Il destino del mio regno

di udeis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il re ***
Capitolo 2: *** La figlia dell'inverno ***
Capitolo 3: *** La strega ***
Capitolo 4: *** Fame ***
Capitolo 5: *** Quello che ho perso ***
Capitolo 6: *** Appartengo alla terra ***
Capitolo 7: *** Il principe che vene da lontano ***
Capitolo 8: *** Dea ***



Capitolo 1
*** Il re ***


Note: secoli e secoli dopo, ho deciso di dare più spessore alla mia oneshot, aggiungendo nuovi punti di vista alla vicenda. Dopo averci pensato attentamente, ho deciso che non modificherò nè aggiornerò questo capitolo, tranne che nel titolo (che passa da "il destino del mo regno" a "il re"). La storia ha partecipato a un concorso e la recensione è proprio la valutazione del contest, quindi non mi va di aggiornarlo e rendere invalido il lavoro del giudice. Quindi abbiate pazienza, il primo capitolo è rimasto e resterà quello originale e ampliamente migliorabile. Ho provato a mettere in pratica i suggerimenti del giudice dalla seconda storia in poi. Fatemi sapere cosa ne pensate e se ci sono riuscita.



Partecipa al contest i peccati capitali  indetto da Hannibal.L sul forum di EFP

Il destino del mio regno
 
 
Si diceva che la strega più abile e potente vivesse in uno dei villaggi del Monte Argento. Fu per questo che, quando capii di non avere più alcuna risorsa per far fronte alla carestia, sellai il mio cavallo e partii nella notte, senza scorta alcuna e con il capo cosparso di cenere.
 
Giovane re, di un regno altrettanto recente, ero succeduto a mio padre nei doveri del trono da troppo poco tempo per essermi già adagiato alle mollezze della corte. Da ragazzo avevo girato i sobborghi della città e ascoltato i racconti di fame e di guerra dei cavalieri. Avevo visto mia madre soccorrere i bisognosi e mio padre aprire le porte della cittadella ai rifugiati.
Tenni fede alla loro memoria: condivisi le scorte di palazzo, ridussi i miei pasti, misi in atto ogni possibile strategia, ma la carestia non sembrava avere fine; e anche se, come in ogni altra terra nota, il mio regno abbondava di streghe, nessuna aveva potere sufficiente per far cessare quella piaga. La maledizione lanciataci da una natura ostile era troppo potente per essere fronteggiata da donnicciole di campagna, più dedite alle erbe che alla vera e propria stregoneria.
 
Io, che preferii l’azione a un’immobile sconfitta, io, che partii tra disperazione e speranza, diviso tra responsabilità e incoscienza, misi in moto gli ingranaggi del fato di mia spontanea volontà.
 
Arrivai a Zalis al tramonto del settimo giorno: non mangiavo da quattro, non dormivo da due. La strega mi attendeva all’ingresso del villaggio con un cesto di frutta in mano: “Ti aspettavo”, mi disse, ed io la segui nella sua semplice casa di campagna.
Lì, con occhi freddi e voce chiara, affermò che non mi avrebbe aiutato perché le conseguenze delle sue azioni avrebbero potuto essere disastrose e imprevedibili.
Le chiesi, urlai, credo, cosa c’era di peggio che lasciare morire di fame donne e bambini. Tacque; ed io la supplicai, perché avevo abbastanza uomini, risorse e coraggio per affrontare qualsiasi conseguenza. Le offrii ogni cosa per la salvezza del mio regno, ogni cosa, persino la mia vita, persino il trono stesso: nulla mi sembrava più gravoso da perdere che il mio stesso popolo. Non accettò.
 
Rifiutò ogni cosa ed io, con la sua stessa gelida calma, maledii lei e la sua stirpe, lei e la sua congrega che negavano aiuto al loro re e al suo regno nel momento più buio della sua giovane vita.
Maledii le streghe e la stregoneria: lo tuonai dal mio castello e lo urlai in quella casa, perché volevo che, la stesse immagini di morte che mi perseguitavano negli incubi, colpissero quella donna con violenza.
Volevo che sperimentasse il senso di colpa che provavo per i sudditi che condannavo a una lenta morte d’inedia e disperazione. Volevo che assaggiasse l’avvilimento che mi pervadeva ogni qualvolta che condannavo alla forca chi si era dato al brigantaggio per fame. Volevo che provasse con ribrezzo il disgusto che sentivo, guardando le mosche ingrassare nelle orbite vuote e scarne dei cadaveri della città bassa.
Sconfitto dal suo silenzio, annientato dal suo rifiuto, tornai nel suo villaggio da Re, non più da supplice, e comandai ai miei soldati di arrestarla.
La portai al castello, la feci sfilare per la città e lapidare dal popolo infuriato, la rinchiusi in una cella e la condannai a morte, ma quella maledetta donna riuscì a beffarsi di me ancora una volta, morendo di parto in quel vano umido e scuro in cui l’avevo confinata.
Il suo corpo fu bruciato in piazza con rabbia e disperazione, come triste monito, come inutile vendetta, come estremo sacrificio a una natura indifferente.
 
Il regno rifiorì lentamente e la bambina, nata in una cella umida e scura, crebbe nella luce e negli agi del palazzo reale, diventando quanto di più bello il regno ed io avessimo mai visto.
 
La carestia tornò con la stessa implacabile crudeltà vent’anni dopo, nonostante i canali e i mulini, nonostante gli incantesimi delle streghe rese devote dalla paura. L’angoscia piombò sul regno come una cappa scura ed io fui riportato d’un tratto ai tempi della mia prima giovinezza e, come allora, esaurii presto ogni mia risorsa.
Questa volta, però, non c’era nessuna strega sul Monte Argento ad ignorare le mie suppliche, nessun corpo da bruciare nella speranza di propiziare il ritorno dell’abbondanza: avevo la possibilità di salvare il mio popolo prima ancora che iniziasse a soffrire seriamente le penurie della fame. Avrei fatto qualunque cosa per scongiurare una nuova ecatombe.
La giovane, nata in una cella umida e progenie di una donna maledetta, fermò la carestia su mio ordine: fu allora che morì. Ed Io, che vent’anni prima, avrei affrontato qualsiasi conseguenza con animo indomito, non ressi, però, la morte di una figlia che era mia, anche se proveniva dal ventre dell’unica strega che avessi mai condannato.
 
Nel mio doloroso delirio, mentre il reame appassisce con me, giorno per giorno, non so più a chi siano appartenute le fatali parole che hanno segnato il mio destino e quello del mio regno.
 
“Lasciate pure che muoia di fame. Ho un anatema crudele da dedicarvi: che vi tormenti il senso di colpa; che ogni anima che avete condotto alla morte infesti i vostri sogni. Che non ci sia pace per voi, per la vostra prole avvelenata, e per tutti malvagi di spirito che vi assomigliano. Ricordate le mie parole, ricordatele bene!”

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Capitolo 2
*** La figlia dell'inverno ***


La figlia dell’inverno

Figlia dell’inverno, così mi chiamavano a corte quando pensavano che non li sentissi. Figlia dell’inverno o dono della carestia.

Lo dicevano perchè ero nata alla fine di una lunga e dolorosa carestia, perchè ero nata per mezzo della strega che si era rifiutata di fermarla, perchè ero nata in cella da una donna condannata a morte, perchè ero nata, portando via la vita di mia madre. Lo sussurravano perchè ero nata nel momento più buio dell’inverno, nell’ora più tormentosa della vita di quel giovane regno, all’apice dell’angoscia del suo re.
La primavera successiva alla mia nascita, dopo che il corpo di mia madre fu bruciato e le sue ceneri sparse al vento, i campi tornarono fertili e le messi abbondanti come non lo erano da anni.

Cosa aveva segnato la fine della carestia? La mia nascita o la morte di mia madre?
Ero, forse, l’ultima maledizione lanciata da una strega morente, una rosa ammaliante, ma velenosa che avrebbe condotto il regno alla rovina? O era la mia stessa esistenza a garantire l’abbondanza?
Il tocco gelido dei loro dubbi non mi abbandonava mai, bruciandomi la pelle in un perpetuo inverno.


Quando tutto diventava insopportabile mi rifugiavo nei giardini.
Pur restando indifferente alla mia angoscia, come lo era a quella di tutte le creature sue figlie, la natura riusciva, tuttavia, a donarmi pace. La musica delle stagioni accompagnava la mia infanzia, consolandomi: la primavera era un crescendo di flauti e campanelli, l’estate aveva una musica forte e calda di ottoni, l’autunno un lento pizzicare di archi, l’inverno, invece, erano percussioni lievi e insistenti.

I sussurri della corte e del popolo, invece, erano come un vento freddo che si insinuava sotto al mantello di lana, strappando via ogni ogni calore. I mormorii si moltiplicavano come un eco nelle grandi sale vuote del castello e mi inseguivano perfino sotto le coperte in cui mi rifugiavo.
“Figlia dell’inverno!” condannavano, perchè miei occhi erano dello stesso colore del ghiaccio, la mia pelle chiara era fredda come la neve, i miei capelli ricordavano rami scuri e spogli e il mio sorriso assomigliavano al ringhio di un lupo affamato. Nessuno sembrava amare l’inverno, così iniziai a detestarlo anche io perchè mi aveva fatto diversa da tutti gli altri.


Mio padre, invece, lo adorava e non perdeva occasione di dirmelo. Durante la brutta stagione i campi erano a riposo, i mercanti non potevano viaggiare e a nessuno veniva voglia di litigare: persino le contese e le guerriglie di confine si acquietavano. D’inverno un re aveva tempo e quel tempo lo dedicava a me.

Quando la corte lo vide aiutarmi a costruire un pupazzo di neve, disse che non era decoroso.
Quando i nobili lo videro scivolare su una slitta da una montagnola, tenendomi stretta a sé, affermarono che così si comportavano solo i contadini.
Quando su mia richiesta adottò il falco ferito che trovammo nel bosco, le dame di corte insinuarono che era un animale da compagnia fin troppo strano per una principessa.
Quando invece che a tessere e a filare, il re insistette perchè i precettori mi insegnassero la storia e la matematica, i sapienti mormorarono che non era saggio.
Quando chiamò delle donne, delle streghe, per aiutarmi a gestire le capacità che avevo iniziato a sviluppare, tutti si domandarono se non fosse vittima di un incantesimo.

Ma la parola di mio padre era legge e, come l’estate, portava sempre frutto. Nessuno  poteva davvero dimenticare con quanto valore e generosità aveva guidato e protetto il regno fino ad adesso.


“È un buon re,” sussurrava la gente, “anche se ha scelto di crescere la figlia dell’inverno”.

 

Quando tornò la carestia, affiancavo mio padre nel governo da tempo e mi rendevo perfettamente conto del prezzo che il regno avrebbe dovuto pagare per sopravvivere a una tale calamità. Il re ne riconobbe i sintomi molto presto e cercò in tutti i modi di scongiurarla, aumentando gli sforzi che lo avevano sempre contraddistinto.
Io non volli essere da meno: mi consumai gli occhi e su tomi polverosi di ingegneria e agricoltura, abbandonai il sonno per studiare i documenti ufficiali, persi la voce a furia di portare ambasciate, percorsi mille e mille volte ancora i miei giardini per riflettere su nuovi rimedi e tessere nuove strategie.

L’incubo che aveva avvelenato la giovinezza del re e del suo regno, minacciava di devastare anche la sua maturità e io non potevo permetterlo. Vent’anni prima non era bastato ridurre i pasti della corte e ridistribuire il cibo, non era bastato vendere gli ori e le sete del castello pur di nutrire una persona in più, non erano bastati i cavalieri a mantenere l’ordine nella città bassa.

Feci in modo che la corte non si accorgesse delle occhiaie sempre più marcate, che segnavano il volto di mio padre, feci in modo che nessuno notasse i pasti saltati e i capelli d’un tratto si erano fatti più bianchi che grigi. Preparai tisane e impacchi alle erbe per alleviare la sua angoscia e permettergli il riposo. Consultai esperti provenienti da altri paesi, convocandoli a corte come se fosse un capriccio. Dettai una nuova moda per le nobildonne e mi ornai di fiori che intrecciai io stessa, per non fare notare la mancanza di gioielli che avevo da lungo tempo venduto.

Il calore estivo che mio padre aveva sempre emanato e che negli anni fragili e freddi della mia infanzia aveva riscaldato l’inverno della mia solitudine scemava, giorno per giorno in un fresco dell’autunno e io non lo potevo sopportare.

Affiancai sempre più il re nell’esercizio della giustizia e mi arrogai la responsabilità finale della sentenza. Mi si spezzò il cuore quando dovetti iniziare a condannare chi, per fame e disperazione, si era dato al brigantaggio, ma sapevo che era un dolore che il re, mio padre, aveva già sopportato e volevo risparmiarglielo.


Era per quello che che era andato a Zalis e sapevo quanto gli era costato.
Vedevo quell’ombra scura infestare ogni suo sguardo fin da quando potevo ricordare: adombrava ogni suo successo e rendeva più cupa ogni sconfitta, lo perseguitava anno dopo anno e non gli dava mai pace. Anche nei suoi sorrisi più dolci, nei suoi gesti più affettuosi, nelle sue gentilezze più tenere vedevo sempre l’ombra del dubbio, il terrore che io o il regno potessimo rifiutarlo per via del suo passato.

Per questo, avevo rinunciato alla stregoneria molto presto.

Quando ebbi la certezza che solo le streghe sentivano la musica delle stagioni, smisi di ascoltarla ed evitai di uscire nella natura così da attutire tra i mattoni del castello anche l’eco di quella melodia.
Non volevo credere che il destino fosse immutabile come mi descrivevano: mi sforzai nel trovare le erbe noiose e i segreti naturali scontati. Dimenticai quel che potei e annegai il resto nella quotidianità: mi concentrai sui miei studi storici e matematici, raffinai il mio galateo, mi interessai alle frivolezze della corte, curai il mio aspetto, mi allenai a sorridere con grazia.
 

In quei giorni cupi, dove ogni cosa sembrava destinata a finire, ripresi in mano di mia volontà i fili di quell’eredità che avevo continuato a negare: aprii le porte alla magia perchè non mi era rimasto altro e fu come rinascere.
Ricominciai a sentire la musica, ricominciai ad amare l’inverno: il caldo e il freddo non potevano più davvero toccarmi, il vento mi portava le voci di cose lontane, nell’acqua intravedevo misteri preclusi anche ai saggi.

Quando l’inverno fu di nuovo al suo apice, il giorno del mio compleanno, feci scorrere in me la musica forte e calda dell’estate e lasciai che avvolgesse l’intero regno così come le braccia di mio padre facevano un tempo con me.

Fermai la carestia per amor suo, salvando il regno per il quale aveva sempre messo in gioco la vita. Come l’agrifoglio splendetti nel più cupo inverno per ricordare al mondo della primavera.

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Capitolo 3
*** La strega ***


La strega

“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.”

È una certezza pericolosa, la mia, ma accompagna ogni mio risveglio. Sono mesi ormai che faccio sempre lo stesso sogno: un uomo bruno e vestito di stracci arriva al villaggio in groppa a un cavallo. È giovane, ma la preoccupazione ha scavato rughe profonde sul suo volto e ingrigito i capelli alla radice. La sua bellezza è infranta, rovinata, ma a lui non sembra importare. Ha mani grandi, delicate, e la carnagione è più scura della mia.
La prima cosa che noto, però, sono sempre i suoi occhi neri come la notte: si allacciano ai miei e come fuoco consumano il mio animo.

A volte, nel mio sogno, il cielo è terso e luminoso.
Il cavallo è in salute e l’uomo mi sorride, grato.

Scende da cavallo, viene verso di me e ad ogni suo passo sbocciano fiori ed erbe, ad ogni suo passo l’aria si fa leggera e estiva. Si inchina, mi chiama “Mia signora”, mi tende la mano ed io mi sveglio, un’istante prima di afferrarla, pervasa da un’immensa pace.

Altre volte, le nuvole si addensano scure e sembra arrivata d’improvviso la mezzanotte.
Il cavallo è scheletrico e l’uomo ghigna.

Non scende da cavallo, ma mi porge una mano che rifiuto sdegnosamente. È allora il che il vento si alza e frusta la terra sollevando volute di polvere che mi brucia gli occhi. La pioggia, ci raggiunge poco dopo, impietosa, fitta come erbacce, e porta con sé la grandine: i suoi chicchi lacerano la mia pelle, facendomi sanguinare.

Io non mi muovo. Subisco la tempesta e lo guardo, mentre lui fa altrettanto: la mano ancora tesa e, sul volto, una smorfia che non so identificare. Mi sveglio tra le coperte fradicie di sudore alle prime luci dell’alba.

La mia pancia cresce, la gravidanza procede e al mio sogno si aggiungono dettagli: il cavallo è di un bianco splendente e la sella è rovinata, ma di ottima fattura, i fiori che sbocciano sono viole, il luogo in cui siamo è la piazza del Zalis, il mio villaggio. Inizio persino a distinguere sullo sfondo alcuni degli abitanti del mio stesso paese e le loro espressioni diventano sempre più definite ogni notte che passa.

Il viso dell’uomo, però, non lo ricordo mai.
Lo vedo chiaramente nei sogni e ogni notte lo riconosco, ma al risveglio non mi resta niente di più che l’impressione di due occhi neri come la pece.

La gravidanza indebolisce la mia seconda vista: desidero scavare più a fondo, interrogare gli astri e il vento stesso, come ho sempre fatto quando volevo risposte, ma ogni tentativo in tal senso mi spossa tremendamente. Così ci ho rinunciato dopo i primi dolorosi fallimenti, troppo spaventata di morire o perdere il bambino.
Posso solo cercare di dormire il più possibile, sperando che i sogni si spieghino da sé: un uso così primitivo del mio potere che persino da apprendista avrei saputo fare di meglio.

Il battito del cuore di mio figlio si fa ogni giorno più assordante, mentre la matassa di pensieri, sensazioni e premonizioni, diventa sempre più sfuggente e io sono sempre più lenta a riordinarla. Persino delle cose di tutti i giorni mi sfuggono i dettagli e i contorni: un tempo avrei saputo d’istinto a quale erba affidarmi per il malessere della vicina, oggi devo affidarmi alla mia esperienza di levatrice. Mesi fa non sarei rimasta sorpresa della gravidanza della più piccola delle figlie del fornaio. Nè sarei rimasta sconvolta alla vista della mano troncata del macellaio, ma mi sarei diretta da lui con il necessario per ricucire e medicare, prima ancora che la mannaia gli sfuggisse di mano.

Agli occhi del mondo chino il capo con grazia a questa prepotenza - nove mesi passano in fretta, dopotutto - ma in realtà l’accetto con irritazione: oggi posso solo rimediare a ciò che un tempo potevo prevenire.

Magia e gravidanza sono un binomio complesso ed è sempre meglio che non interferiscano. Per questo quelle come noi evitano di restare incinta. “Se dovesse capitare, però,” diceva la mia vecchia maestra “la natura saprà prendersi cura di te come ha sempre fatto”.

Ricordo con nostalgia e indulgenza un passato lontano in cui avrei accolto con gioia la mia attuale cecità, anzi, se avessi saputo che era così facile ottenerla, sarei rimasta incinta molto prima, infischiandomene delle chiacchiere della gente. Non desidero una vita normale, da troppo tempo ormai, e vedermela servire tutt’un tratto su un piatto d’argento è fastidioso come indossare scarpe rotte durante un temporale. La musica delle stagioni tace, le visioni sono oltre la mia portata, sono sollevata dai miei doveri e l’intera comunità mi si stringe attorno, solidale, invece di mantenere il suo solito distaccato rispetto. I vicini mi cucinano, cibi che non voglio, portano per me i pesi peggiori senza che glielo chieda, mi fanno visita quando desidero il silenzio, parlano del mio futuro e non mi lasciano aggiustare il loro presente.

Si chiedono come farò al momento del parto: la vecchia levatrice ha smesso di esercitare la sua arte da quando ho preso il suo posto e non ci vede più tanto bene. Alcune voci dicono che mi farò da levatrice io stessa o che i miei strilli richiameranno la Dea in persona. Si guardano bene a dirmele in faccia queste cose, ma anche se non riesco più a sentire i sussurri dei loro pensieri così distintamente come un tempo, non c’è un solo modo per sapere le cose e io non mi faccio scrupoli ad origliare.

“Non hai pensato alle erbe?” mi ha chiesto, invece, mia sorella che di scrupoli non se ne fa affatto e che alla sua quarta gravidanza, ci ha pensato eccome e più di una volta. Io alle erbe ci ho pensato, ma non me la sono sentita: ho avuto paura o forse un presentimento. Potrebbe non risuccedere, ho considerato.“Questo figlio è mio” mi sono detta ed era come un ringhio.
Quella ferocia mi ha sorpreso: ho smesso di pensare alle erbe e iniziato a sopportare con pazienza le nausee, le fitte, i piedi gonfi, la vescica sempre piena e l’umore altalenante.

“Fa parte dell’esperienza, ma poi passa” dice mia madre, che nella mia gravidanza non ci sperava più. Negli occhi lo sguardo della sacerdotessa che condivide i misteri con la sua giovane iniziata, un segreto che da levatrice ho sempre e solo sfiorato, ma finalmente ora assaporo.
Mi riempie di attenzioni, mia madre: ha già mille nipoti eppure questo in qualche modo è diverso. Ha già assistito più di una figlia in gravidanza eppure con nessuna di loro è stata così soffocante. “È la tua prima” dice, se le chiedo spiegazioni, "Niente di più". Sospetto che non sappia bene neanche lei perchè si dedichi con tale solerzia alla figlia che ha da tempo affidato alle cure della Dea.

Dopo un risveglio particolarmente brusco non sono riuscita a scrollarmi di dosso quello sguardo di tenebra per tutta la giornata, così l’ho confidato a una mia cara zia, madre di troppi figli. “Ogni notte sogno un uomo con gli occhi neri, cara zia. Non mi lascia in pace.” Non le ho detto più di così - se è un presagio non posso rivelarlo con leggerezza- e lei si è messa a ridere: “Affrontare una gravidanza da sola non è facile”, ha detto, “a volte si sente la mancanza di uomo”.
Nello stesso modo mi hanno rassicurata le altre mie parenti che hanno già avuto figli. Hanno riso con me, complici, come non lo sarebbero normalmente, hanno comparato i loro mariti, hanno fatto battute salaci e mi hanno rivelato cose, che non mi avevano mai confessato prima.

È stato strano. Le donne si sono fatte più sollecite, più vicine per sostenere la gravidanza solitaria della levatrice: più si avvicinano più sarà doloroso quando, dopo il parto, si allontaneranno di nuovo per tributarmi il rispetto dovuto.

Forse lo fanno per ripagare il bene che ho fatto loro in tutti questi anni: tutti i neonati salvati, tutti i bambini mai dati alla luce, tutti i matrimoni aggiustati e le ferite risanate. O forse non si tirano indietro perchè non porta bene lasciare sola una donna incinta e nessuna di loro osa immaginare quale potrebbe essere la punizione della Dea, se lasciassero sola una sua iniziata.

Non penso che l’uomo dagli occhi color della notte sia davvero la rappresentazione del marito che non ho mai avuto e che non voglio. Non penso di esserne innamorata, nè lo desidero nel mio letto. È un presagio, anche se non ne capisco il significato. So solo che la prima volta che ebbi questo sogno al risveglio seppi che dentro di me c’era vita. Da allora mi fa visita tutte le notti: è l’unica compagnia che che non mi stufa, l’unica che è benvenuta anche quando è angosciante. Non riesco ad abbandonarla così come non posso farlo con questo bambino.

La vecchia levatrice, a cui devo ogni cosa, ha detto che sogno il mio bambino e la sua nascita. Temo e desidero il parto, come tutte le donne, alla prima esperienza, solo che, per forza di cose, i miei sogni sono molto più intensi. È la mia paura a generare la bufera e il mio sollievo a far fiorire la terra. Il cavallo rappresenta l’amore che provo per il mio bambino: tutte le madri si chiedono se possono amare quella creatura che cresce dentro di loro, tutte loro si trovano ad odiarla rabbiosamente e amarla furiosamente. Per questo il cavallo passa dall’essere rachitico all’essere in salute. Infine, non ricordo il volto dell’uomo perchè ancora non posso vedere quello del mio bambino: è un privilegio che non viene concesso nemmeno a quelle come me.
“La gravidanza sta andando bene” ha detto, confermando la mia diagnosi, “non preoccuparti”.

La sua interpretazione mi rassicura, anche se non mi convince del tutto.

Malgrado le tisane calmanti, le lunghe passeggiate, le chiacchiere e la routine, niente è riuscito ad avere la meglio sul mio sogno. Mi visita ancora e diventa ogni notte più angoscioso: la pace che mi fa provare è pericolosa, tossica, come un’ubriacatura, il dolore così pungente da farmi controllare affannosamente se la grandine mi abbia lasciato lividi reali. Ci vogliono trenta affannosi secondi, al risveglio, per rendermi conto che i nostri cuori battono ancora e che siamo a casa.
Se, all’inizio, quegli occhi scuri mi avevano consolato della mia solitudine, oggi non sono più così benvenuti: ho paura che se continuerò a sognare con la stessa intensità finirò per perdere il bambino e morire io stessa con lui, dissanguata e sola.

Per questo ho preso ad andare nella foresta sempre più frequentemente, lontano dalle case e dalla gente, dove la magia si rafforza. Mi ostino a pensare che il lieve pizzicore che sento sulla pelle, non sia il freddo, ma la natura che prova a parlarmi dopo mesi di dolorosa assenza. Lontano da Zalis, penso, l’uomo dagli occhi di tenebra non ha poteri e così mi addormento tra foglie cadute, al tiepido sole di mezzogiorno, risvegliandomi infreddolita, ma serena come non lo ero più da mesi.
Medito gioiosamente e raccolgo legna e bacche di agrifoglio da donare ai contadini, quando accenderanno i fuochi per celebrare il solstizio. Mi prendo cura delle bestie malate e regalo ai bambini qualche castagna da mangiare. Le mogli dei contadini accettano il dono, ma mi raccomandano, spaventate, ma premurose, di non sforzarmi così tanto al termine della gravidanza. "Rischi di perdere il bambino, signora" dicono, "dovresti saperlo bene", aggiungono le più coraggiose anche se loro hanno sempre lavorato fino alle prime doglie.

La natura mi dà pace: non intendo rinunciarvi ora che ne ho più bisogno. I doni che ricevo in cambio dei miei servigi, invece, mi fanno sentire la donna che ero fino a pochi mesi fa: temuta, apprezzata, necessaria.

Poi un giorno, tornando dai campi carica di frutta, lo vedo: gli occhi, così scuri da darmi i brividi.

Accomodo il cesto sul fianco: "Ti aspettavo", dico.

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Capitolo 4
*** Fame ***


Fame


Era il naso il primo a svegliarsi, all’odore dolce e acidulo della frutta fresca, poi seguiva lo stomaco che ruggiva la sua approvazione e trascinava con sè tutto il resto del corpo, per ultimi si aprivano gli occhi, quel tanto che bastava ad afferrare un frutto e portarlo alla bocca senza rovesciare la la ciotola. Preferivo le mele croccanti e asprigne, così piccole che sparivano in un morso o due. Mi concedevo una pesca dolce vellutata seducente, quando volevo viziarmi. Agognavo le arance, dopo una notte di febbre, l’anguria dopo una notte di calura estiva e degustavo susine e albicocche, quando volevo sentirmi raffinata, ma mi rivolgevo alle pere, ogni volta che volevo il brivido della sorpresa: nulla era mai uguale con le pere.

La serva iniziava ad occuparsi dei miei capelli e dei vestiti, mentre io ingoiavo a cucchiaiate lo zabaione caldo e cremoso che la cuoca mi faceva recapitare ogni mattina e tanto faceva bene al mio incarnato. Nello scendere nella sala da pranzo, passavo davanti alla cucina: l’odore del pane fresco mi travolgeva e mi conquistava, come se fosse sempre la prima volta, aprendo una voragine senza fondo nel mio stomaco. “Controllo qualità!” annunciavo senza la minima vergogna e con il sorriso più grande che avessi, mi appropriavo di una pagnotta fresca e per buona misura anche di uno dei panini all’olio che mia madre tanto amava. Sbocconcellavo il mio bottino nei corridoi: beandomi del suo calore e della sua morbidezza che tanto ricordavano le coltri che aveva appena lasciato. Nascondevo il pane con attenzione sotto le vesti prima di entrare nella sala da pranzo: mio padre non amava che mangiassi troppo, ma il mio stomaco gorgogliava e ruggiva per la fame e già avevo l’acquolina in bocca al pensiero di quello che mi aspettava per colazione.

Mi servivo il formaggio fresco e cremoso, la ricotta più sopraffina e il formaggio dal gusto deciso che veniva accompagnato sempre dalle marmellate - mia madre ci teneva molto a questa usanza. Ne spalmavo anche sul pane nero e scuro appena scottato al forno che si sgretolava così piacevolmente sotto i miei morsi, così come, invece, mi aveva insegnato mio padre.

Finivo il pane preso dalle cucine, mentre mi avviavo dai miei tutori e recuperavo da dietro il busto di un antenato, il sacchetto di mandorle e frutta secca che portavo sempre con me durante i miei studi. Appena il precettore si distraeva, tuffavo la mano nella mia scorta segreta e mi divertivo a triturare la frutta secca in piccoli pezzi croccanti e appuntiti prima di inghiottirla. Era davvero divertente: ci voleva destrezza,  e tempismo per non farsi scoprire e una buona dose di faccia tosta per negare l’evidenza davanti alla furia del precettore che aveva scorto le briciole sui miei vestiti.

 

Nascere nobile è stata una fortuna e una sfortuna insieme: il cibo arrivava sempre in tavola preciso e puntuale, non mancava mai, ma nei lunghi intervalli tra un pasto e l’altro non potevo rubacchiare niente senza dare nell’occhio. Nè potevo sperare che una vicina impietosita mi nutrisse come un gatto randagio. Potevo, se riuscivo a sfuggire allo sguardo attento di precettori e tate, recarmi in cucina e chiedere qualche cosa da sgranocchiare o raggiungere i giardini sperando di trovare qualche fragola. Quando ero ancora bambine, le cuoche e le dame di compagnia mi trovavano carina: così tonda e delicata, le guance rosee e paffute, non riuscivano mai a negarmi niente, ma crescendo, le cose cambiarono. “Le signorine, le principesse, non devono mangiare o diventeranno grasse e in quel caso nessuno le vorrà” dicevano. “Una donna non deve essere troppo magra e secca, altrimenti, non è adatta per la discendenza, sembra tisica, ma neanche deve  sdrabordare dai vestiti, altrimenti ogni sguardo si perderà tra i rotoli di ciccia e verrà distolto” mi insegnavano. Mi negarono il cibo, poco importava che non ingrassassi mai di un etto, ma la mia fame non scomparve, nè diminuì. Le mie capatine in cucina divennero per forza di cose clandestine: mi servivo gli avanzi che sarebbero dovuti andare ai servi, mi servivo di quelli che dovevano andare ai maiali, mi servivo raffinate prelibatezze, perchè in fondo ero la principessa e nessuno poteva disobbedirmi. Rubavo le mele dal giardino, le uova dai nidi e le bevevo crude; poi fiori, foglie, perfino erbacce e ancora scoiattoli, insetti, uccelli che catturavo io stessa servendomi dei lacci di seta strappati al mio vestito.

 

A volte lottavo contro la forza primordiale della fame: ce la mettevo tutta per non mangiare, per adeguarmi alle aspettative che tutti avevano su di me, ma Il mio stomaco si quietava per un’ora appena prima che ricominciassi a sentire i suoi gorgoglii. Se non mettevo subito qualcosa sotto i denti iniziavo a sentirmi leggera come un palloncino, se resistevo fino a cena diventavo sempre più debole e nervosa, se la cena per qualche motivo ritardava mi sentivo svenire. Su ordine di mio padre, tate, ancelle e serve mi sottoposero a beveroni immondi, mi fecero mangiare amaro, per cacciare l’appetito, mi strinsero i vestiti per monitorare il mio peso, ordinarono alle cuoche di non prepararmi più nessuno spuntino.

Dicevano di farlo per il mio bene, ma io tormentata dai morsi della fame, mi feci solo più astuta e scorretta. Sfruttai la mia nascente bellezza per convincere paggi e servitori a fare ciò che volevo. Usai i pettegolezzi per ricattare le cameriere più giovani e legarle al mio volere. Arrivai a pagare in contanti valletti e dame di compagnia per procurarmi cibo fresco dal mercato: che fosse frutta, dolci o quella disgustosa zuppa che faceva la vecchia pazza della città bassa. Avevo fame e il mio stomaco sembrava non volersi riempire mai. Avevo fame e mi sarei nutrita a tutti i costi.

 

Mia madre non appoggiò mio padre in questa sua crociata, nè criticò mai i miei metodi, che di certo non si addicevano a una donna di buona famiglia: ogni sera, però, sotto il cuscino, trovavo ad attendermi uno dei suoi panini all’olio.

 

Tutto il castello si preparava ad accogliere alcuni delegati stranieri, per alcune noiose faccende riguardanti i confini che a me non interessavano. Avremmo tenuto un ballo e un ricevimento e ci sarebbe stato un banchetto. Non è solo la mia fame a parlare, quando dico che adoro i banchetti ufficiali: si cucina sempre in abbondanza per dimostrare il proprio lustro e mettere l’ospite a proprio agio e davanti agli ospiti mio padre non poteva criticarmi apertamente o ordinare alle cameriere di portarmi via il piatto. Purtroppo per me, in quei giorni, i preparativi erano stati così frenetici che non avrei potuto chiedere ai servi di portarmi nemmeno un’oliva senza farmi scoprire. Il mio stomaco ruggiva per la fame, costretto a saltare 5 dei suoi dieci spuntini segreti e due delle seconde colazioni. Così al banchetto misi in atto la mia recita collaudata: vestiti ampi e vistosi, per distogliere l’attenzione dai miei gesti, buone maniere e il galateo a nascondere l’entità delle mie porzioni, un sorriso affascinante per negare il fatto che mi stessi servendo per la quarta volta, alcune frasi brillanti per distogliere l’attenzione dei commensali dalla velocità con cui facevo danzare le mie posate.

Il principe, lui non si fece ingannare dai miei modi e mi guardò fissa per farmelo sapere, ricambiai, sorridendo più apertamente. Sarebbe stato abbastanza audace per far notare che la principessa, sua ospite, si ingozzava come un maiale? Abbastanza astuto per far pesare i miei modi - e quindi il mio futuro matrimoniale- sulle trattative? O avrebbe semplicemente fatto naufragare la mediazione, con una frase scortese solo per il gusto di ferirmi?

 

Con mio grande stupore, mi cedette, invece, il suo sorbetto.

 

Divenne re, a suo tempo, e io regina, e mi concedette tutti gli spuntini di cui avevo bisogno: li andava a prendere lui stesso e ci teneva a cucinare personalmente la sua cacciagione per potermela offrire su grandi vassoi d’argento. Adorava vedermi mangiare, adorava me e non faceva che ripetermelo. Io ancora nascondevo qualcosa qua e là, per abitudine, ma lui rideva quando trovava dei biscotti secchi sotto il cuscino o le mele nascoste sotto il cuscino del trono, rideva e mi offriva quello spuntino con occhi colmi d’amore.

 

Quando restai incinta del mio primo figlio, le ancelle e le serve tornarono ad essere indulgenti. Avevo le voglie, dicevano. Le ancelle correvano a procurarmi qualsiasi cosa chiedessi perché nessuna macchia deturpasse la pelle dell’erede. La cuoca mi allungava un pezzo di pandolce servendomi un infuso amaro di foglie, per drenare la stanchezza. Mio marito mi offriva un brodo di pernici per superare le nausee. I cuochi si ingegnarono a creare per me piatti leggeri, gustosi e nutrienti che io mangiavo con piacere intingendoci il pane e leccandomi le dita senza vergogna. Le mie riserve segrete non ebbero bisogno di essere intaccate e non mi arrampicai sui rami nemmeno una volta per rubare qualche uovo. Lasciai in pace insetti e scoiattoli e per la prima volta il giardino fu rosso di fragole mature.

Quando il piccolo principe nacque, volli allattarlo, così come prevedevano le tradizioni materne e così fui nutrita con cibo molle e dolce, cremoso, per far venire più latte. Guardavo ipnotizzata il mio bambino che mangiava felice dal mio seno e lo nutrivo con lo stesso amore che avevo sempre dedicato al cibo. Il bambino mangiava e mi dispiacevo che non conoscesse nient’altro che il latte del mio seno: “Aspetta solo di assaggiare del cibo vero” gli dicevo e mi premuravo di mangiare io stessa il più possibile nella speranza che il latte diventasse più gustoso e corposo.

 

Fu un periodo così bello che volli restare incinta di nuovo, velocemente, per poter essere di nuovo così felice e rilassata.

 

Iniziai a sentire i crampi al ventre nel bel mezzo della cena ma sul momento pensai solo di aver mangiato fin troppo cappone. Poi le fitte si fecero insistenti e sempre più dolorose: urlai stringendo a me con tutta la forza un tozzo di pane ancora ricoperto di un dolce sugo di arrosto. Ma non era sugo quello che mi scorreva tra le gambe, non era la salsa sopraffina con cui si condisce il bollito, nè la crema che si spalma sui crostini dorati, nè la glassa di lamponi che condisce le torte nel giorno più caldo dell’estate. Scorreva sangue tra le mie gambe e il ventre faceva male, la bile si mischiava nella mia bocca con il gusto del cappone e l’odore ferrigno del mio sangue annichiliva quello della verdura stufata.

 

Svenni.

Le ancelle mi portarono via.

 

Quando mi ripresi non ero più incinta.

Non lo sarei stata mai più.

 

Persi l’appetito, non lo nascondo. Quello che per me, un tempo, era stato un piacere incontenibile e dirompente ora non era che un dovere ostico e malvoluto che mi costringevo ad assolvere ogni giorno sotto lo sguardo preoccupato di mio marito.

Avevo ancora fame, era la mia maledizione, ma non volevo mangiare. La fame divorava le mie viscere ineluttabile e crudele, ma per me ogni boccone sapeva di cartone, e l’odore più squisito mi faceva rivoltare lo stomaco. Provarono a tentarmi, all’inizio: pranzi deliziosi, i miei piatti preferiti, un biscotto lasciato sopra il cuscino, ma ormai il cibo non suscitava su di me nessuna attrattiva. Nemmeno i cuochi più bravi convocati da ogni parte del regno e da quelli limitrofi riuscirono a scalfire la mia indifferenza. Mi tenni in vita per quel maschio, così importante per il reame, ma non amai più nient’altro come avevo amato il cibo.

Mio marito se ne accorse: come lui non riusciva ad arrendersi all’idea che avessi smesso di mangiare io non sopportavo il suo sguardo colmo di pietà. Molto presto partì per una qualche contesa di confine: stette via mesi e mesi, ma anche quando tornò non rimase a lungo. Andava e veniva e non riusciva a guardarmi; anche io preferivo così.

Donai le mie scorte segrete ai mendicanti che si affollavano davanti alle porte del castello, piluccai i miei pasti destinando il resto ai servi o ai cani. Mi dedicai agli altri per dimenticare la fame. Cibai i poveri: visitai la città bassa e i suoi vicoli sporchi e stretti, le sue case sbilenche e le sue dispense vuote. Condividevo le scorte del castello, prendevo nota delle loro condizioni di vita, mi facevo nauseare dal puzzo di piscio e sudore, mi facevo invadere dalla colpa di aver goduto di tre pasti al giorno, spuntini esclusi, mentre i bambini che mi correvano allegramente incontro, avevano mangiato si e no una volta sola nell’intera giornata.

Organizzai una volta l’anno, un grande banchetto per i più poveri e affamati del mio regno: la loro fame era inesauribile e feroce, proprio come la mia. Nutrivo loro per non nutrire me, godendo della meschina vendetta che mi prendevo sul mio corpo, sulle mie ancelle, su mio padre, sul mio regno.

Perdere il bambino mi aveva trasformato in una regina decorosa generosa e magnanima, dicevano. Glielo lasciai credere.

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Capitolo 5
*** Quello che ho perso ***


Quello che ho perso

Avevano letto della mia gravidanza nell’ineffabile movimento dei pianeti, tra le vene della roccia spaccata da un fulmine o ne avevano sentito sussurrare gli uccelli del cielo. A me, invece, sfuggirono i segni del loro arrivo, complici le pesanti mura di pietra che circondavano la mia nuova dimora e che mi impedivano di comunicare con gli astri e i venti come avevo sempre fatto.

Perciò vennero all’inizio della primavera e non erano attese.

Erano i messi di quella Dea che avevo servito per tutta la vita e ancora servivo, lontana dai boschi a cui appartenevo. “Che la stirpe della Dea e gli stranieri diventino una cosa sola! Che le tradizioni vengano tramandate!” Aveva ordinato Lei ed io avevo obbedito, accogliendo nel mio letto lo straniero che sarebbe diventato re.

Venivano a me con una semplice veste di filato grezzo, piedi scalzi, i capelli sciolti cosparsi da edera e fiori. Sfoggiavano i segni dell’età con fierezza e non provavano  vergogna alcuna davanti allo sfarzo corte.

Li ricevetti con tutti gli onori nella sala del trono, così che nobili e notabili potessero apprendere quale rispetto tributare ai messi della Dea.
Io, la regina, chinai il capo davanti alle matriarche con venerazione e così fece il re. Poi, le invitai a parlare.

“Voi non appartenete a questa terra.” Esordì, la più anziana di loro, squadrando me e il mio consorte alternativamente. Il suo uso del plurale, un’ingiusta pugnalata che mi gelava le vene di abbandono.
“Dite che il reame è vostro per diritto di conquista, che avete costruito case e mulini, che avete scavato i canali e inciso le montagne con i terrazzamenti. Dite che fate attenzione a non prendere più del necessario, che uccidete solo per difendervi. Eppure le vostre case deturpano la terra, le vostre dighe imbrigliano i fiumi e il vostro popolo si moltiplica come le cavallette. Questa terra che voi chiamate regno non vi appartiene e non importa che voi crediate il contrario. La figlia che state per avere, invece, appartiene alla terra. Nelle vostre mani” dissero, “soffocherà e soffrirà la fame, sarà misera nell’abbondanza, sola anche se non abbandonata. Le vieterete di sentire la musica delle stagioni, di conoscere gli arcani misteri della natura, di sentire la vita scorrere attraverso di lei.
Lei appartiene alla Dea, appartiene alla terra. Noi che seguiamo i Suoi passi, la guideremo.”
Tacquero e nessuno fiatò.
“Lo stesso vale per tutte le altre figlie, quando verranno”.


La matriarca mi guardò con un sorriso crudele e io capii che ero destinata a mettere al modo soltanto altre iniziate, soltanto altre streghe, soltanto altre femmine; non un erede, non un principe, non un maschio. Nessuno dei figli che avrei partorito sarebbe sopravvissuto più di un giorno, nessuna delle figlie che avrei messo al mondo sarebbe potuta restare al mio fianco.

Soffocavo nei vestiti, ingombranti, scalpitavo costringendomi nell’opulenza delle stanze reali, appassivo rispettando l’etichetta. Soffrivo orribilmente ogni giorno la mancanza delle mie consorelle, bramavo il tocco gelido di una notte di inverno, ma sopportavo, resistevo, perchè era così che voleva la Dea. Anche lontana dalla congrega io servivo.
Con poche parole affilate, invece, il mio sacrificio era stato vilipeso, la mia missione ignorata. Mi sembrava quasi di sentirle gracchiare: “Hai scelto di restare con quel tuo re” dicevano, “di vivere trai lussi, di comandare gli uomini: queste sono le conseguenze”.

Avevo forse inteso male le parole della Dea? Non avevo servito con abbastanza devozione, con abbastanza fervore? Come avrei mai potuto tradire il suo volere, se per Lei avevo sacrificato ogni cosa che mi fosse cara? Ogni cosa che mi tenesse in vita?

Mi sentii morire, quando mio marito rispose che se il frutto della mia gravidanza si fosse rivelato femmina, non avremmo infranto le tradizioni che da secoli appartenevano a questa terra e l’avremmo consegnata alla congrega senza esitare.

Le matriarche quasi sogghignarono.
Anche esiliata, seppure esausta e sola, avrei servito, donando le mie figlie con gioia perchè si unissero alla congrega. Le avrei spiate da lontano, orgogliosa che  camminassero sul mio stesso sacro sentiero. Avrei chiesto di loro alle mie consorelle e forse un giorno avrei potuto incontrarle. Saremmo state parte della stessa cosa, più vicine di quanto possono mai esserlo madre e figlia.
Oggi, però, mi era stato negato il diritto di camminare accanto a loro: i sentieri della Dea non si sarebbero mai più aperti per me, la voce di una consorella non avrebbe mai più potuto consolarmi, la natura mi sarebbe stata ostile, la gente non avrebbe chiesto il mio consiglio. Se avessi consegnato loro le mie figlie, le avrei perse per sempre.

Il re era un uomo buono, ma non credeva nella Dea e pur rispettando la parola delle matriarche non ne capiva nè il potere, nè gli inganni. Sperava, lo vedevo, che il bambino sarebbe stato maschio. Ma gli avevano dato una mano truccata, ci avevano dato una mano truccata, per poi tagliarci la gola e lasciarci annegare nel nostro sangue, mentre si prendevano quello che era nostro, come dei volgari banditi di strada. Non l’avrei permesso.

Insistetti che le matriarche avessero le stanze più opulente e soffocanti: ricche di ori, sete, incensi e morbidi cuscini. Una camera che desse sul cortile, pieno di soldati e mercanti, e da cui si potesse vedere appena uno spicchio del bosco fuori dalle mura.
Mi premurai che avessero un seguito che non li abbandonasse mai: cortigiani in grado di subissarle di chiacchiere vacue. Trattenni le mie consorelle al castello, affidando loro la cura dei malati e dell’infermeria e feci in modo che avessero le erbe sempre pronte, accuratamente raccolte dalle ancelle più giovani.
Feci servire pasti abbondanti, vini pregiati e dolci sopraffini e quando piluccarono appena tutta quella abbondanza, nascosi maldestramente il mio disappunto, così che la corte potesse vederlo, così che la corte potesse parlarne. Li riempii di doni inutili, vanesi: fiori delicatamente forgiati dal bronzo, piccole spille d’argento che rappresentavano lupi, un piccolo sole d’oro intrecciato a un bracciale di rame. Fui gentile, vacua, frivola e loro scostanti fredde silenziose.
Lasciai che la corte arrivasse alle giuste conclusioni.

 

Il parto avvenne in estate, sancendo l’unione del re straniero con il popolo del regno che aveva conquistato. Nacque una femmina, così come avevano predetto le streghe. Esausta e con il cuore spezzato, affidai ai messi, mia figlia, come promesso. La parola del mio re, a vincolare anche il mio volere.

“Per fortuna che quest’antica religione vuole solo le femmine”, commentò qualcuno della corte, “almeno non si porteranno via l’erede”.

Mio marito mi strinse più forte e congedò i messi freddamente: non avevano accettato nessuno dei doni da lui preparati per la bambina.
Quella prima figlia gli sarebbe mancata per tutta la vita e per lei e soltanto per lei, avrebbe difeso e rispettato quelle antiche tradizioni che non gli appartenevano. Avrebbe risparmiato le foreste, regolato l’agricoltura, lasciati intaccati i luoghi sacri: li avrebbe regalati a lei, nella speranza che potesse esservi felice. Io, invece, con il tempo, avrei dimenticato e maledetto le mie usanze: non avrei più messo piede in un bosco, non avrei più ascoltato la musica della stagioni, non avrei mai più parlato della figlia che avevo perso.

 

Tutti sono a conoscenza dell’unico parto della regina.
Tutti hanno imparato che non mi piace parlarne.
Tutti sanno che il travaglio fu lungo e difficile, di come tremassi, dopo, di come riuscissi appena a stare in piedi, quando dovetti dire addio a mia figlia.
Tutti hanno stampato nella memoria come io abbia comunque sostenuto il mio re,  senza tirarmi indietro.
Tutti si ricordano del nostro dolore e di come il re scelse di non ripudiarmi, quando di figli nuovi non vennero.
Quello che molti non sanno e che ad altri ho vietato di ricordare è che il travaglio fu lungo e difficile perchè partorii due gemelle. I messi della dea vennero e se ne andarono con una bambina, così come volevano, così come il re aveva promesso. L’altra, invece, la affidai a un’ancella: che la crescesse lontano da sguardi indiscreti, che la amasse e che tornasse qui tra un anno -quello era il patto- e la sua famiglia non avrebbe mai più dovuto preoccuparsi della fame. Quella donna non sapeva niente degli antichi riti, per questo obbedì: io, che avevo servito la Dea per tutta la vita, invece, conoscevo il pericolo a cui andavo incontro, ma non mi fermai lo stesso.

Fu un anno di lutto e cordoglio e nuovi tentavi di concepire un erede: in quell’anno convinsi mio marito che non potevo dargli una discendenza. Fu doloroso ammetterlo, ma un regno senza eredi era un regno destinato a finire in una generazione e non era per quello che ne avevo sposato il re.
Insistetti che dovesse adottare il figlio di una sua amante e che io l'avrei cresciuto come se fosse mio. L’avrei scelto personalmente così che il legame potesse essere sincero e avremmo unito i nostri destini e il nostro sangue durante la notte del solstizio d’inverno, così che fossimo legati anche per le antiche tradizioni.
Di sangue o di anima, sarebbe stato mio figlio.

Il re, a malincuore, acconsentì e fu così che io re-introdussi a corte la mia vera figlia, serbandola dagli sguardi dei messi dell’antica religione. Giurai a me stessa che la mia piccola non avrebbe conosciuto la solitudine, nè la fame dei digiuni imposti. Non ci sarebbero stati i segreti dell’universo così numerosi e terribili da annichilire, nè la musica delle stagioni così forte da stordire, non ci sarebbero state le visioni a farla dubitare del suo giudizio. Avrebbe scelto liberamente il suo destino: sarebbe stata felice. Avrebbe avuto tutto quello che voleva.





 

Note: ciao a tutti. Non sono sicura di essere stata particolarmente brava a far intuire le parentele di questi ultimi capitoli, ma se ve lo state chiedendo, la protagonista di fame è proprio la gemella che non è stata presa dalle matriarche ed è rimasta a corte. A sua volta, lei è la madre del “re” del primo capitolo. Sì, proprio quella che lui ammirava per il suo animo generoso a cui si è sempre ispirato.

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Capitolo 6
*** Appartengo alla terra ***


Appartengo alla terra

È così da quando ricordo. Sento ogni filo d’erba ogni stella ogni goccia di pioggia. Sento la Dea stessa che vive attraverso ogni cosa, attraverso di me. Non provo nè freddo nè caldo, non mi ferisco nemmeno. Spine e rocce scivolano leggere lontano dalla mia pelle, ogni caduta mi è lieve, le bestie non mi attaccano. Quasi non mangio, eppure le mie forze sono inesauribili. Dormo poche ore a notte, eppure la mia mente è limpida. Appartengo alla terra e al suo ciclo, come ogni cosa, più di ogni cosa. Sono un’iniziata della Dea e il bosco è parte di me, io di lui: non c’è un confine certo tra il fiore che sboccia e la mia mano che lo coglie. So risalire i fiumi come fossero sentieri e non c’è nessuna pista che non posso seguire o percorrere. Nessuno può vedermi se non sono io a volerlo, distinguo ogni filo d’erba, ogni scaglia di corteccia, ogni profumo, ogni insetto fino al più minuscolo. Percepisco ogni singola vita e il suo flusso, so raddrizzarlo se devo, anche se non amo farlo. 

All’inizio, per le anziane, io ero solo una delle altre giovanissime iniziate: più taciturna delle altre, più distratta a volte. Fuggivo spesso, ma riuscivano a ritrovarmi sempre nel giro della giornata. Poi un giorno sentii la Dea chiamare e seguii la sua voce senza esitare. Di lei non ricordo molto a parte una sensazione come di sete saziata e la chiarezza cristallina con cui mi apparivano le cose. Sparii per giorni, dicono, poi tornai. Immaginatevelo: la bambina di cinque anni che avete ormai dato per morta, esce dal bosco dopo settimane e dice di aver parlato con la Dea. La mia pelle luccicava lievemente, ma non mostravo segni di denutrizione, disidratazione o malattia. I piedi scalzi non erano feriti e i vestiti non erano nè sporchi, nè strappati. Non c’erano tracce di pianto sul mio viso, nè sollievo per essere finalmente tornata a casa.

Le vecchie anziane iniziarono a trattarmi quasi con reverenza: tolleravano le mie fughe, i miei ritardi e che superassi perfino le migliori di noi in conoscenze e abilità.  Mi esoneravano dai turni in cucina, mi davano cibo migliore e un giaciglio più comodo. Pretendevano, però, da me la perfezione nelle arti, anche in quelle in cui, bambina, non potevo ancora ambire, quella che si ottiene solo tramite gesti ripetuti ed esperti. Esigevano che fossi seria, che non disobbedissi, che non mi addormentassi durante le veglie e non mangiassi di nascosto durante i digiuni.
Io, invece, seguivo il mio orologio interno, continuando a mangiare quando avevo fame e dormire quando avevo sonno. Preferivo concentrarmi sul canto degli uccelli che sulle parole delle consorelle destinate ad educarci. Poi sparivo per giorni o settimane quando il bosco mi richiamava a sè.
Le arti degli uomini non mi interessavano e le mie compagne si dimostrarono rapidamente molto più brave di me in questo. Sebbene conoscessi perfettamente le erbe e i loro usi ero discontinua nelle attività di cura. Assente nella vita di comunità. Non capivo il senso delle veglie e dei digiuni, sapevo discorrere di teologia quanto un bambino. Non comprendevo il biasimo di alcune sorelle più anziane che si rivolgevano a me con parole d’acciaio; non capivo l’ammirazione di quelle consorelle che mi lasciavano piccoli doni; non capivo il disprezzo di chi mi lanciava sguardi freddi e severi, nè il gesto gentile della compagna che, rapida, migliorava il mio cucito quando la matriarca era distratta.

L’intera congrega per me, era come i sassi per un torrente: una lieve variazione a un flusso destinato ad andare in un’unica direzione: aggirarli prevedeva uno sforzo minore di frantumarli. Per questa ragione non protestai e andai nel mondo, come era tradizione.
Alcune di noi erano curiose, impazienti: pensavano che servire tra la gente fosse il più grande onore possibile. Altre venivano dai villaggi e ricordavano una vita, prima, e avrebbero voluto tornarci. Altre ancora volevano dimostrare chi erano riuscite a diventare ed esercitare potere e influenza sulle persone comuni.
Io mi sentivo come un lupo costretto alla presenza del fuoco: volevo correre nel bosco ma non potevo.

Le persone mi erano sempre state incomprensibili e andare nel posto in cui stavano ammassate non migliorò le cose: rumori e odori mi stordivano, il tocco della gente non era maggiormente benvenuto. Mi chiesero cose che non volevano, mi dissero parole che non pensavano, mi imposero regole che non capivo. C’erano troppe espressioni, troppi gesti, troppi segnali, troppi non detti e segreti che tutti sembravano leggere con l’immediatezza con cui io leggevo la foresta. Per un po’ ci provai a indossare le scarpe, sorridere, parlare, ballare: sembrava l’unico modo per avere sollievo e per poter servire la Dea tra le persone.
Ebbi perfino un uomo, una notte d’estate, sdraiata tra i campi spogli di grano: fu l’istinto a spingermi verso di lui in un breve e furioso amplesso. Non capii perchè, mesi dopo, tornò da me, penitente e in lacrime e mi pregò di perdonarlo. Doveva avere a che fare con il bambino che avevo dentro di me e le voci che le donne per cui preparavo infusi avevano sparso in giro. Quelle stesse donne mi fecero indossare un abito bianco e io e l’uomo ci tenemmo per mano davanti a tanta gente. Erano tutti così felici ed io mi inorgoglii perchè era il mio compito far star bene la comunità e finalmente ci stavo riuscendo, anche se non sapevo bene nè come, nè perchè. Non capii perchè, dopo la festa, dovetti andare a vivere nella casa dell’uomo, abbandonando il mio rifugio ai margini della città. Non compresi perchè lui potesse avermi ogni notte, anche quando a me non importava, anche quando non volevo. Non seppi mai perchè non potevo assentarmi per giorni per seguire le mie faccende o semplicemente camminare nel bosco. Nessuno mi spiegò chiaramente perchè dovessi essere io a cucinare i suoi pasti e a lavare i suoi vestiti, quando normalmente lavavo la tunica, nella pioggia, e mangiavo quello che il bosco mi offriva. Mi lasciò completamente perplessa la sua furia nel vedermi tornare a casa, un mattino, con cacciagione fresca nella mia bisaccia. 

Perchè l’uomo voleva  che restassi prigioniera nella sua casa, se non gli andavo bene come compagna? Non è così che funziona tra gli animali, non è così che funziona la natura. Il cucciolo, poi, non era ancora nato, che senso aveva preparare la tana prima del tempo?

Ero sempre appartenuta alla terra parte di una coralità, di un disegno, di un tutto. Scoprii l’individualità, scoprii l’appartenenza, scoprii la lontananza e la solitudine. Non mi sentivo più parte di niente, nè degli uomini nè della natura: il canto delle stagioni si era attutito e non potevo più ritirarmi nella foresta per sfuggire alla confusione perchè le foglie, la corteccia e i sassi mi avevano preso a sembrarmi tutte uguali. Questo mi feriva più di quanto riuscissi ad esprimere. Avevo bisogno di dormire di più, avevo bisogno di un posto caldo e di cibo nutriente: avevo paura e mi dimenavo come una volpe in una tagliola.

Appartengo alla terra e ci tornai, lasciandomi dietro urla pianti e maledizioni una volta data alla luce la mia bambina, accovacciata nella terra umida dei campi appena arati.










Note: mi hanno fatto notare che è sempre più difficile capire di chi sto scrivendo e cosa c'entra con i personaggi precedenti perciò farò un breve riassunto chiarificatore. La regina sacerdotessa protagonista di "quello che ho perso" è sia la madre della principessa di "fame" (che è la gemella reintrodotta a corte) e sia della sacerdotessa di questa ultima oneshot (la gemella data via al culto della Dea). A sua volta la principessa di "fame" è la madre del re. Avrei dovuto sottolinearlo di più immagino, ma il re dice di ispirarsi a una madre che ciba i più sfortunati e un padre che è spesso in guerra e speravo bastasse; lui, comunque, non ha mai saputo che non erano gesti dettati dal puro dall'altruismo. La gemella di "appartengo alla terra" può e non può (lo lascio decidere a voi) essere la madre della strega di "strega", il che farebbe di lei la cugina del re e della figlia dell'inverno la cugina di secondo grado. Spero sia più chiaro ora.

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Capitolo 7
*** Il principe che vene da lontano ***


Il principe che venne da lontano

C’era una volta un principe che venne da un paese lontano, in cerca, più di tutto, di una terra da poter chiamare sua. Giunse insieme al suo seguito: giovani in cerca di avventura, determinati a conquistare onori e gloria.
Sulla strada incontrò un vecchio pescatore che piangeva sulle rive di un fiume. Il cavaliere impietosito dalle sue lacrime si fermò a chiedere spiegazioni: “Vecchio” disse “sei magro come un chiodo e a stento ti reggi in piedi, perchè non prendi del pesce così che tu possa cibarti?”
“Messere” gli rispose costui “La piena ha rovinato campi e raccolti e trascinato via la mia barca, arenandola al centro del fiume, là dove sorge l'isola dalle sabbie bianche. Nessuno ha il coraggio di sfidare il fiume ancora gonfio di pioggia e fango: così sono tre giorni che io e la mia famiglia soffriamo la fame.”
“Recupererò la vostra barca per voi, pescatore,” Promise il principe “e dividerò con voi le mie provviste, affinché voi e i vostri cari non dobbiate più preoccuparvi” e detto ciò, si tuffò nel fiume.

Le onde erano alte, frequenti e cariche di fango e terra che lo appesantivano e rischiavano di farlo affogare.  La corrente era così impetuosa che il principe doveva fare almeno dieci bracciate per restare sul posto. I compagni del cavaliere urlavano e strepitavano dalla riva, pregandolo di tornare indietro, ma lui, al contrario, faceva sforzi ancora più vigorosi: nuotava e nuotava senza mai arrendersi e alla fine riuscì a raggiungere l’isola.

In quattro e quattr’otto recuperò la barca e, siccome i remi erano andati dispersi, si immerse nuovamente in acqua tenendola sopra la testa. Il cavaliere era stanco e l’acqua scura del fiume sembrava ancora più insidiosa al ritorno: per tre volte la corrente cerco di strappargli via la barca dalle mani, per tre volte rami e detriti lo colpirono duramente, per tre volte il fango minacciò di portarlo a fondo e annegarlo. Ogni volta però il cavaliere, inaspettatamente, ce la faceva: rafforzava la presa, sfruttava i rami secchi per darsi una spinta maggiore, riemergeva, la faccia scura di fango, dopo interminabili minuti di agonia. Gli astanti seguivano l'impresa con il fiato sospeso e accoglievano ogni suo successo con grida di gioia e incitamenti e ogni suo fallimento con altrettanto sconforto e paura.
Una volta a riva, il principe consegnò la barca al pescatore e divise le provviste con la sua famiglia, poi, augurò loro buona fortuna e tornò ad incamminarsi verso la montagna.
“La vostra bontà d’animo mi colpisce, messere” lo fermò il vecchio prima che si allontanasse troppo, “lasciate allora che in cambio vi dia tre doni. Vi appartengono perchè la vostra generosità e il vostro coraggio ve ne ha resi degni. Il primo,” disse il pescatore, porgendogli una perla opalescente, “Contiene un grande potere e te lo donerà se ne avrai davvero bisogno.  Il secondo,” aggiunse, tendendogli una piccola fiasca “contiene l’acqua di questo stesso fiume. Si dice che abbia il potere di calmare gli animi sconvolti dalla rabbia, il terzo” terminò il vecchio, mostrandogli un vecchio specchio di madreperla, "ti permette di vedere il vero. Usali sempre con saggezza”.
Il cavaliere accettò i doni, commosso, ringraziò e si rimise in viaggio. 

Cammina e cammina il principe arrivò in un villaggio ai piedi della montagna. Aveva un'armatura scintillante, armi ben affilate e un portamento fiero: molti videro nella sua venuta un’opportunità per liberarsi del giogo del drago che da anni tiranneggiava quelle terre. 
“La strada è stata lunga e inclemente, viandante," lo fermarono alcuni uomini dai vestiti ricchi e eleganti "lo posso ben dire guardando la tua armatura che non è più così scintillante come quando sei partito. La sera si avvicina ed è pericoloso viaggiare con il buio per chi non conosce queste contrade. Sii nostro ospite e riposa da noi prima di ripartire”, gli chiese quello che tra loro era il più ricco.

“Mio principe, gli uomini di questo paese parlano bene." Lo ammonirono i suoi compagni di viaggio. "la strada è stata lunga e faticosa e viaggiare con il buio è pericoloso anche per un cavaliere coraggioso come voi. Fermiamoci a riposare qui questa notte e ripartiamo domani alle prime luci. Non abbiamo fretta ed è bene dedicare del tempo al riposo. Il principe acconsentì alla richiesta e decise di accettare l'ospitalità. La sera, però, il cavaliere non si trovò davanti una tavola riccamente imbandita, come uso nelle corti quando si accolgono ospiti prestigiosi, ma solo pane e acqua, serviti in stoviglie di peltro. I notabili del paese avevano un volto grave: “Non vedete quanto è povera la nostra mensa?” Chiesero “E dire che noi possediamo campi e mulini e commerciamo in oro e in argento. La tavola dei contadini è appena sufficiente a non farli morire di fame. Ti prego nobile signore, scaccia il drago che tiranneggia queste terre e noi te ne saremo per sempre grati”.
Il buon cavaliere rispose tosto alle loro suppliche: “Giuro davanti agli Dei”, disse, “che non ci saranno più orfani e vedove uccisi dal drago possente, nè campi ridotti in cenere e uomini ridotti alla fame” e così detto, partì.

Il cavaliere si inerpicò sulla montagna fino alla caverna dove viveva il drago e lo affrontó, rivolgendogli queste parole: “Da troppo tempo gli uomini vivono nel terrore delle tue fiamme e nell’incubo delle tue zanne: i campi sono incolti, la selvaggina scomparsa, le persone muoiono di fame. Sono pronto ad ucciderti, ma se te ne andrai di tua volontà non lo farò”. Il drago, però, non ascoltò le sagge parole del cavaliere e, rugendo ferocemente, si lanciò all’attacco.
Lo scontro sembrava non avere mai fine: gli artigli affilati come lame, penetravano l’armatura del principe come se fosse burro, il morso era più letale di quello di un leone e lasciava profonde ferite quando andava a segno, le fiamme ruggenti e implacabili mettevano il principe in grande difficoltà che doveva fare dei gran balzi e capriole per non farsi colpire. Il cavaliere non voleva arrendersi, ma per quanto attaccasse il drago con la spada, non riusciva mai a ferirlo: la sua pelle era più dura del diamante e altrettanto impenetrabile. Quando ormai l’armatura del principe era stata fatta a pezzi, il suo respiro era pesante e il sangue scorreva a fiumi dalle sue numerose ferite, egli si ricordò delle parole del vecchio pescatore. Tirata fuori la perla opalescente, la inghiottì e subito si sentì invadere un piacevole calore: le ferite ricevute iniziarono a guarire, la stanchezza lo abbandonò e i suoi muscoli divennero più forti dell'acciaio. Il drago non ebbe nemmeno il tempo di sputare fuoco che il cavaliere spiccò un balzo e lo prese per il collo, sbattendogli  la testa contro la montagna finchè non morì.
Esausto ma vittorioso, il principe riportò indietro la testa della bestia come prova della sua impresa e dalla pelle si fece costruire un’armatura invincibile. Donò, infine, la carne, le zanne e gli artigli affinché gli abitanti di quella contrada potessero cibarsene e riparare le attrezzature distrutte in tempo per una nuova aratura.

Cammina cammina, il cavaliere vide all’orizzonte un gran fumo nero e avvicinandosi si imbattè in una fila di profughi: uomini donne e bambini, che avevano fagotti stracolmi e occhi pieni di pianto: "un demone malvagio devasta l'area con la sua rabbia:" pianse l'intera carovana "ogni cosa brucia e ben presto lo faranno anche le nostre case." 
"Non lascerò che siate vittime di una furia cieca e immotivata. " disse il cavaliere. "Lo affronterò e voi potrete tornare alle vostre case" .Lasciato il suo seguito ad aiutare i fuggitivi, il cavaliere si diresse verso il pericolo.

Più il principe si avvicinava all'incendio scatenato dal demone, più non erano solo gli uomini a scappare: lupo e agnello fuggivano fianco a fianco in preda allo stesso terrore e l'intera foresta crepitava in un unico lunghissimo urlo di dolore. Il principe, coraggiosamente, continuò ad avanzare: l'armatura di pelle di drago lo proteggeva dalle fiamme mentre l'elmo lo schermava dal fumo. Si diresse dove il calore era più intenso e persino la sua armatura non riusciva a proteggerlo del tutto. Là, al centro dell’incendiò, trovò due occhi pieni di malvagità che lo fissavano spietati: il demone alla vista del principe ebbe un guizzo sorpreso e scoppiò in una risata crepitante, allungando le sue fiamme fino a lambire l’armatura del cavaliere, pronto a ridurlo in cenere con il suo calore devastante. 
Il cavaliere strinse i denti e provò a convincere il demone a placare la sua furia. Offrì doni, fece promesse, lo blandì, ma la sua rabbia sembrava solo aumentare e, con lei, la potenza dell'incendio. Quando il principe, allo stremo delle forze, la gola secca e riarsa, cercò qualcosa per dare sollievo alla sua sete, si ritrovó in mano la fiasca donatagli dal pescatore. Ricordandosi delle sue parole, la stappó e ne tiró il contenuto contro il demone. Non appena l'acqua del fiume lo toccó, le fiamme si estinsero e lo spirito si ridusse a poco più di una fiammella. Ancora ardeva e crepitava, ma non era più in grado di incendiare una foresta. Ma per quanto tempo? Il saggio cavaliere non lo sapeva e così afferrò la fiammella e la imprigionò dentro una lanterna, affinché non trovasse più nient'altro da bruciare per alimentare la sua rabbia.

Il principe ricominciò a scalare la montagna e arrivato a mezza via, si fermò a riposare, ma durante la notte non riuscì a chiudere occhio: un ululato da far gelare il sangue era risuonato per tutta la vallata, riempiendo il suo breve riposo di incubi. Il giorno dopo il principe cercò qualcuno che gli spiegasse il motivo di questo strano fenomeno: sulla via incontrò dei pastori che riposavano all'ombra di un albero. Interrogati, i quattro iniziarono a parlare: “Sua eccellenza, da notti siamo tormentati da un ululato che non ha mai fine e che ci fa ghiacciare le vene dal terrore. Capre e pecore fanno il latte acido per la paura, le galline non fanno più uova. Il pane non lievita e il vino non fermenta, ogni cibo è insapore, come corteccia, riposare è impossibile.”
“Non lascerò che viviate in questo modo senza assaporare i piaceri della vita e senza poter fare il vostro lavoro.” Promise il principe, "qualunque cosa infesti questa montagna, io vi aiuterò a cacciarla”.

Per giorni il cavaliere e il suo seguito provarono a cercare nelle vicinanze ma non ebbero successo. La sera del terzo giorno, quando ormai il principe disperava di essere all’altezza della sua missione, si imbattè in un’ombra mostruosa, in agguato nella foresta.
Temendo che la stanchezza gli stesse giocando un brutto scherzo, Il principe afferrò la lanterna in cui bruciava il demone e illuminò il terreno di fronte a sé: quello che vide ghiacciò le vene persino a lui, che non aveva esitato a combattere un drago. A pochi metri, si stagliava un imponente lupo grigio, alto almeno tre metri, che ululava senza sosta: i denti gialli sfoderati in un ringhio famelico, la bava alla bocca e gli artigli che segnavano la roccia con un acuto stridio. A tentoni cercò di metter mano alla spada, ma si imbattè, invece, nello specchio donatogli dal vecchio pescatore che ancora teneva legato alla cintura. Ricordandosi delle sue parole, lentamente lo tirò fuori e vi guardò attraverso: solo allora notò che la zampa del lupo era intrappolata in una tagliola e che quello che tutti scambiavano per un ululato feroce e crudele era in realtà un grido di dolore. Con ardimento lasciò cadere a terra la spada e si avvicinò al lupo: nulla poterono artigli e le fauci contro la sua armatura di pelle di drago e, così, aiutato dalla luce della sua lanterna, in poco tempo lo liberò dalla trappola. Alle prime luci della luna, il lupo che il principe aveva aiutato, si trasformò in una bellissima fanciulla dal braccio fasciato.
“Hai la mia gratitudine, straniero, per avermi liberato dal giogo di questa trappola che da giorni, ormai, straziava le mie carni. Molti avrebbero preferito uccidere il mostro, ma tu hai mostrato compassione e ti meriti una ricompensa. Scala la montagna, là, se la sorte ti è benigna, riceverai un segno dagli dei che potrà guidarti.” L’ululato cessò e il lupo tornò da dove proveniva, mentre il cavaliere si diresse sulla cima della montagna.

Cammina e cammina il principe risalì la montagna: davanti a lui, incorniciato da cime imbiancate di neve, si estendeva un lago azzurro come cielo circondato da una marea di fiori gialli e rosa. Estasiato dalla bellezza del paesaggio il cavaliere si fermò a riposare, cullato dall'aria dolce e quieta che si respirava. Ben presto il sole tramontò dietro le montagne tingendo il lago d'oro rosso e poi fu la volta della luna di sporcare l'acqua d'argento e il cavaliere finalmente in pace, si addormentó. Quando, infine, scoccò la mezzanotte, al suono d'una musica celestiale dal centro del lago emerse un palazzo di cristallo. Alla sola vista di quella meraviglia, ogni essere umano restava senza parole e si commuoveva fino alle lacrime: così fu anche per il principe e il suo seguito, che svegliati dalla melodia, avevano assistito, incantati, a quel prodigio. I compagni del cavaliere sconvolti da sensazioni mai provate prima,  pregarono il cavaliere di restare con loro e non avvicinarsi: il principe, però, si alzò in piedi e si incamminò lungo la sottile passerella d'argento che univa la riva del lago al castello. Una volta varcato il portone il cavaliere si accorse che le pareti, che da riva aveva pensato fossero di cristallo, in realtà erano fatte di acqua che lentamente si scioglieva, scrosciando da un soffitto di ghiaccio così puro da essere trasparente. Il cielo stellato si rifletteva sull'acqua e trapuntava di stelle, pareti e soffito, come piccoli gioielli d'oro bianco, mentre un tappeto di fiori, altrettanto candidi, ornava il pavimento di petali soffici come le piume d’oca. Infine, attraverso l’acqua che sgorgava dalla parete più lontana si intravedeva la figura di una donna bellissima: la pelle chiara e i capelli scuri che scendevano fin sotto al seno.

Il cavaliere ammirò la donna per un lungo istante e subito si inginocchiò.
“Ho sconfitto il drago che infestava le tue terre, sedato la rabbia del demone del fuoco e liberato il grande lupo grigio. Costruirò dighe e canali per far rifiorire la terra e la popolerò di uomini che la possano amare. Permettimi di regnare su queste terre, la crescerò come un figlio.”

“Ti è permesso.” Rispose la creatura nella cascata: “ Ti donerò io stessa una sposa. Insegna ai tuoi figli l’amore per ciò che governano, Estalere, insegnalo al tuo popolo e il regno sarà tuo.”

 

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Capitolo 8
*** Dea ***


Dea


Io esisto da sempre sono la terra, sono l’acqua sono la luna. Mutevole eppure sempre fissa, vecchia e giovane, esisto. Sono il flusso delle cose che vive. Mi nutro della vostra devozione e del vostro terrore, raccolgo promesse e anime. Si dice che alcune donne camminino sulla mia strada, ma io ho memoria solo delle donne che mi videro.

La prima donna che mi vide non era ancora una donna, ma una bambina, camminava nel bosco spoglio, sgranocchiando un pezzo di pane secco. Quando il silenzio si faceva troppo opprimente, imitava i versi degli uccelli e poi rideva, compiaciuta dalla sua stessa bravura. Gli occhi immensi, spalancati su un viso smunto e pallido, le ossa sporgenti e quei vestiti, usati e di due taglie più grandi, che non l’avrebbero protetta a lungo dal gelo della notte. Quando mi vide i suoi occhi si fecero ancora più grandi dallo stupore, poi batte le mani e rise: “Madre” mi disse “hai una casa per me?”.

La seconda donna che mi vide lavava furiosamente i panni al fiume: le mani gonfie rosse e screpolate per il lungo contatto con l’acqua gelida, le nocche tagliate e rotte per la rabbia. Ogni muscolo rigido teso contratto, gli occhi di una fiera intrappola, pianto e maledizioni, ad accompagnare ogni suo respiro. Lavava via le macchie che tradivano il suo primo menarca e con esse cercava di lavare via anche il suo destino di moglie e madre. Quando mi vide, cancellò le lacrime dal suo volto con il dorso della mano: “Prendimi con te, mia signora” affermò “e non tradirò mai la tua guida”.

La terza donna mi vide con la coda dell’occhio, ma non si girò a controllare. Aveva appena consumato un amplesso con un giovane uomo. Ora lui dormiva, scarmigliato e contento, vicino a lei, tenendole la vita con un braccio. Lei gli aveva intrecciato un papavero nei capelli e poi si era messa ad osservare le nuvole e il volo degli uccelli, serena. I capelli scarmigliati, le guance rosse, il vestito ancora in disordine e gli occhi brillanti come fiamme mal trattenute. Fischiò piano un accenno di melodia, quasi a non voler disturbare. “Sei stata qui tutto il tempo, vero? È da maleducati guardare”

La quarta donna che mi vide aspettava un figlio e pregava di sopravvivere. Voleva il figlio e lo voleva in salute, ma temeva il parto. La sua mente era piena di sangue e paura e del volto candido dell’amica e sorella che aveva dovuto seppellire pochi mesi prima. Raccoglieva camomilla e valeriana, raccoglieva more e lamponi, raccoglieva, finocchio salvatico e sedano. Intrecciava corone di viole, frivola, in onore della primavera, per poi gettarle via quando si ricordava della sua condizione. I movimenti erano impacciati dal pancione, ma il passo seguiva il ritmo dei suoi pensieri, frenetico, incostante, incerto. Fu presa dalle doglie mentre camminava e si sdraiò, sola, sotto una betulla: Chi si sarebbe occupato del bambino se fosse morta nel bosco? La paura vorticava violenta, feroce. “Ti prego, resta.” mi supplicò, “Salva me e il mio bambino”.

La quinta donna aveva appena seppellito sua madre. Piangeva e non voleva fermarsi. Non era vero che ci si abituava alla morte, non era vero che dopo un po’ ce ne si faceva una ragione. Per lei ogni perdita era bruciante e improvvisa quanto un fulmine. Era accovacciata in angolo del prato e scavava dei solchi per terra con una roccia. Lo strato erboso accuratamente rimosso e posato poco distante in una pila ordinata. Pugnalava il terreno con insistenza: con l’altra mano, invece spostava gli accumuli di terreno accatastandoli in una piccola montagnola. Si interrompeva brevemente per soffiarsi il naso in un fazzoletto già fradicio e poi ricominciava, instancabile, come le sue lacrime. Continuò a piangere, ai miei piedi, supplicando incoerente un conforto che non c’era.

La sesta donna che mi vide stava per morire e mi tese la mano. “Portatemi con voi,” disse “come avete sempre fatto”.

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