E coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica.

di _Noodle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Naughties. ***
Capitolo 2: *** The Twenties. ***
Capitolo 3: *** The Thirties. ***
Capitolo 4: *** The Forties. ***
Capitolo 5: *** The Fifties. ***
Capitolo 6: *** The Sixties. ***
Capitolo 7: *** The Seventies. ***



Capitolo 1
*** The Naughties. ***


1911, Musica Classica.
Kei Tsukishima suona la “Gymnopédie no. 1” di Erik Satie.
 
 
 
 
 
 
 
1893
 
Mi chiamo Kei e ho sette anni.
Mozart quando ne aveva cinque compose “Il Flauto Magico”, ma io, detto sinceramente, non aspiro a nulla di ciò. Sono un bambino normale, che come ogni bambino normale si diletta a suonare uno strumento complicato. Seguo le lezioni impartite dalla Signorina Kiyoko con interesse, faccio i compiti, occupo qualche ora del mio tempo praticando il noioso solfeggio e di tanto in tanto suono qualche cosa di mia spontanea volontà.
Il più delle volte, quando mi dedico alla musica, i miei genitori e mio fratello non sono in casa: m’imbarazza renderli partecipi della mia arte. Suonare è piacevole e rilassante e m’impegno il necessario per poter differenziare tra di loro i pomeriggi assolati in cui mi chiudo a chiave nella mia stanza. Io preferisco la notte. Il giorno, così entusiasta e burlone, così felicemente ipocrita, mi mette malinconia.
 
1900
 
E’ solo un pianoforte e non dovrebbe significare qualcosa.
 
1906
 
Quando suono mi capita spesso di diventare sordo.
È come se i rumori attorno a me, il soffiare insistente ed incessante del vento, i brusii dei passanti, i richiami di mio fratello e le urla di mia madre non esistessero. Esiste il pianoforte ed esiste solo quello. Per il restante mormorio del mondo, io sono sordo. Lo era anche Beethoven, eppure suonava da maestro.
Quando suono non divento mai cieco. Esploro paesaggi e conto numerose galassie quando la mia mente è catturata da quelle sette note tentatrici, fautrici di sogni e di dolori. Vedo le stagioni, il trascorrere delle ore e il mutare della luce, le risacche dei mari occidentali, i tramonti che, si dice in giro, cancellino le preoccupazioni. Vedo la mente che tenta di risolvere equazioni complicatissime, mercati stracolmi di spezie, la semplicità di una nonna che stringe a sé il nipote. Vedo auree ed aurore che nessuno è in grado di ammirare, vedo i locali dove si balla il dixieland, vedo gli innamorati che studiano i loro corpi di nascosto, affondando le lingue in lucenti calici di cristallo.
Ma di ciò che io vedo nessuno è a conoscenza, perché quando non suono io sono muto e di me non parlo.
Ciò che la musica mi trasmette e ciò che la musica mi fa diventare nessuno potrà mai saperlo.
Essenzialmente, sono solo.
 
Giugno, 1911
 
<< Che cosa sai suonare? >>
<< So suonare Satie. >>
<< Qualcosa che io possa ballare? >> 
<< Non è un problema mio se non sai muovere i piedi sulla musica classica. Io non suono altre porcherie, e ti faccio già un favore. >>
 
Settembre, 1911
 
<< Direi che ne sei capace >> gli dissi.
<< Io ho un udito sopraffino anche per ciò che non è una porcheria >> mi rispose.
<< Che ne dici di venire al Neko Club con me questa notte? >> mi propose.
<< Ma io non so ballare >> confessai.
<< E chi ti dice che tu debba ballare? Il pianoforte ce l’abbiamo anche lì. Porta Satie con te e mettiti una giacca decente, per piacere >> concluse.
 
Quel tizio con i capelli neri color dei tasti diesis fu il primo a conoscere il mio ripostiglio segreto. Nascondevo il mio pianoforte in una stanza retrostante ad un Caffè, alla quale si poteva accedere tramite una porticina di legno marcio e scuro, madida di sudore e di vecchiaia. La porta della stanza retrostante al Caffè era chiusa con un pesante lucchetto e nessuno aveva mai osato aprirla: i sognatori ci vedevano l’infinito, i codardi un ostacolo, gli ubriachi un miraggio; io ci avevo semplicemente visto un’occasione e ne avevo approfittato. Ci avevo trasportato il mio fedele compagno e ogni volta che non tenevo lezioni private a ragazzini con uno scarso senso della ritmica e della dinamica mi rinchiudevo lì dentro, dedicando del tempo a me stesso. Non l’avevo mai mostrato a nessuno prima di quel giovedì piovoso. Kuroo Tetsurou, così disse di chiamarsi, era un ballerino di tip tap e si esibiva spesso nei locali più frequentati della città, quelli che con l’arrivo del nuovo millennio avevano aperto le porte alle novità.
Tetsurou, sì, era una novità. Non perché si vestisse in modo eccentrico o nascondesse nelle tasche della giacca cartoline dei quadri di Toulouse Lautrec o di fanciulle senza veli, non perché acconciasse i suoi capelli in modo tanto diverso da come li acconciava la gente, non perché fumasse tabacco solo raramente, quando ne aveva voglia, no. Non era una novità perché ballava sulle note di quella musica sbarazzina e divertente, non perché avesse i soldi per pagare l’affitto ma volesse guadagnarne altri per visitare Parigi, non perché avesse deciso di rivolgersi ad un insegnante di pianoforte come me per sperimentare cose nuove, no.
Kuroo Testurou, occhi ambrati e ciglia lunghissime, labbra carnose e denti bianchissimi, era una novità perché più di chiunque altro, perché più di me, sapeva diventare sordo.
Quel giovedì di giugno, prima che potessi tornare a casa, Kuroo si frappose tra me e la soglia del Caffè, chiedendomi di aiutarlo con una certa importante faccenda di stile. Aveva scoperto per vie traverse quale fosse la mia professione e mi confessò di voler provare a ballare su una musica diversa dalla solita. Io, una volta entrati nel mio nascondiglio, suonai la “Gymnopédie no. 1” di Erik Satie, il mio brano di repertorio preferito. Non so perché scelsi proprio quel pezzo, così intimo e personale; forse perché la situazione lo richiedeva, forse perché è il brano che conosco meglio, un porto sicuro per le mie dita e per il mio cervello.
Non so che cosa mi portò a farlo, non so perché decisi di mostrare ad un perfetto sconosciuto una parte di me, della mia vita e della mia anima. Forse mi mise in soggezione, mi sentii minacciato da quel sorriso tremendo e da quegli occhi grandi e seduttori, forse accettai quella proposta come se non fosse stata tale, come se fosse stato un obbligo. Non ero mai stato il tipo da farsi mettere i piedi in testa; al contrario, avevo sempre incusso timore, suscitato l’ira di chi discuteva con me, sorpreso la gente quando meno se l’aspettava.
Lui, invece, mi annullò.
Salimmo i quaranta gradini come se fossero stati una ripida scala di note ed entrammo nella stanza. Non parlai mai.
Mentre presi posto dietro il pianoforte, lui si tolse la giacca che portava sulle spalle appoggiandola su una polverosa sedia di legno, non curante che si potesse sporcare. Arrotolò le maniche della camicia bianca fino al gomito, si passò una mano tra i capelli ribelli e chiuse gli occhi. Istintivamente, li chiusi anche io. Le mie mani iniziarono a muoversi sui tasti con tranquillità; conoscevo quella composizione meglio di quanto conoscessi me stesso e ogni qual volta mi capitava di suonarla era come se stessi ripercorrendo un fragile momento della mia vita nel modo più particolareggiato possibile. Benedetto il giorno in cui scoprii la magia delle armonie di questo pazzo musicista francese.
Suonate le prime note, contate le prime pulsazioni, aprii gli occhi, incuriosito dai movimenti che, immaginavo, il ballerino di tip tap stesse sperimentando di fronte a me. Lo vidi, invece, appoggiato alla coda del pianoforte, sguardo trasognato e sorriso malizioso. Non muoveva un muscolo.
 
<< Perché non stai ballando? >>
<< Perché hai smesso di suonare? Prima di ballare devo conoscere la melodia alla perfezione. >>
 
Ricominciai, imbarazzato dalle parole del mio interlocutore, che imperterrito continuava a fissarmi. Tentai di diventare sordo, le mie orecchie tentarono di soffocare ogni piccola vibrazione che giungeva ai miei timpani, temetti di sanguinare per lo sforzo e per l’impegno, ma lo sguardo di quella creatura tanto misteriosa e tanto invadente faceva più rumore di qualsiasi tuono, di qualsiasi tamburo, di qualsiasi silenzio.
 
<< Mi stai guardando in modo strano >> sussurrai.
<< Ti sto guardando. >>
<< In modo strano... >>
<< In modo strano. >>
 
Con un lento e delicato gesto della mano mi fece segno di riprendere a suonare. Una volta che ebbi ricominciato per la terza volta, notai una confidenza maggiore in Kuroo. Vedevo i suoi muscoli in tensione, i suoi occhi leggermente socchiusi che pensavano a figure e a movimenti; vedevo le sue mani ripercorrere la gestualità delle mie e poi, quando meno me l’aspettavo, vidi i suoi piedi sfiorare in controtempo il pavimento come se fossero stati dei fiammiferi. Lanciavano scintille. Alternava movimenti scattanti a ritmi più lenti, si concedeva di girare su se stesso, di roteare leggermente le braccia, di piegare le ginocchia e di flettere il busto in avanti per riempire totalmente l’eco della mia musica.
Mi sorrideva Tetsurou, o forse più semplicemente sorrideva a Satie.
Le claquettes ticchettavano sonoramente sul pavimento in pietra della stanza, le sue dita schioccavano a ritmo ogni volta in cui le scarpe non collidevano con il terreno. Io suonavo, suonavo quel pianoforte che anni prima, all’età di quattordici anni mi ero ripromesso che non avrebbe dovuto significare niente.
Fu alla fine della sua limpida performance di tip tap che Kuroo, fronte asciutta e respiro regolare, merito dell’abitudine, si avvicinò a me e mi chiese di seguirlo nel locale dove solitamente si esibiva.
La mia mente non riuscì a valutare se fosse più difficile trovare una giacca decente da indossare o apparire accattivante ai suoi occhi. Fu quello il momento in cui capii che quello sconosciuto ballerino dagli occhi ambrati aveva risvegliato in me un sentimento che ritenevo si  fosse assopito per non svegliarsi mai più. E la cosa mi lasciò interdetto.
 
<< Kei! Eccoti qui. >>
La sua voce era accogliente, rotonda, dai bordi smussati, talmente cordiale da farmi salire i nervi a fior di pelle. Inconsapevole di ciò a cui stavo andando incontro, mi avvicinai a lui, varcando la soglia del fumoso locale.
Il Neko era un club all’avanguardia, al passo con i tempi. Era costituito da un’unica grande sala, pavimento di moquette rossa e un centinaio di tavolini ricoperti da candide tovaglie bianche, apparecchiati con la migliore argenteria (o almeno, così pareva). Di rimpetto alla porta, dalla parte opposta della sala, vi era un’area specifica riservata ai ballerini e ai musicisti: un piccolo palcoscenico incorniciato da due drappi rossi messi a mo’ di sipario; sulla sinistra vi erano un pianoforte, una tromba, un contrabbasso riposto sul suo apposito sostegno ed una batteria composta da pochi tamburi. Accanto agli strumenti sostavano tre uomini vestiti di tutto punto che s’intrattenevano a parlare con Kuroo, gioviali ed estremamente eleganti. Dovevano essere gli altri musicisti e, tratte queste conclusioni, considerai che sarei realmente stato io ad occupare il posto dietro il pianoforte quella notte e che saremo stati io e la mia musica ad accompagnare i passi vorticosi di Tetsurou. Un lampadario di cristalli illuminava copiosamente la camera ed era in grado di spegnersi poco per volta, a mano a mano che le luci del palco si accendevano.
Successe tutto talmente in fretta che non ebbi nemmeno il tempo di comprendere se fosse giusto o sbagliato quello che mi accingevo a fare. Non ebbi la freddezza di riflettere sulle mie azioni, qualità che normalmente mi contraddistingueva. Un insegnante di pianoforte avrebbe dovuto rifiutare, avrei dovuto lasciare che Kuroo si dimenticasse di me, reclinare l’offerta con un semplice “non sono interessato”, dargli del lei e mantenere una certa distanza professionale. Nulla di ciò era accaduto, senza che io ne conoscessi il perché. Non si poteva tornare indietro.
Giunto ai piedi del palcoscenico, Tetsurou si avvicinò a me, stringendomi la mano e sorridendo più sommessamente  e timidamente rispetto a qualche ora prima. Fuori aveva smesso di piovere, ma Kuroo non aveva smesso di colpirmi, di urtarmi come avrebbero fatto delicatamente e ferocemente tutte quelle gocce d’acqua.
<< Sono felice che ti sia convito a venire, Quattrocchi, non ci speravo. Per le dieci si inizia, tieniti pronto. Prima di noi suoneranno altri musicisti, dovrai essere paziente. Nel frattempo, scegli un tavolo e occupalo. >>
E fu così che trascorsi le ore seguenti seduto ad un tavolo, al tavolo numero undici per la precisione, attendendo che arrivasse il momento della mia prima esibizione pubblica. Ero nervoso e non riuscivo a nasconderlo. Le mie dita tamburellavano nervosamente sulla superficie ovattata della mensa, le mie gambe rimbalzavano aritmicamente in su e in giù. Osservavo gli uomini con il cappello nero e le camicie con il colletto inamidato dare il braccio a donne dagli abiti lunghi e scintillanti, con i capelli elegantemente raccolti, e mi chiedevo se quel luogo di festa, di frenetica energia e di tensione amorosa percepibile al tatto fosse luogo per me. Tutto era disteso, allegro e frivolo, così spontaneamente sofisticato per me che la mia semplicità e riservatezza furono messe a dura prova. Non ero mai stato il tipo da folla, da gente, da grande pubblico o da festa, non ero mai stato il tipo da locali, da novità. Ero un abitudinario, un cultore del tempo che scorre linearmente e lentamente. Eppure, quando fu il momento di salire sul palco, quando fu il momento di rintanarsi dietro il pianoforte e di svelarsi davanti ad una miriade di occhi vispi ed impazienti non ebbi alcuna esitazione. Fu Tetsurou a condurmi verso la mia postazione, a lanciarmi un occhiolino fugace quando fu il momento di incominciare. In quel momento mi fu chiaro il perché di quella mia straordinaria audacia e convinzione, perché il mio solito silenzio avesse iniziato a brontolare, a farsi disturbante. Avevo voglia di suonare, sì, ma non per la folla, non per la gente, non per il pubblico. Avevo voglia di suonare per un’opportunità, per un giorno di pioggia, per un nascondiglio segreto, per un ballerino che aveva creduto in me per qualche ora, per dei piedi frenetici, per delle gambe muscolose, per un corpo terribilmente affascinante e proibito.
Se non fosse stato per la nitidezza con cui vedevo il mondo attorno a me avrei pensato che qualcuno mi avesse celatamente somministrato dell’oppio.
Non riuscivo a ragionare, le mani tremavano avvolte da un malsano ed estatico spirito dionisiaco che si divertiva a fare a pugni con l’Apollo che solleticava la mia ragionevolezza.
 
Quando Tetsurou incominciò a ballare guidato dalla mia musica mi sentii incredibilmente gratificato. Fu la prima volta che le note del mio pianoforte risultarono essere utili a qualcosa, a qualcuno. Per me la musica era utile, un bisogno primario quanto mangiare e dormire, ma a quanto pare non ero l’unico a viverla in quel modo, non ero l’unico a percepirla come una normalità anormale. Fu strano quello che portammo in scena, considerato il locale in cui ci esibivamo. Tutta quella gente, probabilmente, avrebbe voluto ballare, dimenarsi e saltellare, ma noi non concedemmo loro questa soddisfazione. La danza di Kuroo e la fluidità dei suoi movimenti, tuttavia, suscitarono uno scroscio di applausi inimmaginabile. S’inchinò ringraziando. Indicò me, che imitai il suo movimento come meglio potevo. Poi scese dal palco, fiero dell’esibizione di quella sera estiva.
 
Mi trascinò fuori dal locale, sotto un cielo coperto e privo di stelle. Le strade erano vuote, i tavoli del Neko Club tutti occupati.
 
<< Cognac? >>
<< Non bevo, grazie. >>
Kuroo, schiena appoggiata al muro e piedi incrociati l’uno sull’altro, reggeva il suo bicchiere di cognac come se fosse stato un trofeo. Teneva lo sguardo basso, i capelli neri davanti agli occhi smarriti nel nulla. Respirava piano, quasi restava in apnea. Non appena mi accorsi che lo stavo fissando in modo troppo intenso, distolsi lo sguardo, gettandolo oltre la via. Faceva caldo e la notte era umida e vaporosa. Tutto era leggero, incredibilmente surreale.
Attendevamo da soli, nel silenzio della notte.
<< Certo che sei proprio strano. Gli artisti fanno la rivoluzione, sono irriverenti, sono atipici. Gli artisti bevono, gli artisti fumano. >>
Lo guardai con stizza, con un malcelato disgusto. Tuttavia non appena sorrise, la mia espressione mutò in un rammaricato cipiglio. Qualcosa lacerò il mio stomaco. Pulsazioni incapaci di seguire il ritmo del mio metronomo interno.
<< Cielo, spero di non averti spaventato con questi discorsi >> si scusò, avvicinandosi terribilmente a me. Le claquettes facevano rumore. Incastrò i suoi occhi nei miei e fu in quel momento che mi accorsi che il colore delle nostre iridi era lo stesso; fui percorso da un impercettibile brivido di vergogna, che fortunatamente fui abile a ricacciare verso la punta dei miei piedi.
<< Io non sono un artista >> decretai.
<< Discordo. Kei Tsukishima, che tu ci creda o no, io l’ho vista. >>
Rimasi confuso da quell’affermazione, dal tono soffuso della sua voce, dalla nauseante distanza che separava i nostri nasi e le nostre fronti. Profumava di buono quell’uomo, di biancheria pulita, di essenze sofisticate.
<< Hai visto cosa? >>
<< La scintilla. >>
<< Io non capisco di che cosa tu stia parlando, Kuroo. >>
Inaspettatamente mi afferrò le mani, poggiandole sulle sue; divaricò leggermente le dita per far combaciare i nostri palmi e i nostri polpastrelli.
<< Immagina di posare le tue mani sui tasti del pianoforte. Immagina la loro consistenza, la loro liscia superficie, i loro colori, lucidi e contrastanti. Che cosa provi? Che cosa senti qui, a livello del petto? C’è qualcosa che brucia, non è vero? C’è qualcosa che corrode le interiora come il veleno più nero, dico bene? Immagina di suonare ciò che più ti piace, immagina di sprofondare in un letto di note irriverenti, immagina i suoni cristallini e i boati tonanti che solo il tuo strumento può produrre. Immagina di perdere il controllo, immagina di non riuscire più a fare la differenza tra te e la musica, immagina di essere travolto senza via di scampo da una turbinante tempesta di piacere. Che cosa senti, in quel momento? >>
<< Non per essere scortese, ma se mi lasciassi… >>
<< Mi chiedo davvero che cosa tu sia, se tu sei il muro che crei. Che cosa senti, Kei? >>
 
Posò le sue labbra sulle mie, dischiudendole appena. Le sue ciglia lunghe sfioravano la mia pelle, il suo respiro batteva dolcemente contro il mio naso. Era morbido baciare, umido e terribilmente innaturale; era imbarazzante, per niente igienico, scomodo e difficile, privo di logicità e di consequenzialità. Ma Dio, cos’erano quei dolci movimenti, quel disperato bisogno di mangiarsi l’un l’altro!
Era esperto Tetsurou, eccome se lo era. Lo percepii dal modo che aveva di cingere i miei fianchi con estrema tenerezza e sensualità, lo capii da come la sua lingua s’introdusse impetuosamente nella mia bocca, vergine ed inesplorata.
Fu il mio primo bacio.
Tentai di muovere le mani, di appoggiarle sulla sua schiena, di sentire il calore del suo corpo confondersi con il mio, ma la bellezza di quel gesto, di quel contatto che con qualsiasi altro essere umano mi avrebbe fatto ribrezzo, rese le mie membra inerti. Ero in completa balia dell’arte. Era accaduto tutto in una sera. Eravamo passati dal perderci in Satie all’intrecciare le mani nei nostri capelli, eravamo passati dal parlarci appena a riversare l’amore l’uno nella bocca dell’altro. Tremando riuscii ad afferrargli una mano e attorcigliai le mie dita affusolate con quelle ruvide ali da demone tentatore. Il tip tap mi aveva conquistato, i suoi occhi scaltri mi avevano ammaliato, tentato, sconvolto, devastato, lacerato, la sua voce mi aveva dolcemente accoltellato, le sue parole lentamente ucciso: mi avevano fatto ascoltare tutto ciò che la musica mi aveva sempre nascosto. Kuroo valeva molto di più di un qualsiasi pianoforte, di una qualsiasi composizione. Kuroo valeva la passione, valeva l’ambizione.
 
Si allontanò dalle mie labbra senza sciogliere la presa della mia mano.
 
<< Io ti ho sempre ascoltato suonare origliando dalla porta retrostante al Caffè. Ti sembrerò estremamente invadente, ti chiedo perdono. Ho iniziato a conoscere la tua musica prima di te e, credimi, non avrei potuto agire in maniera migliore. Io so che cosa vedi quando suoni, Kei, perché lo vedo anche io. So che non rimani qui, so che percorri ampi e sterminati spazi che solo noi conosciamo. Sarai anche solitario ed incredibilmente indisponente, indecifrabile alla vista, oserei dire, ma come sai io ho un buon udito. Io ho visto in te la scintilla. L’ho percepita sentendoti suonare, vedendoti accarezzare tutti quegli innumerevoli tasti. Noi artisti siamo atipici. >>
<< Anche… anche io ho visto la scintilla. >>
<< Ti conosci meglio del previsto. >>
<< Non hai capito: anche io ho visto la scintilla, ma in te. E probabilmente potrei accettare di suonare qui la sera. Ovviamente per il modico compenso. >>
Le nostre labbra tornarono a sfiorarsi, teneramente affamate.
<< E forse non solo per quello. >>
 
Se solo non fosse stato per quel pianoforte, per quello strumento che non avrebbe dovuto significare niente, per la “Gymnopédie no.1” di Erik Satie, ora non mi troverei qui, seduto al pianoforte del Neko Club a ricordare e ad ammirare il mio amante, la mia persona, il mio alter ego, che mentre sfiora il pavimento con sagacia e con stile, con quel sorriso beffardo che tanto amo, non smette di credere in me e in quella scintilla che, a quanto pare, ancora brilla.
 
 
 

 
 
Angolo dell’autrice: * Squillo di tromba * carissime e bellissime persone, sono tornata! <3 Avevo promesso che non avrei tardato troppo per cominciare questo mio nuovo progetto, perciò eccomi qui a condividere le mie nuove follie sul fandom. Innanzi tutto, come state? Io devo dire che sono ultra felice ed emozionata di aver pubblicato la prima One-Shot di questa raccolta. La musica e la danza sono parti integranti della mia esistenza, e per questo mi sono chiesta: che cosa avrebbero ballato i nostri cari figlioli se si fossero ritrovati in un’epoca diversa da quella contemporanea? Kuroo e Tsukki sono stati la mia prima scelta per questo decennio, in quanto ho presto spunto dell’headcanon di Ems di Tsukki pianista e, visto che per i decenni seguenti avevo già progetti ben definiti, ho deciso che gli anni ’10 sarebbero toccati a loro. Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “Gymnopédie no.1” di Satie e REMIX di HUBOY (soprattutto); “Charlie Countryman” di Christophe Beck & DeadMono; “Newt Says Goodbye to Tina” di James Newton Howard.
- L’ambientazione di questa OS (come spesso sarà per quelle seguenti, accetto alcune eccezioni) è sfumata ed imprecisa, Americheggiante. Non ho voluto descrivere la realtà giapponese del tempo perché sono piuttosto ignorante in materia, quindi ho deciso di rifarmi all’immaginario comune dell’America di quei tempi e di quelli successivi.
- “<< Mi stai guardando in modo strano >> << Ti sto guardando. >> << In modo strano... >> << In modo strano. >>” è una citazione da “Donne dagli Occhi Grandi” di Angeles Mastretta.
Spero di conoscere al più presto un vostro parere, grazie a tutti quelli che leggeranno o lasceranno una recensione, mi farebbe davvero piacere! <3
Aggiornerò con una frequenza di una settimana e mezza/due circa, in quanto voglio dedicarmi con calma e precisione alla stesura di ogni storia.
_Noodle
 

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Capitolo 2
*** The Twenties. ***


1925, Rapsodia.
Daichi Sawamura, dopo aver ascoltato la “Rapsodia in Blu” di George Gershwin, entra a far parte di un circo.
 
 
 
 
 
 
 
14 Maggio, 1925
 
Mio figlio mi trascina per la manica sgualcita della camicia dentro ad un enorme ed imponente tendone da circo giallo e rosso. Oggi è il 14 maggio ed è il suo compleanno. Gli ho promesso un regalo degno della giornata e da come saltella e ridacchia  gioiosamente direi che ha gradito la sorpresa. Per fortuna, ho fatto centro.
Il circo è in città.
Lo spettacolo deve ancora iniziare, ma una musica pomposa ed accattivante attira la sua attenzione, e quella degli altri bambini impazienti di godersi lo spettacolo, più di quanto lo farebbe una miriade di stelle scintillanti. Conosco il perché di tanta euforia da parte di mio figlio: ogni volta che della musica giunge alle sue orecchie si ricorda della sua mamma, la bella Yui. È più forte di lui: inizia a battere le mani a tempo, a saltellare sul posto, a dimenare le gambe e a canticchiare, pur non conoscendo nemmeno una parola del motivetto in questione. Risplende nei suoi otto anni di età come un germoglio appena fiorito e con quei sorrisi euforici e strabordanti di vita colma un’assenza che dura ormai da due anni. La malattia ha portato via Yui in una tiepida notte di agosto e da quanto se n’è andata, da quando la soave voce di Michimiya è salita al cielo, il mio umile lavoro di operaio non è più sufficiente. Fabbricare coltelli non è esattamente ciò che desideravo. Detto ciò, non rinuncio alla felicità di mio figlio e, quando ne ho l’occasione, faccio in modo che la sua allegria prenda il sopravvento sulle mie tristi  ed assillanti preoccupazioni.
 
Entriamo nel tendone e prendiamo posto in prima fila, al centro. Lo spazio scenico è immenso, ovoidale. Una tenda rossa divisa a metà separa il pubblico dal retroscena, il pavimento è sabbioso ed una consistente barriera dipinta di giallo si erge tra i palchi rialzati e la scena per far sì che nessuno si possa far male. Mio figlio, occhi frizzanti e spensierati, ha voluto a tutti i costi che gli comprassi un sacchetto di pop corn e, data la situazione poco formale, ho ceduto anche io. Il nostro masticare rumoroso e godereccio, tuttavia, finisce ben presto, ancor prima che lo spettacolo inizi. Si sa, davanti a leccornie del genere è impossibile aspettare!
 
Le luci che illuminano il pubblico si abbassano, i riflettori si accendono.
 
Signore e Signori, che lo spettacolo abbia inizio!
 
Dopo la presentazione ridondante del direttore del circo, i primi a fare irruzione sono i domatori e le loro bestie feroci. Tigri, leoni, orsi ed elefanti, chi mai avrebbe potuto immaginare che fossero così grandi? Cavalli che galoppano e trottano eseguendo sequenze di passi complicatissimi, tuffi nei cerchi di fuoco, giraffe dai colli fragili e lunghissimi, amazzoni impavide che si servono degli animali per dimostrare le proprie abilità. Poi, giunge il momento delle equilibriste, del prestigiatore, delle ballerine e dei pagliacci. Senza rendercene conto, due ore sono già passate.
I riflettori, andati a buio per separare tra loro le esibizioni dei circensi, feriscono nuovamente la scena con tagli di luce bianchi e blu e due attrezzi acrobatici vengono calati dalla sommità del tendone: deduco che è giunto il momento dell’esibizione dei trapezisti. Mi volto verso la mia destra. Gli occhi di mio figlio sono sempre più grandi. Hanno raggiunto la massima profondità ed estensione e risplendono come meglio possono, come meglio hanno imparato dagli anni travagliati e burrascosi appena trascorsi. La magia del circo permette alle navi in balia della tempesta che fluttuano nella sua mente di tornare in porto, la strana e dissonante atmosfera è in grado di addormentare ogni strisciante e schifosa paura che attanaglia la sua serenità. Attraverso gli occhi di un bambino tutto è più semplice, regolare, scontato. Ciò che è magico, è magico, ciò che è divertente è divertente e se in un determinato momento si è contenti, tutti i sentimenti di tristezza devono essere ricacciati nello sgabuzzino dei brutti ricordi. Gli occhi di un bambino vedono la naturale bellezza di un istante ed in questo si perdono, senza domandarsi mai il perché.
Ma che cosa vedono i miei, di occhi? Preferirei dire che tutto ciò che vedono è un gruppo di meravigliosi e talentuosi artisti, uno spettacolo eccentrico e frivolo immerso in una moltitudine di colori scintillanti, un rincorrersi di risate e di sussulti, di respiri commossi e sorpresi; ma questa non è la verità.
Respiro, respiro sconnessamente. La mente che divaga, che momentaneamente si disperde tra i lineamenti di una figura sconosciuta. Che io sia riuscito a diventare bambino, a cogliere ed assaporare l’attimo?
In questo momento vedo soltanto il volto di un giovane uomo, probabilmente della mia stessa età. Ventisette anni sono sufficienti per sposarsi, per avere un figlio ed accudirlo con amore e premura, ma non lo sono mai abbastanza al cospetto della bellezza, per i pugni dell’ammaliamento che lo stomaco incassa. Perché la bellezza spezza le ossa, scioglie i nervi, abbatte il contegno. Ricordo ancora che cosa provai la prima volta che il mio sguardo incrociò quello di Yui: dapprima un imbarazzo incontenibile, poi un calore inaspettato che si estendeva infiammando il petto. Era strano e piacevole, faceva il solletico.
Il fatto che io, in questo esatto momento, alla vista del giovane uomo stia provando la stessa sensazione che provai nei confronti di mia moglie mi rende confuso, decisamente spaesato.
Mio figlio è accanto a me e, senza che nemmeno sappia spiegarmelo, la mia mente si è persa e sta ripercorrendo le tenere e impagabili sensazioni che attanagliarono il mio cuore otto anni fa.
Il giovane uomo in questione è un trapezista. Indossa una rigorosa canottiera bianca infilata in dei calzoni neri che si arricciano sotto il ginocchio, trattenuti da un paio di bretelle blu. Ha i capelli d’argento, la pelle bianchissima, il naso cosparso di cipria e un velo di rossetto rosa sulle labbra sorridenti. La sua carnagione diafana è luminosa e sembra ricoperta da un intero barattolo di brillantini. Prima di avvicinarsi al trapezio sorride, s’inchina e saluta il pubblico, sfrega le mani coperte di magnesia l’una contro l’altra e si appresta a volteggiare nel cielo. Non appena lo vedo lanciarsi sull’attrezzo, le mani nervose e venose che si aggrappano con passione alla sbarra di legno, percepisco la sua energia, il suo essere intrepido e sprezzante del pericolo, il suo essere folle, ma consapevole di ciò che affronta. La brillante musica dell’orchestra, che tenta di suonare come meglio può la Rapsodia in Blu di George Gershwin, avvolge il corpo del trapezista in una morsa tenace, lo culla, lo sbatte, lo raccoglie, lo accarezza. Il giovane dai capelli argentati compie miracolosi avvitamenti ed incredibili salti mortali, si diverte nello sperimentare vigorosi slanci di gambe e colpi di reni, piroette aeree e figure inimmaginabili. Non riesco a deviare lo sguardo, a perdermi nei particolari e nell’allestimento dell’immenso tendone da circo, non riesco, come per le altre performance, a distrarmi. Le mie pupille saettano e volteggiano con l’esuberante trapezista, il mio respiro si spezza ad ogni evoluzione spericolata, la saliva smette di scorrere copiosa nella mia bocca. Ed è quando mio figlio sussulta di fianco a me che ricordo dove mi trovo, che mi accorgo che il cuore in gola, a quanto pare, non ce l’ha solamente lui.
Maledetto George Gershwin.
 
<< Mi scusi! >>
Due iridi castane s’incastrano nelle mie. Il trapezista ha un neo perfettamente circolare di fianco all’occhio sinistro.
<< Scusi se la disturbo >> incomincio << immagino che sia stanco dopo l’esibizione di questa sera, ma mio figlio ha insistito perché lo portassi qui, voleva farle i complimenti. >>
Sto mentendo, spudoratamente. Il piccolo mi guarda indispettito, sentendosi raggirato. Un padre esemplare non avrebbe mai coinvolto il figlio innocente in una situazione del genere, ma io non sono un padre esemplare. Solitamente sono i bambini a trascinare i genitori in circostanze imbarazzanti, non il contrario; tuttavia, il desiderio che provo nell’incontrare e stringere la mano al formidabile trapezista offusca la mia mente. Non ragiono, non osservo lucidamente ciò che mi circonda, straparlo e balbetto, quasi non mi riconosco.
<< Ma papà, io… >>
<< Come sei gentile piccolino! >>
Il ragazzo si abbassa, caviglie a sostenere il leggero peso del suo corpo. Mio figlio lo guarda per qualche istante, poi si perde ad ammirare la miriade di carrozze, gabbie e carri che racchiudono l’attitudine vagabonda ed errabonda dei circensi.
<< Noto che sei affascinato dal luogo. Che ne diresti di farti un giretto con me? >>
Il trapezista lo prende per mano, io li seguo a ruota. Ha un incedere preciso ed interessante, dannatamente sensuale.
<< Come puoi vedere qui ci sono le gabbie dei leoni, e laggiù ci sono gli elefanti. E queste sono le nostre umili case, se così si possono chiamare. >>
Sorridiamo tutti e tre, divertiti da quella battuta. Nel frattempo, un fastidioso rincorrersi di urla e di insulti giunge alle nostre orecchie: provengono da qualche carrozza più in là rispetto a dove ci troviamo.
<< Ne ho abbastanza di te! I tuoi giochi di prestigio sono vecchi, non fanno ridere, non stupiscono, non affascinano, sono mortalmente noiosi! Il coniglio che esce dal cappello, la colomba, le carte, tutte cose già viste! Non ti rendi conto che il pubblico durante il tuo numero sbadiglia e si gratta la testa? Il mio circo è il migliore dell’intera regione, e c’è posto solo per chi ha talento. Ti ho dato sufficienti possibilità, questo è il momento che tu te ne vada! >>
<< Ehm, magari ci spostiamo più in là, che dite? >> commenta l’artista dai capelli argentati.
<< Papà! Perché non ti proponi tu come prestigiatore? Come quando tu e la mamma facevate finta di scomparire, o ti trasformavi in un pirata, oppure quando… >> esclama mio figlio, ascoltate attentamente le parole del proprietario del circo.
<< Ehm, figliolo, non credo sia una buona idea! >> lo interrompo, sorridendo paonazzo, rendendomi conto, dopotutto, di meritarmi questa descrizione poco simpatica dal momento che l’ho usato per i miei intenti infantili.
<< Tuo papà sa fare le magie? >>
Il trapezista rivolge lo sguardo verso di me, sorridendo compiaciuto e meravigliato. Le sfumature contenute in quegli specchi castani circondano i miei sensi e mi destabilizzano. Sono così leggero che potrei pensare di sollevarmi in volo.
<< Urca! Mio papà farebbe mangiare la polvere a quel tizio! >>
<< Attento alle parole! >> lo rimbecco << e comunque mi spiace, non credo di essere adatto a questa vita. >>
<< Che cosa fa di solito? >>
<< Io sono un operaio. Costruisco coltelli. Ma non… diciamo che quando Yui era con noi tutto era più semplice. Il suo talento ci ha salvato la pelle. Sa, era una cantante. >>
Abbasso lo sguardo. Mi sento stupido, ridicolo, incapace di esercitare qualsiasi tipo di dominio su me stesso. Mi tremano le mani, mi pulsano i muscoli delle gambe e sembra che lo strambo fascino della novità stia invalidando ogni mia capacità di controllo. Qualcosa mi àncora ai sentimenti del passato, le radici dell’abitudine vincolano le mie caviglie, le unghie affilate dei ricordi lacerano la mia pelle e i miei sorrisi, l’alito nauseabondo della malattia di mia moglie dilania il mio stomaco. Qualcos’altro spazza via ogni amore, ogni felicità nel ricordare le tenere labbra di Yui, nel rimembrare la volta in cui facemmo l’amore nascosti nella macchina del suo agente, di quando le chiesi di sposarmi. Qualcosa sta cambiando i miei piani. Colpo di fulmine, caso, destino o sciagura, chiamatelo come volete. Una pallottola nuova di zecca che si conficca in un vecchio ed affezionato cuscino di piume. Questo qualcosa mi ammazza e mi purifica, conduce una catarsi profonda e rigenerante. Questo qualcosa sosta davanti a me e mi osserva. È un uomo. Questo qualcosa che mi sta facendo perdere la testa, che sta cancellando il passato ed illuminando il presente, è proprio ciò che non avrei mai voluto che accadesse, soprattutto essendo io padre, essendo io un altro uomo. Ciò che successe con Michimiya non è stato una sbaglio, no. È stata un’esperienza bellissima, ma ai propri sentimenti non si comanda e questo, sebbene io l’abbia sempre saputo, l’ho sempre tenuto nascosto. Se la brezza soffia vesto ovest non c’è modo di deviare il suo percorso. Almeno, non in questo caso. Dovevo aspettarmi che prima o poi la mia vera natura avrebbe preso il sopravvento: mai sottovalutare la potenza di quella dolceamara ed invincibile belva.
<< Oh, ho capito. Mi spiace davvero tantissimo, sono sincero. Ma, sono curioso allo stesso modo di vedere che cosa lei è in grado di fare con la magia. >>
<< Erano soltanto giochi, mio figlio ricorda male >> biascico, tentando di non farmi udire. In risposta, ricevo un pugno su una gamba.
<< Beh, non credo che suo figlio la pensi allo stesso modo. Torni domani e rubi qualche coltello dalla fabbrica in cui lavora. Il circo resta in città per altri due mesi! >>
 
<< Come si chiama? >>
<< Koushi Sugawara, ma tutti mi chiamano Suga. >>
<< Io sono Daichi, Daichi Sawamura. >>
 
22 giugno, 1925
 
Coltello dopo coltello, lama dopo lama, applauso dopo applauso, qualcosa è accaduto. Mi sembra pressoché incredibile che la mia povera e misera abilità nel costruire quei semplici utensili si possa essere trasformata nella mia più grande fortuna, mi sembra surreale che il compleanno di mio figlio si sia rivelato l’epifania che aspettavo da tanto tempo. Ogni sera da ormai più di un mese, dopo il suo numero al trapezio Koushi si presta come assistente per il mio numero di magia: io lo taglio in mille pezzi sezionando il suo corpo e anche lui, inconsapevolmente, frantuma il mio. Il direttore è contento, il numero è di successo e mio figlio, diventato ormai parte integrante del circo, si occupa di nutrire e preparare gli animali per i loro numeri. È diventato un piccolo uomo in poco più di trenta giorni. La mia vita è migliorata, la fabbrica ha preso fuoco, ed io devo ancora comprendere che cosa cerco nella mia vita.
Suga è bizzarro, dolcemente esuberante. Non è possibile descriverlo con un solo aggettivo, perché non è una di quelle persone di cui la gente sa fornire una descrizione impeccabile, tracciare un ritratto completo ed esauriente. Koushi non è una persona scontata.
In lui si districano mille strade che non portano da nessuna parte, mille vie dai muri sporchi ed imbrattati, mille colori, mille luci artificiali, mille note che colpiscono, lì, nel centro dello stomaco. È una rapsodia, apparentemente interminabile ed inesauribile di cui non puoi fare a meno. Ha le mani grandi, la pelle morbida, il fiato profumato di pasta dentifricio.
È spavaldo, maledettamente esibizionista ed esageratamente geniale in tutto ciò che fa. Ma è anche timido, maledettamente riservato ed esageratamente goffo in tutto ciò che vorrebbe fare in modo spavaldo.
Suga è una contraddizione, di quelle belle, però.
 
23 giugno, 1925
 
Koushi mi chiede come mi sento. Siamo soli, chiusi a chiave nella sua carrozza. Sul tavolo di legno adiacente alla parete più estesa ci sono trucchi, pennelli, cipria e rossetto. Ci sono calze a righe blu e rosse abbandonate al suolo, bottiglie di vino vuote utilizzate come vasi per raccogliere i fiori degli ammiratori. Il suo profumo dolciastro aleggia nell’aria impregnandosi nei miei vestiti e tra i miei capelli, la luce soffusa di una piccola lampada ad olio ribalta le nostre ombre sul pavimento, allungandole a dismisura.
Koushi mi chiede come mi sento, ma io non rispondo. Mi guarda insistentemente, ripetendo la domanda una, due, tre, quattro volte. Le parole faticano ad emergere dalla profondità della mia gola, le corde vocali non collaborano, troppo tese per essere sottoposte a maggiore sforzo.
<< Daichi, come ti senti? Te lo chiedo perché vorrei sapere se questa vita fa per te… dopotutto, è da un mese che ormai sei qui con noi e lavori per noi. Il periodo di prova si è concluso, devi scegliere. Il direttore ha già preso una decisione e devi essere tu a confermarla. >>
<< Koushi, te ne avrei parlato. >> 
Suga, seduto al tavolo del trucco, mi osserva dallo specchio, occhi curiosi e al contempo preoccupati. Mi avvicino a lui, afferrando una sedia e sedendomi alla sua sinistra. 
<< Io ho un figlio. Sto bene qui e voglio continuare ad essere travolto da questa frenetica vita, ma io ho un figlio. Un figlio che ha bisogno di andare a scuola, di lavorare per permettersi di vivere, che ha bisogno di una casa, di amici con cui giocare a palla o alla lotta. Ho un figlio che vorrebbe che colui che chiama "papà" fosse affettivamente suo papà, non un uomo dalla scarsa stabilità emotiva che si fa sorprendere a piangere dietro la gabbia degli elefanti. >> 
Koushi mi guarda perplesso, stupito per ciò che ho appena confessato. Dischiude le labbra per parlare, scuotendo la testa. 
<< Instabilità emotiva? Pianti? Ma che cosa stai dicendo, di che cosa stai parlando, Daichi? Tu sei uno degli uomini più coraggiosi e tosti che io abbia mai conosciuto. Sei organizzato, prudente, severo e premuroso quanto basta. Hai rinunciato ad un lavoro stabile per dedicarti ad un qualcosa che nemmeno avevi programmato, perché tanta severità nei confronti di te stesso? Perché ti sottovaluti in questo modo? Giuro che non ti seguo. >> 
E nemmeno io seguo me stesso al cospetto dell'uomo che da un mese a questa parte ha donato a tutta la mia vita la magia che le era sempre mancata. Unisco le mani, chiudendo gli occhi. 
<< Ho bisogno che tu mi faccia una promessa che sento che mio figlio non potrebbe mai mantenere: non giudicarmi, per favore. >> 
Suga alza gli occhi al cielo, aggrottando le sopracciglia argentate. 
<< Giudicarti? Perché mai dovrei farlo? Daichi, per piacere, spiegami che cosa ti sta capitando. Stare qui è così deleterio per te? Non pensavo che la vita del circo avrebbe potuto sconvolgerti in tal modo. >> 
La risposta dovrebbe essere un secco sì. Non sono in grado di comporre frasi e periodi e di misurare le parole, sono nudo davanti alla mente così fresca e comprensiva di Sugawara. 
<< Koushi, io credo di avere un problema con te. Ricordi la sera in cui ci siamo presentati? Ricordi di quando ti dissi che mio figlio voleva complimentarsi con te? Beh, ho mentito. Lui non voleva farti i complimenti, era mia intenzione incontrarti e scoprire il tuo nome. Ancora ricordo la tua prima Rapsodia in Blu, i riflettori e le luci, il particolare odore che accompagnò la tua entrata in scena. In questi mesi di lavoro insieme, ma ad essere sincero già da prima che tutto ciò cominciasse, ho capito che non posso nascondermi a me stesso e... Credo che tu abbia capito dove voglio arrivare. Mio figlio non può sapere che suo padre è innamorato di un altro uomo, perché potrebbe morirne, e anche io. >> 
Mi afferra le mani senza preavviso, facendo scivolare i suoi caldi polpastrelli sulle mie nocche screpolate. Quel contatto inaspettato, maldestro ed agognato, talmente doloroso e desiderato da risultare fastidioso, apre i miei condotti lacrimali come se fossero dei rubinetti rotti, ricordandomi del perché piangessi accovacciato dietro la gabbia degli elefanti. 
<< Il fatto che tu non possa nasconderti a te stesso è diverso dal fatto che tu non possa nasconderti agli altri. Daichi, qui siamo al circo. Al circo si fanno magie e le magie hanno dei trucchi che non possono essere svelati e raccontati a nessuno. Al circo ci sono dei segreti. E questo sarà il nostro. Che tu ci creda o no, ogni volta che quella melodia accompagna le mie esibizioni io penso a te, al blu del cielo notturno della notte del 14 maggio, perché è quello il blu di cui parla la rapsodia, la mia rapsodia. Al decimo minuto della composizione mi viene voglia di crollare e di cadere dal trapezio, di correre verso di te e di ballare con te. 
Se tu sei d'accordo, da assistente a mago, vorrei stipulare un contratto a vita, con obbligo di silenzio fino a quanto basta. Tuo figlio lo scoprirà quando entrambi vi riterrete pronti, non è necessario affrettare i tempi. >> 
Ma tutto ciò che voglio, in questo istante, è acquisire velocità. 
Mi fiondo sulle sue labbra come attratto da una forza magnetica, l'argento dei capelli di Koushi che si fonde col metallo grezzo dei miei coltelli. Lui non si tira indietro, ma approfondisce il bacio reagendo impulsivamente, mostrandomi come anche gli uomini possano essere delicati ed estrosi nel baciare. Le mie labbra si sporcano di rossetto, le mie mani e le mie guance di cipria. Senza nemmeno volerlo, sento la nostra canzone fluire dagli strumenti dell'orchestra e accompagnati da quelle note pungenti cadiamo a terra, sul pavimento fresco della carrozza, l'uno di fianco all'altro. Esploriamo i nostri corpi senza ritegno, avidi di conoscere a fondo i trucchi di questo splendido incantesimo, di scoprire che cosa si nasconde sotto la pelle, tra le ossa e il cuore. Si nasconde amore? Si nasconde felicità? Da dove arrivano tutti questi meravigliosi sentimenti? La pelle di Suga è liscia come la seta, preziosa come un capo di velluto, come un’introvabile capo d’alta sartoria. Sento il suo cuore rullare nel mio petto. Incredibilmente, sto bene.
Ho ventisette anni e ho un figlio ed un amante meravigliosi. Sono vivo. Ho cominciato a vivere nuovamente. 
Koushi, alzatosi in piedi con uno scatto colmo di adrenalina, mi porge una mano e io l'afferro. In un attimo ci troviamo l’uno davanti all’altro, io che gli afferro i fianchi e lui che appoggia le sue mani sulle mie spalle. 
<< Vorrei essere in grado di ballare su questa melodia con te, ma sono scoordinato >> balbetto imbarazzato.
<< Chi ti dice che le nostre anime non stiano già danzando? >> 
 
Nel blu della notte, nascosti dalla musica e da un velo di cipria, i nostri corpi si uniscono e tutto acquista un senso. 
Se mai qualcuno, tra cento anni, dovesse chiedermi se credo ancora nella magia, risponderei con il mio fatidico e secco sì. Perché il contratto magico firmato silenziosamente da me e Sugawara è a tempo indeterminato ed io non intenzione di stracciarlo. 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice: dopo due settimane, finalmente, ho aggiornato con una DaiSuga! <3 Gli anni Venti mi piacciono tantissimo a livello musicale e, come avrete potuto capire dal titolo, ho scelto un genere piuttosto particolare per accompagnare la storia: la rapsodia. Quella in Blu di Gershwin è un brano che adoro e che mi ha sempre fatto balzare in testa l’immagine del circo. Ed è lì che mi è venuta l’idea: circo = Sugawara trapezista x””.
Devo ammettere che scrivere una DaiSuga è stato più difficile del previsto. Ad un tratto ho creduto di aver completamente sbagliato la caratterizzazione dei personaggi, ho creduto che inserire la figura di un figlio fosse roba da ricovero, i personaggi si muovevano da soli e assumevano caratteri di altri personaggi, ma poi ho deciso di continuare lo stesso, anche se piena di dubbi. Scrivendo ho capito che, sebbene adori la DaiSug come pairing, non scriverò più così spesso di loro, perché mi mettono realmente in difficoltà XD
Date tutte le mie preoccupazioni, vi prego, fatemi sapere il vostro parere! Non vedo l’ora di pubblicare la prossima one-shot (quella che ho pensato per prima iasugdwiaks), anche perché scritta questa posso scrivere di tutto. Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “Rhapsody in Blue” di George Gershwin, “Did I Miss It?” e “The Circus Sets Up” dalla colonna sonora di “Water for Elephants”, “Magic” dei Coldplay.
- La danza in questo capitolo è vista in modo astratto e non concreto, perché di per sé Daichi e Suga non ballano.
- “Dolceamara invincibile belva” è una citazione di Saffo.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che i Twenties siano stati veramente “Roaring” (?). Vi abbraccio fortissimo, grazie a chi lascia segno del proprio passaggio. <3
_Noodle 

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Capitolo 3
*** The Thirties. ***


1936, Musica Jazz.
Yuu Nishinoya, che dovrebbe trovarsi da un’altra parte, preferisce ascoltare “When you’re smiling” di Louis Armstrong.
 
 
 
 
 
 
 
Novembre, 1924
 
Oscillo.
Il cadenzato movimento delle onde mi culla sgraziatamente. Sento il legno dell’immensa imbarcazione scricchiolare sotto le mie natiche, un continuo e grave ronzio disturba il sonno dei bambini, facendoli piangere. Una malcelata nausea accompagna i miei respiri, viso nascosto tra le ginocchia e dita delle mani intorpidite per il freddo. Battiti accelerati, un tamburo al posto del cuore. Non potendo affacciarmi sul mare ho perso la cognizione del tempo, dell’alternarsi del dì e della notte, del trascorrere dei minuti e delle ore. Non dormo da ormai due giorni, credo, perché il puzzo che aleggia nell’aria è sempre più insopportabile: odore di paura, di disperazione, di felicità, di speranza. Sudore e pipì.
La mia valigia di cartone è a pochi passi da me. Dentro ci sono solamente uno spazzolino da denti e qualche calzino. Non ho molto, ne sono consapevole, e sono consapevole anche del fatto che sarà difficile sopravvivere alla novità, trovare un posto in cui alloggiare, un lavoro, dei vestiti nuovi e forse una dignità. Sono consapevole di essere solo, di non avere molto con cui cominciare, ma tanto per cui lottare. Sono consapevole del fatto che io non mi arrendo mai. Avrei già abbandonato la nave gettandomi in mare aperto e sperando di affogare, avrei rinunciato a metterci piede se solo fossi un codardo. Ma io non lo sono, perché io non mi arrendo mai.
Ripetermelo è diventata la mia sicurezza. 
A bordo del barcone ci sono donne amorevoli e bambini strillanti, uomini di diverse età ed animali tremanti. Nessun passeggero ha più di una valigia con sé. Alcuni tentano di dormire appoggiando il capo su qualche vecchio indumento, altri giocano a carte ed altri ancora, semplicemente, fissano il vuoto. La mia mente è piena d’interrogativi e sebbene sia ancora un ragazzino sono certo di poter badare a me stesso, certo di poter ricominciare. Ciò che sto affrontando non m’intimorisce, né mi reca sconforto. Io sono un Nishinoya, e nel mio paese si dice che i Nishinoya non abbiano paura di nulla e che nemmeno i miei genitori abbiano avuto paura in quel momento. Ripetermelo è diventata la mia sicurezza.
Un vecchio si avvicina a me. Ha gli occhi velati da una patina biancastra, ma uno scintillante barlume di positività risplende con intensità nelle sue iridi. Credo di non aver mai incontrato degli occhi così, prima d’ora.
<< Anche tu diretto in America, ragazzo? >> mi domanda dopo essersi accomodato al mio fianco, tastando il pavimento con le mani; a causa di quei movimenti, capisco che l’anziano signore è cieco. Come avrà fatto a percepire la mia presenza? Come a capire che ero un ragazzo e non una ragazza? Ha i capelli bianchissimi e i lineamenti simili ai miei. Credo provenga da una regione del Giappone diversa dalla mia, dato l’accento particolare.
<< Sì >> rispondo sorridente.
<< E la tua famiglia? >>
<< Io non ho una famiglia. >>
Noto un lieve appunto di tristezza offuscare la sua espressione gioviale e questo mi rattrista più di quanto possa rattristarmi sapere di essere solo. Sorrido per non sprofondare, anche se non mi può vedere.
<< Se cerchi fortuna, non temere. In America troverai tutto ciò di cui hai bisogno, ne sono convinto. Come ti chiami? >>
<< Mi chiamo Yuu, Yuu Nishinoya. >>
<< E quanti anni hai, Yuu Nishinoya? >>
<< Undici e mezzo. >>
Uno strano ghigno compiaciuto affiora sulle sue labbra, sopracciglia folte che s’inarcano leggermente.
<< Non farti spaventare dalle avversità. È difficile all’inizio, per tutti. Attendi con pazienza ed il momento per essere felice arriverà. Devi soltanto fare affidamento su qualcosa di più grande di te. >>
E il vecchio se ne va.

 
00:03, 7 marzo 1929
 
<< Ryu, stai attento a non mollare la presa, o potrei fracassarmi il cranio. >> 
Tanaka trattiene il lembo superiore del lenzuolo del mio letto per non farmi cadere. Ne abbiamo legati insieme sei con maestria, assicurandoci che i nodi fossero sufficientemente resistenti da non sciogliersi. Ci vuole ben poco per sorreggere i miei miseri quarantotto chilogrammi, ma è stato meglio intrecciarli seguendo le dettagliate istruzioni di Ryu: suo padre era un marinaio. 
Ebbene sì, sto scappando.
Ho sedici anni e l’orfanotrofio all’angolo tra la Centododicesima Strada e Lexington Ave comincia a starmi stretto. Sbarcato al porto di Manhattan ero ricolmo di aspettative: sono fuggito in America per riscattarmi, per trovare fortuna tra le strade della prosperosa New York City, ma un bambino di undici anni, se non in un orfanotrofio, non ha possibilità di sopravvivere e l’ho imparato a mie spese. Avevo fame. Ora, dopo cinque anni di stenti e d’ingiustizie, è arrivato per me il momento di fuggire e di essere indipendente. Avevo solcato il suolo americano con le migliori intenzioni. Scendendo dalla nave immaginavo che una radiosa e sterminata via si sarebbe srotolata davanti a me, offrendomi tutto ciò che la vita avesse da offrire ad un indifeso bambino di undici anni e mezzo. Non avevo paura, ero intrepido, non temevo di imbattermi in alcuna delusione, ed ero certo che tutto sarebbe stato difficile, ma incredibilmente stimolante.
Mi sbagliavo.
Niente e nessuno mi hanno offerto ciò che desideravo: ora, è arrivato il momento di andarmelo a prendere.
<< Stai attento là fuori, Nishinoya >> sospira Tanaka, vedendomi afferrare la cima della fune di lenzuola.
<< Non dubitare. Spero di non rivederti mai più, Ryu. >>
<< Lo spero anche io. >>

 
00:20, 7 marzo 1929
 
<< FERMATI RAGAZZO, E’ UN ORDINE! >>
Non ho più fiato. Vorrei strapparmi i polmoni. Non riesco a controllare i movimenti delle  mie gambe e le suole delle scarpe sono ruvide a tal punto da ustionarmi le piante dei piedi. Come mi è venuto in mente di scappare? Come? Sei proprio un disastro Yuu, fattelo dire! Sei un debole, un deficiente! Credevi che non se ne sarebbero accorti? Che nessuno avrebbe fatto la spia? Che la direttrice dell’orfanotrofio non avrebbe chiamato la polizia da un momento all’altro? Sei un ingenuo, uno sprovveduto. Te lo meriti.
Svolto l’angolo, ritrovandomi in un vicolo cieco. Tre alti muri di mattoni a sovrastare la mia piccolezza. E se non avessi seminato gli sbirri? E se la mia rapidità non fosse servita a niente in confronto alle loro falcate? Mi nascondo dietro ad un ammasso di rifiuti e bidoni di metallo, sperando che nessuno possa avvicinarsi a quello schifoso ammasso d’immondizia.
 
Quando sento dei passi veloci correre nella mia direzione è ormai troppo tardi.
 
<< Ti sei perso, Muso Giallo? >>
Una voce maschile ha individuato la mia presenza. È una voce giovane, altisonante, rispettabile. Dall’atteggiamento che ha nel rivolgersi a me, non credo si tratti di uno sbirro. Alzo gli occhi, impaurito e disgustato dal terribile odore che mi circonda.
<< Non sono tenuto a risponderti >> decreto, incontrando lo sguardo del mio interlocutore. È un ragazzo alto, dagli occhi e dai capelli castani; credo che abbia almeno venticinque anni. Sorriso smagliante, abiti puliti ad avvolgere una struttura fisica apparentemente gracile. Accanto a lui vi sono altre due figure.
<< Pantaloni sgualciti, scarpe bucate, braccia livide e capelli tagliati col coltello… direi che non sei più di un cane randagio. Orfanotrofio, dico bene? Come ti chiami? >>
Mi alzo, scuotendo i rifiuti dalla mia camiciola e dai pantaloni sgualciti. 
<< Come fai a saperlo? E comunque, mi chiamo Yuu Nishinoya >> balbetto sbigottito. È come se questo individuo, di cui non conosco nemmeno il nome, sapesse già tutto di me, da dove vengo, perché fuggo.
<< Ho naso per queste cose, e poi siamo distanti solo due quartieri da quello di Lexington Ave. Ne ho già visti tanti altri come te. Io, o meglio noi, possiamo aiutarti. Stai scappando dagli sbirri, non è così? >> mi chiede, tendendomi una mano.
<< Sì. >>
I tre si avvicinano paurosamente a me, con fare determinato e rassicurante. Si muovono velocemente, quasi impercettibilmente.
<< Tony, passami il cappello. >>
Il suddetto Tony si toglie il cappello dalla testa e lo passa al mio interlocutore, che lo gonfia e gli restituisce una forma.
<< Mettitelo, e fai cambio di giacca con me. >>
Seguo i suoi ordini, concludendo che questo è l’unico modo che ho per confondermi con loro e salvarmi la pelle. Una volta rinnovato il mio aspetto, vengo preso sottobraccio da Tony e dall’altro giovane uomo e trascinato sulla via principale.
<< Ma dove mi portate? Chi siete? >>
<< Ti portiamo a vedere di che cosa ci occupiamo. Con noi potrai iniziare a fare la bella vita. Si parla di soldi, tanti soldi. E anche di divertimento. Mi pare che tu sia decisamente solo e una collaborazione potrebbe giovare ad entrambi. Hai un bel faccino, e i bei faccini sono sempre utili quando si tratta di contrattare. Io mi chiamo J. Come già sai, lui è Tony e quest’altro fusto si chiama Frankie. >>
Percorriamo strade ampie e vie dalle pareti strette per una decina di minuti, fino ad arrivare all’angolo di un nuovo vicolo cieco. Appartamento numero 2. Saliamo quattro rampe di scale, poi J apre la porta dell’unica camera presente in quel piano.
<< Se vuoi scoprire di che cosa ci occupiamo Tony, Frakie ed io, non ti resta che varcare la soglia di questa porta, caro Noya >> sibila J, scostando una polverosa tenda viola e sorridendo smaliziato. 
Faccio qualche passo in direzione della suddetta stanza accompagnato dalle occhiate scaltre e compiaciute degli altri ragazzi: la potenza dei loro sguardi è simile a quella di sei mani che premono contro la mia schiena per farmi avanzare. 
Varco la soglia. Ciò che vedo all'interno della piccola camera non è nulla di più che una giovane donna. Credo che abbia qualche anno più di me. È distesa su un letto matrimoniale dalle lenzuola bianche e mi osserva divertita, dita attorcigliate ad una ciocca di capelli; credo sia stupita dalla mia piccola statura, forse, mi crede poco più che un bambino.  
<< Ehi dolcezza, benvenuto. Accomodati. Ma quanti anni hai? Sei così piccino... >> 
Resto immobile. La voce della ragazza dai capelli di mogano e dagli occhi di cristallo è suadente, sensuale, estremamente accattivante. Non è truccata, pelle pulita e lentiggini dipinte alla rinfusa sul suo volto da Madonna.  Cammina verso di me con incedere peccaminoso, la leggera e trasparente sottoveste che ricopre il suo corpo lascia intravedere tutto di lei, le sue linee, le sue curve, la sua intimità. È la prima volta che mi ritrovo in una situazione del genere, che mi trovo davanti al corpo nudo di una donna. Inizio a sudare copiosamente, esterrefatto dalla situazione surreale. Probabilmente la mia bocca si modella in una smorfia simile ad un sorriso e tento di indietreggiare. La ragazza, tuttavia, mi ferma e appoggia una mano sotto il mio mento, mi fissa per qualche secondo, e poi mi tira a sé. Mi sta baciando. Io sto baciando una ragazza. Sto assaporando la sua bocca, sto toccando la sua lingua. Mi accarezza il volto per poi passare alle spalle e alla schiena. Mi dice che, se voglio, posso toccarla. Sono intimorito dal tono soffice delle sue parole, dalla soavità con cui parla di oscenità. Io non voglio toccarla, non vorrei farlo, ma mi afferra la mano e la porta dove mai avrei voluto che arrivasse. La sento gemere, sebbene io non sappia nemmeno che cosa sto facendo. Dopo aver avvicinato le sue dita in direzione del cavallo dei miei pantaloni, comprende che non sono un bambino, e si lascia completamente andare. 
In breve tempo siamo nudi, distesi sul letto, intenti a fare sesso. Vestiti a terra, scarpe e camicia a contatto con il pavimento di moquette.
Non ho mai avuto così tanto freddo in vita mia. 
In questo momento di destabilizzante libidine, comprendo me stesso. Tra le gambe di questa donna, stelle e gocce di liquido seminale sembrano la stessa cosa e questo è un peccato imperdonabile: mai disconoscere le stelle. Comprendo che il mio primo bacio non è stato esattamente come me lo immaginavo e che non è stato né emozionante, né gratificante. Persino quando provavo a baciare la mia stessa mano per capire che cosa si provasse le sensazioni erano diametralmente diverse. Scopare è ripugnante. L'alito della donna non è profumato e le sue mani avide di corpi tormentano la mia carne bianca come se non avessero altro scopo. Mi fa male. La testa vortica e lo stomaco si contorce. Il mio bacino si muove avanti e indietro affondando in lei, mi muovo per inerzia, costretto dalle sue mani, dipinte di rosso. Non volevo che andasse così, non volevo che l'amore venisse usurpato in tal modo. È piacevole ed incredibilmente appagante, ma al contempo è disgustoso; non tanto perché questa ragazza con cui sto facendo l'amore sia una prostituta, non tanto perché i nostri gemiti siano ritenuti illegali dalla società, non tanto perché per me è la prima volta, la prima volta che concedo il mio corpo a qualcuno, non tanto perché tutto ciò mi sia stato silenziosamente imposto; ma perché la suddetta persona con cui il mio corpo si sta fondendo, non è ciò che apprezzo. Comprendo, in questo momento di destabilizzante libidine, che a me le donne non piacciono
Quando il tutto finisce, mi accascio di fianco a lei, incapace di realizzare che cosa sia appena accaduto. I miei obiettivi erano scappare ed abbandonare l'orfanotrofio il prima possibile, ma mi sono ritrovato a fare altro, senza nemmeno sceglierlo. Lei mi guarda con una strana felicità negli occhi, compassione e nostalgia sciolte in un timido sorriso. 
<< Sei un nuovo amico di J? >> mi chiede. 
<< Non mi definirei suo amico, l'ho conosciuto poco fa >> rispondo, coprendomi con le candide lenzuola del letto. Lei si sdraia sul fianco sinistro per fissarmi meglio negli occhi. 
<< Se accetti di ascoltare un consiglio dato da una ragazza di appena 19 anni, allora devi credermi. Accanto a J troverai protezione, diventerà come tuo fratello. Ci vuole bene, io e altre ragazze lavoriamo per lui e, senza differenze, ci guadagniamo entrambi. So che non è il lavoro più bello del mondo, ma per lo meno ho una casa e del cibo con cui sfamarmi. Non perdere questa occasione, il mondo là fuori è crudele. >> 
Dopo aver ascoltato le sue parole, decido che è arrivato il momento di sorriderle. Provo pena per la vita che conduce, ammirazione per la dedizione con cui pratica questo mestiere nauseabondo. Vendere il proprio corpo è spregevole. 
<< Come ti chiami? >> le domando. 
<< Elise. >> 
<< Io mi chiamo Yuu. >> 
Abbasso le coperte, mi chino e recupero i vestiti da terra. Mentre mi vesto, Elise parla ancora, o più precisamente, sussurra. 
<< Yuu, ho capito che non ti è piaciuto. Era la tua prima volta, non è vero? >> 
Annuisco. 
<< Sono sicura che qualche trucchetto ti servirà in futuro >> ridacchia, nascondendo una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro. << Di' a J che ti sei trovato bene, per piacere >> conclude, volume di voce impercettibile e labbra tremolanti. 
<< Che non mi sia piaciuto non significa che non mi sia trovato bene, Elise. >> 
Annuisce, strizzando un occhio in segno di complicità. Comprendo che Elise diventerà mia amica. 
 
<< Allora? >>
J, schiena appoggiata al muro e braccia incrociate sul petto, batte il piede a terra, impaziente di scoprire che cosa pensi della loro illecita attività. Avrei dovuto capirlo da come erano vestiti che non erano dei ragazzi per bene, lui, Tony e Frankie, ma la possibilità di guadagnare soldi e di stare bene, per una volta nella vita, mi alletta come non mai. Sono stanco di viaggiare, di dormire per terra, di vomitare saliva e di piangere ogni notte. Voglio assaporare il benessere ed il successo che mi ero ripromesso di trovare in America e per farlo sono pronto a tutto. Cercano alleati? Un alleato avranno.
<< È questo quello di cui vi occupate? Prostituzione? Sapete che è severamente vietato portare avanti questo tipo di commercio? Se solo non mi fossi trovato così bene con Elise, vi avrei già denunciato agli sbirri! >> 
 
Una stretta di mano sancisce la mia entrata nella Gang. 
 
 

9 settembre, 1936
 
<< Ehi, Muso Giallo, lì c’è un tuo simile! >>
Getto lo sguardo oltre il bancone di uno dei locali meglio frequentati di New York City. Al limitare della porta della cucina, un giovane uomo dai lunghi capelli castani raccolti in uno chignon si affanna a portare ai rispettivi tavoli quattro pesanti e fumanti piatti di carne. E’ alto almeno venti centimetri più di me; fonte ampia, occhi allungati, pizzetto rado, spalle larghe e robuste. È impacciato, e camminando quasi teme di urtare il quieto vivere di chi gli sta attorno. Un gigante buono, imbranato e inaspettatamente cordiale. Sorride imbarazzato.
<< E quindi? >> domando, curioso.
<< Beh, perché non ci parli? Facci sentire come parli in giapponese dai! >>
<< Perché mai! Non mi interessa parlare con quel tizio… >>
Ma quel tizio, quasi a farlo apposta, si avvicina al nostro tavolo. Mentre posa le pietanze sulla mensa di legno, mentre la jazz band suona qualcosa di Cab Calloway, i nostri sguardi si sfiorano, si toccano con rispetto.
<< Ecco a voi. >>
La sua voce è profonda. Credo abbia la mia stessa età, ma, data la stazza, dimostra molto più di ventitrè anni.
<< Ehi, da dove vieni tu? Sei Cinese o Giapponese? Il nostro Noya, qui, è di un paese vicino a Tokyo, ma è uno dei nostri ormai, non è vero, Yuu? >>
<< Hai detto bene, J. Tu di dove sei? >> chiedo al cameriere, appoggiando il mento sul pugno della mia mano sinistra.
<< No, no! Che fai? Chiediglielo in giapponese! >> m’interrompe J, sorriso sornione e voce squillante.
Parlo nella mia lingua natia ed il giovane inserviente sembra capire che ciò che gli sto dicendo è tutt’altra cosa da quello che gli aveva domandato J.
 
<< Scusali, so che sono sfacciati. Solitamente, io cerco di comportarmi meglio con chi non conosco. >>
<< Non ho dubbi. >>
 
<< Dice che è di vicino Tokyo anche lui! Che coincidenza >> esclamo mentendo, scolandomi un altro bicchiere di vino rosso. Ovviamente il cameriere sta al gioco. Non so né da dove venga, né come si chiami, ma devo ammettere che già mi sta simpatico.
<< Come ti chiami, Muso Giallo? >> chiede J con il solito distinguibile tatto. Il fatto che si rivolga a me con quel nome non mi urta particolarmente, in quanto è stato questo suo modo di chiamarmi a salvarmi la vita, ma m’infastidisce particolarmente che lo usi per rivolgersi a gente della mi stessa razza. Lo trovo discriminante, schifoso.
 
<< Non dovrebbero usare quell’appellativo, scusali ancora. Come ti chiami? >>
<< Tranquillo. Mi chiamo Asahi Azumane. >>
 
<< Che gli hai chiesto, Noya? >>
<< Il suo nome in giapponese. Ha detto di chiamarsi Asahi. >>
J scuote la testa, incuriosito dal simpatico nome del cameriere. Non appena apre la bocca per parlare, il gigante lo interrompe, recuperando dal tavolo alcuni piatti precedentemente spazzolati.
<< Perdonatemi, ma devo tornare in cucina. >>
 

9 ottobre, 1936
 
Frequentiamo il locale da ormai un mese. Tutto è sempre uguale, l’atmosfera è sempre la stessa, i clienti si conoscono tutti. J è irriverente come al solito, ed il cameriere Asahi cordiale e premuroso. L’abitudine di trascorrere qui le nostre serate è diventata una necessità. Tutto è sempre uguale, ma qualcosa in me è cambiato. Sto iniziando ad odiare il mio lavoro e sto iniziando a capire che qualcosa di più grande di me mi sta soffocando, qualcosa su cui, probabilmente, dovrei fare affidamento.
 

22:54, 9 novembre 1936
 

<< Stasera incontriamo il capo, Noya. Spero che tu non te lo sia dimenticato. Avremo bisogno del tuo bel faccino, sei essenziale per contrattare con lui. >>
 
Il fumo di sigaretta che striscia dalla bocca di J mi colpisce dritto in faccia. Dal tono di voce, capisco che si è accorto del mio cambiamento. So perché sedere a questo tavolo, ascoltando la frizzante musica della jazz band, mi sta salvando la vita, la sta scuotendo, sbattendo con forza contro ad un muro di dolorosi mattoni consumati. So perché l'odore di questo posto e la particolare atmosfera che si respira attorcigliano le mie budella, scavano dentro la sacca del mio stomaco. So perché quest'abitudine di ordinare sempre lo stesso piatto e sempre lo stesso vino mi sta portando a riconsiderare alcuni tratti ed aspetti della frenetica vita d’illegalità che conduco da sette anni a questa parte. So perché mi piace venire qui e perdermi tra le note del jazz. 
Ripercorro lentamente i volti dei miei colleghi -troppo arduo chiamarli amici- e in loro scorgo qualcosa che, guardandomi allo specchio, non riesco a scorgere in me. In loro percepisco sfacciataggine, mancanza di compassione per chi non è come loro, arroganza. Io sì, sono sfacciato, ma semplicemente perché preferisco indossare la camicia fuori dai pantaloni e sparare ad un braccio, piuttosto che dritto al cuore. Sono sfacciato perché ho scoperto che tingersi i capelli è divertente. Ma non sono arrogante, mai manco di compassione nei confronti di qualcuno che non è come me, senza buone motivazioni per farlo. Stare con i Ragazzi mi ha fatto crescere, mi ha fatto cacciare fuori le palle, come dice sempre Tony; mi ha messo davanti a scomode situazioni che non avrei mai voluto interferissero con la mia vita e con la mia personalità, mi ha portato a mentire, a truffare, quasi ad uccidere. E a pensarci bene, io non voglio essere nulla di tutto ciò. Non voglio essere un assassino, un bugiardo, un complice della malvagità. In orfanotrofio ho imparato a leggere, e quando mi capita di sfogliare le pagine giallastre dei quotidiani e di comprendere che cosa sta succedendo in Europa, quasi mi viene da gridare. L’odio nei confronti del diverso mi disgusta, le leggi che quel pazzo criminale tedesco ha promulgato mi fanno terrore e mi lacerano le interiora, perché si parla anche di me tra quelle righe, perché se solo anche io mi trovassi oltre oceano, probabilmente sarei spacciato. Non voglio essere complice della slealtà e della cattiveria.
Questa sera non parteciperò ad alcun incontro, non commetterò alcun atto illegale. Stare seduto a questo tavolo, ascoltare la frizzante musica della jazz band, ordinare sempre lo stesso piatto e lo stesso vino sono diventate consequenziali conseguenze della spensieratezza. Mi riportano al benessere, mi conducono verso qualcosa che è più grande di me, e questo qualcosa ha un nome. Questo qualcosa, si chiama Asahi Azumane.
 

01:08, 9 novembre 1936
 

<< Che ne dici di Louis Armstrong? >> 
 
Asahi cinge i miei fianchi con estrema delicatezza, quasi abbia paura di frantumarli con la semplice pressione delle sue dita. È proprio buffo, il mio cameriere amante della musica. Lo scorso venerdì l’ho trovato a strimpellare il contrabbasso del locale, timoroso che qualcuno potesse accorgersene, sebbene fosse da solo. Io, che ormai lo osservo da due mesi, l’ho beccato.
Un gigante di un metro e ottanta che maneggia un ragazzo più basso di lui come se tra le mani avesse il più scintillante dei diamanti è davvero, incredibilmente buffo. Perché mai dovrebbe aver paura che io mi spezzi? Non sono un diamante, né tanto meno scintillante. 
Questa sera l'ho incastrato. Sono rimasto fino alla chiusura del locale (è lui l’addetto alle chiavi), ho aspettato che finisse di rassettare e di sistemare i tavoli e poi ho fatto la mia entrata in scena. In una mano un disco dell'insostituibile Louis, nell'altra una manciata di coraggio. Dopo averlo costretto a restare, dopo averlo convinto a concedermi un lento, ho scelto per noi "When you're smiling", e spento qualche luce. Devo averlo realmente sconcertato, ma era ciò che volevo ottenere. Avevo bisogno d'illegalità, ma di un'illegalità decisamente diversa dalla solita. Avevo bisogno di restare da solo con la ragione delle mie distrazioni, con la causa delle mie notti insonni e delle mie domande. Avevo bisogno di osservare più da vicino chi mi aveva fatto credere che mia la vita fosse sbagliata, chi mi aveva portato a pensare che forse, un lavoro degno di un ragazzo della mia età, potevo trovarlo. Volevo ballare con chi mi aveva mostrato la via di scampo. 
Ondeggiamo a destra e sinistra, poi di nuovo a destra, poi ancora a sinistra. Muoviamo i piedi a ritmo di musica. Questo ondeggiare è ben diverso da quello della nave grazie alla quale arrivai in America. Questo ondeggiare non fa venire la nausea. Questo ondeggiare è terribilmente piacevole, mette a proprio agio; io sto cercando di mettere a suo agio Asahi. La sua fresca fragranza scivola tra le mie narici, insidiandosi in esse. Potrei giacere in questo stato per il resto della mia vita, poco m'importa di che cosa stia succedendo altrove. Le sue spalle, la sua pelle profumata ed il suo respiro irregolare sono più importanti di qualsiasi altro contrabbando, di qualsiasi altra faccenda. Perché quando sorride, il mondo intero sorride con lui. 
Affondo la mia testa nel suo petto, perché più in alto non arrivo. Vorrei fiondarmi sulle sue labbra senza risparmiarmi, fare mio ogni centimetro del suo corpo servendomi dei vecchi trucchetti della scaltra Elise. Asahi è una vetta altissima e all'apparenza irraggiungibile, ma io sono un Nishinoya e non ho paura di niente, ora davvero non più. 
 
<< Perdonami Asahi, ma io non sono un gentiluomo come te. Non ho potuto permettermi un’orchestra. >>
Ride, divertito.
<< Lo sai che tutto questo è sbagliato, vero? >> sussurra, fragile quanto il fiore più delicato dell’universo. Non accetta che le nostre dita si siano intrecciate, non accetta che cosa silenziosamente abbiamo costruito in questi mesi, non accetta che, ballare con me, gli stia facendo provare qualcosa di strano. Questo qualcosa lo sto provando anche io.
<< Pensi che me ne importi? Ho commesso tante azioni sbagliate nella mia vita, e questo corrotto granello di libertà che tengo tra le mani non potrà certamente essere peggio di altre cose. >>
 
“But when you're cryin', you bring on the rain. So stop that sighin', baby, and be happy again.”
 
<< Perché proprio questa canzone? >>
<< Perché no? >>
<< Sei proprio un teppista scriteriato. >>
 
La nostra stretta di mano si fa più forte, quasi temo di spezzargli le dita. È bello, bello da morire, bello da star male, bello da star bene.
<< Dicono che non è normale sentirsi come mi sento io in questo momento >> confesso.
<< Come ti senti in questo momento? >>
<< Terribilmente felice. Io vorrei... Insomma, vorrei… Tu mi attrai, Asahi. Ma non voglio fare niente di sbagliato, perché so che cosa significhi essere obbligati e forzati ad amare. >> 
<< Amare? Noya, mi stai dicendo che... >> 
<< Non chiamarmi più così, chiamami Yuu. Non chiamarmi come mi chiamavano loro. E poi sì, ti sto dicendo che, parlando di te, mi vien da parlar d'amore. Ma non voglio correre, a dire il vero, non voglio nemmeno costringerti a ballare, a...>> 
Posa una mano tra i miei capelli, intrufolando le sue dita tra le mie ciocche corvine e le mie punte decolorate. Fronte contro fronte, respiriamo appena, assuefatti dal suono della tromba di Louis Armstrong. Balliamo fino all'alba, fottendocene del sonno, del lavoro, della dignità, della correttezza. Parliamo delle nostre vite, di chi siamo, di che cosa vorremmo ottenere o stracciare in mille pezzi, di che cosa ci piace e di che cosa segretamente nascondiamo. Del contrabbasso di Asahi, della mia passione per lo sport. Ridiamo, ci commuoviamo, ascoltiamo quella canzone almeno una ventina di volte, mandando in fumo il giradischi. 
E siamo felici, di nuovo. 
Al sorgere del sole, inconsapevoli dell'inganno in cui J, Tony e Frankie sono stati intrappolati, io appoggio la mia testa sulla comoda ed accogliente spalla di Asahi, seduto accanto a me sul pavimento sgombero di tavoli e sedie. Al sorgere del sole, inconsapevoli della cattura dei miei vecchi colleghi e di qualche pallottola scampata, Asahi mi bacia sulle labbra. 

 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice: PIANGO PIANGISSIMO. Restituitemi un cuore, per piacere, perché sebbene questa storia non sia angst mi sento malissimo per aver fatto trascorrere a Noya delle esperienze così ripugnanti! T.T Quella che avete appena letto è l’AsaNoya a cui sono più affezionata. È quella che svariate volte, pensandoci, mi ha fatto venire il mal di pancia, è quella che è nata dopo un semplice ascolto di questa canzone meravigliosa. Per scriverla ho dovuto fare molte ricerche. Mi sono volutamente ispirata a “C’era una volta in America” per l’ambientazione e per la faccenda della gang di ragazzacci, e mi sono ispirata alle vicende di “An American Tail” e “Annie” per lo sviluppo dei temi dell’immigrazione e dell’orfanotrofio. L’amore che ho per Nishinoya è incommensurabile e spero di aver reso felici (oddio, felici è un parolone) le fan di questa coppia che, ammetto, è la mia OTP suprema. Scrivendo sono stata bene, mi sono commossa e ho avuto il mal di pancia. <3 Essendo una one-shot lo sviluppo dei sentimenti è piuttosto rapido, ma gli sbalzi temporali dovrebbero far capire che di tempo ne passa. L’ho riletta parecchie volte, ma come al solito, se trovate errori o incongruenze non esitate a farmelo notare! Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “When you’re smiling” di Louis Armstrong, “Hard knock life” dal musical Annie, “Main title, An American Tail” di James Horner, “Minnie the Moocher” di Cab Calloway.
Spero che vi sia piaciuta, e come al solito se volete farmi sapere la vostra ne sarò super felice! <3 *va a rispondere alle precedenti recensioni*. Un enorme bacio jazzante!
_Noodle
 

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Capitolo 4
*** The Forties. ***


1946, Musica Swing.
Hitoka Yachi inserisce una moneta nel jukebox e “All the cats join in” di Benny Goodman rallegra l’atmosfera.
 
 
 
 
 
Torono, 1932
 
<< Yacchaaaan! >>
Quando Tadashi gioca con me è sempre piuttosto rumoroso. Non fa altro che urlare il mio nome e lanciare la palla a destra e a sinistra, distraendomi costantemente da quello che sto facendo. Sebbene per la maggior parte del tempo sia un ragazzo per bene, tranquillo e mediamente riservato, si potrebbe dire che quando gioca ed io mi trovo nei paraggi, perché non mi permetterei mai di giocare con lui dal momento che sono un disastro, Tadashi diventi estremamente fastidioso. Chissà perché.
<< Yamaguchi-kun, stavo finendo questo disegno >> bisbiglio sommessamente, nascondendo il foglio scarabocchiato dentro il mio nuovo quaderno dalla copertina rossa.
<< Oh, mi dispiace Yacchan, non avevo capito che stessi disegnando >> commenta lui, sorridendo e passandosi una mano tra i capelli corvini. È davvero buffo quando fa così. Sposto lo sguardo dal suo viso lentigginoso alle ginocchia appuntite, notando che ai soliti lividi violacei si è aggiunta anche una sbucciatura sanguinolenta.
<< Tadashi, dovresti smetterla di buttarti a terra in quel modo, guarda che cosa combini! >> esclamo, additando alla ferita.
Lui alza le spalle, camminando nella mia direzione con la palla sottobraccio, e si siede di fianco a me. Il caldo è talmente torrido che potrebbe scioglierci da un momento all’altro.
<< Non preoccuparti Yacchan, non mi fa male! >> confessa cautamente, tremando un po’.
<< Dovrò disinfettare la ferita, come al solito >> borbotto bonariamente, abituata a quel tipo di faccende. Mia mamma dice che dovrei lasciar perdere il disegno e smetterla di fantasticare sul futuro; dice che dovrei dedicarmi, a poco a poco, allo studio della medicina per diventare un’infermiera. Non che mi dispiaccia, non che non sia brava, ma ho altre ambizioni. Tuttavia, è sempre meglio ascoltare ciò che consiglia un adulto.
<< Che cosa hai disegnato? >> mi domanda Tadashi, occhi curiosi e guance arrossate.
<< E’ l’insegna del locale che voglio aprire quando sarò grande. È una caffetteria. >>
Estraggo il disegno dal quaderno dalla copertina rossa e glielo porgo. Le dita lentigginose e sporche di terra di Tadashi avvolgono il candido foglio. Scruta il mio tratto con stupore, lentamente accarezza la carta per conoscere quanto sia ruvida.
<< Spero che tu ce la possa fare, Yacchan! Sei davvero brava! >> ridacchia, alzando le sopracciglia nell’unico e particolare modo che lo contraddistingue. Mi sorride. Credo di essere la bambina più fortunata del Giappone: sebbene Yamaguchi sia un po’ sconsiderato ed impacciato, tremendamente sbadato e a volte eccessivamente pauroso, nessun’altra ha un vicino di casa simpatico come il mio!
 

1937
 
<< Tadashi, dove mi porti? >>
Ha bevuto un’intera bottiglia di vino. Ero conscia del fatto che la festa del paese avrebbe mietuto un considerevole numero di vittime, ma non mi aspettavo che il mio migliore amico potesse ridursi in questo stato. Sono le tre del mattino e Tadashi corre tra le vie buie e strette della cittadina tenendomi per mano, schivando pericoli e maledicendo presenze a me invisibili.
<< Non temete, principessa, vi sto portando al sicuro! Quando il drago avrà finito di sputare fuoco, andrò personalmente ad ucciderlo! >> urla senza ritegno, alzando il braccio destro al cielo e portandolo conseguentemente al petto, all’altezza del cuore.
<< Ma non c’è nessun drago! >>
Yamaguchi barcolla, strattonandomi in tutte le direzioni possibili. La sua mano è calda, il suo volto rosso d’ubriachezza e lucente di sudore. L’estate ci ha sempre portato a compiere follie, ci ha sempre reso più stupidi. È d’estate che io e Tadashi abbiamo dato vita ai nostri progetti migliori, è quando le giornate si allungano a dismisura che le nostre menti non fanno altro che creare, senza mai cedere al letargo.
<< Nessun drago? Questo perché voi siete accecata dall’amore e non distinguete che cosa vi circonda! >> continua, immerso nella sua fantasiosa pantomima. Parla d’amore senza nemmeno sapere che cosa sia l’amore. Sono più che certa che non abbia mai conosciuto questo sentimento, perché me ne avrebbe parlato. Sono sua amica, d’altra parte. Non è così che funziona?
<< Amore? Tadashi, io non sono innamorata di nessuno! >> ribatto, tentando di fermarlo e cercando di non affogare in un incontrollabile vortice di risate. Immaginarlo bardato ed agguerrito mentre cavalca un destriero dal manto lucente è piuttosto divertente.
<< In guardia, drago sputa fuoco, assaggerai il ferro della mia spada e morirai tra… tra… >>
<< Yamaguchi! >>
Ricade tra le mie braccia, troppo fragili perché riescano a sostenere il suo peso. Occhi chiusi e bocca spalancata. Faccio scivolare il suo corpo sul terreno caldo, mi siedo accanto a lui iniziando a dargli dei piccoli colpetti sulle guance. Chiamo il suo nome, ma non c’è verso: non risponde. È solo dopo una manciata di minuti che riesco ad intravedere le sue iridi castane, leggermente provate dal peso soffocante dell’alcool. Gli sorrido, e lui si mette lentamente a sedere allungando una mano verso i miei capelli. Cosa sta cercando di fare?
<< Se il drago morirà tra atroci sofferenze, io morirò tra le tue morbide braccia. >>
La presa delle sue dita tra i miei capelli si è fatta più solida. La dolcezza con cui mi guarda assomiglia a quella di un marito che ammira la moglie indossare il suo più bel vestito. Vedo il suo petto pulsare attraverso la camicia di lino, sento le sue dita tremare leggermente tra le mie ciocche fini. È spaesato e ubriaco, ma allo stesso tempo consapevole di ciò che sta dicendo. Pare un attore intento a recitare la sua parte migliore; tuttavia, sono consapevole che questa non può essere la verità, perché Tadashi è davvero pessimo a recitare.
<< Che cosa hai detto? >> domando, un filo di voce che cuce tra loro le lettere delle parole. La dolcezza con cui lo guardo assomiglia a quella di una moglie che ammira il marito donarle un mazzo di fiori. Sento il mio petto pulsare attraverso il vestito leggero, vedo le mie dita tremare leggermente sulle mie gambe magre. Sono lucida e cosciente, ma allo stesso tempo spaesata per ciò che sta dicendo. Assomiglio ad un’attrice intenta a recitare la sua parte migliore; tuttavia, sono consapevole che dovrei calare la maschera, perché la tremenda vicinanza delle nostre labbra non può resistere al decoro, non può essere più debole del contegno.
<< Ho detto che sei bellissima, principessa. >>
Si avvicina a me, spruzzando sulla mia pelle una miriade di stelle scintillanti: sono le sue lentiggini fluttuanti. Appoggia le sue labbra  alcoliche sulle mie, calde ed inesperte, ed inaspettatamente non mi tiro indietro, inaspettatamente chiudo gli occhi, come solitamente si fa in queste circostanze. Non sappiamo come muovere le labbra, non sappiamo come si fa ad amare, non sappiamo nemmeno perché ci sia venuta in mente una tale faccenda; non so nemmeno se ciò che Yamaguchi sta facendo a me piace, non so nemmeno se Tadashi mi piace. Eppure è bello ciò che sta accadendo e il fatto che sia stato lui ad avermi scompigliato i capelli e che sia stato lui ad affondare dolcemente la sua lingua tra i miei denti non mi mette a disagio. Tadashi è la mia casa, è mio fratello: e se diventasse anche il mio amante? D’altra parte, non avrei lasciato avvicinare a me nessun altro in questo modo. Se l’ho lasciato fare, è perché lui è l’unica eccezione.
È proprio vero che l’estate ci rende stupidi.
 

1942
 
<< Quando tutto sarà finito, voglio ritrovarti esattamente qui. >>
I suoi occhi sono vuoti.
<< Nessuno può assicurarmi che tornerò. >>
La sua voce galleggia nell’apatia.
<< Non dimenticarti di me. >>
Le sue lentiggini risaltano sul pallore della sua pelle.
<< Mai nella vita. >>
E il mio cuore è appena morto.
 

Kansas City, 1946
 
Sono passati quattro anni. Quattro anni fa, nell’indimenticabile giornata del 2 novembre 1942, Tadashi Yamaguchi partiva per il fronte ed io, Hitoka Yachi, mi accingevo a servire la patria come infermiera. Credo sia stato il più grande sbaglio della mia vita.
Ricordo ancora le tremende ferite che vidi, il sangue che colava copiosamente, il terrore negli occhi dei giovani ragazzi che si battevano per qualcuno o per qualcosa, per un’ideale o per un inganno. Ricordo ancora la puzza, la putrefazione, le centinaia di sigarette che spensi sui muri imbrattati di paura. Ricordo le barelle, i camici, la morfina. Ricordo il lento scorrere del tempo, l’inquietudine, l’insonnia.
Ricordo il colore di quella radio, il legno graffiato, le frequenze distorte che talvolta captava. Ricordo ancora quella voce, l’annuncio dei corpi ritrovati, dei corpi non pervenuti. Ogni sera pregavo di non sentire quel nome e pregavo che non venisse mai pronunciato da nessuno, nemmeno per baglio. Quando comunicarono ufficialmente che Yamaguchi Tadashi di Torono era scomparso, che il suo corpo e la sua persona non si trovavano da nessuna parte, né tra i morti né tra i vivi, afferrai il camice, lo gettai a terra, ci sputai sopra e fuggii. Poteva essere stato rapito, poteva essere stato ucciso lontano dai suoi compagni, poteva essergli capitato di tutto; perché non poteva disertare, non poteva scappare. Non sarebbe tornato da me.
Ringrazio il cielo di essere fuggita prima di quel 6 agosto 1945 e ringrazio di non aver assistito all’orrore, di non averne sentito parlare da chi era lì, dal vicino di casa o da mia madre. Ringrazio di aver capito che l’unico modo per salvare me stessa era fuggire, dimenticare, cancellare per sempre il mondo in cui ero vissuta. Odio il Giappone e odio la guerra, ma ancor di più odio Tadashi. Perché senza di lui, io non riesco a dimenticare.
 
Kansas City è una bella città. È colorata, vivace e si balla lo swing. Le persone, qui, sono molto diverse da quelle presenti in Giappone. Sono gioviali, cordiali ed intraprendenti, fiduciose nelle capacità di ognuno, ambiziose, convinte che persino una donna o una giovane ragazza come me possa lavorare e portare a casa uno stipendio, mantenere una famiglia, o usare i propri spiccioli per comprarsi un paio di scarpe. Anche le radio, qui, sono molto diverse da quelle presenti in Giappone: si chiamano jukebox. Sono grandi e luminosi, e grazie ad una monetina trasmettono canzoni sempre nuove.
Ho compiuto una saggia scelta acquistandone uno per la mia caffetteria.
 
<< Buonasera! Che cosa posso serv-… >>
E’ appena entrato il sesto cliente della serata. Abbandono momentaneamente la preparazione dell’ennesima banana split, e velocemente mi volto per conoscere il viso del nuovo acquirente.
Improvvisamente è luce, alba, colore, bagliore.
Improvvisamente è estate.
Improvvisamente è il 1937.
<< Buonasera. Volerei un ponce caldo. Tra l’altro, complimento per il nome del locale: “floating freckles” è molto simpatico. >>
Ha i capelli ben pettinati. Indossa una camicia azzurra, leggera quanto lo zucchero filato. Profuma. Parla. Respira. Vive. Ha ordinato un ponce caldo. Sta parlando con me. Possibile che non mi riconosca? Possibile che non riconosca i miei capelli giallo limone? Eccetto il lieve velo di rossetto sulle labbra, io non sono cambiata, o almeno credo.
E come parla? Ma come hanno fatto quelle labbra farfuglianti a diventare così sottili, ancora più maldestre? Perché i suoi occhi sono ancora così scintillanti, perché le sue lentiggini non si sono disperse nell’oceano come sabbia leggera? Perché sorride?
Perché Tadashi è qui, perché non è morto? Perché mi viene da piangere, da scorticarmi il cuore, da azzannare il suo sorriso fino a farlo sanguinare? Perché resto imperterrita? Perché la cordialità che mi contraddistingue non si dissipa? Perché non riesco ad essere meno impaurita per ciò che sto vedendo? Odio e amo, e mi sento svenire.
<< Tadashi… >> sussurro, occhi ricolmi di lacrime e labbra instabili, traballanti, liquide.
<< Come conosce lei il mio nome? Ci siamo incontrati già? >> mi domanda, sorridendo ed arrossendo, impaurito di aver fatto una figuraccia. Il fatto che non si ricordi di me mi destabilizza, mi annienta, mi annichilisce; quasi mi ricorda di come dovevano sentirsi le mogli dei soldati che durante la guerra sono invecchiate e sono state dimenticate dai loro dolci e sfortunati mariti.
Mi sento un ricordo ucciso da un ricordo.
<< Tadashi! Sono io, Yacchan… >> mi avvicino a lui, oltrepassando il bancone.
<< Mi dispiace, signorina, ma non ricordo chi lei sia. Ho un problema nel ricordare che cosa mi è accaduto in questi ultimi tempi, purtroppo >> confessa, abbassando lo sguardo e passandosi una mano tra i capelli corvini. È buffo, quando fa così.
<< In che senso problema? Tadashi, cosa ti è capitato? >> domando.
<< Ho perso la memoria >> risponde.
Mi chiedo come possa essere successo, quale bomba, quale incidente, quale trauma possa aver sconvolto la sua mente genuina; e non ho nemmeno la forza di arrabbiarmi. Dove si sarà cacciato per tutto questo tempo?
<< Mi stai dicendo che non ricordi nulla del tuo passato? >>
<< No. Ma parlo giapponese, quindi posso dedurre di essere nato in Giappone. >>
Mi siedo accanto a lui, avvilita dal fatto che non ricordi nemmeno la sua patria natia. Se non ricorda casa, certamente non ricorda me.
<< Sono stato in guerra, mi hanno detto. Mi sono risvegliato in un ospedale di Kansas City e ho dovuto ricominciare da zero, come se fossi appena nato. Ho dovuto imparare a parlare e mandare a memoria le mie generalità. Meno male che lei, signorina, parla in giapponese, perché l’inglese lo mastico ancora male, come avrà certamente notato! >> spiega sorridendo, socchiudendo leggermente gli occhi.
<< Tu… tu non ricordi chi sei? Non ricordi dove sei stato? Non ricordi di essere stato arruolato quattro anni fa? Non ricordi chi sono io? Non so chi ti abbia fatto arrivare fin qui, ma se solo tu potessi rimembrare saresti certo che questo è un segno provvidenziale. Perché sai, tu ed io… >> m’interrompo bruscamente. Dovrei ricordargli la nostra promessa? Dovrei ricordargli che cosa eravamo prima che partisse, prima che svanisse?
<< Chi è lei, signorina? È nata qui? Parla molto bene la lingua del posto >> constata, dopo avermi posto le seguenti domande. Per non morire d’imbarazzo nel rivelare la verità, corro a prendere il tanto desiderato ponce caldo.
<< Non ci crederai mai, ma io sono sempre stata la tua vicina di casa fino al giorno in cui sei partito. Abitavamo a Torono, io nell’appartamento numero 14, tu nell’appartamento numero 12. Siamo cresciuti insieme, tu ti sbucciavi le ginocchia e io ti ricucivo le ferite. Una sera ci siamo persino… beh, che importa adesso, diciamo che tu eri ubriaco e che la nostra amicizia era diventata un qualcosa di molto profondo >> taglio corto, decisamente a disagio. Le parole fluiscono dalla mia bocca come un fiume in piena, prive di controllo. Non ho mai avuto così tanta paura del vuoto in tutta la mia vita.
<< Lei, signorina, era la mia fidanzata? Che figuraccia, Dio mio! >> esclama, coprendosi la bocca e strabuzzando gli occhi.
<< Smettila di darmi del lei, Yamaguchi. In ogni caso, ho servito la patria come infermiera. Poco prima che accedesse ciò che è successo in Giappone, ma è meglio che tu non sappia che cosa è successo, sono fuggita in America, determinata a sconvolgere la mia vita e ad aprire la caffetteria dei miei sogni. Là non avrei mai potuto farlo >> continuo, porgendogli la sua bevanda.
<< Non è che ti stai inventando tutto solo per attirare la mia attenzione? Non lo fai perché ti faccio pena, non è vero? >>
Colmando il mio cuore di coraggio, afferro la sua mano e lo trascino nel ripostiglio sul retro, quello a me riservato. Probabilmente Tadashi non si ricorda di me perché la guerra mi ha cambiata, perché mi ha reso più spavalda, meno arrendevole, capace di affrontare una paura a spada tratta, similmente a come lui affrontava il temibile drago immaginario.
Siamo l’uno davanti all’altra, accanto a qualche scopa e barattolo di vernice.
<< E perché mai dovrei farlo? Perché dovrei inventarmi tutto? Sappi che se non ricordi, io diventerò la tua memoria. Non m’interessa che tu ricordi che cosa ti è capitato sul campo di battaglia, non m’interessa che tu ricordi come sei arrivato qui. Io voglio che tu ti ricordi di me e di noi. Voglio che ti ricordi che cosa provavamo. E se parlarne non è necessario, sarei disposta persino a comportarmi come una bambina di dodici anni che disegna scarabocchi pur di farti ricordare. >>
Un velo di lacrime annebbia le nostre viste ed è in questa sfumatura imprecisa che Tadashi mi abbraccia, con la stessa delicatezza di molti anni prima.
 
Tadashi, per farsi perdonare, ha deciso che vuole offrirmi un ballo. Gli ho detto che non sono un granché in ambito di danza e che è impensabile che nel mio locale io riesca a spostare tutti i tavoli e la clientela per creare una pista da ballo, ma lui mi ha confessato di non riuscire nemmeno a sentire il tempo e che lo spazio non sarebbe stato un problema. Tornati in sala, inserisce una moneta da 5 cent nella fessura del jukebox ed esso sceglie Benny Goodman e uno dei suoi ultimi capolavori: “All the cats join in”.
Mi porge la mano destra, e come un vero ballerino professionista mi trascina a sé, facendomi piroettare sul posto. Ci destreggiamo tra i tavoli, urtando sedie, mense e pietanze fumanti. Rischiamo di bruciarci, di sporcarci, di perdere acquirenti e denaro. Le nostre dita s’intersecano e le nostre gambe s’intrecciano e fluiscono insieme al clarinetto impertinente che rende erotica la melodia. Non staremo seguendo pedestremente il tempo, non staremo ballando lo swing nel migliore dei modi, ma averlo accanto a me e stringere nuovamente un corpo che per tanti anni credevo si fosse disintegrato è più appagante di qualsiasi progetto, di qualsiasi ferita ricucita bene e di qualsiasi caffetteria. Tutto è surreale ed inconcepibile; questa danza pare portare alla morte, al risveglio da un sogno troppo bello per essere vero. Altre coppie iniziano a danzare e a battere il tempo con i piedi e con le mani, posando sul tavolo cappelli e gioielli per non farli cadere a terra. C’è chi si lancia per terra e chi semplicemente appoggia la testa sulla spalla del compagno. Quando Tadashi mi solleva in aria tenendomi per i fianchi concepisco che c’è ancora speranza, che c’è ancora la possibilità che lui ricordi qualcosa, in futuro. Il suo sorriso è impagabile ed i nostri respiri affannati denotano un sano e disperato bisogno di dinamismo e di felicità.
Le sue lentiggini fluttuanti, tatuate nella mia mente da tempo immemore, rimbalzano nuovamente sul mio volto e come nove anni fa Tadashi mi accarezza le labbra con un bacio, sigillo di una memoria che, sono certa, riaffiorerà.
 
 

 
 
 
Angolo dell’autrice: una YamaYachi, signore e signori! Una YamaYachi che doveva essere scritta con le migliori intenzioni, ma che mi ha dato botte di angst notevoli! La mia intenzione era di ambientarla nel 1946 proprio per svincolarmi dalla guerra, ma sono stata fin troppo tentata da alcuni spunti che avevo, e quindi eccoci qui! XD Amo questi due tenerelli e trovo i loro caratteri molto affini, perché entrambi appaiono insicuri e tentennanti, ma in realtà sono capaci di grandi cose. Spero vi sia piaciuta, e soprattutto che io abbia reso bene la personalità di Yachi, perché era da molto tempo che non scrivevo dal punto di vista di una ragazza. Il fatto che lei sia leggermente più tosta di quanto non lo sia nell’opera originale è perché ho pensato che la guerra possa averla cambiata, e mi pare anche plausibile.
Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “All the cats join in” di Benny Goodman, “Dead hearts” degli Stars, “Funf Freunde” di Fabian Romer, dalla colonna sonora di Generation War.
- L’ambientazione del locale di Yachi e della danza finale, è ispirato al cartone animato “Musica Maestro!” in cui è presente proprio il brano “All the cats join in”.
- “Capelli giallo limone” è una citazione presa dal romanzo di Zusak “Storia di una ladra di libri”, in riferimento ai capelli biondi di Rudy.
Grazie mille come sempre a chi legge, recensisce, preferisce e segue <3 Ci si vede tra due settimane negli anni Cinquanta! * Prepara la brillantina *.
_Noodle 

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Capitolo 5
*** The Fifties. ***


1957, Rock ‘n’ Roll.
Testurou Kuroo, ballando “Hound Dog” di Elvis Presley, trova la felicità.
 
 
 
 
 
20 aprile, 1957
 
<< Amico, non aver sperimentato la brillantina è come non aver mai ascoltato un disco di Elvis. Ti manca un pezzo di storia! >>
Bokuto è il mio migliore amico. Capelli decolorati, occhi ambrati, fisico statuario e cervello fine e arguto solo se si tratta di certi argomenti. Bokuto è uno sportivo, un cavallo di razza, l'asso della squadra di football. Bokuto è un ragazzo dall’insaziabile appetito, dalla battuta pronta e dall'altalenante senso dell'umorismo. Bokuto è soggetto a cambiamenti di umore più frequenti di quelli delle mutande. È un ragazzo semplice, affettuoso, esuberante ed egocentrico, estroverso ai limiti della decenza. Bokuto è un candelotto di dinamite. Bokuto è il mio migliore amico, e sebbene molto ci divida e allo stesso tempo molto ci accomuni, ancora gli è ignoto l'incredibile potenziale della brillantina.
<< Insomma, quei capelli sono sprecati! Se solo li acconciassi pettinandoli verso l'alto, sono certo che tutte le ragazze cadrebbero ai tuoi piedi! Non hai visto come cinguettano al solo pronunciare il nome del mitico Elvis? Questo è perché lui ha quei capelli, e anche perché indossa la giacca di pelle, probabilmente. >>
Bokuto, intento a pettinare con le dita le ciocche bianche e nere verso il basso, mi guarda incuriosito, notevolmente interessato al modo in cui poter rinnovare il suo stile.
<< Dici che dovrei comprare una giacca di pelle? >> chiede, scostando l’asciugamano dalla vita per riporlo sulla panchina dello spogliatoio maschile. Dandomi la schiena, esploro parti del suo corpo che mai avrei voluto conoscere. Se solo non fossi suo amico da così tanti anni, probabilmente gli chiederei se nel suo vocabolario la parola pudore abbia una qualche rilevanza (non che nel mio sia una parola fondamentale, ed è per questo che siamo così affini).
<< Perché no! Dovremmo comprarcela tutti e due. D'altra parte il ballo di fine anno è vicino, e ancora ci manca qualcuno da invitare >> commento, spruzzandomi una buona dose di profumo e procedendo ad impiastricciare i miei capelli corvini con il magico cosmetico. La regola del college è questa: finiti gli allenamenti di football bisogna uscirne vittoriosi e più belli di prima.
<< Come posso invitare una ragazza? >> domanda Koutarou dopo essersi vestito, rubando il pettine dal mio armadietto ed iniziando ad impennare le proprie ciocche verso l’alto. Sorride compiaciuto, e lanciandosi in smorfie astruse per apparire più affascinante ottiene il risultato contrario.
<< Come puoi invitare una ragazza? Beh, vai da lei e glielo chiedi. >>
Uno sguardo preoccupato e perplesso si staglia sul suo viso, riflesso nello specchio davanti a me. Tempo dieci secondi e Bokuto inizierà a farneticare su quanto sia un fallimento e su quanto sia sfortunato, inetto ed incapace, pur essendo un talento ed uno schianto. È la quarta volta che accade nel corso della giornata, ormai ci sono abituato.
<< E se dovesse dire di no? E se non le piacessi? >>
<< Prova con qualcun'altra >> rispondo sorridendo, convinto che in un modo o nell’altro sarebbe riuscito ad accalappiare qualcuna.
<< E se dovesse andare male con tutte? Voglio dire, sarò anche il miglior giocatore di football della scuola, e probabilmente dell'intera città, ma sai come sono le donne, sempre incontentabili! Le vedi con i loro giubbotti rosa caramella zompettare in giro per il college e già ti prende lo sconforto! >>
Si siede sulla panchina. L’asciugamano che prima copriva i suoi fianchi ricade mollemente sulla sua testa con un movimento secco. Bokuto è in lutto.
<< Solo perché tu sei coerente come una bussola rotta, Bo >> esclamo, investendolo con un sorriso e con uno schiaffo sulla schiena.
<< Non è divertente! >> ribatte alzandosi in piedi, convinto di potere avere la meglio su di me.
<< Mal che vada, prova ad invitare un ragazzo! >> gli consiglio, togliendogli l’asciugamano dai capelli appiattiti e dirigendomi nuovamente verso l’armadietto per chiuderlo.
<< Un ragazzo? Ma che stai dicendo? >> ridacchia, afferrando il borsone ricolmo di indumenti sporchi e sudati. Io, al contrario, mi fermo, abbassando lo sguardo. Le mani e il respiro a mezz’aria.
<< C'è qualcosa di male, secondo te? >> gli domando.
<< No… voglio dire, è soltanto un po' strano chiederlo ad un ragazzo, non credi? Di solito queste cose si fanno tra un lui e una lei! >>
Bokuto Koutarou, il mio migliore amico, è ottuso. Ogni volta che ricadiamo in questi discorsi scomodi è come se si trasformasse in qualcun altro, in qualcuno che non è la mia perfetta e speculare metà. Vorrei essere chiaro con lui e dirgli come stanno veramente le cose, ma probabilmente non capirebbe, probabilmente si rannuvolerebbe e si allontanerebbe da me, incredulo e stupito dalla mia vera natura. O almeno, questo è quello di cui ho paura.
<< Kuroo? >> mi richiama, appoggiandomi una mano sulla spalla.
<< Forza, mettiti le scarpe e andiamo a comprare altra brillantina. I tuoi capelli fanno schifo. >>
 
È successo quando meno me lo sarei aspettato. È successo per distrazione. Ho scorto il suo volto pigramente, in maniera disinteressata, casuale. Il casco da gioco copriva parte della mia visuale ed il ciuffo di capelli neri rendeva striata la figura raggiunta dal mio sguardo. Intravederlo seduto sulle gradinate dello stadio, solo ed annoiato, con un quaderno in una mano e una matita nell’altra, mi ha scombussolato. Mi sono chiesto il perché di quella silenziosa presenza, mi sono chiesto perché quel ragazzo dai capelli scoloriti si trovasse lì, concentrato a studiare. Non dava segno d’interesse nei nostri confronti, puzzolenti e rozzi giocatori di football, ma non dava nemmeno cenno di essere affascinato da ciò che stava leggendo. Una statua di marmo il cui sorriso doveva ancora essere scolpito, una statua affascinante reclusa in un angolo del museo, una disturbante presenza quieta e poco ingombrante, capace di sotterrare con la sua forza anche gli animi più gioviali ed immaturi. Richiamarono la mia attenzione a gran voce, spronandomi  a continuare l’allenamento. Fu in quell’istante che il giovane dai capelli di grano e pece alzò lo sguardo, indirizzandolo  nella mia direzione; lo salutai con un goffo cenno della mano, che lui imitò timidamente. Poi se ne andò. Se solo il mio corpo non avesse mostrato evidenti segni di felicità, probabilmente avrei pensato di essermi immaginato tutto.

 
31 maggio, 1957
 

<< Perché vuoi fare questo stupido gioco, Bo? Siamo solo in due! Potremmo farci una passeggiata, o prepararci qualcosa da mangiare…dei popcorn magari! O perché non raggiungiamo gli altri a casa di Lev? >>  Bokuto mi zittisce con un rapido movimento del braccio, accompagnato da un convinto sfarfallio della mano destra.
<< Obbligo o verità? >> insiste, sorridendo e lanciandosi sul mio preziosissimo divano. Se le ragazze sono solite fare pigiama party in cui i momenti più attesi della serata sono le battaglie di cuscini e la stesura dello smalto, le serate tra me e Bokuto sono fatte di birra, saltuarie passeggiate per il quartiere e discorsi proibiti e spesso indesiderati.
<< Bokuto, smettila, non ci gioco con te ad obbligo o verità, abbiamo forse dodici anni? >> sentenzio, incrociando le mani sul petto.
<< A dodici anni eri più simpatico! Non accetti nemmeno se ti prometto di offrirti hot dogs per tutta l’estate? >> cantilena, facendo ondeggiare la testa da una parte e dall’altra.
<< Non hai tutti quei soldi >> controbatto sghignazzando.
<< Nemmeno se prometto di non rivelare a nessuno la tua passione sfrenata per le… >>
<< E va bene. Giochiamo. Ma sappi che sei un piantagrane! >>
Quando Bokuto inizia a minacciare di rivelare al mondo intero i tuoi segreti, è meglio soddisfare i suoi desideri. Non che abbia mai spifferato qualcosa sul mio conto in giro, sono all’oscuro di quello che potrebbe fare e di ciò che non farebbe. Sbuffo, sedendomi sul divano, di fronte a lui.
<< Scelgo verità. >> 
Bokuto alza le sopracciglia, mordendosi leggermente il labbro inferiore, sintomo di un’insaziabile sete di conoscenza. Mi spaventa, ma sarebbe stato decisamente peggio scegliere l’obbligo: Koutarou è capace di cose inimmaginabili.
<< Qual è la ragazza che ti piace? >> incalza, avvicinandosi vertiginosamente al mio naso, invadente come solo lui può essere.
<< Non c'è nessuna ragazza che mi piaccia, ora come ora >> confesso.
<< Non ci credo, Kuroo! Di' la verità al tuo fratellone! >> 
Posiziona il suo braccio intorno al mio collo, arpionandomi con forza. Ho sempre risposto sinceramente alle sue domande e anche quest’oggi è stato così, con l’unica differenza che nella verità serpeggia una piccola bugia; Bokuto deve averla individuata senza ombra di dubbio.
<< Non ti ho mentito. >> 
<< E allora per chi era questo? >> 
Fruga nella tasca destra della giacca di pelle nuova, estraendo un biglietto sgualcito; dopo averlo aperto, lo sventola davanti ai miei occhi. Che sia stato il nuovo look ad averlo reso così furbo? Che siano i capelli impomatati e ritti sopra la testa ad averlo trasformato? Come ha fatto a trovare quel biglietto?
 
"Vuoi venire al ballo con me?"
 
<< Dove l’hai trovato? Da quando ti fai i fatti degli altri in questa maniera? >> esclamo allontanandolo da me e strappandogli il biglietto dalle mani.
<< Stavo passeggiando per i corridoi. Questo simpatico pezzo di carta è caduto da un armadietto in cui era stato conficcato, si è aperto davanti ai miei occhi e, toh! ho riconosciuto la tua firma! Perché non mi hai detto nulla? Non credo che ci siano altri Tetsurou Kuroo al college, o mi sbaglio? >>
Noto un lieve disappunto nel suo sguardo. Capisco che si sente tradito, umiliato, abbandonato. Sorride per non farmela pesare, ma comprendo come possa sentirsi. Se Bokuto mi nascondesse qualche cosa e io lo venissi a scoprire per vie indirette, probabilmente reagirei allo stesso modo. Che sia finalmente arrivato il momento di rivelargli come stanno effettivamente le cose? È più rischioso perderlo per incomprensione o per mancanza di fiducia? Sarebbe decisamente stato meglio fare dei pop corn.
<< Prometti di non dirlo a nessuno >> sussurro.
<< Spiegati meglio >> continua lui, diventando improvvisamente serio.
<< Era per un ragazzo. >> 
Bokuto sbarra gli occhi, rilasciando mollemente cadere le braccia sulle gambe incrociate. Il suo sguardo torvo si sbriciola nel mio, imbarazzato e speranzoso di essere accettato. Pensavo che sarebbe stato facile ammettere questo sentimento, ma non pensavo potesse risultare così difficoltoso davanti alla persona a cui tengo di più al mondo, il mio migliore amico.
<< Kuroo, mi stai dicendo che ti piacciono i ragazzi? >> domanda, espressione indecifrabile ad incorniciare il suo volto allungato.
<< Beh, diciamo che ultimamente ne sono particolarmente attratto. Ma probabilmente non capisci e ti sembrerà assurdo che possa essere così, dal momento che sono stato con almeno una quindicina di ragazze. >> 
Bokuto rimane in silenzio, alzandosi dal divano. Inizia a passeggiare per la stanza. Noto il suo disagio, leggo sul suo volto un velo di confusione provocata dalla mia confessione, comprendo che, forse, avrei dovuto aspettare ancora un po’ prima di parlargliene. O forse no, forse è semplicemente indeciso su che cosa dirmi, su come capirmi. Lo vedo scomparire in bagno. Il rubinetto scroscia acqua rumorosamente. Mi avvicino alla porta accostando un orecchio, cercando di capire che cosa stia facendo. Vorrei dirgli di dimenticarsi che cosa gli ho appena detto, che è stato uno scherzo, una barzelletta raccontata male, una presa in giro senza altri scopi. Ma io a Bokuto non mento, mai.
<< Bo, ascolta… se esci dal bagno posso spiegarti meglio… >>
La porta si spalanca, Koutarou sosta davanti a me sorridente, completamente diverso da com’era pochi secondi prima di uscire dal bagno. Sesto sbalzo d’umore della giornata.
<< Forza, dammi un bacio >> pronuncia velocemente, ma scandendo bene le parole. Questa volta quello ad essere stupito sono io. Scuoto la testa lentamente, cercando di addentrarmi nel disordinato e piccolo cervello di Bokuto Koutarou con scarso successo. Bofonchio qualcosa dal senso poco compiuto prima di chiedere nuovamente che cosa intendesse con quel “dammi un bacio”.
<< Ti ho detto di baciarmi. Voglio capire che cosa si prova >> spiega lui, sorriso che non accenna a scomparire e cassa toracica che si alza e che si abbassa con ritmo incostante.
<< Essere attratti dalle persone dello stesso sesso non ha nulla a che vedere col baciare il proprio migliore amico. >> 
Bokuto abbassa lo sguardo, deglutendo rumorosamente.
<< Ma voglio capire che cosa potrebbe provocare in me. Voglio capire che cosa proveresti tu. Mi sono anche lavato i denti per l’occasione. Spero che non ti dispiaccia il fatto che io abbia usato il tuo spazzolino >> dice con un filo di voce, sfoderando un ghigno imbarazzato ed indicando il lavandino alle sue spalle. Si avvicina a me lentamente. Noto un fremito nelle sue mani, uno strano traballare delle gambe, simili ad assi instabili di un tetto.
<< Solo perché sei tu. Ma sappi che non mi piaci. In quel senso, ovviamente >> sussurro, allungando una mano verso la sua spalla destra e avvicinandolo incoscientemente e naturalmente a me.
<< Nemmeno tu mi piaci, fratello. >> 
L’irrazionalità di ciò che sta capitando è estrema, è un flusso di emozioni contrastanti e prive di un nome.
Contatto, pressione, abbandono.
Bokuto posa le sue labbra fresche di dentifricio sulle mie, le braccia di entrambi ricadono lungo il corpo attraversate da una strana tensione. Chiudiamo gli occhi all’unisono, istintivamente. Koutarou non lo sa, ma lui è il primo ragazzo che bacio: questa è la nostra prima volta. È buffo come il destino possa aver generato una situazione tanto paradossale, come possa aver deciso che sarebbe stato Bokuto ad insegnarmi come fare questo genere di cose. Sono felice di condividere questa esperienza con lui, esperienza che probabilmente dimenticheremo all’istante, o ricorderemo per la vita, o ripeteremo all’infinito. Koutarou allunga una mano verso i miei fianchi, succube dell’adrenalina del momento. Mi strattona a sé approfondendo il bacio, lingue che vengono a contatto come due serpenti che si sfidano a duello. Mi piace baciare Bokuto. È irruente, trascinatore, eclettico. Cingendogli la schiena, quasi mi chiedo come debba baciare il ragazzo a cui sono realmente interessato, il ragazzo dai capelli slavati e dal nome sconosciuto. Probabilmente, il suo bacio sarebbe diametralmente opposto a quello di Bokuto, sarebbe delicato, indeciso, tentennante. Ma questo non posso ancora saperlo. Ma questo non è importante, in questo momento. Non capisco più niente.
Bokuto si stacca da me facendo schioccare le labbra. Ripone le avide mani sui suoi fianchi e poi, nuovamente, sorride, soddisfatto di aver portato a termine la sua missione.
<< Non è nulla di strano. Voglio dire, è come baciare una ragazza, solo più... più…. Beh, è forte. >> 
Sono sconvolto e leggermente instabile: sapere che a Bokuto è piaciuto ciò che è appena accaduto mi tranquillizza e mi rasserena ai limiti dell’immaginabile. Bokuto ha compreso. Ciondolo sul posto, rosso in viso e sollevato nell’animo.
<< Allora, chi ti piace? >> mi domanda, abbracciandomi fraternamente. Ci impiego diversi secondi a rispondere, immagini che si susseguono nella mia mente come un disordinato raffazzonarsi di fotografie. Bokuto e il ragazzo sconosciuto si mescolano in una dolceamara visione.
<< È di un anno più piccolo di noi. È piccino, timido, silenzioso. Non l'ho mai visto sorridere. Non ci ho nemmeno parlato, se per questo… >> 
<< E allora perché ti piace? >> Questa domanda mi spiazza più di quanto le mie risposte possano aver spiazzato Bokuto.
<< Perché è fuori moda, poco socievole, incredibilmente intelligente ed unico nel suo genere. È il mio opposto. >> 
Ci sediamo sul divano, nelle stesse posizioni in cui eravamo seduti prima che Bokuto decidesse di provare il brivido del bacio.
<< Se non lo conosci, come fai a sapere tutte queste cose di lui? >> mi chiede grattandosi la testa, scompigliando i suoi nuovi capelli all’ultimo grido.
<< Io non lo so, in verità. Ma sono certo che sia così. L’ho capito semplicemente guardandolo. >>
E Bokuto, dopo aver posato i suoi piedi sulle mie gambe, inizia a sfornare mille consigli efficaci su come conquistare l’innamorato, più che certo che la legge per cui gli opposti si attraggono sia veritiera.
 

1 giugno 1957
 
“Non lo so, Kuroo Testurou, se verrò al ballo con te.
- K. K. ”
 
“Se vuoi darmi una possibilità, incontriamoci nel vecchio stadio dopodomani, non appena fa buio.
-Kuroo.”
 
3 giugno 1957
 
Si chiama Kozume Kenma e mi ha dato una possibilità.
Siamo rimasti seduti per tutta la notte sulle gradinate del vecchio stadio abbandonato, ricoperti di brividi e di audacia. Abbiamo parlato per ore ed ore, io un po’ di più, lui un po’ di meno. Ci siamo raccontati esperienze di vita vissuta e di vita sognata, io ho bevuto due birre, lui nemmeno una. Il bello di Kozume è che comunica limpidamente il suo modo di essere anche senza raccontarsi. Kenma è come un vicolo cieco, come un ripostiglio in cui nascondere le cose. A lui piace il silenzio ed ama ascoltare, ascoltare i rumori per poi descriverli, riempiendo pagine e pagine di quaderni usati e tovaglioli accartocciati. È un poeta della casualità, perchè non ricerca le cose: le trova e basta. Il volto pare quello di un bambino, ma lui è un gigante, un gigante buono e solitario che dall’alto del suo metro e settanta si diverte a spostare le stelle ogni notte. Kenma è come un vicolo cieco, come un ripostiglio in cui nascondere le cose: in lui trovi tutto e tutti, ma lui non si trova mai. In lui trovi il panettiere, il meccanico, l’impiegato, la studentessa di quindici anni e quella di venticinque, trovi il barbone e la prostituta, il corrotto e l’innocente. In lui trovi gli occhi, i desideri, le paure, le parole, i mondi, i fremiti, i sorrisi, i conati di vomito del sabato sera, l’euforia, l’apatia, la malinconia. Eppure, lui, non si trova mai.
Se fosse un fiume sarebbe il Tamigi, se fosse di qualche materiale incendiabile sarebbe di stoffa, se fosse un secolo sarebbe il 1400, pieno di guerra e di pace.
A lui non piacciono le curve, ma le righe dritte e gli schemi. Vorrebbe innamorarsi di una persona in carne ed ossa, ma ancora non gli è capitato; si nasconde dietro ai capelli troppo lunghi e al cappuccio della felpa grigia.
Non credo di essermi immaginato tutto, ma se così fosse, questo è decisamente un bel sogno. Non mi ha ancora detto se verrà  o meno al ballo con me.
 

16 giugno, ballo di fine anno.
 
La palestra del college è ricolma di studenti e di professori. Vistose sfumature di colori illuminano le pareti dell’ampia sala, le gonne scintillanti delle ragazze e le luci sfavillanti dei riflettori rendono l’atmosfera più sofisticata del previsto. La rock ‘n’ roll band inizia a riscaldare l’atmosfera con cautela, trattenendo i brani più movimentati per il vivo della festa. Molte ragazze se ne stanno sedute ad aspettare qualcuno, la maggior parte dei ragazzi, invece, ha già una compagna. L’unico ad essere solo, sono io. Non lo sarei del tutto se Bokuto, scapolo anche lui per solidarietà, fosse qui con me: è sparito ormai da mezz’ora. Nemmeno Kenma si è ancora visto. Il suo malcelato rifiuto a venire al ballo con me mi ha lasciato interdetto, ma ancora più allibito mi lascia il fatto che lui non sia qui, che non si sia nemmeno presentato. Non sarebbe stato più semplice dirmi che non avrebbe partecipato? Forse temeva che così facendo avrei potuto ancora insistere per cavare dal buco un appuntamento con lui? Che ingenuo.
Passeggiare avanti e indietro e scambiare qualche saltuaria parola non era nei miei programmi. Non so nemmeno cosa fosse nei miei programmi, a dire il vero, quindi non mi resta che accettare passivamente la situazione. Non sono il tipo che si arrende, ma senza Bokuto e senza Kenma, non ho molte possibilità di passare una serata all’insegna del divertimento. O meglio, potrei, ma mi sento debole, privo di vitalità.
<< Ehi, Kuroo! >>
Una voce alle mie spalle mi sorprende con la stessa violenza di un tuono.
<< Oh, Lev! Mi ero scordato che venissi anche tu. Dov’è la tua bella? >> domando, versandomi da bere in un vistoso bicchiere rosso.
<< Non c’è nessuna bella, ma ho portato mia sorella! >> spiega, indicando il corridoio alle sue spalle.
<< Si è fermata a posare la borsetta al guardaroba. Lo sapevi che abbiamo un guardaroba? >> bisbiglia Lev, guardandomi interrogativo e stupito. Appresa la notizia ed individuatolo, decido di dirigermi verso il fatidico guardaroba per posare il mio borsone, effettivamente troppo pesante per essere trasportato sulle spalle per ore.
Corridoio corto del primo piano, ultima aula a sinistra.
<< Ciao! Vorrei lasciare questo borsone… Kenma? >>
Kozume mi guarda stranito, accennando a nascondersi dietro ad una rella di abiti con poco successo. Abbassa lo sguardo spezzando l’invisibile filo che ci collega, imbarazzato e avvolto dal senso di colpa. Sento il suo respiro farsi più affannoso, le mani si stringono in due pugni tremanti con un gesto automatico.
<< Quindi eri qui. Potevi dirmelo che saresti stato impegnato in questo genere di lavoro, avrei potuto aiutarti. O per lo meno, non sarei rimasto così sulle spine aspettando una tua risposta. >>
Kenma apre la bocca più volte, vuota di parole e colma di sospiri. Sta cercando di dirmi qualcosa e con estrema fatica mi dimostra di sentirsi profondamente a disagio. Mi avvicino, oltrepassando la fila di banchi che delimita l’area del guardaroba e gli tendo una mano in segno di conforto; Kenma non l’afferra.
<< Scusami, Kuroo, hai ragione. Ma vedi, io sono fatto così, non amo gli ambienti affollati e, soprattutto, gli ambienti affollati non amano me. Non sono molto simpatico alle persone >> balbetta, srotolando a poco a poco la verità.
<< Non stai molto simpatico alla gente? Ti hanno mai parlato? >> gli domando, alzando le spalle e corrucciando il volto. Vederlo in questo stato è destabilizzante. Per quanto poco lo conosca ho già inteso la sua grandezza, la sua mente essenziale e geniale, e vederla sanguinare e zampillare per colpa di voci qualunque mi fa perdere le staffe.
<< A dire il vero è stato reciproco il silenzio. Spesso parlano male di me e mi usano per soddisfare loro esigenze. Immagina se io fossi venuto alla festa con te, immagina se mi avessero visto attraversare la sala da ballo accanto ad un ragazzo. Forse una ragazza avrebbe convenuto di più, ma io non convengo alle ragazze. >>
<< Kenma, sono dispiaciuto che tu non mi abbia detto queste cose, avrei potuto aiutarti… infondo… >>
Un ronzio, accompagnato da uno strano scrosciare di fogli e da un campanello elettronico risuona per la classe, per i corridoi e per l’intero college: qualcuno ha attivato gli altoparlanti.
<< Prova, prova! Si sente? >>
<< Bokuto? >>
Quella che sento è indubbiamente la sua voce, la roca voce di Koutarou. Che si sia intrufolato nell’ufficio della preside e abbia ridotto a suo completo monopolio il microfono? Qual è il suo intento? La ragione mi dice che non è nulla di buono, l’istinto mi convince del contrario.
<< Ehm, ciao a tutti! Spero ve la stiate spassando. Bene! Volevo informare tutti quanti che la signora preside ha esplicitato che quest’anno il premio di re e di reginetta del ballo verrà attribuito solo dopo il superamento di una prova, altrimenti potete scordarvi di ricevere il premio e anche la promozione alla fine dell’anno. La regola è di cambiare le coppie, abbandonare la propria fanciulla o il proprio cavaliere e di formare delle coppie di ragazze e ragazze, e di ragazzi e ragazzi! Insomma, donne con donne, uomini con uomini. Chiunque non si trovi in palestra corra subito e la raggiunga! Chi non balla, invece, vincerà il premio di sfigato dell’anno, consegnato da me in persona! Cazzo, speriamo che si senta la musica! >>
La velocità con cui le nostre iridi si raggiungono supera la velocità del tuono, del suono, della luce. Un sorriso spontaneo affiora dalle mie labbra, diverso dal solito ghigno per cui chiunque ormai mi riconosce. Sono esterrefatto, meravigliato, disgustato dalla bellezza di ciò che sta accadendo a me, proprio a me. Inizio a ridere, combattuto se saltare al collo di Kenma o a quello di Bokuto, principe della sregolatezza, Cupido occasionale. È un movimento improvviso di Kenma a scaraventarmi nuovamente nella dimensione della realtà, un contatto inaspettato e tiepido, timido ed invadente quanto un raggio di sole che fa capolino da una serranda abbassata. Kenma mi ha preso le mani, senza dire nulla.
<< Mi concedi questo ballo? >> gli chiedo io.
Senza attendere nemmeno un secondo ci precipitiamo al piano di sotto, facendo irruzione nella grande palestra. Tempo di sistemare i capelli e di spolverare le spalle della mia giacca di pelle, che subito la sconvolgente “Hound Dog” di Elvis Presley elettrizza tutti i ballerini, sia quelli divertiti che angosciati dall’insolita situazione. La rock ‘n’ roll band, interdetta dalla faccenda, abbandona gli strumenti uscendo dall’uscita di sicurezza della palestra a fumare qualche sigaretta. Intanto, io e Kenma balliamo. Il fatto che mi venga da muovere il bacino in maniera incontrollata e che mi venga da strizzare gli occhi ad ogni piccolo accenno di vitalità da parte di Kenma mi fa sentire un bambino che scopre che cosa significhi provare piacere, mi fa sentire vivo: Kozume mi regala queste sensazioni. Lo prendo per mano, lo faccio volteggiare afferrandolo per i fianchi e per le spalle; ci scambiamo di posizione e di ruolo, saltiamo, corriamo, roteiamo. Gli concedo di indossare la mia giacca di pelle per l’intero arco della serata, sperando che diventi sua e che non me la restituisca mai più. Alla fine della canzone, mentre i nostri volti si sono avvicinati paurosamente e sfacciatamente, noto un rossore cospargere le sue gote. Kenma, in quello strano guazzabuglio di stranezze, decide di stupirmi compiendo il gesto più strano: sorride.
 
Bastano pochi istanti per farci ritrovare chiusi in un cubicolo dei bagni del secondo piano a baciarci come due amanti disperati ed affamati.
È proprio come me l’ero immaginato.
 

01:44, 16 giugno 1957
 
<< Bo, sei un amico. Un po’ svitato, ma sei un amico. Ringrazia che non ti abbiano sospeso a vita! >> esclamo, camminando al suo fianco a piedi scalzi. Le scarpe da ballo sono decisamente scomode.
<< Sai che la preside ha un debole per me, mi doveva un favore! >> scherza lui, chiudendo gli occhi e sorridendo compiaciuto.
<< Credo di doverne io uno a te >> propongo, assaporando sulle labbra ancora il sapore di Kenma.
<< Non dire sciocchezze! Tuttavia, se ti andasse di offrirmi qualche hot dog… Io non ho abbastanza soldi, l’hai detto tu! >>
La luna ci accarezza con bonarietà, la strada costellata da villette a schiera è deserta. La nostra risata crepa con discrezione il silenzio che ci circonda, e la mia mente ringrazia il destino per avermi donato la felicità, una giacca di pelle e della brillantina. Bokuto Koutarou e Kenma Kozume.
 
 

 
 
 
Angolo dell’autrice: con un giorno d’anticipo, eccomi qui! <3 Ammetto che non vedevo l’ora di pubblicare questo capitolo (e infatti spero di non aver dimenticato errori per la foga di pubblicare) e ora vi spiegherò anche perché: innanzi tutto perché in molti mi hanno chiesto di scrivere una KuroKen e quindi spero di avere in un certo senso soddisfatto queste lettrici (incrocia le dita), in secondo luogo perché ho visto la realizzazione di questo capitolo come una vera e propria sfida (essendo io dalla parte della KuroTsukki), e in terzo luogo perché ho inserito un po’ di BoKuroo, nuova ship che mi sta facendo letteralmente perdere la testa (fissa intensamente EmsEms per avermi trascinato in questo oblio bellissimo, questa fanfiction è anche un po’ tua, per la BoKuro ovviamente). VI GIURO CHE NE SONO OSSESSIONATA. BoKuro a parte, spero che vi sia piaciuta e spero di aver reso bene ogni personaggio, in particolare Kenma. Trovo molto difficile entrare in empatia con lui, quindi vi prego di dirmi se avete trovato qualcosa di poco azzeccato! Intanto, cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “Hound Dog” di Elvis, “Glamorous Indie Rock n Roll” dei The Killers, “Toothpaste kisses” dei The Maccabees.
- Mi sono ispirata tantissimo al film Grease per tutta l’ambientazione.
Grazie a chi legge, preferisce, recensisce, segue e quant’altro, siete delle gioie! <3 Al prossimo capitolo! –va a pensare perché non ha idee su che cosa scrivere. Maledetti anni Sessanta-.  
_Noodle

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Capitolo 6
*** The Sixties. ***


1964, Musica Folk.
Tobio Kageyama, chiusa la porta a chiave, inizia a recitare i versi di “The house of the rising sun” dei The Animals.
 
 
 
 
 
San Francisco, 1963
 
Li chiamano “figli dei fiori” per via dei loro bizzarri vestiti dalle stampe floreali.
Sfoggiano abiti colorati, stoffe fluorescenti e camicie dalle fantasie psichedeliche. Indossano terribili pantaloni a zampa, strane corone di stoffa e sandali di cuoio di seconda mano. Hanno i capelli lunghi, occhiaie profonde, bruciature di sigaretta sulle mani.
Mio padre sostiene che i figli dei fiori assumano sostanze allucinogene illegali per estraniarsi dalla realtà, per esimersi dai loro doveri ed impieghi. Sostiene che urlino e che ballino nel cuore della notte, che invochino strane divinità, che affoghino le loro debolezze nell’alcool e che imprimano indecifrabili simboli sulla loro pelle in segno di rivolta.
Mio padre sostiene che i figli dei fiori siano una piaga per la società e che in un momento come questo, in cui si sta combattendo una guerra di considerevole importanza e in cui le nuove reclute sono fondamentali per la supremazia, dovrebbero essere indottrinati e responsabilizzati, distolti dal bruciare le cartoline di chiamata alla leva. Mio padre è un veterano della Seconda guerra mondiale, sa di quello che parla. Spesso s’imbatte nei loro raduni improvvisati, nelle loro scorrerie e buffonate da fenomeni da baraccone. Mi racconta di come spesso si riuniscano per strimpellare qualche canzone dal motivetto insopportabile e di come cantino a squarciagola, quando invece potrebbero ricoprire un’utile mansione per la società. Una volta ha addirittura assistito ad una scena raccapricciante, talmente stomachevole che a stento riesce a ricordarla. Mi ha confessato soltanto che si trattava di due uomini in atteggiamenti promiscui.
Se mio padre non mi obbligasse a restare chiuso in camera non appena tornato da scuola, penso che sarebbe divertente poter vedere qualcuno di questi figli dei fiori. Almeno sarei certo del fatto che mio padre non mi racconta bugie.
 
18 settembre, 1964
 
E’ successo ieri, mentre camminavo verso casa.
La giornata appena trascorsa, che si accingeva a sfumare in un tramonto dai colori violacei, era stata terribile, quella che si sarebbe potuta definire ‘una giornata da dimenticare’. A scuola non era andata bene, gli allenamenti pomeridiani di pallavolo non erano stati all’altezza delle mie aspettative e a casa, fatto il resoconto degli avvenimenti, non sarebbe di certo andata meglio. Ero certo che mio padre mi avrebbe nuovamente rimproverato per l’ennesimo votaccio e che mi avrebbe chiesto perché non riuscissi a raggiungere un qualche risultato, perché non riuscissi a combinare qualche cosa dopo tutte le ore trascorse in camera a studiare. Ero certo che avrebbe insistito sul fatto che la pallavolo stesse diventando la mia più grande distrazione e sul fatto che farmi tornare a casa da solo ogni giorno non fosse una brillante idea. Avrebbe sospettato di me, che potessi compiere illegalità o frequentare compagnie poco raccomandabili, avrebbe sospettato persino che la mia poca intelligenza fosse dovuta ad un ignoto e grave problema mentale.
Io ero convinto che il mio problema fosse lui.
Fu ad un isolato di distanza dalla mia residenza, più precisamente a Dolores Park, che il mio corpo fu colpito dal peggiore degli accidenti, dal guaio più inaspettato che potesse sconvolgere la mia vita. I battiti del mio cuore aumentarono, la sudorazione divenne copiosa, la salivazione assente. Un terribile capogiro mi fece cadere a terra ed una nausea intollerabile avvinghiò il mio stomaco a tal punto da strizzarlo e prosciugarlo quasi completamente. La delusione per la giornata era diventata tale da risultare più debilitante del previsto. Conati di vomito mi assalirono senza darmi tregua, i muscoli e i tessuti che si contraevano per i violenti spasmi. Al culmine dell’instabilità una massa arruffata di capelli rossi si stagliò davanti ai miei occhi, un deciso aroma di tabacco mescolato a sudore s’insinuò nelle mie narici ed un tocco tiepido e morbido accarezzò la mia mano, tremante ed infreddolita. Si trattava del peggiore degli accidenti.
<< Tutto bene, amico? Metti la mia maglia, stai tremando! >>
La voce del mio interlocutore era squillante e si snodava in inflessioni innaturali ed infantili. Sebbene la mia vista fosse annebbiata a causa dei capogiri, notai che il ragazzino si era tolto la maglia e che restava a petto nudo davanti a me sventolando freneticamente l’indumento.
<< Che fai? Questa maglia puzza, non ne ho bisogno… >> bofonchiai tentando di sedermi come meglio potevo, erba del prato che iniziava a trattenere la timida frescura della sera.
<< Che olfatto! Scusami, amico, è che non torno a casa da due settimane ormai. Credo che dovrei imparare a lavare i miei vestiti da solo, tu che dici? >> domandò lui in modo retorico. La sua immagine, a poco a poco, stava acquistando sempre maggiore nitidezza. Aveva la pelle chiara ed un sorriso sincero, poche lentiggini e svariate imperfezioni.
<< Ascolta, non so chi tu sia, ma io devo correre a casa, o mio padre non avrà pietà e mi caccerò in guai seri. >>
Il ragazzo dai capelli rossi mi tese una mano nel tentativo di alzarmi e non appena fui in piedi mi accorsi che era decisamente più basso di me, di almeno trenta centimetri. In quel momento realizzai che quello che avevo davanti poteva essere realmente un bambino, un ragazzetto ribelle scappato da casa per vivere di chissà quali espedienti.
<< Ma tu quanti anni hai? Lontano da casa da due settimane, sei pazzo? >> Lui mi guardò contrariato, inclinando la testa ed aggrottando le sopracciglia in un movimento rapido, simile a quello degli uccelli.
<< Non sono pazzo! Ho diciotto anni ormai, sono in grado di badare a me stesso. E tu spilungone, quanti anni hai? >> mi domandò, lasciandomi interdetto: era più grande di me.
<< Diciassette. Ne compio diciotto a dicembre. >>
Il piccoletto, dopo aver indossato la maglia maleodorante al contrario, mi poggiò una mano sulla spalla. Mi soffermai sul suo sguardo da furfante con la stessa intensità con cui un fratello maggiore avrebbe giudicato quello minore, sentendomi tuttavia in soggezione. Forse lo sguardo da fratello maggiore non era quello che più si addiceva alla situazione.
<< Ti facevo più grande, amico. Vuoi che ti accompagni a casa? >>
<< Non è il caso >> risposi rapidamente, accelerando il passo.
<< Non mi sembra che tu stia così bene >> continuò lui seguendomi insistentemente, passi trotterellanti alternati a qualche saltello.
<< Ti ho detto che non mi sembra il caso >> ribattei, tentando di allontanarlo facendo pressione sulla sua fronte. Il piccoletto non demordeva, aveva una forza inversamente proporzionale al proprio corpo.
<< Perché quella faccia da funerale? >>
<< Non è stata una bella giornata. >>
<< Che ti è capitato? >>
<< Ho preso l’ennesima insufficienza in inglese, ho fatto un allenamento di pallavolo pessimo, e sono sicuro che appena tornerò a casa mio padre avrà di che lamentarsi. Ma perché te ne sto parlando? Non so manco come ti chiami o chi tu sia >> sbottai infine voltandomi verso di lui, occhi impazziti e mani tese e nervose in un impulso d’ira. Lo sguardo del microscopico ragazzino s’incupì leggermente al suono severo della mia voce. I suoi occhi grandi s’ingigantirono ancora di più, colmandosi di dispiacere e d’incredulità.
<< Me ne stai parlando perché hai bisogno di parlarne, tutto qui. E comunque mi chiamo Hinata Shouyou, ma tu puoi chiamarmi… >>
<< Ti chiamerò Hinata, com’è giusto che sia. E ora fammi andare a casa >> tagliai corto. La giornata, per colpa della sua presenza e della sua irritante sfacciataggine, non stava migliorando in alcun modo. Avevo voglia di fuggire, di rintanarmi nella mia stanza ed una volta lì immaginare un mondo in cui tutto andava secondo i miei piani, un mondo in cui tutto s’incastrava perfettamente e in cui le dinamiche interpersonali risultavano funzionali, in cui i padri amavano i figli e i figli i padri.
<< E va bene. Ma prima che tu vada, vorrei lasciarti questo. >>
Hinata mi porse un foglietto scritto a mano con i pennarelli colorati.
<< Che roba è? >> chiesi.
<< E’ l’indirizzo del luogo dove domani sera si terrà un incontro riflessivo >> spiegò lui, aria di chi sapeva di che cosa stesse parlando.
<< Incontro riflessivo di che tipo? >> domandai, piegando il foglio e riponendolo nella tasca dei pantaloni.
<< Bhe, si parla, si discute, si beve e si mangia qualche cosa in compagnia, si danza, si… >>
<< Non ci verrò, grazie. >>
M’incamminai dandogli le spalle, tentando di dimenticare tutte quelle debolezze e frivolezze che mi disgustavano ed allo stesso tempo mi facevano sentire terribilmente solo.
 
19 settembre, 1964
 
Ieri sera, non appena arrivato a casa, ho dovuto affrontare mio padre. Ho dovuto spiegargli che cosa fosse successo, quali risultati avessi ottenuto durante la giornata e anche proporgli un metodo efficace per porre fine alla mia stupidità. L’ennesimo ed estenuante litigio, l’ennesima porta che sbatte. Urla e pianti, rabbia ed incomprensione, repressione. Parole taglienti e velenose, epiteti che un padre amorevole non rivolgerebbe mai ad un figlio. Disonore, delusione, schifo. Mi sono rinchiuso in camera, affondando la testa nel cuscino e lasciando che le lacrime macchiassero la gelida federa grigia. Nel tentativo di frenare i miei più bassi istinti, ho compreso di aver bisogno di colori. Ho bisogno del giallo, allegro e dinamico, del rosso, così passionale e travolgente, del verde, sfumatura della speranza e della fiducia. Ho bisogno delle certezze racchiuse nel blu, dell’estrosità del viola, del calore e dell’audacia dell’arancione. Nel tentativo di frenare i miei più bassi istinti, ho compreso di aver bisogno di aria. Ho bisogno del vento, della brezza, degli uragani e delle piccole folate d’aria estiva; ho bisogno di profumi nuovi, di fragranze afrodisiache, di un leggero e costante stato d’incoscienza. L’eccessiva responsabilità e l’eccessivo rispetto delle regole mi ha portato ad essere qualcosa che non voglio, mi ha portato ad avere paura, ad essere una semplice pedina dei desideri di mio padre. Nel tentativo di frenare i miei più bassi istinti, ho deciso di accettare l’invito del ragazzino di Dolores Park, di riempire uno zaino di mutande e merendine e di andarmene per un po’, lasciando mio padre in balia di se stesso.
E di me? Che ne sarà di me? Sebbene abbia capito molte cose, l’atteggiamento giusto per pormi in modo diverso e per cambiare mi resta ancora ignoto.
 
Busso. Qualcuno apre la porta. Mi presento, entro a testa bassa.
<< Ehi! Ma tu sei il tizio che ho incontrato ieri sera a Dolores Park! >>
Hinata, il ragazzo dai capelli rossi, si avvicina a me, scostando una tenda trasparente che separa l’ingresso da un’altra stanza. Il posto in cui si tiene l’incontro non è altro che la casa di qualcuno, un umile appartamento arredato in modo stravagante all’angolo con Ortega Street.
<< Sei venuto, alla fine! Vieni con me, ti presento a colui che ha organizzato la serata e che mi ha offerto un posto in cui dormire. Lui è la nostra guida. Yuuji! >> continua Hinata, afferrandomi per un braccio e trascinandomi in quella che credo sia la sala da pranzo. Ci sono molte persone intente a chiacchierare e a ridere, un motivetto familiare allieta le mie orecchie ancora sanguinanti per le urla della sera precedente.
<< Yuuji! >> Hinata reclama l’attenzione di un bel tipo, la cosiddetta “guida”, che probabilmente è anche il proprietario di casa. Capelli ossigenati, camicia aperta a mostrare il petto leggermente muscoloso, jeans strappati e piedi scalzi. Le unghie delle mani e dei piedi di questo bizzarro individuo sono pitturate di nero.
<< Ti presento… come hai detto che ti chiami? >> farfuglia Hinata, colto da sbadataggine.
 << Non l’ho detto. Mi chiamo Tobio Kageyama, molto piacere. >>
<< Ti presento Tobio Kageyama! >>
Il ragazzo biondo mi stringe la mano con decisione e fermezza. Ha l’aria di chi è entusiasta della propria vita, di chi ha esperienza, di chi ha tentato innumerevoli volte e per innumerevoli volte ha fatto centro. Le fossette e le flebili rughe del suo giovane volto denotano che è solito sorridere.
<< Ho capito Shouyou, grazie! Io sono Yuuji Terushima, papà spirituale di tutti questi ragazzi. Tu mi sembri nuovo, raccontami di te, dimmi chi sei. >>
Terushima inizia a camminare lentamente in direzione di un’altra stanza, piedi che affondano in una serie di morbidi tappeti che ricoprono il pavimento di legno. Sui jeans di Terushima, a livello del fondoschiena, vi è cucita la seguente frase: “Let the sunshine in”. Io e Hinata lo seguiamo a ruota. 
<< Io sono uno studente >> dico, alzando lievemente le spalle e scavalcando bottiglie di birra abbandonate a terra.
<< Tutto qui? Possibile che in quel cervello non ci sia qualcosa di più di qualche nozione elementare? >> incalza Terushima, cogliendomi di sorpresa. Mentre parla, noto che sulla sua lingua rosea trionfa una piccola pallina bianca, che non capisco se sia una caramella o chissà che cosa.
<< Bhe, non lo so, non ci ho mai pensato. >>
Terushima sorride, scompigliandosi i capelli con un rapido gesto della mano.
<< Hinata, hai portato qui una bella gatta da pelare! >> esclama con un cenno del capo, aprendo la porta di una piccola camera da letto.
<< Vieni con me, Tobio, facciamoci una chiacchierata. >>
<< Posso venire anche io? >> domanda Hinata, avvicinandosi velocemente alla porta, quasi volesse impedire a Yuuji di rispondergli.
<< No, amico, questo discorsetto a te l’ho già fatto ed immagino che non avresti avuto voglia di avere qualcun altro accanto a te in quel momento >> conclude Terushima, sbattendogli la porta in faccia e trascinandomi forzatamente dentro, scaraventandomi sul letto. Sebbene sia più basso di me, ha una forza notevole. Temo che da un momento all’altro possa ficcarmi le mani sotto la maglietta.
La camera da letto profuma d’incenso. Il copriletto sul quale siamo seduti pare tinto a mano, le pareti dipinte con le dita, le luci appese sul soffitto degli addobbi di Natale. L’atmosfera è soffusa e quasi mi sento a disagio in questa dimensione che porta ad esternare istintivamente la propria interiorità.
<< Allora, Tobio, come vanno le cose con i tuoi? >>
La prima domanda che Terushima mi pone è la più dolorosa e spiacevole. Abbasso lo sguardo, tormentandomi le dita. Forse sarebbe stato meglio che mi avesse ficcato le dita sotto la maglietta.
<< Io… io non ho mai conosciuto mia madre, sono cresciuto con mio padre. Discutiamo molto. >>
<< Come mai? >>
Traggo in lungo sospiro. Ancora mi è sconosciuto il motivo per cui io stia parlando di me con un perfetto sconosciuto.
<< Lui sostiene che io sia un buono a nulla perché non vado bene a scuola. >>
<< Non per forza non andare bene a scuola è sinonimo di essere una cattiva persona. Tu sei una cattiva persona? >> mi chiede Terushima, accendendosi una sigaretta che rilascia una fragranza alquanto strana. Deduco che non è tabacco.
<< Ma che razza di domanda è? Come faccio a saperlo? >>
Il fumo della sigaretta mi annebbia la vista e s’insinua nei miei polmoni passivamente. Tossisco una o due volte con stizza, dopodichè mi abituo alla serpeggiante nube speziata.
<< Hai amici? >>
La seconda domanda è meno dannosa della prima, anche se infelice.
<< Ne avevo molti! >>
<< E che fine hanno fatto? >>
<< Ma perché devo raccontare a te della mia vita? >> confesso finalmente, alzandomi dal letto. Terushima mi afferra per una spalla, facendomi nuovamente sedere ed offrendomi la sigaretta. Con lo sguardo, mi spinge e provare, ad inalare quella sostanza che ancora non conosco e che probabilmente, come sostiene mio padre, potrebbe anche essere illegale.
<< In amore come va? >> La terza domanda fluttua nel vuoto.
<< A-amore? >> tossisco.
<< Amore e tosse non si possono nascondere, Tobio! L’amore è il sentimento primordiale ed istintivo che contraddistingue l’uomo! L’uomo ha caldo, ha freddo, ha paura e s’innamora. Hai mai provato questo sentimento? >>
<< No. >>
<< Non vorresti provare? >>
<< No. >>
<< Hai mai visto una ragazza senza vestiti addosso? Un ragazzo? Hai mai fatto qualche cosa…>>
<< No! Terushima, io non ho mai fatto nulla del genere e anche se fosse così non te lo verrei a raccontare con tanta leggerezza. >>
E’ come se la mia testa avesse iniziato a galleggiare dentro ad una bolla di sapone, come se stesse fluttuando cullata da invisibili e tiepide onde. Le pareti del mio cervello si espandono, sento i lobi anteriori tirare, lacerare la mia pelle ed il mio cranio. In tutto ciò non provo dolore, e Terushima continua a parlare. Credo di aver appena sorriso, senza un apparente motivo.
<< Qui ci sono un sacco di ragazze e di ragazzi che non vedono l’ora di abbandonarsi tra le braccia di qualcun altro, dovresti lasciarti andare anche tu >> insiste lui sorridendo, continuando a fumare e a porgermi la sigaretta. Accetto senza tirarmi in dietro. Questa sostanza si sta rivelando il più assuefacente e rilassante del previsto. Non provo più disagio e Terushima appare ai miei occhi meno invadente.
<< Ma non voglio! >>
<< D’accordo. Allora, mentre cambi idea, vieni con me, ti offro qualche cosa da bere. >>
Yuuji mi conduce in cucina, stracolma di ragazzi e di ragazze di tutte le età. La più giovane credo abbia appena quindici anni. Il padrone di casa mi porge un bellissimo bicchiere in vetro (probabilmente di qualche vecchio servizio di famiglia) e m’invita a sedermi accanto a Hinata, occhi lucidi e pupille dilatate.
<< Che hanno i tuoi occhi? >> gli chiedo con poco tatto, avvicinandomi vorticosamente al suo naso per osservarli meglio.
<< I miei occhi? Di già? Teru, questa cannabis è davvero uno spasso, mi fa sembrare una ranocchia! >> ridacchia Hinata, portandosi le mani agli occhi ed allargandosi le palpebre.
<< C-c-cannabis? >> balbetto, fissando insistentemente Terushima, che mi guarda divertito.
<< L’hai capito solo adesso, Tobio? >>
Probabilmente il fatto che io sia arrivato a conoscenza della realtà della sostanza assunta aumenta il suo effetto. Di primo acchito mi  sento spossato, ma la spossatezza viene immediatamente rimpiazzata da una nuova e piacevole sensazione di rilassatezza e di conforto. La bolla di sapone espande le sue morbide pareti.
<< Mio padre dice che voi figli dei fiori fate uso di queste cose per estraniarvi dalla realtà ed esimervi dai vostri impieghi e doveri! >> sentenzio, sorriso impertinente e occhi a mezz’asta.
<< Tuo padre non sa proprio un bel niente. Questa serve per ampliare la mente, per mostrare nuovi orizzonti, per estendere le proprie vedute! Tieni, bevi >> mi risponde Hinata, facendo il verso a Terushima e versandomi nel bicchiere un drink dall’aspetto invitante. Sebbene il sapore sia dolce, scendendo nella gola lascia un retrogusto amaro, similmente all’esperienza che sto vivendo in questo momento. Non so se scappare sia stata la cosa giusta da fare, andarmene lasciando che mio padre e i suoi improperi rimanessero rinchiusi nella mia casa dalle pareti grigie. Probabilmente il mio comportamento lo deluderà, non vorrà mai più rivedermi, ma d’altra parte non è quello che voglio? Forse ciò che mi preoccupa di più è questa situazione, questa atmosfera rilassate e pacifica, psichedelica ed assurda.
Mi soffermo a fissare gli occhi del ragazzino dai capelli rossi. Sono grandi e liquidi, talmente profondi e limpidi da mettere a disagio chi li osserva. Risucchiato dalle sue iridi fiammeggianti, non mi accorgo che lo sguardo è corrisposto.
<< Che cosa c’è? >> mi chiede, sorriso sghembo e drink alla mano.
<< Niente. Stavo solo pensando se quello che sto facendo è la cosa giusta. Voglio dire, scappare di casa… >>
<< Vuoi scappare di casa? >> dice; noto il suo stupore. << Non ti credevo un tipo così audace >> continua, ridacchiando.
<< Scemo. Non so che cosa fare, non so se questo sia il posto giusto per me. E non so nemmeno se tu sei in grado di capire. Tu perché te ne sei andato di casa? >> gli domando, inciampando tra una parola e l’altra.
<< Me ne sono andato perché credo in questi valori, perché condivido le idee di questa gente, il loro modo di pensare, di ragionare, di affrontare la vita. Mi sembra un motivo più che sufficiente. Noi crediamo nella pace, nel rispetto, nella diversità come un punto di forza. Crediamo nell’amore, nella tenacia dei fiori, nella potenza e prepotenza dei baci. Crediamo che la guerra non sia la soluzione, crediamo nella parola e nell’umiltà, nella miseria dei beni e nella ricchezza dell’animo. Ho iniziato ad interessarmi a questa comunità da qualche tempo, ma è solo da due settimane che ho deciso di provare ad affogare con tutto me stesso in questa vita psichedelica. Se anche tu condividi ciò che pensiamo, allora questo non può essere altro che il posto giusto per te. >>
Le parole di Hinata mi feriscono con un’indicibile violenza. I fiori che esplodono dai fucili fanno più male che le pallottole. Io credo in ciò che mi ha appena detto? Io credo in qualcosa? Credo in un ideale, credo nell’amore, credo nella pace? In che cosa credo?
<< Io non lo so, Hinata. Io non ho mai pensato a nulla di tutto ciò. Non conosco la pace, non conosco l’amore, non conosco la vitalità. Conosco solo muri slavati ed urla stridenti. Non credo di essere adatto a vivere qui con voi, se è questo quello che mi spetta. >>
<< Proprio perché ne sei consapevole, allora sei pronto. Non è mai troppo tardi per imparare ad amare, qualunque persona o cosa si ami. Basta iniziare a cambiare prospettive. >>
Terushima, silente per tutto quel tempo, mi porge l’ennesima bevanda, ed è dopo averla prosciugata con ingordigia che capisco di aver perso ogni inibizione, di essere vittima dell’ubriachezza e dell’incoscienza. Mi sento vivo, rilassato, stomacato, confuso, stranamente me stesso. Mi sento pieno, pieno di dubbi e di paure, pieno di emozioni che sento che in qualche modo potrebbero emergere da un momento all’altro.
Nel salotto dove io, Hinata e Terushima ci spostiamo, sedendoci sul divano, stanno raccontando storie, leggendo poesie ed articoli di giornale. Terushima abbraccia una chitarra, iniziando ad intonare una canzone.
 
“There is a house in New Orleans,

they call ‘The Rising Sun’.

And it’s been the ruin of many a poor boy,

and God I know I’m one.
Oh mother tell your children not to do what I have done.

Spend your lives in sin and misery,

in ‘The House of the Rising Sun’.”
 
<< The house of the rising sun >> sussurra Hinata, appoggiando la sua testa sulla mia spalla, che sembra contenere perfettamente il suo cranio. Un incastro perfetto.
<< The house of the rising sun? >> domando.
<< E’ un nuovo successo dei The Animals. Parla di una casa di New Orleans, utilizzata un tempo come bordello e gestita da una tizia il cui soprannome era “Rising Sun”, sole nascente. È così, malinconica, così tormentata! >> continua il rosso, voce tremolante per l’emozione. Mentre le corde pizzicate dalle dita esperte di Terushima producono suoni graffianti ed intensi, un altro tocco di dita accarezza lentamente la mia coscia destra, percorrendo mollemente la superficie dei miei pantaloni. Stanno cercando di raggiungere la mia mano le dita di Shouyou, di questo sconosciuto dalle mille idee e convinzioni. Vogliono legarsi alle mie senza che io ne sia stato avvisato, senza un apparente perché. Cercano, si muovono sensualmente e delicatamente, attraversate da una scarica di erotismo. Nell’incoscienza dettata dall’alcool e dalla cannabis, dalla musica di Terushima (che quasi sembra stia facendo sesso con le parole della canzone), dalla nausea e dalla sregolatezza del momento, afferro la mano di Hinata grossolanamente, e la stringo nella mia. Il perché, non lo so.
È la prima volta che stringo la mano di qualcuno, è la prima volta che qualcuno stringe la mia. Lui la accarezza con il pollice, scavalcando le mie spesse e strabordanti vene. Hinata ha gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta. L’eccitazione del momento fa si che io agisca nello stesso modo. Stringo la presa, avvicinando le nostre mani intrecciate al cavallo dei miei pantaloni. Desidero un nuovo e spietato contatto, desidero capirne di più di questa bestia chiamata amore. Il lento movimento di risalita, tuttavia, viene interrotto da un applauso e dalla voce di Terushima, che si rivolge inaspettatamente a me.
<< Tobio! Perché non ti presenti? Sei nuovo qui. Se vuoi rimanere con noi, non devi fare altro che mostrarci qualcosa di tuo. >>
Mollo la presa, districando le mie dita da quelle tiepide di Shouyou. Mi alzo in piedi come se fossi un leader in procinto di pronunciare un discorso importante e mi piazzo al centro del salotto, spodestando Terushima. Deglutisco, carico di un’energia proveniente da un lontano universo.
<< Ma a noi degli opposti che cosa importa? Se sono altro da noi, perchè esistono? Se non ci appartengono vuol dire che non esistono, che sono un nulla. Tuttavia potrebbe anche non essere vero ciò che dico, perchè quello che io non sono, potrebbe esserlo qualcun altro. Questo fa paura, non trovate? Quindi, se io sono la notte, tu sei il giorno? E se non esistessi perchè sei altro da me? Se esistesse solo la notte in questo grande mondo fatto di luci artificiali? Qualcuno però, mi disse che senza giorno la notte perde la sua qualità di essere notte. Ha bisogno della luce per sopravvivere. Gli opposti quindi, a che cosa servono? A mentire o a vivere? A farci vivere mentendo, forse. Sono, ma non sono. Vivo, ma sono morto. Respiro, ma sto affogando. >>
E guardo Hinata come se fosse l’unica ed essenziale ragione del mio cambiamento, della mia effimera felicità. Non mi accorgo nemmeno del rumore degli applausi. Il sole nascente mi rende indifferente al resto del mondo.
 
12 ottobre, 1964
 

Energia. Siamo energia. Energia cinetica.
Siamo un tripudio di colori e di forme, siamo un disordinato guazzabuglio di contraddizioni. Le nostre dita avvezze ad intrecciarsi costruiscono nuove ed asimmetriche sculture, sputtanano le meraviglie di Michelangelo, si accarezzano con timidezza e si graffiano con malizia.
Mani in alto, due dita conficcate nel cielo in onore della pace. Lo specchio celeste sanguina al nostro passaggio.
Non avrei mai creduto di arrivare a questo punto, di arrivare ad apprezzare l’amore e tutto ciò che esso contiene, quasi fosse lo sconfinato stomaco del mondo. Non avrei mai pensato che il mio corpo avrebbe potuto muoversi a ritmo di musica, che avrebbe potuto fremere, che avrebbe potuto perdere ed acquisire forza a causa di liquidi e di sostanze fautrici di allucinazioni. Non avrei mai pensato che avrebbe potuto contorcersi di piacere, di rabbia, di spensieratezza. Non avrei mai creduto che un ragazzo di nome Shouyou Hinata avrebbe potuto afferrare la mia vita e trascinarla in un limbo destinato ai pagani dell’amore. Oscilliamo tra la libidine e l’indifferenza, tra il bacio e lo schiaffo, continuamente. Eppure, tenerci per mano è tutto ciò che di più facile riusciamo a fare. Ci cerchiamo, continuamente. Hinata è uno di quegli alberghi appena costruiti che coprono i tramonti. È uno di quei fuoristrada che si incastrano nei vicoli. È uno di quegli sguardi che si incastrano tra le costole. È una goccia di sangue su un cappotto bianco. È una goccia di pioggia dispersa tra la sabbia. È il ricordo passato di un parco vicino a casa. È un attimo imminente. Gli direi che è il mare, ma sarebbe riduttivo. Gli direi che è il vento, ma sarebbe troppo etereo. Gli direi che lui è la musica, ma non gli renderebbe onore. Gli direi che lui è un uragano, ma sarebbe troppo distruttivo.
Lui è il sole, il mio sole nascente, che sorge dietro le mie montagne di preoccupazioni.
Sfiliamo nella manifestazione pacifica per i diritti umani senza mai separarci, fiori tra i capelli e pantaloni strappati sulle ginocchia.
<< Conficcate i fiori nei vostri fucili! >> urlo.
Hinata ride, poi sorride.
<< Kageyama… sono fiero di te! >>
Ed inaspettatamente, tirandomi dal centro della camicia blu, posa le sue labbra sulle mie, e mi bacia come se l’intero rispetto dei diritti umani dipendesse dal suo gesto. La sua lingua s’insinua tra i miei denti, esplorando le pareti della mia gola. Ci tocchiamo la faccia, il naso, gli occhi. Trasportati dalla musica di chi suona accanto a noi, accenniamo qualche inconsueto movimento, dando vita alla danza degli incompresi. Quasi cadiamo a terra, perché non vediamo dove stiamo andando. Staccandosi da me con estrema difficoltà, Hinata riafferra la mia mano, rinnovata di forza vitale.
<< Mondo! Viva l’amore! >>
E sebbene a contrastare la nostra marcia ci sia un gruppo di fanatici, sebbene scorga il volto di mio padre tra quelli dei mille e sbiaditi suoi sosia, Hinata continua a baciarmi, ripetendo sempre la stessa identica frase. Non mi sono mai sentito così vivo.
 
14 ottobre, 1964
 
<< Dove mi hai portato? >>
Hinata è bendato, all’oscuro di dove io l’abbia condotto.
Chiudo la porta a chiave.
<< Puoi aprire gli occhi >> sussurro nel suo orecchio, sfilandogli la benda azzurra. Il mio ragazzo dai capelli rossi apre gli occhi e si guarda attorno, spaesato. Tutto ciò che lo circonda non sono altro che pareti, pareti spoglie e trasandate, macchiate dal tempo.
<< Dove siamo? >> mi domanda, girando sul posto.
<< Questa è la casa del sole nascente. Siamo a New Orleans. >>
Alla mia confessione, Shouyou spalanca la bocca, sfoderando un sorriso a trentadue denti, incredulo per il fatto che la leggenda nascosta dietro questa casa sia vera.
<< La casa di cui parla la canzone? Non posso crederci, Kageyama, come hai fatto a trovarla? >>
<< Ricerche su ricerche >> ammetto sorridendo, debitore a Terushima per avermi aiutato nella missione.
<< Ma perché mi hai portato qui? >>
A questa spontanea domanda rispondo afferrandogli il volto e avvicinandolo al mio. Siamo talmente vicini che riesco a scorgere i particolari delle sue iridi.
La timida luce che filtra dalle saracinesche rotte accarezza i nostri corpi.
<< C’è una casa a New Orleans, la chiamano “il sole nascente”. È stata la rovina di molti poveri ragazzi
e io so di essere uno di loro. Ora l’unica cosa di cui ha bisogno un giocatore d’azzardo è una valigia ed un portabagagli.
L’unica volta che è soddisfatto
è quando  si ubriaca. Oh madre, di’ ai tuoi figli
di non fare quello che ho fatto io,
ovvero trascorrere la propria vita nel peccato e nella miseria
nella casa del sole nascente. Nessuno deve trascorrere la propria vita nella casa del sole nascente, o ne sarà inglobato. Nessuno deve. E nessuno può, perché voglio che questa casa appartenga soltanto a me. >>
<< Kageyama, non ti seguo… >>
Rumoroso silenzio.
<< Tu sei la mia casa del sole nascente. Sei la mia casa, il mio rifugio. Sei il mio sole nascente, sei tutte le albe che non ho mai ammirato. E ti prego… Ti prego Hinata… >>
Non mi dà il tempo di concludere. Cadiamo a terra e facciamo l’amore per la prima volta. Questa, come il nostro primo bacio, avviene spontaneamente.
Non mi sono mai sentito così vivo.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice: dolcissime lettrici, finalmente ho aggiornato! <3 Perdonate il ritardo, ma coloro che mi seguono sulla pagina Facebook conosceranno il motivo di questo mio ritardo (eccetto i mille impegni che non mi hanno lasciato un momento per scrivere). Questo capitolo anni ’60 proprio non mi andava giù. Non riuscivo a trovare una canzone adatta, non riuscivo a trovare un’ambientazione adatta, e questo semplicemente perché non sono una fan sfegatata delle atmosfere di questo decennio. Ma poi la patata Ems mi ha convinta a cedere al lato oscuro dei figli dei fiori, ed ho abboccato. Ho trovato che Hinata potesse essere perfetto in questo ruolo, e che fosse la guida perfetta per Tobio, oppresso dalla figura paterna. Terushima è il bonus, e con lui il suo fondoschiena.
Spero che vi sia piaciuta e che traspaia qualche cosa di positivo <3.
Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “The house of the rising sun” dei The Animals, “From Gold” dei Novo Amor, “Let the sunshine in” dalla colonna sonora di Hair. <3
- “Amore e tosse non si possono nascondere” è una citazione di Ovidio. “E se gli alberghi appena costruiti coprono i tramonti, tu non preoccuparti. Guardare i fuoristrada che si incastrano nei vicoli” è una citazione di “Le ragazze kamikaze” di Le luci della centrale elettrica.
E nulla, fatemi sapere cosa ne pensati, ovviamente le critiche ed i consigli sono sempre ben accetti! <3 Grazie a che lascerà il segno del suo passaggio! Fate l’amore, non fate la guerra!
_Noodle 

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Capitolo 7
*** The Seventies. ***


1973, Glam Rock.
Hajime Iwaizumi riconosce “Starman” di David Bowie.
 
 
 
 
 
Londra, 14 agosto 1973
 
Le Stelle sono corpi celesti che brillano di luce propria, l’ho imparato a mie spese. Nascoste dietro alle comuni apparenze e alle popolari credenze, dietro alla poesia dettata dal fascino dell’ignoto, le stelle nascondono nozioni scientifiche specifiche, che soltanto grazie ad uno studio intenso ed assiduo possono essere apprese. Quando si parla di stelle, non si parla soltanto d’innamorati, di desideri e di preghiere. Non si parla soltanto di folli che innalzano lo sguardo verso il cielo con la speranza che qualcuno possa rispondere a chissà quali domande. Quando si parla di stelle, non si parla soltanto di zodiaco, di astrologia, di mistero e di speranze vane. Non si parla soltanto di linee da tracciare tra gli astri, di linee invisibili che rivelano complicatissimi disegni. Si parla anche di idrogeno e di elio, di complesse formule matematiche e di astruse reazioni chimiche. Le stelle, a parer mio, sono una grande fregatura.
Brillano, splendono, ammaliano, e sono irraggiungibili.
 
Tutto ebbe inizio ad aprile, nel momento in cui i miei voti di scienze iniziarono a precipitare drasticamente a causa dell’inserimento dell’astronomia come materia di studio. Sono sempre stato uno studente modello, l’indiscusso cervellone della classe, nonostante mi atteggiassi in tutt’altro modo. Buoni voti, poco studio, tante intuizioni. Molta attenzione, sì, ma nessun talento per quanto riguardava le questioni interstellari. Votaccio dopo votaccio e umiliazione dopo umiliazione, il mio umore peggiorò. Sebbene non mostrassi di tenere al mio rendimento scolastico, m’importava eccome, e soprattutto importava alla mia famiglia. Quella materia dall’insignificante importanza totale, ma dall’essenziale importanza individuale, mi stava rendendo la vita impossibile. Fu a ridosso degli ultimi compiti in classe che, incentivato da mia madre e da mio padre, ingegneri laureati con il massimo dei voti, accettai di prendere ripetizioni di astronomia. Non ero contento, non lo ero affatto, soprattutto perché conoscevo chi si sarebbe occupato di me: lo studente con i migliori voti di scienze della scuola. Non era mia intenzione umiliarmi alla mercè di un ragazzo della mia stessa età, ma questo sembrava essere l’unico e possibile rimedio alla mia incompetenza in materia. Ciò di cui proprio non mi capacitavo, tuttavia, non era tanto il fatto di farsi aiutare, non era tanto il fatto che avessi bisogno di essere seguito o che non capissi la materia, ma che il mio insegnante di astronomia e di scienze sarebbe stato Oikawa Tooru, l’emblema della vanità e dell’egocentrismo, il ragazzo più popolare della scuola, che dietro all’apparente schermo di superficialità, nascondeva una mente ed un cervello non comuni, da far invidia persino al sottoscritto.
 
Era il 13 aprile. Oikawa si era presentato a casa mia alle 17.10, con ben quaranta minuti di ritardo, suonando il campanello ininterrottamente per venti secondi. Una volta aperta la porta, lo sguardo accigliato a causa del rumore, trovai davanti a me un fisico statuario ed un paio di occhiali spessi ed invadenti che mai gli avevo visto indossare. Lo feci accomodare nella sala da pranzo. I libri ci aspettavano da ormai un’ora; io, ovviamente, non avevo avuto il coraggio di aprirli. Ficcare il naso tra le formule e tra le fitte righe di nozioni mi nauseava. Avevo atteso il mio nuovo e prestante insegnante con un’ansia non indifferente, con una malcelata paura che ciò che sarebbe successo avrebbe potuto mettermi in ridicolo agli occhi di chi mi rispettava. Avrebbero potuto esclamare “Tu, Iwaizumi, che ti fai aiutare da un ragazzo che usa i bigodini?”. Tuttavia, pensai che fosse peggio negare di avere delle debolezze, piuttosto che ammetterle ed affrontarle con coraggio. E nonostante i miei pensieri riguardo le ripetizioni si fossero placati, qualcosa ancora non mi dava pace. Durante la snervante attesa provocata dal suo imminente arrivo, la mia mente aveva vagato senza sosta, divincolandosi tra mille diverse angosce. Solo una fu quella che trattenne la presa, che non sciolse i complicatissimi nodi. Quell’angoscia che non mi concedeva riposo, che non riusciva ad abbracciarmi dolcemente, ma che mi tratteneva conficcando le sue unghie nel mio cuore, si chiamava proprio Oikawa Tooru. La prima volta in cui lo vidi, fu nei bagni della scuola, il primo anno di liceo. L’avevo sorpreso nell’intento di truccarsi la faccia (lui sosteneva che fosse per un esperimento riguardante i cosmetici, ma io non vi credetti più di tanto). Da quel giorno, l’ho sempre guardato da lontano, rivolgendogli la parola solo saltuariamente, ad esempio durante la pausa pranzo o durante le ore di educazione fisica, in cui la sua e la mia classe si allenavano contemporaneamente. Oikawa è sempre stato un tipo dalla duplice personalità. Confuso tra la folla e tra i passanti appariva sicuro di sé, sbruffone e beffardo, vanesio ed irritante, quasi impossibile da avvicinare; tuttavia, in rari momenti di solitudine, si dimostrava essere l’individuo meno appariscente del pianeta. Un giorno lo incontrai in biblioteca, occhiali pesanti appoggiati sul naso dritto e dita attorcigliate tra i capelli perfettamente acconciati. Leggeva un libro sulle comete. Lo sfogliava affascinato, come se sotto gli occhi avesse il più bel quadro che si potesse ammirare. Si mordeva le labbra concentrato, talvolta spalancava la bocca stupito per qualche nuova scoperta e rideva tra sé e sé guardandosi attorno, timoroso che qualcuno potesse vederlo in quello stato interessante. Ciò che m’incuriosì di più, fu il fatto che ad un tratto, nel silenzio della biblioteca, iniziò ad intonare un motivetto a me familiare, che però non seppi identificare con sicurezza. Canticchiando e sfogliando le pagine del libro, Oikawa si muoveva in modo dinoccolato ed impacciato, in maniera diametralmente differente rispetto al solito. Non si era mai comportato in tal modo con nessuno: tutti lo conoscevano per la sua caratteristica camminata lenta e posata e per i suoi sguardi maliziosi ed accattivanti. Dietro quegli occhiali, usati come scudo o come specchio per riflettere una nuova personalità, si nascondeva un’anima più delicata ed introversa, più sognatrice, che probabilmente non si sarebbe mai rivelata se non stimolata da qualche reazione chimica.
La canzone che canticchiava parlava di un uomo delle stelle.
 
<< Ma dimmi, Iwa-Chan >> iniziò, dunque, in quel pomeriggio di aprile << hai mai viaggiato attraverso il Sole? Hai mai raggiunto la Via Lattea per poter ammirare tutte le luci che svaniscono? Dimmi, Iwa-Chan, sei caduto per colpa di una stella cadente? Una di quelle che non ti lasciano cicatrici permanenti? Dimmi, il vento ti ha fatto perdere l'equilibrio? Sei finalmente riuscito a ballare alla luce del giorno e a ritornare verso la Via Lattea? E dimmi, Venere ti ha fatto perdere la testa? Ciò che hai visto era tutto quello che volevi trovare? E ti sono mancato mentre stavi cercando te stesso là fuori? >>
Oikawa sembrava in preda ad una delirante crisi mistica, simile ad un vate dell’antichità. Si era alzato dalla sedia, spingendola alle sue spalle con un movimento brusco, ed era salito sul tavolo di legno con un agile ed energico balzo, che aveva fatto cadere a terra tutti gli appunti di astronomia. Aveva pronunciato quelle parole senza senso con un’enfasi tale da sembrare un poeta, o un attore, o uno scienziato molto pazzo. Vederlo dal basso in alto, illuminato dall’intensa luce del lampadario che quasi gli sfiorava la testa, lo faceva apparire più slanciato, più imponente e  più interessante del solito. Quando si parlava di stelle, di pianeti e di costellazioni, il volto di Oikawa si illuminava e risplendeva di luce propria, senza che lui nemmeno se ne rendesse conto. Era bello, Tooru.
<< Quello che stai dicendo non ha alcun senso! Se non sei in grado di darmi ripetizioni di astronomia, chiudiamola qui. È già piuttosto imbarazzante così >> commentai, occhi bassi e voce leggermente incrinata dall’imbarazzo, sebbene volesse risultare autorevole.
<< Quanto sei scontroso, Iwa-Chan! >> ribatté lui, scendendo dal tavolo e sedendosi al mio fianco, una mano poggiata sulla mia spalla appuntita.
<< Non chiamarmi così! >> esclamai, pensando a quelle dita affusolate a contatto con il mio corpo. Pesavano quanto un macigno, quanto un asteroide che colpisce il suolo senza preavviso.
<< In ogni caso, ciò che ho detto non è totalmente insensato, caro il mio saputello. Lo sapevi che è possibile attraversare il Sole? O almeno, che lo è per le correnti di materiale presenti all’interno delle macchie solari. Queste correnti formano dei vortici che concentrano le linee di campo magnetico. Di conseguenza le macchie sono delle tempeste auto-sostenentesi, simili in alcuni aspetti agli uragani terrestri. E lo sapevi che nella Via Lattea si spengono almeno 275 milioni di stelle al giorno? E che le stelle cadenti non possono lasciare cicatrici perché si sgretolano in seguito ad una combustione, che avviene in atmosfera a causa dell'attrito per la velocità del meteorite? E che Venere ha  un’atmosfera composta da nuvole che riflettono circa il 60% della luce solare nello spazio ed impediscono l'osservazione diretta della superficie di Venere nello spettro visibile? Annebbierebbe a tal punto la vista da farti perdere la testa! >>
Dopo aver ascoltato le sue stupefacenti parole, pronunciate con trasposto, mi sentii perso, solo, fluttuante, immateriale. Mi sentii perso tra le lenti dei suoi occhiali dalla montatura spessa, mi sentii solo ed impotente di fronte alle sue parole così consapevoli, mi sentii fluttuare in un oceano di ossitocina, mi sentii immateriale quanto tutti gli elementi della tavola periodica, che sembrano così fasulli ed invece sono così vivi.
<< Ti sono mancato mentre cercavi te sesso là fuori? >> ripeté, abbassando lo sguardo. Non capii esattamente che cosa intendesse con quella frase, che cosa intendesse con quel “ti sono mancato”. Come avrebbe mai potuto mancarmi una persona come lui, un individuo che a stento conoscevo? Era la prima volta che Oikawa si decideva di parlare con me, e che io mi decidevo a parlare con lui. Nessuno avrebbe potuto sentire la mancanza dell’altro in tali circostanze.
<< Io non credo. È impossibile come cosa. >>
Oikawa sorrise, annuendo lentamente.
<< Vedo che sei riuscito a comprendere cosa è impossibile e che cosa invece non lo è. Questi esempi sono sempre così calzanti! >>
E Oikawa continuò a parlare di astri e di nebulose, annebbiando la mia mente già di per sé confusa alla velocità della luce.
 
Passarono mesi. Il terzo anno di liceo si concluse con successo per entrambi. Io riuscii a colmare le mie lacune ed Oikawa ricevette il titolo di “re del ballo”, partecipando al prom con la più bella delle cheerleaders. Dal giorno in cui cominciai a prendere ripetizioni, io e Tooru iniziammo a frequentarci ogni giorno, a parlare di perielio, di afelio e di musica, di sogni e di passioni. Iniziammo a pranzare insieme, a fare lunghe passeggiate insieme, a ridere e ad arrabbiarci, insieme. Oikawa era il mio opposto, il polo positivo, la parte sinistra del mio cervello, la stravaganza a contatto con un animo ligio e razionale. Oikawa era la carezza, io ero lo schiaffo. Oikawa era il sorriso cordiale, io il broncio diffidente. Era tutto ciò che mancava alla mia persona, tutte le stelle che non avevo mai acceso nel mio cielo.
Quando m’innamorai di lui, proprio non ci feci caso.
Quando m’innamorai di lui, i miei respiri iniziarono a dissolversi e a disperdersi nell’aria con maggior frequenza. Il cielo appariva più limpido, le nuvole si concedevano sempre più di rado, le strade sembravano più ampie, la musica più interessante.
Quando m’innamorai di lui, proprio non me ne accorsi. Non mi accorsi di quanto l’incarnazione della vanità avesse scombussolato silenziosamente la mia esistenza. Tutto fu placido, tutto fu consequenziale, spontaneo quanto lo sbadigliare quando si ha sonno.
Quando m’innamorai di lui, proprio non credetti di essermi innamorato.
Potrei affermare di essere stato vittima di un colpo di fulmine, ma sarebbe troppo riduttivo. Non ho memoria del momento preciso in cui ho percepito questo strano legame. Non me lo ricordo. So soltanto che una volta instauratosi, non sono più riuscito a spezzarlo. Tooru Oikawa si dimostrava sempre più interessante, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Senza che mai gli dicessi niente, divenne il mio migliore amico. Per il mio compleanno mi fece addirittura un regalo, un pensiero che, sicuramente, piaceva più a lui che a me: un biglietto per il concerto del 3 luglio di David Bowie. Il Duca Bianco è l’artista preferito di Tooru. Canta sempre le sue canzoni, giorno e notte, notte e giorno. La canzone che gli avevo sentito intonare in biblioteca, penso fosse proprio sua. Non riuscii a rifiutare.
 
Il giorno del concerto, trasportato da turbinosi venti cosmici, arrivò in un batter d’occhio. Il punto di ritrovo stabilito era a casa di Oikawa: avremmo dovuto trovarci davanti al cancello del condominio per le 19:30. Io, ovviamente, arrivai con mezz’ora di anticipo per assicurarmi che non fosse ancora in pigiama, conoscendo le tempistiche del mio compare. Non appena raggiunsi il pianerottolo, perché di Oikawa davanti al cancello non vi era nemmeno l’ombra, trovai la porta di casa aperta. Tooru mi attendeva in bagno.
<< Che stai facendo? >> esclamai vedendolo alle prese con colori e pennelli, il lavandino candido impiastricciato di tempere.
<< È tardi, Oikawa, dobbiamo uscire, o non riusciremo ad accaparrarci un posto in prima fila nemmeno tra cent’anni >> continuai, istigandolo e provocandolo affinché abbandonasse quell’occupazione.
<< Non vedi che mi sto truccando? >>
Una saetta rossa e blu solcava il volto di Tooru simile ad una cicatrice, una di quelle che le comete non erano in grado di lasciare. Percorreva ed attraversava il suo occhio destro come una ferita profonda. Oikawa, conciato così, assomigliava ad uno di quei personaggi dei fumetti, ad un supereroe appariscente, che, abbandonati gli occhiali sul comodino della camera da letto, diventava improvvisamente qualcun altro. Mi piaceva truccato così.
Avrei voluto scattargli tante foto.
<< Voglio riprodurre il trucco di Bowie, sai, quello della copertina di “Aladdin Sane”. È da mesi che ci lavoro >> continuò, attento a non provocare sbavature nel colore. Mi sarei perso per delle ore ad osservare il lento movimento della mano, le diverse sfumature che stava creando solamente grazie ad un piccolo pennello rovinato. Tuttavia, di questo passo, il concerto si sarebbe concluso al nostro arrivo.
<< Non potresti fare un po’ più in fretta? >> chiesi, guardando ripetutamente l’orologio.
<< E tu non potresti essere meno assillante? >>
 
Arrivammo all’Hammersmith Odeon cinque minuti prima che bloccassero l’accesso al pubblico.
 
Terrificanti grida di felicità. Applausi ed armonie a confondersi tra le urla della gente. Ansimi, attimi, luci, chitarre, fumo, colori. Una voce inconfondibile a farsi largo tra la nostra stridula convinzione di saper cantare.
David Bowie, occhi incorniciati da uno spesso strato di matita nera e guance velate da una patina di cerone bianco, salì sul palco a cosce scoperte, solo una lunga camicia bianca dal colletto alto a coprire il suo esile corpo. Oikawa era più frenetico che mai. Dalle lontane ultime file, si fece largo tra la folla, spingendo a destra e a sinistra, arrampicandosi sulle borse della gente, approfittandosi della sua altezza per scorgere quanto mancasse per raggiungere le transenne. Non vennero eseguite nemmeno due canzoni, che Oikawa ed io fummo sotto il palco.
 
Ziggy suonava la chitarra, ed io non facevo altro che ansimare. La vicinanza di Tooru era per me deleteria. Quel ragazzo, presentatomi come un insegnante, ora era diventato qualche cosa di più, un maestro, un saggio irresponsabile ed eccentrico che mi aveva insegnato ad amare l’immensità. Le ore trascorrevano ricche e pesanti, pesanti di fumo di sigaretta e di respiri ricchi di endorfina. Alla fine di ogni canzone, Tooru mi sorrideva come se volesse chiedermi “Ti è piaciuta la canzone?”. Mi ricordava che la Terra era un posto meraviglioso in cui vivere, ma che non era necessario accontentarsene, perché là fuori, nel nero dell’universo, potevano esistere altre interessanti forme di vita. Lui un po’ extraterrestre lo era.
 
Furono un sol maggiore ed un fa ad introdurre l’inizio del nostro decollo, la nostra partenza verso il mondo delle stelle e delle conquiste. David Bowie stava suonando “Starman”, la canzone che, scoprii, Oikawa aveva canticchiato quel giorno in biblioteca.
<< Questa è la mia canzone preferita! >> esclamò saltellando sul posto, gli occhi che guizzavano fuori dalla orbite per la contentezza. Io gli sorrisi, senza dire nulla. Ascoltavo lui e David cantare come se la mia intera vita fosse dipesa da quello, come se non ci fosse stato niente di meglio al mondo, come se quel suono fosse l’inno di una nuova e strepitosa vita.
 
“There’s a starman waiting in the sky!
He’d like to come and meet us, but he thinks he’d blow our minds
. There’s a starman waiting in the sky! 

He’s told us not to blow it,
cause he knows it’s all worth, while
 he told me:

let the children lose it
, let the children use it
, let all the children booogie.”
 
Era arrivato il momento di avvicinarmi ad Oikawa e che il mio cuore e il mio cervello decidessero che cosa fosse meglio per me.
 
Prima ne risentirono le mani, scosse da un tremore incontrollabile. Poi ne risentirono le gambe, che a ritmo di musica iniziarono a traballare e a sciogliersi come gelato al sole. Poi fu il turno del cuore, che dopo aver ripreso a pompare, incominciò ad agitarsi come un disperato, come uno di quei ballerini di tip tap e di swing che si vedono nei vecchi film. I nostri occhi si chiusero dolcemente, con una lentezza tale da risultare innaturale. Mentre la vista sfumava, mentre a poco a poco il volto dipinto di Tooru si mescolava con l’oscurità, un impeto stellare portò la mia lingua ad esplorare le galassie e le costellazioni nascoste nella sua bocca, in quello scrigno di risate, di pianti, si silenzi e di parole dette a sproposito. Oikawa non tremava; Oikawa, da quando l’avevo avvicinato a me e l’avevo baciato con desiderio incontenibile, aveva iniziato a sussultare, a tremolare convulsamente, tentando di ricercare tranquillità nella musica che lo circondava. Proprio non ce l’aveva fatta, proprio non era stato in grado di dare un taglio a quel ritmo psichedelico che le sue ossa avevano preso ad imitare. Si sentiva scricchiolare, si sentiva svenire, probabilmente. Io, sicuramente, avevo compreso molte cose. La sua lingua morbida e dispettosa, esperta e tremendamente loquace, accarezzava la mia con irriverenza. La voce di David Bowie, così ipnotica e maledetta, incorniciava il nostro amore, nato chissà per quale congiunzione astrale. Avevo incominciato ad apprezzare le stelle grazie a lui, avevo iniziato a vederci tutto ciò che normalmente la gente vede, avevo iniziato a capire che tutto poteva muoversi a causa di qualche particolare rivoluzione. Tooru, il mio uomo delle stelle, la mia musa ispiratrice, il mio inganno preferito, il mio sogno nel cassetto, la mia saetta colorata, era tutto ciò che potesse far risplendere la mia esistenza. Era l’uomo che valeva la pena smarrire e ritrovare, con cui valeva la pena ballare un lento e con cui sarebbe stato entusiasmante saltare sul letto per tutta la notte.
<< Perché l’hai fatto, Iwa-Chan? >> mi chiese, allontanandosi dalle mie labbra colpevoli e non smettendo nemmeno per un secondo di sussultare. Capì solo in quel momento, che Oikawa Tooru, per mascherare l’imbarazzo, aveva incominciato a ballare.
<< E’ tutta colpa di David Bowie e delle sue canzoni sulla vita su Marte, sulla polvere di stelle e sugli uomini d’altri mondi. >>
Oikawa ridacchiò. Mi scostò un ciuffo di capelli dagli occhi e poi, avvicinandosi lentamente verso le transenne, tenendomi per mano, urlò qualcosa a David Bowie.
<< David! Non smettere mai di scrivere nulla del genere! >>
E mangiò la mia bocca. Avevo raggiunto le stelle.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice: CHIEDO PERDONO. Vi prego, non picchiatemi perché giuro che non era mia intenzione pubblicare con così tanto ritardo T.T Queste settimane sono state infernali e piene di belle cose da fare, ma di tempo per scrivere ne ho avuto davvero poco. Spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo * ansia a livelli stellari, per restare in tema *. In ogni caso, che ne dite? Mi sono un sacco lasciata trasportare dalla poesia per scrivere questo capitolo, e mi sono permessa di lasciare un po’ di spazio alla mia più grande fonte di ispirazione: le stelle. Non so dire se Oikawa e Iwaizumi siano IC, perché ho cercato di mantenere, come al solito, i loro tratti, ma mi sono concessa di conferire loro qualche sfumatura in più. Inoltre, questo è il primo capitolo scritto interamente al passato, perché boh, mi è venuto così (un’autrice dovrebbe avere delle motivazioni e invece no, yay). Cosa più importante: questo capitolo è dedicato alla mia saetta speciale di nome Ems, che si merita tanto bene, tanta felicità e tanto IwaOi. <3 Spero ti sia piaciuta! <3
Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata sono “Starman” di David Bowie, “Drops of Jupiter” dei Train, “Another Day of Sun” di La La Land (sebbene abbia odiato il film, amo questa canzone a livelli disumani).
- Il concerto del 3 luglio è realmente esistito, ed è l’ultimo concerto in cui David Bowie vestì i panni di Ziggy Stardust.
Al prossimo capitolo dolcezze, e grazie per la pazienza <3
_Noodle 

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