Metamorfosi indotta

di Amantide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Post mortem ***
Capitolo 2: *** Sopravvivenza ***
Capitolo 3: *** Adattamento ***
Capitolo 4: *** Evoluzione ***
Capitolo 5: *** Mutazione ***
Capitolo 6: *** Reazione ***
Capitolo 7: *** In memoriam ***
Capitolo 8: *** Metamorfosi ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Post mortem ***


 
 
1- POST MORTEM

 
 
Sulla mensola sopra al caminetto in Baker Street c’era una grossa busta dalla carta giallastra a grana spessa indirizzata a Sherlock Holmes che, visto l’aspetto formale, conteneva sicuramente qualcosa d’importante.
La Signora Hudson l’aveva recuperata dalla casella della posta e l’aveva consegnata a Sherlock illudendosi che lui l’aprisse al suo cospetto rivelandole il contenuto, cosa che lui si era guardato bene dal fare, primo, perché adorava tenere la Signora Hudson sulle spine e, secondo, perché gli era bastato leggere il mittente per dedurre ogni cosa.
Nonostante la padrona di casa non avesse fatto nessuna domanda esplicita, Sherlock sapeva che il suo continuo via vai dal suo appartamento altro non era che una scusa per controllare se lui si era deciso ad aprire la busta oppure no, pertanto si limitava ad ignorare le sue intrusioni e di tanto in tanto ne approfittava per chiederle una tazza ti tè.
Con grande disappunto della signora Hudson la misteriosa missiva era rimasta esattamente dove Sherlock l’aveva lasciata: sulla mensola sopra il caminetto, in compagnia di un cospicuo numero di scartoffie e strati di polvere, rigorosamente trafitta da un pugnale.
“Non potrà ignorarla per sempre” disse la donna a tre giorni di distanza fissando Sherlock seduto sulla sua poltrona con in mano un bicchiere di whiskey, l’espressione triste e lo sguardo perso nel vuoto.
“Non ho bisogno di aprirla per sapere cosa contiene” dichiarò Sherlock asciutto. Ed era vero. Oltre a sapere nei dettagli cosa conteneva quella comunicazione, sapeva anche che a qualche isolato da casa sua, in un altro appartamento (sicuramente più ordinato del suo) c’era un’altra busta, pressappoco identica a quella che aveva ricevuto lui, ma indirizzata ad un’altra persona, una donna, una donna di nome Molly Hooper.
 
Erano passati tredici giorni da quando Sherlock si era visto costretto ad aprire quella maledetta busta e, come espressamente richiesto dalla comunicazione in essa contenuta, stava andando ad adempiere i suoi doveri.
Come Sherlock aveva intuito, anche la dottoressa Hooper aveva ricevuto quella stessa busta ma, a differenza sua, l’aveva aperta subito e dopo lo shock iniziale e qualche giorno di riflessione, si era decisa ad agire.
Era iniziato tutto con una telefonata alla quale Sherlock, intuendo cosa spingesse la patologa a chiamarlo, si era visto costretto a rispondere.
Si erano dati appuntamento al chiosco delle patatine fritte preferite da Sherlock, quello vicino a Regent’s park, e avevano parlato a lungo passeggiando nel parco nonostante la temperatura rigida e l’aria di neve.
Nonostante il detective fosse ben fermo sulle sue idee e sul da farsi concesse a Molly tanti altri incontri perché lei insisteva nel dire che il primo era bastato a malapena a tastare il terreno, non certo a prendere una decisione.
Come Sherlock aveva previsto, gli incontri successivi non erano serviti a niente, anzi, in più di un’occasione si era generato un dibattito particolarmente acceso perché l’argomento di conversazione era delicato e, come se questo non bastasse, le loro continue ed infinite discussioni li obbligavano a menzionare spesso John, il che portava Molly sull’orlo delle lacrime e Sherlock al silenzio, ponendo fine alla conversazione senza aver di fatto concluso nulla.
Fu così che arrivarono alla data della convocazione, consapevoli di non aver trovato un accordo e particolarmente tesi e preoccupati all’idea di quello che avrebbe comportato.
Quando s’incontrarono ai piedi dell’imponente scalinata in marmo che conduceva all’ingresso principale dell’edificio si salutarono cercando di mascherare l’un l’altro la tensione che li attanagliava, poi si voltarono e presero a salire le scale consci del fatto che una volta entrati lì dentro, indipendentemente da quale sarebbe stata la loro decisione definitiva, le loro vite non sarebbero più state le stesse.
Il giudice Norringthon li aspettava in fondo al primo piano, in una stanza dal soffitto alto e dal pavimento in marmo chiaro. Sherlock annusò l’aria nel vano tentativo di capire quante ore fossero trascorse dall’ultima lucidatura e quale tipo di cera fosse stata utilizzata. Aveva postato un articolo sul suo sito in merito alle cere per pavimenti più diffuse in commercio e John, ovviamente, non aveva perso l’occasione di prenderlo in giro dichiarando che nemmeno una casalinga disperata avrebbe mai letto un articolo del genere. John. Persino uno stupido pavimento riusciva a ricordarglielo.
“Sherlock!” Sibilò Molly rifilandogli una gomitata nel costato. “Dobbiamo andare, il giudice ci sta chiamando”
Sherlock guardò un’ultima volta il pavimento, niente, il suo dono delle deduzioni sembrava momentaneamente fuori uso. Maledetto John Watson.
“Prego, accomodatevi” disse l’uomo basso e tarchiato dietro alla scrivania facendogli cenno di avvicinarsi. Sherlock scostò la sedia di Molly e solo dopo che lei si fu seduta si accomodò al suo fianco.
“Bene” esordì il giudice posando le mani cicciottelle sulla scrivania ricolma di scartoffie in un modo che a Sherlock ricordò tremendamente un Bulldog. “Sapete entrambi il perché della vostra convocazione, qui leggo che la comunicazione ufficiale vi è stata consegnata in data 28 ottobre, ed essendo oggi il 29 di novembre vi stato concesso un intero mese per consultarvi e prendere una decisione… decisione che spero vi abbia visto concordi.”
Sherlock abbassò lo sguardo e Molly deglutì, tesa come una corda di violino, evitando volutamente di guardarlo; mai avrebbe pensato di trovarsi in una situazione del genere, e soprattutto non con Sherlock.
“Dunque” esordì il giudice inforcando gli occhiali, “la prassi prevede che io legga tutto e solo alla fine esprimerete, uno alla volta, le vostre volontà.”
L’uomo aprì un grosso fascicolo e cominciò a leggere con voce piatta. Sherlock smise di ascoltare dopo mezzo minuto, non aveva bisogno di sentirlo leggere quel noiosissimo atto per sapere cosa doveva fare. Doveva solo esprimere le sue volontà e mettere una stupida firma, poi tutto sarebbe finito, spazzato via come un brutto sogno al momento del risveglio.
Rimase seduto a fissare torvo l’uomo di fronte a lui, le braccia incrociate e l’espressione indecifrabile. Quell’uomo era ripugnante, somigliava più ad un pedofilo che a un giudice preposto alla tutela dei minori e doveva avere un debole per le ciambelle perché aveva dello zucchero a velo sul colletto della camicia. Il suo diabete doveva essere alle stelle. Le labbra di Sherlock s’incresparono a formare un lieve sorriso, le deduzione sembravano aver finalmente ripreso a fluire agevolmente nel suo cervello.
“I qui presenti Sherlock Holmes e Molly Hooper, sono stati convocati in data 29 novembre 2016 dall’autorità giudiziaria qui rappresentata dal giudice Robert Norringthon, in quanto a tutti gli effetti rispettivamente padrino e madrina di Rosamund Mary Watson, nata a Londra il 4 aprile 2016, figlia di John Hamish Watson e Mary Elisabeth Morstan, attualmente affidata all’istituto St. Jacob di Londra per la tutela di minori rimasti orfani in quanto i soli parenti rimasti in vita risultavano, per motivi diversi, non idonei ad allevare la bambina.”
Sherlock spostò lo sguardo su Molly, era agitata, si sforzava di apparire calma e tranquilla ma il fazzoletto spiegazzato che stringeva tra le mani e su cui sfogava tutta la sua frustrazione dimostrava il contrario.
Il giudice stava ancora leggendo e Sherlock trovò la sua voce irritante come il ronzio di una zanzara durante il sonno. Quante pagine mancavano alla fine di quella tortura?
“…è quindi da intendersi che la richiesta di adozione sarà accolta solo nel caso in cui entrambi esprimeranno il loro consenso apponendo una firma al punto A dell’appendice 7 del suddetto atto…”
Il giudice fece una lunga pausa per riprendere fiato, cosa che non gli sarebbe di certo servita se solo avesse fatto un minimo di attività fisica nel corso della sua vita e avesse dedicato meno tempo alle ciambelle.
“Bene, se non ci sono domande, procederei con la messa agli atti delle vostre volontà. Prima le signore…” disse l’uomo porgendo a Molly un foglio e una penna. “Prego, deve solo leggere ad alta voce quanto segue e indicare la sua scelta con una X, poi ponga una firma in fondo al foglio.”
Molly impugnò la penna e dedicò un’occhiata a Sherlock che sembrava completamente estraneo ai fatti ed era intento a scrivere un messaggio col cellulare. Prese un profondo respiro, conscia del fatto che, indipendentemente dalla sua scelta, Rosi sarebbe rimasta orfana. Nonostante tutta la sua buona volontà e il desiderio di garantire alla figlia di John e Mary un futuro migliore di quello che le si prospettava, Molly era consapevole del fatto che certe scelte andavano fatte in due e dal momento che l’altra metà della coppia rispondeva al nome di Sherlock Holmes c’era ben poco da fare. Dopotutto Sherlock e la paternità erano due cose che si escludevano a vicenda, e lui era stato fin troppo chiaro nel farglielo presente.
Tornò a fissare il foglio che aveva davanti e cominciò a leggere ad alta voce: “Io Molly Hooper, nata a Londra il 26 marzo 1980, nel pieno possesso delle mie facoltà e preventivamente informata dei vincoli etici e legali previsti dalla figura di genitore adottivo, dichiaro di…” Molly si fece forza e disegnò una crocetta, “accettare la custodia di Rosamund Mary Watson, nata a Londra il 4 aprile 2016, e di accudirla a tutti gli effetti come figlia biologica…”
Sherlock ripose il cellulare nella tasca interna del cappotto e spostò lo sguardo su Molly che stava ancora leggendo, quanto ci voleva ancora?
“Ora lei Signor Holmes” disse Norringthon dopo un paio di minuti. Sherlock afferrò la penna con un gesto fulmineo e andò direttamente in fondo alla pagina in cerca della zona in cui andava posta la crocetta. Fece per segnare la sua scelta ma il giudice gli sfilò il foglio da sotto il naso e lo redarguì: “Prima deve leggere. Ad alta voce.” Sherlock lo guardò con odio. “Ha già letto lei, so cosa c’è scritto” sibilò infastidito da quel gesto. “È la prassi” replicò l’uomo.
Sherlock guardò l’orologio e dichiarò beffardo: “Non è l’ora della sua insulina?” L’uomo sbiancò e Molly si fece sentire: “Sherlock!” Lo riprese alterata, “leggi quel dannato foglio!” voleva solo andare a casa e piangere, piangere per tutto quello che avrebbe potuto essere e che, per colpa di Sherlock, non sarebbe mai stato.
Sherlock fissò Molly per un lungo istante e poi si arrese sbuffando, dopotutto quella tortura era quasi giunta al termine.
“Io Sherlock Holmes, nato a Londra il 6 gennaio 1979, nel pieno possesso delle mie facoltà e preventivamente informato dei vincoli etici e legali previsti dalla figura di genitore adottivo, dichiaro di…” Sherlock saltò la prima voce, quella che iniziava con la parola accettare, e spostò la penna più in basso, dove la frase iniziava con non accettare. Avvicinò la penna al foglio e un istante prima che l’inchiostro segnasse irrevocabilmente la sua scelta sentì una pressione sul suo polso destro che lo costrinse ad esitare. Il cuore mancò un battito e le viscere presero a contorcersi, sapeva fin troppo bene cosa stava per vedere ma levò comunque lo sguardo alla sua destra. In piedi al suo fianco, con indosso uno dei suoi maglioni più belli, c’era John Watson; tangibile e reale come il vuoto che era stato in grado di lasciare nella sua vita. Gli aveva bloccato il polso e lo fissava con sguardo languido senza dire una parola.
“Deve mettere una croce in corrispondenza di una delle due opzioni” ribadì il giudice vedendolo in difficoltà. Ma Sherlock non lo degnava di uno sguardo, aveva occhi solo per John che, dal giorno della sua morte, aveva preso la brutta abitudine di apparirgli nei momenti meno opportuni. Non parlava mai. Si limitava a comparire fissandolo con quella sua tipica gamma di sguardi che Sherlock aveva imparato a leggere e interpretare perfettamente nel corso degli anni trascorsi insieme. C’era lo sguardo “non ti azzardare”, quello “adesso ti dò un pugno” e quello che Sherlock preferiva in assoluto: “spiegami”.
In questo caso lo sguardo di John celava un messaggio, o meglio, una supplica: “non abbandonarla”. A quegli occhi così espressivi fece eco il ricordo della sua voce: fallo per me. Erano le stesse parole che gli aveva sentito pronunciare davanti alla sua lapide, quando lo supplicava di non essere morto e piangeva convinto che non avrebbe mai potuto riabbracciarlo. Ora le parti si erano invertite; era John Watson ad essersene andato e lui era quello che una volta a settimana faceva visita alla sua tomba domandandosi cosa fosse andato storto.
“Signor Holmes” intervenne l’uomo-Bulldog cercando di attirare l’attenzione del detective, “si sente bene?”
Sherlock sospirò. Come poteva sentirsi bene dopo la morte di John? Niente era più andato bene da quel maledetto giorno. Dormiva a fatica, mangiava a malapena e aveva ripreso ad iniettarsi occasionalmente intrugli di varia natura, cosa che Mycroft doveva essere stato bravo a nascondere visto che una commissione di psicologi qualificati erano stati concordi nel nominarlo come possibile tutore della piccola Watson.
La verità era che a soli tre giorni dal suo funerale le conseguenze della morte del suo migliore amico avevano prepotentemente cominciato a ripercuotersi sulla sua vita. C’erano state le telefonate cui evitava volutamente di rispondere, le condoglianze degli sconosciuti che lo incrociavano per strada e le lettere dei numerosi fan del blog di John che intasavano la casella della posta di Baker Street, dando un gran da fare alla signora Hudson. E poi era arrivata quella maledetta busta, e con essa il peso di una responsabilità che non aveva mai nemmeno lontanamente pensato di assumersi e per la quale sapeva di non essere la persona più indicata. Eppure adesso John era al suo fianco che lo implorava di cambiare idea dopo che persino Molly ci aveva rinunciato. Non c’era posto per una bambina in Baker Street, di questo era sempre stato più che sicuro, e allora perché diavolo il fantasma di John insisteva nel tormentarlo?
“Signor Holmes…” ecco che il Bulldog lo invitava nuovamente a prendere una decisione.
Sherlock sentì la mano invisibile di John guidare la sua e quando si decise a segnare quella fatidica X si accorse che si trovava in corrispondenza della prima opzione. “Deve leggere ad alta voce” gli ricordò Norringthon.
“Io Sherlock Holmes, nato a Londra il 6 gennaio 1979, nel pieno possesso delle mie facoltà e preventivamente informato dei vincoli etici e legali previsti dalla figura di genitore adottivo, dichiaro di accettare la custodia di Rosamund Mary Watson, nata a Londra il 4 aprile 2016, e di accudirla a tutti gli effetti come figlia biologica…”
Sherlock proseguì la lettura sotto lo sguardo allibito di Molly che non poteva credere a quanto stava accadendo. Dopo un intero mese passato a discutere con Sherlock del futuro di Rosi aveva finito per convincersi che nessuno avrebbe mai potuto far cambiare idea a Sherlock e invece la prova tangibile che si era sbagliata era proprio davanti ai suoi occhi. Adesso Sherlock stava firmando in basso a destra, accanto a dove aveva già firmato lei, e sembrava un po’ scosso.
“Bene” Esclamò il giudice che sembrava avere una certa fretta di liberarsi di loro. “Ora dobbiamo stabilire la nuova residenza della bambina… avete già pensato a dove allevare la piccola?”
Molly spostò lo sguardo su Norringthon. No che non ci avevano pensato, e per quale motivo avrebbero dovuto farlo? Sherlock non aveva mai neanche minimamente preso in considerazione la possibilità di crescere Rosi insieme a lei e invece adesso si ritrovavano con una bambina, un trasloco da organizzare e una convivenza forzata da cominciare senza il minimo preavviso perché, nella comunicazione che era arrivata ad entrambi era espressamente specificato che, se avessero accettato la custodia di Rosi, avrebbero dovuto condividere lo stesso tetto affinché la bambina, già vittima di un doppio trauma legato alla perdita di entrambi i genitori, crescesse a tutti gli effetti all’interno di una famiglia.
“Baker Street” disse improvvisamente la voce di Sherlock prima che Molly trovasse anche solo la forza di dire qualcosa. “221B di Baker Street”.
“Molto bene” disse il giudice mettendo agli atti quanto Sherlock aveva appena dichiarato senza essersi minimamente consultato con Molly. “Mi sembra una saggia scelta, ho letto nel fascicolo che allo stesso indirizzo vive anche l’altra madrina della piccola Watson il che non guasta.”
“Già” confermò Molly con un sorriso amaro. Sapeva bene che il giudice tutelare non aveva minimamente preso in considerazione la signora Hudson per l’affido per via dell’età, ma questo non escludeva il fatto che, per loro, sarebbe stata di grande aiuto.
“Bene, per oggi è tutto. Sarete contattati direttamente dall’istituto St. Jacob per fissare il giorno in cui prelevare la bambina; nel frattempo potrete procedere con il trasloco e organizzare la vostra nuova vita insieme. Ora vogliate scusarmi, ma ho un appuntamento importante a cui non posso proprio mancare.” E così dicendo l’uomo si dileguò sotto lo sguardo attonito di Molly, che era ancora sconvolta dagli avvenimenti degli ultimi dieci minuti, e di Sherlock che borbottò tra sé e sé qualcosa che suonava come: “Sì, certo, un appuntamento con le ciambelle dello Starbucks all’angolo della via”.
 
“Baker Street?” domandò Molly a metà tra lo stupore e il disappunto mentre uscivano dall’edificio. “Sarebbe stato carino se avessi chiesto anche la mia opinione”.
“Ero convinto che il mio appartamento ti piacesse” fece Sherlock ironico mentre si annodava la sciarpa al collo.
“Sherlock! Cosa ti è passato per la testa? Questo non è un gioco, e nemmeno un esperimento!”
“Per te è indifferente cambiare abitazione perché il Bart’s è comodamente raggiungibile con la metro. Io lavoro e ricevo clienti a casa e, cosa di gran lunga più importante, non abbandonerei il mio appartamento per nessun motivo al mondo. E poi c’è la signora Hudson… l’ha detto anche il giudice, no? È la scelta più saggia”. Spiegò Sherlock scendendo le scale con aria svogliata, come se il tutto fosse particolarmente ovvio e noioso.
“Mi riferivo al fatto che hai cambiato idea…” gli gridò dietro Molly, ferma in cima alla scalinata, le braccia strette al petto nel tentativo di scaldarsi e la coda che svolazzava in balia del gelido vento londinese. Ma quella domanda era destinata a perdersi nel vento perché Sherlock era già salito su un taxi ignorando bellamente le sue parole.



Angolo dell'autrice: Ok, tanto per cominciare vi ringrazio per aver letto fino a qui. Ci tenevo a rendervi partecipi di alcuni dettagli/chiarimenti che penso possano essere interessanti per chi avrà voglia di leggere questa storia e per cercare di capire cosa mi è passato per la testa. Dunque, la storia è nata dopo la visione dell'episodio 4x01, in particolare il tutto è scaturito dalla scena in cui Sherlock va a trovare John ma ad aprire la porta è Molly con la bambina in braccio, da quel momento la mia fantasia è partita e io non sono stata più in grado di fermarla. Un'altra cosa che voglio chiarire è il discorso IC/OOC. Allora, la verità è che sono stata molto combattutta sul mettere l'avvertimento OOC oppure no e alla fine ho deciso di non metterlo. So che alcuni me lo contesteranno perchè come ho anche scritto "Sherlock e la paternità sono due cose che si escludono a vicenda" ma sono dell'idea che Sherlock non sia del tutto OOC, o meglio, è un personaggio IC che subisce una batosta non indifferente (la perdita di John) che lo porta a fare delle cose che nessuno si aspetterebbe da lui e che così su due piedi potrebbero sembrare OOC, ma visto che tutto questo non accade nella serie non possiamo sapere cosa farebbe effettivamente il personaggio. Non so se mi sono spiegata oppure no ma questo discorso nella mia testa ha un senso. Un'ultima spiegazione doverosa riguarda l'aspetto legislativo di tutta la faccenda. Allora, un po' ho cercato di documentarmi in merito al discorso adozioni, tutori, diritti/doveri legali, eccetera. Il fatto è che odio la burocrazia e tutto quello che ne deriva, quindi leggermi le varie pappardelle che ho trovato online era veramente (volendo citare Sherlock) noioso. Da quel poco che ho capito in realtà in Italia se uno viene nominato tutore non può rifiutarsi a meno che non dimostri di non essere in grado di occuparsi del bambino, mentre io ho messo Molly e Sherlock davanti alla possibilità di scegliere proprio perchè mi piaceva il loro approcciarsi in modo completamente diverso alla cosa, quindi già qui ho lavorato di fantasia e mi sono distaccata dalla realtà ma, cosa ancora più importante, non siamo in Italia ma in Inghilterra quindi immagino che il discorso adozioni sia gestito in modo diverso e visto che non ne so nulla ho scelto di lavorare di fantasia. Chiedo scusa se c'è qualche lettore più informato di me in questo campo ma la mia è una storia e tutto l'aspetto burocratico è palesemente inventato. Scusate per l'angolo autore quasi più lungo del capitolo ma vi dovevo qualche spiegazione. Vi ringrazio per aver riposto fiducia in questa storia, ora non mi resta che aspettare di sentire il vostro parere. :-)

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Capitolo 2
*** Sopravvivenza ***


2- SOPRAVVIVENZA
 

Molly era appena scesa dal taxi che l’aveva accompagnata in Baker Street e ora si trovava nell’angusto ingresso dell’appartamento con quattro valige al seguito, ovvero il doppio dei bagagli che Sherlock le aveva consentito di portare con sé.
“Hai quattro valige” osservò il detective accigliato guardando Molly salire le scale a fatica trascinandosi dietro il più grande dei trolley senza muovere un solo passo per aiutarla.
“Complimenti” esalò Molly giunta con immensa fatica in cima all’ultimo gradino, “nonostante l’età avanzi, noto con piacere che la tua vista funziona ancora perfettamente.”
“Mi riferivo al fatto che te ne avevo concesse due” precisò Sherlock gelido mentre Molly scendeva nuovamente le scale per recuperare la seconda valigia.
“Sherlock, vivrò qui! Hai idea di quante cose servano ad una donna?”
“È proprio perché lo so che ti avevo imposto un tetto massimo di due valige!” Replicò Sherlock rientrando in salotto imbronciato, la vestaglia che ondeggiava al seguito.
Molly sbuffò alzando gli occhi al cielo e proprio in quel momento la signora Hudson fece la sua comparsa dandole il benvenuto mentre si trovava ferma a metà della scalinata a riprendere fiato con il trolley numero due al suo fianco.
“Molly cara non si affatichi, non sta bene che una signora porti da sola i suoi bagagli quando c’è un uomo in casa.”
“Non si preoccupi signora Hudson, ce la faccio anche da sola…” si affrettò a dire Molly pur di non riferirle che Sherlock aveva già assistito alla scena e si era rifiutato di aiutarla.
“Potete finirla con tutto questo baccano?” gracchiò Sherlock tornando sul pianerottolo, questa volta con il violino in mano. “Sto cercando di comporre musica di un certo livello e il vostro ciarlare influisce negativamente sulla mia creatività”
“La musica può aspettare, qui c’è una fanciulla che ha bisogno di aiuto con le valige!” Tuonò la signora Hudson in risposta alle parole del detective.
“Sì, lo vedo; signora Hudson, le sarei molto grato se volesse dare una mano a Molly a farle sparire dalla mia vista! Le mostri la camera di sopra.” Tagliò corto Sherlock pronto a rientrare in salotto per dedicarsi alla sua musica.
“Sherlock Holmes! Questa è casa mia e mi sento in dovere di ricordarle che qui vigono le regole della cavalleria, ora posi immediatamente quel violino e venga ad aiutare Molly, o giuro che non avrà più nessuno strumento con cui comporre musica di nessun livello!” Sbottò la piccola donna lasciando di stucco Molly che mai l’aveva vista imporsi in modo tanto deciso ed efficace.
Ci fu uno scambio di sguardi tra Sherlock e la signora Hudson che durò per qualche secondo a cui Molly assistette in silenzio; Sherlock fu il primo ad interrompere il contatto visivo e sembrò decidere che la minaccia dell’anziana donna era reale perché con aria mesta e sconfitta posò il suo amato violino e andò incontro a Molly per aiutarla senza proferire parola.
“Bravo giovanotto!” Disse la signora Hudson con ritrovato entusiasmo osservando Sherlock portare le valige al piano di sopra con la stessa grinta di un bambino spedito in castigo. “Ha visto?” aggiunse poi rivolta a Molly, “ci vuole solo un po’ di polso… in fin dei conti gli uomini sono tutti uguali.”
Le due si scambiarono un’occhiata d’intesa e poi ridacchiarono a bassa voce per evitare di alterare ulteriormente l’umore di Sherlock; in quel momento Molly capì che la signora Hudson sarebbe stata una preziosa alleata nella dura lotta per la sopravvivenza in Baker Street.
 
Erano passati dodici giorni da quando Molly si era stabilita nell’appartamento di Sherlock e lui non sembrava ancora essersi abituato completamente alla sua presenza perché ogni mattina, quando s’incrociavano in cucina, trasaliva come se si stupisse di vederla lì per poi passare il resto della giornata ad ignorare ogni tentativo di conversazione che prevedesse l’imminente arrivo di Rosie come argomento principale. Sembrava essere completamente estraneo ai fatti e Molly cominciava a domandarsi se il suo comportamento sarebbe cambiato una volta che la piccola sarebbe stata a tutti gli effetti residente in Baker Street.
Quei giorni furono frenetici, intensi, e soprattutto fitti d’impegni, non c’era da stupirsi che entrambi fossero un po’ scombussolati. C’erano state una miriade di scartoffie da firmare e infiniti documenti da compilare, per non parlare delle noiosissime sedute dallo psicologo, prima di coppia e poi individuali. A Sherlock era venuto un colpo quando aveva saputo che avrebbe dovuto sottoporsi a quella tortura una volta al mese e aveva fatto del suo meglio per mascherare tutto il suo disaccordo. La psicologa aveva già stilato un calendario di appuntamenti e Molly gli aveva regalato un’agenda con tutti le date già segnate affinché non le dimenticasse.
“Molly…” esordì Sherlock rigirandosi il piccolo oggetto tra le mani, sforzandosi di essere cortese, “io ho un palazzo mentale… e tu mi regali un’agenda? Fai sul serio?”
Contrariamente a quanto si aspettava, Molly non se la prese, anzi, con sua grande sorpresa gli rispose a tono: “Sì, perché nel tuo palazzo mentale conservi solo ciò che ritieni importante, ed io ti conosco abbastanza bene da sapere che degli appuntamenti con una psicologa non rientrano tra le tue priorità, quindi senza un’agenda o qualcuno che te lo ricordi quegli appuntamenti finirebbero nel dimenticatoio. Ho ragione o torto?”
Sherlock fissò Molly quasi ammirato, forse Baker Street stava avendo un influenza positiva su di lei, senz’altro più di quanto si aspettasse.
Fece a Molly uno dei suoi sorrisi più forzati e poi ripose la piccola agenda nella tasca interna del cappotto. Non bastava che Molly e presto anche Rosi si trasferissero nel suo appartamento, no, adesso gli toccava anche avere un’agenda. Maledetto John Watson.
 
Sherlock era in piedi davanti al caminetto che fissava Rosie con apprensione. Era giunta in Baker Street da soli venti minuti e lui era già sul punto di rispedirla al mittente. Aveva pianto durante tutto il viaggio in macchina ed era riuscita a vomitare sul tappeto del salotto prima ancora che lui avesse il tempo di togliersi il cappotto e Sherlock aveva come la sensazione che non sarebbe stata la sola e unica volta che avrebbe assistito ad una scena di quel tipo.
“Se solo la tua guida fosse stata un po’ meno sportiva e le strade di Londra prevedessero meno curve a gomito, non sarebbe successo” disse Molly in difesa della bambina prima ancora che Sherlock potesse comunicarle tutto il suo disappunto per quanto era appena accaduto.
“Io avevo proposto il taxi” le ricordò Sherlock asciutto.
Molly lo apostrofò con un’occhiataccia e poi mise Rosi seduta sulla poltrona di John un attimo prima che la signora Hudson entrasse in casa per darle il benvenuto.
“È bello avere un altro Watson in Baker Street” disse la donna accarezzando la piccola che, nonostante avesse lo stomaco sottosopra e fosse circondata da estranei, trovò ugualmente la forza di sorriderle.
“Ah si?” fece Sherlock senza staccare gli occhi dalla bambina, “lo faccia presente al tappeto, se non altro John non ci avrebbe vomitato sopra…”
Qualcosa, in mezzo al petto, nel punto esatto in cui la gente era solita localizzare il cuore, emise un gemito sommesso e Sherlock chiuse gli occhi per un secondo nel tentativo d’ignorarlo.
La Signora Hudson gli dedicò uno sguardo carico di compassione; Rosi era in Baker Street solo da pochi minuti eppure era già riuscita a fargli nominare John, cosa che sembrava averlo lasciato un po’ scosso.
Per fortuna a riscuotere Sherlock da quel torpore insito di tristezza e malinconia fu Molly che con una semplice frase attirò l’attenzione del detective: “Sherlock, abbiamo un problema” dichiarò scendendo le scale che conducevano al piano di sopra.
“E bello grosso anche…” convenne il detective completamente ipnotizzato dalla bambina e sempre più scioccato dalla sua presenza, “quanto peserà? Nove chili?” ipotizzò Sherlock che, da quando avevano prelevato Rosie all’istituto, non si era ancora azzardato a prenderla in braccio e ci teneva a posticipare quel momento il più a lungo possibile.
“Sherlock!” esclamò Molly visibilmente provata da quella prima ora di convivenza in Baker Street, “non parlavo di Rosie!”
“Oh” esalò il detective rendendosi conto di aver appena fatto un’enorme gaffe.
“Nella camera di sopra il lettino di Rosie non ci sta” spiegò la patologa attraversando la cucina e spalancando la porta della camera di Sherlock. “Proviamo a vedere se ci sta in camera tua…”
Sherlock s’irrigidì improvvisamente e raggiunse Molly a grandi falcate, lasciando Rosie in compagnia della signora Hudson. Era già assurdo che Rosie fosse nel suo appartamento, non le avrebbe certo concesso di invadere anche camera sua, questo era poco ma sicuro.
“Non la trovo una buona idea” dichiarò con tutta la diplomazia di cui era capace appena mise piede nella stanza.
“Vedi altre soluzioni forse?”
“Oh si, in effetti ci sono almeno altre undici possibilità ugualmente valide.” Ridacchiò Sherlock pronto ad elencarle tutte pur di non ritrovarsi la piccola Watson in camera.
Molly scrollò le spalle e alzò gli occhi al cielo: “Ok, elencami solo quelle che non contemplano Rosie nel forno, nel caminetto, nell’appartamento della signora Hudson, appesa al soffitto con un complicato e certamente ingegnoso sistema di corde e carrucole, per favore.”
“Ok” fece Sherlock dopo una lieve esitazione dovuta a tutte le deduzioni, sorprendentemente esatte, della patologa, “bene, in questo caso sono rimaste solo quattro possibilità…”
“Sherlock!” Esclamò Molly.
“Hai dimenticato il pianerottolo!” Replicò lui che come sempre ci teneva ad avere l’ultima parola.
“Non metterò Rosie a dormire sul pianerottolo!” Dichiarò Molly fermamente convinta delle sue parole.
“Il pianerottolo?” gracchiò la voce inorridita della signora Hudson dal salotto, “Sherlock, ma che sciocchezze va dicendo?”
“Signora Hudson le ricordo che c’è un pavimento da pulire, se proprio non ha niente da fare!” gli gridò lui di rimando sempre più convinto che la sua padrona di casa si fingesse sorda solo quando le faceva comodo.
“Non sono la sua governante!” Gli ricordò lei con tono un po’ scocciato.
“E adesso dove stai andando?” sbottò Sherlock seguendo Molly con lo sguardo.
“Di sopra, a prendere il lettino di Rosi”
“Non voglio Rosi in camera mia” ribadì Sherlock destabilizzato da tutto il trambusto che da qualche ora regnava in casa sua.
“Sherlock è tutto ok” lo rassicurò Molly ferma in mezzo alla cucina, “dormirò io con Rosie, tu puoi trasferirti in camera di John” e con quelle parole sparì su per le scale.
Sherlock rimase pietrificato in mezzo alla cucina, un groppo in gola e l’espressione incredula. Da quando John era morto non era più nemmeno riuscito a mettere piede in quella camera, figuriamoci andarci a dormire.
 
La mattina seguente il risveglio di Sherlock fu traumatico. Aveva dormito raggomitolato sul divano perché Molly e Rosie si erano appropriate di camera sua e lui si rifiutava categoricamente di trasferirsi in quella di John, anche se Molly non era al corrente di questo dettaglio e lui ci teneva particolarmente che non lo venisse a sapere. Il risultato era un fastidioso formicolio al braccio sinistro, una serie di fitte dolorose alla zona lobare che lo obbligavano a camminare come la signora Hudson quando si lamentava della sua anca e un torcicollo di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Ma dopotutto Rosi era in Baker Street da un solo giorno, e Sherlock aveva come la sensazione che il peggio dovesse ancora venire.
“Cucù” disse la signora Hudson facendo capolino dalla porta del salotto per poi introdursi con passo felpato nell’appartamento. Sherlock si voltò a guardarla con aria assonnata e poi si collegò al suo sito web nella speranza d’incappare in un cliente che avesse un caso, se non interessante almeno degno di nota, da sottoporgli. Tutto pur di distrarsi da quanto stava scombussolando la sua vita.
“Le ho portato la colazione per riprendersi da questa prima nottata da genitore… immagino che ne avrà bisogno.” Fece sapere l’anziana donna notando le occhiaie marcate del suo inquilino.
“Lei non sa quanto” rispose Sherlock osservando con interesse il vassoio della colazione che la signora Hudson stava posando a fatica in mezzo alle cianfrusaglie che ingombravano il tavolino del salotto.
“Molly e la piccola dormono ancora?” chiese la donna da sopra la sua spalla destra.
“Brillante deduzione signora Hudson!” disse Sherlock borioso richiudendo il portatile con malcelata delusione. Dov’erano tutti i criminali di Londra quando lui aveva bisogno di loro? Gli serviva urgentemente un caso o presto sarebbe dovuto ricorrere ad altri sistemi per combattere la noia.
“Suvvia Sherlock, capisco che per lei sia difficile, ma dovrebbe impegnarsi un po’ di più in questa cosa…” fece sapere la donna guardandolo con aria di rimprovero.
Sherlock fece una smorfia che esprimeva tutto il suo disappunto, poi non riuscì a trattenersi e rispose. “Signora Hudson, non ho più una camera da letto, il bagno profuma di lavanda e trabocca di creme, trucchi e detergenti di ogni tipo, non posso più conservare frattaglie umane in frigorifero, tenere stupefacenti nella dispensa e sparare al muro quando mi annoio. Mi dica? Sono forse finito all’inferno? Perché è così che me lo immagino.”
“Oh per l’amor del cielo, non sia sciocco!” Lo redarguì la donna.
“Ah dimenticavo, ho anche un’agenda e devo andare dalla psicologa regolarmente!” Aggiunse in tono sarcastico mostrandole il piccolo libricino.
“La smetta di vedere solo i lati negativi di questa faccenda… guardi Molly! Lei è al settimo cielo per l’arrivo di Rosie!” Gli fece notare la donna con le mani giunte e gli occhi trasognati.
“Signora Hudson, è evidente che i motivi che hanno spinto me e Molly ad imbatterci in questa…” Sherlock stava per dire disgrazia ma si morse la lingua e si affrettò a correggersi, “in questo imprevisto sono molto diversi…”
“E con questo cosa vorrebbe dire?” domandò l’anziana donna stranita.
“Che io non devo fare i conti con il mio orologio biologico, è evidente.” Dichiarò Sherlock freddo e cinico.
“Questa dichiarazione è forse frutto di una delle sue deduzioni?” domandò la donna incrociando le braccia al petto scrutandolo in attesa di una risposta esauriente.
“Ovviamente” confermò lui servendosi una tazza di tè. “Molly ha trentasei anni e nonostante i molteplici e diversificati tentatavi cui ho tristemente assistito in questi anni, non si è rivelata in grado di portare avanti una relazione con un uomo per più di sei mesi, figuriamoci trovarne uno con cui fare un figlio. Non è stupida e per giunta è un medico, quindi sa bene che le sue possibilità di trovare un uomo con cui procreare vanno scemando più passa il tempo. Superati i trentacinque, la menopausa diventa l’incubo di ogni donna sola. Desidera un figlio…”
“Sherlock” intervenne la signora Hudson con voce flebile.
“…e la cosa non mi sorprende, dopotutto la maggior parte delle donne della sua età lo desidera, ma le sue chance di diventare madre sono più basse della media…”
“Sherlock” fece di nuovo la signora Hudson tentando di azzittirlo.
“Scarse a dire il vero” proseguì lui ignorando gli avvertimenti della donna, “non c’è da stupirsi che abbia accolto Rosie con così tanto entusiasmo… per lei potrebbe essere l’unica possibilità di avere un figlio. Per quel che ne sappiamo potrebbe anche essere sterile… è un sospetto più che legittimo, ovviamente potrei averne la certezza se solo mi fossi preso la briga di indagare a fondo, ma non vedo perché avrei dovuto farlo…”
“Forse perché non sono fatti tuoi?” disse la voce affranta e delusa di Molly dalla cucina. Sherlock si voltò appena in tempo per vederla arrivare, poi fu così rapida e veloce che la sua mano lo colpì prima ancora che lui la vedesse muoversi e un’istante dopo lo colpì con così tanta rabbia che la tazza gli sfuggì di mano e andò in frantumi sul pavimento. Sherlock rimase fermo immobile per qualche secondo, osservando il tappeto ai suoi piedi impregnarsi di tè, la guancia sinistra che bruciava e pulsava terribilmente. Non era certo la prima volta che Molly lo prendeva a schiaffi, e non era nemmeno la prima volta che lo faceva davanti a qualcun altro, ma doveva ammettere a sé stesso che tutti gli schiaffi che Molly gli aveva riservato in quegli anni, se li era sempre meritati, probabilmente questo più di tutti gli altri.
“Questo è da parte del mio orologio biologico!” aggiunse con gli occhi che traboccavano lacrime nell’esatto momento in cui il pianto di Rosie si levava dalla camera. Molly gli voltò le spalle e andò dalla bambina senza aggiungere altro mentre la Signora Hudson rimase ferma ad osservare Sherlock in piedi accanto alla finestra intento a massaggiarsi la mascella ancora intontito dallo schiaffo. Scosse lievemente il capo e poi disse: “Sarà anche un detective brillante… ma ogni tanto è proprio una carogna insensibile!” E così dicendo tornò verso il suo appartamento solo dopo aver aggiunto un “vada a scusarsi” sul ciglio della porta. Sherlock ignorò il consiglio della sua padrona di casa e si gettò sul divano sperando che Rosie si decidesse a tacere; pochi suoni erano più irritanti del pianto di un bambino, anche se si trattava del bambino del tuo migliore amico.
L’unica nota positiva di tutta questa faccenda era che da quando Rosie era arrivata in Baker Street, il fantasma di John non si era ancora palesato e Sherlock era combattuto circa il fatto che quella fosse una liberazione o una condanna.
Era ormai una settimana che Sherlock dormiva sul divano e il suo corpo sembrava essere giunto al limite di sopportazione. Non riusciva a dormire oltre le sei e mezza del mattino, sempre se Rosie non scoppiava a piangere prima, costringendolo ad alzarsi fingendo di lavorare al microscopio pur di non rivelare a Molly che non si era mai trasferito in camera di John. Fu così che una mattina si svegliò all’alba e, incapace di riprendere sonno, imbracciò il suo violino e cominciò a comporre musica cercando ispirazione fuori dalla finestra. La luce era tenue e la nebbia notturna andava diradandosi, ciononostante la vista che gli si palesava davanti era magnifica e lui s’incantò ad osservare i passanti di Baker Street perché era una di quelle cose che lo aiutava a pensare. C’era una coppia di anziani con un cane, un’insegnante di scuola elementare, un bibliotecario e un fattorino. Improvvisamente nella sua testa sentì la voce di John: “Come sai che è un bibliotecario? Anzi no, non lo voglio sapere, non vedi l’ora di metterti in mostra, questa volta non ci casco!”
Sul volto di Sherlock comparve un sorriso triste e istintivamente si voltò a guardare la poltrona di John come se si aspettasse di trovarlo seduto lì a bere tè e leggere il giornale. Apportò un paio di correzioni allo spartito che aveva davanti, poi imbracciò nuovamente lo strumento e riprese a stuzzicarne le corde con l’archetto da dove aveva lasciato.
“Sherlock!” Esclamò Molly all’improvviso facendogli sbagliare l’ultima nota e obbligandolo a voltarsi di scatto. “Non ti sei accorto che Rosie sta piangendo?” domandò sbigottita.
Sherlock abbassò il violino e roteò gli occhi. “No” disse stringendosi nelle spalle, “è da quando è arrivata qui che non fa altro che piangere…”
“Stava dormendo” esalò Molly, “e tu e il tuo violino l’avete svegliata, ecco perché piange!”
“È bene che impari ad apprezzare la buona musica fin da subito”
“È bene che dorma! Ora va di là e falla dormire, visto che sei tu che l’hai svegliata!” Sbottò Molly lasciandosi cadere sulla poltrona di John, visibilmente provata dall’insolenza di Sherlock.
“Non posso” replicò il detective in cerca di una scusa valida, “sto lavorando ad un caso!”
“No, stai suonando il violino perché ti annoi, ora vai di là da Rosie!”
“Io non suono il violino quando mi annoio, lo faccio perché mi aiuta a pensare!”
“Va di là da Rosie ho detto!”
Sherlock boccheggiò per qualche secondo poi agitando l’archetto dichiarò: “Ok, forse non abbiamo definito bene i ruoli in questa… cosa.”
“Ecco, sì, devo dire che sono proprio curiosa di conoscere il tuo!” Sputò fuori Molly nera di rabbia mentre il pianto di Rosie non accennava a diminuire.
“Perché hai messo quella firma?” Domandò al culmine della disperazione.
“Io…” balbettò Sherlock colto alla sprovvista da quella domanda cui sperava di non dover mai rispondere.
“Dimmi perché!” Strillò Molly sovrastando le urla della bambina. “Ci sarà pure un motivo, pensavi sarebbe stato gioco, o peggio un esperimento?”
“Il mio motivo non ha importanza” dichiarò Sherlock asciutto.
“E invece ha importanza perché mi aiuterebbe a capire cosa ti ha spinto ad imbatterti in una cosa simile…”
“Ho detto che non ha importanza” gridò Sherlock più aggressivo e furioso di quanto avrebbe voluto.
Molly sussultò spaventata e arretrò di qualche passo intimorita dalla reazione di Sherlock, poi trovò la forza di parlare, anche se la sua voce era un sussurro e le usciva a fatica. “Rosie è qui da una settimana e tu non l’hai ancora presa in braccio… nemmeno una volta” gli fece notare con voce rotta mentre una lacrima le rigava la guancia, “non le dai da mangiare e non hai nessuna intenzione di occuparti di lei, per te è solo un’ospite sgradito… ed io con lei.”
“Molly…” tentò Sherlock messo al muro da quelle parole tanto dirette e crudeli.
“E sai qual è la cosa peggiore?” Ci fu uno scambio di sguardi ma Sherlock non rispose e fu Molly a parlare per lui, “che non posso nemmeno dirti che ce ne andiamo perché c’è una pila di documenti firmati da entrambi che m’impedisce di farlo. Non pensavo che l’avrei mai detto ma crescere Rosie da sola sarebbe stato più facile che farlo con te…”


Angolo dell'autrice: Ciao a tutti e grazie per aver letto anche questo capitolo! Ci ho messo un po' a pubblicarlo perchè, sebbene avessi le idee abbastanza chiare circa quello che sarebbe successo in questo secondo capitolo, ogni volta che lo rileggevo trovavo sempre qualche cosa da aggiungere/modificare. Spero che l'attesa valga il capitolo e mi auguro che continuerete a seguire la storia. Ne aprofitto per ringrazie tutti quelli che hanno aggiunto la mia FF alle loro liste e un ulteriore grazie alle persone che si sono prese la briga di commentare. Spero che abbiate voglia di farlo anche questa volta perchè questa storia è una vera e propria scommessa e io ho assolutamente bisogno dei vostri feedback! A presto e grazie ancora a tutti voi! :-)

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Capitolo 3
*** Adattamento ***



3- ADATTAMENTO
 
 
“Dovrebbe dirglielo” esordì la signora Hudson entrando in salotto con due sacchetti della spesa fissando Sherlock dall’altra parte della stanza, i pallidi piedi lunghi e ossuti sopra al bracciolo del divano e il collo piegato di lato in una posizione innaturale, nel vano tentativo di riuscire a dormire comodamente su un divano troppo piccolo per la sua altezza.
La voce della padrona di casa s’insinuò fastidiosamente nella testa di Sherlock che aprì gli occhi di scatto e si mise subito a sedere rassettandosi la vestaglia.
“Non so di che parla” dichiarò il detective mentre i suoi occhi cominciavano ad adattarsi faticosamente alla luce del giorno.
“Del fatto che dorme sul divano, è ovvio!” Esclamò l’anziana donna con semplicità.
“Riposavo gli occhi” mentì Sherlock sperando di chiudere il prima possibile quella conversazione.
“Russava” ribatté l’anziana donna con il cipiglio di chi la sapeva lunga per poi aggiungere: “senta… potrà mentire con facilità a Molly, ma non a me, signorino! Perché non le dice chiaramente che non se la sente di trasferirsi in camera di John? Dopo tutto quello che avete passato insieme è più che comprensibile, e Molly non sarebbe certo contenta di sapere che non dorme da giorni perché il suo orgoglio le impedisce di ammettere che solo l’idea di entrare in quella camera è troppo doloroso.”
Sherlock si portò entrambe le mani alle tempie, nel tentativo di arginare un imminente mal di testa fomentato dalla voce della signora Hudson che non sembrava minimamente intenzionata ad azzittirsi.
“Signora Hudson la prego, se sente l’irrefrenabile bisogno di cedere al pettegolezzo di quartiere la invito a scendere al bar per unirsi alla combriccola di zitelle che lo frequentano regolarmente… troverebbe pane per i suoi denti.”
In risposta a quell’affermazione insolente la signora Hudson abbandonò i sacchetti della spesa sul tavolo con molta poca grazia e tornò nel suo appartamento senza aggiungere una parola. Il trambusto destò Molly che uscì dalla camera da letto con in braccio la piccola Rosie in preda ad un pianto isterico, gli occhi colmi di lacrime e le gote arrossate. Sherlock si voltò a guardarla domandandosi se fosse il caso di chiamare un esorcista, ma prima che potesse prendere una decisione a riguardo, il suo telefono cominciò a vibrare. Sherlock lanciò un’occhiata torva al dispositivo poi accettò la chiamata controvoglia e si portò il cellulare all’orecchio solo dopo aver preso un profondo respiro.
“Sentivi la mia mancanza o hai semplicemente perso una scommessa?” domandò Sherlock in tono sinceramente sorpreso.
“Allora è vero” disse la voce di Mycroft dall’altra parte del telefono, “i bambini in Baker Street adesso sono due” aggiunse in tono di scherno udendo il pianto di Rosie in sottofondo.
“Cosa vuoi?” domandò Sherlock, brusco. Da quando Rosie era arrivata in Baker Street lui non si era ancora fatto vedere, ma Sherlock era più che certo che lui fosse al corrente delle novità che lo riguardavano, e che quella chiamata fosse solo un’occasione per prendersi gioco di lui.
“Sherlock, ti avevo avvertito delle conseguenze che implicano i sentimenti, ma tu ti sei fatto coinvolgere lo stesso… povero stupido.”
Sherlock roteò gli occhi, era dal giorno del matrimonio di John che Mycroft lo tediava con questa storia del coinvolgimento.
“Veramente Mycroft? Veramente hai chiamato per ricordarmi che a differenza tua io ho degli amici?”
“Avevi, Sherlock” precisò Mycroft calcando in maniera inequivocabile il verbo al passato, “devi imparare a vivere senza il suo fantasma” aggiunse come se sapesse perfettamente che John non aveva mai veramente lasciato Baker Street.
“Ho da fare Mycroft!” Ringhiò Sherlock a denti stretti, più che infastidito dalle continue frecciatine del fratello maggiore.
“Oh sì, certo… pappe, pannolini e pomeriggi al parco… è questo che fanno i bravi papà, non è vero Sherlock?”
Sherlock ignorò l’ennesima provocazione e richiuse la chiamata improvvisamente; qualcosa di più importante aveva catturato la sua attenzione. Molly era appena uscita dal bagno, Sherlock la seguì con lo sguardo e notò che si era cambiata gli abiti e aveva indossato le scarpe; i capelli raccolti in una coda alta e il trucco leggero suggerivano che stava per uscire diretta al Bart’s. La osservò mettersi la borsa in spalla e prima che potesse intervenire per porre qualsiasi tipo di domanda lei tornò in camera a prendere Rosie, attraversò la cucina e scese le scale diretta alla porta dell’appartamento della signora Hudson dove bussò tre volte per poi rimanere in attesa. Fu in quel momento che Sherlock si decise a scendere per capire cosa stesse succedendo.
Molly guardò l’orologio e bussò ancora una volta, poi finalmente comparve la signora Hudson che aprì la porta con un sorriso raggiante, prese in braccio la bambina e cominciò a cullarla dolcemente.
“Grazie di cuore signora Hudson… senza di lei non avrei saputo proprio come fare” stava dicendo Molly con un po’ d’imbarazzo, “oggi faccio il turno di mezzo quindi sarò di ritorno abbastanza presto. L’ho appena cambiata, ha già mangiato e penso che queste due cose basteranno a farla stare buona per un po’”
“Non ha nulla di cui preoccuparsi Molly cara, per me è un piacere occuparmi di Rosie” disse la padrona di casa che sembrava essere ringiovanita di vent’anni da quando la piccola Watson era entrata a far parte della sua vita.
“Grazie signora Hudson, se lei non ci fosse dovrebbero inventarla!” Sorrise Molly con sollievo. Si voltò per uscire e si trovò faccia a faccia con Sherlock che sostava ai piedi delle scale. “Ciao Sherlock” esordì asciutta, obbligandosi a sorridergli, “vado a lavoro, ci vediamo più tardi.”
“Perché hai lasciato Rosie dalla signora Hudson?” domandò lui lanciando un’occhiata alla porta dietro cui la padrona di casa si era appena rintanata insieme alla bambina.
“Perché come ti ho appena detto devo andare a lavoro e nel caso tu non te ne fossi accorto Rosie non è ancora in grado di badare a sé stessa.” Spiegò lei senza mascherare minimamente quanto la scocciasse dover disturbare la signora Hudson per un compito che spettava a qualcun altro.
“I tuoi abiti e il tuo trucco parlano chiaro, so perfettamente dove stai andando, la mia domanda è perché la Signora Hudson?”
Molly trasalì, sorpresa non tanto dalla banalità della domanda ma più che altro dal fatto che fosse stata una delle menti più brillanti di tutta Londra a porla.
“Perché al Bart’s non c’è un asilo per i figli dei dipendenti e non mi sembra il caso di portare una bimba di otto mesi in obitorio, ecco perché la signora Hudson!”
Sherlock tentennò scoprendosi infastidito dal fatto che Molly non l’avesse minimamente preso in considerazione, e fu ad un passo dall’ammettere che avrebbe dovuto occuparsene lui, o per lo meno questo era quello che era stato messo agli atti e che una schiera di psicologi qualificati ritenevano più opportuno.
Si schiarì la voce e cercò il modo più cortese di far capire a Molly quello che gli stava passando per la testa: “Forse mi sbaglio, ma su tutte quelle dannate carte che abbiamo firmato c’erano solo i nostri nomi, non mi pare di aver visto figurare una sola volta quello della signora Hudson, e io mi sbaglio di rado” le fece notare Sherlock senza riuscire a fare a meno del suo tono saccente, tipico di chi era sempre un passo avanti agli altri.
“Già” convenne Molly, una mano sulla maniglia della porta pronta per uscire, “e io mi domando ancora che razza d’incoscienti possano aver valutato un sociopatico incline alla droga più idoneo ad allevare una bambina di una donna per bene come la signora Hudson!” sputò fuori Molly tutto d’un fiato.
“Oh si, beh, riflessione più che legittima se solo si decide di ignorare il fatto che spacciare droga non fa esattamente di lei quella che la gente comune è solita definire una persona per bene.”
“Sherlock Holmes, quante altre volte è necessario che io glielo ripeta, non sapevo nulla degli affari di mio marito!” Latrò la signora Hudson dal suo appartamento rivelando il fatto di essere stata in ascolto per tutta la durata della loro conversazione.
“Farò tardi” tagliò corto Molly spalancando la porta d’ingresso e rivelando una giornata grigia e uggiosa, tipicamente londinese.
 
Sherlock passò il resto della mattinata e le prime ore del pomeriggio sdraiato sul divano a fissare intensamente il pacchetto di sigarette posato sulla mensola di fronte a lui. Era più di un mese che non toccava una sigaretta, ma la tentazione di accenderne una e lasciare che il suo fumo offuscasse la stanza era sempre dietro l’angolo e l’unica cosa che lo frenava dal cedere era la voce di John che di tanto in tanto affiorava dal suo palazzo mentale e gli riecheggiava nella testa senza sosta. Eccolo di nuovo: John Watson e i suoi maledetti rimproveri medici.
Ad animare quel pomeriggio spompo e fiacco fu l’ispettore Lestrade che arrivò in Baker Street a bordo di un taxi e salì le scale con il solito passo pesante che lo contraddistingueva.
“Ti prego, dimmi che hai un caso” implorò Sherlock un attimo prima che l’ispettore aprisse la porta.
“È davvero questo che pensi di me? Credi che venga qui solo ed esclusivamente quando ho bisogno del tuo aiuto?”
Sherlock, ancora sdraiato sul divano, roteò gli occhi stranito: “non è così?” domandò accigliato.
Greg rimase un momento interdetto da quella domanda, poi si strinse nelle spalle e ammise che aveva ragione.
“Bene! Fantastico!” Esclamò Sherlock scattando in piedi con rinnovata energia. “Di cosa si tratta?”
“Ma Rosie dov’è?” Chiese Lestrade notando l’assenza della bambina.
“Con la Signora Hudson, ora dimmi di cosa si tratta!” Fece Sherlock desideroso che Lestrade cominciasse il suo racconto.
“Molly è di turno e Rosie è con la Signora Hudson?”
“Già”
“Ma non dovresti occupartene tu?”
“Non se sto lavorando” tagliò corto Sherlock.
“Ma tu non stai lavorando” osservò Greg con semplicità.
“La tua è l’osservazione di un poliziotto, quindi ha un’elevata probabilità di essere sbagliata.”
“Non stai facendo niente” lo riprese Lestrade ignorando l’insulto.
Sherlock sospirò esasperato. “Si, ma starei lavorando se solo tu ti decidessi a dirmi cosa ti ha portato qui da me, non è così?”
Lestrade rinunciò a porre altre domande in merito a Rosie e al suo ruolo di genitore adottivo; non gli era ancora chiaro il motivo per cui Sherlock si era fatto carico di una responsabilità tanto grande e così lontana da quello che era sempre stato il suo stile di vita, ma era evidente che lui era il primo a non voler affrontare quell’argomento così decise di lasciar perdere e si lanciò in un racconto lungo e dettagliato del caso a cui stava lavorando. Era quasi a metà della sua storia quando si rese conto che Sherlock stava sbuffando e guardava fuori dalla finestra in cerca di stimoli come un animale selvaggio rinchiuso in gabbia.
“Scusa stai veramente sbuffando?” domandò Lestrade interrompendo bruscamente il racconto, infastidito dalla disattenzione del suo unico ascoltatore.
“Sbufferesti anche tu se solo avessi un cervello come il mio” gli fece notare Sherlock mettendo su l’acqua per il tè.
“Oh beh, scusami, scusami tanto se sono una persona normale!”
“Terribilmente normale aggiungerei, e come tutte le persone normali ed ordinarie commetti errori stupidi e banali” sottolineò Sherlock senza preoccuparsi di utilizzare un minimo di tatto.
“Errori stupidi e banali?” sbottò Greg, “L’omicidio è avvenuto meno di quarantotto ore fa e io ho già una pista e quattro indiziati, uno di loro è l’assassino” continuò con una buona dose di enfasi che andò scemando nel momento in cui aggiunse: “…devo solo capire quale.”
“È proprio questo il punto” ridacchiò Sherlock dalla sua poltrona preferita, “sprechi il tuo tempo, non è un assassino che devi cercare!”
Greg strabuzzò gli occhi e per un attimo credette di essere arrivato alla soluzione del problema. “Due? Due assassini? Stai pensando ad un complice?”
Sherlock sprofondò nella sua sedia per lo sconforto. “Ma cosa diamine c’è nella tua testa? Come fai ad essere così cieco? Non è un assassino che devi cercare, ma un’assassina!”
“Una donna?” domandò l’ispettore incerto, “ma non ci sono donne tra i miei indiziati…”
“È proprio per questo che sei sulla pista sbagliata” gli fece notare Sherlock tornando in cucina.
“Dannazione!” Latrò l’ispettore imboccando la porta e lanciandosi giù per le scale dove travolse Molly che era appena rientrata.
“Che succede? Hai fatto qualche commento poco carino anche sull’orologio biologico di Greg?” domandò Molly entrando in cucina.
Sherlock scrollò le spalle; sapeva bene che Molly non aveva ancora digerito quella sua uscita infelice, la guancia gli bruciava ancora al solo ricordarlo, ma scusarsi non era esattamente il suo forte.
“Vuoi una tazza di tè?” domandò con la teiera in mano come se quel gesto potesse essere un primo tentativo di chiedere scusa.
“No” rispose Molly decisa, “devo cambiarmi e andare giù a prendere Rosie.”
Sherlock non fece in tempo a replicare perché proprio in quel momento entrò la signora Hudson con la bambina.
“Scusate” esordì attraversando il salotto, “ho un appuntamento con la mia amica Margareth alle sei e devo ancora prepararmi.”
“Oh, ma certo, non so veramente come ringraziarla!” Disse Molly andandole incontro per prendere la bambina mentre Sherlock assisteva alla scena in silenzio con la teiera in mano.
La signora Hudson uscì dall’appartamento e Molly si rivolse a Sherlock:
“posso chiederti di guardarla dieci minuti?”
Sherlock percepì il tono scocciato e annuì in silenzio.
Molly tirò un sospiro di sollievo e dopo aver aperto il tappetone interattivo con gli animali della fattoria nel bel mezzo del salotto fece cenno a Sherlock di raggiungerla.
“Faccio una doccia e arrivo” disse mentre Rosie, seduta nel centro del tappeto, premeva il naso della mucca facendole emettere il caratteristico verso.
Sherlock si sedette in poltrona a sorseggiare il suo tè, augurandosi che quei dieci minuti passassero in fretta.
Sentì Molly aprire l’acqua della doccia e un istante dopo si accorse che Rosie aveva cominciato a gattonare e aveva raggiunto il margine del tappeto dove un cavallo emise un nitrito al suo passaggio.
“Ehi” balbettò Sherlock illudendosi che la bambina gli desse retta, “torna al tuo posto!” aggiunse nonostante si sentisse un completo imbecille. Fortunatamente Rosie sembrò obbedire perché invertì la rotta e tornò sul tappeto dove schiacciò prima il naso del maiale e poi la cresta del gallo, ed entrambi ovviamente si sentirono in dovere di emettere i loro versi. Sherlock notò che Rosie sembrava particolarmente interessata al piumaggio colorato del gallo e per un attimo si sedette per dedicargli maggiore attenzione, subito dopo però sembrò ripensarci perché si mise nuovamente carponi e riprese a gattonare, questa volta a velocità doppia e soprattutto in direzione della porta. Sherlock tentò di richiamarla all’ordine come aveva fatto prima, ma questa volta non sembrò funzionare e lui si vide costretto ad alzarsi per bloccarle la fuga verso il pianerottolo. Si mise in piedi nello specchio della porta e Rosie, per niente intimorita, lo raggiunse e cominciò a giocare con le sue pantofole per poi aggrapparsi alle sue gambe.
Sherlock s’irrigidì e guardò verso la cucina sperando di vedere apparire Molly, ma l’acqua della doccia scorreva ancora e Rosi non sembrava intenzionata a mollare la presa.
“Torna al tuo posto” le disse Sherlock tentando di non farsi conquistare da quegli occhioni blu che gli ricordavano tremendamente quelli di John.
Rosie stava facendo di tutto per farsi prendere in braccio ma Sherlock era irremovibile e la fissava dall’alto con le braccia incrociate al petto e un sopracciglio inarcato. Non l’avrebbe presa in braccio per nessuna ragione al mondo, a dimostrazione del fatto che, qualunque cosa pensasse suo fratello, lui non era coinvolto e non lo sarebbe mai stato.
Rosie si sedette ai suoi piedi e Sherlock ne approfittò per scavalcarla e tornare in salotto nel tentativo di attirarla sul tappeto.
“Vieni qui” le disse dolcemente, abbandonando il tono freddo e impostato che aveva usato fino ad un attimo prima. Sherlock si mise al centro del tappeto e si accovacciò sperando che Rosie si decidesse a raggiungerlo, premette la cresta del gallo e rimase in attesa. Rosi sembrò interessata da quel suono ma un attimo dopo si voltò di scatto e prese a gattonare verso la tromba delle scale. Sherlock fece appena in tempo ad alzarsi dal tappeto e a correre verso la porta che Rosie aveva già raggiunto le scale; non ci fu più tempo di ragionare sul coinvolgimento e su quello che Mycroft avrebbe potuto criticargli, afferrò la bambina con entrambe le mani un attimo prima che cadesse dalle scale e la strinse a sé tirando un sospiro di sollievo mentre lei ridacchiava divertita. Quando Sherlock notò che non si sentiva più l’acqua della doccia scorrere si accorse che Molly era in piedi sulla porta della cucina avvolta in un asciugamano e doveva aver assistito alla scena.
“Ce l’hai fatta finalmente” commentò con un sorriso.
Sherlock si voltò a guardarla e farfugliò qualcosa d’indefinito, poi si schiarì la voce e disse: “a fare che?”
Molly non gli rispose ma appoggiò il capo allo stipite della porta e si beò di quella visione tanto rara quanto preziosa: Rosie si era fatta piccola tra le braccia di Sherlock e usava il suo petto come cuscino ma lui doveva essere ancora troppo sconvolto per rendersene conto.
In risposta al silenzio di Molly, Sherlock abbassò lo sguardo e si rese conto di quello che era appena accaduto. Stringeva Rosie tra le braccia e lei si sentiva talmente a suo agio da essere crollata in un sonno profondo, le piccole dita della manina destra che stringevano la sua maglietta e l’espressione serena di chi aveva trovato il suo posto nel mondo.
Sherlock sollevò il capo e guardò Molly in cerca di aiuto, non poteva farsi coinvolgere e aveva come la sensazione che quello potesse essere il primo step.
“Tienila tu” disse muovendo un passo verso Molly, desideroso di liberarsi di Rosie.
“Non ci penso neanche, devo ancora vestirmi e poi sta dormendo come un angelo, meglio non svegliarla. Se proprio non vuoi tenerla in braccio mettila a letto.” E così dicendo Molly si richiuse in bagno sotto lo sguardo sperso di Sherlock che non riuscì nemmeno a protestare.
Il detective attraversò la cucina ed esitò un istante prima di entrare in quella che una volta era stata la sua camera; mettere Rosie a letto sarebbe stato certamente più facile che tenerla in braccio per tutta la durata del suo sonnellino. Entrò nella stanza e notò con un certo fastidio che la sua tavola periodica non era più completamente leggibile a causa di una pila di pannolini e una serie di peluche che coprivano gli elementi appartenenti al gruppo degli orbitali di tipo F. Distolse lo sguardo e cercò di dimenticarsi di quanto aveva appena visto e la cosa risultò abbastanza semplice dal momento che qualcos’altro catturò la sua attenzione. John era in piedi accanto al lettino di Rosei e Sherlock rimase paralizzato dalla sua apparizione. Credeva che la scelta di adottare Rosie fosse stata sufficiente ad eliminare per sempre il suo fantasma, ma evidentemente si sbagliava, e lui detestava sbagliarsi.
“Pensi di startene in piedi tutto il giorno o hai intenzione di mettere Rosie a letto?” domandò John facendo un cenno con il capo in direzione del lettino.
Sherlock non rispose e rimase immobile dall’altro lato della stanza.
“Ok, sei ancora sotto shock, è comprensibile, dopotutto è questo che fanno i figli, ti cambiano la vita.”
“Ma io non ho figli” replicò Sherlock solo dopo aver lanciato uno sguardo alla porta del bagno.
“Ne sei sicuro?” chiese John, un’espressione divertita stampata in volto.
“Ho una bambina in braccio ma non ho figli, è figlia tua John!” Ringhiò Sherlock e in quell’esatto momento Rosi strinse maggiormente la presa sulla sua maglietta.
“Che differenza fa? Io non ci sono più Sherlock, né per te, né per Rosie, è bene che tu te ne convinca.”
Sherlock ignorò quel monito e attraversò la stanza, mise Rosie a letto e le rimbocco le coperte, la osservò per un momento e decise che le mancava qualcosa. Tornò all’ingresso della camera e prese uno dei peluche che stavano davanti alla sua tavola periodica, se non altro adesso un paio di elementi erano nuovamente leggibili, poi tornò da Rosie e chinandosi sul lettino le mise accanto il pupazzo. Quando si sollevò si accorse che John era sparito e un cigolio familiare lo avvisò che Molly era uscita dal bagno.
“Noi due dobbiamo parlare” disse guardando fuori dalla finestra certo del fatto che Molly fosse nella stanza e lo stesse ascoltando.
“Che succede?” domandò Molly un po’ intimorita mentre Sherlock si voltava a guardarla.
“Molly ti ho sempre reputata una donna di scienza, abile e meticolosa nella tua professione ma…” cominciò lui avanzando verso di lei con passo lento, le mani dietro la schiena e lo sguardo basso.
“ma…” fece Molly confusa e un po’ spaventata.
“…ma mi aspettavo più rispetto per la mia tavola periodica” aggiunse sollevando lo sguardo e incrociando quello di lei, “fai sparire quei pupazzi e quei pannolini da li!” Concluse con un’espressione che era tutta un programma un attimo prima di abbandonare la stanza.
Molly lo guardò uscire sorridendo sotto i baffi, solo Sherlock avrebbe potuto muoverle una critica di quel tipo.


Angolo dell'autrice: Ciao a tutti! Scusate se questo capitolo si è fatto attendere un po' ma, come sempre, se non sono più che convinta di quello che ho messo nero su bianco non pubblico. Fino a ieri mattina questo capitolo non mi soddisfaceva per niente, mentre ora posso dire che c'è tutto quello che volevo ci fosse (Lestrade, la chiamata di Mycroft, una scena divertente e soprattutto il "ritorno" di John) e sono contenta del risultato. Spero che voi siate dello stesso avviso ma accetto tutte le critiche, quindi fatemi sapere cosa ne pensate tramite commento! :-) Ovviamente un enorme grazie a tutti voi che state seguendo la storia e l'avete aggiunta alle vostre liste! :-)

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Capitolo 4
*** Evoluzione ***


Angolo dell'autrice: Ciao a tutti voi! Se avete aperto questo capitolo vuol dire che avete pazientemente atteso che io trovassi il tempo di scriverlo e pubblicarlo quindi vi ringrazio immensamente e mi scuso pubblicamente per l'immenso ritardo. Non starò qui a spiegarvi i mille motivi che mi hanno costretta ad aggiornare solo oggi la storia, quello che voglio che sappiate è che non ho pensato neanche solo per un momento di abbandonarla. Avevo le idee chiare fin da subito, sebbene (come dice il titolo del capitolo) far evolvere la storia non fosse poi così facile come credevo. Nonostante la stesura di questo capitolo sia stata decisamente faticosa sono soddisfatta del risultato, è più o meno quello che volevo e ci sono un paio di passaggi che mi strappano un sorriso ogni volta che li leggo. Spero che il capitolo risulti sensato (ai fini della storia), che lo appreziate e che vi diverta. Non mi resta che attendere il vostro insindacabile giudizio. Buona lettura e grazie infinite.
 


4- EVOLUZIONE
 
 
Erano passate due settimane dall’incontro ravvicinato tra Sherlock e Rosie e, sebbene con un po’ di fatica, Sherlock era riuscito a digerire quell’episodio. Quello che invece non riusciva proprio a sopportare era la costante presenza di John che era tornato ad invadere prepotentemente la sua privacy facendolo sentire costantemente sotto assedio. Dopo una serie di agguati ben studiati in cucina e uno sulle scale, John era riuscito a sorprenderlo anche sotto la doccia, cosa che sarebbe stata parecchio compromettente se solo il fantasma del suo migliore amico fosse stato visibile anche a qualcun altro, alla Signora Hudson per esempio, che avrebbe finalmente avuto prova di tutti i suoi sospetti.
“Bene” aveva esclamato Sherlock in quell’occasione, i capelli bagnati appiccicati alla fronte e l’espressione imbronciata. “Hai deciso di dare seguito alle voci che da anni girano su di noi?” domandò il consulente investigativo chiudendo l’acqua e afferrando un asciugamano, “la signora Hudson e la sua amica Margareth non aspettano altro!”
Sul volto di John comparve un mezzo sorriso e dopo giorni di mute apparizioni si decise a parlare: “puoi stare tranquillo, sono nel tuo palazzo mentale, non ci vedrà nessuno.”
Sherlock trasalì, colto di sorpresa dalla voce del suo ex coinquilino e sconvolto dall’assurdità delle sue parole.
“Nel mio palazzo mentale è tutto ben organizzato e tenuto sotto chiave” ci tenne a precisare, “se tu fossi veramente nel mio palazzo mentale, non potresti andartene in giro per casa a meno che non sia io a richiederlo espressamente” dichiarò Sherlock in tono saccente.
“Beh fatti delle domande allora” fece John con un’alzata di spalle appoggiandosi al muro del bagno. Far ammettere a Sherlock qualcosa che lui cercava di negare con anima e corpo era sempre stato come lottare con i mulini a vento, John lo sapeva bene; ma questa volta, per il suo stesso bene, era necessario che lo capisse. Dopotutto era troppo intelligente per essere così ottuso.
“Probabilmente la mia astinenza dalle droghe mi sta presentando il conto” rifletté ad alta voce Sherlock fissando la sua immagine riflessa nello specchio sopra il lavandino.
“Non era a questo che mi riferivo” sbottò John apparendo improvvisamente nel riflesso dello specchio, proprio dietro di lui. Sherlock fissava il vuoto e John si sentì in dovere di aiutarlo: “Forse ti conosco abbastanza bene da avere la chiave per uscire” gli fece notare con semplicità, “o forse la mia morte per te è una questione in sospeso, qualcosa che ancora non sei in grado di accettare, ed è per questo che mi vuoi qui, come se nulla fosse cambiato.”
“Forse se mi sbrigo, faccio ancora in tempo a raggiungere il buon vecchio Wiggins alla stazione, dovrebbe avere con sé qualcosa che fa al caso mio.”
“No!” Latrò John in tono di rimprovero, “non era a questa conclusione che volevo farti arrivare” ma Sherlock non lo ascoltava, si stava frizionando i capelli con l’asciugamano e sembrava intenzionato ad uscire di casa il prima possibile, “dannazione Sherlock, non ti azzardare a raggiungere quel tossico!”
“Non puoi impedirmelo, l’hai detto tu John, sei nel mio palazzo mentale, e quando sarò di nuovo in balia della cocaina ti assicuro che riuscirò a rinchiuderti per sempre nella sua stanza più remota!”
Il richiamo della droga fu talmente efficace che Sherlock uscì dal bagno travolgendo Molly che passava diretta in salotto.
“Scusa” borbottò aiutandola a recuperare l’equilibrio mentre lei arrossiva.
“Stai uscendo? È per un nuovo caso?” chiese Molly timidamente notando che andava di fretta.
“In un certo senso” fece lui vago.
“Io oggi faccio il turno di notte, cerca di rientrare prima delle nove, altrimenti mi toccherà chiedere di nuovo aiuto alla signora Hudson.”
“Non ce ne sarà bisogno” disse Sherlock indossando il cappotto e preparandosi ad uscire.
“Vuoi veramente occuparti di mia figlia mentre sei sotto l’effetto della cocaina?” gli gridò dietro John mentre Sherlock afferrava il suo cappotto preferito e si appropinquava ad aprire la porta. Il consulente investigativo si trattenne dal rispondergli perché Molly lo stava ancora fissando dall’alto delle scale e non sarebbe stato il massimo rispondere a tono ad un John che solo lui poteva vedere e sentire davanti a lei. Congedò Molly con un sorriso forzato e uscì di casa fermando un taxi al volo.
“Non vedo perché no… dopotutto sotto l’effetto della cocaina ho fatto cose ben più impegnative del babysitter a una marmocchia di sette mesi.”
Nove mesi!” Si affrettò a correggerlo John in tono parecchio scocciato.
“Fa lo stesso” minimizzò Sherlock salendo sul primo taxi disponibile sbattendo letteralmente la porta in faccia a John che sussultò.
“London Bridge Station” dichiarò Sherlock al conducente che annuì e s’insinuò nel traffico cittadino senza aggiungere una parola.
Giunto in prossimità della stazione Sherlock s’incamminò lungo il marciapiede, ben deciso a non voltarsi per paura di scoprire che John aveva il potere di perseguitarlo anche al di fuori delle mura che avevano condiviso per anni. Svoltò in un paio di vicoli e finalmente giunse a destinazione; Wiggins era esattamente dove si aspettava di trovarlo, accovacciato su una vecchia panchina arrugginita con un cappello viola di lana calato fin sopra le orecchie e le mani strette a pugno nelle tasche nel vano tentativo di riscaldarle.
“Chi non muore si rivede” disse il senzatetto riconoscendo la figura familiare del detective che si avvicinava avvolto nel suo inconfondibile cappotto.
“Sai perché sono qui?” domandò Sherlock uscendo dall’ombra e mostrandosi all’amico facendo nettamente a meno dei convenevoli.
“La tua postura e il fatto che ti sia presentato qui senza preavviso mi suggeriscono che probabilmente sei in astinenza, ma non frequento più il caro vecchio Sherlock Holmes da quando ha deciso di buttarmi fuori di casa per far posto ad una morettina e una neonata quindi non vedo perché dovrebbe interessarmi la sua improvvisa ricomparsa.” Il tono di Wiggins la diceva lunga su quanto l’avesse infastidito essere stato messo alla porta da un giorno all’altro. Da quando aveva messo quella fatidica firma, Sherlock aveva dovuto licenziare Wiggins per assicurarsi di non ricadere in tentazione; la presenza di un tossico in Baker street non sarebbe stata facile da giustificare ad un giudice e Mycroft aveva già fatto abbastanza insabbiando tutti gli episodi in cui aveva fatto uso di droghe di ogni genere affinché risultasse pulito e ottenesse la custodia della bambina; non poteva certo chiedergli di ripulire anche la fedina penale di Wiggins.
“Hai qualcosa per me?” domandò Sherlock andando dritto al punto.
“Dipende, se cerchi pannolini o cose così la risposta è no” fece Wiggins sarcastico.
“Mi accontento di qualche dose di cocaina” tagliò corto Sherlock ignorando la frecciatina.
“Ho quello che cerchi, ma per te non è più gratis” precisò il senzatetto facendo trapelare volutamente tutta la sua rabbia.
“Non è un problema” dichiarò Sherlock allungandogli una banconota mentre si guardava in torno per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi.
Venti minuti più tardi Sherlock faceva ritorno in Baker street domandandosi quale fosse il posto più idoneo per nascondere la merce di Wiggins. Da quando conviveva con Molly la sua privacy si era ridotta all’osso e trovare un nascondiglio sicuro non era più facile come un tempo.
Dal momento che la signora Hudson aveva rinunciato a fare le pulizie in cucina da quando gli aveva trovato dei pollici nel frigorifero, quella sembrava essere la stanza più indicata per nascondere qualcosa. Optò per il quinto cassetto, quello in cui conservava vetrini e piastre Petri perché Molly, che era solita passare gran parte della sua giornata lavorativa al microscopio, difficilmente sarebbe andata a ravanare in quel cassetto per dedicarsi a quell’attività anche a casa.
Nascose il tutto un attimo prima che la patologa uscisse dalla camera da letto; dato che faceva il turno di notte avrebbe avuto tutto il tempo per somministrarsi una dose la mattina successiva, quando lei avrebbe dormito fino a tardi.
Il tutto avvenne sotto lo sguardo severo e incazzoso di John che se ne stava seduto sullo sgabello della cucina, le braccia incrociate strette al petto e l’espressione di chi si sta trattenendo dall’esplodere in una serie d’insulti. Non appena Molly lasciò l’appartamento Sherlock volse lo sguardo in direzione di John. “A te penserò più tardi” brontolò il consulente investigativo decisamente stufo di essere perseguitato.
 
La mattina successiva Sherlock si svegliò di soprassalto quando Molly scostò le tende del salotto e la luce lo investì improvvisamente. I suoi borbottii e le sue imprecazioni fecero spaventare la patologa che sobbalzò vedendolo steso sul divano.
“Sherlock!” Esclamò portandosi entrambe le mani al cuore in preda allo spavento, “mi hai fatto prendere un colpo, cosa diavolo ci fai qui?” domandò ignara del fatto che Sherlock dormisse su quel divano da settimane.
“Mi sono addormentato leggendo” mentì Sherlock mostrandole il primo libro che gli capitò sottomano. Molly aveva lo sguardo stanco di chi aveva passato troppo tempo davanti al monitor di un computer, i suoi occhi erano arrossati e circondati da un velo di occhiaie ma sembrò credergli e Sherlock si congratulò con sé stesso per essersi addormentato con indosso i vestiti della sera prima rendendo credibile la sua scusa.
“Oh” esalò Molly, “mi spiace averti svegliato così presto, forse è meglio se vai in camera.”
“Che ore sono?” domandò Sherlock guardandosi in torno in cerca di un orologio che segnasse l’ora corretta.
“Quasi le otto” sussurrò Molly sapendo bene che Sherlock era solito dormire fino a tardi a meno che non avesse un motivo ben preciso per alzarsi prima.
Il detective trasalì e scrutò Molly con attenzione. Lei conosceva molto bene quello sguardo, era come essere passata allo scanner e visto che il cervello di Sherlock sarebbe presto arrivato alla giusta conclusione, decise di risparmiargli la fatica. “Ho fatto il turno di notte ma ho del lavoro arretrato quindi, anche se ho smontato alle cinque del mattino, sono già sveglia, non ti dispiace se uso il tuo microscopio, non è vero?”
Sherlock rimase momentaneamente spiazzato, non amava essere interrotto nel corso delle sue deduzioni ma Molly era stata esaustiva e concisa, due qualità che lui non poteva fare a meno di apprezzare.
La patologa tornò in cucina e Sherlock la vide estrarre una serie di campioni dalla borsa.
“Rosie dorme ancora e devo assolutamente approfittare di questo momento.” La sentì dire mentre si chiudeva in bagno, ancora troppo addormentato per concentrarsi su qualcosa che fosse così poco interessante. Quando ne uscì, leggermente più sveglio di prima, notò che Molly aveva fatto il caffè per entrambi e ripulito buona parte del tavolo sul quale aveva predisposto ordinatamente tutti i suoi campioni.
“Sbaglio o avevi dei vetrini di scorta qui da qualche parte?” mormorò Molly tra sé e sé, “ho dimenticato i coprioggetto in laboratorio…”
Sherlock la vide aprire uno dopo l’altro tutti i cassetti della cucina e fu solo in quel momento che si svegliò completamente, pervaso da una punta di panico.
“Molly” mormorò cercando di prendere tempo mentre pensava ad un modo per persuaderla a lasciar perdere senza che lei s’insospettisse.
“Dimmi” fece lei continuando la sua affannosa ricerca.
“Mi sembri un po’ troppo stanca per lavorare… perché non lasci perdere e ti riposi?” buttò lì pur sapendo che quella frase sarebbe suonata strana a chiunque lo conoscesse anche solo un minimo.
Molly si bloccò nel gesto di richiudere un’antina, si voltò lentamente e lo guardò stranita: “e tu da quando ti preoccupi di quanto lavoro e di quanto dormo?” chiese sospettosa, “a stento ti ricordi che vivo in questa casa!” Aggiunse inviperita proseguendo la sua ricerca.
Sherlock deglutì vedendola avvicinarsi ai cassetti accanto al forno. Dall’altra parte della cucina John soffocò una risata. Era bello vedere Sherlock in difficoltà una volta tanto.
“Dico solo che un essere umano necessita almeno di sei ore di sonno al giorno per essere efficiente ed in buona salute” recitò il detective ritrovando il suo tono più saccente e puntiglioso. Fortunatamente quella provocazione andò a segno al momento opportuno, ovvero quando Molly arrivò al cassetto numero cinque. Lo aprì ma non fece in tempo a visualizzare cosa contenesse perché si voltò per rispondergli a tono.
“Ti ricordo che sono un medico” dichiarò asciutta.
“Quindi dovresti essere la prima a tenere alla tua salute, non credi?” domandò il consulente investigativo mentre si avvicinava al cassetto con l’intento di chiuderlo.
“Io credo che tu debba andare a letto, lasciami lavorare in pace per favore” Molly fece per aggirare Sherlock ma lui glielo impedì.
“Sherlock si può sapere che cos’hai?” chiese la patologa che cominciava seriamente a spazientirsi.
Sherlock fissò intensamente Molly per un istante, sapeva di aver esaurito le scuse e sapeva anche cosa sarebbe successo se le avesse consentito di guardare all’interno del cassetto. Non poteva permetterglielo. Aveva una sola possibilità di evitare che accadesse l’irreparabile così si giocò l’ultima carta. Circondò Molly con le braccia e le posò un bacio sulle labbra, mentre richiudeva silenziosamente il cassetto con la punta della scarpa. Cercò di protrarre il bacio per tutto il tempo necessario a compiere quell’operazione e quando fece per ritrarsi Molly affondò le mani nei suoi capelli e prolungò quel contatto, tanto gradito quando inaspettato. Sherlock sapeva di dover stare al gioco, era necessario che Molly credesse a quella messa in scena o sarebbe stato tutto inutile. Sollevò entrambe le mani in cerca del suo viso e continuò a baciarla sentendola cedere bacio dopo bacio. La spinse contro il tavolo e inavvertitamente urtarono un paio di campioni che finirono in frantumi sul pavimento. Il tutto avvenne sotto lo sguardo sconvolto di John che, notando la piega che stava prendendo quel bacio, cominciò a sentirsi di troppo pur essendo tecnicamente invisibile. Sherlock aveva già metà camicia sbottonata quando si decisero a spostarsi in camera da letto ma quando Molly cadde sul materasso sotto il suo peso trasalì improvvisamente e lo bloccò.
“Non davanti alla bambina” disse con convinzione e Sherlock pensò di approfittarne per porre fine a quella stupida recita e archiviare definitivamente la questione.
“In effetti non mi sembra molto appropriato” disse rialzandosi intenzionato a riabbottonarsi la camicia.
“Vieni” bisbigliò Molly trascinandolo fuori dalla camera con foga ma ben attenta a non fare rumore per evitare di svegliare la bambina. Riprese a baciare Sherlock mentre erano ancora in cucina e una volta in salotto lo spinse sulla poltrona e gli si gettò addosso.
“Non sulla poltrona di John” mormorò lui colto alla sprovvista ma ben deciso a trovare un modo per placare Molly e i suoi bollenti spiriti.
“Oh” esalò Molly rendendosi conto di cosa simboleggiasse quella semplice poltrona per Sherlock, “scusa” aggiunse timidamente alzandosi e obbligando il detective a seguirla. Molly si lasciò cadere sul divano e, afferrando Sherlock per il colletto della camicia lo costrinse a fare lo stesso.
Sherlock capì di essere andato decisamente troppo oltre quelle che erano le sue intenzioni iniziali, ma Molly era un fiume in piena e sembrava decisa a riprendersi tutto quello che lui non le aveva concesso nel corso degl’anni. Fortunatamente, ad interrompere quello che di li a poco sarebbe stato inevitabile fu un semplice rumore, quello di qualcuno che, molto timidamente, decise di suonare il campanello del 221B di Baker street.
Sherlock approfittò di quel momento per separarsi dalle labbra di Molly esalando un semplice ma esaustivo: “cliente”.
Molly non protestò, ancora troppo sconvolta dagli avvenimenti degli ultimi dieci minuti per riuscire a formulare un pensiero di senso compiuto. Si rialzò annuendo e tornò in cucina mentre Sherlock si preparava ad accogliere il suo salvatore con uno dei suoi sorrisi più smaglianti. Riabbottonò la camicia a casaccio e aprì la porta ad un uomo basso e tarchiato che, notando l’aspetto scompigliato del detective e la camicia in disordine, arrossì violentemente dicendo: “domando scusa, ho forse scelto un brutto momento?”
“Mio buon uomo, lei non avrebbe potuto avere tempismo migliore!” gli sorrise Sherlock facendolo accomodare in salotto mentre il pianto di Rosie si diffondeva dalla camera da letto.

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Capitolo 5
*** Mutazione ***


Angolo autrice: Ciao a tutti voi! :-) Eccomi di nuovo con il capitolo numero 5! Mi ero ripromessa di pubblicarlo la scorsa settimana ma non avevo previsto quanto difficile sarebbe stato scrivere la parte conclusiva di questo capitolo (quando la leggerete capirete a cosa mi riferisco), avevo il terrore di finire OOC e anche ora che è tutto nero su bianco non sono del tutto convinta di non aver fatto un casino. C'è da dire che mai come in questa occasione i personaggi hanno avuto la tendenza a fare di testa loro e, per quanto io abbia tentato in tutti i modi di richiamarli all'ordine, ho ancora dei dubbi in merito al risultato finale. Vi prego pertanto di dirmi la vostra, nel bene e nel male, perchè è solo sottoponendo il capitolo al pubblico e confrontandomi con voi lettori che posso rendermi veramente conto di quanto la storia funzioni, o non funzioni. Io non posso che ringraziarvi per la pazienza che dimostrate ogni volta, per le belle parole che spendete nei miei confronti e per il modo in cui vi appassionate a ciò che scrivo. Ora vi lascio alla lettura e resto pazientemente in attesa del vostro giudizio. A presto e grazie infinite.




5- MUTAZIONE
 
 
Sebbene Sherlock fosse estremamente annoiato dal racconto che il suo nuovo cliente gli stava riportando con infinito entusiasmo, riuscì comunque ad intrattenersi con lui per tutta la mattinata; pranzò addirittura in sua compagnia al cinese sotto casa pur di stare alla larga da Molly e dai suoi ormoni in festa, qualsiasi cosa pur di prendere tempo e posticipare il più possibile il confronto con lei.
Certo, lui le aveva servito il tutto su un piatto d’argento e cominciava a pensare che l’unica soluzione che gli era passata per la mente in quel momento non fosse certo la più brillante delle sue pensate. Restava il fatto che adesso la cosa più difficile da fare era tirarsene fuori. Fortunatamente Rosie si era svegliata al momento giusto, obbligando Molly ad abbandonare l’idea di lavorare a casa e concedendo a Sherlock un po’ di tempo per capire come agire. Doveva spostare la merce di Wiggins dalla cucina e, cosa secondaria ma non per questo più semplice o meno importante, doveva affrontare Molly e porre definitivamente fine a quella pagliacciata che si era visto costretto a mettere in scena in cucina e che aveva finito per portarli sul divano.
“Signor Holmes” intervenne la voce dell’ometto che sedeva di fronte a lui, “ha capito quello che le ho detto?”
Sherlock lo fissò aggrottando le sopracciglia per un lungo istante, i suoi baffi erano intrisi di salsa di soia e c’erano briciole di cibo cinese dappertutto. “Ho capito che gli involtini primavera che ha ordinato non sono di suo gradimento” disse Sherlock abbassando lo sguardo sul piatto del suo cliente colmo di avanzi, “esattamente come non lo è per me la sua compagnia e come quella donna vorrebbe non aver mai incontrato l’uomo con cui da mesi chattava online” aggiunse ammiccando in direzione di una coppia seduta poco più in là, “probabilmente si aspettava di meglio” commentò a bassa voce, poi tornò a guardare il suo cliente: “Signor Hammer…”
“Harler!” Lo corresse il cliente infastidito.
“Fa lo stesso” minimizzò Sherlock, “io la leggo come un libro aperto, esattamente come intuisco che la cameriera non vede l’ora di finire il suo turno che, per inciso” e qui s’interruppe per dare un’occhiata all’orologio da polso, “finisce tra cinque minuti, quindi penso che dovremmo sbrigarci a chiederle il conto.”
“Ma non ho ancora ordinato il dolce!” Protestò l’uomo che aveva ancora il tovagliolo legato al collo tipo bavaglino.
“Non mi sembra in condizione di ordinare un gelato fritto” fece Sherlock gelido guardandolo dall’alto in basso e soffermandosi a lungo sulla pancia che metteva a dura prova i bottoni della camicia.
“Avrei preso un biscotto della fortuna” precisò il cliente un po’ seccato mentre la cameriera rispondeva al cenno di Sherlock e gli portava il conto.
“Posso prevedere io il suo futuro e senza biscotti” fece Sherlock annoiato per poi aggiungere uno svogliato: “Vada a Trafalgar Square”
“E il mio caso?” lagnò l’uomo sfilandosi il tovagliolo dal collo, “non ha ancora detto una sola parola… cosa ne pensa del mio caso?”
“Ho detto vada a Trafalgar Square” ribadì Sherlock indossando sciarpa e cappotto.
“Sì ma lo accetta? Il caso intendo. Signor Holmes, la prego!”
“Non ho bisogno di accettarlo” disse Sherlock chinandosi sul tavolo per guardare il suo cliente negli occhi, “l’ho già risolto” rivelò in un sussurro.
“Vada a Trafalgar Square alle cinque di oggi pomeriggio, troverà le risposte che cerca.”
Il cliente rimase di stucco. Seduto al tavolo con il tovagliolo in mano e l’espressione sconvolta osservò Sherlock Holmes lasciare il ristorante senza aggiungere una parola. Rinsavì solo quando una voce richiamò la sua attenzione: “mi scusi, il conto lo paga lei?” Era la cameriera, aveva il grembiule in mano e lo fissava con aria un po’ scocciata. “Sa com’è, il mio turno è finito e avrei una certa fretta…”
 
Molly sentiva l’aria fredda sferzarle la faccia; stava correndo tra gli alberi di Regent’s park ad una velocità che raramente aveva raggiunto prima di allora e che stava mettendo a dura prova lei e il suo cardiofrequenzimetro. Sentiva il cuore pulsarle nelle orecchie a un ritmo talmente elevato da causarle un principio di mal di testa, ma il dolore fisico era nullo se confrontato con lo scombussolamento emotivo delle ultime ore. Non sapeva nemmeno con precisione da quanto tempo stesse correndo; l’unica cosa che sapeva era che dopo due ore in compagnia di Rosie e delle chiacchere della signora Hudson aveva sentito il bisogno imminente di uscire, di scappare in un certo senso, e una corsa a perdifiato le era sembrata la soluzione migliore sebbene le sue gambe, ormai stanche ed affaticate, non fossero del tutto d’accordo.
Contrariamente a quello che le suggeriva l’applicazione sul suo smartphone preposta al monitoraggio dell’attività fisica, Molly non rallentò il passo, continuò a correre lungo il sentiero, incurante degli schiamazzi dei bambini e dello starnazzare delle anatre, sfidando l’aria gelida e il vento che le soffiava contro ostacolando la sua corsa.
La musica nelle orecchie la spronava ad andare più veloce e il cuore martellava addirittura più rapidamente del momento in cui Sherlock l’aveva baciata.
Sherlock l’aveva baciata, stentava ancora a crederci ma era successo, e dio solo sapeva cos’altro sarebbe accaduto al suo rientro.
Sebbene nel corso degli anni avesse fantasticato parecchio su una relazione e su tutte le emozioni che un possibile bacio tra loro le avrebbe provocato, in quell’attimo tutti i sentimenti che aveva sempre nutrito per lui erano stati offuscati da una sensazione d’inadeguatezza, come se quanto fosse appena successo in realtà non fosse mai dovuto accadere.
Quel pensiero la scosse nel profondo e per sfogare tutta la sua frustrazione aumentò ulteriormente il passo mandando in tilt il cardiofrequenzimetro che cominciò a suonare implorandola di rallentare. In quanto medico, Molly avrebbe dovuto preoccuparsi; sapeva che avere delle pulsazioni così alte non andava bene e poteva essere addirittura pericoloso, ma non riusciva a fermarsi, le gambe andavano da sole e ad ogni metro che si lasciava alle spalle la testa sembrava più leggera, libera da ogni pensiero.
Ad arrestare la sua corsa folle fu una buca nascosta da un mucchio di foglie; il piede destro di Molly ci finì dentro e sprofondò di qualche centimetro, quanto bastava per procurarle una dolorosa storta accompagnata da un paio d’imprecazioni.
“Dannazione!” Latrò Molly seduta a terra con entrambe le mani premute sulla caviglia dolorante mentre qualche passante le andava incontro.
“Signorina ha bisogno d’aiuto?” disse un giovanotto dai modi gentili precedendo un paio di vecchietti che sembravano avvicinarsi più per curiosità che per offrirle aiuto.
“Tranquilli, è tutto ok, sono un medico.” Disse accettando la mano del giovane per rialzarsi.
“Dove abita? Vuole che le chiamo un taxi?” si offrì generosamente il ragazzo.
“No, no, la ringrazio, abito in Baker street, penso di riuscire a camminare fino a casa, grazie lo stesso.” Con quella frase congedò i soccorritori e lasciò il parco a testa bassa.
Tutto quello che le serviva era una bella doccia e un po’ di tranquillità. Con quel pensiero Molly imboccò la strada del ritorno domandandosi cos’altro le avrebbe riservato quella giornata così imprevedibile.
 
Dopo essere stato a zonzo per le strade di Londra con l’unico scopo di perdere tempo, Sherlock fece ritorno in Baker street verso le tre del pomeriggio; sapeva che Molly faceva il turno di mezzo e non vedeva l’ora di approfittare della sua assenza per dormire su un letto, il suo letto, volendo essere precisi.
Rientrò in casa mentre cominciava a tuonare e, dopo essersi tolto sciarpa e cappotto, salì le scale ignorando bellamente la porta della signora Hudson. Avrebbe recuperato Rosie più tardi, preferibilmente dopo aver risolto i suoi problemi ed essersi concesso una bella dormita.
Appena mise piede in cucina andò dritto verso il cassetto incriminato e recuperò il suo prezioso contenuto con un gesto furtivo. Se lo rigirò tra le dita rimirandolo con attenzione, Dio solo sapeva quanto era tremenda l’astinenza. Erano quasi quattro mesi che era pulito, pulito come non lo era mai stato. John sarebbe stato orgoglioso di lui.
Ora che ci pensava erano più di ventiquattrore che non lo vedeva e per un lungo istante la casa gli sembrò tremendamente vuota.
In attesa di trovare un posto sicuro in cui nascondere ciò che Wiggins gli aveva procurato pensò che la cosa più saggia da fare fosse tenerselo addosso.
Entrò in quella che una volta era stata la sua camera e si lasciò cadere sul letto, il materasso lo accolse come un vecchio amico e lui prese sonno in meno di un minuto.
Poco più tardi Molly uscì dal bagno avvolta in un asciugamano e raggiunse la camera da letto zoppicando a fatica, la caviglia gonfia e dolorante. Si stese sul letto in cerca di un po’ di sollievo e fu solo in quel momento che si accorse della presenza di Sherlock che dormiva della grossa raggomitolato su un fianco.
A quella vista Molly sentì le viscere contorcersi mentre il cuore ricominciava a martellare all’impazzata come se non avesse mai lasciato Regent’s park. Si costrinse a regolare il respiro e, una volta ripreso il controllo del proprio battito cardiaco, si chinò su di lui, osservandolo silenziosamente per qualche istante. Indossava la sua camicia preferita, quella viola, e dormiva profondamente, come se non si dedicasse a quell’attività da mesi.
Si sporse leggermente verso di lui per osservarlo più da vicino e fu proprio in quel momento che Sherlock si decise a parlare.
“I tuoi pensieri sono rumorosi” le fece notare senza prendersi la briga di aprire gli occhi.
Molly sobbalzò per lo spavento e si strinse nel suo asciugamano, colta da un imbarazzo improvviso.
“Cosa ci fai nel mio letto?” replicò con voce tremolante.
“Recupero il sonno arretrato. E comunque tecnicamente è il mio letto” precisò il consulente investigativo levando un sopracciglio ma mantenendo gli occhi chiusi.
“Sì, ma da qualche settimana ci siamo invertiti le stanze, ricordi?”
Sherlock aprì gli occhi di scatto ed immediatamente alle spalle di Molly vide comparire la figura di John. Aveva un insopportabile sorriso stampato in faccia ed era vestito esattamente come il giorno prima, chissà poi perché se lo immaginava sempre con indosso lo stesso maglione.
“E questa come gliela spieghi?” disse la voce del suo migliore amico alludendo al fatto che fosse arrivato il momento di confessare a Molly che dormiva sul divano.
“Perché non sei al Bart’s?” domandò Sherlock ben deciso a spostare la conversazione su un altro argomento, evitando così di darla vinta a John.
“Ho fatto un cambio turno, oggi sono di riposo.” Spiegò Molly con semplicità. Il consulente investigativo non sembrò del tutto soddisfatto della risposta così continuò a tempestare Molly di domande poco opportune: “hai fatto un cambio turno e hai pensato bene di sprecare il tuo tempo andando al parco a correre e rimediando una storta alla caviglia? Lo sai vero che non è così che perderai i due chili che hai messo su da quando vivi qui?” Molly strabuzzò gli occhi e Sherlock riprese a parlare impedendole di replicare: “no, no, non fare quella faccia, non c’è da vergognarsi, i biscotti al burro della signora Hudson farebbero ingrassare chiunque!”
Molly si morsicò il labbro inferiore con parecchia insistenza pur di non sbottare, l’ennesimo litigio con Sherlock non l’avrebbe certo aiutata a guarire la storta o a perdere i chili in più che, Sherlock ci aveva preso, erano proprio due.
“E tu come diavolo fai a sapere che sono andata a correre rimediando una storta alla caviglia?”
Sherlock si mise a sedere poggiandosi sui gomiti per fissare meglio Molly e sembrò accorgersi solo in quel momento che lei era decisamente poco vestita. Non era a suo agio con le donne poco vestite, nemmeno con quelle del tutto vestite a dire il vero, e ogni tanto gli balenava ancora per la mente la figura nuda e perfetta della Adler (ma quella era un’altra storia), così, deciso più che mai a non farsi cogliere in fallo, fece vagare lo sguardo per la stanza: “Ho convissuto per anni con una persona claudicante, e ad un orecchio attento il suono dei tuoi passi nel percorso bagno-camera da letto rivelava una leggera zoppia. Non posso sbagliarmi.”
“Ehi, ehi! Ho zoppicato vistosamente solo le prime settimane in cui ho vissuto qui!” Protestò John dal fondo della camera.
“Fai silenzio!” Sbottò Sherlock azzittendo l’ex coinquilino con un gesto della mano.
“Ma non ho detto niente!” Esclamò Molly piuttosto stizzita.
Sherlock spostò lo sguardo sulla patologa mentre John scoppiava in una sonora risata che si sforzò di ignorare. Di quel passo oltre a confessarle che dormiva sul divano avrebbe anche dovuto rivelarle che John lo perseguitava dal giorno della sua morte o lei lo avrebbe fatto ricoverare in un ospedale psichiatrico.
Avrebbe preferito di gran lunga avere un discorso preparato, aver avuto il tempo di scegliere le parole con cura, perché se era vero che poco gli importava dei sentimenti di Molly questo non significava che provasse piacere a causarle un dispiacere. Lei aveva sempre avuto un ruolo importante nella sua vita, in alcuni casi addirittura cruciale, e nonostante avesse sempre evitato di esternarlo per non darle false speranze forse, complice il bacio appassionato di quella mattinata, era giunto il momento di mettere in chiaro le cose.
Il tempo di quella riflessione fu eccessivamente lungo e Molly, prendendo quel silenzio per menefreghismo, andò su tutte le furie.
“Pensi che il tuo comportamento di stamattina sia sufficiente a cancellare tutto quello che mi hai fatto passare in questi anni? Pensi che un bacio ti dia il diritto di infilarti nel mio letto?” Sputò fuori Molly che sembrava non riuscire a gestire tutta la rabbia repressa che aveva accumulato nel corso del tempo.
Sherlock rimase paralizzato, la situazione stava prendendo una piega che non gli piaceva per niente e se prima aveva dei dubbi, adesso era più che sicuro di non volersi lanciare in una conversazione di stampo sentimentale con Molly.
“Ok, vado a dormire sul divano” tagliò corto il detective alzandosi dal letto con l’intenzione di lasciare la camera nel più breve tempo possibile.
“Eh no! Non credere di cavartela così Sherlock!” gli gridò dietro Molly quasi ansimando. “Sono stufa di vederti scappare dalle tue responsabilità!”
Sherlock sentì una stretta alla bocca dello stomaco, come poteva accusarlo di una cosa simile dopo tutti i sacrifici che aveva fatto?
“Credimi Molly, ho smesso di scappare” confessò Sherlock in un sussurro alludendo a tutto quello che la morte di John lo aveva obbligato ad affrontare, dall’astinenza dalle droghe all’affidamento di Rosie.
“Ah sì?” fece Molly, “e allora guardami negli occhi e dimmi che non stai scappando dal bacio di questa mattina!”
Era arrivato il momento, Sherlock sperava che le sue bugie e i suoi imbrogli gli avrebbero lasciato un po’ più di tempo, ma Molly esigeva la verità e lui non era più tanto sicuro di voler mentire.
“Non sto scappando dal bacio di questa mattina” affermò con sicurezza, “non ho bisogno di scappare da quello che per me non ha importanza” aggiunse con la certezza che quella frase gli avrebbe procurato un secondo ceffone ma, contrariamente a quanto si aspettava, Molly non si mosse, era ancora sul letto avvolta nell’asciugamano e il suo viso era una maschera indecifrabile persino per lui.
“La verità è che avevo bisogno di distrarti” ammise Sherlock con una nota di rammarico e non poca fatica.
“Avevi bisogno di distrarti? Mi hai baciata per distrarti?” Ripeté Molly incredula.
“No, non distrarmi, distrarti!” Gridò Sherlock al culmine della rabbia. La situazione stava precipitando una parola dopo l’altra e lui sentiva di essersi addentrato in un labirinto della quale difficilmente avrebbe trovato l’uscita.
“Ma distrarmi da cosa?” esalò Molly visibilmente confusa dal delirio verbale di Sherlock.
“Da questo!” Ringhiò Sherlock estraendo dalla tasca dei pantaloni la merce di Wiggins e lanciandola sul letto accanto a Molly.
Ce l’aveva fatta; era stato ad un passo dal cedere e invece, proprio quando la situazione sembrava giunta ad un punto di non ritorno, qualcosa lo aveva persuaso a non cascarci. Ora il piccolo pacchetto che fino a pochi istanti prima pesava come un macigno nella sua tasca destra era accanto a Molly e lui era pronto ad affrontare le conseguenze che quella confessione comportava.
La patologa dapprima osservò con riluttanza il piccolo involucro che aveva accanto, poi si decise ad afferrarlo per esaminarlo meglio, sebbene avesse già un’idea piuttosto precisa di cosa potesse contenere.
“Morfina o cocaina?” domandò con tono inquisitorio un attimo prima di scartare l’involucro. Quella domanda risuonò nei meandri del palazzo mentale di Sherlock e immediatamente gli si palesò il ricordo della prima volta in cui qualcuno gli aveva posto quella stessa domanda, con la stessa freddezza e il medesimo tono di rimprovero. L’immagine di un John Watson molto più giovane affiorò dai suoi ricordi proprio nel momento in cui Molly gli ripeteva la domanda e nella sua testa le loro voci si sovrapposero: “morfina o cocaina?”
“Cocaina” ammise Sherlock in tono sommesso.
Molly mise il piccolo pacchetto sul comodino e sospirò.
“Dille la verità” suggerì la voce di Watson da sopra la sua spalla sinistra.
“L’ho appena fatto” pensò Sherlock.
“Tutta la verità” insisté John.
“Molly, io so che è tua responsabilità riferire l’accaduto agli psicologi al primo colloquio disponibile e non ti chiedo di mentire, voglio solo che tu sappia che, per quello che vale, sono pulito. Non ne ho fatto uso.” Prese un profondo respiro e aggiunse: “non ho mai fatto uso di nessuna sostanza da quando Rosie ha messo piede in questa casa.”
Dopo quella dichiarazione Molly fece per alzarsi ma la caviglia destra cedette sotto il suo peso e Sherlock fece uno scatto in avanti per sostenerla. L’aiutò a sedersi nuovamente sul letto e prese posto al suo fianco.
Lei non lo ringraziò, aveva la mascella serrata e sembrava stare misurando attentamente le parole da utilizzare.
“Sherlock Holmes, tu sei un bugiardo, pertanto non ti dispiacerà se non mi fido delle tue parole e preferisco controllare di persona.” Poco importava se Sherlock le aveva appena spezzato il cuore, non era certo la prima volta, e lei riusciva ancora a stupirsi di come lui ci riuscisse ogni volta.
“Dille la verità!” Disse John con insistenza, “dille che sono qui, dille che ti sto rovinando la vita, dille che dormi sul divano e che hai rischiato di tornare a farti per causa mia! Sherlock, dico sul serio, lei è un medico, può aiutarti.”
Sherlock era talmente concentrato a valutare il consiglio di John che non si accorse nemmeno che Molly aveva cominciato a sbottonargli la camicia. Teneva gli occhi fissi su di lei, ma lei si guardava bene dall’incrociare il suo sguardo, troppo arrabbiata o probabilmente troppo delusa dal suo comportamento per rivolgergli la parola. Molly gli sfilò la camicia e cominciò ad esaminargli minuziosamente entrambe le braccia senza dire una parola, centimetro dopo centimetro, in cerca anche solo di un tentativo di tornare alle vecchie abitudini.
L’esame alle braccia sembrò soddisfarla perché passò ad esaminargli il petto senza chiedergli il permesso e Sherlock percepì una leggera esitazione nel momento in cui sentì le sue dita sfiorare la cicatrice dello sparo. Ci si soffermò un solo secondo ma a Sherlock sembrò un’eternità e bastò a far riaffiorare tutti i ricordi di quell’episodio, compresa la confessione che Molly aveva fatto al suo capezzale, quando tutti lo credevano ancora in coma, in cui aveva ammesso di amarlo. Aveva confessato di amarlo nonostante la sua arroganza, la sua tossicodipendenza e i suoi capricci, e Sherlock non le aveva mai rivelato di aver sentito ogni singola parola di quella confessione.
“Mi hai salvato la vita” le rivelò.
“I medici del Wellington Hospital ti hanno salvato la vita” replicò Molly in tono piatto, proseguendo l’ispezione.
“Mi riferivo al fatto che eri nel mio palazzo mentale e mi hai… impedito di morire.”
A quelle parole Molly parve paralizzarsi, dopo qualche istante Sherlock la vide sollevare il capo e solo allora aggiunse: “sei stata tu a dirmi cosa fare, come cadere e in che modo affrontare lo shock. La verità è che hai fatto molto di più tu dei medici del Wellington.”
Molly sentì una stretta allo stomaco, la stessa che aveva sentito il giorno in cui Sherlock le aveva raccontato come aveva sconfitto Moriarty e come lei contasse più di tutti gli altri. Si sforzò in tutti i modi di rimanere impassibile ma la verità era che quella confessione la lusingava e ovviamente a Sherlock un dettaglio tanto prezioso non sfuggì.
“Dal momento che sei pulito ti dispiacerebbe spiegarmi cosa ti ha portato a procurarti della cocaina?”
Sherlock sollevò lo sguardo e vide John accanto alla finestra fargli un cenno d’incoraggiamento.
“John Watson” sussurrò Sherlock sentendo ogni singola sillaba di quel nome bruciargli sulle labbra, non pronunciava quel nome ad alta voce da mesi e farlo dopo tanto tempo fu una sorta di liberazione.
Sherlock vide la bocca di Molly incurvarsi in una smorfia nel tentativo di trattenere il pianto, gli occhi le si fecero lucidi e sussurrò: “Sherlock, John è morto”
“È proprio questo il punto” ammise il consulente investigativo che non sapeva da che parte cominciare a spiegare la faccenda senza passare per pazzo.
Molly aveva gli occhi carichi di lacrime, percepiva tutto il dolore e il disagio di Sherlock ma allo stesso tempo lo condivideva perché, in fin dei conti, John era speciale anche per lei ed essere abituata a lavorare a stretto contatto con la morte non ti rendeva certo più facile accettare quella di un amico. Fu sullo slancio di quel momento di fragilità, di quel dolore condiviso e di quegli occhi tristi che Molly accantonò tutta la rabbia che l’aveva pervasa solo qualche minuto prima, le sue mani salirono a cercare viso di lui e un attimo dopo le loro labbra si stavano unendo. Quell’unione inaspettata diede origine ad una serie di baci delicati, timidi, sicuramente molto diversi da quelli della mattinata, e ognuno di essi portava con sé il sapore delle parole mai dette, delle litigate passate e di tutto ciò che sembravano non essere mai stati in grado di dirsi in un’altra maniera.
All’ennesimo bacio Molly sentì le lacrime scorrerle lungo entrambe le guance e si disse che nulla aveva più importanza. Non importava se Sherlock non l’amava, non le importava nemmeno se l’aveva presa in giro o se l’aveva usata in più di un’occasione, l’unica cosa che contava era che in quel momento avevano stabilito un contatto, un legame sincero privo di bugie o doppi fini. Mai si era sentita più in sintonia con Sherlock del momento in cui, in nome di John, avevano cercato di alleviare l’un l’altra le pene della sua mancanza.
Quella consapevolezza le rese felice, e si sorprese a sorridere nel momento il cui il nodo ormai lento dell’asciugamano che l’avvolgeva cedette sotto il tocco non troppo convinto di Sherlock.
Poco importava se la porta dell’appartamento era aperta e la signora Hudson sarebbe potuta entrare con Rosie da un momento all’altro, o se un cliente avesse potuto citofonare insistentemente, perché difficilmente si sarebbero trovati di nuovo in una situazione simile e, a dirla tutta, nessuno dei due sapeva spiegarsi come fossero arrivati a tanto.
Quando Molly scostò le lenzuola in attesa che lui facesse lo stesso, Sherlock ne approfittò per voltarsi in cerca di John, come se cercasse un incoraggiamento o una semplice approvazione, ma non lo trovò. Il fatto che fosse sparito proprio in un momento come quello la diceva lunga su ciò che pensasse a riguardo: li aveva lasciati soli, perché John, che con i sentimenti era molto più pratico di lui, aveva fiutato da tempo quello che il più brillante degli investigatori non aveva ancora capito e aveva guadagnato l’uscita al momento opportuno, come se volesse a tutti gli effetti concedergli la privacy che meritavano.
“Sherlock” sussurrò Molly sotto di lui, tremendamente spaventata all’idea che quel momento magico e inspiegabile svanisse, “è tutto ok?”
Sherlock non rispose, perché lui che aveva sempre una risposta ad ogni enigma e una soluzione logica ad ogni problema, questa volta una risposta non ce l’aveva. Non c’era nulla di sensato in ciò che stava accadendo, stava per fare sesso con Molly e non sapeva spiegarsi il perché ne sentisse l’esigenza, e lui detestava non capire qualcosa. Quell’esitazione convinse Molly a prendere l’iniziativa, lo conosceva abbastanza bene da sapere che stava cercando una spiegazione ad ogni cosa, il suo cervello era una macchina infallibile che non si spegneva mai e mai come in quel momento era fondamentale che sopprimesse il suo lato razionale e lasciasse spazio a quello emotivo che, Molly era più che convinta esistesse ma fosse ben nascosto.
Gli circondò il collo con entrambe le braccia e fece aderire i loro corpi come non era mai successo prima e come difficilmente sarebbe successo ancora. Sherlock reagì a quel contatto smettendo di farsi domande, smettendo di cercare John e di chiedersi cosa sarebbe successo a Rosie quando gli psicologi avrebbero saputo del suo passato da tossicodipendente. Un tuono improvviso illuminò a giorno la stanza e Molly si strinse a Sherlock per lo spavento, poi la pioggia cominciò a battere insistentemente sui vetri delle finestre e fu un bene perché la signora Hudson non sentì nulla di quanto stava avvenendo proprio sopra la sua cucina.

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Capitolo 6
*** Reazione ***


Angolo dell'autrice: Ciao a tutti! Questo capitolo è stato in sospeso a lungo, molto a lungo, e non solo perchè la sua stesura mi ha messo a dura prova ma anche perchè vengo da un periodo che mi ha visto impegnata su mille altre cose. Sappiate solo che la mia volontà è quella di concludere questa storia come si deve, quindi non pubblicherò mai capitoli di cui non sono convinta solo per aggiornare in tempi decenti la storia, perciò scusatemi se ci ho messo tanto ma almeno se oggi leggerete questo capitolo avrete la certezza che io sono convinta di quello che ho scritto, di come l'ho scritto e di come ho scelto di far proseguire la storia. Come al solito la mia opinione conta solo fino ad un certo punto quindi non vi resta che lanciarvi nella lettura del capitolo per poi farmi sapere cosa ne pensate. A voi i commenti e grazie infinite se dimostrerete di avere ancora voglia di leggere questa storia. :-)




 
6- REAZIONE
 
 
“Sa perché si trova qui Signor Holmes?”
Sherlock levò lo sguardo sull’uomo che aveva posto la domanda. Era un uomo alto e dinoccolato con un incipit di calvizie che, era evidente, cercava di compensare con la cura maniacale per i folti baffi scuri. Sedeva su una poltrona di velluto verde scuro che aveva l’aria di essere molto comoda, nonostante le gambe in noce fossero state indebolite dall’azione dei tarli che sembravano aver agito indisturbati per innumerevoli anni.
“Signor Holmes le sarei grato se lei si decidesse ad essere più collaborativo.” Aggiunse l’uomo interrompendo bruscamente il flusso di deduzioni del consulente investigativo. “Quindi la prego, si sforzi di rispondere alle domande; sa perché si trova qui?”
Certo che lo sapeva. C’era una nuova stanza nel suo palazzo mentale da quando Rosie era entrata a far parte della sua vita, una stanza in cui aveva rinchiuso tutte le preoccupazioni legati alla sua adozione, e appeso al muro di quella stanza c’era un calendario, un calendario con delle X rosse che rappresentavano i colloqui con gli psicologi che lui viveva come una vera e propria tortura.
“L’adozione di Rosie mi obbliga a prendere parte a queste sedute quindi eccomi qua.” Fece Sherlock accontentando lo psicologo esattamente come si fa dando lo zuccherino ad un cavallo.
“Molto bene.” Annuì l’uomo prendendo il suo blocco di appunti ed estraendo una Mont-blanc dal taschino. “Parliamo del quotidiano, la convivenza con la signorina Hooper si protrae ormai da qualche mese, ho bisogno che lei mi racconti come vanno le cose.”
“Quali cose?”
“Mi parli delle vostre giornate, del tempo che trascorrete insieme.”
 
 
Sherlock aprì gli occhi infastidito dal suono del suo cellulare che vibrava rumorosamente sul comodino. Ci mise un attimo a rendersi conto che quella che le dormiva accanto era Molly e che quanto era appena accaduto avrebbe costituito sicuramente un grosso problema nei giorni a venire. Lanciò un’occhiata allo schermo dello smartphone, era Lestrade ma dato che si limitava a chiamarlo non doveva trattarsi di nulla per cui valesse la pena rispondere. Per le cose realmente importanti l’ispettore era solito chiamare un taxi e fiondarsi in Baker street senza nemmeno assicurarsi che lui fosse in casa e, dal momento che l’avrebbe colto in una situazione piuttosto compromettente, per una volta Sherlock fu felice che il caso di Lestrade non fosse degno di nota.
La vibrazione del telefono cessò improvvisamente e Sherlock approfittò del fatto che Molly non si fosse svegliata per rivestirsi e sgattaiolare in cucina a piedi nudi, avvolto nella sua vestaglia preferita.
L’orologio accanto al frigo segnava le cinque e, da buon inglese, Sherlock mise su l’acqua per il tè.
“Non ci posso credere” disse l’inconfondibile voce di John Watson rompendo il silenzio che regnava in Baker Street, facendo trasalire Sherlock che levò lo sguardo e lo vide appoggiato alla porta che dava sul salotto. Aveva un’espressione incredula stampata in volto, ma i suoi occhi celavano un velo d’orgoglio, come se gli ultimi avvenimenti fossero almeno in parte merito suo.
“Sta zitto” Brontolò Sherlock tornando a concentrarsi sulla teiera.
“Hai fatto sesso con Molly Hooper, non posso stare zitto!” Replicò John ancora incredulo.
“E tu come lo sai? Hai lasciato la camera se non ricordo male” replicò Sherlock ben deciso a nascondere il più possibile l’evidenza.
“Non sempre è necessario assistere per comprendere quello che è avvenuto in una… scena del crimine” ironizzò John ben contento di aver parafrasato i suoi pensieri con termini che a Sherlock sarebbero risultati familiari, “me l’ha insegnato uno degli investigatori migliori di Londra” aggiunse con un sorrisetto compiaciuto.
“Vorrai dire il migliore” lo corresse Sherlock versando il tè nella prima tazza che gli capitò sottomano.
“È con il mio amico Sherlock Holmes che sto parlando o con il suo ego?” s’informò John in tono fintamente sorpreso.
“Tecnicamente sono io che sto parlando da solo” osservò Sherlock spostando lo sguardo da John alla tazza di tè.
“No, no, non ci provare sai?” intervenne John deciso a richiamare l’attenzione, “so cosa stai cercando di fare!”
Sherlock levò nuovamente lo sguardo sull’amico e lo fissò con finta ingenuità.
“Stai evitando l’argomento! Stavamo parlando di te e Molly!” gli ricordò John ben deciso a non cascare nel suo tranello.
“Tè infatti!” fece Sherlock levando la tazza fumante come per brindare  a John, “ora che ci penso potrei apportargli una miglioria…” disse alzandosi in cerca di qualcosa.
“No, no, non quel tè, intendevo te, Sherlock, e Molly…”
“Non c’è nessun me e Molly” precisò Sherlock lanciando a John un’occhiata glaciale.
“Sì ma… potrebbe esserci” gli fece notare John un attimo prima di vederlo estrarre trionfante una bottiglia di Gin dalla dispensa. “Cosa stai facendo?” domandò allarmato.
“Correggo il tè” spiegò Sherlock versando il fondo della bottiglia nella sua tazza.
“Con il Gin?”
“Hai suggerimenti migliori?”
John non fece in tempo a rispondere perché dei rumori provenienti dalla camera da letto catturarono l’attenzione di entrambi e un attimo dopo Molly mise piede timidamente in cucina zoppicando nel modo più silenzioso possibile. Sherlock abbassò lo sguardo sulla sua tazza di tè pur di non incrociare il suo, anche se percepì ugualmente tutto il suo imbarazzo. Lei non disse una parola e lui si guardò bene dall’aprir bocca, ciononostante non riuscì a fare a meno di osservarla con la coda dell’occhio; si era vestita e i capelli ancora un po’ umidi erano sciolti e spettinati. La vide entrare in bagno a riporre l’asciugamano e subito dopo il rumore del phon invase l’appartamento.
“Sherlock” Sibilò John, ma lui lo ignorò, troppo concentrato sulla sua tazza di tè e sul tintinnio che il cucchiaino produceva sfiorando i margini della tazza per dargli retta.
“Sherlock” lo chiamò nuovamente John sperando di catturare la sua attenzione, “dovresti dire qualcosa”
“Sai che non ne sono capace” sussurrò Sherlock stupito all’idea che il fantasma del suo migliore amico si aspettasse realmente una cosa tanto assurda.
“Non fai altro che blaterare perché vuoi sempre avere l’ultima parola e quando occorre realmente che tu dica qualcosa dichiari di non essere in grado di farlo?” sbottò John proprio nel momento in cui Molly uscì dal bagno intenta a spazzolarsi i capelli.
“Sherlock” esalò Molly in un sussurro quasi impercettibile quando i loro sguardi non poterono fare a meno di incrociarsi.
“Ho fatto il tè” dichiarò Sherlock preso alla sprovvista dalla sua comparsa.
“Sì…” fece Molly timidamente, “lo vedo”
Sherlock riordinò i pensieri e si rese conto di aver specificato l’ovvio, così tentò di rimediare: “intendevo dire… ne vuoi un po’?”
“Perché no” rispose Molly che cominciava a pensare che offrirle una tazza di tè fosse uno dei pochi modi in cui Sherlock tentava di essere carino con lei.
Sherlock versò una seconda tazza di tè e Molly gli sedette accanto in attesa che raggiungesse una temperatura accettabile senza saper bene cosa dire. Il consulente investigativo fissava il muro di fronte e Molly si ritrovò a fare la stessa cosa senza capirne il motivo.
 
 
“Nel corso di questi mesi, pensa che il rapporto tra lei e la signorina Hooper abbia subito un cambiamento?”
“È venuta a vivere nel mio appartamento, è evidente che c’è stato un cambiamento.” Fece Sherlock infastidito da una domanda tanto stupida.
“Si sentirebbe più a suo agio se parlassi di evoluzione?”
“Come lei ben sa, non sono per niente a mio agio nel corso di queste sedute, sono qui solo per dovere, quindi usi pure i termini che preferisce, per me non fa alcuna differenza” Rispose il consulente investigativo con tono imbronciato.
“Pensa che l’evoluzione del vostro rapporto abbia in qualche modo giovato alla bambina?”
“La bambina?”
“Sì, la piccola Rosie, queste sedute sono pensate per garantirne il benessere e la crescita all’interno di un ambiente il più possibile simile a una famiglia, ricorda?”
“Ricordo”
“Ma quella di oggi è una seduta individuale, pertanto è su di lei che dobbiamo concentrarci e se preferisce parlare del suo rapporto con la signorina Hooper sarei lieto di ascoltarla.”
“Per quale ragione dovrei preferire parlare di Molly?” Sbottò Sherlock che cominciava a spazientirsi.
“Me lo dica lei”
“Io non ho niente da dire”
“Ne è proprio sicuro?”
Sherlock fissò il terapista e quello rincarò la dose: “C’è stato qualche avvenimento particolare di cui sente il bisogno di parlare?”
Messo alle strette, il consulente investigativo rimase in silenzio.
“Signor Holmes, capisco che le sia estremamente difficile riconoscere che qualcuno possa essere bravo nel suo lavoro esattamente quanto lei lo è nel suo, ma penso che sia ora di scoprire le carte e di parlare da uomo a uomo, quindi ora le porgerò nuovamente la domanda, e gradirei che lei mi rispondesse sinceramente.”
Sherlock sostenne lo sguardo dell’uomo sapendo di essere giunto al capolinea. Adesso tutto era evidente, chiaro come alla luce del sole.
Lo psicologo aveva capito tutto soltanto guardandoli arrivare insieme, leggendo i loro sguardi, decifrando i loro gesti. E a distruggere tutti gli sforzi di quei mesi, tutti i sacrifici che si era visto costretto a fare in quelle settimane per non deludere John e Mary erano bastati quindici minuti con Molly in balia dei sentimenti. Maledetti sentimenti. Per l’ennesima volta aveva ottenuto la prova che erano un difetto chimico della parte che perde.* Solo che a perdere tutto questa volta era lui. Sottrarsi a quel colloquio era impossibile per questioni legali, evitare di rispondere alle domande avrebbe solo rimandato un verdetto che era inevitabile e inoltre avrebbe fatto alterare ancora di più lo psicologo che già sembrava sul punto di voler cambiare professione ogni volta che leggeva Holmes sull’agenda. Era in trappola.
Nel silenzio dello studio, la voce dell’uomo rimbombò forte e chiara:
“In che modo è cambiato il suo rapporto con la signorina Hooper?”
 
 
“Dobbiamo proprio parlare di quello che è accaduto?” s’informò Sherlock rompendo il silenzio che regnava da cinque minuti buoni nella stanza senza staccare minimamente lo sguardo dalle piastrelle del muro che aveva davanti e che mai lo avevano affascinato così tanto prima di allora.
Dall’altra parte della cucina John nascose il volto tra le mani per la disperazione, non era sicuro di voler sentire il proseguimento di quella conversazione.
Molly rinsavì, sorpresa da una domanda tanto diretta ma che allo stesso tempo confermava che quanto era successo non era frutto della sua immaginazione ma era la realtà.
“Io penso di sì” ammise cercandolo con lo sguardo ma senza riuscire a stabilire un contatto visivo. Agli occhi di Sherlock il muro sembrava ancora molto più interessante di lei.
Messo alle strette dalla risposta della patologa, Sherlock prese un profondo respiro poi trovò finalmente il coraggio di voltarsi verso Molly. “Ok, so che sei sconvolta da quello che è successo e ti stai domandando come sia possibile ma… il fatto è che…” il detective fece una pausa in cui si premurò di cercare le parole che meglio spiegassero la sua situazione e dopo un’attenta valutazione di quattro o cinque possibilità si limitò a dire: “ogni tanto capita, molto di rado in effetti, ma capita.”
Molly sgranò gli occhi e John, che era rimasto col fiato sospeso per tutto il lunghissimo tempo che Sherlock aveva impiegato per concludere quella frase, scrollò le spalle e scosse il capo con aria affranta.
“Ogni tanto capita?” ripeté lei incerta.
“Sì” fece Sherlock un po’ stranito, “è quello che ho detto, non pianifico mai qualcosa d’inutile, solo superficialmente appagante e terribilmente coinvolgente come il sesso, capita e basta, preferirei di gran lunga che non capitasse ma… purtroppo nessuno è perfetto.”
“Sherlock” lo riprese John, facendo vagare lo sguardo fuori dalla finestra, le mani nei capelli.
Molly fissò il detective attonita. C’era solo una cosa più improbabile del fare sesso con Sherlock: parlare di sesso con Sherlock, e la semplicità con cui lui stesso aveva ammesso di dedicarsi saltuariamente a quell’attività l’aveva lasciata letteralmente senza parole.
Sforzandosi di non dare peso alle ultime dichiarazioni del consulente investigativo Molly radunò tutto il coraggio che riuscì a trovare e, cogliendo alla sprovvista Sherlock ma soprattutto se stessa, dichiarò: “Sherlock, c’è una cosa che devo dirti.”
Il consulente investigativo ricorse a tutto il suo autocontrollo pur di non far trasparire minimamente quanto quell’affermazione lo spaventasse. Sapeva bene che Molly stava per esternare tutti i suoi sentimenti e nonostante la sua mente brillante non trovò nessuna scappatoia, nessuna scusa, nessun modo per impedirle di parlare. Così, mentre il senso di disagio lo opprimeva, Molly si lanciò in una coraggiosa confessione.
“Quel giorno, nell’ufficio di Norringhton, non ho solo scelto di occuparmi di Rosie.” Spiegò la patologa pronunciando ogni parola con estrema fatica, come se quella confessione le pesasse enormemente. “Ho anche fatto una promessa a me stessa, quella di reprimere per sempre i sentimenti che da tempo nutro nei tuoi confronti, e l’ho fatto per amore di Rosie, per potermi dedicare a lei al cento per cento e assicurarmi che non risenta mai di quello che una nostra possibile relazione comporterebbe.”
Sherlock ascoltò le parole di Molly nel silenzio più assoluto, chiara e concisa come sempre era riuscita con poche parole a liberarlo del peso di quanto era accaduto poco prima. Il nodo che aveva allo stomaco cominciò a sciogliersi proprio nel momento in cui John si voltava con espressione attonita esclamando un “come sarebbe?” che si perse nel vuoto perché il suo migliore amico era troppo concentrato sulle parole di Molly per dargli retta.
“Sherlock è bene che tu sappia che una possibile relazione tra noi ci costerebbe l’affidamento di Rosie!” Spiegò la patologa in tono preoccupato. “Quello che è successo tra noi è…” Molly fece una pausa e poi con estremo sforzo riuscì a dire: “sbagliato, è sbagliato Sherlock, non sarebbe mai dovuto accadere. Per colpa delle nostre debolezze Rosie potrebbe finire in un orfanotrofio e questo non me lo perdonerei mai!”
“Tutto questo non ha nessun senso!” Protestò John sbracciandosi dall’altra parte della cucina.
Sherlock avrebbe tanto voluto rispondergli e comunicargli tutta la sua approvazione in merito alla saggia decisione di Molly, ma lanciarsi in un dialogo con un fantasma in sua presenta non gli sembrò la scelta più opportuna.
“Possiamo fingere che quanto è accaduto poco fa non sia mai successo, apprezzo la tua scelta di reprimere i sentimenti, dopotutto conosci il mio pensiero in merito, ma quando sapranno che sono tornato alle vecchie abitudini ci toglieranno la custodia di Rosie comunque.” Le fece notare Sherlock sentendosi più colpevole che mai.
“Sei pulito, prima ho controllato più che bene.” Dichiarò Molly con convinzione.
“Lo so, mi riferivo al fatto che acquistando delle dosi sono stato vicino al ricaderci.” Ammise lui.
“Non so di cosa tu stia parlando”
Sherlock levò il capo e fissò Molly con estrema attenzione. Eccola la sua Molly, quella che era disposta a tutto per proteggerlo, quella che avrebbe mentito fino alla morte pur di aiutarlo, quella che in più di un’occasione gli aveva salvato la vita.
“Perché lo fai?” chiese Sherlock nonostante conoscesse più che bene la risposta. In realtà era evidente, lo era sempre stato, ma lui provava una sensazione di estremo piacere nel sentire qualcuno confessare quello che lui già sapeva. Il fatto è che davanti a lui c’era Molly e non un qualsiasi criminale di quelli che era solito incastrare, e lei era una delle poche persone al mondo capace di stupirlo e non mancò di farlo anche in quell’occasione.
“Non lo faccio per te” precisò lei come se avesse udito perfettamente i suoi pensieri, “lo faccio per il bene di Rosie, perché avevi ragione…” fece una pausa che lasciò col fiato sospeso sia Sherlock che John e solo dopo qualche secondo specificò: “sono sterile, e lei è la cosa più vicina ad un figlio che io possa sperare di avere.”
Sherlock rimase in silenzio, non era certo la prima volta che una delle sue deduzioni feriva qualcuno, ma quando quella parte toccava a Molly Sherlock si sentiva sempre a disagio, questa volta, vista la delicatezza dell’argomento si sentì peggio del solito.
“Mi dispiace” fece sapere in un sussurro senza riuscire a sostenere il suo sguardo.
“Hai solo fatto il tuo lavoro, e come sempre l’hai fatto bene… non ti sfugge mai niente.”
“Si ma, quando si tratta di cose così personali vorrei riuscire a fermarmi prima che sia troppo tardi.” Confessò Sherlock.
“Tu hai capito che io sono sterile e io ho scoperto che fai sesso quando capita, mi sembra che siamo pari. Sono due informazioni piuttosto personali in effetti, ma se dobbiamo proseguire questo gioco della famiglia è giusto conoscersi di più, non credi?” Molly disse quest’ultima frase sforzandosi di ridere, di trovare il lato positivo del casino in cui si erano cacciati e Sherlock le sorrise affettuosamente di rimando. Poi la strinse in un abbraccio e le posò un bacio sulla fronte, solo dopo qualche istante Molly prese le distanze e facendosi nuovamente seria disse: “Sherlock Holmes, sei il peggiore dei ruffiani, e non basterà questa tua rara manifestazione di umanità a farti saltare l’appuntamento con gli psicologi di domani.”
Sherlock sbiancò improvvisamente, era veramente già passato un mese da quando ci erano stati l’ultima volta?
“È bello vedere che fai uso dell’agenda che ti ho regalato!” Lo prese in giro Molly tornando verso la camera zoppicando.
Sherlock non fece in tempo a dire nulla perché in quel momento qualcuno bussò alla porta della cucina.
“Chi è?” borbottò Sherlock preso alla sprovvista.
“La sua padrona di casa” rispose la voce ovattata della signora Hudson.
“E lei da quando bussa? Di solito entra senza farsi troppi problemi” osservò Sherlock distrattamente, ancora troppo impegnato a pensare a cosa raccontare l’indomani al terapista per preoccuparsi dell’anomalo comportamento della padrona di casa.
 
 
“Abbiamo fatto sesso” ammise Sherlock con voce ferma e chiara. Era l’inizio della fine. Con sua grande sorpresa lo psicologo non batté ciglio. Dopotutto non gli stava dicendo nulla che già non avesse capito, quindi perché avrebbe dovuto reagire diversamente?
“Ha voglia di parlarmene?” disse con voce piatta scarabocchiando qualcosa sul suo taccuino.
“No”
“Domando scusa, ho sbagliato io a porre la domanda” disse con estrema pacatezza lo psicologo sistemandosi gli occhiali sulla punta del naso, “mi parli del sesso con la signorina Hooper”
Sherlock sgranò gli occhi. “Come scusi?”
“La ritiene una domanda inopportuna?”
“Si, decisamente”
“Non le sto chiedendo di entrare nei particolari, trovi un semplice aggettivo per descrivere il sesso con Molly Hooper”
“Imprevisto” lo accontentò Sherlock con aria strafottente e una gran voglia di lasciare una volta per tutte quel maledetto studio.

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Capitolo 7
*** In memoriam ***


Angolo dell'autrice: Ciao a tutti! Eccomi con l'aggiornamento della storia, in tempi decisamente più umani rispetto al precendete. Vi prometto che cercherò di mantenere questo ritmo anche perchè siamo alle battute finali e l'attesa rischia di essere più insopportabile del solito, me ne rendo conto. Spero che questo capitolo fornisca almeno alcune delle risposte che stavate aspettando, se non altro posso dire di aver inserito qualche indizio nel capitolo, a voi il compito d'identificarli :-)
Come sempre il giudizio che conta è il vostro quindi se avete voglia e tempo lasciate un commento e ditemi cosa ne pensate! Non mi resta che lasciarvi alla lettura del capitolo.
A presto e grazie mille a tutti voi che seguite la storia.

 



7- IN MEMORIAM
 
Sherlock procedeva a passo lento lungo il viale principale del cimitero di Highgate sfidando il gelido vento londinese che da qualche ora soffiava insistentemente sulla città sferzando le cime dei cipressi come fossero di carta. Aveva abbandonato lo studio dello psicologo certo del fatto che non avrebbe più dovuto metterci piede e non si era nemmeno preoccupato di aspettare che Molly terminasse la sua seduta; era salito su un taxi e aveva chiesto all’autista di condurlo fin lì evitando ogni tentativo di fare conversazione. Dopo tanto parlare, il silenzio era l’unica terapia veramente efficace.
Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare Molly e tutta la sua rabbia, e la cosa peggiore era la consapevolezza che quanto era accaduto tra loro fosse stato esclusivamente colpa sua. Molly aveva rinunciato ai sentimenti che provava per lui, l’aveva detto chiaramente. Aveva archiviato tutto, aveva sacrificato se stessa per Rosie e per John e Mary, esattamente quello che lui non era stato capace di fare. Il giorno del loro matrimonio aveva giurato che li avrebbe protetti tutti e tre e invece aveva lasciato che Mary e John morissero uno dopo l’altro entrambi a causa sua, e presto anche l’unica creatura che gli era rimasta da accudire per mantenere fede a quella promessa gli sarebbe stata portata via. Tutto perché non era stato in grado di resistere al richiamo della cocaina e pur di nasconderlo aveva sfruttato il debole che Molly nutriva da sempre nei suoi confronti. Era stato un colpo basso, doveva riconoscerlo, inflitto alla persona che meno se lo meritava. Aveva ragione Mycroft, per quanto gli scocciasse ammetterlo aveva sempre ragione Mycroft, era un tossico, e come tale era inaffidabile, anche se suo fratello era stato il primo a nascondere tutte le sue malefatte affinché potesse ottenere l’affidamento della bambina. Nella più probabile delle ipotesi aveva sperato che quella paternità inaspettata potesse trasformarlo tirando fuori la parte migliore di lui, una metamorfosi indotta che lui non era riuscito a compiere. Sarebbe stata l’ennesima delusione che Mycroft avrebbe potuto appuntare sul suo taccuino.
Fino a qualche mese prima, camminare lungo quel viale alberato era parte della sua quotidianità. Faceva visita a quel luogo ogni martedì perché la sorte aveva voluto che fosse un martedì il giorno in cui John Watson era entrato a far parte della sua vita e, allo stesso modo, era stato un cupo martedì di settembre a portarglielo via, ma, da quando aveva accettato l’affidamento di Rosie, non aveva più messo piede in quel cimitero e ora tornarci in un inutile giovedì di fine marzo gli sembrava la più titanica delle imprese. Ogni passo gli costava estrema fatica, come se una forza sconosciuta lo rallentasse con intensità crescente e più di una volta Sherlock fu sul punto di voltarsi e tornare da dove era venuto. Resistette per l’ennesima volta a quell’impulso e quando giunse ad un bivio svoltò a destra imboccando uno stretto sentiero che conduceva al campo numero 34, quello dedicato ai militari e agli eroi di guerra, situato nell’area ovest del cimitero. Il richiamo delle cornacchie echeggiava nel vento e il suono della ghiaia che scricchiolava sotto i suoi passi lo accompagnò in quella triste passeggiata solitaria finché giunse a destinazione.
Davanti a lui si ergeva una lapide di marmo chiaro, di fattura nettamente più recente rispetto a quelle che la circondavano, non ci voleva certo un consulente investigativo di fama internazionale per capirlo. Ai piedi della lapide c’era la prova che, a differenza sua, la signora Hudson non aveva abbandonato l’abitudine di andare a trovare il suo vecchio inquilino regolarmente; i fiori freschi e colorati che gli aveva portato erano lì per ricordarglielo. Sherlock teneva gli occhi bassi, si sentiva più a suo agio fissando quel mazzo di fiori piuttosto che la lapide, perché qualsiasi cosa era meglio che guardare il nome inciso nel marmo, lo stesso nome che per tanti anni era stato affiancato al suo, anche se in quel caso c’era una H di troppo che, era certo, John non avrebbe approvato. Pronunciare o anche solo leggere quel nome faceva ancora troppo male.
Sherlock tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca interna del cappotto e con la punta delle dita sfiorò i filtri allineati in un gesto che lasciava intuire per quanto tempo le avesse bramate, ne scelse una e solo dopo essersi beato dell’odore di tabacco che la sigaretta emanava si decise ad accenderla. Inspirò profondamente rendendosi conto che anche su questo suo fratello aveva sempre avuto ragione, i momenti in cui soffriva di più erano quelli che lui era solito definire “a rischio”, solo che questa volta non c’era nessuno a vegliare su di lui, non c’era nessuno che potesse impedirgli di fare qualche sciocchezza, e in fin dei conti, viste le sue passate abitudini, il fatto che avesse ricominciato a fumare era il minore dei mali.
In piedi davanti a quella lapide, nel silenzio del cimitero in cui anche solo il soffio sommesso del vento sembrava spaventoso, Sherlock interrogò se stesso. Cosa ci faceva lì? Era solo un vano tentativo di sfuggire alle sue responsabilità e di rimandare all’ultimo il confronto con Molly oppure era lì per un altro motivo?
 “Ho fallito John” confessò Sherlock in un sussurro facendo un secondo tiro dalla sigaretta, “non sono stato all’altezza del compito che mi hai affidato, come sempre mi hai giudicato una persona migliore di quella che effettivamente sono.”
 
Le fiamme divampavano incontrollabili illuminando a giorno la strada di campagna in cui si era consumato l’incidente. Sherlock si trovava a poche miglia di distanza ma la colonna di fumo che si propagava dall’auto in fiamme era ben visibile e non lasciava spazio ad interpretazioni alternative. Qualcosa era andato storto. Eppure il suo piano era perfetto, studiato e dettagliato come al solito, non c’era un solo imprevisto che non fosse stato preso in considerazione ed era certo che fiamme ed esplosioni non fossero mai state contemplate.
Sherlock cominciò a correre verso il luogo dell’incidente nonostante il piano prevedesse tutt’altro. Al diavolo il piano, John era in pericolo.
“Sherlock” disse una voce ovattata di cui era impossibile individuare la provenienza. Si sforzò d’ignorarla e proseguì la sua corsa liberandosi della sciarpa e del suo amato cappotto, mentre una rumorosa esplosione seguita dall’inconfondibile suono delle sirene e dal brusio degli elicotteri lo obbligava a proteggersi le orecchie con le mani.
Doveva raggiungere quella macchina prima che fosse troppo tardi. Si avvicinò al veicolo nonostante le fiamme e la temperatura insopportabile, non aveva visto nessuno allontanarsi dall’auto, quindi John doveva essere ancora lì dentro.
Giunto in prossimità del veicolo studiò attentamente la situazione in cerca di un passaggio, di un singolo spiraglio che il fuoco non avesse ancora invaso ma la temperatura continuava a salire e il panico aumentava e fu così che Sherlock perse tutta la sua razionalità e finì per agire d’istinto. Sentiva la pelle bruciare in modo insopportabile ma il dolore fisico non bastò a fermarlo. Se c’era anche solo una possibilità che John fosse vivo era fondamentale che lui tentasse di salvarlo.
“Sherlock” ripeté con insistenza la voce che aveva già udito in precedenza e questa volta il consulente investigativo ebbe come la sensazione che qualcuno lo strattonasse per un braccio.
 
“Sherlock cosa hai preso?” domandò l’inconfondibile voce di Molly mentre lui apriva gli occhi di scatto e prendeva fiato come se non respirasse da parecchi minuti.
“Sherlock ti senti bene?” Molly era in ginocchio a lato del divano e sembrava molto preoccupata.
Il consulente investigativo annaspò ancora per qualche secondo poi si riprese e fece vagare lo sguardo per la stanza ancora intontito dal brusco risveglio mentre Molly gli posava due dita sul polso destro per prendergli le pulsazioni.
L’orologio sopra la porta segnava le cinque del mattino e Sherlock capì che il suo sonno tormentato da incubi misti ai peggiori ricordi doveva aver destato Molly improvvisamente.
“Non ho preso nulla” dichiarò Sherlock mettendosi a sedere sottraendo a Molly il polso con un gesto brusco.
“È per questo che oggi te ne sei andato senza aspettarmi e sei rientrato a tarda notte? Dovevi vedere Wiggins o qualche altro tossico per fare rifornimento?”
“Non ho preso nulla ho detto” brontolò Sherlock ancora turbato da quell’incubo che sembrava tanto reale. L’ultima cosa che voleva era gettarsi a capofitto nell’ennesima discussione con lei.
“Hai le pupille dilatate, sei sudato e hai la tachicardia!” Latrò Molly senza preoccuparsi minimante dell’orario e del fatto che probabilmente il suo tono di voce avrebbe svegliato tutto il vicinato.
“Ho avuto un incubo!” sbottò Sherlock nonostante si vergognasse ad ammetterlo.
“Un incubo?” domandò Molly incerta, come se non concepisse il fatto che a Sherlock potesse accadere una cosa tanto umana come fare un brutto sogno. “E poi perché stavi dormendo sul divano?” aggiunse ancora non del tutto convinta che Sherlock stesse dicendo la verità.
“Perché dormo sul divano da quando tu e Rosie vi siete impossessate di camera mia” ammise Sherlock stufo di nasconderlo.
Molly si ritrasse leggermente e fissò Sherlock incredula, possibile che lui avesse veramente dormito per tutti quei mesi sul divano e lei non se ne fosse accorta?
“Di cosa stai parlando?” domandò dubbiosa.
Sherlock incrociò il suo sguardo e Molly si sentì una perfetta idiota. Lui le aveva appena fatto la più difficile delle confessioni e in risposta lei gli aveva posto la più stupida delle domande. Era evidente; il ricordo di John lo tormentava, continuare a vivere nell’appartamento che avevano condiviso per anni era allo stesso tempo la sua ancora di salvezza e la più crudele delle condanne. Per uno come Sherlock ammettere una cosa simile era la più ardua delle sfide e lei era riuscita a vanificare quell’impresa con un commento tanto stupido.
“Perdonami” sussurrò addolorata. “Io non credevo che… quando ti ho proposto di invertirci le stanze non ho minimamente pensato che per te fosse così doloroso.” Molly si lasciò andare ad un singhiozzo. Non si era mai sentita così in colpa, per anni aveva accusato Sherlock di essere freddo e insensibile e alla prima occasione era stata lei a dimostrarsi tale.
“Non piangere, ti prego.” L’implorò lui ancora piuttosto provato da quel risveglio.
“Perché non me l’hai detto prima?” chiese Molly sforzandosi di trattenere le lacrime come lui le aveva richiesto.
“Mi conosci abbastanza da non aver bisogno di una risposta” tagliò corto lui.
“Potrei aver svegliato la signora Hudson, forse è meglio che andiamo di là.”
“Tranquilla, la signora Hudson sa che dormo qui, non le ci è voluto molto per dedurlo, affittare l’appartamento ad un detective deve aver affinato il suo intuito.” Commentò Sherlock alzandosi dal divano e allungando la schiena nel tentativo di trovare sollievo a tutti i dolori che il dormire sul divano gli comportava.
“Sherlock mi dispiace” disse Molly mortificata, “vai a riposarti come si deve almeno qualche ora” aggiunse facendo un cenno verso la camera da letto.
“Non ho più sonno” mentì il detective terrorizzato all’idea di rivedere in sogno le stesse immagini che lo avevano risvegliato poco prima, “e poi questa situazione non si protrarrà ancora molto a lungo quindi non è un problema.”
Molly che stava tornando in camera a controllare che il trambusto non avesse svegliato la bambina s’immobilizzò improvvisamente. Le parole di Sherlock l’avevano messa in allerta e il tono affranto e sconfitto con cui le aveva pronunciate non lasciava presagire nulla di buono.
“Cosa?” chiese alle spalle di Sherlock che si era spostato vicino alla finestra del salotto per sbirciare lo scarso movimento della via.
“Sai bene che dopo quanto è successo non passerà molto tempo prima che ci tolgano la custodia di Rosie, sei stata tu stessa a dirlo.”
Molly cominciò ad agitarsi e Sherlock la vide serrare i pugni nel tentativo di mantenere il controllo sforzandosi di continuare la conversazione in modo ragionevole.
“Sherlock nessuno sa quello che è accaduto tra di noi” gli fece notare la patologa in modo obiettivo, “e noi eravamo d’accordo di non parlarne.”
Sherlock esitò un istante, mentre un terribile dubbio s’insinuava prepotentemente nella sua mente. Si voltò verso Molly e le si avvicinò con passi lenti. Possibile che i loro colloqui individuali fossero stati tanto diversi?
“Sherlock” fece di nuovo Molly, questa volta con voce tremante.
“Il Dottor Abrams sapeva già tutto” spiegò il detective con voce calma, nonostante sapesse che la situazione stava per sfuggirgli di mano.
“Sapeva già cosa?” domandò Molly rossa in viso per tutta la rabbia che stava cercando di trattenere. “Sherlock io ti ho coperto, non ho detto nulla della cocaina e tu mi hai tradita così?” Adesso il viso di Molly era ricoperto di lacrime ed era evidente che stesse trattenendo i singhiozzi solo per non svegliare la signora Hudson e la bambina. “Come hai potuto?”
“Molly, il Dottor Abrams aveva capito tutto, gli è bastato vederci insieme per capire che le cose tra noi erano cambiate.”
“Abbiamo solo fatto sesso, tra noi non è cambiato un bel niente, tu sei sempre il solito sociopatico egoista e io la povera stupida che si fa sfruttare da te.” Sputò fuori Molly libera da ogni tipo di freno.
“Ha capito che era successo qualcosa tra noi” si corresse Sherlock cercando di non dare troppo peso alle parole di Molly.
“E tu glielo hai confermato?”
“Si” ammise Sherlock, “cosa avrei dovuto fare?”
“Avresti dovuto mentire, tu menti sempre, sei il re della menzogna e in questo caso hai pensato bene di dire la verità! Io… io non ti capisco, Sherlock, so che non l’avresti fatto per me, ma dovevi farlo per John, per Mary, e invece adesso, per colpa tua, Rosie finirà di nuovo in un orfanotrofio! Ma dopotutto forse era proprio questo che volevi.”
“Non ho mai desiderato che Rosie restasse orfana!” Sbottò Sherlock ferito nel profondo, “Mary e John sono morti a causa mia, dopo che io avevo giurato di proteggerli!”
“John è morto in un incidente d’auto” gli ricordò Molly tentando di essere il più razionale possibile.
“Sì, ma in quell’auto avrei dovuto esserci io” confessò Sherlock stremato.
 
 
“John, Mycroft è stato chiaro” disse Sherlock con il suo tono più calmo, “c’è un’unica possibilità che le cose vadano come speriamo, dobbiamo attenerci al piano.”
“Ed è esattamente quello che farò, prenderò l’auto e guiderò dritto fino al fienile.”
“Io prenderò l’auto” precisò Sherlock, “tu resterai appostato nel punto stabilito fino al mio segnale.
“Non credo proprio” fece John con un sorriso, “chi è l’uomo d’azione tra noi due?”
Sherlock levò un sopracciglio e John s’imbufalì. “Sono io Sherlock! Io sono un soldato! Un militare!”
“Un medico militare” precisò Sherlock mandando John su tutte le furie. “Io sono stato nell’esercito, io sono addestrato per questo genere di cose. Tu sei la mente, tu sei la fottuta mente, e la mente non può andare in prima linea!”
 
 
“Non è colpa tua” dichiarò Molly risvegliandolo dallo stato catatonico in cui era caduto ricordando le loro ultime ore insieme, “John ha fatto la sua scelta, e comunque se non fosse per lui adesso saresti morto tu!”
“Sarebbe stato meglio” disse Sherlock con una convinzione che fece gelare a Molly il sangue nelle vene, “io non ho figli e nessuno avrebbe sentito la mia mancanza, la signora Hudson avrebbe sicuramente un appartamento più ordinato, Mycroft un fratello scapestrato in meno a cui badare, e Lestrade, beh ecco per Lestrade sarebbe un bel problema perché dovrebbe iniziare ad imparare a risolvere qualche caso da solo visto che…” non riuscì a terminare la frase perché la mano di Molly lo colpì così forte che lui sentì il sapore del sangue in bocca, nell’impatto un dente gli aveva ferito la lingua.
“Non ti azzardare mai più a parlare delle persone che ti amano in questo modo!” lo redarguì lei con un tono che raramente Sherlock le aveva sentito usare.
Visto che gli animi non accennavano a placarsi, Rosie pensò bene di dire la sua dalla camera scoppiando in un fragoroso pianto.
Molly non esitò un solo istante, lasciò Sherlock in salotto ancora mezzo tramortito per la violenza dello schiaffo che aveva appena ricevuto e raggiunse la piccola nella speranza di riuscire a calmarla per approfittare delle ultime ore di sonno che le rimanevano. La prese in braccio e cominciò a cullarla mentre dall’altra parte della casa Sherlock imbracciò il violino e cominciò a suonare un’armonia malinconica.
Molly tornò in salotto più adirata di prima, Sherlock sceglieva sempre i momenti peggiori per imbracciare quel maledetto strumento musicale e dopo quanto era appena accaduto non era certo incline a chiudere un occhio.
“Fai sul serio?” domandò sul piede di guerra, “Il più struggente dei brani di Bach alle sei del mattino, mentre io cerco di far riaddormentare Rosie?”
Sherlock si voltò lentamente verso la patologa che lo fissava inviperita cullando la bambina, abbassò violino e archetto e guardò Molly dall’alto del suo metro e ottantacinque. “Primo, non è Bach ma è Beethoven, la Romanza in fa maggiore di Beethoven a voler essere precisi, secondo, non è colpa mia se la piccola Rosie ha un orecchio raffinato e l’animo melodrammatico, sta di fatto che questo è l’unico brano in grado di farla crollare addormentata in meno di tre minuti.”
Così dicendo imbracciò nuovamente lo strumento e riprese a suonare davanti a Molly che non riuscì a controbattere.
Possibile che Sherlock avesse veramente passato in rassegna tutto il suo repertorio di violinista nel tentativo di comprendere i gusti di Rosie per sfruttarli come ninna nanna? In effetti sì, a pensarci bene era una cosa molto da Sherlock e Molly avrebbe pagato oro solo per avere il privilegio di vederli da soli insieme almeno una volta, anche se ora come ora lo stava odiando più di quanto non avesse mai fatto e per colpa sua non sapeva nemmeno per quanti giorni ancora avrebbe potuto stringere Rosie tra le sue braccia.
Il consulente investigativo vibrò l’ultima nota e prima ancora che staccasse l’archetto dalle corde Molly si rese conto che Rosie dormiva profondamente.
“Grazie” sussurrò la patologa, “ma non pensare che questo basti a rimediare a quello che hai fatto” aggiunse mentre tornava in camera con la bambina.
Due ore più tardi, quando la signora Hudson fece il suo ingresso in salotto con il vassoio del tè e qualche biscotto Molly le andò incontro come se non aspettasse altro. Sherlock notò che si era vestita e truccata e sembrava pronta ad uscire. Quando imboccò la porta Sherlock la raggiunse bloccandola a metà delle scale.
“Oggi non sei di turno, dove stai andando?” domandò a bassa voce sperando che la signora Hudson non stesse ascoltando.
“Ho mandato una mail al al Dottor Abrams e gli ho chiesto di ricevermi, se mi sbrigo riuscirò ad essere da lui per le nove” spiegò Molly liberandosi dalla presa del detective, “e comunque smettila di ricordarmi quando sono o non sono di turno, la cosa comincia ad infastidirmi!”
“Cosa hai intenzione di fare?” domandò Sherlock fermo sulle scale mentre Molly indossava il cappotto e si preparava ad uscire.
“Ti basti sapere che farò qualsiasi cosa pur di non perdere l’affidamento di Rosie” dichiarò con convinzione.
 
Sherlock era fermo davanti alla porta del Diogenes club da qualche minuto. Odiava quel posto come poche cose al mondo eppure aveva perso il conto delle volte in cui era stato costretto ad andarci.
Mycroft lo frequentava da sempre e ogni qualvolta lui aveva bisogno di favori, denaro, informazioni top secret o cose simili era costretto a tornarci. Questa volta, a differenza di tutte le altre, non era lì per questioni di lavoro, al momento non c’erano casi da risolvere e Dio solo sapeva quanto ne sentisse la mancanza. Dopo un’ultima riflessione si decise ad abbassare la maniglia della porta d’ingresso e s’insinuò all’interno del club rispettando la regola del silenzio. Avanzò lungo il corridoio principale sbirciando nelle varie sale in cerca del fratello e lo identificò seduto su una poltrona vicino al camino dove era impegnato nella lettura di un quotidiano. Quando si accorse della sua presenza fece un cenno con il capo, ripiegò il giornale nel modo più silenzioso possibile e guidò il fratello fuori dall’edificio.
“Sapevo che saresti venuto” fece sapere il più grande degli Holmes mentre passeggiavano nel parco.
“Non è vero” commentò Sherlock con un ghigno.
Mycroft si fermò di colpo e fissò il fratello con il solito sguardo a metà tra il disprezzo e l’affetto che era solito riservargli.
“Vedo che la convivenza con la dottoressa Hooper comincia a farsi impegnativa” osservò Mycroft notando il rossore sulla guancia sinistra del fratello.
“Ho bisogno di risposte” tagliò corto Sherlock.
Mycroft si accigliò. “Credevo che trovare risposte facesse parte del tuo lavoro” lo schernì.
“Non quando si tratta di cose personali”
Mycroft scoppiò a ridere. “Quindi è di questo che stiamo parlando? I fratelli Holmes che si confrontano su vicende personali, mamma sarebbe molto fiera di noi.”
“Sono serio Mycroft” fece sapere Sherlock. “Ho bisogno di sapere perché hai fatto di tutto affinché io potessi risultare idoneo all’affidamento di Rosie”
Mycroft scrutò Sherlock con attenzione, era preparato a quel momento, sapeva che prima o poi suo fratello si sarebbe fatto delle domande a riguardo.
“Che ti piaccia o no, troverai una risposta a questa domanda molto prima di quanto tu possa immaginare” si limitò a dire con parecchia fatica, nonostante tentò di mascherare il tutto con uno dei suoi sorrisi più tirati. Sherlock non riuscì ad ottenere nessuna risposta  più esaustiva di quella perché il telefono di Mycroft squillò improvvisamente e dopo aver risposto alla chiamata Sherlock vide suo fratello salire al volo su un taxi e sparire nel traffico londinese senza degnarlo di un ultimo sguardo. Dopotutto il governo britannico era sempre stato più importante di lui.
Sherlock vagò per il parco in compagnia dei suoi pensieri ancora per un po’ in cerca delle risposte che Mycroft gli aveva negato.
Il suo comportamento era stato più freddo ed enigmatico del solito e la cosa non fece che peggiorare il suo umore.
Imboccò la strada di casa domandandosi se al suo rientro avrebbe trovato Molly in lacrime, impegnata a fare le valige o più probabilmente pronta ad insultarlo e schiaffeggiarlo ancora un’ultima volta. A pensarci bene sentiva ancora tutte e cinque le dita di Molly bruciare sulla sua guancia sinistra.
Con sua grande sorpresa, una volta tornato in Baker street gli si parò davanti l’ultimo degli scenari che avrebbe potuto immaginarsi. Molly era radiosa, aveva comprato una torta e agghindato Rosie come se fosse un giorno di festa. Sherlock esitò sulla porta della cucina per un lungo istante, il viso contratto in un’espressione perplessa. Era indeciso se fosse il caso far finta di niente e uscire di nuovo o azzardarsi a chiedere spiegazioni.
“Cosa festeggiamo?” balbettò optando per la seconda opzione nonostante non fosse del tutto certo di voler sapere la risposta.

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Capitolo 8
*** Metamorfosi ***


Angolo dell'autrice: che bello tornare a scrivere "angolo dell'autrice", devo ammettere che mi è mancato un sacco e per questo non posso far altro che rimproverare me stessa anche se il tempo trascorso era necessario perchè questo è probabilmente il capitolo più delicato di tutta la storia. Facciamo che per tutto il resto vi scrivo a fine capitolo, così evito spoiler e reisco a spiegarmi meglio. Io intanto vi ringrazio, spero che il capitolo vi piaccia e si capisca cosa avevo in mente fin dall'inizio.





8- METAMORFOSI
 
 
Stando a quanto diceva Molly, il Dottor Abrams e i suoi collaboratori non avevano nulla in contrario in merito a quello che c’era stato tra loro e Sherlock stentava ancora a crederci. Si erano detti addirittura entusiasti dell’avvenimento e, nonostante Molly fosse stata categorica nello spiegare che si era trattato di un errore e che non sarebbe mai più capitato, l’intera equipe di psicologi continuava ad augurarsi che tra loro potesse veramente nascere qualcosa. Sherlock rifletteva ininterrottamente su questo aspetto da più di una settimana, aveva perso l’appetito, il sonno e sicuramente anche buona parte della sua sanità mentale, eppure in tutta questa faccenda c’erano ancora troppe cose che non gli tornavano. Mycroft non rispondeva alle sue telefonate e, sebbene fosse un comportamento che era spesso lui il primo ad adottare, la cosa cominciava a dargli sui nervi.
Aveva bisogno di parlare con suo fratello e non aveva nessuna intenzione di tornare in quello stupido club per sentirsi dire che presto avrebbe avuto le risposte che cercava.
Se non altro da quando Molly aveva capito che nessuno era intenzionato a revocarle l’affidamento della bambina stare in sua compagnia era certamente più gradevole, Sherlock se ne rese conto subito. Quando non era a lavoro portava Rosie al parco e se la pioggia non glielo consentiva si dedicava alla cucina con risultati piuttosto soddisfacenti.
“Ho fatto i biscotti, sono perfetti per il tè delle cinque” annunciò lieta un pomeriggio in cui Sherlock rincasò fradicio e infreddolito.
“Quelli della Signora Hudson sono perfetti per il tè delle cinque” fece lui scettico abbandonando il cappotto zuppo nell’ingresso.
“Sì, ma questi sono nettamente meno calorici” precisò Molly allungando a Sherlock il vassoio nella speranza che lui cedesse alla tentazione di assaggiarne almeno uno, “e sono allo zenzero” aggiunse giocandosi l’asso nella manica.
Sherlock la scrutò sospettosa per un attimo, poi allungo la mano e afferrò tre biscotti. “Questo è un colpo basso” dichiarò, “sai che non so resistere ai biscotti allo zenzero”.
“L’acqua per il tè è già sul fuoco” disse Molly tornando in cucina con aria soddisfatta.
Fu così che Sherlock raggiunse la sua poltrona munito di una scorta di biscotti non indifferente accompagnati da un bicchiere di whiskey, gli ci voleva qualcosa di decisamente più forte del tè delle cinque per dimenticare quella giornata passata a contrattare informazioni e favori con la sua rete di senzatetto nelle zone peggiori di Londra sotto la pioggia battente. Cominciò a smistare la posta in cerca di un nuovo caso, l’ultimo si era rivelato un flop, decisamente insoddisfacente e noioso, tremendamente noioso per la precisione. La verità era che da quando John se n’era andato tutti i casi erano noiosi e fin troppo semplici da risolvere. Sentiva il bisogno di tornare a respirare il brivido della caccia e cominciava a domandarsi se mai sarebbe riuscito a rivivere anche solo per un momento l’adrenalina dei casi di una volta. 
Le emozioni, quelle stupide emozioni che John con il tempo, e una dose non ben definita d’insulti e imprecazioni, era riuscito a insegnargli a riconoscere sembravano essere morte con lui, assopite a tempo indeterminato. 
A riscuotere Sherlock da quel torpore fu un suono insolito che riattivò immediatamente la parte razionale del suo cervello.
Qualcuno aveva appena suonato il campanello, troppo timidamente per essere un cliente e con troppa poca convinzione per essere il postino. Non era nemmeno Lestrade, il suo dito pesante era inconfondibile, e nonostante Sherlock nel suo palazzo mentale avesse un archivio di tutte le tipologie di suoni che il campanello del 221B di Baker street era in grado di produrre, il consulente investigativo non riuscì ad attribuire quella scampanellata a nessuno di noto, e lui aveva molta poca voglia di aprire la porta ad uno sconosciuto. 
Dal momento che l’ignoto visitatore sembrava insistente, Sherlock poggiò con svogliatezza il bicchiere di whiskey sul caminetto e si decise a scendere le scale per aprire la porta perché la signora Hudson, troppo presa dalle sue soap opera del pomeriggio, non sembrava intenzionata a fare gli onori di casa. Giunse alla porta inciampando nella vestaglia e si rassettò gli abiti quanto bastava un attimo prima di aprirla e di roteare gli occhi. Davanti a lui, in piedi sotto la pioggia battente, come sempre privo di ombrello, c’era John Watson. Se non altro questa volta gli era apparso con indosso un’impermeabile invece del solito maglione dalla fantasia discutibile.
Sherlock lo squadrò con odio mentre lui si sfilava il cappello inzuppato con un gesto eloquente.
“Adesso hai imparato anche a citofonare” sibilò Sherlock stufo di essere perseguitato. Si voltò e fece per richiudere la porta ma John glielo impedì mettendo un piede all’interno dell’appartamento.
“Ma si può sapere cos’è tutta quest’aria gelida che arriva dall’ingresso?” borbottò la vocetta della signora Hudson seguita dal rumore dei suoi passi.
Sherlock la vide apparire dalla cucina avvolta in uno scialle scozzese e non appena mise piede nell’ingresso cacciò un urlo che mise seriamente a rischio il suo udito.
La donna corse in cucina in preda ad una crisi isterica sotto lo sguardo attonito di Sherlock che non appena la vide sparire nel suo appartamento volse di nuovo lo sguardo alla porta e alla figura che era ancora in piedi davanti a lui.
John vide le labbra di Sherlock comporre il suo nome senza che la voce riuscisse ad accompagnarle. Il detective arretrò di qualche passo concedendo a John lo spazio per entrare e richiudere la porta alle sue spalle.
“Credo che sia il caso di assicurarsi che la signora Hudson stia bene… non la sento più gridare” disse John muovendo qualche passo verso l’appartamento della donna mentre Sherlock sedeva sulla poltrona dell’ingresso come se tutte le forze l’avessero abbandonato improvvisamente.
In quel momento Molly si affacciò dal pianerottolo e vide Sherlock seduto sulla poltrona con aria assente. 
“Va tutto bene?” domandò scendendo le scale. “Ho sentito la signora Hudson gridare…”
“È tutto ok, adesso è con John” disse Sherlock con un filo di voce. A quelle parole Molly si accigliò e volse lo sguardo alla porta della signora Hudson da cui un istante dopo apparve John Watson. La reazione della patologa, sommata a quella della sua padrona di casa, confermò a Sherlock che quello non era il solito fantasma con cui era ormai solito dialogare.
“Ok, cerchiamo di stare tutti calmi” esordì John con il tono più rassicurante di cui era capace guardando uno a uno i suoi ascoltatori. 
Molly era schiacciata contro il muro, la signora Hudson rintanata nel suo appartamento e Sherlock seduto in poltrona, le gambe troppo molli anche solo per pensare di alzarsi.
John incrociò lo sguardo di tutti loro e sentì una stretta al cuore, sapeva di avergli inflitto una sofferenza che non meritavano, ma era stato necessario e ora la cosa più difficile era trovare le parole per spiegarglielo.
“So di dovervi delle spiegazioni ma prima di cominciare, se siete d’accordo, vorrei vedere Rosie” senza riuscire ad aggiungere altro, John imboccò le scale scricchiolanti di Baker street e raggiunse Rosie al piano di sopra.
Dopo circa due minuti qualcuno bussò alla porta. C’era una sola persona che era rimasta nel medioevo e usava ancora il battacchio invece del campanello, e quella persona era Mycroft Holmes. Sherlock lo sapeva bene.
Molly aprì la porta e non riuscì nemmeno a stupirsi quando vide il maggiore degli Holmes richiudere l’ombrello e farsi largo nell’ingresso con uno dei suoi sorrisi più tirati.
“Signora Hudson, Dottoressa Hooper, Sherlock” iniziò lui togliendosi il soprabito.
Il detective riservò un’occhiata gelida al fratello.
“Ti avevo avvertito che avresti avuto le risposte che cercavi molto prima di quanto ti aspettassi” gli fece presente Mycroft in risposta a quello sguardo.
“Al momento non ho ricevuto nessuna spiegazione” sibilò Sherlock a denti stretti.
“Dov’è John?” chiese Mycroft a Molly ignorando il fratello.
“Di sopra” rispose Molly con un filo di voce.
Venti minuti più tardi erano tutti seduti nel salotto mentre Mycroft, al centro della stanza, si diceva pronto a spiegare ogni cosa.
“Non voglio starti a sentire!” Sbottò Sherlock prima ancora che Mycroft cominciasse a parlare. Il detective sembrava aver ritrovato nuova forza, sicuramente fomentata da tutta la rabbia che ora sentiva scorrergli nelle vene, e quando lasciò il 221B di Baker street nessuno sembrò trovare il coraggio di corrergli dietro.
A distanza di un’ora, mentre Molly e la signora Hudson sembravano ancora provate dal racconto di Mycroft, John guadagnò l’uscita prima che qualcuno potesse impedirglielo. Camminò per le vie di Londra come se non l’avesse mai lasciata e si pentì di tutte quelle volte in cui per pigrizia aveva preferito muoversi in taxi, Londra a piedi era tutta un’altra cosa.
Fu così che camminando immerso nei suoi pensieri, John raggiunse Northumberland street e non gli ci volle molto per identificare le vetrate del locale di Angelo, conosceva Sherlock abbastanza bene da sapere che si era rintanato proprio lì.
Quando mise piede nel locale si meravigliò di come ne ricordasse ogni dettaglio e subito identificò la figura del suo migliore amico alle prese con la lettura di un menù. Raggiunse il suo tavolo e gli si sedette accanto senza proferire parola.
“Vedo che nonostante la tua assenza non hai dimenticato i posti di Londra in cui si mangia bene.” Esordì Sherlock in tono piatto senza distogliere lo sguardo dal menù.
John fece una smorfia, tutti i mesi in cui era stato via non erano comunque bastati a prepararlo al suo ritorno.
“Sherlock sarò sincero... non so come affrontare questo momento.” Ammise John imbarazzato.
“Tanto per cominciare mi sento in dovere d’informarti che suonare il campanello di casa mia è stata una pessima idea” fece sapere Sherlock negandogli ancora una volta il suo sguardo.
“Tu hai interrotto la mia proposta di matrimonio!” Protestò John a voce un po’ troppo alta. Poco più in là una serie di persone si voltarono a guardarli dandosi gomitate e bisbigliando qualcosa.
“Complimenti John, ancora una volta sei riuscito nell’intento di farci sembrare una coppia gay!” Osservò Sherlock sospirando. “Ti ringrazio, questa cosa cominciava veramente a mancarmi.”
“Senti, mi dispiace, per tutto quanto intendo, non hai idea quanto mi sia costato farlo!” ammise John ridimensionando il suo tono di voce.
“La signora Hudson ha rischiato l’infarto” replicò Sherlock ignorando le scuse di John.
“Si, beh, in realtà l’avete rischiato tutti e tre ma…”
“Mi hai lasciato qui a badare a tua figlia!” sibilò Sherlock chiudendo il menù con un gesto di stizza. “Tu non hai idea di quello che ho dovuto passare! Vivere con Molly ventiquattrore su ventiquattro, gli psicologi e tutto il resto.”
“So più di quanto immagini” ammise John abbassando lo sguardo con aria colpevole.
“Ah, certo! Il mio caro fratellone si sarà divertito a spiarmi e riferirti quanto fosse assurda la mia nuova vita immagino!”
“Mycroft mi teneva informato, sì, ma non credere che separarmi da mia figlia sia stato facile.”
“Avevate organizzato ogni cosa, non è vero?”
John sostenne lo sguardo di Sherlock per qualche secondo, era la resa dei conti.
“Il piano di Mycroft, tu che insisti per guidare l’auto e tutto il resto… eravate d’accordo, non è così?”
“Sì Sherlock, eravamo d’accordo” ammise John con immensa fatica.
Il consulente investigativo sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia con aria affranta. “Dopo anni passati ad affinare le funzionalità del mio cervello, la mia ossessione per i dettagli e la mia capacità di osservazione, sono riuscito a farmi fregare da mio fratello e dal mio migliore amico” osservò Sherlock, lo sguardo perso nel vuoto, “come ho potuto essere così cieco?” domandò più a sé stesso che a John. “Sarà meglio che questa cosa non si sappia o finirò per perdere il lavoro oltre che tutta la mia autostima!” Con quelle parole Sherlock scattò in piedi sotto lo sguardo attonito di John e, una volta afferrato il cappotto con un gesto fulmineo, imboccò l’uscita senza nemmeno salutare il proprietario del locale.
John ci mise un attimo a realizzare cosa stesse accadendo, poi si alzò altrettanto rapidamente e inseguì Sherlock lungo la via.
“Quindi finisce così?” gli gridò dietro senza sperare che si voltasse, “con te che te ne vai in solitaria sotto la pioggia? Che cos’è? Il finale di un film drammatico?”
John vide Sherlock fermarsi di scatto, la pioggia cadeva fitta offuscando la sua immagine e approfittò di quei secondi di esitazione per colmare la distanza che li separava. Quando il detective si voltò il suo viso era una maschera di rabbia, raramente John ricordava di averlo visto così e per un attimo ebbe quasi paura.
Sherlock afferrò John per il bavero del cappotto e lo spinse contro il muro. “Io ho sacrificato tutto ciò che sono per te e questo è il tuo modo di ringraziarmi? Ho badato a tua figlia, ho accolto lei e Molly in casa mia, ho dormito sul divano per mesi, mi sono disintossicato, ho smesso con gli esperimenti a base di frattaglie umane e tu pensi che tornandotene da un giorno all’altro io ti accolga a braccia aperte? Mi hai mentito John!” Gridò Sherlock cavalcando l’ondata di rabbia che stava reprimendo dal momento in cui aveva capito che il John che aveva suonato il campanello era quello reale.
Dopo quell’attimo d’ira improvvisa, Sherlock allentò la stretta e lasciò che John si afflosciasse a terra in una pozzanghera cercando di riprendere fiato mentre lui procedeva nel suo cammino.
“Senti chi parla! Tu invece non mi hai mai mentito! Tu non hai finto la tua morte per due anni, non mi hai lasciato a piangere come un cretino sulla tua tomba, vero?”
“Io ho dovuto farlo, era l’unico modo per fermare Moriarty, mi sembrava di avertelo già spiegato! Credevo che fosse chiaro, e poi io ho fatto una scelta di quel tipo perché sapevo di potermelo permettere, non avevo figli di cui preoccuparmi, ma tu… John non posso ancora credere che tu abbia fatto una cosa simile!”
“Certo! Non puoi crederci perché solo Sherlock Holmes ha delle questioni in sospeso, solo Sherlock Holmes ha una giustificazione per un gesto tanto disperato, ci sei sempre solo tu e il tuo ego, non è così!?”
“La tua scelta è stata talmente necessaria e obbligata che ancora non me ne hai giustificato il motivo!” Il tono di voce di Sherlock era ancora carico di rabbia e John dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non gridare a sua volta, sapeva che se non fosse stato lui a moderare i toni probabilmente sarebbero andati avanti a gridarsi contro l’un l’altro fino al mattino.
“Sherlock tu sei un uomo formidabile, sei un pozzo di scienza e un topo di biblioteca insieme, sai distinguere l’anno d’immatricolazione di una macchina dal suono del suo motore e intuisci il mestiere di una persona soltanto guardandola, se scegliessi una parola a caso dal vocabolario so per certo che tu potresti scriverci un trattato di almeno cinquanta pagine, sei il mago del travestimento e della menzogna e hai vissuto esperienze a limite dell’incredibile ma c’è una cosa di cui non sai quasi niente e di cui mi auguro che tu non debba mai sapere più di ciò che sai…”
Sherlock si fermò sottò ad un lampione e rimase in ascolto. John e le parole erano sempre stati una coppia vincente. Poco importava se le parole fossero caratteri battuti a ripetizione su una tastiera o se uscissero dalla sua bocca, il modo in cui John le sceglieva e le legava tra loro creava sempre aspettativa, e non si poteva fare a meno di proseguirne l’ascolto o la lettura perché generavano una curiosità che andava a tutti i costi soddisfatta.
“La guerra” concluse John fissando l’immagine di Sherlock illuminata dal lampione. Sherlock non reagì e John approfittò del suo silenzio per proseguire il racconto.
“Quando la conosci la prima volta capisci subito che è un qualcosa che non ti abbandonerà mai veramente, ti entra sotto la pelle, nelle ossa, nell’anima… e per quanto tu possa cercare di dimenticarla rinunciando ai gradi, lasciando l’esercito, cambiando addirittura vita e lavoro, la verità è che lei non si dimenticherà mai di te, e quando verrà a cercarti, ovunque tu sia, ti troverà.” John fece una breve pausa, aveva bisogno di riprendere fiato perché parlare dei suoi trascorsi aveva un prezzo emotivo elevato, ma sapeva di non poter negare a Sherlock quella verità, lui stesso era stato molto esigente a parti invertite e non aveva nessuna intenzione di risparmiarsi.
 “Quando sei in guerra contro un nemico scopri che è molto facile fartene altri, e a volte i nemici peggiori provengono dalle tue stesse file, sanno tutto di te, conoscono i tuoi punti deboli meglio del nemico principale e sanno come ottenere ciò che vogliono… anche a distanza di anni.”
“Sei stato minacciato?”
“Minacciato, ricattato, perseguitato, spiato… sì, è iniziato tutto un anno fa.”
“Avresti dovuto parlarmene” protestò Sherlock.
“Non credere che non ci abbia pensato” John fece un mezzo sorriso che si trasformò in una strana smorfia. “Non dormivo la notte, esattamente com’era successo a Mary il mio passato era tornato a tormentarmi e non potevo permettermi di fare la sua stessa fine, Rosie aveva bisogno di me.”
“Perché non mi hai detto niente?” insistette Sherlock.
“Perché Mycroft mi ha convinto che non potevi aiutarmi, o per lo meno non nel modo in cui avresti voluto farlo tu, lui mi ha proposto una soluzione e io l’ho accettata.”
“Hai consultato Mycroft e non me? Pensavo ti fossi rivolto a lui solo per scomparire!” Sherlock sembrava profondamente indignato.
“Guerra e governo non hanno in comune solo l’iniziale, Sherlock. Ci sono interessi e molti altri aspetti in gioco, aspetti che un membro del governo britannico poteva aiutarmi a comprendere e sfruttare a mio vantaggio molto meglio di un investigatore privato. Questo devi riconoscerlo.”
“Continua” borbottò Sherlock a denti stretti.
“Mycroft mi ha offerto una copertura affinché potessi sparire da Londra il tempo necessario a risolvere i miei problemi, credendomi morto nessuno  mi avrebbe più cercato; Rosie sarebbe stata al sicuro e io avrei potuto agire indisturbato all’estero sotto falsa identità. Una volta definiti gli ultimi dettagli Mycroft mi ha impedito di parlartene.”
“Cosa?”
“Sherlock, non sapevo quanto sarei stato via, e non sapevo nemmeno se sarei tornato. Nonostante avessi le idee chiare e un buon piano, qualcosa poteva comunque andare storto. Fortunatamente avevo già nominato te e Molly come padrino e madrina e Mycroft ha detto che l’unico modo per evitare che Rosie restasse in orfanotrofio per sempre era che voi l’adottaste, ed eravamo concordi che se fossi stato io a chiedertelo tu non avresti mai accettato un simile incarico.”
“Forse perché avrei preferito aiutarti invece di restare qui a fare il padre adottivo!” Replicò Sherlock sempre più sconvolto da tutto ciò che John e suo fratello avevano tramato alle sue spalle.
“Esatto! È proprio per questo che Mycroft mi ha convinto a non coinvolgerti!”
“Rifilarmi una bambina di cui occuparmi tu lo chiami non coinvolgermi?!” Lo interruppe Sherlock incredulo.
“Se ti avessi parlato di questa storia avresti fatto saltare il piano, la copertura e tutto il resto.”
“Ti avrei salvato la vita!”
“Sherlock hai fatto di meglio… hai salvato la vita di Rosie, e Molly con te. Era questo il tuo ruolo questa volta, so che a te piace essere sempre al centro della vicenda ma questa volta non poteva essere così, e ti assicuro che per quanto ti possa sembrare marginale, il tuo ruolo era cruciale per il bene di Rosie. E come puoi ben vedere, anche se probabilmente stenti a crederci, io ho portato a casa la pelle da solo, per una volta me la sono cavata anche senza di te.”
“Hai fatto leva sui miei sensi di colpa affinché accettassi l’affidamento di Rosie.” Rifletté Sherlock ad alta voce.
“Sì, lo ammetto, ho pensato che il dolore per la mia perdita ti avrebbe spinto a vedere Rosie come una mia estensione e non come una semplice marmocchia e ho sperato con tutto me stesso che per una volta avresti dato ascolto al tuo cuore. Quando Mycroft mi ha informato che tutto era andato come speravamo ho pianto un pomeriggio intero e ammetto che era strano immaginarti ad occuparti di lei, ma ero felice, ero felice Sherlock, e quel pensiero mi ha dato nuova forza e adesso eccomi qua.”
“Quindi, ora tutto tornerà come prima?” chiese Sherlock incerto su ciò che voleva sentire come risposta.
“Meglio di prima… avrai di nuovo il tuo appartamento tutto per te e potrai ricominciare con gli esperimenti, ma ti pregherei di restare alla larga dalla cocaina e altre schifezze simili.”
Sherlock fece una smorfia. “Molly non la prenderà bene… aveva appena superato la paura che le togliessero l’affidamento di Rosie per via di quello che è successo fra…”
John si accigliò. “…che è successo fra?”
“Lascia stare” tagliò corto Sherlock prima che fosse troppo tardi.
“Perché invece di preoccuparti per come la prenderà Molly non mi dici come la prenderai tu?”
“Te lo farò sapere non appena l’avrò capito” fece Sherlock un attimo prima di riprendere il cammino. “Ah, una cosa John…” aggiunse voltandosi un’ultima volta “bentornato a casa amico mio”.
John guardò Sherlock allontanarsi sotto la pioggia avvolto nel suo cappotto con il cuore colmo di gioia, non l’avrebbe mai ammesso ma John sapeva che con quella frase Sherlock l’aveva perdonato.



Angolo dell'autrice: ok, finalmente posso scrivere senza rischiare spoiler. Dunque, penso che questo capitolo sia molto delicato (e per questo complicato da scrivere) per tanti motivi. Tanto per cominciare è l'ultimo (anche se ci sarà un piccolo epilogo che ho già scritto e vedrete pubblicato probabilmete settimana prossima) e quindi dovevo assicurarmi di non lascaire nulla in sospeso. Il ritorno di John, per quanto fosse un punto saldo della storia fin dall'inizio, non sapevo come metterlo in scena... avevo paura di ricalcare troppo quello che nella serie era il ritorno di Sherlock e allo stesso tempo mi sono interrogata a lungo su quale fosse la reazione più IC di Sherlock ad un avvenimento del genere. Ad oggi non sono ancora convinta al 100% della sua reazione ma non essendo un mio personaggio penso che il 100% della convinzione sia un'utopia quindi benvenga quella percentuale d'incertezza che mi attanaglia. Spero che voi con le vostre opinioni possiate fare luce su questo aspetto. Questo capitolo è John-Sherlock (e non Johnlock) centrico e non me ne vogliano gli altri personaggi ma a mio avviso era giusto così. Non posso che chiedervi di essere generosi con i commenti perchè questa è la prima long su questo fandom che scrivo e per me è fondamentale capire se l'esperimento è riuscito. :-)
Grazie mille ancora per il vostro supporto, appuntamento alla prossima settimana per l'epilogo! 

 

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Capitolo 9
*** Epilogo ***


Angolo dell'autrice: eccoci alle battute finali, come promesso pubblico l'epilogo a distanza di una settimana dall'ultimo aggiornamento. Si tratta di un breve capitolo che a mio avviso chiude il cerchio e lo fa con una nota divertente a cui non potevo proprio rinunciare. Io mi sento di ringraziare tutte le persone che hanno seguito questa storia, vi ringrazio per averla aggiunta alle vostre liste e vi ringrazio per averla commentata. Per me scriverla è stata un lungo viaggio, una bella sfida (non avevo mai scritto FF su Sherlock a capitoli prima di questa) e anche un meraviglioso passatempo. Penso che scriverò ancora su questo fandom perchè ultimamente è quello in cui mi sento più ispirata, a dire il vero ho già una mezza idea in testa ma se c'è una cosa che ho imparato dalla stesura di questa storia è che devo riordinare le idee prima di lanciarmi nella scrittura. Io mi auguro che questo breve epilogo non vi deluda e che, ora che la storia è finalmente conclusa, vogliate lasciare un ultimo commento per farmi sapere la vostra opinione finale. Un ultimo grazie a tutti voi. :-)




9- EPILOGO
 
 
Molly era accovacciata nella sua poltrona avvolta in una coperta di pile a pois. Tra le mani stringeva una tazza di tè fumante dalle note vagamente orientali, lo sguardo perso nel vuoto era particolarmente spento e le guance rigate dal passaggio d’innumerevoli lacrime.
L’avventura in Baker street era stata carica di emozioni, a tratti persino surreale, ciononostante la possibilità di prolungare il suo soggiorno in quella dimora era fuori discussione. In quell’appartamento erano successe troppe cose; aveva sperimentato l’essere madre, aveva provato l’inenarrabile esperienza della convivenza con Sherlock, lo aveva baciato e ci era anche andata a letto. Tutte cose che non si sarebbero potute verificare una seconda volta e che facevano male solo a ripensarci.
Era tornata a casa già da una settimana, le ferie che aveva preso per riorganizzare la sua vita le erano bastate a malapena per traslocare non certo per ristabilire un equilibrio emotivo.
Il ritorno di John l’aveva investita come un treno in corsa, la gioia e lo stupore nello scoprire che non era morto erano state rimpiazzate ad una velocità vergognosa dalla paura di perdere Rosie e tutto quello che per lei significava averla adottata. Ogni volta che Molly ripensava a questo particolare scoppiava a piangere, che razza di persona egoista era diventata?
Da quando Rosie era tornata a casa non aveva ancora trovato la forza di andare a trovarla, esattamente come non era ancora riuscita a risentire, e tantomeno rivedere,  Sherlock. Sapeva che Greg l’aveva ingaggiato per un caso e probabilmente questo bastava a tenerlo impegnato e renderlo irreperibile fin quando non fosse riuscito a risolverlo, dopotutto, il fatto che Sherlock si fosse gettato a capofitto nel lavoro era un buon segno, Molly sapeva che avrebbe dovuto fare la stessa cosa per reagire, ma a lavoro i suoi colleghi non facevano altro che chiederle come stava, la compativano e la patologa iniziò a preferire nettamente la compagnia delle salme a quella dei suoi colleghi.
 
A qualche chilometro di distanza, nel salotto di Baker street, Sherlock si arrovellava sul suo ultimo caso. Era il primo interessante dopo mesi e mesi di roba noiosa e già vista e ci si stava dedicando con tutto se stesso.
Imbracciò il violino e cominciò a suonare nel tentativo di concentrarsi ma fu interrotto quasi subito dalla sua padrona di casa che entrò nella stanza a passo spedito.
“Si vede che manca il tocco di una donna in questa casa… Molly è andata via da poco più di una settimana e lei è già riuscito a trasformare questo appartamento in un porcile!” Osservò la Signora Hudson guardandosi intorno sconsolata.
Sherlock scrollò le spalle, “Sì, ho ricominciato a lavorare, se è questo che intende!”
“Guardi quanto eravate carini insieme” squittì la donna trasognata mostrando a Sherlock una foto dalla galleria del suo cellulare.
Sherlock allungò il collo per vedere quello che la sua padrona di casa ci teneva tanto a mostrargli e inorridì. Sullo schermo da quattro pollici dello smartphone della signora Hudson c’era una foto che immortalava inequivocabilmente lui e Molly a letto insieme, addormentati, anche se le lenzuola aggrovigliate attorno ai loro corpi abbracciati e i vestiti sparsi un po’ qua e là per la stanza raccontavano tutto quello che c’era da sapere, a quanto pareva anche agli occhi di chi non era un consulente investigativo di fama internazionale.
“Signora Hudson” esordì Sherlock sforzandosi di non sembrare adirato per quanto aveva appena visto, “perché ha una foto di me e Molly insieme?”
“Non lo so…” rifletté la donna ad alta voce facendo una mezza smorfia, “eravate così carini, e poi ho pensato che mi sarebbe potuta tornare utile…”
“Tornarle utile?” chiese Sherlock titubante abbandonando il violino sulla poltrona per versarsi un bicchiere di whiskey.
“Per ricattarla è ovvio”
“E come? Mostrandola a mio fratello?” fece Sherlock sarcastico buttando giù un sorso di liquore immaginando la faccia di Mycroft nel vederlo così tanto coinvolto.
“Oh, non sia sciocco Sherlock, suo fratello è il primo a cui l’ho inviata, pensavo più che altro alla stampa internazionale!” Ridacchiò la donna visibilmente divertita. A Sherlock andò di traverso il whiskey e prese a tossicchiare. 
“Io e la mia amica Margareth avevamo scommesso, lei diceva che Molly sarebbe rimasta a vivere qui nonostante il ritorno di John; ma io la conosco troppo bene, sapevo che non avrebbe sopportato la presenza di una donna in casa sua a lungo… Ho vinto duecento sterline ma ammetto che mi sarebbe piaciuto vederla sistemato!”
Sherlock aprì la bocca nel tentativo di rispondere ma la padrona di casa rincarò la dose: “Povera Molly, mi dica che almeno le ha fatto una telefonata!”
“No” fece Sherlock asciutto.
“Potrebbe invitarla fuori a cena” suggerì la Signora Hudson.
“Nel modo più assoluto no”
“Perché no?”
“Non siamo una coppia” sentenziò Sherlock brusco riportando la sua padrona di casa alla realtà.
“Potreste esserlo”
“No, proprio no!”
“Molly è una cara ragazza, e lei se lo lasci dire, ha proprio bisogno di una donna che la metta in riga.”
“Per quello mi faccio bastare mio fratello” sbuffò Sherlock.
“A tal proposito, avrebbe dovuto vedere la sua faccia quando gli ho mostrato la foto!”
“No, non ci tengo.” Fece Sherlock domandandosi quale sarebbe stata la prima occasione in cui suo fratello avrebbe potuto rinfacciarglielo.
“Per un attimo ho pensato che sareste potuti diventare una vera famiglia” sospirò l’anziana donna dando un’ultima occhiata alla famigerata foto. Sherlock non fece in tempo a replicare a quell’ennesima provocazione perché la padrona di casa era già tornata nel suo appartamento con il suo fedele cellulare stretto in pugno, lasciandolo visibilmente perplesso.
 
Un mese più tardi, nel corso di un’autopsia, Molly fu interrotta dal suono del suo cellulare; una vibrazione intensa seguita da moderato bip la informò che era appena arrivato un messaggio. La patologa esitò un istante, la sua amica Sarah era solita scriverle almeno un messaggio a settimana nel tentativo di attirarla fuori di casa con una scusa sempre diversa, nell’ordine le aveva già proposto un’uscita per una birra, cinema, percorso relax alle terme e una visita guidata di una mostra alla National Gallery.
Inutile dire che Molly aveva declinato tutti gli inviti con una serie di scuse che, stando a quel ritmo, avrebbe presto esaurito.
Quel pensiero la irritò profondamente, e Molly si trovò a sbattere i costosi attrezzi che stava utilizzando sul tavolo di lavoro in un impeto di rabbia.
Perché la sua completa assenza di coinvolgimenti sentimentali sembrava così interessante agli occhi degl’altri? Era stufa di doversi inventare scuse per non essere compatita. Dopo una breve pausa caffè Molly si ritrovò a concludere l’autopsia più apatica del solito.
Fu solo quella sera, dopo una doccia calda e un film mediocre, che Molly nel puntare la sveglia per l’indomani trovò il tempo di leggere il messaggio che aveva finito per rovinarle la giornata.
Con suo grande stupore scoprì che a inviarglielo non era stata Sarah.
 
“Baker street, vieni subito se puoi, se non puoi vieni comunque. SH”

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