L'ultimo cavaliere della Pietra di lady igraine (/viewuser.php?uid=188055)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** RICORDI parte prima ***
Capitolo 8: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 9: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 10: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 11: *** RICORDI parte seconda ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
PROLOGO
Nevicava.
Nevicava
sempre.
Ci
era cresciuta in quella città ammantata di
ghiaccio che non conosceva altro che coltri bianche e gelo perenne.
Aveva mosso
i suoi primi passi nelle neve, aveva colto la prima rosa, orlata di
cristallo e
tanto bella che quasi aveva pianto, negli immensi giardini del palazzo.
Aveva
tenuto la mano alla sua bellissima sorellina dalla chioma argentata
mentre a
sua volta imparava a camminare, con loro padre che le studiava da
lontano, le
braccia conserte e un sorriso lieve. L’aveva sostenuta,
l’aveva abbracciata
nelle notti gelide, perché al contrario di lei la piccola il
freddo lo sentiva
e tremava come una foglia.
Le
era sempre stata accanto, aveva impedito che
conoscesse la solitudine che il gelo del loro mondo aveva gettato su di
lei.
Ricordava
come qualcosa le si era sciolto dentro
quando aveva stretto la mano della piccola, quando sua sorella le aveva
sorriso
per la prima volta. Era stato il giorno in cui aveva capito che non
sarebbe
stata più sola. Il giorno in cui aveva smesso di sentirsi
sola.
Paragonato
alla durata della loro vita tutto
questo era accaduto solo ieri, ma per lei quei pochi attimi si erano
verificati
un’eternità prima.
Ora
la neve si stava trasformando in una tormenta
mentre ripercorreva gli stessi scalini che aveva salito correndo nella
sua
infanzia.
Il
tempio sorgeva sulla cima di un’altura tagliata
da un’infinita ripida scalinata scolpita nel ghiaccio e
consumata dai secoli. A
volte gettava uno sguardo sulla città sottostante,
schiacciata dall’imponente
presenza di quel luogo sacro e da ciò che esso rappresentava.
Una
follia a cui avrebbe messo fine.
O
forse era lei, a star commettendo una follia?
La
folla, le urla, il fumo.
Sentiva
gli assordanti rumori della morte
provenire da lontano, ma le fiamme crepitanti che già si
levavano, fomentante
dal vento gelido che spargeva scintille, e il fumo acre che rendeva
l’aria
pestilenziale nascondevano ai suoi occhi la danza macabra che si stava
compiendo grazie a lei.
I
suoi Alfar si erano introdotti attraverso le
ciclopiche mura di Neanna durante la notte, col favore delle tenebre, e
avevano
iniziato a razziare e uccidere senza pietà gli abitanti
molto prima che
l’allarme venisse dato. Le campane della Cattedrale dei
Peccatori suonavano
incessanti come monito alla strenua difesa, ma era troppo tardi, il
nemico era
dentro le mura, lei stessa ve lo aveva condotto. Era la prima volta
nella
Storia che il suolo sacro di Neanna veniva profanato, la prima volta
che le
infallibili mura di ghiaccio venivano varcate da entità
prive del sangue
dell’Eletta Stirpe.
Tornò
a guardare davanti a sé, allontanando i
rimpianti.
Un
portico circolare privo di archi si apriva
davanti a lei, sostenuto da colonne larghe dieci piedi, scolpite nel
più
limpido cristallo con capitelli decorati di amaranto e agrifoglio.
Amaranto
e agrifoglio ovunque.
Eternità,
immortalità, spirito combattivo, fedeltà
alla propria causa, speranza.
Quanti
significati per dei piccoli, insignificanti
fiori.
«Nostra
signora?»
La
voce secca del Dokkalfar la risvegliò. Aveva
portato con sé quaranta Alfar e ora rimpiangeva di non aver
preso delle
maggiori contromisure. Non aveva idea di quanti membri della setta la
aspettassero al di là del portone e non era certa che i suoi
soldati sarebbero bastati.
Stava
esitando, loro lo sentivano.
«Andiamo,
ormai sapranno di noi»
Attraversare
il piazzale era come camminare su un
lago ghiacciato, molto più sicuro certo, ma sotto lo strato
solido della
superficie sembrava davvero che vi fosse dell’acqua.
Percorse
la strettoia costeggiata da colonne fino
alla facciata del tempio: dietro al peristilio l’immenso
portone era spalancato
verso l’interno e lasciava uscire l’aroma
dell’incenso.
«Mostyn»,
chiamò piano, in un sussurro appena
accennato.
L’Alfar
le fu subito accanto, dritto come un fuso
e pallido come la morte. Aveva occhi verdi, di un verde tanto tiepido
da
risultare quasi trasparente, e la bocca bluastra era contratta quanto
le sue
sopracciglia bianche. Un fantasma, ecco cos’era il suo
generale, uno spirito
sottratto al sottosuolo.
«Dieci
di voi entrino per primi e controllino la
situazione»
«Come
desiderate, Signora»
Attese
in silenzio, la mano contratta intorno al
bastone a doppia lama legato alla schiena, pronta a sganciarlo al
minimo
segnale di pericolo e si rilassò solamente quando un
Dokkalfar le fece cenno di
entrare.
L’immensa
sala era vuota e silenziosa, le tre
navate prive di qualunque ornamento erano opache senza il sole che
baluginava
sulle pareti creando giochi di luce. Sembrava quasi abbandonato, non
fosse
stato per l’incenso, un odore che lei odiava e di cui il
tempio era sempre
stato impregnato.
Prendeva
alla gola, così dolciastro da dare la
nausea.
Lasciò
vagare i suoi occhi cerulei sulle superfici
delle arcate e dei colonnati intarsiati d’oro e
d’avorio, si soffermò sulle
fredde spoglie pareti fino all’altare: vuoto.
Non
si aspettava veramente di trovare l’Artefatto
al suo posto, eppure non le riuscì di non provare delusione.
Sarebbe stato
tutto più facile, se non avesse dovuto incontrare lei.
Non
era cambiato nulla, ogni cosa era esattamente
come i suoi ricordi le avevano raccontato, quel luogo era sospeso
eternamente
fra le pieghe di un tempo immortale che le causava disgusto. Non
c’era spazio
per il cambiamento, ma lei lo avrebbe portato con il ferro e con il
fuoco,
fosse stato necessario.
I
Dokkalfar stavano perlustrando ogni anfratto
senza successo.
Dove
era il Capus Caelum? Perché non la stava
aspettando proprio lì, davanti a quell’altare che
aveva giurato di difendere,
con una spada sguainata?
Era
probabilmente l’ultima occasione che avevano
di rivedersi… il Capus Caelum non poteva tradirla anche
nell’ultimo momento.
Cercò
di rimanere presente a se stessa, di non
farsi prendere dai ricordi e soprattutto non dalla tenerezza, quella
che aveva
sempre provato per lei. Non c’era spazio per gli errori ora
che il tempo era
giunto e non aveva intenzione di rinunciare.
Sospirò
e, in mezzo alla navata centrale, aspettò
studiando cauta l’ambiente, in attesa di un suono che non
avrebbe tardato ad
arrivare, perché almeno questa volta era certa che il Capus
Caelum non
l’avrebbe delusa.
Non
si scompose quando il rumore di numerosi passi
sul ghiaccio riecheggiò nelle arcate, ma non
riuscì a impedire ai suoi muscoli
d’irrigidirsi e alla sua mano di correre agile al bastone
sulla sua schiena,
con un movimento preciso e spontaneo.
Serrò
la mascella e trattenne il fiato. Dentro di
sé combattevano il desiderio dello scontro e una
reminescenza di quella che
poteva chiamare coscienza. Era stato l’odio a portarla a quel
preciso istante,
ed il rancore che non era riuscita a soffocare. Ed ora, ad essi, si
affiancava
la paura dell’inevitabile. Tutto franava sotto i suoi piedi e
non c’era alcun
modo di tornare indietro, perciò s’impose
d’ignorare con fermezza la voce che
da dentro le ricordava tutto l’affetto e l’amore
che un tempo l’avevano legata
alla bimba argentata.
Stimò
una ventina di Fulakas, i Custodi del
tempio, che andavano loro incontro. Molti più di quanto si
aspettasse.
Gli
Alfar si radunarono trepidanti alle sue
spalle, in attesa di un suo segnale per agire, le armi già
sguainate.
«State
pronti, stanno arrivando», mormorò sempre a
fil di voce.
Alcuni
fra i Dokkalfar annuirono
impercettibilmente, ma la loro inquietudine appestava l’aria
più dell’incenso,
e per un essere dotato di una forte empatia come lei tutto quel
nervosismo
rendeva più difficile la concentrazione. Avevano paura di
scontrarsi con i
Custodi della Pietra ed erano consci del fatto che ben pochi di loro
sarebbero
arrivati alla fine della giornata.
Solo
da Mostyn, il viso affilato imperlato di
sudore, i capelli bianchi spettinati celati malamente da un elmo che
poco
concedeva alla protezione, non trasudava alcun turbamento. Restava
fiero e
immobile accanto a lei, con la pacata calma di un essere millenario che
di vite
ne aveva viste e vissute migliaia e che con il suo vuoto sguardo
reclamava la
stessa vendetta che l’aveva spinta lì a sua volta.
Da
un’entrata secondaria ad arco, non distante
dall’altare, comparvero i primi Fulakas, le spade alla mano,
i mantelli
ondeggianti alle loro spalle. Dalle grandi finestre trifore lungo le
pareti
entrò una debole luce morente che lasciò strani
riverberi luminosi sulle
armature smaltate d’argento.
Al
centro, sul petto, ogni guardiano recava incisa
la Pietra, raffigurata su una croce dai bracci uguali, conici, rivolti
all’esterno con i bordi svasati: il simbolo di Neanna, della
Casata Reale, di
tutto ciò che il suo popolo rappresentava.
Il
simbolo dei Guardiani della Pietra Elementare.
Il
corpetto proteggeva i custodi fino alla vita,
da cui scendeva una gonna di anelli metallici che sfiorava la
metà coscia. Da
sotto di essa spuntavano alti stivali in cuoio e ginocchiere
d’acciaio che
fasciavano poi la gamba.
Era
facile riconosce i novizi della setta dagli
anziani: indossavano tutti la stessa tenuta, ma una gonna di seta
azzurra
aperta sul davanti faceva capolino da sotto gli anelli metallici e
dalla
lunghezza di questa dipendeva il grado all’interno
dell’Ordine.
La
prima fila, che si fermò a una decina di passi
da lei e dai suoi Alfar, era composta da novizie con i capelli raccolti
in due
alte code. Bambine che si erano convinte di essere guerriere, che le
facevano
montare solo la nausea ed un profondo disprezzo.
Erano
attesi, non si era sbagliata. Era convinta
che questa volta sua sorella non l’avrebbe delusa.
Il
cuore accelerò il suo battito quando gli angeli
davanti a lei si aprirono metodicamente, come fossero ad una parata, a
ventaglio, per permettere al Capus Caelum di passare fra loro, protetta.
La
voce chiara, vagamente malinconica nelle
sfumature, del Fulakas si levò contro di lei:
«Speravo,
sorella, che questo giorno non si
presentasse mai, ma alla fine ha vinto la tua ambizione»
La
dama che si era fatta avanti era ben diversa
dalle altre che la difendevano. La sua bellezza ricordava il delicato
candore
argentato della luna, così come la sua apparente
fragilità, che la faceva
sembrare più debole e più adulta degli angeli che
la circondavano sebbene in
realtà fosse infinitamente più
giovane.
Quella
dama era sua sorella e si presentava a lei
senza protezione alcuna. Nessuna armatura, nessuna arma, solo la sua
disarmante
bellezza, il suo volto delicato nascosto dalla maschera nera
sacerdotale, che
lasciava intravvedere unicamente gli occhi dal taglio sicuro, del suo
stesso
limpido azzurro cielo. Indossava gli abiti della Somma Vestale,
impalpabili
veli candidi che la rendevano diafana e leggera, un mantello bianco
l’avvolgeva
e nell’insieme pareva veramente un simulacro che avrebbe
potuto facilmente
dissolversi con un soffio di vento. I suoi capelli, puro argento
liquido, erano
sostenuti in due alte code da un diadema di pietre dure, e arrivavano
fin quasi
a sfiorare il suolo, scivolando sulle morbide ali bianche che le
bucavano la
schiena.
Era
sempre stata bellissima, la sua sorellina, e
troppo fragile per quel loro mondo di violenza. Eppure ora non esitava
a
sfidarla, con i suoi occhi duri, a giudicarla, per quella sua scelta
così
difficile e sofferta.
«Capus
Caelum» sibilò «Dammi la Pietra, non
voglio
altro. Vi lascerò andare. Voglio solo la Pietra…
e voglio Lei»
Lo
disse con la consapevolezza di non essere
creduta. Sua sorella lo sapeva, che voleva vendetta, che avrebbe
preteso del
sangue. Il suo sangue e quello della bambina.
Ed
infatti il Capus Caelum la fissò fermamente
prima di rilasciare un sorriso scettico.
«Non
ti basterebbero. Vuoi di più… Vuoi punirmi.
Noi siamo Custodi della Pietra da tempo immemore, solo se saremo morti
potrai
privarci di essa. Solo se saremo morti potrai fare del male anche a
Lei» una
supplica balenò nel suo sguardo «Sei ancora in
tempo per fermare tutto questo,
stai per fare un grande errore. Riflettici, ti prego!»
Se
aveva nutrito dubbi le parole della Fulakas li
uccisero definitivamente. Era esattamente quello lo sguardo che aveva
odiato
con tutta se stessa, e ancora di più detestava la supplica,
tutte le sue
menzogne a cui aveva creduto con cieca fedeltà.
Sputò
ai piedi del Capus Caelum di fronte a lei e
borbottò a denti stretti:
«Da
quanto tempo sapevi che sarebbe finita così?
Hai sempre mentito. Mi fai schifo… hai avuto la tua
possibilità per uccidermi e
non l’hai fatto, ora pagherai le conseguenze»
Sua
sorella tenne gli occhi bassi, esitante, a
fissare il pavimento combattuta. Una parte di lei desiderò
davvero di
perdonarla, di rivedere nel volto nascosto dalla maschera quello della
bambina
a cui aveva stretto la mano per anni quando aveva gli incubi, ma poi il
Capus
Caelum alzò il capo con orgoglio e la osservò con
malcelato disgusto.
«Lo
sapevo da tempo, ma speravo che tu avresti
combattuto e ti saresti affidata alla parte migliore di te. Mi
sbagliavo, in te
c’è solo marcio. Rinuncia, non avrai quello che
cerchi»
Erano
due estranee ora, restava solo il sangue da
reclamare per porre fine a tutto. La sfida diretta ruppe gli argini
della sua
collera.
«Hai
commesso un errore»
Un
solo cenno e i Dokkalfar si scagliarono contro
i Fulakas che, in allerta, si richiusero subito sul Capus Caelum per
proteggerla e ingaggiarono battaglia.
Fu
un attimo, e gli uni furono addosso agli altri.
Si
ritrovò in mezzo al conflitto, persa in un
momento di confusione, circondata dal rumore delle spade che cozzavano
fra
loro. L’odore del sangue subentrò intenso,
sbloccando la sua immobilità, e
subito cercò il Capus Caelum in quel mare di figure che si
massacravano. I
suoni si allontanarono da lei, divenendo ovattati, la sua mente si
concentrò
solo sulla ricerca di un varco per raggiungere sua sorella.
Sganciò
il bastone, lo fece roteare in aria e lo
calò con forza contro un Fulakas che le stava correndo
incontro con la spada
sollevata e un urlo di rabbia a sfigurarle il volto. La lama
sbatté
violentemente contro il legno e quasi la sbilanciò, ma
continuando a far
ruotare il bastone s’inginocchiò e con il filo
della sua arma trapassò il cuoio
e recise nettamente i tendini della gamba destra del Fulakas che con un
gemito
ruzzolò a terra, incapace di reggersi. Senza guardarla in
viso con un ultimo
gesto secco le troncò la testa.
Il
corpo del Fulakas cadde definitivamente
coprendo il sangue che a fiotti sgorgava dalla ferita spargendosi sul
pavimento
e sporcava le ali candide della Guardiana di denso argento. La testa
rotolò
poco lontano impedendogli di vedere l’ultima, attonita
espressione della sua
prima vittima.
Mai
aveva ucciso un angelo. Non era stata lei ad
aprirsi la strada fino al tempio con il suo bastone, ma gli Alfar ad
aver
combattuto per lei.
La
prese una strana sensazione, la comprensione
dell’inevitabilità. Non poteva non accadere, ed
ora che era successo per una
volta riuscì ad avere anche da sola un’idea,
seppur vaga, di cosa l’attendesse
in un futuro prossimo.
Si
gettò una rapida occhiata attorno e si rese
conto che, come aveva immaginato, nonostante i suoi Dokkalfar
possedessero un
evidente vantaggio numerico rischiavano di essere sopraffatti.
C’era
anche la remota possibilità che le sue
truppe fossero sconfitte da un simile nemico.
Doveva
trovare sua sorella prima che ciò accadesse.
Spintonando
si fece largo nella guerriglia senza
fermarsi direttamente in un corpo a corpo, attenta solo a difendersi e
a
schivare i colpi, volontari o meno, mentre i Dokkalfar le coprivano le
spalle
perché passasse indenne. La riuscita di tutto dipendeva solo
dal Capus Caelum.
Una
lama la ferì di striscio all’ala e una fitta
di dolore la colpi prepotentemente. Dovette stringere i denti per non
lasciarsi
sfuggire nemmeno un lamento. Si volse invece a fronteggiare il Fulakas
che
aveva osato colpirla. La gonna di seta azzurra era lunga fino al suolo,
era un
guardiano di livello superiore.
Provocò
la custode con un sorrise di scherno:
«Se
desideri la morte non hai che da chiedere, ti
sarà data» sibilò derisoria.
«Non
sei tu la Morte!» urlò il Fulakas tentando
una stoccata. Fu più rapida della guardiana,
schivò il colpo e con un fluido
movimento del bastone la colpì con tanta forza
all’articolazione del gomito che
all’avversario la spada sfuggì di mano. Con
slancio colpì il Fulakas in volto
con una gomitata che la fece cadere a terra per il contraccolpo.
Solo
in quel momento, torreggiante sul nemico, si
rese conto che anche la sua stessa ala stava sanguinando.
La
sua ala, il simbolo dello splendore della sua
divinità che la rendeva superiore ad ogni altro angelo.
Il
suo sangue reale, più puro di quello di
qualunque angelo, anche con la traccia di rosso che ne sporcava il
luminoso
argento.
Il
suo sangue versato da un’inetta, da un angelo
inferiore.
La
collera le scivolò nelle vene come fuoco
liquido. Senza pietà affondò la lama del bastone
all’altezza della spalla
dell’ala del Fulakas, nel punto più sensibile, per
quelli della sua stirpe,
dove i nervi si concentravano. Le atroci urla di dolore furono la
conferma che
aveva colpito bene.
Un
sorriso di scherno le solcò il bel volto mentre
guardava la Guardiana contorcersi in modo grottesco gridando la sua
sofferenza.
Si chinò appena su di lei, per incrociare gli occhi
spiritati del Fulakas:
«Come
hai detto, io non sono la Morte. Non sarò io
a liberarti dalla sofferenza»
Si
volse abbandonandola ai suoi tormenti per
cercare nuovamente il Capus Caelum. I Dokkalfar l’avevano
circondata per
proteggerla e si frapponevano fra lei e gli altri Guardiani,
permettendole di
scrutare ogni singolo volto.
Alla
fine la vide.
Vicino
all’ingresso dalla quale aveva fatto la sua
comparsa, sua sorella a sua volta frugava ogni volto nella mischia di
spade e
sudore alla ricerca di lei. Quando finalmente riuscì a
trovarla, il Capus
Caelum le sorrise, poi imboccò l’arco sparendo
alla sua vista.
Stava
fuggendo.
Dopo
il primo smarrimento iniziale per quel
comportamento anomalo partì all’inseguimento,
aprendosi un varco con una
spallata. Nessuno tentò di fermarla e riuscì a
scivolare indenne fuori dalla
massa di corpi.
Affrancò
il bastone al gancio sulla sua schiena,
fra l’attaccatura delle ali, e abbandonò i
Dokkalfar al loro destino: c’era
Mostyn con loro, dovevano farselo bastare.
Oltrepassò
a sua volta la porta ad arco che conduceva
all’ala del tempio riservata ai Custodi e si
ritrovò in un vasto corridoio. I
suoni striduli del metallo contro il metallo lì giungevano
distanti, attenuati
dalle immense pareti di ghiaccio. Da un lato si apriva una scalinata
ripida,
dall’altro due file di stalagmiti e stalattiti, che partendo
dal soffitto e
dall’umido terreno s’incontravano formando colonne
di ghiaccio, creavano una
strada che conduceva ad una porta discreta.
Si
guardò attorno e individuò il Capus Caelum
sulla sommità della scala da dove la studiava con
serietà.
Appena
l’ebbe ritrovata quella riprese a correre
scomparendo nuovamente dalla sua visuale. Provava la sensazione di
essere
beffata dalla sorellina e questo incrementava solo la sua rabbia. Senza
il
minimo sforzo percorse correndo i gradini scivolosi di ghiaccio per
ritrovarsi
su un pianerottolo che dava su tre corridoi. Un labirinto nel quale si
sarebbe
senz’altro smarrita non fosse stato che il Capus Caelum
sembrava voler essere
trovata e aspettava solo di essere vista prima di riprendere la sua
fuga.
Forse
stava andando incontro ad una trappola e
visto con chi aveva a che fare era un’ipotesi da non
escludere. Sua sorella non
era una sciocca e aveva avuto molto tempo, più di chiunque
altro, per
prepararsi alla sua rivolta. Quando il Capus Caelum
s’infilò in una stanza,
chiudendosi alle spalle l’immensa porta di ferro battuto con
un tonfo sordo,
sentì finalmente di averla in pugno e un sorriso soddisfatto
scivolò sulle sue
labbra corallo.
Era
in trappola.
Appoggiò
la mano aperta sulla superficie in
apparenza liscia, saggiandone la consistenza. Non poteva sentire il
freddo o il
caldo, non provava sensazioni di alcuna sorta nell’avere,
sotto i suoi
polpastrelli, una superficie ruvida o levigata. I suoi sensi non erano
sviluppati alla maniera umana, solo sua sorella riusciva ad avere
sensazioni
tattili di quel genere. Eppure si soffermò lo stesso
concentrandosi sul
materiale irregolare, antico e mangiato dal gelo, scavato da tante
piccole
rientranze invisibili da lontano.
Chiuse
gli occhi e prese un profondo respiro: non
era certa di cosa avrebbe trovato dall’altro lato, era
evidente che il Capus
Caelum l’aveva condotta lì con un preciso scopo;
ma ormai era giunta fin su
quella soglia, non poteva più tirarsi indietro.
L’aria
immota intorno a lei, pesante come ogni
cosa in quell’ambiente solenne e antico, iniziò a
vibrare, increspandosi come
la superficie di un lago. Spalancò gli occhi azzurri e diede
maggior pressione
sul ferro con la mano aperta. In risposta, come un’onda che
si abbatte sugli
scogli, l’aria si trasformò in un rapido,
impetuoso vento che si accumulò e
s’infranse sulla pesante porta con tale impeto da sfondarla.
Le ante si
aprirono all’interno con tale violenza da andare a cozzare
contro le pareti di
ghiaccio causando un fortissimo frastuono e una scossa che
riverberò sul
pavimento.
Finalmente
la vide.
Il
Capus Caelum era immobile in mezzo alla stanza,
le braccia inerti lungo il corpo e l’espressione dura e
vuota. Aveva il gelo
dell’inverno in quel suo sguardo, occhi difficili da
sostenere.
Si
era rifugiata nelle sue stanze spoglie: alle
sue spalle, accanto alle ampie finestre da cui entrava il
gelo della
tormenta e fiocchi di neve che avevano già rivestito il
davanzale e parte del
pavimento, c’era un letto basso con il baldacchino di organza
leggera che
danzava al minimo soffio di vento. Era una camera semplice, con una
parete
rivestita da un lungo armadio le cui ante erano composte da una lastra
di
cristallo sovrapposta allo stagno, in modo tale da poter riflettere
l’ambiente
circostante; dall’altro lato un ironico quanto inutile camino
scolpito nel
ghiaccio, dove una fiamma dalle sfumature azzurre danzava flemmatica, e
un
catino ricolmo d’acqua calda da cui esalava vapore.
Un
ambiente troppo freddo per sua sorella di cui
l’unico tocco si coglieva dai gigli bianchi e dalle rose
rosse intrecciate alle
colonnine del letto.
L’immagine
stoica del Capus Caelum in attesa del
suo destino le strappò un altro sorriso, non privo di
amarezza. Nessuno
conosceva il proprio destino come sua sorella ma comunque le restava
inspiegata
la di lei sicurezza. Nonostante tutto, anche in quel frangente
continuava ad
ammirarla, quella bimba dai capelli d’argento.
Si
avvicinò cautamente ma l’altra non
batté ciglio
e non mutò espressione.
«Sono
stanca di giocare a nascondino, non siamo
più bambine. Voglio Sjalens, non voglio farti del
male», disse piano, quasi con
dolcezza.
«Non
puoi odiarla davvero così tanto… è
solo una
bambina»
La
rabbia la pervase di nuovo, dettata stavolta
dall’impotenza.
«E
tu non puoi amarla tanto da voler morire per
lei! Non vedi come ti ha ridotto?»
Fragile,
ecco come la vedeva.
Malata.
Eppure
loro non avrebbero dovuto potersi ammalare.
Magra,
pallida, delicata.
Era
sempre stata un uccellino, fin da piccola,
troppo diversa. Così diversa che a volte dubitava potessero
avere davvero lo
stesso sangue argentato.
Il
Capus Caelum sorrise: «Non fingere, ti prego.
Non cercare d’ingannarmi, non ora che siamo solo noi. Tu vuoi
la Pietra, non
dare a Sjalens le responsabilità dei miei sbagli. Odia
me»
Rapida
sganciò di nuovo il bastone e puntò la lama
alla gola della sorella.
«Non
ho mai detto di non odiarti» sibilò a denti
stretti, a meno di una spanna dal suo volto. «Sei una
bugiarda ammaliatrice che
sa vendere solo inganni. Hai ragione, voglio la Pietra, e voglio
sventrare
quella bambina con le mie mani. Dove sono?»
Il
Capus Caelum non aveva battuto ciglio e
sosteneva il suo sguardo senza alcuna esitazione nonostante la lama le
stesse
già incidendo la candida pelle del collo.
Fu
solo un attimo.
Un
brivido le percorse la schiena e si allontanò
dalla Custode, turbata. Era stata una sensazione, come se qualcuno le
avesse
strappato qualcosa all’improvviso, qualcosa
d’impercettibile eppure di
dannatamente importante. Uno strato di lieve sudore le
imperlò la fronte.
«Cosa
è stato?» mormorò.
Il
battito del cuore di sua sorella era aumentato
come il suo, anche il Capus Caelum sembrava in quello stesso stato di
strana
sofferenza che provava lei stessa. Eppure la Custode le sorrise
soddisfatta da
dietro la maschera nera.
«Lo
sai, cos’è stato. È troppo tardi ora,
ti avevo
avvertita: non troverai nulla di ciò che cerchi. Hai
fallito»
L’atteggiamento
trionfante e colmo di disprezzo di
lei la ferì nell’orgoglio.
La
Pietra… ecco cos’era stato quel brivido.
Era
come se la Pietra non fosse esistita più, come
se fosse stata strappata dal loro mondo, portandosi via un frammento
della loro
anima.
Non
poteva essere vero.
Le
mani le tremarono per la rabbia e lei si
affrancò al bastone con tutta la sua forza.
«Mi
hai ingannata di nuovo», constatò a mezza
voce. Faticava a parlare tant’era furiosa.
«Dimmi
che cosa hai fatto»
Il
Capus Caelum continuò imperterrito a
sorriderle: «Non sono io ad ingannarti, ti inganni da
sola»
Ferita,
ignorò quelle parole e fece per uscire
dalla camera lasciando sua sorella lì, ancora immobile come
la aveva accolta.
Poi però, colta da un impeto di furore, si volse di nuovo e
trapassò il ventre
del Capus Caelum da parte a parte. Il corpo di sua sorella si
ripiegò sull’asta
di legno e la fronte di lei si posò piano sulla sua spalla.
Il sangue colò
lento lungo il legno e le impiastricciò le mani con la sua
densa consistenza.
Si
sporse vicino all’orecchio di lei: «Non so cosa
tu abbia fatto, ma non potrà essere nascosta da me in
eterno. Io avrò quella
Pietra, e quando l’avrò trovata non ci sarai
più tu a proteggerla»
Con
lentezza tolse la lama, mentre il Capus Caelum
agonizzante, emetteva deboli gemiti sofferenti.
Incrociò
i suoi occhi ancora una volta, l’ultima
volta, e ne restò ancora turbata. Un velo di dispiacere
offuscava gli occhi
azzurri di quella che una volta era stata sua sorella, dispiacere per
lei.
Lasciò
la presa e il corpo della guardiana si
accasciò con un ultimo gemito. Raggomitolata sul pavimento
sopra una densa
pozza di sangue sembrava una patetica bambola, con l’abito
sporco di rosso e
d’argento e le ali macchiate.
Se
la lasciò alle spalle e tornò dai suoi
Dokkalfar. Nella navata la battaglia si era conclusa ed il pavimento
era
ricoperto di cadaveri, l’azzurro delicato delle pareti
imbrattato di sangue. I
Fulakas erano stati sconfitti, ai pochi che ancora soffrivano veniva
dato il
colpo di grazia, e dopo tanto rumore ogni cosa venne permeata da un
silenzio
innaturale.
Solo
dodici dei suoi erano sopravvissuti e non si
stupì di riconoscere Mostyn fra questi. Silenziosa e felina
lo raggiunse, persa
nelle sue considerazioni. Anche se la Pietra era stata portata via non
poteva
averla condotta troppo lontano.
Fuori
dalle finestre ad arco che fendevano le
pareti laterali s’intravidero alcuni fiocchi di neve che
mulinavano nell’aria,
danzando pigramente. La tempesta di neve si era ormai consumata.
«Setacciate
il tempio» disse infine, rivolgendosi
a Mostyn «Se c’è ancora qualcuno di vivo
uccidetelo. Cercate la Pietra»
Il
Dokkalfar rimase immobile. «Dov’è la
bambina?»
chiese con voce insolitamente innocua, distante.
La
frustrazione la fece fremere. «Deve essere qui…
da qualche parte»
Le
sue stesse parole le suonarono incerte.
L’aveva
sentito. Poteva negarlo agli Alfar, anche
a se stessa, ma aveva sentito lo strappo. Non c’erano
più, né Sjalens né il
Cuore del Mondo. Aveva vinto lei, eppure, ancora una volta, aveva vinto
il
Capus Caelum.
La
neve della città si tinse d’argento, quella
notte, ma inutilmente, poiché la Pietra non venne
più ritrovata.
ANGOLO AUTRICE
Aaye
Atan, caro lettore/lettrice! (Scusate, morivo dalla voglia di fare
delle prove in elfico, giusto per vedere se tutto questo studio
Tolkeniano online
sta portando i suoi frutti!)
Non
c'è granchè da dire, a parte che mi
piacerebbe davvero davvero tanto avere una vostra opinione, mi
arrischio a
pubblicare questa storia solo per questo quindi ,non dovesse avere
recensioni,
la ritirerò! Spero
che vi piaccia! =)
A
presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** capitolo primo ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO PRIMO
2000 anni dopo
Le terre d’Ombra erano umide e fredde e
non conoscevano molto delle stagioni.
Che
fosse Samhradh o Geamhradh le fitte foreste
che coprivano le montagne del centro e le dolci colline del nord
restavano
sempre verdi, il sole slavato, un vessillo spettrale nel cielo
inghiottito di
nuvole. Una leggenda raccontava che un tempo, millenni prima, queste
erano
state le terre degli Alfar oscuri quando ancora vivevano in superficie,
e
perciò il sole sorgeva tardi e tramontava presto e gli
abitanti dovevano
imparare a muoversi nelle tenebre fin da bambini.
Sianna
di Dokkalfar non ne aveva mai visti, eppure
in quei boschi ci era cresciuta e si sentiva a proprio agio
nell’oscurità
come un gufo o una civetta. Non le sarebbe dispiaciuto essere una
civetta, il
loro bubbolare riempiva il buio di suoni, erano bianche e morbide e
vedevano
nella notte perfettamente.
Suo
fratello però non le aveva mai permesso di
avvicinarsi ad un rapace durante le sue perlustrazioni nei boschi
vicino a casa,
era fermamente convinto che come minimo ci avrebbe rimesso un occhio se
si
fosse accostata ad un cacciatore notturno, e anche se Ynyr era di un
anno più
piccolo sapeva essere davvero testardo.
Sianna
strisciò lentamente sul ramo basso di un
albero che dava su un sentiero appena accennato nella terra e quasi
seppellito
dal sottobosco. Tese il collo per poter vedere più lontano:
era
pomeriggio presto e anche se debole la luce era ancora sufficiente,
abbastanza
da permetterle di avere il permesso di giocare appena fuori dal paese.
Si era
nascosta ormai da un buon quarto d’ora, eppure di suo
fratello non c’era
la minima traccia. Per una volta forse, era stata più furba
di lui, anche se
era insolito. Ynyr aveva un vero e proprio fiuto per i suoi
nascondigli, non le
dava mai la soddisfazione di poter credere di batterlo in astuzia.
Ad
attenderlo ora, quasi si annoiava.
Incrociò
le braccia sotto il mento e rimase
sdraiata sul ramo. Da lì poteva vederlo arrivare non vista e
in caso di
necessità nascondersi nel fogliame. Era tanto piccola che
non avrebbe potuto
cadere neanche volendo: aveva sette anni e la costituzione di un
uccellino,
tanto secca che sua madre sosteneva le sue ossa dovessero essere cave e
che
l’unico motivo per cui un soffio di vento non
l’aveva ancora fatta volare via
era che i suoi capelli erano troppo pesanti e l’ancoravano al
suolo.
Sianna
si rigirò distrattamente una ciocca bionda
fra le dita.
Se
c’era un motivo per cui suo fratello riusciva
sempre a trovarla erano proprio i suoi stupidi capelli, troppo lunghi e
troppo
biondi perché passassero inosservati. Al minimo
raggio di sole
splendevano d’oro e urlavano un “sono
qui” che a Ynyr non sfuggiva mai.
Persa
nelle sue considerazioni quasi si
addormentò.
«Che
cosa ci fai qui? Ti sei perso?»
Sussultò
e per poco non perse la presa sul legno
umido di muschio, rischiando una rovinosa caduta.
Non
c’era nessuno, non era stata scoperta.
«Piccolino,
se mi mordi non posso aiutarti»
La
voce però non se l’era sognata. Perplessa
iniziò la discesa affrancandosi con tutta la sua forza al
tronco viscido
dell’albero, più verde che marrone. Quando ormai
era quasi del tutto ridiscesa
mise il piede in fallo e ruzzolo a terra sbattendo il fondoschiena.
«Maledizione!»
Imprecò
dimenandosi sull’erba con le mani strette
sul punto offeso, come potesse far scomparire il dolore.
«Che
stai facendo?» stavolta la domanda era
rivolta a lei.
Una
strana bambina le si era inginocchiata accanto
e la studiava perplessa.
«Niente!»
Balzò
a sedere divenendo completamente rossa e la
bambina le sorrise. A Sianna parve di conoscerla. Aveva lisci capelli,
neri più
delle notti senza luna, che le arrivavano alle spalle, la pelle
pallida,
sopracciglia perfettamente disegnate e uno sguardo stranamente
pungente. Gli
occhi, profondamente bui, ricordarono a Sianna quando si era sporta per
la
prima volta sul bordo del pozzo in piazza e aveva avuto la sensazione
che non
esistesse fondo.
L’aveva
vista in paese molte volte, ma non le
aveva mai parlato. In verità non parlava con
nessun bambino della sua
età, sua madre non glielo aveva mai permesso. Il suo unico
compagno di giochi
era sempre stato solo Ynyr.
«Ti
sei sporcata» le fece notare la bambina,
accennando al suo vestito.
La
sopraveste di velluto verde era piena di fango
a causa del terreno melmoso dopo le piogge, la pelliccia di vaio che
rivestiva
i bordi delle maniche e della gonna era impiastricciata e, in alcuni
punti, si
era spelacchiata. Quasi come a rimarcarle in che stato pietoso si era
ridotta
l’intrecciatoio di corda dorata che le teneva i capelli in
ordine si allentò
del tutto facendo sfuggire le ciocche bionde che le ricaddero sul volto.
«Mia
madre potrebbe arrabbiarsi» considerò a voce
alta con un ghigno imbarazzato, contemplandosi. Le signorine per bene
non si
mostrano in condizioni simili, era una cosa che si era sentita dire
spesso ma
che purtroppo non si conciliava molto con la sua natura. E poi le
signorine per
bene non vivevano in paesini sperduti nei boschi!
«La
mia invece mi uccide, se rovino un abito tanto
bello!» scoppiò a ridere l’altra.
Solo
allora Sianna notò che il vestito dell’altra
bambina era di semplice cotone e che questa indossava tutti
gli strati
necessari a proteggersi dal freddo di Foghara.
Si
alzò sbattendosi la veste e si accorse che,
oltre al vestito e ai capelli, aveva bucato anche una delle graziose
scarpette
di seta e cuoio che sua madre le aveva fatto confezionare da poco.
«La
mamma non vuole che lo uso, ma è verde! Sembra
fatto apposta per giocare a nascondino nel bosco!» se voleva
battere suo
fratello doveva inventarsi ogni stratagemma possibile!
«Con
chi parlavi prima?»
La
bambina le diede la schiena e le fece cenno
di seguirla. Ai piedi di un albero non troppo distante da dove era
caduta
Sianna c’era un uccellino così piccolo da starle
nel palmo di una mano,
rivestito di soffici, piccole piume morbide che lo facevano
sembrare un
batuffolo di cotone.
«Con
lui» chiarì «Non vuole farsi prendere,
ma se
resta qui morirà»
Sianna
si mise a carponi per guardare l’uccellino
più da vicino e quello fece schioccare il becco acuminato
verso di lei, per
tenerla a distanza. Faticava a tenere gli occhi grinzosi del tutto
aperti, ma
si poteva vedere il colore grigio e rosato. Doveva essere albino.
«Non
è meglio allontanarsi e aspettare che la
mamma torni a prenderlo?» chiese.
«Credo
che l’hanno abbandonato, il nido è
vuoto»
le spiegò ancora la bambina, spostando una ciocca di capelli
neri dietro
l’orecchio.
«Ah»
guardò quel piccolo uccello bianco e
spelacchiato «Bèh, allora lo porterò a
casa con me!»
«Guarda
che mord…» la sua nuova amica non
fece in tempo a concludere che Sianna era già stata beccata
e le dita
gocciolavano denso sangue argentato.
«Nessun
problema» Disse sorridendo a trentadue
denti. Si ripulì le mani nella veste e, mettendole
a coppa, sollevò il
piccolo che si dimenava continuando a ferirla per liberarsi.
«Non
ti fa male?»
«Non
tanto. Vieni con me, lo portiamo dalla nonna.
Lei saprà cosa fare!»
L’altra
bambina, ora sorpresa, annuì.
«Io
mi chiamo Kea» mormorò timidamente.
«Io
Sianna Eilan, ma nessuno mi chiama così.
Chiamami Sianna e basta»
Si
avviarono ripercorrendo il serpeggiante
sentierino che si delineava appena, pieno di buche, sassi e fango.
«Non
ti avevo mai vista qui» considerò poi Sianna.
«Come mai eri da sola?»
Kea
era chiusa.
Camminava
a testa china, con i capelli sul volto
che le nascondevano il mondo, sembrava avesse paura di tutto, anche di
parlare
con lei. Quando sollevava il viso e la guardava in tralice
però, mostrava uno
sguardo vivace e intelligente.
«Non
piaccio agli altri bambini» borbottò spiccia,
socchiudendo gli occhi, come a sfidarla a commentare.
«Neanche
io» rispose scrollando le spalle. L’uccello
continuava a pigolare e punzecchiarla con quel suo becco aguzzo.
«Almeno penso.
Quando esco nessuno gioca mai con me. Però ho mio fratello!
Te lo faccio
conoscere! E anche due ragazzi che vengono a trovarmi ogni tanto. Loro
sono più
grandi ma giocano sempre con me!»
Kea
non rispose.
Camminandole
accanto Sianna si accorse di quanto
Kea fosse piccola, le arrivava solo alla spalla e sembrava perfino
più secca di
lei, aveva solo la pelle sulle ossa.
Si
ricongiunsero alla strada principale, un
pantano abbastanza grande da permettere tranquillamente il
passaggio di
due carri, completamente deserta. Kea si tenne sul bordo della strada,
sollevando la veste per non sporcarla, Sianna invece ne
approfittò per saltare
nelle pozze fangose schizzando acqua sporca a raggiera intorno a
sé.
«Non
vieni? È molto divertente!»
La
gonna navigava nell’acqua melmosa, la pelliccia
era fradicia, appiccicosa e indecente.
«No
grazie, non ho voglia di essere sgridata»
Sianna
si accigliò e continuò a giocare
proteggendo con le mani a coppa il suo piccolo ospite, innervosito
dalla sua
poca delicatezza. Anche lei sarebbe stata sgridata certo, ma era una
consuetudine a cui ormai non badava neanche più. Sperava
che, prima o poi, sua
madre si sarebbe stancata di ripetere le solite cose e le
avrebbe dato
una tregua.
Alla
porta di Gleann Dubhar c’era una semplice
guardiola e un banchetto, dove due omini su di età
controllavano le entrate, le
uscite e facevano pagare il pedaggio ai mercanti di passaggio. Non era
un paese
tanto grande, non c’erano mura di protezione e si e
no vi erano
quattrocento abitanti.
Però
c’erano sempre molti mercanti provenienti dal
lontano nord, dall’Esperia, da Emer e dalla Regione dei
Laghi, che facevano
tappa a Gleann Dubhar per poter raggiungere le ricche città
d’Ombra che
sorgevano più a Sud, e per questo il piccolo borgo cresceva
nel tempo.
I
dravidi erano molto ospitali se in cambio
ricevevano denaro.
«Rientri
già, piccola peste?» le domandò Ailbhe
richiamandola. Era un uomo quasi del tutto calvo, per questo indossava
sempre
una cuffia, aveva folti baffoni grigi e il volto grosso pieno di rughe.
Quando
sorrideva mostrava una bocca quasi del tutto priva di denti, ma era
gentile e
Sianna non ne provava orrore.
«Sì!
Guarda cosa abbiamo trovato!» scostò appena
la mano e la testa dell’uccellino spuntò
immediatamente, vispa e attenta. «Non
è bellissimo?»
Ailbhe
aggrottò le sopracciglia rade «Che
roba è?»
«è
un uccello!»
«Lascialo
perdere Sianna, questo vecchio rimbambito
non ci vede più ormai!» intervenne Brian,
sporgendosi per poter vedere la
creatura.
«Non
dire sciocchezze, ci vedo benissimo!»
bofonchiò il vecchio.
Brian,
più giovane del compagno di almeno dieci
anni, anche se altrettanto ingrigito, le fece cenno di appoggiare
l’uccellino
sulla superficie di legno.
Appena
lo fece il piccolo ricominciò a urlare i
suoi lamenti. Cercava di muoversi senza riuscirci e alla fine si
sbilanciò in
avanti battendo la testolina troppo grande per il resto del corpo.
«Guarda
Ailbhe»
«Come
posso guardare se dici che non vedo?» si
lamentò ancora il vecchio a braccia incrociate facendo
l’occhiolino a Sianna
che rise.
«Smettila
di fare il vecchio brontolone» lo
apostrofò «E guarda qui»
Sianna
era appesa con lo mani al bordo del banco
di legno e osservava incuriosita il suo piccolo, nuovo animale. Sperava
davvero
tanto che sua madre le permettesse di tenerlo.
Kea
si era messa in disparte, intimidita forse dai
due anziani, e non aveva più detto una parola,
però la stava aspettando e
questo la fece sorridere.
«Piccola
Sianna sei stata molto fortunata!» le
disse Brian sorridendole benevolo. «Questo non è
un uccellino, è un
falco.»
«Un
falco?» guardò subito Kea che annuì
abbassando
gli occhi. Lei doveva averlo capito appena l’aveva visto.
Sianna invece un
falco non sapeva nemmeno come fosse.
«Certo.
A tuo fratello piacerà tantissimo,
mostraglielo subito quando arrivi a casa. È così
piccolo che non credo
sopravvivrà»
Sianna
si arrabbiò e riprese il falco fra le sue
manine, facendo una linguaccia al vecchio Ailbhe
«Certo
che vivrà! È il mio falco, non
può
morire!» gli urlò contro allontanandosi.
Kea
chinò il capo per salutare, rossa in
viso, e le corse dietro mentre Brian urlava a Sianna
«Bambina
testarda!»
Gleann
Dubhar sorgeva sul costone della montagna e
occupava tutta la vallata. Solo il centro del paese, attorno alla
piazza, era
costruito in pietra, mentre la case più distanti e
più povere erano di legno e
paglia. La strada restava fangosa per un breve tratto della discesa per
poi venire
sostituita da lastre di pietra consumate dai carri.
«Non
è vero che non vivrai, non ascoltare quei
bruti!» ripeteva al falchetto di tanto in tanto. Aveva smesso
di morderla e il
suo sangue sulle mani si era seccato marcando con il suo rosso argenteo
i segni
della pelle morbida.
«Però
è vero che è piccolo»
insinuò Kea.
«Se
dai ragione a quei vecchiacci non ti parlo
più!» ribatté mettendo un broncio
irragionevole. Sianna di credere ad una
realtà che non le piacesse proprio non ci riusciva.
Attraversarono la piazza a
passo spedito senza più dire neanche una parola.
C’erano dei bambini che
giocavano a inseguire una palla di stracci, alcuni si diedero di gomito
quando
passarono ma le li ignorò come era sempre stata
abituata a fare.
Le
botteghe non erano molto frequentate in
generale, per questo poche persone erano nei paraggi quel giorno, a
parte
alcuni anziani che stavano seduti su seggiole scomode fuori dalla porta
di casa
parlando fitto fra loro. Solo nel giorno del mercato settimanale la
piazza si
riempiva e la gente fluiva anche dai paesi e dai villaggi vicini per
comprare
tutto il necessario. Quando era annoiata e non poteva uscire
perché il cielo
già imbruniva, Sianna spesso andava nella bottega
del vasaio, per
guardare Fèilim lavorare la creta e sua moglie
Beirnís, una donna grande almeno
il doppio del marito ma con mani estremamente delicate, decorare le
creazioni
dell’uomo.
Inizialmente
aveva dato non poco fastidio e sua
madre più volte si era dovuta presentare nella bottega per
trascinarla a casa per
un orecchio. Alla fine però la coppia si era abituata alla
sua presenza
discreta. Ora che Beirnìs era incinta poi si era
tremendamente addolcita e a
volte le permetteva di pasticciare con i colori che usava per dipingere
la
creta, causando il disappunto del marito.
Oppure
andava dal fornaio, Matha, e continuava a
girargli attorno finchè lui, esasperato, pur di levarsela di
torno, non le
cedeva una di quelle frittelle che faceva solo nei giorni precedenti al
grande
mercato e per cui lei andava matta. Allora correva dal fratello e la
divideva
con lui.
«Sei
arrabbiata con me?»
Scosse
la testolina bionda e spettinata «Certo che
no. Stavo solo pensando che ho fame!»
Kea
sospirò sollevata e le sorrise.
Costeggiarono
un muro di pietra fino ad un arco
aperto in cui Sianna s’infilò. Kea si
bloccò all’ingresso.
«Cosa
aspetti?» Le chiese Sianna confusa. La sua
nuova amica era sbiancata
«Vivi
qui?»
Sempre
confusa Sianna annuì «Non va bene?»
«No
è che… quella è casa mia»
indicò la casa
accanto alla sua, molto più piccola e modesta, e Sianna
scoppiò a ridere «è
fantastico! Allora possiamo vederci tutti i giorni! Devo dirlo a
Ynyr!»
Sianna
attraversò il piccolo cortile pieno di
cespugli raggrinziti dal freddo e spalancò la porta di casa,
entrando come un
piccolo uragano nel salotto.
«Sianna
Eilan!»
S’irrigidì
immediatamente e Kea le sussurrò
all’orecchio «Avevi detto che nessuno ti chiamava
così»
«Solo
mia mamma quando è…»
«Sono
furiosa!»
Marilien
spuntò dalla cucina con le mani sporche
di pastella sui fianchi e il volto pieno di riprovazione.
«Si
può sapere che fine avevi fatto? Tuo fratello
è rientrato da più di un’ora ormai e di
te non c’era la minima traccia!»
Le
guardò l’abito e divenne di cera «Come
devo
dirtelo che con quei vestiti non puoi giocare nel fango? Guarda come
l’hai
conciato, è rovinato! Non puoi essere un po’
più responsabile? Io proprio non…»
Marilien
s’interruppe, e guardò la sua amica
nascosta dietro di lei.
«E
lei chi è?»
«Lei
è Kea, è la nostra vicina»
spiegò Sianna
raggiante, per nulla turbata dalla sfuriata appena ricevuta, al
contrario di
Kea che si era letteralmente affrancata alla sua manica e
più di tutto avrebbe
desiderato scappare in quel momento.
«Che
ha combinato la bambina stavolta?» Korakas,
l’anziana che Sianna chiamava nonna, scese le scale
scricchiolanti
aggrappandosi al corrimano. Non era davvero sua nonna, solo
la
sacerdotessa di un villaggio dravida del nord che peregrinava per tutte
le
terre d’Ombra e ogni due o tre mesi si presentava alla loro
porta, accompagnata
sempre da Hanry e Daniel, i due ragazzi che erano i più cari
amici di Sianna.
«Niente
che non faccia tutti i giorni» sospirò sua
madre, sollevando gli occhi al cielo. «Fa’ almeno
accomodare la tua amica»
«Certo!
Nonna vieni, devo farti vedere una cosa!»
Il
salotto era composto da due poltrone e un
divanetto attorno a un tavolino di legno, davanti al camino acceso.
Sopra il
camino, appeso alla parete di pietra, stava un quadro. Sianna era stata
in molte
case, ma nessuno aveva un quadro e questo la rendeva molto orgogliosa.
Si
sedette a terra, sul tappeto, e liberò il falco, mettendolo
sul tavolo. Anche
Kea prese posto accanto a lei, ma non guardava l’uccellino,
piuttosto
continuava a studiare l’ambiente, travolta dalla meraviglia.
Korakas
si avvicinò
«Per
tutti i Serafini! Dove l’hai trovato?»
Per
la prima volta Sianna parve a disagio.
«ehm,
ecco…»
Marilien,
le braccia conserte sotto il seno, fissò
subito gli occhi su Kea, l’anello debole del duo.
«Nel
bosco» disse la bambina nascondendosi dietro
alla tenda di capelli neri.
Sianna
le tirò una piccola gomitata di protesta,
ma ormai era troppo tardi.
«Nel
bosco, eh?» sua madre alzò un sopracciglio e
si limitò a dirle, con voce gelida «Ne parliamo
dopo con calma»
«Non
dovevi dirglielo» si lamentò con l’amica
a
bassa voce, arrabbiata.
«E
cosa dovevo dirle?»
«è
molto piccolo Sianna. Non so se sopravvivrà»
considerò Korakas, che intanto aveva studiato il falco
attentamente. «è un
falco pellegrino, deve avere almeno tre settimane, ma è
debole»
«Tanto
di meglio. Non lo voglio quest’uccellaccio
in casa mia» borbottò Marilien
«Ma
io voglio tenerlo!» protestò Sianna,
rimettendo le mani a coppa attorno al falco come se potesse proteggerlo
dalla
collera di sua madre.
«Anch’io
voglio tenerlo»
Alzò
di scatto la testa per cercare il bambino che
aveva parlato. Ynyr era uscito dalla cucina con un biscotto di frolla
in bocca
e la sua perenne aria annoiata. Un sorriso le uscì spontaneo
e anche Korakas
annuì per tranquillizzarla, perché Marilien a
Ynyr proprio non sapeva dire di
no.
«Tesoro
guardalo. Non può sopravvivere»
Sua
madre tentò subito la strada conciliante per
non indisporre suo fratello, ma Ynyr scosse la testa.
«Korakas
lo sa di sicuro, come nutrirlo. Sianna
non lo farà morire»
«è
vero! Mi prenderò io cura di lui!»
L’anziana
signora dai lunghi capelli argentati si
lasciò andare ad una roca risata
«Direi
che sei sconfitta, Marilien»
Sua
madre fece scorrere gli occhi verdi da suo
fratello a lei, poi sospirò e si batté il
grembiule bianco esasperata,
sollevando una nuvoletta di farina.
«Fate
come volete, ma se muore non venite a
piangere da me» si scostò la treccia rossa dalla
spalla e rientrò in cucina
borbottando.
«Sianna
cambiati e non osare sederti da nessuna
parte finchè non sarai pulita!» urlò
dall’altra stanza proprio mentre lei si
era alzata per mettersi più comoda sulla poltrona. Con un
sospiro rassegnato si
lasciò nuovamente cadere sul tappeto.
«Pensavo
si sarebbe arrabbiata di più» mormorò
poi, guardando Kea con un sorriso «Però se ci sei
tu non si arrabbia così
tanto!»
«Stupida
sorella» le disse Ynyr.
Il
fratello si accomodò su una poltrona e si gettò
in bocca un altro biscotto. «Aspetta che lei vada via e poi
la mamma
ricomincerà»
Sianna
gli fece una linguaccia «Antipatico. Sei
davvero insopportabile! Si può sapere dov’eri
finito? Dovevi essere nel bosco a
cercarmi e invece sei qui! Magari ti stavo ancora
aspettando!»
La
nonna guardava Ynyr come lei, vagamente
divertita.
«Ti
lamenti sempre che ti trovo subito. Mi
annoi. Così ho deciso di venire a casa a mangiare
perché avevo fame e dopo di
venire a cercarti» disse semplicemente prima di inghiottire
l’ultimo biscotto.
Sianna
diventò rossa per la rabbia.
Questa
volta si era davvero illusa di averlo
giocato, e invece era rimasta beffata ancora.
Kea
invece, inaspettatamente, si mise a
ridere di gusto, umiliandola di più.
«Sei
davvero cattivo! Tu il mio falco non lo
tocchi!»
Ynyr
alzò le spalle, incurante «Come vuoi tu»
Balzò
giù dalla poltrona e uscì di casa senza
darle alcuna soddisfazione.
«Saccente
nanerottolo» sibilò lei a denti
stretti.
«E
tu come fai a sapere cosa significa
“saccente”?» la interpellò
Korakas.
Arrossì
di nuovo «Non lo so» balbettò in
imbarazzo
«Però me lo dice sempre Ailbhe»
Korakas
rise «In effetti quel vecchio brontolone
ha proprio ragione, sei una piccola saccente Sianna!»
«Anche
lui lo è» fece notare Kea aprendo bocca per
la prima volta. Con quelle semplici quattro parole si
conquistò
irrimediabilmente la simpatia di Sianna che le saltò al
collo e la strinse a sé
come fosse un animale di pezza.
«Lo
sapevo, lo sapevo! Tu sarai la mia migliore
amica!»
Il
piccolo falco, sul tavolo, pigolò la sua
approvazione, almeno questo era ciò di cui Sianna fu
convinta.
Era
il suo falco d’altronde, era naturalmente
portato a darle ragione.
«Come
lo chiami?» domandò Kea, sgusciando dalla
sua stretta, rossa in viso per la vergogna e con lo
sguardo basso
sul tappeto.
«Non
dargli un nome, non sappiamo se vivrà. Se ti
affezioni troppo ci rimarrai male» la redarguì
nuovamente Korakas.
Sianna
gonfiò una guancia, infastidita, e si chinò
sul piccolo uccellino spiumato e buffo con gli occhietti tutti
raggrinziti «è
bianco» valutò semplicemente «lo
chiamerò Gael»
La
nonna ridacchiò sommessamente «Non è
proprio
così Sianna»
«Perché?»
Sollevò
gli occhi sull’anziana, perplessa, come
alla ricerca di approvazione, ma il suo sguardo si posò solo
sulla sala,
completamente vuota.
«Korakas?
Kea?»
Una
fitta di panico, nell’esatto istante in cui
realizzò che era da sola, non c’era nessuno. Anche
Gael era sparito, e un
leggero strato d’impalpabile fumo grigio si stava lentamente
diffondendo nella
stanza.
«Gael!
Kea! Ynyr! Dove siete?»
Le
mani, le sue mani, non erano più coperte di
sangue, ma erano d’improvviso grandi, mani da adulta.
«Sianna!»
Si
alzò di scattò e corse alla finestra,
spalancando l’imposta accostata. La luce improvvisa
l’accecò, insieme ad una
vampata di calore che quasi le bruciò il volto e
le fece lacrimare gli
occhi.
Il
rosso dominava l’oscurità e le urla di puro
terrore riempivano il silenzio della casa.
«Sianna!»
Non
riusciva a muoversi, era bloccata,
affrancata allo stipite di legno. Il panico l’aveva
inchiodata al pavimento e
ogni istinto l’aveva abbandonata. Quello era un bel ricordo,
il suo primo
ricordo con la sua migliore amica, e nel suo ricordo non
c’erano fiamme,
non c’era paura.
«Sianna
maledizione!»
La
voce d’Ynyr, la sua mano che le afferrava
bruscamente il braccio all’altezza del gomito e la
costringeva a voltarsi e la
tirava a sé «perché non
rispondevi? Stupida ero preoccupato da morire!
Stai bene vero?» le prese il viso fra le mani e Sianna
ritrovò negli
occhi del fratello, lo specchio dei suoi stessi occhi, un
briciolo di
razionalità.
Le
mani le tremavano mentre a sua volta si
aggrappava alle dita magre e nervose del fratello, serrate intorno al
suo viso,
e annuiva, gli occhi grandi spalancati dal terrore e dalla confusione.
Ynyr
era più lucido di lei, le afferrò saldamente
il polso e la trascinò con sé.
Spalancò
la porta e corse fuori casa con Sianna al
seguito. Il calore che le aveva infiammato le guancie si
moltiplicò, le parve
quasi di essere entrata in una fornace, il sudore le entrava negli
occhi e le
annebbiava la vista. Le urla la intontivano, le persone la urtavano,
suo
fratello correva, la presa ferrea sul suo polso le bloccava la
circolazione.
«Resta
presente Sianna! Sianna! Non svenire, non
lasciare la mia mano!»
Un
urlo
«Sianna!»
SPAZIO AUTRICE
Buongiorno!
Niente,
finalmente ho introdotto la protagonista
della storia, e.. nulla, spero vi piaccia! Tengo a questa storia
infinitamente,
quindi dateci un occhio anche se è lunga e ditemi seriamente
cosa ne pensate! è
il mio lavoro di una vita (sembra esagerato e invece non lo
è. Sono sette anni che
lavoro a questo maledetto intreccio, a volte credo di averlo
intrecciato
troppo) e mi piacerebbe capire se potrebbe mai essere qualcosa di
più di una
storiella abbandonata in un computer quindi... sparate a zero, senza
pietà! Ma
non siate indifferenti, per favore! =)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo secondo ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO SECONDO
«Ynyr!»
Sianna
spalancò gli occhi per ritrovarsi con la
mano tesa al vuoto e l’altra affrancata al lenzuolo, il cuore
che batteva
veloce per l’ansia dell’incubo. Ancora tramortita
sbatté le palpebre un paio di
volte, per cercare di adattare gli occhi chiari alla luce tiepida del
sole, e
si lasciò cadere nuovamente fra le coperte, sul comodo
materasso di lana.
Il
letto era caldo e morbido e lei aveva ancora
terribilmente sonno. Si rannicchiò e nascose il volto nel
cuscino, per
prolungare quel momento, le ginocchia strette al petto e le mani
congiunte
sotto la testa. Quando aveva un incubo e urlava in quel modo, di solito
suo
fratello irrompeva nella stanza spalancando la porta e poi la sgridava
perché
aveva svegliato tutta la casa, e alla fine dormiva con lei,
perché dopo un
brutto sogno di dormire da sola non era capace.
Fu
questa strana mancanza a metterla in allarme.
Il
silenzio e il profumo delle lenzuola: lavanda.
Sua madre odiava la lavanda, non l’aveva mai usata.
Si
mise a sedere bruscamente, gli occhi le bruciarono
di nuovo per la luce e dovette ripararsi il viso con la mano, mentre
una cloaca
di pensieri confusi si affacciava alla sua mente e la paura
del sogno
l’assaliva ancora.
Suo
fratello non era arrivato. Non era la fine del
mondo.
La
stanza non era camera sua. Non era la fine
del mondo.
Anche
se il panico la stava assalendo, non era la
fine del mondo.
Si
trovava in un ampio ambiente di pietra nuda. La
parete di fronte a lei era intervallata da piccoli lettini vuoti e la
luce
entrava da finestre che le parvero ferite irregolari nella pietra.
«Stai
bene ragazza?»
Sianna
si accorse, quasi con sgomento, che
il letto accanto al suo era occupato da un uomo il cui volto
era celato
da un pesante bendaggio che copriva l’occhio destro. I
capelli sporchi e sfatti
e la barba lunga, sembrava incapace di muoversi, restava immobile con
il viso
reclinato verso di lei, l’espressione vagamente
incuriosita di qualcuno
palesemente annoiato.
Annuì
per riflesso «Credo»
Un
verso stridulo le fece sussultare e alzare gli
occhi per individuare, appollaiato sulla finestra, un falco bianco
dagli occhi
grigi.
«Gael!»
esclamò e si sentì sollevata nel
riconoscere l’animale.
Gettò
le gambe oltre il bordo del letto e fece
leva con le braccia per alzarsi, ma una fitta di dolore le
impedì di muoversi e
l’arto sinistro le cedette, facendola ricadere malamente sul
materasso.
«Attenta
ragazzina… guarda che hai fatto, stai
sanguinando» la redarguì ancora lo sconosciuto,
strizzando l’unico occhio sano
per accennare al suo braccio.
Lo
sgomento per lei fu ancora più grande nel
rendersi conto che la manica della vestaglia che stava indossando era
zuppa di
sangue. dovette trattenersi dall’urlare.
Con
mano tremante fece scivolare la stoffa oltre
la spalla, non curandosi molto del pudore e dell’uomo che non
smetteva di
fissarla un solo istante, e scoprì che l’omero era
steccato e completamente
coperto da bende sporche di rosso e d’argento. Nel panico del
risveglio non se
ne era resa conto, ma ora riusciva a percepire il pulsare della ferita
e gli occhi
le si inumidirono per il dolore. E al dolore si aggiunse ancora,
terribile e
implacabile, la paura, perché non ricordava in alcun modo di
essersi ferita.
Con
più attenzione si alzò, tenendo il braccio
sinistro teso e rigido per non fomentare le fitte che le la
attraversavano come
una scossa, e raggiunse la cassa ai piedi del suo letto. Gli occhi
dello
sconosciuto non la lasciarono per un solo instante mentre, a fatica,
trafficava
con il chiavistello il più silenziosamente possibile per non
svegliare gli altri
due dormienti, le labbra torturate dai denti per trattenere i lamenti.
Come
aveva sperato all’interno della cassa ritrovò il
suo vestito, profumato come
appena lavato. Sapeva di lavanda, ma le bastò spiegarlo per
notare gli aloni di
fango e erba che non erano venute via e macchiavano il celeste acceso
della
gonna. La manica sinistra era praticamente carbonizzata, e qua e
là vi erano
bruciature piuttosto evidenti.
Sua
madre si sarebbe infuriata.
Il
braccio non la smetteva di pulsare,
tormentandola, tanto che non riusciva a credere di non essersene
accorta.
L’uomo
la fissava ancora.
«Sei
la figlia della fattucchiera, vero?» le
domandò ad un tratto.
Sianna
si accigliò «È una guaritrice»
L’uomo
accennò un sorriso di scherno «Ho sentito
parlare di voi. La strega dai capelli rossi con due gemelli biondi come
il sole
e troppo belli. I figli del demonio»
Sianna
storse la bocca «È una scemenza. Sembra una
cosa stupida solo a pensarla, a dirla diventa veramente
ridicola» ribatté
pacatamente, concentrata sul vestito. Non riusciva a piegare il braccio
senza
soffrire, non sapeva se sarebbe riuscita a cambiarsi da sola. Di certo
però non
era intenzionata a restare in quella stanza a lungo.
«E
comunque non siamo gemelli»
«Le
voci dicevano il vero però. Sei così bella da
fare quasi paura»
Sianna
inarcò un sopracciglio e finalmente alzò il
volto per incrociare lo sguardo di quell’uomo sfacciato
«La paura rende muti,
evidentemente non te ne faccio abbastanza»
Nonostante
il disgusto, sapere che quell’uomo la
conosceva era tranquillizzante: non sapeva dove si trovasse, ma
perlomeno
doveva essere vicino a casa.
«Se
la strega fosse qui forse saremmo già
guariti» continuò lo sconosciuto, quasi fra
sé e sé.
Ma
la strega non c’era.
Perché
sua madre non c’era?
Si
rialzò sospirando e afferrò con fatica i lembi
della camicia da notte di lana grezza che stava indossando.
Esitò, nel notare
il ferito ancora rivolto verso di lei, come avido di ogni suo gesto, e
le venne
un moto di nausea. Odiava quelle attenzioni, quel tipo di sguardo, uno
sguardo
che gli uomini le avevano spesso dedicato, anche quando era una
bambina, anche
quando era decisamente troppo piccola per capire e le veniva solo una
gran
paura. Si sfilò la vestaglia e la gettò sul viso
di lui, nascondendosi alla sua
vista.
«Che
diavolo stai facendo?» come aveva immaginato
l’uomo non poteva muoversi, né poté
liberarsi dalla stoffa. Più tranquilla si
dedicò a rivestirsi «È da maleducati,
guardare una ragazza che si cambia»
ribatté piccata.
Le
veniva da piangere per il dolore allucinante
che la colpì a tradimento quando
s’infilò goffamente la sottana turchina di
cotone, morbida e leggera sul braccio dolorante.
In
corrispondenza della ferita la manica era
aperta, come squartata, e bruciata e sporca di macchie che le
ricordarono il sangue.
Il
suo sangue, quel suo strano sangue fatto a
metà. Più facile fu indossare la guarnacca blu
notte senza maniche, aperta sul
davanti e sui fianchi e ornata di ricami dorati sui bordi, che strinse
semplicemente sotto il seno con una cintura di corda dorata.
Ripiegato
con cura, sul fondo della cassa
ritrovò anche il suo mantello, blu notte che sfiorava il
nero, con un ampio
cappuccio ornato di vaio, e per una ragione a lei inspiegata lo
indossò e si
coprì il capo.
Si
sentiva più al sicuro, quando era nascosta.
Così
bardata e protetta Sianna si accostò all’uomo
e lo liberò dalla vestaglia che gli copriva il viso.
«Volevi
soffocarmi ragazzina?» la accusò
questo, seccato.
Lo
ignorò.
«Sai
dove sia mia madre?»
«Nessuno
sa dove sia nessuno, ragazzina. Sono
bloccato qui dentro da settimane, non posso muovermi e nessuno si
decide ad
ammazzarmi per farla finita, e di messi come me o peggio di me ne
arrivano
tutti i giorni e tutti i giorni ne escono altrettanti con un telo sugli
occhi.
I dispersi sono anche troppi. Tu hai dormito per tanto di quel tempo
che
sembrava saresti stata la prossima e invece guardati… un
miracolo. O una
stregoneria. Sei veramente la figlia del demonio»
Sianna
boccheggiò alla ricerca di qualcosa con cui
ribattere, ma non le riuscì. Rimase confusa a contemplare il
volto dello
sconosciuto, ricolmo di disprezzo e di quella punta di paura
reverenziale
insita che conosceva molto bene, perché sotto simili sguardi
Sianna ci era
cresciuta. L’ansia crebbe anche in lei, sebbene
l’uomo non si fosse spiegato
con chiarezza qualcosa doveva essere accaduto, e semplicemente Sianna
non lo
ricordava.
Emise
un fischio sottile ed il falco bianco si
levò dalla finestra per posarsi metodicamente sul suo
avambraccio, privo di
protezioni. Se sua madre l’avesse vista si sarebbe arrabbiata
e non poco,
voleva che indossasse il guanto di pelle sempre, soprattutto quando non
era in
casa ma tra altre persone, tuttavia a Sianna la ragione di una simile
precauzione era sempre sfuggita, le unghie di Gael non
l’avevano mai ferita.
Solo quando era bambina il falco era riuscito a causarle dolore, ma con
il
tempo era come divenuta immune ai suoi artigli.
«Non
è una strega» ripeté di nuovo, una
battaglia
persa che non poteva smettere di combattere nonostante tutto. Senza
più
ascoltarlo gli diede la schiena e puntò dritta
all’uscita. La presenza
rassicurante e familiare di Gael la spinse a non dare troppo peso a
quelle
parole cattive. Si limitò a muoversi con cautela,
per cercare almeno di
risparmiare un poco l’arto martoriato.
Sianna
si richiuse la porta alle spalle con uno
schiocco secco e si bloccò di nuovo, per la sorpresa mista a
confusione.
Si
trovava in un corridoio coperto che si
affacciava su un cortile interno illuminato da una luce pallida e
smorta. Si
avvicinò al muretto basso da cui partivano colonnine
decorate e si sporse per
guardare il cielo: grigio come fumo, come prima di una tormenta di
neve, senza
nuvole, solamente compatto e cupo tanto da dare i brividi. Il sole in
quel
grigio morte ci moriva, i suoi flebili raggi riuscivano
appena ad
arrivare a sfiorare il prato verde scuro e gli alberi bassi. Sembrava
quasi che
dovesse già tramontare, nonostante fosse alto nel cielo, e
proprio questo
piccolo dettaglio le permise di tirare un sospiro di sollievo.
«Siamo
nel Regno d’Ombra» constatò tra
sé e sé,
per confortarsi.
Le
era parso di essere distante da casa, di
essersi smarrita, davvero non riconosceva nulla di familiare che
potesse
tranquillizzarla, mai il sole morto delle sue terre natie le era parso
così
desiderabile.
Sapeva
di casa.
Gael
schioccò il becco e Sianna si riscosse e
tornò a guardarsi intorno, alla ricerca di una via
d’uscita o di qualunque
essere umano in grado di dirle cosa diamine stesse succedendo senza
cercare di
spaventarla a morte o di darle del demonio incarnato. Notò
un portone di legno
incastonato nella pietra, più grande delle altre porticine
che costellavano e
ferivano le pareti e percorse la galleria per raggiungerla, desiderando
solo di
potersi appoggiare al muro per avere un sostegno. Non si era resa conto
di
quanto stesse male, di quanto si sentisse stanca. Ora, dalla stanchezza
si
sentiva pesantemente travolta e si scoprì dannatamente
debole in quel momento,
così debole che si meravigliava di riuscire a trascinarsi.
Dovette lasciare
andare Gael, perché non aveva più la forza di
sostenere anche il suo peso oltre
che il proprio.
“Tu hai dormito
tanto di quel tempo che sembravi
la prossima”.
Forse
per questo si sentiva sfinita dopo aver
mosso solo alcuni passi. Era solo la testardaggine, probabilmente, a
permetterle di avanzare con tanta tenacia. O, più probabile,
la paura, la
stessa che le aveva stretto il petto in una morsa appena si
era svegliata.
A
fatica, con il braccio che urlava il suo dolore,
Sianna si appoggiò di peso alla porta di pesante legno
massiccio appena
dischiuso e la aprì quel tanto che le bastò per
potersi infilare dentro la
stanza.
Era
come entrare nella sala d’aspetto di un
qualche nobile, essere lì dentro. Una saletta
piccola, con le
pareti rivestite da alti mobili di legno ricolmi di libri. Il
suo stupore
nel vederne tanti, assiepati tutti insieme, sostituì per un
breve istante la
sua ansia e la sua curiosità per quel posto sconosciuto, per
il suo risveglio,
per quell’uomo, per l’assenza di sua madre e di suo
fratello.
Ynyr
glielo diceva sempre, che lei era come una
farfalla. La sua attenzione si spostava continuamente senza riuscire
mai a
soffermarsi del tutto su qualcosa, leggera come una farfalla e
altrettanto
labile. Come prima si era incantata ad osservare il cielo, ora le punte
delle
sue dita stavano già scorrendo, il più
delicatamente possibile, sulle copertine
di pelle consumate. Si gettò rapide occhiate furtive intorno
e quando fu certa
che nessuno sarebbe spuntato da un attimo all’altro, ne
prelevò uno con
dolcezza, come stringesse un vero e proprio tesoro. Aveva imparato a
leggere,
anche se non benissimo, da sua madre, che da bambina aveva avuto un
maestro che
le aveva insegnato, ma in tutta la sua vita aveva visto due libri,
entrambi
troppo difficili di contenuti perché potesse comprenderli.
Accarezzò
la pelle raschiata di pecora sulla quale
era vergata una grafia elegante, contornata da miniature colorate
incise sul
foglio con un’incredibile precisione. Era veramente
meraviglioso.
Una
rapida serie di versi rauchi e nasali la fece
sussultare, di nuovo, e istintivamente Sianna ripose subito il volume
che
stringeva tra le dita candide. Gael era la sua spalla fin
dall’infanzia, e
quello era il segnale che emetteva sempre per avvisarla quando sua
madre stava
per arrivare, così che Marilien non la potesse cogliere in
flagrante durante le
sue bravate infantili.
Non
potè impedirsi di accendersi, almeno per un
istante, di speranza immediatamente soffocata. Perché
naturalmente sua madre
non c’era, e semplicemente il falco era rimasto chiuso fuori
e stava stridendo
il suo disappunto.
Sospirò
e abbandonò definitivamente quella piccola
saletta per uscire all’aria aperta. Tre gradini davanti a lei
e una stradina di
terra battuta che tagliava un prato verde e si srotolava sul lieve
pendio fino
ad un agglomerato di case contadine di argilla e fango. Faceva freddo,
anche se
era estate.
O
forse era solo lei a sentire freddo e a provare
l’impulso di rannicchiarsi il più possibile su se
stessa, se solo il braccio
non le avesse fatto male da morire. Ogni passo era una fitta, non
importava
quanto si sforzasse di tenerlo rigido.
L’aria
sapeva di erbe essiccate e sterco, di
polvere e marcio e povero. Un connubio nauseante che riuscì
a chiuderle lo
stomaco sebbene questo non avesse cessato di borbottare un solo istante
da
quando si era alzata. Quando si sforzava di ricordare qualcosa,
rivedeva solo
giornate terse e serene, eppure ora ad ogni suo passo le scarpette le
sprofondavano nel fango e il fondo del suo abito già si era
impantanato.
Segnali piuttosto evidenti di recenti temporali.
Recenti
temporali che Sianna non ricordava.
“Hai dormito tanto
di quel tempo…” Quanto
tempo?
E
suo fratello dove era stato, in quel “tanto
tempo”?
Si
bloccò di nuovo, questa volta per il panico. La
gola le si stava chiudendo e il respiro le mancava. L’unica
cosa che riusciva a
pensare era che Ynyr non c’era, e Ynyr c’era
sempre, e lei non ricordava e lo
sconosciuto parlava di feriti e di… dispersi.
E
Ynyr non c’era.
E
lei era in mezzo alla via, immobile e pallida
come un fantasma, senza il raziocinio e il coraggio necessario per
calmarsi,
per ricordarsi che forse avrebbe anche dovuto respirare, se voleva
sperare di
rivedere suo fratello, e che forse avrebbe potuto chiedere qualcosa,
qualunque
cosa, al gruppo di uomini incappucciati, vestiti di bianco che proprio
in quel
momento le stavano passando accanto, con la testa china, le mani
congiunte e i
pensieri volti ad una preghiera per un qualche dio in cui lei non
credeva.
Non
sapeva credere, Sianna, non l’aveva mai
imparato. O forse sua madre non aveva voluto insegnarle, non aveva
voluto
regalarle un illusione a cui aggrapparsi la sera, prima di andare a
dormire,
che la facesse sentire al sicuro, che la calmasse nei momenti di panico.
Nei
momenti come quello.
Sianna
aveva dovuto imparare ad aggrapparsi a se
stessa, per ritrovarsi, per essere ragionevole, e lo fece anche
stavolta,
s’inventò la ragione che non aveva per costringere
la sua gola a riaprirsi e i
polmoni a pompare nuova aria.
I
sacerdoti non la considerarono, come se non
esistesse, se fosse solo un’ombra. Lì
seguì con lo sguardo mentre si
allontanavano e tornavano all’edificio da cui lei stessa era
appena uscita, che
doveva essere un monastero.
Un
villaggio di sacerdoti, almeno ora aveva una
vaga idea di dove fosse finita, e in un villaggio di sacerdoti la
strada
principale portava sempre alla capanna dove il Sommo Sacerdote
incontrava i
postulanti, sua madre gliel’aveva spiegato quando da bambina,
all’età di cinque
anni, l’aveva portata a Lochlainn per far visita alla Signora.
L’aria
era piena delle risate impenitenti di
alcuni bambini che giocavano a rincorrersi, di donne che
chiacchieravano sulle
soglie delle misere casette, che stendevano il bucato su corde logore
tese tra
i muri. La piccola piazzola delimitata dalle capanne fatiscenti era
gremita di
persone, di animali in gabbia, di polli che giravano liberi per le
stradine di
fango, di uomini che contrattavano.
Non
aveva mai visto niente di simile, niente di
tanto povero, di così misero.
Era
tutto troppo lontano dalla sua vita, per
sembrarle vero.
Stando
immobile aveva attirato lo sguardo
incuriosito di alcuni bambini che stavano giocando con un cane ferito e
lo
punzecchiavano con dei bastoni con una crudeltà troppo
ingenua, che la
infastidì, la ferì quasi, perché
l’aveva vissuta tempo indietro.
Prima
di Hanry, prima di Daniel.
Prima
che Ynyr s’infuriasse davvero, e la
difendesse senza più pietà, crudele quanto gli
altri ma infinitamente più forte
degli altri.
Sianna
scosse il capo e affrettò il passo,
scivolando fra quei volti estranei.
Alla
fine della strada vide una capanna circolare
spiccare sulle misere abitazioni, di solido legno curato con il tetto
di paglia
rifatto di fresco, e le parve assurdamente familiare, come se in quel
posto vi
fosse già stata.
Bussò
piano, intimorita, ma le fece eco solo il
silenzio.
Attese
un istante, poi, vedendo che nessuno le
apriva, ribussò un po’ più forte.
Stavolta
la porta si schiuse mostrando una donna
di mezza età che la squadrò da capo a piedi prima
di sorridere di circostanza.
«Posso
esserti d’aiuto?»
Sianna
non seppe che rispondere, cercava nel volto
della sacerdotessa la stessa scintilla di familiarità che
l’aveva scaldata poco
prima, qualcosa a cui aggrapparsi, ma non c’era nulla per lei
lì, solo una
sconosciuta.
La
signora dovette però notare lo smarrimento sul
suo viso perché divenne più cordiale e le
aprì la porta.
«Accomodati»
Sianna
la fissò senza muovere ciglio,
immobile come una statua, mentre i suoi occhi attenti e curiosi
studiavano la
sacerdotessa e s’imprimevano nella memoria i suoi tratti.
Anche
la donna indossava un abito bianco, con i
bordi della veste ricoperti di rune dorate, i capelli raccolti in una
lunga
treccia color mogano a incorniciare un volto non troppo rugoso, ma con
profonde
zampe di gallina attorno agli occhi nocciola.
Realizzò
ad un tratto di essere stata troppo
sfacciata e di averla guardata con un insistenza al limite
dell’irriverenza e
per questo le sfuggì un sorriso congestionato.
«Io…»
Non
era mai stata brava a formulare pensieri
coerenti.
Non
era mai stata brava ad essere coerente, e in
quel frangente più che mai, con lo sguardo smarrito e i
pensieri ingarbugliati
più di una matassa di lana, persino formulare una frase
risultava un’impresa
degna di una ballata.
«Noi…
Dove è noi?»
La
donna si accigliò e Sianna divenne paonazza in
un battito di ciglia «Cioè intendo, dove siamo
noi! Cioè, dove è qui!
Dove è… casa mia…»
Doveva
essere sembrata pazza, e probabilmente lo
era davvero, non c’era altra spiegazione. Svegliarsi e non
avere Ynyr accanto
non poteva certamente essere reale, era troppo assurdo per essere reale.
«Tu
da dove vieni?»
Sianna
rilassò le spalle, dominando il nervosismo
e ignorando il solito, pungente dolore al braccio sinistro.
«Vengo da Gleann
Dubhar. In effetti non so quanto possa essere lontano da qui. Non so
nemmeno
dove sia il “qui” e questo complica un
po’ le cose» ammise con un sorriso
imbarazzato. Il suo imbarazzo crebbe ulteriormente, di fronte
all’aria
perplessa della donna.
«È
che… non ricordo molto bene» aggiunse come per
giustificarsi «Anzi, credo di non ricordare per
niente»
Come
un fulmine a ciel sereno balenò sul viso
della sacerdotessa il disagio, un rammarico disarmante che
intensificò le sue
paure.
«Tu
hai lasciato l’ospitale senza consenso, non è
vero?» la rimproverò la donna.
Sianna
dondolò sui piedi, incerta, e gli occhi
percorsero subito la strada dalla quale era venuta.
L’imponente edificio di
pietra doveva essere l’ospitale.
«Non
c’era nessuno» chiarì sulla difensiva
«Non
c’era la mia famiglia, e un perfetto sciocco vaneggiava
scemenze e mi dava del
demonio. Diciamo che questo non mi ha proprio spinto a starmene seduta
buona e
tranquilla»
Sei
la solita irriverente. Tu
i guai te li cerchi.
Avrebbe
voluto mordersi la lingua, ma ormai le
parole le erano uscite tutte senza che prendesse mai fiato tra
l’una e l’altra.
Saccente e irriverente, ecco cosa le avrebbe detto suo madre, magari
con un
bello scappellotto alla testa e un cipiglio furioso ad animare gli
occhi verdi.
La
sacerdotessa esitò, oscillando fra la sorpresa
e l’indignazione, per poi concederle un sorriso indulgente o
almeno vagamente
cordiale, di facciata.
«C’erano
altri, insieme a te, quando sei arrivata.
Ritengo più opportuno che siano loro a spiegarti la tua
situazione, perciò
ritorna all’ospitale. In queste condizioni non saresti mai
dovuta uscire»
Accennò
al suo braccio e Sianna vide che la stoffa
di quella che una volta era stata una manica, tempo prima, era zuppa di
sangue,
il colore scuro della tintura ne nascondeva la sfumatura rosso argentea.
«Ha
ragione, mi scusi per il disturbo»
La
Signora annuì e la congedò chiudendo la porta,
lasciandola esitante su quella soglia, senza sapere cosa fare.
Alzò il viso al
cielo solo per vedere Gael che l’aveva seguita, a distanza,
discretamente. Da
quando gli aveva salvato la vita, quel falco era il suo
compagno più
fedele, una guida che le aveva permesso infinite volte di non
perdersi.
Il
dolore al braccio e lo stomaco contratto.
«Gael» sussurrò, e quasi colse una
sfumatura accorata nella sua stessa voce
«Vorrei tanto che portassi Ynyr da me, questa volta»
Suo
fratello non aveva mai avuto bisogno di guide,
per raggiungerla, la trovava con una facilità frustrante,
mentre lei per
ritrovarlo doveva sempre imbrogliare, lui era troppo sfuggente.
Ritornò
sui suoi passi rimproverandosi di non aver
aspettato che qualcuno andasse da lei, ma alla fine restare immobile in
attesa
non era nella sua natura.
Il
monastero era l’unico edificio di pietra e si
ergeva alto al di sopra di tutti i tetti di paglia umida e marcia. La
facciata
era decorata ad archi rotondi e colonnine sottili e il
portone di legno a
distanza sembrava ancora più imponente, intagliato con
immagini sfocate di
divinità e miti. Il secondo piano anche era ornato di archi
e l’ombra di
qualche sacerdote attraversava il corridoio come uno spirito
evanescente,
rapida ed elegante.
Si
muoveva con la circospezione di una ladra, in
parte temendo di essere cacciata se qualche sacerdote
l’avesse vista e
non l’avesse riconosciuta come ospitata, in parte
perché non aveva voglia di
essere nuovamente rimproverata per essere uscita senza chiedere il
permesso. In
fondo però dubitava seriamente che a qualcuno lì
importasse di lei.
Solo
suo fratello si era davvero curato di lei,
non l’avrebbe mai lasciata. La sola idea che
potesse averlo fatto le
faceva salire il pianto, la faceva sentire sola per davvero, e sola non
lo
voleva essere.
Si
sfregò le palpebre con forza, per evitare di
cedere alle lacrime senza una ragione. Era ridicolo piangere in quel
modo,
senza dignità, a causa di un pensiero partorito
esclusivamente dalla sua
testa.
Quando
ormai fu giunta sulla soglia
dell’edificio un urlo la fece trasalire e alzò di
scatto il volto arrossato.
«Sianna!»
Non
fece in tempo a voltarsi che venne
letteralmente travolta da una ragazza che
l’atterrò strappandole
l’ennesimo lamento di dolore.
Subito
la figura si distaccò ma non ebbe bisogno
di vederla in viso per riconoscerla.
«Maledizione
Kea mi hai fatto malissimo! Che
cavolo ti è preso?»
Kea
le sorrise raggiante «Che cavolo prende a te
semmai! Mi sei mancata serpe, avevo paura che non ti saresti
più svegliata»
La
sua migliore amica si scostò il lunghi
capelli neri, liscissimi e setosi che le arrivavano appena oltre la
spalla,
rivelando due altrettanto oscuri occhi arrossati e lucidi di pianto
trattenuto
e due pesanti borse violacee per il sonno perso.
Kea
era una dura in superficie, era l’amica che la
trattava male, sbuffata, sollevava le spalle e le sopracciglia e le
chiedeva,
con esasperazione “Ma io cos’ho sbagliato con
te?”. In realtà però era fragile
come fine porcellana, delicata proprio come il suo aspetto lasciava
intendere,
e sempre lei che la malediva un giorno sì e
l’altro pure era la stessa capace
di piangere come una sciocca quando Sianna partiva con sua
madre e suo
fratello, anche solo per qualche giorno, e che l’accusa
sempre con un “Non mi
vuoi abbastanza bene. Sei un idiota”, anche se sapeva che
sarebbe ritornata di
lì a breve. Sianna si gettò al collo
dell’amica, ignorando le fitte di protesta
del suo braccio, ed una tragica sensazione che qualcosa
d’irreparabile
fosse accaduto le colpì lo stomaco con la violenza
di un pugno, un
sentimento estraneo a lei che con prepotenza si stava
insinuando dentro
di lei.
Un
sentimento che proveniva da Kea, Sianna li
percepiva sempre i sentimenti di Kea, erano come un ariete a volte, le
sfondavano la cassa toracica e le toglievano il fiato, sempre troppo
intensi,
troppo dolorosi, e Kea che era incredibilmente minuta, alta un soldo di
cacio e
sottile come un giunco, riusciva a nasconderli agli occhi del mondo,
agli occhi
di chiunque tranne Sianna.
C’era
odore di fuoco, nella paura della sua
migliore amica, lo stesso fuoco che Sianna aveva sognato, e urla
frastornanti
che la intontirono e la fecero sentire nuovamente smarrita.
«Non
possiamo sbagliare a non controllarti per
qualche ora che tu subito scappi»
l’apostrofò Lisanda, sopraggiunta insieme
alla gemella Iris e alla piccola Marion che subito si lanciò
su di lei per
creare un abbraccio di gruppo che quasi la soffocò.
«Va
bene, ho capito, c’è tanto amore
nell’aria! Ma
ti prego… Mari non respiro! Ahi!»
Marion
assottigliò i grandi occhi verdi «Come se
respirare fosse la cosa più importante, egoista»
«Se
bastava lasciarti sola per far sì che ti
svegliassi avremmo dovuto piantarti in asso fin dal primo
giorno»
«Siamo
le solite ingenue, ci preoccupiamo per lei
e ci dimentichiamo che ha più vite di un gatto»
concluse Iris sollevando gli
occhi al cielo.
Sianna
si scostò da Mari e Kea per guardare le sue
amiche una ad una: il pallore di Kea, denso come ceramica bianca,
contrastava
incredibilmente con la sua chioma nera come ali di corvo e ancora di
più con i
suoi occhi, anch’essi neri, che ingoiavano la pupilla.
Sembravano due profondi
buchi in grado di risucchiare qualunque cosa; le gemelle Iris e
Lisanda, la
stessa immagine riflessa allo specchio, i visi tondi dai tratti dolci,
gli
occhi grandi leggermente a mandorla, di un singolare nocciola che
virava al
grigio, i capelli biondo cenere e la pelle dorata,
un’abbronzatura naturale che
avevano sempre avuto; infine Marion, la piccola zingara del gruppo,
gitana nel
sangue e nei vestiti sempre troppo osceni, di stracci e sete colorate,
con la
sua pelle bronzea, gli occhi orientali di giada che ricordavano le
gemme in
Earrach, la sua fronte sporgente e spaziosa, ed i capelli castano
dorati, che
contrastavano con le sue origini zingaresche. Le sue amiche erano nane
per
vocazione, non poteva essere altrimenti, erano tutte incredibilmente
basse,
sembravano bambine, anche se Mari bambina lo era davvero con i suoi
dodici anni.
Sianna
tirò un sospiro di sollievo, se tutte loro
erano presenti la situazione non doveva essere troppo fuori controllo.
«Perché
siamo qui?»
La
tensione con cui le ragazze si guardarono tra
loro, come alla ricerca delle giuste parole, le fece rimangiare il suo
ultimo
pensiero. Lisy tossicchiò, abbassando lo sguardo, e cinse le
spalle di Iris con
un braccio in un gesto protettivo, Marion si sfregò gli
occhi stanchi, ma fu
Kea a parlare per tutte, fissandola seria negli occhi.
«Sianna,
devo dirti una cosa. So che dovrebbe tuo
fratello, ma lui…»
Sianna
sentì il sangue defluirle completamente
dalla vene e gli occhi le si inumidirono all’idea che la
brutta sensazione che
aveva accompagnato il suo risveglio riguardasse proprio il fratello.
«Ynyr
sta bene vero?» l’aggredì afferrandole
il
braccio e stringendolo con più forza del dovuto, la voce le
tremava per il
panico «Perché non è qui?
Dov’è? Lo sapevo che gli era successo qualcosa,
prima
l’ho chiamato e lui non c’era… non
è venuto! Lui viene sempre!»
Kea
l’afferrò per le spalle e la scosse
«Calmati, per
Nehalennia, fammi almeno parlare! Ynyr sta benissimo Sianna, non
è per lui che
ti devi preoccupare»
Senza
accorgersene una lacrima le era scivolata
tra le ciglia. Kea le stava sorridendo debolmente e si sentì
tremendamente
stupida, ad essersi spaventata in questo modo. D’altro canto
la situazione
anomala di certo non stava aiutando i suoi nervi.
«È
qui con noi, è stato Ynyr a portarti qui»
chiarì Lisy.
L’adrenalina
l’abbandonò rapida come era andata a
formarsi e Sianna si lasciò andare completamente sdraiandosi
supina sul
lastricato della galleria. Stava diventando catastrofica a dare retta
al suo
istinto, a quel nodo nello stomaco che la tormentava e le dava
l’impressione
che il mondo fosse finito mentre lei dormiva.
Le
ragazze le sedevano attorno e la studiavano,
stranamente caute, ma si convinse che era lei a volerle vedere inquiete
ad ogni
costo.
«Mi
hai spaventata a morte» rimproverò la sua
migliore amica con l’espressione più truce che le
riuscì di fare. Sospirò e si
risollevò da terra, le sue amiche angosciate lo sembravano
davvero, e di nuovo
la colpì quella sensazione che sapeva di avvertimento, alla
bocca dello
stomaco. Si accigliò e fisso confusa i bellissimi volti che
la osservavano come
se avessero ancora molto da dire.
«Sianna»
kea esitò «Tua madre è morta»
ANGOLO AUTRICE
Ed
ecco il terzo, spero s'inizi a capire qualcosa!
E visto che due giorni fa era il mio compleanno, che so, regalatemi una
recensione! Io ci spero sempre! La storia è molto lunga e
complicata, ma spero
non desistiate!
Eh...
beh a presto spero, più recensioni ricevo
più sono invogliata a postare velocemente!
PS:
lo so, il disegno è pessimo, ma è stato il
primo disegno che ho fatto di Sianna, ormai qualcosa come sette anni fa
e...
anche se non sapevo fare i nasi ci tengo un sacco ecco! e visto che mi
piace
quando gli altri autori mi fanno vedere come s'immaginano i personaggi,
ho
pensato che potesse far piacere anche a voi! =)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** capitolo terzo ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO TERZO
Non aveva più detto nulla, le aveva
guardate con smarrimento e semplicemente loro l’avevano
capito, che lei non era
più presente, non per davvero.
L’avevano
fatta rialzare e l’avevano portata di
nuovo nell’ospitale. Poi Lisanda si era allontanata ed era
ricomparsa dopo più
di mezz’ora con una donna di piccola statura, con i
capelli neri raccolti
in una treccia ordinata e l’abito azzurro da sacerdotessa.
Eireen,
aveva detto di chiamarsi. Le aveva tolto
il bendaggio, aveva spalmato un cataplasma dall’odore acre
sulla sua ustione e
poi le aveva steccato il braccio «Perché ti muovi
troppo». Forse le aveva anche
sorriso.
Sianna
non lo ricordava.
D’improvviso
si sentiva veramente stanca e voleva
solo dormire, ma gli occhi non si chiudevano e allora restava in
silenzio,
mentre le sue amiche, raccolte attorno al letto, aspettavano solamente
che si
decidesse a sciogliere quella tensione, che provasse almeno a dire
ciò che le
passava per la mente.
Sianna
però non pensava nulla e se provava a
pensare sbatteva contro un muro di totale indifferenza.
«Esattamente
dove è qui?» domandò ad un tratto.
La
sua voce atona fece venire i brividi a Kea
«Siamo
a Lochlainn» mormorò cauta Lisy, sembrava
quasi che stesse trattando con un animale potenzialmente pericoloso e
dovesse
ammansirlo «È il villaggio di Korakas. Hanry,
Daniel e Will ci hanno portate
qui quando…» non riuscì a proseguire
perché la voce le si incrinò.
In
un attimo comprese perché la capanna della
Somma Sacerdotessa le fosse familiare: era la stessa nella quale aveva
giocato
da bambina con Hanry.
«Quando?»
incalzò l’amica.
Aveva
sognato case in fiamme, aveva visto il
terrore d’Ynyr, aveva sentito l’odore sferzante del
fumo. Non aveva bisogno che
le venisse spiegato nulla, aveva già capito, ma voleva
comunque sentirselo
dire. Volevo renderlo vero.
«Non
ricordi l’incendio? Ci hanno attaccati, hanno
distrutto tutto. Sembravi morta» spiegò
Iris.
«Pensavamo
che saresti morta» asserì Mari, triste.
Anche la zingarella aveva gli occhi rossi di chi aveva pianto a lungo.
«Sarebbe
dovuta essere morta» la voce roca
dell’uomo ricoverato accanto a lei spezzo le voci armoniose
delle sue amiche e
la disturbò. Non si volse a guardarlo, continuò a
tenere gli occhi
puntati sul vuoto davanti a sé.
«Oh
Irwin per la miseria, taci!» proruppe Lisanda
«Ci hai stancate»
«Avete
salvato il demonio, sarete la causa della
nostra rovina» Insistè quello e in un moto di
lucidità Sianna provò seriamente
l’impulso di soffocarlo, di mostrargli il demonio per
davvero, se ci teneva
tanto ad incontrarlo.
«Se
insisterai chiamerò suo fratello» lo
rimbeccò
semplicemente Iris e per qualche motivo inspiegato Irwin
borbottò parole sconnesse
e smise di parlare.
La
mano nervosa di Ynyr stretta al suo polso, la
voce di lui che urlava il suo nome.
I
grappoli di luce che avevano circondato la valle
e illuminato la notte.
In
fondo ricordava anche troppo.
Abbozzò
un sorriso compassato «Ehi lo sapete, sono
la figlia della strega, no? Non c’è motivo di
preoccuparsi per me»
Marion
annuì, sorrise, si morse le labbra e
trattenne un singhiozzo, le iridi verdi già lucide. Era
così piccola da fare
tenerezza, così indifesa che Lisanda non potè
fare a meno di attirarla a sé e
stringerla, come faceva sempre con la gemella.
«Andrà
tutto bene» le bisbigliò invece Iris,
scompigliandole i capelli.
Lo
disse con la calma chirurgica di chi è abituato
a ripetere la stessa frase all’infinito e probabilmente era
stato così, con la
sua innaturale compostezza doveva aver tentato di consolare la piccola
del
gruppo infinite volte.
Kea
rimaneva in attesa accanto a Sianna, a disagio
perché non sapeva come aiutarla. Era sempre stato
così fra loro, era Sianna la
sorella maggiore tra le due, era Kea che in realtà
necessitava disperatamente
di conforto e il conforto lo aspettava solo da lei.
Sianna
però si sentiva terribilmente vulnerabile e
inadeguata in quel momento, come una barca alla deriva dopo un
naufragio, e non
le importava di essere egoista, di essere crudele a lasciare sola la
sua
migliore amica, riusciva a pensare solo a se stessa e a suo fratello,
non era
in grado di aiutare nessun altro.
Non
stavolta.
«Voglio
Ynyr»
Era
una delle poche frasi che aveva pronunciato
nel pomeriggio. L’unica cosa a cui riusciva a
pensare era suo fratello,
solido, freddo e sarcastico e meschino. Finché non
l’avesse avuto davanti senza
un graffio e in perfetta salute non sarebbe riuscita a darsi pace.
Kea
sbuffò esasperata «È nell’ala
maschile, con i
sacerdoti. Non possiamo andare a chiamarlo» le
ripetè di nuovo.
Sianna
sollevò il viso alla ricerca di quello
dell’amica, e dietro all’apatia Kea
riuscì a leggere la sua ferita.
«Lo
vedrai stasera» aggiunse, come a mitigare
l’assenza che la stava tormentando.
Sianna
annuì ancora, per abitudine.
Doveva
distrarre Kea, per tranquillizzarla, doveva
distrarre Mari dal suo dolore, Iris e Lisy… doveva distrarre
anche se stessa,
ma era difficile farlo bloccata in un letto con un corpo debole che gli
si
rivoltava contro e rifiutava di reggerla.
Lei
non era un’anima tranquilla, era
l’inquietudine fatta a persona, era ingestibile, era questo
che sua madre le
ripeteva sempre, che era fuoco, aria, terra e acqua, che era selvatica
più di
ogni elemento, che li racchiudeva tutti in sé e per questo
era così difficile
educarla o anche solo trattenerla.
Eppure
tutta quell’energia adesso dov’era finita?
Se
non le riusciva di alzarsi, di correre fuori da
quella stanza di pietra fredda e umida e urlare e prendere a calci
qualcosa,
qualunque cosa, se non poteva stringere Ynyr e piangere allora
ciò che era
accaduto non era reale.
«Sianna»
la voce di Kea era un sussurro. Aveva
sempre pensato che l’amica avesse una voce bellissima,
flautata, fatta apposta
per cantare, non per essere oppressa dal dolore e
dall’impotenza.
La
guardò appena, senza vederla veramente, non
riusciva a focalizzarsi davvero su nulla, ma quello sguardo le
bastò per
comprendere che era lei stessa a frustrare la sua migliore
amica. Lei che
non parlava, che taceva e continuava a guardare il vuoto.
«Credo
di avere sonno» disse pacata, deviando di
nuovo gli occhi lontano dalle iridi nere della sua migliore amica,
lontano
dall’accusa che vi leggeva e di cui non le importava nulla.
Niente
era importante, neanche essere forte. Non
c’era motivo di essere forte, non c’era motivo di
consolare nessuno. Non era
accaduto niente, anche Ynyr l’avrebbe confermato, ne era
sicura. Non aveva
ragione di parlare con loro, non finché il fratello non
avesse chiarito tutte quelle
assurdità.
Mari,
singhiozzando, inspirò rumorosamente con il
naso.
«Hai
solo questo da dirci?» sbottò Lisanda,
richiamandola con una pacca sulla gamba.
Sianna
le dedicò uno sguardo pigro e indolente.
Lisy
sbiancò e Iris le mise una mano sulla spalla
e scosse la testa, prima di rivolgersi a lei e sorriderle.
«Ti
lasciamo dormire allora. Se hai bisogno siamo
qui fuori»
«Io
resto» disse subito Kea.
«Non
è necessario» disse Sianna
istintivamente. Una parte di lei si pentì di averlo detto
nello stesso istante
in cui il suono aveva preso forma. Con quelle tre semplici parole aveva
ferito
Kea più che con ogni silenzio.
Gli
occhi neri più delle notti senza stelle e
senza luna divennero lucidi istantaneamente e la ragazza fece un
sorriso
compassato «come preferisci»
Avrebbe
voluto richiamarla, richiamarle tutte e
dire loro quanto le dispiaceva. Non voleva restare sola, ma farle
restare per
poi trattarle con indifferenza sarebbe stato un atto ancora
più egoista.
Così
fissò le loro schiene mentre una dietro
l’altra scomparivano, lasciandola nel gelido silenzio che
aveva cercato e che
ora le penetrava fin nelle ossa facendola tremare.
Non
seppe dire se di freddo o di paura.
Si
cinse con l’unico braccio sano, tentando di
contenere i tremori, e rimase immobile, senza riuscire a dormire e
senza
riuscire a pensare.
Una
statua.
Forse
Irwin aveva cercato di parlarle, qualche
volta, ma Sianna non l’aveva sentito.
Anche
il sangue aveva smesso di scorrere… doveva
essere così, perché si sentiva fredda e pesante,
morta. Rimase rigida nella
stessa, scomoda posizione per quelli che le parvero attimi ma che si
rivelarono
ore, perché quando la porta dell’ospitale venne
riaperta ormai era buio.
Una
sacerdotessa giovane, dal volto severo quanto
l’abito austero e la treccia ebano che le ricadeva sulla
spalla, si fece
avanti, seguita dalle sue amiche.
Era
sempre la stessa donna che l’aveva
curata e di cui aveva già scordato il nome.
«Posso
vedere Ynyr?»
Dovette
schiarirsi la voce, troppo roca per il
troppo tacere.
Kea
la guardò e sorrise, scuotendo la testa, come
a dirle “sei sempre la solita”. Non era vero che
non aveva pensato, si era
concentrata completamente solo sul suo volto in verità. Era
l’unica cosa che
riuscisse a calmarla, il viso del fratello, anche con quei suoi occhi
gelidi di
ghiaccio e neve, anche con la sua espressione ostile e distante, il suo
atteggiamento dispettoso e il sorriso sornione.
La
sacerdotessa controllò la benda e annuì
«Per
stasera hai il permesso, le tue amiche mi hanno già
supplicato per te. Ma poi
dovrai startene qui dentro buona e tranquilla, o questa ferita non
guarirà»
«Va
bene» si affrettò ad accettare gettando le
gambe oltre il bordo del letto. A piedi scalzi sentì la
pietra gelida e
irregolare grattarle la pelle.
Uscì
quasi scortata, con Lisy e Iris da un lato e
Mari e Kea dall’altro che la conducevano al refettorio. Il
sole era tramontato
lasciandosi alle spalle solo uno sfumato color vinaccia, e il buio si
stava
stendendo come un telo sul chiostro, in maniera impercettibile, sinuoso
come un
rivolo d’acqua fra le rocce.
Il
refettorio era costituito da tre grandi
campate, illuminate da fiaccole intervallate lungo il muro e
completamente
prive di decorazioni. Un solo camino, acceso per fare luce
più che per
scaldare, dato che erano all’inizio di Samhradh, era posto
sul fondo della sala.
Il
resto dell’arredamento era limitato a tavolate
di legno grezzo accompagnate da semplici e spartane panche: due tavoli
adiacenti ai muri portanti e lunghi altrettanto e un terzo
più piccolo
perpendicolare agli altri, situato vicino al camino. Vi fluivano
all’interno
sia i sacerdoti che le sacerdotesse, che condividevano
l’ambiente ma sedevano
in tavolate distinte. Sianna storse il naso quando
sentì il nauseante
odore delle candele di sego disposte a intervalli regolari
sui tavoli. Sì
sistemò nell’angolo più vicino
all’entrata insieme alle amiche, con i nervi a
fior di pelle per l’attesa. Inseguiva ogni nuovo volto che
faceva capolino dal
vano della porta e bofonchiava ogni volta che non riconosceva quello
tanto
sospirato.
Nonostante
la regola di divisione non si
stupì di vedere un gruppo di ragazzi andare dritti verso il
tavolo delle
sacerdotesse per accomodarsi di fronte a loro. Le nacque spontaneo un
sorriso
davanti a tutti loro e, finalmente, si sentì sollevata.
Hanry, Will, Daniel, i
suoi amici d’infanzia, e tra tutti loro suo fratello.
Ynyr
aveva solo quattordici anni ma non riusciva a
dimostrarli, sembrava sempre troppo grande per la sua età,
alto quanto i druidi
che lo scortavano, i capelli d’oro rosso mossi e spettinati,
il sorriso
sbilenco sul suo viso sottile e il naso dritto vagamente imperfetto
perché da
bambino era caduto dalle scale e l’aveva rotto.
Il
sollievo si spense in un battito di ciglia
quando realizzò che il perfetto viso di suo fratello era
deturpato da un brutto
ematoma viola sfumato nell’argento che circondava un taglio
sanguigno sullo
zigomo, da un abrasione sul mento ricoperto da una crosta molliccia e
dal
sopracciglio spaccato che non gli permetteva di aprire bene
l’occhio destro.
Un’ondata
di panico la travolse, si sentì tremare
e subito fece per scattare in piedi, ma un capogiro la colse a
tradimento e si
accasciò di nuovo sulla panca con un imprecazione soffiata
tra i denti.
Anche
il labbro inferiore era squarciato, ora che
era abbastanza vicino perché potesse notare ogni dettaglio
della sua figura.
Ynyr
accennò un sorriso stanco e una grossa goccia
argentata si profilò dalla ferita.
Con
calma apparente si accomodò accanto a lei, le
prese la mano che non smetteva di tremare e sospirò
«Sei sveglia» con un tale
sollievo che le parole le morirono in gola e non riuscì a
guardarlo negli occhi.
Si
mordicchiò il labbro e constatò
«Ti sei
fatto male»
Riuscì
a strappargli un sorriso beffardo e freddo,
una piega familiare che per una volta non la ferì.
«Illuminante.
Tu pensi di essere uno splendore?»
La
guardava dall’alto della mezza spanna in più,
con una sorta d’irriverenza irritante.
«Sai,
sembra che stessero per farmi a giro
arrosto. Se ci pensi dovrei essere messa molto peggio»
Le
labbra d’Ynyr scoprirono i denti in un sorriso
quasi ferino, sornione, di quando diceva qualcosa e allo stesso tempo
la teneva
per sé.
«Fai
dell’ironia, bene. Non che mi meravigli, non
mi aspettavo certo che sfiorare la morte ti avrebbe resa più
sveglia e meno
fastidiosa»
Sianna
osservò le loro mani, le dita intrecciate,
e sospirò di sollievo e delusione insieme.
Suo
fratello stava bene, nonostante tutte le
ferite che lo deturpavano, e anche il suo caratteraccio era rimasto
immutato,
forse perfino peggiorato. Alzò le loro mani costringendolo a
guardarle
«Suppongo
che non avrò più di questo» lo
accusò.
Ynyr
scrollò le spalle con noncuranza e la ignorò,
ma la sua postura era rigida, e il tono di voce forzatamente neutro.
«Non
mi sembra tu abbia bisogno di altro» le dita
di lui si contrassero attorno alla sua mano sana e Sianna, anche
volendo,
dovette farselo bastare.
Quella
freddezza era la vendetta personale di suo
fratello per averlo fatto preoccupare, nulla che non fosse prevedibile,
anche
se faceva male ogni volta.
Ai
suoi occhi Ynyr era incredibilmente forte,
intoccabile e irraggiungibile. Ferirlo era quasi impossibile e non gli
importava di nulla, ma le voleva bene, troppo, e per questo non la
perdonava
mai, perché Sianna sapeva di essere una delle sue poche
fragilità e se faceva
qualcosa che glielo ricordava lui la puniva.
Lei
era responsabile del suo dolore, sempre.
«Non
mi dirai come stai e cosa ti è successo,
vero?»
Avrebbe
voluto sfiorargli e curargli ogni
abrasione, ma l’unica mano con cui avrebbe potuto farlo era
imprigionata in
quella di lui.
«Domanda
stupida. Risposta scontata»
Sianna
inghiottì il desiderio di prenderlo a
sberle.
«E
non mi spiegherai nemmeno cosa è successo a
noi» constatò con frustrazione.
«Sei
viva. Respiri, io respiro, loro anche.
Dimentica il resto, sapere non ti servirebbe a nulla.»
Delle
ancelle passarono di tavolo in tavolo
riempiendo le ciotole davanti ai convitati di minestra e Sianna
lasciò cadere
la polemica. Avrebbe chiesto alle sue amiche quando il fratello fosse
stato
lontano, ma avrebbe preferito poterne parlare con lui. Il suo modo di
proteggerla era snervante come poche cose.
Le
diedero del pane d’orzo raffermo e troppo duro,
che fu Ynyr a spezzare per aiutarla.
Hanry
era seduto davanti a lei e ancora non le
aveva detto una parola, la osservava solamente mentre Sianna lottava
per
spezzare in bocconcini più piccoli i pezzetti di pane
preparati dal fratello
per poi immergerli nella brodaglia, nella quale alcuni già
galleggiavano
affondando sempre di più oltre il profilo del
piatto.
«Sei
un disastro» le fece notare alla fine l’amico.
«Sei
un’incapace» l’apostrofò Ynyr
notando la
quantità spropositata di briciole che stava disseminando
tutte attorno. Le
sfilò malamente il cibo di mano prima che Hanry potesse
sporgersi verso di lei
per aiutarla.
«Guarda
che mi sento impedita se fai così!» lo
rimbeccò cercando, con la mano sana, di raggiungere il
panino che il fratello
teneva in alto, a debita distanza.
«Tu sei impedita.
Smettila» la bloccò
mettendole una mano sulla testa per allontanarla «Tanto non
te lo rendo»
Sianna
sbuffò come una bambina infastidita e gli
fece una linguaccia «Sei odioso. Non ti sopporto»
bofonchiò.
Ynyr
le sorrise strafottente «E tu sei un’incapace
e mangi come una bambina di cinque anni»
«Ehi!»
s’indignò mostrando il braccio fasciato con
costernazione «Fa male! Sono giustificata!»
Si
pentì di averlo detto quando vide gli occhi
d’Ynyr adombrarsi, davanti a quella ferita.
In
quel momento il suo senso di colpa fu
interrotto da Kea che stava chiedendo a Daniel «Non hanno
ancora notizie di
Korakas?»
Smise
di fare i capricci per prestare ascolto al
discorso degli altri amici e cercare di fare almeno il punto della
situazione.
Si volse verso Daniel, incuriosita e preoccupata al contempo.
Korakas
era in pellegrinaggio a Gleann Dubhar in
quei giorni, gli ultimi ricordi che aveva di quella sera la
riguardavano.
Probabilmente era morta.
Erano
morti tutti.
Era
morta anche sua madre.
E
suo fratello le aveva detto che non doveva
sapere nulla, come se non fosse successo niente.
Si
portò una mano allo stomaco e si sforzò di
trattenere
il conato di vomito che la colpì a tradimento. Stando
lì seduta con tutte le
persone che avevano fatto parte fin dall’infanzia della sua
vita, sembrava
ancora più improbabile che veramente sua madre non sarebbe
ricomparsa.
Ynyr
la studiò ancora un istante, poi le cinse le
spalle e la attirò a sé, poggiando la guancia fra
i suoi capelli.
«Non
ci pensare» le sussurrò piano «Non devi
preoccuparti»
Suo
fratello era stranamente rigido e innaturale
in quella posizione.
Daniel
si era chinato in avanti, in modo tale che
solo il loro gruppetto potesse ascoltare «Qui nessuno sa dove
lei fosse. La sua
assenza prolungata sta sollevando molte domande però,
soprattutto perché siamo
ricomparsi senza di lei. È questione di tempo prima che la
verità venga a galla»
«Perdere
la nostra Somma Sacerdotessa sarà un duro
colpo» aggiunse William con una certa rassegnazione.
Hanry
la guardo laconico «Non ci vedremo per un
po’»
Sianna
si accigliò ed anche Kea rimase
confusa da quel commento.
«Voi
cosa c’entrate?»
Hanry
e Daniel si lanciarono il loro consueto
sguardo d’intesa, un tacito accordo che invitava Daniel a
parlare per
entrambi.
«Noi
siamo i suoi guardiani. Avere cura di lei è
il nostro dovere, siamo responsabili della sua sicurezza. È
già accaduto in
passato che ci permettesse di rientrare senza di lei, per questo ancora
non
siamo stati puniti. Quando si renderanno conto che Korakas non
tornerà le cose
per noi non saranno semplici» spiegò il ragazzo,
per poi stropicciarsi gli
occhi in un gesto nervoso e preoccupato.
In
fondo era ovvio che se fosse accaduto qualcosa
alla Somma Sacerdotessa i due ragazzi sarebbero stati ritenuti
responsabili, ma
proprio non poteva pensarci, a loro sotto processo.
Erano
molte, quel giorno, le cose a cui non voleva
assolutamente pensare. Non aveva la forza di gestire tutto.
D’un
tratto, i sacerdoti cominciarono ad
abbandonare i loro posti e Sianna, imitando i compagni. si
rialzò, aiutata dal
fratello a scavalcare la panca senza inciampare.
«Noi
ci vediamo domani» la salutò Kea, seguita da
Iris e Lisanda. Marion sventolò la mano e le sorrise
incoraggiante «Non farti
di nuovo male!»
Allibita
le vide allontanarsi e urlò loro «Dove
state andando?»
Hanry
l’acchiappò prima che potesse seguirle.
«Loro sono ospiti nella foresteria, tu sei ferita. Devi
tornare all’ospitale»
«Ma
io…»
«Eireen
non ti lascerà uscire nuovamente. Questa
sera era una concessione speciale, solo per vedere lui»
chiarì Daniel indicando
suo fratello, in piedi accanto a lei come un’ombra annoiata.
Sianna
gonfiò la guancia in un moto d’irritazione
«Sto benissimo, non ho intenzione di…»
William
la interruppe, anche lui con il tono
condiscendente colmo d’indulgenza che si usa solo con un
bambino testardo
«Sianna hai perso molto sangue, sei ferita e potresti ancora
correre grandi
rischi. Non è una cosa che puoi evitare»
Ynyr,
che non aveva detto una sola parola e
nemmeno aveva mutato espressione, sollevò gli occhi al
soffitto, agguantò la
sua mano e le fece capire di seguirlo.
«Buonanotte
Sianna» le augurò Daniel, prima di
andarsene, seguito da Hanry che si limitò ad un cenno del
capo e da Will, che
le sorrise raggiante.
Vedere
il gruppo disfarsi pezzo per pezzo le fece
montare dentro l’angoscia di rimanere da sola.
Ripercorse
in silenzio la galleria seguendo suo
fratello e attraversò il chiostro fino a ritrovarsi davanti
alla porta dalla
quale era scappata quella stessa mattina.
Ynyr
si fermò «Qui non posso
entrare» le
disse semplicemente.
Non
era molto più alto di lei, ma più freddo e
forte, quello sì. Perché Sianna di restare sola
aveva paura, che lui si
allontanasse poi le scatenava un puro terrore, per tutta la giornata
non aveva
desiderato altro che stare con lui, perché con suo fratello
tutto diventava
sopportabile.
Quando
Ynyr fece per allontanasi lo trattenne
affrancandosi con inaspettata forza a quella mano che stava scivolando
via
dalla sua.
Stava
tremando di nuovo, e non aveva freddo.
Ynyr
la guardò da sopra la spalla, lo vide esitare
di fronte allo sconforto che doveva averle letto in volto, ma alla fine
si
volse e la abbracciò. Sianna si affrancò al suo
corpo flessuoso e sottile con
tutta la sua forza e lo sentì contrarsi di nuovo e
irrigidirsi al suo tocco.
Ynyr
però non l’allontanò.
«Ti
vedrò domani, vero?»
Un
momento di silenzio di troppo, poi suo fratello
la scostò.
«Non
ne sono certo»
Sianna
era abituata ad addormentarsi con lui, a
svegliarsi la mattina e, come prima cosa, vederlo. Già la
sola idea di
separarsi su quella soglia le era insopportabile, non vederlo il giorno
seguente sarebbe stato una tortura. Ynyr si chinò e la
baciò delicatamente
sulla fronte.
«Tra
due giorni ci sarà una commemorazione. Mi
vedrai allora. Buonanotte sorellina»
Sianna
poté sospirare solo la sua resa davanti
all’implacabilità di suo fratello.
«Buonanotte»
Nell’istante
in cui la porta si chiuse alle sue
spalle si sentì mancare.
Aveva
mentito dicendo che non era stanca solo
perché rivedere Ynyr era più importante di tutto
il resto, ma si sentiva debolissima.
Si lasciò cadere di schiena a peso morto sul letto,
illuminato fiocamente dalla
pallida luce delle stelle che faceva capolino dalla finestra. Quella
notte il
cielo era carico di stelle, si scorgevano benissimo anche dalla
posizione in
cui si trovava, come infinite schegge di vetro sospese nel vuoto.
Quella
tiepida luce fu oscurata dalla sagoma di un
uccello rapace di media dimensione che si posò piano sul
davanzale. Gael era
tornato dalla caccia notturna.
Vedendo
il falco si sentì meno sola. Si sfilò le
calzature e, senza alcuna voglia di spogliarsi,
s’infilò sotto le
lenzuola leggere, supina per continuare a godere del tiepido cielo di
Samhradh
prima di addormentarsi.
Si
portò le mani sotto la guancia e la scoprì
umida di pianto.
Stava
piangendo, non aveva avuto voglia di altro
per tutto il tempo e non l’aveva capito.
Non
c’era più nulla, non c’era
più sua madre… non
aveva potuto nemmeno dire addio. Semplicemente, si era svegliata e
tutto era
diverso. Rimpiangeva di essersi svegliata più di qualunque
cosa, rimpiangeva il
non poter sentire nulla, rimpiangeva i suoi ricordi a cui aveva sempre
prestato
così poca attenzione, perché erano semplicemente
la sua vita, e ora che
voleva solo riviverli uno per uno le sfuggivano come fumo fra le dita.
Non
avrebbe dormito quella notte, aveva una vita
da piangere e dimenticare.
ANGOLO AUTRICE
Buongiorno!
Ok,
questo è un capitolo di passaggio, il proseguo
di quello precedente, e qui possiamo conoscere gli altri personaggi, in
particolare Ynyr. Lui è... difficile.Non so nemmeno come
spiegarlo, ma di certo
non è un personaggio facile, anzi. A tratti è
meschino, questo sì, ed ha una
visione contorta di molte cose, è forse il più
impegnativo di tutti, scrivere
di lui mi manda in paranoia. Di certo di primo impatto vi
starà antipatico, ma
dategli tempo, non è così tanto pessimo!
Per
il resto niente, ditemi sempre cosa ne
pensate!
A
presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo quarto ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO QUARTO
Quella mattina si era rivelata
particolarmente fredda, un’uggiosa giornata in perfetto
accordo con il suo
stato d’animo. Sianna era seduta sul bordo del suo letto da
qualche minuto, in
attesa. Stringeva fra le mani una conca di legno con un
lumino spento
posato al suo interno, e lo fissava come se fosse l’inizio e
la fine del mondo.
Irwin, accanto a lei, era taciturno.
In
quei due giorni i volti in quella stanza erano
cambiati, i letti si erano riempiti, alcuni erano guariti, la
maggior
parte dei degenti era morta. Ogni giorno nuovi profughi giungevano e
portavano
con loro notizie di attacchi Peith nelle terre a ovest del regno. Per
questo,
ogni settimana, si compiva come di rituale una nuova
commemorazione, per
i nuovi caduti ed i vecchi che ancora non erano stati pianti.
«Non
c’è modo di portarti con noi?»
domandò
leggera all’uomo.
Gli
avevano tolto le bende dal viso ed ora Sianna
poteva vedere i tratti irregolari, la barba sfatta e il suo occhio
destro, o
almeno ciò che ne restava, l’incavo vuoto e
bruciato al posto del bulbo, la
pelle incartapecorita e sanguigna attorno alla ferita. Era una visione
raccapricciante.
«Non
c’è modo di muovermi»
borbottò Irwin,
l’occhio sano puntato al soffitto e una smorfia
d’insofferenza a segnargli le
labbra. Non aveva nemmeno la forza di girarsi su un fianco
spontaneamente, era
totalmente paralizzato, vivo per miracolo. Essere vivi, nel suo caso,
non era
di certo una fortuna. Non aveva più la
sensibilità dal collo in giù, questo
però gli permetteva di non sentire dolore per le
piaghe da decubito che
gli deturpavano il corpo e che Sianna era stata costretta a vedere
quando Eireen,
insieme ad un altro sacerdote anziano, lo curava.
Sospirò
pesantemente «Posso portare io un lumino
per te, se lo desideri. Ci sarà qualcuno che vuoi
salutare»
Irwin
inclinò il capo verso di lei e le sorrise
stanco.
«Un
lumino non basterebbe a dire addio alla mia
famiglia»
Sianna
annuì e continuò a giocare con la liscia
conca di legno, sfregandovi contro le dita. Anche lei lo riteneva
sciocco, ma
non avrebbe mai potuto dare a sua madre un funerale degno, non aveva il
suo
corpo, quel rito era tutto ciò che le restava.
«Avevi
dei figli?»
«Due.
La mia Ishbel aveva solo due anni. Ruairi
invece ne aveva sette. Vorrei essere morto con loro»
Sianna
pensò a Kea, che era la quarta di sei
fratelli e li aveva persi tutti, pensò a Marion che era solo
una bambina ed ora
era totalmente sola, pensò a Lisy e Iris e a quanto amassero
loro padre.
«Forse
sopravvivere a chi si ama è una condanna
peggiore della morte» valutò fra sé e
sé.
Irwin
rise senza allegria «Se ci fosse realmente
un’anima caritatevole qui dentro, sarei già morto
anche io» il suo occhio sano
si accese di speranza «Tu lo faresti?»
Ogni
muscolo le si irrigidì e un brivido le
percorse la schiena «Io non sono il demonio»
sputò, indignata, quasi arrabbiata
per quella richiesta. «L’ho capito, per
questo ti sto chiedendo della
pietà»
Per
poco non le cadde di mano il lumino a cui si
era affrancata e su cui stava sfogando il suo nervosismo. La porta si
aprì in
quel momento salvandola dalla posizione scomoda in cui ad un tratto si
era
sentita messa. Era ovvio, razionalmente, rispondergli che no, non
avrebbe mai
potuto commettere un atto così terribile come togliergli la
vita, eppure aveva
provato una sensazione familiare, come se fosse normale, come se una
grazia
simile le fosse già stata chiesta più volte e
fosse naturale per lei
dispensarla.
Non
le era parso sbagliato, liberarlo. Ma
quell’impressione era morta sul nascere, lasciando dietro di
sé solo un senso
di orrore.
«Non
permetterti di chiederle certe cose»
Irwin
sollevò l’occhio al soffitto «Ci mancava
il
fratello problematico.»
Ynyr
lo incenerì per un lungo, pesante istante,
poi s’inginocchiò piano davanti a Sianna. Ogni
movimento era flemmatico e
misurato, le parve quasi che suo fratello prestasse attenzione perfino
alla
pesantezza del proprio respiro. Il ragazzo posò il suo
lumino a terra e le
strinse il polso sano tra le sue lunghe dita ossute «Sei
pronta sorellina?»
Sianna
si concesse un altro grande respiro «Non
conta molto»
Suo
fratello esitò un momento, indeciso, poi
sollevò la manica della sua tunica da lutto per mostrarle un
nastro rosso. Le
mancò un battito quando lo vide. Ynyr sciolse il nodo e si
chinò su di lei, le
prese una ciocca di capelli che le incorniciava il viso e vi
legò il nastrino.
«Lo
riconosci?»
«È
sempre lo stesso?» alla sorpresa iniziale si stava
aggiungendo il dolore della nostalgia. A pensare a quel
nastro le veniva
nuovamente da piangere.
Ynyr
scosse la testa. I suoi capelli, la frangia
spettinata, gli coprirono gli occhi, ma non poterono celare il lieve
sorriso
«Non lo stesso, ma funzionerà comunque.»
le porse la mano e Sianna accolse
l’aiuto per alzarsi.
«è
meglio muoversi. Il corteo sta per
iniziare» la esortò.
L’ospitale
si era già svuotato da parecchio, solo
chi era troppo ferito per muoversi era rimasto bloccato tra quelle
fredde pareti
umide.
«Mi
dispiace Irwin» mormorò all’uomo che
grugnì in
riposta, prima di seguire Ynyr che la guidò con decisione,
la mano sulla sua
schiena, senza darle il tempo di accomiatarsi.
Fuori,
l’aria pesante di umidità condensò il
suo
respiro in una nuvola bianca. Il cielo era plumbeo e grossi
nuvoloni che
minacciavano pioggia erano trascinati pigramente da un vento leggero
eppure
gelido. Ad ogni soffio le penetrava fin nelle ossa facendola
tremare.
Nella piazzetta circolare fra le abitazioni di argilla e viticci era
racchiusa
quasi tutta la popolazione di Lochlainn: un lungo corteo di sacerdoti
vestiti a
lutto, in nero, le mani congiunte e le teste chine, seguiti dai druidi
armati
di cornamuse. Dietro a questi venivano umili contadini, vestiti di
stracci e
coperti da bende che mascheravano ferite ancora fresche, la maggior
parte di
loro di nero aveva solo una fascia stretta ad un braccio,
constatò Sianna
guardandosi intorno, smarrita.
Lei
e Ynyr raggiunsero Kea, Marion, Lisanda e
Iris, ma nessuno di loro parlò. Lisanda accostò
solamente il suo lumino a
quello di Sianna per accenderlo.
Quando
la prima nota fragile e profonda lasciò gli
strumenti, dando inizio ad una malinconica melodia, i sacerdoti
cominciarono ad
incedere con lentezza cadenzata, e Sianna si mosse in quel mare di
profughi
unito dallo stesso ritmo sofferente e doloroso attraverso le casette e
poi nei
prati umidi di rugiada.
File
di volti estranei, attorno a lei, mostravano
un espressione solenne che le sembrava finta, di chi cerca di creare
una sorta
di dolore di circostanza così prosaico che dovette
distogliere da loro la sua
attenzione per posarla sulla tremula fiammella stretta fra le dita,
perché la
nausea le stava ritornando. La cera colava piano, lasciando strani ed
elaborati
ricami dietro di sé.
Sentiva
la presenza rassicurante di Ynyr al suo
fianco, il rumore dei suoi passi leggeri che frusciavano fra
l’erba e il fango,
pensava al fiocco rosso intrecciato ai suoi capelli e si sentiva
protetta.
Quando era bambina Hanry le aveva donato il suo primo nastrino rosso,
in segno
di amicizia, e le aveva spiegato che l’avrebbe protetta dagli
spiriti dei
boschi se mai l’avessero avvicinata. Con il tempo era
diventato uno dei suoi
più preziosi cimeli, aveva l’impressione che non
potesse accaderle mai nulla di
male, se con sé aveva quel nastro.
Un
singhiozzo proruppe alle sue spalle. Non ebbe
bisogno di voltarsi per riconoscere il pianto scomposto della piccola
Marion e
quello più discreto e orgoglio di Lisanda, la sua Lisy che
sapeva solo fingersi
forte ed era fragile più del cristallo. Si volse appena e
intravide Iris, la
testa incappucciata e il volto impassibile, con il suo modo di soffrire
in
solitudine, distrutta quanto Lisanda ma più fredda
all’apparenza, perché era
sempre così fra loro, con il suo mostrare la
propria sofferenza Lisy
privava Iris della possibilità di piangere a sua volta. Solo
gli occhi lucidi
testimoniavano il suo dolore.
Kea
invece piangeva in silenzio, in disparte,
lontano da tutte loro. Era sempre discreta, come se avesse il timore di
invadere gli spazi altrui se avesse urlato di stare male. Per questo
soffriva
anche di più, perché si sentiva sola,
perché si convinceva che a nessuno
importasse.
E
a Sianna questa consapevolezza spezzava il cuore.
Sarebbe
andata a consolarla, dopo, al momento
ancora non le riusciva di allontanarsi da Ynyr.
L’alba
metallica e spenta, oscurata dalle nubi,
ben presto virò ad un pesante grigio e iniziò
lentamente a piovere. Sussultò
quando la prima goccia le colpì gelida la guancia, seguita
in rapida successione
da altre sempre più numerose e insistenti, ma nessuno in
quella processione
batté ciglio e semplicemente il suono ovattato della pioggia
andò ad unirsi
spontaneamente al frusciare dei mantelli e dell’erba, al
passo cadenzato e alla
solennità delle malinconiche cornamuse.
All’orizzonte apparve la linea netta
della pineta offuscata dalla nebbia impalpabile di quella giornata
tetra.
Sembrava un’indistinta macchia fosca che spezzava il grigiore
del cielo.
Persino il paesaggio, con le sue porose gradazioni di verde e caligine
le
trasmetteva una profonda tristezza, come se fosse specchio della sua
esistenza
e la sua esistenza prima di quel momento si stesse già
facendo lontana e
indistinta. E forse era davvero così, forse a
quell’assenza improvvisa si stava
già, pur contro il suo volere, adeguando.
Prima
di poter raggiungere il riparo degli alberi
la pioggerellina si trasformò in un violento scrosciare, il
cappuccio di
sottile stoffa non bastò a proteggerla e i capelli pregni
d’acqua si
afflosciarono sull’abito fradicio. La frangia scomposta di
suo fratello era
appiccicata alla fronte e, per un assurdo, surreale istante, Sianna
non
pensò a dove stesse andando, né alla musica e
neanche a sua madre. Pensò solo
che così duro e risoluto, non più espressivo di
quanto una gelida statua
avrebbe potuto essere, Ynyr era veramente bellissimo. Distolse lo
sguardo dal
fratello, che mai l’aveva degnata di attenzione e sosteneva
il suo lumino, gli
occhi puntati con fermezza sulla schiena davanti a sé.
Il
corteo dall’alto doveva sembrare una scia di
lucciole non dissimile dalla Via d’Argento in cielo che la
sera Marilien
mostrava loro quando erano bambini. Il fiume del cielo che separava il
mondo
dei vivi da quello dei morti, così aveva sentito narrare dai
trovatori, sua
madre però raccontava sempre una versione diversa di quella
storia: diceva che
era un fiume creato per separare due amanti, una dea e un mortale che
si erano
innamorati nonostante appartenessero a due mondi differenti. La via
d’Argento
era la strada che conduceva al mondo degli dei, all’Eden.
Era
la via che seguivano le anime che dovevano
abbandonare il mondo dei vivi. Forse, sua madre stava già
seguendo quel
sentiero, forse non aveva bisogno che la luce del suo lumino
rischiarasse le
tenebre dell’aldilà per lei.
S’inoltrarono nella boscaglia e i rami e le foglie
attenuarono la pioggia e ne aumentarono il rumore, producendo
un’eco diffusa e
quasi assordante. L’umidità amplificava gli odori
penetranti di terra bagnata e
muschio. Un sentiero serpeggiava fra il sottobosco, ma
l’acqua l’aveva reso
insidioso e più volte Sianna sentì le suole degli
stivali bassi scivolare nella
fanghiglia. Suo fratello l’agguantò piuttosto
malamente senza guardarla, mosso
dall’abitudine di doverle sempre prestare attenzione con la
coda dell’occhio, e
la sostenne tenendole il gomito del braccio sano. L’orlo
dell’abito nero
sacerdotale era ormai logoro ai limiti dell’indecenza, che se
Marilien l’avesse
vista, le avrebbe urlato contro fino a non avere più voce,
eppure lì non importava
a nessuno, nessuno poteva farci caso. Solo lei lo aveva notato, forse
anche lei
per abitudine, perché di sua madre aveva sempre avuto
timore, a volte anche
paura.
Il
corteo era guidato da Leoise e da un uomo
anziano e claudicante, Sianna aveva sentito che il vecchio era il Sommo
Sacerdote di un altro piccolo villaggio Dravida non molto distante che
giungeva
nel giorno della commemorazione per poter officiare il rito al posto
della
Signora di Lochlainn.
La
vegetazione digradò dolcemente mano a mano che
la processione si avvicinava agli argini del fiume. Il rumore
assordante delle
acque violente contro le rocce e gonfie per il maltempo
sovrastò ogni suono e
quasi coprì la melodia delle cornamuse. Sianna non poteva
vederlo per via del
folto gruppo di persone che la precedeva, ma in quella strana giornata,
in cui
restava sospesa in uno strano stato d’indefinitezza,
percepiva con qualunque
senso prima della vista, come se la sua mente si rifiutasse di
rielaborare
rapidamente ciò che la circondava. Era intontita e molto
stanca.
Il
sottobosco scomparve del tutto, sulla riva, e
rimasero solo i rami degli alberi intrecciati sopra il letto
del fiume a
formare una galleria che nascondeva il cielo opaco. La popolazione si
dispose
come un gregge di fronte a Leoise e al Sommo Sacerdote, i druidi e i
cantori si
sistemarono in ordinate file e un coro di voci si levò ad
accompagnare
l’armonia degli strumenti a fiato.
Tante
volte Sianna aveva udito le profonde voci
sacerdotali nei loro canti maestosi e le aveva a lungo amate, le
smuovevano
qualcosa dentro, un turbinio d’immagini che quasi sapevano di
ricordi
ancestrali sopiti. Quella mattina gelida però si
ritrovò ad odiarle e a
convincersi che mai più le avrebbe tollerate,
perché suonavano meste,
sofferenti, e quel dispiacere le pareva ipocrita e falso. Nessuno di
quegli
uomini e di quelle donne conosceva il loro dolore, nessuno
di loro
aveva perduto qualcuno.
Si
rese conto di essere bagnata dalla testa ai
piedi e scoprì con sorpresa di non provare freddo,
nonostante i brividi che le
percorrevano la schiena e le dita intorpidite e rigide. Era estranea a
se
stessa. Si guardò attorno con sgomento: donne, bambini,
pochi anziani e qualche
uomo. Erano tutti stretti al proprio lumino, i volti rivolti
alla terra
umida o ai sacerdoti, alla ricerca di una speranza. Madri affrancate
disperatamente ai figli, Iris e Lisanda strette a soffocare
il pianto
l’una sulle spalle dell’altra.
Il
panico l’assalì. Un panico strano che forse non
era panico, era solo dolore e lei non voleva ascoltarlo, non voleva
essere
distrutta. Accusava gli altri d’ipocrisia, pensava di aver
già conosciuto la
sofferenza, di averla affrontata da bambina, quando era chiamata la
regina dei
pezzenti, quando era rifiutata e non voleva mostrare che le importasse,
quando
sua madre la biasimava con una cattiveria così violenta che
Sianna si era
davvero convinta Marilien la odiasse.
Ma
aveva mentito a se stessa: niente, nella sua
vita, l’aveva mai ferita come quel momento.
«Guardati
attorno»
Le
parole d’Ynyr la fecero trasalire. Cercò
d’incrociare il suo sguardo ma suo fratello sciolse la presa
sul suo braccio e
la lasciò libera.
«Per
vedere solo altro dolore?» sibilò con rancore.
Ynyr
abbozzò un sorriso «La mia disfattista. Noi
siamo ancora vivi Sianna»
Era
questo che suo fratello vedeva? Persone che
continuavano a vivere?
Anche
lei desiderava lasciarsi tutto alle spalle,
vivere o, almeno, tentare di raggiungere ancora una parvenza di vita.
La musica
si stemperò con dolcezza e le voci
l’accompagnarono morendo in un’ultima,
tremula nota. Tutti si sfilarono i cappucci e diedero la loro
attenzione al
Sommo Sacerdote. Sianna decise di continuare a restare coperta,
quell’inutile
pezzo di stoffa la nascondeva, la faceva sentire meno vulnerabile e lei
vulnerabile proprio non voleva esserlo.
Si
sfiorò il nastro rosso che si era allentato e
prese un profondo respiro.
L’anziano
sacerdote si schiarì la voce graffiata e
gutturale.
«Siamo
oggi qui riuniti per commemorare e
rimpiangere la scomparsa di amici, parenti o, semplicemente di uomini
che
nessuno potrà rammentare, i cui volti cadranno
nell’oblio del tempo, affinché
le loro anime possano trovare la via per giungere
nell’Aldilà in pace, affinché
sappiano che qualcuno è testimone della loro ingiusta fine
e, soprattutto, del
passaggio delle loro vite sua questa terra» fece una pausa,
aveva il respiro
affannato e sembrava sfinito. Sianna non poteva vederlo, ma lo
percepiva da
come ogni parola era pronunciata a stento. Era troppo vecchio, quel
tempo
inclemente e il lungo percorso sotto la pioggia sferzante non avevamo
certamente aiutato la sua salute già cagionevole.
«Erano
anime semplici, vittime della violenza, che
mai avrebbero meritato la sorte che invece è loro toccata.
La ruota delle
reincarnazioni segna il nostro cammino, e coloro che hanno subito
ingiustizie
pur essendo giusti, troveranno riscatto un
giorno…» tossì di nuovo, con
violenza, e Leoise dovette chinarsi su di lui per aiutarlo a mantenersi
in
piedi. Poi, dopo essersi resa conto che l’anziano non sarebbe
stato in grado
di proseguire oltre, la sacerdotessa gli prese dalle mani il
lumino posto
sopra la conca di legno e la mostrò a tutti, sollevandola
all’altezza del
suo viso.
«Che
le vostre anime trovino la luce da seguire e
che Nehalennia vi accompagni nella nuova vita che vi attende»
concluse il
rituale, si chinò sulla sponda e posò il suo
lumino sulla superficie nervosa
dell’acqua. La corrente lo catturò e lo sospinse
lontano, facendolo ben presto
sparire dalla loro vista. Mettendosi in fila tutti imitarono il suo
gesto
recitando in coro una preghiera alla dea, mormorata appena ma che per
via della
folla assiepata risuonò distinta.
Sianna
non la conosceva, tuttavia anche lei lasciò
che il suo lumino venisse trasportato dalla corrente e le lacrime
solcarono
anche le sue guance candide. Con la mano destra, quella sana,
cercò la mano del
fratello e vi si aggrappò con tutta la disperazione che la
stava travolgendo
mozzandole il respiro. Ancora una volta il suo gelido Ynyr rimase
impassibile
anche mentre intrecciava le dita con le sue.
A
volte Sianna si domandava se davvero fosse in
grado di provare dolore. Vederlo incrollabile e forte la disturbava,
c’era una
linea a dividerli e Ynyr era sempre dall’altro lato, era
così poco umano
talvolta, da indurla a pensare che non lo fosse semplicemente.
Eppure,
a modo suo soffriva, coi suoi tempi
distanti da quelli di chiunque altro.
Ynyr
si proteggeva come poteva. Da solo, sempre.
Sebbene fosse poco più di un bambino.
Leoise
intonò un canto ed uno a ad uno tutti i
presenti si unirono a lei in un coro armonioso. Persino Marion e
Lisanda
cominciarono a intrecciare le loro voci con le altre. Poteva
distinguerle fra
tutte, le sue amiche avevano il dono del canto, producevano un suono
flautato e
incredibilmente seducente.
«Concedi
la pace a chi in vita ne è stato privato.
Conduci le anime affinché non si smarriscano nei meandri del
peccato e del
dolore. Possa la tua luce sconfiggere l’incertezza e guidarle
dove non c’è
altro che gioia»
Marilien
urlava spesso, era imbronciata quando la
guardava, scuoteva il capo, scrollava le spalle e la rimbrottava con
esasperazione. La sera però le accarezzava i capelli, le
baciava la fronte e le
sussurrava di non cambiare, e la stringeva come se avesse il terrore di
perderla da un momento all’altro. Korakas le
raccontava storie e rideva
di lei, come se fosse la cosa più buffa che le fosse
capitato di vedere, la
proteggeva dalla collera di Marilien, la consolava quando lo sconforto
la
colpiva a tradimento e aveva voglia solo di picchiare suo fratello.
Loro
non c’erano più, e con loro ogni persona che
aveva costellato la sua esistenza, i ricordi già le
sfuggivano come fumo fra le
dita. Sianna non conosceva quella dea, anche se era cresciuta in un
paese che
la venerava e ad ogni crocevia s’imbatteva in una sua
effigie. Sua madre le
aveva insegnato che negli dei non doveva credere perché non
avevano nessun
interesse per il mondo mortale e da millenni lo avevano abbandonato.
Non aveva
la fede come consolazione.
Ricordava
però che una volta una bambina era morta
a causa delle febbri proprio a casa sua. Lei era ancora piccola per
essere
consapevole della morte e Marilien le aveva spiegato che una guardiana
era
custode delle anime umane e le raccoglieva attorno a sé per
condurle poi verso
un grande albero, l’Albero delle Anime, dove queste potevano
riposare fra le
immense radici aspettando il giorno in cui, purificate, avessero potuto
risvegliarsi di nuovo sulla terra. Era lì che andavano le
persone quando si
addormentavano e non si risvegliavano più. Aveva imparato
che non doveva
preoccuparsi per i morti, che il tormento dei vivi diveniva
l’incubo delle
anime dormienti. Non doveva tormentarsi o sua madre non avrebbe avuto
pace.
Tenendo
la mano del fratello s’inginocchiò e
bisbigliò
«Guardiana
delle Anime che dalla vita hai patito
molto e ancora dovrai soffrire, accogli nel tuo gregge i miei compagni,
amici e
vicini cosicché non vaghino fra le lande della solitudine e
anch’essi si
crogiolino nel dolore di ciò che hanno perduto.»
s’interruppe perché un
singhiozzo minacciò di soffocarla.
«Custodisci
mia madre fino a quando non saremo di
nuovo insieme. Rimembrale ogni giorno quanto le ho voluto bene in vita
cosicché
sia serena nella morte»
Il
rito si concluse con poche altre parole e una
benedizione al fiume che simbolicamente avrebbe condotto i
defunti
nell’Aldilà. Mentre i presenti si ricomponevano e
abbandonavano
disordinatamente la riva, Sianna si chiese se, di fronte al corpo di
Marilien,
quella realtà sarebbe parsa più vera.
Si
mise in disparte e osservò le persone che si
allontanavano, ognuna con il proprio fardello. Ad un tratto,
semplicemente,
anche Ynyr si liberò della sua stretta, la fissò
per un istante, compreso nel
suo snervante silenzio, e se ne andò. In passato si era
convinta che sarebbe
arrivato il giorno in cui sarebbe stata all’altezza di
sostenere la croce per
entrambi, per liberare suo fratello dalla solitudine, ma era evidente
che non
sarebbe stato questo, il giorno. Era stata abbandonata anche da lui e
le sfuggì
un sorriso amaro.
Ynyr
le aveva detto che si sarebbero visti, il
giorno della commemorazione, non che avrebbero parlato. Tantomeno che
sarebbe rimasto con lei. Era tipico, quasi scontato. Era
stata lei la
sciocca a non leggere la verità già quella sera:
lui non voleva vederla, non
voleva affrontare la situazione con lei. Probabilmente lo stesso
trascorrere
del tempo con lei gli causava malessere.
Notò
allora che anche Kea si era tenuta in
disparte e aveva aspettato che l’ultimo sacerdote se ne fosse
andato prima di
sedersi sulla sponda del fiume. L’acqua vorticava nervosa
avvicinandosi
pericolosamente ai suoi piedi. Sianna esitò, poi si
accomodò cautamente accanto
a lei, facendo bene attenzione a non scivolare. Saggiò con
la punta delle dita
il terreno argilloso sotto di lei rimanendo in una silenziosa attesa.
Kea
piangeva.
Aveva
la rarissima capacità di piangere in
silenzio, lasciava che le lacrime scorressero e le corrodessero
l’anima.
Tratteneva il suo dolore perché era incapace di esprimerlo e
allo stesso tempo
voleva solo trovare il modo per poterlo urlare a tutto il mondo. Sianna
era
sempre stata tutto il suo mondo, Kea aspettava solo di averla davanti
per
potersi finalmente sfogare.
«Pensi
di parlarmi ora?» l’accusò quando
riuscì a
stabilizzare abbastanza il proprio respiro per non far tremare la voce.
Sianna
si morse il labbro inferiore già martoriato.
«Guarda
che ci siamo dentro tutte insieme» disse
ancora, guardandola di sottecchi.
Era
un rimprovero sentito così di frequente che
sorrise. Le era stato detto fino alla nausea che il suo estraniarsi di
fronte
al dolore era fonte di tormento e, talvolta, sofferenza per chi le
stava
attorno. Soprattutto per Kea, che aveva costante bisogno di parole per
essere
rassicurata.
Sapeva
di divenire una bambola priva di
sentimenti, eppure non le riusciva di condividere il suo malessere.
Ammettere
che poteva provarlo, che stava male, la faceva sentire debole, le
faceva
provare vergogna per se stessa, perché da sola non riusciva
a nulla.
Si
concentrò ostinatamente sul fiume che scorreva
davanti a lei. Provava solo rabbia per il suo stesso egoismo ma se
Ynyr,
l’unico con la quale avrebbe potuto sfogare quella angoscia,
l’aveva in qualche
modo rifiutata, prima di sobbarcarsi le ansie
dell’amica come avrebbe
potuto liberarsi delle sue?
Kea
era piccola e fragile, aveva bisogno di una
spalla sulla quale appoggiarsi, non di essere la spalla per
qualcuno.
Quello era il compromesso per essere sua amica: essere forti per
entrambe. E
lei forte in questo momento non lo era.
«Maledizione,
non fare così!» sbottò Kea. Anche
lei stava giocando con l’argilla che le aveva impiastricciato
le mani. «Io non
ho niente. Ho solo voi, tu sei l’unica famiglia che mi
è rimasta. Sei la mia
migliore amica»
Sianna
accennò un sorriso più sereno «Tu sei
mia
sorella» la corresse. «Come sta il tuo
bernoccolo?»
Kea
s’illuminò, consapevole di aver appena vinto
la sua battaglia «Finalmente è quasi sparito.
Guarda, non si vede quasi più»
scostò la fitta tenda di capelli corvini per mostrarle la
fronte. Un ponfo di
una sfumatura tra il marrone e il verde spuntava come una piccola
collina.
«Kea…
è grande almeno quanto un feudo!»
L’amica
tentò di colpirla con un buffetto
vendicativo alla testa che Sianna riuscì a schivare
abilmente spostandosi
all’indietro quel tanto che le bastò per
sbilanciarsi e cadere con la schiena
nel fango.
«Che
schifo!» strillò scrollandosi i capelli
melmosi.
«Ti
sta bene accidenti, sei una strega. Cioè non
per ricordartelo, ma il “feudo” non è
che si sia fatto da solo! Prenditi le tue
responsabilità signorinella, non mi hai mai chiesto
scusa!» si lamentò Kea
incrociando le braccia al petto in un atteggiamento offeso e sostenuto.
«Eh
no, non mi freghi. Ricordo di avertelo chiesto
almeno un centinaio di volte e non ho la minima intenzione di
rifarlo!»
ANGOLO AUTRICE
Ciao a tutti e ben ritrovati!
Se
vi ritrovo ovviamente...! Chiedo scusa per
l'imperdonabile sparizione, ma davvero questo capitolo mi ha sempre
convinto
troppo poco. E' pesante e riflessivo, avrei voluto sistemarlo e non ne
sono mai
venuta a capo, quindi mi rimetto a voi e ai vostri consigli. Vi lascio
a
Sianna, spero che un poco vi sia mancata, a me è mancato
molto raccontare di
lei!
A
presto!
Igraine
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo quinto ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO QUINTO
Nell’ospitale ogni
giornata era uguale alla precedente.
Sianna le passava distesa sul letto a contare i nodi del legno nelle
travi del
soffitto o a infastidire Gael tirandogli le piume, se il falco restava
nei
dintorni. Non si parlava molto, tra gli ospitati, c’era come
una sorta di
rispettoso, tacito accordo secondo il quale non si doveva invadere il
dolore
altrui. C’era silenzio da quando Irwin, il viso
più familiare che avesse in
quella stanza, se ne era andato.
Era morto la mattina stessa della
commemorazione, quando
Sianna era rientrata nella camerata semplicemente l’uomo
già non respirava più.
Nessuno tra i malati aveva detto nulla o fatto qualcosa e Irwin era
soffocato
nel sonno. C’erano state altre commemorazioni dopo quella, ma
lei aveva preso parte
solo alla successiva, per poter dare a quell’uomo il suo
lumino, la sua guida
nell’Aldilà. La confortava sapere che almeno ora
non era più lontano dai suoi
figli.
Una mattina era arrivato un
ragazzino ferito gravemente,
insieme ad un bambino che sì e no aveva avuto quattro anni,
erano rimasti lì
poco nulla, perché infine il ragazzo era morto dopo ore di
agonia per Sianna
insopportabili. Quel giorno finalmente era riuscita a scambiare qualche
parola
con una donna in età avanzata, dal volto sfregiato e priva
della mano destra, e
il perché di tutto quell’orrore a cui ogni giorno
assisteva aveva iniziato ad
avere un senso.
«Sono i Peith»
aveva semplicemente chiarito la
sconosciuta, il cui nome apprese in seguito essere Rhona,
«Sono sempre i Peith.
Si stanno rivoltando, ci stanno massacrando»
Ci aveva rimuginato sopra a lungo,
nelle ore tediose del
suo tempo libero. I clan Peith non si erano mai ribellati, mai da
quando lei
era venuta al mondo almeno, e non aveva mai pensato che potesse
verificarsi una
simile realtà. Una guerra civile le era inconcepibile,
nonostante tutto il
sangue e il dolore che le scorreva costantemente davanti senza bisogno
che
lasciasse il suo letto sicuro.
Quando iniziò a stare
meglio le fu concesso di
abbandonare, per qualche ora, quella stanza claustrofobica sempre
costantemente
piena di persone sofferenti. Puzzava di mandorla, l’odore che
aveva imparato ad
associare alla cancrena, e sentiva sempre in bocca il nauseante sapore
della
ruggine. Allora sedeva nel prato del cortile interno, a respirare le
erbe
aromatiche che venivano coltivate e a guardare il cielo grigio fumo
della calda
stagione. Le sue amiche la raggiungevano, quando finivano le lezioni
pomeridiane che seguivano insieme ai novizi sacerdoti che ancora non
avevano
preso i voti, e le raccontavano le storie delle divinità, le
cantavano le
canzoni che avevano imparato o, semplicemente, restavano distese con
lei
nell’erba, in silenzio.
«Non me lo avete mai
detto, che è stato un Clan Peith ad
attaccarci. Cosa sta succedendo?» borbottò una
volta.
Aveva gli occhi chiusi e si godeva
il vento leggero che
le scompigliava i capelli e le accarezzava le guance. Stranamente il
sole era
visibile e stava bene coperta solo dalla sottoveste bianca a maniche
corte. Il
braccio le faceva sempre un male tremendo, ma i morsi dispettosi della
ferita
si erano fatti meno spietati, nel tempo.
«Non lo sappiamo. Glenn
Dubhar è stato solo l’inizio, ma
da quel giorno molti altri villaggi Dravidi sono stati attaccati. Ynyr
non
voleva che lo sapessi.»
Sianna si morse le labbra, poi
sbuffò esasperata «è una
cosa stupida»
«Lui è
stupido, non è una novità. Ma dirtelo non
cambiava
le cose» le fece presente Kea, pratica come sempre. Tra lei e
suo fratello
c’era sempre stato un rapporto strano e delicato per cui Kea
restava l’unica
persona al di fuori della famiglia che potesse esprimersi in tutta
franchezza
negativamente su di lui senza rischiare di essere trucidata.
«E voi siete ancora
più stupide perché lo ascoltate
ancora»
La sua migliore amica
scrollò la testa «Lo sai come la
penso. Nel vostro rapporto contorto non ci voglio entrare»
«Nessuno ci vorrebbe
entrare» aggiunse Lisy con un
sorriso leggero «Siete impossibili»
«Sono due idioti,
è diverso» fu la conclusione lapidaria
di Iris. Sianna si passò la mano sana sul volto a
stropicciarsi le palpebre.
Aveva delle occhiaie profonde e una grande stanchezza addosso, dovuta
al fatto
che più dormiva più era stanca e voleva dormire.
Forse, semplicemente, non
vedeva l’ora di abbandonare l’ospitale e la nenia
di lamenti che le faceva da
corredo notturno ogni giorno. C’era da impazzirci.
«Grazie mille, davvero.
Ogni volta mi ricordate di non
dimenticarmi di chiedermi perché diavolo butto il mio tempo
con voi!»
Mari si lanciò
letteralmente sul suo stomaco,
strappandole un informe suono strozzato «Perché
hai bisogno di qualcuno che ti
legga la mano!» le disse raggiante trattenendo le risa.
Sianna guardò
stralunata Marion, ancora una bambina, con i capelli scarmigliati e
quella sua
aria da ragazzina di strada sempre scalza e con le braccia tintinnanti
di
bracciali, e le fece una pernacchia «Sei una pessima
chiaroveggente. Questo – e
si indicò il braccio con la punta del naso – non
l’avevi proprio visto»
Marion socchiuse gli occhi verdi e
si fece stranamente
seria «Te l’ho già detto. Le tue linee
non sono complete. Non so come
spiegarlo… ma il tuo è un futuro che non posso
vedere. È come se l’altra metà
del tuo destino non fosse incisa sulla tua mano ma da qualche altra
parte, come
se appartenesse a qualcun altro»
Sianna si mise a ridere e con lei
anche Lisanda «Sei
sempre tragica» la canzonò Lisy.
Mari prendeva con incredibile
serietà il suo lavoro. Era
così che l’avevano conosciuta. La gitana era
seduta sul bordo della strada nel
giorno di mercato, con un quadrato di stoffa davanti a lei su cui
andavano
accumulandosi le monetine delle persone che potevano permettersi il
diletto di
farsi leggere il futuro. Quando Marion aveva visto Sianna e Kea,
semplicemente
aveva abbandonato tutto per andare da loro a offrire gratuitamente i
suoi servigi.
E la verità era che la ragazzina sapeva davvero quello che
diceva, era stata
lei a dire loro che un giorno avrebbero conosciuto due gemelle, e pochi
mesi
dopo Lisanda e Iris erano entrate nelle loro vite.
Sianna le scompigliò i
capelli e le sorrise «Non darle
retta. Cosa vedi adesso?»
Marion si mise fra i denti il
cordoncino del pendaglio
che portava sempre al collo, come faceva quando si doveva concentrare,
le
strinse la mano destra e la studiò come se davvero in quelle
linee potesse
leggerci la storia della sua vita. In quei momenti Sianna si sentiva
veramente
in soggezione. Lo capiva, anzi lo percepiva, che stava assistendo a
qualcosa di
reale, non ad una frottola per tenere buoni gli sciocchi ricconi presi
dalle
compere di stoffe e merletti. Con le dita Mari seguiva linee visibili e
ne
tracciava di invisibili.
«Vedo che qualcuno ti
cerca» corrugò le sopracciglia
scavando un solco leggero tra di loro e arricciò il naso con
fare pensieroso
«Qualcuno ti aspetta, e qualcuno che conosci molto bene ti
vuole male e vuole
vendicarsi. Ma nessuno di loro ti avrà, perché
incontrerai un vecchio amico e
lo seguirai» concluse distendendo poi la fronte. Le
richiedeva sempre un grande
sforzo. «Però devi guardarti dal rosso…
e dal serpente»
«Un serpente?»
s’incuriosì Lisanda rotolando sulla pancia
e racchiudendo il volto rotondo nelle mani a coppa, per poter guardare
Mari
negli occhi. La ragazzina sollevò le spalle con noncuranza
«Che vuoi che ne
sappia? Io dico solo quello che vedo»
Sianna finse di battere
ripetutamente la nuca per terra
«Te lo giuro Mari, ogni volta che mi faccio guardare le mani
da te poi desidero
il suicidio. Se cercherò d’impiccarmi un giorno di
questi, non ci vorrà un tuo
oracolo per capirne la ragione!»
Kea sollevò un
sopracciglio con scetticismo «Il problema
è che credi a queste sciocchezze» disse con il suo
solito, laconico cinismo.
«Non sono sciocchezze!» scattò Marion.
«Infatti siete voi le
sciocche» interferì Iris
sollevandosi agilmente. Si pulì l’abito bianco da
novizia e le squadrò dall’alto
in basso «Mai un po’ di silenzio con voi. Sianna
non dovresti andare?»
Sianna gonfiò una
guancia con indignazione e
rassegnazione, perché effettivamente il tempo libero che le
era concesso era
limitato e Eireen presto sarebbe andata a recuperarla, se non fosse
rientrata
di sua spontanea iniziativa. «Non hai
pietà» bofonchiò spingendo via Mari dal
suo stomaco per alzarsi a sua volta «Non vedi l’ora
di liberarti di me».
Studiò
Iris,
espressiva come una bambola di pezza, e le saltò addosso
all’improvviso in modo
tale che la ragazza non potesse difendersi, per riempirle le guance di
baci.
«Mollami, Sianna! Dai!
Sei fastidiosa!» prese a lagnarsi
e le amiche scoppiarono a ridere per quei suoi deboli tentativi di
scrollarsela
di dosso.
«Te la sei cercata
sorellina, lo sai che non devi
provocarla» ridacchiò Lisanda. Sianna
mollò la gemella per concentrarsi
sull’altra «E tu lo sai che ce
n’è anche per te»
Lisanda sbiancò
all’istante e, ancora sdraiata nel prato,
prese a indietreggiare goffamente trascinandosi con i gomiti
«No, stavolta non
ho fatto niente!» la supplicò, e con un rapido
scatto si alzò per mettersi a
correre prima che Sianna potesse acchiapparla. «Siete voi che
dovete superare
questa cosa che non vi piace essere abbracciate!» rise di
gusto, e finalmente
si sentì leggera come lo era sempre stata, nonostante le
cose brutte, le ansie
di quella stanza piena di volti tristi, nonostante l’assenza
d’Ynyr che, dal
giorno della commemorazione, non si era più mostrato.
«Sianna? Svegliati.
Forza, non ho tutto il giorno»
Sianna si stropicciò
stancamente gli occhi: odiava
l’ospitale perché dava ad oriente e la luce
irrompeva sempre filtrando dalla
finestra di fronte al suo letto, irritandola, mentre la sua vecchia
camera era
in un’adorabile e quanto mai rimpianta penombra. Riconobbe
subito Eireen prima
ancora di vederla, per via del profumo di erbe essiccate che
l’accompagnava
sempre. Era giovane e graziosa e i suoi tratti dolci illuminati da un
leggero e
comprensivo sorriso.
«Devo cambiarti le
fasciature» le fece notare la donna
mentre Sianna si metteva a sedere, usando il muro come appoggio, e si
lasciava
sfuggire un molto poco dignitoso sbadiglio senza coprirsi la bocca.
Guardò la
sacerdotessa che stava facendo dondolare davanti a lei le bende e ci
mise qualche
secondo a realizzare la richiesta, perché era troppo
assonnata. Con un sospiro
rassegnato si costrinse ad alzarsi. «Arrivo»
mormorò affranta. Tutti i giorni
iniziavano nello stesso, identico modo. Era solo Eireen ad occuparsi di
lei e non
le medicava mai le ferite davanti agli altri pazienti, come erano
soliti fare invece
gli altri guaritori con tutti i degenti, ma ogni mattina la costringeva
ad andare
in un'altra stanza.
Sianna non ne sapeva la ragione,
l’assecondava e basta.
L’ospitale era grande ed
oltre a comprendere due camerate
in grado di raccogliere oltre sessanta infermi, c’era il
locale dove veniva
condotta di solito, la stanza dei salassi. Appesi alla parete vi erano
armamentari seghettati che le mettevano i brividi e su cui aveva deciso
con se
stessa fin dal primo momento di non indagare, e una mobilia conteneva
bacinelle
e lancette di legno e acciaio affilate e dall’aria
intimidatoria. Aveva sentito
spesso urla provenire da lì, le amputazioni venivano
effettuate lontano da
occhi indiscreti, e una volta una donna aveva pure partorito
sull’unico letto
presente nel cubicolo, letto che da allora Sianna si premurava di
evitare. Non
voleva immaginare quante cose dolorose e disgustose fossero avvenute
fra quelle
lenzuola, poteva sentire il miasma della sofferenza già
soltanto tra le pietre
dei muri e tanto bastava a turbarla.
Quando la sacerdotessa ebbe chiuso
la porticina alle sue
spalle Sianna si lasciò cadere su una sedia e
automaticamente alzò il braccio e
si morse le labbra, già pronta a sopportare il dolore. La
stoffa si appiccicava
sempre alla carne viva e l’ustione, che prendeva buona parte
dell’omero, produceva
un liquido giallastro e purulento che le faceva impressione. Eireen le
tolse la
steccatura con delicatezza e Sianna si analizzò la ferita.
Nell’ultimo periodo
c’erano stati enormi miglioramenti,
era meno raccapricciante della prima volta che l’aveva vista,
lo squarcio si
era quasi del tutto rimarginato e anche l’ustione era meno
problematica. Gli
unguenti di Eireen stavano facendo un vero miracolo. La sacerdotessa
estrasse
dalla bisaccia il solito barattolo contenente una pastella verde e
viscida,
gliela spalmò con cura sulla ferita e Sianna si costrinse a
non mugolare, anche
se bruciava da morire.
«Si sta rimarginando
bene. Direi quasi incredibilmente»
le disse dopo averle rimesso le bende senza steccare il braccio
«questa non ti
serve più, l’osso ormai è guarito. Sei
quasi in perfetta salute»
«È da giorni
che lo ripeto, ma voi mi ignorate»
puntualizzò subito, con un mezzo broncio che in
realtà celava una speranza: che
la dimettessero, finalmente.
«Sì lo so, ti
sei fatta sentire anche fin troppo!» la
pungolò Eireen, esasperata.
«Quindi sono libera ora?
Posso andare anche io con le mie
amiche? Posso fare quello che fanno loro? Qui dentro è una
noia mortale. Per
essere onesti direi che tutto qui è mortale»
Sdrammatizzare in modo discutibile
e indelicato era una
sua brutta abitudine, ma davvero il suo umore ne stava risentendo
troppo. Stava
troppo male, ad assistere a tutto quel dolore, le toglieva il respiro
ed anche
il sonno. Eireen stava fissando il suo braccio insistentemente, gli
occhi di
lei ripercorsero piano le bende e si posarono sulla sua mano. Alla fine
la
sacerdotessa la prese fra le sue e la studiò guardinga, come
stesse soppesando
cosa fare.
«La tua è una
situazione delicata. È da molto che volevo
chiedertelo, cos’è questa?»
Sianna a sua volta
osservò la propria mano sinistra come
non faceva da un’infinità di tempo. Sul palmo,
luminosa e al qual tempo nera,
svettava in rilievo una falce di luna calante. Era sempre stata candida
e splendente
come la vera luna nel cielo, quel suo simbolo che si portava dietro fin
dall’infanzia, ma da quella notte non aveva perso ancora la
sfumatura oscura
che l’aveva contaminata.
«È…
una benedizione» esitò, incerta. «Mia
madre mi ha
raccontato che me la fece impartire mio padre quando sono
nata»
Era una delle poche informazioni
che Marilien aveva
condiviso su suo padre, il resto era un mistero indistinto e Sianna
sapeva solo
una cosa di lui, che assomigliava incredibilmente a suo fratello.
La sacerdotessa intanto aveva
aggrottato le sopracciglia
e stava annuendo perplessa «Si avverte che non è
un simbolo qualunque, quando
lo tocco un brivido mi trapassa la schiena. Pensavo fosse legato al
fatto che
sei una Nephilim, ma non avevo mai visto nulla di simile
prima»
Sianna si accigliò e
ricambiò la sacerdotessa con
un’espressione confusa. Eireen le sorrise come a
tranquillizzarla «Ti giuro che
non lo dirò a nessuno, lo so quanto sia pericoloso, per
questo non ti ho mai
medicato davanti agli altri. Ne ho già conosciuto uno prima
di te, non ti
tradirò»
Sianna corrucciò
ulteriormente le sopracciglia e storse
la bocca «Non riesco a seguirti. Perché dovresti
tradirmi? Non so nemmeno cosa
sia un Nephilim»
Era una parola che non aveva mai
sentito prima, eppure le
parve in qualche maniera familiare.
Eireen assottigliò gli
occhi scuri da dravida, nocciola
intenso: «Non lo sei?».
Era incredula e questo confuse
Sianna ulteriormente. Non
riusciva a trovare un senso in quel discorso. Scosse la testa facendo
dondolare
l’arruffata chioma bionda sulle spalle: «Direi di
no, mi spiace»
«Io credevo…
per il tuo sangue sai» bisbigliò la
sacerdotessa per poi guardarsi attorno, come ad essere sicura che la
stanza
fosse realmente vuota e la porta chiusa, prima di continuare
«Hai il sangue a
metà»
L’espressione cauta e
cospiratrice della donna le strappò
una breve risata «L’ho sempre avuto, ma non capisco
davvero di cosa tu stia
parlando. Non so nemmeno cosa sia, un Nephilim»
Eireen valutò le sue
parole in silenzio, sembrava turbata
e sinceramente dubbiosa «È un mezzosangue,
diciamo. Il figlio di un’umana e di
un angelo inferiore. Non so quanto sia vero, questo è
ciò che mi è stato
insegnato»
Sianna le sorrise indulgente, come
se avesse davanti una
bambina, e in parte le parve quasi che fosse così. Eireen
infondeva sicurezza,
era una donna autorevole e sicura di sé, eppure in quel
frangente sembrava una
fanciulla alle prese con un mito bizzarro che difficilmente poteva
risultare
reale. Nel suo volto Sianna rivedeva la se stessa riflessa negli occhi
di Ynyr
quando, nell’infanzia, si stringevano l’uno
all’altro mentre ascoltavano i
racconti di Marilien con l’estasi puerile della certezza solo
nella fantasia.
«Mia madre mi parlava
spesso degli angeli quando ero
bambina. Li chiamava il Popolo della Neve… erano le sue
fiabe preferite» rivelò
in un moto di confidenza che la meravigliò. Difficilmente
condivideva i suoi
ricordi, ne era molto gelosa. «Comunque sono passati troppi
secoli, dubito seriamente
che possano ancora esistere dei discendenti»
puntualizzò cercando di riprendere
un certo distacco.
«Ti sbagli. Ne ho
conosciuto uno, molto tempo fa, prima
di venire qui. Era l’essere più bizzarro che mi
sia capitato di conoscere,
biondo quanto te, sembrava un ragazzino, ma parlava come se avesse
avuto
cent’anni. Si dice che siano figli degli angeli
perché hanno un potere
straordinario ma un’anima mortale a limitarli. Forse hai
ragione, è solo un
mito, ma loro esistono sul serio. Il Conclave indisse una purga che
durò due
secoli e gli diede la caccia.» raccontò Eireen
seria.
Non stava scherzando.
«Come lo sai?»
domandò curiosa, senza sentirsi troppo
coinvolta. Era abituata alle storie e anche se la sacerdotessa sembrava
incredibilmente certa di quello che diceva, Sianna tendeva a
distinguere
nettamente le fiabe dalla realtà.
Eireen appoggiò la
guancia alla mano chinandosi in
avanti, il gomito sostenuto dal ginocchio, e tamburellò con
le dita. «Me lo
raccontò lui, il Nephilim. Non ricordo nemmeno il suo nome.
Van… Vajnk…
qualcosa del genere. Non ci ho mai ripensato spesso, ma la sua storia
la
ricordo, era orfano anche lui, la sua famiglia era stata messa al rogo
dal
Conclave»
Un brivido percorse la schiena di
Sianna. Non tanto per
la storia in sé, al rogo lei ci aveva visto tutte le persone
che aveva
conosciuto. Era il pensiero della Congrega dei Maghi ad impensierirla.
Le
storie sul Conclave erano colme di magia e mistero non dissimile dalle
fiabe
sul Popolo della Neve. Si narrava che fosse l’organo che in
realtà reggeva il
precario equilibrio della penisola, che gestiva da dietro le quinte i
rapporti
tra i Regni indipendenti di Emer, dell’Esperia, di Sideris,
di Dubahr, di Þoka.
C’era sempre l’ombra della Congrega quando un
Sovrano doveva succedere ad un
altro, c’era sempre l’Enclave dietro la
promulgazione di nuove leggi. Era una
presenza mitica e ingombrante che spaventava la gente, sembrava quasi
che con i
suoi artigli invisibili come ombre potesse ghermire qualunque anima.
Si rosicchiò il labbro
inferiore, con indecisione. Da
quando era nata non aveva mai udito nulla che non fosse diceria sulla
sedicente
congrega dei maghi, ma comunque la sola idea di ciò che
rappresentava non le
piaceva.
«A volte penso che se
mai davvero è esisto, il Conclave
si sia sciolto. Guardaci, ne siamo la prova alla fine» diede
voce ai suoi
pensieri mangiandosi un’unghia, senza porsi un freno
«I nostri Clan si stanno
massacrando, sta per scoppiare una guerra civile, arriveranno anche qui
prima o
poi. Se il Conclave esiste, perché diavolo non fa
nulla?» sbottò frustrata.
Guerra civile.
Ci pensava sempre più
spesso, e per questo neanche fra i
sacerdoti riusciva a sentirsi sicura. Difficilmente i villaggi delle
antiche
religioni venivano attaccati, tutti temevano gli dei, ma Nehalennia che
tanto
Eireen e gli altri veneravano era una divinità dravidica. I
Peith erano barbari
senza pietà che non conoscevano il pudore o il rispetto,
tantomeno la ragione.
Il numero di feriti che si era rifugiato a Lochlainn era una prova
più che lampante
della ferocia che i Peith peroravano.
«Quando il Conclave
s’intromette tira una brutta aria. In
fondo io spero che restino fuori da tutto questo, ma lo so che non
accadrà. Non
rimarranno in disparte ancora a lungo temo» Eireen si
alzò e le scompigliò
affettuosamente i capelli, facendola sentire una bambina.
«La magia non
è fatta per essere in mano agli uomini»
mormorò Sianna fra sé ricordando quelle parole
non sue ma che parevano fin
troppo veritiere.
La sacerdotessa scrollò
le spalle «Probabilmente è così,
dovremmo lasciare tutto in mano agli spiriti e starne fuori. Ma da
troppo tempo
sono i maghi a decidere, questa è una cosa che difficilmente
cambierà»
Sianna sussultò: quelle
parole le ricordarono Kii.
Sorrise alla sacerdotessa
«Conoscevo una Volpe che
diceva esattamente la stessa
cosa»
«una Volpe?»
disse meravigliata Eireen e Sianna si morse
il labbro.
Kii l’aveva messa in
guardia la prima volta che si erano
incontrati, le aveva raccomandato di non parlare di lei con gli uomini
o non
l’avrebbe più rivista, e gli Dei solo sapevano
quanto quello spettro sciocco
fosse testardo.
«Nessuno»
ritrattò sorridendo a trentadue denti alla
ragazza.
Eireen fece per ribattere, poi ci
ripensò e scosse
semplicemente il capo «Sarà meglio che vada, ho il
mio giro di visite da
concludere»
Mise la mano sulla maniglia ma
Sianna la bloccò
nuovamente «Non mi hai risposto, posso uscire anche
io?»
La sacerdotessa la
studiò da sopra la spalla, combattuta,
e Sianna intravide la crepa del cedimento «Ti prego! Non
creerò problemi, ti
prego!»
Eireen tentennò
«Io posso anche farti uscire da qui, ma
la tua situazione è delicata e sono seria a riguardo. Forse
è vero che non sei
una Nephilim, ma se qualcuno vedesse il tuo sangue Sianna è
questo che vedrebbe
in te. Devi essere molto cauta, lo capisci?»
In verità non capiva
del tutto ma si affrettò ad annuire.
«E soprattutto quella
Luna. Non devi mostrarla mai,
dobbiamo nasconderla»
Nessuno aveva mai avuto da ridire
sulla sua cicatrice e
questo la turbò, tuttavia era disposta a qualunque
compromesso. Quindi Eireen
sbuffò e le sorrise «Facciamo in questo modo. Mi
sentirò più tranquilla se non
seguirai le lezioni con tutti gli altri novizi, ma capisco che tu
voglia uscire
dall’ospitale. Raggiungi l’erboristeria, si accede
nell’ala ovest dall’esterno.
C’è un ragazzo, è un mio allievo. Digli
che ti mando io»
Eccitata Sianna corse fuori dalla
stanza senza dare
nemmeno il tempo alla sacerdotessa di varcare la soglia, si
sfilò rapidamente
la camicia da notte per indossare la veste bianca dei novizi,
l’unico abito
pulito che avevano potuto fornirle, si legò alla vita una
corda d’oro troppo
lunga che quasi sfiorava il pavimento e dopo essersi sciacquata il viso
nel
catino corse fuori salutando Eireen come una bambina impenitente,
svegliando
metà delle persone con tutto il baccano che aveva fatto.
Era mattina presto ma il tempo era
comunque tiepido e
gradevole e l’aria sapeva di frutta matura e polvere.
Superò la stanza colma di
libri e lasciò che la brezza leggera le scompigliasse la
chioma ribelle. Il
villaggio si srotolava sotto di lei, disorganizzato e caotico, colmo di
voci e
rumori vivaci che la misero di buon umore. In quel mese era cresciuto e
nuove
catapecchie si erano unite a quelle vecchie, mentre le dimore
precedenti erano
state sistemate e rese più solide con il legno e la paglia.
Si sentiva tanto di buon umore che
si ritrovò a
ridacchiare da sola e a giocare con un sasso che le era capitato
accidentalmente tra i piedi. Lo scalciò con troppa foga e il
sassolino rotolò
poco lontano urtando qualcuno.
«Sempre distratta,
eh?» l’apostrofò una voce nota.
Sianna alzò gli occhi
su Will, che aveva fermato la
pietra con il piede e la guardava sinceramente divertito,. Gli sorrise
raggiante.
«Sempre»
ribatté con ovvietà.
«Esattamente cosa ti ha
fatto?» chiese raccogliendo il
sasso per farlo poi rimbalzare sul palmo della mano.
Sollevò le spalle in un
gesto di noncuranza «Mai sentito
“posto sbagliato momento sbagliato”?»
William annuì
«Giusto, noi ne sappiamo qualcosa»
sussurrò
«Se sei qui suppongo che la tua convalescenza sia
finita»
Soddisfatta Sianna continuava a
sorridere entusiasta
«Supponi bene»
Si ritrovò ad arrossire
pesantemente quando si rese conto
che il ragazzo la stava squadrando da capo a piede senza troppo pudore
«C’è
qualcosa che non va?» lo interrogò a disagio e
Will rispose storcendo il naso e
le labbra sottili in una smorfia «Non mi piace vederti
vestita come una
sacerdotessa. Preferirei che voi, intendo Marion e le altre, non vi
faceste
prendere troppo. Sai, i primi rudimenti sono condivisibili ma quando
arriverà
il momento per continuare dovrete prendere i voti.»
Sianna fece un gesto vago con la
mano «Nessuna di noi
desidera passare l’eternità a venerare una
divinità, se è questo che ti
preoccupa»
«Non ho dubbi. Non era
di certo la vita che avrei voluto
fare. Nemmeno Henry, si vocifera volesse prendere i voti, da quello che
si sa
sul suo conto. Eppure, se ti costruisci un mondo qui, Sianna, andartene
sarà difficile,
ti sembrerà di non avere più nulla»
La leggera allegria di pochi
secondi prima sfumò di
fronte a quella realtà che effettivamente non aveva ancora
valutato: cosa
avrebbe fatto da quel momento in poi? Lei non sapeva andare al di
là di un’ora,
pensare al futuro non le riusciva troppo bene e non aveva
più visto suo
fratello, la mente pratica tra i due.
«Scusami, non volevo
turbarti. Dove stavi andando?»
Sianna smise di mangiarsi
l’unghia del pollice quando
sentì in bocca il familiare quanto nauseante sapore del
sangue, e si costrinse
ad abbassare le mani, legandole una all’altra, e a
distogliere la propria
attenzione dal terribile panorama che la sua mente stava già
delineando e che
la vedeva indigente, ricoperta di cenci, ad elemosinare sul bordo di
una strada
un tozzo di pane raffermo.
Fremiti di panico le percorrevano
ogni singola vertebra
alla sola idea.
«All’erboristeria»
Will sussultò,
un’ombra di sorpresa negli occhi grigi
appena visibili sotto il cappellaccio di canapa marrone tremendamente
ruvido, e
poi le sorrise come tranquillizzato, mostrandole tutti i denti
«Eireen ti ha
preso in simpatia» dedusse, non suonava come una domanda.
Si rosicchiò il labbro
inferiore, già fin troppo
martoriato, e annuì «Non proprio. È una
cosa così sorprendente? Di solito sono
gradevole di presenza»
Will rise e si avvicinò
a lei per prenderla a braccetto,
con l’evidente intenzione di accompagnarla.
«Non è
insolito per te, è insolito per Eireen. È una
donna piuttosto… eccentrica. In effetti non è
insolito per niente che abbia
scelto te, se ci penso bene. È molto da lei»
L’erboristeria si
trovava in un locale dall’accesso
esterno che dava sul pendio ovest della leggera collina su cui sorgeva
il
monastero. La raggiunse riflettendo su quelle parole, senza che vi
trovasse un
pieno senso.
«Perché
mai?»
Will le sorrise elusivo e
scivolò via dalla sua presa
«Siamo arrivati, principessa»
Davanti a lei una porta di legno
massiccio era
spalancata, ma l’ambiente interno era celato da un velo che
fungeva da separé e
si agitava con la lieve brezza che spirava dal nord.
Sianna gonfiò una
guancia e ricambiò con disappunto «Non
mi sono mai piaciute le principesse. Non fanno altro che farsi
salvare»
Il ragazzo ridacchiò
divertito «Adesso capisco perché non
sei per nulla elegante»
Gli dedicò una
linguaccia e urlò «Ci vediamo» agitando
distrattamente la mano, prima di infilarsi in quel buco. Il locale era
in una
penombra giallognola, dovuta ai teli di iuta che rivestivano le due
finestrelle, protette da una croce di ferro. I dettagli si delinearono
rapidamente, mostrando un ambiente piccolo e caotico, con mazzolini di
erbe che
pendevano dalle travi del soffitto fin quasi all’altezza del
volto e una
moltitudine di piante sconosciute accatastate alle pareti come una
piccola
foresta dai colori scuri. In fondo alla stanza un bancone di legno e
alle sue
spalle file di mensole cariche di barattoli che contenevano strane
sostanze o
erbe triturate, identificate da piccoli cartelli in legno dalle
incisioni
eleganti e sbilenche. Il semplice lumiere illuminava più
della luce che non
riusciva a filtrare oltre i teli di iuta, ma rendeva il tutto
claustrofobico e
ingigantiva le ombre delle foglie dando all’insieme un
aspetto quasi sinistro.
Sianna si avvicinò ad
una di quelle piante sconosciute
con un singolare fogliame a stella, e accarezzò incuriosita
il profilo
frastagliato della foglia, sentendo sotto le dita poi la consistenza
porosa
della polvere che la rivestiva. Sua madre con quello sporco si sarebbe
strappata la chioma rossa.
Sussultò quando un
rumore di passi leggeri su una
superficie di scricchiolante legno riecheggiò nella stanza.
Nell’angolo sulla
destra, da una scalinata a chiocciola che non aveva notato, emerse il
volto
concentrato di un ragazzo che aveva gli occhi puntati
sull’armamentario che
stringeva fra le braccia.
Non appena la notò, le
sorrise.
«P’nawn
da» il tono allegro e giovale le ispirò
perplessità e simpatia insieme «Posso fare
qualcosa per te?» chiese
gentilmente.
Ricambiò il sorriso e
annuì, stranamente a corto di
parole, troppo presa ad inseguire le proprie impressioni. Lo vide
attendere con
sempre maggiore indecisione e alla fine chiedere accigliato
«Cosa ti serve? Non
posso combattere il mutismo, saresti la seconda questa settimana e
davvero, mi
dispiace, vorrei, ma proprio no»
Sianna sollevò un
sopracciglio e trattenne a stento la
risata.
«Mi servi tu!»
riuscì a dire senza suonare troppo
divertita, non voleva che quel bizzarro sconosciuto potesse pensare che
lo stesse
deridendo.
Il sacerdote passò
dalla confusione alla lusinga, gli
sfuggì un breve sorrisino di modestia che
sostituì però rapidamente con buon
senso, in una notevole varietà di espressioni facciali.
«Come prego?»
ribatté, cercando di darsi un contegno.
Le venne ancora da ridere, ma
scosse la testa agitando
l’arruffata chioma bionda e sollevò gli occhi al
soffitto.
«Mi ha mandata
Eireen» chiarì semplicemente «Mi ha
detto
che sarai tu il mio maestro. O almeno» lo squadrò
da capo a piede sollevando
l’angolo della bocca in una piega ironica «Almeno
credo sia tu»
Il ragazzo storse le labbra e si
lasciò sfuggire un
sonoro sbuffo «Scarica sempre tutto su di me»
Appoggiò i mortai e i
pestelli che stava portando sul
bancone e le si avvicinò con atteggiamento frustrato.
«Ahimè, temo
di essere io. Sono Tanet» si portò la mano
al petto e accennò un leggero inchino «Tu
saresti?»
Nessuno le si era mai presentato
con un simile gesto,
pertanto reagì con qualche secondo di ritardo, ancora
stupita. Imitò la
gestualità di Tanet per non mancare di rispetto e
inclinò il capo
«Sianna Eilan»
«È un vero
onore Sianna Eilan. Sai per caso dove sia
finita quella fattucchiera odiosa?»
Sianna aggrottò le
sopracciglia e socchiuse gli occhi,
soppesandolo.
«Parlo di
Eireen»
«Ovviamente»
mormorò, senza smettere di squadrarlo.
Tanet era bizzarro. In lui tutto
era particolare ed anche
se la luce non era delle migliori per poterlo studiare con minuzia, era
quasi
totalmente certa di non essersi mai imbattuta in tutte quelle
singolarità
raccolte in un’unica persona. Non aveva mai viaggiato e
difficilmente le era
stato concesso di lasciare Gleann Dhubar, e tuttavia il suo paese
natale era
stato un crocevia di mercanti e pellegrini, e questo le aveva concesso
di
incontrare gitani dai capelli di pece e la pelle di latte, uomini
nerboruti di
miele e porcellana, piccoli selvaggi scuri delle terre del nord.
La sua migliore amica, con i
lunghi capelli corvini e gli
occhi imperscrutabili, rappresentava già di per
sé una particolarità quasi
unica nel suo genere, ma Tanet, lui era veramente diverso. Aveva occhi
a
mandorla, lunghi e sottili, palpebre pesanti e iridi nocciola vivaci
che la
stavano studiando con altrettanta attenzione. Gli zigomi alti e il naso
sottile
accentuavano la sua aria nobile e vagamente sofisticata, aria
stemperata dal
sorriso sottile di labbra stirate. Alto e magro come un chiodo,
ciò che lo
rendeva veramente unico agli occhi di Sianna non era tanto la
fisionomia
esotica, quanto il colore della sua pelle. Si era convinta che la pelle
naturalmente dorata di Mari, Lisy e Iris fosse già troppo
scura, ma la pelle di
Tanet era bronzea, quasi bruna, e gli donava una bellezza insolita se
non
unica.
«Doveva finire il giro
di visite» si costrinse a
rispondere, dominando il nervosismo e la curiosità, che le
faceva desiderare di
porgli infinite domande, nessuna delle quali comprendeva Eireen, le
erbe e
tutto il resto.
Tanet, al contrario, era
completamente rilassato e per
nulla toccato da lei, non le capitava spesso di sentirsi mediocre, ma
accanto
al sacerdote chiunque sarebbe parso scialbo e tragicamente banale.
«Non è
vero» si stava lamentando lui nel frattempo
«Cioè,
ovviamente è vero, ma non ci mette mai più di
metà mattinata. La verità è che
è
pigra in maniera esasperante e lascia sempre a me tutti i compiti
ingrati,
pulire questa stamberga per esempio!»
Nel suo borbottare le aveva dato
le spalle e aveva
iniziato a sciogliere la cordicella che legava alla trave centrale i
mazzolini
appesi a testa in giù a seccare. Sianna accarezzò
ancora l’ambiente con
un’unica occhiata e arricciò le labbra
«Non so perché ma sono quasi totalmente
sicura che le pulizie non siano state il tuo primo cruccio negli ultimi
tre o
quattro anni» commentò pacatamente, senza
riflettere.
Le braccia di Tanet
s’irrigidirono e il ragazzo smise di
lavorare, come fulminato. Inclinò il viso verso di lei
lentamente e la osservò
da sopra la spalla «Tu sei una mia sottoposta»
valutò tranquillamente, per poi
accennare un sorriso.
Sianna sentì i peli
della nuca rizzarsi e un brivido di
sospetto attraversarle la colonna vertebrale. Allacciò le
braccia al petto e
fece un passo indietro, con diffidenza.
«E quindi?»
Tanet stava ghignando, una palese
vena di sadismo nei
sottili occhi a mandorla. Abbandonò senza remore il fascio
di erbe accanto ai
pestelli e le ciotole e sparì sotto il bancone per qualche
secondo, per
ricomparire con un secchio di latta, uno straccio logoro ed una scopa
dall’aria
più arruffata di lei. Sianna ne rimase talmente attonita da
non reagire con
prontezza di riflessi quanto Tanet glieli lanciò. Si
riscosse appena in tempo
per afferrare la scopa, ma non poté difendersi dal secchio
che, con precisione
millimetrica, compì una perfetta parabola e le cadde in
testa.
«Maledizione! Ma dico,
sei impazzito?» urlò subito, gli
occhi lacrimanti di dolore e le mani già fra i capelli, nel
disperato tentativo
di diluire il male con un massaggio.
Naturalmente Tanet si mise a
ridere di gusto «Beh, dovrò
ricordarmi che non hai presa», disse camuffando il sorriso
con qualche colpo di
tosse «Se vuoi puoi cominciare, c’è un
bel po’ di lavoro da fare»
«Perché
dovrei pulire io questo disastro?» sbuffò
imbronciata. La vista le si era appannata per il leggero velo di
lacrime e un
nuovo ponfo si era già formato sulla testa e pulsava
prepotentemente.
Tanet scrollò le spalle
e si concentrò nuovamente sui
suoi mazzolini di erbe «Avrai le tue lezioni solo quando
avrai terminato. Considerala
una preparazione interiore!»
Sianna raccolse la scopa stizzita
«Penso che la
considererò più come un “Sono troppo
pigro per lavorare”»
Il sacerdote sollevò le
spalle «Da adesso dovrai
chiamarmi maestro, ragazzina. Rivolgiti a me con un sentito rispetto.
Tutto
chiaro?»
Rassegnata Sianna annuì
e raccolse nuovamente scopa e
secchio.
«L’acqua dove
la trovo?»
«Al pozzo ovvio.
È in piazza, divertiti!» e con un
sorriso fugace e l’aria malandrina da persecutore, Tanet
scomparve nuovamente,
inghiottito dalle scale che conducevano al piano inferiore, lasciandola
sola
senza alcun tipo d’indicazione.
La casa in cui era cresciuta era
molto grande, circondata
da cespugli odorosi di fiori e erbe aromatiche e di piante da frutto,
con una
mansarda da dove, talvolta, lei e Ynyr guardavano le stelle e dove era
stata
costretta, all’inizio, a tenere Gael. Eppure Sianna ricordava
come sua madre
riuscisse a gestirla e governarla senza aiuti. Era capitato che
Marilien la
rimproverasse per la sua inerzia, ed ora che si ritrovava china su un
pavimento
di legno consumato a sfregare con tutte le sue forze per scrostare il
fango, si
rammaricò un poco che sua madre non avesse mai insistito
davvero per farle fare
qualcosa.
Al lavoro non era per nulla
abituata.
Con gesto stanco si
scostò i capelli dalla fronte
imperlata di sudore, accarezzò per abitudine il nastrino
rosso che il fratello
le aveva intrecciato ad una ciocca particolarmente dorata e si
lasciò sfuggire
l’ennesimo sospiro.
Tanet naturalmente non era
più tornato e lei aveva
trascorso la mattinata a pulire. Nell’insieme aveva fatto un
buon lavoro, un
cumulo di foglie secche e polvere e lerciume era raccolto vicino alla
porta e
aspettava soltanto di essere disperso nei prati oltre la soglia, la
luce era
tenue ma sufficiente ora che si era sbarazzata di quei teli ombrosi, e
l’ambiente risultava più arioso e sano. Per poter
pulire a fondo, aveva
pazientemente smontato pezzo a pezzo la piccola foresta che i due
erboristi
avevano ammonticchiato contro la parete, lasciando le piante
all’aperto a
godersi la brezza estiva e il tiepido sole di cui anche lei sentiva la
mancanza
dopo ore tappata nella stanza.
Si sollevò da terra e
spazzolò e lisciò il vestito, per
abitudine più che per speranza di renderlo pulito, aveva il
raro dono di
devastare qualunque cosa toccasse e la prova erano le macchie di terra
sull’abito all’altezza delle ginocchia.
Recuperò lo straccio per lucidare i contenitori
quando un urlo la fece sobbalzare.
S’irrigidì in
un breve ma fulminante momento di panico,
che scivolò via rapidamente quando si rese conto che,
più che di terrore, quel
grido sembrava un misto fra collera e disperazione.
Si affacciò cauta
all’uscio, stringendo le dita arrossate
per il lavoro allo stipite, e scorse con sorpresa Eireen che si
spostava da una
pianta all’altra come se stesse soccorrendo dei feriti e non
sapesse darsi una
priorità sul quale salvare prima.
Senza emettere suono, Sianna
seguitò a guardala,
sinceramente divertita.
Quando Eireen si bloccò
per voltarsi con lentezza
studiata verso di lei, gli occhi che sembravano volerla incenerire,
Sianna
inghiottì il sorriso fra gli incisivi e si diede un contegno.
«Chi!»
sbraitò la sacerdotessa avvicinandosi a passo di
carica «Chi ha commesso questo scempio!?»
«Ehm, stai diventando
porpora. È un buon segno?»
Una vena del collo di Eireen si
gonfiò, come un grosso,
pulsante bruco.
«Non è mai un
buon segno, Sianna Eilan!»
Il colore della sua pelle assunse
un singolare e non
classificabile color vinaccia.
L’istinto
di
sopravvivenza suggerì a Sianna di tacere, perciò
annuì rapida e non liberò il
labbro inferiore per paura di lasciarsi andare ad una catastrofica
risata a
causa di quella reazione surreale.
«Cosa sta
succedendo?» Tanet comparve all’improvviso,
trafelato per lo scatto con cui doveva essersi precipitato al piano
superiore.
Avvertendo con ogni senso vitale
che una parola sbagliata
avrebbe causato il suo linciaggio, Sianna continuò a tacere
cercando di
assumere l’espressione rammaricata che vedeva sempre sulla
faccia tosta di suo
fratello.
Eireen la abbandonò
subito per accanirsi contro di lui,
lo trucidò con occhi sottili come lame e sventolò
il dito indice sotto il mento
del ragazzo con fare intimidatorio.
«Che diavolo
è questo! Vedi di essere convincente!»
Vide Tanet guardarsi attorno
spaesato per comprendere la
situazione, per poi arrivare a studiare direttamente lei, una serie di
domande
inespresse sul suo volto incredulo e sconvolto. Se la sua pelle fosse
stata
normale, forse sarebbe impallidito.
Sianna gli sorrise con tutti i
denti in bella mostra e
un’alzata di spalle, visto che Eireen le dava la schiena.
«Io le avevo chiesto
solo di pulire!»
L’indice di Eireen si
piantò dritto nel petto del ragazzo
e iniziò a pungolarlo, costringendolo a indietreggiare.
«Tu hai fatto maneggiare
le mie preziosissime piante ad
un’allieva alla sua prima lezione?»
sibilò digrignando i denti.
«Senza lasciarmi alcuna
indicazione» rincarò Sianna
arricciando le labbra e annuendo, un commento involontario a cui non
era
riuscita a sottrarsi. Tanet spalancò gli occhi, incredulo,
mentre la postura
della donna si faceva inflessibile e piena di tensione, come la sua voce
«Sparite. Tutti e due,
immediatamente, o giuro che ci
finite voi appesi a testa in giù»
Si erano allontanati dalla bottega
in silenzio, l’espressione
errabonda del maestro aveva spinto Sianna a non aggiungere altro e,
semplicemente, si era limitata a seguirlo mentre Tanet, troppo assorto,
camminava
placidamente fra i campi. Le distese erbose davanti a lei brillavano di
un
verde smeraldino grazie alle perle di rugiada e se spingeva lo sguardo
più in
là, verso est, riusciva a mettere a fuoco un complesso
circolare, forse di
pietre ma da quella distanza non era troppo sicura.
Tanet cambiò direzione,
imboccò un piccolo sentiero, una
striscia di terra quasi invisibile nell’erba alta, che
raggirava la collina e
conduceva ai boschi sempreverdi che abbracciavano il fiume
d’Ishitar.
«Mi spiace,
maestro» mormorò ad un tratto, per rompere
quell’inquietante atmosfera. Non lo conosceva abbastanza per
poter sopportare
il silenzio, fosse esso amichevole o ostile, iniziava a montarle dentro
un
senso di disagio e di vaga colpa.
Le era sfuggito il motivo della
collera di Eireen, ma
provava mortificazione per il suo ultimo intervento, decisamente non
necessario.
Tanet parve scuotersi,
rallentò il passo e la guardò
quasi sorpreso da sopra la spalla, come se si fosse ricordato solo in
quell’istante
della sua presenza. Poi accennò un sorriso tranquillo e
agitò la mano per
togliere importanza alla questione.
«È colpa mia,
accade. Non ho pensato di dirti che metà di
quelle piante non sopravvive alla luce del sole»
Sianna sentì le guance
bruciare per la vergogna «Poteva
andare peggio come primo giorno» bofonchiò in
propria difesa «Avrei potuto dare
fuoco a qualcosa»
Il sacerdote ridacchiò
«Non oso immaginare come… e non lo
chiederò! Ho la sensazione che potresti sorprendermi, non
sono ancora pronto»
Sianna rimboccò
pazientemente i capelli dietro le
orecchie e saltò sopra ad un sasso, dove rimase per qualche
istante in precario
equilibrio, sorridendo fra sé e sé
«Suppongo che dovrei sentirmi in colpa»
disse aprendo le braccia per trovare il baricentro e non cadere
malamente. Il
maestro la squadrò alzando perplesso un sopracciglio
«Più che sentirti in colpa
dovresti ringraziarmi, se non fossi arrivato io, Eireen ti avrebbe
fatto la
pelle»
Sianna si diede una leggera spinta
e atterrò davanti al
maestro, per sfoderare poi un sorriso tutto denti «Se
permette, mi giocherò il
“grazie” in una situazione più consona
ad un “grazie”. Per questa volta si
dovrà accontentare del mio dispiacere»
Tanet la soppesò
incredulo ed infine, dopo lunghi istanti
di basita perplessità, sollevò gli occhi al cielo
e scosse appena la testa «Non
so quale sesto senso mi stia mettendo in guardia, ma tra
l’accettarti come
allieva e stringere un patto con Lucifero, ho la sensazione che sia
ancora
preferibile la seconda» le sorrise sornione
«Comunque vedremo quando sconterai
la tua punizione con una nottata in bianco».
Il tono vendicativo le fece
perdere la camminata
baldanzosa.
«Come?»
«Rettifico, la prima di
una lunga serie di punizioni»
«Di notte?» si
accigliò, studiandolo con sospetto. Il
maestro ne sorrise «Precisamente. Dovrai poi rimediare al
disastro che hai
combinato oggi, di certo non me ne assumerò la
responsabilità, già che sulla
colpa non ho avuto modo di esprimermi»
S’inoltrarono nel
sottobosco rado, i grandi alberi
sempreverdi li sovrastavano nascondendo la luce tenue di una tersa
quanto rara
giornata estiva. Il sole era sempre raro, nelle terre
d’Ombra, come una
maledizione che privava gli abitanti di calore. Sianna poi era
cresciuta in
un’ampia valle, fra le montagne, e muoversi nella penombra le
era familiare
quanto facile, per questo un poco si rammaricava di aver abbandonato i
campi
assolati delle dolci colline di Lochlainn per nascondersi tra il verde.
Tanet nel frattempo aveva iniziato
a darle le prime
direttive, spiegandole che il momento più opportuno per
raccogliere le erbe
era, appunto, la notte, la sera o, tutt’al più la
tarda mattinata, quando la
rugiada si era ormai dissolta, per evitare che le piante marcissero.
«Le streghe sostengono
che le giornate devono essere
terse e la luna deve essere in fase nascente, l’influsso
dell’astro è più forte
in quel periodo» raccontò, mentre puliva con buffa
dovizia un tronco rovesciato
prima di accomodarcisi sopra.
«Ascoltate le streghe?
Mia madre diceva che sono troppo
superstiziose» ribatté lasciandosi cadere con
malagrazia sulla terra umida.
Tanet fece una smorfia di disappunto, ma non la rimproverò
«Dipende» chiarì
invece «Talvolta è vero, si fanno prendere un poco
la mano. Soprattutto i clan
più rurali ad occidente, in genere però
è bene fidarsi di chi sente gli
influssi delle stelle più di noi»
Sianna arricciò le
labbra e inclinò il capo all’indietro,
perdendo lo sguardo fra le foglie pigre appena smosse dalla brezza. Da
qualche
parte, un picchio batteva con snervante ritmicità un tronco,
il canto dei
passerotti rendeva il bosco vivo, fin troppo pieno di vita. Anche
tacendo
entrambi, l’aria era satura di suoni, fruscii, lucertole che
comparivano vicino
ai suoi piedi per poi scivolare rapide sotto una roccia.
«Non ne ho mai viste per
davvero, almeno non credo. Ce
n’era una, nella mia valle, ma ho sempre pensato fosse una
cialtrona. Non l’ho
mai vista fare niente che non sembrasse un banale trucco»
«È raro che
si spostino, non si spingono praticamente mai
oltre i monti Fengari»
«Sapete il
perché?»
La fronte del maestro si
corrucciò «Per gli Accordi.
Faccende noiose che riguardano il Conclave e non noi. Concentrati sulle
cose
importanti, hai veramente l’attenzione di una farfalla in un
campo di fiori,
Sianna. Una delle questioni più delicate per un erborista
è sapere in quale
stagione sia più opportuno raccogliere questa o quella parte
di un arbusto. In
linea generale tieni a mente che i fusti si raccolgono in Foghara, e le
gemme
all’inizio di Earrach. i fiori invece appena sbocciano. Ti
farò vedere, ma
inizia a ricordare la base»
Sianna annuì e si
sforzò di restare concentrata per non
rischiare di dimenticare nulla. Il suo insegnante, per quanto sostenuto
e,
all’apparenza, seccato dall’incombenza di doversi
fare carico della sua
istruzione, in verità non riusciva a nascondere
l’entusiasmo nel poter
condividere le proprie conoscenze.
Le parlò
dell’usanza che le streghe avevano tramandato e
che gli erboristi avevano adottato di bruciare le erbe
dell’anno passato la
notte dell’Alban Heruin, le spiegò la differenza
tra un decotto e un infuso, i
vantaggi dei macerati e l’efficacia di cataplasmi e unguenti.
«Dividiamo, per
convenzione, le piante in famiglie. Ce ne
sono cento, oggi inizieremo a vederne alcune»
Cento era un numero grande, Sianna
non era certa di saper
quantificare un cento e un poco perse convinzione. Tuttavia
l’affascinava il
guardarsi intorno e realizzare, con sempre maggior meraviglia, che
ciò che la
circondava era più complesso di quanto avesse mai potuto
immaginare.
Tanet aveva preso a girovagare,
gli era tornato il buon
umore e le mostrava con entusiasmo le gemme appena nate, le differenze
fra le
nervature delle lamine fogliari, le numerose forme dettate dalla
famiglia di
appartenenza. Mangiarono due panini di farina bianca che avevano
portato con
loro e il maestro ne approfittò per mostrarle le bacche
commestibili.
La sommerse di
un’infinità di nozioni finché non si
fece
pomeriggio.
Il sole iniziò la sua
prematura discesa e con lui le
temperature calarono dolcemente.
«Facciamo una prova
pratica prima di rientrare» borbottò
lui cacciando uno sbadiglio. Sianna si sentiva assonnata e sarebbe
volentieri
rientrata subito, così annuì svogliatamente
mentre Tanet si guardava attorno.
«Ecco,
trovato» individuò un cespuglietto verde e,
prendendo il falcetto d’argento che portava legato al fianco,
recise un rametto
che poi le porse con un sorriso.
«Come ti ho
già spiegato, presta attenzione alla forma
delle foglie, al pistillo, al profumo. Cerca di identificare le
caratteristiche
di cui abbiamo parlato prima. Questo è un ramo di
Alchemilla. Qui è piuttosto
comune, cresce solo in zone ombrose e fresche, quindi è
facilmente reperibile
in montagna e spesso la trovi anche nelle radure»
Sianna le dedicò
un’occhiata priva di criticità e piena
di scetticismo. Aveva veramente troppo sonno per essere seria, si
stropicciò
gli occhi con il polso e borbottò «Vedo un
ramo»
Tanet scosse la testa con
riprovazione «Non l’hai nemmeno
guardata. Non rientreremo finché non riuscirai a darmi
almeno l’impressione di
aver imparato qualcosa. Osservala e ascoltala»
La ragazza arricciò il
naso, ma decise di essere
accondiscendente, se non altro per interesse personale. Aveva camminato
a lungo
e non era più abituata a giornate così intense e
piene, le facevano male le
articolazioni e i muscoli, desiderava sdraiarsi e dormire per i cento
anni a
venire, altro che cento famiglie!
Osservò il fusto
sottile, verde chiaro sfumato di rosso,
analizzò i piccoli fiori, anch’essi di un delicato
verde, le foglie dai bordi
dentellati, ripiegate all’interno.
«Allora»
s’inumidì le labbra mentre rifletteva «I
fiori
sono in boccio e la corolla è perfetta, quindi questo
dovrebbe essere il suo
periodo di fioritura» valutò, e si
riempì di orgoglio nel notare il sorriso
incoraggiante di Tanet «Infatti» aggiunse lui
«Dal Tempo della Luce al Tempo della Semina,
più o meno»
Sianna prese l’ennesimo
respiro e chiuse gli occhi.
Conosceva l’Alchemilla,
cresceva ovunque, anche fuori
casa sua e sua madre la coglieva di frequente, era
un’incredibile guaritrice,
anche se lei non aveva mai saputo come la impiegasse.
«Potrebbe far
parte…» esitò, ancora guardò
con cura i
fiorellini, privi di corolla, e notò la forma a calice con
quattro sepali a
simulare i petali «Beh potrebbe trattarsi di una
Rosacea»
Cercò
l’approvazione del maestro e lo trovò soddisfatto
e
sorridente per la sua deduzione.
Le dita sottili, strette
all’arbusto, s’intorpidirono
lentamente, e il sorriso le si congelò sulle labbra per
mutare in una smorfia
confusa. Odiava quella sensazione di estraniazione da se stessa che
provava
talvolta, un distacco lento e indipendente dal suo volere che si
scatenava
senza una ragione, come una reminescenza sopita che le scivolava tra le
vene e
i tendini.
Per qualche istante, nel suo
stesso corpo non percepiva
più soltanto “Sianna”, ma altre
consapevolezze che facevano sempre parte di lei
eppure le erano estranee.
«La rugiada»
mormorò, sollevando la mano libera per
accarezzare le foglie dell’Alchemilla.
Tanet la scosse piano per una
spalla «Tutto bene? Cosa ti
è preso?»
Con un senso spaventoso di
vertigine, Sianna sussultò,
spalancò i grandi occhi azzurri, fin troppo confusi e
sentì le familiari
presenze scivolare via, fluire fuori dal suo corpo, ripercorrere le
braccia,
sfiorarle le dita, per ricongiungersi alla pianta fra le sue mani.
Doveva avere
un’espressione poco rassicurante, perché il
maestro sembrava preoccupato.
«È un
antinfiammatorio, e un cicatrizzante.» buttò fuori
tutto d’un fiato «ed un sedativo, se serve. E la
sua rugiada, la rugiada che si
raccoglie sulle sue foglie è l’acqua
celeste… è fondamentale per la Pietra
Filosofale»
Lo aveva detto senza respirare,
sentiva che dovevano
uscire, erano parole che avevano preso senso solo nel momento in cui le
aveva
pronunciate, prima non le conosceva. Le cadde l’Alchemilla di
mano e in un
picco di smarrimento si guardò attorno per riprendere
consapevolezza.
Quando aveva certi attacchi, era
Ynyr a riportarla nel
mondo reale, ma Ynyr non c’era e Tanet pareva fin troppo
sorpreso per dirle
qualcosa di sensato, le labbra sottili erano schiuse in un
atteggiamento
infantile buffo e insolito per quel viso esotico.
«Come le sai queste
cose?» domandò
guardingo.
Sianna corrugò le
sopracciglia e si portò la mano alla
bocca per mangiarsi le unghie «Non le so»
«Non sembrava»
La ragazza prese un profondo
respiro «Non le so davvero.
Le avrò sentite da mia madre, era una guaritrice, magari me
ne ha parlato e non
mi ricordo quando»
Tanet non era convinto, era
evidente, aveva gli occhi
socchiusi e attenti, alla fine però scosse le spalle, come
rassegnato a
prendere per vere le sue parole, e sbuffò «In ogni
caso, quello che combinano
gli Alchimisti non è affar nostro, in particolare per
ciò che concerne quella
Pietra infernale. Non so come tu sia a conoscenza degli ingredienti che
usano
quei fanatici, ma non mi piace. Ricorda
che le nostre sono pratiche completamente
differenti»
Sianna si affrettò ad
annuire, dondolando da un piede
all’altro per l’imbarazzo. Non le era capitato
spesso, che estranei potessero
assistere ad uno dei suoi “momenti” di smarrimento,
per un attimo aveva temuto
che Tanet l’avrebbe respinta, non se ne sarebbe meravigliata.
In molti avevano
avuto paura di lei, non si era guadagnata il titolo di
“figlia del Demonio” per
nulla. Fortunatamente il maestro sembrava deciso a glissare su quella
stranezza
e a non porle domande di alcun tipo.
«Cosa sono gli
Alchimisti?» trovò il coraggio di
chiedere. Tanet alzò un sopracciglio «Sei a
conoscenza dell’Acqua Celeste,
com’è possibile che tu non sappia chi la
impiega?»
Arrossì sentendosi una
sciocca.
«Sono
studiosi» borbottò il sacerdote dandole la schiena
per avviarsi verso il villaggio «Maghi molto particolari. Se
ne stanno
rintanati in quel loro imprendibile castello e vaneggiano cose
sacrileghe. Per
quel che mi riguarda, sono troppo sovversivi alla natura. Non sono
brave
persone, chiaro?» le scoccò un’occhiata
eloquente e severa, ad intimarle di
ricordarlo bene, e Sianna si ritrovò ancora ad annuire senza
il coraggio di
esprimersi.
Gli alberi si diradarono,
mostrando il cielo macchiato di
oro e rosa, in lontananza una linea scura d’inchiostro aveva
iniziato ad espandersi
e a contaminare l’azzurro. Non c’erano nuvole.
«Ci vorranno mesi prima
che si possa dire che realmente
tu ne sappia qualcosa» commentò Tanet quando
raggiunsero le prime capanne, era
serio e attento «Ma forse… forse sei
portata» accennò un sorriso furbo, che
sottendeva altro, una frecciata silenziosa che Sianna
scacciò con un sorriso
tronfio e noncurante.
«Non mi meraviglio. A
domani maestro!»
«Ah, te lo puoi
scordare! Hai fino a quando la Luna non
sarà alta, se posso consigliarti, dormi. Mi servi sveglia, e
attenta possibilmente!»
Sianna non l’aveva preso
sul serio, gli aveva fatto una
linguaccia e si era defilata rapidamente. Nemmeno cinque ore dopo
Tanet, come
promesso, l’aveva buttata giù dal letto.
ANGOLO
AUTRICE
Sporadicamente
lo
so, però continuerò a pubblicare questa storia
perchè, beh ci sono affezionata
e amo Sianna in realtà…!
Questa
storia si
articola su tre grandi blocchi che influenzano tutti gli eventi, e
questa prima
parte è la più tranquilla. È un mondo
grande che vorrei chiarire e ci sono
molti personaggi, questo potrebbe rallentare forse un poco il ritmo,
almeno all’inizio.
Se questo dovesse succedere e avrete voglia di dirmelo, o avete qualche
domanda
perché sono stata poco chiara, accetterei volentieri
consigli per migliorare la
narrativa.
Grazie
di tutto,
e a presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** RICORDI parte prima ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
RICORDI PARTE PRIMA
«Kii ti
prego, mi squarti la schiena se continui così!»
È
colpa di quel tuo “coso”,
guarda come mi guarda. Vuole mangiarmi.
Sianna
sospirò la sua esasperazione, poi gettò
un’occhiata fugace al
“coso”, ovvero Gael, che se ne stava docilmente
appollaiato come una sentinella
diligente sopra ad un ramo sottile, poco più in alto.
Si
limitò a constatare un «Sei paranoico»,
consapevole che non bastasse a
definire il momentaneo stato d’animo della kitsune.
L’aria attorno a Kii era
irrespirabile quel giorno, stranamente elettrica di attesa e
nervosismo, e ad
attestare quella condizione di allerta costante ci stavano pensando gli
artigli
della volpe che non accennavano a diminuire la presa ferrea sulla sua
schiena,
inchiodando Sianna prona nella terra umida.
«Spostati,
vorrei davvero potermi alzare»
In risposta,
avvertì il nasino umido della volpe odorarle il collo,
facendola subito ridere per il solletico.
«Kii
scendi! Per tutti i Serafini, sei insopportabile. Non potresti essere
umano?»
Lo
sai che non mi piace
I pensieri della
volpe rimbombarono come un’eco nella sua testa, anche
senza l’inclinazione del suono era percepibile la modulazione
lamentosa e
infantile di quell’affermazione e per questo Sianna
sbuffò ancora, sollevando
così un ciuffo di capelli che le ricadeva disordinato sul
volto.
«Sarebbe
tutto più semplice. Gael ti lascerebbe in pace, tanto per
cominciare»
Questa volta non
ottenne risposta e sospettò che lo yokai avesse deciso
unicamente
d’ignorarla. Non sarebbe stato insolito, quando gli dava noia
Kii, come un
gatto più che come una volpe, si ritirava. Forse
perché era il cucciolo del suo
branco, o forse semplicemente a causa della sua natura indisponente: la
kitsune
era viziata, dispotica e dispettosa, e tutto questo si traduceva per
Sianna in
graffi, vestiti stracciati, o abbandoni improvvisi in mezzo al nulla.
Negli anni queste
sue peculiarità avevano finito con il peggiorare e per
questa ragione Sianna si mordicchiò il labbro ed
esitò a esprimersi ancora. Non
aveva la pazienza di sopportare che ancora una volta Kii se ne andasse
con quel
suo atteggiamento da sovrano del mondo.
Ascoltò
il rumore di quel nasino nero che si arricciava e poi
inclinò il
capo di lato, per poter ammirare il musino tenero e
all’apparenza mansueto e i
suoi occhioni dorati che osservavano il mondo attorno a loro con
circospezione.
«Oggi
sei più inquieto del solito. C’è
qualcosa che non va?»
Kii
soffermò lo sguardo sul suo volto, si sporse lentamente e le
leccò una
guancia, guadagnandosi una smorfia.
È
il profumo di fiori marci. Non
dovrebbe esserci qui, non più, ma è da giorni che
impregna i boschi. Bisogna
stare in guardia dall’odore della morte
Davanti alle sue
considerazioni sibilline, Sianna aggrottò la fronte e
storse il naso. Ci provava davvero, a scavare per trovare un senso nei
suoi
discorsi deliranti da spirito superiore in contatto con gli enti
naturali, ma
non ci riusciva e sentiva solo un’immensa frustrazione. La
volpe piegò
dolcemente la sua testolina
Non
riesci a sentirlo? Mi domando
come sia possibile. Non è una cosa buona, tu non sai
proteggerti
Sianna
afferrò il piccolo yokai per la collottola e lo
sollevò, portando il
muso all’altezza del suo viso. Poteva anche essere una
misteriosa creatura, uno
spettro di oltre cinquant’anni, ma il suo aspetto le
procurava una certa
tenerezza, con le zampette raccolte e il corpicino morbido e ancora un
po’
goffo. Tenerezza che ingoiò per cercare di trasmettere con
tutta la serietà
possibile il proprio disappunto.
Scosse piano la
testa «Io vorrei davvero che ti entrasse, in quella bella
testolina che ti ritrovi, che quando ti comporti in questo modo e dici
certe
cose io non riesco a seguirti. Di che diamine stiamo
parlando?»
La kitsune
cercò di morderla, ma Sianna lo aveva già messo
in conto. Prima
che i suoi dentini aguzzi riuscissero a raggiungerle il naso, la
posò a terra
bruscamente, non senza sbuffare nuovamente. Allora Kii si
stiracchiò, sollevò
la coda con fare altezzoso e scrutò ancora la vegetazione
senza prendere in
considerazione la sua presenza.
Sianna si mise
finalmente a sedere e si grattò la radice del naso cercando
di inghiottire il desiderio di ricavare da quella bestiola
un’ottima e pregiata
pelliccia.
«A mia
madre piacerebbe», pensò ad alta voce
«Chissà che magari è la volta
buona che me la ingrazio»
Lo disse per
provocarla, che tanto Kii era in grado di percepire anche i
pensieri inespressi, ma evidentemente era stata di nuovo dimenticata.
Notò che
la kitsune era mossa da uno strano sospetto, forse avvertiva qualcosa
che a lei
stava sfuggendo, non se ne sarebbe per nulla sorpresa.
D’altronde Kii aveva un
legame diverso con la natura, un rapporto profondo che le permetteva di
percepire ogni cosa. I suoi sensi erano sviluppati in maniera
differente da
qualunque uomo o animale, era uno spettro, Sianna tendeva a
dimenticarselo e
solo quando le sue stranezze emergevano lo realizzava.
La volpe aveva
provato a spiegarsi, le aveva detto che le kitsune erano
yokai e messaggeri di entità superiori, tuttavia non era
semplice comprendere
realmente cosa significasse.
Quando, molti anni
prima, la volpe si era definita in quel modo, “spirito
messaggero fedele alla sua signora”, Sianna quella signora
aveva voluto vederla.
Era così che aveva incontrato la sua prima Dama del Lago.
E dopo
quell’incontro ne era seguito solo un secondo, ma le era
bastato per
restare ammaliata da tanta bellezza. Aveva pensato spesso che la
misteriosa
padrona di Kii avrebbe potuto essere una Gwragedd Annwn,
perché era di una
purezza astratta e incorporea, leggera come di rugiada
all’alba, un incanto
creato per irretire i mortali, o almeno lei si era sentita stregata.
Kii la riscosse
soffiando un verso strano e ostile.
Il pelo si era
drizzato e i muscoli contratti in posizione di difesa trasudavano
nervosismo.
Devo
fare ritorno
«Ma Kii!
Avevi promesso che mi avresti tenuto compagnia. Lo sai che mi
annoio ad aspettare da sola, potrebbero anche non arrivare oggi e io
avrò
buttato una giornata intera. Non puoi lasciarmi qui!»
Provò a
gonfiare le guance in una smorfia capricciosa nella speranza
d’intenerire lo yokai, ma l’espressione infantile
morì subito sostituita da
perplessità quando si accorse, con sgomento, che Kii non
stava assecondando la
propria natura lunatica, era davvero nervoso per un motivo.
Motivo che Sianna
non riusciva a comprendere.
Prendi
la sfera
«Cosa?»
spalancò i grandi occhi
azzurri, e allo sbigottimento per quel comportamento assurdo si
aggiunse una
sottile vena d’ansia. Pensò che doveva aver capito
male, Kii non avrebbe mai
potuto dirle seriamente di toccare la sua sfera stellata, aveva
assistito a
reazioni bestiali le poche volte in cui aveva avuto l’ardire
di provare a
sfiorarla. Eppure ora la Kitsune, tesa e stranamente nobile nel
portamento,
stava sciogliendo la sua coda, sempre arrotolata, per liberare la sua
hoshi no
tama. La sfera di luce si librò pacatamente
nell’aria, mostrando la meraviglia
di quella sua luminosità porosa all’apparenza
inconsistente.
Prendila
e portala con te, e non
liberartene. Per nessun motivo
Sianna era
empatica, lo era sempre stata. Forse il suo era solo un innato
istinto, ma quell’istinto, con un nodo allo stomaco che non
le apparteneva, le
gridava l’inquietudine dello yokai, e per questo, non senza
turbamento, si
ritrovò ad annuire alla richiesta dello spettro con insolita
mansuetudine.
«Non
capisco che ti prende» sussurrò, per rimarcare la
propria confusione,
ma non voleva protestare.
La volpe
sollevò il muso e annusò l’aria
Stanno
arrivando
«Sei sicura?
È per questo che te
ne vuoi andare? Se anche ti vedessero non sarebbe di certo un
problema!» lo
disse con un sorriso, aveva intuito però che la causa di
quella tensione non
erano i suoi amici. Certo, Kii odiava gli umani e non si mostrava a
nessuno che
non fosse lei o Ynyr. Solo in un’occasione aveva accettato
d’incontrare le sue
amiche, ma era stata la Dama ad ordinarglielo e quindi in
realtà non contava.
Davanti alla
reticenza della volpe aggiunse con un sospiro «Se fosse solo
per loro non mi lasceresti la tua sfera stellata»
Kii taceva come
assente, ed infine soffiò uno strano e ferino ringhio fra
le zanne.
Prendila.
Portala
con te.
E
torna con loro, non da sola.
Lo
proferì con un tono adulto terribilmente in contrasto con
quel suo
aspetto da cucciolo dispettoso. Non le diede il tempo di ribattere,
rapido ed
elegante, con uno scatto lo yokai si lanciò in una corsa che
lo fece sparire
subito nel sottobosco.
Sianna si
ritrovò sola e immobile, l’unico rumore oltre al
cinguettare
rumoroso degli uccelli era il leggero sfrigolare della sfera luminosa
sospesa
davanti a lei. Pur se confusa, decise di obbedire e, con incertezza,
strinse le
dita attorno a quella luce dalla consistenza morbida. La
osservò ridursi di
dimensioni e diventare lentamente più piccola e fioca, fino
ad essere
completamente contenuta nel palmo della sua mano. Quando Sianna schiuse
le dita
ritrovò solo una perla grande come un chicco
d’uva, agganciata ad una catenina.
Se la legò attorno al collo, poi si alzò e
riassettò i vestiti malconci di
fango e macchie d’erba.
Normalmente, quasi
per ripicca, ignorava sfacciatamente le richieste che
non comprendeva, l’urgenza con cui l’amico si era
espresso però l’aveva presa
alla sprovvista e perciò decise di rispettare il suo volere.
Abbandonò il suo
avamposto, da dove ormai da ore controllava la strada principale che
dava
accesso e Glenn Dubhar, si aprì un varco tra le sterpaglie e
alcune radici e
raggiunse la strada di terra battuta. Come a confermare che la volpe
non aveva
mentito, giunse da lontano un vociare fin troppo rumoroso, un dibattito
forse.
Dove la strada
svoltava all’orizzonte venendo inghiottita dagli alberi,
Sianna vide comparire le familiari figure di Henry, Daniel e Korakas.
Si
precipitò loro incontro con entusiasmo e prima che i tre
potessero anche solo
metterla a fuoco, aveva già travolto di peso un Henry
inconsapevole
trascinandolo a terra con sé.
«Finalmente!
Dovevate arrivare due giorni fa, mi stavo annoiando a morte ad
aspettarvi!» li sommerse subito di parole, dimenticandosi di
salutarli, ma poco
importava, la conoscevano abbastanza da non aspettarsi convenevoli, non
da lei.
Ed infatti, i tre si limitarono a esclamare con basita meraviglia il
suo nome
in coro, ampliando il sorriso soddisfatto che capeggiava già
sulle sue labbra.
Henry, sotto di lei, le prese una guancia tra le dita e tirò
con forza «Maledizione
Sianna, ci hai fatto venire un attacco di cuore!»
«Sianna
ma ti sembra il modo di comparire?»
«Bambina
mia, che diavolo ci fai in giro adesso? Tua madre ha almeno una
vaga idea di dove tu sia?»
I due ragazzi e
l’anziana parlarono in contemporanea, li trovava divertenti
come sempre, ma non riuscì a riderne perché Henry
la sua guancia non l’aveva
ancora lasciata e stringeva tanto forte da renderle gli occhi lucidi.
Per
liberarsi, ricambiò infilando a tradimento due dita nel
costato del ragazzo,
che sussultò subito liberandola con una smorfia di
disappunto e dolore.
«Sei un
demonio incarnato» borbottò, e lei sorrise di
rimando.
Poi
balzò in piedi per abbracciare di slancio Korakas e la sua
aria severa
da anziana «Ciao nonnina!»
La signora
ricambiò scompigliandole affettuosamente i capelli
«Sei la
solita peste. Diventerai mai una signorina come si deve?» la
riprese
bonariamente. A Sianna piaceva quell’atteggiamento dolce
familiare, come se
davvero fossero parenti, perché le permetteva di esprimersi
liberamente senza
rischiare di sentirsi sgridare per la sua sfacciataggine e il carattere
troppo
aperto. Rispose con la sua espressione furbetta da bambina impenitente
«E
toglierti la soddisfazione di ripetermelo ogni volta che mi vedi?
Mai!»
Un colpo di tosse
li fece voltare quasi contemporaneamente.
Sianna
sobbalzò e arrossì quando si accorse che a quel
familiare siparietto
aveva assistito una quarta persona, un ragazzo che già in
passato le era
capitato di incontrare ma con cui non aveva mai avuto molta confidenza.
Da
sotto il suo grande cappellaccio marrone, William la studiava con un
sopracciglio leggermente inarcato e un sorriso divertito per cui Sianna
avrebbe
voluto solo poter essere inghiottita dalla nuda terra. Aveva imparato,
nella
sua infanzia, a non mostrarsi mai eccessivamente espansiva o spontanea
davanti
a sconosciuti, per istinto di autoconservazione, perciò
quasi involontariamente
si acquietò in maniera innaturale e abbozzò un
cenno di saluto con la mano.
«Signora»
intervenne Daniel dopo aver aiutato Henry a rialzarsi e avergli
reso il suo bastone, interrompendo il gelò di imbarazzo che
l’aveva colpita.
Sianna aggrottò le sopracciglia, perplessa,
perché aveva colto una sfumatura
grave di preoccupazione.
«Giusto»
rispose immediatamente Korakas, leggendo un sottinteso in quel
richiamo che Sianna non riuscì a cogliere.
L’esclusione palese la irritò più di
prima.
Come
se già non ci fosse quella
dannata volpe a fare la sibillina
«Sianna
che ci fai qui? Non è sicuro eppure ti ostini a girovagare
per
questi boschi come se niente fosse» la riprese
l’anziana, questa volta con una
punta di severità che le fece mettere il broncio.
Scrollò
le spalle e domando il fastidio disse «Vi aspettavo. Mi
sembra
ovvio. Il falco è arrivato con la vostra lettera molti notti
fa, me lo ha detto
la mamma. Sapevo che era questione di poco. E poi non corro alcun
pericolo, io
qui ci sono cresciuta, che vuoi che mi capiti?»
«è
meglio se rientriamo subito» tagliò corto Henry,
mettendole una mano
sulla schiena per invitarla a procedere.
La confusione
crebbe ulteriormente, e Sianna si ritrovò a squadrarli come
se non li avesse ma visti, tanto trovava insolito quel loro
comportamento.
Korakas era sempre stata apprensiva, ma Henry e Daniel
l’avevano sempre assecondata
nei suoi giochi e nelle sue esplorazioni, e non avevano mai storto la
bocca
come avesse fatto qualcosa di tremendamente sciocco e irreparabile.
Fu guardandoli con
attenzione che notò dettagli che le erano sfuggiti: le
vesti inzaccherate in modo indecente, macchiate di fango, stracciate.
«Cosa
mai vi è capitato? Persino io fatico a ridurmi in questo
stato!»
ironizzò, per seppellire lo strano presentimento che Kii le
aveva gettato
addosso. Henry si appoggiò al quel singolare bastone che si
portava sempre
appresso, gemello di quello di Daniel: tre spessi rami intrecciati tra
loro
saldamente che sulla sommità si aprivano per lasciar
intravvedere una pietra
dai riflessi sanguigni grande come un pugno. La pietra di Daniel era
dorata e
calda, poteva essere ambra ma non ne era sicura.
Daniel le avvolse
le spalle con un braccio e le lasciò un veloce bacio fra
i capelli, con la sua familiare e dolce tenerezza da fratello maggiore
«Incontri
spiacevoli, qualche brigante, nulla di cui preoccuparsi» le
spiegò con ostentata
tranquillità, ma Sianna le percepiva, le emozioni altrui,
come un’increspatura
nell’aria, un brivido da pelle d’oca che le
risaliva la schiena, e capiva che
anche i suoi più cari amici erano inquieti proprio come Kii.
Lo erano
abbastanza, di certo, da non aver mostrato entusiasmo
nell’incontrarla nonostante non si vedessero ormai da qualche
Tempo.
Per poco non le
andò la saliva di traverso «Stai scherzando spero!
State
tutti bene? Vi hanno derubati?»
Henry
ridacchiò e ammiccò verso Korakas, elegante
persino in quella
condizione mentre camminava davanti a loro di pochi passi, dritta come
un fuso.
«Sfido
chiunque a riuscire a derubare l’incarnazione di un
Satana» le
bisbigliò complice per non farsi sentire, ma
l’anziana lo freddò con una gelida
occhiata da sopra la spalla.
«L’incarnazione
di un Satana?» ripeté, inarcando un sopracciglio e
sfoggiando una piega tagliente che di sorriso aveva gran poco sulla sua
bocca
rugosa.
Henry
impallidì e Sianna ne approfittò per dare di
gomito a Daniel,
scambiare un’occhiata complice con William e ridere piano di
lui.
«Parlo
di Daniel, Signora! Lo sa che non oserei mai»
La sacerdotessa
fece una smorfia e si limitò a constatare «Saranno
le mie
guardie del corpo ad assassinarmi nel sonno»
Quel clima
così simile alla normalità le permise di
accantonare la
sensazione inspiegata alla bocca dello stomaco e il bruciore sgradevole
che le
tormentava la cicatrice della mano sinistra. Era felice,
l’arrivo di Korakas e
dei suoi adepti era il momento più sereno per lei, e Sianna
decise di goderselo
senza ombre.
Guardò
in alto: Gael, docile, li seguiva.
***
Con sua estrema
amarezza, non appena raggiunsero casa sua, Marilien e
Korakas si lanciarono sguardi carichi di significato e colmi
d’apprensione, che
non tentarono nemmeno di dissimulare.
«Dobbiamo
parlare»
Nemmeno un saluto
o la più banale e convenzionale forma di cortesia, la
sacerdotessa arrivò dritta al punto e quando sua madre
annuì, Sianna si sentì
solo più frustrata. Il ciondolo di Kii, attorno al suo
collo, pesava come una
maledizione, come i silenzi di chi non voleva condividere i propri
crucci.
«Due
giorni di ritardo» affermò Marilien, con una
pacatezza gelida, un tono
che Sianna aveva imparato a conoscere bene, perché sua madre
in una manciata di
parole era sempre stata in grado di nascondere tanto, in quel momento
un’inspiegata consapevolezza, come se avesse saputo la
ragione degli imprevisti
senza bisogno che Korakas si esprimesse.
«Sianna
Eilan, ho bisogno che tu esca» aggiunse rivolgendosi a lei,
tanto
severa e decisa da non ammettere repliche.
Sianna di quella
donna dai capelli rossi aveva sempre avuto un po’ paura. A
volte si sentiva osservata da lei in modo diverso che nulla aveva di
materno,
un sottile odio serpeggiava allora tra di loro, e Sianna in lei
riusciva a scorgere
la strega che tutti paventavano fosse.
Fece per
rivolgersi ad Henry e Daniel e William, ma la sacerdotessa la
precedette «Voi resterete qui. Ci sono cose importanti di cui
dobbiamo
discutere»
Rassegnata ad
essere esclusa dagli affari “degli adulti”,
guardò le loro
schiene mentre si ritiravano in cucina, lasciandola sola sulla soglia.
Marilien
l’aveva liquidata come fosse un omuncolo e non una persona, e
per questo
sentiva una grande rabbia.
Decise di
raggiungere la sua migliore amica e di metterla a parte di quelle
stranezze. Kea era più razionale ed intuitiva, forse avrebbe
letto tra le righe
qualcosa che le era sfuggito.
Da qualche giorno
la ragazza non lasciava casa sua e rifiutava di parlarle,
ma Sianna confidava che, con l’arrivo di Daniel, ogni
malumore le sarebbe
passato. Si precipitò fuori e, correndo, superò
l’ingresso ad arco del suo
cortile per inchiodare davanti alla casetta di pietra accanto alla sua.
Tre
gradini precedevano la porta di legno massiccio e Sianna li
saltò tutti insieme
prima di bussare fin troppo animatamente.
«Kea?
Guarda che lo so che ci sei!» urlò,
bussò ancora e poi urlò di nuovo «Dai,
vieni fuori! Ho una buona notizia. Quella cosa non può
essere così brutta da
negarti una buona notizia!»
Le rispose il
silenzio.
«Kea? Ti
giuro che ne sarai felice… ti prego!»
Bussò
insistentemente e alla fine la porta si spalancò
«Se ti maledirei in
ogni lingua esistente non basterebbe!»
La sua vicina di
casa sembrava l’incarnazione di uno spirito maligno,
minuscola e sottile come un giunco, un fisico efebico acerbo e una
cascata di
capelli corvini calata sul volto come una tenda arruffata. Sianna non
poteva
vedere il suo sguardo, ma poteva tranquillamente desumerlo dal suo tono
di voce
alterato.
Era consapevole di
non doverlo fare, ma non riuscì a non ridere di gusto
«Dimmi
che questo tuo aspetto da spaventapasseri non è per
ciò che penso» si coprì la
bocca con le dita affusolate per limitare il danno, ma non
servì perché Kea
spostò i capelli di quel minimo indispensabile a rivelare
l’occhio destro e la
gelò con la sua espressione più truce.
«Proprio
tu, che sei la causa fondante di ogni mio male, sei l’unica
che
non può fare battute!»
Il suo broncio
infantile e testardo ricordò a Sianna di quando era bambina,
perché Kea non sembrava cambiata in nulla, le sue ridotte
dimensioni fisiche la
facevano apparire molto più piccola e indifesa della sua
età. Mai apparenza fu
più ingannatrice.
«Sono
passati giorni, sono sicura che ormai neanche c’è
più. Stai facendo
un dramma per una sciocchezza»
Era fin troppo
abituata ai malumori di Kea più che altro perché
ne era la
causa costante, ed anche quella situazione non era
un’eccezione.
«Certo,
tu fai i danni poi io esagero. Mi chiedo perché ancora mi
meraviglio» con un gesto secco Kea si rimboccò i
capelli dietro le orecchie,
facendo mostra di un ponfo enorme sulla fronte e di un livido esteso e
scuro
attorno ad una lacerazione poco profonda, che però le
segnava il sopracciglio
sottile. Il suo volto ricordava la pelliccia maculata di un qualche
animaletto
selvatico irritato e Sianna si morse le labbra per bloccarne
l’istintivo
incurvarsi «Visto, non è così
grave» stirò un sorriso finto e
proseguì «Daniel
e Henry non lo noteranno neppure»
Kea
impallidì all’improvviso e Sianna temette che
potesse nuovamente svenire
a causa sua.
«Sono
tornati?»
«Ehm,
sì. Volevo avvisarti, ma sai, non mi parli da
giorni»
«E
chiediti il perché! Giuro su Nehallenia, questi sono i
momenti in cui ti
odio ti più! Sono impresentabile, non potevi direttamente
ammazzarmi e
seppellirmi nel tuo giardino?»
Sianna
sollevò gli occhi al cielo, spazientita «Come se a
loro importasse
dell’aspetto della tua faccia»
Kea
ringhiò come se davvero lo fosse, un animale selvatico, e
assottigliò
gli occhi in due spilli di profondo rancore «Importa a
me»
Si sentiva un poco
in colpa, perché quella deturpazione
sull’altrimenti
bellissimo viso di Kea era effettivamente sua
responsabilità.
Le finestre delle
loro camere da letto erano dirimpettaie e avevano preso
l’abitudine, negli anni, di chiacchierare per ore appoggiate
al davanzale,
venendo spesso sgridate perché “urlate come se
fossimo al mercato, tutto il
vicinato vi sente”, la frase più frequentemente
pronunciata da Marilien.
Qualche giorno prima, bloccata in camera per l’ennesimo
rimprovero di sua madre,
Sianna aveva deciso di chiamarla tirando dei sassi contro gli scuri di
legno
della finestra dell’amica.
Le ante si erano
aperte all’improvviso, e la pietra aveva colpito Kea in
pieno viso. Era stata ritrovata semisvenuta qualche ora dopo.
«Non
preoccuparti, non li vedremo per un po’, era di questo che
volevo
parlarti»
Le
spiegò lo strano comportamento dei sacerdoti e presa
dall’aneddoto, Kea
dimenticò le sue problematiche estetiche.
Così,
confabulando, erano uscite di casa e avevano attraversato le vie
gremite
di gente e grida chiassose e bancarelle. Era giornata di mercato e
Glenn Dubhar
pulsava di vita e di colori, dai venditori di stoffe, ai banchi di
gioielli e
dolci, fino ai contrattatori di bestie e piccoli raduni di scommesse.
Alcune
galline tagliarono loro la strada e Sianna seguì
distrattamente il loro
incedere impettito e goffo con lo sguardo, fino a quando i suoi occhi
non si
posarono, sul ciglio della strada ai piedi di una casa, sulla figura
vivace di
una ragazza dal volto celato da uno scialle arancio. Il bordo ricoperto
di
campanelli tintinnava ogni volta che la fanciulla chinava il capo sulla
mano
grassoccia della donna che si stava facendo leggere il futuro.
Richiamò
Kea e indicò la gitana con un gesto del capo.
«Ci
risiamo» brontolò l’amica sollevando al
cielo gli oscuri occhi neri.
«Allora,
vuoi dirmi qualcosa o no?»
«Io
vorrei ma…» la voce della zingara, piena
d’incertezza, colpì Sianna,
che avvicinatasi non aveva potuto non cogliere uno stralcio della
conversazione.
«Ma?»
«È
una piccola ciarlatana, mia signora, non le presti ascolto»
«Io non
sono una ciarlatana! È la linea, è spezzata, non
c’è alcun futuro
qui!»
Con un gesto di
sdegno, la Dama e la sua servitrice si allontanarono
irritate, mai però indisposte quanto la ragazzina, che con
un movimento
stizzito si sfilò dal capo la stoffa vivace per rivelare una
folta e spettinata
chioma castana screziata di miele.
«Cliente
difficile?»
«Giornata
difficile!» sbottò Marion senza la minima sorpresa
nella voce
nonostante non le avesse notate, come si aspettasse la loro comparsa, e
Sianna
pensò che probabilmente era vero: Mari aveva un dono, una
capacità di percepire
gli eventi che era davvero al limite della premonizione.
«Perché?»
La gitana
gonfiò le guance, frustrata «Perché non
posso fare predizioni
oggi, o dovrei annunciare morti e catastrofi. Morti e catastrofi non
pagano,
non ho ricavato niente»
Raccolse le carte,
sistemate in ordine per terra, e gli astragali riuniti
in una rozza tazza di legno, richiuse i quattro angoli del panno e con
un fiocco
ne ricavò un pratico sacchetto.
«È
insolito» le fece notare Sianna, basita, perché
non aveva mai visto
quella bambina sbagliare, ed infatti la fronte di Mari si
corrugò «Lo so, e non
so che pensare. Sai, non stavo mentendo, la linea della vita era
spezzata, ma
non è possibile che ogni linea che ho visto oggi si perda
nel nulla in quel
modo»
«Vuoi
controllare la mia?» la canzonò dandole una
leggera spintarella con
il gomito. Marion arricciò le labbra «Prendi pure
in giro, lo sai che con te
sarebbe inutile. Kea, forse»
«Te lo
scordi» Kea si allontanò di qualche passo, come se
solo con il
pensiero la piccola zingara avesse potuto strappare i suoi segreti
«Sapete
benissimo cosa penso di queste sciocchezze»
Marion
sbuffò «Se me lo dice una vecchia impomatata lo
accetto, ma almeno
da un’amica mi piacerebbe non essere definita
ciarlatana» si volse verso Sianna
e attirò la sua attenzione afferrandole la manica celeste
del vestito, in un
gesto stranamente infantile e incerto.
«Sianna,
come stanno?»
«Chi?»
Sianna
avvertì un brivido: ecco il dono di Marion che si
manifestava.
«Henry e
Daniel. Qualcosa non va, non so perché, ma è come
una tensione,
come se l’aria stesse vibrando»
Kea stese le
labbra «Non ti ci mettere anche tu»
soffiò, in realtà cercando
di celare il proprio turbamento, Sianna lo sapeva che la sua migliore
amica
temeva tutto ciò che le era incomprensibile razionalmente.
«Cosa
senti?» interrogò la più piccola, che
si raccolse nelle spalle e le
scrollò piano, togliendo importanza alla questione.
«Non lo
so nemmeno io. È una sensazione poco chiara. Anzi,
più che una
sensazione, sembra un odore, puzza come qualcosa che sta
marcendo»
Il
profumo dei fiori marci,
l’odore della morte.
Per un momento,
invece di Marion le parve di trovarsi di fronte a Kii giusto
qualche ora prima. Nel mentre avevano raggiunto la piazza e, sotto la
grande
quercia che ombreggiava con i suoi rami i sampietrini e le panche di
pietra,
Sianna riconobbe Lisanda e Iris, accomodate placidamente a godere
dell’aria
tiepida di quella giornata.
Quando
le due gemelle le notarono,
si sbracciarono con un grande sorriso sulle guance dorate, per farsi
notare.
Sedute a respirare
il profumo di
dolci, Sianna decise di condividere il comportamento anomalo della
Somma
sacerdotessa e dei suoi adepti, non lesinando la propria
perplessità circa la
loro presunta aggressione da parte di briganti. Non disse nulla di Kii,
non
parlava mai della volpe e non era certa di averne il diritto, ma la
perplessità
generale venne rincarata da Marion e dalle sue difficoltà
divinatorie, che
lasciarono le sorelle confuse.
Sianna
studiò le sue amiche, un
gruppetto disparato di diseredate, e pensò che era spontaneo
e naturale che
fossero unite, che fossero proprio loro le sue compagne di ventura e
nessun
altro.
Nella sua infanzia
avvicinarsi ad
altri bambini le era stato impossibile: qualcosa in lei inquietava chi
le stava
attorno, e la fama di sua madre l’aveva resa avversa ai suoi
coetanei. La
chiamavano “la regina dei pezzenti”, per i suoi
abiti splendidi e l’aspetto regale
così in contrasto con l’ambiente in cui era nata e
cresciuta, e per lungo tempo
solo Ynyr era stato il suo scudo contro la cattiveria degli altri
ragazzi. Poi,
aveva conosciuto Kea, quarta di sette fratelli, tutti
all’apparenza normali,
completamente diversi da lei che pareva estranea alla propria famiglia.
Da
quando era venuta alla luce, suo padre l’aveva osservata come
un’intrusa e
aveva iniziato a maltrattare la madre, che in paese da quel momento non
aveva
più goduto di buona fama. Per questo, anche la sua migliore
amica era sempre
stata respinta, e trovarsi per loro era stato semplice come respirare.
Era stata
però Marion, che si era
stanziata in paese insieme ad un gruppo di gitani erranti, a creare un
legame
fra loro e le gemelle, adottate dal panettiere a cui Sianna rubava le
focacce e
cresciute come figlie sue nonostante tutto. Nessuna di loro rientrava
nei
canoni di ciò che era socialmente accettabile, per questo
forse, era normale
che si fossero trovate e che nel tempo il loro legame si fosse
rafforzato
spontaneamente.
«Come
mai non hai provato ad
origliare quello che avevano da dirsi?» domandò
infine Lisanda, poggiando il
viso tondo nelle mani a coppa.
«Non
avrei potuto, mia madre mi
conosce abbastanza, sa prendere i suoi provvedimenti»
Iris
accennò un sorriso malizioso
«Sbatti quei begli occhioni che ti ritrovi, e Henry ti
dirà ogni cosa»
«Sempre
che ci sia qualcosa da
sapere» specificò Kea «Vorrei ricordarti
Sianna, che hai il brutto vizio di
viaggiare molto con la fantasia»
«Ti dico
che è successo qualcosa,
è stato come una stretta allo stomaco, io lo so che
c’è qualcosa che non va»
Ma anche ad
esserne certa, era
consapevole al contrario delle altre, di come Henry e Daniel sapessero
essere
ermetici quando non desideravano lasciar trasparire nulla.
«Dici
che verranno oggi?» domandò Lisy dopo un istante
di ponderato
silenzio.
Sarebbe stato
scontato, normalmente, vederli comparire all’orizzonte, se
fosse stato un giorno qualunque di una visita qualunque i ragazzi
l’avrebbero
trascorso con loro, ma Sianna sentiva che non si sarebbero mostrati.
«No, non
vengono» la precedette Mari, inclinando il capo
all’indietro per
perdersi a contemplare le fronde tinte di un blu cupo. Il sole stava
calando,
era già pomeriggio inoltrato e le poche ore di luce a loro
concesse si erano
consumate. Le bancarelle del mercato iniziarono in ordine sparso ad
essere
rischiarate con le lanterne colorate, le persone nei dintorni si erano
diradate.
Presto, si
sarebbero accese le luci dei lampioni e le fiammelle sottili e
calde avrebbero illuminato le vie, dando un nuovo volto, più
intrigante e
magico, al paesino.
«Qualcuno
di voi ha visto Ynyr? Oggi è sparito»
«Io»
asserì la gitana con un sorriso «Stava
bighellonando al mercato, credo
abbia combinato qualche disastro. Non ho capito bene, ma stava
scappando»
Sianna si
lasciò sfuggire una risata
«Com’è che non mi meraviglia? Gli
tolgo gli occhi di dosso per qualche ora e lui distrugge il
mondo!»
«Senza
di te ha la noia facile» borbottò Lisanda
«è una vera seccatura,
quando vuole sa essere un moccioso»
Iris le
afferrò un orecchio e lo tirò bruscamente
«Ma sentitela, come fa la
dura. Poi te lo trovi davanti e le gambe ti si sciolgono. Almeno non
dire
niente!»
«Ehi ma
l’hai guardato? Perché è il fratellino
di Sianna, se no un pensierino
qui è scappato a tutte, non fate finta di no!»
«Lisy,
Lisy, con te mi arrendo. Vado a cercarlo, e se scopro qualcosa
domani vi racconto»
Si congedarono con
un cenno della mano, e Sianna non imboccò la strada di
casa ma una via che serpeggiava in salita sul fianco della montagna. La
strada
lastricata, inizialmente accompagnata da case eleganti degli abitanti
più
facoltosi del paese, scivolava in un sentiero sempre più
isolato che conduceva
alla fine ad uno sperone che sovrastava il piccolo borgo. Da quella
posizione
privilegiata, era possibile ammirare Glenn Dubhar dall’alto e
la sera,
nell’oscurità, le infinite fiammelle che
prendevano il posto della pallida luce
solare sembravano un mare di stelle, come guardare un cielo al
contrario.
Di solito, quello
era il luogo preferito da Ynyr, era lì che trascorreva il
sottile lasso di tempo che divideva il giorno dalla notte e a volte le
concedeva di condividere con lui quel silenzio. Cosa pensasse non le
era dato
saperlo, né aveva mai voluto chiederlo, perché
con suo fratello aveva imparato
che domandare non premiava. Si accontentava di sdraiarsi accanto a lui
e di
tenergli la mano.
Quando giunse sul
dirupo l’oscurità si era ormai infittita e di
Ynyr, con
sua sorpresa, non c’era alcuna traccia. Si sedette
nell’erba umida per
riprendere fiato e guardarsi un po’ attorno. Probabilmente il
fratello era
rientrato, ma non si spiegava come non lo avesse incontrato mentre
ripercorreva
la strada al contrario.
La perla di Kii,
adagiata sul suo seno, emanava un lucore opalescente e
sinistro nel buio, la accarezzò piano con le dita lunghe e
sottili e pensò che
quella giornata aveva in sé veramente qualcosa che la
turbava senza che
riuscisse a darsene ragione. La mano sinistra, su cui palmo svettava la
cicatrice traslucida di una luna in fase calante, le pizzicava, un
bruciore
leggero ma costante, che stava diventando un tormento difficile da
ignorare.
Henry e Daniel
erano stati assenti a lungo, durante la loro ultima
permanenza si erano trattenuti solo pochi giorni, e per questo si
sentiva
stranita, non si aspettava certamente dai due amici tanta compostezza e
quell’atteggiamento pieno di segreti, soprattutto non dal suo
migliore amico.
Una mano si
posò senza preavviso sulla sua spalla e Sianna
sentì il cuore
salirle in gola insieme ad un urlo di terrore. Scattò con un
balzo di fianco e
cadde sdraiata a terra, proteggendosi istintivamente con le braccia il
viso
incrociò gli occhi del suo assalitore che stava sorridendo,
e all’urlo seguì
un’imprecazione.
«Ma che
diamine ti passa per la testa, vuoi farmi venire un attacco di
cuore?»
Il ragazzo
sollevò con la punta del dito indice il cappellaccio di iuta
a
rivelare la chioma castana chiara che gli nascondeva parte del volto.
William
era un bel ragazzo, ma c’era qualcosa in lui che non la
rassicurava, forse solo
a causa delle parole pregiudiziose di suo fratello nei riguardi del
giovane
sacerdote.
«Mi
hanno mandato a cercarti, devi rientrare subito a casa»
«Cosa
saresti, una badante?» si rimise in piedi scocciata e si
ripulì il
vestito dalla polvere sbattendo la gonna con le mani.
«Ne
senti il bisogno?» ammiccò lui, sembrava divertito
ma l’oscurità
mangiava ogni sua espressione e rendeva la situazione per lei piuttosto
imbarazzante.
«Tante
grazie, ma non ho certo bisogno del tuo aiuto per tornarmene a casa
mia, la strada la conosco benissimo» gli fece una smorfia
infantile e pensò di
allontanarsi in modo molto teatrale e sentito, giusto per fare la
sostenuta,
quando al primo passò si bloccò realizzando una
banale ovvietà che le era sfuggita.
«Non ti
hanno mandato… ti ha
mandato» inarcò un sopracciglio e impresse nella
piega della bocca tutto il suo
disappunto.
William
scrollò le spalle «Cosa te lo fa
credere?»
«Che sai
perfettamente di chi sto parlando Will, e conosci questo posto.
Mia madre non lo sa, nemmeno Henry ne è a
conoscenza»
Il sacerdote
sollevò le braccia in segno di resa
«Già, mi ha mandato tuo
fratello»
«E
perché di grazia non si è fatto vivo
personalmente?» ringhiò, ma non era
arrabbiata con William: era Ynyr ad averla in qualche modo seccata,
condividendo senza uno straccio di motivo un segreto che era
appartenuto a loro
per tanto tempo.
«Perché
vostra madre ha voluto così. E ci ha anche espressamente
ordinato
di riportarti indietro subito»
Marilien aveva una
tendenza al dispotismo, non solo con i suoi stessi
figli, con chiunque, era abituata a impartire ordini e ad essere
ubbidita. Per
questo la gente aveva paura di lei, era una donna forte, indipendente,
e
qualcosa di lei lasciava un’impressione di spietata
crudeltà: una donna senza
un uomo, che non necessitava di un uomo,
in un paesino così isolato era una realtà
inconcepibile. Tuttavia, quella
richiesta non aveva senso.
«È
davvero successo qualcosa mentre venivate qui»
«Sianna,
rientriamo»
«Non
voglio che mi dici cosa. Ho solo bisogno che mi confermi che non sto
delirando. Che questa strana sensazione è reale»
William
chinò il capo e la tesa del capello oscurò
definitivamente il suo
volto «Se ti dico di sì ti deciderai a
seguirmi?»
Sianna contrasse
la mascella, in un moto di stizza «Solo se è
vero»
«Sì»
sospirò il sacerdote, passandosi una mano sul collo
«Sì, e ora
preferirei non dover restare qui, mi sentirei più tranquillo
al riparo»
Si morse il labbro
inferiore, poi annuì.
Il ragazzo le
diede le spalle e si avviò lentamente, per darle il tempo di
metabolizzare la sua confessione e di seguirlo, e Sianna
guardò quella mantella
marrone rigida e pesante muoversi, il bavero che gli nascondeva il
collo, i
bordi slabbrati che strisciavano al suolo, guardò la sua
schiena per qualche
istante: avrebbe voluto chiedere di più.
Gettò
un’ultima occhiata oltre il precipizio, ad ammirare con
confusa
inquietudine i contorni, appena marcati nella notte, delle montagne
all’orizzonte, nere più del cielo che era
rischiarato da una grande luna,
sanguigna di un riflesso aranciato. E mentre i suoi occhi cercavano i
flebili
raggi lunari, una nube sinistra ne offuscò la luce
spettrale: un solo, breve
istante che la colpì con una scarica di panico,
un’energia dolorosa che le
percorse le membra e sembrò concentrarsi come un marchio a
fuoco sul palmo
della mano sinistra. Si afferrò il polso e strinse forte le
dita, in un gesto
istintivo che non poté lenire il bruciore.
«Will»
gridò, richiamando l’attenzione del ragazzo
«Will, hai visto?»
William non si
avvicinò, si voltò a guardarla, e la sua voce
risultò
stranita e estraniante, senza l’accompagnamento di
un’espressione «Cosa?»
Per un momento,
Sianna pensò di dirgli che aveva visto qualcosa. Poi
però,
si sentì sciocca.
«Niente,
arrivo»
Lo raggiunse con
una leggera corsa, ed insieme attraversarono la rada
macchia boscosa che circondava il sentiero e imboccarono la strada del
rientro.
Entrambi non fecero nulla per riempire il vuoto silenzio che li stava
accompagnando e Sianna si perse nella contemplazione delle abitazioni
tanto
familiari cercando di trarne un senso di sicurezza: i tetti bassi e
spioventi,
i comignoli, le piccole finestrelle e l’edera e il muschio
sulle facciate
mangiate dall’umidità.
Quando giunsero
sulla soglia di casa sua, William non entrò, si
limitò a
congedarsi, lasciandola se possibile solo più frastornata.
Fu sua madre a
spalancare la porta con troppa energia, facendola sussultare per lo
spavento e
la sorpresa.
«Entra,
immediatamente» la collera permeava le sue parole e quel tono
insolito.
Non
è solo rabbia, è paura.
Ha
paura
Lo comprese
immediatamente, appena incrociò gli occhi verdi, duri come
pietre opache, di Marilien.
Mosse il suo
assenso con uno scatto repentino del capo e si affrettò a
chiudersi la porta alle spalle. Ynyr era già accomodato su
una delle poltrone
della sala, sprofondato fra i cuscini con atteggiamento annoiato, e il
viso,
sostenuto pigramente dalla mano, era rivolto al tavolino che proprio
lui aveva
ribattezzato “delle ramanzine”.
Sianna lo
raggiunse e si sistemò sul bracciolo libero della medesima
poltrona, per sentire al suo fianco la presenza rassicurante del corpo
di Ynyr.
«Cosa
sta succedendo?» gli bisbigliò urtandolo appena
con il gomito. Il
fratello sollevò gli occhi freddi su di lei:
l’aria indifferente celava in
realtà una perplessità che Ynyr non voleva
mostrare, troppo orgoglioso forse di
manifestare della curiosità.
«È
da quando sono tornato che fa così» rispose
accennando a Marilien, che
inquietamente restava vicino alla soglia e osservava
l’esterno dal vetro della
finestra «Pensavo le fosse arrivata voce della discussione
che ho avuto oggi,
ma mi sbagliavo»
Sianna
corrugò la fronte, esasperata. Era dunque per quello che
Mari lo
aveva visto allontanarsi con urgenza dal mercato, era probabilmente
arrivato di
nuovo alle mani con qualcuno, non se ne meravigliava, suo fratello era
un’attaccabrighe senza speranza.
Il rumore della
serratura, e poi la porta scattò di nuovo, e stavolta fu
Korakas a palesarsi, con il fiato pesante.
«Come
è la situazione?»
L’anziana
le lanciò un ammonimento con lo sguardo «Devi
venire, è urgente»
Marilien
deglutì a stento e solo allora parve ricordarsi di loro
«Dovete
ascoltarmi attentamente» esordì fissandoli da
lontano, senza avvicinarsi «Non
uscite da qui per nessuna ragione, finché non
torneremo»
Sianna si
aggrappò alla casacca di Ynyr quasi senza accorgersene
«Mamma,
che ti prende?»
Ynyr
coprì la sua domanda bisbigliata alzandosi in piedi di
scatto «Non mi
piace questa situazione» dichiarò con forza, le
labbra strette ridotte ad una
fessura collerica.
Marilien
sussultò ancora, ma si riprese in fretta e non
rimbeccò suo
fratello, nonostante difficilmente tollerasse quei modi irrispettosi.
«Ynyr,
controlla tua sorella, fidatevi di me e restate qui finché
non
torneremo a prendervi. È troppo pericoloso, dobbiamo essere
certi che sarete al
sicuro. Quindi non azzardatevi a fare qualcosa senza di noi»
Se ne
andò lasciando il tonfo del legno che sbatteva contro il
muro come
eco delle sue parole. Allora Sianna, allibita, cercò
certezze in Ynyr e si
sentì smarrita quando riconobbe in lui la medesima
insicurezza, una maschera
che non si addiceva al viso di quel ragazzino arrogante.
«Cosa
facciamo?»
«L’hai
sentita» disse lui sospirando frustrato «Aspettiamo
e quando
torneranno le costringeremo a dirci cosa diamine le è preso
per comportarsi in
questo modo»
Sianna
annuì ancora e prese un leggero respiro «E tu
invece, cos’hai
combinato? Un’altra rissa?»
La smorfia
d’Ynyr si trasformò istantaneamente in un sorriso
ferino
provocatore «Lo sai che sono una persona espansiva, mi piace
donare il mio
affetto al prossimo»
«Già,
non oso immaginare il tuo “affetto” che effetto
abbia avuto sul quel
povero sventurato»
Ynyr
ridacchiò, le andò vicino passandole una mano fra
i capelli prima di
sfregare con energia, arruffando la sua chioma già di per
sé scompiglia «Su quei
poveri sventurati, intendi? Non
preoccuparti, il mio amore rende gli animi docili, sorellina. Non
dovresti
dubitare mai di me»
«Sì,
sei alla stregua di un santo, lo pensano tutti»
Il fratello
sfoderò la sua espressione più tenera, per
ammorbidirla, e
Sianna si ritrovò a sollevare gli occhi al soffitto pensando
che con lui poteva
solo perdere, era troppo bello e consapevole del suo ascendente sugli
altri per
sperare di spuntarla con lui.
«Chiamami
quando “la strega” torna»
le disse calcando quell’appellativo che usava spesso, in
maniera ironica, per
provocare loro madre.
Confermò
con uno sbuffo e lo seguì con lo sguardo mentre saliva le
scale e
spariva alla sua vista, lasciandola sola. Scivolò nella
poltrona finalmente
libera e vi si accoccolò come faceva da bambina: avrebbe
preferito che Ynyr
rimanesse con lei, perché sentiva una morsa gelida allo
stomaco che le rendeva
difficile persino deglutire, ed un disagio inspiegabile le si stava
insinuando
sotto il costato, quasi rarefacendo l’aria che le entrava nei
polmoni, le
sembrava di annaspare.
Cercò
di combattere quelle sensazioni negative e, ad occhi serrati,
riuscì
a scivolare in uno spiacevole dormiveglia. Si svegliò di
soprassalto, non seppe
neanche lei dopo quanto tempo, a causa di un assordante frastuono
proveniente
da fuori.
Balzò
in piedi, come non si fosse appena svegliata, e corse alla finestra,
spalancando l’imposta di legno accostata. Nel buio, il
bagliore delle lingue di
fuoco protese verso il cielo con i loro colori troppo vividi la
accecarono, la
vampata di calore le bruciò le guance, una patina umida le
impastò gli occhi e
si portò una mano al volto per proteggersi.
Erano le grida ad
averla svegliata, urla così strazianti da riempire ogni
silenzio, e Sianna scoprì di non essere in grado di muoversi
per il timore.
«Sianna!»
Si
aggrappò allo stipite di legno e lo strinse con tutte le sue
forze, fino
a farsi male. In quel frastuono le era parve di sentire il suo nome, ma
non le
importava, il panico l’aveva inchiodata al pavimento, le
gambe le stavano
cedendo e fu costretta ad accasciarsi con la spalla contro il muro per
non
crollare.
«Sianna
maledizione!»
Ynyr
l’afferrò bruscamente per il braccio e la
costrinse a voltarsi. Era
così inerme in quel momento, che gli si accoccolò
semplicemente contro il
petto, alla ricerca di un punto stabile a cui affrancarsi.
La stanza si stava
riempiendo di fumo e il suo odore acre le bruciò il
respiro.
«Perché
non rispondevi? Stupida, ero preoccupato da morire! Stai bene,
vero?»
Le prese il viso
fra le mani e Sianna si aggrappò alle sue braccia e
cercò
nelle sue iridi azzurre la razionalità che sentiva
sfuggirle. Seguì la forma
snella del polso e la mano nervosa del fratello, trovò le
sue dita magre, serrate
con troppa forza sul suo volto, e le strinse a sua volta, annuendo
disperatamente. Ynyr era lucido, i suoi tratti inflessibili ed eterei
erano la
sua sola, solida certezza, per questo Sianna non esitò a
seguirlo quando il
ragazzo le agguantò il polso e la trascinò con
sé, spalancando la porta.
Si misero a
correre, il calore che aveva avvertito non era niente in
confronto a ciò che l’attendeva fuori. Il fumo
annebbiava le strade invase di
persone, la temperatura insostenibile le imperlò la fronte
di sudore che già le
entrava negli occhi, offuscandole la vista.
In un attimo si
ritrovò risucchiata dalla folla, compressa fra
più corpi,
il braccio di suo fratello si stava tendendo sempre di più e
Sianna già non
riusciva più a scorgere la sua schiena. Le troppe urla
coprivano il suo
disperato tentativo di richiamare Ynyr e per quanto non smettesse di
provarci,
scorticandosi la gola ancora e ancora, suo fratello procedeva
stringendola
tanto forte da farle male. Temeva che quella tensione le avrebbe
dislocato una
spalla, cercò di dimenarsi, per farlo voltare, ma era troppo
debole, estraniata
da se stessa, come se quel disastro non si stesse consumando realmente
davanti
ai suoi occhi. Le grida di terrore, le abitazioni preda delle fiamme
come torce
accese, l’eccessivo calore e la confusione, c’erano
emozioni così forti intorno
a lei, così soverchianti, che realizzò di non
poterle gestire, di star perdendo
il controllo del proprio corpo.
Alzò in
un ultimo, apatico gesto lo sguardo al cielo, e in quella notte di
luna rossa, ancora una volta, vide un’ombra oscurare i raggi
lunari. Un’altra
scossa, come fuoco liquido, le percorse ogni terminazione nervosa e si
raccolse
nella mano che suo fratello stringeva con tanta prepotenza. Il dolore
inaspettato le fece cedere le gambe ed un urlo lacerato le
graffiò la gola, per
il contraccolpo la presa d’Ynyr venne meno e Sianna si
ritrovò a terra, in
balia di una folla impazzita che la colpì senza
pietà.
Le imprecazioni e
le urla si mescolavano al pianto dei bambini, le persone
incespicavano urtandola, qualcuno inciampò e cadde malamente
disteso, in pochi
attimi fu calpestato e i suoi lamenti si spensero in un mormorio
indistinto. La
macchia di sangue si stese sotto il suo corpo fino a raggiungerla e a
inzupparle il vestito, le pietre divennero scivolose, molti slittarono
e altri
ruzzolarono venendo mangiati da quell’ammasso di carne e
terrore compresso.
Una ginocchiata,
colpendola con particolarmente forza alla testa, la fece
capitolare e si ritrovò a carponi, a lottare per non
svenire, per restare
presente a se stessa, perché lo sapeva che se le braccia
avessero ceduto anche
lei sarebbe morta calpestata da quella miriade di persone raccolte in
un fiume
in piena privo di raziocinio.
«Sianna!»
Tra i gemiti e le
voci che si sovrapponevano in pianti e suppliche, le
parve di sentire indistintamente il suo nome, urlato da qualcuno che
non riuscì
a vedere né identificare, e sperava davvero che fosse suo
fratello, voleva solo
buttarsi tra le braccia di Ynyr ma un’altra ginocchiata al
costato la fece
accasciare: non le permettevano di rialzarsi e la stavano distruggendo.
Il
panico le stava portando via il respiro, non poteva chiedere aiuto e
comunque
quella poca coscienza che ancora le restava le permetteva di
comprendere da sé
che nessuno l’avrebbe notata.
Poi, un tuono
improvviso, un sibilo lontano ed una casa scoppiò in un
ventaglio
di schegge che colpì indistintamente gli abitanti. Un uomo
le cadde riverso
addosso, un frammento di legno grande quanto un braccio conficcato in
testa, e
Sianna urlò, dando sfogo a tutto il suo orrore, ma ormai le
braccia avevano
ceduto, era bloccata da quel peso morto e dalle ferite, aveva respirato
troppo
fumo e la mano continuava ad emanare fitte di rovente dolore.
Grida acute e
singhiozzi le riempirono le orecchie, si rannicchiò
più che
poté sotto il cadavere, usandolo come scudo, non voleva
pensare che fosse un
corpo, non voleva credere che, probabilmente, sotto tutto quel sangue
che le
colava addosso ci fosse un volto che aveva conosciuto bene.
Il peso delle
persone che, calpestando il morto, la comprimevano con
brutalità al lastricato, schiacciandole la guancia contro la
pietra viscida di
sangue, la stava soffocando, si affrancò con le unghie al
terreno fino a
spezzarsele, qualcuno le calpestò le dita e non riusciva a
trattenere i
singhiozzi e le lacrime per il male che la stava attanagliando e la
paura che
le comprimeva l’esofago le ripeteva che sarebbe morta senza
poter nemmeno
provare a fuggire, e non avrebbe rivisto Ynyr.
«Iris!
Tieni Marion, non lasciarla!»
In uno degli
ultimi barlumi di presenza, mentre sentiva la coscienza
spossata scivolare nel nulla, le parve di riconoscere la voce di
Lisanda nel
tumulto.
Forse
sono qui vicino.
Forse,
quando il disastro è
scoppiato, sono venute a cercarmi
Non lo avrebbe mai
saputo, non l’avrebbero potuta vedere nemmeno volendo e,
per quanto lo desiderasse, non aveva modo di palesare la sua posizione,
non ne
aveva la forza, era spezzata e l’unico motivo per cui ancora
era viva era
grazie a quel cadavere che si era frapposto fra lei e la calca. Le
parve ancora
di udire il suo nome, ma tutte le sue percezioni erano ridotte ad un
brusio
sommesso e vago e persino il dolore ormai si era ritirato, la sua mente
si era
distaccata dal suo corpo e l’unica cosa che percepiva ancora
con chiarezza era
solo costante e sottile bruciore alla mano sinistra.
Chiuse gli occhi e
si lasciò scivolare nell’oblio, senza opporsi.
Una voce, un suono
vago, distante.
Ed il suo nome,
ripetuto in una cantilena che rimbombava in un’eco nella
sua testa, ma era come una fioca fiammella sommersa dal buio che
lentamente
andava spegnendosi. A tratti risorgeva unicamente per essere
inghiottita di
nuovo dall’oscurità.
Credeva ormai di
non poter sentire più nulla, quando il peso enorme che la
comprimeva al suolo venne d’improvviso a mancare. Il corpo
era stato spostato,
eppure nessuno la stava calpestando e d’istinto i polmoni si
aprirono in un
doloroso respiro, a cercare d’incamerare più aria
possibile che le causò un
eccesso di tosse.
Si
portò la mano martoriata alla bocca, si restrinse come un
feto e tossì
ancora liquido denso e viscoso. Qualcuno non aveva smesso di vomitare
parole,
ma tutto si confondeva nel chiasso e nelle grida sbraitate di paura e
collera e
un sibilo sinistro le riverberava nelle orecchie ovattando ogni cosa.
Finché
una mano non si affrancò alla sua e la sollevò di
forza.
«Resistete!
Dovete resistere!»
E ancora
«Sianna! Sianna aiutami! Devi rialzarti! alzati!»
Le palpebre erano
incollate, appiccicose di pianto, realizzò mentre le
sollevava
a fatica insieme al proprio corpo, lottando contro il sonno che
l’aveva
ghermita per rimettere a fuoco la situazione. Sfocate dalla patina
umida,
riconobbe i volti delle amiche come in sogno, strette attorno a lei in
una
catena che cercava di non farsi trascinare via, per concederle almeno
quei
pochi secondi necessari a farla rialzare. Era la mano di Kea, quella
stretta
attorno al suo polso, era il suo viso sudato, macchiato da un rivolo di
sangue
lungo la tempia e colmo di orrore a scrutare i suoi occhi alla ricerca
di
lucidità.
Furono pochi
secondi che le parvero dilatati in interi minuti, ma che in
realtà si consumarono nel rumore di un’altra
esplosione, un boato che sovrastò
ogni parola. La resistenza delle gemelle e di Marion venne a mancare
sotto una
nuova spinta, e compresse l’una sull’altra si
ritrovarono a seguire il flusso,
aggrappandosi l’una alle vesti dell’altra per non
smarrirsi.
Come
l’avessero trovata, che cosa stesse accadendo, con quale
forza erano
riuscite ad impuntarsi per prestarle aiuto, erano interrogativi che
scivolarono
via rapidi come si erano formati. Sianna sentiva solo che non doveva
perdere
conoscenza, doveva distogliere l’attenzione dal dolore
perforante che le
ustionava la mano come stesse stringendo braci ardenti.
Si
guardò attorno disperatamente, il viso che quasi premeva
contro la
schiena della persona che la precedeva -non riusciva a distinguere
nemmeno se
fosse uomo o donna- nella speranza di riacciuffare l’immagine
di suo fratello,
mangiata da numerosi volti indistinti.
Urlò il
suo nome fino a scorticarsi la gola riarsa, graffiata da tutto il
fumo inalato e dal calore bruciante che le toglieva il respiro,
urlò sapendo
che Ynyr non avrebbe mai potuto sentirla. Cercò allora di
scivolare verso il bordo
della strada, per non essere più trascinata e avere almeno
una speranza di
salvarsi.
La porta di una
casa in fiamme venne sfondata dall’interno ed un uomo
corroso dal fuoco ne uscì urlando atrocemente, creando uno
spostamento
istintivo delle persone che aprì un leggero, piccolo varco.
Sianna vi si
sospinse, seguita dalle ragazze di cui sentiva ancora la presa sulla
veste.
Agghiacciata,
guardò quella che ormai era solo la sagoma di un essere
umano
consumarsi lentamente sul ciglio della strada, l’odore di
carne cotta la prese
alla gola e le causò un conato.
Alzò
gli occhi al cielo, deglutendo piano per non rimettere, e in quel
momento si accorse, con sgomento, di ciò che stava per
accadere.
Sugli speroni
delle montagne che circondavano il villaggio, che l’avevano
sempre protetto, si accesero come inquietanti lumini sospesi nel vuoto,
come
centinaia di nuove, piccole stelle, delle luci. Fu questione di un
attimo, il
tempo che Sianna ci mise per gridare con tutta la sua voce
«Abbassatevi!»
Centinaia di
frecce infuocate vennero scagliate all’unisono e si
abbatterono sulla popolazione ammassata nella via principale facendo
sollevare
al cielo strazianti lamenti di dolore.
Quella sofferenza
travolse Sianna come un’onda alta, sbattendola a terra,
boccheggiante e senza fiato. Con uno strattone si liberò
dalla presa di Kea. Si
portò le mani al viso, conficcò ciò
che restava delle proprie unghie nella
carne e cadde in ginocchio, senza più fiato per respirare.
Le guance erano
bagnate di lacrime per un male che non le apparteneva, ma da cui non
riusciva a
scindersi, un male che la torceva in spasmi che le percuotevano ogni
muscolo,
facendola tremare visibilmente di angoscia.
In
quell’ultimo momento disperato, quando pensava di accasciarsi
contro il
freddo acciottolato, a ridosso del muro di una casa, sentì
ancora una volta
qualcuno tendersi verso di lei e liberarla dalla gabbia di dita dietro
la quale
si stava nascondendo per non dover vedere.
Una mano
s’intrecciò alla sua, una mano familiare, nervosa
e affusolata, forte
di tendini tesi e scattanti, una mano che con un solo tocco
dissipò i
sentimenti altrui, scacciandoli con la sua calma serena.
«Resta
presente Sianna! Sianna, non svenire!»
La voce calda
d’Ynyr la risvegliò, riconobbe il suo volto
sbattuto e
ferito, sfigurato dalle contusioni e dal sangue e, prima di rendersene
conto,
si era già lanciata verso di lui, si era aggrappata alle sue
spalle con la
forza della disperazione. Schiacciati contro la parete di pietra non
riuscivano
a muoversi, ma perlomeno la folla era meno forte e non poteva
trascinarli con
sé.
«Qualunque
cosa succeda, non lasciare la mia mano»
Si guardarono
negli occhi per un lungo, surreale istante, e in
quell’inferno, con la sua piega ferina e sbilenca, Ynyr le
sorrise.
Anche Sianna
riuscì a sorridergli.
ANGOLO AUTRICE
Rieccomi, dopo una vita!
Essendo io emblema d’insicurezza e
problematicità e
avendo ricevuto poco riscontro tra i lettori, avevo deciso di lasciar
perdere,
ma questa storia ce l’ho in testa praticamente tutti i giorni
e ci impazzisco. Per
questo, grazie anche alla dose di autostima fornita gentilmente da una
mia
amica, ho deciso di riprovare.
È passato molto tempo, ma spero di
ritrovarvi tutti e se
ci fosse qualche nuovo venuto, beh, benvenuto! Stavolta,
cercherò di essere
meno assenteista, non sono mai troppo costante, ma farò uno
sforzo.
Recensire è gratis e fa la gioia delle
persone (e magari
le aiuta anche a migliorare un pochino, che qui la passione
è grande ma la
capacità un po’ meno!), perciò se vi
viene in mente qualunque cosa da dirmi,
ditela e ne sarò felicissima!
A presto
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo sesto ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO SESTO
Quando giungeva Udara, insieme ad un caldo torrido
e appiccicoso, si
allungavano le ore, ed il tempo sembrava non riuscire più a
scorrere con fluidità.
Le campane dovevano suonare ancora una volta, prima di mezzogiorno,
eppure il
sole non aveva ancora raggiunto il suo zenit e la sala del trono
restava in una
dolce penombra, dovuta soprattutto alle spesse vetrate colorate che
lasciavano
riverberi arcobaleno.
Le tribune che costeggiavano il grande salone
iniziavano lentamente a
popolarsi di nobili, e Aodh seguiva placidamente, con lo sguardo, il
percorso
dei singoli mentre raggiungevano il posto che a loro era stato
assegnato. I più
disparati colori erano legati l’uno all’altro, in
una raccolta di abiti
sfarzosi ed eccentrici provenienti dai quattro angoli del Regno, in un
eccesso
che in alcuni casi riusciva a risultare fuori luogo, quasi imbarazzante.
Duchi, marchesi, Conti, visconti, baroni, signori
e semplici
aristocratici.
Erano stati richiamati tutti a Sehar, un evento
quasi unico a cui Aodh
aveva a lungo sperato di non dover mai assistere.
Contrariamente a molti, il Marchese di Arboris non
riusciva a
rilassarsi. I suoi nervi fragili lo avevano sempre reso una persona
ansiosa,
quasi nevrotica, e i lunghi giorni di viaggio per raggiungere la
capitale,
insieme a quella missiva che ancora stringeva stropicciata tra le mani
-
inviatagli da Golvan, il segretario del sovrano, e firmata da tutti e
nove i
conti palatini- non avevano contribuito positivamente al suo precario
equilibrio interiore.
Da circa un lustro aveva ereditato il titolo dal
padre defunto e si era
trovato nella scomoda situazione di dover far fronte ad un territorio
instabile
e alle richieste capricciose e irragionevoli di Re Edward, e per questo
temeva,
forse più di tutti, un confronto diretto con il sovrano, un
uomo tanto
ambizioso di fama quanto spietato.
«State sudando» lo riprese
bonariamente Tighe, seduto accanto a lui,
con un sorriso paziente. Era un uomo di mezza età, ingrigito
e segnato, eppure,
per contrasto, la sua indole era serena e pacata, guidata da un forte
senso di
giustizia e fermezza che la vita non aveva sporcato.
Aodh lo squadrò con le sopracciglia
contratte e pensò che era quella
sua condizione di nobile minore a tutelarlo. La casata dei Torquall era
vassalla della casata di Arboris da quasi un secolo, e il titolo di
Barone
garantiva ricchezze e responsabilità su porzioni di terre
limitate. Per quanto
Tighe fosse uno dei suoi consiglieri e compagni più fidati,
non poteva
comprendere le preoccupazioni che lo muovevano. Il conflitto con le
terre di
Samhradh, che da anni rendeva il confine una trincea, dopo la morte di
suo
padre si era acuito per colpa delle Driadi, che avevano scatenato una
rivolta nei
territori che già da decenni erano stati conquistati e
integrati da Sideris.
Aodh si era ritrovato impreparato di fronte alla
poca autorità che lui
e i suoi baroni riuscivano ad esercitare su quel piccolo popolo di
selvaggi.
«Non dovresti essere tanto sereno. Non
stai considerando i fatti. Tutti
i conti palatini hanno ritenuto di dover coinvolgere il Re in una
questione
giuridica, se noi ci troviamo qui. In uno stato normale, non lo
avrebbero mai
fatto, sono troppo ubriachi del potere che possono esercitare al di
là del Re
per limitarsi volontariamente. E questo ci pone di fronte ad un
problema di una
certa importanza»
Gli angoli della bocca del Barone si ritirarono,
per lasciare il posto
ad un’espressione contratta, assorta quasi.
«Cosa intendete dire?»
Il marchese scosse il capo piano, insicuro.
«Non lo so nemmeno io. Ma una causa
tanto grande da spingere Re Edward
a radunare tutti i propri feudatari, non sono sicuro di volerla
conoscere.»
«Non pensavo fosse questo ad
angustiarvi»
«Dovrebbe angustiare tutti. Guardaci.
Sta succedendo qualcosa, qualcosa
d’importante. E sarò un vigliacco, ma vorrei non
doverne fare parte»
Le voci concitate che avevano riempito il salone
di suoni cessarono
all’improvviso quando, precedute da un cigolare pesante, le
porte principali
destinate alla famiglia reale si aprirono lentamente. Con
solennità, due araldi
si fecero avanti e annunciarono l’arrivo del Re, che fece
loro seguito insieme
alla sua scorta, la guardia reale.
Edward era un uomo dotato di una calma apparente
inquietante e di
profondi e sinistri occhi color pece, che Aodh aveva incrociato da
vicino
soltanto nell’infanzia, quando ad affrontarlo non doveva
esserci lui ma suo
padre. Il volto squadrato, ben curato, con un pizzetto spolverato di
bianco a
circondare la bocca sottile e severa, era quello delle sue memorie e di
poco
era mutato. La corona che gli cingeva la fronte, sormontata da quattro
archetti
e illuminata al centro da uno smeraldo grande quanto una noce, con
l’anello
ornato da pelliccia d’ermellino, nascondeva una chioma ora
più rada e scolorita,
nera come ali di corvo nelle memorie infantili del marchese.
Sembrava di molto invecchiato, ma
l’età non lo aveva privato della
forza crudele e prevaricatrice che era in grado di manifestare
già solo con il
suo incedere ponderato e distinto. Lo strisciare morbido del suo
pesante
mantello sulla pavimentazione accompagnò la sua studiata
attraversata del
salone, fino al capo opposto, dove sorgeva, su un piano rialzato, il
trono.
Aodh si sentì incredibilmente piccolo e
incredibilmente meschino, si
guardò le mani contratte, strette l’una
all’altra come in cerca di un appiglio,
e provò solo vergogna. Il gravoso silenzio gli rese
difficile deglutire.
Re Edward fece scorrere lo sguardo lento sulla
sala e i presenti, prima
di rompere il vuoto rispettoso che li aveva avvolti, ma quasi a volerlo
far
penare ulteriormente, non li informò della ragione di quel
richiamo. Iniziò
invece a interrogare i suoi vassalli per essere ragguagliato sulla
momentanea
situazione delle sue terre.
La parola passò al Conte Leheren
Eguerdi di Meridiem, e poi ancora a
Imanol Lanegun delle Idi.
«Che notizia abbiamo invece, riguardo al
fronte di Samhradh?»
Il Re fece scorrere i suoi occhi severi sulle file
di volti intimiditi,
si soffermò sullo scranno che raccoglieva i Conti Palatini,
ma i consiglieri
tacquero ed in risposta, una piccola ruga andò a scavarsi
tra le sue folte
sopracciglia.
«Se il Marchese di Arboris rifiuta di
prendere la parola, mi troverò
costretto a chiedere al suo generale. Zilar, vuoi rispondere tu per il
tuo
padrone?»
Aodh
sussultò, colpito a
tradimento. Guardò fugacemente Tighe in viso, per
raccogliere il proprio
coraggio, ma l’uomo era impallidito. Allora cercò
Zilar, generale supremo delle
truppe Sideriane del Sud, mentre in piedi, nella sua tenuta da parata,
affiancava gli altri tre grandi generali a tutela
dell’ingresso.
Il soldato, dopo un attimo di esitazione, fece un
passo avanti.
«Vostra Maestà, le truppe
sono infiacchite e il morale è basso. Earrach
ha portato soccorso alla regione di Samhradh. Non hanno un vero
esercito, ma
agiscono in maniera scomposta, imprevista, e la loro conoscenza del
territorio
ci ha costretto a muoverci con più cautela. Oltretutto,
presto dovremo
ritirarci in attesa dell’Udaherria»
Re Edward annuì, palesemente
contrariato.
Le regioni di Aimsir erano l’ultimo vero
baluardo di difesa dei faerie
insieme alla Regione dei Laghi. Le uniche terre dove ancora erano gli
spiriti
naturali a governare e il sangue degli angeli continuava a scorrere nei
loro
discendenti. Il precedente sovrano aveva intessuto dei rapporti di pace
con il
Conclave e gli Spiriti, ma Re Edward aveva abbandonato rapidamente
questa linea
di pensiero e prima che la Congrega potesse intervenire, aveva iniziato
la
lenta espansione dei propri domini.
«Il nostro marchese avrà una
spiegazione plausibile, ovviamente, e
saprà dirmi perché il mio esercito non sta avendo
il supporto che mi era stato
garantito»
Il Sovrano si rivolse a lui personalmente, e Aodh
fu costretto ad
alzarsi in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi per non mostrare
cedimento.
«Le Driadi si sono rivoltate, Vostra
Maestà»
«Le Driadi? Non erano ormai state
sottomesse molto tempo addietro? Così
mi aveva assicurato il Marchese vostro padre»
Aodh si sforzò di riordinare
rapidamente i propri pensieri, per
spiegare nella maniera più chiara e concisa
l’instabilità della propria Marca,
ma non ci riuscì.
Le Driadi erano creature dal sangue fatato che da
secoli occupavano l’antica
foresta di Keyll, ma suo padre aveva strappato quei boschi a Samhradh
che lui
era solo un bambino e da allora erano sotto la tutela del Marchese di
Arboris.
A causa della guerra aveva dato ordine di abbattere parte delle grandi
sequoie
che la caratterizzavano, per costruire gli avamposti e gli
accampamenti, non
aveva considerato che i selvaggi dei boschi non avrebbero approvato.
Il suo esercito si era spaccato su due fronti, ma
la guerriglia interna
si era rivelata tanto problematica quanto la sottomissione dei popoli
delle
steppe. Il legame che le Driadi avevano con l’ambiente
naturale aveva sempre
reso difficile i rapporti, ed ora rendeva ancor più
complicato e insidioso lo
scontro.
«Ho cercato di sedare queste sommosse,
sto cercando di stanare i loro
villaggi. Ma si sono nascoste, e delle truppe inviate in quei boschi
quasi
nessuna ha fatto ritorno». Il sudore freddo gli imperlava la
fronte, chiuse gli
occhi, prese un profondo respiro e si decise a raccontare ogni cosa
«I
sopravvissuti delirano. Vaneggiano di spiriti evanescenti. Dicono che
la
foresta è maledetta, che l’hanno stregata, ed ora
nessuno desidera più
addentrarvisi»
Gli morì la voce e sobbalzò
quando il sovrano, furioso, batté con forza
il pugno sul bracciolo del trono. Il tonfo si propagò
macabro nella sala.
Aveva sentito voci in passato, leggende forse, ma
che lo avevano
terrorizzato. Si diceva che contrariando il Re si andava incontro ad un
cappio,
e Aodh tremava al solo pensiero. Sehar non era nota solo per le torri
di vetro
e i mostri di vapore, ma soprattutto per le forche e i corvi, per le
crudeli
manifestazioni di giustizia che il popolo apprezzava come un qualunque,
innocuo
spettacolo.
«Quante sciocchezze! Sanno usare la
magia, ma non ci sono superiori. I
maghi popolano il nostro Regno fin dai tempi più antichi,
eppure ancora veniamo
messi in ridicolo da simili trucchi!»
Lo urlò, e Aodh riuscì solo
a incassare la testa tra le spalle, con il
desiderio di potersi ritrarre il più possibile. Aggiunse
flebilmente, più per
giustificare se stesso che per coraggio «Non credo si tratti
di meri trucchi di
magia. Sembrerebbe siano Spiriti, a giudicare dai racconti oserei dire
di
Secondo Livello»
Edward rilassò le spalle e si
appoggiò con atteggiamento annoiato allo
schienale del suo trono.
«Spiriti non Tangibili dunque. Da quello
che mi hai riferito, è
probabile. Ora che la fonte del problema è stata
identificata però, mi aspetto
un immediato quanto decisivo provvedimento»
Aodh borbottò il suo assenso e
tornò ad accomodarsi, la testa china per
la mortificazione che lo stava divorando.
Il Re riprese a parlare, con voce tonante, ma il
marchese non riuscì a
guardarlo.
«Mi duole informarvi, compagni, che il
motivo di questo mio appello
improvviso non è dettato dall’incompetenza che
alcuni tra noi stanno
manifestando, quanto piuttosto, l’arrivo di una voce.
Una diceria che qualche uccellino ha portato da
oltre i nostri confini.
Una voce di tale portata che, se veritiera, potrebbe distruggere tutto
ciò che
abbiamo faticosamente costruito»
Le parole dell’uomo si depositarono con
estrema pesantezza sul suo
animo. Aodh le accolse, raccolto nelle proprie spalle, e un
presentimento
negativo gli accartocciò lo stomaco. Intorno a lui i nobili
avevano
incominciato a vociare, discorsi indistinti sovrapposti l’uno
all’altro.
La mano di Tighe si posò sulla sua
spalla, in un gesto di conforto e di
sprono. Sentendo il peso familiare del supporto del suo vassallo e
amico, Aodh
si decise a risollevarsi. Edward si era alzato, si stava dirigendo con
calma al
centro del salone e lì, come il grande oratore che era,
riprese
«Pare che il Conclave di Sirideainn si
stia riunendo. I sovrani che
ancora aderiscono al trattato postumo la Guerra dei Duecento anni sono
stati
chiamati a raccolta. E non solo loro. Pare che siano stati richiamati
gli
Spiriti e le Entità naturali»
Un momento di pausa e il Re iniziò a
percorrere a passi lenti e
soppesati la stanza, come ad aumentare un nervosismo latente ma
già fin troppo
pressante.
«La cagione di questa riunione della
Congrega pare essere la guerra
intestina che dilania Dubhar, oltre i monti Fengari, e tuttavia non
dobbiamo
sottovalutare la gravità di questo fatto. Certamente noi,
che abbiamo infranto
il trattato ed espanso i nostri territori, non passeremo impuniti. Il
Conclave
detiene, idealmente, un potere assoluto»
«Non sta dicendo quello che sta
dicendo» mormorò Aodh, più a se stesso
che al proprio vassallo. Deglutì rumorosamente e Tighe si
chinò su di lui per
bisbigliare «Che cosa ha in mente?»
Lo ignorava, ma una parte di sé aveva
imparato a conoscere la
tracotanza che caratterizzava Re Edward, ed era proprio quella parte a
metterlo
in guardia.
Il Sovrano placò i borbottii di panico
che già si stavano sollevando
dalla folla.
«Il Conclave ci confischerà
terre e ricchezze. Con molta probabilità,
deciderà di deporci per insediare nuovi membri,
più disciplinati al loro volere»
Un’ondata di malcontento
attraversò i presenti.
«Queste pecore non hanno capito
niente!» commentò Tighe con sprezzò, ed
il marchese non poté che trovarsi d’accordo con il
proprio vassallo.
«Sta facendo leva sulla nostra
ambizione. Credo di aver compreso quale
sia la sua richiesta. Ma è folle, non può credere
che verrà seguito»
«Da tempo siamo in disaccordo con la
Regione dei Laghi, Menekse non ha
mai approvato la nostra politica aggressiva, e di certo questo non
è un
mistero. Ma d’altronde, che può saperne una donna
dei Faerie di come si governa
un regno?»
Quell’ironia critica fu seguita da
risate di scherno da parte di una
buona fetta della nobiltà, e questo turbò Aodh.
Non basterà
fare leva su
Menekse e le sue manie pacifiste per spingerci ad un massacro.
Voleva convincersene, ma lo scetticismo cresceva
dentro di lui a pari
passo con il timore.
«Tutto questo preambolo ben orchestrato,
Maestà, dove vuole condurci?»
Il respiro del Marchese si bloccò in
gola e lo fece tossire. Era così
assorto da non essersi reso conto che Tighe si stava animando, non
aveva fatto
in tempo a impedirgli di alzarsi in piedi.
Edward abbozzò un sorriso, una piega
perversa delle labbra che non lasciava
presagire nulla di buono, e riprese a muoversi, la mano infilata nella
cintura
e lo sguardo spavaldo rivolto verso l’alto.
«Menekse mi ha intimato di cessare ogni
pretesa sulle regioni di
Aimsir, se non desidero scatenare un conflitto che, arrogantemente,
sostiene
non possiamo vincere. È pura presunzione, da parte di
quella… “donna”, credere
di poterci irretire con poche, banali parole. Il Conclave ha perso
prestigio e
la Regione dei Laghi è in declino. È questa
l’unica, inoppugnabile verità»
Un suicidio.
Dichiarare
guerra al Conclave
era un suicidio.
Tighe, contrariamente a lui non riuscì
a tacere «Il Conclave basa la
sua forza su una rete di alleanze solide da secoli. Una guerra contro
Menekse
scatenerebbe un conflitto tale da coinvolgere tutte le Terre di
Confine.
Neppure la collaborazione di ogni nobile presente in questa stanza
potrà
garantirci la sopravvivenza. E se reagiremo, verremo messi in ginocchio
senza
pietà. Menekse sarà una donna, ma non conosce
perdono. Non è saggio sfidare il
Piccolo Popolo così apertamente. Il mio casato non
acconsentirà»
«Maledizione idiota, siediti e
taci» lo sibilò, anche se ormai era
troppo tardi. Lo sguardo scettico e beffardo di Edward era
già rivelatore.
«Sei molto ardito per la misera
posizione che occupi» scrollò le spalle
e si rivolse ai presenti tutti, come a sottolineare quanto poco Tighe
contasse
in quel frangente.
Una mosca che sfida un gigante, era
l’unica impressione che Aodh aveva
ricavato.
«Il regno di Dubhar è in
miseria, i Clan si massacrano tra loro.
L’Esperia si trova ancora a gestire le scorribande dei Clan
dell’Est, e i
territori che ci confinano a Ovest sono stati ormai occupati solo da
gruppi di
Nomadi. Mettendo in scacco l’Esperia, isoleremmo la Regione
dei Laghi da Emer e
dalle isole. Se mai si è presentata davanti a noi
l’occasione per sciogliere il
giogo che ci lega da troppo tempo al Conclave, è questa.
Possiamo finalmente
sottomettere i faerie e dominare la penisola»
I consensi furono molti.
Troppi.
L’odio per la congrega sarebbe stato la
loro rovina, ed anche Aodh
avesse voluto obiettare, non ne avrebbe trovato il coraggio, non
finché si
fosse trovato tra quelle mura. Sarebbe stato più sensato
ritirarsi ad Arboris e,
solo successivamente, rifiutare di rispondere al proprio vincolo
vassallatico.
Non doveva essere l’unico ad averlo
pensato, ma Tighe era impulsivo, e
si stava scontrando con qualcosa di troppo grande anche se non voleva
realizzarlo.
Infatti, non reo, tentò ancora di
controbattere «Non dobbiamo lasciarci
influenzare da questa rosea apparenza. Vostra Maestà, state
dimenticando il
vero nemico»
La sicurezza di Edward parve incrinarsi un poco,
ma il sovrano
dissimulò rapidamente il proprio sconcerto
«Illustrami, ti prego»
«L’angelo»
La voce di Tighe aveva tremato, pervasa da un
rispetto reverenziale nel
solo pronunciare quella parola.
«L’angelo?»
«Sì. L’angelo che
si vocifera da anni sia in possesso della Congrega.
Se veramente a difesa del Conclave ci fosse un angelo, andremmo
incontro alla
nostra disfatta, per nuove terre e nuovi titoli»
Incredibilmente, alcuni annuirono, forse
spaventati più dall’idea di
quell’essere mitologico che dal sovrano.
Aodh non si unì a loro.
Conosceva la famosa diceria, ma aveva sempre
pensato che fosse solo un
ulteriore modo per sottomettere con il timore i Regni. Era un
ragazzino, quando
aveva saputo per la prima volta di questo fantomatico difensore del
Conclave,
era stato suo padre a raccontargli ogni cosa, lo aveva messo in
guardia. Gli
aveva sempre raccomandato di non commettere sciocchezze, quando fosse
giunto il
suo momento.
Lo aveva fatto anche in punto di morte, drenato
dai salassi e
schiantato dal tifo.
Eppure, ora vedeva in quel semplice uomo con una
corona in testa un
pericolo ben più pressante che in una leggenda popolare.
«Tra un Tempo esatto a partire da oggi,
mi aspetto di ritrovarvi qui,
prima del mezzogiorno. Ai presenti, illustrerò il motivo per
la quale nulla
abbiamo da temere da questo sedicente angelo. Diceria fomentata ai miei
occhi
solo per incrementare un potere che va spegnendosi»
Si sedette sul trono, la dignità che la
sua figura un poco affaticata
riusciva ad emanare, portava istintivamente a prendere in seria
considerazione
tutta la sua spavalda sicurezza.
«A coloro che stanno seriamente
valutando di non presentarsi, ricordo
il vincolo della promessa che ci lega. E alle conseguenze che, state
certi,
verranno scontate con gli interessi» un sorriso perfido e
rilassato si dipinse
sul suo volto di pietra.
Ancora una volta, Aodh chinò lo sguardo
sulle proprie mani, torturate
istintivamente per tutto il tempo di quella riunione.
«Mi giuraste fedeltà.
Rispettate quel giuramento, e non incapperete nel
disonore. Sono certo che fra trenta giorni avrò la risposta
che mi aspetto di
sentire»
L’assemblea venne sciolta e i dignitari
cominciarono a confluire nel
cortile esterno. Ancora carico di apprensione, Aodh si
affiancò a Tighe in
quella piccola folla, mentre scendevano la scalinata.
All’aperto, lo colpì il
profumo delle spezie, l’odore dei pasti caldi di mezzogiorno
nelle vie
cittadine che giungeva fino a lì. Il corrimano della
scalinata, dalla forma
sinuosa, era decorato a mosaico con frammenti di pietre colorate che
creavano
effetti geometrici, e decorate con ceramiche colorate a motivi floreali
erano
le grandi abitazioni nella zona più ricca della
città.
Le cupole a bulbo di vetro delle torri del palazzo
reale, con la
strombatura ampia e le nervature esterne che ricordavano una spuma di
crema,
sotto il sole brillavano proiettando riflessi di luce sulle mura
colorate
dell’edificio e le tegole vivaci.
C’era qualcosa di incredibile, in quella
città, un calore di stoffe
allegre smosse dal vento, un’originalità
architettonica, o forse proprio l’uso
smodato di cupole di vetro che illuminavano Sehar di un manto
d’incanto.
Il marchese si perse nella propria, personale
contemplazione fino a
quando non furono fuori portata d’orecchio, nei giardini
d’ingresso del
palazzo.
«Non avresti dovuto fare
quell’intervento. È evidente che ha in mente
qualcosa, ma se ti esprimi così apertamente non arriverai
lontano»
Tighe stemperò il tutto con un sorriso
bonario «Sicuramente ha in mente
qualcosa. Per questo la nobiltà deve fare fronte comune. Ha
bisogno di noi, gli
forniamo uomini e vettovagliamenti. Da solo non potrebbe sostenere i
costi di
una guerra»
Nonostante l’età, Tighe
restava un incredibile idealista senza
speranza.
In parte, Aodh temeva per l’amico,
sospettava che per piegare al
proprio volere i suoi feudatari, il Re avrebbe usato qualunque mezzo.
«Non conterei troppo sul buon senso qui
dentro. Li hai visti? Per lo
più si facevano ingolosire da promesse visionarie»
«Non vi fidate a sufficienza delle
persone. È questo il vostro problema»
Il marchese rispose con una smorfia scettica.
«Vedremo. Nel frattempo stai attento
però. Non mi fido di lui. Il fatto
che la decisione finale sia stata rimandata mi inquieta»
Il Barone sorrideva gioviale, non gli portava
rancore benché non lo
avesse appoggiato di fronte al consiglio, e di questo Aodh era grato.
Si
sentiva facilmente inadeguato, di fronte ai compiti che ci si aspettava
sapesse
gestire senza difficoltà, e l’unico obiettivo che
si era prefissato in politica
era di sopravvivere. Era un essere troppo piccolo e informe, di fronte
a Edward
come agli altri, per poter sperare di meglio.
«Può essere, mi
guarderò le spalle. Ma il vostro problema mi pare ben
più impellente. Come pensate di liberarvi di quegli spiriti?
Le amadriadi sono
un ostacolo ben più ostico di quanto la nostra
Maestà abbia voluto ammettere,
nessuno resiste ai loro incanti»
Aodh si grattò distrattamente la
guancia, sovrappensiero «Già. Non
riesco nemmeno a immaginare come siano riuscite a radunarne un tale
numero»
Il sorriso di Tighe si spense, la fronte segnata
di arricciò in rughe
profonde «Che pensate di fare?»
Avevano abbandonato i cortili del palazzo che si
aprivano sull’immensa
piazza di Izarargi. A costeggiare la ringhiera in ferro battuto a
ricami
naturali che delimitava i confini del Palazzo Reale, attendevano in
ordine le
carrozze dei nobili. Diversamente dalla carrozza che usava per i lunghi
viaggi
a distanza, grande quanto un piccolo appartamento, questa era sottile e
disadorna, laccata di nero, perfetta per gli spostamenti nelle vie
cittadine.
Aodh riconobbe la propria grazie ai colori
d’abito del cocchiere in
piedi, accanto ai cavalli bianchi ornati della gualdrappa con lo stemma
della
sua casata. Si avvicinò, lentamente, mentre la sua mente
inseguiva una
soluzione che non sembrava volersi mostrare.
Il cocchiere aprì lo sportello ed una
scaletta si srotolò ai
suoi piedi con un rumore metallico.
Prima di salire, si voltò a guardare
l’amico che pareva intenzionato a
ricevere necessariamente una risposta.
«Non lo so, non ho molte scelte. Penso
che chiamerò a Corte degli
Ammazza Spettri»
ANGOLO AUTRICE
Buongiorno, sono circa tornata!
Fondamentalmente, le note sono uno dei motivi per
cui pubblico tanto
sporadicamente. Sento che dovrei dire qualcosa di sensato e magari
chiarificatore, ma alla fine non ne sono mai capace!
Comunque, visto che le cose iniziano a diventare
tante, ho pensato di
fare un piccolo schema. Lo aggiornerò mano a mano che si
aggiungeranno nomi e
persone.
Potrei dover giungere a farlo anche per i
personaggi, ma spero non sia
così necessario perché mi annoio a morte a
mettere le cose in fila!
Ogni Regno o regione ha la propria lingua, ma
siccome sono contraria
alle classiche frasi inventate dove i personaggi sembra abbiano un
raschietto
in gola che non vuole saperne di sparire, ho optato per qualcosa di
più
semplice.
Per cui, sono alcuni dettagli legati alla
tradizione a distinguere un
Regno dall’altro, dettagli come le formule di saluto, i nomi
delle stagioni,
dei mesi, e altre piccole fissazioni da psicopatica quale sono.
REGNI PRINCIPALI
Regione dei Laghi:
Ø
capitale Sirideainn, sede del
Conclave.
Regno di Dubhar (o delle Ombre):
Ø
capitale Nesia
Regioni di Aimsir:
Ø
Samhradh
Ø
Earrach
Ø
Foghara
Ø
Geamharadh
Regno di Sideris:
Ø
capitale Sehar
Ø
Contea di Meridiem
Ø
Contea delle Idi
Ø
Marca di Arboris
Regno di Emer
Regno di Esperia
Steppe dell’ovest
Isole di Þoka
LUOGHI
Lochlainn, villaggio di sacerdoti
Dravidi a
Nord, sul fiume Ishtar
Glenn Dubhar, paesino tra le
montagne del Centro
Foresta di Keyll = Regione boscosa
di Samharadh
assimilata alla Marca di Arboris
Monti Fengari = Catena montuosa
che divide
Sideris dalla Regione dei Laghi
STAGIONI
Nel Regno di Dubhar:
Ø
Samhradh = Estate
Ø
Earrach = Primavera
Ø
Foghara = Autunno
Ø
Geamharadh = Inverno
Nel Regno di Sideris:
Ø
Udara = Estate
Ø
Udaherria = Primavera
A presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo settimo ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO SETTIMO
La camerata della foresteria era spaziosa e
semplice, l’arredamento essenziale comprendeva solo i loro
letti, un paio di
cassettoni, uno scrittoio e una finestra con delle imposte di legno da
cui
Sianna studiava il flusso di persone e gli animali, i bambini che
giocavano.
Se si sporgeva,
riusciva a intravvedere
anche il frutteto che colorava un fianco della collina. Le piaceva il
profumo
che le erbe aromatiche spandevano dal Giardino dei Semplici e
l’invitante
fumata dei pesci arrostiti che sentiva quando si avvicinava
l’ora di cena, dato
che la foresteria era posizionata vicino alle cucine.
Anche se
l’accesso a molte
zone del monastero era loro proibito, a Sianna interessava poco vedere
i
dormitori delle sacerdotesse e dei sacerdoti, o le celle, le bastava
trascorrere il tempo all’aperto con Tanet e il suo pessimo
umorismo, o stare
con Lisy e Kea ad accarezzare i musi dei cavalli nelle stalle e ad
imboccarli
con del fieno.
Prese
un’ultima boccata d’aria
fresca prima di ritrarsi per lasciarsi cadere pesantemente sul letto.
Gael ne
approfittò subito e balzò sulla sua pancia
piatta, zampettando buffamente verso
il suo viso. A Poco meno di una spanna, emise versi striduli e
indisposti, e
Sianna lesse in quegli occhi rosati, nell’iride marcata da
una sanguigna linea
rossa perfettamente sferica, il rimprovero dell’animale.
Gli
accarezzò gentilmente il piumaggio
con la mano guantata, ed il falco inclinò la sua testolina e
si gonfiò di
palese soddisfazione.
Era sempre stato
insolito,
Gael. Ricordava come era da cucciolo, quando lo aveva appena raccolto
ed era
ostile con tutti, quanto tempo era trascorso prima che diventasse meno
aggressivo, come poi si fosse affezionato a lei in maniera
così morbosa e
naturale da renderlo un compagno fedele e affettuoso, tanto da
permetterle di
lasciarlo costantemente libero.
Il falco non la
abbandonava
mai, la seguiva con cieca fiducia, ovunque, e quando gli parlava
sembrava
essere in grado di comprenderla, la ascoltava e le ubbidiva.
Mentre la mano
affondava nelle
piume candide, la sua attenzione venne raccolta dai guanti che
nascondevano la
pelle diafana lasciando scoperte, come rami sbiancati dalle intemperie,
le dita
magre e sottili, affilate. Eireen alla fine aveva vinto,
l’aveva convinta a
nascondere la benedizione che l’aveva segnata fin
dall’infanzia. Un poco ne era
rimasta ferita, era il ricordo più vivido di suo padre,
l’unico in verità, ma
la sacerdotessa era parsa abbastanza preoccupata da convincerla senza
che
facesse polemiche.
«Maledizione!»
riconobbe
dall’imprecazione Lisanda un attimo prima che questa
spalancasse la porta, in
una scia di borbottii irati e sconnessi. Sianna alzò
svogliatamente la testa
per piegarla verso l’amica «Che ti
prende?»
Lisy
sollevò furibondamente
una mano al soffitto «È evidente che le
divinità hanno deciso che devo perderci
un arto, non c’è altra spiegazione! Qualcuno deve
avermi fatto il malocchio»
«O
più semplicemente sei
goffa» la punzecchiò Iris, comparendo alle spalle
della gemella con le braccia
incrociate sotto il seno e un sorriso di scherno a macchiarle le
labbra. Anche
così, erano simili in maniera disarmante, due immagini
riflesse allo specchio e
due caratteri radicalmente diversi, opposti.
Sianna si
lasciò andare ad una
risata «Io opto per la seconda! Che ti sei fatta stavolta, ti
sei tagliata
ancora?»
«Che siate
dannate» sbuffò
Lisy, gonfiando una guancia in un moto d’insofferenza
«Sì mi sono tagliata, e
fa un male cane. Tu, inutile erborista, invece di commentare non
potresti, che
so, fare qualcosa?»
Di malavoglia Sianna
si mise a
sedere, spodestando un Gael indisposto che, per punizione,
cercò di beccarle le
dita «Ti dovrei mandare da Tanet suppongo. O da Arfon sarebbe
più giusto? Non è
quel vecchiaccio il “guaritore”?»
Sibilò
l’ultima parola con
sfacciato scherno, ma le amiche non se ne meravigliarono né
ci badarono particolarmente,
solo Iris manifestò la sua insofferenza roteando gli occhi.
La sua antipatia
per l’anziano, sviluppata già dopo un paio
d’incontri e cresciuta
nell’imbarazzo delle occhiate sospette e diffidenti che Arfon
le dedicava, era
nota ormai ai più.
Arfon la faceva
sentire
bambina, piccola e impotente davanti al disprezzo. Crescendo, aveva
sperato di
non doversi mai più sentire così meschina e
fragile, ma gli occhi del vecchio
erano il riflesso di anni di ostracismo che non era mai davvero
riuscita a scordare.
«È
un modo alternativo per
dichiarare la tua inutilità» constatò
Lisanda, ignorando il suo cinico
commento, incrociando le braccia al petto a celare le mani dalle dita
già
parzialmente bendate. Lisanda non era tagliata per il lavoro manuale,
aveva un
talento innato nel farsi male e nonostante suo padre preparasse i dolci
più
buoni che Sianna avesse mai mangiato, non aveva ereditato alcuna
inclinazione
per l’arte culinaria. Era una viziata più brava a
mangiare che a fare, e il
fatto che Leoise avesse assegnato lei e la gemella alle cucine del
refettorio
l’aveva resa irritante e lamentosa.
Sianna in parte le
invidiava:
quella era la condizione a cui dovevano sottostare se desideravano
rimanere al
monastero e seguire le lezioni con i novizi sacerdoti. Loro non erano
discendenti di buone famiglie, né erano state mandate al
monastero ad
apprendere le tradizioni come molti ragazzi che occupavano le camerate
anche se
poi non avrebbero preso i voti. Lei e le sue amiche erano semplicemente
capitate, un incidente imprevisto. Succedeva, che i monasteri
adottassero
qualche bambino abbandonato per riempire le proprie fila di sacerdoti,
ma per
loro la questione era più delicata, erano adulte, senza
preparazione.
Senza inclinazioni
alla vita
sacerdotale e al basico concetto di rinuncia.
E comunque, Sianna da
tutto
questo era stata esclusa, restava solo sotto la tutela di Eireen e la
donna non
le permetteva di interagire troppo con gli altri, lasciandole addosso
un amaro
senso d’insoddisfazione.
Prima che potesse
rispondere a
Lisanda, la porta venne spalancata di nuovo, con più
irruenza, e questa volta a
fare la sua entrata fu Marion, più vivace che mai nelle sue
stoffe colorate e
nel tintinnare dei campanelli della gonna. Teneva stretta una scatola
di legno
ed il sorriso raggiante faceva risaltare i denti bianchissimi in
contrasto con
la pelle abbronzata d’oro brunito.
«Non ci
crederete mai,
guardate cosa mi ha regalato William!» esclamò
entusiasta, sventolando la
suddetta scatola.
«Un
contenitore per gli
oggetti che non hai?» la istigò Sianna con un
ghigno, solo per indisporla. E
infatti Marion, sempre pronta a raccogliere le provocazioni, le fece
subito una
smorfia «Ovvio che no. Mi ha fatto dipingere delle carte
nuove!»
Si avvicinò
allo scrittoio e
con impazienza fece scivolare disordinatamente tutto il contenuto sulla
superficie di legno. Sianna scattò in piedi e si
avvicinò imitata dalle
gemelle.
«Ci sono
tutte?»
La zingara era
estasiata, le
accarezzò piano, con la medesima dolcezza che una madre
avrebbe dedicato nel
vezzeggiare il proprio bambino, e quel sorriso sereno di bambina si
schiuse
lentamente e divenne così pieno e grande da sembrare quasi
doloroso, i suoi
denti erano perle incastonate tra le labbra papavero.
Sianna non poteva non
guardarli sempre, scintillavano, le conferivano una bellezza
misteriosa,
esotica, arcaica come una di quelle antiche statue di bronzo dedicate
agli dei
e decorate di pietre preziose.
«Sembrerebbe
di sì»
Anche lei si
ritrovò ad
allungare la mano per sfiorarle con la punta dei polpastrelli, a
sentire la
tempera in rilievo sporgere appena nel delineare figure anche per lei
troppo
note: il Bagatto, il Sole, la Temperanza.
Si soffermò
qualche istante di
più sulla carta dell’Angelo, seguì la
forma del viso, i boccoli d’oro, la prese
tra le mani per poterne ammirare l’eterea e delicata figura,
l’espressione
inflessibile e la tromba del giudizio tra le mani.
Se ne pentì
all’istante,
Marion già aveva trattenuto il respiro e socchiuso gli occhi
vispi.
«Il
Giudizio. Scelta
interessante» commentò pacatamente. Poi, con
l’atteggiamento inquisitorio di un
cerusico esperto, si prese il mento tra le dita e la osservò
con la fronte
corrucciata in linee parallele «È dritta o al
rovescio?»
«Per tutti i
Serafini, no eh?
Ti prego, non ricominciamo con questa storia. Non ho voglia di essere
vivisezionata, devo andare a dormire, tra qualche ora Tanet
verrà a chiamarmi e
non chiuderò occhio nemmeno stanotte!»
«Di
nuovo?» si lamentò
Lisanda, e Sianna pensò che era comico come riuscisse a
identificarsi con le
vittime di quelli che lei riteneva soprusi, a ricordare che i mantra
della sua
vita erano pochi, ma precisi e fondamentali.
Ed il sonno rientrava
tra
questi dettami ferrei.
«Dritta o
rovescia?» ribadì
invece Mari.
Sianna si concesse un
sospiro
sconfitto e voltò la carta, in modo tale che fosse visibile
a tutti «Sì, di
nuovo. E sì, è dritta»
borbottò.
Marion era
così spontanea che
ogni emozione le si dipingeva con estrema chiarezza in viso, e
l’espressione
gongolante, che accennava due fossette agli angoli della bocca,
rivelò tutta la
sua soddisfazione.
Ovviamente
lo aveva previsto
«Ovviamente
dritta» sottolineò
infatti con un sorriso più grande «Prevedibile. E
molto interessante»
Iris
l’agguantò saldamente per
un orecchio e lo tirò fino a strapparle un lamento non solo
di sorpresa «Non
fare la sibillina, piccola peste, dille quello che muori dalla voglia
di dire,
così possiamo ricominciare a fare quello che stavamo
facendo»
«Non stavamo
facendo niente»
osservò distrattamente Lisy, ancora concentrata sul taglio
che le segnava
l’indice. In cambio ricevette un buffetto sulla testa.
«Non me ne
lamentavo di
certo!»
«Va bene
Iris dico tutto, ma
lasciami!»
Come due bambine
domate da una
madre intransigente, Marion e Lisanda misero il broncio.
Sianna
intrecciò le braccia sotto
il seno e abbozzò un ghigno provocatorio «Ti
ascolto» esortò la più piccola.
Marion sbuffò, si sistemò le pieghe della gonna e
i campanelli tintinnarono
ancora. “La musica delle fate”, così Kii
chiamava quello scampanellio.
«È
interessante perché
significa “litigi e fraintendimenti”»
chiarì la bambina, arrossendo appena.
«E?»
Mari si morse le
labbra «E io
ho incrociato Ynyr, poco fa» lo disse con riluttanza, e
subito si nascose
dietro al corpo di Iris, ad usarla come scudo per proteggersi dalla sua
espressione truce.
Lisanda le
scompigliò i
capelli affettuosamente «Il tuo intuito colpisce sempre nel
punto giusto» la
lodò, ma Sianna questa volta ne provò solo un
affilato fastidio, una
soddisfazione che non voleva concedere loro. Strinse i pugni, prese un
grande
respiro e decise di ignorarle. Diede loro la schiena e tornò
a stendersi sul
suo letto, premurandosi di tirarsi la coperta fin sotto il naso.
Le amiche
l’avevano seguita
con gli occhi in silenzio, in attesa di uno scoppio che, aveva deciso,
non ci
sarebbe stato.
«Non dici
nulla?» la
interpellò Lisanda. La sua voce non era limpida,
c’era una nota velenosa, di
fastidio compresso che sfociava nella rabbia. Anche quando percepiva in
loro
sentimenti molto forti, così prepotenti da strizzarle lo
stomaco e le viscere,
difficilmente riusciva comunque a sentirsi toccata. Era più
che altro la
nausea, la brutta sensazione che doveva combattere, un rigetto verso le
emozioni altrui, sempre fin troppo invadenti.
Non aveva molto da
dire sulla
questione Ynyr.
Suo fratello era un
tasto
dolente che odiava sfiorare, perché semplicemente Ynyr
stesso lasciava poco
spazio alle parole. Non si erano più parlati dal giorno
della commemorazione, a
malapena si erano incrociati. Vivevano nello stesso monastero, eppure
evitarsi
era stato incredibilmente facile e spontaneo. L’indifferenza
di suo fratello
bruciava troppo perché le riuscisse di soffermarcisi sopra
senza infuriarsi con
il mondo intero, ed allora aveva deciso di fingere che non ci fosse mai
stato.
Era un braccio di
ferro, una
sfida costante per ristabilire i precari equilibri della loro
relazione, e per
quanto Sianna sentisse la sua mancanza e avesse desiderio di andare da
lui, per
orgoglio e necessità non era intenzionata a cedere. Si
teneva occupata per non
darsi eccessivo pensiero, ma puntualmente qualcosa pungolava la sua
coscienza
per impedirle di accantonarlo.
Spetta
a lui, solo a lui fare un passo indietro. Io ho fatto la mia
parte, ci ho provato a sostenerlo, ad esserci nel momento del bisogno,
ma è
impossibile farlo se neanche mi parla.
«Insomma,
fammi capire, siete
di nuovo immersi in una delle vostre impossibili liti da cui
è meglio tenersi
lontane?» Lisanda si lasciò cadere sul suo letto,
strappandole parte della
coperta.
«Ho
sonno»
«”ho sonno”»
le fece il verso la ragazzina, e la gemella maggiore le
diede man forte «Non puoi sempre fare così,
è come avere a che fare con una
bambina»
«Mai detto
di essere adulta»
«Sei peggio
di Mari»
«Ehi!»
protestò con evidente
indignazione la zingarella «Io non li faccio i
capricci!»
Sianna
sospirò pesantemente «Sentite,
è semplice: non mi va di parlarne e non mi va di vederlo.
Esattamente come non
va a lui, tra l’altro»
«Che
significa che sono immersi
fino al collo in una delle loro discussioni impossibili»
Kea, rientrata proprio
in quel
momento, non si era lasciata sfuggire l’occasione di
punzecchiarla, con il suo
tono basso e divertito.
«Chiamatela
come volete, non
m’importa. Ora vorrei dormire davvero»
Cacciò la
testa sotto la
coperta e serrò le palpebre, nella speranza che le amiche
cogliessero
l’antifona. Sentì il peso di Kea aggiungersi sul
materasso, accanto a Lisy. La
mano della sua migliore amica le accarezzò confortante la
spalla.
«Se
può interessarti, nemmeno
lui segue le lezioni dei novizi. Non esce praticamente mai, non so
nemmeno cosa
faccia, né dove lo tengano. Dovrebbe stare qui con noi, ma
non occupa nessuna
stanza per gli ospiti»
Sianna
iniziò a rosicchiarsi
con meticolosità le unghie «Lo sai come
è fatto. Avrà trovato un modo per
ingraziarseli tutti. Ynyr si rigira le persone come burattini, non mi
meraviglia per nulla»
Realizzò
che doveva realmente
essere andata così e si rimproverò da sola,
pensando che per tutto il tempo si
era preoccupata per lui inutilmente. Era arrivata persino a credere
che, forse,
suo fratello non fosse stato bene, ma la realtà doveva
essere ben diversa.
«Già,
può essere. Alla fine si
parla di Ynyr, per quanto odioso nessuno può dirgli di
no» chiuse il discorso
Kea. Si alzò e Lisanda, dopo un secondo di esitazione, la
seguì.
Era una
verità assoluta,
nessuno poteva realmente negargli qualcosa.
E questo la faceva
arrabbiare
solo di più.
***
“Come
puoi chiedermi di
fingere di non starti tradendo?”
Degli
occhi così caldi Sianna
non li aveva mai visti. Erano iridi di sole, morbide di una tenerezza
struggente, una carezza di velluto sul volto. La dolcezza di una mano
candida
che sapeva di protezione, di amore.
Seguiva
con lo sguardo i
movimenti delle dita lunghe ed eleganti, come se la sua esistenza
dipendesse da
quei gesti familiari che sembravano ricordi strappati ad una vita che
non le
apparteneva.
“…
mi prenderò cura di te
finché non sarai pronta. E anche allora, tesoro, non mi
avrai perso…”
Si
strinse le ginocchia al
petto, affondò il viso tra le braccia.
I
capelli di seta le ricaddero
sulle spalle, un mantello morbido in cui trovare un rifugio che la
proteggesse
dal dolore di quelle parole.
Un
dolore che non comprendeva
per una tenerezza che non aveva mai conosciuto.
Sapeva
poche cose, Sianna.
Sapeva
che quelle erano le sue
braccia, sue erano le gambe magre, sua la guancia che aveva ricevuto
quella
sfuggente carezza.
Sapeva
che suoi erano quei
capelli di fine argento.
***
Un passo stentato, un
altro ancora, e per poco Sianna non cadde
rovinosamente a terra. La trattenne per il mantello di lana qualcosa
che
realizzò con sgomento essere semplicemente una radice
impigliata. Si raccolse
con le braccia al petto, incastrando il cesto di vimini tra il polso e
il seno
per poter sfregare le mani sopra la veste, nel vano tentativo di
produrre del
calore.
Nonostante fosse
Samhradh inoltrato e il Tempo della Mietitura fosse il
più caldo dell’anno, la temperatura quella notte
era calata bruscamente. Il
vento frustava con le sue folate gelide e penetrava i vestiti leggeri
per
arrivarle fino alle ossa. Le tremavano le labbra, a tratti le battevano
i
denti.
Non riusciva ad
auspicarsi situazione peggiore, gli occhi gonfi e rossi
bruciavano dal sonno al punto che la vista le si appannava. Avrebbe
potuto
evitare quella caccia notturna solo se avesse piovuto, ovviamente si
era
augurata un temporale improvviso con ogni fibra del suo essere e,
altrettanto
ovviamente, come a farle dispetto, non era caduta neanche una goccia,
neppure
un sussurro di mal tempo. Non c’erano nuvole e le stelle
erano particolarmente
nitide.
Tanet camminava
qualche passo più avanti. Era abituato ad orari
improponibili e per questo era perfettamente sveglio e Sianna lo
detestava e
invidiava al contempo. Perlomeno aveva afferrato fin da subito che in
quei
momenti non doveva parlarle, doveva usare parole semplici solo se
necessario ed
entro una certa misura, o non sarebbe stata in grado di seguirlo, e su
queste
regole di basilare convivenza si basavano le loro escursioni notturne.
«Mettiti
dritta! Se qualcuno ti vedesse, ti scambierebbe per
un’amadriade. Ci mancherebbe solo questo» aveva
sbottato Tanet ad un tratto,
esasperato. Si sentiva spiritata e il suo corpo si muoveva
più per istinto che
per ragione, le palpebre si abbassavano come pesanti macigni
impossibili da
sostenere e a volte nemmeno se ne accorgeva. Capiva il fastidio del
sacerdote,
ma davvero non riusciva a costringersi.
Più
dolcemente, il maestro aveva soggiunto «Non ti avevo
raccomandato
di dormire?»
Si
stropicciò il viso debolmente «Io ci ho
provato»
Sembrava una
giustificazione fiacca, eppure era la verità.
«E cosa te
lo avrebbe impedito?»
Cacciò uno
sbadiglio che si mangiò metà della risposta,
riuscì a
biascicare «Incubi», poi inciampò in una
radice e Tanet le afferrò il braccio
prima che distruggesse il cesto e con esso tutto il contenuto, lavoro
già di
qualche ora.
Con uno sbuffo
esasperato, il maestro l’aiutò a rimettersi
dritta, la
guardò negli occhi e accennò un sorriso
«Sei il solito disastro»
La sua mano bronzea
tra i capelli, in un goffo gesto d’affetto, era
ormai familiare.
«Vuoi
parlarmene?»
Sianna fece spallucce
e si allontanò di qualche passo.
La distanza fisica
l’aiutava a mantenere, banalmente, una distanza
emotiva. Sollevò il bavero del mantello fin sotto il naso,
cercando con un improbabile
arricciamento delle labbra di farlo restare in quella posizione
innaturale, per
proteggersi almeno un poco la gola dall’aria fredda.
Non ci
riuscì, e Tanet ancora la guardava, in attesa di una
risposta.
«Anche
volendo non ricordo granché» liquidò la
questione.
Il maestro non
insisté oltre e in quel silenzio sporcato
d’imbarazzo
ricominciarono la loro marcia notturna.
«Maestro,
dove stiamo andando ancora?»
Tra uno sbadiglio e
l’altro aveva avuto la lucidità di accorgersi che
Tanet aveva imboccato un abbozzo di sentiero tra le sterpaglie che
invece di
rientrare si inoltrava ulteriormente nella boscaglia.
«Sulle
sponde del fiume. Dobbiamo muoverci, l’aria si sta inumidendo
troppo e vorrei raccogliere qualche radice»
Con un sospiro di
disperazione Sianna si raccolse nelle proprie spalle,
rattrappendosi come se potesse perdere dimensione e avere meno
superficie a
contatto con l’aria fredda. Lo scrosciare del fiume
accompagnava i suoni
inquietanti degli animali notturni, il bubbolare di un gufo, il
frusciare del
fogliame e delle frasche a causa del vento, il crepitio del terreno
sotto i
piedi esperti di Tanet. Il rumore di un ramoscello spezzato la fece
sussultare,
si voltò e si guardò attorno, ma non
c’era nessuno e il maestro non aveva fatto
una piega.
Con
l’inquietante sensazione di avere mille occhi puntati
addosso, si
affrettò a raggiungere il giovane sacerdote.
L’acqua
nervosa del fiume schiumava contro le rocce, il vento la
trasportava in ventagli di gocce che le bagnarono il volto. La luce
aranciata
della luna piena filtrava appena dalla galleria di rami intrecciati che
ricopriva il corso d’acqua, le ombre si distendevano in un
effetto di
contrasti, assumendo forme grottesche.
Quell’impressione
di avere occhi che la seguissero non smise di
infastidirla, come dita gelide che sfioravano la base del collo
facendole
venire la pelle d’oca. Tanet le passò la lanterna
che li aveva guidati
nell’oscurità affinché lo illuminasse
mentre lavorava. Lo osservò sganciare il
falcetto d’argento che portava sempre legato alla cintura per
sezionare dei
fiori. L’arbusto era affusolato e longilineo, le arrivava
all’anca ma non ne
afferrava il colore.
«Questa
è un’Altea, ha ottime capacità
emollienti ed è più facile
trovarla lungo i corsi d’acqua. Ricordi la
famiglia?»
Sianna si fece
più vicina, per studiare meglio i boccioli che il
maestro stava selezionando con cura: erano fiori bianchi, con la
corolla a
cinque petali a forma di cuore. Tanet li raggruppava in mazzolini che
poi
fermava con dello spago.
«Credo sia
un malvaceo, giusto?»
«Giusto»
le sorrise lui, poi trotterellò pieno di energia verso
un’altra piccola piantina cresciuta a ridosso di un albero.
«Osserva
questo. Il Tremolo è incredibile, vedi le radici come sono
contorte? Arrivano molto in profondità e quando non possono
più scendere,
tornano in superficie e formano questo reticolo»
illustrò estasiato, quasi
sognante avrebbe detto Sianna, non fosse stato ridicolo per lei pensare
che
qualcuno potesse essere sognante per un’erbaccia infestante
pure difficile da
estirpare. Era privo di fiori, ma Tanet tagliò dei rami e
raccolse gruppi di
foglie.
Sianna non era molto
utile, si limitava a seguirlo come un’ombra
porgendogli ora la paletta, ora le corde. Lo osservava con attenzione
mentre
scavava attorno alle radici per estrarre dal terreno intere
pianticelle. Il
maestro la costringeva ad accompagnarlo per ragioni puramente
didattiche:
doveva solo guardare ed imparare, il sacerdote spendeva poche parole,
si
limitava a mostrarle il metodo, e per questo Sianna si costringeva a
scacciare
il sonno e a dare ad ogni gesto il giusto peso, anche se ad ogni
sbadiglio gli
occhi le si appannavano e non aveva fatto altro che sbadigliare da
quando si
era svegliata.
Talvolta, china su di
lui, veniva distratta da un filo di pensiero
sconnesso, un senso di straniamento che non poteva esimersi dal
provare. Tanet
era diverso, di una diversità visiva impossibile da
ignorare. Non era
un’impressione negativa, né fastidiosa, ma
c’era, era difficile fare i conti
con una differenza tanto palese. Quando gli camminava accanto,
realizzava ogni
volta come fosse la prima quanto fossero antitetici, e i primi tempi
toccarlo
era causa d’inquietudine, le sembrava quasi che avrebbe avuto
al tatto una
consistenza differente dalla sua.
Forse, era
più vecchio di
quanto apparisse, non era semplice inquadrarlo per via dei capelli
scuri e la
pelle bronzea come avesse bevuto il tramonto, una tonalità
più intensa di
quella di Marion, Lisanda e Iris. Tutto dei suoi lineamenti pigri
camuffava un’età
che doveva essere maggiore di quella di Eireen di almeno tre o quattro
anni.
Deve
venire da un luogo lontano, un posto dove c’è
sempre il sole e
deve fare caldo
«Non ci
credo, del
Tragoselino! Avvicinati Sianna» il tono puerile
catturò di nuovo la sua
concentrazione. Si accovacciò accanto a Tanet e lo
osservò scavare ancora.
«Quello che
sto
facendo è un sacrilegio, le radici del Tragoselino
andrebbero raccolte solo in
Earrach, ma ne siamo privi al momento» parlottò
più con se stesso che con lei.
Lo faceva, quando voleva convincersi di non star facendo assolutamente
nulla di
male.
Una volta estratto
dal terreno, fece pendere quell’intrico di filamenti e zolle
di terra davanti
ai suoi occhi «Questo è l’esempio
perfetto di radice a fittone. Il fittone è il
prolungamento del fusto e le radici secondarie si ramificano attorno,
vedi?»
Il maestro aveva
occhi scuri, che il riflesso guizzante della fiamma della lanterna
faceva
apparire neri e profondi, come quelli di Kea. Erano vividi di una luce
che non
era solo il fuoco, ma anche una passione costante che metteva in ogni
cosa in
cui si applicava. C’era qualcosa di commovente, quasi
innocente, nel suo
sorriso grande.
Quando ebbe
concluso, si spartirono le ceste.
La notte si era
quasi del tutto consumata, ma il sole sarebbe sorto di lì a
molte ore e, fino a
quel momento, le terre d’Ombra sarebbero rimaste in uno stato
di sospensione
tra l’oscurità e la luce, una fase onirica del
mondo, in cui il tempo non
scorreva ma si dilatava soltanto in un vuoto cangiante. I rumori
angoscianti
non erano cessati, Tanet non ci prestava attenzione probabilmente per
abitudine, ma Sianna non poteva esimersi dal provare la sensazione di
essere
guardata.
La fiducia
istintiva che sentiva per il maestro era l’unico motivo per
cui non si era
ancora precipitata urlante fuori dalla boscaglia.
«Maestro,
posso
farle una domanda?»
«Di solito
non ti
fai molti problemi a parlare» gli occhi si sbozzarono in
mezze lune allegre e
Tanet mosse il capo per rafforzare l’invito a proseguire.
«Ha imparato
l’uso
delle erbe da Eireen?»
Il sorriso non si
spense, si
fece se possibile ancora più grande, ma meno limpido. Forse
erano solo le
fiamme danzanti della lucerna a donare più ombre al suo
volto, ma Sianna non ne
era sicura.
«No, mi ha
insegnato mia
madre. Ero piccolo, era molto tempo prima che arrivassi nelle terre
d’Ombra»
scrollò rapidamente le spalle «Ma accanto a Eireen
ho imparato molto, non
conoscevo nulla di questa vegetazione»
Sianna
annuì di riflesso, in
realtà stava già valutando altro, stava
realizzando quanto piccolo e limitato
fosse il suo mondo e lei stessa, così minuscola da non
riuscire nemmeno a
concepire quanto potesse essere quel “lontano”
dalla terra che le aveva dato i
natali. Pareva impossibile che il mondo continuasse oltre Dubhar.
Eppure, Tanet
a volte parlava di cose irreali, quasi impossibili, e ne parlava con la
nostalgia distratta di un ricordo che non voleva essere ripescato, ma
semplicemente trovava da sé il modo di farsi strada nel
presente.
«Se lei non
è nato qui, come
ci è arrivato?»
L’angolo
della bocca del
maestro s’inclinò in una piega più
cupa, la voce però dissimulò quella lieve
ondata di malinconia.
«Mi ha
portato qui un’anziana
signora, sedici, diciassette anni fa. È passato
così tanto che nemmeno mi
ricordo più quanto. Era una donna strana già
allora, era forte e nodosa come
una quercia, e sottile come uno stecco. Non ricordo tante cose, ma lei
sì,
nitidamente» sospirò, con una sfumatura di
tenerezza quasi «Era incredibilmente
rude, eppure mi accolse lo stesso. Per uno come me, che non aveva
più nulla,
persino quella vecchiaccia era l’immagine della salvezza! Con
lei c’era Eireen
quel giorno. Eireen è insopportabile lo so, ma era la cosa
più familiare, per
questo è stato facile seguirle e incominciare
l’apprendistato qui, per non
essere divisi»
Inclinò la
testa per poterla
guardare.
Sianna
sentì il familiare nodo
allo stomaco, la presa ferrea di una mano che le strizzava le viscere.
Era la
sensazione di una rassegnazione triste, quella che l’aveva
assalita, una
rassegnazione che era di Tanet e che pure anche lei avvertiva sulla sua
pelle.
Sopraffatta da tutto
quell’affetto, quel legame profondo che avvertiva come un
filo tra i due
sacerdoti, deviò lo sguardo e finse di prestare attenzione
al terreno.
«Ho risposto
a tutto, piccola
curiosa?»
«Devi
volerle molto bene»
Tanet sorrise e non
rispose.
Il Tempo della
Mietitura si
era consumato in fretta e aveva ceduto il passo al Tempo della
Battitura. Dai
dolci pendii della collina su cui torreggiava il monastero, non si
ammiravano
più campi dorati, abbaglianti di grano maturo, ma solo
stoppie lasciate a mezza
altezza che davano l’impressione di un piccolo esercito
perfettamente
allineato.
Sarebbero servite per
i
pascoli, dopo: questo almeno le aveva spiegato il maestro. Dopo la Quarta festa dei Fuochi, era
questo che intendeva, la causa
della concitazione costante che fermentava nel borgo e rendeva gli
abitanti
entusiasti e pieni di vita. Nel suo precedente villaggio, forse per la
collocazione
in montagna tra i boschi, si festeggiava in maniera differente, ma a
Lochlainn l’evento
manteneva la sua precisa valenza di festa del Raccolto, la prima delle
tre
feste che avrebbero preceduto la Stagione delle Piogge.
In quel clima di gioia
e scampanellanti
campane che scandivano ogni ora della giornata, il suo malumore non
aveva fatto
altro che crescere. Tanet l’aveva esclusa da tutto quel
tumulto entusiasta,
ammirava i preparativi delle bancarelle del mercato, di spalti, di
giochi e
intrattenimenti, come una spettatrice annoiata. Addobbi vivaci si
stendevano da
un tetto all’altro, merletti vezzosi che decoravano le vie, e
numerose lanterne
di pergamena ritagliavano figure che la luce dei lumini proiettava nel
buio
della sera, emanando figure astratte antropomorfe o animalesche, in
elaborati
teatrini d’ombra che intrattenevano i bambini estasiati.
Le capitava di
soffermarsi ad
ammirare gli artigiani intenti in quel lavoro così
artistico, ma il maestro le
permetteva sempre scarse interazioni con chiunque non fosse Eireen,
Arfon o le
sue amiche.
«Servi a
me» l’aveva
rimproverata una volta, tagliando corto qualunque suo tentativo di
protesta. I
suoi servizi erano stati in realtà estremamente limitati e
banali. Qualche
giorno prima, Tanet l’aveva costretta ad
un’estenuante raccolta di mirtilli.
Avevano riempito così tante ceste che Sianna aveva
facilmente perso il conto.
«È
una credenza importante, se
i mirtilli sono abbondanti, allora anche il raccolto lo
sarà. Ogni dolce sarà a
base di mirtilli»
A lei nemmeno erano
mai
piaciuti «Esistono seriamente persone che ci
credono?»
Il maestro
l’aveva soppesata
con incredibile serietà, gli occhi seri e indagatori si
erano ristretti sotto
le sopracciglia ad ala «Non è strano che i
contadini ci credano. È strano che
tu non riesca nemmeno lontanamente a considerare che sia vero»
Non si era spiegato
oltre, e
Sianna si era dovuta limitare ad ingoiare tutto il proprio scetticismo
sotto
l’ennesima coltre di frustrazione.
Seguendo sempre le
orme di
tradizioni per lei prive di logica, si ritrovava quel giorno alla
ricerca di
vischio di quercia. Quando lo avesse trovato, insieme a Tanet ed Eireen
avrebbe
intrecciato le corone sacre che le sacerdotesse avrebbero indossato la
sera
della festa, per i sacri riti degli Oracoli e i Giudizi
dell’Assemblea. Aveva
trascorso la mattinata in quella ricerca esasperata, ma né
lei né Tanet erano
venuti a capo del problema, quel vischio era particolarmente raro e
iniziava ad
annoiarsi.
«Ho
l’impressione che mi
stiate tenendo buona» diede un calcio ad un sassolino che
intralciava il suo
cammino e questo rotolò pigramente poco più
avanti, finendo inghiottito da un
cespuglio.
«Soffri di
egocentrismo,
Sianna Eilan»
Sentire il suo nome
completo
le causava una smorfia istintiva, aveva il retrogusto dei rimproveri di
sua
madre. Guardò Tanet di sottecchi, per un momento
valutò di essere onesta e di
dirgli che non gli credeva nemmeno per errore, che lo percepiva quando
le
mentiva ed era inutile tentare d’ingannarla se poi palesava
le sue emozioni in
maniera tanto cristallina. Però non lo fece,
sospirò con aria sconsolata e si
limitò a borbottare «Sarà, ma inizio a
pensare che non lo troveremo mai»
Il maestro rimase in
un
silenzio meditabondo per qualche istante.
«Possiamo
sempre imbrogliare»
Sianna
s’irrigidì ed un’espressione
di puro turbamento si disegnò sul suo volto quando Tanet
rise sfacciatamente
«Guarda che non è mica una cosa tanto grave! Il
vischio è vischio, nessuno se
ne accorgerebbe. E poi, non ho mai creduto molto in queste
pratiche»
«Come
sarebbe a dire che non
ci crede? Se l’ultima volta, con quegli stupidi mirtilli, mi
ha fatto passare
per un’eretica! Sembrava una questione di vita o di morte a
sentire voi»
Tanet
abbozzò un sorrisetto
sornione «Beh, non è necessario che noi ci
crediamo, basta che loro lo credano
per renderlo reale, no?
Da’ loro del vischio qualunque e ci vedranno la
magia»
Sianna
arricciò le labbra in
un’abituale smorfia di disappunto «Sarà,
ma non ne sono proprio convinta»
Si guardò
attorno, più per non
prestare attenzione al cinico individuo che le camminava accanto con
pacatezza
fin troppo ostentata, che per concentrarsi sulla loro ricerca. Non ci
credeva a
quelle usanze, ma non le piaceva ingannare e avrebbe preferito evitarsi
il
disagio di doverlo fare. In quell’istante un lampo di luce
sinistro balenò in
lontananza, tra le foglie. Il tempo di vederlo, e già era
scomparso, Sianna
s’immobilizzò, folgorata dalla
familiarità di quella sensazione.
Tanet nel mentre
sbuffava
«Possiamo sempre tenerla come ultim…»
«L’ha
vista?» lo interruppe
senza nemmeno accorgersene.
Il maestro
inarcò un
sopracciglio «Che cosa?»
Esitò, si
guardò ancora
intorno. Temeva di essersi immaginata tutto, ma poi, di nuovo,
un’improvvisa
sfera di luce comparve e venne inghiottita dal verde.
«Eccola!»
lo urlò che già
aveva iniziato a correre, prima che Tanet potesse capire ed
acciuffarla. Corse
a perdifiato, saltando le radici e scostando con le mani i rami, la
braccia
portate avanti per difendersi il volto da quelle dita raggrinzite e
acuminate
che le frustavano la pelle nuda. Sfondò una barriera di
edera che ricadeva
poeticamente dagli alberi e creava l’effetto di un velo,
incespicò e cadde. Rotolò
sgraziatamente e quando finalmente l’attrito
arrestò il rovinoso scivolone,
Sianna si ritrovò distesa supina a fissare un cielo azzurro,
incredibilmente
limpido.
La sfera di luce era
scomparsa, stordita realizzò che forse non c’era
mai stata, che si era fatta
ingannare da un suo personale desiderio. Si mise a sedere e si
ricompose un
poco, sbattendo la tunica lacera sulle ginocchia e già
sporca in maniera
indecente, poi tornò a guardarsi attorno e le
mancò il fiato per la meraviglia
e la sorpresa.
Era capitata in una
piccola
radura delimitata da un anello di querce.
I raggi di sole
penetravano a
macchie dalle frasche ed avevano la sfumatura delicata di una nebbia
verde, il
caprifoglio selvatico cresceva rigoglioso, si attorcigliava lungo i
tronchi
degli alberi con la stessa sacralità ed eleganza di un
fregio scolpito nella
pietra. Sotto di lei il terreno era morbido di umidità,
muschio e pioggia, lo
tastò con le punte delle dita e senza pensarci troppo
tornò a distendersi. Lo
squarcio di cielo fiordaliso feriva la composizione delle cime
arruffate degli
alberi come un taglio sanguinante estate e calore.
Chiuse gli occhi,
serrò le
palpebre e restò in silenzio, in attesa, a crogiolarsi in
quel sentimento
strano di pace e amarezza insieme, nell’essersi illusa di
aver riconosciuto e
trovato qualcosa che aveva perduto.
Aveva seriamente
pensato che
quella luce fosse lui, ma se ci
rifletteva
attentamente, non era possibile, lo capiva. Alla fine Tanet la
raggiunse,
spuntando da un cespuglio con l’aria arruffata, il volto
contratto dallo sforzo
e dal sudore e il fiato corto. Si liberò dei rametti
impigliati nella propria
casacca inveendo tutto il suo fastidio, Sianna lo studiò con
la coda
dell’occhio e alla fine si lasciò andare ad una
profonda risata.
«Piccola
disgraziata! Non
farlo mai più!»
«Maestro,
lei è troppo
scettico e non ha pazienza» lo rimbeccò
bonariamente con un accenno di sorriso
sulle labbra, mentre ascoltava i rumori dei passi affrettati del
sacerdote che
la raggiungevano.
«E questo
che vorrebbe dire?»
Sianna
sollevò pigramente la
mano, ad indicare con l’indice teso le querce che
delimitavano la radura: tra le
ramificazioni più alte spuntavano sfere perfette di vischio.
«Ah»
«Eh»
rise lei.
«Sono solo
pratico. Su,
alzati, prima finiamo questa storia, prima posso tornare a fare il mio
lavoro»
«Che sarebbe
dire a me quello
che devo fare?» lo pungolò ampliando il suo
sorriso sfacciato. Tanet scrollò le
spalle, le mise bruscamente una mano fra i capelli e sfregò
con forza,
strappandole una lamentela tra le risate. Quando la liberò
era arruffata come
un gufo irritato, la chioma annodata le ricadeva dovunque, sopra agli
occhi,
rendendo il suo aspetto, già discutibile, terribilmente
tragico.
«Dovresti
legarti questa
chioma indomita, prima di poterti lamentare»
Si alzò
scrollandosi come un
animale bagnato «Non c’è alcun legame
tra le due cose» ribatté saccente, e
Tanet liberò l’ennesimo, esasperato sospiro.
Ignorandola, si
concentrò sui
cesti intrecciati che portava al braccio e recuperò un
falcetto rituale d’oro
avvolto in un panno. Glielo porse con un ghigno
«Già che sei così onesta e
attaccata alle tradizioni, a te va il compito di salire là
sopra a recuperarlo.
Usa questo senza farti problemi»
Sianna
deglutì a fatica un abbondante
blocco di saliva, quasi solido nella bocca d’improvviso
secca. Accarezzò con
gli inquieti occhi azzurri la quercia in tutta la sua imponenza,
comprese
quelle buffe palle di vischio grandi quanto la sua testa, dai contorni
perfettamente definiti che sembravano decorazioni naturali. Anche solo
l’altezza dei rami più bassi le faceva provare una
nausea discreta.
«Non vorrei
mai privarla di un
simile onore» la voce tremola, appena venata di panico, la
tradì.
«Sianna
Eilan, non avrai paura
spero!»
Le guance le
bruciarono di
umiliazione «Certo che no! L’ho fatto centinaia di
volte! Forse dimentica dove
sono cresciuta, io ci sono nata tra gli alberi» che
l’altezza la terrorizzasse,
quello lo tenne per sé. Afferrò il falcetto, lo
legò alla corda in vita, e si
appigliò ad un nodo del legno con cui si aiutò a
issarsi.
Da bambina lo faceva
spesso,
senza alcun timore. Un giorno però, uno strano senso di
vertigine l’aveva presa
a tradimento, le era sembrato di trovarsi distante mille braccia da
terra, si
era sentita cadere e schiantare ed il dolore era stato tanto forte e
terrorizzante che, nonostante avesse realizzato di essere al sicuro,
era
rimasto dentro di lei un riverbero, una sensazione di già
vissuto. Da quel
momento, era sto difficile fare fronte a quella paura ancestrale,
radicata con
una forza destabilizzante in lei senza ragione alcuna. Negli anni, se
possibile, si era acuita, ma il suo smisurato orgoglio abbacchiato non
riusciva
ad accettare quel limite immotivato e a modo suo, con testarda
caparbietà, si
era fatta violenza per gestirla.
«Adesso
vedrà»
«Non
borbottare»
Raggiunse i rami
più bassi, si
protese, si aggrappò ad una sporgenza e arrivò ad
una biforcazione nella quale
sostò. Sotto le sue dita, il muschio umido e viscido si
mischiava al ruvido
della corteccia. Prese fiato e ricominciò la scalata.
Non
guardare giù
Giunta alle fronde
più alte,
scelse un ramo solido e lo percorse strisciando sulla pancia,
abbracciata
saldamente al tronco largo.
«Posso
sapere che stai
facendo?»
Sianna si morse la
lingua, per
evitare di dare una risposta poco consona che l’avrebbe
costretta a guardarlo. Il
maestro però, perverso sadico che adorava infierire,
ridacchiò con scherno
abbastanza forte da farsi sentire. Strizzò le palpebre
decisa a non guardare in
basso, rossa d’imbarazzo, e proseguì fin quando
qualcosa non le pizzicò il
naso, causandole un istintivo starnuto. Spalancò gli occhi e
con sorpresa si
ritrovò con la faccia quasi infilata in una palla di
vischio. Balzò
all’indietro, quasi perse l’equilibrio e la risata
divertita di Tanet la
raggiunse ancora.
«Maestro,
è arrivato il
momento che qualcuno le dica la verità: lei non è
divertente, neanche un po’!»
«Io mi trovo
abbastanza
divertente»
Sianna
arricciò il naso
«Avessi mai visto qualcuno ridere»
ribatté ostica. Il Maestro tacque, Sianna
riuscì a percepire tutta la sua indignazione.
«Muoviti
piccola serpe o giuro
che ti lascio qui»
«Con il
rischio di divenire
spergiuro? Lo sappiamo entrambi che non mi lascerebbe mai qui da
sola» ribatté,
fingendo una sicurezza che non era certa di provare. Si mise a cavallo
del ramo
e iniziò a tagliare i rametti di vischio colmi di bacche
bianche, traslucide.
Le lasciava cadere nel vuoto ed il maestro si affrettava a recuperarle
tra un
borbottio e l’altro. Non le ci volle molto per concludere il
lavoro, ad un
tratto Tanet la invitò a scendere «Ne abbiamo a
sufficienza, muoviti»
Un panico traditore le
afferrò
la nuca in un moto di nausea, le strizzava le viscere in spasmi
sgradevoli.
Guardò in basso, spontaneamente, e la presa di coscienza
improvvisa
dell’altezza fece fare al suo stomaco una spiacevole
capriola. La vertigine le
tolse il fiato, provò ancora quell’immediata
sensazione di precipitare nel
vuoto, il dolore alla schiena e lo schianto.
Il rumore del tonfo,
le sue
ossa che si spaccavano contro il suolo.
Sangue, piume
insanguinate e
lacrime per un male allucinante che la annichiliva.
Si attaccò
istintivamente al
ramo, lo abbracciò stretto.
«No!»
Tanet
ridacchiò «Dai, sciocca,
vieni giù!»
Strizzò gli
occhi per
trattenere il pianto e il magone che le serrava la gola
«No!» ribadì risoluta
«Non voglio!»
L’ansia che
provava era tale
che non le riusciva di percepire la presenza del maestro, tantomeno le
sue
sensazioni o la perplessità che comunque le riusciva di
immaginare sul suo
volto grazie al peso del suo silenzio.
«Ma stai
scherzando?»
«No!»
«Va bene,
allora prova a
calmarti e respira profondamente. Non puoi mica restare
lassù!»
«Vogliamo
scommettere?» lo
sfidò per orgoglio, ma già non riusciva
più a controllare il respiro, il cuore
batteva impazzito contro il costato. Era una paura strana, che non era
legata
solo alla sensazione del cadere, ma all’impressione di
qualcosa di catastrofico
nella caduta.
«Vuoi
davvero rimanere lì?»
«Certo che
no!»
«E allora
perché diavolo non
scendi?»
«Perché
non voglio» ringhiò
disperata.
La voce di Tanet si
aprì
ancora un varco nella sua mente annebbiata dall’attacco di
panico «Hai davvero
paura delle altezze?» l’ilarità che
permeava quella sua domanda retorica la
irritò e la fece scattare sulla difensiva
«Assolutamente
no!»
«Senti,
vengo a prenderti»
«No!»
alzò la testa di scatto,
per riflesso, ed un senso di profonda vertigine le offuscò
la vista, un
capogiro improvviso a tradimento che non aiutò il suo
stomaco provato: prima
che potesse trattenersi, stava già rigettando la colazione.
Tanet urlò
con disgusto «Ma
che schifo! Sianna, è una cosa rivoltante!»
Il sapore amaro della
bile
aumentò la nausea, le impastò la bocca e si
sposò con l’umiliazione più cocente
della sua vita. Come fuori dal suo corpo, si vedeva a terra, una
bambola
spezzata ed inquietante, sanguinante nei suoi arti fuori posto.
Un giocattolo
grottesco
intriso di sofferenza. Non capiva cosa le succedesse, ma
quell’immagine
diventava sempre più viva e terrificante nel tempo, ed ora a
terra non vedeva
Tanet, vedeva quest’altra se stessa in agonia e le mancava il
fiato «Se ne
vada. Farò da sola, vada via!»
Voleva affrontare
quella
chimera, quello spirito che la perseguitava come fosse infestata
dall’anima di
un morto che condivideva con lei, per ragioni sconosciute, il trauma
della sua
morte. Non si era trovata altra spiegazione a quella fobia che non le
apparteneva, ma non avrebbe mai potuto spiegarlo al maestro senza
risultare
pazza, e quindi le rimaneva solo il disagio della costernazione
più totale.
Tanet esitò
«Aspettami qui»
borbottò infine «Vado a recuperare una scala e
torno»
Ascoltò il
rumore dei suoi
passi che si allontanavano farsi più leggeri fino a sparire.
Si ritrovò sola,
prese un grande respiro, si pulì la bocca screpolata con la
manica logora del
proprio abito e tornò a guardare in basso la carcassa
visionaria di quell’anima
morta. Lentamente, in un movimento che pareva uno sforzo logorante,
quel corpo
devastato inclinò la testa, la fissò negli occhi.
Le sue iridi
eterocrome erano
inconfondibili anche da quella distanza, Sianna ne rimase quasi
incantata,
ricambiò quello sguardo duro e profondo che non sembrava
appartenere ad un
essere mortale, che stonava con il dolore che le sue membra sfracellate
emanavano.
Chi
sei tu?
Perché
sembra tanto che tu non possa provare dolore, se è la paura
del
tuo dolore a paralizzarmi?
Se lo era chiesto ogni
volta
che aveva affrontato quell’entità invisibile a
chiunque, perfino agli spettri. Forse
non era uno spirito, non era reale, era solo una sua delirante visione,
eppure
si faceva più concreta e chiara quando capitava che Sianna
la richiamasse.
Quegli occhi distanti di una freddezza ultraterrena erano
sufficientemente
inquietanti da darle almeno il sollievo di sapere che erano troppo
lontani e
quella donna era troppo distrutta per potersi avvicinare a lei.
Lo scricchiolio di un
ramoscello spezzato ruppe il contatto visivo che aveva instaurato con
la
propria visione.
Come si era formata,
la donna
scomparve, ma non l’inquietudine che l’attraversava
in scosse nervose. Si
guardò inquieta attorno, sollevò la testa
arruffata e con sua sorpresa vide
accanto a sé una familiare e diafana sfera di luce. Era
quasi camuffata dai
raggi solari di quella giornata serena, ma Sianna la conosceva troppo
bene per
potersi confondere.
Con meraviglia si rese
conto
che non l’aveva immaginata, era stata la sfera stellata a
condurla in quella
radura, anche se sembrava impossibile.
«Non
può essere»
Allungò le
dita bianche per
sfiorare la superficie del globo. Era morbido come pelliccia, emanava
un calore
tale da intorpidirle la mano di un tepore dolce e familiare. Era senza
dubbio
una Hoshi no Tama.
«Kii?»
chiamò piano, incerta.
Si guardò
ancora attorno,
sentiva dei rumori, come se qualcuno si stesse arrampicando sul tronco
della
quercia. Raccolse il suo coraggio e fece scivolare le gambe a cavallo
del ramo.
Si voltò, chiamò ancora «Kii, sei
davvero tu?»
«Posso
sapere cosa ci fai qua
sopra?»
I muscoli le si
irrigidirono e
quasi perse l’equilibrio per lo spavento.
Si era aspettata
l’imprevedibile, ma non di ritrovarsi faccia a faccia con suo
fratello. Ynyr
compì un ultimo balzo e si issò sul ramo davanti
a lei, accovacciato come una
pantera, le sopracciglia bionde corrucciate e quella sua aria
insofferente
nella piega della bocca, nelle palpebre socchiuse in una flemma
annoiata. I
ciuffi ribelli della frangia gli nascondevano la fronte e parzialmente
gli
occhi.
«Ti rigiro
la domanda!»
esclamò incredula.
Trasecolò
se possibile ancora
di più quando vide fare capolino, dalla spalla del fratello,
il musino rosso e
bianco, adorabile e dolce, di una piccola volpe dagli occhi
intelligenti e
l’espressione impertinente «E cosa ci fai con
Kii!»
Ynyr si
sfregò la casacca nera
che gli ricadeva larga sul corpo magro, la fissò
intensamente per un lungo,
pesante istante, e le sue pupille scure, minuscoli puntini in campo
azzurro,
ripercorsero la sua figura, soffermandosi troppo sulle sue gambe
scoperte
dall’abito che si era arrotolato quando si era arrampicata.
Quell’occhiata la
rese consapevole dello stato poco decoroso nel quale versava, Sianna si
sentì
nuda e cercò goffamente di riabbassare l’orlo
della gonna il più possibile.
Fu solo un momento,
subito il
fratello chinò il capo e deviò la sua attenzione,
a disagio.
«La tua
palla di pelo» soffiò
con fastidio «Mi sta addosso da giorni. Ti ha portata qui per
incontrarti,
quando ti ha visto da sola qua sopra ha iniziato a
tormentarmi»
Afferrò la
piccola volpe per
la collottola e se la scrollò di dosso, poi gliela porse con
lo stesso tatto
che si sarebbe potuto dedicare ad un oggetto, più che a un
animale
«Riprenditela, o ci faccio una pelliccia»
Sospeso nel vuoto, Kii
dimenò
le zampine all’aria in segno di protesta, soffiando buffi
suoni.
«Ynyr, non
trattarlo male!»
Sianna
recuperò la kitsune e
se la strinse al petto, lasciando che Kii le leccasse il volto in un
raro gesto
di tenerezza. La sua Hoshi no Tama continuava a veleggiare sospesa
sopra le
loro teste, si muoveva come trasportata dalla brezza, sembrava davvero
un sole
o una piccola stella, uno spettacolo che aveva il dono di affascinarla
sempre.
«Non ci
credo che sia davvero
qui! Perché non me lo hai detto? Pensavo non lo avrei
più rivisto!» doveva
essere un rimprovero, eppure le era sfuggita tutta
l’esasperazione, la
disperazione per quei lunghi silenzi e l’improvviso astio di
suo fratello, che
proprio non riusciva a spiegarsi.
Il viso
d’Ynyr non mutò, né si
fece strada almeno un piccolo accenno d’espressione, una ruga.
«Non
è un mio problema» la
liquidò pacatamente «E comunque, non impari mai la
lezione»
Punta sul vivo, Sianna
riprese
pienamente coscienza di dove si trovasse e il colore defluì
dal suo volto. Che
il fratello poi le lasciasse intendere, con il suo atteggiamento, che
non era
disposto a scherzare o a chiacchierare amabilmente, abbassò
ulteriormente il
suo morale. Si portò la mano alla bocca, per trattenere un
conato e
nasconderlo.
Le sopracciglia di
Ynyr si
aggrottarono «L’hai vista ancora?»
Annuì piano
e lo vide
sussultare. C’era una sorta di inquietudine in lui, ma il
fratello era l’unico
con cui il suo dono, la sua eccessiva percezione, non funzionava, e per
questo
i suoi pensieri erano a Sianna sempre oscuri e indefiniti.
«Ti ha
avvicinato?»
«No»
esitò, prese un bel
respiro «Ma mi ha guardata, stavolta. Dritta negli occhi, mi
vedeva come io
vedevo lei»
Anche Ynyr
scolorò e per un
momento sembrò smarrito. Le afferrò bruscamente
il polso, strinse con troppa
forza «Non permetterle mai di avvicinarsi a te. Qualunque
cosa succeda, non
importa quanto tu sia curiosa. Non permetterle mai di toccarti,
chiaro?»
Spaventata, Sianna si
affrettò
ad annuire ancora.
Non era la prima volta
che
Ynyr la metteva in guardia su quell’ancestrale creatura, ma
non c’era mai stata
in lui una tale urgenza, una simile ansia. Lui non la poteva vedere,
eppure
sembrava spaventato da lei come se sapesse qualcosa che a Sianna
sfuggiva, e
questo era l’elemento di maggiore disturbo in tutta quella
faccenda.
Rassicurato, Ynyr
seppellì
nuovamente qualunque forma di umanità dietro la sua
inscalfibile facciata. Le
diede la schiena, e con un semplice gesto del capo le fece capire di
avvicinarsi.
Sianna
abbracciò stretta la
volpe, per farsi forza, poi la liberò perché il
piccolo spettro potesse
abbarbicarsi sulla sua spalla. La kitsune la circondò con la
sua coda vaporosa
e quando Sianna la sentì affrancata, in maniera anche
abbastanza dolorosa, si
accostò al fratello, gli gettò le braccia al
collo e si agganciò con le gambe
intorno alla sua vita.
Ynyr
sospirò di
incomprensibile frustrazione quando lo strinse, poi si mosse e Sianna
chiuse
gli occhi per non vedere il vuoto sotto di sé mentre il
fratello la portava giù
da quella quercia infernale.
Non appena il ragazzo
toccò
suolo le appoggiò le mani sulle cosce e fece pressione per
invitarla a
scendere. I muscoli della sua schiena si contrassero in uno strano
spasmo, una
postura rigida, come se qualcosa non andasse, come ci fosse un pensiero
che non
poteva condividere con lei, perché non era in grado di
comprenderlo. C’erano
molte cose di lui che le erano sempre sfuggite nonostante fossero
cresciuti
assieme e fossero molto uniti, in quei momenti di straniamento Ynyr
sembrava
perdere l’uso della parola, era incredibile allora come i
suoi occhi
riuscissero ad allontanarsi dal mondo e a risultare spietati. Quella
sua
capacità di provare indifferenza a comando la feriva
più di quanto fosse
disposta ad ammettere.
Scese a terra e le
gambe le
cedettero. Si lasciò cadere nell’erba morbida e
rivestita di muschio, Kii si
innervosì e le conficcò le unghie nella schiena.
Ci era abituata, ma faceva
male lo stesso.
Ynyr le rivolse uno
sguardo
laconico.
Non si parlavano dal
giorno
della commemorazione, Sianna pensò che fosse il giusto
momento per porre fine a
quell’insensata separazione, ma suo fratello le diede la
schiena e si allontanò
senza aggiungere una parola.
«Ma…
davvero?» gli urlò contro
furiosa.
Tornò a
guardarla da sopra la
spalla, l’incarnazione della sufficienza e della presunzione
«Vuoi qualcosa?»
«Sei
serio?»
Ynyr
abbozzò un sorriso di
scherno «Riformulo: ti aspetti qualcosa?»
Ringhiò
«Figurati» e si sforzò
di regalargli il medesimo ghigno sfrontato «Da te
assolutamente nulla»
Non
ti dico dove puoi metterti il “grazie” che da
idiota pensavo pure
di doverti!
Il fratello
scrollò le spalle
e quella sua aria laconica e enigmatica la caricò di dubbi e
perplessità che
proprio non trovavano ragione
«È
un sollievo. Kii, fa’ in
fretta, non ho tutto il giorno» lo osservò
raccogliere una grande sacca
appoggiata a terra, ai piedi della quercia, e andarsene senza mai
voltarsi.
Kii scese a terra con
un
elegante guizzo, una fiamma rossa e bianca. La sua Hoshi no Tama li
aveva
seguiti pigramente illuminando di un bagliore spettrale le ombre degli
alberi e
i fili d’erba. La Kitsune si sporse,
l’annusò, spalancò le fauci e la
ingoiò tutta
intera. Il suo corpo si sfamò di quella luce, la
assorbì e divenne tanto
brillante da essere insostenibile. Sianna chiuse gli occhi e si nascose
dietro
il dorso della mano. Fasci luminosi filtravano tra le dita e le
rischiaravano
di rosso.
Aspettò che
la fonte di luce
si consumasse, poi sbatté le palpebre per eliminare i
puntini e le macchie
arancioni impresse nella cornea: davanti a lei non c’era
più un animale, ma un
ragazzino rannicchiato, con il volto celato da una grottesca maschera
dalle
fattezze di una volpe. Bianca, lucida, con la bocca atteggiata ad un
ghigno
inquietante e gli occhi sottili, due linee chiuse di un muso dormiente.
Il
corpo rachitico, dalla linea irregolare e la schiena ricurva di un
animale
pronto a scattare, era celato da un abito che arrivava alle caviglie.
Le
maniche larghe lo ricoprivano interamente, nascondendo le mani sottili,
quelle
dita lunghe e affilate che Sianna aveva imparato a conoscere, e
un’ampia
cintura fermata con un nodo sul davanti gli stringeva la vita,
accentuando la
sua figura efebica.
I piedi erano nudi e
sporchi
di terra, aguzzi, ma il ragazzino mascherato non vi prestò
alcuna attenzione,
rimase indolente, immobile, a fissarla attraverso una maschera che poco
gli
concedeva di visuale. Sianna lo afferrò bruscamente per la
collottola e quasi
lo sollevò da terra, portando il proprio viso ad un soffio
dalla maschera
bianca.
«Mi devi
parecchie
spiegazioni, Kii, o mi sbaglio? Cosa ci fai con mio
fratello?» osservò
l’enigmatica espressione pacata della maschera e per qualche
ragione si alterò
«Anzi, cosa ci fai tu, qui?»
La domanda
uscì permeata di
fastidio, nonostante in realtà fosse più che
felice di ritrovare la kitsune.
Era la confusione e il risentimento che suo fratello le aveva lasciato
addosso
ad alterarla, riuscendo perfino a sormontare e cancellare la
curiosità e
l’entusiasmo che l’avevano spinta ad inseguire una
sfera stellata.
Il ragazzo volpe
sghignazzò
beffardo, la mano artigliata scostò la maschera e la
poggiò sulla testa, a
mostrare un volto efebico quanto il suo corpo, affilato, con gli zigomi
alti
costellati di efelidi, la bocca tagliente e vagamente ferina, le
sopracciglia
sottili e gli occhi sanguigni ravvicinati. La chioma bianca che sfumava
nel fulvo
sulle punte era corta e scompigliata, la maschera aveva schiacciato
un’orecchia
pelosa che spuntava tra le ciocche ribelli, residuo della sua natura di
fiera.
Tutto di Kii faceva pensare ad un astuto animale inselvatichito, non ad
un
ragazzino di non più di tredici anni.
La kitsune, a
tradimento,
azzerò la distanza tra i loro volti e le leccò le
labbra. Sianna lo respinse
bruscamente, imprecando «Sei il solito maledetto»
Kii atterrò
come un animale
avrebbe fatto, si piegò sulle ginocchia e inclinò
il capo, soppesandola in
silenzio.
Allora, Sianna si
pulì la
bocca con il dorso della mano e sospirò «Come fai
ad essere qui?»
«Vi ho
persi»
Non era abituata a
sentire la
sua voce reale e non solo interiore. C’era ancora il
rimasuglio di un latrato
acuto che la rendeva poco umana, nonostante l’articolazione
dei suoni.
«Ho fiutato
il vento per
settimane, prima di ritrovare la scia del tuo odore»
«Ci hai
persi?»
Kii si
grattò flemmaticamente
la guancia con il polso, socchiuse gli occhi taglienti, così
simili alla sua controparte
animale che per un attimo le due immagini si sovrapposero e il ragazzo
assomigliò in modo inquietante alla sua maschera statica.
«Sì,
il giorno dopo quella
notte. I tuoi umani ti hanno portata via»
«Con i miei
umani intendi
Daniel e Henry, suppongo. Non capisco perché mi hai cercata
comunque, hai
abbandonato la valle. Non pensavo potessi allontanarti dalle altre
kitsune»
Erano così
poche, le volpi in
grado di diventare yokai, dovevano riuscire a sopravvivere oltre i
cinquanta, a
volte i cento anni, e i clan di kitsune si facevano sempre
più ristretti nel
tempo, molti erano scomparsi. I cuccioli come Kii erano custoditi
gelosamente,
erano un lascito, la speranza di una continuità.
Il ragazzino
però non sembrava
curarsene «Ordini. La mia padrona mi ha detto di trovarti,
dovevo assicurarmi
della tua incolumità»
Kii e Ynyr avevano, a
modo
loro, qualcosa in comune: il tono inespressivo con cui erano soliti
esprimersi.
Certo, la kitsune
aveva
perlomeno la scusante di non essere umana, un’attenuante che
suo fratello di
certo non poteva vantare. Si chinò sul ragazzino e gli
scompigliò
affettuosamente i capelli selvaggi «La tua misteriosa
padrona, sempre lei eh?
Tornerai da lei ora?»
Più come un
gatto che faceva
le fusa, piuttosto che una volpe, Kii sfregò la testa e la
guancia contro la
sua mano, con un movimento languido del capo e gli occhi socchiusi
«No, è
presto. Devo stare qui e controllarti»
Continuò
ad assecondare i suoi vanitosi bisogni di attenzione, pur se accigliata
«Ma
perché Ynyr? Tu non lo sopporti. Potevi venire direttamente
da me»
Il
ragazzino arricciò il musino e si ritrasse bruscamente, con
stizza e un
uggiolio gutturale in gola «Tu sei sempre circondata da
troppi umani»
Era
un discorso trito e ritrito, Kii si risentiva quando non poteva
avvicinarla,
anche in passato, per colpa degli uomini. Ne aveva un terrore atavico,
quasi
incomprensibile per lei, e questa paura causava un paradosso assurdo:
Kii la
cercava solo quando sapeva di non poterle parlare, era un suo metodo
per farla
sentire in colpa e vincolarla a lui, da piccola volpe viziata e
capricciosa
qual era.
Il
suo sbuffare la fece ridere «Sono umana anche io»
gli rammentò sorridendo.
La
volpe ghignò ancora, mostrando una chiostra acuminata di
denti «Un altro tipo
di umana, certo»
Lo osservò
mentre si stirava,
distendeva le braccia a terra a cacciava un grande sbadiglio, come se
un
animale lo fosse ancora. Nonostante l’apparenza, proprio non
riusciva a limare
i suoi aspetti più primitivi, né a nascondere la
propria coda e le orecchiette
pelose e morbide. Ancora non sapeva gestire il suo camuffamento, per
questo non
gli piacevano gli uomini, non era in grado di celarsi tra loro come
facevano
invece i membri più anziani della sua specie.
Nei suoi movimenti
oziosi, la
Hoshi no Tama, dalle sembianze ora di una grossa perla legata con una
catenina
al suo collo, scivolò fuori dall’abito e
penzolò mollemente nel vuoto.
Sianna ebbe come
un’illuminazione «Come hai fatto a ritrovarla?
L’avevi affidata a me, ed io
pensavo di averla smarrita quella notte»
Quando si era
risvegliata era
a Lochlainn, le ci erano voluti giorni per recuperare quanti
più frammenti
possibili di memorie, e solo successivamente si era accorta di aver
smarrito la
sfera stellata dell’amico, troppo tardi per poter fare
qualcosa a riguardo.
Kii
sbatacchiò le grandi
orecchie, i capelli erano candida neve sporcata di rosso, gli occhi
sanguigni
si socchiusero e la studiarono con una perplessità fin
troppo manifesta.
«Non
l’hai persa, me la sono
ripresa. Io ero lì» inclinò il capo
«Ma tu non lo ricordi. Deliravi. Tu non hai
riflessi, non hai memorie, devo sentire per te se non senti da
sola»
Sianna
sbatté le palpebre
confusa davanti a quella raccolta di parole senza senso.
Io
non ti capisco, non ti capirò mai maledetto spettro
E non poteva nemmeno
sperare
che chiedere le avrebbe fruttato almeno qualche risposta e non solo
un’altra
sfilza di domande.
«Kii?»
«Mhm»
«Un giorno
me lo dirai perché
la Dama del Lago ti ha mandato da me?»
Non si riferiva
semplicemente
a quel momento, ma già ai loro primi, destinati incontri.
Kii sbadigliò ancora,
mostrandole l’antro della bocca, i denti aguzzi come
stalattiti e stalagmiti
affilate, poi le sorrise scaltro «Ci piacciono certi tipi di
umani» rispose
sibillino, infrangendo in lei qualunque speranza di sottrargli qualche
verità.
Rassegnata si mise a
sedere a
terra e incrociò le gambe. Studiò il terreno e
individuò un bastoncino, con
quello tra le dita iniziò distrattamente a disegnare nel
terriccio umido,
spodestando zollette di muschio. Il ragazzo volpe si
acciambellò accanto a lei
e poggiò la testa sulle sue cosce, con un gorgoglio
soddisfatto simile a delle
fusa.
Sianna si
bloccò, lo guardò
per un lungo istante, ma venne ignorata.
«Voi spettri
siete
impossibili» mormorò assorta. Aveva già
smesso di provare a pensare a Kii e a
tutto ciò che la sua comparsa poteva comportare,
perché in realtà era
consapevole dell’inutilità dei suoi sforzi. La
Kitsune era molto più testarda, viziata
e impossibile di lei, era una sfida persa sul nascere.
Si
concentrò invece sul
legnetto, provò a scrivere il suo nome ma la mano tremava e
le rune uscivano
mosse, scarabocchi informi, fili di pensieri ingarbugliati.
Sussultò e
Kii con lei quando
avvertirono un rumore in lontananza, di qualcosa di ingombrante che
strisciava.
La volpe drizzò le orecchie, annusò la brezza
«Un essere umano» digrignò i
denti, la voce intrisa di disprezzo e di un suono più fondo
e gutturale,
bestiale «La Dama vuole sapere se custodite ancora i suoi
doni»
Sianna si
affrettò ad annuire
«Sì, non credo li abbiano persi. Devo
assicurarmene? È così importante?»
I passi si fecero
più
distinti, così come il fracasso di un oggetto che veniva
trascinato. Kii si
risistemò la maschera sul viso efebico, afferrò
rapidamente la perla che
portava al collo, grande quanto un chicco d’uva, e ruppe la
catenina con un
movimento secco.
Il gioiello
pulsò di un caldo
bagliore. Crebbe di luminosità, e più cresceva
più il corpo del ragazzino si
prosciugava di quella luce che veniva riassorbita dalla sfera. Le
unghie
affilate mutarono davanti al suo sguardo attento in artigli, la peluria
sottile
delle braccia crebbe, s’infoltì e si
trasformò in morbido pelo; la maschera
volpina si fuse alla pelle, si allungò modificandosi in un
muso furbetto, gli
occhi si assottigliarono, la calotta cranica si estese e le gambe
divennero
zampe.
Nella perla si
condensò tutta
la luce, la sfera si sollevò nell’aria come
sospinta da una carezza e riprese
il suo naturale aspetto di Hoshi no Tama. Il ragazzino era tornato ad
essere
una piccola, indisponente volpe.
Il globo galleggiava
familiare
davanti a lei, splendente come una stella cadente. Sianna poteva ancora
ricordare
la nostalgia del giorno in cui, per la prima volta, aveva scorto una
sfera
stellata. Un corteo infinito di globi infuocati, simili a lanterne di
carta che
avevano creato un sentiero nell’oscurità e avevano
attirato la bambina che era
stata come una falena verso le fiamme.
Kii
arrotolò la coda morbida
attorno al globo di luce e le lanciò un’ultima,
penetrante occhiata
Guardati
le spalle, Sianna.
Guardati
dagli uomini.
«Sianna? Sei
viva?» la voce
del maestro giunse inaspettata e la fece sussultare per la sorpresa.
Kii non le
diede la possibilità di replicare, iniziò a
correre e in un lampo venne
inghiottito dal sottobosco. Sianna si appoggiò al tronco
della quercia e attese
che Tanet comparisse anche fisicamente, già che aveva
spaventato la kitsune prima
che questa le desse uno straccio di informazione.
Era ancora troppo
meravigliata
per mettere davvero a fuoco di aver incontrato di nuovo Kii, si era
convinta
che non avrebbe più rivisto lo spettro, soprattutto
perché aveva avuto la
certezza di aver smarrito la sua sfera stellata.
Una volpe non poteva
sopravvivere a lungo senza la sua Hoshi no Tama, questo le era stato
spiegato
molto bene. Eppure Kii era vivo e vegeto, e in un modo che le sfuggiva
aveva
recuperato quella sua strana anima di luce.
Perché
ti sei avvicinato tanto ad un centro abitato? Proprio tu che
diffidi più di chiunque degli esseri umani?
Cosa
non mi racconti stupida volpe?
Tanet riemerse
finalmente
nella radura, masticando un’imprecazione e poi
un’altra. La sua figura venne
rischiarata da una pioggia di pepite di sole, che fecero risaltare a
chiazze le
gocce di sudore sulla fronte. Aveva con sé una scala a pioli
che lasciò cadere
con un tonfo quando la vide stesa nel prato, perfettamente rilassata e
incolume.
«Ti sei
presa gioco di me?»
Sianna
valutò di mentirgli,
solo per non dargli la soddisfazione di sapere che realmente aveva
avuto paura.
Era tanto scioccato però, che accantonò
immediatamente l’idea di una bugia per
non farlo arrabbiare sul serio. Inoltre, aveva sempre confessato i suoi
misfatti e le sue bugie in tempi brevi, in passato, non aveva mai avuto
il
nervo necessario a sopportare il senso di colpa di una menzogna e aveva
solo
collezionato insuccessi.
Scosse piano la testa
«No»
Tanet si
grattò la nuca, poi
sospirò e si sedette accanto a lei «E come cavolo
sei scesa?»
«Mi ha
tirato giù mio
fratello. Era nei dintorni, deve averci sentito»
Omise, per abitudine,
la
presenza della volpe e quello strano dialogo che le aveva lasciato
addosso un
profondo senso d’inquietudine.
Si stava ripetendo
ancora le
parole della volpe, perciò non realizzò subito
l’aria sconvolta del maestro.
«Hai un
fratello?» le chiese
con la fronte aggrottata in un cipiglio pensieroso, basito.
Non
ho mai parlato di Ynyr, nemmeno una volta.
Nemmeno
per errore
Aveva protetto
inconsciamente
l’esistenza di suo fratello, l’aveva custodita come
un segreto e non se ne era
resa conto. Ynyr era sempre stato, per lei, una ferita aperta e
costantemente
infetta, eppure non aveva mai scelto di condividerlo con nessuno,
nemmeno in
passato, e fu strano accorgersi che certi vizi erano destinati a durare
nel
tempo.
Se Tanet non conosceva
quel
ragazzo, allora Ynyr non si trovava nemmeno nei dormitori dei
sacerdoti, ed
allora capire cosa stesse facendo quel teppista con cui condivideva il
sangue
diventava ancora più difficile.
«Sì,
ho un fratello. Ma non
parliamo molto ultimamente»
Da
quando nostra madre è morta
Avrebbe voluto
aggiungere.
Avrebbe dato qualunque cosa per capire quale meccanismo mentale quella
perdita
avesse fatto scattare in lui, per spingerlo a comportamenti tanto
incomprensibili. Si trattenne dal lamentarsi solo perché
odiava le uscite
infelici ed odiava risultare patetica.
Tanet storse la bocca,
si
rialzò, spolverò un poco i vestiti inzaccherati e
le porse la mano per aiutarla
a issarsi.
Le sorrise. Uno di
quei suoi
sorrisi tranquilli e pacati, che trasmettevano serenità e
sicurezza «Fossi in
te non mi preoccuperei troppo. Tra fratelli è normale
discutere, no?»
Sianna
arrangiò un sorriso,
solo perché voleva che quella conversazione si consumasse
presto. Tra lei e
Ynyr c’era sempre stato un precario equilibrio, un legame
morboso, a tratti
difficile. Quell’equilibrio, il filo sottile che li aveva
collegati fino a quel
momento, si era spezzato, e non aveva idea di dove questa rivoluzione
li
avrebbe condotti, né era certa di volerlo scoprire. Quel
distacco era un
tormento tanto costante da aver permeato la sua esistenza, un piccolo
dolore
sordo a cui si stava, suo malgrado, abituando.
Era tante cose, ma non
normale.
Suo fratello era
un’anima
imperscrutabile e lontana, se nascondeva qualcosa non lo avrebbe mai
capito
finché lui stesso non ne avesse parlato.
«Probabilmente
ha ragione lei»
Spostò i
capelli lunghi che le
si adagiarono sulle spalle come una coperta. Recuperò le
ceste, mentre il
maestro raccoglieva la scala a pioli e se la caricava in spalla.
Si avviarono fianco a
fianco,
in silenzio.
“La Dama vuole sapere se custodite ancora i suoi
doni”, quella
domanda tra le tante che avrebbe potuto ricevere, aveva risvegliato un
certo
nervosismo. Non era così che aveva immaginato di
riabbracciare la piccola
volpe, amica fidata e compagna di giochi in un’infanzia di
solitudine.
Gli
spettri hanno troppi segreti.
Pur sapendolo, non si
era mai
allontana dallo Yokai, né aveva temuto la sua ambigua
padrona che da lontano
l’aveva sempre osservata attraverso la kitsune. Ora, anche i
suoi doni si
tramutavano in un arcano inquietante.
Andrò
da Lisy, dopo, e mi assicurerò che non li abbiano persi o
quella
sciocca kitsune diventerà ingestibile.
Riguardo suo fratello
invece,
decise di inghiottire il nervoso e di aspettare che si riassestasse da
solo,
probabilmente più per viltà personale che non per
una qualche forma di
concessione nei suoi riguardi.
«Puoi
passare da Arfon per
portargliene una?» Tanet indicò una delle due
ceste, interrompendo il filo
corrente dei suoi pensieri inconcludenti.
Storse la bocca
«Preferirei
non fare più consegne. Non a lui, quel vecchio non mi
piace»
Preferì non
specificare che il
suo rifiuto nei confronti dell’anziano era più che
altro paura, ma ne provava
molta. Tanet acuì lo sguardo in un dubbioso taglio a
mezzaluna, un implicito
invito a spiegarsi, così sospirò rassegnata
«L’ho sentito di nuovo. Mi ha
chiamata ancora così»
«Demonio?»
Si morse le labbra
«Anche.
Diciamo che non parla di me in modo troppo amichevole»
minimizzò con un’alzata
di spalle. Il maestro annuì assorto «Stai
indossando i guanti?»
Sollevò la
mano all’altezza
del viso, per mostrargli la pelle coperta da un leggero strato di
stoffa nera.
«E allora
cosa temi?»
Sianna
arricciò il naso.
Non sapeva come
spiegare che
qualcosa in lei, nel suo aspetto e nel suo essere, era fonte di
repulsione per
le persone che la circondavano. Non sapeva e non voleva spiegarlo ad
uno dei
pochi che sembrava immune a quella distanza naturale che si poneva tra
lei e il
prossimo. Sarebbe stato inaccettabile, se il maestro avesse preso
coscienza di
quel “qualcosa”, e l’avesse allontanata.
Il suo broncio ammorbidì Tanet, che
allungò una mano ad accarezzarle la testa «Ho
capito. Me ne occuperò io»
«Grazie»
Un pungente odore di
bile le
soffiò sul volto e al sorriso seguì
spontaneamente una smorfia di disgusto. Non
le fu difficile individuare la macchia sulle brache del ragazzo.
«Maestro?»
«Sì?»
«Prima
però si cambi!»
ANGOLO AUTRICE
Ben
ritrovati!
Ho tempi
veramente titanici, ma potete perdonarmelo,
alla fine c’è sempre la speranza che torno, non
sparisco mai del tutto!
Ringrazio
già subito tutti i nobili animi che
riescono a tenere ancora la storia tra le preferite, le ricordate e le
seguite
nonostante le ere geologiche che intercorrono tra un capitolo e
l’altro. Ci sto
lavorando, tenterò di velocizzare i tempi.
Per il
resto… adoro Kii, è uno dei personaggi
che preferisco, ma si vedrà palesemente la predilezione che
ho per lui!
Non
compaiono posti nuovi o personaggi nuovi,
quindi mi risparmio la didascalia… e niente, spero vi
piaccia e spero mi
facciate sapere qualcosa.
Le
recensioni sono sempre mooolto gradite
oltre che stimolanti per il mio scrivere!
A presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Capitolo ottavo ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO OTTAVO
Gli
odori di cipolle e aglio che si mischiavano al pizzicore pungente e
dolce
provocato dall’erba tagliata e dal grano mietuto, le invasero
i polmoni in una
grande boccata d’aria fresca che Sianna accolse con un
sorriso soddisfatto
rivolto al sole. I risolini e il vociare allegro le davano il buon
umore, o
forse era solo tutta quella luce e la brezza fresca a risollevarle
l’animo e
renderlo leggero. Addobbi vivaci di stoffe e lanterne vivificavano le
strade e
i banchi dei commercianti, e la musica non era mai cessata da quando si
erano
levate la mattina presto. Da una composizione naturale di rami e
muschio Sianna
recuperò una spiga, la rigirò tra le dita lunghe
e l’oro dei chicchi pieni
baluginò di caldi riflessi. Avevano trascorso gli ultimi
giorni a intessere un
fantoccio di spighe che quella notte sarebbe stato dato alle fiamme, e
ad
intrecciare le corone di vischio che le sacerdotesse e i sacerdoti
stavano
indossando duranti i canti rituali.
Al Cerchio di
Pietre i sacerdoti ricevevano gli
abitanti per risolvere questioni di ordine giuridico, una tradizione di
Lughnasadh, ma non la più interessante. Era nella piazza del
mercato che si
respirava la vera festa, erano giunte molte persone dai villaggi vicini
per
rendere grazie alla divinità e celebrare matrimoni e vendere
merci, e le vie
sembravano incapaci di contenere una tanto trasbordante vita.
«Questo
profumo di dolci mi
sta facendo impazzire!» si lagnò prontamente
Lisanda, il rumore del suo stomaco
borbottante risultava imbarazzante.
«Resisti,
stasera ci sarà il
banchetto e mangeremo come non facciamo da una vita!»
cercò di risollevarla,
ottenendo però altre smozzicate lamentele «Non
dirmelo, io non lo so come
sopravvivono questi sacerdoti, a pesce insipido e brodini. Non
è vita, è un
incubo»
Iris
strabuzzò gli occhi per
l’indignazione e la rimbeccò
all’istante, così mentre le due battibeccavano su
quanto fosse eticamente inappropriato il commento di Lisy, Kea
sollevò lo
sguardo sulla folla assiepata nella piazza del mercato.
«Qui non
ci facciamo molto,
andiamo ad assistere alle gare?»
Marion si
aggrappò alla manica
della sua veste con eccessivo entusiasmo «Sì, vi
prego! Tra poco dovrebbe
esserci il tiro con l’arco, me lo ha detto Will!»
Le venne da
ridere, le sorrise
strizzando gli occhi per la troppa luce, un evento più unico
che raro nel Regno
d’Ombra, e annuì «Non sia mai che ci
perdiamo la prova del nostro prode
William. Voi due la finite di litigare?»
Iris
assottigliò le labbra in
una linea ostile «È inadeguata, rifiuto qualunque
forma di legame con questa
barbara»
Lisanda la
seguì a ruota con una
smorfia «Non mi risulta che tu sia nata nobile,
sai?»
Da qualche parte
una divinità
deve esistere, e deve odiarmi anche molto
Le aree destinate
alle
manifestazioni sportive erano state circoscritte fuori dal centro
abitato da uno
steccato che già era stato preso d’assalto da
numerosi spettatori. Le grida
d’incitamento erano assordanti, Sianna e Marion, seguite da
Kea, decisero di
abbandonare le gemelle alle loro discussioni e si infiltrarono tra le
persone.
Complice la scarsa massa dei loro corpi sottili, riuscirono a
raggiungere la
recinzione e ad affacciarsi sul terreno di prova.
Ci sarebbero stati
combattimenti di spada e anche scontri corpo a corpo a cui chiunque
poteva
prendere parte, indipendentemente dall’esperienza ma, come
aveva detto Mari, in
quel momento erano stati allestiti i primi bersagli. Si ritrovarono
compresse
nella calca che odorava di birra e sudore, tra le urla
d’incoraggiamento
lanciate ai parenti o ai conoscenti. La maggior parte dei presenti era
già ubriaca,
alcuni bambini si erano seduti sulla recinzione, altre testoline
spuntavano tra
le assi di legno, in basso.
Sianna
guardò i primi
partecipanti dare prova della propria abilità, o
inabilità a seconda dei scarsi
risultati. Al pubblico importava poco delle capacità dei
concorrenti,
quell’estasi collettiva trascinava tutti in un entusiasmo
appassionato che si
scatenava in applausi e fischi.
«Voi
vedete Will?» gridò
nell’orecchio di Mari per sovrastare i rumori. Kea si trovava
in difficoltà, la
sua piccola statura la faceva mangiare dalla folla che le toglieva il
respiro.
«Guardalo
là, il terzo da
destra!»
Sianna
osservò i concorrenti,
una trentina di uomini di dubbia lucidità nonostante
l’orario, e quasi soffocò
nella propria saliva quando identificò, nella persona
accanto a William, la
figura slanciata e imprevista di suo fratello.
«C’è
anche Ynyr!» batté le
mani Marion, come le avesse letto nel pensiero. Non nutriva il medesimo
entusiasmo nel vederlo partecipare a quella prova. Non che ci fosse
qualcosa di
male, ma ignorava quel talento e interesse del fratello.
La
maggior parte dei
concorrenti venne eliminata fin dalle prime fasi, erano tutti contadini
dalle
braccia forti e muscolose, ma inadeguate, accanto a loro Ynyr sembrava
eccessivamente magro, quasi mingherlino. Eppure, contro le scommesse
che gli
uomini si gridavano da un lato all’altro sopra le loro teste,
le file si
sfoltirono rapidamente, mano a mano che i bersagli venivano allontanati
e il
livello di difficoltà si alzava, e in quel gruppetto di
finalisti figurò
proprio il fratello, per il suo sbigottimento. Più di
chiunque Sianna pensava
di conoscerlo, ma ignorava questo suo talento. Insieme ad un improvviso
senso
di straniamento, s’insinuò in lei una calda
sensazione di rimembranza. Mentre
lo osservava, guardava i muscoli della schiena che si tendevano, il
profilo
corrucciato dalla concentrazione, le sembrò di averlo visto
compiere quei gesti
mille volte e niente era più elegante ed appropriato per lui.
William venne
eliminato poco
dopo, ma Sianna non riuscì a prestargli attenzione, invero
non sentiva più
nulla, seguiva solo Ynyr con un’avidità inedita
anche per lei, cercando di
ricordare perché tutto questo le fosse così
familiare e come mai suo fratello
le apparisse se possibile più nobile e bello, ammantato di
una luce quasi
accecante.
Vennero chiamati
altri
concorrenti, in un gioco all’esclusione che infine
lasciò sul campo proprio
Ynyr ed un uomo che non era più giovane ma doveva essere
stato un soldato a
giudicare dal portamento e dal fisico: le deformità delle
dita e il gonfiore
dei muscoli delle braccia tradivano una vita spesa da arciere per
l’esercito
d’Ombra. Il bersaglio era stato spostato e distava dalle
postazioni di tiro
circa centotrenta piedi, ogni concorrente aveva tre frecce a
disposizione.
Quando lo vide incoccare l’ultimo e decisivo dardo,
d’istinto si sporse e gridò
il suo nome sopra tutti, con tutta la voce che aveva.
Quell’”Ynyr!” tra i tanti
suoni sguaiati lo tradì: il fratello sussultò e
la freccia andò a conficcarsi
nel secondo anello dipinto sulla paglia, decretando l’altro
concorrente come
decisivo vincitore. Scoppiò un boato di gioia e applausi a
cui Sianna non prese
parte. Fissava il fratello incredula che davvero l’avesse
udita, ed Ynyr a sua
volta, impermeabile alla situazione e indifferente alle persone
presenti,
ricambiò il suo sguardo per un lungo, pesante istante.
Alla fine le diede
la schiena
e si allontanò, uccidendo in lei qualunque iniziativa di
raggiungerlo per
congratularsi e magari parlare, dato che non si erano più
visti dopo il casuale
incontro nel bosco con Kii.
Marion la riscosse
aggrappandosi ancora alla manica della sua tunica
«È stato incredibile! Lo hai
visto? Poteva vincere!»
«Non
sapevo che Ynyr sapesse
tirare con l’arco» considerò Kea, con
l’espressione serena ed orgogliosa di una
sorella maggiore, una sensazione che paradossalmente Sianna non
riusciva a
condividere. Svicolarono dalla folla per raggiungere William.
Lo trovarono
seduto su una
roccia a parlare con Henry e Daniel, aveva il volto imperlato di sudore
ed i
capelli biondo cenere appiccicati alla fronte.
«E bravo
il nostro Will» lo
canzonò Mari, con un ampio sorriso che metteva in risalto i
denti bianchissimi.
Il ragazzo finse abbattimento, chinò il capo sconsolato e
borbottò «Come sei
crudele. Almeno tu, Sianna, sei venuta a consolarmi, vero?»
Presa in
contropiede, non le
riuscì di camuffare il volto che si arrossava «Non
ci penso proprio!»
«A
proposito» le si rivolse
Daniel con un sorriso indulgente che sapeva di salvezza «Non
sapevo che Ynyr
fosse tanto bravo!»
Come non detto,
argomento
sbagliato
Si morse il labbro
inferiore
per non mostrare troppo il proprio disappunto «In
verità nemmeno io» borbottò.
«È
un peccato che non sia
riuscito a vincere, se la stava cavando davvero bene»
ponderò Kea, rivolgendosi
a Daniel, gli occhi neri accesi di entusiasmo. Era tanto impacciata con
il
sacerdote che quando l’occasione di parlargli le si
presentava in maniera
naturale diventava felice come una bambina.
«Già,
ma non poteva mica
sperare in due premi» intervenne William, ancora risentito
dalla pesante
sconfitta «Onestamente, pensavo di batterlo facilmente, il
ragazzino» e sotto
il tono scherzoso, Sianna lesse una nota di amarezza che non la
stupì. Da che
ricordava, i ragazzi si erano sempre posti in modo competitivo verso
suo
fratello, per motivi differenti Ynyr aveva capacità di un
altro livello e per
questo aveva finito con il restare più isolato e in
disparte. Era infastidita
nel rintracciare quella sfumatura in Will, l’avvertiva come
una minaccia latente
verso il suo fratellino.
La sua aria
sconsolata però
fece ridere Mari, che gli concesse pacche poco leggere sulla spalla in
segno di
conforto «Sarà per il prossimo anno!»
«Due
premi?» apostrofò invece Iris,
a fronte aggrottata, non lasciando cadere l’unica cosa che
aveva attirato anche
la sua, di attenzione, guardandola poi di sottecchi a tastare la sua
reazione.
Sianna si sforzò di non emettere un suono e nemmeno di
muovere un muscolo
facciale, anche solo uno spasmo, per non tradire il nervoso.
Henry
confermò «Sì,
parteciperà alla sfida tra Bardi, stasera» Daniel
gli gettò un braccio al
collo, in un abituale gesto di confidenza che li caratterizzava: da che
li
conosceva, erano inseparabili in tutto e ritrovavano l’uno
nella presenza
dell’altro una certezza e un conforto, per questo anche
mentre parlavano
tendevano sempre a cercarsi «Da quello che ho sentito,
è proprio dotato»
specificò con un grande sorriso.
Sianna si
ritrovò ad aggredire
l’unghia già provata del pollice in un moto
d’innegabile collera ormai non
proprio latente.
«Lo
sentiremo stasera» rincarò
Will e Lisanda rispose con un gridolino eccitato «Non vedo
l’ora!»
«Io
invece proprio per nulla»
mugugnò, a voce sufficientemente bassa perché
l’acidità passasse inosservata. I
ragazzi si lanciarono in un dibattito sulle prossime prove, sul brutto
vizio di
Henry di piazzare scommesse perdenti in partenza e Sianna ne
approfittò per
defilarsi dal gruppetto con una scusa personale sulla quale nessuno
sollevò
quesiti.
Mentre si
allontanava a
falcate iraconde, sentiva lo stomaco rimestarsi e pensò che
si stesse mangiando
da solo e si sarebbe ritrovata con una nocciolina minuscola al posto
dell’organo. In quel frangente, l’unica cosa che
gli veniva in mente era
recuperare la piccola kitsune che con il fratello doveva aver trascorso
gli
ultimi giorni, e farle un terzo grado sufficientemente aggressivo da
spingerla
a parlare senza rimostranze.
A fermare il non
troppo
brillante piano che la faceva avanzare tra i campi come uno spirito
posseduto
dal demonio ci pensò Henry, che doveva aver deciso di
seguirla.
«Sianna?
Ti fermi?»
«Quale
parte di “devo fare una
cosa privata” ti sfugge?»
Henry
tossicchiò, forse per
una volta nella vita le era riuscito di metterlo a disagio.
«Non
sembrava volessi davvero
fare qualcosa di privato» borbottò indisponendola
ancora di più. Furente e
inacidita, sfoderò il peggior repertorio da contadina
iraconda e rozza che le
riuscì «Benissimo, solleverò la gonna e
piscerò gioiosamente davanti a te per
toglierti ogni dubbio»
Sperò
di umiliarlo e umiliarsi
abbastanza da spingerlo ad andare via, perché con lui nei
dintorni Kii sarebbe
rimasto ben nascosto, ma sortì l’effetto opposto,
il suo migliore amico,
altrettanto irritato, l’afferrò improvvisamente
per il polso costringendola ad
una brutta battuta d’arresto che la fece incespicare.
Come ha fatto a
sembrarmi una
buona giornata?
Maledizione a te
Ynyr
«Si
può sapere che cos’hai? È
tutto a posto?»
«No!»
Agitò
goffamente il braccio
per liberarsi, senza successo, di lui. Alzò gli occhi ed
incontrò lo sguardo
confuso e colpevole di Henry. Si pentì di aver alzato la
voce, ma la
frustrazione inspiegata che la rimestava non accennava ad affievolirsi.
«Se ci
penso mi viene una
rabbia! Se lo avessi davanti io… gli farei sicuramente
qualcosa!»
Le sopracciglia
del ragazzo
s’inarcarono sotto la montatura degli occhiali «Non
sono un indovino, ma
suppongo tu stia parlando di tuo fratello»
Sianna
sbuffò, scacciando la ciocca
di capelli che a causa di una rosa sulla fronte tendeva a ricadergli
sul volto
«E di chi altri?»
Henry si
lasciò sfuggire una
leggera risata, un misto di esasperazione e disagio «Cosa
esattamente ha messo
a dura prova i tuoi nervi?»
Sianna
riuscì finalmente a
liberarsi e si sedette a terra, imbronciata e capricciosa in maniera
terribilmente infantile, ne era conscia, eppure al di là
dell’imbarazzo non
poteva impedirselo.
«Che
vuoi che ne sappia? Non
lo so nemmeno io, so solo che è colpa sua. Come
può sparire così? A malapena mi
guarda se ci incrociamo, l’unica volta che mi ha parlato
quasi mi inceneriva… e
adesso questo!»
Il sacerdote
esitò, ma alla
fine si sedette accanto a lei, tra le stoppie, e si grattò
il collo a disagio
«Questo significa quello che sta facendo?»
Annuì,
assorta, e dopo qualche
minuto di ponderato silenzio gli chiese «Non ti sembra
naturale?»
«Non ti
seguo»
Sianna
scacciò i capelli con
astio «Nemmeno sapevo che sapesse tirare con
l’arco, non lo aveva mai fatto. Mi
sembra di trovarmi di fronte uno sconosciuto all’improvviso.
Ma non è questo
che mi fa arrabbiare» si morse il labbro inferiore,
cercò le parole per
esprimere quell’insensata sensazione «Non
l’ho trovato strano, solo irritante.
Come se fosse naturale che sia in grado di farlo, ma farlo fosse una
provocazione rivolta a me»
Henry si
accigliò, si sistemò
meglio gli occhiali sulla punta del naso, la fronte si
arricciò ulteriormente
in rughe di confusione.
«Non ha
molto senso» optò
infine, abbozzando un sorriso di scusa, come se non poterla assecondare
fosse
una colpa. A volte Sianna non riusciva a capire quel ragazzo, anche se
si
conoscevano fin da bambini.
«Lo so,
però non so spiegarlo
diversamente. È un’impressione di già
visto. Io l’ho già visto fare questa cosa,
ma in realtà non l’ho mai visto farla. Mi sembra
quasi di dover ricordare
qualcosa, ma è solo una sensazione neanche troppo distinta e
mi dà rabbia
perché è come se Ynyr mi stesse pungolando, mi
stesse dicendo che c’è qualcosa
di lui che non ricordo e devo ricordare»
L’amico
sbuffò e si mise a
ridere, stemperando un po’ il suo umore tetro e dando un
leggero colpo di
spugna a quei pensieri contorti e pesanti «Voi due siete
sempre troppo strani,
lo sapete? Volete sempre leggere nei gesti dell’altro
più di quanto non ci sia»
Sianna sorrise
debolmente, non
lo corresse. Non gli disse che, in realtà, di solito i loro
gesti
sottintendevano l’uno verso l’altro
realtà e verità comprensibili solo a loro
che escludevano veramente tutti gli altri. Non lo fece,
perché sapeva bene
quanto fosse malsano il rapporto esclusivo che li legava. Il sacerdote
si alzò,
le porse una mano senza cancellare quell’accenno
all’insù delle labbra, non un
vero e proprio sorriso; Henry era un malinconico e anche quando si
sentiva di
buon umore restava comunque sospeso su di lui un alone di rassegnazione
e
sconforto.
«Vieni
con me, testa dura»
Sianna
gonfiò una guancia
d’indignazione, accettò il suo aiuto e tenne
stretta la mano dell’amico mentre
questo la guidava. Non troppo lontano si era alzata una
melodia, un misto
di strumenti a fiato e percussioni, e nei prati uomini e donne si
raccoglievano
in cerchi festanti e iniziavano a danzare. Si perse con lo sguardo a
contemplare quelle figure non del tutto nitide e le parve di
riconoscere Kea
insieme a Daniel.
«Dove mi
stai portando?»
chiese quando si accorse che anche Henry puntava al bosco, la linea
degli
alberi sempre più nitida e vicina. Erano nei pressi del
Cromlech ora, la folla
assiepata di fronte ai Brithen nascondeva parte di
quell’affascinante struttura
in pietra. Tanet le aveva spiegato la valenza magica del cerchio come
simbolo,
le aveva detto che il Cromlech era costituito da due cerchi di pietra
concentrici e che l’ingresso era rivolto ad est, incorniciato
da due alti
menhir che fungevano da sentinelle protettrici. C’era un
piccolo fossato che
seguiva il contorno della circonferenza e gli altri punti cardinali
erano
segnati da altrettanti menhir solitari.
Sapeva tutto
questo, ma il
Maestro non le aveva concesso di avvicinarsi per poter toccare con mano
quelle
pietre antiche, le aveva detto che i loro luoghi sacri non erano un suo
gioco e
doveva portare rispetto per le antiche credenze. Così, lo
contemplò da lontano
finché non sparì dalla sua vista.
Henry
imboccò uno dei numerosi
sentieri che s’inoltravano nel bosco d’Ishitar, una
stradina di terra battuta
come un’altra, eppure l’amico sembrava avere
un’idea molto precisa di dove la
stesse portando. Il mistero si svelò prima che potesse
tornare alla carica con
qualche domanda: gli alberi si dipanarono per mostrare una piccola
radura. Al
centro sorgeva una casetta di pietra di forma circolare con il tetto in
paglia,
sopraelevata dal terreno, sostenuta da grossi piloni di legno. Una
scaletta
conduceva alla porta d’ingresso, accanto era stato costruito
un pozzo con un
secchio di legno dimenticato sul bordo dell’anello di pietra.
Una musica
leggera copriva i rumori di uccelli ed animali, il suono di
un’arpa tra le mani
di un ragazzo seduto sui gradini d’ingresso.
Ynyr era
concentrato, tanto
concentrato che forse davvero non l’aveva sentita arrivare,
per quanto assurdo
le potesse sembrare. Ynyr l’aveva sempre percepita con largo
anticipo, in modo
del tutto inspiegato. D’istinto, Sianna acchiappò
Henry e lo costrinse a
nascondersi dietro un albero. Lei stessa vi si appiattì,
facendo aderire la
schiena alla superficie ruvida.
«Quindi
è qui che è sempre
stato. Che posto è questo?»
Henry si sporse
come lei per
spiare il ragazzo «È un nemeton, un luogo di
ritiro dei sacerdoti, per
isolarsi. Negli ultimi anni ci vive il nostro più anziano
File. È un Cruitire,
un arpista»
Sianna
inarcò scettica un
sopracciglio e lo fissò con la sua più minacciosa
espressione, per invitarlo
neanche troppo gentilmente a chiarire perché Ynyr si
trovasse lì. Henry alzò le
mani in segno di resa «Non prendertela con me. È
tuo fratello che quando è
stato meglio ha chiesto di essere condotto qui. È stato
affidato ad Armogen, e
lui è un asceta, non rientra praticamente mai al monastero,
anche se è qui
vicino. Per questo non lo vedi mai»
Riflettendo su
quella scelta,
quell’esilio praticamente, Sianna si oscurò. Fu
istintivo pensare a se stessa e
a come in qualche modo, quella comunità di sacerdoti Drui
l’avesse confinata
nelle mani di Tanet perché non entrasse in contatto con gli
altri. Ora, la
situazione di Ynyr pareva specchio della sua.
«Henry,
c’è un qualche
collegamento?»
Ancora una volta,
il ragazzo
non la capì, né poté biasimarlo
«C’è un collegamento nel fatto che sia
io che
mio fratello siamo stati separati completamente ed esclusi dal resto di
voi?»
L’amico
si affrettò a negare,
con troppa veemenza per quello che la riguardava. Era sbiancato
all’improvviso,
come se tutto il sangue fosse fluito via dal suo volto, e trasmetteva
una
profonda inquietudine, un disagio indefinito. Non era semplice
interpretarlo,
Henry e Daniel erano diversi dalle persone normali, erano
più schermati dalle
sue sensazioni rispetto a chiunque altro, per questo non riusciva a
leggere le
sfumature del suo imbarazzo. Perciò si sporse nuovamente,
per guardare suo
fratello.
Era seduto in
maniera
scomposta, l’arpa tra le sue gambe sembrava un veliero pronto
a salpare, con la
vela gonfia di vento ed elegante come il collo di un cigno. Le dita
lunghe e
sbiancate, delicate come rami morti esposti all’acqua e al
sole, sfioravano
appena le corde, le pizzicavano indolenti, eppure il suono che nasceva
da quei
movimenti delicati era dolce e pieno, commovente.
«Il
sussurro del dolce albero
delle mele» ricordò, ma non sapeva che ricordo
fosse. Da quando aveva incrociato
gli occhi di Ynyr durante la gara, non aveva smesso un solo istante di
provare
quella sensazione di già visto. Henry non era nuovo a quei
suoi sprazzi di
straniamento e non le fece domande. Piuttosto, disse «Credo
che vi dovreste
parlare»
«Forse
dovremmo» confermò
Sianna, sfiorando con le dita la corteccia dell’albero, a
seguire linee di
incisioni a cui non aveva prestato troppa attenzione.
L’occhio le cadde sopra
quei solchi e si accorse che erano rune. Sospirò per
scacciare il panico.
«Ma tu
non vuoi» constatò
l’amico, ripetendo ancora quel suo abituale gesto di
risistemarsi gli occhiali.
Scrollò le spalle, si concentrò sui capelli
bruniti d’Ynyr, un biondo rosso che
portava in sé il fulvo materno, sul modo in cui gli
coprivano parte del viso,
gli occhi socchiusi.
«Penso
che potrebbe farvi
bene. Penso che dovreste restare insieme in un momento come
questo»
«Momento
come questo?» lo
apostrofò accusatoria, ed Henry fu attraversato da un moto
di vergogna che
travolse anche lei.
«Intendo
solo che questo silenzio
fa male a entrambi» svicolò.
Sianna accolse la
stoccata in
silenzio, colpita in pieno.
Fin da bambina,
sua madre le
aveva ripetuto sempre un’unica, lapidaria raccomandazione:
prenditi cura di tuo
fratello. Non era mai stato un rapporto a senso unico, troppe erano
state le
volte in cui era stato Ynyr il pilastro di entrambi, il porto sicuro.
Eppure
quel mantra riecheggiava nella sua memoria e la faceva sentire in
colpa.
Davanti alla sua indecisione, Henry fece un passo indietro e le diede
la
schiena.
«Mi
lasci sola?» lo richiamò
con il tono da bambina lamentosa più efficace del suo
repertorio. Non funzionò,
il sacerdote abbozzò un gesto di commiato con la mano e
imboccò il sentiero del
ritorno. Si alzò una brezza leggera che cambiò la
disposizione dei cirri
nell’unico sprazzo di celeste visibile dal cerchio di alberi,
le fronde
frusciarono tra loro e questi suoni si unirono in maniera armoniosa
alla
melodia solo accennata che suonava Ynyr.
Il fratello
alzò il capo, si
voltò nella sua direzione e sorrise «Pensi di
uscire di lì ora che Henry se ne
è andato?»
Sussultò,
ma non fu troppo
sorpresa di essere stata scoperta. Ynyr la percepiva, aveva
probabilmente finto
di non accorgersi di loro per darle la possibilità di
andarsene non vista, però
doveva averla tenuta d’occhio da quando si era avvicinata
alla radura. A passi
strascicati uscì dal nascondiglio e
s’incamminò pigramente verso di lui.
«Ciao,
Ynyr»
«Ciao,
Sianna»
Sianna imbronciata
era sempre
spassosa, sarebbe valsa la pena farla arrabbiare fino allo sfinimento,
se
quell’espressione era ciò che ne guadagnava. La
squadrò discretamente mentre la
sorella si trascinava verso di lui con la stessa gioia di vivere di un
sasso,
cercando di mettere a fuoco i dettagli che gli erano sfuggiti nel loro
ultimo incontro.
Aveva sempre cercato di non prestarle troppa attenzione, per ovvie
ragioni, ma
da quando Marilien era morta si era reso conto di come qualcosa si
fosse rotto
senza speranze di poter essere riparato, e così ora non
c’era più il freno, la
ragione umana che lo bloccava, e porsi un limite spontaneamente
diventava più
difficile.
Ovviamente, quella
tonta di
sua sorella non se ne era resa conto, per lei che non ricordava nulla
era tutto
più semplice, le invidiava l’innocenza ritrovata,
allo stesso tempo la odiava,
perché in qualche modo riusciva a renderla più
adorabile e lo costringeva
all’indulgenza. Non era trascorso troppo tempo senza che
parlassero, eppure era
stato sufficiente ed ora la ritrovava diversa, più bella,
più eterea. E ancora
altrettanto ignara.
Tornò
alla sua musica, ben
sapendo che questo l’avrebbe solo fatta arrabbiare.
E infatti, precisa
e
capricciosa, la sentì sbuffare e pestare un piede
«Hai un
attimo?»
Sorrise ferino e
le fece cenno
di parlare, senza però guardarla. Se fosse stato
più intelligente, più
razionale, le avrebbe detto di no, non le avrebbe concesso nemmeno un
istante.
Ma era semplice ammorbidirsi, quando riscopriva nei suoi gesti la
bambina con
cui era cresciuto, movimenti come il piede che grattava il terreno in
imbarazzo, i versi e i rumori delle sue guance che si sgonfiavano e
gonfiavano
per prendere tempo e contenere la stizza.
Se tu avessi
imparato qualcosa
in tutto questo tempo, ti alzeresti e te ne andresti, non commetteresti
ancora
e ancora lo stesso errore.
Ma è
evidente che né tu né lei
siete particolarmente intelligenti.
Tu però
hai meno attenuanti,
ricordatelo!
Poteva fare il
duro con se
stesso quanto voleva, ma alla fine non sarebbe cambiato nulla. Non
erano mai
stati tanto uniti, era difficile anche solo contemplare di rinunciare a
quel
legame. Paradossalmente, ora a legarlo a lei c’era un
sentimento ibrido, di
desiderio e repulsione, che lo bloccava e lo lasciava a ristagnare
nelle
proprie reminiscenze.
«Da
quando tiri con l’arco?»
lo accusò subito, la voce aspra e ruvida come un limone.
Accennò l’ennesimo,
provocatorio sorriso, alzò il volto ad incrociare gli occhi
di sua sorella,
così azzurri da dargli le vertigini.
«Non lo
ricordi?»
Sianna si fece
seria «Non è
divertente»
Cancellò
ogni espressione dal
proprio viso «Non volevo esserlo» rispose
lapidario. Troppo freddo, forse,
perché la vide vacillare, presa in contropiede. Non si
spazientiva mai con lei,
non davvero, ma negli ultimi tempi stava sfiorando un proprio limite
personale,
si era imbattuto in debolezze che ignorava di avere e gestirsi ora era
più
complesso.
«Perché
mi sembra così
spontaneo, eppure mi sento tradita? Non capisco Ynyr» gli
occhi grandi si
colmarono di una confusione spaventata. Si costrinse a non farsi
imbrogliare da
quella sua bellezza angelica, ma era difficile per lui, una delle cose
più
difficili.
«Non
sono tenuto a dirti
tutto»
La
fissò dritta negli occhi,
in quelle iridi che ricordavano petali di fiordaliso ricoperti dalla
brina
dell’inverno, e si pentì di quel suo gesto di
sfida: le pupille nere, minuscoli
puntini in quel cielo terso, erano abissi che stordivano, uno stralcio
d’infinito e perfezione in cui smarrirsi era facile, quasi
impossibile da
reggere per qualunque essere umano. Lui però non era come
gli altri, perciò si
costrinse a non cedere e le sorrise.
Sianna si morse le
labbra e
alla fine desistette, chinando la testa, sconfitta.
«Non ti
capisco. Ho l’impressione
che tu stia cercando di provocarmi e non so il perché o che
senso possa avere.
Sento che mi rimproveri qualcosa, però poi non mi parli.
Ynyr, lo sai che se
non mi parli io non posso capirti. Quindi perché stai
complicando tutto? Se hai
qualcosa da dirmi, dimmelo»
Non posso.
Ho aspettato fino
ad ora e
adesso capisco di aver aspettato troppo. So che non posso farti questo,
eppure
il peso di non poterlo fare mi opprime.
Scrollò
il capo e non rispose,
sarebbe stato troppo complesso e ingiusto, ma soprattutto Sianna non lo
avrebbe
accettato in quel momento, non se prima non avesse risvegliato in lei
delle
reminiscenze. Doveva esserle costato molto, riuscire a dimenticare, e
ancora
non si sentiva tanto egoista da rigettarla in quel baratro di malessere
per una
propria soddisfazione personale.
Sua sorella si
arrese e si
sedette accanto a lui, su un gradino più basso, con le
braccia e la testa
appoggiate alle ginocchia raccolte al petto.
«Come
stai?»
Le sorrise storto
«Bene»
«Mi ha
detto Henry che gareggerai
con i bardi, stasera»
«Infatti»
Gli
sfuggì un sospiro nel
vederla non solo arrabbiata, ma anche terribilmente sconfortata. Il
piacere di
vederla sofferente, come una ripicca, era sempre mitigato da un
terribile senso
di colpa.
«Non lo
sapevo» mentì, per
darle un sollievo che avrebbe cancellato ogni suo tentativo di
risvegliare
qualcosa che forse, a quel punto, nemmeno esisteva più.
«Cosa?»
Sianna si raddrizzò
all’istante e lo studiò con una serietà
stonata sul suo viso da ragazzina.
«Non
sapevo di saper tirare
con l’arco. Ti giuro che era la prima volta. Volevo solo
provare»
Il sollievo che le
si dipinse
in volto sarebbe potuto apparire insensato, non fosse che Ynyr ne
conosceva la
ragione più profonda.
Perfetto, ora sono
io lo
sconfortato!
«Non ne
so il motivo, ma
davvero mi è sembrato naturale che tu lo sapessi
fare» osservò lei, poi scrollò
le spalle per togliere importanza ad una questione che per lui invece
risultava
fin troppo fondamentale.
«Già,
ho provato una
sensazione simile» mentì ancora, e
sentì la schiena cedere ed accartocciarsi
sotto l’ennesima sconfitta. In realtà, si sentiva
patetico, per quei vani
tentativi troppo deboli per poter davvero funzionare. Lui stesso non
sapeva
tutto, aveva consapevolezze a sprazzi, ricordi che erano fulmini a ciel
sereno
nella sua memoria. Il quadro della situazione gli sfuggiva e Sianna era
l’unica
certezza, forse proprio per questo tentava senza tentare sul serio:
quello
stato d’incertezza e confusione era troppo frustrante, non
voleva coinvolgerla,
non ancora.
«Hai
ancora il nastro»
Sianna
passò le dita tra i
capelli, a sfiorare il fiocco rosso, insensatamente legato ad una
ciocca, per
abitudine.
«Lo sai
che ci credo a queste
cose. Korakas non mi avrebbe mai detto di indossarlo se non avesse
senso»
Ynyr
accarezzò le corde in
un’unica, angelica scala di note «Già,
ma non basta a tenerti lontano inutili
spiriti pelosi»
«Parli
di Kii?» si accigliò,
scavando un solco tra le sopracciglia.
«Chi
altri?»
Sua sorella
sbuffò esasperata «Non
hai motivo di avercela con lui, non ti ha mai fatto nulla»
Cerca di
riportarti indietro e
nemmeno te ne accorgi, non è un motivo sufficiente odiarla
perché vuole
allontanarti da me?
La Kitsune, con
ogni probabilità,
ci sarebbe anche riuscita, non trovava alcun modo per fermare la ruota
che
aveva ricominciato a girare, quel destino era un ingranaggio di una
realtà
molto più grande e incomprensibile di quella loro banale
esistenza.
Distrattamente, aveva ricominciato a suonare.
«Ti ha
insegnato Armogen?»
Fece spallucce
«Qualcosa,
quando ne ha voglia. Non parla molto, sta nel suo»
Sianna si mise a
ridere.
Per un attimo,
Ynyr si ritrovò
a trattenere il respiro. Certe verità non potevano cambiare,
né una piccola
distanza moderare l’affetto che nutriva per lei, o
l’effetto che riusciva ad
esercitare su di lui con la semplicità della sua
ilarità.
«Ti
piace. Non sono abituata a
vedere persone che ti piacciono!»
«Infatti
le persone non mi
piacciono. Le piante, le piante mi piacciono» la
guardò di sottecchi mentre
ridacchiava scuotendo la testa, con quella sua indomita chioma che la
rivestiva
come una criniera scompigliata «E i sassi, Ynyr. Non
dimenticare il tuo amore
per i sassi»
Le sorrise
«Personalmente, mi
basta che la cosa non respiri»
«Se
cercherai di soffocarmi
nel sonno, saprò il motivo» considerò
sua sorella, mordendosi le labbra. Spirò
una lieve brezza, gradevole, in controluce le ciglia di Sianna
sembravano
lunghissime, socchiuse gettavano ombra sulle guance. Si riscosse,
riprese lo
strumento e vi dedicò tutta la sua attenzione, per non osare
troppo. Pizzicò le
corde, sorrise
«Come
accade al caprifoglio
Che al nocciolo
s’attacca
Quando vi si
è intrecciato e
avvolto
E
tutt’attorno al tronco s’è
messo,
assieme possono
vivere a
lungo;
ma poi, quando si
tenti di
separarli,
subito muore il
nocciolo
e insieme il
caprifoglio.
“Amica,
così ne è di noi:
non te senza me,
non io senza
te”»
La
osservò ancora, dal basso
in alto, con il sorriso più candido e scavezzacollo che
avesse, per deridere il
rossore innocente che già si era diffuso sulle guance di
Sianna, una candida
fanciulla sorpresa da troppo ardore. Non era quella,
l’immagine dei suoi
ricordi, come sua sorella riuscisse a differire da se stessa senza mai
allontanarsi
dalla propria essenza, era il più grande mistero della sua
vita. Sianna si
passò le dita tra i capelli, pettinando la rosa che le
sollevava il ciuffo in
uno sbuffo irriverente.
«Sei
bravo. È questa che hai
scelto?»
Il sorriso
provocatore morì un
poco «Oh, no. Questa non è mia. È molto
più antica, parla di un amore
indissolubile che può portare solo alla morte. La mia
ballata sarà una
sorpresa» gli sfuggì un sospiro pesante
«Promettimi di ascoltare»
Sianna si
addolcì, gli
occhioni azzurri scivolarono in un languore nostalgico «Io ti
ascolto sempre»
disse.
Lo disse con una
convinzione
diversa, una certezza assoluta che non si riferiva alle sciocchezze di
tutti i
giorni, ma aveva radici più profonde. Ecco, quando la vedeva
così, profonda e
lontana, gli sembrava assurdo pensare che davvero Sianna non si
rendesse conto
di star ricordando qualcosa. Era terribile e implacabile la
verità poi, quando
si abbatteva su di lui e lo costringeva a realizzare che per lei erano
solo
minuscoli, impercettibili frammenti, pulviscoli di memorie senza valore
o
senso.
«Lo sai
che mi sei mancato,
vero?» sorrise laconica e Ynyr si ritrovò a
ricambiare mestamente quell’aria
remissiva da condannato.
«È
mai successo che non ci
mancassimo?»
Sianna
sbuffò, indicò con le dita
affusolate la sua casacca, all’altezza del cuore
«È diverso, tu mi senti. Hai
quest’assurda fortuna che ti tiene tranquillo. Io sono sempre
in ansia, se si
tratta di te»
Avrebbe voluto
abbracciarla,
ma si sentiva a disagio nel farlo. Avrebbe voluto dirle che quel
sigillo sul
suo cuore non era la sua fortuna, era la sua più grande
condanna. Se solo
avesse voluto ascoltarsi, Sianna avrebbe potuto avvertire le medesime
sensazioni, in fondo anche lei era marchiata, sul suo braccio.
Appoggiò l’arpa
e le porse la mano, con l’aria malandrina che la faceva tanto
ridere «Vieni con
me!»
Quasi prevedibile,
Sianna si
lasciò andare all’allegria e ricambiò
la stretta. Ynyr la condusse dentro la
capanna, raggiunse il giaciglio di Armogen e trafficò con un
tappeto ruvido e
consunto. Sotto, un asse mobile rivelò una fiasca di liquido
dorato.
«Che
roba sarebbe?»
«Uisce
beatha» mormorò lui,
facendo oscillare la bevanda all’interno del vetro
«Armogen la chiama “acqua
della vita”» sghignazzò «Puoi
immaginarne il motivo! Prendi due tazze»
La sorella
annuì e recuperò da
una piccola credenza, fin troppo sporca e usurata, due tazze di legno.
Il suo
impaccio la rendeva tragicamente comica, Ynyr le riempì e
gliene restituì una.
«Intreccia
il braccio al mio,
così» le mostrò, portandosi il bordo di
legno levigato alle labbra. Sianna lo
imitò, senza abbandonare l’aria confusa di un
cucciolo innocente.
«Questo
che sarebbe?»
«Un
brindisi, scema. Voglio
vederti ubriaca prima di sera»
Sianna si
accigliò, annusò
cauta il contenuto del bicchiere e storse la bocca «Per quale
motivo?»
«Beh,
diciamo che gli uomini
risolvono tutto con una sana bevuta»
«Io non
sono un uomo»
puntualizzò lei, indignata come ogni volta che metteva in
dubbio la sua
femminilità. Se solo avesse avuto percezione di se stessa,
pensò Ynyr, non
avrebbe dubitato nemmeno un istante della propria avvenenza, avrebbe
scorto
senza difficoltà la scintilla di divino che la rendeva
radiosa per esistenza.
Un ego luminoso e splendente, era quell’essenza pura nascosta
sotto una spoglia
mortale a renderla irraggiungibile per chiunque.
Sorrise ancora,
sbilenco e
provocatore «Non è che io possa festeggiare con te come
farei con una ragazza
qualunque, ti pare?»
Il pudore
virginale che le
imporporò le guance valse più di qualunque
protesta.
ANGOLO AUTRICE
NOTE: il
brano citato da
Ynyr fa parte di un passo tratto da un'opera di Maria di Champagne su
Tristano
e Isotta... non ho resistito!
Per il resto, in
realtà questo
capitolo è una parte di un capitolo più lungo,
inframmezzato da "Ricordi:
parte due". Per lo stile di EFP ho preferito dividerlo,
perciò potrebbe
sembrarvi inconcludente, proprio perchè mancante della
seconda parte. Diciamo
che qui almeno posso porre l'accento sul primo punto di vista di Ynyr,
il
protagonista secondario, personaggio chiave anche in futuro per leggere
le
situazioni che dal punto di vista di Sianna sembreranno... insensate!
Alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** RICORDI parte seconda ***
L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
RICORDI parte seconda
La disperazione con
cui Sianna si era aggrappata alla sua mano fu più eloquente
di qualunque
supplica. Era sopraffatta, non dai propri sentimenti ma dal delirio
collettivo
che si abbatteva su di lei come un’onda schiumosa e furente
sugli scogli.
Faticava a respirare, non riusciva a schermarsi. Ynyr prese fiato, si
concentrò, le sfiorò la guancia e le tempie,
cercando di trasmetterle la
propria calma.
Con
un sospiro tremante, la sentì sciogliersi
sotto le sue dita, rasserenarsi e tornare a respirare. I suoi occhi si
svuotarono di paura e rimasero colmi solo di assoluta adorazione. Si
chinò su
di lei, ripeté a voce alta «Senti me, solo me,
Sianna. Non guardare nessun
altro»
Ricambiò il sorriso
leggero che si era dipinto sulle sue labbra ma poi, con uno strattone,
la
riportò dolorosamente alla realtà: erano
schiacciati contro una parete, la
folla impazzita non concedeva tregua eppure, se desideravano salvarsi,
dovevano
raggiungere il riparo del bosco, era quella la sua unica certezza.
«Stringetevi l’una all’altra,
tenetevi strette qualunque cosa accada! Se vi lasciate è la
fine!» cercò di
urlare sopra le urla delle persone, scorticandosi la gola per lo
sforzo. Gli
faceva male tutto, per raggiungere sua sorella aveva lottato contro
corrente,
persino respirare era un dolore che si traduceva in fitte a tradimento
tra le
costole.
Deve
essersi incrinato qualcosa,
pensò contraendo la mandibola e tastando approssimativamente
il costato. A quell’ordine,
le ragazze
obbedirono all’istante, si aggrapparono con tutta la loro
volontà alle sue
parole come alla luce di un faro in un banco di nebbia.
Sianna
tornò presente a se
stessa, Ynyr la vide finalmente realizzare che il terrore che la
circondava era
concreto, non solo un’emozione assorbita. Percepì,
quasi fosse sua, la paura di
Sianna nel capire all’improvviso che racchiudersi dentro quel
grumo d’istinti
primordiali le sarebbe costato la vita. Ynyr si portò ancora
la mano al fianco,
si lasciò scappare l’ennesima imprecazione tra i
denti, avvolse Sianna nella
sua stretta e insieme scivolarono in quel fiume di grida e carcasse
umane
oppresse. Le fiamme sempre più alte lambivano il cielo, il
colore violento del
fuoco e del calore annebbiavano la vista come ogni altro senso, Ynyr
era smarrito,
non sapeva dove andare, procedeva alla cieca, seguendo
il tumulto. La pelle bruciava, i pianti isterici e disperati che
riempivano le
sue orecchie gli impedivano di essere lucido, quei corpi che premevano
contro
il suo, contro il braccio teso verso Sianna come unico legame che non
li faceva
perdere, gli toglievano la possibilità di cercare un riparo.
Alcuni edifici,
brillanti come tizzoni ardenti, crollarono tragicamente su loro stessi,
investendo la folla, i calcinacci scoppiarono a raggiera, una pietra
arrivò a
colpirlo in testa.
Nuovi grappoli di
luce, quasi fossero centinaia di nuove stelle a illuminare il cielo, si
accesero all’unisono e all’unisono scattarono,
lasciando dietro di loro una
scia di fuoco, code di comete. La mano di Sianna strinse la sua con
forza, in
un moto di orrore. Ynyr, stordito dal colpo, cercò di
abbassarsi, la spinse a
fare altrettanto e sperò che le altre lo imitassero, che
cercassero di rendersi
bersagli meno scontati. Le frecce falciarono la fiumana di persone,
molti corpi
caddero a terra solo per essere inghiottiti e sopraffatti, calpestati.
Ynyr
stesso sentì la cedevolezza della carne maciullata sotto i
piedi.
Sono
sentimenti così agghiaccianti che non riuscirò
nemmeno io a schermarmi a lungo.
Se
io inizio a cedere, Sianna deve essere al suo limite
La trascinava con sé,
ma gli sembrava di tirarsi dietro una bambola disanimata, se fosse
svenuta
sarebbe stata la loro fine, quella fuga dalla morte si sarebbe
interrotta prima
di poter arrivare anche solo a sperare in una salvezza. In quel
trambusto, miracolosamente
riuscì a intravvedere quattro figure incappucciate ben note.
Riconoscere Kea
gli tolse un peso immenso dallo stomaco: non era stata abbandonata a se
stessa,
era stata salvata da Henry, William e Daniel. I ragazzi lo riconobbero,
gridarono i loro nomi, sbracciandosi in un mare di carne e braccia e
teste per
poterli raggiungere.
Riuscirono a riunirsi
aprendosi un varco tra la gente, Ynyr vide il bosco in lontananza, in
cima alla
salita, oltre quello che era stato l’ingresso al paese e che
ora era solo un
ininterrotto serpente di anime accalcate. Una nuova ondata di frecce si
abbatté
su di loro.
Ynyr sfruttò l’energumeno
che lo precedeva come scudo, mosso solo dal pensiero di doversela
cavare, ma sentì
dietro di sé un “croc” netto, il rumore
di qualcosa che si spezzava. A quel
suono grottesco, la presa di sua sorella venne meno, quel braccio teso
si
accartocciò mollemente. Una fitta di dolore
trapassò l’arto di Ynyr e lo
percorse in un brivido fino al cervello, incespicò nei
propri piedi, rischiò di
rotolare a terra. Per un attimo, tutti i suoni si attutirono e le
immagini
divennero sfocate, scosse la testa per snebbiarsi quel tanto
sufficiente a
riprendere il controllo del proprio corpo. Lui non era ferito, si
voltò a cercare
Sianna, la vide accasciata e capì.
È
stata colpita
Senza riflettere, liberò
la mano di Marion, ancora allacciata alla sua, e si
precipitò sulla sorella
inerme, per proteggere il suo corpo dagli urti della folla che la stava
travolgendo. Marion gridò qualcosa, riuscirono a guardarsi
negli occhi per un
momento fuggevole, poi la ragazza, trascinata dalle amiche e dai
sacerdoti,
sparì dalla sua vista e loro due rimasero soli, indietro.
Spinse Sianna a
rialzarsi, la freccia era conficcata nel braccio, l’aveva
passato da parte a
parte spaccandole l’osso, la manica carbonizzata mostrava la
terribile ustione,
la carne rosso vivo, viscida, a cui la stoffa si era appiccicata. Sua
sorella
era svenuta per il dolore, così, nella disperazione
assoluta, Ynyr se la caricò
tra le braccia, a stento, consapevole che lì nessuno badava
a loro, che nel
delirio le avrebbero fatto del male, li avrebbero uccisi. Tuttavia, il
suo
stesso fisico non reggeva più tutti quei colpi e non era in
grado di
difenderla. Più volte sul punto di perdere
l’equilibrio, individuò un vicolo
tra due abitazioni in fiamme. Nonostante l’eccessivo fumo che
invadeva la via,
Ynyr riuscì ad imboccarla, a trovare un breve momento di
sollievo in quella
fornace ardente. Tossì e barcollò con il peso
della sorella addosso.
Se
stiamo qui, siamo morti, se cerchiamo di raggiungere il portone per
uscire da
qui, verremo fagocitati dalla folla e saremo morti.
Che
cosa devo fare?
Stanco e affannato,
inciampò in una massa molle e nera e cadde a terra. Sianna
rotolò sul terreno,
inerme, come fosse già morta. A vederla immobile, scomposta
con gli occhi
chiusi, Ynyr sentì l’angoscia più pura
attanagliargli lo stomaco. Strisciò verso
di lei, allungò la mano ad accarezzarle il viso, fece
scivolare le dita fino
alla gola e lì si fermò, ad ascoltare il lento
pulsare del sangue e del cuore. Solo
allora, tranquillizzato, si mise a carponi e cercò
l’energia per rialzarsi.
Il fumo gli toglieva
il respiro, la cappa grigia era tanto spessa da formare una coltre
sopra la sua
testa, non vedeva più nulla, e faceva caldo, troppo caldo.
Le fiamme erano
soverchianti, grondava di sudore che gli entrava negli occhi, bruciava.
Si accorse
di essere inciampato in un cadavere mangiato dal fuoco, erano
circondati da corpi
neri e grotteschi, resi irriconoscibili, così rattrappiti da
apparire deformi. Esitò,
provò a riconoscere qualcuno, ma si concesse solo un breve
istante di quel
cedimento, prima di scuotere la testa e archiviare tutto.
Sono
morti, non posso fare nulla per loro. Ma Sianna no, lei non
può morire
Raccolse sua sorella
e scavalcò quelle carcasse svuotate di vita che
intralciavano il suo passaggio,
sforzandosi di restare lucido e presente a se stesso. Non
poté comunque
avanzare troppo, il vento sollevava scintille che lo ustionavano e la
tosse convulsiva
fece il resto, pochi passi e fu costretto ad appoggiare nuovamente la
sorella a
terra e ad accasciarsi su di lei.
La guardò, non dava
cenno di volersi risvegliare, si era addormentata nel momento peggiore.
Eppure,
osservando il suo volto tanto amato, pensò che morire
così, insieme, non fosse
poi una morte tanto orribile, forse una delle più dolci che
era stata loro
concessa. Certamente a lui, a cui bastava vedere la linea morbida di
quegli occhi,
di quel profilo, per pensare che non potesse esserci nulla al mondo che
potesse
avere più senso. Le strappò la manica
dell’abito, là dove la freccia le aveva
trapassato l’omero spezzandole di netto il braccio,
perché la stoffa bagnata di
sangue si era appiccicata alla carne ustionata e con quella si stava
fondendo.
Sianna strizzò le
palpebre in un lamento inconscio, il primo accenno di ripresa.
Così, forte di
questo, Ynyr spezzò la freccia, ma non ebbe il coraggio di
estrarla. Poi,
smarrito, si guardò attorno.
Dobbiamo
ritornare nella via principale, o non ci sarà salvezza.
Ma
come faccio?
Lentamente, un’ombra
si allungò nella via, tra il fuoco e il fumo. Ynyr si
accorse che qualcuno
stava avanzando piano, flemmaticamente, verso di loro, qualcuno che
sembrava
avere tutto il tempo del mondo in un momento in cui il tempo sembrava
essersi
esaurito. I suoi occhi misero a fuoco un bambino, un ragazzino con
indosso un
abito ad ampie maniche fermato in vita da una fascia di tessuto. Il
volto era
nascosto da un’inquietante maschera bianca: il muso di una
volpe con gli occhi
strizzati. Oltre lo sbigottimento, Ynyr provò sollievo
davanti a quella
creatura sovrannaturale, che a piedi nudi e artigli in vista sembrava
completamente slegata, immune a quel contesto di disperazione.
«Kitsune» lo chiamò.
Kii si fermò. Guardò Sianna
dall’alto e, qualunque sentimento lo stesse animando, fu
impossibile capirlo perché
il viso rimase nascosto. Non gli disse nulla e allora Ynyr lo
osservò chinarsi
sulla ragazza, afferrare la perla che Sianna portava al collo e
staccarla con
un gesto secco. La perla si espanse in una corona di luce,
vibrò e si sollevò
in aria.
«Seguitemi. Vi porterò
io fuori di qui, dai vostri amici»
«Si sono salvati?»
Kii chinò il capo, lo
squadrò da dietro la sua maschera inquietante «Li
ho salvati. Kamra Eysil lo avrebbe
voluto»
Con il capo accennò
alla ragazza e lo invitò a andargli dietro. I capelli
bianchi, screziati di rame,
sembravano lingue infuocate, riflettevano i bagliori dorati. Non lo
attese, si avviò
con lo stesso strascicato passo con cui si era presentato. Ynyr, pur
affaticato
e senza fiato, si caricò Sianna tra le braccia e si
trascinò dietro alla kitsune.
Vide le frecce dei loro nemici cadere e abbattersi sui tetti delle
case,
rimbalzare sulle pareti di pietra e conficcarsi nel terreno, ma niente
pareva sfiorarli.
Sbigottito capì che era lo Yokai a proteggerli. Lo Spirito
era circondato da
una calma irreale che lo fece sentire estraniato da quel momento, era
come non
essere lì, non star assistendo a tutta quella violenza.
Le urla delle persone
si fecero ancora forti e persistenti, Kii raggiunse la via principale e
si
inserì nella marea di gente che fluiva verso il bosco. Ynyr
venne travolto, all’inizio,
eppure non si fece male, né sentì la pressione
dei corpi che lo spingevano e
strattonavano. Lo Yokai si muoveva luminoso e sovrannaturale in una
massa di
esseri umani così rapiti dal proprio terrore da non
percepirlo. Non scorgevano
la luce calda della Sfera Stellata che galleggiava sopra di loro e li
proteggeva,
in qualche modo. Con l’aiuto di Kii, riuscì a
raggiungere la porta principale,
spalancata, da cui la folla si disperdeva urlante nei boschi. Ynyr
corse,
inseguendo lo Spirito che con un salto ingoiò la Sfera
Stellata e prima di
toccare terra tornò volpe e sparì nella
vegetazione. Sempre più provato, gli
tenne dietro, si fermò solo quando intravvide, tra le radici
nodose di una
vecchia quercia, i volti familiari delle ragazze e dei sacerdoti. Il
villaggio
doveva essersi ormai svuotato, chi si era salvato riuscendo ad
abbandonare quella
fornace doveva, come loro, aver cercato riparo tra gli alberi, non
restavano a
valle altro che abitazioni bruciate e cadaveri.
Ynyr li raggiunse,
quando posò Sianna nuovamente a terra le gambe gli cedettero
per la spossatezza.
Si sentiva tanto stanco e dolorante che, per un attimo, il panico della
condizione di sua sorella divenne quasi marginale. Ci pensò
Henry a chinarsi su
di lei, carico di costernazione. Con suo disappunto, lo vide prenderle
la mano
tra le sue, scostarle i capelli sporchi incollati al viso incrostato di
fuliggine
e sangue.
«Daniel, fa’
qualcosa»
I tre Drui si affaccendarono
intorno a lei, ma Ynyr non prestò loro troppa attenzione. La
kitsune era
sparita, eppure era certo fosse nei paraggi e li stesse studiando,
limitata ad
intervenire dalla presenza dei tre sacerdoti. Lisanda e Iris erano
appallottolate
l’una nelle braccia dell’altra, Marion aveva la
testa mollemente appoggiata
alla spalla di Kea, che rannicchiata si cingeva le ginocchia con le
braccia,
gli occhi lucidi di terrore, quasi folli nella loro vacuità.
Tornò con lo sguardo
sulla sorella quando la sentì borbottare in uno stato
d’incoscienza. Invocava un
nome nel delirio, un nome che Ynyr ignorava. Mise la mano sulla spalla
di
Daniel e lo invitò a farsi da parte, poi le prese la mano
marcata dalla benedizione,
la accarezzò piano e chiuse gli occhi. In un primo momento,
tutto fu sfocato,
ma dalla nebbia della sua mente si concretizzarono delle immagini ed
una
figura, l’immagine indefinita di una donna, vista come fosse
molto lontano.
«Shiva» la voce supplichevole
di Sianna lo spinse a riaprire gli occhi. La donna che sua sorella
stava sognando
e invocando, chiunque fosse, le assomigliava tragicamente. Forse,
sognava se
stessa.
«Dobbiamo spostarci»
fece notare William, con una certa sicurezza «Dobbiamo
inoltrarci più a fondo, gli
assalitori potrebbero essere ancora qui»
Ynyr si fece aiutare e
si caricò Sianna in spalla. Il costato doleva
incredibilmente, aveva trovato
sotto la casacca una serie di lividi viola dall’aspetto poco
rassicurante, eppure
seguì i tre sacerdoti nella boscaglia e si fermarono solo
quando, sfiniti,
trovarono un riparo tra le radici intricate di un albero mezzo
sradicato, che
creavano una sorta di nascondiglio. Si accoccolarono
all’interno di quell’incavo,
stretti e schiacciati l’uno contro l’altro, avvolti
da un silenzio ovattato e
vuoto in assoluto contrasto con i boati e le urla che avevano riempito
loro le
orecchie.
La quiete ora era
quasi troppa, nemmeno il fruscio di un animale notturno disturbava il
bosco.
Ynyr teneva Sianna stretta a sé, tra le proprie gambe, il
petto contro quella
schiena delicata, il capo della sorella reclinato
all’indietro, posato contro
la sua clavicola. Sembrava morta, ora che si era placata, e
l’unico conforto
nel tenerla tanto stretta era ascoltare il battito regolare del suo
cuore. I Drui
non le avevano tolto la freccia, si erano limitati a stringere con una
benda improvvisata
e un po’ logora la parte superiore del braccio, per ridurre
la fuoriuscita di
sangue. Nell’oscurità assoluta in cui si erano
nascosti, non era più nemmeno
possibile vedere i bagliori dei focolai a valle, che per un lungo
tratto li
avevano accompagnati. Alla fine, sopraffatti dalla stanchezza, presero
sonno.
Fu il rumore lieve di
passi nella boscaglia a svegliarlo. Si accorse che anche Sianna aveva
aperto
gli occhi, immensi e sgranati nell’orrore. Le ragazze invece
continuavano a
dormire, sfinite, e i sacerdoti anche riposavano e non avevano
udito nulla.
«Sono loro»
sussurrò
piano all’orecchio della sorella, che strinse brutalmente la
sua coscia con la
mano del braccio sano. Quel “Loro” restava un
nemico indefinito, sconosciuto,
eppure terribile. Gli aggressori, chiunque fossero, avevano in loro una
brutalità
che non avevano mai conosciuto in quella loro vita. Ynyr strinse Sianna
più
stretta.
Non
siamo visibili, ma se dovessero avvicinarsi ci troverebbero facilmente.
Ci
stanno cercando, stanno setacciando la zona e catturando i fuggiaschi
«Maledetti»
Un fruscio accanto a
loro lo fece sussultare, riuscì a tappare la bocca di sua
sorella prima che
potesse lanciare un grido di allarme. Su una sporgenza, la kitsune
nella sua
forma animale li studiava altezzosa.
Non
fate rumore e andrà tutto bene
Era questo il
pensiero dello Yokai che rimbalzò nelle loro menti. Ynyr
annuì subito, accarezzò
i capelli di Sianna, per calmarla, perché anche se aveva
capito sentiva il
cuore di lei battere all’impazzata. Quegli esseri sembravano
fiutare la paura,
si avvicinarono pericolosamente ma d’un tratto, quasi
inspiegabilmente,
cambiarono direzione e si allontanarono, come avessero perso
all’improvviso le
loro tracce. La Hoshi no Tama continuava a restare sospesa sopra di
loro come
una benedizione.
A volte, in quella
notte terribile, sentirono riecheggiare in lontananza urla e pianti
straziati,
oppure brandelli di parole di quelle creature, una lingua sibilata che
non
conoscevano e un accento che non avevano mai sentito. Alla fine si
svegliarono
anche i loro compagni, non videro Kii, che si era nascosto, ma Ynyr
percepì la
presenza della volpe non abbandonarli mai, nemmeno un istante.
Anche quando gli
assassini parvero scomparsi, restarono comunque in veglia, con
un’ansia
talmente pesante addosso che pensare di poter riposare sarebbe stato
impossibile
pur volendo. Non scambiarono tra di loro parola alcuna fino ai primi
raggi di
tiepido sole. La ferita di Sianna si era infettata e le sue condizioni
preoccupavano
Ynyr più di quanto fosse disposto ad ammettere.
L’arrivo dell’alba si presentò
come una salvezza dalle più svariate gradazioni di rosa, un
calore fiacco ma
che li strappava dal peggior incubo che avessero mai vissuto.
Il primo ad azzardarsi
ad uscire allo scoperto fu Daniel, che dopo una breve perlustrazione
tornò
indietro.
«Non credo ci siano
più»
I Drui si lanciarono
in congetture sulle origini di quei mostri che portavano con loro una
scia, uno
strano odore di fiori marci.
«Non credo siano umani»
«Non credo nemmeno che
siano creature d’ombra di questa terra»
Ynyr prestava loro
poca attenzione, quasi nulla. Ora che sua sorella si era svegliata,
anche il
dolore era diventato troppo chiaro e nitido.
«Ditemi che uno di voi
ha una minima esperienza come guaritore. Perché qualcuno
deve togliere questa freccia
dal braccio di mia sorella» gli occhi dei presenti si
posarono senza troppa
clemenza su Daniel che, suo malgrado fu costretto ad annuire. Le
ragazze li
condussero ad un piccolo ruscello lì vicino, dove spesso
avevano giocato da
bambine proprio con Sianna, e fu lì che, dopo aver pulito la
ferita alla bell’e
meglio, estrassero la freccia scheggiata dal braccio. Cercarono di
pulire la
ferita con degli stracci di stoffa recuperati dai vestiti e immersi
nell’acqua
limpida e la fasciarono.
Mentre Sianna,
nuovamente svenuta, si riprendeva, riposarono e attesero, decidendo
cosa fosse
meglio fare da quel momento in poi. Ynyr però partecipava a
tratti, con scarso
interesse, più concentrato a vegliare il sonno della sorella
che a tutto il
resto.
Dopo un dibattito
lungo e contrastato, decisero di tornare a valle, per scoprire che fine
avessero fatto gli altri superstiti e se fosse sopravvissuto qualcosa.
Ripercorsero
il sentiero più tranquilli, William sembrava convinto che
chiunque se la fosse
cavata, sarebbe tornato indietro, anche solo per cercare amici e
parenti o per
recuperare i propri averi.
Ynyr faticava a
sorreggere Sianna, vacillava e il dolore lo trapassava ogni volta,
togliendogli
il respiro ad ogni stilettata, ma il pensiero di Henry pronto accanto a
lei come
un cavalier servente lo nauseava troppo perché gli riuscisse
di tirarsi
indietro.
Quando raggiunsero il
villaggio, rimasero paralizzati. Le fronde si diradarono solo per
mostrare
devastazione. Oltre ai detriti e alla cenere non era rimasto nulla,
nessun
edificio era ancora in piedi, i muri diroccati e l’odore di
legno bruciato, di
carne cotta, tolsero loro le forze. A Ynyr mancò il fiato,
sua sorella
trattenne il respiro e il primo, tremulo, soffio di pianto.
Scesero silenziosamente
quella strada che per tutta la loro vita era stata la cosa
più nota e familiare
ed ora era solo un campo di cadaveri abbandonati, massacrati in maniera
grottesca.
Per quanto macabro, non riusciva a smettere di guardare, di cibarsi di
quelle
immagini irreali, e così anche le ragazze e i Drui si
nutrivano di quell’orrore
senza trovare le parole per raccontarsi.
«Non c’è nessuno
qui.
Non verrà nessuno» lo disse per spezzare
l’incantesimo e riportarli alla
realtà. Kea cercò i suoi occhi, era tanto vuota
in quel momento, tanto
sconvolta, da sembrare finta. Marion si lasciò andare ad un
pianto disperato.
Ci
speravano davvero, credevano sul serio che qualcuno della loro famiglia
ce l’avesse
fatta
«Ci siamo solo noi»
Il vento leggero
sollevò mulinelli di cenere dal terreno, camminavano su uno
strato di cenere
tanto spesso da sembrare sabbia grigia. Scavalcarono carcasse di legno
crollate
in mezzo alle vie, sfiorarono le pietre annerite.
Infine, quel sospiro
trattenuto tra le labbra di Sianna si tramutò in un tremore
diffuso. L’abbracciò
stretta, per calmarla quanto desiderava placare se stesso.
Sapevo
che non avrei trovato nulla, ma non pensavo fino a questo punto
Fu il pianto
disperato di Mari, fragile come quello di una bambina, a ridestarlo.
Avanzava sfregando
le palpebre arrossate con i polsi, come la più soffice delle
creature, pareva
ancora più piccola dei suoi anni. Sentire quel dolore tanto
spontaneo ruppe il
freno alle gemelle e Iris, che non esprimeva mai se stessa,
rivelò quanto fosse
affranta e prostrata. Iris non sapeva piegarsi, solo spezzarsi,
sembrava
impossibile che potesse ricomporsi dopo quelle perdite. Passarono
accanto all’ennesimo
cadavere carbonizzato, quello di un bambino, e fu Kea questa volta ad
esitare. Era
la quarta di sette fratelli, tre dei quali così piccoli che
quel corpo avrebbe potuto
tranquillamente essere di uno di loro.
Kea non lo disse, ma
era evidente ciò che pensava, il tormento per la sua
famiglia le scuriva il
volto e quegli occhi neri oscuri come un pozzo. Per Sianna invece,
l’orrore era
troppo forte e il suo corpo troppo provato. Svenne, e Ynyr
riuscì ad acchiapparla
prima che cadesse a peso morto a terra.
«Andiamocene»
«Forse dovremmo
aspettare» protestò appena Daniel. Ynyr venne
invaso da tutta la rabbia
trattenuta che si sforzava di domare «Non
c’è nessuno» sibilò
«Sono morti
tutti, non tornerà nessuno»
Alla durezza delle
sue parole seguirono i singhiozzi costernati delle ragazze, Marion
piangeva
tanto forte che quasi le mancava il fiato, non riusciva a respirare.
«Non le sottoporrò a
questa sofferenza» fece presente indicandole.
Si allontanarono,
soffocati dall’amarezza.
Camminarono per un
giorno intero, cercando di frapporre tra loro e Gleann Dubhar quanta
più
distanza possibile, perché si portavano ancora addosso il
terrore che gli
assalitori potessero ricomparire con il buio. Non sapendo dove andare,
decisero
di seguire i sacerdoti verso Lochlainn, il loro villaggio Drui, nella
speranza
di ritrovare anche Korakas. Ynyr sperava che insieme alla vecchia
potesse
esserci anche Marilien, mentre Henry, Daniel e William cercavano di
trovare una
spiegazione da dare alla reggente sul perché la Somma
Sacerdotessa non fosse
con loro.
Frapposero molte
leghe tra loro e il villaggio, ad una stanchezza spossante si
unì la fame. Al terzo
giorno, Sianna non era più in grado di camminare, la ferita
aveva fatto
infezione e nei pochi momenti di veglia vaneggiava e non era presente a
se
stessa. Ynyr proseguì portandosela addosso, nonostante fosse
ormai al suo limite.
Dopo giorni di
cammino, giunsero nei pressi di Lochlainn moribondi, laceri e sfiniti.
Allo stremo, si
accasciarono in agonia. Vennero raccolti da dei Drui non lontano dal
Cerchio di
Pietre.
ANGOLO AUTRICE
Eccomi! Ho risolto in maniera pratica l'orribile questione delle
didascalie con i nomi di posti, cose, animali , città...!
Per semplificare il tutto, ho fatto questa cartina. Non è
completa, copre solo una parte dei territori, ma è quella
che vi serve in questa parte di storia quindi per ora mi limito a
questo e più avanti aggiungerò il resto :)
Grazie a chi ancora leggere questo delirio che vi assicuro, non ho
abbandonato, semplicemente è in una revisione
costante, costanti cambiamenti (per esempio dovrei togliere i primi
capitoli e sostituirli con le nuove versioni, ma va beh, resisto e mi
faccio andare bene questa!) e costanti dubbi sui risultati.
Resta, tra tutti i mondi che ho inventato, il mio preferito e il
più complesso.
A presto spero, o a tra qualche mese nel dubbio! :)
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2964277
|