Storia di una famiglia

di rossella0806
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nostalgia ***
Capitolo 2: *** Segreti ***
Capitolo 3: *** La bisbetica domata ***
Capitolo 4: *** Il covo dei rivoluzionari ***
Capitolo 5: *** Una serata a teatro ***
Capitolo 6: *** Il Fischietto ***
Capitolo 7: *** La festa di compleanno ***
Capitolo 8: *** L'incontro ***
Capitolo 9: *** L'incendio ***
Capitolo 10: *** Il sacro monte di Pietà ***
Capitolo 11: *** Guerra e pace ***
Capitolo 12: *** Una decisione irremovibile ***
Capitolo 13: *** L'attesa ***
Capitolo 14: *** Confessioni reciproche ***
Capitolo 15: *** Verità o menzogna? ***
Capitolo 16: *** Il finto intellettuale ***
Capitolo 17: *** Un ragazzo diventato soldato ***
Capitolo 18: *** La Guerra, il Nulla e l'Incerto ***
Capitolo 19: *** Il capanno dei segreti ***
Capitolo 20: *** Un nuovo affiliato ***
Capitolo 21: *** La traversata sul ponte ***
Capitolo 22: *** La processione infinita ***
Capitolo 23: *** La prima missione ***
Capitolo 24: *** La battaglia della Bicocca ***
Capitolo 25: *** Un destino ancora incerto ***
Capitolo 26: *** Un rifugio sicuro in attesa della Pasqua ***
Capitolo 27: *** Agire da soli ***
Capitolo 28: *** Il giorno di Pasqua ***
Capitolo 29: *** La spiga di grano ***
Capitolo 30: *** Nuove speranze ***
Capitolo 31: *** Uno spettro di nome Nicolò ***
Capitolo 32: *** Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio ***
Capitolo 33: *** Colpevoli o innocenti? ***
Capitolo 34: *** Una nuova vita ***
Capitolo 35: *** Duello all'ultimo sangue ***
Capitolo 36: *** Riunione in chiesa ***
Capitolo 37: *** All'attacco, Bersaglieri! ***
Capitolo 38: *** L'amico ritrovato ***
Capitolo 39: *** Nuove minacce ***
Capitolo 40: *** Nonna Maria ***
Capitolo 41: *** I duellanti ***
Capitolo 42: *** Le ultime volontà di Pietro ***
Capitolo 43: *** Seconda parte- Le ultime volontà di Pietro ***
Capitolo 44: *** I sotterranei del carcere ***
Capitolo 45: *** Patto tra fratelli ***
Capitolo 46: *** Caccia al tesoro ***
Capitolo 47: *** Un pesce di nome Federico ***
Capitolo 48: *** Né vincitori né vinti ***
Capitolo 49: *** L'edera rampicante ***



Capitolo 1
*** Nostalgia ***



Non c’è nulla interamente in nostro potere, se non i nostri pensieri

Cartesio (filosofo e matematico francese, 1596-1650)




L’alba era già sorta da parecchio, ma il cielo inspiegabilmente tardava ad illuminarsi.
Forse, dipendeva dalla foschia onnipresente e molesta che nelle ultime due settimane era diventata una compagnia fissa e sgradevole di quel gennaio ormai agli sgoccioli.
Costanza alitò sulle dita fredde e bianchicce, per cercare un po’ di quel calore che il camino della stanza non era riuscito a donarle, nonostante la solerzia con la quale la cameriera era venuta a rifornire di abbondanti ceppi di frassino la brace ormai spenta della notte.
Sebbene non ci fosse nessuno da disturbare, si alzò silenziosamente dal baldacchino, sistemando i piedi ghiacciati nelle calde babbucce di lana grigio perla, abbandonate sullo scendiletto persiano.
Recuperò il moccio della candela che aveva acceso qualche ora prima del crepuscolo, quando si era svegliata improvvisamente, non riuscendo a ricordare per l'ennesima volta dove si trovasse.
Era una sensazione che le era diventata famigliare, suo malgrado, nonostante fosse già trascorso un mese dall’arrivo in quella nuova e indesiderata casa.
Il mozzicone tra le mani, avvertì la carezza della cera sulle dita, ormai fragile e quasi trasparente, completamente inutilizzabile.
La ragazza agguantò con delicatezza quell’innocente rimasuglio, per poi gettarlo nell’apposita scatola di ferro, che la cameriera avrebbe avuto cura di ripulire e rifornire non appena Costanza avesse lasciato la stanza per la colazione.
Quindi, si sedette sull’elegante sedia in legno di ciliegio, davanti lo scrittoio ribaltabile, adagiato sotto l’ampia finestra con i pesanti tendoni di broccato appena scostati che lasciavano intravedere irregolari rettangoli di quel cielo perennemente fosco.
Osservò con la solita noncuranza le copiose venature che attraversavano quel pezzo di albero ormai privo di vita, poi aprì il primo cassetto di sinistra, dove custodiva il cofanetto con tutto l’occorrente per la corrispondenza.
Sistemò meglio la lunga vestaglia bianca di raso foderato, che le ricadeva addosso come un vecchio sacco informe per la raccolta del grano, ma che tuttavia lei adorava.
La schiena incurvata, la luce del mattino che faticava a scacciare quella buia della notte, Costanza intinse la piuma d’oca nel calamaio: l’inchiostro era denso, quasi vischioso, bastava un attimo perché rovinasse il foglio immacolato su cui si stava per posare.
Tuttavia, le dita della ragazza, agili seppure intorpidite dal freddo, ebbero la meglio, e così le parole cominciarono a scivolare sulla carta, fragrante e lievemente arricciata ai bordi:
Novara, mercoledì 24 gennaio 1849





Cara Nonna,
è l’ennesima giornata fredda ed uggiosa, in una città che continuo a ritenere visceralmente ostile ed infida, sempre avvolta com’è da una densa caligine grigiastra.
Mi mancate molto, lo sapete, ed ogni giorno penso a voi e a quello che ho dovuto abbandonare contro la mia inutile volontà di donna e figlia: le nostre adorate montagne, l’aria fresca delle sera e quella gentile del mattino, il canto timido degli uccelli, l’abetaia dove amavamo passeggiare...
Qui il tempo scorre uguale al primo momento in cui sono arrivata, ovvero lentissimo e noioso.
Non ho amici, ma questo ve l’ho già ripetuto almeno in altre due lettere, scusatemi se continuo a tediarvi, ma siete l’unica mia consolazione in questa nuova vita che non ho minimamente desiderato.
L’altra sera c’è stata una festa, qui a palazzo, un diversivo per animare la vita sociale che ci stiamo costruendo: Nicolò ed io abbiamo finalmente potuto conoscere i nostri famosi parenti Caccia Dominioni, il ramo nobile della famiglia che, naturalmente, sono stati l’attrazione dell’intera serata.
Lo zio Aldo è un uomo molto anziano, lo immaginavo un cinquantenne bonario, invece avrà come minimo una ventina di anni in più.
E’ gentile, mi ha stretto teneramente la mano, e sebbene non abbia mai veramente sorriso, ho visto una luce affettuosa nei suoi occhi cerulei, come se fosse stato contento di conoscermi.
Non ha quasi capelli, è stempiato sulla fronte, e questa sua caratteristica lo fa assomigliare ad uno scoiattolo spelacchiato, dato il colore dei ciuffi che ancora può vantare!
La zia Rosa, invece, è una donna assai minuta, ma ben proporzionata, pallidissima e con gli occhi di un nocciola sbiadito: ha un profumo delizioso, non saprei dire quale essenza nasconda; forse, quando entreremo maggiormente in confidenza, oserò chiederle da quale Mastro profumiere se l’è fatto creare, perché vi assicuro, cara nonna, che è davvero una fragranza gradevolissima.
Rispetto al marito, ha talmente tanti capelli che potrebbe donarglieli, folti e chiari da risplendere anche senza la luce diretta!
Non so quanti anni abbia, sicuramente è più giovane dello zio Aldo, credo almeno di una decina di anni, ma queste sono solo mie supposizioni, e non intendo cedere alla curiosità di chiedere alla mamma notizie maggiormente dettagliate.
Ovviamente, assieme a loro, sono venuti anche i due figli, Pietro e Federico, che non credo conosciate.
Non si assomigliano per nulla: il primogenito, Pietro, è biondo e ha gli occhi grandi ed azzurrissimi; l’altro, invece, è moro e decisamente più atletico, dalla corporatura meno tozza.
Tuttavia, ho notato avere una caratteristica in comune: il naso, infatti, appare leggermente schiacciato, per il resto non sembrano neppure fratelli, alla stessa maniera di come non sembrano figli dei loro genitori; su questa frase sibillina, abbiate pazienza che mi spiegherò al meglio.
Il più giovane è intraprendente, spigliato, fin troppo allegro: ha cercato di invitarmi a ballare almeno tre o quattro volte, non ricordo con esattezza, perché sono sempre riuscita ad allontanarmi prima che lui si avvicinasse troppo!
L’altro cugino, invece, è taciturno, e credo sia anche un po’ sciocco: mi ha dato l’impressione, infatti, che non sappia imporsi su alcuno, forse a causa dello sguardo sfuggente o di quel suo costante assenso degli occhi color del ghiaccio.
Sono convinta si sia annoiato parecchio, esattamente come me, ma è rimasto educatamente seduto per l’intera durata della cena -a mio avviso interminabile ed inutilmente abbondante- per poi rintanarsi con gli altri uomini nel salottino da fumo; persino quando hanno aperto le danze, Pietro non si è allontanato dal suo rifugio, adducendo come scusante il desiderio di dare un’occhiata alla biblioteca e alla collezione di armi di mio padre.
Occhiata che, detto tra di noi, si è protratta per quasi l’intera durata delle danze.
Tra i due giovani, cara nonna, ammetto che mi affascina di più il timido Pietro, forse perché lo reputo maggiormente affine al mio carattere introverso.
Anzi, sono convinta che, a suo modo, sia persino più ribelle del fratello, seppure, come ho scritto poche righe fa, a mio avviso non abbia ancora imparato ad imporsi.
Ora vi devo lasciare: il cielo, nonostante siano quasi le nove del mattino, si sta sempre di più oscurando, e purtroppo sono rimasta senza la scorta di candele.
Vi abbraccio con tutto il mio cuore e la devozione di nipote affezionata, scusandomi se vi ho annoiato con descrizioni di persone che, sebbene non vediate da anni, sono certa ricorderete.
Attendo con trepidazione una vostra lettera,
Costanza


La ragazza piegò in quattro il foglio, quindi lo infilò con cura in una busta color avorio, recuperata dal cofanetto dedicato alla corrispondenza.
Infine, la sigillò con della calda e colante ceralacca, sorridendo tristemente.

Soddisfatta e speranzosa, smistò la lettera nell’apposito contenitore, da cui la cameriera l’avrebbe presa per farla spedire quanto prima.



****


“La situazione tenderà a precipitare molto presto!” sbraitò il notaio, versandosi un bicchierino di liquore al ginepro.
La moglie guardò torvo l’uomo, reputando poco signorile quel gesto da ubriacone compiuto di mattino presto.
Fece un cenno alla cameriera che si era appiattita in un angolo e, ordinandole di lasciare immediatamente la sala da pranzo, tornò a concentrarsi sulla tazza fumante e sulla fetta di torta al limone che stava per addentare, prima dell’attacco di rabbia del consorte.
“Padre, voi vi preoccupate troppo!” cercò di rabbonirlo un giovane sui venticinque anni, alto e massiccio quanto il genitore, il viso avvampato di furore ed entusiasmo.
“Non possiamo più rimanere con le mani in mano, fingendo che quei maledetti Austriaci non stiano stringendo il cappio attorno ai nostri poveri colli! Lo capite che stiamo parlando della libertà di tutti noi? E’ necessario e doveroso intervenire, altrimenti perderemo la poca credibilità che ci è rimasta davanti al resto del mondo!”
“Parli proprio come il giovane sciocco ed irresponsabile quale sei! La guerra, voglia il Cielo che non scoppi mai, non è il gioco infantile che facevi da piccolo, con quelle stupide spade finte e il cavallino più mansueto di cui disponevamo nelle stalle! Nemmeno le lezioni di scherma potranno salvarti, se e quando ti ritroverai in mezzo alla bolgia, alle urla e alla selvaggia crudeltà del nemico: al tuo fianco, uniche e non cercate compagne, rimarranno solo la desolazione, l'incomprensione e il senso profondo di smarrimento…”
Il notaio abbassò lo sguardo, gli occhi scuri, inferociti fino all’attimo prima, ora erano velati da vecchi ricordi sopiti.
All’improvviso, infatti, gli tornò alla mente il suo passato da giovane ribelle, fiero esponente della Carboneria, persino del suo fugace incontro con Mazzini, durante una riunione dei soci a Genova, città d’origine del fondatore del movimento rivoluzionario, fino ai momenti concitati dell’arresto da parte degli Austriaci, più di vent’anni prima, e di come il padre lo avesse tirato fuori da quella spiacevole situazione, grazie all’influenza economica e alla fama che precedeva il nome dei Granieri.
Don Armando ritornò cupamente al presente, accorgendosi di come avesse condotto quell’arringa sempre in piedi, un braccio appoggiato al freddo marmo della mensola del caminetto, staccandosi da quell’angolo solamente per compiere una mezza piroetta su se stesso, come a non voler incontrare lo sguardo di quel figlio testardo ed inconsapevole delle sciocchezze che brandiva a destra e a manca, quali fossero trofei di cui essere orgoglioso.
Accorgendosi del bicchierino colmo di liquore ancora in una mano, lo trangugiò d’un fiato, facendo poi una smorfia di disgusto e tornando a sedersi a capotavola.
Costanza entrò nella stanza lo stesso istante in cui il padre e il fratello avevano appena deposto le armi, dopo che le loro grida l’avevano improvvisamente accolta mentre scendeva la scalinata in marmo.
Nicolò rimase in silenzio per qualche istante, il capo dai folti e ricci capelli abbassato sulla tovaglia immacolata: congiunse le dita, i gomiti abbandonati sulle ginocchia, quindi cercò di trattenere un sospiro.
“Perdonatemi, ma devo sbrigare certe faccende al circolo. A più tardi”
Il giovane si alzò senza degnare di uno sguardo i presenti, sbattendo volontariamente la porta, che si richiuse senza troppo rumore dietro di lui, il tacchettio degli stivali che calpestavano il costoso marmo del pavimento.
La ragazza deglutì meccanicamente, cercando di intuire dagli sguardi dei genitori il motivo di quell’abbandono così freddo ed improvviso da parte del primogenito.
Stava aprendo la bocca per cercare di avere qualche notizia sullo screzio che era certa si fosse appena consumato, quando la moglie del notaio, donna Luisa, spiegò con fare forzatamente allegro:
“Questa mattina arriverà il tuo nuovo insegnante di musica, Costanza cara! Ci raggiungerà tra un’ora, e ovviamente rimarrà a pranzo con noi, così potrete cominciare già nel pomeriggio le vostre lezioni! Sei felice, figliola?”
“In realtà, oggi non mi sento bene… ho dormito poco, e dopo pranzo era mia intenzione riposarmi…” tentò di replicare la ragazza, assumendo un’espressione afflitta.
Poi, si portò una mano ad una tempia, cercando di addurre un’improvvisa emicrania come giustificazione, l’ennesima in quell’ultimo mese contro le assurde proposte che le perpetrava la madre.
“Ma non possiamo rimandare! Il maestro Rossini è il più prestigioso dell’intera provincia! Ha lavorato persino a Milano e a Venezia, non è educato rimangiarsi la parola data! Sono convinta ti piacerà moltissimo: anzi, voci che si rincorrono da qualche tempo, lo vogliono alla ricerca di una moglie! Se siamo fortunati, la promessa sposa potresti essere proprio tu!”
Costanza sgranò gli occhi: non aveva alcuna intenzione di sposarsi, il suo unico desiderio era ritornare dalla nonna, in mezzo ai boschi, cullata dalla montagne, immersa nella vita selvaggia che
, in quei primi diciotto anni di esistenza, era stata la sua fedele compagna di viaggio.
Lanciò un’occhiata d’aiuto in direzione del padre, assorto in chissà quali pensieri: aspettò che l’uomo alzasse almeno una mano, che dicesse la sua opinione su quel mucchio di assurdità che la moglie stava propinando alla sua unica figlia, ma attese inutilmente.
Così, non vedendo alcun segnale da parte del notaio, tornò a tuffarsi in mezzo alla solitudine e all’arrendevolezza che, ultimamente, si stavano impadronendo delle sue mancate decisioni: guardò delusa il volto appuntito della madre, gli occhi allungati ed azzurri, la bocca sottile aperta in un sorriso di incoraggiamento.
Erano in quei momenti, negli ultimi mesi sempre più soventi, che Costanza si domandava come facesse quella donna ad essere la figlia di donna Maria, la sua adorata e saggia nonna.
Avevano due caratteri così diversi, visioni della vita completamente all’opposto…
“In attesa che il maestro arrivi, hai il permesso per andare a ritirarti nelle tue stanze, figliola” si rabbonì donna Luisa, convinta di compiere un gesto di grande magnanimità.
La ragazza strinse il tovagliolo color panna che aveva adagiato sulle ginocchia, appena qualche attimo primo: lo ripose sul tavolo e, cercando di sorridere, acconsentì:
“Molto bene, ma almeno permettetemi di decidere una cosa: mi farò portare la colazione nella serra, lì fa più fresco. Chissà che l’emicrania mi passi completamente…”

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Capitolo 2
*** Segreti ***


Non è il caso né di piangere né di sperare, si tratta piuttosto di cercare nuove armi.

Gilles Deleuze, filosofo francese (1925-1999)





Cari amici, stiamo rivivendo gli anni del '20 e del '21, quando per la prima volta ci risvegliammo dal nostro torpore di popolo falsamente inerme e lungamente assoggettato! Allora, compagni, prendemmo in mano le redini del nostro destino, sotto l'esempio dei fratelli siciliani e napoletani, che combatterono con instancabile coraggio e valore perpetuo gli ignobili Borbone e i porci Austriaci; noi stessi Piemontesi demmo la vita per ottenere delle nuovi leggi, per unificare il popolo italico sotto un unico e giusto sovrano!
Tentammo di scacciare l'invasore, l’usurpatore delle nostre terre, ma venimmo traditi, abbandonati a noi stessi dalle nazioni che ci avevano promesso lealtà!
Ebbene, sono passati quasi trent'anni da quella infausta e gloriosa pagina di Storia, ma la situazione non è purtroppo cambiata: la patria che ci ha dato i natali, che ci ha amorevolmente nutrito, chiede ora di essere aiutata, di essere liberata una volta per tutte dall'oppressore e, se necessario, di dare la vita per lei!
Fratelli, amici, compagni di uno stesso ideale, l'anno appena trascorso, il glorioso 1848, ci ha colmato di nuove speranze: il nostro amato ed illuminato sovrano ci ha finalmente donato lo Statuto Albertino, non solo un nuovo Codice di leggi, ma anche un simbolo e un monito per tutti noi, la fiamma della giustizia che risplenderá perpetua nei secoli.
E poi, non dobbiamo dimenticare che ancora una volta i cugini siciliani hanno dato prova del loro immenso coraggio, ritornando a ribellarsi contro gli ignobili e corrotti Borbone!
La stessa volontà di riscatto ha contagiato i fratelli milanesi, nel Marzo scorso, così come gli eroici Manin,Tommaseo e tutti gli altri valorosi compagni veneti, che hanno lottato con ogni mezzo pur di cacciare quei porci degli Austriaci: per questo, a Dio piacendo, possa la Repubblica di San Marco vivere per sempre!

Ebbene, io vi invito a fare altrettanto: non importa il risultato, fratelli, la cosa fondamentale è non desistere, ma combattere fino alla fine, credere in ciò che noi tutti vogliamo, la libertà assoluta e duratura per il nostro popolo, la possibilità di diventare una comunità libera ed autonoma, unita sotto un unico sovrano!
Viva la libertà, viva l'Italia, viva Carlo Alberto!


Costanza stava passando davanti la camera del fratello, quando udì quella veemente orazione: aveva passeggiato e sbocconcellato qualche biscotto tra le piante della serra, lo scialle di lana azzurra traforata buttato di sbieco sulle spalle, ritrovandosi ad ammirare, ancora una volta, la solenne compostezza dei plumbaghi, la radiosità delle gerbere, la timidezza delle begonie e l'altezza sfacciata dell'edera rampicante, dimenticando per qualche istante il senso di frustrazione che l'aveva visceralmente assalita.
Quel luogo, dell'intero palazzo e di tutta l’avvilente città in cui l'avevano costretta a vivere, era l'unico posto che riusciva ancora a darle conforto e una parvenza di familiarità, tanto da ricordarle la natura pura e selvaggia in cui era cresciuta.
Dopo quel giro di perlustrazione, si era lasciata cadere sulla sedia a dondolo nascosta in un angolo della struttura rettangolare, facendosi cullare dal rumore stridulo ma timido dell'impalcatura in legno.
Si stava addormentando, la testa dai lunghi e scuri boccoli le pendeva pericolosamente di lato; il nitrire dei cavalli nelle stalle, una decina di metri più in là, la risvegliò da quel piacevole quanto inaspettato torpore, convincendola ad alzarsi e a tornare in casa.
Adesso, era nuovamente assorta nei suoi pensieri, mentre si trascinava controvoglia lungo le scale in marmo, fino al corridoio del piano superiore.
ll maestro Rossini stava per arrivare, per cui Costanza avrebbe dovuto cambiarsi d'abito per accogliere con tutti gli onori il nuovo venuto, l'ospite tanto gradito alla madre.
Le sue stanze erano adiacenti a quelle del giovane, che era convinta si trovasse ancora al circolo, per questo udì distintamente l'appassionato monologo del fratello, la voce famigliare che trapelava dalle pareti.
Sbirció dalla porta accostata e la aprì appena, cercando di non fare alcun rumore: solo allora poté dare un volto alle coraggiose imprecazioni di pochi secondi prima, vedendo Nicolò in piedi davanti alla specchiera, di fianco all’elegante letto a baldacchino color cremisi, intento ad agitare la mano destra in alto e in basso, mentre con l'altra reggeva un pezzo di carta spiegazzato; sembrava un mimo, un improvvisato giullare di corte.
Un ciuffo di capelli ricci e scuri gli ricadeva sfrontatamente sulla fronte: lo sguardo era acceso da una strana euforia, come se avesse appena scoperto il segreto più ambito dell'universo.
Se fosse stata più vicina, la sorella avrebbe giurato di poter vedere delle tracce di sudore sul bel volto pallido e rotondo del ragazzo, impeccabile in un completo di lana cotta, la camicia bianca abbellita da un'elegante cravatta di seta nera.
Aveva le mani chiuse a pugno, appoggiate sul comò che gli stava davanti, massiccio e trionfale, una sorta di appendice grottesca.
Il giovane abbassò gli occhi color ambra e incassò la testa nelle spalle, sospirando rumorosamente.
Quando ritornò a puntare lo sguardo nello specchio, le labbra carnose abbassate in un sorriso di giubilo, Nicolò notò il volto incuriosito di Costanza, semi nascosta dietro la porta.
Si girò di scatto e, con la stessa luce euforica negli occhi di pochi istanti prima, si avviò a passi svelti nella direzione della sorella più piccola.
Non appena la raggiunse, la agguantò per un polso, storcendoglielo fino a farla sobbalzare:
“Ahi, mi stai facendo male!”
“Cosa hai visto? Costanza, dimmi subito da quanto tempo stavi origliando!”
La ragazza aprì la bocca per ribattere, le sopracciglia aggrottate in una smorfia di smarrimento e dolore.
“Non capisco, io non ti stavo spiando! Stavo semplicemente andando in camera a cambiarmi d'abito per il pranzo: abbiamo ospiti, non te lo ha detto la mamma?”
La giovane cercò di ritrovare un'espressione innocente, sebbene si sentisse sempre più confusa ed impaurita.
“No, non mi ha detto nulla. E poi, a quest'ora, le avevo detto che sarei andato al circolo, non ricordi? Tornerò giusto in tempo per sedermi a tavola ad accogliere i nostri graditissimi convitati…”
Nicolò sorrise forzatamente alla sorella, regalandole un fastidioso buffetto su una guancia.
“Mi dispiace deluderti, ma si tratta di un solo ospite, il maestro Rossini. Credo sarà il mio nuovo insegnante di musica… A proposito, caro fratello, perché poco fa hai detto una bugia a nostra madre?” ribatté innocentemente Costanza, guardandolo negli occhi, la testa inclinata da un lato.
Un rossore improvviso soffuse il volto dell’altro che, stringendo con maggior forza il biglietto dell'orazione che aveva nascosto in una mano, tentò di giustificarsi: 
“Ho… ho sbagliato giorno. In realtà, devo andare domattina al circolo: e poi, non sei tu la prima a lamentarti che a causa del tempo sempre uggioso di questa città ogni ora assomiglia a quella appena trascorsa?”
“Ma se hai appena detto che tornerai apposta per il pranzo!”
“Le tue orecchie di donna non hanno compreso ciò che volessi dire. Bene, adesso che ti sei impicciata abbastanza dei miei affari, è opportuno che tu vada a cambiarti, sorellina. Non vorrai arrivare in ritardo, vero?”
Il ragazzo spinse fuori dalla porta Costanza, che rimase interdetta nel vedere sbattersi in faccia il massiccio pannello di legno.
In piedi, in mezzo al corridoio, si ritrovò a pensare che lo screzio che aveva vagamente intuito essere accaduto tra il padre e il fratello, quella mattina a colazione, in realtà nascondesse dei pericolosi e oscuri risvolti.


In quegli anni, Novara contava all'incirca quindici mila abitanti ed apparteneva al vasto quanto dispersivo Regno di Sardegna.
Era una città strategicamente fondamentale, perché ad uno schioppo di dita da Milano, la roccaforte degli Austriaci e del loro Lombardo Veneto, tanto che per secoli fu duramente contesa tra i Savoia e gli avventori stranieri.
Culturalmente vivace e ricca di testimonianze pittoriche ed architettoniche di epoca medioevale e rinascimentale, l'edificio più importante che vantava era il Broletto, l'equivalente del foro romano, in cui la popolazione si riuniva durante le celebrazioni pubbliche.
Di fronte, si affacciavano la piazza del mercato e il Duomo, immenso esempio di manifattura neoclassica.
Attorniata dalle risaie, in cui d'estate si divertivano a banchettare le zanzare, questi specchi d'acqua fornivano la principale fonte di nutrimento alla popolazione limitrofa.
La nebbia invernale, perenne e pesante, trasformava il paesaggio in un unica spianata grigia ed informe, priva dei più elementari contorni.
Oltre le mura, il fiume Ticino si addentrava nella folta boscaglia, costeggiando i campi coltivati a granoturco e a foraggio, il cui compito era quello di delimitare i bastioni cittadini e di dividere le esistenze contadine da quelle urbane.


Poco prima di mezzogiorno, il maestro Rossini scese dalla carrozza alla stregua di un principe ereditario, il naso aquilino che lo precedeva fieramente e le labbra sottili aperte in un sorriso incredibilmente disteso, da cui si intravedevano con chiarezza le due fila di denti, per la maggior parte diritti e bianchi.
Le guance glabre e lo sguardo luminoso, la sua persona emanava un gradevole profumo di arancia caramellata.
Portava un completo nero, probabilmente di lana scozzese, da cui fuoriusciva un cravattino di un indefinibile colore, a metà tra il grigio topo e il rosa del crepuscolo.
Gli stivali scuri erano incredibilmente lucidi, più brillanti dell'argenteria appena lustrata, e oscillavano morbidamente sul vialetto di ghiaia e terra battuta che conduceva al portone d'ingresso.
I capelli, lunghi e brizzolati, erano stati raccolti da un nastro di velluto, anch'esso nero.
A Costanza, la prima cosa che venne in mente fu di avere a che fare con un becchino, invece che con il tanto acclamato e rinomato insegnante di musica.
Sperò vivamente che quell'uomo di mezza età, forse addirittura più anziano di suo padre, non diventasse il nuovo maestro di pianoforte o, eventualità ancora più spaventosa, il marito che non andava minimamente cercando.
Donna Luisa, gongolante in un lungo abito color cipria, aveva preteso che l'intera famiglia e servitù si posizionassero sull'attenti nel vasto giardino, davanti l'abete che delimitava l'entrata del palazzo, ricca di bianchi stucchi ed effigi in marmo e in pietra, in modo da offrire il miglior benvenuto possibile all'illustre ospite: era tutta concentrata ad informarsi su come fosse andato il viaggio, se avesse avuto il tempo per riposarsi e rifocillarsi, se la carrozza fosse stata abbastanza comoda.
Il notaio, le mani dietro la schiena, lanciò un'occhiata distratta in direzione del nuovo arrivato, concentrandosi subito dopo sull'espressione assorta del primogenito, che aveva appena raggiunto lo schieramento, lo sguardo annoiato sul volto pallido.
Quel figlio, l'unico maschio che poteva vantare, lo stava costantemente preoccupando: le sue frequentazioni al Circolo cittadino dei giovani letterati gli davano l'impressione che avrebbero potuto condurlo verso l'irreparabile.
Nicolò, infatti, si era sempre rivelato un giovane ribelle ed autonomo, che era riuscito ad inserirsi molto bene in ogni contesto, tanto più nella nuova città in cui si erano trasferiti da così breve tempo.
Il signor Granieri non era nato nobile, ma di famiglia assai benestante: da oltre tre generazioni, infatti, i maschi di casa svolgevano con onore e rispetto la professione di notaio, tramandandosi i segreti e i trucchi del mestiere di padre in figlio.
Don Armando era originario della Svizzera italiana, di Bellinzona, lo stesso luogo dove nell'estate del 1818 aveva conosciuto la moglie, donna Luisa Caccia, durante un soggiorno in città della futura consorte.
Lei sì, a dispetto del marito, era nata nobile: il suocero di Granieri, il conte Ermanno Caccia, si era trasferito da Novara, città natale, a Santa Maria Maggiore, paese di confine e facente parte della circoscrizione novarese, per svolgere di persona alcuni importanti affari commerciali.
Qui l'uomo, dopo anni di onorato ozio e truffe più o meno ragguardevoli, era stato fulminato sulla via di Damasco, alla stessa maniera di san Paolo e, come un altro famoso santo, Francesco, si era spogliato di tutti i suoi beni materiali per ritirarsi in clausura in una comunità di frati benedettini affacciata sul lago d’Orta, lasciando la moglie e le due figlie, che nel frattempo si erano sposate, letteralmente con solo i vestiti e i gioielli che avevano indosso o nel guardaroba.
Donna Maria Mellerio, la sfortunata consorte, sparì dalla circolazione per quasi un anno, rintanandosi in una città del Nord Europa, da certi parenti che le erano rimasti.
Di ritorno dal viaggio di purificazione, la signora, assai influente e originaria di quelli stessi luoghi in cui il marito aveva perduto ricchezze e onorabilità, decise di non rimettere piede a Novara, ma di invecchiare e far invecchiare le figlie nel medesimo posto in cui si era consumata la loro incolpevole vergogna.
Tuttavia, la povera donna non aveva fatto i conti con la morte improvvisa del consorte, avvenuta all’inizio dell'estate 1848, ormai vecchio e pentito del torto consumato in vita.
Nel testamento infatti, lasciò scritto che il suo unico bene materiale ancora esistente, palazzo Caccia nella città di Novara, sarebbe stato il suo regalo d'addio terreno alla moglie.
Donna Maria Mellerio, però, non volle accettare quell'ultimo scherzo del destino, anzi, dopo essersi consultata con il genero, il notaio Granieri, e con l'altra figlia, donna Eleonora, che da una decina d'anni viveva a Parigi, aveva deciso di cedere la proprietà a Luisa, la quale accettò entusiasta di ritornare nei luoghi della sua infanzia.
Così, trascorso l'ultimo Natale insieme all’adorata nonna, Costanza era stata costretta a preparare i bagagli, per cominciare una nuova vita lontano dalle sue montagne e dalla natura a lei tanto cara, soffrendo in silenzio e non capendo perché, quel nonno che non aveva mai conosciuto, si fosse ostinato a farle tanto male. Ma tutto quello rappresentava il passato, un passato ancora troppo vivido e recente, ma pur sempre passato. Don Armando e i figli continuavano a mantenere lo sguardo vacuo ed indifferente, riscuotendosi dal torpore grazie alla voce squillante della contessa, davanti a loro per spronarli a presentarsi educatamente al nuovo venuto. Si scambiarono strette di mano poco convincenti, quindi entrarono a palazzo, il cielo plumbeo e vagamente screziato sopra di loro.



“È stato un pranzo veramente squisito, donna Luisa! Ravenna è una città magnifica, ricca di storia e di arte, di mosaici, di cultura, ma lasciatemi dire che questo piatto… paniscia se non vado errato, ha catturato il mio palato, che vi assicuro essere assai esigente! Non posso che essere entusiasta della lunga unione che, spero con tutto il cuore, abbiamo appena inaugurato in maniera tanto sublime!”
Il maestro Rossini si pulì gli angoli delle labbra sottili con il tovagliolo color panna, quindi regalò un sorriso soddisfatto alla padrona di casa.
“Voi siete fin troppo gentile, caro maestro! Mi premurerò di portare i vostri complimenti alla cuoca! Ma, prima di ritenervi completamente sazio, aspettate di assaggiare il famoso gorgonzola, un formaggio che letteralmente si scioglie in bocca! E naturalmente il dolce, che vi premetto essere un'autentica prelibatezza! A tal proposito, ritenetevi fortunato, perché avrete l'onore di gustarlo solo in questi giorni!” concluse gongolante la moglie del notaio, indicando alla cameriera, con uno sbrigativo cenno della mano, i piatti sporchi da portar via.
“Cosa intendete dire? Forse i dolci, in questa accogliente città, si possono mangiare esclusivamente a gennaio?!”
L'espressione divertita dell'insegnante di musica non sfuggì a Costanza, che aveva passato la maggior parte del pranzo a torturare posate e tovagliolo, il capo abbassato sulle portate, per evitare gli sguardi della madre e dell'ospite inatteso.
Né il fratello e neppure il padre erano stati particolarmente loquaci, chiusi in un mutismo che, sebbene non dimostrato a parole scortesi, stava facendo infuriare donna Luisa, la quale, sovente e di proposito, si rivolgeva al figlio e al marito solamente per dispetto.
“Si tratta del pane di san Gaudenzio, una specialità che si prepara nella settimana del nostro beneamato patrono: lo abbiamo festeggiato appena due giorni or sono, con una cerimonia nell'omonima basilica presieduta dal vescovo Gentile, grande amico della nostra famiglia. Vi assicuro, maestro, che appena ne assaggerete una fetta, rimpiangerete di non averlo gustato prima!”
L'uomo trangugio compostamente un altro sorso di vino rosso che riempiva l'elegante calice che aveva davanti, quindi levò in alto il bicchiere e propose di brindare al santo del dolce così tanto decantato.
Solo donna Luisa si unì alla proposta, troppo concentrata ad assecondare l'ospite e ad evitare la maleducazione degli altri commensali, per ricordarsi di lanciare l'ennesima occhiata di disappunto a marito e figli, che trascinarono stancamente i calici.








QUALCHE CURIOSITA' STORICA ...




Lo Statuto albertino è stata la costituzione del Regno di Sardegna, a partire dal marzo 1848.
Venne poi adottato dal Regno d'Italia, nel 1861, e rimase in vigore fino alla nostra attuale Costituzione del 1 gennaio 1948.

                                                                           
                                                                                  



Le cinque gionate di Milano è la famosa denominazione data all'insurrezione avvenuta nell'attuale capoluogo lombardo, tra il 18 e il 22 marzo 1848, che portò alla liberazione della città dagli invasori austriaci.
L'evento fu decisivo perché spinse Carlo Alberto, re di Sardegna, a dichiarare guerra al Regno Lombardo Veneto.


La Repubblica di San Marco venne istituita nel marzo 1848 e durò fino all'agosto dell'anno successivo, quando Veneto e Lombardia ritornarono sotto le grinfie straniere.
Fu il frutto dell'insurrezione del popolo contro gli invasori austriaci: a capo del neostato, come presidenti del governo provvisiorio, si autoproclamarono Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, dopo essere stati arrestati dagli stessi austriaci.
La Repubblica si autoannesse al Regno di Sardegna.
                                                       
                                                                    

Daniele Manin (Venezia 1804, Francia 1857, dove venne esiliato)                                  Niccolò Tommaseo (Croazia 1802, Firenze 1874)





L’avvio dei lavori per il Broletto risale all’XI secolo.
La costruzione racchiude quattro edifici, ognuno importantissimo per la storia della città: il palazzo dell’Arengo (ovvero del Comune), il palazzo dei Paratici (delle corporazioni), il palazzo del podestà e il palazzo dei Refendari (sorta di cancellieri, funzionari che rappresentavano le istituzioni e svolgevano compiti di segreteria per la documentazione ufficiale).

Un tempo adibito anche a carcere, ora ospita un’importantissima collezione d’arte permanente, la Galleria d’Arte Moderna “Paolo e Adele Giannoni”, che raccoglie 800 opere pittoriche di epoca compresa tra il 1800 e il 1900, di esponenti nazionali e piemontesi.


Il Duomo o cattedrale di Santa Maria Assunta ha subito numerose rivisitazioni architettoniche, fin dall’anno Mille: sorta sulle rovine di una basilica cristiana, la sua ultimazione avvenne solo nel 1869, ad opera del famosissimo architetto Alessandro Antonelli, non torinese (come magari molti credono) ma originario della provincia novarese.



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Giacomo Filippo Gentile (Genova 1809-Conegliano ligure 1875) venne nominato vescovo di Novara nel 1843: di indole liberale, contribuì a numerose opere caritative ed umanitarie, fondando nuove confraternite e dando risonanza a numerose istituzioni; tra queste vorrei ricordare la Scuola d’Arti e Mestieri Bellini, la Casa d’Industria per i poveri De Pagave, l’orfanotrofio maschile Dominioni e l’Asilo per l’infanzia.
Contribuì alla fondazione del Civico Istituto Brera nel 1858 e all’apertura della biblioteca Civica tra il 1847 e il 1852 .



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La paniscia, il piatto citato dal maestro Rossini, è un primo a base di riso, fagioli, verza, carote, sedano, cipolla, pepe, vino rosso, lardo e salam dla doja (un insaccato tipico della zona in cui è ambientato il racconto, il cui nome deriva dalla doja, il boccale di terracotta in cui viene lasciato a maturare il composto).
Il termine paniscia, invece, trarrebbe origine da una varietà di miglia, con cui si preparava originariamente questo risotto particolarissimo.


Il pane di San Gaudenzio è un dolce di pasta frolla ricoperto di zucchero a velo e granella di nocciole e pinoli, con ripieno di farina di frumento, zucchero, burro, uova, limone ed uva sultanina.



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Capitolo 3
*** La bisbetica domata ***


E’ meglio il silenzio che l’equivoco

Jean Nicolas Arthur Rimbaud (poeta francese, “Il Veggente”, 1854-1891)



"Sool... Mii... Faa... Sii... Laa ..." la mano destra batteva ritmicamente sul ripiano del pianoforte, gli occhi verdi concentrati sulle note ordinatamente distribuite lungo il pentagramma.
"Va bene così, Costanza. Per oggi possiamo considerare finita la nostra lezione! Siete stata brava"
La ragazza sorrise soddisfatta: richiuse il libro di solfeggio e lo depose sulle ginocchia, mentre il maestro Rossini recuperava uno spartito scritto a mano da una cartelletta in cuoio marrone, appoggiata su un tavolino rotondo di fianco allo strumento a corde.
"Adesso statemi bene a sentire: questo è il compito che vi lascio da fare per il prossimo mercoledì. E’ una copia del brano che vi ho suonato prima, voi lo dovrete provare un paio di volte a mani separate e cercare di eseguire a mani unite le cinque strofe iniziali. D'accordo?"
Costanza annuì e rispose che aveva capito, che si sarebbe impegnata per riuscire a svolgere al meglio la sonata.
"Direi che possiamo avviarci verso la sala da pranzo! Comincio ad avvertire un certo languorino!" confidò l'uomo, alzandosi dallo sgabello rivestito di velluto rosso e sistemandosi la giacca nera.
"Che cosa fate ancora seduta?" la redarguì l'insegnante di musica, invitandola con un gesto della mano a seguirlo.
L'ora di lezione era terminata e, come ogni mercoledì, donna Luisa aveva invitato a pranzo Rossini: l’uomo era stato alloggiato nella depandence del palazzo, un vecchio capanno di caccia ormai inutilizzato, nel quale tornava solo per dormire, poiché trascorreva la maggior parte del tempo in giro per la città, a cavalcare o nei salotti della migliore borghesia.
"Voi avete stipulato un contratto con i miei genitori, è così?"
L'interlocutore la fissò divertito, non riuscendo a comprendere la ragione di una simile domanda.
"Certo, come ogni patto di lavoro che si rispetti. Ora che ho soddisfatto la vostra curiosità, possiamo andare?"
Costanza avvertiva la gola diventare arsa e il cuore accelerare i battiti, ma doveva sapere: dopotutto erano trascorse due settimane da quando quell'uomo misterioso era arrivato a palazzo, entrando nelle loro vite.
Nessuno le aveva domandato che cosa ne pensasse di lui, se approvasse i suoi metodi, se si comportasse bene con lei: insomma, aveva tutto il diritto di sapere, di conoscere la verità sui progetti più intimi che la riguardavano.
"Aspettate, non ho ancora finito. Mi piacerebbe sapere se nel contratto che avete firmato vi era anche qualche accenno ad un legame matrimoniale"
Lo sguardo del maestro Rossini la fece avvampare: d’un tratto, infatti, era diventato serio in viso, la bocca sottile tirata, l'espressione mutata in uno sguardo ostile.
Si accarezzò i capelli lunghi e neri, vagamente brizzolati sulle tempie, e avvolti dal solito nastro di velluto, quindi s'informò:
"Mia cara signorina Granieri, di quale matrimonio state parlando? Immagino che quelle stupide voci che hanno messo in giro i miei avversari, gelosi del mio successo, siano arrivate anche alle orecchie della vostra famiglia. Non è forse ciò che è accaduto?”
“Io… sì, ammetto che è così. Dovete scusarmi, ma mia madre era convinta che…”
“Tuttavia” la bloccò, fingendo di non aver sentito “si vede che ancora non ci conosciamo bene. Io sono allergico al matrimonio, detesto qualsiasi condizione mi venga imposta, qualsiasi unione che si prospetti più duratura di ciò che noi uomini definiamo anni! L'eternità non fa per me e, di conseguenza, neppure il matrimonio, perciò vi chiedo di non ritornare mai più sull'argomento: sarebbe un'offesa ancora più grande nei miei confronti, poiché pronunciata da un graziosa fanciulla come voi. Sapete, mi ricordate tanto mia figlia..."
L'uomo ritornò ad avvicinarsi a Costanza, una strana espressione sul volto glabro e allungato: si sedette nuovamente sullo sgabello rivestito di velluto rosso e prese le mani della ragazza tra le sue, fredde per l’angoscia e l'imbarazzo, cominciando ad accarezzargliele teneramente.
"Avete gli stessi occhi, verdi come gli smeraldi. Ma Charlotte è bionda e ha la pelle chiarissima, quasi diafana. Purtroppo, fisicamente ha preso tutto da sua madre, una borghese ed altezzosa inglese. Tutto tranne la mia intelligenza e l'amore per la musica, ovviamente!" puntualizzò, lasciandosi andare ad un sorriso dolce e malinconico.
"Ma... voi non siete sposato! Come fate ad avere una figlia?" ribatté prontamente Costanza, dimenticandosi le buone maniere e dando sfogo allo stupore che si era impadronito dei suoi pensieri.
"Se vi ho appena detto che sono tutte sciocchezze!” s’infervorò nuovamente l'uomo, alzandosi di scatto.
Poi, si passò una mano sul panciotto e, con fare solenne, proseguì:
“Lo so che, forse, non dovrei essere io a mettervi al corrente di certe questioni, ma sarà meglio che cominciate a sapere che per diventare padre o madre non è affatto necessario sposarsi"
Notando lo sbalordimento negli occhi della ragazza e la bocca carnosa aperta in un'espressione di puro stupore, egli preferì tacere e attendere la reazione della sua interlocutrice.
La figlia del notaio abbassò lo sguardo sul libro di solfeggio, cercando di guadagnare tempo, si umettò le labbra con la lingua e deglutì: quindi, si alzò e intrecciò il braccio destro a quello sinistro che l'uomo le stava porgendo, il maestro becchino, come aveva scritto nell’ultima lettera alla nonna, cercando di non incrociarne gli occhi.
Si sentiva una stupida, una ragazzina che aveva interpretato male le parole degli adulti.
Quell'uomo le era apparso sinceramente e profondamente addolorato per la lontananza dalla figlia, sebbene avesse avvertito dell’astio trasparire dalle sue parole.
La cosa che davvero non le andava giù, era che non riusciva a non pentirsi per la misera figura che aveva appena commesso, per il goffo malinteso di cui si era resa protagonista.
Mentre con la mano libera dalla presa si lisciava il tessuto turchese, Costanza avvertì un tenero buffetto carezzarle il braccio.
"Su, cara, andiamo a tavola e non pensiamo più a queste bazzeccole, poiché tali sono da ritenere. Venite, non sopporto vedere il vostro grazioso volto imbronciato per causa mia"





Santa Maria Maggiore, domenica 4 febbraio 1849


Cara nipote,
ti ringrazio molto per la lettera che mi hai fatto avere la scorsa settimana.
È davvero una fortuna che quel vostro garzone compia ogni lunedì il viaggio fino a valle per andare a recuperare il fieno e la biada per i cavalli, altrimenti la nostra corrispondenza non potrebbe essere così celere.
Venendo a noi, ho tante buone nuove da scriverti: per prima cosa, ho i saluti del signor Moretti da inviarti; quell'uomo ancora rimpiange una brava allieva come te, lamentandosi di quasi tutte le altre povere creature finite tra le sue grinfie.
È venuto a prendere il tè, l'altro pomeriggio, e ha trascorso metà del tempo ad elogiare le tue doti di pianista e cantante eccellente, complimenti sui quali non nutrivo il minimo dubbio.
Quando tornerai, mi ha domandato di chiederti di suonare alla festa per il decimo compleanno del figlio, avvenimento che cadrà l'estate prossima: io ho promesso che te lo avrei riferito, anche se ovviamente la decisione ultima spetta a te.
Ma la vera chicca che corre di bocca in bocca, che rappresenta il più importante tra gli avvenimenti che sono accaduti da quando sei partita, riguarda il dottor de Winckels.
Ti starai domandando cosa possa aver combinato quel pover'uomo, tanto mesto e buono da non sembrare neppure di questa Terra.
Invece, per la prima volta, ha stupito l'intera comunità, comunicandoci il suo matrimonio per la fine di questa primavera! Ebbene sì, cara Costanza, il nostro impacciato medico condotto ha chiesto la mano della signorina Bagnasco, la più giovane delle tre figlie del sindaco: immagino l'incredulitá farsi largo sul tuo volto, mentre stai leggendo queste righe, perché ti assicuro che nessuno di noi, in paese, aveva il più piccolo sentore che tra quei due stesse nascendo un tal sentimento, quindi ammetto che sono stati davvero abili a celarlo davanti agli occhi di tutti.
Per quanto mi riguarda, nipote adorata, ho delle novità che ti meraviglieranno positivamente: sono stata infatti nominata Presidentessa de "Il Collegio Mellerio" e de "L’Opera Pia per la salute dei fanciulli".
Ovviamente, il mio riferimento era ironico, perché si sapeva che avrebbero conferito alla sottoscritta l'onore e l'onere di adempiere a compiti così “moralmente gravosi”, come ha tenuto a precisare la baronessa Sgrena.
A volte, essere la marchesa Mellerio ha dei risvolti poco piacevoli, quali appunto dover per forza presiedere a qualsiasi associazione venga in mente al nostro bonario quanto noioso Comitato di vecchie signore borghesi.
Sono felice, però, di dedicare del tempo ad aiutare delle giovani donne e dei bambini che hanno bisogno di tutto, dai vestiti al cibo, dalla legna ai piatti in cui mangiare, perché cosi facendo mi sento meno sola: anzi, se tu sei d'accordo, vorrei far aggiungere il tuo nome all'intitolazione delle due associazioni, dato l'impegno e i suggerimenti di cui mi hai fatto dono durante i lavori per la loro creazione.
L'inaugurazione avverrà alle dodici presso il teatro del paese, con un banchetto offerto dall'avvocato Rusconi - ti lascio immaginare la scarsa qualità dei piatti che serviranno- a cui seguirà un pomeriggio in cui tutti i presenti saranno costretti a ballare musichette di second'ordine e ad ascoltare brani di sconosciuti compositori stranieri, tutti tranne la sottoscritta, perché dopo il discorso di rito che dovrò pronunciare, sarà mia premura defilarmi nell'angolo più remoto che riuscirò a trovare.
Che altro posso aggiungere a questa lettera già densa di cambiamenti? Ti parlerò del tempo e della nostra natura, ben sapendo di non annoiarti: in questi giorni, in mezzo ai banchi di nuvole, si è riaffacciato il sole, un sole timido, certo, data la stagione invernale, ma ti assicuro che i suoi raggi emanano un piacevole tepore.
Adesso, ad esempio, ti sto scrivendo seduta in veranda, l’abetaia che si staglia possente davanti a me, le montagne imbiancate su cui si riflette la luce del nostro astro, mentre le mie spalle e le mie mani di vecchia signora vengono riscaldate dal suo calore…
Non avevo dubbi che, in quella città che  nostro malgrado ci sta separando, la nebbia e un’umida quanto opprimente foschia continuino a rappresentare la medesima compagnia di quarant'anni fa, quando ancora vivevo lì.
Abbi fiducia, cara Costanza, appena le strade saranno libere dal ghiaccio e le giornate torneranno ad allungarsi, ti prometto che potremo ricongiungerci per tutto il tempo che vuoi.
A tal proposito, tua madre mi ha scritto due settimane fa per invitarmi a trascorrere qualche giorno da voi, il mese prossimo, a “svernare”, mi verrebbe da dire: ma tu sai bene che io, in quella città, non voglio mai più metterci piede, mentre non vedo l'ora di poterti riabbracciare, di sentirti camminare per queste stanze, fredde e vuote senza la tua presenza.
Spesse volte mi pento di aver fatto dono ai tuoi genitori del palazzo in cui adesso vivete, non immaginando che tale scelta ti allontanasse così repentinamente da me.
Ma ora basta malinconia: abbraccia Nicolò e digli che, appena potremo, continueremo le nostre partite di briscola.
Ti bacio e ti stringo teneramente,
Tua nonna Maria



Costanza si strinse al petto la lettera e sorrise felice: quei momenti in cui riusciva ad estraniarsi da tutto e da tutti le risollevavano il morale in maniera indicibile, allo stesso modo dell’affettuosa corrispondenza che la legava alla nonna lontana.
Sprofondò nella poltrona di velluto blu, mentre sentiva il corpetto stringerle il petto: inarcò la schiena e ritornò a sedersi composta, sistemandosi il vestito color turchese.
Infilò l'epistola nella busta avorio, sigillata con la ceralacca e le iniziali di donna Mellerio, quindi la nascose nella scollatura, in mezzo ai seni, proprio vicino al cuore.
La sensazione della ruviditá della carta non le dispiaceva affatto, anzi, le ricordava che custodiva un tesoro prezioso, un filo diretto con il passato che le avevano bruscamente strappato.
Poi, alzò lo sguardo verso gli scaffali che inondavano le quattro pareti della grandiosa biblioteca, pronta per ritornare nel salottino cinese, a conversare con la madre e la zia Rosa.
Quel giorno, infatti, oltre al maestro Rossini, donna Luisa aveva invitato a pranzo i Caccia Dominioni, dal momento che erano quasi tre settimane che non li incontrava, da quando cioè i Granieri si erano premurati di organizzare una serata danzante in loro onore.
Costanza aveva così potuto rivedere i cugini, Pietro e Federico, che tanto l'avevano colpita a causa dei loro caratteri completamente all'opposto.
Il primogenito era sempre più cupo ed introverso, mentre il fratello non faceva altro che seminare battute sulla disastrosa situazione che stava attraversando il Regno di Sardegna.
Non nutriva alcuna fiducia nelle doti militari e strategiche di Carlo Alberto, ritenendolo un sovrano debole ed incapace, un burattino nelle mani di inglesi e francesi, e definendolo senza timore il Re Tentenna che "sebbene tra poche settimane, il 28 del corrente mese, vi permetterà di celebrare la Festa dello Statuto, la vostra amata carta dei principii rappresenta uno sberleffo alla vera democrazia! Il diritto di adunarsi pacificamente -ma senz'armi, badate bene-, l'inviolabilità del domicilio e della proprietà, la libertà di stampa, sono tutte mezze verità per tenere buono il popolo!". 
Il notaio Granieri, esasperato da quell’inutile tensione che il giovane stava disseminando, aveva cambiato bruscamente discorso, concentrandosi sui progressi della figlia alle lezioni di musica, pur essendo già a conoscenza della sua indiscussa bravura.
Era continuamente nervoso, constatò Costanza, ancora seduta in poltrona, e anche Nicolò si è comportato in modo esageratamente gioviale: rispondeva alle battute di Federico, spesso e volentieri rincarandone la dose, ma al contrario però, sostenendo infatti che il regnante sabaudo fosse un grande condottiero, provocando così le ulteriori ire del genitore.
Donna Luisa, invece, si era estraniata in un discorso privo di senso con zia Rosa, invitandola ad andare insieme alla messa domenicale nella basilica di san Gaudenzio, ben sapendo dell'inutilità di compiere quel tragitto, quando avevano la cappella personale a loro disposizione: forse, era semplicemente desiderosa di non lasciarsi trascinare in quel mucchio di sciocchezze che era diventato il fastidioso sottofondo del pranzo, e lei odiava sfigurare davanti agli ospiti.
Lo zio Aldo, Pietro e il maestro Rossini si erano inseriti a tratti nella conversazione, solamente quando i due giovani li interrogavano apertamente sulla questione della libertà dall'oppressore, altrimenti rimanevano compostamente in silenzio, i volti abbassati sui piatti da portata.
Forse, si ritrovò a pensare Costanza, Federico non è quel ragazzo frivolo che ho intravisto al ballo. Ha degli ideali, fin troppi. Quello che dice, se ascoltato da orecchie indiscrete, potrebbe rivelarsi un grave danno per la sua incolumità. Per non parlare di mio fratello e della sua ossessione per una guerra imminente. A volte, ho paura che possa compiere qualche sciocchezza.
Pietro, invece, non era cambiato affatto da quella sera di quasi tre settimane prima: il suo mutismo, lo sguardo incupito, gli occhi di un azzurro glaciale e i capelli biondissimi erano gli stessi.
Chissà che cosa gli passa per la mente, quali sono i suoi pensieri, le sue emozioni. È contrario o a favore di un'eventuale guerra di liberazione? È davvero così distante come sembra?
“Oh, ecco dov'eri finita!”
Una donna sui sessant'anni, pallidissima e minuta, gli occhi color nocciola, interruppe il flusso di pensieri della ragazza che, colta alla sprovvista, scattò in piedi velocemente, quasi facendo cadere la poltrona.
“Zia Rosa! Io ero venuta a… a leggere una… ”
“Non devi giustificarti, bambina, non voglio sapere nulla, sta’ tranquilla” la contessa, un elaborato abito scuro che le copriva l'intera figura, lasciando scoperte solo le mani dalle dita piccole ed affusolate, sorrise teneramente alla nipote, avvicinandosi.
“Piuttosto” continuò “tua madre ci raggiungerà per prendere una cioccolata calda. Vuoi unirti a noi?”
Costanza annuì per non essere scortese, pur sentendosi imbarazzata e non sapendo con esattezza il motivo di tanta timidezza: forse, si ritrovò a pensare, il motivo risiedeva nel fatto che era la prima volta in cui lei e quella zia alla lontana stavano davvero vicine, così tanto vicine e da sole, riuscendo persino a contare le scarse e piccole rughe che le solcavano gli angoli degli occhi.
La ragazza ricambiò il sorriso e, per un attimo, fu tentata di chiederle qualche indicazione in più sul profumo inebriante che indossava anche in quell'occasione, ma venne riportata alla realtà da un’improvvisa richiesta della contessa.
“La vostra biblioteca è immensa, forse più grande della nostra. Hai qualche volume da consigliarmi?” s’informò spontaneamente la donna, le mani congiunte, mentre si guardava attorno con aria compiaciuta.
“Non saprei… molti dei libri che vedete appartengono a mio padre. Sono tomi sul diritto romano e su altri argomenti del genere che lui colleziona per il suo lavoro da notaio. Però, vi posso suggerire di dare un'occhiata tra gli scaffali in basso a sinistra, sulla parete vicino la vetrata: lì ci sono le commedie di Shakespeare, come “La bisbetica domata”, o l'edizione integrale del “Decameron” del Boccaccio. Oppure, se preferite, controllando tra qualche ripiano più in alto, potrete trovare il Candido di Voltaire, un libro che a me è piaciuto molto o...”
“Mi pare di capire che sei una lettrice attenta e preparata: questo ti fa onore, bambina. Comunque, grazie per i consigli che mi hai dato: sono certa che mi saranno molto utili”
La donna sorrise nuovamente e si avvicinò agli scaffali che le aveva indicato la nipote.
Costanza la seguì con lo sguardo, poi una crescente curiosità le attraversò la mente, tanto da trasformare subito i pensieri in parole:
“Zia…” esordì timidamente, la poltrona dietro di lei “che cosa mi sapete dire di mio nonno? Mi riferisco al padre di mia madre, naturalmente”
La ragazza strinse le mani a pugno, sperando di non aver combinato un disastro.
“Tuo nonno Ermanno era il fratello di mio marito, tuo zio Aldo…”
“Sì, di questo ero già a conoscenza, ma io intendevo che cosa potete raccontarmi della sua vita…”
La contessa si girò, gli scaffali alle spalle, quindi aprì la bocca ben disegnata per spiegare, la voce bassa e gli occhi persi nei ricordi:
“Il giorno del suo funerale, lo scorso luglio, erano quasi venticinque anni che non lo vedevo, da quando aveva avuto quell’improvvisa quanto tardiva illuminazione di ritirarsi in clausura: tuo nonno era un uomo molto colto, un ottimo padrone di casa e, soprattutto, un abilissimo imprenditore.
Vedi, bambina, nonostante fosse nato conte, quindi avrebbe potuto fare a meno di sprecare il suo tempo e il suo denaro nel commercio di stoffe, aveva davvero talento per gli affari.
Peccato avesse un vizio, che tenne ben nascosto a tutti, il vizio di truffare le persone e, a lungo andare, credo sia stato il senso di colpa a spingerlo in quella direzione, a indurlo a pentirsi della sua condotta a dir poco immorale, preferendo scontare lo scotto appartato in solitudine, senza coinvolgere nessuno della sua vita precedente.
Tuo zio Aldo ci è rimasto molto male, quando accadde: si sentì tradito dal suo stesso fratello, il primogenito, il più affidabile, il più bravo, quello di cui fidarsi.
Non si videro mai più: da allora, anche i rapporti con tua madre, nostra nipote, si affievolirono, perché la marchesa tua nonna non volle più saperne nulla di noi, proibendo alle figlie di continuare ad avere il benché minimo rapporto con la famiglia di suo marito… ma non devi pensarci, bambina. Questi sono fatti avvenuti prima della tua nascita, per i quali ormai non vale più la pena crucciarsi”
La donna si avvicinò alla nipote e le accarezzò una guancia, quindi ritornò a concentrarsi sugli scaffali colmi di volumi rilegati, lasciando Costanza in piedi dietro di lei, incupita e sempre più triste, come quel cielo lì fuori che non smetteva di ingrigirsi, e si rassegnó ad attendere l'arrivo della madre per la cioccolata dal retrogusto amaro.



Il crepitare della brace le stava provocando una piacevole sensazione di abbandono: lo sguardo fisso, perso tra le lingue di fuoco, era come ipnotizzato da quello spettacolo della natura, mentre i ceppi di legno venivano lentamente lambiti ed accarezzati da fiamme ghiotte ed impazienti di divorarli.
La sua cameriera personale, Nina, aveva appena terminato di ravvivare il camino; si era premurata che la padroncina avesse la scorta notturna di candele e che la piccola stufa di maiolica blu fosse ben fornita di carbone, quindi era uscita con un lieve inchino, augurando la buonanotte a Costanza.
È tanto giovane, si ritrovò a pensare la ragazza, ma, pur di guadagnare qualcosa, è costretta a lavorare tutti i giorni, mentre io ho avuto la fortuna di nascere e crescere nella ricchezza. Non mi manca nulla eppure, a volte, mi sembra mi manchi tutto.
Mentre si pettinava i lunghi capelli, scuri e ricci, con la spazzola dal manico in argento che le aveva regalato la nonna, il suo pensiero corse al maestro Rossini e alla rivelazione di cui l'aveva resa partecipe quella mattina, dopo la lezione di pianoforte.
Ha una figlia, Charlotte. È un bel nome, molto aristocratico. Chissà perché non vive con lei… voglio dire, mi ha detto che non si sposerebbe mai, perché detesta gli obblighi, ma per quale motivo viaggia in continuazione, al posto di scegliere un impiego che gli permetta di starle accanto? È un uomo strano, ambiguo. A volte, credo mi faccia persino paura
Costanza finì di pettinarsi e poi andò a letto, la mente inondata dalle parole dell'insegnante di musica, dai discorsi fanatici di Nicolò e Federico e dal racconto di zia Rosa.
Dalle tende accostate, riusciva ad intravedere le fronde dei salici oscillare al cospetto del vento notturno, in lontananza il verso stridulo e ripetuto di qualche civetta.
Non voleva abbandonarsi al sonno, perché erano ancora molte le cose a cui voleva pensare, ma invano.
Si addormentò quasi subito.


QUALCHE NOTA ...

Tutti i nomi che ho inserito in questo capitolo si riferiscono a personalità realmente esistite: il dottor De Winckels è stato davvero un medico, vissuto agli inizi del Novecento (anni Venti, se non vado errato, ma cercherò di ottenere maggiori informazioni).
I Caccia Dominioni, invece, erano un'antichissima famiglia novarese, originaria di Milano (si dice che il capostipite Ardito visse nell'anno Mille), da cui si trasferirono intorno al 1476.
Godettero del titolo di conti ufficialmente a partire dal 1759, sebbene il ramo "puro" dei Caccia si estinse nel XX secolo, a causa della sola discendenza femminile.
Ad oggi, sopravvive il ramo Caccia Dominioni.
Il Collegio Mellerio esiste ancora: ospita un istituto alberghiero e un museo di scienze naturali, ricco di collezioni riguardanti insetti, piante, legni, minerali, rocce, erbari e riproduzioni di fiori, oltre a piccoli cimeli di origine archeologica e paleontologica.
Grazie a tutti i lettori per aver letto anche questo capitolo!

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Capitolo 4
*** Il covo dei rivoluzionari ***


Il coraggio non può vedere cosa c’è dietro gli angoli, ma ci passa accanto lo stesso.

 (Mignon McLaughlin, scrittrice e giornalista americana, 1913-1983)



Un'ombra lo stava seguendo: nonostante si fosse premurato di scegliere le vie meno trafficate, sebbene camminasse rasente i muri e si fosse calato il cappello sulla fronte per non farsi riconoscere, Nicolò avvertiva una strana presenza corrergli dietro, silenziosa e furtiva, ma non abbastanza da impedirgli di accorgersene.
Il giovane non si fece intimorire, continuò invece a camminare di buona lena, imponendosi di non voltarsi, di non girare le spalle, ma di proseguire fino al compimento del tragitto.
L'aria era sudicia, appestata dall'odore delle fogne che, in quella zona della città, la facevano da padrone; il ragazzo si coprì il naso e la bocca con il fazzoletto di seta che recuperò dalla tasca dei pantaloni, e si guardò intorno.
C'era una mezza dozzina di carretti abbandonati lungo i margini della strada, stretta e a fondo cieco; alcuni erano inclinati da un lato, altri perfettamente allineati, mentre ceste di frutta e di legna spuntavano fuori dai teli impiegati per ricoprirle.
Nicolò passò di fianco ad un paio di mendicanti, l'aspetto misero e lercio, i capelli lunghi e insozzati di chissà quale sporcizia, i piedi nudi e neri, nonostante il freddo umido di quei giorni di febbraio.
Il ragazzo continuò a non incontrare il loro sguardo, tuttavia lasciò cadere un paio di monete a testa nelle mani di quei poveri diavoli, l'istante prima di rifugiarsi nell'androne di un vecchio palazzo fatiscente.
Le spalle contro il muro, si tolse con foga il cappello e respirò rumorosamente, gli occhi chiusi per il sollievo, il fazzoletto nella mano chiuso a pugno.
Ce l'aveva fatta, quella misteriosa figura che era certo lo stesse seguendo, ora non poteva più intimorirlo: lo aveva chiuso fuori, anzi, probabilmente era riuscito addirittura a seminarlo qualche strada più indietro.
Sorrise soddisfatto della sua abilità di depistaggio, quindi si guardò intorno.
Il luogo in cui si trovava aveva visto tempi sicuramente migliori: i muri erano quasi del tutto scrostati, mentre l'intonaco, che una volta doveva essere bianco, cadeva letteralmente a pezzi.
Vi era un odore di carbone, verza e legna bruciata che impregnava pesantemente l'aria.
Nicolò cercò di abituare la vista a quel buio che avvolgeva ogni cosa, poi si avviò su per le scale, dei traballanti e scricchiolanti gradini di legno inchiodati alla bell’e meglio, perfetti per scongiurare qualsiasi sorpresa sgradita.
Terminata anche la seconda rampa di scale, il ragazzo si fermò.
Era arrivato davanti a due porte, una di fronte all'altra: si guardò indietro, per vedere che non ci fosse nessuno, quindi si affacciò alla balaustra e lanciò l'ennesima occhiata al piano superiore e a quelli inferiori.
Assicuratosi che nessuno lo avesse seguito, si avvicinò alla porta di sinistra: bussò al telaio di legno, marcio in più punti, e attese che qualcuno gli venisse ad aprire.
Chi è?” pronunciò una voce stentorea, dall'altra parte di quella sorta di barricata.
“Sono lo Svizzero!” rispose solenne ed impaziente Nicolò, gettando sguardi furtivi dietro di lui.
Parola d'ordine?” continuò imperterrito il misterioso interlocutore.
“Piemonte!”
E finalmente l'uscio si aprì.




L'ombra che aveva seguito il figlio del notaio non era affatto il frutto dell'immaginazione del giovane, ma una persona in carne ed ossa.
Per un istante, aveva temuto di averlo perso di vista, di essere stata seminata, tuttavia era prontamente riuscita a ritornare sulle sue tracce.
La misteriosa figura rimase fuori ad attendere il ragazzo per qualche minuto, fino a quando fu costretta ad andarsene.
I due mendicanti, infatti, la stavano fissando in modo insistente, forse per curiosità, forse perché volevano una moneta o, semplicemente, perché non sapevano come trascorrere il loro misero ed infelice tempo.
Il cappuccio del mantello calato sul viso, l'ombra arretrò dalla sua postazione di vedetta.
La strada si stava pericolosamente animando: i proprietari dei carretti lasciati ai margini della viuzza stavano uscendo dalle sudice e piccole botteghe che si aprivano lungo i lati e, ben presto, quella losca figura scarsamente mimetizzata avrebbe potuto destare l'attenzione di qualcuno di loro, rovinando così la faticosa copertura che si era creata.
L'ombra lanciò un'occhiata di disappunto in direzione del fatiscente palazzo davanti a lei, quindi ritornò sui suoi passi, ripercorrendo a ritroso la stradina.
Quando passò di fianco ai due mendicanti, rovistò in una delle tasche della mantella, alla ricerca di qualche spicciolo da donargli; lanciò tre monete, due direttamente nelle loro mani e una per terra, pregustandosi il litigio che ne sarebbe scaturito per accaparrarsi il soldo in più.
Soddisfatta, si affrettò a dileguarsi.



“Granieri!” lo salutò un giovane sui trent'anni, i capelli scuri, lunghi fino alle spalle e tenuti fermi da un nastro di velluto rosso.
Portava dei baffetti ben tagliati, e indossava un completo di lana cotta color prugna e degli stivali neri, non particolarmente lucidi ma inzaccherati sulla punta e sul tacco.
Quando Nicolò entro nell'unica stanza di quel locale, che un tempo doveva essere un alloggio per famiglie disagiate, il ragazzo che lo aveva apostrofato era impegnato ad esaminare una mappa e degli scritti, sparsi ordinatamente su un tavolaccio rotondo, attorniato da una dozzina di giovani.
Accortosi della nuova presenza, alzò gli occhi, neri ed espressivi, allargò le braccia e si avviò verso il figlio del notaio.
“Maffucci, eccomi qui! Spero di non essere troppo in ritardo, ma ho dovuto seminare una persona” spiegò con un sorriso il ragazzo, ricambiando la pacca affettuosa dell'uomo.
“Una persona? Di che cosa stai parlando?” s'informò preoccupato l'altro, allontanandosi di un passo.
“Stai tranquillo, sono riuscito a far perdere le mie tracce. Non l'ho visto in faccia, purtroppo, ma ti assicuro che non abbiamo nulla di cui temere” cercò di tranquillizzarlo Nicolò, avvertendo la tensione calare sui presenti.
“Come fai ad essere sicuro che stesse seguendo proprio te?” continuò innervosito Maffucci, che aveva tutta l'aria di essere a capo del gruppo.
“Io … non ne sono sicuro, ma ho creduto che … ” tentò di farfugliare il nuovo arrivato, mentre percepiva freddi brividi d’ansia percorrergli la schiena.
“Mi deludi, Granieri! Tu non devi credere, tu devi essere sicuro!” gli puntò contro l'indice il trentenne, gli occhi infervorati.
“L'unico ideale in cui puoi e devi permetterti di credere, che devi abbracciare con tutto te stesso, con tutta la devozione e la fedeltà di cui sei capace, è la causa di liberazione, null'altro! Non montarti la testa per il discorso che ci hai tenuto due settimane fa, al circolo: le parole che hai pronunciato davanti a tutti noi sono state fonte di grande ispirazione e di orgoglio, ma non lasciare che la tua mente venga annebbiata dalla fama e dalla gloria terrena!”
Nicolò annuì e abbassò lo sguardo: era stato umiliato, la sua dignità di patriota era stata miseramente calpestata, tuttavia non poteva dar torto al suo capo, perché aveva perfettamente ragione.
Stava per replicare delle scuse, per quanto inutili sarebbero sembrate, quando Maffucci ordinò ad un ragazzo sui vent'anni, i capelli castani e lisci, gli occhi chiari e la corporatura esile, di affacciarsi alla finestra e controllare giù in strada, scrutando con attenzione alla ricerca di una presenza sospetta.
“Non c'è nessuno appostato nelle vicinanze del palazzo, Eugenio” constatò l'interrogato, ritornando ad accostare il misero pezzo di stoffa sudicia che faceva da tenda.
“Molto bene. Sei stato sincero, amico mio, sei riuscito davvero a depistare quell'individuo” lo premiò il giovane, dandogli una pacca sulla spalla e cominciando a gesticolare con enfasi.
“Tuttavia, non dare mai nulla per scontato, accertati prima con i tuoi occhi, rifletti con la tua testa! Poi, solo dopo, agisci!” concluse con un sorriso di incoraggiamento Maffucci, che si avviò verso la finestra, l'unica della stanza, e controllò di persona ciò che il ragazzino gli aveva appena comunicato.
“Dimentichiamoci per un momento ciò che è accaduto! E' arrivato il momento di parlare di cose più importanti! Vieni ... ” continuò il trentenne, invitando Nicolò a seguirlo attorno al tavolo, pochi metri lontano dall'ingresso.
“Vi ho riuniti qui oggi, compagni, perché sono molte le notizie che ho da darvi: per prima cosa, leggete e rifocillate il vostro spirito patriottico!”
Eugenio lanciò sul tavolaccio una copia de “La Gazzetta del Popolo” datata 6 febbraio, mentre la dozzina di giovani si affrettava a scorgere le righe misteriose.
“Mi auguro che tutti voi abbiate già ricevuto informazioni riguardo i fatti che stanno accadendo a Roma: ebbene, se non dovesse essere così, vi illuminerò io”
Si schiarì la gola e, con voce da oratore esperto, enunciò:
“Sentite che cosa scrivono: “Un gran numero di rappresentanti del popolo è già arrivato a Roma dalle provincie, ed ad’ogni istante altri ne giungono. L’importanza degli interessi che si debbono agitare in questa solenne Assemblea è sentita da tutti, e tutti accorrono a conforto e salute della Patria. Sono partiti pel confine napolitano corpi di milizie con cavallerie e cannoni. Il generale Garibaldi si mostra instancabile a Rieti”"
L'uomo alzò lo sguardo dalla pagina, curioso di osservare la reazione destata da quelle parole.
"Sapete queste righe cosa stanno a significare, compagni?! Che prestissimo, molto presto, lo Stato pontificio non esisterà più! Verrà cancellato dalla Storia, perché i nostri valorosi amici romani stanno per instaurare la Repubblica, liberandosi della tirannia del papa!
Tutto ciò deve essere motivo di spinta per noi, motivo di esempio e di orgoglio!”
Maffucci, lo sguardo infervorato e le mani che gesticolavano, guardò ad uno ad uno gli altri affiliati: un ampio sorriso di giubilo gli aprì il volto in un’espressione di gioia, quindi rimase in silenzio.
Quando i presenti fecero per applaudirlo, lui li fermò con un gesto di diniego e, dopo aver battuto i palmi per richiamare nuovamente la loro attenzione, proseguì:
“Molto bene, adesso veniamo a questioni che ci interessano più da vicino. Dunque, questa è la mappa della città: ce l'ha portata il nostro compagno Tommaso, che ha partecipato alla vittoriosa battaglia di Goito, lo scorso maggio” prese a spiegare Maffucci, indicando prima la carta e poi un giovane alto e robusto, il volto pallidissimo e i capelli color carbone.
“Potrebbe rivelarsi utile in caso di necessità: questo posto è un luogo sicuro, ma dobbiamo scovare altri nascondigli, altre case in cui trovare rifugio, se mai dovessimo averne bisogno”
Nicolò annuì serio ed interessato: poi, puntò il dito sugli altri scritti davanti a loro, dei fogli che sembravano antiche pergamene.
“E questi, invece? Che cosa sono?”
“Mi piaci quando fai domande, Granieri!” si entusiasmò l'altro, regalandogli una pacca sulla spalla destra.
“Questi sono i nomi dei nuovi affiliati della provincia. Ovviamente, dovremo distruggere tutto il prima possibile, non possiamo rischiare che qualcuno venga a conoscenza dell'organizzazione. Studieremo i nomi dei nostri nuovi compagni e i loro indirizzi a memoria, passandoci questi fogli a vicenda.
Poi, una volta che li avremo imparati, distruggeremo le carte, in modo da non lasciare tracce. È tutto chiaro?”
Nicolò e gli altri fecero di sì con la testa, quindi attesero ulteriori istruzioni.
“Molto bene, per oggi è tutto. Avrete una settimana di tempo per imparare a memoria tutti i dati che ci sono scritti su questi fogli: io l'ho già fatto, perciò, adesso, tocca a voi!”
Il baffetto rimase in silenzio per una manciata di secondi, creando una volontaria quanta esasperante attesa.
“Granieri! Che ne dici di essere tu il primo?” lo apostrofò avvicinandosi.
“Dal momento che hai rischiato grosso ma sei riuscito a cavartela egregiamente, a te l'onore! Ti consegno i documenti, tieni: tra sette giorni esatti, alla stessa ora, ci ritroveremo qui per offrire ad un altro di voi questo tesoro prezioso. Io, nel frattempo, cercherò di trovare almeno altri due alloggi sicuri” spiegò con una punta di ironia Maffucci, ritornando subito serio.
“Ma, Eugenio” lo apostrofò allibito un giovane dai capelli chiarissimi e gli occhi cerulei, la stessa persona che aveva fatto entrare Nicolò pochi minuti prima “come faremo ad imparare tutti questi nomi, questi indirizzi, senza poterli avere sottomano per il futuro?”
Il trentenne appoggiò le mani sul tavolaccio e guardò negli occhi i presenti; rimase in silenzio per una manciata di secondi, quindi, la voce bassa e profonda, spiegò:
“Voi non dovete perdere tempo a domandarmi e a domandarvi come farete. Non m'importa quale metodo deciderete di usare, quello che m’interessa è che voi impariate questa lista entro una settimana a partire da quando avrete tra le mani i fogli. Immagino che ora vi è tutto più chiaro, non è così?”
La dozzina di giovani uomini annuì ipnotizzata e, senza reclamare o ribattere altro, sciamò verso la porta.
Maffucci aprì l'uscio e, affacciandosi sul pianerottolo traballante, controllò che non ci fosse nessuno.
Si affacciò al parapetto e lanciò un'occhiata in alto e in basso, quindi salutò con una stretta di mano il primo affiliato che uscì.
Ripeté il gesto con gli altri undici e, quando toccò al figlio del notaio, lo rassicurò dicendogli:
“A martedì prossimo, Nicolò. Ho fiducia in te e nelle tue capacità mnemoniche. Viva la libertà, viva l'Italia, viva Carlo Alberto!”
“Grazie, Eugenio, non ti deluderò. Viva la libertà, viva l'Italia, viva Carlo Alberto!”
I due si abbracciarono e uscirono insieme, dileguandosi a distanza di qualche minuto l'uno dall'altro.


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Capitolo 5
*** Una serata a teatro ***



Voglio amore, ché senza questo i soggetti sono freddi, e amor violento.

(Gaetano Donizetti, compositore.
Bergamo 1797- 1848)


I prati che circondavano il giardino del palazzo si erano inzuppati della pioggia che era caduta quella notte, fitta e all'apparenza senza fine:
ad aggravare quel paesaggio spettrale, vi era la solita bassa foschia intrappolata tra gli alberi e i campi incolti, appena visibili oltre i bastioni.
Federico si alzò dalla tavola imbandita per la colazione per andare a ravvivare le fiamme del camino: l’attizzatoio era nero e leggero, un semplice pezzo di ferro adornato dallo stemma della famiglia, che si muoveva con gesti sicuri sotto le abili dita del giovane.
Il secondogenito del conte Caccia Dominioni rimase per qualche istante a fissare il fuoco, il braccio sinistro appoggiato sulla mensola di marmo del camino, la testa dai capelli lisci e mori inclinata in avanti.
Leggere sulle pagine de “La Gazzetta del Popolo” che a Roma, giovedì 9 febbraio, si era instaurata la Repubblica e che il papa Pio IX era fuggito, riparandosi a Gaeta, gli aveva chiuso lo stomaco: come avrebbe dovuto comportarsi, che cosa si aspettavano da lui?
Erano molte le cose a cui doveva far fronte, molte le decisioni che avrebbe dovuto prendere.
Suo fratello Pietro, il figlio perfetto, come lo definiva scherzosamente, lo aveva messo di fronte ad un ultimatum: insisteva a tormentarlo con inutili frasi fatte, cercando di convincerlo che, quello che stava facendo, era troppo pericoloso ed ignobile, il gioco non avrebbe retto ancora per molto tempo, quindi doveva scegliere in fretta da che parte stare.
Briciole di brace volarono sul completo blu scuro di lana e velluto, inducendolo ad arretrare di qualche passo, per non bruciare i costosi pantaloni.
“Federico! Cosa ci fai ancora qui? Credevo ti fossi già preparato, figliolo. La messa inizierà tra meno di mezz'ora e, con le strade dissestate per la pioggia, rischiamo di arrivare in ritardo!”
Il giovane trasalì nell'udire la voce della madre, bassa e perentoria.
Fissò per un istante il lungo abito nero con i pizzi alle maniche del medesimo colore, il cappello verdone legato sotto il mento e la piccola pochette in tinta, quindi puntò i suoi occhi scuri e magnetici in quelli della contessa Rosa.
“Avete ragione, madre. Sarò pronto in un secondo”
Passandole vicino, le baciò una guancia e corse su per le scale, diretto nelle sue stanze.


La basilica di san Gaudenzio, dedicata al protettore della città, si trovava in pieno centro, a qualche centinaia di metri dal duomo.
Come al solito, quella domenica era gremita di fedeli, eleganti nei loro abiti da festa, le donne sulla sinistra e gli uomini sulla destra.
Costanza, sebbene fosse solo la seconda volta che vi entrava, rimaneva sempre affascinata al cospetto dell'immane lavoro architettonico che gli operai dei secoli passati erano riusciti a compiere, offrendo a Dio e a tutti loro quel meraviglioso esempio barocco.
La ragazza aveva scelto uno dei tanti posti laterali, in modo da poter ammirare almeno una delle pareti tappezzate dai meravigliosi e giganteschi dipinti ad olio.
Stava cercando di fissare nella mente il particolare del viso della Madonna, così reale ed irreale al contempo.
Il capo
, inclinato di lato, era stato ricoperto da un velo azzurro, mentre lo sguardo appariva rivolto verso l'alto, da cui proveniva un'abbagliante aura di luce: quando avvertì una mano toccarle il braccio destro, la giovane distolse velocemente gli occhi.
“Cosa stai guardando?” la punzecchiò la madre, donna Luisa, lanciandole un'occhiata di disappunto.
“Nulla, non stavo guardando nulla” rispose a bassa voce la figlia, abbassando il capo.
Alla fine, la moglie del notaio aveva ottenuto dal marito di recarsi a messa proprio in basilica, come aveva proposto a zia Rosa, durante il pranzo di inizio settimana, nonostante a palazzo avessero a disposizione una graziosissima cappella personale.
Costanza, spesso e volentieri, non riusciva a capire la madre, ma ormai non si poneva più domande a riguardo, semplicemente obbediva.
Anche se, come in quel momento, erano infinite le volte in cui avrebbe voluto alzarsi e andare via, lontano da lei e da tutto il resto.
Dal momento che non poteva, si rintanò di nuovo nel suo mondo: levò lo sguardo in direzione della navata, l'altare immacolato e le colonne di marmo bronzeo attorcigliate su se stesse, che svettavano fino al soffitto a cupola, abbellito da angeli e putti.
La ragazza si girò e lanciò un'occhiata in direzione del lato degli uomini, sperando di non venir di nuovo ripresa: con la mano guantata, scostò la veletta di pizzo bianco, quel tanto che bastava per ottenere una visuale completa, quindi scrutò i volti dall'altro lato.
Vi erano moltissimi uomini di mezza età, qualche uomo anziano e pochissimi bambini.
Di giovani ce ne sarà stata qualche dozzina, non di più.
In mezzo a tutti quei banchi di legno intarsiato, Costanza passò in rassegna i posti dove aveva visto infilarsi il padre, don Armando, il fratello, Nicolò, lo zio, il conte Aldo, e i cugini, Pietro e Federico.
Quando riuscì ad individuarli, rimase quasi stupita dalla loro compostezza e solennità: sembravano davvero interessati alla messa che, di lì a breve, avrebbe avuto luogo.
La giovane sperò che Pietro si voltasse a guardarla, ma invano: desiderava conoscerlo più a fondo, capire che cosa gli passasse per la mente, che cosa i suoi occhi vedessero realmente.
Nei due incontri precedenti, durante il ballo in onore degli zii, a palazzo Granieri, e nel corso del pranzo del mercoledì precedente, non si erano mai rivolti la parola, se non per presentarsi e accomiatarsi: per questa mancanza di dialogo, il cugino continuava a rappresentare un mistero per Costanza, la quale lasciò perdere e ritornò a guardare davanti a lei, dato l'ennesimo pizzicotto rifilatole dalla madre.
Dai due rosoni centrali, la ragazza cercò di intuire se fuori avesse ripreso a piovere, ma venne quasi subito distolta dal solenne suono che vibrava al di fuori della basilica, proprio sopra le loro teste.
Finalmente, infatti, le campane annunciarono l'inizio della celebrazione.
E tutti, ordinatamente, si alzarono in piedi, il coro nell'abside che intonava uno dei salmi.




Nel buio della sera, la carrozza correva veloce, le grandi ruote che dribblavano l’acciottolato romano, schizzando le pozzanghere, informi e ormai emaciate per la scarsità d’acqua rimasta.
L’illuminazione a gas era fievole e disseminata in maniera non del tutto uniforme, lasciando scoperte certe viuzze e stradine secondarie.
Arrivando da sud, si riusciva ad intravedere la cupola -non ancora terminata- della basilica, svettare altezzosa tra le abitazioni signorili del centro cittadino.
Vi era una grande folla in piazza Castello, che scendeva ordinata dalle carrozze e si dirigeva verso l’entrata del Teatro Nuovo, a pochi metri di distanza, vicinissima alla chiesa di san Giovanni Battista Decollato.
Sembrava che tutti si conoscessero: si scambiavano occhiate cortesi, sorrisi di circostanza, gli uomini togliendosi i cappelli e le donne agitando con delicatezza una mano elegantemente guantata.
A Costanza, invece, non importava nulla di quella gente, per il semplice fatto di non aver mai visto prima nessuno di loro, piuttosto era interessata al contorno di ciò che l'avrebbe aspettata: era eccitata dalla serata a cui andava incontro, sicura che si sarebbe preannunciata meravigliosa, ricca di buona musica ed emozioni.
Quella mattina, dopo la messa in basilica, zia Rosa aveva invitato la nipote e la sua famiglia a teatro, all’esecuzione de “L’elisir d’amore” di Gaetano Donizetti, morto l’anno precedente, nell’aprile del 1848.
I Caccia Dominioni avevano due palchi riservati, per cui i Granieri accettarono subito di buon grado, senza premurarsi di essere d’intralcio.
Costanza era andata diverse volte a teatro, insieme alla nonna, ma lo stabile che poteva vantare Santa Maria Maggiore era davvero minuscolo, in confronto alla grandiosità e alla luce che emanava quello in cui stava mettendo piede adesso, per la prima volta da quando era arrivata a Novara.
Aveva trascorso l’intero pomeriggio immaginando quale abito indossare -optando, alla fine, per un vestito con la gonna larga color smeraldo, come i suoi occhi, un collier di perle ad impreziosirle il collo-, quale acconciatura farsi pettinare da Nina e, soprattutto, non vedeva l’ora di scrivere ogni particolare a donna Maria, per raccontarle nella lettera successiva l’opera lirica che, era certa, non l’avrebbe delusa.
Quando finalmente raggiunsero l’interno del teatro, la ragazza non poté rimanere immune all’eleganza e alla bellezza degli affreschi che decoravano soffitto e sipario: nello specifico, quest'ultimo rappresentava Ercole in una delle sue famose dodici fatiche, il mitico eroe che si mormorava avesse fondato la città di Novara, ed era talmente reale da dimenticarsi immediatamente di tutto il resto.


Dopo averlo lungamente ammirato, si incamminó in direzione del buffet, che era stato allestito nell’ingresso del teatro: un mastodontico lampadario di cristallo e pietre dure emanava una luce abbagliante, quasi a giorno, riflettendosi sul lungo tappeto rosso che indirizzava gli spettatori verso la platea, mentre ai lati si aprivano le due scalinate in marmo che portavano alle gallerie.
Al momento dell'intervallo, Costanza calpestò il parquet in legno con sommo stupore, fino a raggiungere la tavola imbandita, ampia e rettangolare davanti a lei: adocchiò del liquore alla frutta e, indicandolo al giovane cameriere con i baffi scuri, se lo fece versare in un calice di vetro di Murano decorato.
A cena aveva mangiato poco, più che altro si era premurata di spiluccare un po’ di pane e di assaggiare qualche cucchiaio di zuppa, in quanto aveva lo stomaco chiuso per l’emozione: in effetti, l’opera di Donizetti che stava andando in scena, la stava sinceramente entusiasmando; certo, era solo il primo atto e, naturalmente, si trattava pur sempre di un dramma lirico, nulla che potesse definirsi galvanizzante, ma in quel momento, di tutto ciò che era accaduto dal suo arrivo in città- o per meglio dire, di tutto ciò che non era accaduto- quella serata si stava rivelando la più ricca ed emozionante.
Stava riflettendo sulla capricciosa condotta di Adina e sull’ingenuità di Nemorino, quando vide avvicinarsi Pietro: non si erano seduti vicini, perché lei aveva dovuto prendere posto nel palco con zia Rosa e donna Luisa, come le convenzioni suggerivano, mentre suo padre, il fratello, lo zio e i cugini si erano sistemati nella tribuna di fianco.
La ragazza era stata completamente assorbita dall’opera, tuttavia aveva trovato il tempo per lanciare qualche sguardo in direzione del primogenito dei conti, elegantemente seduto a pochi metri dalle donne.
Con il buio calato sulla sala, non aveva potuto ammirare i capelli chiarissimi e gli occhi color del ghiaccio, che apparivano sempre velati da una strana e silenziosa malinconia.
Quell’improvvisa vicinanza, invece, avrebbe potuto rivelarsi l’occasione perfetta per riuscire a scambiare qualche parola con lui, da soli, essendo tutti gli altri parenti già ritornati nei palchi.
Con la coda dell’occhio, Costanza aveva adocchiato il profilo del giovane che, sebbene non possedesse il fisico atletico del secondogenito dei Caccia Dominioni, riusciva ad intrigarla maggiormente.
“Vi sta piacendo lo spettacolo?” riuscì a pronunciare la giovane, concentrandosi sull’involtino che aveva nel piatto.
“Sì, è una buona versione, anche se quella di Vienna vantava una scenografia migliore”
“Voi siete stato a Vienna?” si stupì la cugina, alzando gli occhi, l’espressione incuriosita sul volto.
L’altro annuì e, un calice di champagne nella mano sinistra, spiegò:
“Due anni fa, per l’esattezza”
Il ragazzo, però, sembrava non vederla: le stava parlando, certo, tuttavia era concentrato su un punto in lontananza, dietro le spalle di Costanza, la quale cominciò a sentirsi di troppo.
Fece per andarsene, quando Pietro la bloccò, fermandola per un polso:
“Sapevate che, sebbene Donizetti non sapesse suonare alcuno strumento, era tra i compositori più richiesti di tutte le corti europee?”
Bevve qualche altro sorso dal sottile calice di vetro soffiato, come se non pretendesse una risposta, quindi proseguì:
“Morì appena dieci mesi fa, in Francia, dopo essere uscito da un manicomio, uno di quei posti in cui la società rinchiude i cosiddetti pazzi. Dicono che divenne matto perché contrasse la sifilide, ma io non ci credo”
Costanza non riusciva a comprendere il motivo di quell’improvvisata biografia: sorrideva educatamente, come il galateo le imponeva; tuttavia, sebbene interessata dalle parole del cugino, davvero non capiva perché continuasse a parlare con quella voce calma e suadente, lo sguardo sempre puntato chissà dove.
“Perché dite questo? Apparite molto convinto che si sia trattato di una sorta di complotto…”
“Infatti lo sono. A mio avviso, è stato eliminato per questioni politiche: Donizetti era membro di certe società segrete che miravano a sovvertire l’ordine prestabilito e, si sa, la rivoluzione, l’aria di cambiamento può far paura a molti”
Il suono della campanella avvertì gli ultimi avventori del buffet di affrettarsi a ritornare ai propri posti, poiché lo spettacolo stava per riprendere.
Pietro finalmente fissò i suoi occhi azzurrissimi in quelli della cugina e, dandole il braccio sinistro, la invitò a salire la scalinata alla loro destra.
Costanza abbozzò un sorriso, felice di quel contatto.
Quando alzò lo sguardo, però, capì che cosa il giovane stesse guardando con così tanta insistenza, appena pochi attimi prima: Nicolò e Federico, infatti, erano seminascosti dietro una colonna in marmo, intenti a discutere.
Si stavano fronteggiando apertamente, cercando di regolare il tono di voce, affinché le altre persone rimaste nell’atrio non li udissero: il primo aveva l’espressione indiavolata, il volto arrossato e continuava a puntare l’indice verso il cugino, che invece non smetteva un attimo di scuotere il capo e di mordersi il labbro inferiore. Non riusciva a comprendere chi dei due accusasse l'altro, e tantomeno era in grado di afferrare il senso generale del discorso, molto simile alle solite arringhe travestite da monologo di Nicolò.
“Allora, cosa stiamo aspettando? Nel secondo atto c’è l’aria Una furtiva lagrima: davvero divina” la spronò il ragazzo, spingendola a proseguire.
Costanza tentò di ribattere, richiamando l'attenzione del fratello, ma ormai Pietro l'aveva spinta verso le scale, l'applauso degli spettatori che li invitava ad accelerare il passo.


QUALCHE NOTA STORICA ...

Papa Pio IX si rifugiò nel febbraio 1849 presso la corte di FERDINANDO II, Re delle Due Sicilie, dopo gli scontri antipapali che videro protagonista la città, nel novembre 1848: il pontefice rimase alla corte dei Borbone fino al 12 aprile 1850, quando la Repubblica Romana era già caduta da nove mesi, dal luglio dell'anno precedente. 
Per quanto riguarda l'instaurazione della Repubblica, come accennato nel capitolo, avvenne il 9 febbraio 1849, con i voti dell’Assemblea Nazionale eletta in precedenza a suffragio universale (parteciparono al voto 250mila cittadini, solamente di sesso maschile).
Fu costituito un triumvirato, composto da Carlo Armellini (morto in esilio in Belgio), Aurelio Saffi (considerato l'erede politico di Mazzini) e dallo stesso Giuseppe Mazzini. Sia Saffi che Armellini aderirono alla Giovine Italia.




Risultati immagini per teatro coccia  L'attuale Teatro Coccia, inaugurato il 22 dicembre 1888

L'attuale teatro di Novara è nato sulle spoglie del Teatro Nuovo, eretto nella seconda metà del 1700.
L'antico progetto era firmato dall'architetto pontificio Cosimo Morelli, e presentava affreschi interni, il corredo fisso di scenografie e il sipario rappresentante Ercole (mitico fondatore della città) realizzati dai fratelli Galliari, scenografi ufficiali della corte torinese.
La costruzione del teatro fu promossa dalla neo società dei palchettisti, costituitasi per questo scopo nel 1775-76: vendeva i palchetti ai suoi stessi membri, mentre una parte dei fondi necessari fu prestata dal Conte Luigi Maria Torinelli.
Esso venne inaugurato nella primavera del 1779, con il dramma in musica "Medonte re d'Edipo".
Nel 1830, fu ristruttutato, e nel 1832 riaperto con l'opera "La Straniera" di Vincenzo Bellini.
Negli anni 1853-1855 nelle sue vicinanze venne costruito un secondo teatro cittadino, il Teatro Sociale, con il quale si accese presto una animata competizione.
Nel 1880 il consiglio comunale acquistò i due edifici, il Teatro Sociale e il Morelli (che dal 1873 aveva assunto la nuova denominazione di Teatro Coccia),  che venne demolito.



Risultati immagini per gaetano donizetti Una foto di Gaetano Donizetti

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La Basilica di San Gaudenzio è stata costruita a partire dall'841 d.C, con continui rimaneggiamenti nel Duecento, Cinquecento e Settecento.
E' famosa per l'annessa cupola, alta 121 metri, ed opera del famoso architetto di Ghemme, Alessandro Antonelli, lo stesso della Mole di Torino
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Capitolo 6
*** Il Fischietto ***


Novara, domenica 25 febbraio 1849


Cara Nonna,
dall’ultima volta che vi ho scritto, sono molte le cose che mi sono capitate: non saprei se definirle positive o negative, sicuramente mi hanno toccato il cuore.
Ieri pomeriggio, infatti, ho accompagnato la mamma e zia Rosa all’orfanotrofio Dominioni, un’istituzione benefica di cui lo zio Aldo è membro onorario, che si occupa di istruire e di insegnare un mestiere ai piccoli della città senza famiglia.
La nostra cuoca ha cucinato delle torte e altri dolci che abbiamo portato con noi, e che i bambini hanno letteralmente divorato, oltre a qualche vecchio abito di quando Nicolò era piccolo, che adesso assomigliano a stracci vecchi grazie alle forbici usate dalla mamma per “renderli meno appariscenti”.
La struttura è fatiscente ma ben curata, ed è gestita da un sacerdote che gode del titolo di rettore. Egli insegna agli orfanelli a leggere, a scrivere e a fare di conto: ci ha accolto con gentilezza, offrendoci del tè che sapeva più di acqua che di infuso.
Ci ha raccontato che, ogni settimana –da lunedì a venerdì- i piccoli ospiti vengono mandati alle varie botteghe della città, appunto per imparare un mestiere, così, al compimento dei diciotto anni di età, potranno uscire definitivamente dall’orfanotrofio e rendersi indipendenti.
Ciò che mi è rimasto nel cuore, però, sono stati i volti dei bambini e dei ragazzi, una ventina in tutto, dei visi smunti e pallidi, il corpo magro, che quasi scompariva dentro le inamidate divise.
Con questo non voglio dire che non vengano trattati bene, tutt’altro, ma è solo la mia sensazione a spingermi a descriverveli in questi termini, cara nonna.
I più piccoli si affollavano attorno alle nostre gonne per attirare l’attenzione ed indurci ad accarezzarli, a prenderli in braccio: la mamma, appena ho fatto per abbassarmi ed issare uno di essi contro il mio petto, ha cercato di cambiare discorso, inducendo il sacerdote che ci stava facendo da guida a proseguire la visita.
Zia Rosa, invece, ha voluto soffermarsi ancora qualche istante, permettendomi di abbracciare un paio di bambini particolarmente insistenti: avranno avuto tre, quattro anni, e mi guardavano come se fossi una regina, non lasciando un solo istante la mia mano.
Il loro sguardo mi rimarrà impresso nella memoria per sempre: quanto vorrei poter fare qualcosa di più per loro, poterli portare a casa e accudirli...
Cercherò di recarmi tutte le settimane in orfanotrofio, e farò di tutto affinché trovino al più presto una famiglia.
E, ora, veniamo a un avvenimento che ci tocca più da vicino, poiché riguarda Nicolò: è sempre più strano, nonna, ha in testa un sacco di sciocchezze sugli austriaci e la libertà del popolo italico, idee che mi fanno molta paura.
Questa mattina, a colazione, lui e papà hanno di nuovo litigato, in quanto la mamma ha ritrovato l’ennesima rivista de “Il Fischietto” dietro uno dei cuscini del sofà: lei ha fatto finta di niente, all’inizio, rimandando a più tardi i soliti rimproveri da elargire.
Ma, quando il papà è sceso per sedersi a tavola, ha udito qualche stralcio della conversazione tra Nicolò e la mamma, la quale non è riuscita a starsene zitta e… vi lascio immaginare le urla di tutti, solo io e le cameriere siamo dovute rimanere in silenzio, altrimenti chissà come sarebbe andata a finire, gli schiaffi sarebbero toccati anche a noi.
E’ stata una scena molto triste ed improvvisa: non voglio farvi preoccupare, nonna, ma la situazione è stata così piena di amarezza che ho bisogno di sfogarmi con qualcuno.
Adesso Nicolò è uscito di casa, dicendo che sarebbe andato al circolo dei giovani letterati, una sorta di associazione culturale che, a mio avviso, gli ha fatto il lavaggio del cervello.
Nessuno di noi è riuscito a trattenerlo, anzi, si è portato appresso persino la rivista incriminata.
Per finire, nonna, ho da raccontarvi ancora una cosa: questa sera siamo stati invitati dai conti Cabrino, clienti di papà, per una veglia danzante.
Ci sarà l’orchestra, ovviamente, e prima verrà allestito un breve spettacolo teatrale, almeno così hanno scritto sul biglietto che ci è stato recapitato.

Spero di divertirmi, anche se nutro ben poche speranze: l’opera lirica “L’elisir d’amore” di cui vi ho parlato nella precedente lettera, mi ha talmente entusiasmato, che non penso riuscirò a dimenticarla.
Perdonatemi, solo ora mi sono accorta di non aver smesso un attimo di parlare di me e dei problemi che mi affliggono: voi come state, cara nonna? Com’è il tempo? Qui, per fortuna, non vi è più nebbia, ma solo foschia, soprattutto la sera: le giornate, lentamente, stanno diventando sempre più chiare e lunghe.
Non vedo l’ora di poter ritornare da voi, di potervi parlare di persona, di abbracciarvi.
Sono curiosissima di vedere il mio nome accanto al vostro, nell’insegna de “Il Collegio Mellerio” e de “L’Opera pia per la salute dei fanciulli”: la vostra idea è stata davvero generosa e mi ha commosso, tanto più che il sindaco, il signor Bagnasco, ha accettato così repentinamente il vostro suggerimento di appena un paio di settimane fa.
Mi mancate molto, per questo ho deciso di allegarvi una copia dell’ultimo brano che il maestro Rossini mi ha insegnato: a proposito, non è l’uomo nero di cui vi ho parlato un paio di lettere fa, il becchino che incute timore, tutt’altro, è un ottimo musicista –forse, più del signor Moretti- e un piacevole conversatore, tanto più da quando mi ha confidato di avere una figlia lontana, nelle isole inglesi.
Fatemi sapere se la sonata è di vostro gradimento: mi immaginerò di essere accanto a voi, mentre la eseguirete.
Vi bacio teneramente e vi invio i miei più affettuosi saluti,
Costanza



Nicolò entrò come un fulmine al circolo: si guardò intorno alla ricerca dell’amico Maffucci, invano.
Fece qualche passo verso il salottino da fumo, ma non era neppure lì.
Salì le scale, i gradini di marmo rivestiti da un lungo tappeto rosso e blu, fino ad arrivare alle stanze in cui, dopo un certo orario, la sera ci si poteva intrattenere con una “piacevole” compagnia, composta da amabili signorine con le quali trascorrere la notte.
Aprì tutte le porte che trovò sul piano, quindi ridiscese dabbasso.
Il figlio del notaio appariva impazzito, gli occhi scuri che analizzavano la corporatura di tutti i presenti, alla ricerca del capo degli affiliati.
Domandò a un paio di camerieri che si stavano dirigendo verso la sala ristorante, i vassoi con dello champagne nell’apposito secchiello, ma anche loro non seppero riferirgli dove fosse Eugenio.
Nicolò stava perdendo le speranze, così si lasciò sprofondare in una delle poche poltrone libere: la morbida pelle con cui era rivestita, gli diede immediatamente conforto, facendolo calmare almeno per qualche istante.
Socchiuse gli occhi e si passò una mano tra i folti capelli ricci: aveva bisogno di parlare con qualcuno, doveva sfogarsi con una persona di fiducia, ma nessuno dei loro compagni si trovava al circolo.
Recuperò dalla tasca interna “Il Fischietto”, sfogliandolo meccanicamente: si chiese come un giornale, un innocuo ammasso di carta stampata, avesse potuto far così tanto infuriare i suoi genitori.
Suo padre era diventato un uomo ottuso, altro che vantarsi di aver conosciuto Mazzini e di aver preso parte alla Carboneria, che non riusciva a comprendere l’importanza di un’azione mirata contro quei porci degli Austriaci, né comprendeva quanto fosse fondamentale, addirittura vitale, che scoppiasse una guerra, una guerra di liberazione per l’Italia intera.
Rifletté anche sul comportamento che aveva tenuto la madre, da stupida signora annoiata che le imponeva il suo rango sociale, una donna che si spaventava per nulla, solamente in grado di strillare e di elargire inutili quanto dannose minacce.
Si tranquillizzó ripensando alla settimana precedente, quando al vecchio rifugio segreto era stato elogiato da Maffucci per essere riuscito ad imparare a memoria, nel tempo prestabilito, la lista di nomi dei nuovi affiliati della provincia: aveva dovuto recitare i dati davanti al resto del gruppo, come una noiosa e lunga poesia, ma vi era brillantemente riuscito.
Non aveva avuto incertezza alcuna, perché, nei sette giorni antecedenti, quasi non aveva dormito la notte, pur di riuscire nel compito che gli era stato affidato: ogni mattina, subito dopo colazione, si chiudeva nelle sue stanze, e cominciava a leggere quei nomi, poi li ripeteva ad alta voce, mormorando perché nessuno lo sentisse, quindi di nuovo, e ancora e ancora, fino all’ora di pranzo.
Il pomeriggio, fino a sera, la storia si ripeteva: quell’elenco se lo sognava persino la notte, lo biascicava nel buio, prima di andare a dormire, come una nenia infantile, come le preghiere che la madre gli aveva insegnato da bambino.
Sentì le campane di una delle tante chiese sparse per la città risuonare dieci rintocchi: perché è ancora così dannatamente presto? si domandò il ragazzo.
Dove avrebbe potuto andare? Lì, si sentiva al sicuro, certo, ma non era come a Santa Maria Maggiore, dove quando c’era qualcosa che lo preoccupava, quando voleva semplicemente liberare la mente dai pensieri, si recava a passeggiare per le ampie valli incastonate dalle montagne, in mezzo alla natura più autentica, tra le abetaie, rifugio sicuro per i nidi dei picchi, fino a riuscire ad udire i versi striduli delle aquile.
A volte, doveva ammettere che sua sorella aveva ragione: quella libertà di cui godevano quando vivevano in paese, purtroppo, in città non erano più padroni di usufruirne. E poi, gli mancavano le partite a carte con nonna Maria e...
“Eccolo qui il mio amico Granieri!”
“Maffucci, sei proprio tu?!”
Nicolò si alzò dal divanetto e gli andò incontro, abbracciando Eugenio, stupito da quella dimostrazione d’affetto in pubblico.
“Ti prego, ho bisogno di parlarti. Hai tempo da dedicarmi?”
“Per te sempre, caro compagno! Forza, seguimi!”
I due giovani salirono le scale ed entrarono in una delle numerose stanze: era piccola, con il mobilio bianco e le tende spumose verdi.
“E’ da un po’ che ti aspettavo, credevo che oggi non saresti venuto al circolo …”
“Ma che dici? Oggi è domenica, come potrei non venire? E poi, devo tenere la mente libera: questa sera mi incontrerò con la mia bella Elvira! Ti ricordi quel fiore di ragazza che ti ho presentato la scorsa settimana? Questo è il nostro nido d’amore, caro mio! Sapessi quanto ci divertiamo insieme…”proseguì trasognato.
“Sì sì, mi ricordo di lei e della sua bellezza, ma sono qui perché ho bisogno di aiuto, Eugenio. Ho litigato con mio padre, stamane, e non ho intenzione di tornare a casa. Puoi aiutarmi a trovare un posto in cui sistemarmi per qualche giorno?”
Maffucci si tolse il cappello nero e lo appoggiò sul comò.
Guardò con fare falsamente allibito l’interlocutore davanti a sé: i suoi occhi scuri e magnetici squadrarono l’amico dalla cima dei capelli alla punta degli stivali, perfettamente lucidati; si lisciò i baffetti tagliati accuratamente, per poi scoppiare in una fragorosa risata, rivelando dei denti bianchissimi e regolari.
“Di cosa parli, Granieri?!”
“Non chiamarmi così! Da adesso sarò solo Nicolò: non voglio avere più niente a che fare con la mia famiglia!”
L’altro giovane gli si avvicinò, regalandogli una pacca sulla spalla sinistra.
“Ascoltami, sei tra i più validi e fedeli compagni che possiamo vantare, per questo devi cercare di mantenere un certo contegno: niente idee azzardate, niente colpi di testa o sciocchezze varie. Abbiamo bisogno anche dell’appoggio economico di tuo padre per realizzare i nostri progetti…”
“Ma lui non condivide i nostri ideali! Guarda!” continuò con fervore, mostrandogli il giornale che aveva scatenato quell'inaspettato putiferio.
“E allora? Il Fischietto è una semplice rivista satirica, una testimonianza sincera ed accurata di ciò che succede in questo mondo ingiusto! E’ normale che, davanti ad esso, molti borghesi -e non solo, ti assicuro- storcano il naso e chiudano gli occhi: temono la reazione del popolo, la vera rivoluzione che presto arriverà! Lo capisci?”
Maffucci recuperò dalla tasca interna dell’elegante giacca che indossava -un completo di lana blu notte- un sigaro tra i più costosi in circolazione, e lo offrì con una strizzatina d'occhio a Nicolò, che lo scaraventò per terra.
Eugenio rimase sconcertato per un istante, poi sorrise, si abbassò e lo recuperò: si voltò di spalle e, sbirciando in un portagioie di porcellana bianca, che aveva tutta l'aria di conoscere molto bene, recuperò un fiammifero con cui accese senza fretta il sigaro.
“Fatti dare un consiglio disinteressato: non ti azzardare a comportarti mai più in questo modo, mai più, perché la prossima volta sarai tu a finire sul pavimento. Intesi?” precisò con voce bassa e roca.
Si voltò e si avvicinò verso l’altro: gli mise una mano su un braccio, guardandolo dritto negli occhi, quindi continuò.
“E’ vero, io sono tuo amico, ma ricordati che mi devi portare rispetto. E ora, andiamo! Fatti offrire da bere!”
Nicolò rimase impalato davanti ad Eugenio, ritornato gioviale e sorridente come sempre. I pugni stretti e lo sguardo abbassato sugli eleganti stivali neri di Maffucci, si sentiva le gote avvampare, una rabbia crescente farsi largo nel suo corpo.
Uscì senza guardarlo, sbattendo rumorosamente la porta, e giurando che non l'avrebbe data vinta a nessuno, né al padre né a quel damerino di avvocato donnaiolo.







NOTA DELL'AUTRICE:

Ciao a tutti, cari miei lettori! Vi lascio con le solite note storiche, ringraziandovi immensamente del supporto che mi donate, leggendo la mia storia!
Mi rendete tanto, tanto felice!

L'orfanotrofio maschile Dominioni venne fondato a Novara nel 1792, da Francesco Dominioni, capitano di origine milanese.
Rimase attivo fino agli Ottanta del secolo scorso, per poi essere progressivamente abbandonato, fino a quando, nel 1994, venne passato di proprietà, dalla giurisdizione del Comune all'Archivio di Stato.
Tutto ciò che ho scritto su questa "pia istituzione" è autentico!

"Il Fischietto-Bizzarrie d'attualità", invece, è stata una rivista satirica pubblicata per la prima volta nel 1848, a Torino. Divenne quotidiano solamente cinque anni dopo, e rappresentò un importante esempio di appoggio risorgimentale alle vicende della penisola, sebbene sostenesse apertamente solo la politica di Cavour e decisamente meno le imprese garibaldine.
Nel 1916 cessò le pubblicazioni, nonostante una debole ripresa nel 1923, andata poi a vuoto.



     Il primo numero, novembre 1848

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Capitolo 7
*** La festa di compleanno ***



Chiunque voglia sinceramente la verità, è sempre spaventosamente forte.

(Fëdor Michajlovic Dostoevskij, Mosca 1821-San Pietroburgo 1881)


Donna Luisa aveva appena bevuto un bicchierino di rhum: era un’abitudine che aveva acquisito da qualche mese, da quando, per sbaglio, lo aveva scambiato per il liquore alla pesca che si faceva preparare appositamente da una piccola distilleria di Santa Maria Maggiore.
Aveva avuto un colloquio assai spiacevole con il maestro Rossini, quella mattina, prima di pranzo, per questo era così nervosa, e aveva bisogno del sapore aromatico del rhum.
Dopo che Costanza era uscita dallo studiolo dove si tenevano le sue lezioni di pianoforte, la contessa Caccia aveva atteso che l’insegnante di musica rimanesse da solo, per potergli parlare del suo benestare a corteggiare la figlia.
L’uomo era stato assai scaltro, in quanto aveva già compreso quale piega stava per prendere la conversazione, quindi, con la scusa di dover scrivere una lettera assai importante, si era dileguato verso la dépendance che gli era stata messa a disposizione, nel parco del palazzo, lasciando la moglie del notaio con un pugno di mosche in mano.
Quel borioso, così pieno di sé! Come si permette di trattarmi in questo modo e, soprattutto, di rifiutare la mano della mia Costanza?! Una ragazza tanto virtuosa e giovane, di ottima famiglia, erede dei conti Caccia, trattata come la più infida delle meretrici! O bontà divina, aiutaci tu!
Donna Luisa trangugiò un altro mezzo bicchierino di rhum, la bottiglia appoggiata sul vassoio in argento sopra il tavolino di legno, vicino alle vetrate del salottino da fumo.
Si sedette su una delle tre poltroncine di velluto chiaro, riflettendo sul da farsi.
Di certo non posso mandare via un tale genio della musica solamente per una questione amorosa. Inoltre, a pensarci bene, è troppo vecchio per la mia unica figlia. Un uomo di mondo come lui, un personaggio del suo calibro, abituato a viaggiare in continuazione, in gioventù sarà stato come i marinai, una donna in ogni porto! Per il momento, cercherò di mandare giù il boccone amaro che mi ha servito, pensando ad una soluzione alternativa. A tutto il resto penserò più avanti!
Soddisfatta delle sue elucubrazioni, la contessa si alzò dalla poltrona e, indecisa se versarsi per la terza volta quel liquore tanto gustoso, alla fine optò per uscire e andare in città.
Aveva ancora molte cose da compiere prima di quella sera, per cui doveva sbrigarsi.
Ordinò che la carrozza venisse preparata e, intanto, andò nelle sue stanze a cambiarsi d’abito.



Il salone da ballo era quanto di più luminoso Costanza avesse mai visto: la cena era stata lunga e noiosa, la tavolata composta da commensali che non conosceva minimamente.
Le portate sembravano in numero infinito, la maggior parte delle quali non erano neppure di suo gradimento, ma adesso, finalmente, la serata stava prendendo la giusta piega, adatta alle sue aspettative.
Vi era un’abilissima orchestra composta da flauti, violini e pianoforte che intratteneva piacevolmente gli ospiti, mentre dozzine di coppie si apprestavano a volteggiare al ritmo di valzer, creando vertiginosi cerchi di abiti colorati.
Più tardi, si esibì anche una cantante di mezza età, i capelli rossi raccolti in un’elaborata acconciatura, elegantissima in una lunga quanto pomposa veste nera, ricca di dettagli in pizzo.
Il viso era molto bello, peccato fosse spalmato di cerone, e la bocca carnosa, non appena cominciò ad intonare soavi arie liriche, romanze e barcarole, calamitò l'attenzione dei presenti.
Poco prima della mezzanotte, uno stuolo di camerieri spense tutte le candele presenti nel salone, per poi apprestarsi a portare la torta di compleanno per festeggiare degnamente il signor conte.
Aldo Caccia, infatti, quel giorno di inizio marzo, compiva sessantotto anni, due in meno di quanti credeva Costanza, il primo giorno che lo aveva incontrato, ormai un mese e mezzo addietro.
Era un uomo assai schivo, ma generoso con i più bisognosi e non solo: la nipote aveva subito notato una luce affettuosa attraversargli gli occhi cerulei, ogni qual volta si rivolgeva ai più giovani, come se fosse felice di vedersi circondare da tanta gente ancora nel fiore degli anni.
Non amava parlare molto, tuttavia, quando necessario, dispensava sempre parole buone verso i suoi interlocutori, la voce bassa e roca, la cadenza suadente che ipnotizzava l’uditorio.
Aveva delle mani lunghe, molto magre, come le dita affusolate che apparivano quasi ossute, con cui aveva il vizio di toccarsi i pochi ma folti ciuffi arancioni che ancora poteva vantare in testa, ogni qual volta non era d’accordo con qualcosa che veniva detto.
Parte delle candele vennero riaccese e, all’istante, si levò in aria un caloroso quanto spontaneo applauso da parte degli invitati.
Accanto allo zio Aldo vi era la zia Rosa, che gli stampò un casto bacio sulla guancia sinistra.
Costanza riuscì ad intravedere più avanti i suoi genitori e il fratello, che era stato quasi trascinato a forza a quella festa, poiché, da quando era accaduto quel tremendo litigio a causa de "Il Fischietto", una decina di giorni prima, Nicolò si limitava a trascorrere pochissimo del suo tempo a palazzo, preferendo rintanarsi chissà dove.
Quella notte, il giovane aveva vagato per le strade della città, ritornando a casa solamente un paio di ore prima del tramonto, cercando di fare la parte del figliol prodigo e pentito.
Avrebbe voluto ubriacarsi, per dimenticare l'amarezza di quella domenica, ma in realtà non voleva che la sua mente cadesse preda dell'oblio dell'alcol, annebbiandogli i sensi e la lucidità di cui era così orgoglioso...
La sorella stava per avvicinarsi alla sua famiglia, per andare nuovamente a rinnovare i propri auguri allo zio della madre, quando avvertì una presenza dietro di lei, una mano che le sfiorava un braccio.
La ragazza si voltò e si ritrovò a fissare gli occhi azzurrissimi del cugino Pietro.
“Vi state divertendo?” le domandò sottovoce, sussurrandole ad un orecchio, poiché gli applausi stavano scemando solo in quel momento e, mentre una mezza dozzina di camerieri si affrettava a tagliare la torta, l’orchestra aveva efficientemente ripreso a suonare.
“Sì, grazie. L'organizzazione è davvero impeccabile, vi faccio i miei complimenti”
Costanza s'irrigidì, non riuscendo a reprimere un brivido che le attraversava la schiena, principescamente avvolta da un abito blu ciclamino.
“Grazie, ma il merito è di mia madre. Lei ci tiene sempre a fare bella figura con gli ospiti. Invece, permettetemi di ringraziare voi e la vostra famiglia per aver partecipato ai festeggiamenti. Non vi ho quasi vista per l’intera serata: con tutta questa gente, ho dovuto assolvere al mio ruolo di primogenito, quindi scusatemi se non sono venuto prima a salutarvi”
La giovane non sapeva che cosa rispondergli: ogni volta che lo incontrava, lo trovava sempre più strano, il suo atteggiamento all’inizio era sfuggevole, per poi rivelarsi premuroso ed attento, proprio come in quell'occasione.
“Non dovete crucciarvi. A tavola, ho avuto una buona compagnia…” mentì, mentre ritornava a fissare davanti a lei.
“Mi fa piacere. E’ da quella sera a teatro che non abbiamo avuto occasione di incontrarci… siete più andata ad assistere a qualche altro spettacolo? Anzi, a tal proposito, se vorrete allietarmi con la vostra piacevole compagnia, domenica prossima daranno “Il barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini. Lo conoscete?”
La ragazza annuì, disse che, seppure non conoscesse la trama, ne aveva sentito parlare.
“Sapete qual è la cosa buffa? Il mio maestro di pianoforte si chiama Rossini, ma mi ha rivelato di non essere imparentato con il famoso compositore, anche se lui, da quanto hanno riferito a mia madre che l’ha scelto, è assai stimato: ha lavorato a Milano, Venezia, Ravenna, persino a Londra!” concluse con un sorriso di ammirazione la giovane, sentendosi maggiormente a suo agio rispetto a solo qualche attimo prima.
“E’ da tanto che suonate?” continuò Pietro, prendendo i due piattini con la fetta di torta che gli stava porgendo un giovane cameriere in livrea.
“Sì, abbastanza. Sono dieci anni. Quando abitavo a Santa Maria Maggiore, il signor Moretti, il mio insegnante, mi dava anche lezioni di canto”
Costanza cominciò a sbocconcellare di gusto il dolce alla crema, aspettando che il cugino dicesse qualcosa.
“Non mi avete risposto, però. Verrete a teatro con me?”
La ragazza alzò il viso verso di lui e, posando la forchetta in argento, annuì.
“Se i miei genitori me lo permetteranno, sarà un onore. Vi ringrazio fin da adesso per la possibilità che mi state offrendo...”
Dopo un paio di minuti, quando entrambi finirono di mangiare e bevvero un calice di champagne portato da un altro cameriere, questa volta di mezza età, Pietro riprese la parola:
“A proposito de “Il barbiere di Siviglia”, la scorsa settimana mi è stato regalato un libro di uno scrittore russo, in cui vi è un accenno all’opera di Rossini. L’autore è un tale Dostoevskij, non credo lo abbiate mai sentito nominare”
“No, in effetti non lo conosco…”
“Comunque, il titolo del volumetto è "Le notti bianche": è un romanzo molto breve, meno di un centinaio di pagine, ma credo sia più adatto ad una giovane fanciulla come voi che a uno come me. Sapete, si parla di sogni, di amore…”
La cugina rimase per un attimo interdetta: che cosa stava cercando di insinuare? Che lei fosse una stupida ragazzina con la testa piena di frasi e idee tratte da inutili romanzetti feuilleton?
“Credo abbiate sbagliato genere di persona, Pietro”
“Oh, non credo. Vedete, io intendevo dire…“
“Se avete voglia di prestarmelo perché lo considerate un buon libro, allora accetteró volentieri il vostro gesto. Altrimenti, potete anche risparmiarvi la fatica di andare a recuperarlo!”
Costanza si stupì delle parole che aveva appena pronunciato: era la frase più audace che avesse mai pronunciato in vita sua, soprattutto perché rivolta ad un uomo che, in pratica, conosceva da meno di due mesi.
Arrossì ed era già pronta per ribattere, scusandosi dell’impetuosità con cui gli aveva risposto, ma il giovane si arrese ad una specie di sorriso, una smorfia che perlomeno gli assomigliava vagamente.
“Avete ragione, sono stato maleducato a pensare che voi foste quel tipo di donna. Perdonatemi, davvero. Se volete accompagnarmi in biblioteca, sarà mia premura donarvelo già questa sera”
Lei annuì e lo seguì, dietro di loro i primi ospiti che tornavano a casa.


“Eccolo qui!” esclamò il cugino, mostrandole il libriccino, un volume rilegato ma davvero poco corposo.
“Grazie, lo comincerò a leggere quanto prima. Se domenica dovessi venire con voi a teatro, vi farò sapere come l’ho trovato”
La musica continuava qualche stanza più in là, come un sottofondo molto attutito, il chiacchiericcio degli invitati ancora rimasti che riecheggiava lontano.
“Perché non avete voluto dirmi nulla di vostro fratello e di Nicolò?” domandò improvvisamente la ragazza, guardandolo negli occhi.
“Quella sera all’opera mi sono accorta di come li guardavate, mentre stavano litigando. Voi sapete qualcosa, non è così? Vi prego, ditemi la verità! Sono molto preoccupata per questa rivoluzione che dicono ci sia nell’aria, per una guerra che mio fratello farnetica come fosse una profezia…!”
Pietro richiuse la vetrinetta di un’anta della biblioteca, poi ripose la chiave in un elegante portacenere argentato, quindi fissò lo sguardo impenetrabile in quello della cugina.
“Non so cosa dirvi. Li ho veduti che stavano discutendo, certo, ma come li avete notati voi: credetemi, la mia era semplice curiosità…”
"Penso invece ci sia qualcosa che non mi avete detto, qualcosa di importante che…”
La porta della stanza si aprì all’improvviso, lasciando entrare Federico, il secondogenito dei Caccia.
“Cugina cara, i vostri genitori vi stanno cercando! Sapendo da mia madre quanto amate i libri, ho avuto la giusta intuizione di venirvi a cercare qui! Allora, volete seguirmi?”
Poi, vedendo il fratello in piedi a pochi passi di distanza dalla ragazza, le si rivolse bonariamente:
“Lasciate stare Pietro! E’ sempre così… noioso e melanconico! Stasera mi avete fatto davvero felice ballando con me! Quasi non ci potevo credere!”
Costanza lanciò un’occhiata verso l’altro giovane, impassibile, le mani dietro la schiena, quindi, il libro ben stretto contro il vestito blu ciclamino, si decise a seguire il cugino minore, non contenta della vaga risposta che aveva ottenuto.





QUALCHE NOTA ...

"Le notti bianche-romanzo sentimentale" è un racconto breve di Fëdor Dostoevskij, scritto nel 1848, l'anno prima dell'ambientazione della storia.
Il titolo rimanda alla peculiarità della Russia del nord, in cui il sole, per un determinato periodo dell'anno, tramonta dopo le 22, per il cosiddetto fenomeno del "sole di mezzanotte" o, appunto, delle notti bianche.
Per quanto riguarda Rossini e il suo "L'elisir d'amore", ne parlerò nel capitolo dedicato!
A presto!

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Capitolo 8
*** L'incontro ***




Don Armando Granieri aveva appena salutato l’ultimo cliente della mattinata: grazie alle vecchie conoscenze della moglie, donna Luisa, e a quelle più influenti degli zii di lei, i conti Caccia, era riuscito ad ottenere un discreto giro d’affari anche in quella nuova città, diventando ben presto un punto di riferimento per le questioni burocratiche dell’intera comunità.
Nonostante la notorietà negli ambienti nobili e alto borghesi, nelle ultime settimane il notaio era sempre pensieroso e meno interessato agli affari: la sua preoccupazione era dettata dallo strano comportamento del primogenito, Nicolò, l’unico maschio che ancora poteva vantare, dopo la morte in culla dell’altro maschio, quasi trent’anni addietro.
L’uomo, seduto sull’elegante scranno intarsiato, i gomiti poggiati sui braccioli, guardò la marea di carte e documenti davanti a lui, ben impilati sulla scrivania di ciliegio, gli occhi chiari fissi sul calamaio e una dozzina di buste che aveva ricevuto per delle consulenze.
Si passò una mano sulla fronte, da cui spuntava una chioma di un biondo sbiadito, intessuta di fili grigi: che cosa avrebbe dovuto fare perché Nicolò rinsavisse, affinché ritornasse il giovane sorridente e goliardico di qualche mese addietro?
Era seriamente in ansia e disorientato per quella spiacevole situazione, per la quale non riusciva trovare soluzione alcuna.
Si alzò, lo sguardo basso, e si diresse verso la finestra alle sue spalle, che si affacciava sulla chiesa della Santissima Trinità al Monserrato: scostò i tendoni bianchi e pesanti, dando un’occhiata alla strada dabbasso, sul cui lastricato passeggiavano eleganti coppie, giovani dal passo svelto e carrozze che si disperdevano lungo Corso Sempione.
Il notaio Granieri, le mani dietro la schiena, socchiuse gli occhi: avvertì nettamente i rintocchi del campanile, distante solo pochi metri, che lo avvisava che era già mezzodì, per cui avrebbe dovuto affrettarsi per ritornare a palazzo, in tempo per il pranzo.
Il pomeriggio aveva preso un paio di appuntamenti abbastanza importanti, per cui non poteva arrivare in ritardo: riposizionò le tende e agguantò la pesante giacca di lana nera che aveva appoggiato sullo schienale della poltrona, pronto per uscire.
Stava passando davanti alle vetrine della biblioteca che esponevano pregiati volumi di diritto romano, quando uno stralcio della conversazione con il signor Santini, uno degli imprenditori più influenti della città che aveva ricevuto in mattinata, gli tornò alla mente:
Sapete, notaio Granieri, sono venuto a conoscenza che, certi galantuomini, se vogliamo definirli in questo modo, per tenere sotto controllo le loro consorti dalle abitudini un po’ troppo libertine, assumono regolarmente degli ispettori… no, aspettate, si chiamano investigatori, sì, qualcosa del genere. Non la trovate una cosa buffa e geniale al contempo? I miei conoscenti mi hanno riferito che questi servigi si possono trovare in un piccolo ufficio, un bugigattolo più che altro, a piazza delle Erbe… voglia il Cielo che noi non ne dobbiamo mai avere bisogno!
Don Armando si fermò per un istante, il bastone da passeggio ben saldo nella mano destra.
Aveva deciso: se suo figlio non avesse dato segnale di rinsavimento, nel giro di un tempo ragionevole che si sarebbe preoccupato di fissare successivamente, avrebbe contattato una di quelle specie di guardie, perché lo seguisse e gli comunicasse dove e con chi si incontrava.
Annuì tra sé e sé ed uscì dallo studiolo, scendendo i gradini di pietra con maggiore leggerezza rispetto a poche ore prima.



Federico Caccia era appena sceso da cavallo: legò le redini all’apposito anello di ferro fissato nel muro, quindi si guardò intorno alla ricerca dell’uomo che stava aspettando.
Avevano scelto il Palazzo del Mercato, la sede municipale per la borsa dei grani, poiché era un luogo piuttosto affollato, che garantiva un viavai pressoché continuo.
Era da pochi minuti passato mezzodì, quindi cominciò a sperare che l’incontro si svolgesse in breve tempo: a palazzo aveva lasciato detto che sarebbe rientrato per il pranzo e, sebbene distasse meno di venti minuti al trotto, temeva che un possibile ritardo potesse destare qualche sospetto nei genitori e, ancora di più, nel fratello Pietro.
Sono stanco dei suoi rimproveri” si ritrovò a pensare il giovane, passeggiando avanti e indietro “non fa altro che ripetermi che devo scegliere, che devo decidere da che parte stare! Ma io sono certo della mia decisione; anzi, ben presto saranno loro ad accorgersi, lui e tutti quelli come lui, che la soluzione migliore è non fare niente, lasciare che la corrente trascini ogni cosa, se non vogliamo affondare inutilmente!
Federico si guardò in giro per l’ennesima volta, sperando di non incrociare alcun conoscente: finalmente, dopo una decina di minuti che era lì ad aspettare, un uomo gli si avvicinò, i capelli scuri arruffati e gli occhi neri come la pece.
Doveva avere una quarantina d’anni, era piuttosto alto e di corporatura robusta, e indossava un abito di seconda mano, per nulla elegante: strinse con forza la mano del giovane, di mezza spanna più alto e decisamente dal fisico più asciutto.
Anche lui si guardò intorno con aria circospetta, avvicinandosi come se nulla fosse, in modo da non attirare sguardi inopportuni su di sé.
“Scusate il ritardo… ho avuto delle faccende da sbrigare, prima di venire qui. Ho ricevuto delle informazioni molto importanti, ma venite: è meglio allontanarci di qualche passo e mischiarci ai galantuomini che stanno entrando”.
Il ragazzo annuì e seguì il misterioso avventore, la folla di commercianti ed imprenditori che si apriva davanti a loro.






QUALCHE NOTA STORICA ...

Ciao a tutti e buonissima Pasqua, cari lettori!
La prima immagine a sinistra è Corso Sempione, il lungo viale a cui è affacciato il notaio Granieri, dalla finestra del suo studio!
Quella in mezzo, con il tetto triangolare, è la chiesa della Santissima Trinità al Monserrato.
La foto sulla destra, invece, rappresenta Palazzo Orelli, con i suoi porticati: venne progettato dall'architetto Luigi Orelli, tra il 1816 e il 1842.
Veniva anche definito palazzo del Mercato, perchè era sede del foro per la contrattazione dei grani; oggi è sede della Borsa dell’agricoltura.
E' un edificio a pianta quadrata, arricchito da un loggiato che corre lungo tutti i lati.
Sorge sul lato settentrionale di Piazza Martiri (il parcheggio che s'intravede anche nella foto), ma la facciata principale è quella rivolta su corso Italia, caratterizzata da due rampe di scale ed un frontone decorato con un altorilievo in arenaria e marmo, raffiguranti le scene de "Il trionfo di Cesare e Bacco", e le immagini de "L'Acqua, la Terra e l'Amor patrio".
Infine, Piazza Cesare Battisti, anticamente chiamata Piazza delle Erbe, perchè fino al 1900 si trovava un'edicola di legno a due ante contenente un quadro di S. Lorenzo martire, particolarmente venerato dagli erbivendoli e fruttivendoli novaresi.
Piccola curiosità: la piazza si estende secondo una precisa disposizione geometrica, formado un triangolo "geodetico", centro convenzionale della città e cioè il punto da cui è possibile misurare le distanze precise da Novara alle altre città, grazie ad una pietra di granito, che venne rubata nel 1992 e ritrovata qualche mese dopo da un sacerdote che disse di averla ritrovata nel suo confessionale ...





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Capitolo 9
*** L'incendio ***



Datemi una lista della lavanderia,
ed io ve la metterò in musica.

(Gioacchino Rossini, compositore italiano, Pesaro 1792- Francia 1868)




Santa Maria Maggiore, domenica 11 marzo 1849


Cara nipote,
ti scrivo per comunicarti che è avvenuta una cosa molto triste: ieri notte, purtroppo, le cantine del palazzo e parte del piano terra sono andati a fuoco.
Insieme alla servitù, sono immediatamente uscita per capire che cosa stesse succedendo, ma sono stata bloccata dalle numerose lingue di fuoco che si stavano propagando, subdole ed arroganti, illuminando sinistramente ogni cosa, come fossimo in pieno giorno.
Subito ho mandato Giuseppe alla ricerca di quanti più secchi d'acqua riuscisse a trovare, per spegnere quel doloroso spettacolo della natura: tutti, cara Costanza, si sono dati da fare per aiutarmi in quel compito che è stato davvero straziante ed infinito.
All’inizio, erano circa le tre del mattino quando tutto è cominciato, eravamo appena una decina a cercare di domare le fiamme, ma pochi minuti dopo, anche i domestici dei conti miei vicini e loro stessi sono intervenuti per aiutarci.
Nel giro di mezz’ora o poco più, siamo riusciti a spegnere l’incendio: quando tutto è finito, ci siamo accasciati senza forze al suolo, parte del prato che ci circondava bruciato.
Ricordo ancora l'intenso odore che impregnava le nostre narici: i capelli ci ricadevano arruffati e sporchi di fuliggine sulla fronte, e non provavamo alcun imbarazzo per avere ancora indosso camicie e vestaglie, poiché non abbiamo avuto nemmeno il tempo di cambiarci d'abito… per un solo istante, Costanza, ho creduto di sognare, ho pregato di sognare, per non dover sopportare tutta quella distruzione e quel dolore che sentivo straziarmi il cuore e la vista.
Grazie al Cielo, non ci sono stati danni alle persone e neppure agli animali nelle stalle: tutti noi stiamo bene, ma le botti che quest’autunno avrebbero dovuto ospitare il mosto da fermentare, sono state distrutte, così come i due calessi e gli attrezzi agricoli custoditi in una delle cantine.
Metà delle riserve di formaggio sono andate perdute, le altre sono immangiabili - o comunque gravemente danneggiate-, senza contare la tappezzeria e un paio di tappeti dell’ingresso completamente irrecuperabili.
Tutto il lavoro che i miei contadini hanno fatto, il loro impegno e le mie risorse sono state spazzate vie da una mano assassina: questa mattina, infatti, prima dell’alba, Giuseppe è stato tanto premuroso da recarsi dal comandante della Guardia Civica, affinché giungesse al più presto a palazzo per effettuare un riscontro di ciò che era accaduto.
Egli mi ha assicurato che il nostro non è stato l’unico episodio a verificarsi, nell’ultima settimana, ma non si è ancora capito se tali incidenti siano da ricondursi ad un gesto vile e codardo, oppure se sono il frutto di una pura quanta malvagia casualità.
Il comandante mi ha promesso che continuerà ad indagare e che mi terrà aggiornata, invitandomi a trasferirmi per un periodo a Milano, dove è venuto a sapere che sono proprietaria del palazzo del mio defunto zio Giacomo.
Ho precisato che, in realtà, non è di mia proprietà, ma del ramo collaterale dei Cavazzi della Somaglia e… perdonami, sarà bene che la smetta di importunarti con questi noiosissimi ed inutili discorsi di vecchia signora.
Dunque, vi è un’altra cosa che ho da segnalarti, cara nipote, decisamente più leggera: l’altro giorno sono andata all’Istituto della Carità dei frati rosminiani –gli stessi che gestiscono anche il Collegio Mellerio-, presso il Monte Calvario, sopra Domodossola.
Abbiamo atteso invano l’arrivo di padre Antonio Rosmini, il fondatore della congregazione, poiché ero stata invitata appositamente per conoscerlo: mi sono consolata con la certezza che, prima o poi, verrà il momento in cui potrò incontrarlo.
Spero che almeno tu, Costanza, stia bene: le tue preoccupazioni riguardo Nicolò non mi hanno fatto dormire sonni tranquilli, lo ammetto, ma sono convinta che la sua sia solo una passione passeggera, testimonianza di un animo giovane e libero, desideroso di sperimentare quante più esperienze la vita gli riesca ad offrire.
Mi fido di te e del fatto che lo sorveglierai, come sa fare una sorella minore che ama teneramente e sinceramente il maggiore.
Un’ultima cosa: non dire nulla ai tuoi genitori dell’incidente che mi ha colpito, non voglio farli preoccupare.
Vi abbraccio, cari nipoti, e vi invio i miei più affettuosi saluti.

Vostra Nonna Maria




“Che cosa avete questa sera, cugina? Forse l’opera non è di vostro gradimento? O magari non avete trovato interessante il libro che vi ho prestato?”
Costanza negò un’eventualità del genere, perché non solo aveva divorato in un solo pomeriggio il volume “Le notti bianche”, rimanendone affascinata e turbata al contempo, ma anche lo spettacolo a cui stavano assistendo le stava piacendo moltissimo: tuttavia, al giovane non era sfuggito il fatto che la ragazza stesse nervosamente giocherellando con gli orecchini di perle e pietre dure da quando era terminato il primo atto de “Il barbiere di Siviglia”, rifiutandosi di scendere per gustarsi il buffet allestito nell’ingresso del Teatro Nuovo.
Pietro aveva perciò deciso di assentarsi per portarle una coppa di liquore alla frutta, e adesso erano entrambi in attesa che lo spettacolo riprendesse.
“La verità è che non sono concentrata quanto vorrei…”
“Questo lo avevo capito da me. Volete confidarvi e spiegarmi che cosa vi affligge?”
Costanza, un elegante e sofisticato abito rosso a fasciarle la snella ed aggraziata figura, si girò nella sua direzione, il volto incorniciato dai capelli ricci e scuri, e fissò gli occhi verdi in quelli azzurri del giovane:
“Stamani ho ricevuto una lettera da mia nonna: lei abita a Santa Maria Maggiore, come credo sappiate già, e mi ha comunicato che la scorsa notte le cantine del palazzo e parte del piano terra sono andati a fuoco. Ha perso la maggior parte del materiale per la vendemmia del prossimo autunno, vari attrezzi agricoli, i calessi con cui il fattore e i garzoni si recavano in paese, le forme di formaggio… insomma, é andato vanificato il lavoro di interi mesi”
Pietro sospirò partecipe, lo sguardo di ghiaccio che si tingeva di un'affettuosa smorfia paternalista.
“Comprendo la vostra angoscia, Costanza, ma non dovete affliggervi così tanto. Vostra nonna sta bene, vero?”
La giovane annuì convinta, spostando distrattamente una ciocca di capelli dall'orecchio.
“Sì, sì, sta bene, nessuno è rimasto ferito. Anche i domestici che l’hanno aiutata a spegnere l’incendio e gli animali nelle stalle non hanno riportato alcuna lesione…”
“Vedete? Vi siete risposta da sola. Non c’è nulla di cui preoccuparvi. Certo, il danno economico è stato ingente, almeno a sentire le vostre parole, ma sono certo che una soluzione si troverà”
Il ragazzo le stava parlando con voce bassa e conciliante, sempre guardandola negli occhi, ma evitando accuratamente di sfiorarla.
“Non posso non preoccuparmi, Pietro: mia nonna Maria è la persona a cui voglio più bene. A volte, credo addirittura più dei miei stessi genitori…”
“Questo vi fa onore, Costanza. Tuttavia, vi ripeto che è inutile angosciarvi: la lontananza fa ingigantire le cose, sovrastimando i danni reali. E poi, sapete bene che potrete contare sul mio appoggio personale, nel caso ci fosse qualsiasi genere di necessità. Economica inclusa”
La cugina annuì e gli sorrise, grata delle affettuose parole che le aveva appena rivolto.
Era stato una fortuna che né i genitori della giovane e neppure quelli di Pietro fossero lì ad assistere all’opera lirica, perché così Costanza si era potuta sfogare liberamente, senza temere i rimproveri o le occhiate della madre: a donna Luisa, infatti, era scoppiata un’improvvisa emicrania che l’aveva costretta a letto, per questo don Armando era rimasto a palazzo per starle vicino, sebbene la figlia temesse che anche il padre covasse qualche male, irascibile e nervoso com'era nelle ultime settimane.
Nicolò, invece, si era rintanato al solito circolo letterario, mentre zia Rosa, lo zio Aldo e Federico erano stati invitati,
ormai già da diversi giorni, ad una cena di certi ex compagni dell'Accademia Navale di Genova del secondogenito, per cui sarebbe stato scortese disdire all’ultimo momento.
Costanza si fece coraggio e, approfittando della presenza silenziosa e pensierosa del cugino, corse il rischio di apparire sfacciata, spinta dalla certezza di dover osare, pur di conoscere come erano andate le cose.
“Ora, permettetemi di sembrarvi scortese, Pietro, ma vorrei solo per un momento ritornare sull’argomento di mio fratello: questa sera vi ho confessato che cosa mi affligge, e spero che vogliate ricambiare dicendomi la verità su ciò che sta accadendo tra Nicolò e Federico…”
Il giovane strisciò con la sedia rivestita di velluto blu sul costoso pavimento di marmo, abbandonandosi ad un moto di stizza con la mano sinistra: perchè suo fratello doveva rovinargli anche quella serata? La sua presenza aleggiava tra di loro, misteriosa ed opprimente, e per un attimo Pietro si ritrovò a pensare alla settimana precedente, a quella mattina in cui lo aveva seguito e aveva scoperto che si era incontrato di nascosto con una losca figura, proprio a Palazzo Orelli, la sede del mercato dei grani. Chi era quell'uomo? Che cosa voleva? Di chi e di che cosa avevano discusso?
Ma lasciò perdere quel ricordo, per ritornare al presente: girandosi completamente verso la sua interlocutrice, la supplicò di non ritornare sull’argomento, poiché non c’era nulla di cui parlare.
“Smettetela di crucciarvi per una fantasia che sta solo dentro la vostra testa! Dovete fidarvi di me, Costanza, fidatevi e basta, vi prego!”
La ragazza abbassò il capo sul vestito, ritenendosi una stupida testarda: forse, era davvero come sosteneva Pietro, aveva frainteso ogni cosa, eppure il suo sesto senso la portava in un’altra direzione, indirizzandola non verso una verità di comodo, bensì ad abbracciare l’autentica verità.
Quale, purtroppo, ancora non le era dato sapere.
“Oh, signorina Granieri! Che piacere vedervi qui! Conte Caccia, buonasera anche a voi!”
I due ragazzi si voltarono, riconoscendo il tono squillante dell’uomo che si era appena rivolto a loro.
“Maestro Rossini, cosa ci fate qua?” domandò ingenuamente la giovane, arrossendo in volto per l’ovvietà della risposta che avrebbe sentito pronunciare.
“Avevo voglia di svagarmi. E poi ero curioso di assistere a questa nuova versione de << L’almaviva o sia l’inutile precauzione>>. Sapete, il direttore d’orchestra è un mio caro amico: devo ammettere che il lavoro che ha fatto non è niente male, davvero niente male” precisò l’insegnante di pianoforte, un sincero e incantato sorriso sul viso dall’abituale naso aquilino e dalla bocca sottile.
Costanza notò che anche in quell’occasione aveva scelto la solita mise nera, composta dagli irrinunciabili stivali e abito scuri, di fattura più elegante rispetto a quelli che gli aveva visto indossare durante le loro lezioni di musica, certo, ma sempre dello medesimo colore cupo.
I capelli lunghi e leggermente brizzolati erano stati raccolti da un nastro, questa volta rosso, e il gradevole profumo di arancia caramellata invadeva piacevolmente il palchetto dei due cugini.
“Volete accomodarvi qui con noi?” propose Pietro, invitandolo con un cenno a sedersi.
“Oh no no, miei cari” si affrettò a rifiutare l’uomo, le labbra incurvate in un sorriso orgoglioso.
Prontamente, infatti, si calò in avanti e, con l’indice ossuto della mano sinistra, indicò un punto davanti a sé.
“Vedete quei due posti proprio di fronte a voi? Ebbene, lì mi sta attendendo una gentil dama, un’amabile signora che non voglio far rimanere da sola un minuto di più! Ora che vi ho salutato, posso dunque ritornare alla mia incantevole compagnia! Vi auguro una serena serata. Signorina Granieri, signor conte, buonanotte”
E si dileguò canticchiando dei versi irriconoscibili, il brusio nella platea e in galleria che andava scemandosi con incredibile rapidità.
Un attimo dopo, gli spettatori erano tornati ordinatamente al proprio posto: le luci del teatro si spensero con maestria, e il sipario si alzò lentamente, mentre l'orchestra riprendeva a suonare.





QUALCHE NOTA STORICA ...



Buongiorno a tutti, cari lettori!
Come al solito vi "annoio" con qualche curiosità del periodo in cui è ambientata la storia: dunque, partiamo dallo zio di donna Maria, citato nella lettera.
Il conte Giacomo Mellerio è stato un personaggio realmente esistito: nacque a Domodossola, in Piemonte, nel 1777  e morì a Miliano nel 1847, due anni prima delle vicende narrate in questo racconto. Viaggiò molto per Europa ed Italia, e ricoprì numerosi incarichi anche presso il Lombardo Veneto: ad esempio, durante il periodo napoleonico fu nominato reggente del governo provvisorio di Milano, in seguito governatore di Milano, consigliere aulico e cancelliere della Lombardia a Vienna, nel 1816.
Si dimise da ogni carica pubblica nel 1819, per ritornare a Milano e dedicarsi alle opere caritatevoli che videro beneficiari contadini ed orfani: nella sua natia Domodossola, infatti, fece costruire l'orfanotrofio femminile delle Orsoline, ora distrutto, ma anche la prima scuola superiore della città.
Nel 1826, a Milano, conobbe Antonio Rosmini -altro personaggio di cui donna Maria parla nella lettera-, molto probabilmente tramite il cugino abate e il più famoso scrittore Alessandro Manzoni.
Due anni più tardi, al Monte Calvario, venne fondato l'Istituto della Carità Antonio Rosmini e, nel 1831, il collegio Mellerio Rosmini di Domodossola, già citato qualche capitolo fa.
I conti Cavazzi della Somaglia, come scritto da donna Maria, furono i legittimi eredi del conte Mellerio.
Dalle mie ricerche, ho scoperto che i Mellerio in realtà non vissero a Santa Maria Maggiore, ma nella vicinissima Malesco, sempre un paesino in Piemonte: perdonatemi l'errore.


            Questo è il Sacro Monte Calvario visto dall'alto di Domodossola: dal 2003 è                                                                                                                                                 nell'elenco dell'UNESCO.                                                                                                                                    


"Il Barbiere di Siviglia" è un'opera di Gioacchino Rossini, con debutto a Roma, nel 1816.
Il titolo originale del'opera buffa, come spiega l'omonimo maestro di musica a Pietro e Costanza, era "L'Almaviva o sia l'inutile precauzione": il conte d'Almaviva è innamorato di Rosina, che abita insieme a don Bartolo, anche lui segretamente innamorato della ragazza. Grazie all'ingegno di Figaro, il barbiere e tuttofare della città, il conte riesce a soggiornare nella casa del suo rivale in amore, fingendosi un soldato, e successivamente il nuovo maestro di musica di Rosina.
Don Bartolo, però, scopre il piano del conte e del barbiere, e convince la giovane a sposarlo.

Ma il nobile raggira anche il notaio venuto a stendere il contratto di nozze, sostituendo il nome del rivale con il proprio, così i due possono finalmente convolare a nozze.

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Capitolo 10
*** Il sacro monte di Pietà ***



Il coraggio delle proprie azioni è già di per sé coraggio.

(Anonimo, XX secolo)


L’umidità pungente delle prime ore del mattino stava lentamente evaporando per lasciare spazio ad un tepore quasi primaverile.
Per strada, vi era un continuo viavai di carretti ed eleganti carrozze, che si amalgamavano alla fiumana di persone –per lo più artigiani e galantuomini- intenti a destreggiarsi in quella vasta intersezione di contrade, viuzze, cortili e porticati, mentre il nitrire dei cavalli avvisava i pedoni di fermarsi e mettersi al riparo, magari nell’androne di qualche palazzo nobiliare, per non essere travolti dalle possenti ruote delle vetture.
Nicolò camminava a testa bassa, le mani protette da un paio di guanti di pelle nera imbottiti di lana, il cappello scuro calato sui ricci, mentre i tacchi degli stivali tenevano il ritmo sull’acciottolato e il lastricato di sampietrini.
Via delle Torri Lunghe distava ancora qualche passo, su cui si affacciavano, tra le altre residenze, Palazzo Medici con il vistoso frontespizio in stucchi e decorazione a bugnato, casa della Porta e casa Rognoni, le pareti principali realizzate in stile gotico e la cornice di formelle in terracotta ad abbracciare le finestre a sesto acuto.
Finalmente, il giovane si ritrovò davanti alla sede della confraternita fondata da Amico Canobio, nel lontano 1566, allora dimora del Sacro Monte di Pietà: l’ente caritatevole era costituito da due lunghi e tozzi edifici attaccati per un solo lato, i muri dipinti di un giallo ocra su cui si aprivano le finestre dalle persiane marroni.
Nicolò si guardò intorno, e accortosi che nessuno si preoccupava della sua presenza per il semplice fatto che non vi fosse anima viva in quel momento oltre a lui, attraversò l’ampio cortile dello stabile, il passo non più così sicuro come pochi istanti prima.
Una lastra di marmo all’ingresso recitava la scritta “Sacro Monte di Pietà Amico Canobio”: senza dubbio era quello il luogo che gli avevano indicato, il posto in cui avrebbe dovuto impegnare parte dei propri averi per ottenere il denaro necessario a partire e ad arruolarsi con l’esercito sabaudo.
Si sentiva nervoso ed eccitato: continuava a sistemarsi l’orlo della giacca e a rotolare e srotolare le maniche, come per convincere se stesso che quello che stava per fare si stesse svolgendo nella vita reale, e non nell'ennesimo sogno ad occhi aperti.
Dopo essersi levato i guanti, li ripose in una delle tasche del completo nero: il contatto con una busta rettangolare gli ricordò che avrebbe dovuto recarsi a spedire il telegramma che gli aveva affidato Costanza, quella mattina prima di colazione.
Era un breve messaggio che la sorella aveva scritto alla nonna, per sapere come si sentiva a seguito del disastroso incendio scoppiato nelle cantine di palazzo Mellerio.
Improvvisamente, avvertì dei rumori provenire dalla via, che lo indussero a prendere coraggio e ad entrare, prima che la vergogna si impossessasse della sua mente, annebbiandogli qualsiasi decisione.
“Buongiorno, signore. Posso esservi utile?”
Una voce alle sue spalle, spuntata da chissà quale angolo dell’antico palazzo, fece sobbalzare il giovane, che si voltò di scatto:
“Sì …” confermò vagamente dubbioso, il cappello tra le mani  “ho bisogno di parlare con la persona che si occupa del Monte di Pietà … sapete indicarmela?”
Il frate davanti a lui, un sessantenne basso e minuto, la barba candida e gli occhi appannati dalla vecchiaia imminente, si fece avanti, raggiungendo Nicolò dopo brevi e strascicati passi.
“Sono io, buon giovane, potete rivolgervi a me: venite, faccio strada …”
L’omino precedette a fatica il ragazzo, conducendolo lungo un breve corridoio sulla destra, scarsamente illuminato se non dalla debole luce esterna che filtrava, i muri freddi e bianchi.
I due giunsero così in un’ampia stanza rettangolare, le pareti spoglie, il pavimento di grandi mattonelle nere, fino a raggiungere una sorta di scrittoio di legno puntellato di documenti e deteriorato agli angoli dai tarli che vi avevano indisturbatamente soggiornato negli anni.
“Prego, ditemi di cosa avete bisogno” esordì l’uomo di Chiesa, dopo aver preso posto sull’unica sedia presente, incredibilmente simile ad uno scranno malandato.
“Ecco … vorrei impegnare questi monili. Vi assicuro che sono molto preziosi e valgono diverse lire del Regno” cominciò a convincerlo Nicolò, posizionando sul bancone una mezza dozzina tra spille, anelli ed orologi.
“Signore, momentaneamente abbiamo solo ducati milanesi … vi va bene lo stesso?”
Il ragazzo lo guardò interdetto per una manciata di secondi: deglutì ed annuì un paio di volte, spingendo ulteriormente la mercanzia verso il frate, disgustato per la mancanza di monete sabaude.
“Certo, come volete. Quanto potete darmi?”
L’omino aprì uno dei cassetti interni dello scrittoio: estrasse una lente di ingrandimento e, con mani esperte, prese ad ispezionare i gioielli.
“Mille ducati, sperando di avere in cassa una tale cifra” si accigliò il sessantenne, cominciando a rovistare in un piccolo forziere di ferro e bronzo, tenuto chiuso da un lucchetto arrugginito e vagamente dorato.
“Siete sicuro che ve ne volete disfare, signore?”
Nicolò prese a mordicchiarsi il labbro interno e a stuzzicarsi i polpastrelli della mano sinistra, cercando di reprimere la rabbia per ulteriori spiegazioni.
“Sì, devo” confermò senza guardare il frate.
“E poi, sono convinto di poter tornare a riscattarli molto presto. A proposito, per quanto tempo potrete tenerli?”
“Otto mesi a partire da oggi” precisò l’altro, riprendendo ad esaminare gli anelli, le spille e i due orologi d’oro.
“D’accordo. Ditemi per favore dove devo firmare, ho fretta”
L’uomo di Chiesa indugiò ancora per un attimo, quindi fece piazza pulita della merce che gli era appena stata affidata, riponendola in un altro cassetto del bancone.
“Siete consapevole del fatto che, se per qualsiasi motivo, non ritornerete a riscattare i gioielli nei termini prestabiliti, la nostra confraternita sarà costretta a metterli in vendita?”
Nicolò annuì, spazientito per i ripensamenti che non poteva permettersi:
“Non accadrà, frate, ve lo assicuro. Ora vi prego, datemi il foglio da firmare, così che possa andarmene. Mi sembra di avervi già detto di avere fretta …” cercò di farlo ragionare, indicando la pila di moduli sul ripiano che li divideva.
“Come volete. Compilate questo spazio con i vostri dati, e mettete una firma qui in basso e su quest’altro foglio: mi raccomando, abbiatene cura, perchè è la vostra ricevuta per tornare a riscattare la merce. Tenete …”
Il ragazzo fece come gli era stato ordinato e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata in direzione dei gioielli e dell’omino che gli aveva consegnato il denaro, uscì dalla stanza a passi veloci.
Il cortile dell’edificio che, appena pochi minuti prima gli era sembrato infinito, adesso gli appariva stretto e claustrofobico.





QUALCHE IMMAGINE ....





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Lo stabile che ospitava il Sacro Monte di Pietà di Novara, ora in disuso, presso cui si rivolge come un’unica risorsa economica Nicolò.

Via delle Torri Lunghe adesso si chiama, indovinate un po’, via Canobio.

 
Ecco, invece, da sinistra a destra, palazzo Medici, casa Rognoni e casa della Porta, i nobili edifici accanto a cui Nicolò si trova a passeggiare, prima di raggiungere il monte di pietà.


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Capitolo 11
*** Guerra e pace ***



Un giorno faranno una guerra e nessuno vi parteciperà.

 (Carl Sandburg, poeta statunitense di origine svedese, 1878-1967, vincitore di due premi Pulitzer)





“Questo mi sembra un po’ stretto …”
“Ma no, figliola, com’è possibile? E’ il quinto abito che ti provi e, ancora, non hai trovato quello giusto! Non possiamo rimanere qui tutto il giorno!”
Costanza si stava guardando allo specchio, sorda alle recriminazioni della madre: l’immagine che le appariva riflessa non poteva essere la sua, il viso triste e pallido, ridicolamente imprigionata in quella rete infinita di broccati, sete, velluti e damaschi che la stavano opprimendo da quasi un’ora.
“Signorina, permettete di darvi un consiglio” s’intromise la proprietaria del negozio, una donna sui quarant’anni, la figura slanciata, che si muoveva agile e sicura attorno alla ragazza.
“A mio avviso, ma è una semplicissima opinione che mi permetto di darvi, sono sicura che una delle nostre sarte potrebbe ampliare la stoffa in questi due punti … ecco, così, in modo da recuperare parte del tessuto per abbellire il corpetto. Cosa ne pensate?”
Costanza avvertiva gli sguardi di donna Luisa e della negoziante -gli occhi chiari e i capelli castani  intrecciati sulla nuca- puntati addosso, entrambe sorridenti e in attesa: cominciava a provare un certo grado di irritazione, perché lei, in quel posto, non ci voleva affatto venire, ma la madre aveva insistito fino allo sfinimento, fino a quando lei era stata costretta a cedere.
Non aveva alcun bisogno di abiti nuovi, non le importava affatto di partecipare al debutto in società, a fine mese, desiderava solamente essere lasciata in pace.
Fece un profondo respiro e, guardandosi ancora una volta nello specchio dalla cornice dorata, scese dal piedistallo:
“Madre, per favore, possiamo tornare un’altra volta? Non mi sento molto bene …”
“Signora Leviani, permettete che parli un attimo da sola con mia figlia?”
La proprietaria del negozio annuì: dopo essersi assicurata che un paio di commesse si dedicassero alle clienti appena entrate, si allontanò.
Donna Luisa, il sorriso tirato, finse di non aver udito le richieste della figlia, anzi, aspettò che la proprietaria si ritirasse nel retrobottega per cominciare la sua supplica.
“Costanza, non puoi farmi questo” esordì la contessa Caccia, stringendo convulsamente le mani guantate attorno alla piccola pochette di velluto nero, l’abito da giorno grigio perla con applicazioni di macramè e nastri di raso.
“Ti ho portato nel miglior negozio, ti ho messo a disposizione le migliori sarte che la città possa vantare! Sei circondata da abiti lussuosi, dai tessuti più pregiati: qualsiasi ragazza, al posto tuo, sgomiterebbe pur di possedere uno di questi vestiti! Perché tu, invece, devi sempre essere diversa dagli altri, perché non mi fai felice, almeno per una volta?!”
“Perché io non sono gli altri!” sbottò in un accesso d'ira la ragazza, chiudendo le mani a pugno e puntando gli occhi verdi esasperati in quelli di donna Luisa.
“D’accordo, ti chiedo solo un favore” acconsentì la madre, stremata da quella che considerava un’inutile contrattazione.
“Scegli un abito, uno qualsiasi, poi ti prometto che usciremo da qui immediatamente”
La moglie del notaio si guardò intorno, per capire se qualcuno si era accorto dell’alterco che l’aveva vista coinvolta, sorridendo educatamente alle clienti di mezza età a pochi passi da lei.
“Madre, io …”
“Farai ciò che ti ho appena detto, Costanza! Smettila di frignare come fossi una bambina in fasce!”
La contessa le storse con rabbia un polso, soffocando ulteriori recriminazioni.
La ragazza si zittì all’istante e abbassò il capo, spaventata dalla reazione spropositata della donna, che si diresse con nonchalance verso una delle commesse, perché potesse avvisare la signora Leviani che avevano finalmente deciso.
“Ebbene, signorina Granieri, su quale abito è ricaduta la vostra scelta?” domandò sorridente la negoziante, composta in un abito di raso marrone e pizzi neri alle maniche.
“Vorrei … vorrei vedere quello, per favore” rispose Costanza, indicando un vestito di seta blu cobalto, con ampie tulle ricamate.
“Ottima scelta, signorina! Avete davvero buon gusto!” si entusiasmò la donna, che batté le mani per richiamare l’attenzione di una delle commesse libere, affinché portasse l’abito da visionare.
La ragazza accarezzò il tessuto, avvertendolo morbido sotto le dita, calde per la tensione, quindi annuì convinta, confermando che lo avrebbe senz’altro preso.
“Avete bisogno anche di un cappellino e delle scarpette da abbinare? Permettetemi di consigliarvi dei modelli che sono giunti da Parigi la scorsa settimana!” continuò la negoziante.
“No, vi ringrazio signora Leviani” s’intromise donna Luisa Caccia “per oggi va bene così. Potete far confezionare l’abito e, già che ci siamo, anche quel completo bianco e rosso. Sono convinta che per andare a cavallo sia molto elegante!”


Dieci minuti più tardi stavano salendo sulla carrozza Landau, quando avvertirono il suono convulso e fremente delle campane del duomo, qualche via dietro di loro.
“Che cosa sta succedendo?” domandò allarmata Costanza, un piede sul predellino e la mano sinistra nel palmo di quella del cocchiere, che la stava aiutando a prendere posto, anch’egli inconsapevole di ciò che stava accadendo.
“Non lo so” scosse il capo donna Luisa, che si era appena seduta sulla vettura.
Si affacciò sul lato aperto, in attesa di qualche passante a cui chiedere il motivo di tanto chiasso: quando le campane risuonano in questo modo, rifletté, sicuramente si è verificato un evento assai spiacevole, quale un incendio o la morte di un personaggio illustre...
“Madre, perché non smettono? Questo rumore è assordante!” si lamentò Costanza, continuando a guardarsi intorno.
Corso di Porta Torino era come sospeso nel tempo: le carrozze si erano allineate ai bordi della strada, gli uomini e le donne che stavano passeggiando si erano anch’essi fermati, domandandosi a vicenda il motivo di quel suono incessante, cupo e stridulo al contempo.
Donna Luisa non indugiò oltre: prese per un braccio la figlia e la costrinse a salire.
Poi, ordinò al cocchiere di avviarsi verso il palazzo e di non fermarsi per nessuna ragione.


“Armando, cosa ci fate già a casa?” lo apostrofò la moglie, appena si accorse della presenza del marito nel salottino, il sigaro in bocca e lo sguardo verso la finestra che si affacciava sul giardino.
Il notaio Granieri era abbandonato sulla poltrona personale di damasco rosso, dando le spalle alla moglie e alla figlia.
“Siamo in guerra … l’armistizio è stato denunciato ieri mattina a mezzogiorno” spiegò l’uomo, dopo un minuto di silenzio, la voce roca e quasi incredula.
“Che cosa vuol dire?” biascicò la contessa, avvicinandosi.
“Quello che ho detto, che siamo di nuovo in guerra contro l’Austria. Il Re, o chi per esso, ha deciso che era stanco di questi mesi di pace, preferendo riprendere le ostilità …” si arrese don Armando, spegnendo il sigaro e buttando l’ultima brace nel posacenere di cristallo, sul vicino tavolino rotondo.
“Ma … padre, cosa dovremo aspettarci da questa decisione?”
Costanza s’intromise timidamente in quel discorso che andava oltre la sua comprensione, una decina di passi dietro i genitori: la madre la fissò come se si accorgesse solamente in quel momento della sua presenza, lo sguardo spaventato.
Granieri si alzò dalla poltrona e fece qualche passo in direzione della figlia: la osservò teneramente, gli occhi chiari e i capelli biondi vagamente spettinati, quindi la abbracciò.
La ragazza appoggiò la guancia sulla spalla del padre, stringendo il tessuto ruvido della giacca blu scuro, come in un gesto di rassicurazione.
“Non lo so che cosa succederà, che cosa dovremo aspettarci … “ riuscì a dire con una punta di commozione l’uomo, sciogliendosi da quell’intreccio.
“Sicuramente niente di buono, figliola” concluse con amarezza, uscendo dalla stanza e lasciando interdette la moglie e Costanza.


Qualche nota storica ...


L’armistizio firmato a Milano il 9 agosto 1848 dal Capo di Stato Maggiore generale Salasco, sanciva una tregua di sole sei settimane dalla Prima guerra d'Indipendenza, iniziata cinque mesi prima: il 21 settembre, infatti, le ostilità sarebbero dovute riprendere se l’Austria non avesse concesso una pace “equa e decorosa”.
In quel mese, quindi, i Piemontesi dovevano riorganizzare l’esercito, equipaggiandolo con nuove risorse e decidendo se ricorrere alle reclute o ai riservisti per i necessari rinforzi.
Inoltre, fondamentale sarebbe stato correggere gli errori militari commessi nei quattro mesi di guerra.
Era chiaro che il sistema di comando non aveva funzionato: Carlo Alberto, tuttavia, non appariva disposto a lasciare il comando e a riconoscere i propri errori nella condotta della guerra, ma accettò l’idea di sostituire Salasco con un vecchio generale polacco, Albert Chrzanowski.

Nella seconda metà di ottobre 1848, la Camera del Parlamento sabaudo respinse una mozione per l’immediata ripresa delle ostilità.
Il 27 ottobre fu nominato Ministro della Guerra Alfonso La Marmora, che si impegnò subito nell’opera di ringiovanimento dell’esercito, mandando in congedo le classi più anziane e sostituendole con le reclute.
Come il suo predecessore, La Marmora era convinto che una ripresa immediata delle ostilità fosse inopportuna.
Carlo Alberto, viceversa, non vedeva l’ora di affrontare nuovamente gli austriaci. 
L’8 marzo 1849 fu stabilito, secondo il desiderio del re, che le ostilità riprendessero il giorno 20 e che, di conseguenza (nel rispetto degli impegni previsti), l’armistizio fosse denunciato il giorno 12.

Chrzanowski ricevette la comunicazione il 13, quando la notizia era già stata pubblicata dai giornali, lo stesso giorno che il notaio Granieri informa moglie e figlia della ripresa delle ostilità.

Il 12 marzo 1849, si era presentato a Radetzky, nella Villa reale di Milano, il maggiore dell’esercito piemontese Raffaele Cadorna. Uno storico austriaco racconta che «il maggiore Cadorna si irritò che gli ufficiali austriaci si abbracciassero per la gioia dopo che il feldmaresciallo ebbe comunicato: “Signori, ci è stata notificata la denuncia dell’armistizio!”».


  Risultati immagini per abiti donna ottocento                               E per tirarci su il morale, ecco l'abito che Costanza

                                                                                            sceglie per il forzato debutto in società!

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Capitolo 12
*** Una decisione irremovibile ***






Io sogno di dare alla luce un bambino che chieda: “Mamma, che cosa era la guerra?”

(Eve Merriam, poetessa e scrittrice amercana, 1916-1992)


Novara, domenica 18 marzo 1849


Carissima Nonna,
immagino siate a conoscenza dei terribili avvenimenti che si apprestano ad accadere nel Regno: la guerra contro l’Austria dovrebbe riprendere tra appena due giorni, un tempo contemporaneamente brevissimo e dilatato che ci separa inesorabilmente dalle sorti che il Destino deciderà per noi.
Due giorni fa, invece, è arrivato in città il sovrano in persona, unendosi alle truppe dislocate nei vari accampamenti.
Si vocifera che Carlo Alberto alloggi presso il palazzo Bellini, dove, a causa di tali indiscrezioni, vi è sempre una folla inneggiante che lo attende lì dinanzi.
L’atmosfera è sempre più cupa, l’aria stessa che respiriamo è opprimente: pensare che, appena una settimana fa, mi lamentavo di quanto trovassi noioso e orribile questo luogo, mi fa vergognare della mia mentalità ristretta, da stupida ed infantile ragazzina che non ha mai affrontato alcun vero dolore nella vita.
Ho paura, nonna, e non mi vergogno a dirlo: temo per la mia famiglia, nonna, soprattutto per Nicolò, il quale mi auguro ardentemente non faccia alcuna sciocchezza di cui possa pentirsene.
In questi giorni di incertezza, il mio più grande desiderio è che tutto vada per il meglio, che questa angoscia che sentiamo nel cuore si riveli molto presto un brutto ricordo che ci abbia sfiorato appena la mente: spero, infatti, che nessuno dei nostri conoscenti muoia, anzi, vi confesso che il solo scrivere questa parola mi fa tremare da capo a piedi.
Se ci sarà una battaglia, purtroppo, sarà inevitabile uno scontro e, di conseguenza, preziose vite umane verranno sacrificate in nome di un finto ideale, di un infingardo idolo, ovvero la guerra e, Dio mi perdoni, del nostro sovrano.

Spero che almeno voi stiate bene e che presto si possa fare luce sulla mano meschina che ha appiccato l’incendio nel vostro palazzo: sono rimasta molto scossa dalle parole che mi avete scritto, e colgo l'occasione per ingraziarvi di aver risposto al telegramma che vi ho inviato pochi giorni orsono.
A proposito, il comandante delle Guardie Civiche vi ha portato buone nuove? Le indagini stanno proseguendo?
Appena tutto questo finirà  -inutile dirvi che prego con tutto il cuore che ciò avvenga prestissimo- mi precipiterò da voi, cara nonna, per sentire come il vostro calore e il vostro affetto mi risollevino istantaneamente il morale.
Ora perdonatemi se sono costretta ad interrompere la nostra conversazione, ma il sole sta tramontando e, per ordine di mio padre, dobbiamo risparmiare sulle candele, in caso ci servano scorte per i giorni incerti che ci attendono.
Non so quando riuscirò a spedire questa lettera: sperò già domani, dal momento che la situazione non è consona affinché il nostro garzone si metta in viaggio per la valle e, quindi, non potrà consegnarla di persona.
Nel frattempo, vi stringo teneramente tra le mie braccia, tremanti e timorose dell’avvenire che ci aspetta dietro l’angolo.
A presto,

Vostra Costanza




La cena si stava svolgendo nel silenzio più assoluto: il rumore metallico delle posate cozzava contro i bordi dorati dei piatti, mentre i commensali quasi non si rivolgevano neppure un'occhiata di traverso, i loro volti abbassati e tremolanti al riflesso dei vecchi candelabri che il notaio Granieri aveva insistito per far riaccendere dalla servitù.
“Padre, devo parlarvi …” esordì squillante Nicolò, appoggiando il tovagliolo sul tavolo.
“Va bene, ma preferirei finire di mangiare” acconsentì don Armando, sorridendo mestamente.
“E’ urgente, credetemi, non posso rimandare un minuto di più”
Donna Luisa e Costanza alzarono lo sguardo dalle loro portate, sicure che quel discorso non avrebbe portato nulla di buono.
“Non ho detto che non voglio parlarti, Nicolò, semplicemente desidererei terminare la cena. Abbiamo tutta la serata per discutere, non temere …”
La voce dell'uomo si stava tingendo di una nota di fastidio: aveva la gola secca, sebbene avesse aperto bocca solamente in quell'istante, così bevve un sorso di vino, che scese acidulo ed insapore lungo l'esofago, costringendolo a versarsi dell'acqua dalla brocca di cristallo.
Poi, finalmente dissetatosi, continuò ad immergere il cucchiaio nella zuppa, ma quei movimenti lenti e ripetuti sembravano appartenere ad un altro braccio, ad un'altra persona, talmente apparivano meccanici e cadenzati, privi di una reale intenzione.

“D’accordo, come volete” assecondò il figlio, alzandosi dalla sedia.
“Un attimo di attenzione, vi prego!” continuò a voce alta, urtando delicatamente il bicchiere di cristallo con il coltello, in modo da avere su di sé gli occhi degli altri commensali, quindi, sistemandosi la giacca verdone, annunciò entusiasta:
“Domani mattina andrò ad arruolarmi!”
Il notaio abbandonò la posata che aveva in mano che, cadendo all'istante sul pavimento di marmo, provocò un rumore sordo che ruppe il silenzio creato da quelle parole.
“Tu cosa farai?” replicò don Armando, alzandosi in piedi per fronteggiarlo.
La bocca gli tremava e uno strano furore gli accendeva lo sguardo, ormai spento ed assente da diversi giorni.
“Avete capito bene, caro padre! Questa sarà l’ultima sera che dormirò qui con voi, in questa casa: quando tornerò, sarò diventato un uomo, un eroe che ha combattuto per salvare la Patria da quei maledetti usurpatori! Voi tutti sarete orgogliosi di me e il nostro nome sarà ricordato nei secoli come glorioso e giusto!”
Uno schiaffo in pieno volto interruppe il fiume di parole insensate che il giovane stava pronunciando: il vecchio Granieri, infatti, si era avvicinato a lunghe falcate e gli aveva assestato un colpo su una guancia glabra, il fiato corto e il braccio ancora a mezz’aria.
“Non farai nulla di simile, sciagurato, perché io te lo impedirò, hai capito?! Non te lo permetterò!”
“Armando, vi prego, calmatevi!” s’interpose la contessa Caccia, la voce supplicante, mentre tentava un approccio verso il marito, che continuava a non degnarla di un'occhiata.
Costanza aveva seguito quel discorso tra il genitore e il fratello come se fosse in una bolla, in un sogno vissuto da altri: sentiva i battiti del cuore accelerare senza che potesse fare nulla per cambiare la situazione, mentre una tremenda fitta allo stomaco la costrinse quasi ad alzarsi per vomitare quel poco che aveva faticosamente ingoiato.
Le due cameriere che stavano servendo a tavola si ritrassero in un angolo, appiattendosi sulla parete affrescata dalla famosa scena raffigurante il rapimento di Europa da parte di Giove, lo sguardo basso di chi non sa come comportarsi.
“Non posso calmarmi, non lo farò fino a quando nostro figlio non rinsavirà! Lo sapevo che dovevo metterti alle calcagna uno di quegli investigatori, lo sapevo che, prima o poi, avresti compiuto una delle tue sciocchezze!” sbraitò il notaio, prendendosi la testa tra le mani, la voce incrinata dall’emozione.
“Volevate farmi spiare?! Avreste avuto il coraggio di farmi seguire come fossi il più infimo dei delinquenti, un depravato e comune criminale?! Questo è davvero troppo, padre, non vi permetterò di tenermi ancora qui, prigioniero di queste quattro mura! Non mi rovinerete la vita ancora per molto, ve lo assicuro!”
“Ma che cosa stai dicendo?! Sarai tu l’unico artefice della tua rovina, tu e soltanto tu!” cercò di farlo ragionare, scuotendo convulsamente il capo.
I due continuavano a parlarsi ad una distanza assai irrisoria, tuttavia la lontananza mentale tra di loro appariva incolmabile.
Nicolò scrollò ancora una volta la testa, sorridendo sprezzante:
“Il tempo in cui mi imponevate le vostre scelte, in cui mi dicevate che cosa dovevo o non dovevo fare, è ormai finito! Adesso sono un uomo libero, con le mie idee, le mie convinzioni e le mie certezze, che voi non potrete in alcun modo né calpestare e nemmeno distruggere! Stasera stessa sparirò da questa casa e, se sarà necessario, lo farò per sempre!”
Il giovane lanciò un’occhiata alla madre e alla sorella, inebetite e balbettanti, poi uscì dalla sala da pranzo, qualche istante prima di vedere il padre accasciarsi a terra e di sentire le grida concitate delle donne rimaste che chiedevano aiuto e lo imploravano di tornare.



QUALCHE NOTA STORICA ...

Sotto l'immagine di Palazzo Bellini, sul cui sfondo si intravede, tagliata, la basilica e la cupola di san Gaudenzio, protettore della città.
Fu un luogo importantissimo, anzi, fondamentale per la storia di Novara e della futura Italia: lo ritroveremo più avanti nel racconto: la sua costruzione si fa risalire al XVII secolo e passò di mano tra le potenti famiglie nobili cittadine, fino ad essere acquistato nel 1900 dalla Banca Popolare, fondata a Novara nel 1871.
Dopo il completamento della facciata ad opera dell'architetto Luigi Broggi di Milano, a partire dal 1905 divenne la sede centrale della stessa banca.
E' un palazzo storico: ospitò personaggi e avvenimenti importanti della Storia d'Italia.
Il 31 maggio 1800 vi fece sosta Napoleone Bonaparte, durante la seconda campagna sul suolo italiano, prima della battaglia di Marengo. Alla ripresa della I Guerra d'Indipendenza vi dimorò Re Carlo Alberto, che la sera del 23 marzo 1849, dopo la sconfitta, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele: un atto di capitale importanza per il Risorgimento italiano.
Dieci anni dopo, il 1° giugno 1859, vi fu ospitato Napoleone III, Imperatore dei Francesi, che si trattenne fino all'alba del 4 giugno, studiando insieme a Vittorio Emanuele II i piani per la battaglia di Magenta.


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Capitolo 13
*** L'attesa ***



In spagnolo aspettare si dice “esperar” , perché in fondo aspettare è anche sperare.
(Anonimo)




Nicolò aveva avvertito le voci concitate provenire dall'interno del palazzo, ma si era ripromesso di non voltarsi per nessuna ragione al mondo: non si sarebbe fatto convincere dalle urla isteriche della madre e della sorella, non avrebbe desistito dal suo proposito di arruolarsi tra le fila dei Piemontesi solamente per evitare un dispiacere alla famiglia; aveva scelto di essere libero, di non lasciarsi condizionare dai sentimentalismi materni o paterni, perché lui, ormai, si sentiva un uomo, era un uomo, e come tale avrebbe dovuto comportarsi.
Nel buio della notte, si diresse a passo svelto e deciso in direzione delle stalle, sul retro della dimora: sellò con abilità Ermes, il suo Frisone nero, lanciando occhiate circospette dietro di sè.
Rischiò di inciampare un paio di volte nei secchi adibiti a raccogliere le deiezioni, ma subito li allontanò senza troppa cura, sporcando la biada e il fieno di riserva accumulati a pochi passi da lui.
Recuperò un'ampia saccoccia appesa sopra la testa di Ermes, per poterla riempire con qualche cibaria che, preventivamente, aveva nascosto in un angolo delle stalle, con l'intenzione di abbandonare il palazzo quella notte stessa o, al più tardi, se il padre non si fosse lanciato in quella patetica arringa, il mattino successivo.
Vi infilò un filone di pane e una piccola forma di formaggio, quindi la richiuse, facendo attenzione a non comprimere troppo il contenuto.
Indossò su una spalla la tracolla della borraccia colma d'acqua, infine si preoccupò di nutrire anche il cavallo, incitandolo a piluccare un po’ di fieno nella mangiatoia.
A un certo punto, si sentì invadere da una calma infinita: non avvertiva più alcuna voce richiamarlo indietro, gli unici suoni che udiva erano il sommesso nitrire del quadrupede e lo scalpiccio impaziente degli zoccoli ferrati del bellissimo esemplare equino.
Il ragazzo gli accarezzò con dolcezza il muso, riconoscente per la fedeltà che gli aveva sempre dimostrato: si issò sulle staffe e, le redini in mano, lo incitò a mettersi in marcia.
Un minuto dopo entrambi stavano percorrendo il viale secondario che portava fuori dalla villa, mentre Nicolò si ritrovò a pregare che il suo piano funzionasse.
 

Era stata una notte davvero da incubo, trascorsa a vegliare il padre svenuto.
Donna Luisa aveva cercato di rintracciare il figlio, mandando un paio di domestici nelle stalle, pochi istanti dopo la sua fuga improvvisa, ma Nicolò si era già dileguato, più veloce di un fantino da corsa.
Il medico era stato avvisato di raggiungere al più presto il palazzo: una volta arrivato, aveva visitato il notaio Granieri, tranquillizzando moglie e figlia sul malore dell’uomo, certo che fosse da attribuire ad un crollo nervoso, una sorta di isteria incontrollata, nulla a che vedere con il cuore o con qualche altro malanno più grave.
Aveva prescritto riposo assoluto per almeno un paio di giorni, oltre a dei sedativi da prendere prima di coricarsi.
Con le prime luci dell’alba, Costanza aveva inviato il cocchiere a casa degli zii, per recapitare un messaggio a Pietro.
Aveva assoluta necessità di parlargli, poiché era convinta che il cugino sapesse molte cose su Nicolò: era arrivato il momento di metterlo davanti al fatto compiuto, di costringerlo a rivelarle l’intera verità, senza altre bugie o ulteriori omissioni.
La ragazza stava guardando fuori dalla finestra della sua camera, dove si era rifugiata dopo aver consumato una sbrigativa colazione: per l'intera notte, la madre si era mossa a scatti, dando l'impressione che potesse rompersi come delicata porcellana; al minimo rumore correva verso le finestre, nella speranza di veder riapparire il figlio, e il suo pallore faceva temere a Costanza che potesse crollare allo stesso modo di come era collassato il notaio.
Poco dopo l'aba, donna Luisa si era decisa a coricarsi, supplicando che la avvertissero non appena il primogenito fosse tornato, perché era certa che egli si sarebbe ripresentato quel giorno stesso.
Adesso, anche il padre si era finalmente addormentato, così la giovane avrebbe potuto dedicare qualche minuto a se stessa.
Lo scialle di lana traforata le copriva le spalle, dandole quel calore che il fuoco acceso nel camino non riusciva a trasferirle.
Abbassò per un istante i pesanti tendoni di broccato che decoravano gli infissi, per dirigersi verso lo specchio ovale dalla cornice dorata sulla parete opposta della stanza.
Ispezionò senza troppa convinzione la sua figura, provando la stessa sensazione di incredulità e smarrimento che aveva avvertito una settimana prima, nel negozio di sartoria della signora Leviani: indossava ancora l’abito della sera precedente, ormai stropicciato, e i capelli scuri e ricci le ricadevano sulle spalle come avesse compiuto una corsa a perdifiato, diventati la vaga ombra dell’elaborata pettinatura che Nina le aveva confezionato appena il mattino scorso.
Tutto ciò le conferiva un aspetto incredibilmente trasandato, impedendole di proseguire oltre nell'analizzare la sua immagine riflessa, perché già sapeva quanto poco fosse presentabile ed attraente, ma la cosa non le importava più di tanto.
Si allontanò dalla parete e si diresse verso l’ampio guardaroba vicino al letto a baldacchino: lo aprì e scelse un abito poco pretenzioso, il più semplice che avesse, composto da una giacchetta e da una gonna color bronzo, che un tempo usava per passeggiare in montagna.
Spostatasi verso la toeletta ribaltabile di ciliegio, si sedette sull’elegante sedia dai braccioli argentati, e cominciò a pettinarsi la lunga capigliatura, guardandosi nuovamente allo specchio.
Evitò di soffermarsi troppo sulle gote pallide e le labbra screpolate, ritrovandosi a riflettere su quanto fosse sciocco dedicare tanto tempo al proprio benessere corporale, quando era l'anima ad essere a brandelli, spremuta e calpestata dalle idee assurde che avevano reso folle suo fratello.
Scosse il capo, come se quel semplice movimento potesse servire a cacciare anche le preoccupazioni che le gravavano la mente da ore, quindi si alzò e ritornò a scrutare fuori dalla finestra.
Il sentiero che conduceva al palazzo era ancora privo di qualsiasi presenza umana: gli alberi del giardino erano immersi in una leggerissima foschia, il sole di poche ore prima era adesso nascosto dietro a compatte nuvole scure.
Sono sicura che arriverà, continuava a ripetersi la giovane, lo sguardo fisso in lontananza.
Rimase affacciata ancora per un buon quarto d’ora, i vetri appannati dal suo fiato caldo, poi decise di lasciar perdere.
Era molto stanca, perché non aveva praticamente dormito quella notte, ma non voleva e non poteva cedere allo sconforto: il messaggio, ormai, avrebbe già dovuto trovarsi tra le mani di Pietro da diverso tempo, ma egli tardava ad arrivare.
Per un attimo, Costanza temette che gli fosse successo qualcosa, che magari persino lui, così integerrimo e distante dalle convenzioni, si fosse lasciato coinvolgere in quell'assurda smania di partecipare alla guerra.
No, non può essere, non è come tutti gli altri, non farebbe mai una cosa del genere, cercò di consolarsi.
Ritornò a guardare il viale che conduceva al palazzo ancora per una decina di minuti, poi sfinita ed affranta, la ragazza si sdraiò sul letto, dove subito si addormentò.


Un rumore alla porta la costrinse ad aprire gli occhi: sbatté le palpebre un paio di volte, la mente offuscata dal sonno appena interrotto.
Per un attimo, la sensazione di smarrimento e angoscia che la veniva a disturbare quasi ogni notte, si ripresentò dopo giorni di assenza.
Si mise a sedere e cercò di lisciarsi le pieghe del vestito, passando a darsi una sistemata ai capelli, quindi invitò la persona dall’altra parte ad entrare.
“Costanza, figliola, c’è Pietro che ti attende dabbasso. Ha detto che vuole parlare con te …”
Donna Luisa, un ampio abito color caffè, non aveva un bell’aspetto, pallida e preoccupata com’era, ma le occhiaie sembravano essersi decisamente attenuate.
“Finalmente è arrivato!” esclamò la giovane, alzandosi con entusiasmo.
“Aspettavi forse una sua visita?” si allarmò la madre, stizzita da quella gioia che traspariva dalle parole della figlia: per lei, infatti, tutti avrebbero dovuto mostrare una sorta di lutto per l'allontanamento repentino del primogenito, per cui non riusciva a comprendere il comportamento di giubilo mostrato dalla ragazza.
“Sì, ma non è come pensate voi. Questa mattina gli ho scritto un biglietto per invitarlo a recarsi il più presto possibile qui a palazzo” cominciò a spiegare, mentre si avvicinava alla contessa.
“Madre, sono sicura che lui potrà darci notizie di Nicolò!” continuò la giovane, stringendo le mani dell’altra donna.
“Come? Perché dovrebbe sapere qualcosa di tuo fratello? E’ scappato solo da ieri sera, nessuno di noi ha in mente dove possa essere andato!”
Gli occhi azzurri della moglie del notaio la fissavano increduli, inverosimilmente grandi in quel volto pallido e preoccupato.
“E’ una storia lunga, ma abbiate fiducia in me, vi prego. Ora lasciate che vada a parlargli, ma voi promettete che starete tranquilla: andrà tutto bene, non temete”
Costanza la abbracciò speranzosa ed uscì dalla camera.


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Capitolo 14
*** Confessioni reciproche ***



Mai si confiderebbe un segreto ad alcuno, se si avesse abbastanza forza per mantenerlo.
(Bonaventure d’Argonne, letterato francese, 1634-1704)


“Pietro! Finalmente siete arrivato!” la giovane gli andò incontro con un sorriso, indecisa se abbracciarlo o se mantenere la solita forzata distanza, opzione che alla fine fece propria.

Il primogenito dei conti Caccia era stato accomodato in uno dei salottini
del piano inferiore: consisteva in una stanza dalla forma circolare e le pareti color pesca, adornate da un caminetto con pietra a vista, un paio di sofà verde acido ed altrettante poltroncine che, come fossero state vive, sembravano si stessero crogiolando davanti al fuoco acceso.
Al centro della stanza, sul lucido pavimento in marmo bianco, era adagiato un antico tappeto che ricordava i colori fenici, e su cui era stato posizionato un basso ed allungato tavolino in stile Luigi XV, circondato da
quattro sedie di velluto blu, imbottite e dallo schienale rifinito in oro.
In piedi a pochi passi dalla finestra, le mani dietro la schiena, il ragazzo si voltò al richiamo della cugina, raggiungendola.
Indossava un completo bruno ed amaranto, gli stivali neri talmente lucidi da potersi specchiare.
“Perdonate il ritardo, ma ho dovuto sbrigare delle faccende assai urgenti. Cosa è accaduto di così terribile? Dal messaggio che mi avete fatto recapitare, ho intuito fosse successo qualcosa di molto grave. Voi state bene?”
La voce era come al solito calda e suadente: Costanza fissò per un istante quegli occhi azzurrissimi, quasi privi di calore umano, quindi abbassò lo sguardo, invitandolo ad accomodarsi su una delle poltrone.
“Io sì, ma i miei genitori sono distrutti: Nicolò è scomparso… è fuggito ieri sera nel bel mezzo della cena e adesso non sappiamo dove sia finito” esordì lei, il tono ancora incredulo e preoccupato.
“Come scomparso? Per quale motivo?”
Pietro sembra davvero stupito, constatò la giovane, cercando di mantenere la lucidità necessaria per affrontarlo e per non scoraggiarsi ulteriormente.
“Dopo che mio fratello ci ha annunciato che stamattina sarebbe andato ad arruolarsi nell’Esercito, lui e nostro padre hanno litigato come non li avevo mai visti fare: si sono detti delle cose terribili, quasi non li riconoscevo. Erano fuori di sé, non volevano sentire ragioni ... ”
Poi, piegandosi in avanti, la voce incrinata, implorò:
“Vi prego, se voi sapete qualcosa, qualsiasi cosa, vi supplico di non tenercela nascosta! Siamo disperati: per poter vegliare mio padre che è svenuto, mia madre ed io non abbiamo dormito un solo minuto questa notte e…”
“Si è sentito male?” domandò impensierito l’altro, le sopracciglia chiare aggrottate.
“Sì: il medico che lo ha visitato ieri sera ci ha assicurato che è stato un crollo nervoso, una forte isteria pregressa. Con un paio di giorni di riposo e dei sedativi passerà completamente, ma non possiamo permetterci altre soprese del genere. Mi capite?”
“Certo, comprendo la vostra ansia, però dovete cercare di mantenervi lucida. Ma ditemi, avete mandato qualcuno a controllare al Comando generale dell'Esercito di stanza in città?”
Costanza fece segno di no con la testa, sospirando con quanta forza le era rimasta: sentiva i polmoni collassati, incapaci di espandersi e di rilasciarsi, e temeva di non reggere ancora per molto quel groviglio di emozioni negative che l'avevano investita in così breve ed improvviso tempo.
“Se davvero Nicolò è andato ad arruolarsi, almeno per il momento so che sta bene. Voglio dire, l’angoscia che ho nel cuore è troppo grande da descrivere, ma fino a quando questa guerra non comincerà veramente, nutro ancora la speranza di riuscire a convincerlo a tornare a casa. Nel caso in cui ci abbia detto una menzogna, se magari adesso è a girovagare chissà dove, senza cibo, senza denaro, come farò a rintracciarlo? Per questo, Pietro, vi supplico di raccontarmi la verità. Che cosa sapete di mio fratello? In cosa è coinvolto?”
Lui strinse le mani a pugno e abbassò lo sguardo.
Avvertiva la disperazione nelle parole della cugina e, pur di non vederla soffrire, sarebbe stato disposto a raccontarle almeno una parte della storia: aveva bisogno di qualche secondo per riflettere con calma, per capire se, con la sua confessione parziale, avrebbe potuto danneggiare qualcuno o rovinare irrimediabilmente i loro piani.
“Allora è vero…” rincarò la dose la ragazza, l’espressione incredula, notando il silenzio carico di assenso e di dubbio dell'altro.
“Cosa c’entrano Federico e Nicolò in tutta questa faccenda oscura? Parlate, per l’amor del Cielo!” sbraitò, alzandosi dalla poltrona e fronteggiandolo.
“Calmatevi e sedetevi. Vi ho già detto in più di un'occasione che le vostre sono false intuizioni, dei semplici vaneggiamenti. Datemi retta, Costanza, non intestarditevi a trovare per forza un colpevole, perché non esiste nessun complotto, nessuna congiura... ” tentò di rabbonirla il giovane, afferrandola per le braccia e facendola retrocedere.
“Sarò io a decidere se e quando calmarmi! Il tempo delle favole è ormai finito, dovreste saperlo!” ribatté l’altra e, dopo avergli tenuto testa per qualche secondo, si arrese e riprese posto.
Lui sorrise con quel suo abituale modo a metà tra la beffa e il serio.
"Vi rendete conto che quello che mi state chiedendo va al di là della vostra comprensione? Voglio dire, gli interessi in gioco sono talmente grandi e pericolosi che, anche solo una parola fuori posto detta ad una persona non del nostro giro, potrebbe rappresentare la condanna per ciascuno di noi, la fine di ogni cosa... ?-
Pietro si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, le mani dietro la schiena, fino a raggiungere la finestra davanti a loro: era incredibilmente calmo e rilassato, ma era palese che stava compiendo un grande sforzo di autocontrollo.
La cugina fissò la sua schiena per qualche attimo, mordendosi il labbro inferiore: non lo aveva mai visto così preoccupato e, per un solo minuscolo istante, si era quasi convinta a ritrarre la proposta che gli aveva fatto, ma non poteva farlo, lo doveva a suo fratello e ai loro genitori.
"Non vi chiedo di tradire nessuno: non m'interessa in cosa siete coinvolto, voglio solo scopire perché mio fratello ha lasciato la sicurezza della nostra casa per avventurarsi in qualcosa di più grande di lui ... non vi farò domande scomode, ve lo prometto, però pretendo che voi siate sincero, null'altro"
Il ragazzo si voltò appena e, scrutandola per un lungo minuto sul volto pallido e preoccupato, si decise a raccontare.
“Nicolò ed io facciamo parte di un gruppo di affiliati per l’indipendenza degli Stati ancora sotto i governi stranieri: si tratta di una sorta di Carboneria …”
“Lo avete costretto a farne parte?”
“No, certo che no!” la guardò contrariato, scuotendo con vigore il capo “non sapevo neppure che lui fosse un affiliato, fino a quando non ne abbiamo parlato una domenica, qui a casa vostra, dopo pranzo. Era il giorno in cui siamo andati insieme a messa nella basilica, circa un mese fa. Rammentate?”
“Sì, mi ricordo. Proseguite, per favore” annuì lei, freddamente.
“In quella occasione abbiamo discusso delle nostre idee, delle nostre convinzioni: era fondamentale capire di cosa fosse a conoscenza, di quali nomi era stato portato al corrente, così l’ho messo alle strette. Parlando, gli ho fatto capire che anch’io ero coinvolto nel gruppo e che sapevo tante informazioni quanto lui”
“Dove vi ritrovate?”
“Non sono mai andato alle riunioni: nella mia posizione non posso permettermi alcun tipo di sbaglio, ne andrebbe di mezzo la mia famiglia”
“Ma saprete il nome del capo del movimento, giusto? Come si chiama?” incalzò ancora una volta l’altra, seria e volitiva a non demordere.
“Perché volete saperlo?”
“Nicolò potrebbe essersi rivolto a lui, dopo che ieri sera è fuggito. Qui in città, a parte voi, non conosce nessuno”
Lui tornò a fissarla con quegli occhi azzurrissimi che la ipnotizzavano: continuava ad essere perfettamente calmo, tuttavia si lasciò fuggire una smorfia.
“Ascoltate, vostro fratello è ormai un uomo in grado di prendere le proprie decisioni in autonomia e, di conseguenza, di assumersi le responsabilità che ne deriveranno. Se vi può far stare più tranquilla, vi accompagnerò al comando, ma non chiedetemi di mettere in mezzo terze persone”
Costanza abbassò lo sguardo e cercò di controllarsi: come diamine si permetteva di parlarle in quel modo? Forse non aveva ben compreso la gravità di quello che gli aveva detto, magari le stava mentendo, forse non conosceva neppure il nome di quell’uomo, forse stava solamente cercando di prendere tempo per permettere a Nicolò di fuggire chissà dove …
"Volete mettere alla prova la mia pazienza? Avete appena detto che la vostra famiglia non sa nulla di ciò in cui siete coinvolto: mi dispiacerebbe informare gli zii e dar loro un dispiacere, non credete?"
Pietro accavallò le gambe ed incrociò le mani: non credeva che la ragazzina riuscisse a tenergli testa, era convinto di farla capitolare alle prime battute, invece doveva amaramente ricredersi.
“Eugenio Maffucci” si arrese, dopo un attimo di esitazione.

Sospirò ed evitò di guardarla negli occhi, verdi ed arrossati dal furore: era convinto di aver fatto la scelta più giusta in quel momento, ma non riusciva a non provare un senso di colpa e di oppressione gravargli sulla coscienza.
Temeva che, se non l'avesse accontentata, quella testarda avrebbe potuto davvero metterlo in serie difficoltà, non tanto con i genitori, quanto con le spie che sapeva costellavano la città.
Si bloccò per un istante e ritornò verso di lei. Si avvicinanò con il busto alla ragazza e, a bassa voce, la convinse suadentemente:
“Dovete giurarmi che il suo nome non uscirà dalla vostra bocca per nessun motivo. Mai e poi mai dovrete rivelare a qualcuno che siete a conoscenza dell’esistenza del nostro gruppo rivoluzionario. Avete capito? Ne va delle vite di moltissime persone, di giovani che desiderano solamente la libertà per tutti noi”
Lei annuì, sforzandosi di non sorridere: nonostante l’assurda situazione in cui si era trovata suo malgrado, ciò non le impediva di provare un’attrazione oscura verso quel giovane, un sentimento quasi di natura atavica, che la spingeva ad affidarsi completamente e a credergli senza alcuna ombra di dubbio.
“State tranquillo, ve lo giuro, ma adesso continuate. Cosa mi potete dire di Federico? Anche lui è coinvolto in questa organizzazione?”
“No, lui non fa parte del nostro gruppo, anzi” un sorriso amaro comparve sulla bocca di Pietro, che ritornò a sedersi composto sulla poltrona davanti a lei, le mani allungate sui braccioli.
“Mio fratello ha degli ideali completamente all’opposto: in questi ultimi mesi ha cercato in ogni modo di farmi cambiare idea, convinto che non avremmo dovuto immischiarci in queste faccende”
“Non ha tutti i torti …” ragionò ad alta voce la giovane.
“Ma non capite?" la sbeffeggiò "diceva così perché gli tornava comodo: si incontrava con dei traditori milanesi filo austriaci, che hanno tramato per tutto questo tempo alle nostre spalle. Lui e quelli come lui non sono disposti a rischiare la propria vita per un ideale, non vogliono un’Italia unita sotto un unico sovrano legittimato dal popolo! Desiderano solamente la nostra rovina, non rendendosi conto che saranno loro i primi a pagare per gli sbagli commessi ...”
“Abbassate i toni, per favore. Mia madre o qualcuno dei domestici potrebbe sentirci …”
L’altro si scusò e lanciò un’occhiata alla porta davanti a loro.
“Adesso che l’armistizio è stato denunciato sarete contenti. Finalmente avrete la vostra guerra, i vostri morti sulla coscienza …” biasimò amareggiata Costanza, scuotendo il capo.
Se davvero pensate questo, siete sulla strada sbagliata. Molti del gruppo, io per primo, non sono d'accordo sulla fine del periodo di pace. Ma la cosa non dipende da noi, dovreste immaginarlo: da qui, da questa città non possiamo fare nulla per cambiare la situazione... ”
Lei tornò ad agitarsi: avrebbe sbriciolato volentieri qualsiasi cosa le fosse capitato tra le mani, solo per il gusto di sfogare la rabbia e la delusione che avvertiva scaldarle il petto, solo per dimostrare al cugino che era una persona viva, con dei sentimenti che la facevano vivere e non sopravvivere, che era una giovane donna che sapeva pensare con la propria testa, invece di sottostare passivamente ai capricci degli altri.
“A Torino, nella capitale, a cosa serve il Parlamento?” sbottò.
“Se è davvero giusto quello che fate, dove sono i deputati che appoggiano la vostra causa? Perché nessuno è intervenuto per fermare il Re?!”
"Purtroppo, chi detiene il potere, troppo spesso si preoccupa esclusivamente dei propri interessi e non di quelli del popolo" sbottò deluso l'altro.
"Comunque è vero, sono fermamente convinto che bisogna fare qualcosa per scacciare una volta per tutte gli oppressori: sosteniamo una guerra di difesa, non d’attacco. Quando abbiamo saputo che il Re aveva dato il via libera a riprendere le ostilità, siamo stati investiti da un grande sconforto. Anche Federico non si aspettava una mossa del genere, tanto azzardata quanto folle. Lui e i suoi amici avrebbero preferito arrendersi fin da Custoza* ”

I due rimasero in silenzio per una manciata di secondi, ognuno a riflettere sulle parole che il cugino aveva pronunciato.
Le tende spumose color ciano erano state leggermente tirate, in maniera da permettere alla debole luce di marzo di entrare nella stanza: le campane di una chiesa in lontananza batterono le undici, mentre nella strada adiacente la villa si poteva udire piuttosto distintamente il rumore delle ruote di qualche rara carrozza che attraversava il selciato di terra battuta, per lasciare il posto ai carretti dei contadini che si avviavano verso le vaste distese coltivate a mezzo chilometro dal palazzo.
“Pietro, spero che tutto ciò che accadrà non faccia soffrire nessuno di noi, che potremo uscire sani e salvi dagli avvenimenti che ci travolgeranno. Ma vi prego, datemi l’indirizzo di questo Maffucci: forse lui riuscirà a far rinsavire Nicolò e a riportarlo a casa” riprese sinceramente lei, fissando i suoi occhi verdi in quelli chiari dell’uomo.
“Lasciate che ci parli io con Eugenio” cercò di farla ragionare, facendo leva sull’evenienza, tutt’altro che rara, che l’uomo non avrebbe rivelato nulla ad un’estranea.
“Non chiedetemi questo, sapete che non posso. Se non volete che ci vada da sola, portatemi con voi, ma non lasciatemi ancora nel dubbio e nell’incertezza, vi prego”
Il ragazzo ricambiò lo sguardo di pochi istanti prima, quindi lo abbassò.
Prese ad aprire e chiudere i pugni, cercando di riflettere per trovare una soluzione: come avrebbe reagito Eugenio alla vista di Costanza? Che cosa sarebbe stato disposto a confessarle? In tutta la sua vita non era mai stato così in difficoltà come in quel momento.
“D’accordo. Però, promettetemi che non farete mosse azzardate:
se è quello che desiderate, vi permetterò di seguirmi, anche se non so quanto potrete partecipare alla conversazione”
“Perché no? Se non lo farete, non esiterò a mettervi in cattiva luce con i vostri tanto beneamati compagni, rivelando che non avete avuto alcuno scrupolo a confessarmi l’esistenza del gruppo! E' questo che volete?”
In quel momento, la ragazza avvertiva il peso della frase pronunciata come la più falsa tra le accuse: si sentiva vergognosamente vile e si accorse della cattiveria che trapelava dalle sue parole.
Sebbene non avrebbe mai tradito il cugino, neppure davanti agli altri affiliati, anzi, soprattutto davanti a loro, non poteva e non voleva rischiare di non trovare il fratello: era la cosa migliore da fare, non solo per lui ma anche per i suoi genitori.
L'uomo allargò le braccia e alzò un sopracciglio, celando la voglia di minacciarla velatamente per farle cambiare idea, ma era anche ammirato dalla sua caparbietà, quindi lasciò stare.
Touché, avete vinto voi. Dobbiamo sbrigarci, però: siete disposta ad uscire adesso?”

Lei si alzò ed annuì convinta: si lisciò la gonna color bronzo e abbozzò un sorriso.
“Sì, certo che sì. Lasciatemi solo un minuto per avvertire mia madre e poi sono pronta”



* La battaglia di Custoza si combatté il 25 luglio 1848, tra l'esercito dei Piemontesi e gli Austriaci che, a capo del feldmaresciallo Radetzky, sconfissero il generale La Marmora e i suoi soldati.

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Capitolo 15
*** Verità o menzogna? ***



Nessun uomo ha una buona memoria sufficiente a farne un bugiardo di successo.

(Abraham Lincoln, avvocato e sedicesimo Presidente degli Stati Uniti d'America, 1809-1865)


La carrozza procedeva a velocità sostenuta: Costanza aveva avvisato la madre della sua uscita, senza darle false speranze, ma dicendole semplicemente di pregare e confidare nella buona sorte che, tra l'altro, stava permettendo al padre di riprendersi.

Il cielo era pennellato di strisce grigie, che si alternavano alle macchie azzurre, pronte a giocare a nascondino con le rare e lattescenti nubi.
Avevano lasciato dietro di loro la campagna coltivata e quella incolta, le spighe di grano che vibravano all'impercettibile brezza di fine marzo, il giallo dorato delle pannocchie e il Ticino che scorreva pigro ed arido, insinuandosi tra gli argini artificiali delle dighe, per addentrarsi oltre le mura romane della città.
Era ormai mattino inoltrato, quindi bisognava sbrigarsi, per non perdere ulteriore tempo prezioso.

“Prima, quando mi sono presentato a casa vostra, vi ho detto che ero arrivato in ritardo perché avevo avuto delle faccende urgenti da sbrigare …”
Pietro, che fino a quel momento si era limitato ad osservare il paesaggio cittadino sfilare fuori dalla Landau, si girò nella direzione della giovane, fissandola in volto.
“Sì, me lo ricordo. Ebbene?”
La fissò negli occhi, trapassandola quasi con quell’intensità che solo il suo sguardo di ghiaccio riusciva a possedere, facendole vibrare la pelle lungo la spina dorsale e contorcendole la bocca dello stomaco.
“La verità è che ero da Eugenio, per commentare ciò che sta accadendo in questi giorni nel Regno”
Deglutì a fatica, quindi continuò:
“Il fatto è che non ho visto Nicolò. Questo sapete che cosa vuol dire, vero?”
Lei annuì con aria greve, cercando di concentrarsi sulle parole poco fauste che le aveva appena rivelato.
“Certo che lo so: o il vostro amico ha mentito, nascondendo di proposito mio fratello - ma è un’eventualità che mi sentirei di escludere- oppure, quell’incosciente di Nicolò, è davvero andato ad arruolarsi” rispose con insolita calma la ragazza, lanciando un’occhiata distratta fuori dal finestrino, mentre il silenzio ripiombava nell’abitacolo.
“Quale eventualità preferireste?”
“Sinceramente non saprei: in tutta questa storia, ogni cosa mi sembra assurda. Se penso che ieri sera, a quest’ora, eravamo ancora insieme, che nulla di tutto questo era accaduto, mi spinge a pensare di essere in un brutto sogno ad occhi aperti”
Pietro si umettò le labbra e s’incurvò, accarezzandole con comprensione una spalla.
“Non fatemi pentire di avervi portato con me, Costanza. Ricordatevi che io mi sono fidato della vostra parola. E ora, godiamoci le vie del centro”
Si adagiò nuovamente contro il sedile imbottito e, scostando le tendine nere, si abbandonò a guardare oltre i vetri, lasciando la giovane in uno stato emotivo a metà tra l'agitazione e un vago disprezzo per la matura freddezza dell'uomo: non avrebbe avuto senso proseguire a punzecchiarsi, forgiare nuove recriminazioni, dovevano solamente concentrarsi ed unire le forze per ritrovare il primogenito dei Granieri.


Qualche minuto più tardi, finalmente, raggiunsero l’abitazione di Maffucci, un appartamento in Corso Sempione.
Lo stabile aveva la facciata decorata con stucchi e colonnine di granito rosa, su cui sporgevano un balconcino bombato e un paio di strette finestre con le inferriate.
“Eugenio studia da avvocato” spiegò Pietro, mentre aiutava la cugina a scendere dalla carrozza, l'orlo della gonna color bronzo che si sollevava timidamente.
“E’ per colpa della Facoltà che frequenta che si è messo in testa di cambiare il mondo?” ribatté cinica, ammorbidendo le parole con un sorriso di gratitudine.
“Scusate se non riesco ad essere rilassata, ma ho il cuore in tumulto”
“Vi capisco, non avete nulla da farvi perdonare. Ma ora è meglio se mi aspettate qui: non credo sia una buona idea salire con me …”
Costanza assunse un’espressione di sdegno e sfida al contempo, scuotendo con convinzione il capo.
“Pietro, mi avevate promesso che sarei potuta venire anch’io! Lo avete già dimenticato?”
“E’ quello che ho fatto, ma non ho mai precisato fino a dove avreste potuto seguirmi” precisò con assoluta calma.
L’apparente e vaga ansia che erano trapelate dal giovane, appena un’ora prima, sembravano essersi vaporizzate nel nulla, lasciando il solito spazio alla sicurezza e all’impenetrabilità che lo avevano sempre contraddistinto.
“Non prendetemi in giro! Avete capito a che cosa mi sto riferendo! Guardate che ci metto un secondo a cambiare idea e a raccontare ai vostri amici da quattro soldi che mi avete confessato ogni cosa di vostra spontanea volontà!”
Il cugino sospirò rumorosamente, le mani sui fianchi dell’elegante giacca bruna ed amaranto.
Scorse rapidamente la strada che si apriva dietro di loro, a conferma che nessuno li avesse seguiti, deformazione del suo lato da cospiratore rivoluzionario.
Si decise quindi a prenderla per un braccio, avviandosi a passi svelti verso l’androne del palazzo di inizio secolo.


“Pietro, cosa ci fai ancora qui?!” lo apostrofò stupito Maffucci, una volta aperta la porta.
Indossava una redingote nera su dei pantoloni beige, ai piedi degli stivali di pelle, e sembrava davvero stupito di vederlo.
“Ho bisogno di parlarti” venne subito al punto l’altro uomo, il cappello in mano.
“D’accordo, entra pure …”
“Aspetta” lo bloccò il conte Caccia, voltando lo sguardo in direzione di Costanza, rimasta nascosta nella penombra del pianerottolo, a pochi passi da loro.
“Ci sarebbe un’altra persona, qui con me. Può entrare?”
“Dipende da chi si tratta, lo sai ... ”
Eugenio cominciava a diventare sospettoso: gli occhi scuri saettavano dalle scale all’amico davanti a lui, mentre i baffetti curatissimi quasi sembravano vibrare dall'ansia, perfettamente tenuta sotto controllo.
“E’ una donna: possiamo fidarci di lei, te lo assicuro”
Maffucci stemperò la tensione sciogliendosi in una risata: poi, dopo aver dato una pacca di incoraggiamento a Pietro, si affacciò alla porta.
Finalmente, scorse anche Costanza, alla quale si inchinò scherzosamente, quindi li agguantò entrambi, facendoli entrare nell’appartamento.


“Potevi anche dirmelo che avevi una fidanzata! Siete molto graziosa, signorina…?”
“Non sono la sua fidanzata” precisò asciutta la ragazza, facendosi avanti.
Il salottino in cui i tre si erano accomodati odorava di sigaro: non era molto grande, ma accogliente, con le pareti di damasco rosso tappezzate di costosi quadri e alti scaffali di mogano scuro, contenenti dozzine di volumi rilegati dalle coste argentate e dorate.
“Oh, scusate, non volevo offendervi” continuò allegramente.
Mentre si versava un bicchierino del liquore posto sul tavolino rotondo, vicino al divanetto ocra su cui era seduto, non smetteva di fissare la nuova arrivata: era decisamente curioso di conoscerne l’identità, ma non voleva affrettare i tempi, sebbene gli costasse un enorme sforzo di pazienza.
Pietro rifiutò di fargli compagnia nella bevuta, preferendo venire subito al sodo.
Lanciò un’occhiata di approvazione da parte della cugina, composta nel suo completo color bronzo, le mani fredde adagiate sulle ginocchia, quindi esordì:
“Eugenio, abbiamo bisogno di parlare con Nicolò, è molto importante. Tu hai idea di dove possa trovarsi?”
Maffucci si irrigidì all’istante: appoggiò con foga il bicchierino sul ripiano da cui lo aveva preso pochi istanti prima, quindi si alzò di scatto, invitando anche gli ospiti a fare altrettanto.
“Non conosco nessuna persona di nome Nicolò. E ora, per favore, lasciatemi in pace. Sono molto impegnato …”
Il trentenne spinse fuori dalla stanza i due ospiti, risparmiando abbondantemente i convenevoli, e senza permettere loro di sprecare altro fiato in inutili giustificazioni.
“Aspettate, vi prego!” riuscì a dire Costanza, liberandosi dalla stretta dell’uomo, che ormai si era apprestato ad aprire la porta.
“Vi ho già detto che non so chi sia la persona che state cercando! Per cui sono io, cara signorina, che prego voi e il vostro accompagnatore di uscire immediatamente da casa mia! Hai capito, Pietro, la cosa vale anche per te!”
Avvertendo la tensione e la svolta che stavano aleggiando nel salotto, la ragazza si piantò in mezzo alla soglia, guardando con tutta la sincerità e la disperazione di cui fosse capace quell’uomo alto e dinoccolato che le si parava ostinatamente davanti.
“Sono sua sorella! Nicolò è fuggito ieri sera da palazzo: i miei genitori ed io siamo disperati, credetemi! Ha detto che sarebbe andato ad arruolarsi, ma speravo che voi avreste potuto aiutarmi, che magari si trovasse addirittura qui, al sicuro con un amico, una persona che conosce! Per favore, ascoltatemi un solo istante…”
Eugenio la guardò torvo, mordendosi il labbro inferiore: scosse la testa, poi puntò gli occhi scuri su Pietro, infine sorrise amaramente.
“Perché ci hai traditi? Perché le hai raccontato tutto?”
L'interrogato lo guardò a testa alta, le sopracciglia aggrottate in un'espressione indecifrabile.
“No, non è colpa di mio cugino!" si affrettò a difenderlo lei, frapponendosi tra i due.
"Sono stata io che ho insistito, che l’ho supplicato di rivelarmi qualsiasi cosa sapesse, anche la più insignificante! Non ve la prendete con lui, signor Maffucci, ha agito solo per il bene di mio fratello, ve lo posso giurare!”

Il capo degli affiliati rimase in silenzio per una manciata di secondi, indeciso su come comportarsi.
Si mordicchiò un paio di volte il labbro inferiore, poi passò a quello superiore, quindi picchiettò ritmicamente il piede destro sull’elegante pavimento di parquet.
La pendola alle sue spalle segnò le undici e mezza, riscuotendo i presenti dal tempo sospeso in cui erano piombati: il proprietario dell'elegante appartamento non perse di vista un solo istante i due malgraditi ospiti, quasi a voler indagarli nel profondo, per capire se stessero dicendo la verità o, piuttosto, lo volessero subdolamente ingannare.
Trascorse un altro minuto, quindi Eugenio si arrese all’evidenza: Pietro sapeva troppe cose, era un ottimo informatore, e lui non avrebbe potuto mentirgli, pur essendo il burattinaio che tirava le fila di ciascun componente del gruppo.
Si sfiorò i baffetti scuri perfettamente curati, e pronunciò il suo verdetto, il tono roco ma sicuro.

“Va bene, potete rimanere, però siate consapevoli del fatto che dovrete raccontarmi una storia più che convincente, perché altrimenti giuro che dalla mia bocca non uscirà nemmeno una sillaba!”
 




NOTA DELL'AUTRICE

Buonasera a tutti, carissimi lettori!!!
Grazie infinite per continuare a seguire la mia storia, mi date un'immensa soddisfazione!
Ovviamente, fatemi sapere, se volete, cosa ne pensate.
A presto!

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Capitolo 16
*** Il finto intellettuale ***



 

Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente.

(Bertold Brecht, drammaturgo tedesco, 1898-1956)


L’albergo svizzero era ubicato all’angolo tra la via che fiancheggia Palazzo Orelli, sede del mercato dei grani, e piazza delle Erbe.
Era imponente, ma forse le appariva tale perché il cuore non faceva altro che accelerare i battiti, tanto da sentirli riecheggiare nelle orecchie.
La facciata era rossastra, costruita con possenti mattoni a vista: su di essa, si apriva un lungo balconcino bombato in ferro battuto, decorato da fini arzigogoli, oltre ad una dozzina di finestre alte e strette, disposte su tre piani, con le inferriate agli infissi e i tendoni di velluto scuro ad impedire ai curiosi di spiare all’interno delle stanze.
Trovarsi di fronte a quell’edificio, proprio in quel momento, non poteva far altro che aumentare la confusione mentale di Costanza che, ad un solo passo dalla meta, non voleva e non poteva arrendersi, lasciando che i dubbi la divorassero.
Grazie alla pazienza ed alla collaborazione, a tratti irritante, di Maffucci, la giovane era riuscita a sapere dove si trovava Nicolò e, soprattutto, come aveva trascorso le ore immediatamente successive alla fuga da casa: Eugenio, infatti,
dopo che l’alba era sorta, aveva accompagnato l’amico alla sede dell’Esercito sabaudo; adesso, le sue parole trionfe e beffarde continuavano a risuonarle nei timpani.
Nicolò avrebbe dovuto raggiungermi a Borgomanero, questa mattina stessa: sono in contatto con dei compagni milanesi, a loro volta molto intimi con delle ex spie filo austriache. Il nostro scopo sarebbe stato quello di effettuare un’imboscata nei giorni successivi la denuncia dell’armistizio, quando le truppe nemiche avrebbero avanzato verso la città, se solo fonti sicure non ci avessero sconsigliato di preparare l’attacco, perché la nostra zona non è considerata ancora priva di pericoli
Il trentenne avvocato si stava accendendo un sigaro, quando l’occhiata eloquente di Costanza lo spinse a desistere: la ragazza, infatti, detestava profondamente l’odore di fumo, bollandolo come uno stupido e omologato vizio da uomini.
Il capo degli affiliati la guardò per un breve istante, sorridendo sotto i baffetti neri: doveva riconoscere che aveva carattere, che sapeva imporsi e, queste qualità, rare in una donna, lo spronavano ad interessarsi sempre di più alla sua persona.
E’ stata una banale coincidenza che abbia incontrato vostro fratello appena fuori le mura cittadine” continuò a spiegare, la redingote nera sollevata come la coda di una rondine, piacevolmente in contrasto con i pantaloni di raso beige: per consolarsi si versò un altro sorso di liquore e riprese a raccontare.
Grazie alle informazioni di questi amici milanesi, il nostro gruppo ha deciso di lasciar perdere l’attentato, per questo sono rientrato già ieri sera in città: il cavallo di Nicolò correva veloce nel buio della notte e, nella concitazione del momento, quasi rischiava di finire sotto le ruote della mia carrozza. Il cocchiere è un affiliato, per cui non ha posto alcuna domanda, ma ha prontamente aiutato vostro fratello a riprendersi dal miracoloso incidente, miracoloso perché sfiorato per un colpo di inattesa buona sorte, credetemi! Né lui né il cavallo –tra l’altro permettetemi di dire che è uno splendido esemplare di frisone nero- hanno riportato danni. Così, ci siamo rimessi in marcia e, poco dopo, abbiamo fatto ritorno nel mio appartamento, dove il buon Nicolò ha vuotato il sacco!
La giovane si ritrovò a pensare che quell'uomo era a dir poco volgare e privo di scrupoli, cercando di mantenersi calma per ricavare il maggior numero di informazioni possibili: riportare a casa il fratello era l’unico scopo di quell’assurda visita, lo aveva velatamente promesso alla madre e, indirettamente, anche al padre, sebbene non volesse accennare, nemmeno lontanamente, alla fuga del primogenito.
Non poteva deluderli, desiderava solamente che tutta quella brutta storia si concludesse già quella mattina stessa, che ogni cosa ritornasse al proprio posto, un ordine naturale ed apparente che governava le loro esistenze da quando erano nati, il mondo degli aristocratici, che tutto avrebbero potuto fare, tranne rischiare volutamente la propria vita, tra l’altro per un irrealizzabile ideale borghese.  
Desidererei darvi un consiglio …” riprese imperterrito il giovane, appoggiando il bicchierino ormai vuoto sul tavolino rotondo di cristallo, a pochi centimetri dal divanetto ocra su cui aveva preso posto.
Nicolò non cambierà idea, ne sono certo …”
Non potete esserne sicuro, per il semplice fatto che non lo conoscete abbastanza. Non credete?” gli fece presente fiduciosa e rancorosa Costanza, stropicciandosi l’ampia gonna bronzea.
Può darsi che sia come affermate voi, ma ricordatevi che non si può dire di conoscere una persona fino in fondo, nemmeno se vivete con lei da una vita: essa ci terrà sempre dei segreti nascosti e, se si è bravi ad indagare, chissà che non si riesca a scovarli
Non mi piace questo vostro modo di parlare: pretendo chiarezza, signor Maffucci, non oracoli sibillini” lo fermò senza troppi complimenti, dimenticandosi della presenza rassicurante, e ingombrante allo stesso tempo, di Pietro, che era rimasto silenzioso ed attento accanto a lei.
Touché, perdonate la mia insolenza” acconsentì con un sorriso sornione, lanciando un’occhiata colma di indecisione al bicchierino vuoto accanto a loro.
Però, quello che intendo dire, è che è la qualità del tempo che si trascorre con una persona a poterci permettere il lusso di avanzare qualche pretesa su di essa, e non la quantità
Tornò a fissare gli occhi scuri in quelli verdi della sua interlocutrice, certo di aver fatto leva sulla sensibilità emotiva della ragazza.
E’ vero, è da pochi mesi che frequento vostro fratello e, rispetto agli anni che avete vissuto in comune, riconosco essere una nullità, ma so quello che dico, signorina Granieri, e Nicolò non è un uomo da rimangiarsi la parola data: di questo dovreste esserne orgogliosa, sappiatelo
“Ve la sentite di entrare?” la voce calda e suadente di Pietro riscosse dai pensieri la cugina, che annuì convinta, desiderosa di cancellare dalla mente quell’assurda quanto irritante conversazione con quel buono annulla di avvocato rivoluzionario, capace solo di rimanere al sicuro nella sua casa.
Sollevò quel tanto che bastava l’orlo del vestito color bronzo, per riuscire a salire il più agilmente possibile i gradini che la separavano dal fratello: con una mano teneva la pochette nera e, con l’altra, reggeva il cappellino legato sotto il mento, come in un gesto di inconsapevole rassicurazione.
Poi, finalmente, entrò, i dubbi e le incertezze lontani anni luce.  


Le sale dell’albergo erano un via vai di soldati in uniforme, per lo più ufficiali che passeggiavano nervosi da una stanza all’altra, in attesa di dare e ricevere ordini.
“Sarà meglio chiedere a qualcuno …” si azzardò a suggerire il conte Caccia, notando lo spaesamento della ragazza.
“Sì, certo. Conoscete qualche persona a cui possiamo rivolgerci?”
“Purtroppo, l’ambiente che frequento non si può certo dire militaresco” cercò di sdrammatizzare Pietro, stringendole teneramente il braccio sinistro.
“Aspettatemi qui, proverò a parlare con quell’uomo seduto vicino alla finestra. Torno subito”
Costanza fece per seguirlo ma, almeno in quella occasione, si impose di obbedire e di rimanere al proprio posto.
Avvicinò con maggiore forza la pochette al suo ventre, e si guardò intorno: quando erano entrati, un paio di soldati li aveva fermati per chiedere dove stessero andando, un cipiglio sospettoso sul volto.
Grazie alla prontezza del cugino, il quale aveva mostrato loro lo stemma dei Caccia impresso sull’anello che portava all’anulare destro, erano riusciti a passare e a proseguire la ricerca, senza essere ulteriormente disturbati.
Tuttavia, dopo le due guardie all’ingresso, quella marea di uomini in divisa, indaffarati nelle faccende di guerra a lei completamente estranee, quasi non si preoccupavano della sua presenza.
La sfioravano appena con lo sguardo, per poi ritornare a fissare mappe e altri documenti misteriosi, sicuri che quella giovane donna fosse la fidanzata di qualche ufficiale lì allocato.
Finalmente, dopo un paio di minuti di attesa, Pietro le fece cenno di raggiungerlo all’altro capo della sala.
“Tenente Chiusano, vi presento la signorina Granieri”
Costanza si lasciò fare il baciamano, quindi ringraziò il graduato per averle concesso udienza.
Dimostrava una quarantina d’anni, i capelli scuri e gli occhi chiari, che contrastavano con gli eleganti baffi a manubrio, più lunghi rispetto a quelli di Maffucci.
Indossava l’uniforme blu della Brigata Piemonte, con colletto, paramani e filettature di colore rosso.
Si tolse il kepì di panno cremisi calato sulla testa e attese di essere interrogato.
“Ditemi, tenente, sapete dove posso trovare mio fratello Nicolò? In famiglia non abbiamo notizie di lui da ieri sera …” proseguì preoccupata, mentre l’ufficiale invitava i due nuovi venuti ad accomodarsi ad un tavolino apparecchiato con una tovaglia candida.
“Vostro fratello è stato protagonista di un curioso fatto” rispose sorridendo: aveva una dentatura ben curata, rasente la perfezione, e labbra spesse quanto bastava per non essere ritenute femminili.  
“Questa mattina, quando si è presentato in albergo, si è fatto passare per un giovane intellettuale, fornendo alle guardie di collocamento una falsa identità. Così, dal momento che non aveva mai servito l’esercito e non aveva esperienza alcuna sui campi di battaglia, l’ufficiale che si occupa dell’arruolamento lo ha inserito nella Quarta divisione con mansione di soldato semplice …”
Il tenente bevve un sorso del vino liquoroso che era stato portato al tavolo, quindi continuò la storia:
“Ebbene, mentre veniva condotto al piano superiore, dove avrebbe condiviso una stanza con altri commilitoni, un nostro giovane sottoufficiale lo ha riconosciuto, chiamandolo con il suo nome, quello autentico, intendo.
Dapprima, vostro fratello ha fatto finta di non aver udito, ma quando il furiere in questione gli si avvicinò, il giovane Granieri fu costretto a rivelare ogni cosa. Per farla breve, signorina, ha davvero molta inventiva, non si può dire altrimenti!”
Chiusano concluse il suo discorso abbozzando un sorriso divertito, che non piacque per nulla a Costanza.
“Vi ringrazio per il fedele resoconto, signor tenente, ma ora potete dirmi dove si trova mio fratello? E’ ancora qui in albergo, o lo avete mandato via?”
Pietro, avvertendo l’impazienza e il fastidio trapelare dalle parole della ragazza, intervenne per scongiurare il peggio:
“Infatti, signore, ci confermate la presenza di mio cugino in questo albergo?”
“Certo, conte Caccia, altrimenti perché mi sarei soffermato a parlare con voi e a raccontarvi l’episodio occorso poche ore fa?” replicò con un moto di stizza l’ufficiale.
La giovane si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
“In questo momento è impegnato negli addestramenti giornalieri: grazie alla sua levatura sociale, abbiamo chiuso un occhio sulla piccola bugia che ci ha raccontato questa mattina, promuovendolo all’istante ad aiutante in campo del capitano Canavera. Se avrete la pazienza di attendere, ve lo farò chiamare: le esercitazioni stanno per finire” concluse alzandosi, e lanciando un'occhiata compunta alla grande pendola di noce che svettava sulla parete di fronte a lui.
Costanza guardò Pietro, l’impulso irresistibile di abbracciarlo per la felicità che la stava invadendo, quindi rispose entusiasta che sarebbe stata ben lieta di aspettare.
Diede ancora un rapido quanto ansioso controllo alla stanza in cui erano stati accolti, emozionata dell'incontro che si apprestava a fare.
"State tranquilla, andrà tutto bene" cercò di rassicurarla Pietro, posandole dubbioso una mano sulle sue, incollate alla pochette.
Le parole di Maffucci, infatti, gli stavano tornando alla mente, impedendogli di pensare ad altro: Nicolò non tornerà indietro, non è un uomo da rimangiarsi la parola data.
Qualunque cosa li aspettava, sarebbe andato fino in fondo: non poteva pentirsi della scelta che aveva compiuto, sarebbe stato da codardo, soprattutto dopo che aveva messo a repentaglio l'intera organizzazione, sebbene avrebbe fatto a mano di esporsi inutilmente all'albergo svizzero.
Anche lui, come Eugenio, era convinto che il cugino non avrebbe cambiato idea: non sarebbe tornato a casa, perlomeno non volutamente, e di questa certezza Costanza avrebbe dovuto cominciare a rassegnarsi.





A sinistra, uno scorcio di PIAZZA DELLE ERBE e a destra una cartolina ottocentesca di Piazza Martiri (allora piazza Castello), su cui si affaccia, sulla destra, palazzo Orelli, che già abbiamo trovato nel capitolo ottavo, teatro dell'incontro tra Federico Caccia e il suo misterioso interlocutore.
                             
 



La divisa della Brigata Piemonte, quella indossata dal tenente Chiusano Ferraris: la descrizione del militare è stata da me inventata, anche se, in realtà, i cenni storici che ho trovato parlano di un luogotenente Chiusano Ferraris, che venne insignito della medaglia d'argento dopo la battaglia della Bicocca, mentre il capitano Giuseppe Canavera -di cui faremo la conoscenza più avanti- fu ricordato in una menzione speciale, sempre nel medesimo combattimento del 23 marzo 1849.

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Capitolo 17
*** Un ragazzo diventato soldato ***



La storia mi giustificherà.

(Generale Gerolamo Ramorino, 1792-1849)


Non appena lo vide, tutta la preoccupazione, la delusione, l’ansia e la rabbia svanirono all’istante, lasciando posto al sollievo più immediato.

Costanza si precipitò ad abbracciare il fratello, la sala ristorante -ampia, le pareti intonacate di bianco e una miriade di tavolini dalle tovaglie perfettamente inamidate- che si stava lentamente riempiendo di ufficiali.
“Oh Nicolò, che gioia ritrovarti! Come stai? Ti prego, torna a casa, la mamma è preoccupatissima e papà si è addirittura sentito male!”
La giovane lo strinse in un affettuoso abbraccio, in attesa di una sua risposta.
“Così mi stropiccerai la divisa …” riuscì solo a dire il ragazzo, sistemandosi la tunica monopetto blu.
Il viso era imperlato di sudore e rifletteva un’espressione affaticata: i capelli scuri e ricci erano un groviglio spettinato da chissà quale cieco furore, mentre la mano destra impugnava l’elsa della spada, protetta nel fodero al suo fianco.
La sorella si allontanò di un paio di passi, incredula che quell’uomo duro e senza emozioni fosse davvero il fratello perduto, impettito nella divisa sabauda.
“Hai sentito quello che ti ho appena detto? A casa siamo tutti preoccupati per te! Sono sicura che riusciremo a convincere il tenente Chiusano a lasciarti andare! Gli spiegheremo che è stato tutto un enorme malinteso e …” cominciò impaziente, cercando di non perdere la lucidità necessaria per convincerlo.
“Mi dispiace per nostro padre, ma non so come il mio eventuale ritorno possa giovargli. Ti sei già scordata del modo in cui mi ha trattato? Hai dimenticato che voleva farmi seguire?”
Gli occhi color ambra erano vacui, e fissavano con disprezzo la giovane che aveva davanti, come se non la vedesse: era palesemente impaziente di troncare l'intera conversazione, e l'ultima cosa che gli importava era di urtare i sentimenti di Costanza.
Per lui, ormai, la sua famiglia non esisteva più, ed era inutile prestarsi a quella infantile rimpatriata, quando entrambi sapevano che il loro sarebbe stato un addio: tanto valeva sbrigarsi, evitare di farla soffrire più del necessario, perchè non avrebbe giovato a nessuno.
“Per favore, Nicolò, ascoltala. Sono convinto che potremo dimostrare la nostra avversione contro il nemico anche in un altro modo, senza per forza doverti arruolare nell’esercito! Sarai costretto a sottostare a degli ordini, non potrai tirarti indietro! E poi, da quello che ci ha detto il tenente Chiusano, tu non sai neppure come si deve comportare un soldato!” s’intromise Pietro, che fino ad allora era rimasto in disparte, dietro Costanza. 
“Tu, invece, sai perfettamente come si comporta un traditore! Tu e quell’ingrato di Maffucci non avete avuto alcuna remora a spifferare ogni cosa alla mia sorellina!” ribatté l'altro, beffardo e sorridendo grottescamente.
Era come un automa, immobile ed in balia di mosse predestinate: apriva la bocca per ribattere, ma senza alcuna convinzione reale.
Il corpo era perfettamente fermo ed allineato, in attesa che l'invisibile burattinaio tirasse le file e gli suggerisse quale mossa avrebbe seguito alla successiva, quale gesto o frase avrebbe sfoderato per impressionare i suoi interlocutori.
“Smettila di parlare in questo modo!” tornò a farsi avanti Costanza, perdendo le staffe.
“Sono stata io ad accorgermi di tutto. Ti ricordi di quella sera a teatro, quando siamo andati a vedere l’opera di Donizetti? Ho visto che litigavi con Federico e, quando ieri sera sei scappato, ho subito pensato di chiedere aiuto a Pietro, perché ero certa che lui sapesse molto di più rispetto a quello che avevi raccontato a casa! E, infatti, non mi sono sbagliata! L’ho costretto a portarmi da Maffucci, altrimenti lui non lo avrebbe mai fatto. Credimi!”
Nicolò sospirò rumorosamente, levando gli occhi al soffitto intonacato di bianco:
“Ormai non è importante come si sono svolte le cose. Adesso sono qui, ed è mia ferma intenzione rimanerci fino a quando non vinceremo ogni singola battaglia! Ora devo andare a finire l’addestramento. Con permesso” concluse il ragazzo, il solito furore negli occhi.
“Aspetta! Dimmi almeno se potremo trovarti sempre all’albergo svizzero!” lo rincorse la sorella, bloccandolo per un braccio.
“Non credo. Domani mattina oltrepasseremo il Ticino, per unirci al resto delle truppe. Il generale Ramorino ha ricevuto ordini da Sua Maestà in persona di accerchiare il nemico attorno a Pavia, contando sull’appoggio della Legione Lombarda Ticino e … basta, vi ho già detto troppo” si zittì, voltandosi ed uscendo dalla sala ristorante.
“Ci sarà presto una battaglia, quindi?” s’intromise Pietro, una decina di metri a separarli.
Nicolò si girò nuovamente: squadrò da cima a fondo il cugino e, dopo qualche secondo di silenzio, annuì.
“Certo, più di una. Perché i vili come te e Maffucci si pentano di non essere saliti sul carro dei vincitori. Addio, Costanza”
Questa volta il giovane Granieri uscì davvero da una porta sul retro, lasciando nell’incertezza la sorella, che si accasciò sconfitta sulla sedia più vicina.
Non sapeva che cos’altro dire, che cosa pensare: ogni singola parola che
il fratello aveva pronunciato sembrava frutto della sua immaginazione, le appariva ridicola e priva di senso.
Che cosa lo aveva spinto a cambiare in maniera tanto radicale? Perché non si era confidato con nessuno, a casa?
Tra di loro c’era sempre stato un rapporto di fiducia reciproca, una sorta di alleanza non dichiarata, nonostante ci fossero sette anni di differenza e, soprattutto, lei fosse secondogenita e femmina.
Quelle due condizioni non erano mai state d’ostacolo tra di loro, proprio per questo non riusciva a darsi pace per non essersi accorta del mutamento interiore che lo aveva visto protagonista.
Avrei dovuto confrontarmi direttamente con Nicolò, senza aspettare che arrivasse ad arruolarsi, ad un punto di non ritorno che lo farà solamente soffrire.
“Non vi affliggete … sono sicuro che troveremo una soluzione per costringerlo a tornare a casa” la consolò Pietro, inginocchiandosi per recuperare la pochette che era caduta sul pavimento.
“Credo che, ormai, non si possa fare più nulla per convincerlo a tornare sui suoi passi. Voi non sapete quanto sia diventato diverso, in questi ultimi mesi, non avete visto quel fuoco divampare negli occhi, mentre pronunciava un assurdo monologo sui moti del ’21! Lui non è più mio fratello …” si arrese all’evidenza la ragazza, scuotendo il capo.
Faceva davvero fatica a ricacciare indietro le lacrime: la vista cominciava ad annebbiarsi, e temeva di svenire.
Tuttavia non disse nulla, affranta e senza speranze, perchè l'ultima cosa che avrebbe voluto era farsi compatire.
“Invece so a cosa vi riferite” la contraddisse Pietro, prendendo posto vicino a lei.
“Cosa volete dire? Quell’assurdo discorso lo ha pronunciato in camera sua: l’ho udito per caso, come potete conoscerlo?”
“Ero al circolo, il giorno in cui lo ha declamato a gran voce. Ricordate cosa vi ho detto, questa mattina a palazzo? Che alle riunioni degli affiliati non sono mai andato, ma a quelle ufficiose, al circolo, vi andavo ogni volta. E’ un luogo che non crea problemi, un posto che nessuno andrebbe a cercare come covo di rivoluzionari indipendentisti … da tutti, in città, è visto alla stregua di un noioso ritrovo di giovani aristocratici, simil intellettuali e colti borghesi”
Costanza lo guardò, mentre la delusione per se stessa riaffiorava: si sentiva una stupida, una viziata ottusa con manie di grandezza, il cui desiderio odierno era quello di cercare di cambiare il corso della vita degli altri.
Avrebbe dovuto immaginare, quel giorno di ormai due mesi addietro, che suo fratello non fosse così pazzo da pronunciare un simile discorso patriottico solamente per se stesso, davanti allo specchio delle sue stanze.

Era una ragazzina senza un briciolo d’inventiva, senza fantasia, per questo non era riuscita a fermare Nicolò, ad impedirgli di partire insieme al resto delle truppe.
I suoi genitori non glielo avrebbero mai perdonato e, d’altronde, come avrebbe potuto biasimarli?
“Vi sentite bene?” la riportò alla realtà Pietro, posandole una mano sul braccio.
“Sì, ho solo bisogno di mangiare qualche cosa. Potete accompagnarmi fuori di qui?”
La giovane si alzò dalla sedia e si guardò intorno: la sala ristorante ormai era gremita di ufficiali che, di lì a breve, avrebbero cominciato a pranzare.
Il vociare dei presenti continuava ad essere più pressante che mai: era come se le urlassero direttamente nei timpani e l'eco delle voci sconosciute la costringesse a sopportarli senza alcuna difesa.
Annuì grata, così lei e Pietro si avviarono verso l’esterno, l’aria frizzante sul volto impallidito.
“Vi riporto a casa, d’accordo?” propose il cugino, mentre si avviavano verso la carrozza.
“Preferirei di no. Avete ancora del tempo da dedicarmi? Perché, se così fosse, mi piacerebbe mangiare qualcosa con voi …”
“Sarebbe un onore. Venite, conosco un locale molto grazioso. Ci arriveremo direttamente con la vettura”
I due si avviarono verso la Landau, il braccio destro di lei avvolto a quello sinistro di lui: il traffico di carrozze e pedoni sfrecciava e li circondava, insensibile al dolore e al senso di smarrimento che provava Costanza.
Non aveva alcun senso continuare a rimuginare sul disastroso incontro appena concluso: la testa le doleva, tanto da temere che sarebbe scoppiata, ma nonostante questo non aveva alcuna intenzione di tornare a palazzo, perlomeno non nell'immediato. I suoi genitori l'avrebbero rimproverata per l'inefficienza di cui si era macchiata, avrebbero continuato a rinfacciarle la colpa per l'allontanamento del fratello. E nonna Maria? Anche lei non l'avrebbe perdonata? Oppure l'avrebbe compresa, prendendo addirittura le sue difese? Ma lei, più di così, davvero non sapeva che cosa avrebbe potuto fare. Perchè ognuno, in fondo, pensa solo a se stesso: per questo, si convinse ancora una volta che doveva resistere e, una volta lucida, escogitare la mossa successiva da intraprendere.
 


NOTA DELL'AUTRICE

Ciao a tutti, carissimi e favolosi lettori!
Mi scuso con i recensori a cui non ho ancora risposto, ma ho avuto una settimana infernale, e la prossima sarà pressochè identica: vi prometto che entro brevissimo risponderò a tutti!
Nel frattempo vi ringrazio di tutto cuore ed oltre!!!
Un abbraccio!

Il generale Ramorino è stato un generale dell'Esercito sabaudo.
Combatté a fianco di Napoleone nelle campagne d'Austria e di Russia e prese parte ai moti rivoluzionari del 1821, dopo i quali si esiliò in Francia e in Polonia. Venne condannato a morte per fucilazione il 22 maggio 1849, perchè ritenuto traditore della patria: si dice, infatti, che fu lui a decidere di schierarsi dalla parte del Po, invece che da quella del Ticino, permettendo agli Austriaci la prima delle avanzate sul fronte nemico.




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Capitolo 18
*** La Guerra, il Nulla e l'Incerto ***


Affrontare la realtà è sempre doloroso.
Ma diventa più accettabile se lo si fa in compagnia.

(Anonimo, XX secolo)


Si guardò intorno e si accorse che, oltre a loro, non vi erano molti avventori: durante il breve tragitto in carrozza verso il ristorante, Costanza aveva notato come anche le strade, rispetto a solo qualche giorno prima, si fossero letteralmente svuotate.
Il centro cittadino sembrava non fosse mai stato abitato: Pietro aveva constatato che, a quell’ora, la gente si trovava raccolta nelle proprie abitazioni a pranzare, tuttavia il tono di voce che aveva impiegato per rassicurarla non rispecchiava affatto le parole pronunciate, cupe e malferme.
Era inutile negare che tutti, in città, avevano cominciato a nutrire una sorta di timore reverenziale verso la Guerra imminente, verso il Nulla e l’Incerto che rappresentavano l’argomento principale di ogni conversazione, formale ed informale, che si svolgeva dentro e al di fuori delle residenze di ogni levatura sociale.
Ma nessuno aveva davvero voglia di complicarsi anticipatamente l’esistenza con quei pensieri astratti, tantomeno Costanza, che voleva approfittare del ristorante in cui il conte Caccia l’aveva portata per cercare di sgombrare la mente dai pensieri.
Seduti ad un elegante tavolo, un cesto di fiori secchi e nastrini di raso bianco al centro, la ragazza si tolse i guanti color pece e tornò a guardarsi intorno: il locale aveva un’ampia sala dalle pareti giallo limone, tappezzate di quadri raffiguranti nature morte protette da cornici dorate, mentre un lungo bancone correva sul muro a nord, ricco di bottiglie colme di liquidi colorati.
“Allora, vi piace?” s’informò Pietro, abbozzando un autentico sorriso.
“Sì, avevate ragione: il posto è molto grazioso” annuì l’interlocutrice “anzi, adesso che mi ci fate pensare, è la prima volta che vi vedo sorridere”
Il cugino rimase in silenzio, sorpreso da quell’azzardo: in effetti, la giovane non aveva tutti i torti, quindi preferì non replicare, concentrandosi sulla carta del menù che era appena stata portata.
“Spero non vi siate offeso …” tentò di rimediare Costanza, che aveva già scelto il piatto da ordinare.
“Oh no, niente affatto” si affrettò a precisare l’altro, gli occhi azzurri puntati in quelli verdi di lei.
Si passò una mano tra i capelli, per rimettere a posto un ciuffo biondo sfuggito dalla chioma.
“Non amo sorridere, o meglio, non mi hanno abituato a farlo così spesso quanto dovrei. Mi auguro che, per questo, non mi reputiate un inguaribile maleducato …” confessò malandrino, distogliendo subito lo sguardo.
Approfittando del momentaneo sbigottimento della cugina, richiamò il cameriere per poter ordinare, non dando alla sua commensale il tempo di controbattere.
Il rumore della porta che si apriva alle sue spalle, tuttavia, fece voltare Costanza, che rimase piacevolmente stupita dalla nuova presenza che aveva appena varcato la soglia.
“Guardate! C’è il maestro Rossini!” esclamò la giovane, mentre con un gesto della mano cercava di attirare l’attenzione dell’insegnante di musica.
Da quando quella dolorosa mattinata aveva avuto inizio, l’uomo era la seconda persona, dopo il conte Caccia, naturalmente, che la ragazza era contenta di incontrare, certa dell’appoggio morale che avrebbe ricevuto.
“Forse non ci ha visti …” azzardò il cugino, lo sguardo basso sulla tovaglia bianca ricamata.
“Vi sentite bene?” s’informò dubbiosa la signorina Granieri.
Non le era sfuggito, infatti, il repentino cambiamento di Pietro, che sembrava non volesse farsi vedere dal musicista.
Tuttavia, egli sembrava essersi ormai accorto della presenza dei due avventori, a cui andò incontro sorridendo.
“Buongiorno!” li salutò allegramente, dopo averli raggiunti, la solita redingote nera indosso.
Sollevò il cappello e s’inchinò lievemente al cospetto di Costanza, la quale, prontamente, lo invitò ad unirsi al loro tavolo.
“Oh non vorrei disturbare, mia cara …” tentò di rifiutare assai debolmente, ma l’altra fu irremovibile, insistendo che le avrebbe fatto piacere la sua compagnia.
“Se il vostro nobile cugino non ha nulla in contrario, ne sarei davvero felice!”
I due uomini si lanciarono un’occhiata ambigua ma cortese, come se stessero nascondendo qualche reciproco segreto.
“Assolutamente, signore. Anzi, sarò ben lieto della vostra gioviale compagnia, quindi non aspettate ancora e sedetevi insieme a noi”
Ad un cenno di assenso di Pietro, Rossini si accomodò in mezzo a loro e, dopo aver scelto il menù, ritornò a concentrarsi sui commensali.
“Ebbene, signorina Granieri, vi state esercitando al brano che vi ho lasciato da provare lo scorso mercoledì? Dopodomani dovrete stupirmi, mi raccomando!” le disse, puntando l’indice scherzosamente, a sottolineare le aspettative che nutriva verso la sua allieva.
“Purtroppo, non credo di riuscire a concentrarmi a dovere … ” confessò la ragazza, sentendosi in colpa e abbassando lo sguardo.
“Vi è forse successo qualcosa? Perché non è da voi presentarvi impreparata alle nostre lezioni di pianoforte!”
L’uomo trangugiò un sorso di vino dalla caraffa che il giovane cameriere aveva appena portato, quindi ritornò a concentrarsi sulle parole della sua interlocutrice.
La ragazza appariva turbata ed indecisa: che cosa nasconde? si chiese l’insegnante di musica, frastornato dal pallore che le sue gote emanavano.
“Se non avete voglia di parlarne, potete sentirvi libera di cambiare argomento …” formulò poi ad alta voce, desideroso tuttavia di saperne di più sul misterioso atteggiamento della giovane Granieri, che non se lo fece ripetere due volte.
“Si tratta di mio fratello: Nicolò è scappato di casa ieri sera, per arruolarsi nell’esercito. Il dispiacere è stato talmente grande che nostro padre è svenuto a causa di un collasso nervoso. Mio cugino ed io veniamo proprio dall’albergo svizzero dove alloggiano gli ufficiali, ma non siamo riusciti a convincerlo a tornare indietro con noi”
Il maestro Rossini lanciò un’occhiata complice in direzione di Pietro: l’espressione sul suo volto allungato e glabro ricalcava la preoccupazione per la novità di cui era appena stato messo al corrente, ma l’impressione solo vagamente stupita testimoniava tutt’altro, come fosse un avvenimento di cui aveva in precedenza intuito le conseguenze.
Avvertendo il silenzio improvviso calato tra i due uomini, Costanza lo interpretò come amarezza e senso di partecipazione da parte dell’insegnante di musica.
“Voi, maestro, conoscete qualche persona in grado di aiutarci? Potete aiutarmi a riportarlo a casa?”
“No, mia cara, purtroppo non ho conoscenze tanto in alto …” ammise tristemente, posando una mano ossuta su quella di lei. 
“Domani partirà alla volta di Pavia insieme alla sua brigata e ho paura di non rivederlo mai più …”
La giovane si abbandonò ad un pianto isterico, sconfortata e stanca di lottare: doveva ammettere a se stessa e agli altri di aver fallito miseramente, che avrebbe dovuto arrendersi, altrimenti sarebbe impazzita, peggio del crollo nervoso che aveva colpito il padre.
“Non dovete neppure pensare ad una cosa del genere!” si rabbuiò il musicista, bevendo un altro sorso di vino.
“Vostro fratello è in gamba: sono sicuro che se la saprà cavare, non temete! A quale brigata avete detto che è stato assegnato?”
“Alla Quarta divisione della Brigata Piemonte. Lo hanno arruolato con funzione di aiutante in campo del capitano Giuseppe Canavera” precisò Pietro, notando ancora l’incertezza e l’apprensione sul volto della cugina.
“Certo, dati i natali della vostra famiglia, non poteva presentarsi come soldato semplice: questo, cara signorina, vi assicuro che giocherà a suo favore! La mansione che ricoprirà non richiederà una grande dose di coraggio e, di conseguenza, non verrà esposto a inutili pericoli. Fidatemi di me, mia cara”
“Come fate ad affermarlo con tanta sicurezza? Siete forse stato nell’esercito?” si stupì la ragazza, notando la serenità che traspariva dalle rassicurazioni dell’uomo.
“Personalmente non ho avuto questo onore, ma ho un fratello che è colonnello da qualche parte in Francia, nei territori del Nord, se non ricordo male: sapete, sono diversi anni che non ci incontriamo, anche se qualche volta manteniamo una fitta corrispondenza” tenne a precisare, abbozzando un sorriso di incoraggiamento nella direzione della sua interlocutrice.
“E’ il pensiero che gli possa accadere qualche cosa di brutto che non mi fa stare tranquilla. Dovevate vedere i suoi occhi, maestro, mentre mi parlava: era come fossi un’estranea, come se non riconoscesse chi aveva davanti! Lo guidavano la rabbia e l’assoluta convinzione delle frasi che pronunciava e, ancora adesso, vi giuro che non riesco a credere che fosse mio fratello, non ci riesco …”
Costanza stava di nuovo abbandonandosi ad un pianto isterico, quando la vista le si annebbiò per un istante: chiuse gli occhi e sbatté le palpebre un paio di volte, quindi si fece versare da Pietro dell’acqua nel bicchiere di cristallo che aveva davanti.
Finalmente, tutto tornò come prima, e poté rassicurare gli altri commensali che stava bene.
“Le vostre domestiche hanno fatto scorta dei generi alimentari di prima necessità?” cambiò discorso Rossini, mentre il cameriere portava i piatti che avevano scelto pochi minuti prima.
“No, non credo … perché?” volle sapere incuriosita la giovane, gustando il primo cucchiaio di zuppa calda.
“Sono solo voci che girano, badate bene. Fatto sta che, la nobildonna con cui mi avete visto a teatro la scorsa settimana, ha ordinato alla sua cuoca di comprare quanta più farina, zucchero e riso riuscisse a trovare: si teme che, se mai dovesse esserci un assedio alla città, le scorte primarie risulteranno irrecuperabili …”
“Ma Novara cosa ha a che fare con la guerra? Voglio dire, anche Nicolò mi ha detto che, domani mattina, oltrepasseranno il Ticino per spostarsi verso Pavia ed unirsi al resto dell’Esercito. Noi, qui, siamo al sicuro!” rispose tranquillamente, volutamente ignorando l’eventualità che la città potesse imbattersi in qualsivoglia pericolo.
“Infatti, è così, non temete, ma mi sentivo in obbligo di riferirvi tali voci. Frutta, verdura, pasta, ogni cibo in più che andrà a rifornire la dispensa sarà solo un bene, signorina Granieri, datemi retta”
“Il maestro Rossini non ha tutti i torti” s’intromise Pietro, pulendosi la bocca con il tovagliolo immacolato.
“Dirò anch’io a mia madre di avvisare le nostre domestiche affinché si rechino al mercato, domani di prima mattina, in modo da scegliere la merce migliore”
Costanza annuì alle parole sensate del cugino, promettendo che avrebbe fatto lo stesso.
Un brivido di freddo le percorse la schiena avvolta dal completo color bronzo, lo stesso che le sembrava di indossare da anni: regalò un’occhiata colma di angoscia alla strada deserta oltre i vetri del grazioso locale, notando il cielo plumbeo e scarsamente amichevole, quindi riprese a mangiare, la zuppa ormai tiepida e l'emicrania che tornava a farle compagnia.


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Capitolo 19
*** Il capanno dei segreti ***


La fantasia non saprebbe inventare tante diverse contraddizioni quante ce ne sono naturalmente nel cuore di ogni uomo.

 (François de La Rochefoucauld, scrittore e filosofo francese, 1613-1680)


Quando tornò a palazzo, Costanza si sentiva stanca e pensierosa.

Una fastidiosa emicrania l’aveva costretta a rientrare a casa subito dopo la fine del pranzo, lasciando Pietro da solo e facendosi accompagnare da una vettura a noleggio, che il maestro Rossini aveva fermato davanti al Teatro Nuovo.
Lasciò l’uomo nella dependance all’entrata del parco, promettendo che se avesse avuto notizie di Nicolò, egli sarebbe stato il primo a conoscerle, quindi si avviò verso l'entrata della dimora.
Al piano terra regnava un silenzio irreale: i soffici tendoni bianchi e verdi erano stati tirati, lasciando l'intero piano nella più cupa penombra.
Non c’era nessuno ad attenderla, alcun membro della servitù accorse al suo ingresso, affacciandosi con celerità e compostezza allo scricchiolare del parquet sotto le sue suole.
Si domandò di sfuggita dove fossero il maggiordomo e la governante, rispondendosi che, probabilmente, si trovavano indaffarati a rimproverare qualche giovane ed inesperto apprendista o cameriere occorso tra le loro grinfie.
Sorrise distrattamente, sebbene una spiacevole sensazione di abbandono cominciava a fare capolino nella sua mente: aveva necessità di abbandonarsi nell'acqua calda della vasca di ceramica, con la consapevolezza che Nina l'avrebbe attesa per spazzolarle i lunghi ed indomiti ricci scuri, simbolo di una banale routine che l'aiutasse a lasciarsi alle spalle, almeno per qualche minuto, quelle snervanti ultime ore.
Salì la lunga scalinata di marmo, ricoperta da un tappeto rosso, con l'intento di raggiungere la camera da letto dei genitori e raccontare a cosa era andata incontro da quando era uscita quella mattina.

Bussò timidamente alla porta, mentre l'ennesima fitta di emicrania tornò ad offuscarle la vista.
Nel caso stesse riposando ancora, non voleva disturbare il padre moribondo, ma quando udì la sua voce darle il permesso per entrare, la giovane fu felice di vederlo seduto a mezzobusto sul letto, un’elegante vestaglia di raso amaranto che gli ravvivava il volto impallidito dalle preoccupazioni e dalla carenza di sole.
“Oh padre, siete sveglio! Come vi sentite?” si avvicinò prontamente la figlia, sedendosi sulla sedia accanto al baldacchino e stringendogli le mani.
“Meglio, ti ringrazio. Ho persino mangiato qualche cucchiaio di riso: sono sicuro che già da doman ,sarò in grado di alzarmi e di uscire da questa specie di prigione in cui mi ha costretto il medico!”
L’uomo le accarezzò dolcemente una guancia, i capelli biondi brizzolati che gli ricadevano
in disordine sul capo.
Costanza sorrise rilassata, gli occhi verdi in quelli azzurri del notaio: dopo tutto quello che aveva passato, almeno una piccola soddisfazione sembrava meritarla.
“Se hai bisogno di tua madre, è andata a riposare nella camera di fianco …”
“Vi ringrazio. Se vi fa piacere, però, posso rimanere a farvi compagnia. Ho già pranzato insieme a Pietro e al maestro Rossini e... prima siamo andati all'albergo svizzero, ma non sono riuscita a convincere Nicolò a tornare a casa …” confessò cupamente, temendo di provocare un altro crollo nervoso al padre.
“Da quando ieri sera tuo fratello ha varcato la porta di questo palazzo, io non ho più un figlio! Tu sei e sarai la mia unigenita, l’erede dei miei beni, l’unica che non mi tradirà!” la interruppe l’uomo, la voce e lo sguardo induriti dall’amarezza e dalle sofferenze che aveva patito nelle ultime ore.
“Ascoltami bene, Costanza: nessuno, in questa casa, dovrà più pronunciare il nome di quell’ingrato, nessuno! E’ un ordine, hai capito?”
“Ma padre … cercate di ragionare, vi prego! Sono convinta che capirà l’errore che ha fatto …” si agitò sulla sedia la ragazza, stropicciandosi un lembo dell’ampio vestito color bronzo, mentre l'ennesima fitta di emicrania riaffiorò a tormentarla.
“Non sono io quello che non ragiona, figliola, ma lui! Ora, per favore, ho bisogno di riposare. Se vorrai, potrai tornare a farmi compagnia più tardi …”
Costanza fissò ancora una volta le labbra indurite dell'uomo e il volto vagamente emaciato: si alzò con aria remissiva, il capo chino, capendo che era meglio non ribattere, per evitare di affaticare ulteriormente il genitore già debilitato.
Prima o poi capirà e lo perdonerà. Ha solo bisogno di tempo, d'altronde come tutti noi.


Aveva finito di sorseggiare il tè nelle sue stanze, seduta sul letto a baldacchino.
Nina l’aveva aiutata a rilassarsi con un bagno caldo, ad indossare un abito più comodo, e a raccogliere i lunghi capelli ricci in morbide onde fermate sul capo da piccoli pettini trasparenti.
L’emicrania le era passata da diversi minuti, ormai, lasciandole la testa pesante e una sensazione di intontimento che non cessava a diminuire.
La preoccupazione le attanagliava lo stomaco e le annebbiava la mente, impedendole di riflettere con lucidità: tutto ciò che stava accadendo era assurdo, la guerra era assurda, sebbene fosse sempre stata la più sciocca ed inutile tra le attività umane; la fuga di Nicolò era incomprensibile, persino quell'insana paura che le aveva messo in testa il maestro Rossini
sulla necessità di racimolare quante maggiori scorte possibili, le appariva sconclusionata e priva di senso.
Novara non verrà mai presa d'assalto, non dovremo mai subire un assedio: qui dentro, tra queste mure, siamo al sicuro ...
Lanciò un'occhiata speranzosa e malinconica in direzione dello scrittoio di ciliegio, al cui ripiano era solita vergare le lettere da spedire alla nonna Maria.
Con tutto quello che era successo, non aveva ancora avuto tempo per scriverle, sebbene le due settimane canoniche dalla loro ultima corrispondenza non erano trascorse.
Ho tanto bisogno dei suoi consigli, della sua presenza: se fosse qui con me, saprebbe sicuramente che cosa fare per riportare a casa Nicolò, lo convincerebbe senza alcuna remora a ritornare e a dimenticare quei folli pensieri che gli ha inculcato quella marmaglia di rivoluzionari.
Non aveva avuto tempo per riflettere sulla sorpresa che le aveva riservato Pietro, confessandole la sua appartenenza al gruppo di sommossa: un giovane nobile, cresciuto nella bambagia, in mezzo agli agi e al lusso, timido fino all'inverosimile, che si è lasciato trascinare in questioni di bassa politica! Eppure, devo riconoscere il coraggio che ha avuto e che continua a vantare nel difendere i propri ideali e le proprie convinzioni! In questo, lui e mio fratello sono molto simili.
Chissà se lo zio Aldo e la zia Rosa fossero venuti a conoscenza delle attività sovversive del primogenito come si sarebbero comportati: per quel poco che aveva avuto modo di conoscerli, entrambi godevano di ampie vedute liberali, ma fino a che punto sarebbero stati felici di avere un figlio rivoluzionario? O meglio, due! Non bisognava dimenticare, infatti, che anche Federico, scaltro e dal sangue bollente, aveva un segreto da nascondere, un segreto agli antipodi rispetto a quello che celava Pietro, ma ugualmente pericoloso.
Costanza scrollò il capo, affaticata da quei ragionamenti che la inducevano a preoccuparsi ulteriormente anche per i due cugini, quindi si avvicinò ad uno dei cassetti del mobile, sfiorando il pomello per recuperare la carta con cui scrivere: lo stava per aprire, quando qualcuno bussò alla porta della camera.
Era donna Luisa, che entrò mesta e pallida, un lungo abito grigio perla con il corpetto abbellito da pizzi e macramè.

“Tuo padre mi ha detto che sei tornata … sei riuscita a parlare con Nicolò?” volle sapere la contessa, avvicinandosi.
“No … “ dovette confessare la giovane, abbracciandola.
Quindi, le raccontò ogni cosa, sfogando i propri sentimenti di smarrimento.
Le spiegò con dovizia di particolari di come si era svolto l’incontro con il fratello, del fatto che era stato arruolato come aiutante in campo di un capitano, che lei e Pietro avevano cercato in ogni modo di convincerlo a ritornare a casa.
Confessò persino che l’indomani mattina il reggimento del ragazzo sarebbe partito alla volta della Lombardia, per unirsi al resto delle truppe dell'Esercito sabaudo, come aveva espressamente ordinato Sua Maestà.

L’unica cosa che aveva omesso di dirle era l’esistenza e il ruolo chiave che aveva avuto Eugenio Maffucci nel nascondere e accompagnare il fratello all’albergo svizzero, oltre naturalmente al coinvolgimento del primogenito in un gruppo rivoluzionario per l’indipendenza dei territori italiani occupati da truppe straniere.
La preoccupazione e lo scalpore che avrebbero suscitato quelle rivelazioni, di certo, non avrebbero giovato all'attuale equilibrio precario della madre.
“Pietro ed io abbiamo pranzato con il signor Rossini: a tal proposito, il maestro ci ha consigliato di fare scorta di quanti più generi alimentari riusciremo a trovare, perché si teme che anche la città possa venir coinvolta nella guerra”
Gli occhi cerulei di donna Luisa si riempirono di lacrime: si portò le mani ai capelli, scuri e folti, cominciando a strapparseli convulsamente.
“Che cosa vi prende? Per favore, smettetela, o rischierete di farvi male!” la bloccò Costanza, impotente davanti al pianto isterico della madre.
“Non dovevamo venire qui! Non dovevamo abbandonare la nostra vita per questo posto!” cominciò ad urlare disperata la moglie del notaio, scuotendo il capo.
“Fino all’ultimo giorno della sua vita, mio padre si è preso gioco di noi! Questo palazzo non è altro che una beffa per vendicarsi di tua nonna, di me, persino di tua zia! Perché continua a farci soffrire, perché gode nel vedere le nostre disgrazie anche adesso che è morto? Perché non ci lascia in pace?!”
“Madre, vi supplico, non fate così! Il nonno non c’entra nulla con quello che sta succedendo: questa guerra è stata voluta dal Re, dal Governo, non da lui! Ascoltatemi …” cercò di farla ragionare, tentando di abbracciarla, ma invano.
“Partiamo! Domani andrò a parlare con Nicolò! Sono certa che riuscirò a convincerlo e, così, potremo ritornare in montagna, lontano da questa città e dalla guerra!” vaneggiò donna Luisa, alzandosi di scatto dal baldacchino.
Costanza temeva che anche la madre stesse per impazzire: lo sguardo era acceso da una luce sinistra, le gote arrossate da un calore improvviso, e non riusciva a smettere di annuire senza alcuna ragione apparente.
“D’accordo, faremo come volete, ma adesso calmatevi!” acconsentì la figlia, cercando di rimetterla a sedere.
“Ora vi porto un po’ d’acqua …” continuò, dopo che la contessa si era accomodata sulla sedia di ciliegio, davanti allo scrittoio ribaltabile.
La ragazza uscì dalla stanza, ritornando poco dopo con un bicchiere riempito fino all’orlo: non voleva che le domestiche vedessero la padrona in quelle condizioni, per questo era scesa nelle cucine con una scusa, fingendo di aver perso una spilla, per poi aspettare il momento propizio per versare dell’acqua in una caraffa e sparire ai piani di sopra.
Una volta accertatasi che la madre si era calmata, la riportò nella camera dove aveva riposato dopo il pranzo, pronta per recarsi dal maestro Rossini a chiedere aiuto.


La piccola dependance era stata ricavata da un vecchio capanno di caccia allestito sul lato ovest del parco che circondava il palazzo, a pochi metri dal cancello d’ingresso.
Donna Luisa si era preoccupata personalmente di arredarlo con i migliori complementi, in vista dell’arrivo del rinomato insegnante di musica, ormai due mesi addietro.
Il sole stava per tramontare, pennellando l'orizzonte con i caldi colori dei suoi raggi ormai alla fine del loro ciclo giornaliero, lanciando alte ombre su una parete e sul tetto di legno del casotto.
L’uomo, quando aprì la porta, rimase assai stupito nel ritrovarsi davanti la giovane Granieri: subito temette che ci fosse qualche cattiva notizia che riguardasse Nicolò, ma i suoi presagi vennero prontamente smentiti da Costanza, che gli confessò quanto fosse disperata e priva di idee per riportare a casa il fratello.
Si premurò di raccontargli il rifiuto del padre a sentir pronunciare il nome del figlio, gli confessò persino dell’esagerata reazione che la madre aveva avuto pochi minuti prima, quando le aveva innocentemente raccomandato di fare scorta di provviste.

“E’ normale, mia cara” cercò di tranquillizzarla il musicista, dopo che si accomodarono nel salottino, sistemandosi su due divanetti rossi, uno di fronte all'altro, piacevolmente in contrasto con le pareti affrescate da scene mitologiche.
“La fuga di vostro fratello ha rotto gli equilibri famigliari: i vostri genitori sono in pena per lui, temono che possa accadergli qualcosa di male. Anch’io, come è comprensibile, desidero solo il meglio
per la mia Charlotte ... ” divagò l’uomo, regalando una pacca affettuosa sul braccio della ragazza.
“Sì, questo lo capisco, ma io non credo di riuscire a reggere tutta questa situazione ancora per molto! Se non fosse per voi e per Pietro, penso che anch’io sarei fuggita o impazzita!” si lasciò andare Costanza, mordendosi un labbro.
“Suvvia, non dite così. Ve l’ho detto oggi a pranzo: una soluzione si troverà, dovete solo essere fiduciosa!”
“Ma voi non sapete in quali guai si è messo mio fratello! Lui è cambiato, ha in testa strane idee! Quel Maffucci …”
Uno sguardo di puro terrore tramutò l’espressione impensierita che la giovane aveva assunto fino a quel momento: la confusione e l’incertezza che stavano prendendo il sopravvento nella sua famiglia l’avevano indotta a tradirsi, ad ingannare la fiducia che Pietro e gli altri affiliati, inconsapevolmente, avevano riposto in lei.
“Perdonatemi, ora devo proprio andare … vi terrò aggiornato. Buonasera” tagliò corto la giovane, rimettendosi guanti e cappellino.
“Eh no, signorina, dove state andando?” si alzò a sua volta l’uomo, le sopracciglia aggrottate.
“A casa, ve l’ho detto. E’ tardi, e non ho avvisato nessuno che sarei uscita …”
“Un attimo ancora. Che nome avete detto solo un attimo fa?”
“Ma nessuno! Che cosa state dicendo?!” cercò di replicare Costanza, il più naturalmente possibile.
“Non prendetemi in giro, per favore! E’ vero, sono vecchio, ma il mio udito funziona ancora bene! Allora? Quale nome avete pronunciato?” insisté il maestro di musica, le braccia conserte.
La ragazza si guardò intorno, per cercare di capire come avrebbe potuto uscire di lì nel modo più veloce e sicuro possibile.
Tuttavia, dovette arrendersi all’evidenza che non vi era alcuna maniera per abbandonare la dependance senza il permesso di un autorevole Rossini, che si era parato davanti alla porta di legno di quercia del salottino, a pochi metri dall’ingresso.
“Io … non ho nulla da dirvi … e ora, per favore, lasciatemi passare, altrimenti mi metterò ad urlare!” cercò di convincerlo, i battiti del cuore che acceleravano vertiginosamente.
L’uomo si abbandonò ad una sonora risata, scuotendo il capo ed allargando le braccia in segno di resa.
“Per carità, signorina, non credo bisogna arrivare ad una tale eventualità! Io non ho mai fatto del male ad alcuna fanciulla e, vi assicuro, non intendo cominciare con voi! Molto bene, se non volete rivelarmi che cosa sapete su Eugenio Maffucci sarà mia premura lasciarvi andare!”
“Eugenio Maffucci? Voi lo conoscete?” cadde in contraddizione Costanza, la testa che tornava a pulsarle.
“Certo che sì, mia cara. Adesso vi ho convinto a restare?” continuò con tono conciliante l’uomo, ammiccando furbescamente.
La giovane sospirò e ritornò a sedersi, convinta che le sue orecchie avrebbero sentito spiegazioni a lei solo in parte sconosciute.


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Capitolo 20
*** Un nuovo affiliato ***



E' facile polemizzare alla fine di tutto.
Bisogna essere sul campo, e poi, eventualmente, criticare le azioni fatte o quelle non fatte.


(Anonimo XX secolo)



Rossini le domandò se gradisse qualcosa da bere, ma Costanza era smaniosa di capire che cosa sapesse quell'uomo su Eugenio Maffucci, l'avvocato rivoluzionario a cui suo fratello era tanto affezionato, tanto da idolatrarlo, almeno a sentire le parole di Pietro.
E poi, non poteva permettersi di assentarsi troppo a lungo da palazzo, perchè non aveva avvisato nessuno della sua innocente "gita fuori porta".
Il musicista la invitò a prendere posto e, dopo essersi seduto, cominciò a raccontare, lo sguardo sognante perso nei ricordi.
“Sono nato nel Lombardo Veneto, in un paesino alle porte di Milano: i miei genitori appartenevano alla facoltosa borghesia, per questo crebbi in mezzo a tutti gli agi possibili, tra musica e feste, istruito dai migliori precettori.

Quando avevo circa vent’anni, però, mi resi conto che la monotonia della mia esistenza mi spingeva ad esplorare nuovi lidi, a fare nuove esperienze, tanto che decisi di partire alla volta del Nord Europa, per tentare di diventare un importante compositore ed orchestrale: ci stavo riuscendo, cara Costanza, credetemi, almeno fino a quando tutto cambiò.
Ero in Francia, infatti, quando venne annunciata la morte di Napoleone, nel maggio del 1821, un evento che divenne ben presto un pretesto per il popolo di liberarsi dalla tirannia durata anni, tirannia che, appena qualche mese prima, un'intera nazione acclamava e reclamava.
Fu in quei mesi tormentati che crebbe in me il senso di ribellione per la mia patria invasa dall’oppressore: mi domandavo per quale motivo nessuno di noi Italiani avesse il coraggio di rispondere alla barbarie, così ripresi a viaggiare, questa volta spingendomi fino alle coste dell’Inghilterra, dove era mia intenzione imparare ad esercitare il mestiere di politico liberale.
Ma il Destino decise diversamente, e mise sulla mia strada Catherine, una giovane aristocratica, che conobbi circa un anno dopo il mio arrivo a Liverpool.
Lei sarebbe diventata la madre di Charlotte, una donna bellissima e al contempo pericolosa.

Appartenevamo a due mondi troppo distanti, nonostante professassimo entrambi di portare avanti ideali comuni.
Il divario tra di noi, alla fine, crebbe talmente tanto che rifiutò di sposarmi, preferendo un vecchio gentleman, che subito adottò la mia unica figlia come fosse stata sua.

Così, dopo oltre trentacinque anni di vagabondaggio in giro per l’Europa, nonostante abbia cercato
in ogni modo di stare vicino a Charlotte, finalmente tornai in Italia"
Rossini si scusò per l'interruzione del racconto, adducendo come pretesto un'arsura improvvisa grattarmi la gola.
Domandò nuovamente a Costanza se desiderasse qualcosa da bere e, alla sua risposta negativa, raggiunse a passi malfermi la credenza di legno scuro dal lato opposto del salottino.
Si versò due dita di vino liquoroso dalla caraffa di vetro in bellavista sul mobile, quindi tornò a sedersi, chiedendosi a che punto fosse arrivato.
"Ah, certo, al mio rientro in Italia. Dunque, veniamo alla parte che vi interessa, mia cara ragazza, e abbiate ancora un pò di fiducia nelle parole di questo povero vecchio.
Allora, ho conosciuto Eugenio a Firenze, nel febbraio dello scorso anno.
Il granduca Leopoldo aveva lasciato la Toscana da pochi giorni e, nell’intera regione, si respirava un clima di libertà, di cambiamento politico.
Accompagnato da un mio caro amico, partecipai ad una riunione di giovani indipendentisti, e fu proprio in quell’occasione che lo incontrai per la prima volta.
Era stato invitato dagli organizzatori, così, tra un bicchiere di vino e l’altro, facemmo conoscenza: Maffucci era ed è un idealista, ma anche un ragazzo colto e molto intelligente, che sa imporre le proprie convinzioni; in questo, mia cara, se avete avuto modo di conoscerlo anche solo un briciolo, non è affatto cambiato.
Mi invitò alla fine di dicembre a raggiungerlo qui a Novara, perché aveva fondato da qualche mese un gruppo analogo a quello fiorentino: per caso, lessi sul giornale un inserto che vostra madre aveva fatto mettere, riguardo la necessità di un rinomato maestro di musica che impartisse lezioni di pianoforte a sua figlia.
Ebbene, colsi la palla al balzo, come si è soliti dire, non lasciandomi sfuggire l’occasione di trovare un buon impiego e di ricongiungermi con il mio amico Maffucci.
Devo confessarvi, cara signorina, quando seppi che anche Nicolò faceva parte del nostro gruppo, rimasi piuttosto meravigliato: si era appena trasferito in città, ma aveva avuto modo di trovare i giusti appigli per diventare un membro a tutti gli effetti degli affiliati.
E in più, era persino il fratello della giovane Granieri, una famiglia rispettabilissima, distante, da quanto ne sapevamo, dall' appoggiare le simpatie rivoluzionarie del primogenito.

Insomma, Eugenio mi domandò di tenerlo d’occhio, per capire se davvero avremmo potuto fidarci di lui: cominciai a seguirlo, accompagnando ogni suo movimento, controllando con chi si incontrasse e dove; per farla breve, ero diventato la sua ombra.
Ci fu una volta che quasi mi scoprì, perché, cara Costanza, Nicolò è un ragazzo davvero in gamba, ma permettetemi di dire che non ragiona: il suo difetto è farsi trasportare dai sentimenti e, a lungo andare, potrebbe rappresentare un bel problema"
L'uomo si interruppe nuovamente, gustandosi dell'altro liquore rossastro.
"
Non appena si è diffusa la notizia della denuncia dell’armistizio, alcuni del gruppo hanno voluto arruolarsi nell’esercito, non capendo che non siamo minimamente preparati per condurre una nuova guerra.
Abbiamo bisogno di tempo per riorganizzarci, di reclute scelte e comandanti degni della loro nomina! Quel polacco dal nome impronunciabile, quel Chrzanowski, è solamente il burattinaio di Carlo Alberto! Non è uno stratega, non ha esperienza di come si conduce una guerra e, soprattutto, non è amato dalle nostre truppe, per il semplice fatto che non lo conoscono!"
Poi, forse rendendosi conto di aver calcato troppo la mano, si affrettò ad aggiungere che Nicolò se la sarebbe cavata benissimo, essendo un giovane di buon senso.
Il maestro Rossini terminò la sua spiegazione con un sorriso, brandendo in una mano il bicchiere colmo di vino rosso, in un gesto di buon augurio.
Nell’ultima parte del discorso aveva largamente gesticolato, infervorato al pensiero di un esule straniero a guidare il glorioso Esercito sabaudo.
Aspettò una reazione di Costanza, una qualsiasi reazione, a testimonianza del fatto che avesse udito le parole che le erano state dette.
La giovane, invece, 
quando l’uomo ebbe finito di raccontare, aveva subito abbassato lo sguardo, mentre un bruciore agli occhi quasi le impediva di vedere.
Erano forse lacrime quelle che avvertiva scorrerle sulle guance?
Come avrebbe potuto non sentirsi delusa per quella montagna di bugie dalla quale era stata circondata in quei due mesi?
Nessuno era stato sincero con lei, non Pietro, non Nicolò, neppure quell’insulso musicista travestito da becchino!
Adesso capiva gli sguardi di imbarazzo che i due uomini si erano scambiati appena poche ore prima, durante il pranzo al ristorante.
Si sentiva usata, come fosse stata uno straccio vecchio di cui disfarsi,
una scomoda presenza che non importava più a nessuno.
Suo fratello era stato condotto alla rovina da una banda di fanatici rivoluzionari, suo padre aveva avuto un collasso nervoso, la stessa donna Luisa, sempre forte in ogni circostanza, aveva drammaticamente ceduto.
Della sua famiglia, ormai, erano rimaste solo lei e l’adorata nonna, lontana chilometri, ignara di quello che stava succedendo.
“Forse adesso non capirete …” riprese Rossini, il tono di voce conciliante e l’espressione paterna sul volto “ma vi assicuro che, quando tutto questo sarà finito, quando la nostra Italia verrà liberata e sarà un Paese indipendente, le cose del passato vi appariranno limpide ed ovvie, signorina. Sarete felice di vivere in una patria non più assoggettata, invasa ed usurpata, felice di poter passeggiare per le strade senza sentire l’odioso suono di una lingua straniera, felice di muovervi da uno Stato all’altro, parte di una stessa nazione! Date retta ad un povero vecchio come me, e abbiate fiducia nel folle coraggio del nostro Esercito”
L’uomo fece per alzarsi e sedersi sul divanetto di fronte, sul quale Costanza aveva smesso di piangere, ma continuava a mantenere lo sguardo basso.
“Non c’è bisogno di capire, perché non c’è nulla da capire. Con tutte le vostre menzogne, i vostri sogni di grandezza, avete rovinato una famiglia, la mia famiglia, e Dio solo sa quante altre incappate nella vostra rete!”
La ragazza si drizzò in piedi e, asciugandosi le guance con le mani guantate, uscì dalla dependance, ad attenderla il freddo pungente di un pomeriggio ormai agli sgoccioli.
Rossini tentò di seguirla, ma capì che era meglio lasciarla andare, in modo che potesse sfogare e dar adito ai sentimenti contrastanti che in quel momento la stavano agitando.
Ci sarebbe stato tutto il tempo del mondo per convincerla che la loro causa era giusta e condivisa dall'Italia intera, sebbene molti avessero paura ad ammetterlo.
L'uomo emise un profondo sospiro di sollievo, e tornò a sedersi sul divanetto, il bicchiere vuoto tra le mani.
Chiuse gli occhi e aspettò che la sera calasse.

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Capitolo 21
*** La traversata sul ponte ***



Perchè una guerra sia giusta sono necessarie tre cose:
la prima, l'autorità del sovrano; la seconda, una giusta causa; la terza una giusta intenzione.


( San Tommaso d'Aquino, 1225-1274, frate domenicano, filosofo e padre della Chiesa)



Il general maggiore Albert Wojciech Chrzanowski sapeva di non essere amato dalle truppe sabaude, ma la cosa non lo toccava più di tanto: d'altronde, era stato chiamato a guidare l’Esercito piemontese dal sovrano in persona, Sua Maestà Carlo Alberto di Savoia, Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, perché riponeva fiducia nelle sue doti di buon organizzatore e conoscitore degli affari militari.
A suo sfavore, tuttavia, giocava il fatto per nulla irrisorio di sapere a malapena dove si trovasse geograficamente l’Italia, quello staterello smembrato dal potere straniero, un pò come la sua amata Polonia, e di non parlarne la lingua.
Ma aveva comunque deciso di accettare, ben conscio della caterva di gelosie che serpeggiavano tra gli ufficiali sabaudi, ancora più gravi delle insufficienti qualità tattico-militari che li contraddistinguevano.
Per questo,
dopo la nomina a generale maggiore dell’Esercito Piemontese, decretata dal consiglio dei ministri del 7 febbraio del 1849, il polacco aveva lasciato la Francia, dove aveva vissuto da esule, condizione impostagli dalla sconfitta derivante dalla guerra di liberazione condotta in patria contro la terribile madre Russia.
Circa un mese più tardi, il 9 marzo, il maggiore Cadorna, per volere del governo sabaudo guidato da Vincenzo Gioberti, raggiunse Milano per formalizzare la ripresa delle ostilità con gli Austriaci.
Tale ambasciata, metteva definitivamente fine all’armistizio
tra il conte Carlo Canera di Salasco e il generale nemico von Hess, siglato il 9 agosto 1848 a Vigevano, dopo la sconfitta sabauda di Custoza, nel luglio dello stesso anno.
Le centonovantadue ore indotte dalla ricezione formale della dichiarazione di guerra e la denuncia ufficiale dell'armistizio -avvenuta lunedì 12 marzo alle ore dodici- erano ormai trascorse, quindi le ostilità avrebbero ripreso il mezzodì del 20 marzo.
Il piano di guerra del generale polacco era molto semplice: parte delle truppe sarebbe andata in ricognizione oltre il Ticino, partendo da Trecate, in terra amica, per spiare le eventuali mosse austriache.
Se il nemico fosse stato avvistato intento a ritirarsi, ecco che sarebbe scattata l’avanzata verso la roccaforte austriaca, in direzione di Milano, dove si sarebbero accerchiate, messo alle strette e distrutte le forze imperiali.
In caso contrario, il generale maggiore avrebbe dato l’ordine di contrattaccare nella zona tra Garlasco e Tromello, nella campagna pavese.
Per questo, quando alle ore 12 di martedì 20 marzo 1849, il II° corpo d’Armata del feldmareciallo austriaco Josef Radetzky era pronto a varcare il fiume Gravellone –linea ideale di confine tra il Regno di Sardegna e quello Lombardo Veneto- per passare da Pavia, cogliere alle spalle l’Armata sarda ed impedirle che potesse ritirarsi nelle roccaforti di Torino ed Alessandria, lo stesso Carlo Alberto e il suo inesperto generale polacco si trovavano ancora fermi sulle sponde del Ticino.
Le cose non avrebbero dovuto mettersi poi così tanto male, perché nei dintorni di Pavia, nelle campagne circostanti, il re era sicuro che ci fosse stanziata la 5° Divisione Lombarda (denominata così perché formata da esuli e volontari dello Stato occupato) del generale Gerolamo Ramolino, ma la vera sorpresa, per i Piemontesi, fu che Ramolino non si trovasse affatto al posto che gli era stato ordinato 
da Chrzanowski a partire dal 16 marzo, ovvero quattro giorni prima.
Egli, infatti, aveva deciso di disobbedire ai comandi, fermandosi a Piacenza, al di là del Po, certo che la minaccia sarebbe arrivata da Sud, dai Ducati di Parma e di Piacenza, e non dal Nord.
Così, nessun rombo di cannone avvisò Carlo Alberto e il suo general maggiore che la sponda lombarda del Ticino era sotto assedio, perché non vi era nessuna 5° Divisione a respingere l’avanzata nemica.
Chrzanowski, infatti, ricevette le informazioni in tal senso solamente alle ore 21.00, nove ore dopo l'inizio dell'avanzata, quando Ramorino fornì un rapporto dettagliato della situazione, insistendo che si fosse trattato di un falso attacco, per mascherare le reali intenzioni di un attacco austriaco ad Alessandria.
Intanto, l'ottantaduenne feldmaresciallo Radetzky, approfittando della confusione che si respirava tra le fila nemiche, ne approfittò per dirigere l’esercito imperiale verso Vigevano, con lo scopo di effettuare la controffensiva decisiva a Mortara, nel Pavese.




La Quarta Divisione rispondeva al comando del generale Ferdinando di Savoia, duca di Genova e secondogenito di Re Carlo Alberto, e il 20 marzo aveva ricevuto l’ordine, insieme alla Terza Divisione del generale Ettore Perrone, di convergere sul ponte che collegava Novara a Milano.
Nicolò, in sella al suo baio bianco e grigio, faceva parte della Brigata Piemonte, alla cui guida era stato posto il generale Giuseppe Passalacqua, e stava trottando avanti e indietro senza meta.
Il giovane era sveglio dalle prime luci dell’alba, anzi, in realtà non era riuscito neppure a dormire bene, quella notte, avendo continuato a rigirarsi nel giaciglio di paglia, nervoso ed emozionato per aver finalmente realizzato il proprio sogno di servire la causa di liberazione.
La giornata era apparsa fin da subito uggiosa e metereologicamente poco propizia: vi era una bassa e leggera foschia che faticava a diradarsi, e il freddo era quasi più pungente che nei mesi invernali.
La tensione era palpabile, l’adrenalina alle stelle, sebbene non si fosse ancora entrati nel vivo dello scontro.
Nicolò si stava guardando intorno, il paesaggio piatto della campagna davanti a sé: non conosceva nessuno nella Brigata, tuttavia si era subito ambientato piuttosto bene, soprattutto con il suo capitano.
I compagni erano molto giovani, nuove reclute inesperte come lui, che avevano deciso di arruolarsi per ricevere una paga sicura e la vana idea della gloria eterna, tralasciando il piccolo particolare che avrebbero dovuto servire nell’esercito per quattordici mesi consecutivi, pronti a rimanere a disposizione per rinfoltirne le fila per i successivi quindici anni.
Ciò voleva dire altre battaglie, altri combattimenti, altre guerre, dall’esito incerto ed oscuro.
“Fa freddo, vero?” lo riportò alla realtà un ragazzo di vent’anni, gli occhi e i capelli chiari, che gli si avvicinò trottando.
Sorrideva, apparendo
incredibilmente rilassato: stava fumando una sigaretta, anzi, un surrogato che ne ricordava le fattezze, il fumo denso e irritante che saliva verso il cielo in eleganti volute.
“Già … fa davvero molto freddo” si limitò a commentare Nicolò, gettandogli una fugace occhiata.
“Sei nervoso?” lo punzecchiò l’altro, facendogli l'occhiolino ed offrendogli una sigaretta dalla tasca interna della tunica monopetto blu.
L'altro lo scrutò dall'alto verso il basso, reprimendo un moto di stizza.
“Certo che no. Semplicemente detesto l’attesa, questo tempo sospeso in cui non sappiamo cosa fare, in cui non ci viene detto come dobbiamo comportarci …” puntualizzò, scrollando le spalle con fare spavaldo e rifiutando la cartina.
Desiderava allontanare il più in fretta possibile quell'inaspettata scocciatura, ma allo stesso tempo non voleva inimicarselo.
Sapeva, infatti, quanto fosse importante poter contare sui propri compagni, e quanto le scorrettezze, anche le più involontarie e minuscole, sarebbero state un intralcio insormontabile sul campo di battaglia.
“Però, parli bene tu: sei un intellettuale, una sorta di poeta?”
Granieri si voltò nuovamente nella direzione dello sconosciuto, lo scalpiccio nervoso del suo baio sul terreno erboso.
Trasse un profondo sospiro, mentre il fiato si espandeva nell'aria pungente della mattina.
Deglutì, con l'intento di ritrovare la calma e cercare di uscire da quel discorso non voluto nella maniera più consona possibile.
“Mi chiamo Nicolò, aiutante in campo del capitano Giuseppe Canavera. Adesso scusami, ma devo ritornare alla base”
Aizzò il cavallo con gli speroni e, le redini tra le mani, era già pronto per fare dietrofront, quando l'altro ragazzo lo seguì, affiancandolo.
“Base? Ma quale base! Siamo già nel nostro accampamento. Non la vedi quella distesa a perdita d'occhio di tende piemontesi?"
Il biondino aspirò il fumo dal moncherino tra le dita, sorridendo beffardo.
Nicolò fece finta di niente: non voleva rispondere a quella sciocca quanto inutile provocazione, ricordandosi i buoni propositi di appena qualche minuto prima, sebbene ciò gli costasse un'immensa sforzo.
Certo che anche lui sapeva riconoscere i fabbricati di pelle e tessuto che ricoprivano la zona tutto attorno, ma era stato un modo come un altro per cercare di togliersi di dosso la presenza ingombrante del ventenne!
"Comunque io sono Stefano,
aiutante in campo di me medesimo e contadino per vocazione. Piacere di conoscerti!”
Si portò l'indice sulla falda del kepì di panno cremisi e accennò ad un inchino, mantenendo le redini ben salde nella mano opposta.
Il figlio del notaio, anche lui in sella al baio, cominciò a muoversi in cerchio, tracciando una linea immaginaria nel morbido terreno sotto gli zoccoli dell'equino, avvicinandosi cautamente allo sconosciuto.
Doveva ammettere che quel contadinotto aveva davvero fegato: non desisteva tanto facilmente, inoltre sembrava un giovane sveglio e decisamente furbo.
Forse fin troppo, si ritrovò a riflettere Granieri, ma può sempre rivelarsi un fedele compagno. E poi, sono stanco di questa solitudine che mi sono autoimposto: qualche chiacchiera non potrà certo arrecarmi danno.
I due si strinsero la mano, strappandosi un sorriso a vicenda, e rimasero in silenzio per una manciata di secondi, fino a quando Nicolò non vide allontanarsi dalla sua tenda il capitano Canavera, impegnato nell’ennesima riunione di alti ufficiali, intenti a decidere le sorti della battaglia.
"Tu sai dove stanno andando?" domandò al commilitone, per nulla interessato a quella sfilata di graduati.

“E che ne so? Sei tu quello in confidenza con il capitano, mica mi!”
Nicolò fece finta di non aver sentito, quindi cercò di spiegargli in modo molto semplice ciò che aveva udito pochi minuti prima, quando era stato affiancato da un gruppetto di sottoufficiali.
“Ho sentito che alcuni dicevano che i piani del polacco non sono andati come previsto: una delle nostre vedette è tornata tutta trafelata, e ha voluto parlare immediatamente con un alto in grado …”
La marca male, amico, dai retta a me. Tsè
Stefano sputò il mozzicone sul terreno brullo e, scuotendo la testa, commentò:

“Questi potenti proprio non li capisco, non li capisco per niente”
"Non sei tu a dover capire, ma i nostri superiori. Sono loro che ci condurranno alla vittoria finale, non tu"
Il biondino fece spallucce e sbuffò, grattandosi distrattamente il mento imberbe.
Il giovane Granieri ripensò alle parole che aveva udito qualche attimo prima, e desiderò di essere una mosca per poter seguire indisturbato il capitano Canavera, carpendo così le mosse e i piani tattici a cui avrebbe dovuto sottostare.
Si mormorava, infatti, che l’Armata sarda fosse stata colta di sorpresa sulla sponda lombarda del Ticino, addirittura che un manipolo di bersaglieri della Luciano Manara* e qualche scarso reparto di fanteria avesse dovuto ripiegare in tutta fretta, dopo aver cercato di resistere per sei lunghe ore.

Non si sapeva ancora con esattezza che cosa fosse successo: sicuramente, qualche cosa era andata storta, altrimenti a quell’ora l’esercito sabaudo avrebbe già dovuto marciare trionfante in direzione di Milano, per liberarla definitivamente dal giogo straniero.
“Quando credi attaccheremo?” domandò Stefano, irritato per quel viavai di ufficiali.
“Spero presto. Cosa ti ho detto poco fa? Questa attesa è snervante” ribatté Nicolò, facendo scorrere lo sguardo lungo la campagna che si perdeva all'orizzonte.
Aveva sentito dire che Carlo Alberto si trovava al Quartier generale, a pochi passi di lui: se così fosse stato, il giovane avrebbe fatto di tutto per poterlo incontrare e, magari, stringergli la mano, persino combattere fianco a fianco per difenderlo e sfondare insieme al Re le linee nemiche.
Perciò, quando alle ore 13.30 di quello stesso martedì 20 marzo, la Brigata Piemonte, compatta con il resto della Quarta Divisione, attraversò il ponte che collegava Novara a Milano, in direzione di Magenta, miracolosamente senza trovare alcuna opposizione da parte del nemico, Nicolò quasi non credeva ai propri occhi: alla testa delle truppe, infatti, vi era Sua Maestà in persona.
Fu in quel momento, quando lo intravide da lontano, che si convinse ancora una volta di aver fatto la scelta più giusta: non sarebbe tornato indietro, non avrebbe avuto alcun ripensamento, perché il Re era con loro, aveva scelto la sua Brigata per liberare la roccaforte del Lombardo Veneto dalle truppe usurpatrici.
E, questo, non poteva che essere un segno del destino.

* Luciano Manara è stato un patriota milanese, morto durante gli scontri della Repubblica Romana, nel giungo 1849. Nell'agosto dell'anno precedente, insieme ad un gruppo di esuli lombardi, fu nominato maggiore di un corpo di bersaglieri, che facevano a capo del generale Ramorino, lo stesso "pasticcione" che ha determinato l'inzio dell'avanzata nemica. Dopo la battaglia di Novara, abbandonò il Piemonte per Roma, dove venne nominato capo di Stato Maggiore da Giuseppe Garibaldi.


QUALCHE NOTA STORICA ...


Buonasera a tutti!
Scusate la noia che può avervi suscitato la prima parte di questo capitolo, ma mi sembrava doveroso inserire date e nomi per completezza e veridicità storica.
Se non avete capito nulla, non temete, non è importante: fondamentale, invece, è aver compreso quanto sciocchi siano stati i Piemontesi e il suo Governo a rompere l'armistizio con gli Austriaci, determinando di fatto il loro primo passo verso la sconfitta.
Ma se così non fosse accaduto, avremo mai ottenuto la nostra Italia unita, così come la conosciamo? Gli storici, infatti, sono concordi nel dire che la battaglia di Novara è stata decisiva per il Risorgimento.

La tregua tra Piemontesi ed Austriaci sarebbe durata solamente sei settimane, dal 9 agosto 1848 al 21 settembre dello stesso anno, se non fossero intervenuti francesi ed inglesi a mediare e a prolungarne la durata, fino appunto al 12 marzo 1849.

Tutto ciò che ho scritto relativamente al generale polacco e alle altre personalità/paesi/città/sovrano è vero, così come il compito della Quarta Divisione -e della Brigata Piemonte di cui fa parte Nicolò- di sorvegliare il ponte che da Novara portava a Milano, una cinquantina di chilometri di distanza.

Vincenzo Gioberti (1801-1852) conobbe Carlo Alberto quando era suo cappellano personale.
In seguito, venne esiliato dai filomonarchici, che temevano la sua influenza sul sovrano.
Dopo aver trascorso tredici anni tra Parigi e Bruxelles, il Re dichiarò un'amnistia, che permise a Gioberti di ritornare in patria, dove divenne Presidente della Camera dei Deputati dal dicembre 1848 al febbraio 1849, giusto in tempo per portare la dichiarazione di guerra agli Austriaci.

Piccolo accenno a Leopoldo II d'Asburgo di Lorena, granduca di Toscana, di cui ho vagamente parlato nello scorso capitolo: nel febbraio 1849 riparò a Gaeta, nel Lazio, dai Borbone, dopo che si autoesiliò per paura delle mire espansionistiche di Carlo Alberto.
A Firenze venne formato un governo filopiemontese, fino alla sconfitta di Novara, quando Leopoldo potè tornare a Firenze, grazie all'appoggio degli Austriaci.

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Capitolo 22
*** La processione infinita ***



Non stare in ansia per l'avvenire, perchè ci arriverai, se dovrai, portando in te la stessa ragione di cui ti avvali ora del presente.

(Marco Aurelio, imperatore, filosofo e autore romano, 121-180 d.C)


Erano quasi due ore che stavano marciando in groppa ai cavalli, stanchi ed affamati.

Davanti a loro si aprivano solamente distese a perdita d’occhio di campi coltivati a granoturco alternate a zone brulle, in cui gli alberi si apprestavano timidamente a far maturare i propri frutti.
La colonna di soldati della Quarta Divisione guidata dal duca di Genova, Ferdinando V di Savoia, procedeva compatta lungo il confine piatto tra Piemonte e Lombardia: come monotono sottofondo, il cadenzato ed elegante scalpiccio degli zoccoli ferrati e il nitrire degli stalloni, che risuonavano vaghi ed attutiti in quel paesaggio spettrale, mentre la solita pressante foschia delle ore precedenti impediva di mantenere un buon passo al trotto.
Appariva tutto così calmo da sembrare irreale: i casolari che si snodavano lungo il tragitto esibivano le finestre e la porta di legno sbarrate, a sottolineare che non c'era nulla da rubare, a pregare le truppe di passaggio di non saccheggiare e fare razzia di quelle umili abitazioni, innocenti in quella terra di mezzo.
Qualche centinaio di metri più avanti, in piena contraddizione con il panorama di desolazione di cui erano stati spettatori, uno sparuto gruppo di contadini -tre donne e due uomini di mezza età- era intento a vangare e rassodare parte del terreno che si apriva sotto i loro piedi.
Erano talmente concentrati che quasi non si accorsero del passaggio delle truppe piemontesi, sebbene il loro disinteresse sembrasse studiato per non attirare l'attenzione degli sconosciuti.
La Brigata Piemonte oltrepassò i lavoratori, degnandoli di una fugace occhiata, accingendosi ad attraversare l'ennesimo ponte che sovrastava la sponda lombarda del Ticino, ormai in territorio nemico.
Erano finalmente in prossimità della Lomellina, la vasta zona che contornava Pavia, lambita proprio dal fiume che contornava i due Stati, dove avrebbe dovuto trovarsi il distaccamento del generale Ramorino.
Nicolò rallentò impercettibilmente, approfittando dell'avanzata delle avanguardie, pronte ad esporsi per controllare l'altro lato del collegamento, e recuperò la borraccia penzolante sul fianco sinistro, avido di sete: si pulì la bocca con una mano, quindi porse il prezioso contenitore a Stefano, qualche passo dietro di lui.

“Ti ringrazio, ma tienila per te: la mia è ancora piena …” gli rispose il biondino, la voce fiaccata dalla fatica.
Il giovane Granieri non se lo fece ripetere due volte, riprendendo a galoppare insieme al resto della colonna, che si era nuovamente messa in marcia.
Avevano abbondantemente superato Magenta, poiché i nuovi ordini comandavano di convergere immediatamente verso nord, in direzione di Vigevano.

Il giorno stava ormai calando, il buio ed il freddo della notte avrebbero presto preso il suo posto, demoralizzando ancora di più la truppa.
Dopo aver piantato l’accampamento in una zona abbastanza protetta dalla scarsità di boscaglia e casolari, l’Armata sarda si fermò per riposare qualche ora.
I soldati più agili e di bassa statura vennero inviati in ricognizione, in mezzo alle chiome degli alberi, per avvisare dall’alto l’eventuale avvicinamento del nemico, richiamando così, con l’apposito fischietto, l’attenzione del resto delle divisioni.
Un altro gruppo di giovani leve venne incaricato di accendere i fuochi per permettere alle vivandiere* di cucinare un minimo di cibo, regalando alla truppa la parvenza di una cena normale.
“Che guardi?” volle sapere Stefano, notando l’insistenza con cui Nicolò stava
fissando un gruppo di tende sul lato opposto rispetto al loro.

“Nulla, stavo riflettendo su quanto sia impossibile avvicinarsi a Sua Maestà: è praticamente sempre accerchiato dai Carabinieri reali, lo seguono come un'ombra in ogni suo spostamento, nemmeno fosse un bambino!” s’infervorò il giovane, addentando un pezzo di pane azzimo e ormai indurito dalle pessime condizioni atmosferiche che l’addiaccio imponeva.
Entrambi i giovani erano seduti su due massi, grandi ed irregolari, e si erano appena proposti al capitano Canavera di rimanere a guardia di quel tratto di accampamento.
“Rilassati, amico! Lo hai detto tu che si tratta di Carlo Alberto in persona! Non vorrai che lascino da solo ed indifeso l’uomo per cui tutto questo ha avuto inizio, il grande Re per il quale ci troviamo qui, in mezzo a questo buco di mondo, con lo stomaco che grida fame, i piedi gonfi e la gola infiammata dalla polvere sollevata dagli zoccoli!?”
Il biondino addentò innervosito il pezzo di pane che gli era rimasto, scrollando il capo con fare incredulo e canzonatorio.
Per quanto quella sorta di intellettuale gli piacesse, davvero non riusciva a comprendere come facesse ad immedesimarsi così tanto nella parte dell'eroe senza macchia e senza paura, pronto ad immolare la sua stessa vita per un ideale che gli era stato inculcato da appena pochi mesi. 
“Sei tu che devi darti una calmata!” lo minacciò l’altro, alzandosi improvvisamente in piedi e sollevandolo per il bavero della divisa inzaccherata.
La brace davanti a loro scoppiettava imperterrita e malandrina, mentre le lingue di fuoco illuminavano i due giovani.
Il volto di Nicolò appariva simile a quello di un demone notturno, furioso e beffardo, e quasi il ventenne si spaventò di fronte a quella reazione irrazionale.

“Se vuoi andare d'accordo con me, devi portare rispetto a Sua Maestà, Stefano, altrimenti non ci impiegherò due volte ad andare dal mio capitano per riferirgli che in mezzo a noi si nasconde un falso patriota, un bugiardo senza scrupoli che va in giro a dire menzogne sul nostro amato e giusto sovrano!”
Il primogenito dei Granieri rimase ancora per qualche secondo a fissarlo negli occhi, quindi lo lasciò perdere, sciogliendo la presa per il bavero: il biondino cadde all’indietro, soffocando un'imprecazione e lamentandosi per essersi scorticato i palmi delle mani sul masso su cui, fino a pochi istanti prima, era seduto.
Ti ti sei tut mat, boia cane! Sfoga la tua rabbia contro gli Austriaci, non su di me! Ma guarda te!”
"E' quello che ho intenzione di fare appena si presenterà l'occasione, puoi starne certo"
Nicolò scosse la testa e riprese ad addentare il pezzo di pane avanzato, concentrandosi sui giochi di luce creati dalle fiammelle del focherello, mentre il compagno si allontanava di qualche passo, bofonchiando quanto fosse pazzo.

 


Intorno alle 3 del mattino di giovedì 21 marzo, il generale Chrzanowski decise di inviare la Quarta divisione a Vigevano, in aiuto della Seconda divisione guidata dal pari in grado Michele Bes.
Il capitano Canavera ordinò così ai sottograduati di radunare tutti gli uomini, per comunicare l’immediata partenza: il giovane Granieri e il suo nuovo amico si erano guadagnati qualche ora di riposo, e in quel momento stavano dormendo in una delle tende lì vicino, dopo il turno della tarda serata appena trascorsa.
“Ma che succede?” s’informò Stefano, non appena una delle sentinelle notturne entrò nel loro accampamento, spronandoli ad alzarsi e a ritirare il più velocemente possibile i loro pochi averi.
“Il capitano ha detto di muoverci! Dobbiamo raggiungere Vigevano il prima possibile, ordini del generale maggiore! Alcuni dei nostri in ricognizione hanno avvistato gli Imperiali proprio in quei paraggi!” precisò l’imberbe soldatino, allampanato e dai capelli castani, il viso cosparso di efelidi.
“Ma è notte!” tentò di replicare il biondino “non possiamo aspettare che spunti l’alba?!”
“Quale alba e alba! Il nemico non aspetta i tuoi comodi” gli ribatté Nicolò, alzandosi di scatto in piedi e lanciandogli contro gli stivali.
Si riabbottonò velocemente la tunica monopetto della divisa blu scuro, lisciando la fascia azzurra a tracolla che simbologgiava la sua carica di aiutante in campo.
Nel frattempo, dedicò un'occhiata colma di curiosità verso il varco d'ingresso, cercando di capire invano cosa stesse accadendo al di fuori della loro tenda, la folla di soldati in fermento.
Poi, l'adrenalina alle stelle, recuperò il cinturone da sotto il giaciglio di paglia, e vi infilò la pistola, sistemando nell’apposito fodero la spada che aveva nascosto tra le coperte.
Infine, a passi sicuri, andò a recuperare il fucile che aveva adagiato sul pavimento di terra battuta, a pochi passi dal letto di fortuna.

“Sei tu Granieri, giusto?” riprese la sentinella, facendo qualche passo nella sua direzione.
L’altro annuì, curioso di sapere cosa volesse e come sapesse il suo nome: lo fissò dall'alto verso il basso, aspettando che proseguisse.
Da una fessura della tenda rimasta aperta per l'improvvisa brezza notturna filtrava il fievole chiaror lunare, che permise
al giovane di riconoscere quasi distintamente il soldato che gli aveva dato il cambio di guardia, circa tre ore prima.
“Il capitano Canavera dice che questa notte ti vuole al suo fianco, perché tu veda come si compili un registro di unità. Prima, però, devi assicurarti che la sella del suo cavallo sia stata ben posizionata, che le briglie ne reggano il peso e che le staffe non cedano. Hai capito tutto?” enumerò solenne il giovinetto, senza attendere la replica dell'interlocutore.
“Mi ha
anche chiesto di domandarti quante scorte di acqua e di viveri ti sono rimasti”
Nicolò si recò nell’angolo dove aveva nascosto il cibo e la borraccia, reprimendo un moto di stizza nell'udire quegli ordini declamati da un insulso ragazzetto: tuttavia, non si abbassò a dire nulla, recuperando ciò che gli era stato comandato e lo mostrò al commilitone.
“Ho ancora mezza pagnotta di pane di segale ed una fiaschetta piena per metà di acqua …” commentò il figlio del notaio, cercando di non lasciar trapelare la frustrazione per aver permesso che la fame e la sete travolgessero la sua forza di volontà, dimezzando le scorte che gli erano state affidate appena la mattina precedente.
L’altro disse che andava bene e, con il fucile portato su una spalla, uscì dalla tenda, seguito a ruota dai due ragazzi e dal resto dei soldati presenti in quella parte di accampamento.
 

Nicolò si sentiva deluso da se stesso: se solo fosse toccato a lui il turno di notte, avrebbe avuto l’occasione per dimostrarsi capace agli occhi del suo capitano,
esibendo le proprie doti di accurato organizzatore.
Invece, la sorte aveva permesso che fosse quell’insulso ragazzo, il volto cosparso di efelidi e investito del medesimo ruolo di aiutante in campo, a trasmettere gli ordini del comandante e a farli rispettare.
Lo aveva umiliato, forse non volutamente, ma lo aveva fatto.
Quando gli aveva detto di controllare quell’elenco di compiti che si addicevano maggiormente ad un semplice stalliere piuttosto che a un giovane della sua levatura sociale, si era sentito improvvisamente inutile e sottomesso:
per un fulmineo istante, si era domandato che senso avesse rischiare la propria vita per eseguire delle mansioni così basilari e prive di qualsiasi valore militare, ma ormai capiva che non valeva la pena recriminare su ciò che era accaduto.
Avrebbe fatto di tutto perché Canavera si accorgesse di lui e del suo coraggio, facendogli cambiare idea e affidandogli compiti di importanza strategica.
Certo, doveva ammettere che di eserciti e di guerra non poteva affatto definirsi un esperto, tanto pi
ù che si era arruolato da meno di quarantotto ore, un tempo che non lo autorizzava a poter contare su una solida esperienza, tuttavia era pur sempre il figlio di una contessa e di un notaio, non di un umile commerciante o di un contadino.
Inoltre, comprendeva perfettamente che il tenente Chiusari gli aveva fatto un immenso favore, nominandolo aiutante di campo del capitano: un altro ufficiale, al suo posto, non avrebbe esitato a farlo fucilare o imprigionare seduta stante, a causa di quella stupida bugia che aveva raccontato all'albergo svizzero circa la propria falsa identità.
Per questo, e per dimostrare a se stesso quanto poteva e doveva farcela, non si sarebbe fatto sfuggire un’altra occasione così propizia.  

 
Alle ore 11 di giovedì 21 marzo, reparti in ricognizione del generale Bes si scontrarono con parte delle truppe nemiche, dando inizio alla stoica resistenza piemontese nei pressi di Borgo San Siro, che culminò tra le 18 e le 19 dello stesso giorno, con i combattimenti vittoriosi a Gambolò e alla Sforzesca*
Quei tre scontri nella campagna lombarda si rivelarono tatticamente fondamentali, poiché la strada per Vigevano era ora protetta da diverse divisioni piemontesi.
Tuttavia, ciò non impedì che Mortara, fino ad allora nelle mani dell’Armata sarda, cadesse sotto il fuoco dell’artiglieria nemica.
Due brigate della Prima divisione, la Cuneo e la Regina, al comando dei generali Trotti e Durando, vennero praticamente decimate dagli Imperiali.
La notizia della disfatta arrivò al generale Chrzanowski solamente nella notte tra il 21 e il 22 marzo, quando nulla era possibile per impedire o arginare i danni subiti.
All'arrivo di quelle sgradevoli quante inaspettate notizie della disfatta, venne immediatamente rintracciato il Re, intento a dormire ignaro in una delle tende dell’accampamento, in mezzo ai soldati della Brigata Savoia.
Quindi, dopo averlo consultato, si decise di istituire un Consiglio di Guerra alla Sforzesca, a cui parteciparono anche i comandanti della Seconda e Quarta divisione, il generale Bes e il duca di Genova.
A seguito di varie ed infinite discussioni, i quattro si accordarono per effettuare l’imminente e necessaria ritirata verso Novara, invece che verso la ormai decisa Vercelli, strategicamente più vicina a Torino, la capitale del Regno.
La scelta non fu accolta con entusiasmo, perché ci si rendeva conto che, preferendo Novara invece di Vercelli, le truppe stanziate ad Alessandria non avrebbero potuto intervenire tempestivamente, in caso di un massiccio attacco, dovendo percorrere ventisette chilometri in più in un tempo assai ristretto.
Tuttavia, se Chrzanowski avesse giocato d’astuzia, i Piemontesi avrebbero collezionato la vittoria suprema.
Il feldmaresciallo Radetzky, infatti, venuto a conoscenza del piano nemico, si convinse che si trattasse dell'ennesima trappola per indurre gli Austriaci a traslocare l’intero esercito a Novara, lasciando scoperta la strategica Vercelli.
Per questo, egli non allontanò le truppe imperiali da Vercelli, dando all’Armata sarda la possibilità di attaccarli alle spalle.
Ma il general maggiore polacco non ordinò l’affondo, preferendo seguire il piano stabilito insieme al Consiglio di Guerra.
E, di nuovo, come la disobbedienza senza fondamento di Ramorino che aveva messo a dura prova il giorno prima la tenuta dell'Esercito sabaudo, quello fu l'ennesimo inizio verso il tragico epilogo.



* Le vivandiere erano mogli di sottoufficiali che svolgevano compiti di sussistenza, come preparare e portare da mangiare e da bere ai soldati, aiutare a lavare e tenere in ordine le divise, oltre che ad essere le prime "crocerossine" che si prendevano cura dei feriti dopo le battaglie.


*Dal nome della tenuta agricola alla periferia di Vigevano, costruita per volontà degli Sforza.

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Capitolo 23
*** La prima missione ***



Una volta nel gregge, è inutile che abbai: scodinzola.

(Anton Cechov, scrittore, drammaturgo e medico russo, 1860-1904)



La ritirata ufficiale delle forze piemontesi iniziò alle tre del mattino di venerdì 22 marzo e terminò solamente intorno alle 16 dello stesso giorno, quando la Quarta divisione guidata dal duca di Genova, generale Ferdinando di Savoia, raggiunse Novara, la città scelta nella notte per il dietrofront.

La pioggia cadeva fitta e compatta, insinuandosi nella falda del kepì di ordinanza, offuscando la vista dei soldati costantemente all'erta, mentre l’esercito di Carlo Alberto si ritirava alla spicciolata dentro i bastioni di quella che, inutilmente, credevano avrebbe rappresentato la loro inespugnabile roccaforte.
Non tennero in considerazione l'evenienza tutt'altro che remota di quanto fosse fuori il reale pericolo, incarnato da una minima parte delle truppe Imperiali, già in procinto di accamparsi attorno al perimetro cittadino.
"Cosa ci fanno gli Austriaci a un tiro di schioppo dalle nostre case, dalle nostre donne?" si sentì infervorare qualcuno.
Ma subito, di rimando, in mezzo alla bolgia delle retrovie, ecco che non tardò ad arrivare la risposta:
"L'è ul diavul che il manda!" mormorò un caporale sessantenne, contadino prestato alla guerra, il volto increspato da minuscole rughe e le vene delle braccia che pulsavano di rabbia, sotto la sudicia tunica blu monopetto.
Il feldmaresciallo Radetzky sembrava non nutrire alcuna paura per quel pugno di ribelli: aveva accolto
con un certo smarrimento iniziale la decisione dei Piemontesi di convergere in massa in mezzo alle distese di risaie e foschia, sicuro che non si sarebbe rivelata la salvezza tanto invocata dalle truppe nemiche, ma aveva assecondato quella sorta di suicidio di massa, ben contento di raccoglierne i frutti.
Appena le tenebre della notte cominciarono a calare e il buio meschino si divertiva ad ammantare i contorni di ogni cosa vivente o inanimata che fosse, di nuovo i soldati tornarono a preoccuparsi della presenza degli Imperiali a poche centinaia di metri di distanza, in preda alla confusione che prese a regnare sovrana: dall’alto delle mura della città, infatti, venne aperto il fuoco sul generale Bes e la sua Seconda divisione, colpiti inaspettatamente a cannonate perché confusi con gli Austriaci.
C'era chi gridava inascoltato, chi implorava pietà, chi pregava di finirla con quell'assurdo assedio fraterno, mentre il cielo plumbeo veniva rischiarato dalle fiamme sputate dalla bocca di metallo.
Fin dal mattino del 22 marzo, Novara diventò oggetto della violenza dei soldati di casa Savoia che, in seguito alla sconfitta di Mortara, si apprestavano a ritirarsi alla spicciolata verso la città.
Appena il giorno avanti,
duemila sabaudi furono resi prigionieri dagli Austriaci, decimando un esercito già scarsamente equipaggiato e preparato.
Una parte degli sbandati, quelli ancora lungo la terra di mezzo tra Lombardia e Piemonte, si rifugiarono a Vercelli, sperando di raggiungere incolumi la capitale del Regno, Torino.
In quelle ore, si contarono centinaia di disertori, sfiniti fisicamente e psicologicamente da ciò che avevano dovuto vedere e sopportare nelle battaglie di Pavia, Borgo San Siro, Gambolò e della Sforzesca, desiderosi solamente di ritornare dalle loro famiglie.
Disordini, furti e violenze diventarono protagonisti indiscussi nelle strade di Novara, frutto dell’odio delle truppe allo sbando, che non temevano di inveire ad alta voce contro il sovrano, la guerra e il Governo liberale di Gioberti, a loro dire colpevoli dell'assurda bramosia di riscattare a tutti i costi la disastrosa sconfitta di Custoza del luglio 1848.
Soldati che non avevano più nulla da perdere -se non la loro stessa vita- si riversarono in massa nei meandri della città, stanchi, provati, affamati e feriti: si abbandonarono senza riserve al saccheggio di botteghe e abitazioni nobiliari lasciate inermi dai loro proprietari, fuggiti al riparo nella campagna. 
A un certo punto, nel mezzo degli scontri senza opposizione, dovette intervenire persino la Cavalleria, che non si sottrasse all' uccisione di buona parte dei saccheggiatori.
E adesso? Che cosa dobbiamo fare? E' finita! Se cominciamo a combattere tra di noi, contro il nostro stesso compagno, quale destino glorioso potrà attenderci?
Carlo Aberto giunse a Novara solamente alle 18 del 22 marzo, avvilito, convinto che la forzata quanto improvvisa ritirata rappresentasse un funesto presagio
per le sorti della guerra.
Il Re, insieme alla scorta formata dai Carabinieri reali, si stabilì di diritto a Palazzo Bellini, il luogo da cui tutto ebbe inizio, da cui Sua Maestà partì appena tre giorni prima.
E forse, fu nel momento stesso in cui il primo esponente di casa Savoia intravide l'edificio, quando calpestò i lastroni del suo ampio cortile d'ingresso, che cominciò a pensare che non tutto era perduto, se solo avesse deciso di abdicare e lasciare il trono al figlio primogenito, il principe ereditario Vittorio Emanuele.
Ma si rivelerà davvero quella la decisione migliore, la scelta che avrebbe potuto essere in grado di determinare le sorti della battaglia e di rivosciarle nuovamente in favore delle sue truppe?
Sarà Dio a decidere, mi rimetterò nelle sue mani.


Qualche ora prima

Nicolò era stato ferito di striscio al braccio sinistro, durante l’offensiva della Sforzesca, nel tardo pomeriggio del giorno precedente.
Durante l’avanzata di
quella notte verso Vigevano, il capitano Canavera gli aveva più volte suggerito come avrebbe dovuto comportarsi in caso di attacco: difendersi, mantenendo la testa bassa, il più possibile rasente le staffe del cavallo, ma lo sguardo fermo, in direzione del nemico, per anticipare anche la sua più piccola mossa.
"Ricordatevi, Granieri, in una mano il fucile e nell'altra la spada: saprete quale usare appena scorgerete da lontano la testa del nemico, e riporrete l'arma che non utilizzerete con la stessa cura e velocità con cui vi preoccupereste di nascondere vostro figlio"
Di prole ancora non ne aveva, ma era 
riuscito ugualmente a comprendere molto bene ciò che l'ufficiale intendeva suggerirgli.
Tuttavia, il giovane non si era lasciato sfuggire l'occasione per cercare di ribattere e di fargli capire, in modo assai velato ed educato, quanta fosse la voglia di combattere, di contribuire a spianare la strada alla vittoria.

Ma, notando la reticenza del superiore a dargli corda, Nicolò preferì rimanere in silenzio, parlando solamente se interpellato, e rispondendo sempre con il rispetto che imponeva il suo umile ruolo.
Per questo, quando il colpo di uno Stützen nemico non lo colpì in pieno per un soffio, la traiettoria deviata dall’abile mira di un soldato davanti a lui, quasi non riuscì a credere di essere scampato alla morte senza aver combattuto, senza aver provato a difendersi.
La sensazione di viltà tornò prepotente ad impadronirsi della sua mente, desideroso di dimostrare quanto grande e sincero fosse il proprio valore in campo.
Si guardò intorno, rimanendo stupito di come le centinaia di soldati che fino a poche ore prima non gli permettessero neppure di muoversi in sella, adesso si erano ridotte ad uno sparuto numero di uomini
completamente afflitti: in mezzo ai molti sani, all'infinità dei feriti, alle migliaia di giovani e alle centinaia di anziani, tutti apparivano come un'unica onda spossata, mossa dal mare dell'Obbligo.
Quasi nessuno godeva ancora di un briciolo di esultanza o di senso del dovere: ci si trascinava in sella ai cavalli solamente perché si aveva troppa paura di inoltrarsi da soli in quel buio senza nome.

“Come va il braccio?” s’informò Stefano, che continuava a marciare di fianco a lui.
“Bene …”
Nicolò abbassò gli occhi scuri sulle briglie manovrate dal braccio sano, per poi concentrarsi brevemente sulla fasciatura macchiata di sangue, senza dare troppo adito alle parole di fraterna preoccupazione del compagno.
Un senso di repulsione, infatti, lo invase, quando notò la divisa deturpata da un piccolo strappo, testimonianza dello sventato attacco a cui era fortunatamente scampato.

“Almeno ha smesso di piovere: ho l'acqua quasi fin dentro le mutande, boia cane …”  cercò di fare conversazione l’altro, la voce meno allegra dei giorni precedenti, ma sempre con quella nota di speranza che non lo aveva ancora abbandonato.
“E’ solo una breve tregua. Guarda il cielo
da quella parte, è pieno di nubi scure”
Il giovane Granieri puntò l’indice destro verso l’alto, sicuro delle sue parole.
“Se lo dici tu … senti un pò, perché non mi racconti della tua famiglia? Sono stanco di questo silenzio”
"Non c'è nulla da dire: l'unica famiglia che mi è rimasta siete voi"
Nicolò continuò a procedere al trotto, i muscoli del collo indolenziti per la prolungata stazione eretta: riuscì a vincere l'impulso di massaggiarsi la zona dolorante, mentre un improvviso senso di fame gli attanagliò la bocca dello stomaco.
Erano quasi otto ore che non ingoiava nulla, e aveva già finito l'acqua nella borraccia, quindi avrebbe dovuto aspettare di raggiungere la città per poter essere investito dal profumo della cena preparata dalle vivandiere.
Chissà che cosa avrebbero mangiato i suoi genitori e Costanza, quella sera: odiava doverlo ammettere, ma in quei momenti di sconforto gli sarebbe piaciuto trovare un volto amico in mezzo alla folla di soldati sconosciuti e maleodoranti.
E nonna Maria? Erano tre mesi che non la vedeva: di lei aveva avuto notizie solamente tramite la corrispondenza che intesseva con la sorella, anche se il suo amorevole sorriso e le sue sagge parole continuavano a rimanergli indelebili nella mente.
Sicuramente non approverebbe il mio comportamento avventato e nemmeno i dispiaceri che devo aver causato a casa. Ma ormai sono qui, sono felice di far parte di questo glorioso Esercito, e mi convinco ogni ora che passa di aver fatto la scelta migliore: quello che ho visto, che ho sentito e provato, nessuno me lo potrà mai restituire, così come nessuno può capirlo, se non lo ha vissuto come lo sto vivendo io adesso.
"Ho capito che non vuoi parlare, però almeno degli amici ce li avrai, no? Con tutti i nobili e i borghesi che conosci non ci credo che non ne hai nemmeno uno!"
Stefano aveva interrotto il silenzio che era nuovamente calato tra di loro, mentre il vociare confuso e lamentoso dei feriti permeava l'intera colonna.
"Sì, hai ragione, un amico ce l'ho. Si chiama Eugenio ed è il mio maestro: da lui ho imparato tutto, è a lui che devo ogni cosa che so, ed è anche per lui che ho deciso di arruolarmi, per dimostrargli quanto valgo"
Il giovane Granieri si lasciò andare ad un sorriso soddisfatto, ricordando l'arrivederci che si era scambiato con Maffucci, dopo che il trentenne con i baffetti lo aveva accompagnato all'albergo svizzero, meno di quattro giorni prima.
"Ed è un poeta come te?"
"E' un avvocato, un promettente avvocato. Ma quante volte ti devo ripetere che non sono un poeta?! E adesso stai un po’ zitto, per favore, che mi devo concentrare"
Nicolò scrollò il capo con aria a metà tra il diverito e l'infastidito: in fondo, era contento di dividere l'estenuante marcia con quel contadino chiacchierone, l'unico vero compagno che era riuscito a trovare in mezzo alla distesa di soldati senza nome.
Con la mano sana, gli diede un buffetto su una gamba, quindi tornò a guardare avanti.


Quando entrarono a Novara, la pioggia aveva ripreso a riversarsi sulle loro teste: la Brigata Piemonte arrivò in città intorno alle sedici, stanca e demoralizzata.
La Quarta divisione guidata dal generale Passalacqua e sotto il comando del duca di Genova avrebbe dovuto stanziarsi nei pressi della Bicocca, a Porta Mortara, lontano dagli scontri che avrebbero visto coinvolto parte delle truppe sbandate.
“Il nome non sembra promettere bene …” tentò di sdrammatizzare Stefano, quando finalmente raggiunsero la postazione assegnata.
“A me, invece, non sembra beneaugurante scherzare su un fatto così grave come la battaglia che abbiamo combattuto appena ieri pomeriggio…”
“Io non ho combattuto proprio un bel niente: ero troppo impegnato a non farmi uccidere” bofonchiò in risposta il biondino, mentre scendeva da cavallo, la divisa blu impolverata e gli stivali inzaccherati dal fango.
Si guardarono intorno, accerchiati da infinite distese a perdita d’occhio di centinaia di uomini tra ufficiali, sottoufficiali e soldati, intenti a riversarsi nel fazzoletto di terra a loro destinato, in cui si sarebbero accampati per la notte.
Nicolò avvertiva una strana sensazione gravargli sulle spalle, tanto da non riuscire neppure a definirla con esattezza: si sentiva sospeso, in bilico tra due mondi, come se avesse compiuto un lunghissimo viaggio attraverso gli occhi di un’altra persona, un viandante che gli aveva raccontato in maniera talmente dettagliata i pericoli, le emozioni, le gioie e le tristezze del tragitto, da sembrare di averle vissute.
In quel momento, egli provava esattamente quello: era stato un semplice spettatore o, tutto ciò che credeva fosse accaduto in quei tre giorni da quando si era arruolato, aveva per davvero rappresentato la realtà?
“Ho abbandonato questa città da poco più di quarantotto ore, convinto che sarei andato lontano, che avrei combattuto chissà dove. Invece, eccomi di nuovo qui, a non sapere cosa succederà domani, a non capire il motivo di questa ritirata…”
"Ma non eri tu che mi dicevi che non tocca a noi semplici soldati fare domande? Che saranno i nostri ufficiali a portarci alla vittoria finale?!" lo canzonò l'altro, mentre a piedi si incamminavano verso le prime tende che venivano già montate per gli ufficiali.
"Se è per questo, ne sono ancora convinto"
All'improvviso, un sergente a cavallo si avvicinò a Stefano, ordinandogli di ritornare in sella e di seguirlo: avrebbero dovuto fare da scorta ad un gruppo di vedette con il compito di addentrarsi a nord, al confine con i campi, per cercare di individuare eventuali truppe nemiche.

Nicolò gli fece un cenno di saluto, non invidiandolo per quello che lo aspettava: aveva la schiena a pezzi per la prolungata stazione eretta e leggermente incurvata che aveva tenuto in groppa al purosangue, posizione che gli aveva indolenzito i muscoli delle spalle e del collo, pronti ad essere finalmente massaggiati.
Abbassò lo sguardo sul braccio lievemente ferito, alzando subito dopo quello sano: "Stai attento e..."
Ma l’amico era già lontano, un puntino sempre più sfocato nella calca di uomini davanti a lui.



Quando Stefano rientrò alla postazione erano quasi le diciannove.
Il buio aveva inglobato ogni cosa, ormai, e il vociare basso ma concitato degli uomini aveva i risvolti di un malaugurante incontro.

I loro volti, infatti, erano completamente avvolti dalle ombre, tanto da risultare difficile attribuire un nome a tutti quei suoni: per tale motivo, alcuni soldati stavano mormorando stoltamente quanto per un austriaco in grado di comprendere e parlare bene la loro lingua, non sarebbe stato difficile riuscire a mischiarsi con l’Armata, cogliere di sorpresa le prime avanguardie e, finalmente, far avanzare il resto degli Imperiali.
Per fortuna, era un’eventualità del tutto improbabile, oltre che praticamente impossibile, accennata con il solo scopo di movimentare la serata.
Nicolò ascoltava in silenzio i discorsi degli altri uomini, assorto nei propri pensieri: la pancia piena della zuppa e del pane raffermo che le vivandiere avevano preparato, da quando era partito si sentiva per la prima volta felice e soddisfatto del lavoro che aveva svolto.
Il capitano Canavera, infatti, lo aveva raggiunto qualche minuto dopo la partenza del biondino, per comunicargli che sarebbe stato compito
suo istruire i soldati sulla disposizione che avrebbero dovuto assumere quella notte, suddividendosi i compiti riguardanti semplici mansioni, quali gli allestimenti delle tende per le truppe, la distribuzione dei ranci e l’accensione dei fuochi.
“Allora, amico, prima che mi stavi dicendo? Che sei stato promosso sul campo, eh?” lo punzecchiò Stefano, accendendosi una sigaretta.
“Sarebbe meglio che non fumassi …” lo redarguì l’altro, fissandolo negli occhi e preparandosi a riportare
al capitano le mappe con la dislocazione delle tende.
Il suo sguardo era serio, ma anche impensierito.
“E perché? Adesso fai finta di preoccuparti per la mia salute?”
Il biondino si lasciò andare ad una sonora risata, giocherellando con la cartina tra le labbra.
“Smettila di fare il gradasso!” lo rimproverò, puntandogli le carte sul petto.
“E’ un ordine diramato dal comandante in persona: si teme che gli Imperiali possano avvistare le volute di fumo e spararci con i loro maledetti Stützen! Non vedi che abbiamo dovuto spegnere persino i fuochi accesi per riscaldarci?!”
"Eccome se lo vedo, boia cane. Ma sono stanco di tutti questi divieti: ci manca solo che ci dicano di non pisciare e poi sarebbe davvero il colmo!"
Stefano scrollò le spalle e ricambiò l’occhiataccia, arrendendosi.
P
rese la sigaretta tra le mani e la spense, soffiando forte sulla cartina appena cominciata.
La gettò a terra, schiacciandola con la punta dello stivale, ormai rosolato nella polvere di quelle lunghe marce, quindi si allontanò da Nicolò, borbottando parole a mezza voce su quanto quella specie di intellettuale fosse matto come una campana.

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Capitolo 24
*** La battaglia della Bicocca ***


Ci sono molte persone nel mondo, ma tuttavia ci sono più volti, perché ognuno ne ha diversi.
 
(Rainer Maria Rilke, scrittore, poeta e drammaturgo boemo, 1875-1926)


La voce del vento accarezzava con violenza le tende dell'accampamento, lasciando intravedere, nei radi spazi lasciati aperti, il buio incontrastato della notte.
Al di fuori del giaciglio, vi era un silenzio tombale, un’assenza di rumori che non presagiva alcunché di positivo.
Ad un certo punto, il drappo di pelle che proteggeva i soldati venne inaspettatamente sollevato, preceduto da misteriosi passi felpati che calcavano la terra sporca e fangosa.
Costanza entrò decisa, illuminando il viso di Nicolò con una lanterna: l'intera figura era occultata da un ampio mantello nero, forse di lana, che ricopriva anche i lunghi riccioli scuri.
Gli si avvicinò senza sorridergli, e rimase a fissarlo per un interminabile istante, non preoccupandosi di poter svegliare il resto dei soldati.
"Cosa ci fai qui, sorella mia? E' pericoloso, gli Austriaci potrebbero attaccarci da un momento all'altro!"
Il giovane Granieri si sollevò a sedere, mentre lo scricchiolio prodotto dalla paglia accompagnava il suo gesto.
Ma Costanza non accennava a rispondere, semplicemente s'inginocchiò e cominciò a pregare, a mugugnare qualche stralcio di supplica in latino, gli occhi sempre ben fissi sul fratello.
"Perché non parli? E come hai fatto ad oltrepassare le nostre linee? Qui, nel campo, le uniche donne a potervi mettere piede sono le vivandiere, le mogli dei nostri sottoufficiali ..."
Nicolò, adesso, si sentiva spaventato: si allontanò di qualche passo dalla ragazza, retrocedendo fino a sfiorare il lembo della tenda, sobbalzando per l'improvviso contatto.
Abbassò la testa, lo sguardo sbarrato sulla difensiva: in quel momento, si accorse di non avere indosso la divisa, ma solamente una camicia immacolata e dei calzoni strappati, che neppure ricordava di possedere.
I piedi nudi affondavano nella terra umida e fredda: il giovane si tastò i fianchi, alla ricerca della pistola di ordinanza e della baionetta, inorridendo per la loro assenza.
Non gli rimaneva altro che urlare, e così fece: Nicolò si ritrovò a gridare come mai avrebbe pensato di riuscire, nel tentativo assurdo di ricacciare indietro quell'ombra sbiadita che ricordava lontanamente la sorella.
Poi, una parte del suo inconscio lo riportò alla realtà, inducendolo a risvegliarsi.
Il primogenito dei Granieri cominciò a respirare con ritmo affannoso, i palmi ben piantati sul misero giaciglio di paglia.
Si guardò attorno, spaesato, incapace di mettere a fuoco i contorni delle cose avvolte nella notte: trasse un sospiro di sollievo, l'istante in cui percepì la vicinanza delle armi sotto il giaciglio, lo stesso sollievo che provò nel constatare che vestiva la sua inseparabile divisa.
La bocca semi aperta, si passò una mano tra i folti capelli ricci, mentre avvertiva miriadi di piccole gocce di sudore calargli lungo la schiena.
Una volta che la vista si fu abituata al buio sovrano, il ragazzo lanciò un'occhiata in direzione del pagliericcio di Stefano, constatando che il compagno stava dormendo indisturbato, a tratti persino russando, alla stregua del resto dei commilitoni che divideva con loro la tenda.
Nicolò tornò a sdraiarsi, il cuore che martellava nel petto: asciugò la fronte madida con il dorso della mano, non smettendo di fissare il pertugio lasciato aperto nel drappo.
Era stato solo un incubo, il primo della sua vita, ma tanto era bastato per cancellargli il labile desiderio di riposare e indurlo a pensare a cosa volesse dire il Destino.
Cosa avrà voluto dirmi Costanza? Perché so che si trattava di lei, sebbene avesse più le sembianze di uno spirito demoniaco. Oggi è il grande giorno, il giorno in cui dovrò dimostrare, una volta per tutte, quanto io valga. Non devo farmi suggestionare da uno stupido incubo, non devo!
Deglutì stremato, il respiro che stava riprendendo il ritmo normale, mentre un fastidioso retrogusto amaro gli permeava il palato.
Intanto, la voce del vento accarezzava con violenza le tende dell'accampamento, proprio come l'inizio del sogno ...


Alle nove di mattina di venerdì 23 marzo 1849, ciò che era rimasto dell’esercito sabaudo venne schierato a sud di Novara, nei punti strategici di collegamento verso la confinante Olengo, Vercelli e, naturalmente, Milano.
Il tempo non ricordava affatto le miti temperature primaverili: il cielo plumbeo offuscava ogni cosa, mentre il freddo e l’umidità penetravano fin dentro le ossa.
Carlo Alberto e il suo generale polacco nutrivano numerosi dubbi sul buon esito dello scontro con gli Imperiali: consapevoli della loro inferiorità numerica, tattica, logistica e di mezzi, trasmisero di riflesso la loro scarsa fiducia anche sui soldati schierati.
Quando il Re, infatti, passò in rassegna le truppe, gli uomini non lo acclamarono festosi, come invece era accaduto più volte in passato, ma attendevano impensieriti e cupi che venissero gridati gli ordini a cui avrebbero dovuto sottostare.
Si potevano contano senza troppa difficoltà le numerose file lasciate vacanti dalle massicce diserzioni dei giorni precedenti, testimonianza di uno scoraggiamento generale.
Alle ore 10, il nemico cominciò ad avvicinarsi alla città, abbandonando la postazione di Garbagna, un paese nei pressi di Novara.
Alle 11, ad Olengo, cacciatori tirolesi e la cavalleria distrussero la resistenza di fanti e bersaglieri, che combatterono gloriosamente per difendere le postazioni.
Questione di pochi chilometri e gli Imperiali si ritrovarono indisturbati dentro le mura di Novara: alla Bicocca, i primi luoghi simbolo a cadere furono la cascina Castellazzo e villa Visconti, presto riconquistate.
La Brigata Savona, composta da 4000 fanti, venne costretta ad arretrare, altrimenti sarebbe stata decimata dall'ingordigia nemica.
Ed ecco che, in suo aiuto, entrò in gioco anche la Brigata Savoia, appartenente alla Terza divisione guidata dal generale Ettore Perrone che, coraggiosamente, riuscì a riconquistare i territori sopra citati appena perduti.
Purtroppo e per fortuna, però, in quanto tale mossa diede la conferma al feldmaresciallo Radetzky che, davanti a loro, era stata dispiegata l’intera Armata sarda, e non un misero avamposto come aveva creduto fino al giorno prima, quando aveva mantenuto la maggior parte dell’esercito austriaco a Vercelli.
Così, agli Imperiali venne ordinato di attaccare, questa volta con maggiore forza: la linea del fronte correva per quattro chilometri, toccando campi, fossi e cascinali, che diventarono subito teatro di battaglia.
Un’ora dopo l’inizio degli scontri alla Bicocca, alle ore 12 accadde un fatto inaspettato, che avrebbe potuto concludere all'istante le sorti della guerra: a villa san Giuseppe, infatti, una delle numerosissime cascine che costellavano la zona, trovò rifugio Sua Maestà Carlo Alberto, ancora indeciso sul modus operandi da adottare per portare avanti la guerra.
Un gruppo di fanti ungheresi, mandato in ricognizione, lo avvistò nel cortile del casolare abbandonato, e subito ne approfittò per tentare di catturalo: il rapimento venne sventato dall' onnipresente scorta dei Carabinieri reali, che uccise il nemico.
Nel frattempo, sempre alle ore 12, un altro gravissimo errore tattico rischiò di far cessare all’istante la battaglia: la zona all’opposto della Bicocca, denominata Torrion Quartara, si ritrovò invasa dagli Austriaci, impegnati a respingere una singola divisione sabauda.
Infatti, Chrzanowski aveva giudicato il Torrione un’area troppo lontana dal grosso delle truppe, ritenendolo un punto strategicamente meno importante: con tale congettura del tutto infondata, compì l’ennesimo errore vitale.
Intorno alle 12.30, sempre alla Bicocca, entrò in campo la Quarta divisione, militarmente la migliore e la più preparata, a supporto della Brigata Savoia, (la stessa che, appena un'ora e mezza prima, era stata mandata in aiuto della Brigata Savona): tuttavia, il suo valoroso comandante Perrone venne ucciso qualche ora più tardi, alle 16, da una palla di cannone alla testa.
Alle 13, si decise per l'avanzamento della Brigata Piemonte, che ben presto perse il generale Passalacqua, colpito a morte alle spalle dai cacciatori tirolesi, mentre incitava i suoi uomini all’attacco.
La situazione, però, non appariva ancora irrimediabilmente perduta: per un’ora, dalle 13.30 alle 14.30, gli Austriaci furono costretti a ritirarsi, perché in numero inferiore rispetto agli sgangherati Piemontesi.
Grazie al contrattacco della Birgata Pinerolo, dovettero abbandonare Olengo, appena tre ore prima conquistata.
Contemporaneamente, giunsero le retrovie a rinfoltire entrambe le file emaciate degli eserciti, facendo passare, ancora una volta, il nemico in superiorità numerica.
Alle 16, gli Imperiali effettuarono un nuovo attacco: venne così riconquistata la cascina Castellazzo, che era stata persa e subito dopo riconquistata nella primissima ora della battaglia.
Alle 17, dopo cinque ore di incessanti cannonate e scontri a fuoco, lo sguarnito Torrion Quartara subì la conquista da parte della Brigata Aosta della Prima divisione, sotto la guida del comandante Giovanni Durando.
Alle 17.30, nonostante l’eroica resistenza della Brigata Piemonte e della Brigata Savoia, la Bicocca venne definitivamente invasa dagli Austriaci.
Subito dopo, caddero anche il Torrion Quartara e villa Visconti, nelle mani piemontesi dalla mattinata.
Alle ore 18, il feldmaresciallo Radetzky ordinò il contrattacco finale.
Carlo Alberto, dopo aver tentato quattro volte di essere ucciso in battaglia –invano, grazie ai Carabinieri reali che riuscirono a proteggerlo e morirono al suo posto, mentre uno degli aiutanti in campo lo allontanava a forza- rientrò demoralizzato a Palazzo Bellini.
Da qui, mandò il conte di Cossato, nonché sotto capo di Stato Maggiore, all’accampamento nemico, per trattare una tregua: il generale von Hess avrebbe accettato subito, ma Radetzkj esigeva quale garante dell’Armistizio il Principe ereditario Vittorio Emanuele, in quanto non nutriva più alcuna fiducia in Carlo Alberto.
Ormai la guerra si poteva considerare perduta, non solo le singole battaglia di quel giorni infinito: eppure, la Brigata Piemonte, rimasta sotto la guida del duca di Genova e secondogenito del Re, dopo la morte a tradimento del generale Passalacqua, riuscì a tenere testa agli Austriaci, respingendoli e ritardando la loro avanzata in città.
Alle 19, si cessò di combattere: Piemontesi ed Imperiali apparivano stanchi e provati, non avevano la forza di fronteggiarsi ancora.
L’esercito sabaudo si ritirò alla spicciolata all’interno delle mura di Novara, creando ulteriore confusione, muovendosi in disordine, con la pioggia che si riversava inclemente sulle loro teste e il freddo pungente più simile all'inverno che alla primavera da poco iniziata.
La città, però, non voleva demordere: dai bastioni, infatti, partì qualche isolata raffica di fucile e qualche cannonata disperata degli ultimi reduci, caparbi a salvare il salvabile.
Alle ore 21.15, Sua Maestà Carlo Alberto Emanuele Vittorio Maria Clemente Saverio di Savoia Carignano, Re di Sardegna, Duca di Savoia e Principe di Piemonte, nella sala del trono di palazzo Bellini abdicò in favore del primogenito, Vittorio Emanuele, dopo aver avuto la certezza, dai generali superstiti, che era impossibile proseguire e vincere la guerra.
All’1 di sabato 24 marzo 1849, l'ex monarca lasciò su un’anonima carrozza Novara, in direzione di Oporto, in Portogallo, dove morirà il 28 luglio dello stesso anno: provato ed affranto, gli unici a seguirlo furono un servitore ed un aiutante in campo.
Nel frattempo, i soldati superstiti si lasciarono andare di nuovo alla pazzia più sfrenata, proprio come era accaduto appena il giorno precedente: depredarono ville, case, botteghe, rubando cibo e denaro, violentando persino le loro stesse donne.
Intervenne la Cavalleria, in perfetto stile ricalcante il giorno avanti, su precisa volontà del duca di Genova, a capo della Brigata Piemonte, ma senza grandi risultati.
I tafferugli e i disordini, infatti, proseguirono fino all’alba del 24 marzo, quando i commilitoni rimasti in vita si spostarono nei paesi limitrofi, cercando rifugio e perpetrando le insane scorribande.

 


QUALCHE NOTA STORICA ...


Anticamente, palazzo Bellini apparteneva alla potentissima famiglia dei conti Tornielli (a Novara dal XII secolo), poi passò ai Bagliotti, che lo fecero restaurare nel 1680, e nel 1751 divenne proprietà della famiglia dei conti Bellini.
Ad essa si debbono i grandi lavori decorativi delle sale, abbellite con affreschi, stucchi e specchi in pregevole stile rococò.
Nel 1900 venne acquistato dalla Banca Popolare, fondata a Novara nel 1871.
Il 31 maggio 1800 ospitò Napoleone Bonaparte, durante la seconda campagna sul suolo italiano, prima della battaglia di Marengo; alla ripresa della I^ Guerra d'Indipendenza, vi dimorò Carlo Alberto, che la sera del 23 marzo 1849, dopo la sconfitta contro gli Austriaci, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele.
Dieci anni dopo, il 1° giugno 1859, vi fu ospitato Napoleone III, Imperatore dei Francesi, che si trattenne fino all'alba del 4 giugno, studiando insieme a Vittorio Emanuele II i piani per la battaglia di Magenta.
Tra le decine di stanze, si possono ammirare la Galleria degli Arazzi (una stanza caratterizzata da due grandi arazzi settecenteschi, che conserva anche la preziosa collezione di coralli Siciliani del XVII secolo), la Sala Maggiore (destinata ai balli e ai ricevimenti, detta anche "degli Specchi" o "della Musica", per i dieci grandi specchi che le conferiscono una speciale luminosità e per le decorazioni a stucchi e bassorilievi allegorici di soggetto musicale).
Questa stanza è la più ampia del palazzo: possiede due splendidi lampadari in vetro di Murano e un grandioso affresco ne orna il soffitto, oltre al pavimento in mosaico.
Infine, da ricordare la Sala dell'Abdicazione, rimasta esattamente come allora, compreso il caminetto vicino a cui il sovrano firmò l’atto formale. Vi è una lapide a ricordo dell’avvenimento e i ritratti di Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II. 

 



 L'esterno di Palazzo Tornielli Bellini, attuale sede della Banca Popolare                                                       di Novara                                                    

   La Sala dell'Abdicazione
  L'attraversamento del Ticino, raccontato nel capitolo 21 (combattuta il                                                         20 marzo, a cui seguì il 21 marzo la battaglia di Mortara)


   Soldati piemontesi (a sinistra, con le mostrine rosse) e i Grenzer                                                                     austriaci che combattono alla Bicocca con solo la baionetta . I                                                                       Grenzer erano fanti croati, che si occupavano di presidiare i confini.

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Capitolo 25
*** Un destino ancora incerto ***



Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici.

 (Kahlil Gibran, poeta, pittore e filosofo libanese, 1883-1931)


Nicolò aprì gli occhi, preda di una stanchezza che mai aveva provato: era caduto in uno stato di incoscienza che, in un primo momento, non gli aveva permesso di mettere a fuoco ciò che lo circondava, né tantomeno di ricordare quello che gli era successo.
Sbatté le palpebre un paio di volte, per cercare di annullare la nebbia nerastra che gli impediva di vedere, incapace di capire se fosse della semplice polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli.
Sentiva le membra intorpidite e la testa pesante: tentò di muovere braccia e gambe, ma una fitta improvvisa e lancinante gli trapassò l’arto superiore sinistro, rimasto ferito durante la battaglia della Sforzesca, appena due giorni prima.
Mosse il capo e cercò di sollevarsi, ma inutilmente: continuava a vedere solo ombre e contorni offuscati.
Si portò la mano destra alla fronte, spaventandosi per ciò che avvertì scorrere tra le dita: era sangue, non copioso, però era pur sempre sangue.
In alcuni punti, il liquido rossastro si era già coagulato, quindi voleva dire che era stato ferito da almeno parecchi minuti, se non addirittura ore.
Non voleva abbandonarsi alla tristezza, all’angoscia o, peggio ancora, al pianto, tuttavia il giovane non poté evitare di sentirsi impotente e rabbioso: socchiuse gli occhi, incapace di mantenerli aperti per oltre una manciata di secondi di seguito, quindi tentò nuovamente di mettere a fuoco il paesaggio che lo circondava, fatto di uomini in sella e di altre semioscurità che si affaccendavano vicino a lui, dove si ammassavano altri soldati distesi e moribondi.
Con uno sforzo immane, riuscì a voltarsi dalla parte del braccio non ferito: non capiva cosa gli fosse accaduto, perché si trovasse immobile sul terreno di battaglia, sul quale, appena pochi istanti prima, aveva coraggiosamente e strenuamente combattuto insieme al resto dei commilitoni.
Cercò di sforzarsi a mettere in ordine gli eventi che avevano preceduto quello stato confusionario e oscuro in cui era sprofondato.
L’unica cosa che all’inizio si ricordò con precisione, fu la voce imperiosa del capitano Canavera: il superiore gli aveva ordinato di scendere in campo, ma di non perdere mai di vista le sue mosse, seguendolo passo a passo e imponendogli di non compiere alcuna mossa azzardata.
Doveva essere da poco trascorso il mezzogiorno* di venerdì 23 marzo, continuò a ripercorrere con la mente aggrovigliata il giovane Granieri, quando la Brigata Piemonte fu costretta ad entrare nel vivo dello scontro per dare aiuto alla Brigata Savoia, nella zona della Bicocca, a sud della città di Novara.
Nicolò, inizialmente, si sentiva elettrizzato e intimorito al contempo, poi, lentamente, la tensione si sciolse, trasformandosi in rabbia crescente e voglia di combattere.
Protetto dal capitano Canavera, il ragazzo riuscì a dar prova del suo coraggio, sparando un paio di colpi con la baionetta e una mezza dozzina con la pistola, arrivando persino ad uccidere un austriaco.
La morte improvvisa del generale Passalacqua, una mezz’ora dopo la discesa in campo della Piemonte, sconquassò l’ordine dei soldati, che strenuamente ritornarono a guerreggiare e a difendere le postazioni affidate.
Dopo innumerevoli sforzi, l’ultima immagine nitida che Nicolò riusciva a ricordarsi, era rappresentata dal ferimento di Stefano: il sole stava lentamente calando nel cielo, dovevano essere le cinque o le sei, e ormai l’entusiasmo generale si era trasformato in una stoica quanto inutile resistenza.
Il suo compagno d’armi stava combattendo di fianco a lui, euforico per aver abbattuto un paio di cacciatori tirolesi.
Una granata, all’improvviso, squarciò l’aria, disarcionando il biondino, che subito cadde a terra.
Nicolò lo incitò ad alzarsi, ma il contadino ventenne sembrava non sentirlo: non gli rispondeva, non accennava a ricambiarne l’interesse, e neppure le sue urla, sovrastate dalla confusione collettiva che li circondava.
Stefano giaceva in mezzo al campo polveroso, le braccia e le gambe mollemente divaricate, gli occhi chiusi e la terra polverosa che si tingeva di rosso, proprio in prossimità della nuca.
Dio santo, alzati! Alzati, dannazione! Dobbiamo muoverci, metterci al riparo!” gridava isterico il figlio del notaio, in sella al cavallo.
Le redini tra le mani tremanti, prese a ruotare attorno all’amico, mentre gli zoccoli dell’equino scalciavano e graffiavano il campo sporco di sangue, di sudore e di altri liquidi umani.
Stefano, ti prego, ti prego alzati!
Nicolò era pronto per scendere dal suo destriero e accucciarsi di fianco al compagno, in modo da cercare di prestargli le prime cure e aiutarlo ad allontanarsi da quel terreno di morti e feriti, quando venne raggiunto dal loro ufficiale.
Il capitano Canavera, infatti, si avvicinò ai due ragazzi pochi attimi dopo e, intuendo la gravità della situazione, gridò a un paio di barellieri indaffarati lì vicino di recarsi immediatamente da loro, per prelevare e portare in sicurezza il ferito.
Poi, tutto divenne scuro, buio, senza luce: Nicolò avvertì un dolore insopportabile penetrargli il braccio sinistro già ferito, mentre la nebbia si impossessava dei suoi occhi.
Cadde anche lui da cavallo, perdendo i sensi: adesso che si era risvegliato, il sole era ormai tramontato da qualche ora, ma la confusione e il dolore non accennavano a diminuire.
Sperò solo che qualcuno arrivasse a soccorrerlo e a portarlo via, lontano da lì, mentre il pensiero correva preoccupato a Stefano, scomparso chissà dove.   


L’ospedale Maggiore era ubicato lungo il corso di Porta Genova, a poche centinaia di metri dal centro storico cittadino.
La facciata dell’edificio era abbellita dalla porta d’ingresso in granito e da due grosse colonne che la sorreggevano, regalando al complesso un’aria solenne e mastodontica.
Un ampio cortile con portici decorati da pilastri e capitelli in stile dorico troneggiava poco più in là, lo stesso spazio sotto cui i pazienti meno gravi potevano passeggiare all’aria aperta.
Nelle sale dedicate all’infermeria vennero poste due statue in pietra arenaria, raffiguranti le virtù della Carità e della Beneficienza.
Una zona, inoltre, fu dedicata agli infermi cronici e ai malati di sifilide, una piaga dilagante per l’epoca.
Con una capienza di posti letti fissata a 260, in situazioni di emergenza il presidio poteva arrivare ad ospitare fino a 520 malati, accuditi da numeroso personale sanitario: cinque medici, due chirurghi, due flebotomi*, uno speziale che gestiva le incombenze della farmacia e un ginecologo che formava le cosiddette mammane di città e provincia, ovvero le ostetriche del tempo.
Inoltre, a continuo e diretto contatto con i pazienti, si premuravano vicendevolmente otto suore e altrettanti tra infermieri ed infermiere: se essi si occupavano delle ferite del corpo, i quattro padri cappuccini e il frate laico stanziati all’interno del Maggiore si prendevano cura delle piaghe dell’anima dei moribondi.
Per i malati meno gravi e per i loro famigliari, venne creata una chiesa dedicata a san Michele: i fedeli affidavano le loro preghiere alla Beata Vergine, ritratta nell’atto di vestire il pianeta, ma anche a san Idelfonso, a san Carlo, a san Felice e alla Madonna con il Bambino.
Infine, in una zona a parte dell’Ospedale, ci si premurò di adibire un ricovero per fanciulli: 56 bambine, orfane o indigenti, ricevevano infatti un’istruzione di base in cambio dell’aiuto in cucina, nel ricamo e nella riparazione della biancheria dell’Ospedale, oltre che nella realizzazione di vestiti da rivendere; 56 maschi, invece, venivano istruiti a leggere, a scrivere e a contare, per essere poi mandati nelle botteghe ad imparare un mestiere con cui si sarebbero sostentati dopo la maggiore età.



Nelle ore e nei giorni successivi la battaglia del 23 marzo 1849, il Maggiore -che era stato costruito per ospitare, ricordiamo, un massimo di 520 posti letto-, si ritrovò a doverne occupare circa tremila, quasi sei volte in più l’ordinaria capienza.
Nei primi momenti successivi gli scontri conclusi in serata, da parte piemontese si contarono 1405 feriti, più mille tra coloro che morirono ancora prima di arrivare al presidio.
Al Torrion Quartara e nelle zone più lontane rispetto al corso di Porta Genova, i moribondi vennero ammassati e curati all’interno delle parrocchie, i luoghi apparentemente più sicuri, perché si immaginava che mai il nemico avrebbe osato mettervi piede.
Le ferite d’arma da fuoco, rappresentate dalle pistole degli Imperiali e dai fucili Stützen dei tirolesi, si contavano in numero spropositato, seguite dalle cosiddette ferite d’arma bianca -provocate dalle appuntite spade- e dai traumi da caduta: i cavalli, infatti, erano spesso dei purosangue, soprattutto quelli degli ufficiali, per cui precipitare da un garrese che misurava anche un metro e venti avrebbe potuto rivelarsi assai rischioso, tanto più se si veniva calpestati dagli zoccoli o dalla bolgia dei soldati in fuga.
La città, nel frattempo, cadde nel caos più totale: oltre alla depravazione delle truppe, che come già descritto si trasformarono in bande di ladri, assassini e violentatori, vi era anche l’enorme problema di come e dove curare la moltitudine di feriti delle ore successive gli scontri.
Il fattore tempo era decisivo, ma l’Ospedale non avrebbe saputo accogliere la fiumana di disperati che aveva bisogno di protezione e terapie immediate.
Che fine avrebbero fatto Nicolò, Stefano e tutti gli altri? Ci sarebbe stato posto per quegli uomini in condizioni tanto critiche? Oppure il loro destino sarebbe stato andare incontro alla morte in modo così poco glorioso, dopo essere sopravvissuti ai combattimenti diretti contro il nemico?
I calessi e gli stessi cavalli marciavano a folle velocità verso corso di Porta Genova, con l'unico intento di salvare il maggior numero
possibile di commilitoni.
Le strade apparivano deserte, ammassi di macerie erano riversate ai lati delle vie, mentre nubi di fumo si innalzavano in direzione del cielo ormai scuro, simbolo della distruzione in massa ad opera dei soldati sbandati.
Le porte delle botteghe e delle abitazioni divelte incitavano silenziosamente i barellieri a fare in fretta, nell'accreditato sentore di rimanere vittime di qualche folle appostato, pronto a derubare le loro armi, gli unici averi che ancora potevano vantare.
La notte passò, portando con sé le anime delle migliaia di morti e l'eco delle grida dei feriti e degli spaesati, lasciando il posto all'alba di un giorno freddo ed umido, che avrebbe inconsapevolmente offerto ancora tanto da affrontare.




QUALCHE NOTA STORICA ...


Le prime origini del Maggiore sono databili intorno all'XI secolo d.C., in un sobborgo completamente all'opposto rispetto a quello in cui è tutt'oggi ubicato.
Inizialmente, venne chiamato "Casa di san Michele della Carità", ed era gestito dai frati e dalle suore dell'Ordine degli Umiliati, che si premurava di soccorrere i poveri, i vecchi invalidi e i pellegrini.
Fu solo dalla fine del Duecento che l'Ospedale si occupò anche della cura dei malati come li intendiamo noi.
Il presidio viveva grazie alle donazioni e ai lasciti dei cittadini: inoltre, pur essendo gestito dal gruppo religioso sopra citato, risultava di proprietà del Comune, che sceglieva gli amministratori.
Nel 1643 venne inaugurata la nuova sede in corso di Porta Genova, dove fu anche trasportata la chiesa di san Michele, citata nel capitolo e al cui santo era dedicato il nome iniziale del Maggiore.
Nel corso dell'Ottocento prese le forme attuali, anche grazie all'opera dell'architetto novarese Alessandro Antonelli, lo stesso che si occupò della costruzione della Mole Antonelliana di Torino e della cupola di San Gaudenzio di Novara.


* Nicolò si orienta con la luce del sole: in realtà, la discesa in campo della Brigata Piemonte avvenne all'una del 23 marzo, e non a mezzogiorno come tenta di ricordare il ragazzo.

* I flebotomi erano i medici specializzati nel salasso.


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Capitolo 26
*** Un rifugio sicuro in attesa della Pasqua ***



Perché aspetti con impazienza le cose? Se sono inutili per la tua vita, inutile è anche aspettarle. Se sono necessarie, loro verranno e verranno nel momento giusto.

 (Amado Nervo, poeta e scrittore messicano 1870-1919)



Novara, sabato 24 marzo 1849


Carissima Nonna,
sembrano trascorsi cento anni da quando vi ho scritto l'ultima volta, invece, sebbene non sia riuscita a spedirvi la mia lettera, non è passata neppure una settimana, sette giorni in cui l'Inferno è calato sulla nostra povera terra, martoriandola e privandoci della tranquillità che la pace aveva portato con sé negli ultimi mesi.
Il glorioso esercito sabaudo è ormai allo sbando e privo di forze: sono numerosissime le voci, infatti, che si rincorrono in città e non solo, voci accreditate che ci spingono ancora di più nelle desolate lande della disperazione, perché i soldati piemontesi sembrerebbero essere stati decimati, e chi, grazie a Dio, non è stato ucciso o ferito, si è dato alla macchia, diventando un inetto malfattore.
Oggi, cara nonna, anche il tempo sembra piangere insieme a noi: è una giornata fredda e gelida, per nulla primaverile.
Pensate che intorno alle nove ha persino cominciato a nevicare, uno strato sottile di acqua ghiacciata che, visto precipitare dalle finestre ben chiuse della mia camera, probabilmente neppure avrà il coraggio di attecchire.

In queste ore angosciose e prive di luce futura, penso a domani, a quanto sarà 
triste come Santa Pasqua: nessuno avrà voglia di festeggiare e di brindare alla Resurrezione di Nostro Signore, né tantomeno di innalzare canti di gloria in Suo onore; le uniche grida che invocheremo al Cielo saranno inni di morte e di pietà.
La notizia, infatti, per cui vi ho scritto riguarda l’assedio della città: Novara è stata occupata dalle truppe austriache, che proprio in queste ore stanno marciando per le nostre stesse strade, alla stregua di ingordi predatori venuti a stanare le loro piccole ed indifese prede.
Credetemi, se vi dico che stiamo vivendo una situazione inverosimile, di caos assoluto.
Solamente ieri, carissima nonna,
nella zona a sud della città, si è svolta una tremenda battaglia che ha visto fronteggiarsi il nostro esercito contro quello degli Imperiali, vincitori di questo impari scontro .
Nessuno si aspettava che la guerra potesse avvicinarsi così tanto a noi, alle nostre vite, alle nostre quotidiane esistenze: si mormora che sia stato per colpa di un alto generale dell’Armata, un tale Ramorino, che si è rifiutato di obbedire agli ordini di Sua Maestà in persona.
Ebbene, da questa ipotetica mancanza -che non credo essere completamente infondata- sembrerebbe sia scaturita una concatenazione di eventi negativi che hanno poi portato, come estrema conseguenza, allo svolgersi della battaglia di ieri.

Una battaglia che è durata tutto il santo giorno, tanto da apparire infinita: riuscivo a distinguere l’eco delle palle di cannone che s’infrangevano con violenza nei campi, percepivo senza troppa difficoltà i loro pericolosi sibili nel cielo, mentre i colpi di fucile e mortaio squarciavano senza pietà alcuna il silenzio irreale, frutto della snervante attesa.
E’ stato orribile, non so in quale altro modo definirlo: sebbene non siamo stati coinvolti direttamente negli scontri, l’udire quei rumori, quei suoni devastanti ed angoscianti, ci ha letteralmente fatto precipitare il morale a terra.
Questa mattina, intorno alle otto, gli Austriaci hanno di nuovo aperto il fuoco contro di noi, colpendo le mura dei bastioni esterni: non so perché lo abbiano fatto, forse per indurre i nostri soldati a riprendere a combattere, soldati che, da due giorni, si divertono a depredare case e botteghe, accecati dalla rabbia e dal furore che hanno la forza ed il vile coraggio di riversare esclusivamente sui più deboli, i loro stessi fratelli e sorelle che alcuna colpa hanno in questo girone dantesco…
Ma tornando a stamani, carissima nonna, meno di due ore dopo l’inizio dei cannoneggiamenti, i colpi sono cessati, e tutto è ripiombato nel silenzio.
Come vi ho già scritto, le truppe imperiali ne hanno subito approfittato per entrare a Novara da vincitori: dalle finestre del palazzo, quelle dei piani alti, a meno di un chilometro in linea d’aria dall'ingresso in città, siamo riusciti ad intravedere la sfilata avanzare, una miriade di punti indefiniti, colorati di bianco e di rosso che procedevano compatti, le baionette verticali ad annunciare pericolosamente la loro supremazia.
Si dice che questa notte il nostro Re abbia abdicato in favore del principe ereditario, e che addirittura sia fuggito come un ladro, verso chissà quale destinazione.
Non so più a chi e a cosa credere, cara nonna, non lo so più, ma mi rifiuto di pensare che lo stesso uomo che ha così tanto ostentatamente desiderato questa guerra, si sia invece rivelato un inetto, un traditore che ha preferito salvare se stesso piuttosto che la nostra amatissima Patria piemontese …
Ma voi state tranquilla, non dovete affatto preoccuparvi, perché in famiglia siamo tutti in salute e, soprattutto, in sicurezza: prego e spero che almeno da voi la situazione sia calma e priva di pericoli, che abbiate risolto il problema dell’incendio che ha avvolto le vostre cantine e parte del primo piano, e che il colpevole –se vi è stata causa umana- sia già stato assicurato alla giustizia.
In attesa di ricevere vostre nuove, vi abbraccio teneramente, sicura che presto potremo finalmente riabbracciarci.

Costanza, nipote affezionatissima e sempre devota



“Pietro, ho bisogno di chiedervi un favore …”
La giovane Granieri trovò il cugino seduto su una delle poltrone del boudoir, intento a fissare i vetri della finestra che dava sul giardino, opachi per il freddo e l’umidità.
Il trentenne era vestito con un completo blu scuro di velluto ed una camicia di seta bianca scozzese, e sembrava intensamente concentrato ad osservare il paesaggio all'esterno.
Aveva la mano destra che sosteneva il capo, mentre il gomito era appoggiato sul bracciolo della poltroncina verde oliva, i capelli folti e chiari a contrastare la quasi totale assenza di luce nella piccola stanza raccolta.
L'uomo fece un gesto di assenso con la mano in direzione dell'interlocutrice, quindi si voltò a mezzobusto, per un attimo felice che almeno la giovane stesse bene.
Erano infatti due giorni che lei e la sua famiglia si erano trasferiti nel palazzo degli zii di donna Luisa: dopo le scorrerie ad opera dei soldati sbandati che avevano seminato il terrore per le strade della città e le vicende poco piacevoli occorse alla famiglia della cugina, Pietro si era offerto di andare a recuperare i parenti, in modo da garantire loro riparo e sicurezza.

La madre di Costanza, la sera stessa in cui la ragazza aveva scoperto il coinvolgimento del maestro Rossini nell’organizzazione indipendentista, era caduta preda di una febbre altissima, non ancora cessata, che aveva indotto la figlia a chiedere aiuto agli zii.
Immediatamente, essi mandarono un medico di fiducia a visitare la donna, il dottor Cerutti, che impose a Luisa il più assoluto riposo, se non voleva rischiare di essere ricoverata d'urgenza per una crisi d'isteria.
Per scongiurare tale nefasta eventualità, don Aldo e la contessa Rosa decisero infine di accogliere in casa loro le nipoti e don Armando, che nel frattempo si era quasi del tutto rimesso, dopo il collasso nervoso che lo aveva colpito appena due giorni prima.

La mattina di venerdì 22 marzo, perciò, dopo aver rimandato alle loro famiglie l’intera schiera dei domestici, Costanza e i genitori si trasferirono a casa dei conti Caccia Dominioni, ignari del putiferio che sarebbe accaduto in città di lì a breve.
“Ditemi …” rispose il cugino, il tono asciutto e privo della preoccupazione che invece traspariva dai suoi occhi azzurrissimi: si alzò e attese ulteriori spiegazioni, mentre cercava di rischiarare la stanza, sostituendo i moccoli delle candele ormai consumate con una nuova scorta celata in un cassetto del comò di mogano.
La ragazza gli si avvicinò, il volto provato dalle notti insonni: estrasse dalla manica sinistra dell’abito rosa pallido un paio di buste color avorio, sigillate dalla ceralacca, quindi le porse al giovane.
“Ho scritto a mia nonna, per rassicurarla su ciò che sta accadendo. In realtà, non so neppure se da lei siano già giunte notizie riguardo ciò che si sta verificando in questi giorni, ma preferisco informarla di persona, per evitarle qualsiasi dispiacere” cominciò a spiegare.
Nel frattempo, Pietro appoggiò le lettere su un tavolino rettangolare in stile barocco, e lanciò un'occhiata soddisfatta ai giochi di luce creati sulle pareti del boudoir.

“Le avete anche raccontato di Nicolò e del vostro momentaneo trasferimento da noi?” domandò con voce bassa e interessata, lo sguardo di ghiaccio in quello smeraldo della cugina.
“No” scosse il capo decisa, la voce salda ma a tratti incrinata per l'emozione che quelle parole le suscitavano.
“Non voglio farla preoccupare inutilmente. Ebbene, le avevo già scritto la settimane scorsa, prima della denuncia dell’armistizio, ma con tutto quello che ne è derivato, non sono riuscita a spedire la busta”

“Costanza …” la interruppe il cugino, il tono conciliante di chi si sente nella ragione.
Le prese le mani tra le sue, mentre le fiammelle si consumavano lentamente e la gracchiata di un paio di corvi si levò nel silenzio del giardino, aggiungendo ulteriore tensione a quella già accumulata.
“Sapete benissimo che non possiamo uscire, che la città è occupata ...lo abbiamo visto con i nostri stessi occhi poche ore fa”

“Lo so, lo so” ammise lei con una scrollata di spalle, cercando di reprimere la rabbia e il nervoso che avvertiva circolarle in corpo.
“Infatti non vi chiedo di rischiare la vostra vita per queste lettere, ma vi prego invece, appena la situazione si sarà definita, di recarvi all’ufficio postale, o quantomeno di accompagnarmi. Per favore, è molto importante, e voi sapete benissimo quanto io sia affezionata a mia nonna …” sottolineò la ragazza, ricambiando la stretta di Pietro.
Il primogenito dei conti Caccia abbassò lo sguardo ed inclinò leggermente la testa di lato, quindi fissò per un lungo istante la ragazza, annuendo con aria poco soddisfatta.
“D’accordo, se questo potrà farvi stare più tranquilla, sarà mia premura assecondarvi quanto prima”
La figlia del notaio incurvò le labbra in un gesto che voleva assomigliare il più possibile ad un sorriso: era così stanca, così provata e preoccupata, che non aveva neppure la forza di trovare il giusto modo per ringraziarlo di tutta la gentilezza che, nell’ultimo periodo, l’uomo le stava dimostrando.
“C’è ancora una cosa che devo chiedervi …” ritornò a dire Costanza, stropicciandosi le mani e sfuggendo gli occhi azzurrissimi di Pietro.
Temeva che, probabilmente, avrebbe ricevuto una risposta negativa, ma doveva almeno provarci.
L'altro la invitò a proseguire, curioso dell'ennesima richiesta della cugina.
“Devo sapere che fine ha fatto Nicolò. Portatemi all’ospedale, sono certa che sia stato trasferito lì!”
Il trentenne scosse la testa, le mani sui fianchi della redingote, mentre tentava di tenere a freno la lingua e di modulare il tono di voce, ora calmo e suadente come il solito.
“Non siate avventata, per l'amor del Cielo. Vi ho appena detto che non possiamo uscire per nessuna ragione, e lo sapete molto bene anche voi, Costanza. Perché vi ostinate ad avanzare preghiere che, al momento attuale, non possono in alcun modo essere esaudite?” tentò di farla ragionare, prendendole le braccia.
“Ho bisogno di sapere se mio fratello è stato ferito, se è ancora vivo!” rispose rabbiosa, dimenandosi dalla presa.
“Sono sicura che non ci faranno storie, se andremo dritto all’ospedale!” riprese a supplicare, riferendosi alle truppe austriache disseminate all'entrata ed all'uscita di Novara.
"Non posso accontentarvi, non chiedetemelo più ..."
“Ma non capite?! Lì saranno in grado di darmi qualche notizia su Nicolò, sapranno suggerirmi dove trovarlo! Vi prometto, anzi, vi giuro, che poi torneremo immediatamente a casa, credetemi!”
Pietro cercò di controllarsi ulteriormente: si passò una mano sul volto stanco e preoccupato, quindi cercò nuovamente di farla ragionare.
“Non oggi, Costanza, e nemmeno domani! Se le guardie civiche non verranno a comunicarci la fine del coprifuoco, non vi porterò neppure a fare un giro nel parco! Non capite che ne va della vostra sicurezza e di quella di tutti noi?” continuò imperterrito, il tono di voce lievemente alterato.
“Siete voi a non voler capire!"
"Se metterete piede fuori da questo palazzo, potrebbe accadervi Dio solo sa cosa! I disordini delle notti precedenti, gli Austriaci che si divertono alla caccia al topo, tutto rappresenta un pericolo! Persino quest’assurda neve che è caduta stamattina!” proseguì, indicando con una mano la finestra alle spalle.

“Ero convinta che di voi avrei potuto fidarmi!”
“Ed è così, infatti!” le rispose Pietro, in uno slancio di sincerità ed entusiasmo.
“No, non è così, non più. Almeno potrò contare sul vostro appoggio per la corrispondenza?"
"Non trattatemi come se fossi un mostro ... vi ho già detto che ..."
Costanza trasse un profondo sospiro, interrompendolo senza mezzi termini.
"Allora vi ringrazio per aver accettato di spedire le lettere. Ora scusatemi, ma sono molto stanca …”

L’uomo rinunciò a seguirla o a bloccarla, perché sapeva perfettamente che non gli avrebbe dato retta, almeno in quel momento.
Doveva sorvegliarla, per impedire che commettesse qualche sciocchezza.
Poi, quando tutto sarebbe diventato più tranquillo, non avrebbe esitato ad accompagnarla all’ospedale, o in qualsiasi altro posto che avrebbe potuto fornirle notizie di Nicolò.
Fissò per qualche attimo le buste sigillate a pochi metri da lui, quindi se le infilò in tasca e ritornò a sedersi sulla poltrona, le fiammelle che tremolavano al suo passaggio.



SCUSE DELL'AUTRICE ...


Buon pomeriggio a tutti!!
Scusatemi tantissimo per il ritardo con cui ultimamente aggiorno la storia, ma questi mesi sono costellati dal continuo studio, dal lavoro e da una serie di vicende che non mi permettono con puntualità di rileggere i capitoli già pronti e di pubblicarli settimanalmente.
Vi chiedo clemenza!! E di continuare ovviamente a seguirmi in questa avventura!
Abbraccio di cuore e con tutto l'affetto possibile quanti leggono e recensiscono il racconto (prima o poi mi metterò in pari anche con i miei adoratissimi recensori ...)
A presto
!


QUALCHE NOTA STORICA

Il nuovo Re, Vittorio Emanuele II, ordinò fin dalla notte del 23 marzo, l’evacuazione delle truppe e del Quartier Generale piemontese da Novara a Momo, un paese sulla strada verso il lago d’Orta.
Da lì, l’Armata sarda si sarebbe ricomposta per tornare a Torino, la capitale del Regno.
La situazione in città, intanto, precipitò già nelle prime ore di sabato 24 marzo, quando, intorno alle otto, gli Imperiali spararono cannonate contro le mura, certi che, al suo interno, vi fossero accampati i soldati nemici.
Il nuovo sovrano, nel frattempo, tentò inutilmente di mettersi in contatto con il generale von Hess e il feldmaresciallo austriaco, per convincerli a chiedere una tregua.
Per questo, Vittorio Emanuele pregò il sindaco ed il vescovo Gentile (grande benefattore e illuminato, di cui parla anche donna Luisa nel secondo capitolo) di incamminarsi verso l’accampamento straniero, in modo da convincerli a cessare il fuoco.
Alle ore 9, dopo le trattative andate a buon fine, le truppe austriache entrarono a Novara, mentre la neve cominciava a cadere sulle loro teste.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, verso le 17, il nuovo sovrano e Radetzky si incontrarono a Vignale, una delle frazioni della città, in una cascina ancora oggi esistente e ricordata per aver fatto da sfondo ad un evento storicamente fondamentale: qui, infatti, i due uomini si accordarono per firmare l’armistizio, che passerà alla storia come Armistizio di Vignale, ma che verrà ufficializzato solamente due giorni dopo, e di cui parleremo nel prossimo capitolo.

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Capitolo 27
*** Agire da soli ***



Un pettirosso in gabbia
scatena in tutto il cielo Rabbia


(William Blake, poeta e pittore inglese, 1757-1827)


Costanza ritornò nella camera che le era stata concessa di occupare con il cuore che le palpitava nel petto: come aveva osato Pietro contraddirla, fingendo di temere esclusivamente per la sua incolumità? Nessuno in quella stramaledetta casa riusciva a comprendere il suo stato d’animo, l’angoscia di una sorella nei confronti del suo unico fratello? Neppure il premuroso cugino a cui si stava sinceramente affezionando, e che tanto aveva fatto per lei e per la sua famiglia in quei giorni tormentati di fine marzo, appariva accondiscendente e volente alle sue umane richieste.

La ragazza aprì la porta della stanza da letto con il respiro affannato e un odio profondo che le vorticava dentro: detestava la guerra, disprezzava l’ormai precedente sovrano e persino quello attuale, odiava gli Austriaci e l'incessante quanto abominevole mania di grandezza che aveva da sempre caratterizzato la vita dell’uomo, ottenendo come unico scopo la lenta rovina del mondo.
Se l’avversione per la nuova città in cui si era trasferita da quasi tre mesi era lentamente scemata nell' ultima settimana, adesso quel sentimento truce e negativo stava riaffiorando in maniera, se possibile, ancora maggiormente prepotente.
Mai come in quei momenti, Costanza avrebbe desiderato fuggire da Novara, ritornare a Santa Maria Maggiore, tra le braccia confortanti della nonna, donna Mellerio, lontano dalle ingiustizie, dalle bugie e dal dolore che la stavano circondando.
Il vestito rosa pallido ancora indosso, si lasciò cadere stancamente sul bordo del piccolo letto a baldacchino, abbellito da tendaggi dorati e pliche di velluto ricamate con del macramé.
Sospirò profondamente e si morse il labbro inferiore un paio di volte, fino a farlo sanguinare: il sapore dolciastro del liquido rossastro le bagnò il palato e la lingua, provocandole una sensazione di assurda ma immediata calma.
Abbassò gli occhi verde smeraldo sul grande tappeto persiano blu cobalto, come a cercare un consiglio tra la trama di quel prezioso arredo, caldamente illuminato dalle scintille aranciate che fuoriuscivano dai tozzi ardenti del caminetto.
Aveva bisogno di qualcuno che le indicasse la strada da percorrere, che la prendesse per mano e la aiutasse in quel tortuoso cammino che stava diventando la sua esistenza.
La realtà è che non posso fare affidamento su nessuno: i miei genitori sono sull’orlo dell’ennesima crisi di nervi, Pietro si è intestardito a sottostare alle stupide leggi del nemico, e persino il maestro Rossini si è rivelato un vile traditore! Certo, rimarrebbero la zia Rosa e lo zio Aldo, ma non voglio caricarli di ulteriori preoccupazioni…
Costanza trasse un lungo respiro, preda dello sconforto, quindi si alzò dal baldacchino e si avvicinò all’intelaiatura che rappresentava la finestra, un pertugio piuttosto largo e dai toni caldi del legno color cioccolato: scostò le tende verde oliva che lambivano il pavimento di marmo, ritrovandosi a fissare il sentiero posteriore del palazzo, quello che si inoltrava nella parte del giardino che conduceva al casotto di caccia, ormai in disuso da oltre un secolo.
Aveva smesso di nevicare da poco più di due ore, e i fiocchi ghiacciati per fortuna non avevano minimamente attecchito: il cielo, tuttavia, persisteva a presentarsi sotto le spoglie di un grigio violaceo, mentre una bassa e rada foschia occludeva la vista oltre la radura di abeti, a un centinaio di metri sotto la stanza della giovane.
Che cosa devo fare? Come posso rintracciare Nicolò e sapere dove si trova, se è in buona salute o se gli è occorso qualcosa di grave?
La ragazza continuava a porsi quegli unici interrogativi senza apparente via di fuga, ai quali non era in grado di porre risposta alcuna.
Si grattò distrattamente un polso e portò le mani al volto, nella disperata ricerca di una soluzione che le permettesse di uscire dal labirinto infinito che era diventata la sua mente tormentata.
Poi, all’improvviso, alzò il viso e sgranò gli occhi, folgorata da un’idea che le era balzata alla testa in quel preciso istante.
Potrei domandare ad Eugenio Maffucci: in fin dei conti, è anche per colpa sua se mio fratello si è cacciato nei guai. Sono convinta che senza il loro incontro e gli indottrinamenti con cui ha infarcito il cervello di Nicolò, a quest’ora lui sarebbe qui con noi. Ma come faccio a rintracciarlo? Se non si è arruolato, chi mi assicura che si trovi ancora nell’appartamento di corso Sempione? Può essere fuggito, riparandosi chissà dove, oppure, se ha combattuto, potrebbe anch’egli essere stato ferito o reso prigioniero …
Costanza riprese a tormentarsi l’anima con quella caterva di dubbi, ben consapevole che nuotando nel mare dei se e degli interrogativi nessuno era mai riuscito a trovare una soluzione ai propri problemi.
Decise perciò che quel pomeriggio, prima di cena, avrebbe escogitato un modo per uscire indisturbata dal palazzo e recarsi all’ospedale cittadino a domandare notizie di Nicolò, perché in cuor suo sapeva che lo avrebbe trovato lì.
Tuttavia, solo allora la giovane Granieri si rese conto di non sapere minimamente dove fosse ubicato il presidio e, di conseguenza, quale fosse il tragitto per raggiungerlo.
Prima di inoltrarmi in zone a me sconosciute, potrei andare all’albergo svizzero, dove era stanziato il Quartier generale del nostro esercito. Se sarò un po’ fortunata, è possibile che riesca a rintracciare un ufficiale o qualcuno che sappia dirmi cosa devo fare
Il cuore più sollevato, Costanza si stava apprestando a richiudere i tendoni, in modo da sdraiarsi sul letto e riflettere sul piano che avrebbe messo in atto entro poche ore.
Ma la mano le rimase bloccata a mezz’aria, quando la direzione del suo sguardo cadde sulla figura che, completamente avvolta di nero, stava percorrendo il viale che conduceva ad una delle porte secondarie di palazzo Caccia.
Potrei giurare sulla mia stessa vita che sotto quel goffo travestimento funereo si celi Federico! Lui sì che è libero di poter gironzolare come meglio crede per le strade della città: i suoi amici Austriaci non gli vieteranno di accomodarsi dove meglio crede, né tantomeno di rispettare degli assurdi limiti d’orario!
Di nuovo, i sentimenti di odio e di impotente rabbia tornarono prepotenti: a ridosso della santa Pasqua, la ragazza giurò che avrebbe tenuto fede al proprio patto interiore, ovvero che avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere pur di riportare a casa Nicolò sano e salvo.
Qualsiasi cosa, anche mettersi contro Pietro e il resto della famiglia, persino confrontarsi con quel codardo di Maffucci o con quegli sbruffoni degli invasori sarebbe stato meglio che rimanere ad attendere chissà quale contrordine da parte del nemico, mentre il dubbio le rodeva dentro!
Decise perciò di cambiare idea, accantonando la decisione di riflettere nella solitudine della camera, sdraiata sul comodo baldacchino: sarebbe piuttosto scesa a cercare uno dei pochi domestici ancora rimasti, approfittando del suo ruolo di ospite dei conti per domandare informazioni utili sul percorso da compiere per raggiungere l’ospedale.
Nel caso in cui l’edificio si fosse trovato a breve distanza, avrebbe scartato le opzioni di recarsi all’albergo svizzero o addirittura in corso Sempione, dal capo degli affiliati.
Ma tutto questo, ovviamente, avrebbe potuto scoprirlo solamente armandosi di coraggio ed astuzia.


Due giorni dopo l’incontro tra il nuovo Re, Vittorio Emanuele II e il feldmaresciallo austriaco Josef Radetzky, la sera di sabato 24 marzo 1849 venne ufficialmente siglato l’armistizio di Vignale, presso la località omonima alle porte di Novara, in cui aveva sede il quartier generale nemico.
Tale accordo –di natura indeterminata- sancì la fine della Prima guerra di Indipendenza e comportò l’abdicazione ufficiale di Carlo Alberto: i Piemontesi avrebbero dovuto ritirare la propria flotta stanziata sul mar Adriatico, avrebbero dovuto sottostare all’occupazione di Alessandria (molto più vicina a Torino rispetto alla città in cui si era verificata la disfatta sabauda e che ritornò libera solamente ad agosto), del Monferrato e della Lomellina (ovvero la zona tra il Ticino ed il Sesia) e pagare un’indennità di guerra pari a 200 milioni di lire (poi diminuita a 75 milioni).
In cambio, sarebbe stata garantita l’amnistia per tutti gli esuli del Regno Lombardo Veneto.
Contemporaneamente, le notizie della disfatta, dell’abdicazione di Carlo Alberto e dell’inevitabile resa raggiunsero Torino, dove il Governo liberale guidato da Gioberti non riuscì a credere che la guerra fosse finita in maniera così tragica e senza resistenza alcuna.
La Camera si oppose fin da subito alla cessazione delle ostilità contro gli Imperiali, mentre l’ala democratica –ovvero il gruppo progressista del Parlamento piemontese, di stampo patriottico e sostenitore della piccola borghesia- invocò la ripresa della guerra, in virtù del coraggio e del valore dei patrioti che, nella Repubblica di Venezia, in quella Romana, nel Granducato di Toscana e negli altri Stati del centro continuavano strenuamente a combattere il nemico.
Nessuno dei deputati, purtroppo, riuscì a comprendere che l’esercito sabaudo era ormai ridotto allo stremo, che moltissimi erano stati i disertori, perché carente di una collaborazione e di una preparazione a livello centrale.
L’intero Regno di Sardegna si ritrovò nel caos più assoluto: il nuovo sovrano tentò addirittura di chiedere aiuto a Francia ed Inghilterra e sciolse l’entourage giobertiano, nominando il 7 maggio capo del Governo il marchese Massimo d’Azeglio, rappresentante dell’ala democratica, ma la situazione non migliorò, anzi, si crearono nuove tensioni tra la minoranza dei deputati e casa Savoia, oltre a nuovi sentimenti di rivalsa che culminarono, esattamente dieci anni dopo, nella Seconda guerra d'Indipendenza.


Il campanile in lontananza aveva scoccato i cinque rintocchi: all’esterno, era ormai quasi completamente buio e faceva freddo, ma le basse temperature non avrebbero fermato i buoni propositi della giovane.
Costanza richiuse con delicatezza la porta della sua camera da letto –in cui si era rintanata per un paio di ore, fingendo di leggere un libro- e scese attentamente le scale, controllando che nessuno la stesse osservando.
Zia Rosa era andata nelle cucine per predisporre gli ultimi preparativi per il pranzo del giorno successivo, che teneva fosse cucinato con la medesima cura che bisognava riporre per qualsiasi festività sacra, tanto più in un momento così complicato e cupo come quello che stavano attraversando durante quelle precarie ore.
Lo zio Aldo ed il padre stavano discutendo in biblioteca, poteva avvertire piuttosto distintamente le loro voci mentre attraversava l’ingresso rivestito di marmi e quadri paesaggistici alle alte pareti tappezzate.
Sua madre e Pietro, invece, dovevano essere nelle loro stanze, mentre Federico non era ancora rientrato, ma nessuno sembrava essersi accorto della sua sospettosa lontananza.
La ragazza si legò la mantella di lana scura attorno al collo, calandosi il cappuccio sul capo, in modo da nascondere il volto smagrito e i capelli ricci.
Era d’accordo con l’unico stalliere rimasto –un uomo anziano dai capelli grigi e la barba folta- che avrebbe trovato un piccolo calesse parcheggiato vicino ad uno degli ingressi secondari.
Vito, così si chiamava il servitore, si era reso disponibile per accompagnarla, ma la giovane non aveva sentito ragioni di fargli rischiare inutilmente la propria vita, e si era semplicemente premurata di ringraziarlo a dovere per averle spiegato dove fosse ubicato l’ospedale, in prossimità del Teatro Nuovo, donandogli qualche moneta come tangibile ricompensa.
Costanza era ormai pronta, i piedi che stavano percorrendo i gradini che l'avrebbero condotta al seminterrato, e da lì alla porticina verso l’esterno, quando avvertì una presenza alle sue spalle che la indusse a girarsi e a dimenticare momentaneamente i propri buoni propositi.


QUALCHE NOTA STORICA ...


  La gigantografia che ricorda l'armistizio siglato la sera del 24 marzo1849                                                     ( a sinistra, seduto, Vittorio Emauele II e a destra                                                                                             il feldmaresciallo austriaco)


 L'incontro tra i due garanti: l'armistizio venne ratificato il 6 agosto dello                                                      stesso anno, con la cosiddetta pace di Milano,                                                                                                   che sancì definitivamente la fine delle ostilità.

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Capitolo 28
*** Il giorno di Pasqua ***


L’astuzia è l’arte di celare i nostri difetti, e di scoprire le debolezze degli altri.

 (William Hazlitt, 1778-1830, scrittore, critico, filosofo e pittore inglese)


"Buonasera ..."
Costanza si bloccò al suono di quella voce tanto sgradevole: la mantella di lana nera riusciva a coprirle non solo l'esile figura ma anche il lieve tremolio delle membra che avvertiva attraversarle il corpo.
Tuttavia, continuò a rimanere immobile, la bocca carnosa semiaperta per la sorpresa di ritrovarsi ad un passo dall'ambiguo soggetto che l'aveva appena salutata.
Abbassò per un istante lo sguardo, cercando di regolare il ritmo del respiro che tendeva ad accelerare, poi puntò gli occhi verde smeraldo contro il legno nodoso che rivestiva la porta davanti a lei, quella che avrebbe dovuto condurla fuori dal palazzo, in cerca di notizie di Nicolò, e finalmente fu pronta per voltarsi ad affrontare il ragazzo.
"Buonasera anche a voi, cugino. Noto con piacere che avete fatto ritorno a casa ..."
Federico, infatti, era apparso dalle tenebre che avvolgevano quel sabato di fine marzo ormai agli sgoccioli, i movimenti felpati ed attenti alla stregua di un gatto.
Indossava un'elegante redingote color avorio e degli stivali nella tonalità del prugna, mentre sul braccio sinistro fluttuava un lungo cappotto scuro.
Sfoderò uno dei suoi sorrisi seducenti, pentendosi per averle rivolto la parola, quindi si levò il cappello che aveva ancora calato sulla massa di capelli lisci e mori.
"Non vi sfugge proprio nulla! Ebbene sì, sono ritornato alla base: sapete, sono andato a sedermi su una delle panchine del parco, quelle vicino ai due querceti. Confesso che avevo bisogno di rilassarmi. E voi, invece? Avete provato un improvviso desiderio di visitare le nostre fornite e famose cantine?"
Il tono del secondogenito dei conti Caccia si stava tingendo di velata ironia, ma si intuiva perfettamente che lo scopo di quella domanda era capire perchè e dove la giovane volesse andare.
"Le vostre cantine, dite? Oh, che sbadata che sono!" tentò di giustificarsi in maniera convincente Costanza, abbozzando a sua volta un sorriso e scuotendo il capo cosparso di ricci scuri.
"Nonostante sia qui ormai da due giorni, ancora riesco a perdermi! Perdonatemi, cugino, penserete che sono la classica fanciulla imbranata che senza l'adeguata compagnia non è in grado di compiere neppure un passo! Comunque era mia intenzione seguire il vostro medesimo comportamento, ovvero approfittare della serata per passeggiare al chiaro di luna!"
L'altro la squadrò per una manciata di secondi, cercando di scoprire in quale misura stesse mentendo: ridusse gli occhi color ambra a due fessure, per poi sciogliere la tensione del viso glabro annuendo convinto.
Dopotutto, l'arte del raccontare bugie doveva essere una dote che accumunava entrambi i loro geni.
"Non preoccupatevi, cara cugina! La colpa è della solitudine di cui vi siete circondata da quando siete arrivata: stare praticamente tutto il giorno nella vostra camera non aiuterà di certo il morale della vostra famiglia a risollevarsi, anzi, rischiate di precipitare in una depressione ancora più grave di quella che vi sta affliggendo, date retta a me!"
La ragazza avrebbe voluto replicare in maniera altrettanto sarcastica e pungente, ma decise di non piegarsi alle maldicenze espresse da Federico, per cui cambiò strategia.
"Avete ragione, cercherò di ascoltare i consigli che mi avete affettuosamente elargito"
"Molto bene! Allora, con il vostro permesso, andrei a prepararmi per la cena! Però, se sarà di vostro gradimento, più tardi mi piacerebbe condurvi a visitare le cantine: sono sicuro che non ve ne pentirete ..."
Costanza annuì cortese, sebbene avesse voluto con tutto il cuore riversare la rabbia ed il disgusto che provava verso di lui sputandogli sul prezioso abito.
L'istante dopo in cui il conte Caccia s'inchinò per accomiatarsi e, voltandosi, prese a dirigersi verso l'immensa scalinata di marmo, l'interlocutrice lo fermò.
"Aspettate ancora un attimo, cugino, ho una curiosità da domandarvi: hanno per caso sospeso il coprifuoco?"
L'altro si voltò, un piede sul primo gradino rivestito dal lungo tappeto rosso, quindi la fissò con aria interrogativa, e decise di stare al gioco.
"Che io sappia non ancora ... per quale motivo vi interessa saperlo?"
"Semplice curiosità, come vi ho anticipato: sapete, dal momento che subito dopo pranzo siete scappato e nessuno di noi vi ha più veduto fino adesso, ho creduto che vi foste allontanato da palazzo, che foste addirittura uscito, pensate che sciocca! Adesso che vi guardo bene, sbaglio o vi siete persino cambiato d'abito?"
Al giovane non sfuggì il tono canzonatorio ed irriverente con il quale la ragazza gli si era rivolta, tuttavia dovette ammettere che era stata furba ad attirarlo in quel tranello di retorica, ma lui sarebbe stato ancora più scaltro a non demordere e a risultarne l'unico vincitore.
"Infatti avete ragione: ho dovuto abbandonare la mise di stamani perché mi sono accorto di essermi macchiato con il condimento del riso. Che sbadato, non trovate? E purtroppo no, non sono uscito: ho semplicemente trascorso un paio d'ore nel mio studiolo privato a leggere un buon libro, null'altro! Ora che spero di avervi soddisfatto, posso andare?"
Sfoderò l'ennesimo sorriso incantatorio, affrettandosi a salire i gradini che lo separavano dalla salvezza.
Ma il suo piano di fuga venne presto sventato dall'arrivo di zia Rosa, che era ricomparsa dalla porta opposta a quella che portava alle cantine, rilassata dopo la favorevole incursione nelle cucine.
Indossava un lungo abito color terracotta che proteggeva la sua figura minuta ed aveva acconciato i capelli biondi e quasi trasparenti in uno strettissimo chignon.
Sul suo volto diafano risaltavano gli occhi nocciola, che si accesero di domande quando incrociarono Costanza, vestita come se dovesse uscire.
"E' forse successo qualcosa?" le domandò la contessa sessantenne, preoccupata.
"No, non è successo nulla, non temete. Avevo solo bisogno di fare una passeggiata per schiarmi le idee, però appena ho visto Federico mi sono fermata a parlare con lui ..."
"Oh, grazie al Cielo è tornato!"
Donna Rosa lasciò perdere la nipote e si affrettò a raggiungere il secondogenito, accarezzandogli di sfuggita un braccio.
Il ragazzo lanciò un'occhiata fugace in direzione della cugina, capendo di essere stato colto in flagrante.
"Ma no, mamma, vi state sbagliando! Non sono andato proprio da nessuna parte! Ve l'ho detto no, che sarei andato a riposarmi e a leggere nello studiolo! Rammentate?"
"Sì, certo che ricordo, ma quando un'ora fa sono passata lì davanti, l'uscio era semiaperto e la brace del camino ormai spenta ... dimmi la verità, figliolo, hai infranto il coprifuoco?"
Il bel volto della donna si accese di preoccupazione, subito confortata dalle parole allegre del giovane.
"E va bene, avete vinto voi! Sono andato al distaccamento del Comando austriaco per ottenere il permesso per far venire qui la marchesa Letizia, in modo che possa trascorrere la Pasqua assieme a noi! Avrei voluto che fosse una sorpresa, ma avete saputo smascherarmi quasi subito!"
Costanza stava seguendo quel dialogo tra madre e figlio in disparte, a una ventina di metri più indietro rispetto a loro, e non capiva davvero se faceva bene a credere alle giustificazioni del cugino, il quale continuava ad apparire incredibilmente sincero e a suo agio.
Tastò l'interno della redingote avorio, da cui estrasse una busta con impresso sulla ceralacca lo stemma regale asburgico, quindi la porse alla contessa.
"Dal momento che vostra zia Letizia è ormai rimasta sola e non abbiamo notizie di lei da diverse settimane, ho ricevuto il permesso da parte del tenente Kalberg di recarmi domattina a palazzo Balbi, per portarla a trascorrere qualche giorno in nostra compagnia"
La donna si girò tra le mani la preziosa lettera, quindi aprì l'involucro di carta e ne lesse il contenuto, sorridendo contenta.
La marchesa Letizia, infatti, era l'unica parente in vita di zia Rosa, essendo la sorella del padre, ed era rimasta vedova da circa sei mesi.
Aveva quasi ottant'anni e numerosi problemi alle articolazioni che le impedivano di muoversi agevolmente ed in autonomia: inoltre, dalla festa di compleanno del conte Aldo, all'inizio del mese, le due nobildonne non si erano più riviste, e la dichiarazione di guerra degli ultimi giorni aveva complicato ulteriormente i rapporti familiari.
"Sei stato davvero molto generoso a pensare alla tua prozia, figliolo! Sono orgogliosa di te, caro, davvero orgogliosa!"
La contessa Caccia abbracciò teneramente il secondogenito, supplicandolo di non compiere altri gesti avventati e potenzialmente pericolosi per la sua incolumità, quindi rivolse un sorriso anche alla nipote, spiegandole l'identità della misteriosa donna di cui stavano parlando.
Dopodiché, salirono insieme la scalinata di marmo, lasciandola da sola e piena di dubbi.
"Se Federico, come credo, è in combutta con gli Austriaci ed è persino riuscito a farsi concedere da loro un lasciapassare, allora può darsi che possa essermi d'aiuto per rintracciare Nicolò, che sappia addirittura a quali persone debba rivolgermi ..."
La giovane s'illuminò di nuove speranze e linfa vitale ma, riflettendo con maggiore razionalità, si rese conto che non avrebbe potuto scendere a compromessi con lui e i suoi amici, perché ciò sarebbe andato contro i suoi stessi princìpi etici: supplicare coloro che avevano rappresentato la rovina per il Regno di Sardegna, per Novara e per la sua stessa famiglia, le appariva come il più meschino dei tradimenti.
Perciò, abbandonò i suoi propositi di fuga, almeno per quella sera, e decise di rimandare ogni piano al giorno successivo, sperando che la sacralità della Pasqua le avrebbe portato consiglio.
Uscì dal portone massiccio ed intarsiato che conduceva al vialetto d'ingresso, pronta ad avvisare Vito che il calesse che le aveva preparato non le sarebbe servito: ringraziò ancora una volta l'anziano stalliere, quindi si arrese a fare dietrofront, ritornando in casa, avvolta dal suo tepore e dal clima di mistero che si respirava tra le pareti.


La mattina successiva, Costanza si alzò di buon'ora: le campane della chiesetta di san Giuseppe scandirono sei rintocchi, mentre il cielo si pennellava delle prime strisce di luce rossastra.
Il freddo penetrante che si avvertiva all'esterno era sinonimo di una giornata priva della neve che era caduta appena ventiquattro ore prima, tuttavia permaneva quella leggera foschia che ammantava prepotentemente i prati erbosi e le fronde più basse dell'ampia varietà di alberi del giardino, tanto da nascondere i boccioli delle primizie che stavano faticosamente spuntando nella terra umida di inizio primavera.
La ragazza, dopo aver consumato una frugale colazione in compagnia della contessa, trascorse il resto della mattinata insieme alla madre e al padre.
Donna Luisa, infatti, aveva ancora la febbre, ma le si era quasi del tutto abbassata, permettendole, qualora avesse voluto, di scendere dabbasso per condividere il pranzo con il resto della famiglia.
Il suo carattere volitivo e deciso aveva lasciato spazio ad un’apatia da cui non dava segno di volersi riscuotere.
Passava dal letto all'elegante poltrona di stoffa di Liegi, vestendosi con un lungo abito nero da lutto, che aveva l'unico funesto vantaggio di metterle in risalto il volto impallidito e gli occhi azzurri ormai spenti, gonfi per il pianto e ancora febbricitanti.
Don Armando, invece, si era ripreso dal collasso nervoso senza alcuna apparente conseguenza, nonostante continuasse a non voler nominare il nome del figlio, e a pretendere che nessuno lo nominasse in sua presenza.
"Sei tu la mia unica erede, Costanza, e gli unici nipoti legittimi che riconoscerò saranno quelli che mi darai, sia ben chiaro. Anzi, appena tutto questo finirà, cominceremo a cercare un buon pretendente per la tua mano" ripeteva come un mantra il notaio, ogni volta che qualcheduno si addentrava nel discorso.
Intorno alle dieci, Federico fece il suo ritorno trionfale in compagnia della marchesa Letizia Balbi, originaria di Milano, che venne accolta con ogni onore da parte della famiglia dell'unica parente diretta rimasta.
La donnina, pur avendo quasi ottant'anni, appariva piuttosto in buona salute, sebbene si muovesse con un bastone dal pomo in argento e dorato, testimonianza dei suoi problemi alle articolazioni, e strizzasse gli occhi celesti per riuscire a mettere a fuoco le figure delle persone con cui parlava.
Assomigliava incredibilmente alla contessa Caccia: come lei, infatti, vantava una pelle chiarissima, quasi diafana, e aveva una massa folta e chiara di capelli arricciati sulla nuca.
Zia Rosa si occupò delle presentazioni, per poi accompagnare l'anziana consanguinea in uno dei boudoir al piano inferiore, dove fu servito del té caldo aromatizzato alla cannella e dei biscotti al profumo di limone.
"Ho visitato diverse volte le vostre montagne, quando ero giovane" si rivolse gentilmente la marchesa alla figlia del notaio, rivelando una voce decisa e dal tono altisonante, decisamente in contrasto con il verde edera delicato dell'ampio abito ricamato con pizzi.
"E vi sono piaciute?" azzardò timidamente lei, felice di poter parlare dei posti che tanto amava.
"Certamente, cara, tanto da portarli ancora nel cuore"
Donna Luisa si intromise nella conversazione in maniera quasi sgarbata, reclamando di voler ritornare nella sua camera, sorda alle insistenze premurose della zia Rosa.
Costanza, improvvisamente triste e spaesata, insisté per accompagnare la madre a riposare, in modo che potesse ritrovare un minimo di forze in vista del banchetto pasquale che si sarebbe svolto di lì a poche ore.
"Non sembra neppure un giorno di festa ..." ammise la stessa donna Luisa, dopo essersi nuovamente accomodata nella camera da letto, sistemandosi sulla poltrona.
Lisciò pieghe invisibili dall'abito listato a lutto, quindi attese che la figlia replicasse, in modo da donarle un minimo di sollievo.
"Ne siamo tutti consapevoli, ma non dobbiamo permettere che l'angoscia offuschi le nostre menti. Sono sicura che presto, prima di quanto possiamo immaginare, ritorneremo nella nostra casa, tutti insieme ..."
L'altra fece una smorfia di disappunto, replicando con voce roca e cavernosa.
"Tutti insieme, dici? Tuo fratello non farà mai ritorno a casa: se è vivo, come prego ogni ora, il suo orgoglio gli impedirà di riappacificarsi con tuo padre, e lo stesso varrà anche dalla sua parte ... "
Costanza decise di non insistere ulteriormente, così si rassegnò a portarle un minimo di conforto con la lettura di alcune poesie francesi.
Finalmente, giunse l'ora di scendere insieme al resto dei commensali.
Nessuno, in realtà, come aveva sottolineato egoisticamente la moglie del notaio, smaniava dalla voglia di festeggiare: il pranzo, assai misero per la mancanza di generi alimentari freschi ma estremamente curato nelle porzioni e nell'impiattamento dalla puntigliosità della contessa, si svolse in maniera sobria e silenziosa.
Lo zio Aldo, allo stesso modo, si stava rivelando un ottimo padrone di casa, preoccupato che agli ospiti non mancasse nulla, e sembrava l'unico, insieme alla zia Rosa, a cercare di risollevare il morale dei convitati.
Di solito di poche parole, infatti, quel giorno aveva dato prova di essere un piacevole interlocutore, discutendo di qualsiasi argomento che non riguardasse l'aspetto politico che la città stava patendo in quelle ultime ore.
"Dopo pranzo, se vi fa piacere, Rosa potrebbe suonarvi qualcosa ..."
La moglie annuì, complice del consorte, che non tardò a continuare.
"Se non ricordo male, ha appena imparato uno dei Notturni di Chopin. Sapete di chi si tratta, vero? E' quel giovane pianista polacco tanto acclamato, famoso anche per aver intessuto una relazione amorosa con una francese, che non solo si veste da uomo, ma ha persino modificato il propio nome in uno maschile, in modo da poter essere libera di esprimersi nella sua arte, la scrittura. Non trovate che abbia avuto un grande coraggio? Al contempo, credo sia quasi vergognoso che nel 1849 esista ancora tutta questa diffidenza verso il ruolo delle donne nella società"
I convitati si bloccarono per un impercettibile secondo: udire una presa di posizione così evidente da parte di un uomo di sessantotto anni, di levatura nobiliare, era qualcosa di estremamente innovativo.
Ma la spontaneità del conte e la limpidezza dei suoi occhi cerulei smisero di stupire ben presto, mentre vaghi mormorii si levarono dalla tavolata.
"Si chiama George Sand e dicono sia molto brava: pensate che è impegnata anche sul fronte politico ..." 
Pietro non voleva far cadere il discorso in maniera tanto precoce, quindi tentò di risollevare la curiosità dei presenti, inutilmente: nessuno di essi aveva la mente abbastanza libera da potersi permettere una tale divagazione, sebbene importante e giusta che fosse.
Costanza, dal canto suo, riconosceva di essere pienamente d'accordo con lo zio ed il cugino, anche se tutti i pensieri erano concentrati verso un nuovo piano di fuga che le permettesse di avere notizie del fratello, proposito che appariva ancora lontano dal realizzarsi.
Aveva dovuto sedersi vicino al giovane conte, sebbene non riuscisse a perdonargli il fatto di non averla accompagnata all'ospedale, il giorno prima, ma qualsiasi posto sarebbe stato meglio piuttosto che pranzare di fianco a Federico, che lei - non troppo inconsciamente- continuava a reputare un vile traditore, intento a tramare e a sperare nella sconfitta dell’Armata Sarda, come purtroppo era accaduto.
Ad un certo punto, nel bel mezzo della zuppa di pasta e lenticchie, il batacchio della campanella esterna prese a suonare, rompendo il silenzio che si era ancora una volta creato.
I volti degli otto commensali si diressero automaticamente in direzione dell'ingresso, spaventati e curiosi di scoprire di chi si trattasse.
Lo zio Aldo si asciugò la bocca nel tovagliolo color crema, quindi rassicurò con uno dei suoi dolci sorrisi la famiglia, e si alzò da tavola, non aspettando che il maggiordomo lo mettesse al corrente dell'identità del nuovo venuto.


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Capitolo 29
*** La spiga di grano ***



Tutte le infelicità umane provengono dal non affrontare con coraggio
la realtà per quello che è

(Siddhartha Gautama Buddha, monaco e filosofo, 566-486 a.C.)



La fine del coprifuoco aveva permesso a Costanza di uscire dal palazzo senza adottare inutili e pericolosi sotterfugi.

La parte del Comando austriaco stanziato in città aveva mandato un manipolo di soldati di casa in casa, in modo che avvisassero gli abitanti di Novara della beneaugurante concessione.
Era trascorso meno di un giorno dal pranzo di Pasqua interrotto dall’incoraggiante notizia, così quella mattina lei e Pietro si stavano recando al presidio ospedaliero per avere finalmente notizie del fratello disperso.
La ragazza, infatti, non aveva neppure la forza mentale di pensare che Nicolò potesse essere morto o reso prigioniero, perché in cuor suo sapeva che sarebbe riuscita a rintracciarlo e a convincerlo a fare ritorno a casa.
Mentre rifletteva su quelle convinzioni, non poteva non accorgersi del paesaggio martoriato che sfilava dal finestrino della Landau nera, a dir poco desolante: Novara appariva completamente stravolta, artefatta, quasi deformata, rispetto ad appena una settimana prima.
I lati delle strade rivestite da sampietrini erano diventati un ammasso contorto di falò ormai spenti, le insegne delle botteghe apparivano divelte, così come le vetrine avevano subìto ingenti danni da parte dei soldati allo sbando.
Per le vie del centro in gran parte deserte -eccetto per le truppe di ricognizione nemiche e qualche raro avventuriero- regnava un silenzio surreale, accentuato dal rumore ritmico e cupo degli zoccoli ferrati dei cavalli.
In prossimità delle porte di accesso alla città, si notavano fin troppo bene i cumuli di macerie che una volta rappresentavano parte delle mura, esito dei cannoneggiamenti degli Austriaci la notte tra venerdì 23 e la mattina del 24 marzo.
Quel paesaggio di desolazione e di morte repressa portò alla deriva i ricordi della giovane Granieri, che ritornò indietro con la memoria.
Quando erano piccoli, infatti, lei e Nicolò trascorrevano gran parte della bella stagione nel palazzo di donna Mellerio.
Suonavano il pianoforte (Costanza veniva indirizzata anche alle lezioni canore, come si addiceva ad una signorina del suo rango), passeggiavano in mezzo alle pinete che sovrastavano Santa Maria Maggiore, ricevevano gli ospiti della nonna nel salotto con la finestra che si affacciava sul grande parco della villa, bevendo tè alla cannella o mangiando budini e torte preparate dalla cuoca della marchesa, e spesso trascorrevano le serate nel teatro del paese, divertendosi a commentare gli abiti bizzarri dei notabili della piccola comunità montana.
Verso inizio agosto, arrivavano in visita dalla Francia anche la zia Eleonora e lo zio Alfredo, insieme ai loro tre figli, Matteo, Amedeo e Margherita.
Una volta –Costanza avrà avuto sette anni e Nicolò quindici- i due cugini maschi, uno della stessa età del primogenito dei Granieri e l’altro di un paio di anni più piccolo, portarono a Villa Mellerio una collezione di spade in argento che i genitori avevano comprato loro durante un viaggio a Toledo.
Naturalmente, i tre vollero subito provare i nuovi giocattoli, impedendo alle bambine di unirsi alla combriccola.
Ma Costanza, che rispetto a Margherita aveva un anno di meno però era più risoluta, non aveva alcuna intenzione di demordere, smaniosa di seguire il fratello anche in quell’avventura: così, dopo che le suppliche non sortirono l’effetto desiderato, la piccola approfittò di un momento di distrazione dei tre moschettieri per rubare una delle preziose spade e nasconderla dietro uno dei roveti del grande giardino.
Inutile raccontare le ire del fratello e dei cugini che, dopo aver recuperato il maltolto, decisero di tenere buona la bambina raccontandole una delle storie che la vecchia balia di Matteo era solita narrare per spaventarli quando si comportavano in maniera riprorevole.  

C’era una volta una giovane madre, la quale aveva perso da poco il suo unico figlio a causa di una terribile carestia che le aveva impedito di nutrirlo a dovere.
Disperata, la donna passava le notti a piangere e a sospirare dal dolore, pregando Dio che le restituisse il proprio piccolo.
Una di queste sere, mentre era nel letto supplicante, udì una voce, profonda e tonante, che le intimava risoluta di smetterla.
Era la voce di Dio, che le ordinò di recarsi per le case del paese, bussando a ciascuna porta che incontrava nel tragitto, e di chiedere a coloro a cui la Morte non aveva mai fatto visita di donarle una spiga di grano.
In cambio delle spighe di grano, infatti, il Signore le avrebbe restituito il figlio.
La giovane madre, obbediente e speranzosa, si recò di casa in casa, ma ben presto rimase delusa dalla nullità del bottino, in quanto si accorse che nessuno dei suoi compaesani aveva mai avuto la fortuna di non conoscere cosa fosse la Morte, quindi ritornò a mani vuote nella sua umile abitazione, piangendo lacrime calde e amare.
Quella notte, la voce di Dio le apparve nuovamente, questa volta consolandola con tono amorevole, e facendola profondare in un sonno profondo, nel quale poté finalmente riabbracciare il suo bambino.


In quei lunghi momenti che ormai stavano durando giorni, Costanza aveva pregato che non toccasse a lei l'ingrato ruolo di interpretare la sfortunata donna, e che Nicolò potesse essere ancora vivo.

“Siete pronta?” la riscosse dall’effluvio di pensieri Pietro, una redingote blu scuro, già prontamente sceso dalla carrozza.
La ragazza, un abito di lana leggera color bronzo, gli porse la mano destra per aiutarla a smontare dalla vettura, annuendo con la massima convinzione di cui fosse capace.
La mastodontica facciata in granito e pietra arenaria dell’Ospedale aumentò la tensione che Costanza avvertiva dal pomeriggio scorso, da quando i soldati erano venuti a bussare al palazzo degli zii, per avvertirli che il coprifuoco era finalmente concluso.      
 

***

Una volta attraversato l’ampio cortile, i due giovani si ritrovarono nell’atrio dell’edificio, i soffitti estremamente alti e le pareti dipinte di un bianco immacolato.
Li accolse una gran confusione uditiva, provocata da un mormorio incessante che proveniva da ogni lato del fabbricato: voci indistinte che si lamentavano e invocavano grida verso chissà chi, infatti, scossero le orecchie dei nuovi visitatori, che si guardarono attorno in cerca di qualcuno a cui chiedere informazioni.
Dalle porte con i pannelli in vetro smerigliato, si riusciva ad intravedere un viavai continuo di figure indaffarate, che apparivano e scomparivano come in uno spettacolo di magia.
Costanza si avvicinò automaticamente verso quelle ombre indistinte, la mano pronta sulla maniglia, speranzosa di poter trovare una persona pronta a consigliarla.
“State cercando qualcuno?”
Una voce di mezza età appartenente ad una donna fece voltare lei e Pietro, che annuirono contemporaneamente.
“Buongiorno sorella" la salutò la giovane, ritornando sui propri passi.
"Sto cercando mio fratello. Si chiama Nicolò Granieri: ha venticinque anni, è alto, con i capelli ricci e scuri e gli occhi color ambra. Per caso, lo avete visto?”

La suora, l’abito dell’Ordine immacolato, raggiunse i due ragazzi: aveva il volto rugoso e gli occhi molto chiari e velati, a testimoniare la quasi cecità delle pupille.
Sorrise comprensiva, mentre la bocca sottile rivelava una dentatura completa e diritta, che mal si addiceva alla sua veneranda età.
“Cara ragazza, qui è pieno di giovani che assomigliano a vostro fratello. Chi vi ha detto che si trova qui?”
La donna di Chiesa accarezzò dolcemente un braccio di Costanza, che deglutì per non mettersi a piangere dalla disperazione: solo in quel momento, infatti, si stava rendendo conto di quanto la sua storia rappresentasse appena una minuscola goccia tra le decine di migliaia che stavano accumunando altrettante famiglie, angosciate ed afflitte alla stessa maniera.
“Nessuno, purtroppo, sono venuta di mia spontanea iniziativa. Ma so che si era arruolato qualche giorno prima della battaglia, per cui ho pensato che potesse essere stato ferito, che qualcuno lo avesse portato in ospedale per essere curato …”
La suora fissò con lo sguardo vacuo Pietro, rimasto in silenzio ma sempre vicino alla cugina.
Il cappello tra le mani, avvertendo la tensione di Costanza, s’intromise nel discorso.
“Sorella, io sono il cugino del ragazzo. Per favore, a casa siamo tutti molto in pena per lui, e non sappiamo in quale altro modo rintracciarlo. Se riuscisse a darci qualche notizie, ad indirizzarci da chi potrebbe esserci d’aiuto, ve ne saremmo davvero grati”
“Figliolo” tentò di farlo ragionare la suora, regalando un altro sorriso “ogni genitore, ogni sorella, ogni moglie è in pena per i nostri soldati, proprio come lo siete voi. Ma dovete comprendere che questo è un ospedale: la prima cosa che facciamo, quando ci vengono portati i feriti, è curarli, cercare di alleviare le loro sofferenze, fisiche e spirituali che siano. Solamente dopo, una volta che non correranno più pericolo, allora ci preoccuperemo di chiedere loro i nominativi e gli indirizzi per scrivere e rassicurare le famiglie …”
La voce pacata e cantilenante della vecchietta non riuscì tuttavia a placare le ansie di Costanza, che subito si lanciò in una richiesta che rasentava la disperazione.
“Per favore, ci permetta di entrare per vedere se mio fratello è qui! Mi basterebbe un minuto, non di più!”
“Impieghereste molto più di un minuto, figliola, credetemi. E poi, è vietato, non posso fare entrare nessuno, a meno che non sia un parente accertato o un volontario venuto ad aiutarci …”
“Allora contate su di me!” la interruppe l’altra “posso darvi una mano fin da ora! Sono disposta a non tornare a casa, a mettervi a disposizione qualsiasi cosa chiediate! Ma vi supplico, permettetemi di entrare!”
La ragazza riuscì a trattenere a stento le lacrime e, mettendosi in ginocchio, cercò ancora una volta di convincere la pia donna.
“Non è me che dovete pregare” ribatté la suora con voce dolce, aiutando Costanza a rialzarsi.
“Vi assicuro, figliola, che se dipendesse da me vi farei entrare immediatamente, ma la situazione è davvero disperata. C’è molto da fare, e non possiamo permetterci di perdere tempo. Però, se questo vi permetterà di stare più tranquilla, lasciatemi l’indirizzo di dove posso rintracciarvi, nel caso in cui vostro fratello sia stato portato qui. Aspettatemi un attimo, vado a prendere un foglio su cui scrivere …”
La donnina non permise di ribattere alcunché, perché subito si dileguò dietro i vetri smerigliati, ritornando dopo pochi secondi con un pezzo di carta e una matita tra le mani rugose.
La ragazza incrociò lo sguardo di Pietro, che impercettibilmente le disse di continuare, che stava compiendo la scelta giusta: prese quindi a complilare i dati di Nicolò e quelli relativi la strada in cui era ubicato il palazzo degli zii, infine strinse con riconoscenza le dita sottili e fragili della suora.
“Spero con tutto il cuore di farvi avere presto notizie. Ora devo andare, scusatemi. Che il Signore sia con voi, figlioli …”
Li benedisse e ritornò sui suoi passi, mentre le grida di lamento e di dolore riaffioravano sempre più pressanti e disperate oltre i vetri smerigliati delle porte.

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Capitolo 30
*** Nuove speranze ***


Dal disordine e dalla confusione cercate di tirare fuori la semplicità.
 
(Albert Einstein,
premio Nobel nel 1921, fisico e filosofo tedesco, 1879-1955)



I piedi nudi che cozzavano contro il marmo freddo ed inospitale della scalinata sospingevano Costanza a rintanarsi nel budoir, la notte ancora vagamente gelida oltre le vetrate sigillate del palazzo.
L’incontro con la donna di Chiesa, appena qualche ora prima, l’aveva profondamente turbata ed immersa in un vortice di incertezze e di impotente frustrazione, che la sua camera ed il letto non erano riusciti a lenire: mentre si dirigeva verso la piccola stanza del piano terra, infatti, la ragazza si ritrovò a riflettere sulle ultime settimane, da quando, il 12 marzo, era stata proclamata la fine dell’Armistizio con gli Austriaci.
Quel giorno, se lo ricordava alla perfezione, la sua unica angoscia era dettata dal fatto di accontentare le inutili pretese della madre nel scegliere un abito adatto al suo debutto in società, evento che avrebbe dovuto tenersi qualche settimana dopo, intorno alla metà di aprile, e che con ogni probabilità non avrebbe più avuto luogo.
Si rintanò su una delle poltrone di velluto chiaro, la camicia da notte di flanella leggera a coprirle le ginocchia.
Chissà, se tutto questo non fosse successo, forse a quest’ora sarei stata corteggiata da qualche giovane dell’alta borghesia, o magari mia madre avrebbe fatto di tutto per spingere lo stesso maestro Rossini a prendermi in moglie.
Quel pensiero tanto assurdo quanto buffo le regalò un sorriso: in effetti, le avrebbe fatto piacere conoscere l’adorata figlia del musicista, Charlotte, ma non di certo diventarne la matrigna.
E poi, le rivelazioni a cui l’uomo l’aveva messa al corrente, neppure una settimana prima, avevano avuto il potere di delinearlo sotto una luce diversa, a tratti persino minacciosa.
Non riesco proprio a perdonargli di avermi mentito per così tanto tempo! Insomma, io mi fidavo di lui e mi aspettavo altrettanta confidenza e sincerità!
Ma dopotutto, Costanza non poteva biasimarlo più di tanto: in fondo, gli stessi Nicolò, Pietro, Federico e anche quel furbo di Maffucci non avevano fatto altro che manipolarla e mentirle, cercando di attirarla dalla loro parte, però ciò che provava per quel buffo insegnante di musica –ammirazione e istintiva simpatia, nonostante l’iniziale diffidenza dovute alle mire materne- le aveva fatto crollare il muro di fiducia che si era ingenuamente costruita.
Così, vagando con la mente tra i meandri dei ricordi, si ritrovò ad addormentarsi sulla poltrona, i ricci scuri abbandonati come un ventaglio sullo schienale.
La svegliarono i cinque rintocchi del campanile poco distante, una mano sul collo dolorante per la scomoda posizione assunta in quel paio di ore, e ritornò silenziosa nella sua stanza, preda della stanchezza e dimentica delle preoccupazioni.  
 

Erano trascorsi due giorni, ormai, da quando Pietro e Costanza si erano recati all’ospedale per avere notizie di Nicolò.
La suora con cui avevano parlato non si era ancora premurata di far avere loro informazioni, e la situazione, a palazzo, non accennava a migliorare.
Donna Luisa era ormai fisicamente guarita, ma continuava a rimanere apatica e a non mostrare alcun interesse verso le persone e le cose che la circondavano.
Tutti gli abitanti della villa attribuivano quel malessere interiore alla mancanza del primogenito, di cui non si sapeva nulla da quasi una settimana, eppure non potevano non tediarsi per la sua salute psichica.
Sebbene il notaio Granieri continuasse a non voler pronunciare il nome del figlio, così come aveva vietato che lo si menzionasse in sua presenza, anche l’uomo era naturalmente e segretamente preoccupato per le sorti del giovane.
Costanza, dal canto suo, avrebbe voluto ritornare all’ospedale, per spronare la suora con cui aveva parlato o chiunque altro avesse incontrato, a permetterle di entrare nella sorta di limbo dei moribondi per cercare il fratello, non volendo ammettere che, seppure fosse devastante da immaginare, il ragazzo avrebbe potuto essere stato ucciso o reso prigioniero dagli Austriaci.
Gli incerti pensieri sul futuro si alternavano alla viscerale voglia di ritornare a casa, dalla nonna, per rifugiarsi lontano da quella città infernale e dal dolore che non la abbandonava un istante.
Pietro, il giorno prima, aveva spedito le due lettere che la ragazza aveva scritto la vigilia di Pasqua, e adesso la giovane sperava ardentemente che le parole della nonna avrebbero potuto darle conforto.
Don Armando, invece, aveva accennato ad un discorso opposto a quello intimamente formulato dalla figlia, esprimendolo quello stesso giorno durante la colazione: adesso che la moglie si era ripresa, infatti, non desiderava arrecare ulteriore disturbo agli zii di donna Luisa, manifestando la volontà di far ritorno a palazzo quanto prima.
Costanza si sentì sprofondare, il cuore in tumulto: era convinta di non riuscire a reggere la convivenza in solitudine con i suoi genitori, l’uno completamente e apparentemente insensibile alle vicende del primogenito, l’altra sul baratro della follia.
Guardò il posto vuoto di Pietro, che aveva consumato una frugale colazione per poi dirigersi nello studio al primo piano, e provò una sensazione di vuoto e di perdita: se la decisione del padre fosse stata accolta, ciò avrebbe significato non poter usufruire quotidianamente della sua presenza e, doveva ammetterlo, anche dei buoni consigli che non si erano mai rivelati sbagliati.
Tuttavia, fu felice che a gongolare della sua visibile disperazione non ci fosse neppure Federico, misteriosamente avvolto in biblioteca da certe strane faccende che non aveva spiegato al resto della tavolata.
“Ma padre …” tentò di infilarsi nella conversazione la ragazza, quando venne interrotta dalla voce della contessa, un abito azzurro chiaro che le esaltava ancora di più l’incarnato diafano.
“Forse non vi trovate bene qui da noi?” s’intromise zia Rosa con una punta di risentimento, mentre sorseggiava il tè.
“Niente affatto, cara contessa, ma  …”
“Allora non accetto alcuna obiezione! Voi siete nostri graditissimi ospiti, per cui continuerete a rimanere a palazzo fino a quando la situazione non darà segni di miglioramento!” tagliò corto la donna, gli occhi azzurri e la folta chioma castana.
Lo zio Aldo, la solita capigliatura rossastra e lo sguardo gentile, confermò le parole della moglie, sebbene con meno veemenza:
“Rosa ha ragione, Armando. Non sapete neppure se vi sono stati dei danni, nella zona in cui vivete. Essendo così vicina al Torrion Quartara, non è un’eventualità da escludere, lo sapete bene anche voi …” lo rassicurò, sorridendogli comprensivo.
“Avete ragione, ma prima o poi dovrò decidermi ad andare a vedere se il palazzo è ancora in piedi!” continuò il notaio, lanciando un’occhiata alla moglie, immobile sulla sedia di fronte a lui.
Era sul punto di spronarla a formulare una propria ipotesi sul discorso che stavano portando avanti, quando si rassegnò alla triste evidenza che la donna continuava a vivere su di un altro pianeta, lontana dalle mere preoccupazioni economiche e materiali del consorte.
“Quando verrà il momento, contate pure sulla mia presenza” gli promise il conte Caccia, distraendolo dall'intima delusione.
“La verità è che non posso permettermi di trascurare ulteriormente i miei impegni lavorativi, don Aldo” proseguì imperterrito l’uomo, pulendosi nervosamente l’angolo della bocca con il tovagliolo crema ricamato.
“Come ben sapete, il mio studio si trova in corso di Porta Genova, nel pieno del centro storico, e temo di poter trovare qualche brutta sorpresa, quando mi deciderò a rimettervi piede: lì dentro custodisco tutte le pratiche, i documenti ufficiali, gli atti giudiziari che, in questi tre mesi, hanno composto la mia carriera in questa nuova città, permettendomi di ricoprire un ruolo di rilievo tra le principali professioni novaresi. Perdere anche solo una minima parte di ciò, significherebbe senza ombra di dubbio la rovina a breve termine!”
“Ma non penserete che gli Austriaci abbiano avuto il coraggio di depredare gli uffici e le proprietà private?” indagò con una punta di innocenza il conte Caccia, le guance imporporate che divennero quasi del medesimo colore della redingote corallo.
“No, certo che no, perlomeno è quello che mi auguro, però il mio discorso era riferito ai disordini perpetrati ad opera dei nostri soldati allo sbando: lo sappiamo tutti, purtroppo, delle maldicenze che corrono di casa in casa in questi ultimi giorni. Persino la vostra servitù, donna Rosa, ha udito storie al limite della credibilità su ciò che è accaduto per le strade della nostra città, già la notte prima degli scontri, e si sa che vox populi vox Dei!”
“Io non mi preoccuperei più di tanto” s’intromise la parte in causa, recuperando una certa dose di autocontrollo.
“Se andare a controllare le vostre proprietà vi farà stare più tranquillo, non sarò certo io ad impedirvelo, caro Armando, ma non ho vergogna ad ammettere che sarei molto più tranquilla se, una volta appurato il buono stato del palazzo e del vostro ufficio, deciderete di rimanere nostri ospiti fino a quando le acque non si calmeranno definitivamente”
“D’accordo ma …” tentò di ribattere il notaio.
“Molto bene, adesso che abbiamo trovato una soluzione, possiamo terminare la colazione …” sancì zia Rosa, ponendo al centro della tavola il piatto di porcellana francese con i biscotti ripieni di limone e cannella.
“Scusatemi, non mi sento molto bene” annunciò improvvisamente donna Luisa, che si alzò da tavola e uscì dalla sala da pranzo, seguita dagli sguardi dei commensali.
Tutti quei discorsi campati in aria, infatti, l’avevano ancora di più subissata tra le tenebre della cupa quanto profonda malinconia, rendendola sorda e disinteressata alle terrene preoccupazioni del marito.


Costanza era seduta in giardino, su un'isolata panchina di ferro e di legno, riparata da un'imponente quercia.
Il sole era tiepido, ma l’aria si stava riscoprendo piacevolmente frizzante: quel pomeriggio aveva deciso che sarebbe ritornata a cercare la suora, con o senza l’aiuto di Pietro.
Era convinta, infatti, che se fosse riuscita a mettersi in contatto con il fratello e a persuaderlo a fare ritorno in famiglia –condizioni fisiche permettendo- il padre avrebbe rivalutato la propria decisione di ritornare nell’immediato a palazzo, in modo da concedere a Nicolò tutte le amorevoli cure che zia Rosa avrebbe di certo confezionato per la sua completa guarigione.
“Posso sedermi vicino a voi?” la voce squillante di Federico, un completo di lana grigio perla, la indusse a girarsi nella sua direzione.
Cercando di tenere a bada il disgusto che provava, distolse lo sguardo, concentrandolo sul lungo abito cobalto, quindi accennò ad alzarsi.
“E’ tutta vostra, stavo giusto rientrando in casa …” spiegò amara la ragazza, invitando il cugino a prendere posto.
“Vi ho per caso fatto qualcosa?”
Federico la bloccò per un braccio, la figura atletica di fianco alla sua: fissò gli occhi color ambra in quelli verdi di lei, in attesa di una risposta.
“Nulla, perché avreste dovuto?” continuò sprezzante, riuscendo a divincolarsi.
“Ah, ora capisco a cosa state alludendo! Siete rimasta offesa perché sabato non vi ho portato a fare il giro turistico per le cantine del palazzo, come invece vi avevo promesso! Ma non temete, possiamo rimediare anche subito!”
Il conte la stava già invitando, senza troppi complimenti, verso l’ingresso della dimora, quando lei gli disse che non le interessava affatto, anzi, aveva solamente desiderio di rientrare in casa.
“Peccato, sono sicuro che vi sarebbero piaciute” proseguì l’altro, ignorando il resto della frase e continuando nel suo monologo.
“Allora direi che, data la nostra giovane età e il grado di parentela che ci unisce, sarebbe il momento di darci del tu. Non credi, cugina?”
Costanza guardò il sorriso bianco e regolare far capolino dalla bocca del ragazzo, i capelli castani che rilucevano alla scarsa luce solare.
“Preferirei di no. Sapete, con i traditori non voglio avere nulla a che fare”
“Di cosa state parlando?” la rincorse Federico, mentre l’altra si allontanava.
“E’ colpa di quelli come voi se mio fratello ha deciso di arruolarsi! Gente senza scrupoli, opportunisti, disertori senza un briciolo di umanità, disposti a vendere il proprio Paese al migliore offerente, per il solo gusto di vederlo sconfitto per chissà quale assurda ragione! Siete solo degli ignavi, ecco quello che siete!”
Il giovane la costrinse a girarsi e a guardarlo negli occhi, mentre tentava di non far trapelare la crescente rabbia che avvertiva pungergli le mani.
Quindi, sibilando minacciosamente, le storse un polso:
“Voi siete una sciocca, invece, un’ingenua tra le più stupide! Cos’è, mio fratello e i suoi amichetti vi hanno inculcato i loro inutili ideali?”
Costanza lo colpì in pieno volto, non riuscendo a trattenere la collera per quelle insulse parole.
“Complimenti …” scherzò Federico, massaggiandosi la guancia "ma tanto è inutile, continuerete a non capire che tutto ciò che è accaduto è stata colpa delle vostre inutili e deviate convinzioni! Se invece di predicare un mondo libero, Pietro e i suoi compari si fossero concentrati e adoperati per trovare una soluzione alternativa, a far rimanere le cose come erano prima della denuncia dell'Armistizio, a quest'ora vostro fratello e migliaia di altre persone invasate come lui non sarebbero morte per uno stupido capriccio del nostro amato ex sovrano!”
“Mio fratello non è morto!” abbaiò adirata, mentre le lacrime cominciavano a rigarle il volto.
“E voi come fate ad esserne così sicura?!” continuò a pungolarla, mentre una luce di rivincita attraversava il suo sguardo.
“Io non vi permetto di insinuare una bestemmia del genere e …”
In quel momento, il rumore della campanella alla porta sciolse i due dalla tensione che li stava divorando.
Si voltarono in direzione della cancellata in ferro, dove un uomo vestito di nero attendeva di poter entrare.
“Ma è il maestro Rossini …!” lo riconobbe Costanza, immobile vicino al cugino.
“E chi sarebbe? Come fate a conoscerlo?” s’informò l’altro, sospettoso.
Il maggiordomo in età avanzata -uno dei pochi domestici rimasti a palazzo Caccia- li raggiunse proprio in quel momento, recandosi all’ingresso con aria composta, per sentire cosa volesse lo sconosciuto.
Ritornò pochi istanti dopo e, rivolgendosi alla ragazza, le comunicò quasi con partecipazione:
“Quell’uomo dice di avere notizie di vostro fratello, signorina. Lo posso fare entrare?” 
Lei deglutì, indecisa sul da farsi: alla fine, però, si arrese entusiasta e acconsentì a vederlo, la felicità che rischiava di farle scoppiare il cuore e la mente.

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Capitolo 31
*** Uno spettro di nome Nicolò ***



A volte allontanarsi è l’unico modo di essere lì per qualcuno.

 (Wesley Eisold, cantante, musicista, poeta e autore americano, 1979)



Costanza si affrettò ad andare nella direzione del nuovo arrivato, l’alto cancello di ferro battuto che si era aperto pochi istanti prima grazie alla sollecitudine del maggiordomo, mentre Federico la seguiva irritato alle calcagna.
“Pretendo delle spiegazioni, cugina! Non potete permettervi di far entrare in casa mia un perfetto sconosciuto!” continuava infatti ad infastidirla, pochi passi dietro di lei.
La ragazza si fermò un istante, lanciò un’occhiata speranzosa verso l’ospite, accennando con la mano di avere ancora un attimo di pazienza, quindi si voltò per fronteggiare la stazza atletica di Federico, l’espressione degli occhi ambrati guardinga e un ciuffo di capelli castani fuori posto.
Doveva trovare al più presto una scusa qualunque per levarsi di torno la presenza ingombrante del conte, ma la sua testolina preda delle emozioni più disparate non riusciva a trovarne alcuna credibile, per cui alla fine optò per la verità, seppure leggermente manomessa.
“Se solo non foste così dannatamente borioso, caro cugino, la vostra memoria ne gioverebbe, credetemi! Quell’uomo è il mio insegnante di musica, il maestro Rossini, che voi avete avuto l’onore di conoscere qualche tempo fa, durante un pranzo a casa della mia famiglia. Gli ho scritto ieri mattina per chiedergli se avesse avuto notizie di mio fratello, dal momento che è stato un ufficiale di cavalleria e ha la fortuna di conoscere personalmente tanti valorosi combattenti, una fortuna che sono sicura voi non possedete”
Federico continuò a scrutarla con fare sospettoso e innervosito, tuttavia non aveva intenzione di invischiarsi in un’inutile scenata nel giardino del palazzo, sotto gli occhi dei genitori e di quel ficcanaso di Pietro.
“D’accordo” si arrese platealmente, la voce in falsetto “avete vinto voi, mia scaltra Costanza! Vi lascerò da soli, ma se vengo a scoprire che la mia innocente cuginetta insieme a quella specie di beccamorto tramano in casa mia, state pur certa che ve la farò pagare assai cara! Ora, con il vostro permesso, andrei a ritirarmi …”
Il giovane si abbassò in un galante inchino, quindi si accomiatò per dirigersi verso l’entrata della dimora, approfittando ogni due passi per girarsi e sbirciare ancora una volta le due figure ormai distanti.


Il maestro Rossini, grazie al Cielo, non aveva mentito quando si era presentato con la promessa di avere notizie di Nicolò: quella stessa mattina, infatti, si era recato in ospedale per rintracciare il giovane disperso, dopo che Pietro gli aveva segretamente scritto il pomeriggio precedente.
“Il giovane conte Caccia è un ragazzo di nobili sentimenti: era assai preoccupato per le sorti della vostra famiglia” continuò a spiegare l’uomo, seduto sulla stessa panchina di pietra su cui aveva preso posto la sua interlocutrice.
“Così, dopo che l’altra sera ci siamo incontrati per caso al circolo –e sapete a cosa mi riferisco- abbiamo cominciato a parlare e a raccontarci tutto ciò che ci era accaduto in quest’ultima settimana …”
Il musicista, infatti, quando i Granieri si erano trasferiti a palazzo Caccia ormai sei giorni prima, aveva abbandonato la dependance per rifugiarsi nella villa della nobildonna che lo aveva accompagnato a teatro a vedere l’opera lirica Il barbiere di Siviglia, ormai settimane addietro, e di cui Costanza si ricordava vagamente i tratti.
“Ma non sono qui per raccontarvi di me, cara ragazza!” tagliò corto il nuovo venuto, stringendo le mani di Costanza.
“Nicolò è vivo! Ho parlato con una suora, la stessa che Pietro mi ha detto avete incontrato due giorni fa, scusandosi per non avervi rintracciato come aveva promesso, ma era stato vostro fratello a impedirglielo, perché non voleva farvi preoccupare inutilmente! Mi ha confessato che è stato operato ad un braccio dopo aver contratto una brutta infezione che rischiava di mandarlo in cancrena. Ma adesso sta bene, a parte il fatto che non vede ancora molto …”
“Che cosa vuol dire?” si rianimò la giovane, felice per aver finalmente saputo che il fratello era vivo e, tutto sommato, in salute.
“Sembra che una granata gli sia scoppiata a pochi metri di distanza: le schegge gli hanno tagliato il cuoio capelluto e, non si sa come sia stato possibile, devono aver danneggiato anche gli occhi. Ma non temete, è assai probabile che sia solo una cosa passeggera, che addirittura riprenderà a vedere meglio di prima!” tentò di consolarla, sorridendo fiducioso.
“Potete accompagnarmi da lui?” domandò, facendo finta di non aver udito l’ultima parte della spiegazione.
“Oh sì, certamente. Adesso?”
Costanza annuì, mentre dedicava qualche fugace occhiata in direzione del palazzo dietro di loro, per capire se quel ficcanaso di Federico fosse intento a spiarli.
“Ascoltate, avete presente quel giovane con cui stavo parlando, proprio durante il vostro arrivo? Ebbene, lui è …”
“Vostro cugino, certo, l’ho già incontrato a palazzo Granieri, ma che cosa vi preoccupa?” indagò con una punta di ironia l’uomo, facendo spallucce.
“Credo che lui sia in combutta con gli Austriaci: durante il coprifuoco è stato l’unico della famiglia che è potuto uscire indisturbato e tornare dopo diverse ore, nonostante alla madre avesse raccontato che si era semplicemente rintanato in biblioteca! Inoltre, ha ottenuto un permesso speciale per far trascorrere qui a palazzo la Pasqua ad una lontana zia. Tempo fa ho visto che litigava insieme a Nicolò, e poi Pietro non ha una buona opinione di lui! Se aveste sentito i discorsi con cui ha cercato di convincermi, non avreste alcun dubbio, credetemi! Ho persino dovuto inventarmi che siete stato un ufficiale di cavalleria, pur di levarmelo dai piedi!”
Il maestro Rossini la rimproverò con lo sguardo: affibiargli la pessima nomea di graduato insensibile alla vita dei suoi uomini, lo fece infuriare per un lungo istante, ma poi decise bonariamente di sorvolare.
Le pose una mano sulle sue, congiunte in grembo e adagiate sull’abito azzurro, rassicurandola sul fatto che Federico non avrebbe rappresentato alcun problema né per la loro associazione né tantomeno per le loro idee.
“Ora possiamo andare?” si alzò l’altro, invitandola a fare altrettanto.
“Aspettate ancora un attimo, vi prego. Prima mi avete detto che voi e Pietro vi siete incontrati al circolo: avete notizie degli altri affiliati? Insomma, so di non conoscerli, a parte Maffucci, ma mi piacerebbe sapere che stanno tutti bene …”
L’uomo distolse per un breve istante lo sguardo, puntandolo lungo il vasto perimetro del giardino che li stava ospitando.
“Non lo sappiamo, non sappiamo quasi nulla di nessuno di loro” si decise a spiegare, ritornando a sedersi.
“E’ pericoloso ritrovarci nell’appartamento sfitto che era il nostro covo, e anche il circolo potrebbe rivelarsi una trappola mortale. Probabilmente molti dei ragazzi si sono arruolati, ma potrebbero essersi dati alla macchia, fuggiti chissà dove in attesa che le acque si calmino. I giornali riportano che la situazione a Torino è assai drammatica, il governo liberale di Giolitti è allo sbando e l’abdicazione di Carlo Alberto non è stato di certo un colpo magistrale per la nostra già acciaccata monarchia … mi spiace non potervi dare notizie più solide, ma la cosa importante è aver ritrovato vostro fratello! Non pensate anche voi?”
“Mi avete reso davvero felice, non potete immaginare quanto! E’ solo che vorrei che anche altre persone potessero sentirsi come mi sento io, in questo momento”
"Siete molto generosa, ragazza mia, però sarà meglio affrettarci, altrimenti calerà presto il buio: venite, ho la carrozza proprio qui fuori!"  



Rivedere l’ingresso mastodontico dell’ospedale le incuteva lo stesso timore di appena due giorni prima: tuttavia, a tale sentimento si aggiungeva l’incertezza di non sapere che cosa si sarebbe trovata davanti, soprattutto a chi si sarebbe trovata davanti, e quali possibili reazioni avrebbe comportato l’incontro con l’amato fratello.
Il cuore era in tumulto, le mani guantate preda dell’agitazione fisica e le tempie le pulsavano per la gioia e la paura che la stavano travolgendo.
L’insegnante di musica le aveva domandato se voleva che l’accompagnasse all'interno, ma Costanza sentiva di dover compiere da sola quell’immane passo: adesso che stava percorrendo il lungo corridoio intonacato di bianco, la ragazza avvertiva che c’era qualcosa di diverso dall’altra volta, e rintracciò quella mancanza nel silenzio che avvolgeva ogni cosa.
Nessun grido di dolore, nessun lamento, nessuna supplica disperatamente invocata la stava scortando nel suo viaggio verso il capezzale del fratello, solo la figura anonima e scarsamente rassicurante di una giovane suora dalla veste immacolata.
“Eccoci, signorina, siamo arrivate”
Costanza annuì alla donna di Chiesa, che le sorrise e le disse di accomodarsi.
“Quanto tempo potrò stare?” domandò titubante la ragazza.
“Alle sei verrà distribuita la cena. Se volete fermarvi fino a quell’ora e aiutare vostro fratello a mangiare, potete farlo, a patto che non lo stanchiate”
L’altra le disse che ci avrebbe pensato, che quasi sicuramente si sarebbe fermata.
Quindi la ringraziò e si accinse ad abbassare la maniglia della porta, l’intelaiatura di legno con una grande, doppia vetrata centrale.  
La figlia del notaio avanzò cautamente oltre la soglia, un brivido freddo che le percorse la schiena.
Si sentiva la gola secca ed avvertiva una strana sensazione di smarrimento: scorse con lo sguardo perso le mura che la ospitavano, alla ricerca del fratello.
Dopo una manciata di giri a vuoto, finalmente lo vide, o perlomeno le sembrò di riconoscerlo.
Nicolò era sdraiato in un letto lungo e largo, le lenzuola macchiate di giallo in alcuni punti: aveva gli occhi chiusi e la testa fasciata, con le bende sporche di sangue e il braccio sinistro che aveva assunto un’innaturale angolazione, anch’esso avvolto in garze all’apparenza più pulite.
Costanza procedette titubante verso di lui, stringendosi al petto la pochette in tinta con l’abito azzurro tenue.
In quello stanzone, constatò stupita, dovevano esserci almeno una ventina di uomini: c’era chi era più moribondo degli altri, chi era intento a guardare verso la finestra o a parlare sommessamente con i parenti, chi invece riposava pacifico.
La ragazza aveva atteso talmente tanto quel momento che quasi non credeva che fosse finalmente arrivato: si avvicinò al capezzale del fratello, emozionata, e si sedette su uno sgabello di legno lì vicino.
Gli accarezzò dolcemente un braccio, indecisa su come approcciarsi: il gesto indusse il giovane a rivoltarsi nel letto, agitandosi inutilmente.
Quando aprì gli occhi, infatti, sembrò non riconoscerla.
“Chi siete?” domandò con un filo di voce, aggrottando le sopracciglia per mettere a fuoco la nuova venuta.
Aveva il volto emaciato e livido, a causa delle tumefazioni che deturpavano la pelle, e le labbra erano screpolate e ricoperte da minuscoli tagli in più punti.
La sorella rimase in silenzio per qualche secondo: non sapeva che cosa dirgli, non sapeva neppure se fosse giusto rimanere o, forse, se sarebbe stato meglio scappare per ritornare un’altra volta, quando la mente sarebbe stata preparata a ciò che avrebbe visto.
Che cosa sto dicendo? Non posso abbandonarlo, non posso trasformarmi in una vigliacca proprio in questo momento, si disse amaramente, per cui trovò il coraggio di rispondergli.
“Sono io, Nicolò … sono Costanza. Come stai?”
“Costanza?! Cosa ci fai qui? Ti prego, vattene, non voglio che tu mi veda in queste condizioni!” l’altro riprese ad agitarsi, intuendo dalla voce roca che la ragazza era sul punto di piangere.
Tentò di mettersi a sedere e di cacciarla con una mano, ottenendo come unico risultato quello di muovere l’aria viziata che li circondava.
“No, invece, non me ne andrò! Ti ho cercato tanto in questi giorni, ho sperato che fossi ancora vivo e che non ti fosse accaduto nulla di male” continuò l’altra, cercando di stringergli il braccio sano.
“Sono venuta lunedì, lo sai? Volevo sapere se ti avevano portato in ospedale, ma non mi hanno permesso di vederti perché ancora non sapevano se eri tra i feriti”
“Lunedì …” biascicò Nicolò, distogliendo lo sguardo affaticato “non so neppure che giorno sia oggi”
“E’ mercoledì, oggi è mercoledì … fuori c’è il sole, c'è un sole tiepido e l'aria è frizzante. Pensa che il sabato di Pasqua ha persino nevicato, non lo trovi buffo?!” tentò di farlo sorridere, non riuscendoci.
“Non m’importa. Anzi, vorrei solo che questo mondo finisse, allo stesso modo di come la mia vita è ormai finita …”
Nicolò si portò la mano destra sugli occhi, quindi voltò nuovamente la testa dalla parte opposta di Costanza.
“Non devi dire così! La tua vita non sarà mai finita, almeno fino a quando resteremo insieme! La mamma e il papà ti aspettano a casa, così come gli zii e Pietro! Sai, ho scritto due lettere alla nonna, ma non le ho parlato di te, per non darle un dispiacere:
devi rimetterti in sesto per lei, per noi, ma soprattutto per te! Sono convinta che ritornerai a vedere, che dimenticherai tutto quello che è successo! Ma devi crederci, hai capito?”
“Non potrò mai dimenticare. Il braccio mezzo maciullato e i miei occhi praticamente ciechi mi impediranno di farlo. Adesso, ti prego, sono stanco, lasciami da solo” commentò cinico, cercando di mascherare l’amarezza che aveva preso il sopravvento.
“Aspetta ancora qualche minuto … ho ancora tante cose da dirti!”
“Io invece no. Vattene, maledizione, vattene! E non tornare mai più!” le urlò rabbioso.
Cercò nuovamente di tirarsi su, ricadendo subito dopo sul cuscino per la stanchezza e la debolezza degli arti.
Costanza si alzò dallo sgabello, le lacrime che scendevano copiose: fissò per un lungo istante il fratello, disilluso e dimagrito, facendo fatica a riconoscere in quell'ammasso di carne, ossa e nervi la stessa persona piena di ideali e caparbietà che aveva abbandonato la loro casa.
Si sentì persa, affranta, impotente, incapace di essergli d'aiuto e di comprenderlo fino in fondo.
Non le rimase altro che uscire dalla stanza con un senso di sofferenza mai provato prima, la speranza alle spalle.

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Capitolo 32
*** Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio ***




L'invidia è una buona stoffa per confezionare una spia.
 

(Victor Hugo, 1802-1885, frase tratta da "L'uomo che ride", 1869)


“Allora?! Come è andata?” volle sapere il maestro Rossini, non appena vide emergere Costanza da uno dei numerosi portici.

L’aveva attesa nel cortile dell’ospedale, per permettere alla ragazza di parlare in tutta tranquillità con il fratello, sperando che l'incontro sarebbe andato per il verso giusto.
Adesso, sebbene mancassero ancora un paio d’ore al tramonto, il sole si stava abbassando all’orizzonte, disegnando numerose e allungate ombre che costeggiavano il perimetro rettangolare della struttura.
L’uomo si strinse nelle spalle e le andò incontro, reprimendo un brivido di freddo percorrergli la schiena.
“Mi ha mandato via … non vuole vedere nessuno” rispose disperata, smorzando qualsiasi espressione di entusiasmo dell’uomo.
“E’ comprensibile. Voglio dire, immagino sia ancora stanco per l’operazione e provato per ciò che ha visto e sentito…” tentò di incoraggiarla, un sorriso affabile sul volto pallido e profumato.
“Apprezzo le vostre parole, ma adesso vorrei solo tornare a casa: non ha senso rimanere qui”
La ragazza si avviò verso la Landau nera, precedendolo di qualche passo: l’unica cosa che desiderava, infatti, era allontanarsi il più velocemente da quel luogo di morte, dimenticandosi di come Nicolò l’aveva trattata, e dell'odio che le aveva riversato contro.
Il pensiero, o meglio, la certezza che quella specie di spettro fosse proprio il suo amato fratello maggiore, l’aveva a dir poco destabilizzata: si era sentita un nemico da combattere, e si ritrovò a riflettere su quanto la vita si rivelasse beffarda e piena di preoccupazioni, su quanto il Destino fosse l’unico artefice dell’esistenza umana, e su come tutti sulla Terra, nessuno escluso, rappresentasse un insignificante burattino senza reale autonomia di scelta, le cui fila invisibili venivano costantemente tirate da altrettante mani tanto potenti quanto intangibili.
Una volta saliti sulla carrozza, Costanza si sforzò di lasciar naufragare quell’effluvio meditabondo che le arrecava solamente dolore, escogitando già un nuovo piano per far cambiare idea a Nicolò.
Il musicista, sul sedile di fronte al suo, si rivolse al cocchiere –un uomo sulla sessantina, i capelli folti e bianchi e un paio di occhiali con le lenti rotonde- per intimargli di riprendere il cammino verso il palazzo, quindi continuò la conversazione con la ragazza.
“Sono sicuro che se tornerete tutti i giorni, vostro fratello riuscirà a riacquistare la fiducia perduta. Dategli tempo, gli serve solamente questo…” le suggerì, consolandola con un sorriso comprensivo.
“Come farò a raccontare ai miei genitori che il loro unico figlio non vuole più vederli? Che è in un letto di ospedale, vivo per miracolo, pieno di rabbia e rancore verso il mondo intero?!” si sfogò la giovane, scuotendo il capo e gesticolando rassegnata.
“Non diteglielo, non è necessario” rispose semplicemente l’altro, scrollando con ovvietà le spalle.
“Cosa state dicendo? Voi non avete visto come si è trasformata mia madre, in questi ultimi giorni! E’ diventata il fantasma di se stessa! Non parla, quasi non mangia! E mio padre? Continua a non voler sentire pronunciare il nome di Nicolò! E’ orribile, è tutto orribile da sembrare irreale!”
Costanza si abbandonò ad un pianto liberatorio, cullata dal moto ondulatorio della carrozza.
Il maestro Rossini esitò un solo istante, indeciso se lasciarla sfogare, ma alla fine cedette a confortarla: le si sedette vicino e, cingendole le spalle, accarezzò la sua testa ricciuta e scura con gesti paterni.
“Non ho detto che non dovete renderli partecipe di questa meravigliosa notizia. Dite semplicemente loro che Nicolò sta bene, che è rimasto ferito, ma che è vivo”
“Ma se mi chiederanno di vederlo? Che cosa dovrò rispondere?!” continuò imperterrita, alzando il viso rigato di lacrime.
“Che non è ancora possibile. Che l’ospedale è talmente affollato da essere impraticabile l’ingresso ai parenti!” s’inventò il musicista, sorridendo soddisfatto.
La ragazza scosse il capo, abbozzando una smorfia divertita.
Si asciugò il volto con il dorso delle mani guantate, imbarazzata per aver ceduto allo sconforto e vergognandosi di mostrarsi ancora così debole di spirito.
“Ora capisco come avete fatto a mentire per tutto questo tempo: avete un talento naturale per le bugie”
“Grazie, mia cara, lo prendo come un complimento” stette al gioco l’uomo, facendo finta di inchinarsi.
Poi, recuperò da una tasca dei pantaloni neri un fazzoletto ricamato, e lo porse a Costanza.
“Tenete: sarò anche un bugiardo, ma detesto veder piangere una fanciulla tanto graziosa come voi…”
Lei lo guardò e sorrise, il quadrato di stoffa tra le mani.


“Ma dove siete stata?” la rimproverò Pietro, in attesa sulla porta d’ingresso del palazzo: non appena aveva visto arrivare una carrozza, si era precipitato fuori, sperando che fosse la cugina.
“L’ho trovato! E’ vivo, è vivo!” confessò Costanza, stringendolo in un abbraccio d’entusiasmo.
“Avete trovato Nicolò?! E come sta? E’ in ospedale?” incalzò l’altro, ricambiando con trasporto il gesto della ragazza.
“Sì, è lì, ma è rimasto ferito: ha un braccio operato, che a causa di un’infezione rischiava di andargli in cancrena. E poi ha dei problemi alla vista: i suoi occhi non sono ancora completamente a posto …”
“In che senso?” continuò l’altro, indirizzando uno sguardo apprensivo verso il maestro Rossini, qualche passo indietro rispetto alla giovane.
“Una granata lo ha colpito alla testa e, a quanto pare, anche agli occhi: quando mi sono seduta accanto a lui, non mi ha neppure riconosciuta … “
Costanza non voleva rimettersi a piangere: era stanca di lacrime, di dolore e di tristezza, per cui s’impose di non abbandonarsi al pianto.
“E cosa dicono i medici? Potrà riprendere a vedere?”
“Non lo so … non ho visto nessuno, se non delle suore intente a curare i feriti. Il fatto è che mi ha cacciato: non vuole vedere nessuno, Pietro, non mi vuole, non desidera la mia compagnia …!” gli spiegò, mentre scuoteva incredula la testa.
“Cercate di dirglielo voi che è una cosa passeggera” s’intromise il musicista, avvicinandosi di qualche metro.
“Convincetela che Nicolò capirà molto presto di quanto abbia bisogno della sua famiglia e della loro vicinanza!”

Il conte annuì con tutta la convinzione che aveva in corpo, quindi strinse con tenerezza le spalle della cugina, trasferendole un po’ della speranza che provava in quel momento.
“Ma certo, è così! Dovete avere fiducia, non dovete abbandonare proprio adesso, ricordatevelo! Anzi, sapete cosa facciamo? Domani mattina vi accompagnerò a trovarlo! Cosa ne dite?” propose il cugino, gli occhi azzurrissimi in attesa di un riscontro positivo.
Lei, inizialmente titubante, alla fine annuì: non sapeva più distinguere che cosa sarebbe stato giusto fare da ciò che era meglio evitare anche solo di pensare.
Stava quasi perdendo la nozione del tempo, esattamente come era accaduto a Nicolò, ma in fondo al suo cuore, in una parte remota della sua coscienza, sapeva che ciò che aveva fatto e ciò che avrebbe ancora fatto, si sarebbe rivelato fruttuoso per ricucire il rapporto con lui.
Non poteva e non voleva demordere proprio adesso, altrimenti i suoi sforzi sarebbero stati vani ed inconcludenti.
“Grazie, grazie ad entrambi per quello che avete fatto per me e per mio fratello” confessò riconoscente.
“Oh figliola, mi farete commuovere!” le regalò un buffetto affettuoso il maestro Rossini, l’espressione empatica sul volto glabro.
“Non vorrete far piangere il nostro valoroso amico, non è vero cugina?”
Costanza sorrise mestamente, felice di ricevere tutto quel supporto e quella dimostrazione di disinteressate premure, un autentico toccasana per il suo spirito ferito.
“Bene, allora avrei una proposta da fare anche a voi, caro Rossini: per festeggiare questo giorno importantissimo, vi invito ufficialmente a rimanere a cena con noi! Cosa ne pensate? Ah, sempre che non avete altri impegni, è naturale”
Pietro si diresse verso il musicista, che annuì entusiasta, affermando che per la piccola Costanza avrebbe sempre avuto del tempo da dedicarle e, stringendosi reciprocamente con vigore e gratitudine la mano, li invitò ad entrare in casa.


 
Federico li stava osservando da diversi minuti, più o meno da quando aveva avvertito le ruote possenti della Landau fare il proprio ingresso nella stretta via dirimpetto al palazzo.
Le tende della biblioteca ancora leggermente spostate, non aveva perso di vista quei tre che confabulavano: all’inizio, soprattutto Costanza, appariva nervosa e provata, ma poco prima di scomparire nel buio dell'ingresso, gli sembrò di udirli addirittura sciogliersi in una risata liberatoria, almeno dagli ampi sorrisi che si erano scambiati.
Certo, doveva ammettere che, dalla posizione in cui si trovava, non poteva udire con chiarezza l’intero filo del discorso, tuttavia i volti gli apparivano nitidi e ben visibili, e tanto bastava per comprendere lo stato d’animo generale.
Sono sicuro che quei tre nascondono qualcosa … Costanza ha tanto l’aria di essere una povera e fragile ragazza, una sorta di monachella intonsa, aizzata da quell’altro stolto di mio fratello, e l’arrivo improvviso dell’insegnante di musica non mi convince affatto. Ma scoprirò che cosa stanno tramando, e allora sì che li avrò in pugno, soprattutto la mia cara cuginetta.
Il giovane conte, infatti, non poteva più celarsi dietro una maschera di estrema cortesia e falsa indifferenza.
Nutriva un debole per la ragazza, la cui bellezza lo aveva ammaliato soprattutto durante la festa di compleanno di suo padre, don Aldo, all'inizio del mese: gli occhi verdi, così puri ed intensi, e i lunghi capelli folti e ricci, gli trasmettevano una sensazione di pienezza interiore e di desiderio molto simile alla bramosia.

Avrebbe fatto di tutto per averla e indurla a cambiare idea, era disposto a giurarlo su qualsiasi cosa o persona!
E poi, lei non sapeva quanto potere concentrava tra le mani: gli sarebbe bastata una sola parola per distruggere una volta per tutte l’odioso Pietro, il primogenito impeccabile e, di conseguenza, anche la schiera di fannulloni rivoluzionari che si portava appresso.
La sua collaborazione con gli Austriaci e la sua appartenenza ad un gruppo di filo-austriaci, mettevano Federico in una posizione di supremazia rispetto al resto della famiglia: gli altri compari, certi come lui che la guerra si sarebbe rivelata l’ennesima sciocchezza perpetrata da casa Savoia, gli avevano chiesto di denunciare alle autorità asburgiche qualsiasi sospettato, uomo o donna che fosse, di tremare contro i vincitori, in modo da sgominare ogni forma di opposizione o di resistenza.
La resa dei conti è ormai vicina, caro fratello. E, almeno per una volta, sarai tu il perdente.
Il ragazzo si lasciò sfuggire un sorriso di rivincita, quindi riabbassò le tende e tornò a concentrarsi sui numerosi scaffali che componevano la biblioteca, alla ricerca di un romanzo tedesco che aveva adocchiato qualche giorno prima.



NOTA DELL'AUTRICE

Buongiorno carissimi lettori!!
Con questi ultimi tre aggiornamenti pubblicati, sto cercando di essere il più puntuale possibile, dopo la lunga assenza da EFP!
Dunque, spero che la storia continui a piacervi, e invito tutti coloro che la leggono e che l'hanno inserita in una delle liste, di farmi sapere che cosa ne pensano: non manca molto alla fine del racconto, ma mi farebbe comunque piacere ricevere un vostro parere o critica!
Bene, nel frattempo ringrazio i miei gentilissimi e adorati recensori per la loro vicinanza e il loro costante supporto!
A presto!

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Capitolo 33
*** Colpevoli o innocenti? ***



Combattere per un ideale è semplice,
il difficile è continuare a sostenerlo quando il gioco si fa duro.

(Anonimo, XX secolo)


La notizia che Nicolò era ancora vivo, seppure ferito, riportò un barlume di felicità nella famiglia Granieri e Caccia.

La madre, donna Luisa, si abbandonò ad un pianto liberatorio, cominciando a sgranare nevroticamente il rosario di madreperla che aveva nascosto nel corpetto di ogni abito che indossava, mentre il notaio si era arreso ad un sorriso che tradiva tutta la sua contentezza malcelata in quei lunghissimi ed interminabili giorni.
Costanza, come le aveva suggerito il maestro Rossini, si era mantenuta in una posizione di assoluta prudenza nei confronti dei genitori e degli zii, assicurando loro che il fratello versava in buone condizioni, ma che nessuno di essi poteva ancora fargli visita a causa dei numerosi feriti e degli spazi angusti che contraddistinguevano l’ospedale che lo stava ospitando.
All’angoscia per le bugie che era costretta a raccontare, si sommava la presenza ingombrante e sospettosa di Federico, sempre in agguato a coglierla in fallo o a farle notare il più piccolo errore di comportamento, a volte inventato per il solo scopo di esasperarla.
Ciò, come prevedibile, non permetteva alla ragazza di rilassarsi completamente, tuttavia non aveva alcuna intenzione di farsi rovinare quel meraviglioso momento dai capricci di un nobile viziato e traditore, per cui si convinse che le sue erano ingenue macchinazioni dovute alla prolungata stanchezza accumulata in antecedenza.
Nel frattempo, giovedì 29 marzo, il nuovo sovrano Vittorio Emanuele II giurò fedeltà allo Statuto Albertino, la carta costituzionale concessa dal padre appena l’anno precedente: per non averlo abrogato, venne definito il Re gentiluomo.
Si era ormai alla fine del mese e, nonostante le miti insistenze del conte Aldo, don Armando aveva deciso di recarsi senza essere accompagnato in corso di Porta Genova, dove era ubicato il suo studio notarile.
Si era giustificato con la scusa –non totalmente infondata- che aveva bisogno di stare da solo, in modo da constatare gli eventuali danni e stilare un inventario: in realtà, non voleva apparire agli occhi dello zio acquisito come una persona fragile, ma tremava al pensiero che gli Austriaci, o peggio ancora qualche manipolo di sbandati dell’Esercito sabaudo, avesse distrutto il suo sogno degli ultimi mesi.
Per la prima volta da quando si era trasferito a Novara, immediatamente dopo Natale, accettando così l’eredità del suocero, un fugace pensiero gli balenò nella mente, precario quanto impalpabile da essere quasi rimosso all’istante, ovvero ritornare senza indugi a Santa Maria Maggiore.
Non poteva negare la tristezza che aveva notato crescere e maturare nella figlia, marcando i contorni del volto della sua adorata Costanza, la quale era apparsa fin da subito contrariata a quella repentina decisione che aveva comportato il trasferimento nella nuova città, ma gli interessi economici e il desiderio tutt’altro che recondito di acquisire una certa dose di riconoscimento sociale avevano spinto l’uomo a sorvolare le deboli proteste della moglie e della secondogenita.
L’unico che aveva nutrito un certo entusiasmo per la novità era stato Nicolò, così giovane, così estroverso, così sincero, a volte fin troppo …
Vorrei tanto poterlo rivedere presto … vorrei dirgli che mi dispiace per come l’ho trattato, per come sono andate le cose tra di noi, che rimarrà sempre mio figlio ed io suo padre, e che niente e nessuno potrà cambiare ciò che siamo l’uno per l’altro
Il lento rallentare della carrozza lo indusse ad accantonare quei pensieri così intimi, sebbene si ripromise che avrebbe fatto di tutto per andare a riabbracciare Nicolò quanto prima.
Scese dalla vettura che erano le dieci di un mattino soleggiato, caratterizzato da una calma incredibilmente piatta, quasi sospesa: il cielo era sgombro di nuvole, una lunga pennellata di un azzurro accecante e rassicurante al contempo.
Il notaio si sistemò il bavero del cappotto di lana inglese blu notte che aveva indosso, quindi si tolse il cappello di feltro che gli copriva la nuca bionda e diede un’occhiata timorosa in direzione dell’elegante palazzo che si ergeva a pochi metri da lui, sentendosi avvampare per il caldo e l’emozione.
Si girò un istante, promettendo al cocchiere che avrebbe cercato di non impiegarci troppo, e finalmente si incamminò verso il grande portone di legno massiccio scuro che lo reclamava come fosse stato una calamita.
La punta del suo bastone batteva timidamente sul lastricato di sampietrini, fino a quando si ritrovò a calpestare l’elegante pavimento di marmo che formava l’atrio dell’ingresso.
Lo stabile era interamente occupato da altri uffici come il suo, quindi non si stupì nel vedere che non ci fosse anima viva ad incrociare i suoi passi.
D’altronde, l’intero corso, una volta brulicante di passanti, pulsante di vita, animato dal rumore degli zoccoli e dalle ruote delle carrozze e dei carretti sul selciato, adesso appariva incredibilmente diverso: don Armando aveva tristemente notato come la quasi totalità dei lussuosi locali che si aprivano ai lati della strada fossero ancora chiusi.
Anzi, per la verità, la metà di essi, almeno ad un’occhiata sommaria, riportava ancora i danni degli scontri avvenuti nella notte tra il 23 ed il 24 marzo scorsi, sebbene la gente avesse timorosamente ripreso a riversarsi per le vie, l’aria guardinga che caratterizzava i volti forzatamente naturali dei passanti.
L’uomo indugiò per qualche istante sulla soglia del portone, voltandosi ad osservare la chiesa della Santissima Trinità al Monserrato, la facciata biancastra ed imponente, la gradinata di pietra ed il campanile stretto ed allungato che svettava contro il cielo decisamente primaverile.
Aveva necessità di un conforto morale, di qualcosa che lo spingesse a salire al secondo piano per constatare se l’ufficio fosse ancora agibile.
Solo in quel momento, però, il notaio si accorse di un volantino che era stato affisso lungo il muro adiacente la costruzione religiosa, spiegazzato e arricciato in un angolo in basso.
Si avvicinò con cautela, attraversando la strada e scansando un paio di coppie a passeggio, fino a quando si ritrovò faccia a faccia con le parole impresse sulla carta in simil pergamena:

Il Re Tentenna ha abbandonato la barca, lasciando che affondasse tra le mani inesperte dei giullari di corte, ed ora il testimone è passato al figlio.  

Fratelli, sorelle! Se anche voi siete stanchi del potere che da troppo tempo è incentrato nelle mani di un’inutile dinastia francese, allora ribellatevi insieme a noi! Sconfiggeremo il nemico, Savoia o Austriaco che sia, e ci riprenderemo le nostre esistenze brutalmente deturpate e rubate!
W la Libertà!  

Don Armando rimase una manciata di secondi a fissare il documento di protesta, semplice quanto incisivo, sbattendo le palpebre e corrugando le sopracciglia, l’espressione contrita ma anche ammirata: se non avesse avuto la certezza che Nicolò si trovasse ferito in un letto di ospedale, avrebbe potuto benissimo credere che quelle parole fossero state scritte o dettate da lui.

Ma poi si ricordò della passione che il figlio nutriva nei confronti del re Tentenna, il vecchio Carlo Alberto in esilio in Portogallo, e un sorriso amaro gli solcò il viso glabro, riflettendo su come conoscesse poco i pensieri più personali del primogenito, e per questo si ripromise che avrebbe rimediato anche a tale aspetto.
Il notaio lanciò ancora un’occhiata al manifesto rivoluzionario, in cuor suo orgoglioso del coraggio che avevano mostrato quegli sconosciuti nel decidere di affiggerlo, quindi fece dietrofront e si accinse a ritornare sui propri passi, quando la sua attenzione venne nuovamente attirata da un manipolo di Guardie Civiche in perlustrazione, che si muoveva a gruppetti di due o massimo tre soldati: erano giovanissimi, probabilmente appena diciottenni, e fissavano con ostilità repressa e solennità chiunque capitasse nel loro campo visivo.
Una morsa allo stomaco indusse l’uomo a non indugiare oltre, domandandosi come si potesse arrivare ad arruolare dei ragazzi che erano poco più che bambini.
Lasciò che la schiera imberbe passasse, dedicando loro un raro sguardo a processione finita, mentre avvertiva l’amarezza impossessarsi di lui.


Quando aprì la porta del suo studio, la chiave dall’impugnatura dorata che tentennava nel palmo e si univa alla serratura in un meccanico abbraccio, don Armando tirò un sospiro di sollievo: la stanza era rimasta intatta ed uguale a come l’aveva, per così dire, salutata qualche giorno prima.
Le tende pesanti e bianche lasciavano entrare i caldi raggi solari, facendo volteggiare il pulviscolo che si era accumulato sugli oggetti, le vetrine della libreria che proteggevano i tomi di diritto romano erano ancora lì, così come la massiccia scrivania di mogano, l’elegante quanto solida poltrona ed i mucchi di scartoffie e documenti ordinatamente impilati sul piano di lavoro.
Accarezzò, sfiorandoli timidamente, i quadri di paesaggi alle pareti chiare, sentendosi pervadere da un’ondata di muto riconoscimento per non aver subito danni.
Si sedette sulla poltrona, non resistendo oltre all’impulso di riportare tutto alla normalità, o meglio, di ricreare una parvenza di quotidianità che la guerra e ciò che era accaduto alla sua famiglia sembravano aver cancellato per sempre.
Tirò un sospiro di sollievo, socchiudendo gli occhi, per poi riaprirli ed ammirare quell’abituale panorama artificiale che lo circondava, e stette lì per qualche secondo, le dita incrociate prima sul grembo e poi sul bordo della scrivania, abbandonandosi ad un mesto sorriso di esultanza.
Persino la pendola in un angolo dell’ufficio era stata risparmiata dai saccheggi che erano stati ingiustamente perpetrati, continuando a battere ritmicamente i secondi ed i minuti, a ricordare che il tempo proseguiva a scorrere come se niente fosse, fino a quando l’uomo decise che non doveva approfittare di quel regalo inaspettato che il Cielo gli aveva fatto.
Si alzò soddisfatto dalla poltrona e, abbracciando con lo sguardo ogni oggetto che arredava la stanza, uscì felice, richiudendo con delicatezza la porta.


Una volta in strada, il notaio andò a raggiungere la carrozza ferma ad un angolo della via, a pochi passi dall’edificio religioso che si ergeva davanti a lui.
Prese posto con il cuore più leggero, pronto a fare ritorno a palazzo e a condividere la bella notizia con il resto della famiglia.
Il cocchiere aveva già invitato la coppia di cavalli –due magnifici esemplari dal manto color caffè- ad avviarsi al trotto, quando l’uomo vide sfilare una mezza dozzina di giovani uomini ammanettati, uno dietro l’altro, al loro fianco il rimanente manipolo dei compagni dei soldati che avevano marciato qualche minuto prima.
I prigionieri indossavano camicie bianche, il cui candore era stato sporcato da alcune macchie di quello che sembrava sangue, i volti stravolti ma solenni, ed i capelli leggermente lunghi che apparivano come una massa disordinata sulle spalle a tratti incurvate.
Vestivano la parte inferiore di una divisa, i pantaloni di panno blu scuro impolverati e strappati all’altezza delle ginocchia, e gli stivali testimoniavano di aver passato giorni migliori, lerci in punta e sui tacchi.
Don Armando domandò al cocchiere di accostare un attimo e si protese dal finestrino: gli bastò un attimo per comprendere l’identità di quella affaticata fila indiana, e avvertì una profonda tristezza stringergli il cuore.
Quei giovani, infatti, erano i soldati del loro glorioso Esercito, i disertori, coloro che si erano dati alla macchia pur di non uccidere e di non farsi uccidere, ma non avevano l’aria minacciosa con cui erano stati dipinti dalla vox populi, bensì apparivano semplicemente normali, fieri ma anche smarriti, lo sguardo alto davanti a sé.
Dove li staranno portando? Li passeranno sotto le armi? O saranno così clementi da predisporre un processo? Non riesco a credere che questi stessi giovani siano stati gli artefice delle scorribande che hanno distrutto la città. Sembrano innocui, vittime della crudeltà e della stoltezza di un pugno di uomini.
La silenziosa schiera passò di fianco alla carrozza, superandola e degnandola di vaghi sguardi, un paio dei quali incrociarono gli occhi azzurri del notaio, che li abbassò di riflesso, vergognandosi di non poter fare nulla per salvarli.
La felicità che aveva provato fino a qualche istante prima svanì, tanto da fargli dubitare se l’avesse davvero provata.
Perché tutto questo dolore? si domandò, perché la guerra ha stravolto le vite di ciascuno di loro, strappando quei giovani e molti altri alle loro tranquille e forse persino monotone esistenze?
“Signore, posso ripartire?”
La voce pacata e professionale del servitore –un sessantenne dai capelli grigi e gli occhiali dalle lenti rotonde- riscosse l’uomo dalle sue riflessioni.
Indugiò per cinque, forse sei secondi, per poi acconsentire alla richiesta del cocchiere, il cielo che si tingeva improvvisamente di nuvole soffici e incombenti.

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Capitolo 34
*** Una nuova vita ***



Correva il 24 (o 25) di marzo dell'anno 1849, verso sera quando una misteriosa carrozza entrò in Arona dalla strada per Novara, lungo quello che è l'attuale corso Repubblica. Nell'attuale piazzetta Garibaldi, nonostante l'ora e il cattivo tempo, sostava una piccola folla ansiosa di notizie: il 23 marzo proprio a Novara l'esercito piemontese si era scontrato con quello austriaco subendo una completa disfatta. Ad Arona erano giunte fino ad allora solo voci confuse e quella carrozza non poteva dunque passare inosservata: veniva da Novara, e per di più al suo interno ospitava alcuni militari in divisa, due o tre a seconda delle versioni. Uno di loro esibiva addirittura i gradi di generale, e qualcuno credette di riconoscerlo: poteva trattarsi di Gerolamo Ramorino, comandante di una divisione dell'esercito reale. Che ci faceva ad Arona? La voce corse, giunse alle orecchie delle autorità locali, che ordinarono alla guardia nazionale […] dapprima di circondare per precauzione l'albergo della Posta, dove i misteriosi ufficiali avevano preso alloggio, poi di trarli in arresto. Il generale si qualificò proprio come Gerolamo Ramorino. Giustificò la propria presenza in città esibendo ordini superiori che già a un primo esame si rivelarono apocrifi. Il 26 marzo giunse a prelevarlo un'imponente scorta militare che lo condusse alla cittadella di Torino, dove venne processato per direttissima con la grave accusa di aver causato la disfatta di Novara disobbedendo alle consegne.

Dire che la sua disubbidienza avesse causato la sconfitta del Piemonte era un'esagerazione: anche se non si fosse mosso avrebbe potuto fare ben poco per bloccare un nemico ben più numeroso. Ma Ramorino era il capro espiatorio ideale, da dare in pasto all'opinione pubblica che reclamava un colpevole per il disastro. Alle accuse di insubordinazione si aggiungeva un altro sospetto: che ci faceva Ramorino ad Arona? Oltre che un indisciplinato era anche un disertore? A sentir lui, dopo la battaglia di Novara aveva perso i contatti con il comando supremo, e lo stava disperatamente cercando. Ma Arona era davvero troppo fuori mano per potergli credere. Molto probabilmente la sua meta era la non lontana Svizzera, cioè la salvezza da una commissione d'inchiesta sul suo operato a Cava Manara. Alcuni testimoni aronesi, tra cui un milite della guardia nazionale, riferirono anzi che mentre Ramorino si trovava all'albergo della Posta, prospiciente il lago, una barca non identificata si era avvicinata a riva: a bordo c'era solo il timoniere e una specie di grossa botte, dalla quale improvvisamente erano usciti due uomini. Scorgendo i soldati schierati intorno all'albergo l'equipaggio del misterioso vascello aveva però fatto bruscamente dietrofront, e non si riuscì mai a stabilire se si trattasse di semplici contrabbandieri, di cui il lago Maggiore allora pullulava, o di complici venuti a prelevare Ramorino
.

(dal sito internet "Carneade, chi era costui?")


Riuscire ad ottenere delle notizie dall’esterno era pressoché impossibile, ma nei rari casi in cui
il desiderio di novità faceva ancora capolino nella mente di Nicolò, puntualmente l’apatia e la rassegnazione ne prendevano il sopravvento.
Lo stanzone in cui era adagiato giorno e notte, e da cui aveva rifiutato più volte di uscire almeno per distrarsi per qualche minuto, era diventato la sua prigione.
Costantemente inondato da un odore malsano che ricordava ondate di disinfettante misto a corpi umani sudati e non lavati, emetteva un senso di profonda oppressione: il candore perfetto degli abiti delle sorelle e dei camici dei medici, alternato al rosso cupo che imbrattava i grembiuli dei sanitari e le fasciature dei malati, faceva apparire ogni cosa irreale e al contempo devastante.
Nicolò non era riuscito a legare con nessuno degli uomini presenti nella stessa camera: provava un rifiuto totale, un’avversione di cui non sapeva spiegare la ragione nemmeno a se stesso, ma era come se ciò che gli fosse accaduto gli impedisse di riconciliarsi con il mondo, e di conseguenza di riallacciare un qualsiasi tipo di relazione quotidiana.
Più volte si era accorto di come gli altri feriti lo guardassero con insistenza, sempre così assorto nel suo mutismo, privilegiato della compagnia giornaliera di una graziosa signorina.
Aveva enorme difficoltà ad addormentarsi la sera, e rimaneva supino per dei momenti interminabili, aprendo e chiudendo gli occhi che ancora non accennavano a dare segni di miglioramento, strizzandoli fino a fargli girare la testa, fino a quando si voltava nel letto dalla parte destra, quella del braccio sano, e cominciava a contare fino allo sfinimento.
Avrebbe tanto voluto piangere, dare sfogo alla frustrazione che non lo abbandonava per un solo istante, ma non ci riusciva.
Pensava solamente al motivo per il quale la granata che lo aveva colpito gli avesse risparmiato la vita, al perché non fosse morto in quel pomeriggio di fine marzo: persino essere un prigioniero sarebbe stato meglio che subire quella logorante attesa, vivere quell’esistenza a metà.
Mentre era inglobato in queste riflessioni, pregava di diventare un pazzo senza più ricordi, in modo da dimenticare tutto il dolore che aveva provato e che stava ancora provando.
E quando le tenebre avvolgevano ogni cosa, le lanterne appese in corridoio conferivano una tremolante visione dei contorni di persone e oggetti, risparmiando a Nicolò ulteriori sforzi nel cercare di mettere a fuoco ciò che lo circondava, poiché tutto si trasformava in un vacillante panorama fatto di ombre.
Finalmente, solo allora, riusciva a riposare per tre o quattro ore, risvegliandosi come se avesse appena assistito ad un incubo, pronto a ripiombare tra le braccia di Morfeo quando ormai l’alba sorgeva.
 


Costanza si era recata da Nicolò ogni mattina, fino a quando il 9 aprile venne dimesso.
In quei dodici giorni di visite assidue, che spesso si ripetevano nel tardo pomeriggio, Nicolò non aveva mutato più di tanto l’atteggiamento negativo e disinteressato nei confronti della sorella: certo, le permetteva di rimanergli accanto fino a quando la invitava ad andarsene, senza ringraziarla del tempo o della pazienza che le aveva riservato per l’ennesima volta.
Spesso e volentieri, neppure le rivolgeva la parola, eppure lei continuava imperterrita a raccontargli tutto ciò che accadeva a palazzo.
Ometteva di riferire notizie politiche che avrebbero potuto turbare il suo stato d’animo già così precario, nonostante gran parte della città fosse addobbata da manifesti rivoluzionari a cui si affiancavano i proclami del nuovo sovrano “La nostra impresa deve essere di mantenere salvo ed illeso l’onore, di rimarginare le ferite della pubblica fortuna, di consolidare le nostre istituzioni costituzionali” e i giornali riportassero quasi esclusivamente articoli della disfatta, sapientemente camuffata in una vittoria a metà.
Tutte quelle frasi di circostanza, però, le apparivano vuote e prive di un autentico significato: Vittorio Emanuele II era stato costretto a scriverle per salvaguardare il ricordo del padre e l’avvenire che lo aspettava? Ma quanto credeva veramente a ciò che aveva fatto pubblicare? Quanto si dispiaceva al solo pensiero che migliaia di giovani erano morti o erano stati feriti, che erano magari impazziti, che avevano perso un arto o si erano abbruttiti fino a saccheggiare e depredare degli innocenti?
Ripensando all’abbraccio falso e troppo stretto di Federico quando aveva comunicato a casa la notizia del ritrovamento del fratello, avvertì brividi d’odio percorrerle la schiena, lo stesso ribrezzo che scopriva di possedere nei confronti di coloro che avevano determinato quell’assurda situazione.
Ma quello non era il tempo da dedicare alle recriminazioni, quello era il momento della rinascita.
L’abito cipria, Costanza entrò sorridendo nell’enorme camera che adesso ospitava solo una dozzina di malati: trovò il ragazzo seduto su una sedia a dondolo, in un angolo della stanza, con il viso rivolto verso il soffitto e l’espressione assorta.
“Come ti senti oggi? Sei pronto per tornare a casa?”
Nonostante i passi cadenzati della sorella, Nicolò non accennava a smuoversi da quella posizione all’apparenza scomoda.
Lei gli si avvicinò con cautela, dimenticandosi della presenza di estranei, desiderando all’istante di uscire da lì il prima possibile: il tiepido sole primaverile e la luce mattutina già le mancavano, tanto da non riuscire a comprendere come facesse il fratello a non essere già in piedi e a supplicarla di portarlo lontano da quel luogo.
Arrendendosi all’evidenza che neppure allora si sarebbe rivelato loquace, andò a recuperare lo sgabello di legno di fianco al letto del ragazzo, pronta a sedersi di fronte a lui.
“In realtà, staremo ancora qualche giorno dagli zii, ma non sarà per molto: insomma, zia Rosa e zio Aldo non ti faranno mancare nulla, potrai avere tutte le comodità di cui necessiti, e la convalescenza passerà sicuramente più in fretta!”
La contentezza che trapelava dalle parole della giovane non riuscì a contagiare anche il fratello, che sembrava sempre più impassibile.
Indossava una vestaglia glicine che donna Luisa aveva insistito per fargli avere, le mani solcate da piccoli graffi abbandonate sulle cosce smagrite.
Teneva il braccio sinistro in una posizione irregolare, con il gomito leggermente abdotto rispetto al fianco e fasciato: il medico con cui Costanza aveva parlato quel mattino stesso, prima di recarsi nello stanzone del fratello, le aveva raccomandato di convincere il ragazzo a mantenere anche a casa quella sorta di tutore, in modo da raddrizzare l’arto.
La ferita che si allungava al di sotto dell’omero e lambiva il polso si era rimarginata senza alcuna difficoltà, sebbene la pelle fosse ancora molto edematosa e dolorante.
Anche le varie escoriazioni che avevano deturpato il capo e parte del corpo si stavano cicatrizzando assai velocemente.
“Nicolò, vuoi guardarmi un solo istante? Mi hai sentito?”
Sbuffò esasperata, speranzosa che quel mutismo si sarebbe volatilizzato non appena i due avessero messo piede fuori dall’ospedale.
“Magari ti aiuto a cambiarti, così potremo finalmente uscire! Fuori ci sono la mamma e il papà ad aspettarci e …”
“Non potrò vederli … perché li hai fatti venire? Te l’ho chiesto espressamente che non volevo nessuno”
Il fratello abbassò il capo e continuò a evitare di guardare nella sua direzione, rivolgendo invece l’attenzione alla porta dal vetro smerigliato che rappresentava l’entrata.
“Ma è da giorni che non vedono l’ora di riabbracciarti! Hanno compreso che tu abbia proibito loro di venire a trovarti solo quando mi sono inventata che era stato sconsigliato dai medici per evitare di intralciare la cura dei feriti, poi ho dovuto dire che non volevi che ti vedessero in un letto d’ospedale, adesso quale altra scusa mi suggerisci? Forza, sentiamo!”
Costanza si sistemò meglio sullo sgabello, quando in realtà avrebbe voluto alzarsi e scrollare la persona che aveva davanti, di certo non lo stesso Nicolò di qualche settimana prima.
“Non erano scuse, era la verità” le rispose a voce bassa, la schiena sempre rivolta alla sorella.
A questo punto, lei gli si parò davanti e, abbassandosi alla sua altezza, lo spronò come non aveva mai fatto.
“Non è vero, e tu lo sai! Hai creduto che in un modo o nell’altro tutti noi ti avremmo lasciato in pace, che ti avremmo dimenticato, come se non fossi mai esistito! Ma non puoi andare avanti all’infinito a recitare questa farsa! E’ arrivato il momento di affrontare la realtà, di renderti conto che non potrai nasconderti per il resto della tua vita dietro ad una montagna di menzogne e di mancanza di responsabilità!”
“E’ invece quello che intendo fare” ribatté apatico, muovendo lentamente il collo a destra e poi a sinistra.
Si guardò la mano sana e cominciò a chiuderla a pugno per un paio di volte, lamentandosi di quanto gli si fosse intorpidita.
“No, invece! Noi non te lo permetteremo! Il fatto che tu non possa ancora utilizzare bene il braccio o il fatto che tu non riesca a mettere a fuoco il mondo che ti circonda, per noi non sarà mai un problema! Saremo sempre pronti ad aiutarti e a sostenerti, qualsiasi sia la tua decisione!” tentò di farlo ragionare la sorella.
Costanza si sedette, il cuore che accelerava i battiti, delusa ancora una volta dal comportamento di quel fratello che stentava a riconoscere.
“Per me è un problema, per me sarà un problema…” la guardò dritta negli occhi, sbattendo le palpebre affaticate dallo sforzo di non urlare.
“Smettila di piangerti addosso! E ora alzati, non possiamo rimanere qui tutto il giorno!”
Lei si sollevò nuovamente, andando a recuperare il piccolo baule con i vestiti che donna Luisa si era premurata di scegliere personalmente: li appoggiò sul letto, rivolgendosi nuovamente al fratello, poi gli si avvicinò per spronarlo a mettersi in piedi.
“Mi stai facendo male” piagnucolò l’altro, mentre tentava una debole resistenza per rimanere seduto.
“Ho detto che mi stai facendo male!” continuò, notando che la sorella non accennava ad assecondarlo.
“Ah sì? Allora tu avresti potuto rimanere a casa, invece che arruolarti e farti ridurre in questo modo a dir poco penoso!”
Nicolò si issò come se avesse avuto una molla nascosta sotto la sedia, fronteggiando la ragazza con un furore accecante nello sguardo fino ad allora spento: la schiaffeggiò con tutta la forza di cui si sentì capace, quindi rimase fermo ed in piedi davanti a lei, il respiro affannoso.
Alcuni degli uomini presenti nello stanzone si girarono quasi all’unisono, animandosi per la curiosità dettata da quell’improvviso battibecco.
“Bravo, sei stato bravo, non posso dire diversamente” continuò l’altra, la voce modulata per non farsi sentire dai feriti.
“Se questo è servito a sfogarti, a dare un senso al rancore che provi, allora mi fa piacere di essere stata il tuo capro espiatorio! Ma adesso muoviti, è tardi”
Costanza gli voltò le spalle e riprese a scegliere meccanicamente tra la mezza dozzina di abiti, accecata da un’eccitazione che non sapeva spiegare.
“Va bene, torno a casa, però prima devo sapere che fine ha fatto una persona”
Il fratello si arrese e si sedette sul letto: cominciò a vestirsi, lasciandosi aiutare dalla ragazza, che nel frattempo aveva tirato prontamente il paravento dietro di lui.
“Di chi si tratta?”
“E’ un mio commilitone della brigata Piemonte. Si chiama Stefano Gardini: l’ultima volta che l’ho visto è stato
il 23 marzo, il giorno della battaglia”
Sembrava stesse compiendo un enorme sforzo nel ricordare quei momenti, eppure le parole presero a fluire sicure e quasi distaccate.
“Lui è caduto da cavallo poco prima che venissi colpito: il capitano Canavera, il nostro diretto superiore che hai conosciuto anche tu, ci ha raggiunti per capire cosa stesse succedendo, ma non c’è stato il tempo di renderci conto di nulla, perché poi sono stato disarcionato e sono svenuto. Da allora non ho più avuto notizie né del capitano e neppure di Stefano”
Costanza smise di allacciargli i bottoni della giacca color cenere: lo guardò negli occhi ambrati, lucidi e sinceri, sebbene ancora velati, quindi lo abbracciò.
“Ti prometto che troveremo entrambi. So che alcuni ufficiali del tuo Reggimento sono stati insigniti della medaglia d’argento: forse, tra di loro, c’è anche il tuo capitano”
Nicolò annuì, ritornando ad incupirsi.
“Dovrai essere tu i miei occhi, sorella: prima di mettere piede fuori di qui, ho bisogno di parlare con un medico, una suora, insomma qualsiasi persona che mi possa aiutare a rintracciare il mio amico! Per favore, aiutami…” le strinse con forza un braccio, fissandola sempre con quello sguardo dolorosamente vacuo.
“Ho capito, non preoccuparti”
“No, tu non capisci: ormai io vedo solo ombre, ombre dappertutto, ma ancora mi ricordo com’è fatto! Ascoltami bene, ha vent’anni, è un po’ più alto di me, forse di un paio di centimetri. E’ molto magro ed ha i capelli biondi, gli occhi sono chiari e … stai prendendo nota?” si fermò un istante, per toccare le mani di Costanza.
“Sì, certo, me lo sto immaginando mentalmente. Ma perché mi stai dicendo tutto questo? Tu puoi parlare e descrivere qualsiasi cosa o persona tu abbia conosciuto, senza bisogno di intermediari” gli fece presente, parlandogli con dolcezza e accarezzandogli il volto smagrito e sbarbato di fretta.
“Lo so, però ho bisogno di sapere che tu ci sarai, che non mi lascerai solo”
“E’ da giorni che continuo a ripetertelo, come faccio a fartelo capire?”
I due si abbracciarono, per la prima volta da settimane realmente in sintonia.
“Aspetta qui, vado a cercare un medico”


Il sanitario con cui parlarono doveva avere una quarantina d’anni: era allampanato e aveva i capelli castani e gli occhi scuri.
Fissava i due fratelli attraverso le lenti degli occhiali dalla montatura rotonda, mentre un sorriso fiducioso si apriva sul viso ben curato: sembrava infatti ricordarsi dell’amico di Nicolò.
“Credo di aver capito di chi state parlando … ma non è più qui, è stato trasferito a Torino”
“A Torino?”
“Sì, dopo le primissime cure che gli abbiamo fornito appena ci è stato portato”
“Ma perché avete deciso di spostarlo?” si allarmò il ragazzo, ancora seduto sul letto.
Il sanitario si portò una mano ad una tempia, indeciso se proseguire.
“Non posso sbilanciarmi, signore, il mio codice deontologico mi impone di mantenere il segreto professionale…”
“Vi prego, per noi è una questione molto importante! Lui e mio fratello hanno combattuto insieme, e adesso ha il diritto di sapere che cosa gli è accaduto!”
Il medico si umettò le labbra, distogliendo lo sguardo per qualche attimo.
“Se non rammento male, ha riportato delle ferite molto gravi alla schiena: non sappiamo se potrà riprendere a camminare, per questo abbiamo preferito trasferirlo in un centro più attrezzato”
“E quando è partito?” continuò incredulo l’altro, abbassando lo sguardo e stringendo i pugni.
“Ora mi state chiedendo davvero troppo: lo vedete anche voi quante ancora centinaia di feriti abbiamo da curare…”
“Fate uno sforzo, per favore”
Costanza non voleva deludere Nicolò, la verità è che non poteva ingannarlo come la Vita stessa lo aveva disilluso.
“Attendete un momento, vedo se riesco a trovare la copia del documento del ricovero”
Una manciata di secondi più tardi, l’uomo tornò con un mezzo sorriso sulle labbra ed una cartelletta scura tra le mani.
“E’ stato portato al Regio Ospedale una settimana fa. So che è riuscito a superare il viaggio, però non ho altre notizie. Mi dispiace…”
“Almeno avete l’indirizzo dell’ospedale?”
“Sì, ma nelle vostre condizioni è meglio che non affrontiate spostamenti così lunghi e faticosi. Per il vostro commilitone è stato necessario, ve l’ho detto, anche a rischio delle possibili conseguenze, ma per voi non la reputo una buona cosa…”
“Lasciate decidere a me” rispose nervoso Nicolò, cercando di dominare la rabbia.
Il medico fissò per un lungo istante prima lui e poi Costanza, quindi acconsentì.
Comunicò il nome della struttura e si accomiatò, dubbioso di aver fatto la scelta giusta. 
 

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Capitolo 35
*** Duello all'ultimo sangue ***


Spesso, l'invidia è il motivo migliore per odiare qualcuno.

(Anonimo XX° secolo)

Il circolo si stava lentamente ripopolando: non vi era ancora l’effervescenza culturale che si poteva respirare fino a qualche settimana prima, ma il semplice fatto che i gentiluomini non avessero più timore ad uscire dalla sicurezza delle loro case era già un ottimo punto di partenza.
Pietro salutò con un cenno del capo un signore anziano in compagnia del nipote, entrambi impegnati a conversare insieme ad altri ospiti, quindi si guardò intorno: la persona che stava cercando non sembrava essere ancora arrivata.
Tamburellò sul cappello nero, indeciso se attardarsi ad aspettarlo o recarsi direttamente all’abitazione dell’uomo, ma alla fine optò per la prima soluzione.
Si sedette ad uno degli eleganti tavolini ricoperti da una tovaglia rossa con il bordo di pizzo giallo, e si fece servire del rhum da uno dei camerieri che gli si era prontamente avvicinato.
Detestava bere di mattina, ma sentiva la necessità di impiegare il tempo in un modo che risultasse tanto piacevole quanto consono ad un luogo del genere.
Prese a sorseggiare il liquido ambrato, rimuginando sull’incontro che lo avrebbe visto coinvolto: sapeva che sarebbe arrivato, glielo aveva letto negli occhi, e poi non poteva permettersi di deludere né Costanza e neppure Nicolò.
Il pomeriggio di due giorni avanti, infatti, prima di scendere a cenare, Pietro aveva esposto alla cugina l’idea che gli era venuta ormai dalla settimana precedente: per cercare di riscuotere il ragazzo dall’apatia in cui era piombato, le aveva suggerito la sua disponibilità per l’indomani mattina di recarsi da Eugenio Maffucci, il capo del gruppo dei giovani rivoluzionari, per indurlo ad incontrare Nicolò e aiutarlo nel tortuoso percorso di rinascita.
Non era stato difficile trovare Eugenio: l’avvocato dai baffetti aveva trascorso i giorni dell’assedio rintanato nella soffitta del suo elegante appartamento in centro, dove aveva ripreso la sua attività di stimato professionista.
Inoltre, era sinceramente curioso e preoccupato di sapere come stava il giovane Granieri, l’unico degli affiliati di cui ancora non aveva avuto notizie, dopo la disastrosa battaglia della Bicocca.
Accettò con entusiasmo di rincontrare l’amico, convinto che la sua presenza avrebbe avuto il potere di riportarlo in mezzo a loro, tra i vivi, ma era anche consapevole dell’importante fardello morale di cui era stato investito.
Per questo, Pietro sapeva che si sarebbe presentato all’appuntamento concordato per le undici, fissato apposta per spiegargli come avrebbe dovuto comportarsi con il fratello di Costanza.
Immerso nelle congetture, il conte Caccia continuò a sorseggiare il liquore, sperando di non dover attendere ancora per molto: non poteva dimenticare di essere cauto, e di certo mostrarsi in compagnia di un esponente del gruppo rivoluzionario qual era Eugenio avrebbe potuto rivelarsi pericoloso per l’incolumità di entrambi.
Scrutò ancora una volta nell’ampio salone, riconoscendo la quasi totalità dei volti dei nobiluomini intenti a chiacchierare o a leggere il quotidiano.
In quel mentre, si accorse di una figura solitaria che gli dava le spalle, a pochi passi dallo scalone che conduceva al piano superiore, eppure gli fu sufficiente un’occhiata per insinuare il dubbio di averla riconosciuta, dubbio che si apprestò prontamente a spazzare via.
Quando finì il rhum, pronto ad alzarsi e ad andare a domandare al proprietario del circolo se qualcuno avesse lasciato un messaggio da recapitargli, si sentì chiamare.
“Buongiorno fratello, anche tu qui?”
Federico gli si parò davanti con il solito sorriso beffardo, pronto ad esibirsi nell’ennesimo duello verbale con Pietro, che non lasciò trapelare lo stupore per quella sgradita sorpresa.
Era lui, infatti, la figura misteriosa che aveva creduto di distinguere pochi attimi prima.
“Dovrei essere io a domandartelo. Sbaglio o sono mesi che non frequenti questo posto?”
L’altro annuì sornione, il completo cenere e gli stivali neri, quindi si avvicinò di qualche ulteriore passo, la voce bassa.
“Adesso le cose sono cambiate, dovresti essertene accorto. Vedi, Pietro, è anche nel mio interesse salvaguardare ciò che ancora si può difendere dalle grinfie rapaci del nemico, esattamente come stanno facendo tutti in questa città. Non trovi che faccio bene?”
“A cosa ti riferisci?” insinuò sospettoso.
“Beh, a molte cose e a nessuna. Che ne so, ad esempio all’onore o alle amicizie a noi più care, che troppo spesso rischiano di andare perduti …” proseguì lascivo.
“Tu parli di onore e di amicizia? Davvero non ti riconosco più, fratellino!”
Il primogenito dei Caccia gli batté su una spalla: in un gesto di saluto, si portò l’indice al cappello che si era calato sulla testa, quindi lo superò per uscire dal circolo.
Farsi vedere in compagnia di Maffucci, infatti, avrebbe potuto rivelarsi molto pericoloso e alimentare fantasie aggiuntive alla già fervida immaginazione di Federico.
“Non penserai di andare via proprio adesso! Da come ti guardavi in giro, mi sembrava che stessi aspettando qualcuno, fratellino”.
Pietro continuò a dargli le spalle, ma quasi riusciva ad avvertire il fiato dell’altro sul collo.
“Ti sbagli” riuscì a rispondere con naturalezza, voltandosi nella direzione di Federico.
“Sono venuto perché mi aspettavo di trovare una persona, ma evidentemente non è ancora arrivata. Ti ricordi di Guido, il figlio del marchese Tornielli?* Ebbene, è qualche settimana che non lo vedo e avevo piacere di scambiare due parole con lui, anche se a questo punto credo dovrò rimandare ad un’altra volta. Ora scusami, ma ho delle commissioni da sbrigare. Ci vediamo più tardi a casa”
“Pietro!” lo richiamò ad alta voce l’altro.
Mancavano pochi metri all’uscita: dalla posizione in cui si trovava, il biondo riusciva a vedere chiaramente la strada deserta.
Avvertì i rintocchi del campanile battere le undici, mentre il vociare educato dietro di lui gli inondava l’udito e la mente, innervosendolo a tal punto da non trovare una soluzione efficace per levarsi da quell’impiccio.
Rifletté che non poteva nemmeno fuggire, perché tale comportamento avrebbe insospettito Federico, perciò si arrese a continuare quell’assurda farsa, aspettando la replica del fratello.
“Ricordati di non fare qualche mossa sbagliata: non vorrei che ci andasse di mezzo la nostra cara cugina …”
Il primogenito si girò di scatto, reprimendo la rabbia ed il disgusto per quelle sordide affermazioni.
“Che cosa intendi?” sibilò in un grugnito, mantenendo un’adeguata distanza dal suo interlocutore.
Egli si avvicinò e lo guardò con aria di superiorità, pronto a spiegargli all’orecchio l’origine di quelle parole.
“So molte più cose di te e dei tuoi amichetti di quanto tu possa immaginare. Basterebbe una mia sola parola a distruggerti e a far arrestare te e l’intera banda di folli che ti circonda”
“Smettila di giocare al cospiratore!” gli intimò Pietro, allontanandosi nauseato.
“Tu dici? Se non mi credi, puoi sempre mettermi alla prova”
Il fratello maggiore serrò le mascelle, sforzandosi di controllarsi: lo avrebbe preso volentieri per il bavero e scaraventato contro il muro, ma quello non era il luogo adatto a simili esibizioni.
“Perché mi odi così tanto?” preferì invece ribattere.
“Io odiarti?” Federico scoppiò in una sonora risata, quindi scosse la testa con aria divertita.
“Allora hanno ragione a definirti il più intelligente della famiglia! La tua arguzia mi stupisce ogni giorno che passa, fratellone!” gli regalò una pacca su una spalla, per poi ritornare subito serio.
“Non dimenticare che non sto scherzando, che non ho nulla da perdere, anzi, ho solo da guadagnare in tutta questa storia”
“Certo, tu sei solo uno stupido ragazzino che gioca a fare la spia e a divertirsi sulle disgrazie altrui! So bene chi sei, Federico, cerca anche tu di non dimenticare quante cose so io di te…”
Pietro lo sfidò ancora una volta con i suoi occhi di ghiaccio, quindi girò i tacchi e fece per andarsene.
“Tu non mi credi, è così? Tu non credi possibile che possa essere il fautore delle tue disgrazie, che posso arrivare a rovinarti la vita?”
Un lampo di disprezzo e di rabbia attraversò lo sguardo del giovane Caccia, stanco di essere continuamente messo in secondo piano dalla perfezione del primogenito, che continuò a dargli le spalle.
“Te lo ripeto, Pietro, basterebbe una sola parola a disintegrarti, un semplice e solo sì a chi di dovere e mi pregherai in ginocchio di salvarti”
“Non daresti mai un tale dispiacere ai nostri genitori, lo so. Ma se non vuoi avere guai, stai lontano dai miei amici e soprattutto da Costanza”
"Ah, la povera e innocente Costanza. Se sapesse tutto quello che fai. Allora sai cosa ti dico? Ti sfido a duello!"
Federico tirò fuori dall'interno della redingote color cenere un fazzoletto di lino, con cui schiaffeggiò il fratello.
"Non fare lo sciocco, dammi retta!"
Ma ormai il danno era fatto: la totalità dei presenti si era voltata nella loro direzione, tentando di reprimere la curiosità per quel gesto a dir poco plateale.
"Non sto scherzando, Pietro, io non scherzo mai! Ti ho appena sfidato a duello perché è ciò che intendo fare! Anzi, ti dirò di più!"
Ruotò il busto verso i galantuomini che avevano in parte distolto lo sguardo, sorridendo solenne.
"Signori! Sono stato offeso pubblicamente dal qui presente conte Pietro Caccia Dominioni: per questo, vi chiamo a testimoni del gesto a cui tutti voi avete appena assistito! Nomino come padrino il duca Rodolfo degli Antinei, il quale farà pervenire allo sfidante il luogo e l'orario in cui avverrà il duello. A te la scelta dell'arma da utilizzare, fratello" spiegò sprezzante Federico.
"Non intendo accettare per nessun motivo: non mi presterò a questa pantomima!"
"Lorsignori hanno sentito come ho sentito io?! Il qui presente conte rifiuta di combattere! E' forse un segno di viltà il suo?" lo punzecchiò, puntandogli l'indice contro il petto.
I gentiluomini ripresero a fissarsi reciprocamente con aria smarrita, l'imbarazzo che trapelava dai volti curati.
"Smettila di renderti ridicolo e vieni via. E' meglio per tutti"
Pietro infilò le mani nelle tasche blu del cappotto e finalmente uscì dal circolo.
"Non finisce qui!" replicò l'altro, la voce che ormai era diventata un'eco lontana.
 


Si era poco oltre la metà di aprile, e Nicolò aveva fatto ritorno a palazzo Caccia da una decina di giorni.
Donna Rosa avrebbe voluto organizzare una festa in suo onore, un paio di sere prima, ma il giovane aveva insistito di non essere ancora pronto per quel genere di cose, così la contessa aveva desistito
a malincuore.
Costanza trascorreva la maggior parte del tempo in compagnia del fratello: approfittando delle tiepide giornate di sole, lo invitava a fare lunghe passeggiate per il parco, qualche volta osando addirittura addentrarsi nelle vie adiacenti, il braccio di lei attorno a quello di lui per guidare i suoi passi insicuri e stanchi.
I momenti più difficili in cui l’imbarazzo prendeva quasi il sopravvento sulla gioia di riaverlo finalmente tra loro avvenivano durante i pasti, quando l’intera tavolata sembrava cadere in un torpore inspiegabile.
I commensali non sapevano di cosa o di chi parlare che non avesse a che fare, in un modo o nell’altro, con le vicende belliche appena accadute: la città era ancora occupata, i ricevimenti pubblici erano praticamente inesistenti, così come le manifestazioni o le riunioni politiche.
Gli sguardi della famiglia si alzavano ridenti su Nicolò, il desiderio ardente di coinvolgerlo nella quotidianità, ma subito si riabbassavano perché si accorgevano che non vi era praticamente nulla di sensato o di positivo da condividere con lui.
A tirarli fuori da quella situazione incresciosa, spesso era proprio il ragazzo: sebbene il tempo trascorso non avesse modificato l’atteggiamento riottoso del giovane, e gli occhi apparivano velati e sfuggenti, allo stesso modo dell’assenza di qualsiasi ombra di sorriso sul volto, lui stesso compiva enormi sforzi per riuscire a non apparire perennemente imbronciato.
L’attimo prima, ad esempio, sembrava essersi mentalmente ripreso, sorrideva e conversava con affettata naturalezza sulla bontà delle pietanze servite o della trama del libro che la sorella gli stava leggendo, mentre quello successivo il suo umore cambiava di colpo, incupendosi nuovamente.
Si chiudeva a riccio e non permetteva a nessuno di avvicinarsi, nemmeno alla madre che, da quando era tornato, non solo era rinsavita, ma lo trattava con ogni riguardo, come se fosse nato per la seconda volta.
Allora, in quelle occasioni, si rifugiava in un angolo remoto del vasto parco della villa degli zii, seduto sulla terra fredda ed umida che celava le radici di uno dei secolari tronchi degli abeti, e la mente cominciava a vagare, tornando indietro alle settimane precedenti: nel mare dei ricordi, riaffioravano le immagini sbiadite- eppure ancora così vivide- della notte in cui era fuggito di casa per cercare rifugio dal suo amico Maffucci, e ancora dell’euforia che lo aveva invaso quando era riuscito ad arruolarsi nell’Esercito sabaudo, e degli intensi allenamenti con la spada e il tiro al fucile nel cortile dell’Albergo svizzero.
La compagnia del mite e allegro Stefano, la cui voce e il suo viso non riusciva a dimenticare, lo inducevano ancora di più nello sconforto.
Sovente, inoltre, ripercorreva le ore interminabili della traversata sul Ticino, i soldati in fila indiana in perenne allerta, circondati dalla campagna metà piemontese e metà lombarda, mentre i volti incuriositi ma ostinati dei contadini li scrutavano da sotto i cappelli: allora, l’unico sentimento che lo animava era la speranza di vincere e di mostrare sul campo il coraggio che lo animava da mesi.  
Si sentiva forte e incredibilmente invincibile, sicuro che la sorte non gli avrebbe mai voltato le spalle; e proprio in quei momenti, quando il cuore si stringeva per la pena, la mente rievocava le battaglie a cui aveva partecipato, dalla Sforzesca a quella della Bicocca, e un’improvvisa fitta alla testa lo riportava bruscamente alla realtà.
Si sentiva svuotato, insensibile a provare qualsiasi emozione che non fosse una profonda tristezza: anche una semplice risata gli provocava un violento fastidio che riusciva a reprimere a fatica, stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche e mordendosi le labbra in modo da sentire il sapore metallico del sangue sulla lingua.
Il braccio sinistro era quasi ritornato sano, riusciva tranquillamente a piegarlo oltre il gomito, a mangiare e ad allacciarsi i bottoni di camicie e giacche senza chiedere l’aiuto di qualcuno, tuttavia, soprattutto la notte, il dolore provocato dalle fitte lancinanti non lo lasciava riposare.
Gli occhi erano sempre velati da un’oscurità che non accennava a dissiparsi, anzi, Nicolò era convinto che la sua vista fosse ormai irrimediabilmente perduta.
Non riusciva a ritenersi fortunato per essere tornato sano e salvo dai combattimenti, perché più i giorni passavano e più lui era convinto che sarebbe stato meglio morire.
Di notte, quando non riusciva a dormire a causa del braccio ferito, pregava un Dio in cui non credeva più di donargli sorella Morte, sgravandolo di quel peso che era diventata la Vita.
E di giorno, quando la confusione lo stordiva e lo sguardo cadeva in uno degli specchi del palazzo, subito si voltava dall’altra parte: non aveva il coraggio di fissare la sua immagine deturpata dallo scoppio della granata nemica, la odiava e la temeva al contempo, e soprattutto temeva di non ricordarsi più il suo vero viso.
Un pomeriggio, però, verso l'imbrunire, si era ritrovato a percorrere i lineamenti della fronte e degli zigomi con la mano del braccio sano, ma subito si era fermato, pentendosi di quell’azzardo.
La cute era disseminata di lievi cicatrici agli angoli degli occhi, all’attaccatura dei capelli e, nascoste alla vista dalla folta chioma, sullo stesso cuoio capelluto.
Un sorriso beffardo gli increspò le labbra, simile ad un ghigno informe: il pensiero che appena tre mesi prima si dilettava a pronunciare discorsi patriottici davanti alla grande specchiera della sua camera da letto, vantandosi della sua bellezza e della sua bravura come il superbo Narciso, gli provocava un’irrefrenabile voglia di ridere e piangere.
In fondo, anche lui si era comportato come quel giovane mitologico, sfidando una divinità più forte e potente della sua misera condizione di mortale, che non aveva desistito a punirlo della sua sfacciataggine: il Destino si era beffato della sua presunzione, condannandolo ad un’esistenza informe e priva di luce, e avrebbe fatto meglio a farsene una ragione.


*
I Tornielli erano una potente famiglia novarese, proprietaria di numerosi feudi e del titolo di conti e marchesi, le cui origini sono rintracciabili nella zona fin dal 966. Nel palazzo di famiglia è avvenuta la famosa abdicazione di Carlo Alberto: attualmente ospita la sede della Banca Popolare di Novara.
Inoltre, in città vi è un liceo dedicato alla contessa Tornielli Bellini, una delle ultimi esponenti del casato.

Grazie a tutti i miei adorati lettori e recensori: scusate se sono ritornata ad essere incostante con pubblicazioni, risposte e recensioni di altre storie, ma la tesi si è di nuovo impossessata delle mie giornate :(  
Rimedierò ad ogni cosa già domani (spero).
A presto e vi auguro una serena buonanotte!!!

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Capitolo 36
*** Riunione in chiesa ***


Lieta del fato Brescia raccolsemi,
Brescia la forte, Brescia la ferrea,
Brescia leonessa d’Italia
beverata nel sangue nemico.

 (Da "Odi barbare", Libro V, maggio 1877)
                                                                                                                        
                                               (Giosué Carducci, 1835-1907, poeta e scrittore, primo premio Nobel italiano)




Erano ormai le undici e trenta, le strade si stavano rianimando di carrozze e passanti pronti a fare ritorno nelle loro case per il pranzo, mentre i commercianti ambulanti esponevano la loro mercanzia ai lati delle piazze e delle vie.
Pietro uscì dal circolo con una grande rabbia in corpo: suo fratello era diventato un sadico senza scrupoli, che non aveva tentennato nemmeno per un momento di schierarsi contro il suo stesso sangue.
Mi piacerebbe proprio conoscere quei miserabili traditori che lo hanno reso così insensibile all’onore ed al giudizio più elementare!”.
Lo sguardo dritto davanti a sé, desiderava solamente allontanarsi il prima possibile da ciò che era successo.
Il passo veloce degli stivali sul selciato, il conte raggiunse la prima vettura a noleggio libera: aveva già le dita attorno alla maniglia, quando gli sembrò di avvertire una presenza che lo fissava, a pochi passi dietro di lui.
Si girò di scatto, temendo che Federico lo avesse raggiunto, ma subito sospirò di sollievo, quando si accorse che ad attenderlo era invece Eugenio Maffucci, brillante avvocato e capo del gruppo di giovani rivoluzionari.
“Pietro, perdona il ritardo, ma davanti a casa mia sostava un manipolo di soldati che non sembrava intenzionato ad andarsene…”
L’uomo dai baffetti, allampanato e con i capelli scuri, strinse affettuosamente un braccio all’amico, guardandolo con aria preoccupata.
“Hai fatto benissimo ad aspettare, non preoccuparti. Purtroppo ho poco tempo, ma vieni, conosco un posto in cui potremo parlare tranquillamente”
I due si allontanarono nella direzione opposta alla quale si erano incontrati, fino ad addentrarsi in un labirintico intreccio di stradine secondarie e vecchi palazzi fatiscenti.
Una dozzina di minuti più tardi, sbucarono in una minuscola piazzetta esagonale dal lastricato di sampietrini: su uno dei suoi lati, si apriva la chiesa di Nostra Signora del Carmine, una costruzione del XVIII secolo dalla facciata neoclassica.
“Non ti facevo così religioso” cercò di alleggerire l’atmosfera l’avvocato, seguendolo a ruota.
Entrarono nell’edificio, il sibilo del massiccio portone d’ingresso che sfregava sul marmo bicromo, e si diressero in un angolo appartato, vicino al fonte battesimale.
La luce che filtrava dai rosoni era attutita dal passaggio improvviso di nembi scuri, che per qualche istante oscurarono il sole di metà aprile.
“Allora? Quando potrò vedere Nicolò?” s’informò senza inutili preamboli Maffucci, una volta che entrambi si furono accomodati su una delle panche presenti.
“Vieni a palazzo domani pomeriggio verso le due e trenta. A quell’ora, mio fratello sarà già in giro a compiere chissà quali nefandezze”
Pietro si sistemò meglio la redingote e appoggiò il cappello sulle gambe, guardandosi intorno nervosamente.
“Sei ancora convinto che prenda parte ad una delle bande che sostengono gli Austriaci?”
L'altro sospirò sconsolato, spiegandogli brevemente ciò che era accaduto al circolo, mentre avvertiva di nuovo nascere dentro di sé un crescente senso di rabbia e delusione per il giovane che era diventato Federico.
“Ho capito quello che provi, amico mio, ma non preoccuparti troppo per questa storia del duello: sono convinto che tuo fratello conservi ancora un briciolo di intelligenza necessaria a rendersi conto dell’immane sciocchezza che ha compiuto nei tuoi confronti”
Il conte annuì, poco speranzoso in un lieto fine, ma in parte rincuorato per le parole pronunciate dall’amico.
In quel momento, il portone si aprì, lasciando entrare un’anziana donna vestita a lutto, facendo zittire i due uomini.
Essi seguirono con lo sguardo i passi stanchi della nuova venuta, che si trascinò fino ad uno dei posti in prima fila, quindi si inginocchiò non senza fatica, sgranò il rosario che aveva tra le mani e abbassò il capo in direzione del grande crocefisso davanti a lei.
“Comunque non dobbiamo perdere la speranza, Pietro” lo consolò l’avvocato, avvicinandosi per non alzare il tono di voce.
“A Brescia, i nostri fratelli hanno combattuto strenuamente per dieci lunghi giorni: l’intero popolo si è riversato per le strade, ha costruito dal niente centinaia di barricate per contrastare quei maledetti Austriaci! Ti ricordi di Tito Speri? Lo abbiamo conosciuto durante una riunione della zona lo scorso autunno. Ebbene, è stato lui a capeggiare la rivolta, lui e un prete, pensa te! Sai cosa significa tutto questo? Che la gente ha voglia di cambiare, Pietro, vuole combattere per liberarsi dal giogo nemico, ma sa che dobbiamo essere più uniti che mai, che se molla uno, inevitabilmente si rischia di provocare l’effetto domino!” spiegò con fare accalorato il trentenne dai baffetti, deglutendo entusiasta.
“Lo so, Eugenio, ma so anche che sia qui che a Brescia abbiamo perso: la buona volontà non è sufficiente a contrastarli, se dall’alto non arrivano gli aiuti necessari e gli stessi uomini di Stato non sono a loro volta opportunamente preparati. Non hai sentito che Ramorino è stato arrestato e rischia la condanna a morte? Ecco, quello che voglio dire è che vi sono ancora troppe lotte intestine per permetterci di guardare tutti in un’unica direzione, verso la direzione della Libertà!”
Maffucci aprì la bocca per ribattere, ma poi desistette, abbassando lo sguardo e scuotendo la testa.
“Non credi più alla nostra causa, vero?” si arrese a domandare, il tono di voce ancora più basso.
“Come puoi pensarlo!? Io desidero con tutto me stesso che il nostro Paese sia finalmente libero di governarsi, ma è inutile affrettare i tempi, Eugenio, anzi, facendo così ci facciamo solo del male!”
Il campanile sopra le loro teste batté i dodici rintocchi: Pietro regalò una pacca sulla spalla dell’uomo, sorridendogli comprensivo.
“Ora devo andare: mio padre ha accompagnato il marito di mia cugina Luisa a controllare lo stato del loro palazzo al Torrione. Ho promesso che sarei arrivato prima di pranzo, e temo che Federico possa accorgersi della mia assenza e approfittarne per trarre conclusioni affrettate”
I due si alzarono in silenzio ed uscirono dalla chiesa, il sole di nuovo alto nel cielo.
Il conte si calò il cappello e abbracciò brevemente l’amico.
“Ti aspetto domani pomeriggio: mi raccomando, Nicolò ha bisogno di tranquillità, non aspettarti che parli della guerra come una volta. Lo troverai molto cambiato, cupo e fisicamente provato, ma trattalo allo stesso modo di sempre”
L’avvocato lo fissò duramente, le mani nelle tasche dell’abito blu notte.
“Non temere, andrà come vuoi tu”
E dopo un’ultima occhiata carica di significati nascosti, finalmente si allontanarono dandosi le spalle.
 
 
Don Armando aveva deciso di fare ritorno a casa, nel palazzo lasciato in eredità dal suocero.
L’ospitalità degli zii della moglie era stata completa e preziosa, un autentico ricostituente contro le sofferenze che avevano patito lui, donna Luisa e i loro due figli.
Il ritorno di Nicolò gli aveva inoltre infuso nuove speranze e, anche se era stato difficile ammetterlo, aveva messo da parte il proprio orgoglio per abbracciare il primogenito e regalargli un sorriso che significava molto più di mille frasi affettuose.
Dagli sguardi di donna Luisa e di Costanza, quando quella mattina a colazione aveva annunciato la grande novità, aveva intuito che non fossero propriamente entusiasti di rinunciare all’ospitalità di zia Rosa e zio Aldo, tuttavia, non potevano fare altrimenti.
Nicolò non aveva espresso alcuna emozione, né perplessità né gioia, nulla che lo inducesse a manifestare disapprovazione o apprezzamento per la decisione del padre.
Continuava a rimanere assorto nel suo mondo, per risvegliarsi brevemente con frasi di circostanza, come l’educazione impostagli da piccolo gli intimava di fare.
Così, quella mattina, anche per lui e per ridargli una parvenza di quotidianità, il notaio e il conte Aldo si erano recati a vedere le condizioni in cui versava la dimora di famiglia, che distava solamente una manciata di chilometri dalla zona del Torrion Quartara, uno dei luoghi insanguinati e devastati dalla battaglia della Bicocca del 23 marzo scorso.
Don Armando temeva di aver cantato troppo presto vittoria, ma qualcosa nel profondo gli suggeriva di continuare ad essere fiducioso.
Scesero dalla carrozza che erano quasi le dieci, il cuore in gola per l’emozione e le possibili conseguenze lasciate dagli scontri bellici.
Entrambi si guardarono con attenzione attorno, a vista d’occhio le uniche due presenze umane. La campagna circostante conservava ancora le tracce lasciate dalle palle di cannone e dai proiettili nemici, che avevano ignobilmente violato il suo suolo: le spighe di frumento erano state bruciate dalla potenza della polvere da sparo, e il ruscello che scorreva poco distante appariva prosciugato e sofferente.
“Armando, se volete posso andare da solo a controllare…”
Il conte Aldo si era mantenuto fianco a fianco del nipote acquisito, come per infondergli coraggio, sentendosi ugualmente coinvolto in quella lenta e misteriosa riscoperta di luoghi tanto cari.
“Non temete, ho solo bisogno di sperare che, almeno qui, tutto sia andato per il meglio. Già vi ho fatto lasciare la carrozza sul lato opposto, in modo da non subire sgradite sorprese, non vi chiederò di sostituirvi a me, ma grazie lo stesso, davvero”
I due uomini si sorrisero, le chiome bionde illuminate dal sole di metà mattina, quindi si avviarono nella direzione della dimora, le cui finestre del piano più alto si riuscivano ad intravedere.
“Che Dio sia lodato!” si lasciò sfuggire il notaio, avvicinandosi felice, e compiendo un primo giro di perlustrazione sommaria.
Il palazzo, fortunatamente, non aveva subito alcun danno irreparabile, se si escludeva il fatto che il grande portone di legno che conduceva all’aia e al vasto cortile sul retro era stato divelto dai cardini e spezzato in più punti, e se non si contavano le scorte di viveri nel granaio e nella dispensa in buona parte depredate.
L’interno dell’abitazione non era stata forzata, risparmiata grazie al sacrificio dei soldati piemontesi che avevano coraggiosamente respinto il nemico nella zona adiacente, almeno era ciò che si era immaginato don Armando, osservando con tristezza le strisce di sangue che insozzavano la terra battuta antistante il palazzo, ad appena un centinaio di metri dall’ingresso della casa.
Anche il giardino, sul lato principale, era stato incredibilmente rispettato dalle scorribande degli Eserciti: tuttavia, in quelle tre settimane di lontananza forzata, l’erba non era stata curata, per cui era cresciuta spregiudicatamente indisturbata, dando un aspetto trasandato all’ampia distesa verde e fiorita selvaggiamente.
Grazie alla buona Sorte, il notaio Granieri aveva deciso che il giorno dopo, lui e la sua famiglia, avrebbero fatto ritorno nel palazzo lasciato in eredità dal suocero, cercando di lasciarsi alle spalle quella dolorosa parentesi di vita.
L’uomo aveva già informato la servitù di presentarsi per mezzodì al loro cospetto, mandando di persona nelle varie abitazioni di cuoca, camerieri, cocchiere e giardinieri uno degli inservienti dei conti Caccia.
“E’ davvero un miracolo che non vi siano danni strutturali” osservò compiaciuto don Aldo, mentre ritornavano alla carrozza.
“Avete ragione, è davvero straordinario! Sono convinto che, da adesso in poi, ogni cosa si aggiusterà!”
L’altro annuì, sorridendo con gli occhi azzurri.
“Sono molto felice per voi, caro Armando, vi meritate tutta questa gioia, ve la meritate come nessun altro”





NOTA DELL'AUTRICE


La facciata neoclassica della chiesa del Carmine



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Nel 1848, il popolo bresciano organizza un comitato clandestino capeggiato da Tito Speri e da don Pietro Boifava, curato a Serle.
Il 23 marzo del 1849 la notizia della prevista riscossione da parte degli Austriaci di una multa cospicua, imposta alla cittadinanza per una precedente insurrezione cittadina, scatenò la ribellione collettiva contro l’oppressore. 
Brescia, insorta confidando nell’aiuto piemontese, scelse di non arrendersi agli Austriaci nuovamente vincitori a Novara, ingaggiando una resistenza per dieci, lunghissimi giorni, con il coinvolgimento della gente, che lottò strenuamente casa per casa e dietro le barricate allestite nei punti chiave della città, mentre gli austriaci, arroccati in Castello, bombardavano il perimetro urbano.
La resa della Leonessa d’Italia si ebbe il 1° aprile 1849, dopo che il maresciallo Haynau, detto “la jena”, accorso in sostegno della guarnigione austriaca guidata dal generale Nugent.
L’insurrezione fu spenta nel sangue, con una repressione violenta nei confronti dei civili, piegati da fucilazioni che si protrassero nel tempo, fino al 12 agosto, data dell’amnistia voluta da Radetzky. Gli insorti fatti prigionieri vennero rinchiusi in Castello e molti di loro fucilati nei fossati e sugli spalti e sepolti sul posto. Nel complesso furono 378 i civili morti durante le Dieci Giornate.
Tito Speri animerà un nuovo comitato insurrezionale, ma finì impiccato sugli spalti di Belfiore, a Mantova, nel 1853.

(tratto da "Brescia Musei")

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Capitolo 37
*** All'attacco, Bersaglieri! ***


« Mio caro generale,
vi ho affidato l'affare di Genova perché siete un coraggioso. Non potevate fare di meglio e meritate ogni genere di complimenti.
Spero che la nostra infelice nazione aprirà finalmente gli occhi e vedrà l'abisso in cui si era gettata a testa bassa

Ricordatevi di far condannare dai tribunali tutti i delitti commessi da chiunque e soprattutto nei confronti dei nostri ufficiali; di cacciare immediatamente tutti gli stranieri e di farli accompagnare alla frontiera e di costituire immediatamente una buona polizia.
Informateci su ciò che succederà, sullo stato della città, sul suo spirito, su coloro che hanno preso più parte alla rivolta, e cercate se potete di far sì che i soldati non si lascino andare a eccessi sugli abitanti.

Li 8 aprile 1849
Vostro affezionatissimo
Vittorio »





Abbandonata la campagna, si stavano addentrando nel centro cittadino, in prossimità del Teatro Nuovo, quando la carrozza dovette fermarsi.
“Che succede?” domandò il conte Aldo al cocchiere, picchiettando con il bastone sulla parete divisoria dietro il servitore.
“Ci sono delle barricate, signore…”
In quel mentre, il nitrire imbizzarrito dei due cavalli bianchi che trainavano l’elegante Landau fece sobbalzare i galantuomini.
Don Armando fissò per un fulmineo istante lo zio acquisito, quindi si protese ad abbassare la maniglia della vettura, quando un rombo acuto ed incredibilmente vicino lo trattenne dal compiere qualsiasi altro gesto.
“Dobbiamo capire che cosa sta accadendo” cominciò ad agitarsi il notaio, irritato dal non sapere l’origine di tutto quel trambusto.
“Torniamo indietro, datemi retta. Faremo una strada alternativa per arrivare a palazzo, più lunga certo, ma di indubbia sicurezza”
Granieri scostò la tendina di velluto che li proteggeva alla vista altrui, ritrovandosi ad ammirare uno spettacolo a dir poco apocalittico: la Guardia Civica a cavallo aveva formato una sorta di muraglia umana che stava tentando di contrastare la folla inferocita a pochi metri dal loro schieramento.
Alcuni soldati brandivano spade affilate, con cui cercavano di fendere l’aria per allontanare l’assembramento indesiderato, mentre altri avevano già caricato le pistole ed i fucili, che mantenevano ben saldi in mano.
La calca assomigliava ad un’unica ed immensa marea, pronta a spostarsi avanti, indietro o di lato, a seconda del pericolo che incombeva.
Uomini e donne di qualsiasi età impugnavano con grinta e coraggio dei bastoni di legno e dei forconi, gridando con una sola voce “Abbasso Casa Savoia! A morte il Re! A morte il Re!”.
Don Armando avvertì una fitta di repulsione e di sbigottimento attanagliargli lo stomaco: non riusciva a capire quale fosse la causa che aveva scatenato quell’immenso putiferio. La gente non era stanca dei morti e dei feriti che la recente guerra contro l’Austria aveva causato inutilmente? Quanti altri giovani come suo figlio avrebbero dovuto soffrire e rovinarsi la vita per i capricci altrui?
“Non servirà a nulla rimanere qui” il conte Caccia lo ridestò dai suoi pensieri, intimandogli nuovamente di allontanarsi il prima possibile dalla piazza.
Il notaio annuì, notando il volto addolorato dell’uomo, anch’egli spettatore della bolgia infernale che si stava verificando a pochi metri.
All’ordine del padrone, il cocchiere impugnò le redini e spronò gli esemplari equini a riprendere la marcia.
Lentamente, le voci dei manifestanti si affievolirono, trasformandosi in un’eco lontana ed indistinta.
Improvvisamente, però, la carrozza rallentò ancora una volta, fino a fermarsi completamente.
Una voce maschile aveva intimato al vetturino di frenare: confabulò con il servitore qualcosa che i due uomini non riuscirono a sentire, quindi un colpo di nocche fece calare il silenzio all’interno della carrozza.
Il nobile ed il borghese si guardarono per un lungo istante negli occhi, mentre le loro teste si riempivano delle congetture più stravaganti: erano i rivoluzionari? Li avrebbero uccisi? Li avrebbero derubati e picchiati? Ma che cosa volevano? Come si sarebbero comportati?
Poi, la ritrovata lucidità impose ad entrambi che non poteva trattarsi della folla che avevano incontrato solo pochi istanti prima, perché nessuna persona con malvagie intenzioni avrebbe bussato prima di compiere qualche nefandezza, né tantomeno si sarebbe attardata a scambiare due parole con il cocchiere.
Don Aldo aprì con cautela la portiera della Landau, ritrovandosi di fronte un uomo sui trent'anni, la divisa impeccabile, in sella ad un baio bianco.
Era alto, leggermente stempiato e sbarbato, e alle sue spalle si stagliavano un paio di giovani soldati, anch’essi a cavallo.

“Buongiorno, signori. Sono il comandante della Guardia Civica, Luigi Tornielli*: vi prego di fornirci le vostre generalità per permetterci di effettuare un semplice controllo delle vetture che transitano in questa zona”
“Per quale motivo, comandante? Vi state per caso riferendo a ciò che sta capitando in piazza Castello?” si fece avanti il notaio, le sopracciglia chiare aggrottate.
“Con chi ho il piacere di parlare, signore?” ribatté imperturbabile l'altro.
“Sono il notaio Armando Granieri. Il conte Aldo Caccia ed io stiamo per l’appunto venendo da quel luogo”  
Il più giovane dei due soldati davanti a loro scarabocchiò i nomi su un taccuino rilegato in pelle, quindi ritornò impassibile a fissare un punto indefinito all’orizzonte.
“Esatto, signor Granieri. Un manipolo si è riunito per manifestare contro i fatti di Genova: inneggiano in sfavore del nostro amato sovrano, per questo siamo stati chiamati da onesti cittadini a cercare di placare i disordini e a controllare chiunque passi nei dintorni”
“I fatti di Genova?” si animò il nobiluomo, temendo a cosa si stesse riferendo l’altro.
“Sì, signor conte. Credo che sappiate ciò che è accaduto nei giorni scorsi in quella città: il popolo si è ribellato nei confronti dei nostri soldati e il Re Vittorio Emanuele ha inviato rinforzi per contrastarlo. Ebbene, adesso anche il nostro popolo insorge inutilmente, non comprendendo quanto questo comportamento sia inefficace e dannoso per tutti”.
Tornielli, gli occhi scuri e penetranti, continuava a mantenere un autocontrollo incredibile, allo stesso modo del suo destriero, immobile e silenzioso.
Sia Granieri che Caccia avevano letto sulla "Gazzetta Piemontese" un articolo che riportava ciò a cui il comandante aveva accennato.
Dopo l'insurrezione pressoché in contemporanea di Brescia, tra il 5 e l’11 di aprile, infatti, la folla genovese era insorta contro casa Savoia, in seguito alla disfatta di Novara.
I cittadini di quella città del Regno si erano sentiti sfiduciati ed abbandonati e non avevano alcuna intenzione di piegarsi agli Austriaci.
In loro aiuto, erano scesi in campo persino gli Americani e gli Inglesi, questi ultimi garanti dell’Armistizio che Carlo Alberto aveva infranto il 12 marzo dello stesso anno.
In tutta risposta, il nuovo sovrano non si era speso in alcuna mediazione diplomatica, preferendo schierare il generale Alfonso La Marmora insieme ai suoi bersaglieri e a parte dell'Esercito ancora in piedi.

Dopo una strenua resistenza, Genova cadde e venne sottoposta alle più disparate violenze: molti soldati sabaudi, infatti, compirono, come era successo a Novara, enormi nefandezze, depredarono, violentarono ed uccisero i civili, accanendosi su cose e persone.
Correva voce che Lorenzo Parato, capo della Guardia Civica cittadina, si fosse schierato con i Genovesi, tanto da venire arrestato ed inserito in una lista di proscrizione, salvo essere graziato dall’amnistia voluta dal sovrano e venire eletto nel luglio 1849 Presidente della Camera.
“Dove siete diretti?” continuò ad interrogarli Tornielli.
“A Palazzo Caccia, a nemmeno un chilometro da qui. Possiamo andare, comandante?” rispose rabbuiato il nobiluomo, addolorato per l'ennesima manifestazione di degrado e di profanazione della libertà a cui avevano dovuto assistere.
“Certamente. Signor conte, signor notaio, vi auguro una buona giornata”
Si scambiarono un accenno di saluto, portandosi le mani ai cappelli, quindi don Armando richiuse lo sportello della Landau, mentre l’altro ordinava nuovamente al cocchiere di ripartire.


Il giorno dopo, a Palazzo, si respirava un’aria di partenza e di incertezza.
Quando nella tarda mattinata zio e nipote erano rientrati a casa, e il padre di Costanza aveva diffuso la bella notizia dell’incolumità della loro abitazione, tutti –eccetto Nicolò che si limitò a sorridere senza entusiasmo- si erano congratulati con lui e avevano diretto una muta preghiera a Dio.
“Non avreste potuto regalarci un dono più bello!” esclamò confortata zia Rosa, abbracciandolo.
“Sono sicura che le cose si sistemeranno! Dovete avere fiducia, caro Armando, tutti noi dobbiamo avere fiducia e sperare di ritornare al più presto alla vita di prima”
La contessa lanciò un’occhiata elusiva al giovane nipote, a cui erano palesemente rivolte quelle parole di incoraggiamento, tuttavia il primogenito del notaio non sembrò averla sentita.  
Dopo la volontà dell’uomo, già manifestata in diverse occasioni di riappropiarsi della casa di famiglia, Costanza lo aveva tirato in disparte, spiegandogli se fosse stato possibile attendere un paio di giorni ancora, poiché il pomeriggio successivo Nicolò avrebbe finalmente ricevuto la visita di un suo caro amico, una persona che lo avrebbe senz’altro aiutato a ristabilirsi.
Superato un primo momento di smarrimento, l’altro annuì comprensivo, temendo di domandarle l’identità di questo misterioso amico: chi era lui, in fondo, per giudicare le conoscenze del suo amato figlio? Semplicemente, si concesse di accarezzarle teneramente una guancia, per poi ritornare in mezzo agli altri.
Adesso, mancavano appena una ventina di minuti alle quattordici e trenta, l’ora in cui Pietro aveva fissato l’appuntamento con Maffucci.
Costanza aveva trascorso con trepidazione gli attimi che precedevano l’incontro: sperava di rendere felice il fratello, desiderava non deluderlo e, soprattutto, temeva di essersi spinta troppo in là, oltrepassando la debole linea divisoria che Nicolò continuava ad erigere tra lui ed il resto del mondo.
Per tenersi indaffarata e non pensare a ciò che li avrebbe aspettati, subito dopo il pranzo si era recata in camera sua per cominciare a preparare le valigie per la partenza dell’indomani.
Nina, la giovanissima cameriera che l’aveva seguita anche a Palazzo Caccia, la stava aiutando a riempire i bagagli, quando qualcuno bussò alla porta socchiusa.
La servetta, i capelli biondi sotto la cuffietta inamidata e gli occhi azzurri, guardò in attesa di un accenno la sua padroncina, che non tardò a domandare chi fosse e ad andare lei stessa ad aprire.
“Spero di non avervi disturbata…”
Pietro la salutò con un sorriso imbarazzato –almeno fu quello che interpretò la cugina- e, con un vago cenno del capo, indicò la stanza che si intravedeva con chiarezza.
“No, certo che no. E’ già arrivato?”
La voce di Costanza si tinse di una nota di incertezza, mentre si umettava le labbra.
“No, non ancora. Però, avrei bisogno di parlarvi”
La ragazza annuì, indirizzando uno sguardo a Nina e congedandola.
Rimasti soli, i due si accomodarono al centro della camera, il parquet di ciliegio ai loro piedi.   
“Ecco a voi la lettera che attendevate… “
Il giovane estrasse dalla tasca interna della redingote blu scuro la busta che era andato a recuperare la mattina stessa all’ufficio postale: nonna e nipote, infatti, in seguito agli avvenimenti capitati in città e all’impossibilità del garzone dei Granieri di recarsi ogni due lunedì nelle valli in cui abitava l’anziana donna, avevano deciso di continuare la loro corrispondenza usufruendo del servizio delle Regie Poste, un mezzo più sicuro e tutto sommato maggiormente veloce.
Costanza lo ringraziò, finalmente rassicurata dalla lettera dell’adorata nonna, ma continuò a non muoversi, entrambi immobili l'uno di fronte all'altra.
Non riusciva infatti a guardare in viso quel ragazzo che, in nelle ultime settimane, aveva fatto tanto per lei e per il fratello: gli era riconoscente per non essersi tirato indietro quando gli aveva chiesto ripetutamente aiuto, accompagnandola in giro per la città ed esponendosi al pericolo di poter essere arrestato per l’attività sovversiva che svolgeva, e gli era anche grata per le parole di comprensione che le aveva manifestato in diverse occasioni.
Adesso, invece, dopo che il padre aveva annunciato il loro ritorno a casa, la giovane temeva che il rapporto di confidenza e amicizia che si era creato avrebbe potuto irrimediabilmente incrinarsi, facendo ripiombare Pietro in quella calma ostile che tanto l’aveva affascinata e incuriosita.
“Siete silenziosa: siete forse preoccupata per la vostra partenza?”
Il cugino alzò lo sguardo nella sua direzione, sorridendole con quegli occhi azzurrissimi che la incantavano ogni volta.
Costanza ritirò la lettera della nonna in una delle maniche del lungo abito color crema: non sapeva se dirgli la verità, temendo che la schernisse, oppure minimizzare l’intera faccenda.
“Non esattamente. Quello che sto cercando di dirvi è che... sì, insomma, ci avete trattato con talmente tanto riguardo, facendoci sentire a nostro agio, che ho quasi paura di ritornare a casa, lontana dalla risata severa di zia Rosa, dai commenti sulle letture che più ci piacciono, dagli sguardi affettuosi dello zio Aldo … insomma, ho già provato questa sensazione quando ho dovuto lasciare il paese e mia nonna, e vi assicuro che non è stato affatto piacevole”
“Ma domani non vi trasferirete in un'altra città, tornerete solamente nella vostra casa, a nemmeno mezz’ora da qui! Vi prometto che verrò a trovarvi spesso, talmente sovente che pregherete di liberarvi di me!”
La cugina sorrise, stringendogli una mano: era proprio quello che voleva sentirsi dire, quelle erano le parole che sperava Pietro pronunciasse, perché significavano che dietro la corazza che aveva abilmente costruito, lui teneva alla complicità che si era creata tra di loro, e non vi avrebbe rinunciato per nessun motivo.
“La verità è che non vi ho mai ringraziato abbastanza per tutto quello che avete fatto per la mia famiglia: anche la proposta avanzata ieri sera, quella di accompagnare Nicolò fino a Torino alla ricerca del suo amico, è stato un gesto che vi fa onore…”
Pietro si schernì con un gesto di sufficienza della mano sinistra.
“Aspettate a decantare le mie doti, cara cugina, in fondo dobbiamo ancora partire: quando e se riusciremo a trovare il soldato a cui vostro fratello è tanto affezionato, allora sì, se ancora vorrete, avrete tutto il diritto di ringraziarmi, ma adesso non è necessario, credetemi”.
La ragazza restituì il sorriso che le era stato rivolto, poi si concentrò a guardare la finestra alla sua destra, le tende aperte e gli infissi dischiusi a metà.
Il sole era piacevolmente caldo ed inebriante: Costanza avrebbe voluto rimanere lì ancora per molto tempo, lasciandosi cullare dal tepore dell’astro luminoso e dalla voce bassa e suadente del ragazzo, la cui vicinanza le infondeva tranquillità e sicurezza, ma non poteva dimenticare l’incontro che sarebbe avvenuto di lì a breve.
Indugiarono in silenzio per una manciata di secondi, indecisi su come proseguire quella conversazione, fino a quando il suono acuto del batacchio della campanella all’entrata non squarciò l’aria.
I due giovani si voltarono in quella direzione, e rimasero a fissare la figura di un trentenne alto e magro, i capelli scuri e gli inconfondibili baffetti neri.
“E’ arrivato. Me lo sentivo che sarebbe stato in anticipo…”
Pietro si avvicinò agli scuri, abbozzando un sorriso.
“Forse sarà meglio scendere” continuò il conte, rivolgendosi alla cugina.
Lei annuì, le mani intrecciate e nervose, mentre avvertiva un tuffo al cuore.
Improvvisamente, si domandò se quello che stavano facendo era giusto, se era quello che Nicolò avrebbe voluto.
Non poteva rischiare di sbagliare anche quella volta, non voleva sminuire il fratello o spingerlo ad auto commiserarsi più di quello che già stava facendo ogni santo giorno.
Come reagirà alla vista del suo mentore? Vorrà vederlo, vorrà parlargli?
Costanza seguì come un automa l’invito di Pietro ad uscire dalla stanza, avvertendo uno strano vortice che le apriva il petto in due.
Era inutile tempestarsi di interrogativi: la verità è che avrebbero dovuto attendere solo pochi minuti, e poi avrebbero avuto tutte le risposte che cercavano.



NOTA DELL'AUTRICE

Ciao a tutti!
Spero che la storia continui a piacervi: ne approfitto per ringraziare tutti coloro che la leggono, la seguono e la recensiscono.
Per quanto riguarda il capitolo, non so se a Novara vi è stata una ribellione popolare a sostegno dei moti di Genova, ma mi è servita come espediente per spiegarvi questa pagina storica del nostro Risorgimento!


*Il marchese Luigi Tornielli (1817-1890) è stato un politico e senatore dell’Italia Unita.

*Un altro importantissimo protagonista dei moti di Genova, oltre a Pareto, fu sicuramente il giovane studente di Medicina Alessandro de Stefanis, che il 5 aprile, durante una perlustrazione, rimase coinvolto in uno scontro a fuoco con i Piemontesi; ferito ad una gamba, riuscì a rifugiarsi in una cascina, ma venne trovato dai soldati sabaudi, che lo picchiarono a calci e pugni e a colpi di baionetta, lasciandolo in fin di vita. Fu trovato da un ufficiale con il quale aveva combattuto a Custoza, l’anno precedente, che lo soccorse e lo trasportò dapprima in ospedale e poi nella sua casa. Il ventitreenne patriota, amico di Mameli, morì dopo un mese di agonia.

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Capitolo 38
*** L'amico ritrovato ***


Il perdono è il sentimento più difficile che ci hanno insegnato a provare.

(Anonimo, XX° secolo)


Dopo le opportune strette di mano e i convenevoli saluti, i tre attraversarono indisturbati l’ampio ingresso, luminosissimo grazie alla mezza dozzina di finestre lasciate aperte per fare entrare il caldo sole primaverile.

Costanza e Pietro accompagnarono Maffucci su per l’elegante scalinata di marmo, i volti impensieriti.
Con una mano, la giovane reggeva il lungo abito color crema, mentre con l’altra il corrimano di legno intarsiato, non riuscendo ad evitare quella sorta di tensione palpabile che gravava nell’aria: al timore per l’inconsapevole reazione che avrebbe potuto scatenarsi nel fratello, infatti, si aggiungevano gli sguardi affilati e titubanti che il trentenne dai baffetti si era premurato di rivolgere al cugino.
Era come se cercasse di leggergli l’anima, come se volesse, con la sola forza delle occhiate, comprendere a fondo i segreti che egli celava.
Finalmente in cima alla meta, la ragazza condusse l’ospite lungo un largo corridoio parzialmente al buio, le cui pareti erano tappezzate di quadri di antenati della famiglia Caccia e di fumosi paesaggi lacustri.
Si fermarono davanti ad una porta immacolata alla loro sinistra, completamente chiusa.
“Se attendete un minuto, vi annuncerò a Nicolò. Devo però chiedervi un favore: da quando è tornato, mio fratello è molto cambiato, non solo nel corpo, ma anche nella mente”
“Lo so” la interruppe
l’avvocato con un gesto di sufficienza della mano, accarezzando con gli occhi neri la figura di Costanza.
“Pietro mi ha già istruito sul comportamento che mi converrà tenere durante il nostro incontro, non temete”
La giovane Granieri rimase per qualche istante sorpresa dall’intonazione tagliente che il trentenne aveva utilizzato: certo, non era nuova allo stile provocatorio dell’uomo, tuttavia qualcosa dentro di lei le suggeriva che quelle parole avevano più il sapore di una presa in giro piuttosto che della semplice verità che racchiudevano in sé.
“Molto bene” tentò di riprendere le fila del discorso “potete stare tranquillo che qualunque cosa uscirà dalla bocca di Nicolò non sarà rivolta direttamente a voi, ma ai suoi incubi del passato…”
Maffucci annuì con aria greve, il cappello pece tra le mani, e la consolò rassicurandola che aveva capito: questa volta, inaspettatamente, il suo tono appariva sincero e per nulla canzonatorio.
Costanza annuì, gli angoli della bella bocca carnosa abbassati in un sorriso, quindi si decise a bussare leggermente al pannello davanti a loro e, senza attendere risposta, ad abbassare la maniglia, sparendo all’interno della stanza.
La camera da letto era ampia come il resto del palazzo e particolarmente luminosa: un piccolo tavolino decorativo di ciliegio era adagiato ai piedi di un vecchio baule da viaggio, circondato da un paio di poltroncine imbottite di velluto rosso; di fronte a lei, a fianco della parete su cui si apriva la finestra dalle spumose tende scure -ora accostate- era adagiato un grazioso scrittoio di mogano, con davanti un elegante scranno intarsiato.
Infine, alla sinistra di chi entrava, oltre un larghissimo tappeto dai colori sgargianti, svettava un altissimo armadio con le ante raffiguranti un paesaggio campestre e i grandi pomelli di madreperla.
“Nicolò, c’è una visita per te…”
Il giovane era mollemente disteso sull’infinito letto a baldacchino, dando le spalle alla sorella.
Era rannicchiato su un fianco, come un feto nel grembo materno, e sembrava dormire: non si mosse di un centimetro, ma Costanza sapeva che il fratello non stava affatto riposando.
Infatti, non appena gli ripeté la domanda, lui si mosse leggermente, mugugnando che non voleva vedere nessuno.
“Ho sonno, lasciami in pace” biascicò, sgusciando con il capo sotto il soffice guanciale.
“Non posso. Questa persona è venuta apposta per incontrarti: tiene molto a te, e sono sicura che è lo stesso sentimento che provi nei suoi confronti”
L’altro non ribatté, preferendo ritornare immobile, come se le fila invisibili che lo avevano mosso fino a quel momento si fossero improvvisamente spezzate, lasciandolo nuovamente inerme e privo di volontà propria.
La ragazza non aveva alcuna intenzione di demordere, non quando era ad un passo dalla meta, perciò fece finta di ignorare le deboli suppliche del fratello, spronandolo a sollevarsi e ad accogliere l’ospite nel migliore dei modi.
La figlia del notaio riaprì la porta e, con un gesto di incoraggiamento, diede il via libera a Maffucci per entrare.
“Bene, ora vi lascio soli… per qualsiasi cosa, io sono dabbasso”
Costanza uscì senza voltarsi, il cuore che voleva strariparle dal petto, speranzosa di aver compiuto la scelta più giusta.
Guardò Pietro, impeccabile nella sua redingote blu scuro, le mani dietro la schiena, e attese un cenno di incoraggiamento, che non attardò ad affiorare sul bel volto sbarbato.
Le offrì il braccio destro, gli occhi azzurrissimi che le infondevano una muta fiducia, quindi la invitò ad aspettare in biblioteca.
“Là staremo più comodi, venite”
I due si sorrisero e scesero senza fretta i gradini.


“Ciao, Nicolò. Come stai?”
All’udire il suono di quella voce che tanto aveva idolatrato, il giovane Granieri balzò a sedere, stando attento a non mostrare il volto.
Quel movimento repentino gli provocò l’ennesima fitta di dolore della giornata, bersaglio il braccio sinistro ormai guarito, la cui pelle però continuava ad apparire come un unico rattoppo di carne.
“Eugenio… che cosa ci fai qui? Chi ti ha chiamato?”
Maffucci si avvicinò di qualche passo, indeciso se proseguire o fermarsi.
Sorrise tristemente e scrollò le spalle, dicendogli che non importava chi lo avesse contattato.
“In questi giorni, non ho più avuto tue notizie, così ho chiesto ai nostri amici che ancora sono in città se qualcuno ti avesse visto, se sapevano dove ti eri cacciato. Sai, immaginavo che non saresti rimasto con le mani in mano: d’altronde, l’ultima volta che ci siamo salutati, ti ho lasciato proprio davanti all’albergo svizzero...”
Nicolò si agitò sul materasso, la schiena dritta e le mani in grembo: sollevò appena il mento, perdendosi a guardare oltre i pannelli della finestra.
“Deve fare piuttosto caldo, oggi: il tepore del sole riesce a filtrare persino dalle tende tirate. Dimmi, tu che vieni da fuori, è così?”
Il trentenne con i baffetti e il cappello ancora tra le mani fece qualche passo nella direzione del suo interlocutore, poi annuì.
“Sì, è vero, sembra quasi estate: sai, a volte credo che il tempo sia balordo come le persone, non lo pensi anche tu? Insomma, siamo solo a fine aprile! Certo è che se continueranno ad esserci queste temperature, tra un paio di mesi passeremo le nostre giornate a mollo nella vasca!”
Il nuovo venuto aprì la bocca per continuare, tuttavia, accorgendosi della mancanza di collaborazione da parte di Nicolò, preferì attendere una manciata di secondi prima di profferire alcunché.
Si guardò intorno, ammirando la fattura elegante degli arredi, quindi si decise a proseguire quello che aveva tutta l’aria di evolversi in un lungo ed estenuante monologo.
“Raccontami qualcosa, che ne dici? Anzi, ti faccio una proposta: perché non vieni a trovarmi a casa?” suggerì animandosi, avvicinandosi ulteriormente.
“Potremo trascorrere qualche ora in compagnia, solo tu ed io, o se preferisci potremo uscire a cena o andare a bere al circolo: a questo proposito, la mia bella Elettra mi chiede spesso di te, ed io sono quasi geloso di tutto questo interesse nei tuoi confronti!”
L’avvocato abbozzò una risatina che risuonasse il più naturale possibile, mentre continuava a tormentare il cappello che aveva tra le mani.
“Immaginavo facesse caldo… “
Nicolò, ora con le spalle incurvate rivolte all’amico, era come se non avesse sentito ciò che gli era stato detto: la voce risuonava monocorde, roca, quasi assonnata.
Un brivido freddo percorse la schiena di Eugenio, che improvvisamente si rese conto di non sapere come comportarsi: forse, intraprendere la strada dell’allegria forzata e delle battute goliardiche non rappresentava la soluzione più consona.
Non poteva uscire da quella stanza sconfitto, soprattutto non voleva: sebbene le divergenza del giorno precedente occorse con il conte Caccia a riguardo dei recenti fatti di Brescia, Pietro e la bella Costanza avevano riposto completa fiducia in lui, quindi era suo preciso dovere non deluderli.
Un pensiero fece capolino nella mente del trentenne, un pensiero tanto assurdo quanto sciocco, tanto che quasi si vergognò di averlo anche vagamente formulato: il suo affezionato e sincero amico riusciva ancora a sentire bene? Quel giovane patriota di cui tanto era stato orgoglioso aveva conservato il prezioso dono dell’udito? Certo, tale senso non doveva aver riportato alcun danno, si convinse il capo degli affiliati, altrimenti non lo avrebbe salutato con il proprio nome, quando era entrato nella stanza.
Allora perché non rispondeva a dovere alle sue domande, perché sembrava rifugiarsi in un mondo a lui solo famigliare? D’altronde, la sorella lo aveva avvisato che non era del tutto rinsavito…
“Se non hai voglia di parlare, ti capisco. Posso tornare più tardi, magari anche domani, o addirittura un altro giorno. Sempre che ti faccia piacere, è chiaro…”
Nicolò, la schiena ancora rivolta all’interlocutore, si animò nuovamente sul baldacchino: si morse con violenza il labbro inferiore e strinse con forza i pugni, facendo sbiancare le nocche, come gli capitava quando era nervoso, rabbioso, impotente, gli stessi sentimenti che avvertiva esplodergli nel petto.
Tutto il suo ardore e la speranza per le nascenti Repubbliche –quella veneta prima e quella romana poi-, la fuga del granduca Leopoldo dalla Toscana e del papa Pio IX, da febbraio rifugiato a Gaeta, che giovamento gli avevano arrecato? Nessun beneficio, si convinse.
Di nascosto, durante quei giorni di prigionia dorata, aveva colto i discorsi del padre e dello zio Aldo sulle rivolte di Brescia e di Genova, e nel suo cuore aveva cominciato a farsi strada la tristezza più cupa, per questo non riuscì a trattenersi oltre.
“Certo, vai pure! Dopotutto, tu sei stato capace solamente a nasconderti, a recitare la parte del valoroso eroe, non è forse vero? Peccato che quando è stato il momento di combattere, di metterci la faccia, ti sei rintanato chissà dove, hai fatto la parte del topo, il miglior ruolo che tu abbia mai interpretato! Ma voglio comunque farti vedere una cosa: guarda, guarda con i tuoi occhi da inetto quello che sono diventato!”

Solo a quel punto, infatti, il giovane Granieri balzò in piedi e si voltò, avvicinandosi furioso a Maffucci: si strappò la camicia di seta che aveva indosso, denudando il braccio sinistro, ferito durante la battaglia della Sforzesca.
“Guarda le cicatrici che adesso deturpano il mio corpo! Il dolore che provo la notte non è nemmeno lontanamente immaginabile! Guarda il mio viso, la mia fronte, i miei capelli! I miei occhi sono costantemente velati, quasi al buio! A malapena riesco a riconoscere le ombre che mi circondano, e tu mi vieni a parlare di quanto sia geloso che la tua Elettra chieda di me! Nessuna donna vorrà più avere a che fare con me, nessuna persona mi tratterà come prima, nessuno mi guarderà con la stessa naturalezza di prima! Avvicinati, non avere paura, guarda come mi sono ridotto, e dimmi: tu dov’eri quando ho sacrificato tutto per la nostra causa?! Dov’eri, Eugenio, dove sei stato, dove ti sei nascosto?! Dimmelo, maledizione, dimmelo adesso!”
Il trentenne arretrò di scatto, impaurito dalla follia che emanava il suo antico compare, in affanno davanti a lui, i ricci scomposti e gli occhi di bragia.
Che cosa gli è accaduto? si domandò, come ha fatto la guerra a cambiarlo tanto radicalmente, a sostituire la pazzia genuina che tutti noi provavamo con una rabbia atavica che lo divora dall’interno?
“Io… io ero nascosto, è vero, ma non è come pensi” riuscì a dire l’avvocato, lo sguardo basso e la voce simile ad un sussurro.
“Dopo che il 20 marzo ti ho accompagnato all’albergo svizzero per arruolarti, sono tornato a casa a prendere tutto il denaro e i preziosi che avevo, in modo da poterli vendere al mercato nero e acquistare più armi possibili con cui finanziare il nostro Esercito. Armi che ho fatto avere ad un mio amico ufficiale, Nicolò, credimi”
A sentir pronunciare il proprio nome, l’altro si animò nuovamente: arretrò di qualche passo, il respiro ancora alterato, e si abbandonò sul letto, il petto nudo.
“Non ho potuto arruolarmi, ma avrei voluto, e non è una bugia quella che ti sto raccontando: sei la prima persona a cui lo confesso, ma quando ero molto piccolo, avrò avuto due o tre anni, ho contratto la polmonite, una malattia che mi ha lasciato numerosi strascichi. Mi affatico appena cammino un po’ più a lungo del solito, i miei polmoni non riescono a supplire alla mancanza d’aria, e immaginare di combattere in mezzo alla polvere sollevata dagli zoccoli equivarrebbe a uccidermi! Anzi, ti dirò di più: la sera stessa in cui tu venisti a chiedermi aiuto, la sera del 19 marzo, non potevo accettare di non rendermi realmente utile dopo tutto ciò che avevo raccontato a voi, ai miei affiliati!”
Fece una breve pausa, deglutendo e ritornando a fissare gli occhi neri in quelli ambrati dell’amico.
“Quel pomeriggio, infatti, sebbene non ci speravo troppo, ero andato anch’io all’albergo svizzero per chiedere di potermi arruolare, ma venni scartato dal medico ufficiale, proprio a causa dei miei problemi di salute. Ebbene, se non ci credi, amico mio, vieni con me: a casa ti farò vedere il certificato che conferma le mie parole!”
Nicolò aprì la bocca, gli occhi colmi di lacrime che non avevano il coraggio di uscire, devastato come ogni volta che la rabbia e la desolazione prendevano il sopravvento sulla razionalità della mente.
“Ho dovuto nascondermi in soffitta perché la notte degli scontri in città, tra il 23 ed il 24 marzo, alcuni soldati si sono introdotti nel palazzo in cui vivo, con l’evidente intenzione di depredare qualsiasi forma di ricchezza sarebbero stati in grado di sgraffignare: non so di quale fazione fossero, se appartenessero al nostro Esercito o a quello degli Austriaci, perché le loro voci mi arrivavano attutite, e sicuramente non potevo permettermi che mi scoprissero, tanto più se si trattava di nemici, poiché l’identificazione del mio ruolo nel gruppo rivoluzionario avrebbe potuto mettere in grave pericolo noi tutti"
Deglutì ancora una volta, acquistando così una maggiore sicurezza.
"Io… io ti chiedo scusa, Nicolò, se non ho potuto affiancarti anche sul campo di battaglia, ti supplico di perdonarmi se, con le mie parole, ho rischiato di farti perdere la vita. Ti prego, lascia che continui ad incontrarti, per favore: non potrei sopportare di perderti, proprio adesso che ci siamo rincontrati”

All’improvviso, il giovane Granieri provò una vergogna che mai aveva avvertito in tutta la vita: si sentiva indebolito, sfibrato, stremato, quasi prosciugato, tuttavia non riusciva a pentirsi completamente per lo sfogo a cui aveva dato fiato pochissimi istanti prima.
Doveva ammettere di aver giudicato troppo in fretta, si era lasciato trasportare dai sentimenti di odio e vendetta che, nelle ultime settimane, erano ormai la sua unica vera compagnia, ma non poteva più convivere con quel macigno che gli opprimeva ogni singolo pensiero, con la frustrazione e l’invidia verso coloro che non avevano condiviso il destino suo e di Stefano.
Fissò con lo sguardo perso Maffucci e, non riuscendo più a trattenere le lacrime, scoppiò a piangere, nascondendosi il viso con le mani.
Si accasciò disperato sullo scendiletto, umiliato e folle al contempo.
Eugenio lasciò cadere il cappello sul lucido parquet, quindi si avvicinò senza remora al giovane: si abbassò al suo livello e lo abbracciò sinceramente, stringendogli con forza e riconoscenza le spalle, orgoglioso e ammirato dal sacrificio che aveva compiuto.



NOTA DELL'AUTRICE

Buon pomeriggio a tutti, carissimi e adorati lettori!
Vi è piaciuto il capitolo? E come vi sono sembrati il comportamento di Maffucci e di Nicolò? Spero che tutto sia stato verosimile e piacevole da seguire.
Se alla mia mente contorta non verranno in mente altre strane idee, non dovrebbero mancare più di sette capitoli alla fine di quest'opera (permettetemi di chiamarla così, data la lunghezza) a dir poco infinita!
Bene, allora vi ringrazio e vi auguro buon proseguimento di giornata!
A presto!

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Capitolo 39
*** Nuove minacce ***


Chi la fa l'aspetti.


Eugenio Maffucci, l’avvocato trentenne a capo del gruppo dei rivoluzionari novaresi, era appena andato via: le speranze che Costanza e Pietro avevano nutrito in lui erano state esaudite completamente.

Nicolò aveva accompagnato all’ingresso il suo amico, dopo che i due si erano rintanati in camera del giovane Granieri per quasi un paio di ore.
Suo fratello era visibilmente sereno, persino felice, e sembrava non avere più vergogna di mostrare il suo volto deturpato davanti agli altri.
Era come se vi fosse una nuova luce che gli brillava negli occhi velati, una sorta di improvvisa quanto matura consapevolezza che il suo futuro  avrebbe potuto prendere una piega diversa, quasi in positivo.
Costanza abbracciò con trasporto e commozione il fratello, cercando di trasmettergli fiducia e serenità: gli carezzò una guancia e poi lo baciò sulla fronte, alzandosi sulle punte delle scarpette.
“Sei stato molto coraggioso ad affrontare tutto questo: sappi che io sono orgogliosa di te e di quello che sei diventato. Sono convinta che insieme ce la faremo, te lo prometto”
Il ragazzo la scrutò con il solito sguardo incolore e concentrato, ma subito una smorfia di approvazione solcò il viso smagrito e glabro: ricambiò la carezza e le prese il volto tra le mani, la voce ammorbidita dal rancore che, fino a quel momento, l’aveva fatta da padrone.
“Lo so, sorellina, adesso lo so anch’io. E la prossima mossa sarà quella di ritrovare Stefano, glielo devo”
Nicolò si fece riaccompagnare in casa, i passi decisi come non lo erano da tempo, mentre la giovane alzava lo sguardo verso una delle numerose finestre disseminate sull’ampia facciata della villa: avvertiva di essere osservata, e non a caso gli occhi verdi incrociarono quelli azzurrissimi di Pietro, affacciato al parapetto, per poi salutarsi con un cenno della mano.
Le narici si dilatarono impercettibilmente, il cuore accelerò i battiti e un sorriso sghembo fece capolino sulle sue labbra carnose: finalmente, dopo tanto tempo, si sentì del tutto rassicurata.



Santa Maria Maggiore, domenica 15 aprile 1849


Carissima nipote,
come stai? Mi auguro che dall’ultima volta che ci siamo scritte la situazione in quella città disgraziata sia migliorata.
Penso sempre a te, a Nicolò, persino ai tuoi folli genitori che hanno preferito abbandonare i nostri variopinti monti per la scialba pianura.
Sono seduta nell’angolo del parco che tanto ti piace, in mezzo alle siepi di phorsythia e ai roseti: quest’anno i cespugli di ortensie sono ancora più rigogliosi, per non parlare dei gigli in fiore, i cui gambi sono talmente alti da occludere la visuale dei vasi di aspargina!
Capirai dalle mie parole che sono molto felice: appena due giorni fa, infatti, il comandante delle Guardia Civica è venuto di persona alla villa per comunicarmi che avevano arrestato i malviventi che, quella terribile notte di oltre un mese fa, avevano incendiato le cantine e parte del primo piano del palazzo.
Ebbene, carissima Costanza, sono due folli bagordi, due ubriachi svizzeri che, passato il confine in maniera subdola, hanno cominciato a depredare le abitazioni signorili della nostra zona: al comandante hanno giurato che non volevano far del male a nessuno, ma la situazione rimane comunque oscura.
Io non so se credere alle loro parole: dopotutto, se davvero non era loro intenzione comportarsi in modo tanto subdolo, perché dare fuoco alle cantine? Avrebbero potuto limitarsi a rubacchiare le forme di formaggio, le otri del vino e le giare con l’olio, oppure, cosa assai migliore, bussare alla mia porta e domandare un po’ di cibo ed un lavoro onesto che, conoscendomi come mi conosci tu, non avrei negato.
Lo sai bene che davanti alla povertà non mi volto mai dall’altra parte, che donerei metà della mia casa pur di non veder soffrire un altro essere vivente, per questo non riesco a giustificare il comportamento di quei due “signori”.
L’importante, cara nipote, è che le forze dell’ordine abbiano arrestato i colpevoli, facendoci dormire sonni tranquilli.
I lavori di ristrutturazione sono ormai ultimati, grazie al Cielo, e i danni sono stati quasi completamente arginati: quest’anno, purtroppo, dovremo far fronte alla generosità dei nostri vicini, altruismo che non è affatto mancato: non potrò né vendere né dividere con i miei contadini formaggio, vino ed olio, ma non è mia intenzione arrendermi e rinunciare alla nostra pregiata produzione.
Inoltre, la fuliggine che imbrattava le pareti dell’ingresso è stata pulita e lavata via, per cui non posso davvero lamentarmi.
Ora devo andare, nipote adorata, perché ho un appuntamento con il sindaco, il signor Bagnasco, per discutere di alcune noiosissime faccende di cui non conosco ancora  la natura.
Nel frattempo, ti abbraccio affettuosamente, e lo stesso spero tu farai da parte mia con tuo fratello Nicolò e con quelli sciagurati di genitori che ti ritrovi.

Tua devota nonna Maria


Le sei e mezza erano state battute da qualche minuto dal campanile della chiesa di san Giuseppe: il sole caldo e famigliare che aveva illuminato quella giornata di fine aprile stava cominciando la sua lenta discesa all’orizzonte, provocando continui giochi di luce ed ombre.
Costanza aveva letto la lettera dell’adorata nonna seduta su una delle panchine del parco, sorridendo per la bella notizia che le aveva comunicato: non vedeva l’ora di riabbracciarla, di raccontarle della paura viscerale che l’aveva imprigionata durante i giorni in cui Nicolò era lontano, inglobata nell’incertezza e nel timore notturno dell’assedio tra il 23 ed il 24 marzo.
Stropicciando la busta e lisciandola subito dopo, si stava persino convincendo a confessarle dell’affetto profondo e un po’ misterioso che sentiva di nutrire per Pietro: rilesse meccanicamente le ultime righe dell’epistola, quindi sbatté le palpebre un paio di volte, riscuotendosi da quel torpore e dandosi della stupida sentimentale.
Quella sera, dopo cena, avrebbe domandato ai suoi genitori di poter invitare la nonna a trascorrere qualche settimana a palazzo, approfittando del tempo assai clemente e delle giornate che si erano notevolmente allungate.
Sapeva che donna Maria non avrebbe accettato facilmente, dal momento che non faceva mistero di provare una certa avversione, a tratti tendente persino all’odio, per quella città in cui si era ritrovata a vivere per trent’anni, prima di ritornare ad abitare con marito e figlie a Santa Maria Maggiore.
Ma la ragazza era abbastanza certa che la nonna non si sarebbe tirata indietro ad accontentare la sua richiesta, tanto più dopo i gravosi avvenimenti che avevano seguito la battaglia della Bicocca.
La guerra: che esperienza terribile e surreale che si è rivelata. Non ha fatto altro che sconvolgere i nostri progetti e i nostri sogni, legandoci ad una quotidianità di infelice miseria.
All’improvviso, una vaga malinconia s’impadronì di lei, non appena pensò che avrebbe dovuto finire di controllare che i bagagli fossero pronti per la mattina successiva, quando i Granieri al completo avrebbero fatto ritorno a palazzo, nella zona del Torrion Quartara.
Quelle quasi quattro settimane alla villa degli zii erano trascorse come in un sogno, coccolata e accontentata non solo dall’efficiente servitù, ma anche dai componenti della famiglia della madre.
Questo mese mi ha insegnato a non smettere di lottare per me e per gli altri: sono diventata indubbiamente più forte e meno timorosa di quello che le mie azioni potrebbero comportare, e ciò ha contribuito a farmi crescere come donna, sorella e figlia.
Una leggera brezza s’insinuò tra i rami bassi e nodosi del salice piangente, le cui radici si aprivano nel terreno alle spalle di Costanza: la giovane rabbrividì, poiché un senso di freddo che non sapeva spiegarsi razionalmente le stava percorrendo le spalle lasciate nude dall’abito color cipria.
Non aveva desiderio di alzarsi e di rientrare in casa, tuttavia il vento dispettoso non accennava a diminuire, facendola desistere dai suoi propositi di rispondere alla nonna e di raccontarle le ultime novità.
Stava già camminando lungo il viale alberato, circondato da gladioli, violaciocche e margherite nel pieno tripudio dei loro profumi e colori, quando sentì il cancello dietro di sé aprirsi, mentre i passi degli stivali di un uomo risuonavano accelerati sul selciato.
La ragazza si voltò appena, incuriosita dalla nuova presenza: il suo innocente interesse lasciò ben presto spazio al livore e al ribrezzo.
Federico, infatti, elegante in un completo da giorno grigio perlaceo, la stava fissando con il solito sorriso beffardo sul bel volto disegnato, i capelli scuri che brillavano ai riflessi del sole ormai sulla via del tramonto, gli occhi color ambra che sembravano deriderla apertamente.
Allungò il passo e in pochi secondi raggiunse la cugina.
“Permettete di scortarvi fino a destinazione?”
Costanza si costrinse senza difficoltà alcuna a non degnarlo di uno sguardo, sollecitando a sua volta la camminata.
“Non è necessario, caro cugino, sto solamente rientrando in casa…”
“Ed io che pensavo vi stavate affrettando per non parlare con me! Già, d’altronde voi avete ben altri interessi, non è così? Ad esempio, quel ragazzo che è uscito da palazzo meno di mezz’ora fa: ho visto il modo ossequioso in cui si rivolgeva a voi e al mio caro fratello. A proposito, com’è che si chiama? Maffucci, se non vado errato…”
La ragazza si irrigidì per un istante, ma non voleva dargliela vinta: come era venuto a conoscenza dell’identità del trentenne che aveva fatto compagnia a suo fratello in quel pomeriggio gioioso di fine aprile?
Quel giovane era un mostro, un essere insensibile, che pensava solamente al proprio tornaconto.
Dev’essere rientrato senza che ce ne accorgessimo, rifletté amaramente la giovane, in quanto Pietro aveva appositamente scelto un orario in cui fossimo da soli a ricevere Eugenio.
Finalmente, giunsero sulla soglia dell’immenso portone spalancato, ma Federico non esitò a bloccare Costanza, proprio nell’istante che le avrebbe permesso di sgusciare al sicuro all’interno.
“Ricordatevi che io so molte più cose di quante voi possiate immaginare. Una mia parola a chi di dovere e potrei farvi male come non vi sareste mai aspettata”
Il secondogenito dei conti Caccia attese la replica della giovane, che preferì stare in silenzio e alzare lo sguardo al cielo, in cerca di un qualsiasi aiuto: se solo Pietro si fosse affacciato!
“Tuttavia, non ho intenzione di lasciarmi sfuggire alcunché sulle amicizie poco rispettabili del mio caro fratello Pietro o di Nicolò, ma non tirate troppo la corda, cugina, perché anche la mia pazienza ha un limite, sappiatelo fin da ora… ”
Lei lo fissò con uno sguardo carico d’odio, gli occhi verdi che avrebbero voluto incenerirlo.
Strattonò il braccio imprigionato in quelle grinfie, modulando il respiro affannato, e avanzò decisa verso la scalinata di marmo, soffocando la rabbia per non averlo schiaffeggiato.

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Capitolo 40
*** Nonna Maria ***


A volte, un abbraccio è meglio di mille parole.

(Anonimo, XX secolo)


Il mattino successivo, a colazione, la tavolata era assorta nei propri pensieri: nemmeno le invitanti visioni delle torte appena sfornate, lo stuzzicante profumo di cannella e limone dei biscotti o il dissetante succo di more riuscivano a risvegliare i commensali dal velo di tristezza che aveva ammantato le loro menti.

I bagagli, infatti, erano già stati caricati nelle due carrozze che avrebbero condotto i Granieri nel loro palazzo, nella zona del Torrion Quartara.
Dalle finestre lasciate aperte, si intuiva facilmente che anche quella sarebbe stata una giornata di sole, fragrante ed invitante come soltanto il caldo della primavera inoltrata sapeva diffondere.
Nicolò era sceso dabbasso con il sorriso sulle labbra e con un appetito davvero spropositato: si era servito abbondantemente di latte e caffè, non disdegnando di inzuppare due fette di crostata alla crema, lasciando piacevolmente incredulo il resto del gruppo.
In mezzo a quei volti sovrappensiero, infatti, il suo era l’unico che riusciva a trasmettere ancora un briciolo di serenità.
Costanza era molto felice per quel cambiamento che vedeva protagonista il fratello, tanto più che il giorno successivo si sarebbe messo in marcia, insieme al fedele Pietro, per andare alla ricerca del suo amico Stefano, sperando che fosse ancora ricoverato nell’ospedale militare di Torino.
Inoltre, la sera precedente, la ragazza aveva ottenuto dai genitori di poter invitare l’adorata nonna a trascorrere un po’ di tempo con loro: la stessa donna Luisa, che non era mai andata troppo d’accordo con la madre, aveva accettato con entusiasmo l’idea della figlia, stupendo persino don Armando, ormai arrendevole a qualsiasi richiesta proveniente dalle donne di casa.
Zia Rosa avevo lo sguardo abbassato, incantata dalla tazzina di tè che si era versata ormai da diversi minuti, riducendolo ad una brodaglia tiepida e senza zucchero.
Non riusciva davvero a capacitarsi del perché la famiglia della nipote insistesse così tanto per fare ritorno a palazzo: avrebbero potuto fermarsi ancora per un paio di settimane, fino gli inizi di maggio, non c’era motivo di accelerare la partenza, ma le negoziazioni –come le aveva definite- non erano andate a buon fine.
Insomma, nessuno riusciva a capire i suoi sentimenti: la contessa aveva finalmente trovato un po’ di compagnia, della vera compagnia, e si dilettava enormemente a parlare di romanzi e di musica con Costanza, a ricamare a punto e croce con Luisa, si era persino abituata alla muta presenza di Nicolò, che adesso sembrava aver recuperato la piena forma mentale.
La donna, da quando era venuta a conoscenza del ritorno a palazzo, aveva cercato di far ragionare don Armando, ma l’uomo era stato irremovibile, sorridendo con tenerezza alle richieste sincere della zia acquisita.
Intimamente comprendeva il naturale desiderio di riprendere la quotidianità dei Granieri, d’altra parte il suo sentirsi una sorta di mamma chioccia le impediva di ragionare con lucidità.
Scosse la testa contrariata, lanciando un’occhiata distratta a suo marito, il conte Aldo, come volesse spronarlo a dire qualcosa per  indurre i nipoti a cambiare idea, ma lui aveva cominciato a chiacchierare con il notaio su certe faccende burocratiche.
E poi c’era l’ambiguità dei rapporti tra Pietro e Federico a preoccuparla: per quanto si sforzasse, infatti, non aveva potuto evitare di accorgersi degli sguardi appena sfiorati che i due fratelli si ostinavano a scambiarsi.
Li aveva sorpresi intenti a parlottare in biblioteca e nello studiolo del marito, convinti che nessuno li ascoltasse: dalla porta socchiusa, era riuscita ad origliare solo minimi stralci di conversazione riguardo misteriosi gruppi e nomi di cui mai era stata messa al corrente.
Il tono basso e sommesso che utilizzavano l’aveva ulteriormente  allarmata, tanto che si era decisa di scoprirne di più, se non che Federico era balzato fuori dalla biblioteca furibondo, scontrandosi con la madre e dileguandosi senza troppi complimenti.
Anche adesso che erano tutti e otto seduti alla medesima tavola, donna Rosa osservava e criticava i commensali in maniera imparziale, dimenticandosi per qualche istante dell’addio a cui avrebbero assistito di lì a breve.   
Così, un paio di ore dopo, i Granieri ridiscesero per l’ultima volta la scalinata di marmo che dalle loro camere conduceva all’ampio ingresso.
Uscirono nel parco inondato di luce, avvertendo gli undici rintocchi di un campanile a poche centinaia di metri dal palazzo.
Si scambiarono abbracci e strette di mano, promettendosi di vedersi al più presto.
“Suvvia, cugina, non siate triste: non state mica andando all’altro capo del mondo! Anzi, ricordatevi che già domani sarete costretta a vedermi: verrò a prendere vostro fratello intorno alle nove, gliel’ho rammentato proprio poco fa”
Costanza annuì, comoda in un abito da giorno color turchese pallido, i lunghi capelli ricci raccolti da un fermaglio di madreperla.
“Mi sembra superfluo aggiungere che voi e i vostri genitori sarete sempre i benvenuti nella nostra dimora”
Lei gli porse la mano destra, il cui dorso il giovane sfiorò appena con le labbra.
“Grazie per quello che avete fatto e per ciò che farete, Pietro. La vostra vicinanza mi è preziosa come poche cose in questa vita”
L’altro le dedicò l’ennesima occhiata di ghiaccio, un ghiaccio caldo e piacevole, che la fece sentire subito a suo agio.
“Grazie a voi per la fiducia che avete umilmente riposto in me, cugina. A presto”
Finalmente, dopo i saluti di rito e gli abbracci affettuosi – a cui Federico ebbe la compiacenza di mostrarsi particolarmente distaccato- la famigliola salì sulla carrozza, al loro seguito l’altra Lindau con i bagagli e Nina, la cameriera personale della piccola Granieri.


Arrivarono a palazzo mezz’ora dopo: per strada non incontrarono molte vetture, e le strade di campagna che conducevano alla signorile abitazione dei Granieri erano come al solito dissestate e incredibilmente asciutte.
La terra si spaccava sotto le pesanti ruote, inaridita dall’assenza di pioggia di quei lunghi giorni di fine aprile: sembrava il volto strabordante di rughe di una donna anzianissima, e Costanza si divertiva a contare il maggior numero di avallamenti che incontravano.
Era quasi emozionata all’idea di rivedere la casa che, fino a qualche settimana prima, detestava con tutta se stessa.
Non che adesso gridasse dalla gioia al pensiero di tornare ad abitarci, ma era decisamente più tranquilla e consapevole di ciò che aveva vissuto e di quello che avrebbe potuto perdere, se le cose fossero andate diversamente.
Scesero dalla carrozza con il cuore in gola: la prima a parlare fu donna Luisa, stupita per il portone inchiodato alla bell’e meglio che don Armando aveva fatto aggiustare da un paio di contadini della zona.
“Siamo stati fortunati a non subire alcun danno di grande entità” commentò, entrando dal retro dell’abitazione, in mezzo all’aia e al cortile polverosi.
Il marito e i figli la seguirono, ritrovandosi nel vasto parco disseminato da erbacce e sterpaglie: le aiuole e i cespugli reclamavano acqua a gran voce, ma nel complesso nessuno di loro si poteva davvero lamentare.
“Finalmente questo posto ha assunto un’aria selvaggia!” si lasciò andare Nicolò, sorridendo.
I Granieri si decisero ad entrare nella villa, costeggiando il lungo viale alberato.
Il sole era ormai alto nel cielo, mandando bagliori sempre più luminosi e inondandone di calore i corpi.
Mancava ancora un po’ all’arrivo della servitù, per cui avrebbero potuto compiere un primo veloce sopralluogo dell’abitazione.
Mentre il notaio infilava la spessa chiave nella toppa d’ingresso, la sua mano sembrava quasi tremare: anche lui era felice di essere ritornato a  casa, dopo tutte le angosce che lo avevano caratterialmente distrutto.
L’atrio era buio ed emanava un odore di muffa, probabilmente scaturito dagli antichi quanto costosi mobili di legno e dai vasti tappeti, innocenti reclusi di una guerra non cercata.
Nicolò aiutò il padre a spalancare le finestre, per far entrare un po’ di luce e verificare meglio lo stato in cui versava il palazzo.
Era desolante non sentir risuonare alcun rumore: i passi svelti delle cameriere, le grida appena accennate della cuoca, la voce bassa ed obbediente del maggiordomo, la risata allegra del giardiniere che chiacchierava con i garzoni… sembrava essere passato un secolo da quando la vita aveva animato le stanze di quell’immensa villa, eppure non era trascorso neppure un mese.
Donna Luisa si lasciò scappare qualche riga di lacrime, ricordando i fasti della casa dove lei era nata e vissuta fino ai vent’anni.
Mai avrebbe immaginato di dover sopportare quel dolore per l’allontanamento del figlio, quella malinconia che l’attanagliava quando pensava all’abitazione in balia di chissà chi, durante quelle strenue settimane di lontananza.
A sua insaputa, don Armando aveva fatto lavare le tracce di sangue che lo avevano così duramente colpito, la prima volta che era ritornato a controllare le condizioni del palazzo insieme al conte Aldo, qualche giorno addietro.
Costanza aiutò il padre e il fratello a far arieggiare il primo piano, fino a quando dovette uscire per prendere una boccata d’aria.
Si sentiva improvvisamente claustrofobica, di nuovo imprigionata senza ben rendersene conto da chi o da cosa, probabilmente perché quelle mura prive di suoni umani la immalinconivano enormemente.
Si accomiatò per un attimo, chiedendo scusa ai genitori, ed uscì nel vasto parco.
Rifletté su quanto fosse complicato riabituarsi ad una condizione che tanto aveva detestato, ma che in confronto agli ultimi avvenimenti accaduti appariva salvifica e del tutto naturale.
In quel mentre, a distoglierla dalle sue meditazioni, arrivarono i calessi trainati dalla servitù, e la giovane si sentì invadere da una certa tranquillità per l’ennesimo tassella che andava ricomponendosi.
Si preoccupò all’istante di richiamare l’attenzione della famiglia, avvisandoli che i domestici erano finalmente arrivati.
I quattro si avviarono verso i cancelli, aprendoli per lasciar entrare i nuovi arrivati.
Si scambiarono sincere strette di mano, gli sguardi annacquati da lacrime di gioia represse.
Anche la servitù, infatti, era emozionata al pensiero di poter riprendere il proprio posto alla villa, rioccupando le mansioni per cui venivano ricompensati con generosità: in effetti, quei giorni in cui non avevano potuto lavorare, rappresentavano meno denaro per loro e i propri cari, quindi erano stati felici ed onorati che i signori avessero deciso di ritornare.
Costanza stava richiudendo i battenti dietro la processione ormai ultimata, quando avvertì il rumore degli zoccoli ferrati di un paio di cavalli.
Si affacciò alla strada, dove vide che una carrozza nera e lucida stava avanzando al trotto nella loro direzione.
Era certa di aver già visto quella vettura, per cui attese di assistere alle prossime mosse dell’elegante Landau.
Quando la vettura si fermò a pochi metri dal cancello, la giovane alzò lo sguardo sul cocchiere, un uomo sui sessant’anni e di corporatura minuta, i fitti capelli grigi che contrastavano con gli occhi verdi.
Ma come era possibile? Quella persona assomigliava incredibilmente al signor Mario, il tuttofare di sua nonna Maria.
Si mise una mano sulla fronte, pensando di aver avuto un colpo di sole: stropicciò gli occhi un paio di volte, pronta a chiedere spiegazioni, quando una donna di mezza età -elegantissima in un completo da viaggio color tabacco- scese dal predellino, aiutata proprio dallo stesso uomo che conduceva i cavalli.
Sulla chioma folta e candida, la nuova venuta portava un piccolo cappellino di stoffa veneta ornato con qualche fiore di campo essiccato, mentre con le mani reggeva una pochette dello stesso colore dell’abito.
Alzò lo sguardo sull’abitazione a lei famigliare, ritrovandosi davanti la figura della ragazza.
La signora non riuscì a nascondere un’esclamazione di sorpresa e, allargando le braccia, esclamò incredula:
“Costanza! Oh bambina mia, come stai?”
“N-nonna?! Ma cosa ci fate qui?!”
La giovane, anche lei stupita, si lasciò andare all’abbraccio con la donna, mentre entrambe cercavano di reprimere lacrime di gioia.
Donna Maria Mellerio si staccò dalla nipote solamente dopo un lungo momento, fissando i propri occhi cerulei in quelli della nipote.
“Ti ho fatto una sorpresa, mia cara! Non sei felice di rivedermi?”
L’altra annuì, riabbracciandola e baciandola con il cuore gonfio di eterno affetto.
“Sai bene quanto detesti questa città, ma non ho potuto resistere ancora un giorno di più! Ho voluto sincerarmi di persona che tu stessi bene! Dalle tue lettere capivo che c’era qualche cosa che ti turbava, e di certo non era solo da imputare alla guerra che, grazie al Signore, non ci ha sfiorato nella nostra adorata valle. Allora, nipote adorata, mi fai entrare in quella che è stata anche la mia casa o devo aspettare di essere ricevuta come un ospite?”
Costanza abbracciò ancora una volta la donna, che nel frattempo ringraziò Mario e lo invitò a portare i bagagli con calma.
La ragazza pensava che la nonna avesse scelto davvero il momento meno opportuno per farle visita, sebbene era la cosa che maggiormente desiderava: avrebbero dovuto spiegarle il motivo di quella sorta di trasloco della servitù, l’odore di muffa che impregnava le pareti del palazzo, il braccio e la vista feriti di Nicolò… ma poi si convinse che per quello ci sarebbe stato tempo, tanto tempo da dedicare alle spiegazioni da dimenticare l’indecisione e l’ansia che l’avevano attanagliata nell’ultimo periodo.
Adesso, la cosa importante, era che lei fosse lì con loro.
Tutto il resto sarebbe venuto più avanti.

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Capitolo 41
*** I duellanti ***



A Ivano

E' stato bello conoscerti anche se per poco tempo.
I tuoi "raccontini" sono stati una delizia per la mia mente e per la mia immaginazione.
Ciao, Tarlo... ovunque tu sia




Nell’ingresso di palazzo Caccia –ora Granieri- la vita aveva rapidamente preso il sopravvento sulla muffa ed il buio che avevano impregnato le pareti in quell’apparente interminabile mese di lontananza.

La servitù si era premurata di sistemare con estrema celerità ma curatezza i pochi averi nel piano mansardato a loro adibito, e adesso stava dando una mano a donna Luisa e a Nicolò ad aprire porte e  finestre per far arieggiare l’edificio.
Gli strati di polvere erano riusciti a depositarsi in maniera fitta e quasi meticolosa, nonostante le precauzioni adottate dai padroni di casa che avevano ricoperto ogni pensile e l’intero mobilio con spesse lenzuola.
L’aspetto interno della villa, tuttavia, aveva conservato il vanto passato, sebbene adesso a tratti risultasse disordinato e grottesco, ma non aveva subìto alcun danno ingente: l’esterno, invece, come già avevano avuto modo di constatare don Armando ed il conte Aldo in precedenza, aveva indubbiamente visto giorni migliori.  
A parte le tracce di sangue sul retro della zona adibita a magazzini che avevano deturpato l’aia e che il notaio si era premurato di far lavare da alcuni contadini dei dintorni, vi era ancora il problema dei cardini divelti e spezzati in più punti del grande portone di legno che conduceva sul vasto cortile, oltre di quello assai più imminente delle scorte di viveri nascoste nel granaio e nella dispensa, ubicate anch’esse in quell’area della casa, in buona parte depredate da scorribande senza identità.
Don Armando, insieme alla cuoca e a un paio dei garzoni, aveva compiuto un primo sopralluogo approfondito, e stava dando istruzioni su quali fossero i beni di prima necessità che andavano reperiti nel minor tempo possibile.
“Direi che un paio di chili di farina per cominciare potrebbero essere sufficienti, signore. Mio cognato dovrebbe riaprire il mulino entro la prossima settimana, e fino ad allora due sacchi mi basteranno. Domani mattina provvederò a riportarvi le galline che mi avete affidato, così le uova non ci mancheranno, non temete” stava elencando Erminia, un donnino alto e magro, con le guance olivastre ed i capelli grigi raccolti in una crocchia ordinata. Aveva occhi nocciola piccoli ma profondi, che esprimevano un’intelligenza ed un’acutezza non comune.
Donna Luisa, infatti, aveva demandato al marito l’onere di occuparsi delle incombenze immediate, preferendo di occuparsi insieme ai figli della parte domestica della villa.
“Molto bene, se ne sei sicura non sarò certo io ad obiettare”
Il notaio lanciò un’occhiata in direzione del garzone che era stato reclutato per scrivere l’ordine con cui sarebbe sceso in città, quindi domandò ad Erminia di cos’altro avessero bisogno.
“Almeno quattro libbre di zucchero, sei di verdura fresca, una mezza dozzina di cartocci di legumi e naturalmente sale per poter conservare i cibi, Giannino. Poi, se dovessi trovare dei limoni come dico io –sai quelli grandi e succosi?- ecco, prendine pure cinque, così potrò cominciare a preparare la mia famosa torta alla crema!”
Erminia appariva gongolante e quasi felice di poter riprendere in mano la sua quotidianità: inutile dire quanto si sentisse onorata del fatto che il padrone l’avesse personalmente incaricata di aiutarlo ad effettuare una prima stima dei danni di quella banda di zoticoni che avevano osato usurpare le sue ordinatissime scorte di vivande, e l’autostima è un ottimo deterrente alle difficoltà che si incontrano nel corso della vita.
“Bene, dal momento che vedo che ve la cavate perfettamente anche senza di me, cara Erminia, ti lascio e ritorno da mia moglie. Ah, nel frattempo Gentile, potresti recuperare dell’olio, delle viti e… beh, insomma, del materiale necessario per riparare questo portone?”
Granieri indicò con un cenno sbrigativo della mano il pesante oggetto davanti a loro, mentre un giovanotto di non oltre venticinque anni annuiva prontamente.
Don Armando bofonchiò qualcosa che avrebbe dovuto assomigliare ad un saluto, quando udì dei passi precederlo sul vialetto principale, quello che conduceva all’ingresso del palazzo.
Le erbacce e le sterpaglie che deturpavano i prati e inondavano narcisisticamente aiuole e cespugli creavano uno spiacevole rumore quando si passava sopra di esse, un ciac ciac molesto e pressante.
L’uomo riuscì appena ad intravedere le gonne della figlia e di un’altra figura femminile, quando riconobbe la voce della suocera, almeno così gli parve di udire.
Non perse tempo e si affrettò a varcare l’uscio della villa, rimanendo costernato dalla presenza di schiena che si stagliava davanti a lui.
“Marchesa Mellerio? Maria? Siete proprio voi?!”
La donna chiamata in causa si voltò nella sua direzione, rivolgendogli un sorriso a metà tra il sollievo ed il rimprovero.
“Noto con piacere che ancora vi ricordate di vostra suocera, caro Armando! Sono molto felice di rivedervi, non abbiate idea di quanto fosse opprimente non aver avuto vostre nuove nelle ultime settimane”
Gli si avvicinò e gli strinse le mani, quindi si protese ad abbracciarlo con sincerità.
Il tessuto di seta e velluto color tabacco accarezzò quello ruvido della redingote nera dell’uomo d’affari, che ricambiò il gesto.
Nel giro di una manciata di secondi, donna Luisa e Nicolò fecero la loro comparsa dal piano superiore: il braccio del figlio era intrecciato a quello della madre, avvolta in un abito blu notte, e sembravano intenti a parlottare di chissà quale interessantissimo argomento, quando la contessa si bloccò con un piede a mezz’aria.
“Che c’è, madre? Abbiamo dimenticato di controllare qualche stanza?” si premurò di anticiparla il ragazzo, i bei ricci scuri e gli occhi ancora velati.
“N-no, è che c’è una persona dabbasso che… che non mi aspettavo di trovare qui. Si tratta di tua nonna, caro”
Madre e figlia si scambiarono un’occhiata d’intesa, l’una concentrata sul nipote, così diverso, così strano nell’aggrapparsi a donna Luisa, l’altra sull’assurdo cappellino di stoffa veneta ornato con i fiorellini di campo.
“Ciao figliola, come stai?”
Le due si ritrovarono l’una di fronte all’altra: Costanza avvertiva quella solita e fastidiosa tensione attraversare i loro corpi, e già smaniava per urlare di dirsi qualcosa, qualsiasi cosa, pur di smetterla con quegli sguardi privi di reale affetto.
Don Armando, invece, si era fatto da parte già da qualche istante, e adesso stava cingendo le spalle della secondogenita, anche lui imbarazzato da quella situazione ormai famigliare.
“Ciao Nicolò, non abbracci la tua vecchia nonna? Sai, tua sorella mi ha raccontato sempre di te nelle nostre lettere. Come stai, tesoro mio?”
Donna Maria si fiondò sul nipote, non riuscendo a reprimere le lacrime: lo avvolse in una prolungata stretta, accarezzandogli la schiena.

Deglutì a fatica, cercando di mandare via il groppo che le si era formato in gola, non appena si era resa conto degli occhi ambrati ma velati e delle minuscole e numerose cicatrici che solcavano il volto del giovane.
E poi, l’innaturalezza con cui reggeva accostato al fianco il braccio sinistro… che cosa le avevano mantenuto nascosto in quei lunghi mesi? Che cosa era accaduto a Nicolò che la sua adorata Costanza non aveva trovato la forza ed il coraggio per metterla al corrente?
“Mamma, forse è meglio se andiamo nel salotto. Ci sono diverse novità che dobbiamo raccontarci. A proposito, avete fatto buon viaggio? Vi faccio subito portare nella vostra camera i bagagli, così dopo vi aiuto a sistemarvi. Venite”
 

Il cartello di sfida era giunto quella stessa mattina, poco dopo la partenza dei cugini per il Torrion Quartara.
Federico glielo aveva consegnato in biblioteca, con la stessa aria lasciva e un po’ sadica che lo contraddistingueva da settimane, ormai, senza lasciargli alcuna ombra di dubbio sulle sue reali intenzioni di nuocergli.
Più che epistola sarebbe stato meglio definirlo come un breve biglietto, asettico nel contenuto e lapidario nel concetto quanto nella scelta della carta, grezza e mal ritagliata:

Al signor conte Pietro Alberto Ermanno Gaudenzio Caccia,   
il sottoscritto, Federico Sereno Ermanno Gaudenzio Caccia ritenendosi offeso dalla S.V. perché schiaffeggiato pubblicamente in mezzo a galantuomini presso il circolo cittadino, ha pregato i signori duca di Sanseverino e duca di Martengo di chiederle in suo nome una spiegazione, una ritrattazione o una riparazione, a seconda di quanto crederanno, per la tutela del suo onore.
Avendo i sunnominati signori accettato questo mandato, la S.V. vorrà considerarli quali rappresentanti del sottoscritto e muniti all’uopo di pieni poteri
Seguiva la firma

Pietro se l’era rigirato tra le mani per una manciata di secondi, quindi aveva guardato negli occhi ambrati il fratello, cercando di carpirne la reale essenza.
“Qui c’è chiaramente scritto che la tua missiva avrebbe dovuto essere recapitata dai tuoi padrini, due duchi che di nobile sono certo abbiano solo il titolo…” lo provocò senza mezzi termini.
“Non essere puntiglioso, fratello caro. Sai bene che queste rappresentano le classiche quanto noiose formalità a cui dobbiamo attenerci, nulla di più e nulla di meno. Ebbene, anche per quanto riguarda nello specifico la soddisfazione, pretendo ovviamente una riparazione al danno arrecatomi. Non sei d’accordo anche tu?”
“E per quanto concerne il luogo e la scelta delle armi?”
In quel mentre dovettero abbassare il tono di voce, poiché avvertirono dei passi risuonare sul marmo esterno.
Aspettarono che l’inatteso visitatore li oltrepassasse, quindi Federico riprese come se nulla fosse.
“La cascina di Valstrona mi sembra ideale, non trovi? Vi passa un affluente del Ticino che non è niente male. Per le armi… a te la scelta tra fioretto e pistola”
Pietro non poteva di certo definirsi un esperto di manomachia, sempre che quella fosse la definizione corretta, né tantomeno era un provetto maneggiatore di qualsiasi arma che non fosse quella con cui era stato costretto ad allenarsi da piccolo.  
Annuì poco convinto, già pronto a congedare quella serpe del fratello, ma prima decise di mettere in chiaro una cosa fondamentale, che forse a Federico continuava volutamente a sfuggire.
“Spero tu abbia compreso che non ho alcuna intenzione di battermi con te, né stasera né mai. Puoi dire ai tuoi amici di rimanere a casa e di non disturbarsi a sporcare le ruote delle loro carrozze e le punte preziose dei loro stivali lucidati nella nostra povera campagna”
Il giovane conte Caccia lo guardò con aria sardonica e gli si avvicinò, girando in tondo.
“Ah, Pietro Pietro… ancora non hai capito quanto sia pericoloso mettersi contro di me e le mie conoscenze?”
Poi, con fare minaccioso, gli ringhiò:
“Costanza, Nicolò, Eugenio Maffucci, persino quella specie di becchino –Rossini, se non vado errato- che hai avuto la faccia tosta di portare a cena qualche giorno fa, sono convinto abbiano a che fare qualcosa con la tua sordida cerchia di fanatici sovvertitori dell’ordine precostituito. Quindi, fratellino caro, se non vuoi che una mia innocentissima parola arrivi alle orecchie delle persone sbagliate…beh, farai bene a presentarti questa sera. Accompagnato, s’intende, con i tuoi due padrini che ti spettano di diritto, per carità, ma la tua presenza è, come si suol dire, assai gradita in tale circostanza”
Il primogenito si umettò le labbra e deglutì disgustato, reprimendo la rabbia prudergli le mani.
Si fissarono per un istante che gli parve interminabile, quindi Federico uscì, più soddisfatto di quando era entrato pochi minuti prima.

La cascina Valstrona si trovava a una dozzina di chilometri dalle mura cittadine, in una zona della campagna poco frequentata da persone che non fossero contadini che avessero più di cinquant’anni.
Fino ad un paio di decenni antecedenti il 1848, infatti, la zona apparteneva ai marchesi omonimi, e la terra prosperava in fecondità e ricchezza.
In seguito al trasferimento dei nobili, l’area e i suoi ettari erano stati messi all’asta e poi a mezzadria, diventando il regno a metà di contadini sufficientemente benestanti da essere autonomi nella coltivazione e nel commercio e di signorotti locali con scarsa inventiva e troppo denaro nelle tasche dei calzoni.
Pietro arrivò alle sei meno un quarto in compagnia dei due marchesi Tornielli, Guido e Andrea, anch’essi coinvolti nel gruppo di rivoluzionari, sebbene in maniera meno espositiva: si occupavano infatti di sovvenzionare economicamente e materialmente il resto degli affiliati.
Il cielo si preparava ad un lento e dolce tramonto, che nel giro di un’ora o poco più avrebbe lasciato spazio alla luna calante.
Scesero dalla Landau con circospezione, sicuri che la situazione non sarebbe stata semplice da domare.
“Stai tranquillo, Pietro” s’intromise nei suoi pensieri Andrea, il secondogenito, un giovane sui ventotto anni dai capelli mossi e chiari e gli occhi scuri.
Si scambiarono un’occhiata d’intesa e si sorrisero tutti e tre, speranzosi.
“Mio fratello è molto cambiato, ultimamente. Forse troppo cambiato, cari amici, e temo che l’astio che da tempo prova nei miei confronti abbia trovato il giusto sfogo proprio in questa assurda pantomima”
“Stasera non accadrà nulla di spiacevole a nessuno, noi siamo qui per questo” rincarò la dose Guido, qualche anno più grande ma fisicamente simile al marchesino.
Pochi minuti dopo, quando ormai la perlustrazione visiva e pratica si era conclusa, avvertirono le ruote di una carrozza farsi più vicine, fino a fermarsi dietro di loro.
In men che non si dica, scesero Federico e i suoi padrini, i caratteri nordici a rivelare la loro origine.
“Vedo che in queste ore hai avuto modo di riprendere la retta via e hai riflettuto a dovere. Bene, fratellino, sono molto contento per entrambi”
Gli regalò un sorriso sornione ed una pacca degna di un traditore, quindi passarono ai fatti.
“Dunque, cosa vogliamo scegliere per il nostro duello all’ultimo sangue? Fioretto o pistola?”     
I marchesi Tornielli lanciarono un’occhiata truce in direzione di Federico e dei suoi padrini, quindi Guido domandò qualche secondo per poter consultarsi insieme a Pietro, lo sfidante.
“Cercheremo di farli ragionare e di trovare una soluzione. Sono sicuro che tuo fratello non intenda perpetrare un simile atto scellerato, un atto che gli costerà caro davanti alla vostra famiglia e all’intera nobiltà novarese” puntualizzò razionalmente Andrea, il più giovane dei marchesini.
“Ha ragione, non arriverà ad esporsi in maniera tanto sciocca, dobbiamo essere fiduciosi che la sua intelligenza abbia il sopravvento su qualsiasi altro sentimento negativo stia animando i suoi pensieri”
Guido era già pronto a sentire la replica accondiscendente dell’amico, quando questi scosse con poco convinzione il capo.
“Voi non lo conoscete quanto lo conosco io. Anzi, arrivati a questo punto credo di non averlo mai conosciuto abbastanza” si arrese ad ammettere Pietro.
“Sa troppe cose su di noi e sul nostro gruppo, cose che mi domando come abbia fatto a scoprire, se non tramite misteriosi e discutibili mezzucci dei suoi altrettanto amici subdoli. Non ho intenzione di sprecare vite innocenti per una questione meramente famigliare, voglio che vi sia ben chiaro” replicò il conte Caccia, rassicurandoli con una stretta affettuosa sulle spalle di entrambi.
“Allora? Non abbiamo tutto il tempo dalla nostra!” li interruppe con una punta d’ira Federico, avvicinandosi con i due compari duchi, ognuno che reggeva la custodia aperta celante un’ampia scelta di fioretti e pistole.
In lontananza, stava sopraggiungendo un carretto probabilmente di contadini, che di certo non si sarebbero soffermati, ma la cui curiosità si sarebbe potuta rivelare pericolosa per il futuro.
“Fioretto, il secondo da sinistra andrà bene” tagliò corto Pietro, non guardando negli occhi nessuno dei presenti.
Il duca di Sanseverino gli porse la custodia, e il conte prese tra le mani la lama quadrangolare, lunga e flessibile, fredda al tatto e brillante alla luce del sole. La soppesò meccanicamente, rendendosi conto che non doveva raggiungere oltre i cinquecento, seicento grammi.
“Ma… ti prego, Pietro, rifletti bene!” cercarono quasi all’unisono di riportarlo alla realtà i marchesi Tornielli.
"Ottima scelta” si ritenne soddisfatto il fratello, improvvisamente sordo.
I duellanti presero posizione uno di fronte all’altro nel mezzo della campagna lì vicina, le armi ben in pugno dinnanzi al viso, gli sguardi fieri ed orgogliosi, figli dello stesso sangue.
Terminati i dieci passi di rito, Pietro e Federico si voltarono dandosi le spalle ed abbassando i fioretti.
Poi, i padrini si schierarono a loro volta, e il duca di Martengo intimò l’attenti.
En garde!
Il primogenito dei Caccia trasse un respiro profondo, quindi attese.
Allez!



NOTA DELL’AUTRICE

Chiedo scusa a tutti i lettori e recensori se non rispondo agli ultimi aggiornamenti, ma oggi è esattamente un mese che sono “in vacanza” in ospedale, quindi mi risulta già un’impresa titanica collegarmi con il wi-fi, ed ogni minuto che mi funziona la connessione è prezioso per aggiornare. Per questo ho dovuto fare una scelta tra rispondere, recensire a mia volta ed aggiornare. Spero di non essere stata troppo egoista e che mi perdonerete gli errori di non revisione.
Un abbraccio a tutti e grazie della comprensione!

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Capitolo 42
*** Le ultime volontà di Pietro ***


"Chiunque sia sospettoso invita al tradimento."

(Voltaire, principalmente filosofo francese, 1694-1778)



L’intera giornata era trascorsa serenamente, ammantata da sentimenti di speranza e di gioia per il ricongiungimento con l’adorata nonna Maria.

Era stato lo stesso Nicolò a raccontarle le disavventure che gli erano capitate nell’ultimo mese e mezzo –e che lui stesso aveva ammesso di essersi cercato-, dalla fuga di notte da palazzo Granieri, all’arruolamento sotto mentite spoglie nell’Armata sarda, fino all’attraversata sul Ticino e le conseguenti battaglie campestri in terra lombarda e piemontese, con la rovinosa disfatta della Bicocca, proprio alle porte di Novara.
Il ragazzo narrava con lucidità e coinvolgimento emotivo ciò che aveva dovuto subìre in prima persona, senza mai permettere alla follia di un tempo o all’estremismo del passato di prendere il sopravvento sull’intelligenza riacquisita.
Il resto della famiglia –donna Luisa, don Armando e la piccola Costanza- subivano il medesimo fascino oscuro dei racconti di Nicolò, sentendoli per la prima volta anche loro: rinchiusi nel boudoir dopo un pranzo che non si sarebbe potuto definire abbondante a causa della penuria delle scorte che la servitù aveva dovuto racimolare in così breve tempo, sussultavano ed inorridivano assieme alla marchesa Mellerio nell’udire le gesta eroiche dei soldati sabaudi e della Brigata Piemonte, a cui il giovane aveva fieramente preso parte.
“E questo è tutto” concluse con un sorriso amaro il primogenito del notaio, allargando le mani in segno di resa.
Seduto su una delle poltroncine rosse della stanza, le tende spumose tirate a far entrare il caldo sole pomeridiano, Nicolò sembrava aver esaurito forze e voce, ma continuava ad apparire sereno.
“Non provo il desiderio di raccontarvi della mia convalescenza, nonna, ma sappiate che sono stato curato amorevolmente anche grazie alla mia cara sorella, un vero angelo che è venuta a trovarmi ogni singolo giorno delle oltre due settimane in cui sono stato rinchiuso lì dentro”
Gli occhi velati e lucidi per la commozione, il ragazzo cercò la mano di Costanza e la accarezzò dolcemente, stringendola con tenerezza e riconoscenza.
Lei si schernì timidamente, dicendo che aveva fatto semplicemente il proprio dovere di sorella devota, e che lo avrebbe rifatto altre mille volte se fosse servito a ridargli la fiducia in se stesso e la voglia di vivere che adesso vedeva splendere in lui.
“Sono orgogliosa di entrambi, figlioli. Siete dei nipoti forti e tenaci, i migliori nipoti che avessi mai potuto avere, credetemi”
Nonna Maria si alzò dallo scranno dorato che donna Luisa le aveva ceduto, e si avvicinò con slancio ai due giovani, abbracciandoli affettuosamente.
“Non volete andare a riposarvi per qualche ora?” suggerì la figlia della marchesa, asciugandosi distrattamente una lacrima con il fazzolettino di seta che aveva tirato fuori da una manica dell’abito verde da giorno.
“Il viaggio è stato lungo e tortuoso, lo avete ammesso anche voi. E tutte queste emozioni di certo vi avranno fiaccato nel corpo e nello spirito, madre. Cosa ne dite?”
“Sì, donna Maria, Luisa ha ragione. Manca ancora qualche ora alla cena, approfittate per riposare e recuperare le forze, di modo che potrete raccontarci nel dettaglio gli ultimi avvenimenti accaduti a Santa Maria Maggiore. La nostra Costanza non ci ha mai parlato delle lettere che eravate solite scambiarvi, sapete?” s’intromise don Armando, indirizzando uno sguardo eloquente alla secondogenita.
“E va bene, mi avete convinto” si arrese la nobildonna, fingendosi irritata.
“Ma a patto che venga anche Costanza: lei ed io dobbiamo discutere di certe faccende…femminili”
La ragazza la guardò non capendo a cosa si stesse riferendo, ma fu ben lieta di rincantucciarsi per qualche ora tra le braccia dell’adorata nonna, come era solita fare quando era più piccola.
Salutarono i presenti, mentre donna Mellerio accarezzava affettuosamente ancora una volta il bel volto di Nicolò, quindi salirono a braccetto la scalinata di marmo che conduceva al primo piano.
Percorsero il lungo corridoio e si fermarono davanti ad una porta bianca sulla destra, appena dopo quella della camera da letto di Costanza.
Entrarono e si accomodarono sul baldacchino dai tendaggi zaffiro e lo scendiletto persiano che ricopriva il caldo parquet illuminato dai raggi solari.
Si tolsero gli stivaletti e si buttarono sul letto, sorridendo soddisfatte.
“Ah nipotina mia, quanto mi sei mancata!” esordì la donna anziana, abbracciando e baciando la giovane, che ne approfittò per accomodarsi sul suo petto.
Il profumo di talco, di sapone e di mandarino inebriarono le narici di Costanza, che all’istante si risentì a casa, nelle sue adorate valli.
“Anche voi, nonna, mi siete mancata immensamente. Pensate che stamane era mia intenzione scrivervi per invitarvi a trascorrere un po’ di tempo in nostra compagnia, invece ci avete fatto una bellissima sorpresa, anticipandoci sui tempi!”
Donna Maria accarezzò la testa riccioluta della nipote, baciandola con gioia.
“Mi sentivo sola, bambina mia, mi sentivo tanto sola, e appena la neve si è sciolta e la pioggia ha smesso di molestarci, ho preso questa decisione: e poi, ad essere del tutto sincera, le notizie della disfatta del nostro Esercito sono giunte fino a Santa Maria, sebbene fossero notizie confuse e spesso contraddittorie. Il tuo lungo silenzio e l’interruzione dei collegamenti, anche a causa dell’arruolamento più o meno forzato di molti giovani, non hanno certo giovato sul morale e sullo stato d’animo di una povera vecchia come me, tesoro, e sentivo che era mio dovere venire a sincerarmi di persona come stessi tu, l’irruento Nicolò, e perfino tua madre e tuo padre”
Costanza alzò lo sguardo, ritrovando la limpidezza e l’ingenuità degli occhi cerulei dell’adorata nonna: quanto le era mancato quello sguardo intelligente e sincero, quanto aveva desiderato baciare quelle guance magre e morbide, prive di rughe, e sentirsi avvolgere dal calore di un abbraccio autentico e disinteressato qual era sempre stato quello della marchesa.
Le sorrise e le accarezzò la chioma bianca, che a tratti veniva attraversata dai riflessi dorati della luce non ancora prossima al tramonto.
Quasi pianse di contentezza nel realizzare che la nonna era lì con lei, ridacchiando mentalmente per quel naso a patata che la nobildonna tanto detestava, e per quella bocca sottile che, invece, racchiudeva un sorriso caldo e gentile per chiunque.
Affondò di nuovo il volto sulla sua spalla, reprimendo tutti i sentimenti che le avevano oppresso il cuore in quell’ultimo estenuante mese e mezzo, riconoscente al Destino.
“Di cosa volevate parlarmi?” continuò la ragazza, stringendole la mano.
Solo allora si accorse che era la stessa mano di sempre, un po’ fredda sul dorso, dalle dita affusolate e la carnagione leggermente scura, con le vene ben in rilievo e le unghie squadrate, una mano che aveva saputo consolarla ed accarezzarla con amorevolezza perpetua.
“Di niente, piccola Costanza, era solo un modo per poter stare da sole, tu ed io, senza temere che tua madre venisse a disturbarci!” sorrise innocentemente la nobildonna, ammiccando con aria cospiratrice.
La nipote sorrise soddisfatta e cominciò a farle il solletico, uno dei loro giochi di quando era bambina: continuarono così per qualche secondo, quindi decisero per una tregua.
Sprimacciarono per bene i cuscini e, dopo essersi scambiate l’ennesimo sorriso, si addormentarono l’una vicino all’altra.

 
Un paio di ore più tardi, intorno alle sei e mezza, il campanello e il batacchio del portone d’ingresso risvegliarono prepotentemente
gli abitanti del palazzo dalla gioiosa apatia in cui erano piombati.
Il maggiordomo era andato ad aprire con la solita compostezza che lo contraddistingueva, e aveva annunciato a donna Luisa l’arrivo di due ospiti che avevano urgente necessità di parlare con la signorina Costanza.
Nina, la giovane cameriera della ragazza, corse per le scale ad avvisare la padroncina, ancora sdraiata sul letto in compagnia di nonna Maria.
La secondogenita del notaio si mise a sedere con uno scatto, per una frazione di secondo non ricordandosi di dove si trovasse.
Si passò una mano tra i capelli, accorgendosi dallo specchio ovale e dalla cornice dorata all’altro capo del muro, vicino alla toeletta in legno di ciliegio, di avere una parvenza decisamente poco presentabile, a causa dei folti ricci scuri che le si erano sciolti ed aggrovigliati sulle tempie.
“Che sta succedendo, mia cara?” volle sapere la marchesa, anch’essa messasi a sedere.
“Non lo so, nonna. C’è qualcuno dabbasso che desidera vedermi”
Subito il pensiero corse a Pietro, l’adorato e coraggioso cugino di cui ancora non aveva avuto modo di parlare a donna Maria.
Domandò a Nina di aiutarla a pettinarsi, dal momento che le dita della servetta erano abili e veloci, e finalmente fu pronta.
Tutte e tre le donne scesero al piano terra, Costanza incuriosita e dandosi della sciocca per non aver domandato chi fossero gli improvvisi ospiti che tanto urgentemente la stavano attendendo.
Quando si ritrovò davanti il maestro Rossini e Maffucci, un groppo alla gola la assalì, forse anche a causa dei volti preoccupati che non lasciavano presagire nulla di positivo.
“Buonasera a voi, Costanza. Dove possiamo parlare in tutta tranquillità?” non perse tempo l’insegnante di musica, avvicinandosi e dimenticandosi di inchinarsi secondo le norme del galateo.
“Così la allarmerete soltanto, Paolo” s’intromise l’avvocato dai baffetti.
La giovane non stava capendo nulla di quel dialogo, ma non riuscì a non stupirsi all’udire il nome di battesimo di Rossini: Paolo era un bel nome, si ritrovò a pensare, un nome che tuttavia non avrebbe mai immaginato appartenesse a quell’uomo, che lei all’inizio della loro conoscenza aveva puerilmente soprannominato il becchino o a cui si era sempre rivolta con la dedizione che comportava l'accezione di maestro.
“Fermatevi un istante, signori!” li zittì, ritrovando la calma e la lucidità.
Donna Luisa e nonna Maria erano in piedi dietro di loro, mentre la piccola Nina si era già dileguata per raggiungere il resto della servitù al piano inferiore.
Costanza guardò madre e figlia e sorrise, dunque si scusò e indirizzò i nuovi venuti verso il boudoir alla loro destra.
Una volta fatti accomodare gli ospiti, richiuse dietro di sé la porta decorata ad acquerello, quindi congiunse le mani e trasse un profondo respiro.
“Bene, adesso che siamo da soli, abbiate la compiacenza di spiegarmi singolarmente che cosa sta accadendo di così importante da venire fino a qui a quest’ora e, soprattutto, toglietevi dalla faccia quell’espressione cupa!”
Maffucci e Rossini si lanciarono un’occhiata reciproca, aprendo la bocca per ribattere.
Eugenio, un biglietto stropicciato e con la ceralacca ormai a brandelli tra le mani, attese il cenno d’assenso dell’insegnante di musica, e finalmente iniziò a raccontare.
“Poco più di un’ora fa ho ricevuto questo da parte di Pietro. E’ indirizzato a me e a Paolo, ma siamo dell’idea che sia importante che conosciate anche voi il suo contenuto, cara Costanza…”
La giovane, fino ad allora in piedi davanti a loro, capì che la situazione stava prendendo una piega assai amara, e che forse sarebbe stato meglio sedersi per evitare di incorrere in spiacevoli sorprese.
“Continuo a non capire, signori. Abbiate la benevolenza di parlare in modo chiaro e diretto, senza ulteriori preamboli”
L’avvocato trentenne annuì, mentre Rossini si soffiò il naso, forse un po’ troppo rumorosamente per l'occasione.
“Ecco, tenete…” si arrese Maffucci, consegnandole il foglio che aveva tra le dita.
Lei lo prese e cominciò a leggerlo, il cuore che le martellava nel petto e le tempie che le pulsavano in modo incredibilmente fastidioso.

Cari amici, se entro le ore 19 di quest’oggi, lunedì 30 aprile, anno del Signore 1849, non mi vedrete ritornare in città e, più precisamente tu, fedele Eugenio, non udirai il campanello della tua porta suonare per mano mia, venite a recuperare il mio corpo in località cascina Valstrona, a una dozzina di chilometri dal circondario novarese. Insieme a me, che Dio non voglia, potreste trovare anche i marchesini Tornielli, Guido e Andrea. Ricordate che la nostra causa è stata per me fonte di orgoglio e di assoluta dedizione, e che tutto questo, se accadrà, accadrà per volontà di taluni stolti che, accecati dal denaro o dal potere, hanno ammorbato la mente di colui che è stato sangue del mio sangue. Eugenio caro, Paolo caro, vi saluto e vi ringrazio per l’amicizia che mi avete donato. Portate i miei omaggi alla dolce e forte Costanza, e alla famiglia tutta. In fede, conte Pietro Alberto Ermanno Caccia, lì Novara, 30 aprile 1849

Costanza deglutì e socchiuse la bocca carnosa, lasciando scivolare sulle ginocchia l’epistola che, amaramente, appariva come le ultime volontà dell’adorato cugino.
Strizzò con rabbia il bracciolo della poltrona, mentre avvertiva un senso di nausea e di impotenza cingerle la vita.
“Si riferisce a Federico, non è così?” riuscì a dire, evitando di fissare negli occhi i due ospiti.
“Sì, crediamo di sì” annuì con un filo di voce Eugenio, le dita intrecciate davanti a sé.
“Ma l’ora designata non è ancora scoccata, mia cara!” cercò di tranquillizzarla Rossini, protendendosi verso di lei.
Abbozzò un sorriso assai mesto, quindi sospirò a sua volta.
“Non dobbiamo disperare, amici, è questo che sto cercando di dirvi” continuò l’insegnante di musica, ritrovando l’aria battagliera e vagamente ironica che lo aveva da sempre contraddistinto.
“Nessuno ha intenzione di farlo” ribatté a sua volta la ragazza, sollevando il mento, gli occhi verdi infuocati.
“Che ore sono?” domandò, mentre con lo sguardo cercava la pendola appesa in un angolo vicino alla porta.
Erano le sei e quarantacinque: in effetti, con un briciolo di fortuna e con una buona carrozza, avrebbero potuto raggiungere la cascina in poco tempo.
“Qualcuno di voi conosce il luogo nominato da Pietro?” proseguì imperterrita Costanza, alzandosi.
“Sì, non è lontana. Nel giro di venti minuti, non di più, dovremmo riuscire a raggiungerla, ma dobbiamo fare in fretta, dobbiamo subito metterci in marcia” spiegò Maffucci, abbandonando a sua volta il posto, seguito da Rossini.
“Molto bene. Con quale vettura siete venuti? Con una di cortesia?”
“Con la mia nuova e fiammeggiante Landau, è ovvio” la corresse orgoglioso l’avvocato.
“Era quello che volevo sentirmi dire, così non perderemo tempo a far preparare la nostra vecchia ed umile carrozza” calcò con una punta di sarcasmo e di insofferenza, per poi concludere:
“Forza, muoviamoci, signori”
I tre uscirono dal boudoir e, l’ingresso deserto, uscirono sul vialetto, dove incontrarono donna Luisa e nonna Maria.
“Tornerò per cena, madre” la rassicurò, quindi salutò con la mano la marchesa e corsero verso la loro destinazione, pregando che Pietro fosse ancora in vita. 
   



NOTA DELL'AUTRICE

Buon fine anno a tutti e buon principio 2017!
Ho dovuto dividere il capitolo perché troppo lungo, quindi alla fine del racconto mancano altri cinque capitoli (epilogo incluso).
A presto e grazie ad ognuno di voi che continua a seguire la storia :)

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Capitolo 43
*** Seconda parte- Le ultime volontà di Pietro ***





Io disapprovo profondamente i duelli. Se un uomo dovesse sfidarmi, lo prenderei gentilmente e con aria di perdono per la mano e lo porterei in un posto tranquillo e lo ucciderei.


(Mark Twain, pseudonimo di Samuel L. Clemens, autore e docente americano, 1835-1910)




Mentre la carrozza correva veloce verso la cascina Valstrona –uno stabile decadente in mattoni e calce-, schiantando la terra secca ed arida sotto le ruote inaugurate da poco, il maestro Rossini passava il tempo a controllare il suo orologio da taschino.

“Smettetela, per l’amor del Cielo!” sbraitò all’ennesima occhiata Costanza, irrigidendosi sul sedile color mattone.
“La ragazza ha ragione, Paolo. Non fate altro che innervosirci con questo vostro gesto ripetuto e decisamente stizzoso di guardare ogni secondo quell’affare!”
L’insegnante di musica richiuse con uno scatto l’elegante ingranaggio argentato, facendolo scivolare all’interno della giacca nera.
“Scusatemi, è che mi sembra di andare troppo piano e non sopporterei l’idea di arrivare tardi e trovare Pietro…”
“Non dite altro, vi prego! Noi non arriveremo tardi, non arriveremo tardi, lo so!” disse ad alta voce la giovane, più per persuadere se stessa che per reale convinzione.
Strinse le mani a pugno, accorgendosi che per la fretta si era dimenticata di indossare i guanti cipria in tinta con l’abito turchese, un vezzo che avrebbe abbondantemente barattato con la totale incolumità dell’adorato cugino.
Non avrebbe mai perdonato a Federico la morte di Pietro, gliela avrebbe fatta pagare in qualsiasi modo, lo avrebbe perseguitato fino al suo ultimo respiro, se fosse stato necessario, e gli avrebbe fatto scontare lo scotto davanti alla giustizia.
“Guardate, Costanza! Quella che s’intravede là in fondo è la cascina Valstrona! In un paio di minuti saremo finalmente arrivati!” la riportò alla realtà Maffucci.
Forza, prepariamoci a scendere e, Dio non voglia, teniamoci pronti al peggio.


Pietro si sentiva stremato: si stava arrabattando in quel duello ad armi impari da… quanto? Dieci minuti? Mezz’ora? Un’ora? Aveva completamente perso la concezione del tempo e l’unica cosa che desiderava era che tutto quel supplizio avesse presto fine.
“Allora, fratellino? Tocca a te! Non ti sarai già stancato, spero?!”
Il giovane conte Caccia, in maniche di camicia come lo era lui, gli aveva appena regalato l’ennesimo affondo, colpendolo di striscio su un ginocchio.
Il ragazzo guardò appena la ferita che si intravedeva al di sotto del tessuto scuro dei pantaloni, squarciato dalla lama perfetta del fioretto, per ritornare a concentrarsi sulla figura davanti a lui.
Con la coda dell’occhio, Pietro riusciva a vedere i marchesi Guido e Andrea Tornielli, suoi padrini, che seguivano con apprensione lo scontro, incitandolo a smetterla e a ritirarsi.
Ma non voleva dare alcun pretesto a quel folle del fratello per far del male a loro o a Costanza: sarebbe stato disposto a perdere vita e reputazione pur di salvare i suoi amici, ma non avrebbe rinunciato a portare avanti il duello, di questo ne era sicuro.
Avanzò a fatica verso Federico, il fiato corto e la testa pulsante, mentre con la mano sinistra impugnava meglio l’elsa.
“Quando ti renderai conto che tutto questo non ha senso? Che sarai tu il primo a pentirti di ciò?”
Pietro lanciò l’affondo che gli spettava, la gamba mancina in avanti a dargli lo slancio e il corrispettivo braccio che sfiorò appena il torace del fratello.
“Ah, molto bene, davvero un’ottima mossa!” si congratulò l’altro, sorridendo sardonico.
“Ma non sono d’accordo sui tuoi consigli: sai, li ho sempre trovati così noiosi, così dannatamente moralisti, così… tipicamente da fratello maggiore!”
Federico approfittò della concentrazione catturata di Pietro per colpirlo nuovamente, questa volta centrandolo sulla spalla destra.
Il tessuto di seta della bella camicia madida di sudore si strappò come fosse una vecchia tenda sotto le forbici di un’abile sarta, lasciando intravedere la carne rossa e dai contorni nettamente tagliati.
“Oh, forse ho esagerato…”
Il giovane conte si lasciò andare ad una risata sguaiata e si asciugò la fronte.
Pietro sentì le forze venirgli meno, la testa farsi pesante e un senso di nausea attanagliargli lo stomaco.
Cadde carponi, la ferita al ginocchio che era nulla in confronto al dolore lancinante che avvertiva premergli la spalla.
Con la mano sinistra cercò a tentoni lo squarcio: avvertì il sangue bagnargli le dita e l’odore ferroso stuzzicargli le narici.
Sta per finire tutto, ora non devo più fingere di essere un bravo spadaccino, riuscì a pensare con un mezzo sorriso, stupendo il fratello, che rimase interdetto davanti a quella reazione.
“Cos’è? La cosa ti diverte?” lo stuzzicò, avvicinandosi.
Non si abbassò per aiutarlo o per cercare di sincerarsi della gravità del taglio, non gli porse una mano per sorreggerlo a rialzarsi: rimase semplicemente in piedi davanti a lui, gli stivali sporchi di terra e di erba a pochi passi dalle ginocchia dell’altro, i capelli scompigliati e la camicia arrotolata sino ai gomiti e lasciata aperta sul petto.
La bocca gli si aprì in una smorfia di trionfo: erano anni che non si sentiva primeggiare, che non aveva coscienza di essere il più forte; era come trovarsi davanti alla sua nuova preda, e questa sensazione gli provocava un’enorme soddisfazione e un senso di pura euforia repressa.
Guardò ancora una volta il fratello, il volto sofferente attraversato da un’ombra tenace, a rappresentare che non voleva dargliela vinta, fino a quando avvertì le ruote di una carrozza farsi largo dietro di loro.


“Pietro!” Eugenio scese per primo dalla vettura, temendo di trovarsi davanti ad una scena raccapricciante.
Gli si avvicinò e gli si inginocchiò, mentre Federico era lì a seguire i suoi movimenti.
“Ah bene, vedo che sono arrivati i rinforzi!” lo schernì, scuotendo il capo e ritornando verso i duchi di Sanseverino e di Martengo, che gli regalarono ampi sorrisi e pacche sulle spalle.
“Dov’è il medico? Dove sono il secondo e l’accompagnatore che spettano in ogni duello degno di tale nome?!”
Il secondogenito dei Caccia aggrottò un sopracciglio, rivolgendosi con aria beffarda.
“Non è un duello all’ultimo sangue, signore, ed inoltre non mi sembra di vedere alcuno in pericolo di vita, o sbaglio? E per quanto riguarda il secondo, nessuno di noi duellanti è così stanco da non riuscire a continuare, allo stesso modo di come non reputo necessaria la presenza di qualcuno che vigili su un banale scontro tra fratelli…”
“Sapete anche voi che, una volta che l’avversario è stato ferito, si deve immediatamente smettere e…”
Rossini e Costanza scesero pressoché insieme, quindi la ragazza raggiunse il cugino e l’avvocato, che si trattenne dal continuare a controbattere la sbruffonaggine di Federico.
“Oh Dio, che cosa vi hanno fatto?” riuscì a dire la ragazza, ipnotizzata dalla ferita alla spalla.
Gli sembrava di essere tornata indietro nel tempo, di rivedere la sofferenza del fratello e la sua impotenza nel non poterlo aiutare.
Si fece dare i loro fazzoletti dall’insegnante di musica, da Maffucci e dai marchesi Tornielli –che nel frattempo erano accorsi per valutare le condizioni dell’amico-, in modo da comprimere la ferita sulla spalla, e cominciò a premere con forza, come aveva visto fare anni prima da uno dei contadini di donna Mellerio, quando si era tagliato in uno dei numerosi roveti della villa.
“E’ solo una ferita di striscio…” cercò di minimizzare Pietro, mal sopportando tutte quelle attenzioni e allontanando le bende di fortuna.
Con quel gesto, sfiorò la mano di Costanza, così calda rispetto alla sua, fredda per la tensione e il sudore di quei minuti interminabili.
I loro occhi si accarezzarono e si dissero molte più cose di quanto fosse necessario pronunciare a parole.
“Date retta al povero Pietro, cugina, non c’è nulla di cui preoccuparsi! E’ una semplice sbucciatura che sparirà nel giro di qualche ora, credetemi!”
Federico si avvicinò a lei e ai tre uomini: aveva rindossato la giacca grigio tortora e si era ravvivato i capelli, le guance ancora arrossate dal duello appena trascorso.
“Diglielo anche tu, fratellino, che non è successo nulla! Si è trattato solo di uno screzio senza alcuna importanza. Non è forse così?” continuò imperterrito il giovane.
“Allora? Non vorrai diventare eroe anche agli occhi dei tuoi amici!”
“Smettetela!” sbraitò Costanza, lasciando Eugenio a premere sulla ferita.
Si alzò di scatto, il vestito turchese inzaccherato, e rivolse uno sguardo truce in direzione del cugino.
“Ma non provate un minimo di vergogna per ciò che avete fatto? Non vi sentite sporco dentro? Marcio nell’anima? Avete cercato di uccidere il vostro stesso fratello, lo avete attirato fino a qui con chissà quali inganni! Non provate un briciolo di pietà, di amore, di semplice affetto per lui? Non siete pentito?”
I capelli ricci, raccolti solo da un grosso fermaglio dietro la nuca, le ricadevano ribelli come un ventaglio sulle spalle, conferendole un’aria ancora più battagliera.
Una luce molto simile all’odio aveva preso a brillare negli occhi verdi della ragazza, che ormai non temeva ulteriori e possibili conseguenze.
“Pietro non vi merita, cara cugina, e voi ancora non lo avete capito! E’ l’ennesima dimostrazione di quanto il suo animo sia corrotto, non il mio! E’ sempre stato un ottimo attore, bravissimo nel ricreare la giusta atmosfera di vittima sacrificale: almeno questo, in tutti i mesi di frequentazione, dovreste averlo imparato…”
Un unico e potente schiaffo mise fine ai vaneggiamenti del giovane, che si portò la mano alla guancia colpita, impreparato a quel gesto a dir poco teatrale.
Non ribatté, preferendo scuotere il capo e sorridere come se tutto gli fosse dovuto.
In quel mentre, però, proprio quando Rossini e i fratelli Tornielli cercavano di rialzare il conte, il frastuono degli zoccoli dei cavalli e lo stridio delle ruote di un carro interruppero il breve istante di silenzio che si era creato.
Tutti e nove i presenti si voltarono nella direzione indicata dal rumore, chi volgendo il busto e chi semplicemente sollevando lo sguardo: nemmeno un minuto dopo, infatti, alcuni esponenti della Guardia Civica raggiunsero il luogo dove si era svolto il duello.
Dalle mostrine di cui faceva sfoggio, alla testa del corteo si trovava un tenente, un trentacinquenne allampanato e con i baffi bruni a manubrio; al suo fianco, vi era un sottoufficiale di qualche anno più giovane, i lineamenti scuri, mentre a cassetta della vettura d’ordinanza si stagliavano le figure di due soldati semplici di non oltre vent’anni.
Maffucci, Rossini, i marchesi Tornielli, Pietro e Costanza rimasero interdetti per il favorevole avvento degli uomini di Legge, mentre Federico e i suoi padrini sembravano perfettamente a loro agio, come se si aspettassero una mossa del genere.
“E’ quella che qualcuna chiama Provvidenza ad avervi mandato!” si lasciò scappare l’insegnante di musica, gongolante come un bambino.
Il tenente gli lanciò un’occhiata distratta, quindi scese dal destriero bianco e, la divisa di panno blu scuro sui pantaloni immacolati, diede un’approfondita scorsa al gruppo che si stagliava davanti a lui.
“Buonasera, signori. Che cosa sta accadendo qui?”
“Un duello, signor tenente” rispose Eugenio, sperando di mettere nei guai il giovane conte.
“Un duello, dite… E sapete che il Regno di Sardegna non tollera che sul suo territorio vi siano esibizioni guerrigliesche di siffatta risma? Si potrebbe incorrere in sanzioni assai pesanti, pecuniarie e addirittura penali…”
“Non date retta a quest’uomo” s’intromise ossequiosamente Federico “si è trattato di una semplice scaramuccia, un contenzioso tra fratelli. Null’altro, ve lo posso assicurare sul mio onore”
“Onore?!” Costanza non riuscì ad evitare di obiettare l’assurdità di una tale replica, ma venne prontamente bloccata dal trentenne dai baffetti.  
“Comunque sia, chi di voi è il conte Pietro Alberto Ermanno Caccia?”
Il chiamato in causa, che fino a quel momento non si era dato pena di comprendere la situazione, ma desiderava solamente che tutto finisse, sollevò la testa bionda e, con le ultime forze rimaste, tentò di mettersi in piedi.
Una fitta al ginocchio colpito lo costrinse a piegarsi in avanti, mentre con la mano sinistra comprimeva senza troppa importanza la ferita alla spalla.
“Sono io, tenente. Cosa volete?”
L’uomo, fautore dell’Ordine pubblico, gli si avvicinò a passi calibrati e gli si parò davanti, continuando a non degnare il resto dei presenti di nemmeno una misera occhiata.
“Signor conte, in seguito a denuncia anonima giunta presso la nostra sede cittadina nella giornata odierna, 30 aprile 1849, e con i poteri giuridici conferitemi dal mio ruolo di tenente della Guardia Civica del Regno di Sardegna di Sua Maestà Vittorio Emanuele II, vi dichiaro in arresto per il reato di tradimento ai danni della patria. Verrete tradotto in carcere, presso il castello Sforzesco della città, e ivi rimarrete fino a nuove disposizioni”
“Ma…non potete!” riuscì a controbattere Costanza, sconcertata.
“Non vedete che è ferito?! Dobbiamo farlo visitare da un medico!”
Il tenente si voltò nella sua direzione e s’inchinò leggermente.
“Voi chi sareste, signora?”
“Mi chiamo Costanza Granieri e sono la cugina del conte. Sono convinta ci sia stato un enorme quanto grossolano sbaglio, signor tenente! Pietro non è un traditore, lui ama la nostra patria come pochi, ve lo posso giurare! Ma vi prego, prima di qualsiasi cosa, permettetegli di essere visitato da un medico! E’ stato colpito in un duello da lui non cercato proprio pochi minuti fa, e vedete anche voi che le ferite sono ancora troppo fresche per scongiurare qualsiasi pericolo per l’incolumità della sua salute!”
La giovane si zittì per riprendere aria e riordinare velocemente i pensieri: doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di salvare Pietro ed impedirne l’arresto.
“La ragazza ha ragione, signor tenente” s’intromise Eugenio, aspettando un segnale da parte di Pietro, che tuttavia aveva riabbassato il capo ed era ricaduto carponi, lasciando che fossero i marchesi Tornielli a tamponargli le ferite da taglio.
“Sono l’avvocato Maffucci e rappresenterò legalmente il conte. Ebbene, quando siamo arrivati pocanzi –la signorina Granieri, il maestro Rossini ed io- abbiamo trovato il nostro amico versare in queste condizioni critiche, ed è sotto gli occhi di tutti che urge reperire la presenza di un buon medico per prestargli le cure adatte alla sua condizione. Non siete forse d’accordo anche voi?”
Il tenente contrasse la mascella sbarbata e, le mani dietro la schiena, dedicò uno sguardo ai tre soldati alle sue spalle, due ancora alla testa del carro e l’uno sceso da cavallo.
“Non temete, avvocato. Data la condizione sociale dell’arrestato e l’evidente necessità in cui si trova, sarà mia premura, una volta arrivati al castello, far venire il medico del carcere per visitare il vostro amico”
Eugenio annuì poco convinto e si voltò per scrutare ancora una volta il resto della combriccola: gli unici a loro agio e decisamente fin troppo rilassati erano Federico e i duchi di Sanseverino e di Martengo, l’espressione palesemente irriverente per la notizia dell’arresto.
“Permetterete almeno di scortare il conte a destinazione e di verificarne la sistemazione, signor tenente?” continuò calmo e lucido Maffucci.
“Se insistete, non sarò certo io a negarvelo. Ebbene, è giunto il momento di andare. Ce la fate a sollevarvi, signor conte?”
A quelle parole, Pietro parve risorgere: puntò gli arti buoni sul terriccio e, con l’aiuto dei marchesi Tornielli e di Rossini, si mise finalmente in piedi, la camicia ed i pantaloni sporchi e sudati appiccicati come una seconda pelle.
“Non sei costretto ad andare” cercò nuovamente di farlo ragionare Guido, bloccandogli il braccio sano.
“Eugenio saprà difenderti e tirarti fuori da questo equivoco” rincarò la dose Andrea, preoccupato come il fratello.
Ma l’amico sembrava aver perso l’uso della parola: con i suoi occhi azzurro ghiaccio cercò di rassicurarli e di sorridere, quindi rivolse uno sguardo grato anche al maestro Rossini, in apprensione come non mai, ed infine alla bella quanto disperata Costanza.
Barcollante e zoppicante per il ginocchio ferito, le passò di fianco e le sfiorò una mano, stringendogliela impercettibilmente.
“Oh Pietro, Pietro vi supplico, non cedete, non permettete che vi facciano altro male, vi prego! Non sopporterei nuovo dolore nella nostra famiglia, non riuscirei più a veder soffrire una persona che amo. Per favore, dite qualcosa!”
Il cugino, la spalla da cui non fuoriusciva più sangue, cercò di tranquillizzarla con un’altra carezza, poi la oltrepassò, senza aggiungere altro.
Costanza fece per seguirlo, ma il sottoufficiale che era arrivato a cavallo con il tenente le sbarrò prontamente la strada.
“Andate a casa” le intimò teneramente Maffucci, voltandosi “e aspettate prima di allarmare i genitori di Pietro. Appena saprò qualcosa, sarà mia premura venire da voi a palazzo per riferirvelo, ma fino ad allora non avvertite nessuno. Paolo, siamo nelle vostre mani”
L’avvocato diede una pacca amichevole a Rossini e ai marchesi, quindi salì sul carro della Guardia Civica vicino a Pietro, che si issò lentamente e a fatica.
Poi, i due soldati a cassetta spronarono i cavalli a mettersi in marcia, preceduti dagli eleganti bai del tenente e del suo compare.
Il sole di fine aprile stava calando all’orizzonte, e un freddo improvviso raggiunse chi era rimasto sul luogo del misfatto, un freddo simile all’abbandono e alla tristezza.
Costanza avvertiva che avrebbe ceduto da un momento all’altro, ma non poteva permettere di dargliela vinta a Federico, che insieme ai suoi sgherri aveva preso posto nella carrozza con cui aveva raggiunto la cascina, poco più di un’ora prima.
I loro sguardi si incrociarono per un istante, giusto il tempo perché l’odio della ragazza rimanesse ben impresso nella mente corrotta del cugino.
E Costanza capì: si abbassò, prese una manciata dei numerosi sassolini presenti lì intorno e, con la rabbia in corpo, scagliò quell’arma primordiale contro la carrozza che si stava ormai velocemente allontanando.
“Siete stato voi! Sei stato tu, maledetto! Tu ad aver denunciato Pietro! Torna indietro, torna indietro e abbi il coraggio delle tue azioni!”
Rossini e i marchesi Tornielli le si avvicinarono con aria preoccupata, bloccandole le braccia: i sassolini nel palmo della mano caddero uno dopo l’altro, e lo stesso fece la giovane, che si accasciò senza più forze.
“Suvvia, mia cara, non sprecate il vostro fiato per un essere tanto vile. Vedrete che Eugenio troverà presto una soluzione, abbiate fiducia”
L’insegnante di musica la avvolse in un abbraccio consolatorio, mentre Guido le accarezzava una spalla.
“Il maestro Rossini ha ragione. Permettetemi di darvi un consiglio: Federico e quelli come lui godono nel vedere la disperazione della gente, e non saranno certo le vostre comprensibili imprecazioni a mettere la parola fine su questa sorta di faida famigliare. Vi giuro che domattina andrò di persona ad interessarmi sullo stato di salute e giuridico del nostro amico, sempre che Maffucci non sia già riuscito a farlo scagionare!” cercò di farla sorridere il ragazzo, alto e moro.
“Apprezzo il vostro ottimismo, ma voi non conoscete la bassezza e i modi infingardi che contraddistinguono mio cugino. Se non troviamo un modo per provare l’innocenza di Pietro, temo che verrà esiliato o, peggio ancora, condannato a morte! E questo non sarebbe giusto, non è giusto!”
Costanza, ancora avviluppata a Rossini, avvertì un tuffo al cuore al solo pronunciare quell’infausto presagio.
“Federico sa che sta mentendo” s’inserì nella conversazione Andrea, il più piccolo dei Tornielli “lo sa perfettamente. Anzi, sono convinto che la sua sia solamente una mossa per prendere tempo e fuggire verso il Lombardo Veneto, dove di sicuro potrà contare su degli appoggi altrettanto depravati quali sono i duchi di Sanseverino e di Martengo. Il nostro compito è sostenere Pietro in ogni maniera, anche avendo fiducia in lui e nella sua intelligenza. E poi, non dimenticate che Eugenio è tra i migliori avvocati della città e dell’intera provincia: i suoi studi lo hanno portato in giro per l’Italia, e di certo saprà come tirare fuori dai guai Pietro!”
Guido e il maestro di musica annuirono alle parole del ragazzo, mentre Costanza pregava che tutto ciò che avevano detto si avverasse presto.
“E’ ora di andare” dichiarò Rossini, ringraziando con un cenno del capo ed una stretta di mano i marchesini.
La giovane salutò assorta nei suoi pensieri, quindi si lasciò trascinare fino alla carrozza di Maffucci, abbandonata a pochi metri di distanza.
Il cocchiere –un uomo sui trent’anni, il viso butterato ma ben proporzionato come il resto del corpo e gli occhi chiari- era favorevole alla causa di Liberazione, per cui non fece domande riguardo la scena che aveva assistito: era il tuttofare del gruppo di affiliati e di lui ci si poteva fidare ciecamente.
Quando Rossini e Costanza presero posto sulla vettura, ella domandò se fosse possibile non andare subito a palazzo.
“Non me la sento di farmi vedere in queste condizioni: temo di non riuscire a starmene zitta e a rivelare ogni cosa ai miei genitori, talmente grandi sono l’angoscia e la disperazione che provo. Inoltre, non ho alcuna intenzione di far soffrire inutilmente zia Rosa e lo zio Aldo, proprio loro che sono stati così buoni ed ospitali nei nostri confronti”
L’insegnante rifletté per qualche secondo sulle parole della sua interlocutrice, poi il volto gli si illuminò soddisfatto.
“Che ne dite, mia cara, se vi porto a conoscere la nobildonna che in questo periodo ha avuto la gentilezza di aprirmi le porte della sua dimora? E’ assai affabile e di ottime maniere, una signora d’altri tempi, credetemi!”
“No, maestro, non ho voglia di vedere nuove persone. Piuttosto, portatemi a fare un giro per la città, un giro senza meta, in modo da rischiararmi le idee e riflettere meglio. Approvate?”
L’altro fece spallucce e sorrise bonariamente, annunciando al vetturino di partire per il centro di Novara.
“Se non fosse per ciò che è appena accaduto, questa sarebbe una serata perfetta per passeggiare con voi”
Scostò le tendine bordeaux per permettere al chiaro di luna e al cielo stellato di penetrare nella carrozza, buia e cupa fino a quel momento.
Costanza sospirò speranzosa e rincuorata: lo spettacolo della natura era il miglior balsamo alle sofferenze umane, e adesso sapeva che ce l’avrebbero fatta a dimostrare l’innocenza di Pietro.
Avrebbe lottato con le unghie e con i denti pur di scagionarlo, lo giurava e lo doveva a se stessa e a tutti coloro che credevano nella Giustizia.

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Capitolo 44
*** I sotterranei del carcere ***


Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.

(Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, articolo 10, 1948)



Le Regie Carceri Mandamentali si ergevano sui resti dell’antica cinta muraria romana, dove a partire dal XIII secolo i Visconti, signori del Ducato di Milano, avevano cominciato a costruire una fortezza dal carattere militare-amministrativo, che con il tempo si era ampliata ed era stata rimodellata a piacimento di chi deteneva il potere cittadino, fino a diventare nota come il Castello Visconteo Sforzesco.
Il cotto lombardo era il materiale principe che sorreggeva l’intero edificio e con cui, nei secoli, si aveva plasmato ogni elemento architettonico, dai bastioni alle merlettature, dalle antiche torrette fino ai camminamenti: in lontananza, da qualsiasi punto cardinale si giungesse, si poteva già intravedere il vecchio ponte levatoio con il profondo fossato, ai cui lati del massiccio portone in legno erano state appese le fiaccole per rendere più agevole il lavoro di sentinelle delle guardie.
Davanti al Castello, a qualche centinaio di metri, sorgeva l’omonima piazza su cui era stato edificato il Teatro Nuovo, dove Costanza aveva assistito mesi prima alle esecuzioni liriche de “L’elisir d’amore” e de “Il barbiere di Siviglia”.
Il carro delle Guardia Civica galoppava sostenuto nella notte, a fare da apripista il tenente e il sottoufficiale a cavallo: mancavano una decina di minuti alle otto di sera, e per le strade della città vi erano pochi avventori di dubbia moralità, i volti rischiarati dai lampioni e dalla luce lunare.
“Come ti senti?” domandò Eugenio a Pietro, seduti l’uno di fronte all’altro, ognuno perso nei propri pensieri.
Non si erano rivolti la parola, sebbene Maffucci, di tanto in tanto, lanciasse occhiate interrogative e cariche di significato all’amico, che rimaneva immobile con il capo abbassato, come a volersi proteggere da eventuali inquisitorie.
“Bene”
“Non hai dolore?”
“Non particolarmente. Solo qualche rara fitta alla spalla, ma il ginocchio è tornato come nuovo”
L’avvocato annuì, poi aprì bocca per ribattere, stanco di quel teatrino senza senso.
“Devi smetterla con questo atteggiamento disfattista, Pietro! Non ti servirà a nulla, maledizione! Che fine ha fatto l’uomo coraggioso ed altruista che ho conosciuto?! Non capisci che così facendo rischi di far soffrire chi ti vuole bene, dalla tua famiglia ai tuoi amici?! E parla, per l’amor di Dio, parla, di’ qualcosa!”
Il conte Caccia fissò gli occhi di ghiaccio in quelli scuri dell’avvocato, elegante in un completo verdone, tutto l’opposto della sua camicia strappata e dei suoi pantaloni lacerati.
Si guardò la punta inzaccherata degli stivali, quindi prese la parola.
“Eugenio, non voglio che nessuno di voi venga coinvolto in questa stupida storia! Né tu, né gli altri ragazzi del gruppo, né Paolo… nessuno! Devi promettermi che proteggerai la mia famiglia da un’eventuale onta in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo! Quello che sta accadendo è una questione che riguarda solamente mio fratello e me, lo capisci?”
Maffucci scosse con vigore il capo, sbuffando e piantandosi le unghie sulle cosce.
“No che non lo capisco! Tu sei nostro amico, Pietro, e gli amici non si abbandonano nel momento del bisogno! E poi, tu sei innocente e lo dimostreremo! Se solo questi damerini travestiti da soldati sapessero quanto abbiamo lottato per aiutare l’Esercito e la causa di Liberazione, se solo potessero comprendere quanta profonda e sincera sia la dedizione che abbiamo impiegato per prodigarci in tutto questo! Sarebbero i primi a gridare a gran voce la tua rettitudine e a supplicare il tuo perdono, ne sono certo!”
“Ma loro non possono saperlo, Eugenio, non possono. Rischieremmo che tali informazioni vengano udite da orecchie indiscrete, da persone che potrebbero riferirle ai nemici, ai filo Austriaci, e questo non possiamo permettercelo. Tu lo sai bene che non possiamo…”
Uno scossone fece sobbalzare i due giovani, che si ritrovarono catapultati con la spalla contro il finestrino.
“Non pensi a Nicolò? Al sacrificio che lui e tanti come lui hanno compiuto per cercare di farci vincere e di vivere in uno Stato libero?”
In quel mentre, la porta della vettura si aprì, lasciando intravedere i due soldati a cassetta che li incitavano a scendere.
Eugenio aiutò il conte a muoversi, quindi alzarono lo sguardo verso l’ampio cortile del Castello, disseminato da torce e uomini in divisa che montavano di guardia.
“Venite, da questa parte…”
Il tenente comparve dietro di loro e, dopo aver bisbigliato qualche parola con il sottoufficiale ed i soldati che avevano assistito all’arresto, condusse gli ospiti oltre lo spiazzo, fino a raggiungere una porta laminata lasciata aperta.
I cinque la attraversarono e si ritrovarono a percorrere un corridoio lungo e spoglio, dalle pareti di cotto e verniciate in qualche raro punto di bianco, mentre gli imberbi militari facevano luce con altre fiaccole che reggevano tra le mani.
L’atmosfera aveva un che di cupo, non si poteva definire allegra, ma al contempo vantava qualcosa di rassicurante e di calmo, forse per i bagliori che proiettavano ombre allungate sulle pareti e sui volti del misto gruppetto di avventori, fornendo una strana sensazione di calore.
Una decina di minuti più tardi, il tenente si fermò davanti ad un’altra porta, questa volta di legno massiccio: bussò un paio di colpi con le nocche ossute, quindi aspettò il nullaosta per entrare.
“Aspettate qui” sentenziò con tono piatto, poco prima di sgusciare all’interno della misteriosa stanza.
Eugenio ne approfittò per guardarsi intorno e lanciare uno sguardo d’incoraggiamento in direzione di Pietro, che ricambiò appena.
Il dolore alla spalla era quasi scemato, ma le fitte al ginocchio, a causa della deambulazione sostenuta, lo stavano quasi facendo impazzire.
D’altro canto, vi era qualcosa di angusto e di malsano in quel posto, qualcosa che innervosiva l’avvocato.
“Come luogo di villeggiatura non è certo il massimo…” tentò di alleggerire la tensione, mentre l’amico si stringeva nelle spalle e rabbrividì appena.
Dovevano essere scesi di qualche metro, pensò il conte, dal momento che il pavimento di pietra appariva in lieve pendenza e la temperatura si era raffreddata di qualche grado.
“Hai freddo?” sembrò leggergli nel pensiero Eugenio, che fu subito pronto a togliersi la giacca e a donargliela.
“Non importa, non preoccuparti. E’ solo la naturale reazione all’essere stato ferito”
Ma Maffucci non demorse e, con un’occhiata di sbieco, gli impose in silenzio di accettare.
Il rumore dei cardini poco oliati riportò i presenti in quel luogo di sofferenza e di oscurità.
“Signor conte, entrate. Nel frattempo, andrò a chiamare il medico perché vi visiti”
Pietro, riprendendo a zoppicare, oltrepassò il lieve scalino che lo condusse nel locale, mentre Eugenio lo seguiva.
“No, avvocato, voi dovete attendere fuori. Non ci vorrà molto, state tranquillo” lo bloccò il tenente, che subito si allontanò lungo il corridoio che si apriva alla loro sinistra.
“Ma non potete escludermi dall’interrogatorio del mio assistito!” tentò di ribattere il trentenne dai baffetti, la cui debole protesta si perse nell’eco di quei sotterranei.
L’imputato entrò in una stanza quadrangolare e spartana: su una parete, davanti ad una finestrella minuscola e protetta da spesse inferriate, lo accolse l’ennesimo soldato –all’apparenza non particolarmente alto, la carnagione chiara e gli occhi scuri come i capelli lisci- che, seduto dietro una scrivania ordinata e quasi sgombra, gli intimò di prendere posto sulla seggiola di legno davanti a lui, mentre segnava l’orario sul primo dei fogli che aveva dinnanzi.
Pietro arrancò con dignità verso il carceriere, notando il pavimento irregolare costruito in sasso e due dei muri in pietra ricoperti da scaffali ricolmi di vecchi volumi e fascicoli numerati.
La luce delle torce, più numerose rispetto al corridoio che avevano percorso poco prima, permise al giovane di vedere con chiarezza il volto del militare, che pressappoco avrà avuto venticinque anni.
“Prego, sedetevi”
Il carcerato spostò quel tanto che bastava la seggiola, quindi si lasciò cadere con aria atona e fiacca. 
“Dunque, confermate di essere il conte Pietro Alberto Ermanno Caccia, nato a Novara il 16 giugno 1818?”
L’interrogato annuì.
“Confermate altresì di essere il figlio primogenito del conte Aldo Guido Teresio Giuseppe Caccia e della marchesa Rosanna Agnese Maria Eufemia Biroli Montalenti?”
E ancora Pietro annuì, le mani conserte abbandonate sulle gambe.
“Siete a conoscenza del motivo per cui siete stato arrestato?”
L’altro ebbe un attimo di esitazione, indeciso se negare, ma alla fine optò per la verità.
“Mi si accusa di tradimento ai danni della patria, sebbene nello specifico non abbia alcun dettaglio a riguardo…”
Il soldatino finì di compilare il documento che aveva davanti, poi alzò la testa con sguardo incolore e aria compita.
“Esattamente, signor conte. Stamani è giunta denuncia anonima in cui vi si accusa di aver cospirato contro il nostro ex sovrano, Carlo Alberto, e di aver inoltre tramato con le truppe austriache per l’esito disfattista della battaglia del 23 marzo scorso”
Lo scribacchino riabbassò il capo, intinse la penna d’oca nel calamaio e continuò a riempire il modulo, fino a quando Pietro non richiamò la sua attenzione.
“Vorrei sapere se vi sono delle prove a mio carico. E se è possibile visionarle”
“Per quanto concerne la loro visualizzazione, non spetta a me negarvi o assecondarvi il permesso, bensì al signor tenente. Tuttavia, posso accennarvi che il denunciante ha provveduto ad elencarne alcune, principalmente riguardanti la vostra appartenenza a certi gruppi rivoluzionari che mirano a far decadere il governo de Launay  e l’attuale regnante, Sua Maestà Vittorio Emanuele II. Rispondete dunque, è la verità?”
“Certo che no” tagliò corto l’imputato, le fitte alla spalla che tornavano a pressarlo.
Ma egli non demorse: doveva saperlo e lo doveva fare in quel momento, prima che tutto andasse perduto.
“E ditemi, soldato, queste famose prove di cui mi avete parlato riportano i nomi di altre persone oltre al mio?”
“Non so dirvelo” rispose l’altro, continuando a redigere l’atto d’arresto “non sono stato io ad averle visionate, signore. Bene, avete qualche cosa da dichiarare a proposito?”
“Nessuna…”
“Avete effetti personali o lettere che desiderate far pervenire ai vostri famigliari o conoscenti?”
L’interrogato fece di no con la testa, soffocando un sorriso di scherno: suo fratello lo avevo lasciato letteralmente senza nulla, aveva i vestiti a brandelli, era senza armi, né tantomeno possedeva un orologio o altri oggetti di valore.
“Vi ritenete colpevole per il reato ivi ascritto e di cui siete stato messo a conoscenza pocanzi?”
“Nella maniera più assoluta sono e mi ritengo innocente, soldato”
Il militare, il volto illuminato per metà dalla luce delle fiaccole appese ai muri, aggrottò un sopracciglio e si accinse a scrivere qualcos’altro sul documento.
Rilesse le parole, quindi voltò pagina e avvicinò il foglio a Pietro, chiedendogli di firmare.
“Molto bene, signor conte. Potete accomodarvi fuori. Dopo la visita medica di cui mi hai informato il signor tenente, verrete condotto in una cella singola fino all’interrogatorio ufficiale di domattina. Addio”
 

“Allora? Cosa ti hanno detto?”
Eugenio lo assalì non appena l’amico uscì dalla stanza.
“Nulla, sta’ tranquillo. Mi hanno solo rivolto delle domande formali per compilare i documenti riguardanti il mio arresto, ma non mi è stato chiesto niente di specifico o di particolarmente compromettente, non temere”
I soldati che li avevano accompagnati fino a lì erano ancora sull’attenti, di fianco ad altre due guardie più anziane, anch’essi con i fucili su una spalla.
I passi sicuri di alcuni stivali interruppero il silenzio che si era creato, lasciando intravedere l’arrivo del tenente.
“Vedo con piacere che avete già finito, signor conte. Allora possiamo andare: venite, da questa parte…”
“E il medico che ci avevate promesso?” lo assalì Maffucci, affiancandolo.
“Mi sembra di vedere maggiormente preoccupato voi, caro avvocato, rispetto al vostro cliente. Stiamo andando dal dottor Terzani, è lui che si occupa dei nostri ospiti di riguardo”
Pietro arrancava dietro al gruppetto, alternando il dolore al ginocchio a quello provocato per le fitte alla spalla.
“Non pretendo trattamenti di favore, signor tenente” cercò di farlo ragionare, trattenendo il fiato per non avvertire ulteriore male.
“Infatti non avrete alcun trattamento di favore, non temete. E’ la normale prassi che si usa per i nuovi arrivi in condizioni precarie, esattamente come è la vostra situazione: una veloce visita medica, tanto più nelle vostre condizioni, non potrà che farvi bene. Inoltre, dato il rango di cui godete, avete il diritto di usufruire di una cella singola e della cena, sebbene fuori orario. Ma, passatemi il termine, se le accuse che vi sono state rivolte si riveleranno fondate, state pur certo che nessuna condizione sociale di cui godete vi preserverà dalla pena capitale e dal servizio annesso”
“A cosa vi riferite? Mi auguro non alla tortura perché… ” s’intromise Eugenio.
“Calmatevi, avvocato, ne discuteremo a tempo debito. Piuttosto, eccoci arrivati…”
Il tenente fece un cenno d’assenso ai due soldati che avevano continuato a seguirli fino a lì: essi si posizionarono sull’attenti, mentre l’ufficiale bussava ad una porta di legno di colore chiaro, le torce negli appositi anelli in ferro a rischiarare le pareti in cotto e i loro volti.
Una voce profonda e allo stesso tempo squillante intimò ai nuovi venuti di entrare.
Una volta dentro, Pietro, Eugenio e il militare si ritrovarono davanti ad un uomo sui cinquant’anni, brizzolato e con gli occhiali, la corporatura robusta e la mascella ispida di barba.
“Dottor Terzani, questo è il prigioniero di cui vi ho parlato. Fatevi avanti, signor conte”
Il medico e il carcerato si lanciarono un cenno di saluto con il capo, quindi lo scienziato invitò il giovane a sedersi su una specie di lettino di legno duro.
In religioso silenzio, visionò senza troppi complimenti le ferite alla spalla e al ginocchio destri, poi si concentrò a pulirle con delle pezze biancastre imbevute di acqua, che aveva preparato in un catino sbrecciato appoggiato su un tavolino rettangolare, quindi le disinfettò con un miscuglio di tintura e alcool.
Pietro soffocò un gemito dopo l’altro, piantandosi le unghie nella carne.
Infine, si avvicinò ad una vetrinetta dietro di lui, la aprì e recuperò un bandolo di bende, che avvolse con destrezza attorno alle ferite.
Contemplò per una manciata di secondi il lavoro che aveva fatto, poi passò ad una rapida visita delle sclere e delle articolazioni.
“Abbiamo finito. Per me non c’è nulla di cui preoccuparsi, potete accompagnarlo in cella”
Eugenio avrebbe voluto ribattere, cercare di procrastinare quel momento per impedire che Pietro venisse allontanato ed isolato.
Ma nemmeno il diretto interessato aveva alcuna cura di angosciarsi per il suo destino.


La cella era grande tre metri per due e vi era una finestrella su di una parete, quasi prossima al soffitto, le cui grate non permettevano di far entrare troppa luce e neppure di vedere all’esterno, se si escludeva uno strappo di cielo buio e puntellato di stelle.
Da un muro pendeva un tavolaccio infisso con degli anelli arrugginiti, ciò che con molta fantasia avrebbe spinto a pensare di trovarsi in presenza di un letto.
A pochi passi, era stato posizionato un tavolo ed uno sgabello, entrambi mangiati dalle tarme: sul tavolo era stato lasciato un piatto con delle fette di pane, del formaggio e di fianco un bicchiere di vino abbondantemente annacquato.
“Se desiderate una coperta, fatelo presente alla guardia qua fuori, e ve la porterà. Ci vediamo domani mattina. Buonanotte, signor conte”
Il tenente si stava apprestando ad uscire, quando Maffucci lo bloccò.
“Per che ora è previsto l’interrogatorio?”
“Alle nove. Adesso dovreste uscire anche voi, avvocato. Fino a prova contraria è il vostro amico ad essere stato arrestato, non voi…”
“Certo, vi chiedo solamente un minuto, poi me ne andrò”
Il trentenne dai baffetti attese che l’ufficiale se ne andasse, quindi rivolse la sua attenzione a Pietro.
“La notte porta consiglio, non temere. Vedrai che domattina troveremo una soluzione: stanotte, se necessario, starò sveglio per trovare la migliore linea difensiva che abbia mai scritto! Ma tu, amico mio, promettimi che mangerai e che avrai cura di te, Pietro. Promettimelo, ti prego!”
L’altro lo guardò per qualche secondo, quindi annuì e gli diede una pacca su una spalla.
“Ti prometto che farò il bravo bambino. A domani, Eugenio”
Maffucci lo abbracciò, stando attento a non sfiorare le ferite.
Uscì a passi lenti, voltandosi ancora una volta prima di oltrepassare la soglia illuminata dalle torce e sorvegliata dall’ennesimo soldato.
Fece ancora un cenno con la mano e scomparve, inghiottito nel buio di fine aprile.





QUALCHE NOTA STORICA


La pena di morte restò in vigore fino al 1947 nel nostro codice penale civile e fino al 1994 nel codice penale militare.  
 

Il Castello di Novara - detto anche castello visconteo - sforzesco - ha origini molto antiche. Si narra che in quello stesso luogo sorgesse in epoca celtica una costruzione e poi in epoca romana un altro edificio, realizzato con ciottoli di fiume i cui resti sono parzialmente interrati sotto il cortile centrale.
Ma è nel Medioevo che il Castello di Novara prende corpo e forma:
nel 1272 l'allora signore di Milano, Francesco Torriani, fece realizzare una torre con recinto, con il dominio di Galeazzo Visconti, verso la seconda metà del Trecento, il castello diventa un'importante piazzaforte. 
Verso la metà del Cinquecento, l'amministrazione spagnola del Ducato di Milano decise di rafforzare i baluardi difensivi e il Castello ebbe un ruolo essenzialmente militarizzato. Fu sotto l'amministrazione sabauda, nel Settecento, che i bastioni furono trasformati in luoghi di passeggio pubblico.
Nel periodo napoleonico, divenne carcere fino al 1973.
Nella seconda metà dell'Ottocento, fu abbattuta buona parte della cinta di bastioni e fu realizzato un bel giardino - Parco dell'Allea San Luca - attorno al castello, con alberi secolari e piante rare. 
       
Claudio Gabriele de Launey, aristocratico, generale e reazionario, fu eletto primo ministro il 27 marzo 1849. Rimase in carica fino al 7 maggio dello stesso anno, dopo che il 6 maggio si dimise per incomprensioni interne.  A lui successe Massimo d’Azeglio, anch’egli aristocratico ed esponente della Destra storica.




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  Risultati immagini per castello sforzesco novara  Sopra e di fianco, l'interno e parte della facciata esterna con il ponte levatoio ed il fossato del Castello.

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Capitolo 45
*** Patto tra fratelli ***



I patti vanno rispettati fino a quando una delle controparti non si stanca e tradisce l'altra.

(Anonimo, XX secolo)


Costanza era tornata a palazzo che erano le nove passate: lei e il maestro Rossini erano passati sotto casa di Maffucci per vedere se avesse già fatto rientro a casa, ma le luci del suo elegante appartamento in corso Genova erano spente e alla porta non aveva risposto nessuno.

Lasciarono la carrozza dell'avvocato sotto la responsabilità del cocchiere tuttofare, quindi si diressero fino in corso Carlo Emanuele per noleggiare una vettura che li portasse a destinazione.
I Granieri stavano aspettando la figlia in salotto, preoccupati per la sua improvvisa sparizione di qualche ora prima: il maestro di musica l’aveva accompagnata fin dentro e si era preso l’intera responsabilità di quel ritardo, adducendo come scusa una serata trascorsa in compagnia di una baronessa sua amica.

La ragazza gli era stata riconoscente per quella prontezza di spirito, sebbene si scorgesse tutta la preoccupazione che la opprimeva riversarsi sul bel volto, pallido e dallo sguardo corrucciato.
Donna Luisa aveva sorriso come richiedevano le circostanze, tentando un debolissimo rimprovero, poi aveva abbracciato la figlia e aveva invitato Rossini a fermarsi a cena, ma egli aveva declinato l’invito con il solito sorriso enigmatico e il baciamano a cui la contessa non sapeva resistere.
Nonna Maria, seduta su una delle poltroncine di velluto verde, era l’unica che aveva intuito che ci fosse qualche cosa di grave ad impensierire la nipote, tuttavia non aveva insistito.
Costanza si scusò con i genitori e la marchesa, poi salì in camera sua per riposarsi: aveva lo stomaco chiuso e non le andava di piluccare nemmeno un tozzo di pane.
Sentiva però la necessità di confessare l’enorme segreto dell’arresto di Pietro a qualcuno, in modo da dividere quel peso, quel macigno opprimente che la angosciava, ma a chi avrebbe potuto dirlo senza temere che la zia Rosa e lo zio Aldo venissero a saperlo? Era sicura che la marchesa Mellerio avrebbe senz’altro saputo mantenere il silenzio, tuttavia non voleva caricarla di preoccupazioni, né tantomeno poteva rivelarle la verità sulla doppia vita di Pietro e sull'esistenza nascosta del gruppo di rivoluzionari.
La verità era che avrebbe tanto voluto confrontarsi con Nicolò, da giorni visibilmente più sereno, ma si convinse che non poteva turbarlo senza sapere ancora il destino che attendeva l’adorato cugino, per cui decise di lasciar perdere.
Quando incrociò il suo sguardo, sempre velato da ombre, gli sorrise automaticamente e gli strinse una mano, come a voler infondersi coraggio, poi si defilò in camera sua, dove dormì un sonno infestato da incubi e visi che si sovrapponevano.


Pietro aveva trascorso una notte incredibilmente tranquilla, senza pensieri: si era lasciato scivolare sul pavimento di terra battuta, la schiena che sfregava contro il sasso freddo ed inospitale, subito dopo che Eugenio se n’era andato.
Aveva fissato per qualche minuto il vuoto che lo circondava, quel vuoto riempito dall’asse di legno che avrebbe dovuto rappresentare il giaciglio pronto ad accoglierlo, da quel tavolaccio con le fette di pane marmorizzate accompagnate da un pezzo di formaggio e da un bicchiere di vino annacquato.
Si sentiva calmo, rilassato, come se si trovasse in una realtà parallela: alzò gli occhi azzurro ghiaccio al soffitto, cercando di incrociare il ritaglio della finestrella che si affacciava sul cielo macchiato di stelle, dove qualche uccello notturno si stava cimentando in un canto d’amore, mentre le luci prodotte dalle torce infuocate creavano disegni dai contorni sfocati sulle pareti.
Le fitte alla spalla tornarono a presentargli il conto, ma il dolore al ginocchio si era fortunatamente placato: si portò una mano su entrambe le bende che gli aveva confezionato il dottor Terzani, accarezzandole come se fosse il capo di un bambino.
Aveva la mente svuotata, la bocca asciutta e il cuore arido di sentimenti: dopo tutto il lottare che aveva fatto, le speranze che aveva riposto nella causa di Liberazione e gli uomini che aveva incontrato negli ultimi anni, da quando aveva deciso di abbracciare il movimento del gruppo di giovani rivoluzionari, ora ogni cosa gli appariva svuotata di significato.
Che senso aveva avuto battersi nell’ombra e nel silenzio? Tremava e cercava di infondersi un minimo di calore sfregandosi con vigore il braccio funzionante e parte del corpo con la mano del lato sano.
Forse, in fondo al suo cuore, neppure gli importava di morire, di essere condannato, ma non trovava giusto che passasse alla storia come un traditore ai danni della patria, perché lui amava profondamente il Regno di Sardegna e l’Italia intera: avrebbe voluto semplicemente che la sua nazione fosse libera di autogovernarsi, libera di darsi delle leggi che non venissero imposte da una potenza straniera, estranea alle abitudini e ai desideri del popolo che la abitava.
Brividi di freddo gli percorsero la schiena, facendogli battere i denti per l'inospitale temperatura del tugurio che tendeva ad abbassarsi di minuto in minuto.
Era inutile rivangare il passato, doloroso e anche da sciocchi sentimentali: non era in possesso di alcuna prova per dimostrare l'assoluta innocenza dalle accuse che gli venivano mosse, non aveva testimoni che potessero mettere una buona parola per scagionarlo, non sapeva neppure quanto tempo avrebbe dovuto rimanere chiuso lì dentro, tuttavia non si pentiva di nulla, avrebbe rifatto qualsiasi azione che lo aveva spinto a ritrovarsi in quella situazione incresciosa e surreale.
Lasciò perdere quei pensieri cupi e si alzò a fatica, zoppicando verso il tavolo che ospitava la magra cena che sarebbe stato meglio consumasse, prima che i topi godessero
del banchetto al posto suo: si sedette sullo sgabello mangiato dalle tarme e prese un pezzo di pane, sbocconcellandolo con aria indifferente, mentre i rumori degli stivali dei soldati all’esterno della cella gli facevano compagnia.
Ingoiò il cibo e il vino senza reale interesse, poi si avvicinò alle grate che lo dividevano dal corridoio lungo e stretto: si affacciò timidamente, spinto da una curiosità che non gli apparteneva, fino a quando la guardia a pochi passi da lui non lo guardò con aria torva, il fucile su una spalla e il viso butterato dal vaiolo.
Alcune risate sguaiate accompagnate da un paio di ululati umani interruppero quello scambio per nulla amichevole: forse era scoppiata una rissa tra i prigionieri dell’altra ala del sotterraneo, così Pietro ritornò sui suoi passi e si stese sul tavolaccio, raggomitolandosi in posizione fetale, e lasciandosi cullare dalle voci brutali e sconosciute a pochi metri da lui.
Quando si svegliò, erano ormai le prime luci dell’alba: le ruote dei carri e delle vetture che si snodavano lungo piazza Castello gli annunciarono il risveglio.
Un riverbero di raggi solari gli illuminò il volto e lo indusse a mettersi seduto, la schiena a pezzi e la spalla che aveva ripreso a pulsargli.
Rabbrividì, sebbene si sentisse il corpo in fiamme, come se avesse la febbre: si guardò intorno, sospirando con aria stordita, avvertendo i palmi delle mani sudati che sfregavano contro le schegge di legno marcio.
Pochi secondi dopo, la chiave nella serratura arrugginita annunciò l’arrivo del soldato che veniva a portargli una scodella con un miscuglio non meglio definito che avrebbe dovuto rappresentare la colazione, assai simile a del pane innaffiato con del latte rancido.
Il nuovo venuto gli lanciò un’occhiata di traverso, continuando a rimanere in silenzio, quindi andò a recuperare il vaso da notte e uscì per svuotarlo.
Pietro deglutì, la bocca dalla salivazione azzerata, pronto a domandargli l’orario, ma la guardia aveva già richiuso la porta della cella e si era dileguata lungo il corridoio illuminato dalle torce.
Ad occhio e croce, dovevano essere le sei, forse le sette, quindi aveva ancora un po’ di tempo per riposarsi prima che avesse inizio l’interrogatorio con il magistrato e il tenente che lo aveva arrestato il giorno prima.
Gli pareva strano pensare a quel termine: di solito, infatti, si arrestano i delinquenti, i malfattori che avevano agito contro la legge, non gli innocenti.
Dopotutto, chi poteva definire con assoluta certezza chi fossero i colpevoli e chi gli innocenti? Dio? Gli uomini e la loro giustizia, fin troppo sovente fallace? L’unica cosa che sapeva era che non voleva far preoccupare i suoi genitori, soprattutto suo padre che cominciava ad avere una certa età, e che era sempre stato così buono con lui, inculcandogli l’amore per la cultura e per la libertà politica.
Con quel pensiero, l’uomo ripiombò in un sonno profondo, fino a quando il rumore della serratura lo risvegliò nuovamente.
Il sole doveva ormai essere alto nel cielo, eppure lui avvertiva un gran freddo penetrargli nelle ossa, scuoterlo fino al midollo.
“Pietro, amico mio!”
Quella voce gli era famigliare… dove l’aveva già sentita? Ma certo, era Maffucci!
“Eugenio, cosa ci fai qui?”
Il conte si mise seduto, uno sforzo che gli costò un’immane fatica, come se avesse dovuto spostare un enorme ostacolo.
“Tra meno di un’ora ci sarà il tuo interrogatorio, te lo sei scordato?!”
Il trentenne dai baffetti gli si avvicinò con un sorriso d’incoraggiamento sulle labbra sottili, che subito si spense quando si accorse del rossore che imporporava le guance dell’altro.
Gli passò una mano sul volto e sulla fronte, scuotendo la testa contrariato.
“Ma tu scotti! Hai la febbre! Perché non hai chiamato nessuno?”
“Non è niente… devo aver preso freddo questa notte. Sto bene, davvero, non preoccuparti”
L’avvocato arretrò di qualche passo e colpì energicamente le sbarre della cella, chiamando a gran voce la guardia.
“Soldato, chiamatemi immediatamente il medico del carcere! Non vedete che il conte è febbricitante?!”
Un ragazzetto sui vent’anni, ossuto e pallido, lanciò un’occhiata distratta in direzione del prigioniero, quindi annuì senza troppa convinzione, la voce incolore.
“Aspettate, vado a chiamarlo” e si allontanò a passi cadenzati e privi di fretta verso il lato opposto.
Maffucci tornò a concentrarsi sull’amico, aiutandolo a coprirsi con la sua giacca: se la tolse e gliela infilò, abbottonandogliela con cura.
“Sta’ tranquillo, Pietro, questa sera al più tardi sarai fuori. La tua posizione sociale e le conoscenze influenti che possiamo vantare saranno sufficienti per far decadere l’accusa: ne uscirai più pulito di quando sei entrato, credimi! Anzi, se sarà necessario scriveremo al primo ministro, mi farò ricevere da lui stesso, dal re in persona, ma io non ti lascio qui dentro, te lo giuro!”
Pietro lo afferrò per un polso e gli sorrise, mentre avvertiva l’ennesimo brivido freddo accarezzargli la schiena.
“La mia coscienza è a posto, Eugenio, ed è questa la cosa più importante. Comunque vada, promettimi che continuerete a lottare: sai, quasi me ne vergogno, ma stanotte sono arrivato a chiedermi che senso avesse avuto tutto ciò che abbiamo fatto, ma adesso l’ho capito”
“Che cosa hai capito?” domandò con aria corrugata l’avvocato, sedendosi di fianco al trentenne.
“Che stiamo combattendo non solo per la nostra libertà, ma anche per quella delle generazioni future, che qualsiasi difficoltà incontreremo, ogni ostacolo apparentemente insormontabile rappresenterà un ulteriore tassello per gli anni migliori che attenderanno tutti noi…”
“Sì, va bene, però tu continuerai a lottare insieme a noi! Te lo ripeto, non ti lascerò marcire in questa cella, intesi?!”
In quel mentre, dei passi si fermarono davanti alla gattabuia, seguiti da altri passi.
“Oh, finalmente! Dottore…”
Eugenio aveva alzato la testa nella direzione dei nuovi venuti, ma subito si zittì, una rabbia crescente che si impadronì di lui.
“Che cosa ci fai qui?”
Un ragazzo vestito elegantemente, un completo blu scuro di cotone e lino e il cappello calato in testa, accennò ad un saluto con il bastone da passeggio.
“Sono venuto a trovare mio fratello, signor Maffucci”
Federico lanciò un cenno d’intesa alla guardia, il ventenne ossuto di qualche minuto prima, che gli aprì la cella e si mise da parte, in modo da lasciarlo entrare.
“Come osi presentarti? L’unico responsabile di questa situazione sei tu, eppure non hai un briciolo di umanità o di vergogna che ti impedisca di trascinarti fino a qui e di mostrare la tua sordida faccia da traditore!”
Il giovane conte abbozzò un sorriso beffardo, gli occhi scuri socchiusi a due fessure, che subito puntò contro l’avvocato.
“Non mi pare di essere in tale confidenza con voi da rivolgermi alla vostra persona dandovi del tu. O sbaglio?”
L’altro serrò la mascella, mordendosi il labbro interno e reprimendo la voglia irrefrenabile di tirargli un cazzotto.
“Comunque sia, non sono qui per parlare con voi, ma con mio fratello. Avete dunque la compiacenza di lasciarci da soli per qualche istante?”
Eugenio inspirò, incenerendolo con lo sguardo, poi lanciò un’occhiata indecisa in direzione dell’amico, che annuì, e solo allora si decise ad abbandonare la cella.
“Allora, hai trascorso una notte tranquilla?”
Federico si avvicinò a Pietro, ancora seduto sul tavolaccio, e attese che gli rispondesse, ma l’altro non disse nulla.
“Forse ti hanno fatto mancare qualcosa?” continuò imperterrito il secondogenito dei Caccia.
Non ricevendo alcun segnale da parte del fratello, accartocciò le labbra e si voltò, percorrendo con lo sguardo il perimetro del tugurio in cui erano rinchiusi.
“Credi che mi stia divertendo? Pensi che mi faccia piacere essere qui, vederti in queste condizioni a dir poco pietose? Scommetto che non sei nemmeno arrabbiato con me. Non è così?”
“So che non volevi uccidermi, e questo mi basta. Non è necessario che tu finga di avere un cuore insensibile…” si decise finalmente a ribattere Pietro, dopo un lungo sospiro.
L’altro si girò e non riuscì a trattenere un sorriso, le mani congiunte sul pomello del bastone.
“E cosa te lo fa pensare?”
“Da che mondo è mondo, i duelli si svolgono all’alba, invece tu hai deciso di batterti di sera, in una zona facilmente raggiungibile dal centro abitato; in secondo luogo, mi hai permesso di scegliere l’arma, e sapendo che non sono capace di mirare con la pistola, hai portato un’ampia scelta di spade e fioretti tra cui scegliere. E poi, sebbene hai continuato a menare fendenti a destra e a manca, hai sempre tirato di striscio, evitando di colpirmi a morte"
Fece una piccola pausa, continuando a fissare lo sguardo in quello del fratello, visibilmente in imbarazzo.
"Dopotutto, per un ex allievo della Regia Accademia Navale di Genova, non dovrebbe essere così complicato distruggere la vita di un uomo...”

Federico evitò d’incrociare i suoi occhi, preferendo camminare in lungo e in largo sul lato opposto della cella.
“No, ti sbagli. Le ferite che ti ho inferto sono state calibrate con cura: io volevo farti del male, ho visto il tuo volto sofferente quando ti ho colpito alla spalla… e vuoi sapere una cosa? Non provavo pietà mentre lo facevo, non provavo nulla”
Un ghigno appena abbozzato incurvò le labbra di entrambi gli interlocutori, quasi come se fossero l'uno lo specchio dell'altro.
“Può darsi, ma rimango convinto della mia idea”

Rabbrividì ancora una volta, la temperatura che continuava a salire, e si sistemò meglio la giacca dell’amico.
“Qualunque cosa tu creda, sono qui per proporti un patto, una sorta di alleanza che, se sei davvero intelligente come tutti hanno decantato in questi anni, non potrai rifiutare”
Pietro inspirò ed espirò per ritrovare la lucidità che avvertiva svanirgli tra le dita, mentre le tempie cominciavano a pulsargli.
“Di che si tratta?”
Federico fece dietrofront e si parò davanti al fratello: guardò poco entusiasta lo sgabello di legno davanti al tavolo su cui era abbandonata la scodella della colazione ancora intatta, quindi scosse il capo e tornò a concentrarsi sul suo interlocutore.
“Confessa, ed io ritratteró ogni accusa. Semplicemente confessa i nomi dei damerini che ti hanno spinto ad entrare nel gruppo di rivoluzionari: io lo so che ti sei lasciato coinvolgere, che non hai agito di testa tua, quindi non ti costerà nulla disfarti di qualche omuncolo e denunciarli…”
Il trentenne chinò la testa e chiuse gli occhi.
“Come puoi anche solo lontanamente pensare che mi abbassi a compiere un gesto tanto ignobile e falso?! Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto di testa mia, nessuno mi ha mai obbligato! Tu, piuttosto, perché hai lasciato che ti facessero il lavaggio del cervello? Perché sei passato dall’altra parte, tradendo tutti gli ideali che nostro padre ci ha sempre insegnato?!”
“Che ti ha insegnato, vorrai dire!” sbraitò il minore, battendo con forza la punta del bastone sul pavimento argilloso.
“Io non sono mai esistito per lui, a malapena la mamma si accorge di me! E tu ti fai degli scrupoli per dei pidocchiosi di cui a malapena conosci le facce?!”
“Non offenderli, Federico, non se lo meritano, ti chiedo solo questo…” cercò di controllarsi il ragazzo, deglutendo a fatica per la gola arsa, simile alla cartavetrata.
“Va bene, se servirà a convincerti ad aver salva la pelle, non li offenderò. In cambio, però, dimmi i nomi, e facciamola finita con questa storia: è già durata troppo, per i miei gusti”
Il giovane conte Caccia tirò fuori da una delle tasche della giacca un pezzo di carta intonso, pronto a chiamare il soldato per reclamare un calamaio e una penna d’oca.
“Se mi conosci anche solo un po’, sai bene che non mi macchierò di una tale infamia!”
“Non fare l’eroe, dannazione! Per una volta, pensa a te stesso!”
Pietro tentò di alzarsi e di avvicinarsi, ma dopo qualche passo vacillò, le orecchie che gli ronzavano, e si accontentò di puntargli addosso un indice inquisitorio.
“Ma io sto pensando a me stesso, sei tu che non hai rispetto per te, altrimenti non avresti acconsentito a questa farsa, né tantomeno ad allearti con dei mercenari al soldo del nemico!”

“Nemico?!” gridò a voce più alta Federico “chi ti dice che sono dei nemici? La tua coscienza o la gente che ti sei messo a frequentare?! Siete responsabili della morte e del ferimento di migliaia di soldati del glorioso Esercito sabaudo, avete rischiato di distruggere un’intera città, e per che cosa poi? Per creare l’ennesima Repubblica che sta martoriando il nostro Paese? Per essere eletto a capo di un triumvirato, esattamente come è accaduto a Roma?!”
Pietro stava per ribattere, esausto, quando un capogiro lo costrinse a chiudere gli occhi e ad aggrottare la fronte: si portò una mano sul viso, massaggiandosi le tempie, quindi puntò di nuovo lo sguardo sul fratello.
“Io almeno una coscienza ce l’ho, e qualsiasi cosa ho fatto o deciderò di fare, dovrò rendere conto solamente a me stesso, e non ad un branco di sgherri senza pietà e senza coraggio…”
Il più piccolo disegnò una C sul pavimento argilloso con la punta del bastone, ammirandola subdolamente.
“E Costanza? A lei non pensi?”
“Costanza non c’entra nulla in questa storia: non provare a coinvolgerla, non farlo, lei non ha alcuna colpa né responsabilità. E lo sai anche tu…” sibilò Pietro, stanco di quel teatrino e delle sciocchezze che era costretto a sentire.
Federico annuì e si sciolse in un sorrisetto beffardo, riprendendo a camminare.
“Costanza adesso è sconvolta ed è convinta della tua innocenza: ma quando verranno fornite delle prove a tuo carico, il dubbio si insinuerà nella sua testolina, un dubbio che la roderà e la farà vacillare… ma allora sarà troppo tardi, forse la sentenza sarà già stata eseguita, e tu non potrai fare più nulla per consolarla o per farle cambiare idea” concluse con tono viscido, facendo spallucce.
 “Non ci sono prove a mio carico!”
“Questo lo dici tu…”
“Non firmerò nulla, non tradirò nessuno, non mi costringerai a fare qualcosa che non voglio!”
Pietro era nuovamente scosso dalle fitte alla spalla, a cui si sommavano i brividi per la febbre che, ormai doveva rendersene conto, lo stava fiaccando.
“Guardati” cercò di convincerlo, allargando le mani per mostrargli il tugurio in cui era stato rinchiuso.
“Sei ferito, febbricitante, senza abiti decenti addosso! E sono anche certo che tu e il tuo amico avvocatuccio non avete nemmeno uno straccio di linea di difesa degna di questo nome! Insomma, che cosa ti spinge a non lasciarti andare, ad acconsentire ad accettare il patto che ti sto proponendo?! Ragiona, ragiona, e dammi i nominativi che ti salveranno la vita!”
Pietro parve rifletterci per un istante, il capo reclinato in avanti e il petto che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro affannato per le precarie condizioni di salute in cui versava.
Poi, alzò la testa e lo guardò senza timore.
“Non ti darò nulla, Federico, e non mi farò intimidire dai tuoi ricatti su Costanza. Però, permettimi di farti una supplica, di chiederti ancora una cosa, solo una: fino a quando sarà possibile, tieni nascosta la mia prigionia ai nostri genitori. Di’ loro che sono dovuto partire all’improvviso, che dovrò assentarmi per qualche tempo, inventati una scusa, ma non lasciare che soffrano per causa nostra…”
Federico sospirò e contrasse la mascella, giocherellando con l’impugnatura del bastone da passeggio.
“Se è per questo, non devi temere: ieri sera ho detto loro che sei andato fuori città per alcune questioni riguardanti le terre che nostro padre ti ha lasciato da amministrare”
Pietro annuì, esausto ma soddisfatto, desiderando di rimanere da solo per tornare a dormire e riposare le membra stanche.
“Venendo a noi: è la tua ultima risposta? Sei deciso a non collaborare?”
L’altro lo guardò con gli occhi penetranti, il rossore soffuso sul volto, mentre le tempie gli pulsavano.
“Sì, è la mia ultima risposta. E non tornerò indietro”
Il fratello abbassò lo sguardo e aggrottò un sopracciglio, quindi distorse la bocca in una smorfia di disappunto e si preparò ad abbandonare la cella.
“Addio, Pietro. Se dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi”
Uscì dalla gattabuia senza voltarsi indietro, il ritmare cadenzato degli stivali e del bastone da passeggio ad accompagnarlo.

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Capitolo 46
*** Caccia al tesoro ***


L'abito non fa il monaco.


Pietro aprì gli occhi assonnati, socchiuse appena le labbra secche e deglutì: la cella rettangolare dal pavimento in argilla e le pareti di sasso aveva lasciato il posto a uno scorcio bianco e dall’intenso odore di disinfettante. Inalò con fastidio quel profumo pungente, avvertendo una sensazione di prurito raschiargli la gola e solleticargli le narici.

Si guardò intorno, aggrottando le sopracciglia perché non riusciva a capire che cosa gli fosse accaduto: un paravento di un indefinito colore grigio gli oscurava la visuale alla sua sinistra, mentre ad un centinaio di metri davanti a lui riusciva ad intravedere una serie di letti immacolati.
Sulla destra, sotto ad una stretta finestra con le inferriate e le tende livide e giallastre per lo sporco, un armadio alto la metà del soffitto a volta e con le ante trasparenti ospitava una serie di flaconi scuri.
Il giovane conte tentò di mettersi seduto, lanciando di lato il lenzuolo ruvido, ma un senso improvviso di mancanza di equilibrio lo bloccò a mezzo busto: si sentiva la fronte scottare, e solo allora si accorse che la spalla e il ginocchio ancora bendati erano incredibilmente gonfi e sempre più doloranti.
Dovette mugugnare qualcosa, poiché attirò l’attenzione di un uomo, il rumore dei passi pesanti a breve distanza da lui.
“Ti sei svegliato, finalmente!”
La voce di Eugenio lo riportò nel mondo dei vivi, quindi comparve anche la sua figura snella, sempre avvolta dal completo blu scuro che gli aveva visto indossare poco prima… o giorni prima?
“Cosa è successo? Perché non sono più rinchiuso? Mi hanno già interrogato?”
L’avvocato scosse il capo e si sedette su una sedia arrugginita che aveva recuperato da dietro il paravento, lasciandosi cadere composto.
“Dopo che è andato via tuo fratello” e a pronunciare quel termine per un secondo il suo sguardo si rabbuiò “hai avuto una sorta di mancamento: abbiamo chiamato il dottor Terzani, il medico del carcere, che ti ha misurato la temperatura. Era molto alta e le ferite si stavano infettando, per questo ti ha condotto qui in infermeria: il tenente ha rimandato l’interrogatorio alla fine della settimana, a meno che tu ti rimetta prima”
Pietro distolse per un istante gli occhi dal volto dell’amico, fermandosi a riflettere se quell’attesa si sarebbe rivelata un bene o un male per la sua sorte.
“Ho dormito per molto?”
“Un paio di ore. Ti hanno somministrato dei farmaci e più tardi te ne faranno altri, ma la cosa più importante è che tu ti riposi, in modo da sfruttare questo inaspettato momento di pausa per decidere le prossime mosse da fare”
Maffucci divenne d’un tratto ancora più serio e, posando una mano sul braccio dell’amico, glielo strinse con sincero affetto.
“Pietro, ti devi aiutare, dico sul serio: devi farti venire in mente qualcosa, qualsiasi cosa che ti scagioni dall’infame accusa di tradimento. Sai perfettamente che non c’è nulla di cui scherzare, che rischi la pena capitale…”
L'altro annuì stravolto, gli occhi di ghiaccio febbricitanti ed alonati.
“Lo so, e lo sa anche Federico: è venuto per propormi un patto…”

“Un patto?” il tono di voce preoccupato di Eugenio si tinse di una sfumatura di inquietudine, quindi gli chiese che cosa intendesse.
“Mi ha detto che è disposto a ritirare le accuse a mio carico, se in cambio gli darò i nomi degli affiliati del gruppo”
“Dio santo! Tuo fratello è un mostro! Non ha un anima, non ha un briciolo di cuore!”
L’avvocato sbatté con rabbia il piede destro sul pavimento formato da ampie mattonelle maculate, poi sbuffò sonoramente e scosse il capo con aria contrariata.
“Inutile dirti che non ho accettato, tuttavia una soluzione la troveremo. Sta’ tranquillo”
Eugenio lo guardò per una manciata di secondi che parvero interminabili, contraendo alternativamente la mascella; si alzò dalla sedia e si sistemò meccanicamente la giacca di cotone, tirando fuori da una tasca un sigaro mezzo mangiucchiato e mettendoselo in bocca.
“Certo che la troveremo: io ho fiducia in te, Pietro. Ora devo andare, verrò a trovarti questo pomeriggio”


Quella mattina a colazione, Costanza aveva piluccato poco e niente della tavola imbandita con cura da cuoca e cameriere.
Seduta di fianco alla nonna, avvertiva le occhiate di sottecchi che la marchesa le lanciava a cadenza regolare, sussultando appena i loro gomiti si sfioravano.
Anche donna Luisa e don Armando si erano accorti del cambiamento d’umore che aveva visto protagonista la figlia: entrambi avevano intuito che fosse accaduto qualcosa la sera precedente, quando prima di cena il maestro Rossini e quel giovane dai baffetti erano venuti a prenderla per andare chissà dove.
La ragazza non aveva mai dato loro preoccupazioni, ma forse gli ultimi avvenimenti capitati a Nicolò li avevano fatto trascurare troppo la secondogenita e i suoi problemi di diciottenne prossima al debutto in società, che negli ultimi mesi aveva sofferto e lottato per favorire la rinascita del fratello.
“Figliola, non hai fame stamani?” esordì la contessa Caccia, sorseggiando la tazza di tè e latte.
“Io… non ho dormito bene, madre. Ho avuto un po’ di mal di stomaco e non mi sono ancora ristabilita completamente” si sforzò di sorridere, sbocconcellando il solito biscotto che aveva tra le mani da un minuto abbondante.
“Questo malessere ha a che fare con il tuo insegnante di musica?” non demorse il notaio, pulendosi gli angoli della bocca con il tovagliolo di lino.
L'interrogata fece di no con la testa e si concesse ancora qualche istante prima di rispondere, ingoiando finalmente quell'innoente pezzetto di pastafrolla.
“No, certo che no, padre. Lui è stato così gentile da farmi incontrare una sua amica. Ma ve lo ha già detto ieri sera, non rammentate?”

"Sì, tuttavia vorrei conoscere i dettagli di questo insolito appuntamento..."
“Suvvia, Armando, non statele troppo addosso!” s’inserì nella conversazione donna Mellerio “ho io la soluzione adatta alla nostra piccola Costanza”

L'anziana signora si alzò scostando con delicatezza la sedia, mostrando il bell’abito indaco e invitò la nipote a fare altrettanto.
“Dove andate?” s’irritò la moglie del notaio, cercando di reprimere l’indisposizione per l’ingerenza della madre nell’educazione della sua unica figlia.
“Ho portato con me un’ampia scelta di tisane, un toccasana per qualsiasi indisposizione. Tu, Luisa cara, dovresti ricordarti delle tazze che ti facevo preparare quando eri piccola…”
La contessa incurvò appena le labbra in una smorfia assai simile ad un sorriso di circostanza, quindi le lasciò andare.
Così, accomiatandosi dai genitori e dal fratello, Costanza seguì la nonna fino alla sua camera, dove gli sguardi elusivi della marchesa e il desiderio di confessarsi con qualcuno spronarono la ragazza a raccontarle ciò che era accaduto il pomeriggio precedente, omettendo naturalmente l’esistenza del gruppo di giovani rivoluzionari e l’appartenenza di Pietro, Eugenio e Rossini all’organizzazione segreta.
“Non vedo tuo cugino Pietro dall’età di uno o due anni: era un bambino molto bello e timido, con dei riccioli biondi e gli occhi azzurrissimi, ma adesso credo di non saperlo neppure più riconoscere!” la donna sorrise e sospirò in quel mare di ricordi.
“Poi, dopo quello che è accaduto a causa di tuo nonno Ermanno, ho perso i contatti con il ramo Caccia della famiglia, tanto che Federico non l’ho mai incontrato e non so nemmeno che viso abbia. Tuttavia, bimba adorata, nutro delle perplessità a credere che un fratello possa duellare, ferire e far imprigionare il suo stesso fratello per della banale gelosia. Non credi anche tu che sia una ricostruzione quantomeno fantasiosa?”
L’unica scusa che era venuta in mente alla nipote, infatti, era di attribuire l’invidia del minore ad un fatto amoroso occorso a causa di una misteriosa fanciulla di nobile lignaggio, tanto più che anche la stessa nonna l’aveva attirata con l’inganno: non vi era infatti alcuna selezione di tisane miracolose ad attenderla, ma solo una sana preoccupazione da parte della parente di recarle conforto.
“Che cosa posso fare per aiutare il suo amico avvocato a scarcerarlo?” continuò preoccupata Costanza, stropicciandosi l’abito cipria ed eludendo le insinuazioni dell'altra.
“Se l’accusa che gli si contesta è di tradimento ai danni della patria, l’imputazione di gelosia non basterà a Federico per reggere l’intero impianto accusatorio, non temere. Tuttavia, c’è forse una motivazione più grave che non vuoi rivelarmi?”
L’occhiata indagatrice della marchesa fece piombare nel dubbio la ragazza: era meglio se avesse tenuto per sé la storia della carcerazione del cugino, evitando così di incorrere in inutili quante pericolose contraddizioni.   
“Scusatemi, nonna, forse non avrei dovuto parlarvene. Anzi, vi prego di dimenticare la nostra conversazione” la baciò su una guancia ed uscì veloce dalla camera, ridiscendendo le scale ed uscendo in giardino a prendere una boccata d’aria.


Varcata la soglia dalla serra d’inverno, Costanza si accorse di una carrozza incredibilmente famigliare che si era appena fermata davanti al cancello in ferro battuto.
La ragazza percorse con passo rapido il vialetto di ghiaia e si affrettò ad aprire, permettendo al nuovo venuto di entrare.
“Eugenio! Ci sono novità? Avete incontrato Pietro?”
Il trentenne dai baffetti accennò al baciamano, quindi le disse che doveva parlarle con urgenza.
I due si accomodarono all’ombra di uno dei salici del parco, su di una panchina in granito lontana da occhi indiscreti.
“Come ha trascorso la notte? Lo hanno già interrogato?”
Maffucci le sfiorò una spalla e la invitò a calmarsi: trasse un profondo respiro di incoraggiamento e, il busto proteso in avanti, si decise a spiegarle ogni cosa.
“Pietro è stato portato d’urgenza nell’infermeria del carcere…”
Una smorfia di puro orrore contorse i bei lineamenti, mentre il cuore accelerava vertiginosamente i battiti nel petto.
“Non ditemi che le ferite si sono infettate...”

“Purtroppo sì, e la temperatura di conseguenza si è alzata. Però dovete stare tranquilla, credetemi: gli hanno somministrato dei farmaci e prescritto qualche giorno di riposo. Ma adesso sta abbastanza bene, non temete”
“E l’interrogatorio?” si apprestò a domandare l'altra, deglutendo preoccupata.
“Date le condizioni fisiche, il tenente ha rimandato l’udienza alla fine di questa settimana. Costanza….”
L’avvocato le prese le mani tra le sue e la fissò con serietà negli occhi verdi e grandi per l’angoscia.
“Federico si è presentato in carcere questa mattina, poco prima che Pietro si sentisse male: gli ha proposto un patto, promettendogli che sarebbe disposto a ritirare tutte le accuse se vostro cugino gli darà i nomi degli affiliati… se gli darà i nostri nomi” precisò rabbuiandosi, le sopracciglia aggrottate.
“Lui non ha accettato, vero?”
Egli scosse il capo e si sistemò meglio sul freddo sedile.
“Sono venuto qui perché voi siete l’unica speranza che ci rimane per salvarlo: avete vissuto per un periodo a palazzo Caccia, proprio durante l'assedio della città, e magari avete avuto occasione di accorgervi di qualche mossa azzardata, di un comportamento insolito che ha visto protagonista Federico… Riuscite a ricordare?”
“Ma non saprei… lui trascorreva molto tempo fuori, anche durante i giorni del coprifuoco. E quando era a casa, passava ore rintanato nello studio o in biblioteca”
Le venne però in mente della vigilia di Pasqua, quando quella sera aveva preparato il piano di fuga per recarsi da sola alla ricerca di Nicolò, e il cugino l’aveva bloccata sulla soglia, contraddicendosi più volte sull’assenza pomeridiana, fino a raccontare l’ennesima frottola anche in presenza della madre.
“Molto bene. Vedete che se volete siete in grado di rammentare molte più cose di quanto pensiate? Ora, dovremmo trovare delle prove scritte che testimonino il legame tra Federico e le bande di filo austriaci presenti in città e nella zona”
Maffucci, il volto illuminato per quella piccolissima indiscrezione, tornò serio: quello, infatti, era il momento di farle una proposta da cui sarebbe dipesa la vita dell’amico.
“Se davvero tenete a Pietro come sono certo che sia, dovete recarvi a palazzo dai vostri zii e rintracciare queste prove tra le carte di quel depravato di Federico…”
“Mi state chiedendo di frugare tra i suoi documenti?! Nei suoi cassetti?”
L’altro la guardò per un breve istante, quindi annuì con aria greve.
“Lo so, Costanza, che spingervi a fare ciò che vi sto chiedendo non è propriamente un gesto degno di una persona perbene, ma se ci fosse un altro modo, qualsiasi modo per impedire che Pietro venga condannato, vi giuro che non ve lo avrei mai chiesto! Se vi ripugna, lo capisco, però non possiamo fare altrimenti, credetemi, tanto più che Federico ha parlato di prove false che è pronto a fornire alla prima occasione”
Ella parve rifletterci su per qualche attimo: si stropicciò le dita, si piantò le unghie nella carne dei palmi e si morse il labbro inferiore, in preda al dubbio e all’ansia.
“Possibile che non ci sia un’altra soluzione, Eugenio? Le conoscenze della famiglia Caccia non sono abbastanza influenti per far decadere una simile infamia? Non possiamo corrompere qualcuno?! Fornire anche noi delle prove?”
Il trentenne dai baffetti si allontanò di qualche centimetro per guardarla e sorriderle.
“Non vi credevo capace di simili nefandezze, signorina Granieri! Tuttavia, vi ripeto che non abbiamo alcuna prova che scagioni Pietro. E vi posso assicurare che da un accusa di tradimento ai danni del Re e quindi della patria non si esce tanto facilmente, che non esistono amicizie abbastanza influenti da permettere all’imputato di uscirne vittorioso”
Costanza sospirò e si passò una mano sulla fronte, come a scacciar via quel mare di pensieri cupi che la stavano tormentando.
La vita di Pietro dipendeva davvero dalla sua risposta? Sarebbe riuscita ad intrufolarsi nella dimora degli zii senza destare sospetti? E se qualcuno l’avesse scoperta, come si sarebbe giustificata? E poi, cosa più importante, avrebbe dovuto scegliere il momento in cui il cugino minore non si trovava in casa, altrimenti non avrebbe potuto nemmeno lontanamente azzardarsi ad avviare le ricerche.
Alla fine, però, scelse l’unica strada che il suo cuore le dettava in quel momento, e che la coscienza le permetteva di percorrere.
“Va bene, va bene, farò ciò che mi avete chiesto, però spiegatemi esattamente come dovrò comportarmi e a chi dovrò portare le prove, nel caso le troverò”
Il volto di Maffucci s’illuminò e su di esso si allargò un sorriso di riconoscenza: le baciò le mani e si apprestò a spiegarle il piano nei dettagli.

 
Quel pomeriggio stesso, dopo pranzo, la giovane aveva convinto nonna Maria ad accompagnarla dai conti Caccia per una visita di cortesia: la marchesa aveva acconsentito con una certa dose di riluttanza, poiché non era così entusiasta al pensiero di rivedere i parenti del marito defunto l’anno prima, ma aveva comunque accettato per far contenta la nipote.
Scesa dalla carrozza, la ragazza aveva continuato a pregare ancora più intensamente che Federico non fosse in casa, tuttavia grande fu la sua delusione quando incrociò il suo sguardo mentre scendeva lo scalone di marmo che dai piani superiori portava all’ingresso.
“Figliola” bisbigliò donna Mellerio alla nipote, notando la disperazione incupirle il volto già di per sé pallido “sei sicura del motivo per cui siamo qui? La nostra visita non ha a che fare con la storia che mi hai raccontato questa mattina, vero?”
Costanza si voltò di scatto versa la nonna, supplicandola con gli occhi di non proseguire.
“Vi prego, non dovete fare parola di quello che vi ho raccontato con nessuno, soprattutto con la zia Rosa e lo zio Aldo! Loro non sanno dove si trova Pietro, almeno credo, e non si meritano un tale dispiacere!”
L’altra la tranquillizzò abbozzando un sorriso e regalandole un buffetto su una guancia.
“Non temere, bambina mia, so mantenere
le promesse
In quel mentre arrivò la contessa Caccia, sorridente in un abito verde scuro, e andò incontro alla cognata: si guardarono per un istante che alla ragazza parve infinito, poi si abbracciarono e si abbandonarono ad un bacio di circostanza.
Costanza trasse un sospiro di sollievo e diede inizio alla recita.


Pochi istanti dopo, nel salottino cinese, al gruppetto si aggiunsero il conte e Federico, che riusciva incredibilmente a comportarsi come se nulla fosse: bevvero del tè e si fecero portare dei biscotti al burro, conversando sui tempi felici in cui la loro era una famiglia unita e rispettata, dedita al commercio tra il Piemonte e la Svizzera, e l'onta dello scandalo e della clausura di Ermanno Caccia era ancora lontana.

Ogni tanto, il cugino lanciava delle occhiate eloquenti ed annoiate verso la giovane, ma lei non lo degnava più di quanto avrebbe dedicato attenzione ad un insetto fastidioso.
Doveva trovare una scusa per assentarsi e salire al piano superiore, in modo da raggiungere lo studio e la camera da letto del secondogenito: la biblioteca era a pianterreno, dall’altro lato rispetto al salottino in cui si erano accomodati, per cui quell’area della casa era momentaneamente irraggiungibile, almeno fino a quando sarebbero stati tutti assembrati lì dentro.
Un’ora più tardi, dopo che la tensione iniziale si era sciolta e le chiacchiere fluivano amabilmente tra bevande e manicaretti, Costanza stava perdendo le speranze di riuscire a rovistare tra gli effetti personali di Federico, cominciando a pensare ad un altro pretesto che la riportasse l’indomani a casa degli zii, quando il cugino si alzò e fece un inchino ai presenti.
“Vogliate scusarmi, ma degli impegni al Circolo mi reclamano. E’ stato un piacere conoscervi, donna Maria, anzi zia Maria. Portate i miei saluti ai vostri genitori e a Nicolò, Costanza”
La ragazza dovette fingere e regalargli un mezzo sorriso, mentre la contessa elogiava l’impegno politico e letterario del figlio più piccolo.
Quando finalmente la serpe in seno uscì dal salotto, la giovane si sentì al sicuro e libera di agire: attese ancora qualche minuto, poi domandò a zia Rosa se avrebbe potuto assentarsi per andare a cercare
un orecchino che aveva perso, probabilmente nella camera da letto che l’aveva ospitata quasi un mese prima.
“Sapete, ci tengo molto: è stato un regalo di mia madre per la santa Cresima e sarebbe davvero un dolore se non lo ritrovassi. Sono quasi convinta di averlo lasciato qui da voi, perché è stato tra i pochi averi che mi sono portata appresso nei giorni in cui ci siamo trasferiti”
La contessa assunse un’aria compartecipe, tuttavia precisò che le sue domestiche l’avrebbero di sicura messa al corrente se avessero trovato qualche monile durante il loro quotidiano lavoro di pulizie.
“Non lo metto in dubbio, zia, tuttavia permettetemi di dare un’occhiata. E’ questione di pochi minuti, non di più”
“Ma certo cara, se questo ti farà stare tranquilla, va’ pure. Noi continueremo a rievocare i bei tempi che furono!”
Le due donne si guardarono e lo stesso fecero con il conte Aldo, quindi Costanza si alzò dalla poltroncina bordeaux e diede inizio alla caccia al tesoro.


La prima stanza che passò in rassegna fu lo studio, per il semplice fatto che lo trovò sul suo percorso, appena salite le scale.

La porta era chiusa senza mandate, quindi abbassò lentamente la maniglia per non fare rumore, ed entrò altrettanto silenziosamente.
Si guardò intorno e, tralasciando la ricercatezza quanto la sobrietà di tappeti persiani, mobili in ciliegio e soffici tende giallo chiaro in tinta con la volta affrescata raffigurante Apollo, il dio del sole, si concentrò sulla scrivania a qualche metro da lei: sollevò il piano ribaltabile, frugò tra le cartelline e la pila ordinata di documenti sopra di esso, aprì una mezza dozzina di cassetti, ma non trovò nulla.
La pendola appesa nell’angolo vicino all’entrata segnava le quattro e mezza: erano già dieci minuti che si trovava lì dentro, doveva affrettarsi se non voleva destare sospetti e rischiare che qualcuno la venisse a cercare.
Continuò a pensare a dove avrebbe potuto rovistare: le mensole semivuote di uno scaffale erano state abbellite da soprammobili in ceramica e vetro di Murano, eppure non contenevano neppure l’ombra di fogli o altri scritti illeciti.
Con un sospiro demotivante, Costanza si guardò intorno ancora una volta e, aprendo circospetta la porta, uscì dalla stanza.
In giro non vi era ancora anima viva, così, cercando di fare il minimo rumore possibile, si diresse verso una porta alla sua destra, un paio di stanze più avanti, e si trovò davanti la camera da letto di Federico: ripeté le stesse operazioni silenziose di pochi minuti prima, non riuscendo a trattenere un sorriso quando anche quella maniglia si abbassò senza alcuna fatica sotto le sue dita tremanti e speranzose.
Il letto a baldacchino era perfettamente in ordine, come il resto dell’arredamento, abbellito nelle tinte del rosso e del verde: la giovane si concentrò sul comò, dove trovò solamente della biancheria, quindi aprì i cassetti della scrivania e l’armadio con gli abiti.
Dovevano essere passati altri dieci minuti, quando il senso di sconforto la colse nuovamente: lì non avrebbe trovato nulla, ne era quasi convinta, poi lo sguardo le cadde su una minuscola scatola nascosta dietro ad un paio di pantaloni neri, proprio in un angolo del guardaroba.
Si abbassò e la raccolse: cercò di aprirla, ma era chiusa a chiave.
Non l'avrebbe trovata facilmente, tanto più che non l’aveva vista in nessun cassetto, quindi avrebbe dovuto usare l’ingegno.
Si guardò intorno in cerca di un sostituto, quando si ricordò delle forcine che aveva in testa: ne tirò giù una dall’elaborata acconciatura che le aveva fatto Nina quel mattino, e cercò di far combaciare le punte con gli ingranaggi della scatolina.
Al quarto tentativo, finalmente, la serratura scattò, rivelando una serie di scritti e di biglietti.
Li scorse uno per uno, fino a quando non lesse qualcosa che catturò la sua attenzione.
P. Orelli, ore 11. Venite da solo, come al solito.
Oppure:
I nostri amici sono stati contenti del resoconto. A presto
E ancora:
Aver sacrificato vostro fratello è stato necessario. Sapremo come ricompensarvi.

Costanza rabbrividì e allo stesso tempo sussultò dalla gioia: aveva per davvero trovato le prove che con ogni probabilità avrebbero scagionato Pietro da qualsiasi accusa!
Richiuse il cofanetto con uno scatto, non prima di aver intascato le prove, ed uscì dalla stanza soddisfatta del lavoro svolto.

 

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Capitolo 47
*** Un pesce di nome Federico ***


Chi supplica qualcuno dev'essere sull'orlo della disperazione.
Ma la disperazione sa anche rendere più forti e più consapevoli di ciò che si fa.

(Anonimo, XX° secolo)



Palazzo Orelli si affacciava imponente ed elegante su corso Regina Elena, una delle traverse di piazza Castello: i carretti degli ambulanti erano stati distribuiti in mezzo e lungo il perimetro della sede del foro per la contrattazione dei grani, in modo da attirare più clienti possibili mettendo in bella mostra la mercanzia da vendere.

La giornata era splendida, calda ed umida come le mattinate di inizio maggio sanno essere, e nell’aria si respirava un fragrante profumo di pane che si mescolava a quello pungente dello sterco di qualche stalla lì vicina.
Maffucci si aggirava tra le ceste di granoturco, frumento, orzo e riso, fingendosi un acquirente interessato a qualche sacchetto di quelle grezze prelibatezze.
Fece il giro del cortile un paio di volte, ora le mani dietro la schiena, ora nelle tasche dei pantaloni antracite, quindi si diresse verso l’entrata opposta rispetto a quella da cui era arrivato, appena una ventina di minuti prima.
Accarezzò il muso del suo cavallo, lisciandogli il manto scuro con qualche carezza pensosa: era infatti la terza mattina di seguito che si recava al mercato dei grani, ma ancora non si era imbattuto nemmeno nell’ombra di Federico, e il piano che aveva ingegnato per indurlo a confessare rischiava di sgretolarsi come un castello di carte, ancora prima di essere stato messo in atto.
Da quando Costanza gli aveva fatto pervenire i biglietti dell’anonima corrispondenza tra il cugino e il misterioso interlocutore, per l’appunto la sera di tre giorni prima, l’avvocato si era subito attivato per delineare una nuova strategia difensiva che servisse ad incastrare il giovane conte Caccia.  
Mentre lanciava l’ennesima occhiata circospetta in direzione del quadrilatero di fronte a sé, sorrise al pensiero dell’ingenuità della ragazza, che aveva sì rischiato di essere scoperta mentre frugava tra gli effetti personali del giovane, ma che tuttavia non si era posta lo scrupolo di lasciare le cose come stavano e riferirgli semplicemente della scoperta che aveva fatto.
Se Federico si fosse accorto della mancanza dei foglietti, allora non riusciremmo mai ad incastrarlo: di certo non si farebbe vedere per un pezzo in compagnia dei suoi compari, e tantomeno metterebbe piede qui a palazzo Orelli, dove sembra si incontrasse con i traditori, però non potevamo rischiare che le prove andassero perdute.
Eugenio sospirò e si passò una mano tra i capelli folti e neri, aggrottando preoccupato le sopracciglia: domani, infatti, si sarebbe svolto l’interrogatorio di Pietro, come prefissato dal tenente della Guardia Civica. L’amico si stava lentamente riprendendo dalla pericolosa febbre che lo aveva colpito ad inizio settimana, tuttavia era ancora fisicamente debole e le ferite non si potevano di certo definire guarite.
Nonostante le precarie condizioni fisiche, i gendarmi lo avevano ritenuto in grado di sostenere qualche domanda di routine, come erano state definite, per questo il venerdì alle otto si sarebbe svolta la prima tranche di un processo che si preannunciava sarebbe stato tanto rischioso quanto finemente machiavellico.
La sola idea che Federico la scampasse ai danni del fratello maggiore era un’idea assurda ed inconcepibile per l’avvocato, un pensiero che gli provocava un senso di profonda ingiustizia e di ribellione: dopo la denuncia dell’armistizio, la dichiarazione di guerra e la battaglia della Bicocca, erano molte le cose cambiate all’interno del gruppo di giovani rivoluzionari.
Pochi avevano aderito ad arruolarsi come volontari nell’Esercito sabaudo, mentre molti preferirono combattere nell’ombra, compiendo azioni logistiche che si rivelarono ben presto inefficaci e premature per la piega che presero gli avvenimenti tra Piemontesi ed Austriaci: gli affiliati, infatti, speravano che l’ala liberal moderata del Parlamento si attivasse in favore della cessione delle ostilità e di un nuovo armistizio, in maniera da riordinare le fila dei soldati e decidere razionalmente e senza impulsi la tattica militare da intraprendere, circostanza che avvenne con tempi e modalità troppo dilatati, tanto da non riuscire ad impedire la carneficina novarese.
I gruppi liguri, lombardi, veneti, parmensi, modenesi, toscani e romani che appoggiavano il Regno di Sardegna non poterono impedire la rovinosa conclusione di quella che sarebbe passata alla Storia come la Prima guerra d’Indipendenza, sebbene nessun patriota si arrese e smise di dare manforte alla causa di Liberazione: ne erano stati esempi appassionati Genova e Brescia, che arricchirono di nuova linfa vitale le speranze appassite di troppi cittadini.
Maffucci pensava a tutto ciò, ormai pronto a rimettersi in sella e a fare ritorno al Circolo per discutere dell’ennesimo buco nell’acqua con Rossini e un gruppo sparuto di insospettabili aderenti al gruppo, quando il piede si bloccò sulla staffa.
A un centinaio di metri, infatti, nella direzione opposta a quella in cui si trovava, poteva distinguere chiaramente la stazza odiosa ed elegante di Federico e di un paio di uomini avvolti in ampi mantelli neri.
L’avvocato si nascose tra il cavallo e un’edicola in pietra, in modo da attendere il momento in cui si sarebbero avvicinati a sufficienza per uscire dal nascondiglio e affrontarli.
Pochi istanti dopo, mentre i campanili della chiesa di san Giovanni Battista Decollato e del Duomo battevano gli undici rintocchi, Eugenio si parò davanti ai tre avventori, accogliendoli con un sorriso di sfida.
“Buongiorno, signor conte”
La sorpresa del ragazzo fu tale che quasi inciampò in uno dei sampietrini, ma subito si ricompose e stette al gioco.
“Non sapevo che vi interessaste di commercio, signor Maffucci. Avete fatto qualche acquisto interessante?”
I due scagnozzi rimasero fermi ai lati del Caccia: l’avvocato li squadrò con aria fintamente disinteressata, soffermandosi ad imprimere nella mente la notevole altezza e i lineamenti.
Uno doveva avere all’incirca una quarantina d’anni, i capelli lunghi arruffati e gli occhi neri come la pece: era robusto e sotto il mantello s’intravedeva un abito di seconda mano, di fattura per nulla elegante. Il secondo, invece, più giovane, sembrava imparentato con l’altro, almeno da quello che si poteva intuire dalla considerevole somiglianza.
“Oh sì” riprese la recita l’avvocato “ho comprato un pesce assai raro, un pesce che temevo non avrei mai trovato da queste parti. Siete forse curioso di vederlo?”
Federico si rabbuiò per un attimo: strinse i pugni in un gesto meccanico, lanciando un’occhiata di aiuto in direzione dei compari, ma questi parevano statue di sale, immobili e impersonali, lo sguardo truce che sembrava attraversare l’uomo di legge e qualunque cosa capitasse ad incrociare i loro sguardi.
“Non mi pare di capirvi, amico mio. Tuttavia, se avrete la compiacenza di spiegare la natura della merce da voi acquistata, sarò ben lieto di ascoltarvi”
Il trentenne dai baffetti si lasciò andare ad un sorriso di soddisfazione: si passò una mano sulla mascella glabra e sospirò sonoramente, fingendo profondo interesse per la bella criniera del suo destriero.
“Vedete, la questione potrebbe protrarsi per diversi minuti, anche se ciò dipende dall’acutezza della vostra mente a riconoscere la razza di pesce da me acquistata. Non credete sia meglio che i vostri gentilissimi accompagnatori ci lascino da soli a discutere di ittica? Sono certo che lo troverete interessante e assai proficuo, tanto che ne uscirete con nozioni che vi faranno particolarmente comodo per l’imminente avvenire…”
Il giovane conte abbassò lo sguardo: aveva la gola improvvisamente secca, oltre ad avvertire un’incalzante stretta allo stomaco simile alla paura che gli suggeriva di scappare.
Si umettò le labbra e deglutì pensieroso, rendendosi conto che avrebbe dovuto scegliere la prossima mossa da compiere nel più breve tempo possibile.
“Va bene” si arrese alla fine “verrò con voi, ma non posso permettermi di perdere troppo tempo. I miei amici ed io abbiamo questioni assai urgenti da sbrigare”
Maffucci aprì le braccia in un gesto di arrendevolezza, rassicurandolo che ci avrebbero impiegato solamente il tempo necessario.


Una volta rimasti soli in una bettola da pochi soldi che si stagliava a pochi metri dal palazzo del Mercato, i due uomini prenotarono un bicchiere di vino rosso, e cominciarono a sorseggiarlo l’uno di fronte all’altro.
Il locale era scarsamente illuminato e angusto, il mobilio di legno ammuffito e scheggiato indicava una scarsa qualità, tuttavia l’oste e i prodotti che serviva compensavano la pessima immagine del posto.
“Allora, a cosa devo la fretta con cui mi avete distolto dai miei impegni per portarmi in questa specie di tugurio di second’ordine?” esordì il conte.
L’altro fece roteare il calice di vetro come a voler riflettere, mentre avvertiva l’impazienza crescere nel ragazzo.  
“Vi chiedo scusa se la signoria vostra non è abituata a frequentare questi luoghi, ma ve l’ho detto che è mia intenzione mostrarvi un acquisto assai particolare: una autentica prelibatezza, credetemi, una prelibatezza che vi imporrà non solo di ascoltarmi ma anche di assecondarmi”
Si fissarono per qualche istante, l’odio palpabile che riempiva la distanza tra i loro corpi.
“Non prendetemi in giro, altrimenti ve ne pentirete” si aizzò Caccia “e smettetela di raccontarmi la storiella della lezione di ittica, perché se continuerete a farlo non impiegherò un secondo di più ad alzarmi da questa sedia e a lasciarvi ai vostri stupidi quanto folli vaneggiamenti!”
Eugenio sospirò e scosse la testa, ben consapevole di avere la situazione in pugno: trangugiò un altro sorso di vino acidulo, concentrandosi ad esaminare la marmaglia che riempiva il locale, perlopiù avventori di dubbia moralità, uomini di mezza età baciati da Bacco o sulla strada dell’ubriachezza, i vestiti lerci o di fattura scadente, intenti a riempirsi lo stomaco di ogni sorta di liquido commestibile e a parlare a vanvera.
“Va bene, se proprio insistete, verrò subito al dunque”
L’avvocato tirò fuori dal taschino interno della giacca color antracite il mucchietto di biglietti che Costanza gli aveva fatto pervenire tre giorni prima, e li mise sul tavolo, sparpagliandoli con cura in modo che l’altro potesse leggerli senza protendersi con il busto.
“Dove li avete presi?” cercò di rimanere calmo Federico, sebbene stesse compiendo un enorme sforzo pur di non inalberarsi e strappare quelle prove.
Ma ragionò sul fatto che su quei foglietti non vi fosse né il suo nome né la sua firma, per cui avrebbe cercato di sviare l’attenzione dell’omuncolo in qualsiasi maniera possibile.
“Intendevo dire, per quale motivo me li state mostrando? Hanno forse a che fare con gli affari illeciti di mio fratello Pietro?”
Il trentenne dai baffetti sorrise appena, innervosendosi per la scaltrezza del nemico.
“Permettetemi di dirvi che avete smesso di essere fratello di Pietro dopo ciò che gli avete fatto: non credete anche voi?”
“Oh insomma, smettetela con questi sentimentalismi!” sbraitò, picchiando con troppa enfasi il bicchiere di vetro mezzo pieno, per tranquillizzarsi subito.
“Scusate il gesto, però non avete risposto alla mia domanda, avvocato: devo forse ripetervela?”
“Certo che no, signor conte. Pensavo avreste riconosciuto la calligrafia: scommetto che chi li ha vergati è uno degli scagnozzi che vi siete portati appresso stamani…”
“Le vostre sono farneticazioni senza fondamento” riprese spazientito Federico, abbandonandosi ad un altro sorso di vino.
“Quei due gentiluomini di poco fa sono dei semplici conoscenti che mi aiutano nella contrattazione per la vendita e l’acquisto del grano che coltiviamo nelle terre della mia famiglia. Vi basta come giustificazione?”
“Ma voi non dovete giustificarvi di nulla, caro conte!” ribatté Eugenio, sistemandosi l’abito e riappoggiandosi con studiata calma allo schienale.
“Le mie non sono accuse, tutt’altro, bensì certezze. Poco fa, infatti, mi avete chiesto dove avessi preso questi foglietti, e la risposta è semplice quanto ovvia… volete forse darmi la conferma o devo proseguire nella mia arringa?”
L’altro contrasse la mascella e si passò una mano sul viso: chi mai si era potuto intrufolare nella sua camera da letto e rovistare tra i suoi averi? Se non avesse incastrato Pietro, avrebbe di sicuro pensato a lui, ma era una congettura impossibile, dal momento che non avrebbe avuto senso attendere la vigilia del processo per smascherarlo.
E, come se gli avesse letto nella mente, Maffucci proseguì per la sua strada, avvicinandosi con il busto all’interlocutore.
“Immagino sappiate dalle conoscenze che potete vantare tra le alte sfere della Guardia Civica che domani vostro fratello verrà interrogato: sapete, oltre le ferite inferte durante il duello, la visita che gli avete fatto ha ulteriormente aggravato il suo stato di salute, tanto da farlo ricoverare nell’infermeria del carcere. Solo per questo, infatti, il tenente che si occupa del caso ha rimandato la prima tranche del processo a domattina”
“Perché mi state dicendo tutto questo?” lo interruppe con un gesto di fastidio della mano.
“Diciamo che desidero farvi redimere dai vostri peccati…”
“Io non ho commesso alcun peccato” sibilò senza troppa convinzione il giovane conte.
“Comunque la pensiate, non spetta a me condannare la vostra anima, sempre che ne abbiate una, è sottointeso”
A quell’ennesima provocazione a viso aperto, Federico si aggrappò con forza al bordo del tavolo e, le unghie piantate nel legno, mise in chiaro le cose.
“Non vi permetto di mancarmi di rispetto, mi avete capito? Siete solo un avvocatuccio senza alcuna rilevanza, un mezzo uomo che posso distruggere ogni volta che ne avrò voglia. E ora ditemi il motivo di questa assurda messinscena, se non volete passare guai seri!”
Eugenio si protese in avanti verso l’interlocutore, le mani congiunte e l’aria di sfida sul volto serio.
“Questi biglietti rappresentano la prova del vostro coinvolgimento nell’arresto di Pietro. Siete in grado di leggere, no? E allora leggete ed illuminatevi”
Il trentenne dai baffetti avvicinò le scritte incriminate e attese in silenzio.
P. Orelli, ore 11. Venite da solo, come al solito.
Aver sacrificato vostro fratello è stato necessario. Sapremo come ricompensarvi.
I nostri amici sono rimasti contenti del lavoro svolto.
P. Orelli, ore 10. Venite da solo, come al solito, ma fermatevi al secondo banco sulla sinistra.
“Non significano nulla: come fate ad accusarmi? Sopra non vi è scritto il mio nome né nessun riferimento che faccia anche solo lontanamente pensare ad un mio eventuale coinvolgimento in…”
“In? Vi prego, proseguite!”
Il trentenne dai baffetti era ormai sicuro di averlo in pugno: Federico si stava tradendo, sebbene si fosse fermato in tempo, e lo sguardo di terrore e di smarrimento indicava che il piano stava funzionando alla perfezione.
“Non ho nulla da aggiungere. E adesso, se permettete, devo andare: mi avete già fatto perdere tempo
a sufficienza!”
Il ragazzo si alzò dalla sedia e lanciò sul tavolaccio qualche moneta con cui pagarsi il bicchiere di vino; si allontanò a passi svelti verso l’uscita, quando Maffucci, ancora seduto, gli intimò di fermarsi un attimo.
“Se non ritirerete la falsa accusa nei confronti di Pietro entro questa sera, andrò io stesso dalla Guardia Civica a denunciare i vostri loschi affari: nella fretta, caro signor conte, avete dimenticato di portare con voi i biglietti, e sebbene non vi sia segnato alcun esplicito riferimento, queste prove sono state trovate a casa vostra, nell’armadio della camera da letto in cui dormite, e vi posso assicurare che la persona che le ha rinvenute è disposta a testimoniarlo sotto giuramento!”
Il nobile si diede dell’imbecille per non aver arraffato quei maledetti foglietti, addirittura per non averli distrutti a tempo debito, dopo averli letti: si voltò, le mani in tasca che gli prudevano per la rabbia e l’impotenza, mentre nella sua mente vorticava il bel volto di Costanza, la misteriosa ladra che adesso intuiva essersi introdotta nella sua stanza, molto probabilmente il pomeriggio in cui era venuta a prendere il tè con donna Mellerio.
“Ebbene? Se ciò non bastasse, sono altrettanto sicuro che quei due gentiluomini con cui vi ho incontrato poco fa appartengono allo stesso gruppo filo austriaco che ha cercato di boicottare il nostro Esercito! Chissà che non siano conoscenze già note anche alla gendarmeria…”
“Smettetela! Siete l’ultima persona sulla faccia della terra a dirmi come devo o non devo comportarmi! So perfettamente che siete coinvolto nella stessa organizzazione in cui milita mio fratello, quindi piantatela di fare l’amico innocente, perché non lo siete affatto!”
Eugenio abbassò lo sguardo e sorrise sornione, quindi trangugiò l’ultimo sorso di vino rosso e riprese con tono conciliante e sincero l’arringa più importante che avrebbe mai realizzato.
“Mettete da parte il rancore o qualsiasi altro sentimento negativo coviate per Pietro: la sua vita dipende da voi, e lo sapete molto bene. Promettetemi che lo farete, promettetemi che andrete alle carceri e lo farete scagionare…”
Federico si grattò la punta del naso, ulteriormente innervosito dalla presenza di una mezza dozzina di avventori troppo chiassosi, stravaccati a pochi metri da loro.
Guardò per un lungo istante il trentenne dai baffetti, gli occhi scuri persi a rincorrere i propri pensieri, poi aprì la bocca per ribattere, ma non uscì alcun suono.
Fece dietrofront ed uscì dalla bettola, il sole di mezzogiorno ad accoglierlo.




NOTA DELL'AUTRICE

Buonasera, cari lettori!
Spero che la storia continui ad essere di vostro gradimento: grazie a chi sta proseguendo a supportarla, a leggerla, a recensirla e a seguirla!
Nel prossimo capitolo scopriremo che cosa avrà scelto Federico e, di conseguenza, quale sarà il destino di Pietro.
L'aggiornamento successivo sarà anche l'ultimo capitolo, poi concluderò con l'epilogo che si svolgerà parecchi anni dopo l'ambientazione cronologica della narrazione.
Bene, allora a presto!
Un abbraccio

P.s. Uno dei due scagnozzi in compagnia di Federico è lo stesso conosciuto nel capitolo ottavo; per quanto riguarda Palazzo Orelli, l'ho descritto nei particolari sempre nel capitolo 8, mentre la chiesa di san Giovanni Battista Decollato è quella vicina al Teatro Nuovo, di cui ho parlato nel capitolo 5.

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Capitolo 48
*** Né vincitori né vinti ***


La storia mi giustificherà.

(Gerolamo Ramorino, Genova 1792- Torino 1849, generale dell'Armata sarda)


La testa bassa e le mani infilate nelle tasche della giacca verdone, Federico procedeva di filato verso le Regie Carceri Mandamentali.
Il sole di mezzogiorno lo stava facendo sudare, mentre il gusto acidulo del vino appena bevuto ristagnava come un avvertimento alla bocca dello stomaco: senza diminuire la velocità, recuperò un fazzoletto di seta con cui si tamponò la fronte e le tempie, quindi ripercorse con la mente la conversazione che aveva sostenuto con Maffucci.
Quell’avvocatuccio da quattro soldi crede di intimorirmi, ma non ha nemmeno lontanamente idea della pericolosità delle persone che frequento! Se non trovo una maniera per uscire da questa situazione, chi ci rimetterà sarà soltanto il sottoscritto, non di certo lui e neppure quella gatta morta di Costanza!
Sospirò nervoso, ripensando con stizza ai due energumeni che era stato costretto ad abbandonare nel cortile di palazzo Orelli, dopo che lo avevano minacciato di fargliela pagare, nel caso gli fosse scappata anche solo mezza parola, per poi subito dileguarsi celermente come la brezza estiva in un giornata afosa.
Una manciata di minuti più tardi, il giovane si ritrovò davanti all’entrata sobria e militare delle Carceri, il cotto lombardo che riluceva sotto i raggi caldi della mattinata ormai agli sgoccioli.
Si guardò intorno, controllando che nessuno lo avesse seguito e che non ci fosse nemmeno l’ombra di un conoscente a rovinargli i piani, quindi fece qualche passo in avanti.
Non si era mai trovato in difficoltà come in quei momenti, quando la vita di suo fratello Pietro dipendeva esclusivamente da lui: un altro centinaio di metri e avrebbe compiuto il suo dovere, ritirando tutte le false accuse che aveva mosso contro il primogenito dei Caccia, ma era davvero questo ciò che voleva? Era sicuro di volergli salvare la vita, di fare marcia indietro?
Per un istante, rivide i volti dei loro genitori, i capelli rossastri e radi del conte Aldo, gli occhi azzurri buoni ed aperti verso il mondo, in contrapposizione alla folta chioma della madre e al suo sguardo nocciola.
Strizzò le palpebre, in un gesto che voleva scacciare all’istante quei fantasmi dalla sua testa, e ritornò a concentrarsi sulla struttura tardo medievale che si stagliava di fronte a lui.
Gli altri che cosa si aspettavano che facesse? Che cosa doveva fare? Abbassò la vista su un mucchietto di sassolini che precedevano l’entrata argillosa e in parte erbosa che conduceva al cortile del Castello Sforzesco.
Erano così simili, così bianchi, eppure alcuni dovevano essere più piccoli, altri dovevano avere gli angoli smussati, altri ancora più appuntiti… Federico si sentiva un po’ come loro, che all’esterno apparivano uguali a chi li osservava, ma che all’interno erano pieni di una miriade di imperfezioni, caratteristiche che li rendevano unici e diversi.
Sì, Pietro ed io non siamo gli stessi, non lo siamo mai stati, ed io non voglio sacrificarmi per lui, anche se per tutti siamo fratelli, ed il legame di sangue che ci unisce è importante sopra ogni cosa”.
Trasse un profondo respiro e lanciò un’ultima occhiata verso la facciata delle Carceri, ora così lontane, così sconosciute.
Ricacciò le mani nelle tasche della giacca di lino e si allontanò, la schiena che gli faceva da scudo contro qualsiasi ripensamento.


Il 7 maggio 1849, Vittorio Emanuele II nominò Primo Ministro del Regno di Sardegna lo scrittore e artista Massimo d’Azeglio, un politico liberale e moderato, che andava a sostituire Vincenzo Gioberti.
Il nuovo Presidente del Consiglio è profondamente convinto dell’importanza di redigere una pace sicura e duratura con l’Impero Asburgico, sia per il bene del Piemonte che per poter riprendere un giorno la lotta per l’indipendenza italiana.
Le trattative di pace si svolgono nella capitale del Lombardo Veneto: per parte sabauda la mediazione è affidata al diplomatico Carlo Beraudo di Pralormo, mentre per parte austriaca a von Bruck, rigido ministro del Commercio.
Inaspettatamente, è l’intervento di Radetzky a chetare gli animi e a spezzare una lancia in favore dei Savoia, in quanto il Piemonte viene considerato dall'anziano feldmaresciallo come perno di un nuovo equilibrio moderato e antirivoluzionario per l'intera penisola italiana.
Il 6 agosto dello stesso anno viene dunque siglato il trattato di pace, le cui condizioni non sono affatto controproducenti: in cambio del parziale disarmo e di un indennizzo in denaro in favore del nemico, il Piemonte ottiene l’amnistia per i patrioti del Lombardo Veneto, la restituzione dei territori occupati e l’abolizione di dazi e convenzioni economiche sfavorevoli.
Alle evidenti resistenze messe in atto dalla Camera del Parlamento subalpino, il re e il nuovo Presidente decidono di scioglierla e di indire nuove elezioni, che si svolgeranno il 9 dicembre 1849, ma bisognerà aspettare esattamente un mese dopo per l’approvazione dei negoziati di pace.
Nel frattempo, il 22 maggio viene fucilato a Torino il generale Ramorino, a monito della sua disobbedienza che era costata assai cara al Regno di Sardegna e alle sorti della guerra contro gli Asburgo, dopo che gli è stata negata la grazia da Vittorio Emanuele II. La sentenza viene eseguita nella piazza d'Armi, dove si svolgono le parate militari dell'Esercito: a comandare il plotone di soldati è lo stesso generale.


Sabato 30 maggio 1849

La carrozza correva veloce lungo la strada argillosa e bollente, costeggiata da file interminabili di campi coltivati e da zone dedicate al maggese, che avevano preso il posto degli specchi d’acqua delle risaie e di qualche disinteressato airone che ne sondava gli argini; il tepore che filtrava dal finestrino assomigliava ad un’audace quanto prepotente carezza di un amante, che si insinua risoluta sotto le vesti, consapevole di non doversi conquistare alcun permesso.
Il capo ciondoloni sul petto, il corpo di Nicolò sobbalzava al ritmo di quel piacevole dondolio: gli occhi ancora chiusi, si scostò meccanicamente un ciuffo di capelli ricci che gli ricadeva sfacciatamente sulla fronte di porcellana, ormai quasi scevra di cicatrici visibili.
Il ragazzo si sistemò meglio contro lo schienale di pelle, il gomito del braccio destro, quello sano, appoggiato mollemente contro la parete interna della Landau nera: improvvisamente, avvertì una profonda stanchezza impossessarsi delle sue membra, una spossatezza atavica e senza una ragione precisa, che lo induceva ad abbandonarsi ad un sonno lungo e profondo.
Un lieve scossone non preannunciato, e il galoppo dei cavalli lasciò il posto al passo cadenzato dei loro zoccoli ferrati, mentre un’altra carrozza passava loro di fianco.
Il giovane Granieri riaprì contrariato gli occhi, quindi tastò un ginocchio del suo accompagnatore.
“Sono emozionato. Sai, non vedo l’ora di poter riabbracciare Stefano e di sapere come sta... Spero solo che si ricordi ancora di me, e che gli faccia piacere ricevere la mia visita”
Il fruscio appena accennato delle pagine di giornale testimoniavano che l’interlocutore stava lasciando da parte la lettura per dedicarsi alle parole di Nicolò.
“Sono convinto che anche il tuo amico sarà molto felice di rivederti, ne sono certo” e così dicendo gli regalò una pacca affettuosa su una spalla, sorridendogli.
“Abbiamo fatto bene a mandare un telegramma all’ospedale, almeno avrà potuto prepararsi a dovere e non trovarsi in imbarazzo per un’ eventuale sorpresa che inizialmente avrei voluto fargli”
La voce del ragazzo trapelava l’impazienza e la gioia che avevano accompagnato l’idea di quel viaggio, organizzato fin nei minimi particolari da settimane ormai, da quando aveva trovato il coraggio di riallacciare i fili di quel passato bellicoso che non lo avrebbe più lasciato.
Si strofinò con ansia i palmi delle mani sui pantaloni chiari, ben consapevole di ciò che lo spontaneo Stefano aveva dovuto subire durante quei mesi di convalescenza, dopo il ferimento che lo aveva visto coinvolto alla Bicocca, il 23 marzo.
Per un attimo, Nicolò ripercorse suo malgrado la lunga marcia sul Ticino, l'attraversamento di Magenta, la moltitudine di accampamenti spartani a cui si era dovuto abituare; e poi, la mente, subdola e malvagia, lo accompagnò nei meandri rappresentati dalle battaglie di Borgo San Siro, di Gambolò e della Sforzesca, dove era stato colpito al braccio sinistro, lo portò a rammentare l’avanzata stanca verso Vigevano, e da lì il ripiegamento in direzione della brumal Novara, la bestia nera, come scrisse anni dopo Carducci nell'ode "Piemonte", fino al tragico epilogo nelle campagne circostanti.
Al solo rievocare quei ricordi dolorosi, il giovane rabbrividì e si agitò sul sedile, mentre rivoli di sudore freddo gli accarezzavano languidi la schiena.
“Devo dirti una cosa, una cosa che ancora non ho detto a nessuno, nemmeno a Costanza…”
Nicolò si fermò un istante, deciso a calibrare con cura le parole che stava per pronunciare, e anche timoroso di non essere realmente compreso.
“Dimmi, ti ascolto…”
L’altro lasciò andare la tendina di velluto che aveva scostato per ammirare il paesaggio al di fuori, in maniera da concentrarsi esclusivamente sul volto dubbioso dell’interlocutore.
“Ecco, il fatto è che credo di… sì, insomma, credo di star recuperando la vista. Cioè, non ne sono del tutto convinto, ma da qualche giorno non vedo più solo ombre, riesco a riconoscere i colori degli oggetti che mi circondano, persino i contorni una volta sfumati delle persone sono quasi nitidi… Tu credi sia possibile una cosa del genere?”
L’uomo si mordicchiò un labbro e alzò le spalle, indeciso su quale risposta il ragazzo si aspettasse di sentire, quindi si sedette vicino al giovane Granieri e gli sorrise fiducioso.
“Beh, non lo so se sia possibile, però sono molto contento di quello che mi hai appena detto, davvero molto! Se è vero –e non ho alcun dubbio per credere il contrario- tutti noi saremmo pronti a supportarti e a portarti dai migliori specialisti, in modo che tu possa riacquistare completamente la vista e riappropriarti della tua vita! Te lo posso giurare, caro cugino! E ora, fatti abbracciare, te lo sei meritato!”
I due si strinsero affettuosamente, fino a quando i loro corpi si fusero in uno solo, e gli occhi di Nicolò si abbandonarono alle lacrime, timide e salate.
“Grazie, Pietro, grazie per esserci sempre stato. E grazie per avermi accompagnato, te ne sarò grato per l'eternità”


Arrivarono a Torino che era pomeriggio: si fecero indicare da una coppia di passanti piazza Emanuele Filiberto, dove era ubicato il Regio Ospedale Militare.
La presenza del conte Caccia indusse il ragazzo a farsi coraggio, poiché un’improvvisa ansia gli stava attanagliando come un mostro la bocca dello stomaco: forse aveva sbagliato a presentarsi dopo tutto quel tempo, forse a Stefano non importava nulla di rivederlo, forse il suo amico desiderava semplicemente dimenticare e lasciarsi parte del passato alle spalle.
D’altronde, il telegramma di risposta che aveva ricevuto circa una settimana prima non lo informava delle condizioni specifiche in cui versava il soldato ferito, ma il medico che glielo aveva inviato scriveva solo che il ragazzo si trovava ancora lì, per ultimare gli ultimi giorni di riabilitazione che ancora gli spettavano.
“Che c’è?” gli domandò Pietro, aiutandolo a scendere dalla vettura.
“Nulla…”
“Non è che ci stai ripensando, vero? Ora che sei ad un passo dal traguardo, non puoi abbandonare!”
“No, certo che no. Scusa, andiamo pure”
Si incamminarono quindi verso un mastodontico stabile rettangolare, che si ergeva immacolato a qualche centinaio di metri da loro: lasciarono detto al cocchiere che si sarebbero ritrovati dopo un paio di ore all’angolo della piazza, poi schivarono qualche altra carrozza e, finalmente, si ritrovarono davanti all’ospedale.
Pietro si guardò intorno, notando le fila di porticati che ospitavano una dozzina di negozi e un paio di palazzi alto borghesi: a quell’ora, non vi era quasi nessuno in giro, solo una manciata di Landau che andavano in direzioni opposte rispetto alla loro.
Nicolò si sentiva una pedina degli scacchi attorno a cui vorticavano figure e mosse a lui sconosciute, la confezione di cioccolatini in una mano, il regalo che Costanza gli aveva suggerito di scegliere.
Si aggrappava al cugino come fosse un’àncora di salvezza, il cuore che accelerava i battiti e una voragine che si apriva in prossimità dello stomaco, come se lo stesse per risucchiare.
E fu allora che si sentì stupido, impreparato, codardo: aveva tanto blaterato contro la sorella, contro Eugenio e chi lo voleva aiutare a dimenticare tutta quella brutta storia, quando invece era lui il primo a comportarsi da vigliacco e a non voler prestare aiuto al suo amico.
Attraversarono l’entrata di marmo a sesto acuto che conduceva nell’ampio parco all’italiana, e si ritrovarono in un mondo a parte, un universo popolato da suore, camici bianchi e pazienti pallidi e smagriti.
La mente del giovane Granieri tornò ai giorni lontani eppure così vicini della degenza, all’odore aspro e pungente del disinfettante che accompagnava le visite del personale, al calore malsano emanato dai corpi degli altri malati e dei moribondi.
Istintivamente, si ritrovò a stringere ancora più forte il braccio di Pietro, che lo guardò e gli disse che sarebbe andato tutto bene.
Abbandonato il giardino, domandarono in portineria dove poter trovare il reparto di riabilitazione in cui Stefano era degente, quindi si addentrarono lungo un corridoio dalle pareti grigiastre e dal soffitto macchiato di umidità agli angoli.
Salirono con lentezza i gradini di pietra, Nicolò appoggiandosi al corrimano di legno, fino al secondo piano indicato dall'uomo di mezza età a cui avevano chiesto all'ingresso.
Da una delle tre finestre che si aprivano sull'unica parete libera di porte, i raggi solari di fine maggio si insinuavano energici in quell'ala della costruzione, donandole un briciolo di umanità che sembrava mancare al resto dell'austera struttura.
"Aspettami qui, vado a cercare qualcuno..."
Pietro aiutò il cugino a sedersi sull'unica panchina disponibile, e cominciò ad ispezionare la fila omologata di porte bianche alla sua sinistra; alla sesta occhiata, si fermò e bussò in prossimità della stanza che recava il nome del medico che aveva inviato il telegramma la settimana precedente.
Il conte attese il permesso per poter entrare, quindi sgusciò all'interno e vi uscì un minuto più tardi.
Andò a recuperare Nicolò, fermo ed imbarazzato dove lo aveva lasciato poco prima, e gli disse di seguirlo dal dottor Damiani, che li ricevette nel suo studio asettico, colmo di volumi enciclopedici e di una caterva di documenti mezzi ingialliti.
“Mi dispiace molto avervi fatto venire fino a qui, ma il signor Gardina non desidera ricevere visite"
"Ma come?! Eravamo d'accordo che ci saremo visti proprio oggi, che lo avrei incontrato! Perchè adesso mi state dicendo questo, non capisco!"
Il giovane Granieri, infatti, non riusciva a capacitarsi delle parole che stava udendo: quell'uomo di media statura e l'aspetto aristocratico gli stava facendo sgretolare la poca forza di volontà e di sicurezza che aveva faticosamente racimolato durante le ultime settimane in cui aveva ripreso in mano le redini della sua precaria esistenza.
"Possiamo sapere se questo improvviso cambiamento ha a che fare con le sue condizioni di salute?" s'intromise il conte Caccia, appoggiando una mano sul ginocchio di Nicolò, inducendolo a calmarsi.
"No, vi posso assicurare che il vostro amico si è ripreso in modo assai stupefacente, anche se il percorso è di certo ancora lungo e tortuoso. Tuttavia, non posso obbligarlo a vedervi, se ciò va contro la sua volontà. Mi capite, vero?"
Il cinquantenne, la stilografica che aveva recuperato davanti a sé, li guardava con gli occhi chiari ed empatici, ma il tono della voce appariva irremovibile.
"Certo, vi capiamo e comprendiamo il gesto del signor Gardina. Permettete un attimo..."
Pietro si abbassò per sussurrare all'orecchio del vicino se aveva intenzione di lasciare comunque la scatola di cioccolatini acquistata per Stefano: l'altro lo guardò appena, la mascella contratta e le dita irrigidite sulla confezione regalo, poi annuì senza troppa convinzione e appoggiò il pacchetto tra lui e il dottor Damiani.
"Bene, allora se non abbiamo più niente da dirci, noi toglieremmo il disturbo: sapete, la strada per Novara è piuttosto lunga..."
Le parole del conte Caccia trasudavano una certa dose di irrequietezza, sebbene continuasse a rimanere perfettamente calmo: si alzò dalla sedia di mogano, prendendo per un gomito il cugino, già pronto ad accomiatarsi.
"Aspettate..." ribatté il medico.
Recuperò da una tasca del camice un foglio spiegazzato e piegato in quattro, quindi lo porse a Nicolò.
"Il vostro amico mi ha personalmente incaricato di darvi questa lettera, tenete"
Il giovane allungò il braccio sano e tastò appena il misterioso scritto, indeciso se replicare o magari insistere per rivedere l'ex soldato.
Alla fine, optò per un semplice quanto poco convincente grazie ed una stretta di mano, mentre Pietro si limitava a fare lo stesso, e finalmente lasciarono la stanza.


Una volta districatisi da quel labirinto, i cugini si fermarono quasi all'unisono, dirigendosi verso l'uscita del complesso ospedaliero.
Il più grande indirizzava affettuosamente i passi strascicati dell'altro lungo il vialetto di ghiaia e terra battuta, pronto a ricongiungersi con il cocchiere nella piazza antistante.
Non si scambiarono mezza parola, ognuno assorto nei propri pensieri: avevano compiuto un viaggio a vuoto, avevano percorso chilometri inutilmente, solo per ottenere un rifiuto e una lettera che nessuno aveva il coraggio di leggere.
A quella riflessione, Nicolò sorrise dentro di sé amaramente, pensando a quanto fosse sciocca quella strana coincidenza: sebbene stesse lentamente ed incredibilmente recuperando la vista, ancora non poteva definirsi autonomo nelle incombenze quotidiane, ed una di queste era per l'appunto leggere quelle parole che il suo amico aveva deciso di scrivergli, non sapendo quanto questo gli costasse un'enorme fatica.
O forse no, forse quello era una sorta di segnale che lo induceva a mettersi alla prova, a tentare di interpretare le file di parole una dietro l'altra che componevano il messaggio dell'amico; perciò, strappò delicatamente il foglio dalle mani di Pietro, e lo spinse a seguirlo sulla prima panchina disponibile, vicino ad un laghetto artificiale.
"Che ti succede? Non ti senti bene?" domandò allarmato il conte, sedendosi a sua volta.
Il cugino scosse la testa, tranquillizzandolo con un mezzo sorriso.
"Voglio provare a leggerla da solo" cominciò a spiegare, riferendosi alla lettera che gli scottava tra le dita, e che accarezzava come fosse il più prezioso dei tesori.
"Va bene, però se vuoi ti aiuto volentieri: non mi costa nulla, lo sai, vero?"
"Sì, ma è una cosa che devo fare io, o quanto meno che devo tentare di fare... Se ho bisogno di te, non esiterò a chiedertelo, davvero"
Il trentenne annuì comprensivo, stringendogli affettuosamente una spalla ed allontanandosi di qualche passo dal cugino, in direzione di una delle magnifiche sequoie, in modo da lasciarlo a concentrarsi.
Nicolò attese che l'altro si fu allontanato, quindi si decise ad aprire il foglio e ad avvicinarlo il più possibile agli occhi: le parole gli apparivano come microscopici ballerini dalle forme sgraziate, una troppo alta, una troppo bassa, una sghemba, una sbavata per l'eccesso d'inchiostro... insomma, un mare di confusione in cui avrebbe dovuto nuotare per riuscire a salvarsi dal buio che lo stava abbandonando ogni giorno che passava.
"Basta provarci, ricordare la forma delle lettere e metterle insieme una dopo l'altra...".
Trasse un sospiro di incoraggiamento, la testa che gli girava, e riprovò per la seconda volta: lentamente, le dita appena tremolanti, riuscì a decifrare qualche frase, fino a completare l'intera lettura.


Torino, 29 maggio 1849

Caro Nicolò,
non sono bravo con le parole, credo che tu lo hai capito quando ci siamo incontrati e conosciuti.
Appena il dottor Damiani mi ha deto che volevi venire a trovarmi, sono stato felice, molto felice, come non lo ero da tanto tempo. Però, rifletendoci, ho capito di non essere ancora pronto per questo passo, per ricongiungermi con il mio passato: ho paura di soffrire tropo, di non acettare di rivederti, perché non sono in quela che si definisce una ottima forma.
Mi sposto ancora con le grucce, e speso mi sento debole, ma sto bene nel complesso, credimi.
Spero tanto di trovare presto la forza per farlo, per poterti riabbracciare e parlare del piu e del meno con la stessa legerezza del prima.
Ti lascio il mio indirizzo: tra una settimana farò ritorno a casa, a Novara, e chissa che li non riprendo ad essere normale e sereno come sono sempre stato.
Ti ricordo sempre con affeto e riconoscienza, ma domani, quando verai, non insistere per parlarmi, te ne prego.
Il tuo grande amico Stefano

Dimenticavo, scusa per gli errori!


Nicolò si ritrovò a sorridere e a ridere al contempo, incurante degli sguardi lanciati di sfuggita da qualche capannello di persone che passava di lì: ci aveva impiegato cinque, forse addirittura dieci minuti per riuscire a capire cosa ci fosse scritto, ma solo così aveva avuto la certezza che stava davvero riacquistando la vista.
Strinse al petto la lettera, cominciando a singhiozzare in silenzio e a piangere, sfogando il risentimento, la rabbia, la delusione e la frustrazione che l'avevano accompagnato in tutto quel tempo: lui si rispecchiava in quello che gli aveva scritto Stefano, lo comprendeva alla perfezione, e si rese conto che quasi non gli importava di non averlo visto, perché ci era passato anche lui, perché non era necessario affrettare i tempi e rovinare i progressi fatti.
Divenne consapevole che la guerra, in fondo, rendeva uguali chi l'aveva vissuta: vinti e perdenti in realtà erano tutti dei perdenti, che per ritornare ad essere dei vincitori avrebbero dovuto attraversare nuovi orizzonti di vita e, prima che con il nemico, fare pace con se stessi.
Dopo essersi sfogato, fece un cenno in direzione di Pietro, e lo abbracciò con slancio fraterno.
"Ora sono pronto, possiamo andare".





NOTA DELL'AUTRICE


Buonasera, cari lettori!
Tranquilli, avete letto bene, non ho saltato nulla: Federico sembrava che avesse deciso di andare dritto per la sua strada, di non aiutare il fratello, invece, quasi quattro settimane dopo, ritroviamo il nostro primogenito conte Caccia vivo e vegeto, pronto a fare compagnia a Nicolò in quel di Torino, dove purtroppo non hanno potuto incontrare il commilitone del ragazzo, anche lui profondamente turbato dai ricordi di guerra.
Questo, come anticipato, è l'ultimo capitolo, ma nell'epilogo spiegherò che fine hanno fatto i vari personaggi, compiendo un salto temporale di trent'anni, raccontandovi brevemente anche come ha fatto Pietro a salvarsi e, soprattutto, se alla fine Federico ha deciso di fare marcia indietro, ritirando le accuse.
In attesa di tutto ciò, vi ringrazio per il supporto, e vi saluto!
A presto

 

 

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Capitolo 49
*** L'edera rampicante ***



Erano arrivate nella tarda mattinata di sabato 22 marzo 1879, una giornata tiepida e caratterizzata da una brezza mite che preannunciava l’arrivo della primavera alle porte: avevano preso alloggio presso l’Albergo Italia, una costruzione molto elegante e dagli arredi ricercati, che si affacciava sulla piazza del duomo.
Il viaggio in carrozza fino alla stazione di Arona era stato piuttosto breve e per nulla faticoso, mentre il tragitto in treno si era rivelato rumoroso e fin troppo veloce, non permettendo di ammirare al di fuori dei finestrini il paesaggio lacustre che si mescolava a case, alberi e campi, in una danza vorticosa e quasi demoniaca, aggravata dal fumo nero e denso del carbone che usciva dalla ciminiera del locomotore.
Quel pomeriggio, dopo aver pranzato ed essersi riposate, Costanza aveva portato Elena a fare un giro turistico della città: la donna più grande aveva trovato una città completamente cambiata e rinnovata in quasi trent’anni della sua assenza, tanto da non riuscire a riconoscere i pochi posti che avevano fatto da sfondo al periodo in cui aveva soggiornato a Novara.
Palazzo Caccia Granieri era stato venduto molti decenni prima, quando don Armando e donna Luisa si erano trasferiti a Santa Maria Maggiore, dove tutt’ora, all’alba dei settant’anni, vivevano: la dimora di famiglia era passata di mano ad una sconosciuta coppia borghese, le cui trattative di vendita erano state concordate dal primogenito Nicolò; palazzo Caccia continuava a stagliarsi in prossimità del centro, sobrio e signorile come se lo ricordava, ma le appariva estraneo e desolatamente chiuso: nessuna presenza umana, infatti, calpestava da tempo gli eleganti pavimenti di marmo e in parquet, né voce alcuna si sentiva risuonare tra le stanze sapientemente affrescate.
Tutti i bei momenti che ho vissuto lì dentro fanno ormai parte del passato, e non torneranno…
Le sembrava quasi di violare un luogo sacro, divenuto preda dell’incuria e delle cascate di edera rampicante, che sfacciatamente soffocavano i muri, per questo preferì non sostare ulteriormente.
La coppia di turiste proseguì dunque nel loro tragitto, e pochi minuti dopo si soffermò davanti all’edificio che una volta ospitava l’ufficio di don Armando, anch’esso preso in affitto da estranei molti anni prima: già ad una superficiale occhiata, corso Sempione si presentava modernizzato, colmo ad ogni angolo di negozi di pasticceria e di locali eleganti in cui le signore si trastullavano a sorseggiare tè caldo o cioccolata, mentre la chiesa della Santissima Trinità al Monserrato era stata abbellita da un geometrico timpano che ne sovrastava la sommità, e che la faceva apparire ancora più maestosa.
Costanza portò la ragazza in pieno centro: entrarono meravigliate nella Basilica di san Gaudenzio, ora completata dal cupolino che la faceva assomigliare ad una delle moschee orientali, e rimasero sedute ad ammirare la vertiginosa altezza delle pareti e del soffitto magistralmente decorati*.
Uscirono e si incamminarono verso il Circolo dei giovani aristocratici, dove suo fratello Nicolò amava trascorrere intere giornate a discutere di politica: sebbene all’esterno l’edificio apparisse immutato, una sana curiosità le imponeva di affacciarvisi, ma subito si rese conto dell’assurdità di ciò che aveva pensato, dal momento che era un ritrovo ad uso esclusivo degli uomini.
Quando poco dopo si ritrovarono a costeggiare l’albergo svizzero, un brivido scosse le spalle di Costanza: nonostante le pareti si fossero ingrigite e tinte di un indecifrabile giallo rossastro, testimonianza di varie scrostature che avevano danneggiato l’intonaco, la donna manteneva ancora ben vivido il ricordo di quei giorni di marzo inoltrato, quando era andata a supplicare Nicolò di lasciare l’Armata Sarda e di far ritorno a casa; riusciva a rammentare perfettamente il furore e l’alterigia che trapelavano dai suoi occhi, il vociare indistinto e molesto degli ufficiali, i tavolini apparecchiati per l’imminente pranzo, il breve colloquio con il tenente Chiusano… esperienze e ricordi che avevano solamente il potere di incupirla.
“Vi sentite bene?” Elena appoggiò con tenerezza una mano sul braccio della sua accompagnatrice, la quale si sistemò meglio la mantellina marrone e annuì nella maniera più convincente possibile.
Proseguirono a braccetto, soffermandosi davanti a qualche vetrina, quindi oltrepassarono il Teatro Nuovo, vicino al quale era stato costruito nel 1855 il Teatro Sociale, luogo di incontro per ballare: a pochi metri di distanza, il negozio di sartoria della signora Leviani, quello in cui l’ex signorina Granieri aveva comprato l’abito di seta blu cobalto per il suo debutto in società il giorno in cui era stato denunciato l’armistizio tra Piemontesi e Imperiali, si era ingrandito e pullulava di dame che si affaccendavano a scegliere stoffe e accessori da sfoggiare al prossimo ballo che si sarebbe tenuto in qualche dimora altolocata.
Davanti a loro, non troppo lontano, oltre piazza Castello si affacciavano le Regie Carceri Mandamentali, e di nuovo, come era successo di fronte all’albergo svizzero, Costanza ebbe un tuffo al cuore: quel luogo era stato fonte della sua angoscia, quasi quanto l’ospedale* in cui era stato ricoverato l’adorato fratello, un’angoscia profonda e cupa, che nei primi di maggio del 1849 l’aveva fatta sprofondare in un abisso di tristezza.
Erano infatti i giorni in cui il conte Pietro Caccia, il cugino che tanto si era prodigato per lei e la sua famiglia, si trovava rinchiuso nei sotterranei del castello Sforzesco, in balìa di una imputazione per tradimento ai danni del sovrano e della patria, che avrebbe potuto trasformarsi in una condanna assai dannosa per la sua incolumità.
Dopo il duello con Federico, l’altro cugino, il ferimento ad una spalla e ad un ginocchio, Pietro era caduto preda di un torpore durato quattro giorni, un torpore dettato dalla febbre alta, diretta conseguenza delle lievi infezioni che erano derivate dalle ferite subite.
Venerdì 4 maggio, il giorno prestabilito per l’interrogatorio, Pietro era stato condotto dall’infermeria alla stanza adibita a sala udienza, il corpo ancora debole: qui, il tenente della Guardia Civica che lo aveva arrestato e che era stato incaricato di svolgere le indagini, aveva appena cominciato a porgli le prime domande di routine, quando un soldato semplice irruppe nel locale e consegnò una busta sigillata all’ufficiale.
L’uomo guardò l’imputato, al cui fianco si stagliava la figura rassicurante e caparbia di Eugenio Maffucci, amico ed avvocato del conte, quindi ruppe il sigillo di ceralacca e tirò fuori un foglio di carta, che aveva tutta l’aria di essere una lettera.
Passò qualche secondo, forse un minuto, poi il tenente fece cenno al soldato che gli aveva portato la misteriosa comunicazione di avvicinarsi: bisbigliò qualche parola all’orecchio, poi l’altro annuì ed uscì sull’attenti.
Poco dopo il ragazzetto tornò in compagnia di un capitano, un sessantenne alto e massiccio, e dai folti baffi bianchi: i due ufficiali confabularono ancora per un istante, fino a quando il più anziano si allontanò ed uscì di scena, lasciando la parola al tenente.
Nel frattempo, nel cortile del castello, Costanza e il maestro Paolo Rossini, l’insegnante di musica che era diventato un punto di riferimento per la giovane, attendevano pieni di speranze e di ansia il verdetto parziale dell’interrogatorio: erano ben consapevoli che la difesa preparata da Eugenio non fosse abbastanza solida per scarcerare da ogni accusa Pietro, tuttavia dovevano e potevano aggrapparsi a quell’unica possibilità, ovvero all’arringa del valido avvocato, dal momento che i biglietti che la ragazza aveva trovato nella camera da letto di Federico erano prove insufficienti –se di prove si poteva parlare- da mostrare in un eventuale processo.
In quel mentre, Maffucci uscì da una delle porte in legno massiccio, e sorrise andando loro incontro:
“E’ salvo, è salvo!” riusciva solo a ripetere, mentre abbracciava i due amici.
La missiva che era giunta durante l’interrogatorio, infatti, scagionava Pietro da qualsiasi accusa mossa nei suoi confronti, e lo liberava seduta stante: in realtà, a nessuno fu permesso di leggerne il contenuto, ma tanto bastava per tirare un sospiro di sollievo e preparare il rientro a casa del cugino.
Un’ora più tardi, il conte Caccia, ancora zoppicante e con una lieve febbricola, fu scarcerato: Rossini propose di farlo soggiornare per qualche giorno nel palazzo della nobildonna che lo stava ospitando negli ultimi due mesi, dal momento che l’uomo doveva riprendersi dai recenti avvenimenti e, soprattutto, don Aldo e la contessa Rosa non sapevano ciò che era accaduto al primogenito: lo credevano infatti lontano per questioni economiche circa alcuni possedimenti da amministrare, come Federico aveva abilmente propinato ai genitori.
Sebbene nessuno volesse parlarne apertamente, la ragazza e i tre uomini sospettavano che dietro quell’improvvisa liberazione ci fosse proprio lo zampino di Federico, la stessa persona che aveva denunciato il fratello.
Nonostante fossero passati trent’anni, Costanza continuava a provare verso di lui un’avversione profonda, che rasentava l’odio, l’opposto della dolorosa consapevolezza che aveva spinto il maggiore a cercarlo inutilmente: si erano infatti perse le sue tracce la sera stessa della scarcerazione di Pietro, quando il secondogenito aveva preparato i bagagli in tutta fretta e aveva scritto una lettera ai genitori, in cui diceva loro di non preoccuparsi, che doveva allontanarsi per qualche mese per via di certe questioni amorose che gli erano sfuggite di mano, e che si sarebbe riparato in Svizzera; poi da lì, se fosse stato necessario, sarebbe partito alla volta della Francia, ma avrebbe fatto avere al più presto sue notizie.
A parte la disperazione iniziale dei generosi conti, il figlio scrisse regolarmente ogni mese, senza mai specificare dove si trovasse: la busta, infatti, recava solamente l’indirizzo del destinatario, nessun riferimento al mittente e nessun timbro che potesse far risalire alla città in cui era stata imbucata.
Mentre meditava su tutto ciò, Costanza rifletté che adesso il cugino avrebbe dovuto avere cinquantasette anni, tuttavia dopo la morte del padre, cinque anni prima, nessuno aveva ricevuto altre lettere da parte dell’uomo.
“Possiamo andare?” Elena risvegliò dai ricordi la donna, che fu subito pronta a proseguire verso l’ultima tappa, corso di Porta Genova, dove sapeva da Nicolò che Eugenio Maffucci abitava quando soggiornava in città.
Il palazzo di inizio secolo appariva ancora elegante e ben tenuto, tuttavia il terzo piano aveva le finestre sprangate: Costanza bussò alla porta un paio di volte, ma non vi fu risposta, quindi si allontanò sconsolata, ritornando con la sua accompagnatrice alla vettura che le avrebbe riportate all’albergo.
In realtà, a distanza di un anno dagli avvenimenti narrati, l’uomo si era trasferito a Firenze e poi a Torino, dove si era affermato come magistrato; nel 1877, inoltre, a cinquantotto anni, si era sposato con una donna molto più giovane di lui, che assomigliava incredibilmente a Costanza: l’ex avvocato, infatti, aveva avuto un debole per la ragazza fin dal loro primo incontro, ma non le si era mai dichiarato apertamente, tanto che quando nel 1852 la sorella di Nicolò si trasferì definitivamente a Santa Maria Maggiore e prese ad abitare in un’ala di palazzo Mellerio insieme all’adorata nonna Maria, l’uomo lo prese come un gesto del destino, e lasciò perdere ogni interesse fisico nei suoi confronti.
Quello stesso anno, la signorina Granieri divenne la baronessa Andreoli, dal momento che sposò il barone Elia Andreoli, un nobile di un paio d’anni più grande di lei: nel 1854 nacque la loro prima figlia, Margherita, nel 1856 fu la volta di Odoardo e nel 1861 di Elena, la terzogenita che aveva portato con sé in quel viaggio della memoria.
Adesso Costanza aveva quarantotto anni, era una donna raffinata e generosa, presidentessa delle medesime istituzioni caritatevoli che aveva fondato la marchesa Maria, deceduta dieci anni prima: si poteva definire largamente soddisfatta dell’esistenza che aveva vissuto e che stava vivendo, tuttavia avrebbe voluto che tutti i suoi affetti non si fossero allontanati come invece era accaduto.
A partire da Nicolò, ormai cinquantacinquenne, che era diventato un discreto scrittore a Parigi, dove si era trasferito nel 1851: dopo mesi, infatti, aveva recuperato completamente la vista, grazie anche all’intervento a cui era stato sottoposto in una clinica privata svizzera, si era riavvicinato al suo amico ed ex commilitone Stefano Gardina, e aveva continuato ad interessarsi di politica, sebbene in maniera meno diretta e pericolosa.
Non si era mai sposato, anzi, ancora viveva come un libertino parsimonioso ed idealista, ma amava sinceramente la sua famiglia –soprattutto la sorella- e non aveva perso di vista Eugenio Maffucci, con il quale sovente si incontrava.
Lo stesso aveva fatto Pietro, un sessantenne scapolo sempre in giro per il mondo, con la passione per la natura, tanto da diventare esploratore: si era trasferito anni prima in Inghilterra, dove aveva conosciuto un certo Charles Darwin, con cui aveva svolto studi sull’evoluzione ed era partito alla volta di numerose quanto esotiche destinazioni.
Al rientro in albergo, il sole ormai stava calando: affacciata alla finestra della camera, mentre Elena si preparava per la cena, Costanza proseguì a ritroso il viaggio che si era imposta di fare, e subito ritornò a pensare a Pietro: erano quasi tre anni che non lo vedeva, da quando era tornato dall’India.
Dal momento che palazzo Caccia era stato venduto dopo la morte di don Aldo e della contessa Rosa, avvenuta rispettivamente a novantatré anni nel 1874 e a ottantotto anni nel 1878, il cugino era stato invitato a Santa Maria Maggiore, a palazzo Andreoli, per una cena in suo onore.
Vi era stato un tempo in cui la baronessa era convinta di provare una forte attrazione per l’uomo, quasi una passione amorosa, e anche nei rari momenti in cui avevano la fortuna di continuare ad incontrarsi, le appariva difficile sostenere lo sguardo limpido dei suoi occhi azzurri.
Parlavano di letteratura, di pittura e di fiori, sentendosi perfettamente a loro agio, ed era naturalmente affascinata dalla padronanza e dalla scioltezza con cui narrava le abitudini e i popoli di terre lontanissime e sconosciute, tanto da permetterle di sfiorare con la mente quei luoghi.
Ma quelle erano state solamente delle convinzioni giovanili e passeggere, aveva cercato di convincersi, che non erano sfociate in nulla di fatto.
E per la prima volta da quando aveva deciso di partire, Costanza non riusciva a confessare a se stessa il motivo sottinteso che l’aveva spinta a ritornare a Novara: certo, il giorno dopo ci sarebbe stata l’inaugurazione della Piramide monumentale, lo aveva letto sul giornale del marito la settimana precedente, tuttavia la verità era che ciò che era accaduto in quella stessa città nei giorni di fine marzo 1849, l’aveva talmente scossa da non riuscire a condividerne il ricordo con nessuno, solo con la carne della sua carne, appunto con la piccola Elena, anch’ella diciottenne come lo era lei durante le settimane burrascose di trent’anni prima.
Era un evento che sentiva di appartenerle intimamente, al punto tale di aver ingannato il buon Elia, al quale aveva detto che sarebbe andata a trovare un’amica di vecchia data: in ventisette anni di matrimonio, non aveva mai mentito al consorte, e questa consapevolezza la destabilizzava non poco.
Improvvisamente si sentì stanca, affranta, disorientata, tanto da domandarsi se avesse fatto la scelta giusta a ritornare nei luoghi che le stavano provocando così tanta sofferenza.
“Madre, io sono pronta… Andiamo?”
Elena le toccò con delicatezza una spalla: Costanza si voltò e ammirò la figlia in tutto il suo splendore, dimenticandosi dei dubbi che l’avevano assalita pochi istanti prima.
Notò con soddisfazione che somigliava a lei alla sua età: gli stessi capelli lunghi e ricci, il medesimo volto affilato e la stessa bocca carnosa, solamente gli occhi non erano verdi ma tendenti al grigio, come quelli del padre.
La abbracciò, scostandole una ciocca rimasta fuori dall’acconciatura, poi uscirono mano nella mano, orgogliosa della ragazza e felice che non avesse dovuto patire ciò che lei aveva subito.


Alle dieci della mattina seguente, le due donne avevano già raggiunto la sede della manifestazione nel quartiere della Bicocca, un’area colma di campi coltivati, distese d’erba e cascinali per il ricovero di cavalli e contadini, innaffiata dalle sorgenti del torrente Arbogna.
Vi era una nutrita folla che sostava in piedi, perlopiù formata da ufficiali, soldati e commilitoni ora in congedo, che discutevano animatamente tra di loro; uno sparuto gruppo di rappresentanza stava intrattenendo gli ospiti illustri, ovvero il Prefetto, il sindaco, il vescovo e parte degli esponenti del Consiglio provinciale, oltre ad una delegazione proveniente da Roma, la capitale**.
I giornali davano per certo l’arrivo del duca Genova, Tommaso Alberto Vittorio di Savoia, nipote del defunto Vittorio Emanuele II**.
La baronessa si guardò intorno, alla ricerca di qualche volto amico, rendendosi conto di quanto fosse vuota quella speranza, dal momento che in quella città non frequentava più nessuno da molti, forse troppi anni.
Lei e la terzogenita si fecero largo in mezzo ad un gruppetto di nobildonne, probabilmente le mogli degli ex soldati, e si avvicinarono ai cannoni con il vessillo del Regno d’Italia posto alla sommità, pronti a sparare a salve al momento opportuno.
Le armi erano protette da alcuni membri della Guardia Civica a cavallo, fieri nelle loro alte uniformi, e sorvegliavano con impassibile ed immutato sguardo le mosse di Elena, che ammirava la lucentezza di quei pezzi di artiglieria.
Costanza ne approfittò per avvicinarsi di qualche passo in direzione della solenne costruzione a forma di piramide, l’Ossario monumentale, che conservava i resti umani dei caduti piemontesi ed asburgici della battaglia del 23 marzo 1849. Dalla sua postazione, riusciva ad intravedere l’aquila in bronzo con due corone di alloro tra gli artigli, che sovrastava la porta di ferro e vetro che fungeva da ingresso: vi era anche una scritta collocata su una tavola in marmo, ma la distanza non le permetteva di leggerne le parole***. 
In mezzo a tutta quella folla che la sfiorava appena e l’accarezzava con sguardi disinteressati, Costanza si sentì all’improvviso sperduta ed estranea: avrebbe tanto voluto che accanto a lei ci fosse almeno Nicolò, ma aveva compreso il suo desiderio di non partecipare alla manifestazione, per timore che ciò rappresentasse un rinnovato dolore a rivivere quel fatidico giorno.
Nel mentre, le sembrò di scorgere la figura nera e dinoccolata del maestro Rossini, ora ottantenne e ricoverato in un ospizio per ex musicisti, e sorrise tra sé e sé a quell’idea assurda: era da quasi un mese che non andava a trovarlo, e decise seduta stante che appena rientrata a Santa Maria Maggiore sarebbe andata a fargli una visita ad Orta, dove appunto soggiornava da una decina di anni.
Costanza stava andando a recuperare la figlia, dal momento che le fanfare stavano risvegliando l’attenzione dei presenti per indurli a mettersi sull’attenti al momento dell’esecuzione dell’inno, quando la baronessa si sentì toccare un braccio, una vibrazione gentile, quasi timida.
La donna si voltò e si rese conto di trovarsi di fronte ad un volto che aveva già visto, ma che ormai da decenni non incrociava: gli occhi erano sempre neri, profondi, interrogativi, forse un po’ più acquosi di come se li ricordava; i capelli erano più corti e meno neri, però quei baffetti irriverenti –seppure ingrigiti dal tempo- restavano inconfondibili nella sua memoria.
Costanza sorrise al nuovo venuto, gli strinse una mano, e poi si abbracciarono, mormorando l’uno il nome dell’altra: in mezzo alla confusione che stava velocemente scemando, cercarono di parlare sottovoce per non disturbare.
L’uomo le chiese se fosse venuta da sola, ma la baronessa gli rispose che era in compagnia della figlia Elena, a pochi passi da loro.
“Io invece non ho accompagnatori: la mia dolce metà è rimasta a Torino, così non so con chi trascorrere il resto della mattinata… A proposito, cosa ne dite se più tardi andiamo a pranzo insieme? Mi fermerò in città per qualche giorno e mi farebbe piacere riprendere la nostra vecchia amicizia, cara Costanza”
“Non chiedo di meglio: abbiamo molte cose di cui discutere, e sono contenta di poter passare del tempo con voi”
“Molto bene! Allora portatemi a conoscere la vostra Elena: Nicolò mi decanta la bontà e l’intelligenza dei nipoti come se fossero suoi figli!”
Lei gli sorrise ed annuì orgogliosa e felice: era da tanto tempo che non incontrava un volto amico.

 

 

NOTE STORICHE E DELL’AUTRICE


Costanza si ritrova a passeggiare per le vie di una città molto diversa da come se la ricordava.

Nel 1854, ad esempio, venne costruita la caserma Perrone, intitolata al generale deceduto nella battaglia della Bicocca, e sempre nello stesso anno la stazione ferroviaria, all’interno di un’arena immersa in un giardino.
Tra il 1856 e il 1864 venne ampliato l’ospedale: l’architetto Antonelli mise mano alla costruzione di una nuova e imponente ala, grazie alla generose elargizioni da parte dei cittadini più abbienti.
Nel 1858 venne fondato il Civico Istituto Brera, voluto per opera del maggiore Fedele Brera, per dotare la città di una scuola musicale.
Tra il 1854 e il 1863 venne costruito il porticato esterno del Duomo; tra il 1864-69 venne ricostruito l’edificio portante del Duomo, dopo che era stato volutamente distrutto, ad eccezione del presbiterio e del coro: nel 1876 venne completato il cupolino, tuttavia il cantiere terminò solamente nel 1888, alla morte dell’Antonelli.
Nel 1865 ci fu la delibera da parte del Consiglio provinciale per la creazione del manicomio cittadino, i cui lavori cominciarono nel 1870 grazie all’intervento economico delle opere pie e del municipio; venne inaugurato nel 1875 in concomitanza con una grande mostra agraria.
Infine, nel 1871 nacque la Banca Popolare di Novara, che inglobò la Banca del Piccolo Credito Novarese, chiusa nel 1869.

** Nei trent’anni che dividono la narrazione, le guerre per l’indipendenza non cessarono.
Il 26 aprile 1859 scoppia la Seconda Guerra d’Indipendenza: l’Austria dichiara guerra al Regno di Sardegna, le cui truppe vengono comandate da Napoleone III, grazie all’alleanza tra Piemonte e Francia.
Le principali vittorie franco-sabaude si riscontrano a Montebello, San Fermo (grazie alla guida di Garibaldi), Palestro e Magenta, che apre la via per la capitale del Lombardo Veneto, Milano.
L’8 giugno infatti i Piemontesi entrano a Milano, e qualche settimana più tardi gli Imperiali vengono sconfitti a Solferino.
Dopo sette mesi di guerra, il 10 novembre viene firmata la pace di Zurigo: la Lombardia entra ufficialmente a far parte del regno di Sardegna.
Il 5 maggio 1860 parte da Quarto (Genova) la spedizione dei Mille capitanati dal generale Garibaldi: sbarcheranno a Marsala l’11 maggio.  
Il 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino proclama il Regno d’Italia: Vittorio Emanuele II diventa primo re d’Italia.
Nel 1865 la capitale del Regno passa da Torino a Firenze, mentre l’8 aprile 1866 ha inizio la Terza guerra d’indipendenza.
Il 24 giugno 1866 l’esercito italiano viene sconfitto a Custoza e il mese successivo al largo dell’isola di Lissa.
Grazie a Garibaldi, in valle Bezzecca (Trentino), le sorti si invertono, e i Piemontesi vincono una battaglia decisiva: dopo sei mesi di guerra, il 3 ottobre viene firmata la pace di Vienna, che permette all’Italia di ottenere il Veneto.
Nel 1871, dopo Firenze, diviene capitale Roma, liberata dal potere temporale del papa il 20 settembre 1870 dai bersaglieri, con la famosa Breccia di Porta Pia: il Papa rifiuta ogni contatto con lo Stato italiano, dichiarandosi suo prigioniero.
Nel 1878 muore Vittorio Emanuele II, a cui succede il figlio Umberto I.


*** Domenica 23 marzo 1879 viene inaugurato l’Ossario dei Caduti: l’edificazione fu voluta da un comitato di cittadini che lanciò una sottoscrizione, dopo che si seppe che a Custoza, teatro della pesante sconfitta da parte dell’esercito italiano nel 1866, era stato costruito un monumento analogo. Tra i 38 progetti presentati, venne scelto quello dell’ingegnere Broggi, che prevedeva una piramide realizzata in pietra dura di Sarnico e alta diciotto metri.
Tuttavia non mancarono le polemiche: in primis, per l’assenza di simboli religiosi (nel 1901 venne apposta una croce in marmo bianco) e in secondo luogo per la forma della struttura, considerata un simbolo massonico.
Sotto la porta d’ingresso vi è una tavola in marmo con la seguente iscrizione: AI CADUTI- NELLA BATTAGLIA DI Novara- IL XXIII MARZO MDCCCXLIX.
Nel 1910 fu collocato il trittico con le effigi in bronzo di Carlo Alberto e dei generali Perrone e Passalacqua.
Il sacrario ospita i resti militari di entrambi gli eserciti.


Buonasera a tutti!
Siamo arrivati alla conclusione di questo lunghissimo racconto, durato più di un anno: è stato faticoso scriverlo, mi riferisco soprattutto alle parti storiche, ma sono piuttosto soddisfatta, anche se rileggendo i capitoli ho già modificato alcuni punti!
Ci tengo molto a ringraziare tutti i lettori, soprattutto i recensori fissi: grazie infinitamente, davvero, siete stati preziosissimi, puntuali e gentilissimi! Un grazie anche ai recensori che mi hanno lasciato un loro parere solo una volta: mi ha fatto tanto piacere lo stesso.
Ringrazio anche le persone che hanno inserito la storia in una delle liste: siete state tantissime, grazie di cuore anche a voi! 
Insomma, grazie a tutti coloro che mi hanno sostenuto: spero di ritrovarvi in qualche altro mio e/o vostro racconto.
Un abbraccio

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