Delfina de' Pazzi - La neve nel cuore

di Stella Dark Star
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Figlia di mio padre ***
Capitolo 2: *** Il velo bianco e i capelli corvini ***
Capitolo 3: *** La via della perdizione ***
Capitolo 4: *** E giacque sul mio grembo ***
Capitolo 5: *** Nemmeno la peste ***
Capitolo 6: *** Il controllo ad ogni costo ***
Capitolo 7: *** Dolorosa e piacevole punizione ***
Capitolo 8: *** Parlando di gioie e di disastri ***
Capitolo 9: *** Arti a confronto ***
Capitolo 10: *** Quel luogo meraviglioso chiamato Paradiso ***
Capitolo 11: *** Quel che porta l'aurora ***
Capitolo 12: *** Dove lavare i panni sporchi ***
Capitolo 13: *** Lacrime come gocce di pioggia ***
Capitolo 14: *** Una mano gentile ***
Capitolo 15: *** Il guerriero e il codardo ***
Capitolo 16: *** La serenità in un piccolo mondo ***
Capitolo 17: *** Una Gioia e il sol Levante ***
Capitolo 18: *** Parole amare di bocca in bocca ***
Capitolo 19: *** Un sorso di latte e un sorso di veleno ***
Capitolo 20: *** Subdola vendetta ***
Capitolo 21: *** Dolce creatura ingenua ***
Capitolo 22: *** Un bacio d'odio ***
Capitolo 23: *** Il sapore amaro del tradimento ***
Capitolo 24: *** Come una foglia al vento ***
Capitolo 25: *** Tutti i nodi vengono al pettine ***
Capitolo 26: *** Il potere del denaro ***
Capitolo 27: *** La vigna e il sogno ***
Capitolo 28: *** La forza di lasciare ***
Capitolo 29: *** Ultimo giuramento d'amore ***
Capitolo 30: *** Sangue del suo sangue ***
Capitolo 31: *** Le sorti degli innocenti ***
Capitolo 32: *** Sogni infranti ***
Capitolo 33: *** Finale Alternativo ***



Capitolo 1
*** Figlia di mio padre ***


  

 
Introduzione
 Figlia di mio padre
 
La chiesa era gelata. Potevo sentire il freddo attraverso la lana del vestito, attraverso la camicia, attraverso la mia pelle. Lo sentivo persino a contatto con le mie ossa sottili e delicate. Il mio sguardo puntava l’altare, o più precisamente la Croce di Cristo che s’innalzava da essa. Ero spaventata e mi sentivo colpevole. Spaventata per quello che sarebbe potuto accadere, colpevole per ciò che stavo per fare. Le parole pronunciate dal sacerdote riecheggiavano tra le navate, rimbalzavano contro i muri di pietra, ma al mio udito arrivavano sfuggevoli come il vento. La mia mente era altrove. Ripensai alla sera precedente, così in contrasto con quel momento. Ero di fronte al camino, nella sala da pranzo,  il calore del fuoco era delizioso e sapevo che oltre a scaldarmi aveva anche arrossato le mie gote solitamente pallide. Mio padre era di fronte a me, torreggiava su di me come un padrone e mi guardava fisso coi suoi occhi di falco. La sua voce era calma ma diretta: “Non è necessario che tu sacrifichi la tua virtù, bada. Non sei una sgualdrina. Tutto ciò che ti chiedo è di fargli credere di avere in te una confidente, una leale amica. Voglio che tu lo tenga d’occhio per me. Se lo farai avrai la mia piena gratitudine.”
Avevo distolto lo sguardo appena lui aveva chiuso le labbra. Avevo esitato. Non volevo che mi usasse per i suoi loschi affari e non volevo imbrogliare un uomo che non mi aveva mai nuociuto. Ma come potevo spiegarlo a lui, a mio padre, sapendo che mi avrebbe punita se solo ci avessi provato? Sentendo la sua impazienza, avevo risollevato in fretta lo sguardo e avevo risposto umilmente: “Come desideri, padre.”
Ed ora era quasi giunto il momento. La trappola sarebbe scattata subito dopo la funzione. Mai avevo maledetto una domenica, prima di allora. Il freddo mi fece rabbrividire. Voltai il capo verso mio padre, accanto a me. Le sue mani erano giunte, ma non in preghiera, e sul suo viso aleggiava il fantasma di un sorriso compiaciuto. Probabilmente stava pregustando la buona riuscita del suo piano. Riportai lo sguardo sull’altare, sulla Croce e chiusi gli occhi.
“Chiedo perdono per i miei peccati.” Pensai intensamente, anche se i peccati a cui alludevo dovevo ancora commetterli.
Riaprii gli occhi e diressi il mio sguardo verso l’uomo che avrei dovuto ingannare, Rinaldo degli Albizzi. Si trovava nella fila davanti a quella dove ero io. Ne ammirai l’altezza, le spalle possenti, la figura elegante, ma anche i capelli chiari e leggermente arricciolati, la barba che gli incorniciava il viso. Dalla mia postazione non potevo vedere bene il viso, però ugualmente mi parve di vedere qualcosa di diverso nel suo sguardo. Non era solo concentrato sulla funzione, era coinvolto spiritualmente. Sapevo che era un uomo devoto, ma prima di quel momento non avevo mai fatto caso a quella trasformazione durante la messa. Il mio esame venne interrotto quando suo figlio cambiò posizione, probabilmente stanco di stare in piedi, e così facendo mi coprì la visuale. Quel ragazzo era sempre al fianco del padre, come se fosse stato la sua ombra e talvolta il diavolo che sussurrava al suo orecchio. Non mi piaceva. L’unica consolazione, non era il giovane Ormanno quello che avrei dovuto conquistare. O almeno non in quel modo. Però sapevo che per arrivare a suo padre avrei dovuto raggirare anche lui. Era complicato, ma ce l’avrei fatta. Ero figlia di mio padre e, come tutti dicevano, avevo ereditato la sua capacità di riuscire ad ottenere tutto ciò che volevo. Ma in quel caso non dovevo agire per qualcosa che volevo io. Dunque? No, il tempo dei dubbi era finito.
“In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.’’
Quelle parole segnarono la fine della funzione e l’inizio della mia missione. Feci il segno della croce, come tutti i presenti. Ero pronta. Avrei fatto il mio dovere per conquistare la stima e l’affetto di mio padre. Rinaldo non aveva speranze di sfuggire a me, Delfina de’ Pazzi.

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Capitolo 2
*** Il velo bianco e i capelli corvini ***


Capitolo uno
 Il velo bianco e i capelli corvini
 
La gente cominciò a lasciare i banchi e a dirigersi più o meno ordinatamente verso l’uscita della chiesa, uomini e donne che si scambiavano l’un l’altro cenni formali senza arrischiare mai un sorriso o una parola di gentilezza. Per quanto impossibile, mi parve che ci fosse ancora più silenzio che durante la messa. In risposta a quel pensiero, forse per contrariarmi o forse per darmi ragione, le campane presero a suonare in una melodia festosa, riempiendo così la mia mente con il loro suono acuto. Vidi mio padre e mia madre scambiarsi un’occhiata complice e subito dopo mio padre mi sfiorò la spalla. Loro si unirono alla fila centrale che lentamente si dirigeva all’uscita della chiesa, io invece andai nella direzione opposta e imboccai la navata laterale, sperando di non dare nell’occhio. Quando la visuale si liberò, osservai con interesse il teatrino impostato dai miei genitori, il modo apparentemente casuale con cui avevano fermato e intrappolato la famiglia Albizzi giusto fuori dalla chiesa. Mia madre sfoggiò un sorriso studiato per intrattenere Madonna Alessandra, mio padre invece si occupò di Rinaldo e di Ormanno con l’eccellente scusa di discutere qualcosa riguardante la Signoria. Io mi ero avvicinata all’uscita molto lentamente, lasciando che la chiesa si svuotasse. Con le dita sfiorai distrattamente il velo bianco che mi copriva il capo e le spalle e che portavo abitualmente quando mi recavo in chiesa, sia per rispetto al Signore sia per volere di mio padre che preferiva tenere celata la mia fiorente bellezza. Sorrisi amaramente al vuoto. Per quindici anni mi aveva tenuta nascosta al mondo e adesso all’improvviso mi ordinava di uscire e mettermi in mostra! Come stabilito, sciolsi l’intreccio che mi copriva le spalle e lasciai che il velo scendesse liberamente lungo la mia figura.
“Giovane Ormanno, che dire di voi?”
Mio padre pronunciò quelle parole con tono volutamente alto affinché io sentissi e capissi che era giunto il momento. Ammirai l’abilità con cui si spostò durante la conversazione, di modo che il suo interlocutore fosse costretto a seguire la direzione da lui voluta. E così facendo, Rinaldo rimase in disparte.
Presi respiro e cercai di sfoggiare un sorriso spontaneo, sollevai un lembo della gonna e uscii dalla chiesa con passi leggermente saltellati come una bambina felice. I miei movimenti non furono improvvisati, poiché sapevo che così facendo il velo sarebbe scivolato via dai miei capelli per finire esattamente ai piedi di Rinaldo. Finsi di ammirare il sole che splendeva nel cielo, ma in realtà ero in attesa che la trappola scattasse. E così fu.
“Damigella, perdonate.”
Mi voltai repentina per far sì che i miei capelli ondeggiassero. Ero consapevole che la mia chioma corvina, lunghissima e dalle onde armoniose, era uno spettacolo per gli occhi, ma ugualmente fui compiaciuta di constatare che Rinaldo ne rimase colpito a sua volta.
Incontrai il suo sguardo per la prima volta. Uno sguardo fiero, duro, di chi sa cosa vuole e che lotta per ottenerlo. Ma non ero pronta a ritrovarvi in esso un luogo meraviglioso composto di un lago dalle acque limpide e azzurre, un prato di un verde rigoglioso ed un cielo grigio di nuvole cariche di pioggia. Azzurro, verde e grigio erano amalgamati, creando un colore impossibile da denominare. Non avevo mai visto occhi così. Rinaldo sbatté le ciglia ed emise un rumore di gola per schiarirsi la voce e così facendo mi riportò alla realtà.
“Damigella, il vostro velo.”
Abbassai lo sguardo e mi accorsi che in effetti la sua mano era protesa verso di me e le sue dita grandi e severe ne stringevano un lembo.
“Oh! Vi ringrazio Messere.” Il tono sorpreso mi uscì spontaneo, dato che per alcuni istanti avevo davvero dimenticato tutto. Allungai la mano e feci in modo che le mie dita sottili e pallide sfiorassero le sue, prima di riappropriarmi del velo.
“Siete molto gentile. Vi ringrazio.” Sussurrai.
“Mia piccola cara, mi auguro tu non stia dando noia a Messer Albizzi!” Mia madre s’intromise all’improvviso e si affiancò a me con quella sfacciataggine che a me non era affatto gradita.
Abbassai lo sguardo, imbarazzata: “Madre, per favore.” Ma subito lo risollevai, giusto in tempo per vedere l’espressione di pura sorpresa di Rinaldo, che volse lo sguardo da me a mia madre per verificare quanto aveva appena udito.
Ed ecco che fu la volta di mio padre di entrare in scena: “Noto con piacere che avete fatto conoscenza con mia figlia, Messere.”
Rinaldo inarcò un sopracciglio: “Mi chiedo come sia possibile che io non l’abbia riconosciuta. Eppure sono certo di averla già incontrata nel corso degli anni.”
“Sicuramente, amico mio! Ma…vi confesso che ho sempre tenuto Delfina lontano dai miei ospiti, essendo troppo giovane per partecipare a cene e feste formali.”
Incontrai di nuovo lo sguardo di Rinaldo e mi resi conto che qualcosa era appena cambiato. Potevo vedere la lotta in lui tra la curiosità di sapere di più e il sospetto che il nostro incontro non fosse così casuale. Ma tra le due parti vinse quella che speravo.
“Delfina?” Mi chiese con voce quasi sospirata.
Feci una riverenza: “Sì, Messer Albizzi. Lieta di fare la vostra conoscenza.” Anche dentro di me cominciò una lotta. Desideravo ardentemente conoscere meglio quell’uomo che fino a poco prima era stato solo una figura senza importanza nella mia vita, ma il peso del compito che mi era stato assegnato mi stava lacerando lo stomaco per obbligarmi a non farlo.
“Or bene, temo sia giunta l’ora di rincasare. Il pranzo sarà pronto e la cuoca starà disperando per il nostro arrivo!” Saltò fuori mia madre, spezzando l’incantesimo. Almeno contribuì a ricordarmi che oltre a noi vi erano anche altri personaggi a comporre la scena. Alessandra e Ormanno erano rimasti in disparte, alle spalle di Rinaldo, non essendo interessati alla mia presenza.
Mia madre e Madonna Alessandra si salutarono con fredda cortesia e freddi sorrisi, mentre mio padre mi avvolse le spalle con un braccio e mi spronò incoraggiante: “Non essere timida, Delfina. Saluta!”
Feci una riverenza sotto il peso del suo braccio: “Buona giornata, Messer Rinaldo.” E poi aggiunsi un volutamente tardivo e frettoloso: “Madonna Alessandra, Messer Ormanno.”
Madre e figlio risposero con disinteresse, Rinaldo invece si mostrò molto galante facendo un inchino e lanciandomi uno sguardo carico d’interesse: “Spero di rivedervi presto, Damigella Delfina.”
Sorrisi, ma non potei dire una parola perché mio padre si affrettò a trascinarmi via. Presa dalle mie emozioni, non mi ero nemmeno accorta che il velo era scivolato dalle mie mani. Lo compresi solo quando mi voltai, un momento prima di svoltare l’angolo della chiesa, e vidi Rinaldo con il mio velo in mano, intento a contemplarlo come una reliquia.

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Capitolo 3
*** La via della perdizione ***


Capitolo due
 La via della perdizione
 
Lo sguardo era privo di espressione e la luce delle candele contribuiva a renderlo vuoto. Il taglio delle labbra, naturalmente incurvato verso il basso, in quel momento era ancora più marcato in una sorta di smorfia di disgusto.
“Albizzi, vi sentite bene?”
Gli occhi di Rinaldo misero a fuoco la figura che aveva davanti, l’espressione non mutò. Abbassò lo guardo sul calice che teneva in mano e constatò che era quasi vuoto. Strano, non ricordava di aver bevuto.
“Amico mio?” Andrea Pazzi si fece più incalzante, ma più che preoccupazione il suo volto mostrava compiacimento.
Rinaldo mandò giù l’ultimo sorso di vino e si tamponò le labbra con la manica della giacca, senza preoccuparsi delle buone maniere. Si schiarì la voce e disse semplicemente: “Sono sorpreso che vostra figlia non abbia presenziato alla cena. Alla sua età sarebbe saggio da farsi.”
Nonostante il tono aspro, Pazzi era troppo astuto per non capire che in realtà l’amico avrebbe messo a ferro e fuoco il palazzo pur di vedere Delfina. Per questo decise di stuzzicarlo: “Mia figlia si trova nelle sue stanze, dove ho piacere che rimanga fino a quando non le avrò trovato un buon marito. Ma non temete, Albizzi, mia figlia ama disobbedire alla mia volontà, sono certo che con un pizzico di fortuna la incontrerete in questa stessa sala mentre sgattaiola tra gli ospiti.”
Era alquanto bizzarro che un uomo parlasse apertamente delle mancanze della propria figlia e lo era ancora di più che lo facesse in presenza di più persone. Possibile che Pazzi fosse un padre amorevole?
“O forse è tutta una congettura per impressionarmi e prendesi gioco di me.” Pensò Albizzi.
Pazzi prese il calice vuoto dalla mano di Rinaldo e lo posò assieme al proprio sul tavolo alle proprie spalle.
“Se Vossignorie vorranno scusarmi, vorrei assentarmi qualche minuto con Messer Albizzi.”
Gli uomini a cui si era rivolto, ovvero alcuni degli ospiti della serata, si limitarono a fare dei cenni di assenso e a riprendere i discorsi interrotti.
Con sospetta ed eccessiva confidenza, Pazzi mise una mano sulla spalla di Rinaldo: “Venite con me, amico mio.”
Lo guidò fino al proprio studio, anch’esso ben illuminato dai candelabri e ben riscaldato dal fuoco del camino.
“Voglio condividere con voi uno dei miei tesori. Un vino pregiato che sono in pochi a possedere qui a Firenze.”
Lo aveva distolto dalla monotonia della serata per quello? Dalla noia all’ubriachezza. E a Rinaldo non piaceva nessuna delle due cose.
“Giusto un bicchiere. Non vorrei abusare della vostra gentilezza, mio caro Pazzi.” Quindi prese posto sulla poltrona di fronte alla scrivania senza nemmeno attendere di essere invitato a farlo. Stava per aggiungere qualcosa, ma si bloccò quando il suo sguardo si posò su un oggetto interessante. Proprio lì in bella vista vi era una pila di fogli affiancata da penna e calamaio. Avrebbe potuto scrivere un biglietto a Delfina e consegnarglielo, se fosse riuscito ad incontrarla anche per un solo istante. Si sorprese del modo in cui la sua mente aveva elaborato un’idea così pacchiana. Scosse il capo al vuoto, non aveva più l’età per quelle fantasie romantiche. Anzi, non era mai stato un uomo romantico, nemmeno in gioventù. I suoi pensieri s’interruppero bruscamente quando sentì le mani di Pazzi afferrarlo alle spalle e la sua voce sibilante sussurrargli all’orecchio: “Aspettate qui, tornerò entro cinque minuti.”
E mentre i passi di Andrea Pazzi si allontanavano riecheggiando nel corridoio, Rinaldo divorava con lo sguardo quei fogli giallognoli che fungevano da chiave per un terreno da lui ancora inesplorato. Una terra chiamata Adulterio.
*
Attizzatoio in mano, sguardo illuminato dalle braci che stavo stuzzicando nel camino. Avevo perso la cognizione del tempo. Non sapevo che ora fosse, non sapevo nemmeno perché ero lì seduta davanti al camino della cucina. Udii il rumore di passi affrettati, voltai il capo verso la porta aperta dove in breve comparve mio padre.
“Ah sei qui, allora. Ti stavo cercando.” In una mano aveva due calici puliti e nell’altra una bottiglia di vino dal vetro impolverato. Una delle sue riserve in cantina, evidentemente.
“Delfina, Rinaldo vuole vederti.”
Scattai in piedi, presa dall’entusiasmo: “Ha chiesto di me?”
Mi squadrò torvo: “Non esplicitamente, ma è chiaro che muore dalla voglia di vederti.”
“Mi dai il permesso di accedere al salone? Mi bastano pochi minuti per raccogliere i capelli ed essere presentabile.”
“Starai scherzando, spero.”
Quelle parole bastarono a disilludermi. Speravo che finalmente avrei potuto presenziare ad una serata, incontrare gli ospiti e parlare con qualcuno, e invece niente.
“Farai come hai sempre fatto. Scivolerai come un’ombra senza farti notare troppo, tranne che da lui ovviamente. E lo incontrerai in un luogo dove non nessuno possa vedervi. Fagli credere di essere infatuata di lui e cerca di accendere il suo interesse.”
Probabilmente vide la delusione nei miei occhi, per questo si alterò: “Delfina, hai capito?”
Feci un ampio cenno col capo: “Sì, padre.”
Ottenuta la mia conferma, tornò a sfoggiare il suo classico disinteresse per me: “Bene. Gli faccio assaggiare il vino e poi lo mando dritto da te. Fatti vedere all’ingresso delle stanze private e lui ti seguirà come un cagnolino.” E detto questo uscì dalla cucina, lasciandomi sola con l’amaro in bocca e nuovi sensi di colpa.
Mi lisciai il vestito distrattamente, la stoffa blu notte non era molto in tono con il mio incarnato pallido, ma d’altra parte i colori non abbondavano nel mio armadio. Allo stesso modo lisciai i capelli sciolti che ricadevano in tutta la loro bellezza. Una bellezza che nessuno vedeva mai.
Salii due rampe di scale ed attraversai il grande corridoio su cui si diramavano le nostre stanze e i nostri salottini privati. La porta che dava sul salone centrale del palazzo era grande e massiccia. Constatai che non c’era nessuno di guardia, il che significava che mio padre aveva pensato proprio a tutto. Afferrai la fredda maniglia e aprii di uno spiraglio, giusto quanto bastava per sbirciare. Già alla prima occhiata mi resi conto che quella sera vi erano più servitori che ospiti, ma nella confusione generale non sarebbe stato difficile fare una capatina. Non riuscii a vedere Rinaldo, forse lui e mio padre erano ancora nello studio. Al contrario di tutte le altre volte, quella sera non mi lasciai incantare dalla bellezza degli abiti ricamati, dei broccati, dei gioielli. Ero triste. La risata civettuola di mia madre arrivò al mio orecchio. La vidi assieme ad alcune Madonne, bellissima in un abito scarlatto che assottigliava ulteriormente la sua figura e con petto e capelli decorati da perle e ori. Le gote arrossate indicavano che aveva bevuto troppo vino. Così bella e così stupida. Voltai il capo per la delusione e quasi per caso vidi Rinaldo in fondo alla sala. Il suo sguardo acceso su di me mi fece sussultare. Scappai via come una sciocca, rischiando che lui fraintendesse il mio gesto.
Nel corridoio, lontana da occhi indiscreti, mi fermai e presi respiro. Non per la fatica, certo, ma per cercare di calmarmi. La sorpresa mi aveva spiazzata, il cuore mi batteva forte nel petto e nello stomaco sentivo un fastidioso sfarfallio. Dovevo concentrami. Quando udii dei passi dietro a me, avevo in effetti ritrovato parte della mia abituale calma. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere di chi si trattasse. Feci scivolare le scarpette sul pavimento di marmo, con grazia, e in breve mi ritrovai di fronte alla vetrata. All’esterno non si vedeva una singola luce e nemmeno la luna aveva osato mostrarsi quella notte. Accanto a me vi era un candelabro a collo lungo, la luce gialla delle candele si sparse su di me. Mi accorsi del mio riflesso sul vetro, vidi il riflesso di Rinaldo. Continuai a guardare mentre lui si avvicinava a me lentamente.  Mi voltai all’ultimo istante. Rinaldo mi afferrò per i polsi e premette il suo corpo contro il mio, schiacciandomi contro la vetrata. Il mio respiro si fece ansante, sia per la paura che per il desiderio, lui invece era assolutamente calmo e controllato, il suo respiro regolare contro il mio viso, il suo sguardo fisso nei miei occhi. La sua statura notevole e il suo corpo massiccio mi facevano sentire ancora più minuta di quanto non fossi. Non capivo cosa stesse accadendo. Vidi il viso di Rinaldo avvicinarsi di più al mio, l’istinto mi suggerì di dischiudere le labbra. Volevo baciarlo. Volevo essere baciata. La punta del suo naso sfiorò la mia. Sentii la sua barba accarezzarmi la guancia, in un modo appena percettibile. E all’improvviso lasciò andare i miei polsi. Si portò una mano all’interno della giacca, da cui estrasse quello che riconobbi essere il mio velo. Me lo mise in mano in modo un po' sgarbato e se ne andò.
Mi ritrovai a crollare sul pavimento, le gambe in brodo per la forte emozione. Sollevai il velo con mani tremanti e me lo portai alle narici, chiusi gli occhi. Come immaginavo, odorava di uomo e di sapone di qualità. Odorava di lui, di Rinaldo. Il rumore di qualcosa che scivolava sul mio vestito e finiva per terra mi fece riaprire gli occhi. Un biglietto piegato più volte e strizzato per assottigliarlo. Posai il velo sulle mie ginocchia e usai entrambe le mani per aprire il foglio di pergamena. A vedersi, tutto spiegazzato e con una calligrafia frettolosa, poteva essere anche una vecchia lista della spesa! Dovetti aguzzare la vista per riuscire a leggere le parole scritte.
Inviterò tuo padre nella mia dimora. Convincilo a portarti con sé.
                                                                                              R. A.”
Dimenticai come si respirava.

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Capitolo 4
*** E giacque sul mio grembo ***


Capitolo tre
E giacque sul mio grembo
 
Strinsi le mani l’una nell'altra per impedirmi di reagire, per non mandare tutto a monte o addirittura essere colpita. Mi sentivo come una bestia che veniva esaminata prima di essere portata al mercato per la vendita e, quel che era peggio, era che il mercante era il mio stesso padre. Aveva ordinato che indossassi un abito più provocante di quelli che portavo solitamente, qualcosa che mettesse in risalto i miei seni ma che mi donasse grazia e così la mia fedele dama di compagnia aveva accomodato un vecchio abito di mia madre, composto di stoffe del bianco più puro e ricamate in oro. Infine mio padre aveva voluto che i miei capelli restassero sciolti e semplicemente abbelliti da un nastro bianco allacciato attorno al capo come una fascia. Era stato molto chiaro: niente gioielli.
Dopo avermi esaminata con la massima attenzione, soffermandosi su ogni minimo particolare e facendo più volte il giro attorno a me, disse sintetico: “Va bene così.”
Mi porse il braccio al quale mi aggrappai con leggera riluttanza. Amavo mio padre, ma a volte sembrava davvero fare di tutto per avere il mio disprezzo.
Uscimmo dal palazzo e ci incamminammo verso quello degli Albizzi. Una passeggiata tutt’altro che benefica visto che il cielo prometteva pioggia torrenziale da un momento all’altro.
“Sei una fanciulla intelligente, so che agirai per il meglio. Voglio solo rammentarti che lo stai facendo per me e per il nome della nostra famiglia. Una tua distrazione creerebbe il disastro, se Rinaldo scoprisse il gioco, tra le nostre famiglie sarebbe guerra aperta.”
“Lo so, padre, non fai altro che ripetermelo.” Risposi a denti stretti, non riuscendo a trattenermi.
Sul viso di mio padre affiorò un sorriso, il suo sguardo vagò verso il fondo della via dove ci stavamo dirigendo. All’improvviso sentii un forte dolore al polso, quello che lui stava stringendo con forza da sotto la sua manica. Soffocai un gemito trattenendo il respiro e un attimo dopo sentii la voce di mio padre parlarmi con finta tranquillità: “Vedi di non farmi perdere la pazienza, Delfina. O te ne pentirai.”
Lasciò la presa e io ripresi a respirare. La rabbia in me svanì all’istante, mi sentii in colpa per aver mancato di rispetto. Sollevai lo sguardo con curiosità, eravamo arrivati.
Fummo accolti prima da una guardia armata all’ingresso e poi da un servitore che ci fece attendere nello studio personale di Rinaldo. Se non fosse stato per il maltempo, quella stanza sarebbe stata piena di luce e assolata. Uno spazio ampio e ordinato, sulle cui pareti erano appesi quadri ritraenti avvenimenti biblici. Il tavolo intagliato e personalizzato con lo stemma di famiglia era stato posizionato nel punto più luminoso della stanza. Nel silenzio che ci circondava, sia io che mio padre voltammo il capo verso la porta ancor prima che qualcuno la aprisse. L’eco dei passi aveva anticipato l’arrivo di Rinaldo. Non appena lo vidi mi sentii più serena. Il suo aspetto era trasandato, pur sapendo che saremmo arrivati sotto suo invito. I capelli non erano stati pettinati, per cui i riccioli quasi biondi si muovevano in totale libertà, mentre la giacca aperta lasciava vedere ampiamente la camicia sottostante e il colletto slacciato.
“Vi chiedo perdono per il mio aspetto, non mi sono reso conto dell’ora.”
Camminò fino al tavolo e prese posto sulla sua poltrona in legno, quindi fece un cenno con la mano affinché anche noi ci accomodassimo sulle sedie di fronte.
“Se preferite possiamo rimandare l’incontro.” Suggerì mio padre.
Rinaldo scacciò quella proposta con un movimento della mano: “No. Non è importante. Non oso immaginare per quanti giorni continuerò a torturarmi.”
Mio padre inarcò un sopracciglio: “E’ per via di Medici?”
Lo sguardo tagliente di Rinaldo fu una risposta sufficiente.
“Dovreste esserne lieto, a parer mio. La guerra è finita, Lucca non è più sotto assedio.”
Rinaldo si protese in avanti, lo sguardo sempre più torvo: “Non sopporto l’idea che sia avvenuto per merito suo. Mio figlio ha combattuto sul campo di battaglia, io stesso l’ho affiancato dandogli tutto l’aiuto che potevo. Ho chiesto io i fondi per sostenere questa guerra e sempre io ho formato l’esercito. E poi all’improvviso si presenta alla Signoria lo stesso Sforza per annunciare la fine della guerra! Non potete nemmeno immaginare il disprezzo che ho provato quando quei due si sono scambiati un cenno d’intesa. Cosimo con…” Si fermò per cercare le parole e le sputò fuori assieme a qualche schizzo di saliva: “Con il suo sguardo annacquato come quello di un neonato quando si sveglia per la poppata. E quell’aria compiaciuta che finge di nascondere. Lo odio!” Sbatté un pugno sul tavolo per dare maggiore enfasi a quelle ultime parole.
“Non è giusto che perdiate il sonno per questo. Sono certo che troverete un altro modo per screditarlo. E per farvi valere.” Era incredibile il modo in cui mio padre riusciva a dire tutto ciò che pensava usando poche parole e senza variare il tono di voce.
Rinaldo si lasciò ricadere sulla poltrona e gettò la testa all’indietro, esausto dalla nottataccia che aveva passato.
Vidi mio padre alzarsi dalla sedia: “Delfina, andiamo. Lasciamo che Messer Albizzi riposi.”
Quella frase mi colse alla sprovvista: “Cosa? Siamo appena arrivati!” Un dubbio mi affiorò alla mente, il sospetto che per quel giorno avesse ottenuto le informazioni che voleva e che perciò non avesse bisogno del mio aiuto. Non mi opposi quando mi afferrò per un braccio per farmi alzare, ma qualcun altro lo fece per me.
“Aspettate, Andrea.”
Entrambi voltammo lo sguardo su Rinaldo, ancora nella sua posizione di abbandono. Attendemmo che si riprendesse, stropicciandosi gli occhi con le dita e scotendo il capo per schiarirsi la mente. Quando il suo sguardo si posò su mio padre, era tornato perfettamente lucido: “Se voi avete urgenza di andare, non vi tratterrò, ma vi sarei grato se poteste concedermi la compagnia di vostra figlia per qualche ora.”
Mio padre soppesò il suo sguardo e poi lanciò un’occhiata a me.
“Volete la sua compagnia? Vi avviso che questa ragazza ha parlato più coi muri che con le persone da quando è nata!”
Io mi sentii offesa, ovviamente, e fui lieta di sentire la risposta di Rinaldo in mia difesa: “Dunque è giunto il momento di introdurla nella civiltà, non credete?”
Vidi il mezzo sorriso di mio padre e capii che non avrebbe insistito oltre. Mi lasciò il braccio: “Ripasso a prenderti tra due ore precise. Vedi di comportarti ammodo.”
Mi affrettai a rispondere: “Certo, padre. Sarò impeccabile.”
Scambiò un cenno di saluto con Rinaldo e uscì dalla stanza senza guardarsi indietro.
Inizialmente entusiasta e felice per essere rimasta sola con l’uomo che da giorni occupava i miei pensieri, man mano che i minuti passavano iniziai a chiedermi perché mi trovassi lì. Dal momento in cui mio padre era uscito, Rinaldo aveva puntato lo sguardo sul tavolo, aveva tamburellato le dita sul ripiano e sfiorato i bordi di alcune carte, ma non aveva detto una parola. E nemmeno mi aveva guardata.
Un po’ per la delusione e un po’ per ricordagli la mia presenza, emisi un sospiro. Vidi la sua testa scattare e il suo sguardo puntarmi severo.
Deglutii: “Perdonatemi, Messere. Non volevo interrompere la vostra…ehm, meditazione.”
In tutta risposta lui ridacchiò e il suo sguardo si fece più limpido: “Temevo non saresti venuta. Dopo la tua fuga improvvisa ho pensato di aver mal interpretato i tuoi segnali.”
Avevo fatto davvero una magra figura quella sera! Mi stropicciai le mani in grembo per l’imbarazzo: “Ormai dovreste aver compreso quanto io sia inesperta nell’interagire con altre persone.”
“E’ per questo che ti ho voluta qui. Nei tuoi occhi non ho visto ambizione, non ho visto intrighi, non ho visto menzogna.” Si alzò dalla poltrona e  camminò attorno al tavolo per arrivare a me. Allungò un braccio e posò una mano sotto il mio mento per sollevarmi il viso. Riprese: “Ho visto solo te. I tuoi occhi viola con pagliuzze dorate. La trasparenza di una giovane pura e semplice.”
Scostò la mano e si lasciò scivolare sul pavimento, ai miei piedi. Posò il capo sul mio grembo e una mano sulle mie ginocchia. Sembrava così innocente, come un bambino in cerca di conforto.
Parlò con voce rauca per la stanchezza: “Nessuno può capire quello che provo. L’odio profondo che nutro per Cosimo.”
“Perché me lo state dicendo, Messer Rinaldo?”
Sentii il rumore di una risatina, subito coperta da un sospiro: “Perché non ho nessun altro a cui dirlo. Nessuno a cui importi.”
La mia mano si sollevò, rimase sospesa a causa della mia esitazione. Volevo farlo ma temevo di apparire troppo sfacciata. Perché poi? Lui non si era fatto problemi a parlarmi con familiarità e a comportarsi di conseguenza. Ci eravamo incontrati solo due volte e già si sentiva libero di aprirsi a me. E sentire il calore del suo viso attraverso la stoffa dell’abito, sentire il peso della sua testa sulle mie cosce, era un’emozione che non avevo mai provato. Ritrovando sicurezza, abbassai la mano e andai ad intrecciare le dita nei suoi capelli morbidi. Presi una ciocca arricciata e la lisciai tra il pollice e l’indice. Un gesto naturale, qualcosa di cui non provavo vergogna. Riposi la ciocca al suo posto e presi ad accarezzare la capigliatura con delicatezza, come avrei fatto con la pelliccia di un gatto.
Presa com’ero dalla situazione, mi accorsi solo di sfuggita che il respiro di Rinaldo si era fatto più pesante e più lento. Un sorriso mi sfiorò delicatamente le labbra, per la tenerezza. Mi chinai sul suo orecchio e sussurrai: “Dormite sereno, veglierò io su di voi.”
Pur sapendo che non poteva sentirmi nel sonno, avevo comunque sentito il bisogno di dirglielo.

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Capitolo 5
*** Nemmeno la peste ***


Capitolo quattro
Nemmeno la peste
 
Anche se non potevo vedermi, mi viene da sorridere ripensando a quel momento e all’espressione che dovevo avere sul viso quando la mia dolce dama di compagnia, Isabella, annunciò una visita per me. Probabilmente la mia reazione la indusse a restare ferma di fronte alla porta e con il capo chino, in attesa di ricevere una risposta.
“Sei sicura che abbia chiesto di me?” Chiesi, necessitando una conferma.
Isabella sollevò lo sguardo su di me, gli occhi marroni erano velati di delusione per il fatto che avessi messo in dubbio le sue parole: “Sì, Damigella. Messer Albizzi ha chiesto specificatamente di voi. L’ho accompagnato nella sala da giorno, pregandolo di attendervi.”
Mi sentivo smarrita, come una sciocca ragazzina. Mi stropicciai le mani, esitando, ma poi mi imposi di riacquistare la ragione e mi feci coraggio: “Grazie, Isabella. Andrò subito. Tu puoi rimanere qui a svolgere i tuoi compiti, non è necessaria la tua presenza alla sala.”
Uscii dalle mie stanze cercando di apparire tranquilla e distaccata, ma quando raggiunsi la sala da giorno, mi ritrovai ad aggiustarmi i capelli nervosamente per timore di non essere abbastanza decorosa. Feci un cenno col capo a me stessa per darmi il consenso di entrare e afferrai la maniglia. Lo vidi avvolto dalla luce del sole, di fronte alla finestra, le mani giunte dietro la schiena e i capelli ben arricciati sulla nuca. Quando si voltò, accorgendosi della mia presenza, i suoi occhi dal triplice colore mi divorarono.
“Se cercate mio padre devo avvisarvi che non è ancora rientrato, Messer Albizzi.” Dissi con tono fermo mentre camminavo verso di lui.
“Lo so. Si è trattenuto con alcuni membri della Signoria. Per questo ho pensato fosse il momento opportuno per farti visita.” Vedendo che io mi ero pietrificata per l’emozione, sollevò un angolo della bocca, probabilmente trovandomi buffa. Visto che io non l’avevo ancora fatto, fu lui a prendermi la mano e a sollevarla per stamparvi un bacio sul dorso.
Cercai nella mente qualcosa da dire, fingendo di non aver notato che lui stava trattenendo la mia mano nella propria contro ogni forma di galanteria.
“Posso fare qualcosa per voi, Messer Rinaldo?”
“Sì. Potresti chiamarmi solo Rinaldo e darmi più confidenza. Sarebbe un buon inizio.” Rispose sfacciato,  provocando così un imminente rossore su tutto il mio viso. Ero giovane e inesperta, ma non abbastanza da non accorgermi che si stava divertendo, che si stava prendendo gioco di me. Fu questo a spingermi a rimpossessarmi della mia mano, strappandola dalla sua.
Mi voltai, offesa: “Non sarebbe decoroso, Messere.”
Lo sentii ridacchiare alle mie spalle: “Non so a quale gioco tu stia giocando, ma mi piace. E sono sicuro che piace anche a te. Non è così, Delfina?”
Inaspettatamente, le sue mani mi afferrarono per il girovita e in un attimo mi ritrovai voltata verso di lui, in preda al suo sguardo. Non mi vergogno ad ammettere che quel gesto mi fece battere il cuore all’impazzata. Ma durò poco perché in breve mi sciolse da quel forzato abbraccio e tornò a concentrare le sue attenzioni sulla mia mano. Sfiorò una ad una le mie dita, si soffermò su un polpastrello che premette per farlo diventare bianco e poi osservò il sangue rifluire per farlo tornare roseo. Con il dito indice attraversò lentamente il palmo e si fermò solo allo sbocco sul polso. Mi lanciò un’occhiata, forse per vedere la mia espressione in seguito a quelle attenzioni, quindi si portò la mano alle labbra e cominciò a stampare dei leggeri baci sul palmo. Avrei voluto sciogliermi. Ciò che stava facendo era insolito e privo di significato. A meno che non fosse una forma di corteggiamento. Ma non era possibile. Perché Rinaldo degli Albizzi, uomo sposato e con un figlio più grande di me, avrebbe dovuto corteggiarmi? Peccato che la logica svanì per lasciare posto alle sensazioni. Sentivo il calore umido e la morbidezza di quelle labbra, il soffio tiepido del respiro, il leggero tocco pungente della barba, sulla mia pelle. Per quanto fosse innocente e semplice, per me era un piacere nuovo e volevo viverlo a fondo. Chiusi gli occhi per assaporare meglio quelle sensazioni, sorpresa che un uomo così austero e rigido potesse essere così dolce.
Strano o normale, innocente o no, non mi sentii affatto tranquilla quando mio padre ci sorprese in quella posizione piombando nella sala all’improvviso. Intimorita, mi affrettai a togliere la mano che nonostante tutto Rinaldo continuava a tenere in ostaggio.
“Padre, ben tornato. Messer Albizzi mi stava porgendo i suoi saluti.” Frase inutile, dato che aveva visto benissimo cosa stavamo facendo.
Esitò nel rispondere, aguzzò la vista su Rinaldo e disse stizzito: “Quanta premura, Messere.” Prima che Rinaldo potesse dire alcun che, mio padre mi venne incontro: “Delfina, dì a Isabella di preparare le tue cose. Voglio che sia tutto pronto entro stasera. Domani partiremo all’alba.”
“Che cosa? Perché mai?” Starnazzai, stupidamente.
“Non lo sai? La peste si sta diffondendo, è troppo pericoloso restare a Firenze. Andremo nelle campagne.”
“Ma padre!”
Mi riprese severo, indicando Rinaldo con una mano: “Osi contraddirmi di fronte ad un mio amico, ad un Membro della Signoria?”
Avevo voglia di piangere al solo pensiero di separarmi da Rinaldo così presto: “No. Ma ti prego, fammi restare. Non voglio andarmene.”
“Non farmi perdere tempo, ragazzina.” Fece per artigliarmi un braccio, ma la mano veloce di Rinaldo glielo impedì.
“Davvero volete fuggire, Pazzi? Non volete cogliere l’occasione di mostrare alla Signoria la vostra forza?”
“Questa è una vostra esigenza, Rinaldo, non mia.” Tentò ancora di afferrarmi e ancora Rinaldo lo bloccò.
“D’accordo, fate come volete. Ma almeno permettete a Delfina di restare, se lo desidera.”
Mio padre sfoggiò un’espressione di disgusto: “Non lascerò mia figlia qui a morire per un capriccio.”
Rinaldo lo prese sottobraccio e lo condusse dalla parte opposta della sala per parlargli in privato. Lo guardò dritto negli occhi e parlò a bassa voce: “Sono io che ve lo chiedo, Andrea.”
Pazzi lo guardò attentamente, soppesando quelle parole e scorgendo nei suoi occhi quella sfumatura di grigio che si intensificava quando aveva timore di qualcosa. Chiese sospettoso: “Perché la volete?”
“Perché ne ho bisogno!” Nonostante la precauzione di tenere il tono basso, quell’ultima parola l’aveva quasi ringhiata, il che fece capire a Pazzi quanto fosse importante per lui.
Scostò lo sguardo e sospirò, dandosi un momento per riflettere. Quando lo rialzò su Rinaldo, era totalmente consapevole di avere il coltello dalla parte del manico: “Vi prenderete cura di lei, durante la mia assenza?”
Rinaldo rispose con decisione: “Sì. Sì, lo farò. Le farò visita ogni giorno per assicurarmi che stia bene e che abbia tutto ciò che le serve.”
“Se io accetto, promettete di fare tutto ciò che sarà in vostro potere per danneggiare Medici? Ho sentito che partirà domani, questo dovrebbe essere un vantaggio per voi che restate.”
Rinaldo sentì il sangue ribollirgli nelle vene per quel ricatto. La notizia della partenza di Cosimo Medici era buona, ma sentire che un padre stava barattando la propria figlia con la politica lo lasciò indignato. Strinse i denti per non rispondere per le rime, quindi buttò fuori un secco: “E sia.”
Pazzi sfoggiò un sorriso compiaciuto e si tolse il braccio di Rinaldo dalla spalla.
Io ero rimasta al mio posto ad attendere e non ero riuscita a sentire altro che bisbigli. Quando vidi l’espressione trionfante sul viso di mio padre, ebbi timore che fosse tutto perduto. E invece…
“Sei sicura di voler restare a Firenze?”
Mi affrettai a rispondere: “Sì, padre. Lo voglio davvero.”
Lui fece un cenno di assenso: “Lascerò qui qualcuno che ti prepari i pasti e si occupi del tuo bucato. Isabella resterà con te, ovviamente.”
Ero incredula che avesse acconsentito. Cosa gli aveva detto Rinaldo per convincerlo?
Vidi mio padre sospirare e scuotere il capo: “Il problema sarà convincere tua madre. Qualcosa mi dice che mi strapperà i capelli appena glielo dirò. E sarà tutta colpa tua!” Aggiunse sorridendo.
Risposi al sorriso: “Ti aiuterò io a convincerla. E forse a salvare i tuoi capelli!” Da così tanto tempo non scherzavamo, io e lui. C’era voluta la peste perché accadesse.
“Bene, vado a dare istruzioni alla servitù.” Si voltò e, mentre s’incamminava verso l’uscita, si rivolse a Rinaldo: “L’affido a voi, Albizzi. Non deludetemi.”
Mi parve che in quell’ultima frase ci avesse messo più enfasi del necessario, però non potevo sapere a cosa stesse alludendo realmente. Una volta che lui fu uscito dalla sala, mi avvicinai a Rinaldo: “Come avete fatto? Temevo che mi avrebbe separata da voi.”
Lui inarcò le labbra in un mezzo sorriso: “C’è una cosa che voglio farti apprendere, Delfina. Niente potrà mai separarti da me. Nemmeno la peste.”
Oramai era una certezza, Rinaldo degli Albizzi provava qualcosa per me. Ora dovevo solo trovare il modo di vivere quella relazione dandogli il mio amore e allo stesso tempo obbedire alla volontà di mio padre. Rispetto a questo, affrontare la peste sembrava una passeggiata.

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Capitolo 6
*** Il controllo ad ogni costo ***


Capitolo cinque
Il controllo ad ogni costo
 
Ormai era l’alba e mia madre stava ancora svolazzando da una stanza all’altra come un uccello impazzito. Il velo che le copriva i capelli era come una nuvola bianca che la seguiva, gonfiandosi quando lei velocizzava il passo.
“Non sto dicendo che non puoi, voglio solo capire per quale motivo dovrei lasciarti qui a rischiare la vita.”
Io cercavo di seguirla come un’ombra e di rispondere prontamente, ma tra tutte e due le cose era difficile riprendere fiato. O forse era la paura a togliermi il respiro?
“Madre, ho le mie ragioni per farlo. Non puoi avere un po’ di fiducia in me?”
Si fermò all’improvviso, rischiando che io la urtassi. Quando si voltò, rimasi intimorita nel vedere quegli occhi neri puntati su di me e quella fronte aggrottata.
“Non dubiterei mai di dite, Delfina. Sono contraria a questa cosa perché ho paura che tu possa ammalarti. La peste non fa distinzione tra ricchi e poveri.”
“Non mi accadrà niente, te lo prometto.” Insistei nel tentativo di convincerla
Mia madre cambiò espressione da minacciosa a triste, sospirò e allungò una mano per sfiorarmi una ciocca di capelli  a lato del viso: “Non sei costretta a farlo, tesoro mio. So che tuo padre è disposto a tutto per avere il potere, ma questa volta il prezzo è troppo alto.”
Era questo dunque. Pensava che fosse un’idea di mio padre e che mi avesse costretta all’obbedienza. Scossi leggermente il capo: “Madre, non è stato lui ad impormelo. Sono io a volerlo.”
“Ma perché? Ti prego, spiegamelo!”
“Sarei partita con voi se anche Rinaldo avesse lasciato la città, ma…”
“Rinaldo?” La sua voce vibrava per la sorpresa. Aveva capito tutto. Abbandonò la ciocca di capelli e con quella stessa mano mi accarezzò una guancia. Ora il suo volto mostrava compassione.
“Povera bambina. Sei caduta nella tua stessa trappola.”
Le lanciai uno sguardo interrogativo, al quale rispose: “Doveva essere lui ad innamorarsi di te, non tu di lui.”
Presi la sua mano e l’allontanai dal mio viso: “Non è come credi. Non sono stupida. Anche se provo qualcosa per lui, non perderò di vista il mio obiettivo.”
Ero stata più severa di quanto avessi voluto, ma non potevo permettermi di rovinare tutto.
Mia madre sospirò, rassegnandosi: “Non dirò nulla a tuo padre. Se dovesse farmi domande, gli dirò semplicemente che stai facendo tutto questo per renderlo fiero di te.”
“E’ così, madre. Non è una menzogna.”
Fece dei cenni col capo, restando convinta della sua teoria, poi mi prese per mano e cercò di parlare con tono più allegro: “Vieni a salutare tuo padre.”
Camminammo insieme fino all’ingresso, dove trovammo mio padre intento a conversare con Rinaldo. Non mi aspettavo di vederlo a quell’ora. I miei dubbi svanirono sul motivo della sua presenza quando mio padre ci vide arrivare dal corridoio e si rivolse a noi: “Eccovi arrivate. Messer Rinaldo è venuto ad augurarci buon viaggio.”
Quando fummo di fronte a lui, salutammo entrambe chinando il capo cortesemente e Rinaldo fece altrettanto.
“Caterina, tu sali in carrozza, io ti raggiungo tra un minuto.” Disse mio padre, facendolo suonare più come un ordine.
Rinaldo porse il braccio a mia madre: “Madonna Caterina, concedetemi l’onore.”
Mia madre accettò l’invito e insieme uscirono da palazzo per raggiungere la carrozza.
Rimasti soli, io e mio padre ci scambiammo una lunga occhiata senza proferire verbo. Io non sapevo cosa dire, vista la situazione, lui invece sembrava ancora indeciso se lasciarmi o portarmi con sé. Scosse il capo, evidentemente lasciando perdere quella lotta, quindi mi si avvicinò e mise le mani sulle mie spalle: “Farò in modo che un messaggero possa entrare e uscire dalla città ogni qualvolta lo desideri. Informami di tutto ciò che accade mentre non ci sono. Ma ti avverto, se uno dei servitori rimasti dovesse contrarre il morbo, quello stesso messaggero ti porterà via dalla città con la forza.”
Mi parlò proprio come se fossi una semplice spia pagata per eseguire i suoi ordini. Non c’era traccia di preoccupazione nella sua voce. Per lui non significavo niente. Il cielo venne in mio aiuto, mandando un improvviso senso di colpa a mio padre. Lo vidi cambiare espressione, vidi una scintilla umana nei suoi occhi e in un attimo mi strinse in un abbraccio. All’inizio non riuscii a muovermi per la sorpresa.
“Sei libera di andartene quando vuoi, in qualunque momento. I miei affari non valgono la vita della mia unica figlia.” Sussurrò al mio orecchio quelle parole d’affetto. Mi ritrovai gli occhi pieni di lacrime, le mie braccia si sollevarono per rispondere al suo abbraccio. Strinsi le labbra e chiesi perdono a Dio per le cose malevoli che avevo pensato.
Esaurite le premure paterne, mio padre interruppe l’abbraccio e mi salutò frettolosamente: “E’ ora di partire. Mi raccomando, abbi cura di te.”
Se ne andò velocemente e io non lo seguii. Rimasi ferma ad ascoltare i rumori della partenza, l’ultimo saluto a Rinaldo, gli zoccoli dei cavalli sul selciato. E poco dopo comparve lui.
Chiuse la porta alle proprie spalle, servendosi anche del catenaccio, quindi si avvicinò a me e disse tranquillamente: “Più tardi dovrò recarmi ad un incontro della Signoria, ma prometto di ripassare nel pomeriggio. Spero solo che mi venga in mente una buona scusa per impedire a mio figlio di seguirmi.”
Avevo avuto il tempo di ricacciare indietro le lacrime e non so come avevo ritrovato la voglia di scherzare: “Mi meraviglio che ci siate riuscito già due volte!”
Non mi feci problemi a ridere, avevo bisogno di scaricare la tensione e lui forse lo aveva capito. Rise a sua volta: “Se ti sentisse ne resterebbe indignato!” Diede un colpo di tosse per non lasciarsi andare all’ilarità e attese che anch’io ritrovassi la calma. Di punto in bianco propose: “Vogliamo riprendere da dove siamo stati interrotti?” Ed ecco che la voglia di ridere mi passò completamente e al suo posto si fece avanti l’ansia.
Rinaldo si guardò attorno: “Per quanto poca, preferirei che la servitù non ci vedesse.” Mi avvolse le spalle con un braccio e mi condusse alla sala da giorno come se fosse stata la sua casa invece che la mia. A quell’ora la sala era accesa dalla luce arancio dell’alba e sembrava quasi che stesse ardendo. Come me.
“Messer Rinaldo, io non so cosa vi aspettiate da me, ma io…”
Un suo dito posato sulle mie labbra mi impedì di continuare. Stare sola con lui era tutto ciò che volevo, eppure c’era qualcosa che mi impediva di lasciarmi andare. Sfuggii il suo tocco e mi mossi senza sapere bene cosa stessi facendo. Mi resi conto che sopra uno dei mobili vi erano caraffa e calici, un ottimo motivo per allontanarsi da Rinaldo. Riempii un calice quasi fino all’orlo e lo vuotai tutto d’un fiato, senza pensarci due volte. La testa mi girava già, il vino non avrebbe potuto nuocermi ulteriormente. Quando Rinaldo venne al mio fianco, non lo degnai nemmeno di uno sguardo. Con la coda dell’occhio mi limitai a sbirciare mentre anche lui si serviva un calice di vino. Deglutì un paio di volte, rumorosamente, ed emise un sospiro di approvazione.
“Tuo padre ha davvero buon gusto, non si può negare.”
Riposi il mio calice sul mobile e voltai le spalle a Rinaldo, solo per il puro piacere di fargli un dispetto. Il mio comportamento era inaccettabile, ma non riuscivo a smettere.
Lui non parve indispettirsi o preoccuparsene, anzi al contrario, dopo aver udito il rumore del suo calice posato sul mobile, sentii le sue braccia avvolgermi e il suo respiro caldo scontrarsi sulla mia chioma. Avevo paura non di lui, bensì di me stessa. Se avessi perduto il controllo e la mia dignità cosa ne sarebbe stato di me? Il tocco delle sue labbra e lo struscio della sua barba sul mio collo pose fine alle mie domande. Un tocco così leggero che lo percepii appena, come un solletico che mi fece sorridere. E poi le labbra scesero verso l’incavo della spalla e il solletico si trasformò in piacere. I baci divennero più intensi, percepii il calore umido della sua bocca e al contempo il pizzicare della barba che ora era premuta sulla mia pelle. Le sue braccia mi strinsero più forte in una manifestazione di possesso e io non mi ribellai. Un sospiro cominciò a premermi nel petto con insistenza, fino a quando non lo liberai, scoprendo così che anche quello faceva parte del piacere. Le labbra di Rinaldo si fecero più assetate e prepotenti e altrettanta era la prepotenza del mio desiderio di avere di più. Piuttosto che lasciarmi andare e sembrare una facile preda, preferii mordermi le labbra a sangue e liberarmi dal suo abbraccio. Mi chinai in avanti, stordita dal piacere e dal vino, per riprendere fiato e controllo di me stessa. Quando risollevai il capo e mi voltai, mi accorsi subito del suo sguardo interrogativo. Ne aveva tutto il diritto, dato il mio scatto improvviso. Poi notai che stava guardando qualcosa di preciso, qualcosa sul mio viso. Mi portai due polpastrelli al labbro e mi resi conto che stavo sanguinando. Mi coprii la bocca con il dorso della mano e farfugliai imbarazzata: “Vi prego, lasciatemi sola.”
Lui dapprima fece uno sguardo interrogativo, poi acconsentì. Fece qualche passo e si fermò al mio fianco per sussurrarmi: “Più cerchi di reprimere quello che provi, più ti fai del male. Ora lo sai.”
Mentre lui usciva dalla sala io mi passai la lingua sulle labbra e assaporai lentamente il gusto metallico del sangue. Avrei tanto voluto che qualcuno mi spiegasse perché mi stavo facendo questo, perché io non lo sapevo proprio.

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Capitolo 7
*** Dolorosa e piacevole punizione ***


Capitolo sei
Dolorosa e piacevole punizione
 
Era stata una lunga camminata non per la lontananza della Cattedrale, quanto più perché eravamo costrette ad evitare le strade più pericolose, quelle disseminate di corpi senza vita non ancora raccolti. La peste stava mietendo vittime molto rapidamente. Sia io che Isabella ci eravamo coperte con ampi mantelli neri e tenevamo i cappucci calati sugli occhi e i fazzoletti premuti contro labbra e naso. Era potenzialmente pericoloso stare fuori, ma io mi ero intestardita e volevo arrivare fino in fondo.
Nel vedere la Cattedrale, Isabella parlò attraverso la stoffa, il suo tono marcato di sollievo: “Finalmente! Dio ci terrà al sicuro all’interno di questo sacro luogo.”
Le lanciai un’occhiata poco convinta, ma non risposi. Una volta entrate, riponemmo i fazzoletti nelle maniche dei nostri abiti, però tenemmo le nostre identità ben nascoste sotto i cappucci. Ci inoltrammo all’interno fino ad arrivare al luogo dove era aperto il cantiere per la costruzione della Cupola. In quel momento gli operai erano riuniti e in ascolto, come dei fedeli durante la messa. Al centro del gruppo, con la sua voce possente e la figura imponente, Rinaldo stava facendo un discorso.
“E’ per lui che siamo qui?” La domanda di  Isabella risuonò più come un rimprovero e il suo sguardo di disapprovazione lo confermava.
Mi portai il dito indice alle labbra per suggerirle di tacere, volevo ascoltare bene ciò che Rinaldo aveva da dire. Le sue parole erano pesanti, la moralità brutale. Tutto l’odio che provava per Cosimo de’ Medici lo stava vomitando con le parole, incitando gli operai a distruggere la Cupola che stavano costruendo alle dipendenze di Cosimo.
E mentre la mia testa disapprovava quel metodo diffamatorio, i miei occhi scivolavano sulla figura di Rinaldo come una carezza.
“E’ bellissimo.” Sospirai sognante.
Isabella si voltò di scatto verso di me: “Ma alquanto severo, a mio parere.”
Un’occhiataccia da parte mia bastò a zittirla.
Rinaldo usò magnificamente la propria abilità di giocare con le parole e di puntare dritto alla credulità dei poveri ignoranti per ottenere quello che voleva, ovvero che gli operai distruggessero la Cupola. Ero così ammirata dalla sua orazione che mi resi conto troppo tardi del suo sguardo severo puntato su di me. Riabbassai il cappuccio sugli occhi e feci cenno ad Isabella di seguirmi velocemente. Purtroppo, poco prima che raggiungessimo l’uscita, la voce di Rinaldo tuonò alle nostre spalle: “Fermatevi entrambe!”
Giusto il tempo di voltarmi e Rinaldo arrivò a me. La prima cosa che fece fu quella di buttarmi il cappuccio all’indietro per guardarmi in viso e trasmettermi la rabbia che stava provando.
“Che cosa ci fai qui? Ti avevo detto di non uscire dal palazzo! Vuoi forse ammalarti andandotene a spasso per le vie appestate della città?”
“Volevo vedervi.” Dissi semplicemente, la voce dolce in netto contrasto con quella alterata di lui.
Proseguii: “Volevo solo vedere coi miei occhi il vostro modo di agire, ascoltare le vostre parole. Non avevo idea che foste così persuasivo. Mi siete parso imponente come un Imperatore che s’innalza sul popolo.”
Le mie parole funzionarono abbastanza bene, o almeno vidi il suo viso dapprima arrossato per la collera tornare ad un colorito normale. Sarebbe bastato chiedere perdono per aver disobbedito e tutto si sarebbe risolto. Se Ormanno non avesse deciso di comparire proprio in quel momento.
“Padre, cosa succede?”
Rinaldo si voltò di scatto, liberando così la visuale al figlio che mi vide e mi riconobbe.
“Delfina de’ Pazzi? Ma non è partita con la famiglia? E perché stai parlando con lei?” Non cercò nemmeno di nascondere il suo disappunto.
Rinaldo, abituato ad agire prontamente e ad avere sempre una risposta a tutto, spiegò: “Hai ragione, Ormanno, ho dimenticato di dirtelo. Messer Pazzi mi ha affidato sua figlia affinché le insegni a padroneggiare l’arte della conversazione. Vorrebbe farle frequentare la nobiltà, ma aimè Damigella Delfina non è ancora pronta.”
Ormanno sfoggiò una smorfia: “Conversazione. Durante la pestilenza. E ti aspetti che io ci creda?”
Rinaldo aggrottò le sopracciglia in quel modo inquietante che lo caratterizzava: “Osi mettere in dubbio la parola di tuo padre?”
Suo figlio, che conosceva bene la sua ira, non riuscì a nascondere il proprio disagio: “No, padre. Però…” Deglutì e riprese: “Però non capisco perché lei sia qui.”
“Per il semplice fatto che avevamo programmato un incontro e io l’ho dimenticato. Per questo è venuta fin qui, per ricordarmelo.”
Ormanno sfoggiò nuovamente la sua espressione scontrosa quando posò lo sguardo su di me, perciò il padre intervenne: “Io tornerò al nostro palazzo con Damigella Pazzi, per svolgere la lezione. E voglio che tu riaccompagni a casa Isabella, la sua dama.”
“Perché io?” Sbottò Ormanno.
Rinaldo lo afferrò per la spalla: “Perché te lo ordino.” Lasciò la presa e gli fece un cenno col capo verso l’uscita. Dopo di lui uscimmo anche noi tre.
All’esterno vi erano i cavalli ad attenderci. Uno per coppia. Rinaldo salì sul proprio e mi porse la mano gentilmente per aiutarmi a montare in sella di fronte a lui. Dovendo mantenere una posa aggraziata, montai all’amazzone, perciò lui pensò bene di cingermi il girovita con il braccio per non rischiare che io scivolassi già durante la galoppata. Ormanno invece fu più riluttante ad aiutare Isabella, per il semplice fatto che era una comune popolana, e in più la fece montare dietro. Vedendo la scena, Rinaldo tuonò: “Sarai così cortese da permetterle di aggrapparsi a te, mi auguro.”
Suo figlio si sforzò di non contrariarlo, così Rinaldo, soddisfatto, poté tirare le redini e dare il comando al cavallo. Dovendo fare lo stesso percorso, i cavalli galopparono quasi fianco a fianco durante il tragitto, poi quando arrivammo ad un incrocio in cui le nostre strade si separavano, Rinaldo aggiunse uno studiato: “Una volta arrivato entra a palazzo e assicurati che sia tutto a posto e che i servitori siano in salute. Ho promesso a Pazzi che sua figlia sarebbe stata al sicuro.” Subito spronò il cavallo a ripartire, ma io riuscii comunque a vedere l’espressione indignata di Ormanno per quell'ordine sgradito. Che avesse capito che suo padre non lo voleva tra i piedi?
In breve raggiungemmo Palazzo Albizzi e Rinaldo mi condusse nel proprio studio frettolosamente e guardandosi attorno furtivo. Mi venne spontaneo chiedermi se la moglie fosse in casa.
“Conversazione eh?” Chiesi con tono divertito, avvicinandomi a lui.
Contrariamente a quello che mi aspettavo, lui non condivise il mio buonumore e rispose secco: “E’ la prima cosa che mi è venuta in mente che potesse suonare realistica.” Mi schivò e andò dritto alla parte opposta della sala. Preoccupata, andai subito da lui.
“Mi dispiace avervi messo in difficoltà, Messere.”
“Lo spero bene! Ad ogni modo, dovrai pagare per il tuo errore.” Mi prese per un polso e mi portò fino ad una cassapanca posta in un angolo.
“Chinati. Le mani sul ripiano.”
“Come dite?” Chiesi intimorita.
“Fallo.” Mi lasciò il polso e incrociò le braccia al petto in attesa che io obbedissi.
Seppur timorosa, decisi di fare come aveva detto. Lui disse ancora: “Chiedi perdono a Dio.”
Mi schiarii la voce e dissi con tono fermo: “Dio misericordioso, chiedo perdono per il mio peccato.” Sapevo che era un uomo devoto, ma non credevo fino a quel punto.
“Bene così.” Con quelle parole mi illuse che fosse tutto risolto e invece l’attimo dopo mi ritrovai con l’orlo delle sottane sul capo. Ero così imbarazzata, così indignata. L’ultima volta che mi ero ritrovata in una posizione così era stato quando avevo sei anni. Quella volta ero entrata di nascosto nello studio di mio padre e giocando avevo rovesciato l’inchiostro su dei documenti importanti. Di conseguenza, lui mi aveva fatta stendere sulle sue ginocchia e mi aveva sculacciata fin che la forza del braccio glielo aveva consentito. Quel pensiero mi fece venire un terribile sospetto.
“Messer Rinaldo, non vorrete mica…” L’ultima parola morì in un gridolino di dolore. Il colpo era arrivato all’improvviso. Non poteva essere vero. Mi stava sculacciando come una bambina! Ad ogni colpo sentivo la rabbia salirmi sempre più alla testa e nella mia mente imprecai più volte contro il mio aguzzino a cui fino a poco fa volevo donare il mio cuore.
Dieci in tutto. Era questa la punizione. Dieci sculacciate che sentii bruciare una ad una sulle mie natiche offese. Gli occhi ancora stretti, non avevo il coraggio di muovere un muscolo.
“Puoi rialzarti, adesso.”
Il mio sguardo si aprì sul legno chiaro della cassapanca, mi diedi un piccolo slancio per rimettermi in posizione eretta e mi affrettai a riabbassare le gonne.
“Mi stai odiando, vero?”
La rabbia mi diede il coraggio di voltarmi e rispondergli a tono: “Sì. La cosa vi sorprende?”
Stranamente il suo sguardo ora era limpido, sembrava che la mia risposta ed i miei occhi infuocati non lo turbassero minimamente. Si fece avanti e mi sollevò tra le braccia, cogliendomi di sorpresa. Costretta dalla posizione, dovetti cingergli i fianchi con le gambe, in un modo totalmente disdicevole.
La curiosità mi fece dimenticare in un attimo quanto era appena accaduto.
Camminò fino al tavolo e lì mi posò delicatamente al centro, dove non vi erano carte o altri oggetti. L’impatto delle natiche doloranti con il legno mi causò un piccolo gemito di dolore, che però si placò quando Rinaldo mi fece distendere sulla schiena. Cominciai a realizzare la situazione, ovvero che ero distesa su un tavolo e avevo le gambe aperte di fronte ad un uomo. Non ero pronta.
Rinaldo rimase a guardarmi senza mostrare emozioni, sembrava solo concentrato su di me, sul mio viso che doveva essere diventato paonazzo, sui miei seni che si gonfiavano oltre la scollatura. Abbassò lo sguardo sulle mie gambe e con la mano prese a far risalire le gonne lentamente, lasciando così le mie cosce scoperte oltre il limite delle calze. Frantumando ogni mia aspettativa, prese posto sulla poltrona e si chinò fino ad arrivare con il viso alla mia… Un gemito di sorpresa per quel contatto inaspettato.
In principio pensai solo che si trattasse di una cosa bizzarra, poi però il mio corpo cominciò a mandarmi dei segnali. Una sensazione di pace e soddisfazione che lentamente andò ad espandersi su tutto il mio corpo. Quelle stesse labbra e quella stessa barba che mi avevano fatto scoprire nuove sensazioni quando erano entrate in contatto con il mio collo, ora mi stavano devastando agendo…da tutt’altra parte! Il mio sguardo all’apparenza puntato sul soffitto, in realtà stava vagando in un mondo astratto che mai in vita mia avevo esplorato. Più il piacere si faceva intenso e più sentivo il bisogno di inarcare i fianchi verso di lui, in una tacita preghiera a darmi di più. E quando finalmente raggiunsi il picco di quella montagna che oltrepassava le nuvole, dalle mie labbra si levò un grido estasiato: “Rinaldo!”
Ero dovuta impazzire per riuscire a dire il suo nome…
*
Ancora adirato per il modo in cui suo padre l’aveva trattato di fronte ad una smorfiosa e una serva, Ormanno era rincasato senza guardare in faccia a nessuno e perfino ignorando il saluto di sua madre che lo aveva visto passare per il corridoio. I suoi passi rabbiosi sbattevano per terra come un martello con l‘incudine.  Quando imboccò il corridoio che conduceva allo studio di suo padre, udì una sorta di grido che lo bloccò. Avanzò lentamente, prestando attenzione e, avvicinandosi, cominciò a capire di cosa si trattava. Arrivato di fronte alla porta dello studio, afferrò la maniglia e premette sperando che i cardini non cigolassero. Non appena poté, aguzzò la vista per sbirciare all’interno. E li vide.
Che i suoi genitori non erano mai stati una coppia affiatata lo aveva sempre saputo, trattandosi di un matrimonio di convenienza, ma quello che gli fece più male oltre al tradimento era il sospetto che ora lui fosse passato al secondo posto nel cuore di suo padre. Tutto a causa di quella sgualdrina.
Conversazione.” Ripeté amaramente tra i denti prima di andarsene e lasciare i due amanti ai loro sporchi piaceri.

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Capitolo 8
*** Parlando di gioie e di disastri ***


Capitolo sette
Parlando di gioie e di disastri
 
Ricordo che quel giorno mi stavo rilassando con un bel bagno caldo, ripercorrendo con la mente quello che c’era stato tra me e Rinaldo dal giorno del nostro primo incontro fuori dalla chiesa. Isabella mi aveva fatto un accurato massaggio a spalle e braccia, usando un olio di rose che adoravo. E appunto per quel motivo stavo facendo il bagno senza indossare l’apposita veste, come mi era stato insegnato fin da piccola, e con i capelli raccolti in un telo poi legato con un fiocco sulla sommità del mio capo. Cullata dal calore dell’acqua e assonnata per il tepore dell’aria umida della stanza da bagno, non realizzai subito che il rumore appena udito era quello della porta che si apriva e che invece di Isabella era comparso Rinaldo. Sul suo volto c’era un’espressione soddisfatta che non gli avevo mai visto, ma che mutò in un’altra da predatore quando il suo sguardo scese dal mio viso a qualcosa più giù. Abbassai lo sguardo di riflesso e finalmente tornai presente. Ero completamente nuda! D’istinto mi coprii i seni con le mani e scioccamente strinsi le gambe, pur sapendo che lui ormai conosceva benissimo quella parte di me.
Rinaldo sollevò un sopracciglio e disse malizioso: “Oggi è proprio il mio giorno fortunato.”
Cominciò a slacciarsi la cintura, a cui notai vi era appesa una Croce nera. Gridai imbarazzata: “Rinaldo, cosa stai facendo?”
Lui mi lanciò un’occhiata: “Non è evidente?”
“No! Voglio dire sì. Ma no! Fermati subito!”
“Non vorrai fare ancora la pudica dopo quello che abbiamo fatto!” Disse con tono divertito.
“Veramente hai fatto tutto tu. E comunque non hai motivo di essere così spudorato.” Esasperata nel vedere che non mi ascoltava e che, dopo la cintura, era passato a slacciare i pantaloni, scoppiai a strillare isterica: “Isabeeellaaa!!!”
Ovviamente Rinaldo si fermò all’istante, stordito dalle mie grida e, quando Isabella arrivò di corsa, lo trovò di fatto con le mani in fallo. Spalancò la bocca per l’indignazione, quindi lo apostrofò severamente: “Messer Albizzi, siete pregato di uscire o sarò costretta a chiamare le guardie.”
Avendo avuto qualche minuto per riprendermi ed essendo stata io a metterlo in quel guaio, intervenni per difenderlo: “Isabella, non è come sembra, davvero. Non volevo allarmarti. Messer Rinaldo stava giusto andando ad attendermi nella mia saletta privata. Ti ho chiamato per chiederti di passarmi la veste per asciugarmi.” Con lo sguardo spronai Rinaldo a confermare la mia versione e lui afferrò al volo.
“Sì, esatto. Stavo andando proprio là.” Con aria di sfida, prese le estremità dei lacci dei pantaloni e li tirò per richiudere il tutto. La cintura invece non si preoccupò nemmeno di riallacciarla. Fece l’occhiolino ad Isabella e s’incamminò.
Mentre usciva, Isabella lanciò un’occhiataccia alle sue spalle e subito dopo si affrettò a richiudere la porta per proteggere la mia nudità.
“Damigella, perdonate la mia schiettezza ma quell’individuo si sta prendendo troppe libertà con voi. Non mi piace affatto.” Disse mentre andava a prendere la veste per me.
Oramai a mio agio, mi risollevai dall’acqua e salii i gradini per uscire dalla vasca. Attesi che Isabella mi avvolgesse con la veste e poi mi assicurai di chiuderla stringendomi la fascia alla vita.
“E’ colpa mia. Avrei dovuto essere più riservata. Ma cosa posso fare? Sono attratta da lui quanto lui è attratto da me.”
Isabella, ora china ad asciugarmi i piedi con un panno, disse umilmente: “Non mi permetterei mai di giudicarvi, Damigella. Ma posso giudicare lui e il suo comportamento non è affatto eccelso.”
Liberai i capelli costretti dentro il telo sul mio capo e li lasciai ricadere sulla mia figura, soddisfatta dell’effetto. Ora ero pronta per ricevere il mio ospite.
Lo trovai seduto su una delle poltrone del mio salottino privato, lo sguardo assente.
“Rinaldo, sono qui.” Lo richiamai, distogliendolo dai suoi pensieri.
Ebbi la sfacciataggine di scivolare su di lui, prendendo posto sulle sue ginocchia e portandogli le braccia al collo, il che contribuì a riaccendere il suo interesse per me.
Sorrisi timidamente: “Perdonami per aver gridato. Mi hai presa alla sprovvista.”
Lui scosse leggermente il capo, lo sguardo carico di divertimento: “Colpa mia. Il buonumore mi ha fatto dimenticare le buone maniere.”
“A tal proposito, è accaduto qualcosa di particolare?” Chiesi incuriosita.
“Sì, hai indovinato. Stamane l’attaccabrighe mi ha onorato con la sua presenza, presentandosi alla Cattedrale.”
Spalancai la bocca per la sorpresa: “Cosimo è tornato a Firenze?”
Lui fece un mugolio di assenso e proseguì entusiasta: “Era venuto per impedire la distruzione della Cupola, ma gli operai non hanno voluto ascoltarlo. Lo hanno insultato e hanno perfino lanciato delle pietre! Vedessi che spettacolo sublime!” Terminò volgendo lo sguardo sognante verso l’alto.
“Più sublime di me che faccio il bagno?” Lo stuzzicai, impudente.
Lui riabbassò lo sguardo su di me ed increspò le labbra in un sorriso malizioso: “Prima mi fai passare per un pervertito con la tua serva bacchettona e poi mi provochi spudoratamente? Attenta, se giochi col fuoco potresti bruciarti!”
“Isabella non è una bacchettona! E’ solo protettiva. Per me è come una sorella maggiore dato che abbiamo solo dieci anni di differenza.”
“Quindi è anche zitella e sicuramente vergine. Di male in peggio. Per fortuna tu non seguirai le sue orme.” Si sporse nel tentativo di baciarmi, ma io scostai il viso e deviai il bacio sulla mia guancia. Lui sospirò: “O forse sì…”
Ridacchiai: “No affatto! Solo non voglio che il nostro primo bacio avvenga così.”
Mi guardò di sbieco: “Così come?”
“Intendo…senza nessun motivo. Vorrei che fosse speciale.”
Lui rimase a fissarmi qualche istante e poi chiese: “Che storie ti raccontava la tua balia?”
Gli diedi un colpetto sul petto, poi lasciai la mano adagiata sul morbido velluto nero della giacca, fantasticando di potergliela togliere. Subito dopo mi pentii di averlo pensato, non volevo che la mia mente fosse così peccaminosa. Mi sciolsi dal suo abbraccio e mi rimisi in piedi: “Mi aiuti a vestirmi?”
“Ragazzina, tu vuoi mettermi alla prova.” Rispose alterato, per poi invece alzarsi e seguirmi fino alla camera da letto.
Senza davvero riflettere su quello che stavo facendo, mi sfilai la veste umida di dosso e la lasciai cadere sul pavimento. Isabella se ne sarebbe occupata più tardi. Dandogli le spalle, chiesi a Rinaldo: “Puoi porgermi la sottoveste, per favore?”
All’apparenza tranquillo, lui obbedì ed afferrò l’indumento che era sopra il letto. In tre passi fu da me, ma invece di porgermelo, alzò il braccio verso il soffitto come sfidandomi a saltare per recuperarlo. Irritata dal gesto, mi coprii i seni con le mani e lo apostrofai: “Non sei divertente.”
“Non voglio esserlo!” Rispose quasi ridendo.
“Te ne approfitti solo perché sai che sono innamorata di te.” Voleva essere un rimprovero, invece quando mi resi conto di quello che avevo appena detto mi sentii avvampare. Abbassai il viso per l’imbarazzo, ma la mano di Rinaldo me lo risollevò delicatamente. Ora il suo sguardo era carico di passione. Presa dalla situazione, non mi accorsi nemmeno che aveva riabbassato il braccio e che quindi avrei potuto impossessarmi della mia sottoveste all’istante. Avrei voluto dire qualcosa per rompere il silenzio, ma la mia testa non funzionava bene in quel momento. Gli avevo appena fatto una confessione d’amore e lui non aveva ancora risposto. Quando sentii la sua mano afferrarmi il girovita, abbandonai ogni timidezza e ogni esitazione. Posai una mano sul suo petto, l’altra la portai sulla sua nuca per sfiorare i morbidi riccioli biondi che adoravo. Un istante ancora e Rinaldo unì le sue labbra alle mie, risucchiandole con passione come se volesse impossessarsene, mentre con il braccio mi strinse forte a sé in una morsa ferrea. Il mio capriccio da ragazzina fu dimenticato, in quel momento tutto ciò che desideravo era essere sua, anche se non sapevo fino a che punto. Con l’altra mano mi afferrò una natica, dapprima studiandone la densità, poi premendo affinché il mio corpo aderisse al suo. E se prima di allora non avevo compreso appieno il significato della parola ‘virile’, mentre ero a stretto contatto con il corpo di Rinaldo lo appresi alla perfezione.
Quel primo bacio per me aveva un valore inestimabile, ancor più perché lui lo rese molto più che speciale. Lo rese unico. Se invece vogliamo parlare di chi lo rese indimenticabile, bè… Proprio mentre io e Rinaldo eravamo persi nella passione più cieca, il rumore della porta che si apriva mi disturbò. Particolarmente irritata, con la mano stavo per fare segno a Isabella di andarsene, ma quando aprii gli occhi e vidi di chi si trattava in realtà, il terrore mi fece staccare dalle labbra di Rinaldo all’istante, provocando un buffo suono di risucchio.
“Madre.” Mi uscì come un gemito di dolore. Lo stesso Rinaldo si voltò allarmato ed entrambi ci ritrovammo alla mercé di quella donna che, come una strega, aveva interrotto il momento più appassionato della mia vita.
Contrariamente a noi, mia madre sembrava assolutamente a proprio agio ed aveva perfino un sorriso disegnato in faccia. Chinò gentilmente il capo e disse cortesemente: “Sono lieta di rivedervi, Messer Rinaldo.”
Che cosa ci facesse a casa e cosa avesse in mente erano due domande assolutamente lecite.

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Capitolo 9
*** Arti a confronto ***


Capitolo otto
Arti a confronto
 
Indossai gli indumenti con tutta la calma di cui fui capace, mentre dall’altra parte della stanza mia madre dava l’arrivederci a Rinaldo come fosse stato un semplice ospite, come se non fosse accaduto niente di imbarazzante. Quando la porta fu richiusa, i passi di mia madre vennero verso di me ticchettando sul pavimento.
Abbozzai un banale: “Non è come credi.”
Lei piegò la testa di lato e sgranò gli occhi: “Se avessi ritardato di un’ora probabilmente lo sarebbe stato.”
Scossi il capo: “No, io e Rinaldo non abbiamo ancora…”
Non ancora. Esatto. Ma accadrà presto, fidati. Quell’uomo è pazzo di te.” Allungò le mani sulla mia schiena e prese ad armeggiare con i lacci del vestito aggiungendo un: “Non dirò nulla a tuo padre, non temere.”
Mio malgrado sospirai di sollievo, quindi feci una domanda per cambiare discorso: “Perché sei tornata, madre?”
“Perché in campagna mi annoiavo a morte! Puoi immaginare, là da sola con tuo padre che pensa solo agli affari per tutto il giorno e poi la sera crolla addormentato appena tocca il cuscino.” Disse civettuola, per poi cambiare tono improvvisamente: “Almeno qui sarò d’aiuto per te. Ci sono delle cose che devi imparare se vuoi tenerti stretto il tuo amato Rinaldo.” Finito di allacciare il vestito, mi fece voltare e mi guardò dritta negli occhi: “Vedrai, la mamma ti insegnerà tutto il necessario, Delfina.”
Se fino a un momento prima l’imbarazzo e il timore mi avevano bloccata, ora che avevo ritrovato la calma mi dovetti porre un quesito. Perché mia madre non era turbata da quanto accaduto? Aveva sorpreso la sua unica figlia nuda tra le braccia di un uomo, per di più un nobile sposato, e ne era deliziata? Per quanto fossi lieta di avere la sua complicità, trovavo comunque incredibile che fosse favorevole a quella relazione.
Posai una mano sulla sua e la guardai dritta negli occhi: “Madre, mi stai dicendo che vuoi insegnarmi a fare…a fare...quelle cose?”
Lei mi guardò con tanto d’occhi: “Se vuoi tenerti stretto il tuo Rinaldo non ti basterà sfoggiare il tuo bel visino.”
Ed ecco che l’imbarazzo tornò, facendomi avvampare: “Quale madre snaturata spingerebbe la propria figlia ad entrare nel letto di un uomo?” Scostai lo sguardo.
Mia madre sospirò e andò a sedersi sul bordo del letto. Vidi la tristezza posarsi sul suo volto come un velo, la sua voce si ridusse ad un sussurro: “Avrei voluto che mia madre lo facesse per me. Nonostante ciò che pensi di me, Delfina, anch’io ho dei sentimenti.”
Incuriosita da quelle parole, mi avvicinai e presi posto accanto a lei.
Riprese: “Dopo il matrimonio, tuo padre si prese un’amante.”
La notizia mi turbò, ma non in modo particolare: “Il vostro era un matrimonio di convenienza, perciò…”
“E questo lo giustifica?” Strillò d’un tratto, facendomi tremare.
“Ha preso un’amante perché io non sapevo come soddisfarlo a letto. Mi ha umiliata. Mi ha messa da parte. Se qualcuno mi avesse insegnato cosa fare, forse non sarebbe accaduto nulla di sconveniente. Lo capisci? Non voglio che tu soffra come ho sofferto io.”
Feci un cenno affermativo, ma ancora non ero convinta: “Sì, però…Rinaldo non è mio marito.”
“Non ha importanza, tesoro. Se non fai qualcosa per tenerlo legato a te, presto si stancherà e ti abbandonerà.” Sollevò la mano e mi accarezzò gentilmente una guancia: “E ti ritroverai col cuore spezzato.”
Il messaggio era chiaro. Mia madre era stata innamorata di mio padre ma lui l’aveva fatta soffrire. Non lo avrei mai potuto pensare. Un nuovo quesito mi uscì dalle labbra, fuori dal mio controllo: “Ma allora, chi ti insegnò a fare…” Mi pentii di averlo chiesto, soprattutto vedendo l’occhiata maliziosa che precedette la risposta: “Temo che questo resterà un segreto!”
*
Nell’arco di pochi giorni accaddero molte cose. Cosimo riuscì ad impedire che la Cupola venisse demolita, l’allarme di pestilenza cessò, le famiglie altolocate fecero ritorno a Firenze e Rinaldo fece arrestare Cosimo attirandolo in una trappola. E io, al contrario di un giovane apprendista che mette in pratica le sue conoscenze teoriche desideroso di mostrare il proprio valore, ero in ginocchio e a capo chino ad umiliarmi per dare piacere a Rinaldo. L’unica cosa positiva in questa faccenda, era che lui sembrava gradire le mie attenzioni, o almeno i gemiti che gli uscivano dalle labbra ed il modo in cui talvolta inarcava i fianchi verso il mio viso, mi suggerivano che fosse così.
Al termine mi rialzai in piedi, lasciando Rinaldo sulla poltrona a godere dei benefici postumi del mio operato, e pensai bene di bere un po’ di vino per togliermi quello strano sapore dalla bocca. Un po’ per recuperare la mia dignità e un po’ perché desiderosa di lasciarmi alle spalle quell’atto impuro, non appena posai il calice vuoto sul tavolo, dissi diretta: “Hai bisogno di un elemento d’apertura per l’accusa.”
Lui emise un sospiro di sconforto per essere stato strappato a quel piacevole mondo di beatitudine: “Non dirmi che hai pensato a questo per tutto il tempo.” La voce ancora roca per il piacere.
Preferii ignorare il commento e procedere seriamente: “Rinaldo, dovresti ascoltarmi. Il discorso che mi hai anticipato è buono. Hai preso l’accusa di tradimento e l’hai suddivisa in due forme, ma io ritengo che non sia opportuno iniziare con la solita accusa di usura. Non fai che ripetere a destra e a manca che Cosimo è un usuraio! Se vuoi attirare in pieno l’attenzione della Signoria devi trovare un nuovo elemento, qualcosa che sia di forte impatto.”
Questa volta Rinaldo aprì gli occhi e mise a fuoco il mio volto, evidentemente interessato alle mie parole: “Potrei esporre la tirannia per prima, allora.”
Scossi leggermente il capo e presi a passeggiare attorno al tavolo, pensierosa: “No… Serve qualcos’altro. Qualcosa di sorprendente che finora non è stato detto o preso in considerazione.”
“In principio avrei voluto accusarlo di corruzione, ma…sono finito in un vicolo cieco.”
Sostai dietro di lui e allungai le mani oltre la spalliera per insinuarle all’interno della sua camicia, passando per il colletto slacciato. Il petto caldo e la morbida peluria sotto le mie dita mi diedero un brivido di piacere. Tornai subito al presente: “Vorrei poterti aiutare. Se solo mi venisse un’idea.”
Lui estrasse una delle mie mani da sotto la camicia e vi stampò un bacio: “Apprezzo il pensiero, ma dubito che troveremo qualcosa in così poco tempo. Domani dovrò esporre la mia accusa.”
Anche se il tempo era a nostro sfavore, sentivo il bisogno di fare qualcosa per aiutarlo. Ero stanca di fare la ragazzina e il ruolo di amante che pian piano stavo assumendo non mi bastava. Volevo essere parte della sua vita, volevo essere importante, volevo essere una figura indispensabile. E se per farlo dovevo contribuire alla distruzione di un uomo che non avevo nemmeno mai incontrato personalmente, per me andava bene.
Dopo aver lasciato Palazzo Albizzi, ancora pensierosa per quella faccenda, decisi di fare una passeggiata per rinfrescarmi le idee. Dissi a Isabella di rientrare senza di me, rassicurandola che sarei tornata prima dell’imbrunire. Era suo dovere accompagnarmi ovunque andassi, però io avevo davvero bisogno di solitudine per riflettere. Mi ero giusto allontanata dalle solite strade per imboccare alcune viuzze quando il cielo mi venne in soccorso. Letteralmente. Stavo passeggiando immersa nei miei pensieri ed ecco che un curioso foglio di carta volteggiò di fronte al mio viso per poi finire ai miei piedi. Mi chinai a raccoglierlo. Si trattava di uno schizzo a matita raffigurante un giovane nudo e con un elmo sul capo. Di certo non era realistico viste le ridotte dimensioni dei genitali!
“Vi ringrazio di averlo recuperato.”
Nell’udire quella voce mi voltai di scatto e mi ritrovai di fronte un uomo alto, dallo sguardo limpido ed i vestiti impiastricciati di una sostanza grigia.
“L’ho posato sul cornicione della finestra e una folata di vento me l’ha portato via.” Spiegò, sollevando la mano per indicare la finestra in questione.
“Siete un artista?” Chiesi scioccamente, nonostante tutti gli indizi lo confermassero.
Lui sorrise da sotto la folta barba: “Bè, mi piace considerarmi tale! Messer Medici mi assicura che lo sono, perciò dovrò credergli.”
Una fortuna sfacciata, ecco di cosa si trattava!
“Medici? Dunque voi siete colui che tutti chiamano Donatello?”
“In persona.” Rispose, facendo un inchino.
Riabbassai lo sguardo sul foglio: “Perciò questa è la vostra nuova opera!” Gli porsi il foglio, mostrandomi interessata.
“Sì, si tratta del David. Ispirato al racconto di Davide e Golia. Mi è stato commissionato da Cosimo in persona. Stavo giusto finendo il prototipo della scultura per mostrarglielo e decidere assieme i dettagli, ma temo sarà difficile ora che lui è sotto processo.”
“Un prototipo…” Ed ecco spiegate le macchie sugli abiti. Ovviamente prima di realizzare la scultura doveva fare un modello malleabile.
Chiese incuriosito: “V’intendete di arte, Damigella? Oh perdonate, non ho nemmeno chiesto il vostro nome.”
Mi finsi improvvisamente timida per non farlo insospettire: “Io…no non me ne intendo davvero. La mia è semplice curiosità, Messere. Perdonatemi, è necessario che io rientri o la mia famiglia manderà qualcuno a cercarmi.”
Per fortuna non fece presente il fatto che io non avessi rivelato la mia identità o forse non era poi così interessato a conoscerla.
“Non vi trattengo oltre, allora. Grazie ancora per il disegno.” Fece nuovamente un inchino al quale io risposi con la stessa cortesia.
Raggiante per quella scoperta, mi avviai subito verso Palazzo Albizzi.
“Ed ecco trovato l’elemento d’apertura per Rinaldo.”
Ero certa che, non appena avesse saputo che Cosimo aveva commissionato una scultura così ridicola, non avrebbe esitato a sfruttarla per gonfiare ulteriormente le accuse. Il prototipo di un’opera immorale creata da un artista sodomita era di fatto un piatto succulento che gli stavo per servire su un vassoio d’argento. Sorrisi al nulla, soddisfatta della mia scoperta: “Corruzione della morale. Proverò a presentarglielo così!”

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Capitolo 10
*** Quel luogo meraviglioso chiamato Paradiso ***


Capitolo nove
Quel luogo meraviglioso chiamato Paradiso
 
Sentirmi dire che la mia presenza era richiesta nello studio di mio padre, per me era sempre stato motivo d’inquietudine, ma ancor più da quando mi aveva incaricata di controllare Rinaldo. Non ero ancora abituata a quegli incontri in cui ero costretta a confessare quali conversazioni avessimo avuto, poiché al termine i sensi di colpa mi stringevano lo stomaco con prepotenza. Quel giorno invece trovai mio padre ad attendermi seduto sul bordo del tavolo, con due calici in mano ed un sorriso sulle labbra. Doveva essere accaduto qualcosa di tremendo a qualcuno, era l’unica spiegazione.
“Sì, padre?”  Chiesi, fermandomi sulla soglia, intimorita da quel buonumore sospetto.
“Vieni figliola, voglio farti i miei complimenti!”
Avanzai con passo incerto e presi il calice che mi stava porgendo: “A cosa devo questo onore?”
“Rinaldo me lo ha detto.” Ridacchiò e proseguì: “Il David! Sei stata grandiosa, tesoro. Grazie al tuo intervento Cosimo è stato umiliato di fronte all’intera Signoria. Non so se ne sei a conoscenza, ma Rinaldo ha fatto sequestrare quel modello di scultura dalla dimora dell’artista per mostrarlo al processo. Un enorme successo per noi, Delfina!” Si portò il calice alle labbra e bevve un lungo sorso.
Abbozzai un sorriso: “Per Rinaldo farei qualunque cosa, padre. Sono lieta di avere la tua approvazione.”
“Mh, a tal proposito.” Bevve un altro sorso e posò il calice sul ripiano: “Ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Scopri per quale motivo Rinaldo odia così tanto Cosimo. Oltre al fatto che ho avuto modo di constatare che la sua è una vendetta in piena regola, la mia curiosità ha bisogno di essere soddisfatta. Lo stesso Cosimo ha menzionato un dissapore tra loro che risale a vecchia data, voglio sapere di cosa si tratta.”
Dovevo sapere che quell’incontro non si sarebbe concluso bene. Per nascondere la mia delusione, mi obbligai a mandare giù un’abbondante sorsata di vino, anche se ormai lo stomaco mi stava dando segnali negativi. Pazienza, al limite lo avrei rigettato una volta uscita da lì.
“Ci proverò se è questo ciò che vuoi.”
“Sì, Delfina. E’ esattamente questo ciò che voglio.” Incredibilmente la sua espressione gioviale era scomparsa e al suo posto era tornato quello sguardo severo che lo caratterizzava.
Abbassai lo sguardo: “Andrò subito. Isabella ora è impegnata a rammendare le mie calze, vorrei lasciarla al suo lavoro, se mi permetti di uscire da sola per questa volta.”
Ormai la mia presenza non era più importante e lui si stava già dedicando ad un documento preso da sopra il tavolo, fece giusto un gesto con la mano per scacciarmi come una mosca fastidiosa: “Sì, come vuoi, ma fa’ attenzione per strada.”
Non feci nemmeno lo sforzo di rispondere, tanto non mi avrebbe ascoltata.
Dopo aver indossato un mantello poco appariscente, andai a Palazzo Albizzi e venni accolta come sempre dal servitore personale di Rinaldo. Per la prima volta, invece di accompagnarmi fino allo studio, mi informò che il suo padrone aveva piacere di incontrarmi nelle sue stanze private. E lì mi mancò un battito.
Avevo appena messo piede nel salotto privato quando da una porta laterale fece la sua comparsa Rinaldo. Aspetto trasandato come mai prima, tranne i capelli da selvaggio che gli donavano particolarmente,  e l’aria un po’ alticcia.
Lasciai una risatina e abbozzai uno scherzo: “Hai fatto razzie nella cantina di mio padre dopo il processo?”
Lui mi venne incontro senza rispondere, mi sollevò prendendomi per i fianchi e mi rubò un forte e quasi doloroso bacio dall’aroma di vino dolce. Quando mi concesse di riprendere fiato e di posare i piedi a terra, ebbi modo di studiare alcuni particolari che mi portarono ad una diversa conclusione. Innanzitutto il suo sguardo era presente, perciò non poteva avere abusato di alcol, poi il fatto che odorasse di sapone significava che aveva fatto delle abluzioni prima del mio arrivo ed evidentemente non aveva avuto il tempo di sistemarsi a dovere e nemmeno di pettinarsi i capelli, ancora umidi, i cui riccioli gli ricadevano sul viso rendendolo ancora più bello. E a tal proposito…
“Lo sapevo che avevi altre qualità oltre alla bellezza.” Disse di punto in bianco, accennando un sorriso.
Non riuscii a trattenere una risata: “Felice che tu te ne sia accorto!”
Smisi di ridere notando il modo repentino in cui il suo sguardo era cambiato. Ancora un momento e mi rubò un altro bacio, ma questa volta più intenso e romantico. Quando le labbra si separarono, i nostri sguardi s’incontrarono in quel mondo astratto creato dal nostro legame.
“Concediti a me, Delfina.” Sussurrò contro le mie labbra.
Accennai un sorriso, che subito divenne triste: “Non posso. Mio padre non…” Non sapevo come continuare o quali parole usare per non mettere entrambi in imbarazzo. Sentii il tocco della sua mano sulla guancia, chiusi gli occhi per assaporare quel piccolo piacere.
“Io ti amo.”
Lo aveva detto così piano che avrei potuto non sentirlo, però finalmente lo aveva detto. Riaprii gli occhi e risposi: “Anch’io ti amo. Lo sai.”
Posò le labbra sulle mie ancora una volta, in un leggero stampo, poi le fece correre sulla mia guancia e finì col sostare appena sotto il lobo dell’orecchio: “Non avevo mai amato prima di incontrare te.” Altre parole bisbigliate, ma con un significato ben chiaro. Non avrei mai creduto che Rinaldo degli Albizzi, popolare per il suo comportamento freddo e rude, potesse essere così romantico. Farmi quelle confessioni doveva costargli molto, in fatto di orgoglio, eppure lo stava facendo per me. Solamente per me. Strinsi le labbra per non rispondere che anch’io lo amavo allo stesso modo, anche se dell’amore in verità sapevo così poco…
Deglutii e cercai di parlare con voce ferma: “E quando mi avrai resa tua, cosa ne sarà di me? Come potrò affrontare le conseguenze?”
Rinaldo scostò il viso e mi guardò negli occhi, uno sguardo che ogni volta mi intrappolava senza pietà.
“Io ti difenderò qualunque cosa accada. Non sarai sola.”
La mia giovinezza e la mia inesperienza erano armi potenti contro di me. Avrei dovuto scoprire il suo segreto più grande e invece stavo lottando con me stessa per non cadere nella mia stessa rovina. Ma fu una lotta breve, che finì con una resa. Fui io a baciarlo e lo feci principalmente per assorbire l’alcol dalla sua bocca, nella speranza che cancellasse le mie paure e mi permettesse di abbandonarmi senza riserve.
Le mani di Rinaldo ricercarono i lacci del vestito sulla mia schiena, pochi gesti decisi e quelle stesse mani risalirono sulle mie spalle, dove poi discesero portando con sé la stoffa, fino a quando l’indumento non scivolò sul mio corpo e finì a terra. Le sue labbra lasciarono le mie per dedicarsi all’incavo tra la spalla ed il collo. Mi lasciai andare e chiusi gli occhi per percepire a fondo le emozioni che mi stava donando. Quando sentii le sue braccia avvolgermi, risposi con un tocco che sapevo gli era gradito, quello delle mie dita intrecciate ai suoi riccioli biondi. Poco dopo quella prima esplorazione finì, Rinaldo mi sollevò tra le braccia e io lo assecondai cingendogli il bacino con le gambe. Il suo sguardo fremeva quasi quanto la sua carne. Mi portò nella camera adiacente e mi adagiò gentilmente sul letto, senza interrompere il contatto visivo tra noi, come se i nostri sguardi fossero un tutt’uno.
Improvvisamente e senza una spiegazione, mi sentii più adulta. Afferrai i lembi della sua camicia e pian piano lo aiutai a sfilarla. Le sue braccia mi parvero più muscolose del solito, anche se non era possibile. Posai entrambe le mani sul suo petto virile e scesi lentamente verso il basso, sentendo sotto le dita la vibrazione del suo respiro nella cassa toracica. Quando arrivai al basso ventre, slacciai molto lentamente i pantaloni, quindi percorsi i suoi fianchi con le mani e andai a disegnare le linee curve delle sue natiche, denudandole al mio passaggio. Un rapido gioco di gambe ed anche quell’indumento fu eliminato. Rinaldo chinò il capo e mi sfiorò le labbra con un bacio, per poi seguire un tragitto lungo il mio collo e finire su uno dei miei seni, dove mi fece scoprire un nuovo piacere. Ora ne avevo la prova, ogni singola parte del mio corpo che era entrata a contatto con le sue labbra e con la sua lingua aveva avuto in dono un pezzetto di paradiso. Quella perfetta armonia tra piacere e dolore, che non sai mai se vorresti far cessare o continuare all’infinito. Mi trovavo persa in quell’abisso quando tutto finì all’improvviso. Ricordo solo che sentii il corpo di Rinaldo sollevarsi leggermente dal mio, sotto le mie mani i muscoli tesi delle sue braccia e poi…un dolore acuto. Un invasore corazzato e ben armato attaccò la mia quieta valle, quel luogo segreto all’interno di me dove mai nessuno si era addentrato prima, e diede fuoco ad ogni cosa con spietatezza. O almeno questa fu l’immagine che si creò nella mia mente quando Rinaldo s’impossessò della mia purezza. Dopo la distruzione e l’incendio, fra le ceneri trovai un piccolo germoglio che colsi quasi timidamente. Lo cullai tra le mani della mia anima, lo osservai crescere e guardandomi attorno mi accorsi che la valle era di nuovo rigogliosa e un sole caldo e luminoso la rendeva ancora più bella.
Il corpo di Rinaldo si muoveva contro il mio, le mie mani sulla sua schiena a seguire il movimento ripetitivo, il suo respiro che talvolta mi sfiorava il viso. Nella mente udii l’eco dei miei gemiti. Un bisogno incontrollabile mi indusse ad inarcare i fianchi verso di lui, assecondando il suo movimento, e così facendo ottenni l’approvazione di Rinaldo, un’approvazione manifestata attraverso un forte gemito di piacere. Feci la stessa cosa ancora e ancora, fino a quando non sentii il suo corpo completamente in tensione e la sua virilità penetrarmi fino in fondo all’anima. Se lui arrivò al picco del piacere esprimendosi solo con un suono rauco di gola, io al contrario ebbi la necessità di far uscire tutto quello che provavo attraverso un acuto appassionato che riempì la stanza come un canto. Più volte nella mia vita mi ero chiesta che cosa si provasse a viaggiare, a vedere luoghi sconosciuti, alla soddisfazione di sentirsi parte del mondo. Fino a quel momento non avevo idea che per scoprirlo mi bastasse unirmi all’uomo che amavo e con lui raggiungere quel luogo meraviglioso che era chiamato Paradiso.
Esausto dalla piacevole fatica, Rinaldo abbandonò il peso sul proprio fianco, rimanendo comunque a contatto con me, il suo braccio a cingermi i fianchi, il suo capo sui miei seni. Il suo corpo caldo e umido, l’odore mascolino e leggermente muschiato, i suoi riccioli biondi contro la mia guancia. In quel momento di assoluta pace e senso di appagamento, compresi che quanto avevamo fatto era molto più profondo di quanto non sembrasse. Non mi aveva solo presa e resa sua, mi aveva anche donato tutto di sé ed ora sapevo che ci appartenevamo l’un l’altro completamente. 

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Capitolo 11
*** Quel che porta l'aurora ***


Capitolo dieci
Quel che porta l’aurora
                                                                                                   
Isabella posò la sacca sul letto della sua padrona e puntò il dito su ogni singolo oggetto che conteneva: spazzola per capelli, sapone, un vasetto di erbe aromatiche. In ultimo prese la camicia da notte e la veste da camera che aveva già piegato con cura e le ripose sopra il tutto, quindi tirò i cordoni e infilò la tracolla della sacca. Fece una capatina veloce nella propria stanza per prendere il mantello e poi andò dritta all’ingresso dove vi era ad attenderla un giovane uomo. Questi si voltò verso di lei, avendo udito i suoi passi, e le fece un cenno come per rivolgere una domanda.
Isabella rispose: “Sono pronta, andiamo.”
In pochi minuti arrivarono a Palazzo Albizzi e lì Isabella venne accolta dal valletto personale di Rinaldo.
“Prego, seguitemi.”
Attraversarono alcuni corridoi e salirono una rampa di scale, fino a quando l’uomo di età avanzata non si fermò di fronte ad una porta che poi si premurò di aprire.
“Vi ringrazio.” Disse Isabella prima di entrare.
In quel momento passò Ormanno che, vedendola, si nascose dietro ad una delle belle colonne del corridoio per vedere cosa stesse accadendo. Il valletto non se ne accorse.
Isabella uscì quasi subito dalla stanza, con evidente cipiglio sul volto: “Cosa significa? Dov’è Damigella Delfina?”
L’uomo, rigido come un’armatura, rispose semplicemente: “Damigella Pazzi mi ha incaricato di dirvi che vi raggiungerà domattina e che non dovete preoccuparvi.”
“Domattina? Dove si trova adesso? Il messaggero mi ha detto che la mia padrona era indisposta e che necessitava di me per la notte perché incapace di tornare a casa.”
L’uomo sbatté le ciglia manifestando il massimo disinteresse: “Lo ben so, sono stato io a riferirglielo. Per ordine di Messer Albizzi.”
Lo sguardo di Isabella s’illuminò tutto a un tratto: “Dunque è così che stanno le cose.”
“Spero vivamente che non vorrete giudicare il comportamento del mio padrone o della vostra.”
Isabella sospirò, le mani che prima stringevano la tracolla si rilassarono: “No. Non mi permetterei. Dunque cosa devo fare?”
L’anziano valletto indicò l’interno della stanza con la mano: “Dormite e non preoccupatevi di nulla. Vi auguro la buonanotte.” Fece un inchino appena accennato e se ne andò.
Ormanno, dal suo nascondiglio, rimase ad osservare l’espressione contrariata di Isabella fino a quando lei non parve rassegnarsi ad obbedire e chiuse la porta della stanza. Indietreggiò, sfiorando la colonna con le dita e poggiò le spalle contro il muro, il viso di chi è stato ferito brutalmente. Strinse i pugni con rabbia e sibilò: “Quella sgualdrina.” Trattenne il respiro e strinse i pugni così forte che le braccia gli tremarono e il viso gli divenne paonazzo. Buttò fuori l’aria tutta d’un colpo e batté i pugni sulla parete dietro a sé. Giusto il tempo di riprendere fiato e uscì dal nascondiglio, una luce folle negli occhi: “Goditi i tuoi amplessi con quella ragazzina, padre. Ma sappi che stanotte non sarai l’unico a divertirti.” Lo sguardo puntato verso la stanza dove era Isabella.
*
Mi svegliai serena, avvolta dal morbido lenzuolo ancora intriso del calore dei nostri corpi uniti. Aprii gli occhi appena di uno spiraglio, la luce era ancora debole, forse non era ancora l’alba. Allungai un braccio all’indietro, ricercando il corpo del mio amato, ma oltre a lenzuola calde e stropicciate non trovai nulla. Mi sollevai su di un gomito e mi voltai per avere una panoramica della stanza. Rinaldo era di fronte alla finestra, indossava solo i pantaloni e aveva le mani giunte dietro la schiena. La luce esterna sui suoi capelli creava delle sfumature dorate e ramate. Mi alzai dal letto senza curarmi di indossare alcun che, avevo necessità di toccarlo, di entrare in contatto con il suo corpo. Arrivata alle sue spalle, vi posai delicatamente le mani  e le accarezzai come se volessi plasmarle e modellarle. Poggiai la fronte sulla sua schiena, mentre le mie mani continuavano quella piacevole esplorazione. Ogni dettaglio della notte passata assieme era vivido nella mia mente.
“Non ti ho mai raccontato il torto che mi fece Cosimo.”
La sua voce era ferma, il tono non era quello di una domanda, ma ugualmente io risposi con un filo di voce: “No.”
A volte il destino era in vena di scherzare. Io non gli avevo chiesto nulla, eppure lui aveva tirato fuori quell’argomento come se sapesse che era mio dovere scoprirlo. Il viso di mio padre mi riaffiorò alla mente turbandomi, scossi il capo per scacciarlo. Probabilmente Rinaldo dovette pensare che quel gesto fosse una conferma a quanto avevo appena detto. Prese un respiro profondo, che io percepii con il movimento della schiena contro cui ero ancora poggiata. Scostai la fronte e con le labbra stampai un bacio sulla riga che delineava la spina dorsale.
“E’ accaduto venti anni fa. Eravamo entrambi giovanissimi. E io ero un imbecille.”
Stampai un altro bacio e mi soffermai con le labbra.
“Vedendo il modo in cui aveva cercato di entrare nelle mie simpatie, io mi aprii a lui e gli confidai un segreto pericoloso. Nemmeno il tempo di pensare che forse avemmo potuto essere buoni amici ed ecco che lui andò a spifferare tutto a quel serpente velenoso di suo padre. Mio padre perse in posto nella Signoria e fummo derisi da tutti come poveracci senza denaro.”
Mi spostai leggermente per andare ad appoggiare la guancia contro una scapola e strinsi le mani sulle sue spalle in segno di conforto. Lui ne prese una e se la portò alle labbra, prima stampò un bacio sui polpastrelli, poi se la passò sulla barba per accarezzarsi da sé. Con la mano libera discesi la spalla e andai a cingergli il fianco amorevolmente, lui posò la mano sulla mia. Sotto le mie dita il movimento del ventre che si muoveva a ritmo del respiro. Quando lasciò ricadere la propria mano lungo il fianco, io presi a muovere la mia lungo il suo ventre, seguendo la scia di morbida peluria che dal petto scendeva, girava attorno all’ombelico e poi finiva dentro i pantaloni. Non mi addentrai nella sua intimità, non era il momento. Avevamo avuto tutta la notte per esplorare i nostri corpi e non avevamo sprecato nemmeno un minuto.
“Presto avrai la tua vendetta, amore mio.” Dissi, rompendo il silenzio.
Lui, ancora intento ad accarezzarsi la guancia contro la mia mano, si bloccò un istante e rispose: “Ho ordinato al carceriere di avvelenare il vino di Cosimo. Niente di letale, sia chiaro. Non voglio ucciderlo così. Voglio solo che non sia abbastanza lucido da potersi difendere al processo e far così vedere a tutti la sua natura di buffone.” Prese un respiro profondo per rilassarsi, quindi riprese a coccolarsi contro la mia mano. Sentire la barba sotto le mie dita mi diede una sensazione di piacere improvvisa e mi fece ripensare a tutte le parti del mio corpo che vi erano entrate a contatto.
*
Come stabilito, attesi che Rinaldo si recasse al processo e solo dopo, facendo molta attenzione, lasciai le sue stanze per andare alla chetichella in quella in cui in teoria avrei dovuto essere assieme alla mia dama di compagnia. Passi felpati e sguardo vigile, finalmente sgusciai nella stanza dove sarei stata ‘al sicuro’.
“Perdonatemi, Damigella, temo di non essere ancora pronta.”
“Non preoccuparti, Isabella. Abbiamo tutto il tempo.” Dissi voltandomi verso di lei, per poi accorgermi che qualcosa non andava. Mentre lei raccoglieva i capelli sulla sommità del capo, notai che il suo viso era molto pallido, mentre invece le labbra erano arrossate. Inoltre il letto mi parve eccessivamente disordinato. Nemmeno io e Rinaldo avevamo rotolato tanto da ridurlo in quello stato.
“Isabella, ti senti bene?”
Lei sollevò lo sguardo turbato su di me: “Non ho dormito bene. Forse il cambio di letto.”
Mi avvicinai e la guardai meglio in viso: “Sei sicura che sia solo questo?”
Isabella scostò lo sguardo: “Anche se mi punirete voglio dirvelo lo stesso. Sono molto contrariata per ciò che avete fatto.”
Sentii il sangue concentrasi sulle mie gote e risposi in un modo alquanto impacciato: “A mia difesa posso dire che è stata una sua idea. Mi ha chiesto di trascorrere la notte con lui e ha architettato tutta la storia dell’indisposizione.”
“Però voi non vi siete opposta.” Sottolineò, facendomi sentire ancora più colpevole.
“Io… No. Non mi sono opposta, è vero. Ma Isabella, cerca di capirmi! E’ stata la notte più bella della mia vita! Gli ho dato tutta me stessa, ho dormito tra le sue braccia… Non potrei essere più felice!” Presi le sue mani tra le mie: “Tu per me sei sempre stata importante. Sei mia amica e mia confidente. Davvero non riesci a condividere la mia gioia?”
Mi osservò di sbieco per un po’, ma poi arricciò un angolo della bocca con fare divertito: “E’ vero amore? Anche da parte sua?”
Le regalai uno dei miei sorrisi più belli: “Sì, Rinaldo mi ama davvero. Ne sono sicura.”
Isabella lasciò un sospiro di resa: “Allora non mi opporrò più, Damigella. Se per voi questa relazione è importante, farò il possibile per sostenervi ed aiutarvi.”
L’abbracciai con trasporto, felice della sua approvazione. Con lei come alleata, speravo che sarebbe andato tutto per il meglio.

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Capitolo 12
*** Dove lavare i panni sporchi ***


Capitolo undici
Dove lavare i panni sporchi
 
Alla fine Rinaldo ottenne la sua vendetta, anche se solo in parte. Cosimo de' Medici fu sì condannato alla pena di morte, ma poi la sua sentenza venne cambiata in esilio, grazie all’intervento teatrale di sua moglie Contessina e ad una minaccia da parte di Sforza e Lorenzo de' Medici di mettere a ferro e fuoco la città. Seppur insoddisfatto, Rinaldo si convinse che la sua buona stella avesse fatto il possibile per lui. O più precisamente fui io a convincerlo di questo per distogliere la sua attenzione da quell’uomo che lo ossessionava. Dal quel giorno, gli Albizzi divennero la famiglia più potente di Firenze, senza contare che l’alleanza con mio padre, e quindi con la famiglia Pazzi, si rafforzò ulteriormente. In un certo senso, il fatto di aver tolto di mezzo i Medici, rese così felice mio padre che mi parve divenire più paziente riguardo il mio atteggiamento nei confronti di Rinaldo. Pur non sapendo fino a che punto ci fossimo spinti nell’intimità, aveva inconsapevolmente permesso che io e lui ci frequentassimo più assiduamente.  Dire che fu inconsapevole è d’obbligo, dato che io e Rinaldo avevamo architettato un modo per trascorrere le notti assieme, ovvero, quando mi faceva visita s’intratteneva fino a quando mio padre non andava a coricarsi e poi trascorreva la notte con me senza che lui lo sapesse. Lo stesso valeva per me, se ero io ad andare al suo palazzo, mia madre e Isabella coprivano la mia assenza e io tornavo tranquillamente il giorno dopo. Inoltre notai che mio padre divenne meno severo con me e mi permise addirittura di partecipare ad alcuni dopocena nel nostro palazzo per far sì che io mettessi in pratica quella tanto chiacchierata ‘arte della conversazione’ di cui tutti erano convinti che Rinaldo mi stesse davvero istruendo. In questo clima favorevole trascorsero tre mesi di gioia e di serenità, per quanto mi riguardava. E poi finalmente venne il grande giorno. Per presentarmi ufficialmente in società, mio padre diede uno sfarzoso ricevimento in mio onore, il quale si svolse la sera del mio sedicesimo compleanno.
Per fortuna, quanto purtroppo, in quell’occasione vennero invitati tutti i membri della Signoria e rispettive famiglie, il che significava che al seguito di Rinaldo si presentarono anche la moglie Alessandra ed il figlio Ormanno. Riguardo lui, tutto ciò che posso dire è che in quei mesi aveva evitato me più di quanto avesse evitato la peste a suo tempo. Sua madre invece mi preoccupava alquanto, infatti fino a quel momento ero sempre riuscita ad evitare d’incontrarla per timore che il mio viso rivelasse i miei sentimenti dopo che ero diventata di fatto l’amante di suo marito. Invece mi sorprese rivolgendosi a me in modo cordiale e con un sorriso sincero sulle labbra, chiedendomi se suo marito fosse un bravo insegnante. Quando io risposi onestamente che non avrei potuto averne uno migliore, Ormanno fece un verso sprezzante che attirò l’attenzione di tutta la cerchia e che mi fece tremare le gambe sotto l’abito di velluto verde prato che mio padre aveva fatto cucire dai migliori sarti della città apposta per quella serata. Tralasciando quel piccolo incidente, la serata fu meravigliosa, le attenzioni di tutti i presenti furono esclusivamente per me, per la mia grazia, per la mia bellezza, e non mancarono numerosi tentativi di corteggiamento che io disillusi subito.
Era ormai passata la mezzanotte quando all’improvviso venni colta da un malessere che mi prese alla bocca dello stomaco e mi fece tremare le mani. Dovetti stringere il calice per non dare a vedere il tremolio e poi accennare un sorriso agli ospiti con cui mi stavo intrattenendo: “Vogliate scusarmi.”
Fortunatamente nessuno mi fermò o mi rivolse domande, così io potei sgattaiolare via in fretta, mantenendo comunque un sorriso di circostanza da rivolgere a chi incontravo. Anche se non mi voltai indietro nemmeno una volta, riuscii a sentire lo sguardo felino di Rinaldo seguirmi come un cacciatore con la preda.
Andai dritta verso la doppia porta che dava sull’esterno e l’aprii spingendola con entrambe le mani, quindi mi precipitai fuori e mi sporsi dal parapetto, che dava sul cortile interno, appena in tempo per rigettare quella colata violacea che aveva deciso di litigare col mio stomaco. Stavo giusto riprendendo fiato quando udii dei passi alle mie spalle.
“Dannazione. Non berrò mai più vino in vita mia.” Dissi amaramente e con voce spezzata dallo sforzo. Accettai il fazzoletto che mi venne offerto e lo premetti sulle labbra nella speranza che mi aiutasse a placare la nausea. Accanto a me, con il calice in una mano e un gomito poggiato sul parapetto, Rinaldo si sporse a sua volta per dare una sbirciata dabbasso.
“Hai mancato di poco la carrozza di Bernardo Guadagni.” Schioccò la lingua con disapprovazione: “Peccato.”
Mi voltai di scatto per fulminarlo con lo sguardo, ma subito me ne pentii perché il movimento repentino mi provocò un leggero capogiro. Non essendosene accorto, Rinaldo si fece serio e mi illustrò il suo piano: “A breve gli ospiti cominceranno ad andarsene. Io manderò a casa Alessandra e Ormanno col pretesto di fermarmi per una questione importante da discutere con tuo padre, invece a lui dirò che voglio intrattenermi ancora un po’ con te e, una volta andato, ci chiudiamo nella tua stanza. Suppongo che domani potrò restare di più vista l’ora che si è fat…” S’interruppe perché io fui assalita dalla nausea ancora una volta e fui costretta a sporgermi dal parapetto. Solo quando mi risollevai aggiunse un: “O forse no.”
Scossi il capo e mi arrischiai a parlare: “Resta, ti prego. Non voglio stare sola dopo una serata così splendida. E non voglio stare senza di te.”
Lui sollevò un sopracciglio: “Non mi sembra che tu ti senta molto bene.”
“E’ colpa del vino. Non è niente…” Per avvalorare la mia teoria, mi tamponai per bene le labbra col fazzoletto e presi un bel respiro per riprendermi. Un’idea venne in mio soccorso, distogliendo la mia attenzione dallo stomaco sfarfallante.
“Devo ancora rimproverarti per il dono che mi hai fatto.”
Lo sguardo di Rinaldo si fece allarmante: “Gli orecchini di ametista? Non li hai graditi? Li ho scelti perché la tonalità del viola mi ricorda quella dei tuoi occhi. Ma se non li vuoi…”
“No no no! Non parlavo di quelli! Sono bellissimi, li adoro con tutta me stessa. Sei stato così romantico a donarmeli. Io intendevo…il dono che mi hai fatto recapitare questa mattina.”
Vidi i tratti del suo viso rilassarsi dopo quella delucidazione.
“Ah quello. Ho pensato che ti appartenesse di diritto.”
Scossi il capo con aria divertita: “Il lenzuolo con la macchia di sangue della mia verginità perduta? Non immaginavo nemmeno che lo avessi conservato!”
Spostò lo sguardo altrove e rispose cercando di usare un tono vago: “Credevo che per te fosse importante.”
Feci un passo verso di lui e sollevai la mano per posarla sul suo petto, creando così il contatto.
“Lo è. Solo non pensavo che lo fosse anche per te.” Stavo per sollevare il viso con l’intenzione di dargli un bacio, ma mi bloccai subito ricordando quel che era appena successo.  Adocchiai il suo calice e glielo strappai dalle dita senza troppi complimenti. Mi premurai di sciacquare bene la bocca e infine sputai il tutto dal parapetto, facendo attenzione a non colpire la carrozza di nessuno. Gli rimisi il calice vuoto in mano e gli lanciai un’occhiata provocante: “Così dopo potrai baciarmi.”
Sotto il suo sguardo allibito, rientrai facendo ondeggiare le natiche spudoratamente.
*
Il mattino seguente mi svegliai in seguito ad un rumore strano. Ancora stordita dal ricevimento, dal vino e dalla notte d’amore, faticai a riaprire gli occhi alla luce del giorno. Sotto la mia guancia il calore del petto di Rinaldo, sotto le mie dita la morbida peluria. Per diletto, ne presi in ciuffo e iniziai ad arricciarlo, mentre nella mente cercavo le parole per convincermi a superare la pigrizia. Percependo il movimento della mia mano, Rinaldo si destò ed emise un gemito di sonnolenza, il suo braccio che già mi avvolgeva le spalle mi strinse più forte.
“Cosa c’è? Sei già sveglia.” Disse con voce roca, gli occhi ancora chiusi.
Lasciai un sospiro che andò a muovere leggermente la peluria del suo petto: “Non lo so. Qualcosa mi ha svegliata. Un rumore dalla stanza di Isabella, credo.”
Ridacchiò: “Si starà vendicando per stanotte! Tra me e te non so chi sia a gridare più forte per il piacere.” Dove trovasse la voglia di scherzare dopo appena qualche ora di sonno, non avrei saputo dirlo.
La cortina alle mie spalle, che era rimasta aperta durante la notte per permettere al calore del fuoco di raggiungerci, ora che questo era ovviamente spento non portò altro che uno spiffero di aria fredda che mi fece rabbrividire, ma subito Rinaldo si premurò di coprirmi col lenzuolo e di stringermi più forte a sé per scaldarmi. Normalmente ne sarei stata felice, avrei goduto di quella piccola gentilezza e mi sarei soffermata a pensare al fatto che col tempo le sue manifestazioni d’affetto e cura nei miei confronti erano aumentate. Ma quella mattina la nausea pensò bene di rovinare tutto. Cercai di liberarmi dal suo abbraccio, ma lui mi trattenne.
“Rinaldo, ti prego…” Mi portai una mano alla bocca e allora lui capì. Mi lasciò andare affinché io potessi sporgermi dal materasso e afferrare il vaso da notte che fortunatamente tenevo sempre appena sotto il bordo del letto.
“Non stai bene. Devi farti vedere da un dottore.” Anche se il tono era severo, le sue parole erano di preoccupazione.
Mi accorsi che mi stava tenendo i capelli affinché non finissero dentro il vaso. Passato il peggio mi risollevai e rimasi in attesa per timore che il mio stomaco mi facesse altri scherzi.
Rinaldo lasciò i miei capelli e mi poggiò una mano sulla spalla per farmi capire che potevo contare su di lui. Lo sapevo che mi amava e che avrebbe fatto qualunque cosa per me, ma in quel momento nella mia testa si stavano accavallando troppi pensieri. Rividi il lenzuolo con la macchia di sangue, una parte del mio cervello cercò di fare un calcolo approssimativo di tutte le volte in cui mi ero concessa a Rinaldo, mentre un’altra andava in cerca dell’ultima volta in cui avevo avuto le mie regole. Stavo giusto per arrivare alla conclusione che qualcosa non quadrava quando un rumore entrò nella mia testa con violenza. La porta che divideva la mia camera da letto da quella di Isabella era spalancata e lei era in ginocchio accanto al mio letto, il viso sconvolto e rigato di lacrime.
“Isabella, mio Dio, cosa succede?” Le chiesi allarmata.
Tra i singhiozzi riuscì a dire: “Tra poco non potrò più nasconderlo! La servitù ha già cominciato a parlare e quando vostro padre lo scoprirà mi getterà per la strada.”
“Di cosa stai parlando? Che cosa hai fatto?”
“Aiutatemi, Damigella, vi prego!” Una crisi di pianto le spezzò le parole in gola. Vedendola così, mi affrettai ad avvolgermi con il lenzuolo e a far uscire le gambe dal letto in modo da potermi chinare su di lei. Le posai una mano sul capo, gentilmente: “Isabella, non aver paura. Dimmi cos’è successo e io ti aiuterò a risolvere ogni cosa.”
Lei deglutì e risollevò il viso per guardarmi: “Io…io aspetto un figlio. Vostro padre mi farà cacciare e io morirò di fame e di freddo in mezzo alla strada.”
Ovviamente sapevo che Isabella non aveva innamorati o amanti, perciò la notizia fu abbastanza sconvolgente, ma non avrei mai permesso che venisse allontanata da me. Era mia amica.
“Va bene, ho capito. Troveremo una soluzione insieme. Ti prego solo di dirmi chi è il padre e se ne è al corrente.”
Isabella smise di piangere all’improvviso e mosse lo sguardo su Rinaldo, come spaventata. Mi sentii raggelare. Mi voltai di scatto verso di lui. Rinaldo, che era rimasto in silenzio e in disparte per tutto il tempo, guardò me e poi Isabella un paio di volte, per poi esplodere in un: “Non penserai che sia io, vero? Non l’ho mai sfiorata! Non la trovo nemmeno così bella, se devo essere sincero!”
Stavo per gridargli qualcosa di molto sgradevole, ma Isabella mi interruppe: “Non è lui, Damigella.”
Un sospiro di sollievo fu d’obbligo, come anche poi tuonare sconvolta: “Allora perché accidenti lo stavi guardando? Mi hai quasi fatto morire, sciocca.”
Isabella scoppiò di nuovo  a piangere: “Non posso dirlo di fronte a lui. Non fatemi parlare.”
“Ora sono io a voler sapere cosa diamine sta accadendo, ragazza.” Disse Rinaldo con tono fermo. Vedendo che lei si ostinava a non rispondere, disse severo: “Parla o ti tiro il collo.”
Allungai una mano su di lui per farlo calmare, in ogni caso la minaccia aveva avuto l’effetto sperato perché Isabella inghiottì le lacrime e prese respiro per poter parlare.
“E’ accaduto tre mesi fa, la notte in cui mi avevate fatta chiamare a Palazzo Albizzi. Ricordate?”
Io feci un cenno col capo, Rinaldo invece disse spazientito: “Continua.”
“Avrei dovuto respingerlo, lo so, ma era così attraente che non ho saputo dire di no. Sono stata una stupida a credere che fosse interessato a me dopo il modo in cui mi aveva trattata.”
“Il nome!” Tuonò Rinaldo, avendo esaurito la pazienza.
Isabella lo guardò con gli occhi pieni di lacrime: “Vi giuro che non chiederò mai nulla e che non infangherò il suo nome. Non potrei mai fare qualcosa per nuocere la reputazione di Messer Ormanno.”
“Ormanno?” Gridammo all’unisono io e Rinaldo. Di tutti i nomi che avrei potuto sentire, quello era l’ultimo al mondo a cui avrei attribuito l’avventura di una notte con la mia dama. E dallo sguardo perplesso di Rinaldo, anche lui doveva pensare lo stesso.

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Capitolo 13
*** Lacrime come gocce di pioggia ***


Capitolo dodici
Lacrime come gocce di pioggia
 
La pioggia batteva incessante contro i vetri, spinta dalla forza del vento minaccioso e ululante. Le tende erano state chiuse per preservare il calore del fuoco che ardeva nel camino, le cui fiamme in continuo movimento talvolta venivano deviate dagli spifferi provenienti dalla canna fumaria. Io e Isabella ci eravamo sistemate lì alla luce, con il necessario per il ricamo. In giornate come quella non c’erano molti svaghi per due fanciulle nubili.
Il ricamo che stavo eseguendo, un intreccio di foglie d’edera in filo d’argento, era per abbellire la scollatura dell’abito verde che avevo indossato la sera del mio debutto e che era diventato il mio abito prediletto. Seppur soddisfatta del risultato che si stava formando rapidamente sotto le mie dita, quel giorno nella mia testa correvano tanti di quei pensieri che non prestai attenzione ai movimenti dell’ago e…
“Ahi!” Squittii, portandomi poi il dito alle labbra.
“Damigella, vi siete punta? Vado a prendere l’occorrente per medicarvi?” Gli occhi grandi e marroni di Isabella erano sempre tristi dal giorno in cui mi aveva rivelato il suo segreto. Quella povera ragazza non meritava tutto quel dolore, non meritava di portare in grembo il figlio di un uomo che non l’amava e soprattutto non meritava di essere mal giudicata. Pregai che mia madre riuscisse nella sua ambasciata. Dopo aver parlato a lungo, avevamo deciso che la cosa migliore fosse quella di rivolgerci a lei e chiedere il suo aiuto per salvare la reputazione e il posto di lavoro di Isabella.
Sbirciai il polpastrello ferito, che già non doleva più: “No, non ce n'é bisogno. Non sta sanguinando.” Aggiunsi amara: “E nemmeno io.”
“Come dite?”
“Credo di essere anch’io in attesa. Se solo fossi stata più attenta, se avessi riflettuto prima di gettarmi tra le braccia di Rinaldo, ora non sarei qui a chiedermi…” Scossi il capo e scacciai quel pensiero con un gesto della mano: “Lascia stare.”
Isabella posò il ricamo sulle ginocchia e mi guardò con comprensione: “Capisco che siate spaventata. Lo sono anch’io. Ma nonostante tutto sono anche felice per la vita che porto in grembo. Forse questo bambino non avrà mai un padre, ma avrà sempre me, e io farò di tutto per crescerlo con amore e saggezza. Voi invece non riuscite a vedere la vostra fortuna. Rinaldo vi ama e sono certa che riconoscerà il bambino e lo amerà con tutto se stesso.”
Le lacrime mi offuscarono la vista, sentii il bisogno di alzarmi. Gettai il ricamo con noncuranza sul tavolino accanto alla poltrona e andai di fronte al camino, dando così di spalle ad Isabella.
“Tu non capisci, Isabella. Qui non si tratta di amore o di odio. Se davvero aspetto un figlio, che Dio mi salvi dall’ira di mio padre! E se lo farà, sarò comunque rovinata. Non potrò mai sposare Rinaldo, non potrò mai stare al suo fianco, non porterò mai il suo nome. Sarò sempre e solo la sua amante, la madre del suo bastardo. Verrò additata come impura, esclusa dalla società.” Sollevai le mani, guardai i palmi vuoti: “Del nostro amore non resterà niente.” Un singhiozzo mi costrinse a fermarmi, mentre le lacrime ora scendevano copiose dai miei occhi.
Isabella ripose il ricamo e venne a confortarmi, avvolgendomi le spalle e parlandomi all’orecchio amorevolmente, come una sorella: “Ci sosterremo a vicenda e diventeremo madri insieme. Voi non mi avete abbandonata e io non abbandonerò mai voi.”
Cercai di soffocare il pianto, di ritrovare la calma nell’abbraccio della mia fedele Isabella. “Aspetterò a dirlo. Prima voglio pensare alla tua sicurezza. Poi quando troverò il coraggio lo dirò a Rinaldo e mi farò consigliare da lui sul da farsi.”
Isabella mi sciolse dall’abbraccio e mi venne di fronte, lo sguardo preoccupato: “E vostra madre? Lei vi aiuterà di certo, come sta facendo in questo momento con me.”
Stavo per risponderle, ma il rumore della porta che si apriva m’interruppe. Mia madre fece il suo ingresso trionfale, evidentemente entusiasta.
Le andai incontro: “Allora? Cosa ha detto? Cosa farà?”
“Calma la tua ansia, Delfina. Ho risolto tutto. Isabella può restare.”
Isabella ci raggiunse, un dolce sorriso sul volto: “Oh Madonna vi ringrazio dal profondo del cuore!”
“Come hai fatto a convincerlo?” Chiesi, incredula in tanta fortuna.
“Oh bè, non appena gliel’ho detto il sangue gli è salito alla testa, ma io gliel’ho fatto scendere subito. Ho avuto il mio bel daffare, sappilo.” Disse spudoratamente, sistemandosi il corpetto del vestito. Avrei voluto non capire a cosa stesse alludendo. Non tanto per quel che aveva fatto, quanto più perché, trattandosi dei miei genitori, la trovavo una cosa disgustosa.
Isabella cadde in ginocchio e prese a baciare l’orlo del vestito di mia madre: “Vi sono così grata. Farò qualunque cosa mi chiediate per sdebitarmi.”
Mia madre le porse le mani e l’aiutò ad alzarsi: “Suvvia, non sei una schiava. Non ti chiederò niente. L’unica cosa che dovrai fare, per ordine di mio marito, è di confessargli chi è il padre del bambino e poi accettare una leggera punizione per il tuo atto immorale.”
Aggrottai le sopracciglia: “Che tipo di punizione?”
Mia madre alzò le spalle e minimizzò la questione: “Non ne ho idea, mia cara.” Con un gesto galante e forse un po’ derisorio, indicò la porta ad Isabella: “Prego, vai. Ti attende nello studio.”
Isabella mi lanciò un’occhiata al quale io non seppi cosa rispondere. Rassegnata ed intimorita, fece un inchino e andò ad affrontare le conseguenze delle sue azioni.
Mia madre si accomodò sulla poltrona e prese il lavoro di ricamo di cui si stava occupando Isabella. Sollevò lo sguardo su di me, le labbra incurvate in un sorriso malizioso: “Allora Delfina, come procede la tua relazione con il bel Rinaldo? Lo stai soddisfacendo? Se hai bisogno che t’insegni qualcosa di nuovo, non devi far altro che chiedere.”
Ancora non riuscivo a capacitarmi che quella donna svergognata fosse davvero mia madre. Che era frivola e superficiale lo avevo sempre saputo, ma mai avrei immaginato che potesse parlare di certi argomenti con tanta semplicità come se stesse parlando del tempo. Tutto ciò che mi aveva insegnato lo avevo messo a frutto senza vergogna, però continuavo a ripetermi che, trattandosi di amore, quello che facevamo io e Rinaldo tra le lenzuola non fosse così peccaminoso. Io non mi concedevo per ottenere qualcosa in cambio, lo facevo solo per amore.
Presi respiro per darmi la forza di sopportare un altro momento d’imbarazzo con lei e le dissi ciò che voleva sapere.
Mi sentii sollevata quando Isabella tornò nel mio salottino, interrompendo così quella vergognosa conversazione. Le andai subito incontro: “Isabella, va tutto bene?”
Dal suo viso era evidente che non andava affatto bene, era incredibilmente pallida e aveva gli occhi gonfi come se avesse pianto.
“Qual era la punizione?” Le chiesi preoccupata.
Lei scosse il capo e rispose con un filo di voce: “Niente che non meritassi, Damigella.”
Per costringerla ad affrontarmi, l’afferrai alle spalle. Il suo grido di dolore mi pietrificò. La feci voltare e presi a slacciarle l’abito, le dita che mi tremavano. La schiena liscia e bianca, era cosparsa di sottili segni rossi. Quella vista mi spezzò il respiro. Ero così indignata e furiosa che mi ritrovai a correre per i corridoi del palazzo, diretta allo studio di mio padre. Vi piombai come una furia: “Perché devi essere così spietato, padre?”
Lo trovai che stava ripulendo il frustino da eventuali tracce di sangue.
Incalzai: “Che razza di mostro sei per frustare una donna incinta?”
Mi lanciò un’occhiata con noncuranza: “Vedi di moderare il linguaggio o ne prenderai anche tu.” Per poi riporre l’oggetto nell’armadio.
“Isabella sta già soffrendo per tutto questo, c’era proprio bisogno d’infierire?”
Lui sollevò un sopracciglio per la sorpresa, come se la risposta fosse ovvia: “Sì. Avrebbe dovuto pensarci prima di fare la sgualdrina con il giovane Ormanno. Dovreste ringraziarmi entrambe per averle concesso la grazia di restare qui.”
Strinsi le labbra per non rispondere, per quanto arrabbiata non avevo intenzione di rischiare di prendermi davvero quelle frustate.
“Ah visto che sei qui t’informerò personalmente. Ho stabilito che Isabella tenga nascosto il suo stato, perciò quando ti accompagnerà da qualche parte dovrà tenersi il mantello ben stretto addosso. Quando la gravidanza sarà avanzata, invece, dovrà barricarsi qui a palazzo. Una volta che il bambino sarà nato ci inventeremo qualcosa. L’importante è che non vi siano scandali legati alla nostra famiglia. Sono stato chiaro?”
Tutto si riduceva sempre a questo, alle apparenze e alla reputazione. Come poteva essere così misero ed egoista?
“E se fossi io al suo posto, cosa faresti?” Lo provocai. Il suo sguardo severo fu una risposta sufficiente, che mi fece girare sui tacchi. Avrebbe potuto farmi qualunque cosa se avesse scoperto che ero incinta. Arrivata in fondo al corridoio, sentii le forze mancarmi. Mi appoggiai allo stipite di una porta, dal quale poi mi lasciai scivolare. Le lacrime iniziarono a scorrere dai miei occhi senza controllo, una mano premuta contro il ventre in segno di protezione per il tesoro che nascondevo. Ero davvero nei guai.

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Capitolo 14
*** Una mano gentile ***


Capitolo tredici
Una mano gentile
 
I giorni passavano e io mi chiedevo quotidianamente quanto ancora io e Isabella avremmo potuto passeggiare per le strade di Firenze prima di ritrovarci costrette alla segregazione in casa. Guardavo con ansia il mio ventre sotto il vestito, temendo che s’intravedesse qualcosa, ma poi mi imponevo di stare calma, se nemmeno Rinaldo si era accorto di niente, vedendomi regolarmente nuda, di certo mio padre o chiunque altro non poteva vedere alcunché. Il ventre di Isabella invece si stava arrotondando rapidamente, il che mi fece pensare che la sua gravidanza fosse più avanzata della mia, ma era pur vero che lei stava diventando più burrosa in tutto il corpo avendo necessità di nutristi più spesso rispetto a me.
Quel mattino ci eravamo recate al mercato al margine del fiume, poiché avevamo saputo che tra i banchi ci sarebbe stato anche quello di un mercante di stoffe che veniva a Firenze solo due volte l’anno e noi non volevamo perdere l’occasione di fare nuovi acquisti sia per noi che per i prossimi nascituri. Il banco era il più colorato di tutti, gli scampoli di stoffe avevano le fantasie più diverse e perfino i tessuti a tinta unita sembravano più brillanti. Acquistammo dieci pezzi in totale, scegliendo sia tessuti per l’inverno che per l’estate, alcuni con colori caldi e altri più chiari e ricamati magari per ricavarne delle camiciole per i bimbi. Chiesi al mercante di fare due pacchetti affinché potessimo dividerci il peso equamente e, dopo aver visto la sua espressione incredula per tanta gentilezza nei confronti di una serva, pensai bene di aggiungere una moneta per mutare quell’espressione in un sorriso. In fondo ero la figlia di un banchiere, il denaro era una cosa che non mi mancava! Stavamo ripercorrendo la via del mercato per tonare a casa, quando mi accorsi dell’arrivo dei brutti ceffi vestiti di colori sgargianti. I mercenari. Il capo della banda aveva una barba incolta che lo rendeva sgradevole alla vista, ancor più dei suoi modi rozzi e prepotenti.
Isabella si avvicinò di più a me per parlarmi all’orecchio: “Forse dovremmo cambiare strada, Damigella. Quegli uomini mi fanno paura.”
Osservai mentre puntavano il banco della verdura con tutta l’intenzione di attaccar briga con il proprietario. Il pover’uomo giunse le mani in preghiera, udii la sua voce in un lamento. Scossi il capo e risposi alla domanda di Isabella: “No. Andremo avanti per la nostra strada.” E aumentai la velocità del mio passo in conferma. Giunta in prossimità del banco sentii il capobanda schernire il verduraio: “E questi sarebbero i pezzi migliori? Non andrebbero bene neanche ai maiali! Ti avevo detto di tenere da parte il meglio per me e i miei uomini.”
“L’ho fatto. Ve lo giuro, Messere. Non ho nient’altro.” Il tono sempre più disperato.
Ne avevo abbastanza. Deviai la traiettoria e mi feci sentire: “Dovete sentirvi davvero dei grandi uomini per trattare in questo modo un uomo terrorizzato.”
La mia frase attirò l’attenzione come speravo, i brutti ceffi si voltarono contemporaneamente e il capo sfoggiò un perfido sorriso mentre mi veniva incontro: “Bene bene bene! Cosa abbiamo qui? Una bella gallinella! Che ne dite, ce la dividiamo?”
Allungò una mano nel tentativo di sfiorarmi il viso, ma io gliela schiaffeggiai: “Informerò personalmente Messer Albizzi del vostro comportamento inaccettabile.”
L’uomo scoppiò in una risata, seguito dai compagni: “La gallinella pensa di spaventarmi!” Smise di ridere come a comando e mi guardò truce: “Ascoltami bellezza, noi siamo qui a pieno diritto e facciamo quello che più ci aggrada.”
“Siete solo dei porci!” Dissi disgustata.
L’uomo mi afferrò per la gola con gesto improvviso, inevitabilmente lasciai cadere a terra il fagotto di tessuti che avevo tenuto sottobraccio.
“Vi prego, fermatevi! Lasciate stare la mia padrona!” Gridò Isabella a pieni polmoni.
Anche se la mano non mi stava soffocando, la stretta mi faceva male e la paura mi aveva bloccata.
“E così abbiamo una nobildonna eh? E a quale nome rispondete, di grazia?”
Aprii la bocca e in un qualche modo riuscii a pronunciare il mio nome: “Del…fina de’ Pazzi.” Vidi il suo volto diventare esangue, negli occhi un tremolio. Mi lasciò andare.
Mi  piegai sulle ginocchia, priva di forze per quel trattamento, il respiro leggermente ansimante. Sollevai lo sguardo, il ceffo retrocedette e si rivolse ai suoi uomini: “Andiamo. Qui non c’è niente per noi.”
Uno di loro stava per replicare ma il compagno accanto gli diede una gomitata. Silenziosamente ed in gruppo, si allontanarono dalla via.
“Oh Damigella, lo dicevo io che dovevamo cambiare strada.” Isabella era prossima al pianto, mi risollevai in posizione eretta e la rassicurai: “Sto bene, non preoccuparti. Lo dirò a Rinaldo.”
“Voi che vi vantate della vostra confidenza con Albizzi, non sapete dunque nulla?”
A quella frase detta con tono minaccioso mi voltai di scatto e riconobbi il merciaio di due banchi più in là.
“Non capisco cosa vogliate dire.”
Lui puntò il dito verso il gruppo ormai in lontananza: “I mercenari sono uomini suoi.”
“Questo lo so, ma di certo Messer Albizzi non è a conoscenza del modo in cui abusano del loro potere.”
Il ghigno sul suo volto si accentuò: “Invece lo sa molto bene. E non muove un dito per fermarli.”
Non potevo credere alle mie orecchie. Riteneva Rinaldo responsabile di tutto questo?
“Vi prometto che parlerò con lui e tutto sarà sistemato.” Replicai, portandomi una mano al cuore per dare più enfasi alle mie parole.
Un uomo si fece avanti da un altro banco, il volto rosso e contratto dalla rabbia: “Da quando Albizzi è salito al potere questa città sta andando in rovina. Tutti noi stiamo andando in rovina.”
Mi accorsi che altre persone si stavano avvicinando e tutte avevano espressioni tutt’altro che gioiose.
“No, vi assicuro che Rinaldo è un nobiluomo anche nell’animo. Vi aiuterà.” Gridai per farmi sentire bene da tutti.
“Se siete alleata di Albizzi andatevene da qui!” Gridò un uomo, seguito da un altro: “Chi difende quell’uomo non merita nemmeno la nostra pietà!”
E in breve mi ritrovai circondata da cittadini e mercanti infuriati che mi gridarono di tutto. Ero terrorizzata. Presi il fagotto dei tessuti che era ancora a terra: “Isabella, andiamo via di qui.” La presi per mano e cercai di uscire da quel cerchio umano. Una mano mi strappò il mantello, altre mani mi colpirono alla schiena e alle braccia e mi tirarono i capelli. Le grida erano sempre più forti e offensive. Io e Isabella ci demmo alla fuga, sperando che nessuno ci inseguisse.
Arrivammo a Palazzo Albizzi completamente stravolte e in lacrime. L’usciere cercò di fermarmi all’ingresso ma io gli lanciai addosso il fagotto per distrarlo, quindi corsi all’interno gridando il nome di Rinaldo.
“Damigella Delfina.” La voce proveniente dalla sala da giorno mi indusse a voltarmi. Vidi Madonna Alessandra, il suo sguardo sorpreso nel vedermi in quello stato.
Con le convulsioni del pianto faticai a parlare: “C’è…c’è Rinaldo, per favore?” Sentii le gambe cedere e mi ritrovai in ginocchio. Madonna Alessandra corse in mio aiuto: “Delfina, mio Dio!”
Mi aiutò a rialzarmi e mi condusse nella sala per farmi sedere su una sedia. Mi accarezzò il viso per scostare le lacrime: “Cosa è accaduto?”
“Mi…mi hanno… agg…aggredita al…mercato.” Il pianto mi impedì di dire qualunque altra cosa.
“Povera piccola. State tranquilla, qui siete al sicuro.” La sua voce gentile e i suoi occhi buoni mi furono di conforto. In quel momento avevo solo bisogno di una mano gentile che mi cullasse, una mano materna. Senza riflettere, troppo scossa per capire quello che stavo facendo, poggiai il capo sul suo grembo e continuai a piangere a dirotto come una bambina. Le sue mani ad accarezzarmi i capelli, i suoi sussurri a tranquillizzarmi. Non appena le convulsioni si placarono, riuscii a dire qualche frase per raccontare che cosa era accaduto. Lei non smise un solo istante di accarezzarmi i capelli.

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Capitolo 15
*** Il guerriero e il codardo ***


Capitolo quattordici
Il guerriero e il codardo
 
Rinaldo si precipitò nella sala e rimase colpito da quella scena, da quell’immagine di grazia di me che piangevo sul grembo di Alessandra e di lei che mi confortava accarezzando la mia chioma corvina. Se non fossimo state rispettivamente sua moglie e la sua amante, probabilmente si sarebbe intenerito nel vederci così. Era sopraggiunto in tale fretta che non si era nemmeno fermato per togliere il cappotto di pelliccia. Alle sue spalle comparve Ormanno, il quale da fedele ombra come lo avevo ribattezzato, indossava cappello e mantello neri sopra abiti e stivali neri. I loro sguardi puntati su di noi.
Dopo un primo momento d’immobilità, Rinaldo si fece avanti e parlò: “Cosa accade? Ancora prima di mettere piede a palazzo la guardia mi ha informato che siete giunta qui in lacrime, Damigella.” L’appellativo formale mi riportò alla realtà. Prima che potessi trovare le parole per rispondere, Madonna Alessandra si rivolse a lui con tono severo: “E’ stata aggredita al mercato per aver difeso il tuo nome.”
“Che cosa?” Ringhiò Rinaldo.
“E prima ancora, il capo dei tuoi mercenari le ha messo le mani addosso. L’ha presa per il collo come una gallina.” Terminò quasi in un grido, per fargli capire che attribuiva la responsabilità interamente a lui. L’accusa ebbe effetto, Rinaldo diventò rosso in volto per la collera e strinse i pugni fino a farli tremare.
“Non mi sono mai permessa di intromettermi nella tua politica e nei tuoi affari, ma questa volta devo proprio dirtelo Rinaldo. Stai andando troppo oltre.” Gli passò accanto, la postura dritta e rigida di chi non teme niente e nessuno. Raggiunse Ormanno, ancora fermo all’ingresso, e lo invitò ad accompagnarla altrove.
Non appena si furono allontanati, Rinaldo andò a chiudere la porta dando anche un giro di chiave per essere sicuro che nessuno ci disturbasse. Ora che era con me avevo smesso di piangere e di avere paura, mi sentivo di nuovo me stessa. Mi passai la manica sul viso per asciugarlo dalle lacrime, gli occhi mi bruciavano. Quando Rinaldo tornò indietro da me mi alzai dalla sedia e mi gettai tra le sue braccia, stringendolo forte e lasciando che lui mi stringesse a sé. Era tutto ciò di cui avevo bisogno. Scostai il viso dalla sua spalla perché bisognosa di dargli un bacio, invece così facendo attirai la sua attenzione sul mio stato pietoso. Tra l’aggressione e il pianto dovevo essere tutta un rossore, per non parlare dei capelli che erano stati tirati malamente e dovevano essere alquanto disordinati. Esaminò il mio viso minuziosamente, poi mi sollevò il mento per guardare anche il collo. Con le dita tracciò delle linee sulla mia pelle.
“Sono rimasti i segni delle sue dita.” Ringhiò, per poi lasciarmi bruscamente. Afferrò il mio mantello strappato, giusto un’occhiata ed ecco che me lo tolse di dosso poco gentilmente e lo strinse tra le mani neanche fosse stato il capo dei suoi mercenari.
“Gli avevo detto di non toccarti, dannazione!” Gridò rabbioso.
“Cosa?” Mi uscì con un filo di voce, mentre scuotevo il capo confusa.
Andò verso il camino e gettò il mantello nel fuoco. In preda all’isterismo si tolse il cappotto e gettò anch’esso tra le fiamme, senza motivo.
“Amore…” Mi avvicinai a lui e cercai di toccarlo, ma lui schivò il mio tocco: “No.” Tirò un pugno all’aria: “Ti prometto che ci saranno delle conseguenze per questo. Ero stato chiaro. Fate quello che volete ma se incontrate Delfina de’ Pazzi non vi azzardate a sfiorarla.” Un altro pugno all’aria.
Nella mia mente i pezzi cominciavano ad incastrarsi. Dunque era vero che sapeva tutto ciò che facevano quegli uomini e che era anche favorevole.
“Rinaldo… Perché lo stai facendo? Non hai bisogno dei mercenari per controllare la città. La gente sta soffrendo.”
Lui mi lanciò un’occhiata di sbieco: “Invece mi servono. Senza di loro rischio di perdere tutto quello che ho conquistato finora.”
Scossi il capo per la delusione, nonostante il lungo pianto nuove lacrime mi riempirono gli occhi: “Tu non sei così. Sei un uomo giusto, hai dei princìpi. Tu non sei un…”
Si voltò verso di me e agitò le mani in aria: “Io non sono che cosa, Delfina? Non sono un tiranno? Non sono un mostro? L’unico rispetto che posso ottenere è quello conquistato con la paura. Credevo che senza quei dannati Medici sarebbe andato tutto per il meglio e invece mi ritrovo ancora più nemici di prima.”
Mi portai una mano al viso, cercai di soffocare un singhiozzo. No, non poteva essere. Inghiottii le lacrime: “Ho bisogno di te. Ho bisogno dell’uomo che amo. Basta intrighi. Basta violenza. Io voglio solo…”
“Tu vuoi solo l’uomo innamorato che ti ricopre di carezze e attenzioni. Lo so, Delfina, ma io non sono solo questo. Lo hai sempre saputo.” Mi rimproverò, con quel modo da politico che odiavo quando lo usava con me.
Presi coraggio e gridai: “Rinaldo, ho bisogno di te perchè sono incinta!”
Il suo sguardo severo mutò, un velo chiaro si pose sopra i suoi occhi in una combinazione di sorpresa e curiosità. E allora perché io stavo tremando? Perché quegli occhi chiari mi facevano precipitare in un abisso senza fine dal quale volevo e allo stesso tempo temevo di non uscire più? Continuando a guardarmi fisso negli occhi, fece un passo per avvicinarsi a me. Allungò le mani per afferrarmi per i fianchi e mi sollevò. Lo lasciai fare, non sapendo cosa avesse in mente. Mi posò sul tavolo che era al centro della sala, facendomi sedere sul bordo, e prese a sollevarmi le gonne con gesto delicato. Le sollevò sempre più in alto, denudandomi fin sopra la vita.  Capii cosa voleva fare, perciò aggiunsi le mie mani per tenere sollevata la stoffa, permettendo a lui di liberare le proprie. Il suo sguardo ora era tutto per il mio ventre. Si mise in ginocchio e con le dita sfiorò la linea curva che disegnava quella sporgenza. Potevo quasi leggere i suoi pensieri attraverso la trasparenza degli occhi, il rimprovero a se stesso per non aver capito prima di cosa si trattasse realmente quella rotondità, la gioia di aver creato una vita, la curiosità di sapere ciò che conteneva. Ero certa che con Alessandra non avesse avuto la possibilità di ammirare o anche solo immaginare quel germoglio che cresceva con le sue sembianze. Pian piano i suoi occhi divennero lucidi, l’emozione si era completamente impossessata di lui. Sentii il suo respiro sulla pelle quando si sporse per stampare un bacio sul mio ventre, per mandare un bacio a suo figlio. Seguirono altri baci, tutti a fior di labbra,  la sua barba entrò in contatto con la morbida peluria della mia intimità. Mi morsi un labbro nel tentativo di concentrami sulla purezza del momento e non sul lato peccaminoso. Purtroppo per me, quell’uomo era in grado di farmi impazzire anche solo con lo sguardo, figurarsi con il tocco delle mani e delle labbra sul mio basso ventre!
“Rinaldo.” Gemetti, in preda al bisogno di provare piacere fisico. Il suo sguardo si sollevò su di me, bastò un’occhiata per fargli capire cosa mi stava succedendo. Senza dire nulla, si rimise in piedi e con le mani mi guidò affinché mi stendessi sulla schiena e lasciassi andare la stoffa che ancora tenevo tra le mani. Si tolse rapidamente la giacca di velluto marrone e la lasciò cadere a terra. Fece lo stesso con la camicia, in ultimo slacciò i pantaloni e li abbassò quanto bastava per essere libero nel movimento senza restare nudo.  Ed ecco che si presentò a me l’uomo virile, il guerriero impavido, colui che mi faceva dimenticare come si respirava. Con le mani passò sotto le mie cosce e le avvolse possessivo, quindi inarcò i fianchi in avanti e…
Che distruggessero pure la città, che il fiume straripasse, che venisse l‘Apocalisse. Tutto ciò che desideravo era essere posseduta dal mio uomo, dargli ogni fibra del mio essere e della mia anima, senza riserve. I nostri gemiti si unirono in una melodia che riempì la sala in ogni angolo, che sbatté contro ogni parete, mentre il robusto tavolo sotto di me talvolta scricchiolava per la potenza di quella passione. Persa irrimediabilmente dentro il vortice del piacere, mi sostenni sui gomiti e gettai il capo all’indietro per liberare quel grido di estasi che avrebbe potuto squarciare il cielo e riempirlo dell’eco del mio piacere.
*
“Seguimi, figliolo.” Propose Alessandra, posandogli una mano sul braccio. Ormanno restò inizialmente immobile, non voleva che suo padre restasse solo con quella ragazzina. Ma non poteva dirlo, non voleva ferire sua madre in quel modo sputando la verità così all’improvviso. Sospirò contrariato e s’incamminò assieme alla madre lungo il corridoio. Pochi passi e udì la porta della sala sbattere e la chiave girare nella toppa. Lanciò un’occhiata alle proprie spalle, ancora un attimo e sarebbe tornato indietro per dire ai due amanti tutto quello che pensava di loro, ma sua madre lo trattenne.
“Andiamo alle cucine.”
Era così arrabbiato che si dimenticò di chiedere il motivo per cui si stavano recando là.
Isabella era seduta su uno sgabello accanto al camino della cucina, avvolta da un ampio mantello blu notte. La folta chioma riccia e scura era tutta scomposta, il viso era pallido, tranne che per le gote arrossate dal calore del fuoco, e i suoi occhi erano gonfi per il pianto. Tra le mani teneva un calice di vino e la cuoca la stava spronando a bere un altro sorso per riprendersi dallo spavento.
Madonna Alessandra si rivolse alla cuoca: “Come sta? Vi state prendendo cura di lei a sufficienza?”
L’anziana donna dalla cuffietta calata sulla fronte, sollevò lo sguardo e rispose umilmente alla padrona: “Oh Madonna, questa povera creatura è spaurita. Le ho fatto bere un po’ di vino ma non riesco a tranquillizzarla.”
Sentendo lo scambio di battute, Isabella fece per alzarsi per rispetto, ma Alessandra la fermò: “Vi prego, restate dove siete. Dopo quello che avete passato, capisco il vostro turbamento.”
Era così provata che non riuscì a rispondere per ringraziarla. Guardò Madonna Alessandra fare un passo indietro e scambiare qualche parola con qualcuno che però lei non riusciva a vedere da quell’angolazione, fino a quando non la vide andarsene e al suo posto comparire Ormanno sulla soglia. Le mancò un battito.
Per Ormanno non fu facile ritrovarsi faccia a faccia con lei, la ragazza di cui aveva in un certo senso abusato quasi quattro mesi prima. Da quella notte non le aveva più rivolto la parola e aveva fatto in modo di non incontrarla se non di sfuggita. E adesso che era lì e non poteva scappare, si sentiva in colpa. Mosse le labbra un paio di volte senza emettere suoni, fino a quando le parole non si decisero ad uscire: “Sono molto dispiaciuto per quanto accaduto a voi e la vostra padrona.” Si sorprese delle sue stesse parole. Fino a un attimo prima stava immaginando che i mercenari staccassero la testa dal collo di Delfina e ora invece sentiva che per quanto riguardava Isabella gli dispiaceva davvero vederla turbata.
Lei si rigirò il calice tra le mani, in soggezione: “Siete gentile. A me in verità non hanno fatto niente, tranne qualche tirata di capelli.” Abbassò lo sguardo.
“Non è giusto che dobbiate rischiare. Voi non avete fatto niente, vi hanno aggredita solo perché accompagnavate Damigella Pazzi.”
“Lei ha…” Dovette deglutire un nodo alla gola: “Lei ha difeso vostro padre. E io ero lì d’intralcio quando avrei dovuto aiutarla e sostenerla.”
Ormanno fece un cenno col capo: “Siete molto fedele. Questo vi fa onore.” Non sapendo cos’altro dire, fece per andarsene, ma la voce di Isabella lo fermò.
“Ormanno.”
Lui si voltò e lei si corresse subito: “Messer Ormanno.”
Isabella si alzò dallo sgabello, lui le si avvicinò. Essere così vicina a lui, poterlo vedere in volto, perdersi all’interno di quegli occhi grandi e neri che animavano i suoi sogni, se solo fosse riuscita a sfiorarlo con la mano non avrebbe chiesto più niente alla vita. Invece le mani la tradirono e rimasero artigliate a quel maledetto calice.
“Io… Sono lieta di avervi rivisto.”
Ormanno non trovò traccia di odio nei suoi occhi castani, né di rimprovero nella sua voce. Si chiese se non fosse il suo modo di fargli capire che lo perdonava per ciò che aveva fatto. Cercò nella mente qualcosa da dire, qualcosa di gentile e di sensato. Gli uscì solamente: “Spero che vi riprendiate presto da questa brutta avventura. Vogliate scusarmi.”
Nel vederlo andarsene in quel modo, Isabella fu quasi tentata di gridargli alle spalle. Solo non sapeva cosa. Voleva dirgli che lo odiava e che lo amava. Una cosa del tutto folle. Voleva togliersi il mantello e mostrargli il frutto della loro notte di passione. Ma a cosa sarebbe servito? Fra le tante cose che voleva, ce n’era una che invece non voleva affatto: farsi odiare da lui.

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Capitolo 16
*** La serenità in un piccolo mondo ***


Capitolo quindici
La serenità in un piccolo mondo
 
Sola in quel corridoio a camminare avanti e indietro, a torturarmi le mani per l’ansia, mentre le parole di Rinaldo viaggiavano nella mia mente come una nave in un mare tempestoso.
“Devi dirlo a tuo padre, Delfina. Non puoi nasconderlo per sempre.”
“Sei forse impazzito? Mi ucciderà. E poi ucciderà te.”
“Non la prenderà bene, questo è certo. Però ricordati che sei la sua unica figlia.”
“Questo non è un vantaggio. In quanto donna non erediterò nulla, non gli servo a niente.”
“Ma nostro figlio sì, sarà lui l’erede dei Pazzi.”
“Non possiamo sapere se sarà un maschio. Come puoi puntare tutto su una speranza?”
“Perché non è una speranza, è una certezza. Metterai al mondo un guerriero.”
Tornai al presente nell’udire un grido di rabbia, seguito poi da rumori poco rassicuranti. Puntai lo sguardo sulla porta chiusa dello studio di mio padre, il cuore batteva come un tamburo nel petto per la paura. Pochi secondi ed ecco che tornò il silenzio, lasciandomi nella totale ignoranza su quanto stesse accadendo oltre quella dannata porta. Presi un respiro profondo per tranquillizzarmi, non volevo che il bambino soffrisse a causa della mia paura. La porta finalmente si aprì e Rinaldo comparve sulla soglia. Anche se si limitò a guardarmi senza dire nulla, i capelli disordinati e una vistosa ombra rossa sulla sua guancia dissero più di mille parole sulla reazione di mio padre alla notizia della mia gravidanza. Fece un cenno col capo, indicandomi di entrare nello studio. Avrei preferito entrare in una gabbia di leoni a digiuno, piuttosto di dover affrontare l’ira di mio padre. Mi seguì passo passo fino a quando non fui all’interno, poi richiuse la porta alle mie spalle.
Mio padre era di fronte al camino, una mano appoggiata sul bordo. Quando si voltò lentamente e puntò il suo sguardo rapace su di me, mi parve di vedere riflesse nei suoi occhi le fiamme del fuoco.
“Dimmi che non è vero.”
Mi portai d’istinto le mani al ventre per proteggere il mio prezioso tesoro.
Mio padre buttò fuori un sospiro dalle narici, come una bestia infuriata, e lasciò la postazione per venire verso di me, la camminata lenta e minacciosa. Quando mi fu di fronte i nostri sguardi rimasero immobili l’uno sull’altro, fino a quando lui non mi afferrò per i capelli e li tirò per costringermi alla sottomissione. Sibilò come un serpente: “Che cosa me ne faccio di te, ragazzina? Ti avevo detto di tenerlo d’occhio, non di diventare la sua puttana e farti ingravidare.” Il suo alito amaro mi batteva contro il viso. Non appena mi lasciò i capelli e indietreggiò di un passo, io mi portai subito una mano al punto dolente del mio capo. Ero tutta un tremolio.
“Vi concedo una settimana per preparare le vostre cose, poi tu e Isabella andrete nella nostra tenuta di campagna e resterete là fino a quando non avrete dato alla luce i vostri bastardi.”
Gemetti: “No, padre, ti prego. Mancano almeno cinque mesi al parto, non voglio stare lontana da Firenze così tanto tempo.”
Lui sollevò le sopracciglia: “Oh invece lo farai. Se non vuoi che io ti diseredi.”
Cercai di replicare: “Ma io…” Mio padre ebbe uno scatto d’ira che lo portò a fare piazza pulita di tutto ciò che era sopra il tavolo. Vidi i fogli di pergamena svolazzare attorno a lui come uccelli impazziti, la boccetta dell’inchiostro finì in frantumi e il contenuto si sparse in una pozza nera sul pavimento.
Rinaldo spalancò la porta e si precipitò all’interno: “Andrea, fermatevi!”
Il suo sguardo mi cercò. Una volta assicuratosi che io stessi bene, lanciò uno sguardo a mio padre, ora chino sul tavolo e ansimante per il gesto collerico.
Mio padre ringhiò: “Fatela ragionare voi, Albizzi, o giuro che vi uccido entrambi.”
Rinaldo non se lo fece ripetere, mi cinse le spalle con un braccio e mi portò fuori di lì. Quando fummo a debita distanza mi fermò e si piazzò di fronte a me. Entrambe le mani sulle mie spalle e lo sguardo serio fisso sui miei occhi: “Delfina, devi ascoltarlo. Partire è la cosa migliore.”
Scossi il capo e obiettai con decisione: “Come puoi fidarti di lui? Vuole farmi andare via per tenermi lontana da te. Non so nemmeno se mi farà mai tornare a Firenze.”
“Lo farà. Hai la mia parola. Questa è la tua casa, nessuno ti impedirà di tornare.”
Non era mia intenzione mostrarmi così debole e mettermi a piangere, ma come potevo  trattenere tutte quelle emozioni negative che mi premevano nel petto? Due lacrime si affrettarono a fare capolino dalle ciglia, la voce s’incrinò: “Cinque mesi sono un’eternità. Come farò a stare senza di te? Come saprò che stai bene?”
Rinaldo fece scivolare le mani sulla mia schiena, chiudendomi così in un abbraccio, la sua voce si addolcì: “Verrò da te ogni volta che potrò, te lo prometto. Nemmeno io potrei stare così a lungo senza averti al mio fianco. Sei tu il mio unico supporto in questo covo di serpi.”
“E…e tua moglie?” Mi sentii una sciocca per averlo chiesto. Con tutti i problemi che dovevamo affrontare, mi ero lasciata prendere da un attacco di gelosia improvvisa.
Le sue labbra si incresparono in un sorriso: “Non hai motivo di essere gelosa. Tra me e Alessandra non c’è mai stato nulla oltre il rispetto e l’accettazione di essere consorti. Non abbiamo scelto noi di unirci in matrimonio. E dopo Ormanno, una volta svolto il nostro dovere di assicurare la discendenza, non abbiamo più avuto motivo di toccarci.”
Rimasi colpita da quella confessione così spontanea. Non mi aveva mai parlato di quell’argomento prima di allora. Anche se avevo immaginato che le cose stessero così, trattandosi di un matrimonio combinato, dopo aver sentito la verità dalle sue labbra mi sentii più sicura. Chiusi gli occhi e sporsi le labbra per dargli un bacio. Da quella bocca che amavo, ogni giorno uscivano parole come un torrente, parole taglienti e dure rivolte a Cosimo, parole precise e ricercate per conquistare i membri della Signoria, parole che avevano sempre uno scopo preciso, ma solo io avevo il privilegio di udire le parole segrete che gli venivano dal cuore. E io ne ero la custode.
Il passo successivo fu quello di rivelare tutto a mia madre. Compito non facile, per cui dovetti sopportare in silenzio una lunga ramanzina sulla fiducia tra madre e figlia e i sensi di colpa per non averle confidato il mio segreto fin dall’inizio. Ma questo la portò alla decisione di venire con noi in campagna e provvedere al nostro benessere. L’idea non mi dispiacque molto, speravo che la sua presenza avrebbe reso la vita di campagna meno noiosa.
*
Rinaldo mantenne la parola e venne a farmi visita molto spesso, infischiandosene altamente di quello che avrebbero potuto pensare le persone attorno a lui riguardo quelle fughe improvvise. Almeno mio padre, per giustificare l’assenza mia e di mia madre, fece girare la voce che io fossi gravemente malata e che necessitassi dell’aria pura di campagna per guarire. E che mia madre, spinta da un forte senso materno, si stesse prendendo cura di me. Invece Rinaldo lasciò ogni volta la città senza dare spiegazioni a nessuno, tantomeno a sua moglie e suo figlio.
Le sue visite scandirono il mio tempo e ad ogni nostro incontro il mio ventre si faceva sempre più tondo e sporgente. Anche se leggevo sul viso del mio amato l’immensa gioia di veder crescere il frutto del nostro amore, conoscendolo ormai bene potei vedere nei suoi occhi una perenne sfumatura di preoccupazione dovuta alla situazione problematica che vi era a Firenze. Il fatto che lui non volesse parlare mai dei suoi affari o dei suoi incontri politici, era la prova che i miei timori erano fondati. L’unica consolazione era sapere che la sua unica gioia eravamo di fatto io e il bambino che portavo in grembo.
La notte, quando ci trovavamo veramente soli e lontani da occhi e orecchie indiscreti, ci donavamo l’un l’altro e ci trasmettevamo la forza necessaria per affrontare i giorni in cui dovevamo restare separati. Non si trattava solo di piacere fisico, ma di bisogno di sentirci completi e protetti l’uno tra le braccia dell’altro. Dopo l’amore, Rinaldo era solito abbracciarmi di spalle e accarezzare il mio ventre con affetto. Quando sentivo il suo leggero russare e il peso del suo corpo rilassato contro il mio, sapevo che era sereno e di conseguenza mi sento meglio anch’io.
Un giorno come tanti, mentre stavamo parlando a cuor leggero del tempo e della bella estate che si era presentata, il bambino ci richiamò all’attenzione dandomi un calcio nel ventre. Essendo la prima volta che lo sentivo muoversi, il mio cuore si riempì di gioia e risposi subito al saluto con dolci parole. Invitai Rinaldo a posare la mano sul punto dove si era verificato il fatto e di lì a breve il bimbo riprese a scalciare. Vidi il suo sguardo illuminarsi, sentire quei colpetti sotto la sua mano fu per lui qualcosa di straordinario. Gli piacque a tal punto che, da quel giorno, ogni volta che venne a farci visita, si dilettò a raccontare aneddoti sulla sua infanzia per ‘intrattenere’ il bambino e talvolta esigeva anche una risposta sotto forma di calcio.  E io allora ridevo, ringraziando il Signore per quei momenti di gioia che avrei serbato per sempre nel mio cuore.
Anche per Isabella fu una gravidanza abbastanza serena e di certo non soffrì troppo della mia assenza quando io e Rinaldo ci appartavamo senza voler vedere nessuno. Lei e mia madre, ritrovandosi spesso sole, si erano tenute buona compagnia e avevano imparato a conoscersi meglio. Per quanto incredibile, i ruoli un po’ s’invertirono, rendendo mia madre particolarmente gentile e servizievole con lei, soprattutto verso la fine della gravidanza. Un giorno addirittura la sentii chiamare Isabella con l’appellativo di ‘mia piccola cara’, quando perfino a me lo aveva detto di rado nel corso degli anni. In poche parole, quella che inizialmente si prospettava una lunga e sofferta lontananza da casa, alla fine si rivelò una piacevole esperienza e la casa di campagna divenne un piccolo mondo privato in cui non esistevano preoccupazioni. 

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Capitolo 17
*** Una Gioia e il sol Levante ***


Capitolo sedici
Una Gioia e il sol Levante
 
Era un mattino di fine estate, il sole era alto nel cielo e nell’aria vi era una leggera brezza rinfrescante. Io e Isabella eravamo uscite per fare una breve passeggiata, un piccolo svago sempre meno frequente dato il grande peso che portavamo costantemente con noi. Avevamo da poco preso posto sul prato, all’ombra di un grande castagno, quando Isabella fu colta dalle doglie. Dopo l’intervento tempestivo dei domestici e un travaglio abbastanza breve a cui io assistetti sia per dare supporto alla mia cara amica sia per vedere coi miei occhi cosa avrei dovuto affrontare, Isabella diede alla luce una bella bambina. Fui io a metterle quella piccola creatura tra le braccia, con enorme gioia. Non appena le porsi la bambina, rimasi incantata dal suo sguardo luminoso. Una lacrima le scese lungo la guancia, con tocco gentile della mano sfiorò un braccino paffutello. Le sue labbra tremarono nel dire: “Sei tu la mia Gioia. Ora e per sempre. E porterai questo nome per ricordarmelo ogni giorno, ogni istante della mia vita.”
Inevitabilmente mi ritrovai a piangere, commossa dal quel pensiero profondo. Se solo Ormanno avesse saputo…
Esattamente cinque giorni dopo, durante una notte piovosa, venni svegliata tutt’altro che delicatamente dal mio piccolo ospite, che evidentemente aveva deciso di abbandonare il caldo e comodo giaciglio del mio ventre per conoscere il mondo. Gridai ancor prima di aprire gli occhi, strappata dal mondo dei sogni in quel modo. Mia madre accorse immediatamente, seguita dalla levatrice che alloggiava da noi già da prima del parto di Isabella. In principio riuscii a mantenere il controllo e a seguire le indicazioni delle due donne che si stavano prendendo cura di me, credendo che sarebbe stato facile come per la mia amica. Invece nel mio caso non lo fu affatto. Il mio travaglio durò tutta la notte e io, travolta dal dolore acuto delle doglie che sembrava volesse aprirmi in due, ad un certo punto divenni un’altra persona, iniziai a lamentarmi delle ingiustizie della vita e soprattutto ad imprecare contro l’uomo responsabile della mia sofferenza. Fortunatamente la villa era isolata, altrimenti la notizia del mio parto e della paternità del bambino sarebbero giunte in tutto lo stivale in breve tempo!  Mia madre sopportò le mie grida ed il mio linguaggio volgare con pazienza, tenendomi la mano e accarezzandomi i capelli, ma anche non mancando di dirmi qualche frase riguardante il giorno in cui era stata lei a dover affrontare quel dolore per dare alla luce me. In un certo senso credo che si sentì appagata nel vedere che la vita mi stava ripagando della stessa moneta, o forse era la mia mente intorpidita a farmi fare simili pensieri. Finalmente, quando la pioggia aveva cessato di cadere e la luce cominciava a dissipare l’oscurità, io feci conoscenza con il piccolo ribelle che per mesi aveva scalciato prepotente il mio ventre. In un istante dimenticai tutto il dolore, tutto ciò che era avvenuto durante la notte, e mi donai totalmente a quella creatura perfetta  e ai suoi musicali vagiti. La testolina tonda dai radi peletti biondi, la boccuccia rossa e piena, le manine strette a pugno. Smise quasi subito di piangere, cullato dalle mie braccia, però la sua espressione rimase imbronciata, molto simile a quella di suo padre. Un singhiozzo mi uscì dalla gola, seguito poi da calde lacrime che mi bagnarono il viso.
“Rinaldo aveva ragione. Sei davvero un piccolo guerriero.”
“Io ho sempre ragione.”
Quella voce che conoscevo e che amavo, mi fece sollevare lo sguardo. Rinaldo era là, sulla soglia, i suoi occhi sembravano brillare da quanto erano lucidi di commozione.
Mi uscì un sospirato: “Amore mio.”
Mi resi conto che nella stanza vi eravamo solo noi. Ero rimasta così incantata dalla bellezza della mia creatura da non accorgermi nemmeno che la levatrice se n’era andata dopo aver finito di medicarmi. Mia madre invece avrei scommesso che fosse andata da Isabella per rassicurarla che tutto era andato bene.
Rinaldo mi raggiunse e prese posto sul bordo del letto. Si chinò per baciarmi. Odorava di pioggia e di sudore e, passando una mano tra i suoi capelli, constatai che erano umidi. Aveva viaggiato per ore al buio e sotto la pioggia per venire a conoscere suo figlio. Non appena separò le labbra dalle mie, chiesi con curiosità: “Come sapevi che…?”
“Isabella. Mi ha mandato un messaggero non appena hai iniziato ad avere le doglie e io sono partito subito al gran galoppo.” Rispose pratico, mentre il suo sguardo mi aveva già abbandonata per posarsi su qualcuno che gli somigliava in modo incredibile.
“E’…” La voce gli morì in gola, deglutì e riprese: “E’ sano?”
Feci un cenno col capo: “Sano e forte. Proprio come suo padre.” Cercai di sottolineare quell’ultima parola per vedere quale effetto avrebbe fatto su di lui. Avevo completamente dimenticato che lui aveva già un figlio e che perciò aveva già provato la gioia della paternità, ma in quel momento, in quel luogo, non esisteva nessun altro per me.
Allungò una mano, le dita percorse da un leggero tremolio dovuto all’emozione. Prima l’indice, poi il pollice ed ecco che sfiorò i capelli biondi sul capo di suo figlio. Seguì lentamente la curva del cranio e ridiscese lungo una guancia rosea e paffuta. Il bimbo fece una piccola smorfia nel sonno e mosse la boccuccia emettendo un buffo suono a causa della saliva.
“Ha riconosciuto il tuo tocco.” Sussurrai, accennando un sorriso.
Rinaldo mi guardò e abbozzò un sorriso di fierezza. La luce arancio del sole che stava sorgendo attirò la sua attenzione. Dal suo sguardo capii che stava inseguendo un pensiero. Quando lo riabbassò su di me, rimasi in attesa che mi dicesse di cosa si trattava.
“Lo chiameremo Levante.”
Lasciai una risatina: “Levante? Che nome è?”
Lui posò lo sguardo sul nostro bimbo e diede parola a quel pensiero che il sole gli aveva donato: “Il nome di un grande uomo che vedrà sorgere una nuova era.”
Dunque si trattava di politica. Non mi sentii offesa, ormai conoscevo bene Rinaldo e sapevo quanto la sua visione del mondo e del potere fossero grandi.
Sorrisi: “E sia.” Poi mi rivolsi al fagottino tra le mie braccia con voce sussurrata e dolce: “Benvenuto, Levante degli Albizzi.”
Sporsi le labbra e gli sfiorai il capo con un bacio. Rinaldo si accomodò meglio sul letto e mi cinse le spalle con un braccio. Sì, il mondo fuori poteva aspettare, quel momento era solo per noi tre.

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Capitolo 18
*** Parole amare di bocca in bocca ***


Capitolo diciassette
Parole amare di bocca in bocca
 
Erano trascorse tre settimane da quando avevo dato alla luce Levante. L’autunno era ormai alle porte e noi dovevamo tornare a Firenze prima che le sue dita fredde ci toccassero.  Soprattutto, dovevamo portare i bambini in un luogo caldo e confortevole.
Il viaggio in carrozza mi parve molto più lungo di quanto non fosse, la tensione che aleggiava tra me, Isabella e mia madre, si poteva quasi toccare. Non parlammo gran che. Nella mia mente mi chiesi più volte come sarebbe stato l’incontro con mio padre. In sei mesi di lontananza non mi aveva mai scritto, né aveva inviato doni o messaggi verbali. Non mi amava più, dunque?
Quando la carrozza cominciò a risalire la collina verso Firenze, aprii uno spiraglio della cortina per vedere il paesaggio, sperando che la vista dei luoghi dove ero nata e cresciuta mi avrebbe donato un po’ di calore al cuore. Mi sentivo cambiata. Ero cambiata.
Nell’entrare in città notai con grande tristezza che molte cose erano cambiate anche lì, che le strade erano disseminate di mendicanti, che il sudiciume impregnava il terreno e l’aria fino a togliere il respiro. E soprattutto, molto spesso vidi passare dei mercenari.
“Che cosa è successo alla nostra bella città?” Chiesi di getto, come se mia madre fosse rimasta lì tutto il tempo invece che con noi nelle campagne.
Mosse lo sguardo vuoto verso di me e rispose stizzita: “Dovresti chiederlo al tuo bel Rinaldo.”
Sapevo che lei era rimasta in contatto con mio padre, perciò doveva essere a conoscenza di ciò che stava accadendo. Possibile che quello stato di degrado fosse dovuto alla presa di potere di Rinaldo?
La carrozza entrò nel cortile di Palazzo de’ Pazzi, il rumore del portone che si chiuse subito dopo il nostro passaggio mi procurò un fremito. Fui la prima a scendere dalla carrozza, aiutata da un valletto che si offrì di tenere Levante fino a quando non misi piede a terra. Recuperato il mio bambino, d’istinto lo strinsi a me per proteggerlo, mentre con lo sguardo percorrevo la facciata del palazzo come se fosse stata la dimora di un nemico invece che la mia casa.
Entrai e mi calai il velo all’indietro. Il mio piccolino si mosse nel sonno, allora lo cullai un poco. La mia intenzione era di recarmi subito alle mie stanze per riposare e prepararmi spiritualmente all’incontro con mio padre, ma quel giorno il destino decise in modo differente…
“Delfina.”
Mi fermai all’istante e voltai lo sguardo verso la sala da giorno. Mio padre era là con un calice di vino tra le dita, lo sguardo indecifrabile. Alle mie spalle arrivarono Isabella e mia madre ma, non appena si accorsero della presenza di mio padre, mia madre mise una mano sulla spalla di lei in un tacito invito a proseguire. Era il mio momento.
Un passo dopo l’altro, sguardo fisso su di lui, entrai nella sala.
“Padre.”
Lui abbozzò un mezzo sorriso: “Ti trovo bene. Forse un po’ in carne, ma devo dire che ti dona.”
“Non mi hai scritto nemmeno una volta.” Buttai fuori, arrivando subito al punto.
Lui prese respiro e si mosse per posare il calice sul ripiano di un mobile: “Vero. Ero in collera con te. Ma tua madre mi ha tenuto informato regolarmente sulla tua salute. Dopotutto, sei sempre mia figlia.”
Levante si mosse ancora tra le mie braccia ed emise un gemito di lamento. Mio padre allungò lo sguardo, con quella curiosità che va oltre ogni cosa.
“Vuoi…vedere tuo nipote?” Proposi, senza troppe cerimonie.
Mio nipote…” Pronunciò quelle parole sospirando, ma non seppi decifrare se si trattava di emozione o di preoccupazione. Si avvicinò e scrutò attentamente la creatura che si muoveva sempre più agitata tra le mie braccia. Distolse lo sguardo all’improvviso, i suoi tratti s’indurirono: “Avresti potuto avere la decenza di farlo a immagine dei Pazzi. Si vede a colpo d’occhio che è un bastardo di Albizzi.”
Non potevo credere alle mie orecchie! Era la prima volta che vedeva suo nipote e l’unica cosa che sapeva dire era un commento sprezzante? Risposi per le rime: “Preferisco abbia le sembianze di un uomo che mi ama piuttosto di uno che mi ha cacciata di casa.”
Ridacchiò, dandomi di spalle: “Assieme al marmocchio hai partorito anche il coraggio, noto. Un tempo non avresti mai osato parlarmi in questo modo.”
“Un tempo non avevo una ragione di vita a cui donarmi anima e corpo. Vivevo solo nella speranza di ricevere un po’ del tuo affetto.”
Nonostante la durezza delle mie parole, non era mia intenzione litigare. Ero stanca per il viaggio e avevo un argomento più importante di cui discutere: “Ad ogni modo, Gioia e Levante non sono ancora stati battezzati. Se non desideri che si tenga una cerimonia pubblica, almeno permettimi di parlare con un prete affinché svolga la funzione qui.”
Scosse il capo e parlò con quel tono disinteressato che odiavo: “No. E’ troppo rischioso. Non ho ancora trovato una giustificazione per la presenza di due neonati della mia casa.”
“Hai avuto sei mesi per rifletterci, padre.” Sottolineai amaramente.
Lui mi lanciò un’occhiata severa: “Ho avuto altro a cui pensare, Delfina, credimi. Oltre a te ci sono cose più disastrose che mi danno preoccupazioni.”
“Bene.” Per quanto mi riguardava il colloquio era finito. Feci un cenno di saluto col capo ed uscii dalla sala, accompagnata dai vagiti di Levante che reclamava la sua poppata.
*
Ormanno uscì dalle cucine con passo spedito, in mano una grossa mela che poi si portò alla bocca per addentarla. Subito si passò il dorso della mano sulle labbra per asciugare il succo, mentre la polpa zuccherina gli fece emettere un gemito di apprezzamento. Nello svoltare l’angolo che portava ai piani superiori dove vi erano le stanze private di famiglia, urtò suo padre e per errore gli calpestò un piede.
Rinaldo imprecò: “Ormanno, perché diamine non guardi dove vai?”
Lui si mostrò divertito dalla situazione, ma subito alzò le mani ammettendo la propria colpa: “Hai ragione, ti chiedo perdono, padre.” Si accorse che il padre indossava abiti particolarmente eleganti e gli venne spontanea la domanda: “Stai andando ad un incontro della Signoria? Non sapevo ne avessero organizzato uno per oggi.”
Ancora di malumore per il piede calpestato, Rinaldo rispose brusco: “Che il diavolo si porti la Signoria. No, non vi è nessun incontro. Sto andando a fare visita ad un amico.”
“Un amico? Chi? Di certo lo conosco se vive qui a Firenze.”
“Non è una cosa che ti riguarda.” Lo schivò e riprese a camminare. Ormanno lo seguì e cercò di afferrarlo per un braccio: “Perché non vuoi dirmelo? Che cosa nascond…”
Rinaldo si voltò di scatto e lo aggredì verbalmente: “Mi sembri un innamorato geloso! Quando imparerai a comportati come un uomo serio? Non ti ho cresciuto così.” E con uno strattone si liberò il braccio, per poi riprendere la propria strada di gran carriera.
No, non lo aveva cresciuto così, infatti. Rinaldo degli Albizzi non era mai stato un padre affettuoso. Per quanto lo amasse, e Ormanno sapeva suo padre lo amava, non aveva nessun ricordo di gesti amorevoli nei suoi confronti. Al contrario di sgridate e sculacciate, che invece abbondavano. Era sempre stato severo per forgiare il suo carattere, per farlo crescere forte, per farlo assomigliare a lui. E lui aveva sempre visto suo padre come una roccia impossibile da scalfire. Però tra i suoi insegnamenti vi era anche quello di non sottovalutare mai un avversario, di lottare per scoprire la verità e i punti deboli delle persone.
“E oggi io scoprirò qual è il tuo punto debole, padre.” Lo sguardo fiammeggiante rivolto al corridoio dove il padre era passato per uscire dal palazzo.  Gettò la mela a terra e si diede all’inseguimento.
Fu più facile di quanto potesse sperare, gli bastò camminare stando a pochi passi dietro di lui e rasentando le mura delle case. Lo vide fermarsi di fronte a Palazzo de’ Pazzi.
Rinaldo fece per entrare con sicurezza, ma la guardia di fronte alla porta gli sbarrò l’entrata con la lancia.
“Che significa?” Tuonò lui, di fronte a quel divieto.
“Ordine di Messer Pazzi.”
“E’ uno scherzo, non è vero? Adesso comparirà il tuo padrone con una bottiglia di rosso in mano e si farà una risata?” Disse alterato, gesticolando.
La porta si aprì alle spalle della guardia e comparve appunto il nominato Pazzi, un sorriso di sfida disegnato sulle labbra: “Nessuno scherzo, amico mio. Ma se volete gustare del buon vino, potete tornare domani, sotto mio ufficiale invito.”
Rinaldo ridacchiò amaramente: “Mi piace il vostro giochetto, ma so bene quanto voi che non potete impedirmi di entrare.”
Pazzi sollevò le spalle: “Perché no? Questa è casa mia.”
Facendosi minaccioso, Rinaldo lo afferrò per la giacca e gli ringhiò dritto in faccia: “E’ mio figlio, Andrea. Ho tutto il diritto di vederlo.”
Un fulmine attraversò il cervello di Ormanno e scese fino a colpire in pieno il muscolo palpitante che aveva nel petto. Un dolore insopportabile.
“Avete rovinato il futuro di mia figlia, bastardo che non siete altro.” Rispose Pazzi, stizzito.
“Le darò sempre tutto ciò di cui ha bisogno, non dovrete più preoccuparvi di trovarle un marito.  E quando avrò riconosciuto ufficialmente mio figlio e gli avrò dato il mio nome, lui e Delfina saranno intoccabili. E ora, fatemi entrare, Andrea, o sarò costretto a farlo con la forza.” Le sopracciglia aggrottate, gli occhi che sembravano voler uscire dalla testa e la voce ringhiante. In quel momento Rinaldo sembrava in tutto per tutto un cane rabbioso.
Ormanno aveva sentito abbastanza, non voleva restare lì un minuto di più. Rifece il percorso al contrario per tornare a casa, la mente intorpidita gli faceva perdere l’equilibrio ogni due passi. Più che camminare fluttuò come uno spettro, si aggirò alla cieca per i corridoi con le parole del padre che gli correvano per la mente.
“Ormanno, figlio mio, cosa accade?”
Voltò il capo, si rese conto di trovarsi nelle stanze di sua madre e vide lei venirgli incontro con cipiglio preoccupato. Sentendo le forze mancargli all’improvviso, si lasciò cadere sulle ginocchia. Madonna Alessandra accorse e si chinò su di lui, con le mani a coppa gli sollevò il viso: “Ormanno, ti senti male?”
Finalmente tutte le sensazioni negative uscirono dal suo corpo in una pioggia di lacrime. E con loro uscirono anche le parole: “Tra voi due non vi è proprio niente, dunque? Nemmeno un briciolo di affetto?”
Lo sguardo di sua madre manifestò sorpresa, dato che non avevano mai affrontato quell’argomento. Anche se Alessandra non sapeva il motivo di quel turbamento, decise di rispondere con sincerità: “Il nostro matrimonio fu di convenienza, lo sai. Le nostre famiglie presero gli accordi per questa unione e noi dovemmo obbedire.”
Ormanno singhiozzò: “Quindi… Io non sono altro che un figlio dell’obbligo? Il frutto del dovere coniugale?”
Alessandra premette le dita su quel viso già arrossato dal pianto, guardò il figlio dritto negli occhi: “Ti amo fin dal momento in cui ho saputo che stavi crescendo nel mio ventre. Per me sei tutto, Ormanno.”
“Vorrei… Vorrei che per mio padre fosse lo stesso. Io vivo solo per compiacerlo, sognando che un giorno lui sia fiero di me.”
“Ma lui è già fiero di te! E ti ama incondizionatamente.”
Lui scosse il capo, liberandosi così dal tocco della madre, le lacrime e i singhiozzi non gli davano tregua.
“Madre, perdonami. Non vorrei ferirti ma se non mi libero di questo fardello morirò.”
“Puoi dirmi qualunque cosa, figlio mio.” Lo incoraggiò lei con tono dolce e rassicurante.
Ormanno cercò di prendere respiro e far cessare quel pianto infantile che lo aveva assalito. Deglutì con forza il nodo alla gola che lo opprimeva e scandì le parole al meglio che poté: “Mio padre ha avuto un bastardo da Delfina de’ Pazzi. L’ho sentito dalle sue stesse labbra.”
Madonna Alessandra si rimise in posizione eretta, lo sguardo come perso nel vuoto. Le sue mani tremarono leggermente, perciò le unì in grembo. Sbatté le ciglia e prese respiro, apparentemente più tranquilla: “Non lo sapevo. Sospettavo che tra loro vi fosse qualcosa ma… Non immaginavo che si fossero spinti fino a questo punto.”
“Ora capisci perché sto male? Non solo lui ti ha tradita con quella sgualdrina, ma adesso che hanno avuto un figlio sono certo che darà a lui tutto il suo amore e io non conterò più nulla.” Nuove lacrime presero a scorrere sulle sue guancie, la ferita era troppo profonda.
Ora Alessandra capiva quale fosse il tormento del figlio, si sentiva tradito e abbandonato dal suo stesso padre. Si mise in ginocchio, quindi gli prese gentilmente il capo che poi posò contro i propri seni. Non aveva importanza quanto fosse cresciuto, Ormanno restava sempre il suo bambino e in quel momento aveva bisogno di conforto e di amore materno.
“Anche se quella ragazza gli desse dieci bastardi, non farebbe differenza. Sei tu il suo primogenito e il suo erede. E tu avrai sempre il primo posto nel suo cuore.”

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Capitolo 19
*** Un sorso di latte e un sorso di veleno ***


Capitolo diciotto
Un sorso di latte e un sorso di veleno
 
I capelli biondi incrostati di fango e spettinati, il viso sporco e la barba non curata, lo sguardo acceso di blu e oro. Un braccio a sollevare una spada puntata verso il cielo grigio.
“Per Firenze!” Il grido di battaglia di un guerriero che non teme nulla.
Fu con questa immagine nella mente che mi svegliai, il corpo caldo di Rinaldo avvinghiato al mio. Eccitata dal sogno in cui il mio uomo dava sfoggio di tutta la sua virilità, feci correre la mano sul suo petto e mi addentrai sotto le lenzuola spudoratamente per raggiungere il mio obiettivo. Quello che poi strinsi nel palmo con decisione. Il mio gesto possessivo, ovviamente, destò Rinaldo, il quale emise un gemito di sorpresa.
Buttò fuori un lungo sospiro e poi parlò con voce roca dal sonno: “Non lo sai che non bisogna svegliare il serpente che dorme? Potrebbe morderti.”
“Non fa così il proverbio!” Ridacchiai, per poi dare inizio ad un accurato massaggio a ciò che avevo in mano. Sollevai il viso dalla sua spalla e gli sussurrai all’orecchio, maliziosa: “E poi questo serpente non mi ha mai morsa.”
Rinaldo resistette eroicamente alla piacevole tortura infertagli dalla mia mano, la quale si muoveva sempre più veloce sotto le lenzuola, e cercò testardamente di soffocare i suoni di apprezzamento che talvolta si levavano dalla sua gola. Almeno fino a quando la bestia che era in lui non decise di contrattaccare. Il suo corpo scattò all’improvviso, rotolando sul fianco, per poi impossessarsi della posizione dominante sopra di me. Mi diede una lezione indimenticabile! Io lo avevo provocato e ora lui si stava vendicando massacrandomi senza pietà, prendendomi con tanta potenza da farmi temere che il letto cigolante sarebbe crollato. Ed imparai che la frase ‘ti apro in due come una mela’, non era solo un modo di dire. Mi concessi giusto un grido finale, i miei fianchi inarcati contro i suoi, l’eco del suo grido virile nella mia mente. Rinaldo si abbandonò su di me, stremato, i nostri corpi umidi e pulsanti per quella passione cieca che ci aveva travolti.
Ero prossima a ricadere nel tepore del sonno quando Rinaldo scivolò via dalle mie braccia, destandomi. Aprii gli occhi di uno spiraglio perché la luce del giorno non mi ferisse, dopo che Rinaldo aveva aperto una cortina per scendere dal letto. Mi sollevai pigramente a sedere: “Devi già andare, amore?”
La sua voce arrivò dall’angolo della stanza nascosto alla mia visuale, dove avevo fatto mettere un pitale apposta per lui. Alzò il tono di voce nel tentativo di sovrastare il rumore, mentre svuotava la vescica.
“Devo dare le ultime istruzioni ai servitori. Contarini arriverà nel tardo pomeriggio, voglio che ogni cosa sia impeccabile.”
Scossi il capo per riprendermi dall’intorpidimento causato dal piacere e dal sonno: “E’ vero, lo avevo dimenticato. Però non capisco. Per quale motivo hai invitato tutta la sua famiglia? So che ospiterai perfino suo fratello.”
Il gocciolio cessò e in breve Rinaldo ricomparve di fronte a me, in tutta la sua maschia e nuda bellezza. Rimasi senza fiato.
“Ho un progetto in mente e vorrei esporglielo. Quando avremo raggiunto un accordo te ne parlerò.” Si chinò per raccogliere i pantaloni dal pavimento e, dopo averli indossati, recuperò anche la camicia un po’ più in là. Sorrisi tra me. Sia i suoi che i miei abiti erano stati gettati alla rinfusa la sera prima, quando la passione ci aveva preso con violenza dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo.
Scesi dal letto e recuperai la mia veste da camera: “Vado a prendere Levante, vorrei allattarlo io questa mattina, così la balia può riposare.”
Rinaldo, ora seduto sul bordo del letto e intento ad allacciarsi uno stivale, sollevò lo sguardo beffardo su di me: “Non mi dirai che ne hai ancora dopo la scorpacciata che ho fatto stanotte!”
Gli lanciai un’occhiataccia: “Non mi dirai che ti senti fiero di te stesso per aver rubato il cibo a tuo figlio!”
Lui strizzò l’occhio: “Non mi sembravi contrariata mentre lo facevo.”
In tutta risposta gli lanciai una scarpetta di seta dritta sulla testa, un po’ per punizione e un po’ per scherzo. Rinaldo ridacchiò, quindi avendo finito con gli stivali, si alzò dal letto e parlò seriamente: “Sarà meglio che accenda il fuoco nel salottino, non voglio che nostro figlio rischi di prendere freddo.” Detto fatto, si diresse là, dove prese l’attizzatoio e si mise a muovere le braci nel camino, creando un letto ardente su cui poi avrebbe aggiunto la legna.
Io andai nella stanza accanto, quella che Isabella condivideva con la balia quando quest’ultima doveva occuparsi di Levante al posto mio. Tornai entro pochi minuti, tenendo tra le braccia il mio fagottino addormentato e trovai un bel ciocco di legno che bruciava nel camino. Il calore che emanava era delizioso. Mi avvicinai a Rinaldo. Sempre intenerito dalla vista del nostro bimbo addormentato, chinò il capo e lo accarezzò delicatamente viso contro viso.
“Il mio piccolo guerriero.” Sussurrò, ottenendo una piccola smorfia involontaria da parte di Levante.
Mentre lui recuperava la giacca dal pavimento, io mi accomodai sulla mia poltrona di fronte al camino, in attesa che il mio piccolino si svegliasse per la poppata.
“Stasera non potrò venire, ma domani verrò senz’altro a farvi visita. Sempre che tuo padre non abbia inventato un nuovo trucco per tenermi fuori.”
Io ridacchiai divertita ricordando quel buffo episodio. Rinaldo si chinò per darmi un bacio a fior di labbra e se ne andò.
Non appena ebbe richiuso la porta alle proprie spalle, ecco che quella dell’altra stanza si aprì e sulla soglia comparve Isabella con la sua bimba tra le braccia: “Damigella, posso entrare?”
“Potevi farlo anche prima, se lo desideravi.” Sottolineai, regalandole un sorriso.
Lei richiuse la porta con cautela, quindi andò a prendere posto sulla poltrona accanto alla mia.
“Non oserei mai entrare mentre è presente Messer Albizzi.” Lo aveva detto sorridendo, però io sapevo che continuava a non gradire la presenza del mio amante. Un vagito attirò la sua attenzione, la piccola Gioia si era svegliata. Isabella si scoprì un seno e aiutò la bimba a trovare la mammella da cui nutrirsi.
Diedi un’occhiata al mio orsacchiotto beatamente addormentato: “Ancora non si sveglia, lui.”
“Durante la notte ha avuto qualche problemino con le coliche, si è svegliato qualche volta in più di Gioia.”
“Ora capisco perché sia lui che la balia hanno così tanto sonno.” Chinai il capo per stampargli un bacio sulla fronte, la mia voce divenne un miagolio: “Povero piccolino. Il pancino ti ha fatto i dispetti questa notte.” Lo cullai tra le braccia, avvolgendomi nella mia stessa tenerezza. Ero così presa che non mi accorsi subito della porta che si apriva, ma quando sollevai lo sguardo e mi ritrovai davanti mio padre, emisi un gridolino sorpreso. Anche Isabella non reagì molto bene, si mosse di lato sulla poltrona per coprire alla sua vista il seno nudo.
“Continua pure, Isabella, non badare alla mia presenza.” Disse con noncuranza.
Lei fece un cenno positivo col capo, ma dal suo sguardo traspariva un forte imbarazzo per quella situazione.
“Padre, come mai questa visita?”
Lui, da bravo politico, rispose con un’altra domanda: “Mio nipote sta bene?”
“Sì, sto aspettando che si svegli per la poppata.”
“Mh.” Distolse lo sguardo e appoggiò una mano sul bordo del camino.
“Hai…bisogno di qualcosa?” Incalzai, desiderosa di capire per quale remota ragione si era presentato in quel modo nelle mie stanze.
Lui si schiarì la voce e puntò di nuovo lo sguardo su di me: “In verità, volevo solo dirti che stavo pensando di dare una cena in onore di Messer Contarini. Ho avuto modo di conoscerlo in passato, è un uomo dalle idee interessanti.”
Lo guardai con tanto d’occhi, continuando a desiderare una risposta valida: “Bene. E?”
“E vorrei capire cosa sta tramando Albizzi. Ti ha detto qualcosa al riguardo?”
Ed ecco il punto. Voleva che fossi io a dargli informazioni. Alzai lo sguardo al soffitto un istante, esasperata: “Padre, anche se lo sapessi non te lo direi. Non sono più la tua spia, ricordi?”
Vidi il suo sguardo tremare di rabbia, una mano chiusa a pugno. Stava per rispondermi qualcosa di certamente sprezzante, ma poi un piccolo lamento di Gioia lo fece voltare. Il suo sguardo sembrò studiare la piccola che ancora stava succhiando il latte dal seno materno. Dopo qualche istante un perfido sorriso affiorò dalle sue labbra.
“Sai Delfina, Contarini ha una figlia in età da marito. Dicono che sia una fanciulla particolarmente graziosa e ammodo. Il suo nome è Isabella.”
La mia Isabella fremette nell’udire quella notizia. Mio padre continuò: “Chissà, forse anche il giovane Ormanno ne rimarrà conquistato.”
Fiero del suo operato, mi lanciò un’occhiata trionfante e uscì dalla stanza.
Sentendomi in colpa per il suo comportamento, mi affrettai a rivolgermi ad Isabella: “Non ascoltarlo. Le sue cattiverie non hanno alcun valore.”
Lei si voltò di scatto, lo sguardo turbato e la voce gracchiante: “E’ evidente che lo ha fatto per ferirmi.” Ed ecco che i suoi occhi si riempirono di lacrime: “Sono solo una stupida. La verità è che ogni giorno e ogni notte continuo a sperare che Ormanno e io…” Strinse le labbra e voltò il capo.
Avrei tanto voluto poter fare qualcosa per lei. Per esempio, tagliare la lingua biforcuta di mio padre sarebbe stato un buon inizio.

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Capitolo 20
*** Subdola vendetta ***


Capitolo diciannove
Subdola vendetta
 
Che non avrei mai più potuto entrare nei miei vecchi abiti era un dato di fatto, ma questo non significava che fosse una cosa negativa. La gravidanza aveva cambiato le mie forme in meglio, i fianchi ora erano più pieni e i seni forse sarebbero rimasti abbondanti anche al termine del periodo di allattamento. Non sarei più stata magra come un giunco, ma almeno adesso mi sentivo più donna nel mio nuovo corpo. Passai fieramente una mano sul ventre ormai quasi piatto, fiera di aver riconquistato la mia linea solo dove era necessario. Per la serata avevo commissionato un abito in velluto viola scuro con ricami in oro, su cui poi avevo abbinato una collana di diamanti bianchi dal taglio ottagonale su montatura dorata e gli orecchini con pendenti viola che mi aveva regalato Rinaldo per il mio compleanno. I capelli invece li avevo lasciati sciolti, con le loro onde naturali che li rendevano splendidi, e avevo aggiunto giusto una coroncina di foglie d’alloro in oro per dare un tocco grazioso. Il mio viso giovane e bello non aveva bisogno di nulla, cosa che mi fece sorridere con ben poca modestia. Le campane rintoccarono in quel suono che io talvolta trovavo triste e lugubre. Sospirai: “E’ tardi, ormai tutti gli ospiti saranno arrivati.”
Ero effettivamente in ritardo, avendo dovuto aspettare che Levante reclamasse il suo pasto per non rischiare che i miei seni straripassero durante la cena. Ero nervosa. Non solo quella sera avrei dovuto interagire con persone che non vedevo da mesi e che erano convinte che io fossi stata malata, ma tra loro avrei incontrato anche Madonna Alessandra e questo era il motivo che più mi rendeva inquieta. Un faccia a faccia con la mia rivale.
“Coraggio, Damigella de’ Pazzi.” Dissi a me stessa, sperando che la forza del mio nome mi avrebbe aiutata ad affrontare quella prova.
Percorsi il corridoio con passo lento, prendendo lunghi respiri e pizzicandomi le guancie per renderle rosse in dimostrazione della mia buona salute. Mi schiarii la voce e feci un cenno al guardiano perché mi aprisse la porta. Entrai nella sala ben illuminata e calda, tra il chiacchiericcio generale riconobbi subito la voce civettuola di mia madre. Lei e mio padre stavano conversando di fronte al grande camino assieme ad un’altra famiglia. Vedendomi arrivare, mio padre si illuminò e allungò un braccio per accogliermi: “Ed ecco la gemma della serata! Vieni qui tesoro!”
Lasciai che mi avvolgesse le spalle con il braccio mentre mi presentava agli ospiti: “Messer Contarini, ho l’onore di presentarvi mia figlia Delfina.”
L’uomo in questione, un ometto tutt’altro che bello e con un taglio di capelli che non gli donava affatto, increspò le labbra sottili in un sorriso e chinò il capo per rispetto.
“Lieto di fare la vostra conoscenza, Damigella. Vi presento mia moglie e mia figlia Isabella.”
Se la moglie si limitò a sorridere educatamente, la figlia invece si mostrò molto più spontanea e gioviale. Come avevo immaginato, non era una gran bellezza, era solo carina, però qualcosa in lei mi fece sperare che saremmo diventate amiche durante la sua permanenza a Firenze. E poi avevamo all’incirca la stessa età.
“Damigella Isabella, vi prego lasciatemi dire che adoro il vostro vestito. Il suo colore richiama la primavera, è davvero incantevole.”
Il suo sorriso si accentuò, si lisciò la gonna con le dita: “Vi ringrazio, Delfina! Se posso ricambiare il complimento, io adoro i vostri orecchini di ametista. Anche se i vostri occhi brillano molto di più.” La sua voce era cristallina e piacevole. Sì, volevo diventare sua amica o non mi sarei data pace.
Allo stesso modo io sfiorai il pendente di un orecchino con un dito e dissi timidamente: “E’ un dono di Messer Albizzi. Li conservo gelosamente.”
“Damigella de’ Pazzi!”
Quella voce tagliente e dal tono sinistro, mi fece voltare di scatto. Mi ritrovai davanti Madonna Alessandra al braccio di suo marito e affiancata da suo figlio. Sia lei che Ormanno avevano una strana luce maligna negli occhi. E non era solo un effetto delle candele.
Feci un inchino maldestro, improvvisamente il cuore prese a rimbombarmi nelle orecchie: “M-Madonna Albizzi.”
“Sono così felice di vedere che siete tonata in salute, mia piccola cara. Quando ho appreso la notizia che eravate gravemente malata sono rimasta molto turbata. Siete stata segregata per mesi. Povera piccola, di cosa avete sofferto?”
“Io…ehm.. Ho avuto una forte febbre che mi ha indebolita. L’aria della campagna e le cure amorevoli di mia madre mi hanno aiutata a rimettermi.”
Sollevai lo sguardo che avevo tenuto basso per timore che i miei occhi tradissero la menzogna che avevo detto. Incontrando lo sguardo sicuro di Rinaldo mi sentii più forte.
Inaspettatamente mi ritrovai una mano di Alessandra sotto il mento, le sue dita sottili ad afferrarmi forse troppo saldamente: “Le vostre guance belle tonde e rosse sono lo specchio della vostra buona salute ritrovata!”
Non mi piaceva il modo in cui mi toccava e men che meno le sue parole. Voleva forse dire che ero grassa? Non era assolutamente vero, comunque!
Sorrisi forzatamente e feci un passo indietro per sfuggire al suo tocco: “Sì sono tornata perfettamente in salute, Madonna. Vi ringrazio.” E subito dopo lanciai uno sguardo interrogativo a Rinaldo, il quale si schiarì la voce ed intervenne: “Io trovo che Damigella Delfina abbia raggiunto il massimo della bellezza. E’ partita che era un bel bocciolo ed è tornata a Firenze in fiore.”
Cosa stava dicendo? Mai una volta avevo sentito una frase così smielata uscire dalle sue labbra. Non mi sorpresi di vedere lo sguardo di sua moglie farsi minaccioso. Lo stesso Ormanno s’irrigidì.
“Non vi credevo un uomo poetico, Rinaldo.” Disse Contarini, con un sorriso divertito.
Sia mia madre che Isabella Contarini ridacchiarono con discrezione, anch’esse divertite.
Madonna Alessandra si strinse ulteriormente al braccio del marito e con la mano gli accarezzò il petto. Ora il suo viso era illuminato di malizia: “Mio marito ha molte qualità nascoste, Messere.” Mi lanciò un’occhiata di sfida e proseguì: “Nei momenti più impensabili può rivelarsi un uomo romantico, anche se io lo preferisco quando è ardito.”
Mi sentii tremare per la rabbia, avevo capito a cosa si riferiva veramente. Quella era una vera e propria dichiarazione di guerra, ma perché? Rinaldo stesso era sorpreso da quello strano comportamento, Ormanno invece aveva improvvisamente ritrovato il sorriso dopo quell’attacco nei miei confronti. Cosa stava succedendo? Troppo sconvolta per pensare ad una risposta adeguata e troppo furente per restare ferma immobile senza rischiare di schiaffeggiarla, feci un inchino e mi congedai: “Perdonatemi, ho dimenticato di dire una cosa importante alla mia dama di compagnia.”
Mentre mi avviavo, lanciai uno sguardo a Rinaldo e mi recai dritta alle mie stanze. Sbattei la porta alle mie spalle e andai a prendere a calci la mia poltrona. Fu in quello stato che mi trovò Rinaldo quando mi raggiunse pochi minuti dopo.
“Delfina, non è un comportamento adeguato.” Disse diplomatico, restando sulla porta.
Mi voltai, il mio viso doveva essere avvampato per la rabbia e avevo il fiato corto per lo sforzo: “Adeguato? Perché invece tua moglie che ti si struscia addosso come una gattamorta lo è?”
Lui mi guardò con tanto d’occhi, per poi prendere respiro e camminare verso di me: “Alquanto strano, devo ammettere. Non l’ho mai vista così prima d’ora.”
“Perché ce l’ha tanto con me? Non mi vede da mesi! Sembrava che volesse schiacciarmi come un moscerino!”
Lui scosse il capo: “Non saprei. Cercherò di tenerla a bada. Non voglio che dia spettacolo di sé. E nemmeno tu.”
Un pensiero mi attraversò la mente, rendendomi improvvisamente velenosa: “E se lo stesse facendo perché sa qualcosa? Se volesse vendicarsi?”
“E’ ridicolo. E’ impossibile che sappia alcun che. E inoltre, anche se così non fosse, non avrebbe motivo di vendicarsi. Il nostro matrimonio è senza amore, ricordi?”
“In ogni caso, fa in modo che la smetta. La prossima volta che la vedo toccarti in quel modo o che la sento alludere al tuo temperamento fra le lenzuola giuro che…” Lui mi afferrò per i polsi e se li portò entrambi al petto: “Tu non farai nulla. Lo sai che io e lei non condividiamo il talamo da anni. Ti consiglio di goderti la serata e mettere da parte la tua gelosia insensata e infantile.”
Il suo sguardo severo non ammetteva risposte contrarie, abbassai lo sguardo e sbuffai: “Come vuoi.”
“Bene.” Mi lasciò le mani e si avviò per tornare nel salone: “Aspetta qualche minuto prima di tornare. E ritrova il sorriso.”
Non appena fu uscito, diedi un altro calcio alla poltrona solo per ripicca.
“Gliela faccio vedere io a quella strega.” Il mio comportamento sarà stato anche infantile, però avevo pur sempre sedici anni. Mi presi qualche minuto per riaggiustarmi i capelli e pensai bene di abbassare un po’ la pettorina per lasciare maggior pelle scoperta. Se c’era una donna che poteva sedurre Rinaldo, quella ero io e solamente io.
Quando tornai nella sala, nonostante i miei buoni propositi, qualcosa mi bloccò. Nella cerchia di fronte al camino notai che si erano aggiunte altre due persone. L’uomo non sapevo chi fosse, in lei invece riconobbi Contessina de’ Medici e dalla conversazione turbolenta che stava avendo con Rinaldo capii che un’altra guerra era in corso quella sera. Sollevai gli occhi al soffitto. Quella che doveva essere solo una cena si stava rivelando una gran seccatura. 

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Capitolo 21
*** Dolce creatura ingenua ***


Capitolo venti
Dolce creatura ingenua
 
Quel giorno il sole splendeva alto nel cielo e l’aria era piacevolmente tiepida. Una giornata perfetta per passeggiare in giardino e far respirare aria pura ai bambini, una volta tanto. Nonostante mio padre fosse contrariato per quell’idea e timoroso che qualcuno potesse vederci all’infuori della proprietà, io e Isabella sapevamo che cosa era bene per i nostri piccoli che, da quando erano nati, avevano sempre e solo visto pareti e tendaggi. Con i nostri fagottini tra le braccia, passeggiammo per tutto il perimetro del giardino, parlando a cuor leggero di eventuali progetti per l’estate. Non sarebbe stata una cattiva idea sfuggire al caldo estivo rifugiandoci nella villa di campagna. Mi stavo giusto godendo il profumo dei fiori delle aiuole quando udii la voce di mia madre alle mie spalle.
“Delfina, una visita per te.”
Era abbigliata di un leggero abito color verde prato e i capelli erano raccolti sul capo, da cui scendeva il velo lungo quasi fino a terra.
Aggrottai leggermente le sopracciglia: “Una visita? Non si tratta di Rinaldo se me lo annunci in questo modo.”
Le sue labbra s’incresparono in un sorriso: “Si tratta di Isabella Contarini.”
Mi illuminai di gioia: “Che pensiero gentile farmi visita! La riceverò qui in giardino!”
Da quando era arrivata a Firenze ci eravamo incontrate altre volte ed era sempre stato un enorme piacere trascorrere del tempo con lei, ma era la prima volta che veniva a farmi visita personalmente dopo la famosa cena tenutasi nel mio palazzo. Porsi Levante a mia madre rischiando che scoppiasse a piangere per quell’improvviso cambio, invece riconobbe subito il tocco della nonna e la smorfia divenne un sorriso con tanto di suono di apprezzamento.
“Vieni con me, tesoro mio.” Sussurrò mia madre, per poi rivolgersi ad Isabella: “Anche tu, mia cara. Non credo tu voglia ritrovarti faccia a faccia con la tua rivale in amore.”
La ripresi prontamente: “Madre, ti prego.”
Lei fece spallucce: “E’ la verità, no?”
In effetti sì, lo era, e lo sguardo di Isabella confermava che la presenza di Damigella Contarini  a palazzo non le era affatto gradita. Anche se non me lo aveva mai detto apertamente, ero certa che soffrisse della mia simpatia nei confronti della fanciulla che aveva conquistato il cuore di Ormanno. Mentre loro rientravano, io controllai che sul mio abito rosa dal taglio morbido non vi fossero macchie di latte o qualunque cosa che potesse rivelare la presenza di un neonato. Avevo appena terminato di lisciare la gonna quando la voce di Damigella Contarini mi informò giocosa della sua presenza.
“Damigella Pazzi, temete forse di non essere graziosa quanto me?”
Sollevai lo sguardo e incontrai i suoi occhi chiari e luminosi. Ancora un passo ed entrambe scoppiammo in una risata. Le nostre mani s’intrecciarono a quattro, cordialmente.
“Aimè non lo sarò mai, temo!” Confermai, stando al gioco.
Prendemmo posto su una delle panchine di pietra che adornavano il giardino.
“A cosa devo l’onore di questa visita, Isabella?”
Lei parve cercare di trattenere l’entusiasmo, con pessimi risultati!
“Non potevo attendere un istante di più, Delfina! Sono così felice!” Prese nuovamente le mie mani tra le sue, gli occhi brillanti di lacrime: “Non è ancora stata resa ufficiale la notizia, ma voglio che voi siate la prima a saperlo! Io e Ormanno convoleremo presto a nozze!”
Se il suo entusiasmo si trasformò in lacrime di gioia, il mio invece scoppiò in un grido entusiasta dalla mia gola! L’abbracciai: “Sono così felice per voi, amica mia!”
La sciolsi per permetterle di asciugarsi gli angoli degli occhi col fazzoletto. Era davvero innamorata.
“Delfina, non so spiegarvi appieno la mia gioia. Mi sono innamorata di lui a prima vista. Sapere che anche lui mi amava era già molto per me, siamo fatti l’uno per l’altra. E adesso che diverrò sua moglie e starò al suo fianco per tutta la vita…oh potrei morire e rinascere!” Abbozzò una risata civettuola e all’improvviso la sua espressione mutò e i suoi occhi si sgranarono su di me: “Verrete al mio matrimonio, vero?”
“Ma certo, non potrei mai mancare.” Mi parve di sottolineare l’ovvio.
“So che tra voi e Ormanno non vi sono buoni rapporti, solo non ne conosco il motivo. Come può esserci astio tra due persone meravigliose come voi?”
Strinsi le labbra per non scoppiare a ridere. Sentir chiamare Ormanno con quell’appellativo era assolutamente incredibile. Quel ragazzo non brillava certo per simpatia o gentilezza. Tranne che con lei, in effetti. Mi schiarii la voce e dissi: “Temo sia a causa mia, Isabella. Come sapete, sono stata allieva di suo padre per un certo periodo. La vicinanza ha contribuito a forgiare il forte legame tra me e Messer Albizzi, ma purtroppo ha scatenato una profonda gelosia in suo figlio.”
Avevo parlato con naturalezza, senza pensare. In fondo era vero che tra me Rinaldo vi era un forte legame di cui Ormanno era geloso, però ugualmente non avevo detto tutta la verità e in cuor mio mi sentivo in colpa. Isabella era una creatura pura e onesta, io e Rinaldo invece dovevamo vivere nella menzogna per proteggere il nostro amore. Sarei mai riuscita a dire la verità ad Isabella? E lei come avrebbe reagito? Mi avrebbe giudicata? Avrebbe capito la forza del mio sentimento?
I miei pensieri s’interruppero sotto la stretta della sua mano. Il suo sorriso era candido e gentile: “Gli parlerò io. Tutto ciò che desidero adesso è che andiate d’accordo. Mio marito e la mia più cara amica, le due persone più importanti che avrò accanto nella vita.”
Mi si strinse il cuore nel vederla così ingenua e piena di sogni. Fino a pochi mesi prima ero anch’io come lei e poi ero dovuta crescere all’improvviso per tenere testa alle sfide della vita.
*
Rientrai a palazzo, mi recai nelle mie stanze con un velo di malinconia addosso. La felicità era ormai scemata e io ero assalita dallo sconforto. Perché non potevo essere anch’io una sposa? Perché non potevo essere felice? Isabella Contarini mi aveva chiesto di partecipare alla realizzazione del suo corredo, di aiutarla nella scelta dei colori delle stoffe. E di creare un ricamo per il corpetto del suo abito da cerimonia. Mi portai una mano alle labbra per impedirmi di dare di stomaco. Le mie budella erano tutte un groviglio di tensione. Ero felice per lei ma ero anche invidiosa. Ad accogliermi trovai la mia Isabella coi ricci ribelli che le avvolgevano le spalle.
“Vi ho spiate. Ho sentito ogni cosa.” Disse con tono grave. Abbassò il capo, delle lacrime caddero dritte sul pavimento.
Mi avvicinai a lei e l’accolsi in un abbraccio: “Lo so come ti senti.”
Il suo pianto silenzioso non era niente in confronto a quello che gridava nel mio cuore. Lei stava perdendo un uomo che non aveva mai avuto veramente, si sarebbe ripresa. Io invece possedevo il cuore del mio uomo ma non potevo fare nulla per avere il suo nome. A conti fatti quella che aveva più diritto di piangere ero io.

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Capitolo 22
*** Un bacio d'odio ***


Capitolo ventuno
Un bacio d’odio
 
Sorridente col mio cestino tra le mani, mi stavo recando a Palazzo degli Albizzi per mostrare ad Isabella le prove di ricamo che avevo fatto su degli scampoli di stoffa. Ero orgogliosa del mio operato ed ero certa che avrebbe apprezzato tutte le fantasie che avevo creato per il suo abito nuziale. La vista della carrozza con lo stemma dei Contarini, ferma di fronte al palazzo e con il cocchiere a cassetta, mi bloccò all’istante. Udii delle voci maschili alterate e il pianto di una fanciulla. Dalla cortina aperta vidi che si trattava appunto di Isabella. Corsi verso la carrozza.
“Isabella, dove state andando?” Lasciai cadere il cesto ai miei piedi.
Lei si sporse e mi afferrò le mani con presa salda, gli occhi gonfi e rossi per il pianto, la voce incrinata: “E’ tutto finto, Delfina. Tutto perduto. Sposerò il figlio del Doge di Venezia.”
“Che cosa? No, non potete! Voi e Ormanno…”
“Mio padre è irremovibile.”
Ero incredula e contrariata. Non solo il cuore di una dolce creatura era stato frantumato a causa di quello che doveva essere il classico accordo politico, ma la cosa peggiore era che la sua imminente partenza significava anche che…
“Non vi rivedrò mai più.” La voce mi uscì in un sussurro, la gola chiusa dalla consapevolezza di quanto stava accadendo.
Balzai all’indietro nell’udire il rumore della frusta per incitare i cavalli a partire, ma ugualmente le mie mani rimasero strette in quelle di Isabella. Mi mossi per stare al passo con la carrozza.
“Addio, amica mia.” Lasciò scivolare le mie mani, negli occhi una profonda tristezza.
Mi affrettai a recuperare il cesto che avevo abbandonato a terra e corsi per raggiungere la carrozza prima che il cocchiere spronasse i cavalli ad aumentare velocità. Allungai il braccio e gridai: “Non dimenticatemi. Io vi terrò sempre nel mio cuore.”
Isabella si sporse il più possibile dalla carrozza e afferrò il manico del cesto. Fermai la mia corsa. Un singhiozzo si levò dalla mia gola, le lacrime mi offuscarono la vista, ma ugualmente non distolsi lo sguardo fino a quando la carrozza non svoltò. Presi un respiro profondo e mi voltai. Rinaldo mi osservava dall’ingresso del palazzo.
Gli corsi incontro stravolta: “Perché? Perché li hai lasciati andare?”
Se già le sue sopracciglia aggrottate mi avevano indicato il suo pessimo umore, la voce ringhiante me ne diede conferma: “Credi che sia lieto di vedere un buon affare andare in fumo?”
Alterata per tanta mancanza di tatto, puntai un dito nella direzione presa dalla carrozza e risposi a tono: “Un buon affare? Quella povera ragazza ha il cuore spezzato.”
Lui sospirò spazientito: “Nemmeno mio figlio ha reagito bene, se è per questo. Ma un matrimonio non ha nulla a che vedere con l’amore.”
Se in principio desiderai di prenderlo a schiaffi per quell’affermazione, un nuovo pensiero mi deviò su un altro fronte. Ormanno. Quella partenza così ingiusta e repentina doveva aver spezzato il cuore anche a lui.
“Dove si trova adesso?”
“E’ rientrato. Credo sia nelle sue stanze.” Rispose Rinaldo con disimpegno.
L’informazione mi bastava. Feci un cenno col capo ed entrai nel palazzo correndo, un lembo della gonna sollevato tanto da lasciar intravedere entrambe le mie gambe. Non era il momento di pensare alle apparenze. Senza pormi alcun problema, entrai nelle stanze private di Ormanno e lo trovai abbandonato su uno scranno, la testa tra le mani. Sollevò il capo di scatto.
“Sono molto dispiaciuta, Ormanno. Vi prego, se posso fare qualcosa per confortarvi…”
Anche se non stava piangendo, i suoi occhi erano lucidi e il viso arrossato. Il suo sguardo si accese per la sorpresa di vedermi lì. Si alzò in piedi, ma fece solo un passo verso di me.
“Tu, sgualdrina. Perché sei qui?” Disse rabbioso.
Sollevai le mani in segno di tregua: “So di non rientrare nelle vostre simpatie, ma questa volta vorrei poter essere vostra amica. Isabella era molto cara anche a me, lo sapete.”
La sua smorfia di disgusto non fu affatto rassicurante: “Sei venuta per gioire della mia pena, vero? La mia disperazione è la tua felicità.”
Scossi lentamente il capo: “No, non è così.”
Lui si avvicinò con aria minacciosa e poi gridò a pieni polmoni: “Io ti odio!”
Quel che accadde poi mi lasciò pietrificata e inerme, tale fu la sorpresa del suo gesto. S’impossessò della mia mano stringendola in una morsa e subito dopo mi ritrovai con le sue labbra incollate alle mie. Il cuore mancò qualche battito, il gelo invase il mio corpo dall’interno, quando invece le labbra sembravano bruciare contro quelle di lui. Un bacio troppo forte oltre che inspiegabile. Tenni gli occhi aperti per tutto il tempo. Quando Ormanno si decise a liberare le mie povere labbra doloranti, lessi nei suoi occhi qualcosa di simile alla paura, le sue guance erano chiazzate di rosso e aveva il respiro affannato. In uno scatto repentino mi lasciò la mano e balzò all’indietro nemmeno fossi stata un serpente. Le dita mi dolevano quanto le labbra. Sbattei le ciglia un paio di volte. Dovevo riprendermi.
Aprii la bocca, tutto ciò che ne uscì fu un soffocato: “Cos…?”
Ormanno si guardò attorno smarrito, quindi puntò di nuovo lo sguardo su di me e gridò: “Io ti odio!”
Sospirai esasperata: “Questo lo hai già detto!”
Stava per il ribattere, ma il rumore della porta che si apriva attirò l’attenzione di entrambi. Rinaldo diede un’occhiata all’interno, poi entrò e richiuse la porta con cura.
“Che cosa succede qui?”
“Dì alla tua sgualdrina di uscire. Queste sono le mie stanze.” Buttò fuori Ormanno, assieme ad alcuni schizzi di saliva.
Rinaldo lo fulminò con lo sguardo: “Portale rispetto, Ormanno. Il fatto che tu sia sofferente per la partenza di quella ragazza, non ti autorizza a rivolgerti in questo modo alla damigella che…”
“…ti porti a letto?”
“…che amo!” Gridò Rinaldo. I pugni stretti per la collera.
Ormanno sfoggiò un ghigno e si avvicinò a lui con aria di sfida: “Ed ecco l’ammissione, finalmente.” Si fermò solo quando il suo viso era tanto vicino da poter quasi sfiorare quello del padre. Sibilò: “Davvero credevi che non lo sapessi? Che non avessi capito? Che non avessi visto coi miei occhi quello che stava accadendo? Pazzi ti ha gettato sua figlia tra le braccia per tenerti in pugno e tu ci sei cascato come un babbeo.”
Rinaldo, sguardo fermo e voce altrettanto ferma, rispose: “Attento, Ormanno. Non osare sfidare tuo padre.”
Ormanno si fece un po’ indietro e ridacchiò: “Altrimenti? Mi diseredi e lasci tutto al tuo bastardo?”
A quel punto Rinaldo si fece valere, gli afferrò un braccio e glielo torse dietro la schiena per immobilizzarlo, quindi torreggiò su di lui: “Non so come tu lo abbia scoperto, ma ti assicuro che tuo fratello che è ancora nella culla è più affidabile di te.”
“Non è mio fratello.” Precisò Ormanno, con la conseguenza che il padre fece ancora più pressione sul braccio e lo fece gemere di dolore.
“Rinaldo, ti prego.” Lo pregai, non potendo sopportare oltre di vedere tanta violenza tra padre e figlio.
Lui mi lanciò un’occhiata e poi lo lasciò andare. Ormanno si lasciò cadere sulle ginocchia, il viso ancora contratto per il forte dolore.
Non appena Rinaldo si fu avvicinato a me, mi feci coraggio e gli proposi: “Forse dovremmo farli incontrare. Se vedesse quanto è piccolo e dolce Levante, il suo rancore si placherebbe.”
Rinaldo scosse il capo: “E’ inutile. Fino a quando non avrà imparato ad accettare il nostro legame, non voglio che abbia niente a che fare con nostro figlio.”
Ormanno sollevò lentamente il capo e ci guardò di sbieco, la voce gli uscì strozzata: “Non lo accetterò mai. Nemmeno quando sarete entrambi all’inferno.”
Rinaldo fece per sferrargli un pugno ma io gli fermai il braccio per impedirglielo: “Rinaldo. Così non risolverai nulla.”
I nostri sguardi s’incontrarono. Da sotto la stoffa potevo sentire il suo braccio fremere. Cercò di buttare fuori la rabbia con un sospiro, in breve il fremito cessò, i muscoli del braccio si rilassarono. Sollevò il braccio libero e mi posò la mano sulla spalla. Mi parlò con tono rassicurante: “Se ne farà una ragione.” Poi voltò il capo e si rivolse ad Ormanno: “Dì a tua madre che questa sera mi tratterrò dai Pazzi. E aggiungi che si tratta di un incontro per affari.”
Fece correre la mano sulle mie spalle per avvolgerle entrambe col braccio e insieme avanzammo verso la porta. Io mi voltai per guardare Ormanno un’ultima volta. In ginocchio sul pavimento, con un braccio sorretto dall’altro, mi trasmise tutto l’odio che provava per me attraverso lo sguardo. Sentii un crampo allo stomaco. La mia fioca speranza di poter aver un rapporto civile con lui era ormai svanita. Nel profondo dei suoi occhi scorsi anche un guizzo di soddisfazione. Quel bacio prepotente niente era stato se non un modo per infettarmi col suo odio.

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Capitolo 23
*** Il sapore amaro del tradimento ***


Capitolo ventidue
Il sapore amaro del tradimento
 
Era sempre stato un uomo diretto e sicuro, non avrebbe esitato proprio ora che la situazione si era fatta pericolosa. Con l’imminente ritorno dei Medici a Firenze, il tempo degli Albizzi era finito, o forse era finito già da tempo a causa della tirannia di Rinaldo e la sua infinita sete di potere. Ormai per lui non poteva fare più niente, ma poteva e doveva proteggere la propria figlia e il nome dei Pazzi.
“Mio Signore…”
La voce timida e dolce lo riportò al presente. Aveva tenuto le dita intrecciate così strette che erano diventate bianche per il mancato afflusso di sangue. Velocemente le sciolse e si posò le mani in grembo. Sollevò lo sguardo su Isabella, in piedi di fronte al tavolo, lo sguardo un misto di timore e di curiosità. Pazzi si schiarì la voce e parlò con tono fermo: “Ti ho mandata a chiamare perché devo affidarti un compito molto importante.”
“Quale, Messere?”
“Questa sera riceverò Messer Albizzi qui nel mio studio.”
“Lo so. Damigella Delfina mi ha informata.”
“E immagino ti abbia anche detto che presiederà all’incontro.” Buttò lì, ridacchiando amaramente.
Isabella abbassò lo sguardo, strinse le mani in grembo: “Sì, è così.”
“Ebbene, non lo farà. E sarai tu ad impedirglielo.”
Lei spalancò gli occhi: “Io? E in che modo? Sono solo una serva…”
Pazzi scostò lo sguardo e lo puntò su di un calice vuoto posto ad un’estremità del tavolo, come esaminandolo. Strinse le labbra e tornò a guardare Isabella. Avrebbe preferito mozzarsi la lingua piuttosto di doverlo dire. E invece deglutì e lo disse: “Somministrandole del sonnifero.”
Si alzò dalla poltrona e andò verso una credenza da cui prese qualcosa che lei non riuscì a vedere. Pochi passi e le fu accanto, la mano sollevata e chiusa a pugno. Nell’aprirla rivelò una minuscola boccetta di vetro contenente un liquido nerognolo. Vedendo l’esitazione di lei, le lanciò un’occhiata per indurla a prendere la boccetta. La povera ragazza aveva le mani che tremavano.
“Proponile di bere una coppa di vino prima dell’incontro, così non avrà alcun sospetto. Cinque gocce basteranno, è un sonnifero potente. Il tempo di aggiustarsi i capelli o rimirarsi allo specchio e verrà colta da una forte stanchezza. Cadrà in un sonno profondo entro pochi minuti.”
Oltre le mani, vide che anche il suo sguardo stava tremando. Ingoiò il proprio orgoglio e disse apertamente: “E’ per il suo bene, Isabella. So di essere sempre stato un padre severo, ma non farei mai del male alla mia unica figlia.”
Quelle parole parvero tranquillizzarla. Isabella fece un cenno col capo: “Se non sono invadente, per quale motivo state facendo questo? E’ solo un incontro tra voi e Messer Albizzi.”
Pazzi voltò lo sguardo altrove, gli occhi improvvisamente vuoti per quel pensiero che stava formulando.
“Perché temo che non sarà affatto solo un incontro.” Altro non poteva dire. Per quanto fedele, Isabella era comunque più devota a Delfina e se si fosse lasciata sfuggire una parola di troppo, Delfina sarebbe stata in pericolo.
*
M’infilai la sottoveste con disimpegno, nella mente un turbine di pensieri che m’inquietavano. Se perfino io ero ancora turbata dalla notizia che Cosimo stava tornando in città dopo l’esilio, potevo solo immaginare come si sentisse Rinaldo dopo quell’ennesima sconfitta. Avevo udito io stessa le grida dei popolani per le strade, avevo visto sventolare le bandiere con lo stemma mediceo. Uno stemma la cui forma mi ricordava una bara, mentre le palle che conteneva avrebbero potuto essere teschi. Un brivido mi attraversò la schiena mentre nella mia mente si formava l’immagine della testa recisa di Rinaldo dentro quella bara. Scacciai quella visione scotendo il capo, ero davvero una stupida. Cosimo non avrebbe osato tanto. Allungai lo sguardo su Rinaldo, al contrario di me lui era già vestito e quasi pronto per andare ad un incontro della Signoria. Notai che il collare d’oro sulle spalle era in disordine, per me fu un buon motivo per avvicinarmi a lui e tentare di scambiare qualche parola.
Era talmente immerso nei suoi pensieri che fremette al mio tocco. Nei suoi occhi lessi turbamento, a prova che la sua tranquillità era solo apparente. Eravamo entrambi tesi a causa di quel dannato Cosimo. Abbassai lo sguardo e mi misi ad armeggiare con la bella catena d’oro incastonata di diamanti.
“Dovresti arrenderti, sai?” La voce mi era uscita così fievole che io stessa non ero sicura di aver parlato. La mano di Rinaldo si posò sulla mia per arrestare la mia inutile occupazione. Dovetti affrontare la freddezza del suo sguardo.
“Mai. Ho lottato tutta la vita per ottenere il potere e non ho intenzione di rinunciarvi proprio ora.”
“Ma con il ritorno di Cosimo tu…”
“Che il diavolo se lo porti!” Mi gridò in viso, per poi serrare le labbra e imporsi di riprendere il controllo. Si portò la mia mano alle labbra e vi stampò un bacio sul dorso.
“So che non approvi, ma non vi è altra soluzione. Questa sera convincerò tuo padre ad unirsi a me e insieme prenderemo il controllo della Signoria. Quando Cosimo sarà tornato non troverà nemmeno le briciole, perché io avrò già preso tutto.”
Avrei voluto replicare, avrei voluto dirgli che era troppo rischioso e che aveva poche speranze di riuscire in un piano così losco, ma la mia gola si chiuse in una morsa. Sciolsi la mano dalla sua e andai a recuperare il mio abito dal pavimento, dove lo avevamo gettato qualche ora prima. Gli avevo fatto visita per parlargli e stargli vicina, invece poi ci eravamo ritrovati a rotolare tra le lenzuola con ben poco sentimento. In qualche modo doveva dare sfogo alla sua ansia, anche se speravo lo avrebbe fatto con le parole, data la difficile situazione. Avevo tanta paura. Rinaldo stava puntando troppo in alto e io temevo che tutto si sarebbe concluso con una rovinosa caduta.
Mi si avvicinò per aiutarmi ad allacciare il vestito sulla schiena. Pochi movimenti, poi sentii il calore delle sue labbra sull’incavo della spalla. Le sue labbra salirono lentamente lungo il collo, si posarono sul lobo dell’orecchio. La sua voce un sussurro: “Lascia a me la politica, Delfina. So quello che faccio.”
Sospirai. Con un movimento un po’ brusco mi liberai del suo tocco: “E’ meglio che io vada, non voglio rischiare di incontrare Ormanno nel corridoio. Sopportare anche lui sarebbe davvero troppo oggi.”
Udii una risatina amara alle mie spalle. Non me ne curai.
“Ci rivediamo questa sera al mio palazzo.” Me ne andai senza voltarmi, come una bambina arrabbiata. Quella sera avrei dovuto dare il meglio per convincercelo ad abbandonare il suo piano e farlo pensare alla sua sicurezza.
*
“Non capisco perché tu mi stia trattenendo. Che senso ha acconciarmi i capelli con tanta cura? Devo solo incontrare Rinaldo e mio padre nello studio.” Quell’ultima frase mi uscì con un sibilo, mentre con lo sguardo tagliente guardavo Isabella attraverso lo specchio. Lei sembrava inquieta, ma non ne comprendevo il motivo.
“Non dovete trascurare il vostro aspetto. E’ bene che una fanciulla del vostro lignaggio sia sempre in ordine e graziosa.”
Sospirai, lasciandomi ricadere di schiena sulla spalliera della sedia. Lei riprese ad acconciarmi i capelli con cura, in un’acconciatura piuttosto elaborata in cui i capelli sollevati sul capo erano fermati da una rete di pettinini di madreperla. Ancora due minuti e l’avrei strangolata per l’impazienza. In suo arrivo arrivò il rintocco della campana. Sapevo che Rinaldo doveva arrivare a quell’ora. Mi alzai si scatto dalla sedia: “Devo andare.”
Feci per avviarmi verso il salottino adiacente ed ecco la voce di Isabella mi fermò: “Gradireste un calice di vino?”
Mi voltai lentamente, perplessa e irritata: “Vino? Appena sarò scesa ne potrò bere a bottiglie, se lo desidero. Perché dovrei bere adesso?”
“Perché…” Il modo in cui gesticolava era segno che stava cercando una scusa plausibile: “Perché ne avete bisogno per rinfrancarvi lo spirito. Dovrete essere agguerrita!” Con la destra diede un pugno al palmo sinistro, un gesto alquanto ridicolo per una ragazza mite come lei.
Mi portai una mano alla fronte, esasperata: “Va bene, Isabella, versami un calice di vino e poi, per grazia divina, lasciami andare.”
Lei fece una frettolosa riverenza e mi superò per entrare nel salottino dove appunto si trovava sempre una bottiglia di vino per ogni evenienza. Dovetti sospirare per scacciare l’impulso di mandarla al diavolo e correre via. Ormai Rinaldo doveva essere arrivato e io non volevo tardare troppo.
“A voi, Damigella.” Isabella mi porse il calice e io pensai bene di trangugiare il contenuto tutto d’un fiato. Sbattei il calice sul mobile più vicino a me e dissi soddisfatta: “Ora posso andare.”
“No, ma..ma…”
“Isabella, questo atteggiamento non mi piace affatto. Più tardi ne riparleremo.”
Finalmente ero prossima ad uscire da lì, quando un rumore sinistro alle mie spalle mi bloccò. Questa volta voltai il capo di scatto e puntai lo sguardo in basso. La gonna del mio vestito era strappata all’incirca dall’altezza delle mie natiche fino a terra. Fortunatamente indossavo la sottoveste o di fatto mi sarei ritrovata nuda in un luogo dove non batteva mai il sole. A terra, in ginocchio, Isabella aveva un lembo della gonna stretta tra le mani, il suo sguardo tremante.
“Che cosa stai facendo, sciocca?” Gridai isterica, furente per quel gesto insensato.
“Io… Io avevo visto un buco sul fondo della gonna e mi sono…”
“…gettata sul pavimento per controllare mentre stavo camminando? Sei uscita di senno?” Afferrai un lembo della gonna  e lo tirai bruscamente per toglierle la stoffa dalle mani.
“Adesso sono costretta a cambiarmi, brutta stupida!” Ero troppo furiosa per controllare le parole amare che uscivano dalle mie labbra come vomito. Volevo solo raggiungere Rinaldo e quella buona  a nulla sembrava stesse facendo di tutto per impedirmelo.
Mi chinai sulla cassapanca dove erano gli abiti più semplici che in genere indossavo a casa quando ero sicura di non ricevere ospiti. Stavo giusto prendendo qualcosa da indossare quando sentii una fitta di dolore alla testa, come se un ferro rovente mi avesse attraversato il cranio. Mi sentii mancare la terra da sotto i piedi, barcollai all’indietro.
“Damigella.” La voce allarmata di Isabella, i suoi passi correre fino a me, le sue mani sulle mie spalle. Cercai di divincolarmi.
“Sdraiatevi un momento, vi prego.”
“No. Non posso.” La testa mi girava come una trottola impazzita, cominciai a vedere la mia stanza muoversi e deformarsi. Le forze mi stavano abbandonando. Isabella ora mi stava sostenendo quasi di peso, mi trascinò fino al letto. Il contatto con il morbido cuscino di piume mi fece sentire meglio, eppure non riuscivo a tenere gli occhi aperti.
“Rinaldo… Devo andare da Rinaldo…” La voce era ridotta ad un lamento.
“Perdonatemi.” Fu l’ultima cosa che udii prima di essere immersa dal buio e dal silenzio più totali.
Se solo avessi saputo… Mentre io perdevo la mia lotta contro un potente sonnifero, nello studio di mio padre si stava consumando il tradimento. Ero stata così impegnata a pensare a cosa avrei detto quella sera da non accorgermi che nella mia dimora era entrato Messer Guadagni. La breve attesa nascosto dietro le porte, qualche parola pericolosa pronunciata da Rinaldo e l’arrivo delle guardie. E mentre l’uomo che amavo veniva trascinato via per essere imprigionato con l’accusa di tradimento, io ero intrappolata in un sonno profondo. Entrambi eravamo stati traditi da persone che godevano della nostra piena fiducia.

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Capitolo 24
*** Come una foglia al vento ***


Capitolo ventitre
Come una foglia al vento
 
Mi svegliai di soprassalto, i miei sensi alterati da quel sonno forzato a cui non avevo saputo resistere. Vagai con lo sguardo per la stanza, la luce dell’alba sembrava voler divorare ogni cosa con la sua tonalità calda. Dovetti far forza sul braccio per sollevarmi dal letto e rimettermi in piedi. La mia testa era tutta un ronzio. Passando davanti allo specchio scorsi la mia figura, l’abito stropicciato e il vistoso strappo sul retro, i capelli che in parte erano sfuggiti ai pettinini. Con passo lento andai al salottino, il calice se ne stava solo e abbandonato sopra il ripiano dove lo avevo lasciato. Le mie labbra si schiusero per liberare quell’interrogativo che mi premeva nel petto, la voce però uscì in un sussurro spezzato: “Perché?”
Facendo appello a tutte le mie forze andai dritta alle stanze di mio padre, ad ogni passo sentivo il fuoco scorrere nelle vene, la rabbia riempirmi la testa.  Piombai nella sua camera da letto come una furia, sbattendo la porta contro la parete. Mio padre era là, seduto sul bordo del letto e con la testa china, addosso ancora gli abiti del giorno prima. Quando sollevò lo sguardo su di me vidi gli occhi stanchi e cerchiati, la carnagione pallida di chi non aveva chiuso occhio per tutta la notte.
“Sapevo che saresti venuta non appena l’effetto del sonnifero fosse passato.”
Mi resi conto di avere una mano stretta a pugno, nonostante il tremore la riaprii, le dita tutte un dolore.
“Che cosa significa tutto questo? Perché lo hai fatto?”
“Ho dovuto.” La sua voce era stanca, per la prima volta in vita mia vedevo mio padre inerme.
“Come si è concluso l’incontro? Hai persuaso Rinaldo ad abbandonare il suo piano?”
Lui non rispose.
“Vado da lui.” Sentenziai.
“Non lo troverai, Delfina.”
Gli lanciai un’occhiata interrogativa: “Perché? Dove si trova? Cosa diavolo sta succedendo? Ti decidi a parlare?” Gridai esasperata. Ero stata punita per molto meno, ma in quel momento non m’importava di cosa mi avrebbe fatto mio padre per rimettermi a posto, avevo solo bisogno di capire. Come temevo, il mio tono servì a farlo riprendere dalla stanchezza. Lasciò il letto e venne verso di me, i suoi occhi ora accesi sui miei: “Si trova in prigione, dove è giusto che rimanga un traditore come lui.”
Sentii le lacrime pungermi gli occhi: “Tu… Essere spietato e senza cuore, come puoi aver…?”
Mio padre mi assestò uno schiaffo potente che mi fece crollare di peso sul pavimento, le sue parole un grido di rabbia: “Perché credi che l’abbia fatto, piccola sgualdrina? Quell’uomo era diventato pericoloso, ci avrebbe trascinati nel fango assieme a lui se non avessi fatto qualcosa!” Con forza mi artigliò un braccio e mi costrinse a rialzarmi così da potermi gridare in pieno viso: “Messer Guadagni mi ha dato la possibilità di scegliere da che parte stare e io non l’ho sprecata.”
Mi mancava il fiato, ma ugualmente cercai di ribellarmi: “L’hai dato in pasto a quelle belve spietate della Signoria. E per cosa? Per vendetta? Perché non tolleravi il nostro amore? C’era una forte alleanza tra le nostre famiglie e tu hai gettato tutto alle ortiche.”
Mi maneggiò come una bambola, le sue mani fredde e forti sul mio corpo tremante.
“Credi che questa scelta non abbia avuto un costo morale per me? Non eravamo solo alleati, Rinaldo era un amico. E io ho cercato di impedire che avvenisse il peggio… Ho cercato di…”
La sua voce si spezzò, gli occhi umidi ora sembravano due pozzi scuri e profondi. Nella sua mente stava rivivendo quel momento difficile come se fosse un incubo senza via di fuga.
“Rinaldo…vi prego…fermatevi.”
“Io ho cercato di avvertirlo, ho cercato di… Guadagni stava ascoltando e io non potevo dire che…”
E Rinaldo si era lasciato prendere dalla foga e aveva vuotato il sacco rivelando tutto. L’inganno fu svelato, Guadagni uscì dal nascondiglio, le guardie furono chiamate. Rinaldo ormai non aveva scampo e si era rivolto all’unico amico che aveva in quel covo di serpi. Nel suo sguardo qualcosa che lui non avrebbe mai dimenticato.
“Fermatevi. Andrea… Pensate a vostra figlia.”
“E’ quello che faccio.”
“E’ quello che faccio.” Ripeté mio padre, quasi ipnotizzato da quel ricordo.
Ero pietrificata. Sentire quelle parole dalle sue labbra, vedere nella mia mente quello che stava descrivendo, il modo in cui era avvenuto il tradimento, le parole di Rinaldo. Mi si strinse il cuore.
“Come hai potuto, padre?” La voce completamente strozzata in gola. Con gesto isterico mi liberai dalla sua stretta e corsi fuori dal palazzo senza preoccuparmi minimamente delle mie condizioni.
Attorno a me la città festeggiava ed esultava il ritorno dei Medici a Firenze. Bandiere sventolate, fiori freschi, il corteo capeggiato da Cosimo stesso che concedeva sorrisi a destra e a manca. E io che correvo disperata con il vestito strappato e i capelli disordinati per raggiungere la torre dove era imprigionato l’uomo che amavo, mentre i suoni attorno a me giungevano al mio udito ovattati, spezzati solo dal rumore del battito del mio cuore.
Provata com’ero, non riuscii a fermare in tempo la mia corsa e mi ritrovai di fatto tra le braccia della guardia armata all’ingresso della torre. Il braccio dell’uomo mi afferrò per il girovita, io cercai di evitare di sbattere la fronte contro la sua spalla, inutilmente.
“Damigella…”
Ritrovai l’equilibrio, mi scostai delle ciocche di capelli dal viso: “Vi prego, fatemi passare.”
“Se avete bisogno di aiuto, io posso…”
“No, devo solo salire. Solo questo.” Dissi scotendo il capo.
“Sono spiacente, non sono autorizzato. In questo momento vi è imprigionato…”
“Rinaldo degli Albizzi. Lo so, per questo sono qui. Devo vederlo.” In un certo senso interrompere le sue frasi stava diventando quasi divertente.
La guardia, probabilmente sentendosi canzonata, si schiarì la voce e parlò con tono sicuro: “Non è possibile.”
A quel punto ebbi un attacco isterico, mi gettai sulla porta e cominciai a battere i pugni e gridare come una pazza: “Rinaldo! Sono qui! Rinaldo!”
La guardia si affrettò ad afferrarmi per i fianchi e ad allontanarmi da lì. Le mie grida non cessarono mentre lottavo per liberarmi. Fu allora che la porta si aprì… Comparve un uomo alto e ben piazzato, il viso segnato di rughe e abiti tutt’altro che sgargianti. Smisi di lottare e lasciai un sospiro di sollievo. L’uomo mi lanciò un’occhiataccia: “Che cosa succede qui?”
“Vi prego, lasciatemi vedere Messer Albizzi. Solo qualche minuto.”
“Siete una sua parente?”
“No, io sono…” Vedendo il suo gesto spazientito che precedette l’intenzione di andarsene, ebbi un’altra crisi. Presa alla sprovvista, questa volta la guardia non riuscì a trattenermi, così mi gettai ai piedi del carceriere.
“Sono Delfina de’ Pazzi. La figlia del Banchiere Pazzi. Vi prego, vi supplico, lasciatemi salire.”
“Pazzi?” Il suo tono incuriosito mi fece sollevare lo sguardo, vidi che mi guardava con tanto d’occhi.
“Sarete ricompensato per la vostra gentilezza, ve l’assicuro.” Tentai. Vedendo l’uomo scambiare un’occhiata con la guardia, mi affrettai ad aggiungere: “Lo sarete entrambi. Avete la mia parola.”
Il carceriere ci pensò su qualche istante, quindi buttò fuori un sospiro: “E va bene. Vi concedo cinque minuti.”
Non aveva ancora finito di parlare che io mi ero già alzata dal pavimento, quindi con scatto felino mi diedi alla corsa lungo la scalinata. Con il fiato corto e il viso accaldato, finalmente raggiunsi la cella. Mi gettai sulle sbarre, sfinita: “Rinaldo.”
La sua figura comparve dall’ombra della cella, lentamente, e in breve incontrai i suoi occhi di ghiaccio sfumati di smeraldo e oro.
“Delfina.” La voce era roca.
Si avvicinò alle sbarre e intrecciò le dita alle mie, le sue mani erano fredde come il ghiaccio. E prive di anelli. Anche il collare d’oro e diamanti gli era stato sottratto, ma almeno gli erano stati lasciati tutti gli indumenti per proteggersi dal freddo umido della cella.
Il suo sguardo scrutò rapidamente il mio aspetto: “Che cosa ti hanno fatto?”
Scossi il capo: “Nulla. Nessuno mi ha toccata.” Delle lacrime presero a sgorgare dai miei occhi: “Mio padre mi ha fatta drogare per impedirmi di vederti, ieri sera. Io non avevo idea di cosa stesse architettando. Te lo giuro, io non…”
Sollevò una mano e col pollice scostò le lacrime dalla mia guancia. Il suo volto sembrava rilassato nonostante la situazione, se non aveva dormito non lo dava a vedere.
“Non hai colpe. A conti fatti, tuo padre non ha avuto scelta.”
Ingoiai delle nuove lacrime e presi respiro per poter parlare: “Dimmi cosa devo fare per farti uscire di qui. Farò qualsiasi cosa. Chiederò aiuto, cercherò testimoni, corromperò se necessario.”
Lui scosse lentamente il capo e accennò un mezzo sorriso: “Non devi fare nulla. Lascia che accada ciò che deve accadere.”
“Sei pazzo? Cosimo è tornato e chiederà la tua testa. Quel maledetto bastardo ti vuole morto.” Buttai fuori senza peli sulla lingua.
“Ne sei certa? Sono sempre stato io a volere morto lui.” Lo disse con tale calma che quasi non lo riconoscevo. Era davvero Rinaldo l’uomo che avevo di fronte? Colui che aveva sempre lottato per ottenere ciò che voleva e che non aveva mai guardato in faccia  a nessuno per ottenerlo?
Proseguì: “Cosimo è un uomo subdolo e disonesto. Non gli darò la soddisfazione di vedermi in ginocchio ad implorare pietà.”
“Due minuti, Damigella. Sto salendo.” La voce del carceriere giunse in un’eco dalle scale.
Il cuore mi mancò un battito: “Tornerò, amore mio.”
Inspiegabilmente lui lasciò andare le mie mani e si mise ad armeggiare con il bordo di pelliccia del cappotto.
“Cosa fai?”
“Mi serve qualcosa di affilato. O qualcosa per spezzare il filo.” Si guardò attorno vanamente, dato che in una cella non era possibile che ci fossero coltelli o oggetti pericolosi.
Anche se non sapevo cosa stesse facendo, il mio cervello si mise a lavorare. Distrattamente mi passai una mano tra i capelli e..tastai un pettinino di madreperla.
“Questo può esserti utile?” Lo sfilai dai capelli e glielo porsi. Rinaldo valutò la proposta, forse i denti lunghi e sottili sarebbero stati sufficienti. Lo prese e si mise all’opera. Strappata la cucitura, estrasse una pergamena arrotolatala così stretta che perfino il sigillo di ceralacca non era abbastanza ampio da contenere lo stemma degli Albizzi. Rinaldo me la porse: “Nascondila.”
Detto fatto, la infilai tra i seni, al sicuro dentro il corpetto: “Che cos’è?”
“Un atto di legittimazione, in cui dichiaro che Levante è mio figlio. Un Albizzi.”
Non riuscii a dire una parola.
“Avrei dovuto consegnartelo ieri sera, dopo aver suggellato la nuova alleanza con tuo padre. E invece non è andata come speravo.” Un sorriso amaro gli increspò le labbra.
Stavo per abbandonarmi al pianto quando il carceriere comparve all’ingresso: “Devo chiedervi di venire con me, Damigella.”
Emisi un gemito, il respiro si fece ansante. Non volevo andarmene così presto.
Rinaldo mi strinse dolcemente una mano e sussurrò: “Mantieni la calma. Ci rivedremo.”
Trattenni un singhiozzo, quindi feci un cenno col capo.
“Damigella, non vorrei doverlo ripetere ancora.” Disse il carceriere con una nota spazientita nella voce.
“Sto arrivando, buon uomo!” La mia voce risuonò acuta e felice, sorprendendo anche me. Rinaldo mi guardò con fierezza, evidentemente soddisfatto della forza che stavo dimostrando di avere. Con il pollice mi accarezzò il dorso della mano e lentamente la lasciò andare.
“Ti amo.” Mimai con le labbra un attimo prima di voltarmi.

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Capitolo 25
*** Tutti i nodi vengono al pettine ***


Capitolo ventiquattro
Tutti i nodi vengono al pettine
 
Di fronte al camino in cui ardeva un fuoco scoppiettante, un gomito appoggiato al bordo, la fronte sostenuta dal palmo della mano. Ormanno aveva un aspetto preoccupante da quando suo padre era stato imprigionato. Si faceva radere, lavare e vestire come una bambola, tranne quando si trattava di eccedere nell’alcol, allora era lui a prendere in mano la situazione. Quel giorno, però, al posto di un collo di bottiglia, tra le dita aveva un foglio scritto in elegante calligrafia femminile. Da alcune settimane gli venivano recapitati dei messaggi a cui lui aveva sempre rifiutato di rispondere e che aveva poi gettato nel fuoco, tranne quell’ultimo che sembrava essersi incollato alle sue dita umide. La mano oscillava al fianco, esitante. Lo sguardo fisso nel vuoto si riempì all’improvviso, Ormanno abbandonò la sua linea di pensieri e alzò il braccio per rileggere attentamente ciò che il foglio conteneva.
“Il vostro ostinato silenzio non sarà d’aiuto a vostro padre. Ora più che mai dovremmo unire le forze, io e voi. Avete ignorato tutti i miei messaggi precedenti, ma so che questo avrà sorte migliore. Sono in possesso di un prezioso documento affidatomi da vostro padre e reputo giudizioso parlare con voi del suo contenuto.
                                                                                                                                                                                                                                        D.P.”
Lasciò ricadere il braccio a peso morto, con l’altra mano si lisciò il mento. Avrebbe preferito infilzarsi con la sua stessa spada piuttosto che rivedere quella ragazza, però la curiosità per quel documento lo stuzzicava. Gettò il foglio nel fuoco, finalmente, ma invece di andare a prendere una bottiglia di vino come era solito fare, andò a prendere il mantello.
Il tragitto che divideva Palazzo de’ Pazzi dal suo era molto breve, perciò lo percorse in un paio di minuti. Bastò riferire alla guardia armata all’ingresso principale che Damigella de’ Pazzi lo aveva invitato e in un batter d’occhio era all’interno del palazzo. Si avventurò da solo tra i corridoi, pur non sapendo dove si trovassero le stanze di Delfina, ma con un pizzico di orientamento riuscì a trovare il corridoio che conduceva alle stanze private della famiglia. Indeciso sul da farsi, spaziò lo sguardo sulle varie porte e ragionò: “Dunque, se io fossi una sgualdrina e ricevessi regolarmente il mio amante in gran segreto, dove potrei farlo?” Fece un cenno verso la porta prescelta e vi si diresse. Afferrò la grossa maniglia di ferro e dopo aver contato fino a tre aprì la porta.
*
Mani giunte in grembo, lo sguardo perso fuori dalla vetrata, nell’udire il rumore della porta che si apriva e i passi di qualcuno entrare, mi venne spontaneo sospirare infastidita: “Padre, te l’ho già detto. Se non hai intenzione di aiutarmi a far scagionare Rinaldo, allora…”
“Io farei qualunque cosa.”
Quella voce mi fece voltare di scatto. Per quanto incredibile, l’uomo all’ingresso del mio salottino era proprio Ormanno. Fece un paio di passi verso di me e s’inchinò galante: “Damigella, sono a vostra completa disposizione.”
Superata la sorpresa, lo guardai di sbieco: “Ormanno, puoi smettere di recitare. Siamo soli.”
“Proprio come l’altra volta.” Ammiccò malizioso.
Finsi di non aver capito a cosa si riferiva e, anzi, mi affrettai a farlo accomodare su una poltrona di fronte al camino.
“Ho bisogno che tu mi dica cosa devo fare, Ormanno. Mio padre si rifiuta di aiutarmi e io non ho nessuna conoscenza utile.”
Il suo sguardo, dapprima puntato al nulla, si spostò su di me: “Anch’io mi sono dato da fare, ovviamente. Ironia della sorte, l’unica speranza di salvezza per mio padre ha chiesto di risiedere in gran segreto a Palazzo de’ Medici.”
“Chi? Chi può essere amico di Rinaldo e anche di quella feccia Medici?”
Rispose con tono canzonatorio, come se la risposta fosse scontata: “Papa Eugenio.”
Rimasi a bocca aperta.
“E’ fuggito da Roma dopo l’invasione. Io sono corso in suo aiuto assieme ai miei migliori uomini e lui in cambio ha voluto chiedere ospitalità a Cosimo perché dice che non può vivere nel palazzo di un uomo accusato di tradimento.” Terminò con un ghigno di disapprovazione.
“E.. E nonostante questo si dichiara disposto ad aiutare Rinaldo?”
Lui scacciò il discorso con la mano, evidentemente ansioso di chiudere l’argomento: “Pare di sì. Ti terrò aggiornata, comunque. Ora, se non ti dispiace, vorrei sapere il motivo per cui mi trovo qui.”
Mi ci volle un momento per elaborare la notizia e il repentino cambio di discorso. Mi schiarii la voce e cercai le parole per cominciare: “Io..sì. Si tratta di Levante. Rinaldo vuole riconoscerlo e fare di lui un Albizzi anche agli occhi della legge.”
“Perché la cosa non mi sorprende?” Disse con forte accento sarcastico.
“So che non sarà facile, per te, accettarlo. In un momento così delicato, sapere che dovrai dividere il patrimonio di famiglia con il tuo fratellastro deve essere per te un vero…”
“Onestamente adesso non me ne importa un bel niente. Vuoi che dia metà della mia eredità a lui? Sarà fatto. Ma ti ricordo che attualmente mio padre si trova in prigione e comunque andrà a finire la mia famiglia ne uscirà rovinata. Quindi il tuo bastardo è l’ultimo dei miei problemi.”
Il suo tono irrispettoso e arrogante mi causò un tremore rabbioso. Mi alzai dalla poltrona e gli voltai le spalle: “Vi auguro una buona giornata, Messer Albizzi.”
Lo sentii sospirare, il suo tono cambiò, le parole risuonarono tristi: “Non vorrei farti la guerra.”
“E allora non farlo. Credi che io non stia soffrendo? Oltre a essere tuo padre è anche l’uomo che amo. Ma a te non importa nulla.”
Ormanno si alzò a sua volta e si avvicinò a me. Sentii il tocco delle sue dita sulle spalle, il calore del suo respiro tra i capelli.
“Lo sai che ti odio.”
Ridacchiai: “Non fai che ripetermelo!”
“Eppure…” Le sue dita presero a muoversi sulle mie spalle, come se volessero plasmarle, la sua voce divenne un sussurro: “Per una volta vorrei provare a non odiarti. Vorrei provare a vederti con occhi diversi. Vorrei capire perché mio padre prova un sentimento così forte per te.”
Quel terreno stava diventando pericoloso. Non solo per via del suo tocco inappropriato, quanto più perché il mio corpo sembrava gradire tale attenzione.
“Ormanno… E’ una pessima idea. Io…” Il mio respiro si spezzò.
Lui mi fece voltare, le sue braccia mi avvolsero delicatamente. Il suo viso ora era vicinissimo al mio: “Solo una volta. E quando tutto questo sarà finito, ricominceremo a renderci la vita un inferno a vicenda.”
Se la mia mente era come bloccata da quella richiesta assurda, il mio corpo sembrava aver già deciso per me. Mi accorsi di avere le braccia attorno al suo collo. Che Ormanno avesse un bell’aspetto non lo mettevo in dubbio, anche se era ben lontano dalla bellezza di suo padre. Inoltre, i tratti del viso e il colore degli occhi erano così simili a quelli della madre… Per un momento mi sentii riluttante ad essere a contatto con lui, grazie a questo pensiero, peccato che ogni tentativo di fuga venne dimenticato non appena le sue labbra si posarono sulle mie. Cominciò a baciarmi come se fosse assetato, più mi baciava più io mi sentivo coinvolta. Intrecciai le dita tra i suoi capelli, tra i suoi bei ricci naturali che al tatto erano così simili a quelli di Rinaldo. Rinaldo…
“Non significa niente. Te lo giuro.” Pensai intensamente, nemmeno potesse sentirmi dalla torre. Il bacio diventata sempre più intenso e rumoroso, le nostre mani sempre più indiscrete e possessive. Ormanno mi sollevò leggermente da terra afferrandomi per i fianchi e, tenendomi stretta a lui per farmi sentire la sua eccitazione, mi condusse fino alla parete contro la quale mi posò. Mi ritrovai così con le spalle al muro e con Ormanno che mi sollevava le gonne con foga. Incapace di resistergli, assecondai il gioco cingendogli un fianco con la mia bella gamba nuda. Lasciai che mi prendesse.
Mentre consumavamo il peccato, cercai di aggrapparmi ad un motivo per giustificare il mio comportamento. Tensione? Tristezza? O più semplicemente astinenza e debolezza? Qualunque fosse la risposta giusta, l’unica cosa che sapevo era che quell’atto che stavo compiendo era assolutamente sbagliato. E ingiusto. E immorale. E…maledettamente piacevole.
Nessuno dei due riuscì a darsi un contegno durante il rapporto e di certo io non pensai nemmeno di frenare il mio grido finale di piacere. Ormanno, stremato, lasciò scivolare il capo sull’incavo tra la mia spalla ed il collo, il suo respiro bollente sulla mia pelle umida. La nostra reazione successiva fu alquanto assurda. Ancora abbracciati, fronte contro fronte, quelli che erano iniziati come sorrisi si erano poi trasformati in risate. Se fosse un modo per allentare la tensione o pura pazzia, non avrei saputo dirlo.
Un suono curioso e strozzato ci fece smettere subito. Da sopra la spalla di Ormanno vidi Isabella, ferma sulla soglia tra il salottino e la mia camera da letto e con entrambe le mani premute sulla bocca. Mi affrettai a separarmi da Ormanno e feci per andarle incontro: “Isabella, non è come credi. Posso spiegare.”
Lei scoppiò a piangere e corse a rifugiarsi nella propria stanza.
Ormanno mi raggiunse, tra le mani ancora i lacci dei pantaloni con cui stava armeggiando: “Cosa c’è? Perché ha reagito in quel modo?”
“Secondo te?” Lo rimproverai, dimenticando che lui non era a conoscenza dei sentimenti di Isabella. Corsi nella sua stanza. La trovai a piangere di fronte alla finestra. La balia, che sedeva sul bordo del letto con Levante tra le braccia, mi lanciò un’occhiata interrogativa.
“Balia, sii gentile, porta via Levante. Andate nelle cucine e…fagli mangiare un po’ di purea di mela.” Ancora mi suonava strano dirlo, non riuscivo ad abituarmi al fatto che il mio piccolino ormai non si nutriva più solo di latte dal seno.
Usciti loro, potei parlare liberamente: “Lasciami spiegare, ti prego. Quello che hai visto…è stato un incidente.”
Fece un gesto isterico e parlò con voce starnazzante per via del pianto: “Un incidente, sì! Deve avervi scambiato per un quadro visto che stava tentando di appendervi al muro!”
Sospirai per mascherare il mio imbarazzo per quel paragone: “Non hai motivo di essere arrabbiata. Ti assicuro che non ha significato niente. Tra me e lui non c’è nulla.”
“Ha significato per me! Sapete quanto io lo ami! Sapete che non desidero altro che stare con lui ed essere amata!”
“Che cosa?” La voce di Ormanno ci sorprese entrambe. Passando lo sguardo da me a lei, camminò fino ad arrivare accanto a me: “E’ uno scherzo, vero?” Poi si rivolse direttamente a lei: “Non avevo idea che le cose stessero così. Io…” Era talmente incredulo che faticava a trovare le parole: “Non posso credere che tu abbia costruito un simile castello nella tua mente. Ho abusato di te e per questo mi sentirò sempre in colpa. Io speravo di poter avere il tuo perdono, sì, ma da questo ad amarti…” Ridacchiò: “Non succederà mai!”
Il viso di Isabella era livido, le mani tremavano.
Mi sentii in dovere d’intervenire: “Ormanno, forse è il caso di parlarne con calma. Non c’è bisogno di…”
La mia frase fu interrotta da un vagito. La piccola Gioia, disturbata dalle nostre voci, si era svegliata e aveva tutta l’intenzione di mettersi a piangere. Isabella la sollevò dalla culla e la strinse a sé per quietarla.
Ormanno divenne ancora più contrariato: “Hai davvero coraggio a lasciare che questa donna dalla mente contorta si prenda cura di tuo figlio.”
“Ormanno, per favore. Ti sarei grata se moderassi i termini.”
“In quale altro modo dovrei definirla? Guarda! Ha messo un fiocco tra i capelli del bambino!”
“E’ una bambina, idiota!” Strillai, esasperata dai suoi modi rozzi.
Mi guardò con tanto d’occhi: “Che…? Bambina? Non avevi detto che era un maschio?”
Lei non è Levante, è la figlia di Isabella.” Precisai, puntando il dito in direzione della piccola e sua madre.
“Di bene in meglio! So per certo che non è sposata, quindi cosa dovrei pensare? In quale letto si è infilata? E per trarne quali vantaggi? Una persona così disonesta non…” Si bloccò all’improvviso. Il sospetto gli balzò alla mente, il suo sguardo tremò. Volse lo sguardo sulla bambina, sui suoi riccioli castani, il visetto tondo dalla pelle chiara: “Quando… quando è nata?”
“Alla fine dell’estate scorsa.” Risposi io, guadagnandomi un’occhiata gelida da parte di Isabella.
Ormanno deglutì pesantemente, il volto divenne pallido. Era evidente che i conti nella sua mente combaciavano. Voltò il capo bruscamente.
“Credo sia davvero il caso di parlarne con calma.” Proposi, volgendo lo sguardo prima a lui e poi a lei.
Ormanno parve riprendersi un poco, con passi lenti e sguardo fisso sulla piccola arrivò di fronte a lei e sua madre. Incerto, sollevò una mano e con commovente delicatezza sfiorò il volto di Gioia.
“Ho…una figlia.” La voce soffocata dall’emozione. Sempre lentamente sollevò lo sguardo su Isabella: “Tu..tu hai dato vita a questa bellissima creatura?”
Lei non riuscì a parlare, strinse le labbra per non scoppiare a piangere e fece un cenno col capo. Ormanno sembrava completamente disorientato.
“Ho una figlia.” Ripeté a se stesso. Poi all’improvviso si voltò e lasciò velocemente le mie stanze, senza nemmeno dare una spiegazione.
Diedi un’occhiata a Isabella. Non potevo mettere in dubbio che stesse soffrendo tremendamente per quanto stava accadendo. Avrei dovuto pregare tutti i Santi che conoscevo affinché mi aiutassero a darle supporto ed ottenere il suo perdono.

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Capitolo 26
*** Il potere del denaro ***


Capitolo venticinque
Il potere del denaro
 
Nelle settimane che seguirono, Ormanno venne a farmi visita molto spesso principalmente per poter vedere sua figlia Gioia. La sua prima reazione era stata positiva e potevo vedere chiaramente quanto amasse tenerla in braccio e riempirla di baci. Peccato che invece non riuscisse ancora a rivolgere la parola ad Isabella. Per essere precisi, l’ultima volta che lo aveva fatto era stato per rimproverarla severamente per avergli taciuto il suo stato di gravidanza. In quanto padre della piccola, aveva il diritto di saperlo. Lei, seppur sofferente per la situazione, non mancava mai di smaniare per lui, rendendo tutto ancora più difficile. Io sopportavo pazientemente e nutrivo la speranza che un giorno si sarebbero riappacificati, se non per loro stessi almeno per amore della bambina. A quanto sembrava non avevano ancora capito che il loro dovere primario era quello di pensare al bene della loro figlioletta prima di ogni altra cosa. Ma nonostante tutto, a volte li invidiavo.
I miei tentativi di rivedere Rinaldo erano tutti falliti miseramente. Oltre a non potergli parlare, non mi era nemmeno stato concesso di fargli recapitare messaggi o doni. Neanche attraverso Ormanno, l’unico cui era stato concesso di vederlo un paio di volte, ma solo a patto di essere perquisito prima di accedere alla torre e di essere poi tenuto sotto sorveglianza durante la visita. A malapena riuscì a riferire a Rinaldo qualche parola da parte mia.
Solo una cosa nessuno poté proibirmi di fare. Mi recavo quotidianamente alla Piazza della Signoria, dove mi mischiavo tra la folla e celavo la mia identità sotto il cappuccio nero infischiandomene del calore del sole estivo, e lì aspettavo. A qualunque ora arrivassi, sapevo che di lì a poco il mio amato Rinaldo sarebbe comparso alla piccola finestra sbarrata della torre, come se tra noi ci fosse una sorta di filo invisibile che lo avvertiva quando ero vicina. E vedendo il suo viso il mio cuore ricominciava a battere, mentre con la mente gli comunicavo i miei pensieri, talvolta così intensamente che le lacrime prendevano a correre silenziose lungo le mie guance. Poi, al momento di separarci, non mancavo mai di sfiorarmi le dita con un bacio e poi di inviarlo a lui sollevando il braccio nella sua direzione. Attendevo che lui rispondesse, che mostrasse la mano oltre le sbarre, allora sapevo che l’aveva ricevuto.
Un giorno in particolare, accompagnai mio padre il quale doveva presentarsi ad un incontro della Signoria. Un paio di ore di attesa, inviai il mio bacio a Rinaldo e riabbassai il braccio giusto un momento prima che mio padre uscisse dal palazzo e mi scorgesse tra la folla. Dalla sua espressione capii che qualcosa non andava.
“Non so come tu riesca ad indossare quel cappuccio con il caldo che fa.” Criticò.
Mi scoprii il capo per accontentarlo: “Quali nuove dalla Signoria? Avete discusso riguardo a Rinaldo?”
Mio padre ridacchiò e levò un dito verso l’alto della torre: “E’ lui la ragione per cui ci incontriamo, mia cara.” Vedendomi ansiosa, si schiarì la voce e tornò ad usare un tono serio: “Le cose si stanno mettendo male per lui, non te lo nascondo. E di questo voglio prendermi una parte di merito. Ad ogni incontro sono il primo a chiedere la sua testa.”
Non potevo credere che lo stesse dicendo con tanta leggerezza, come se non stessimo parlando della vita dell’uomo che amavo non che il padre di mio figlio. Ero indignata.
“Come puoi parlare in questo modo? Non posso credere che tu sia così perfido da…”
Avvicinò il viso al mio, interrompendomi, sulle sue labbra un sorriso furbo: “Cosimo de’ Medici è favorevole all’esilio, anche se non per sua volontà. La Signoria e il popolo di Firenze gridano a gran voce che il tiranno venga giustiziato, Sua Santità invece desidera salvarlo. Per farlo ha chiesto aiuto a Medici, il quale ha dovuto accettare per obbligo morale. Ma come può un unico uomo riuscire in tale impresa?”
Si fermò in attesa di una mia risposta, ma io ero troppo impegnata a seguire il filo del discorso per poter dire alcun che.
“Gli si mette di fronte un valido oppositore. Qualcuno che gli renda il lavoro difficile. In questo modo Medici è costretto ad aumentare gli sforzi per trovare validi argomenti e fare del proprio meglio per convincere la Signoria a risparmiare la vita del tiranno.”
Rimasi immobile e muta ancora qualche istante, poi sgranai gli occhi: “Mi stai dicendo che a parole vuoi la morte di Rinaldo, ma che in realtà lo vuoi salvare?”
Mio padre mi porse il braccio, in un tacito invito a camminare con lui. Accettai, lui posò una mano sulla mia in gesto stranamente affettuoso.
“Vedi, figliola, io penso al futuro. Con Rinaldo in esilio invece che nella tomba potrò avviare un grande progetto. Tempo qualche anno perché lui organizzi un esercito, mentre io mi occupo della situazione dall’interno della città e…unendo le forze potremo finalmente distruggere i Medici e prenderci il potere.”
Dell’intero discorso, l’unica parte a cui ero favorevole era quella di salvare la vita a Rinaldo. Il resto invece non avrei nemmeno voluto sentirlo. Esilio, esercito, potere… Sempre le solite cose. E mentre noi camminavamo a passo lento per tornare al nostro palazzo, ebbi la necessitò di voltarmi indietro. Rinaldo era ancora affacciato alla piccola finestra sulla torre.
“Quasi dimenticavo. E’ stata decisa la data della sentenza.”
La mia attenzione tornò tutta per mio padre.
*
La luce rossa e arancio del tramonto accendeva la torre con potenza, facendola sembrare una spada infuocata che squarciava il velo del cielo. La Piazza della Signoria a quell’ora era quasi deserta, perciò nessuno badò alla figura incappucciata che si dirigeva verso il palazzo a passo spedito.
Quella figura ero io.
Entrai e andai dritta dalla guardia all’ingresso della torre, quindi abbassai il cappuccio all’indietro. L’uomo, lo stesso che avevo incontrato la prima volta, nel riconoscermi sollevò gli occhi al soffitto, già esasperato dalla mia presenza: “Damigella, perdonatemi se vi dico che non sono lieto di rivedervi.”
Sorrisi con grazia: “Io, al contrario, sono felice che questa sera siate di turno proprio voi, così la mia richiesta sarà più facile da esporre.”
“Qualunque cosa voi diciate, non vi lascerò passare.”
Da sotto il mantello, gli lasciai intravedere il sacchetto di cuoio ben rigonfio di denaro.
“Cinque pezzi?”
“No, Damigella.”
“Dieci?”
“Sono spiacente, ma ora devo chiedervi di allontanarvi.”
“Venti pezzi d’oro. E’ il massimo che posso offrirvi se mi darete il permesso di salire.”
La cifra lo allettò particolarmente, nel suo sguardo lessi la lotta tra giusto e sbagliato nel decidere se infrangere una regola o intascare il gruzzolo. Sospirò: “E sia. Ma badate, se il carceriere vi caccerà, come probabile, io terrò comunque il denaro.”
Sfoggiai un sorriso soddisfatto e gli porsi il sacchetto: “Affare fatto.”
L’uomo si guardò attorno rapidamente, prima di aprire la porta e lasciarmi passare. Ora che il primo ostacolo era superato, dovevo prepararmi ad affrontare il secondo.
Salii le scale senza fretta ma battendo bene i piedi a terra. Volevo che il rumore dei miei passi annunciasse il mio arrivo e lasciasse il mio prossimo ostacolo sulle spine. Arrivata all’ultimo gradino, lo trovai infatti lì ad attendermi con impazienza.
“Buona serata a voi, buon uomo. Sono lieta di rivedervi.” Voce squillante e sorriso candido.
La sua reazione fu molto simile a quella della guardia, solo più rozza: “Ancora voi? E’ una persecuzione? Non potete stare qui.”
“Oh, lo so bene! Solo che questa volta voi chiuderete un occhio e mi accontenterete.” Come nulla fosse, salii l’ultimo gradino e superai il carceriere per dirigermi di fronte alla cella di Rinaldo. Lui era lì in piedi, le mani sulle sbarre, il volto sciupato dalla prigionia e lo sguardo carico di speranza nel rivedermi.
“Damigella de’ Pazzi, voi mi volete rovinare.” Disse il carceriere, affiancandosi a me e guardandomi con cipiglio severo.
Pensai bene di mettere in mostra un secondo sacchetto di denaro, di dimensioni superiori a quello precedente: “Cinquanta monete d’oro che sarò felice di donarvi se mi permetterete di trascorrere qui l’intera nottata.”
“Siete impazzita come dice il vostro nome?” Sbottò lui.
Avrei potuto offendermi, invece stranamente risi per quello scherzo che prima d’ora nessuno aveva osato dire ad alta voce: “Probabile. L’importante è che mi accontentiate.”
“Non potrei lasciarvi qui nemmeno cinque minuti, figuriamoci una notte intera.” Rispose, portandosi una mano al fianco per dare maggiore enfasi alle parole.
L’unica possibilità che avevo era quella di mostrarmi sicura e ferma nella mia richiesta. Assunsi una postura rigida e sollevai il mento come a dimostrare che non temevo nulla, la voce uscì chiara e decisa come volevo io: “Come ben saprete, domani vi sarà la sentenza e io non ho alcuna intenzione di lasciare Messer Albizzi solo e divorato dalla pena dell’attesa. Sono pronta anche a graffiarvi a sangue e aggrapparmi alle sbarre con i denti se sarà necessario.”
Il suo silenzio e quello sguardo torvo mi fecero temere il peggio. Rimasi immobile come una statua, in attesa di una sua decisione. E finalmente, dopo quella che a me parve un’eternità, l’uomo si mosse e lanciò un’occhiata maliziosa a Rinaldo: “Inizio a capire perché l’abbiate scelta come amante. Con lei non rischiate certo di annoiarvi.”
Nessuno di noi due confermò o smentì quella supposizione, per quanto fossimo già compromessi, era comunque meglio non rispondere. Sapevo che le voci della nostra relazione segreta avevano cominciato a vagare per la città da tempo, ma di fatto nessuno mi aveva ancora additata come sua amante ufficiale.
Rimasi immobile anche mentre il carceriere infilava la grande chiave nella serratura e solo quando ebbe aperto la cella mi azzardai a fare un passo. Lui emise un sonoro colpo di tosse e mise in mostra il palmo della mano.
“Mi auguro che sarete discreto, questa notte, e che avrete la decenza di chiudere un occhio e magari anche un orecchio per concederci maggiore intimità.” Gli misi il sacchetto ricolmo sulla mano e lui lo agguantò con avidità. Il suo sguardo divertito mi irritò alquanto.
Nel fare i due passi per entrare all’interno della cella, venni percorsa da un brivido. Mi fermai, il carceriere richiuse la cella alle mie spalle e si allontanò probabilmente per mettere al sicuro il suo bottino. Finalmente ero sola con l’uomo che amavo.

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Capitolo 27
*** La vigna e il sogno ***


Capitolo ventisei
La vigna e il sogno
 
La prigionia lo stava distruggendo giorno dopo giorno. Il suo volto era tremendamente pallido per la mancanza di sole, le guance non erano più piene come prima, e capelli e barba erano davvero poco curati. Un uomo come lui aveva bisogno di aria pura, di sole, di allenamento, perché Rinaldo era un guerriero prima che un uomo di politica e quella reclusione doveva essere peggio di una tortura per lui. Trasportata dall’emozione di rivederlo, di poterlo toccare dopo tanto tempo, non appena lui allargò le braccia in un invito io mi gettai nel suo abbraccio come un fiume sfocia nel mare. Essere stretta al suo petto, sentire il suo respiro contro il viso, le sue labbra sussurrare il mio nome più e più volte…
“Rinaldo… amore mio… amore mio…” Non riuscivo a dire nient’altro, nonostante avessi così tanto da raccontargli, nonostante avessi pensato a quel momento per settimane. Vista l’inutilità delle mie labbra per quanto riguardava la conversazione, presi la decisione di usarle per qualcosa di più utile. Assetata di lui, m’incollai alle sue labbra e diedi inizio ad una catena di baci sempre più intensi, caldi e passionali. Volevo assorbire la sua essenza come linfa vitale, dopo tanto tempo di separazione, e poco importava se la sua bocca aveva il sapore di vino di scarsa qualità. Mi fermai solo per riprendere fiato e, dal modo in cui respirava, anche lui doveva averne bisogno. Gli sfiorai la guancia con una carezza: “Povero amore mio, ti trattano in modo davvero indegno…”
Lui scosse appena il capo: “L’unica cosa di cui li rimprovero è di averti tenuta lontano da me.”
Una lacrima sfuggì dalle mie ciglia e scese velocemente lungo la guancia, mi mordicchiai un labbro per frenare il pianto imminente. Sentire parole romantiche pronunciate dalle sue labbra era un momento raro e prezioso che mi scioglieva il cuore.
Rinaldo si schiarì la voce e con il braccio indicò il giaciglio posto ad un lato della cella: “Vieni.”
Si trattava di un letto abbastanza comodo con sopra un cuscino rigonfio di piume e una bella coperta color celeste. Ci sedemmo sul bordo, Rinaldo prese le mie mani tra le sue e le accarezzò gentilmente. Ogni piccolo gesto era una prova di quanto avesse sentito la mia mancanza.
“Come sta nostro figlio? E’ cresciuto molto in questi mesi?”
Sorrisi, ero così felice che avesse chiesto del nostro bambino prima di ogni altra cosa.
“Sta crescendo così in fretta, amore. Adora far impazzire la balia gattonando per tutta la stanza e infilandosi ovunque! Credo che in inverno comincerà a muovere i primi passi. Oh Rinaldo, ti somiglia ogni giorno di più. E’ sveglio e dotato di grande furbizia e con i riccioli biondi e gli occhi sfumati di verde e blu è il tuo ritratto in miniatura.”
Contrariamente alle mie aspettative, lui sospirò con tristezza e volse lo sguardo altrove: “Non è un vantaggio per lui. Soprattutto in questa situazione.”
“Non permetterò a nessuno di fargli del male. Levante è tuo figlio, lo cresceremo con l’orgoglio Albizzi e quando tu avrai ripreso possesso del potere potrai mettere a tacere chiunque osi dire una parola scorretta contro di lui.”
Rinaldo non rispose, e anzi cambiò discorso in modo repentino: “Ormanno mi ha raccontato tutto.”
Mi mancò un battito: “Tutto?”
“E’ innamorato alla follia della piccola Gioia.”
Dunque si parlava ancora di figli. Avevo temuto che si riferisse a ciò che avevo intenzione di tenere nascosto per il resto dei miei giorni. Quel mio errore sciocco e imperdonabile.
Rinaldo, perso in pensieri, sospirò: “Avrei dovuto dirglielo. Ha quasi perso il primo anno di vita di sua figlia. E io ne sono in parte responsabile. Per castigo divino perderò il resto della vita di Levante. Non lo vedrò crescere, non sentirò le sue prime parole, non lo addestrerò a combattere con la spada, o andare a cavallo. Non lo vedrò mai diventare un uomo.”
“No, amore, non è la tua fine. Devi fidarti di me. Verrai esiliato, sarai salvo. Mio padre me lo ha promesso.”
La cosa parve incuriosirlo: “Tuo padre sta dunque prendendo le mie difese? Dopo avermi tradito?”
“Non…esattamente. Però sta seguendo una strategia per aiutarti.” Gli raccontai del nostro colloquio, cercai di spiegarmi al meglio, ma più parlavo più lui si chiudeva nei propri pensieri. Ad un certo punto mi fermai, rendendomi conto che mi stava stringendo le mani.
“Rinaldo? Mi stai ascoltando?”
Il mio richiamo lo destò dai propri pensieri, si schiarì la voce: “Sì. Sì, certo.” E di punto in bianco si sporse verso me, con quello sguardo da predatore che aveva sempre il potere di farmi impazzire.
“Non… Non vuoi ascoltare la fine del discor…?” Balbettai, mentre lui ormai era ad un soffio dalle mie labbra, tanto che il suo respiro si confuse col mio.
“L’unica cosa che voglio adesso, Delfina, sei tu.”
Una volta dissi che la nostra prima notte d’amore era stata la più bella della mia vita. Detto dalla ragazzina sciocca e inesperta qual ero, non c’era da dubitarne. Ma ora ero cresciuta, conoscevo l’amore in tutte le sue sfaccettature, conoscevo il piacere dei sensi, l’unione dei corpi e delle anime e i miei occhi erano aperti su una nuova visione della vita. Quella notte, all’interno di un’angusta cella, su di un letto appena accettabile e circondati dalle ombre della sera, io e Rinaldo ci donammo completamente l’un l’altra, senza riserve, senza domini, solo le nostre anime legate dal destino, i nostri semplici e nudi corpi avvinghiati nella danza del più appassionato amore. Le labbra di Rinaldo, oltre a baciare le mie, disegnarono degli archi perfetti sul mio corpo, lasciando poi leggère tracce umide al passaggio della lingua. Ed io gli donai piacere facendo uso dei miei capelli, lisci e morbidi fili di seta nera che sfiorarono il suo corpo come una carezza. Tra il gioco di braccia intrecciate e mani esploratrici, non mancai di memorizzare ogni piccolo particolare del suo corpo, di imprimere nella mente ogni singolo dettaglio, che fosse una curva armoniosa, un’imperfezione o semplice pelo che nessun’altro a parte me poteva sfiorare. Nella mia mente traditrice, si era ormai fatto strada il pensiero che quella sarebbe stata la nostra ultima notte d’amore e per questo mi odiai. Con le parole potevo fingere, ma come potevo farlo col mio cuore? Avevo paura. E se l’indomani lo avessero condannato a morte? E anche se gli avessero dato l’esilio, dove lo avrebbero confinato? Quando e come avrei potuto rivederlo? Quando i nostri corpi e i nostri sensi raggiunsero l’apice del piacere, compresi che sarebbe stata quella la notte più bella della mia vita, quella che non avrei mai dimenticato.
*
Stesi a riposare per riprendere le forze e con la mente intorpidita dal piacere, avendo il capo di Rinaldo appoggiato alla spalla, stavo giocando coi suoi riccioli umidi, mentre lui era intento ad accarezzare la leggera rotondità del mio ventre. Una rotondità che aveva imparato a riconoscere.
“Non merito un dono così prezioso. Forse non lo meritavo nemmeno la prima volta.” Disse con un filo di voce.
Con la mano libera andai a sfiorargli le dita, un tocco appena percettibile, poi la posai sulla sua: “Avrei voluto dirtelo, ma non mi è stato più permesso vederti.”
“Da quanto lo sai?”
“Ho iniziato a sospettarlo già prima che ti arrestassero.”
“Perciò….dovrebbe nascere in primavera.”
Si sollevò facendo pressione sul braccio libero e puntellò il gomito sul materasso. Il suo sguardo era serio e intenso.
“Se è un maschio, lo chiamerai Rinaldo, perché diventerà un guerriero e non si fermerà di fronte a nulla. Se è una femmina, la chiamerai Elena, perché un uomo per averla dovrà combattere fino a guardare in faccia la morte.”
Con la mano che prima gli accarezzava i capelli, seguii un tragitto scendendo lungo il suo orecchio, attraversando la guancia fino ad arrivare in prossimità delle sue labbra. Rinaldo sfiorò i polpastrelli con un bacio.
“Sarai tu a dargli un nome. Sarai al mio fianco dopo il parto e prenderai tra le braccia la nostra creatura, proprio come hai fatto con Levante.”
Vidi un’ombra attraversare i suoi occhi. Scosse il capo per scacciare un pensiero e si riadagiò con cautela su di me.
Non potevo sopportare che trascorresse la notte nella convinzione di essere un uomo finito. Dovevo dargli serenità, dovevo dargli speranza. A lui come a me stessa.
“Rinaldo, cos’è che ti rende felice?”
“Tu.”
“Cos’altro?”
“I miei figli. Ormanno, Levante e anche il piccolo che porti in grembo.”
Il mio tentativo sembrava funzionare, potevo andare fino in fondo. Dischiusi le labbra per porre una nuova domanda, ma lui parlò prima di me.
“E la mia vigna.”
“Vigna?”
“Si trova fuori città.”
Ci pensai qualche istante: “Ma…parli di quella dei Medici?”
Il suo corpo s’irrigidì contro il mio, la mano si chiuse improvvisamente a pugno. La sua voce divenne un ringhio rabbioso: “Che possano bruciare all’inferno quei maledetti. Quella vigna era mia! Era la mia gioia nei momenti felici e la mia consolazione in quelli bui. In questi ultimi vent’anni ho lottato nella convinzione che un giorno avrei potuto riprendermela.”
Chinai il capo per stampargli un bacio sulla fronte, le mie mani sparsero carezze sul suo corpo: “Parlami ancora della vigna, amore.”
Rinaldo rimase rigido e immobile ancora qualche istante, poi cedette al mio tocco e tornò a rilassarsi, la rabbia uscì assieme ad un sospiro. La sua voce parlò di nuovo tranquilla: “In quella vigna io ci sono cresciuto. Ho mosso lì i miei primi passi, ho assaporato i suoi frutti alla fine di ogni estate, ho corso tra le sue viti fino a perdere il fiato, ho contribuito a mantenerla rigogliosa. Fino a quando non sono stato costretto a venderla ai miei peggiori nemici.”
Un altro sospiro. La sua mano lasciò il mio ventre per risalire e sostare su un seno. Col dito indice giocò con la rosea gemma che vi spiccava, fino a quando non divenne dura. Allora mosse il capo e si sporse fino a prenderla tra le labbra. La stuzzicò un po’ con la lingua e poi la risucchiò. Soddisfatto, posò di nuovo il capo sulla mia spalla, la mano abbandonata sull’altro mio seno.
“Dopo l’arresto, ritrovandomi qui da solo e potendoti vedere solo dall’alto della torre, ho ripensato spesso alla mia vigna. E a te. E a quanto avrei voluto portarti a vederla, passeggiare con te tra le viti, tenendoti per mano. E poi fermarci e fare l’amore accarezzati dall’erba, baciati dal sole primaverile, e con il profumo della vigna a conciliare i nostri sensi.” Fece una pausa. Nella mia mente si creò facilmente quell’immagine da lui descritta, così vivida da sembrare reale. Sarebbe stato meraviglioso fare tutto questo veramente.
“Nel sogno ad occhi aperti ci sono anche altri elementi. La balia che culla il nostro ultimogenito all’ombra di un grande albero. E gli altri nostri figli che giocano sul prato o corrono attorno alla vigna. Cinque bambini, per la precisione.”
A quell’ultima frase non riuscii a trattenere una risata: “E non aggiungi, sullo sfondo, mio padre che ci guarda da una finestra di Palazzo de’ Pazzi con sguardo torvo e la testa calva dopo essersi strappato tutti i capelli per la disperazione?” Finito di dirlo, temetti che il mio scherzo fosse fuori luogo, e invece Rinaldo si mostrò complice del divertimento, ridendo a sua volta.
Avevamo appena ritrovato la calma, quando il silenzio fu rotto dal rumore di passi che si avvicinavano.
“Ho portato la cena. Se Damigella preferisce coprirsi prima che io entri…” Propose il carceriere. Per un qualche motivo io e Rinaldo scoppiammo a  ridere di nuovo, però pensammo bene di affrettarci ad indossare qualcosa mentre l’uomo sembrava temporeggiare nell’aprire la cella. Fu molto gentile a portare cibo per entrambi, peccato che la cena consistesse in uno stufato poco saporito e pezzi di pane non esattamente appena sfornati.
*
Lasciai dolcemente il mondo dei sogni percependo le labbra di Rinaldo sulla mia pelle. Impronte di baci dalla spalla fino all’incavo del collo. Molto dolce. La sera prima, dopo aver consumato il pasto, avevamo parlato ancora un po’ di noi e di progetti fantasiosi che non avremmo mai potuto realizzare in questa vita, per poi infilarci nel letto e fare l’amore per quasi tutta la notte. Rinaldo mi prese con grande passione e ardore, quasi volesse rifugiarsi dentro di me, quasi stesse cercando protezione. Probabilmente lo voleva davvero. Ciò di cui avevo bisogno io era di sentirmi completa, parte di lui, di sapere che eravamo un’unica cosa indivisibile. Era una necessità. Poi, esausti, ci concedemmo qualche ora di sonno e…
“E’ già mattina?” Chiesi allarmata, sollevandomi di scatto dal cuscino.
Rinaldo, già col braccio attorno alla mia vita, mi strinse più forte a sé: “Calmati. E’ solo l’aurora.”
Purtroppo ottenne l’effetto contrario, infatti mi agitai a tal punto da sfuggire al suo abbraccio: “Il che significa che presto verranno a prenderti. E verrà emessa la sentenza. Oh mio Dio.”
Rinaldo si mise in posizione seduta e mi obbligò a guardarlo negli occhi: “Devi essere forte, Delfina. Qualunque cosa accada, tu devi pensare ai nostri figli, non a me. Hai capito?”
Feci dei cenni col capo, se avessi risposto sarei scoppiata a piangere.
“Bene. Ora vestiamoci. Devi lasciare la torre prima che arrivi qualcuno.” Tagliò corti lui, quindi si alzò dal letto per dare il buon esempio. Si vestì velocemente, al contrario di me che invece ero tutta un tremore e non riuscivo nemmeno ad infilare le maniche della sottoveste. Alla fine fu lui a vestirmi.
In ultimo mi avvolse nel mantello e, mentre chiudeva il gancio, gridò: “Carceriere.”
Il fiume di lacrime straripò dai miei occhi: “No! Non posso lasciarti così. Non ora.”
“Non c’è più tempo. Devi andartene subito.”
Un singhiozzo riecheggiò nella cella e solo dopo riuscii a parlare ancora: “Voglio restare con te. Come posso lasciarti solo in mezzo a quel branco di lupi?”
Il carceriere arrivò di fronte alla cella, scambiò un’occhiata con lui. Rinaldo si affrettò a convincermi: “Hai detto che mi daranno l’esilio, allora perché hai paura?” Mi afferrò alle spalle e puntò il suo sguardo intenso su di me: “Non cedere adesso, Delfina. Fallo per me. Io non abbasserò la testa, qualunque sia la sentenza.”
Feci un cenno col capo e cercai di inghiottire le lacrime. Rinaldo allora mi avvolse in un delicato abbraccio. La sua voce un sussurro al mio orecchio: “Prega per me, Delfina. Prega con tutta l’anima.” Scostò il viso e lo fece scivolare sul mio. Lentamente e con dolcezza posò le labbra sulle mie. Un bacio semplice e caldo, il suo respiro fremente contro la mia guancia. Avrei voluto che il tempo si fermasse in quell’istante.
Avevo ancora gli occhi chiusi quando mi lasciò andare. Come da regola, doveva retrocedere affinché il carceriere potesse aprire la cella. Seppur a malincuore, le nostre mani dovettero separarsi. Però lo fecero lentamente, restando a contatto fino all’ultimo momento, fino a far scivolare l’ultimo polpastrello sull’altro. Riaprii gli occhi, incontrai i suoi. Il rumore della chiave nella serratura mi ferì l’udito. Senza voltarmi, feci due passi all’indietro e mi ritrovai fuori dalla cella. Il carceriere richiuse in tutta fretta, per precauzione. Quando Rinaldo si fece avanti io sollevai le mani sulle sbarre, per poterlo toccare, ma lui rimase a distanza sufficiente per impedirmelo.
“Ormanno verrà da te dopo la sentenza.”
“Va bene.” La voce continuava a tremare anche se avevo smesso di piangere.
“Il cappuccio.” Mi consigliò, accennando un sorriso.
Mi calai il cappuccio sulla fronte, obbediente.
“Ci rivedremo, amore mio.” La sua voce ferma per infondermi coraggio.
Lo aveva detto anche l’ultima volta e l’attesa mi aveva quasi fatta impazzire.
“Ti amo, Rinaldo.”
Lui dischiuse le labbra per rispondere, poi ci ripensò. Disse solo: “Te lo dirò al nostro prossimo incontro.”
Aggrappandomi a quella speranza, mi allontanai dalla cella e mi diressi verso la scalinata.

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Capitolo 28
*** La forza di lasciare ***


Capitolo ventisette
La forza di lasciare
 
Rincasando, trovai ad attendermi un pacchetto. Precisamente, un astuccio di velluto blu posato sul ripiano del mobile accanto all’ingresso del mio salottino privato. Lo presi tra le mani, saggiai la morbidezza del velluto. Afferrai un’estremità e ne vuotai il contenuto sul mio palmo. Si trattava di un rosario in pietra onice, dal taglio armonioso. Era di Rinaldo. Ricordavo di averglielo visto portare appeso alla cintola, il giorno in cui era avvenuto il nostro primo bacio. Le pietre fredde sulla mia pelle mi causarono un brivido.
“Damigella, siete tornata. Io e vostra madre abbiamo coperto la vostra assenza, vostro padre non si è accorto di nulla.” La voce di Isabella mi accolse con calore. Pochi passi e lei mi fu accanto per togliermi il mantello di dosso. Guardò il rosario tra le mie dita. Senza che io chiedessi niente, m’informò: “Messer Ormanno lo ha portato poco fa, prima di recarsi al Palazzo della Signoria. Ha detto…” Esitò, cercando nella memoria le parole esatte: “…che suo padre gli ha chiesto personalmente di farvene dono poiché è uno dei suoi rosari preferiti.”
Non dissi nulla, mi limitai a camminare fino alla mia poltrona e sedermi sul bordo. Avvolsi le dita con le perle del rosario, la croce sul mio palmo sembrava assorbire la luce di quell’alba che aveva le tinte del fuoco e del sangue.
“I bambini dormono ancora. Desiderate che vi chiami quando Levante si sarà svegliato?”
Non la degnai nemmeno di una risposta, ero troppa bisognosa di stare sola coi miei pensieri. Unii le mani e abbassai il capo fino a che la fronte non sfiorò le dita. E cominciai a pregare.
*
Delle voci entrarono lentamente nella mia testa, dapprima come echi lontani e poi pian piano sempre più nitide. Una apparteneva ad Isabella e l’altra…ad Ormanno.
“E’ dall’alba che è lì ferma. Non ha ancora toccato cibo, sono preoccupata. Ho tentato di chiamarla, ma è così assorta in preghiera che non mi ha nemmeno udito.”
“Non preoccuparti, me ne occupo io.”
Dei passi ovattati vennero verso di me, una mano si posò gentile sulla mia spalla. Solo allora aprii gli occhi e sollevai lo sguardo sulla figura che era in piedi di fronte a me.
“Ormanno.” La voce mi uscì in un sussurro.
“Delfina…” Prese un respiro così profondo che il suo petto si gonfiò come quello di un galletto. Buttò fuori l’aria e scoppiò in una risata: “Esilio!”
Non avrei potuto udire parola più bella!
Finalmente potevo piangere e sfogare tutta l’ansia che mi aveva tormentato. Scattai in piedi e gli gettai le braccia al collo con entusiasmo. Contagiato, Ormanno mi sollevò da terra e mi fece girare in aria come una bambina. O forse in quel momento eravamo entrambi bambini che ridevano e piangevano contemporaneamente. Quando mi posò a terra, mi imposi di ricompormi, per rispetto a Isabella che ancora ci stava osservando. Dopo la scenata dell’ultima volta, non mi sembrava il caso di rischiare.
Mi schiarii la voce: “Dove sconterà la pena? In quale città?”
“Ancona. Per lo meno non saremo molto lontani da qui, in fondo mia madre continuerà a vivere a Firenze.”
“Aspetta, hai detto ‘lontani’? Cosa intendi dire?”
“L’esilio è stato esteso anche a me, essendo suo figlio e suo complice. Non me ne dispiaccio. Questa città mi ha stancato.”
“Quando partirete? Ho bisogno di vedere Rinaldo e accordarmi con lui riguardo…” Lui m’interruppe, dal suo sguardo compresi che era qualcosa di serio.
“Dopo la sentenza mi è stato permesso di parlare con mio padre in privato e insieme abbiamo organizzato un piano di fuga.”
“Fuga? Cioè volete fuggire invece di andare in esilio?”
“Non è per noi, è per voi due e i bambini.” E nel dirlo si rivolse anche ad Isabella. Vedendo i nostri sguardi giustamente interrogativi, propose: “Vi prego entrambe di accomodarvi e ascoltarmi bene. Vi spiegherò tutto.”
Isabella scambiò un’occhiata con me per chiedermi il permesso di prendere posto, io gliel’accordai con un cenno del capo.
Ormanno restò in piedi di fronte a noi e diede inizio alle spiegazioni: “Mio padre lascerà la torre domani mattina, delle guardie lo scorteranno al nostro palazzo. Io sarò lì ad attenderlo, ovviamente. Avremo solo mezz’ora per prepararci al viaggio e prendere alcuni effetti personali da portare con noi ad Ancora. Poi lasceremo la città. Per quanto riguarda voi…” Si fermò, assalito da un dubbio: “Siete favorevoli a fuggire, vero?”
“Certo che sì!” Risposi io di getto. Al contrario, Isabella era molto contrariata: “Io no, Messere. Perché dovrei farlo? Perché dovrei fuggire con un uomo che ha rifiutato il mio amore e mi ha insultata? Un uomo al quale non importa nulla di me?”
Ormanno sospirò, sapeva di meritare quelle accuse. Si passò le dita tra i capelli, riflettendo su cosa dire, quindi si chinò ginocchio a terra e posò una mano su quelle di Isabella, che lei teneva unite in grembo: “So quello che ho detto. Ma adesso si tratta della sicurezza di Gioia. Non lascerò mia figlia in una casa dove non è ben accetta.”
“E per ciò mi chiedete di diventare una serva fuggiasca?”
“Con te ho sbagliato fin dal principio, Isabella. Lo so, sono stato severo, ti ho fatto del male, ma questo non significa che io non provi affetto per te. Sei la madre di mia figlia e questo è un legame che non si spezzerà mai.”
I loro sguardi erano così complici in quel momento. Non potei evitare di pensare che forse, vivendo sotto lo stesso tetto, presto Ormanno si sarebbe innamorato di lei e insieme avrebbero trovato finalmente la felicità.
Ormanno si rialzò in piedi e riprese il discorso: “Dovrete trovare in fretta un cocchiere affidabile, qualcuno che non vi tradisca.”
“A questo penserò io.” Mia madre fece il suo ingresso trionfale con quella sfacciataggine tipica di lei.
Andai su tutte le furie: “Ti sei abbassata ad origliare, adesso? Sappi che se rivelerai il piano a mio padre, non ti perdonerò mai. E non illuderti che io rimanga prigioniera qui, perché ti assicuro che troverò il modo di fuggire.”
Mi zittì con un gesto civettuolo: “Delfina, ti prego, quando ti arrabbi sulla tua fronte si forma una ruga che t’invecchia di dieci anni.” E detto questo si affiancò alla mia poltrona, il volto illuminato d’interesse: “Come dicevo, io penserò al cocchiere e troverò una carrozza senza insegne su cui potrete viaggiare tranquille. Prego, proseguite, Ormanno.”
Eravamo tutti e tre increduli. Stava accadendo davvero? Ad ogni modo, non trovando in lei una minaccia, Ormanno continuò: “Sì, dicevo… Portate con voi solo lo stretto necessario o la vista di troppi bauli potrebbe insospettire le guardie alle porte della città.”
Isabella mi si rivolse allarmata: “Dovremo licenziare la balia. Povera donna. Come farà a trovare un nuovo impiego con così poco preavviso?”
“Penserò io anche a questo. Domani le concederò un giorno di riposo, pagato, e poi troverò il modo di sistemarla da qualche altra parte.” Sottolineò mia madre.
Chiusa la parentesi, incitai Ormanno a proseguire: “I dettagli della partenza, per favore.”
Lui fece un cenno col capo: “Partirete dopo di noi, per maggior sicurezza. Potreste attendere l’inizio della funzione. So che domani il Papa officerà messa personalmente nella Cattedrale, perciò per l’occasione sono certo che assisteranno tutte le famiglie nobili e ricche della città. Il che significa che non incontrerete nessuno di familiare per le strade e partirete tranquille.”
Mia madre richiamò la mia attenzione posandomi una mano sulla spalla: “Io e tuo padre assisteremo, infatti. Tu puoi restare a casa lamentando un malore e tutto andrà bene.”
Ormanno riprese la parola: “Infine, ci incontreremo ad Ancora. E che Dio ci assista.”
Eravamo tutti tesi, a pieno diritto. Il piano era rischioso, sarebbe bastato un nonnulla perché fossimo perduti. Tra il silenzio generale, mi alzai dalla poltrona, armata di coraggio. Presi le mani di Ormanno tra le mie, facendogli notare l’intreccio di perle nere.
“Domani, non appena arriverà a casa, dì a tuo padre che lo amo più della mia stessa vita. E che una volta ad Ancora non lo lascerò mai più.”
Ormanno rispose alla mia stretta e abbozzò un sorriso: “Glielo dirò, te lo prometto.”
*
“Delfina, ti senti bene? Non hai detto una parola per tutta la cena.”
In effetti era vero, avevo mangiato tutto ciò che mi era stato messo di fronte ma in realtà con la mente ero stata altrove. Voltai lo sguardo su mio padre, per rispondere alla sua domanda: “Perdonami, padre, ero assorta.”
Lui si portò il calice alle labbra, l’espressione soddisfatta mi fece capire che il vino era di suo gradimento. Peccato che quell’espressione mutò quando il suo sguardo si posò su di me: “Rinaldo è stato esiliato, come avevo detto. Non ne sei felice?”
Cercai di accennare un sorriso, ma la tensione me lo impedì: “Sì, per quanto io possa esserlo sapendo che forse non lo rivedrò mai più.”
Mio padre ripose il calice vuoto, ma tenne la gustosa bevanda in bocca ancora un po’ per assaporarla fino in fondo. Mi aveva già dimenticata.
Spostai dunque l’attenzione su mia madre, seduta di fronte a me. Sembrava serena, o forse fingeva di esserlo. Un mugolio di mio padre ci richiamò all’attenzione. Aspettammo che si decidesse a deglutire.
“Domani il Papa celebrerà la messa personalmente nella Cattedrale. Da quanto ho capito, vuole benedire la ripresa dei lavori per la costruzione della Cupola dei Medici. Niente d’importante.”
Scambiai un’occhiata con mia madre e azzardai la domanda: “A questo proposito, padre, vorrei chiederti il permesso di poter stare a casa domani. Non mi sento molto bene e…vorrei riposare.”
Lui scoppiò a ridere all’improvviso: “Ci avrei scommesso! Sciocchezze, Delfina. Sei solo avvolta dalla disperazione per via di Rinaldo.”
Quindi si alzò dal posto e si sporse su di me con aria minacciosa: “Non lo rivedrai mai più. Devi fartene una ragione.”
La sua mancanza di tatto mi ferì: “Ma padre! Non capisci quanto io stia soffrendo? Io lo amo! E’ il padre di mio figlio!”
“E’ un traditore. Ho mantenuto la mia promessa ed esigo che tu mi dimostri gratitudine. Domani verrai con me e tua madre alla messa e sfoggerai il tuo sorriso migliore. Voglio che le malelingue si zittiscano e che nessuno osi più additarti come l’amante di Albizzi.”
“Ma è la verità. Io sono l’amante di Albizzi.” Lo sfidai.
Lui batté il pugno sul tavolo, gli occhi iniettati di sangue per la collera: “Devi dimenticarlo! Provvederò a trovarti un marito al più presto, così poi ci penserà lui a toglierti tutte queste idee assurde dalla testa.”
Terminò la frase in un grido, per poi uscire dalla sala lasciandomi lì pietrificata dalla paura.
Mia madre corse attorno al tavolo per raggiungermi, il suo abbraccio era tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento. Mi sentivo soffocare, i singhiozzi mi esplodevano nel petto e si rifiutavano di uscire.
“Andrà tutto bene, tesoro. Domani te ne andrai e ti lascerai tutto questo alle spalle.”
Finalmente il pianto si sfogò, le lacrime presero a uscire copiose dai miei occhi e il mio lamento riempì la sala. Anche se ero seduta sentii il bisogno di aggrapparmi alla sua spalla, come se stessi per svenire.
“Madre… Come…come faremo a partire? Ci scoprirà, non ci permetterà mai di lasciare Firenze.”
Mia madre mi cullò tra le braccia, la sua voce era tranquilla: “Non temere, troveremo un modo. Adesso ritrova la calma e andiamo a parlare con Isabella.”
Mi aiutò ad alzarmi dalla sedia e, prima di andare, mi prese il viso a coppa tra le mani come quando ero bambina. Era da così tanto tempo che non lo faceva.
“E’ questo il motivo per cui ti sto aiutando a fuggire, piccola mia. Tuo padre ha perso la testa per il potere e vuole usarti per i suoi giochi politici. Meriti qualcosa di meglio di questa vita. E se quel qualcosa è Rinaldo…allora ben venga.”
Mi lasciai andare ad uno slancio di affetto e l’abbracciai. Per quanto strana, sfacciata, civettuola e frivola, quella donna aveva anche molte pregevoli qualità. E mi amava incondizionatamente. Se fino a quel momento ne avevo dubitato, ora ne avevo la certezza assoluta. Con quelle sue parole mi aveva dato tutto, compresa la forza necessaria per compiere quel grande passo. Di fatto stavo per lasciare la mia famiglia, la mia città, nonchè una vita agiata per andare incontro ad un futuro incerto, assieme ad un uomo che ormai non possedeva più nulla, nemmeno l’onore.

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Capitolo 29
*** Ultimo giuramento d'amore ***


Capitolo ventotto
Ultimo giuramento d’amore
 
Che cosa ne sarà di me? Fu con questa domanda nella mente che mi svegliai quel mattino, udendo le voci acute e gioiose dei bambini nella stanza accanto. Avendo dato alla balia un giorno di riposo, io e Isabella ci aiutammo a vicenda per prenderci cura dei nostri figlioletti e preparare l’occorrente per quella fuga che ci avrebbe allontanate per sempre da Firenze. Riempimmo un unico baule, più che altro con il necessario per i bambini. Isabella non possedeva gran che, quindi per lei fu facile organizzarsi, io invece pensai bene di fare un’accurata selezione dei miei abiti più pregiati, che mi avrebbero fruttato bene nel caso avessi dovuto venderli. Infine, ben nascosti sotto a tutto, alcuni gioielli di famiglia che mia madre mi pregò di accettare come dono d’addio.
Era ancora mattino presto e tutto era già pronto.
Ormanno non aveva specificato a che ora sarebbero partiti lui e suo padre, il che significava una cosa: forse sarei riuscita ad incontrare Rinaldo. Per giustificare quel mio bisogno, pensai che sarebbe bastato trovare una scusa accettabile, quindi… Perché non tentare?
“Io vorrei recarmi a Palazzo degli Albizzi.” Buttai così, di punto in bianco.
Mia madre e Isabella mi guardarono con tanto d’occhi. Cominciai a torturarmi le dita, temendo che mi avrebbero impedito di uscire: “Se Rinaldo e Ormanno non hanno ancora lasciato la città, sarebbe bene che io li avvertissi del nostro cambio di programma. Potrebbero preoccuparsi nel non vederci arrivare ad Ancona nell’orario stabilito.”
“Delfina, non sono d’accordo. Se qualcuno ti riconoscesse? Se ti vedesse Madonna Alessandra? Rischi di rovinare tutto con questo capriccio.” Puntualizzò mia madre.
Tentai con la via dell’umorismo: “Non è un crimine che una fanciulla vada a porgere i saluti all’uomo che le ha fatto da Maestro di conversazione per quasi due anni!”
La sua occhiata in tralice fu sufficiente a farmi gettare la maschera e parlare a cuore aperto: “Ho bisogno di vederlo, madre. Ho bisogno di parlargli, di toccarlo, di assicurarmi che stia bene. Io…” Le lacrime mi assalirono, costringendomi a fare una pausa, la voce incrinata nel finire la frase: “…io ho bisogno di lui. Non posso lasciarlo partire senza avergli detto che lo amo.”
Il suo sospiro non mi rassicurò molto. Vi rifletté qualche istante e, per mia fortuna, nel rispondere si mostrò più comprensiva: “Forse un breve incontro non farà danni. Va bene, allora. Esci dalle cucine e copriti bene col mantello. E soprattutto, cerca di non attirare troppa attenzione quando sarai là.”
Mi passai il dorso della mano sugli occhi e accennai un sorriso: “Lo farò, madre. Grazie.” Sorrisi anche ad Isabella, era importante avere anche la sua approvazione.
E così, nell’arco di cinque minuti, ben avvolta nel mio mantello nero con cappuccio, mi ritrovai di fronte a Palazzo degli Albizzi. L’ingresso principale era chiuso e nessun uomo era di guardia. Brutto segno. Allora camminai attorno alla proprietà fino ad arrivare all’ingresso sul retro e lo trovai aperto. Sbirciando all’interno, il mio cuore si fece più leggero nel vedere due cavalli sellati. Rinaldo e Ormanno non erano ancora partiti. Mi avvicinai cauta all’uomo armato che era di guardia: “Perdonatemi. Vorrei vedere Messer Albizzi.”
L’uomo mi guardò con sospetto: “Io vi conosco… Sì, vi ho vista molte volte qui a palazzo. Siete Damigella de’ Pazzi, vero?”
Ben fatto. E adesso? Mi scoprii il viso e cercai di mostrarmi sicura: “Sì, sono io. Ora potrei passare, di grazia?”
“Messer Albizzi è molto impegnato in questo momento.”
“Lo so, ma vi sarei molto grata se mi lasciaste entr…”
“Damigella, siate la benvenuta.” La voce arrivò dalla porta del palazzo. Voltai lo sguardo e vidi il mio amato Rinaldo venire verso di me di gran carriera, vestito in tenuta da viaggio. Quando giunse, lanciò un’occhiataccia alla guardia: “Fin quando sarò all’interno di questa proprietà io resto il tuo Signore. E come tale esigo che tu rispetti i miei ospiti.”
L’uomo rispose prontamente: “Chiedo perdono, mio Signore.” Ma nei suoi occhi non vi era alcun segno di pentimento, anzi una luce sinistra vi brillava dopo aver ricevuto quel rimprovero.
Rinaldo mi prese per mano e mi portò di fretta oltre il cortile, dove scelse un posticino tranquillo e nascosto ad occhi indiscreti. Mi guidò fino ad un muro, dove mi ci fece appoggiare di spalle con una mezza piroetta che mi fece sorridere. Mi avvolse in un abbraccio possessivo e in un attimo unì le sue labbra alle mie. Fu un bacio intenso, movimentato, quasi isterico. E lo furono anche i nostri movimenti, le sue mani che sembravano voler plasmare le mie forme come creta e le mie che s’intrecciavano ai suoi capelli ben pettinati e arricciolati. Ringraziai il cielo per essere arrivata in tempo.
Rinaldo interruppe il bacio per permettere ad entrambi di riprendere respiro, i nostri sguardi s’incontrarono. Avrei potuto naufragare dentro l’azzurro e grigio dei suoi occhi.  
Gli sfiorai il viso con le dita e sussurrai: “Non potevo attendere di arrivare ad Ancona per rivederti, amore mio.”
Sentii il suo respiro caldo contro il mio viso e, un istante dopo, mi baciò ancora. Le labbra ora umide si separarono emettendo un buffo suono.
“E’ tutto pronto per la fuga? Quando ti ho vista all’ingresso sono corso fuori con la scusa di voler concedere maggior intimità a Ormanno e sua madre per salutarsi, ma non appena uscirà dovremo partire.”
Feci un cenno col capo: “Sì, siamo pronti. Però dovremo rimandare la partenza al pomeriggio. Mio padre pretende che io presenzi alla messa del Papa.”
Rinaldo sogghignò: “Probabilmente cercherà di ingraziarselo affinché si affidi al suo Banco e pianti in asso i Medici! Non mi sorprenderei se ti spingesse ad entrare nelle sue grazie come ha fatto a suo tempo con me!” Scosse il capo, mostrando un accenno di divertimento: “Tuo padre ha un grande senso degli affari. L’ho sempre ammirato.”
Sollevai un sopracciglio: “Certo! Elogia l’uomo che ti ha fatto arrestare!”
Il discorso finì in una risata che cercammo di smorzare, a conti fatti non c’era gran che di cui rallegrarsi con tutto ciò che era accaduto.
Rinaldo dischiuse le labbra e prese respiro per temporeggiare, quindi disse: “Voglio lasciarmi tutto alle spalle e dare inizio ad una nuova vita. Troverò un modo per fare di te la mia sposa. Ora che il nobile è decaduto e il guerriero si è ritirato per curare l’orgoglio ferito, non resta altro che l’uomo. Un uomo di nome Rinaldo che desidera solo vivere con la sua donna ed i suoi figli.”
Appoggiai la fronte contro la sua, mi sentivo come se attorno a noi ci fosse un involucro che ci proteggeva e ci rendeva invisibili al resto del mondo. Se Levante fosse stato con noi, l’immagine sarebbe stata perfetta. Bisbigliai: “D’ora in poi saremo sempre insieme. ” E nel dirlo gli presi una mano e la posai dolcemente sul mio ventre.
Un nuovo bacio suggellò quella promessa d’amore, quella speranza per il futuro. Questa volta fu un bacio delicato e romantico, un bacio che avrei voluto non finisse mai. Un bacio d’amore.
Il rumore di passi che si avvicinavano ci costrinse a separarci. Era Ormanno.
“Perdonate l’intrusione, ma dobbiamo affrettarci a partire o le guardie torneranno e ci cacceranno dalla città con la forza.”
“Ormanno, sii gentile, accompagna Delfina all’ingresso del cortile. Io andrò a scambiare qualche altra parola con tua madre per distrarla, non voglio che la veda qui.”
Notai lo sguardo d’intesa che si scambiarono, era evidente che c’era qualcosa sotto, ma non me la sentii di andare a fondo. Rinaldo mi sciolse dall’abbraccio, la sua mano calda andò a stringere la mia: “Ho promesso di dirtelo.”
Attesi con curiosità e, non ricevendo risposta, emisi una risatina divertita: “Che cosa?”
Rinaldo mi regalò uno dei suoi sguardi intensi e conquistatori e disse: “Ti amo, Delfina de’ Pazzi.”
Ricambiai la stretta della sua mano: “E io amo te, Rinaldo degli Albizzi. E te lo dirò ogni giorno per il resto della mia vita.” La mia voce s’incrinò leggermente per l’emozione.
La mia mano scivolò lentamente dalla sua, mentre Ormanno mi prendeva sottobraccio per portarmi via. I nostri sguardi rimasero incollati fino al’ultimo istante, fino a quando non dovetti voltarmi e andare via con Ormanno. Rinaldo prese un’altra direzione e rincasò.
“Credi che Isabella sarà felice nella nuova città?” Mi chiese Ormanno, mentre camminavamo attraverso il cortile.
“Io credo che, accanto a te, sarebbe felice ovunque, se devo essere sincera.” Il che era vero, possibile che ancora si rifiutasse di capirlo? Per quanto avessi imparato a volergli bene, dovevo ammettere che quel ragazzo a volte non era per niente sveglio!
In un batter d’occhio giungemmo all’ingresso posteriore. Dopo un primo momento di esitazione, non sapendo bene come congedarci, alla fine ci stringemmo in un abbraccio fraterno. E che la guardia pensasse ciò che voleva, a noi non importava.
“Fate buon viaggio.” Dissi semplicemente, quando ci sciogliemmo.
“Anche voi. E fate attenzione. Due donne che viaggiano sole con due bimbi piccoli sono una facile preda per i malintenzionati. Dite al cocchiere di correre come il vento.”
Feci un cenno di assenso e un sorriso al quale lui rispose. Dopo di che mi curai di nascondermi bene sotto il cappuccio. Dovevo tornare a casa in tempo per la colazione.

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Capitolo 30
*** Sangue del suo sangue ***


Capitolo ventinove
Sangue del suo sangue
 
Quel mattino sopportai pazientemente la funzione celebrata da Papa Eugenio. Alternai preghiere rivolte al mio Rinaldo a momenti in cui dovevo trattenere il respiro per non rischiare che il forte e nauseante odore d’incenso bruciato mi facesse rivoltare lo stomaco. Talvolta mi guardavo attorno e scrutavo i volti delle persone presenti. Nessuno di loro mi stava a cuore o poteva considerarsi mio amico. Speravo che ad Ancona io e Rinaldo avremmo fatto conoscenze migliori che non a Firenze. Quasi per caso il mio sguardo si posò sui componenti della famiglia Medici. Chiunque sarebbe stato una conoscenza migliore di loro! Un moto di rabbia mi salì fino al viso, facendomi avvampare.
Accorgendosi del mio stato e vedendo chi ne era la causa, mio padre mi prese per mano e chinò il capo di lato per sussurrare: “Respira, figliola. C’è un momento giusto per ogni cosa.”
Cercai di seguire il suo consiglio.
Mi persi in pensieri, chiedendomi dove si trovassero in quel momento Rinaldo e Ormanno. Se si erano fermati per una sosta, se il viaggio procedeva tranquillo o se avevano già nostalgia di casa. Sospirai, la noia della messa cominciava a pesarmi. Cercai di fare un calcolo approssimativo su quanto mancasse al termine. Non vedevo l’ora che la campana rintoccasse. Forse, a casa Isabella si stava dannando per dar da mangiare ai bambini, probabilmente elemosinando aiuto nelle cucine. Povera ragazza, avremmo dovuto aspettare prima di congedare la balia! Anche se sapevo che Levante era un bambino buono, o almeno lo era con me. Adoravo quando ero io stessa a nutrirlo, imboccandolo con un piccolo cucchiaio, e poi ammirare lo splendore delle sue guance piene mentre era intento a gustare la sua purea di mele. Sorrisi, coinvolta in quel pensiero piacevole e, per istinto, portai una mano al mio ventre come per condividere quel momento di gioia con la creatura che portavo in grembo.
Distrattamente sollevai lo sguardo e rimasi pietrificata nell’accorgermi dell’occhiata carica di odio che mi lanciò Madonna Alessandra. Sbirciai rapida alla mia destra e alla mia sinistra. Non c’erano dubbi, stava guardando proprio me. Deglutii. Perché mi stava guardando in quel modo? Certo, sapevo bene quanti motivi avrebbe avuto per farlo, ma in teoria lei no. O mi sbagliavo? Abbassai lo sguardo, troppo intimorita per sostenere il suo, e allora lo vidi. Indossavo il rosario di Rinaldo e lei doveva averlo riconosciuto.
La campana rintoccò in quel momento. Vidi Alessandra uscire dalla fila, il mento alto di donna fiera e ancora quello sguardo carico di odio puntato su di me. Uscì dalla Cattedrale prima che il Papa avesse terminato di celebrare la messa.
Posai la mano sul braccio di mio padre per richiamare la sua attenzione: “Padre, ho bisogno di uscire. Vi aspetto fuori.”
“Ma, io volevo approfittare dell’occasione per presentarti al…”
Non l’ascoltai nemmeno, feci il segno della croce e scivolai via dalla fila come una saponetta da mani umide. Volevo parlare con lei, volevo affrontarla apertamente. Glielo dovevo, in fondo.
Lembo della gonna leggermente sollevato, passi felpati per non attirare l’attenzione, mi affrettai a raggiungere l’uscita.
Inizialmente non diedi importanza alla folla di popolani che si era riunita di fronte alla Cattedrale. Intravidi appena il carro. Fino a quando non udii un grido disperato e il mio sguardo trovò Alessandra, china su di un corpo adagiato all’interno del carro. Riconobbi i capelli castani, il volto esangue bagnato dalle lacrime della madre. Era Ormanno. E accanto al suo vi era anche un altro corpo. La vista mi si offuscò, dovetti sbattere le ciglia e passarmi il dorso della mano sugli occhi. Dapprima vidi solo i piedi nudi e sporchi, percorsi con lo sguardo la coperta grezza. Poi una camicia macchiata di sangue, aperta su un petto virile. Il collo nudo e…un volto incorniciato da barba e capelli dai ricci chiari. Le palpebre sollevate rivelavano un paio di occhi azzurri con sfumature verdi e grigie.
“No.” La voce mi uscì strozzata, neanche avessi avuto un cappio attorno al collo. Mi portai entrambe le mani al ventre in quel naturale gesto di protezione materna. Sentii le ginocchia piegarsi sotto ad un peso immaginario.
Non saprei dire se sia stata la terra a mancarmi da sotto i piedi per prima o il cielo a crollarmi sulla testa o se questi fenomeni fossero avvenuti contemporaneamente, fatto sta che smisi di respirare travolta da un indescrivibile dolore che mi entrò fino in fondo all’anima. Poi all’improvviso un singhiozzo salì dalla mia gola, la vista venne offuscata dalle lacrime.
“RINALDO!”
Mi ritrovai a correre verso quel carro di morte, la mia mente incapace di formulare quella frase che avrebbe infranto per sempre ogni mio sogno e ogni mia speranza di un futuro felice. In preda alla follia mi gettai dentro al carro, le mani tremanti toccarono quel corpo immobile alla ricerca di un qualunque segno di vita. La sua pelle era così pallida…
Gridai alla folla alle mie spalle: “Aiuto! Qualcuno lo aiuti! Qualcuno…” Le parole vennero soffocate da singhiozzi e lamenti. Mi chinai su di lui, la mano isterica ad accarezzare la sua guancia, mentre il mio sguardo scrutava quello azzurro e grigio di lui.
“Amore mio… Guardami, ti prego. Guardami!” Tutto inutile, ormai dentro quello sguardo non vi era rimasto nulla tranne il vuoto. Le mie lacrime ricaddero sul suo viso come gocce di pioggia.
“Rinaldo!” Gridai ancora, con le ultime forze che mi erano rimaste.
Sentendo qualcosa sfiorarmi i capelli, mi voltai di scatto. Madonna  Alessandra stava piangendo proprio come me, ma il suo sguardo era fermo e la sua mano sospesa a mezz’aria. Nell’allungarla verso di me vidi che stava tremando, avrebbe avuto tutto il diritto di colpirmi e farlo ancora e ancora. E invece, quella straordinaria donna dalla forza spirituale ammirabile e dall’animo gentile, sfiorò il mio viso con le dita in un gesto di affetto e comprensione. E io, colpevole di aver amato suo marito ed essere stata amata a mia volta e ora lì ad umiliarla piangendo sul suo corpo, confermando così il mio ruolo di amante, mi sciolsi come neve al sole per la sua pietà nei miei confronti. Accettai la sua carezza e, quando la sua mano ridiscese, la presi nella mia e la strinsi dolcemente. Qualunque parola sarebbe stata insignificante, i gesti invece dissero ogni cosa. Avevo ottenuto il suo perdono.
Le nostre mani si sciolsero, io mi abbandonai sul corpo di Rinaldo e appoggiai il capo sul suo petto. Quel petto su cui avevo dormito innumerevole volte e contro cui avevo ricercato calore nelle notti fredde.
“Rinaldo… Amore mio..” Le uniche parole che riuscivo a pronunciare tra gli incessanti singhiozzi. Avrei voluto annegare nelle mie stesse lacrime.
L’uomo che amavo con tutta me stessa, l’uomo a cui avevo dato un figlio e di cui ne portavo un secondo in grembo, l’uomo con cui avrei dovuto vivere una nuova vita…era morto.
*
Camminava lentamente, quasi a fatica, come se avesse delle catene a mani e piedi che gli impedivano i movimenti. Più si avvicinava a quel carro e più il suo sguardo tremava nel vedere quell’anima in pena. Non aveva mai visto sua figlia in quello stato.
Il carro era stato condotto sul retro della Cattedrale, il corpo di Ormanno era stato portato all’interno per la preparazione alla sepoltura e pian piano la folla si era dispersa. Invece Delfina era rimasta sopra il carro, sdraiata accanto al corpo di Rinaldo, e nessuno era riuscito a convincerla a scendere. Il fiato gli si spezzò in gola. Lo stesso colorito esangue, lo stesso sguardo vuoto, l’unica cosa che distingueva sua figlia dal corpo senza vita di Rinaldo era il movimento della mano sul viso di lui, mentre teneva il capo poggiato alla sua spalla in un’ultima illusione di tenerezza.
Sentì il tocco di sua moglie avvolgergli il braccio, deglutì: “Caterina, vai a casa.”
“Ma Andrea! La nostra piccola…” La voce era incrinata dalla tristezza.
“Vai a casa, ho detto.” Ripeté, con il tono più severo che riuscì a simulare. E quello sforzo quasi gli costò una lacrima.
Caterina non obiettò, solo strinse un momento la mano del marito in un gesto di supporto e poi s’incamminò verso casa.
Ora toccava a lui occuparsi di sua figlia.
Percorse l’ultimo tragitto per affiancare il carro, il cuore gli mancò un battito. Dio, quella ragazza non batteva ciglio, era inquietante. Prese respiro e pregò che la voce non lo tradisse.
“Delfina, dobbiamo tornare a casa.”
Nessuna risposta, nessun segno che lei avesse sentito. Era come una morta con una mano spettrale che ripeteva senza sosta carezze isteriche sul viso di Rinaldo.
Cosa poteva dire per smuoverla? Lui stesso era rimasto paralizzato nel vedere l’atrocità che era stata compiuta. Non si sarebbe mai aspettato che qualcuno potesse fare questo. Anzi, quel qualcuno aveva un nome specifico. Chi era l’eterno nemico degli Albizzi? Chi era l’unico ad odiare Rinaldo e a desiderare vendetta? Maledetto Cosimo de’ Medici. Prima si era fatto in quattro per salvarlo solo per compiacere il Papa e poi lo aveva fatto uccidere senza pietà. Non aveva dubbi che fosse lui il mandante di un simile crimine. Doveva architettare un piano affinché il Papa sapesse la verità, così avrebbe abbandonato i Medici per affidarsi al suo Banco dandogli così nuovo prestigio. Avrebbe riflettuto su questo ma…non ora. Ora sua figlia era la priorità.
“Credimi…mi dispiace tanto. Né lui né Ormanno meritavano questa fine.” Lo pensava davvero.
“So quanto amavi Rinaldo. E so che lui amava te.”
Finalmente una reazione, lo sguardo di Delfina ebbe un tremore e gli occhi le si riempirono di lacrime.
Andrea continuò: “Delfina, devi lasciarlo andare.”
Delfina emise un gemito, le parole le uscirono roche dalla gola: “No. Non lo lascerò mai più.”
“Tesoro…” Si fermò, sorpreso di aver detto quella parola con tanta spontaneità, ma in fondo in quel momento lui era solo un padre desideroso di confortare la propria figlia: “Tesoro, ormai non vi è rimasto più nulla nel corpo che stai abbracciando. Lui non è più qui.”
Vide delle lacrime uscire dagli occhi di lei, gli si strinse il cuore. Fece alcuni passi per svoltare l’angolo del carro e allungò le braccia su sua figlia. Le sfiorò le spalle con delicatezza: “Vieni, ti aiuto a scendere.”
“Non lo rivedrò mai più.” La voce di Delfina sembrava il miagolio di un gattino triste.
“Lo so.” Aumentò la presa sulle spalle di lei, deciso a tirarla giù dal carro, ma lei oppose resistenza.
Delfina sollevò il capo per ritrovarsi faccia a faccia con Rinaldo, e su quel viso stampò gli ultimi baci, soffermandosi sulle labbra ormai livide.
“Non ti dimenticherò mai, amore mio.” Sussurrò tra le lacrime, per poi cedere al tocco di suo padre.
Andrea l’attirò a sé con premura e la sollevò tra le braccia in una posa aggraziata. La guardò in viso, finalmente il pianto le aveva arrossato le guance dandole di nuovo un aspetto vitale.
“Andiamo a casa, piccola mia.” Le disse, con tutta la tenerezza di cui fu capace.
Delfina affondò il viso sulla sua spalla e si lasciò andare al pianto, come era giusto che fosse.
Per quanto fosse stato severo con lei, per quanto poco affetto le avesse concesso, per quanto avesse tentato di distruggere l’amore che lei provava per Rinaldo, se avesse potuto cancellare il passato con uno straccio lo avrebbe fatto senza esitare. Certo non le avrebbe mai chiesto di perdonarlo, poiché sapeva di non meritare tanta grazia, ma era pronto a sopportare i rimorsi e i ripianti per il resto della vita. Quella creatura distrutta e disperata che piangeva sulla sua spalla e si stringeva a lui come una bambina in cerca di conforto, era sua figlia, sangue del suo sangue e carne della sua carne. E il dolore che l’aveva lacerata, in un qualche modo aveva toccato anche lui.

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Capitolo 31
*** Le sorti degli innocenti ***


Capitolo trenta
Le sorti degli innocenti
 
Gli ultimi giorni d’estate passarono senza che io me ne accorgessi. Distesa sul mio letto, con la testa abbandonata sul cuscino e gli occhi sempre persi nel vuoto, era come se la notte ed il giorno fossero una cosa sola. Vedevo la realtà attorno a me come se si trattasse di un sogno, immagini scollegate e talvolta sfocate, frammenti di frasi e voci che si confondevano nella mia mente. E fra tante, a volte mi sembrava di udire la voce di Rinaldo e di scorgere la sua figura all’interno di un raggio di sole o attraverso un’ombra, anche se sapevo essere irreale. Mia madre fu la persona che vidi più spesso al mio capezzale, quando veniva a darmi conforto e a carezzarmi i capelli con affetto. Poi anche Isabella cominciò a farsi vedere, però la sua presenza sinistra m’inquietava, coi suoi occhi sempre arrossati e cerchiati e le parole taglienti.
“Almeno voi sapevate che Rinaldo vi amava.” Disse una volta, piena di risentimento nei miei confronti e incapace di capire perché non riuscivo a reagire al lutto.
Persino mio padre venne spesso da me. Sedeva sul bordo del letto, mi guardava e poi mi raccontava le sue giornate, i suoi trionfi e i suoi crucci. Era entrato a far parte della cerchia ristretta della Signoria, ma per farlo aveva dovuto uccidere un uomo innocente. Era riuscito a convincere il Papa ad affidarsi al Banco dei Pazzi, ma poi i Medici se lo erano ripreso. L’unica novità che attirò davvero la mia attenzione fu quella riguardante una visita di Madonna Alessandra, venuta a parlare con me e con la mia famiglia di un argomento delicato. A quanto detto da mio padre, prima della partenza, Rinaldo le aveva rivelato ogni cosa riguardo la nostra relazione, nostro figlio -e forse del figlio che presto sarebbe arrivato- e, dopo quanto accaduto, lei si dichiarava favorevole a riconoscere Levante come nuovo erede degli Albizzi. In poche parole, quella povera donna disperata aveva smesso di lottare. A tale notizia, però, io reagii alla stessa maniera, ovvero restando in silenzio e con lo sguardo vuoto a rigirarmi tra le dita le perle nere del rosario che non mi ero più sfilata dal collo. Era come se il mio cuore fosse sepolto da una coltre di neve, talmente fredda e gelata da impedirmi di provare alcuna emozione. Stavo diventando il fantasma di me stessa.
Fino a quando, un mattino di sole, ritrovai la forza di scostare le lenzuola e scendere da quel letto che avrebbe potuto diventare la mia bara. Indossai l’abito verde con ricami in argento, adattato dopo la gravidanza affinché potessi ancora indossarlo, nel quale mi sentivo bella e a mio agio. Ancora a piedi nudi, camminai sul freddo pavimento di marmo, passo lento e sguardo acceso su qualcosa che avevo disperatamente bisogno di toccare. Posto su di un piccolo tavolo decorativo accanto allo specchio, giaceva solitario il mio portagioie. Un cofanetto di legno di rose, dalla forma rettangolare, su cui vi erano incisi intrecci di foglie d’edera lungo i lati e due angeli bambini su sfondo di rose sul coperchio. Sollevai lentamente il coperchio, permettendo alla luce del giorno di illuminarne gradualmente i tesori che conteneva. Dapprima sfiorai la pergamena sigillata con lo stemma degli Albizzi. Il documento di legittimità di Levante che Rinaldo mi aveva consegnato in gran segreto mentre era in prigione. Per lui era così importante che, pur non sapendo che quella sera sarebbe stato arrestato, lo aveva cucito all’interno del collo di pelliccia del suo cappotto, per timore che gli venisse sottratto prima di consegnarlo nelle mie mani. Una simile precauzione doveva essere stata dettata da un oscuro presentimento che si era poi rivelato vero. Le mie dita attraversarono tutta la lunghezza della pergamena e poi discesero fino agli orecchini. Due fili dorati da cui pendevano due singole pietre di ametista a forma di goccia. Incantevoli nella loro semplicità, sembrava trascorso un secolo da quando li avevo ricevuti, invece si trattava appena di un anno e mezzo, ovvero dalla sera in cui avevo festeggiato i miei sedici anni. Accanto agli orecchini giaceva un piccolo foglio spiegazzato. Con la punta dell’indice ne sollevai un lembo, rivelando così le parole scritte da Rinaldo la sera in cui mi aveva restituito il velo. Scritto in calligrafia affrettata, era l’invito in cui mi chiedeva di accompagnare mio padre ad un incontro nel suo palazzo. Ero ancora così ingenua, così bambina, ancora lo chiamavo Messere anche se era chiaro che lui ricambiava i miei sentimenti. Lasciai ricadere il lembo del foglio e sollevai la mano. L’ultimo ricordo tangibile che avevo di Rinaldo era il rosario in pietra onice che indossavo. Toccai la croce, calda per essere stata costantemente a contatto col mio corpo. Usando entrambe le mani, mi sfilai il rosario da sopra il capo e lo riposi con cura all’interno del cofanetto. Il mio sguardo percorse un’ultima volta quegli oggetti che sembravano gridare il nome dell’uomo che amavo. La vita era stata una spietata puttana con me, aveva giocato col mio cuore e poi mi aveva strappato tutto, mi aveva riso in faccia sadica. A cosa era servito amare? In quale vento si erano disperse tutte le parole d’amore e i giuramenti? Che cosa avevo fatto di male per meritare un dolore simile? Richiusi il coperchio con violenza.
Fu in quello stato che mi trovò mia madre, entrando dalla porta di comunicazione tra la mia stanza e quella di Isabella, con Levante in braccio.
“Delfina! Piccola mia, ti sei alzata!” Il suo tono gioioso era leggermente incrinato dalla commozione.
Mi voltai verso di lei con apparente tranquillità, quando invece sentivo il sangue corrermi nelle vene con potenza in un ritrovato impulso di vita. La vista del mio bel bimbo biondo e ricciolino e dei suoi occhi azzurri dai riflessi grigi mi fece alterare, mi fece arrabbiare, pensando a tutto ciò che non avrebbe più potuto avere. In primo luogo, l’amore di un padre.
“Devo parlare con mio padre.” Fu tutto ciò che riuscii a dire, il pugno stretto per smorzare quel furore improvviso.
“Lui…è nel suo studio. Ma prima faresti bene ad indossare delle scarpette, rischi di prendere freddo.”
Le sue premure non mi toccarono, tanto più che l’autunno non era ancora arrivato perciò parlare di freddo era alquanto fuori luogo. Le voltai le spalle e m’incamminai con passo deciso verso la mia destinazione.
“Delfina, aspetta.” Mi richiamò mia madre, per poi seguirmi con la sua camminata ansiosa che non fece che irritarmi ancor più.
Spalancai la porta dello studio ed entrai senza esitazione. Non mi curai dello sguardo sorpreso di mio padre nel vedermi lì in piedi di fronte a lui. Posai le mani sul tavolo e mi sporsi in avanti per essere faccia a faccia con lui: “Nessuno dovrà mai sapere che Levante è un Albizzi. Chiederemo a Madonna Alessandra di mantenere il segreto.”
Superato il momento di sorpresa, mio padre riassunse il suo tipico atteggiamento.
“E cosa pensi di fare di lui?” Chiese tranquillamente, riponendo la penna nel calamaio.
“Se si sapesse che è un Albizzi non avrebbe più un futuro. Perciò… Padre, ti chiedo di dargli il nome dei Pazzi e dichiarare che è figlio tuo e di mia madre.”
Il suo sguardo attonito precedette un giustificato: “Ti ha dato di volte al cervello?”
Insistetti con più convinzione: “Se lo battezzerai come figlio tuo non dovrai più preoccuparti dell’eredità della nostra famiglia. Avrai un erede. Il nostro patrimonio sarà salvo e  non dovrai lasciarlo a nessun altro.”
Ci fu qualche istante di silenzio, che poi venne infranto dalla risata di mio padre: “Certo! Dunque tua madre, alla sua età, avrebbe avuto un figlio! E chi ci crederà, secondo te?”
“Non offendermi in questo modo, Andrea.”
Non ebbi bisogno di voltarmi, sapevo che mia madre dopo avermi seguita fin lì era rimasta sulla soglia ad ascoltare. Entrò e si affiancò a me, il piccolo Levante era tranquillo tra le sue braccia.
“So che non mi hai mai perdonata per non essere stata in grado di darti un figlio maschio. Ma ti rammento che sono ancora abbastanza giovane, non sarebbe così insolito se io restassi incinta.” Il suo sguardo era fermo su mio padre in segno di sfida.
Lui sfoggiò un’espressione beffarda: “Bene, allora! E dimmi, quand’è che avresti partorito? Nessuno ti ha vista gravida. E come vorresti giustificare il fatto di aver tenuto nascosto il bambino per un anno intero?”
“Sono stata in campagna con nostra figlia, non ricordi? Tutti sono convinti che Delfina sia partita per motivi di salute e che io mi sia presa cura di lei. Basterà aggiungere che in realtà io sono partita per affrontare una gravidanza difficile e che, dopo il parto, le condizioni del neonato erano così disperate che temevamo non sarebbe sopravvissuto e così abbiamo taciuto la cosa. Ma poi...” Spostò lo sguardo su Levante e gli sfiorò una guancia con dolcezza, quindi terminò: “…le nostre preghiere sono state esaudite e la sua salute si è ristabilita. E così abbiamo infine deciso di annunciare la sua nascita e di battezzarlo.”
Mio padre commentò acido: “E’ una storia assurda. Non ci crederà nessuno.”
“E poi, durante il banchetto renderete pubblica la notizia del prossimo arrivo di un altro Pazzi. Sempre figlio vostro, ovviamente.” Aggiunsi, facendo affidamento su un briciolo di coraggio ritrovato per confessare la mia condizione a loro ancora oscura.
“Vuoi dire che..?” Mio padre non riuscì a terminare la frase, allora lo feci io: “Aspetto un altro figlio da Rinaldo e, per le stesse ragioni, dovrò nascondere il mio stato di gravidanza.”
Mia madre mi appoggiò con trasporto: “Io sono pronta a recitare la parte. Sono anche disposta a portare un cuscino sotto il vestito se si rivelasse necessario.”
La ringraziai con lo sguardo.
Stordito da quell’ultima notizia e dai progetti incredibili che avevamo architettato, mio padre sentì il bisogni di ricorrere all’aiuto dell’alcol. Riempì un calice di vino fino all’orlo e lo trangugiò tutto d’un fiato.  Una volta riposto il calice, non mi sorpresi di vederlo appoggiare la fronte ad una mano e chiudere gli occhi, la testa doveva girargli come una trottola. Io e mia madre rimanemmo mute e immobili, in attesa della sua successiva reazione. Levante invece trovò diletto nel giocare con il velo di mia madre, stropicciandone un lembo tra le manine e talvolta portandoselo alla bocca per succhiarlo come un frutto succoso.
Dopo un tempo non ben definito in cui eravamo rimaste sulle spine, finalmente mio padre riaprì gli occhi e parlò: “Accetto, ma ad una condizione. Non ti opporrai alle mie decisioni riguardo alla loro educazione e il loro futuro. Tu sarai solo la sorella maggiore e rispetterai la mia volontà.”
Accennai frettolosamente con il capo: “Sì. Non mi intrometterò in alcun modo, te lo prometto.”
“Inoltre…” Si stropicciò gli occhi con la mano per sfuggire all’intorpidimento dell’alcol: “Ho saputo che la nuora di Cosimo de’ Medici è gravida e dice a destra e a manca che partorirà un maschio. Se è vero e se tu partorirai una bambina, chissà, magari un giorno potrei combinare un matrimonio. Un’alleanza con i miei acerrimi nemici sarebbe il modo migliore per distruggerli dall’interno della loro stessa famiglia.”
“Sono pienamente d’accordo, padre.” Per la prima volta in vita mia, riuscivo a capire il disegno che aveva in mente. Lui lo faceva per amore del potere, lo sapevo, ma almeno così un giorno avrei ottenuto vendetta. Se era vero che era stato Cosimo a far uccidere Rinaldo, non mi sarei data pace fino a quando non lo avessi visto crepare sotto ai miei stessi occhi.
“Aspettate, stiamo dimenticando una cosa.” La voce di mia madre richiamò la nostra attenzione: “E riguardo Gioia? Che ne sarà di lei? Dobbiamo decidere anche questo.”
“Giusto. Un altro bastardo Albizzi da sistemare.” Sottolineò amaro mio padre.
“La situazione è più complicata.” Ragionai a voce alta: “Non possiamo rivelare la sua identità altrimenti questo fatto verrà associato alla mia relazione con Rinaldo e nessuno crederà più alla storia pensata per Levante. D’altra parte però, non possiamo nemmeno rendere nota la maternità di Isabella. Non essendo sposata la notizia getterebbe fango sul nostro nome. Cosa direbbe la gente sapendo che non abbiamo il controllo dei nostri stessi servi?”
Un rumore dall’ingresso ci fece voltare tutti. Era Isabella. Ma perché non mi ero curata di richiudere quella dannata porta? Nei suoi occhi lessi un profondo disprezzo rivolto a tutti noi, era evidente che aveva sentito ogni cosa. Entrò con passo lento, le mani le tremavano per la rabbia.
“Voi. Voi siete dei mostri.” Disse tra i denti, come se stesse masticando veleno.
Mio padre si sollevò dalla poltrona, la sua voce tuonò: “Non ti permettere, ragazza.”
Mia madre intervenne: “Forse è il caso di parlarne con calma e…”
“Caterina, esci.” Le ordinò lui.
“Ma io…”
“Esci!” Le gridò, puntando il dito indice verso la porta.
Mia madre ingoiò il proprio orgoglio e obbedì, ci lasciò soli nello studio ed ebbe l’accortezza di chiudere finalmente la porta.
Ora la faccenda riguardava noi tre. Dovevamo risolvere il problema ma, come si usava dire, era più facile  a dirsi che a farsi. Isabella ribolliva di rabbia e non sarebbe stato facile farla ragionare.

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Capitolo 32
*** Sogni infranti ***


Conclusione
Sogni infranti
 
“Devi prendere una decisione, Isabella. Se rimani dovrai portarci assoluto rispetto, altrimenti sarò costretto a cacciare te e la tua bastarda da questa casa.” Disse mio padre, guardandola coi suoi occhi di falco piccoli e spietati.
Isabella ribolliva di rabbia come una pentola di zuppa sul fuoco: “Non temete, Messere, non resterò in questo posto un minuto di più. Prenderò Gioia e andrò a chiedere aiuto a Madonna Alessandra.”
La ripresi: “Non essere sciocca. Lei non sa niente della bambina, è evidente che Ormanno non glielo ha detto. Cosa speri di ottenere da lei?”
Il suo sguardo divenne tagliente e le parole non furono da meno: “Sono certa che avrà cura di noi quando scoprirà di avere una nipotina. Lei amava suo figlio. E Gioia verrà cresciuta col nome degli Albizzi come è giusto che sia. Non lascerò mia figlia nelle vostre mani.”
“Vuoi mordere le mani che ti hanno accolta? Sei una sporca ingrata.” Le ringhiai contro.
Lei gridò: “E voi siete una sporca sgualdrina!”
Ero indignata: “Co...come osi parlami in questo modo?”
“E’ la verità. Da quando vi siete innamorata di quell’uomo, di quel Rinaldo, siete cambiata, siete diventata una persona meschina e disonesta.”
Scambiai un’occhiata con mio padre, lui sembrava incredibilmente calmo nonostante la situazione. Il suo sguardo fermo e deciso mi aiutò a reprimere la rabbia. Mi fece un cenno col capo e si spostò senza attirare l’attenzione di Isabella. Sospettavo cosa avesse in mente.
Concessi ad Isabella un ultimatum: “Voglio darti un’ultima possibilità, in nome della nostra amicizia. Chiedi perdono per quanto hai detto e io in cambio ti permetterò di crescere Gioia qui e di non farle mancare nulla.”
Lei contrasse la mascella, forse nel tentativo di bloccare quelle parole amare che le salivano dalla gola. Parole che, purtroppo, trovarono comunque una via d’uscita: “Preferirei morire.”
Accennai un sorriso triste: “Mi dispiace davvero.”
“Io non vi cre…” L’ultima parola venne spezzata da un gemito, i suoi occhi si sbarrarono. Sollevai una mano e le sfiorai il viso con una carezza: “Non mi hai lasciato altra scelta.”
Un fiotto di sangue le uscì dalle labbra, mentre mio padre, da dietro, la teneva stretta in un abbraccio mortale, spingendole la lama di un pugnale nello stomaco.
La osservai nei suoi ultimi istanti, la luce della vita stava pian piano svanendo dai suoi occhi scuri, il sangue scendeva copioso dalle sue labbra e dalla ferita allo stomaco. Rantolò come se stesse cercando di dire qualcosa, la sua mano si mosse incerta nel vuoto fino a quando il suo sguardo non si spense del tutto.  Il suo corpo senza vita ricadde tra le braccia di mio padre.
Lui, con inspiegabile premura, accompagnò il corpo fino al pavimento. Dopo averlo adagiato, estrasse il pugnale dalla carne, quindi si rialzò e lo posò sul tavolo. Aveva sangue su entrambe le maniche e le mani. Si voltò per guardare il cadavere un’ultima volta e con tono soddisfatto disse: “Ho la soluzione al problema di Gioia. Incaricheremo qualcuno di portarla via durante la notte e di abbandonarla alla conca di pietra dello Spedale degli Innocenti.”
“No, padre.” Sussurrai.
Sentii il peso del suo sguardo minaccioso su di me.
“Non ho intenzione di tenere nella mia casa la figlia bastarda di una serva che ci ha insultati dopo tutto quello che abbiamo fatto per lei.” Obiettò a pieno diritto.
Sollevai lo sguardo dal corpo di Isabella, non riuscivo a provare alcuna emozione: “Porterò io stessa Gioia allo Spedale, ma non per abbandonarla. La lascerò in custodia e provvederò al suo mantenimento fino a quando non sarà diventata una giovane donna da maritare.” Feci una pausa, forse qualcosa si stava schiudendo nella mia anima, dopo tutto. O forse era il ricordo di un viso amico, di un bacio rubato, di una passione cieca e di un tenero abbraccio a farsi strada nella mia mente e ridarmi un briciolo di umanità. Ripresi: “Lo devo a Ormanno.”
Il suo sguardo mutò, divenne meno cupo quando fu attraversato da un chiaro velo di comprensione. S’inumidì le labbra per temporeggiare, cercando le parole giuste che poi pronunciò strascicate: “Tra voi c’era qualcosa, allora.”
Ridacchiai appena: “Qualcosa è la parola esatta. Un sentimento senza nome che è composto a sua volta da molti sentimenti. Io amavo Rinaldo con tutta me stessa e giuro sulla mia vita che sempre lo amerò, ma… Sì, qualunque cosa mi abbia legata ad Ormanno, sento di dovergli almeno questo. Sarò la benefattrice di sua figlia. Di una Albizzi che forse non scoprirà mai la propria identità.”
Mio padre si avvicinò a me e, con gesto lento e cauto, prese la mia mano nella sua. Il sangue di Isabella andò così a colorare le mie dita e il palmo della mia mano di un rosso acceso.
“Ha ragione lei, sai? L’amore per Rinaldo mi ha cambiata.”
Con il braccio libero mio padre mi avvolse in un abbraccio e lasciò che posassi la fronte sulla sua spalla. Avevo desiderato a lungo un momento così, un gesto di affetto da parte sua. Sentii le sue labbra posarsi sulla mia pelle, tra la guancia e l’orecchio, e subito dopo la sua voce sussurrata: “Ora dobbiamo concentrare le nostre forze sull’annientamento dei Medici. E quando li avremo rovinati e uccisi, ti prometto che il sapore della vendetta ti farà dimenticare il dolore.”
Mi riusciva difficile credere alle sue parole. Il dolore per la perdita di Rinaldo e il nostro futuro felice andato in frantumi, non avrei mai potuto dimenticarlo.
Quel mattino mi ero svegliata in seguito ad una inaspettata notte di sonno tranquillo e, nell’aprire gli occhi, avevo ancora impresse le immagini del sogno meraviglioso che avevo fatto. Era come se la fantasia di cui mi aveva parlato Rinaldo in prigione, avesse preso forma nella mia testa e fosse diventata reale. Avevo visto la vigna soleggiata, respirato i piacevoli profumi dei suoi frutti. Io ero abbigliata alla contadina e Rinaldo era in maniche di camicia, ed eravamo così sorridenti, baciati dal sole e carezzati dalla brezza. In quel quadro perfetto vi erano anche due bellissimi bambini dai capelli biondi che giocavano tra le viti. E ad un certo punto Rinaldo li chiamava per nome, Levante ed Elena, e loro correvano verso di noi in cerca di un abbraccio. Ma ora, abbracciata a mio padre e con il sangue di Isabella sulle mani, quel sogno faceva dannatamente male. Sì, avrei lottato per avere vendetta. E solo dopo averla assaporata, forse, lo strato di neve che si era posato sul mio cuore si sarebbe sciolto e io avrei ricominciato a vivere.

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Capitolo 33
*** Finale Alternativo ***


Finale alternativo:
Verso un futuro roseo
 
Quel mattino sopportai pazientemente la funzione celebrata da Papa Eugenio. Alternai preghiere rivolte al mio Rinaldo a momenti in cui dovevo trattenere il respiro per non rischiare che il forte e nauseante odore d’incenso bruciato mi facesse rivoltare lo stomaco. Talvolta mi guardavo attorno e scrutavo i volti delle persone presenti. Nessuno di loro mi stava a cuore o poteva considerarsi mio amico. Speravo che ad Ancona io e Rinaldo avremmo fatto conoscenze migliori che non a Firenze. Quasi per caso il mio sguardo si posò sui componenti della famiglia Medici. Chiunque sarebbe stato una conoscenza migliore di loro! Un moto di rabbia mi salì fino al viso, facendomi avvampare.
Accorgendosi del mio stato e vedendo chi ne era la causa, mio padre mi prese per mano e chinò il capo di lato per sussurrare: “Respira, figliola. C’è un momento giusto per ogni cosa.”
Cercai di seguire il suo consiglio.
Mi persi in pensieri, chiedendomi dove si trovassero in quel momento Rinaldo e Ormanno. Se si erano fermati per una sosta, se il viaggio procedeva tranquillo o se avevano già nostalgia di casa. Sospirai, la noia della messa cominciava a pesarmi. Cercai di fare un calcolo approssimativo su quanto mancasse al termine. Non vedevo l’ora che la campana rintoccasse. Forse, a casa Isabella si stava dannando per dar da mangiare ai bambini, probabilmente elemosinando aiuto nelle cucine. Povera ragazza, avremmo dovuto aspettare prima di congedare la balia! Anche se sapevo che Levante era un bambino buono, o almeno lo era con me. Adoravo quando ero io stessa a nutrirlo, imboccandolo con un piccolo cucchiaio, e poi ammirare lo splendore delle sue guance piene mentre era intento a gustare la sua purea di mele. Sorrisi, coinvolta in quel pensiero piacevole e, per istinto, portai una mano al mio ventre come per condividere quel momento di gioia con la creatura che portavo in grembo.
Distrattamente sollevai lo sguardo e rimasi pietrificata nell’accorgermi dell’occhiata carica di odio che mi lanciò Madonna Alessandra. Sbirciai rapida alla mia destra e alla mia sinistra. Non c’erano dubbi, stava guardando proprio me. Deglutii. Perché mi stava guardando in quel modo? Certo, sapevo bene quanti motivi avrebbe avuto per farlo, ma in teoria lei no. O mi sbagliavo? Abbassai lo sguardo, troppo intimorita per sostenere il suo, e allora lo vidi. Indossavo il rosario di Rinaldo e lei doveva averlo riconosciuto.
La campana rintoccò in quel momento. Vidi Alessandra uscire dalla fila, il mento alto di donna fiera e ancora quello sguardo carico di odio puntato su di me. Uscì dalla Cattedrale prima che il Papa avesse terminato di celebrare la messa.
Posai la mano sul braccio di mio padre per richiamare la sua attenzione: “Padre, ho bisogno di uscire. Vi aspetto fuori.”
“Ma, io volevo approfittare dell’occasione per presentarti al…”
Non l’ascoltai nemmeno, feci il segno della croce e scivolai via dalla fila come una saponetta da mani umide. Volevo parlare con lei, volevo affrontarla apertamente. Glielo dovevo, in fondo.
Lembo della gonna leggermente sollevato, passi felpati per non attirare l’attenzione, mi affrettai a raggiungere l’uscita.
“Madonna Alessandra, aspettate.” La chiamai, continuando ad avanzare verso di lei.
Di fatto si fermò, ma rimase voltata dandomi di spalle, inoltre vidi i suoi pugni stretti lungo i fianchi. Non ero più molto sicura di volerle parlare, ma dovevo farlo.
Mi fermai ad appena due passi da lei e cominciai incerta: “Dovete perdonarmi, io…”
“Perdonarti?” Strillò voltandosi di scatto, permettendomi così di vedere sul suo volto tutto il disprezzo che provava per me. Quando riprese a parlare la sua voce mi parve il ringhio di un cane arrabbiato: “Come osi anche solo rivolgermi la parola dopo tutto ciò che hai fatto? Come osi chiedermi perdono quando continui ad offendermi mostrandoti in pubblico con al collo il rosario di mio marito?”
Non potevo negare che avesse ragione, anche se non era stata mia intenzione mancarle di rispetto, dato che lo avevo indossato solo per avere qualcosa che mi facesse sentire vicina a Rinaldo.
Vedendomi ferma e incapace di rispondere, Madonna Alessandra riprese a sputare veleno su di me: “Anche se ormai tutta la città è a conoscenza dell’adulterio, non ti permetterò di schernirmi.”
Replicai prontamente: “Non lo farei mai. Non sono il mostro che credete.”
Lei non diede importanza alle mie parole e proseguì: “E posso assicurarti che qualunque cosa ti abbia promesso mio marito, il tuo bastardo non porterà mai il nome degli Albizzi.” S’interruppe, le sue labbra s’inarcarono in un sorriso perfido: “Forse parlo inutilmente. E’ probabile che a mio marito non importi nulla!”
Sentendomi offesa, risposi per le rime: “Vi assicuro che Rinaldo ama profondamente i nostri figli!”
Figli?” Ripeté, guardandomi perplessa.
Mi pentii di aver parlato. Invece di sistemare le cose le avevo peggiorate ancor più. Strinsi le labbra per impormi di non dire più niente, ma non pensai di controllare anche il resto del mio corpo e non mi accorsi che in un gesto istintivo la mia mano si era posata sul ventre. Almeno fino a quando non mi resi conto della direzione dello sguardo di lei e il suo volto diventare esangue. Quando risollevò lo sguardo sul mio viso i suoi occhi stavano tremando, la voce le uscì strozzata: “Dunque le cose stanno così.”
Tolsi la mano dal ventre come se mi fossi scottata, il cuore mi mancò un battito. Proprio in quel momento dalle porte della Cattedrale cominciarono ad uscire le famiglie al termine della messa. La tensione tra me e Madonna Alessandra si poteva quasi toccare e di certo anche le persone che ci videro se ne accorsero.
Lei mi puntò il dito contro e sibilò: “Non rivolgermi mai più la parola, sporca sgualdrina.” E si voltò per andarsene.
“Questo posso prometterlo, Madonna.” Risposi con tono fermo, sapendo di dire la verità. Entro sera sarei fuggita dalla città e forse non vi avrei più fatto ritorno.
“Delfina.” Mi chiamò mio padre, venendomi incontro. Mi afferrò per un braccio e si sporse su di me: “Ma cosa fai? Vuoi dare spettacolo?”
Non mi permise di rispondere, semplicemente mi costrinse ad andare con lui e mia madre ci affiancò fingendo di non essere imbarazzata per quella situazione. Avevamo decine di occhi puntati contro. Ero certa che l’indomani quell’episodio sarebbe stato sulla bocca di tutti.
Percorremmo la strada restando in silenzio, io in particolare perché troppo timorosa di ricevere una severa sgridata. Se solo me ne fossi rimasta buona e tranquilla a seguire la messa invece di voler fare l’eroina… Ma come potevo sapere che Madonna Alessandra mi avrebbe aggredita in quel modo?
Rincasammo e, non appena la porta fu richiusa alle nostre spalle,  ecco che mio padre riversò su di me una colata di parole amare, con tanto di sopracciglia aggrottate e mani nervose: “Che cosa credevi di fare? La tua reputazione era già a rischio e ora grazie a questa trovata servirà un miracolo per pulire quest’onta!” Agitò le braccia in aria e sospirò rumorosamente: “Che cosa devo fare con te? Sembra che tu faccia di tutto per attirare su di te lo scandalo!”
Mia madre gli posò una mano sul petto e parlò con voce dolce per calmarlo: “Andrea, mio caro, troveremo una soluzione. Lei credeva di agire per il meglio. Dovreste comprendere quanto sia turbata.”
Lui rispose secco: “No, non lo comprendo.” Ci squadrò entrambe con serietà, intimidendoci.
“Ad ogni modo…” Riprese poi, con tono mite: “Ne discuteremo più tardi. Ora devo andare.”
Strabuzzai gli occhi per la sorpresa e scambiai un’occhiata con mia madre. Fu lei a dar voce alla mia curiosità: “Dove dovete andare, Andrea?”
“Guadagni mi ha invitato per pranzo. Probabilmente ho dimenticato di riferirvelo.” Minimizzò, quindi fece per andare: “Ora, se volete scusarmi…” Non fece nemmeno in tempo a voltarsi che io mi gettai su di lui per abbracciarlo. Non potevo fuggire senza prima averlo stretto un’ultima volta. Nonostante tutto volevo bene a mio padre e non sapevo se l’avrei più rivisto.
“Cos…?” Aveva tutte le ragioni per essere sorpreso dal mio gesto: “Se è un modo per farti perdonare, ti avverto che non funzionerà.” Nonostante le sue parole, però, rispose al mio abbraccio.
“Ti voglio bene, padre.” La voce mi uscì incrinata, avevo una gran voglia di piangere.
Lo sentii trattenere il respiro, nel tentativo di non lasciarsi andare e rispondere allo stesso modo. Era un uomo maledettamente orgoglioso. Mi sciolse lentamente dall’abbraccio: “Suvvia, non sono in collera con te. Sono solo contrariato per le tue azioni sconsiderate.” Mi guardò in viso e disse gentile: “Ne parleremo con calma questa sera, va bene?”
Mi morsi le labbra e ricacciai indietro le lacrime: “Magari domani.”
Accennò un sorriso e con le dita mi sfiorò una ciocca di capelli, un gesto che non faceva da molto tempo: “Ora devo proprio andare.” Chinò il capo in segno di saluto e uscì dal palazzo.
Rimaste sole, mia madre dovette pronunciare il mio nome tre volte prima che io mi destassi dall’effetto di quel momento. I miei sentimenti erano contrastanti. Ero abbattuta al pensiero che non avrei più rivisto mio padre, ma allo stesso tempo ero lieta di aver trovato l’occasione per fuggire.
Mia madre mi prese per mano e disse prontamente: “Tu vai ad avvisare Isabella e aiutatala a preparare i bambini, se necessario. Io faccio venire subito il cocchiere di fiducia con la carrozza senza insegne e gli faccio caricare il baule con le vostre cose.”
Feci un ampio cenno affermativo con capo, quindi ci avviammo prendendo direzioni diverse.
*
Bastò una mezzora perché tutto fosse pronto. La carrozza era modesta, di piccole dimensioni, e il cocchiere era un ometto di mezza età col volto coperto da una folta barba brizzolata e un cappello calato sugli occhi freddi, il cui compito era quello di scortarci fino ad Ancona[1] e poi dimenticare i nostri nomi. Anche se eravamo state accorte nello stabilire che mia madre avrebbe detto che eravamo partite per la tenuta di campagna, sapevamo che prima o poi mio padre avrebbe scoperto la verità, per ciò ci eravamo rivolte ad un estraneo che viaggiava molto e non poteva essere collegato a noi.
Il baule era stato ben legato sul retro della carrozza, mentre all’interno erano stati sistemati un cesto con le provviste per il viaggio e il necessario per il benessere dei bambini. Isabella fu la prima a salire con in braccio la paffutella e adorabile Gioia, essendo io occupata a salutare mia madre. Non sapevo cosa sarebbe accaduto e, come per mio padre, temevo che non l’avrei più rivista. Il cuore mi doleva come se fosse stretto in una morsa. Osservai i suoi occhi viola, i capelli corvini e lunghissimi, la pelle candida… Esternamente eravamo molto simili, ma solo di recente avevo capito che lo eravamo anche nel cuore e nell’anima. La vista mi si offuscò per le lacrime: “Madre, io…”
Lei mi posò un dito sulle labbra, quindi avvolse me e Levante in un unico abbraccio.
“Tu credi che ci rivedremo?” Chiesi, prima che un singhiozzo mi spezzasse la voce.
“Pensa solo ad essere felice, figlia mia.” Sussurrò al mio orecchio.
Sciolto l’abbraccio, vide delle lacrime corrermi lungo il viso, le scostò con le dita: “Ora vai. E ricorda quanto ti voglio bene.”
“Anch’io te ne voglio, madre.” La rassicurai. Accarezzò il visetto di Levante e stampò un bacio fra i suoi bei riccioli biondi. Il tempo era finito, era davvero il momento di partire.
Io e Levante prendemmo posto sulla carrozza e mia madre si occupò di richiudere lo sportello.
“Fate buon viaggio, mie care, e abbiate cura dei piccoli.” Si rivolse amorevolmente sia a me che a Isabella. Noi la ringraziammo con lo sguardo, cercando di trattenere le lacrime, cosa che si rivelò impossibile quando udimmo il cocchiere incitare i cavalli. La carrozza prese a muoversi nel cortile sul retro del palazzo e in breve fummo in strada.
Chiusi la tendina e volsi lo sguardo ad Isabella. Lei abbozzò un sorriso: “Andrà tutto bene. Stiamo facendo la cosa giusta.”
Sperai che avesse ragione. Guardai Levante, tranquillo sulle mie ginocchia e intento ad osservare Gioia che si dilettava a giocare con i capelli ricci della madre. Madre… I miei pensieri si rivolsero alla mia, alla donna che mi aveva dato la vita, che mi aveva ignorata per tutta la mia infanzia, che mi aveva imbarazzata coi suoi modi sfacciati e che poi si era rivelata all’improvviso una confidente, un’amica e una madre amorevole. Ero così presa da quei pensieri che ebbi un fremito nell’udire la voce del cocchiere dire: “Siamo fuori dalla città. Col vostro permesso, vorrei incitare i cavalli al galoppo.”
Mi portai una mano al cuore, il mio sobbalzo aveva spaventato Levante che subito aveva voltato il capo per guardarmi allarmato. Presi respiro e gli sorrisi per tranquillizzarlo, quindi mi rivolsi al cocchiere: “Sì, avete il mio permesso.”
Udii il forte schiocco delle briglie e le ruote della carrozza sotto di noi presero a girare con forza.
Scambiai un sorriso con Isabella: “Il primo passo è fatto.”
Lei si lasciò andare ad una risata liberatoria che coinvolse anche me. Ora che i nostri cuori erano leggeri sarebbe stato più facile affrontare il viaggio.
*
Rinaldo e Ormanno sostarono ad una locanda dopo un’intera giornata di viaggio a cavallo. La Signoria aveva stabilito che raggiungessero la città di Ancona entro sei giorni, il che significava che potevano procedere tranquillamente e fermarsi a riposare un paio di volte al giorno oltre che dormire durante la notte. Ma ugualmente avevano divorato il primo tratto di strada nella totale inquietudine e quasi senza rivolgersi la parola. A quell’ora, la sala principale della locanda era deserta, ma nessuno dei due aveva voglia di salire in stanza. Osservando il figlio così taciturno e cupo, Rinaldo arrivò a temere di essere lui stesso il responsabile. E ne aveva tutte le ragioni. Vederlo con quello sguardo vuoto e con le mani intrecciate attorno ad un bicchiere di vino ancora pieno, gli divenne insopportabile. Volse lo sguardo sul moncherino di candela che presto si sarebbe spento, se voleva parlare era meglio che lo facesse subito. Si lisciò la barba con la mano, dandosi il tempo di pensare a cosa dire, a come esprimere ciò che provava.
“Mi dispiace, Ormanno.” Parole semplici ma significative per cominciare il discorso.
Ormanno finalmente si mosse, sollevò lo sguardo su di lui: “Non è solo colpa tua, padre. Sei sempre stato ambizioso e hai agito credendo di essere nel giusto. Avrei dovuto fermarti o almeno tentare di farti ragionare.”
“Hai tentato, invece, e lo sai. Ma non è a questo che mi stavo riferendo.”
Ormanno gli lanciò un’occhiata interrogativa, perciò spiegò: “Tua madre, ragazzo. L’ho fatta soffrire e adesso mi accingo a ricostruirmi una vita con la mia amante, mentre lei resterà sola a Firenze a lottare contro le malelingue e a sopportare il peso dei miei errori.”
Suo figlio sospirò tristemente, abbassò lo sguardo: “Mia madre meritava di meglio. Da entrambi noi.”
Era una magra consolazione per Rinaldo sapere che suo figlio non lo odiava, ma dunque cos’altro era a tormentarlo? Come se Ormanno avesse letto nella sua mente, prese respiro e parlò: “Io non so davvero come comportami.” Prese a rigirare il bicchiere tra le dita, nervosamente: “Mi sono ritrovato padre all’improvviso e non ho idea di come rivestire questo ruolo.”
Allora si trattava di questo: la paternità! Rinaldo si sentì sollevato, abbozzò tranquillamente uno scherzo: “Temo che non esistano regole per questo!”
Ormanno proseguì più agitato: “Il fatto è che non ho un modello su cui basarmi. Voglio dire… Tu mi hai cresciuto con il pugno di ferro, mi hai addestrato al combattimento, ma questo io non posso farlo con una figlia femmina.”
Rinaldo posò una mano su quella del figlio, costringendolo così a smettere di torturare il bicchiere.
“Tu che cosa faresti per lei?” Gli chiese semplicemente.
Ormanno rischiò di andare nel panico per quella domanda, ma poi si soffermò a guardare la mano del padre sulla sua e capì.
“Voglio proteggerla da ogni male, darle il mio amore, il mio sostegno, e renderla felice.”
Rinaldo inarcò le labbra in un fiero sorriso: “E’ questo ciò che fa un padre.”
Lui gli fece un cenno col capo, sentendosi meglio. Anche se…c’era un’altra questione che lo inquietava. Un velo di tristezza si posò sui suoi occhi nel chiedere: “E riguardo Isabella?”
Rinaldo ritirò la mano e si accomodò meglio sulla panca: “Se è la madre di tua figlia qualcosa vorrà dire. Insomma, se hai passato una notte con lei deve avere qualcosa che ti attrae.” Si sentì a disagio nell’affrontare un argomento così intimo, ma d’altra parte era ora di affrontarlo.
Ancora più a disagio di lui, Ormanno dovette bere il vino tutto d’un fiato per trovare il coraggio di parlare: “Non è facile come sembra. Quella notte l’ho presa con la forza solo per vendicarmi di te e Delfina. Mi era sembrato astuto stuprare la sua serva per ferirla.”
“Ma che Diavolo…?” Rinaldo si portò una mano alla bocca per smettere di gridare o avrebbe svegliato tutti gli ospiti della locanda. Si sforzò di reprimere l’istinto di strangolare il figlio e si impose di discuterne con calma. Accese lo sguardo su quello di lui: “Cercherò di dimenticare questa abominevole confessione, benché io sia certo di non averti cresciuto come una bestia, solo perché so che quella donna è innamorata di te nonostante la tua pessima condotta.”
“Lo so, padre. Sono a conoscenza dei suoi sentimenti per me. Il punto è che io non sono innamorato di lei. Dopo aver scoperto dell’esistenza di Gioia è stato inevitabile che tra noi si creasse un legame ma…” Scosse il capo: “Non credo di volerla sposare.”
Rinaldo sottolineò: “L’amore non sempre è possibile. Quando io e tua madre ci sposammo per volere delle nostre famiglie eravamo due estranei.”
“E guarda come è finita!” Ormanno lo guardò con tanto d’occhi. Aveva scelto un pessimo esempio per convincerlo.
“E se io la sposo e poi trovo il vero amore come è accaduto a te con Delfina?” Insistette Ormanno.
Rinaldo si sporse verso di lui sul tavolo e disse diretto: “Io ti consiglio di cercare l’amore vicino a te invece che altrove. Potresti accorgerti di averlo a portata di mano.”
“Perdonatemi.” La voce li fece voltare entrambi. Si trattava di una giovane sguattera molto assonnata che si rivolse a loro timidamente: “Avete bisogno dei miei servigi, Messeri?”
I due si alzarono dalle panche, scambiandosi un’occhiata. Quella povera creatura eri rimasta lì per loro anche se era esausta. Rinaldo rispose: “No, puoi andare. Stavamo giusto per salire.”
La giovane fece una riverenza, cercando di nascondere la soddisfazione di potersi ritirare: “Vi ringrazio e vi auguro la buonanotte.”
*
Andrea Pazzi si svegliò tardi quel mattino. Il suo sonno era stato molto inquieto e di fatto si alzò più stanco di quando era andato a dormire. Nella mente ancora cupi frammenti di un sogno che aveva fatto, qualcosa di non piacevole che gli aveva lasciato dentro un senso di timore. Dopo l’abbraccio e la dichiarazione d’affetto che sua figlia gli aveva fatto il giorno prima, non sapeva più come comportarsi. C’erano questioni gravi da risolvere che pretendevano serietà, ma come poteva essere severo con lei dopo quel gesto? La sera prima non l’aveva vista poiché lei aveva consumato il pasto nella sua stanza e così lui aveva avuto più tempo per pensare sul da farsi. Si fece vestire dal proprio servitore con abiti semplici, visto che quel giorno non aveva intenzione di uscire da palazzo e tantomeno di ricevere qualcuno. Quando uscì dalle proprie stanze era praticamente ora di pranzo, perciò si recò nella sala dove trovò sua moglie ad attenderlo.
“Buongiorno, marito mio. Spero di aver fatto bene a lasciarvi riposare.” Gli disse sorridendo.
Lui prese posto a capotavola e fece cenno con la mano ad un servitore affinché questi gli versasse il vino nel calice. Poi si rivolse alla moglie: “Non ne sono sicuro. Necessito di riposo ma la mia mente si rifiuta di concedermelo.”
“Oh, ne sono dispiaciuta.”
Guardandola bene nemmeno lei sembrava aver passato una bella nottata. Era ben vestita e acconciata come sempre, però il suo incarnato era pallido e sotto agli occhi aveva due ombre scure.
Andrea volse lo sguardo altrove e cambiò oggetto d’interesse: “Dov’è Delfina? Vedo che non è apparecchiato per lei.”
Caterina quasi trasalì nell’udire il nome della figlia, strinse le mani in grembo e si impose di calmarsi. Pregò che la voce non s’incrinasse: “E’ partita presto per la tenuta di campagna assieme ad Isabella e i bambini.”
Andrea ne fu contrariato: “A fine estate? Perché mai? Cosa vuole dimostrare fuggendo?”
Caterina sussultò anche a quell’ultima parola, dovette schiarirsi la voce: “E’ molto provata, Andrea. Non si tratta solo della sofferenza per l’esilio di Rinaldo, se è ciò che credete. La sua decisione è stata suggerita anche dall’orgoglio ferito dopo quanto accaduto con Madonna Albizzi. Ora che tutti hanno avuto conferma che lei è l’amante di Rinaldo non oso immaginare quali offese le rivolgeranno, povera piccola. E’ naturale che abbia bisogno di tempo per riflettere.”
Andrea si adagiò sullo schienale della sedia e sospirò: “E noi nel frattempo dovremo impegnarci per far scoppiare questo scandalo come una bolla di sapone e salvare così la sua reputazione. Altrimenti non le troveremo mai marito.” Si portò una mano alla fronte e la massaggiò, era così stanco che gli stava per venire un’emicrania. Dopo un paio di minuti riprese: “Comunque, credo sia meglio che i due piccoli bastardi restino in campagna. Li faremo adottare dalle famiglie di contadini dei dintorni e almeno quel problema sarà risolto.”
Caterina trasalì: “E’ una cosa orribile.”
Lui la fulminò con lo sguardo: “Cos’altro dovrei fare? Se si sapesse della loro esistenza e che sono entrambi figli degli Albizzi, la nostra famiglia cadrebbe in rovina. Dovete capirlo, moglie. E soprattutto, dovete farlo capire a lei!” E nel terminare la frase puntò il dito in una direzione, alludendo a sua figlia.
Caterina abbassò lo sguardo, grazie a Dio Delfina era lontana e sarebbe stata salva.
*
Un altro giorno se n’era andato, un’altra sera era calata e noi non eravamo ancora a metà strada. Di certo non perdevamo tempo, anzi i nostri orari di viaggio erano molto rigidi dato che la mattina partivamo prima dell’alba e la sera ci fermavamo solo quando la strada non era più visibile nell’oscurità. Le soste giornaliere erano poche e brevissime, giusto quanto bastava per soddisfare le più urgenti esigenze fisiche e sciacquare i panni sporchi dei bambini. E loro erano fin troppo bravi considerando che lo spazio vitale in carrozza era alquanto ridotto. Sembravano aver capito l’inutilità dei capricci e si accontentavano del semplice divertimento della loro reciproca compagnia. Fra tutti noi, chi soffriva di più era la piccola creatura che portavo in grembo, costretta a sopportare il continuo urto provocato dalla carrozza e il disagio della mia posizione costantemente seduta dato che mi era impossibile stendermi sul sedile. La sera, quando potevo rinfrescarmi, trovavo delle macchie di sangue sulla gonna. Non era un buon segno, ma nemmeno grave, e poi almeno le nausee erano divenute più leggere.
“Resistete, Damigella.”
La voce dolce di Isabella mi destò dai miei pensieri. Volsi il capo sul cuscino e riuscii a scorgere i suoi occhi nel buio. Fra noi, sul lettone, vi erano i nostri cuccioli beatamente addormentati, il loro respiro risuonava leggero come una melodia.
Non avendo ottenuto risposta, lei si allarmò: “Vi sentite male?”
Risposi in un sussurro: “No. Non più di ieri. Vorrei che Rinaldo fosse qui con me.” Nel pronunciare quel nome gli occhi mi si riempirono di lacrime: “Ho tanta paura.”
“Presto saremo ad Ancona e potrete rivederlo.” Cercò di rassicurarmi lei.
“Ogni volta che chiudo gli occhi sono terrorizzata dal pensiero di risvegliarmi circondata dalle guardie di mio padre ed essere trascinata via con la forza.”
“Ma vostro padre non sa della fuga.”
“Ne sei certa?” Proseguii con tono molto serio: “Se mia madre avesse fallito? Se la menzogna della tenuta di campagna non avesse retto? Se lui fosse andato là personalmente a controllare e non mi avesse trovata?”
Ci fu un minuto di silenzio, poi udii Isabella prendere respiro per rispondermi: “Abbiamo comunque un buon vantaggio. Anche se avesse mandato le guardie, occorrerebbe loro tempo per cercarci e trovarci.”
“Sempre che non decidano di spargersi lungo il confine della Repubblica di Ancona per bloccarci il passaggio. In quel caso saremmo perdute e il cocchiere forse ucciso sul momento.” Ero così negativa che provavo disgusto per me stessa, ma come evitare di pensare al peggio?
Per fortuna Isabella non si lasciò intimorire dalle mie parole: “E’ la paura a farvi parlare così. Le vostre preoccupazioni sono infondate. Vedrete che arriveremo al confine senza incidenti e una volta dentro saremo al sicuro.”
Lo speravo tanto, ma quel momento sembrava così lontano… Posai una mano sul mio ventre e pensai: “Coraggio.”
*
Viaggiammo altri due giorni con lo stesso andamento, senza imprevisti, ma consapevoli che quel viaggio ci stava prosciugando delle energie vitali. Provavo ammirazione per quel cocchiere dall’incredibile resistenza ed ero sempre più convinta che meritasse un compenso più grande di quello che gli aveva dato mia madre, anche se si trattava già di una somma consistente. I miei pensieri, però, erano quasi sempre rivolti al mio bambino nel ventre. I dolori erano più frequenti  e più forti e le perdite di sangue sempre più abbondanti. Non ero ancora alla metà della gravidanza e il rischio di aborto era molto alto. Preoccupata per la mia salute, quel giorno Isabella tentò di convincermi a fermarci al tramonto e riprendere il viaggio l’indomani, ma io ribattei ostinata che proseguendo avremo raggiunto le mura di Ancona nel cuore della notte. Anche il cocchiere suggerì di fermarci, ma la mia risposta fu un deciso: “No. Riposeremo quando saremo arrivati.” Avevo un bisogno disperato di raggiungere Rinaldo e non riuscivo a ragionare con lucidità.
A contrariarmi ci pensò la provvidenza o Dio nella sua infinta bontà. Era da poco scesa la sera quando fummo travolti da una pioggia torrenziale che rese impossibile proseguire. Trovammo rifugio all’Abbazia di Chiaravalle in Castagnola, che di recente era entrata a far parte dei territori della Repubblica di Ancona, con mio sollievo. Fu l’unica consolazione, l’unico barlume di speranza che mi sfiorò il cuore prima di perdere i sensi.
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in una sala dove erano una decina di giacigli disposti in ordine lungo le pareti più lunghe e un delicato aroma di erbe mediche aleggiava nell’aria. Mi sollevai piano, portandomi una mano al ventre con gesto abitudinario, anche se constatai che non mi doleva più. Dall’intensità della luce che entrava dalle alte e piccole finestre, doveva essere il mattino inoltrato di una bella giornata di sole. Sul mobile accanto al mio letto trovai un catino e una brocca colma di acqua fresca. Nessuna traccia dei miei abiti puliti e nessuna presenza nei paraggi. Mi alzai e versai abbondante acqua nel catino per farmi delle abluzioni. Mi resi conto di avere una fasciatura fra le gambe, la tolsi, vi era una traccia di sangue ma nulla di preoccupante. Evidentemente ero stata assistita dopo lo svenimento e curata per impedire un aborto. Mi rinfrescai il viso ed il collo, quindi passai alle parti intime e mi asciugai con un telo. Dovevo essere in condizioni pietose, soprattutto i capelli che non lavavo da giorni, ma in quel momento l’unica cosa che mi importava era riprendere il viaggio.
Uscii dalla sala e mi avventurai lungo un corridoio largo in stile gotico che trovai un po’ inquietante. Non avevo idea di dove stessi andando.
“Ma dove sono tutti i Monaci?” Sospirai spazientita. Giunta ad una diramazione, udii dei gridolini familiari, perciò li seguii fino ad arrivare all’uscita che dava sul chiostro. L’area quadrata era stata in parte occupata dalle corde su cui era steso il bucato. Riconobbi i miei abiti, quelli di Isabella e una distesa di abitini e biancheria dei bambini. Oltre il labirinto di stoffa udii chiaramente la risata cristallina di Isabella e il rumore di schizzi di acqua. Mi feci strada scostando di volta in volta gli indumenti sul mio cammino, fino a giungere a loro. In una zona nell’ombra vidi una tinozza dentro la quale Levante e Gioia stavano sguazzando felici, sotto lo sguardo allegro ma attento di Isabella che invece sedeva sul suolo.
Levante mi vide per primo e gridò: “Mamma!”
Isabella si alzò in piedi e fece un inchino cortese: “Buondì, Damigella. Vi sentite meglio oggi?”
Tutt’altro che allegra, mi avvicinai e risposi severa: “Affatto. Perché non mi hai svegliata?”
Lei abbassò lo sguardo umilmente: “Necessitavate di riposo per la vostra salute. Il monaco che si è preso cura di voi è stato molto chiaro. Perciò stamane ne ho approfittato per fare il bucato e il bagno ai piccoli.”
Invece di riconoscere il suo valore, continuai a rimproverarla: “A quest’ora saremmo già ad Ancona con Rinaldo e Ormanno invece di abusare dell’ospitalità dei Monaci. Gradirei che andassi a dire al cocchiere di preparare la carrozza. Scommetto che quel buono a nulla sta ancora dormendo.”
Isabella mi corresse con trasporto: “Veramente si è alzato all’alba ed è partito a cavallo per la città.”
Tremai: “Ci ha abbandonate qui?”
“Oh no no no, non è così! E’ partito per andare a cercare i Messeri Albizzi e avvisarli che li raggiungeremo prima di sera. Sapendo che noi non siamo a conoscenza di dove alloggino si è offerto di andare a cercarli.”
Rimasi letteralmente a bocca aperta. Io lo avevo insultato e invece quell’uomo si era rivelato ancora una volta prezioso.
Isabella proseguì: “Da qui alla città vi sono solo un paio di ore di viaggio, non dovete preoccuparvi. Abbiamo tutto il tempo di fare una buona colazione. Inoltre ho chiesto ad un monaco di badare ai bambini mentre io mi occupo di voi e vi preparo un bagno.”
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Non meritavo davvero quelle premure dopo le cattiverie che mi erano uscite dalla bocca a sproposito. Abbracciai Isabella con gratitudine: “Ti ringrazio, amica mia.”
“E’ sempre un piacere per me, Damigella.” Una nota di commozione nella voce.
Sciolsi l’abbraccio e la guardai con nuova espressione sorridente: “Ti chiedo solo un’ultima cosa. Dopo che tu avrai aiutato me, permettimi di ricambiare. Lo meriti un bagno profumato! Inoltre…” Sfoggiai uno sguardo malizioso e terminai: “Devi essere al meglio per incontrare Ormanno!”
Lei arrossì fino alla radice dei capelli e abbassò lo sguardo: “Siete…mmmolto premurosa.”
“Orsù, ora rivestiamo i bambini prima che gli crescano le pinne!” Mi chinai per raccogliere un telo pulito e ripiegato che era posato sul muretto, quindi sollevai Levante dall’acqua e lo strinsi a me: “Anche tu dovrai essere impeccabile per il tuo papà.”
Lui sgranò gli occhioni chiari e provò a ripetere: “Pa-pa.”
*
Rinaldo e Ormanno erano arrivati in città il giorno prima, in tarda mattinata, dopo un viaggio che non li aveva affaticati molto essendo entrambi addestrati alla resistenza, come anche i loro cavalli. Appena scesi dai destrieri avevano chiesto immediatamente di essere ricevuti dai Signori della città per raccontare loro del motivo per cui si trovano lì e chiedere di poter acquistare una dimora in cui abitare al più tardi dal giorno successivo. Tali Signori, inizialmente poco propensi ad accogliere nella loro Repubblica due esiliati accusati di tradimento, avevano poi abbassato la guardia e, una volta stabilite alcune condizioni diplomatiche, li avevano congedati augurando loro buona giornata. Abbandonati a loro stessi, Rinaldo e Ormanno trascorsero il resto della giornata alla ricerca di una dimora, con molte difficoltà. Solo dopo numerosi tentativi trovarono una vedova che si mostrò ben disposta a vendere la propria casa anche se in tempi così brevi, dichiarando di essere lieta di lasciare la città per andare a vivere con una sorella. Per loro fu una manna dal cielo.
Seppur lontana dal lusso del palazzo in cui avevano vissuto, la casa era elegante e ben tenuta ed i pochi servitori avevano un aspetto affidabile. Nel frattempo avrebbero dovuto accontentarsi di dormire ancora una volta in una locanda, ma la cosa non gli importò gran che.
Si trovavano appunto lì, il mattino seguente, quando il cocchiere gli si piazzò di fronte. Una volta appreso che si trattava del cocchiere assunto da Madonna Pazzi, lo invitarono ad accomodarsi al tavolo per consumare la colazione assieme a loro e lui accettò di buon grado. Il buon uomo raccontò loro del viaggio nei minimi dettagli e diede notizie delle donne e dei bambini. Dopo aver azzannato la seconda coscia di pollo e aver svuotato il terzo bicchiere di rosso, si fermò per pulirsi la folta barba con la manica della camicia.
Volendo sapere la fine del racconto, Rinaldo lo spronò: “Stavate dicendo della pioggia. Dopo cosa è accaduto? Dove vi siete fermati?”
Il cocchiere infilzò una patata arrosto con il coltello e se la portò alla bocca per staccarne un bel pezzo. Ingoiò rumorosamente e riprese: “Dicevo, Messere, che la pioggia era talmente fitta che non vedevo più niente. Per questo ho fermato i cavalli all’ingresso dell’Abbazia poco lontano da qui. Damigella Pazzi non ne era contenta, era ansiosa di raggiungervi, ma io ho insistito. E ho avuto ben ragione! Ha quasi perso il bambino che aveva in grembo tanto era affaticata!” Terminò con tono quasi divertito, non perché lo fosse davvero, ma a causa del vino che cominciava a dargli alla testa.
Rinaldo a quell’ultima frase trasalì: “Cosa avete detto? Come vi permettete di parlare con un simile tono?”
Vedendo i suoi occhi di ghiaccio puntarlo, l’uomo si sentì rabbrividire e chiarì immediatamente: “Chiedo perdono, Messere, non volevo mancare di rispetto. Ad ogni modo, quando mi sono svegliato all’alba, ho parlato con la serva Isabella per dirle che sarei venuto qui  a cercarvi.”
Pensieroso, e con le dita intrecciate sul ripiano del tavolo, Rinaldo sembrava aver già dimenticato l’errore e nei suoi occhi ora non vi era altro che preoccupazione. Quando abbandonò i propri pensieri, chiese: “Sapete se Delfina si sente meglio? Se è in grado di viaggiare fin qui?”
Il cocchiere, più tranquillo, ingoiò quel che restava della patata ancora infilzata col coltello e rispose a bocca piena: “Quando lasciammo Firenze non ero a conoscenza delle sue condizioni. Il viaggio è stato molto pesante e mi chiedo come lei abbia potuto affrontarlo. Ma a quanto ho capito, un monaco si è preso cura di lei e dovrebbe essere fuori pericolo. Basteranno un paio di ore in carrozza per arrivare qui, sono certo che Damigella non vorrà restare all’Abbazia.”
Rinaldo scambiò un’occhiata col figlio, quindi si rivolse al cocchiere: “Portateli tutti qui sani e salvi e avrete la nostra gratitudine.”
Il cocchiere fece un segno di assenso col capo, quindi si mise in piedi: “Molte grazie per la colazione, Messeri. Riparto subito e vi garantisco che entro il primo pomeriggio tornerò con il prezioso carico che aspettate.” Fece un inchino un po’ goffo e si avviò verso l’uscita.
*
Un bagno fresco e un massaggio con oli profumati contribuì molto a migliorare il mio umore. Isabella mi lavò e spazzolò i capelli con cura, quindi io feci lo stesso con lei e in più glieli acconciai in una bella treccia adornata di nastri colorati che avevo recuperato dal nostro baule. Scegliemmo anche gli abiti migliori che avevamo portato, assaporando il momento in cui li avremo sfoggiati per i nostri amati che ci attendevano. Quando giungemmo alle mura delle città con la nostra piccola carrozza, ed il nostro fedele cocchiere a cassetta, il sole aveva appena cominciato la sua traversata verso ovest, perciò il tramonto era ancora lontano. Entrammo in città senza alcun problema, dato che le guardie non s’interessarono molto di due giovani donne fiorentine nubili che viaggiavano con i figlioletti. I cavalli procedettero al passo tra le vie, mentre il cocchiere si destreggiava per trovare la casa in cui avremmo vissuto, così noi ne approfittammo per aprire le tendine e guardare con curiosità le case e i palazzi di quella città a noi sconosciuta. Dopo un po’ la carrozza si fermò di fronte ad una grande casa.
“Pensi che sia questa?” Chiesi ad Isabella, piena di entusiasmo.
“Io…” Spalancò la bocca e gli occhi le si illuminarono. Seguii la direzione del suo sguardo e vidi che sulla soglia erano comparsi Rinaldo e Ormanno preceduti da alcuni servitori. Due uomini andarono subito sul retro della carrozza per prendere il grosso baule, mentre una donna venne ad aprirci lo sportello.
“Ben arrivata, Damigella. Mi presento, io sono Luisa e mi prenderò cura del vostro piccolo.”
Era giovane e aveva un viso simpatico dai grandi occhi castani.
La mia domanda fu d’obbligo: “Sei una balia, Luisa?”
Lei accennò una risata: “Oh no, Damigella, però ho un figlio di sette anni. Amo i bambini e quando Messer Albizzi mi ha chiesto se volessi occuparmi di un bimbo di un anno appena io ho accettato con gioia. Potete fidarvi di me, avrò cura di vostro figlio.”
Con una presentazione così come potevo essere sospettosa? Le sorrisi e le porsi Levante, il quale parve contento di trovare rifugio tra le braccia della donna. Prima di entrare in casa si fermarono accanto a Rinaldo, su sua richiesta. Lo osservai mentre baciava il nostro bambino e gli sussurrava qualcosa all’orecchio. Nel privato era sempre stato dolce con Levante e ora finalmente poteva esserlo anche alla luce del sole, senza temere il giudizio altrui. Dopo averlo salutato volse lo sguardo verso di me, i suoi occhi chiari sembravano brillare. Mi venne incontro e, giunto alla carrozza, s’inchinò e mi porse la mano per aiutarmi a scendere. Pochi istanti e mi ritrovai fra le sue forti braccia, al sicuro e protetta da qualunque cosa. Eravamo stati lontani solo per pochi giorni, eppure sentivo di aver bisogno del suo calore e delle sue attenzioni come mai prima. Mi sfiorò il viso con la sua morbida barba bionda, sussurrando: “Come ti senti?”
Le braccia attorno al suo collo, risposi anch’io in un sussurro: “Non preoccupati, stiamo bene.” Parlai al plurale, sapendo che la domanda era rivolta sia a me che al piccolo nel mio ventre.
Lui scostò il viso e mi guardò dritto negli occhi, con quello sguardo profondo che mi aveva fatto innamorare di lui due anni prima.  
“Saremo felici, te lo prometto. Non permetterò più alla politica di condizionare le nostre vite.”
Fra tutte le promesse che avrebbe potuto fare, quella era di certo la più importante. Sapevo che rinunciare alla politica e al potere sarebbe stato difficile per lui, ma io sarei stata al suo fianco e l’avrei aiutato. Forse era possibile una vita senza intrighi e imbrogli, anche se fino a quel momento non avevo osato sperarlo.
Accennai un sorriso e dissi: “Ti amo, Rinaldo degli Albizzi.”
Lui mi baciò dolcemente, quindi mi sorprese sollevandomi all’improvviso tra le braccia come avrebbe fatto un cavaliere. Lasciai una risatina.
“Desideri vedere la tua nuova dimora?” Chiese galante.
Io scossi il capo e dissi maliziosa: “Non ora.”
Tenendomi in braccio, mi portò all’interno della casa.
Essendo noi presi dal nostro momento romantico, fu Ormanno ad occuparsi delle questioni pratiche. Invitò il cocchiere a fermarsi  a riposare fino all’indomani, cominciando già a ringraziarlo per l’ottimo lavoro svolto, poi diede istruzioni ai servi su dove portare i bagagli, non solo gli uomini col baule ma anche le due donne che si erano unite ad aiutare raccogliendo la biancheria dei bimbi e altre cosette che avevamo tenuto all’interno della carrozza. Finito il dovere, finalmente poté dedicarsi alla propria figlioletta, stringerla al petto e riempirle i capelli di baci. Quella bambina dal viso tondo aveva i suoi occhi neri e profondi, tanto che poteva specchiarsi al loro interno.
“Mi prenderò cura di te, piccolo amore mio. Farò di tutto per essere un buon padre.” Le stampò un bacio sulla fronte con affetto.
“Sono sicura che lo sarete, Messere.” La voce di Isabella richiamò la sua attenzione.
Ormanno la guardò, scoprendo che quel giorno era particolarmente graziosa, forse per via della treccia, o per il lieve sorriso che le sfiorava le labbra come un bacio. Era come se la stesse guardando per la prima volta, con occhi nuovi.
“La cresceremo insieme e ci aiuteremo a vicenda nelle difficoltà. Nostra figlia merita tutto il nostro amore.” Disse sincero.
Lei fece un leggero inchino: “Sono pienamente d’accordo, Messere.”
Lui le prese una mano e la strinse amorevolmente nella propria. Inevitabilmente le guancie di lei divennero color porpora per quel gesto inaspettato.
“Ho avuto modo di riflettere in questi giorni e ho capito una cosa importante. Se il cielo ha voluto farci dono di una creatura così adorabile, non dobbiamo essere ingrati. Il modo migliore per rendere felice nostra figlia è provare ad esserlo noi per primi.”
Isabella aveva il cuore che batteva come un tamburo, cercò di parlare: “Mess…”
“Ormanno. Chiamami Ormanno. D’ora in poi sarai una donna libera e non dovrai più servire nessuno. Avrai una dama personale e ti mostrerai al mio fianco come mia compagna e madre di mia figlia, come è giusto che sia.” Era il discorso più serio che avesse mai fatto in vita sua e per la prima volta credeva davvero nelle parole che pronunciava. Nessun inganno, solo la verità. Strinse più forte la mano di lei, come per rassicurarla che era tutto vero, ma anche per timore che potesse svenire dall’emozione. Aggiunse giusto un’ultima cosa per terminare il discorso: “Non posso dire di provare per te lo stesso amore che tu provi per me, sarebbe una falsità, ma vorrei imparare a conoscerti e darti il rispetto che meriti. Se questo ti può bastare, per adesso.”
Delle lacrime sbocciarono dai suoi occhi e le attraversarono il viso, dalle sue labbra uscì una piacevole risatina: “Sì, Ormanno. Va bene così!”
Lui le sorrise e, mano nella mano, si avviarono insieme verso un futuro che si prospettava roseo e pieno di promesse.
 
 
[1]: Ho scelto Ancona per semplificare le cose, ma in realtà le tappe degli Albizzi sono state più numerose. Nel 1434 Rinaldo venne esiliato a Trani, Ormanno invece a Gaeta, e dopo poco tempo s’incontrarono per cospirare e insieme si recarono a Milano a chiedere l’aiuto del Visconti per riprendere possesso di Firenze. Dopo anni di fallimenti nel 1440 si stabilirono ad Ancona, dove Rinaldo morì due anni dopo (dopo aver intrapreso un viaggio in Terrasanta). 

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