Be my Starry Night

di Tury
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Esmeralda ***
Capitolo 2: *** Vincent Van Gogh ***



Capitolo 1
*** Esmeralda ***


Erano ormai trascorsi diversi minuti da quando i suoi occhi, solitamente limpidi come il cielo, si erano posati su quel manifesto. 
Quando aveva messo a fuoco quelle lettere, quel nome, nubi sinistre erano andate ad oscurare l’intenso azzurro di quelle iridi, mentre una sensazione di disagio iniziava a farsi largo nel suo corpo.
Erano passati molti anni, da quel giorno.
Sarebbe dovuta essere una ferita chiusa, ormai.
Ma Clarke sapeva che nemmeno l’eternità avrebbe potuto lenire in alcun modo quella perdita.
Chiuse gli occhi, privandosi così di quella visione, permettendo al suo corpo di liberarsi da quella morsa mortale.
Mosse alcuni passi, circondata da quell’oscurità in cui si era costretta, in quella solitaria strada di periferia.
Nonostante la momentanea privazione della vista, Clarke procedeva sicura, affidandosi agli altri sensi, abilmente sviluppati nell’adolescenza, che non l’avevano mai tradita.
E fu proprio grazie ad essi che si rese conto di non esser sola, in quel freddo pomeriggio d’inverno.
Era bastato il suono di un ramo spezzato per far scattare i suoi occhi sull’immensa distesa di alberi spogli che si allargava alla sua destra.
Quel rumore era stato troppo forte perché potesse trattarsi di uno dei piccoli predatori che abitava ancora quel bosco.
Clarke rimase immobile, le mani abbandonate nelle tasche, mentre i suoi occhi erano puntati in un punto in particolare.
Era certa, nonostante l’eco, che il rumore fosse scaturito proprio da lì e il suo sguardo, paragonabile a quello di un falco, era ora in cerca della sua preda.
Fu proprio in quel momento che li vide.
Due occhi verdi, del verde più intenso che avesse mai ammirato, che la osservavano di nascosto.
Rimasero così, per lunghi attimi, a studiarsi e ad ammirarsi, lei e quella misteriosa figura, senza affidare al vento alcuna parola.
Improvvisamente, le campane della piccola chiesa batterono l’ora, distogliendola, per un solo attimo, dalla sua contemplazione.
Quando si voltò nuovamente alla ricerca di quel verde, non vi fu altro che il grigio bosco ad accogliere il suo sguardo.
Quegli occhi del color dello smeraldo erano svaniti.

Era passata ormai una settimana da quel singolare incontro.
Una settimana in cui, ogni giorno, era stato scandito dalla notizia di un’incantatrice che si aggirava per le strade.
Nessuno conosceva il suo nome né il suo volto.
Ma tutti concordavano sul fatto che, quella fanciulla, non poteva che essere una figlia dei boschi.
Clarke sorrideva sempre, nell’udire quelle bizzarre storie, figlie di credi antichi e di superstizioni popolari.
Ma lei era figlia della metropoli, della scienza e del cinismo.
Un animo troppo criptico e realistico per poter credere ancora alla magia mistica di quei racconti.
L’orologio sulla sua scrivania suonò le 20.00.
Clarke si alzò dalla sua postazione, indossò il cappotto e, accertatasi di aver chiuso tutto in quell’anonimo ufficio, uscì nel freddo secco di quella sera solitaria.
Era sempre l’ultima a finire.
In fondo, non vi era nessuno ad attendere il suo ritorno.
Come ogni giorno, decise di non ritornare direttamente a casa, dove non vi era altro che la solitudine ad attenderla, ma di dirigersi al fiume, per poter ammirare il riflesso delle stelle danzare su quelle calme acque.
Non vi era nulla, in fondo, che potesse calmare il suo animo inquieto come la visione di quegli astri.

Non so nulla per certo, ma la vista delle stelle mi fa sognare

Ricordava ancora distintamente la frase di quel pittore divenuto famoso proprio grazie a quelle stelle.
Aveva appena undici anni quando la lesse sul suo libro di storia dell’arte e, da quel giorno, la custodì nel suo animo, al riparo da qualsiasi ingiustizia e crudeltà.
Ma era in quei momenti, quando i suoi occhi potevano godere di quella magica luce, che si sentiva davvero vicina all’animo di quell’uomo, quasi potesse sentir rinascere in lei quell’emozione che aveva guidato la sua mano.
Sì, la Notte stellata sarebbe potuta essere tranquillamente un suo dipinto.
Persa in quella contemplazione, non si accorse che qualcuno aveva seguito i suoi passi, osservandola di nascosto, finché l’immagine di due occhi verdi, riflessi su quelle dolci acque, non oscurò quella delle stelle danzanti.
Clarke si girò di scatto, volgendo lo sguardo alla figura che si ergeva eretta tra i rami di un pino spoglio.
L’oscurità avvolgeva completamente le sue membra, lasciando scoperti solo gli occhi.
Quegli stessi occhi che l’avevano osservata, nascosti in quel bosco al limitare del paesino.
«Chi sei?» chiese Clarke, dopo qualche secondo di silenzio.
Nessuna risposta provenne da quella misteriosa figura.
Ripensando alle voci che, da qualche giorno, serpeggiavano sulle labbra degli abitanti di quel piccolo paese, Clarke comprese di trovarsi davanti a colei che veniva definita come la figlia dei boschi.
«Parli la mia lingua?» chiese ancora, credendo di trovarsi dinanzi ad un’esponente di quel popolo di cui tanto le ballate popolari narravano le avventure.
«Comprendo la tua lingua, Clarke Griffin.»
Clarke si irrigidì immediatamente, nel sentir rivelare la sua identità.
«Come fai a conoscere il mio nome?» chiese, la voce improvvisamente ridotta ad un sibilo minaccioso.
«L’ho udito» fu la semplice risposta.
«Qual è il tuo nome?»
«Dimmelo tu».
Clarke si lasciò andare ad una risata nervosa, rivolgendo alla misteriosa figura uno sguardo carico di astio.
«Credi di impressionarmi così facendo?»
«Non credo nulla».
«Cosa vuoi da me?»
«Nulla che potresti offrirmi».
Clarke strinse i pugni, ormai al culmine della sopportazione.
Ma, prima che qualsiasi suono potesse levarsi dalle sue labbra, la misteriosa figura fece un salto in avanti, atterrando silenziosamente davanti a lei.
Grazie a quella vicinanza, Clarke appurò che quella donna fosse leggermente più alta di lei.
Gli abiti neri, che aderivano perfettamente al suo corpo tonico, le permettevano di sposarsi facilmente con l’oscurità che le avvolgeva.
Una maschera le copriva delicatamente il volto, lasciando scoperti solo il suo sorriso candido e quegli occhi verdi, che erano stati capaci di catturarla fin dalla prima volta in cui li aveva ammirati.
«Chi sei?» chiese ancora, ma questa volta non era che un lieve sussurro.
«Ha così tanta importanza il mio nome?»
«Tu conosci il mio».
«È vero. Ma i nomi sono futili essenze, Clarke».
«Ma essenze che determinano chi siamo».
«No, Clarke. Sono le nostre azioni a determinare ciò che siamo, non i nostri nomi. Il peso di un nome dipende dalla persona che lo indossa, dalle azioni che lo accompagnano, dalla giustizia che lo riveste. Un nome è una catena che ci viene imposta sin dalla nascita, che ci ancora alle nostre radici, che veicola le nostre azioni. Eppure, è così fragile che basterebbe una scintilla per poterlo annientare».
«E dunque come dovrò rivolgermi a te?»
«Come preferirai».
Clarke rimase in silenzio, a perdersi in quelle iridi verdi, rese ancor più luminose dai raggi della luna.
«Esmeralda»
Fu appena un sussurro, quello di Clarke.
Un sussurro che il vento portò prontamente via, disperdendolo in quel paesaggio invernale che le circondava.
Una risata cristallina si levò dalle labbra della misteriosa ragazza.
«Esmeralda?» chiese, la scia di quella risata ancora impressa nella voce.
Clarke alzò le spalle, sorridendo a sua volta.
«Perché no?»
«Mi credi davvero una gitana?» chiese ancora la ragazza, mentre i suoi occhi assumevano una sfumatura divertita.
«Come?»
«Prima mi hai chiesto se comprendessi la tua lingua, giusto?»
«Giusto».
«Ed Esmeralda è la gitana protagonista di Notre Dame. Sbaglio, forse?»
«Assolutamente».
«Bene- rispose la ragazza, regalando a Clarke il suo sorriso più bello- Ed Esmeralda sia. Sperando di dover condividere con quella ragazza solo il nome e non il destino».
«Dunque è vero? Sei una gitana?»
La misteriosa figura, che da quel momento avrebbe risposto al nome di Esmeralda, volse lo sguardo al cielo, come alla ricerca di una risposta, per poi volgerlo nuovamente sulla sua interlocutrice.
«Questo dovrai scoprirlo da sola, Clarke Griffin. Per questa notte, il mio tempo è scaduto».
E così dicendo, si arrampicò velocemente e silenziosamente su uno degli alberi attigui, svanendo, in pochi secondi dalla sua vista.
Perdendosi in quella notte stellata.



 

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Capitolo 2
*** Vincent Van Gogh ***


Clarke era in piedi di fronte l’ampia vetrata del suo studio, le braccia incrociate al petto.
L’orologio sulla sua scrivania segnava le 20.47, ma lei rimaneva immobile, gli occhi fissi su quelle figure che si muovevano svelte e silenziose.
Seguiva ogni minimo movimento, ogni piccola azione.
Si perdeva nella contemplazione di quell’agilità sfoggiata con così tanta disinvoltura, il risultato perfetto di una familiarità acquisita con gli anni.
Contrasse appena la mascella quando, ai suoi occhi, attraversati da una silente quanto mortale tempesta, si manifestò la sagoma, seppur ancora nascente, di quel capannone variopinto.
Di tutti i luoghi in cui avrebbero potuto innalzarlo, avevano scelto proprio l’isolato in cui risiedeva il suo ufficio.
Come se i manifesti affissi in ogni angolo e i mormorii delle persone circa quello straordinario evento non fossero abbastanza per far tornare a sanguinare quella dolorosa ferita.
Con un moto d’ira, indossò il suo cappotto nero, dirigendosi poi a passo svelto verso la porta, chiudendo alle sue spalle la vista della nascita di quel mostro dai colori sgargianti.
Come d’abitudine, anche quella sera, Clarke si diresse verso il fiume, per lasciar affogare il suo dolore in quelle acque che non ponevano domande.
Risalì il piccolo ponte, raggiungendo il punto più altro, per poi appoggiarsi al parapetto, abbandonando così i suoi pensieri.
«Mi ricordi molto lui».
Un sorriso nacque sulle labbra di Clarke, nell’udire quella voce.
Il primo vero sorriso a cui si lasciava andare da giorni.
«Lui chi?» chiese, non voltandosi, ma continuando a guardare le stelle danzare con il fiume che scorreva sotto di lei.
Clarke non ottenne risposta da colei che, ormai, rispondeva al nome di Esmeralda, ma udì i suoi passi muoversi lievi e delicati sul lastricato del ponte, finché non la raggiunse.
«Vincent Van Gogh».
Solo a quel punto, Clarke si voltò, lasciando che il suo sguardo riposasse sulla sinuosa figura di quella creatura.
Indossava ancora i suoi abiti scuri e la maschera del medesimo colore, che privava ancora quel volto alla sua vista.
Rimase così, a contemplarla in silenzio, mentre Esmeralda imitava la sua posizione, appoggiandosi al parapetto, non fosse stato che, diversamente da lei, i suoi occhi verdi veneravano il cielo.
« “È come avere un gran fuoco nella propria anima e nessuno viene mai a scaldarvisi, e i passanti non scorgono che un po' di fumo, in alto, fuori del camino e poi se ne vanno per la loro strada”» proseguì, volgendo finalmente lo sguardo su Clarke, permettendole così di poter ammirare nuovamente i suoi occhi e il suo sorriso.
«Ne parli come se lo conoscessi».
«Lo conosco, infatti».
Clarke si lasciò andare ad una lieve risata, spostando nuovamente lo sguardo verso le acque del fiume.
«Questo è impossibile. Vincent Van Gogh è-»
«Nato nel 1853 a Zundert e morto nel 1890 a Auvers-sur-Oise, in seguito ad un’agonia durata due giorni a causa di un colpo di rivoltella che lui stesso si è inflitto. È morto tra le braccia del fratello, anelando quella vita dal cui abbraccio, lui stesso, si era sottratto».
Clarke rimase qualche secondo a guardarla, perdendosi in quello sguardo verde, del colore degli steli d’erba bagnati dalla rugiada.
«Sai molte cose su di lui».
«Hai detto bene, Clarke- rispose Esmeralda, sedendosi sul parapetto del ponte, senza mai distogliere lo sguardo da lei- Questo è mero sapere. Nozioni che chiunque può leggere su di un libro».
«Eppure tu affermi di conoscerlo».
«Conoscere una persona- continuò la misteriosa ragazza, volgendo nuovamente lo sguardo al cielo- è l’impresa più ardua di questo mondo. Se solo pensi che, in fondo, nemmeno noi conosciamo perfettamente noi stessi. Siamo essenze così mutevoli nella nostra ferrea esistenza, che diveniamo argomento difficile anche per i nostri stessi occhi. Viviamo la maggior parte delle nostre vite circondati da persone che credono di conoscerci e non ci conoscono affatto. Copriamo i nostri volti di infinite maschere, per accontentare le pretese degli altri e le nostre stesse pretese. Per non essere costretti a dover guardare in faccia la nostra paura, fingendo di essere invincibili».
«Allora come fai a conoscerla, una persona?»
Esmeralda non rispose, ma continuò a far vagare i suoi occhi tra gli astri celesti.
«Vincent Van Gogh disse che non gli importava se, in quel suo presente, non avesse venduto nemmeno un quadro. Sapeva, in fondo, che un giorno le persone avrebbero compreso ciò che lui aveva donato a quei dipinti, cosa si nascondesse in quelle pennellate a volte lievi e a volte brusche, mosse dalla più primitiva rabbia. E che il loro valore non sarebbe stato legato ai materiali con cui creava le sue opere.
Qualcuno lo avrebbe sicuramente definito un luminare, un intellettuale, se con questo appellativo decidiamo di indicare quelle esponenti figure che sanno cogliere gli avvenimenti e i cambiamenti che si manifesteranno in un prossimo futuro.
La verità è che Vincent Van Gogh, nonostante la malattia conclamata, nonostante il suo malessere, conosceva le persone e gli animi della sua epoca. E non si sbagliò quando pronunciò quella frase, dal peso di una premonizione.
Il vigneto rosso fu l’unico quadro che riuscì a vendere.
Ma non trascorsero più di due anni dalla sua morte, prima che quei suoi dipinti, così tanto disprezzati quando quello straordinario artista era in vita, iniziassero a risplendere del loro vero valore dinanzi agli occhi di quel popolo così cinico e miscredente».
«È il destino che accomuna molti artisti, purtroppo» rispose Clarke, in un sussurro.
«Purtroppo sì».
«Ma questo non risponde alla mia domanda».
«Vi ho risposto, invece- disse la ragazza, volgendo nuovamente lo sguardo sulla sua interlocutrice- Per conoscere una persona, devi conoscere la sua anima. Saper leggere i suoi occhi, udire quelle parole mai pronunciate».
Clarke si voltò completamente, appoggiando la schiena e le braccia sul parapetto, lasciando alle sue spalle quelle acque che aveva ammirato fino a quel momento.
«Quindi Van Gogh è il tuo artista preferito».
«No. Magritte lo è»
Clarke si lasciò andare ad una lieve risata.
«Un surrealista. Avrei dovuto immaginarlo».
«Già, avresti dovuto» le rispose la ragazza, sorridendole a sua volta.
«Les Amants?»
«L’impero delle luci».
Rimasero in silenzio, a contemplare il suono del vento tra i rami spogli, mentre la luna le accarezzava con i suoi dolci raggi.
«Non ti sei fatta vedere per molti giorni» riprese improvvisamente Clarke.
Esmeralda si voltò verso di lei, sorridendole.
«A quanto pare, hai avvertito la mia assenza.»
Clarke rimase in silenzio, continuando a guardare davanti a sé.
«Le nubi oscurano i tuoi occhi» disse Esmeralda, guardandola nuovamente.
Un velo di preoccupazione ad oscurare quelle sue iridi incredibilmente verdi.
«Pensi sia a causa tua?» chiese di rimando Clarke, sul suo viso un sorriso sfrontato.
«No. Credo sia a causa di Polis».
Il corpo di Clarke si irrigidì vistosamente, mentre i suoi occhi si incupirono ancor di più.
«Perché proprio Polis?» chiese infine, dopo alcuni secondi.
«Questo non mi è dato saperlo, Clarke».
«Non ti è dato saperlo?- disse, rivolgendo alla ragazza uno sguardo carico di rabbia, la voce ridotta ad un basso ringhio- Sei comparsa all’improvviso, ti sei appropriata della mia identità e ora tenti di districare i nodi del mio passato come la più abile manipolatrice. E dici che non ti è dato saperlo».
«Non se tu non vuoi» le rispose calma Esmeralda, legando, senza timore, il suo sguardo a quello iroso della ragazza.
Clarke sospirò, chiudendo gli occhi.
Sentiva come se tutto il dolore di quegli ultimi anni gravasse nuovamente su di lei, togliendole il respiro e prosciugando ogni sua energia.
E lei era stanca di tutto quel dolore, di tutta quella sofferenza.
«Mi hai seguita» disse infine, lo sguardo perso in un punto lontano davanti a sé.
«Non crederai davvero che io sia un’incantatrice, Clarke» le rispose la ragazza, cercando di addolcire il più possibile la sua voce.
«Perché?» le chiese, lasciando che i suoi occhi si incatenassero nuovamente a quelli verdi della sua misteriosa compagna. Permettendole di leggere tutta la tristezza che vi risiedeva dentro.
«Per i tuoi occhi. Per questo sguardo».
Clarke non rispose, continuando a guardarla.
«Ti ho seguita dal primo giorno in cui ci siamo viste, Clarke. Ho visto i tuoi occhi cambiare ogni volta che leggevi quel nome, il tuo animo agitarsi. Eppure, non sono mai riuscita a comprendere il motivo per cui provassi un tale odio per quell’evento».
Clarke si lasciò andare ad una risata nervosa.
«Quindi sai il mio nome, dove lavoro e probabilmente dove vivo. E non sai perché odio Polis».
«Ho udito le tue emozioni, Clarke Griffin. Ma non posso leggere i tuoi pensieri».
«Le mie emozioni. Già» rispose la ragazza, volgendo nuovamente lo sguardo verso il fiume.
Esmeralda seguì il suo sguardo, guardando per la prima volta il meraviglioso spettacolo che offrivano le stelle su quelle dolci acque.
«La Notte stellata- disse in un sussurro, mentre un sorriso si allargava spontaneamente sulle sue labbra- Che stupida».
Clarke tornò a volgersi verso di lei, ammirando i riflessi che l’acqua creava su quel volto mascherato.
«È sempre stato davanti ai miei occhi».
«Di cosa parli?»
Ma Esmeralda non rispose, ancora persa in quella sua contemplazione, lo sguardo che saettava tra quei fantastici giochi di luce.
Vedeva davanti a sé il biancore della luna danzare con la limpidezza delle acque, le stelle compier spirali perfettamente disegnate.
Quasi la natura avesse deciso di custodire il genio di quell’artista, riproponendo le sue pennellate e i colori della sua tavolozza nel più leggiadro e fedele ricordo.
«Avevo capito subito che il tuo artista preferito fosse Van Gogh. Ma non riuscivo a comprendere quale potesse essere il quadro che avesse spinto il tuo animo alla sua conoscenza- continuò la ragazza, senza mai distogliere lo sguardo, quasi stesse parlando a se stessa- E invece eccolo, qui, davanti ai miei occhi. In tutta la sua magnificenza».
Clarke continuò a guardarla, senza parlare.
Il silenzio cadde tra di loro, rotto solo dal dolce sussurrare del vento tra i rami.
«Tu vieni da Polis».
Non era una domanda.
Esmeralda si voltò nuovamente verso Clarke, lasciando che quello sguardo ceruleo penetrasse nel suo, senza sottrarsi a quella ricerca.
«Sì» fu la sua semplice risposta.
Ma Clarke non proseguì, attendendo che fosse quella misteriosa ragazza a continuare.
Dopotutto, Esmeralda sapeva già tanto, forse fin troppo, sulla sua esistenza.
Era giunto il momento che gli equilibri si ristabilissero, in quell’intricato gioco di ruoli, presenze, sguardi, casi fortuiti e coincidenze a cui i più davano il nome di destino.
Ed Esmeralda lo comprese immediatamente.
«Non ti dirò il mio nome, Clarke».
«Non l’ho chiesto» rispose prontamente la ragazza, facendo nascere un sorriso sul volto della sua interlocutrice.
«Ma posso dirti chi sono. Apparteniamo all’ordine dei Grounders.»
«I Grounders?» chiese Clarke, scettica.
«Sì. Nel nostro mondo, esistono diversi ordini, in uno schema che ricorda vagamente la classificazione scientifica. L’ordine dei Grounders prende il suo nome dalla Terra, cui siamo profondamente legati».
«Quale legame vi unisce alla Terra?»
«Un legame simile a quello che legherebbe un sacerdote al suo ordine religioso».
Clarke rimase un secondo in silenzio, lasciando che il suo sguardo si perdesse nell’oscurità di quel fitto bosco che le circondava.
«Dunque, Polis sarebbe…»
«Il nostro tempio».
La ragazza annuì piano, metabolizzando quelle informazioni, per poi tornare a volgere lo sguardo a quella sua improbabile compagna, in un implicito invito a continuare.
«Il nostro ordine è a sua volta diviso in famiglie, anche se abbiamo più la tendenza a definirli clan. Io appartengo ai Trikru».
«Quindi Trikru è il tuo cognome?»
Esmeralda si lasciò andare ad una lieve risata.
«Non provarci, Clarke».
La ragazza le rivolse un sorriso colpevole, alzando le spalle.
«Tentar non nuoce».
Esmeralda rise ancora, rivolgendole uno sguardo dolce.
Era felice che tutta la tensione iniziale fosse svanita, lasciandole in quell’atmosfera che avevano imparato a costruire.
«Cosa sono precisamente i clan?»
«Un modo per dividere, principalmente. Anche se non udirai mai nessuno della mia gente pronunciare una frase simile. I clan sono gruppi di persone specializzate nello stesso campo. Il clan più forte è quello che può vantare una maggiore padronanza di abilità e un più elevato grado di difficoltà nelle sue esecuzioni».
«Quali sono le abilità di voi Grounders?»
«Quelle legate alla Terra. Siamo i signori dell’acqua, del fuoco, della terra e dell’aria».
«Qual è il tuo elemento?»
Ma la ragazza non rispose, spostando lo sguardo nuovamente verso il cielo.
I suoi occhi divennero improvvisamente attenti e, se possibile, ancora più verdi, mentre il suo volto, o quello che di esso si poteva scorgere, attraverso la maschera, portava i segni di una malcelata preoccupazione.
I secondi trascorsero, senza che alcuna parola fosse proferita, mentre quel silenzio, quasi tangibile per quanto fosse grave, iniziava ad allontanare gli animi delle due ragazze.
«Vieni a Polis».
Fu appena un sussurro, ma forte abbastanza perché Clarke potesse udirlo, voltandosi verso Esmeralda.
Incrociò i suoi occhi, così gravi e profondi da portarla a chiedersi cosa si celasse in fondo a quelle iridi più che dietro quella maschera.
«Vieni a Polis- ripeté nuovamente la ragazza- Domani sera».
«Io…»
«Non so cosa si nasconda nel tuo passato, Clarke. Non so quali dolorosi ricordi siano legati a quel luogo dal quale provengo. Ma promettimi che ci sarai, domani. Ho bisogno solo di questo, Clarke. Della tua parola ».
Clarke si perse in quegli occhi verdi, prima di lasciar andare un sospiro troppo a lungo trattenuto.
«Non so cosa risponderti».
«Non rispondere, allora- disse Esmeralda, saltando giù dal parapetto, con quell’eleganza e quella leggerezza che le facevano da abito- Ma spero di poterti vedere, domani, tra quelle schiere. Ed avere l’opportunità di farti cambiare idea su Polis. Solo in quel luogo, potrai trovare tutte le risposte che aneli conoscere».
E senza attender risposta, la misteriosa figura si perse nell’oscurità della notte, lasciando Clarke da sola, con il fugace ricordo del suo passaggio. 

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