adesso, qui al quarto piano interrato, di fronte a più di trecento ragazzi devo mostrarmi forte. Non posso fare una delle mie solite uscite, battute e spacconate. Non mi importa se fissano la mia cicatrice, la crepa stampata per sempre sul mio volto. Devo cercare di salvare la pelle ed evitare di farmi troppo male. Il Colonello Shinko e la Direttrice Xix mi scortano fino alla porta rossa. L'istruttrice Granada è dietro di loro. Sembra stiano portando un uomo al patibolo, passi lenti, incedere maestoso.

Io me la sto facendo addosso.

«La prova della matricola Songus sarà proiettata su quella parete», dice l'istruttore dalla pelle color ebano, «Mettetevi in ordine uno di fianco all'altro. Potrete vedere nella parte destra ciò che accade alla matricola e nell'altra metà ciò che il visore gli fa vedere. Si tratta un filmato base girato da Onirocomparse esperte. Non ci sono falle o livelli aggiuntivi in cui viaggiare, la scelta di azione è limitata. Prego, accomodatevi».

Il rumore di anfibi sul pavimento plastificato risuona per poco. La curiosità di tutti è molto alta, non vedono l'ora di capire cosa mi accadrà. 

La Direttrice Xix mi spinge con delicatezza dentro la stanza con la porta rossa. La Macchina dei Sogni sembra più spaventosa vista dal vivo che in fotografia. Nei laboratori scolastici ho sempre avuto a che fare con modellini o con parti più piccole della struttura. Trasformatori, pannelli di comando, impianti di raffreddamento, cose che mio padre aggiusta ogni giorno e che ho imparato a conoscere dai libri e dai racconti in famiglia.
Adesso, lì, con l'imbracatura in bella vista, gli schermi e il tubo di connessione con l'acqua multicolore dell'Onirocascata, sento le gambe cedere a ogni passo.

L'istruttrice Granada mi porta vicino a grosse cinghie in pelle con ganci e chiusure attaccate a pompe idrauliche. Mi trascina facendomi sedere su una specie di sellino mentre mi aggancia piedi, polpacci, cosce e fianchi con colpi secchi.

«Come ha detto il mio collega, l'istruttore Fry, si tratta di un video base che avresti dovuto provare tra qualche settimana, se mai avessi passato me prime selezioni. Non ci sono livelli aggiuntivi. La storia è lineare. Tu seguila. Segui quello che vedi». La donna mi lega braccia, spalle e torace in una rete di cinghie in pelle premurandosi di bloccarmi il collo prima di infilarmi degli spessi occhiali più simili a una maschera da sub. «Non cercare altro. Capito Songus, non cercare altro», mi sussurra ad un orecchio prima di infilarmi due specie di tappi che mi isolano completamente dall'esterno.

Mi sento ridicolo.
Mi sento un salame appeso a decine di corde.

I miei piedi non toccano più per terra. Mi stanno sollevando. Se provo a muoverli non tocco niente è come se nuotassi nell'aria.
Qualcuno appoggia una mascherina sulla mia bocca. Un risucchio improvviso la fa aderire completamente al mio muso. Dopo pochi secondi uno spruzzo umido, liquido, bagnato, mi colpisce leggermente. 
Continua. 
Continua. 
Aumenta.
Mi trovo con la mascherina piena di quella che credo sia acqua dell'Onirocascata.
Trattengo il fiato più che posso, è istinto di sopravvivenza, ma poi cedo. Spalanco la bocca sentendo il liquido fresco filtrarmi tra i denti, accarezzarmi la lingua, fino a riempirmi la gola. Un pizzicore già provato mi solletica la gola. Il mio stato di coscienza inizia ad alterarsi.

Una voce femminile parla.
Lo schermo davanti ai miei occhi si accende.

Benvenuto nella Onirosimulazione 0.1.
Camminata su ponte.

L'acqua ingerita mi confonde. Un leggero stordimento mi avvolge, non ho più coscienza di essere appeso per delle cinghie al quarto piano interrato. 
È come se cadessi in volo libero, succube della gravità e avvolto dall'oscurità. Non ho la forza per muovermi, sono ancorato e destinato ad andare verso il fondo. Un peso mi trascina verso il basso. 
Il nero che mi avvolge si sgretola. 
Non sto cadendo più nel nulla, ma intorno a me si materializzano pareti rocciose ricoperte di piante rampicanti e cespugli. Da alcuni punti sgorgano piccoli rivoli d'acqua argentati che sembrano serpenti guizzanti. Sento caldo, mi pare di sudare. Sembrerebbe una foresta tropicale o qualcosa di simile.

Di colpo mi fermo. 

Galleggio immobile tra le pareti rocciose alla mia destra e sinistra. Provo a ruotare il collo per capire dove mi trovi, ma oltre a sassi e rocce c'è solo un cielo azzurro e decine nuvole.

Sto galleggiando nell'aria, nel cielo. 
Sto volando.

Con delicatezza, quasi a rallentatore, scivolo verso il basso. I miei piedi toccano ben presto un ponticello in legno dall'aria traballante. Non so da dove sia comparso, so solo che adesso ho la sensazione precisa del contatto della suola degli anfibi sulle tavole del ponte. È una sensazione reale, la stessa che si prova la mattina appena svegli quando si appoggiano i piedi per terra.

Mi guardo le mani. Le apro e le chiudo più volte.

È una sensazione strana, diversa da quando l'ho provata con il Colonnello Shinko nel cortile della scuola. Allora c'era stato caos, paura e una sensazione di stordimento legata alla stranezza delle sensazioni provate. Adesso è come se ritrovassi veramente su un ponte in una foresta tropicale.

Provo a fare un passo, ma la scala si muove troppo. Guardo oltre la balaustra di corde intrecciate. Sotto di me c'è uno strapiombo pieno di rocce aguzze e un fiume che scorre pieno e potente. 
Non mi fido. 

«Vieni. Vieni qui», dice la voce di donna sentita poco prima a inizio simulazione.

Davanti a me, dall'altra sponda del ponticello, c'è una ragazza che sorride. Con la mano allungata nella mia direzione mi invita a andare da lei. Con i denti in bella vista, i capelli acconciati e una divisa con gonna azzurra, se ne sta immobile.
Immobile e sorridente.
È piuttosto inquietante.

Arretro un passo, non voglio stare un secondo di più lì sopra, soprattutto non ho la minima intenzione di avvicinarmi a quella tipa stramba dall'aria finta e la paresi facciale.
Con estrema cautela appoggio i piedi sulla roccia che sostiene il ponticello, diversi detriti e sassolini si staccano dal costone principale sotto il mio peso. Cercando un appiglio mi attacco alla parete rocciosa come meglio posso, ho meno di cinquanta centimetri tra la pietra dietro la mia schiena e il ponte di legno davanti a me. 
La mia schiena aderisce alla dura roccia. Sento spigoli e punte premere contro la mia carne anche se indosso la mia tuta grigia e nera del corso.

Freddo.
Roccia sulla schiena.

Io ho già vissuto tutto questo.

Il ricordo dell'ultima sera passata con mio fratello al promontorio Nord prende spazio nella mia mente. La sensazione che provo è la stessa di cinque anni fa, anche allora ero appoggiato a una roccia mentre parlavo con lui. Anche allora sentivo quella sensazione, quel fastidio e la scomodità.

Ciò che ho vissuto nella realtà è uguale a lì dentro.
Ma che sta succedendo?

Un rivolo di acqua color arcobaleno irrompe a pochi metri da dove sono appoggiato. Così, senza nessuna apparente logica. Dalla parete rocciosa un altro sbuffo luminescente irrompe prepotente. Dopo pochi secondi un paio di altri getti distruggono la roccia riempiendo l'aria di scintille colorate. Sembra una sequenza infinita, decine di flussi d'acqua distruggono le rocce intorno a me, sommergendomi, inzuppandomi da capo a piedi. 
Il liquido che cade è così tanto che rende instabile la mia presa.

Sto per cadere.
Gli anfibi sono instabili, sento l'acqua scivolare sotto la suola di gomma.
Ho due scelte: attraversare il ponticello di legno e andare verso la ragazza fantoccio o buttarmi nel vuoto.

Non ho dubbi.
Salto.

Non nuoto più nell'aria. 
Non galleggio. 
Cado come fossi di piombo.
L'acqua che schizza dalla roccia accompagna il mio volo, mi avvolge, mi accarezza.
Ci vuole poco prima che raggiunga il fondo, centinaia di rocce aguzze attraversare da un fiume che scorre impetuoso mi aspettano. 
Manca poco prima che mi schianti.
Guidato da un istinto umano e animalesco, per niente filtrato dalla ragione, mi metto le braccia sul volto come se potesse bastare a salvarmi.
Non voglio vedere la mia fine.
No.
No.

Poi c'è solo il buio.

Lampi di luce.
Un turbinio.
Assenza di suoni.

Questa è la fine?

Avvolto nella melma muovo le braccia e gambe a fatica. Sono stanco, distrutto. Non ho idea in cosa sia immerso. Non riesco a vedere nulla, c'è solo un fastidiosissimo suono, lontano, sottile. Sembra un urlo, un pianto acuto. È la somma di pianti. Mi guardo intorno, cerco qualcosa, cerco qualcuno. È come se sapessi dove sono, come se volessi ritrovare un posto che non vedo da tempo.

«Sei tornato. Non credevo saresti venuto di nuovo». La ragazza con gli occhi tristi, che ho visto settimane fa, è sempre seduta in un angolo da sola.

La fisso. Non so che dire. Gli occhi scuri, i capelli castani leggermente spettinati che le cadono sulle spalle e quell'aria triste sono impossibili da dimenticare: «Scusa il ritardo», le dico.

La ragazza accenna a un sorriso mentre allunga la mano nella mia direzione.
Provo a raggiungerla anche se la sostanza melmosa in cui naviga il mio corpo oppone resistenza. Provo a raggiungerla, ci metto tutta la forza possibile, ma non riesco.
La ragazza fa qualche passo nella mia direzione.
Manca poco.
Pochi centimetri ci dividono.
La distanza di un soffio.

Onirosimulazione terminata.

Una luce accecante mi investe. Il mio corpo crolla, la mia mente viene risucchiata lontana dalla ragazza che tra un battere di ciglia e l'altro svanisce proprio come è comparsa.
La realtà irrompe inaspettatamente. Sento decine di cinghie stringermi il corpo e la mascherina indossata soffocarmi. Scalpito, ma sono limitato nei movimenti.
Un groviglio di nausea e malessere mi colpisce  lo stomaco.
Sento mani che mi toccano, che mi slacciano.
In pochi secondi cado a terra come fossi morto. Il peso del mio corpo è triplicato, i miei muscoli non riescono a reggere lo stress fisico appena provato. Conati e spasmi comprimono il mio ventre. Sto per vomitare.

«Aiutatemi a metterlo a testa in giù. Con la bocca verso il basso». L'istruttrice Granada urla a pochi centimetri da me.

Mi sento rovesciare, manipolato come fossi una bambola, un bimbo incapace di camminare. C'è chi mi solleva le spalle e chi mi tiene il torace. Il vociare intorno a me è confuso, non riesco a cogliere tutto quello che viene detto, solo piccoli frammenti.

Raccogliete la sfera di energia prodotta.
Sta male potrebbe vomitare.
È uscito dalla Onirosimulazione.
Un caso interessante.
Tenetegli la testa.

Una frase però mi arriva forte e chiara, quella che l'istruttrice Granada mi bisbiglia in un orecchio: «Sei un idiota Songus. Ti avevo detto di non cercare altro».

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Se avete voglia di pubblicizzare o consigliare la storia fare pure.
Non so come farla conoscere se non con il passaparola.
Grazie!

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Capitolo 9
*** Faccia di spugna ***


Faccia di spugna
 


È da cinque giorni che ho l'obbligo di stare nella mia camerata. Mi annoio, passo la maggior parte del tempo a dormire o guardare fuori dalla finestra, in poche parole non faccio niente. 

Lola, Ahmed e Juli mi fanno compagnia per quanto riescono. Tornano stanchi dall'allenamento e molto spesso crollano sulla loro brandina scambiando poche parole. 
Non hanno forza nemmeno per leggere un libro o distrarsi un attimo. L'istruttrice Granada li fa camminare con gli zaini pieni di pesi su e giù per il campo a volte li fa arrampicare su una parete verticale. A quanto pare quella è la prassi, ci vogliono muscoli allenati per poter usare la Macchina dei Sogni. 

Non solo, però. 

Oltre alla forza fisica devono allenare la loro capacità di orientamento e controllare le loro reazione in scenari inusuali. Per questo devono passare diverso tempo dentro a delle stanza che simulano, proiettando immagini estratte da sogni registrati, un vero e proprio viaggio con la Macchina dei Sogni. 

Foreste. 
Deserti. 
Palazzi abbandonati. 
Stanze piccolissime. 
Acqua. 
Luoghi affollati.
Treni.

Chi più ne ha più ne metta.

Le Onirocomparse recitano in questi scenari creati agli Oniroarchitetti e anche se sono cose semplici da gestire per noi matricole richiedono molta concentrazione e controllo.

Da un paio di giorni alcuni ragazzi e ragazze non tornano a dormire, la baita si sta piano piano spopolando. Dalle voci che circolano parecchi sono scappati dal campo, sono andati all'Oniroministero per farsi assegnare un nuovo incarico. Lola mi ha detto che alcuni di loro sono svenuti, si sono lamentati troppo o hanno avuto veri e propri attacchi di panico.

L'istruttrice Granada e l'istruttrice Fry, i due supervisori, non si sono fatti problemi a tagliare i rami secchi. Sì, così viene chiamato chi non è adatto a diventare Onironauta: ramo secco.

Mi annoio.

Negli ultimi giorni ho avuto un po' di problemi a dormire, le infermiere mi hanno detto che è normale. Mi hanno spiegato che le prime volte succede così e se voglio diventare Onironauta devo abituarmi e non lamentarmi troppo.

Come se fosse facile.

Le cinghie mi hanno lasciato striature rosse e violacee, le costole mi fanno male ogni volta che respiro e per la testa continua a ronzarmi il volto di quella ragazza, i suoi occhi tristi e il desiderio di poterla sfiorare, anche solo per una volta.
La definirei un'ossessione.

«Come va principino?». Daniel, il ragazzo della lavanderia, cammina a lunghi passi attraverso la camerata.

«Bene. Sto cercando di fare passare il tempo», gli dico mentre faccio saltare in aria l'orso di legno che mio fratello ha scolpito anni fa, il suo portafortuna.

«Non fare la lagna. I pochi che arriveranno ad usare la Macchina dei Sogni passeranno quello che stai vivendo tu adesso. Certo, forse in maniera meno intensa, ma anche loro staranno rinchiusi nella baita a leccarsi le ferite a chiedersi dov'è la loro mammina». Daniel mi porta un pacco con divise, asciugamani e biancheria puliti.

Grugnisco. 
Non ho voglia di dargli corda.

«L'allenamento serve a rinforzarli, in questo modo non vomiteranno, sverranno o faranno tutto ciò che tu hai fatto l'altro giorno davanti al Colonello Shinko e alla Direttrice Xix», dice sghignazzando Daniel mentre si strofina le nocche sugli occhi per prendermi in giro.

«Il fatto che abbia pianto davanti a tutti non significa che...», urlo nella direzione del ragazzo roteando minaccioso l'orso di legno che tengo in mano.

«... che sei debole e piagnucoloso? No, figurati, perché mai dovrei pensare una cosa tanto strana. Significa che sei sensibile e tenero, un vero orsacchiotto da stringere e coccolare». Daniel ha un tono sarcastico a tratti lezioso, come se parlasse a un bimbo di tre anni che vuole essere consolato.

Che stronzo.

«Vorrei vedere te al mio posto, non sei mica un Onironauta, non hai minimamente idea di cosa stiamo passando?», dico con stizza mentre prendo per la manica della camicia il ragazzo che con un colpo secco mi storta la mano incastrandola tra le mie scapole dietro la schiena. 

Il dolore è lancinante.

«Stai calmo ragazzino. Il fatto che pulisca i tuoi calzini puzzolenti non significa che non sappia quello che stai facendo», mi dice spingendomi con forza verso la mia brandina. «Non dimenticare che sei una matricola, dovrai fare ancora molta strada prima di diventare Onironauta. Le cose diventeranno sempre più difficili, ti massacreranno, ti distruggeranno psicologicamente se non farai quello che ti dicono».

Le vene sul collo di Daniel pulsano, i suoi occhi color nocciola esprimono tutta la rabbia e la frustrazione che prova. È più forte di quanto immaginassi, non riesco a liberarmi.

«Segui le loro regole e diventerai quello che hai sempre sognato di essere. Se farai un solo errore, uno solo, verrai allontanato e tutti i tuoi sforzi saranno stati vani. Capito sfigato?». Daniel è a pochi centimetri da me.

Non ho abbastanza forza per reagire è più forte di me, se solo provassi a cacciarlo oppure a reagire mi riempirebbe di botte all'istante.

Non voglio cogliere questo rischio per questo annuisco docile.

Un occhio nero o un braccio fuori uso non sarebbero ben visti dai miei istruttori. Per quanto folle possa sembrare l'esperienza nella Macchina dei Sogni è stata pazzesca, unica, meravigliosa. Il dolore, la fatica sono cose che passano, il ricordo di ciò che ho vissuto è tatuato nella mia coscienza. Non lo dimenticherò mai.
Lo voglio fare ancora.

Daniel mi schiaffeggia leggermente, è divertito e schifato allo stesso tempo, io resto inerme steso sul letto.

«Per resistere qui al campo devi capire quali sono le cose importanti. Non farti fregare. Non cercare cose che non ci sono, non hai la stoffa. Non hai la stoffa caro Songus». 

Il ragazzo raccoglie l'orso intagliato da mio fratello dal pavimento, lo rigira tra le mani qualche secondo sfiorando le scalfitture e il piccolo muso sporgente. 

Me lo lancia.

«Tra cinquanta minuti devi essere al sesto piano interrato. Riprendi a frequentare le lezioni. Fossi in te mi sbrigherei», mi dice mentre esce dalla mia camerata fischiettando.

Non ho tempo per piangermi addosso. Nonostante Daniel sia uno sbruffone non voglio giocarmi la possibilità di entrare ancora nella Macchina dei Sogni. Non posso fare errori.

Mi infilo la divisa e gli anfibi in tempi record. Il dolore che provo nel sentire il tessuto scivolare ruvido sui lividi non ha importanza. Lo posso sopportare, prima o poi passerà.
I piedi stretti negli anfibi duri e lucidi schiacciano le piaghe che erano in via di guarigione.

Non mi importa di nulla.
Ho voglia di andare e niente mi fermerà.

Abbandono la baita, gli abeti secolari del bosco accompagnano muti il mio scivolare giù per il fianco della montagna. Cerco di mantenere l'equilibrio meglio che posso, non voglio rischiare di essere punito dagli istruttori per un'inezia come la divisa sgualcita. 

Dopo nemmeno venti minuti sono arrivato.

Mi ripulisco dalle foglie e rametti incastrati ovunque mentre corro attraverso le palazzine e i capannoni in lamiera. La piazza è colma, devo zigzagare tra le persone con i sacchetti della spesa e tra quelli che passeggiano godendo del caldo sole di fine estate.

La strada che porta alla cupola di vetro, unico accesso ai pieni interrati, è davanti a me. Il selciato corre parallelo allo strapiombo e mi mostra l'Onirocascata in tutta la sua magnificenza. La percorro a perdifiato.

Prima di schiacciare il tasto dell'ascensore provo a specchiarmi in una lastra di metallo che ricopre la cupola. L'immagine confusa e distorta non mi permette di capire se sono perfettamente in ordine o meno, cerco comunque di lisciarmi i capelli e asciugare le gocce di sudore sulla fronte.

Con l'indice premo il tasto con impresso una freccia verso il basso.

Dopo nemmeno due minuti le porte scorrevoli si aprono.

Salgo sul grande vano capace di ospitare molte più persone. 

-6.

L'ascensore parte. Le pareti di vetro mi permettono di osservare il panorama, per qualche secondo in più dell'altra volta posso godere della vista dell'Onirocascata. Sono estasiato.

Dlin.
Dlon.
Sesto piano interrato. Benvenuto.

Una folla di matricole sta aspettando compressa in una stanza, sembrano tutti troppo impegnati a parlare tra di loro per accorgersi della mia presenza. Mi immetto con forza tra i corpi stipati, spingendo, facendomi largo e puntando in una direzione precisa: la testa di Ahmed. La vedo sporgere sopra tutte, la riconoscerei tra mille.

«Ciao», dico appena arrivo dai miei amici.

«Ciao Nico!». Lola mi assale schiacciando involontariamente i lividi sul torace e sulla schiena. 

«Ciao undici minuti», dice Ahmed alzando il palmo in aria per darmi il cinque.

«Come mai sei qui? Sei sicuro di stare bene? Non dovresti riposare ancora un po'?». Juli parla così veloce che faccio fatica a seguirla.

«Calma. Calma. È tutto a posto, non ti preoccupare», dico alla mia amica mentre le scombino i capelli a forma di scodella.

Una voce da un altoparlante interrompe il brusio nella stanza e le chiacchiere con Lola, Ahmed e Juli.

È l'istruttrice Granada.

«Benvenuti alla visita guidata nel reparto delle Onirocomparse dove gli Architetti costruiscono le storie, le stesse che tra qualche settimana solo i migliori potranno sperimentare. Siete rimasti in 267, formeremo dei gruppi di venti studenti, ognuno sarà affiancato da una guida. Seguitela. Ascoltatela. Non toccate niente».

Il capo istruttore Fry inizia a far entrare le prime venti matricole da una porta di vetro oltre alla quale si può vedere un via vai di persone che trasporta oggetti ingombranti e piuttosto voluminosi da una parte all'altra della stanza.

«Tua madre non è Onirocomparsa?», mi chiede Ahmed mentre cerca di sbirciare tra le teste dei curiosi che sono appiccicati alla porta a vetri.

«Sì. Niente di eccezionale. Di norma è parte del gruppo Gente comune. Quella che sta sullo sfondo, non interagisce e non recita nessuna parte. Una volta, visto che erano in penuria di personale, le hanno fatto fare la commessa in un negozio. È stato il ruolo più importante che abbia mai fatto», dico sarcastico.

«Smettila di prenderla in giro. È importante ogni ruolo, ogni lavoro, ogni singola persona che aiuta gli Onironauti. Senza di loro non potremmo fare nulla in città», mi bacchetta Juli.

«Sì, lo so. Ma il lavoro di mamma non è niente di eccitante. Te ne stai lì a ripetere la stessa mossa per ore. Uno strazio», le dico mentre delle matricole mi spingono perché vogliono passare avanti.

«Sei ingiusto, mio caro. Juli ha perfettamente ragione. Ogni singola persona che utilizza il proprio talento ed energia per coadiuvare lo svolgersi della raccolta dell'Oniroenergia è encomiabile. Tra questi anche tua madre». Quando Ahmed dice frasi del genere pare un libro stampato.

«Certo, ma...».

Lola mi interrompe: «Volete stare zitti? Avvicinatevi. Sta per entrare il prossimo gruppo».

Senza farmelo dire due volte mi intrufolo tra la selva di corpi cercando di spingere per passare. Ahmed e Juli mi seguono.

Perfetto.
I miei amici ed io siamo il prossimo gruppo a iniziare il giro.

Un enorme stanzone pieno di teli dipinti con diversi scenari, dal fondo del mare, palazzi cittadini, campi fioriti fino a cimiteri abbandonati, grotte buie e rocce acuminate, se ne stanno affiancati uno all'altro in bella vista. Decine di persone trasportano indefinibili ammassi simili a spugne giganti. È un continuo andare e venire.

«Qui inizia il lavoro degli Oniroarchitetti», un uomo estremamente basso e con un parrucchino di pessima qualità in testa ci invita a seguirlo. 
«Le architetture seguono schemi precisi se c'è uno scenario marino verrano inseriti elementi a tema come: palme, barche, ombrelloni. Se invece il tema è la città saranno presenti vetture, persone e semafori. Credo che questo sia semplice da capire, no?».

«Sissignore», rispondiamo in coro.

«Come potete vedere tutte le persone qui dentro hanno un ruolo preciso che serve per costruire l'intera scena. Per esempio quell'operaio trasporta dei rotoli per la prossima scena, quella che interessa a noi. Osservate con attenzione tutti i suoi gesti, lo seguiremo per capire come funziona». 

Il piccolo omino si mette sulla scia dell'operaio senza farsi problemi. Lo segue come un piccolo anatroccolo seguirebbe la propria madre.

Superiamo un paio di set in cui stanno registrando delle scene abbastanza comuni. In uno c'è una cucina e una famiglia che sta fingendo di mangiare da alcune ciotole vuote. Nell'altro una ragazza simula una corsa su delle scale mobili, potenzialmente senza fine.
In entrambe le scene gli attori indossano delle strane coperture di spugna sul volto che è fatto dello stesso materiale del rotolo che trasporta l'operaio che stiamo seguendo.

«Eccoci siamo arrivati. Stanno allestendo un nuovo scenario. L'operaio ha portato il materiale necessario che è archiviato con cura nel magazzino al settimo piano interrato e che serve per costruire ciò che gli Oniroarchitetti hanno progettato», dice il piccolo uomo sistemandosi il parrucchino che sta scivolando sulla sua pelata.

Una serie di uomini e donne srotolano il grosso rotolo. Iniziano a montare quelli che sembrano palazzi e case fatte di spugna appuntandoli con chiodi. Un grosso scenario con dipinta una strada viene messo al centro. Tutto intorno mettono particolari come quello che sembrerebbe un tombino, un albero e qualche nuvola in cielo. Tutto è fatto con quello strano materiale.

Un gruppo di quindici persone con lo zaino sulle spalle e abbigliamento giovanile si mette sui lati della scena. La cosa piuttosto inquietante è che parecchi di loro hanno almeno quarant'anni, vederli vestiti in quel modo è piuttosto ridicolo.
Cappellino rovesciato. Felpa extralarge. Occhiali a specchio.
Non devo essere l'unico a pensarla in quel modo, qualcuno nel gruppo ridacchia.

«Prestate attenzione», dice la guida a bassa voce,«Adesso le Onirocomparse interpreteranno il ruolo assegnatoli. Come state notando indossano le maschere fatte di Platisogno una sostanza capace di mutare a seconda di chi viaggia nella Macchina dei Sogni usando questa architettura».

«Vuol dire che noi vedremo facce normali, con occhi naso e tutto il resto, invece che quelle specie di... di... spugne?», chiede Lola confusa.

«Le vostre esperienze e la vostra sensibilità modellano i vostri viaggi come modelleranno le maschere e le scenografie in Plastisogno. Se avete vissuto in una cittadina sul mare quelle case in "spugna" avranno uno stile di un certo tipo. Se venite dai quartieri finanziari del centro probabilmente vedrete grattacieli. Un sogno non è mai uguale ad un altro, per questo creiamo architetture capaci di creare più livelli, in questo modo la vostra interazione con gli elementi presenti permette di estrarre energia. La difficoltà dell'Onironata è esplorare il sogno senza restare bloccato. Ci possono essere molti, moltissimi pericoli nei sogni, molti più di quanti possiate immaginare. A volte fanno paura, molta paura. Ma questa è un'altra storia, capirete tutto più avanti», ci dice l'uomo sempre a bassa voce per non disturbare le riprese.

«Azione», urla una donna che con una Onirocinepresa riprende la scena. 

Un ragazzo in pigiama e a piedi nudi simula una camminata per strada, ha l'aria abbattuta, è a testa bassa.
Le Onirocomparse ridono di lui e lo sbeffeggiano.
La scena si ripete più volte, le riprese vengono effettuate da punti di vista diversi.

«Una domanda, posso?», chiedo con un soffio di voce alla guida mentre seguo con attenzione le riprese.

L'uomo mi si avvicina porgendo l'orecchio nella mia direzione.

«forse è una domanda sciocca. Ma alla fine da dove prendiamo l'Oniroenergia? Perché viaggiamo nei sogni? Non bastano queste scenografie?».

L'uomo mi fissa per qualche secondo.
Sorride, poi alza l'indice appoggiandolo sulla bocca facendomi segno di fare silenzio.

«Tutto a suo tempo undici minuti. Tutto a suo tempo. Un giorno capirai».

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Scusate, mi è uscito un po' lunghetto.
Spero vi piaccia.
👍

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