Ecco, così.

di greena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Luce ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO


Amore?

No, banale.

Passione?
Nemmeno.

Servirebbe qualcosa di nuovo?

Qualcosa di molto vecchio.

Come un treno.

Un treno fumante e indemoniato.

Ecco, ecco. Un treno fumante e indemoniato che arriva alla stazione puntuale, come ogni volta da trent’anni.

Indemoniato si calmò fino a far scomparire il suo essere, la sua peculiarità.
 E adesso immobile con silenzio onnisciente e immune, di un grande mito e essere, adesso, attendeva la discesa dei passeggeri appena licenziati e la salita dei nuovi.

Che sia questo la definizione di vecchio?

O lo è il ricordo in un ciondolo ottocentesco?
Di questa donna che conservò stretto il volto della madre, mentre saliva sul vagone senza battere ciglio.
O no?
Allora serve qualcos’altro.

Qualcosa di nuovo. Qualcosa verso il futuro.

Un alieno, dal volto fine, simile per certi aspetti al volto di Lorè, la donna della mensa.
Un alieno stava silenziosamente avvicinandosi a me. Feci come a non sentirlo. Feci silenzio e continuai a giocare a carte.

E mentre giocavo contro me stesso mi chiesi se potesse mai esser davvero così.

Ecco, sì. È davvero così che è?
È così che deve andar qualcosa di nuovo?

Non penso. Non lo è.

Dovrebbe essere un’innovazione, una fusione.

Ecco sì, una fusione.

Quindi si fuse il tutto.
E adesso, proprio in quest’attimo, l’alieno mi toccò e mi girai impietrito, fingendo un’aria sorpresa, ma sobbalzando impaurito con verità innocente.
Avevo la mano tremante e il pensiero che sbandava tra le emozioni per finire col fermarsi, per formarsi. Darsi un aspetto. E aveva l’aspetto di un ricordo. Di quando vidi quel demone morire e gettare un urlo: il treno si era fermato.
Dov’è la donna col ciondolo in mano? Dov’è finita?
Ecco sì, ecco cos’è giusto, ecco cos’è innovazione.

Fusione.

Sedetevi comodi, il racconto è pronto.

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Capitolo 2
*** Luce ***


Luce.

La poesia è essenziale.
Sentine l’odore leggero.
Che t’entra dentro la mente.
Come un ciondolo, lento, segue la corsa veloce di quella donna, io mi perdevo nei suoi movimenti e nelle sue oscillazioni.
E poi nero. Il cappotto nero di un uomo, alto e magro, magrissimo, scarno e barbuto, fumatore di un sigaretta bianchissima e sottile, uccise quel movimento e lo surclassò.
Dov’è la donna col ciondolo in mano? Dov’è finita?
Adesso che il treno parte, lei è scomparsa. Dove diamine sei?
Maledetto quell’uomo nero, vestito di nero. Come la morte che uccide.
La morte, quella paurosa.
Proprio come quella morte che probabilmente m’aspettava adesso che chissà quale strana forma d’essere, se essa è o era, mi toccava la spalla impietrendomi e congelando tutto il vivere che era in me.
Ebbi terrore, proprio come quella volta, quando persi mamma mia.
La mia mamma.
Adesso per sempre, adesso per un po’.
Illudendomi che di trovar, t’avrei trovata un giorno
Bella come sei, e lucente come saprai d’esser
Adesso che m’illumini anche da lontano,
ovunque tu sia
mamma
grazie.
E la ringraziai in mente mia, mentre l’esser stava girando la testa per osservar meglio il mio volto.
Forse t’avrei ucciso io, se adesso fossi stata lì con me, mamma.
E quindi decisi che solo, forse, in quel momento, sarebbe stato, come lo fu, il miglior modo di esser.

Come un’alieno, poi, dal volto, simile per certi aspetti a Lorè, la donna delle pulizie, uccise le  mie sensazioni per un attimo, mia madre, la donna col ciondolo di sua madre, mi uccise due volte.
Sparì, dimenticandosi suo figlio in stazione.
Sparì, dimenticandosi che lei era vita mia. E io vita sua.
Sparì, per sempre.
O solo per un po’, quando il cuore pensava bene che la speranza non voleva zittirla.
E che forse m’aveva lasciato solo perché sapeva che quel demone sarebbe rinato e che io dei treni avrei sempre avuto paura.
E che lei sapeva d’esser buona, lasciandomi lì.
Non voleva farmi inghiottire dall’essere fumante.
Non voleva, però, lasciarmi solo, no?

Perché non ci sei allora ?

Però lasciarmi solo fu meglio.
T’avrebbe ucciso, quell’essere, come avrebbe ucciso me.
E ti ringrazierò ancora una volta, perché sei bella
E perché sei mamma.
Mamma mia.
E mentre pensavo a cavarmela solo, come sempre, la luce bianca mi salvò.
O credevo m’avesse salvato.
La luce di mamma, mi dissi.
M’hai ucciso, ma mi hai salvato tante e tante altre volte.
M’hai ferito per crearmi, per fortificarmi.
Non avrei accettato altro abbandono che il tuo, mamma mia. So che m’ami e so che splendi. Come splendi adesso, adesso che mi salvi.
Luce bianca che mi salvò. Stessa luce che spinse i miei occhi a chiudersi, quando quel maledetto nero di quell’uomo scarno, magrissimo mi scansò e poi io tornai a osservarti. Ma non c’eri.
E anche adesso,  disteso, con un partita a carte da finire, io non ti trovai.
Di nuovo.
Mamma mi salvi, ma non mi ringrazi che ti credo ancora?

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