Demons

di Panenutella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piano Man ***
Capitolo 2: *** Certe notti ***
Capitolo 3: *** Les Misérables ***
Capitolo 4: *** Vedi Cara ***
Capitolo 5: *** Sally ***
Capitolo 6: *** Alors On Danse ***
Capitolo 7: *** Son of Man ***
Capitolo 8: *** Alive ***
Capitolo 9: *** Ti Vada O No ***
Capitolo 10: *** Renegades ***
Capitolo 11: *** When You Say Nothing at All ***
Capitolo 12: *** Heroes ***
Capitolo 13: *** L'Amore Si Odia ***
Capitolo 14: *** Canzone dell'amore perduto ***
Capitolo 15: *** Knockin' on Heaven's Door ***
Capitolo 16: *** Trouble is a Friend ***
Capitolo 17: *** Halo ***
Capitolo 18: *** Take Me to Church ***
Capitolo 19: *** Somebody That I Used to Know ***



Capitolo 1
*** Piano Man ***


Demons

Piano Man

They are sharing a drink they call loneliness
But it’s better than drinking alone.

*Sara*

 Me ne sto seduta al bancone del bar davanti al bancone di legno del bar, giocando con il manico del boccale di birra mezzo pieno che sta davanti a me e ascoltando “Piano Man” di Billy Joel agli altoparlanti quasi completamente scassati. In questo bar non c’è quasi nessuno, cosa che non guasta all’atmosfera sudicia e raccolta che impregna l’aria. Il barista è sparito dietro l’angolo, a fare chissà che cosa, quindi qui dentro sono praticamente sola: c’è solo un altro tizio seduto ad un tavolo lontano da me e un cane bagnato fradicio sdraiato sul pavimento accanto alla porta d’ingresso.
Nessuno sa perché sia a Belfast, lontano da casa, lontano dai miei genitori, lontano dal mio ex fidanzato che mi assilla da quasi quattro mesi. Sono scappata, questo è il punto. Ho approfittato della prima occasione e sono fuggita da Genova per non vederlo mai più. Era arrivato a stare due giorni sotto al mio portone, in attesa che io mettessi un piede fuori casa.
Spero che non gli venga mai in mente di venirmi a cercare in Irlanda del Nord. Specialmente a Belfast.
- Ti spiace se mi siedo?
Una voce profonda e improvvisa mi fa sobbalzare e spostare con una manata il boccale di birra. Mi volto verso lo sconosciuto, pronta a rispondere freddamente, ma riconoscere colui che mi ritrovo davanti mi fa cambiare idea quasi all’istante.
Kit Harington. Chi vuoi che non lo riconosca, in tutto il mondo? Il prode Jon Snow, uno degli attori del Trono di Spade che più rubano il cuore alle fangirl impazzite fin dal primo episodio della prima stagione.
Ha indicato il sedile di pelle mezzo strappato accanto a me, e aspetta una risposta mentre io lo fisso inebetita.
Coraggio, ripigliati!
Mi schiarisco la gola. – Certo.
Mi volto in fretta verso il bancone incrociando le braccia, tentando di non sembrare impacciata. Afferro il boccale di birra e bevo un sorso, evitando il suo sguardo.
Lui fa un mezzo sorriso e si siede, mentre “Piano Man” continua a suonare. Fa un cenno al barista che, chissà da quando, sta riordinando le tazzine da caffè poco lontano da noi e ordina un Metropolitan. Sollevo le sopracciglia e bevo un’altra lunga sorsata di birra.
Che faccio? Attacco discorso? Sarebbe un’occasione sprecata non farlo, apparentemente qui non c’è nessuna fangirl impazzita in procinto di assaltarlo.
Bevo un’altra sorsata e sbatto il boccale vuoto sul bancone, provocando un rumore sordo.
- Giornataccia?
Oddio. Ha parlato. A me. Mi sento addosso i suoi occhi scuri.
- Periodaccio – mi limito a rispondere, sorpresa della mia audacia. Lui non risponde, così restiamo in silenzio per un po’: ne approfitto per riflettere e per osservarlo di soppiatto.

Caspita
, penso, è davvero bello.
Capelli ricci e neri, occhi neri, barba nera, vestito con jeans neri e una maglietta nera aderente che lascia intravedere gli addominali e giacca di pelle marrone cappuccino. Total black, insomma.
Ok, Sara. Parla.
- Sei Jon Snow o mi sbaglio?
Mi guarda di traverso e risponde facendo di nuovo quel sogghigno.
- Sì, sono io. Kit – Mi porge la destra. – Kit Harington.
- Sara Vitali. – Rispondo stringendogliela.
- Cosa ti porta a stare qui da sola, Sara?
- Lunga storia.
- Puoi raccontarmela?
- Beh, io non sono qui a farmi gli affari tuoi – ribatto aspramente. Ok, amico, sei famoso, ma non invadere la mia sfera personale.
Sorride ancora. – Punto tuo.
Qualcosa di strano attraversa i suoi occhi scuri, qualcosa che non riesco bene a cogliere. Forse una scintilla di divertimento o di scherno?
- Lascia che ti offri dell’altra birra, per farmi perdonare… Guinness?
Annuisco, ciucciandomi il labbro inferiore in un tic istintivo che mi porto dietro sin dai primi giorni della mia vita.
Kit alza una mano verso il barista, quello si avvicina e lui gli chiede dell’altra Guinness porgendogli il boccale, discreto, come gli stesse confidando un segreto o chiedendo una partita di cocaina.
“Piano Man” è finita da un pezzo, sostituita da “Shelter From the Storm” di Bob Dylan.
La mezza pinta di Guinness arriva quasi subito e vedo che Kit per un attimo mi osserva portarla alle labbra e berla, prima di finire il suo Metropolitan e chiedere un whiskey irlandese liscio.
Passa qualche silenzioso minuto, rotto solo dalla musica in sottofondo.
- Vorrei davvero sapere qualcosa di te. Se per te non è un problema.
Appena mi riprendo dal sorso di Guinness che mi è andato di traverso appena ha aperto bocca finisco il boccale in pochi sorsi e comincio a sentire la testa più leggera. Chiudo gli occhi e sospiro, massaggiandomi la tempia con un indice. So cosa sta per succedermi. Dicono che l’alcool sciolga la lingua: beh, a me la scioglie anche troppo.
- Facciamo così: puoi chiedermi quello che vuoi, ma hai solo tre domande. Scegli accuratamente.
Kit inspira l’aria fra i denti, butta indietro le spalle e ride. – Affare fatto.
- Ok – mi sistemo meglio sullo sgabello e volto verso di lui. – Spara.
Appoggia il gomito sul bancone sudicio, in posa quasi provocatoria. - Da dove vieni?
- Italia. Come mai sprechi così la prima domanda?
- Oh, beh, hai un accento strano e sembra che tu ne vada fiera. Comunque sono io che faccio le domande qui. – Strizza entrambi gli occhi continuando a sorridere, come se cercasse di farmi l’occhiolino ma non ne fosse capace.
Alzo gli occhi al cielo e appoggio la testa sulla mano, in attesa della seconda domanda.
- Come mai hai quelle occhiaie?
- E’ da un po’ che non riesco a dormire. Il mio ex mi assilla, per questo sono a Belfast.
Come avevo detto, l’alcool mi scioglie troppo la lingua.
- Ex-fidanzato?
- Ex ragazzo. Mi segue da un po’, per questo sono qui in Irlanda. Spero che così lontana da casa non riesca a trovarmi.
- Capisco. – Si adombra per un attimo. Prende il bicchiere di whiskey davanti a sé e lo caccia giù per la gola come fosse acqua.
Io mi passo una mano sugli occhi e mi piego sulle gambe, in preda ad una nausea improvvisa. Lo stomaco sta facendo le capriole, porca miseria.
- Stai bene?
Alzo un dito facendogli cenno di aspettare, ma lui ha già capito come si sta mettendo la situazione e prima che mi possa ribellare mi afferra una mano e mi trascina quasi correndo fuori dal bar, nella gelida aria autunnale irlandese.
- Un po’ d’aria ti farà bene.
Tengo le mani sulle ginocchia, appoggiandomi al muro. Sto aspettando che la testa smetta di girarmi, mentre sono scossa dai brividi in tutto il corpo per il freddo.
Sento la porta del bar che si riapre e si richiude, e il contrario dopo pochi secondi. Poi, improvvisamente, vengo avvolta da qualcosa di caldo e dal profumo maschile incredibile. Alzo gli occhi: Kit mi ha appoggiato la sua giacca sulle spalle.
- Grazie. – Sospiro. – È passata.
Alza un pollice in segno di approvazione. Solo ora realizzo che nessuno fra i passanti lo riconosce solo perché ha in testa un basco che prima non avevo notato. Visto di fianco deve sembrare uno come tanti altri.
- Tutto a posto?
- Sì, grazie.
Kit tira fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette, ne estrae una, se la porta alla bocca e la accende.  Poi mi offre il pacchetto aperto. Rifiuto scuotendo la testa.
- Fumi? – Chiedo.
- Solo quando sono stressato o felice.
Pausa.
- Ti succede spesso? Pensavo fossi ubriaca e stessi per rimettere.
- No, è il modo in cui somatizzo lo stress. Non preoccuparti.
Annuisce ed esala una lunga boccata fumosa.
- Se vuoi ti riporto a casa…
- No, grazie. – Ok che è famoso, è gnocco e tutto il resto, ma non mi fido abbastanza.
- Lascia almeno che ti chiami un taxi.
- Sei così squisitamente gentile con tutti?
Sorride e scuote la testa. – Non coi paparazzi.
Rido anche io.
- Chiama il taxi, se vuoi – ammicco.
Tira fuori il cellulare e, nella breve chiamata che segue, chiudo gli occhi e inspiro il profumo fantastico di quella giacca chiedendomi se anche lui profuma così tanto.
- Fatto.
- Grazie, Kit.
Nella pausa che segue, io mi perdo di nuovo fra i miei pensieri e lui finisce la sigaretta. Il taxi che arriva suonando il clacson mi fa sobbalzare e vengo accecata dai fari della macchina. Contro di loro Kit sembra solo una sagoma scura.
- Grazie per la giacca – dico togliendomela. Lui mi ferma con una mano.
- Ti prego, tienila.
- E poi come te la restituisco? – Lo guardo scettica, in attesa che mi dia il biglietto da visita del suo agente. Così io chiamo e quello mi prende per una svitata, e io mi ritrovo con la giacca di pelle di un attore famoso. Ehi, penso, potrei farci un sacco di soldi!
Sfortunatamente invece Kit mi prende una mano, la apre con il palmo rivolto all’insù e mi scrive il suo numero di telefono con un pennarello nero che probabilmente usa per firmare autografi.
- Chiamami. – Risponde semplicemente. 
Lo fisso negli occhi sconvolta, pensando che deve avere qualche rotella fuori posto per dare il suo numero di telefono a una tipa qualunque. Lui ricambia il mio sguardo così intensamente che mi sento avvampare.
Il taxista suona di nuovo il clacson.
Kit lo ignora e si avvicina a me in fretta. In meno di un secondo mi ritrovo fra le sue braccia, inondata dallo stesso odore della giacca, e Kit mi bacia all’angolo della bocca.
- Ehi, ehi, EHI! – Sbotto sorpresa e furibonda, spingendolo lontano da me. Lo fulmino con lo sguardo e mi copro chiudendo la giacca sul davanti con le mani.
- Devo andare.
Corro verso il taxi e salgo in fretta. Riferisco al taxista il mio indirizzo e mi appoggio sul sedile, cercando di calmare i battiti del mio cuore.
Kit Harington mi ha baciata, e mi ha dato la sua giacca.
Impreco quando mi viene in mente che ho lasciato la mia borsa al bar.

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Capitolo 2
*** Certe notti ***


Certe notti

Certe notti ti senti padrone di un posto che tanto di giorno non c’è
Certe notti se sei fortunato bussi alla porta di chi è come te
- Ligabue

Dei forti colpi alla porta mi fanno sobbalzare risvegliandomi da un sogno tormentato. La mia mano cerca istintivamente lo spray al peperoncino sul comodino.
 L’amministratore del condominio in cui vivo da tre mesi da urlando dal pianerottolo.
- Vitali! Il tuo cazzo di contratto è scaduto da una settimana! Fai le valigie e levati dalle palle!
Mi passo una mano sugli occhi, un sospiro esce spontaneo dal petto. – Ho capito, ho capito!
Ancora colpi. – Hai due ore, poi faccio sfondare la porta e butto via tutta la tua merda!
Con passi pesanti si allontana lungo il corridoio e io mi metto a sedere sul letto.
Questo non è un appartamento, non lo è mai stato: è soltanto una topaia piena di infiltrazioni d’acqua, carta da parati ammuffita e mobili rotti… ma è l’unica cosa a 20 sterline la settimana, l’unica cosa che possa permettermi.
Non c’è da stupirsi che l’amministratore sia abituato ad avere a che fare con spacciatori, scapestrati e via discorrendo.
Mi passo una mano tra i capelli. Puzzo come un maiale, e ho finito lo shampoo. E poi la doccia è solo un buco nel soffitto da cui esce l’acqua, qui.
In che schifo di vita mi sono cacciata…
Mi alzo, lo stomaco brontola dalla fame. E non posso mangiare: ho lasciato la borsa al bar ieri sera.
Digrigno i denti.
Kit Harington. La sua giacca sembra guardarmi dalla sedia accanto alla porta, il suo numero di telefono è mezzo sbiadito sul palmo della mia mano. Quello è un 5 o un 6?
Devo chiamarlo per forza, maledizione!

*Kit*

- Avresti dovuto vederla, Rick. Come si guardava le spalle.
Espiro una boccata di fumo tenendo la sigaretta fra due dita. Siamo al tavolo esterno di un bar, io e Richard: è venuto a trovarmi da Londra. Ho appena finito di raccontargli di ieri sera, e lui mi guarda con un sorriso da prendere a schiaffi.
-  Accidenti Kit, sei proprio cotto marcio! Credevo che Rose fosse la tua anima gemella.
Abbasso lo sguardo, colto sul vivo da quell’affermazione.
- Rose è ancora tabù? – Continua.
- Non so se mi chiamerà – Lo ignoro. – Ha la mia giacca e io la sua borsa.
- Ti chiamerà, amico.
- Ne dubito.
Il mio Iphone comincia a squillare, mostrandomi uno “Sconosciuto” come chiamante.
- Che ti avevo detto?
- Ti diverti a farti beffe di me, vero? – Lo fulmino con lo sguardo prima di rispondere.
- Pronto, sono… sono io. Sara.
- Ehi! – Un accenno di sorriso si dipinge sul mio volto. – Come hai fatto a chiamarmi, visto che il tuo cellulare è nella borsa?
- Non ho nessun cellulare. Io… sono a una cabina telefonica.
Colto sul fatto a dire balle. Iniziamo bene.
- Hai tu la mia borsa? – Chiede preoccupata. Richard mi si avvicina e tende l’orecchio verso il telefono. Che spregiudicato.
- Sì, ce l’ho io. E tu ha la mia giacca.
- Sì.
- Dovremmo incontrarci e optare per lo scambio di ostaggi.
- Sì.
- Dove?
Una pausa lunga dieci secondi. – Vediamoci al porto, stasera alle nove, accanto al molo delle barche a vela.
- Ci sarò.
Riappende senza salutare, come se fosse di fretta. Richard mi guarda mentre poso il cellulare.
- Caspita – commenta. – Non ho mai sentito voce più monosillabica. Vuoi che ti accompagni stasera?
- No, andrò da solo. Credo che smetta di fidarsi di me.
- Sempre che si fidi. – Mi fa notare, ottenendo in risposta un altro sguardo fulminante.

Il buio è fitto stasera, rotto soltanto dalle luci dell’imponente museo del Titanic, poco lontano dal molo. Mi avvicino stringendomi nel maglione. Per fortuna oggi non piove.
Percorro il molo senza vedere nessuno, finché non scorgo una figura appoggiata al muro. Mi avvicino piano, e non appena Sara si volta verso di me fa un balzo all’indietro. Anche lei è vestita leggera e rabbrividisce dal freddo, ma per qualche motivo non indossa la giacca che tiene stretta al corpo con un braccio.
- Mi hai spaventata – mi saluta, allontanandosi di un passo.
- Ti chiedo scusa.
- Pensavo che fossi… - scuote la testa e mi porge la giacca. – Tieni.
Prendo l’indumento e con la mano libera le porgo la borsa, dentro cui c’è soltanto un’agenda. Non ho resistito, e a casa ci ho guardato dentro.
Sara la prende e se la mette a tracolla.  – Grazie.
- A te.
Solo ora noto che tiene accanto a lei un trolley verde mela.
- Parti? – Chiedo, una minima ondata di paura sullo stomaco.
- No, io… il contratto del mio appartamento è scaduto e il padrone mi ha cacciata.
- Hai dove andare?
Mi guarda mestamente. – Con le ultime 30 sterline non credo di trovare un altro posto, stanotte. – Prende in mano il manico del trolley.
- E cosa vuoi fare, dormire sotto un ponte? – Muovo un passo verso di lei, e Sara recupera la distanza indietreggiando. Il bacio di ieri è stato un errore madornale. Un impulsivo e bellissimo errore.
Si stringe nelle spalle. I suoi capelli sono mossi dal vento e le finiscono in faccia. – Non sarebbe la prima volta.
Comincia a camminare. – Ciao, Kit.
Mi supera e si avvia verso l’uscita del molo. Devo fare qualcosa, non posso permettere una cosa simile.
- Sara? - Si volta a guardarmi, in attesa. – Puoi stare a casa mia, se vuoi.
Scuote energicamente la testa senza staccare gli occhi dai miei. – Non mi sembra il caso.
- Ti darei il piano di sopra. Avresti la chiave della porta che separa i piani solo per te, un letto caldo e un bagno pulito. L’unica cosa che saresti costretta a condividere con me sarebbe la cucina, e il salotto. – Insisto.
- Per quanto alla settimana?
- Non voglio niente.
Mi guarda storto. – Non credo che tu sia così generoso da propormi un piano della tua casa completamente gratis.
Incrocia le braccia, come a mettere una barriera tra di noi. Cosa pensa che voglia in cambio, il sesso? Pensa che mi infili di notte sotto le sue lenzuola e la molesti?
Muovo un passo verso di lei, la rabbia che comincia a farsi strada in me come in un buco fra gli scogli.
- Il fatto che il tuo ex ragazzo sia un figlio di puttana non implica che debba esserlo anch’io.
Si irrigidisce.
- Non posso permettere che tu dorma sotto un ponte, è fuori discussione. Ho un piano che praticamente non uso, e non mi costa nulla darti una mano. Sono dannatamente ricco.
- Modestamente, eh? – Commenta aspra.
- Ti chiedo solo di farmi questo favore: permettimi di aiutarti.
Non sei sola, aggiungo mentalmente.
Sara abbasso lo sguardo sulla valigia, come meditando sulla decisione da prendere. Io aspetto più pazientemente che posso, in attesa di un suo “Sì, Kit. Ti permetto di aiutarmi”.
- Allora? – Incalzo ansioso. Sara alza lo sguardo su di me.
- Va bene. Andiamo.

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Capitolo 3
*** Les Misérables ***


3 – Les Misérables

There was a time when men were kind
And their voices were soft
And their words inviting
There was a time when love was kind
And the world was a song
And the song was exciting
There was time… then it all went wrong.
- Les Misérables

***
Sara

Sono stata stupida. Dio, se lo sono stata.
Entrerà da un momento all’altro, lo so. Entrerà e Dio solo sa che cosa mi farà. Come ho potuto pensare di fidarmi di lui, anche solo per un momento? Ora mi ha intrappolata nella sua casa dorata, e non posso fare niente per difendermi. Ho chiuso a chiave la porta delle scale e quella della camera, che altro posso fare?
Mi stringo nel piumone, seduta sul letto matrimoniale, fissando la porta davanti a me, invisibile nel buio della stanza. Sto tremando per la tensione.
Mi aspetto che da un momento all’altro che la chiave giri nella toppa e che quella si apra cigolando, lasciandolo entrate, padrone della notte. In quel caso, come posso scappare? Potrei colpirlo nei bassifondi e filarmela, ma dove andrei in pigiama, senza le mie cose e con solo 30 sterline in tasca?
Per l’amor del cielo, sospiro, è un attore di Hollywood, non un maniaco sessuale!
“Una cosa esclude l’altra?”, ribatto a me stessa. Deglutisco. No, ma spero ugualmente che non lo sia.
Allungo una mano sul comodino, cercando a tentoni l’interruttore della lampada e accendendo la luce. Sbatto gli occhi per vederci qualcosa di più, poi scosto il piumone e mi alzo il più silenziosamente possibile. La stanza è grande, c’è il parquet di legno scuro, un ampio e caldo letto matrimoniale, una scrivania alla sua destra e un grande armadio a L tra la porta e il letto, dall’altra parte della stanza. Non ci credevo all’inizio, ma ho veramente un piano tutto per me. Non è molto grande, ma come ha promesso ci sono una camera da letto e un bagno molto grandi e lussuosi, rispetto a quello a cui sono abituata.
Mi avvicino alla scrivania e prendo la pesante sedia di mogano, faticando per sollevarla. Inciampando nei miei stessi piedi la trascino fino alla porta e la uso per bloccarla. Almeno è una cosa in più tra me e lui.
Apro la valigia lì accanto, scartando tutti i vestiti sporchi che non ho potuto portare in tintoria, prendo una felpa nera e me la infilo, seguita a ruota dalle scarpe.
Se devo scappare, almeno avrò le scarpe ai piedi.
Torno a letto, spengo la luce e mi infilo sotto le coperte: se deve succedere, almeno che lo colga di sorpresa.
Aspetto tesa come una corda di violino non so ancora per quanto tempo: secondi, minuti, ore… tutto diventa relativo quando hai paura.

Apro gli occhi di scatto mettendomi a sedere sorpresa di trovare, nella luce del mattino, ancora tutti in ordine.
- Non è entrato – mormoro sorpresa. Avrei scommesso tutto quello che avevo che l’avrebbe fatto. Mi alzo, dando un’occhiata all’orologio appeso sopra la porta: sono le dieci del mattino! Dio, è tardissimo! Quanto tempo sarà che non dormo a quest’ora? Un anno?
Vado verso la porta in pantaloncini e felpa, togliendomi le scarpe coi talloni e scostando la valigia con un piede in fantasmino. Giro la chiave nella toppa dopo aver allontanato anche la sedia e la porta si apre verso l’interno, sul corridoio di parquet e la porta del bagno, sulla destra. La porta in fondo, anch’essa chiusa a chiave, non è stata mossa di un millimetro. Stanotte ho veramente avuto un piano tutto per me, ricevuto da un uomo che nemmeno conosco e di cui non mi fido, pensando che mi avrebbe fatto del male, e lui invece mi ha rispettata. Incredibile. Esistono ancora persone così?
E ora dove sarà? Di sotto?
Devo ringraziarlo, almeno. Spero che mi farà restare per un po’, quello che basta ai miei genitori di mettere insieme qualcosa e mandarmelo.
Apro la porta del corridoio e scendo le scale adiacenti, facendo meno rumore possibile e guardandomi intorno a ogni passo. La casa è immersa in un silenzio assoluto, tanto che pare non ci sia nessuno.
Giro l’angolo delle scale ed entro nel salotto, arredato finemente da quella che pare una mano femminile. C’è un lungo bancone di marmo della cucina, più avanti, e poi il divano bianco affacciato su una tv a schermo piatto circondata da una libreria scura piena zeppa di libri. Da dove sono adesso intravedo anche un altro bagno.  Poco lontano da me, dall’altra parte della stanza e davanti alla porta d’ingresso, c’è una porta chiusa che deduco appartenga alla sua camera da letto.
Mi guardo intorno incerta sul da farsi, poi vedo che qualcosa è posato sul bancone della cucina e mi avvicino in punta di piedi: è un piatto coperto da una ciotola, e un biglietto scritto a mano.
Sono agli Studio a girare. Tornerò stasera.
Fai come se fossi a casa tua.
Kit
Scopro il piatto, trovandoci dentro del pane con la marmellata di uno strano colore vermiglio, e un uovo che per qualche bizzarro motivo è ancora caldo.
Ha cucinato la colazione. Questo va oltre ogni mio limite di comprensione.

Ho mangiato tutto quello che Kit mi ha lasciato. Ho caricato l’Ipod e iniziato ad ascoltare musica a più non posso, fatto quattro carichi di lavatrice con tutti i miei vestiti, e una doccia lunga quaranta minuti. L’acqua calda che scivola sul mio corpo sembra un caldo abbraccio, e mi sembra di profumare come il Paradiso. Ne approfitto per pensare, con gli occhi chiusi sotto il getto della doccia: devo abbassare la guardia con lui? Accettare di condividere la sua casa? Devo parlarne con mia madre, sapere cosa ne pensa… questa situazione mi è del tutto nuova, mi sembra di camminare in un prato pieno di mine antiuomo. Un passo falso, e salto in aria.
Sto piegando il quarto carico di asciugatrice che ho messo su prima di farmi la doccia, una cuffia dell’Ipod in un orecchio. La morbida lana del golf viola scuro mi scivola caldo fra le dita e lascio andare i miei pensieri a briglia sciolta, quando un rumore improvviso attira la mia attenzione dal piano di sotto. Un tonfo.
Mi immobilizzo, e il riflesso nello specchio appeso davanti a me mi restituisce uno sguardo di sorpresa e angoscia. Aspetto.
Una porta si chiude piano, infrangendo ancora il silenzio della casa. Dal suono pesante, direi che è la porta d’ingresso.
Kit ha detto che non sarebbe tornato prima di sera. Questo non può essere lui.
I tonfi al piano di sotto continuano ininterrotti.
Do le spalle allo specchio, cercando nel bagno qualcosa che mi potesse servire per affrontare il ladro, l’aggressore, Matteo… o chiunque diavolo sia.
Non c’è niente qui. Perlustro la stanza con lo sguardo: bottiglie di shampoo, carta igienica, boccette di profumo femminile, un portariviste pieno di parole crociate… una lunga spazzola di legno per lavarsi la schiena, appoggiata nella vasca. Inizio a pensare freneticamente: quella spazzola, usata come una mazza, potrebbe fare molto male. Potrebbe spaccargli la testa.
Non c’è un attimo da perdere, e la prendo. Apro la porta, maledicendomi per essermi messa le All Star solo pochi minuti fa, e comincio a scendere le scale brandendo la spazzola alta dietro la testa, come nella fase finale di un buon colpo di swing. I rumori si fanno più forti e vicini.
Ancora quattro gradini. Tre. Due. Uno.
I rumori sono proprio dietro l’angolo. Mi fermo, caricando le gambe per lo scatto. L’uomo è più vicino… è proprio qui…
Mi lancio alzando alta la spazzola, saltando dietro l’angolo.
- MADRE DE DIOS! – Grida la donna a cui sono piombata addosso. – SANTÌSIMO CRISTO!
Salto indietro, lasciando cadere la spazzola a terra. Finisco spalle al muro, mentre la corpulenta donna si preme una mano sul petto, fissandomi terrorizzata come se fossi un fantasma.
- ¿QUIÉN DEMONIOS ERES? MADRE DE DIOS!
- LO SIENTO MUCHO! – Urlo a mia volta. Lei sembra calmarsi. – Habla Inglés? Yo no hablo español muy bien.
- Certo che parlo inglese! – Risponde, sistemandosi il largo vestito scuro e la capigliatura scompigliata. – Si può sapere chi diavolo è lei, e perché si trova in casa del signor Kit? Dovrò chiamarlo agli Studi, avvisarlo che lei è qui!
- Lui lo sa già! Mi ha invitato lui!
- Lei non è la signorina Rose, per cui mi sembra parecchio improbabile che il signor Kit l’abbia invitata!
Faccio un passo indietro, chiedendomi chi sia “la signorina Rose” e perché lei dovrebbe avere il permesso di stare in questa casa e io no. Mi passo una mano sul maglione grigio che ho addosso.
- Esco.
Anzi, quasi scappo fuori dalla porta.

Tralasciamo il fatto che sono uscita senza portafoglio, e che i soldi che mi servono me li ha dati un negoziante per cui, per mezz’ora, ho fatto avanti e indietro dai cassonetti della spazzatura almeno una dozzina di volte. Tralasciamo quanto puzzassero quei cassonetti, che è meglio.
Lascio scivolare all’interno della fessura lampeggiante la sterlina e venti centesimi che la signora Cabina Telefonica vuole per fare una chiamata internazionale, e compongo il numero del cellulare che mio padre ha comprato solo perché lo chiamassi in sicurezza anche in situazioni di emergenza.
Infatti, risponde al secondo squillo.
- Sara? Tutto bene?
- Ciao papà. Ehm… sono in vivavoce? C’è mamma lì?
- Certo che ci sono – la sua voce sembra più dolce e apprensiva del solito, ma solo perché non la sento da un po’. – Come va? Ti stanno bastando i soldi?
- Abbastanza, ma non ne ho molti… - mi guardo intorno. – Basteranno. …Matteo?
Sospiri. – La settimana scorsa si è messo a urlare il tuo nome dal portone, e non ha smesso per due ore. Siamo tornati dalla polizia, ma dicono che per arrestarlo devono avere le prove che ti sta perseguitando. – Spiega papà.
- E quali potrebbero mai essere queste prove? I messaggi? Le telefonate nel cuore della notte? Sono tutte cose che abbiamo già portato nelle denunce precedenti, ma ogni volta ci dicono che non vanno bene, che sono troppo generiche. Comincio a pensare che l’unica prova che vogliono prima di arrestarlo siano due costole rotte e un occhio nero.
- Sara, non ti azzardare neanche a pensare che si arriverà a tanto.
- Oh, lo penso invece! Secondo te perché mi sto nascondendo come un’assassina? – Sbotto. Mi guardo intorno, e abbasso la voce chinandomi sulla cornetta. – Ok, sentite, non ho chiamato per parlare di quell’abelinato. Volevo una vostra opinione su una cosa.
- Cioè? – Sono interessati.
- Ho conosciuto uno, l’altra sera… - cincischio. – Mamma, è Jon Snow del Trono di Spade.
Mia madre fa uno strano verso di sorpresa. – Noooooo! Kit Harington??
- Lui. Lui mi ha… mi ha invitato a stare a casa sua. Non so perché. Ho già passato una notte e non è successo niente, e mi domando… secondo voi va bene, se mi fido di lui?
- Sara, segui il tuo istinto. – Risponde mia madre. – Se hai già accettato di stare a casa sua, vuol dire che è meglio così: in questo periodo non prendi nessuna decisione alla leggera.
- Ok, ma nel senso, non vuole neanche che gli dia dei soldi!
- È un attore, per forza non vuole niente! Neanche quella cosa, vista la sua relazione con quella bruta!
- Ma no, Beppe, si sono lasciati un paio di settimane fa! – Lo corregge mia madre.
- Trenta secondi alla fine della chiamata. – Mi informa una voce fastidiosa nella cornetta.
- Mamma, papà, vi devo lasciare. Cercate di mandarmi qualcosa appena potete, ma non svenatevi. E state attenti. Per favore.
- Sempre in prima linea, tesoro – mi rassicurano. – Ci sentiamo pres…
Linea vuota.
- Potevi resistere altri due secondi, telefono di merda! – Protesto riappendendo la cornetta. Mi guardo intorno, e mi incammino.

La sera è ghiacciata. Non prevedevo di restare fuori così tanto, solo finché quella donna non fosse uscita. Non avevo pensato che sono senza chiavi, e non mi sono neanche portata una giacca. Sono uscita di corsa.
Il mio fiato si condensa in tante piccole nuvolette. Come se non bastasse, ha iniziato a piovere. Mi sono riparata sui gradini d’ingresso, e la grondaia impedisce alla pioggia di bagnarmi.
Saranno come minimo tre ore che sono seduta qui: non volevo allontanarmi per perdermi Kit. Lui potrebbe aprire la porta di casa, anche se ha qualcosa da fare stasera.
Rabbrividisco. Cristo, sto congelando!
Una macchina accosta al marciapiede poco lontano da me, accecandomi coi fari. Poi il motore si spegne, e lui esce. Si guarda intorno e si avvicina sovrappensiero mettendosi le mani in tasca, poi quando mi nota si ferma perplesso.
- Come mai sei seduta lì? Sembri un ghiacciolo.
- Ma va? – Lo fulmino con lo sguardo. Poi sospiro: se vogliamo condividere la stessa casa, meglio per me se comincio a trattarlo meglio. Potrebbe sbattermi fuori di casa a calci nel sedere in qualsiasi momento. – Sono uscita per fare una telefonata e non avevo le chiavi di casa. La signora spagnola mi ha spaventato a morte.
- Beh, ha seriamente creduto che tu fossi un fantasma – sorride fra sé sfilandosi la giacca e posandomela sulle spalle. Chissà perché ogni volta che ci incontriamo finisco per avere addosso la sua giacca. – Mi ha detto che le sei saltata addosso dal nulla con una spazzola in mano.
- È vero. Pensavo fosse un ladro.
Kit armeggia con le chiavi e apre la porta d’ingresso. La luce si accende automaticamente. Sospira, posa le chiavi in una ciotola accanto alla porta e posa la sua borsa di pelle per terra.
- Per incontri futuri, la donna spagnola si chiama Dolores, e viene due volte la settimana a occuparsi della casa. Non riuscirei a tenerla così pulita da me.
Si volta verso di me e sorride. Io chiudo la porta con un calcio e mi sfilo la giacca. Cercando di ricambiare con una smorfia indefinita sulle labbra.
Lui sembra osservarmi fin dentro alle ossa. Incrocio le braccia.
Si passa una mano fra i capelli e se li lega sulla nuca. Poi si avvicina meditabondo alla cucina e prende una pentola in mano.
- Ti va un po’ di pasta, per cena? Alla carbonara?
- Spero che tu sappia cosa stai facendo – rispondo avvicinandomi al bancone. – Mai offrire della pasta indecente a un italiano.
Kit sorride, poi sprofonda di nuovo nei suoi pensieri. Rimango in silenzio, pensando che di sopra ho lasciato un intero cesto di biancheria da rimettere a posto.
- Stavo pensando una cosa – comincia facendo rosolare il soffritto nella padella. Ha optato per il sugo. – Perché non mandi il tuo curriculum a David Benioff? È il mio regista e un mio amico, sono sicuro che ti fisserà un colloquio. Potresti lavorare con la troupe del Trono di Spade.
- Non credo che sia il caso – grugnisco. – Serie tv vuol dire telecamere, telecamere vuol dire riprese, riprese vuol dire video che finiscono sul web e vengono visionati da chissà chi. Mi esporrebbe troppo.
- Guadagneresti dei soldi e avresti del sostegno in più rispetto a quello che, suppongo, ti mandano i tuoi genitori. – Insiste. – E se vieni assegnata alla mia unità ci seguirai fino a Reykjavík, in Islanda.
Drizzo le orecchie. – Reykjavík?
La sua presa sul manico della padella si rafforza. – È più lontana rispetto dall’Italia rispetto a Belfast. Conveniente, no? E, chissà, potresti anche farti degli amici. – Sbatte con forza il mestolino di legno sul marmo. – Almeno TENTA di non restare a piangerti addosso, cazzo!
Indietreggio. – Non alzare la voce, Kit!
Si avvicina, superando il bancone. – Smettila di essere un fantasma. Smettila di nasconderti, e ricomincia a farti una vita lontana dall’Italia. Non ti chiedo soldi per condividere la mia casa, ma almeno fammi questo favore.
Deglutisco, cercando di ricavare qualcosa dal groviglio affollato di pensieri nella mia testa. Lui non sembra davvero arrabbiato, e forse quello che dice lui potrebbe funzionare… forse.
Sono miserabile, vero?
- Ok. Lo faccio.

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Capitolo 4
*** Vedi Cara ***


4 – Vedi Cara

 Vedi cara, è difficile spiegare
È difficile parlare
dei fantasmi di una mente
[…]
Quando rido senza muovere il mio viso
Quando piango senza un grido
Quando invece vorrei urlare.
- Francesco Guccini

 

*Kit*

 
- Davvero, Kit, mi stai chiedendo di concedere un colloquio a una ragazza solo perché è amica tua? – David mi guarda esalando una nuvoletta di fumo. È tardo pomeriggio, abbiamo appena finito di girare ed è quello strano momento rilassato della giornata in cui alcuni di noi sono ancora in costume di scena, altri si sono già cambiati, lo staff rimette le cose a posto e i registi riguardano le riprese. Lavorano tutti, ma lenti ed esausti, e c’è una sorta di allegorica tranquillità. Per quanto mi riguarda, sono ancora in costume di scena. Rose, vestita da bruta, passa poco lontano da noi parlando e ridendo con Hannah Murray, lasciando dietro di sé una scia di malinconia che punta verso di me come una freccia.
 - Kit? Sei su questo pianeta? – La voce di David mi riporta al momento presente.
- E’ una gran lavoratrice. Te lo chiedo come favore personale, David. Per favore. Ne ha bisogno.
Stringe gli occhi come se dubitasse delle mie parole, poi schiaccia la sigaretta nel posacenere accanto a lui. Io ne ispiro una boccata.
- L’hai già fatta venire qui e sta aspettando, vero? – Insinua. Sorrido nervoso.
- Dopo quattro anni mi conosci fin troppo bene.
Si gratta la barba, tira fuori un’altra sigaretta dal pacchetto e se la infila in bocca squadrandomi come se volesse scavarmi un buco al posto del naso.
- È quella ragazza che Richard ha addocchiato due minuti fa?
Il cuore mi cade nello stomaco. – Aspetta, che?!
Mi giro sulla sedia per guardare dietro di me, le piume sintetiche del mantello che mi volano in bocca. Qualche metro lontani da noi, Sara sta a braccia incrociate con la schiena appoggiata al muro, e fissa con lo sguardo Richard che la osserva accucciato dietro a una scrivania. Lei sembra essere coi sensi allerta per tenerlo d’occhio, oppure concentrata con tutte le sue forze per venire risucchiata all’interno del muro. Non so quale delle due opzioni sia la più probabile.
- Che cos’ha di strano che non mi convince? – Domanda David, in piedi accanto a me, seguendo il mio sguardo. La sigaretta che poco fa teneva in bocca ora sta dietro l’orecchio.
- Si guarda le spalle – rispondo automaticamente.
- Ecco, sì: è guardinga. Sei sicuro che non sia immischiata in qualcosa di illegale? Cosa mi stai nascondendo, Kit?
Sospiro tra i denti. – Sta passando un brutto periodo: è stata sfrattata e non ha i soldi per pagarsi un posto per la notte, e starà da me per un po’. Ha bisogno di guadagnare. Spero solo che tu mi faccia questo favore, Dave.
Mi guarda. – Sta al piano di sopra?
Annuisco.
- Beh, vediamo che posso fare.
Si incammina nella direzione di Sara, che si volta verso di lui non appena entra nel suo campo visivo. Poi, esitante, gli stringe la mano con un sorriso tirato. David la conduce nella mia direzione mentre Rick la segue con lo sguardo da dietro la scrivania, e io le cedo la mia sedia. Mentre lei passa sento un vago odore di lavanda provenire dai suoi capelli.
Mi allontano, fingendo discrezione, e mi ritrovo accanto proprio la Faccia Da Chiappe Richard.
- Credevo che una donna non sarebbe mai stata capace di farmi sentire uno scolaretto col cappello da asino con un solo sguardo, ma mi sono ricreduto.
Ridacchio. – Hai provato a presentarti?
- Le sono arrivato da dietro. Mi stupisce che non sia arrivata ad appendersi al lampadario. Non le hai mai detto di rilassarsi?
- Ci ho solo provato.
- Allora – la voce profonda di Dave, intento a leggere un foglio scritto a metà, interrompe la nostra conversazione. – Sara Vitali, nata a Genova il 21 marzo 1988. Come mai c’è scritto poco più di questo nel tuo C.V.?
Trattengo il respiro: le danze sono cominciate. Sara si torce le mani. – Non sono molto brava a scrivere.
Dave si toglie gli occhiali. – Credi che ti darò un incarico, qualsiasi incarico, in questa crew… solo perché Kit Harington mi ha chiesto di farlo?
- Assolutamente no.
- Che cosa sai fare?
- Ho quasi conseguito una laurea in fisioterapia. Ho lasciato pochi esami prima della fine.
- Che cosa sai fare che potrebbe essere utile?
Incrocia le braccia, assumendo un’aria di sfida. – Posso fare qualsiasi cosa: costumi, trucco, luci, scenografia, segretaria… basta che ci sia qualcuno che mi dica che cosa fare. Imparo in fretta.
Dave prende in mano la sigaretta da dietro l’orecchio. Tra i due si instaura un gioco di sguardi degno di un film western.
- Ci manca solo che estraggano le pistole dalle fondine – mormoro. Richard ridacchia.
- Se tu non fossi nelle grazie di Kit Harington e fossi venuta qui con un curriculum inconcludente a chiedermi di darti un lavoro qualsiasi all’interno della crew del Trono di Spade ti avrei buttato fuori di qui a calci, che questo sia ben chiaro.
Sara non risponde. Dave posa il foglio sul tavolo dietro di lui e si alza dalla sedia. – Devo un favore a Kit: comincerai domani. Assistente costumista.
Sara si alza e sorride apertamente, stringendogli la mano.
- Ti farò trovare un contratto entro la fine della settimana. Ah, Vitali… hai parecchio da dimostrare.
Qualcosa la ferma. Abbassa lo sguardo e comincia a torturarsi una ciocca di capelli. – Posso seguirvi in Islanda?
David la guarda come se fosse pazza. – Questo dipende da quanto ti riterremo indispensabile per la produzione.
Qualche istante di silenzio, poi si stringono di nuovo la mano.
- Allora a domani.
 

- Non ci credo, non ci credo, ho un lavoro! – La voce sorpresa di Sara oltrepassa la porta del mio camerino, mentre all’interno sto togliermi il costume il più velocemente possibile: fuori dalla stanza c’è Richard insieme a lei e ho paura di quello che potrebbe uscirgli dalla bocca. Vedasi “argomento Rose”.
Non credevo che il risultato del colloquio potesse renderla capace di saltellare su e giù per gli Sudio come un pupazzetto a molla, o di ripetere per cinquanta volte di fila sempre la stessa frase. Semplicemente avevo escluso comportamenti simili dal suo carattere.
Questo dimostra il fatto che tutto ciò che conosco di lei è solo la superficie.
Coi vestiti “normali” addosso esco dal camerino trovando Richard sorridente appoggiato al muro e Sara che sta cercando di legarsi i corti capelli in un moccetto in cima alla testa.
- Andiamo? – Propongo. Mi avvicino a Richard dandogli una pacca sulla spalla. Lui mi sorride, affascinante come il Principe Azzurro di Cenerentola.
- Solo un secondo, ho lasciato la giacca sulla sedia! – Sara quasi scompare.
- Ci vediamo domani, amico – dice. – Mi sa che stasera avrai da fare!
- Nulla di quello che stai pensando, Rick.
- Oh, e andiamo! – Ride. – Nemmeno un bacetto?
- La vuoi piantare? Smettila! Tu non sai quello che ha passato.
- Io no – ribatte. – Ma tu neppure.
Ammutolisco, colpito e affondato. Richard mi arruffa i capelli, e sa che lo odio.
- Ti adoro, Kituccio. Ci vediamo domani!
- A domani, Rick.
Sara torna proprio mentre lui se ne va. La raggiungo mantenendo le distanze e ci incamminiamo come due sconosciuti che camminano fianco a fianco per puro caso, senza degnarci di uno sguardo. La sorpresa che riempiva la sua voce fino a un paio di minuti fa sembra completamente svanita, o risucchiata nella sua corazza. Per quel che ne so, potrebbe essere animata da un interruttore ON – OFF.
Io questo interruttore non so dove sia, per cui devo soltanto aspettare che si riaccenda da sola: che mi permetta di conoscerla, di mostrarle che può avere fiducia in me, che posso difenderla da quel suo ex, qualunque cosa le abbia fatto… essere suo amico, il suo amante, qualunque cosa.
Non posso costringerla a fare niente. Posso soltanto aspettare
.

 Siamo a casa adesso. Lei è al piano di sopra, penso a farsi la seconda doccia della giornata. Quando ha salito le scale ho sentito girare la chiave nella toppa. Mi ha chiuso fuori, letteralmente. Che speranze ho di aiutarla?
Dalla padella nella brace, da Rose a Sara. Sono proprio sfigato in amore! Forse dovrei andare a rinchiudermi in un convento, o pensare seriamente di unirmi ai Guardiani della Notte.
Sto cercando di usare decentemente una rotella per tagliare la pizza da asporto in fette, assorto nei miei pensieri.
Sto cominciando a perdere davvero la speranza… di essere felice. Se non posso esserlo con Rose o con qualsiasi altra persona su questo pianeta, come posso sperare di esserlo con me stesso?
- Ciao.
Tiene un piede sospeso fra l’ultimo gradino della scala e il pavimento, tenendosi all’angolo del muro con una mano. I capelli bagnati le circondano il viso ed è avvolta da un maglione sformato rosa pallido. Il silenzio tra noi è quasi pesante.
- Ciao. – Poso la rotella sul bancone. – Come stai?
- Bene. Ancora non ci credo di avere un lavoro.
- Non è stato un colloquio molto felice, però.
- No, non lo è stato – sospira avvicinandosi. Tamburella le dita sul balcone, fermandosi proprio davanti a me e la pizza. Tira un profondo respiro, poi alza lo sguardo su di me.
- Il mio vero nome è Sara Cerbiatto. Questo – prende in mano una ciocca di capelli – non è il mio vero colore. In realtà ce li ho sul ramato. Sono scappata dall’Italia perché il mio ex mi perseguita. Ma questa… persona, quella che non ride e non si fida delle persone… non sono io. Io non sono così.
Senza abbassare lo sguardo, completamente colto di sorpresa, faccio il giro del balcone e mi avvicino a Sara.
- Che cosa ti ha fatto? – Mormoro, quasi temendo la risposta.
Lei cerca di non far scendere le lacrime che le riempiono gli occhi e, quando parla, un nodo alla gola le rende la voce molto più grave del solito.
- Da dove comincio? – Sdrammatizza. – Si chiama Matteo della Francesca. Lui… non è normale.
“Ma va?”.
- Mi trattava male. Mi diceva che senza di lui non ero nessuno e che sarei rimasta sola come un cane. Aveva il brutto vizio di alzare il gomito, e quando lo faceva… beh, lasciamo perdere. Ma quello era il meno.
- In che senso era il meno? – Sto faticando a parlare dal disgusto che provo.
Sara si volta e si allontana, stringendosi nelle spalle. Rispetto la distanza che ha messo tra di noi.
Un dubbio si insinua nella mia mente, un pensiero così meschino che mi fa venire il voltastomaco e mi fa sentire sporco dentro.
- Ti ha violentata?
Sempre di spalle, annuisce più volte.
Vorrei avere quel bastardo fra le mani, levargli per sempre la voglia di riprovarci.
- E tu che hai fatto?
- L’ho lasciato. Ma poi è andata sempre peggio. Ha cominciato a seguirmi dovunque, a chiedermi di tornare assieme a lui e a dirmi di essere cambiato, di dargli un’altra possibilità. Più non lo ascoltavo, più diventava pressante: migliaia di messaggi pieni di insulti al giorno, telefonate notturne, persino foto infilate sotto la porta di me, e della mia famiglia. “Mia o di nessun altro”. Alla fine sono andata alla polizia, a denunciarlo. Ho aspettato due settimane e lui continuava a starmi alle calcagna. La polizia non si è fatta vedere. Sono tornata da loro, e mi hanno liquidata con la scusa che non avevo portato nessuna prova concreta. Stavo per tornare una terza volta con le foto, i messaggi, le registrazioni delle telefonate… quando Matteo si è messo a spaccare le finestre di casa in pieno giorno. Abitiamo al secondo piano, e papà si è quasi preso un macigno in testa. È stato allora che ho deciso di scappare.
Sono a Belfast da qualche mese, mi tengo in contatto coi miei genitori, non ho più un cellulare… ma lui continua a tormentarmi. E io… mi sento sola, troppo sola…
Mi avvicino piano a lei, mettendole le mani sulle spalle e facendola voltare verso di me.
- Se non ha già avuto la buona creanza di sparire all’inferno sarei felice di accompagnarcelo.
Tossisce una risata.
- Da quanto tempo va avanti questa storia?
- Compreso il periodo in cui siamo stati insieme, sono quasi due anni.

- Se c’è qualcosa, qualsiasi cosa, che possa fare per te… devi soltanto chiederlo.
Tira su col naso. – Mi hai già dato un posto dove vivere e un lavoro decente, ma… Oh, Kit, potresti essere mio amico? Ho bisogno di essere me stessa e di abbassare la guardia, per una volta. Potresti… ecco… ti dispiacerebbe abbracciarmi?
La avvolgo subito tra le braccia, nascondendole il volto nel mio petto. Lei mi circonda la vita con le braccia e fa dei respiri profondi frammentati da dei singhiozzi, e io affondo il viso nella sua spalla.
- Non dovresti neanche chiederlo. – Bisbiglio, cullandola.
Non so per quanto tempo rimaniamo così: un secondo, un minuto, un’ora… so solo che quando lei scioglie l’abbraccio e alza lo sguardo, c’è un sorriso dipinto sul suo volto. Un dolce, fragile e bellissimo sorriso.
- Grazie – Sussurra quasi in una scusa.
- Non c’è di che – le sistemo una ciocca bagnata dietro l’orecchio. – Tanto per cominciare, potrei chiamarti Fawny.
- Fawny? Come… tipo… “cerbiattina”? – Non scioglie le mani dalla presa.
- Non solo per quello*.
Sorride, e mi abbraccia di nuovo.
 

* “Fawn” in inglese vuol dire “cerbiatto”, ma anche “mostrare affetto, gioia”, oppure indica il colore ramato dei capelli di Sara.

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Capitolo 5
*** Sally ***


Sally

 

Sono lontani quei momenti
Quando uno sguardo provocava turbamenti
Quando la vita era più facile
E si potevano mangiare anche le fragole
Perché la vita è un brivido che vola via
È tutto un equilibrio sopra la follia
Sopra la follia
- Vasco Rossi

 
*
Sara*

 
In realtà non volevo che andasse così.
Facendo la doccia mi ero detta: “Spiegagli il minimo necessario, che gli faccia capire che gli sei riconoscente. Magari digli le tue vere generalità e fine della storia”.
E così ho fatto, ma prima che me accorgessi le vere generalità sono diventate un torrente di parole, un’alluvione, e mi sono ritrovata a raccontargli tutto. Non un singolo dettaglio tralasciato.
Che cosa mi è saltato in testa? A un certo punto ho smesso di ragionare.
E così, adesso, lui sa tutto. Come ho potuto lasciarmi andare così? Mi do della stupida più volte, battendomi un pugno sulla fronte.
E se avesse cattive intenzioni? Secondi fini?
Quel bacio che mi ha dato la sera in cui ci siamo conosciuti, io non l’ho mica dimenticato.
Non so da quale angolo della mia mente sia uscito quel fiume di parole… non so perché, d’un tratto, ho smesso di essere diffidente e mi sono aperta. Per qualche motivo a me sconosciuto mi sono lasciata andare, e quando Kit mi ha abbracciato… mi sono sentita bene. E’ passato così tanto tempo che quasi mi ero dimenticata di quanto avere qualcuno accanto scaldasse il cuore.
Forse fidarmi di lui è la cosa giusta da fare, forse i miei genitori avevano ragione: “Se pensi che sia giusto resta a casa sua, magari è la volta buona che ti fai un amico”. Sul momento ho pensato fosse una risposta del cazzo, ma più ci penso e più quell’amico sembra prendere le sembianze di Kit nella mia immaginazione.
Forse mi sto solo facendo un sacco di seghe mentali.
Forse fidarmi di lui è la cosa giusta da fare, ma è difficile. Troppo difficile. Ho troppa paura che anche lui si riveli un bastardo molestatore.
Mi tiro la coperta fin sopra i capelli, il silenzio che mi fa fischiare le orecchie. Nel buio della notte i miei pensieri sembrano amplificati.
È una stella di Hollywood, se lo fosse lo saprebbero tutti… oppure è talmente ricco che i suoi avvocati insabbiano tutti i suoi panni sporchi?
Dopo la mia aperta confessione abbiamo mangiato la pizza insieme e abbiamo parlato ancora. Ormai il danno è fatto, tanto vale aprirmi completamente… tanto, se si rivela un’altra delusione, cosa mi costa fare le valigie e sparire di nuovo? Non c’è nulla che mi trattenga qui. Nulla mi trattiene da nessuna parte.
Gli ho raccontato di parte della mia vecchia vita: che dopo aver mollato l’università mi ero messa a fare il paramedico, che mi piaceva cantare e ballare, qualche volta. Gli ho raccontato dei miei amici, di quelli che avevo prima di allontanarli durante la mia relazione con Matteo. Kit invece mi ha parlato dei suoi genitori, della sua audizione per il Trono di Spade, di Richard e di Emilia. Ma non della Rose che ha nominato la signora delle pulizie
.
La cosa mi lascia perplessa.
Nel turbine di pensieri nella mia testa, uno più rumoroso sovrasta gli altri e il cuore comincia a battere più forte.

Voglio
fidarmi di Kit. O almeno provarci. Rischiare.
Non voglio più stare sola.
Ci sono due parti di me che stanno combattendo fra loro: una che si guarda le spalle da Kit; l’altra che vuole di nuovo essere fra le braccia di Kit e sentirsi ancora protetta.
Scosto le coperte e mi alzo dal letto, dirigendomi in punta di piedi fuori dalla stanza. Quel pensiero rimbomba più forte nella mia testa, assordandomi.
“Non voglio più stare sola”.
Questa sera ho detto a Kit molte cose vere: la più vera di tutte è che io non sono così, come appaio in superficie. Io non voglio più essere quella che Matteo ha creato, e almeno con Kit non lo sarò più.
Posso provarci, no? Di sicuro non muoio.
In questo gigantesco tornado di flusso di coscienza penso anche un’altra cosa: che, a differenza dei miei genitori, io non ho mai visto il Trono di Spade. 

Trovo parecchio strano che un attore tenga nella vetrina sopra la televisione i cofanetti della serie tv in cui recita, mi sembra una specie di pavoneggiamento. La cosa però, per quanto strana, mi conviene: il Trono di Spade era proprio quello che stavo cercando.
Ho trovato il lettore dvd, acceso la televisione e la prima puntata. Mentre aspetto che cominci mi rannicchio con la schiena contro il divano, chiedendomi come sarà questo fantomatico fenomeno mondiale che, secondo alcune mie conoscenze, è più o meno un porno scritto.
Una sigla assordante esplode a tutto volume e mi lancio sul telecomando, pregando che tutto questo baccano non abbia svegliato Kit.
Proprio quando dei cosi bianchi con gli occhi azzurri hanno disposto dei cadaveri in una spirale e io già non ci sto capendo più un cazzo, la porta della camera da letto si apre e Kit compare con indosso dei pantaloni sportivi scuri e una t-shirt bianca.
- Mi dispiace averti svegliato – Mi scuso voltandomi verso di lui, e sono sincera.
- Non dormivo. – Sospira. Si siede sul pavimento accanto a me.
- Nemmeno io.
Silenzio. Riavvio il filmato.
- Mi sembra strano guardare me stesso in un cofanetto dvd – commenta dopo un po’, quando il suo personaggio, Jon Snow, appare assieme a Boromir del Signore degli Anelli e tira su un lupacchiotto albino.
- A me sembra strano che tu abbia i cofanetti della serie tv in casa.
- È un regalo della produzione – sorride. – Non ho praticamente scelta.
Pausa.
Una tipa su una balconata guarda malissimo Jon Snow.
Questo silenzio è imbarazzante.
- La pizza… - comincio voltandomi verso di lui. - …era buona.
- Sì. Buona.
Ok, il silenzio è spiacevole ma sparare stronzate è peggio.
- Come mai non dormivi?
Esita, trattiene il respiro, si gratta la nuca. – Non riesco a smettere di pensare a quello che ti ha fatto quel verme.
La risposta mi sorprende, facendomi sentire improvvisamente nuda, e istintivamente mi abbraccio le ginocchia ad occhi bassi.
- Sara – sento il suo sguardo intenso su di me. Mi sfiora un braccio, delicato, come se fossi un animale ferito trovato nel bosco e lui volesse sincerarsi di non stare sognando. Resisto alla tentazione di scostarmi, e il tocco sul mio avambraccio si fa gentile e più presente, come l’abbraccio di qualche ora fa. La mano di Kit si apre e scende, chiudendosi sul mio polso. Non c’è più dubbio che abbia catturato tutta la mia attenzione. – Voglio che sia ben chiaro che non oserei mai, mai, farti del male. E ti chiedo scusa per il bacio della sera del nostro primo incontro. Non so che cosa mi sia preso.
Inspiro. Espiro. Dentro. Fuori.
- E io voglio fidarmi di te, Kit. Non voglio più stare da sola.
Di nuovo, le parole escono prima ancora di essere elaborate dal cervello. Mi mordo la lingua.
Il fermo immagine nella televisione illumina il fugace sorriso che si apre sul suo volto. Lo osservo, e si risveglia in me qualcosa di strano, come l’improvvisa sensazione di calore di uno che fa un passo sotto al sole dopo essere stato tanto tempo all’ombra, e la pelle comincia a scaldarsi.
La sua mano stringe ancora il mio polso, e non voglio che lui la sposti.
Le due mie parti interiori, quella che vuole scappare e quella che invece vuole restare, d’un tratto si zittiscono lasciando il posto a un solo, limpido pensiero.
 “Voglio stare fra le tue braccia”.
Deglutisco. “E se potessi dimenticare Matteo ed essere di nuovo felice? Magari… insieme a lui?”.
Forse qualcosa della vecchia Sara si è salvato, non è stato ucciso dagli ultimi due anni. Forse non è stato poi tutto sbagliato. Forse…
Kit allenta la presa sul polso e poi lo lascia andare senza che io reagisca, completamente travolta dalla potenza di quel pensiero.
- Cerco di dormire un po’. – dice alzandosi e rivolgendomi un fugace sorriso. – Buonanotte.
È quasi entrato in camera quando riesco a rispondere, la bocca completamente asciutta.
- ‘Notte.

 

Forse alla fine di questa triste storia
Qualcuno troverà il coraggio
Per affrontare i sensi di colpa
E cancellarli da questo viaggio
Per vivere davvero ogni momento
Con ogni suo turbamento
E come se fosse l’ultimo.

 

 
*Kit*

 Ancora insonne, aspetto a braccia incrociate dietro la testa che l’alba faccia capolino fra le tende della finestra, cercando di dominare la rabbia che ancora mi monta dentro, di non pensare agli svariati modi con cui potrei sfogarla: ubriacarmi, menare lo scarafaggio in questione fino a mandarlo all’ospedale…
Se mi ritrovo il suo ex fra le mani, giuro su Dio che rimpiangerà di essere nato.
Come, come si può alzare le mani sulla persona che invece si dovrebbe amare? Come si fa a prendere con la violenza ciò che lei non vuole o non può dare? Che feccia del genere umano devi essere per poter fare una cosa simile? Ma soprattutto, cosa l’ha spinta ad aspettare un anno e mezzo prima di lasciarlo?
Non capisco, non voglio capire e non capirò mai.
Un uomo che mette le mani addosso a una donna e poi le dice che la ama, non è un uomo. È uno stronzo. Anzi, è peggio.
Il disprezzo che provo per quel Matteo va oltre ogni mio limite o immaginazione.
La sveglia accanto a me si mette a trillare, annunciandomi l’arrivo delle cinque e mezza del mattino. La spengo con un colpo secco, voltandomi su un fianco. Fino a due settimane e qualche giorno fa avrei dato di tutto per rivedere Rose accanto a me, ancora addormentata coi capelli sparsi sul cuscino e le lenzuola attorcigliate attorno alle gambe; ora, invece, vorrei poter abbracciare Sara su questo stesso letto, svegliarla con dolcezza, prometterle che la proteggerò per sempre.
Dio mi perdoni, credo ancora nell’amore a prima vista e puntualmente vengo trafitto dalla sua freccia.
Scosto le lenzuola e mi alzo, passandomi una mano sul viso e saggiando con la punta delle dita le profonde occhiaie che si sono create nel corso della notte.
Apro la porta ed entro in salotto, notando quasi subito lo schermo in pausa sui titoli di coda della puntata. Sul bracciolo spunta il piccolo piede di Sara.
Mi avvicino sorridendo tra me e me, e mi sporgo dallo schienale per guardarla: è profondamente addormentata e stringe il cuscino tra le braccia come un orsacchiotto. Dalla bocca semiaperta cola un rivoletto di bava. Almeno lei è riuscita ad addormentarsi.
Con una mano le sfioro un braccio, scuotendola piano. Lei socchiude piano un occhio, chiudendo la bocca. Poi spalanca gli occhi e rotola giù dal divano.
- Ahi! – Si lamenta massaggiandosi il didietro.
- Mi dispiace averti svegliato – trattengo a stento una risata. – Dobbiamo andare al lavoro, è ora di alzarsi.
Faccio il giro del divano e le porgo una mano per aiutarla ad alzarsi. Lei la afferra senza esitare, e l’elettricità dal palmo della mano scorre in su fino al cuore, facendolo battere più forte di prima.
- Il lavoro? Sì, dobbiamo sbrigarci, il lavoro! – È ancora intontita mentre si alza, poi si passa un pugno sulla bocca e spalanca gli occhi. – Oddio, mi hai vista dormire! Mi hai vista sbavare!!
- Manterrò il segreto – prometto facendo l’occhiolino che non ho mai saputo fare decentemente. Finisco sempre a chiudere entrambi gli occhi.
- Lo spero per te! – Mi guarda fisso negli occhi, poi scoppiamo a ridere. – Dovrò scoprire qualche tuo sporco segreto per rimettere in pari i conti!
“Oh, ne hai da scoprire”.
- Faremo meglio a fare colazione, altrimenti al lavoro schianteremo sul pavimento. 

Siamo arrivati sul set in macchina e Sara, acqua e sapone, pesta ritmicamente la punta del piede sul pavimento. Il set deve sembrarle più che mai un alveare: la mattina presto, prima che si inizi a girare, corrono tutti avanti e indietro e attorno a David e Daniel, quando sono sul set, discutendo di come si deve girare una scena, come deve essere sistemato un costume, come si devono comportare i personaggi nella scena, come si devono sistemare le luci di scena. Il set si riempie di un brusio di sottofondo che è insieme snervante e rassicurante.
Posso comprendere quanto questo possa essere disorientante, a prima vista. Anche a me era sembrato una trappola per uomini quando ho iniziato a girare il Trono di Spade: ero giovane, inesperto e appena sfornato dalla scuola di recitazione e da ruoli secondari, terziari e quaternari.
Era il 2011, non più di due anni fa, eppure sono molto cambiato da allora. Tanto che quando guardo le foto di allora stento persino a riconoscermi.
Ne ho passate molte nel corso di questi due anni, insieme a queste persone: non appena ho incontrato Rose ho del tutto perso la testa per lei, complice il fatto che nello show Ygritte e Jon sono innamorati. Ero pazzo di lei, eravamo felici, eccitati dall’intenzione di tenere segreta la nostra relazione ai media e facevamo sesso estremo.
Come siamo passati da lì a Rose che mi urla in faccia che tutto per lei era un gioco? A Rose che se ne va dal mio appartamento sbattendo la porta?
Certe volte mi guardo intorno e non capisco come io sia finito qui. Mi guardo intorno e tocco con mano quanto io sia un disastro, per me stesso e per gli altri.
Sara si avvicina a me, disorientata, come per cercare incoraggiamento. Osserva il set preoccupata, e non ha la minima idea di cosa le succederà da qua a cinque minuti.
I miei occhi accarezzano i capelli biondi e mossi, la morbida curva del suo viso tondo, gli occhi grandi di nocciola. In me nasce l’istintivo desiderio di non essere per lei lo stesso disastro che sono stato per Rose, di non deluderla, di non farla scappare via da me.
Vorrei stringerla tra le mie braccia, baciarla, accarezzarla, farle sentire tutto l’amore che merita.
Mio Dio, sono innamorato di lei.
Come è possibile?

 

*Sara*

 - Ah, Sara, eccoti qui.
David Benioff sbuca tra la frenetica folla di fronte a noi e si avvicina.
- Non avere paura di lui, Fawny, è un brav’uomo. – Sussurra Kit nel mio orecchio.
- Non penso che mi abbia visto di buon occhio ieri, brav’uomo o no – ribatto mentre David si fa sempre più vicino. Tiene in mano un foglio e, giunto avanti a noi, si sistema un paio di occhiali da vista sul naso.
- Dunque, i nostri avvocati hanno già stilato un contratto a tempo determinato come costumista. Devi solo firmarlo. La paga annuale è di circa diciassette mila dollari, quella mensile si aggira intorno ai millequattrocento. Mi serve solo il tuo numero di cellulare e possiamo chiudere la questione e dare il via alla collaborazione.
- Questo… potrebbe essere un problema.
- Mh? E perché mai? – Alza il naso dal foglio e mi squadra.
- Io… non ho un cellulare – abbasso lo sguardo.
L’occhiata che mi lancia è a dir poco sospettosa. Mi studia per qualche secondo, poi si mette le mani sui fianchi con fare severo.
- Sara, sei immischiata in qualcosa di illegale?
Arrossisco per la sorpresa. – No!
- Hai ucciso qualcuno?
- No! Come le viene in mente?
- Ti droghi?
- No! La vuole smettere di lanciare accuse a caso!
- Allora dammi una ragione valida perché tu non debba avere un cellulare, né un numero di telefono! – Sbotta.
- Si è rotto e la sim è andata a puttane. È successo pochi giorni fa e non ho avuto occasione di comprarne un altro.
David cerca di capire se nella mia risposta fiera ci sia qualcosa di sbagliato, poi sospira.
- Pensi di riuscire a chiudere la questione per l’ora di pranzo?
- Non lo so. Penso di sì.
Mi porge il contratto. – Riportamelo quando lo avrai firmato.
Alza i tacchi e se ne va, lasciandomi sola con Kit, che sembra che abbia visto un fantasma.
- Quindi sono in prova. Se è a tempo determinato, vuol dire che sono in prova.
- Non credo – balbetta. – Di solito ti definiscono “in prova” se non sanno se chiamarti nella crew al trasferimento in Islanda. Da quel punto di vista sei in prova, ma sotto tutti gli altri aspetti sei assunta.
Mi volto a guardarlo. È pallido e deglutisce a tutta forza.
- Ti senti bene?
Annuisce. – Vado a cambiarmi. Scusa, Fawny.
Mi volta le spalle e se ne va anche lui, lasciandomi sola a guardarmi in giro.
Mi sforzo di pensare che qui non ho nulla da temere.
- Sara Vitali?
Una voce di donna mi fa voltare, rivelandosi una secca stangona dai radi capelli di fiamma.
- Sono Michele Clapton, la costumista. – Mi porge la mano con un sorriso rassicurante. – Mi hanno detto che da oggi sarai la mia nuova assistente. Sia ringraziato il cielo, perché non riesco a stare dietro a tutti quanti. Ti spiace seguirmi?
Mi scorta attraverso gli Studio, mostrandomi in fretta dove si trovano la sala mensa, i bagni, i vari set finamente decorati, e alla fine la sala costumi: uno sterminato stanzone di compensato strabordante di abiti appesi alle grucce. Abiti sintetici, spessi e piumosi, e ogni gruccia porta un volto e il nome del personaggio corrispondente. Michele mi porta attraverso i corridoi di appendiabiti, con la stessa disinvoltura di un trapezista nell’arena del circo.
Io mi sento come la foca che tiene una palla in bilico sul naso, mentre tutti la guardano e ridono e applaudono facendosi beffe di lei.
“Nessuno ti caga, Sara. Nessuno ti caga”.
- Il tuo compito a inizio giornata è aiutarmi a dare i giusti costumi ai giusti attori. Di solito lo farei insieme a te, ma oggi mi hanno chiesto di fare delle modifiche straordinarie al costume di Rattleshirt e dovrai cavartela da sola. È un problema?
- No, assolutamente no! – Rispondo con un sorriso forzato.
- Meno male! – ride Michele. – Ci vediamo appena posso!
Sparisce in pochi secondi, lasciandomi sola nel grande stanzone.
Non mi resta che guardarmi intorno ancora un po’.
Passando fra gli appendiabiti osservo i vari costumi di Alliser Thorne, Maestro Aemon, Samwell Tarly, Ygritte, senza avere la minima idea di chi siano o cosa rappresentino i personaggi all’interno della storia.
Passo qualche minuto in silenzio.
- Ciao! Sei tu la nuova?
Un omone alto almeno quindici centimetri più di me e dalla folta barba rossa mi si avvicina con un gran sorriso. Sembra la versione irlandese del Grande Gigante Gentile. Mi stringe vigorosamente la mano.
- Sono Sara Vitali – mi presento ignorando il dolore alla mano chiusa nella sua morsa.
- Kristofer Hijvu. Piacere di conoscerti.
Strano, non ha l’accento irlandese.
- Sei di Belfast?
Si mette a ridere, di una risata che potrebbe scuotere le pareti. – No, sono di Oslo!
Cacchio! È norvegese?!
- Ti chiedo scusa per la gaffe…
- Nah, non preoccuparti, me lo chiedono spesso! – Mi fa l’occhiolino. – Potresti darmi il mio costume?
Divento una statua di sale e inizio a balbettare monosillabi.
Kristofer si avvicina e mi suggerisce in un sussurro: - Sono Tormund Giantsbane.
Ah. Ora ricordo!
- Vado subito a prenderlo!
Inizio a correre fra i costumi, cercando freneticamente quello di Kristofer.
Non immagino neanche lontanamente che questo sia solo l’inizio.

Scusate per la lunga attesa! Ho appena finito gli esami universitari e la sessione estiva è stata allucinante!
Spero che la storia continui a piacervi
Baci
Nut

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Capitolo 6
*** Alors On Danse ***


Alors On Danse

Alors on sort puor oublier
Tous les problèmes
Alors on danse
Et la tu t’dis que c’est fini car
Pire que ça ce serait la mort.
Qu’en ty crois enfin que tu e’en
Sors quand y en a plus et ben
Y en a encore!

[Andiamo per dimenticare
Tutti i problemi
Andiamo a ballare
E quando ti dici che è finita
Perché peggio di così c’è la morte
Quando finalmente credi che
Te ne stai uscendo,
quando non ce n’è più
in realtà ce n’è ancora!]
- Stromae

La fine della mia terza giornata di lavoro è arrivata come la rinnovata quiete dopo la tempesta, agognata e quasi silenziosa, insieme a un bel bicchierino di caffè.
La frenesia di fine giornata per ricatalogare ogni costume di scena, il personaggio a cui appartiene ed eventuali danni che ha subito si è conclusa da una decina di minuti, lasciando solo me la costumista Sheila, una bellezza africana dai lunghi capelli d’ebano e un dolce e bianchissimo sorriso. Il suo ultimo compito della giornata è quello di selezionare i capi che devono essere rinfrescati dalla lavanderia per essere pronti il giorno dopo; il mio è quello di riordinare le infinite pile di progetti per nuovi costumi che Sheila e il suo team disegnano e preparano nel corso della giornata. Io ho finito, lei è agli sgoccioli. Bevendo il disgustoso caffè della macchinetta a occhi chiusi, stilo un resoconto mentale degli ultimi, spossanti giorni.
La sera del mio primo giorno Kit, rientrando da alcune faccende da sbrigare in città, mi ha messo fra le mani un pacchetto regalo. Conteneva un iPhone 5.
“Dentro ci sono i tutti i numeri del set, da quello di David a quello di Sheila. Il mio è fra le chiamate di emergenza, e se farai una qualsiasi chiamata internazionale, ad esempio ai tuoi genitori, ho fatto in modo che il numero appaia sempre criptato e irrintracciabile. Così nessuno ti disturberà”. Aveva concluso la frase con una smorfia di disprezzo, come se dirmelo gli provocasse un’ondata di nausea nello stomaco. Io non riuscivo a dire nulla per ringraziarlo. Senza pensarci due volte e prima che mille dubbi mi assalissero l’ho abbracciato, avvolgendolo e inspirando il suo aspre profumo. Kit, un po’ sorpreso, ha ricambiato la stretta affondando il viso nei miei capelli. Il battito del suo cuore era così profondo che risuonava anche nel mio petto. Ho lasciato che fosse quello a parlare per me, e sono stata immersa di nuovo da quel senso di benessere che cerco da due anni e che ho trovato solo fra le sue braccia.
In questi tre giorni ho imparato un sacco di cose: ad assegnare ogni costume al rispettivo attore in tempo di record, a rattoppare in pochi minuti uno squarcio in un costume, a usare la macchina per cucire.
Ho conosciuto gli attori del set: Kistofer Hivju (Tormund Giantsbane), Hannah Murray (Gilly), John Bradley (Samwell), il cieco Peter Vaughan (Aemon Targaryen). E ho conosciuto Rose.
Nel momento in cui i nostri sguardi si sono incrociati, foto viste da oscuri giornali di gossip sono uscite da un cassetto della mia mente e hanno cominciato a scorrermi davanti agli occhi: foto che ritraevano lei e Kit seduti al tavolo di un café con le dita intrecciate, a passeggio per le strade di Londra, foto in cui si baciano. “Lei non è la signorina Rose”, aveva detto Dolores, la donna delle pulizie. “Si è lasciato due settimane fa con quella bruta”, risuonava nelle mie orecchie la voce di mia madre.
Lei è l’ex ragazza di Kit, ed è bellissima.
Dopo quei pochi secondi passati a studiarci a vicenda Rose mi ha sorriso. “Potresti darmi il mio costume, per piacere?”. Mi ha stretto la mano quando gliel’ho dato. “Sono Rose. Sei Sara, vero? È vero quello che si dice in giro, che vivi in casa di Kit?”.
Stavo per prendere la pala e cominciare a scavarmi la fossa quando qualcuno l’ha chiamata sul set e lei si è dileguata dopo un accenno di saluto, rinunciando a conoscere la risposta.
- Sara? – La vivace e potente voce di Sheila mi riscuote dai pensieri come un campanellino. – Abbiamo finito per oggi, puoi anche andare a casa.
- Grazie, Sheila. Non c’è bisogno che metta a posto tutto quanto?
- No, tranquilla, non serve. – Posa la borsa sul tavolo a cui sono appoggiata con uno stanco sorriso. Dopo un attimo di silenzio passato a osservarmi con quegli occhi nerissimi, abbassa la voce e si china su di me. – Sai, ho sentito dire che gli attori stanno dicendo delle grandi cose su di te a David. Ci ho aggiunto del mio, ovviamente, e pare che lui non ti consideri più una spina nel fianco. Penso stia prendendo fiducia nelle tue capacità. – Mi fa l’occhiolino. – Continua così e potrai venire in Islanda con noi.
Porta un dito alla bocca in segno di far silenzio, come per suggerirmi di tenerlo per me, poi prende la borsa e se ne va.
Appena esce dalla sala lascio che il sollievo si impadronisca di me, sorrido e mi lancio in una danza della vittoria.
La sala costumi, Matteo, il lavoro, gli ultimi due anni sembrano sparire dalla mia mente come la nebbia del mattino al sorgere del sole e tutto attorno a me si trasforma in energia mentre mi alzo sulle punte delle sneaker e una sequenza di arabesque ad occhi chiusi.
Sono due anni che non accenno un passo di classica, disciplina a cui ho applicato tutta me stessa sin dalla mia prima infanzia. C’è un motivo se non indosso mai scarpe aperte: i miei piedi sono rovinati. La danza è sempre stata la mia passione, sia quella classica che quella moderna, anche se preferisco di gran lunga la leggerezza e la sinuosità dei passi di classica.
È da quando è cominciato il brutto periodo della relazione con Matteo che non ballo a causa del mio sentirmi sempre inadatta, inseguita, impaurita, sola. Incontrare Kit e ottenere questo lavoro mi ha restituito la danza, e di conseguenza anche la vita perché la danza è vita.
Stento a crederci, ma sono due giorni che non penso a Matteo e a tutto quello che mi è capitato. Sul set sto facendo amicizia con la crew e gli attori, sto stringendo un profondo legame con Kit, sto facendo qualcosa che mi fa sentire importante per qualcuno. Sto vivendo di nuovo la mia vita, sto respirando di nuovo, e sono così felice che dai miei occhi chiusi le lacrime cominciano a rigarmi il volto.
Una mano si chiude intorno alla mia e io spalanco gli occhi, ritrovandomi davanti il dolce sorriso di Kit.
- Non fermarti – sussurra come commosso, sollevando la mano e facendomi fare due giravolte su me stessa. Lo afferro per un fianco per farlo ballare con me ma lui si ritrae.
- Non so ballare – spiega imbarazzato.
- Ti insegnerò, allora – sorrido.
- Un’altra volta. Anzi, sono venuto a chiederti se stasera ti va di venire con me e gli altri in un locale qua vicino. C’è musica, roba da mangiare, e antipaparazzi. Pare ci sarà un po’ di chiasso, e credo che possa fare del bene a entrambi. Che ne dici?
- Mi concederai un ballo? – Chiedo ammiccando.
- Certo – Sorride, legandosi i capelli in un man bun.
- Allora ci sto.

Il locale è veramente pieno di gente: chi chiacchera, chi sta seduto al bancone del bar, chi balla. La musica non è proprio del mio genere e le luci stroboscopiche pulsano come un colorato battito cardiaco, costringendo tutti quanti a farsi trascinare dal ritmo, dalla luce e dal bere in una spirale di divertimento e alcolici.
Non mi sono mai trovata a mio agio in questo genere di locale, ma la presenza degli attori con cui sto facendo conoscenza e della dolcissima moglie di Kristofer, Gry, riescono a tranquillizzarmi, tanto che è quasi facile ridere e scherzare con tutti, persino con Rose. Siamo sedute una davanti all’altra e condividiamo una ciotola di patatine. È una brava ragazza, e davvero non capisco come mai lei e Kit si siano lasciati. Ogni volta che in questi giorni ho provato a toccare l’argomento lui si è ritratto come da una fiammella accesa, quasi irritato. La questione sembra tormentarlo.
C’è anche Richard stasera, e per fortuna sto riuscendo a cancellare la prima impressione che gli ho dato quando ci siamo conosciuti: doveva pensare che fossi come una gazzella cacciata da un leone, perché stasera si è avvicinato a me circospetto, quasi esitante, come se pensasse che scapassi via dopo avergli sferrato un cazzotto sul naso. Gli ho sorriso, ho iniziato la conversazione… e lui si è rilassato. Non avevo notato di quanto fosse attraente: sembra veramente uno dei principi azzurri su un cavallo bianco. Inoltre, è tremendamente simpatico ed è il migliore amico di Kit: si diverte a parlargli alle spalle, ma lo fa senza la minima traccia di cattiveria. Dal momento che regge a malapena l’alcool, non essendo un bevitore esperto, mi sta facendo ammazzare dalle risate.
Se ci avessi pensato una decina di giorni fa non avrei mai creduto di potermi trovare in una situazione del genere, mai e poi mai: circondata da amici, in un bar affollato, senza sentirmi in trappola o in pericolo.
Kit atterra sul tavolo a cui Rose, Richard e io siamo seduti, posando un bicchiere di mojito quasi vuoto, spaventando sia me che Rose. Penserei che è ubriaco, se con la coda dell’occhio non l’avessi visto inciampare nei propri piedi. E poi, Kit regge litri di alcool come fosse acqua, da bravo bevitore esperto.
- Ti avevo promesso un ballo, ricordi? – Urla per farsi sentire al di sopra della musica. Rose sembra ignorarlo ostentatamente, voltandosi come offesa dall’altra parte mentre Kit mi prende per mano e mi conduce al centro della pista. Dal contatto delle nostre mani un brivido mi percorre tutto il braccio fino ad arrivare sulla nuca, riuscendo a farmi drizzare tutti i peli. Non riesco a dare un senso alle farfalle che sento nello stomaco, ma non posso ignorarle nonostante i miei sforzi.
Il deejay sta mandando “Alors on danse” di Stromae e la gente attorno a noi si dimena come tarantolata. Kit, perfettamente consapevole delle sue azioni, mi prende per i fianchi e mi avvicina a sé cominciando a condurmi in ritmo di danza atipico, piantando lo sguardo nel mio e facendomi dimenticare tutto il resto del mondo. In questo momento esiste solo il suo scuro e profondo sguardo su di me e io non riesco a guardare nient’altro.
Mi solleva di nuovo la mano e io giro ancora su me stessa, coi capelli che mi finiscono. Kit ride e lo facciamo di nuovo, di nuovo e di nuovo. La testa mi gira, ho lo stomaco sottosopra, ma non voglio smettere. Il contatto dell’intero corpo di Kit contro il mio mi fa sentire oltre questa terra, mi fa sentire nuda, mi avvolge e mi riscalda, mi fa perdere coscienza di me e delle mie azioni, mi manda in confusione totale.
Che cosa significa?
Lui ha detto di non saper ballare, ma le sue mani sui miei fianchi sanno esattamente cosa stanno facendo. Conosce il ritmo della canzone e sa condurmi nella danza.
Sto ancora girando. Solo quando rischio di finire per terra Kit smette di farmi fare la trottola e scoppia ancora a ridere, staccandosi da me e interrompendo le scariche di brividi che mi percorrono il corpo.
- Forse è meglio se vado a prendere qualcosa da bere!
Annuisco togliendomi i capelli dagli occhi. Lui si allontana e io ne approfitto per osservare le persone intorno a me, e le coppie felici che ballano stringendosi a vicenda. Eseguo qualche pirouette, stando attenda a non dare una ginocchiata nei reni a qualcuno, aspettando Kit.
Poi, qualcosa di familiare attira il mio sguardo, e lo stomaco mi cade nella pancia con un tonfo. Mi fermo, trasformata in una statua di sale, e il cuore che fino ad ora era pieno di felicità comincia a battermi freneticamente contro lo sterno, tornando a riempirsi di angoscia. Tutta la mia ritrovata serenità, di colpo, va in frantumi con rumore di vetro spaccato, rotta dalla visione seminascosta dalla folla, che appare e scompare velocemente ogni volta che qualcuno gli passa davanti e lo nasconde dalla mia vista.
I lisci e sbarazzini capelli color biondo scuro, il profilo greco, le imponenti spalle e la maglietta attillata.
Ha una pettinatura diversa ed è voltato dall’altra parte, ma è solo e non parla con nessuno. Quello è…
“Merda!”.
Matteo.
No, no, non può essere…
Mi ha trovata.
Ce l’ha fatta.
Matteo è qui.
Oh merda, merda, merda…
Sento l’adrenalina che circola a tutta forza nelle mie vene mentre le gambe, lentamente e con cautela, si schiodano dal pavimento.
Devo trovare Kit.
Kit, Kit, Kit…
Ho bisogno di lui.
- MALEDIZIONE, KIT!
Arrivo al bancone del bar e mi guardo freneticamente intorno, cercandolo.
La mia serenità è davvero durata così poco… dovevo godermela di più. Adesso è tutto finito, sono tornata com’ero prima di incontrare Kit.
Una coppia si allontana dal bancone e finalmente lo vedo. Sta ringraziando il barista prendendogli dalle mani due boccali di birra pieni fino all’orlo.
Ancora prima di rendermene conto gli sono accanto e gli ho posato le mani sui fianchi, in un accenno di abbraccio, tornando a scrutare in mezzo alla folla per ritrovarlo. È lontano, ma vedo chiaramente che mi sta guardando.
Merda, merda, merda…
- Cosa c’è? – Kit posa i boccali sul bancone e mi prende per le spalle. – Sara, stai tremando, che c’è? Che è successo?
Tento di parlare, invano. Delle lacrime mi velano gli occhi. Apro e chiudo la bocca a ripetizione come un pesce. Lui mi scuote piano.
- Sara, mi stai facendo preoccupare! Cos’hai?
- Lui è qui!
Il mio grido strozzato è stato abbastanza chiaro da fargli capire di chi sto parlando. Le sue braccia mi avvolgono, spostandomi verso il bancone e nascondendomi il viso nel suo petto. “Bâtard” di Stromae sta facendo pulsare l’intero locale.
- Dov’è?
I suoi bei lineamenti sono distorti dall’ira, il suo sguardo esprime un odio che contrasta con la sua persona. Mi stringe saldamente, quasi compulsivamente, e le sue braccia sono scosse da lievi tremori.
Riesco a indicare quasi subito Matteo tra la folla. Adesso è di spalle.
- Quello con la maglia verde…
- Resta qui.
Mi lascia andare e a grandi passi comincia a farsi spazio tra la folla danzante. Involontariamente le mie gambe cominciano a muoversi nella sua direzione, facendosi a malapena strada in mezzo alla pista.
Kit si sta dirigendo inesorabile verso Matteo, che proprio in questo momento si volta verso di me.
Non sarà che Kit voglia… Ma aspetta… Matteo non ha gli occhi verdi! Quello non è lui!
- Kit, ASPETTA!
Ma lui è già arrivato a destinazione, e l’ha preso con prepotenza per una spalla, costringendolo a voltarsi. Il ragazzo che ho erroneamente scambiato per Matteo ha solo il tempo di esalare un’esclamazione di sorpresa, che Kit gli sferra un violento pugno in pieno volto, mandandolo a terra. Quelli che un secondo fa stavano ballando attorno a loro fanno immediatamente spazio, sorpresi e incuriositi.
- Ma che cazzo! – Lo sento urlare al di sopra della musica, subito prima che Kit lo sollevi per il bavero della maglietta e ne tiri un altro. Il capannello di persone esclama.
Lo raggiungo di corsa e cerco di tenerlo lontano dal ragazzo a terra.
- Kit, Kit, fermati! Lascialo andare!
Cerco di tenerlo lontano spingendolo sul petto con entrambe le mani, ma lui sembra ignorarmi completamente. Richard e Kristofer arrivano in mio soccorso, tenendolo fermo per le spalle, circondandogli le braccia.
- Kit, che cazzo stai facendo? – Esclama Richard. – Fermati, amico!
Persino Kristofer, un colosso, sta facendo fatica a tenerlo fermo.
- Ma sei matto? – Il ragazzo si alza da terra con la faccia coperta di sangue, tenendosi il naso ormai rotto.
- Lasciatemi andare! – Grida Kit, furioso.
- Kit, non è lui! Sono due gocce d’acqua, ma non è lui!
Si blocca e mi fissa sconvolto, il petto ansante.
- Cosa??
- Lui. Non è. Matteo.
- Si può sapere chi cazzo è Matteo? – Il ragazzo parla a fatica. – Io chiamo la polizia!
- Ti prego, ti prego non farlo -. Cerco di convincerlo tirando fuori dalla borsa dei fazzoletti e cominciando a pulirgli la faccia. Lui si ritrae, dolorante. – È stato un incidente. Ti abbiamo scambiato per un'altra persona!
- Non me ne frega un cazzo! Mi ha rotto il naso!
- Ti prego…
- Che succede qui? – Il buttafuori si è avvicinato minaccioso, mentre Richard, Kristofer e gli altri del nostro gruppo ci guardano allibiti.
- Noi…
- Vaffanculo. – Kit mi afferra la mano stringendola in una morsa e mi trascina fuori dal locale.

- Mi dispiace da morire. Perdonami Kit.
Siamo seduti al bancone della sua cucina e io gli sto applicando degli impacchi di ghiaccio sulle nocche della mano destra tutte tagliate e rosse di carne viva. Se le è aperte menando quel ragazzo.
Ho guidato io fino a qui, lui non ha detto una parola da quando siamo usciti dal locale, senza dare la benché minima spiegazione al ragazzo, al buttafuori, a Richard e agli altri.
Resta in silenzio, ma sento il suo sguardo su di me. Sguardo che non riesco a sostenere per la troppa vergogna.
- Erano identici tranne che per il colore degli occhi. Dio, non sai quanto mi dispiace… ti sei messo nei guai per colpa mia, chissà se quello avrà chiamato la polizia per davvero…
- Lo avrei ucciso, se fosse stato davvero lui.
Alzo lo sguardo, incontrando il suo: non è arrabbiato, triste o angosciato. Mi guarda con dolcezza infinita.
Ci sono tante cose che vorrei chiedergli su questo, ma tutto ciò che le mie labbra riescono a formulare è solo “Perché?”.
- Davvero me lo chiedi? – Sorride tristemente. – Davvero non riesci a capire che meriti amore, e non la violenza che quel verme ti ha fatto? Non capisci che sei molto di più di quello che lui ti ha fatto credere? – Si sporge verso di me. – Davvero non capisci che c’è qualcuno che ti ama, e che quel verme merita la castrazione per averti fatto credere di non essere quello che sei, e la morte per aver alzato un dito su di te? 
Rimango ammutolita, incapace di dire niente, ipnotizzata da quello sguardo.
Kit è un amico.
È un amico?
Cosa sono le farfalle nello stomaco che sento in sua presenza?
Che cosa significa veramente quello che ha appena detto?
Abbasso lo sguardo, tornando a tamponargli le ferite con l’impacco.
Lo sento sospirare.
- Hai conosciuto Rose – osserva. – Credevo che fosse l’amore della mia vita. – Torno a fissarlo, attenta e incredula. Lui spiega tra leggere smorfie di dolore. – Ci siamo conosciuti sul set. Ero attratto da lei, e la complicità che c’è tra i nostri personaggi ha giocato a nostro favore. Ci siamo messi assieme ed eravamo felici, e il sesso era… fantastico.
I nostri sguardi si incrociano per un secondo, poi lui abbassa gli occhi e continua: - Siamo stati insieme per sei mesi, felici come in luna di miele; poi hanno cominciato a girare foto di lei insieme ad altri uomini, sempre più frequentemente. Non volevo crederci, ma alla fine ho dovuto chiederle spiegazioni. Abbiamo litigato furiosamente quella sera, proprio in questa stanza. Alla fine lei mi ha urlato in faccia che la nostra relazione per lei era solo un gioco, e mi ha lasciato su due piedi, sbattendosi la porta dietro le spalle.
“Puttana”.
- Ne sono uscito male, annegato nell’alcool. Non influiva sulla mia performance al lavoro, ma nella vita privata ho combinato una serie infinita di disastri. Ho sempre creduto nell’amore a prima vista, e ci credo ancora nonostante la batosta, ma dopo quella sera ho pensato per molto tempo che tutto quello in cui mi sarei buttato, sentimentalmente parlando, sarebbe stato un disastro e non avrei mai smesso di soffrire. A poco a poco mi sono convinto che sarei morto da solo. Il cinismo mi calzava già a pennello, credevo che l’amore in realtà non esistesse. E poi…
Una pausa, fin troppo lunga per i miei gusti.
- E poi?
Di nuovo il suo sguardo si inchioda nel mio. Prende fiato un paio di volte prima di parlare.
- Poi ho incontrato un’impaurita ragazza bionda in un bar.
Conclude con un accenno di sorriso dalla bocca, ma tanto basta a farmi esplodere la testa e a mandarmi sottosopra lo stomaco.
Ecco il perché del bacio la sera in cui ci siamo conosciuti.
Kit è un amico, o mi ostino a considerarlo tale? Se è un amico, perché mi sento così ogni volta che mi sfiora, che sono insieme a lui?
Ha fatto a botte con uno sconosciuto, credendo che fosse Matteo, per vendicare i torti che mi ha fatto.
Non è soltanto un amico. Posso pensare quello che voglio, ma non lo è.
La sua ultima frase mi rimbomba in testa come in una caverna.
“Credevo che l’amore non esistesse, poi ti ho incontrata.”
Lascio cadere il ghiaccio a terra, schizzando acqua da terra, mi alzo dallo sgabello, mi butto verso di lui e lo bacio intensamente.

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Capitolo 7
*** Son of Man ***


Son of Man
 
In learning you will teach
And in teaching you will learn
You’ll find your place beside the
Ones you love.
Oh, and all the things you dreamed of
The visions that you saw
Well, the time is drawing near now
It’s yours to claim in all!
- Phil Collins, Disney
 
- Sara, so che hai molto da fare e sono le sei del mattino, ma potresti portare questi nuovi progetti agli hair-stylist? Non te lo chiederei se potessi farne a meno.
Sollevo gli occhi alla lista giornaliera dei nuovi costumi e accetto con uno sbadiglio i fogli che Sheila mi sta porgendo.
- Certo, lo faccio subito. Dai pure.
- Grazie mille, sei un tesoro! – Sorride catapultandosi di nuovo nella selva oscura di costumi. Chi pensa che il lavoro da costumista non sia pesante, si sbaglia di grosso.
Gli hair-stylist lavorano subito in fondo al corridoio, segnando il confine tra la Follia Costumisti e la Follia Parrucchieri (siamo tutti completamente sclerati). Sembra poco, ma per chi non ha ancora bevuto il caffè è una distanza enorme.
Apro la porta con una spallata e il rumore dei phon, prima attutito, ora si fa assordante.
- Buongiorno Ed, Izy! Come va? Ciao Hannah!
Sorridenti come se non fossero fuori dal letto da meno di un’ora, Edward Collins e Isobel Grey. Il primo sta sporcando a dovere la parrucca di Hannah Murray, la seconda si sta preparando a truccare la carovana di attori in costume che da qui a dieci minuti comincerà a varcare la soglia.
- Ciao, Sara, tutto bene!
- Sono venuta a portarvi i nuovi progetti.
- Certo, posali pure lì! – Esclama Izy indicando con un cenno del capo il tavolo accanto a me.
Faccio come mi ha detto e sto per andarmene, quando Ed mi afferra per un polso e mi costringe a girarmi. Domino l’istintiva paura di ritrarmi, sapendo che non ha cattive intenzioni, che non mi farebbe mai del male soprattutto davanti a testimoni, e soprattutto che è gay fino al midollo delle ossa.
- Che cosa hai fatto ai capelli? – Domanda inquisitorio, piantando un occhio quasi pazzoide sul colore della tinta che con varie docce ha cominciato ad andare a farsi benedire.
- Io? Beh, oh… hai presente la tinta dei capelli che se ne va con la doccia?
Mi guarda come se avessi detto che Johnny Depp è un cesso.
- Hai usato quello schifo sui tuoi capelli?? Ci credo che sembrano una balla di fieno! Hai una ricrescita che arriva fino al Cunnecticut!
Aggancia una sedia con un piede e mi ci fa sedere. – Ora stai lì che ti riporto al tuo colore naturale!
- Eeeeed… Fra cinque secondi comincerà la routine per i costumi, non posso mancare, è il mio lavoro!
In tutta risposta quello si china su di me , puntandomi un dito sul naso con fare minaccioso.
- In pausa pranzo. Vieni, o giuro che ti vengo a cercare e ti butto in pasto agli squali.
 
La solita routine costume-attore del primo mattino si è appena conclusa, lasciando quasi tutte le grucce, di solito stracolme di buste di plastica, completamente vuote. Michele, Sheila e io abbiamo approfittato della calma temporanea per andare a prenderci un caffè alle macchinette. Le due donne stanno mescolando l’acquetta colorata che chiamano caffè americano nei bicchierini di plastica, io ho optato per versare un po’ di cappuccino nella grande tazza verde pistacchio che mi sono portata da casa. Sto bevendo in silenzio, prestando un orecchio ma poca attenzione al discorso delle due donne che si stanno scambiando i gossip più succulenti del set. Non possono sapere della rissa e, soprattutto, del bacio. Non possono chiedermi niente di compromettente.
- Dicono che questo sabato sarà il più caldo degli ultimi ottant’anni, ci saranno 35 gradi!
- 35 gradi, a maggio, a Belfast?
- Sì!! E dicono che David B. voglia prendere la barca e invitare gli attori a fare un giro in spiaggia!
- Oddio, quanto mi piacerebbe andarci!
- Te lo immagini poter finalmente vedere Richard in costume da bagno? E Kit?
Ridacchiano entrambe.
- A proposito! Ehi, Sara, ma è vero quello che dicono in giro? Vivi a casa di Kit?
La domanda di Michele mi fa andare di traverso il cappuccino, che per poco non mi esce dal naso. Cerco di trovare in fretta una storia plausibile approfittando della scarica di colpi di tosse, cascata proprio a fagiolo.
- Beh, io… - mi guardano, attendendo curiose. – Beh, sì, ho il piano di sopra. Kit mi ha fatto la gentilezza di darmelo in affitto qualche giorno fa.
Annuiscono in visibilio, commentando entusiaste sul comportamento di Kit: - Che uomo meraviglioso! Un vero gentiluomo!
- Sì, è stato davvero gentile.
- Ma non vi conoscete da molto tempo! Come vi siete conosciuti? – Domanda Michele, sempre più interessata.
- In un bar, un po’ di tempo fa. – Meno sospetta, meno sospetta, meno sospetta… - Ci ha presentati suo fratello a una festa.
- Ah, adesso abbiamo capito! – Sorride Sheila. – Quindi hai il piano di sopra? Quello occupato da Rose?
- Sai che non è mai tornata a casa di Kit a riprendersi la sua roba? – Dice Michele a Sheila, e poi di nuovo verso di me: - Ci sono ancora le cose di Rose al primo piano?
- Sì, ma sono messe in una scatola. Io non le ho mai toccate. – Mi stringo nel maglioncino, pregando che loro non sentano lo Chanel n. 5 che ho trovato nel ripiano del bagno e che mi sono spruzzata stamattina sul collo, giusto per sfizio.
Kit mi ha parlato di suo fratello John detto Jack, ma soltanto vagamente.
- Ciao, bionda! – L’allegra voce di Richard proveniente da dietro di me ci fa balzare tutte in aria. – Ehi, calme signore! Non vi mangio!
Si appoggia allo stipite della porta, guardandomi con un sorriso birichino sulle labbra. L’abbigliamento quasi total-denim non fa altro che risaltare il color cielo dei suoi occhi. – Si può sapere cos’ha preso a Kit ieri sera? L’avrei chiesto direttamente a lui ma è giù a girare un paio di scene. Allora?
- Che è successo? – Le due costumiste sono a un tratto tutt’orecchi.
- Kit ha preso un pugni un tizio completamente a caso! Non riuscivamo a tenerlo fermo, solo Sara è riuscita a farlo ragionare! – Punta lo sguardo su di me. – Non mi dispiace vedere Kituccio farsi sotto di tanto in tanto, ma vorrei avere la conferma che sia stato per una ragazza… - Conclude facendomi l’occhiolino.
- Non è stato per me.
- Balle! – Tossisce una risata.  – Si vedeva dall’Inghilterra che era per te.
- No, non era per me. Un tizio gli ha rigato la macchina l’altro giorno e Kit è riuscito a vederlo di sfuggita e quando ha visto quel ragazzo nel bar ha pensato fosse lui.
- Sara, dai andiamo! Stai attenta al tuo naso, si sta facendo così lungo che a momenti mi entra in un occhio. – Si avvicina, sorridendo sornione. – In tre anni di conoscenza non ho mai visto Kit fare a pugni per una cosa così stupida.
“Se solo sapessi cos’è successo quando siamo arrivati a casa, amico mio, mi tacchineresti da qui all’eternità”.
Uno svolazzare di piume nere attira il mio sguardo nel corridoio: Kit sta passando davanti a noi proprio in questo momento, fuori dalla porta.
- Prova a chiederlo a lui! Ehi, Kit!
Lo raggiungo nel corridoio e lo trascino dentro tirandolo con una mano, cercando di ignorare le pulsazioni accelerate del mio cuore, lui vagamente confuso.
- Che ho fatto? Io dovevo andare in bagno! – Si lamenta ritrovandosi con me, Richard, Michele e Sheila immobili a fissarlo.
- Richard vuole sapere se è vero che tu ieri sera abbia preso a pugni quel ragazzo perché ti ha rigato la macchina.
Mi squadra come se mi mancasse visibilmente qualche rotella. – Ma che stai…
Si blocca sotto le mie occhiatacce quasi assatanate. In questo momento potrei avere la scritta “Reggimi il gioco” lampeggiante al neon sopra la testa.
- Oh, sì! Beh, ha ragione Rick, dovresti darle retta. Scusate, ero un tantino ubriaco ieri.
Gli occhi di Rick stanno urlando “Non me la date a bere”.
- Se era un tizio a caso –, domanda, – come mai lo chiamavate Matteo?
- Un nome in codice – azzarda Kit. – Stava a indicare il tizio in questione, così avremmo capito subito di chi stavamo parlando.
Rick si sbatte una mano sulla fronte mentre Michele e Sheila, che fino a un momento fa stavano seguendo la conversazione con tanto d’occhi, scoppiano a ridere.
- Io rinuncio a capirvi, ragazzi. Vado a farmi un giro, Dio non voglia che riesca a trovare gente normale! – Esclama uscendo dalla porta.
- E noi andiamo in sala costumi a riordinare, Sara. Che ne dici, te la senti di fare il Cucito Ultrarapido oggi? – Michele sorride rilassata mentre butta il bicchierino ormai vuoto nella spazzatura. Avere me e Sheila come assistente e seconda costumista gli ha tolto dalle spalle un gran peso.
Il Cucito Ultrarapido è uno dei compiti maggiori della costumista, o delle sue assistenti se ci si fida abbastanza: consiste nel stare appostati nell’ombra, assistendo alle riprese, e saltare fuori se qualcuno strappa il costume e lo rovina e rattoppare il danno senza che si veda troppo la differenza. Certi giorni non succede niente, altri sono una tragedia.
Che Michele mi abbia chiesto di farlo è una gran cosa.
- Certo, Mich! Puoi fidarti di me!
- Perfetto! – Usciamo tutti dalla microscopica saletta delle macchinette. – Allora ci vediamo dopo!
Corro a prendere la scatola per il Cucito Ultrarapido e mi dirigo verso le scale con le ali ai piedi.
Una mano sbuca da dietro l’angolo e mi trascina al riparo del muro.
- Ciao – Sorride Kit. I suoi dolci occhi scuri da cucciolo mi fanno sciogliere le ginocchia come burro. La mano guantata che mi ha trascinata da dietro l’angolo sta ancora indugiando sulla mia, accarezzandola. Intreccio le nostre dita con naturalezza, cercando di mascherare il tumulto di emozioni che mi cavalca nel petto.
- Attento, Jon Snow, potrebbero beccarci!
- E quindi? Ci stiamo solo tenendo per mano. Possono farlo anche due amici, no? – Chiude entrambi in un tentativo di occhiolino. - Volevo solo salutarti prima di iniziare la giornata vera e propria. E dirti anche una cosa.
- Ok! Spara!
Prende un profondo respiro e mi attira più vicino a sé, avvolgendomi alla vita. Il mio cuore va come un treno impazzito.
Tu-tum tu-tum tu-tum tu-tum..
- Non è facile parlarne a voce, di solito scrivo lettere… - sospira. – Farò uno sforzo: penso che dopo quello che è successo ieri sera sia piuttosto evidente che mi piaci. Ma con il fatto che è una situazione tutta nuova per te, che viviamo assieme e a conti fatti le nostre ultime relazioni sono state un vero e proprio disastro… insomma, io non voglio correre e se tu, per qualsiasi motivo, ti dovessi sentire a disagio, voglio che tu me lo dica in modo da risolverlo assieme. Ok? Non voglio che roviniamo tutto per fretta.
Mi serve qualche secondo per riprendermi, frastornata dalla piena consapevolezza che nel giro di pochi giorni la mia vita è completamente cambiata e che il grande vuoto nel mio cuore è stato improvvisamente riempito, proprio quando meno me lo aspettavo. E tutto per essermi trovata nel pub giusto al momento giusto, una volta nella vita.
Gli occhi di Kit mi osservano interrogativi, aspettando una risposta.
Mi avvicino e lo bacio su una guancia. – Ok.
- Ok – ripete in un sorriso, spostando una mano dalla vita sul volto e accarezzandomi col pollice. Arrossisco.
Per quanto tempo ho sognato un momento come questo? È come se il cuore fosse tornato a battermi nel petto, come se avessi ricominciato a respirare dopo un lungo periodo passato sott’acqua.
- Adesso andiamo, o verranno davvero a cercarci.
 
Non avevo mai visto Kit recitare. Guardare il Trono di Spade è una cosa, ma vederlo direttamente sul set è completamente diverso: è talmente bravo che non sembra nemmeno che stia recitando, sembra essere veramente Jon Snow. Muovendosi sul set, interagendo con gli altri attori, scherzando coi cameraman, il regista e i produttori, ha un’imponenza e un’intensità che lo circondano come un’aura e io non posso fare nient’altro che fissarlo rapita.
Nessuno strappa, scuce o slabbra il costume di scena e io me ne sto nel mio angolino tranquilla e silenziosa, almeno finché Ben Crompton, Eddison Tollett nel telefilm, cade da una barriera di legno col braccio teso. Crac!, si sente quando lui cade a terra urlante, la spalla deformata.
- Porca miseria, Ben! – David Benioff si alza di scatto in piedi dalla sedia dietro la telecamera, e assieme a tutti gli altri gli si avvicina. – Ti sei fatto male?
Anch’io sono scattata in piedi e ho mosso un passo nella sua direzione. Gli stanno tutti attorno come uno sciame impazzito di api.
L’antico istinto di fisioterapista si risveglia dal torpore e si fa strada in me, espandendosi a macchia d’olio e destando vecchie sicurezze.
- Chiamate Annabelle! – Abbaia David rivolto al nulla.
- Sono già qui!
Una donna dai capelli corvini, la dottoressa Annabelle Dorian, si butta in mezzo alla folla con una valigetta in mano.
- Lasciategli aria, ragazzi!
Tutti eseguono l’ordine, ubbidienti. Annabelle si china su di lui e gli sfiora la spalla, provocando un altro grido strozzato.
- Maledizione, la spalla è slogata!
- Puoi sistemarla? – Domanda ansioso David ancora chinato su di loro.
- Non sono capace, dobbiamo chiamare per forza l’ospedale…
- Io sono capace.
Ho parlato ancora prima di pensare di farlo, con voce sicura, ferma, non più mia.
David e la dottoressa si voltano verso di me: lei incuriosita, lui interdetto e scettico.
Mi faccio strada verso di loro, con passo sicuro, passando in mezzo alla folla e fermandomi al centro del cerchio. Costringo la consapevolezza che fra i presenti anche Kit mi stia osservando a non farmi alcun effetto.
- Io sono capace – ripeto. Persino Ben mi guarda come se fossi pazza.
- Sei capace? – Ripete David cinico.
Mi indico con un pollice. – Fisioterapista, ricordi? Ti conviene darmi retta, se non vuoi perdere una giornata intera di riprese. Lasciatemi passare.
Si scostano indugiando un po’, insicuri, chiedendosi se stanno facendo la cosa giusta.
Mi chino su Ben e gli afferro la mano della spalla slogata.
- Tranquillo, Ben, l’ho fatto altre volte. Andrà tutto bene.
Annuisce nervoso.
- Rilassati, ok? Conto fino a tre. Uno…
Con uno scatto veloce tiro il braccio verso di me, lo sposto verso l’alto e lo spingo indietro in un unico, fluido movimento. Un rumore attutito e il grido di dolore di Ben mi lasciano intendere che sono riuscita a mettergli la spalla a posto.
- Fatto! Ho fatto! È a posto!
Ben, col fiato corto, cerca di muovere il braccio prima timoroso, poi con più sicurezza una volta accortosi che non gli fa più alcun male. Le persone attorno a noi tirano un respiro di sollievo.
Mi volto verso David con un sorriso di trionfo, e lo sguardo che ricevo in risposta è totalmente diverso dal cinismo che sfoggiava in precedenza. Ha l’aria di uno che ha appena cambiato idea su una persona.
 
- Fate largo alla superstar! – Edward si esibisce in un inchino plateale. – Così sembri una modella!
- Non esagerare, Ed, potrei gonfiarmi come un palloncino! – Sorrido osservando il mio riflesso allo specchio. – Tu piuttosto hai fatto un lavoro spettacolare!
La tinta bionda è sparita, lasciando posto al mio ramato colore naturale, illuminato da qualche colpo di sole. Non solo Ed mi ha riportata al colore naturale con una sola mossa, ma mi ha anche aggiustato la pettinatura scompigliata e dato una nota di luce in più.
Gratis.
- Non so come sdebitarmi, Ed.
- Oh, di sicuro un modo c’è! – Si china su di me con una strana luce negli occhi. – Appena hai tempo, fisioterapista, che ne diresti di farmi un massaggio alle spalle? Ne avrei proprio bisogno!
Scoppio a ridere.
- Fawny? Sei qui?  - La testa di Kit sbuca dalla porta, con un sorriso raggiante. – Wow, sarebbe quello il tuo colore naturale?? – Annuisco. – Splendido. David chiede di vederti subito.
- Che ho fatto?
Mi fa cenno di seguirlo. – Vieni e basta.
 
Impossibile.
Non solo David mi ha stretto la mano scusandosi per aver dubitato delle mie capacità e avermi trattata con diffidenza, offrendomi un audace aumento di paga per essere la fisioterapista occasionale della crew – nonostante io non avessi una laurea – ma mi ha anche invitato alla giornata in barca insieme a lui e agli altri attori.
Ovviamente ho accettato di slancio.
È sabato a Belfast, e ci sono veramente 35 gradi. David, al comando di una barca a vela, ha portato Kit, Richard, Kristofer e la moglie, Hannah, John, Rose, Ben e me in una spiaggetta di ciottoli grigi inaccessibile se non via imbarcazione, situata in un’insenature della costa dell’Ulster. L’acqua cristallina, il cielo terso e lo spettacolare verde incontaminato che la circonda fanno sì che la spiaggia non sembri affatto in Irlanda del Nord, ma anzi in una caletta sarda.
Non essendomi portata dall’Italia vestiti estivi – considerato il freddo che regna in Irlanda 12 mesi l’anno -, ho pescato a caso nello scatolone pieno di vestiti di Rose e ho preso “in prestito” un costume nero a fascia, una larga canottiera bianca con dei pantaloncini di tela blu e un cappello di paglia. Non penso neanche che lei se ne sia accorta.
Kit indossa un’ampia maglietta sul costume, così come tutti gli altri uomini presenti oggi. Le signore, invece, indossano comodi parei e cappelli.
Sembra veramente di stare in Sardegna.
Lasciata la barca in rada, siamo sdraiati sui ciottoli, a riscaldarci al sole. Nessuno ha finora toccato l’acqua, ma sembriamo tutti intenzionati a farlo. Sono sdraiata tra Kit e Hannah, e mi sto abituando al finissimo contatto che c’è tra il dorso della mia mano e quello della mano di Harington, in un casto contatto ma comunque inebriante.
Kit mi piace. Oh, se mi piace. Moltissimo. Quando ci siamo tolti i vestiti, rimanendo in costume, non ho potuto fare a meno di osservare il suo fisico agile, scolpito e perfettamente strutturato, le solide linee dei suoi muscoli.
Non mi sentivo così da più di due anni: non ho mai provato queste sensazioni, nemmeno nei primi giorni di relazione con Matteo, quando tutto ancora doveva crollare.
- Qualcuno si vuole tuffare con me? – Domanda Kit. Tutti gli rispondono tranne Rose, che lo ignora esplicitamente.
- Io passo.
Un secondo di silenzio.
- Oh, certo che passi! – Esclama Kit, alzandosi di scatto in piedi e prendendomi in spalla come un sacco di patate. Ignorando di proposito le mie proteste – o meglio le mie urla – corre in acqua a grandi falcate e mi ci butta di culo, facendo finire entrambi sott’acqua.
Risalita e togliendomi l’acqua dagli occhi, esplodo in una risata.
- Sei un selvaggio! La mia vendetta sarà tremenda.
Anche Kit ride come un matto. Ci guardiamo, nuotando entrambi per rimanere a galla, e continuando a ridere mi aggrappo alla sua schiena come un koala.
 
*Richard*
 
Dopo la corsa di Kit ci siamo messi tutti a sedere sugli asciugamani, osservando lui e Sara giocare e divertirsi da soli, al largo.
È un bel po’ di tempo che non vedo Kit così felice e spensierato, e lei sembra essere del tutto inconsapevole dell’effetto che gli fa. Sono entrambi completamente cambiati da quando si sono conosciuti, sembrano passati anni e non solo un paio di settimane.
Interagiscono fra loro come non avevo mai visto Kit e nessun altro fare. Si muove uno, si muove anche l’altra e viceversa. Hanno l’aria di amarsi con tutta l’anima, eppure in presenza di altri si ostinano a comportarsi come ottimi amici, nonostante ci sia sempre una fortissima alchimia fra loro.
Non ho mai visto Kit così innamorato, nemmeno di Rose.
- Scommetto 20 dollari che si mettono insieme prima della fine dell’anno. – Propone Ben, come se mi avesse letto nel pensiero.
- Io ne scommetto 50 che lo fanno prima dell’inverno – Ribatte Kris.
- 100 che ufficializzano la relazione prima di giugno. – Dico io, ricevendo di rimando occhiate ammirate.
- 200 che state subito tutti zitti. – Sibila Rose inviperita. Anche lei sta osservando Kit e Sara nuotare, giocare, immergersi e rispuntare a galla.
- Rose, non hai il diritto di essere gelosa. Sei tu che gli hai spezzato il cuore. – Ribatto.
Lei mi lancia uno sguardo carico di dispetto. – Questo non c’entra niente.
 
*Sara*
 
Uso il cellulare che Kit mi ha regalato per chiamare i miei genitori, lontana per la prima volta da una qualsiasi cabina telefonica.
Siamo appena tornati dalla meravigliosa giornata al mare. Non ho parole per descriverla, tanto è stata meravigliosa. Abbiamo passato tutto il tempo in acqua o a prendere il sole a giocare, ridere e a farci scherzi con secchiate d’acqua.
Sono entusiasta.
- Pronto Sara? – Mia madre risponde al primo squillo, e io non la lascio nemmeno parlare.
- Ciao mamma! Ti chiamo per la prima volta da un cellulare, me l’ha regalato Kit. Tutte le chiamate internazionali sono criptate e il numero è irrintracciabile. Sai che oggi siamo andati tutti quanti al mare? 35 gradi in Irlanda, incredibile! Finalmente mi hanno accettato al lavoro, mi hanno anche concesso un aumento per fare la fisioterapista. È bellissimo, mamma, mi sto divertendo un sacco e mi sto facendo un sacco di amici! E poi Kit… adesso è sotto la doccia, per cui posso dirtelo tranquillamente: mi piace moltissimo! È una persona davvero meravigliosa! Sono davvero felice, mamma!
- Davvero? Che bello!
Lo scarso entusiasmo nella sua voce riesce a frenare la mia frenesia.
- Mamma, tutto ok?
Qualche secondo. Un sospiro.
- Mamma? Mi sta venendo l’ansia.
- Hai chiamato in un brutto momento, tesoro.
- Brutto momento? Cos’è successo?
Esitazione. – Non volevamo fartelo sapere, ma è successa una cosa brutta.
- Cosa, mamma??
Due secondi. – Matteo ha scassinato la porta ed è entrato in casa. Evidentemente pensava che tu fossi dentro in clausura, e quando non ha incontrato nessuno è rimasto appostato. Ha spaccato la testa a tuo padre con una bottiglia.
- COSA??
- Tranquilla, non ha nulla di grave, gli hanno messo solo qualche punto in fronte ed è un po’ disorientato. – Si affretta a dire. – Ora siamo in ospedale. Ha rotto tutto ciò che c’era in camera tua, oltre a tentare di uccidere tuo padre.
Mi stanno tremando le gambe, ho il fiato corto, non riesco a reggermi in piedi. Scivolo seduta a terra con la schiena contro il muro, la mano che regge il cellulare che trema come gelatina.
- Cerco subito un aereo per tornare in Italia.
- NO. NON PROVARCI NEPPURE. – Ordina mia madre. – Sì è fatto pericoloso, Sara. Se ti trova in giro, è capace di ucciderti. – Una voce in lontananza la distrae. – Tesoro, devo andare. La polizia vuole che lasci una deposizione. Ciao piccola. Resta in Irlanda.
*Clic*
I battiti del mio cuore sono talmente forti che mi rimbombano nelle orecchie. Solo quando due gocce mi cadono sulla mano mi accorgo che sto piangendo, ma non sono lacrime di tristezza. Sono lacrime di rabbia.
La deve pagare. Quel figlio di puttana, deve pagarla cara. ORA BASTA.
La mano che regge il cellulare lo riaccende, e inizio a digitare un numero di telefono. Il suo.
Porto il cellulare all’orecchio.
Uno squillo.
Due.
Tre.
- Pronto?

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Capitolo 8
*** Alive ***


Alive
 
I took and I took and I took what you gave
But you never noticed that I was in pain
I knew what I wanted, I went out and got it,
Did all the things that you say that I wouldn’t,
I told you that I would never be forgotten
And all in spite of you…
And I’m still breathing, I’m still breathing
I’m still breathing, I’m still breathing
I’m alive!
- Sia
 
- Pronto?
“Controllati. Controllati. Controllati. Controllati…”
- Pronto? – Ripete.
- Sono io.
Un’esclamazione di sorpresa, poi scoppia a ridere sguaiatamente. Senza cuore.
- Oh-oh! Ciao cerbiattina, come va? È da un po’ che non ci sentiamo, cos’è successo? Hai saputo che ho spaccato la testa a tuo padre? È stato divertente! Ho preso la bottiglia di vino, poi lui ha girato l’angolo, ho preso l mira e BUM! Si è spaccato tutto! Che spasso! – Continua a ridere.
“Figlio di troia.”
Allontano il telefono dall’orecchio e lo schermo si accende, premo sul pulsante col microfono e comincio a registrare la telefonata.
- Sì, ho saputo. E sappi che la pagherai cara, per questo e quello che hai fatto a me.
- E cosa vorresti fare? Sguinzagliarmi dietro i cani? – Ridacchia.
- Io ti ammazzo. Sei solo uno psicopatico.
- No, cerbiattina, io ti ammazzo. – Si fa improvvisamente serio, con la voce grave, minaccioso. Come quando, ubriaco, mi chiudeva in un angolo e io capivo che di lì a poco sarebbe scoppiato. – Appena riuscirò a trovarti e tirarti fuori da quel nascondiglio che ti sei creata non so dove, ti assicuro che ti farò pagare ogni attimo di fatica che ho dovuto fare per riconquistarti.
- Riconquistarmi? Tu non sai cosa sia l’amore. Non sai niente.
- Io ti amo e ti ritroverò. Te lo prometto.
- Ti metteranno in galera, Matteo. Ti arresteranno e ti butteranno dietro le sbarre per il resto della tua vita. E quando tu sarai morto e io sarò una vecchia decrepita, giuro su Dio che ballerò sulla tua tomba. Io te lo prometto, e stai certo che manterrò la mia promessa. Mi sono rifatta la vita, alla faccia di tutte le idee del cazzo che mi hai messo in testa, e non riuscirai a buttarmi a terra un’altra volta. Non ci riuscirai mai.
Chiudo la telefonata e poso il telefono a terra con foga, completamente assordata dai battiti del mio cuore che mi rimbombano nei timpani.
Non riesco neanche a sentire lo sciabordio delle gocce d’acqua che cadono sul fondo della doccia, dietro la porta dall’altra parte della stanza. Tutto ciò che riesco a sentire è solo un senso di nausea e vertigine che si impossessa del mio corpo, tentando di trascinarmi nell’abisso.
Mi alzo da terra strisciando una mano sulla parete, cercando di ignorare il violento tremore alle gambe. Non riesco a respirare!
L’ambiente intorno a me sembra irreale, come se stessi camminando in un sogno. Non so come raggiungo le scale, migliaia di puntini colorati che esplodono e brillano dentro ai miei occhi, a salire i gradini, percorro il corridoio e in qualche modo arrivo in bagno. Prima che possa controllarlo, faccio appena in tempo ad abbracciare la tazza del water.
Poi più il nulla.
 
***
Kit
 
Esco dalla doccia, afferro un ampio asciugamano poco lontano e me lo avvolgo intorno alla vita, sorridendo fra me e me.
Oggi è stata una giornata stupenda: pagherei per poterla rivivere ogni volta che voglio, come in una videocassetta. Il ricordo del corpo di Sara sul mio, nella sua genuinità e nel candore del gioco, è come un bicchiere di acqua fresca in una torrida giornata.
Per la prima volta da molto tempo, mi sento felice.
Mi sfrego i capelli con un asciugamano, poi afferro una maglietta e dei calzoncini e mi rivesto.
Apro la porta del bagno padronale, uscendo nel salotto.
Potremmo ordinare del cibo da asporto, stasera, e magari guardarci un film.
Potrei presentare Sara a Emilia, Sophia, Peter, Maisie, Alfie, Nathalie, Iwan e gli altri un giorno. Magari approfittando della festa di metà riprese, a fine giugno. Poi partiremo per l’Islanda e sono sicuro che David la scritturerà nella crew.
- Fawny? Ti va del cinese? – Domando a voce abbastanza alta da farmi sentire anche al piano di sopra.
Nessuna risposta.
Mi avvicino alle scale. - Fawny? Sei sotto la doccia?
Silenzio.
Salgo i gradini. – Sara?
Quassù è accesa solo la luce del corridoio, che di solito si accende automaticamente non appena rileva un passaggio. Sbircio nella camera da letto, è vuota.
Possibile che sia uscita, così all’improvviso e senza salutare?
- Sara?
La porta del bagno è spalancata, ma la luce all’interno è spenta e non sento rumore d’acqua.
Accendo la luce ed entro.
- Oh, Cristo!!
Sara è raggomitolata esanime, immobile attorno al water, ancora in vestiti da spiaggia. Nell’aria, puzza di vomito. Mi precipito su di lei, sollevandole la testa e mettendomela in grembo e colpendola leggermente.
- Ehi, sveglia! Che cosa ti ha preso? Che diamine è successo? Sara!!
Niente.
- Merda!
Corro di sotto, afferro il cellulare sulla mensola e chiamo il 999.
- 999, qual è l’emergenza? – Risponde l’operatrice.
- Salve, mi serve un’ambulanza al numero 29 di Amsterdam Quay, Belfast. La mia ragazza è svenuta.
- Non conosce le cause?
- No.
- Soffre di attacchi di panico, pressione bassa, sincopi frequenti?
- Non lo so. Senta, mi mandi subito questa maledetta ambulanza! – Abbaio.
- Stia calmo, un’ambulanza sta venendo a prenderla. Il suo nome?
- Kit Harington.
- D’accordo Kit, i paramedici saranno lì fra poco.
- Grazie.
Chiudo la telefonata senza badare a convenevoli, e torno di sopra salendo le scale a due a due e corro in bagno.
Sara ora ha gli occhi aperti e si guarda intorno, spaesata, col fiatone.
Tiro un sospiro di sollievo e mi rannicchio accanto a lei, posandole una mano sul viso. È madida di sudore, e gira gli occhi verso di me. Sembra imbarazzata.
- Ehi – sorrido. – Bentornata. Mi ha preso un accidente.
- Che… cosa è successo?
- Non lo so. Ti ho trovata svenuta, ho chiamato l’ambulanza.
- No, no, che ambulanza! Non serve! Sto bene! – È mortificata.
- Scusa, ma di questo voglio proprio esserne sicuro.
- Voglio alzarmi.
Prima che riesca seriamente a fare forza sulle mani le passo una mano sotto le ginocchia e una sotto le ascelle, tirandola su, ignorando le sue solite e flebili proteste.
- Kit, sono pesante! Mettimi giù, posso camminare…
- Chiudi il becco.
Entro in camera, la adagio sul letto e mi siedo accanto a lei.
- Che cosa è successo? – Domando. – Hai preso troppo sole oggi o…?
Apre la bocca per parlare, ma il trillo del campanello la interrompe.
 
- Deve essere stato un attacco di panico che si è autorisolto. Nulla di grave. – Annuncia il paramedico mettendosi lo stetoscopio attorno al collo e cominciando a rimettere a posto lo sfigmomanometro. – Non occorre portarla in ospedale, ma serve senza dubbio riposo.
- Certo. Grazie.
Scorto fuori i due paramedici e, appena chiusa la porta, torno di sopra. La trovo a braccia incrociate.
- Te l’avevo detto che non mi serviva l’ambulanza – brontola.
- Avevo scordato che fosse il tuo modo di somatizzare lo stress.
- Era da un po’ che non mi capitava…
- Dalla sera in cui ci siamo conosciuti. – Ammicco. – Perché non ti riposi? Hai l’aria stanca.
- Sto bene.
Mi chino su di lei e le do un bacio sulla fronte. È fresca.
- Sarà, ma non voglio che tu ti muova da questo letto. Intesi?
- Va bene...
Brontola di continuo, la mia italiana testarda.
 
***
Sara
 
- Cena! – Esclama Kit rientrando in camera con un vassoio carico di ciambelle al cioccolato e una teiera. Me lo appoggia sopra le gambe e si siede a gambe incrociate accanto a me, sorridendomi dolce.
- Povero Kit, ti sto facendo diventare matto. Sono una frana.
- Naaaah – commenta versando il the nelle due tazze. – Non sei di nessun peso.
- Bugiardo.
Addento in silenzio una ciambella, immergendomi nei miei ultimi ricordi e tentando di dare una spiegazione a tutto. Prima la telefonata di mia madre, poi la conversazione con Matteo… il mio cervello deve essere andato in tilt.
Sento su di me lo sguardo ancora preoccupato di Kit, e alzo gli occhi per osservarlo.
“Tu non ti meriti attenzioni.” Le parole di Matteo mi ritornano in testa da antichi ricordi con la forza di una badilata. Scuoto la testa e poso la ciambella mangiata a metà.
- Mia madre mi ha chiamato. – Cerco di spiegare, evitando il suo sguardo. – Matteo è riuscito a introdursi in casa nostra. Ha spaccato la testa a mio padre pensando che fossi io.
Kit si immobilizza dalla sorpresa. – Sta bene?
- Non ho potuto parlargli al telefono, ma mia madre dice di sì. Penso che a questo punto dovranno aprire per forza un’inchiesta, se non per violenza e stupro almeno per tentato omicidio. Mia madre mi ha ordinato di non tornare in Italia per nessun motivo, perché se Matteo mi trova adesso è capace di uccidermi.
Posa la ciambella sul vassoio. – Non ho più fame.
Sorrido amaramente. – Mi dispiace.
- È questo che ti ha fatto svenire?
- Non solo.
- Che altro?
“Promettimi di non arrabbiarti”. – Subito dopo aver parlato con mia madre, io… ho chiamato Matteo.
- CHE COSA??? - Mi afferra per le spalle. – Sei pazza? Ti ha dato di volta il cervello?
- Che cosa dovevo fare? Stare lì a girarmi i pollici? E poi l’hai detto anche tu, le chiamate internazionali sono irrintracciabili.
Grugnisce qualcosa in risposta e mi lascia andare, passandosi le mani nei capelli e tirando un lungo respiro.
- Che cosa gli hai detto?
Stringo il lenzuolo in un pugno, rivangando la conversazione. – Gli ho detto che l’avrebbe pagata per quello che ha fatto. Gli ho promesso che quando sarà uscito morto dalla galera io ballerò sulla sua tomba; e gli ho detto che ora mi sono rifatta una vita e che non riuscirà mai a spezzarmi di nuovo. Ho registrato la conversazione, ma non potresti capire nulla: è in italiano.
Ora mi guarda in silenzio con un che di ammirato. O è orgoglio? Il solo guardare il suo volto, la sua preoccupazione, mi riempie il cuore di tenerezza. In uno slancio di sincerità, tolgo il vassoio che c’è tra noi e mi chino su di lui, arrivando perfino a mormorare. Sto per svelare ciò che non ho mai detto a nessuno, ciò che mi fa vergognare di me stessa persino più del fatto di essere stata violentata dal mio stesso ragazzo: una volta detto questo non avrò più segreti, sarà come essere completamente nuda davanti a lui. Per me è un grande sforzo e una grande dimostrazione di fiducia, e spero che lui lo capisca.
Gli sfioro le dita e lui piano le intreccia con le sue.
- Sei mesi dopo avere cominciato la nostra relazione siamo andati a vivere insieme. Cominciavo già a nutrire qualche dubbio sui miei sentimenti nei suoi confronti, ma credevo che fosse un problema mio e che convivendo si risolvesse tutto da solo. Mi sbagliavo: più vivevo con lui, peggio era. Aveva il controllo totale su di me ma io, credendo di amarlo, lo lasciavo fare. Pensavo che quello fosse l’amore, che fosse così in tutte le coppie. Che stupida, vero? Ma era la mia prima relazione seria, e non potevo capire quanto tra noi ci fosse di sbagliato.
            Insisteva per uscire da solo con i suoi amici, e molte sere tornava a casa ubriaco. Mai tardi, verso le undici e mezza. Quando era in quello stato bastava solo una cosa messa fuori posto, una parola di troppo, ed esplodeva. Il più delle volte mi tirava uno schiaffo, certe volte un pugno in bocca. Non era facile andare in giro con quei lividi sulla faccia, mascherati dai trucchi il più possibile, e inventarsi storie su come me li ero procurati: molto spesso dicevo di essere inciampata e aver sbattuto… così giustificavo un occhio nero, un labbro spaccato o una guancia gonfia. Le regole da seguire erano semplici: dovevo fare quello che voleva lui. Non potevo uscire coi miei amici o coi colleghi di fisioterapia, non potevo messaggiare con gli altri uomini anche se erano amici d’infanzia, dovevo vestirmi come voleva lui altrimenti ero una sfigata. Quando mi dava uno schiaffo, subito dopo lo copriva con un bacio e mi diceva di amarmi, e che era per il mio bene che faceva quelle cose. E io non ho mai provato a difendermi: avevo paura che sarebbe stato ancora peggio. Tuttavia continuavo a pensare che mi amasse, che fosse davvero come diceva lui. Il mio più caro amico d’infanzia, conosciuto al corso di danza, una volta provò a farmi aprire gli occhi, si era persino offerto di accompagnarmi in un centro per donne maltrattate, e sai cos’ho fatto io? Ho troncato i rapporti con lui. Non ci siamo sentiti mai più. E così con tutti i miei altri amici.
            Dopo tre mesi di questa convivenza, ormai il mio amore per lui era completamente sparito, e anche il sesso era un ricordo lontano. Anzi, ero sicura che fosse uno psicopatico e che dovevo troncare la relazione al più presto. Una sera eravamo sul balcone di casa nostra, e io chiamai a raccolta tutto il mio coraggio e provai a lasciarlo. Lui mi ha guardato con un ghigno, e mi ha detto… non me lo scorderò mai… “Ascoltami bene, cerbiattina: se mi lasci resterai sola come un cane, perché ti voglio bene solo io. Sei talmente brutta e sfigata che non ti vorrà nessuno, solo io ti amo. Non hai nessuno”. Non lo ascoltai, anzi cominciai a urlare e mi chiusi in bagno. Lui sfondò la porta, mi chiuse in un angolo e… - Abbasso il capo con un sospiro. -… mi violentò. Il giorno dopo chiamai mia madre, aspettai che Matteo uscisse e grazie al suo aiuto sono scappata a casa. Non ho mai detto ai miei genitori dello stupro. – Una pausa. – Sai che in Italia in media ogni due o tre giorni un uomo uccide una donna? Non mi ero mai resa conto di quanto fossi in pericolo fino a quella sera. Lì ho cominciato a pensare a tutte quelle donne che sono nella mia stessa situazione, e come me non dicono niente. E perché? Per paura. Perché quando vanno alla polizia a denunciare chi fa loro del male, molto spesso non vengono neppure ascoltate perché non hanno delle prove concrete.
            Quando ha capito che ero tornata dai miei genitori (e non c’è voluto molto), Matteo ha cominciato a perseguitarmi. Era passato un anno da quando ci eravamo messi insieme. Sono passati altri quattro mesi prima che mi decidessi a lasciare l’Italia, e fanno un anno e quattro mesi. Ho passato sette mesi a Belfast prima di incontrarti. Fanno due anni della mia vita, completamente condizionati da un pazzo. Da un certo punto di vista però mi ritengo fortunata: ci sono donne che sopportano la violenza da molto, molto più tempo di me, in silenzio.
 
***
Kit
 
Passa qualche secondo di perfetta immobilità. Niente si muove: né io, né lei, forse nemmeno l’orologio che fino a un attimo fa ticchettava il passare del tempo.
Solo a discorso finito alza finalmente il viso e mi guarda negli occhi.
- Io non voglio credere a ciò che mi diceva Matteo. – Continua. – Non voglio pensare di essere invisibile: non lo sono. Voglio credere di essere forte. Mi piace pensare che forse, un giorno, qualcuno mi amerà e mi farà capire cos’è davvero l’amore.
“Io. Io ti amo”.
Lo penso con una tale intensità che pare quasi che lo possa sentire.
Sara mi guarda con quegli occhi nocciola, grandi e limpidi, un po’ intimoriti. Piega la testa di lato, sorridendo triste.
- Non dici niente?
Solo ora mi ricordo di avere la sua mano nella mia. La porto alla bocca e gliela bacio.
- Addirittura il baciamano. – Scherza.
- Non posso esprimere a parole quello che sento. – Le spiego. – Non posso commentare un dolore grande come il tuo. Vorrei poterti dimostrare scientificamente che non tutti gli uomini sono dei violenti, e che non è assolutamente vero quello che ti ha detto quel figlio di puttana. Vorrei dirti qualsiasi cosa possa farti sentire meglio e aiutarti a cancellare quel brutto periodo della tua vita, ma purtroppo il passato è indelebile: puoi solo coprire i brutti ricordi con nuovi ricordi, belli però. Vorrei poterti dire che d’ora in poi ci sarò io a proteggerti e che non lascerò che quello ti tocchi, mai più. Posso dirtelo, ma sarebbe meglio dimostrartelo, e l’unico modo che ho per farlo è rimanerti accanto nel bene e nel male. – Le accarezzo una guancia. – Sara. Voglio che tu mi prometta che non crederai mai a ciò che quello ti ha detto. E soprattutto voglio che tu non dubiti mai di meritare attenzioni e amore. È chiaro? – Si irrigidisce leggermente a quest’ultima frase, lo sento sotto il mio tocco. – Tu meriti di essere felice e di essere amata, e di avere tutte le attenzioni di questo dannato mondo. Sei una persona meravigliosa che è stata ferita, sbattuta, denigrata, piegata e spezzata: e nonostante questo ti sei rimessa in piedi. Ti sei alzata e stasera hai lottato. Ci sono dei demoni contro cui possiamo lottare. Sono sicuro che, alla fine di tutto, vincerai tu. Mi prometti ciò che ti ho chiesto?
Quegli occhi così grandi sono ora lucidi di lacrime, tanto da farmi venire un groppo in gola. – Te lo prometto – risponde, posando la mano sulla mia. Poi si avvicina e si rannicchia nel mio petto.
- Grazie, Kit. Grazie di tutto.
Il ricordo della giornata che volge al termine torna a riaffacciarsi alla mia mente, lasciando indelebile un pensiero che prima mi ha solo sfiorato la mente, che ora picchia forte come un martello pneumatico.
“Io la amo e la proteggerò”.
 
Sono passati cinque giorni dalla giornata in barca. Cinque notti passati nella routine del lavoro, e cinque notti passate a dormire castamente nello stesso letto.
La prima sera è stato casuale: dopo aver a lungo chiacchierato ci siamo addormentati nel suo letto e risvegliati abbracciati, lei ancora impastata di sale. La notte dopo Sara è sgattaiolata in camera pensando che dormissi già, ed è entrata nel mio letto. Da lì in poi è stato consenziente e del tutto privo di rapporti amorosi.
La fantasia di un paio di settimane fa si è avverata: ogni mattina mi sveglio pensando a lei, mi giro e la trovo addormentata sul cuscino.
Da quando mi ha svelato le camere più oscure e dolorose del suo cuore i demoni che giacevano silenziosi tra noi si sono dissolti come cenere al vento, e il resto è stato pura magia. È come essere tornati adolescenti.
Ora siamo seduti davanti al divano, a mangiare una pizza e guardare la terza stagione del Trono. Siamo quasi arrivati al Red Wedding, e la cosa più bella è che lei non ne ha proprio idea.
- Kit, ferma un attimo il filmato: voglio chiamare i miei, non li sento da due giorni.
La accontento e lei va a prendere il cellulare per poi tornare a sedersi accanto a me. Compone il numero a memoria, e appena sento i rumori di una risposta delle frasi concitate riempiono il suono che fino a pochi secondi fa era stato occupato dagli squilli.
Sara balza in piedi.
- Che cosa?? Con quali accuse??
Sembra agitata, come se fosse successo qualcosa di inaspettato. Peccato non capire un accidente di italiano. Altre voci concitate.
- Ma veramente?? Mamma, dimmi che non stai scherzando! …Oddio!!
Si immobilizza, fissando il vuoto proprio davanti a me.
- Che c’è? – sillabo silenziosamente. Sara mi ignora.
- Scusa mamma, devo dirlo subito a Kit! È grandioso! Vi voglio bene anche io! Ci sentiamo presto!
Chiude la telefonata, continuando a fissare il vuoto.
- Che è successo?
Fissa i suoi occhi nei miei, apparentemente sotto shock.
- L’hanno arrestato. Hanno arrestato Matteo.
Poi tutto accade in pochi secondi.
Il suo viso si distende come ringiovanito di dieci anni, lei cade in ginocchio e scoppia in singhiozzi di sollievo, forti e irrefrenabili. Quasi grida, incrociandosi le mani sul petto e muovendosi avanti e indietro, solleva il viso e ride fra i singhiozzi.
- Oh, piccola Fawny! – Mi inginocchio accanto a lei e la abbraccio stretta. Quasi non mi accorgo che sto piangendo anch’io. – Hai vinto. Sara, hai vinto tu! Hai VINTO!
Ci baciamo sulle labbra fra i singhiozzi, e abbracciandoci continuiamo a ridere. 

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Capitolo 9
*** Ti Vada O No ***


Ti Vada o No
 
Non so perché, non lo ammetterò mai
(Ti vada o no, l’ami e dillo oh-oh)
Ma è certo che l’amo e non lo saprà!
- Disney
 
***
Sara
 
Posso farcela. In fondo è facile.
È soltanto il primo giorno, Kit è partito stamattina presto per Londra, prima ancora che mi svegliassi. Altri due giorni e sarà di nuovo qui.
Posso resistere senza di lui per tre giorni, no? Lui ha bisogno di stare un po’ con la sua famiglia.
E poi sarò impegnatissima col lavoro, non avrò tempo per sentire la sua mancanza.
Il mio riflesso allo specchio alza gli occhi al cielo e sputa il dentifricio del lavandino.
Ma non diciamo sciocchezze. Sento già la sua mancanza.
Sospirando prendo la larghissima felpa grigio chiara che avevo appoggiato sulla lavatrice, me la infilo lasciandola cadere sui leggins e scendo in salotto. Il tempo di scendere l’ultimo gradino, e l’incubo del martedì e giovedì mattina irlandese si materializza davanti alla porta d’ingresso, con la faccia truce di Cerbero alla porta dell’Inferno.
Dolores.
Non ci eravamo più viste dal nostro primo, traumatico incontro: il lavoro sul set comincia così presto che io e Kit siamo sempre usciti prima che lei arrivasse.
Austera nel suo aspetto di casalinga messicana pronta a cacciarti di casa a suon di colpi di ramazza sul culo, indugia sul mio “nuovo” colore di capelli, sui vestiti e sulle sneakers sgualcite, prima di mormorare un “Buongiorno” così flebile che anche un cane stenterebbe a sentirlo.
- Buongiorno! – Saluto. – Stavo giusto per uscire. Arrivederci!
Afferro la borsa accanto al bancone della cucina e volo fuori dalla porta dove Kris mi sta aspettando, ma nell’istante stesso in cui mi volto per afferrare il pomello e chiudermi la porta alle spalle vedo Dolores che si fa il segno della croce, scuotendo mestamente la testa nella mia direzione.
Scendo i gradini, attraverso il marciapiede, apro lo sportello della macchina sportiva grigia metallizzata di Kris che mi aspetta sorridendo e mi tuffo sul sedile del passeggero.
- Se mai mi verrà in mente di preoccuparmi di finire all’inferno, ricordami che probabilmente la signora Dolores sta già pregando per la mia anima.
Scoppia a ridere e ingrana la marcia, rombando in direzione degli Studio.
 
Nel corso dei giorni appena passati nella magia del tempo trascorso con Kit senza la preoccupazione di essere trovata da Matteo, in una marea di seghe mentali da ragazza perfettamente normale solo una ha catturato la mia attenzione, radicandosi nella mia testa approfittando di un momento di dormiveglia: David che mi afferra per le orecchie e mi sbatte fuori dalla crew per avergli nascosto la mia vera identità. Nel momento in cui ci ho pensato la cosa non era del tutto priva di logica, per cui da quel momento ho cominciato a cercare il momento perfetto per prendere David da una parte e dirgli “Senti Dave, non è che ho dei problemi con la legge, ma quello che ti ho dato è un nome falso”.
Facile, no? Quasi quanto farsi una nuotatina in mezzo agli squali.
Non appena finisco i miei compiti del mattino e scendo nel set per il Cucito Ultrarapido, dove stanno facendo una pausa dalle riprese, intuisco che forse, nonostante l’assenza di Kit, oggi è il momento giusto per parlare con David.
Saluto un paio di amici attraversando il set, chiedo a Ben come va la spalla (“Bene!”), e raggiungo David un po’ scuro in volto.
- Volevo parlarti di una cosa – comincio dopo un breve saluto. – È il momento opportuno?
- Sì – risponde incrociando le braccia. – Anche io devo parlarti. Vieni nel mio ufficio.
Il suo sguardo non troppo felice mi provoca un moto di preoccupazione: che forse mi sia decisa a dirgli la verità troppo tardi?
Sto per essere licenziata?
Seguo David attraverso il set e la folla ed entriamo nel suo ufficio. Lui mi chiude la porta alle spalle e, dopo avermi mostrato con un cenno la sedia dalla scrivania, si siede dall’altra parte incrociando le dita davanti alla bocca. La preoccupazione cresce come il mare dalla bassa all’alta marea.
- Veniamo subito al punto. – Comincia senza distogliere lo sguardo dal mio. – Dopo aver ricevuto una segnalazione sono andato a controllare una cosa. Spiegami perché, perché non ho trovato niente su di te. Non un profilo sui social, su Linkedin, nemmeno lontanamente su un sito della tua professione, una notizia su di te, assolutamente niente. Sembra che tu sia spuntata dal nulla, e non posso fare altro che chiedermi se le tue intenzioni siano davvero buone, se tu non sia qualche talpa inviata sul set da qualche giornale di gossip, se tu non stia prendendo in giro Kit o se tu abbia commesso qualche crimine. Ho riposto fiducia nelle tue capacità perché sei una gran lavoratrice e svolgi bene i tuoi compiti, ma ho paura di aver fatto male, molto male.
- No David, aspetta un attimo – mi chino verso di lui con urgenza, sempre più agitata. Nella mia mente la mia nuova e bella vita sta già andando in fumo. – Posso spiegare!
- Perfetto allora – incrocia le braccia. – Spiega.
- Io… - digrigno i denti. Vale la pena dirgli tutto quanto della mia relazione con Matteo, dello stalking, della mia vera identità? Sospiro, poi lo guardo negli occhi. “Per Kit, certo che ne vale la pena”. – Era di questo che ti volevo parlare. Io non mi chiamo Sara Vitali. Il mio vero nome è Sara Cerbiatto, per questo Kit mi chiama Fawny. L’ho cambiato per non essere ritrovata dal mio stalker, una volta lasciata l’Italia. È vero che ho studiato fisioterapia. È vero che ho mollato prima di laurearmi. È vero tutto quello che ho scritto nel curriculum e che ti ho dimostrato. L’unica cosa falsa è il mio cognome.
- Quindi non c’è nessuna informazione su di te perché hai cambiato cognome all’anagrafe. Scusa ma chiunque lascia traccia, da qualche parte. Nessuno è un fantasma. – Ribatte.
- Io sono stata un fantasma per molto tempo, so benissimo come non lasciare traccia: spendi in contanti, chiama dalle cabine telefoniche, non usare carte di credito, cambia nome e colore di capelli. È facile essere un fantasma in un altro Paese. Era necessario per non farmi trovare dal mio ex. È pazzo. Vedi questa? – Tiro su la manica della felpa mostrandogli l’avambraccio sinistro, indicando una cicatrice rugosa e circolare. – È il risultato di una frattura scomposta a spirale. Sai come te la procuri? Quando uno ti torce il braccio fino a spezzarti le ossa. Non l’ho mai fatta vedere nemmeno a Kit. – Senza sapere come, mi ritrovo a tremare dalla rabbia. – Se non mi credi cerca il mio profilo su Facebook. Sara Cerbiatto. C-e-r-b-i-a-t-t-o. Avanti!
Un po’ riluttante David prende il telefono dalla tasca e fa come gli ho detto. In poco tempo si ritrova a confrontare la mia vecchia foto profilo con me, più e più volte. Posa il telefono della scrivania mordendosi il labbro.
- Ti chiedo scusa. La pulce nell’orecchio era troppo fastidiosa.
- Te ne avrei parlato prima, ma lo hanno arrestato solo qualche giorno fa. Ora posso smettere di essere un fantasma.
Qualche secondo di silenzio carico di pensieri. David non è più arrabbiato, piuttosto pensieroso.
- Quindi come deve essere sul contratto, per noi? Sei Sara Cerbiatto o Sara Vitali, per ora?
Sospiro scuotendo la testa. – Sara Cerbiatto non ha mai saputo rialzarsi e combattere, o liberarsi da sola da ciò che la opprimeva. Mi dispiace portare un nome diverso da quello dei miei genitori, ma per quanto mi riguarda Sara Cerbiatto è morta per mano della legge del più forte. Io sono Sara Vitali e non torno indietro. Posso andare ora?
David annuisce rammaricato, permettendomi di alzarmi dalla sedia, andare verso la porta e aprirla.
- Sara – chiama ancora. – Ti chiedo scusa, profondamente. Non avevo idea che tu avessi vissuto un’esperienza del genere. Perdonami. Non metterò mai più in dubbio la tua buona fede.
Sorrido tristemente. – Scuse accettate. – Faccio per uscire, poi un pensiero mi fa tornare sui miei passi. – Posso sapere chi ti ha messo la pulce nell’orecchio? Rose, per caso?
Incrocia le braccia. – Non posso dirlo.
“Quindi sì, è stata Rose”.
- Ci vediamo.
 
Rose è seduta in un angolo a ripassare le battute con un copione in mano quando la raggiungo a lunghi passi.
- Rose, posso parlarti un attimo?
Alza il viso su di me e sorride. – Certo! Dimmi pure!
Si alza e si appoggia al muro, sempre sorridente. È una persona molto dolce e positiva e tuttavia sento che se vuole può giocare sporco. Come oggi.
- Posso sapere per quale motivo ti sei messa a cercare informazioni su di me per poi spifferare tutto a David? No, ascolta! – Mi affretto a interromperla quando apre la bocca per rispondere. – Ascolta, capisco che sei stata molti mesi insieme a Kit e che lo amavi, ma poi hai fatto i tuoi sbagli e vi siete lasciati. Ora noi abitiamo sotto lo stesso tetto e siamo amici, e Kit mi piace, mi piace molto, e davvero non capisco perché non puoi semplicemente accettare il fatto che gli hai spezzato il cuore e che lui adesso sta provando a voltare pagina e a dimenticarti. È così difficile un po’ di altruismo? Ho rischiato seriamente di essere licenziata!
- Ti sbagli su un paio di cose – risponde. – Sbagli sul fatto che non mi ha ancora dimenticato, e che io lo amavo. – I suoi occhi azzurri, ora tristi come non mai, si conficcano nei miei accompagnati da un amaro sorriso. – Io lo amo ancora. Ho fatto i miei sbagli, è vero, ma se solo Kit mi avesse dato occasione di farmi perdonare io ce l’avrei messa tutta per non lasciarlo. Quegli uomini non valevano un centesimo di quello che vale Kit. Ho fatto uno sbaglio enorme, e ora ne devo pagare le conseguenze, ma non ho mai smesso di amarlo. In quanto a te… ho fatto fare ricerche sul tuo conto perché non sopporto che una ragazza spuntata dal nulla prenda il cuore dell’uomo che amo come se niente fosse, da un giorno all’altro, rimanendo nel suo mistero. E sul fatto che lui non mi ha ancora dimenticata… - il triste sorriso si accentua. – Se sei così ingenua da non accorgerti di come ti guarda, allora posso sperare che te lo lascerai scappare.
Mi fa l’occhiolino e se ne va, lasciandomi sola a bocca aperta.
 
Il mio telefono comincia a squillare nel momento stesso in cui apro il barattolone di insalata che ho preparato a casa ieri sera e inizio a mangiare. Michele e Sheila sono tornate a casa per il pranzo e dovevo finire un paio di cose prima di poter mangiare. Pomodorini, cetrioli, olive, cipolla e lattuga mi salutano con allegria mentre trascino l’icona verde lungo lo schermo.
- Pronto?
- Hey, Fawny!
- Ciao! – Un istintivo sorriso a trentadue denti mi si stampa in faccia. Infilzo pomodorini e lattuga con la forchetta e comincio a mangiare.  – Come è andato il volo?
- Bene! Sono appena atterrato a Heathrow. Ora vado a prendere la macchina e guido fino a Worcester. Non ci vorrà molto. Tu come stai? Stai mangiando?
Ingoio a forza. – Sì! Cosa te lo fa pensare?
- Mmmm, fammi pensare, avverto un lieve crunch crunch.
- Acuto!
Ride garbatamente. – Che farai oggi?
- A parte finire di lavorare? Mi divertirò come una pazza!
- Ah, sì? Cos’hai in programma di fare? Secondo me darai una festa con tutto il cast e la crew, in barba al povero Kit che va a trovare mamma e papà.
Lattuga. Pomodori. Cipolla. Crunch crunch. Ridacchio.
- Niente di tutto questo, sai che non svuoterei mai le scorte di gin senza di te! No, Gry e Kris mi hanno invitato a cena a casa loro stasera. Penso che andrò direttamente a casa con loro dopo il lavoro. Sarà bello, nessuno del cast mi aveva mai invitato a cena!
- Possa essere l’inizio di un lungo e duraturo interscambio culturale tra piatti norvegesi e italiani. Spero di trarne un qualche profitto.
- Magari un giorno! – Rido. – Attento Harington, sai che so a malapena cucinare un piatto di pasta.
Ride. – E tu sai che non è vero! Devo lasciarti, Fawny, devo partire. Ci sentiamo dopo!
- Certo, Kit. Cerca di tornare presto, ok?
- Certo. Mi riavrai fra i piedi prima ancora che tu possa dire “Guardiani della Notte”. A presto!
- Ciao Kit!
Chiudo la telefonata continuando a sorridere, poso il cellulare a terra e ricomincio a mangiare.
- “Guardiani della notte”. – Mormoro finendo l’insalata. – Dovrò ripeterlo un sacco di volte prima che torni, Kit…
 
- Perdona il disordine – prega Gry mentre Kris gira la chiave nella toppa. – Spero che Kamile e Sibil non abbiano sparso i giochi per tutta la casa.
- Non c’è nessun problema, Gry!
Kris, Gry e le loro due gemelle vivono in un appartamento affacciato sul porto di Belfast. Dall’esterno, a strapiombo sulla placida acqua, si vede solo all’ultimo piano del palazzo un lungo balcone con una chiara inferriata davanti a una gigantesca vetrata. Nonostante le luci della casa accese non potevo vedere niente dell’interno dalla strada.
La porta d’ingresso a due ante si apre verso l’interno e i due padroni di casa mi invitano ad entrare.
Il grande salone su cui si affaccia alla porta è la stanza delle due immense portafinestre che danno sul balcone che ho visto dalla strada. Il parquet di legno chiaro, l’arredamento curato, i faretti sul soffitto e il grande caminetto danno un senso di accoglienza e calore, nonostante le freddi pareti bianco intonacate.
Per terra, accanto al grosso divano nero, giacciono dei pastelli colorati su fogli pasticciati. Dietro al divano, l’open-space riservato alla cucina e alla sala da pranzo in linea con l’arredamento del salotto. Quadri di cucina e vasetti di piantine aromatiche sono appese alla parete, accanto a una libreria di libri di cucina e di letteratura.
- Mamma! Kris!
Due bambine identiche spuntano dal corridoio alla nostra sinistra e si fiondano tra le braccia dei genitori appena entrati. Ridono tutti e quattro, felici. Potrebbero essere benissimo dei testimonial della Mulino Bianco.
- Com’è andata oggi? Avete fatto tante belle cose?
- Vi racconteremo tutto quanto, bambine! – Risponde Kris per poi indicarmi con un gesto del braccio. – Salutate la nostra nuova amica: Kamile, Sibil, vi presento Sara. Lavora con noi sul set. Sapete? È italiana!
Le due bambine corrono verso di me e mi prendono per mano, trascinandomi verso il divano, sommergendomi di domande in inglese con un accento molto marcato.
- Ciao Sara! È vero che vieni dall’Italia? È vero che lì è sempre estate? È vero che ci sono un sacco di Papa? Togliti pure le scarpe, ti daremo una delle nostre ciabatte!  Che bei capelli che tu ha!
- Che tu hai! – Si correggono a vicenda.
Io non posso fare a meno di ridere imbarazzata, togliendomi le scarpe e rimanendo in calzini.
- Sì, sono davvero italiana, ma non è vero che è sempre estate. Vi ringrazio per i complimenti, signorine!
Kamile e Sibil mi guardano con occhi ridenti. Sono quasi identiche: hanno entrambe i folti capelli rossi dei genitori, occhi scuri e lentiggini sparse per tutto il viso. Sono alte uguali, ma leggermente diverse di corporatura: Kamile è lievemente più ossuta della sorella, ma comunque molto bella. Porta i capelli tagliati all’altezza delle spalle, mentre Sibil ce li ha lunghi fino alle natiche. È l’unica cosa per cui riesco a distinguerle.
- Perché non disegni un po’ con noi?
- Ne sarei felice, ma dovrei aiutare vostra madre a preparare la cena! Gry?
- Non pensarci neanche – risponde lei prendendo delle grosse pentole da sotto il bancone. – La cena si cucina in dieci minuti e c’è Kris ad aiutarmi. Tu in quanto ospite te ne starai seduta lì a rilassarti.
- Nemmeno apparecchiare la tavola?
- No!
- Ok… - mi gratto un avambraccio. – In Italia è usanza far fare qualcosa agli ospiti in certi casi, ma mi adeguerò!
Kris e Gry si fermano e mi guardano ammutoliti. – Veramente?
“No!”. – Posso apparecchiare?
Gry alza gli occhi al cielo. – E va bene!!
 
La cena è andata molto bene ed era deliziosa. Non sapendo cosa preferissi Gry e Kris hanno cucinato dei piatti tipici sia di carne che di pesce. Il gravlask come primo piatto: salmone con sale, zucchero aromatizzato e aneto; e morr, una salsiccia affumicata. Le bambine hanno preparato il dolce, il valnøtt lukket: una torta di marzapane con sopra della panna montata. Tutto buonissimo, ma incredibilmente leggero… o forse il mio stomaco è un trinciasassi. I Molvǽr-Hijvu danno l’impressione di essere interculturali e patriottici al tempo stesso, rimanendo legati alle tradizioni del loro paese di origine ma sempre aperti a nuove esperienze e a imparare cose nuove del mondo.
Dopo aver sparecchiato tutti insieme, Kamile e Sibil sono andate a giocare nella loro camera, Kris si è fermato a lavare i piatti, e io e Gry siamo andate a sederci in balcone, su sedie di legno accanto a un tavolo di ferro battuto, bevendo birra da una bottiglia ciascuna. La fresca brezza della notte irlandese ci scompiglia i capelli e mi fa rabbrividire, ma non è spiacevole.
Stiamo parlando del più e del meno quando la porta finestra accanto a noi si apre e le due bambine escono con la confusione di un tornado.
- Mamma, mamma! Guarda come siamo brave! Guarda, eh!
Si dispongono in fila davanti alla madre e, tenendosi per mano, si alzano sulle punte dei piedi in un goffo tentativo di danza classica. Io e Gry applaudiamo entusiaste.
- Sei capace, mamma? Sei capace? – Domanda Sibil ridendo.
- No, piccola, non sono capace. – Risponde Gry scompigliandole i capelli.
- E tu Sara? – Si voltano verso di me cariche di aspettativa.
- Beh, io… io sì! Sono una ballerina – faccio loro l’occhiolino, scatenando espressioni di stupefatta sorpresa. All’unisono si mettono a saltare e a battere le mani.
- Fallo, Sara! Dai fallo!
- Voi siete più brave, eh! – Dico alzandomi dalla sedia. Scrollo le spalle, saltello piano sui piedi, poi mi alzo sulle punte sollevando le braccia.
- Woooooo! Anch’io! Anch’io! – Gridano le bambine.
- Su, andate a esercitarvi in camera vostra. La mamma stava parlando.
Kamile e Sibil rientrano con la stessa velocità con cui sono uscite, e chiudono la porta finestra mentre le seguo con lo sguardo.
- Sono due bambine meravigliose, e parlano benissimo inglese: in Italia non hai speranze di trovare bambini come loro. Tu e Kris siete degli ottimi genitori. Non assomigliano a Kris, però.
- Non sono figlie sue – sorride Gry. – Le bambine erano già nate quando ho conosciuto Kristofer. Non è il loro padre biologico, ma è comunque il loro papà. Si adorano.
- Lo vedo. Sono bellissime.
Il sorriso di Gry si incrina. Si stringe nel giacchino di lana che porta sulle spalle.
- Kamile ha superato un brutto periodo, qualche anno fa. – Sospira. – Ha avuto una rara forma di cancro al fegato. Si è salvata per un pelo con la chemioterapia.
- Oh, mio Dio. Mi dispiace… è un miracolo che si sia salvata.
- Sì, è proprio un miracolo. – Un altro sospiro. – Ora sta bene, ma ho sempre paura che il cancro ritorni e che stavolta non ci sia più niente da fare. Certe volte la paura è così reale che la notte resto sveglia.
- Capisco cosa intendi, purtroppo… devi pensare che Kamile è guarita da molto tempo, come tu hai detto, e che ogni giorno è un regalo. In questo modo, sperando che nulla succeda – faccio le corna e tocco ferro, ricevendo in risposta uno sguardo perplesso – non avrai nessun rimorso. Ma sono sicura che in ogni caso se la caverà: è forte e ha l’amore della sua famiglia a sostenerla. Non c’è niente di più grande. Non succederà nulla.
- Hai ragione. – Afferra la bottiglia e beve un lungo sorso. Io torno a osservare il mare.
- La felpa di Kit ti sta molto bene – commenta Gry dopo qualche istante. Mi ci stringo. Lei sorride. – Ti manca molto, vero?
- È partito solo stamattina, ma… sì. Mi manca.
“Indossando la sua felpa sento il suo odore”.
- State molto bene insieme. Perché sussulti?
Un attimo di silenzio per prendere un lungo respiro. – Sai, l’ultimo ragazzo con cui sono stata non era proprio uno stinco di santo. Non si è comportato molto bene neanche fra le lenzuola, se sai cosa intendo. È in galera da un po’ di tempo, in attesa del processo. Con ogni probabilità mi chiameranno a testimoniare. Ma da quando l’ho lasciato sono stata ben attenta a non innamorarmi più…
- Finché non hai incontrato Kit.
Annuisco. Bevo un sorso.
- Ogni giorno era una brutta sensazione. Come venire sempre strozzati, o avere un’indigestione perenne. Non voglio tornare a sentirmi così mai più. Io guardo Kit e vorrei fare… capisci… con lui, ma ogni volta che ci penso mi torna in mente il mio ex. E mi blocco.
- Sara, ascoltami: ti stai facendo delle seghe mentali. È passato, nessuno vuole farti del male. Pensa che quello che hai vissuto è passato e ti ha permesso di arrivare dove sei adesso, e qui nessuno vuole farti del male. Ora hai trovato qualcuno che ti ama, sei libera. Ogni volta che ti torna in mente il tuo ex, apri gli occhi e guarda Kit. Guardalo negli occhi, e vedrai quello che prova per te.
- Tu dici?
Lei annuisce. – Non farti condizionare da un fantasma.
- È facile a dirlo, meno a farlo.
-  Sai, Sara, certe volte la realtà è la cosa migliore che ti possa mai capitare.
La guardo senza capire. – Qual è la realtà?
- Dimmelo tu. Guardami negli occhi e rispondimi con sincerità: che cosa provi per Kit?
La domanda mi coglie di sorpresa e subito un senso di urgenza mi pervade. Ripensando alla domanda, la risposta appare chiara e limpida e mi riempie il cuore di calore. Tre semplici parole sono la risposta alla domanda di Gry, di una potenza così grande che sembra impossibile pronunciarle.
- Quando sono con Kit sono felice.
- Non è una risposta. Ripeto la domanda: cosa provi per Kit?
Silenzio.
- Sei innamorata di lui? Lo ami? – Incalza.
Un groppo in gola mi impedisce di parlare: in questo momento sono così felice che penso potrei piangere di gioia.
Sembra tutto così chiaro, adesso! E Matteo così lontano!
Gry ha ragione. È tutto passato.
E io amo Kit.

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Capitolo 10
*** Renegades ***


Renegades
It’s our time to make a move
It’s our time to make amends
It’s our time to break the rules
Let’s begin…
- X Ambassadors
 
 
Non riesco a dormire.
Ci ho provato in tutti i modi: passando dal mio letto a quello di Kit circondandomi del suo odore, assumendo tre o quattro pillole di melatonina e provato ogni possibile posizione “garantita al 100% per prendere sonno”. Niente. Per due notti di fila.
Sono rimasta assordata dalle scoperte di venerdì sera, così illuminanti e improvvise da rivoluzionare tutta la mia visione del mondo, in pieno stile “San Paolo sulla via di Damasco”.
Amo Kit.
Non ci posso credere, eppure è così.
Mi sento nei casini fino al collo, come se aver finalmente realizzato cosa provo per il mio coinquilino non avesse fatto altro che mostrarmi una tagliola piuttosto che una via d’uscita dal buio. So che non è così, eppure lo sento lo stesso.
Amo Kit.
Porca troia.
E se lui per me non provasse niente? Che dovrei fare? Dirglielo?
Mi butto il piumone sulla faccia soffocando un grido esasperato.
I giochi. I baci. Le confidenze. La complicità. Il batticuore quando mi sfiora. Quello che ha detto dopo aver preso a pugni il finto Matteo. Quello che è successo dopo. Mi ha persino detto “mi sembra piuttosto evidente che mi piaci”… è tutto reale, non me lo sono immaginato.
Oppure ho frainteso tutto?
- Signore e signori vi presento Sara Vitali, multisala per seghe mentali.
Scosto il piumone con uno sbuffo, tornando a fissare il soffitto.
Potrei chiamare Richard. Chi, meglio di lui, conosce Kit? Lui saprebbe consigliarmi?
Guardo l’ora: è l’una e mezza del sabato sera. Starà dormendo.
Non posso chiamarlo.
…Però potrebbe essere sveglio. È un festaiolo.
O forse no?
Non lo chiamo.
Afferro il telefono.
Lo chiamo.
Il telefono squilla una volta e butto giù.
Tic tac tic tac tic tac tic tac…
Magari potrei mandargli un messaggio.
- Sì, questa potrebbe essere l’idea giusta.
Apro Whatsapp e comincio a scrivere: “Ciao Rick! Sono Sara, in caso non avessi salvato il mio numero in rubrica. Scusa se ti mando un messaggio a quest’ora, ma sono nei guai.”.
Invio.
Passano dieci secondi in cui lo schermo rimane sempre lo stesso e io ricomincio la litania di fantasia dannosa.
E se non leggesse il messaggio?
Nel momento stesso in cui realizzo che non posso essere così egoista da poter pretendere che la gente legga i miei messaggi e corra a prestarmi soccorso all’una e mezza del mattino, il telefono inizia a squillare e il chiamante è proprio Richard.
- Sara? In che guaio ti sei cacciata?
- Rick, ti ho svegliato?
- No, tranquilla, ero in giro per pub, lo sai come sono. Sto tornando ora a casa. Allora? C’entra Kit?
Sospiro. – Sì, c’entra Kit.
- Devo prendere il furgone, così nascondiamo il cadavere?
Scoppio a ridere. – Non l’ho ancora ucciso anche se lascia calzini sparsi per tutta la casa… ma se tu fossi a Belfast mi farebbe piacere chiacchierare con te. Ho bisogno del tuo consiglio su una cosa.
- Dovresti sapere che sono a Belfast da stamattina! Avevo un appuntamento di lavoro. Vuoi parlarne al telefono?
- Non potremmo andare da qualche parte, un posto tranquillo? Fare un giro?
- Deve essere una cosa seria, se mi fai questa richiesta all’una di notte! Va bene, non preoccuparti: fammi fare inversione. Sono da te fra dieci minuti.
- Grazie mille Rick! Sei un amico.
 
Il museo del Titanic sparge le sue luci tutto intorno sulla strada, sui moli e sul pelo dell’acqua. Le barche ormeggiate ondeggiano seguendo la corrente con un leggero e non fastidioso cigolio. Sulla fine del molo, dove io e Richard siamo seduti coi piedi penzoloni sull’acqua, la gigantesca stella del Titanic non fa altro che illuminare fiocamente le nostre sagome. Tutto in questo momento contribuisce a creare una calma e confidenziale atmosfera tra me e Richard, due individui vagabondi con un bel paio di occhiaie viola ciascuno.
È arrivato dopo pochi minuti e siamo venuti qui, giocando a trovare quale sarebbe il modo migliore per commettere un omicidio e farla franca.
Siamo venuti qui, nello stesso posto dove più di un mese fa Kit mi ha convinto ad andare a vivere a casa sua, e ha cominciato a salvarmi da me stessa. E ora, un mese dopo, è tutto cambiato.
Richard tira fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette, ne estrae una e la accende.
- Allora… posso sapere, finalmente, a cosa dobbiamo questa scappatella notturna? Non che mi dispiaccia fare il fuorilegge con una bella ragazza, ma avevo un piumone ad aspettarmi a casa. – Ammicca.
- Non flirtare, Richard, con me non attacca! – Gli faccio l’occhiolino, poi mi soffermo sulla sigaretta. – Kit dice che fuma solo quando è felice o stressato, ma è da quando ci siamo conosciuti che non lo vedo fumarne una.
- Guarda che fuma di continuo – replica con un sorriso – solo che odia farsi vedere da te.
- Oh.
- Sa che non ami il fumo.
- Ma non puzza neanche, dopo!
- Quello fa parte dello stile di Kit. – Ammicca. – Qual è questo fantomatico guaio di cui Kit è il protagonista?
Distolgo lo sguardo dal viso di Richard e lo poso sull’ondeggiare dell’acqua. Dopo qualche secondo di silenziosa contemplazione, lui scoppia nella stessa risata di chi, improvvisamente, intuisce una verità universale.
- Oh oh oh oh! Sei innamorata di Kit???
- Sì…
Alza le mani al cielo. – DIO SIA LODATO! HALLELUJAH!
- Vuoi smetterla di urlare??
- Ti chiedo scusa, ma io e tutto il resto dell’emisfero boreale stavamo aspettando questo momento da un sacco di tempo!
- Stai scherzando?
- Amica, dico seriamente… quanto cazzo ci hai messo a capirlo? Quando l’hai realizzato?
La reazione di Richard e il fatto che a quanto pare lui – lui – si era già accorto da molto tempo di quello che provo per il suo migliore amico mi lasciano del tutto a bocca aperta: o lui è un genio, o io sono un libro aperto per tutti tranne che per me stessa.
- I-i-i-ieri sera! – Balbetto. – Soltanto ieri sera!
Mi dà una pacca sulla spalla. – Ti ringrazio. Ti prego, rendi felice Kit. Se lo merita.
- Quindi tu… tu credi che lui provi lo stesso? Voglio dire… - osservo l’ondeggiare delle barche, cercando di trovare le parole. - … Rose mi ha detto che se non mi sono ancora accorta di come mi guarda, ho buone probabilità di lasciarmelo scappare. Io penso che si sbagli: secondo me mi guarda come mi potrebbe guardare chiunque. Ma ci sono delle… dinamiche… tra noi, che quando cerco di spiegare ho paura di sbagliarmi sulla soluzione.
Richard butta la sigaretta in acqua e con un sospiro tira fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Inserisce la password, apre la galleria, e mi porge il telefono mettendosi a sedere ancor più vicino a me.
Le foto che mi mostra ritraggono me e Kit nel mezzo della folla del set: di spalle, in costume o vestiti moderni, sorridenti con in mano un bicchiere di caffè, e poi io con in mano un costume e Kit, poco lontano. In ogni foto, di soppiatto o apertamente, Kit mi guarda.
Rimango ipnotizzata da quello sguardo, così intenso e inequivocabile da togliere il fiato.
- Se non ti sei ancora accorta di come ti guarda, potresti avere buone possibilità di lasciartelo scappare. – Ripete Richard. - Ma secondo me ti aspetterebbe anche per dieci anni.
Sono ammutolita.
- E dire che ci siamo baciati. – Mormoro tra me e me. A Richard per poco non cade il telefono in acqua.
- Cosa??
- Sì, ci siamo baciati. Ma ora che ci penso è successo sempre sotto grandi emozioni. Non l’abbiamo mai fatto in piena consapevolezza, diciamo.
Rick si copre la faccia con le mani e scoppia a ridere. - Beh, ti dirò una cosa: Kit non è uno che bacia a caso. È un po’ scemo quando è ubriaco, ma non è un playboy. – Sorride scompigliandomi i capelli. – Sara, se mi hai chiamato a quest’ora per sentirti dire che secondo me Kit è innamorato di te allora te lo dico: lui ti ricambia. Ma secondo la mia opinione tu sapevi già tutto questo. – Si alza. - Spero che parlarne con me ti abbia schiarito le idee.
Alzo lo sguardo su di lui.  – Mandami quelle foto, ti spiace?
Ride e offrendomi le mani mi tira in piedi. – Solo quando sarò al calduccio sotto al piumone.
 
***
Kit
 
Scendo dalla macchina davanti casa con un po’ di agitazione addosso.
Riunirmi e chiacchierare con la mia famiglia è sempre bello, ma devo ammettere che in questi tre giorni Sara mi è dannatamente mancata e non vedo l’ora di rivederla.
Prendo il borsone dal bagagliaio, arrivo alla porta e apro.
La casa è stranamente pulita e ordinata: non un calzino in giro, né piatti sporchi nel lavandino, né confezioni di noodles aperte e lasciate con le bacchette accanto. I faretti del soffitto sono accesi, riscaldando e rischiarando la casa dal buio della notte, dandole quel senso di accoglienza che cerco ovunque mi trovi.
Chiudo la porta e mi tolgo la giacca.
- Sara?
- Ciao!
È seduta a gambe incrociate sul divano, gli scuri e mossi capelli sciolti e bagnati le ricadono sulle spalle e tiene in mano una tazza fumante di tisana. È vestita in tuta da ginnastica, con una maglietta bianca a maniche corte bordeaux. Mi guarda con occhi dolci e sulle guance un leggero rossore.
Dio, quanto mi è mancata.
- Ti stavo aspettando – sorride. Mi porge la tazza – Tisana ai frutti di bosco?
La accetto con un sorriso posando il borsone a terra e bevo un sorso.
- Hai fame? – Domanda.
- No, ho già mangiato.
- Meno male, anche io!
Accenno una risata, subito spenta dalla stranezza del suo sguardo.
Non capisco cosa stia guardando del mio volto: gli occhi, il naso o le labbra?
Mi accorgo all’improvviso che ci siamo inconsciamente avvicinati, così vicini da poter sentire il suo calore anche senza toccarla.
Sento i battiti del mio cuore accelerare in risposta alla vicinanza che c’è tra noi e un turbine di pensieri mi circola in testa come un tornado, mandando il mio cervello in tilt.
- Che… che stai facendo?
Come risvegliandosi da un sogno, Sara si allontana di un passo.
- Puoi stare zitto un secondo? Chiudi gli occhi.
Obbedisco. Il buio non fa altro che accrescere la mia agitazione.
Improvvisamente la sento prendermi per i fianchi, sopra gli indumenti, e sento le sue labbra sfiorare le mie. Non si allontanano, anzi indugiano, la punta della sua lingua in cerca di un varco.
Solo ora mi accorgo di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo. Espiro, e rispondo al bacio avvolgendole la vita. Il suo sapore è fresco e sa di dentifricio, le labbra sono morbide, e io non capisco più niente.
Le sue mani mi stringono sempre più forte senza mai staccarsi da me. Socchiudo gli occhi per guardarla, così vicina e così intima, bella da togliere il fiato e farmi perdere la testa.
Mi avvolge intorno al collo e mi chino su di lei, via via che il bacio si fa più intenso e passionale. “Ti amo”, vorrei dirle in ogni momento, ma tutto quello che riesco a sentire è il suo corpo contro il mio, la sua lingua nella mia bocca, il profumo dei suoi capelli. I nostri respiri sono sempre più pesanti.
Si stacca leggermente da me e mi mordicchia un labbro con un sorriso birichino. Senza più controllarmi, spingo entrambi verso lo schienale del divano. Oltre al bacio, sento che il suo basso ventre preme contro il mio, in maniera quasi provocante.
Sara infila le mani sotto la mia maglia, sfilandomela dalla testa, mentre il bacio continua. Sento le sue dita seguire le linee del tronco e soffermarsi sui fianchi.
Abbiamo passato il punto di non ritorno.
Prendendola in braccio la porto nella mia camera da letto e le sfilo la maglietta, lasciandola in reggiseno. Cadiamo entrambi fra le lenzuola, senza quasi riprendere fiato, e le mie mani vanno in cerca della chiusura del reggiseno troppo in fretta, per i miei gusti. Ma ormai non sono più padrone del mio corpo: solo ora mi rendo conto di quanto la desidero. Non posso fare a meno di guardarla e non so nemmeno quando ho riaperto gli occhi.
Le tolgo il reggiseno e lo lancio fuori dal letto.
Sara si stacca da me, irrigidendosi e spalancando gli occhi. Non è difficile immaginare che cosa stia pensando.
- Stai tranquilla, Fawny – mormoro abbassandomi a baciarle la linea del collo. – Sono Kit, sai che non ti farò mai del male.
Continuo a baciarla lungo il corpo finché non la sento rilasciare i muscoli, rilassarsi e abbandonarsi nel primo vero abbraccio della mia vita.
 
Non posso descriverlo.
Tutta la dolcezza, tutto l’amore e tutta la passione che posso aver accumulato nella mia vita si sono riversati dentro di lei mentre facevamo l’amore, e ho sentito – fisicamente, per quanto tale si possa sentire un’emozione – che lo stesso accadeva per lei. Dopo molto tempo, finalmente mi sono sentito completo.
Siamo entrambi nudi sotto le coperte. Non abbiamo avuto la forza di rivestirci.
A vederla così piccolina, tenera e carina, non avrei mai pensato che fosse così brava.
È rannicchiata proprio accanto a me, e nel buio segue i contorni dei miei muscoli con la punta di un dito. Mi bacia una spalla e io la stringo a me.
- Non te l’ho chiesto, prima: com’è andata a Worcester? – Mormora, pur di non rovinare l’atmosfera.
- Tutto bene. Io e i miei abbiamo parlato a lungo.
- …Gli hai parlato anche di me?
- Sì, ma non preoccuparti: non ho rivelato nulla di compromettente.
- Ok…
La attiro a me e le bacio la punta del naso. Non è esattamente vero, quello che ho detto.
Ho raccontato ai miei di essermi innamorato di una ragazza italiana, Sara, che vive a casa mia e che in passato è stata molestata da un uomo. Quasi mi ha commosso la velocità con cui mia madre ha afferrato il concetto – tutto il concetto – e guardandomi con occhi tristi ha commentato “Oh, povera cara!”.
- Vorrebbero conoscerti – la informo giocando con una sua ciocca di capelli.
- Cosa?
- Non sarebbe comunque nulla di ufficiale: vorrebbero solo conoscere la ragazza che si dice sia la nuova fiamma di Kit Harington.
Si alza a sedere, tenendosi la coperta sul seno. – CHE COSA??
Sospiro e accendo la luce sul comodino. La luce riduce l’intima atmosfera, ma non così tanto da annullarla. – Ti faccio vedere.
Mi alzo e, completamente nudo, vado in salotto a prendere la rivista che mi ha mostrato mio padre con uno sguardo divertito e una sincera pacca sulla spalla. Torno in camera, scoprendo che Sara si è infilata la maglietta di stasera, e poggiando la rivista sul letto mi rivesto anch’io per poi sedermi di nuovo accanto a lei. Apro la rivista in una pagina con l’orecchio piegato e le faccio vedere il trafiletto. Lei mi si avvicina e legge ad alta voce.
- “Nuova fiamma per Kit Harington? Sappiamo tutti che Kit Harington e Rose Leslie, Jon e Ygritte del Trono di Spade, si sono lasciati un po’ di tempo fa. Una decina di giorni fa Harington, dalla sua casa a Belfast, ha chiamato un’ambulanza dicendo che la sua ragazza era svenuta e aveva bisogno di aiuto. Il paramedico che l’ha soccorsa ci ha giurato che la ragazza in questione non era Rose Leslie, ma una brunetta mai vista prima. Chi sarà la ragazza del mistero, la nuova ragazza di Harington? E Rose Leslie, come avrà reagito? Siamo ansiosi di scoprire di più!”.
- Mi dispiace per quel “la mia ragazza”. Ero nel panico e non mi sono controllato. Durante la mia intervista di ieri Queen Latifah ha cercato di cavarmi fuori qualcosa, ma io ho detto soltanto che non posso rispondere. Scusami.
Lentamente, Sara chiude la rivista e si rannicchia contro il mio letto.
- Non è importante – sospira. – Mi piacerebbe esserlo. Oddio, scusa!!!!
Si tira su di scatto e si volta, diventando rossa come un peperone. Mi metto a ridere, sollevato nel cuore e nell’anima. Mi avvicino a lei e, accarezzandole le spalle, la abbraccio da dietro.
- Sarei onorato se tu fossi la mia ragazza.
- Anch’io. – Mi sorride guardandomi e io mi chino a baciarla. Farlo così, gentilmente e consapevolmente, è un’emozione unica. Come lo è vivere accanto a lei ogni giorno.
“Ti amo, Fawny”. È una frase così semplice, ma al tempo stesso così complicata da pronunciare. Finché non troverò il coraggio di confessarglielo, lascerò che siano i gesti a parlare per me.
Sara mi abbraccia e strofina il naso contro il mio petto, sorridendo tenera.
- Sai, Fawny… la prossima settimana usciranno i nomi delle convocazioni della crew per l’Islanda, e subito dopo ci sarà la festa di metà riprese. Abbiamo quasi finito, è luglio inoltrato e ad aprile la serie andrà in onda.
- Se abbiamo quasi finito perché la chiamate “la festa di metà riprese”?
- Non lo so proprio, ma suona strano anche a me – ridacchio. – Mi piacerebbe se tu mi accompagnassi, ma dal momento che ci saranno dei fotografi capirei se tu rifiutassi. Non voglio che tu ti senta a disagio.
Sara sospira e il fiato sul mio petto provoca una minima ondata di brividi. Resta in silenzio per qualche secondo, valutando le opzioni, e io resto in trepida attesa della sua risposta. Vorrei che venisse per presentarla a tutti i miei amici del cast, ma allo stesso tempo qualunque dinamica fra noi la spingerebbe in mezzo alla folla di fan e paparazzi e non voglio che questo succeda, anche se Matteo è in prigione. Non voglio esporla senza il suo consenso.
- Tu per me sei Kit. Non voglio stare con te perché sei Kit Harington il famoso e sexy attore, ma perché sei Kit. Sei molto importante per me… – il mio cuore fa un buffo balzo contro lo sterno. -  Ma capisco che, per quanto tu sia una persona normale e meravigliosa, tu abbia a che fare di continuo con paparazzi, interviste, gossip e foto. Da una parte ho voglia di scappare, dall’altra capisco che per stare con te devo fare i conti anche con questa realtà…
Si alza, si volta verso di me e mi guarda con un timido sorriso, poi continua:
- … e in questo momento stare con te è il mio più grande desiderio.
Sorrido apertamente, lusingato dalle sue parole. – Quindi verrai alla festa?
- Verrò volentieri, Kit, e se ci fotograferanno insieme mi metterò il cuore in pace. Tanto sono Sara Vitali, non Sara Cerbiatto – mi fa l’occhiolino.
 
***
Sara
 
Gli faccio l’occhiolino.
“E stare con te sarà l’avventura più grande della mia vita”.

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Capitolo 11
*** When You Say Nothing at All ***


When You Say Nothing at All
 
All day long I can hear people talking out loud
But when you hold me near, you drown out the crowd
Try as they may they can never define
What’s been said between your heart and mine.
- Ronan Keating
 
***
Sara
 
La partenza del cast e della crew convocata alla volta dell’Islanda è prevista per il 28 luglio.
Oggi è il 24.
Per giorni persone esaltate hanno vagabondato per tutto il set sventolando per aria i fogli delle convocazioni, vittoriose ed eccitate per l’imminente partenza.
Partirà l’80% dei membri della crew: cioè quasi tutti… tranne io.
Ormai ho perso la speranza, anche se la convocazione non è arrivata nemmeno a Sheila. Ho provato a parlare con Michele e David, ma nessuno dei due sapeva niente: il loro unico compito è quello di inviare alla HBO i nomi dei candidati, con annessi dei validi motivi per finanziare la loro trasferta a Reykjavík. E io, contro Sheila, non ho nessun valido motivo: lei è qui da molto più tempo di me, è la candidata ideale per l’Islanda.
Anche Kit si sta mettendo il cuore in pace: per quanto abbia cercato di far valere anche la sua opinione essa non è stata giudicata oggettiva e scartata. Fine dei giochi.
Tutto quello che ora posso fare è cercare di trovare un appartamento: non voglio continuare a vivere in casa di Kit, nonostante lui passi ogni minuto libero della giornata a cercare di convincermi. Non voglio sentire ragioni.
- Oh, coraggio, su di morale! – Michele cerca di sorridermi, incoraggiante. – Se non verrai convocata, non è la fine del mondo. Potresti essere trasferita in Spagna nella troupe di Daenerys, sarà favoloso!
- Non me ne frega niente della troupe di Daenerys – ribatto sbattendo sul tavolo le buste di plastica vuote. – Il mio obiettivo era Reykjavík.
- Beh, non fasciarti la testa prima di rompertela. Potresti ancora essere convocata.
- Sì, certo, due giorni dopo tutti gli altri! È facile per te parlare, sei convocata a prescindere essendo la prima costumista dello show.
- Prima di tutto, bada a come parli, sono sempre il tuo capo. – Mi fulmina Michele. – Secondo, io non andrò in Islanda: la scelta dei costumisti è tra le mie assistenti che dovranno ricoprire il mio ruolo. Io sono richiesta nelle altre troupe. Per questo motivo la convocazione del costumista richiede sempre più tempo degli altri. Se tu non ti fossi chiusa a riccio su te stessa e avessi chiesto a me o a Sheila, l’avresti saputo sin dall’inizio.
- Ti chiedo scusa, Michele. Solo provo amarezza a dover rimanere qui.
- Non è ancora detto. Continua a lavorare e sarai ripagata.
Dentro questo gira sui tacchi e sparisce nel corridoio. Io ricomincio a mettere a posto le buste, cercando di non fare troppo casino sbattendo cose da tutte le parti.
Volevo andare a Reykjavík. Volevo stare con Kit.
- Goditi l’Islanda, Sheila, e non prendere troppo freddo! – Esclamo per farmi sentire dall’altra parte della stanza. Lei, in tutta risposta, rannicchiata su un cumulo di stoffe, scoppia in lacrime.
- Oh, no, Sheila, non volevo farti piangere! – Corro da lei facendomi largo in mezzo al disordine e abbracciandola. - Non preoccuparti, vedrai che ti convocheranno!
- Non lo faranno mai! Non so fare niente!
- No, non è vero. Vedrai che ora arriva David e ti dà la busta della convocazione.
I singhiozzi aumentano, talmente forti che quasi mi unisco a lei.
- È un brutto momento?  
La voce di David provoca un immediato stop dei singhiozzi di Sheila, facendo alzare lo sguardo di entrambe su di lui. Sorride imbarazzato e in mano tiene una busta aperta.
LA busta.
Scattiamo immediatamente sull’attenti e David sembra quasi imbarazzato: fa palleggiare lo sguardo fra noi due con l’aria di chi vorrebbe essere dovunque – a casa ammalato, sul lettino del dentista… dovunque tranne che qui.
- Scusate, se è un brutto momento torno dopo, ma…
Si blocca, inchiodato dai nostri sguardi fissi sulla busta come quelli di mastini affamati. La alza, pronto a consegnarcela e poi darsela a gambe.
- …Qui c’è la convocazione per la prima costumista…
Sia io che Sheila stiamo trattenendo il fiato, la tensione è palpabile.
Alza la busta all’altezza dei suoi occhi… e me la porge.
- Sara Vitali, questa è tua. Fai le valigie.
Scoppio in un grido esaltato e mi metto a saltare sul posto, per poi gettare le braccia al collo di David e abbracciarlo più stretto che posso.
- Grazie David!! Grazie, grazie, grazie!!!
David ricambia l’abbraccio ridendo imbarazzato.
- Te lo sei meritato – Sorride per poi rimettermi a terra. – Leggila, ci sono scritte delle cose carine.
Io non riesco a smettere di saltellare in giro, ma chissà come riesco a estrarre i fogli e a leggerla.
Dalla redazione generale dell’HBO con sede a Los Angeles.
Convocazione ufficiale per la trasferta in Islanda che si terrà dal 28 luglio 2013 al 15° settembre 2013.
Gentile SARA VITALI,
La informiamo che Lei è stata scelta per la trasferta finanziata dalla redazione generale in qualità di Prima Costumista della crew e assistente Fisioterapista.
Le raccomandazioni che abbiamo ricevuto e valutato su di lei, scritte dai sig.ri DAVID BENIOFF e MICHELE CLAPTON, l’hanno definita indispensabile per la crew e per la buona riuscita dello show.
È stata definita dal sig. BENIOFF versatile, affidabile e “incredibilmente capace”, e dalla sig.ra CLAPTON “la migliore assistente costumista che si potesse desiderare”.
Per questi motivi siamo felici di convocarla.
Cordiali saluti,
la redazione generale dell’HBO”.
- OHMMIODDIO VADO IN ISLANDA!!!! VADO IN ISLANDA!!!
- Complimenti Sara, davvero. – La voce rotta di Sheila mi riporta alla realtà facendomi voltare verso di lei: cerca di sorridere, ma i suoi occhi sono tristi e lucidi di lacrime.
“Come farmi sentire una merda in cinque secondi, puntata 98”.
La abbraccio stretta.
- Mi dispiace, Sheila. Tu te lo meriti di più.
- Evidentemente non è così.
La bacio su una guancia e Sheila mi prende per le spalle. – Vai a dirlo a Kit – sorride.
Certe persone hanno la sportività e la bontà d’animo di essere felici per le opportunità che hanno gli altri nonostante siano state loro a prendersela in quel posto, perdendo e finendo nella merda: Sheila è senza dubbio una di quelle persone e, sotto sotto, anche se egoisticamente sono al settimo cielo, vorrei davvero che venisse in Islanda.
Lei mi tira un buffetto su una guancia e io volo fuori dalla porta, con la lettera in mano.
 
***
Kit
 
- STOP! DIECI MINUTI DI PAUSA! – Gracchia Alik Sakharov dentro al megafono, provocando un brusio di voci sollevate e un coro di stiracchiamento di giunture.
Mi tolgo il mantello da Corvo dalle spalle e lo appoggio su una staccionata, rimanendo in abiti di pelle da Jon Snow. Mi allontano dalla scena cercando un posto tranquillo dove rilassarmi un secondo.
Sara è impegnata di sopra e non scenderà per un bel po’, credo, a meno che non le arrivi la convocazione, cosa che vorrei con tutto il mio cuore ma su cui purtroppo abbiamo entrambi perso le speranze.
Faccio appena in tempo a raggiungere il tavolone del caffè e a versarmene una tazza, quando mi sento afferrare per un braccio da una mano esile e fine di cui riconosco il tocco ancora prima di voltarmi.
Rose ha in testa un cappuccio sportivo, un cappello e i suoi occhiali da sole, e sembra voler fare in modo che nessuno la riconosca. Si sfila gli occhiali, rivelando due occhi rossi e gonfi.
- Rose, che c’è? – Poso la tazza sul tavolo e mi volto verso di lei.
- Potresti… potremmo andare in un posto tranquillo?
Ha la voce rotta di chi ha pianto a lungo, motivo per cui non ci penso due volte ad accontentarla.
Andiamo in quello che nello show è il passaggio sotto la barriera, dove non c’è mai nessuno a meno che non si stia girando una scena. Una volta che siamo soli Rose si abbassa la cerniera della felpa e mi guarda accusatoria, triste e arrabbiata.
- Che cosa devo fare con te, Kit?
Questa sì che è una sorpresa. – Che intendi?
Scoppia in singhiozzi. – Oh, lo sai benissimo! Che cosa devo fare con te, per farti tornare da me? Ho provato di tutto, persino far fare ricerche su di lei per convincere David che aveva qualcosa da nascondere e che doveva licenziarla: ma niente, hai occhi solo per lei!
- Frena, frena, aspetta un momento. Che cosa hai fatto?!
Tira su col naso e mi guarda sorpresa. – Non te l’ha detto?
- Non una parola. – Muovo un passo verso di lei con la rabbia nelle vene. – Porca troia, Rose, perché cazzo l’hai fatto? 
- La voglio fuori dai piedi!
Avanzo ancora verso di lei. – Pensi di poter ottenere il mio perdono comportandoti così? Pensi che, se Sara se ne andasse, tornerei da te con la coda tra le gambe?
- Non ringhiare con me, Kit!
- Vattene.
Senza aspettare che faccia come le ho chiesto le volto le spalle e comincio a camminare verso l’uscita. Solo dopo aver fatto qualche passo sento Rose correre nella mia direzione e abbracciarmi la schiena.
- Quindi tra noi è davvero finita? – Singhiozza. – Tu ami lei?
Combattuto fra dirle la verità e spezzarle il cuore oppure mentire e darle una speranza, opto per la prima opzione. Prendendole le mani e togliendole dal mio petto, rispondo ad alta voce senza guardarla.
- Sì, la amo. E per la cronaca, tra noi è finita quando tu mi hai urlato in faccia che per te era un gioco e te ne sei andata dal mio appartamento. Sei stata tu a spezzarmi il cuore, non il contrario, e non riuscirai a cambiare le cose tra me e Sara.
Senza indugiare oltre e senza distogliere lo sguardo dalla porta, esco dal tunnel e lascio Rose sola con i suoi pensieri.
Una volta tornato nella sala delle riprese, Alik mi fa un cenno e da lontano mi grida, indicando una direzione col pollice:
- EHI KIT! QUALCUNO TI STAVA CERCANDO!
Mi volto nella direzione indicata, e vedo Sara saltellare con un sorriso a trentadue denti sventolando un foglio.
Nel momento stesso in cui realizzo che cosa sia il foglio che tiene in mano non posso fare a meno di esplodere in uno “Yeah” disumano che fa saltare in aria la povera gente attorno a me, e io e Sara cominciamo a correre l’uno verso l’altro. Ci abbracciamo saltellando in cerchio e gridando come dei matti frasi sconnesse contenenti “Islanda”, “Wo-oh”, e “Andiamo insieme” e continuando a stringerci forte.
Non vediamo neanche che intorno a noi si è formato un gruppo di persone, tra cui spicca una chioma rossa sotto a un cappuccio.
 
***
Sara
 
Essendo l’ultimo giorno di riprese in Irlanda del Nord per la nostra troupe abbiamo fatto solo mezza giornata di riprese. Sono andati tutti a casa a prepararsi per la partenza di domattina, con tanto di shopping e il consueto “oddio chiamate la make-up artist, qui la situazione è grave” da parte delle attrici. La festa di metà riprese, infatti, non si tiene a Belfast ma a Londra, come reunion di tutto il cast. Sarei partita a prescindere dalla convocazione, ma averla ricevuta rende questa che viene l’ultima sera che passeremo a Belfast.
Subito dopo aver ricevuto la convocazione e aver festeggiato con Kit nel bel mezzo del set ho chiamato i miei genitori: non appena mio padre ha sentito la mia voce ha cominciato a urlarmi contro di tutto, chiedendomi “perché mai non controllo mai la belin di posta elettronica” e informandomi che “il 3 agosto dobbiamo tutti testimoniare in tribunale contro Matteo”.
Dopo aver visto la citazione ufficiale del tribunale nella mia e-mail ho deciso che, almeno per stasera, non voglio pensarci: farò come Rossella O’Hara e ci penserò domani.
Sono troppo felice per la convocazione: ogni secondo di ogni minuto non posso fare a meno di immaginarmi come sarà meraviglioso visitare l’Islanda assieme a Kit, e tanto basta a farmi saltellare per casa cantando ogni canzone di Fabrizio De André che mi passa per la testa.
Quando per la terza volta consecutiva inizio a cantare a squarciagola “Amore che vieni amore che vai” mentre riempio il trolley verde mela coi miei vestiti, Kit bussa allo stipite della porta e mi chiede che cosa sto cantando.
- È una canzone del mio cantautore italiano preferito, Fabrizio De André.
- Ti va di tradurmela? – Domanda buttandosi sul letto.
- Se la traduco si perde tutta la poesia, ti avverto.
- Pazienza – insiste. – Hai una bella voce! – E si lancia nella pallida imitazione di occhiolino che sa fare.
 Mi siedo sul letto accanto a lui e, giocando con le sue dita, cerco di accontentarlo e conservare il più possibile l’integrità della poesia di Faber.
- Quei giorni perduti a rincorrere il vento / a chiederci un bacio e volerne altri cento… Io t’ho amato sempre e non t’ho amato mai / amore che vieni, amore che vai…
 
Non sapevo che Kit avesse paura di volare, e che subito prima di entrare sull’aereo battesse tre volte sulla fusoliera con una penna a sfera.
Non sapevo che Londra fosse così grande, luminosa e cosmopolita.
Non sapevo che qui fosse il vero appartamento di Kit, quello in cui abita quando non è in giro a lavorare.
Non sapevo che suddetto appartamento fosse a Kensington e che fosse molto più grande di quello irlandese.
Appena arrivati a Heathrow io e Kit ci siamo separati dagli altri e siamo andati a casa sua – un posto grande e meraviglioso con tante stanze di parquet scuro e pareti bianche -, abbiamo posato le valigie e poi lui mi ha portato in giro per la città. Al parco che si vede nel film “Notting Hill”, prima di tutto, e poi in centro.
Verso le quattro del pomeriggio siamo tornati a casa e abbiamo cominciato a prepararci per la festa: dal momento che il dress code è “informale ma con stile”, Kit ha indossato il maglioncino viola attillato che mi piace da impazzire su un paio di jeans scuri, io dei pantaloni di pelle nera attillati, una camicia e un maglioncino bianche a righe nere. Ho lasciato i capelli sciolti e ho indossato una collana e degli stivali comprati apposta per l’occasione.
Pochi minuti prima di uscire, non posso fare a meno di fargli una domanda che mi assilla da quando mi ha chiesto di accompagnarlo alla festa.
- Kit, sei sicuro che non ci siano il red carpet, i paparazzi e i fan impazziti?
Lui ridacchia, mi accarezza i capelli e risponde:
- Stai tranquilla, Fawny, è una cosa tra noi: ci sarà solo un fotografo e i buttafuori controlleranno che non succedano casini. Ok?
- Ok.
Mi prende per i fianchi, mi avvicina a sé e mi bacia dolcemente sulle labbra.
- Non ti mollerò per un secondo. Dai, andiamo.
 
Il locale dove si tiene la festa è pazzesco e pieno di gente: molti sono camerieri, ma la maggior parte dei presenti è composta da ogni personaggio e volto visto nel Trono di Spade. Dentro ci sono luci soffuse, musica e mormorio indistinto. Kit e io varchiamo la soglia del locale mano nella mano, e ci separiamo appena entrati. Kit però non si allontana di mezzo centimetro, ma mi conduce verso il primo gruppo di amici attori.
Sansa, Arya, Margaery, Joffrey, Bran e Hodor stanno chiacchierando quando io e Kit arriviamo da loro. Poco lontano Jamie, Sandor Clegane, Cersei, Samwell, Rose e Daenerys stanno bevendo dei drink.
- Ragazzi, posso presentarvi Sara?
Un coro di “Ciao!” si alza dal gruppo.
- Sara, posso presentarti Maisie – lei mi stringe la mano con un gran sorriso; - Sophie – la sua bellezza toglie il fiato; - Nathalie – lei sorride come se sapesse esattamente quando sarà la fine del mondo; - Jack – è totalmente diverso dal suo personaggio, ha l’aria davvero simpatica; - Isaac – vederlo su due piedi fa veramente impressione, è alto! – e Kristian – non sentirlo dire “Hodor” è incredibile!
- Piacere di conoscervi! – Esclamo.
- Ciao, Sara, come stai? Kit ci ha parlato un sacco di te! – Sorride Sophie.
- Ah, ma davvero? – Mi volto verso Kit con un mezzo sorriso.
 
***
Maisie
 
È strano vedere accanto a Kit una ragazza che non sia Rose, eppure Sara sembra essere nata apposta per stare insieme a lui. E poi il mio fratellone ha una luce completamente diversa negli occhi.
- Ah, ma davvero?
Si guardano di sfuggita, uno sguardo d’amore.
- Puro e semplice gossip tra amici.
Ridiamo.
- Isaac, devo chiederti scusa, la tua performance è fantastica, ma il tuo personaggio è un coglione.
- Ho sentito opinioni peggiori! – Risponde Sa.
- Ho sentito che verrai anche tu in Islanda!
- Sì, insieme a Thomas e Ellie.
Si riferisce a Thommie Brodie-Sangster e Ellie Kendrik, Jojen e Meera Reed.
Anche Natalie inizia a chiacchierare con Sara, subito prima che Kit la rapisca e la porti al tavolo del buffet.
Appena ci voltano le spalle Sophie, Nathalie e io ci inchiniamo l’una sull’altra e iniziamo a lanciare gridolini eccitati e a ridere di contentezza.
 
***
Sara
 
- Secondo me il fotografo si sta divertendo come un pazzo – borbotto prendendo da un vassoio di metallo delle mozzarelline fritte e mettendole in un piatto.
- Se ti dà fastidio andiamo a casa subito.
Arriviamo alla fine del tavolo del buffet e rimaniamo nell’angolo appartato.
- No, va bene, davvero. – Sorrido. – Mi fa piacere conoscere tutti i tuoi amici.
- Anche a me. Era importante per me farteli conoscere.
- Ne sono contenta. – Alzo lo sguardo su di lui e sorrido.
 
***
Rose
 
Appartati in un angolo ma comunque perfettamente visibili da tutta la sala, Kit e Sara stanno parlando nella loro intimità tenendo in mano i piatti pieni di cibo. Il fotografo ufficiale della serata, poco lontano da me e da Lena, scatta foto a più non posso intorno a sé, riprendendo tutti i presenti.
Io non riesco a staccare gli occhi da Kit.
Vedo Sara dire qualcosa, sorridere e alzare lo sguardo su di lui e sorridere, e Kit guardarla con occhi dolci.
Sara posa il piatto sull’angolo del tavolo, si alza in punta di piedi e lo bacia piano sulle labbra. Entrambi chiudono gli occhi.
Delle persone attorno a noi, molti li vedono baciarsi.
Dicono tutti cose carine su la nuova coppia della serata, e nessuno consola me.
 

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Capitolo 12
*** Heroes ***


Heroes
I, I can remember
Standing by the wall
And the guns, shot above our heads
And we kissed, as though nothing could fall.
And the shame, was on the other side
Oh we can beat them, forever and ever,
Then we could be heroes, just for one day.
- David Bowie
***
Sara
 
- Ehi, sono arrivati Emilia, Kris e David!
È quasi mezzanotte e nonostante l’ora tarda la festa sta cominciando a entrare nel vivo proprio ora: gonfi di cibo e allegri per il vino siamo tutti accalcati, felici e chiacchieroni.
Mi sentirei a disagio se Kit non mi stesse tenendo per mano dall’inizio della serata, ma con lui accanto mi sembra di stare in una campana di vetro, al sicuro.
E i ragazzi del cast fanno morire dalle risate.
Un’ora fa, a un certo punto, io e Kit ci siamo separati e sono rimasta da sola in mezzo alla calca. La cosa sembrava preoccupante, finché non mi si è presentato l’uomo più carismatico e simpatico del mondo: Peter Dinklage, ovvero Tyrion il Folletto. Un personaggio geniale quanto geniale è l’attore che lo interpreta: è alto solo venticinque centimetri meno di me, per cui non mi sembra tanto basso, ma io sono alta undici centimetri meno di Kit, venti centimetri meno di Sophie e ben trenta più bassa di Gwendoline Christie, Brienne di Thart. Ecco, davanti a Gwendoline io sparisco dalla faccia della Terra: Sono alta un metro e sessanta, santo cielo. Portare i tacchi con Kit, tra parentesi, è uno sballo.
Insomma, un po’ per tutti ma soprattutto per Peter, l’altezza non gioca un ruolo importante nella personalità: ha un carattere talmente esplosivo che io e lui ci siamo trovati subito in simpatia e ci siamo persino scambiati i numeri di telefono. Mi ha anche raccontato delle cose interessanti su Kit: si stava giusto spiegando il motivo per cui il culo di Jon Snow che si vede nella caverna non è quello di Kit, quando il mio bel corvo si è materializzato accanto a noi e con una scusa mi ha trascinato lontano da lingue indiscrete.
Prevedo scambi di sms a breve. Forse persino un gruppo whatsapp.
Kit mi trascina verso l’entrata del locale passando accanto a Sophie e Iwan Rheon.
Una bella ragazza bruna sul tacco 12 sfoggiante un grande sorriso si fa largo tra la folla guardandosi in giro e abbracciando tutti, insieme a Kris e David.
Lei e Kit si abbracciano stretti mentre io rimango in disparte a osservarli.
- Emilia posso presentarti Sara, la mia… - trattiene un secondo il respiro. - … Fawny.
Lo sguardo di lei passa da Kit a me e con un altro sorriso mi stringe la mano.
- Ciao Sara, felice di conoscerti finalmente!
- Il piacere è tutto mio, Emilia! Posso dirti che la tua interpretazione di Daenerys è magistrale? È il mio personaggio preferito!
Ride. – Mi fa piacere! Grazie al Trono ho conosciuto le persone migliori del mondo!
Emilia ha i capelli scuri, gli occhi blu, ed è vestita con stile e capi attillati. È sexy da morire.
“Non mi aveva mai chiamato Fawny davanti a qualcun altro”.
- Emilia è la mia migliore amica – Spiega Kit mettendole un braccio intorno alle spalle e gettando un’ondata di gelosia nel mio stomaco.
- Sì, Kit, lo sappiamo tutti che siete pappa e ciccia! – Kris sbuca fra i due con la camicia stropicciata e i capelli in disordine. – Scusatemi se sono arrivato soltanto ora, avevo problemi a casa.
Lo abbraccio chiedendogli che genere di problemi.
- Oh, Kamile ha preso un parassita intestinale e non fa altro che vomitare. Gry è rimasta con lei.
- Mi dispiace molto! Se posso fare qualcosa dimmelo.
- Certo, non preoccuparti!
- Sara non vede mai l’ora di rendersi utile, eh? – David si unisce al gruppo.
- Oh, David, già che sei qui… - lo afferro per un braccio e lo traggo in disparte, abbassando la voce. Lui si china su di me, interessato. – Il 3 agosto si terrà l’udienza contro il mio ex ragazzo e mi hanno chiamato a testimoniare. Per legge non posso sottrarmi. Dovrò partire per l’Italia il 2 agosto. È un problema per te?
- Certo che no, Sara. Con quali accuse è stato arrestato?
- Violazione di domicilio, tentato omicidio e stalking.
David sospira e mi posa una mano sulla spalla. – Chiamami appena avrai testimoniato, facci sapere com’è andata.
- Certo.
Dopo un attimo di esitazione, David mi abbraccia.
 
***
Rose
 
Sto parlando con Pedro Pascal quando il telefonino nella mia borsa inizia a suonare.
Con una scusa qualsiasi mi faccio strada tra la folla ed esco dal locale.
- Pronto? – Rispondo.
- John Doe, investigatore privato al tuo servizio come sempre, Rose. È stata una fortuna che tu abbia scoperto il vero nome della ragazza.
- Dimmi tutto quello che hai scoperto su Sara Cerbiatto all’istante, John. Non ti ho pagato mille dollari per stare sulle spine.
- Allora siediti comoda, tesoro, perché la storia è lunga…
 
***
Sara
 
 
È stata la festa più lunga ed estenuante di tutta la mia vita.
Io e Kit abbiamo due borse sotto agli occhi così grosse che a momenti al check-in ce le contavano come bagaglio a mano. Fare l’amore una volta tornati a casa è stata proprio un’idea geniale… ma bellissima. E aver dormito per tutto il giorno non ha giovato.
A causa di una forte perturbazione, l’aereo su cui stiamo viaggiando alla volta di Reykjavík sta tremando freneticamente a intervalli regolari. Ciò non disturba il sonno dei nostri compagni di viaggio che continuano a riposare sui larghi sedili blu mentre io, sveglissima, stringo un terrorizzato Kit fra le braccia, con la sua testa poggiata sulle mie gambe, tentando di distrarlo come meglio posso. I nostri sussurri, nella luce soffusa della cabina e nel buio della notte, sono solo per noi. Il silenzio assoluto interrotto solo dal rumore dei motori crea un'atmosfera molto intima, nonostante siamo circondati da persone e amici.
Sto accarezzando i suoi ricci, mentre ad ogni sobbalzo lui affonda il viso nel mio addome.
- Non ti ho mai chiesto se credi in Dio. – Domando avvolgendo un riccio intorno a un dito.
- In questo momento moltissimo. – Mi avvolge i fianchi con le braccia muscolose. – E tu?
- Una volta sì…
Un altro tremolio, stavolta più lungo degli altri. Kit mugola.
- Mi sbaglio o volare è la tua più grande paura?
- Diciamo che rientra nella top five, insieme ai ragni, le iniezioni e l’essere sepolto vivo.
- Ne hai nominate quattro. Qual è la quinta?
- Qual è la prima, vorrai dire! – Mi corregge, alzando lo sguardo su di me e accarezzandomi una guancia con un pollice. Un altro tremolio. Fa un grosso respiro e apre la bocca per parlare.
- Aspetta, aspetta, fammi indovinare… - lo interrompo. – Trovare i ladri in casa!
- No.
- Non venire più assunto da nessuno?
- No.
- Le immersioni subacquee!
Ridacchia. – No.
- E allora cosa?
Silenzio.
- Dai, non sarà poi così grave! Qual è la tua più grande paura?
- … Perdere te.
Il suo sguardo scuro e dolce sottolinea ciò che ha detto, zittendomi e rendendomi una statua di sale. Quasi non credo alle mie orecchie. Un altro tremore.
- Dai, dimmi la verità!
- Perdere te – ripete. – È la mia più grande paura.
- Che… che intendi dire?
Sospira. – Solo questo.
Si alza e mi bacia lentamente, con intensità. Il mio corpo risponde immediatamente all’ondata di dolcezza e amore che sento provenire da lui.
Amore.
Ci separiamo e appoggiamo una sull’altra le nostre fronti.
- Forse ho capito cosa intendi…
Kit sorride. L’aereo è scosso un’altra volta dalla turbolenza, ma stavolta lui non sembra neanche accorgersene.
- Kit?
- Mh?
- Ecco, pensi che potrei… essere la tua ragazza?
- YES! – Grida subito prima di tapparsi la bocca. Scansioniamo velocemente la cabina per assicurarci che non abbia svegliato nessuno. Una volta al sicuro, scoppio in una risata silenziosa. – Ti chiedo scusa, ma volevo chiedertelo da molto tempo. – Spiega arrossendo.
- Direi che quindi possa essere ufficiale, no?
- Certo – Sorride, e ci baciamo ancora.
In uno slancio improvviso, il “Ti amo” che stava per uscirmi dalle labbra muore soffocato dalla sua stessa importanza.
Mi accoccolo contro di lui, mormorando:
- Beh, Kit, ci vorrà di sicuro un casino davvero grosso per portarmi via da te.
Sorride ancora e mi stringe fra le braccia, chinandosi su di me come un riccio su se stesso.
 
L’aereo tocca il suolo islandese alle 5.40 del mattino del 29 luglio. Gli arrivi del Keflavik, l’aeroporto internazionale, sono completamente deserti quando passiamo e il sole è già abbastanza alto nel cielo.
I due mesi che passeremo qui saremo come una pallina da ping-pong, passando la notte a fare la spola tra l’albergo in città e le roulotte.
Non so ancora come saranno le roulotte, ma nell’albergo in città abbiamo due interi piani solo per noi.
La cosa buffa? La mia stanza è diversa da quella di Kit.
Nonostante il mio disappunto e le sue insistenze, ho provveduto subito a riempire l’armadio della mia stanza di vestiti. Ma, come ho puntualizzato col “mio ragazzo” – wow -, riempire un armadio non è la stessa cosa che riempire un letto. E poi la mia stanza è un po’ più isolata delle altre essendo l’ultima del corridoio, e quindi un po’ più intima.
I primi giorni li ho spesi a cercare di abituarmi alla bellezza di Reykjavìk, circondata dagli altopiani un po’ innevati, dalle luci serali della città, dalla buona cucina e dalla pazzesca vita notturna. L’aria che si respira, molto più fredda di quella irlandese – cosa che non credevo possibile-, è anche molto più pulita e frizzante rispetto alle altre parti del mondo: a ogni boccata senti i polmoni respirare, letteralmente.
Gli studio islandesi e i set in aperta campagna sono anch’essi molto diversi a cui ero abituata. Le location in cui giriamo, al centronord dell’Irlanda, hanno addirittura qualche grado sotto zero e c’è persino la neve. Negli Studio invece giriamo le scene d’interni.
È un po’ difficile riuscire a dormire in uno spazio stretto come quello della roulotte e con lo scarso calore donato misericordiosamente dalla stufetta accanto alla porta, ma per fortuna Kit – come qualsiasi altro individuo di sesso maschile – è una stufa ambulante. Risultato: gli sto appiccicata come un Koala.
Per quanto riguarda i miei primi giorni da prima costumista della location, non mi aspettavo che fosse così dura riuscire a stare dietro a tutti quanti. L’aiuto di Heida, l’assistente islandese che ho trovato ad aspettarmi nella sala costumi, è molto prezioso.
Insomma, dal primo momento il lavoro è stato duro, le serate piacevoli e le notti riposanti. Ci vuole ancora molto prima che questi due mesi finiscano e che le riprese giungano alla fine, ma sui primi cinque giorni a Reykjavík non ho proprio nulla di cui lamentarmi.
Oggi è sabato 1° agosto, siamo appena tornati dagli Studio e sto cercando di fare la valigia i due giorni che passerò in Italia. L’aereo per Linate parte fra quattro ore, ho relativamente poco tempo per prepararmi, ma conto di restare a Genova il minor tempo possibile. Non vedrò l’ora di tornare qui.
Kit mi ha chiesto se mi va di raggiungerli a mangiare qualcosa nel ristorante dell’albergo, ma l’agitazione mi ha chiuso del tutto lo stomaco. Voleva restare con me, ma siccome stiamo girando la battaglia alla Barriera, il penultimo episodio della stagione, deve mangiare qualcosa. Io posso rinunciare alla buona forchetta, per una volta.
E poi, ho un aereo da prendere.
 
***
Kit
 
Rose sta diventando una presenza ingombrante, da quando abbiamo avuto quella discussione a Belfast.
Seduta a un tavolo diverso dal mio è comunque nel mio campo visivo e io devo faticare per non guardarla.
La bontà del cibo e del vino di certo non aiuta, siamo tutti un po’ brilli.
Finisco l’ultima cucchiaiata di dolce lanciandole uno sguardo di soppiatto. È dalla sera della festa che si comporta in modo strano: parla con chiunque a bassa voce, controllando che non ci sia nessuno a origliare, e poi conclude sempre con un “non dirlo a nessuno”. La cosa non mi piace e il vago sospetto che Sara c’entri qualcosa mi fa stare molto meno tranquillo.
Stasera non c’è neppure Kris: è rimasto con Gry a prendersi cura di Kamile, che ha ancora il virus intestinale. Strano che un virus duri quasi dieci giorni.
Per cui, ci sono poche distrazioni.
Il cameriere arriva al mio tavolo portandomi il dolce che ho fatto impacchettare per portarlo a Sara, su in macchina, e io mi alzo sistemandomi la borsa sulle spalle e mi dirigo verso l’uscita.
Con la coda dell’occhio vedo Rose alzarsi e seguirmi.
Mi raggiunge nell’ascensore. – Ciao, Kit! – Esplode con un gran sorriso. Sembra ubriaca.
- Ciao, Rose, qual buon vento?
- Sto solo andando nella mia camera. – Si toglie il fermaglio dai capelli e li scuote, facendoli ricadere lungo la schiena. – Quello è per Sara?
- Sì, gliel’ho fatto incartare.
- Oggi non ha cenato?
- No, oggi no. Deve prendere un aereo.
- Passi in camera sua a portarglielo?
- Sì, ma prima lascio la borsa nella mia camera.
Le porte dell’ascensore si aprono e io e Rose ci andiamo nella stessa direzione: la mia camera è oltre la sua.
Mi tranquillizzo quando, oltrepassata la sua porta, la sento aprirsi e chiudersi. Tiro un sospiro di sollievo, apro la porta della mia camera ed entro. Poso la borsa a terra e mi tolgo la maglia, rimanendo in canottiera. Qui dentro fa caldo.
- Non hai mai fatto incartare un dolce per me.
La voce di Rose arriva all’improvviso e mi fa raggelare il sangue. Mi volto verso la porta, a cui lei sta appoggiata. Con un sorriso languido, si toglie le scarpe e viene verso di me sbottonandosi la camicetta.
- Rose, cosa vuoi fare?
- Non è ovvio? – Replica con uno sguardo da gatta. – Voglio solo vedere se i miei vecchi trucchi funzionano ancora.
- Non funzioneranno, te lo dico io. – Rispondo indietreggiando verso l’altro lato del letto. – Pensavo di aver messo le cose in chiaro due settimane fa.
Rose lascia cadere la camicia sul pavimento. – Sì, ma i fatti sono diversi dalle parole.
Si avvicina ancora, e io non posso indietreggiare: ho le spalle al muro, letteralmente e metaforicamente.
- Rose, vattene, non comportarti da puttana.
- Mi comporto come mi pare e piace. – Ormai fin troppo vicina a me per i miei gusti mi posa le mani sui fianchi, offrendomi la piena visione del suo decolleté.  
- Non ci casco. – Mormoro furioso.
- Sì invece.
- Rose…
Un movimento fuori dalla porta, una sagoma che si ferma sulla soglia della camera. Quando alzo lo sguardo è già troppo tardi.
Sara, con una valigia accanto, vede Rose mezza nuda avvinghiata a me e non ci mette molto a fare due più due… sbagliando il risultato.
Scandalizzata e ferita, grida:
- COSA CAZZO STATE FACENDO??

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Capitolo 13
*** L'Amore Si Odia ***


L’Amore Si Odia
 
Vieni qua, vieni qua,
io ti volevo bene
ma riparlarne è inutile, inutile,
Non ha più senso
Pensarti, capire, provare o sparire.
[…] Ma tu non meriti più
Un battito di questa vita,
per tutto quello che conta,
se conta,
sei come colla sulle dita.
- Noemi, Fiorella Mannoia
 
***
Kit
 
Scosto Rose da una parte e inseguo Sara nel corridoio.
- Fawny, per l’amor di Dio, aspetta!
- Non chiamarmi Fawny, Christopher, non provarci neanche!
“Adesso mi uccide”.
Arriva alla sua stanza e mi sbatte la porta in faccia. La apro ed entro insieme a lei. Sta afferrando freneticamente la giacca di pelle dalla sedia e se la sta infilando con furia.
- Ascoltami, ti prego. Posso spiegare.
- Cosa c’è da spiegare? Tu e Rose eravate mezzi nudi a tanto così da fare sesso di fronte a tutto l’hotel. È tutto chiarissimo. Non c’è niente da spiegare.
È così arrabbiata che le trema la voce, e tutti i miei sforzi per non farmi condizionare e trascinare dalla sua stessa ira stanno rapidamente diventando vani. Le prendo saldamente un polso, costringendola a voltarsi verso di me.
- Potresti fermarti solo un secondo? Ascoltami, porca troia!
- Cosa dovrei ascoltare? Solo banali scuse! – Ribatte liberandosi. Estrae i capelli da sotto la giacca e afferra il manico del trolley, dirigendosi a grandi falcate verso la porta.
Le blocco la strada mettendomi tra lei e l’uscita. Mi incenerisce con lo sguardo.
- Ti fidi di me?
Incrocia le braccia.
- Ti fidi di me? – Ripeto più forte.
- Ciecamente, fino a cinque minuti fa.
- Allora concedimi trenta secondi, e ti spiegherò tutto.
Sbuffa.
- Conosci Rose. Sai che è da quando hai cominciato a lavorare che cerca in tutti i modi di metterci i bastoni tra le ruote, ancora di più da quando ci siamo comportati da coppia, alla festa.
- Quindici secondi.
- Porca puttana, non capisci che tutto quello che fa è solo per mettere zizzania tra noi due? È entrata nella mia stanza, si è spogliata e mi è saltata addosso! Io non c’entro niente! Io volevo solo portarti un dolce!
Da dietro di me, nel corridoio, arriva la risata di Rose. – Dai, Sara, fagli vedere chi sei! – Grida.
Lei esplode in un grido esasperato, mette la testa fuori dalla porta e grida: - FATTI GLI AFFARI TUOI, SGUALDRINA!
Muovo un passo verso Sara e le poso una mano dietro alla nuca, costringendola a guardarmi. Trema leggermente, sotto il mio tocco.
- Scegli a chi vuoi credere: a me, o a una tua supposizione?
- Perché cavolo dovrei crederti, Kit? Come so che in realtà non vai a letto con lei e vuoi solo prenderti gioco di me?
- Perché… - oh, vaffanculo alla sanità mentale! - … Perché sono innamorato di te, razza di testarda italiana!
Spalanca gli occhi e indietreggia, cercando con la mano il manico del trolley e attirandolo a sé come un orsacchiotto di pezza. Avanzo verso di lei.
- Cristo, mi fai diventare matto: sei zuccona, diffidente, non mi dici mai cosa ti preoccupa e non hai neanche un po’ di sale in zucca. Sei avventata, ti prendi tutte le lenzuola, mi rubi sempre le patatine e bevi caffè a litri. Certe volte mi fai imbestialire. Ma sono innamorato di te. È un argomento sufficiente?
L’espressione con cui mi fissa è di assoluta sorpresa. Non appena si riscuote dai suoi pensieri un accenno quasi invisibile di sorriso le piega un angolo della bocca mentre abbassa il capo a guardarsi le scarpe, giocando nervosamente col manico del trolley.
- Hai ragione. – Ammette. – Bisogna essere pazzi per farsi manovrare da Rose.
- Già. Dimmi solo una cosa: ti ho mai dato motivo di non fidarti di me? Sinceramente: dal momento in cui ci siamo conosciuti, ho mai tradito la tua fiducia?
- Ti credo, Kit. Non c’è bisogno di fare il melodrammatico.
“Senti chi parla”. Mi permetto di tirare un sospiro di sollievo. – Baciami.
- No.
- Ti prego.
- No.
Un attimo di sospensione tra noi due, entrambi immobili, gli sguardi inchiodati. Poi sospira.
- Devo prendere un aereo.
Mi sorpassa trascinandosi dietro il trolley, e passandomi accanto sfiora il dorso della mia mano con il suo.
 
Sono costretto ad ammettere con me stesso che, subito dopo la sua partenza, ho del tutto perso la testa: ho bevuto un’intera bottiglia di Jack Daniels giù al bar, spaccato un tavolo e buttato le lenzuola all’aria più di una volta, il tutto per non riversare del tutto la mia rabbia su Rose.
E ora non riesco ad addormentarmi: il letto è tristemente vuoto senza Sara al mio fianco. È viva solo da un paio d’ore ma mi sembra già passata un’eternità. Nel buio e nell’insonnia, i miei pensieri sono prepotenti come un lottatore di wrestling.
Non avrei dovuto lasciarla andar via.
Non avrei dovuto arrabbiarmi.
Non avrei dovuto spaccare un tavolo da duemila dollari.
Dei falsamente misurati colpi alla porta mi risvegliano dalla specie di dormiveglia tormentato in cui ero caduto. Accendo la luce sul comodino e guardo l’orologio: sono le due. Chi potrà mai essere?
- Vattene via, Rose! – Esclamo senza muovermi di un centimetro.
- Sono Kris, scemo.
Mi alzo e vado ad aprire. Kris ha le occhiaie profonde quanto le mie, e i capelli sono scombinati. Ha una giacca di pelle e dei pantaloni neri un po’ sgualciti. Sembra non dorma da giorni. Qualcosa nel suo aspetto mi infonde un senso di profonda inquietudine per sua figlia.
- Kamile sta bene? – Domando, la mano ancora sulla maniglia.
- Sì, sta meglio, è da un po’ che non vomita e oggi ha mangiato. Posso entrare?
- Certo, scusami.
Mi scosto e Kris entra passandosi una mano tra i capelli. Sospira pesantemente.
- Gry e io abbiamo deciso di portarla comunque in ospedale, per ogni evenienza. Il dottor Vazhiri domani la visiterà.
- Capisco. Spero che sia passata, in ogni caso.
- Anche io.
- Siediti, Kris. Che c’è che non va? – Mi appoggio al muro davanti a lui, incrociando le braccia.
- Devo chiederti una cosa che mi preoccupa profondamente.
- Spara.
- Gira voce che Vitali non sia il vero cognome di Sara, che sia scappata dal suo ex ragazzo che la molestava, e che addirittura si sia messi nei guai con la legge. È vero?
Un brivido gelido mi scende lungo la schiena. – Chi te l’ha detto?
- Nessuno in particolare, la voce gira da un po’ di tempo.
Un po’ di tempo. La festa. Rose che fa la sfuggente.
È stata lei, come temevo.
- È la verità? Ha problemi con la legge?
Che cosa devo fare? Dirglielo? Tutti lo sanno, ormai. Rose ha aggiunto la beffa al danno: oltre a sputtanarla in giro l’ha anche dipinta come una fuorilegge e un’imbrogliona. Ci mancava solo questa.
- No, non ha problemi con la legge. Tutto il contrario. È vero che è scappata dal suo ex ma non ha cambiato cognome perché in guai con la legge, l’ha fatto per non farsi trovare da lui.
Kris aggiusta la posizione, a disagio.
- Che cosa le ha fatto? – Chiede in tono quasi impaurito.
- Molto male. Accontentati di questo.
Improvvisamente i lineamenti del suo volto cambiano: da dolci e calmi quali sono sempre, prendono la truce e brutale espressione di un uomo come Tormund. Si alza, molto più imponente di me, e parla con voce minacciosa.
- Vorrei sapere il nome di questo stronzo, per andarlo a cercare e spaccargli la faccia.
Mi avvicino e gli batto una pacca sulla spalla, pensieri di vendetta che salgono come la marea.
- Anch’io, amico mio, anch’io.
 
Spalanco la porta con un calcio e accendo la luce. Rose, sepolta dalle lenzuola, balza a sedere sul letto con un grido di spavento.
- KIT, SEI FUORI DI TESTA?
Mi avvicino al suo letto a grandi passi e mi chino su di lei, puntandole un dito al viso.
- Ringrazio Dio che domani girerai la tua ultima scena in questo show. Non solo eri contenta di far rompere me e Sara, ma hai anche sparso in giro voci false. Complimenti davvero. Non voglio vederti mai più, Rose. Devi lasciare Sara e me a vivere le nostre vite in santa pace. Con te ho chiuso del tutto.
Da domani non voglio vederti mai più.
- Cos- quali… quali voci?
- Fai anche la finta tonta? Pensavo già che tu andassi in giro a dire che Sara ha cambiato cognome e che è stata molestata dal suo ex e stasera ne ho avuto la conferma. Non ti vergogni, Rose?
- Di cosa dovrei vergognarmi?
- Di essere la persona più meschina e manipolatrice che sia mai esistita!
Stiamo urlando entrambi a pieni polmoni.
- Un attimo, non sono stata io!
- Non sei stata tu a fare cosa? A essere una manipolatrice o a mettere zizzania tra me e Sara saltandomi addosso?
- A mettere in giro la voce di Matteo!
Silenzio.
Raddrizzo la schiena, e scoppio in una risata piena di risentimento.
- Solo io e Sara sapevamo il nome del suo ex e non l’abbiamo mai detto a nessuno. Brava, Rose, ti sei tradita con un dettaglio così insignificante!
Mi guarda sconcertata.
- Rinnovo il mio invito a non farti più vedere. Ti odio, Rose, come non avrei mai pensato di poter fare. Non pensavo di essere capace di odiare, me l’hai fatto scoprire. Grazie.
Le volto le spalle e mi incammino per uscire.
- Kit, aspetta!
La sua voce mi raggiunge quando ormai sono sulla soglia. Mi volto e la vedo ancora seduta nel letto a osservarmi con lo sguardo spento, triste, quasi pentito dell’imputato che ormai ha ricevuto la sentenza della pena di morte e si rende conto, un attimo dopo, di aver commesso il peggior errore della sua vita.
- Mi dispiace, Kit, davvero. Ho… ho sbagliato. Ti chiedo scusa. Volevo solo riconquistarti.
- Prima di tutto, non dovresti chiedere scusa a me ma a Sara; secondo, è troppo tardi per chiedere scusa.
 
 ***
Sara
 
L’aereo che da Londra mi sta riportando a Linate atterra alle tre del pomeriggio. Il sobbalzo del velivolo e l’immancabile applauso dei passeggeri italiani mi risvegliano dal dormiveglia in cui ero riuscita a cadere nell’ultima mezz’ora di volo. La visione di Kit e Rose appiccicati l’uno all’altra come cozze mi si è parata davanti agli occhi tutta la notte e mi ha impedito di dormire. Ho pianto per un bel po’ di tempo, dopo essermi allontanata da Kit.
Come ha potuto fare quello che ha fatto?
E quale strano meccanismo nella mia testa mi ha spinto a perdonare Kit e a continuare a fidarmi di lui?
Non lo so, ma non ha importanza ora: ci penserò domani. Ora ho cose più importanti a cui pensare.
Sto per rivedere i miei genitori, dopo undici mesi di lontananza.
La solita ressa per scendere dall’aereo, la fila e l’attesa per prendere i bagagli scorrono come un sogno davanti alla mia mente annebbiata.
Solo quando afferro il manico del trolley e me lo trascino dietro di risveglio veramente: dietro alle porte opache scorrevoli in fondo al corridoio ci sarà una folla, e in mezzo a quella folla ci saranno i miei genitori.
Quasi senza accorgermene accelero il passo. Le porte scorrevoli si aprono e io passo dall’altra parte, cercando freneticamente tra i volti dei presenti.
Ed eccoli lì.
Angela e Maurizio Cerbiatto sono leggermente invecchiati dall’ultima volta che li ho visti: mia madre, alta e bruna con gli occhi ambrati, adesso ha delle linee che le solcano la fronte; i capelli ramati di mio padre, la copia italiana di Hugh Laurie, mostrano qualche parvenza di grigio e una lunga cicatrice rosa gli solca un sopracciglio.
Nel momento stesso in cui li vedo di nuovo realizzo quanto mi siano mancati.
Ancora prima di accorgermene ho lasciato il trolley e mi sono buttata fra le loro braccia. I miei mi abbracciano, e non ci lasciamo più andare.
Finalmente, finalmente sono con i miei genitori.
 
La macchina sfreccia veloce sull’autostrada destreggiandosi tra lumache e pirati della strada.
L’essersi ritrovati dopo tanto tempo ha cancellato l’atmosfera di malinconia che ha avvelenato la mia famiglia per i due anni che ho passato prima con Matteo e poi lontana da loro, restaurando l’aria chiassosa e casinista che c’era fra noi prima che tutto avesse inizio. Il processo di domani sembra non esistere nella gioia del momento, come anche il fantasma di Matteo.
Papà tiene le mani sul volante e gli occhi incollati alla strada sgranocchiando le Pringles comprate in autogrill mentre io e mia madre ci raccontiamo ogni cosa sull’Irlanda, su Kit e sull’Islanda – tranne di Rose – e la pianura padana scorre fuori dai finestrini. La musica di Billy Joel viene riprodotta a palla dallo stereo.
- Sara, dovresti anche spiegarmi questo!
Angela mi lancia il numero di una rivista della settimana scorsa aperto su una pagina più o meno a metà.
Le foto della festa del cast riempiono entrambe le pagine, e fra di esse ce n’è una circolare al centro ritrae me e Kit che ci baciamo. O meglio, Kit e un insieme di capelli scuri come i miei si baciano.
- Sbaglio, o quella è la tua testa?
Mi metto a ridere. – Sì, lo ammetto, sono io.
- E brava la nostra ragazza! – Ride mamma. – Dopotutto, leggi cosa c’è scritto lì a fianco.
- “Dopo le voci che sono girate nei mesi scorsi, ora sappiamo che la nuova fiamma di Kit Harington si chiama Sara e che lavora nella crew dello show”. Beh, il minimo indispensabile!
- Quindi ti ha esplicitamente chiesto di essere la sua ragazza? – Domanda Maurizio prendendo un’altra patatina dal tubo di alluminio.
- Sì – sorrido, ma la visione di Kit e Rose mi passa davanti agli occhi e lo spegne rapidamente. – Stiamo insieme da più o meno due settimane.
- E come mai non è venuto anche lui?
- Deve lavorare, papà.
- Giusto.
I cartelli autostradali “Genova” cominciano ad apparire mentre ci avviciniamo sempre di più alla mia città. La frenesia che c’è in me dal momento in cui l’aereo è atterrato si accentua mettendomi voglia di arrivare al più presto.
 
Deve passare un’altra ora e mezza prima che la macchina imbocchi il casello di Genova Est e si ricacci nel caos di Marassi, il quartiere dello stadio, per poi proseguire fino alla foce del fiume che si butta nel mare dal colore indefinito. Mentre passiamo una nave da crociera transita molto vicino alla costa entrando in porto, e io osservo come la città sia cambiata e rimasta la stessa contemporaneamente, affacciata sul mare come se in una fuga rocambolesca dai monti si volesse tuffare in acqua.
Il traffico è sempre lo stesso casino, coi suoi incapaci e i motorini che sorpassano a destra nelle strade contorte e dalla viabilità modificata, i graffiti sono in parte nuovi e in parte cancellati, i cartelloni pubblicitari sono sempre mezzi strappati e gli infiniti cantieri sono sempre quelli.
L’iPhone squilla: è Kit che mi sta chiamando. Butto giù senza rispondere.
Papà parcheggia la macchina al solito posto e io scendo smaniosa guardando il palazzo dalla pittura scrostata, casa mia.
- Dai su su, andiamo! Forza! – Esclamo saltellando in giro mentre Angela apre il bagagliaio e prende la mia valigia.
- Tesoro, ricorda che la tua stanza è un po’ cambiata dall’ultima volta che sei stata.
Oh, sì, adesso ricordo. Matteo è entrato e ha spaccato tutto quanto, compresa la testa di mio padre. Nonostante mi abbia assicurato nei giorni immediatamente successivi all’accaduto di essersi ripreso completamente dalla botta, la cicatrice sul sopracciglio ha comunque un brutto aspetto: a causa delle aderenze che si sono formate nei tessuti sottostanti è rimasta infossata rispetto al resto del viso, ma posso provvedere con poco.
- Papà posso scollarti la cicatrice, se vuoi.
Lui sorride e mi passa un braccio intorno alle spalle. – Come vuoi, fisioterapista!
Arriviamo davanti alla porta del nostro appartamento al primo piano e la prima cosa che mi salta all’occhio è che la serratura è cambiata: ora c’è anche un allarme anti-intrusione. Mio padre infila una piccola chiave elettronica all’interno della cassetta dell’allarme e questa si disattiva, permettendoci di infilare la chiave nella serratura senza che questo si metta a strillare.
- Dovete darmi la chiave nuova.
- Certo, appena ti sarai sistemata.
Entriamo e la giro tutta di corsa, toccando tutto l’arredamento come per sincerarmi di essere davvero lì, a casa.
Il salotto è sempre lo stesso: i divani e le tende pulite, il pavimento a mosaico genovese, le foto alle pareti. La piccola cucina non è cambiata neanche nel più piccolo particolare, col piccolo tavolo e le sedie di legno, e nemmeno il bagno con le sue piastrelle a scacchi, la camera e lo studio dei miei.
Arrivata davanti alla porta chiusa della mia camera, ho un attimo di esitazione.
“Sbrigati, prima di ripensarci”.
Afferro la maniglia e la abbasso.
Qui, invece, è cambiato tutto.
I miei vecchi mobili sono stati rimpiazzati da un nuovo arredamento Ikea, ma gli scaffali e i quadri che prima della mia partenza erano appesi alle pareti sono stati rimossi e hanno lasciato sul muro dei segni irregolari e inconfondibili, più scuri, tracce di distruzione. Gli oggetti e i libri che portavano sono sistemati in alcune scatole, il grande specchio è rotto e nel muro accanto alla finestra campeggia una scritta rossa a caratteri cubitali, coperta malamente da uno strato di vernice bianca.
“TROIA”.
Ecco, ecco le tracce della sua follia. Finora me ero solo immaginate, adesso invece sono qui sotto ai miei occhi, prova del suo passaggio distruttivo.
Solo ora mi accorgo di essere rimasta impalata sulla porta e che i miei sono dietro di me.
Sospiro e mi giro in un mezzo sorriso.
- Beh, papà, un’altra passata di vernice su quel graffito è d’obbligo!
La faccia che fanno i miei genitori in tutta risposta mi lascia un po’ perplessa.
- Che c’è? – Domando quasi timorosa.
Mi abbracciano stretta.
- Sei completamente cambiata dall’ultima volta che ti abbiamo vista. – Spiega papà una volta che sciogliamo l’abbraccio. – Sei… più grande, felice. È come se ti fossi lasciata tutto alle spalle.
- Beh, a quello scopo sono andata a Belfast. Diciamo che Kit mi ha dato una leggera spintarella in quel senso.
Papà sorride. – Spero che sarai così serena anche domani, al processo. Che farai vedere a Matteo di che pasta sei fatta.
- Un attimo. – Rispondo, una strana fitta allo stomaco. – Ci sarà anche lui, domani?
Maurizio si stringe nelle spalle. – Sì, penso che sia la prassi quando vengono sentiti i testimoni in aula.
“Merda”. – Avete consegnato come prova la telefonata con lui che ho registrato, vero?
Annuiscono. – Nell’attimo stesso in cui l’abbiamo ricevuta. L’avvocato Landini dice che giocherà molto a nostro favore. – Spiega mamma.
- Meno male. Beh, al processo e a Matteo penserò domani. Ora voglio godermi il tempo con voi.
 
Ho detto che al processo ci penserò domani?
Sto gran cazzo.
È notte fonda e sta andando tutto male.
Mi manca Kit ma sono ancora infuriata con lui, ho rifiutato tutte le sue chiamate di oggi, ho mangiato poco e niente a cena e non riesco a dormire. Non c’è nemmeno Kit a letto, l’ancora a cui posso aggrapparmi per dormire protetta.
E domani sarò a meno di dieci metri da Matteo.
Col cazzo che ci penserò domani, ci sto pensando adesso e a momenti mi sento male.
Sono le tre del mattino. Fra sette ore l’udienza avrà inizio.
Merda.
Solo le cuffiette dell’Ipod mi impediscono di camminare su e giù per la stanza, sparandomi musica a palla nelle orecchie.
Devo trovare il modo di non pensare.
Quando la canzone di Andrew Belle “Oh My Stars” comincia a suonare, una vocina proveniente dall’armadio chiama il mio nome.
Accendo la luce, cercando di ignorare la scritta, e apro l’anta più a sinistra del nuovo armadio Ikea.
Il mio telescopio. Quasi me n’ero dimenticata.
Senza pensarci un attimo lo tiro fuori dalla scatola, prendo le chiavi di casa, esco dalla porta e salgo sul tetto del palazzo.
E lì, nell’immobilità della notte e delle stelle, ritrovo la mia serenità.
 
Il codice di abbigliamento del tribunale non ammette eccezioni: pantaloni lunghi e sobri, anche nel caldo genovese del 3 agosto.
Alla faccia del freddo irlandese e irlandese, qui ci son trenta gradi.
I miei sono già entrati in tribunale assieme all’avvocato Landini. L’udienza sta avendo inizio in questi minuti, ma dal momento che i testimoni possono entrare uno alla volta e solo dopo la loro deposizione possono rimanere in aula, sono rimasta fuori dal tribunale a prendere un po’ d’aria e a bere dell’acqua fresca.
I pantaloni blu del completo mi si stanno appiccicando alle gambe.
Ammazza che caldo.
Poso la bottiglietta ghiacciata sui gradoni di cemento del Palazzo di Giustizia e mi lego nervosamente i capelli in una croccia sulla testa, mentre ogni sorta di pensiero mi transita in testa con l’agitazione di un tornado.
Ho fatto bene a non tingerli di biondo? Non lo so.
Mio Dio, qui fuori si muore.
Devo entrare per forza.
Riprendo la bottiglietta, apro il pesante portone ed entro nell’ampio ingresso di marmo. Lo attraverso facendo caso al tac tac dei tacchi sul pavimento, senza badare agli impiegati che ronzano in giro come uno sciame d’api, salgo le scale tenendomi al corrimano – se ruzzolassi giù non sarebbe la prima volta, e dopo un lungo corridoio svolto l’angolo, arrivando a un altro ambiente arredato come una sala d’attesa dove stanno attendendo i miei genitori e altri testimoni, in piedi al centro della stanza. Gli avvocati, il giudice e, a quanto pare, Matteo sono già dentro all’aula.
Il capannello di persone si dipana appena mi vede, creando uno spazio al centro.
Il cuore mi cade nella pancia con un tonfo, appena lo vedo. Rimango pietrificata, con la bocca aperta come un merluzzo, senza credere a ciò che i miei occhi stanno vedendo.
- …Pinna? – Balbetto sconvolta.
Andrea Pinnarotti, detto Pinna dai tempi dell’asilo… il mio più caro e vecchio amico, il mio partner in tutti gli spettacoli di classica, l’uomo che ho allontanato sotto l’influenza di Matteo e che ero certa di aver perso per sempre, ricambia il mio sguardo con un grande sorriso e corre verso di me, abbracciandomi tanto stretta da sollevandomi da terra.
- Mi sei mancata, Bambi. – Sussurra.
Scoppio in singhiozzi incontrollati, aggrappandomi convulsamente a lui.
- Ti voglio bene, Pinna! Mi dispiace per tutto quello che ti ho fatto.
- Non importa, Bambi, stai tranquilla. Eri già perdonata.
Mi posa a terra e, dopo avermi asciugato le lacrime, mi abbraccia di nuovo.
Alto, dai muscoli tonici, i capelli neri e lisci e gli occhi verde acqua, è sempre sembrato un misto tra Iwan Rheon e Harry Potter. È vestito con un completo molto informale, che stona completamente con la sua personalità.
Non credevo che l’avrei rivisto, e non riesco a staccarmi da lui.
- Che ci fai qui?
- Sono qui a testimoniare per quello che ti ha fatto, Bambi, non lo sapevi?
- Io… io pensavo di averti perso per sempre.
Sciogliamo l’abbraccio, rimanendo legati dalle braccia nella vita dell’altro.
- Che razza di amico sarei? – Mi fa l’occhiolino. – Non ti abbandonerò mai, pirla.
Sorrido. – Meno male che non mi sono truccata.
Sghignazza.
- Andrea Pinnarotti può entrare in aula! – Annuncia il cancelliere mettendo la testa fuori dalla porta.
- Devo entrare, ma ci vediamo fra poco ok?
Con un buffo sulla guancia mi volta le spalle ed entra.
Raggiungo mia madre e lei mi mette un braccio in vita. – Sapevate che sarebbe venuto? – Domando sfregandomi gli occhi.
- Sì, ma ci ha proibito categoricamente di dirtelo. Voleva che fosse una sorpresa.
- Eccome se lo è stato! Rivedere Pinna è da aggiungere alla lista dei miracoli che ho ricevuto e che di sicuro non meritavo.
Un angolo della sua bocca si piega in un sorriso.
 
Dieci minuti dopo, la testa del cancelliere fa di nuovo capolino dalla porta.
- Sara Cerbiatto può entrare in aula!
Il cuore comincia istantaneamente a battermi contro lo sterno mentre obbligo le gambe a muoversi.
Tac, tac, tac fanno i tacchi, mentre il turbine nella mia mente improvvisamente tace.
Entro nella stanza chiudendo la porta dietro di me.
L’aula è piccola, ci sono delle sedie messe in fila davanti a una cattedra imponente a cui sta seduto il giudice, tale Riccardo Messina, con indosso una toga nera. Dietro di lui l’ipocrita scritta “La legge è uguale per tutti” appesa al muro. Accanto alla cattedra il banco dei testimoni, con un microfono appoggiato sopra.
Le sedie della prima fila sono occupate dagli avvocati: Carlo Landini, accusa, e Lucia Ranieri, difesa.
Le altre dai testimoni che sono stati già ascoltati.
E in una sedia a parte, dentro una specie di gabbia, sta seduto Matteo.
Il solo rivederlo in faccia mi getta nel panico, ma mi costringo a restare calma. Durerà poco, mi dico.
- Prego, si sieda.
Ordina il giudice indicando il banco dei testimoni con un gesto della mano.
Attraverso l’aula a testa alta, ignorando il panico che mi infuria nel petto, passando obbligatoriamente davanti alla gabbia di Matteo.
Nell’attimo stesso in cui il suo sguardo chiaro e freddo come il ghiaccio incrocia il mio, tutti gli orribili momenti che abbiamo passato insieme mi tornano in testa con la forza di uno tsunami e comincia a correre in giro come impazziti.
E inevitabilmente mi blocco, proprio davanti a lui.
Il suo viso è distorto da un ghigno indecifrabile.
- Ciao, cerbiattina. – Dice a bassa voce.
Il suo viso a poca distanza dal mio mentre mi stupra.
Le sue mani che mi bloccano contro il muro e mi fanno male.
“Non ti meriti di attenzioni, non ti meriti di essere felice, sei soltanto uno schifo”.
Un attimo prima che il giudice mi inciti di nuovo a prendere posto, mi costringo a proseguire. Lo sguardo di Matteo mi brucia tra le scapole.
Riesco a sedermi nervosamente, lo sguardo rassicurante di Pinna che lotta per avere il sopravvento su di me contro quello pieno d’odio del mio ex.
Inizio a giocare nervosamente con le mani.
- Signorina Cerbiatto, prego legga nel microfono la frase scritta davanti a sé – comanda il giudice.
Tremando impercettibilmente, mi avvicino al microfono.
- “Con…” – La voce mi si rompe. Sospiro, e ricomincio. – “Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.
- Ha compreso cos’ha appena dichiarato?
- Sì, signor giudice.
- Allora possiamo iniziare.

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Capitolo 14
*** Canzone dell'amore perduto ***


Canzone dell’amore perduto
 
L’amore che strappa i capelli è perduto ormai
Non resta che qualche svogliata carezza
E un po’ di tenerezza.
- Fabrizio De André
 
Come credo sia di consuetudine, quello che comincia è l’accusa. O meglio, chi ha convocato il testimone.
Carlo Landini, perfetto nel suo completo giacca e cravatta, si avvicina al microfono posto su un lungo tavolo davanti a sé e, con voce ferma e calda, pone la prima domanda.
- Signorina Cerbiatto, le spiego brevemente perché l’ho convocata a testimoniare. Il qui presente Matteo della Francesca è accusato di tentato omicidio, violazione di domicilio e stalking. Siccome lei è maggiormente interessata ed è la principale vittima del reato di stalking, le mie domande verteranno quasi esclusivamente su quel frangente. Ha capito?
- Certo.
- Bene, allora passiamo alla prima domanda: vorrebbe spiegare in che genere di rapporti è col qui presente Matteo della Francesca?
Guardo di sfuggita Pinna, che ricambia dolcemente il mio sguardo come per dire “Son qui con te”.
- È il mio ex ragazzo.
- Per quanto tempo siete stati insieme?
- Quasi dieci mesi, abbiamo convissuto per tre.
- E com’era?
– Com’era cosa?
- Convivere con l’imputato.
 Deglutisco a vuoto. – Non… non era facile.
- In che senso?
A un tratto ho un’improvvisa voglia di darmela a gambe.
Non voglio dire tutto quello che succedeva tra me e lui, non con i suoi occhi puntati su di me, non con i miei genitori ad ascoltare.
- Devo forse ricordarle, signorina Cerbiatto, che lei ha appena prestato giuramento di non nascondere nulla di cui è a conoscenza? – Incalza l’avvocato.
Ho come la sensazione di essere improvvisamente impallidita. Devo parlare, non ho altra scelta. Una vertigine sin troppo familiare mi attraversa la mente, annebbiandola, abbastanza forte da farmi capire che se non riprendo immediatamente il controllo della situazione l’attacco di panico mi farà svenire davanti a tutti.
“Fa finta che ci sia Kit accanto a te. Fa finta che Matteo non sia in aula”.
Chiudo gli occhi tirando un grosso sospiro nel tentativo di calmare i nervi. Quasi per miracolo il ricordo della mano di Kit attorno alla mia si fa reale come una visione, forza per il cuore e per la mente.
Spero solo che questo supplizio finisca presto.
Mi avvicino di nuovo al microfono e mi costringo a parlare. La mia voce ha un suono sconosciuto alle mie orecchie.
- Era spesso arrabbiato e maniacale. Voleva che facessi tutto quello che diceva lui, persino vestirmi come voleva lui. Quando beveva alzava le mani.
La tensione aumenta repentinamente in aula. Fisso Matteo negli occhi con coraggio.
“Sai che è vero”.
- Una volta mi ha rotto radio e ulna torcendomi un braccio. Frattura esposta. Ai miei genitori avevo detto di essere stata investita.
Aumento di tensione, sento su di me lo sguardo scandalizzato dei miei. Alzo la manica del completo scoprendo la cicatrice talmente facile da nascondere eppure così evidente ai miei occhi.
- Si ricomponga, signorina Cerbiatto, abbiamo capito.
Man mano che la deposizione prosegue, Matteo si fa una presenza sempre più ingombrante.
- E quando vi siete lasciati, che cosa è successo?
- Ha sempre cercato di convincermi di tornare con lui, dicendo che mi amava e che voleva riconquistarmi. Ma più lo ignoravo e più diventava pressante. Mi mandava fotografie, messaggi minatori, mi seguiva in giro… e quando ha spaccato una finestra ho deciso di trasferirmi in Irlanda. Da lì in poi ho avuto sempre meno notizie, finché non ho chiamato mia madre e ho scoperto che Matteo aveva spaccato la testa a mio padre con una spranga.
- Allora cosa ha fatto?
- L’ho chiamato. Ho fatto consegnare la registrazione della chiamata, signor giudice.
- È già stata esaminata. – Annuisce lui.
- Quindi la sua relazione con l’imputato non è stata felice, se ho capito bene?
- No, non lo è stata per niente.
- Lei lo amava?
Poso lo sguardo di nuovo su Matteo. – No. – Rispondo, decisa.
- Allora perché è rimasta con lui così tanto tempo?
- Bella domanda… ho provato spesso a lasciarlo, ma Matteo era capace di girare la frittata come meglio credeva. Mi diceva che se l’avessi fatto sarei rimasta completamente sola, perché soltanto lui mi voleva bene. Diceva che non meritavo attenzioni, non meritavo di stare con nessuno. Sotto la sua influenza ho persino allontanato i miei più cari amici. Ogni tentativo di chiudere la relazione risultava vano. Secondo lei perché mi sono sentita costretta ad andarmene?
Landini annuisce. – Capisco perfettamente. Signorina Cerbiatto, un’ultima domanda. Ci dica… con la massima sincerità, qual è stato l’episodio peggiore della sua relazione con l’imputato?
Il cuore comincia a martellarmi furiosamente nel petto, pompando sangue a tutto spiano e facendomi ballare il mondo davanti agli occhi.
Non posso dirlo, ci sono i miei.
Devo dirlo.
Mi volto di nuovo verso Matteo.
Io sono più forte di lui, sono più forte di tutto questo.
- Lui mi ha stuprata.
La tensione in aula sale terribilmente in pochi attimi, è palpabile e sembra una molla sul punto di rompersi. Cerco di non guardare in volto i miei genitori, immaginando la loro espressione.
- Grazie, signorina. Io ho concluso.
Landini sembra quasi affaticato. La controparte, Lucia Ranieri, prende il suo posto al microfono con vigore.
- Siccome ha appena sganciato questa bomba a orologeria, vediamo di disinnescarla. Lei ha appena affermato di essere stata stuprata dal mio assistito, è corretto?
- Sì.
- Vorrebbe spiegare com’è andata? Non è strettamente necessario conoscere i particolari, quello che mi interessa è: lei è andata in ospedale, dopo il fatto?
- No.
- Dal suo ginecologo?
- No.
- Dal medico di famiglia?
- No.
- Quindi non c’è nessun elemento che provi che lei è stata, per così dire, violentata dal mio assistito.
- No.
La Ranieri mi guarda in modo strano. – Perché non ha denunciato il fatto? Perché lo dice soltanto adesso?
Digrigno i denti. – Lei è una donna, di certo può capirmi. Ha idea di quanto sia umiliante ammettere di essere stata violentata dal proprio ragazzo?
- Come fa a definirlo uno stupro, se il mio assistito era ancora il suo ragazzo?
- Ah, non saprei, lei come definisce un rapporto sessuale consenziente solo da una delle due parti?
Silenzio.
- Non ha denunciato nemmeno le violenze che subiva nell’ambiente domestico.
- Io ci ho provato: ho portato tutto quello che avevo alla polizia, ma mi hanno detto che le prove non bastavano.
- Non siamo qui per puntare il dito contro le istituzioni, signorina Cerbiatto. Il fatto è che lei ha detto di aver subito un certo numero di molestie, ma senza averle mai denunciate. Cosa ci dice, quindi, che lei non si stia inventando tutto per… che ne so… il piacere di vedere il suo ex dietro alle sbarre?
Non riesco a credere alle mie orecchie. Quando riprendo a parlare la mia voce è grave, lenta, quasi oltretombale.
- Non ho deciso di lasciare la mia casa, i miei familiari e i miei amici per sport. La situazione per me era diventata insostenibile: l’uomo che avrebbe dovuto amarmi mi picchiava e mi costringeva a sentirmi meno di nulla. Sono andata dalla polizia perché avevo bisogno di protezione e non l’ho ottenuta, come succede a tante altre donne come me. Metto le cose in chiaro: non voglio puntare il dito contro nessuno. Dico soltanto che quando avevo bisogno di protezione da parte delle istituzioni, le uniche che potevano difendermi materialmente, l’aiuto che ho chiesto mi è stato negato. E mio padre è fortunato se è ancora vivo.
- No signorina, le istituzioni l’avrebbero aiutata se lei avesse denunciato il fatto. Fatto che, ripeto, non è confermato da nessuna prova concreta. Lei confessa lo stupro solo in questo momento. Se avesse agito in tempo si sarebbe avviato un processo per stupro e nessuno dei motivi per cui siamo qui si sarebbe verificato: suo padre non sarebbe stato aggredito, lei avrebbe fornito le prove necessarie a una condanna e probabilmente la situazione sarebbe già risolta. In questo momento le sue argomentazioni non valgono assolutamente nulla. Anzi, - si volta verso il giudice. – Signor giudice, questa accusa è infamante e lesiva dell’onore del mio assistito. È una diffamazione.
Il giudice sospira. – Signorina Cerbiatto, capisco il suo punto di vista. Ma se lei avesse denunciato il reato sessuale, oggi saremmo qui per motivi e in modi del tutto diversi. Dal momento che ciò non è avvenuto, non posso considerare valida la sua dichiarazione su di esso.
- MA VAFFANCULO! – Esplodo raggiungendo note isteriche. Mi alzo facendo cadere la sedia e cammino attraverso la stanza continuando a urlare. Il giudice sbatte il martelletto sul tavolo imponendomi di uscire subito dall’aula, cosa che sto già facendo. Matteo ride a crepapelle.
- Lei non può capire – mormoro, forse troppo piano perché qualcun altro oltre me possa sentirlo. – Nessuno può capire.
“Solo Kit potrebbe”.
Dio, mi manca così tanto.
 
Una volta fuori dal tribunale tiro il cellulare fuori dalla borsetta e lo riaccendo.
Arrivano quindici notifiche di chiamate senza risposta, tutte da Kit.
Quindici.
Mi manca troppo per poter continuare a fare la permalosa, penso, e ho bisogno di sentire la sua voce.
A Reykjavík sono le otto del mattino: lui dovrebbe già essere agli Studio, ma a giudicare dalle chiamate deve essere sveglio da ore.
Compongo il suo numero e lo chiamo. Risponde al primo squillo.
- Ciao – La sua voce dolce, profonda e un po’ roca è come una boccata d’aria fresca dopo un lungo periodo di apnea. Solo il suo saluto, così dolce che quasi lo vedo sorridere attraverso la cornetta, basta a farmi desiderare di essere accanto a lui, fra le sue braccia, il prima possibile. – Ciao, Fawny.
- Mi manchi – confesso senza neanche salutare.
- Mi manchi anche tu. Com’è andata la testimonianza?
- Bene – Mento. – È stato semplice.
Pausa di due secondi. – Ho capito.
Passata l’emozione iniziale noto che c’è qualcosa di strano nella sua voce: come se qualcosa lo preoccupasse.
- Kit, va tutto bene?
Silenzio.
- Stavo pensando di dirtelo una volta che fossi tornata, ma forse è meglio che arrivi preparata.
Comincio a stare sul serio in pensiero. - Che cosa è successo?
- …Kamile.
- Kamile? – Ripeto, prima che un’intuizione scagli un lampo di consapevolezza che mi spezza il cuore. Nell’attimo in cui capisco quello che intende il mondo mi crolla addosso col rumore di uno specchio in frantumi.
Oh, no… il cancro.
- È tanto grave?
- Non lo sanno ancora, sembra piuttosto aggressivo ma l’hanno preso in tempo. Hanno già cominciato la chemioterapia.
- Povera bambina… Gry e Kris devono essere distrutti.
- È difficile tirarli su di morale, sì.
Sapere che una bambina piccola, dolce e simpatica come Kamile, ha di nuovo il cancro dopo tutto quello che ha passato è straziante. Non posso neanche immaginare il dolore della sua famiglia in questo momento.
Nell’attimo stesso in cui metterò piede sul suolo islandese andrò a trovarla.
- E non è tutto. – Continua sempre più cupo. Desidero quasi di non aver mai fatto questa telefonata, ne facevo a meno delle brutte notizie.
Sospiro. – Cosa c’è?
- Sei ancora arrabbiata con me?
Premo due dita alla base del naso, la testa che mi scoppia. - No, Kit, non sono arrabbiata con nessuno. Voglio solo tornare a casa.
Sospira anche lui. – Rose ha assunto un investigatore privato per scoprire più cose possibile su di te, e ha detto a tutti di Matteo e dello stalking. Ha approfittato del tuo cambio di cognome per dipingerti come una fuorilegge.
Cado a sedere sui gradini del tribunale. – Lo sanno tutti?
- Sì, ma stai tranquilla. Non ha ottenuto l’effetto sperato e, finalmente, se n’è andata. Ieri abbiamo girato la sua ultima scena. È fuori dai piedi.
- Grazie a Dio.
Pausa.
– Non vedo l’ora di riabbracciarti. – Dico in un sussurro.
- Nemmeno io, Fawny. Mi manchi un sacco.
Sto aprendo la bocca per parlare, ma Kit mi interrompe dicendo che deve andare a girare e che, a malincuore, deve lasciarmi.
Chiudo la telefonata in un sospiro.
Povera Kamile.
Mentre abbasso il telefonino una mano forte traccia delicatamente una linea fra le mie scapole, per poi fermarsi a stringere le spalle in un abbraccio. Pinna si siede accanto a me e io poso la testa sulla sua spalla.
- Se solo potessi metterei le mani addosso a tutti quei fetenti. – Borbotta. – Quella stronza della difesa ha fatto di tutto per mettertela in quel posto. E quel figlio di puttana…
- Non serve, Pinna. Non serve a niente.
“Io non servo a niente. Non sono stata di nessuna utilità per mio padre e non potrò esserlo nemmeno per Kamile”.
- Scappiamo. Ti va? Andiamo via da tutta questa merda! – Propone con un inaspettato slancio di entusiasmo.
- Domattina dovrò essere a Milano…
- Tranquilla, ti riporterò a Genova entro le tre del mattino. – Mi fa l’occhiolino, si alza e mi porge la mano. Mi tira su in piedi. – Dai, andiamo a rilassarci. Scommetto che hai capito dove voglio portarti.
 
Quindici minuti dopo siamo a bordo della sua Mini Cooper a razzo sull’autostrada, diretti a Camogli, coi finestrini abbassati, il vento che mi scompiglia i capelli e Bob Dylan e Johnny Cash che cantano “Girl from the North Country” a tutto volume.
Nel nostro viaggio silenzioso la musica copre tutti gli altri rumori della strada, lasciando soli me, le verdi montagne liguri e gli scorci di mare che si aprono tra una galleria e l’altra. Pinna, accanto a me, guida con le mani salde sul volante.
Dieci minuto dopo aver abbandonato l’autostrada e imboccato l’Aurelia entriamo in un viale che termina con un cancello di ferro. Pinna preme un pulsante sul telecomando ed entriamo nel giardino della sua villa di famiglia: una casa a due piani e piscina a picco su montagne e mare.
Il nostro piccolo rifugio di tranquillità: oasi per gli amici, nascondiglio per i confidenti, palcoscenico e palco di prova per i ballerini.
 
Ore dopo, mentre il sole sta lentamente cominciando a calare lasciando che l’afa pomeridiana ceda il posto a una brezza fresca e leggera, io e Pinna siamo ancora in piscina.
Mi ha dato un costume preso dall’armadio di sua sorella Maria, attualmente in vacanza a Ibiza, e abbiamo chiacchierato dal momento in cui ci siamo tuffati e abbiamo cominciato a rilassarci facendo la spola tra la piscina e la vasca idromassaggio.
Gli ho raccontato tutto di me e Kit, dal momento in cui ci siamo incontrato a quello in cui l’ho lasciato nella sua stanza dopo averlo beccato con Rose. Gli ho raccontato di Belfast, di Reykjavík, del mio lavoro, di David, di Kris e la sua famiglia, della festa degli attori. Lui, invece, mi ha parlato di come si sia bruscamente lasciato col suo storico ragazzo Emanuele. Stavano insieme dalla seconda liceo. Mi ha raccontato di come procede il suo lavoro di agente immobiliare e le prove col corpo di ballo del Carlo Felice di cui un paio d’anni fa facevo parte anch’io.
Poi, insieme, abbiamo ricordato le nostre performance, di quando abbiamo vinto una gara di ballo ballando su “Princesa” di De André, mischiando classica, moderna, tango e infine tribale, e di come la giuria ci abbia contestato la scelta del brano.
“Princesa” racconta la storia di un transessuale portoghese che si sente donna fin dall’infanzia e, crescendo, usa qualsiasi mezzo per cambiare sesso, ormoni prima e poi chirurgia, e che una volta donna per mantenersi fa la prostituta. Ai bigotti della giuria la canzone non era piaciuta, ma hanno dovuto ammettere di aver assistito a un perfetto mix di stili di ballo. “Princesa” è il pezzo più bello che abbia mai ballato con Pinna e prima o poi mi piacerebbe interpretarlo di nuovo.
E alla fine, nonostante i nostri sforzi di non farlo, siamo scivolati sul processo: su quanto sia stata assurda e irreale la sua conclusione, su quello che abbiamo testimoniato, sulle domande degli avvocati, sulle testimonianze precedenti alla mia che è stata l’ultima dell’udienza.
L’erba verde del giardino ondeggia al passo col vento, gli uccellini cantano, “Sunrise” di Norah Jones è diffusa nell’aria dalle casse esterne… e noi, seduti a bordo piscina coi piedi a mollo a mangiare una pizza da asporto, ci lamentiamo.
- Non sono per niente contenta di come siano andate le cose, oggi, ma allo stesso tempo sono felice di non avere più segreti con nessuno, di essere riuscita a stare a meno di dieci metri da Matteo senza sclerare. E sono contenta di averti ritrovato.
Pinna sorride mi bacia sulla fronte.
- Dico solo che non mi pare giusto farmi rivoltare contro una cosa del genere. – Addento una fetta. - “Se lo avessi denunciato niente di questo sarebbe successo”. Ma vaffanculo! Uno non dovrebbe essere uno psicopatico stalker, da principio.
- Sono d’accordo. Patatine?
- Grazie. – Prendo due patatine fritte dalla fetta di pizza di Pinna, lasciandogli solo la salsiccia.
- Più che altro è stata una gran bella presa in giro. Quando l’hai detto immaginavo che non lo usassero come testimonianza, ma se l’avessero fatto avresti vinto a tavolino.
- Ero sincera quando ho detto che è troppo umiliante ammettere una cosa simile.
- Lo so. - Addenta un’altra fetta. – Se trovassi il modo di farlo sapere in giro, altre donne potrebbero non fare il tuo stesso errore.
Rido. – Sì, e come potrei fare di preciso? Creare un blog?
Blink.
Idea.
Ideona.
- … Un blog in cui le donne maltrattate, sotto pseudonimi, possono essere loro stesse e ricominciare da capo. In cui possono raccontare liberamente le loro esperienze, scambiarsi consigli e scoprire di non essere sole, là fuori.
Guardo Pinna, che ha sul volto il riflesso della mia espressione entusiasta, con tanto di sorriso quasi pazzoide.
- E come lo chiameresti?
- Non saprei… “L’ombra nel cuore”?
Pinna emette un verso disgustato. – Ti prego, è tremendo!
- …”Fenici”?
- Nah.
Continuo a pensare giocherellando con una ciocca di capelli.
- “Demons”.
- “Demons”? Come la canzone degli Imagine Dragons?
- Esatto.
- Non sarebbe meglio metterci un titolo un po’ più speranzoso?
- Mi piace Demons, rappresenterebbe la situazione attuale delle donne che eventualmente ci scriverebbero… e poi, come mi ha detto Kit una volta: “Ci sono dei demoni contro cui possiamo lottare”.
Pinna annuisce piano, poi si alza in piedi. – Mi hai convinto. Vado a prendere il computer.
 
Siamo seduti al tavolo della sua cucina, entrambi in accappatoio e a piedi nudi. Stiamo completando l’intestazione del blog.
- Allora, abbiamo stabilito la struttura e il titolo. La descrizione è compito tuo. – Afferma spingendo il Mac verso di me.
Punto le dita sui tasti in cerca delle parole giuste per cominciare. Non sono mai stata una brava scrittrice.
“Ciao, sono Sara V, o meglio Savannah…”.
- Bello – commenta Pinna una volta finito. – Penso che, se lo faremo conoscere, potrebbe diventare un gran bell’affare. Ma vedo che le rotelle nella tua testa non hanno ancora smesso di girare. Che c’è?
- Stavo pensando a tuo cugino.
Sembra interdetto. – Scusa, vai a letto con uno dei più succulenti manzi del mondo (e ti invidio tantissimo) e pensi a mio cugino?
Scoppio a ridere. – Rilassati, ovviamente preferisco Kit a Orlando.
- Magari fosse Orlando Bloom…
Rido ancora. – Pinna, sinceramente: lo dici tutte le volte che parliamo di lui.
Sorride. – A ogni modo… cosa c’entra mio cugino?
- Dici che sarebbe disposto a farmi un tatuaggio alle nove di sera?

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Capitolo 15
*** Knockin' on Heaven's Door ***


Knockin’ on Heaven’s Door
 
Mama, put my guns in the ground
I can’t shoot them anymore
That long black cloud is coming down
I feel like I’m knocking on Heaven’s door…
- Bob Dylan
 
 
***
Pinna
 
- Allora che ne dici, ti va di passare i controlli insieme a me?
Sara mi sorride un po’ malinconica, con un filo di speranza nella piega delle labbra.
- Te l’ho detto: quando finirà la stagione del Carlo Felice mi troverai lì in un batter d’occhio.
- Non vedo l’ora di farti conoscere Kit, e Kris, e tutti gli altri – sorride lievemente delusa. Con due dita sotto la giacca di pelle tira giù la felpa sul polso sinistro, coprendo il nuovo tatuaggio rosso della fenice, avvolto da due strati di plastica trasparente. – Ma mi dispiace dovervi salutare dopo così poco tempo.
- Non preoccuparti, tesoro. Appena si saranno calmate le acque verremo a trovarti anche noi. – La rassicura Maurizio.
Il brusio dell’ingresso dell’aeroporto di Milano Linate è un sottofondo fastidioso e rassicurante allo stesso tempo. Non mi piace volare. Non mi è mai piaciuto. Per lei farò uno sforzo.
- Gli verrà un attacco di panico quando scoprirà che volete conoscerlo! – Scherza. – Non penso si sia mai trovato ad affrontare una famiglia di italiani.
Parla di Kit Harington come se fosse una persona qualunque, l’amore della sua vita o il suo ragazzo storico, non come un attore manzo e strafamoso che l’ha tirata fuori dall’abisso. Si riferisce a lui con la massima tranquillità. Come faccia a non farsi venire la tremarella alle ginocchia, lo sa solo lei.
E ci va anche a letto, la sottona!
L’invidia. Che brutta bestia.
- Non vedo l’ora che veniate, papà, mamma. – Li abbraccia stretti. Quando si separano, hanno tutti gli occhi lucidi.
Sarei più depresso dell’altra volta, se Sara non mi avesse dato il suo nuovo numero di cellulare. A me e ai suoi.
“E c’è anche un’altra differenza: stavolta sai che se ne sta andando”, mi rammenta una voce nella testa.
- Pinna, che ne dici di accompagnarmi almeno a pagare la multa della Ryanair?
Si riferisce chiaramente alla seconda valigia che si sta portando dietro senza preavviso, strapiena di body e scarpette da danza classica, libri, il computer, il Kindle, e tutti i suoi vestiti. Chiaro segno che lei, con l’Italia, ha definitivamente chiuso.
- Volentieri.
Mi sforzo di sorridere incoraggiante, ma dentro vorrei morire.
Se non fossi costretto per contratto a rimanere al Carlo Felice, nel pieno delle prove per la stagione invernale e nel pieno della bancarotta, come al solito, la seguirei subito. Sino in Islanda, dove il Sole sorge e tramonta quando cazzo vuole, si mangiano le renne, c’è quasi sempre la neve e si vede l’aurora boreale.
Non sono tanto sicuro sulle renne.
Prendo la sua valigia, le passo un braccio intorno alle spalle, e ci incamminiamo insieme fino al check-in.
 
Centoventi euro di multa. Mi vengono i brividi già così.
L’ora di passare i controlli ormai è giunta, e Sara fissa la coda tra il metal detector con felice amarezza negli occhi distanti. I suoi genitori si tengono per mano. Lei stringe i manici dei trolley.
- Sapete, è strano: quando sono partita per la prima volta e ho incontrato Kit, mi sembrava di vivere un sogno e di essere fuggita dalla vita reale. Ora è il contrario: questo è il sogno, e quella è la vita reale. – Si volta verso di noi. – Ovviamente non dovete dire a nessuno che sto con Kit Harington. Più tardi Matteo lo verrà a sapere, meglio sarà.
- Non hai paura che possa venirti a cercare? – Domando avvicinandomi a lei. Sara scuote la testa.
- Sono stufa di avere paura di lui. Kit mi ha chiesto di stare insieme ufficialmente, e il prezzo che devo pagare sono le foto dei paparazzi. Lo pago volentieri. Vuole venirmi a cercare? Faccia pure. Ho la mia rete di protezione. Sono stanca di farmi condizionare da lui.
Non so se queste siano parole sagge o folli. Non so quanto sia sensato lasciarlo perdere, dal momento che una condanna non è nemmeno sicura al cento per cento.
Capisco che voglia lasciarsi tutto alle spalle, e la valigia in più è la prova inconfutabile delle sue intenzioni.
- Devo andare. – Annuncia con un sospiro, prima di gettarsi fra le braccia dei suoi genitori.
- Vienici a trovare presto, Sara.
- Potete contarci. E fatemi sapere cosa decidono per Matteo.
- Ovviamente – annuisce sua madre, prima di riavvicinarsi al marito.
- Bene – Sara sospira ancora. – Vado.
Mi avvicino, mi chino su di lei e la stringo forte sollevandola da terra.
- Ci sarà ancora posto per me, nella tua nuova vita? – Le sussurro in un orecchio.
- Per te ci sarà sempre posto nella mia vita, Pinna. – Risponde stringendomi le braccia al collo. – Anzi, sbrigati a finire la stagione a teatro, perché ti vengo a prendere per le orecchie e ti porto a conoscere Kit.
Rido e la poso a terra, stampandole un bacio sulla guancia. Continuo a tenerla per mano.
- Voglio che tu faccia una cosa per me. – Tiro un biglietto fuori dalla tasca dei pantaloni. – Potresti dare questo a Kit? Non leggerlo.
Sara osserva perplessa il biglietto, poi lo prende e lo infila nella tasca della giacca. – Ok.
Mi guarda, e i suoi occhi diventano sempre più lucidi col passare dei secondi. Una lacrima solitaria scende sulla guancia, lasciandosi dietro una piccola scia bagnata.
Gliela asciugo con un pollice. – Ti adoro anche io, peste. Vai a goderti la tua nuova vita. Qui c’è rimasto poco, per te.
- Sei rimasto tu. E i miei genitori. È abbastanza.
- Ci rivedremo presto. Vedrai.
Certo.
Ci abbraccia di nuovo tutti, poi con un sorriso prende i manici delle valigie e si dirige verso la fila.
- Vi voglio bene! – Grida da lontano agitando una mano. I suoi genitori ricambiano con un sorriso.
- Sara, aspetta!
La raggiungo di corsa. C’è ancora una cosa.
- Cosa c’è? – Domanda, mentre una famiglia dall’aspetto molto nordico la supera mettendosi in fila.
Prendo dal borsone un berretto di lana rosa chiaro fatto a maglia da mia madre e glielo ficco in testa.
- Pinna – ride, - ci sono trenta gradi!
- Qui sì, ma stai andando nel Paese dei ghiaccioli.
Ride ancora, mi abbraccia stretto.
- Ti adoro.
Mi stampa un bacio sulla guancia, riprende le valigie, e senza indugiare oltre si mette in fila.
- FAMMI UN FAVORE, DIGLIELO CHE LO AMI!
Le urlo a pieni polmoni. Lei si gira ridendo alzandomi il pollice.
Un ultimo sguardo verso di noi una volta passato il metal detector, un altro cenno con la mano, e sparisce dietro l’angolo.
 
***
Kit
 
Il telefono squilla nella mia mano e rispondo immediatamente. La sua voce, quella a cui penso dal momento in cui apro gli occhi a quando mi addormento, suona stanca, spossata dal viaggio. Fawny mi manca così tanto che quasi mi sento sprofondare a ogni passo che faccio.
- Ciao… - mi mordo la lingua un secondo prima di dire “amore”. Quando riuscirò a dirle quello che provo? Quello che mi è sfuggito durante la nostra litigata la sera della sua partenza non ha fatto alcun effetto su di lei, o se lo ha fatto lei non l’ha dato da vedere. Certe volte per me è ancora difficile capire quello che le passa per la testa, e da un certo punto di vista penso che non saprò mai leggere dentro di lei con certezza.
- Ciao, Kit. Sono appena atterrata a Heathrow, l’aereo per Reykjavík partirà fra circa quarantacinque minuti.
- Come stai, Fawny?
- Sono distrutta. Nel sedile accanto al mio c’era un ciccione che non ha fatto altro che sudare e addormentarsi sbavando sulla mia spalla. Mi mancava avere l’odore di un camionista dal petto villoso.
Scoppio a ridere. – C’è un bagno caldo che ti aspetta in albergo.
- Perfetto, fammi trovare pronta la mia paperella preferita. Ah, atterrerò più o meno fra due ore. Te lo dico così esci in tempo dall’albergo e non aspetti inutilmente in aeroporto.
- Certo.
Non glielo dico mica che sono già agli Arrivi dell’aeroporto da almeno un’ora.
- Kit, devo dirti una cosa.
- Dimmi.
Sospira. - Io ti… - mi fermo dallo scavare un solco per terra. – Ti abbraccerò quando ci rivedremo.
Sospiro di sollievo e delusione. – Anche io Fawny. Dai, fai buon viaggio.
- Ci vediamo tra poco.
- A tra poco.
Appena chiusa la chiamata, chiamo Kris. Deve andare in ospedale da sua figlia, ma mi ha obbligato a chiamarlo per avvertirlo dell’orario di arrivo di Sara. Vuole assolutamente esserci.
Penso al biglietto che ho scritto per Sara: una citazione da una canzone italiana trovata nell’Ipod che ha dimenticato in albergo. Si chiama “Autogrill” ed è di un certo… Guidicini o Guccini, cose del genere.
Insomma, io non capisco una parola di italiano, ma quella canzone mi è piaciuta e ho chiesto a Paola, una ragazza italoamericana della troupe di Emilia in Spagna, di tradurmela: c’è un passo che mi ricorda molto il nostro primo incontro, come se fosse stato scritto apposta per noi.
Spero che le piaccia.
E non vedo l’ora di rivederla.
 
***
Sara
 
Se il primo volo è stato uno schifo, il secondo è andato anche peggio.
Adoro i bambini. Sono così carini, piccoli, rotondetti, chiassosi…
Li detesto.
Detesto loro e i genitori che non li sanno educare a fare un po’ di sano, benedetto silenzio.
L’unica cosa in grado di contrastare al mal di testa martellante che mi affligge è la consapevolezza che dietro a quella grande porta di vetro opaco ci sarà Kit.
Due giorni fa il sogno, i miei genitori; oggi la realtà, l’uomo che amo.
Quando avrò il coraggio di dirglielo? Ogni volta che ci provo fallisco miseramente. Anche prima, nella nostra telefonata, ho detto le prime due paroline magiche ma la terza è andata a farsi benedire. Come al solito.
Scuoto la testa. “Cerchiamo di concentrarci. Carpe diem”.
Il trolley verde mela ce l’ho. Il valigione rosa, invece, che fine ha fatto?
Lo vedo spuntare più in là, a nove valigie di distanza.
I bambini satanisti dell’aereo sono proprio dietro di me a urlare e stracciare le palle e io devo usare tutte le forze di sopportazione che mi rimangono per non prenderli tutti a calci davanti allo sguardo scandalizzato della loro madre ignorante e incapace.
Afferro il valigione al volo, alzo i manici e me li trascino correndo verso la porta opaca, lontano dai bambini rompicoglioni.
Mi fermo un secondo prima che le porte si aprano e un tizio in giacca e cravatta mi supera, facendole aprire e uscendo per primo. Attraverso il varco, in mezzo a una calca di persone in fremente attesa, Kit si staglia in prima fila con un grande mazzo di rose muscose e ginestre.
Nel giro di un attimo lo guardo dalla testa ai piedi, imprimendomi nella memoria ogni singolo dettaglio della sua bellezza: i capelli ricci e neri, gli occhiali dalla montatura sottile calcati sul naso, la barba appena accennata e sfatta con stile, le labbra piegate in un sorriso, le larghe spalle nella giacca di pelle, le gambe fasciate nei jeans e i muscoli ovunque.
Molti fra le persone intorno a lui lo guardano meravigliati, esaltati dalla sua presenza, ma Kit sembra ignorarli completamente. Il suo sguardo è fisso nel mio.
Corro verso di lui lasciando i trolley a metà strada e mi butto tra le sue braccia, stringendolo con tutta la forza che ho, circondandomi col suo profumo acre e la splendida sensazione di poterlo toccare di nuovo. Lui ricambia avvolgendomi nel mazzo di fiori.
Restiamo lì abbracciati in mezzo alla folla, e a un certo punto ho come l’impressione che sia partito un flash, da qualche parte.
- Mi sei mancata – mormora.
Lo bacio sulla bocca lentamente, con intensità, come se fossimo da soli in camera da letto e non circondati da ficcanaso. Kit accetta il bacio senza opporre resistenza, come se per noi fosse una cosa del tutto normale fare così in pubblico.
Ci separiamo e Kit con un sorriso mi mette tra le mani il mazzo di fiori. Ne inspiro il profumo, notando allo stesso tempo un bigliettino nascosto fra gli steli di rosa.
Lo apro, leggendo le dolci parole scritte con la sua grafia in un italiano incerto.
Bella d’una sua bellezza acerba,
bionda senza averne l’aria
quasi triste, come i fiori e l’erba
di scarpata ferroviaria,
il silenzio era scalfito
solo dalle mie chimere
che tracciavo con un dito
dentro ai cerchi del bicchiere”.
Lo abbraccio di nuovo.
- Il processo non è andato molto bene, vero?
- Per niente…
Deve averlo capito quando l’ho chiamato dopo aver deposto. Mi stringe forte.
- Stai tranquilla, Fawny. Ormai è andata.
L’amore per lui dentro di me esplode come una bomba.
Ci prendiamo per mano. – Andiamo. C’è qualcuno nel parcheggio che vuole salutarti.
Solo quando stiamo per muoverci nota il valigione. Lo indica con un cenno del capo.
- E quello? – Domanda con un sorriso confuso.
- Quelle sono tutte le mie cose, quelle che avevo lasciato in Italia.
Continua a guardarmi, senza dire una parola.
- Io… - Tento di spiegare. –Ho pensato che mi avrebbe fatto piacere sistemarmi a Londra, una volta finite le riprese… con te… e mettere una volta per tutte le valigie in soffitta.
Passa un secondo in cui pare metabolizzare la cosa per capirne appieno il significato, poi mi prende il viso fra le mani e mi bacia di nuovo, prima di prendere le valigie e scortarmi fuori.
 
Kris sta appoggiato alla portiera della macchina a braccia conserte, guardandosi intorno per non perdersi il nostro arrivo. Almeno credo.
Ci vede, si stacca dal cofano e mi abbraccia talmente forte da stritolarmi, stampandomi un bacio sulla guancia.
Capisco che quello che mi ha detto Kit ieri era vero: lo sanno tutti di Matteo, di me e del mio passato. Ora mi guarderanno tutti con occhi diversi. Ci sarà qualcosa in fondo al loro sguardo, qualcosa che non riusciranno mai a nascondere, qualcosa che trasparirà sempre e comunque ogni volta che mi guardano: la pietà.
C’era un motivo se lo tenevo nascosto, se non volevo che lo sapesse nessuno. Perché non volevo che la gente mi guardasse con la pietà negli occhi. E ora, grazie a Rose, lo sanno tutti.
Davvero grandioso.
 
Abbiamo accompagnato Kris in ospedale da Kamile, per dare il cambio a Gry e tenere compagnia a sua figlia per questa notte. I medici non ci hanno permesso di entrare nella stanza perché l’orario delle visite era finito e bisognava indossare dei camici sterilizzati. Ma abbiamo potuto vedere Kamile attraverso un vetro che dà sul corridoio del reparto, ed è stato orribile.
Vedere quella piccola, graziosa e sorridente bambina stesa in un letto dalle lenzuola verdi troppo grande per lei, con la testolina calva, le guance incavate, il respiro affannoso e la flebo infilata nel braccio… è stato straziante. Preferirei farmi carico di tutte le sofferenze del mondo se servisse a farla stare bene.
Ma davanti al decorso di una malattia e alla sofferenza di una bambina, ti senti del tutto inutile e ogni tuo problema, anche grave, perde ogni significato.
Kit parcheggia la macchina davanti all’hotel e spegne il motore. Sono accovacciata sul sedile e guardo il mondo fuori con la testa appoggiata al finestrino, pensando a Kamile e al processo.
Sento lo sguardo di Kit su di me. – Sembri così stanca.
- Non sono abituata a viaggiare.
- Ti capisco. – Sorride. – Forse non andava tanto bene farlo stasera.
Lo guardo. – Che cosa?
Kit ride a disagio e si gratta la testa, scompigliandosi i capelli. – Richard è venuto a trovarci, e vuole farti conoscere la sua fidanzata.
- Richard ha una fidanzata??
- Sì, da un paio di settimane ormai.
- E com’è? Come si chiama?
- Si chiama Meredith, ma tutti la chiamano Skeeter. – Risponde slacciandosi la cintura e scendendo dall’auto.
- Skeeter? Tipo, zanzara? – Lo seguo.
- Esatto.
Prende le valigie dal bagagliaio, alza i manici e comincia a trascinarle verso l’entrata. Si ferma a metà strada, tira fuori una sigaretta da un pacchetto e lo accende. Mi guarda birichino e divertito di fronte alla mia espressione scandalizzata.
- Scusa, sono troppo felice di vederti per poter resistere.
- Non preoccuparti – risposto arrossendo.
Aspettiamo due minuti che finisca la sigaretta, poi ricominciamo il discorso e la camminata verso l’hotel.
- Che soprannome strano per una ragazza! Per quale motivo una dovrebbe farsi chiamare come una zanzara? Non capisco la logica di certe person…
Abbiamo varcato la soglia della hall e del ristorante dell’albergo. Le luci, prima spente, si sono accese improvvisamente e hanno cominciato tutti, tutti a gridare.
- SORPRESA!! BENTORNATA!!!
Ci sono David, John, Heida, Richard e ogni altro membro della crew e del cast, e tutti applaudono felici e sorridono, come se avessi appena vinto il Nobel per la Pace.
Nonostante le mie resistenze Kit mi trascina in mezzo alla folla e tutti cominciano ad abbracciarmi, a rifilarmi baci su tutta la faccia, a darmi pacche sulle spalle.
È vero che qualcosa è cambiato in loro, ma non vedo pietà nei loro occhi, nemmeno in quelli di David che, più o meno, già sapeva, o in quelli di Richard. Vedo solo tanto, tantissimo affetto per me.
Non pensavo che potesse essere questa la reazione della gente alla mia vita incasinata.
 
Abbiamo mangiato a buffet, scherzato, riso, e Richard mi ha presentato davvero la sua ragazza.
Alta e secca, il viso squadrato, i grandi occhi chiari e il naso adunco, Meredith Preacher si presenta come una snob mozzafiato dal naso un po’ grosso. Ma nell’attimo in cui mi ha sorriso e mi ha stretto la mano presentandosi in italiano come “Skeeter” Preacher, ho dovuto cambiare idea su di lei.
Ci sono persone che mi stanno antipatiche a prima vista. Lei non ne fa parte. Timida fino al midollo delle ossa nonostante le apparenze, ha spiccicato solo qualche parola nel corso della serata, restando sempre accanto a Richard che la guarda con occhi dolci e innamorati.
Credo che sarà interessante fare la sua conoscenza.
A festa di bentornato finita mi butto sul letto della camera di Kit ancora con la giacca addosso. Kit fa lo stesso, cadendo accanto a me.
- Sono distrutto.
- Sì, anche io.
Un attimo di silenzio, poi abbasso la manica sinistra e mostro il tatuaggio a Kit.
- Guarda! – Lo incalzo.
Lui si mette su un fianco e si china sul braccio, rabbrividendo al pensiero di un ago che ti perfora la pelle lasciando una traccia di inchiostro.
- Bello. Non me lo farei mai e poi mai, ma bello.
Si lascia ricadere, sbuffando esausto.
- Vorrei poter fare qualcosa per Kamile – mormoro. – Mi sento inutile.
- Ehi – si avvicina e mi stringe a sé. – Devi smetterla di far girare all’impazzata le rotelle nel tuo cervello. Ora basta. Ti sei torturata abbastanza. Smettila.
Silenzio.
- Non ce la faccio a spegnere la testa. – Mormoro.
Mi attira su di sé e mi bacia intensamente. – Sì che ce la fai. E per dimostrartelo, domani usciamo insieme.
- Come? Domani non è sabato?
- No. Domenica – mi fa l’occhiolino. – E croce sul cuore che possa morire, domani ti porto a pescare.
Mi metto a ridere alla visione di me con gli stivaloni e gli ami infilati nel cappello e Kit che lancia l’amo e se lo impiglia nella maglietta.
- Ci sto!

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Capitolo 16
*** Trouble is a Friend ***


Trouble Is a Friend
 
So don’t be alarmed
If it takes you by the arm
I won’t let him win
But I’m a sucker for his charm,
Trouble is a friend, yeah
Trouble is a friend of mine.
- Lenka
 
***
Kit
 
Un sottile raggio di sole filtra tra le tende, e accanto a me Fawny sta ancora dormendo.
Io sono seduto sopra le coperte col Mac sulle gambe, in cerca di una valida alternativa alla pesca che avevo in programma per oggi: secondo i migliori siti di naturalistica i banchi di pesci sono scarsi quest’anno e non credo che ci divertiremmo ad aspettare e non fare niente tutto il giorno.
Gli animali preferiti di Sara sono le balene. Secondo lo stesso sito ci sono degli ottimi punti d’osservazione al largo della città.
Mi sembra un’idea abbastanza buona.
Poi prenoterò un tavolo al VOX, uno dei ristoranti più romantici di Reykjavik: eccellente pesce e cucina tradizionale, valutazioni massime in tutte le categorie, non troppo affollato, ottimo fornimento di vini. Quello a cui ho sempre puntato per un primo appuntamento come Dio comanda.
Mi viene da ridere: ci frequentiamo da tre mesi e ancora non l’ho seriamente invitata a uscire con me. Lavorare e vivere insieme non vale.
Non so perché. Forse perché la nostra storia è al sicuro tra le mura di casa mia, nonostante i dettagli che mi sono lasciato sfuggire in un paio di interviste, immediatamente repressi. È protetta. Uscire per un appuntamento significherebbe con ogni probabilità venire beccati da fan o paparazzi, con foto e tanti saluti alla sua privacy. Ormai a me non fa più effetto, ma potrebbe agitarla. Però sento che un appuntamento renderebbe ufficiale la nostra relazione. Le ho chiesto di essere la mia ragazza pochi giorni fa, senza essere usciti neanche una volta. Un gesto imperdonabile, per la mia indole romantica.
Un leggero movimento accanto a me richiama la mia attenzione, facendomi voltare verso l’altra metà del letto. Fawny è sveglia, e mi guarda con quei suoi occhioni da cerbiatta. Toh, è sorta la luna.
- Buongiorno – sorrido.
- Ciao! – Si stiracchia. – Come mai già sveglio?
- Stavo controllando delle cose per oggi. – Chiudo il Mac e lo poso sul comodino alla mia destra. – Dovremo cambiare i piani, purtroppo.
- Cioè?
- I banchi di pesci sono troppo scarsi e sconsigliano la pesca.
Sembra dispiaciuta, ma dopo un momento sorride apertamente: - Beh, è un peccato, ma tanto non so pescare! È più probabile che i pesci peschino me, del tipo… il pesce corre via, e io vengo trascinata sott’acqua attaccata alla canna da pesca.
Scoppio a ridere. – E io non sono da meno.
- Saremmo una coppia di pescatori sfigati, coi pesci che ci prendono a schiaffi e tornano in acqua.
- Già, pessima idea. Non so perché mi sia venuto in mente. Pescare fa molto coppia vicina ai cinquant’anni di matrimonio.
- Dovremmo provare qualche volta. Deve essere divertente – mi strizza l’occhio. – Quindi… che facciamo oggi? Potremmo anche restare chiusi in camera a guardare film e mangiare schifezze sotto le coperte.
- Nah. Ti ho promesso un appuntamento, e voglio farlo per bene.
Ride. – Devo avere paura?
Mi butto sopra di lei e la bacio intensamente. – Decidi tu.
 
Dopo l’amore e la colazione, siamo pronti a uscire. Entrambi in abbigliamento casual in jeans. Lei ha un maglione bianco a motivo norvegese e un cappello bianco sui capelli ramati. Io indosso un maglione e una giacca di velluto pesante. Le ho detto di portarsi l’occorrente per trascorrere l’intera giornata e la sera fuori, e lei ha raccolto tutto dentro uno zainetto. Io ho un borsone.
Altro che Louis Vuitton.
Stiamo per uscire dal portone dell’albergo, quando un capannello di persone attira la mia attenzione.
- Aspetta. – La fermo posandole una mano sul polso. Appena le ragazze fuori intravedono movimento cominciano a sporgersi per guardare, sorridere e lanciare gridolini eccitati tirando il cellulare fuori dalla tasca.
Merda.
Fan.
Guardo Sara, anche lei intenta a osservare l’esterno con aria perplessa.
- Sono fan. Scusami, Fawny. Se vuoi possiamo tornare in camera.
Lei si volta verso di me, e con un sorriso prende gli occhiali da sole e li indossa. Poi intreccia le dita alle mie, e mi conduce verso la porta.
Usciamo così, mano nella mano.
I fan fuori si mettono a urlare e alzano i telefoni per scattarci delle foto e riprenderci.
La sento tesa come una corda di violino, ma continua a tenermi ostinatamente la mano.
Anche se vorrei tirare dritto e lasciare questa folla dietro di noi, lei si volta verso delle tredicenni che mi chiamano a gran voce e si ferma da loro, lasciandomi la mano solo quando prendo il cellulare di una di loro e mi avvicino per farmi un selfie. Come al solito: selfie, autografi, selfie, autografi.
Mentre vengo sommerso da foto, cellulari e battute su “Tu non sai niente, Jon Snow”, Fawny sta in disparte lontana dagli obiettivi, ad aspettarmi.
Mi libero di tutti loro al più presto, preoccupato perché presto in rete gireranno foto di noi due insieme, e mettendole una mano sulla schiena la conduco verso la mia macchina. La mia guarda del corpo Stephan, spuntato al momento giusto come sempre, è impegnato a tenere a bada i fan in modo che non ci seguano.
Le apro la portiera e lei si fionda dentro, poi faccio il giro della macchina e mi metto alla guida.
Al primo semaforo rosso che incontriamo mi volto verso di lei. Si è tolta gli occhiali da sole e guarda silenziosa fuori dal finestrino.
- Tutto a posto?
- Certo. – Risponde. – Sapevo che prima o poi sarebbe successo, per cui non c’è niente di male.
Sospiro. – Mi dispiace, Fawny.
Si volta a guardarmi. – Di cosa?
- Di avere la vita che ho. A me non dispiace, faccio quello che amo, ma per te è dura. Forse troppo.
- Non avrai paura che io ti lasci perché ogni tanto vieni assalito da un fan per dei selfie.
Scuoto la testa. – Per quello, perché non avrò mai un briciolo di privacy, perché odi essere al centro dell’attenzione e perché non sto mai fermo in un posto. Io credo in te, ma ho paura che tu non ce la faccia.
- Kit, conosco i miei limiti. Se questo dovesse diventare troppo per me allora te lo farò sapere, perciò non provare neanche a farti delle seghe mentali al riguardo. Io me ne faccio abbastanza per entrambi. E adesso parti, che è verde.
 
Il sole fra capolino di tanto in tanto fra le nuvole, come giocasse a nascondino. Sulla grande barca prestatami da David siamo soltanto noi due, in mezzo al mare, e le onde ci fanno oscillare come in una culla. La terra, lontana da noi, sembra solo un filo di spago verde posato su questo oceano di blu.
Il silenzio è interrotto solo dallo sciabordio delle onde sullo scafo della barca. Siamo qui da quasi due ore, ma delle balene ancora nessuna traccia.
Fawny è fra le mie braccia, appoggiata al bordo dello scafo, e guardiamo insieme il mare.
- A proposito, Pinna mi ha chiesto di darti questo. – Estrae dalla tasca della giacca un foglietto di carta ripiegato.
- Chi sarebbe Pinna? – Chiedo prendendolo in mano.
- Il mio migliore amico e il mio partner di danza. Ci siamo ritrovati a Genova, al processo… non ci siamo visti per anni e, a dirla tutta, pensavo di averlo perso. Mi ha detto di darti questo, voleva che lo leggessi.
Lo apro. La grafia all’interno è ordinata, inclinata verso destra, tondeggiante, e l’inglese è perfetto.
Salve Kit.
So che sei un attore famoso e stimato e che, probabilmente, hai la fedina penale pulita. Sara non fa altro che parlare di te e ti è molto affezionata. Ti ringrazio per tutto quello che fai per lei.
Però ti avverto: se tu la fai soffrire, io ti taglio le palle.
Con affetto,
Andrea Pinnarotti
P.S: Jon Snow è PERFETTO”.
- L’hai letto? – Le chiedo. Scuote la testa.
- Mi ha chiesto di non farlo.
- E tu non lo hai fatto?
- No!
Rido. – Sei l’unica persona che mantiene la parola su queste cose.
Mi spinge con un sorriso, poi mi abbraccia.
- Questo Pinna… è molto alto?
- Altissimo.
- E muscoloso?
Annuisce. – Picchia forte. – Si volta verso di me. – Perché?
Alzo le spalle. – Così.
Torna a sporgersi dallo scafo. Avverto un fortissimo legame tra lei e questo fantomatico partner di danza. Un’irrazionale gelosia inizia a pulsarmi nelle tempie. Sono soltanto migliori amici? L’affetto che noto nella voce e nello sguardo di Sara sembra alludere a molto più che alla semplice amicizia.
- Tu e Pinna… siete molto intimi? – Domando appoggiandomi allo scafo.
- Sì, te l’ho detto, è il mio migliore amico. – Si volta e mi guarda intensamente. – Sei geloso!!
- Affatto! – Arrossisco.
- Invece sì! Sei geloso di Pinna! – Scoppia a ridere piegandosi all’indietro.
- Dai, smettila! Lo ripeto, non sono geloso!
Ride così tanto che si deve mettere a sedere per terra. – Ti chiedo scusa, Kit – si asciuga le lacrime tra i singulti. – Ma pensare che tu sia geloso di Pinna… - ricomincia a ridere.
- Mi spieghi cosa c’è di male ad essere geloso della mia ragazza? – Incrocio le braccia.
- Ma Pinna è gay!
Mi blocco. - … Gay?
- Gay. Omosessuale. Compriendes?
- … Omosessuale.
- Fino al midollo delle ossa.
- Omosessuale. – Mi diverto quasi a masticare questa parola osservando come faccia andare in fumo le mie preoccupazioni in meno di dieci secondi.
- Qualcosa in contrario?
- Assolutamente niente! Sai quanti ne conosco, di omosessuali. Sono… sollevato.
- Estrarrai la spada contro ogni ragazzo che ti presenterò, Jon Snow? – Chiede prendendo le mie mani e issandosi in piedi.
- Solo se necessario.
Mi abbraccia e affonda il viso nella piega del mio collo. Le prendo il viso tra le mani e la bacio dolcemente.
Qualcosa fuoribordo, in lontananza, cattura la mia attenzione. Uno spruzzo d’acqua alto quasi quattro metri.
- FAWNY! FAWNY! UNA BALENA! UNA BALENAAAAAAAA!
Mi metto a saltare indicando il punto in cui l’acqua è ancora mossa da ampie e regolari onde d’urto. Anche lei si mette a urlare, eccitata e delusa al tempo stesso dall’essersela persa.
- Era lì, proprio lì! – Continuo a urlare. – Aspetta, magari…
Poco lontano dal punto da me indicato una megattera dal ventre bianco salta fuori dall’acqua, descrive un ampio arco in aria e ricade in un geyser di schizzi.
Ci basta per metterci a urlare e saltare come pazzi.
 
È di nuovo sera. Il sole è tramontato anche su questa giornata fantastica.
Abbiamo visto le balene, ho fatto il bagno nudo – tra le sue urla di incredulità -, poi abbiamo girato per Reykjavík nel pomeriggio facendo shopping e cenato al VOX con piatti di inestimabile valore gastronomico. Tornati in albergo, abbiamo fatto di nuovo l’amore.
Una giornata perfetta.
E finalmente mi ha raccontato del processo.
Di tutto: di come lei abbia sostenuto lo sguardo del suo ex appena entrata in aula, dell’incresciosa testimonianza sullo stalking e lo stupro, di come lei e Pinna siano scappati subito dopo.
È andata veramente di merda, la mia intuizione era giusta.
Non so quanto sia probabile che condannino il suo ex, ma so che è riuscita a fronteggiarlo, a guardarlo negli occhi e a non avere paura.
È stata grandiosa.
E sono fiero di lei.
Le scosto i capelli dal viso addormentato, baciandole la guancia. Poi la abbraccio, e mi addormento anch’io.
 
***
Sara
 
Un mese dopo
9 settembre 2013
 
- Signore e signori, facciamo un grande applauso alla nostra spettacolare crew! – grida David nel megafono prima che tutto lo Studio esploda in grida, fischi e applausi.
È l’ultimo giorno delle riprese della quarta stagione del Trono di Spade, fra pochi giorni torneremo nel Regno Unito e per i prossimi quattro mesi l’agenda di Kit è piena di interviste e colloqui di lavoro in giro per il mondo, senza contare la Premiere che si terrà fra due mesi a Los Angeles.
David e gli altri della crew, per festeggiare la fine delle riprese, hanno organizzato quattro giorni di campeggio per soli uomini nelle sperdute alture islandesi. Parteciperà anche Kit, ovviamente, e spero che non ci muoia assiderato.
Per contro, ho invitato Skeeter a un pigiama party nella mia stanza, domani sera. In questo ultimo mese di riprese abbiamo approfittato del suo lungo soggiorno qui per fare amicizia: è forse più simpatica di quanto pensassi e combatte contro molti, molti demoni del suo passato. Ci siamo trovate subito in sintonia.
Meredith Skeeter Preacher è nata a Salem, nel Massachusetts, nel 1989. È cresciuta in una roulotte insieme al padre che dopo la morte della moglie è diventato alcolista, ha lavorato come modella per pagarsi il college e una volta lasciata la roulotte ha potuto permettersi di tenersi i risparmi e a scrivere articoli di moda, diventando via via una fashion blogger. Ha studiato Storia dell’Arte alla Illinois University e ha conseguito un master in Conservazione dei Beni Culturali a Firenze, motivo per cui sa parlare benissimo l’italiano, oltre allo spagnolo e un po’ di cinese. Adesso lavora come critica d’arte e nell’ambiente è molto conosciuta. Lei e Richard si sono conosciuti a una mostra al MoMA, a New York.
Sembra la tipica storia strappacuore all’americana, ma giuro che è vero.
Tenendo presente la solida amicizia dei nostri due uomini, approfitteremo della serata per spettegolare su di loro e guardare “Colazione da Tiffany” nei nostri pigiami di flanella, mangiando schifezze e bevendo qualche birra.
È a questo che penso, mentre davanti a me scorre per l’ultima volta il fiume di attori che a fine giornata riconsegnano il costume e si cambiano per tornare a casa.
O per andare in campeggio, stavolta.
Mi guardo attorno. Mi mancherà questo posto.
 
- Ti sembra legale avere quel fisico? Io le farei causa!
Skeeter parla a voce particolarmente alta in due occasioni: quando è ubriaca e quando parla italiano. Stasera è una combinazione di entrambe: è leggermente brilla, il che fa alzare i suoi livelli di criticità fino a Saturno. Siamo sedute ai piedi del letto e lei indica con foga Audrey Hepburn nel suo tubino nero con la bottiglia di birra quasi vuota.
- Ti ricordi che quella che stiamo vedendo è finzione?
- Il film è finzione, Audrey Hepburn è vera, bae!
Senza far caso agli intercalari yankee di Skeeter, mi piace parlare italiano di tanto in tanto con qualcuno che non sia i miei genitori o Pinna.
- Giacché scivoliamo sulla bellezza degli attori d’altri tempi, che ne dici di Gregory Peck nel “Buio oltre la Siepe”?
- Una manna dal cielo, tesoro, una manna dal cielo…
Qualcuno bussa violentemente alla porta.
- Chi sarà? – Fa con sguardo interrogativo.
- Non ne ho idea… - mormoro alzandomi da terra con la bottiglia in mano. Apro la porta, e rimango con qualche anno di vita in meno per lo spavento.
Kris sta davanti a me con la barba sfatta, gli occhi gonfi e rossi e le guance rigate dal pianto. Il mio pensiero corre immediatamente alla figlia, anche se non oso dirlo ad alta voce.
- Kris, cosa sta succedendo?
Scoppia in singhiozzi così forti che lo scuotono da capo a piedi, fa un passo avanti e cade in ginocchio sul pavimento della camera, completamente distrutto dalla disperazione.
- Kris!! – Mi butto in ginocchio di fronte a lui mentre Skeeter, dall’altra parte del letto, spegne la televisione. Gli metto le mani sulle spalle spostandomi per riuscire a guardarlo negli occhi, ma è come se fosse accartocciato su se stesso. Un uomo grande e grosso come lui, un Grande Gigante Gentile, stringe il cuore in una morsa a vederlo così.
- Kamile… - dice fra i singhiozzi, e io spero vivamente che non sia morta. – Il dottor Vazhiri ha detto che il tumore non risponde più alla terapia, che il fegato è ormai troppo compromesso, e che l’unica speranza per lei adesso è un trapianto. Ha detto che siamo fortunati se ancora non si è metastatizzato.
È difficile capire quello che dice, fra i singhiozzi.
Cerco di trovare il lato positivo della situazione. Pare facile.
- Beh, il trapianto è una buona cosa! Significa che sostituendo il fegato possono rimuovere la causa principale per il tumore, e per lei non ci sarebbe più problema. Vedrai che la metteranno in cima alla lista d’attesa.
- No, tu non capisci, Sara! – Urla. – È condannata a morte!
- Non può essere vero, Kris! Perché dici così?
- Perché il dottor Vazhiri dice che non c’è abbastanza tempo! È impossibile trovare un donatore compatibile col gruppo sanguigno di Kamile, e se non viene operata subito è probabile che non arrivi alla prossima settimana!
Non può essere vero.
Non può.
Quante feste si perderà quella bambina? Se non viene operata non diventerà mai una ballerina. Non finirà la quinta elementare, non andrà al liceo e al college, non farà sesso alle feste delle confraternite, non troverà la sua anima gemella, non si sposerà e non avrà né figli né nipoti. Non avrà niente di tutto questo, se non trovano un donatore.
Capisco la disperazione di Kris. È praticamente una condanna a morte.
- Kris, qual è il gruppo sanguigno di Kamile?
- …AB negativo.
Il più raro gruppo sanguigno del mondo.
Devo fare qualcosa. Posso fare qualcosa.
Abbraccio stretto Kris, gli do un bacio sulla guancia bagnata e mi rivolgo a Skeeter, in italiano.
- Skeeter, fà rilassare Kris. Cerca di farlo star tranquillo. Io torno subito.
Mi alzo in piedi e prendo il cellulare dal comodino.
- Dove vai? – Domanda lei prendendo posto accanto a Kris.
- Devo fare una telefonata.
Attraverso di corsa il corridoio, scendo le scale ed esco nel giardino dell’hotel. Cerco il numero dell’ospedale della città su Google, lo compongo e chiamo.
Una voce femminile risponde in islandese, ma cambia registro non appena comincio a parlare in inglese.
- Vorrei parlare col dottor Vazhiri, è estremamente urgente.
- Chi lo cerca?
- Una che ha bisogno di parlargli immediatamente.
- Mi dispiace signorina, non glielo posso passare.
- SENTA -, sibilo furiosa. – Mi dispiace aver chiamato all’una di notte e averla disturbata, ma qui c’è in ballo la vita di una bambina. Si chiama Kamile Molvǽr-Hijvu e ha il cancro al fegato. Morirà se non le viene trovato subito un donatore e si dà il caso che io possa dare una mano. Quindi la prego, mi passi subito il dottor Vazhiri!
La voce dall’altro capo della cornetta sospira. – D’accordo, attenda un secondo.
Mi mette in attesa con una musichetta a dir poco snervante, e devo aspettare più di un minuto prima che la musichetta si interrompa e mi risponda una voce maschile.
- Sono il dottore Arastor Vazhiri, con chi parlo?
- Buonasera dottore, mi dispiace disturbarla. Mi chiamo Sara Vitali e sono una grande amica della famiglia Hijvu. Ho appena saputo del trapianto di fegato della bambina. Avete trovato un donatore?
- No, Kamile è stata appena messa in lista d’attesa. Anche se è in cima ci vorrà un po’ di tempo prima di trovare un donatore adatto.
- Stiamo parlando di un trapianto da vivente, dottore?
- Signorina, non credo che siano affari suoi. Lei non è parente della bambina.
- Mi risponda, per favore! Posso dare una mano!
- E come intenderebbe dare una mano, signorina Vitali? Estraendo un donatore da un cappello a cilindro?
- Dottor Vazhiri, si attuerà un metatrapianto sulla paziente?
- È ovvio… - risponde con riluttanza. -  In casi del genere un trapianto da cadavere sarebbe inutile. E ora, le dispiacerebbe dirmi come intenderebbe aiutare la mia paziente? Senza un donatore dal gruppo sanguigno compatibile ho le mani legate.
- Dottor Vazhiri, io sono 0 negativo.
Un silenzio sorpreso.
- Dottore, sono una donatrice universale. Voglio donare parte del mio fegato a Kamile. Per favore, dia inizio alle procedure.
Un paio di secondi di pausa.
- Mi raggiunga subito in ospedale, signorina Vitali. Non perdiamo altro tempo.
- La ringrazio, dottore. Mi dia un’ora e sarò lì.
È come se il cuore nel mio petto avesse ricominciato a battere. Chiudo la telefonata e automaticamente compongo il numero di Kit.
Figuriamoci se nelle sperdute alture islandesi c’è campo.
Mi risponde la sua segreteria telefonica.
- Kit, sono Sara. Raggiungimi in ospedale appena senti questo messaggio. Non è successo niente di grave, sto bene, ma posso fare qualcosa per Kamile. Ciao.
Spengo il telefono, chiudo gli occhi e tiro un lungo respiro. Poi torno in camera.

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Capitolo 17
*** Halo ***


Halo
 
I found a way to let you win
But I never really had a doubt.
Standing in the light of your halo
I’ve got mi angel now.
It’s like I’ve been awakened,
Every rule I had you break it,
It’s the risk that I’m taking,
I ain’t never gonna shut you out.
- Beyoncé.
 
 
***
Gry
 
Mi sembra di non essere più sulla Terra. Non con lo spirito, almeno.
È come se stessi vivendo dentro a un sogno, prima impotente di fermare la cascata di cose orrende che stavano capitando a mia figlia, ora di non godermi appieno la rinnovata speranza di non perderla.
Guardo Sara prendere in mano la penna che il dottor Vazhiri le sta porgendo e firmare in basso al foglio di carta sulla cartella clinica, come al rallentatore.
Come se non sapessi cosa c’è scritto su quel pezzo di carta.
Come se non sapessi che sta firmando per dare a Kamile un’altra possibilità, senza che nessuno glielo avesse chiesto.
Quando il dottor Vazhiri e Kris sono entrati insieme nella stanza di Kamile, avrei temuto il peggio se non fossi stata seduta proprio accanto al monitor del battito cardiaco.
“Gry, abbiamo trovato un donatore”.
Cinque, semplici parole in grado di far ripartire il cuore di una madre.
Ho chiesto di ripetere, per essere sicura di non aver capito male.
“C’è un donatore”.
Il dottore deve essere abituato a queste reazioni.
“Chi?”.
Kris mi ha guardato con la gioia negli occhi, ancora rossi di pianto.
“È Sara”, ha risposto.
Senza parole, la mia mente stanca cercava di ricordare esattamente di quale Sara stessimo parlando. La babysitter di Oslo? La parrucchiera? Sara Vitali?
Kris ha indicato fuori dalla stanza con un unico, semplice gesto.
Mi sono alzata dalla sedia sistemata accanto al letto e ho sbirciato fuori, sul corridoio, verso il banco delle infermiere del piano.
Ed eccola lì.
Gli scuri e lunghi capelli ramati sciolti sulle spalle, una felpa blu e verde con la zip chiusa sopra la giacca del pigiama, scarpe da ginnastica e un borsone, la testa china, intenta a scrivere firme svolazzanti su una pila di fogli che un’infermiera le porgeva.
Forse accortasi del mio sguardo, ha sollevato la testa dai fogli e mi ha guardato. Poi, con un sorriso, ha alzato una mano in segno di saluto, la penna ancora fra le dita.
E lì è cominciata la trance.
Non ricordo bene cosa sia successo dopo. Credo di aver pianto.
Ricordo molto bene il sorriso di Kamile quando le abbiamo detto che avrebbe ricevuto un fegato nuovo. Era un po’ di tempo che non sorrideva, non sinceramente almeno. Continuava a chiedere se stessimo scherzando.
Kris, in fibrillazione, ha fatto la spola tra il letto di nostra figlia e quello di Sara senza fermarsi nemmeno un secondo.
Hanno fatto indossare a Sara un camice verde semitrasparente, le hanno fatto le analisi del sangue, delle urine, e le hanno proibito di mangiare fino a domani. L’operazione è fissata per le prime luci dell’alba di dopodomani: occorre del tempo per preparare il fegato di Sara e quello di Kamile.
E ora sta firmando di accettare di fare l’intervento nonostante la lunga lista di complicazioni elencata nel foglio davanti a lei.
Restituisce la penna al dottor Vazhiri, che chiude la cartella e se ne va dopo avermi sorriso di sfuggita.
Sara guarda per l’ennesima volta lo schermo del cellulare.
- Non ha ancora richiamato – sospira.
- Sono quasi le due del mattino, starà dormendo di sicuro. – Le sorride Kris, visibilmente teso.
Skeeter, arrivata in ospedale insieme a Kris e Sara, torna dal bar dell’ospedale e si appoggia sbuffando allo stipite della porta.
- Nemmeno Richard risponde. Mi aveva detto che avrebbe lasciato il telefono acceso per tutto il tempo, in caso avessi avuto bisogno di lui.
- Odio i campeggi – commentano in sincrono.
- Il telefono di Kit non prende nemmeno. – Commenta Sara prima di stiracchiarsi e scostare le coperte. – Facciamo una passeggiata, Skeeter?
- Ma certo, prima che qualcuno mi cacci a pedate. – Sorride.
Sorrido, incapace di spiccicare parola, e torno a controllare Kamile.
 
***
Sara
 
Il sole sta sorgendo quando mi sveglio dal dormiveglia in cui ero caduta.
L’orologio del cellulare segna le 5.30 del mattino.
Fuori dalla porta della stanza i rumori del reparto non sono fastidiosi, ma comunque limpidi. Le infermiere che passano davanti alla porta parlando fra di loro a bassa voce, colpi di tosse dei degenti nelle altre stanze, un allarme che a un certo punto comincia a suonare.
Il telefono non registra chiamate perse, per cui decido di andare in oncologia pediatrica a fare visita a Kamile. Devo fare in fretta: non credo che alle infermiere farà piacere pescarmi a girovagare per i reparti, anche se teoricamente non ho nessuna malattia che mi costringa a letto. Credo che c’entri qualcosa col protocollo.
La stanza di Kamile, con le pareti verdi e decorate con sticker della Disney, è tranquilla. Gry sta dormendo su una poltrona reclinabile accanto al monitor cardiaco, Kris e Sibil sonnecchiano l’una tra le braccia dell’altro su un letto di cuscini sotto la finestra. Dal momento che stanno bombardando Kamile di immunodepressori in vista del trapianto, per diminuire il rischio di rigetto, i suoi familiari sono tutti bardati di camice verde, guanti, mascherine, sovrascarpe e cuffie igieniche per capelli verdi.
L’unica sveglia è proprio Kamile: sta sdraiata nel letto a leggere tranquillamente un fumetto in norvegese, una bandana a fiori annodata intorno alla testolina calva. Sulla sua pelle gialla di ittero spiccano le profonde occhiaie viola che le solcano il viso, e i tubicini sembrano fin troppo numerosi per quel piccolo corpo, come una piovra attorno a un pesciolino. Eppure, nonostante sia stanca e debole, sembra tranquilla. Quasi felice.
Afferro da un carrello poco lontano una mascherina, dei guanti e una rete per capelli e me li infilo in fretta. Poi apro la porta e infilo la testa nella stanza.
- Ciao, Kammi. – sussurro. Lei alza lo sguardo dal fumetto e mi sorride.
- Ciao, Sara – agita una manina, parlando a bassa voce per non svegliare i genitori e la sorellina.
- Come stai?
- Mamma dice che domani avrò un fegato nuovo!
- Sì, tesoro, ho sentito.
- E dopo non avrò più il cancro?
- Credo di no, Kammi. Guarirai completamente, te lo prometto.
Una parte di me mi sgrida per aver fatto una promessa che non sono sicura possa essere mantenuta, ma la metto a tacere.
- Ma come fanno a darmi un fegato nuovo?
- Te lo regala qualcuno.
Il suo viso si illumina. – Davveeero? E chi?
Alzo le spalle – Non saprei, tesoro.
Mi volto a guardare nel corridoio. Meglio che torni in camera.
- Devo andare, Kammi. – Agito una mano per salutarla e lei risponde con lo stesso gesto, prima di tornare a leggere il fumetto. Controlla di sottocchio il sonno dei genitori, poi si immerge nelle pagine.
 
Fuori dalla mia porta un’infermiera molto somigliante alla signorina Trinciabue* mi sta aspettando con le braccia conserte e lo sguardo truce, tamburellando un piede a terra.
- Tu non deve uscire da letto! – Sibila in inglese stentato.
- Mi scusi.
Filo sotto le coperte.
 
L’orario delle visite inizia alle otto in punto, in Islanda. Scoccata l’ora Skeeter, bellissima nella semplicità di leggins neri, maglione largo e rosso, capelli biondi sciolti sulle spalle e due ali di eyeliner, entra nella stanza con il mio laptop sotto braccio.
Varcata la soglia si guarda intorno.
- Ancora nessun segno di Kit? – Chiede in italiano col suo forte accento. Scuoto la testa. – Che tristezza… io propongo astinenza per un mese.
- Facciamo due.
Ridacchia. – Ti ho portato il computer e qualche vestito.
- Hai degli snack? Sto morendo di fame!
Scuote energeticamente la testa. – Non si può, almeno fino a domani.
- Nemmeno se facciamo a metà? O se ti noleggio Vacanze Romane e passiamo tutto il tempo a sparlare di Audrey Hepburn?
- No, nemmeno in quel caso.
Incrocio le braccia. – Sei incorruttibile.
- Anche io ti voglio bene! – Mi fa l’occhiolino.
Posa il computer sul tavolino davanti a me e io lo accendo, mentre Skeeter si siede con leggerezza ai piedi del mio letto.
- Toc toc!
Mi volto verso la porta, sperando sia Kit, ma Heida ci guarda entrambe con un largo sorriso.
- Ciao Sara! Come stai?
Heida è la mia assistente costumista della troupe islandese. Ha la pelle diafana, corti capelli castani e un bel paio di occhi verde bottiglia. La corporatura curvilinea non stona per niente col viso, ma la sua intelligenza e il suo forte carattere sono in grado di far stare chiunque al proprio posto, soprattutto gli uomini. Il suo sogno è creare una collezione di abiti di alta moda. A causa dei pochi interessi che abbiamo in comune abbiamo passato poco tempo assieme al di fuori del set, ma per quanto riguarda i rapporti di lavoro siamo davvero amichevoli e tolleranti l’una con l’altra.
- Ciao, Heida. Tutto a posto. Skeeter si diverte a fare l’aguzzino e non darmi nulla da mangiare.
- Ordini dell’ospedale, non si mangia nulla fino all’operazione. – Si difende.
- E anche oltre – aggiungo.
Heida sorride un po’ a disagio, poi aggiunge: - Sono solo venuta a vedere come stavi e se avevi bisogno di qualcosa.
- Tutto a posto. Grazie, Heida.
- A parte il fatto che i nostri uomini non si fanno vedere né sentire quando abbiamo più bisogno di loro…
- Mi dispiace, sono partito appena ho sentito il messaggio e il cellulare si è scaricato.
La voce di Kit arriva trafelata dalla porta facendoci sobbalzare tutte insieme. Heida si volta verso di lui e, istintivamente, fa un passo indietro coprendosi la bocca prima di scoppiare a ridere.
I capelli di solito perfetti di Kit sono sparati per aria e pieni di polvere, il viso è ricoperto di terra e la costosa felpa che aveva portato con sé in campeggio porta un lungo strappo a livello del polpaccio.
Sembra tornato dal Kosovo, non dal campeggio. Sulle sue spalle sta un grosso zaino sporco almeno quanto lui.
- Santo cielo! – Esclama Skeeter. – Sei sicuro di non essere andato in guerra?
Kit le lancia un’occhiata piena di sofferenza.
- Non sono fatto per certe cose – spiega sbrigativo posando lo zaino a terra per poi dirigersi verso di me e prendermi le mani fra le sue sedendosi sul letto. – Posso sapere cos’è successo? Perché sei qui? Stai male?
- No, non sto male – sorrido. – Te l’ho detto, ho solo trovato il modo di far star bene Kamile.
- Cioè?
- Oh beh, è semplice: Sara donerà il fegato a Kamile! – Spiega Skeeter in un eccesso di entusiasmo. Heida sembra voler essere da qualsiasi altra parte in questo momento, ma non qui.
Kit sembra pietrificato ed è sbiancato di colpo. Si volta di nuovo verso di me con due occhi grandi così, tanto che mi sembra di scorgere nelle sue pupille la lancetta dell’ora in cui comincerà a dare seriamente di matto.
Ma non dice niente, come mai?
- Kit, stai bene?
Adesso sviene.
Gli afferro il viso fra le mani.
- NON pensare alle siringhe, Harington. NON PENSARE AL BISTURI.
- Ora vomita. – Commenta Skeeter.
- E tu hai avuto il tatto di un elefante – mormora Heida. Nemmeno Skeeter le va a genio.
Passa un secondo in cui Kit non dice assolutamente niente, Skeeter lo osserva in ansia e Heida cerca il momento migliore per fuggire. Improvvisamente la voce di Richard esplode nel corridoio come una bomba, carica di entusiasmo.
- Cavolo, trovare parcheggio è stato come un incontro di lotta libera! - Infila la testa in camera: lui non è meno sporco di Kit. – Ehilà, Sara! Ciao, amore! – Guarda Skeeter con due occhi grossi così.
Lei gli si butta tra le braccia e lo bacia appassionatamente, tra lo scandalo di Heida e la totale indifferenza da parte di Kit. Lo scuoto per ottenere risposta, agitandogli una mano davanti agli occhi.
- Quante dita sono queste?
Invece di rispondere le ingloba nella sua mano.
- Stai veramente per fare un gesto simile? – Mormora.
- Hai dubbi? Non sarei qui se fosse altrimenti.
Sospira e mi mette una mano dietro la nuca. – Oh, Fawny…
- Non è molto pericoloso. E a Kamile serve un fegato.
- È pericoloso. È un’operazione, cavolo. So che a Kamile serve, ma… - il suo viso sembra aver ripreso colore. – Vado a parlare con un medico. Devo sapere tutto su questo intervento. Quali sono i rischi, soprattutto.
- Kit, posso spiegarteli io…
- No. So che minimizzeresti per farmi star tranquillo. – Si alza in piedi, poi mi guarda con tenerezza e si china a baciarmi. – Sei davvero generosa, Fawny. Sei fantastica.
Esce frettolosamente dalla stanza, posando una mano sulla spalla di Richard mentre passa dietro di lui.
Richard, dal canto suo, mi guarda ancora col sorriso sulle labbra.
- Eh allora, andiamo sotto i ferri domani eh? – Si avvicina e mi abbraccia. Puzza di cenere. – Brava, piccola. – Sussurra nel mio orecchio.
- Sara, quanto vuoi che si sappia in giro nella troupe da 1 a 10? – Domanda Heida dall’angolo più remoto della camera, guardando il cellulare.
- Zero. Meno gente lo sa, meno mi staranno addosso.
- Troppo tardi, zuccherino – ribatte. – La notizia si è già sparsa.
Mi batto una mano sulla fronte.
- Fanstastico…
 
Skeeter e Richard sono rimasti fino all’ora di pranzo a far chiasso e raccontarci del campeggio. Kit è seduto accanto a me con l’aria preoccupata: i dottori non gli sono mai piaciuti, e men che meno i chirurghi. Ha parlato col dottor Vazhiri e col chirurgo generale che presenzierà con lui all’espianto, e le parole “emorragia”, “lunga incisione” e “complicanze pericolose” gli sono rimaste visibilmente inchiodate in testa. Si sono aggiunti anche Kris e Sibil, che sta seduta in un angolo a disegnare coi pastelli. Sembra più un pranzo di Natale in famiglia che le ore immediatamente precedenti a un’operazione importante.
Io sono sul blog a controllare la situazione, e a parte un utente dal nickname Atlanta che ha postato la propria storia e commentato sotto la mia rimangono soltanto le 2500 visualizzazioni dell’ultimo mese. Il blog non è ancora molto conosciuto, ma la storia di Atlanta è molto simile alla mia: io però mi sono ripresa in qualche modo, con l’aiuto di Kit e dei miei amici, lei invece è ancora nell’oscurità.
Posto un commento sotto la sua storia, facendole sapere che capisco come si sente e rassicurandola che non è sola.
Non so quanto sarà utile, ma ai tempi avrei voluto che qualcuno me lo dicesse.
Un’infermiera entra in camera e annuncia che l’orario delle visite è terminato, spingendo tutti a uscire.
Vedo Kit aprire la bocca per dire qualcosa per restare con me, ma lo fermo posandogli una mano sul braccio.
- Hai bisogno di una doccia e di riposare: torna in albergo, fatti una doccia, rilassati. Non puoi rimanere a lungo l’Uomo del Fango… Io ti aspetterò qui.
Si volta per protestare, ma una mia occhiata gli fa cambiare idea. Mi prende per mano.
- Ti scrivo appena arrivo in albergo, ok?
- Ok.
Ci baciamo di nuovo, poi esce dalla camera insieme agli altri.
 
***
Kit
 
L’orario serale delle visite scatta alle sette.
Il sole è già calato da molto tempo quando, alle cinque e mezza, mi presento in ospedale incapace di stare ancora lontano da Sara.
All’accettazione un’infermiera cerca di placcarmi, dicendomi che soltanto la famiglia è autorizzata a rimanere in ospedale fuori dall’orario di visita. È caparbia, la signora.
Che le dico? Sono un cugino. No, non va bene. Un fratello? …mi chiederebbe la carta d’identità. Cavolo, ma perché in ospedale uno deve per forza essere imparentato per stare insieme alla persona che ama? Le relazioni amorose non sono contemplate?
- Siamo fidanzati e fra qualche mese ci sposeremo – Sbotto alla fine, stufo. L’infermiera mi guarda sorpresa, poi ribatte:
- Pensavo che lei e Rose Leslie foste fidanzati.
- Beh si sbaglia, signorina. Ora, se vuole scusarmi, la mia fidanzata mi sta aspettando in camera.
- Aspetti un secondo… - posa una mano sul mio braccio. – Se lei e la paziente siete fidanzati, come mai lei non ha un anello?
- Ha mai visto un uomo non ancora sposato con la fede di fidanzamento?
Sembra interdetta. – In Islanda si usa.
Sto cominciando a scaldarmi. - Si dà il caso che io non sia islandese ma inglese. Vogliamo star qui a parlare della mia vita privata ancora per molto?
Balbetta per un momento, stupita e imbarazzata. Poi gira sui tacchi e mi accompagna dalla stanza, rimanendo a curiosare sulla porta mentre entro.
- Ciao, amore mio! Come stai? Io ho riportato il tuo anello di fidanzamento in albergo, come mi avevi chiesto. Posso fare altro per te, per la cerimonia?
Sara alza lo sguardo dallo schermo del computer sul tavolo davanti a sé e mi guarda come se fossi impazzito, ma prima che possa dire qualcosa le tappo la bocca con un bacio. L’infermiera sta ancora guardando, è irritante.
- Reggimi il gioco. – Le sussurro nell’orecchio.
- Ciao, tesoro! – Risponde lei allegra, cogliendo al volo la situazione. – Una noia mortale! Non mi fanno mangiare niente e ho una fame da lupi… Hai fatto bene, non voglio che l’anello rimanga qui incustodito! E ha chiamato la boutique dell’abito a Los Angeles, dicono che vogliono fissare una prova per dicembre. – Sorride gioiosa.
Con la coda dell’occhio vedo l’infermiera andarsene lentamente, quasi controvoglia, dopo aver gettato su di noi un’ultima occhiata curiosa e con le orecchie talmente tese da ricordare il microfono a parabola degli agenti segreti di un tempo.
Anche Sara la sta osservando, e quando alla fine se n’è andata, ridacchia e mi tira un coppino.
- Che ti è saltato in mente?
- Non volevano farmi entrare!
- Potevi dire di essere mio cugino, o qualche fratello sconosciuto!
- Mi avrebbe chiesto i documenti… - “Ci avevo fatto un pensierino, a dir la verità”.
- Quanto scommetti che adesso va a spifferare tutto quanto? Le hai dato lo scoop del secolo!
- Scoop falso, no? Almeno sono riuscito a eludere gli orari di visita.
- Sì, ma a quale prezzo…
Faccio spallucce. – È la mia parola contro la sua… tempo un mese e questa storia sarà dimenticata.
- Ti costava tanto aspettare altre due ore?
- Sì. Moltissimo.
Sorride intenerita. Sotto la corazza lo vedo che è contenta, anche se me ne sta dicendo di tutti i colori.
Si avvicina e mi bacia con tenerezza. È uno di quei baci avvolgenti che ti scaldano dentro. Quando si allontana, per me è durato fin troppo poco.
- Che stavi facendo prima che io entrassi? – Domando sedendomi accanto a lei.
- Guardavo “Via col Vento”. L’hai mai visto? È un capolavoro. – Risponde facendomi posto.
- È uno dei film preferiti da mia madre.
Sorrido alla vista di Rossella O’Hara, interpretata dalla bellissima Vivien Leigh, fronteggiare un nordista e sparargli in fronte, uccidendolo. Melania Hamilton, il personaggio di Olivia de Havilland, le corre incontro con la spada del fratello caduto in battaglia.
Sono cresciuto guardando questo film, e Rossella è stata la prima donna, seppur immaginaria, che io abbia francamente ammirato – esclusa mia madre. Il carattere di ferro che si nasconde dietro al suo viso di giovane e dolce donna del sud, ammaliante e tentatrice, e la sua incredibile forza di volontà e caparbietà a continuare ad andare avanti sono ciò che più amo in lei, sia nel libro che nel film.
- Anche a me piace moltissimo – mormora intrecciando le dita con le mie.
Sara sta guardando il film in italiano, ma non è un problema: conosco a memoria tutte le battute e le recito nella mente insieme ai personaggi.
- Possiamo ricominciare dall’inizio, se vuoi. A me non dispiace – propone, nonostante siano passate quasi tre ore di film dalla prima scena.
- Se davvero non è un problema, mi farebbe molto piacere. Ci aiuterà a passare il tempo!
Muove il cursore del computer sulla barra di visualizzazione e lo riporta dall’inizio, poi mi offre la cuffietta che non porta alle orecchie.
“Oseresti dire, Mrs. Rossella O’Hara, che la terra non conta nulla per te? Ma se è la sola cosa per cui vale la pena di lavorare, di lottare, di morire! Perché è la sola cosa che duri!”. Esclama Gerald O’Hara puntando un dito contro alla figlia.
“Oh, parli come un irlandese!”, si lamenta Rossella.
“E sono molto fiero di esserlo! E non dimenticare, cara, che per metà lo sei anche tu: e chiunque abbia una sola goccia di sangue irlandese ama la terra come la propria madre. Ma per adesso sei troppo giovane, l’amore per la terra ti verrà col tempo: è fatale, quando si è nati irlandesi!”.
L’overture di Max Steiner suona mentre i due personaggi si ergono abbracciati sotto un grande albero, neri contro il rosso del sole al tramonto, e la piantagione di Tara sullo sfondo.**
Roba da far venire i brividi.
In questo momento è tutto perfetto, e per un po’ dimentico dell’operazione che sta per affrontare.
 
Alle undici meno un quarto di sera, finite le visite dei nostri amici, sono fuori dall’ospedale a mangiare un panino e fumarmi una sigaretta quando, sopra le luci dei lampioni, un lampo verde e ondulato solca il cielo. Poi un altro, più lungo e ondulato, che sfuma dal verde al viola. E un altro. E un altro ancora.
Oh mio Dio.
L’Aurora Boreale!
Spengo la sigaretta e la getto via insieme al resto del panino, tornando di corsa dentro l’ospedale.
- Sara! Sara!! – Grido entrando nella camera, togliendomi il cappotto e buttandoglielo sul letto. Lei si strofina gli occhi.
- Kit, mi ero appena addormentata! – Si lamenta con un sonoro sbadiglio.
- Dai, infila il cappotto! Saliamo sul tetto!
- Eh?
- Andiamo, sbrigati!
Le afferro la mano e la trascino giù dal letto, poi su per le scale dell’ospedale e infine sul tetto. Lei continua a corrermi indietro lanciandomi ogni tipo di impropero finché, una volta fuori sul tetto, non guarda il cielo.
Con un’espressione di sorpresa e gli occhi scintillanti si stringe nel cappotto e si appoggia a me. La abbraccio, e guardiamo insieme l’Aurora. I bagliori verdi, gialli e viola si riflettono nei suoi occhi carichi di stupore e il sorriso sulle sue labbra non accenna a spegnersi.
Avevo già vissuto questo momento con Rose diciotto mesi fa, ma non così intenso. Guardo l’immensa gioia sul suo volto, mi ricordo cosa sta per affrontare volontariamente… e capisco che non ho mai, mai provato un sentimento così forte verso qualcun altro. Lo sapevo già, ma solo empiricamente: ora riesco a toccare con mano questo sentimento.
- La cosa che stai per fare… - le sussurro nell’orecchio. – È il gesto più coraggioso che io abbia mai visto.
La sua mano cerca la mia e la stringe in tutta risposta.
- Kit… ti ricordi quando ho trovato te e Rose mezzi nudi, in albergo?
- Come potrei dimenticarlo…
- Tu mi hai detto di essere innamorato di me, e io non ti ho risposto.
- Fawny, te l’ho già detto, non devi sentirti in obbl…
- Ti amo, Kit.
Si è voltata verso di me con lo sguardo serio. Sopra di noi l’Aurora continua a brillare.
Ammutolisco, colpito dalla forza di quelle tre semplici parole che mi rimbombano in testa mettendo a tacere tutto il resto.
Dio mi perdoni, quanto ho aspettato questo momento?
Mi avvolge la vita.
- Quando ci siamo incontrati pensavo di essere da sola al mondo. Niente amici, niente lavoro, niente famiglia, i miei genitori soltanto un punto di riferimento sbiadito. Vivevo nel buio e nella paura. Pensavo di non poter tornare a essere felice come lo ero prima di Matteo. E poi sei arrivato tu.
- Fawny… - Mi tappa la bocca.
- Avevo delle regole, Kit: stai da sola, non fidarti di nessuno, non farti notare e nessuno ti farà male. Rimpiangi la tua vecchia vita, scappa via, e non sarai mai in pericolo. E tu le hai distrutte tutte: mi hai portato a casa tua, mi hai fatto avere un lavoro, mi hai portato dai tuoi amici e mi hai fatto trovare la mia seconda famiglia. Forse alla fine ce l’avrei fatta anche da sola, non posso saperlo, ma so per certo una cosa: niente di questo avrebbe senso se non ci fossi tu al mio fianco.
Se questo è un sogno, per favore nessuno mi svegli.
Lei è in attesa, e vedo nei suoi che una parte di lei ha paura che io la respinga.
Che idea stupida.
Le prendo il viso fra le mani gelide e le bacio la punta del naso, poi la bocca.
- Anche io ti amo, Fawny.
Sorride, le nostre labbra impercettibilmente separate.
 
Molte ore dopo sono ancora incredulo sulle parole di Sara, ma la preoccupazione per lei prevale.
Lei e Kamile sono nelle sale operatorie da più di quattro ore, e per me, Gry e Kris l’attesa interminabile si sta facendo insostenibile.
Seduti sulle panche della sala d’attesa non diciamo niente. Ognuno tiene i suoi pensieri per sé, e si è creata così intorno a noi un’atmosfera di inquieto silenzio.
Ho provato a leggere un libro, a scrivere qualcosa, a giocare a Angry Birds, ma niente basta a distrarmi. Nemmeno la voglia di fumare quattrocento sigarette una dietro l’altra.
Sul cellulare di Sara e sul mio continuano ad arrivare messaggi dei nostri amici, di stupore e felicità per la donazione. Ho chiamato i miei genitori e parlato con mia madre della situazione, e lei si è definita ansiosa di conoscere Sara. Desidera farci visita non appena saremo tornati a Londra, tra più o meno una settimana, il giorno dopo le dimissioni di Fawny e Kamile dall’ospedale.
Il telefono di Sara squilla per l’ennesima volta, ma stavolta è qualcuno che non conosco.
“Pinna”.
Che sia l’amico di cui mi ha tanto parlato? Quello gay?
Muoio dalla voglia di parlarci.
“E probabilmente non sa niente del trapianto”, mi ricorda una vocina nella testa.
Rispondo.
- Chi parla? – Dice un’interdetta voce grave.
- Sono Kit.
Scoppia a ridere. – Oh, mio Dio, sto parlando con Kit Harington! Vuoi farmi prendere un infarto?
- Tu sei Pinna, l’amico di Sara?
- Ci puoi giurare, amico! Sono quello che ti sfascia le budella se la fai soffrire! Hai letto il mio biglietto?
- Certo. L’ho trovato molto conciso.
Ride ancora. – Scusa i miei pessimi modi, ma non mi aspettavo di parlare con te! A dirtela tutta non ero del tutto sicuro che Sara non stesse raccontando balle, quando parlava di te. Scherzo, ovviamente!
- Ti posso assicurare che sono vivo.
- Non stento a crederci! Senti, Kit… mi passeresti Sara? Devo dirle una cosa importante.
- Mi dispiace, Pinna, ma Sara in questo momento sta subendo un’operazione.
- Un’operazione? – Si fa allarmato. – Che operazione? Sta male?
- No, non sta male. Sta donando il fegato a una bambina.
- … Mi stai prendendo in giro?
- Fidati, non scherzerei mai sulla salute di Sara.
Una pausa. – Prendo immediatamente l’aereo.
- Non siamo a Londra. Siamo in Islanda.
- Quando tornerete in Inghilterra?
- Tra qualche giorno. A dire il vero… credo che per lei sarebbe una grande sorpresa trovarti a Londra, e se tu rimanessi qualche giorno con lei a casa mia potresti aiutarla durante la convalescenza. Purtroppo il mio agente e l’HBO mi hanno programmato una serie di eventi promozionali della serie a cui non posso sottrarmi, e mi detesterei se rimanesse da sola tutto quel tempo.
- Kit, fammi sapere quando sarete a Londra. Mi staccherò dal lavoro e mi farò trovare lì. Tanto… ho proprio bisogno di cambiare aria.
- Ti ringrazio, Pinna. Non vedo l’ora di conoscerti.
- Oh, mio Dio! – E scoppia in un’altra risata isterica, prima di chiudere la chiamata.
 
Dopo altre due ore, Kamile e Sara escono dalla sala operatoria e vengono riportate in camera. Il dottor Vazhiri assicura che la bambina si riprenderà completamente, e Gry e Kris scoppiano di gioia.
Mi precipito nella stanza di Sara, che è ancora addormentata. Sono presente mentre un infermiera le  cambia il bendaggio all’addome: una lunga ferita piena di punti le scorre al di sotto del diaframma, tanto lunga da fare impressione. L’infermiera la cosparge di un liquido rosso, poi la benda di nuovo. Sara sembra non dare segni di risveglio.
- È normale che ci metta un po’ a riaprire gli occhi, non si spaventi signor Harington. – Mi informa il dottor Vazhiri. – Il fegato era perfetto.
Gli lancio un’occhiata di sbieco. Poi, seduto accanto alla mia Fawny, le prendo una mano e aspetto.
 
*La signorina Trinciabue è la perfida e terrificante direttrice del collegio di Matilda, dal libro “Matilda sei mitica” di Roald Dahl.
***Da “Via col Vento”, film di Victor Fleming con Vivien Leigh, Clark Gable e Olivia de Havillard, 1939, tratto dal libro
 “Via col Vento” di Margaret Mitchell.

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Capitolo 18
*** Take Me to Church ***


Take Me to Church
 
Take me to church
I’ll workship like a dog
At the shrine of your lies,
I’ll tell you my sin
So you can sharpen your knife.
Offer me that deathless death
Good God, let me give you my life.
- Hozier
 
***
Pinna
 
Amo Dio, ma odio la Chiesa.
Dio ha sempre detto di amare il prossimo come se stessi, persino il proprio nemico, senza eccezioni, senza dire quale genere di amore è giusto e quale è sbagliato, sempre che ce ne sia uno da considerarsi tale: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso”. Matteo 22, 37-40.
La Chiesa ha sempre travisato le sue parole: punta il dito contro gli omosessuali, condannandoli all’Inferno, definendoli contro natura, e per cosa? Per amare il prossimo. E chi crede nella parola della Chiesa segue le sue indicazioni.
Avevo diciotto anni quando mio padre mi ha cacciato di casa, dopo aver scoperto chi amavo.
 
Sono nato il 4 dicembre ’88, figlio di Isabella e Giorgio Pinnarotti e fratello maggiore di Maria, bella come il Sole. I miei genitori sono proprietari di un’importante farmacia genovese, e condividono una fede così cieca nella Chiesa da sfociare ampiamente nel bigottismo. Credo di aver imparato i dieci comandamenti a memoria ancora prima di saper leggere decentemente.
Nonostante siano stati entrambi molto severi per quanto riguarda l’educazione e l’istruzione, mia madre mi ha sempre fatto meno paura rispetto a mio padre: i lineamenti gentili del suo viso e la dolcezza del sorriso, nonché la sua inclinazione a mostrare l’affetto verso me e mia sorella molto di più di quanto facesse mio padre, hanno fatto sì che mi rivolgessi a lei ogni volta che avevo un problema.
Mio padre, per quanto si sforzasse di essere un buon padre e ci leggesse una favola tutte le sere, sembrava sempre essere un pesce fuor d’acqua. Anzi, si irrigidiva quando gli correvo incontro e lo abbracciavo alle ginocchia quando tornava dal lavoro, e raramente aveva tempo di giocare con me e Maria. Comunque, ha sempre creduto che una sberla ben piazzata educhi molto meglio di mille parole, e in casa nostra vigevano regole ben precise che se non rispettate implicavano chiaramente una punizione.
Impossibile rigare storto, con Giorgio Pinnarotti.
 
Il primo bacio a un maschio l’ho dato a cinque anni.
Non lo ricordo molto bene, in realtà. Ho invece bene impresso nella memoria la sgridata che mi fece la maestra. “Non devi baciare i bambini, ma le bambine”, diceva.
Io non ho mai voluto baciare le bambine.
Ricordo bene la prima volta che mi innamorai. Avevo dieci anni, e lui si chiamava Alberto. Fu lì che capii che per tutti, tranne che per me, amare un altro maschio era sbagliato.
Non che avessi mai provato a far capire ad Alberto i miei sentimenti. Sono andato a tanto così dallo spedirgli il bigliettino “Vuoi essere il mio fidanzato? Sì/No”, la più grande prova di coraggio richiesta a ogni innamorato sotto i dodici anni, ma alla fine non l’ho fatto. Nel profondo ricordavo ancora quello che la maestra mi aveva detto, e ricordavo l’espressione di disgusto sul volto di mio padre quando poco tempo prima, al centro commerciale, vedemmo due ragazzi intenti a baciarsi nascosti dietro un angolo. E a frenarmi c’era anche la tensione di Alberto ogni volta che lo sfioravo, e il modo in cui filava via più veloce del vento. Non mi sembrava che facessi qualcosa di strano con lui, volevo solo stargli vicino più tempo possibile, ma lui diceva continuamente che ero strano… per me era un motivo in più per tacere.
Non ho mai detto niente a nessuno, tranne che a una persona: Sara. Di lei sapevo già allora che mi potevo fidare.
Credevo seriamente che un fulmine mandato dal Signore mi avrebbe colpito in testa, quando le dissi “Mi piace Alberto”. Per quello che mi avevano insegnato, era un peccato anche solo pensarci.  Invece Sara mi guardò con un sorriso e disse: “Mamma dice che l’importante è volere bene alle persone”.
Ancora mi ricordo il sollievo che provai quando vidi che Sara non mi avrebbe giudicato.
Solo ora, a venticinque anni, mi rendo conto di quanto già allora il suo cuore fosse sconfinato.
Osai dirlo al prete, in confessionale.
Dissi che mi piaceva un altro ragazzo, anche se sapevo che il Signore non voleva.
Lui sospirò, pensò per un attimo, mi disse di recitare dieci Ave Maria e dieci Padre Nostro ogni sera, per una settimana.
“Così quando morirai andrai in Paradiso”.
Ero pronto a prostrarmi ai piedi dell’altare, pur di ottenere il perdono di Dio.
 
Non era vero.
Non era vero niente.
Per anni ho sperato che sarebbe passata, che in realtà non mi piacevano i ragazzi, che il problema era nella mia testa. Per anni mi sono sforzato di farmi piacere le ragazze, anche se dentro di me non provavo assolutamente niente se non una punta di disgusto. Per anni ho odiato me stesso per non riuscire a essere il buon cristiano che veniva celebrato a messa.
Ogni volta che mettevo piede in chiesa la domenica mattina mi assalivano un’ansia e un’angoscia tale di finire all’Inferno per i miei pensieri traviati, da farmi venire quasi idee suicide. Sicuramente il mondo sarebbe stato meno sporco senza di me e le mie idee perverse. Mi sentivo continuamente la bocca dell’Inferno sotto ai piedi, pronta a spalancarsi in ogni momento e a inghiottirmi in un sol boccone.
Solo la danza classica mi distraeva.
Io e Sara abbiamo iniziato a danzare nello stesso corso a otto anni. Mio padre fece un putiferio quando venne a sapere che mia madre mi ci aveva iscritto, dicendo che la danza classica è roba da bambine.
“A farlo stare in piedi sulle punte diventerà FROCIO!”.
Per fortuna mia madre non ritirò mai la mia iscrizione, nonostante l’ira di suo marito.
 
Io e Sara ci siamo conosciuti all’asilo. Non ricordo assolutamente il nostro primo incontro, ma ricordo tutte le litigate che facevamo per decidere chi dei due doveva guidare la spedizione della nave dei pirati (la casetta di plastica nel giardino) nei Sette Mari. Il suo atteggiamento da maschiaccio e la sua grinta smisurata da teppistella, coi capelli scuri tagliati a caschetto e le ginocchia sempre sbucciate, la faceva sempre vincere. Così io ero Spugna, e lei Capitan Uncino.
Sara è stata la prima a sapere la verità su di me e a darmi il conforto che non trovavo né in Chiesa né nei miei genitori, ovviamente. È stata lei a farmi capire che non c’era niente di male a essere gay, e che Dio non mi avrebbe mai mandato all’Inferno per questo.
Me lo disse la prima volta durante la ricreazione di un lunedì di scuola alle medie, quando eravamo entrambi due tredicenni brufolosi, dai capelli unti e strafatti di ormoni della crescita. Avremmo avuto lezione di danza quella sera, ma il sermone del prete e la lettura al catechismo serale della distruzione di Sodoma e Gomorra mi avevano gettato in un profondo senso di inquietudine. Come mai prima di allora mi sentivo pendere sopra la testa l’immensa condanna del Giudizio Universale.
Le confessai che, nel profondo del mio cuore, desideravo non essere mai nato piuttosto che vivere con quel continuo senso di nausea nei miei confronti.
Ricordo che lei mi abbracciò forte, a lungo. Lo spigolo della montatura quadrata dei suoi occhiali da vista premeva contro il mio sterno mentre cercava di consolarmi.
“Secondo me Dio non ti manderà all’Inferno. Lì ci vanno solo le persone cattive, e tu non hai mai rubato né ucciso nessuno. Non hai mai infranto nessuno dei dieci comandamenti”.
“Non bestemmiare!”, le dissi spalancando gli occhi.
“Scusa, pensaci un attimo” continuò. “Quali sono i comandamenti?”.
“Non avrai altro Dio all’infuori di me. Non nominare il nome di Dio invano. Ricorda del giorno del riposo, per santificarlo. Onora tuo padre e tua madre. Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non dire falsa testimonianza. Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderarne la sposa”.*
“Dove sta scritto ‘Non amare altri uomini’?”.
Non seppi rispondere, fino a quando non mi tornò in mente la lettura serale.
“E Sodoma e Gomorra?”.
“Pinna, io so che nessuno ha mai detto quale peccato i Sodomiti abbiano commesso”.
“Alcuni dicono che sia proprio l’omosessualità”.
“Hai detto bene”.
“Cosa?”.
Lei sorrise. “Alcuni dicono”.
 
Le sue parole mi fecero pensare, così quella sera presi la Bibbia e rilessi l’episodio della distruzione delle due città.
A catechismo mi avevano spiegato che il peccato dei Sodomiti fosse proprio l’omosessualità perché gli abitanti chiesero a Lot di far uscire i due angeli per poterli conoscere sessualmente. Rileggendone le righe con sguardo meno condizionato, riuscii però a capire che niente di tutto ciò è specificato nel testo, che anzi sembra riferirsi all’offesa verso gli ospiti, gli angeli del Signore.
Chiusi il libro con stizza. Che ne poteva sapere Sara? I suoi genitori non erano credenti e lei non era cresciuta nel timore di Dio. Non è stata nemmeno battezzata, e non ha mai messo piede in una chiesa. Come poteva sapere che cosa diceva la Bibbia?
Ma qualcosa era successo.
Sara aveva impiantato il seme del dubbio.
Passai la notte a leggere il Vangelo, per la prima volta senza l’intercedere del prete, per la prima volta con la mia testa e il mio cuore.
E finalmente vidi.
In nessuna parte della Bibbia, nessuna, vengono espressamente condannate le persone omosessuali.
Solo nel Levitico, libro dell’Antico Testamento, ci sono due passaggi su di loro.
“Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole. Se uno ha con un uomo relazioni sessuali come si hanno con una donna, tutti e due hanno commesso una cosa abominevole; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro”.
Ma, come mi era già stato spiegato più volte, il Levitico non è applicato all’interno del Cristianesimo.
Quella notte piansi lacrime di sollievo, improvvisamente liberato dal peso che mi opprimeva il cuore e grato a Dio per avermi fatto capire la verità.
Capii quindi che tutto ciò che sta scritto nella Bibbia viene interpretato dagli uomini di Chiesa, che spingono i credenti a seguire le loro parole e non il testo. Quindi capita molto spesso che il messaggio che arriva ai credenti sia molto diverso da quello del Libro Sacro. Come avviene proprio per il tema dell’omosessualità.
 
Il mattino dopo vedevo il mondo con gli occhi diversi, come se fossi tornato a respirare.
Scoppiavo di gioia, ed ero grato a Sara per avermi fatto capire che potevo essere me stesso senza farmi schifo, e senza andare all’Inferno.
Fu accettando me stesso che tre anni dopo mi innamorai e mi misi con Emanuele, un compagno di scuola. Era biondo con gli occhi chiari, giocava a calcio e suonava il basso.
Fu lui a baciarmi, alla festa di fine anno, quando lo accompagnai a fumare una sigaretta fuori dal portone della scuola. La strada era vuota e soffiava una brezza fredda che faceva venire brividi di freddo. A un certo punto gettò la sigaretta per terra e mi guardo dritto negli occhi.
“Senti, non voglio tenermelo più dentro. Mi piaci, Andrea. Non scappare, ti prego. Se non mi vuoi capirò, non sarebbe la prima volta”.
Per un attimo temetti seriamente che sarei svenuto. Poi, non so come, riuscii a balbettare che anche lui mi piaceva.
E così mi baciò.
Fu il momento più bello della mia vita, il momento in cui tutto era perfetto. Avevo trovato qualcuno come me, qualcuno a cui piacevo per come ero veramente.
 
I primi due anni insieme a Emanuele furono un idillio e una tortura insieme.
Facevamo di tutto per vederci il più possibile ed eravamo follemente innamorati l’uno dell’altro. Con lui ho scoperto anche la sessualità, e anche se per un po’ quel senso di nausea nei confronti di me stesso per paura della punizione di Dio tornò, con lui riuscii a superarlo. Ci vedevamo il più possibile, ma dovevo prestare la massima attenzione per non venire scoperto dai miei genitori. Organizzavo tutto nel minimo dettaglio per non dover correre il rischio di farci scoprire ed essere costretto a rompere con lui.
I suoi genitori sapevano che lui era gay e li avevo anche conosciuti. Erano due persone molto solari e dalla mente aperta, che non giudicava. Tutto il contrario dei miei genitori.
Le poche volte in cui Emanuele veniva per studiare a casa mia faceva finta di essere un compagno di scuola bisognoso di ripetizioni di matematica. In un’occasione mia madre borbottò un “Quand’è che ti trovi una ragazza? Sara è diventata così carina!” davanti a lui, creando grande imbarazzo tra di noi e dando il via alla prima vera discussione di coppia.
Pensava che avessi già fatto coming out.
Il giorno del mio diciottesimo compleanno decisi di raccogliere tutte le mie forze, e chiesi a mia madre e a Maria, che aveva quattordici anni, di raggiungermi in salotto. Mio padre era andato a comprare il panettone e le bibite per i festeggiamenti di quella sera, perciò approfittai della sua assenza. Temevo che, omofobico com’era, avrebbe scatenato un putiferio e non volevo assolutamente che lo scoprisse. Mi riproponevo di passare la vita fingendo di essere eterosessuale, per non suscitare sospetti in lui.
Ma Maria doveva sapere, e anche mia madre. Lo dovevo a loro, a me stesso, e a Emanuele.
Ci misi un quarto d’ora a cercare le parole e il coraggio di dirglielo. Poi lo sputai fuori.
Mia madre rimase impietrita, come una statua di sale, per qualche minuto. Mia sorella, invece, si mise a ridere e mi abbracciò.
“Come sono contenta, fratellone! Prima o poi devi presentarmi il tuo ragazzo!”.
La abbracciai sollevato e felice della sua reazione, ma con la coda dell’occhio osservavo mia madre.
La sua espressione era un misto di delusione, terrore e rassegnazione. Da qualche parte, nella mia mente, avevo sperato che non la prendesse così.
A un certo punto lei si alzò dalla poltrona, si avvicinò, mi mise una mano sulla spalla e disse:
“E’ soltanto una fase. Passerà”.
 
Intanto io e Sara continuavamo a frequentare le lezioni di danza, e iniziammo a gareggiare a dei concorsi prima cittadini, e poi regionali. Eravamo – e siamo ancora – molto affiatati, e vincevamo.
Usavamo ogni pausa dallo studio, ogni ricreazione, e ogni giorno alla villa dei miei a Camogli per ballare insieme su qualunque tipo di base, non solo classica ma anche moderna, samba, valzer, persino il tango. Ballare era il nostro modo di evadere dal mondo che ci circondava, e sembravamo fatti per stare nelle braccia l’uno dell’altra nella danza.
Quella sera, in camera mia, mi sfogai con lei sulla reazione di mia madre.
“Prima o poi se ne farà una ragione. Non preoccuparti, Pinna”.
“Non mi sorprenderà se non vorrà più far entrare Emanuele in casa”.
“Beh, casa mia è libera. I miei sono sempre a lavorare e io sarò molto felice di fare una passeggiata, ogni tanto.”.
Riuscì a farmi sorridere.
Ma pochi giorni dopo tutto crollò.
 
Era il 13 gennaio e c’erano cinque gradi. Il fiato mio e di Emanuele si condensava nell’aria mentre camminavamo mano nella mano nei pressi di casa mia. Stavamo tornando da un pomeriggio invernale in riva al mare a Boccadasse e in quel momento, come ogni altro passato in sua compagnia, tutto era perfetto.
Avevamo appena accordato che ci saremmo visti il giorno dopo per studiare insieme a casa sua, e una volta usciti i suoi genitori progettavamo di divertirci insieme.
Ci fermammo sotto il mio portone, sapendo che i miei erano a Camogli per il weekend non mi preoccupavo di mio padre.
Lo baciai per salutarlo, appassionatamente, come piaceva a noi.
Quando si voltò per andarsene e io guardai oltre le sue spalle, lo vidi.
Mio padre ci guardava disgustato, in piedi accanto alla portiera aperta della macchina.
Mentre Emanuele si voltava per salutarmi di nuovo, sul diviso di mio padre si dipinse un’espressione furibonda e nauseata.
Mi voltai e spinsi via Emanuele, gridandogli di andare via, di scappare.
Sapevo che la tempesta stava arrivando, la distruzione di Sodoma e Gomorra.
Ema comprese il pericolo e se la svignò.
Mio padre mi fu addosso in pochi secondi e mi assestò un manovrescio da farmi girare la testa, gridando ogni insulto inimmaginabile.
Sempre urlando mi trascinò su per le scale fino alla porta di casa. La spalancò e mi gettò dentro.
“FAI SCHIFO! SEI LA FECCIA DELL’UMANITÀ! DEVI MARCIRE ALL’INFERNO, FROCIO!”.
Non ricordo se stessi piangendo o meno, ma in ogni caso cercavo di fermarlo.
In tutta risposta, Giorgio prese un vaso da una mensola e me lo lanciò.
“NON TI VOGLIO IN CASA MIA, FECCIA! NON HAI RICORDATO NEANCHE UNA PAROLA DEL SIGNORE, DEL LEVITICO!”.
Maria, sentendo tutto quel trambusto, uscì da camera sua e in una semplice occhiata comprese. Si mise tra me e mio padre, facendomi da scudo, ma lui la spinse via.
“Non toccarlo, Maria! È un animale, è un sodomita!”.
“PAPÀ, SMETTILA!”. Gridò lei.
Lui attraversò il corridoio ed entrò in camera mia.
“CHE COSA HAI FATTO CREDERE DI ESSERE A ME E TUA MADRE? UNA PERSONA NORMALE? VA’ ALL’INFERNO, FROCIO! SEI CONTRO NATURA! NON TI VOGLIO IN CASA MIA!”.
Prese dall’armadio tutti i miei vestiti in una sola bracciata, riattraversò il corridoio, e li gettò nel pianerottolo. Poi tornò di nuovo, nonostante io cercassi di fermarlo fisicamente e Maria gridava isterica.
Prese i libri di scuola sparsi sul letto e li cacciò dalla finestra.
“FUORI!”.
Mi rifiutai.
“FUORI DA CASA MIA! NON TI VOGLIO QUI!”.
Di nuovo, scossi la testa.
Mi colpì ancora e mi trascinò per un braccio fuori dalla porta, buttandomi nel pianerottolo come un sacco dell’immondizia nonostante tutta la forza che mettevo nel fare resistenza, e chiuse sbattendo la porta. Lo sentì gridare contro mia sorella, furioso perché lei cercava di riaprire la porta per farmi entrare.
Maria aveva soltanto quattordici anni.
Se ci fosse stata mia madre, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Se lui fosse andato davvero a Camogli come mi aveva detto, non l’avrebbe mai scoperto.
Distrutto e con la faccia gonfia dalle botte, non potei fare altro che raccogliere le mie cose e cercare di raggiungere un posto dove dormire.
Solo una persona mi avrebbe sicuramente aiutato senza fare domande, capendo alla prima occhiata.
Non Emanuele.
Sara.
Lei mi accolse e mi aiutò a curare le ferite, mentre i suoi genitori chiamavano mio padre e mia madre per tentare di farli ragionare. Speravamo tutti in mia madre, che potesse far ragionare Giorgio ancora una volta.
Ma l’unica cosa che lei fece fu trovarmi un monolocale.
Nemmeno lei mi voleva in casa.
Nemmeno lei mi voleva come figlio.
Da allora, l’unico contatto che ho avuto con la mia famiglia è stata Maria.
Niente più compleanni, Natale, Pasqua. E non sono andato mai più a messa.
 
Ho finito il liceo e ho cominciato a lavorare come agente immobiliare, riuscendo a essere ammesso al corpo di ballo del Carlo Felice insieme a Sara.
Intanto lei aveva anche superato il test d’ingresso a Fisioterapia, e non vedeva l’ora di cominciare a studiare all’università, anche se con qualche dubbio sul suo futuro.
Poi, a ventun anni, conobbe Matteo.
Non mi è mai piaciuto, sin dalla prima occhiata. Avevo visto che c’era qualcosa che non andava in lui. Una scintilla malvagia nei suoi occhi, quasi folle.
Quando Sara cominciò a presentarsi al Carlo Felice con i lividi sulle braccia, iniziai a farle domande pur conoscendo benissimo la risposta. Sapevo che quel figlio di puttana la picchiava, anche se lei faceva di tutto per non dare la colpa a lui. Matteo però era inarrivabile, lei lo proteggeva irrazionalmente persino da me, così cercai di far ragionare lei. Le dissi più e più volte che non era quello giusto per lei, che la trattava di merda, che non la meritava, che quello non era amore.
Ma invece di ascoltarmi, lei andò a conviverci.
E i suoi lividi e le sue ferite peggioravano.
Usavo tutti i mezzi che avevo per convincerla a lasciarlo, ma lei non mi ascoltava. Insistetti tanto da perdere il fiato, ma in tutta risposta lei si allontanava sempre di più. Quando mi offrii di accompagnarla in un centro per donne maltrattate, lei fece una scenata e mi disse che non voleva vedermi mai più.
Poi sparì di punto in bianco: lasciò il corpo di ballo, e svanì dalla circolazione.
Passai intere settimane a cercare di ritrovarla, un costante senso di perdita sul cuore. Emanuele, in quel senso, non riusciva ad aiutarmi.
E finalmente, dopo tre settimane dalla sua sparizione, riuscii a farmi dire dai suoi genitori che aveva lasciato l’Italia, cambiando cognome e numero di telefono, per sfuggire a Matteo che si era trasformato in uno stalker psicopatico. Non mi dissero dove si era trasferita, né il suo nuovo cognome, né il numero di telefono. La paura di quel pazzo gli impediva di riconoscere i veri amici della figlia.
Impiegai mesi per riuscire a convivere con quel costante senso di abbandono, e quando venni a sapere che Matteo sarebbe andato sotto processo per il tentato omicidio del signor Cerbiatto e che Sara avrebbe testimoniato, mi feci avanti per dire la mia.
Vederla di nuovo in tribunale, dopo quasi due anni di silenzio totale, è stato come vedere tornare i colori del mondo al loro posto. Il lungo abbraccio tra di noi è stata la cosa più bella, dopo il bacio di Emanuele con cui avevo troncato poco tempo prima.
Averla ritrovata così libera, profondamente cambiata e fidanzata con un attore di fama mondiale, mi è sembrato più un sogno che la realtà.
Da quanto è ripartita per l’Islanda abbiamo continuato a sentirci, per fortuna. Non voglio mai più stare senza di lei.
 
Qualche giorno fa, durante la festa per il ventunesimo compleanno di Maria nella nostra villa a Camogli, ci siamo ubriacati tutti quanti e mi sono portato a letto uno dei suoi amici. Non sono del tutto sicuro di aver chiuso a chiave la porta, mentre lo facevamo.
All’alba Maria mi ha tirato giù dal divano, dove ero collassato, e mi ha detto che “io e quell’altro cretino di Vincenzo” l’abbiamo fatto proprio davanti alla finestra e i miei ci hanno visti.
Maria mi ha suggerito tra le righe che sarebbe meglio se sparissi dalla circolazione fino all’anno prossimo, per non rischiare di venir ucciso da mio padre. Mi ha già diseredato, uccidermi sarebbe un po’ troppo per lei.
Non ho proprio voglia di avere ancora problemi con quei due, che non hanno saputo essere genitri come Dio comanda e invece di affrontare insieme “i problemi” hanno preferito cacciarmi di casa. Ma non mi va neanche di andarmene per colpa loro, sarebbe un comportamento infantile. D’altra parte, però, muoio dalla voglia di rivedere Sara e il lavoro comincia a starmi sulle scatole. Non ho mai preso ferie finora, così ho deciso di prendermi qualche tempo per andare a trovarla e staccare un po’ da Genova. Così ho chiamato Sara per chiederle se lei e Kit potrebbero ospitarmi a Londra per un po’ (a momenti sclero).
Mi ha risposto Kit, e ci è mancato poco a un mio totale collasso. Mi ha detto che Sara stava subendo un’operazione per donare il fegato a una bambina malata di cancro. A parte lo spavento, sono stato fiero di lei.
Kit mi ha ricontattato parecchie ore dopo per dirmi che Sara stava bene, e che sarebbe contenta se io e lui le facessimo una sorpresa e io mi facessi trovare a casa loro a Londra, fra una settimana. Ovviamente ho accettato di slancio.
 
Sono passati tre giorni dal mio ultimo contatto con Kit e sto facendo la valigia per la mia partenza per Londra, fra quattro giorni, quando il mio telefono squilla.
Devo controllare bene lo schermo per cinque volte prima di essere sicuro di non aver visto male il nome del chiamante.
È Matteo.
 
*Esodo 20, 3-17.

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Capitolo 19
*** Somebody That I Used to Know ***


Somebody That I Used to Know
 
Now and then I think of all the times you screwed me over
But had me believing it was always something that I'd done
But I don't wanna live that way
Reading into every word you say
You said that you could let it go
And I wouldn't catch you hung up on somebody that you used to know.

- Pentatonix (cover)
 
***
Sara
 
Tre giorni dopo l’operazione il mio corpo ha ancora la consistenza della gelatina.
Non è solo per la febbre alta che mi perseguita dall’intervento, che aveva fatto temere al dottor Vazhiri di dover riaprire e fare qualcosa per prevenire le complicanze, ma anche gli omogenizzati per adulti che mi propinano a colazione, pranzo e cena. E gli antibiotici sparati dritto in endovena, e il dover fare i miei bisogni in una vaschetta per le prime 24 ore.
Ma la cosa più irritante di tutte è Kit.
Il mio ansioso e iperprotettivo fidanzato si è montato una poltrona reclinabile accanto al mio letto e ci ha sistemato il sacco a pelo, lascia il mio capezzale solo per andare in bagno e la notte mi sveglio mentre cerca di mettermi dei panni bagnati sulla fronte, sperando di non disturbare il mio sonno e cristando in aramaico quando il panno mi gocciola su tutta la faccia. E soprattutto pretende che mi sposti il meno possibile e, se proprio non posso farne a meno, che lo faccia in sedia a rotelle.
Il primo giorno ha insistito anche per imboccarmi, ma ha smesso non appena l’ho minacciato di morte lenta e dolorosa. Per fortuna.
Voglio dire, è dolcissimo, lo amo, gli sono davvero grata per tutte le attenzioni che mi dedica e la sua costante preoccupazione mi fa sentire una cacca, ma le grosse occhiaie viola sotto gli occhi non gli donano affatto. Almeno cinquanta volte, in questi tre giorni, ho cercato di convincerlo che nonostante la febbre posso benissimo cavarmela senza che mi faccia da badante, ma è più testardo di un mulo.
Non sono neanche riuscita a convincere l’infermiera Trinciabue a somministrargli di nascosto un tranquillante.
È l’alba del 13 settembre e Kit dorme profondamente accanto a me, la mano sinistra poggiata sul mio lenzuolo. Vestito con abiti comodi e sportivi si è addormentato con gli occhiali calati sul naso e il libro che stava leggendo poggiato sul petto, che si alza e si abbassa a intervalli regolari.
Scostando piano le lenzuola, mi sporgo verso di lui e gli tolgo delicatamente il libro dal petto, suscitando in lui un impercettibile movimento di risposta che non altera il suo sonno. Con la massima calma, poso il libro – Cime Tempestose – e lo poso sul comodino fra di noi.
L’infermiera del giro visite fa capolino nella stanza e annuisce quando mi metto un dito sulle labbra. Entra con il termometro elettronico e la cartella clinica in mano.
- Stenditi – sussurra. Obbedisco, rimettendo a posto il lenzuolo.
L’infermiera m’infila la bocchetta del termometro nell’orecchio e dopo un secondo ha già finito.
- È ancora alta?
Scuote la testa. – 36,5.
Mi esprimo con un gesto di vittoria. Questo significa che posso alzarmi e che, finalmente, Kit può smettere di preoccuparsi!
- Quando posso andarmene?
- Dopodomani, se febbre non sale.
Dio, non sono una tua grande fan, ma ti prego: fammi uscire da questo posto!
Posa la cartella aperta su un tavolo, si avvicina, toglie il lenzuolo e poi la garza sul mio addome, rivelando la lunga linea di piccoli punti neri che mi taglia praticamente in due. La guarda da vicino, tasta in qualche punto, vede che non ci sono segni di infezione e torna a scrivere sulla cartella. Poi la chiude e mi guarda.
- Sei andata in bagno?
Annuisco.
- Quante volte?
- Tre.
Mento spudoratamente e l’infermiera sembra cascarci. Annuisce, fa un cenno del capo, e dopo un’ultima occhiata al bell’addormentato sulla poltrona, esce.
Io mi lascio andare a un grosso sospiro di sollievo.
Kit, sulla poltrona, apre gli occhi e mi guarda per un secondo prima di riprodursi in un sonoro sbadiglio e in uno scricchiolio di giunture nient’affatto elegante. Si sporge verso di me e posa le labbra sulla mia fronte.
- Sei fresca. Bene.
- Buongiorno anche a te! – Rispondo prima di ricevere un lieve bacio. – L’infermiera ha detto che se la febbre non sale potrò andarmene dopodomani.
- Ottimo, in tempo per prendere l’aereo con tutti gli altri! Come ti senti?
- Mah… la ferita tira un po’, ma non mi sento più uno straccio come nei giorni passati.
Non gli dico che la cosa che più mi dispiace è che i dottori non vogliono farmi vedere Kamile. A causa della sua immunosoppressione, grazie alla febbre avrei rappresentato per lei l’equivalente di un untore di peste bubbonica di potenza esponenziale. Avrei potuto mettere in pericolo lei e gli esiti del trapianto.
Kit si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe. Ha l’aria di essere un leone in gabbia.
- Kit, non sei legato a questo ospedale. Ti assicuro che se ho bisogno di aiuto posso chiamare le infermiere. Sono specializzate, sai?
Mi scocca un’occhiata stanca e poco convinta. Non risponde.
- Giuro che non muoio se ti assenti per una giornata. E le valigie non si fanno da sole. – Insisto.
- Su questo sono d’accordo. - Si gratta la testa indeciso.
- Christopher Catesby Harington, ti ordino di andare a prendere aria fresca lontano da questo ospedale!
Alza le mani in segno di resa. – Va bene, va bene! Non c’è bisogno di imitare il Padrino. È solo che non voglio che tu stia male.
Infilo le ciabatte e mi alzo. Il camice verde ricade mollemente sui pantaloni del pigiama. Raggiungo Kit e lo abbraccio stretto con tutte le mie forze, comprimendogli la cassa toracica. Lui geme, poi ricambia la stretta.
- Vedi? Sto bene. Posso farcela.
- Ok. Ti credo. Ma se hai bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, chiamami e io corro. Capito?
- Capito. Grazie, Kit.
Si scosta da me e mi bacia. – Tornerò all’orario serale di visita.
Ci scambiamo un “ti amo” con lo sguardo prima che lui afferri il suo borsone da terra ed esca dalla porta, con un ultimo cenno di saluto e un bacio mandato da lontano.
 
La preoccupazione di Kit era la cosa più irritante della mia convalescenza, ma la sua presenza costante era la più bella.
Avendo detto alla caposala di essere il mio promesso sposo poteva rimanere quanto gli pareva – a prezzo di autografi e selfie con chiunque capitasse a tiro, cosa che mi faceva sentire ulteriormente il colpa – e abbiamo passato questi tre giorni giocando a scarabeo, guardando film sdraiati l’uno accanto all’altra, chiacchierando del più e del meno e organizzando un matrimonio fittizio per mantenere le apparenze.
Come capita il più delle volte a noi stupidi esseri umani, ho capito quanto mi piacesse averlo accanto solo dopo averlo mandato via.
Questo non mi convince comunque a chiamarlo per farlo tornare. Ha bisogno di staccare più di me.
Tanto, il telefono suona regolarmente e indovina chi è a mandarmi i messaggi.
Dopo aver provato a fare un’incursione all’edicola dell’ospedale ed essere stata placcata e rispedita a letto, ho chiesto a un’infermiera di portarmi un libro e lei mi ha dato “Le avventure di Sherlock Holmes”, unico libro non in islandese che è riuscita a trovare.
Devo ammettere che, non essendo appassionata di gialli, non ho mai letto le opere di Doyle e di Agatha Christie, così come non ho mai guardato La Signora in Giallo – cosa che, per mia madre, ha sempre rappresentato un valido motivo per diseredarmi.
Ma devo ammettere che Sir Arthur Conan Doyle non scrive affatto male. E Sherlock e Watson sono due personaggi davvero stupendi.
A forza di leggere e di farmi catturare dalla storia, mi sta venendo voglia di guardare la serie tv uscita un paio di anni fa con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, “Sherlock”.
Chissà se il wi-fi dell’ospedale funziona ancora…
 
Oh mio Dio.
Questa serie tv è stupenda.
È l’ora di pranzo e sono alla fine della prima stagione. Il fatto che abbia solo tre episodi mi disturba un pochino, ma non è quello l’importante.
Sono affondata sotto le coperte da ore, catturata dalla spettacolare interpretazione dei due attori principali. Questa serie tv si rivelerà una droga, ne sono sicura.
Provo un leggero disappunto quando mi interrompono proprio sul più bello del finale per darmi il primo piatto di cibo pseudoadulto e scondito: brodo, puré di patate e gelato alla vaniglia.
Ho l’episodio in pausa e ho appena attaccato il gelato, quando la suoneria del cellulare mi ferma col cucchiaio a mezz’aria.
Guardo lo schermo certa che sia Kit, ma non è lui: è Pinna.
Ho un nodo allo stomaco: nella furia del momento, giorni fa, ho completamente dimenticato di dirgli del trapianto. E dopo stavo troppo male per poter prendere in mano il telefono, chiamarlo e dirgli “Ehi, indovina un po’! Ho dato via mezzo fegato!”.
Così ora mi sta chiamando lui, e davvero sto cercando di trovare in fretta parole abbastanza convincenti per non fargli dare di matto.
Bella storia, dimenticarsi del migliore amico.
Il telefono continua a squillare furioso, anche quando ficco il cucchiaio nella ciotola e lo prendo in mano per rispondere.
Cerco di sembrare il più disinvolta possibile. – Ciao, Pinna!
- Sono incazzato con te.
Daje.
Come ha fatto a saperlo?
La sua roca voce oltretombale non promette niente di buono.
E ovviamente il criceto nella mia testa opta per l’opzione più stupida. Fare la finta tonta.
- Che vuoi dire?
- Non darmela a bere, Bambi. COME HAI OSATO OPERARTI SENZA DIRMI NIENTE?
Posso sentire i tuoni, la tempesta, il terremoto e l’ira di Zeus da cinque Stati di lontananza. Presa del tutto alla sprovvista, inizio a balbettare. – I-i-io non… cioè… emergenza!
- EMERGENZA UN CORNO! – Tuona. – COME HAI OSATO RUBARE LA MACCHINA? SONO VERAMENTE DISGUSTATA!
- Eh?
- ORA IN UFFICIO TUO PADRE VERRÀ SOTTOPOSTO A UN’INCHIESTA E SARÀ TUTTA COLPA TUA!
- Ti sei bevuto il cervello?
- SE FARAI UN ALTRO PASSO FALSO NOI… TI RIPORTEREMO SUBITO A CASA!
- Noi chi?
Improvvisamente cambia registro. – Oh, Ginny cara! Congratulazioni, sei una Grifondoro! Tuo padre e io siamo molto fieri!
Scoppio a ridere sguaiatamente, realizzando che quella a cui ho appena assistito è una perfetta imitazione della Strillettera di “Harry Potter e la Camera dei Segreti”.
- Mi hai fatto prendere un colpo! – Balbetto tra i singulti.
- Te lo meriti. – Replica. – Bambi, tanto per essere chiari: quando sette anni fa ti ho detto che potevi tralasciare determinate informazioni sulla tua vita mi riferivo alla tua mania di raccontarmi le sedute dal dentista. Cose importanti come donare un fegato a una bambina me le devi dire.
- Scusa… - sono sinceramente mortificata.
- Dovrai farti perdonare. – Sento un accenno di sorriso. – Come stai?
- Bene. Tra due giorni potrò uscire dall’ospedale e torneremo a Londra entrò mercoledì.
- E per i punti?
- Non credo che me li toglieranno a Londra, e che dovrò tornare qui.
- Beh, sarà una gita di un giorno.
Per un attimo ho la visione di me e lui in giro per le strade di Reykjavík. Poi torno al presente.  - Pinna… come hai fatto a saperlo?
- Me l’ha detto un uccellino.
Un uccellino di nome Kit, poco ma sicuro.
Eppure sento che c’è qualcosa che non va nella sua voce. Come se mi stesse nascondendo qualcosa. Non l’ha mai fatto con me, e la cosa mi fa preoccupare. È come se fossi una gazzella e sentissi un ramo spezzato poco lontano da me, e sapessi nel profondo che un leone è in agguato e io sono in pericolo.
- Cosa c’è, Pinna?
Non risponde.
- Non mi hai chiamato solo per il trapianto, vero? – Insisto.
Un sospiro. – Finora non sapevo se fare finta di niente, ma visto che non posso nasconderti nulla…
Nel profondo della mente la minaccia di Matteo riprende vita.
- Che è successo?
- Sono in linea con Matteo.
Allontano il vassoio da me, il cuore che batte a mille. Improvvisamente sento i punti della ferita tirare molto di più del solito, mentre la campanello del pericolo trilla sempre più forte.
- Che significa che sei in linea con Matteo?
- Significa che… io stavo… non importa. E lui mi ha chiamato, e ha detto che vuole parlare con te.
- Cioè… una specie di telefonata a tre? Perché?
Perché a lui? Perché ora?
Pinna sospira di nuovo. – Dice che vuole chiederti scusa. Sembra sincero, ma non mi fido di lui.
Mi si gela il sangue nelle vene. – Questo significa che può sentire tutto quello che stiamo dicendo?
- No, tranquilla. Ho messo la chiamata in attesa.
Tiro un sospiro di sollievo. – Bravo.
- Vuoi parlarci?
Il batticuore non si ferma, le mani sudano. – Credi che sia sincero?
- Non lo so. Potrebbe esserlo.
L’indecisione è una vivisezione. Cerco di valutare il più in fretta possibile i pro e i contro, di capire Matteo possa essere sincero, di combattere con la voglia di sentirmi dire, per una volta nella vita, che gli dispiace.
Ma sarà vero? O è solo un trucchetto per prendermi in giro? Non posso saperlo finché non parlo con lui.
È un rischio che sono in grado di correre?
- Sara, ci sei ancora?
- Sto pensando.
Le cose stanno così: se è sincero e non gli parlo avrò perso un’occasione; se non è sincero e gli parlo si farà gioco di me e magari rintraccerà il mio telefono, in qualche strano modo; se non è sincero e non gli parlo non cambierà nulla; se è sincero e gli parlo, allora chiederà davvero scusa e in parte il peso dei torti che mi ha fatto si allevierà sulla coscienza di entrambi.
Non ci avevo mai pensato, ma forse sentirmi chiedere perdono da Matteo è la cosa che più desidero.
Quindi… vale la pena di correre il rischio?
- Sara?
- Passamelo.
Pinna esita.
- Non sei d’accordo? – Chiedo.
- Forse non è la decisione che avrei preso io.
Pinna non si fida di lui, questo lo so da molti anni. E nonostante la sua fede cieca in Dio e tutti gli anni di messa e catechismo non gli hanno insegnato a perdonare. Non lo fa con Matteo, e non lo farà mai con suo padre e sua madre.
Come diceva De André? “Lo sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono”.
- Passamelo, Pinna.
Dopo un altro attimo di esitazione uno strano suono proviene dall’altra parte della cornetta, come se da uno scantinato fossi passati in una stanza molto più grande.
- Sara, cane, siete in linea.
La voce di Matteo arriva incredibilmente limpida, nonostante la distanza. – Grazie, Andrea. Puoi lasciarci soli?
La sua voce è soffice, calma e incerta, come se avesse paura.
- Scordatelo, amico. Quello che puoi dire a lei, puoi dirlo anche a me. Giusto, Sara?
- Sì. – Ho la bocca asciutta.
- Mi sento a disagio… - si lamenta Matteo.
- Peggio per te. Puoi sempre chiudere la telefonata e sparire dalla faccia della Terra, com’è giusto che sia.
- Pinna. – Lo richiamo.
- Grazie, Cerbiattina. – L’attenzione di Matteo è tutta su di me adesso. – Riesci a tenere sempre il tuo amico al guinzaglio? – Il sarcasmo del mio ex, compagno di tanti momenti orribili, è tornato alla carica. Sono preda delle mie emozioni, finché non ricordo la telefonata che ci siamo fatti mesi fa, dopo la mia giornata al mare con Kit e gli altri. E il fatto che sono riuscita a resistere e a tenergli testa.
Così come al processo.
Posso farcela.
- Falla finita, Matteo, e dimmi che cosa vuoi.
Il registro cambia ancora, tanto che mi ricorda Jim Moriarty di Sherlock. – Cerbiattina, voglio essere sincero al massimo con te: non credo che la passerò liscia. Il mio avvocato pensa che mi metteranno in galera e che non ci sia niente da fare.
- Grazie a Dio – commenta Pinna.
- In questi ultimi mesi sono rimasto agli arresti domiciliari, e ho conosciuto la Parola del Signore.
Pinna e io non rispondiamo, increduli.
- Mi sono convertito, Cerbiattina. Mi sono pentito dei miei peccati, mi sono confessato, e il prete mi ha detto di compiere un atto di sincera umiltà e di chiederti perdono in ginocchio, se non voglio andare all’Inferno.
- All’Inferno c’è già un posto con inciso il tuo nome, cane. – Ribatte Pinna con la voce intrisa di veleno.
Matteo geme, la sua voce si incrina e scoppia in singhiozzi. – Perdonami, Cerbiattina! Perdonami per tutto quello che ti ho fatto!
- Io non mi chiamo Cerbiattina. Se vuoi parlare con me, usa il mio nome.
La mia voce appare dura e fredda come il granito, alle mie orecchie. Più dura di quanto mi aspettassi.
Matteo continua a piangere. – Sara. Gli anni in cui siamo stati insieme sono stati i più belli della mia vita. Sei la donna più bella che io abbia mai incontrato, la più gentile, solare e perfetta ragazza che potesse mai amarmi.
- E guarda cosa hai fatto – ribatto, il sangue che ora ribolle nelle vene. – Ricordati di tutte le volte che mi hai picchiato, di tutte le cose orribili che mi hai detto. Ricordati di quando mi hai stuprata contro il muro del bagno. Ricorda le tue esatte parole quando mi dicevi che nessuno mi avrebbe amato a parte te, e che senza di te sarei rimasta sola come un cane. Guarda adesso dove sono io, e dove sei tu. GUARDA CHI DI NOI DUE È RIMASTO SOLO COME UN CANE.
Tremo così forte dalla rabbia che a malapena riesco a tenere il telefono incollato all’orecchio.
- Perdonami, Sara!
- Guarda come hai trattato la donna più bella, gentile, solare e perfetta che tu abbia mai incontrato. Guarda che mostro sei, razza di giustificazione di uomo senza spina dorsale!
Una sensazione di liquido caldo all’addome cattura per un secondo la mia attenzione, ma la ignoro ostinatamente. Delle infermiere si sporgono nella camera preoccupate, per guardare cosa stia succedendo.
- Perdonami! – Strilla. Pinna non interviene.
- Perché dovrei perdonarti? Cosa fai per meritarti il mio perdono?
Nulla dall’altra parte, solo singhiozzi.
- Sara, calmati. – Pinna fa capolino piano nella conversazione, timido, a voce bassa. – Hai detto quello che pensi e io sottoscrivo in pieno. Questa specie di feccia non è degno nemmeno di baciare la terra su cui cammini, e non capisco con quale faccia tosta possa chiederti questo oggi, dato che non esiste risarcimento per le sue azioni. Nemmeno io lo perdonerei, anzi lo aiuterei volentieri ad andare all’Inferno, dov’è il suo posto. Ma ho anche pietà per lui.
- Pietà! – Gli fa eco Matteo con la voce roca. – Sono un miserabile. Andrea ha ragione, io non merito di poterti parlare, toccare, e nemmeno guardare. Non merito nemmeno di stare sul tuo stesso pianeta.
- Almeno a questo ci sei arrivato. – Ribatto.
- Sara. – Richiama Pinna.
- Andrò in galera e sconterò la mia pena. Ti giuro sulla tomba di mia madre, su Dio e sul mio nome che farò di tutto, da oggi fino all’ultimo giorno della mia vita, per meritarmi il tuo perdono. Ma, ti prego, concedimi la grazia. Sono un vigliacco, uno stronzo e un senza spina dorsale. Ma perdonami, ti prego.
Nel mezzo minuto che segue nessuno fiata. I singhiozzi di Matteo si affievoliscono, sento accanto a me il respiro di Pinna, e l’unico suono nella mia stanza è il rimbombo del mio cuore sullo sterno mentre prendo la decisione più grande della mia vita.
- Ti perdonerò. – Esalo infine. Matteo sospira.
- Grazie, grazie, grazie! Ti amo!
- Ti perdonerò solo quando sarai morto.
Il moto di gioia si interrompe. – Non mi credi? – Domanda Matteo senza fiato.
- Mi hai fatto del male, mi hai coperta di cicatrici, mi hai stuprata e hai tentato di uccidere mio padre. E io dovrei perdonarti solo perché me lo chiedi? Risparmiami questo patetico spettacolo. Quando avrai scontato la tua pena e avrai dimostrato di essere davvero cambiato e che non toccherai mai più una donna come hai toccato me, allora ti perdonerò. Ma dal momento che non credo che succederà, mi dispiace ma sarai perdonato solo quando sarai morto. E fino ad allora tu non ti farai vedere né sentire da me, da Pinna e dalla mia famiglia. Vuoi il mio perdono? Comincia sparendo dalla faccia della Terra.
Silenzio.
- Ti farò cambiare idea, Cerbiattina. – La frase non suona minacciosa come mi aspettavo. Forse è davvero sincero. – Ti ho sempre amato e sempre ti amerò.
- Non sai che cosa sia l’amore. Non lo saprai mai.
Matteo tira su col naso. – Ciao, Cerbiattina.
E chiude la telefonata, lasciando me e Pinna di nuovo da soli. Il silenzio regna per qualche secondo prima che Pinna riapra la bocca.
- Pensavo che l’avresti perdonato…
- Tu perdoneresti tuo padre per quello che ti ha fatto?
- No – Sbuffa rassegnato.
- Appunto.
- Però è stato bello sentirsi chiedere scusa, no?
- Era un atto dovuto. Non lo devo ringraziare.
- No, no, non intendevo questo! – Si scusa frettolosamente, poi sospira. – Mi manchi.
- Mi manchi anche tu, Pinna. Forse in questi mesi riusciremo a vederci…
- Non so quando – risponde. – Tra il lavoro e il corpo di ballo… ma te l’ho detto, appena mi libero corro da te, ok? Possiamo farci la gita di un giorno a Reykjavík insieme.
Rido. – Ci sto.
- Ciao, Bambi.
- Ci sentiamo, Pinna.
E così ci salutiamo, preda dell’amarezza della situazione.
La strana sensazione all’addome si fa più forte, e passata la scarica di adrenalina il dolore torna con la forza di un treno. Scosto in fretta il lenzuolo, rivelando una grossa macchia di sangue fresco che impregna il camice. Sfioro la ferita riaperta, esalando un grido di dolore.
Poi mi butto sul tasto delle infermiere.
 
- Te l’avevo detto che non avrei dovuto allontanarmi – commenta Kit severo, con le braccia incrociate sul petto e una vaga espressione di senso di colpa.
- Ricordo bene o… tu non hai alcun potere sul destino?
Il senso di leggerezza alla testa mi annebbia i pensieri, e non sono sicura di starmi esprimendo con parole di senso compiuto. A dire il vero, non so neanche che lingua sto parlando.
La botta di morfina è allucinante.
Dopo aver chiamato le infermiere mi hanno portato immediatamente in sala operatoria per suturare di nuovo la ferita, ad aspettarmi in camera c’era Kit, preoccupato all’ennesima potenza, che mi ha trovata leggermente strafatta di antidolorifici e coi rimasugli dell’anestesia.
Chissà che varietà spropositata di cazzate ho sparato finora.
Credo di averlo chiamato Jon almeno un paio di volte.
- Avrei dovuto esserci comunque.
- Per goderti il telefono con gli unicorni?
Sorride e scuote la testa. Come faccia a interpretare correttamente è solo un mistero. – Quando sarai sobria me la racconterai di nuovo, giusto?
- Certo! Ma stai sciallo, il dottore non è entrato del tutto!
- Lo spero vivamente! – Scoppia a ridere. Con la coda dell’occhio lo vedo tirare fuori dal cappotto il telefono. Me lo punta contro. – Ecco a voi Fawny e l’inglese maccheronico!
- Ssssssh, Kit, ssssssh. Quando atterriamo?
- Non siamo sull’aereo.
- Oh zio, noi siamo sempre su un aereo.
- Come vuoi.
Il video mi infastidisce. - Kit, se porti la videocamera in sala parto ti uccido!
Passa un secondo in cui sembra schiantare a terra dallo spavento. – Sei incinta?!
- Ma sei scemo?! I tuoi cosini non possono battere la precauzione!
Si posa una mano sulla fronte e fa finta di cacciare via il sudore. – Fiu!
- Gne gne gne.
- Questa andrà ai posteri.
- E tu ti scordi il sesso.
Ride e rimette il telefono a posto. – Così va meglio?
- Andrà meglio solo con un succo di frutta!
Si avvicina e mi bacia sulla bocca. – In arrivo!
Esce dalla stanza ridacchiando e scuotendo la testa. – KIT! PORTAMI UN GHIACCIOLO, L’INVERNO STA ARRIVANDO!
Non risponde.
- Onestamente, non credo che tu possa mangiare ghiaccioli in questo momento.
Riconoscerei questa voce ovunque, in qualunque situazione, anche in botta come adesso.
Rose sta sulla porta con jeans, maglione giallo canarino, cappotto aperto e cappello di lana. Sta appoggiata allo stipite con espressione dolce.
- Cosa ci fai tu qui?
- In questi ultimi tempi ho girato l’Islanda insieme a un amico. Ho sentito del tuo gesto e sono venuta a trovarti. – Spiega avvicinandosi al letto.
- Grazie.
Rose supera la poltrona di Kit e si siede sul mio letto. – Sono venuta a dirti anche un’altra cosa, e casco proprio a fagiolo.
- Perché?
- Beh, perché Kit non c’è e probabilmente domani non ti ricorderai niente di quello che sto per dire.
Mi avvicino a lei. – Acqua in mare.
Rose mi guarda interrogativa, poi prosegue. – Ho un orgoglio anch’io, sai?
Mi guardo in giro e non rispondo.
- Ti chiedo scusa, Sara. Sono stata proprio una stronza con te e Kit.
- Ma che è? Oggi tutti si confessano!
- Eh?
Rispondo con un gesto noncurante della mano. Rose incrocia le braccia.
- Insomma, quando stavo con Kit non immaginavo che la cosa fosse seria. Mi vedevo con altre persone soltanto per divertimento, ma il mio punto di riferimento è sempre stato Kit. Non credevo di fare qualcosa di sbagliato e quando mi ha affrontato, non ci ho visto più.
- Sei un po’ troia, lo sai vero?
Rose mi fulmina. – Quando l’ho visto insieme a te mi sono ingelosita e ho cominciato a voler marcare il territorio, a metterti in cattiva luce con Kit così che lui tornasse da me. Volevo l’esclusiva.
Sbuffo. – Vuoi sempre quello che non hai.
Rose mi lancia uno sguardo triste. – Provare ad andarci a letto sperando che tu ci scoprissi era la mia ultima carta da giocare. In qualche modo sapevo che Kit si sarebbe arrabbiato con me e che si sarebbe allontanato ancora di più, ma cos’avevo da perdere?
- Non hai vinto…
- Lo so. È per questo che sono qui a chiedere scusa anche a te. – Si volta verso l’entrata per controllare che non sia arrivato Kit, poi mi porge la mano. – Cominciamo da capo, ok?
- Ok.
Gliela stringo. – Tanto piacere!
Lei sorride. – Adesso vado, altrimenti Kit mi scopre. Se hai bisogno di qualcosa, scrivimelo. Sono a disposizione.
- Scialla, zia! - Mi esibisco nel saluto militare e lei se ne va.
Pochi secondi dopo, Kit entra con due bottiglie di succo alla pesca.
- Ho parlato col dottore, ha detto che nonostante oggi ci sia stata un’emergenza potremo uscire comunque dopodomani, a patto che tu non faccia sforzi. Intesi?
Afferro la bottiglia stappata che mi porge.
- Cheers!
Mi sa che Kit giocherà all’infermiera ancora per molto tempo…

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