Until the end of my days.

di MerasaviaAnderson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I: Not today. ***
Capitolo 2: *** Capitolo II: No Hero. ***
Capitolo 3: *** Capitolo III: Middle. ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV: Safe and sound. ***
Capitolo 5: *** Capitolo V: Take your time. ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI: 7 Years. ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII: Take me to church. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I: Not today. ***





Until the end of my days

Capitolo I:

NOT TODAY


“It’s gotta get easier, oh easier somehow, ‘cause I’m falling, I’m falling. And easier, easier somehow ‘cause I’m calling, I’m calling … and it isn’t over unless it’s over, I don’t wanna wait for that, it’s gotta get easier, easier … but not today, not today, not today.”
 
 
 
L’ospedale non gli era mai sembrato un posto più brutto, mai al mondo Mickey Milkovich aveva pensato di ritrovarsi in quel posto inquietante e frenetico con i familiari della persona che amava.
Stava seduto su una sedia, in mezzo a Lip e Debbie Gallagher, che aspettavano Carl che era andato a prendere qualcosa da mettere sotto i denti ai distributori, guardavano Fiona fare avanti e in dietro per il corridoio, non la smetteva mai.
Kevin e Veronica erano appollaiati in due delle ultime sedie, sussurrandosi qualcosa che Mickey non riusciva ad udire.
E nel frattempo Fiona continuava a tracciare il suo percorso tormentato, senza mai fermarsi un secondo.
Lui era preoccupato e il modo di fare della donna non faceva altro che metterlo ancora di più in agitazione.
«Cazzo, Fiona puoi smetterla?» sbottò, battendosi un pugno sulla sua gamba «Mi stai facendo arrivare il nervosismo agli estremi!»
Inutile. Quella scenata non servì a niente, se non a guadagnarsi un’occhiataccia dalla maggiore dei Gallagher, che riprese il suo percorso d’agonia.
Fottuti Gallagher.
Ed ecco Carl che spuntava dal fondo del corridoio, aveva le braccia ricolme di cibo impacchettato e dolciumi vari, le classiche schifezze che si possono trovare solo ai distributori automatici.
«Ho preso tramezzini per tutti!» annunciò, scaricando il carico su una sedia e afferrando un sandwich al prosciutto.
Kevin e Veronica ne presero uno a testa, Lip ne prese tre, due dei quali li passò a Mickey e Debbie.
Non che avessero molta fame, in quella situazione, dovevano semplicemente fare qualcosa prima di impazzire perché nessun medico si era ancora fatto vedere.
«Prendi un tramezzino, Fiona.» le disse Debbie, porgendogliene uno che, nonostante tutto la donna rifiutò … e in malo modo anche.
Attesa: una carogna.
Erano lì da più di due ore e non avevano alcuna notizia di Ian. Era ormai da un po’ di tempo che Ian Gallagher non stava troppo bene, aveva una stanchezza perenne addosso e sentiva tutte le parti del corpo doloranti, con l’aggiunta di una tosse terribile rimastagli dall’influenza avuta qualche settimana prima. Era svenuto anche quel giorno, poco prima di pranzo, ed era capitato già due volte in quella settimana, ma il ragazzo si era ripreso quasi subito e non aveva la minima intenzione di farsi portare al Pronto Soccorso.
Quella volta, però, non sembrava riprendersi così in fretta, dunque avevano chiesto a Svetlana di badare a Liam ed erano corsi tutti con lui dietro l’ambulanza con il furgone di Kevin.
Cos’altro potevano fare?
Mickey voleva provare a distrarsi, a non pensare, ma studiare l’interno del suo sandwich non serviva a molto e quelle mura sterili e quel via vai di infermieri lo metteva sempre più in agitazione.
Videro un medico in camice bianco spuntare da lontano e dirigersi verso di loro, in quel buio angolo di corridoio in cui si erano rintanati.
Finalmente.
Non appena il dottore arrestò il suo cammino davanti a Fiona chiedendo se erano loro i parenti di Ian Clyton Gallagher, Mickey finì di studiare il suo tramezzino, che abbandonò mangiucchiato sulla sedia, e s'alzò con tale frenesia per parlare con quell’uomo.
«Come sta Ian?» s’affrettò a chiedere con voce roca e nervosa.
«Ora è stabile,» rispose il medico, gesticolando un poco mentre evitava chiaramente di guardare gli occhi di Mickey «ma come dicevo alla signorina Gallagher preferiamo ricoverarlo fino a che non ci accertiamo della sua condizione. Abbiamo eseguito davvero molti esami ed i risultati richiedono un po’ di tempo.»
«State dicendo che ancora non sapete ciò che ha?» domandò Mickey, il suo tono era arrogante, arrabbiato … e per giunta si guadagnò anche una gomitata da Fiona.
«Non sempre la diagnosi è semplice, signor …»
«Milkovich. Mickey Milkovich.»
«Lei non è un parente?»
«Chi se ne fotte, io voglio sapere come sta Ian!»
Altra gomitata da Fiona.
«Le chiedo di moderare i termini, signor Milkovich, sta già ricevendo delle informazioni che io non potrei riferirle. Ora, con tutto il rispetto, vorrei parlare in privato con la signorina Gallagher così che-»
«Avanti, dottore,» s’intromise Fiona stavolta «Che differenza fa? Tanto gli racconterò lo stesso per filo e per segno ciò che lei mi dirà.»
«D’accordo, allora.» l'uomo sospirò, alzando gli occhi al cielo «Seguitemi.»
A quel punto Fiona lanciò uno sguardo di intesa a Lip, che a quanto pare afferrò al volo e annuì.
Quel che volevano dirsi lo sapevano solo loro.
Fiona e Mickey seguirono in religioso silenzio il medico in una piccola stanza, dopo che li fece accomodare su due sedie, lui sedette davanti a loro, aveva uno sguardo severo, intransigente.
«I valori delle analisi di base che abbiamo fatto ad Ian risultano tutti fuori dalla norma.» disse con semplicità e rammarico «Dovremmo procedere con una TAC al più presto possibile.»
«Ma Ian come sta? La situazione è grave?» domandò Mickey, il suo volto era un misto tra terrore e dispersione.
«Quando è arrivato era in condizioni gravissime, adesso lo abbiamo stabilizzato e sta riposando, prima della TAC non possiamo sapere di preciso cos’ha, potrebbe essere una cosa risolvibile, come potrebbe essere un problema abbastanza importante.»
Il Milkovich riprese la parola, precedendo Fiona che anche lei era in procinto di chiedere qualcosa «E con problema abbastanza importante cosa intende, dottore?»

Mickey ebbe la risposta solo il pomeriggio successivo, dopo che quei dottori avevano iniziato a fare un’altra quantità massiccia di esami a Ian.
Tumore ai polmoni, IV stadio metastatico.
O qualcosa di simile.
Durante il discorso complicato del medico Mickey aveva smesso di seguirlo dopo che quella terribile frase era stata associata alle parole “incurabile” e “terminale”.
Vide solo Fiona Gallagher scoppiare in lacrime per la disperazione e il volto dispiaciuto del medico. Gli avrebbe voluto sputare in faccia, al medico.
Ma semplicemente si allontanò a metà discorso, ignorando Fiona e il dottore che lo chiamavano e Lip e il resto dei Gallagher che gli chiedevano cosa fosse successo.
Non aveva realizzato concretamente ciò che era accaduto, semplicemente non voleva pensarci, convito che tra qualche istante si sarebbe svegliato da quell’incubo e avrebbe trovato Ian che dormiva profondamente al suo fianco.
Non fu così.
Si rintanò a casa, sbattendo la porta alle sue spalle, ignorando Iggy e gli altri suoi fratelli che si lamentavano e Mandy che gli chiedeva come stesse Ian. Aveva ignorato le numerose chiamate dei Gallagher – Ian compreso – e aveva spento il cellulare, perché rispondere a quelle chiamate avrebbe significato accettare la realtà, una realtà in cui l’unica persona che aveva mai amato sarebbe morta inevitabilmente.
Prese dal frigorifero ogni singola lattina di birra che vi era dentro e si chiuse in camera sua, con la musica a palla per non sentire Mandy che ancora da dietro la porta lo tempestava di domande, preoccupata.
Poche ore e molte lattine di birra dopo si ritrovò nuovamente sulla strada, barcollante e ubriaco, diretto al campo di baseball, dove poteva immaginare ancora un Ian Gallagher vivo che scopava con lui e non un freddo cadavere tra le sue braccia, consumato dalla malattia.
Il telefono era ancora spento.
Aveva gridato qualcosa, insultato qualcuno, era scoppiato in lacrime in un angolo, dove era certo che nessuno lo potesse vedere, maledicendo ogni singola parola che il medico gli aveva detto, anche se la maggior parte non le ricordava.
Maledisse anche se stesso, per trovarsi ubriaco in un posto del genere e non con Ian, a tenergli la mano e stringerlo forte a sé.
Roba da checche, insomma.
Dopo non seppe cosa successe, probabilmente si era addormentato perché alle prime luci dell’alba era ancora lì, disteso e dolorante su una panchina e avvolto in una vecchia giacca di Ian, che era praticamente enorme per un nano come lui.
Il mal di testa pulsava sulle sue tempie e ancora mezzo intorpidito si era deciso ad accendere il telefono, dove aveva trovato una numerosa serie di chiamate perse da praticamente ogni membro dei Gallagher e un’altra manciata da Mandy.
E lì ebbe la consapevolezza di non poter essere egoista: di non poter lasciare da solo Ian in una situazione del genere, di dover mettere da parte la sua sofferenza e tornare lo stronzo Mickey Milkovich che tutti conoscevano prima che quella fighetta avesse fatto breccia nella sua miserabile vita.
Tornò a casa, si fece una doccia rapida e cercò di vestirsi decentemente, per lo meno con dei vestiti puliti.
E adesso era lì, in preda al panico dietro la porta della camera d’ospedale di Ian, con lo sguardo stanco e le mani che tremavano dalla paura; ascoltava i Gallagher che erano all’interno della stanza dire qualcosa, anche se non comprendeva esattamente cosa, ma aveva sentito anche la voce di Ian tra quelle. Perché l’avrebbe riconosciuta tra tutte, la sua voce.
Preso dall’impeto aprì di scatto la porta, con uno strano fiatone legato all’ansia e subito si trovò lo sguardo dei Gallagher puntato addosso, stupiti. Assieme ad Ian c’erano solo Lip, Fiona e Carl.
«Mick … » fu un flebile sussurro proveniente dalle labbra del Rosso, che lo scrutava incredulo con gli occhi che erano improvvisamente diventati lucidi. «Mick?» lo chiamò di nuovo, ma lui restò ancora fermo, mentre Fiona mormorava qualcosa ai fratelli, che stavano uscendo dalla stanza.
Carl gli tirò una pacca sulla spalla e infine chiuse la porta, lasciandolo solo con Ian, con il suo Ian.
«Mick?» al terzo richiamo della sua voce spezzata non seppe resistere: si fondò ad abbracciarlo, a stringerlo forte al suo petto, a cullarlo tra le sue braccia nel vano tentativo di potergli salvare la vita, di togliersi dalla mente quella fottuta immagine di lui morto, che ormai lo perseguitava come una maledizione. «Dove sei stato, Mick?»
Non glielo disse, che era stato al campo di baseball, ubriaco, a fare il depresso senza speranza. Non voleva che Ian lo vedesse sotto quella luce.
«Sono qui, sono qui adesso, cazzone.» provò a tranquillizzarlo, perché Ian Gallagher stava letteralmente tremando tra le sue braccia, come un bimbo di pochi anni, con lo sguardo fisso in un punto imprecisato del muro e gli occhi verdi gonfi di lacrime.
Non voleva morire, Ian.
E se proprio fosse dovuto accadere non voleva altro che trovarsi tra le braccia di Mickey, quelle forti che lo stavano stringendo in quel momento, che lo avevano rannicchiato al petto dell’amato, facendo in modo che si cullasse nel suo odore che tanto amava.
E per questo temeva che Mickey andasse via.
Dopo che Mickey lo tranquillizzò per un po’ ed Ian fu capace di tornare a respirare anche senza le sue braccia strette attorno al corpo, prese una sedia e si sedette accanto a lui, tenendogli stretta la mano fredda e beandosi dei suoi occhi verdi che lo fissavano con una strana luce.
Aveva due cannule nel naso, collegate ad una bombola di ossigeno che faceva un rumore strano.
«Non dici nulla?» gli domandò Ian, accarezzando la testa del ragazzo con la mano libera.
«Cosa si dice di preciso in queste situazioni?» gli chiese di rimando, quasi arrabbiato, sbattendo gli occhi per evitare di piangere davanti a lui.
«Piangi se vuoi, Mick. Tanto ormai lo fanno tutti.» gli disse Ian, in un tono così convincente che quasi stava cedendo a lasciarsi andare.
«No. No.» Mickey si strofinò ripetutamente il naso, tornando a guardare il fidanzato negli occhi «Come stai?»
«Sto meglio.»
«Cazzo, non prendermi per il culo, Gallagher.»
E stettero in silenzio, ad ascoltare l’uno il respiro dell’altro. Più affannoso quello di Ian, irrequieto quello di Mickey,
Il giovane Milkovich non voleva parlargli della cura, della terapia, della scelta che avrebbe fatto, di quello ne avrebbe parlato dopo con il resto dei Gallagher perché tirar fuori quell’argomento con lui gli faceva troppo male.
Gli faceva male immaginarlo morto, bianco come un cencio e gelido come la neve, tra le sue braccia macchiate di crimini.
Gli faceva male immaginarlo sofferente, in un letto di ospedale, senza i suoi amati capelli rossi e con una flebo di veleno attaccata al braccio.
Il medico era stato chiaro quando aveva definito il suo cancro incurabile e Mickey non aveva la più pallida idea di cosa dovessero fare, né di come comportarsi.
Stavano semplicemente avvinghiati l’uno all’altro, senza proferir parola, con il terrore negli occhi.
E Mickey voleva solo piangere e dirgli tutte le cose che non gli aveva detto, tutte quelle cose da checca che si dicono le coppiette, e che probabilmente non avrebbe mai potuto dirgli. Era troppo vigliacco, Mikhailo Aleksandr Milkovich.
L’avrebbe visto sfiorire davanti ai suoi occhi, non avrebbe mai avuto la possibilità di vederlo diventare uomo assieme a lui. Sarebbe rimasto solo in quella giungla chiamata South Side.
E così la prima lacrima scese dai suoi occhi cristallini, silenziosa come la malattia che gli stava portando via il suo amato.
E continuò a piangere, stringendo Ian Gallagher tra le braccia, che si era nuovamente ancorato al suo petto ispirando fortemente il profumo dei suoi vestiti puliti.
«Stai piangendo, Mick?» gli domandò il Rosso, con una voce stanca e leggermente affannata.
«No.» cercò di fingere un tono neutro, senza alcun successo.
Così Ian si sporse verso il suo viso, portando su di esso le sue mani e asciugandogli amorevolmente le lacrime.
«Se lo dici a qualcuno ti ammazzo.» borbottò Mickey, per poi posargli un bacio sulla fronte e una carezza nei capelli rossi.
«Sarebbe sicuramente una morte migliore di quella che mi spetta.» sospirò Ian, rassegnato, lasciando di stucco il compagno che sgranò gli occhi e smise di accarezzargli la spalla.
«Ian, mi dai un momento? Devo prendere un po’ d’aria, okay?» aveva una voce distrutta, soppressa, le sue mani tremavano, erano le mani di un uomo che aveva solo voglia di piangere e distruggere ogni cosa che lo circondava.
Non appena uscì fuori dalla porta con passo instabile, nel corridoio vi trovò i Gallagher che parlottavano tra di loro.
Aveva bisogno di sapere.
«Ditemi solo cosa ha deciso.» mormorò, totalmente devastato e voglioso di sapere quanto tempo avrebbe potuto ancora passare con Ian.
«Di cosa, Mickey?» chiese Fiona.
«Vuole curarsi o no?»
«Il medico ha detto che la chemioterapia potrebbe dargli qualche mese in più, ma c’è una metastasi al cervello e una all’altro polmone … » fu Lip a rispondergli, mentre si asciugava le lacrime dal viso. Mickey non aveva mai visto Lip Gallagher piangere in quel modo. «Questo spiega i mal di testa forti, la tosse, la stanchezza, i forti dolori ovunque e anche la bronchite che si è preso il mese scorso. Lo abbiamo beccato troppo tardi. È inevitabile che accada.» Fiona stringeva a sé Carl ed entrambi provavano in ogni modo possibile ad essere forti.
«Okay, ma lui cosa cazzo ha deciso?» del volto di Mickey Milkovich non era rimasto altro che una maschera di dolore e frustrazione.
«Il medico ci ha spiegato che qualsiasi tipo di terapia non sarebbe efficace, potrebbe solo dargli qualche mese di vita in più e lui non vuole neanche iniziare a curarsi.» confessò Lip, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento, versando qualche lacrima. «Dice che sarà solo inutile.»
«CAZZO!» urlò, sbattendo un pugno contro il muro.
Non riuscì a trattenere le lacrime e repentinamente si rifugiò di nuovo nella stanza di Ian, l’unica persona al mondo davanti a cui avrebbe potuto piangere.
Non gli importava cosa avrebbero pensato i Gallagher.
Appoggiò la fronte contro il muro, dando le spalle al ragazzo che vedendolo in quelle condizioni era già in procinto di scendere dal letto.
«Sta’ fermo Ian, cazzo!» si sbatté la testa contro la parete, nel vano tentativo di placare quel dolore.
Avrebbe voluto solo spaccarsi quella testa contro il muro e cercare di comprendere perché, sia lui, sia i suoi fratelli non si fossero accorti di quello che gli stava accadendo.
Era troppo tardi.
Sentì lo sguardo preoccupato di Ian posarsi su di lui, represse la sua voglia di andare a riempirgli la faccia di pugni e baciarlo al tempo stesso.
Tutto inutile.
Non sarebbe mai andato via.
«Ti hanno detto che ho deciso di non curarmi, i miei fratelli?»
Mickey si voltò, all’orlo della disperazione.
«Perché, Ian?»
«A cosa servirebbe, Mick?» gli domandò, con lo sguardo affranto «Sono solo un paio di mesi!»
«Un paio di mesi con me, Ian! Con la tua famiglia!»
«UN PAIO DI MESI COME, MICK?!» tentò di urlare, allo stremo delle forze e con le lacrime agli occhi «SENZA CAPELLI, BLOCCATO IN UN LETTO E SOFFERENTE? A VOMITARE TUTTO IL GIORNO CON TE A FARMI DA INFERMIERE?!»
Mickey si avvicinò, tentando di calmarlo, letteralmente terrorizzato da quella situazione del cazzo che lo stava avvolgendo e risucchiando in un tunnel che gli sembrava senza uscita.
«Ian … » fu l’unica cosa che riuscì a mormorare, notevolmente scosso.
Il suo nome. Lui. L’unica cosa capace di poterlo far stare meglio.
«Il poco tempo che ho lo voglio vivere con te, con i miei fratelli, con le persone che amo. Felice, in pace con me stesso. Voglio fare tutte le cose che non ho mai fatto e morire con il sorriso sulle labbra, senza il rimpianto di non aver vissuto la mia vita quanto più ho potuto. Anche se ho paura. E non voglio …»
«Non è finita, Ian.»
«Non voglio vivere il resto dei miei giorni in un ospedale, Mick.» i suoi occhi brillavano di terrore puro «So che su di te posso contare, che tu non sarai come i miei fratelli. Portami via.»
Mickey annuì e prese il volto di Ian tra le mani, facendo congiungere le loro fronti e chiuse gli occhi … perché il volto così bello e sofferente del ragazzo per cui aveva messo a repentaglio tutto il suo mondo gli faceva troppo male.
Gli faceva male pensare che, quel volto, presto non l’avrebbe rivisto mai più.
«Ti amo, maledetto cazzone suicida.»
Gliel’aveva detto e si sentiva più leggero. Non si era sentito particolarmente strano, come pensava … forse solo un po’ più mammoletta di quanto già non fosse.
Il Rosso non rispose, limitandosi ad annuire e ad accarezzare le mani del compagno, che continuava a dondolarsi in quella lenta agonia.
«Perché non ci hai detto che stavi così male, Ian?» gli domandò, stringendoselo al petto con una forza che quasi faceva male, con una terribile rabbia intersecata nell’anima.
«Non credevo fosse così grave.» ammise, con la voce che faceva fatica «Avevo intensificato gli allenamenti negli ultimi mesi, pensavo di star male per quello. Mi sono beccato la febbre e poi lo stress, vivere in una famiglia incasinata come la mia …»
«Ti eri preso la bronchite e anche quella è stata una conseguenza dello schifo che hai nei polmoni.» gli disse amareggiato, stentando a crederci anche lui. Aveva passato tre giorni, assieme a Fiona, a fargli impacchi d’acqua fresca sulla fronte per fargli abbassare la febbre alta, era persino andato lui stesso a comprargli lo sciroppo per la tosse, l’aveva sentito delirare per la temperatura troppo alta e lui lo prendeva in giro, assecondandolo nei suoi discorsi assurdi. Gli aveva persino chiesto di spogliarsi e aveva fatto allusioni poco caste davanti a Fiona e lui avrebbe voluto solo diventare invisibile. «Siamo stati dei coglioni a non accorgercene subito che c’era qualcosa che non andava.»
«Mi dispiace, Mick. La colpa è solo mia.»
«Non dire cazzate.»
«Ho una paura assurda. Cazzo, ero io quello che voleva andare a giocare al soldato Ryan con un fucile in Afganistan e adesso me la faccio sotto per un fottuto cancro.»
«Smettila di fare la testa di cazzo, Ian.» lo rimproverò, rude, scuotendo la testa arrabbiato. Non accettava discorsi simili da lui e il solo ricordo di quando gli aveva detto che stava per arruolarsi gli faceva venire i brividi.
Se lo immaginava già con un proiettile in testa o preso come ostaggio da qualcuno.
Ma glielo aveva impedito, picchiandosi a sangue nella sua stanza per poi ritrovarsi a scopare pesantemente, con Ian che gli diceva nell’orecchio che non sarebbe andato da nessuna parte.
«Ho paura che le ultime scelte che farò in questa vita di merda saranno sbagliate, ho la sensazione di non aver vissuto al meglio.»
Mickey lo fece alzare, per guardare i suoi occhi color smeraldo e gli prese il volto terrorizzato tra le mani, guardandolo con convinzione e una sicurezza tale da sembrare assurdamente credibile.
«Vivrai una vita bella, Ian. Te lo prometto.» lo disse mentre gli accarezzava le guance e i capelli … suonò come un giuramento, più che come una promessa. Qualcosa per cui ne andava la sua stessa vita.
Ian sorrise tristemente, socchiudendo gli occhi e stringendo la mano di Mickey sul suo volto e facendo un gesto che lo lasciò spiazzato, terrorizzato, confuso: la baciò.
Non appena le labbra di Ian Gallagher avevano schioccato un bacio sul palmo della mano di Mickey Milkovich lui si sentì l’uomo più strano del mondo.
Non avrebbe mai immaginato che un gesto così semplice e strano lo facesse rimanere in quel modo, gli facesse quell’effetto.
Qualche volta era stato lui a munirsi di un coraggio immane e regalargli qualche bacio che andava fuori dall’ambito del sesso, ma Mickey era terrorizzato dalla realtà, dall’ammettere che ormai lui ed Ian erano una coppia di fatto e non solo due ragazzini che si incontravano solo per una sana scopata.
Perché quello scintillio che avevano negli occhi quando si guardavano aveva fatto scoppiare qualcosa, così … tra una scopata e l’altra.
Si erano innamorati. Ma non un amore di quelli che dura un paio di mesi e poi passa, no. Un amore di quelli forti, contorti, così potenti da poter opporsi anche a tutto l’odio che c’era nel mondo.
L’amore più integro e puro che potesse esistere. Terribilmente tossico per entrambi.
Lo stesso amore che adesso sarebbe stato spezzato dalla morte, che si stava insinuando piano nelle loro vite, fino a travolgerle completamente.
«Morirò comunque, Mick.»
«Non oggi.» mormorò con la voce spezzata e il terrore nell’animo, appoggiando la fronte alla sua e scuotendo la testa «Non oggi, Gallagher.» ripeté, facendogli un’altra carezza, più per tranquillizzare se stesso che Ian «Cazzo, non oggi.»
 
 
 
FINE CAPITOLO I

 
 

Note d’Autrice:
Salve, sono più o meno nuova di questa sezione, visto che ho pubblicato solo due storie e questa è la mia prima long sui Gallavich o su Shameless US in generale.
È stata un’ardua impresa, ma alla fine ce l’ho fatta e adesso eccomi qui a pubblicarla.
Ammetto che sono un po’ spaventata perché, come potrete leggere nella presentazione, delle necessità di trama mi hanno portato a rendere alcuni personaggi (Mickey specialmente) un po’ troppo OOC del previsto, proprio come in questo capitolo nelle scene Gallavich, che sono state davvero strazianti e bellissime da scrivere.
Certo, in molte scene della terza/quarta/quinta stagione abbiamo potuto constatare quanto il nostro Milkovich in fondo in fondo sia un tenero agnellino che si scioglie davanti agli occhioni di Ian, ma giuro che ho provato in ogni modo di mantenere parte del suo carattere originale, spero di esserci riuscita, anche se in parte.
Purtroppo sono le primissime storie che scrivo su di loro e ancora non ci ho preso proprio la  mano.
Ci tengo a precisare che ogni capitolo farà riferimento a qualche verso di qualche canzone, come questo, associato a “Not today” degli Imagine Dragons, gruppo che io A D O R O .
Parlando della trama, come potrete ben notare si distacca notevolmente da quella originale, Mickey ha convinto Ian a non arruolarsi nell’esercito sotto falsa identità e il nostro Rosso non è bipolare.
La tematica trattata è molto delicata e spero che, dopo aver fatto ricerche su ricerche sulla pneumologia, riuscirete a cogliere i messaggi all’interno della trama, il motivo di alcune mie scelte (che di volta in volta spiegherò) e apprezziate il mio scritto.
Come sempre, sono disposta a rispondere ad ogni genere di curiosità riguardanti la storia e spero di ricevere recensioni sia positive che costruttive.
Grazie per aver letto,
al prossimo martedì con il secondo capitolo!
Merasavia Anderson.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II: No Hero. ***




Until the end of my days

Capitolo II:


NO HERO

“Don’t say this is
over, looking for better days, oh, don’t say this over, there’s no losers, look at better days, just what it gets. I can’t jump over buildings, I’m no hero, but love can do miracles. I can’t outrun bullet, I’m no hero, but I would take one for you.”
 
 
 
Erano tornati a casa già da un paio d’ore, i medici avevano dimesso Ian con riluttanza non appena si era sentito meglio e gli avevano augurato buona fortuna … per quanto potesse contare.
Avevano dovuto comprare uno di quei carrellini per la bombole di ossigeno, perché, da come dicevano i medici, Ian con il passare del tempo e il progredire della malattia ne avrebbe avuto sempre più bisogno.
Il Rosso aveva perso qualche kilo, era più pallido e sempre più stanco, ma gli erano stati prescritti alcuni farmaci per ridurre i dolori, che l’infermiere Mickey s’assicurava che li prendesse con regolarità e che non esagerasse con le dosi quando sentiva troppo dolore, che ormai si era sparso ovunque.
In ospedale, aveva passato un terribile pomeriggio a contorcesi nel letto.
Erano più o meno le undici di mattina, Ian era crollato in un sonno profondo nel suo letto, con Mickey seduto al suo fianco che gli accarezzava i capelli, dopo avergli rimboccato le coperte. In cucina Lip era seduto con i gomiti poggiati sul tavolo e la testa tra le mani, Fiona era adagiata al lavabo, con una mano a coprirle gli occhi, probabilmente rossi e lacrimanti. Carl e Debbie erano stati spedititi a scuola. Liam all’asilo.
Quando Mickey Milkovich scese al piano di sotto, si bloccò sull’uscio non appena vide i due Gallagher in quelle condizioni; si sentiva così fuori luogo in quella famiglia che, nonostante tutto, aveva sempre avuto ciò che alla sua mancava: l’unione.
Chi, nella sua famiglia, si sarebbe mai disperato in quel modo se lui stesse morendo? Sicuramente Mandy. E basta. E poi ovviamente Ian, perché Ian era la sua famiglia.
Solo che era Ian stesso a star morendo e lui voleva solo sprofondare in baratro di dolore e solitudine perché forse la vita lo stava punendo, forse quella era tutta la sofferenza che si meritava. E lui l’avrebbe accettata, se questo non avesse comportato la morte di Ian Gallagher. Avrebbe accettato e sopportato di tutto pur di risparmiargli quel dolore.
Quando aveva dato quella terribile notizia a Mandy per telefono lei era corsa in ospedale e aveva stretto forte tra le sue braccia il Rosso, cercando di rassicurarlo e distrarlo con qualche stupida battuta delle sue – «cocco dei Milkovich» l’aveva preso in giro Carl – era impaurita, quel fottuto Gallagher era stata la prima persona che le aveva porto una mano d’aiuto, era il suo migliore amico, la sua roccia.
Se già per Mandy Ian era una roccia, per Mickey era molto, molto di più … ma lui non conosceva nulla dell’amore e non sapeva cosa di preciso fosse.
Si limitava a seguire quello strano sentimento dettato dall’istinto, che a volte cercava di dominare senza alcun successo.
«Ehm, Gallagher senior.» borbottò, stanco, grattandosi la nuca imbarazzato «Sentite, io … faccio un salto a casa, la Russa mi ha già bombardato di chiamate e vorrei farmi una doccia.»
«Okay, basta … basta che ritorni o quello muore prima del tempo.» borbottò Lip, con un’aria sfinita.
«Lip, ti prego.» lo rimproverò Fiona, guardandolo negli occhi in cagnesco.
«Mandy voleva passare a salutare Ian.» aggiunse Mickey, la sua voce sembrava svuotata da ogni sentimento. Lip saltò dal tavolo quando sentì il nome di Mandy. «Allora, so che quello che sto per dirvi è una delle cose più da checche che abbia mai detto in vita mia, ma …» Mickey vacillò, strofinandosi il naso con le mani, cercando di restare lucido e di non farsi sopraffare da quella bruttissima emozione che gli faceva battere il cuore in maniera così veloce che sembrava scoppiare. «Io sono disposto a farmi carico di tutte le responsabilità, voglio prendermi cura di lui, ma non voglio creare casini in questa casa, quindi se non mi volete in mezzo alle palle, se pensate che la mia presenza possa essere deleteria per Ian, basta dirmelo ed io leverò le tende.»
«Mickey, ma cosa …» Fiona sembrava confusa.
Quello davanti a lei, che aveva pronunciato quelle parole, era davvero Mickey Milkovich?
Com’è che quella situazione aveva scosso e cambiato anche Mickey, quello con la scorza dura, quello che non si sarebbe fatto vedere in quelle condizioni da nessuno?
«Sentite, già siamo in una situazione del cazzo e non voglio che questa situazione del cazzo diventi ancora più del cazzo perché ci sono io in mezzo.» si scroccava le nocche, come se si stesse preparando a fare a pugni con qualcuno.
Senza alcuna previsione, Fiona Gallagher gli saltò al collo in lacrime.
«Ma cosa cazzo … ?» brontolò, guardandosi attorno stupito mentre la maggiore dei Gallagher lo stringeva tra le braccia, nel frattempo Lip se ne stava salendo al piano di sopra con un sorriso triste, scuotendo la testa.
Fiona intanto singhiozzava e lo stringeva, mormorando qualcosa disperatamente, che quasi quasi faceva sembrare il suo dolore una bazzecola. Mickey non sapeva come reagire, era diventato come una statua di marmo, lui e Fiona insieme sembravano combinare un mix di disperazione pura, un carico di sofferenza così grande che in confronto la morte stessa sembrava un taglietto.
«Non dire cazzate, Mickey.» lo rimproverò Fiona, ancora tra le lacrime «Se solo ti azzardi ad abbandonarlo ti stacchiamo la testa a morsi.»
«E-E tutte quelle altre cazzate?» borbottò, una volta che Fiona si staccò da lui ed era piuttosto impegnata a scrutare le sue scarpe imbarazzata. Non capitava tutti i giorni di avere l’impulso di abbracciare Mickey Milkovich. Per lo più, desideravi prenderlo a calci nelle palle per la maggior parte del tempo. «Quando viene la parte in cui mi direte che volete che passi i suoi ultimi giorni con voi? Che volete la vostra privacy familiare?»
«Ian ha bisogno di te tanto quanto ha bisogno di noi, se non di più.» Fiona avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro che riguardava Mickey, ma si trattenne, comprendendo che in quel momento il ragazzo non avrebbe certamente accettato parole di compassione o altre moine simili «Quindi se vuoi puoi trasferirti qui finché …» non c’era bisogno che aggiungesse altro e Mickey comprese e annuì perché non voleva che dicesse ad alta voce quelle parole, anche se probabilmente neanche lei aveva il coraggio di dirle.
Il ragazzo sorrise amaramente, salutò la maggiore dei Gallagher e andò via.

Il Milkovich sarebbe ritornato solo all’ora di pranzo, con sua sorella Mandy,  trovò Ian seduto sul divano che guardava la televisione e Lip che cercava disperatamente di concentrarsi per studiare.
Con Mandy in circolazione sarebbe stato ancora più complicato, non contando il costante pensiero che suo fratello sarebbe morto da lì a poco tempo.
Nel frattempo Ian era seduto tra i due Milkovich, Mandy lo abbracciava e gli sussurrava qualcosa che lo aveva fatto anche ridere, Mickey si era limitato ad avvolgere un braccio intorno alle sue spalle, forse imbarazzato dalla presenza della sorella.
A quel punto Lip decise che le parole scritte sul suo libro di fisica non riuscivano ad entrargli in testa e raggiunse Ian e i Milkovich in salotto.
Guardò Mandy: era struccata, con i capelli un po’ sfatti e il suo sorriso un po’ triste era stampato sul suo volto, la frangia nera troppo lunga era appuntata di lato.
Bellissima.
Fu il primo e inquietante pensiero che gli venne in mente.
Non aveva mai pensato che una donna fosse bellissima, non in quel modo.
«Ti fermi a pranzo, Mandy? Fiona mi ha detto che porta i Tacos.»
«Fiona torna per pranzo?» domandò Ian, mentre quasi inconsapevolmente metteva una mano sulla coscia di Mickey, che sobbalzò.
«Sì, si è presa il pomeriggio libero.»
Ian annuì risentito, sapeva che Fiona avrebbe iniziato a comportarsi in quella maniera, avrebbe iniziato a preoccuparsi, a cercare di trascorrere il più tempo possibile a casa, assieme a lui, a cercare di farlo stare meglio, ma già gli bastava Mickey come infermiere personale … e forse averne due sarebbe diventato troppo doloroso, oltre che abbastanza seccante.
Avrebbe iniziato a tentare di fare la supereroina, provando a portare a casa ancora più soldi e in molto meno tempo del solito, perché c’erano le medicine da comprare e le prestazioni mediche da pagare, con cui veniva aiutata da Mickey che già aveva venduto una parte della sua armeria personale e da Kevin e Veronica, che avevano alzato i prezzi dei loro farmaci per guadagnare di più e destinavano a loro quasi tutto il loro guadagno dell’Alibi.
Ma sapeva che Fiona era forte ed anche che voleva bene a sua sorella più di quanto volesse ammettere a se stesso. Era merito suo se era riuscito ad arrivare almeno a diciotto anni, altrimenti si sarebbe trovato in mezzo a una strada o in un cassonetto della spazzatura fin dalla tenera età.
Fiona aveva preso le redini della situazione, aveva tirato su e si era presa cura di tutti fin da quando era piccolissima.
Prima o poi l’avrebbe ringraziata. E le avrebbe confessato tutta la sua gratitudine.
Fu riportato al presente da un Mickey misto tra preoccupato e arrabbiato che gli schioccava le dita davanti agli occhi, dicendogli qualcosa a cui non prestava particolarmente attenzione.
«Ehi, Testa Rossa, ci sei?» gli domandava.
«Sì, scusami era sovrappensiero.»
«Dicevo se dopo pranzo volevi fare un giro, magari ce ne andiamo a fare i frocetti innamorati al lago Michigan. Prima dovrei passare a dare un po’ di soldi alla Russa che stamattina si lamentava perché al Succhia-latte mancavano i pannolini.»
 E a Ian balenò un altro pensiero in mente: Yevgeny … oh, si sentì uno sciocco, come aveva potuto dimenticarsi del piccolo Milkovich? Avrebbe tanto voluto passare un po’ di tempo con lui, come faceva prima della diagnosi della malattia, poterlo cullare e farlo addormentare nel letto con lui e Mickey la notte, quando Svetlana era a fare qualche servizio al “Centro Massaggi”.
E Mickey si lamentava, chiedendosi perché quell’esserino dovesse dormire con loro, per poi abbracciarli entrambi inconsapevolmente mentre dormiva.
«Mick, voglio andare da Yev, me ne ero dimenticato.» gli mormorò, mentre Lip e Mandy avevano dato inizio ad un fitto chiacchiericcio.
Mickey ebbe un tuffo al cuore: avrebbe dovuto odiarlo, quel bambino, non avrebbe dovuto volergli bene, prendersi cura di lui.
Per Mickey era il ricordo più brutto della sua vita, eppure …
Eppure Ian gli aveva fatto vedere quella situazione con una luce completamente diversa.
«D’accordo.» la voce di Mickey si addolcì e, come al suo solito, fece una carezza nei capelli del fidanzato. «Dopo pranzo andiamo e gli fai tutte le moine e i giochetti che vuoi.»
Lip e Mandy erano scomparsi, probabilmente si erano rintanati in camera a scopare pesantemente, in un altro momento Mickey avrebbe volentieri spaccato la faccia al biondino, ma adesso non gli importava.
Mickey si guardò intorno e dopo aver effettivamente constatato che erano soli attirò Ian a sé e gli fece poggiare la testa sulla sua spalla, in modo da potergli accarezzare meglio i capelli e le guance.
Ormai tempestare il suo volto – e soprattutto i suoi capelli – di carezze era diventato un rituale, uno scacciapensieri, una medicina, una droga. Ma Ian era sempre stanco, pallido, nonostante si sforzasse di apparire al meglio si notava lontano un miglio che qualcosa non andava …. E Mickey odiava quel “qualcosa”, perché gli ricordava costantemente come quella storia sarebbe andata a finire.
In fondo al suo cuore avrebbe voluto sposarlo, fare quelle cose da fighette in abito elegante, condividere la casa – magari non al South Side – e sì, anche poter crescere insieme quel Succhia-latte.
Non si era mai reso conto di volerlo davvero finché non era stato ad un passo dal perderlo per sempre.
Gli scese una lacrima solitaria sulla guancia destra, che prontamente si apprestò ad asciugare, deglutì pesantemente ed immediatamente tornò ad affondare le mani nella chioma di Ian, sospirando di tanto in tanto. Il Rosso, nel frattempo, aveva affondato il naso nella sua felpa, sniffandola come se fosse la droga migliore del mondo.
Cercò di convincersi che sarebbe andato tutto bene, che avevano ancora qualche mese da passare insieme … voleva solo che quei pochi mesi a disposizione non finissero mai.
«È tutto okay, Mick?» gli domandò, accarezzandogli il fianco con i polpastrelli da sotto il tessuto. Aveva le dita incredibilmente gelide.
«Sì, va tutto bene.» gli lasciò un impacciato bacio sulla testa e poi tirò un sospiro profondo, gettando la testa sullo schienale del divano, nel tentativo di non piangere ancora. E andava bene, perché sembrava funzionare.
Oh, si sarebbe preso altri mille proiettili nelle chiappe pur di vederlo guarire.

Ian si fermò dietro la porta socchiusa del bagno di casa Milkovich, sbirciando attraverso di esse la dolce immagine di Mickey che teneva tra le braccia Yevgeny: era poggiato alla sua spalla, mezzo addormentato.
Svetlana lo aveva lasciato nella loro custodia per andare all’Alibi, dove voleva controllare la situazione delle sue colleghe.
Era stranissimo vedere Mickey che faceva avanti e indietro per la stanza cullando con un po’ di imbarazzo il piccolo Yev, Ian sentiva anche che mormorava qualcosa, ma la sua voce era triste, sicuramente non era il tono con cui si dovrebbe parlare ad un bambino.
Considerando anche il fatto che per la maggior parte delle volte lo guardava con diffidenza e si lasciava scappare qualche strano insulto, quel tono dolce e malinconico era terribilmente innaturale per Mickey Milkovich. Sembrava una recita troppo realistica.
«Quella testa di cazzo di papà Ian ha deciso di giocarci un brutto scherzo.» gli disse, parlando come se avesse qualcosa incastrato in gola «Cazzo, non lo ricorderai neanche. Cretino pure io, che sto parlando con un lattante … ma lui si è sempre preso cura di te, stronzetto. Troverò il modo con quella puttana russa di tua madre per parlarti di lui quando crescerai» la mano di Ian cominciò a tremare e gli occhi a farsi lucidi «e che nessuno si azzardi mai a dire che non era il tuo vero padre, eh. Tu pestali a sangue se lo faranno. Mettila così: sei figlio della Russa, mio e di Ian Gallagher. Hai una madre e due padri, okay?»
Ian non resse, si accovacciò al muro vicino alla porta e si coprì gli occhi, perché il Rosso sapeva che la sua famiglia ce l’avrebbe fatta a superare la sua morte, sapeva che i suoi fratelli erano forti e si sarebbero ripresi, si sarebbero fatti forza l’un l’altro, ma il suo Mick era solo … Era straziante accettare di dover abbandonare per sempre l’uomo della sua vita con il piccolo Yevgeny e Svetlana – la sua pseudo moglie – a carico.
Ian lo sapeva che non avrebbe retto, lo sentiva anche dal tono con cui parlava con il bambino, o comunque dal fatto stesso che stesse parlando con quel bambino. Gli stava facendo un discorso che chiunque membro della famiglia Milkovich avrebbe definito da fighette e che Ian trovava maledettamente doloroso.
Mickey era cambiato, qualcuno avrebbe potuto dire in senso positivo, ma tutti avrebbero preferito che il contesto che lo portasse a cambiare fosse diverso.
Non dormiva più durante la notte, vegliava su Ian nel timore che l’avrebbe lasciato nel sonno, controllava costantemente se respirasse e, come faceva al solito, giusto per non farsi mancare il tranquillante giornaliero, gli accarezzava i capelli.
Quando Ian tornò in camera Mickey era seduto sul letto, con la schiena poggiata al muro e il piccolo Yevgeny ancora tra le braccia, che dormiva come un ghiro sulla sua spalla destra; Ian si sedette accanto a lui, poggiando la testa sull’altra sua spalla mentre, a dispetto di tutto, gli scappava un sorriso beffardo nel vedere Mickey e suo figlio in quel modo.
«Fai qualche commento dei tuoi e ti faccio volare tra le mucche del Kentucky.» lo minacciò Mickey, facendolo scoppiare in una grossa risata, che lo portò ad accoccolarsi ancora di più a lui.
Lo faceva sentire bene il fatto che Mickey mantenesse certi atteggiamenti, lo faceva sentire a casa, come se niente di brutto fosse mai successo; ormai si era praticamente poggiato sulle sue cosce e lo guardava dal basso, con quella sua espressione un po’ truce, come se fosse pronto a far cazzotti con chiunque gli di presentasse davanti.
Tipico di un Milkovich.
Era quella per lui la normalità: raggomitolarsi nel letto di casa Milkovich, fare sesso fino a restare senza fiato e godersi il freddo invernale abbracciato a Mickey che si lamentava per qualsiasi cosa. L’unica volta che aveva osato chiamarlo “Brontolo” gli era costata un pugno nello stomaco, ma era valsa la pena … perché dopo, di sua spontanea volontà, Mickey Milkovich l’aveva baciato.
E che bacio.
E che sesso.
In quel momento, Ian Gallagher, a dispetto di tutto, si sentiva come se potesse vivere per sempre.
«A quanto pare il Succhia-latte si è addormentato ben bene.» gli disse Mickey, battendo alcuni colpetti dietro la schiena di Yevgeny.
«Penso che la tua presenza lo tranquillizzi.»
«La mia presenza? Tieni qua, dai!» Mickey rise, porgendo suo figlio ad Ian che se lo poggiò sul petto, con una smorfia di dolore … i dolori al petto erano lancinanti in quel periodo, ma cercava in ogni modo di non farlo notare a nessuno. Mickey s’allarmò.«Ehi, ehi, ehi, che cazzo fai? Tutto a posto?»
«Sì, tranquillizzati.» gli prese una mano e s’accorse che tremava.
«Come cazzo faccio a tranquillizzarmi? Tieni, attaccati questo aggeggio.» il ragazzo scansò la mano per sistemargli le cannule per l’ossigenoterapia, per poi iniziare a gesticolare e borbottare cosa senza senso, sembrava quasi impazzito, mentre imprecava con parole indecifrabili «Io … Io … Ian, porca puttana!»
Ian s’alzò piano e appoggiò Yevgeny nel passeggino che Svetlana aveva piazzato accanto al letto («Che cazzo ci fa qui questo trabiccolo?» gli aveva chiesto Mickey irritato.), si sistemò meglio sul materasso e prese tra le mani il volto arrabbiato del fidanzato, l’espressione corrucciata gli diceva che non si sarebbe fatto scrupoli a tirargli un pugno.
Eppure Ian sorrideva, con quell’odiosa espressione di chi era l’incarnazione della perfezione, di chi riusciva a ad accettare il proprio destino con quell’immane coraggio.
E Mickey si chiedeva cosa cazzo avesse da sorridere.
«Senti, Mick, la realtà è questa purtroppo. Ho paura anche io. Ti sembra forse che io non avrei voluto più tempo a disposizione? Ho solo diciotto anni, cazzo.» una lacrima scese sulle guance lattee e lentigginose del ragazzo.
«Ian …» Mickey con la sua voce rotta e instabile gliel’asciugò, perché non poteva tollerare quei discorsi da parte di Ian, in un altro momento l’avrebbe preso a botte, ma adesso no, adesso era diverso.
Se li voleva tirare da solo, i pugni.
«Guardiamo ai giorni belli, Mick.» riprese Ian, tirando su con il naso «Quelli che abbiamo passato e quelli che verranno. Anche quando sarò tre cazzo di metri sotto terra, ricorda tutte le cose belle. E vai avanti.»
«La smetti con questo cazzo di discorso da checca?» il suo labbro tremava, i suoi occhi erano tornati ad essere gonfi «Io … Mi getterei da un palazzo per te, cazzo.»
“Oh, l’amore fa miracoli” aveva pensato Ian, sorridendo dentro di sé. Non si sarebbe mai aspettato delle parole del genere dal Mickey.
«Non ce n’è bisogno, Mick.» sorrise nuovamente il Rosso che, vedendolo sull’orlo della disperazione lo attrasse a sé, ignorando il dolore e stringendolo forte al suo petto, in modo che soffocasse tutte le sue inconsuete lacrime contro la sua maglietta.
Prima di incontrare Ian e innamorarsene Mickey Milkovich non avrebbe pianto mezza lacrima neanche sotto tortura, era difficile per uno come lui.
Eppure eccolo lì, a piangere ogni giorno come un pisciasotto disperato.
«Sono un perdente.» borbottò, stringendo forte le braccia intorno al torace di Ian, a cui stava aggrappato come un bambino. «Ho perso tutto!» Mickey urlò, staccandosi dal corpo di Ian e tremando, rosso di rabbia in volto «Guardami! Cosa cazzo sono diventato?»
Ian tornò ad abbracciarlo, nonostante le urla Yevgeny ancora dormiva – ed era un bene – lo abbracciava con tutta la forza che aveva in corpo, si dondolava avanti e indietro con lui tra le braccia. Lui stesso si stava chiedendo come si fosse trovato in quella situazione, a cullare tra le braccia Mickey Milkovich che si disperava come un bambino …
«Tu mi stai salvando la vita, Mick …» ed era vero.
«No, tu morirai.» aveva smesso di piangere, si era semplicemente rannicchiato contro di lui impaurito e arrabbiato «Ed io non sono un eroe, Gallagher.»
«Non è ancora finita, Mick.» gli confessò, accarezzandogli le spalle e cercando di tranquillizzarlo in qualsiasi modo possibile «Io sono ancora qui.»
Mickey allungò le braccia sul suo collo, fino ad arrivare ai capelli che tanto amava e che ora aveva preso ad accarezzarli con la dolcezza tipica e impacciata di un Milkovich.
Quel movimento tranquillizzava Ian, quel tocco che concedeva solo a Mickey era per lui come un toccasana.
I capelli che Ian aveva sistemato poco prima si erano nuovamente scompigliati sotto le mani del fidanzato, che compieva quel rituale come se ne andasse della sua vita stessa.
Forse era effettivamente così.
«Non andare via, maledetto cazzone.» gli aveva mormorato Mickey, con la poca voce che aveva a disposizione.
Ian sorrise, mentre due lacrime gli solcavano il volto.
«Non vado da nessuna parte, Mick.»


 
FINE CAPITOLO II


 

Note d’Autrice:
Ciao a tutti! Eccomi puntuale con il secondo capitolo di questa storiella che, come avevo già anticipato, urla OOC da ogni parola.
Lo so, ma giuro che è complicatissimo trattare una tematica del genere quando c’è in mezzo un personaggio come Mickey Milkovich.
So che delle reazioni del genere non sono tipiche del suo carattere, ma l’abbiamo già visto crollare in parecchie situazioni nel corso della serie TV e, alla consapevolezza della sicura morte di Ian, io non sono riuscita ad immaginare una reazione differente.
Rabbia e dolore.
Principalmente rabbia, però. Incontenibile.
Nella parte iniziale del capitolo ho cercato di dimostrare quanto i personaggi siano cambiati e maturati, Mickey per primo, che è disposto ad allontanarsi da Ian pur di farlo stare meglio.
Sinceramente, non credo che il Mickey Milkovich della serie l’avrebbe mai fatto.
Un altro personaggio importante, a mio parere, è Lip. Ho inserito delle sue piccole reazioni che, nel corso della storia, potrete comprendere.
(E lo sto facendo riavvicinare con Mandy perché i Gallavich!Het sono l’amore ♥)

Per la scena in cui vediamo la speciale partecipazione del piccolo Yev (ed un Mickey abbastanza confuso sui sentimenti che prova per il bambino), diciamo che mi sono dovuta mettere ad esaminare buona parte della quinta stagione, diciamo il periodo in cui hanno giocato alla famigliola felice, prima del rapimento di Yev.
Ho analizzato anche la puntata del rapimento, cercando di comprendere meglio i sentimenti che sia Ian che Mickey provano verso Yev e cogliere le loro reazioni.
Sono giunta alla conclusione che Mickey riesce ad accettare suo figlio solo con la presenza di Ian, che gli scaccia il brutto ricordo del suo concepimento.
Okay, forse sto divagando un po’, ma detto brevemente credo che conoscendo Mickey Milkovich lui ne uscirebbe totalmente distrutto al solo sapere che Ian deve morire.
Ecco.
Inoltre, i versi che accompagnano questo capitolo sono quelli di “No Hero”, di Elisa.
Come al solito, se volete altri chiarimenti, avete domande o altro … non esitate a chiedere.
In più, ringrazio Katie_P che ha inserito la storia nelle preferite, bananacambogianachiquita che l’ha inserita nelle ricordate e ophelia15362 che l’ha inserita nelle seguite.
Non mi dilungherò oltre visto che queste NdA sono uscite più lunghe del capitolo stesso!
A martedì prossimo,
Merasavia Anderson.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III: Middle. ***





Until the end of my days

Capitolo III:

MIDDLE


“I’ll promise to build a new world, for us two … with you in the middle.”
 
 
 
«Buongiorno.» Ian scese in cucina, trovando come al solito Fiona e Lip intenti a preparare la colazione, mentre il resto della famiglia dormiva ancora profondamente, Mickey compreso. D’altronde erano ancora le sei meno un quarto di mattina.
«Ehi, come mai già sveglio a quest’ora?» gli domandò Fiona, un leggero tono di preoccupazione macchiava la sua voce che si sforzava di essere il più naturale possibile.
Ian aveva chiesto a tutti di non comportarsi come se fosse un bimbo bisognoso di cure e attenzioni, ma non sembrava funzionare, specialmente per Mickey e Fiona. Non che gli dispiacesse, ma era intenzionato a vivere i suoi ultimi mesi di vita nella maniera più semplice possibile.
Non era stato benissimo la sera prima e gli stavano tutti con il fiato sul collo, in più si era svegliato con un mal di testa terribile a causa dell’ossigenoterapia.
«Volevo parlarvi.» ammise Ian, posizionandosi di fronte ai suoi fratelli e parlando con un tono più che serio «E vorrei che voi parlaste anche a Debbie e Carl.»
«Cosa succede?» Fiona abbandonò la colazione che stava preparando, attenta alle parole del fratello.
«Si tratta di Mickey.» lo disse a bassa voce, nel timore che il suo ragazzo si potesse svegliare e beccarli a parlare di lui. Di conseguenza, Fiona e Lip sospirarono con un’espressione rassegnata sul volto. «Quando morirò voglio che gli stiate accanto.»
Fiona era perplessa, triste, impotente.
«Cosa potremmo fare per lui?»
«Provare a consolarlo, a non fargli buttare la sua vita nel cesso.» Ian era serio, determinato ad offrire a Mickey le cose più belle anche dopo la sua morte. Anche se lui non ci fosse stato più, i suoi fratelli avrebbero potuto aiutarlo, come sua ultima volontà.
«La vita di tutti noi che viviamo al South Side è buttata nel cesso, Ian. Ci gettano dentro fin da quando usciamo dalle fighe delle nostre madri.» questa volta fu Lip a rispondergli, sorridendogli amaramente con un bottiglia di birra in mano.
«Bevi già di prima mattina?» il Rosso s’accigliò, guardando il fratello con uno sguardo di rimprovero … non era quello il futuro che voleva per suo fratello Lip.
«E i cazzi tuoi?»
Ian era pronto a rispondergli a tono, ma Fiona li interruppe, sospirando e portando le mani sui fianchi prima che potessero assalirsi a vicenda.
«Scusa Ian, ma secondo te Mickey si lascerà consolare da noi?»
«Be’, stiamo pur sempre parlando di Mickey Milkovich. Con te è una pecorella smarrita e preoccupata, ma con gli altri è rimasto lo stronzo che ti picchia a sangue alla prima parola sbagliata.» continuò Lip, sorseggiando la sua birra. Era vero, però, che dopo la diagnosi del cancro di Ian Mickey era notevolmente cambiato, glielo aveva confidato anche Mandy, dopo un classico pomeriggio di “Scopo per dimenticare”.
«Voi non lo conoscete, non ha nessuno.» Ian scosse la testa e si strofinò gli occhi, nervoso «Sarà distrutto.»
«Questo non lo mettiamo assolutamente in dubbio, Ian, ma …» gli rispose Fiona, che era nuovamente sull’orlo delle lacrime.
«Ci sarà Mandy.» aggiunse Lip, alzando le spalle e guardando il fratello dritto negli occhi.
«Che sarà distrutta quanto lui!»
«La smetti, cazzo!» urlò Lip, posando la bottiglia di birra sul ripiano della cucina e alzandosi, inveendo contro Ian «Cosa cazzo credi? Che noi non saremo distrutti? Pensa anche a noi, maledizione, che siamo la tua cazzo di famiglia, quelli che ti hanno pulito il culo quando eri neonato! Smettila di sbatterci in faccia la tua cazzo di vita da frocio perfetto e piangere per il fidanzatino della minchia che dovrai abbandonare per andare a bruciare all’inferno!»
Fiona lo guardò sbigottita, chiedendosi come potesse mai dire cose del genere … Avrebbe voluto solo tirare un ceffone a suo fratello, ma poi capì: capì quanto doveva essere doloroso per Lip dover perdere Ian, il bambino che proteggeva dai bulli quando erano piccoli, quello a cui aveva insegnato tutto quello che sapeva, con cui passava le notti insonni a chiacchierare. In quel minuto, la maggiore dei Gallagher comprese che quella morte sarebbe stata devastante per tutti gli altri suoi fratelli tanto quanto come lo sarebbe stata per lei.
Adesso Lip si sentiva messo da parte, accantonato in un angolino mentre tutto intono a sé collassava.
«Senti, siccome le tue relazioni vanno una merda e la tua vita sta andando allo sfascio non sfogare le tue frustrazioni con il presente frocio che – come hai precisato – presto se ne va all’inferno. Prima di allora vorrei godermi un po’ di vita in questo buco di quartiere con le persone che amo. Ma se le cose con te stanno così, Lip, è meglio che trovi qualcun altro su cui sfogare i tuoi tormenti da universitario alcolizzato e genio incompreso perché io-» Ian urlò e gli si mozzò il fiato, spalancò gli occhi e si portò un mano al petto che sembrava andare a fuoco. Il suo sguardo si appannò e perse l’equilibrio, cadendo di peso sul pavimento, arrancante mentre cercava disperatamente aria.
Subito i suoi fratelli gli furono attorno, Lip lo sollevò sulle sue braccia, urlando il suo nome. Cosa cazzo aveva combinato?
Fiona era una maschera di terrore, si guardava intorno sperduta, mentre Lip aveva afferrato il suo cellulare per comporre il numero del 911. Sfortunatamente il cellulare non ne voleva sapere di sbloccarsi e con mani tremanti lo lanciò sul pavimento.
Fiona corse sulle scale, spaventata e piangendo.
Non era forse arrivato il momento … ?
No, era decisamente troppo presto.
«MICKEY! MICKEY!» Fiona gridava il nome del ragazzo per le scale, nella speranza di svegliarlo. Fece capolino nella camera urlando, svegliando anche Carl.
«Cosa cazzo succede?» era già seduto sul letto che si metteva un paio di pantaloni, agitato.
«Si è sentito male!» urlò Fiona, ansimando e piangendo, Mickey scattò come una furia al piano di sotto, mentre il povero Carl guardava la scena spaesato e assonnato.
«IAN! IAN! CAZZO!» arrivò in cucina correndo, con il cuore che batteva all’impazzata dalla paura e i pantaloni ancora slacciati.
Era letteralmente terrorizzato, si gettò sul pavimento e prese la testa di Ian sulle sue ginocchia «Ian, rispondi, cazzo!» vide Lip in preda al panico che cercava qualcosa intono a lui come un forsennato «Chiamate una cazzo di ambulanza!»
«Se trovassi un cazzo di telefono che funziona la chiamerei!» ribatté Lip «E tu aiutaci, cazzo!» si rivolse a Fiona, che si era rannicchiata vicino l’uscio della porta a guardare la scena sommersa da un pianto disperato.
Mickey lanciò il suo cellulare a Lip, che prontamente s’alzò dal pavimento per andare a chiamare il Pronto Soccorso. Mickey prese il suo posto, sorreggeva il corpo di Ian con le braccia e gli stringeva forte la mano fredda e tremante, proprio come la sua.
«Riprenditi, brutta testa di cazzo.» gli mormorò, mentre gli mollava la mano e iniziava ad accarezzargli i capelli e posarvi un bacio sopra di essi … profumavano, perché la sera prima avevano giocato a fare le fighette e avevano fatto il bagno insieme, abbracciati nella vasca di casa Gallagher finché l’acqua non si era fatta troppo fredda, con Ian con lo sguardo perso nel vuoto, poggiato sul petto di Mickey, che – ovviamente – giocava con i suoi capelli bagnati.
«Se muori adesso ti taglio quelle palle di fuoco che ti ritrovi, okay?» se lo appoggiò alla spalla che ancora cercava aria, sentiva tutto attorno a sé ovattato, non riusciva a parlare.
Nel frattempo Carl e Debbie erano scesi a vedere, la seconda terrorizzata, abbracciata a Fiona mentre urlava il nome del fratello. Lip parlava ancora con il 911.
Non seppero con certezza quanti minuti passarono … sapevano solo che quei pochi minuti erano sembrati un’eternità.


Era già pomeriggio ed Ian era ancora in ospedale, aveva avuto delle strane macchine attaccate per tutta la mattina, ma fortunatamente adesso aveva solo una flebo al braccio sinistro e qualche altro orrido aggeggio che gli monitorava le funzioni vitali.
Avevano chiamato Mandy per avvisarla, ma era ancora impiegata in un turno dei suoi numerosi lavori, che faceva per mandare avanti la famiglia.
Mickey si chiese che cazzo di lavoro facesse alle sei e mezzo del mattino, anche se temeva di saperlo già. Li avrebbe raggiunti in ospedale più tardi, durante l’orario delle visite.
Quando erano andati ad avvisarli delle condizioni piuttosto critiche di Ian i medici avevano comunicato alla banda dei Gallagher – Mickey, Kevin e Veronica compresi – che solo una persona poteva rimanere con Ian fuori dall’orario di visite, Mickey si offrì subito come volontario, guadagnandosi un’occhiataccia da Lip e alcune prediche dal medico perché non era un suo parente.
Ma dopo alcune discussioni con il medico e vari insulti da parte di Mickey erano riusciti a farlo restare con Ian, Lip aveva deciso di non intromettersi, chiamando Mandy per aggiornarla sulla situazione e dirle che la stava andando a prendere.
A Mickey non importò, non appena ebbe il permesso si fiondò nella camera di Ian, ancora incosciente, a prendergli la mano e mormoragli qualche preghiera mischiata a qualche insulto.
Adesso erano ancora lì, Ian aveva ripreso conoscenza e respirava grazie all’aiuto dell’ossigeno, Mickey, sfinito per com’era, aveva poggiato la testa sul suo addome, coperto dalle lenzuola pesanti, e stava in silenzio, fermo a fissare il muro bianco davanti a sé mentre Ian gli stringeva la mano e gli accarezzava le guance. Ogni tanto Mickey gli baciava la mano e ringraziò il cielo che fossero soli perché non sarebbe riuscito a metter su la maschera da duro prepotente e non lasciar andare tutto il dolore e la paura che aveva dentro.
«Come stai, Mick?» gli domandò con un sospiro, mentre Mickey si alzava per sistemarsi sulla sedia e guardarlo meglio in volto.
«Come sto io, Ian?» ribatté, con tono pacato – non aveva neanche la forza di mettersi a litigare – quasi innaturale per lui «Cazzo, sei tu quello che stava per lasciarci le penne.»
«Tu hai tutta la vita davanti, Mick.»
«Non parlare come se avessi novant’anni.»
«E tu non parlare come la tua intera vita dipendesse da me.»
Mickey si voltò di scatto a guardarlo scioccato dopo quell’affermazione, la sua vita intera non dipendeva da lui, era solo la ragione di ogni sua azione, di ogni suo gesto, di ogni sua parola, di ogni suo respiro.
No, sicuramente la sua vita non dipendeva da lui.
«Mi hai fatto prendere un cazzo di infarto e perdere vent’anni di vita, stamattina. Porca puttana, Gallagher.» gli confessò, strofinandosi gli occhi, circondati da violacee occhiaie.
«Dillo al mio cancro.» ironizzò Ian, sorridendo a malapena.
«Smettila.»
«Perché non dormi un po’?» gli propose Ian, notando la sua espressione stanca «La notte non dormi più.»
«Cosa cazzo dici?» scattò sugli attenti, timoroso che Ian potesse sentire tutti quei pianti e tutte quelle suppliche durante la notte.
«Lo so che di notte non dormi, Mick.»
«E come cazzo lo sai?» Mickey lo guardò torvo, si sentì in un certo senso violato … non voleva che Ian sapesse certe cose, non voleva che sapesse che di notte viveva con il costante timore che fosse morto mentre dormiva.
Ma evidentemente era troppo tardi.
Ian gli sorrise e lo invitò a stendersi accanto a lui, che dopo averlo guardato in cagnesco non se lo fece ripetere due volte e, facendo attenzione a tutti quei trabiccoli che aveva addosso si stese al suo fianco, posando la testa sulla sua spalla e un braccio intorno al suo addome.
«Qual è il tuo sogno?» gli domandò Ian, di punto in bianco, mentre stavolta era lui quello occupato ad accarezzargli i capelli.
«Che cazzo di domanda è?»
«Rispondi e basta. Sincero.»
«Non lo so … voglio tante cose, che avvenga un miracolo e distrugga lo schifo che hai nei polmoni e nel cervello, che la Russa scompaia, potermi fare seghe in bagno sulla tua fotografia senza che …»
«Mick, non hai bisogno della mia fotografia su cui farti le seghe.» rise di gusto «Io dico il tuo sogno. Quello che coltivi da bambino, hai capito cosa intendo.» lo interruppe Ian, chiudendo gli occhi e immaginando chissà cosa.
«Non ne ho mai avuto queste stronzate.»
«E invece sì.»
«E invece no.» ribatté lui, con una fermezza tale palesava il contrario.
«Non ci credo neanche un po’.»
«E va bene.» cedette, scrollando le spalle «Andare via da questo buco di culo, vedere il mondo, vedere cosa mi aspetta fuori da questa merda di quartiere.»
«E allora andiamo a vedere il mondo, Mick.» sorrise Ian, facendo una carezza lungo tutto il braccio di Mickey e posando una guancia sulla sua testa.
Mickey sperava solo che non fosse venuto nessun medico o nessun infermiere a rompere il cazzo.
«Ti sei fritto il cervello, Gallagher.» rise lui.
«No, dico sul serio. Partiamo, andiamo a fare un viaggio, lo voglio anche io.»
«In questa situazione del cazzo dovrei essere io a dover soddisfare ogni tua fantasia.» ribatté Mickey, ridendo … rideva finalmente, amaramente, ma rideva. Questo rincuorò Ian.
«È il mio ultimo desiderio.» affermò Ian, serio, con un’espressione quasi intransigente.
Mickey alzò lo sguardo per incrociare il suo volto e comprese che contro quel viso così bello non poteva fare alcuna resistenza, neanche se avesse tirato fuori la parte peggiore di sé, quella che mostrava ogni giorno prima di diventare una checca innamorata.
Si limitò ad annuire silenziosamente.
L’ultimo desiderio di Ian Gallagher era … renderlo felice?
«Okay, troverò il modo di fare questo viaggio.» confermò Mickey, anche se il modo di farlo già l’aveva trovato «Dove vuoi andare?»
«Dovunque tu voglia, Mick. Basta che siamo assieme e che siamo fuori dall’Illinois.» rise Ian, mentre Mickey roteava gli occhi. «Adesso fai il bravo bambino e dormi.»
«’Fanculo, Gallagher.» gli rispose, stringendosi, tuttavia, tra le sue braccia.
«Sì, ti amo anche io, Mick.» Ian rise e con la poca forza che aveva lo strinse a sé, sperando solo che si fosse addormentato e che avrebbe riposato almeno un po’.


4.072 dollari.
4.072 dollari del fondo cauzioni di suo padre (e pensare che morivano di fame!) che sommati agli altri 3.800 che aveva ricavato vendendo tre dei suoi fucili facevano 7.872, ma sì … gli sarebbero bastati e avanzati per pagare due biglietti per Honolulu e per viziare al meglio il suo Ian.
Honolulu, quando aveva quattro anni era convito che se ci fosse andato ci avrebbe trovato Mago Merlino.
Sperava solo che Ian avrebbe approvato la scelta e che le spiagge delle Hawaii gli sarebbero piaciute, nonostante fosse appena iniziato gennaio in teoria lì doveva fare caldo.
Un tempo avrebbe gioito come un bambino davanti ad un negozio di caramelle alla notizia di poter andare finalmente ad Honolulu, ma adesso? Il prezzo che doveva pagare per andarci era troppo alto.
Senza contare che non appena Iggy avesse scoperto che aveva rubato l’intero “fondo cauzioni” di suo padre si sarebbe incazzato come una bestia e non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a sparargli un altro paio di proiettili nel culo.
Ma non gli importava, non gli importava più niente se non di Ian Gallagher.
Nascose il bottino intero nella tasca interna della giacca e recuperò il suo vecchio computer portatile – rubato dalla casa di un tizio ricco sfondato – e scroccando la rete Wi-Fi del vicino di casa si connesse su un sito che vendeva biglietti aerei, ma mollò subito perché, stupido per com’era, non si era reso conto che tutti i siti richiedevano un pagamento tramite VISA.
Era spazientito, arrabbiato, triste … Ian sarebbe uscito dall’ospedale qualche pomeriggio dopo, nel frattempo avrebbe passato la mattina in qualche agenzia di viaggio del North Side.
Lip stava trascorrendo la notte con Ian e lui aveva tutto il tempo per farsi una notte di sonno decente, alzarsi, lavarsi, vestirsi a tiro, andare in ospedale, salutare il suo Ian e poi imbarcarsi in un piacevolissimo viaggio in macchina di mezzora per raggiungere l’altra parte della città.
E così la notte passò in fretta, tra un sonnellino tra le lenzuola del suo letto e un pianto di Yevgeny.
La mattina alle otto era già in ospedale, con una camicia pulita e i capelli sistemati. Peccato che quando entrò nella camera entrambi i fratelli Gallagher dormivano, Lip in una posizione piuttosto scomoda su una sedia.
S’avvicinò piano al letto d’ospedale e gli accarezzò ancora una volta i capelli rossi, per poi posargli un bacio sulla tempia, gli dispiaceva doverlo svegliare, ma voleva parlargli del viaggio, dei biglietti e di tutto ciò che avrebbero fatto insieme.
Voleva parlargli del fatto che avrebbe mantenuto la sua parola, quando gli aveva promesso che avrebbe vissuto una bella vita.
«Ehi.» lo scosse un po’, accarezzandogli un po’ bruscamente lo zigomo «Sveglia, testa di cazzo.» sorrise, contemplandolo come un dio.
Lui effettivamente si svegliò, provando a stiracchiarsi un po’.
«Almeno ho fatto un risveglio decente.» rise Ian, non appena vide la sua sagoma sopra di lui.
«Ben svegliato, Bell’addormento.» lo schernì, aiutandolo ad alzare lo schienale del letto per poi sedersi sopra e posando una mano sul suo collo «Come ti senti?»
«Sto bene, non preoccuparti.» sorrise, prendendogli la mano «tu, piuttosto? Come mai di tutto punto stamattina? Chi devi andare a fregare?» gli domandò, osservando il suo abbigliamento piuttosto inconsueto.
«Nessuno. Devo andare al quartiere dei ricchi a prenotare i nostri biglietti per Honolulu.» disse, con una certa fierezza nella voce.
«Honolulu? Sul serio, Mick?» rise Ian, e a quel punto Mickey non capiva se lo stesse prendendo per il culo o il suo animo da bambino da otto anni fosse terribilmente felice.
«Che c’è? Non ti piace? Non …» ma prima che potesse farlo finire di parlare lo attirò verso di sé e lo baciò con foga, lasciandolo spiazzato e facendogli sputare qualche insulto e qualche parolaccia.
«È perfetta, Mick.» sorrise, una volta staccatosi dalle sue labbra, mentre Mickey lo guardava ancora imbarazzato. «Dove hai trovato i soldi?»
«Be’ … ho venduto un paio di fucili e poi c’era il fondo cauzioni di quello stronzo di mio padre.»
«Non dovevi, se i tuoi fratelli lo scoprono ti squartano vivo.»
«Poco mi importa, non sapevano neanche quanto c’era dentro. Non se ne accorgeranno. Vieni qua.» con timore lo avvolse tra le braccia, facendo ben attenzione ai mille fili che aveva collegati ovunque. Sperava solo che il biondino non si fosse svegliato o avrebbe dovuto ucciderlo per fargli scordare quell’immagine di Mickey Milkovich come fidanzato amorevole e devoto. Ian lo strinse a sua volta. «Dai, testa di cazzo, adesso devo andare.» mormorò staccandosi e guardando Ian negli occhi «Torno verso l’ora di pranzo, fatti trovare vivo.»
Ian annuì, mentre Mickey gli posava un bacio sulla testa, per poi uscire di tutta fretta dalla stanza.
Mickey Milkovich giurò a se stesso che, per quanto fosse poco il tempo che avrebbero potuto trascorrere insieme, avrebbe costruito un mondo solo per loro due e lui … lui sarebbe stato al centro quel mondo.
Al centro del suo mondo.


 
FINE CAPITOLO III


 

Note d’Autrice.
Anche oggi sono, più o meno, puntuale con l’aggiornamento, fortunatamente … ce l’ho fatta!
Bene, siamo già al terzo capitolo e – come avete potuto leggere – quel poveretto di Ian è stato male.
Ora, nonostante abbia cercato di informarmi il più possibile sulla questione clinica, non sono un medico e non ne conosco i dettagli, semplicemente ho scritto il tipo di scena che mi sono immaginata, quindi mi scuso se a livello medico non risulta molto realistica.
Bene, l’inizio di questo capitolo (la litigata tra Lip ed Ian) è stata una delle primissime cose che ho scritto di questa storia e, questa chiacchierata che hanno avuto i due fratelli assieme a Fiona ad un certo punto della storia avrà un ruolo fondamentale.
Personalmente, credo che Lip abbia ragione nell’affermare che Ian si sta preoccupando solo di Mickey e non della sua famiglia, ma diciamo che secondo me in questa storia il Rosso dà alcune cose per scontate.
Sa che la sua famiglia è salda, che ne usciranno distrutti, ma che riusciranno a superare tutto insieme, è effettivamente vero che Mickey non ha nessuno ed è vero anche il fatto che certamente non si farà aiutare.
Ian ama la sua famiglia, ma non riesce a non preoccuparsi per Mickey, visto che – come ha detto nella storia – lo vede assumere comportamenti che non sono suoi.
Mickey è cambiato, sta man mano perdendo il suo temperamento e rivelando le sue emozioni per quelle che sono. A mio parere, però, in questa storia l’ho reso molto più coraggioso di quel che è stato in alcuni punti della serie TV (per esempio quando è andato via dalla clinica), diciamo che qui, nonostante tutta la paura che abbia nel vedere Ian in quelle condizioni, è ben determinato a restare al suo fianco e non fuggire, come ha fatto quando ha saputo la diagnosi.
Per come mi son figurata il suo personaggio in questa storia, il suo sogno più nascosto è poter viaggiare, girare il mondo e vedere cose nuove e, visto che l’ultimo desiderio di Ian è quello di poterlo rendere veramente felice, Mickey fa emergere il bambino che è in lui e decide di racimolare soldi e prendere due biglietti per Honolulu, solo per loro.

Tutti abbiamo un qualcosa che ci fa gioire come bambini, un desiderio che coltiviamo fin dalla tenera età e credo che non sia diverso neanche per un duro come lui.
I versi della canzone associati a questo capitolo sono quelli di Middle, di DJ Snake (ft. Bipolar Sunshine).
Vi chiedo scusa ancora una volta per l’OOC e per essermi dilungata ancora una volta in queste note.
Ringrazio ancora una volta Katie_P che ha inserito la storia nelle preferite, bananacambogianachiquita che l’ha inserita nelle ricordate e ophelia15362 ed Enzo98_ che l’hanno inserita nelle seguite.
Spero che qualcuno la possa recensire e dirmi cosa ne pensa, visto che mi sembra di star brancolando nel buio.
A martedì prossimo,
Merasavia Anderson.


 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV: Safe and sound. ***





Until the end of my days

Capitolo IV:

SAFE AND SOUND

“I could
lift you up, I could show you what you wanna see and take you where you wanna be. You can be my luck, even if the sky is falling down, I know that we’ll be safe and sound. We’re safe and sound. I could fill your cup, you know my river won’t evaporate, this world we still appreciate. You could be my luck, even in a hurricane of frowns I know that we’ll be safe and sound.”
 
 
 
I primi biglietti ad un prezzo decente per le Hawaii erano stati prenotati da Mickey per due settimane dopo che Ian sarebbe uscito dall’ospedale, anche per avere il tempo per prepararsi e soprattutto preparare il resto dei Gallagher a non dover vedere loro fratello per una intera settimana.
Mickey ne aveva parlato a tutti, ma Lip e Fiona si mostravano profondamente preoccupati: «Un viaggio? In queste condizioni?» gli aveva urlato contro Fiona, con disapprovazione.
«Non sappiamo neanche se è in condizioni di prendere un aereo, potrebbe morire lì, potrebbe non arrivarci neanche a Honolulu.»
Da un lato avevano ragione di essere preoccupati, nell’ultimo periodo Ian aveva iniziato ad avere sempre meno fame e aveva già perso un po’ di kili: si notava subito dalle sue guance scavate e dalle ossa più sporgenti. In più aveva dovuto iniziare ad utilizzare l’ossigeno con più frequenza.
Ma Mickey si era spazientito di sentire i Gallagher che predicavano e che trattavano Ian come un bambino di cinque anni, non capace di scegliere cosa fosse meglio per la sua vita.
Avevano parlato insieme, ne avevano discusso e avevano persino chiesto ai medici se fosse in grado di superare un viaggio in aereo e questi gli avevano detto che non appena si fosse sentito meglio non ci sarebbero dovuti essere problemi.
Ma tutti sapevano che Ian non si sarebbe mai sentito meglio.
Semplicemente resisteva.
Dopo varie insistenze da parte di Ian, dopo aver spiegato loro molteplici volte le sue ragioni i due avevano caduto, nonostante anche i suoi fratelli più piccoli fossero letteralmente terrorizzati a doverli lasciare partire.
Debbie aveva abbracciato forte Ian non appena era tornato a casa, persino Carl che non era mai stato incline ad esternare le proprie emozioni, era palesemente spaventato all’idea di perdere suo fratello, anche se non voleva darlo a vedere. Si limitava a prenderlo in giro facendo battutine su lui e Mickey, cercando di farlo ridere e di non fargli pesare la malattia.
Era già arrivato il giorno della partenza e le valigie erano pronte sul letto di Ian, mentre tutti facevano avanti e indietro freneticamente per la casa e Kevin era appostato fuori che suonava il clacson della sua auto.
«Okay!» fece Mickey, correndo di fronte ad Ian che stava già in salotto, preso dall’agitazione mentre si trascinava le due valigie dietro. Gli stava sistemando il giubbotto e la sciarpa che portava al collo «Copriti bene, non devi prendere freddo.» Ian sospirò, soffocando una risata e prendendo la sua valigia per dirigersi fuori dalla porta insieme al resto della famiglia.
«Fermo, questa la prendo io.» lo bloccò Mickey, avvolto in una bolla di frenesia.
«Poi lo dici ai miei fratelli di non trattarmi come un bimbo di cinque anni.» s’accigliò Ian, guardandolo un po’ di traverso in tutta la sua agitazione.
Sapeva perché si sentiva in quella maniera: Mickey non aveva mai preso un aereo, certo neanche lui, ma sapeva quanto per il suo Mick fosse importante quel viaggio, gli aveva confessato quel desiderio: girare il mondo, conoscere le città, tutti quegli stili di vita diversi da quello del South Side, smetterla di vedere quella delinquenza, quelle morti insensate, non essere più costretto a prendere a pugni ogni persona che gli si presentava davanti, garantire un futuro migliore a sua sorella.
Oh, chi l’avrebbe mai pensato che il desiderio più ostinato di Mickey Milkovich fosse una cosa del genere?
«Ora muoviamoci, Kevin sta già scassando il cazzo da un po’.» borbottò Mickey, dirigendosi a tutta birra verso la porta, lasciando portare ad Ian solo un suo piccolo zainetto … lui e i suoi fratelli volevano persino che lo accompagnassero con l’assistenza per disabili, ma si era rifiutato categoricamente, ribadendo che sarebbe stato bene e che gli bastava già Mickey che giocava a fare l’infermiere con lui. In più avevano dovuto fare dei vari documenti per poter portare una bombola d’ossigeno sull’aereo, che ormai era diventata per Ian una compagna fedele.
Nell’auto di Kevin stavano praticamente schiacciati l’uno con l’altro, Ian era seduto avanti,  perché aveva bisogno di prendere aria, stanco, con la testa poggiata sul finestrino. Mickey lo scrutava con attenzione dai sedili posteriori, schiacciato tra Fiona con in braccio Liam che faceva casino e Veronica che teneva sulle gambe Carl che si lamentava per l’essere stretti come sardine in scatola. E pensare che si volevano portare anche le gemelle … Oh, santa Carol Fisher!
Kevin aveva messo la musica a palla e Mickey era entrato in iperventilazione: era felice come un bambino perché stava compiendo il suo primo viaggio, con il suo Ian Gallagher, ma era agitato, preoccupato che Ian stesse male, si chiedeva come avrebbe fatto a prendersi cura di lui una volta arrivati alle Hawaii, ma poi si ricordava delle parole del suo ragazzo, di quando gli diceva che se fossero stati insieme sarebbe andato tutto bene, che gli bastava lui per stare meglio, che se la sarebbero cavata benissimo e che avrebbero vissuto una settimana di pace, lontano da tutto e da tutti, a scordarsi delle cose brutte e a costruire nuovi ricordi.
Per quanto potessero valere.
Erano appena arrivati in aeroporto, tra mezzora si sarebbe chiuso il check-in ed era già arrivato il momento dei saluti: l’unico che sorrideva era Liam, in braccio a Fiona che aveva già iniziato a piangere.
Fece scendere Liam e s’avvicinò all’altro fratello, tendendo le braccia verso di lui, quasi tremante, timorosa …
«Ian …» il ragazzo lasciò cadere lo zaino e abbracciò la sorella, seppellendo il volto nella sua spalla e accarezzando la sua schiena, come un ringraziamento silenzioso per tutto ciò che aveva fatto.
Mickey si mise in disparte, abbassando lo sguardo imbarazzato: quello doveva essere un momento tra di loro, senza interferenze. Avevano salutato Mandy la sera prima, non poteva andare con loro perché aveva trovato un nuovo lavoro solo la settimana prima, ma la sorella gli aveva espresso i suoi timori e lui, per la prima volta dopo anni, l’aveva abbracciata.
Aveva sentito la necessità di stringere tra le braccia sua sorella, le aveva baciato le guance e si erano consolati a vicenda, provando sensazioni che mai aveva provato in vita sua.
Non voleva lasciarla andare mai più, quasi gli dispiaceva di dover partire.
In quel momento aveva compreso benissimo come si sentivano Lip o Fiona, se fosse stato lui a perdere Mandy sarebbe impazzito.
Eppure stava comunque perdendo Ian … come cazzo era possibile? Come cazzo era potuto succedere?
Decise di non pensarci, non quando stava andando nel posto che amava, con il ragazzo che amava e non aveva bisogno di altro. Dovevano ignorare la morte, non pensarci, provare a non guardarla e forse si sarebbe scordata di loro, doveva solo stringere a sé il più possibile Ian e proteggerlo, proteggere se stesso da quel dolore.
Quando Mickey aveva rialzato lo sguardo e il suo cervello si era fatto un po’ più libero Ian stava stringendo Lip tra le sue braccia, forte, intensamente, notò che il biondino piangeva, mentre si dondolava nell’abbraccio di suo fratello, come due bambini.
«Prova a morire laggiù e ti spacco la faccia con le mie mani.» gli aveva mormorato, dandogli qualche buffetto affettuoso sulla guancia.
«Andiamo, testa rossa!» si era introdotto Mickey, notando che tantissima gente si stava precipitando al check-in «Questo coso sta per chiudere.»
Ian annuì in direzione dei suoi fratelli, facendo un cenno per tranquillizzarsi, per poi seguire Mickey pieno fino al collo di valigie fino al check-in.
Cosa cazzo si faceva in un check-in?
Prima avevano dovuto mollare i bagagli in un rullo trasportatore e poi avevano iniziato a perquisirli e li avevano fatti passare in un metal detector.
«Fortuna che non mi sono portato dietro la pistola.» aveva riso Mickey quando avevano finito ed erano entrati nel Gate, seduti in una panchina isolata ed appartata, lontano da sguardi indiscreti.
«A proposito, tu eri terribilmente sexy quando ti sfilavi la cintura.» gli rispose Ian, con un sorrisetto malizioso, mentre posava una mano sulla sua coscia, pericolosamente vicino al suo pacco.
«Che cazzo fai?!» esclamò e immediatamente scansò la sua mano, allontanandola imbarazzato come una bambina al suo primo bacio.
Mickey non amava le effusioni in pubblico.
«E comunque» mise il broncio, incrociando le braccia nervoso «il tizio che ti faceva i controlli ti ha toccato il culo troppe volte.»
«Sei forse geloso di un addetto ai controlli, Mick?» rise il Rosso, prendendolo in giro.
«Non è che sono geloso … è che quel culo perfetto di marmo è mio.»
«Ahia.» Ian inarcò un sopraciglio, guardandolo sottecchi e con un’espressione molto, molto scopabile «Potrei dire la stessa cosa del tuo.» Ian allungò una mano verso il cavallo dei pantaloni di Mickey, avvicinandosi al suo orecchio per sussurrargli qualcosa «E nel vero senso della parola, potrei aggiungere.»
Mickey avvampò, era immobile, fermo nel suo imbarazzo e in quel momento l’unica cosa che voleva fare era tirare un doloroso pugno sul volto di Ian.
Una voce li informò che i passeggeri potevano imbarcarsi sull’aereo.
«Ehi, placati, palle di fuoco!» s’alzò, portandosi dietro uno zainetto e dirigendosi verso l’uscita del Gate, seguendo le altre persone «Hai sentito? Dobbiamo salire sul trabiccolo.»
«Va bene, va bene.» continuò a ridere Ian, alzandosi e tirando un sonoro schiaffo sul culo di Mickey, che sobbalzò imprecando «Tanto arrivati ad Honolulu abbiamo tutto il tempo che vogliamo …»
«Ti stacco quella cazzo di testa se non la finisci.»


Un bambino in un negozio di dolciumi: ecco cos’era Mickey Milkovich su un aereo e con un posto proprio accanto al finestrino.
Stava seduto dritto, con un sorriso da ebete sul viso praticamente incollato al finestrino per guardare sotto di lui.
«Stiamo volando, Ian! Porco cazzo, stiamo volando!» aveva quasi urlato non appena l’aereo si era alzato in volo, Ian era un po’ scombussolato e si sentiva lo stomaco sotto sopra, ma era felice di trovarsi lì accanto a lui, di vederlo sorridere in quella maniera e, cazzo, cos’avrebbe dato per avere una videocamera e riprendere il suo viso … avrebbe voluto che si fosse ricordato di quei momenti quando non ci sarebbe stato più, che tutta quella felicità che avevano vissuto non l’avrebbe mai abbandonato.
Erano passate quasi nove ore ormai da quando erano in volo, erano entrambi intorpiditi e avevano scacciato il tempo facendosi un sonnellino o raccontandosi qualcosa sottovoce, per non attirare l’attenzione della gente, visto che Mickey non appena si ricordava di essere in un posto chiuso e pieno di gente con Ian Gallagher entrava in iperventilazione.
«Sei stanco, Ian?» gli chiese, resistendo alla tentazione di prendergli la mano.
«Sì, ma sto bene.» il ragazzo aveva due cannule nel naso, collegate alla bombola d’ossigeno che gli permetteva di respirare in maniera più o meno decente.
E fu come se Ian l’avesse letto nel pensiero, perché allungò una mano verso la sua appoggiata sul ginocchio, ma Mickey lo scrutò dall’alto al basso, guardandolo malissimo.
«Azzardati a prendermi per mano e te la taglio.»
Ed Ian rise, prendendogliela comunque e guadagnandosi un’occhiataccia terribile, ma Mickey non proferì parola, limitandosi a guardarsi intorno imbarazzato, come se cercasse lo sguardo inquisitore di qualcuno.
Con l’altra mano Ian prese la sua guancia e lo girò verso di sé, baciandolo appena prima che avesse tempo di scattare via da lui e rimproverarlo, palesemente agitato.
«Cazzo fai? Siamo in mezzo ad un botto di gente.»
«E allora?»
«E allora ci guardano tutti, ci sarà sicuramente qualche omofobo del cazzo in questo aereo e non ci tengo a fare una rissa.» sbottò Mickey, sbattendo le spalle contro il sedile.
«Sei paranoico, Mick.» sorrise e lo baciò di nuovo. «Anche in un uragano di disapprovazioni io farò sempre il cazzo che mi pare, intesi?»
«Anche io faccio sempre il cazzo che mi pare, Gallagher.»
«A parte quando stai in pubblico con il tuo ragazzo.» gli rispose Ian, con un tono notevolmente irritato.
«Poi sono io quello che si lamenta sempre.»
La voce di un’hostess agli altoparlanti li avvertì dell’imminente atterraggio dell’aereo, Ian era abbastanza tranquillo, ma Mickey era pallido, un fiume di agitazione misto ad euforia, gli sembrava di poter toccare il cielo con un dito. E be’, teoricamente era già sospeso nel cielo.
Finalmente erano ad Honolulu … o quasi.
Lo stupido poche ore prima di partire aveva iniziato a leggere di atterraggi di aerei andati male. Sicuramente una cosa da fare prima di partire per il primo viaggio in aereo.
Un po’ come guardare il Titanic la sera prima di andare in crociera.
Fortunatamente atterrarono in tutta sicurezza e, nonostante la leggera spossatezza e stanchezza, stavano piuttosto bene.
«Chiama i tuoi fratelli e digli che siamo sani e salvi.» gli disse Mickey, dopo aver ritirato i bagagli e si stavano dirigendo verso l’uscita dell’aeroporto.
«Li chiamerò più tardi, arrivati in albergo.»
«Ed io che pensavo che arrivati in albero avremmo fatto qualche altra cosa …» lo disse sottovoce e lo scrutò con fare malizioso, ma Ian scosse la testa, guardando verso il basso.
Si vergognava da morire nel dirlo, ma con tutti i sintomi che aveva e con la stanchezza di quel viaggio per la prima volta in vita sua non se la sentiva proprio di fare sesso. Un solo piccolo sforzo e si sentiva che ci avrebbe lasciato le penne.
Voleva solo … riposarsi, godersi il calore di quella città e magari guardare Mickey ridere felice, mentre faceva un bagno a mare.
«Ma se fino a tre secondi fa giocavi a fare il pornostar ninfomane!»
Stava per dirgli qualcosa come “Non sto bene, Mick”, ma si trattenne, prima che questo potesse entrare in paranoia, allarmarsi e iniziare a preoccuparsi, entrando in modalità “infermiere personale”.
Da due settimane a quella parte se ne andava in giro armato di kit per la respirazione bocca a bocca e una scorta di medicine di vario tipo: era praticamente una farmacia ambulante.
«Sono molto stanco, Mick.» gli disse, prendendo la sua mano – ah, gli aveva concesso di portare il suo trolley – mentre l’espressione di Mickey era un misto tra l’imbarazzo e l’allerta «Devi perdonarmi, ma con tutta questa cazzata del cancro e il resto, sai che non sono proprio in forma.»
Ed era vero, perché si stancava per tutto.
Il fiato gli mancava anche dopo una breve camminata, o un bacio troppo spinto.
Oh, i suoi cazzo di polmoni non avrebbero retto ancora a lungo.
«Sì, lo so.» Mickey abbassò lo sguardo, sciogliendo le loro mani «Perdonami tu.» borbottò, triste, sconsolato, come se l’avesse riportato alla realtà «Ora andiamo in questo cazzo di albergo e godiamoci Honolulu. Ho grandi progetti per questa settimana.»
«Tipo?» Ian sorrise, mentre aspettavano il taxi che avevano chiamato.
«Innanzitutto ora andiamo ad affittarci una macchina.»
«E con quali soldi?»
«Guarda che ho fatto un bel gruzzoletto quando eri attaccato a tutte quelle macchine, uomo di poca fede!» sbottò Mickey, guardandolo con il suo solito sguardo truce e assassino.
Oh, non avrebbe avuto il coraggio di torcergli neanche un capello, al suo Ian ….
«Dici che alla fine i tuoi fratelli si sono accorti che hai rubato il fondo cauzioni?» gli chiese, ridendo sotto i baffi.
«Non saprei, non sono neanche tornato a casa in questa due settimane e Iggy e gli altri sono stati da un tizio in Michigan a fare affari. Se la Russa se n’è accorta, be’ … non credo le importi.»
«Troverò il modo di ridarti i soldi, Mick … o almeno la mia parte.»
«Cazzo dici? Non mi devi niente!» gli disse, scuotendo la testa e diventando rosso in volto «Tanto sono soldi che ho rubato a quello stronzo di mio padre.»
«D’accordo, non scaldarti!» rise appena, quando un taxi si fermò davanti a loro.
Oh, finalmente …


«Guarda, Ian! Guarda!» non appena erano entrati nella loro camera d’albergo Mickey era letteralmente corso sul balcone, aveva iniziato a urlare e saltare come un bambino e sembrava che avesse la meraviglia stampata sugli occhi.
Ian aveva gettato il suo zaino sul letto e abbandonato le valigie, raggiungendo Mickey con il sorriso di chi vede la bellezza per la prima volta: il sole splendeva, il mare spumeggiava a pochi metri di distanza, la spiaggia era gremita di gente, e non vi era neanche un filo di vento … e faceva un caldo infernale, al contrario di Chicago in cui passavano ogni giorno a spalare la neve. E poi ovviamente c’era il suo Mick, che con quell’espressione euforica era la più grande vera bellezza di quel paradiso.
 «Cazzo …» fece Mickey, respirando a pieni polmoni l’aria che lo circondava, come se profumasse di qualcosa di incredibilmente buono «Cazzo, siamo ad Honolulu!»
Prese il volto di Ian tra le mani e lo baciò velocemente, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro e rientrò velocemente nella camera, mentre il suo ragazzo lo guardava con un’aria perplessa e un sopraciglio inarcuato: cosa era successo a Mickey Milkovich? Chi era quel bambino di otto anni tutto entusiasta di essere alle Hawaii che saltava e ballava?
Prese la sua valigia da terra e la aprì in fretta e furia, cercando qualcosa dentro tutti quei vestiti disordinati.
«Mick, ma cosa stai facendo?»
Lanciò sul letto una stuoia da spiaggia e prese il costume da bagno blu, portandoselo davanti agli occhi e guardandolo come se fosse il tesoro più prezioso del mondo. Ian continuava a guardarlo, appoggiato alla parete e ridacchiando: lui e Mandy gli avevano regalato un costume a mutande per metterlo in imbarazzo nel suo scorso compleanno, sperava che l’avesse portato.
«Sai cosa ti dico?» esordì Mickey, iniziando a lanciar via le scarpe «’Fanculo il sesso.» si slacciò di fretta la cintura e i pantaloni, che tirò giù assieme ai boxer e si tolse la maglietta, iniziando ad infilarsi il costume.
«Be’, così non sei molto convincente mentre lo dici.»
Mickey s’avvicinò a Ian, continuando a mostrare quel sorriso che mai nessuno aveva visto sul suo volto … era come essere tornati indietro nel tempo, a quando si crede che la vita può essere ancora bella.
«Cazzo, Ian, siamo ad Honolulu! Chi ha bisogno di scopare quando è ad Honolulu?» tirò un grido strano, sembrava un pazzo per come faceva, si era già messo gli occhiali da sole e aveva la stuoia intorno al collo.
A dir la verità, ad Ian ricordava sua madre Monica in una fase maniacale del suo bipolarismo.
«Cosa ci fai ancora così? Avanti! Avanti!» lo richiamò, aprendo anche la sua valigia e mettendola tutta in subbuglio per prendere il suo costume, il suo telo e un paio di infradito.
Ian si chiedeva se si fosse fatto di qualcosa.
«D’accordo, d’accordo!» gli disse, afferrando la roba che gli aveva lanciato e cambiandosi velocemente.
Non appena Ian fu pronto per scendere in spiaggia, trascinandosi dietro anche la bombola d’ossigeno, lanciò un’occhiata a Mickey e non appena si rese effettivamente conto di com’era conciato scoppiò in una sonora e argentina risata.
«Cazzo succede, ti è venuto un attacco di ridarella?»
«Hai intenzione di venire in spiaggia con i calzini, Mick?» gli disse, sforzandosi per non ridere troppo, con scarsi risultati.
Mickey iniziò a borbottare qualcosa con qualche parolaccia in mezzo mentre si toglieva le calze cercava le infradito.
Ed Ian lo amava.
Amava il Mickey Milkovich stronzo.
Amava il Mickey Milkovich che piangeva nel suo letto.
Amava il Mickey Milkovich che ritornava bambino quando realizzava di essere ad Honolulu.
E amava anche il Mickey Milkovich che si lamentava per ogni minima cosa.
Eccome se lo amava.
Finché erano insieme, in quel paradiso, e Mickey era felice, sarebbero stati sani e salvi.


 
 FINE CAPITOLO IV
 

 

Note d’Autrice:
Anche questo martedì ce l’ho fatta ad aggiornare in tempo, fortunatamente!
Ho adorato scrivere questo capitolo, visto che è uno dei più leggeri di tutta la storia e, secondo me, uno in cui Mickey dimostra una parte del suo vero essere, che nasconde ogni giorno sotto la maschera da duro che porta al South Side.
Ammettiamolo, è adorabile.
In questo capitolo possiamo vedere la sua paura di mostrarsi in pubblico per quello che è, convinto che dovrà spaccare la faccia a qualche omofobo. Perché vivere in un quartiere come il South Side e avere come padre Terry Milkovich non lo fa sicuramente vivere in pace con la propria omosessualità.
Fortunatamente Ian lo compensa in questo, vivendo la sua sessualità liberamente e spronando anche Mickey a farlo.
Ora, Ian che non vuole far sesso: ecco, questa devo cercare di spiegarmela anche io. Semplicemente, se già non può camminare due minuti senza affannarsi come può riuscire a fare sesso dopo nove ore di aereo?
Be’, non la vedevo una cosa molto plausibile così sono dovuta sfociare in questo tremendo OOC.
E poi avevo bisogno di una scusa per quella fantastica reazione di Mickey non appena arrivano in albergo, visto che immaginarlo felice in quel modo mi riempie il cuore in maniera incredibile.
Mi piace immaginare una parte più “umana” di Mickey, la parte che in un quartiere pieno di delinquenza e criminalità lui non può mostrare.

Mi piace immaginare questa versione “bambina” di Mickey, che ha ancora dei desideri accesi, dei sogni che può coltivare e raggiungere.
Be’, non credo di aver altro da dire.
I versi che sono stati associati a questo capitolo sono quelli di “Safe and sound”, una famosa canzone dei Capital Cities.
E qui vi lascio una GIF che secondo me rappresenta al meglio Mickey in questo capitolo.
Concludo ringraziando Hil 89, Willkick e Lex_in_Wonderlend che hanno recensito la storia, Katie_P, kenyz, pensavate e (ancora una volta) Hil 89 e Lex_in_Wonderlend che l’hanno inserita nelle preferite, bananacambogianachiquita che l’ha inserita nelle ricordate e Enzo98, ophelia15362 e (ancora una volta) Willkick che l’hanno inserita nelle seguite.
Ringrazio anche i lettori silenziosi, nella speranza che possano farsi sentire!
Grazie per tutto,
a martedì prossimo con il V capitolo!
Merasavia Anderson.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V: Take your time. ***



 
Until the end of my days

Capitolo V:

TAKE YOUR TIME

“I don’t wanna steal your
freedom, I don’t wanna change your mind, I don’t wanna make you love me, I just wanna take your time.
 
 
 
Il sole era quasi del tutto tramontato, appena Mickey era uscito dal bagno dopo una lunga doccia, già vestito e pettinato, aveva trovato Ian profondamente addormentato nel letto, con i capelli rossi scompigliati sul cuscino e ancora umidi.
Stupido cazzone, glielo diceva sempre che avrebbe dovuto asciugarli che altrimenti si ammalava …
S’avvicinò a lui, nervoso, mentre lo ammirava nella sua stanca bellezza, gli diede un bacio sulla tempia, cercando di non svegliarlo … avrebbe preferito che non sapesse che l’aveva baciato.
Iniziò a scuoterlo per la spalla, con tutta la dolcezza che Mickey Milkovich potesse avere dentro, sembrava così goffo mentre lo faceva che in confronto un elefante sarebbe stato molto più delicato, ma – per la maggior parte delle volte – ad Ian andava bene così.
«Ian!» lo chiamò «Dai, svegliati, testa di cazzo, ti porto a cena!»
Ian non si mosse, restando appallottolato nel letto, in una posizione che non doveva essere per niente comoda, così una brutta sensazione si insediò in Mickey, che iniziò a scuoterlo e ad urlare allarmato.
No, non poteva perderlo, cazzo, aveva promesso ai Gallagher che l’avrebbe riportato nel South Side intero. Non poteva perderlo, ne sarebbe morto lui stesso.
«Ian, svegliati!» urlò, tirandogli un paio di leggeri ceffoni sul volto «Cazzo, Ian! Svegliati, Ian! Svegliati!»
Era letteralmente preda del panico, i suoi occhi vagavano da ogni parte della stanza, le sue mani tremavano e aveva tutti i sensi all’erta.
«Che cazzo vuoi?» era Ian. E si era svegliato, con un’espressione seccata sul viso d’angelo , la voce impastata dal sonno e il tono notevolmente contrariato.
Ma non poteva lasciarlo dormire?
«Porca puttana, Ian!» si sciolse tra le braccia del ragazzo come una checca spaventata, seppellendo il volto nella sua spalla, mentre Ian era ancora ben intenzionato a prenderlo a pugni per aver interrotto il suo sonno tranquillo «Mi hai fatto venire un cazzo di attacco di
cuore, lo sai?»
Ian lo comprese, sorridendo e stringendolo, perché – maledizione! – Mickey Milkovich tremava tra le sue braccia. Tremava davvero.
In realtà Ian avrebbe voluto solo tirargli un calcio per averlo svegliato, ma si ricordò delle notte insonni che passava al suo fianco, temendo di vederlo morire nel sonno.
Aveva capito quanto quel ragazzo violento del South Side, con cui aveva fatto a pugni e poi scopato centinaia di volte, tenesse a lui, di come si preoccupava, di come diventava così fragile mentre piangeva silenziosamente durante la notte, convinto che lui non lo sentisse.
«Pisciasotto …» aveva mormorato, sorridendo beffardo, mentre gli tirava uno scherzoso pugno sulla spalla e gli posava un bacio sul collo.
«’Fanculo!» lo scrollò, alzandosi dal letto «Vestiti bene, andiamo a mangiare fuori!»
«Che lusso!» commentò, stiracchiandosi e tirando uno sbadiglio.
«Muoviti, prima che cambi idea!»
«Hai intenzione di venire a cena vestito così?» domandò Ian a Mickey, guardando di traverso la sua camicia con su stampate tantissime foglie di marijuana.
«Stavo per farti la stessa domanda, sembri un frocetto al proprio matrimonio.»
«Tecnicamente è ciò che siamo.»
«Solo tecnicamente, però.» rise Mickey, baciandogli la testa e disfacendo i suoi capelli ordinati «Ora andiamo, testa di cazzo!»
«Dovrebbe essere il dominatore a dar ordini, Mick.» per tutta risposta il Rosso ricevette un simpaticissimo dito medio dal fidanzato, che camminava di fronte a lui, fiero nella sua camicia verde.
Rise di gusto, conosceva il suo Mick e sicuramente non si aspettava una reazione differente da quella, sapeva quanto detestava che gli ribadisse quel concetto o che lo chiamasse “Sottomesso”, ma puntualmente lui lo faceva, sapendo che l’avrebbe fatto incazzare a dismisura.
E tutto per un’unica volta che si erano dilettati nel BDSM …
Dopo mesi, Mickey ci aveva fatto l’abitudine e aveva imparato ad ignorarlo.
Ed era anche di quello che si era innamorato Ian, e in quei suoi ultimi mesi di vita non voleva altro che la semplicità di quei gesti. Non gli importava dei grandi viaggi, delle preoccupazioni, della stanchezza … voleva solo vivere la quotidianità.
Aveva accettato l’idea di morire, ormai, era solo devastato al pensiero di dover lasciare la sua famiglia e Mickey, da solo nel suo dolore. Aveva troppa paura di ritrovarselo al suo fianco troppo presto, in chissà quale mondo.
Erano già passati dieci minuti da quando erano entrati in macchina e Mickey aveva iniziato a guidare per il ristorante dove aveva prenotato, aveva detto che ci sarebbero voluti al massimo cinque minuti, ma a quanto pare stavano girando a vuoto da un bel pezzo e Mickey si faceva sempre più nervoso, masticava la sua gomma alla menta con irruenza, come se volesse uccidere qualcosa tra i suoi denti, sbruffava ogni due secondi mentre si guardava intorno cercando di capire dove fossero.
«Mick, almeno sai dove si trova di preciso questo ristorante?» gli domandò Ian, posizionandosi meglio sul sedile e aprendo il finestrino.
«Cazzo, sì che lo so, mi sono fatto dare le indicazioni dal tizio con cui ho parlato per la prenotazione.»
«Possiamo chiedere informazioni a qualcuno.»
«No, cazzo, sono sicuro che siamo vicini, non era molto lontano dall’albergo e ho seguito le indicazioni.» sbottò Mickey, battendo le mani sul volante.
«Ehm, Mick …» farfugliò Ian, soffocando una risatina affannata «Non sarà mica quello il ristorante?» indicò un’elegante insegna illuminata e vide il volto di Mickey sbiancarsi, rassegnato, strano.
«Cazzo, sì.» mormorò, guardandolo stranito «Da dove è sbucato?»
«Credo che ci abbiamo girato intorno per tutto il tempo.»
«’Fanculo!» borbottò, facendo un parcheggio azzardato e scendendo velocemente dall’auto, recuperando la bombola d’ossigeno di Ian, che rideva.
«Devo portarmi ovunque questo coso?» aveva domandato, tirando un’occhiata storta a quell’aggeggio.
Almeno per quella sera voleva passarla in tutta tranquillità con Mickey, senza l’ansia che gli veniva ogni volta che incrociava l’oggetto che gli ricordava che da lì a poco sarebbe morto.
«Sì, se non vuoi morire di asfissia.» aveva borbottato, trascinandosi dietro la bombola mentre percorrevano la strada per arrivare al ristorante.
Mickey Milkovich con una camicia con foglie di Marijuana e una bombola d’ossigeno rientrava sicuramente nelle cose più strane che Ian avesse visto.
Azzardò a prendergli la mano mentre camminavano, lo aveva guardato con sguardo supplicante, come a pregarlo di non fare come al suo solito e toglierla via bruscamente … ma fu ciò che fece, colto alla sprovvista e quasi spaventato: Mickey odiava il contatto fisico quando si trovavano in pubblico.
Eppure lo stava portando in un ristorante gremito di persone, ci stavano andando insieme, vestiti come due attori provenienti da un film comico. Qualcosa doveva significare.
Non appena entrarono Mickey fu come colpito da una paralisi quando vide la maggior parte dei tavoli pieni, Ian che già si era incamminato per andare dal cameriere che li avrebbe condotti al loro tavolo si voltò, scrutandolo preoccupato.
«Mick, stai bene?»
«Sì, sì.» farfugliò, scuotendo la testa per svegliarsi dal trance in cui era caduto «Tutto okay. Andiamo … andiamo dal cameriere.»
Non appena furono accompagnati al tavolo, l’espressione di Mickey era paragonabile a quella di una bambola di porcellana, era rigido, il volto abbronzato era pallido e si scrutava con fare sospetto intorno.
«La smetti?» fece Ian, accigliandosi mentre aspettavano che qualcuno portasse loro l’antipasto che avevano ordinato.
«Di fare cosa?»
«Di comportarti come se dovesse bucare qualcuno da sotto un tavolo per ucciderci.»
Ian lo sapeva, ti abitui a tenere tutti sensi all’erta quando cresci in un quartiere come il South Side di Chicago, ma quel comportamento di Mickey gli sembrava esagerato.
«Okay, okay.» si sistemò meglio sulla sedia, poggiando i gomiti sul tavolo «Ma sicuramente qui ci sarà qualche testa di cazzo pronta a fare commenti e non so se stasera posso tollerarlo.» sussurrò, in modo che solo Ian potesse sentirlo.
«Mick, ognuno si sta facendo i fatti propri. Nessuno ci sta guardando, nessuno sta facendo commenti. Non iniziare con le tue paranoie, ti prego.»
«Non sono paranoie.»
«Va bene, possiamo rilassarci e parlare di qualcosa di allegro?»
«Cazzo, sì.» fece Mickey, grattandosi la guancia e cercando di comportarsi normalmente «Godiamoci questa penultima notte in questo paradiso.»
«A proposito.» disse Ian, mentre mangiava un grissino e rideva «Stanotte parlavi nel sonno.»
«Io non parlo nel sonno.»
«Ti dico di sì, farfugliavi qualcosa su Mago Merlino.»
E allora Mickey ricordò dell’imbarazzante sogno che aveva fatto quella notte: lui e Mandy, da piccoli, che ridevano e saltellavano elettrizzati mentre giocavano con il vecchio mago sulla spiaggia.
Oh, ci avrebbe portato Mandy un giorno, ad Honolulu …
«Cazzo!» aveva inizialmente esclamato, imbarazzato e rosso in volto, ma si riprese subito, tentando una risata «Oh, bella questa, Mago Merlino!»
«Non mi dirai mai cosa hai sognato, vero?»
«Non ho sognato un bel niente!» si irrigidì, diventando rosso fino alla punta delle orecchie. «Piuttosto guarda, sta arrivando quel cazzone del cameriere con il nostro cibo.»


Come i giorni fossero passati così in fretta Mickey e Ian non se ne capacitavano, era quasi il tramonto e il giorno successivo, dopo pranzo, li aspettava un aereo per Chicago. Avevano già consegnato la macchina che avevano noleggiato, dopo un giro di esplorazione che era durato un’intera giornata. Erano stanchi, ma tutto sommato felici.
Mickey era steso sul letto, a guardare il soffitto, Ian stava sul balcone, con le braccia poggiate sulla ringhiera.
«Dovremmo andare in spiaggia a vedere il tramonto, Mick.» esordì, girandosi verso di lui.
«Come due checche innamorate?»
«Come due checche innamorate.»
«Dobbiamo proprio farlo?» si lamentò Mickey, portando le braccia dietro la testa e guardando Ian di traverso.
«Ho capito, Mick, non fa niente.» tornò a guardare il panorama sul balcone, mentre una leggera brezza calda gli scompigliava i capelli rossi.
Detestava quando Mickey aveva quei comportamenti, quando si vergognava di mostrarsi in pubblico per quello che era, quando viveva con il costante timore che ci fosse sempre qualcuno pronto a criticare.
La sera prima al ristorante aveva passato tutto il tempo a scrutare le persone come se fossero potenziali assassini, come se dovesse prepararsi a scattare per prenderli a pugni. Comprendeva che non venisse da un situazione semplicissima – un po’ come tutti i ragazzi del South Side, d’altronde – dopo che quello che suo padre gli aveva fatto e a cui lui stesso aveva assistito. Ricordava di come in quel momento volesse solo strapparlo via dalle braccia di Svetlana e portarlo via con sé.
Ma adesso quel tipo di dolore era finito: lì non erano al South Side, non c’era Terry, non c’era Svetlana, erano solo loro due … e non c’era nulla da vergognarsi, nulla di cui aver timore.
«D’accordo!» sbottò, alzandosi dal letto e raggiungendolo sul balconcino «Andiamo a vedere questo cazzo di tramonto.»
«Senti, non voglio obbligarti a fare nulla. Mi hai portato qui, e ti ringrazio, ho vissuto la settimana più bella della mia vita, però … » Ian esitò, guardando in basso e cercando di non incrociare gli occhi azzurri di Mickey che gli aveva poggiato una mano sul braccio, come un segno di scuse.
«Sono un coglione, lo so.» affermò Mickey, innervosendosi, più con se stesso che con Ian «Non ho bisogno della ramanzine, ma sto facendo di tutto ­per te. Sono un umano anche io, cazzo, anche io ho i miei cazzo di limiti.»
«Non ti biasimo, Mick. Non potrei mai.» posò le mani sulle sue spalle e a contatto con la sua pelle Mickey notò che tremavano «Vorrei solo prendere un po’ del tuo tempo. Vorrei solo … stare con te, senza quelle stupide paranoie. E poi tu ami questo posto, non fartelo rovinare da queste assurdità. Siamo solo noi due, Mick. E nessuno ci rompe le palle.»
«Senti, ho pensato ad una cosa l’altra notte.» esordì, evidentemente in difficoltà, guardandolo intensamente con occhi lucidi. Avrebbe voluto parlargliene alla cena, ma non se la sentiva di rovinare il loro sottospecie primo appuntamento. «Riguardo la chemio …»
Ian sbruffò, scrollando le braccia e girando gli occhi. No, non di nuovo, non anche lui.
«Fermo! Fermo!» lo prese saldamente per le braccia e lo scosse, obbligandolo ad ascoltarlo «Non voglio farti cambiare idea a riguardo, io non sono i tuoi fratelli, non sono i medici e non sono gli infermieri. Sono un perfetto sconosciuto che ti ama, cazzo, ti ama da morire. Ma cazzo, quei mesi in più …»
Mickey era sull’orlo del pianto quando Ian scosse la testa e lo strinse a sé, facendolo appoggiare sulla sua spalla e sussurrando qualcosa di consolatorio.
«Ho un fottuto bisogno di quel tempo in più, Gallagher.» gli rispose, affondando il volto nella sua spalla, sofferente, preda di panico e dolore.
«No, Mick, non ce n’è bisogno.» si staccò da lui, guardandolo in quei meravigliosi occhi azzurri e poggiando delicatamente le mani sul suo collo, per accarezzarlo.
«Andiamo … andiamo in spiaggia, se vuoi. Okay?» balbettò esitante, con uno strano luccichio negli occhi mentre con una strana dolcezza prendeva una sua mano per qualche istante, prima di lasciarlo per andare a prendere la sua consueta riserva d’ossigeno portatile.
Ian non era stato particolarmente bene, qualche notte prima, e Mickey gli aveva impedito di fare due passi contati senza la bombola d’ossigeno.
«Dai, mettiti questo aggeggio.» gli disse, aiutandolo ad inserire le cannule «È una lunga strada da qui alla spiaggia.»
«Ma se saranno al massimo tre minuti a piedi!»
«Senti, non voglio che tu stia male di nuovo, okay?» si massaggiò il filo di barba che aveva sul volto «Andiamo, veloce o ti perdi il cazzo di tramonto.»
Lo prese per mano, ed Ian comprese che stava accadendo qualcosa, che Mickey stava facendo di tutto pur di farlo star bene, stava abbattendo le sue barriere invisibili, lottando contro i suoi timori, distruggendo i suoi fantasmi … E tutto per uno stupido malato terminale che non faceva altro che rimproverargli i suoi comportamenti.
Sciocco.
Appena dieci minuti dopo il tramonto era appena iniziato e i due amanti stavano seduti sulla sabbia a guardare l’orizzonte. Cazzo, se era bellissimo, un vero e proprio spettacolo.
«C’è un motivo se ti ho portato a cena, ieri sera.» ruppe il silenzio Mickey, con la voce spezzata e tremante, giocava con le sue mani tatuate nel tentativo di ingannare la paura «Io sono un fottuto pirla, ma … voglio dimostrarti che ci tengo a te, cazzo. E che non è vero che mi vergogno di stare in pubblico con te, o di tenerti per mano o di fare qualsiasi altra cosa da froci, che – cazzo – mi piace. Ma lo sai che per me è difficile, perché in ogni fottuto istante in cui ti bacio, in cui ti stringo a me, in cui rido con te mi sembra di veder sbucare da qualche parte mio padre con la Russa, pronta a … cazzo!» si coprì gli occhi con le dita quando si accorse che stava per piangere al solo ricordo, alla sensazione terribile che aveva provato quando si era sentito violato, umiliato, svuotato da ogni emozione. Ed è per questo che Ian posò una mano sulla sua: per infondergli coraggio, dargli quel briciolo di forza che gli mancava. Perché, nonostante tutto, Mickey Milkovich era una persona terribilmente fragile.
«È per questo che detesto quel Succhia-latte – non ho neanche la più pallida idea di come si pronunci il suo nome, cazzo – perché mi ricorda costantemente che ho un padre di merda e una puttana russa che mi ha stuprato. E non ci sono dubbi che quel bambino sia mio figlio, ha i miei stessi occhi … ed è identico a me da piccolo. Mandy lo ripete sempre, e non sa quanto cazzo mi fa star male.»
«Tu non lo detesti.» gli disse Ian, sincero, mentre giocava con la sua mano e passava più volte le dita sulla scritta “Fuck” che aveva sulla mano destra.
Oh, quanto gli sarebbe piaciuto sapere la storia di quel tatuaggio, magari un giorno se la sarebbe fatta raccontare.
«No, cazzo, cioè … sì!» istintivamente e quasi senza pensarci lo attrasse a sé con un movimento brusco, lo strinse tra le braccia e attaccò a carezzargli i capelli, tentando di rilassarsi, di non piangere, di non innervosirsi «È che quando ci sei tu è tutto diverso, cazzo, Ian.»
Il Rosso si sistemò tra le sue braccia e portò una mano sulla sua guancia ispida per la barba, accarezzandola piano, rilassandosi tra le sue braccia e socchiudendo gli occhi, palesemente stanco.
«Dovresti tagliarti la barba, Mick.» sussurrò «Mi piacciono le tue guance glabre, mi piace accarezzarle. Hai le guanciotte morbide, te l’ho mai detto, Mick?»
«’Fanculo.» gli rispose, stringendolo ancora di più a sé e inspirando l’odore dei suoi capelli appena lavati «Ti odio da morire, Ian Gallagher.»
Da lì in poi cadde il silenzio tra i due, non avevano più nulla da dirsi: le loro braccia intrecciate, le carezze, il lento dondolio dei loro corpi che cercavano l’uno il calore dell’altro avevano rimpiazzato le parole, non più necessarie.
Ad un certo punto, affascinato dalla meraviglia che si plasmava davanti ai suoi occhi azzurri, Mickey s’accorse che il respiro di Ian si era fatto più rilassato, aveva smesso di accarezzargli la guancia e si era accoccolato come un cucciolo ferito a lui, che proprio in quel momento aveva iniziato a guardarsi nuovamente intorno, sospettoso.
Fortunatamente c’erano poche persone su quella spiaggia a quell’ora, cosa che Mickey trovava abbastanza strana, non riusciva a comprendere il motivo per cui gli abitanti di Honolulu si rintanavano nelle loro case e perdevano quel tramonto da mozzare il fiato: forse lo guardavano dalle loro immense terrazze di ville da gente che caga soldi al posto della merda o forse erano così abituati a quella meraviglia che ormai non ci facevano più caso, ma meglio così, in fondo, a Mickey non piaceva la confusione neanche quando era ad Honolulu. Specialmente su una spiaggia, al tramonto con il suo Ian Gallagher che dormiva tra le sue braccia e la tanto odiata bombola d’ossigeno abbandonata vicino a loro.
Ian aveva fatto così tante storie per andare in spiaggia a trascorrere un po’ di tempo insieme davanti al tramonto come delle fighette e invece … era crollato nel sonno, crogiolato nel profumo di Mickey.
Ma era bellissimo con la sua maglietta bianca e leggera, che gli stava un po’ larga a causa dei suoi dieci kili in meno, che Mickey tentava in ogni modo di fargli riprendere, i capelli scompigliati, il volto pallido, ma sereno. Il capo era poggiato sul costato di Mickey, che lo reggeva con le braccia.
E per la prima volta in quella settimana in cui i pensieri brutti erano andati via, Mickey tornò a chiedersi come avrebbe fatto a sopravvivere senza di lui, probabilmente sarebbe finito in galera nel giro di un mese o due.
Dopo essersi accuratamente guardato intorno e assicurato che non ci fossero persone vicino a loro gli posò un bacio sulla fronte e riprese ad giocare con i suoi capelli, tentando di rilassarsi e scompigliandoglieli ancora di più, stringendolo come se fosse il tesoro più prezioso del mondo.
Lo era.
Per lui lo era.



 
FINE CAPITOLO V
 

Note d’Autrice:
Anche questo martedì ci sono riuscita! Sto cantando vittoria sul serio, perché mi stupisco da sola della puntualità con cui sto pubblicando i capitoli di questa storia.
Allora, che ne dite del famoso primo appuntamento dei Gallavich? (Sì, quello mancato della 5x10, più o meno)
Sinceramente, non volevo che fosse proprio un appuntamento, ma più un modo di Mickey di dimostrare qualcosa ad Ian, di dimostrargli di esser cambiato e che provava a non vergognarsi di essere gay.
Non so perché, ma la parte iniziale era progettata per farsi due risate, ma a quanto pare non sono riuscita a rendere abbastanza comica la cosa, visto che Mickey crede Ian morto e entra in iperventilazione.
Qualcuno di voi mi aveva chiesto un Mickey in tenuta “camicia sexy hawaiana”, un po’ è così, solo … con le foglie di Maria.
Spero vi vadano bene lo stesso!
Mickey terrorizzato dalla reazione delle persone di lui ed Ian a cena in un ristorante è una delle parti del capitolo che ho amato di più scrivere, per il semplice motivo che credo che sia un momento in cui Mickey è meno OOC del solito … ammetto che anche questa parte inizialmente voleva far ridere, ma non sono riuscita a fare a meno di cogliere la profondità della cosa, visto il carattere complesso di Mickey.
La scena del tramonto, invece, è una delle primissime scene che mi è venuta in mente appena ho iniziato a scrivere la storia. Okay, forse non è una cosa proprio da Gallavich e l’OOC pullula, ma è stata una coincidenza bellissima quando nella 7x11 Mickey ha detto ad Ian che in carcere immaginare loro due sulle calde spiagge del Messico. Giuro che ho avuto un colpo al cuore quando l’ha detto, anche perché quando è andata in onda la puntata questo capitolo era già stato scritto.
Il mio cuoricino si è letteralmente sciolto mentre scrivevo di Mickey che chiede ad Ian di sottoporsi alle cure per avere un po’ di tempo in più da vivere con lui, ma come avrete capito il Rosso non per niente intenzionato a farlo.
Volevo approfondire di più la questione dello stupro di Mickey, ma non ne ho avuto la possibilità visto che il povero Milkovich non è una persona di troppe parole e non avevo la più pallida idea di come poter gestire la situazione. (Sono anche abbastanza delusa del fatto che la serie TV stessa non ha approfondito la questione, ma okay.)
Ammetto che quando Ian si è addormentato tra le braccia di Mickey sulla spiaggia doveva esserci una scena comica in cui un ragazzino di avvicina a loro e Mickey lo manda via in malo modo, sparando parolacce a raffica, ma dopo ho constatato che forse sarebbe stata un pochino inopportuna.
Non è vero, non avevo idea di come la dovessi scrivere, visto che con le scene comiche sono abbastanza negata.
I versi che ho associato a questo capitolo sono quelli di Take your time, canzone di Sam Hunt.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ringrazio sempre Hil 89, Willkick e Lex_in_Wonderlend che hanno recensito la storia, dashuria, Katie_P, kenyz, pensavoate e (ancora una volta) Hil 89 e Lex_in_Wonderlend che l’hanno inserita nelle preferite, bananacambogianachiquita che l’ha inserita nelle ricordate e Enzo98, ophelia15362 e (ancora una volta) Willkick che l’hanno inserita nelle seguite.
A martedì prossimo!
Merasavia Anderson.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI: 7 Years. ***




Until the end of my days

Capitolo VI:

7 YEARS

“It was a big, big world but
we thought we were bigger, pushing each other to the limits we were learning quicker. By eleven smoking herb and drinking burning liquor. Never rich, so we were out to make steady figure.”
 
 
 
Non appena Mickey e Ian arrivarono all’aeroporto di Chicago, trovarono i Gallagher al completo, Kevin, Veronica e Mandy che li aspettavano: Ian fu letteralmente travolto dal tornado generato dai suoi fratelli, che lo avvolsero in un forte abbraccio di gruppo; Kevin tirò qualche pacca sulla spalla a Mickey, che aveva abbracciato sua sorella, dandole un goffo bacio sulla guancia.
Che con le dimostrazioni di affetto Mickey non ci sapeva fare era ben risaputo.
«Allora, com’è andata?» aveva chiesto Mandy, mettendosi in mezzo a Mickey e Ian e prendendoseli a braccetto «L’hai trovato Mago Merlino?» chiese ridendo al fratello, che nel frattempo era diventato rosso come i capelli del fidanzato.
Ian trattenne una sonora risata: ora era tutto chiaro il motivo per cui parlasse di Mago Merlino nel sonno.
«Di’ qualcosa a riguardo e ti ammazzo.» lo minacciò Mickey, puntandogli un dito contro.
«Che ha combinato?» chiese Mandy, mentre li trascinava dietro i Gallagher verso l’uscita dell’aeroporto «Non mi dire che ha comprato una di quelle collane di fiori colorati e si è messo a ballare?!»
«Sì, qualcosa di simile lo ha fatto!»
«Non è vero.» borbottò Mickey, seppellendo le mani dentro le tasche del cappotto. Faceva un cazzo di freddo a Chicago.
«Ho un video che lo prova. E per non parlare del fatto che appena siamo arrivati stava andando in spiaggia con i calzini ai piedi.»
«Ma cosa cazzo, Mickey?» rise Mandy, burlandosi di lui che aveva messo il broncio.
«Ero preso dall’euforia, non me ne ero accorto.» si giustificò, camminando a testa bassa «Ed Ian non si sa fare i cazzi suoi.»
«Ah, e mi ha portato a cena.»
«Ian, ti prego …»
«Dovevi vederlo, Mandy, si è messo una camicia con le foglie di Marijuana e dei pantaloni così stretti che gli facevano un culo bellissimo!»
«Ian, smettila, cazzo!»
«Comunque Iggy ha scoperto del fondo cauzioni rubato.» comunicò Mandy, con un tono un po’ preoccupato «È andato a riferirlo a Terry in galera e adesso meditano su come ucciderti.»
«Tanto starò a casa dei Gallagher.» disse Mickey, con un ghigno abbastanza menefreghista «Mi sarei preoccupato se ci fosse stato quello stronzo di Terry fuori dalla gatta buia, ma ad Iggy non fotte più di tanto, con quei soldi si comprava i fucili. Vuole solo fare il lecchino con il babbo.»
Non appena misero piede fuori dall’aeroporto, nel parcheggio innevato il freddo gelo li travolse, una settimana al sole delle Hawaii era bastata a farli disabituare dal clima invernale di Chicago.
Assurdo, entrambi volevano solo trovarsi ancora in quel paradiso terrestre.
Ian pensò che, in fondo, non gli sarebbe dispiaciuto morire lì, anche se la sua famiglia la pensava sicuramente in maniera differente.
«Siamo venuti con due macchine.» annunciò Lip, che fece tirare un sospiro di sollievo ai due «Io, Mandy, Ian, Mickey e Fiona andiamo con la macchina dei Milkovich.» si era messo al centro di tutti e stava parlando come se fosse un insegnante che guidava i suoi alunni in gita scolastica, tutti lo guardavano abbastanza perplessi «Gli altri vanno con quella di Kevin, intesi?»
«Va bene, Biondino,» lo interruppe Mickey, ridendo con scherno «non siamo in una lezione di Università. Torniamocene al ghetto, ora.»
Mentre Lip e Mandy camminavano verso la macchina, seguiti da Mickey che, carico di valigie, li scrutava con uno sguardo assassino, Fiona s’avvicinò ad Ian e gli avvolse un braccio intorno alle spalle, sorridente.
«Come va?» gli domandò, stringendolo un po’ di più.
«Tutto okay, sono stato bene.»
«Sai perché Lip fa così?» rise Fiona, indicando il fratello con un cenno di capo «Vuole a tutti i costi stare in auto con Mandy, mi sa che si è innamorato.»
«Wow, due Milkovich fidanzati con due Gallagher … chissà cosa ne uscirà fuori!»
Fiona si fermò per abbracciarlo e stringerlo con tutto l’affetto del mondo: avrebbe protetto da tutto il suo fratellino, proprio come gli aveva salvato la vita quando erano bambini e Frank e Monica li avevano lasciati da soli in macchina.
Voleva solo potergliela salvare anche adesso …
«Mi sei mancato, pel di carota.» mormorò, accarezzandogli la nuca, dondolandosi in una sottospecie di balletto aggrappata a lui, che aveva ancora l’ossigeno attaccato. Perché la strada per arrivare al parcheggio era troppo lunga per lui e Mickey aveva minacciato di prenderlo in braccio se non si fosse collegato a quel trabiccolo.
Quando si staccarono notarono che gli altri erano già in auto: Mickey seduto al volante, il posto del passeggero libero per Ian e Lip e Mandy si erano stretti per far spazio a Fiona sui sedili posteriori. La ragazza poté intravedere le loro mani che si sfioravano timidamente e sorrise, perché Lip non ci aveva mai saputo fare con qualcosa di diverso dal sesso … Un po’ come lei, praticamente.
Nelle ore successive, dopo aver cenato tutti insieme stretti nel tavolo di casa Gallagher si ritrovarono a ridere davanti ad un filmato di Mickey, con addosso solo il costume a mutande che gli avevano regalato Mandy e Ian, una collana di fiori colorata e degli occhiali da sole che ballava energeticamente una canzone molto esotica. Ovviamente Ian mostrò il filmato a tutti quando Mickey aveva fatto una lunga pausa bagno. Questo, insieme a tante altre foto, tra cui una di loro due che si baciavano, con Ian che raccontava a tutti che aveva dovuto predicare tantissimo affinché si convincesse a farla.
Non appena scese, Kevin non riuscì a trattenere le risate e si voltò verso di lui, guardandolo con quell’espressione ingenua e burlona che solo lui riusciva a fare.
«Però, te la cavi bene nei movimenti, Milkovich junior!» rise «E devo anche ammettere che quel costumino ti sta davvero bene!»
Mickey impallidì, volgendo lo sguardo verso Ian, fissandolo praticamente in cagnesco, mentre il Rosso tentava di fargli la solita faccia da cucciolo a cui non riusciva mai a resistergli.
«Gli hai fatto vedere il cazzo di video?!» urlò contro di lui, sbattendo una mano sullo schienale del divano.
«Mick, ti prego …» tentò di giustificarsi, forse in fondo non pensava neanche che si arrabbiasse in quel modo. È che il Mickey di Honolulu gli sembrava così diverso, sotto certi punti di vista. Così cambiato.
Ma tutti sapevano che Mickey Milkovich avrebbe perso le staffe con chiunque in una situazione del genere ed Ian si sentì terribilmente stupido a non averlo pensato prima.
Perché ormai l’aveva capito, che Mickey aveva un maledetto timore del giudizio altrui.
«No, ti prego un cazzo, Ian! Ti avevo detto di non farlo vedere a nessuno!»
«Kev, porca troia …» commentò Veronica, coprendosi il volto con una mano per l’imbarazzo.
«Non pensavo che te la saresti presa, Mick. Era solo un video, era per scherzare.» Ian s’alzò, cercando di avvicinarsi a lui, che lo respinse in malo modo.
«Mi hai messo in ridicolo davanti a tutti, stronzo!» era arrabbiato. E anche tanto. Avrebbe solo voluto spaccare la faccia ad Ian, ridurlo in poltiglia «Vattene a ‘fanculo, pezzo di merda!» e se ne andò, sbattendo rumorosamente la porta, lasciando tutti imbambolati davanti quella scena.
Kevin era senza parole, il senso di colpa lo stava divorando dall’interno. Ian crollò seduto sul divano, il suo cuore iniziò a battere forte nel suo petto dolorante, l’aria ricominciò a mancargli, s’attaccò immediatamente all’ossigeno. Kevin gli mise una mano sulla spalla, Fiona s’apprestò ad avvicinarsi a lui preoccupata nel vederlo accovacciato su se stesso e con il fiato corto, il torace sembrava in fiamme e le lacrime premevano sui suoi occhi.
Sentiva tutto ovattato, i suoi fratelli gli dicevano qualcosa, Kevin cercava di scusarsi in qualche modo e lo stesso faceva Mandy, a nome del fratello.
La gola gli bruciava, le mani tremavano visibilmente e la sua testa era così confusa che non riusciva neanche a capire chi fosse davanti a lui.
Riuscì a comprendere solo un:«Lo porto di sopra per farlo tranquillizzare.» di Lip prima di essere preso di peso e trascinato per le scale.
Non aveva la forza di controbattere, ogni muscolo sembrava privo di energia, ci vedeva doppio e il suo volto scottato dal sole era terribilmente pallido. Cosa aveva combinato? Non avrebbe mai dovuto mostrare quel video agli altri.
Ma Mickey gli sembrava cambiato e la situazione lo divertiva così tanto …
E la vita faceva terribilmente schifo.
E Mickey se n’era andato.



«MICKEY!» un urlo destò il ragazzo steso su una panchina del campo da baseball, la voce di Fiona Gallagher era carica di rabbia e odio. Quasi irriconoscibile.
«Che cazzo …» Mickey era ancora mezzo stordito, era mattina e lui era riuscito ad addormentarsi solo una o due ore prima, all’alba. Il pensiero di Ian era troppo forte.
Passò la notte a chiedersi cosa diamine gli fosse preso, del motivo per cui aveva avuto quella reazione di merda, del perché aveva dovuto rovinare tutto, cretino per com’era.
Prima di pensare a qualcos’altro di concreto, però, un dolorosissimo gancio destro lo colpì sullo zigomo, cosa che sicuramente lo fece svegliare del tutto.
«Okay, okay, me lo sono meritato.» borbottò, incrociando lo sguardo truce di Fiona e solo a quel punto s’accorse che vi erano anche Liam, Debbie e Carl, questi ultimi due lasciavano trapelare sul loro volto un’incredibile voglia omicida.
Non ebbe neanche il tempo di replicare che Fiona gli lanciò un altro pugno sull’altro lato del viso e Carl pensò bene di prendere a calci le sue parti basse.
«Ehi, ragazzino, quelli mi servono!» urlò, aggiustandosi il cappotto e tastandosi gli zigomi tumefatti e doloranti.
Probabilmente i Gallagher erano venuti a comunicargli che non volevano vederlo mai più, di non farsi vivo, magari era stato Ian stesso a dir loro di mandargli quel bel messaggio.
Tanto aveva già perso tutto.
«Ian ha detto a Lip che probabilmente ti avremmo trovato qui … Maledetto stronzo!» gli urlò addosso Fiona – la stessa Fiona che fino a tre settimane prima piangeva sulla sua spalla? – tirandogli anche uno schifosissimo sputo «Si è sentito male! Si è sentito male a causa tua!»
«Che cazzo stai dicendo?» Mickey diventò una maschera di terrore, la sua voce scemò e sentì la fottuta ansia percorrergli tutto il corpo come se si stesse cibando di lui.
«Ha passato tutta la cazzo di notte a provare a chiamarti e a mandarti messaggi. E non c’è stata una cazzo di volta in cui hai risposto! E questo perché? Perché devi fare lo stronzo orgoglioso per uno stupido filmato!» Fiona urlava ancora, con le lacrime agli occhi e il volto rosso e Mickey s’allontanò, vedendola pronta a tirargli un altro pugno.
E si sentiva in colpa, perché lui quei messaggi li aveva letti, tutti quei “Perdonami”, tutti quei “Ho bisogno di te”, quei “Ti prego, Mick”, in cui gli sembrava di poter sentire la sua voce in quel campo isolato.
«Dov’è adesso?» sussurrò a malapena, voltando le spalle alla maggiore dei Gallagher perché – porca puttana – stava per piangere.
«In ospedale.» Fiona esitò, asciugandosi le lacrime sulle guance e prendendo la mano del piccolo Liam «In condizioni critiche, anche se l’hanno stabilizzato.» la sua voce tremava. Fiona Gallagher era un uragano di terrore, con il cappello storto sui capelli scompigliati e l’aria di chi è stato messo sotto da un tir.
In condizioni critiche.
«E quel cretino anche mentre lo stavamo portando in ospedale si chiedeva dove fossi.»
«Chi c’è adesso con lui?»
«Lip e tua sorella Mandy.» gli rispose secca, voltandogli le spalle «Se ti degnassi di seguirmi in ospedale forse potrebbe stare meglio, a patto che Lip non ti spacchi la faccia prima.»
Il Biondino gli avrebbe spaccato la faccia? Be’, era sicuramente un rischio che per Ian avrebbe corso senza problemi.
Cazzo, era il suo Ian.
«C-Certo che vengo.» balbettò, cercando di reprimere le lacrime e di scaldarsi, strofinando le mani tra di loro.
«E allora muovi quel cazzo di culo passivo, accompagniamo Debbie, Carl e Liam da Sheila Jackson e andiamo da lui.»
«Frank vive ancora lì?»
«Sì, ma sai …» si girò verso di lui, minacciosa «anche un padre di merda come lui si è degnato di aiutarci e invece tu non hai fatto altro che peggiorare la situazione. E tutto per un cazzo di video e per un commento di Kevin?! Ma per favore …»
«Okay, lo so, sono stato un coglione. Posso rimediare?»
Fiona scattò, prendendolo dal collo del maglione e avvicinando pericolosamente il suo ghigno omicida verso il volto di Mickey.
«Ian sta morendo, brutta testa di cazzo. Non si sa neanche se farai in tempo a rimediare!»
E la Gallagher lo mollò lì, portandosi dietro i suoi fratelli e prendendo in braccio il più piccolino: «Andiamo.» disse «Se questo coglione ci tiene davvero ci va da solo in ospedale.»
Ian sta morendo.
Fu l’unica cosa che riuscì a metabolizzare, prima che le lacrime scorressero libere sul suo volto abbronzato e che iniziasse a correre il più velocemente possibile verso l’ospedale.


“Stanza 162” gli aveva detto la receptionist.
Ed era davanti alla porta della 162, con il fiatone ed il fianco destro dolorante, ma no, non gli importava del dolore, non gli importava del fiato corto: voleva solo vedere Ian, voleva solo potergli chiedere scusa, o forse picchiarlo al tempo stesso, per avergli fatto quasi venire un attacco di cuore.
All’improvviso, di quel video non gliene fotteva più nulla.
Entrò all’improvviso nella camera e subito gli occhi di Lip e Mandy si posarono su di lui, non gliene importò, non gli interessavano, erano come inesistenti nella sua mente in quel momento. Voleva solo vedere Ian. Il suo Ian.
E lo vide, non riuscendo a credere come quell’essere ricoperto di flebo e tubi che gli uscivano da ogni parte del corpo potesse essere lui. Era collegato a un’infinità di macchinari di cui lui non conosceva neanche la funzione e il terrore lo pervase nuovamente, tanto da schiacciare la schiena contro il muro, cercando di allontanarsi da quell’immagine: non aveva mai visto Ian in quelle condizioni.
«Cazzo …» mormorò, cercando la maniglia della porta con le mani per uscire. «Cazzo …» e uscì seriamente, strisciando fuori dalla camera e rannicchiandosi a terra come un riccio ferito.
Si teneva la testa sulle ginocchia, coprendosi le orecchie con le mani.
Quello non poteva essere Ian, ma i capelli rossi erano i suoi, quel corpo perfetto e lentigginoso era il suo … e allora perché gli sembrava un alieno?
All’improvviso qualcuno lo sollevò dal collo del maglione – e non se ne era neanche accorto! – Lip lo guardava con gli occhi iniettati di odio puro «Prova a rifare una cazzata del genere e ti strappo le palle.»
Annuì debolmente, scosso, prima di ricevere un altro calcio nello stomaco. Non riuscì neanche a rispondere.
Era già tornato a rannicchiarsi quando sua sorella gli venne a lato, avvolgendo un braccio intorno alla sua spalla e tirandolo verso di lei.
«Devi andare là dentro, Mickey. Ha bisogno di te come non mai.»
«Ma lo hai visto com’è?» farfugliò, confuso e spaventato «L’hanno legato a tantissime macchine e tutti quei tubi e quella cazzo di macchina che fa bip-bip!»
«Non riusciva a respirare e l’hanno dovuto intubare. Gli è anche salita la febbre, Fiona era preoccupatissima.» Mandy gli si accovacciò di fronte e posò le mani sulle sue ginocchia, guardandolo con sicurezza e Mickey non poté fare a meno di notare le occhiaie violacee. Per la prima volta era lei a doverlo prendere sotto la sua ala, a dovergli infondere coraggio. «Non aver paura, Mickey.»
«Io non ho paura.» scosse la testa, con decisione, guardando con una strana fierezza la sorella negli occhi. Ma non era vero: lui era un pisciasotto e stava per farsela addosso.
«E allora va’ in quella stanza e resta con lui, ha chiesto di te fino all’ultimo secondo.»
«Non ce la faccio a vederlo così, cazzo.» si strofinò gli occhi con due dita e tirò su con il naso «Non per colpa mia.»
«È migliorato un po’ rispetto a ieri notte. I medici vogliono risvegliarlo pomeriggio.» gli comunicò, tenendogli stretta una mano, mentre Lip faceva ritorno con un caffè in mano. Mickey abbassò gli occhi, temendo che se solo si fosse azzardato a guardarlo gli avrebbe davvero staccato le palle. «Vai, Mickey, ti prego. Sei la sua unica speranza.»
Mandy s’alzò, andando a sedersi al fianco di Lip, poggiandosi alla sua spalla e prendendogli la mano. Erano diventati piuttosto affiatati, quei due.
Lip aveva la testa poggiata alla finestra, guardava fuori con aria distrutta, mentre la giovane Milkovich seppelliva il volto nel giubbotto del Biondino, forse tentando di rilassarsi e dormire un po’, mentre lui le mormorava qualcosa.
Mickey sapeva che se non fosse corso in quella stanza e non avesse affrontato quella sua paura del cazzo, non avrebbe vissuto mai più un momento del genere con Ian e la prossima volta che l’avrebbe visto sarebbe stato in una cassa di legno.
S’alzò lentamente e varcò quella fottuta porta, senza versare alcuna lacrima, con passo sicuro, ma che al tempo stesso lasciava trapelare una certa paura, agitazione.
«Gallagher, cazzo.» sussurrò, sedendosi accanto al suo capezzale e prendendogli con delicatezza la mano, da cui uscivano delle strane flebo, che stava ben attento a non spostare. «Sono un coglione, okay? Lo sai già, ma ci stavamo divertendo e quel video mi ha fatto andare su tutte le furie.» ovviamente Mickey non ricevette risposta, l’unico rumore nella stanza era quello dell’aggeggio che gli monitorava i battiti cardiaci e Mickey detestava quel suono, voleva solo sentire la voce di Ian, voleva immaginare che non avesse un tubo nella gola. La sola idea gli faceva venire i brividi.
Si scostò per guardare il suo volto, gli zigomi erano rossi, ancora scottati dal sole delle Hawaii, la fronte scottava un po’, tentava di carezzare i suoi capelli in mezzo a tutti quegli aggeggi che aveva intorno, sapeva che era l’unica cosa che gli avrebbe potuto dare una misera consolazione.
Ci riusciva a malapena, piegato su di lui, cercando il suo calore, la mano sinistra a scompigliare i suoi capelli, la destra intrecciata con le sue dita.
Eppure trattenne le lacrime, resistendo al dolore che gli stava divorando anche la più piccola parte del corpo.

E fugace arrivò il pomeriggio e già tutti quei macchinari non circondavano più il corpo di Ian, dovevano solo aspettare che si svegliasse: Mickey seduto con i gomiti poggiati sul bordo del letto e le mani giunte, che stringevano una delle mani di Ian ed il volto tumefatto ad esse appoggiato. Fiona stava dall’altro lato del letto, seduta nell’angolo a tracciare invisibili sentieri sul suo volto e Mandy si era addormentata sulla spalla di Lip, seduto accanto alla sorella.
«IAN!» il semiurlo di Fiona fece sobbalzare Mickey dalla sedia, che immediatamente si voltò verso Ian, che stava sbattendo un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco.
Sembrava uno zombie appena uscito da una tomba, ma comunque pareva che stesse meglio. Un flebile sorriso si formò sul suo volto quando vide il viso della sorella.
«Fi …» sussurrò, mentre lei posava un bacio sulla sua fronte e delle carezze sui capelli, diverse da quelle di Mickey, più … materne.
«Ci hai fatto prendere un grosso spavento, Ian.» lo rimproverò, mentre lui a fatica spostava un braccio per salutare Lip con un pugno, che finalmente aveva un volto più rilassato.
Si voltò verso Mickey, che era stato in silenzio, lottando ogni millesimo di secondo per non scoppiare a piangere davanti ai Gallagher, perché finalmente si era svegliato, finalmente quelle macchine non c’erano più, finalmente aveva visto i suoi occhi verdi, aveva sentito la sua voce stanca, bellissima.
«Ehi, Mick.» farfugliò, mentre lui gli si avvicinava, mordendosi il labbro perché già una lacrima era scesa sulla sua guancia e non poteva permettersene altre.
Non sembrava arrabbiato, anzi, non era neanche sorpreso di trovarlo lì.
«’Fanculo, Gallagher.» gli rispose con la voce che tremava, mollando la sua mano per accarezzargli la guancia e posare un bacio in mezzo ai suoi occhi.
«’Fanculo a te.» era sarcastico, e sorrideva. E quel sorriso era oro. «Che cosa hai combinato alla faccia?» gli domandò, allungando una mano verso il suo viso, sugli evidenti lividi lasciatigli da Fiona.
«Chiedilo ai tuoi fratelli.»
Ian guardò Fiona, che sorrise facendo spallucce, mentre lui le tirava uno sguardo tra il divertito e il preoccupato.
«Se lo era meritato.» concluse la sorella.
«Sì, un po’ sì.» l’appoggiò, mentre guardava Mickey sorridendo, facendolo scoppiare in una piccola risata, che non riuscì a trattenere.
Il loro chiacchiericcio fece svegliare Mandy, che s’alzò per baciare la guancia di Ian, che le sorrideva rassicurante.
«Va bene,» disse Fiona, alzandosi e strofinandosi le mani sui pantaloni, nervosa «io vado ad avvisare i medici.»
«Vengo con te.» Lip la seguì a ruota, lasciando Ian con Mickey e Mandy.
Carl aveva ragione: cocco dei Milkovich.


Da lì in poi il tempo passò in fretta, Ian fu dimesso e i giorni scorrevano veloci, anche Mandy si era ormai, più o meno, trasferita a casa Gallagher e Fiona non protestò, anzi, aveva trovato in lei una sottospecie di punto di appoggio; a Debbie faceva piacere, era un po’ come la sua confidente e consigliera; Lip ne era ancora più felice, visto che lei si rintanava nel suo letto a fare sesso selvaggio.
«Pregate ogni divinità esistente che non vi veda.» aveva borbottato Mickey.
Frank andava e veniva, chiedeva di Ian, si scolava un paio di birre e poi se ne tornava a casa di Sheila Jackson. Non che agli altri importasse.
Kevin e Veronica erano sempre a cena da loro, con Amy e Gemma e quando Svetlana andava al “Centro Massaggi” c’era con loro anche Yevgeny.
Una sera, in cui erano tutti seduti a tavola a mangiare, Ian, stanco, con il volto pallido e collegato alla bombola d’ossigeno pensò che amava quel calore così familiare. Amava al mano di Mickey costantemente stretta nella sua, le nottate passate con Lip a chiacchierare sul divano, con la TV accesa e cibo spazzatura, i buffetti affettuosi di Mandy, il casino che facevano Carl, Debbie e Liam e anche le preoccupazioni di Fiona.
Pensò che non poteva chiedere altro, che, anche se un po’ strana e complicata, la sua famiglia era meravigliosa.
L’unico a risentirne di quella situazione era Carl, che aveva trasferito il suo letto nel sottoscala, stanco di condividere la camera con due coppiette sdolcinate che scopavano sotto le coperte praticamente ogni notte.
Era il sedici di marzo, ormai, ancora un po’ di giorni e l’inverno sarebbe finito, in teoria.
Le neve si stava già sciogliendo, ma il freddo restava secco e pungente, penetrante fin dentro le ossa.
Mickey Milkovich sapeva che da quell’inverno in poi il freddo non l’avrebbe abbandonato mai più.
«Potrebbe arrivare al massimo alla primavera.»
Ed ora il tempo stava scadendo.

Ian era peggiorato nel giro di qualche settimana, nonostante il riscaldamento al massimo aveva sempre freddo, tremava in continuazione e i mal di testa si facevano sempre più forti, senza contare i dolori in quasi tutto il corpo, quelli al petto, la stanchezza e la terribile tosse. Aveva quasi smesso di mangiare, toccava due o tre bocconi ed era già sazio, era andato giù di diciassette kili e il suo corpo scolpito si era trasformato in pelle e ossa, superava appena i cinquanta kili e Mickey aveva paura persino di abbracciarlo, temeva quasi di romperlo per quanto era fragile, poteva sentire le sue ossa sporgenti sotto le dita. Era gravemente sottopeso.
Ci provava a farlo mangiare di più, ma prontamente si trovava piegato sul cesso a vomitare, con lui a tenergli la testa … e andava a finire che anche quel poco che aveva mangiato veniva rigettato.
Era stato in ospedale un altro paio di volte, gli avevano fatto un mucchio di procedure, lo avevano imbottito di antidolorifici, ma tutti sapevano che la sua situazione non poteva fare altro che peggiorare.
Mickey era seduto sul dondolo che stava fin da sempre nel cortile di casa Gallagher, quello tanto vecchio quanto indistruttibile, era avvolto in una pesantissima coperta ed Ian era steso sulle sue cosce, con la testa poggiata sul suo ventre, collegato all’ossigeno, anche lui stretto in numerose coperte e con i capelli rossi scompigliati delle troppe carezze. E vi erano anche le guance scavate, la carnagione più pallida del solito, gli occhi lucidi, consumati dalla malattia, pur sempre meravigliosi.
Eppure Mickey, anche in quella tenuta, lo trovava terribilmente bellissimo.
Bellissimo quanto straziante.
A tenere su il Moro non era altro che l’incredibile forza di Ian, che anche in mezzo a quell’inferno, con il fiato corto e la morte vicina trovava il coraggio di sorridere.
Ora il Rosso stava in silenzio, immobile e cullato dalle braccia di Mickey, di cui ormai non restava altro che il fantasma spaventato di un bambino.
«A cosa pensi?» gli domandò, facendogli l’ennesima carezza tra i capelli rossi (proprio non ne voleva sapere, di lasciarli in pace), un po’ impacciato, mentre mostrava al ragazzo l’espressione più dolce del suo viso.
«Momenti felici.» rispose semplicemente, sorridendo con innocenza «Momenti felici di quando ero piccolo, più che altro.»
Oh, momenti felici … per il bambino che era stato Mickey Milkovich erano una vera e propria rarità.
E forse proprio per questo voleva farsi raccontare qualcosa da Ian, sentire qualche storia, godere di ogni sua felicità, di ogni suo sorriso.
Avrebbe fatto di tutto per vederlo felice.
«Tipo?» gli domandò, trattenendosi dal fare qualche battuta stupida che gli era passata per la mente o, peggio, scoppiare a piangere.
«Ricordo solo alcuni dettagli, a dire il vero, tipo … Una volta avevo sette anni e stavamo festeggiando il Ringraziamento – l’unico, che abbiamo mai festeggiato veramente tutti insieme. Frank era brillo e Monica che al tempo si era convita a prendere le sue medicine aveva cucinato un tacchino bruciacchiato.» deglutì, iniziando a carezzare il polso di Mickey per qualche assurda ragione «Io giocavo con Lip, con Fiona che ci teneva a bada; Debbie e Carl erano piccolissimi e continuavano ad azzuffarsi, Liam non era ancora nato. Quelli erano dei rari momenti in cui ci scordavamo che i nostri genitori non erano altro che alcolisti e drogati, o forse non ce ne rendevamo conto, ma … non so come mi è venuto in mente, so solo che è uno dei ricordi più belli della mia vita.»
Mickey annuì, ingoiando la saliva come se stesse inghiottendo il boccone più amaro della sua miserabile vita.
Era effettivamente così.
«Poi ovviamente ci sono anche quelli con te.» continuò, guardandolo intensamente negli occhi e sorridendo.
«Ah sì?» la sua voce era incrinata, come se stesse per spezzarsi da un momento all’altro.
«Come le sere passate a fumare erba, bere e scopare selvaggiamente nel campetto da baseball.»
«Oh, piccolo Palle di fuoco …» sorrise Mickey tristemente, scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte.
«O quando finalmente il mio grande culetto passivo non ha avuto più paura di baciarmi. E quando mi hai impedito di arruolarmi nell’esercito. E la tua trasformazione da stronzo finto etero ad agnellino da pascolo.»
«Oh, ’fanculo, Gallagher.» lo strinse un po’ di più a sé, perché percorrere tutti quei ricordi faceva un male cane.
«E quando sei diventato forte e hai confessato di amarmi per primo perché io ero troppo codardo per farlo. E le notti passati sotto le coperte, nudi e abbracciati. O quando provavamo ad essere genitori decenti, badando a Yevgeny quando Svetlana era via. E tu che ti lamentavi di Yev e poi gli davi un bacio sulla guancia quando pensavi che non ti vedessi.»
Si dice che prima che muori ti passa tutta la vita davanti agli occhi.
Mickey non ne poteva più, non ce la faceva a rivivere tutti quei ricordi quando aveva la dannata consapevolezza che non ne avrebbe più costruiti. Non di così felici. Non con Ian Gallagher.
«Basta.» sussurrò, poggiando il volto sui suoi capelli e stringendolo ancora più forte «Ti prego, basta.»
Ed Ian annuì, rilassandosi tra le sue braccia e cercando di trovare un po’ di pace … perché non riusciva a respirare bene neanche legato a quell’aggeggio e il petto di faceva incredibilmente male. Ed anche la testa. Il suo fragile corpo era intorpidito dal freddo.
Negli ultimi tempi era capitato che in certi momenti non riuscisse neanche a camminare e doveva farsi trasportare in braccio da Mickey o da Lip. Per lo più dall’ultimo, perché Mickey aveva una stazza troppo piccola per reggerlo bene e si sentiva in colpa.
Ian odiava essere un pacco postale, ma lì capì che la fine era più vicina di quanto credeva.
«Sta finendo, Mick.» sussurrò semplicemente, con un’innata tranquillità.
Certo, avrebbe voluto vivere di più, fare altre mille cose, ma alla fine gli andava bene così.
Non sapeva cosa altro avrebbe potuto fare, al South Side. Al momento gli importava solo di avere Mickey e la sua famiglia al suo fianco, niente contava di più.
Non aveva paura della morte, non ne aveva mai avuta, solo … solo che morire a diciotto anni era fottutamente ingiusto.
«Cazzo, com’è che è arrivata così in fretta?» le lacrime premevano per uscire dagli occhi, un grosso groppo si era formato nella sua gola, la sofferenza aveva iniziato a divorarlo nuovamente.
«Non lo so, forse l’abbiamo sottovalutata, ignorata …» scosse la testa, anch’egli sull’orlo del pianto e, a dir la verità, qualche lacrima di paura gli era già scesa, ma lui non se ne era accorto e neanche Mickey.
«Pensavamo di essere più grandi di lei.» concluse il ragazzo, crogiolandosi nella magra consolazione di avere ancora un paio di giorni da trascorrere con Ian Gallagher.
Ian Gallagher, l’uomo con cui avrebbe voluto trascorrere la vita intera.
All’improvviso Mickey sentì una mano gelida posarsi sulla sua guancia glabra e istintivamente calò lo sguardo su Ian che stava facendo una fatica immane nel tentativo di sporgersi verso di lui e baciarlo, allora Mickey lo issò meglio sulle sue braccia e lo fece avvicinare al suo volto per congiungere le loro bocche, affamate dell’amore dell’altro. Istintivamente le mani di Mickey si posarono nei capelli di Ian, continuando a disordinarli con le sue mille carezze, con i suoi maldestri tentativi di non far crollare il suo ciuffo sulla fronte. Nel frattempo la mano destra del Rosso era ancora posata sulla guancia del fidanzato e continuava ad accarezzarla come se tutto l’amore del mondo si potesse convergere in quel gesto. Era l’unico movimento che aveva la forza di fare, a parte – ovviamente – baciarlo con tutta la passione che aveva nel suo corpo debole.
Stava incanalando tutta l’energia che aveva in quel bacio.
Sperava solo di non sentire le lacrime di Mickey scendere e bagnargli il volto, come accadeva ogni notte, quando l’uno stretto tra le braccia dell’altro cercavano un minimo conforto a tutto quel dolore. E non vi era modo di fermare Mickey, che piangeva tutta la notte fino ad addormentarsi alle prime luci dell’alba.
Ma il suo ragazzo pianse lo stesso, silenziosamente e solo dopo s’accorse di star piangendo anche lui.
Ma per adesso l’unica cosa che potevano fare era continuare ad assaporarsi le labbra, sentire il calore dei loro corpi, delle loro braccia che non smettevano mai di stringersi, nella disperazione e nell’amore che vi era in ogni loro gesto.
Il loro bacio appassionato e salato dalle lacrime di entrambi sembrava non finire più, si baciavano sempre come se fosse l’ultima volta, ma quella volta …
Le mani di Mickey vagavano tra le guance rosse e screpolate di Ian e i suoi capelli che non avevano più una forma.
Non voleva smettere di baciarlo, Mickey. Non voleva perché sapeva che se l’avesse fatto e avrebbe rivisto i suoi occhi verdi le lacrime silenziose sulle sue guance si sarebbero trasformate in un pianto sonoro. Cosa sicuramente non da tipi duri come i Milkovich. Ma lui ormai era diventato una checca.
Nel frattempo si godeva l’infinito amore di quella mano fredda e debole che gli accarezzava la guancia e di quelle calde labbra che baciavano le sue, quelle labbra che sembravano dargli un soffio di vita e ucciderlo al tempo stesso.
Quando Mickey s’accorse che entrambi erano rimasti senza un briciolo di fiato si staccò da Ian, provando in ogni modo a non incrociare i suoi occhi, in compenso strinse la mano che il Rosso teneva ancora posata sulla sua guancia gremita di lacrime.
«Ti amo, Mick.» aveva debolmente sussurrato sulle sue labbra, per poi tornare a poggiarsi tra il suo collo e la sua spalla, tentando di respirare meglio e raggomitolandosi nelle coperte assieme al fidanzato per il troppo freddo.
E Mickey non lo voleva neanche immaginare quel freddo senza Ian.
E forse – troppo preso da strani pensieri – passò anche qualche minuto prima che s’accorgesse che il debole respiro di Ian non si infrangeva più sul suo collo, prima che notasse con orrore che il suo petto non compiva più alcun movimento.
Entrò in un panico che non era proprio panico, era più qualcos’altro, qualcosa di più abissale che non riusciva neanche a definire.
Un vuoto.
«Ian?» era un sussurro roco che era uscito dalle sue labbra mentre gli scuoteva la spalla. Nel farlo mollò la mano che Ian teneva sulla sua guancia e s’accorse che il braccio era crollato come quello di una bambola di pezza.
«IAN!» cercava di urlare, le lacrime avevano ripreso a scendere, i singhiozzi avevano iniziato a prendere il sopravvento «Ian, ti prego, cazzo!» lo scuoteva con violenza, piangeva, lo stringeva a sé come se fosse un bambino in fasce «Ian, se non ti svegli ti stacco quella fottuta testa rossa che ti ritrovi.» ma lacrime e singhiozzi lo tradivano, facendo sembrare la sua minaccia una supplica. E lo era. «Ian, non puoi essertene andato via così, cazzo … mi avevi detto che non saresti mai andato da nessuna parte.» Mickey aveva poggiato la sua fronte a quella di Ian, così le lacrime del Moro cadevano sul volto del fidanzato.
Con le mani che tremavano terribilmente gli accarezzò prima il viso, poi i capelli e il collo, posò un bacio umido sulla sua fronte.
«Pensavamo di essere più grandi, Ian.»
Lo sussurrò sulle sue labbra, prima di posarvi sopra le sue.
Fu l’ultimo ricordo di quel tragico giorno, perché venne investito dalla folla dei Gallagher che avevano sentito i suoi lamenti e si erano precipitati in cortile.
Forse ricordava qualche frammento, come Fiona che crollava a terra e Lip che piangeva stringendo la mano di Ian. E il tocco caldo di sua sorella Mandy, che gli aveva circondato il collo con un braccio e piangeva sui suoi capelli scuri.
Così il mondo gli crollò addosso in un freddo pomeriggio di marzo.
Ian Gallagher se ne andò con la pace negli occhi e le urla di Mickey Milkovich che lo circondavano, gridando disperatamente il suo nome.
Correva il sedici di marzo … ed Ian Gallagher si congedava dalla vita a solo diciotto anni.
 
 
FINE CAPITOLO VI

 



Note d’Autrice:
Ci sarebbero tantissime cose da dire su questo capitolo, così tante che giuro che non ho la minima idea da dove partire.
Innanzitutto è stato scritto la notte tra il quattro e il cinque dicembre, proprio nel momento in cui andava in onda la 7x10, così, mentre scrivevo io stavo guardando in diretta le nuove e bellissime scene Gallavich che quella puntata ci ha regalato e ridendo per i tweet di Noel Fisher e Cameron Monaghan.
E sì, nel frattempo, scrivevo questo capitolo letteralmente straziante, mentre in TV su ogni canale musicale passava “Potremmo Ritornare” di Tiziano Ferro, che è stata praticamente la colonna sonora di questo capitolo e dei Gallavich in generale, principalmente dopo la 7x11.
Perché loro ritornano.
Sempre.
Ricordo anche che quella notte avevo la febbre e stavo malissimo, ma resistevo per scrivere questo capitolo … perché si sa, l’ispirazione arriva sempre nei momenti meno opportuni.
E poi, be’ … non volevo perdermi il grande ritorno del King Mikhailo Aleksandr Milkovich.
Dopo questa “piccola” premessa che probabilmente neanche vi interesserà, passiamo al capitolo.
Okay … ammetto che in questo capitolo ci sono cose che non avevo previsto mentre strutturavo la storia, come la lite tra Ian e Mickey per il video, che è stata totalmente improvvisata durante la stesura e giuro che non avevo la più pallida idea di cosa stessi scrivendo, semplicemente ad un certo punto mi allettava poter creare un’altra scena drammatica (come se il capitolo in sé non lo fosse abbastanza) e qualche momento Hurt/Comfort tra i Gallavich.
Vorrei concentrarmi su Mickey, sul fatto che è seriamente terrorizzato da ciò che la gente possa pensare di lui, motivo per cui si è arrabbiato con Ian dopo il filmato e ha perso le staffe.
Semplicemente, non vuole farsi conoscere per quel che è, timoroso che la gente possa giudicarlo in maniera poco gradita, specialmente al South Side.
Sono consapevole anche del fatto che in questo capitolo l’OOC sia grande a dismisura, giuro che ho cercato di rendere le situazioni più realistiche possibile, ma non sono riuscita ad immaginarle in maniera diversa.
Inoltre, mi scuso per le probabili vicende mediche poco accurate, ho fatto moltissime ricerche, ma non sono riuscita a scovare qualcosa di preciso, così mi sono dovuta … diciamo “arrangiare”.
Questo è probabilmente una delle Note d’Autrice più lunghe che abbia mai scritto, ma ci tengo a precisare moltissime cose a voi lettori, visto che io – mentre scrivevo – mi sono innamorata di questa storia e spero di trasmettere queste emozioni anche a voi.
Probabilmente, dopo aver letto la fine, starete bestemmiando davanti allo schermo del computer/cellulare, ma credo che far vivere Ian per qualche strano miracolo sarebbe stato abbastanza irrealistico e, se fosse vissuto, questa storia non avrebbe avuto motivo di esistere.
Ci sono delle vicende particolari sotto, che verranno spiegate nel prossimo (e ultimo!) capitolo, in cui rivelerò parecchi motivi delle mie scelte.
Ian che muore tra le braccia di Mickey mi ha spezzato il cuore, ero così impersonata in loro mentre scrivevo, che quasi potevo sentire le urla di Mickey. Ho immaginato tutta la storia nella mia testa come se fosse un film.
Adoro le ultime parole che il nostro Milkovich gli dice, quel “Pensavamo di essere più grandi”, spero che abbiate capito che si riferiva alla Morte.
Nonostante avevano deciso di provare a vivere una vita più normale possibile, la Morte è arrivata a prendere Ian e a trascinarlo lontano dalle persone che amava.
Avrei davvero, davvero, voluto inserire molte più scene tra i fratelli Gallagher, ma essendo una Gallavich dovevo concentrarmi per lo più su Ian e Mickey.
 Okay, adesso credo proprio che dovrei dileguarmi, visto anche questa volta sono stata anche troppo prolissa!
I versi che ho associato a questa canzone sono di “7 Years” di Lukas Graham, che riprendono il racconto di Ian su quando era piccolo.
Non mi resta che salutarvi e ringraziare come sempre Hil 89, Willkick e Lex_in_Wonderlend che hanno recensito la storia, dashuria, Katie_P, kenyz, pensavoate e (ancora una volta) Hil 89 e Lex_in_Wonderlend che l’hanno inserita nelle preferite, bananacambogianachiquita e valelmekawy che l’hanno inserita nelle ricordate e Enzo98, ophelia15362, GwenJ,  e (ancora una volta) Willkick e valelmekawy che l’hanno inserita nelle seguite.
A martedì prossimo con il settimo ed ultimo capitolo/Epilogo!
Vi ringrazio ancora tantissimo!
Merasavia Anderson.


 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII: Take me to church. ***




Until the end of my days

Capitolo VII:


TAKE ME TO CHURCH

“My
lover’s got humor, he’s the giggle at the funeral, knows everybody disapproval, I should’ve worship him sooner. If the Heavens ever did speak, he’s the last true mouthpiece, every Sunday is getting more bleak, a fresh poison each week.”
 
 
 
Mickey non aveva ancora compreso come si ritrovassero già al diciassette marzo, il giorno in cui si sarebbero tenuti i funerali di Ian. Gli sembrava che fossero passati solo dieci minuti da quando gli era morto tra le braccia.
Era più o meno l’ora di pranzo e il cielo era grigio come il suo animo, nel salotto di casa Gallagher c’era un terribile via vai di persone, accolte dai membri della famiglia per porgere un ultimo saluto ad Ian, già vestito bene e steso dentro una bara che ingombrava la stanza.
Mickey detestava quelle persone, entravano in casa del suo amato per ammirarlo come un tesoro per un’ultima volta e piangere su di lui.
Alcuni avevano chiesto di lui, Fiona aveva dato loro sempre la stessa risposta: «Mickey non ce la fa.»
Sembrava quasi una barzelletta, perché tutti lo conoscevano come quello forte, quello che andava a picchiare la gente, che rubava le auto, che creava risse, quello che non era altro che uno sporco avanzo di galera. Ed ora si era ridotto ad un involucro vuoto che piangeva tra le coperte del letto di Ian, quello che aveva condiviso per mesi, che era stato testimone di scopate mozzafiato, baci rubati, carezze e tante, tante lacrime.
Odorando il lenzuolo riusciva a sentire ancora il suo profumo.
Si era raccolto in posizione fetale, stringendo qualcosa che aveva l’odore di Ian al petto e piangendo lacrime amare dai suoi occhi cristallini, che la sua Testa rossa amava tanto guardare e spesso lui glielo impediva, evitando il contatto visivo.
Che coglione che era stato.
Non aveva dormito neanche un secondo, non aveva mangiato e aveva dei terribili crampi allo stomaco che peggioravano con ogni secondo che passava. Aveva trascorso tutta la notte accanto al cadavere di Ian, bianco come non mai, e con l’unico briciolo di coraggio che aveva continuava ripetutamente a lasciare carezze nei suoi capelli rossi, l’unica cosa al mondo che lo faceva stare un minimo meglio.
La sua mano era gelida, come il resto del corpo, come le sue labbra, che aveva provato a baciare. Solo dopo realizzò di aver baciato un cadavere, e nonostante quello fosse il suo Ian, era dovuto correre in bagno a vomitare, perché non poteva mai al mondo accettare che quel bacio lui non l’avrebbe mai sentito, non l’avrebbe mai ricambiato.
E faceva un freddo cane a casa Gallagher, perché qualcuno aveva scordato di accendere i riscaldamenti. Ma non gli importava.
Nessuno chiuse occhio quella notte e quando le persone avevano cominciato ad arrivare lui si era rintanato nella stanza dei fratelli Gallagher, nel letto di Ian, con cui l’aveva condiviso fino alla notte prima.
Erano più o meno le due del pomeriggio, quando Lip e Carl Gallagher erano entrati timorosamente nella stanza portandosi dietro dei completi neri ed eleganti, simili a quelli che avevano messo ad Ian la sera prima. Era stato lui, con le mani tremanti, ad aggiustargli il colletto della camicia, sostenendo il peso della bambola che era diventato tra le braccia. Sembrava che dormisse.
Ma quando vide i suoi fratelli si decise che avrebbe dovuto iniziare a prepararsi anche lui per il funerale, con il vecchio vestito del suo matrimonio con Svetlana che gli aveva portato la Russa stessa quella mattina.
Perché sì, sarebbe andato al funerale e avrebbe affrontato le persone. Glielo doveva, ad Ian. Tutti, nel South Side, avrebbero scoperto cos’era Mickey Milkovich per Ian Gallagher.
E stranamente Mickey non se ne vergognava, non più.
Con tutte le forze che aveva in corpo andò in bagno e vi si chiuse, intento a sciacquarsi il volto e a sistemarsi i capelli , ma fu solo quando si guardò allo specchio che se ne accorse: un leggero filo di barba scura era spuntata sul suo volto, ruvida al tatto.
Ad Ian non piaceva quella barba.
Ian adorava guardarlo ogni mattina mentre si radeva il volto, diceva di trovarlo incredibilmente sexy quando lo faceva e si divertiva a strusciarsi contro di lui, prendendolo in giro.
Sorrise triste, toccandosi quell’accenno di barba.
Guardandosi nello specchio con attenzione immaginò di vedere Ian riflesso accanto a lui, così decise di spalmarsi il volto di schiuma e levarla via con una lametta. E gli sembrava di sentire Ian chiacchierare con lui di prima mattina, in quel bagno, mentre si faceva la doccia e cantava l’inno nazionale. Eppure nessuna lacrima scese al ricordo di quella voce angelica e dello scroscio della doccia, quando una volta finito di radersi entrava nella doccia con lui e facevano sesso, quasi sempre con qualche fratello Gallagher dietro la porta che reclamava il bagno.
Il ricordo di Ian si era fatto più dolce, meno disperato, come se non se ne fosse mai andato via veramente. Ma Mickey sapeva che il peggio doveva ancora arrivare.
Finì di toglier via la barba e si sciacquò il viso, asciugandosi con un asciugamano pulito e concedendosi di guardare il suo riflesso nello specchio un po’ sporco: le occhiaie erano profonde, i capelli sfatti, gli occhi arrossati. Pensò solo che forse Ian non avrebbe voluto vederlo in quel modo, ma non gli importò.
Si diresse verso la camera dei fratelli Gallagher e prese il suo vestito, si infilò i pantaloni, sperando di vedere Ian entrare e chiedergli come cazzo si stesse vestendo. Non accadde.
Mickey si rifiutò di indossare la camicia bianca che Svetlana gli aveva portato, aprì il cassetto dei vestiti di Ian e vi prese una camicia ben piegata, la accarezzò con una goffa dolcezza e ne odorò il profumo, lo stesso che era abituato a sentire da tre anni, ogni volta che si avvicinava. Capitava a volte che Mickey indossasse i suoi vestiti, e Ian lo prendeva in giro perché le maniche delle magliette erano troppo lunghe ed anche i pantaloni, a cui doveva fare sempre i risvolti.
Anche quella camicia, quando se la infilò, era troppo grande per lui: i polsini gli arrivavano quasi fino alle nocche e questo lo fece sorridere, tristemente, pensando a quanto stava bene ad Ian quella camicia, anche se non glielo aveva mai detto.
Con quell’indumento indosso si sentiva un po’ più sicuro, quasi protetto, circondato da quell’odore gli sembrava di avere Ian al suo fianco, vivo.
Quando finì di vestirsi, dopo essersi accertato che in casa vi fossero solo i fratelli Gallagher, Kevin, Veronica e Mandy, scese al piano di sotto, timoroso e per le scale incrociò sua sorella, più alta di lui, con un vestito nero e i tacchi, i capelli un po’ arruffati, senza trucco.
«Stavo venendo a chiamarti.» mormorò, prendendo improvvisamente la sua mano «Stiamo per andare.»
Lui annuì, venendo condotto dalla sorella fino in salotto, si sentiva più forte con lei accanto, si sentiva come se non fosse il solo a cui il mondo era crollato addosso.
Effimera consolazione.
Fiona gli andò in contro, domandandogli come stesse e lui fece spallucce, non sapendo cosa rispondere.
Come stava?
Sicuramente non bene. Male, sì, ma un male così profondo che non riusciva a dargli un nome, una definizione precisa. Vi era solo un grande vuoto a perdere dentro il suo animo.
«Questa è sua, vero?» sussurrò tra le lacrime, accarezzando il colletto della camicia che indossava.
Per qualche ragione assurda Mickey s’aspettava che i fratelli di Ian si arrabbiassero vedendogli indosso quella camicia.
«S-Sì.» abbassò lo sguardo, guardandosi le maniche delle camicia troppo lunghe e passandovi sopra le dita «Sai, sentire il suo odore e tutte quelle altre stronzate là …»
Fiona annuì distrattamente, stringendo Debbie che si era avvicinata a lei con le lacrime che le solcavano le guance e i vestiti sobri e scuri, terribili da vedere su una bambina.
Il campanello suonò, segno che era arrivata l’agenzia funebre e Mickey si voltò a guardare la bara di Ian, ancora aperta: Lip era in piedi davanti ad essa e carezzava piano il volto del fratello, come se le sue spoglie fossero fatte di vetro e temesse di romperlo.
I funzionari si stavano dirigendo verso la bara, intenti a chiuderla, ma Mickey li bloccò, colpito da una strana fitta al cuore: aveva una dannata paura di vederlo andare via così, senza guardarlo un’ultima volta, senza accarezzare i suoi capelli ancora per un po’, perché non si accontentava mai e adesso avrebbe dovuto farne a meno per l’eternità.
Ian Gallagher aveva accettato la morte e adesso toccava a lui farlo, trovando il coraggio di ammettere a se stesso che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe potuto poggiare le mani sul suo viso.
«Aspettate!» esclamò, dirigendosi verso quella maledetta bara con passo triste e sicuro, sicuro come mai era stato.
Perché in cuor suo sapeva di essere forte, distrutto, spezzato, disintegrato, ma forte.
Quando si trovò davanti a lui volle immaginare che stesse solo dormendo, così gli posò una mano sulla guancia fredda, accarezzandola piano; l’altra mano la posò sui capelli, vi passò le dita fra di essi, cercando di non disfarli troppo.
Volle credere che fossero ancora sulle spiagge delle Hawaii, che le sue guance erano ancora scottate dal sole, le sue labbra calde e piegate in un timido sorriso.
Gli serviva immaginarlo, altrimenti non ce l’avrebbe fatta.
«Ci rincontreremo prima o poi.» sussurrò, con la voce spezzata, tremante, carica di un dolore inimmaginabile. Un silenzio tombale era piombato nella stanza, sapeva di avere tutti gli occhi puntati addosso. Non gli importava. «Dovunque cazzo andremo a finire io ti troverò» tirò su con il naso, mentre altre lacrime bagnavano sulle sue guance. Un tempo le avrebbe asciugate il prima possibile, se ne sarebbe vergognato. «e Dio, il Destino, il Fato o quello che cazzo è si potranno mettere l’anima in pace perché non permetterò più a niente di portarti via, avremo l’eternità per stare insieme e saremo bellissimi e cazzoni, come lo siamo stati in questa vita di merda.» pianse ancora, avvicinandosi al suo volto e continuando a posare carezze sulle sue guance e sui suoi capelli. Era finita. «Ci vedremo presto, okay?» un singhiozzo uscì dalla sua gola, una lacrima cadde sul volto di Ian e lui l’asciugò, con le mani che tremavano come foglie in autunno «Okay, Ian? Sì? Okay. Ti amo.» e l’ultimo bacio che gli dette non fu altro che uno sfiorarsi di labbra, poteva sentire un leggero alone di calore stringerlo da dietro e sorrise tra le lacrime, perché era Lui.
Non aveva mai creduto veramente a quelle stronzate, ma sentiva che al suo fianco vi era il suo amato Ian, che il suo spirito gli avvolgeva il corpo, stringendolo nel suo amore per l’ultima volta.


C’era un tizio al cimitero che parlava, Mickey non sapeva chi fosse, ma non era un prete, né un parente dei Gallagher, quindi supponeva che fosse una di quelle persone che celebravano i funerali laici.
Non l’avrebbe mai saputo, non ascoltava neanche una delle colossali minchiate che stava dicendo, come se conoscesse il suo Ian da sempre.
Ian stesso aveva espressamente chiesto un funerale non religioso quando Padre Pitt si era rifiutato di celebrarlo. Perché ci era andato con Mickey che borbottava, in chiesa, mano per la mano e il prete ubriaco li aveva buttati fuori, additandoli come figli di satana.
Mickey trovò che fosse buffo, andare a parlare di persona con un prete del proprio funerale, lì per lì lo fece ridere, prima che si ricordasse che effettivamente il funerale era del suo Ian.
I fratelli Gallagher erano tutti stretti in un abbraccio, per sorreggersi a vicenda, Fiona si reggeva a malapena in piedi, era un fiume di lacrime mentre stringeva a sé i suoi fratellini, Debbie piangeva abbracciando Lip, che teneva la mano di Mandy, la quale gli tirava delle occhiate tristi e preoccupate. Aveva intravisto Svetlana, vestita con un tradizionale abito russo e il capo coperto da uno scialle nero, aveva in braccio il piccolo Yevgeny, il suo Succhia-latte. C’era persino Frank, chiuso nel silenzio nel suo vecchio abito elegante, accompagnato da Sheila Jackson che piangeva. Accanto ai fratelli Gallagher Kevin e Veronica si abbracciavano stretti. Riconobbe dei compagni di scuola di Ian e alcuni dei Parà, vestiti rigorosamente in uniforme. Lui, dal suo canto, continuava a torturare i polsini della camicia di Ian, tenendo lo sguardo basso per nascondere qualche lacrima solitaria che scendeva quando un ricordo troppo bello e doloroso gli attraversava la mente.
Fu la voce di Philip Gallagher a destare Mickey dai suoi pensieri, che era salito con imbarazzo sul soppalco dove si facevano i discorsi.
«Okay, ehm …» esordì, guardandosi intorno nervoso «Io queste stronzate non le so fare, ma Ian è mio fratello e glielo devo. Non ho la più pallida idea di come andrà la vita da oggi in poi, senza di lui, senza condividere la stanza, senza i litigi, i vestiti scambiati, come quando dovevo uscire con la ragazza più sexy del quartiere» guardò Mandy, che aveva affondato il volto nella spalla del fratello, che aveva il volto di un automa pietrificato «e cercavo disperatamente una maglietta ed ero incazzato, nervoso … e poi è entrato lui, con la sua camminata tranquilla e la mia maglietta addosso.»
Lip non era propriamente in sé, Mickey constatò che era leggermente brillo e fatto, per via delle due birre che aveva bevuto e la canna che si era fumato prima del funerale. In più, durante la notte, lo aveva visto andare in cortile e distruggere il dondolo, piangendo e urlando. Aveva continuato a raccontare qualche aneddoto di quando erano bambini, storie a lui sconosciute, ma un dolce pensiero si formò nella sua mente quando provò ad immaginare un bambino dai ricci capelli rossi e tempestato di lentiggini sul viso. Tirò uno sguardo a Fiona, che teneva in braccio Liam e si crogiolava negli abbracci di Carl e Debbie.
«E c’è un’ultima cosa che non ho mai detto a quel cazzone di mio fratello,» esordì, guardando verso l’alto, con le lacrime che scendevano sul volto arrossato, guardava le nuvole grigie, nella speranza di vedere qualcosa che gli ricordasse Ian in quel cielo tempestoso «mi manchi come l’aria, Ian.»
Lo disse socchiudendo gli occhi e piangendo, quando una leggera brezza fredda iniziò a soffiare, si abbatteva sui volti della gente e Mickey sentì nuovamente quella calda sensazione che aveva avuto quando aveva dato l’ultimo saluto ad Ian, quell’abbraccio che lo accoglieva, che gli dava un briciolo di respiro. S’accorse che Lip lo stava guardando, con il volto un po’ scioccato e perso, così Mickey comprese che anche lui stava percependo quel calore, continuando a guardarlo annuì con un cenno di capo, provando a fargli comprendere che non c’era nulla di cui aver paura, che era solo Ian che li stava salutando.
Il tizio che celebrava il rito riprese a parlare, ringraziando Lip per le sue parole e dicendo anche lui qualcosa in proposito. Mickey non seppe come, ma all’improvviso si ritrovò Svetlana al suo fianco e Yevgeny tra le braccia, allora guardò perplesso la finta moglie, confuso e terrorizzato da quel bambino che si era già rannicchiato tra le sue braccia.
«Vado a fare discorso per Ian.» gli disse, con naturalezza.
«Ma che cazzo dici?» sussurrò, chiedendosi cosa diamine avesse da dire Svetlana al funerale di Ian. A dire il vero, lui non voleva neanche che fosse lì.
L’avrebbe voluto sposare, Ian, nei suoi ultimi mesi di vita, in modo che fossero legati per sempre e non aveva potuto a causa sua, perché in teoria lui era già sposato con quella puttana Russa.
Ian gli aveva detto che non gli importava, che non avevano bisogno di un pezzo di carta e un anello al dito per essere legati per tutta la vita.
«Io vado a fare discorso e tu smetti di rompere cazzo, okay?» non attese neanche la risposta e lo abbandonò là, mentre borbottava qualcosa di incomprensibile e cercava di far calmare il bambino che si agitava tra le sue braccia.
Guardò bene Yevgeny: gli occhi azzurri identici ai suoi lo guardavano come due fanali, quasi gli sembrava di vedere il bambino che era stato scrutarlo dal passato attraverso suo figlio; i capelli biondi erano scompigliati, come quelli di Ian quando li accarezzava, forse per questo posò una mano sulla sua guanciotta morbida e gli fece una fugace e imbarazzata carezza. Ian era stato una sottospecie di genitore per quel bambino e negli ultimi tempi aveva coinvolto anche lui, forse nel vano tentativo di immaginare un futuro insieme.
Poteva anche essere il frutto di un ricordo orribile, ma Ian gli ricordava costantemente che quel bambino era innocente e doveva amarlo e comportarsi da padre.
Quando Svetlana salì sul soppalco guardò la folla con sguardo rigido, abbracciò tutti con gli occhi come se fosse il Papa e poi iniziò a parlare con il suo accento russo, che storpiava un po’ le parole.
«Testa Rossa era amante di mio finto marito gay. Sì, mio marito stronzo, ma Testa Rossa era buono, aiutava sempre con piccolo Yevgeny, amava bambino ed era bravo nella cucina, teneva pure casa in ordine.» Mickey desiderò con tutto se stesso che quella donna non si trovasse lì in quel momento, che non rovinasse una situazione così solenne come il funerale di Ian, il momento in cui doveva lasciarlo andare via per sempre. «Mi dispiace è andato da Eterno Padre, penso merita tanto in suo Regno. Lui era brava persona.»
La gente fece uno strano applauso, un po’ imbarazzato e palesemente confuso, i fratelli Gallagher, i fratelli Milkovich, Kevin e Veronica la guardarono un po’ di traverso, come se fosse una vera e propria intrusa in quella situazione.
Successivamente parlare toccò a Fiona, che aveva una voce carica di così tanto dolore che sembrava potesse esplodere da un momento all’altro. Yevgeny era ancora sulla spalla di Mickey, che lo aveva stretto forte tra le braccia, rendendosi conto che quel bambino era una delle poche cose strettamente collegate a quasi tutti i bei ricordi che aveva di Ian.
«Non so cosa dire.» iniziò la Gallagher, guardando la folla con le lacrime agli occhi «Non ho preparato un maledetto discorso perché Ian non ha bisogno di parole e frasi fatte. E soprattutto perché nessuno dovrebbe preparare un elogio funebre per il proprio fratello diciottenne. A novembre avrebbe compiuto diciannove anni e non ce l’ha fatta neanche ad arrivarci. Se sono arrabbiata? Sì, ed anche tanto.» si asciugò delle lacrime che aveva sul volto, cercando di parlare il più chiaramente possibile «Ero solo una bambina quando è nato Ian, avevo sei anni e ricordo che la prima volta che l’ho visto avevo pensato che fosse un alieno: perché aveva il viso pieno di lentiggini e rosso come i capelli e al contrario di Lip non piangeva quasi mai. Una volta gli ho salvato la vita» le lacrime e i piccoli singhiozzi vinsero su di lei, che si stringeva nel cappotto e si girava tra le mani il cappello militare di Ian, quello che gli avevano dato quando era entrato nei Parà. «Solo il cielo sa quanto avrei voluto farlo anche adesso.» fece un sorriso forzato che lasciava trapelare una tristezza assurda «Ma nonostante tutto mi sforzo ad essere felice, perché Ian lo è stato nei suoi ultimi giorni di vita e fino a ieri mattina rideva davanti alla televisione, scherzando con i suoi fratelli.
«Sapevamo che prima o poi sarebbe accaduto, che era solo una questione di tempo, solo … non ci aspettavamo che accadesse così improvvisamente. Ma Ian è morto in pace,» affermò, con la voce che tremava e l’espressione di una persona a cui stavano strappando l’anima dal corpo. Mickey pensò che mentì, quando diceva che si sforzava ad essere felice «è morto fra le braccia del suo fidanzato, sul dondolo della nostra casa e circondato dal nostro amore.»
E fu a quel punto che Mickey Milkovich crollò. Scoppiò in un pianto rumoroso, ignorando per la prima volta il fatto di essere in un luogo gremito di gente e stringendo forte Yevgeny a sé. Mai al mondo avrebbe pensato di piangere al funerale di Ian, con il Succhia-latte tra le braccia poi … Quel bambino che stava – pian piano – imparando ad amare.
E tutto ciò grazie ad Ian, al suo Ian, all’unica persona che avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni.
In quelle concitate ore non aveva realizzato che il suo era l’ultimo volto che Ian Gallagher aveva visto, l’ultimo corpo che aveva accarezzato, l’ultima voce che aveva udito.
E faceva male.
Faceva così fottutamente male perché sentiva di non meritarlo.
Percepì la mano di Mandy carezzargli piano il braccio, in un magro segno di consolazione quando Mickey Milkovich lo stronzo diventava la checca del South Side.
Non gli importava.
Il dolore che sentiva dentro non si poteva reprimere in alcun modo, nulla sarebbe mai stato più forte di esso, che stavolta l’aveva divorato totalmente.
Non s’accorse neanche che Fiona concluse il suo discorso, guadagnandosi un enorme quantitativo di applausi solenni come se fosse un’attrice famosa.
Cazzo ci applaudite, ha fatto un fottuto elogio funebre, non un discorso su come salvare i bambini in Africa.
Mickey si riprese un po’ solo quando il tizio che stava celebrando quell’orrido rito aveva iniziato a parlare con la sua voce odiosa, decise così di scaricare Yevgeny tra le braccia di Svetlana e di asciugarsi le lacrime che ancora sgorgavano dai suoi occhi azzurri.
Fu solo un secondo: il tempo di mettere a fuoco la vista e comprese che cosa stava accadendo. Lo sconvolse: degli uomini stavano calando la bara di Ian in una fossa.
No.
Non poteva permetterglielo.
Non poteva accettarlo.
Non riusciva ad accettare che marcisse sotto la terra, che dovesse rinunciare a tutto in così giovane età, a tutti i loro grandi progetti, ad andarsene da quella fogna di quartiere insieme.
«NO!» urlò, completamente fuori di sé, correndo verso la buca come se volesse gettarsi dentro. Fortunatamente Kevin e Mandy lo afferrarono prima che potesse davvero fare qualcosa di estremamente disperato, sotto lo sguardo scioccato della gente che mormorava cose incomprensibili.
Chi conosceva Mickey Milkovich si chiedeva se quello fosse davvero lui.  Ormai aveva iniziato a delirare, urlare frasi senza alcun senso, dimenarsi, piangere senza sosta.
«Fatemi andare con lui, vi prego, lasciatemi andare con lui
Parve che tutti i presenti ebbero un colpo al cuore quando udirono quella frase: chi era quell’uomo sofferente nascosto dentro il corpo del duro e truce avanzo di galera Mickey Milkovich?
Fiona era un fiume di lacrime tra le braccia di suo fratello Lip, che singhiozzava rumorosamente, si chiedevano come potesse mai pronunciare quelle parole … Ma ancora una volta a Mickey non importò.
Lo sconvolgimento tra la folla era enorme, tutti provavano a trattenerlo mentre si dimenava, ma l’unica cosa che fu capace di tranquillizzarlo furono le braccia di sua sorella che lo avvolsero, facendogli poggiare la testa sulla spalla, perché da solo non reggeva.
Teneva gli occhi chiusi mentre continuava a piangere, perché non voleva vedere mentre quella buca veniva ricoperta con altra gelida terra, mentre Ian andava via per sempre, lontano da lui.
«Non ce la faccio a guardare.» aveva mormorato a Mandy, che gli accarezzava la guancia bagnata e lo faceva raggomitolare a sé come un bambino. Si vergognava si se stesso, Mickey Milkovich «Non ci riesco.»
I suoi singhiozzi e il rumore della terra che colpiva la bara di Ian erano gli unici suoni che riempivano quel tanto odiato cimitero.
«Forse è meglio se lo porti un po’ fuori, non credi?» aveva sussurrato Kevin all’orecchio di Mandy, che aveva annuito piano, guardando l’uomo negli occhi rossi. Anche lui aveva pianto e teneva la mano di Veronica che guardava la scena con le lacrime sulle guance e una mano sulla bocca. Intravide anche quello stronzo di Frank, che aveva un’espressione amareggiata mentre Sheila Jackson gli accarezzava i capelli in lacrime.
«Andiamo a fare una passeggiata, va bene, Mickey?»
«No.» scosse la testa, poco convinto, con gli occhi azzurri che si potevano appena intravedere «Non posso.»
Glielo doveva, gli aveva promesso che avrebbe resistito.
«Dai, Mickey, solo dieci minuti. Poi torniamo.» provò a persuaderlo e pianse, non avendolo mai visto in quelle condizioni, neanche quando da piccolo veniva picchiato e umiliato da Terry. Pensò che probabilmente aveva versato più lacrime durante quei due giorni che in tutta la sua vita.
Ad un certo punto Mickey sgranò gli occhi, un’espressione di puro stupore si fece spazio sul suo volto: sentì una voce provenire dal profondo del suo petto, una di quelle voci che solo la sua testa poteva udire.
Vai, Mick.
Mickey credé d’esser pazzo, ma quella voce l’avrebbe riconosciuta tra mille e poteva appartenere solo a Lui.
Solo una persona lo chiamava “Mick”. Lui.
Si guardò intorno spaesato, nella speranza di vedere la sua rossa chioma tra la folla, ma fu tutto inutile … sapeva solo di doversi fidare di quella voce, perché era la sua.
«O-Okay.» balbettò, iniziando ad allontanarsi da tutti, sorretto da Mandy, che gli rivolse un’occhiata profondamente perplessa.
Non dissero una parola.
Solo quando arrivarono ai confini di quel cimitero, in una sottospecie di prato in cui soffiava piano il vento, Mickey ispirò a pieni polmoni quell’aria fredda, tenendo le mani strette attorno ai polsini della camicia di Ian. Mandy, poco più distante, lo fissava, con il vento che le scompigliava i lunghi capelli sciolti. Aveva un’espressione strana, più che di timore, di curiosità, giocava con le sue mani, si toglieva e si metteva in continuazione gli anelli che aveva nelle dita.
«Cosa hai sentito, Mickey? Poco fa.» gli domandò, mentre il fratello era ancora girato di spalle, a guardare il cielo come se stesse cercando qualcosa tra le nuvole grigie e minacciose.
«La sua voce.» rispose semplicemente, secco e senza alcuna esitazione. Il vento aveva asciugato le lacrime sulle sue guance. «E il suo cazzo di calore, come se fosse venuto ad abbracciarmi.» si voltò verso Mandy, stringendosi nel suo vestito scomodo mentre una lacrima calda bagnava la sua guancia gelida «Lo so che è una cosa da vedove disperate, ma io l’ho sentito vicino a me,» lo diceva con una tale disperazione nella voce che sembrava gli stessero trafiggendo il cuore con una spada, piano piano. «era come se non fosse realmente morto, capisci? Credo che l’abbia percepito anche il Biondino, Lip.»
Mandy sobbalzò nel sentire quel nome, ma rimase a guardare il fratello che crollava in ginocchio sull’erba bagnata, sporcandosi i pantaloni di terra … perché tutto quel dolore ormai neanche le sue gambe lo reggevano più. Si sostenne anche con le mani, cercando di nascondere il viso mentre iniziò a ridere. Ridere come un pazzo. Una risata che metteva un terrore immane.
La risata al funerale.
Mandy era spaventata, il suo cuore batteva all’impazzata e quasi non riconosceva Mickey, ma si inginocchiò comunque davanti a lui e preoccupata lo prese per le spalle.
Quell’isterico che rideva non poteva essere suo fratello, non quando i suoi meravigliosi occhi che facevano invidia ai più belli lapislazzuli erano diventati quelli di un pazzo.
Ma in un breve istante il suo riso si tramutò in un pianto singhiozzante e doloroso, per cui Mandy lo prese tra le braccia. Voleva piangere anche lei, perché Ian era una delle persone più importanti della sua vita, anche lei voleva risentire la sua voce.
Ma si limitò a lasciare buffetti sulle guance del fratello, lasciando che i suoi ricordi con Ian uscissero uno ad uno dai suoi occhi come lame taglienti.



 
EPILOGO
 
 
Tre settimane dopo il funerale di Ian, all’improvviso, Mickey Milkovich scomparve.
Mandy era corsa a casa dei Gallagher terrorizzata quando, dopo non averlo visto ritornare a casa per quasi due giorni, aveva aperto il suo armadio e l’aveva trovato completamente vuoto. Si era portato anche la pistola di riserva.
Avevano subito pensato di andare a vedere se fosse al campo da baseball o al cimitero, perché da buona checca che era diventato andava lì quasi ogni giorno, piangendo sulla tomba di Ian. E ci andava sempre al tramonto, quando nessuno lo vedeva.
Sbatteva la testa contro la fotografia incastonata nel marmo – quella che lui amava tanto, dove aveva quel cappellino bianco che lasciava intravedere i capelli rossi e quel sorriso sbilenco da bambino – che prendeva a pugni, insanguinandosi le nocche, per poi chiedere scusa al fantasma di Ian.
Lo aveva sentito ancora durante quelle tre settimane: quando si svegliava nel cuore della notte all’improvviso, avvolto in un calore inspiegabile, lo stesso di quando Ian lo abbracciava da dietro raggomitolandosi nelle sue spalle come un gatto e prendendogli la mano.
Ricordava di come lui borbottava di voler dormire, ma poi Ian iniziava a baciargli il collo e Mickey faceva finta di incazzarsi.
E invece, cazzo, lo amava da morire e solo il cielo sapeva quando gli mancavano quei momenti. Quel calore gli portava pace, perché lo immaginava con il volto seppellito tra le sue scapole, che si dilettava a respirare il suo profumo e poi, con un sorriso malizioso gli diceva che era terribilmente afrodisiaco.
Solo che lui non aveva la più pallida idea di cosa significasse “Afrodisiaco”.
Semplicemente, anche se non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura, amava farsi baciare e mordere il collo da Ian.
Ma nel frattempo Mandy era nel panico totale e aveva confidato a Lip che temeva che il fratello avesse fatto qualcosa di stupido. Lui la tranquillizzò e andarono al cimitero, con la sola speranza di trovare Mickey lì.
Ogni qual volta che Lip arrivava davanti alla tomba del fratello e vedeva il suo giovane volto aveva un fortissimo colpo al cuore, tremendo. Perché non poteva aver lasciato che il suo fratellino morisse in quel modo …
Ma Mickey non c’era, al suo posto vi erano un papavero rosso e una busta bianca poggiati ai piedi della lapide.
Mandy la aprì e notò che la grafia era quella del fratello.
Poche righe:
“Non avrei mai voluto lasciarti qui, ma devo. Cazzo, me ne vado a vedere il mondo, Gallagher. Ti prego solo di non lasciarmi mai. Grazie.
Il tuo Mick.”

Mandy non avrebbe mai pensato che Mickey potesse dire, o tanto meno scrivere, delle parole del genere, ma evidentemente quello era un lato di lui che conosceva solo Ian.
Sia Mandy che Lip sentivano di aver violato qualcosa di estremamente segreto tra loro, una di quelle cose che solo Mickey ed Ian potevano conoscere, quel lato di Mikhailo Aleksandr Milkovich che emergeva solo quando il suo cervello veniva incasinato dall’amore che provava per il ragazzo.
«Be’, per lo meno sappiamo qualcosa.» le aveva detto Lip, smorzando la tensione.
Mandy richiuse la busta e la poggiò dov’era prima, per poi incamminarsi da sola verso l’uscita del cimitero.
«Andiamo a casa, Lip.» disse bruscamente, camminano a pugni stretti e con lo sguardo fisso e arrabbiato.
Era incazzatissima con Mickey.
Come aveva potuto? Vigliacco.
«Non vuoi – che ne so – cercarlo?»
«No. Sarà lontano ormai e non sappiamo neanche dove è diretto.» sbruffò, guardandosi intorno «Cazzo, forse non lo sa neanche lui.»
«Sei arrabbiata, Mandy?» le chiese accigliato.
«Arrabbiata?» urlò lei, gesticolando con le braccia «Sono incazzata nera! È andato via all’improvviso, mi ha abbandonata qui, da sola!» continuò, nonostante Lip l’avesse stretta tra le braccia «Avrebbe potuto portarmi con sé, lontano da questo ghetto del cazzo.»
«Tu sei meravigliosa, Mandy.» sussurrò serio al suo orecchio colmo di piercing «Ti ci porterò io lontano da qui.»
E la baciò, la baciò così intensamente che sembrò che la terra stesse crollando sotto ai loro piedi.
«Andiamo a casa.» la tranquillizzò, accarezzandole le guance «Quello stronzo di tuo fratello sa badare a se stesso.»
Lei sorrise rassegnata, sperando solo che fosse vero.

Nessuno rivide più Mickey Milkovich fino al cinque novembre di quell’anno, il giorno in cui Ian avrebbe dovuto compiere 19 anni, quando i Gallagher, Mandy, Kevin e Veronica erano andati al cimitero e l’avevano visto legare un palloncino rosso con su disegnato il numero 19.
Fu aggredito da Mandy, con cui fecero a botte, prima di essere separati dai fratelli Gallagher, leggermente indignati, Mickey venne ricoperto di insulti a cui non rispose neanche, guardando a testa bassa la foto di Ian.
Aveva iniziato a girare per il mondo, mantenendosi con lavori occasionali e modi non proprio legali. Lo aveva fatto per Ian, a cui un giorno – su un letto d’ospedale – aveva rivelato che quello era sempre stato il suo sogno.
Sapeva che l’avrebbe reso fiero.
Si scusò e promise di farsi sentire qualche volta e che al South Side ci sarebbe tornato almeno per Natale.
Glielo doveva, a sua sorella Mandy.


CINQUE ANNI DOPO
Era nuovamente arrivato il cinque novembre e stavolta il palloncino rosso vicino alla lapide di Ian segnava il numero 24.
Mickey sorrideva, girandosi tra le mani il cappellino bianco che Ian aveva nella foto, quello che aveva rubato a casa Gallagher, il giorno in cui, dopo il funerale, aveva preso le sue cose ed era andato via.
Prima che ritornasse definitivamente a casa sua Fiona l’aveva chiamato in disparte, si erano seduti sul letto di Ian da soli, circondati da solo il silenzio, entrambi aveva esaurito le lacrime.
«Volevo dirti grazie per tutto quello che hai fatto. Per Ian e per noi.» gli aveva detto Fiona, guardandolo dritto negli occhi azzurri «Troverò il modo di ripagarti per tutte le spese mediche che hai pagato e anche per il viaggio.»
«Non voglio niente.» le aveva risposto, scuotendo la testa e chiedendosi come avesse mai potuto pensare di essere in debito con lui «Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per Ian e comunque non è servito ad un cazzo, quindi …» si strofinò le mani sui pantaloni, abbassando lo sguardo sul pavimento, carico di tristezza.
«Non so cosa avremmo fatto senza di te, Mickey. Non so come avrebbe fatto Ian, probabilmente se ne sarebbe andato prima, visto che noi eravamo troppo occupati a piangerci addosso. Tu hai avuto la forza di dargli quello che noi non avremmo mai potuto offrirgli. Te ne sono grata.»
«Oh no, lui parlava sempre di voi, di quanto foste fottutamente perfetti, di quanto fosse felice di avervi accanto. Piuttosto si lamentava sempre di me» sorrise triste, stringendo i pugni «dicendo che dovevo smetterla di atteggiarmi da infermiere.»
«Lui ti amava, Mickey.»
«Lo so, cazzo, lo so.» annuì, cercando di non far tremare la voce e di placare il bruciore che gli infuocava il petto.
«Volevo darti questi.» Fiona Gallagher non trattenne la sua voce spezzata, piuttosto si voltò verso di lui, porgendogli qualcosa con il suo sorriso carico di malinconia. Capì subito cos’erano: la camicia di Ian che aveva indossato al suo funerale e una delle sue felpe, quelle in cui affondava il volto mentre gli lasciava i succhiotti sul collo e sulle spalle.
«Pensavo che ti avrebbe fatto piacere tenerli tu.» continuò la Gallagher, mentre lui li prendeva in mano e vi lasciava sopra qualche carezza.
Continuò ad annuire, guardando quei vestiti come una delle cose più preziose del mondo.
«Sai dov’è Mandy?» cercò di sviare il discorso, alzandosi e mettendosi in spalla il borsone con i suoi vestiti, con la camicia e la felpa di Ian strette in mano.
«Ha accompagnato Lip da qualche parte, non voleva lasciarlo solo, non se la passa bene.»
«D’accordo.» esitò, uscendo dalla camera e dirigendosi verso le scale per lasciarsi alle spalle quella casa colma di ricordi, in cui aleggiava ancora forte il profumo di Ian. Arancia e cannella.
«Mickey?» Fiona lo bloccò prima che potesse scendere le scale e lui si voltò, senza dire una parola «Non buttare la tua vita nel cesso, okay?»
«Okay.» annuì, per poi ritornare sui suoi passi.
Quella fu l’ultima volta che mise piede in casa Gallagher.

«Ehi, buon compleanno, testa di cazzo.» disse un po’ impacciato mentre il tramonto illuminava il cielo di un bellissimo arancione.
Mickey si domandava come sarebbe stato Ian a quell’età, come il suo volto sarebbe cambiato, diventando più maturo … chissà come sarebbe andata se lui fosse stato ancora in vita, al suo fianco. Probabilmente si sarebbero sposati, in smoking come una vecchia coppia di froci, dopo che avrebbe divorziato da Svetlana.
Non gliene sarebbe fottuto un cazzo se avesse perso la cittadinanza.
«Il Succhia-latte va a scuola quest’anno, lo sai?» si tirò fuori dalla tasca del giubbotto un foglio spiegazzato e colorato «Sapeva che oggi è il tuo compleanno e ti ha fatto un disegno. Anche se a volte Svetlana non è proprio d’accordo Mandy gli parla sempre di te, e lo faccio anche io quando torno in questo buco, perché credo, insomma … di volergli bene, grazie a te. È l’unico ricordo che mi resta di quei tempi. Quando giocavamo alla famigliola felice, io e te.»
Guardò il disegno con un certo imbarazzo, il suo volto dai lineamenti ormai adulti fece una smorfia.
Mickey era cresciuto.
Era cambiato.
Si era rotto e aveva rimesso insieme i pezzi, senza rinascere: per quello aspettava di avere lui al suo fianco, come gli aveva promesso in quella bara gelida.
«Guarda cosa quello stronzetto ossigenato ha fatto per te: all’inizio del foglio c’è uno sgorbietto, che dovrebbe essere la Russa, visto che sotto c’è scritto “mamma”. Poi c’è lui ed altre tre persone denominate come: “Papà Mickey (quello che va a vedere il mondo)” , “Papà Ian (quello che sta al Campo Santo)” – cazzo, non dovrebbero dirgli che stai in cielo o cazzate simili?» si asciugò una lacrima, ripiegando il foglio e riponendolo in tasca «Comunque alla fine del disegno c’è Mandy che, per la cronaca, se la fa ancora con tuo fratello Lip. Quel Biondino si è laureato e con quella stronza di mia sorella progettano di andarsene in qualche fottuto Paese delle Meraviglie; tuo fratello Carl ha lasciato il ghetto qualche mese fa, entrando nell’esercito. Piperita Patty, Debbie, è al college e Fiona è rimasta sola con Liam. Credo se la passino bene, invece io … » sospirò, strofinandosi il naso e sentendosi terribilmente stupido a parlare con un pezzo di marmo «Cazzo, è difficile senza te a rompermi le palle, ma me la cavo. Ce la faccio, sì … cazzo, se sapessi quanta roba bella che c’è lì fuori.»
Si dondolava avanti e indietro, inginocchiato davanti alla sua lapide, quando sentì quel famoso calore avvolgerlo, quello che ormai sentiva ogni notte e che agognava in ogni momento della giornata.
Ian era sempre con lui, a volte arrivava un po’ improvvisamente, ma i tremori della paura venivano placati dal calore di quel dolce fantasma, che non parlava quasi mai, limitandosi a vegliare su di lui e proteggerlo.
Si portò una mano sul petto, vicino al cuore dove si era fatto tatuare il suo nome. Era andato in uno schifo di studio a Indianapolis e aveva chiesto alla tatuatrice di tatuargli sul petto quel nome, minacciandola che se avesse fatto qualche domanda inopportuna le avrebbe piantato una scure in testa.
«Oh, altro che inferno, Gallagher …» sorrise tristemente ammirando la foto dell’uomo che amava tanto «Se il Paradiso potesse parlare saresti il suo ultimo vero portavoce …»
E si strinse il cappello bianco al petto mentre l’alone del fantasma di Ian lo stringeva forte, con la guancia poggiata tra le sue spalle, con un sorriso tipico di Ian Gallagher ispirava il profumo del suo cappotto pulito, colmo di quell’odore che non era mai cambiato in tutti quegli anni.
Tabacco e gomma da masticare.
Aveva sempre amato il suo odore.


 
FINE
 



Note d’Autrice
È finita.
Ancora non mi sembra vero, ma questa mia prima long sui Gallavich è ufficialmente conclusa.
Mi sembra ieri quando l’ho iniziata, ero in ospedale, annoiata per una brutta bronchite che non mi faceva respirare per bene e che mi ha dato l’ispirazione per questa storia.
Sinceramente non so molto bene cosa dire, quindi molto probabilmente mi perderò in un fiume di parole come al mio solito. Già, come avrete notato sono un bel po’ logorroica.
Scrivere questo funerale è stato un pugno al cuore, letteralmente. Non tanto per Ian stesso che è morto, quanto per le reazioni Mickey, che Mickey non è più.
Sono consapevole di aver distorto abbastanza la sua personalità, ma nella mia testa c’era questo disegno e non sarei mai riuscita a scrivere in maniera diversa.
Insomma … Mickey distante da Ian, in un altro paese, ma consapevole del fatto che sia vivo, vegeto e in salute è un conto, mentre il fatto che gli muoia tra le braccia dopo una lunga agonia è un altro.
Sostengo fermamente che in una situazione del genere il Mickey Milkovich della serie crollerebbe a pezzi.
Avrei davvero voluto  concentrarmi di più delle reazioni dei Gallagher, ma già gestire Mickey è stato straziante e difficile, quindi non oso immaginare cosa sarebbe uscito se la questione avesse preso molti più punti di vista.
Le scene che mi hanno fatto commuovere di più mentre le progettavo e le scrivevo sono due: Mickey che si fa la barba e il dialogo tra lui e Fiona dopo il funerale.
Mickey che si fa la barba solo perché ad Ian piaceva vedere il suo volto glabro, per come lo vedo io, è un sinonimo di forza immane del personaggio. Mickey che comunque riesce a prendere in mano la sua vita, che riesce per lo meno a sopravvivere dopo la morte di Ian.
Il flashback del dialogo tra Mickey e Fiona dopo il funerale è stato pensato e scritto molto velocemente, l’ho inserito in un ultimo momento, presa da un improvviso colpo di ispirazione. Volevo creare una sorta di legare tra Mickey e i fratelli Gallagher, dimostrare che lui era come un membro della loro famiglia e, per questo, Fiona lo ringrazia e gli regala i vestiti di Ian, chiedendogli di non “gettare la sua vita nel cesso” (Che è un riferimento al terzo capitolo, quando Ian chiede a Lip e Fiona di, appunto, “impedire che Mickey getti la sua vita nel cesso”).
Per me sono state due scene intense e cariche di dolore, mi auguro sul serio che siano piaciute a voi tanto quanto sono piaciute a me.
Be’, l’epilogo … Mickey che scappa.
Mickey scappa perché altrimenti sarebbe diventato matto.
Già il fatto che prenda a pugni la lapide di Ian dice molto, come al South Side in quelle condizioni avrebbe solo perso il senno e mandato letteralmente in rovina la sua vita.
Quindi va a realizzare i suoi desideri, nonostante non riesca mai a sconfiggere i demoni che la morte di Ian ha lasciato dentro di lui.
Non so di preciso se Ian continua veramente a vivere come il fantasma che Mickey sente ogni notte al suo fianco o se sia solo una sensazione del nostro amato King Mikhailo, sinceramente … lascio a voi interpretare questa cosa.
Se è vero o meno, comunque Mickey lo sente ed è una cosa che lo accompagnerà per la vita. Se buona o cattiva, be’ … lascio decidere anche questo a voi.
I versi di questo capitolo sono molto importanti per me, provengono da una canzone che amo, Take me to church, di Hozier.
Okay, credo di dover lasciar a voi la parola e concludo aggiornandovi su qualche nuovo progetto che ho in mente:
a breve, spero di riuscire a creare una raccolta di One Shots, missing moments di questa storia che non sono riuscita ad inserire all’interno dei capitoli;
giorno 25 febbraio pubblicherò una nuova long, sempre sui Gallavich;
ho in progetto un bel po’ di One Shots, che spero di pubblicare al più presto.
Spero che questa storia vi sia piaciuta e che continuerete a seguire gli altri miei lavori!
Vi ringrazio di cuore, TUTTI!
Un abbraccio,
Merasavia Anderson.
 
RINGRAZIAMENTI
Per prima cosa mi sento in dovere di ringraziare mia mamma, che ha dovuto sorbirsi i miei scleri su questa storia e l’ho praticamente obbligata a darmi consigli e pareri.
Senza di lei probabilmente sarei diventata pazza!
Ringrazio, su EFP, Hil 89, Willkick e Lex_in_Wonderlend che hanno recensito la storia, dashuria, Katie_P, kenyz, pensavoate e (ancora una volta) Hil 89 e Lex_in_Wonderlend che l’hanno inserita nelle preferite, bananacambogianachiquita e valelmekawy che l’hanno inserita nelle ricordate e Enzo98, ophelia15362, GwenJ,  e (ancora una volta) Willkick e valelmekawy che l’hanno inserita nelle seguite.
Su Wattpad, invece, ringrazio Silvia_Dashing29, silviaavagliano e mickeyiangallavich che hanno inserito la storia nei loro elenchi di lettura e ChiaraPesaresi1, e (ancora una volta) mickeyiangallavich  e silviaavagliano che l’hanno votata.
Vi ringrazio di cuore per il supporto che mi avete dato, per le belle parole che avete speso e per aver trovato il tempo di leggere questa mia storia.
Ringrazio i lettori silenziosi (so che ci siete!) nella speranza che un giorno possano uscire allo scoperto. (Insomma, ragazzi, se Mickey ha fatto quel plateale coming out … voi potrete sicuramente riuscire a mostrarvi!)
Mi sento in dovere di ringraziare anche Cameron Monaghan e Noel Fisher, perché senza le loro fantastiche interpretazioni i Gallavich non sarebbero mai stati i Gallavich che noi oggi amiamo. E con loro, sarebbe bello poter ringraziare tutto il cast e la crew di Shameless, che ci hanno regalato questa serie TV meravigliosa.
(E sì, lo so che non leggeranno mai questi ringraziamenti, ma è okay!)
Ringrazio, per ultime ma non meno importanti, tutte le persone che hanno o hanno avuto un ruolo speciale nella mia vita.
Ecco, ho finalmente finito.
Grazie ancora!



(Vi avevo avvertito di essere logorroica.)




 

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