Paul Pollo

di MisterXPaulPollo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


23/12/2008 – Aeroporto Internazionale John F. Kennedy – Ore 22:26
 
 
Mancano solo pochi giorni al Natale, quella festa tanto amata dai grandi, indaffarati in frenetiche preparazioni, e dai piccini, che fremono al pensiero di quell’omone barbuto vestito di rosso che vola su una slitta piena di doni, trainata da renne volanti che a gran velocità si spostano da una parte all’altra del mondo, per portare nei cuori dei bambini messaggi carichi d’amore.
 
No, così non va.
 
Mancano solo pochi giorni al Natale, quella festa tanto amata dai grandi esibizionisti, indaffarati in frenetiche preparazioni per dimostrare al vicinato che il giardino meglio addobbato è il loro, e dai piccini, che fremono al pensiero di veder sbucare dall’ingresso principale il padre travestito da Saint Nicholas. Costume che consiste in un pigiama rosso di tre taglie più grande, un cappello a punta del medesimo colore, con un’irritante pallina pelosa e bianca attaccata all’estremità, un paio di stivali neri, e per finire un bel persiano a pelo lungo attaccato sul mento per simulare una folta barba.
 
Dicevamo.
 
L’omone barbuto che viaggia su un’utilitaria piena di niente, trainata da litri di gasolio che a gran velocità lo conducono ai negozi di giocattoli più vicini, per ultimare i mille regali segnati con mano incerta su quel pezzo di carta strappata da un quaderno a quadretti. Viaggia veloce, per portare tristezza nei cuori dei bambini che non hanno ricevuto il regalo desiderato, e messaggi carichi di astio da parte di quel portafoglio che adesso piange il suo vuoto interiore.
 
Mi chiamo Paul Stenac Campbell, ho quattordici anni, e sto aspettando di salire a bordo dell’aereo che mi porterà via da questa città sporca e corrotta. Il mio volo parte alle ore 22:55, sono solo, e sono minorenne. Mi sto spostando in una città che non conosco senza alcun rimorso, sto lasciando questa città e mio fratello.
Lascio lui, la scuola, mia madre, lascio ciò che ero e mi preparo a ciò che sarò una volta salito su quell’aereo. 
Una voce arriva alle mie orecchie, riportando la mia attenzione a quella vita che chiamo mondo reale. 
E’ una vocina stridula quella che sto ascoltando, terribilmente distorta dall’apparecchio elettronico che sta usando per comunicare. 
Finalmente l’imbarco, finalmente me ne andrò da quella sudicia città che ha gettato polvere su di me. 
Infilo una mano in tasca, e rivelo il cellulare prima nascosto dallo spesso tessuto dei jeans scuri che indosso, componendo un messaggio veloce, sebbene pieno di titubanza alla signora Stenac. Lei non vuole che la chiami mamma, e forse un giorno mi avrebbe messo al corrente del perché di tanto astio.
 
- SMS a: Signora Stenac
A momenti salirò sull’aereo.
Grazie per aver pagato il volo. -
 
Lo invio, chiedendomi se mai arriverà una risposta da quella donna che per anni mi aveva tenuto sotto il suo stesso tetto, crescendomi a malapena, guardandomi appena, parlandomi ancora meno. Ormai però non era più importante, la mia vita sarebbe ripartita da zero, avrei fatto nuovi incontri, magari avrei anche stretto qualche amicizia, e... 
Sto volando con la fantasia, devo incollare la testa alle spalle e restare vigile.

E’ questo ciò che colma quella testa ricoperta da una folta chioma di capelli candidi come il velo di una sposa, mentre occupo il posto a me assegnato per quel volo che scoprii, con mia grande sorpresa, essere quello vicino al finestrino. 
Ottimo, così avrei goduto appieno del meraviglioso oceano bianco e soffice che si sarebbe mostrato ai miei occhi raggiunta la quota di stabilizzazione o, comunemente conosciuta come l’altezza in cui tutti possono liberarsi dall'intoppo della cintura di sicurezza, e correre in bagno perché i servizi dell’aeroporto sono troppo lontani e terribilmente banali. Meglio evacuare con il pensiero di poter colpire quel maledetto piccione che ha scambiato la tua giacca nuova per una toilet.
Già, funziona sempre così.
Mi rilasso sul sedile di quell'aereo che mi porterà via da quell'inferno di grattacieli e sporcizia.
I miei muscoli non serbano alcuna tensione per il lungo volo che sto per affrontare e, tanto meno, per le persone che si sarebbero sedute accanto a me. 
Questo fin quando una minuta vecchietta non occupò il posto accanto al mio. 
La osservo attentamente, curioso come sono, e non posso fare a meno di notare quanto fosse piccola e fragile. Non siamo poi così diversi fisicamente parlando, io stesso non vanto chissà quale stazza, ma la cosa che mi ha colpito più di tutto, è il suo persistente tossire. 
La mano che copre educatamente la bocca, mi porta a interrogare la mente sulla quantità infinita di germi e batteri che adesso ospitano il secco palmo di quella graziosa vecchietta. 
Deve pizzicarle molto la gola, per indurla a tossire a quel modo e, adesso che ci penso, cos’è questo fastidioso pizzicore che m’induce a tossire? 
Strano, prima del suo lento arrivo non avevo niente.
Un tanto brusco quanto inaspettato movimento, l’aereo che si muove per posizionare la sua enorme massa sulla pista e quindi partire alla volta di Londra. 
Fisso per un attimo la vecchietta, poi poggio entrambe le mani sui braccioli posti ai lati del sedile e ci pianto le unghie, come un’aquila che trattiene la preda appena cacciata, come un gatto che si affila le unghie. 
Non riesco a descrivere ciò che sto provando in questo momento, forse terrore, forse ansia, o semplicemente entrambe. 
Una gelida mano che si è appena posata sul dorso della mia ha scaturito tutto ciò, una voce gentile e gracchiante che mi dice di stare tranquillo, il pizzicore alla gola che non mi abbandona. 
Mi volto lentamente, inquieto, e per la prima volta la vedo.
La morte.
Gelida, dalla voce gracchiante, dalle parole gentili e rassicuranti.
 
- Andrà tutto bene ragazzo, non preoccuparti. Finirà tutto prima che tu possa anche solo accorgertene. -
 
Urlo delle mute vocali, parole che mai potrò pronunciare per questa mia disabilità. 
Tutto poi si oscura, quella voce e quell’immagine spariscono come per magia dalla mia vista, ma la consapevolezza non mi avrebbe mai abbandonato.
Sono sulla lista degli invitati della Signora dal nero mantello.
Domani muoio.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I
 
7/07/2014 – Londra, Hardman Rd – Ore 22:03
 
Sono un genio del male, questo dovevano ammetterlo tutti.
Anzi, erano obbligati ad elogiarmi come chissà quale divinità.
Dovevano lodarmi, anche solo per la perseveranza con cui tento ogni volta di commettere un omicidio.
Stavolta però ci sarei riuscito, questa era la volta buona me lo sentivo fin dentro le ossa. Faccio un bel respiro, controllo che il mio infallibile piano fosse ben fissato alla mano, e controllo ancora una volta fuori dal finestrino.
Trovo diletto nel dondolarmi sul sedile di quello sporco e infetto taxi. A niente mi servivano tutte le precauzioni che prendevo, se poi andavo ad infilarmi in buchi di metallo e vernice ben poco accoglienti, ma cerco di convincere il mio cervello malato che lo sto facendo per una giusta causa, perché sì, uccidere qualcuno è una giusta causa.
Rivolsi uno sguardo all'autista tipicamente inglese, impaziente di conoscere una qualsiasi destinazione, o che semplicemente mi decidessi ad uscire dal suo taxi per far salire un altro cliente. Io però non parlo, e ho provato con il linguaggio dei segni, ma quel caprone non ha idea del perché io gesticoli e, ovviamente, la sfiga aveva pensato bene di farmi perdere per strada il taccuino sul quale comunicavo con la massa ignorante.
Ovvio no?
Mi dondolo ancora per qualche istante, controllando nuovamente il coltellino che ho ancora saldamente legato alla mano destra.
Il piano infallibile.
Probabilmente la cordicella che ho usato per costruire il meccanismo mi avrebbe lasciato dei segni, che correvano il rischio di portare infezioni e che preannunciavano dolorosi momenti, ma se quella specie di assassino dei videogame ci era riuscito, perché io dovevo fallire?
Una volta compiuto l'omicidio sarei tornato di corsa a casa, e mi sarei lavato accuratamente, e poi disinfettato, e poi avrei misurato i miei valori pressori ed infine sarei andato a letto. In quel bel letto abbastanza pulito da impedirmi di prendere altre malattie. Avevo calcolato un massimo di dieci minuti, il tempo di scendere, afferrare la vittima, reciderle la carotide, e scrivere con il sangue della stessa: "Mamma guardami, ci sono riuscito."
Sì, era un piano perfetto il mio.
Perfetto sotto ogni sfumatura.
Mi gratto lievemente una guancia con la mano destra, considerandolo un brutto segno.
Una malattia cutanea.
Primo sintomo accusato, prurito.
Ricalcolo.
Una volta varcata la soglia di casa avrei acceso il computer per gettarmi tra le sapienti pagine virtuali fornite da wikipedia, poi lavato, disinfettato, misurato, e infine addormentato, ma non adesso.
Adesso dovevo pensare alla vittima.
Volto lo sguardo dietro di me, in modo da perforare lo sporco vetro del lunotto e, finalmente, come una sacra apparizione la vedo.
Eccola là.
La mia vittima.
Una semplice ragazza dai capelli color dell’ebano e la pelle olivastra.
Una preda facile facile, no?
Il mio momento di gloria infine era arrivato. Tiro indietro la lama del coltellino, in modo da poterlo sfilare adeguatamente una volta sceso dal taxi e, con un colpo secco e con quella poca forza che avevo nelle braccia, apro lo sportello della macchina. Niente può andare storto, la ragazza è proprio di fronte a me, devo solo allungare la mano e reciderle la carotide, per vederla agonizzare al suolo in un lago di sangue.
Una frazione di secondo.
Un solo ed insignificante gesto.
Allora perché la sfiga ha deciso di mettermi nuovamente i bastoni tra le ruote o, in questo caso, i marciapiedi tra i piedi?
Inciampo.
È questione di un attimo.
Vedo il marciapiede avvicinarsi sempre di più al mio corpo, e l’unica azione sensata al momento, per evitare dolorosi interventi chirurgici e costosi assegni in bianco a favore di un dentista dalla dubbia laurea e dall’ancora più dubbia igiene, è mettersi di lato e sperare di non uscirne malconcio e con qualche frattura.
Sbatto con forza contro il marciapiede, e riesco chiaramente a vedere i mozziconi di sigaretta spenti e gettati sullo stesso, ma come la scena a rallentatore di un film d’azione, i miei occhi sono ora fissi su quella fottuta cordicella che ha deciso di spezzarsi, e osservo la lama che senza tante cerimonie mi lacera un pezzo di carne del dito medio della mano sinistra.
Sangue, è solo quello che vedo.
Non la sporcizia di quel marciapiede, non la vittima che mi guarda con i suoi occhi scuri, increduli, imbambolata da questo improvviso cambio di programma nella sua noiosa routine.
Devo agire in fretta, so per certo che il sangue non si coagulerà, morirò su questo marciapiede nel tentativo di compiere un omicidio, ma non voglio morire. Non prima di averne compiuto almeno uno.
Porto la mano ferita al petto, schiudendo la bocca per urlare, per far uscire il dolore che sto provando, ma nessun suono può uscire dalla mia bocca per quanto mi sforzi.
Alzo gli occhi chiari come il cielo dell’alba, verso la ragazza, la mia vittima, l'unica in grado di tenere un telefono in mano e chiamare i soccorsi per impedire l’orribile morte del ragazzo dai capelli platino e la pelle diafana, muto ed ossuto, ma non albino. Questa era l’unica caratteristica che mi mancava.
L’unica, poiché l’autista aveva pensato bene di sparire alla velocità della luce per tenersi fuori da ogni possibile coinvolgimento.
Perché se ne sta impalata come un baccalà sottosale? Perché l’unica vittima dal quoziente intellettivo di una mosca doveva capitare a me?
Spezzo il contatto della mano buona da quella ferita e, con l'indice della mano destra, cerco di scrivere il numero del pronto soccorso su quel marciapiede sporco di sigarette, fango, acqua stagnante, sangue, ed è con quest’ultimo che scrivo sebbene la mano tremasse per il dolore acuto della gemella.
Fa male, i polmoni bruciano, quell'orribile puzzo di morte mi sta già riempiendo le narici, perché sì, io conosco il finale di questo film.
Il sangue non si sarebbe coagulato, la ferita si sarebbe infettata per colpa di quella mia irrefrenabile voglia di dimenarmi sul marciapiede infestato dalla sporcizia, e il pronto soccorso non sarebbe arrivato in tempo.
Finale drammatico ed improbabile per un normale essere umano qualsiasi, ma non per me.
Non per una persona perennemente abbracciata alla sfiga come me.
Cerco di tenere ben aperti gli occhi per poterla osservare in ogni suo gesto, nonostante i gesti frenetici del mio corpo.
Ad esempio.
Cosa sta facendo adesso?
Perché si è inginocchiata al mio fianco?
Perché diavolo continua a fissarmi come se fossi una foca in un acquario?  
Mi sta forse analizzando?
Sta forse cercando un modo per uccidermi in fretta sfruttando questa dannata ferita?
Cerco di bloccare i movimenti da crisi epilettica che mi attraversano da capo a piedi, e mi fermo ad osservarla con maggiore intensità, notando infine le dita sottili e rapide che sfiorano lo schermo touch di quel suo maledetto smartphone.
Sta chiedendo aiuto, la sua voce arriva nitida alle mie orecchie, talmente tanto che riesco perfino ad udire le risposte dall’altra parte dell’apparecchio.
Il dolore, e la speranza di veder sopraggiungere al più presto un’ambulanza, mi ha portato però ad abbassare la guardia. Povero stolto di un pollo.
La mano di quella ragazza dai capelli color dell’ebano mi sta toccando, sta toccando la mia pelle nuda e sporca di sangue, sta sicuramente cercando di contagiarmi con qualche strana malattia a me ancora sconosciuta.
Mentre gli occhi non si schiodano da quella mano dalla pelle olivastra, la mente è già all’opera nello stilare una lista completa di ogni singolo oggetto che quelle mani avevano toccato durante l’intera giornata, ma non posso urlare di terrore, non posso fare un gesto così inutile.
I pensieri si aggrovigliano, ed ogni secondo che passa è un oggetto in più che si aggiunge alla lista, ma tutto questo non basta, ad aggiungere sale sulle ferite è nuovamente lei, che si alza da terra e corre verso la busta che ha lasciato cadere al suolo per soccorrermi prima di richiedere l’intervento immediato dell’ambulanza. Torna da me con quel capo d’abbigliamento candido come la mia pelle, probabilmente una t-shirt o qualcosa di molto simile. Si inginocchia di nuovo accanto a me la mora, con quelle sue manacce sporche e quella cosa bianca poggiata sulla mia mano ferita.
Sta cercando di bloccare il sangue, non è così?
Sta cercando di aiutarmi, di salvarmi la vita.
Un momento.
Quella roba ha toccato il terreno?
È stata comprata in chissà quale negozio, e adesso ci sta avvolgendo la mia mano ferita?
No, non avrei superato la notte grazie a lei, adesso ne avevo la certezza.
Porto la mano, ormai avvolta dalla maglia della mora al petto, e scuoto più volte la testa in preda al panico, lasciando uscire il muto urlo che fino ad ora avevo trattenuto.
Non riesco neanche a sentire i miei pensieri, tanto è forte il grido da me emesso.
Voglio solo che tutto finisca alla svelta.
Fanculo i coltelli, se sopravvivo a questa notte d’inferno, la prossima volta userò del semplice veleno.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II



13/07/2014 – Londra, Tennyson Rd – Ore 14:45

Devo andarmene, devo andarmene immediatamente da questa fetida casa.
Sporca.
Orribile.
Infestata da batteri grossi come coleotteri, e germi che cavalcano i batteri con vistosi cappelli da cowboy.
Io li vedo, sono intorno a me, praticano free climbing sulle mie gambe, aggrappandosi al tessuto dei jeans per poter raggiungere la vetta. Maledetti bastardi, perché i migliori disinfettanti uccidono solo il 99,9% dei batteri?
L’unico superstite di questa strage verrà chiamato, per simpatia, Highlander.

« Hey, fiocco di neve! Vieni qua. »

I miei occhi si sgranano in automatico quando la voce di quell’irlandese dalla canottiera sporca di due giorni, le lentiggini sparse su quelle gote rubiconde e i riccioli rossastri, unica caratteristica che possa accomunarlo alla sorella, alla signora Stenac.
Non avvicinarti. Non toccarmi ammasso di immondizia.
Vorrei scriverglielo, vorrei tirare fuori dalla tasca posteriore dei jeans il mio preziosissimo taccuino con la copertina in pelle nera, adornato da un elastico nel quale è assicurata la penna a sfera di colore nero. Una grande comodità.
Le mie mani però non trovano il coraggio di lasciar andare il disinfettante spray, che sto stringendo con la forza di un bambino al quale stanno per rubare il lecca lecca.

« Fiocco di neve, si può sapere dove sei stato? Ero preoccupato per te! Insomma, potevi anche chiamare e dire che non saresti tornato a casa per cinque giorni. Oh, è vero, tu non puoi parlare! »

Sai panzone, stavo per morire dissanguato su un marciapiede perché l’ennesimo tentativo di omicidio è andato a farsi benedire. Oh lasciamo perdere, non ha senso scrivergli. Non so neanche se sappia leggere.
La sua grassa e rozza risata, scatenata da quella battuta di pessimo gusto, mi gratta i timpani come un rastrello sulla sabbia, ma non è questo ad irritarmi e preoccuparmi.
No, ad irritarmi è il suo grosso pancione ed il suo inglese dal pesante accento irlandese, e a preoccuparmi è il suo avanzare.
Non avvicinarti ciccione.
Non fare un altro passo o giuro che ti disinfetto.
Non ti avvicinare.
Non un altro passo.
Posso sentire il suo respiro sulla mia pelle, i suoi germi sulla peluria delle mie cavità nasali, la sua presenza imponente sempre più vicina a me. Non sapevo quanto lui potesse essere alto, ma io ero un metro e settanta centimetri all’incirca, e lui mi superava di almeno una spanna e mezzo.
La sua massa grassa poteva essere paragonata a quella di un tricheco, e probabilmente almeno un terzo di esso era occupato dai litri di birra che si scolava.
Il suono del suo avanzare si è trasformato in un temporale, ogni passo è un fulmine il cui tuono impiega sempre meno a raggiungere le orecchie.

« Suvvia fiocco di neve, non puoi avere ancora paura di me. Ormai sono sei anni che viviamo insieme, non sei contento di questo? Dai, abbracciamoci e facciamo la pace da buoni amici! »

Questa volta fulmine e tuono viaggiarono assieme per schiantarsi contro la mia fragile spalla, scaricando tutta l’energia negativa all’interno del mio corpo, trasformando le vene in circuiti di formula uno sul quale sfrecciava il male travestito da consapevolezza.
La mano destra e la sinistra scattarono in avanti, verso quella figura grottesca che aveva appena violato la mia barriera protettiva, il mio mondo sicuro, ma fragile come un cristallo. Impugnano lo spray come se fosse una pistola e, puntando al volto, spruzzano il disinfettante addosso all’irlandese per allontanarlo da me, lo spruzzano sul naso, sulla bocca, perfino tra i capelli, poi lascio cadere il contenitore di plastica a terra, e con esso il corpo del gigante irlandese scosso da gemiti di dolore, causati dal liquido che evidentemente si è posato sulle iridi chiare.
Devo scappare.
Devo andarmene da questa casa.
Corro verso la porta d’ingresso, la apro, esco frettolosamente da questa casa orribile e da lui, salto i tre scalini rischiando di fratturarmi una caviglia, ma non me ne curo.
Devo allontanarmi.
Devo farlo ora.

13/07/2014 – Londra, Green Park – Ore 17:02

Sono seduto su questa panchina da non so neanche quanto tempo.
So solo che la Jubilee mi ha salvato la vita. Per il momento.
La linea ha impiegato quarantuno minuti a raggiungere la destinazione, attraversando gran parte delle fermate come West Ham, Canning Town, North Greenwich Station, la stupefacente Canary Wharf, Canada Water, Bermondsey, London Bridge, Southwark Station, Waterloo Station, Westminster Station, arrivando infine alla mia fermata, Green Park Station.
Ho imparato a memoria le fermate, perché ogni volta che le porte si aprivano il disagio cresceva.
Ad ogni fermata le persone aumentavano, e più aumentavano, più  i miei tentativi di non toccare niente e nessuno scemavano. Non mi piacevano i mezzi pubblici, non mi piaceva la gente, non mi piaceva entrare in contatto con le persone.
Sono sporco, la gente non vuole toccare lo sporco, altrimenti donerebbe carezze ed abbracci anche ai barboni, ed io non voglio essere toccato in alcun modo, perché possono essere portatori di qualche malattia infettiva.
Il mio corpo è un po’ come un album, e le malattie sono le figurine impazienti di essere attaccate nel loro posto riservato e numerato.
Abbasso lo sguardo sullo schermo del telefono, avendo avvertito sul palmo della mano destra la sua vibrazione e, con un sopracciglio alzato per lo stupore, realizzo che è una notifica da parte di Facebook.
Laudato sii o Zuckerberg, per aver creato una piattaforma in cui qualsiasi persona possa sentirsi a suo agio, sia essa un transessuale platinato, o un muto. Grazie per aver creato un social network in cui tutti parliamo scrivendo, e in cui nessuno sa chi realmente si nasconda dietro quella foto profilo. Grazie Zuckerberg, grazie a te anche i timidi possono socializzare. Grazie Zuckerberg, perché grazie a te posso parlare anche io.
Ah no, quello è google translate.
Digito il codice per sbloccare l’apparecchio elettronico, e solo quando rileggo quelle poche parole scritte in preda al panico, acquisto la consapevolezza del mio gesto.
Una casa nuova, implica persone nuove, e persone nuove equivalgono a maggior accumulo di sporcizia.
D’altro canto, non posso permettermi di mantenere un appartamento da solo, e se sono sopravvissuto sino ad ora con quell’irlandese da strapazzo, posso resistere a dei nuovi coinquilini.
O almeno spero.
Una certa Skyler St Clair ha commentato il post in cui cerco disperatamente dei coinquilini.
Skyler.
Una donna.
Una portatrice sana di mammelle.
Una donna.
Come mia madre.
Devo provare, sono disperato, non voglio tornare in quella casa aromatizzata alla birra.
Socchiudo gli occhi, inspirando ed espirando profondamente prima di aprirli di nuovo e rispondere al commento di quella donna, per chiederle un incontro.
Non ho intenzione di trasferirmi alla cieca come quando me ne andai da New York, voglio vedere che razza di persona è, se mi posso fidare, se è vagamente più pulita rispetto al grassone di Tennyson Rd. Fortunatamente la ragazza sembra non aver voglia di attendere a lungo il mio trasferimento, e dalla sua risposta posso dedurre che sia vicina. Il localizzatore nei cellulari può essere una grande risorsa, se poi la persona che stai cercando posta un selfie dove indica la sua posizione, ancora meglio.

“Ti aspetto a Green Park. Mi riconoscerai facilmente, sono bianco dalla testa ai piedi. Come un albino, ma leggermente più scuro. Sono seduto su una panchina vicino al Wellington Arch. Ti aspetto.”

Non mi aspetto invece una risposta rapida dalla donna. Se sta camminando e guarda il telefono, potrebbe accidentalmente ritrovarsi spalmata contro un lampione della luce, o inciampare in uno dei tanti scoiattoli che animano il parco, e ritrovarselo addosso. Peloso e rabbioso, infetto e mostruoso.
Ho i brividi solo ad immaginarlo.
Quando ancora abitavo nella periferia di Dublino, vicino alla fattoria del vecchio Cáel, ricordo che feci infuriare un papero.
Il faccia a faccia con quel volatile fu terrificante, ma se non lo avessi fatto arrabbiare, non avrei mai conosciuto la mia migliore amica. Povera Sticky, che fine indegna.
Volto lo sguardo a destra e a sinistra, stanco, scocciato, certo che la ragazza non mi avrebbe mai raggiunto.
Forse era uno scherzo, forse quella foto del profilo era solo una copertura.
No.
Il transessuale platinato!
E se invece fosse un serial killer?
Oh, se così fosse sarebbe l’occasione perfetta per farmi insegnare i trucchi del mestiere.
Il cellulare vibra di nuovo.
Un messaggio su facebook da parte di questa famigerata Skyler, e con una richiesta piuttosto insolita.
Perché dovevo alzarmi in piedi e saltellare due volte?
Mentre il mio cervello ancora sta elaborando domande, il corpo ha agito d’istinto, alzandosi e saltellando due volte sul posto.
Devo essere impazzito, forse questa è una di quelle figurine che ancora non ho, oppure..

« Scusa, sei tu il ragazzo bianco dalla testa ai piedi, ma più scuro di un albino? »

Mi volto verso quella voce graziosa, ma non per questo meno pericolosa, di una ragazza dai capelli biondi, lunghi e mossi che incorniciano un volto dai lineamenti delicati e morbidi, dalle labbra piene come le mie, e gli occhi grandi e profondi come l’oceano.
È una giovane minuta, e il suo accento mi porta a pensare che, esattamente come me, anche lei non sia veramente inglese.
Straniera, forse francese.
Annuisco, restando comunque a debita distanza da quella sottospecie di donna dal seno per niente prominente.
Una bambina.
Una bambina con la mano tesa verso di me, mano che non avrei mai toccato.

« Sono felice di conoscerti Paul, io sono Skyler. »

 

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III

15/07/2014 – New York, aeroporto Internazionale John F. Kennedy – Ore 20:05

Ciao stupida e sudicia New York, ti sono mancato?
Immagino di no dato che sei stata proprio tu a cacciarmi da qua, circa sei anni fa.
Già, sono già passati ben sei anni ti rendi conto?
Sei anni da quando Lui mi ha attaccato, sei anni da quando ho lasciato questa città, sei anni che sopravvivo in quella orribile topaia a Tennyson Rd, sei anni che sfuggo alla morte. Sono passati ben sei anni, dall’ultima volta che ho visto Noah.
Ti stai chiedendo perché sono tornato da te, nonostante tutto il dolore che mi hai causato, correndo pure il pericolo di essere attaccato da Lui?
Abbasso lo sguardo sul telefono che tengo stretto nella mia mano destra, mentre aspetto con ansia l’arrivo di quel bagaglio che all’imbarco è stato lanciato senza alcuna grazia o rispetto nella stiva di quell’aereo maledetto, nel quale sono stato costretto a salire per forza di cose.
È bastato un insignificante messaggio, una parola ed un punto esclamativo a farmi correre verso l’aeroporto di Gatwick, farmi sette ore e cinquantacinque minuti di viaggio e spendere più di settecento sterline per atterrare in una città che odio, piena di ricordi, e di Lui.
Quel maledetto bastardo di Lui.
Presto tornerà a prendermi, so che mi sta cercando, mi sta cercando per completare ciò che non è riuscito a finire sei anni fa.
Se non lo uccido, lui ucciderà me.


14/07/2014 – Londra, Tennyson Rd – Ore 23:00

Vivere in una casa, ma non viverci realmente.
Ecco come ho passato questi sei anni della mia vita, nascondendomi da un presunto zio irlandese che ha accettato di farmi vivere sotto la sua ala, per fortuna non letteralmente, in una casa infestata da fantasmi giganti che io chiamo batteri.
Anche adesso mi sto nascondendo, perché so che quell’essere è arrabbiato come un cane privato dell’osso, e so bene anche il motivo di tanta rabbia.
Grazie di esistere, disinfettante.
Anche stanotte sono entrato di soppiatto proprio come la notte precedente, ma non per dormire in quella bella camera che profuma di pulito, ma per riempire un’altra valigia con il favore della notte.
È tardi per quel tricheco, a quest’ora è già steso su quel letto dai piedi sforzati, probabilmente anche con qualche doga rotta.
Sorrido lievemente, il favore della notte mi aiuterà a recuperare tutta la mia roba e sparire definitivamente, anche se la luce della luna mi sta trasformando in una lampadina riflettendo sulla pelle.
Non è importante comunque, dato che il tricheco è già nel suo letto.
Posso uscire dal mio nascondiglio finalmente.
Sembro un geco attaccato al muro in questa posizione, schiacciato tra il divano nel quale appoggio la schiena, e l’intonaco del muro, che fortunatamente è stato dipinto di recente per cancellare le tracce di umidità e di vecchio. Ho approfittato dell’assenza dell’uomo per intrufolarmi in casa e, sapendo che sarebbe tornato intorno alle 21:00, alle 19:00 ero già entrato in casa ed avevo iniziato a fare le valigie.
Tutto è stato calcolato nei minimi dettagli, dopotutto non ci si può aspettare altro da una mente geniale come la mia.
Sbuco lentamente fuori dal mio nascondiglio, sentendo il bisogno di lavarmi almeno le mani dopo aver toccato per ben due ore, un muro ed un pavimento, ma non posso andare in bagno dato che è accanto alla sua stanza da letto.
Il rumore dell’acqua potrebbe svegliare quel mammut dal sonno leggero.
Mi dirigo quindi in cucina, dove sono certo di aver lasciato una bella bottiglia di sapone per piatti ancora da aprire sotto al lavello della cucina e, pieno di gioia per il bel pensiero, agguanto la maniglia dell’anta del mobile con l’indice della mano destra, tirandola sicuro verso di me.
Tanto sicuro da non controllare cosa si nasconde sotto al lavello, dentro quell’anta.
La mano si posa su qualcosa di peloso e morbido, ma non assomiglia affatto alla bottiglia di sapone, né alla spugna che cambio ogni giorno per lavare i piatti.
Cos’è quella cosa pelosa? Che abbia comprato un asciughino peloso? No, non sarebbe di nessuna utilità una cosa del genere, e poi non ha neanche lontanamente la consistenza di un asciughino. Allora cos’è quella cosa che sento?
Grazie alla luce che entra dalla finestra della cucina, posso evitare di accendere quella elettrica, per cui mi piego sulle ginocchia per poter vedere cosa la mia mano sta palpando ormai da un minuto buono.
Non è un asciughino.
Non è la spugna.
Non è la bottiglia di sapone che tanto bramavo.
Un topo.
Sto palpando un topo morto da chissà quanti giorni.
Ritiro automaticamente la mano, perdendo l’equilibrio per il gesto brusco e sbattendo il bacino su quella maledetta mattonella traballante che non si è mai deciso a riparare.

« Hey! Chi c’è in casa? »

Il tricheco è sveglio.
La mia mano infetta.
Quel topo in decomposizione poteva avere chissà quante cose, chissà quanto schifo, e non posso lavarmi dannazione!
Mi alzo di scatto, guardandomi intorno alla ricerca di una soluzione tanto rapida quanto efficace, ed è lì che il mio sguardo si posa su quel fornello incrostato, dove ancora risiede quella padella sporca ed unta nella quale deve aver mangiato.

 « Non costringermi a chiamare la polizia! »
 
Non c’è più tempo, devo agire.
Afferro la padella per il manico, trovando infine riparo dietro la porta della cucina. Lo spazio è abbastanza da poter ospitare il mio gracile corpo, e lui non può vedermi qua dietro.

« Dove sei piccolo residuo di sterco? Che c’è, hai paura? Esci fuori piccolo bastardo, voglio fare due chiacchiere con te ladruncolo dei miei stivali. »
 
Se mi trova sono morto, non deve trovarmi, non deve.
Sento i suoi pesanti passi varcare la soglia della cucina, la padella è ben stretta tra le mani, ma non posso aspettare che lui se ne vada. Devo agire, e devo farlo adesso.
Apro la bocca per urlare, ricordandomi solo dopo di quanto stupido sia quel gesto e, uscendo da dietro la porta, mi avvicino a lui per poterlo colpire su quel suo testone da bovino.
È di spalle, tutto è semplice quando le persone non sanno che ci sei.
Grazie mamma per avermi fatto nascere muto.
La padella si alza sopra la mia testa, e rimbalza sopra il testone dell’uomo che ho davanti. Uomo che crolla a terra come un sacco di patate.
Sollevo la padella in aria, osservandola come se avessi tra le mani il santo Graal, con un velo di puro stupore per l’efficacia di quell’oggetto.
Se continuassi a colpirlo, morirebbe e non ci sarebbero più problemi.
Diventerei un assassino, e dimostrerei alla signora Stenac che anche io posso fare qualcosa, che anche io posso distinguermi ed apparire.
Sì, potrei salire sul tetto, alzare le braccia al cielo ed urlare “GUARDA MAMMA, CI SONO RIUSCITO!”
No, non posso.
Il topo.
La mano infetta.
Un tricheco in decomposizione.
Lascio cadere la padella a terra, e corro verso il bagno per lavarmi le mani, disinfettarmi fino ai gomiti e tranquillizzarmi.
Sarebbe stato fuori uso per un po’, adesso potevo calmarmi.
Non mi aveva visto.
Non poteva sapere chi lo aveva colpito, e non poteva quindi denunciarmi per aggressione.
Ho la nausea, faccio fatica a respirare e la vista trema, come se qualcuno stesse giocando a ping pong con i miei bulbi oculari, e la suoneria del telefono mi fa arrivare il cuore in gola. Riecheggia all’interno di quel minuscolo bagno dalle mattonelle verde salvia, ma non rispondo.
Poi un messaggio.
Mi costringo a prendere il telefono custodito dalla tasca sinistra dei pantaloni, e da quello che riesco a leggere, è Noah.


- SMS da: Noah
Aiuto! -

Noah è in pericolo.
Devo salvarlo.
Devo andare da lui.
Devo prendere le mie cose ed andarmene.
Noah resisti, il Pollo viene a salvarti.

15/07/2014 – New York, aeroporto Internazionale John F. Kennedy – Ore 21:00
 
È quasi imbarazzante il tempo che ci vuole per uscire dall’aeroporto dopo aver toccato terra, e come ogni volta sulla mia valigia ci sia una nuova ammaccatura.
Quest’ultima la chiamerò Alfred, e avrà la compagnia di Jack, Tim, Jodie, James, Roger…
Mi guardo intorno, notando come quel posto sia perennemente circondato da quelle prigioni metalliche gialle, puzzolenti e probabilmente imbevuta di chissà quanti tipi di alcolici diversi. Tutti pericolosi.

«PAUL! HEY, PAUL! POLLO SONO QUI!»

Mi volto di scatto quando sento la voce di quel frastornato di mio fratello.
La riconoscerei tra mille, ed anche a distanza di anni, non è mai cambiata.
Noah, quel ventenne irlandese figlio di mio padre che, esattamente come me, di irlandese aveva solo il luogo di nascita sulla carta d’identità.
Due fratelli, figli dello stesso padre, ma con madri differenti.
C’era una volta un valente uomo d’affari, con una moglie bellissima ed una segretaria molto attraente.
Un bel giorno, all’insaputa della moglie, i due colleghi iniziano ad amarsi e scambiarsi effusioni sempre più evidenti, e nessuno poteva sapere cosa accadesse in quell’ufficio una volta chiusa la porta.
I due sembravano amarsi, e l’attraente segretaria voleva fuggire assieme all’amato e partorire i suoi figli. O il figlio.
Perché proprio di questo parlarono quel giorno.
L’uomo non prese bene la notizia del mattino, ma la notizia della sera lo colpì come un fulmine a ciel sereno.
Anche la moglie aspettava un figlio. Quello legittimo.
Nonostante l’uomo avesse chiesto più volte alla segretaria di abortire, lei lo mandò al diavolo, e decise di licenziarsi e portare avanti la gravidanza da sola, convinta che il nascituro potesse un giorno vendicarsi di quell’orribile mostro che non aveva la minima intenzione di riconoscere il suo bel bambino.
I mesi passarono, e il venerdì tredici del mese di maggio, alle ore diciassette in punto, fece la sua comparsa nel mondo Paul, il bambino che l’avrebbe vendicata. O quello che la donna definì un abominio quando scoprì che era muto. Un essere umano inutile che aveva appena ucciso le sue speranze di vendetta. Cosa poteva fare un muto per farsi accettare dal mondo? Chi mai lo avrebbe ascoltato?
Un bambino fantasma, così veniva definito il piccolo Paul, che nonostante l’astio non ha mai smesso di popolare gli incubi della donna.
Morale della favola signora Stenac, fai sesso protetto se non vuoi generare altri figli come me, fai sesso protetto invece di sfornare figli da abbandonare.
Le donne sono il male.
Le donne mettono al mondo figli che non amano, li attaccano al loro seno e nutrono teste di cazzo.
Le donne sono isteriche durante il mestruo.
Le donne sono spaventose.
E sono macchine complesse da capire.
Odio le donne.
Tutte quante.
Poi torno alla realtà quando mi ritrovo la slanciata e atletica figura di mio fratello davanti agli occhi, con quei suoi riccioli neri e scompigliati, e gli occhi marroni.
Non sembriamo neanche fratellastri da quanto siamo diversi, però insieme potremmo fare un buon latte di riso macchiato.

« Pollo? Sei su questo pianeta o hai lasciato il cervello a Londra? »

Lo osservo attentamente, e sembra stare bene.
Perché mandarmi una richiesta di aiuto, quando non c’era niente da cui salvarlo?
Schiudo le labbra, aggrottando al contempo le sopracciglia non riuscendo davvero a capire il perché di quel suo messaggio, poi mi decisi a “parlare” a mia volta, muovendo le mani in aria per formare le benedette parole nel linguaggio dei segni.
Linguaggio che lui sapeva interpretare alla perfezione, dopo anni ed anni di esperienza direttamente sul campo.

- Mi spieghi perché diavolo mi hai mandato un messaggio in cui chiedevi aiuto? -

Come suo solito, invece di parlare come un normale essere umano, Noah risponde ai miei gesti con altri gesti, portandomi a socchiudere gli occhi e scuotere la testa in segno di resa. Era un caso senza speranza.

- Ti ricordo che sono muto, non sordo. Se muovi la boccuccia e le dai aria, ti sento. -
« Hai ragione, hai ragione, ma è per tenermi in allenamento. Sai, non mi capita ogni giorno di potermi allenare con qualcuno che usa questo linguaggio. In ogni caso, non so di cosa tu stia parlando, io ti ho semplicemente chiesto quando saresti venuto a trovarmi. Sei tu che mi hai risposto con un “Sto venendo a salvarti Noah, resisti!” »

A quelle parole sarcastiche le mie sopracciglia si inarcano in un espressione tanto incredula quanto persa nel vuoto, ed i neuroni già in movimento, si spremono per trovare una soluzione, o almeno per ricapitolare l’accaduto.
Porto il telefono all’altezza del petto, cercando la conversazione avuta con mio fratello in quei pochi messaggi che ci siamo scambiati, ed effettivamente, in nessuno compariva una richiesta d’aiuto.
Che mi fossi immaginato tutto in preda al panico?
Il mio cervello malato, confuso e terrorizzato aveva metabolizzato quelle parole come una possibile via di fuga da quella casa degli orrori, inviando un segnale mentale a Noah in cui io chiedevo aiuto?
Che mi sta succedendo, cosa è successo la scorsa notte?
Il mio volto si deve essere corrucciato in un espressione davvero spaventosa, per aver spinto mio fratello ad abbracciarmi, ad inondarmi con il suo nostalgico profumo ed il suo rilassante calore.
Proprio come ogni volta, quando scappavo in lacrime da casa Stenac, quel gigante riusciva sempre a calmarmi, ed anche se non sembrava, il maggiore tra i due ero proprio io.
Spesso mi sono sentito ridicolo, ma Noah era l’unica persona che poteva toccarmi senza alcun riguardo.

« Mi sei mancato, Pollo. »

Socchiudo gli occhi a quel sussurro vicino all’orecchio, sorridendo lievemente tra me e me mentre gli avvolgevo la vita con le mie esili braccia, trovando conforto nelle sue. L’indice della mano destra si posa contro la schiena del ragazzo, tracciando otto lettere, per un totale di tre parole.
Sono tornato sudicia New York.
Sono tornato Noah.

- Sono a casa. -

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV
 
24/12/2008 – Londra, aeroporto LHR – Ore 11:50

Londra, città della nebbia e della pioggia, affascinante metropoli dalla sanguinolenta ed intrigante storia, popolata da pittoreschi personaggi impassibili armati fino ai denti, con vistosi colbacchi in pelle d’orso.
Il volo da New York a Londra non è stato poi così terribile come pensavo, considerando che sono svenuto poco dopo la partenza. Ora che mi soffermo a pensarci, non so calcolare il numero esatto di volte che sono svenuto durante tutta la durata del volo, ma posso facilmente attribuire la colpa a quell’ossuta vecchietta seduta accanto a me. È impossibile non svenire, se si ha la consapevolezza di essere gomito contro gomito con la morte.
Però non sono morto.
Che mi abbia graziato?
Sì, non può essere stata fortuna.
Sicuramente ha in serbo qualcosa di meglio per me, non può farmi morire miseramente su un aereo.
Sono vivo.
Almeno per oggi.
Credo.
Fuori dall’aeroporto mi accorgo della vastità di persone diverse che affollano quel posto, probabilmente ogni giorno, ad ogni ora.
Indiani, inglesi, americani, italiani, perfino qualche irlandese. Oh sì, si riconoscono da lontano gli irlandesi.
Tranne me e Noah.
Già, noi siamo le eccezioni che confermano la regola.
Ed a proposito di irlandesi, che tipo di persona è lo zio?
C’è questo pensiero che proprio non vuole abbandonarmi, questa domanda che fluttua come un piccolo ed insignificante ectoplasma nella mia mente da poco lucida. Mia madre, no, la signora Stenac non mi ha parlato molto di lui. In realtà non l’ha mai fatto, mi ha semplicemente messo in tasca un foglietto con scritto il suo indirizzo, insieme a qualche sterlina per cavarmela al mio arrivo. Sarei riuscito a prendere un taxi, non volevo fare il viaggio in un qualche autobus circondato da batteri internazionali. C’era il rischio di svenire per l’ennesima volta.
Mi guardo intorno, osservando e passando allo scanner ogni singolo taxi nero in fila ed in attesa.
So che stanno aspettando un potenziale pollo da poter spennare, ed io sono uno di loro, ma la loro carrozzeria così sudicia, sporca di fango e di impronte digitali mi irrigidisce il corpo provocando una sensazione di ribrezzo, alimentato inoltre dal freddo insopportabile a cui questa città mi sta sottoponendo.
Non che New York fosse più calda, anzi.
Sospiro appena, osservando la piccola nuvoletta bianca condensatasi ad un filo dalle mie labbra, ed è solo quando questa scompare che riesco a scorgere un taxi dalla lucente carrozzeria, talmente linda da permettere ad una donna di rifarsi il trucco su di essa e…
No, aspetta un attimo.
FERMATI DONNA, non ruberai il mio taxi.
Stringo le dita della mano destra sulla maniglia di quella valigia quasi più grande di me dotata, per mia fortuna, di quattro ruote piroettanti che consentono grandi manovre degne di un film di James Bond. Corro sfidando il freddo, sfidando Bolt, sfidando probabilmente anche la gravità quando con entrambe le mani lancio il mio bagaglio contro quell’essere femminile dal seno prosperoso e i tacchi vertiginosi, il cappotto di pelliccia bianco e i capelli color del miele.
Le lancio contro un bagaglio che si impunta nelle fughe di quel pavimento di cemento, che cade al suolo aggiungendo un’altra ammaccatura, che frena inoltre la mia corsa ormai inutile.
Dannate fughe poco igieniche.
La donna trasale, forse per il rumore, o forse è traumatizzata dal colore della mia pelle così in contrasto con quello di lei, visibilmente abbronzata e piena di soldi, ma stranamente gentile nonostante i suoi eccentrici modi.
Gentile perché ha indietreggiato con un piccolo sorriso, cedendomi volentieri il posto, eccentrica perché anche un cieco avrebbe colto il disgusto mal celato del suo volto.
Perché quell’espressione?
Cosa l’ha spinta ad indossare quell’espressione?
Va bene che non sono il massimo della bellezza, ma una reazione del genere non è forse troppo eccessiva?
Credo di poter capire adesso i sentimenti del povero Quasimodo, non deve essere stato affatto facile per lui essere scritto e descritto come un abominio dal caro Hugo.
Alzo le spalle in segno di noncuranza, felice di essere riuscito a conquistare quel taxi così pulito e ben curato, sebbene io non possa dire lo stesso dell’autista che nel frattempo è uscito dalla scatola meccanica, tuonando.

« Si può sapere che aspetti? Quel bagaglio non si rialzerà da solo, sai? »

Scorbutico.
Grasso.
Alto.
Con la barba da fare.
Con i capelli rossicci spettinati.
Irlandese.
Dove diavolo è l’autista lindo, perfetto e tipicamente inglese che mi ero immaginato?
Resto a bocca aperta di fronte a quella scena, di fronte a quest’uomo così rozzo e sudicio. Voglio raccogliere il bagaglio da terra, ma sono paralizzato ed inorridito.
Voglio fuggire, ma sono un pezzo di ghiaccio.

« Che c’è, il gatto ti ha mangiato la lingua, Silvestro? Lascia stare moccioso, ci penso io, ma prima dimmi; hai i soldi per pagarmi?»

Le mie palpebre sbattono per ben due volte, scongelando gambe e braccia quanto basta per poter indietreggiare da lui, e cercare quelle poche sterline che speravo potessero bastarmi per tutto il viaggio.
L’ uomo si avvicina, mi osserva attentamente, studia il palmo delle mie mani sui quali sono poggiate due banconote da cinquanta sterline, per un totale di cento.
Sarebbero bastate, vero?
Dovevano bastare per forza.
Il tricheco irlandese sorride, con quella smorfia furba, tipica di chi sta per fare un bell’affare a tua insaputa.
Una truffa celata agli occhi della regina in persona, come i finti poliziotti, i finti operatori tecnici, i finti infermieri e perché no, i ladri che si dichiarano tali ma a cui la gente non pone mai la dovuta attenzione. Dopotutto è uno scherzo, no? La burla di qualche ragazzotto nel pieno della sua gioventù.
Ah, l’infanzia.

« Sì, direi che possono bastare. Monta in macchina sottospecie di lastra ambulante. E sistematela da solo la valigia. »

La sua grossa e grassa mano si posa con arroganza sulle mie, strusciando quelle dita sudice sul palmo delle mie mani per ritirare tutti i soldi che avevo, come se avesse appena prelevato da un bancomat. Il mio sguardo si fa torvo nei confronti di quell’uomo che si sta rivelando tutt’altro che onesto, una persona sporca a differenza di quel taxi dalla carrozzeria talmente linda da permettere di specchiarsi.
Mai giudicare un libro dalla copertina, mai.
Sbatto per un attimo i palmi tra di loro, ringraziando il freddo pungente per avermi costretto ad indossare quei caldissimi guanti in pelle nera, rivestiti all’interno da una confortevole massa lanosa bianca che scaldava anche il cuore.
Li avrei lavati.
Senza dubbio.
Almeno due volte.
L’uomo fa il giro della macchina, aprendo successivamente lo sportello per sistemarsi all’interno della stessa, il tutto mentre controllava l’autenticità del mio denaro.
Devo sbrigarmi a salire, perché se ho capito che tipo di persona ho di fronte, quest’uomo sarebbe capace di partire e lasciarmi all’aeroporto. Come un baccalà. Senza il becco di un quattrino.
Apro in fretta la portiera dunque, e alzo da terra la pesante valigia per poterla posizionare all’interno di quella vettura che adesso, mi fa rabbrividire.
I sedili sono forse la cosa più pulita all’interno di una macchina dai tappetini ricoperti di cartacce, pacchetti vuoti di sigarette, riviste pornografiche con donne munite di seni talmente grossi da poter essere scambiate facilmente per le mammelle di una mucca e, ultimo ma non ultimo, un pittoresco segnalibro in lattice abbandonato tra le pagine di una di queste riviste.
Una signora tanto gentile quanto furba, mh?
Grazie signora, non le sarò sicuramente riconoscente.
Schiudo le labbra in un’espressione disgustata, fermandomi per un attimo a pensare se quello era davvero il taxi dalla carrozzeria immacolata per il quale avevo corso. Devo proprio salire in questa scatola degli orrori?
Ho pagato.
No, sono stato fregato.
Mi ha rubato i soldi.
Devo salire, non posso permettergli di andare via con i miei soldi, e di lasciarmi come un baccalà al freddo.
Potrei sempre ucciderlo però.
No, ma cosa sto pensando, non posso uccidere un essere umano.
E se invece potessi?

« Allora, ti vuoi muovere o no? »

Volto di scatto lo sguardo verso di lui, indirizzandogli occhi carichi di sfida, astio, rabbia, uno sguardo che parla da solo.
Io non ti temo sudicio irlandese.
Riempio i polmoni con quanta più aria pulita possibile, prima di entrare dentro quella scatola infernale dall’odore nauseabondo, spingendo la valigia per farmi spazio.
Chiudo lo sportello subito dopo, non avendo neanche il coraggio di indossare la cintura di sicurezza, ma prima che lui possa nuovamente dare fiato alla bocca, tiro fuori dalla tasca il foglietto con sopra segnato l’indirizzo e lo abbandono sul sedile posto accanto a quello del guidatore.
Effettivamente potrei ucciderlo, una persona che ha riviste porno sui tappetini, ha solo due possibilità.
Una moglie molto brutta, o nessuno che lo aspetta a casa.
La prima è l’opzione che mi sento di escludere. Se fossi una donna, non resterei neanche un secondo accanto ad un uomo del genere, neanche se fosse milionario.
Avrebbe qualche speranza se fosse miliardario, ma in quel caso il letto nuziale sarebbe ricoperto da palchi con ramificazioni talmente fitte da poter essere usate come lenzuola.
Cervidi, cervidi ovunque.
Osservo il colosso che con un gesto piuttosto stizzito prende il foglietto leggendo la prima lettera con distrazione, ma aumentando il grado d’interesse lettera dopo lettera.
Lo legge attentamente per due, tre, o forse perfino quattro volte prima di spostare l’attenzione su di me.
Che vuole adesso?
Perché mi fissa?
Non ha già preso i soldi?
Non ne ho altri.
Con mio stupore, l’uomo apre le fauci per inondarmi con una grassa risata, una di quelle che più sono rumorose, più sono profonde e sentite.
Cosa c’è di così divertente in un indirizzo?

« Tennyson Rd? Sul serio? »

Più lui blatera, più il desiderio di ucciderlo si fa spazio nella mia testolina.
Che male ci sarebbe ad eliminare una persona per la quale nessuno piangerà? Alla quale nessuno porterà i fiori una volta seppellita?
Potrebbe essere la soluzione che sto cercando, forse l’omicidio è quello che mi serve per affermarmi nel mondo.
Se uccido quest’uomo, di certo non passerò inosservato.
Parleranno di me in televisione, scriveranno interi articoli su Paul, il ragazzo muto che ha sconvolto l’Inghilterra.
Non sarò più l’invisibile ragazzo muto contro cui la distratta gente va a sbattere contro.
Non sarò più uno scarto umano.
Potrò essere considerato anche io, al pari di una persona che la società ritiene “normale”.
Non voglio più essere un’ombra su un vecchio muro, non voglio più essere un suppellettile di poco conto su un mobile impolverato.
Mamma, se io uccido quest’uomo, forse tu potrai finalmente voltare lo sguardo verso di me e chiamarmi figlio.
Perché tu lo farai, vero?
Io so che se uccido quest’uomo, ti volterai verso di me con occhi pieni d’amore.
Io so che lo farai, in fondo mi hai amato per nove mesi, no?

« Quindi tu sei Paul, giusto? Il ragazzino muto che tua madre ha scaricato. »

I miei occhi si sgranano per lo stupore, non capendo come quest’uomo possa conoscere il mio nome. Non è scritto sul foglietto che gli ho dato, lo so bene, l’ho riletto almeno cinque volte per memorizzare bene il nome della strada.
L’uomo si volta con tutto il corpo verso di me, poggiando il braccio sinistro sullo schienale del sedile prima di tornare a parlarmi con un sorriso inquietante, che non lasciava spazio all’ottimismo.
Ed è in questo preciso istante che il neurone colpisce con forza l’ostacolo come la pallina di un flipper, facendo illuminare tutto il cervello come fosse un albero di natale.
No, quell’uomo non poteva essere chi pensavo fosse.
Un uomo così rozzo non poteva neanche minimamente essere paragonato alla signora Stenac.
No, mi rifiutavo anche solo di crederlo.

« Effettivamente mi aveva avvisato del tuo arrivo, ma chi poteva immaginare che ci saremmo incontrati direttamente in aeroporto. Quanto è piccolo il mondo, eh? Se lo avessi saputo, mi sarei addirittura preoccupato di levare la polvere dai sedili. Ah, io sono la persona a cui pagherai l’affitto da ora in poi, ben arrivato a Londra, fiocco di neve. »

Un ultimo sguardo pietrificato.
Una verità ancora più agghiacciante del clima invernale di Londra.
Poi, come uno spaventoso déjà vu, tutto si oscura accompagnato dall’orribile e sgraziato suono della sua risata.
Il nero mi avvolge, come il caldo mantello della Signora in nero.
Domani muoio.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Capitolo V
 
17/07/2014 – New York, Greenwich Village – Ore 11:45

C’è sempre questo fastidioso ronzio durante l’ora “X”, nella quale gli stomaci di tutti i comuni mortali si alleano per creare quella fastidiosa melodia chiamata “brontolio”, e diretta in esclusiva dal più grande maestro di tutti i tempi, il solo ed unico Buco Nellostomaco.
Per gli amici Fame.
Un grande personaggio, anche se un po’ egocentrico alle volte. Spesso si fa persino annunciare dall’orologio. C’è da dire però che è anche un gran simpaticone, giusto la scorsa sera mi è capitato di svenire a seguito di un suo morso. Ah, i morsi della Fame sono davvero terribili.
Allungo il collo verso la finestra aperta, e osservo tutti quei sacchi di carne che corrono chissà dove, forse guidati dallo stomaco verso ristoranti o venditori di würstel sudaticci, forse impegnati nel raggiungere in fretta la postazione lavorativa per non rischiare il licenziamento, o forse sono semplicemente indaffarati a non fare niente.
In ogni caso, dal quarto piano di questo appartamento, il marciapiede sembra pullulare di vita.
È la mia occasione, questo è un segno di quel destino in cui non credo.
Oh sì, oggi diventerò il grande uomo che mia madre ha sempre sognato.
Oggi, Mister X comparirà su tutti i telegiornali.
Ritiro il collo come una tartaruga, osservando quella cucina dai pensili bianchi come il latte, seduto sulla sedia di legno rubata al tavolo da pranzo, con l’indice e il pollice della mano destra impegnati a sorreggere tutto il peso di una mente pensante.
Come uccidere qualcuno da questa altezza, senza dover ricorrere all’uso di coltelli da cucina che probabilmente mi si ritorceranno contro come l’ultima volta?
È anche il diciassette.
Meglio evitare.
Mi alzo dalla sedia sulla quale sono stato appollaiato per ben due ore, e mi avvicino alle varie mensole, aprendole una dopo l’altra alla ricerca di una possibile arma da poter lanciare sulla zucca di un qualsiasi passante. I piatti potevano essere una scelta eccellente, peccato che Noah usasse quelli di plastica usa e getta. E che dire dei bicchieri? Perfetti, peccato che avesse rotto l’ultimo stamattina.
Tanto bello quanto imbranato.
Sbuffo mentre chiudo l’ultimo sportello disponibile, contenente roba davvero inutile.
Come poteva Noah bloccarmi le ali così?
Come poteva anche solo pensare di farmi uccidere qualcuno con una scatola di cereali senza zucchero?
Porto entrambe le mani sui capelli, arruffando le ciocche tra le dita con gesti di pura stizza, ma quando riapro gli occhi, dopo aver urlato e pronunciato tutti i nomi dei santi conosciuti in ordine alfabetico, vedo la credenza.
La credenza, quel meraviglioso mobile con le ante in vetro, usato esclusivamente per esporre il servizio buono.
Piatti, piattini, forchette, forchettine, vassoi, ceramiche importanti ed infine loro, le tazzine da caffè.
Quale miglior oggetto delle tazzine da caffè per poter portare a termine quel mio brillante piano?
Se fossi un manga, probabilmente adesso avrei delle stelline al posto delle iridi.
Mi avvicino lentamente alla credenza, come se questa potesse mordermi, come se il senso di colpa potesse assalirmi dopo averle lanciate dal quarto piano e quindi sbriciolate.
Aspetta un attimo.
Io non provo senso di colpa.
Noah capirà, è per una giusta causa.
Apro la credenza con entrambe le mani, prendo tutte e sei le tazzine e mi avvicino di nuovo alla finestra aperta, sentendo nell’aria una bella melodia, pressante, imponente, oserei quasi dire imperiale.
Io DEVO avere una melodia di accompagnamento per un momento tanto trionfale.
Sistemo le tazzine in fila, tutte pericolosamente vicine al baratro, poi prendo il cellulare che tengo celato all’interno della tasca anteriore dei jeans, ed apro YouTube.
Quale di queste melodie fa al caso mio?
Questa no.
Quest’altra neanche.
Il dito scorre tra le varie opzioni, e insieme ad esso scorre anche il tempo.
Sono le 11:58, devo sbrigarmi.
Questa no.
Questa no.
Questa forse… No.
Ah, eccola!
Apro il video, alzo al massimo il volume della prescelta e sono pronto.
Le note di Carmina Burana risuonano debolmente all’interno della stanza, ma il mio cervello basta ad amplificare il tutto e rendere la melodia ancora più potente ed appagante.
Sono le 11:59, ho perso troppo tempo, ora o mai più.
Prendo un bel respiro, riempio i polmoni fino al limite consentito, poi spingo giù la prima tazzina con uno strano sorriso stampato sulle labbra, che si allarga quando l’orologio scocca la mezza. Le tazzine piovono dal cielo come l’acqua durante un temporale estivo, ma qualcosa non quadra affatto.
Il rumore di cocci che si schiantano al suolo non ha subito alcuna variazione.
Perché?
Se si fosse frantumato su un cranio umano, il suono sarebbe stato meno acuto, giusto?
Mi affaccio posando entrambe le mani sul davanzale e abbasso lo sguardo su dei cocci rotti, e su un marciapiede deserto.
L’ora di pranzo.
Ora in cui anche i meno indaffarati spariscono dalla circolazione per non restare soli.
Buco Nellostomaco è stato più veloce delle mie tazzine.
Maledetta Fame, maledetti newyorkesi affamati.
Mi sposto dalla finestra, e trascino lentamente le gambe verso il frigorifero.
Lo apro, prendo una delle tante carote che Noah è stato costretto a comprarmi, chiudo il frigorifero e mi sposto all’acquaio dove la lavo, sebbene io lo abbia già fatto ieri.
Ho fallito ancora, la sfiga ha avuto di nuovo la meglio sul mio debole e malato corpo.
Che tu sia maledetta.
Porto la carota alle labbra e, un attimo prima di morderla, alzo lo sguardo verso la credenza dalla quale adesso mancano sei tazzine da caffè.
Era davvero un bel servizio, forse mi mancheranno.
Mordo la carota e socchiudo gli occhi, sospirando afflitto.
Era davvero un bel servizio.
Un attimo.
Quello non era il servizio buono della nonna di Noah?


17/04/2014 – New York, linea 2 – Ore 15:26

Delusione.
Si è attaccata addosso peggio delle zanzare d’estate, o come la carta moschicida.
Non ha intenzione di lasciarmi in pace.
Non lo farà.
Deve far pesare il terribile fallimento di poche ore fa.
Per questo sono sceso sottoterra, infilandomi in una pasticca gigante che racchiude ed incuba malattie e germi di ogni genere. Per questo, e per scappare da mio fratello.
Avrà già trovato i sei biglietti in cui ho disegnato sei tazzine?
La metropolitana però non racchiude solo malattie.
Persone di ogni tipologia la attraversano giorno e notte, senza mai stancarsi un attimo, troppo indaffarate o troppo menefreghiste per preoccuparsi dei dettagli, di ciò che li circonda.
Spesso sento dire che noi, persone private dalla natura di uno dei cinque sensi, tendiamo ad amplificare i restanti quattro per compensare la mancanza.
Sono piuttosto scettico riguardo questa teoria, perché le persone “normali”, quelle che dispongono di ogni senso, spesso fingono di non sentire, di non vedere, di non parlare.
Mi fermo spesso a pensare a cosa farei se avessi la parola. Mi comporterei anche io come loro? Fingerei che tutto va bene, quando accanto a me un essere umano sta subendo violenza? Fingerei che tutto va bene, solo per non intaccare in alcun modo la mia ordinaria vita?
E poi ci sono le razze, le religioni, la sessualità, tutti stereotipi con cui modelliamo la nostra vita, con cui cresciamo.
Sono davvero così essenziali?
Formulare determinati pensieri in base alla nazionalità di una persona, etichettarla come un delinquente solo per il colore della sua pelle, chiamarlo feccia solo perché omosessuale.
L’uomo, non è forse un semplice ammasso di carne, ossa e organi come tutti?
Gli stereotipi rovinano l’uomo, lo rendono cieco e stupido.
Chiunque ci abbia creati, ha commesso l’errore di renderci animali pensanti, e facilmente manipolabili.
Sospiro pesantemente, cercando di non toccare niente che non sia il mio stesso corpo, né un sedile, né una sbarra, né tantomeno altri passeggeri.
Non è neanche semplice mantenere una posizione eretta, e il movimento irregolare della metropolitana mi fa sentire come il batacchio di una campana.
Una frenata, il mio corpo viene spinto in avanti a seguito di quel brusco movimento, ma alzo entrambe le mani verso il petto, appellandomi a tutta la forza disponibile sulle gambe per indietreggiare velocemente da quella sbarra che stavo per colpire con la fronte.
Le persone mi fissano, probabilmente pensano che io sia un folle, uno svitato, un pazzo da rinchiudere. O un artista di metropolitana.
In ogni caso devo sfogarmi, sono salito su questa gabbia proprio per questo, e quale miglior modo di sfogare la propria delusione sugli altri, se non offendendoli facendo leva sulla loro ignoranza?
È giusto in questi casi, che trovo divertente il mio non parlare.
Ora però il livello di difficoltà si alza notevolmente.
Usare il linguaggio dei segni, senza toccare nessuno.
L’ho già fatto altre volte, posso farlo.

- Stupido. -
- Racchia. -
- Anche tu sei racchia. -
- Tu invece hai la faccia da babbeo. -

Le loro espressioni sono così appaganti, incapaci di tradurre ciò che le mie mani scrivono.
Ne offendo una, poi offendo il tizio laggiù con i mocassini, e anche quello con il riporto. Oh, e anche il tizio muscoloso laggiù in fondo!
Noah ha sempre avuto da ridire su questo mio comportamento, non riesce a trovarlo corretto nei confronti delle altre persone, dice che non dovrei fare agli altri ciò che non vorrei fosse fatto a me, ma come posso smettere? Non posso privarmi di queste espressioni così divertenti!
Volto di nuovo lo sguardo verso il tizio muscoloso, lo guardo dritto negli occhi ed infine scocco una nuova freccia verso il suo petto probabilmente depilato, data la moda del momento.

- Hai anche un cervello, sotto tutte quelle pasticche che prendi per gonfiarti? -

Rido, ma il sorriso dura solo una manciata di secondi, perché l’uomo inaspettatamente alza il braccio mostrandomi il suo pugno chiuso.
Un singolo segno.
Inequivocabile puzzo di guai.

- Sì. -

Merda.
L’uomo si avvicina, aggrappandosi a tutto ciò che trova pur di raggiungere la mia posizione, ma io ho più difficoltà a muovermi, io non posso aggrapparmi a niente.
La porta non si aprirà per altri due minuti, la mia unica salvezza è quella di guadagnare tempo fino a quando le porte non mostreranno una via d’uscita e quindi una fuga strategica, ma lui è veloce e non ha bisogno di mantenere l’equilibrio.
Con mio grande stupore, le porte però si aprono.
Non ho contato una fermata, sono davvero così fortunato?
Mi precipito fuori, corro verso l’uscita della struttura, cerco di raggiungere il sole.
Ci sono quasi, le scale sono proprio di fronte a me.
Ci sarei riuscito, se quel sacchetto di plastica non mi avesse intralciato la corsa.
Maledetto inquinamento, maledetti cestini della spazzatura inesistenti.
Cado, ma non ho il tempo di alzarmi da terra. Quel pallone gonfiato ha posato le sue schifose mani dalle vene sporgenti sulle mie spalle.
Mi alza come se fossi una piuma, mi volta, mi pietrifica con quella sua disgustosa e terrificante presa sulla spalla destra, poi passa all’attacco.
Un montante sulla bocca dello stomaco, talmente forte da farmi crollare in ginocchio, con entrambe le braccia sulla pancia. Sono talmente inutile e patetico per lui, da non meritare altro.
Mi concede addirittura l’onore di uno sputo, adornato da un “figlio di puttana”.
Se non fosse la verità, l’avrei preso come un insulto.
Mi lascia così, in mezzo all’indifferenza di persone che non vedono e non sentono, che non parleranno alle autorità di quanto accaduto.
Mi chiudo su me stesso, come il riccio che vuole difendersi dai mali del mondo, in ginocchio su un pavimento pieno di rifiuti, molti dei quali indossano scarpe di marca e calzini neri come la pece.
Chissà come mi sarei comportato nei loro panni.
Mi sarei voltato dall’altra parte?
Mi sarei gettato in difesa del povero malcapitato, anche se si è scavato la fossa da solo?
Chissà cosa si prova ad essere “normali”.
Già, chissà.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI
 
25/07/2014 – New York, Greenwich Village – Ore 8:23

- Noah, sei ancora arrabbiato? -

Noah non risponde. È palese che sia ancora arrabbiato con me per l’episodio delle tazzine.

- Te le ricompro le tazzine, giuro. -

Adesso neanche mi guarda, non si sforza minimamente di tradurre i miei gesti, le mie parole.
E questo ovviamente non lo posso permettere, non a mio fratello.
Anche se ha tutte le ragioni di questo mondo per essere arrabbiato.
Con l’indice e il medio della mano sinistra, avvolti attorno al manico della tazza, batto due volte il fondo di quest’ultima per ottenere attenzione, o per produrre un rumore talmente fastidioso e ripetitivo da costringerlo a darmi udienza.
A Noah i rumori non piacciono.
Lui è il classico ragazzo che ama la quiete e il silenzio, ama il suono delle onde che si infrangono sugli scogli e il canto melodioso del vento tra le fronde degli alberi. Ama la pace della campagna e soprattutto ama i pensieri e poter comunicare con questi. Per questo sono il suo fratello preferito, nonché unico.
E per questo il suo appartamento è così in alto, per potergli permettere di sfuggire al caos metropolitano almeno un po’.
Io invece per quanto muto possa essere, sono completamente l’opposto.
Se c’è rumore, c’è civiltà, e se c’è civiltà, ci sono persone da uccidere.
Semplice, no?
Dopo quasi cinque minuti passati a tamburellare, Noah si volta verso di me con uno sguardo da pazzo psicopatico, e quella lieve sfumatura omicida che mi porta a sorridere per un brevissimo istante, mostrando addirittura la dentatura.
Un breve istante, un singolo momento in cui le mie labbra si sono schiuse per mostrare i denti.
Odio mostrare i miei denti, sono orribili.
Ogni singolo giorno mi chiedo cosa sbaglio quando li spazzolo, mi chiedo perché nonostante la cura con cui li tratto, siano sempre neri.
Noah dice che è solo frutto della mia fantasia, che in realtà i miei denti sono bianchi esattamente come me.
Ancora devo capire perché mio fratello mi mente.
Quel mezzo ghigno che ho fatto deve però averlo sconvolto a tal punto da lasciare da parte la rabbia accumulata e mal celata di questi giorni, per lasciare spazio ad un lungo sospiro esasperato, come quello che esce fuori quando tornando a casa il tuo cane ha appena deciso di rimodellare gli interni del salotto sbranando il divano e lasciando gommapiuma e bava ovunque. Vorresti urlargli contro, ma ecco che tira fuori la mossa del colpevole, due occhioni dolci e alla fine sospiri.
Un po’ come Noah con me, con l’unica differenza che io non sono un cane.
E non sbavo.
I polli non lo fanno.

- Te le ricompro le tazzine, le ho trovate identiche su Ebay. Non costano neanche tanto. Dopo le ordino. Sei vanno bene? -
« Certo che sei incredibile Paul, cosa devo fare con te? »
- Niente? -
« Mi farai diventare pazzo un giorno di questi. Hai la minima idea di quello che poteva succedere? »
- Lo spirito di tua nonna non verrà certo a disturbare il mio sonno. Ho già altri malanni a cui pensare la notte. Oltre a germi da combattere. -
« Smettila Paul con queste tazzine, non mi interessa se le hai buttate di sotto nel vano tentativo di uccidere qualcuno, tanto non ci riuscirai mai! »

Ah, maledetto.
Come osa anche solo pronunciare frasi del genere? Io riuscirò ad uccidere qualcuno, è scritto nel firmamento, nel mio destino, nel mio libro genetico, ovunque.

« Mia nonna ti ha sempre impedito di commettere sciocchezze, evidentemente lo sta facendo anche adesso. »

Dunque è colpa della vecchia se non riesco mai ad uccidere anima viva?
Maledetta vecchiaccia, appena muoio vengo a cercarti e ti picchio.
Volto lo sguardo truce verso la finestra aperta, con un gesto di intesa verso quella vecchiaccia malefica che, ipoteticamente, sta impedendo in tutti i modi il mio successo.
Volto di nuovo lo sguardo verso Noah, attirato dai rumori da lui creati.
Si sta preparando per uscire, e dovrei farlo anche io. Destinazione? Aeroporto.
Oggi torno a casa, in quella nuova dimora abitata da una donna.
Una ragazza fragile ed indifesa da poter uccidere, una preda succulenta.
Devo farcela.
Mi alzo dalla sedia per avvicinarmi al lavandino, nel quale poso la tazza usata accanto a quella di Noah che, ovviamente, non aveva lavato la sua.
Evito di pensare a cosa potrebbe già essersi formato all’interno di quella tazza, e le lavo solo dopo aver ovviamente indossato i guanti. Dopo averle anche asciugate e messe a posto, mi preparo per raggiungere mio fratello che, ovviamente, ha già portato giù il mio bagaglio ammaccato.
Chiudo la porta della sua abitazione, poi scendo le scale avendo cura di non toccare per nessuna ragione il corrimano infetto, e cercando nel frattempo di non cadere dalle scale e rotolare per tutte le rampe. Un po’ come succede nei film comici, dove il povero sventurato invece di rotolare solo per una rampa, se le fa tutte senza capire bene il come e il perché.
Quando finalmente arrivo all’ultimo gradino, mio fratello è lì che mi aspetta, con un piede che tamburella sul pavimento, e le mani strette attorno al bagaglio, con lo stesso sguardo spazientito che aveva prima.
Sono abbastanza intelligente da capire che il problema non sono le tazzine, ma l’episodio della metropolitana.
Dopotutto mi aveva ripetuto non so quante volte di smettere con quel mio strano, inquietante e pericoloso hobby.
Le metropolitane sono i passaggi della morte, il giorno prima tutto bene, e il giorno dopo qualcuno ti spinge accidentalmente sulle rotaie all’ora di punta.
Situazioni di ordinaria quotidianità.

« Sul serio Paul, dovresti smetterla con questa storia dell’offendere la gente nella metropolitana. È pericoloso. »
- Ho preso solo un pugno stavolta. -
« Solo un pugno da un tizio alto un metro e novanta, che come minimo pesava cento chili, e con dei muscoli che al solo vederli anche Hercules si sarebbe spaventato. »
- Come sei tragico, è capitato anche di peggio. -
« Tragico? Io sarei tragico? Basta, sali in macchina prima che ti spalmi la faccia sul cofano della macchina. E sappi che non l’ho lavata. »

Questa è una minaccia.
Questa è la tipica minaccia che non ammette repliche di alcuna sorta, che devi assorbire lentamente ed in silenzio senza provare a disobbedire in alcun modo.
Ed è esattamente quello che faccio, eseguire gli ordini senza replicare e senza cercare di irritarlo in alcun modo.
Dunque entro in macchina, senza fare alcun gesto, senza muovere un dito e senza guardarlo.
Quando Noah è così irritato, è sempre bene non provare a fare il simpatico per cercare di smorzare la situazione, come di solito faccio.
Il viaggio dunque prosegue così, in silenzio, senza neanche un respiro a momenti.
Devo però alleggerire questa pesantezza, devo farlo dato che è l’ultimo giorno e chissà quando lo rivedrò.
Gesticolo.
Non mi vede, sta guidando, è normale.
Gesticolo ancora, giusto per attirare quel minimo di attenzione che mi merito da lui.
Ok magari no, ma ci devo almeno provare giusto?
Niente, la guida ruba ogni sua più piccola attenzione, fin quando non ci fermiamo.
L’aeroporto sembra così triste, quando hai dei conti in sospeso con qualcuno che ami.

25/07/2014 – New York, aeroporto Internazionale John F. Kennedy – Ore 12:35

Noah non mi ha ancora rivolto la parola, e ha perfino rifiutato di guardarmi.
Tra meno di quaranta minuti il mio volo partirà, ed io non sono ancora riuscito a farmi perdonare da mio fratello.
Non ho molto tempo a disposizione, devo trovare un modo per riuscire a fargli capire che non lo faccio apposta.
Non è colpa mia se offendere le persone in metropolitana è un hobby che trovo appagante e rilassante.
Il tizio nerboruto è solo un malaugurato incidente.
A tutti capita di ricevere un pugno nello stomaco dopo aver dato del Big Jim ad un tizio a caso.
Volto lo sguardo verso Noah, osservando la sua espressione da gatto indispettito che sta valutando se farti male o concedere a te, stupido umano, di accarezzare il suo pelo morbido ed invitante, nonché pieno di maledettissimi germi e malattie di altro genere.
Gli punzecchio un fianco, attirando finalmente la sua attenzione, poi punto i miei occhi di ghiaccio nei suoi cercando di imitare quegli occhioni da cane colpevole, ma probabilmente senza riuscirci.

« Credo sia meglio che tu vada, il tuo volo partirà tra poco, giusto? »

Si alza prima di me, cercando di evitare a tutti i costi il mio sguardo ed i miei gesti, ma adesso basta.
Mi alzo di scatto e, lasciando fare il volo e tutto il resto, mi lancio contro di lui abbracciandolo da dietro, stringendogli le braccia attorno al busto con tutta la poca forza che ho a disposizione in questo mio esile corpo.
Non gesticolo, semplicemente lo abbraccio.
Solo Noah rovinò quel momento romantico, aprendo bocca.

« Che stai facendo? »
- Secondo te cosa sto facendo? -
« Il ruffiano? »
- …Forse? -
« Stupido. Mi prometti che non lo farai più? »
- Lo prometto. -
« Bugiardo. »
- No, sono sincero. O forse no. -
« Lo immaginavo. Promettimi solo di stare attento, questo lo puoi fare? »
- Sì, questo credo di poterlo fare. -
« Hey, Pollo. »
- Cosa? -
« Ti voglio bene. »

26/07/2014 – Londra, Chatham St – Ore 9:00

Sono le nove in punto, e tutto va male.
Seduto sul letto cerco di ambientarmi, di capire se davvero sono nella mia stanza, o se quella che mi circonda è solo la proiezione di un candido sogno.
Sarebbe meraviglioso se al mondo non ci fossero germi, no? La gente non si ammalerebbe, non potrebbe infettarmi ed io non potrei infettare il prossimo.
Forse è davvero un sogno, o forse sono morto e quello in cui sono è il paradiso.
Sorrido per un breve istante, riuscendo quasi a sentire i putti suonare la lira, ma poi abbasso lo sguardo, guidato da una mano invisibile che mi mostra l’orrore spalmato sul pavimento di legno della mia stanza.
Una macchia di non so cosa.
Sono vivo.
Lo sporco è penetrato anche qua dentro, nel mio tempio, nel mio rifugio bianco come il latte, bianco come me.
Adoro queste pareti così luminose, le lenzuola candide, le lampade, i comodini, l’armadio. Tutto così bianco, così perfetto. Ideale per vedere meglio lo sporco e soprattutto, per mimetizzarsi nelle situazioni di pericolo.
Come un camaleonte.
Mi alzo dal letto, indossando immediatamente le ciabatte per non venire a contatto con quella superficie infetta, tiro su le coperte coprendo anche il cuscino per evitare depositi di polvere sullo stesso, poi mi volto verso la porta dalla quale provengono strani rumori.
Una voce stridula ed odiosa accompagna un buongiorno ed uno sbadiglio, e la sua mano batte contro la mia porta.
Oh no, la morte è venuta a prendermi, mi devo mimetizzare!

« Hey, sei sveglio? »

Mi schiaccio contro la parete, mimetizzandomi con l’ambiente che mi circonda. Non mi vedrà mai, posso fregare la morte, io sono Pollo!

« Adesso vengo a svegliarti, brutto dormiglione. Ricordati che avevi promesso di darmi una mano con le pulizie. »

La porta si apre, ed il mio petto si schiaccia ulteriormente contro la parete in una completa mimetizzazione. Non mi avrai maledetta vecchiaccia incappucciata.

« …Paul, perché sei schiacciato contro la parete? »

La voce è cambiata, adesso è graziosa e piacevole. Un inganno della morte?
Volto lentamente lo sguardo verso la parete opposta, trovando una ragazza dai capelli biondi ed arruffati, con delle pantofole pelose ai piedi ed uno sguardo pieno di domande che non formulerà mai. Rimane immobile sulla soglia, con la mano sinistra ancora stretta attorno alla maniglia della porta, poi indietreggia di un passo, spostando lo sguardo sul pavimento, e poi sul corridoio, sorridendo appena.

« Ok, ti lascio ai tuoi esercizi di mimetizzazione. Ti aspetto in cucina per la colazione. Ti preparo qualcosa? »

Scuoto la testa in un ovvio no che la ragazza accetta quasi a malincuore, ma dopotutto doveva immaginarsi che non le avrei mai permesso di mettere quelle sue manacce femminili sul mio cibo. Chiude quindi la porta, ed i suoi passi che si allontanano accompagnano il mio corpo che si stacca dalla parete per raggiungere l’armadio e prendere il cambio d’abiti.
Che voce orribile da udire di prima mattina, neanche quando metto la testa fuori dalla finestra per urlare agli esseri umani il mio disprezzo, sono così sgradevole.
Che ridere, sono così simpatico.
Dopo essermi lavato e cambiato, porto il pigiama nella mia camera, e mi sposto finalmente in cucina dove il mio stomaco avrebbe trovato la pace interiore.
Dimenticarsi di una donna non è cosa da poco e infatti, non appena i miei piedi fanno il loro ingresso nella stanza attrezzata, i suoi occhi blu come l’oceano mi si appiccicano addosso come le mosche sulla carta moschicida, seguendo ogni mio singolo passo dalla porta al frigorifero.
Perché diavolo mi sta fissando?
Non deve guardarmi.
Ha una tazza davanti, no?
Perché non aggiorna il suo profilo Instagram con una interessantissima foto della sua anonima tazza, ed una frase su quanto è bello svegliarsi la mattina?
Stringo le dita della mano destra attorno alla maniglia del frigorifero, nel quale prendo il cartone del latte di riso. Chiudo il frigo e prendo la mia tazza personale nel quale verso il latte freddo, che poi rimetto al suo posto all’interno dell’elettrodomestico.
Il tutto con i suoi occhi ancora puntati addosso.
Perché?
Smetto di domandarmelo, ed evito appositamente il contatto con i suoi occhi per non invogliarla a fare domande alle quali non avrei risposto, optando invece per finire alla svelta il mio latte e mettermi all’opera.
Quella casa trasuda malattie da tutti gli angoli, e non posso vivere in una casa dove la sporcizia la fa da padrona.
Finito il latte, lavo la tazza rimettendola successivamente a posto e, senza rivolgerle il minimo sguardo, esco dalla stanza per raggiungere il ripostiglio delle meraviglie, abitato da scopa e spolverino, aspirapolvere e detergenti di varia natura.
I miei migliori amici.
I miei supereroi.
Per prima cosa, i guanti.
Seconda cosa, la scopa per sdiragnare. In mancanza di altro, mi sarei accontentato.
Volto lo sguardo verso di lei, avvertendo la fastidiosa presenza esattamente dietro di me, coronata dai suoi occhi e la sua voce.

« Oh, sei già pronto! Io che faccio? »

Volto nuovamente la testa verso il ripostiglio, e allungo la mano per poter prendere guanti e spolverino. Oggetti che ovviamente le lancio, guadagnandomi in risposta altre parole vomitate da quella bocca di donna, ed uno sguardo impermalito.
Sguardo che non mi tange minimamente.

« Non sei affatto carino, Paul! Potevi semplicemente passarmeli sai? »
- Siamo qua per pulire, non per scambiarci carinerie. -

Era la prima volta che mi vedeva muovere le mani per parlare, e la sua espressione ci mise un secondo a mutare. Da impermalita, a stupita.
E ovviamente non ha capito una singola parola di quello che ho detto, non conoscendo lei il linguaggio dei segni.

« Se non usi il taccuino, dubito di poterti capire. O scrivi, o mi insegni il linguaggio dei segni, decidi! »
- Nessuna delle due. -
« PAUL! »
- Bla bla bla, oca. -
« Quest’ultima credo di averla capita… »

Una fastidiosa presenza che ronza senza sosta accanto a me, troppo vicina, troppo petulante, troppo donna.
Sospiro pesantemente, allontanandomi da lei più di quanto io non sia già, ma non appena alzo la scopa l’idea viene lanciata alla velocità della luce contro tutti quei neuroni ancora vivi, illuminando a giorno la scatola cranica con le loro lucine a led.
È risaputo che la maggior parte degli incidenti e delle morti accidentali avvengono in casa, no? Secondo i dati attuali, è più facile morire tra le mura domestiche, che per strada, quindi perché non alimentare ulteriormente questi dati?
Se mi avvicino abbastanza, posso far cadere la scopa esattamente sulla sua testa causandole un trauma talmente forte da ucciderla. E se lei muore, non dovrò più condividere la mia aria con lei.
Le mie palpebre si abbassano fino a ridurre gli occhi a due fessure, mentre con passo felpato mi avvicino a lei.
Non si accorge del mio avvicinamento, è troppo concentrata a spolverare quei ninnoli attira polvere per badare a me.
Un passo, poi un altro ed un altro ancora.
Alzo la scopa sopra la testa, piegandola successivamente verso la ragazza per prendere le dovute distanze.
Non devo colpirla con il manico, ma con la base della scopa.
Ecco, la distanza è perfetta, sono pronto.
Alzo nuovamente la scopa sopra la testa, inclinandola appena verso di lei per evitare che la sfiga potesse farla cadere dalla parte opposta, poi lasciai la presa, ed un piccolo ghigno si disegna sul mio volto.
Un colpo che va a segno, il mio sorriso che si allarga per poi sparire del tutto.
La ragazza si porta la mano destra sulla testa, si volta verso di me e mi rivolge lo sguardo di chi non si aspettava una cosa del genere, misto al dolore per la botta.

« AHI! Paul sei impazzito? »
- No, volevo ucciderti. -
« Che male, stai più attento con quell’affare! »

Il mio volto si cruccia per il fallimento, e la mano destra si protende verso la scopa per raccoglierla ed allontanarmi di nuovo.
Per una volta che il colpo va a segno, la scopa rimbalza.
Maledizione, chi si immaginava che avesse la testa così dura?
Neanche sanguina.
La tasca dei pantaloni vibra, mi informa che devo prendere il telefono e controllare Facebook.
Una richiesta d’amicizia.
Per me?
Qualcuno vuole la mia amicizia?
Davvero?
Non ho idea di chi sia, non abbiamo neanche amici in comune, chi potrà mai essere questo tizio?
Accetto la richiesta, rimetto il telefono in tasca certo che non avrebbe vibrato di nuovo, ma non appena quest’ultimo tocca il fondo della cucitura, vibra ancora.
Prendo nuovamente il telefono in mano, lo sblocco ed apro la chat per leggere il messaggio.
È il tizio che ho accettato, un certo Richard.

“Richard Kelhweier

Ciao!

Paul Campbell

Cià.

Richard sta scrivendo…”

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII

11/08/2014 – Londra, Chatham St – Ore 16:11

Non mi è ancora chiaro il perché di tutto questo.
Sedici giorni passati a socializzare come due vecchi amici su un social network che puzza di falsità ed emoticon, per poi fissare un incontro in un parco.
E se non è come nelle foto?
Con Skyler me la sono cavata egregiamente, nonostante quelle due cose appiccicate al petto, ma con lui?
È un uomo.
E se quest’ammasso di belle parole, altro non è che Lui?
No, Lui non poteva essere capace di dipingere.
Richard dipingeva, disegnava, osservava.
Come me.
È un artista, forse è questo il motivo che mi ha spinto a chiedergli di poterlo osservare. L'arte è sempre stato oggetto dei miei interessi, forse perché anche i quadri, come me, sono muti. Immagini silenziose con tanto da trasmettere, immagini immobili, ferme nel tempo come un orologio. Strane, complesse e bellissime. Non so bene cosa aspettarmi da questo incontro, non riesco ad immaginare niente. È tutto un mistero, un'incognita. Sospiro appena, mentre entro nella mia stanza per recuperare il taccuino e la penna, amici e confidenti immancabili nella mia vita, le parti fondamentali del mio corpo.
Non penso che li userò molto, non voglio disturbarlo mentre osserva quelle persone così complesse per la mia mente forse troppo fragile, e le riporta sul taccuino con la semplice graffite.
Improvvisamente sento vibrare la tasca destra, tasca in cui custodisco il telefono. Un messaggio da parte dell'Artista. Sì, lo avrei chiamato così, è un bel soprannome. Adesso però devo proprio scendere, non posso farlo aspettare tanto, dopotutto si è pure preso la briga di passare a prendermi sotto casa.
Esco dalla camera con un passo piuttosto svelto, prendendo le chiavi dalla tasca sinistra dei pantaloni per poter chiudere la porta una volta uscito di casa. Voltandomi, lancio uno sguardo carico d’odio nei confronti dell’ascensore, certo del fatto che se fossi entrato, si sarebbe sicuramente fermato.
La sfiga io ce l'ho nelle ossa.
Come Wolverine l’adamantio.
Aperto il portone dell'appartamento, il mio sguardo si posa immediatamente su quella figura poggiata contro la carrozzeria di quella punto grigia tirata a lucido.
Richard, un uomo dai capelli neri ed arruffati, occhi grandi dal taglio lievemente asiatico nonostante il suo essere austriaco, labbra carnose, lineamenti del volto delicati sebbene fosse un uomo, ed una fossetta sul mento.
Richard, un uomo dalla figura snella ed un collo sottile e lungo.
Un uomo alto. Decisamente alto.
Richard, una giraffa.
Alzo la mano destra all’altezza del petto, agitandola appena in segno di saluto, per poi abbandonarla tra i miei capelli forse troppo chiari.
I suoi occhi color nocciola a quanto pare hanno appena finito di analizzare la mia intera abbagliante figura e, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, sorride. Forse per ricambiare quel mio saluto stitico, o forse solo per cortesia, ad ogni modo la dentatura ora lascia spazio alle corde vocali, e le mie mani corrono ormai abituate, al taccuino quasi pieno ed alla penna gelosamente custodite nella tasca posteriore destra dei pantaloni.

« Ciao Paul. Volendo fare le presentazioni ufficialmente, sono Rich, e tranquillo non ti stringerò la mano. »
“ Mister X, o Pollo, o Paul. Chiamami come vuoi. Senti, questo silenzio forzato non ti infastidisce? Voglio dire, non capita tutti i giorni di interagire con un muto, capisco che possa essere complesso.. ”
« Mister X... Perché Mister X? Sono curioso.
E no, perché dovrebbe infastidirmi? È solo complesso, come hai scritto tu. »
“ Mister X è il mio mentore. È il personaggio di un libro che ho letto fino alla nausea. Quel libro sembra quasi una biografia. È il mio nome da assassino, comunque. Ancora non ho ucciso nessuno però, è difficile se sei perseguitato dalla sfiga... ”
« Non è la prima volta che lo dici, ma sei davvero serio quando parli di uccidere? »

La penna si blocca di colpo a quella domanda, e il mio sguardo vola verso quello della giraffa che ho ora di fronte a me, ad una distanza minima di sicurezza di almeno sessanta centimetri. Abbastanza per permettergli di leggere in quel taccuino pieno di parole scritte con quella grafia che non sembra causargli alcun disturbo visivo o perplessità, ma la cosa non mi stupisce. Già dalla prima infanzia ho imparato a gestire la mia calligrafia in modo chiaro e lineare, in modo che tutti avessero la possibilità di capire ciò che scrivevo. Anche se non molti si fermavano a leggere ciò che volevo esprimere. Era frustrante, a volte lo odiavo, poi semplicemente mi rassegnavo al mio silenzio. Abbasso nuovamente lo sguardo sul mio fedele compagno cartaceo e, con l’ausilio dell’indice, volto pagina per continuare a scrivere e quindi rispondere.

“ In questo modo quella puttana di mia madre mi noterà, no? Se uccido qualcuno, finirò nei telegiornali, quotidiani, internet. Sarà impossibile per lei non notarmi, giusto? Deve vedere cosa è uscito fuori dal suo ventre, deve vedere che anche io esisto, tutti devono vedere che anche un muto è capace di compiere gesti che potrebbero sconvolgere la quiete pubblica a cui tutti sono ormai abituati. Non lo faccio per la gloria, non mi importa di finire in carcere, voglio solo dimostrare che anche una persona silenziosa, può produrre rumore e confusione. Ancora non sono riuscito nell'impresa, la sfiga mi perseguita da quando sono nato e sta facendo di tutto per impedirmi qualsiasi gesto sconsiderato voglia compiere. Omicidio, suicidio, niente di tutto questo pare essermi concesso. Esilarante, vero? ”
« Ed hai intenzione di uccidere me? »

Esito nel rispondere a quella domanda posta con un tono di voce così calmo e naturale, da far gelare perfino i suoi occhi nocciola dallo stupore.
Abbasso velocemente lo sguardo verso la mia mano destra, diafana e fredda, immobile di fronte allo spettacolo offerto dalle nocche desiderose di mostrarsi in tutta la loro rigidità.

“ No, non sei tu il mio bersaglio. Ho provato ad uccidere altre persone senza successo, ma ho capito che c'è solo una persona che vorrei davvero uccidere.
Io, voglio uccidere la persona che ha gettato inchiostro sulla mia vita, la persona che mi ha fatto ammalare. ”

Un lungo momento di silenzio si fa spazio tra noi adesso, nessuno dei due parla o scrive, nonostante l’Artista mi abbia gentilmente invitato solo con i semplici gesti delle mani a salire in macchina per raggiungere il luogo dell’appostamento.
I nostri sguardi si scontrano come le vetture di un autoscontro.
La curiosità mal celata di lui, ed il mio peggior incubo.

11/08/2014 – Londra, Green Park – Ore 17:50

La fantomatica panchina, quella in legno scuro con rifiniture in ferro, la numero ventitré di altre non so quante, probabilmente anche lui ha perso il conto, collocata in una zona un po’ isolata rispetto alle altre, riparata dalle foglie di una grande quercia. Il che costituiva un valido riparo per la mia pelle lattea dai temibili raggi ultravioletti, portatori di tumori.
Non ho ben chiaro da quanto tempo siamo seduti su quella panchina ad osservare chiunque attirasse l’attenzione del ragazzo seduto alla mia sinistra, con la sua borsa ed un bel pezzo di panchina a delineare un confine che non ho intenzione di superare, ma quella quiete mi piace, come trovo interessante l’attenzione per tutti quei dettagli che spesso noto solo io.
È piuttosto semplice capire quando il suo sguardo agguanta la preda come un felino, perché inizia a seguirne la sagoma fin quando non ha tutti i dettagli necessari per poter proseguire con il carboncino, e quando la punta nera poggia sulla carta, i lineamenti sul suo volto si rilassano come se stesse dormendo.
Non so bene come spiegarlo, ma non mi sto annoiando in sua compagnia, al contrario.
È interessante osservare l’osservatore mentre svela alla carta la sua abilità nel marchiarla, ma al tempo stesso non posso in alcun modo venire meno alla mia promessa e disturbarlo. Insomma, mi aveva concesso quel privilegio, no?
Mi sporsi lievemente verso di lui, non riuscendo però a vedere bene dalla lontana posizione in cui mi sono messo. Devo avvicinarmi se voglio sperare di poter cogliere ogni movimento eseguito dalla sua mano. Sì, devo avvicinarmi cercando di non fare movimenti bruschi o azzardati, per questo a malincuore strusciai i pantaloni sulla panchina per raggiungere una posizione ideale dal quale sporgermi senza alcun problema. La sua mano così concentrata nello schizzo, porta la mia mente a ricordare il fallimento del mio tentativo di trasformare le parole in figure.
Ne uscì un ammasso di faccine e omini stecco.
Davvero imbarazzante.
Le mani restano immobili sopra le cosce, le dita strette attorno alla costola del taccuino ed alla penna nera.
Se il moro non avesse alzato il carboncino dal foglio, trasalendo forse per la mia inaspettata vicinanza a lui, probabilmente quel momento così pacifico, come sospeso nell’aria, non sarebbe mai terminato.
D’altro canto quella sua reazione mi ha sparato nuovamente in quella realtà malata che mi circonda, costringendo il mio corpo ad assumere la stessa flessibilità di un pezzo di marmo. O di un salmone appena congelato.
Richard scuote la testa, dipingendo sul suo volto un sorriso caldo che accompagna la mano con il foglio di carta appena disegnato, nell’ora breve distanza che separa i nostri corpi. Devo ammettere che Richard ha un bel sorriso, cosa a me sconosciuta. Avevo riso solo un paio di volte durante i miei venti anni di vita, forse troppo pochi per essere davvero catalogati come sorrisi o risate dal profondo dell'anima.
I suoi occhi invece sembrano fremere di curiosità, aspettando forse una mia opinione sul frutto del suo lavoro e della sua attenzione per i dettagli.
Mi affretto ad osservare il disegno di quella ragazza di media statura che perfino io ho notato. Capelli rossi, forse tinti, con una treccina di fili colorati, maglietta legata sopra l’ombelico, jeans corti, scarpe sportive ed un cerotto sulla guancia destra. Quello probabilmente è il dettaglio più insignificante di tutti, ma non riesco a spiegare la strana felicità che ho scatenato negli occhi di Richard indicando proprio quel cerotto.
Io ho scatenato quel sorriso caldo e smagliante?
Sul serio?
A quanto pare, a Richard non servono parole per esprimere un parere sul suo disegno, sembra felice già solo per il fatto che ho notato quel particolare e, in qualche modo, quel suo sorriso sta scaldando anche me.
Lo sguardo del moro torna dopo pochi attimi ad osservare l’affluire delle persone che ora più che mai sembra percorrere il manto erboso del parco, con i suoi sentieri e gli animali lasciati liberi.
Un senso di pace che non ho mai sperimentato, uno strano fastidio alla bocca dello stomaco che non posso accomunare a nessuna delle malattie che ho letto sui libri.
Che diavolo è questa leggerezza addominale che sento?

11/08/2014 – Londra, Green Park – Ore 18:30

Strana successione di eventi quella che ha preceduto la passeggiata verso il tavolino esterno dello starbucks che abbiamo occupato.
Richard mi ha regalato un taccuino nuovo dopo che, come da tradizione, ho bruciato quello ormai terminato. Poi la signora anziana ricurva su sé stessa, che custodisce gelosamente una busta di carta dalla quale ogni trenta secondi distribuisce briciole di pane alle papere ed ai piccioni che popolano il parco.
Sul momento ho pensato che era solo uno strano hobby, poi la mente ha deciso di scavare all’interno di quella figura, ed è volata via con la fantasia. Non sono riuscito a staccare gli occhi di dosso da quella donna.
Soffre, lo posso capire dall'aria stanca che il suo volto emana, dalla poca voglia che ha di gettare briciole ai piccioni affamati.
È stata privata dell'unico uomo che ama, probabilmente stroncato da una malattia che non lascia spazio alla speranza. Si reca tutti i giorni al parco per ripetere i gesti dell'amore della sua vita, come a volerne onorare la memoria. Fantasia, di certo ne ho troppa, ma ciò che davvero mi ha impedito di staccare gli occhi da quella figura stanca e ricurva, è quel pensiero che ancora adesso ronza nella mia mente come una fastidiosa zanzara.
Anche lei, come me, è morta dentro.
Ed infine il disegno di Richard, i miei tratti impressi nella carta perché, come sostenuto da lui, mi trova interessante.
Quel pensiero mi frulla ancora nella testa, ed è con questo pensiero che aspetto con ansia il mio tè verde, i cui polifenoli prevengono la formazione del cancro.
Un vero toccasana.

« Eccomi qua! Scusa se ti ho fatto aspettare, la fila sembrava non finire più. »

Alzo lo sguardo verso l’Artista che poggia la bevanda terribilmente vicino alla pelle nuda delle mie braccia, avvertendo lo spostamento d’aria fin troppo vicino all’inesistente peluria degli avambracci, ma la successiva vicinanza con il suo volto mi porta a trattenere il respiro.
Richard, seduto di fronte a me, nel compiere il gesto si è avvicinato tremendamente al mio volto afflitto da quella terribile dermatite. Sicuramente il suo occhio attento si è posato sulla mia pelle flagellata, non può dare ragione ai medici che si ostinano a dire che non ho proprio un bel niente.
Torno a respirare solo quando i polmoni iniziano a bruciare all’interno delle mie ossa malate, e là incontro lo sguardo di Richard, un misto di curiosità e preoccupazione, probabilmente ha percepito il mio irrigidimento.

« Tutto bene Paul? Sei diventato ancora più bianco di quanto già non lo fossi. »
“ Sì, sì sto bene. Scusa, è che non sono abituato a tutta questa attenzione o vicinanza. Permetto solo a Noah di avvicinarsi così tanto. ”
« Noah? Perdonami se sono indiscreto, ma credo che ormai tu abbia capito quanto sono curioso. »
“ Non sei indiscreto, anche io sono molto curioso per mia sfortuna. Noah è mio fratello. Io tra i due sono il figlio di puttana, nato da una relazione extraconiugale tra un grande imprenditore, e la sua segretaria. Noah è il figlio legittimo di quell’uomo, abbiamo la stessa età, ma io sono il maggiore per poco più di un mese. Lui mi è sempre stato vicino, lui sa tutto, sa anche il linguaggio dei segni. Mi manca mio fratello, ma non mi manca affatto New York. ”
« Quindi è come se avessi un gemello, no? Insomma, avete la stessa età e condividete qualsiasi cosa..
Anche mio fratello non è proprio a portata di mano e sì, spesso ne sento anche io la mancanza, però ogni volta che ci vediamo, non so, mi sembra speciale. »
“ Una specie. Lui è alto, ed io sono un nano. Lui è sano, ed io sono malato. Lui ha i capelli neri, ed io sembro albino. Lui non è nato da una fogna, io sì. Siamo entrambi nati a Dublino. Lui parla, io no. È anche bravo a cucinare, riesce sempre a riempire il mio insaziabile stomaco.
Sembro anoressico, ma ti assicuro che mangerei anche il buio se potessi farlo. ”
« Io e Tim siamo molto simili invece, ma lui mangia il triplo di me ed è anche più magro, forse. E lui sa andare in bicicletta perfettamente. »
“ Se ti può far stare meglio, io non sono mai andato in bicicletta. Ho sempre avuto paura di cadere, perché se mi fossi fatto seriamente male, nessuno se ne sarebbe accorto. La bicicletta è il miglior modo per permettere ad uno sconosciuto qualsiasi di analizzarti il cervello su un marciapiede. Perché sì, io mi spaccherei la testa. ”

Afferro quel bicchiere di cartone con la mano destra, trovandolo forse troppo caldo per la mia pelle. Non è un caso il rossore improvviso che mi colora la parte interna delle mani e le guance. Il surriscaldamento del corpo non va bene per il mio fisico malato, ma quel torpore è incredibilmente piacevole in un momento come quello, e non è la prima volta che mi concedo un lusso simile. L’Artista ha lo sguardo divertito per il mio racconto, sono più che sicuro che la sua mente sta già visualizzando il mio cervello stampato sul marciapiede come la foto di una polaroid, ma ciò non trattiene le sue labbra dal muoversi.

« Mai salito su una bici? Davvero? Io ne vado pazzo, ma non riesco a controllare tutto. I freni, il manubrio, i pedali, il campanello, le macchine, i sensi unici... Eh sì, i sensi unici sono la mia più grande difficoltà in bici. Non ne hai idea. »

Le mie palpebre si aprono a quel terrificante racconto, e la mente si focalizza sull’immagine di una bicicletta che si schianta rovinosamente sul portabagagli di una macchina, o che abbraccia il cofano di un pullman in un senso unico.
Poso velocemente la tazza sul tavolino, rischiando quasi di rovesciare il contenuto bollente ed ustionarmi una mano, ma è di vitale importanza che io comunichi a quell’uomo i pericoli a cui va incontro ogni volta che le sue chiappe si posano sul sellino di quello strumento di morte.

“ Come diavolo fai a non smettere di andare in bicicletta se tutte le volte che ci monti rischi la vita? Non sei terrorizzato? Io non riuscirei mai a fare una cosa del genere, come fai? Spiegamelo! ”
« Terrorizzato? No, la mia bici non mi ha mai tradito, semmai sono io che le ho fatto prendere qualche bella botta. No, no, non ho proprio paura di questo, non so bene come spie... »

Come spie?
Che diavolo sta dicendo, perché non termina la frase?
E perché i suoi occhi si sono abbassati sulla sua mano destra?
Agitazione.
Panico.
La mia mano sinistra sopra il dorso della sua destra. Quando è successo? Perché non mi sono accorto di niente?
Il mio sguardo si alza sul suo, non riesco a recidere quel contatto che ho creato involontariamente, perché la mia mano invece di staccarsi, di ritirarsi come suo solito, stringe maggiormente la presa?
Non controllo il mio corpo, la mano destra sembra impazzita sul taccuino, la penna completamente fuori controllo, non leggo neanche ciò che sto scrivendo.

“ Scusa... Scusa... Scusa... Scusa... Scusa... Ti sto trasmettendo malattie... Sto aiutando germi e batteri a prolificare su di te... Sono malato... Non voglio... Scusa... ”

Cerco di interpretare una qualche espressione sul volto dell’Artista, ma è tutto così complesso in quel momento.
Ho paura.
Il volto di Lui potrebbe accavallarsi su quello di Richard in qualsiasi momento, non voglio che accada, Richard non è Lui.

« Paul, Paul è tutto a posto. Credo che la maggior parte delle malattie non venga trasmessa attraverso le mani. Non è un problema, cerca di calmarti. »

Calmarmi, sì è questo che devo fare, respirare e stare calmo, respirare e stare calmo, respirare e ritirare la mano.
Respiro lentamente, i polmoni bruciano, i muscoli sono tesi e fanno male, ma devo mantenere la calma.
Lo guardo ancora una volta, la mia espressione lentamente cede spazio a quella calma obbligata.
I muscoli ed i nervi della mano si rilassano lentamente, la tensione abbandona le mie membra, sul volto dell'Artista, adesso si accavalla l'espressione di Noah.
Schiudo le labbra, le muovo per un breve istante.
Sto parlando, quel fastidioso sibilo rauco udibile solo da un orecchio molto allenato esce dalla mia bocca, poi la chiudo, e serro con forza le labbra.
Non recido il contatto con quella mano, Richard aveva detto che non potevo fargli del male, e non ne avrebbe fatto a me dato che è pulito.
Richard non è Lui.
Richard non è Lui.
Richard non è Lui.

« Paul, stai bene? »

Dentro di me sto affrontando una lotta interna senza precedenti, da una parte voglio recidere quel contatto, dall’altra è come se non posso farne a meno.
Abbasso lo sguardo sulla mia mano, ora tanto fragile ai miei occhi da eguagliare un cristallo. Sono certo che se l’indice della mano destra la toccasse, quest’ultima si staccherebbe dal polso, e probabilmente senza neanche versare una goccia di sangue.
Respiro a fondo, riuscendo a trovare la forza per guardare l’espressione dipinta sul suo volto, ma ciò che vedo è solo un lieve rossore sulle guance e le sopracciglia inarcate per dare una marcia in più a quello sguardo preoccupato.
La mano destra, che mai ha abbandonato la penna in quel terrificante frangente, si posa ora sul taccuino, per scrivere cosa, una frase? Una confessione? Non ne ho la minima idea, e sinceramente neanche mi interessa.
Chissà quale tipo di espressione si è invece schiantata contro la mia faccia.

“ È stato un movimento inconscio trasmesso dal cervello ai nervi della mano. Non era mia intenzione toccarti.
Questo contatto mi spaventa, ma è anche strano. Prima, mi hai ricordato Noah, una persona che non mi farebbe mai del male, la persona che ha capito ed accettato la mia situazione. I tocchi di Noah sono gentili, lenti, non bruschi e violenti come quelli di Lui. I tuoi tocchi, Artista, come sono? Sono come quelli di Noah? O come quelli di Lui? Ho paura di scoprirlo, ne sono terrorizzato, ma ormai avrai capito che sono curioso. Sono ad un bivio, e non so quale strada prendere. È una situazione fastidiosa e paurosa. ”

Vedo le labbra di Richard che si schiudono, per poi richiudersi subito dopo, senza emettere alcun suono.
Non parla, la sua stessa figura è immobile, tranne il volto.
Mi regala un nuovo e delicato sorriso, forse l’ennesimo da quando è venuto a prendermi sotto casa, poi il mio sguardo stupito si posa sulla mano ancora posata sulla sua, e sul movimento che sta compiendo.
Il suo palmo adesso coincide con il mio, ma il suo pollice mi accarezza il dorso con un movimento fluido, deciso ma gentile allo stesso tempo. Come una pennellata.
Non era il tocco di Noah.
Non era il tocco di Lui.
Che stupido che sono.

“ Il tuo tocco, rispecchia ciò che sei. Un artista. ”
« Il tuo tocco invece com’è? »

Il sorriso sul suo volto non smette di allargarsi, così come i suoi occhi non smettono di brillare e il rossore sulle sue guance di accentuarsi.
Chissà se anche io sono arrossito, chissà se l’innalzamento della temperatura corporea è ancora dovuto alla bevanda eccessivamente calda.
Il mio tocco? Istintivo, sbadato, delicato.
La sua mano libera si posa delicatamente sulla mia sinistra, mozzandomi il fiato per una manciata di secondi.
Titubante, la mano destra abbandona la penna e si avvicina con l’indice al dorso della sua grande mano.
Respiro profondamente prima di posare appena la punta del mio indice sulla sua pelle, tracciando linee forse confuse che però hanno un senso.

- Grazie. -

Ritiro immediatamente il dito dopo quella breve trascrizione, e alzo lo sguardo per posarlo sull’espressione stupita di Richard che mi guarda come se non mi avesse mai visto.
Solo la superficie riflettente di uno specchio avrebbe potuto mostrarmi quel lieve accenno di un delicato sorriso, dipinto sulle mie inconsapevoli labbra.

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