Non c'è più nessuno

di Sim__1230
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
Inverno. Una vita piena, ricca, allegra e spensierata.
E' il giorno perfetto per una gita in montagna, lì, dove un tempo andammo in vacanza, e proprio in quella vacanza accadde l'inevitabile.
Una macchina, una strada innevata, l'asfalto ghiacciato.
Di lì a poco la nostra vita sarebbe cambiata, ma sarebbe potuto andare diversamente?
 
Una musica. Una dolce melodia.
Una canzona riecheggiava nella mia mente… un motivetto incalzante che attira subito la mia attenzione…
La radio ancora funzionava nonostante la caduta; il parabrezza ormai frantumato, i finestrini disintegrati.
 
Che senso ha ormai pensare alla scuola, alla famiglia, agli amici, alla vita… ormai siamo al termine, non vi è più un senso, non vi è più ragione alcuna.
Il sangue copioso sulle vesti della mia mamma, il volto lacerato dai frammenti di vetro del mio papà, il corpo riverso di mia sorella… sono solo in questa terra, non c'è più nessuno.
Voltai lo sguardo verso quella che un tempo fu la portiera, allungai la mano verso quella maniglia ma nulla. Non restava altro che uscire dal finestrino. Strisciai verso l'esterno e verso quella intemperie, verso quel gelo che trapanava all'interno del mio esile corpo di bimbo; tentai di sollevarmi con quelle poche forze che ancora possedevo e vidi il macabro scenario: una strada in alto, direi a 100 metri di altezza, uno squarcio in quello che un tempo costituiva il guardrail, alberi e cespugli abbattuti, una slavina che sommerge parzialmente la nostra macchina, specchietti e fanali disintegrati, sangue ovunque.
Ora alzai lo sguardo verso il cielo, ancora ricoperto dalle nubi. Non nevicava più ma ciò non voleva dire che non avrebbe ricominciato a nevicare. Mi sentii abbandonare le mie forze; caddi col volto riverso in quel soffice manto di neve. Mi rialzai, o almeno fu quello che provai a fare; mi misi in ginocchio, mi rivoltai verso quel cielo tetro, aprii la bocca ed emisi un gemito. Né urlo né lamento. Un suono tetro.
 
Cosa è un uomo se non un istante? Un istante rispetto al tempo infinito e imperituro, un istante più o meno lungo ma pur sempre paragonabile al nulla assoluto.
Cosa è la vita se non dolore? Dio ci diede la vita, allontanandoci dal quel paradiso e da quelle gioie eterne come il tempo per vivere, ma la vita umana non è altro che una punizione.
 
Ma perché allora Dio scelse proprio noi per popolare questo infimo globo terrestre? Perché noi siamo speciali, siamo qui per svolgere un esame, una prova per capire ciò che è bene e ciò che è male e decidere da che parte schierarsi.
 
Cosa sono io? Perché non sono ora lì, con la mia famiglia, con coloro che mi amano e che mi hanno amato per ciò che sono? E' questo un dono o una punizione? Nessuno lo sa, e nessuno lo potrà mai scoprire.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
 
Non c'è più nessuno
 
Mi rialzai da quel freddo manto di neve e corsi verso la macchina.
Urlai verso quei corpi sottratti alla vita pochi minuti prima ma invano. Non c'era più nulla fare. Non mi persi d'animo e cominciai a strattonare il braccio sinistro di papà nella speranza di un gemito, di un respiro intriso di un barlume di vita. La sua testa si girò ricadendo verso sinistra mostrando un profondo taglio a causa delle schegge. Lo afferrai e lo portai all'esterno di quel rottame e lo stesso feci con mia madre e mia sorella. Il corpo di mia madre era stato brutalmente lacerato da quello che un tempo fu il vano portaoggetti del sedile anteriore facendole uscire parte anche dei suoi organi interni.
All'improvviso sentii un sibilo, un gemito umano, proveniente dal corpo di mia sorella: mi lanciai verso di lei e le presi la mano ormai fredda dal clima rigido invernale.
Con un fil di voce mi disse:« Arthur, non curarti di noi, è ormai troppo tardi. Ti ricordi quel tempo ormai lontano in cui giocavamo con quelle pistole ad acqua e uno di noi veniva colpito? Ecco, ora devi lasciarmi, ormai è troppo tardi per poter rimediare all'inevitabile. E' ciò che anche loro, mamma e papà, avrebbero voluto. Non ti preoccupare per noi, non sarai mai solo, i nostri spiriti ti saranno sempre vicini e ti proteggeranno da ogni male. Ora vai».
Non capii. C'era qualcosa che non andava. Mia sorella non mi aveva mai parlato in questo modo. Lei che adorava vivere, che adorava quella sua vita spensierata di liceale piena di amori, di delusioni e di numerose avventure. La sua gioia e la sua allegria era ciò a cui aspiravo… avrei voluto essere come lei e vincere quella mia timidezza puerile e quel mutismo che mi caratterizzava: spesso litigavo con altri bambini, forse perché mentalmente ero più grande, forse perché mi illudevo di ciò. Nessuno potrà mai comprendere quanto piccolo sia un uomo in queste situazioni; nessuno è mai grande abbastanza per sopportare una tale forza emotiva e per resistere a questo turbine impetuoso di sentimenti opprimenti e tristi.
Fu allora che lei fece il suo ultimo respiro e quello sarebbe stato un addio a quel mondo che ora non mi appartiene più e sarebbe stato un invito ad entrare in un mondo a me totalmente sconosciuto.
 
C'era un boschetto di pini alla mia sinistra e la montagna imponente alla mia destra. Cosa era meglio fare? Affrontare il buio della sera che circondava quella pineta o scalare la montagna?
Tentai la seconda opzione. Mi avvicinai a quei sassi da poco franati, afferrai la sommità del primo masso e tentai di sollevarmi ma le mie gracili braccia non potevano sostenere il mio peso. Allora lasciai la presa e caddi con la schiena rivolta verso il basso e una fitta alla schiena mi fece emettere un gemito di dolore. Non restava altro che addentrarsi in quelle tenebre.
 
Dovrò pur svegliarmi da quest'incubo, ciò non può essere reale. Questo lungo e incessante sogno finirà prima o poi, devo solo trovare un modo. Ogni mia paura è divenuta realtà; la solitudine, il dolore dei miei cari ormai scomparsi, il gelo invernale e la malinconia sono ora le uniche cose che mi sono rimaste, proprio come in un incubo. Prestò mi sveglierò, lo sento.
 
Camminai lentamente verso quegli alberi imponenti che si stagliavano in quella valletta solitaria nella speranza di trovare qualcuno. Mi avvicinai all'albero più vicino, lo sfiorai con quelle dita gelide e notai nel  dorso della mia mano un taglio, poco profondo a mio avviso, ma non riuscii a percepire un minimo dolore. Forse il freddo avrà anestetizzato quella mano rendendola insensibile ma forse è meglio così. Mi addentrai nei meandri di quella pineta, pervaso dalla paura della notte.
 
Ho sempre avuto paura del buio e di quei mostri che si aggirano in esso: una volta a scuola,litigando con i miei compagni, la maestra mi chiuse dentro uno sgabuzzino per 10 minuti al buio da solo. Mi ero coperto il volto per non vedere ciò che vi era di fronte a me e non riuscivo a muovermi dalla paura.
Oppure a casa durante la notte quando sentivo i cani ululare alla luna o alla sirena di un'ambulanza oppure quando mia sorella mi faceva dei versi mostruosi da dietro un angolo del corridoio.
 
Ma ora non sono più quel ragazzino, è tempo di cambiare la mia vita.
Passarono circa 15 minuti fino a quando non vidi una luce in lontananza: sembrava una lanterna, una luce che vinceva l'oscurità circostante, una speranza di aiuto.
Cominciai a correre verso quella luce il più veloce possibile ma ad un tratto inciampai in un sasso. Diedi una testata a terra ma nulla di grave o doloroso, la neve aveva attutito la mia caduta. Mi alzai in fretta ma notai che quella luce era scomparsa nel nulla, come un miraggio.
Mi ritrovai spaesato in mezzo a quegli alberi massicci e la fobia del buio cominciava ad avere la meglio. Non riuscii a muovere un muscolo, il terrore mi aveva pietrificato completamente proprio come Medusa pietrificava chiunque la guardasse in pieno volto. Dissi tra me e me che non c'era motivo di essere terrorizzati, non c'era nessuno oltre a lui, nessun mostro, nessun fantasma, nulla di nulla.
Girai su me stesso dunque al fine di ritrovare quella luce miracolosa ma niente.
C'era qualcosa che non andava intorno a me ma non era frutto delle mie paure.
Vidi qualcosa muoversi tra quei pini, un venticello gelido soffiava intorno a me, uno scenario da classico incubo.
Seguii, o almeno ci tentai, con lo sguardo quell'ombra che si aggirava intorno a me.
Un uomo?
Una bestia?
Un fantasma?
Afferrai la prima cosa da terra che trovai e la tenni stretta in mano. Era lo stesso sasso su cui inciampai pochi secondi prima.
Gli gridai di avvicinarsi lentamente ma questa non si mosse minimamente.
Ciò escludeva la prima possibilità: se era un uomo venuto a controllare o ad aiutare, avrebbe anche solo risposto all'appello di aiuto.
Rimanevano quindi le possibilità della bestia e del fantasma.
Però volli escludere la possibilità del fantasma dalle mie scelte visto che i fantasmi non esistono, o almeno era quello a cui credevo fino ad ora.
Sentii un fiato sul mio collo, un fiato gelido. Mi voltai di scatto. Il nulla.
Vidi qualcosa muoversi intorno a me ad altissima velocità. All'improvviso tutto tacque. Nulla si muoveva più, il freddo vento cessò.
Mi guardai intorno e provai a comprendere cosa fosse successo. Forse solo frutto della mia immaginazione.
 
La pazzia era l'ultima cosa che mi mancava: un uomo viene detto pazzo quando vede cose che non esistono,quando pensa qualcosa che gli altri non capiscono. La pazzia, in fondo, ci caratterizza un po' tutti. Tutti vediamo diverse sfumature di ciò che ci circonda, tutti pensiamo cose diverse e in maniera diversa ma spesso, per paura di essere giudicati, tacciamo e non riveliamo a nessuno il nostro inconscio. Ma i pazzi allora? Loro non hanno paura di mostrare i loro pensieri, di esprimerli e di essere coerenti con le loro idee, anche se losche e malvagie. Loro hanno coraggio almeno, non hanno paura di farsi vedere per quel che sono. Numerosissimi pittori, letterati, musicisti furono chiamati pazzi per avere espresso le loro idee mediante l'arte e mediante le loro opere che noi oggi apprezziamo e contempliamo. Numerosi artisti ritrassero i pazzi come Gericault e le sue monomanìe. Ma,in fondo un pazzo non è veramente pazzo se pensa di esserlo.
 
Sono pazzo, pensai, ma ciò non deve essermi da impedimento per trovare un aiuto.
Cominciai a camminare verso dove prima vidi quel bagliore nell'oscurità, magari l'avevano spenta per la notte. Mi incamminai nuovamente verso quella direzione fino a quando, dopo 10 minuti, o 15, o 20, non so con esattezza ormai, trovai una baita in legno in una piccola radura. Era piccola di dimensioni, poteva tenere al suo interno forse una stanza, massimo due. L'ideale per chi vuole scappare dal mondo urbano e rumoroso per godersi la quiete e la pace dei sensi di questo panorama. Vidi la lampada che prima emise quella luce gialla in lontananza, ma ora è spenta. Che si sia fulminata?
Cercai l'ingresso in quella casetta e, non appena lo trovai, bussai alla porta. Nessuno rispose. Sembrava vuota, messa lì soltanto per me. Mi avvicinai alla finestra più vicina e guardai dentro. Una baita ben ammobiliata con un caminetto per ripararsi dal freddo invernale, dei divani, poltrone, mobili in legno, credenze piene di servizi da tè, un tavolo da pranzo non molto grande con sopra una cesta vuota dove in genere si mette la frutta.

Era vuota, abbandonata. Come mai allora vidi quella luce in lontananza? Sono sempre stato solo qui, non c'è più nessuno.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

La baita


Mi diressi allora verso l'uscio di questa baita ma prima di ciò volli assicurarmi quanto distavo dalla frana che lasciai alle mie spalle.
La radura era come una zona d'ombra all'interno del bosco: non vi erano alberi o cespugli, solamente qualche sporadica pianta di trifoglio o di tarassaco. La baita si trovava al confine della radura tanto che il retro era oscurato dall'ombra di un pino. 
Il marrone scuro dei tronchi e il bianco della neve portavano in quel contesto tetro una malinconia e un senso di desolazione. 

Bussai nuovamente a quella porta nella speranza di una risposta ma solo l'eco del mio pugno sulla porta fu l'unica cosa che sentii.
Sentivo freddo, ero fradicio a causa della neve e, se non avessi trovato subito un riparo sarei per certo morto assiderato. 
Il cielo ancora era avvolto da quelle nubi minacciose che non facevano passare nemmeno un minimo raggio di luce.
Ormai si stava facendo sera e quella poca luce che di lì a poco mi aveva permesso di andare per questa via stava per scomparire, lasciandomi nel terrore più totale. 
Presi allora una pietra dal terreno e la scagliai violentemente verso la finestra. Nulla.
Ritentai. 
Ancora nulla.
Riprovai prendendo un sasso più grande e appuntito e finalmente riuscii a infrangere quel vetro spesso.
Cosa sto facendo? E' la cosa più giusta da fare? Ma, in fondo, c'era più nulla di giusto in questa terra malinconica?
Finii di rompere quelle ultime schegge di vetro e scavalcai. 
Il salotto aveva un pavimento in legno tendente al rossastro e ciò mi portò un senso di calore e di pace interiore. 

Ricordo ancora quando, alcuni anni fa, noi andavamo in campeggio in estate in quella località montana e prendevamo in affitto per un mese quella baita in legno un poco più grande di questa, dove potevo ammirare dalla finestra del salotto tutta la pendice del monte. Potevo osservare i vari animaletti che si godevano il calore estivo del sole, gli uccellini in cerca di quel nido o in cerca di cibo o anche solo osservare l'allegria della mia famiglia al momento in cui mio padre arrostiva deliziose leccornie culinarie in quel barbecue enorme. Potevo avere circa 5-6 anni poiché, l'anno dopo, decidemmo di non andarci più. Così, all'improvviso.

Cercai subito la lampada più vicina e la trovai immediatamente in un tavolino accanto a me. Mossi la mano per accenderla e uno spiffero gelido avvolse la mia mano facendomi ritrarre momentaneamente. Allungai nuovamente la mano verso l'interruttore e l'accesi. A quanto pare vi era ancora luce lì, vi era ancora la civiltà. Mi guardai attorno nuovamente. Da fuori la casa aveva un non so ché di cupo ma ora la mia opinione è totalmente diversa. Mi sentivo quasi come a casa, mi sentivo protetto. Immaginai di essere qui con la mia famiglia: mia madre lì in cucina a pulire o a cucinare, mio padre seduto nella poltrona in pelle e mia sorella con un libro in mano di fronte al camino ardente.

Cercai l'interruttore della luce della cucina e, non appena lo trovai, lo cliccai. Nulla. Probabilmente la lampadina si sarà fulminata proprio come quella all'esterno. La casa all'interno sembrasse avere solo 4 stanze: cucina, bagno, salotto e una camera ancora da esplorare. All'improvviso sentii una leggera fitta allo stomaco, probabilmente la fame si iniziava a far sentire. Andai verso un bancone in cucina nella speranza di trovare qualcosa di commestibile. Lo aprii ma trovai solo qualche pentola e utensili vari. Aprii allora gli altri sportelli fino a quando non trovai della carne in scatola. Era pur sempre meglio di niente, avevo bisogno di mettere qualcosa sotto i denti. La lattina era ancora consumabile, la scadenza sarebbe terminata tra qualche mese. Ora non restava altro che trovare qualcosa da bere: aprii il frigo ma lo trovai vuoto, aprii il lavabo ma non usciva nulla. 
Chi mai avrebbe lasciato una casa con la luce attaccata ma togliendo l'acqua? 
Trovai però dell'acqua distillata, di quella che si mette al'interno dei ferri da stiro, e, per disperazione, la bevvi.
Passarono qualche dozzina di minuti e, ora con stomaco pieno, continuai quella mia avventura all'interno di questa casa. 
Mi diressi verso la porta di quella che doveva essere la camera da letto, aprii la porta e vidi una camera quasi del tutto vuota. 
C'era un armadio molto vecchio, stile liberty, che stonava con quei mobili del salotto. Subito un altro spiffero gelido mi circondò il collo: qualcosa non andava in quella casa. Cominciai a sentire dei brividi lungo la schiena che risalivano dalle mie gambe. Sapevo in fondo che in questa casa vi fosse qualcosa di tetro,di oscuro, di inconcepibile.
Un'ombra.
Un'ombra alta e imponente dai contorni indefiniti si stagliò davanti a me. Sembrava volesse inghiottirmi nelle sue spire nere. Era reale? Era frutto della mia pazzia?
Lentamente si avvicinava a me, lentamente allungava quel che in un uomo sarebbe stato un braccio e lentamente la realtà intorno ad essa sembrava distorcersi e venire risucchiata. 
Ero pietrificato da quest'entità, da questo «spettro», nero come i meandri dell'universo. 
All'improvviso quel braccio che lentamente allungò verso la mia direzione mi colpì violentemente scaraventandomi da quella stanza. 
Il dolore era lancinante, non mi permise di mettermi in piedi.

Un urlo.
Delle voci. 
Non vedevo nulla intorno a me, solo quel soffitto di tronchi di pino.

Una luce.
Una luce entrò dalla porta di ingresso, una voce femminile gridò verso quell'ombra. 

Silenzio.
Avvertii uno strano senso di stanchezza e chiusi gli occhi.

«Ehi, stai bene?»
«Ehi, rispondimi!»

Una voce dolce, calda, una di quelle che inteneriscono il cuore ad ogni singola lettera di una parola. 
Una voce conoscente, una voce che conosco molto bene.
La voce di mia sorella.

Come faceva ad essere qui? Come ha fatto a sopravvivere? Come ha fatto a trovarmi?

Non capisco. Ci sono cose che una persona non può comprendere in questo mondo, cose che vanno aldilà di ogni spiegazione logica e razionale, cose che possono accadere solo in sogni o in incubi. Cosa è rimasto di vero ormai? Cosa è reale? Non esiste nulla di reale. La realtà è solo quello che una persona è capace di comprendere con spiegazioni più o meno complesse ma qui nulla è reale ormai. Ogni spiegazione logica della realtà viene messa a dura prova e molto spesso questa finirà per essere contraddetta proprio come in questo caso. 
A quanto pare è tutto un sogno, nulla è reale, presto mi sveglierò.

«Tranquillo, ora ritorneremo a casa».

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