Pairing: KurooTsukki | TsukkiYama | KuroKen | BokuAka (e accenni AsaNoya)
Parte: 2/2 (sebbene la storia nasca e si sviluppi
come unico blocco e sia divisa solo per comodità).
Avvertimenti: Soulmates!AU in
cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno.
| Molto angst | Violenza psicologica e
possibile triggering per qualche scena violenta|
Vaghi richiami alla seconda storia della serie, che trovate qui. | Per la prima volta ci tengo a
sottolineare che il significato di questa storia sta non tanto nelle coppie
quanto nei personaggi, nel loro sviluppo e nella loro introspezione, quindi mi
piacerebbe che fosse letta al di là dello shipping ^^
Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.
Ringraziamenti e dedica: Un immenso grazie alla mia parabatai Arianna che legge in anteprima, vigila,
consiglia e beta tutto quello che scrivo.
I loved him first.
Parte seconda.
Probabilmente Tetsurou era
una di quelle persone per cui piangere in pubblico era qualcosa da non fare,
non perché fosse sbagliato esternare le proprie emozioni, ma perché in mezzo
agli altri questa cosa avrebbe potuto farlo apparire indifeso e fragile e non
era quella l’idea che voleva dare di sé. Tuttavia, quella volta non era stato
in grado di trattenere le lacrime e non appena era salito sul treno che lo
avrebbe riportato a Tokyo, aveva dato sfogo alla rabbia che serbava nel petto
con un pianto liberatorio. Solo il vagone mezzo vuoto l’aveva salvato
dall’imbarazzo.
Perché Kuroo sin dall’inizio
non era stato in grado di vederla come Tsukishima
quella situazione. Per lui, in fondo, non c’erano mai stati dubbi sul se fosse
giusto o sbagliato, se fosse qualcosa da accettare o rinnegare: si era sempre e
solo trattato di capire come comportarsi con qualcuno che proprio non conosceva
e mai aveva pensato a non conoscere affatto il proprio compagno, ad allontanarlo solo perché era qualcuno di completamente
nuovo. Dopotutto, non era un po’ sempre così? Quella persona che prima o poi
diventa importante nella vita di qualcuno non è sempre stata prima un estraneo
da guardare con diffidenza e circospezione? Anzi, alle volte ci si innamora di
chi prima si crede di odiare, perché non sempre i sentimenti sono qualcosa di
certo, fisso o duraturo.
Per questo Tetsurou non
s’era posto le domande che invece gli aveva presentato Tsukishima,
non s’era messo lì a chiedersi se fosse una cosa logica o meno, aveva solo
assunto il ruolo di compagno che
sapeva di poter interpretare, di persona premurosa e presente. Non perché fosse
una costrizione a cui sottomettersi, ma perché voleva farlo, perché il legame
era qualcosa che, anche se inaspettato, lui stava aspettando. Kei aveva distrutto tutto quello, la sua bella fantasia
romantica, le sue buone intenzioni. E per cosa? Perché lo aveva fatto? Non gli
pareva di essere stato scortese o sgarbato con lui al Campo di allenamento…
forse aveva esagerato un po’ nel provocarlo, mentre s’erano allenati insieme,
ma per quello aveva chiesto scusa, no? Non era bastato? Lo aveva innervosito a
tal punto?
No, Tsukishima aveva detto
che non c’entrava, che non era lui il problema. Semplicemente non voleva un
legame. Esisteva una persona del genere? Qualcuno di tanto freddo da non
volersi legare a nessuno, proprio nessuno? Non era legato ai suoi compagni,
quindi? Non aveva amici o affetto familiare? Aveva detto che quello a cui stava
partecipando era solo un club scolastico. Una sera, mentre si allenava, Tsukishima aveva detto che non gli importava, che davvero
non faceva differenza e a Kuroo era parso strano:
poteva davvero giocare a pallavolo senza che gli importasse di vincere o di
perdere? Aveva pensato che fosse solo una fase, che magari quello sport non lo
aveva ancora preso all’amo come invece era già capitato a loro, ed aveva
annuito con vigore quando, invece, Bokuto gli aveva
spiegato come sarebbe stata la sensazione di soddisfazione, gioie e
appagamento, eccitazione che avrebbe provato quando davvero si sarebbe trovato
a giocare con passione, sperando che capisse; ma forse s’era sbagliato. Forse Tsukishima Kei era davvero così: freddo
e privo di emozioni. Ed era il compagno
che il destino gli aveva affidato.
La cosa non poteva non fare rabbia a Kuroo. Se avesse analizzato la situazione da un punto di
vista logico, forse avrebbe anche compreso il perché di quel rifiuto, ma il
vuoto che sentiva, il dolore di un contatto che aveva appena percepito e che
ora vacillava pericolosamente non dava spazio ad altro se non alla rabbia e
all’odio dell’animale ferito che cerca di non morire.
Si diresse verso casa di Kenma
senza rendersene conto: certo, casa sua era praticamente nella stessa
direzione, ma pur non pensandoci Kuroo sapeva che era
davanti alla porta di Kenma che si sarebbe fermato.
Gli era mancato: era così abituato ad averlo accanto, ad avere sempre uno
sguardo su di lui per un motivo o l’altro, che quella giornata gli parve
improvvisamente vuota - pensò, quasi, che l’incontro con Tsukishima
fosse andato male perché Kenma non era stato con lui,
perché davvero quando c’era le cose non potevano essere tanto brutte. Si sentì
vagamente in colpa per averlo lasciato solo: non che gli dovesse qualcosa,
beninteso, ma aveva piantato in asso l’intera squadra e s’era precipitato a Miyagi e, sebbene tutto avessero compreso l’urgenza,
passato il pericolo, il capitano della Nekoma stava
cominciando a rendersi conto di quanto male si fosse comportato.
«Salve», salutò, quando la madre dell’amico ebbe
aperto la porta «Kenma è in camera? Posso salire?».
Kuroo cercò di non
prestare attenzione all’aria imbarazzata che la donna assunse non appena sentì
la sua richiesta - solitamente, quella era una formalità che i due mandavano
avanti quasi per divertimento: era ovvio che Kenma
fosse in camera e ancora più chiaro che Tetsurou
potesse salire. Quella volta, invece, la donna prese tempo, chiedendogli di
aspettare mentre lei andava a controllare se il figlio dormisse. Kuroo la guardò mentre si allontanava, senza riuscire a
scrollarsi da dosso una certa inconscia sensazione di pericolo.
La donna salì le scale e si fermò davanti alla porta
della stanza del figlio. Non disse nulla perché lo conosceva abbastanza bene da
sapere che Kenma aveva sentito l’amico entrare e
chiedere di lui - sentiva tutto, ma decideva accuratamente a cosa reagire, era
sempre stato così. Attese che il figlio dicesse qualcosa, perché aveva notato
l’aria afflitta con cui era tornato a casa dopo gli allenamenti e sebbene la
comunicazione non fosse il loro forte, sapeva che doveva essere successo
qualcosa che lo stava preoccupando.
Dall’interno della stanza, Kenma
era nascosto dalle coperte del letto - il cuore aveva battuto più velocemente
alla voce di Kuroo perché gli era mancato, perché il
fatto che fosse venuto a casa sua poteva significare che non lo aveva perso,
non ancora almeno. Che, forse, c’era ancora una speranza che quel legame non lo
avrebbe allontanato definitivamente da lui.
Pensò di alzarsi. Pensò di muoversi verso la porta,
aprirla e magari dire a sua madre che poteva salire, che era tutto a posto, che
aveva voglia di passare del tempo con Kuroo. Ci pensò
intensamente, quasi il pensiero corrispondesse in automatico al realizzarsi di
quella cosa, ma non si mosse: le gambe non si allungarono fuori dal letto, le
braccia non sollevarono le coperte, la testa restò immobile. Pensò, Kenma, troppo a lungo, troppo a fondo e si fece paralizzare
da tutte quelle possibilità. Se Kuroo fosse venuto lì
solo per dirgli che aveva finalmente sistemato il suo legame? Se quella fosse
stata l’ultima volta che avrebbero passato del tempo insieme? Sarebbe stato
come con Bokuto: una situazione evidentemente
sbagliata, ma che non si poteva evitare.
Allora meglio restare fermi, immobili; farsi scorrere
il tempo addosso come onde del mare che lisciano la sabbia: nella sua
immobilità, poteva essere perfetto. Sentì sua madre arrivare, la sentì restare
in attesa, la sentì andare via. Non fece nulla, non aveva voglia di fare nulla.
La sentì parlare con Kuroo e ascoltò la scusa che
questa inventò per farlo andare via; forse si sentì anche in colpa perché non
aveva mai mentito a Kuroo, non in quel modo, ma più
di tutto si sentì sollevato quando la porta di casa si chiuse e lui fu salvo.
Lo immaginò andare via, lentamente, con la sua solita
andatura tranquilla forse appena un po’ incerta. Lo immaginò chiedersi se lui
stesse bene, se fosse successo qualcosa nelle ore in cui era stato via; lo
immaginò trovare una scusa con cui calmare se stesso, cercando di non pensare
al peggio - era sempre stato troppo ottimista. Quando il telefono, accanto a
lui, illuminò il buio delle coperte, Kenma lesse
chiaramente il nome di Tetsurou sul display: non lo
chiamava mai, in realtà, perché sapeva quando lo seccasse rispondere al
telefono e che preferiva di gran lunga i messaggi, per questo restò a fissare
quel nome che rimbalzava sullo schermo all’accendersi e spegnersi
dell’illuminazione con un certo fascino. Ma, ovviamente, non rispose.
Al terzo tentativo che si trasformava in una chiamata
senza risposta, Kuroo rinunciò, posando il cellulare
in tasca non senza una certa delusione. Kenma era
offeso? Sapeva che non adorava le telefonate, ma si aspettava un messaggio in
risposta, sebbene avesse davvero voluto sentire semplicemente la sua voce.
forse era egoistico da parte sua, ma c’era qualcosa nel rapporto che avevano,
probabilmente la cieca convinzione che sarebbe durato per sempre, che gli
portava conforto e gli dava motivo di sorridere anche quando tutto sembrava
andare male. Per questo, averlo accanto era un toccasana, anche se Kenma non diceva nulla, anche se pareva non prestare
attenzione, immerso com’era in un nuovo livello o in un nuovo gioco. A Kuroo era sempre bastata la sua sola presenza: era qualcosa
di cui davvero non avrebbe potuto fare a meno.
Per questo, rientrando a casa, al dolore per la
perdita di Tsukishima si aggiunse uno strano senso di
disagio per l’assenza di Kenma, qualcosa a cui
davvero non era abituato. Quando si stese sul letto, le domande cominciarono ad
assalire la sua mente senza un preciso ordine o motivo; si chiese se forse
stava dando per scontata la presenza dell’amico nella sua via, si chiese se forse
in quell’ultimo periodo, tra i problemi con Bokuto e
quelli con Kei, l’aveva trascurato. Pensò, pensò bene
a tutto quello che aveva fatto negli ultimi giorni e pur non trovando alcunché
di fuori posto o di cui pentirsi, non riuscì a scacciare del tutto la
sensazione che qualcosa gli stesse sfuggendo, che ci fosse qualcosa dietro al
silenzio di Kenma, dietro a quello che voleva
apparire come il suo semplice comportamento introverso.
Non chiuse occhio quella sera Kuroo.
L’immagine di Kenma, il legame con Tsukishima e non ultima la costante, soffocante
preoccupazione per Bokuto lo tennero sveglio e
vigile, paralizzato dall’incapacità di reagire alla piega che nell’ultimo mese
aveva preso la sua vita - improvvisamente, la pallavolo pareva lontanissima,
come un bel sogno da cui s’era improvvisamente svegliato e la sua sfacciata
spensieratezza di liceale pareva essere stata risucchiata, divorata da problemi
più grandi di lui, problemi che suo malgrado gli toglievano il sonno.
Erano passate da poco le quattro del mattino quando Kuroo fece due chiamate, entrambe a vuoto. Lasciò che
squillasse prima il cellulare di Kenma e poi quello
di Koutarou, ascoltò il suono ad intermittenza della
chiamata, unica interruzione del silenzio della stanza e lasciò che la chiamata
finisse nella segreteria telefonica sebbene avesse capito già al quinto o sesto
squillo che non avrebbe ricevuto risposta. Il freddo suono di quegli squilli
che cadevano nel vuoto dell’ignoranza lo fecero sospirare di tristezza; non
fece altro, tornò a fissare il soffitto senza vederlo nel buio che lo
circondava.
Akaashi aveva dovuto
imparare di nuovo come muoversi accanto a Bokuto da
quando il suo compagno era entrato
nella loro vita: era stato un processo lento e pieno di ostacoli, aveva
sbagliato molte volte e litigare con Koutarou, aveva
scoperto, sapeva di amaro, di quando ti si blocca il respiro a metà per un
colpo alla schiena e non sai più come vivere. Tuttavia c’era riuscito, era
riuscito ad adattarsi a quella nuova persona, quel nuovo Bokuto
che aveva davanti, a rispettare i suoi spazi e le sue richieste - era strano
non averlo accanto, non sentirlo parlare con il suo solito entusiasmo, non
doverlo controllare ed assecondare nei suoi repentini cambiamenti d’umore. Ma
c’era riuscito e poteva dire di aver quasi trovato un nuovo equilibrio, sebbene
fosse triste, sebbene fosse freddo e mutilo.
Lo aveva deciso con Kuroo,
come muoversi. O meglio, entrambi s’erano resi conto di non avere più molte
possibilità di muoversi da quando Kobayashi aveva
messo Bokuto contro di loro, da quando lo aveva
convinto che loro due volessero separarli, che fossero gelosi di quello che
avevano. Le parole non erano servite se non a separarli ancora di più, a dare
ragione alle parole di quel tipo, così alla fine erano stati loro a cedere, a
scendere a compromessi. Avevano lasciato vincere Kobayashi
e s’erano accontentati delle briciole che restavano del loro Bokuto, di quello che il giocatore di basket lasciava loro.
Avevano incassato, in ginocchio, e avevano deciso che era meglio di nulla.
Ma ad Akaashi non stava bene
quella situazione - era certo che non stesse bene neanche a Kuroo,
ma in qualche modo si sentiva più coinvolto, fosse solo perché dei due era lui
quello che lo vedeva tutti i giorni con Kobayashi,
che sopportava maggiormente il modo in cui tutto nella quotidianità della sua
vita era cambiato. Non lo aveva mai detto al capitano della Nekoma,
ma quando questi lo aveva accusato di essere solo geloso, negandolo lui aveva
mentito con la consapevolezza di farlo. Sì, Akaashi
era stato geloso e forse questo lo aveva reso cieco ai primi segnali di quella
relazione malsana, perché aveva pensato che fosse colpa sua, del modo in cui la
vedeva, del fatto che provava qualcosa per Bokuto.
Oh, sì. Provava qualcosa per lui. Non sapeva dire
esattamente che cosa fosse, ma qualcosa nel suo capitano lo attraeva senza
alcuna possibilità di staccarsi ed era stato così praticamente da sempre.
Probabilmente Bokuto non se n’era mai accorto,
probabilmente non lo avrebbe mai ricambiato né avrebbe mai pensato a lui in
quel modo, ma Keiji non poteva farci granché: a
prescindere dal legame, non ci si disinnamora solo perché lo si vuole. Quando Koutarou gli aveva confessato di aver visto i colori, si
era sentito un po’ morire; aveva cercato di non darlo a vedere, di esserci
comunque, ci sostenerlo, ma Kobayashi Shou non gli era mai piaciuto: dal primo momento in cui
l’aveva visto, qualcosa in lui lo aveva disturbato - s’era illuso che fosse
solo gelosia, finché non aveva capito il suo gioco ed era stato troppo tardi. Bokuto pareva dipendere da lui con un trasporto ed una
profondità che davvero Akaashi non capiva: stavano
insieme da così poco tempo che non aveva senso il modo in cui Koutarou si fosse aggrappato a lui, il modo in cui credesse
ciecamente a tutto quello che gli diceva, a tutto quello che faceva e pensava,
quasi non fosse più in grado di agire da solo. Se era questo ciò che faceva il
legame, allora preferiva non conoscerlo mai.
«Vuoi tornare a quello che eri
prima? È questo quello che vuoi?».
Akaashi si fermò
all’istante, trattenendo il fiato: sebbene non l’avesse mai sentita gridare,
conosceva la voce che gli era arrivata alle orecchie e lo stomaco si contrasse
come reazione istintiva.
«Senza di me, cos’eri? Ricordi
come ti ho trovato? Chi ti amerà, se io ti lascio?».
Il ragazzo si nascose in modo da poter vedere chi
parlava senza essere a sua volta visto e da quella posizione di vantaggio
scorse la rabbia sul volto di Kobayashi, mentre di Bokuto, di spalle, poteva riconoscere solo la postura
cadente, sottomessa, che aveva spesso visto quando li aveva incontrati insieme.
A pensarci, quella era la prima volta in cui li sentiva discutere, fatta
esclusione per la sera in cui erano usciti insieme a Kuroo
e Kozume - la scena aveva un che di grottesco,
qualcosa di estremamente sbagliato che chiedeva ad Akaashi
di intervenire, ma l’alzatore fu bravo a trattenere il proprio istinto.
«Shou io-».
Kobayashi sospirò in
modo drammatico - seppe così tanto di falso che Akaashi
si chiese come Bokuto non potesse notarlo.
«Perché devi sempre
farmi arrabbiare? Credi che voglia questo? Che voglia lasciarti o farti
soffrire? Perché non puoi semplicemente… farmi felice?».
Akaashi vide il
ragazzo sfiorare i capelli del suo capitano in un gesto che non sarebbe risultato
gentile o romantico neanche ad uno sconosciuto: c’era un che di allarmante in
quella carezza, qualcosa di falso e soprattutto possessivo, quasi Shou volesse ribadire che, a prescindere da tutto, aveva in
mano quella situazione e, soprattutto, aveva il controllo su Bokuto. Doveva parlare con Koutarou,
doveva dirgli apertamente quello che pensava della sua relazione, del modo in
cui Kobayashi lo trattava. Stavolta non si sarebbe
fatto fermare dalla paura di poterlo perdere o da quello che avrebbe detto, dai
litigi che ne sarebbero potuti scaturire: la sua sicurezza e felicità valevano
più di qualunque altra cosa.
Intanto, Kobayashi era
andato via lasciando Bokuto da solo. Akaashi lo vide restare fermo per qualche istante, come se
fosse indeciso sulla prossima cosa da fare; poi il ragazzo prese a camminare
lungo il corridoio e l'alzatore pensò che stesse andando verso la palestra in
cui avrebbero dovuto allenarsi. Per questo prese a seguirlo ancora incerto su
come cominciare la conversazione. Prima che potesse, però, anche solo pensare
di fermarlo, lo vide svoltare in direzione opposta alla palestra, verso i
bagni; allora decise che non fosse ancora il momento giusto per intervenire e,
non seppe per quale istinto, continuò soltanto a copiare i suoi passi finché il
più grande non superò la porta nel bagno dei ragazzi. Prima ancora di entrare, Akaashi senti qualcosa che gli spezzò il cuore: Bokuto piangeva.
Erano singhiozzi leggeri e frequenti, quasi il ragazzo
non riuscisse a controllarli e Akaashi non avrebbe
mai creduto che quel suono potesse fare tanto male - quando aprì
silenziosamente la porta per poterlo guardare, Koutarou
si teneva con forza al lavabo, la testa bassa e i capelli bagnati come se li
avessi messi sotto il getto d’acqua che ancora scorreva: non si potevano
distinguere le lacrime tra le gocce che gli colavano sul viso.
Strinse i pugni Akaashi,
improvvisamente furioso e triste, e sarebbe tornato sui suoi passi, magari per
cercare Kobayashi, se Bokuto
non si fosse accorto di lui, ricambiando il suo sguardo, prima sorpreso, poi
semplicemente spento. Sorrise tra le lacrime che ancora gli contornavano il
viso e gli angoli della bocca che non volevano saperne di alzarsi davvero
all’insù.
«Ehi, Akaashi...». Il tono
era solo una pallida copia di quello a cui Keiji era
stato abituato. «È tutto a posto, sai? Tutto… tutto a posto». E ci provava
davvero, Bokuto, a convincere l’amico di quella cosa,
perché forse avrebbe potuto convincere anche se stesso, forse sarebbe bastato
quello…
«No!». Era la prima volta che Koutarou
sentiva Akaashi gridare e la cosa lo fece trasalire:
pensò a Shou, pensò a come aveva gridato anche lui,
prima… prima di… Lo avrebbe fatto anche Akaashi,
anche Akaashi lo avrebbe colpito come aveva fatto lui?
«Non è tutto a posto!», stava continuando a gridare Akaashi, «Niente è a posto da quando sei con Kobayashi, perché non riesci a vederlo?».
«Credevo avessimo superato questa fase, perché torni a
dire cose cattive su di lui? Shou mi-».
«Ama? Stai per dire che ti ama? Una persona che ti ama
non ti farebbe piangere, non ti griderebbe addosso, non ti cambierebbe a tal
punto da- Io non farei mai una cosa
del genere!».
«Tu mi stai
gridando addosso!».
Entrambi trasalirono, Keiji
colpito dalle parole di Bokuto e Koutarou
da quello che tra le righe aveva colto - Akaashi
s’era appena paragonato a Shou? Lo stava… lo stava in
qualche modo difendendo, perché forse gli importava di lui? Quella cosa era
semplicemente assurda, probabilmente aveva capito male nella concitazione del
loro diverbio, doveva essere così. Dall’altro lato, l’alzatore non avrebbe
davvero voluto perdere la calma in quel modo, dire quelle parole, gridare… Ma
mentre riprendeva fiato, mentre cercava di calmarsi e smettere di tremare,
qualcosa di nuovo attirò la sua attenzione: un segno rosso correva lungo il
collo di Bokuto, qualcosa a cui prima non aveva fatto
caso, che poteva notare solo adesso che aveva fatto qualche passo in avanti
verso l’amico.
Il sangue gli si gelò nelle vene mentre realizzava che
doveva essere il marchio di qualcosa che aveva stretto quella porzione di
pelle, comprimendola e segnandola. Immaginò immediatamente le mani di Kobyashi afferrare Bokuto,
stringerlo al muro, prenderlo all’altezza del collo come per soffocarlo, forse
in uno scatto di passione… o di ira. Gli aveva messo le mani addosso, forse
anche in quel momento, prima che lui arrivasse a spiare la loro conversazione.
Forse andava avanti da sempre, come una consuetudine nella loro relazione e
quella era semplicemente la prima volta che i segni erano visibili sotto i
vestiti. Ad Akaashi venne da vomitare e si avvicinò
senza rendersene quasi conto, fino a che non fu ad un soffio da Bokuto, che aveva indietreggiato sino a toccare con la
schiena le mattonelle fredde del bagno.
«Che cosa ti ha fatto?», soffiò con tono gelido. Bokuto ebbe paura, paura che Akaashi
fosse arrabbiato come lo era Shou, perché la rabbia
poteva riconoscerla dall’odore che emanava o dal modo in cui il suo stomaco si
contraeva. Lo avrebbe colpito - ecco che arrivava uno schiaffo, o forse lo
avrebbe preso tra le mani come aveva fatto Shou? Dio,
non voleva ricordare Akaashi in quel modo…
«Non è nulla...», riuscì a sussurrare, a corto di
saliva, e pregava che questa cosa lo calmasse, che Keiji
si allontanasse quel po’ di spazio sufficiente a ridargli equilibrio. Non lo
voleva così vicino, con quello sguardo negli occhi…
Ma Akaashi gli rimase
davanti, ad un soffio da lui e così non poteva sfuggirli: sarebbe stato alla
sua mercé qualunque cosa avesse voluto fare. Non ebbe il coraggio di chiudere
gli occhi, di provare a difendersi. Era debole, dopotutto, Shou
glielo diceva in continuazione. D’improvviso, però, l’alzatore si allontanò.
Senza dire nulla, Keiji fece qualche passo indietro,
si concesse un ultimo sguardo e semplicemente andò via.
«Lui non ti ama, Koutarou», si fermò a dire, alla
soglia della porta, azzardando una confidenza che forse non avevano mai avuto.
«Tu conosci l’amore e Kobayashi Shou
non ti ama». Poi riprese a camminare.
Bokuto non avrebbe
mai voluto sentirsi tanto sollevato, ma prese a respirare di nuovo con
regolarità solo quando non ci fu più nessuno in bagno.
***
Quando quella mattina s’era alzato, Kuroo aveva pensato che il suo pessimo umore fosse dovuto
al senso di abbandono e solitudine che aveva cominciato a sentire dalla sera
precedente: qualunque cosa volesse credere Tsukishima,
la verità era che il loro legame non s’era affievolito neanche un po’, ma era
semplicemente mutato in una sorta di onnipresenza malinconia, che sapeva
dell’assenza di contatto, della mancanza di sentimento.
Kuroo s’era
alzato, con quella sensazione di bruciante vuoto, di blocco all’altezza dello
stomaco, e s’era preparato per la mattinata di allenamento, cercando di mettere
su la migliore delle facciate perché la squadra non si demoralizzasse o
preoccupasse per lui.
Tuttavia, i suoi buoni propositi avevano cominciato a
vacillare quando, passando da casa di Kenma, sua
madre gli aveva detto che il ragazzo s’era già avviato e che lo avrebbe trovato
a scuola. Kuroo aveva guardato la donna, chiedendosi
per la prima volta se stesse mentendo, se forse Kenma
non stesse bene e quella fosse solo una scusa per non vederlo. Tuttavia, non
aveva detto niente, salutando con cortesia e riprendendo a camminare - una
sensazione di inquietudine lo infastidiva, pizzicandogli la schiena ed
costringendolo ad accelerare il passo per arrivare quanto prima alla palestra.
Era da tanto che non faceva quella strada da solo e la cosa non gli piaceva.
«Pronti ad allenarvi? Ci aspettano i Nazionali!». Kuroo salutò la squadra con il suo solito sorrisetto
sghembo e gli sembrò che fosse tutto a posto, mentre i suoi compagni
ricambiavano l’entusiasmo ognuno a modo proprio - bastò, però, qualche istante
perché il ragazzo si rendesse conto che Kenma non era
con gli altri.
«Perché Kozume non è con
te?», chiese con una certa sorpresa Kai, che fino al
suo arrivo aveva coordinato i primi riscaldamenti «Non si sente bene, forse?».
Kuroo si prese
qualche altro istante per sondare la palestra, per quanto fosse ovvio che Kenma non era lì: quindi la madre gli aveva davvero
mentito? O forse Kenma era effettivamente uscito, ma
non per andare in palestra? Improvvisamente il capitano della Nekoma capiva sempre meno l’amico e la cosa lo
destabilizzava a livello fisico. Che cosa si era perso? Quando Kenma aveva cominciato a mentire, a saltare gli
allenamenti, a non volergli parlare? Sentiva il panico prenderlo, togliergli il
fiato.
«Kuroo? Che succede? Cosa
c’è che non va?». La voce preoccupata di Yaku gli
diede i brividi: improvvisamente Tetsurou non era più
sicuro di nulla se non del fatto che era stato distratto, che aveva sicuramente
commesso degli errori, che il suo egoismo non gli aveva permesso di andare
oltre i suoi problemi con Tsukishima.
«Stamattina la madre ha detto che era già uscito, che
lo avrei trovato qui...», sussurrò senza alcuna intonazione, appena cosciente
del suo stesso gesto. Quelle poche parole bastarono a mettere in allarme tutta
la squadra: Kenma era una persona estremamente
abitudinaria, cambiare routine non era qualcosa che faceva volentieri e anzi,
capitava solo quando era necessario. O se qualcosa non andava.
«Sospendiamo gli allenamenti. Lo andremo a cercare
subito. Magari è effettivamente venuto a scuola ed è in qualcuna delle classi
vuote». Kai
aveva preso in mano la situazione, da perfetto vice capitano, ma Kuroo fece un segno di diniego con la testa.
«Penso di sapere dove possa essere. Ho fatto qualcosa
di sbagliato, senza accorgermene, quindi è giusto che vada a cercarlo io. Voi
continuate. Vi darò notizie non appena lo avrò trovato».
«Ma-», Yamamoto aveva fatto per muoversi, in
disaccordo col fatto che il capitano fosse l’unico a cercare l’alzatore, ma Kai lo fermò.
«Lascia che risolvano questa cosa tra di loro»,
intervenne Yaku, sulla stessa lunghezza d’onda del vice
«Dopotutto, Kuroo sembra aver capito di cosa si
tratta».
La verità era che Kuroo
aveva solo la sensazione di aver capito. Era stato cieco a tutti i piccoli
segnali che Kenma gli aveva lanciato negli ultimi
giorni, ma ripensandoci adesso doveva essere stato alquanto evidente che
qualcosa lo stava preoccupando: il silenzio era stato ancora più serrato e Kenma si era esposto sempre meno, fino a rifiutarsi di
vederlo; non s’era sentito sicuro nel confessare questa cosa neanche a lui,
quindi doveva in qualche modo riguardarlo ed aveva mentito per stare da solo,
il che significava che doveva essere abbastanza agitato da non volere nessuno
intorno, neanche sua madre.
Quella situazione gli ricordava molto il loro primo
anno di liceo, quando Kenma era stato sul punto di
lasciare il club di pallavolo per via dei ragazzi più grandi: pochi potevano
capire davvero il peso che provava nel sentirsi addosso le loro attenzioni o le
loro lamentele - non era semplice pigrizia o svogliatezza, ma la costante
sensazione d’essere giudicato, il rischio di sentirsi dire che era troppo poco.
Erano cose con cui Kenma non riusciva ad avere a che
fare: il giudizio altrui, gli sguardi della gente addosso lo innervosivano,
paralizzavano, portavano l’ansia ad un livello tale che semplicemente il
ragazzo esauriva qualunque tipo di energie e non era in grado di difendersi. Kuroo aveva imparato a conoscerlo e in qualche modo aveva
saputo spezzare la paralisi in cui era caduto; ora invece, la paralisi pareva
essere diventata colpa sua.
Anche i gradini su cui Kenma
era seduto erano gli stessi del primo anno di liceo e così la posa in cui
l’alzatore stava rannicchiato, la testa nascosta tra le braccia e i capelli
scompigliati dal vento che s’era alzato. Kuroo però
stavolta non sapeva da dove cominciare: non aveva discorsi incoraggianti pronti
con cui risollevare il suo morale o rassicurarlo che sarebbe andato tutto bene,
che si sarebbe sentito sempre più parte del gruppo che si era creato. Conosceva
a malapena il problema.
«Sai, il sangue
riesce a fare ben poco se la mente è
lontana...».
Kuroo vide
chiaramente Kenma sussultare a quelle parole, alzare
la testa ma non voltarsi, come se attendesse che fosse ancora lui a muoversi. Kenma, dopotutto, non era sorpreso dalla presenza di Tetsurou - si aspettava che lo avrebbe cercato non appena
si fosse accorto che non era agli allenamenti e si aspettava anche che lo
avrebbe trovato: non era mai stato bravo a nascondersi.
Tetsurou gli si
avvicinò per poi sederglisi accanto: Kenma aveva lo
sguardo perso nel vuoto davanti a sé e rannicchiato in quel modo pareva stare
sulla difensiva. Il Capitano decise di essere diretto: sebbene potesse apparire
sprezzante e provocatorio il più delle volte, con Kenma
aveva una premura particolare, qualcosa dettato dall’affetto che provava per
lui, dal sentimento che li legava - per questo cercò di essere cauto, per
questo aveva paura.
«Se… se c’è qualcosa che non va… Se io ho fatto
qualcosa di sbagliato, puoi dirmelo, sai?».
L’alzatore annuì appena, ma nascose ancora di più la
testa tra le braccia. La verità era che non sapeva come dirlo, come cacciar
fuori le sue paure: sembravano tanto grosse nella sua mente, ma allo stesso
tempo così stupide appena lasciavano la sua bocca che davvero non aveva idea di
come conciliare le due cose senza che Kuroo lo
giudicasse, che magari lo considerasse un ragazzino egoista. E si sarebbe preso
a schiaffi perché con Tetsurou non aveva mai avuto di
questi problemi.
«Probabilmente in queste ultime settimane non sono
stato molto presente, mi spiace. Mi...mi rendo conto che con tutta la faccenda
di Tsukishima...».
«È normale. Non devi scusarti. È il tuo compagno».
«Ma tu nei hai sofferto!».
Kuroo era sincero
mentre parlava, era dispiaciuto davvero: non essersi accorto che in qualche
modo quella situazione aveva ferito Kenma era
qualcosa che rimpiangeva molto ed improvvisamente Tsukishima
gli sembrava così distante, così insignificante. Stava qui tutta la differenza
del mondo, tutto ciò che il legame poteva o no significare: il modo in cui
cambiava le persone, il modo in cui ci si lasciava condizionare da esso. E Kuroo non aveva intenzione di perdere Kenma,
niente sarebbe valso tanto.
In quel momento Kenma lo
guardò dritto negli occhi - in qualche modo la voce dell’amico lo aveva mosso,
qualcosa in essa lo aveva toccato.
«Ora che sei con lui, non hai più bisogno della mia
compagnia».
Kuroo trasse il
fiato. Cosa aveva appena detto? Possibile che… che credesse davvero…?
«E questa da dove salta fuori?». Rise, perché era
talmente stupida come cosa che davvero non seppe trattenersi. Rise, e fu il
primo errore. Gli occhi di Kenma si velarono di
lacrime.
«Credi sia stupido? Ho visto quanto sei felice, quanto
sei preso da questa cosa e non c’è
nulla che possa fare per impedirti di andare via». E ho paura…
Tetsurou saltò in
piedi quasi quelle parole lo avessero punto e ricambiò lo sguardo di Kenma con un’intensità del tutto diversa: ora non stavano
più scherzando.
«Tu credi davvero…? Credi davvero che l’avere un compagno mi allontanerebbe da te?».
Quindi si trattava proprio di questo, si era sempre trattato di questo.
Improvvisamente Kuroo si sentiva così stupido a non
averlo realizzato prima. Kenma reagiva sempre in
maniera negativa ai cambiamenti, dopotutto...
«Con Bokuto è successo, no?
Non vedo perché con te...».
Kuroo gli prese la
mano, costringendolo ad alzarsi. Aveva bisogno di sentirlo vicino, che lo
spazio fra loro fosse pochissimo, che le parole gli arrivassero senza perdersi
nell’aria che li separava, senza avere possibilità di deformarsi
attraversandola.
«Nessuno, nessuno,
Kenma, potrebbe separarmi da te. Nessuno potrebbe
venire prima di te, neanche il mio compagno.
Quello che condividiamo è a prescindere da qualunque cosa, non rientra in alcun
computo, esula da qualunque dubbio. Non esiste una realtà in cui io possa
dimenticarmi di te o lasciarti indietro, perché sarebbe come perdere una parte
di me stesso, lo capisci?».
Kenma non avrebbe
voluto, ma fu così dannatamente bello sentire quelle parole, così confortante e
rassicurante; se gli fosse stato possibile avrebbe fermato quel momento, lo
avrebbe immortalato così, nella sua perfezione, perché era bastato poco a
distruggere ogni sua paura, così poco… Kuroo aveva
sempre quello strano potere su di lui di far apparire facili le cose più
complesse.
«Non… non volevo offenderti», mormorò, cercando di
nascondere la voce rotta dall’emozione «Le tue parole mi mettono in imbarazzo,
però».
«Non sono offeso. Volevo che lo sapessi. Mi spiace
averti fatto preoccupare e mi spiace che tu ti sia sentito messo da parte a causa
dei miei problemi con Tsukishima. Qualunque persona
entri nella mia vita, Kenma, non metterà mai in
discussione il ruolo che già occupi tu».
L’alzatore annuì e abbassò la testa, ma Kuroo aveva potuto vedere i suoi occhi diventare lucidi ed
un leggero sorriso abbozzarglisi sulle labbra - quei semplici gesti gli
riempirono il cuore. Kenma si sentiva così stupido ad
averne dubitato, ma allo stesso tempo era improvvisamente così felice che gli
girava quasi la testa. Il Capitano lo tirò a sé in un abbraccio: ignorò quanto
poco andasse a genio all’altro il contatto fisico perché sapeva che lui era
l’eccezione, che loro erano una bellissima eccezione.
«Sai cos’è l’agàpe, Kuroo?», sussurrò il più
piccolo contro la sua maglietta di allenamento.
La telefonata arrivò mentre Kuroo
e Kenma stavano tornando alla palestra. Tetsurou immaginò che ci fosse qualcosa che non andava non
appena lesse il nome sul display: da qualche tempo, ormai, le conversazioni con
Akaashi non erano le più piacevoli che aveva.
Tuttavia, non si aspettava di sentirlo tanto agitato.
«No, aspetta, aspetta Akaashi,
prendi fiato e parla più lentamente o non capirò nulla», cercò di calmarlo, ma
sentiva chiaramente il modo irregolare in cui l’altro stava respirando, quasi
non avesse fiato, e la cosa prese ad agitarlo. Lo sguardo fisso di Kenma nel suo pareva il solo appiglio saldo che aveva.
«Gli-gli ha messo le mani addosso.
Io non posso andare avanti così, non posso, non ci riesco. Devo fare qualcosa, Kuroo, devo o rischio di impazzire. Mi sento- mi sento come
se-».
Kuroo trasalì e
sentì chiaramente un brivido freddo attraversarlo, mentre sgranava gli occhi -
dovette fare una faccia davvero preoccupata, perché Kenma
gli si avvicinò per sentire o fare qualcosa.
«Kobayashi lo ha toccato?».
Esalò quelle parole quasi fosse senza fiato: uscirono strozzate, mozzate,
strette dalla stessa morsa in cui si sentiva intrappolato lui in quel momento -
no, non poteva essere successo, quel tizio non poteva essere arrivato a tanto, Bokuto non avrebbe mai permesso che…
Quanto li rendevano fragili i legami.
«Andrò da lui, andrò da Kobayashi. Sono stanco, Kuroo». La voce di Akaashi era
seria ma allo stessi tempo spezzata - Tetsurou non
poteva vederlo, ma stava piangendo di rabbia.
«No. Non lo farai». Kuroo
quasi gridò, facendo sussultare Kenma che di quella
conversazione riusciva a sentirne solo la metà. Doveva essere successo qualcosa
a Bokuto, qualcosa di grosso se Akaashi
era agitato.
«Non ho alcuna intenzione di
vedergli di nuovo addosso i segni delle sue mani, mi hai capito?!». Keiji era fuori di sé: no,
non voleva solo parlare con Kobayashi, anzi parlare
non era mai stata un’opzione. E Kuroo lo sapeva.
«Tu non farai nulla finché non sarò arrivato lì.
Andremo insieme e chiuderemo la questione una volta per tutte».
Akaashi restò
qualche istante senza parole. Non che avesse mai effettivamente dubitato
dell’affetto che Kuroo provava per Bokuto, ma saperlo con lui gli dava un conforto che non si
sarebbe aspettato. Aveva avuto il timore che Kuroo
volesse farlo ragionare, frenarlo, quando per una volta a lui stava bene
perdere il controllo.
«Ti aspetto all’ingresso della
scuola», concluse la chiama.
Quando Kuroo posò il
cellulare in tasca, lo sguardo che tratteneva negli occhi era qualcosa che Kenma non aveva mai visto e che forse gli faceva anche
paura.
«Kobayashi lo ha picchiato? Bokuto sta bene?». Anche la sua voce uscì più sottile,
trattenuta, perché non aveva idea di come stava per reagire l’amico.
«Torna in palestra, avvisa gli altri che non ci sarò e
continuate ad allenarvi». La freddezza di quelle parole spiazzò l’alzatore «Ti
chiamo quando sto tornando».
Kuroo stavolta non
gli restituì lo sguardo che Kenma gli stava ancora
puntando addosso, ma voltandosi fece per andarsene. Il più piccolo lo prese per
la mano, fermandolo.
«Non voglio che tu venga con me, Kenma»,
lo precedette il capitano «Perché né io né Akaashi ci
tratterremo questa volta e non voglio che tu venga trascinato in mezzo ad una
rissa».
«Kuroo...».
«È una cosa che devo fare. Quel tipo gli ha fatto del
male e Bokuto non sembra di in grado di uscire da
questa situazione. In parte, è anche colpa mia: avrei dovuto insistere quando
ho capito in che tipo di relazione si era messo e invece ho indugiato, ho
pensato che non fosse nulla e che sarebbe andato meglio ed ora siamo a questo
punto. Devo fare qualcosa». Tetsurou non si mosse:
aspettava una risposta da Kenma, nonostante tutto.
«Volevo solo dirti di colpire Kobayashi
anche da parte mia».
Kuroo si fece
scappare un mezzo sorriso a quelle parole: aveva bisogno di sentire anche Kenma dalla sua parte, dopotutto. Lo lasciò così e si
affrettò a prendere la metropolitana. Durante il tragitto gli parve di non
essere in grado di focalizzarsi su nulla e allo stesso tempo di avere milioni
di pensieri che si susseguivano nella sua testa: l’immaginazione portava a
galla scene in cui Kobayashi colpiva un inerme Bokuto, riempiendolo di lividi; Kuroo
poteva quasi sentire la risata di uno e le grida soffocate dell’altro e
improvvisamente gli fu chiara anche la scena a cui aveva assistito l’ultima
sera in cui erano usciti insieme: Kobayashi aveva
alzato un braccio, pronto a dare uno schiaffo a Koutarou
e questi non aveva fatto nulla per fermarlo, non ci aveva neanche provato -
probabilmente non era sorpreso perché non era la prima volta che accadeva.
Kuroo aveva voglia
di gridare - e di vomitare. Non riusciva davvero a capire come fossero arrivati
a quel punto, per quale motivo Bokuto aveva permesso
ad un perfetto sconosciuto di manipolarlo fino a fargli accettare la violenza.
Che cosa gli aveva detto Kobayashi per convincerlo?
Che era normale colpire il proprio compagno? Che era il suo modo di dimostrare
affetto? Forse che era colpa sua? Le unghie lasciavano mezzelune scavando nella
carne morbida dei palmi delle mani mentre Tetsurou
ripensava a tutto il tempo che era passato, a quanto avesse sottovalutato il
problema, a come era stato egoista quando, pur di non perdere la propria
amicizia con Bokuto, aveva deciso di chiudere gli
occhi riguardo la malsana relazione che stava intrattenendo con Kobayashi.
Quando uscì dalla metropolitana, A Tetsurou
girava quasi la testa per l’adrenalina che gli scorreva in corpo: prese a
correre perché gli pareva che camminare fosse qualcosa di troppo lento e fu al
liceo Fukurodani prima di quanto si aspettasse. Akaashi Keiji era lì ad
aspettarlo, il volto pallido che faceva risaltare le labbra e gli occhi
arrossati - pareva avesse la febbre.
«Si stanno allenando nella palestra - la nostra
squadra sta facendo esercizio fisico fuori» lo informò.
«Bokuto?».
«Non è né con noi né con loro. Non lo vedo da quando
ho scoperto che...». Faceva assurdamente male anche solo pensarlo, dirlo era
quasi impossibile.
«Oggi gliela facciamo pagare».
Akaashi doveva
ammettere che avere accanto Kuroo non era mai stato
tanto confortante come in quel momento: non era abituato ad andare così
d’accordo con lui, ad essere praticamente sulla sua stessa lunghezza d’onda,
perché di solito il capitano della Nekoma era
perfettamente in sintonia con Bokuto e lui stava a
guardare. Prese a seguirlo mezzo passo dietro le sue spalle quando questi si
diresse verso la palestra e lo affiancò una volta che ebbe aperto la porta,
rendendo palese la presenza di entrambi.
«Buongiorno, possiamo aiutarvi?», si fece avanti
quello che doveva essere il capitano della squadra, interrompendo la partita di
allenamento.
«Cercavamo, se possibile, Kobayashi
Shou». Akaashi aveva
parlato con educazione ed era addirittura riuscito ad abbozzare un sorriso, che
Kuroo apprezzò particolarmente - lui non se sarebbe
stato in grado. Colse subito lo sguardo del diretto interessato che si posava
su di loro, un sorrisetto sfrontato in volto mentre si avvicinava.
«Non ci metterò troppo, capitano», disse con tono
divertito Kobayashi, ma né a Kuroo
né ad Akaashi sfuggì il fatto che con lui s’erano
mossi altri tre ragazzi, senza dire nulla ma seguendo il primo come un’ombra.
Si guardarono per qualche istante con una certa tensione mascherata da calma,
poi uscirono tutti fuori. I sorrisi di Kobayashi e Akaashi svanirono nell’istante esatto in cui si chiusero la
porta della palestra alle spalle.
«Credevo fosse abbastanza chiaro il fatto che non
voglia vedervi», esordì Kobayashi con aria seccata.
«Credevo fosse altrettanto chiaro il fatto che a noi
non importa nulla di ciò che vuoi, ma solo della felicità di Bokuto», rispose piccato Kuroo.
«Che ne sapete voi
della felicità di Koutarou?
Io sono il suo compagno: la sua
felicità è mia».
«Tu non possiedi nulla di lui, mi hai capito? Nulla». Kuroo stavolta aveva alzato la voce: era così al limite,
così pronto ad alzare le mani su di lui, a fargliela pagare per quello che era
successo… Akaashi accanto a lui lo prese per un
polso, trattenendolo. Non era ancora il momento, non ancora.
«Ecco, ecco, tieni a bada quel cane rabbioso! Non mi
pareva vi faceste tanti problemi prima. Che succede, vi sentite soli?».
«Gli hai messo le mani addosso». Anche la voce di Akaashi era diventata minacciosa, ma era sottile e
tagliente, fredda come Tetsurou non l’aveva mai
sentita - più che trattenere il capitano della Nekoma,
ora il ragazzo pareva trattenere se stesso aggrappandosi a lui.
Il sorriso che Kobayashi
rivolse loro era sporco e pieno di malizia: non stava neanche provando a negare
ciò di cui era accusato - e perché farlo, poi?
«Quello che faccio a Koutarou
non sono cose che vi riguardano. Lui non si è mai lamentato, quindi non vedo
perché dobbiate impicciarvi voi».
Kuroo scattò in
avanti, sorprendendo tutti e prima che potessero realizzarlo, aveva preso Kobayashi per la maglietta di allenamento, nonostante il
ragazzo fosse di qualche centimetro più alto di lui. Gli occhi erano spalancati
e si poteva quasi sentire un ringhio di rabbia salire dalla gola del
pallavolista.
«Perché lui è il mio migliore amico e tu devi stargli
lontano, mi hai capito?!», gli gridò contro «Sono stato buono, mi sono fatto i
fatti miei, ma adesso basta - tu gli hai messo le mani addosso, hai superato
qualunque limite, ora devi solo sparire!».
La risata di Shou era
sprezzante e lo prendeva in giro insultandolo, era il suono più schifoso che Tetsuro avesse mai sentito e lo prendeva allo stomaco, a
livello viscerale - di nuovo immaginava il suo amico colpito da quel verme, di
nuovo lo vedeva piegato, alla sua mercé, ferito da quella stessa risata.
«Sarai tu a sparire», sussurrò Kobayashi
e prima che il ragazzo potesse rendersene conto s’era liberato dalla sua presa.
Il primo cazzotto arrivò ad altezza del viso e Kuroo non poté fare nulla per scansarsi: lo colpì in pieno,
facendogli perdere pericolosamente l’equilibrio; il secondo colpo venne
dall’alto, dritto sulla schiena e lo mise in ginocchio - nella confusione del
momento, il capitano della Nekoma si accorse solo
vagamente che i tre compagni di Kobayashi erano
andati addosso ad Akaashi, ora in netta inferiorità
numerica.
Kobayashi gli era
addosso e Tetsurou partiva in svantaggio;
probabilmente aveva sottovalutato la sua forza, ma non aveva alcuna intenzione
di farsi colpire ancora: lo doveva a Bokuto. Schivò
un calcio che lo avrebbe definitivamente messo a terra e contrattaccò con diversi
pugni, facendolo indietreggiare e rimettendosi in piedi: sentiva bruciore ed un
dolore intenso all’altezza della mascella dove era stato colpito, ma tirò in su
le braccia per attaccare senza perdere il vantaggio del momento.
Alle sue spalle, Akaashi era
a terra, mentre i tre ragazzi gli stavano addosso, colpendolo, e lui cercava di
difendersi come poteva: non si aspettava quell’aggressività, non si aspettava
di essere sopraffatto in numero. La rabbia per come aveva trovato Bokuto, per quello che aveva visto sul suo corpo, non lo
faceva cedere, ma stava diventando difficile parare tutti i colpi, limitare i
danni. Con un calcio fece sbilanciare uno dei ragazzi, che cadde a terra con un
tonfo; poi girandosi di schiena, cercò di allontanarsi abbastanza da riprendere
fiato e rimettersi in piedi - non era una buona idea non avere la visuale sugli
altri due in piedi, ma doveva assolutamente tornare alla loro stessa altezza.
Il busto gli faceva male per i calci presi, ma quasi con ci badava tanto era
l’adrenalina che sentiva scorrere in corpo.
«Il tuo amico sembra in difficoltà, capitano. Aiuterai anche lui?», stava
intanto continuando a parlare Kobayashi: sperava di
distrarre Kuroo, di avere una seconda possibilità per
metterlo a terra, ma Tetsurou non si fece cogliere
nuovamente impreparato.
«Sa badare a se stesso», rispose, senza neanche
voltarsi: in quel momento, l’adrenalina e la foga non gli permettevano di
preoccuparsi per Akaashi: volevano solo altro sangue,
il sangue di Kobayashi, il sangue di chi aveva fatto
soffrire Bokuto. Il senso di colpa abbaiava come
fosse dalla parte della ragione.
Tetsurou si lanciò
addosso a Kobayashi senza riflettere e nell’impeto lo
gettò a terra; stavolta fu il giocatore di basket ad essere colto di sorpresa e
bloccato in una situazione di svantaggio: Kuroo gli
stava sopra e prese a colpirlo con le mani mentre le cosce lo tenevano bloccato
ad altezza della vita. Tetsurou era fuori di sé - un
pugno: Bokuto che smetteva di contattarlo; due pugni:
Bokuto che smetteva di farsi vedere; tre pugni: Bokuto che non reagiva ai colpi del suo “compagno”; quattro
pugni: i segni sul corpo di Bokuto; cinque pugni: la
sensazione di colpa all’altezza dello stomaco.
Quando Kobayashi lo afferrò
per il collo, bloccandogli il respiro, Kuroo quasi non
si scompose. Strinse la propria mano intorno a quel polso e in un gioco di
forza tentò di liberarsi da quella morsa, mentre con l’altro braccio faceva
pressione sotto il suo mento, spezzando anche a lui il fiato. Era un gioco di
resistenza, ma il viso tumefatto di Kobayashi portava
più segni di quello di Tetsurou e maggiore era la
rabbia, la ragione che muoveva il capitano della Nekoma.
Kuroo fece piegare il braccio di Shou,
avvicinando il proprio viso a quello dell’altro ragazzo: entrambi erano a corto
di fiato ma stavolta a sorridere era il pallavolista, mentre l’altro spalancava
gli occhi sorpreso da quella forza.
«Tu. Lascerai stare. Bokuto Koutarou», sputò Tetsurou,
boccheggiando e con un ultimo strattone riuscì a liberarsi dalla presa al
collo, facendo ancora più pressione col proprio braccio, che mozzava ancora il
fiato di Kobayashi, sul collo.
Kuroo non s’era
mai sentito in quel modo, come se ciò che aveva fatto non fosse abbastanza,
come se avesse bisogno di colpirlo ancora e ancora e ancora. Non era più
lucido, ma fuori di sé per l’adrenalina e la voglia di sangue, per la rabbia e
la colpa, avrebbe voluto stringerlo fino a trovare soddisfazione nel lasciargli
addosso gli stessi segni che aveva Bokuto, e poi
ancora e ancora. C‘era fine a quell’istinto di ferire?
Akaashi, poco
lontano, s’era trovato in seria difficoltà: cogliendolo alle spalle uno dei
ragazzi lo aveva bloccato in una morsa, stringendolo ad altezza della vita ed
impedendogli i movimenti. L’alzatore s’era sentito in trappola, senza più
possibilità di reagire o semplicemente difendersi dai colpi dei due che aveva
davanti.
Cercò di trovare la lucidità necessaria per ragionare
e liberarsi: smise di divincolarsi alla cieca e con entrambi i piedi assestò
due calci all’altezza degli stinchi del tizio che lo teneva, facendogli perdere
la presa; poi toccò agli altri due: Keiji era in
inferiorità numerica, ma era agguerrito, furioso come non s’era mai sentito.
Pensava a Bokuto, al fatto che in qualche modo s’era
arreso alla situazione in cui era finito e lo aveva lasciato andare: con quei
colpi stava giurando di non farlo mai più. Di essere migliore.
Gli vennero addosso insieme, ma Akaashi
riuscì a schivare quasi tutti i colpi e ad attaccare: non sentiva il dolore
alle mani quando colpiva né quello al ventre quando i loro colpi andavano a
segno, tutto ciò che contava era restare in piedi, restare in piedi più di
loro, vincere. Come in una partita di pallavolo, ma in solitaria, ogni colpo
era un punto, ogni schivata una palla salvata, finché il tabellone non avrebbe
segnato il punteggio giusto. Ma qual era il punteggio giusto? Perché Keiji colpiva, colpiva, colpiva, con sempre minore
lucidità, con sempre più dolore e più sangue e tutto gli appariva da una
preoccupante prospettiva esterna. Fino a che non ci fu più nessuno ad
attaccarlo, più nessuno da colpire.
Kuroo lasciò
andare Kobayashi quasi di scatto, quando si accorse
che Kobayashi era diventato paonazzo. Lo lasciò
andare gettandosi all’indietro, cadendo seduto e improvvisamente privo di forze.
Per qualche istante dimenticò quello che era successo, dimenticò la situazione
in cui si trovava: ogni cosa pareva sfuggirgli di mente, la testa svuotata da
ogni pensiero. Cosa…? Cosa doveva fare? Qual era l’azione successiva? Come si
continuava?
Fu il contatto con la mano di Akaashi
a riportarlo alla realtà della situazione. Il ragazzo della Fukurodani
gli si accasciò accanto, in ginocchio e privo di forze, facendolo spaventare
non poco.
«Akaashi? Akaashi!», lo chiamò Kuroo,
parandolo giusto in tempo prima che cadesse in avanti. Lo adagiò contro di sé:
sembrava incosciente e sul volto pallido risaltavano le abrasioni e i primi
lividi.
«Akaashi?! Chiamo aiuto?».
Kuroo non sapeva
che cosa fare: improvvisamente, ricordò di aver lasciato a lui i tre amici di Kobayashi e si sentì in colpa per essersi fatto prendere
dalla foga del momento, dal fatto che aveva Shou
sotto tiro. Il ragazzo però scosse la testa, riaprendo gli occhi e mettendosi
un po’ più dritto. Si sentiva svuotato.
«Sto bene: devo solo riprendere fiato, tutto qui»,
minimizzò con più calma di quanta Tetsurou si sarebbe
aspettato «Kobayashi?».
«Davanti a te», lo rassicurò Kuroo
e questi alzò la testa a guardare il ragazzo ancora steso a terra, intento a
riprendere fiato. Adesso non faceva più paura: ai loro piedi, appariva
indifeso, senza più alcun potere.
«Avvicinati ancora a Koutarou e giuro che questo non sarà nulla in confronto a quello che ti
farò», lo minacciò Akaashi, ritrovando le forze
sufficienti a rimettersi in piedi con l’aiuto di Kuroo.
Lo guardava, prendendosi quella soddisfazione come si prende una lode,
beandosene quasi con cattiveria. Aveva sofferto in quei mesi Akaashi, aveva sofferto per la lontananza di Bokuto, perché s’erano imposti di non intervenire per non
perderlo e, in fondo, anche per il semplice fatto che Koutarou
avesse accanto qualcuno che non fosse lui. Quella era la sua rivincita:
guardarlo dall’alto in basso, ferirlo come era stato ferito, era il suo
personale riscatto - anche se era stato Kuroo
materialmente a metterlo a terra, ora era Akaashi ad
andarsene a testa alta, a far valere le proprie ragioni e riprendersi Bokuto. Stavolta poteva vincere lui.
Le mani di Tsukishima
tremavano ancora un po’ mentre le guardava, poste in alto tra sé e il Sole. Il
Centrale della Karasuno era sdraiato sul prato fuori
la palestra e cercava di riprendere controllo sui propri nervi, dopo che tutto
il suo corpo aveva cominciato a tremare nel bel mezzo dell’allenamento, in
preda a fremiti che non gli appartenevano. Aveva sentito una strana smania, Kei, mentre capiva sempre meno ciò che gli stava capitando
e prima che potesse pensare a Kuroo e al legame, si
era ritrovato accanto Azumane, lo sguardo serio, le
mani a bloccargli le spalle.
«Cerca di mantenere alta la consapevolezza del tuo corpo,
non lasciarti sopraffare da quello che senti».
Tsukishima aveva
pensato bene di seguire le sue indicazioni perché l’Asso della Karasuno doveva sapere come si stava sentendo ed era
rimasto semplicemente a guardarlo per non perdere contatto con quello che lo
circondava, finché i tremori grossi non erano passati.
«Deve essere successo qualcosa, credo abbia fatto a
pugni con qualcuno», aveva sussurrato, più a se stesso che per informare la
squadra, sebbene tutti fossero rimasti fermi ai loro posti in attesa di capire
che cosa fosse successo.
«Come ti senti? Va un po’ meglio?».
La voce di Yamaguchi attirò
vagamente la sua attenzione, ma Kei non si tirò su:
era improvvisamente stanco e aspettò che fosse l’altro a sdraiarsi accanto a
lui, calando giù le braccia ancora tremolanti e nascondendo gli occhi sotto una
di esse. Non gli rispose perché non aveva davvero idea di come si sentisse:
stava bene? La risposta più logica sarebbe stata quella affermativa, ma allora
perché aveva l’impressione di riuscire a malapena a respirare ed aveva i
brividi e la testa pareva sul punto di esplodere?
Kuroo Tetsurou si era appena azzuffato con qualcuno. E allora?
Perché doveva importargli, perché doveva avere una priorità tanto importante
nella sua vita? Era un perfetto sconosciuto e improvvisamente aveva acquistato
un’importanza tale da renderlo completamente succube delle sue azioni ed
emozioni. La cosa lo spaventava.
«Come fai a non farti prendere dal panico quando
succede?», chiese in modo diretto.
«Beh, Chikara solitamente
non va in giro ad azzuffarsi con le persone», cercò di sdrammatizzare Tadashi, sedendosi accanto a lui «Ma comunque col tempo
riesci a distinguere ciò che è tuo da quello del tuo compagno: con l’abitudine
diventa tutto più facile».
«È proprio quello che non voglio. Abituarmi. Che cosa
dovrei fare, precipitarmi da lui perché il legame me lo impone».
Yamaguchi sospirò: da
quel che gli sembrava, Tsukki era entrato un circolo
vizioso che non aveva soluzione e che lo sfiancava. Perché non riusciva a
sbloccarsi? Perché pareva non capire? Tutti quei pensieri su pensieri, quando
la soluzione era tanto semplice e lui pareva essersela preclusa dall’inizio.
«Smettila, smettila!», gridò, scattando in piedi -
raramente aveva alzato la voce con Kei, ma stavolta,
come durante il campo d’allenamento, non gli parve possibile trattenersi.
«Smettila di dire sempre le stesse cose!».
Tsukishima lo guardò
frastornato per l’improvviso scatto: come quella sera fuori la palestra, anche
stavolta non si aspettava una reazione del genere da Tadashi,
di solito sempre così pacato.
«Continui a dire di non volere questo legame, ma ti
sei mai fermato un attimo a rifletterci su, a capire che cosa sia davvero? Non
è una condanna, non è una sentenza a vita a meno che tu non decida in questo modo!
Guarda me: dopo il legame con Chikara, ho capito che
posso amare lui e posso amare te e non c’è nulla di sbagliato in questo, perché
quello che da sempre mi lega a te non pregiudica il mio rapporto con lui e
viceversa».
Tadashi lo guardava
con l’intensità a cui Kei non era abituato: doveva
ammettere che era bello vederlo tanto preso, così combattivo - istintivamente,
gli suggeriva quanto doveva tenerci a lui.
«Non è mai stata una gara a chi arriva primo», riprese
Yamaguchi - non stava più gridando adesso, ma la
serietà con cui parlava era se possibile raddoppiata. Si trattava della
felicità di Tsukki e avrebbe fatto di tutto per
aiutarlo a capire. «E poi sarebbe triste, non trovi? Escludere qualunque tipo
di rapporto una volta trovato il proprio compagno. Sono io a scegliere, siamo
noi a decidere a chi legarci. Tu sei parte della mia vita, la definisci, la
riempi di significato, Chikara lo sa e sa che in
parte anche per lui è così. Non potrebbe volere qualcosa di diverso perché se
ama me deve amare anche quello che sono grazie a te. Insomma, immagino che il
mio punto sia questo: in nessun modo il legame ti condiziona più di quanto tu
non decida di farti condizionare. Se deciderai di ignorare Kuroo
sarà una tua scelta, ma anche se deciderai di andare da lui sarà una tua
scelta. Non è il legame a far muovere le tue gambe, sei tu. Lascia morire il
legame o decidi di approfondirlo, ma fa’ qualcosa. L’immobilità in cui ti senti
chiuso è solo tua, tua da spezzare quando vorrai».
Per tutto il tempo, Tsukishima
era stato a guardarlo senza perdere una parola di quello che l’amico gli stava
dicendo: la soluzione poteva davvero essere tanto semplice? Yamaguchi
pareva averci riflettuto a lungo e il Centrale pensò a quanto anche per lui il
legame inaspettato con Ennoshita doveva essere stato
difficile da gestire all’inizio. Certo, aveva trovato un equilibrio perfetto,
ma ora si rendeva conto del lavoro che c’era stato dietro, degli sforzi, dei
dubbi e delle conquiste. Non era un compromesso patetico quello che Tadashi aveva messo su, era un umano destreggiarsi fra gli
affetti, senza lasciare la presa su nulla.
«Sarà meglio che rientri ora, gli allenamenti saranno
ripresi». La serietà era sparita dal volto di Yamaguchi
e il suo viso ingenuo e un po’ spaurito era tornato quello di sempre.
«Sei davvero diventato forte», si lasciò scappare Tsukishima, rimettendosi in piedi e precedendolo nel
percorso verso la palestra. Tadashi stette a
guardarlo con la più sorpresa delle emozioni stampata sul viso.
Bokuto aveva
lasciato gli allenamenti subito dopo lo scontro con Akaashi
nel bagno, quella mattina; aveva mandato un breve messaggio a Konoha, scusandosi e promettendo che avrebbero recuperato
la mattina successiva. La squadra era più che abituata ai suoi sbalzi d’umore e
tuttavia quella era la prima volta che Bokuto saltava
del tutto un allenamento: neanche da quando stava con Kobayashi
era mai successo, perché Shou teneva molto agli sport
e andava fiero del fatto che il suo compagno
fosse l’asso della squadra.
Il telefono di Koutarou
aveva continuato a vibrare per tutta la giornata, mentre il ragazzo vagava per
le strade, sotto il sole cocente, senza una meta precisa; alle chiamate di Konoha dopo un po’ s’erano sostituite quelle di Akaashi e infine anche quelle di Kuroo,
ma lui non aveva avuto voglia di rispondere a nessuno dei suoi amici. Per dire
loro cosa, poi?
La verità era che Bokuto non
aveva la minima idea di come si sentisse: gli sarebbe piaciuto fingere che le
parole di Keiji non avessero avuto alcun impatto su
di lui, ma la verità era un’altra e il ragazzo non riusciva a togliersi dalla
testa gli occhi con cui Akaashi lo aveva guardato,
quando aveva scoperto i segni sul collo, o le parole che gli aveva rivolto
prima di andare via.
«Tu conosci l’amore e Kobayashi Shou non ti ama».
Ma era successo solo poche volte, davvero! Kobayashi aveva semplicemente perso la pazienza, dopo uno
dei suoi scatti di energia, una delle sue pessime battute. Era stanco, solo
molto stanco per via degli allenamenti per il Torneo Invernale e semplicemente gli era scappato. Era stata colpa
sua se Shou lo aveva preso al collo, dicendogli di
stare zitto e per questo s’era scusato. Non c’era da farne un dramma, erano
cose che potevano succedere tra compagni. Akaashi non
poteva saperlo, non aveva un compagno…
Allora perché Bokuto era
tanto sconvolto? Perché quelle semplici constatazioni non riuscivano più a
tranquillizzarlo come prima? Perché una parte di lui aveva preso a dubitare che
fosse giusto il modo in cui era trattato e infine anche delle parole amorevoli
di Shou? Era il suo compagno, lo amava, non avrebbe mai potuto volere il suo male.
Giusto?
Il cellulare vibrò ancora una volta nella tasca dei
pantaloni di Koutarou e anche se non aveva alcuna
voglia di rispondere, il ragazzo guardò i display per sapere chi fosse. Si
sorprese quando vide che si trattava di un messaggio e aprendolo le poche
parole che lesse lo fecero sussultare.
“Vieni a casa”.
Era ovviamente Shou e la
concisione con cui aveva scritto quelle poche parole significava che non doveva
essere di buonumore. Ma Bokuto non capiva: aveva
parlato al cellulare con lui, lo aveva avvertito che si sarebbe allontanato e a
Shou la cosa andava bene - perché ora invece pareva
tanto arrabbiato?
Non volendo rischiare oltre, il ragazzo si incamminò a
passo veloce verso la casa del suo compagno.
Kobayashi abitava da solo: i genitori abitavano fuori
città e gli avevano affittato un.monolocale per
permettergli di andare a scuola e studiare senza troppi spostamenti. Bokuto era spesso a casa sua, alle volte aveva anche
dormito lì, quindi i suoi piedi si mossero con la consapevolezza di un percorso
abituale. Ma il suo stomaco aveva preso a fare male. Che si trattasse di ansia,
Bokuto non poteva nasconderlo a se stesso, ma si
illuse che fosse il modo in cui quel messaggio era stato scritto ad averlo
messo in allarme e non il fatto in sé di vedere Shou.
Le parole di Akaashi
risuonavano nella sua testa come una triste cantilena e il ragazzo non poteva
liberarsene.
«Ehi, sono tornato», salutò Koutarou,
entrando: Shou gli aveva mostrato la chiave di
riserva, nascosta in una delle piantine fuori casa, la prima volta che lo aveva
portato lì. Gli aveva detto che era un regalo, che voleva fidarsi di lui.
Nessuno rispose al suo saluto, ma il ragazzo era
sicuro che il compagno, fosse in
casa: poteva sentirlo. Si avventurò con una certa libertà alla sua ricerca e
raggiunse il piccolo soggiorno. Shou era lì, seduto
in modo scomposto sul divano, la testa tirata indietro e gli occhi chiusi; non
ci volle un occhio esperto per notare i segni che aveva sul collo arrossato e
il viso. Bokuto sentì la terra tremare sotto i suoi
piedi.
«Che cosa ti è successo?», quasi gridò, avvicinandosi
a lui per poter vedere meglio. Kobayashi lo sentì per
la prima volta in quel momento e tirò su la testa per poterlo guardare. Lo
sguardo che gli rivolse fece bloccare Bokuto sul
posto, una mano tesa a mezz’aria a volergli sfiorare il viso.
Non proferì parola, Shou, ma
si alzò di scatto e fu addosso a Koutarou,
bloccandolo tra il divano e la parete che aveva affianco; prese a baciarlo con
foga, senza lasciare possibilità al compagno di reagire se non con una resa
assoluta al suo volere. Lo baciava, lo mordeva, la lingua forzava la sua bocca
e tutto era il suo potere. Bokuto non sapeva perché
stesse reagendo in quel modo, che cosa gli fosse successo, ma improvvisamente
travolto da quell’impeto non poté fare a meno di assecondarlo. Non sapeva se
stava rispondendo ai suoi baci o semplicemente lasciandogli campo libero, le
due cose in quel momento si assomigliavano pericolosamente.
«I tuoi amichetti», sussurrò Shou,
lasciando andare la sua bocca e spostandosi sul collo «Si sono messi di nuovo
in mezzo. Stanno cominciando a seccarmi».
Koutarou trattenne un
mugugno a metà tra il sorpreso e lo spaventato e avrebbe davvero voluto
fermarlo e chiedere come fosse successo, perché Kuroo
o Akaashi - doveva per forza riferirsi a loro - erano
andati da lui, cosa s’erano detti. Stavano bene? Shou
era un ragazzo davvero forte dal punto di vista fisico e non girava mai da
solo, probabilmente non lo avevano affrontato in due contro uno…
«Davvero non vogliono capire», continuò Kobayashi «Che ormai sei il mio compagno», infilò le mani
sotto la maglietta di Bokuto, facendolo rabbrividire
«E che loro non hanno più a che fare con la tua vita».
Gli sfilò la maglietta con velocità ed impeto, poi lo
spostò quasi di peso, facendolo cadere sul divano. Koutarou
non era certo di quello che stava succedendo - non era la prima volta che Shou mostrava quel tipo di passione nei suoi gesti e
qualche volta erano anche stati a letto insieme, quando era rimasto a dormire a
casa sua, ma stavolta sembrava diverso, stavolta c’era una foga nei gesti del
suo compagno che a Bokuto non piaceva. Ad essere
sincero, non gli era piaciuto neanche fare l’amore con lui, almeno non del
tutto. Nonostante la voglia e nonostante fosse appagante, c’era qualcosa che
stonava nel modo in cui Shou gestiva tutto, nel modo
in cui Koutarou si lasciava dominare. Non ci aveva
mai fatto così caso come in quel momento, mentre Shou
era sopra di lui e cercava di sfilargli i pantaloni.
«Shou, aspetta. Shou, io-».
Prese a bloccargli le mani, afferrandolo per i polsi e
gli occhi di Kobayashi incrociarono i suoi con
rabbia.
«Sei mio, Koutarou, vero?
Sei il mio compagno», sussurrò
quello, ma a Bokuto non sembrava più qualcosa di
dolce, non gli sembrava più neanche sincero, c’era qualcosa che lo spaventava
terribilmente. Perché non si fermava? Perché era tornato ai suoi pantaloni e
cercava in tutti i modi di fare qualcosa che non voleva? Non voleva stare con
lui, non adesso, non in quel modo.
«Smettila. Smettila ti prego, non voglio farlo adesso,
smettila», prese a dire con sempre più urgenza, ad un tono di voce sempre
maggiore e più gridava più i movimenti di Kobayashi
si facevano frenetici e forti e sentiva il peso su di lui aumentare e le gambe
bloccarlo alla vita per tenerlo fermo. Bokuto sentì
il panico invaderlo, la respirazione si alterò diventando irregolare e pesante.
«Tu conosci l’amore e Kobayashi Shou non ti ama».
Perché le parole di Akaashi
gli tornavano in mente ancora? Perché non volevano lasciarlo? Forse perché era
vero? Perché conosceva l’amore? Perché l’amore non era violenza. E quella di Shou era violenza? Non glielo aveva forse permesso lui? O
era stato il legame? Il legame li aveva uniti, che cosa poteva farci lui?
«Tu conosci l’amore e Kobayashi Shou non ti ama».
Ma lui non voleva, non voleva quella cosa, non voleva
essere preso da Shou in quel modo, sentirsi una
marionetta nelle sue mani, non voleva lasciar andare Kuroo
e Akaashi! Voleva la sua vita, voleva i suoi affetti,
voleva tornare a giocare per il gusto di farlo e non solo perché a Shou piaceva, voleva poter uscire senza doverlo avvisare e
dirgli costantemente dove fosse. Quella non era preoccupazione, quella era
ossessione. Voleva tornare a respirare.
E voleva fermarlo, ora, in quel momento, mentre ancora
gli stava addosso e sentiva il suo respiro pesante e i suoi occhi pieni di
lussuria, come quelli di un animale sulla preda. C’era un piacere sadico in Kobayashi, nel vedere Bokuto così
indifeso e per la prima volta anche Koutarou lo stava
realizzando.
«Kobayashi
Shou non ti ama».
«Basta!».
Le mani di Bokuto
afferrarono Shou per le spalle: il giocatore di
basket era più alto e forte di lui, ma Koutarou aveva
così paura in quel momento che l’adrenalina pareggiò i conti. Kobayashi lo guardò così risentito che il ragazzo pensò che
stavolta gli avrebbe davvero fatto male. Ebbe paura, pensò di lasciar perdere
tutto - forse se si fosse scusato, se gli avesse fatto fare quello che voleva,
tutto sarebbe tornato a posto e sarebbero stati di nuovo bene.
Ma erano mai stati bene? Bokuto
guardava i segni che Kobayashi aveva sul viso e si
chiedeva che cosa avesse fatto in quei mesi: Kuroo e
soprattutto Akaashi non erano persone violente eppure
Shou aveva detto che erano stati loro a colpirlo… Per
arrivare a tanto, doveva esserci un motivo enorme. E Bokuto
lo sapeva, lo sapeva che era per via dei segni che Keiji
gli aveva visto addosso, per il fatto che si era allontanato, perché sin
dall’inizio gli avevano detto che quella storia non era sana, che qualcosa non
andava. Sapeva che lo avevano fatto per lui, ma lo stava realizzando davvero
solo in quel momento.
Quella realizzazione gli fece trovare le forze per
dare una spinta a Shou abbastanza intensa da
toglierselo di dosso. Il ragazzo cadde per terra, a lato del divano, e Bokuto poté rimettersi in piedi. Si tirò su i pantaloni,
che Shou gli aveva sfilato per metà, e lo guardò
senza sapere che cosa fare.
«Basta», ripeté, come un disco incantato «Basta».
«Hai deciso di lamentarti anche tu ora?». Kobayashi cercava di mostrarsi ancora sfacciato, come se
avesse tutto sotto controllo, ma quella reazione di Koutarou
aveva sorpreso anche lui. «Vedi che cattiva influenza hanno quelli lì su di te?».
«Quelli lì, come dici tu, sono i miei migliori amici!
Le persone che più amo al mondo! Loro… loro...Voglio andare via, devo andare
via».
Kobayashi rise.
«E dove vorresti andare?».
«Ovunque sia lontano da te. Mi spaventi, non voglio
più vederti, tu… tu mi hai fatto del male». Non seppe perché, ma Bokuto aveva cominciato a piangere. Si sentiva così male
dentro e s’era reso conto di aver represso tutto, fino a quel momento: perché
era stato tanto stupido? Perché gli aveva permesso tutto ciò? Sapeva il perché
e si sentiva ancora più male.
«Vai via adesso e andrai via per sempre. Te lo giuro, Koutarou, il nostro legame si spezzerà e sarai di nuovo
solo. Ricordi com’eri solo quanto ti ho trovato? Solo l’unico che possa amarti,
l’unico! Dove andrai? Da quel Kuroo? O magari da Akaashi, che non ti ama? Gli andrai dietro come un
cagnolino? Ti accontenterai di questo? Sei sicuro che dopo quello che ho fatto
loro stamattina vorranno avere ancora a che fare con te?».
Koutarou sussultò: e
se davvero non avessero voluto più parlargli? Erano stati pazienti, avevano
cercato di tirarlo fuori da una situazione pessima e lui non gli aveva dato
ascolto. Che cosa avrebbe fatto se ora non avessero voluto più avere a che fare
con lui?
«Tu conosci l’amore».
Non disse più nulla, lasciò che quelle parole di Akaashi lo illudessero di avere ancora una speranza con
loro. Voleva credere per una volta di non essere in ritardo, di non aver scelto
e sbagliato per sempre. Di non stare per perdere tutto. Aveva una sola
certezza, in quel momento. Voleva allontanarsi da Kobayashi.
Non sapeva per andare dove o verso che cosa, ma tutto quello che aveva nascosto
dietro il legame, dietro l’amore che comunque provava per lui, ora era uscito
fuori e non sarebbe stato in grado di tirarlo di nuovo dentro.
Non disse più nulla, Koutarou.
Solo, raccolse la sua maglietta, finita per terra nella foga del momento, si
vestì e voltò le spalle a Shou. Lo sentì gridare,
mentre si rimetteva in piedi, lo sentì dire che lasciandolo sarebbe stato
perduto, che nessuno lo avrebbe amato come lui, che era suo diritto averlo
perché erano compagni; lo sentì dire che il legame si sarebbe spezzato e che
avrebbe fatto malissimo e sarebbe stata solo colpa sua. Più Shou
gridava contro di lui, più Koutarou piangeva, ma non
si fermava - tremava, aveva paura ma le sue gambe continuavano ad andare
avanti, verso la porta e poi in strada. Aveva dimenticato che era ancora giorno
e la luce seppe di puro e di bene e di una libertà che a Bokuto
non era stata concessa da troppo tempo.
Prese a correre mentre ancora Kobayashi
gli gridava dietro. Prese a correre e per un po’ ebbe la sensazione che il
compagno gli stesse correndo dietro, ma non si voltò a controllare. Corse
finché non fu stanco, finché non fu solo, finché non si sentì libero.
Akaashi non riuscì a
trattenere un sussulto mentre Kuroo disinfettava un
taglio che aveva poco sotto la nuca - un brivido lo percorse per il bruciore e
il freddo del liquido e chiuse gli occhi cercando di rilassarsi.
«Ho mandato un messaggio a Kenma,
per informarlo della situazione, ma non me la sono sentita di chiedere a lui di
darci una sistemata», disse Tetsurou, quasi fossero
delle scuse per il fatto che non aveva davvero idea di come si curassero dei
tagli.
«Non è grave come sembra», minimizzò Akaashi - voleva solo che finissero quanto prima così da
potersi stendere su una qualche superficie morbida e riposare. Erano a casa di Kuroo: fortunatamente in quei giorni i suoi genitori erano
fuori per lavoro, così avevano potuto semplicemente fermarsi lì, senza
allarmare nessuno o dover dare spiegazioni.
«Sarà quello che dirò domani a Kenma,
quando vedrà i miei lividi», sospirò Kuroo -
immaginava già lo sguardo preoccupato e poi lievemente arrabbiato che gli
avrebbe rivolto l’Alzatore, fosse solo per il fatto che avrebbe dovuto
avvisarlo di come Kobayashi lo aveva conciato.
«Sei sicuro che posso restare qui, piuttosto? Non
vorrei davvero disturbare...».
Kuroo sistemò un
grosso cerotto sul taglio e posò ovatta e disinfettante sul ripiano più alto
del mobile del bagno. Poi gli sorrise con gentilezza e Keiji
pensò che era una delle prime volte che quel gesto appariva dolce e al contempo
tanto serio. A pensarci, non aveva mai passato così tanto tempo da solo con il
capitano della Nekoma e se l’idea in sé gli avrebbe
provocato un grosso mal di testa, doveva ammettere che il ragazzo che aveva
davanti stava mostrando più sfaccettature di quante ne avesse fino a quel
momento conosciuto. Non era solo il compagno di burle di Bokuto
o un avversario temibile sul campo di pallavolo; era anche premuroso e serio e
accorto - dopotutto, era contento di averlo conosciuto meglio.
«Puoi restare quanto vuoi. Non c’è alcun problema
se-». Kuroo si fermò, bloccato dalla suoneria del
proprio cellulare. Quando lo raggiunse, il nome di Bokuto
sul display lo fece sudare freddo.
«Koutarou?», chiamò, rispondendo alla telefonata - aveva
improvvisamente paura che quella chiamata fosse una conseguenza di ciò che lui
ed Akaashi avevano fatto: che cosa avrebbe impedito a
Kobayashi di continuare a far del male a Bokuto una volta andato via? Che cosa avevano fatto?
«Sei a casa tua, Tetsurou?». La voce era
tremolante, sembrava che il ragazzo stesse piangendo. Kuroo
avrebbe voluto gridare. Avevano sbagliato tutto, avevano sbagliato tutto ancora
una volta e di nuovo era Bokuto a farne le spese.
«Sì, sì, sono a casa mia, che cosa succede? Hai una
voce-».
«E Akaashi?
Akaashi è con te? Tetsurou,
Akaashi è con te?». Ora la voce
mostrava urgenza, strideva nel suo grido strozzato e faceva ancora più paura a Kuroo.
«S-sì anche lui è qui. Che cosa sta succedendo, perchè-?».
«Vengo da te».
Kuroo si ritrovò
da solo, col rumore intermittente di fine chiamata, senza aver minimamente
capito che cosa fosse successo. Gli occhi di Akaashi
gli stavano addosso, interrogativi, cercando di afferrare qualcosa di ciò che
aveva detto Bokuto, ma la verità era che Tetsurou stesso aveva compreso ben poco. La voce dell’amico
era parsa a dir poco sconvolta e lui non era stato in grado di farsi dire che
cosa gli fosse successo - l’idea che Kobayashi avesse
sfogato su di lui la frustrazione per il loro attacco era qualcosa di talmente
probabile che Kuroo non riuscì a non pensare che il
ragazzo stesse scappando, che probabilmente cercasse protezione.
«Ci-ci raggiunge qui», sussurrò, ricordando che Keiji aspettava una sua spiegazione. Poi si lasciò cadere
sul divano del soggiorno e si prese la testa tra le mani: perché era stato
tanto ingenuo da pensare che una semplice scazzottata avrebbe risolto tutto?
Perché aveva creduto che stesse a lui, a loro mettere la parola fine a quella
storia? Neanche il fatto che Bokuto li stesse
raggiungendo, che in qualche modo fosse riuscito, almeno momentaneamente, a
divincolarsi dalla presa di Kobayashi gli dava
speranza. Lo sentiva piangere, lo immaginava tremare e tutto il resto spariva.
Non si dissero più nulla Kuroo
ed Akaashi per tutto il tempo in cui attesero
l’arrivo di Bokuto. Kuroo sembrava
entrato in una sorta di trance che gli impediva qualunque tipo di movimento -
non s’era spostato dal divano su cui era crollato ed ora, con la testa tirata
all’indietro, fissava il soffitto privo di qualunque emozione. Akaashi aveva imparato perfettamente la disposizione delle
stanze che componevano la casa dell’amico: ad eccezione di quella dei genitori,
le aveva percorse tutte, salendo e scendendo le scale un’infinità di volte
perché il tempo passasse più veloce e sostando con maggiore insistenza della
stanza di Kuroo, che dava sulla strada.
Il sole ormai era tramontato e l’alone di luce vago,
che ancora lasciava, tingeva il cielo in lontananza di un colore che
abbracciava tutte le sfumature dall’azzurro all’arancione. In quello scenario Keiji cercava la figura di Bokuto
- sapeva che sarebbe arrivato a momenti, sapeva che sarebbe sbucato
dall’angolo, magari appena avesse voltato lo sguardo e la sua figura, prima
imprecisa e poi sempre più dettagliata, si sarebbe avvicinata alla casa ed
avrebbe bussato e lui e Kuroo sarebbero tornati a
vivere di nuovo. Per questo tornava in quella stanza - ad ogni giro impiegava
sempre minor tempo per tornarci, tanto che, alla fine, s’era deciso a restare
semplicemente lì, alternando lo star in piedi davanti alla finestra, al sedersi
sul letto poco distante: doveva ammettere che il petto gli faceva male e star
disteso in qualche modo aiutava.
Doveva essersi distratto quando sentì il campanello di
casa risuonare. Akaashi non aveva idea di quanto
tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva controllato la strada dalla
finestra, ma a quel che pareva doveva essere stato sufficiente a Bokuto per apparire dall’angolo e percorrere tutto il
tragitto fino alla porta di casa.
Per un istante l’alzatore trattenne il fiato e finse
di non essere certo che fosse Koutarou per non
restare deluso nel caso si fosse sbagliato. Stette in silenzio, sulla soglia
della camera, pronto a scattare nel corridoio non appena avesse riconosciuto la
voce dell’amico.
«Koutarou», lo sentì chiamare da Kuroo
- l’altro non rispose, ma per allora Akaashi s’era
sporto abbastanza, dalla scala, da vedere il suo compagno di squadra
abbracciare il capitano della Nekoma, stringendolo
forte e nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. Per quanto anche lui avesse
voluto stringerlo in quel modo, Keiji non se la sentì
di interrompere quel momento - era qualcosa che apparteneva solo a loro, in cui
lui non aveva alcun ruolo e per questo fece qualche passo indietro, tornando
sul piano e poi nella stanza ed attese, sdraiato sul letto di Kuroo, che i due amici avessero finito. Sorrideva, Akaashi, e piangeva.
Al piano di sotto, ci volle un po’ prima che Tetsurou riuscisse fisicamente a lasciar andare Koutarou. In quell’istante stava realizzando davvero quanto
gli fosse mancato l’amico, quale violenza fosse stata quella che li aveva
tenuti separati per così tanto tempo, privandoli dell’affetto che nutrivano
l’uno per l’altro, del calore che si trasmettevano.
«Mi dispiace così tanto, Tetsurou,
così tanto… Io… io davvero… io...».
Bokuto non sapeva
da dove cominciare: probabilmente non riusciva ancora a realizzare del tutto
che cosa fosse successo in quei mesi passati con Kobayashi
- il cambiamento era stato così lento e graduale con lui, aveva perso piccoli
pezzi di sé lungo la strada, briciola dopo briciola, concessione dopo
concessione senza rendersene conto… Ora tutto gli piombava addosso, come un
unico enorme pezzo mancante e poteva ancora tenere così stretto Kuroo? Avevano ancora qualcosa loro due?
«Va tutto bene, sei qui ora, è questo che conta».
Kuroo non sapeva
che cosa dire: in che modo doveva trattarlo, in che modo doveva parlargli? Era
ancora il suo Bokuto, era ancora la persona che aveva
lasciato, dopo quei mesi? L’aveva davvero di nuovo tra le sue braccia?
«Che cosa è successo?». Fu la domanda più banale, la
più diretta. Bokuto lo lasciò per guardarlo negli
occhi, poi si sedette sul divano poco distante e sospirò: non sapeva da dove
cominciare.
«Kobayashi mi ha
raccontato...», esitò, perché guardandolo bene, ora riusciva a scorgere gli
stessi segni che Shou aveva in viso anche sul volto
di Koutarou, con la differenza che ora quei segni gli
provocavano una reazione completamente diversa - sentiva dolore, perché
qualcuno a cui aveva tenuto, a cui forse ancora teneva in qualche modo, aveva
ferito il suo migliore amico. Come doveva reagire a questa cosa? Era spezzato.
«Avevi detto che non dovevamo intrometterci. E noi
abbiamo rispettato questa cosa, ma abbiamo sbagliato, Koutarou
- non avremmo mai dovuto acconsentire, avremmo dovuto insistere nel farti
vedere il male che Kobayashi ti stava facendo… Mi
dispiace se abbiamo reagito così tardi, mi spiace se è arrivato a farti del
male, fisicamente del male, prima che noi...».
Kuroo smise di
parlare perché Bokuto di fronte a lui aveva preso a
piangere. Il ragazzo della Fukurodani non ne era del
tutto consapevole, ma più l’amico parlava più le lacrime si accumulavano nei
suoi occhi e lungo le sue ciglia finché non poté fare altro che lasciarle
scendere lungo le guance. Tetsurou non aveva idea di
dove avesse sbagliato, di quale delle sue parole avesse effettivamente causato
quella reazione.
«Non c’è- Non c’è nulla per cui devi dispiacerti. Tu-
Dio, tu non hai idea di quanto sia stato importante, di quanto abbia
significato per me quello che avete fatto, quello che… Sono io a dovermi scusare, per tutte le volte
in cui mi sono allontanato, gridando e sbattendovi la porta in faccia quando,
per tutto questo tempo, avevate ragione ed io… L’ho realizzato solo ora, solo
ora che lui...».
Abbassò lo sguardo, giocando nervosamente con la
maglietta che non aveva più cambiato da quando era andato via da scuola.
L’improvviso ricordo di Shou che gli stava addosso lo
aveva fatto desistere dal continuare e lo aveva reso nervoso ed insicuro: aveva
la sensazione di sentire ancora il suo peso bloccarlo ed il suo respiro
marchiarlo e davvero non avrebbe voluto sentire tutto quel panico, tutto
all’improvviso quando prima le cose gli erano sempre parse andare bene e…
«...Koutarou? Koutarou!».
Le mani di Kuroo sulle sue
spalle erano dolci ma salde e lo scuotevano appena. Bokuto
s’era perso nei suoi pensieri, aveva per qualche istante completamente
dimenticato l’amico seduto accanto a lui.
«Cosa ti ha fatto?». Bokuto
lo guardò sgranando gli occhi - niente, niente, non gli aveva fatto niente…
niente… niente che lui non volesse… niente…
«Sono andato via». Era la verità, era andato via
«Abbiamo litigato e sono andato via prima che- non mi ha fatto nulla».
Kuroo lo guardò a
fondo, senza permettere che i loro occhi perdessero gli uni gli altri e aspettò
qualche istante prima di decidere che l’amico non gli stava mentendo, che,
nonostante fosse sconvolto, avesse detto la verità e davvero Kobayashi non gli aveva fatto nulla. Non riuscì a reprimere
l’istinto di abbracciarlo ancora, forse per compensare tutti gli abbracci che
aveva mancato, quando non gli era stato accanto e tutto quello di cui Bokuto aveva avuto bisogno era una sua presenza più forte.
«Non ti farà mai più nulla, Koutarou»,
gli sussurrò tenendolo ancora stretto - Bokuto annuì
sulla sua spalla.
«Sono io a promettertelo, Tetsurou».
Stettero così ancora per un po’, semplicemente
abbracciati. Di tanto in tanto, si scambiavano qualche parola: Bokuto smise di ripetere quanto fosse dispiaciuto e
raccontò di come era scappato, senza voltarsi, di come s’era sentito rinascere
nel farlo, anche se aveva ancora il legame, anche se era certo che quella
storia non sarebbe finita così. Kuroo lo ascoltava,
senza lasciarlo, annuiva e gli ricordava di non essere solo, che stavolta lui
ci sarebbe stato e che Kobayashi non si sarebbe mai
più avvicinato a lui.
«Akaashi…?», chiese dopo
qualche istante di silenzio Bokuto - Kuroo sorrise: da così vicino poteva vedere come i suoi
occhi avessero preso a brillare di nuovo mentre pronunciava il suo nome.
«È di sopra, probabilmente sta riposando nella mia
stanza».
«Credi che possa salire…?».
Kuroo non poté
credere a quello che gli stava chiedendo: davvero aveva bisogno di sapere se
poteva andare da Akaashi? Lui che non faceva altro che
stargli intorno e cercare di farsi notare da lui? Lo prese per le spalle,
mettendolo in piedi e gli sorrise di nuovo, prima di spingerlo su per le scale
- forse Bokuto non poteva saperlo, ma Keiji aspettava quel momento tanto quanto lo aveva
aspettato lui.
Al piano di sopra, l’alzatore della Fukurodani si trovava in quello strano stato tra sonno e
veglia in cui tutto appare ovattato e leggero e le cose che si pensano
scompaiono poi, annullate dal sonno. E pensava a Bokuto
Akaashi, senza soffermarsi su nulla di preciso ma con
una tranquillità che non provava da tanto. Saperlo con loro, saperlo al sicuro
anche solo per un po’ gli dava una gioia che quasi non riusciva a spiegarsi,
sproporzionata rispetto alla realtà eppure bellissima.
Non si accorse di Bokuto,
fermo sulla soglia della stanza, finché non fu questi a parlare, palesandosi.
Il capitano era rimasto qualche istante semplicemente ad osservarlo mentre
quello riposava, e s’era perso lungo il ritmico movimento del colpo tra un
respiro e l’altro - non lo aveva guardato mai con tanta disinteressata
attenzione, gli pareva perfetto.
«Dormi?», chiese senza sapere in quale risposta
sperare.
«Affatto».
Akaashi si tirò su,
mettendosi seduto e immediatamente una smorfia di dolore apparve sul suo viso:
aveva dimenticato i lividi per i colpi che aveva incassato e s’era alzato
troppo velocemente, ma cercò di riprendersi quanto prima perché Bokuto non si preoccupasse troppo. Si guardarono per
qualche istante senza dire nulla, improvvisamente in imbarazzo come davvero non
erano mai stati prima.
«Stai… umh, stai bene?», si
espose Keiji - perché non riusciva a parlargli?
Ricordava il loro ultimo incontro, ricordava le grida e ricordava precisamente
che cosa aveva inteso quando gli aveva detto che Kobayashi
non lo amava. Solo, non sapeva se Bokuto avesse
compreso allo stesso modo le sue parole.
«Dovrei chiederlo a te!», si fece avanti Koutarou, indicandolo «Kuroo mi
ha raccontato che cosa è successo… Come ti senti?».
Akaashi alzò le
spalle senza sapere che cosa dire: in realtà, di cose da dire ne aveva tante,
ma sarebbe equivalso a tradirsi, ad ammettere che il motivo per cui aveva
attaccato Kobayashi era il più semplice e antico del
mondo, e non era ancora del tutto certo di poterlo fare.
«Sai… Non devi più preoccuparti per me, adesso».
Bokuto era entrato
nella stanza ormai, una stanza che conosceva bene, e camminando aveva raggiunto
la finestra alla quale Keiji lo aveva atteso tanto,
così da dargli le spalle - voleva parlargli, voleva dirgli tutto ciò che aveva
taciuto in quei mesi, ne sentiva il bisogno viscerale. Eppure allo stesso tempo
non aveva il coraggio di farlo guardandolo negli occhi: ripeteva a se stesso
che quello sarebbe stato il primo passo per tornare se stesso, spontaneo e
diretto, felice, ma in quel momento era ancora troppo fragile, ancora troppo
insicuro e gli occhi di Keiji gli avrebbero scavato
troppo dentro.
«Kobayashi…?». Akaashi non voleva credere che fosse tutto finito, non
voleva sperare tanto e sapeva, con logica, che non era così facile uscire da
una simile situazione.
«Credo di averlo lasciato. Sento ancora il suo legame,
e Dio fa malissimo, ma credo di
averlo lasciato, lasciato davvero. ...Sai, ci sono cascato davvero come uno
stupido». Non voleva piangere, Bokuto, davvero non
voleva, non era il caso, non era il momento, eppure… «Era il mio compagno, capisci? La persona che doveva
amarmi più al mondo: come potevo pensare che… Non avrebbe dovuto essere...».
Riprese fiato, Bokuto, e
dandogli ancora le spalle non poté vedere l’espressione sorpresa e piena di
dolore di Keiji - perché gli stava parlando a quel
modo? Come se dovesse per qualche ragione giustificarsi? Pensava forse che
gliene facesse una colpa? O che credesse che se l’era cercata quella relazione?
«Tu non immagini in che stato mi trovavo quando è
comparso il legame, non hai idea di cosa sia significato per me avere sul serio
un compagno quando-».
«Io non ti sto accusando di nulla!».
Akaashi s’era messo
in piedi, sempre più sorpreso dal tono dell’amico - sperava che Koutarou si voltasse a guardarlo, che in qualche modo gli
facesse capire perché improvvisamente si fosse messo tanto sulla difensiva
anche con lui che da sempre era stato il suo alzatore. Ma Bokuto non si voltò.
«So cosa hai potuto pensare - lo so perché è quello
che sto pensando anche io adesso. Che sono stato uno stupido, che ho voluto
illudermi di vedere qualcosa che non c’era… Ma Shou
era buono con me, davvero buono e tu...».
Keiji sentì
chiaramente la testa girargli: lui...cosa? Cosa c’entrava in quella storia?
«Ho sempre sperato che fossi tu il mio compagno», le lacrime ormai scendevano
senza pudore sul volto di Koutarou «Ci speravo, ci
speravo, ci speravo davvero e non sapevo come… come fare per… dirti…», prese
ancora un respiro «Era così palese eppure tu eri tanto distante - sei sempre
così distante, irraggiungibile per me, non importava quanti sforzi facessi. E Shou era lì, era perfetto
e sapeva che cosa sentivo, cosa provavo per te… Mi sono aggrappato a lui,
credo… Non so perché l’ho fatto, non so perché gli ho concesso tutto questo,
non sono uno stupido, eppure… Devi credermi Akaashi, Shou non è sempre stato così, non credevo che...».
Bokuto s’era
finalmente voltato a guardare l’amico. Non sapeva che cosa stesse dicendo, in
che modo confessare i suoi sentimenti per Akaashi
potesse entrare in quella sorta di scuse che stava facendo per se stesso e Kobayashi - non sapeva neanche perché si stesse scusando o
stesse giustificando una persona che forse non lo aveva mai davvero amato come
credeva. Quello che vide, quando si voltò, fu l’espressione più distrutta che Keiji avesse mai avuto, il volto teso, pallido e stravolto.
Akaashi stava realizzando che l’affetto che aveva preso
a provare per Bokuto, che l’amore che aveva preso a
sentire per il suo capitano non erano più qualcosa di insensato ed
irrealizzabile, ma, al contrario, erano ricambiati e il non essersi fatto
avanti, il non averlo capito prima era stato precisamente ciò che aveva spinto Koutarou a farsi del male, a permettere che qualcuno
potesse ferirlo. Tutto perché non era mai stato in grado di parlargli.
«Ero solo e Shou era lì e in
qualche modo devo essergli grato per avermi risollevato - quello che è successo
poi, quello che ha fatto… io lo so che è sbagliato però… Lui non voleva farmi
del male, davvero. Non all’inizio, almeno… E non so perché ma mi vergogno così
tanto di me stesso, di quello che sono diventato e-».
Smise di parlare, Bokuto,
perché Akaashi non aveva saputo aspettare oltre:
aveva annullato la distanza che li separava e lo aveva baciato - un bacio
semplice, leggero, a fior di labbra, che durò solo qualche istante, troppo poco
perché Koutarou imparasse a conoscere il suo sapore,
ma abbastanza perché fosse consapevole di ciò che rappresentava.
«Mi spiace se non sono mai stato in grado di mostrarti
quello che provo… Mi dispiace se per colpa mia tu...». Ora capiva, Akaashi; capiva perché Bokuto
s’era lasciato prendere così tanto da quello che Kobayashi
poteva offrirgli: aveva semplicemente pensato che lui invece non avrebbe mai
potuto fare altrettanto - s’era sentito debole ed insicuro, fragile e
manipolabile solo perché lui non era stato in grado di vedere e capire che cosa
provava. C’era un limite agli sbagli che poteva fare con Koutarou?
Bokuto si sporse e
lo abbracciò forte, prendendo il proprio petto contro il suo e stringendogli la
schiena con le braccia, affondando il viso nell’incavo del suo collo, in un
contatto così personale e diretto, così intimo, che mai avrebbe immaginato di
poterlo fare, se Keiji non lo avesse appena baciato.
Stavolta non c’erano dubbi su ciò che quel gesto significava, non esistevano
“se” o “ma” da giustificare - inspiegabilmente, per qualche ragione che Koutarou non sarebbe mai stato capace di comprendere, Akaashi Keiji lo aveva appena
baciato e lo stava tenendo stretto; per qualche miracolo, ricambiava i suoi
sentimenti.
«Non avrei mai voluto farti del male, o renderti
debole in qualche modo...», sussurrò l’alzatore, sentendo il calore del suo
corpo come fosse il proprio.
«Tu mi hai reso forte, Keiji. Non fai che rendermi
forte». Bokuto piangeva, la vergogna che in qualche
modo bruciava ancora ma sempre di meno, sempre più in basso, quasi a
scomparire. Non riuscì a dirgli che aveva pensato alle sue parole mentre
trovava il coraggio di lasciare Kobayashi, mentre
scopriva di essere forte abbastanza da lasciarlo andare e che anche senza un compagno non era necessariamente solo.
Le sue parole gli avevano dato speranza, lo avevano retto quando aveva davvero
rischiato di cadere per non rialzarsi più.
Akaashi continuava a
sentirsi in colpa e non riusciva a staccarsi da Bokuto,
a lasciarlo andare, per paura di perderlo di nuovo e che tutto quello potesse
sfumare, come sfumano i sogni aprendo gli occhi: lo teneva lì, con gli occhi
chiusi e senza muoversi, sussurrando appena - non importava se Koutarou non lo sentiva, la sua presenza era sufficiente.
Rimasero svegli probabilmente ancora per molto tempo,
stesi sul letto di Kuroo senza dire nulla. Bokuto non aveva idea di cosa provava in quel momento: il
legame faceva ancora male da morire eppure allo stesso tempo il calore di Akaashi accanto leniva quella sofferenza – forse avrebbe
dovuto parlare, spiegarsi meglio, chiarire la rispettiva posizione: cos’erano
diventati? Cosa era successo? Ma Akaashi non si aspettava
nulla di diverso, in fondo: nella sua inesistenza, il loro legame non era mai
stato tanto forte come in quel preciso istante e non avrebbe chiesto nulla di
più.
Kuroo stava
prendendo sonno accucciato sul divano quando sentì bussare alla porta. Si riscosse,
confuso, e guardò l’orario in uno stato di completo disorientamento: ormai era
sera e davvero non aveva idea di chi potesse essere alla porta ad un orario
simile. Mentre si avviava ad aprire, si chiese se l’arrivo di Koutarou l’avesse magari soltanto sognato e in realtà fosse
proprio lui ad attenderlo, ma si ritrovò davanti l’ultima persona che poteva
aspettarsi. Tsukishima Kei.
Il Centrale della Karasuno
lo squadrò dalla testa ai piedi con sguardo attento e allo stesso tempo
vagamente cinico.
«Posso entrare?», chiese poi - nonostante tutto,
doveva riconoscergli Kuroo, non si poteva dire che
fosse una persona maleducata.
«Certo, accomodati», gli rispose, spostandosi di lato
e lasciandolo passare.
«Con permesso».
Tsukishima si guardò
intorno cercando di capire se fossero soli e seguì il padrone di casa quando
questi tornò in soggiorno, sedendosi nuovamente sul divano e invitandolo a fare
lo stesso. Tetsurou, da parte sua, era completamente
sveglio ormai e estremamente curioso di sapere per quale motivo il suo compagno, la stessa persona che aveva
detto di non voler avere nulla a che fare con lui, ora si trovasse a casa sua. Kei, invece, non aveva idea di come cominciare un qualunque
discorso - riusciva solo a pensare al fatto che avere a che fare con Kuroo fosse completamente diverso dall’avere a che fare con
Yamaguchi. E ovviamente molto più complicato.
«Chi ti ha conciato così?». Smise di farsi domande e
decise di essere diretto.
«Un ragazzo del club di basket - stava infastidendo un
amico».
«Quindi tu sei il tipo di persona che attacca briga
per una stupidata?».
«E a te cosa importa?».
Tsukishima non
intendeva essere cattivo e Kuroo non voleva sembrare
risentito fino a quel punto - eppure c’era tensione fra di loro, l’avevano
sentita dal momento in cui il Centrale aveva messo piede in casa e non si
trattava di semplice imbarazzo. Dopotutto, Kei si
sentiva indifeso e fragile. Dopotutto, Tetsurou era
stato ferito.
Il ragazzo della Karasuno
sospirò, sistemandosi gli occhiali sul naso - quella situazione lo sfiancava
più di quanto era disposto a concedersi e una parte di sé stava cominciando a
chiedersi perché, alla fine, avesse deciso di andare davvero da Kuroo.
«Bokuto Koutarou
è ritrovato in una brutta situazione con quello che sarebbe dovuto essere il suo
compagno». Tetsurou
aveva abbassato la testa, ma deciso di essere sincero «Ho cercato di toglierlo
dai guai prima che le cose precipitassero».
Kei annuì -
forse era stato affrettato nel giudicarlo.
«Tu perché sei venuto qui?».
«Volevo vedere come stavi - ho sentito lo scontro».
Kuroo inclinò di
poco il capo, curioso: già, era vero - i compagni potevano sentirsi in quel
modo quando ad uno dei due succedeva qualcosa. Non aveva affatto pensato a cosa
sarebbe potuto succedere a Tsukishima mentre se la
stava vedendo con Kobayashi, in quel momento aveva
quasi dimenticato di averlo un compagno. Eppure, Kei
lo aveva sentito e alla fine aveva deciso di andare da lui.
«Non avevi detto che non ti importava? Hai cambiato
idea, forse?». Volle provocarlo, stavolta con consapevolezza: aveva bisogno di
capire a che gioco stava giocando, quanto poteva esporsi - non si sarebbe fatto
cogliere nuovamente impreparato.
«Lo avevo detto, è vero». Anche Tsukishima
sentiva il bisogno di chiarire davvero quella situazione: ci aveva pensato
durante il viaggio verso Tokyo e, per quanto non si sarebbe mai sentito pronto
per una conversazione del genere, sapeva anche che non poteva più rimandarla.
«Tutta questa storia dei compagni… Non ho mai sentito il bisogno di trovare il mio. L’equilibrio
in cui sono in questo momento mi basta e se fosse dipeso da me non avrei
aggiunto niente di più alla mia vita». La sincerità, brutale e diretta, era il
solo modo in cui Tsukishima sapeva comunicare: non
avrebbe cercato un’altra via per Kuroo, non lo
avrebbe fatto per nessuno. «Tuttavia… il legame ora esiste e mi hanno detto che
questa cosa non deve per forza sconvolgere la mia vita, quindi sono venuto qui.
Per sapere se stavi bene».
Kuroo gli si
avvicinò, fino a che i loro volti quasi si sfiorarono: Kei
poteva essere stato diretto, ma a lui non era ancora del tutto chiaro che cosa
significasse questa sua decisione. Restò a guardarlo, occhi negli occhi, e
neanche Tsukishima si tirò indietro – per quanto
sarebbe stato facile usarla come scusa, doveva ammettere che la sua presenza
così vicina non lo infastidiva troppo. Si chiese come sarebbe stato baciarlo.
«Questo significa che sarai il mio compagno ora?».
«Questo significa che non voglio ignorarti». I loro
respiri si scontravano e lasciando le rispettive labbra, le parole di uno
toccavano fisicamente il viso dell’altro. «Posso sentire quello che fai e posso
sapere quello che provi. E dopotutto, mi sono reso conto di non essere così
pronto a far spezzare il nostro legame. Credevo… credevo che fosse qualcosa di
imposto, qualcosa che mi calzava stretto, come un vestito troppo piccolo. Ma
sono io a scegliere».
Tetsurou piegò di
nuovo il capo sorridendo – a sentirlo parlare, Tsukishima
Kei doveva essere la persona meno romantica del
mondo, eppure in qualche modo capiva il suo ragionamento: non era tipo da farsi
trasportare dagli eventi e sentiva, anzi, il bisogno forte di controllare
quello che gli stava intorno, di essere in grado di prevedere ciò che sarebbe
successo. Un compagno era una falla
in questa logica e lui aveva bisogno di tempo per adattarsi. Probabilmente, era
l’ultima delle persone che Kuroo avrebbe chiesto come
compagno e tuttavia qualcosa in lui
lo attirava da sempre, lo spingeva a volerlo conoscere.
«C’è una cosa che però devi sapere», riprese a parlare
Kei.
«Oltre al fatto che pare io non abbia voce in capitolo
in queste tue scelte, intendi?», volle stuzzicarlo il capitano della Nekoma.
Tsukki lo guardò
sorpreso – non lo stava costringendo a fare nulla lui: quello era semplicemente
il suo modo di valutare la situazione e decidere per sé.
«I compagni
vengono prima di tutto e di tutti, o almeno così mi è parso di capire. Alle
volte sembrano annullare tutto quello che c’è intorno ed io non voglio che sia
così. C’è una persona, una persona che conosco praticamente da sempre, una
persona che verrà sempre prima di
tutto per me. Voglio che tu sappia che non mi allontanerai da quella persona
solo perché sei tu il mio compagno;
io… io voglio conoscerti e voglio capire che cosa mi lega a te, ma non lascerò
che la tua presenza distrugga il mio equilibrio o quello che provo per Tadashi. È
qualcosa che ci siamo promessi, qualcosa che anche il suo compagno capisce».
Kuroo si tirò
indietro, con aria seria e prese a studiarlo – per la prima volta Kei sembrava reagire in maniera sincera ed emotiva a
qualcosa. Quel Tadashi doveva essere qualcuno a cui
teneva molto, una di quelle persone che ci sono a prescindere, che restano per
tutta la vita – in un certo senso lo capiva, Tetsurou:
capiva il suo ragionamento, capiva quella garanzia che Tsukishima
gli stava chiedendo. In fondo, non era la più legittima delle richieste quella
di non farsi annullare dal legame, quella di mantenere affetti ed individualità
pur essendo una coppia?
«Se hai intenzione di allontanarmi da lui, di venire
prima di lui, di mettermi di fronte ad una scelta, sappi che non sarai tu a
vincere».
Era così determinato, così combattivo Tsukishima Kei, che Kuroo Tetsurou pensò che avrebbe
potuto innamorarsi della sincerità dei suoi sentimenti, della lealtà che nel
profondo provava per chi gli stava a cuore, anche se non era capace di
esprimerla, anche se sembrava sempre emotivamente distaccato da ciò che lo
circondava.
«Stamattina, Kenma mi ha
parlato di agàpe. Non avevo mai sentito questa parola,
ma da quel che mi ha detto, l’agàpe è il sentimento d’amore più puro ed incondizionato che
si possa provare per qualcuno, è amarlo al si sopra di tutto e di tutti e
soprattutto al di sopra di se stessi. Non so se riesci a capire che cosa
intendo, ma credo che questo Tadashi di cui mi parli
sia agàpe
per te, come Kozume Kenma è
sempre stato agàpe
per me. Non ti chiederei mai di scegliere perché so che cosa significherebbe
farlo. Loro saranno sempre al di sopra di tutto, compresi noi stessi, non è
così?».
Kei non sapeva
che cosa dire. Non s’aspettava una comprensione così perfetta, totale, delle
proprie parole; era, anzi, pronto a discutere e dibattere, a far valere le
proprie ragioni, a spiegare con sempre minore pazienza che il legame non
avrebbe determinato la propria vita o i propri sentimenti. E invece il suo compagno, la persona meno probabile con
cui legarsi, quello che gli aveva dato filo da torcere in allenamento
provocandolo, ora se ne stava lì davanti a lui con un sorriso abbozzato sul
viso e gli pareva essere la sola persona al mondo a poterlo capire tanto in
profondità. Tsukki pensò che avrebbe potuto amare il
modo in cui Kuroo Tetsurou
pareva essere in sintonia con lui.
Si sporse quel tanto che bastò a sfiorargli le labbra,
un gesto veloce e trascurabile, un suggello alla fine di quel discorso troppo
breve, troppo veloce, troppo giusto. Non gli avrebbe chiesto nulla? Davvero gli
sarebbe andata bene così? Cercò la risposta negli occhi limpidi di Kuroo che, sorpreso dal gesto, lo guardava senza fiatare,
con l’espressione più ingenua che potesse fare. Non c’era più malizia in quegli
occhi, non c’erano foschie né ombre, sembrava sincero e per chissà quale
scherzo del destino pareva essere perfettamente in grado di capire che cosa provava
Tsukishima. Era questo che intendeva Yamaguchi quando diceva che c’era un motivo per il legame?
Una ragione se aveva deciso di allargare i suoi orizzonti in quella direzione?
Per una volta, Kei volle
farsi trasportare dal sentimentalismo e illudersi che fosse così.
***
«Tsukishima sembra molto più
tranquillo da qualche giorno, vorrei davvero sapere come si sono risolte le
cose col suo compagno», borbottava Nishinoya accanto
a Tanaka ed Asahi.
«Forse se lo chiediamo a Yamaguchi
saprà darci qualche informazione in più», continuò l’amico, in qualche modo
anche lui interessato a sapere cos’era successo al loro primino.
«Avrà semplicemente parlato con quella persona e
chiarito la sua posizione», concluse Asahi, alzandosi dalla panchina su cui
stavano riprendendo fiato dopo una partita: il giorno dopo sarebbe cominciato
ufficialmente il Torneo di qualificazioni per i Nazionali ed erano nel bel
mezzo dello sprint finale di allenamento.
Asahi era felice per Tsukishima
e nel suo piccolo gli piaceva pensare che almeno un po’ fosse anche merito suo
se quella situazione pareva essersi risolta per il meglio – dopotutto, il
Centrale aveva ragione a pensare che, in parte, Azumane
fosse intervenuto per rimediare ai suoi errori: sapere che almeno qualcuno
aveva potuto guadagnare qualcosa dalle sue pessime scelte in fatto di legami
faceva bene, gli dava un briciolo di sollievo.
«Ehi, Asahi!», si sentì chiamare da Noya – si fermò subito, quasi fulminato: non voleva saltare
a quel modo ma non poteva negare a se stesso che, ogni volta che il suo
compagno lo chiamava, aveva la terribile paura che sarebbe stato per dirgli che
aveva deciso di lasciarlo, che stavolta era lui a scegliere e sarebbe stato
definitivo.
Quando però si voltò, Nishinoya
lo prese per i lembi dell’asciugamano di spugna che aveva al collo e lo tirò
dolcemente fino alla sua altezza per baciarlo – un bacio lento e lungo, ma
senza alcuna fame o bisogno, un bacio di quelli che potrebbero durare per ore
se non si avesse bisogno di respirare. I baci migliore di Nishinoya.
Quando lo lasciò andare, all’Asso pareva che tutto ciò che aveva intorno si
fosse messo a girare.
«P-per cos’era il b-bacio?», chiese, arrossendo quasi
fosse il primo che si scambiavano.
«Non posso dare un bacio al mio compagno?», finse di offendersi Noya. Poi
sorrise. «Smettila di preoccuparti, Asahi. Voglio che tutto sia come prima,
capisci? Ne ho bisogno».
Se non fosse stato davanti a tutta la squadra di
pallavolo, probabilmente Azumane avrebbe pianto a
quelle parole. Non s’era mai accorto di quanto avesse semplicemente bisogno di
sentirsi dire, in modo diretto e schietto, che potevano tornare ad essere
quelli di sempre, che la sua pena era scontata e la sua colpa perdonata. Che Noya non dubitava di loro, che lo amava ancora. Lo strinse
forte, incurante degli altri che ormai li fissavano più o meno consapevoli. Lo
strinse forte e quel contatto improvvisamente era così diverso dal solito, così
caldo e vero: non sapeva se si stava solo condizionando, ma gli parve di
stringerlo davvero per la prima volta dopo tantissimo tempo.
Poco distante, Tsukishima
stava fissando il cellulare con un’espressione indecifrabile. Yamaguchi, accanto a lui, era troppo discreto per leggere
che cosa lo aveva messo tanto in crisi, ma abbastanza curioso da chiedere se ci
fosse qualcosa che non andava.
«Kuroo», rispose Kei, rileggendo il messaggio «Dice di mettercela tutta
perché ai Nazionali vuole sfidarci. Dice che si aspetta questo ed altro dal suo
compagno».
Tadashi rise di
gusto – era contento di vedere finalmente Tsukki più
rilassato riguardo quella situazione: quando una paio di mattine prima Kei si era presentato improvvisamente a casa sua per
parlargli, aveva creduto fosse successo nuovamente qualcosa di spiacevole;
invece, l’amico gli aveva raccontato di come il capitano della Nekoma avesse capito da subito che cosa voleva da quel
rapporto e di come, anzi, si fosse addirittura trovato sulla sua stessa linea
di condotta. Aveva notato quanto Kei fosse molto più
a suo agio nel parlare di quella relazione e, poteva azzardarsi a pensare, gli
era addirittura parso di vedere una luce nuova nei suoi occhi, solo per un
istante.
«A quanto pare si diverte ancora a provocarti», notò,
finendo di sistemare le ultime cose nella sua borsa.
«Gli ho risposto che se li incontreremo sarà per
batterli», rise cattivo il Centrale, sistemandosi gli occhiali.
“Ci incontreremo di sicuro e sarà
la vostra ultima partita”.
«Sicuramente non si trattiene», commentò ridendo Yaku, quando Kuroo fece leggere a
lui e agli altri compagni di squadra l’ultimo messaggio che gli aveva inviato Kei.
«Mi spiace solo che saremo noi a vincere», fece con
aria da sbruffone Lev e Tetsurou
rise a quella ingenua sicurezza – quello spilungone gli ricordava troppo il
piccoletto della Karasuno.
Kenma, accanto a
lui, aveva l’aria stanca di chi non aspetta altro che tornare a casa e gettarsi
a letto: quel pomeriggio avevano sostenuto un’amichevole con la Fukurodani e tutti avevano dato il massimo – l’alzatore,
come sempre, era stato impeccabile e Kuroo non poteva
andarne più fiero. Guardandolo, si accorse che, pur sembrando completamente
perso nei suoi pensieri aveva uno strano sorriso sulle labbra, si sarebbe quasi
detto competitivo. Sorrise anche lui – dopotutto, era il primo a cui piacevano
le sfide.
Quando ebbero finito si sistemare la palestra, Kuroo raggiunse Bokuto che con
gli altri era gi uscito e li aspettava per salutarli:
era stato impressionante vederlo giocare in quell’amichevole – improvvisamente,
aveva avuto davanti il Koutarou di sempre, quello
iperattivo e pieno di risorse, dall’umore mutevole e dall’energia di almeno
dieci giocatori. Vederlo esultare per i propri punti o prendersela per i propri
errori gli aveva fatto lo stesso effetti ristoratore di un balsamo fresco dopo
una scottatura ed era abbastanza certo che Akaashi, accanto
a lui, avesse provato la stessa sensazione.
«Kobayashi?», chiese proprio
all’alzatore, un po’ in disparte rispetto al resto della squadra.
«Solo nella giornata di ieri lo avrà chiamato qualcosa
come venti volte. Koutarou ha sempre respinto le
chiamate, comunque. So che una parte di lui vorrebbe perdonarlo e forse senza
di noi sarebbe già tornato sui suoi passi: continua a dirmi che non è una
cattiva persona, che semplicemente non sa esprimere i suoi sentimenti come
dovrebbe». Akaashi era serio, parlava a bassa voce e
con tono calmo, quasi freddo, nello stesso modo in cui si legge una cartella
clinica.
«E il legame?». Kuroo era
preoccupato quanto lui, ma cercava allo stesso modo di non darlo a vedere –
negli scorsi giorni avevano avuto una comunicazione fitta e continua riguardo
le condizioni di Bokuto: andare via e rendersi conto
che la relazione in cui si trovava era malsana era stato il primo e più grande
passo per Koutarou, ma entrambi sapevano che non era
affatto finita e che anzi sarebbe stato estremamente facile per il ragazzo
ricaderci.
«È ancora molto forte e spesso fa male – di notte,
soprattutto, come se negli incubi di cui soffre si riversasse tutto il dolore.
Spesso, quando non sono con lui, mi chiama a telefono, spaventato, convinto che
Kobayashi sia ancora con lui, che possa farci del
male; altre volte invece le telefonate sono mute e allora sono io a dirgli che
va tutto bene e che è al sicuro e può parlarci di qualunque cose».
Tetsurou sospirò
annuendo: anche lui aveva ricevuto diverse chiamate da Bokuto,
più o meno nello stesso stato, ed aveva cercato in tutti i modi di
rassicurarlo, qualche volta correndo anche a casa sua – lui e Akaashi facevano in modo di essere sempre in contatto con
lui.
«Passerà, Keiji. Bisogna solo dargli tempo», cercò di incoraggiarlo –
e di incoraggiare se stesso.
«Io ho tutto il tempo del mondo: da qui non mi muovo».
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Anche la terza soulmate giunge a conclusione ^^ Ormai penso di
essermici abituata. Che dire? Stranamente, a questa storia sono rimasta più
legata che ad altre – le tematiche trattate mi stanno particolarmente a cuore e
non parlo solo dell’abuso emotivo (e fisico) che si può subire in una
relazione. Ci tenevo a dare una mia versione dell’agàpe,
dell’amore che lega due persone e che non deve essere necessariamente fisico o
romantico per avere importanza. Mai come in questo periodo della mia vita, mi
sono resa conto di stimare molto più l’agàpe e la philia che l’eros in sé e volevo dare una versione di
questo concetto in questa storia. Non si tratta di multishipping
o di threesome e spero si capisca: Kuroo e Tsukki in questo particolare
contesto sono e restano soulmate – tuttavia possono
scegliere perché i sentimenti non sono qualcosa di imposto e scelgono di non
perdere chi amano da prima e per primi. E credo dovrebbe essere qualcosa di
fondamentale in una relazione, avere persone che sono importanti per noi al di
fuori del nostro compagno e attraverso cui possiamo mantenere una certa
indipendenza pur restando legati ed innamorati. L’agàpe
è a prescindere e in modo disinteressato, non chiede nulla in cambio ed è puro:
probabilmente, dal mio punto di vista, è il massimo grado di amore a cui si
possa aspirare, senza che per questo l’eros o l’amore romantico siano sminuiti.
Volevo anche che la decisione
di Tsukki facesse da contraltare alla situazione in
cui, suo malgrado, è caduto Bokuto e in cui è
estremamente facile cadere. Spero di non essere risultata superficiale o banale
in nessuna delle tematiche che ho trattato (e spero che qualcosa si evinca
anche dal finale).
Ed ora la smetto di fare la
morale ^^’ un grazie a chiunque dedichi del tempo a questo mio scritto!
A presto, guys!
Alch ♥