Cuori chimici

di Caramell_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III ***



Capitolo 1
*** Parte I ***



L’amore è quella cosa che tu sei da una parte, lui dall’altra
e gli sconosciuti si accorgono che vi amate
Anonimo – Twitter

 


 
 
 
 




 
 
 
Punto uno: Aiolia è un imbecille, e Milo lo detesta. Cielo, non lo maledirà mai abbastanza per la bravata della sera prima. Bere così tanto dovrebbe essere illegale, anche se Milo pensa che, in realtà, già lo sia, così come dovrebbe esserlo alzarsi e ricominciare a lavorare il giorno dopo. L’unica cosa che gli manca del periodo dell’università sono le sue tese, pacifiche domeniche, dove il massimo del trasgressivo era andare a dormire coi calzini spaiati.
Punto due: Lavorare in una scuola elementare non è il massimo, non se la sera prima ci si è dati alla pazza gioia. I bambini strepitano e non stanno fermi un attimo, e Milo è sicuro che, alla fine della giornata, dovranno come minimo ricoverarlo.
Punto tre: Lui adora il suo lavoro – il più delle volte – ma la cosa che davvero non può soffrire sono quegli stupidi incontri trimestrali con i genitori dei suoi alunni che la preside – maledetta – continua ad organizzare solo per – potrebbe metterci la mano sul fuoco – procurare a lui un’emicrania e ad Aiolos un colpo apoplettico. Cosa che, poveri loro, succede puntualmente.
Punto quattro: Aiolia è il più grande degli imbecilli e a quell’ora indecente la sua classe non dovrebbe essere così affollata. Genitori, genitori ovunque. Già si sente male.
Meglio fare una capatina alla macchinetta del caffè, prima. Sente di averne un disperato bisogno. Non è troppo lontana e poi quella mattina, subito dopo essersi reso conto che s’era infilato il maglione al contrario, aveva cercato in ogni buco della casa, portafogli, salvadanai e via dicendo e aveva trovato – esibendole subito dopo con un certo orgoglio – un sacco di monete dal piccolo taglio. Caffè assicurato, quindi. Un’ode angelica per le sue orecchie.
Il punto è che il destino è crudele e Milo se ne rende conto proprio in quel momento.
Davanti a quella che oramai il suo cervello ha ribattezzato come l’amore della sua vita, c’è un bambino, minuscolo e biondissimo, con le labbra contratte e i pugni stretti, tutto concentrato, in attesa e Milo sarà pure ancora mezzo sbronzo e parecchio intontito, ma rimane comunque un maestro e un uomo, e quella scena gli fa una tenerezza immensa.
Così si avvicina, piano e – Che succede, Hyoga? – sussurra e il suddetto, sbattendo le ciglia e mostrandogli il palmo – È che non ci arrivo – bisbiglia, serio e adorabile e Milo fissa i soldi che ha tra le mani e sorride.
- Cos’è che vuoi? – domanda e Hyoga sposta il peso da una gamba all’altra, gira la faccia.
- Cioccolata – bofonchia.
- Beh – contrattacca Milo – allora quelli non ti bastano – la cioccolata calda lì dentro costa un patrimonio, è lui il primo a riconoscerlo. La sua linea ne è immensamente felice, il suo cuore un po’ meno. Comunque, checché ne dica il suo stomaco o il resto di lui che ancora pare funzionare, non esiste essere peggiore al mondo di colui che priva un bambino della sua cioccolata. È una di quelle inderogabili leggi non scritte, punto. Perciò, non gli resta da fare altro. Si infila una mano in tasca e un minuto e venti secondi dopo Hyoga ha in mano la sua bevanda calda e Milo si sente un poco meglio, fiero di se stesso e, nel profondo, una specie di versione tascabile di Superman. Ben fatto, davvero.
Peccato che la goliardia gli duri poco. Dieci secondi dopo qualcuno afferra Hyoga per un braccio e, delicato, se lo stringe addosso, mentre il piccolo è ancora intento a fissare il suo bicchiere fumante e Milo, ripetiamolo, anche se in quel momento è ancora mezzo sbronzo, non ci mette molto a registrare la figaggine – perché altro modo di dirlo non esiste – del tizio sopra citato. Longilineo, pallido, e con due occhi di ghiaccio. Una specie di esempio, in carne ed ossa, dei suoi più vividi sogni di ragazzina. Per gli dei, ha quasi la bava alla bocca.
- Mi dispiace – gli dice, e prende Hyoga per una mano – L’ho perso di vista un attimo e-
- Oh, non importa – l’interrompe Milo e poi, rivolto al bambino – siamo apposto adesso, no? – e Hyoga annuisce convinto, fiero come se avesse appena portato a termine una missione di importanza galattica, il cappotto pesante allacciato fino al collo e le guance rosse. Poi lo sconosciuto sexy adocchia per un attimo la cioccolata che Milo gli ha comprato e storce il naso – Va bene, allora – dice dopo un po’ – Grazie – anche se, dalla faccia, sembra più che voglia prenderlo a schiaffi – Oh, ti prego, fallo. Comunque. Meno di un minuto dopo gli sta fissando il culo.
Hyoga si volta, mentre viene portato via, lui e il suo faccino serioso, e Milo solleva una mano, sorride.
Punto cinque: Ha sempre avuto un debole per i rossi.
 
 
Aiolos passa per una visita tre ore dopo e Milo ha già parlato con tutti genitori dei suoi alunni e, gli sembra, con una decina di sconosciuti che, di sicuro, deve avergli appioppato il tizio antipatico dell’aula accanto. Maledetto anche lui. Sospira, non ne può più.
- Ok – bisbiglia l’amico e, santo ragazzo, gli porge, cortese, uno degli enormi bicchieri di caffè della caffetteria lì all’angolo – Mio salvatore – sussurra Milo, e trangugia tutto in un paio di sorsi. Meglio, molto meglio.
- Hai finito? – ma quello che riceve in risposta è una specie di sintesi tra uno sbuffo e un grugnito, ridacchia – Vieni con me, per oggi t’accompagno io – a Milo scuote la testa, solleva stancamente una palpebra e, con l’indice, indica qualcosa alle spalle di Aiolos che, incuriosito, si gira, busto e gambe.
Appiccicato alla finestra, col nasino all’insù e imbacuccato fino al midollo, se ne sta Shun, in attesa, magrissimo e con il cappotto largo sulle spalle.
- I suoi non sono ancora arrivati – borbotta piano Milo e poi, rivolto ad Aiolos – rimarrò qui, ce ne andremo insieme
In realtà, anche se lo spera, Milo non crede si presenterà nessuno. In due anni, dopotutto, non ha mai conosciuto nessuno della famiglia di Shun, a parte suo fratello, Ikki che, però, facendosi due conti, abita o, meglio, girovaga, troppo lontano da lì per tornare solo per incontrare i maestri del fratellino. Non che Milo gliene stia facendo una colpa, è solo che veder piangere Shun – cosa che avviene molto spesso, a dirla tutta – è un po’ come una pugnalata al cuore e quindi indicibilmente doloroso, che tu sia colpevole o meno.  È come se fosse l’incarnazione di un orsacchiotto abbraccia-tutti e beh, da questi tutti, alla fine, viene coccolato.
Quella mattina, ad esempio, quando poi era tornato nella sua classe deciso ad assumersi le sue responsabilità e a comportarsi da uomo – non prima però di aver passato come minimo dieci minuti in assoluta adorazione fissando il muro – aveva notato Shun – anche se Shun non è che si nota, si sorveglia – trangugiare liquido da un bicchierone fumante più grande della sua faccia e il suo cervello aveva fatto due più due, complice anche il sorrisino fiero e compiaciuto che sfoggiava Hyoga.
Che poi, a proposito di Hyoga.
- Aiolos – chiama ad un certo punto. Lo ferma quando già ha un piede fuori dalla porta.
- Mnh?
- Hai presente Hyoga?
- Come?
- Hyoga. Sai, piccolo, biondo, occhi azzurri, perenne faccia imbronciata
- Milo – lo interrompe – È ovvio che ho presente Hyoga. Sta nella mia classe
- Bene – sentenzia, come se fosse fiero di lui – c’era qualcuno con lui oggi. Sai per caso chi-no?
- Oh – borbotta Aiolos dopo un po’ – perché t’interessa? – e Milo rotea piano gli occhi e scocca un’occhiata a Shun, per sicurezza. Tutto apposto. Bene.
- Mera curiosità – dice, e gira la faccia. Non lo vede mica il sorrisetto idiota di Aiolos, né quella sua inquietante smorfia obliqua. Per carità, altrimenti spiegherebbe l’equivoco.
- Si chiama Camus – rivela alla fine – È un amico mio e di Saga
Milo si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio, non molla Shun nemmeno un attimo.
- Perché non l’ho mai visto prima? – domanda e la faccia di Aiolos si accartoccia per un secondo, sospira – Perché prima era la madre che veniva a prenderlo, ma beh- nessuno di loro ha il coraggio di finire la frase, comunque, e dopo, quando Aiolos riesce finalmente a levare le tende, Milo si impone di non pensarci, di scacciare i pensieri tristi e, piano, s’avvicina al corpicino di Shun, ancora rannicchiato tra il davanzale e il banchetto a fissare la neve.
È uno spettacolo piuttosto impressionante, concede, non solo per un bambino. Ma, per quanto gli piacerebbe, non possono stare appiccicati lì vicino tutto il pomeriggio, perciò solleva un braccio e afferra il piccolo per una spalla e, con fare cospiratore sussurra – E se tirassi fuori gli acquerelli? – e, davvero, il sorriso felice che, in quel momento, gli regala Shun gli riempie il cuore di gioia.
 
 
Combinano un pasticcio, tutti e due. Shun ha i gomiti sporchi di verde e un paio di baffi rossi belli spessi e arricciati ai lati che gli decorano il muso. Milo non riesce a smettere di ridere, e tutti quelli che passano davanti alla sua classe, genitori compresi, fanno altrettanto. Devono essere una scenetta niente male, lui soprattutto. Grande, grosso e vaccinato e coperto di blu dalla testa i piedi. È meraviglioso. E poi Shun sembra divertirsi, perciò.
Non c’hanno più pensato, alla neve, nemmeno ad Ikki, agli incontri coi genitori. Ad un certo punto Milo ha tirato fuori un paio di tele bianchissime e gli occhi di Shun si sono allargati tanto che gli hanno occupato tutta la faccia. Poi, prima di cominciare a dipingersi addosso, si sono dati alle imitazioni e, visto che di tempo ne avevano, sono riusciti a costruire una scacchiera parecchio rudimentale e tutta sgangherata e a farsi una lunga partita a battaglia navale.
E anche se Milo, dal canto suo, non è mai stato troppo bravo a disegnare o che altro, Shun sembra trovare divertenti i suoi cani a sei zampe e i soli sorridenti che appiccica a piè di pagina. Missione compiuta, allora.
È solo quando il bambino si stropiccia una guancia con il pugno sporco che Milo si rende conto dell’orario balordo che s’è fatto. Santo cielo, la scuola dovrebbe essere chiusa da un pezzo e, molto più che certamente, gli unici ad essere rimasti là dentro sono loro due. Shun lo guarda un attimo, ridacchia un poco della sua faccia allucinata, poi la stanchezza riprende a farsi sentire e allunga le manine verso di lui, in attesa, e Milo non se lo fa ripetere due volte, lo tira su e lascia che gli circondi il collo con le braccia. Due minuti e dorme già.
Milo sospira, stanco anche lui, guarda Shun e il suo visetto addormentato e d’accordo, si dice, piano B. S’infila – non troppo facilmente ma ok – una mano in tasca e afferra il telefonino.
Marin gli risponde al primo squillo – Dovrebbe già essere qui, Milo – lo rimprovera.
- Lo so, lo so e mi dispiace – balbetta lui, in ansia e sente Shun sistemarsi meglio sul suo petto, respirare piano – ti prego, Marin. È troppo tardi anche solo per pensare di riportarlo in orfanotrofio
Lei sbuffa, all’altro capo, scuote la testa – D’accordo – cede – ma solo per questa volta e solo perché sei tu
- Sei un angelo
Milo chiude la telefonata e schiocca un bacio sulla testolina di Shun. Casa sua, dopotutto, non è poi così lontana.
 
 
Milo è sempre stato un tipo abbastanza mattiniero anche se, dalla faccia, non si direbbe. Mai collezionato un ritardo, mai una multa. Questo, almeno, fino a che ha dormito da solo o, si corregge alle volte, fino a che non ha conosciuto Aiolia.
Il letto che ha comprato nemmeno due anni prima è enorme e Shun, attorcigliato dentro ad uno dei suoi pigiami, sempre ancora più piccolo di quello che è, un batuffolo di otto anni tutto scompigliato e Milo non ha proprio il cuore di svegliarlo, non per riportarlo in orfanotrofio.
Lancia uno sguardo all’orologio a muro che ha appiccicato sopra al tavolo. Otto meno cinque. Forse, pensa, potrei farmi sostituire. Solo stamattina. Anche se, ragiona ancora, una manovra del genere gli costerà un paio di pomeriggi in più piegato sui compiti in classe.
Alza le spalle. Niente che non sia sopportabile. Bene, è deciso. Aiolos lo prenderà a schiaffi non appena lo vedrà, è sicuro.
Shun si sveglia solo tre ore dopo, Milo se lo ritrova sulla soglia della cucina affamato e ancora mezzo addormentato. Sorride, intenerito e si siede con lui per fare colazione. Shun mangia come un uccellino e ridacchia, contento, quando qualche biscotto troppo inzuppato torna a galla nella ciotola.
Milo s’è sempre chiesto, in privato naturalmente, perché Ikki non se lo sia portato dietro. Tranquillo com’è non avrebbe dato fastidio a nessuno, ma forse, dopotutto, l’ha pensato più al sicuro lì, con Marin e i ragazzi dell’orfanotrofio. Parecchi di loro sono alunni di Milo, a cominciare da quella peste di Seiya che poi, a vederlo, pare più un tappo coi capelli che un ragazzino. Milo non ha veramente idea di come Marin faccia a sopportarlo. Aiolia le dà già abbastanza preoccupazioni.
Shun dondola le gambe sotto il tavolo, assorto, finisce i biscotti e butta giù tutto il latte poi, in mutande s’allunga e dice – Niente scuola?
- Oggi no, Shun – gli spiega – Scusa. È stata colpa mia
- È ok – dice e, per rassicurarlo, gli regala un sorriso enorme, tutto denti. È un amore e, a dispetto di tutto il sapone che hanno usato ieri, un baffetto rosso gli è ancora rimasto sulla guancia
- Vieni qui – sussurra Milo, se lo tira in grembo e con la manica della felpa prova a pulirgli la faccia. Shun si dimena, e ride – Và a darti una pulita. Ti riporto da Marin – e poi annuisce, si strofina per bene il naso e corre verso il bagno.
Alla fine escono di casa che è quasi mezzogiorno ma, prima di tornare all’orfanotrofio, passano per il parco e, quando Milo vede Shun rabbrividire per il freddo, gli compra una sciarpa nuova di un bell’azzurro cielo. Riesce a lasciarlo andare solo una buona mezz’ora dopo. Appena lo vede Marin quasi lo prende a sberle sul serio, gli tira le orecchie – Idiota – borbotta, ma sorride.
 
 
Il caffè di Aldebaran non gli è mai sembrato più buono, giura. Forte come pochi, rigorosamente amaro. Aiolos lo aspetta a scuola; correggere i compiti, questa volta, tocca a lui. Si prospetta un pomeriggio tutt’altro che emozionante o, almeno, è quello che pensa sconsolato fino a che non gira la faccia.
C’è Camus seduto dietro di lui, là, in fondo alla sala, seminascosto da quegli ingombranti pannelli di legno che Aldebaran si rifiuta di buttare. Camussguardodafigoeculodafavola; capelli rossi e pacchetto completo.
Se avesse un po’ meno autocontrollo sputerebbe il caffè, di getto. Poi Aldebaran gliele suonerebbe – di nuovo – ma diavolo, ne varrebbe la pena. Comunque, contegno, un minimo.
Ci parlo, si dice, ok, vado là e ci parlo, si. Ma no, in realtà no. Camus ha un maglione blu a collo alto, i capelli legati e un paio di sottili occhiali da vista e Milo lo trova bellissimo, anche ora che gli è passato il dopo-sbronza. Pensa, in verità, che lo troverebbe bellissimo anche se avesse un sacco di iuta calato sulla testa.
- Sono abbastanza sicuro che ti converrebbe essere più discreto. Sai, per la tua dignità – Aldebaran è dietro al bancone e, comprensibilmente, se la ride anche non troppo di nascosto, mentre gli passa un bicchiere d’acqua e un fazzoletto pulito – To’ – annuncia – Asciugati quella bava.
- Non sto sbavando – protesta Milo, rosso anche dietro al collo – Io non sbavo – e Aldebaran ridacchia – Certo
Poco più in là Camus solleva gli occhi dal laptop che ha poggiato sul tavolo. L’ha notato anche lui, il biondino, anche perché, a dirla tutta, sarebbe davvero impossibile non notarlo – un tipo davvero chiassoso, non c’è che dire.
Ha riconosciuto nella sua esuberanza uno dei – forse – maestri di Hyoga, quello della macchinetta, per intenderci, e della cioccolata.
È entrato lì dentro nemmeno un’ora fa, tutto baldanzoso, mentre Camus cercava di pensare, senza successo, alla scena finale di quell’ultimo, odiosissimo capitolo – Toro – l’ha sentito urlare – mio mastodontico amico, uno dei tuoi caffè extraforti, che oggi sento dolore anche solo ad alzare gli occhi – e poi ha visto lo stesso proprietario, “Toro” a quanto pare, lanciargli addosso quella che sembrava una vecchia caffettiera – Imbecille, finiscila di urlare – e niente, non ce l’ha fatta proprio a trattenersi dal ridere, e di cuore anche, come non succedeva da un po’. Una cosa parecchio contenuta, naturalmente, com’è nel suo carattere, ma comunque liberatoria e rilassante. Conoscere il suo nome, pensa, non sarebbe tanto male.
Lo schermo del computer, intanto, continua a lampeggiare. Camus si sistema gli occhiali sul naso, sospira. Guarda la pagina scritta a metà. Per quel giorno non crede riuscirà a fare di più, meglio non forzare la cosa più del necessario. Però, gli pesa terribilmente quello stallo improvviso.
Arriva davanti alla cassa che quei due stanno ancora bisticciando. Se non avesse fretta – lo ammette – rimarrebbe a godersi lo spettacolo.
Quando lo vedono avvicinarsi si zittiscono entrambi e Milo ci prova, a non incantarsi, ma non è che gli riesca così bene, dopotutto. Sussurra – Ciao – come se stesse parlando con un bambino delle elementari, come se anche lui lo fosse.
Camus si gira verso di lui, lentamente e, mentre Aldebaran gli porge il resto, fa, incerto e quasi tremante – Ciao uhm-
- Milo – s’affretta ad aggiungere lui, terribilmente felice che non l’abbia ignorato.
Camus pare pensarci un attimo su, poi annuisce – Milo – ripete e se ne va, così, portandosi via quello che resta del suo povero cuore.
 
 
Seiya sta cercando di ucciderlo, ne è sicuro, o di esaurirlo, che è più o meno la stessa cosa. Quel ragazzino petulante non fa che saltare da una parte all’altra dell’aula, mentre i suoi compagni – i quali, a quanto pare, non discendono direttamente da Satana – tengono le testoline abbassate sul compito d’italiano – anche se, a dirla tutta, chiamarlo “compito” pare eccessivo pure a lui, ma tant'é.
Dicevamo, Seiya. Dovrà dire a Marin di smetterla di imbottirlo di dolci e schifezze varie. Un’energia così non è nemmeno lontanamente sopportabile. Se poi ci infiliamo in mezzo le sue boccacce e quel modo irrispettoso che ha di fargli la linguaccia il quadretto è completo.
Ma ecco che riesce ad afferrarlo per un braccio per il cielo solo sa quale miracolo, quando il suo momento di gloria viene interrotto dall’entrata in scena di colui che tutto può, Aiolos, signori, domatore dei marmocchi impazziti. Presto detto, la piccola pesta si sguscia via dalle dita e, subdolo come pochi, corre ad appiccicargli alle gambe lunghe del sopracitato, sorridendo e sghignazzando come un pazzo.
Milo lo fissa per un poco e solleva scettico un sopracciglio – Traditore – borbotta e Seiya si gira verso di lui, tira di nuovo fuori la lingua.
Aiolos osserva la scena divertito e scuote la testa, poi sorride angelico a quella sottospecie di diavoletto, gli lascia una carezza sulla testa – Milo – dice – vieni fuori un momento – e Milo lancia un ultimo sguardo alla sua classe – Torno subito – annuncia e solo quando sente un coro di si echeggiare nella stanza si chiude la porta alle spalle.
Non è successo nulla di così grave. Semplicemente Camus ha appena avvisato che farà tardi e c’è da badare a Hyoga, almeno fino a che non riuscirà a liberarsi. Tutto qui, e appena Milo connette le parole ritardo-Hyoga con conseguente Camus-favore e Camus-animagemella è come se gli si illuminasse il cervello e un sorrisetto furbo gli spacca la faccia a metà. Quella deve essere la sua giornata fortunata.
Aiolos guarda la sua trasformazione stupefatto. Alle volte è così facile rendere felice qualcuno. Quando Camus l’ha chiamato, quella mattina, non ci ha pensato due volte. I bambini adorano Milo, che siano suoi alunni o meno, Hyoga fra tutti. Milo è l’unico, fra loro, che riesce a fargli dire sempre si, a farlo sedere composto, a convincerlo ad ascoltare la lezione. È come se lo invogliasse ad imparare e a stare con gli altri, a provarci. Nessuno ha ancora capito come ci riesce. Probabilmente non è altro che un dono e Milo è meraviglioso con i loro ragazzi. Quindi, per una volta, si lascia scappare una piccola bugia, una di quelle a fin di bene – Saga mi ha chiesto di dargli una mano con il trasloco e sai com’è quando si mette in testa una cosa – che poi, in realtà, proprio una bugia non è e Saga gli ha davvero chiesto un aiuto in più per spostare il divano ed impacchettare i suoi quadri, ma, ecco, c’è da dire che non è un qualcosa di proprio imminente, sebbene possa essere trasformata in una scusa niente male e piuttosto credibile. Bene, la sua anima è salva. E poi, Milo sembra così contento che adesso sarebbe un sacrilegio rimangiarsi tutto.
Aiolos annuisce fra sé e sé. Non è mai stato più fiero di se stesso. Più o meno.
 
 
Shun e Hyoga si adorano, non c’è altro da dire. Guardarli  è come vedere due cuccioli di orso che si leccano la testa a vicenda. Non si mollano un momento.
Hyoga non parla molto, quasi per niente, ma si è rivelato un ottimo ascoltatore e Shun non fa che chiacchierare. Se solo l’avesse saputo prima, Milo avrebbe chiesto immediatamente a Camus di affittargli il moccioso. Niente più pianti o faccette tristi e, da parte sua, niente più sensi di colpa.
Corregge i compiti di quella mattina con le loro vocette in sottofondo e ogni tanto lancia loro un’occhiata, a controllare che tutto vada bene. Sono tutti e due affacciati alla finestra e rimangono fermi lì per una buona mezz’ora. La nevicata ininterrotta dell’ultima settimana ha ricoperto completamente lo scivolo e l’altalena, l’erba tagliata del parco della scuola.
Si avvicinano a Milo con i loro nasini all’insù e prendono a fissargli le mani, i fogli corretti e quelli ancora intonsi.
Comunque, senza girarci troppo intorno, alla fine finisce per raccontar loro una favola. Alla proposta Shun sorride e comincia a saltellargli intorno, contento, Hyoga, da parte sua, rimane immobile, come sempre, e solo quando Milo, mezzo esasperato, anche se solo per gioco, gli chiede – Me lo fai un sorriso? – il bambino ci prova e solleva solo un angolo della bocca e in quel momento Milo si fa più entusiasta di Shun, e ridacchia.
Cadono sui classici; principesse, principi e prove da superare e Milo, da buon cantastorie qual è, c’infila in mezzo un paio di draghi e tinge i capelli della malcapitata di rosso. Riferimenti casuali, naturalmente. Quando poi, però, la suddetta malcapitata gli si presenta davanti, in carne ed ossa e di sesso opposto – grazie al cielo – Milo si rende conto che quei riferimenti sono diventati parecchio espliciti un paio di battaglie prima e quasi si strozza con la sua saliva, arrossisce fino alla punta dei capelli.
Camus è rimasto bello come l’ultima volta che l’ha visto. Ora ha i capelli sciolti, un cappotto scuro, pesante e una sciarpa ruvida attorcigliata al collo.
Appena lo vede Hyoga si dimentica di Milo e della sua favoletta e gli corre incontro e, in una più sobria imitazione di Seiya quando vede Aiolos, gli abbraccia le ginocchia, adorante.
- Scusa il ritardo – gli dice Camus, guardandolo e Milo vorrebbe scolpirsi quell’immagine nella testa più o meno a vita, ma poi il vero amore della sua vita si volta e – Anche a te – sussurra, tutto serio e gelido e Milo dovrebbe vergognarsi di se stesso, ma adora quella sua faccia da sciagure imminenti.
- Oh, non importa – balbetta in risposta – Ci siamo tenuti impegnati – e lancia uno sguardo a Shun, si sorridono – Su, piccolo, saluta Hyoga – ma il bambino continua a guardarlo, mette su una delle sue espressioni peggiori, tira un poco fuori il labbro e i suoi occhi si fanno enormi, tutti liquidi e tristi – Possiamo andare con loro? – pigola, implorante e Milo si sente come se avesse appena preso a bastonate un cucciolo di foca. Terribile, davvero. Oltre al fatto che, beh, è troppo presto per riportarlo all’orfanotrofio. È un favore che fa a Marin ,di tanto in tanto, lei prova a contattare Ikki e a tener a bada tutte le altre piccole pesti, e Milo si prende cura di Shun fino a sera. Sono un paio d’anni che le cose vanno così. Milo non se ne lamenta affatto.
Opta, quindi, per la cara, vecchia diplomazia. S’inginocchia al suo fianco e, con l’espressione più angelica del mondo, dice – Non lo so, Shun. Non dipende da me. Dovresti chiedere a Camus, no? – e corona il tutto facendo scivolare un poco la testa a destra, indicando, infame, Camus con la mano il quale, al di là della soglia, assiste abbastanza indifferente al piccolo teatrino che Milo ha messo su, fino a che non si sente strattonare una coscia da Hyoga – Per favore – bisbiglia il bambino e allora non c’è più niente da fare. Non è mica fatto di ghiaccio.
Quindi, e di certo non per suo demerito – e Camus ci tiene parecchio a precisarlo – alla fine si ritrovano in quattro sulla strada di casa. Fuori il cielo è di un grigio opprimente e la strada è un’enorme lastra d’argento. Shun e Hyoga camminano davanti a loro a piccoli passi e si tengono per mano, in silenzio. Camus li guarda mezzo sbigottito e mezzo intenerito. Hyoga non è mai stati un bambino socievole, è il primo rendersene conto. Parlare con lui, alle volte, è terribilmente difficile; una parola di troppo ed è capace di tenerti il muso per mesi e Camus, per sua sfortuna, se n’è reso conto un po’ di tempo fa, quando l’ha preso con sé e se l’è portato a casa. Le prime settimane sono state allucinanti. Hyoga non l’ascoltava mai e, di notte, non faceva che piangere. Camus gli vuole un bene dell’anima, è vero, ma non può non ammettere che trattare con lui è complicato. Eppure, a quanto pare, è appena stato battuto da un ragazzino di quanto, sei anni? perché Shun ci riesce e, addirittura, riesce a farlo ridere e Camus si sente quasi oltraggiato. Più che quasi, in realtà.
Milo segue il suo sguardo serio – Sono adorabili, non è vero? – e Camus non può che concordare con lui, lo sono, e cauto sorride. Sta proprio sollevando piano un angolo della bocca quando si rende conto, con un certo disappunto, di avere gli occhi di Milo puntati sulla faccia. Stringe le labbra, forte.
- Che c’è?
E Milo, da parte sua, ha, quantomeno, la decenza di sembrare dispiaciuto – Non è niente – dice – poi sembra pensarci un po’ – È solo che – deglutisce – sei davvero bellissimo
A quelle parole Camus boccheggia, arrossisce tutto d’un botto. Sei un idiota, vorrebbe dirgli. Non si dicono certe cose così, ad alta voce, in mezzo alla strada. Non si dicono e basta, ma dalla bocca gli esce solo un gelido – Non prendermi in giro – e Milo non ha mai pensato di essere masochista ma, per gli dei, s’è appena reso conto che sarebbe felice di farsi insultare per ore se a farlo fosse uno come Camus.
- Cos’è – bisbiglia – non ci credi? Penso davvero che tu sia bellissimo. Anzi, guarda, te lo dimostro
- No, io- e Camus non ha nemmeno il tempo di ribattere che Milo ha già afferrato Shun per una spalla, distraendolo da qualsiasi cosa stesse raccontando a Hyoga che, per inciso, ha appena incrociato le braccia e aggrottato le sopracciglia, triste come se gli avessero appena sfilato da sotto il naso il suo giocattolo preferito. Milo però non ha occhi che per Shun e gli sorride, dolce.
- Tesoro – dice con voce di miele – sai, io ho appena detto a Camus-
- Oh, ti prego
- che è davvero, davvero, davvero bello, ma lui non vuole credermi, quindi perché non glielo dici anche tu?
- Perché? – chiede il piccolo e Camus guarda un attimo il viso di Milo. Un sorriso malefico gli incornicia tutta la faccia. Se la situazione non fosse ai limiti del ridicolo sarebbe raccapricciante. Sono fermi in mezzo alla strada, al freddo, con decide e decine di persone che passano loro di fianco e fissano ed è assodato, Camus potrebbe morire d’imbarazzo da un momento all’altro, se lo sente.
- Andiamo, smettila. Lascia stare il bambino
Il sorriso di Milo però si allarga ancora mentre, tutto soddisfatto, si china su Shun e gli sussurra qualcosa all’orecchio.
Quando quella specie di bamboccio trentenne lo lascia andare Shun, che è un amore e farebbe sentire in colpa persino il criminale più incallito, si avvicina ad una gamba di Camus e, con quei suoi occhioni enormi, dice – Sei davvero, davvero bello – e si mangia un paio di lettere, arriccia il naso per lo sforzo. È di una tenerezza indescrivibile e il cuore di Camus perde un mezzo battito, sussulta.
- Quindi – riprende Milo – assodato questo, che ne dici di un caffè, magari, non lo, domani?
- Cosa? Ma tu- ed è a quel punto che succede; Shun comincia a balbettare e persino Hyoga, ancora arrabbiato nero, solleva le sopracciglia, incredulo.
- Ti-ti pr-prego, non pu-puoi di-dire di no, lo sh-shock mi fa-fabbe balbettare – e oddio, Milo è un idiota, Camus lo capisce in quel momento, un imbecille fatto e finito. Shun non sa ancora nemmeno parlare decentemente e lui, lui- Camus rimane immobile per un minuto buono e poi, poi scoppia a ridere di una di quelle risate piene, di pancia.
- Sei terribile – sussurra tra gli ansiti e Milo gli sorride, un po’ colpevole, il naso arrossato e le mani seppellite nelle tasche del giaccone.
- È un si, allora?
Camus annuisce – È un si – e a quella notizia Milo piega le ginocchia e, felice come una pasqua, schiocca un bacione sulla guancia di Shun – Missione compiuta – ridacchia e la pelle del bambino si arrossa di colpo, assume un’aria parecchio soddisfatta.
Riprendono a camminare che Milo ancora gongola – In quanti prima di me ci sono veramente cascati? – chiede Camus e l’altro risponde con un sorriso a trentadue denti.
- Solo tu – confessa e Camus scuote la testa, si dà dell’idiota cento volte. Beh, ormai.
Poi Hyoga afferra Shun con una mano, fa un urletto contento. E Camus allunga un poco il braccio destro e un gelido fiocco di neve gli si scioglie tra le dita.
 
 
La casa di Camus ha un giardino, e non è troppo distante dall’orfanotrofio. Quando ci arrivano, venti minuti dopo, entrambi i bambini sono infreddoliti e Shun sta quasi dormendo in piedi. Milo lo tira in braccio e se lo stringe tra i gomiti. Camus infila le chiavi nella toppa.
- Beh – dice Milo – Credo che ora sia meglio riportarlo a casa – e accarezza la testolina di Shun con riverenza – È sfinito
Ma Camus non gli dà il tempo di muovere un passo, lo afferra con la mano libera, dice – Potreste rimanere qui – e Milo spalanca gli occhi, inclina un poco la testa – Voglio dire, fa freddo e il bambino è distrutto. Potremmo prenderlo ora, quel caffè – fa un cenno verso Shun, intenerito – Dopo tutta la fatica che ha fatto, penso che tu glielo debba – e, beh, chi è Milo per dirgli di no?
Finiscono a prendere quel caffè in cucina. Camus ha ceduto il letto ai bambini che, rannicchiati vicini e cui pugnetti chiusi, s’addormentano profondamente appena toccano il cuscino. Hyoga ha coperto le spalle di Shun col lenzuolo e solo dopo ha chiuso gli occhi. Questo loro affetto lo spaventa un po’, ma Milo non vuole nemmeno provare a capire il perché.
Camus lo aspetta seduto a quel suo tavolo enorme, gli porge quella che più che una tazza pare una caraffa di caffè, a parte il fatto che non è affatto caffè. Cioccolata. Oddio. Milo adora la cioccolata, ma per poco non si mette a ridere.
- Non pensavo ne umh aveste? – dice, anche se sembra più una domanda, Milo riesce a vederci pure il punto interrogativo alla fine, gli svolazza proprio davanti alla faccia.
È come se adesso che è solo con Camus, in casa sua, tutta la sua spavalderia fosse evaporata e si ritrova quasi timido, incerto.
- È per Hyoga – spiega Camus – Non c’è praticamente nient’altro qui
Gli si siede di fronte, gelido e bellissimo e Milo, che ha un mini attacco di cuore anche solo a vederlo, si chiede come si sentirebbe se dovesse toccarlo. Probabilmente smetterebbe di respirare, sul colpo.
- Sei davvero bravo
- Come?
- Con i bambini – e a Milo lo dicono spesso, che ci sa fare con i bambini, che fa bene il suo lavoro, ma sentirselo dire da Camus è, beh, tutta un’altra cosa. La pelle prende a formicolargli e gli si arrossano le orecchie, tutte, fino alla punta.
- Non è niente – balbetta – Lo faccio da una vita
Camus scuote la testa, però, lo guarda come se avesse appena detto una stupidaggine – Con te è così tranquillo – sussurra – e sorride, l’ho visto. Qui, invece, alle volte non parla per giorni – ha lo sguardo puntato verso la camera da letto, là dove dormono rannicchiati i mocciosi mentre col suo lungo, affusolato, bianchissimo dito gratta la superficie della tazza. Milo ne è estremamente affascinato e poi quella sua faccia! Milo passerebbe ore a sfiorargli gli zigomi pronunciati, la curva degli occhi, a baciargli le ciglia. È così serio, persino quando parla di Hyoga. Pare, da fuori, che niente possa scalfirlo.
- Non sono io – dice – È Shun. Credo, a ragione, che nessuno possa resistere a quel suo faccino. Riesce a fare cedere persino Toro – e a quel nome Camus solleva un sopracciglio perfettamente disegnato.
- Il proprietario del bar? – domanda, e Milo annuisce – Siamo amici da tanto
- È il suo vero nome?
Milo ridacchia e in quel momento s’accorge di una cosa, proprio mentre sta per rispondere. Camus arriccia il naso quando i conti non gli tornano. È un movimento impercettibile, involontario probabilmente, che gli forma un’adorabile fossetta proprio lì, sulla guancia sinistra. A Milo vien voglia di mangiarselo.
- Ha un nome tremendo. Trovargli un soprannome era d’obbligo – ridacchia e Camus solleva un angolo della sua bocca perfetta, lo rende felice per un lungo momento. Milo si spaventa enormemente quando, a metà conversazione, il suo cervello gli dice, chiaramente, che potrebbe farlo per molto, moltissimo tempo, anche per tutta la vita.
 
 
 
 
 
 






























Note: Ok, se siete arrivati fino a qui significa che questo primo capitolo non è poi così male. Grazie mille per averlo letto. Non pensavo di riuscire a reggere un'altra long, anche se mini. Il secondo capitolo è già pronto, in realtà. Era parte del primo, ma mi sembrava troppo lungo. 
Spero davvero sia stata una buona lettura. Ogni commento è bene accetto. Servono a migliorare dopotutto.

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Capitolo 2
*** Parte II ***


 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sei mesi dopo
 
 
 
 
La scuola, quindi, rimane la stessa. La sua routine anche. La maggior parte delle volte si presenta in ritardo, Aiolos lo guarda storto e lui ridacchia. Si accorge di avere ancora la bocca sporca di dentifricio, i capelli legati alla bell’e meglio.
Le aula sono sempre uguali, i muri, e il materiale da disegno e le sedie rotte, i banchi con le ginocchia sbucciate. È tutto uguale, gli schiamazzi di Seiya e la faccia imbronciata di Hyoga, le visite inopportune di Saga, le incursioni di quell’imbecille della classe affianco.
La differenza è che tutto è un poco più vuoto, da allora.
- Sto contattando i parenti – gli ha detto Marin, dopo – I più vicini o, almeno, quelli che possono prendersene cura. Detesto l’idea che li spediscano chissà dove, con qualche sconosciuto.
È andata da lui, una sera. Fuori nevicava di brutto e Milo si era sentito in dovere, anche per la gioia della sua pelle, di sprofondare poco elegantemente nel pigiama di pile che Aldebaran, centrato in pieno da una delle sue idee imbecilli ed inopportune – condite, oltretutto, con una buona dose di spirito vendicativo – gli aveva regalato il Natale precedente. Un obbrobrio, a suo dire. Scorpioni rossi inclusi.
- Mi dispiace terribilmente – gli ha detto, piangendo. E Milo ha capito. È venuto fuori, parecchi singhiozzi dopo, che si, chiudevano l’orfanotrofio, ma almeno la scuola gliela lasciavano. Marin aveva finto di vomitare – A quanto pare non sono interessati, gli stronzi – e niente, questo. L’unico suo dispiacere sono rimasti i bambini. Nessuno di loro frequenta più le lezioni e molti dei banchi in prima fila rimangono desolatamente vuoti. Milo non c’ha fatto caso o, almeno, non troppo e non fino a quel momento. Provare a far finta di niente non è così difficile come si dice. Oggi probabilmente è solo una giornata no. Non gliene capitavano da parecchio, lo ammette.
Aiolos passa da lui, come sempre. Niente caffè, questa volta solo un mezzo sorriso triste – Come stai? – domanda e Milo, davvero non sa proprio che rispondergli. Opta per un diplomatico – Ok – ma, dopotutto, nemmeno lui ci crede.  Aiolos, da parte sua, sospira, afflitto e – Chi? – domanda.
- Shiryu – sbuffa Milo – A quanto pare ha un nonno, in Cina. Sono venuti a prenderlo un paio di giorni fa – storce la bocca, contrariato – Marin mi ha avvisato stamattina
Non c’è niente da dire, e Aiolos rimane in silenzio. Milo non l’ha mai retto il silenzio, non per troppo tempo. Si potrebbe dire – e molti l’hanno accusato spesso – che ami il suono della sua voce – non che sia del tutto sbagliato, s’intende.
- Sono una persona orribile – bisbiglia, la testa abbandonata tra i gomiti. Sa che dovrebbe essere felice, per Shiryu, per Seiya e Jabu e tutti gli altri. Hanno trovato una famiglia, dopotutto. Qualcuno che si prenderà cura di loro e che, soprattutto, saprà farlo meglio di come lui e Marin hanno fatto fino a quel momento. È che Milo si sente come se l’avessero lasciato indietro. Sbuffa di nuovo. Hanno portato via anche tutti i loro disegni e le pareti, adesso, sembrano così tristi. Quel giallo paglierino è orribile, santo cielo!
Aiolos vede quel suo broncio orribile e sorride – No che non lo sei – dice – Sono i nostri ragazzi – gli sussurra in un orecchio ed è così vicino che è come fossero abbracciati – Saranno sempre i nostri ragazzi – e non c’è niente di più vero.
- Forza, allora – borbotta alla fine – che ne dici d’un caffè? – e Milo inarca un sopracciglio, scettico – Offro io – e ok, va bene, il caffè aggiusta tutto. Soprattutto quando è corretto.
 
 
Tornare a casa è uguale e diverso allo stesso tempo. Shun lo aspetta in salotto, tutti i giorni. Si rannicchia sul divano e, tutto appallottolato nel suo plaid, chiude gli occhi e sonnecchia. Poi, beh, poi Milo non gira la chiave nella toppa e si lascia crollare sul tavolo da pranzo.
Allora, i piedi nudi e i capelli aggrovigliati gli si avvicina e, tutto concentrato, gli stampa un umido bacio sulla guancia. Quella sera rimangono accoccolati tutti e due sul divano. Milo tiene su i suoi vestiti stropicciati e Shun gli si aggrappa alla maglietta talmente forte che il tessuto gli si ritira tra le dita.
Milo non ha mai pensato che sarebbe finita così. Forse, si dice, dovrebbe smetterla di comportarsi da padre. Gli porteranno via anche Shun e, anche se gli duole ammetterlo, quel frugoletto gli mancherà più di tutti. Anche se, a voler essere brutalmente sinceri, Milo non è niente, per Shun. Ed è tutta colpa sua. Quando Marin gli ha chiesto di adottarlo, non se l’è sentita e ha rifiutato – Perdonami, Marin – le ha detto, in imbarazzo – ma non sono adatto a fare il padre – poi – Ha già qualcuno – ha continuato, per convincerla – si prenderà cura di lui come io non riuscirei a fare – e quando è tornato a casa, quella sera stessa, ha sollevato il telefono e ha contattato Ikki.
 
 
La casa di Camus è, oramai, una loro tappa fissa. I bambini vanno parecchio d’accordo e s’era capito e così almeno riescono a vedersi quasi tutti i giorni – ritirare Shun dalla scuola non è stato affatto facile, né indolore complici, soprattutto, i suoi capricci infantili e le occhiatacce oblique di Hyoga. Quella specie di moccioso troppo cresciuto ha fatto passare a lui e ad Aiolos un quarto d’ora terribile il giorno in cui, infilando la testolina bionda tra la porta schiusa e lo stipite, s’è reso che conto che no, Shun non c’era e che la colpa era, sostanzialmente, tutta di Milo. S’era calmato solo quando, un’ora dopo e alla presenza di Camus, Milo gli ha promesso che avrebbe portato Shun a casa loro ogni pomeriggio, o quasi. Hyoga l’aveva guardato per un minuto buono, in silenzio, e poi aveva deciso di graziarli tutti, annuendo. A ripensarci ora, comunque, Camus aveva messo su di nuovo quella sua strana faccia, come se avesse voluto pestarlo lì sul posto.
Sogghigna. Di sicuro non deve avergli fatto cosa gradita. Camus è, dopotutto, uno di quei tipi estremamente schivi e solitari. Non va matto per la confusione, né per, beh, le persone in generale. Soprattutto per le persone come Milo, così caotiche, così disordinate. Milo, invece, va parecchio matto per Camus, anche per le sue occhiate omicide. Glielo dice spesso - Dovresti sorridere di più – ma Camus si stringe le labbra fra i denti e rimette su quella sua espressione seriosa. Che terribile spreco.
La sua casa è il doppio di quella di Milo, talmente ordinata da far male agli occhi. Hyoga e Shun si rintanano in salotto, ai piedi del divano, giocano tra di loro e ridacchiano a bassa voce. Non è la prima volta che Milo pensa che siano troppo vicini.
Camus ha una lunga treccia rossa che gli incornicia il collo. E, appena lo vede, Milo scoppia a ridere e poi, dopo averlo visto digrignare i denti, prova con tutte le sue forze a trattenersi. Non ci riesce, non troppo bene almeno e Camus solleva un sopracciglio - È stato Hyoga – ringhia e Milo ride più forte.
A casa di Camus Milo smette di essere triste, anche quando gli racconta tutto. Si siede di fianco a lui, con le gambe aperte, gli occhi fissi sui bambini.
- Sarà qui tra un mese – dice. Camus non alza nemmeno lo sguardo.
- Il fratello di Shun?
Milo annuisce, assorto - Lo porterà con sé, naturalmente
E Camus poggia finalmente la penna sul tavolo, inclina un poco la testa, impercettibilmente si allunga verso di lui – È questo che ti preoccupa? – domanda.
- Hmn? Oh no, certo che no – sussurra lui in risposta – Ikki è – una pausa – buono, davvero. E adora Shun
- Allora cosa?
Milo socchiude gli occhi, sospira – Mi preoccupa Hyoga – bisbiglia – e il fatto che mi mancherà terribilmente
E Camus non l’ha mai incontrato, un tipo come Milo, nemmeno nei libri. Giura. Lancia un ultimo sguardo ai piccoli, li osserva disegnare in silenzio e poi allunga un braccio. Afferra la mano di Milo e intreccia le loro dita assieme. Stringe forte.
 
 
Punto uno: si baciano, e parecchio.
Baciare Camus è tipo un’esperienza mistica. Milo gli circonda la vita con le braccia e, in silenzio, si meraviglia di quanto sia sottile. Gli stringe una guancia con la mano libera e prova a tirarselo più vicino. Va specificato però; non è come se avessero una relazione, non è che stanno insieme o cose così, è solo che si baciano, ogni tanto e dormono insieme. Niente sesso, solo, ecco, dormire.
Punto due: In verità è Milo ad aver cominciato, il giorno in cui ha saputo dell’orfanotrofio. Si è presentato da Camus senza preavviso e ha bussato alla porta talmente forte che dopo le mani gli hanno fatto male per ore. Camus aveva su i suoi occhiali da vista e una tuta comoda, larga sui fianchi. Milo ha solo pensato che fosse meraviglioso, anzi, a dirla tutta, non ha pensato affatto. Si è gettato su di lui come un disperato – Hyoga? – gli ha respirato sulla bocca – Da un’amica – e giù, a mordergli le labbra.
L’ha baciato per un’ora intera. Camus ha provato a respingerlo, all’inizio, ma poi, alla fine, forse s’è arreso, riluttante.
Milo ha ritrovato il coraggio – e la lucidità, soprattutto – di scusarsi solo parecchio dopo.
- Sono mortificato – ha detto, rosso fino all’attaccatura dei capelli, terribilmente in imbarazzo – Non so cosa mi sia preso – anche se in realtà lo sapeva eccome, maledetto il suo cuore – Ero giù e ho alzato un po’ il gomito e avevo bisogno di qualcuno che- e mi dispiace, Camus – non era nemmeno riuscito a guardarlo in faccia.
Camus aveva distolto lo sguardo dalla sua chioma bionda e – Va bene – aveva esalato, gelido.
Milo aveva sollevato la testa ad una velocità impressionante - Che?
- Puoi farlo – un grosso respiro – quando sei giù e ne hai bisogno, puoi fare – e un sospiro – quello che hai fatto
E quindi, punto tre: Milo non può lamentarsi di niente, dopotutto. A sua discolpa si può dire che fosse ubriaco. Non tanto da perdere la memoria il giorno dopo, ma abbastanza per abbandonare parecchi freni inibitori. Non riesce a capire Camus, a dirla tutta. Ma, uhm, non sembrava per niente disgustato anche solo all’idea di baciarlo e ora pare rispondere alle sue carezze con un certo trasporto, perciò. Milo gli morde il labbro superiore e traccia con la lingua quel suo delizioso arco di cupido. Lo sente gemere ad alta voce e lo bacia di nuovo, morbido – Sveglierai i bambini – gracchia completamente perso e le guance di Camus si fanno di un rosso delizioso. Milo sorride.
Punto cinque: Davvero, la casa di Camus è tutta felicità.
 
 
Camus ha appena due settimane per concludere il suo ultimo lavoro. È frustrante perché ha questo blocco e, obbiettivamente, gli manca pochissimo per finire. È solo che quella è una scena centrale e in quei giorni la sua testa non funziona proprio come dovrebbe funzionare. Un miscuglio di cose, probabilmente. E Milo. Milo c’entra sempre.
Quel suo protagonista un po’ gli assomiglia; stessi capelli biondi, stessa sfacciataggine. Camus ancora non è riuscito a capire come possa sentirsi attratto da un soggetto simile. Non è per niente il suo tipo, a dirla tutta. Eppure sente come un fremito, quando lo tocca, una spropositata quantità di calore che gli serra la gola e gli addormenta le braccia. Non c’è niente di razionale in quello che fa, quando Milo è vicino a lui, né tantomeno in quello che dice. Si è scoperto, addirittura, ad arrossire senza controllo. E quando si baciano. Ecco, lì.
Quante volte gliel’hanno detto? E cazzo, lasciati andare un po’. Persino Shura, parecchio meno volgare e tutto rigido nella sua professionalità, ha provato a farglielo capire, anche se non troppo velatamente ad essere sinceri. Sono anni che gli deve una storia d’amore.
Camus non ci ha mai neanche provato, ad abbandonare la sua proverbiale serietà. Non seriamente. Ora, invece, con Milo ci riesce. E non gli piace. Si trasforma, in sua compagnia, in una specie di budino tremolante. E, cielo, solo l’immagine l’inorridisce.
E quella scena, con quella scena è uguale. È come avere un blocco, alle mani e un po’ dappertutto. In due giorni è riuscito a buttar giù solo una mezza frase decente e ha dei dubbi anche su quella. Forse è perché non sa cosa dire. Come spiegare quella specie di pena? Ha paura di non esserne più capace.
Camus non è più un ragazzino. Sa, e da molto tempo – complice il suo lungo soggiorno francese – qual è la sua soglia di sopportazione, quanto dolore ci vuole prima che cominci a spaccarsi.
Sono stati anni felici, quelli trascorsi a Parigi. Non aveva da occuparsi che di se stesso. Poi però Natassia ha avuto quell’incidente e gli è capitato Hyoga tra capo e collo. È stato allora che ha smesso di scrivere o, per meglio dire, non c’è riuscito più, se non con difficoltà. È un peccato che la scoperta della felicità l’abbia privato di una delle cose più importanti per lui.
Hyoga, non c’ha messo molto a scoprirlo, ha il suo stesso carattere. Probabilmente Natassia glielo ha affidato anche per questo.  Era sua amica. Anche volendo, non avrebbe potuto dirle di no, non senza sentirsi in colpa a vita e non dopo che lei era morta. È stata una di quelle sorprese che nessuno si augura di ricevere.
Fu l’avvocato a spiegarglielo. Tutore legale, disse, ma può rifiutare, s’intende. Non aveva avuto il cuore di farlo. Prima grande debolezza.
La pagina bianca però continua a fissarlo, ma Camus ha il cervello da tutta un’altra parte e spremersi a quel modo di sicuro non migliora la situazione. Gli fa venire l’emicrania, quello si. Si afferra la testa tra le mani, allora, prova ad ignorare la luce del PC che gli martella la fronte.
Poi si sente tirare un fianco. Colpetti leggeri, di bambino. Hyoga lo fissa con due occhi enormi. Ha la faccia imbronciata, sempre triste e Camus vorrebbe insegnargli a sorridere.
Dopo un po’ se lo tira sulle ginocchia, anche perché non è in grado di fare altro, gli circonda la schiena col torace e prova, per tutta la sera, fino a notte inoltrata ad insegnargli qualcosa sulla scrittura. Gli bacia piano la fronte e lascia che riempia di parole senza senso tre intere pagine bianche.
 
 
Aldebaran ha una cotta per Shun. Milo si chiede spesso chi esattamente non ce l’abbia. Con Toro, però, la cosa raggiunge livelli quasi imbarazzanti.
Lascia stare Shun dietro al bancone, vicino alla cassa e a lui fa battere gli scontrini. La cosa sconvolgente è che non sembra importargli della coda che, così facendo, va ad ingrossarsi. Ma, ancora peggio, è il fatto che nemmeno a quelle stesse persone in coda dispiaccia aspettare tanto. Perché Shun, per logica, riesce a battere, con le sue piccole manine, una cosa come due scontrini ogni mezz’ora ma, a quanto pare, riesce a farlo con un espressione così adorabile che i clienti, invece di battere i piedi e far crollare il cielo a forza di ingiurie e parolacce, sorridono, ridacchiano e, alle volte, provano persino ad aiutarlo. E Toro? Toro gongola come un genitore fiero del proprio pargolo, completamente dimentico del bancone vuoto e istruisce Shun come se, da grande, dovesse ereditare il bar.
- Ecco – dice e Shun solleva il nasino verso l’alto, attento ad ogni parola – devi premere qui, e qui – insegna, diligente e poi aspetta che il piccolo ripeta tutto e, quando sbaglia, ride più forte, fa quasi tremare le pareti. E i clienti ridono con lui. È quasi inquietante. Ma no, togliamo il quasi.
Milo solleva un sopracciglio, sbigottito. Quando poi finalmente, una cosa come un’ora dopo, Aldebaran decide che forse è meglio finirla lì, affida Shun a Shaka che, contento come una pasqua, si tira il piccolo nelle cucine e lascia che gli intrecci i lunghi capelli biondi con i vecchi lacci dei grembiuli che tiene sotto il mobile dei dolci, poi, ancora col sorriso stampato in faccia, si piazza di fronte a Milo e – Allora – bofonchia – cos’è che vuoi esattamente?
Milo ha un vena sporgente proprio lì, sulla fronte e comincia a pulsare – Che diavolo, amico – protesta – Potresti anche evitare di sembrare così scocciato
- Ascoltare le tue lagne è degradante per il mio cervello – tuona, due metri e due di muscoli sudati – Non so come faccia quell’angelo a sopportarti – Shun, ovviamente. Non che Milo lo biasimi, naturalmente, persino lui ne è innamorato. Questo, però, non significa assolutamente che gli altri debbano saperlo.
Sta, perciò, per rispondergli a tono quando sente, di striscio, una vocina familiare trapanargli il cervello. E niente. Si gira e un secondo dopo si trova a nemmeno una spanna dalla faccia seria di Camus. Niente occhiali, oggi e Milo adora i suoi occhi scuri, e anche tutto il resto, certo.
- Ciao – bisbiglia già mezzo intontito.
Camus inarca un poco le sopracciglia, annuisce – Milo – e sulla faccia di Milo si disegna il sorriso più ebete del mondo. Aldebaran quasi si soffoca dal ridere. Hyoga gli fa ciao ciao con la manina e Aldebaran non sapeva nemmeno di avere un tale debole per i bambini. Lo sta scoprendo adesso.
- Allora – domanda quasi uggiolando – che ne dici di dare un’occhiata alle cucine? Sono sicuro che, là in mezzo, ci sia una sorpresa per te – e Hyoga non se lo fa ripete due volte, molla la mano di Camus dopo un educato – Posso? – Ovvio che può, e scorrazza felice verso il retro del locale. Lo sentono strillare felice quando vede Shun e Shaka gli accarezza la fronte col naso.
Camus solleva piano un angolo della bocca – Lo vizi troppo – gli dice. Ma Aldebaran scrolla le spalle – Sono bambini – ribatte – Viziarli è uno dei nostri compiti – poi si sposta di lato e volta loro la schiena – Per te il solito?
Camus annuisce, sempre impassibile, e Aldebaran si allaccia bene il grembiule.
In tutto questo, Milo rimane immobile, ancora mezzo allucinato. Sembra riprendersi solo quando Camus afferra uno degli sgabelli, si siede accanto a lui.
- Da quando voi due vi conoscete? – chiede, incredulo e, diavolo, se ne pente immediatamente. Camus si gira verso di lui e solleva quel suo sopracciglio minaccioso. È incredibile quante parole possa sottintendere quando fa quella cosa con la faccia. Tutte maledizioni, Milo ne è sicuro.
È Aldebaran a salvarlo, una tazza fumante nel palmo – Camus è uno dei miei clienti abituali da almeno tre mesi – oh, ma guarda, da quando Milo ha fatto la cazzata. Non sa se esserne spaventato o cosa.
Camus afferra attento il suo cappuccino – Pensavo fossi a scuola – dice e soffia.
- Oh, no – spiega – Rimarrà chiusa per un po’. È affiliata all’orfanotrofio. Dobbiamo solo aspettare che venga ufficialmente venduto
Camus annuisce, assorto. Ha i capelli sciolti e un maglione talmente lungo che supera le maniche del cappotto e gli copre le nocche. Milo ha scoperto di avere una vera e propria venerazione per le mani di Camus. Sono così sottili. Fosse per lui, passerebbe le ore a baciarle.
- E tu – comincia poi per distrarsi – non hai un lavoro? – ed ecco, Aldebaran, da lontano, scoppia a ridere e Milo si sente, per l’ennesima volta, un emerito imbecille. Che poi, che avrà mai ha detto di così divertente?
Camus ridacchia, il naso infilato nella tazza e Milo si rende conto in quel momento di non averlo mai sentito ridere, non per davvero. È più bello del solito quando è rilassato.
- Ce l’ho un lavoro, Milo – lo prende in giro a bocca schiusa – È solo che non è a tempo pieno – poi si beve il suo caffè e, cielo, quando rialza la testa, un paio di deliziosi baffetti di schiuma gli incorniciano la bocca. E Milo ci prova, davvero, conta fino a tre, poi fino a cinque, ma non ce la fa e il suo corpo si muove da solo.
- Hai- comincia, allunga una mano verso il viso di Camus e, sotto i suoi occhi spalancati, rimuove col pollice ogni traccia di panna dal suo labbro superiore e poi, beh, fa la cosa più logica. In assenza di tovaglioli a portata di mano, si porta il dito alla bocca e succhia.
Camus non ha nemmeno il tempo di respirare. È un battito di cuore e la sua faccia si tinge di rosso acceso e non vorrebbe esagerare, ma crede che le sue orecchie abbiano appena fischiato. In un attimo di lucidità si chiede se Milo si renda conto delle cose che fa, delle cose che dice, dei mezzi infarti che gli procura ogni volta. Persino Aldebaran ci è rimasto.
E Camus è talmente imbarazzato che prende a balbettare.
- Io ecco g-grazie – e tossisce, gli occhi spalancati grandi come tazzine da caffè – È meglio, si – poggia la tazza sul marmo, si alza in piedi di scatto – È meglio che vada adesso
Detto fatto. Un secondo e ha Hyoga appiccicato al braccio destro e un piede fuori dal negozio. Dimentica persino di pagare il conto.
Milo ci rimane talmente male che spalanca la bocca. Si gira verso Aldebaran e, con quella sua solita faccia da schiaffi, chiede – Che ho fatto?
E Aldebaran quasi si mette a piangere dalla frustrazione. La situazione è talmente ai limiti del ridicolo che non riesce a fare altro. Colpisce forte Milo in testa e spera che il colpo, almeno, gli abbia attivato qualche neurone.
- Senti un po’ tu – comincia dopo essersi assicurato di non averlo ucciso – Qual è, esattamente, il vostro rapporto?
Milo ha la testa che pare un tamburo. Probabilmente il suo cervello, in quel momento, si sta facendo un giro di giostra. Gli rimbombano persino i pensieri.
- Porca merda – impreca sotto voce – Potevi evitare di colpire così forte! Credo di essere morto e risorto nel giro di due secondi
Aldebaran, però, non sembra per niente dispiaciuto – È perché sei un pappamolle, l’ho sempre detto – solleva la fronte, lo sguardo serio e concentrato – Rispondi alla domanda
Milo, però, non sa esattamente cosa dirgli. Lui e Camus sono cosa? conoscenti? amici? amici con benefici? Non è che abbia proprio le idee chiarissime, lui in primis.
- L’ho baciato – sputa fuori alla fine.
Toro quasi si strozza con la saliva – L’hai cosa?
- Baciato – ripete – E parecchie volte anche
- E lui?
- Beh, non mi ha ucciso – e boh, Aldebaran non sa che dire, a questo punto. Non che sia troppo sorpreso, in realtà, la stupida faccia innamorata che Milo tiene su da quasi un anno a questa parte è inequivocabile. Non che quella di Camus sia poi così difficile da decifrare.
A dirla tutta, però, non credeva che Milo sarebbe riuscito a fare il primo passo, non prima del duemila mai.
- Quindi, che, state insieme?
Milo sbuffa e sospira – Mi piacerebbe – pigola – ma no, certo che no
- Ma hai appena detto-
- Ci baciamo e basta, in realtà
Le sopracciglia di Toro, adesso, gli arrivano dietro la fronte.
- Anzi – riprende Milo dopo un po’ – a voler proprio dir la verità sono io che lo bacio e basta. Credo non abbia ancora trovato un modo abbastanza gentile per scaricarmi
Aldebaran non riesce a credere alle proprie orecchie. Guarda Milo accasciare la testa sul bancone, i capelli biondi sparsi ovunque e l’aria afflitta di un condannato al patibolo. Se solo non facesse la figura dell’insensibile gli scoppierebbe a ridere in faccia. Allora, da buon diplomatico quale è sempre stato, fa la cosa che gli riesce meglio. Gli tira una sberla e pure bella pesante. È probabile che, andando avanti così, qualche cliente del locale lo denunci per maltrattamenti. Ma se tutto quello serve per far entrare un po’ di sale in quella zucca vuota, beh, che ben venga.
Milo ci rimane di sasso, ovvio che si. Se le merita tutte.
- Che hai nel cervello? – gli sibila Aldebaran ad un palmo dal naso – Tu credi davvero, dall’alto della tua cretinaggine, che un tipo come Camus, Camus per gli dei, riservato e serio com’è si faccia baciare così, per pietà, dal primo che passa?
- Ma-
- Ma, cosa? – lo interrompe Toro, mezzo irritato – È l’unico che riesce a parlarti per più di dieci minuti di fila senza avere il desiderio di spaccarti qualcosa in testa. Devi piacergli parecchio se ancora non ti ha preso a sberle!
- Che dici? – scoppia Milo tutto d’un botto – Non posso mica piacergli, io. Lui è, è, l’hai visto, no? E io sono solo-
Poi, ecco, il momento dell’epifania. Forse quel suo neurone si riattiva per davvero, perché Aldebaran vede la realizzazione spaccargli la faccia a metà e le guance di Milo tingersi di un delicato color ciliegia. Era anche ora. Toro sorride così tanto e tanto ampiamente che gli fanno male anche le orecchie, dopo.
D’altra parte, del tutto ignaro dei suoi deliri di onnipotenza, Milo deglutisce, a disagio.
- Toro – lo chiama – Puoi controllare Shun per un po’?
- Ma certo, ragazzo
Milo annuisce – Digli che passo a prenderlo tra poco. Io, ah, ho un – una pausa – una cosa da sistemare
Aldebaran incrocia le braccia, già orgoglioso di lui – Ci vediamo dopo – dice e Milo probabilmente non l’ascolta nemmeno. Si fionda, gambe in spalla, verso la porta, non saluta nessuno e Aldebaran se la ride.
Cinque minuti dopo sente suonare il suo telefono. Un messaggio. Grazie, Toro. E niente. Aldebaran l’adora, quell’imbecille. Spera davvero possano essere felici.
 
 
 
 
Nemmeno un quarto d’ora dopo
 
 
 
 
Dicevamo, il loro primo bacio è stato orribile, c’è poco da dire. Milo era poco meno che ubriaco e Camus non c’ha capito niente dall’inizio alla fine. Questo però, questo sarà diverso, tutta un’altra cosa. Milo conosce quella strada, quel giardino come le sue tasche. Quando è caduta la prima neve Hyoga e Shun ci hanno giocato fino ad addormentarsi in piedi. Hanno messo su piramidi di pupazzi usando tutte le sciarpe di Camus. E lui ha riso per ore, dopo, con Camus che tentava, senza successo oltretutto, di reprimere i propri istinti omicidi e sculacciarli tutti. Milo ha paura che ricordi così siano per sempre.
Non sa nemmeno se è in casa, se è con qualcuno e, dal nervoso, cominciano anche a prudergli le mani.
Bussa, ok, si. Bussa. E appena lo vede e riconosce quella sua splendida faccia perplessa è come la prima volta, non gli dà nemmeno il tempo di respirare. Lo afferra per il collo – Milo, ma che- ma niente. Milo fa scontrare le loro labbra e se lo stringe al petto, forte, e sente il cuore di Camus martellargli la cassa toracica, correre come il suo e quasi esplodere e rituffarsi nel suo respiro e le guance di Camus sono così calde, il suo profumo gli dà alla testa. E Milo continua a baciarlo per non sa quanto tempo, un secondo, forse un’ora.
Fino a che, beh. Fino a che Camus non lo prende a sberle. Ma sul serio. E Milo ci rimane come c’è rimasto mezz’ora prima, con Aldebaran. Attassato. Pure mezzo ferito. Attassato e ferito insieme.
Camus ha il respiro affannoso, il petto che si alza e si abbassa ad una velocità impressionante, i capelli tutti scomposti – a pensarci bene, comunque, anche lui non deve essere poi tutto sto spettacolo in quel momento. Milo però lo trova bello come non mai. Il suo cervello probabilmente funziona a senso unico, ma lo trova bello sempre, anche ora che sembra che, arrabbiato? Oddio, perché sembra arrabbiato?
- Sei di nuovo ubriaco, non è vero?
- Cosa? – balbetta, e poi – Oh, no. Certo che no. Io-
Gli occhi di Camus paiono fatti di saette – Che diavolo ti prende stamattina? – sibila.
Milo non riesce nemmeno a respirare – Volevo, volevo solo-
- Non adesso, Milo – sussurra – Hyoga è di sopra. E io ho da lavorare – si passa una mano sulla bocca, si pulisce le labbra. Non va bene, non va assolutamente bene. Camus non se l’aspettava, niente di tutto quello. Ha il fiato intrappolato, la fronte calda e continuare a quel modo gli sta spezzando il cuore.
Si sposta verso la porta che nella foga, prima, s’è richiusa con un tonfo. Ha bisogno di stare solo, di raccogliere le idee. Preferirebbe non vedere nessuno per giorni. E questo solo per cominciare.
Milo però, a quanto pare, non è della stessa opinione. Inarca le sopracciglia e, veloce, gli afferra un polso, il braccio destro – Tu mi piaci – gli vomita addosso e Camus è sicuro, a quel punto, d’essersi fatto luminescente e che il suo cuore si sia fermato tutto d’un botto.
- Anzi no – continua Milo, senza pietà – Non è che mi piaci e basta. Io ti amo. Ti amo da – e si ferma un attimo, ci pensa su – da quant’è che ci conosciamo?
- Ah – tossisce Camus tremante – Un anno – e Milo annuisce, fiero e serissimo.
- Ecco – dice – Ti amo da un anno, da quando ti ho visto. E ogni volta che t’ho baciato non ho fatto che amarti di più, ma credevo che tu- e adesso sono così vicini che Camus può contargli le pagliuzze d’argento che si ritrova negli occhi. Questa volta è lui a non lasciarlo finire. Si sporge in avanti, le punte delle orecchie in fiamme e gli bacia tutte quelle inutili, stupidissime parole e le labbra di Milo sono morbide, come sempre, e sanno un po’ di miele. Lo zittisce così, schiudendo la bocca.
- Dopo che mi hai baciato – comincia, la voce talmente bassa che, se non fossero quasi appiccicati, petto contro petto, Milo non riuscirebbe a sentirla – quella prima volta, si, non ho fatto che pensarci, per giorni. Ero così felice – confessa, e gli regala un sorriso minuscolo – ma poi tu hai detto che era stato un caso, che ti serviva qualcuno e io-mi sono sentito così sbagliato  
E a quel punto Milo gli circonda il viso con i palmi e lo bacia ancora, leggero – Mi dispiace – gli geme in bocca – Mi dispiace – e gli accarezza il labbro inferiore con la lingua, lascia che le loro bocche scivolino piano le une sulle altre. Non fa che scusarsi, incessantemente, finché non sente il corpo di Camus abbandonarsi alle sue braccia e le sue mani incidergli piano le scapole. È stata colpa sua, tutta colpa sua. Non avrebbe mai voluto ferirlo, non credeva nemmeno di esserne capace.
Gli bacia tutta la faccia, anche la base delle orecchie e poi Camus gli ride addosso, tra un respiro e l’altro, e Milo sente milioni di cristalli sfrigolare.
- Quindi, io ti piaccio? – domanda – Almeno un po’?
Camus annuisce. Ha le lentiggini in rilievo, tutte disseminate sulle guance.
- Davvero?
- Ovvio che si – bofonchia, gli occhi liquidi – Idiota
E Milo ridacchia – Non sei il primo che me lo dice oggi – sospira, gli stringe le braccia intorno al collo, e Camus sprofonda il naso nel suo petto. Ha un paio ciocche di capelli appiccicate alla fronte umida e trema come un cucciolo.
- Milo? – pigola dopo un po’
- Hmn?
- Non è che mi piaci e basta – dice e solleva la testa – Ok?
Milo scopre un poco i denti, incredibilmente, dopo tutto, arrossisce – Ok – e gli bacia piano la linea della mascella, gli occhi schiusi, quel suo naso aristocratico.
Rettifica: Camus è tutta felicità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Parte III ***


 
Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile.
E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile.
Francesco d’Assisi

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Prima
 
 
 
 
Quella sera trasmettono solo cartoni animati. Hyoga gli saltella intorno per una cosa come dieci minuti buoni fino a che, preso per sfinimento, non lo accontenta. Gli sorride pacato e corre a prendere il PC. Almeno, si dice, ha il tempo per riprendere a lavorare. Capitolo venti. Ce la può fare, è sicuro. Allora, bello ringalluzzito, si posiziona elegantemente sulla poltrona del salotto, il computer sulle gambe e rilegge. Hyoga rimane stravaccato sul divano, una gamba magrissima che penzola dai cuscini. È piuttosto tranquillo, come bambino. Almeno in questo Camus è stato fortunato. Non è mai andato d’accordo con la confusione.
Il suo protagonista ha in mano un pennarello, ma Camus non ricorda esattamente cos’è che, posizionato a quel modo, aveva intenzione di fargli fare. Sospira e lancia un’occhiata distratta ai fogli spillati sul tavolo. Ha finito un lavoro appena quella mattina. Nulla di troppo impegnativo, s’intende, un saggio breve per una rivista di letteratura che Shura gli ha consigliato di scrivere così, per distrarsi. Gli ci sono voluti tre giorni.
Quando ci si è trasferito per, si, per Hyoga, Camus ha creduto che quella fosse la città perfetta per scrivere in tranquillità. Ben collegata, niente traffico perenne o vicini impiccioni. Un toccasana per la sua psiche. Alla fine, però, non era stato proprio così. O, almeno, lo era stato all’inizio. Poi erano arrivati Milo e Shun e niente, era finita la pace.
E la cosa terribile è che, a quando pare, non ne è affatto scontento. Si ritrova a sorridere come uno stupido.
Hyoga ha il faccino girato verso la televisione, il naso adorabilmente arricciato. È incredibile quanto ci si possa affezionare a qualcuno, e in quanto poco tempo, oltretutto. Forse, si dice, è perché è un bambino e i bambini piacciono a tutti. Un punto a suo favore, decisamente.
È solo dopo un’ora che comincia a muoversi. Camus ha buttato giù una buona pagina senza errori o blocchi improvvisi e, per quella sera, non potrebbe essere più fiero di sé. Manca così poco alla fine che già si sente più leggero.
- Cam? – lo chiama ad un certo punto Hyoga, sottovoce.
- Mnh? – bisbiglia lui di rimando, ancora concentrato sullo schermo lampeggiante del computer.
- Ti piace Milo – e non sembra proprio una domanda, dopotutto. Il suo cuore ha un mezzo sussulto e una vampata di calore gli circonda il collo, le orecchie.
 I piccoli hanno un modo di parlare affascinante. Camus li ha sempre, molto segretamente, invidiati. Niente fronzoli o frasi di circostanza, dritti al punto. Non è una cosa che si può fare, tra adulti, nemmeno con gli amici. Un peccato, davvero.
Solleva gli occhi un attimo e – Tu che dici? – Hyoga apre e chiude gli occhi un paio di volte, ci pensa un poco su, assorto.
- Piace anche a me – sentenzia poi, soddisfatto e Camus rilascia il respiro che, non se n’è nemmeno accorto, ha trattenuto fino a quel momento. Ridacchia – Allora va bene
Oh si, va più che bene.
 
 
 
 
Dopo
 
 
 
 
Camus porta i bambini al parco. Nevica di nuovo e l’aria fredda taglia in due la faccia, ma Hyoga ha insistito tanto che alla fine non è riuscito a dirgli di no. E poi, scrolla le spalle, la neve piace anche a lui. Shun ha le guance tutte rosse, caldissime. Affonda il nasino nella sua sciarpa azzurra e riprende a contare. Hyoga è nascosto poco più in là, dietro un albero bello spesso.
Camus non li molla un attimo. Seduto composto sulla sua panchina di ferro, le mani infilate nel cappotto, segue con la testa i movimenti di uno e poi di un altro e li vede ridere, rincorrersi in mezzo ai passanti.
Milo questa volta è a scuola. L’ha salutato quella mattina – Shun al seguito – prestissimo, con un bacio a fior di labbra e poi, tutto pimpante, s’è messo a correre, già in ritardo, gridando per la strada un mezzo saluto incomprensibile. Un casinista nato, non c’è che dire.
Stupido lui che c’è cascato, anche dopo che Aiolos l’aveva avvertito. Camus sorride, stringe le cosce. Si chiede se sia normale, a trent’anni, sentire ancora le farfalle nello stomaco.
 
 
Sa dell’orfanotrofio perché Milo gliene ha parlato. Certo che l’ha fatto. È, dopotutto, da lì che è partito tutto quello. Loro. Camus non se n’è mai interessato, non fino ad ora. A lui bastava che Hyoga andasse a scuola e che fosse contento, il resto pareva più un enorme spreco di tempo ed energia. Questo fino a Milo. E anche solo ammetterlo assesta un enorme colpo al suo orgoglio.
Che l’orfanotrofio venga chiuso, in realtà, non è questa gran cosa. Non per loro almeno. Ma Milo, beh, lì dentro praticamente ci è cresciuto e li adora, quei bambini. Tutti, dal primo all’ultimo. Camus solleva un sopracciglio.
E poi, si, c’è la questione di Shun. Ikki ha dato loro un tempo e Milo ha già cominciato il conto alla rovescia. Spiegarlo ad Hyoga, riflette, non sarà affatto facile.
Non è la prima volta che ci pensa, a fare qualcosa. Non ne parla con Milo perché non ha idea di come reagirebbe. Ha accennato qualcosa ad Aiolos, però. Il denaro non gli manca e la spesa sarebbe più che sopportabile. Ne hanno discusso a scuola un paio di settimane prima. Camus aspettava Milo e Aiolos, a quanto pare, s’era ritrovato un’ora di buco.
- Hanno raggiunto un accordo – ha sospirato, bevendo caffè – Finalmente
Camus ha annuito, la faccia voltata verso di lui – E i bambini?
- Saranno affidati ad un altro orfanotrofio – ha stretto gli occhi, come se ne soffrisse – Cambieranno scuola, e città – Camus non gli ha dato nemmeno il tempo di sospirare di nuovo – Mettimi in contatto con loro – ha sussurrato e Aiolos ha spalancato la bocca.
- Con chi?
- Lo sai
Aiolos a quel punto ha sorriso, indulgente – Non puoi, Camus
- Perché no?
- Non torneranno indietro – ha detto e gli ha poggiato la mano libera su una spalla – Anche se salvassimo l’orfanotrofio, la metà dei bambini è già stata riassegnata e sembra che una decina di loro abbia una famiglia – s’è fermato un attimo, ridacchiando – Marin si è quasi uccisa per contattarli. L’edificio, da solo, non vale niente. Che se lo prendano!
Camus si è leccato le labbra, assorto – E, per Milo?
- Milo se ne farà una ragione – e con affetto – È molto più forte di quello che sembra – poi Aiolos si è girato verso di lui, le sopracciglia un poco sollevate e le labbra dischiuse.
- Voi due- ha cominciato, ma Camus non l’ha lasciato finire – Sì – ha pigolato, le punte delle orecchie già rosse, e Aiolos ha annuito, in silenzio.
- Volevo solo renderlo felice
Aiolos gli ha fatto l’occhiolino, ha trangugiato il suo caffè tutto d’un sorso – Perché – ha detto – credi davvero che non lo sia?
Allora Camus non ha saputo rispondergli. Suppone che non saprebbe farlo nemmeno adesso.
 
 
Camus fa questa cosa, quando Milo lo bacia. Arrossisce. Ma davvero. Le sue guance si fanno d’un prepotente rosso pomodoro, come se fosse sempre la prima volta, come se non fosse mai stato baciato prima. Il che, a pensarci, è semplicemente ridicolo. Camus è, beh, Camus e ogni volta che lo guarda Milo si chiede come sia possibile che tutti, in quella città, non siano ancora innamorati di lui. Tipo lui, che è innamorato perso.
Comunque. Sotto il cielo plumbeo, con l’inverno, le sue lentiggini sono ancora più visibili. Ha le mani infilate nelle tasche, il naso seppellito in una sciarpa stretta e lo guarda, immobile, raggiungerlo dall’altra parte del cancello, mentre i bambini si sbracciano, contenti, e Shun gli corre incontro velocissimo.
- Ciao, tesoro – lo saluta Milo e gli accarezza la testa, intenerito. Non pensava che sarebbero passati a prenderlo. È una cosa dolce, a parer suo, una di quelle cose che fanno le famiglie. Forse, da fuori, anche loro lo sembrano. E quel pensiero gli spezza il cuore.
Camminano stretti stretti, sul marciapiede. Hyoga, davanti ai piedi di Camus, prende a raccontargli di quella mattina – Siamo stati al parco – dice e risponde a tutte le sue domande. Non sorride, non un vero e proprio sorriso, come quelli di Shun, ad esempio, tutti denti. Sembra essersi divertito, però e, alla fine del racconto, Milo gli lascia un bacio sulla testa, tra quella miriade di capelli biondissimi.
Poi gira la faccia e – Cam? – chiama e gira il collo, prova ad incatenarsi ai suoi occhi – È successo qualcosa?
Solo allora Camus sembra riscuotersi e dischiude le labbra, incerto – Cosa?
Milo scrolla le spalle – Sembri, non lo so, da tutta un’altra parte
- Non è niente
- Davvero?
E finalmente Camus gli concede un sorriso – Davvero
In verità, e spieghiamolo bene, c’è una cosa che- Camus pensa spesso, ecco – e, c’è da dirlo,  altrettante volte si maledice – a come appaiano loro quattro, insieme e, oltre a questo, alle cose che, in pubblico, può e non può fare. È parecchio imbarazzante, lo ammette, ma non riesce proprio a smettere. Adesso, per esempio, la mano di Milo gli oscilla lenta su un fianco e Camus sente crescergli in petto una terribile voglia di stringerla, ma il punto è proprio questo: dovrebbe? Tutta quella situazione lo coglie inaspettatamente impreparato.
Non rimuginava tanto, prima. Certo, è sempre stato un tipo riflessivo, fin da piccolo. Non sarebbe bravo nel suo lavoro se non lo fosse dopotutto. Ma con Milo è diverso. Ha, costantemente, la paura terribile di rovinare tutto, di fare la mossa sbagliata e sembrare appiccicoso o, nel caso peggiore, disperato. Quindi, la faccia affondata nella lana, lancia, ad intervalli, occhiate velenosissime a quella specie di appendice tremolante e Milo che si ritiene un imbecille, ma di certo non fino a questo punto, se ne accorge. Ovvio che si.
Incontra gli occhi di Camus quando il suo braccio è già a metà strada e lo vede arrossire, tremare e corrugare le sopracciglia. Tutto insieme. E niente, gli viene da pensare solo che è adorabile.
- Che c’è? – lo sente borbottare, sulla difensiva. Milo sorride e gli infila una mano nella tasca del cappotto. Camus ha le dita gelide, come sempre e Milo stringe, forte.
- Va meglio? – domanda e Camus annuisce, il naso arrossato. Adorabile, decisamente. Poco ci manca che non si metta a squittire. Decide che ha più autocontrollo di così. Più o meno.
- Milo? – Camus adesso ha le ciglia sgocciolanti e il suo cuore prende a battere come un forsennato – Sei felice?
Milo gli carezza il palmo col pollice, lancia uno sguardo ai piccoli, poco più avanti, alla posizione scomoda dei loro gomiti e – Sì – sussurra – Certo che sì – e lo bacia così, in mezzo alla strada, mentre Shun e Hyoga si appiccicano alle loro gambe, ridono.
 
 
 
 
Adesso
 
 
 
 
Il petto di Milo gli pesa addosso. Camus sorride, fra i baci, e si sente intrappolato. Ha i suoi capelli biondi in mezzo alle dita, tra le gambe. Milo gli schiaccia il bacino con le anche e lo chiama tesoro. Camus non crede di essersi mai sentito più amato di così.
A dirla tutta, sono anni che qualcuno non lo tocca. Colpa sua – ancora – non l’ha mai permesso. Tendeva, già a Parigi, ad allontanarli tutti. Non che lo facesse apposta, s’intende, ma quel suo tipico atteggiamento distaccato, timido quasi, ne ha allontanati parecchi, di spasimanti. Lo fa sembrare impegnativo, e pretenzioso. La serietà, seppur sottovalutata, può rivelarsi un fardello enorme.
E con Milo è lo stesso. Questa volta non ha funzionato però, perché forse, al contrario delle sue vecchie fiamme, lui è terribilmente tenace, e caotico. Camus l’adora anche per questo.
Milo gli affonda il naso nelle creste iliache, gli accarezza l’interno delle cosce coi pollici e Camus pensa che non è affatto come nei romanzi. Niente scoppi incontrollati di passione e scempiaggini varie. È quasi tutta testa. Milo si prende cura di lui e Camus prova a fare lo stesso, anche se in queste cose, come già detto, è sempre stato un mezzo disastro.
Lo bacia piano, continuamente e Camus gli respira in bocca, stringe le gambe, pudico, e, quando comincia a tremare, Milo sfiora la sua mascella con le dita – Va tutto bene – sussurra – Sei meraviglioso – anche se Camus è un fascio di nervi, imbarazzatissimo.
Lo lecca di piatto, come si fa con i cuccioli e Camus schiude la bocca e sente fastidiosi ciuffi di capelli che gli si appiccicano alla fronte. Ha il cuore che corre come un pazzo e non sembra voglia più fermarsi e gli occhi enormi, le ciglia bagnate. E poi, ore dopo, quando Milo si è appisolato, accanto a lui e le loro gambe formano una massa informe al centro del letto, Camus si meraviglia, eccitato, di avercelo ancora un cuore, un respiro.
Accarezza le spalle di Milo con la punta delle dita, gli soffia baci umidi tra le scapole. Ha il corpo che è tutto un fremito e la voglia, opprimente, di ricominciare tutto daccapo. Si morde le labbra, combattuto.
Shura gli ha sempre detto che le idee migliori non bisogna cercarle, che vengono da sé e sul più bello, in contesti emotivi impossibili da prevedere ed ecco, infatti. Camus si sente un miracolato. Solleva la schiena delle lenzuola sgualcite e si morde un’unghia, restio ad abbandonare tutto quel calore. Ma sì, si dice, potrebbe funzionare.
Bacia Milo una, due volte sul viso, nella conca morbida del collo e raggiunge la sua scrivania, il computer ancora acceso, poco più in là. È nudo, esaltato come non si sentiva da un po’ e, in questo stato d’eccitazione acuta, con le orecchie in fiamme e il respiro tremolante, apre, sul desktop, la cartella dedicata al lavoro. Flette il polso, quasi come se giocasse, e cancella tutto. Sorride.
Può raccontare di loro, ha pensato. Perché no? Sarà divertente.
Capitolo uno, scrive, lo stomaco in fiamme, Milo.
 
 
 
 
 
 


 

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