Die toxische

di Urheber des Bosen
(/viewuser.php?uid=176982)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il nuovo mondo ***
Capitolo 2: *** Amaro ***
Capitolo 3: *** Claustrofobia. ***
Capitolo 4: *** La Grazia ***



Capitolo 1
*** Il nuovo mondo ***


Nella notte ci sono anime inquiete. Quest’ultime avendo dormito troppo di giorno, perché annoiate, stanche o indesiderate, si svegliano. Scalpitando, pretendono di guardare in alto. Nessuno sa per cosa quegl’occhi compiono quello sforzo.Probabilmente gli autori stessi ne ignorano il significato. Ma è così, è un richiamo, forse una preghiera. Probabilmente in quella fredda notte di Gennaio, quel corpo inginocchiato alla finestra, pensava a Dio. Come non pensare al paradiso, guardando quelle luci? Quella sera erano così luminose da penetrare il gelido cielo tedesco. C’era un qualcosa nella sua testa, che a volte gli ricordava che quel gelo, quella lastra che non faceva penetrare neanche la luce, gli era entrata dentro. Come un parassita, aveva scavato ed era arrivato nel suo cuore. A volte, aggrappato ad una notte, quasi materna, sentiva di non poter vedere la luce. Faceva sempre freddo.  Ad un tratto, il bambino perso nella sua preghiera, sentì dei piedi. Erano veloci, correvano bisognosi di qualcosa. Sembrava quasi un insetto,  Gilbert non aveva paura, sapeva.
“Ho paura da solo”. Sapeva anche questo. Il suo fratellino odiava stare solo, sopratutto quando scendeva la notte. Biondo, come il sole, luminoso, in quegl’occhi c’era la luce, la luce di un azzurro perso.Come poteva amare la notte? Quest’ultima, buia era cieca, non avrebbe mai potuto vederlo ed inondarlo d’amore. Era indifferente, ecco perché a Gilbert piaceva. La sera non lo vedeva,e lui, con i suoi occhi si sentiva Dio.
“Vieni”.Non l’avrebbe mai lasciato solo. Gli prese la piccola mano e lo condusse accanto a sé.
La notte era cieca, non vedeva niente, ma i  fratelli  Beilschmidt si sentivano. Quel calore era così soffocante da dimenticar la luce.
In quel momento il bambino con gli occhi persi in un calore accecante, capì che l’unica cura per quel dolore in fondo al petto era Ludwig.
Per un attimo, solo per un momento volle stringerlo così forte da distruggerlo. Era così debole nelle sue mani, così piccolo. Innocente, lo amava, ignaro del ghiaccio. Forse, nella consapevolezza lo avrebbe amato lo stesso, perché lui era il sole. Gilbert lo odiò.
E quel dolore, la fitta s’intensificò.
“Scusa..” Faceva male. Dio, perché la notte non portava con sé il male. Lo abbracciò più forte, così intensamente da farlo scomparire, forse così l’avrebbe protetto dall’impenetrabile gelo.
“Non ti lascerò più solo Ludwig, specialmente quando arriva la notte” Le parole, velate di un enfasi quasi crudele, pretesero di uscire dalla bocca del bugiardo.
“Lo so..” Rispose il piccolo, che sembrava godere dell’invadenza del fratello.
Aveva la testa sotto il mento del maggiore. Vedeva il bianco, una neve vista in tempi felici. Gilbert aveva un odore così rassicurante da dimenticare la notte.
Lo proteggeva dal freddo. Ecco perché l’avrebbe seguito, perché l’amava, di un amore incondizionato dato dal legame di sangue. Erano una sfera, che era riuscita a ricongiungersi. Ludwig, a volte non riusciva a seguire il flusso dei suoi pensieri, ma li assecondava. Troppo affascinato dalla conoscenza che lo avrebbe fatto avvicinare sempre più a Gilbert.

Era stanco.
L’ansia l’aveva intossicato.
Non era sicuro del percorso che stava intraprendendo, certo vivere con suo fratello, all’inizio gli era parsa un ottima idea. Non solo avrebbe potuto evitare di trasferirsi ogni anno a causa del lavoro della madre, ma finalmente avrebbe ripreso i rapporti con Gilbert. Quando quest’ultimo si era trasferito per gli studi, gli aveva promesso che non si sarebbero allontanati. Era stata una menzogna. Gilbert non era un bugiardo, questo era scontato, era stata colpa delle circostanze. E’ impossibile mantenere inalterato un rapporto dopo tanto tempo e soprattutto tante ore di aereo.
Ludwig era finito in Italia.
Non gli piaceva l’idea di abbandonare la Germania. Non conosceva bene l’italiano, non gli era mai piaciuto. Forse troppo poetico, o forse poco pratico. Aveva preferito l'inglese. Alzando gli occhi su un cielo troppo chiaro, si maledì. In sedici anni di vita non aveva ancora imparato a prendere le giuste decisioni. Sua madre, con tono impregnato di isprezzo, glielo ripeteva spesso: Con questa testa non andrai da nessuna parte. Ghigno, preferiva l’immobilità, alla confusione. Odiava i cambiamenti, ma la sua vita sembrava dipendere da questi. Dalla morte del padre tutto era cambiato, soprattutto la madre.
Quest’ultima aveva dovuto prendere in mano entrambe le figure genitoriali. Ma, incapace aveva fallito in entrambe. Aveva interpretato il padre scialbo e la madre crudele. Eppure Ludwig l’amava. Di un amore semplice, quasi comprensivo per quell’essere troppo piccolo ed impacciato.
La donna odiava quel tipo d’amore, sembrava pietà.
Ecco perché quando il figlio gli aveva proposto qualla soluzione, lei non  aveva obbiattato. Era felice di poter avere una vita senza quella disgustosa pietà. Ombra della crudeltà di suo marito.
 
Ora per Ludwig tutto sarebbe cambiato. Forse non sarebbe stato più solo. Si ritrovò a pensare al suo unico amico:suo fratello. Non lo vedeva da quasi un anno, patetico. Non era una persona estroversa, anzi se avesse potuto si sarebbe volentieri sotterrato. Non amava particolarmente le chiacchiere, inutili si schiantavano sul suolo. In realtà non amava la razza umana. Complicata, aveva un sistema. Ludwig non l’aveva capito.
Forse Gilbert, con quel carattere aperto, quegl’occhi gentili, l’avrebbe inserito. Gli avrebbe spiegato le cose. Non l'avrebbe fatto sentire un emarginato, come amava fare loro madre.
Il biondo un po’ impaurito si guardò intorno, invano. L’aeroporto era troppo grande, dispersivo. Era solo, di nuovo, come sempre. Abbassò lo sguardo e poi... una voce. Quell’odore di casa, faceva caldo.
“Bruder…”Finalmente una parola in tedesco.
Le sue orecchie erano in festa, tuttavia non ebbe la forza di alzare lo sgurdo. C’era un qualcosa, una paura, che con alito crudele gli ricordava che era passato un anno. Che  forse tutto era cambiato.
Poi la sicurezza arrivò.
Quegl’occhi, così gentili e profondi non erano cambiati.
Sorriso, su un volto in lacrime.
Dio, il sole aveva iniziato a splendere.
Gilbert sentì un calore che credeva non esistere.
Non era riuscito a chiamarlo prima, la sua bocca si era asciugata. I suoi occhi erano rimasti pietrificati dinanzi a tanta bellezza.
Il suo fratellino era cresciuto. Bello, come lui non sarebbe mai stato.Era tutto ciò che Gilbert avrebbe voluto essere. Un angelo, quest’ultimo faceva tenerezza nel suo smarrimento.
Ingenuo, come il più bel dei cherubini, piccolo come l’aveva lasciato. La vita, quella stronza non l’aveva graffiato, le persone, quei bastardi non l’avevano avvelenato, e soprattutto la notte non l’aveva inghiottito
Puro l’aspettava.
Come i figli che attendono un padre attento.
Per un attimo, solo per un secondo si sentì Dio.
Notò il blocco di Ludwig e per tanto decise di corrergli incontro.
La sfera si era ricreata.
Il mondo aveva smesso di urlare.
La luce non bruciava più.
Purtroppo, Gilbert aveva riscoperto  quel calore.
Strinse fino a fargli male.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Amaro ***


Aveva iniziato a bere a quattordici anni. All’inizio non gli era piaciuto. Ad ogni sorso sentiva che il suo corpo,non sopportando l’alcol,avrebbe voluto vomitare. Con il tempo lui ed il suo corpo si erano abituati. Il suo incoscio gliel’aveva imposto, forse perché consapevole della sua debolezza.
Beveva con gli amici, per gioco;con le ragazze, per sciogliersi; solo, per sopravvivere.
Nel non riuscire a mettere a fuoco la realtà si sentiva protetto, era tutto finto. Avrebbe potuto sveglirsi, almeno così credeva.
Ora era al solito dar, uno vicino al suo palazzo. Era talmente economico da permettere ai clienti di dimenticare quanto fosse brutto. Non che facesse molta differenza, la maggior parte delle persone chiuse in quella stanza non avevano la minima intenzione di soffermarsi sul luogo, troppo presi a dimenticare.
Erano vogliosi di scordare la loro indole, il loro passato e soprattutto il loro presente. Quella stanza gialla, con tre sgabelli ed un barista troppo caritatevole era la loro testa.
Vuota e sporca.
Rideva il giovane con i capelli bianchi. Solo, appoggiato al bancone con un cicchetto d’assenzio, si prendeva gioco di se stesso .Fece un sorso ed il liquido verde gli corrose la gola.
Il volto gli si contrasse, gli serviva una sigaretta.
Nel momento in cui sentì il fumo entrargli in circolo, si sentì sollevato. L’assenzio era un buon compagno, certo un po’ violento, ma faceva spendere poco per come ti riduceva.
Ovviamente Ash, il barista, avrebbe potuto comprare alcol meno scadente e pisciato. Ma si sa, i pachistani sono tirchi, almeno così pensava Gilbert.
Assaporando la sigaretta, ricordò la prima volta che entrò in quel lurido posto. Era da poco arrivato nella grande città, non conosceva nessuno, non era neanche sicuro di conoscer bene la lingua. Fece la cosa che gli riusciva meglio, almeno così credeva. Il fumatore ghignò al ricordo della sua ingenuità, era successo solo quattro anni fa, ma si rivide così sprovveduto.
Ricordò che ordinò le cose più forti che conosceva e che al quinto cicchetto iniziò a piacergli la città, la sua vita, persino quell’orribile bar.
Doveva star davvero male, ghigno.
L’abino si guardò intorno, era nello stesso punto quando svenne, almeno così gli sembrava. Per un secondo smise di sorridere e gli tornò in mente il sogno di quel delirio. Era una maledizione, ogni volta che s’imponeva di dimenticar qualcosa, quest’ultima si scalfiva nei ricordi.
“Ash un altro,questa volta potresti non pisciarci dentro”
Il barista lo guardò con aria seccata, quel ragazzo era uno sbruffone. Non capiva perché quel piantagrane avesse scelto proprio il suo bar. Poi la realtà gli diede l’ennesimo ceffone. Il suo bar era una fogna, attirava solo ratti. Poco male, bevevano l’alcol che meritavano.
“Ecco, ragazzo vedi di non esagerare questa volta, mi sono rotto di doverti prendere di peso per farti sloggiare”
Ghigno:”Non mi rompere i coglioni, vecchio qui sono il tuo miglior cliente”.  Quasi nessuno aveva fatto caso al discorso, tutti troppo impegnati al nulla, tranne una giovane donna.
Ella, con voce impastata si voltò verso lo scontroso:” Hai ragione, i clienti dovrebbero essere trattati meglio, qui i cicchetti fanno vomitare”.
Il pachistano sentendo l’offesa avrebbe voluto ribattere, ma poi ricordò che con quella gente non ne valeva la pena. Probabilmente il giorno dopo neanche se lo sarebbero ricordati. Lui, con quel minimo di sanità mentale che gli restava non voleva certo creare problemi nel suo stesso bar. Così fece quello che faceva sempre, si girò ed andò a servire un altro topo.
Gilbert sentendo la frase si voltò, la sua interlocutrice aveva lunghi capelli castani ed un viso dolce:” Allora, perché continui a bere?”.
La mora alla risposta sorrise, non era stata ignorata:” Per il tuo stesso motivo”.
Il giovane non fece caso alla risposta, non gli serviva:” Capisco, in tal caso alla salute”.
 
Brucia, le pareti iniziano a perdere consistenza.
Iniziarono a parlare, meglio a delirare. L’albino non ricordava il nome della giovane, scoprì solo che era bulgara e che era finita a fare da badante ad un vecchio. Quest’ultimo non le dispiaceva , certo era burbero,a volte petulante, ma gentile. Non la picchiava e suonava il piano. Le piceva il suono di quello strumento, forse troppo delicato per le sue orecchie mertoriate da anni di urla, me era dolce. Ogni melodia sembrava una storia della sua stanca mamma.
Non era soddisfatta della sua vita, avrebbe voluto l’attrice, ma almeno non era finita a fare la prostituta. Così beveva, ma non si drogava. Non voleva avere in mano la sua vita, ma non la voleva perdere.
Mentre le voci dei giovani si facevano strada in quel buco, il bianco iniziò a ridere. La sua non fu una risata genuina, fu crudele, tanto che la ragazza gli dovette prestare attenzione. Gilbert con voce intrisa di crudele malinconia iniziò la sua amara sinfonia: “Mio padre me lo ripeteva spesso,la morte, quella gran puttana, indossa tacchi firmati,è vanitosa e quando arriva pretende l'attenzione di tutti. Non ho mai saputo se mio padre fosse un bugiardo o un folle. Non ho mai saputo se le sue parole fossero dettate da una ragione maligna o da un istinto confuso. Tuttavia, anche con questa consapevolezza sulla schiena, qualunque cosa che egli mi dicesse era per me come una tela di ragno. Mi ha mangiato. Mio padre in testa aveva una tempesta, la distruzione con i suoi lampi di genio. Quel cielo grigio, che gli ricopriva la mente, passava attraverso gli occhi. Quel colore, per quanto fosse sottoposto ai riflessi della luce non cambiava. Alcuni mi hanno parlato d'indifferenza, altri di depressione, io tramite quello sguardo vedevo la sua arte. Eppure c'è chi vide il sublime in quegl'occhi perennemente innamorati dell'assenzio.
Quell'ombra verde mi perseguita ed il male ha gli occhi di mio padre” Pronunciò queste parole con il bicchier pieno, brindò al cesso e bevve.
Quel bar era la sua testa.

Ludwig non aveva la minima intenzione di vedere la città,almeno non lo stesso giorno in cui era arrivato. Era stanco e nervoso. Avrebbe solo voluto andare a casa e chiacchierare un po’ con suo fratello.Era da molto che non si vedevano, era curioso di scoprire la nuova vita di Gilbert. Così con il tempo, forse sarebbe riuscito a farne parte. L’albino, per sua sfortuna, conosceva lo sguardo che il biondo gli aveva lanciato.Comprensivo ma forte, un occhio che non lasciava via di scampo. Era lo stesso di quand’erano fanciulli. Per quanto avrebbe voluto ignorarlo, fallì. Fu costretto a bocciare la sua proposta di andar a veder la città.
“Allora piccolo ti va di andar a bere qualcosa, prima di tornare a casa?” Era strano, per un momento il bianco si rese conto di voler trovare qualsiasi scusa pur di non dover tornare a casa, e trovarsi faccia a faccia con il fratello. Non si vedevano da troppo tempo, avevano troppe cose non dette. E se si fossero resi conto di non piacersi più? Gilbert pensò che la sua paura maggiore, in quel momento, fosse di deludere le aspettative del minore. Un po’ di birre l’avrebbero tranquillizzato.
Ludwig non si aspettava questa proposta, ma non la sdegnò:” Certo”. Il giovane non amava particolarmente i luoghi affollati,a dir la verità non amava uscire di casa a priori. Tuttavia era in una nuova città, con nuove persone e soprattutto accanto a Gilbert. Suo fratello gli avrebbe insegnato ad essere più socievole, ad entrare nel “sistema”. Sarebbe stato felice, lo sapeva.
Dall’aeroporto al quartiere di Gilbert ci volle un pullman e la metropolitana. L’arrivo non fu piacevole per il biondo, in cuor suo sperava in un luogo meno squallido, ma a ben pensarci non gli importava molto. Avrebbe dovuto aspettarselo, suo fratello non riceveva molti soldi e probabilmente quelli che aveva non li spendeva certo per la casa.
“Siamo arrivati, cosa ne pensi Ludwig?”.
“Bello” il biondo rispose con voce sicura.
Dalla bocca di qualsiasi altro essere umano quella risposta sarebbe sembrata una gran presa per il culo, essendo il posto un vero cesso. Ma nulla sembrava falso con quegl’occhi così azzurri e freschi.
L’albino non si aspettava tale risposta, e ciò gli provocò un sorriso, il biondo non avrebbe mai detto nulla per ferirlo, mai. Ora ne era sicuro, gli serviva da bere.
Entrarono nel bar, Ash nel vedere il suo giovane cliente sbuffò.
“Gilbert sei una maledizione..”
L’albino fu sorpreso di una tal frase di benvenuto dal vecchio, di solito infatti quest’ultimo lo ignorava. Forse era di buon umore, o forse peggio del solito.La cosa non gli interessava.
“Portaci un paio di birre”
I fratelli si sedettero al bancone vuoto, ci fu un momento di silenzio. Ludwig si guardava intorno,era sempre stato attento ai dettagli. Un po’ per indole, un po’ perché avendo un pessimo senso dell’orientamento gli servivano per orientarsi.
Gilbert sperò che le birre arrivassero presto.
Le sue preghiere per una volta furono realizzate.
Il biondo si girò per ringraziare l’anziano signore ,tuttavia quest’ultimo non lo degnò neanche di uno sguardo.
Era fuggito, nessuno si chiese il motivo di tale fuga.
Ash aveva visto la giovinezza. In quell’azzurro rassicurante c’era ingenuità, in quel luogo fuori dalla portata di Dio non c’era posto per il cielo. Era inutile illudersi, l’albino l’avrebbe inghiottito.
Ludwig non aveva mai bevuto. Non gli era mai capitata l’occasione.
Gilbert gli porse la birra e brindò. Il biondo avrebbe sempre seguito l’esempio del fratello, egli aveva le risposte, la chiave per entrare nel mondo. Quindi se l’albino beveva, l’alcol doveva esser sicuramente buono.La birra era amara,ma bevibile.
Ludwig.
Gilber per un momento si perse in quella scena, suo fratello faceva parte del mondo, non solo voleva essere come lui. Il piccolo e perfetto Ludwig non era più perfetto.
Quegl’occhi troppo chiari dopo un po’, a causa dell’alcol persero lucentezza, le gote gli si arrossarono. Dopo la quarta birra Gilbert alzò lo sguardo soddisfatto, convinto che il fratello stesse in uno stato pietoso. Aveva ragione, era già ubriaco, ma sempre più bello.
Gilbert lo odiò, tutti gli squallidi esseri che popolavano quel luogo non avevano occhi che per il piccolo angelo.
Tutti, compresa la brunetta che aveva conosciuto la sera prima.
“Bravo fratellino, stesera si faranno conquiste” L’albino, detta questa frase impastata di cattiveria, gli diede un bacio sulla fronte.
C’è un detto che afferma: Quando il diavolo ti accarezza, sta attento, brama la tua anima.
Ma ve n’è un altro che dice: Quando il diavolo ti bacia, rilassati, sei già all’inferno.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Claustrofobia. ***


Dio.
Quale che egli sia mai, se pure questo nome ti è gradito, con questo t’invoco. Avendo tutto ponderato, non mi resta che cercarti. Se il peso vano di questa angoscia bisogna veramente scacciare. Questa frase gli corrodeva la stomaco. Al giovane albino venne in mente la tortura del topo, gliel’aveva narrata il padre. Gliel’aveva sussurrata in una fredda notte, probabilmente aveva scambiato la macabra descrizione con una favola della buona notte. Con l’assenzio che gli vestiva l’alito, accovacciato all’orecchio di un bambino spaventato aveva decantato un topo vivo che veniva inserito nella vagina o nell'ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e spesso, l'apertura veniva cucita. Aveva cantato che  la bestiola, cercando affannosamente una via d'uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati. I disgraziati di solito restavano vivi durante il supplizio. Pregavano perché l’incoscienza li avvolgesse. Gilbert ricordava, pregava anche lui perché il sonno annientasse la sua coscienza.
 Tuttavia questa volta l’albino non supplicava l’amnesia , ma gli occhi della sua nuova compagnia. La donna sopra le sue gambe aveva  occhi castani. Tanto superficiali da permettere a Gilbert di non annegare.  Erano tratteggiati di quella banalità travestita di solennità che lo faceva ridere. Ma era ubriaco, probabilmente lo stesso diavolo gli sarebbe sembrato un giullare.
Da quella bocca secca ed impastata di alcol usciva un verso ,più simile ad un urlo che ad una risata. Nessuno se ne accorse, primo fa tutti il protagonista. Quest’ultimo, governato dall’ultimo barlume di inconscio che gli era rimasto, cercava di non voltare lo sguardo. Non voleva vedere, voleva vivere per sé. Questo era l’unico modo per non deludere nessuno. Questa consapevolezza era stata incisa nella mente dell’albino. L’aveva capito da piccolo. Quando si era reso conto che non avrebbe potuto salvare nessuno dal male, in quanto egli stesso era  marcio. Tolto quello sarebbe scomparso. Non voleva annullarsi per uno stupido angelo. Fanculo alla salvezza.
Ma Gilbert, come ogni vile che si rispetti, era debole  e si voltò. Eccolo, la cosa più simile ad un cherubino in quel luogo non sapeva  la strada di casa, per l’ennesima volta la sua guida si era persa. I Beilschmidt erano soli, abbracciati da un estrema inquietudine.
Ludwig era su uno  sgabello, talmente mal messo da non ricordare neanche  come si stava seduti. Caduto, continuava a vegliare sul fratello.
Quest’ultimo poco distante dal biondo, ridendo dello squallore della situazione non riusciva a concentrarsi su se stesso.
Per la prima volta in quel luogo, in quel bar che sarebbe dovuta essere la sua testa, lui non era il protagonista.
 Capì che  non sarebbe caduto solo e per tanto non sarebbe divenuto l’eroe tragico. Ancora una volta il biondo era davanti, era lui stesso a preferirlo a sé. L’odiava, ricordava il dizionario del diavolo: Odio. Il sentimento più appropriato di fronte all’altrui superiorità.
Rise più forte, così sguaiatamente che gli altri disgraziati si voltarono ad osservarlo. Gli piaceva esser guardato, gli ricordava la sua esistenza. Eppure, anche in quella frenesia generale, cercava il mare. Quegli occhi così amati da provocargli il voltastomaco. Di fronte al mare, rimuginava onte antiche e recenti. Il ridicolo di occuparsi di sé quando si ha sotto gli occhi il più vasto degli spettacoli, non gli sfuggì. Perciò cambiò in fretta traiettoria. Cercò il cerbiatto. Lo catturò nell’inutile femmina al suo fianco, in lei un po’ di comprensione. Quell’essere non l’avrebbe giudicato. In lei vi era la stessa banalità che affliggeva Gilbert. Le due scialbe figure si guardarono con sguardo complice.
“Ti va di cercare un luogo più appartato?”

Gilbert in quella donna, nella claustrofobia di quell’amplesso ricordò la sua prima volta.
Aveva quattordici anni, era un Capodanno, aveva bevuto. Questo nella mente dell’albino era un dato di fatto. Il resto era molto vago. Non ricordava la ragazza con cui era stato, ma a ben pensarci non gli importava. Le donne stupide sono le chiavate migliori perché le detesti – hanno il dono della carne e il cervello di una mosca. Ghigno. Non ricordava altro di quella sera, non c’era stato calore, niente baci. A dir la verità a Gilbert neanche piacevano i baci, troppo intimi, ti denudavano. Troppo vicini agli occhi, avrebbero potuto scoprirlo.
Ricordava il ritorno a casa. Era mattina, si era svegliato solo in un bagno. Il gelo per le innevate strade di Berlino gli aveva fatto passare gli effetti dell’alcol, non si vergognava. Aveva deciso che avrebbe passato il resto della mattinata nel suo letto. Ricordava l’enorme scalinata per giungere nella sua camera, era stanco, gli occhi gli si chiudevano, ma ciò non fu sufficiente per non fargli commettere l’errore.
Sguardo nel vuoto.
Respira, calmati.
In quel vicolo Gilbert ricordò. Incastrato nella sua mente risentì i singhiozzi, li seguì e lo rivide. Era rannicchiato contro l’angolo più buio della stanza. Così nascosto da sembrare invisibile.
Cristo, aveva solo quattordici anni, perché tutto quel peso doveva essere su di lui?
Respira.
Si avvicinò al caduto:” Ludwig…”
Respira più forte.
Nessuna risposta, solo un dolore più grande, più accecante.
“Ti prego rispondi”
Respira con più calma, niente panico.
Il più piccolo alzò la testa. C’erano due caduti nella stanza.
“Perché ti ha picchiato?”
Nessuna risposta, non ci dovevano essere. Gilbert avrebbe dovuto proteggerlo, aveva abbandonato la sua luce.
Rideva il folle in quel vicolo, ricordando l’evento. Si burlava della sua ingenuità. Mingherlino com’era aveva preteso di sfidare il padre. La fine era ovvia.
Umiliazione.
Lo stesso sentimento che stava provando adesso per aver fallito con la ragazza.
Era sempre  colpa di Ludwig.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** La Grazia ***


Bellezza.

Che concetto ingrato. Letterati, artisti, intellettuali hanno cercato di dare un significato a questo aggettivo. Forse, non serve guardare le aspirazioni degli ingegni più alti. Tutti, almeno una volta, abbiamo cercato di risolvere l’enigma che si cela dietro il mistero della bellezza.

Qualcuno ha trovato conforto nel pensare che la nobiltà di spirito, si esprime attraverso la beltà della materia. Consolante, ma ingiusto. Questa teoria fu spazzata via dalla consapevolezza dell’umanità. Quest’ultima brutta, pretende d’esser sentita. Ci fu un uomo che disse, che le due ministre del mondo: la natura e la fortuna nascevano sotto i rami dell’umiltà d’animo.

Interessante,ma falso.

L’uomo dai capelli bianchi sapeva, che la vera bellezza non esprime bontà, anzi era conscio che la vera bellezza nasce sotto i rami della stagnante ignoranza.

Non si parla di bellezza.

Questa è troppo razionale, banale, è calcolabile anche dagli ingegni più bassi.

La bellezza è ignorata, superata dalla grazia.

Quest’ultima è un concetto irrazionale, crudele, che si beffa dell’occhio distratto.

La grazia non ha una spiegazione, nessuno si pone dubbi su quest’ultima perché quasi nessuno la vede.

Purtroppo l’albino l’aveva scorta, si era fermato un attimo ad osservarla e quella subdola gli era entrata dentro.

Dagli occhi, con gli artigli si era insediata nel suo povero cuore.

Dopo anni, tante riflessioni e tanto alcol ,era giunto ad una conclusione. La bellezza è qualcosa di umano, di imperfetto perché copia della natura, ma la grazia è qualcosa di divino perché supera la natura.

Mentre cercava di ritornare al bar, alla sanità mentale, guardava il paesaggio.

Brutto.

Fortunatamente la notte ingabbiava tutto, luridi lampioni segnavano il suo passaggio.

Arrabbiato, per l’ennesima volta guardava il cielo.

Bello.

 

Il biondo era stanco.

Cercava di tenere gli occhi aperti, cercava il fratello. L’esasperazione continuava a farlo stare vigile, l’aveva perso.

Quell’uomo si era allontanato senza di lui.

Solo, come al solito.

Imbarazzato, non c’era neanche un posto dove andare, avrebbe dovuto aspettare il fratello che neanche lo vedeva.

Lui, che dal basso della sua stupidità aveva sempre cercato di attirare la sua attenzione, di esser visto.

Nessuno si accorgeva di lui.

Solo.

 

I passi si facevano pesanti.

Le mani in tasca bruciavano. Avrebbe dovuto lasciarlo marcire in quel bar, nella sua testa.

Avrebbe dovuto andare avanti, avrebbe dovuto smettere si bere e farsi una vita dignitosa.

Forse non avrebbe dovuto vedere.

La vista tra i sensi è quello che si inganna meno facilmente, impietoso pretende rispetto.

Le gambe non avevano seguito il suo ciclo di pensieri, era sempre lo stesso giro, in tondo.

Era l’orrendo percorso dell’accidia che l’aveva ricondotto da lui.

La Grazia era seduta e con le mani si reggeva la testa, nessuno lo vedeva, solo lui.

Bello, sorrise della consapevolezza del suo occhio fine, si prese un’altra birra ed andò ad riprendersi la sua Arte.

Nessuno può sfuggire al proprio occhio, alla propria testa.

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3253621