Storia di una famiglia di rossella0806 (/viewuser.php?uid=773369)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nostalgia ***
Capitolo 2: *** Segreti ***
Capitolo 3: *** La bisbetica domata ***
Capitolo 4: *** Il covo dei rivoluzionari ***
Capitolo 5: *** Una serata a teatro ***
Capitolo 6: *** Il Fischietto ***
Capitolo 7: *** La festa di compleanno ***
Capitolo 8: *** L'incontro ***
Capitolo 9: *** L'incendio ***
Capitolo 10: *** Il sacro monte di Pietà ***
Capitolo 11: *** Guerra e pace ***
Capitolo 12: *** Una decisione irremovibile ***
Capitolo 13: *** L'attesa ***
Capitolo 14: *** Confessioni reciproche ***
Capitolo 15: *** Verità o menzogna? ***
Capitolo 16: *** Il finto intellettuale ***
Capitolo 17: *** Un ragazzo diventato soldato ***
Capitolo 18: *** La Guerra, il Nulla e l'Incerto ***
Capitolo 19: *** Il capanno dei segreti ***
Capitolo 20: *** Un nuovo affiliato ***
Capitolo 21: *** La traversata sul ponte ***
Capitolo 22: *** La processione infinita ***
Capitolo 23: *** La prima missione ***
Capitolo 24: *** La battaglia della Bicocca ***
Capitolo 25: *** Un destino ancora incerto ***
Capitolo 26: *** Un rifugio sicuro in attesa della Pasqua ***
Capitolo 27: *** Agire da soli ***
Capitolo 28: *** Il giorno di Pasqua ***
Capitolo 29: *** La spiga di grano ***
Capitolo 30: *** Nuove speranze ***
Capitolo 31: *** Uno spettro di nome Nicolò ***
Capitolo 32: *** Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio ***
Capitolo 33: *** Colpevoli o innocenti? ***
Capitolo 34: *** Una nuova vita ***
Capitolo 35: *** Duello all'ultimo sangue ***
Capitolo 36: *** Riunione in chiesa ***
Capitolo 37: *** All'attacco, Bersaglieri! ***
Capitolo 38: *** L'amico ritrovato ***
Capitolo 39: *** Nuove minacce ***
Capitolo 40: *** Nonna Maria ***
Capitolo 41: *** I duellanti ***
Capitolo 42: *** Le ultime volontà di Pietro ***
Capitolo 43: *** Seconda parte- Le ultime volontà di Pietro ***
Capitolo 44: *** I sotterranei del carcere ***
Capitolo 45: *** Patto tra fratelli ***
Capitolo 46: *** Caccia al tesoro ***
Capitolo 47: *** Un pesce di nome Federico ***
Capitolo 48: *** Né vincitori né vinti ***
Capitolo 49: *** L'edera rampicante ***
Capitolo 1 *** Nostalgia ***
Non c’è
nulla interamente in nostro potere, se non i nostri pensieri
Cartesio (filosofo e
matematico francese, 1596-1650)
L’alba
era già sorta da parecchio, ma il cielo inspiegabilmente
tardava ad illuminarsi.
Forse,
dipendeva dalla foschia onnipresente e molesta che nelle ultime due
settimane era diventata una compagnia fissa e sgradevole di quel
gennaio ormai agli sgoccioli.
Costanza
alitò sulle dita fredde e bianchicce, per cercare un
po’ di quel calore che il camino della stanza non era
riuscito a donarle, nonostante la solerzia con la quale la cameriera
era venuta a rifornire di abbondanti ceppi di frassino la brace ormai
spenta della notte.
Sebbene non ci fosse nessuno da disturbare, si
alzò silenziosamente dal baldacchino, sistemando i piedi ghiacciati nelle calde babbucce di lana
grigio perla, abbandonate sullo scendiletto persiano.
Recuperò
il moccio della candela che aveva acceso qualche ora prima del
crepuscolo, quando si era svegliata improvvisamente, non riuscendo a
ricordare per l'ennesima volta dove si trovasse.
Era
una sensazione che le era diventata famigliare, suo malgrado,
nonostante fosse già trascorso un mese dall’arrivo
in quella nuova e indesiderata casa.
Il
mozzicone tra le mani, avvertì la carezza della cera
sulle dita, ormai fragile e quasi trasparente, completamente
inutilizzabile.
La
ragazza agguantò con delicatezza quell’innocente
rimasuglio, per poi gettarlo nell’apposita scatola di ferro,
che la cameriera avrebbe avuto cura di ripulire e rifornire non appena
Costanza avesse lasciato la stanza per la colazione.
Quindi,
si sedette sull’elegante sedia in legno di ciliegio, davanti
lo scrittoio ribaltabile, adagiato sotto l’ampia finestra con
i pesanti tendoni di broccato appena scostati che lasciavano
intravedere irregolari rettangoli di quel cielo perennemente fosco.
Osservò
con la solita noncuranza le copiose venature che attraversavano quel
pezzo di albero ormai privo di vita, poi aprì il primo
cassetto di sinistra, dove custodiva il cofanetto con tutto
l’occorrente per la corrispondenza.
Sistemò
meglio la lunga vestaglia bianca di raso foderato, che le ricadeva
addosso come un vecchio sacco informe per la raccolta del grano, ma che
tuttavia lei adorava.
La
schiena incurvata, la luce del mattino che faticava a scacciare quella
buia della notte, Costanza intinse la piuma d’oca nel
calamaio: l’inchiostro era denso, quasi vischioso, bastava un
attimo perché rovinasse il foglio immacolato su cui si stava
per posare.
Tuttavia,
le dita della ragazza, agili seppure intorpidite dal freddo, ebbero la
meglio, e così le parole cominciarono a scivolare sulla
carta, fragrante e lievemente arricciata ai bordi:
Novara,
mercoledì 24 gennaio 1849
Cara
Nonna,
è
l’ennesima giornata fredda ed uggiosa, in una
città che continuo a ritenere visceralmente ostile ed infida, sempre
avvolta com’è da una densa caligine grigiastra.
Mi
mancate molto, lo sapete, ed ogni giorno penso a voi e a quello che ho dovuto
abbandonare contro la mia inutile volontà di donna e figlia:
le nostre adorate montagne, l’aria fresca delle sera e quella
gentile del mattino, il canto timido degli uccelli, l’abetaia
dove amavamo passeggiare...
Qui
il tempo scorre uguale al primo momento in cui sono arrivata, ovvero
lentissimo e noioso.
Non
ho amici, ma questo ve l’ho già ripetuto almeno in
altre due lettere, scusatemi se continuo a tediarvi, ma siete
l’unica mia consolazione in questa nuova vita che non ho
minimamente desiderato.
L’altra
sera c’è stata una festa, qui a palazzo, un diversivo per animare la vita sociale che ci stiamo costruendo: Nicolò ed io abbiamo
finalmente potuto conoscere i nostri famosi parenti Caccia Dominioni,
il ramo nobile della famiglia che, naturalmente, sono stati
l’attrazione dell’intera serata.
Lo
zio Aldo è un uomo molto anziano, lo immaginavo un
cinquantenne bonario, invece avrà come minimo una ventina
di anni in più.
E’
gentile, mi ha stretto teneramente la mano, e sebbene non abbia mai veramente
sorriso, ho visto una luce affettuosa nei suoi occhi cerulei, come se
fosse stato contento di conoscermi.
Non
ha quasi capelli, è stempiato sulla fronte, e questa sua
caratteristica lo fa assomigliare ad uno scoiattolo spelacchiato, dato
il colore dei ciuffi che ancora può vantare!
La
zia Rosa, invece, è una donna assai minuta, ma ben
proporzionata, pallidissima e con gli occhi di un nocciola sbiadito: ha
un profumo delizioso, non saprei dire quale essenza nasconda; forse,
quando entreremo maggiormente in confidenza, oserò chiederle
da quale Mastro profumiere se l’è fatto creare,
perché vi assicuro, cara nonna, che è davvero una
fragranza gradevolissima.
Rispetto
al marito, ha talmente tanti capelli che potrebbe donarglieli,
folti e chiari da risplendere anche senza la luce diretta!
Non
so quanti anni abbia, sicuramente è più giovane
dello zio Aldo, credo almeno di una decina di anni, ma queste sono solo mie supposizioni, e non intendo cedere alla curiosità di chiedere alla mamma notizie maggiormente dettagliate.
Ovviamente,
assieme a loro, sono venuti anche i due figli, Pietro e Federico, che non credo conosciate.
Non
si assomigliano per nulla: il primogenito, Pietro, è biondo e ha gli occhi
grandi ed azzurrissimi; l’altro, invece, è moro e
decisamente più atletico, dalla corporatura meno tozza.
Tuttavia, ho notato avere una caratteristica in comune: il naso, infatti, appare leggermente schiacciato,
per il resto non sembrano neppure fratelli, alla stessa maniera di come
non sembrano figli dei loro genitori; su questa frase sibillina, abbiate pazienza che mi spiegherò al meglio.
Il
più giovane è intraprendente, spigliato, fin
troppo allegro: ha cercato di invitarmi a ballare almeno tre o quattro
volte, non ricordo con esattezza, perché sono sempre riuscita
ad allontanarmi prima che lui si avvicinasse troppo!
L’altro
cugino, invece, è taciturno, e credo sia anche un po’
sciocco: mi ha dato l’impressione, infatti, che non sappia
imporsi su alcuno, forse a causa dello sguardo sfuggente o di quel suo
costante assenso degli occhi color del ghiaccio.
Sono
convinta si sia annoiato parecchio, esattamente come me, ma
è rimasto educatamente seduto per l’intera durata
della cena -a mio avviso interminabile ed inutilmente abbondante- per
poi rintanarsi con gli altri uomini nel salottino da fumo; persino
quando hanno aperto le danze, Pietro non si
è allontanato dal suo rifugio, adducendo come
scusante il desiderio di dare un’occhiata alla biblioteca e
alla collezione di armi di mio padre.
Occhiata
che, detto tra di noi, si è protratta per quasi l’intera durata delle
danze.
Tra
i due giovani, cara nonna, ammetto che mi affascina di più
il timido Pietro, forse perché lo reputo maggiormente affine
al mio carattere introverso.
Anzi,
sono convinta che, a suo modo, sia persino più ribelle del
fratello, seppure, come ho scritto poche righe fa, a mio avviso non abbia ancora
imparato ad imporsi.
Ora
vi devo lasciare: il cielo, nonostante siano quasi le nove del mattino,
si sta sempre di più oscurando, e purtroppo sono rimasta
senza la scorta di candele.
Vi
abbraccio con tutto il mio cuore e la devozione di nipote affezionata,
scusandomi se vi ho annoiato con descrizioni di persone che, sebbene
non vediate da anni, sono certa ricorderete.
Attendo
con trepidazione una vostra lettera,
Costanza
La
ragazza piegò in quattro il foglio, quindi lo
infilò con cura in una busta color avorio, recuperata dal
cofanetto dedicato alla corrispondenza.
Infine, la sigillò con della calda e colante ceralacca, sorridendo tristemente.
Soddisfatta
e speranzosa, smistò la lettera nell’apposito
contenitore, da cui la cameriera l’avrebbe presa per farla spedire
quanto prima.
****
“La
situazione tenderà a precipitare molto presto!”
sbraitò il notaio, versandosi un bicchierino di liquore al
ginepro.
La
moglie guardò torvo l’uomo, reputando poco
signorile quel gesto da ubriacone compiuto di mattino presto.
Fece
un cenno alla cameriera che si era appiattita in un angolo e,
ordinandole di lasciare immediatamente la sala da pranzo,
tornò a concentrarsi sulla tazza fumante e sulla fetta di
torta al limone che stava per addentare, prima dell’attacco
di rabbia del consorte.
“Padre,
voi vi preoccupate troppo!” cercò di rabbonirlo un
giovane sui venticinque anni, alto e massiccio quanto il genitore, il
viso avvampato di furore ed entusiasmo.
“Non
possiamo più rimanere con le mani in mano, fingendo che quei
maledetti Austriaci non stiano stringendo il cappio attorno ai nostri
poveri colli! Lo capite che stiamo parlando della libertà di
tutti noi? E’ necessario e doveroso intervenire, altrimenti
perderemo la poca credibilità che ci è rimasta
davanti al resto del mondo!”
“Parli
proprio come il giovane sciocco ed irresponsabile quale sei! La guerra,
voglia il Cielo che non scoppi mai, non è il gioco infantile
che facevi da piccolo, con quelle stupide spade finte e il cavallino
più mansueto di cui disponevamo nelle stalle! Nemmeno le
lezioni di scherma potranno salvarti, se e quando ti ritroverai in
mezzo alla bolgia, alle urla e alla selvaggia crudeltà del nemico: al
tuo fianco, uniche e non cercate compagne, rimarranno solo la desolazione,
l'incomprensione e il senso profondo di smarrimento…”
Il
notaio abbassò lo sguardo, gli occhi scuri, inferociti fino
all’attimo prima, ora erano velati da vecchi ricordi sopiti.
All’improvviso,
infatti, gli tornò alla mente il suo passato da giovane
ribelle, fiero esponente della Carboneria, persino del suo fugace incontro con
Mazzini, durante una riunione dei soci a Genova, città
d’origine del fondatore del movimento rivoluzionario, fino ai momenti concitati dell’arresto da parte degli Austriaci,
più di vent’anni prima, e di come il padre lo
avesse tirato fuori da quella spiacevole situazione, grazie
all’influenza economica e alla fama che precedeva il nome dei Granieri.
Don
Armando ritornò cupamente al presente, accorgendosi di come avesse condotto quell’arringa sempre in piedi, un
braccio appoggiato al freddo marmo della mensola del caminetto,
staccandosi da quell’angolo solamente per compiere una mezza
piroetta su se stesso, come a non voler incontrare lo sguardo di quel
figlio testardo ed inconsapevole delle sciocchezze che brandiva a
destra e a manca, quali fossero trofei di cui essere orgoglioso.
Accorgendosi
del bicchierino colmo di liquore ancora in una mano, lo
trangugiò d’un fiato, facendo poi una smorfia di
disgusto e tornando a sedersi a capotavola.
Costanza
entrò nella stanza lo stesso istante in cui il padre e il
fratello avevano appena deposto le armi, dopo che le loro grida
l’avevano improvvisamente accolta mentre scendeva la
scalinata in marmo.
Nicolò
rimase in silenzio per qualche istante, il capo dai folti e ricci
capelli abbassato sulla tovaglia immacolata: congiunse le dita, i
gomiti abbandonati sulle ginocchia, quindi cercò di
trattenere un sospiro.
“Perdonatemi,
ma devo sbrigare certe faccende al circolo. A più
tardi”
Il
giovane si alzò senza degnare di uno sguardo i presenti,
sbattendo volontariamente la porta, che si richiuse senza troppo rumore
dietro di lui, il tacchettio degli stivali che calpestavano il costoso
marmo del pavimento.
La
ragazza deglutì meccanicamente, cercando di intuire dagli
sguardi dei genitori il motivo di quell’abbandono
così freddo ed improvviso da parte del primogenito.
Stava
aprendo la bocca per cercare di avere qualche notizia sullo screzio che
era certa si fosse appena consumato, quando la moglie del notaio, donna
Luisa, spiegò con fare forzatamente allegro:
“Questa
mattina arriverà il tuo nuovo insegnante di musica, Costanza
cara! Ci raggiungerà tra un’ora, e ovviamente
rimarrà a pranzo con noi, così potrete cominciare
già nel pomeriggio le vostre lezioni! Sei felice,
figliola?”
“In
realtà, oggi non mi sento bene… ho dormito poco,
e dopo pranzo era mia intenzione riposarmi…”
tentò di replicare la ragazza, assumendo
un’espressione afflitta.
Poi,
si portò una mano ad una tempia, cercando di addurre
un’improvvisa emicrania come giustificazione,
l’ennesima in quell’ultimo mese contro le assurde
proposte che le perpetrava la madre.
“Ma
non possiamo rimandare! Il maestro Rossini è il
più prestigioso dell’intera provincia! Ha lavorato
persino a Milano e a Venezia, non è educato rimangiarsi la
parola data! Sono convinta ti piacerà moltissimo: anzi, voci
che si rincorrono da qualche tempo, lo vogliono alla ricerca di una
moglie! Se siamo fortunati, la promessa sposa potresti essere proprio
tu!”
Costanza
sgranò gli occhi: non aveva alcuna intenzione di sposarsi,
il suo unico desiderio era ritornare dalla nonna, in mezzo ai boschi,
cullata dalla montagne, immersa nella vita selvaggia che, in quei
primi diciotto anni di esistenza, era stata
la sua fedele compagna di viaggio.
Lanciò
un’occhiata d’aiuto in direzione del padre, assorto
in chissà quali pensieri: aspettò che
l’uomo alzasse almeno una mano, che dicesse la sua opinione
su quel mucchio di assurdità che la moglie stava propinando
alla sua unica figlia, ma attese inutilmente.
Così,
non vedendo alcun segnale da parte del notaio, tornò a
tuffarsi in mezzo alla solitudine e all’arrendevolezza che,
ultimamente, si stavano impadronendo delle sue mancate decisioni:
guardò delusa il volto appuntito della madre, gli occhi
allungati ed azzurri, la bocca sottile aperta in un sorriso di
incoraggiamento.
Erano
in quei momenti, negli ultimi mesi sempre più soventi, che
Costanza si domandava come facesse quella donna ad essere la figlia di
donna Maria, la sua adorata e saggia nonna.
Avevano
due caratteri così diversi, visioni della vita completamente
all’opposto…
“In
attesa che il maestro arrivi, hai il permesso per andare a ritirarti
nelle tue stanze, figliola” si rabbonì donna
Luisa, convinta di compiere un gesto di grande magnanimità.
La
ragazza strinse il tovagliolo color panna che aveva adagiato sulle
ginocchia, appena qualche attimo primo: lo ripose sul tavolo e,
cercando di sorridere, acconsentì:
“Molto
bene, ma almeno permettetemi di decidere una cosa: mi farò
portare la colazione nella serra, lì fa più
fresco. Chissà che l’emicrania mi passi
completamente…”
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Capitolo 2 *** Segreti ***
Non è il caso
né di piangere né di sperare, si tratta piuttosto
di cercare nuove armi.
Gilles Deleuze, filosofo
francese (1925-1999)
“Cari amici, stiamo rivivendo gli anni del '20
e del '21, quando per la prima volta ci risvegliammo
dal nostro torpore di popolo falsamente inerme e lungamente
assoggettato! Allora, compagni, prendemmo in mano le redini del nostro
destino, sotto l'esempio dei fratelli siciliani e napoletani, che
combatterono con instancabile coraggio e valore perpetuo gli ignobili
Borbone e i porci Austriaci; noi stessi Piemontesi demmo la vita per
ottenere delle nuovi leggi, per unificare il popolo italico sotto un
unico e giusto sovrano!
Tentammo di scacciare
l'invasore, l’usurpatore delle nostre terre, ma venimmo
traditi, abbandonati a noi stessi dalle nazioni che ci avevano promesso
lealtà!
Ebbene, sono passati
quasi trent'anni da quella infausta e gloriosa pagina di Storia, ma la situazione non è purtroppo cambiata:
la patria che ci ha dato i natali, che ci ha amorevolmente nutrito,
chiede ora di essere aiutata, di essere liberata una volta per tutte
dall'oppressore e, se necessario, di dare la vita per lei!
Fratelli, amici,
compagni di uno stesso ideale, l'anno appena trascorso, il glorioso
1848, ci ha colmato di nuove speranze: il nostro amato ed illuminato
sovrano ci ha finalmente donato lo Statuto Albertino, non solo un nuovo
Codice di leggi, ma anche un simbolo e un monito per tutti noi, la
fiamma della giustizia che risplenderá perpetua nei secoli.
E poi, non dobbiamo
dimenticare che ancora una volta i cugini siciliani hanno dato prova
del loro immenso coraggio, ritornando a ribellarsi contro gli ignobili
e corrotti Borbone!
La stessa volontà di riscatto ha contagiato
i fratelli milanesi, nel Marzo scorso, così come gli eroici
Manin,Tommaseo e tutti gli altri valorosi compagni veneti, che hanno
lottato con ogni mezzo pur di cacciare quei porci degli Austriaci: per questo, a
Dio piacendo, possa la Repubblica di San Marco vivere per sempre!
Ebbene, io vi invito a
fare altrettanto: non importa il risultato, fratelli, la cosa
fondamentale è non desistere, ma combattere fino alla fine,
credere in ciò che noi tutti vogliamo, la
libertà assoluta e duratura per il nostro popolo, la
possibilità di diventare una comunità libera ed
autonoma, unita sotto un unico sovrano!
Viva la
libertà, viva l'Italia, viva Carlo Alberto!”
Costanza stava passando davanti la camera del fratello, quando udì quella veemente orazione: aveva passeggiato e sbocconcellato qualche biscotto tra le piante della serra, lo scialle di lana azzurra traforata buttato di sbieco sulle spalle, ritrovandosi ad ammirare, ancora una volta, la solenne compostezza dei plumbaghi, la radiosità delle gerbere, la timidezza delle begonie e l'altezza sfacciata dell'edera rampicante, dimenticando per qualche istante il senso di frustrazione che l'aveva visceralmente assalita.
Quel luogo, dell'intero palazzo e di tutta l’avvilente
città in cui l'avevano costretta a vivere, era l'unico posto
che riusciva ancora a darle conforto e una parvenza di
familiarità, tanto da ricordarle la natura pura e selvaggia in cui era
cresciuta.
Dopo quel giro di perlustrazione, si era lasciata cadere sulla sedia a dondolo nascosta in un angolo della struttura rettangolare, facendosi cullare dal rumore stridulo ma timido dell'impalcatura in legno.
Si stava addormentando, la testa dai lunghi e scuri boccoli le pendeva pericolosamente di lato; il nitrire dei cavalli nelle stalle, una decina di metri più in là, la
risvegliò da quel piacevole quanto inaspettato torpore,
convincendola ad alzarsi e a tornare in casa.
Adesso, era nuovamente assorta nei suoi pensieri, mentre si trascinava controvoglia lungo le scale in marmo, fino al corridoio del piano
superiore.
ll maestro Rossini stava per arrivare, per cui Costanza avrebbe dovuto cambiarsi d'abito per accogliere con tutti gli onori il nuovo venuto, l'ospite tanto gradito alla madre.
Le sue stanze erano adiacenti a quelle del giovane, che era convinta si trovasse ancora al circolo, per questo udì distintamente l'appassionato monologo del fratello, la voce famigliare che trapelava dalle pareti.
Sbirció dalla porta accostata e la aprì appena,
cercando di non fare alcun rumore: solo allora poté dare un
volto alle coraggiose imprecazioni di pochi secondi prima, vedendo Nicolò in piedi davanti alla specchiera, di fianco
all’elegante letto a baldacchino color cremisi, intento ad
agitare la mano destra in alto e in basso, mentre con l'altra reggeva un pezzo di carta spiegazzato; sembrava un mimo, un improvvisato giullare di corte.
Un ciuffo di capelli ricci e scuri gli ricadeva
sfrontatamente sulla fronte: lo sguardo era acceso da una strana euforia, come se avesse appena scoperto il segreto più ambito dell'universo.
Se fosse stata più vicina, la sorella avrebbe giurato di
poter vedere delle tracce di sudore sul bel volto pallido e rotondo del ragazzo, impeccabile in un completo di lana cotta, la camicia bianca abbellita da un'elegante cravatta di seta nera.
Aveva le mani chiuse a pugno, appoggiate sul comò che gli
stava davanti, massiccio e trionfale, una sorta di appendice grottesca.
Il giovane abbassò gli occhi color ambra e incassò la testa nelle spalle, sospirando rumorosamente.
Quando ritornò a puntare lo sguardo nello specchio, le
labbra carnose abbassate in un sorriso di giubilo, Nicolò
notò il volto incuriosito di Costanza, semi nascosta dietro
la porta.
Si girò di scatto e, con la stessa luce euforica negli occhi
di pochi istanti prima, si avviò a passi svelti nella
direzione della sorella più piccola.
Non appena la raggiunse, la agguantò per un polso,
storcendoglielo fino a farla sobbalzare:
“Ahi, mi stai facendo male!”
“Cosa hai visto? Costanza, dimmi subito da quanto tempo stavi origliando!”
La ragazza aprì la bocca per ribattere, le sopracciglia
aggrottate in una smorfia di smarrimento e dolore.
“Non capisco, io non ti stavo spiando! Stavo semplicemente
andando in camera a cambiarmi d'abito per il pranzo: abbiamo ospiti, non te lo ha detto la mamma?”
La giovane cercò di ritrovare un'espressione innocente,
sebbene si sentisse sempre più confusa ed impaurita.
“No, non mi ha detto nulla. E poi, a quest'ora, le avevo
detto che sarei andato al circolo, non ricordi? Tornerò giusto in tempo per sedermi a tavola ad accogliere i nostri
graditissimi convitati…”
Nicolò sorrise forzatamente alla sorella, regalandole un
fastidioso buffetto su una guancia.
“Mi dispiace deluderti, ma si tratta di un solo ospite, il
maestro Rossini. Credo sarà il mio nuovo insegnante di
musica… A proposito, caro fratello, perché poco fa hai
detto una bugia a nostra madre?” ribatté
innocentemente Costanza, guardandolo negli occhi, la testa inclinata da un lato.
Un rossore improvviso soffuse il volto dell’altro che,
stringendo con maggior forza il biglietto dell'orazione che aveva nascosto in una mano, tentò di giustificarsi:
“Ho… ho sbagliato giorno. In realtà,
devo andare domattina al circolo: e poi, non sei tu la prima a lamentarti
che a causa del tempo sempre uggioso di questa città ogni
ora assomiglia a quella appena trascorsa?”
“Ma se hai appena detto che tornerai apposta per il
pranzo!”
“Le tue orecchie di donna non hanno compreso ciò
che volessi dire. Bene, adesso che ti sei impicciata abbastanza dei miei affari, è opportuno che tu vada a cambiarti, sorellina.
Non vorrai arrivare in ritardo, vero?”
Il ragazzo spinse fuori dalla porta Costanza, che rimase interdetta nel vedere sbattersi in faccia il massiccio pannello di legno.
In piedi, in mezzo al corridoio, si ritrovò a pensare che
lo screzio che aveva vagamente intuito essere accaduto tra il padre e il fratello, quella mattina a colazione, in realtà
nascondesse dei pericolosi e oscuri risvolti.
In quegli anni, Novara contava all'incirca quindici mila abitanti ed apparteneva al vasto quanto dispersivo Regno di Sardegna.
Era una città strategicamente fondamentale,
perché ad uno schioppo di dita da Milano, la roccaforte
degli Austriaci e del loro Lombardo Veneto, tanto che per secoli fu duramente contesa tra i Savoia e gli avventori stranieri.
Culturalmente vivace e ricca di testimonianze pittoriche ed
architettoniche di epoca medioevale e rinascimentale, l'edificio più importante che vantava era il Broletto,
l'equivalente del foro romano, in cui la popolazione si riuniva durante le celebrazioni pubbliche.
Di fronte, si affacciavano la piazza del mercato e il Duomo, immenso esempio di manifattura neoclassica.
Attorniata dalle risaie, in cui d'estate si divertivano a banchettare le zanzare, questi specchi d'acqua fornivano la principale fonte di nutrimento alla popolazione limitrofa.
La nebbia invernale, perenne e pesante, trasformava il paesaggio in un unica spianata grigia ed informe, priva dei più elementari
contorni.
Oltre le mura, il fiume Ticino si addentrava nella folta boscaglia, costeggiando i campi coltivati a granoturco e a
foraggio, il cui compito era quello di delimitare i bastioni cittadini e di dividere le esistenze contadine da quelle
urbane.
Poco prima di mezzogiorno, il maestro Rossini scese dalla carrozza alla stregua di un principe ereditario, il naso aquilino che lo precedeva fieramente e le labbra sottili aperte in un sorriso incredibilmente disteso, da cui si intravedevano con chiarezza le due fila di denti, per la maggior parte
diritti e bianchi.
Le guance glabre e lo sguardo luminoso, la sua persona emanava un gradevole profumo di arancia caramellata.
Portava un completo nero, probabilmente di lana scozzese, da cui fuoriusciva un cravattino di un indefinibile colore, a metà tra il grigio topo e il rosa del crepuscolo.
Gli stivali scuri erano incredibilmente lucidi, più brillanti
dell'argenteria appena lustrata, e oscillavano morbidamente sul vialetto di ghiaia e terra battuta che conduceva al portone d'ingresso.
I capelli, lunghi e brizzolati, erano stati raccolti da un nastro di velluto, anch'esso nero.
A Costanza, la prima cosa che venne in mente fu di avere a che fare con un becchino, invece che con il tanto acclamato e rinomato insegnante di musica.
Sperò vivamente che quell'uomo di mezza età,
forse addirittura più anziano di suo padre, non diventasse
il nuovo maestro di pianoforte o, eventualità ancora
più spaventosa, il marito che non andava minimamente
cercando.
Donna Luisa, gongolante in un lungo abito color cipria, aveva preteso che l'intera famiglia e servitù si posizionassero
sull'attenti nel vasto giardino, davanti l'abete che delimitava l'entrata del palazzo, ricca di bianchi stucchi ed effigi in marmo e in pietra, in modo da offrire il miglior benvenuto possibile all'illustre ospite: era tutta concentrata ad informarsi su come fosse andato il viaggio, se avesse avuto il tempo per riposarsi e rifocillarsi, se la carrozza fosse stata abbastanza comoda.
Il notaio, le mani dietro la schiena, lanciò un'occhiata distratta in direzione del
nuovo arrivato, concentrandosi subito dopo sull'espressione assorta del primogenito, che aveva appena raggiunto lo schieramento, lo sguardo annoiato sul volto pallido.
Quel figlio, l'unico maschio che poteva vantare, lo stava costantemente preoccupando: le sue frequentazioni al Circolo cittadino dei giovani letterati gli davano l'impressione che avrebbero potuto condurlo verso
l'irreparabile.
Nicolò, infatti, si era sempre rivelato un giovane ribelle
ed autonomo, che era riuscito ad inserirsi molto bene in ogni contesto, tanto più nella nuova città in cui si erano
trasferiti da così breve tempo.
Il signor Granieri non era nato nobile, ma di famiglia assai
benestante: da oltre tre generazioni, infatti, i maschi di casa svolgevano con onore e rispetto la professione di notaio, tramandandosi i segreti e i trucchi del mestiere di padre in figlio.
Don Armando era originario della Svizzera italiana, di Bellinzona, lo stesso luogo dove nell'estate del 1818 aveva conosciuto la moglie, donna Luisa Caccia, durante un soggiorno in città della futura consorte.
Lei sì, a dispetto del marito, era nata nobile: il suocero
di Granieri, il conte Ermanno Caccia, si era trasferito da Novara, città natale, a Santa Maria Maggiore, paese di confine e facente parte della circoscrizione novarese, per svolgere di persona alcuni importanti affari commerciali.
Qui l'uomo, dopo anni di onorato ozio e truffe più o meno
ragguardevoli, era stato fulminato sulla via di Damasco, alla stessa maniera di san Paolo e, come un altro famoso santo, Francesco, si era spogliato di tutti i suoi beni materiali per ritirarsi in clausura in una comunità di frati benedettini affacciata sul lago d’Orta, lasciando la moglie e le due figlie, che nel frattempo si erano sposate, letteralmente con solo i vestiti e i gioielli che avevano indosso o nel guardaroba.
Donna Maria Mellerio, la sfortunata consorte, sparì dalla
circolazione per quasi un anno, rintanandosi in una città
del Nord Europa, da certi parenti che le erano rimasti.
Di ritorno dal viaggio di purificazione, la signora, assai influente e originaria di quelli stessi luoghi in cui il marito aveva perduto ricchezze e onorabilità, decise di non rimettere piede a Novara, ma di invecchiare e far invecchiare le figlie nel medesimo posto in cui si era consumata la loro incolpevole vergogna.
Tuttavia, la povera donna non aveva fatto i conti con la morte improvvisa del consorte, avvenuta all’inizio dell'estate
1848, ormai vecchio e pentito del torto consumato in vita.
Nel testamento infatti, lasciò scritto che il suo unico
bene materiale ancora esistente, palazzo Caccia nella città
di Novara, sarebbe stato il suo regalo d'addio terreno alla moglie.
Donna Maria Mellerio, però, non volle accettare quell'ultimo
scherzo del destino, anzi, dopo essersi consultata con il genero, il notaio Granieri, e con l'altra figlia, donna Eleonora, che da una decina d'anni viveva a Parigi, aveva deciso di cedere la proprietà a Luisa, la quale accettò entusiasta di ritornare nei luoghi della sua infanzia.
Così, trascorso l'ultimo Natale insieme all’adorata nonna, Costanza era stata costretta a preparare i bagagli, per cominciare una nuova vita lontano dalle sue montagne e
dalla natura a lei tanto cara, soffrendo in silenzio e non capendo perché, quel nonno che non aveva mai conosciuto, si fosse ostinato a farle tanto male. Ma tutto quello rappresentava il passato, un passato ancora troppo vivido e recente, ma pur sempre passato. Don Armando e i figli continuavano a mantenere lo sguardo vacuo ed indifferente, riscuotendosi dal torpore grazie alla voce squillante della contessa, davanti a loro per spronarli a presentarsi educatamente al nuovo venuto. Si scambiarono strette di mano poco convincenti, quindi entrarono a palazzo, il cielo plumbeo e vagamente screziato sopra di loro.
“È stato un pranzo veramente squisito, donna
Luisa! Ravenna è una città magnifica, ricca di storia e di arte, di mosaici, di cultura, ma lasciatemi dire che questo piatto… paniscia
se non vado errato, ha catturato il mio palato, che vi assicuro essere assai esigente! Non posso che essere entusiasta della lunga unione che, spero con tutto il cuore, abbiamo appena inaugurato in maniera tanto sublime!”
Il maestro Rossini si pulì gli angoli delle labbra sottili
con il tovagliolo color panna, quindi regalò un sorriso
soddisfatto alla padrona di casa.
“Voi siete fin troppo gentile, caro maestro! Mi
premurerò di portare i vostri complimenti alla cuoca! Ma,
prima di ritenervi completamente sazio, aspettate di assaggiare il famoso gorgonzola, un formaggio che letteralmente si scioglie in bocca! E naturalmente il dolce, che vi premetto essere un'autentica prelibatezza! A tal proposito, ritenetevi fortunato, perché avrete l'onore di gustarlo solo in questi giorni!” concluse gongolante la moglie del notaio, indicando alla cameriera, con uno sbrigativo cenno della mano, i piatti sporchi da portar via.
“Cosa intendete dire? Forse i dolci, in questa accogliente
città, si possono mangiare esclusivamente a gennaio?!”
L'espressione divertita dell'insegnante di musica non sfuggì
a Costanza, che aveva passato la maggior parte del pranzo a torturare
posate e tovagliolo, il capo abbassato sulle portate, per evitare gli sguardi della madre e dell'ospite inatteso.
Né il fratello e neppure il padre erano stati particolarmente loquaci, chiusi in un mutismo che, sebbene non dimostrato a parole scortesi, stava facendo infuriare donna Luisa, la
quale, sovente e di proposito, si rivolgeva al figlio e al marito solamente per dispetto.
“Si tratta del pane di san Gaudenzio, una
specialità che si prepara nella settimana del nostro
beneamato patrono: lo abbiamo festeggiato appena due giorni or sono, con una cerimonia nell'omonima basilica presieduta dal vescovo Gentile, grande amico della
nostra famiglia. Vi assicuro, maestro, che appena ne assaggerete una fetta, rimpiangerete di non averlo gustato prima!”
L'uomo trangugio compostamente un altro sorso di vino rosso che riempiva l'elegante calice che aveva davanti, quindi levò in alto il bicchiere e propose di brindare al santo del dolce così tanto decantato.
Solo donna Luisa si unì alla proposta, troppo concentrata ad
assecondare l'ospite e ad evitare la maleducazione degli altri commensali, per ricordarsi di lanciare l'ennesima occhiata di disappunto a marito e figli, che trascinarono stancamente i calici.
QUALCHE CURIOSITA' STORICA ...
Lo Statuto albertino è stata la costituzione del Regno di
Sardegna, a partire dal marzo 1848.
Venne poi adottato dal Regno d'Italia, nel 1861, e rimase in vigore
fino alla nostra attuale Costituzione del 1 gennaio 1948.
Le cinque gionate di Milano è la famosa denominazione data
all'insurrezione avvenuta nell'attuale capoluogo lombardo, tra il 18 e
il 22 marzo 1848, che portò alla liberazione della
città dagli invasori austriaci.
L'evento fu decisivo perché spinse Carlo Alberto, re di
Sardegna, a dichiarare guerra al Regno Lombardo Veneto.
La Repubblica di San Marco venne istituita nel marzo 1848 e
durò fino all'agosto dell'anno successivo, quando Veneto e
Lombardia ritornarono sotto le grinfie straniere.
Fu il frutto dell'insurrezione del popolo contro gli invasori
austriaci: a capo del neostato, come presidenti del governo
provvisiorio, si autoproclamarono Daniele Manin e Niccolò
Tommaseo, dopo essere stati arrestati dagli stessi austriaci.
La Repubblica si autoannesse al Regno di Sardegna.
Daniele Manin (Venezia 1804,
Francia 1857, dove venne esiliato)
Niccolò Tommaseo
(Croazia 1802, Firenze 1874)
L’avvio dei lavori per il Broletto risale all’XI
secolo.
La costruzione racchiude quattro edifici, ognuno importantissimo per la
storia della città: il palazzo dell’Arengo (ovvero
del Comune), il palazzo dei Paratici (delle corporazioni), il palazzo
del podestà e il palazzo dei Refendari (sorta di
cancellieri, funzionari che rappresentavano le istituzioni e svolgevano
compiti di segreteria per la documentazione ufficiale).
Un
tempo adibito anche a carcere, ora ospita un’importantissima
collezione d’arte permanente, la Galleria d’Arte
Moderna “Paolo e Adele Giannoni”, che raccoglie 800
opere pittoriche di epoca compresa tra il 1800 e il 1900, di esponenti
nazionali e piemontesi.
Il Duomo o cattedrale di Santa Maria Assunta ha subito numerose rivisitazioni architettoniche, fin dall’anno Mille: sorta sulle rovine di una basilica cristiana, la sua ultimazione avvenne solo nel 1869, ad opera del famosissimo architetto Alessandro Antonelli, non
torinese (come magari molti credono) ma originario della provincia
novarese.
Giacomo
Filippo Gentile (Genova 1809-Conegliano ligure 1875) venne nominato
vescovo di Novara nel 1843: di indole liberale, contribuì a
numerose opere caritative ed umanitarie, fondando nuove confraternite e
dando risonanza a numerose istituzioni; tra queste vorrei ricordare la
Scuola d’Arti e Mestieri Bellini, la Casa
d’Industria per i poveri De Pagave, l’orfanotrofio
maschile Dominioni e l’Asilo per l’infanzia.
Contribuì
alla fondazione del Civico Istituto Brera nel 1858 e
all’apertura della biblioteca Civica tra il 1847 e il 1852 .
La
paniscia, il piatto citato dal maestro Rossini, è un primo a
base di riso, fagioli, verza, carote, sedano, cipolla, pepe, vino
rosso, lardo e salam dla doja (un insaccato tipico della zona in cui
è ambientato il racconto, il cui nome deriva dalla doja, il
boccale di terracotta in cui viene lasciato a maturare il composto).
Il
termine paniscia, invece, trarrebbe origine da una varietà
di miglia, con cui si preparava originariamente questo risotto
particolarissimo.
Il
pane di San Gaudenzio è un dolce di pasta frolla ricoperto
di zucchero a velo e granella di nocciole e pinoli, con ripieno di
farina di frumento, zucchero, burro, uova, limone ed uva sultanina.
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Capitolo 3 *** La bisbetica domata ***
E’ meglio il silenzio
che l’equivoco
Jean Nicolas Arthur Rimbaud
(poeta francese, “Il Veggente”, 1854-1891)
"Sool... Mii... Faa... Sii... Laa ..." la mano destra batteva ritmicamente
sul ripiano del pianoforte, gli occhi verdi concentrati sulle note ordinatamente
distribuite lungo il pentagramma.
"Va bene così, Costanza. Per oggi possiamo considerare
finita la nostra lezione! Siete stata brava"
La ragazza sorrise soddisfatta: richiuse il libro di solfeggio e lo
depose sulle ginocchia, mentre il maestro Rossini recuperava uno
spartito scritto a mano da una cartelletta in cuoio marrone, appoggiata
su un tavolino rotondo di fianco allo strumento a corde.
"Adesso statemi bene a sentire: questo è il compito che vi
lascio da fare per il prossimo mercoledì. E’ una
copia del brano che vi ho suonato prima, voi lo dovrete provare un paio
di volte a mani separate e cercare di eseguire a mani unite le cinque
strofe iniziali. D'accordo?"
Costanza annuì e rispose che aveva capito, che si sarebbe
impegnata per riuscire a svolgere al meglio la sonata.
"Direi che possiamo avviarci verso la sala da pranzo! Comincio ad avvertire
un certo languorino!" confidò l'uomo, alzandosi dallo
sgabello rivestito di velluto rosso e sistemandosi la giacca nera.
"Che cosa fate ancora seduta?" la redarguì l'insegnante di
musica, invitandola con un gesto della mano a seguirlo.
L'ora di lezione era terminata e, come ogni mercoledì, donna
Luisa aveva invitato a pranzo Rossini: l’uomo era stato
alloggiato nella depandence del palazzo, un vecchio capanno di caccia
ormai inutilizzato, nel quale tornava solo per dormire,
poiché trascorreva la maggior parte del tempo in giro per la
città, a cavalcare o nei salotti della migliore borghesia.
"Voi avete stipulato un contratto con i miei genitori, è
così?"
L'interlocutore la fissò divertito, non riuscendo a
comprendere la ragione di una simile domanda.
"Certo, come ogni patto di lavoro che si rispetti. Ora che ho
soddisfatto la vostra curiosità, possiamo andare?"
Costanza avvertiva la gola diventare arsa e il cuore accelerare i
battiti, ma doveva sapere: dopotutto erano trascorse due settimane da
quando quell'uomo misterioso era arrivato a palazzo, entrando nelle
loro vite.
Nessuno le aveva domandato che cosa ne pensasse di lui, se approvasse i
suoi metodi, se si comportasse bene con lei: insomma, aveva tutto il
diritto di sapere, di conoscere la verità sui progetti più intimi che
la riguardavano.
"Aspettate, non ho ancora finito. Mi piacerebbe sapere se nel
contratto che avete firmato vi era anche qualche accenno ad un legame
matrimoniale"
Lo sguardo del maestro Rossini la fece avvampare: d’un
tratto, infatti, era diventato serio in viso, la bocca sottile tirata,
l'espressione mutata in uno sguardo ostile.
Si accarezzò i capelli lunghi e neri, vagamente brizzolati sulle tempie, e avvolti dal solito
nastro di velluto, quindi s'informò:
"Mia cara signorina Granieri, di quale matrimonio state parlando?
Immagino che quelle stupide voci che hanno messo in giro i miei
avversari, gelosi del mio successo, siano arrivate anche alle orecchie
della vostra famiglia. Non è forse ciò che è accaduto?”
“Io… sì, ammetto che è
così. Dovete scusarmi, ma mia madre era convinta che…”
“Tuttavia” la bloccò, fingendo di non
aver sentito “si vede che ancora non ci conosciamo
bene. Io sono allergico al matrimonio, detesto qualsiasi condizione mi
venga imposta, qualsiasi unione che si prospetti più
duratura di ciò che noi uomini definiamo anni!
L'eternità non fa per me e, di conseguenza, neppure il
matrimonio, perciò vi chiedo di non ritornare mai
più sull'argomento: sarebbe un'offesa ancora più
grande nei miei confronti, poiché pronunciata da un graziosa
fanciulla come voi. Sapete, mi ricordate tanto mia figlia..."
L'uomo ritornò ad avvicinarsi a Costanza, una strana
espressione sul volto glabro e allungato: si sedette nuovamente sullo
sgabello rivestito di velluto rosso e prese le mani della ragazza tra le sue,
fredde per l’angoscia e l'imbarazzo, cominciando ad
accarezzargliele teneramente.
"Avete gli stessi occhi, verdi come gli smeraldi. Ma Charlotte
è bionda e ha la pelle chiarissima, quasi diafana.
Purtroppo, fisicamente ha preso tutto da sua madre, una borghese ed altezzosa
inglese. Tutto tranne la mia intelligenza e l'amore per la musica,
ovviamente!" puntualizzò, lasciandosi andare ad un sorriso
dolce e malinconico.
"Ma... voi non siete sposato! Come fate ad avere una figlia?"
ribatté prontamente Costanza, dimenticandosi le buone
maniere e dando sfogo allo stupore che si era impadronito dei suoi pensieri.
"Se vi ho appena detto che sono tutte sciocchezze!”
s’infervorò nuovamente l'uomo, alzandosi di scatto.
Poi, si passò una mano sul panciotto e, con fare solenne,
proseguì:
“Lo so che, forse, non dovrei essere io a mettervi al
corrente di certe questioni, ma sarà meglio che cominciate a
sapere che per diventare padre o madre non è affatto
necessario sposarsi"
Notando lo sbalordimento negli occhi della ragazza e la bocca carnosa
aperta in un'espressione di puro stupore, egli preferì
tacere e attendere la reazione della sua interlocutrice.
La figlia del notaio abbassò lo sguardo sul libro di
solfeggio, cercando di guadagnare tempo, si umettò le labbra
con la lingua e deglutì: quindi, si alzò e
intrecciò il braccio destro a quello sinistro che l'uomo
le stava porgendo, il
maestro becchino, come aveva scritto nell’ultima
lettera alla nonna, cercando di non incrociarne gli occhi.
Si sentiva una stupida, una ragazzina che aveva interpretato male le
parole degli adulti.
Quell'uomo le era apparso sinceramente e profondamente addolorato per
la lontananza dalla figlia, sebbene avesse avvertito
dell’astio trasparire dalle sue parole.
La cosa che davvero non le andava giù, era che non riusciva
a non pentirsi per la misera figura che aveva appena commesso, per il
goffo malinteso di cui si era resa protagonista.
Mentre con la mano libera dalla presa si lisciava il tessuto turchese,
Costanza avvertì un tenero buffetto carezzarle il braccio.
"Su, cara, andiamo a tavola e non pensiamo più a queste bazzeccole, poiché tali sono da ritenere. Venite, non sopporto vedere il vostro grazioso volto imbronciato per causa mia"
Santa
Maria Maggiore, domenica 4 febbraio 1849
Cara nipote,
ti ringrazio molto per
la lettera che mi hai fatto avere la scorsa settimana.
È davvero una
fortuna che quel vostro garzone compia ogni lunedì il
viaggio fino a valle per andare a recuperare il fieno e la biada per i
cavalli, altrimenti la nostra corrispondenza non potrebbe essere
così celere.
Venendo a noi, ho tante
buone nuove da scriverti: per prima cosa, ho i saluti del signor
Moretti da inviarti; quell'uomo ancora rimpiange una brava allieva come
te, lamentandosi di quasi tutte le altre povere creature finite tra le
sue grinfie.
È venuto a
prendere il tè, l'altro pomeriggio, e ha trascorso
metà del tempo ad elogiare le tue doti di pianista e
cantante eccellente, complimenti sui quali non nutrivo il minimo dubbio.
Quando tornerai, mi ha
domandato di chiederti di suonare alla festa per il decimo compleanno
del figlio, avvenimento che cadrà l'estate prossima: io ho promesso che te lo avrei riferito,
anche se ovviamente la decisione ultima spetta a te.
Ma la vera chicca che
corre di bocca in bocca, che rappresenta il più importante
tra gli avvenimenti che sono accaduti da quando sei partita, riguarda
il dottor de Winckels.
Ti starai domandando
cosa possa aver combinato quel pover'uomo, tanto mesto e buono da non
sembrare neppure di questa Terra.
Invece, per la prima
volta, ha stupito l'intera comunità, comunicandoci il suo
matrimonio per la fine di questa primavera! Ebbene sì, cara
Costanza, il nostro impacciato medico condotto ha chiesto la mano della
signorina Bagnasco, la più giovane delle tre figlie del
sindaco: immagino l'incredulitá farsi largo sul tuo volto, mentre stai
leggendo queste righe, perché ti assicuro che nessuno di
noi, in paese, aveva il più piccolo sentore che tra quei due
stesse nascendo un tal sentimento, quindi ammetto che sono stati
davvero abili a celarlo davanti agli occhi di tutti.
Per quanto mi riguarda,
nipote adorata, ho delle novità che ti meraviglieranno positivamente: sono
stata infatti nominata Presidentessa de "Il Collegio Mellerio" e de
"L’Opera Pia per la salute dei fanciulli".
Ovviamente, il mio
riferimento era ironico, perché si sapeva che avrebbero
conferito alla sottoscritta l'onore e l'onere di adempiere a compiti
così “moralmente gravosi”, come ha tenuto a precisare la baronessa Sgrena.
A volte, essere la
marchesa Mellerio ha dei risvolti poco piacevoli, quali appunto dover
per forza presiedere a qualsiasi associazione venga in mente al nostro
bonario quanto noioso Comitato di vecchie signore borghesi.
Sono felice,
però, di dedicare del tempo ad aiutare delle giovani donne e
dei bambini che hanno bisogno di tutto, dai vestiti al cibo, dalla
legna ai piatti in cui mangiare, perché cosi facendo mi
sento meno sola: anzi, se tu sei d'accordo, vorrei far aggiungere il
tuo nome all'intitolazione delle due associazioni, dato l'impegno e i
suggerimenti di cui mi hai fatto dono durante i lavori per la loro
creazione.
L'inaugurazione
avverrà alle dodici presso il teatro del paese, con un banchetto
offerto dall'avvocato Rusconi - ti lascio immaginare la scarsa
qualità dei piatti che serviranno- a cui seguirà
un pomeriggio in cui tutti i presenti saranno costretti a ballare
musichette di second'ordine e ad ascoltare brani di sconosciuti
compositori stranieri, tutti tranne la sottoscritta, perché
dopo il discorso di rito che dovrò pronunciare,
sarà mia premura defilarmi nell'angolo più remoto
che riuscirò a trovare.
Che altro posso
aggiungere a questa lettera già densa di cambiamenti? Ti
parlerò del tempo e della nostra natura, ben sapendo di non
annoiarti: in questi giorni, in mezzo ai banchi di nuvole, si
è riaffacciato il sole, un sole timido, certo, data la
stagione invernale, ma ti assicuro che i suoi raggi emanano un
piacevole tepore.
Adesso, ad esempio, ti
sto scrivendo seduta in veranda, l’abetaia che si staglia
possente davanti a me, le montagne imbiancate su cui si riflette la
luce del nostro astro, mentre le mie spalle e le mie mani di vecchia
signora vengono riscaldate dal suo calore…
Non avevo dubbi che, in
quella città che nostro malgrado ci sta separando,
la nebbia e un’umida quanto opprimente foschia continuino a
rappresentare la medesima compagnia di quarant'anni fa, quando ancora
vivevo lì.
Abbi fiducia, cara
Costanza, appena le strade saranno libere dal ghiaccio e le giornate
torneranno ad allungarsi, ti prometto che potremo ricongiungerci per
tutto il tempo che vuoi.
A tal proposito, tua
madre mi ha scritto due settimane fa per invitarmi a trascorrere
qualche giorno da voi, il mese prossimo, a
“svernare”, mi verrebbe da dire: ma tu sai bene che
io, in quella città, non voglio mai più metterci
piede, mentre non vedo l'ora di poterti riabbracciare, di sentirti
camminare per queste stanze, fredde e vuote senza la tua presenza.
Spesse volte mi pento di
aver fatto dono ai tuoi genitori del palazzo in cui adesso vivete, non
immaginando che tale scelta ti allontanasse così
repentinamente da me.
Ma ora basta malinconia:
abbraccia Nicolò e digli che, appena potremo, continueremo
le nostre partite di briscola.
Ti bacio e ti stringo
teneramente,
Tua nonna Maria
Costanza si strinse al petto la lettera e sorrise felice: quei momenti
in cui riusciva ad estraniarsi da tutto e da tutti le risollevavano il
morale in maniera indicibile, allo stesso modo dell’affettuosa corrispondenza che
la legava alla nonna lontana.
Sprofondò nella poltrona di velluto blu, mentre sentiva il
corpetto stringerle il petto: inarcò la schiena e
ritornò a sedersi composta, sistemandosi il vestito color
turchese.
Infilò l'epistola nella busta avorio, sigillata con la
ceralacca e le iniziali di donna Mellerio, quindi la nascose nella
scollatura, in mezzo ai seni, proprio vicino al cuore.
La sensazione della ruviditá della carta non le dispiaceva affatto,
anzi, le ricordava che custodiva un tesoro prezioso, un filo diretto
con il passato che le avevano bruscamente strappato.
Poi, alzò lo sguardo verso gli scaffali che inondavano le
quattro pareti della grandiosa biblioteca, pronta per ritornare nel
salottino cinese, a conversare con la madre e la zia Rosa.
Quel giorno, infatti, oltre al maestro Rossini, donna Luisa aveva
invitato a pranzo i Caccia Dominioni, dal momento che erano quasi tre
settimane che non li incontrava, da quando cioè i Granieri
si erano premurati di organizzare una serata danzante in loro onore.
Costanza aveva così potuto rivedere i cugini, Pietro e
Federico, che tanto l'avevano colpita a causa dei loro caratteri
completamente all'opposto.
Il primogenito era sempre più cupo ed introverso, mentre il
fratello non faceva altro che seminare battute sulla disastrosa
situazione che stava attraversando il Regno di Sardegna.
Non nutriva alcuna fiducia nelle doti militari e strategiche di Carlo
Alberto, ritenendolo un sovrano debole ed incapace, un burattino nelle
mani di inglesi e francesi, e definendolo senza timore il Re Tentenna che
"sebbene
tra poche settimane, il 28 del corrente mese, vi permetterà di celebrare
la Festa dello Statuto, la vostra amata carta dei principii rappresenta
uno sberleffo alla vera democrazia! Il diritto di adunarsi
pacificamente -ma senz'armi, badate bene-, l'inviolabilità
del domicilio e della proprietà, la libertà di
stampa, sono tutte mezze verità per tenere buono il popolo!".
Il notaio Granieri, esasperato da quell’inutile tensione che
il giovane stava disseminando, aveva cambiato bruscamente discorso,
concentrandosi sui progressi della figlia alle lezioni di musica, pur
essendo già a conoscenza della sua indiscussa bravura.
Era continuamente nervoso,
constatò Costanza, ancora seduta in poltrona, e anche Nicolò si
è comportato in modo esageratamente gioviale:
rispondeva alle battute di Federico, spesso e volentieri rincarandone la
dose, ma al contrario però, sostenendo infatti che il regnante sabaudo fosse
un grande condottiero, provocando così le ulteriori ire del
genitore.
Donna Luisa, invece, si era estraniata in un discorso privo di senso
con zia Rosa, invitandola ad andare insieme alla messa domenicale nella
basilica di san Gaudenzio, ben sapendo dell'inutilità di compiere quel
tragitto, quando avevano la cappella personale a loro disposizione: forse, era semplicemente
desiderosa di non lasciarsi trascinare in quel mucchio di sciocchezze
che era diventato il fastidioso sottofondo del pranzo, e lei odiava sfigurare davanti agli ospiti.
Lo zio Aldo, Pietro e il maestro Rossini si erano inseriti a tratti nella
conversazione, solamente quando i due giovani li interrogavano
apertamente sulla questione della libertà dall'oppressore,
altrimenti rimanevano compostamente in silenzio, i volti abbassati sui
piatti da portata.
Forse, si
ritrovò a pensare Costanza, Federico non è quel
ragazzo frivolo che ho intravisto al ballo. Ha degli ideali, fin
troppi. Quello che dice, se ascoltato da orecchie indiscrete, potrebbe
rivelarsi un grave danno per la sua incolumità. Per non
parlare di mio fratello e della sua ossessione per una guerra
imminente. A volte, ho paura che possa compiere qualche sciocchezza.
Pietro, invece, non era cambiato affatto da quella sera di quasi tre
settimane prima: il suo mutismo, lo sguardo incupito, gli occhi di un
azzurro glaciale e i capelli biondissimi erano gli stessi.
Chissà che
cosa gli passa per la mente, quali sono i suoi pensieri, le sue
emozioni. È contrario o a favore di un'eventuale guerra di
liberazione? È davvero così distante come sembra?
“Oh, ecco dov'eri finita!”
Una donna sui sessant'anni, pallidissima e minuta, gli occhi color
nocciola, interruppe il flusso di pensieri della ragazza che, colta
alla sprovvista, scattò in piedi velocemente, quasi facendo
cadere la poltrona.
“Zia Rosa! Io ero venuta a… a leggere una… ”
“Non devi giustificarti, bambina, non voglio sapere nulla,
sta’ tranquilla” la contessa, un elaborato abito
scuro che le copriva l'intera figura, lasciando scoperte solo le mani
dalle dita piccole ed affusolate, sorrise teneramente alla nipote,
avvicinandosi.
“Piuttosto” continuò “tua
madre ci raggiungerà per prendere una cioccolata calda. Vuoi
unirti a noi?”
Costanza annuì per non essere scortese, pur sentendosi imbarazzata e non sapendo con esattezza il motivo di
tanta timidezza: forse, si ritrovò a pensare, il motivo
risiedeva nel fatto che era la prima volta in cui lei e quella zia alla
lontana stavano davvero vicine, così tanto vicine e da sole,
riuscendo persino a contare le scarse e piccole rughe che le solcavano
gli angoli degli occhi.
La ragazza ricambiò il sorriso e, per un attimo, fu tentata
di chiederle qualche indicazione in più sul profumo
inebriante che indossava anche in quell'occasione, ma venne riportata
alla realtà da un’improvvisa richiesta della
contessa.
“La vostra biblioteca è immensa, forse
più grande della nostra. Hai qualche volume da
consigliarmi?” s’informò spontaneamente
la donna, le mani congiunte, mentre si guardava attorno con aria
compiaciuta.
“Non saprei… molti dei libri che vedete
appartengono a mio padre. Sono tomi sul diritto romano e su altri
argomenti del genere che lui colleziona per il suo lavoro da notaio.
Però, vi posso suggerire di dare un'occhiata tra gli
scaffali in basso a sinistra, sulla parete vicino la vetrata:
lì ci sono le commedie di Shakespeare, come “La bisbetica domata”,
o l'edizione integrale del “Decameron”
del Boccaccio. Oppure, se preferite, controllando tra qualche ripiano
più in alto, potrete trovare il Candido di
Voltaire, un libro che a me è piaciuto molto o...”
“Mi pare di capire che sei una lettrice attenta e preparata:
questo ti fa onore, bambina. Comunque, grazie per i consigli che mi hai
dato: sono certa che mi saranno molto utili”
La donna sorrise nuovamente e si avvicinò agli scaffali che
le aveva indicato la nipote.
Costanza la seguì con lo sguardo, poi una crescente
curiosità le attraversò la mente, tanto da
trasformare subito i pensieri in parole:
“Zia…” esordì timidamente,
la poltrona dietro di lei “che cosa mi sapete dire di mio
nonno? Mi riferisco al padre di mia madre, naturalmente”
La ragazza strinse le mani a pugno, sperando di non aver combinato un
disastro.
“Tuo nonno Ermanno era il fratello di mio marito, tuo zio
Aldo…”
“Sì, di questo ero già a conoscenza, ma
io intendevo che cosa potete raccontarmi della sua vita…”
La contessa si girò, gli scaffali alle spalle, quindi
aprì la bocca ben disegnata per spiegare, la voce bassa e
gli occhi persi nei ricordi:
“Il giorno del suo funerale, lo scorso luglio, erano quasi
venticinque anni che non lo vedevo, da quando aveva avuto
quell’improvvisa quanto tardiva illuminazione di ritirarsi in
clausura: tuo nonno era un uomo molto colto, un ottimo padrone di casa
e, soprattutto, un abilissimo imprenditore.
Vedi, bambina, nonostante fosse nato conte, quindi avrebbe potuto fare
a meno di sprecare il suo tempo e il suo denaro nel commercio di stoffe, aveva davvero
talento per gli affari.
Peccato avesse un vizio, che tenne ben nascosto a tutti, il vizio di
truffare le persone e, a lungo andare, credo sia stato il senso di
colpa a spingerlo in quella direzione, a indurlo a pentirsi della sua
condotta a dir poco immorale, preferendo scontare lo scotto appartato
in solitudine, senza coinvolgere nessuno della sua vita precedente.
Tuo zio Aldo ci è rimasto molto male, quando accadde: si
sentì tradito dal suo stesso fratello, il primogenito, il
più affidabile, il più bravo, quello di cui
fidarsi.
Non si videro mai più: da allora, anche i rapporti con tua
madre, nostra nipote, si affievolirono, perché la marchesa
tua nonna non volle più saperne nulla di noi, proibendo alle
figlie di continuare ad avere il benché minimo rapporto con
la famiglia di suo marito… ma non devi pensarci, bambina.
Questi sono fatti avvenuti prima della tua nascita, per i quali ormai
non vale più la pena crucciarsi”
La donna si avvicinò alla nipote e le accarezzò
una guancia, quindi ritornò a concentrarsi sugli scaffali
colmi di volumi rilegati, lasciando Costanza in piedi dietro di lei,
incupita e sempre più triste, come quel cielo lì
fuori che non smetteva di ingrigirsi, e si rassegnó ad attendere l'arrivo della madre per la cioccolata dal retrogusto amaro.
Il crepitare della brace le stava provocando una piacevole sensazione
di abbandono: lo sguardo fisso, perso tra le lingue di fuoco, era come
ipnotizzato da quello spettacolo della natura, mentre i ceppi di legno
venivano lentamente lambiti ed accarezzati da fiamme ghiotte ed
impazienti di divorarli.
La sua cameriera personale, Nina, aveva appena terminato di ravvivare
il camino; si era premurata che la padroncina avesse la scorta notturna
di candele e che la piccola stufa di maiolica blu fosse ben fornita di
carbone, quindi era uscita con un lieve inchino, augurando la
buonanotte a Costanza.
È tanto
giovane, si ritrovò a pensare la ragazza, ma, pur di guadagnare qualcosa,
è costretta a lavorare tutti i giorni, mentre io ho avuto la
fortuna di nascere e crescere nella ricchezza. Non mi manca nulla
eppure, a volte, mi sembra mi manchi tutto.
Mentre si pettinava i lunghi capelli, scuri e ricci, con la spazzola
dal manico in argento che le aveva regalato la nonna, il suo pensiero
corse al maestro Rossini e alla rivelazione di cui l'aveva resa
partecipe quella mattina, dopo la lezione di pianoforte.
Ha una figlia,
Charlotte. È un bel nome, molto aristocratico.
Chissà perché non vive con lei…
voglio dire, mi ha detto che non si sposerebbe mai, perché
detesta gli obblighi, ma per quale motivo viaggia in continuazione, al
posto di scegliere un impiego che gli permetta di starle accanto?
È un uomo strano, ambiguo. A volte, credo mi faccia persino
paura…
Costanza finì di pettinarsi e poi andò a letto,
la mente inondata dalle parole dell'insegnante di musica, dai discorsi
fanatici di Nicolò e Federico e dal racconto di zia Rosa.
Dalle tende accostate, riusciva ad intravedere le fronde dei salici
oscillare al cospetto del vento notturno, in lontananza il verso
stridulo e ripetuto di qualche civetta.
Non voleva abbandonarsi al sonno, perché erano ancora molte
le cose a cui voleva pensare, ma invano.
Si addormentò quasi subito.
QUALCHE NOTA ...
Tutti i
nomi che ho inserito in questo capitolo si riferiscono a
personalità realmente esistite: il dottor De Winckels
è stato davvero un medico, vissuto agli inizi del Novecento
(anni Venti, se non vado errato, ma cercherò di ottenere
maggiori informazioni).
I
Caccia Dominioni, invece, erano un'antichissima famiglia novarese,
originaria di Milano (si dice che il capostipite Ardito visse nell'anno
Mille), da cui si trasferirono intorno al 1476.
Godettero
del titolo di conti ufficialmente a partire dal 1759, sebbene il ramo
"puro" dei Caccia si estinse nel XX secolo, a causa della sola
discendenza femminile.
Ad
oggi, sopravvive il ramo Caccia Dominioni.
Il
Collegio Mellerio esiste ancora: ospita un istituto alberghiero e un
museo di scienze naturali, ricco di collezioni riguardanti insetti,
piante, legni, minerali, rocce, erbari e riproduzioni di fiori, oltre a
piccoli cimeli di origine archeologica e paleontologica.
Grazie a tutti i lettori per aver letto anche questo capitolo!
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Capitolo 4 *** Il covo dei rivoluzionari ***
Il coraggio non può
vedere cosa c’è dietro gli angoli, ma ci passa
accanto lo stesso.
(Mignon McLaughlin,
scrittrice e giornalista americana, 1913-1983)
Un'ombra lo stava seguendo: nonostante si fosse premurato di scegliere
le vie meno trafficate, sebbene camminasse rasente i muri e si fosse
calato il cappello sulla fronte per non farsi riconoscere,
Nicolò avvertiva una strana presenza corrergli dietro,
silenziosa e furtiva, ma non abbastanza da impedirgli di accorgersene.
Il giovane non si fece intimorire, continuò invece a
camminare di buona lena, imponendosi di non voltarsi, di non girare le
spalle, ma di proseguire fino al compimento del tragitto.
L'aria era sudicia, appestata dall'odore delle fogne che, in quella
zona della città, la facevano da padrone; il ragazzo si
coprì il naso e la bocca con il fazzoletto di seta che
recuperò dalla tasca dei pantaloni, e si guardò
intorno.
C'era una mezza dozzina di carretti abbandonati lungo i margini della
strada, stretta e a fondo cieco; alcuni erano inclinati da un lato,
altri perfettamente allineati, mentre ceste di frutta e di legna
spuntavano fuori dai teli impiegati per ricoprirle.
Nicolò passò di fianco ad un paio di mendicanti,
l'aspetto misero e lercio, i capelli lunghi e insozzati di
chissà quale sporcizia, i piedi nudi e neri, nonostante il
freddo umido di quei giorni di febbraio.
Il ragazzo continuò a non incontrare il loro sguardo,
tuttavia lasciò cadere un paio di monete a testa nelle mani
di quei poveri diavoli, l'istante prima di rifugiarsi nell'androne di
un vecchio palazzo fatiscente.
Le spalle contro il muro, si tolse con foga il cappello e
respirò rumorosamente, gli occhi chiusi per il sollievo, il
fazzoletto nella mano chiuso a pugno.
Ce l'aveva fatta, quella misteriosa figura che era certo lo stesse
seguendo, ora non poteva più intimorirlo: lo aveva chiuso
fuori, anzi, probabilmente era riuscito addirittura a seminarlo qualche
strada più indietro.
Sorrise soddisfatto della sua abilità di depistaggio, quindi
si guardò intorno.
Il luogo in cui si trovava aveva visto tempi sicuramente migliori: i
muri erano quasi del tutto scrostati, mentre l'intonaco, che una volta
doveva essere bianco, cadeva letteralmente a pezzi.
Vi era un odore di carbone, verza e legna bruciata che impregnava
pesantemente l'aria.
Nicolò cercò di abituare la vista a quel buio che
avvolgeva ogni cosa, poi si avviò su per le scale, dei
traballanti e scricchiolanti gradini di legno inchiodati alla
bell’e meglio, perfetti per scongiurare qualsiasi sorpresa
sgradita.
Terminata anche la seconda rampa di scale, il ragazzo si
fermò.
Era arrivato davanti a due porte, una di fronte all'altra: si
guardò indietro, per vedere che non ci fosse nessuno, quindi
si affacciò alla balaustra e lanciò l'ennesima
occhiata al piano superiore e a quelli inferiori.
Assicuratosi che nessuno lo avesse seguito, si avvicinò alla
porta di sinistra: bussò al telaio di legno, marcio in
più punti, e attese che qualcuno gli venisse ad aprire.
“Chi
è?” pronunciò una voce
stentorea, dall'altra parte di quella sorta di barricata.
“Sono lo Svizzero!” rispose solenne ed impaziente
Nicolò, gettando sguardi furtivi dietro di lui.
“Parola
d'ordine?” continuò imperterrito il
misterioso interlocutore.
“Piemonte!”
E finalmente l'uscio si aprì.
L'ombra che aveva seguito il figlio del notaio non era affatto il
frutto dell'immaginazione del giovane, ma una persona in carne ed
ossa.
Per un istante, aveva temuto di averlo perso di vista, di essere stata
seminata, tuttavia era prontamente riuscita a ritornare sulle sue
tracce.
La misteriosa figura rimase fuori ad attendere il ragazzo per qualche
minuto, fino a quando fu costretta ad andarsene.
I due mendicanti, infatti, la stavano fissando in modo insistente,
forse per curiosità, forse perché volevano una
moneta o, semplicemente, perché non sapevano come
trascorrere il loro misero ed infelice tempo.
Il cappuccio del mantello calato sul viso, l'ombra arretrò
dalla sua postazione di vedetta.
La strada si stava pericolosamente animando: i proprietari dei carretti
lasciati ai margini della viuzza stavano uscendo dalle sudice e piccole
botteghe che si aprivano lungo i lati e, ben presto, quella losca
figura scarsamente mimetizzata avrebbe potuto destare l'attenzione di
qualcuno di loro, rovinando così la faticosa copertura che
si era creata.
L'ombra lanciò un'occhiata di disappunto in direzione del
fatiscente palazzo davanti a lei, quindi ritornò sui suoi
passi, ripercorrendo a ritroso la stradina.
Quando passò di fianco ai due mendicanti, rovistò
in una delle tasche della mantella, alla ricerca di qualche spicciolo
da donargli; lanciò tre monete, due direttamente nelle loro
mani e una per terra, pregustandosi il litigio che ne sarebbe scaturito
per accaparrarsi il soldo in più.
Soddisfatta, si affrettò a dileguarsi.
“Granieri!” lo salutò un giovane sui
trent'anni, i capelli scuri, lunghi fino alle spalle e tenuti fermi da
un nastro di velluto rosso.
Portava dei baffetti ben tagliati, e indossava un completo di lana
cotta color prugna e degli stivali neri, non particolarmente lucidi ma
inzaccherati sulla punta e sul tacco.
Quando Nicolò entro nell'unica stanza di quel locale, che un
tempo doveva essere un alloggio per famiglie disagiate, il ragazzo che
lo aveva apostrofato era impegnato ad esaminare una mappa e degli
scritti, sparsi ordinatamente su un tavolaccio rotondo, attorniato da
una dozzina di giovani.
Accortosi della nuova presenza, alzò gli occhi, neri ed
espressivi, allargò le braccia e si avviò verso
il figlio del notaio.
“Maffucci, eccomi qui! Spero di non essere troppo in ritardo,
ma ho dovuto seminare una persona” spiegò con un
sorriso il ragazzo, ricambiando la pacca affettuosa dell'uomo.
“Una persona? Di che cosa stai parlando?”
s'informò preoccupato l'altro, allontanandosi di un passo.
“Stai tranquillo, sono riuscito a far perdere le mie tracce. Non l'ho visto
in faccia, purtroppo, ma ti assicuro che non abbiamo nulla di cui
temere” cercò di tranquillizzarlo
Nicolò, avvertendo la tensione calare sui presenti.
“Come fai ad essere sicuro che stesse seguendo proprio
te?” continuò innervosito Maffucci, che aveva
tutta l'aria di essere a capo del gruppo.
“Io … non ne sono sicuro, ma ho creduto che
… ” tentò di farfugliare il nuovo
arrivato, mentre percepiva freddi brividi d’ansia percorrergli
la schiena.
“Mi deludi, Granieri! Tu non devi credere, tu devi essere sicuro!”
gli puntò contro l'indice il trentenne, gli occhi
infervorati.
“L'unico ideale in cui puoi e devi permetterti di credere,
che devi abbracciare con tutto te stesso, con tutta la devozione e la
fedeltà di cui sei capace, è la causa di
liberazione, null'altro! Non montarti la testa per il discorso che ci
hai tenuto due settimane fa, al circolo: le parole che hai pronunciato
davanti a tutti noi sono state fonte di grande ispirazione e di
orgoglio, ma non lasciare che la tua mente venga annebbiata dalla fama
e dalla gloria terrena!”
Nicolò annuì e abbassò lo sguardo: era
stato umiliato, la sua dignità di patriota era stata
miseramente calpestata, tuttavia non poteva dar torto al suo capo,
perché aveva perfettamente ragione.
Stava per replicare delle scuse, per quanto inutili sarebbero sembrate,
quando Maffucci ordinò ad un ragazzo sui vent'anni, i
capelli castani e lisci, gli occhi chiari e la corporatura esile, di
affacciarsi alla finestra e controllare giù in strada,
scrutando con attenzione alla ricerca di una presenza sospetta.
“Non c'è nessuno appostato nelle vicinanze del
palazzo, Eugenio” constatò l'interrogato,
ritornando ad accostare il misero pezzo di stoffa sudicia che faceva da
tenda.
“Molto bene. Sei stato sincero, amico mio, sei riuscito
davvero a depistare quell'individuo” lo premiò il
giovane, dandogli una pacca sulla spalla e cominciando a gesticolare
con enfasi.
“Tuttavia, non dare mai nulla per scontato, accertati prima
con i tuoi occhi, rifletti con la tua testa! Poi, solo dopo,
agisci!” concluse con un sorriso di incoraggiamento Maffucci,
che si avviò verso la finestra, l'unica della stanza, e
controllò di persona ciò che il ragazzino gli
aveva appena comunicato.
“Dimentichiamoci per un momento ciò che
è accaduto! E' arrivato il momento di parlare di cose
più importanti! Vieni ... ” continuò il
trentenne, invitando Nicolò a seguirlo attorno al tavolo,
pochi metri lontano dall'ingresso.
“Vi ho riuniti qui oggi, compagni, perché sono
molte le notizie che ho da darvi: per prima cosa, leggete e rifocillate
il vostro spirito patriottico!”
Eugenio lanciò sul tavolaccio una copia de “La Gazzetta del Popolo”
datata 6 febbraio, mentre la dozzina di giovani si affrettava a
scorgere le righe misteriose.
“Mi auguro che tutti voi abbiate già ricevuto
informazioni riguardo i fatti che stanno accadendo a Roma: ebbene, se
non dovesse essere così, vi illuminerò
io”
Si schiarì la gola e, con voce da oratore esperto,
enunciò:
“Sentite che cosa scrivono: “Un gran numero di rappresentanti
del popolo è già arrivato a Roma dalle provincie,
ed ad’ogni istante altri ne giungono. L’importanza
degli interessi che si debbono agitare in questa solenne Assemblea
è sentita da tutti, e tutti accorrono a conforto e salute
della Patria. Sono partiti pel confine napolitano corpi di milizie con
cavallerie e cannoni. Il generale Garibaldi si mostra instancabile a
Rieti”"
L'uomo alzò lo sguardo dalla pagina, curioso di osservare la
reazione destata da quelle parole.
"Sapete queste righe cosa stanno a significare, compagni?! Che
prestissimo, molto presto, lo Stato pontificio non esisterà
più! Verrà cancellato dalla Storia,
perché i nostri valorosi amici romani stanno per instaurare
la Repubblica, liberandosi della tirannia del papa!
Tutto ciò deve essere motivo di spinta per noi, motivo di
esempio e di orgoglio!”
Maffucci, lo sguardo infervorato e le mani che gesticolavano,
guardò ad uno ad uno gli altri affiliati: un ampio sorriso
di giubilo gli aprì il volto in un’espressione di
gioia, quindi rimase in silenzio.
Quando i presenti fecero per applaudirlo, lui li fermò con
un gesto di diniego e, dopo aver battuto i palmi per richiamare
nuovamente la loro attenzione, proseguì:
“Molto bene, adesso veniamo a questioni che ci interessano
più da vicino. Dunque, questa è la mappa della
città: ce l'ha portata il nostro compagno Tommaso, che ha
partecipato alla vittoriosa battaglia di Goito, lo scorso
maggio” prese a spiegare Maffucci, indicando prima la carta e
poi un giovane alto e robusto, il volto pallidissimo e i capelli color
carbone.
“Potrebbe rivelarsi utile in caso di necessità:
questo posto è un luogo sicuro, ma dobbiamo scovare altri
nascondigli, altre case in cui trovare rifugio, se mai dovessimo averne
bisogno”
Nicolò annuì serio ed interessato: poi,
puntò il dito sugli altri scritti davanti a loro, dei fogli
che sembravano antiche pergamene.
“E questi, invece? Che cosa sono?”
“Mi piaci quando fai domande, Granieri!” si
entusiasmò l'altro, regalandogli una pacca sulla spalla
destra.
“Questi sono i nomi dei nuovi affiliati della provincia.
Ovviamente, dovremo distruggere tutto il prima possibile, non possiamo
rischiare che qualcuno venga a conoscenza dell'organizzazione.
Studieremo i nomi dei nostri nuovi compagni e i loro indirizzi a
memoria, passandoci questi fogli a vicenda.
Poi, una volta che li avremo imparati, distruggeremo le carte, in modo
da non lasciare tracce. È tutto chiaro?”
Nicolò e gli altri fecero di sì con la testa,
quindi attesero ulteriori istruzioni.
“Molto bene, per oggi è tutto. Avrete una
settimana di tempo per imparare a memoria tutti i dati che ci sono
scritti su questi fogli: io l'ho già fatto,
perciò, adesso, tocca a voi!”
Il baffetto rimase in silenzio per una manciata di secondi, creando una
volontaria quanta esasperante attesa.
“Granieri! Che ne dici di essere tu il primo?” lo
apostrofò avvicinandosi.
“Dal momento che hai rischiato grosso ma sei riuscito a
cavartela egregiamente, a te l'onore! Ti consegno i documenti, tieni:
tra sette giorni esatti, alla stessa ora, ci ritroveremo qui per
offrire ad un altro di voi questo tesoro prezioso. Io, nel frattempo,
cercherò di trovare almeno altri due alloggi
sicuri” spiegò con una punta di ironia Maffucci,
ritornando subito serio.
“Ma, Eugenio” lo apostrofò allibito un
giovane dai capelli chiarissimi e gli occhi cerulei, la stessa persona
che aveva fatto entrare Nicolò pochi minuti prima
“come faremo ad imparare tutti questi nomi, questi indirizzi,
senza poterli avere sottomano per il futuro?”
Il trentenne appoggiò le mani sul tavolaccio e
guardò negli occhi i presenti; rimase in silenzio per una
manciata di secondi, quindi, la voce bassa e profonda,
spiegò:
“Voi non dovete perdere tempo a domandarmi e a domandarvi
come farete. Non m'importa quale metodo deciderete di usare, quello che
m’interessa è che voi impariate questa lista entro
una settimana a partire da quando avrete tra le mani i fogli. Immagino
che ora vi è tutto più chiaro, non è
così?”
La dozzina di giovani uomini annuì ipnotizzata e, senza
reclamare o ribattere altro, sciamò verso la porta.
Maffucci aprì l'uscio e, affacciandosi sul pianerottolo
traballante, controllò che non ci fosse nessuno.
Si affacciò al parapetto e lanciò un'occhiata in
alto e in basso, quindi salutò con una stretta di mano il
primo affiliato che uscì.
Ripeté il gesto con gli altri undici e, quando
toccò al figlio del notaio, lo rassicurò
dicendogli:
“A martedì prossimo, Nicolò. Ho fiducia
in te e nelle tue capacità mnemoniche. Viva la
libertà, viva l'Italia, viva Carlo Alberto!”
“Grazie, Eugenio, non ti deluderò. Viva la
libertà, viva l'Italia, viva Carlo Alberto!”
I due si abbracciarono e uscirono insieme, dileguandosi a distanza di
qualche minuto l'uno dall'altro.
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Capitolo 5 *** Una serata a teatro ***
Voglio amore, ché
senza questo i soggetti sono freddi, e amor violento.
(Gaetano Donizetti,
compositore.
Bergamo 1797- 1848)
I prati che circondavano il giardino del palazzo si erano inzuppati
della pioggia che era caduta quella notte, fitta e all'apparenza senza
fine: ad
aggravare quel paesaggio spettrale, vi
era la solita bassa foschia intrappolata tra gli alberi e i campi
incolti, appena visibili oltre i bastioni.
Federico si alzò dalla tavola imbandita per la colazione
per andare a ravvivare le fiamme del camino: l’attizzatoio
era nero e leggero, un semplice pezzo di ferro adornato dallo stemma
della famiglia, che si muoveva con gesti sicuri sotto le abili dita del
giovane.
Il secondogenito del conte Caccia Dominioni rimase per qualche istante
a fissare il fuoco, il braccio sinistro appoggiato sulla mensola di
marmo del camino, la testa dai capelli lisci e mori inclinata in avanti.
Leggere sulle pagine de “La
Gazzetta del Popolo” che a Roma,
giovedì 9 febbraio, si era instaurata la Repubblica e che il
papa Pio IX era fuggito, riparandosi a Gaeta, gli aveva chiuso lo
stomaco: come avrebbe dovuto comportarsi, che cosa si aspettavano da
lui?
Erano molte le cose a cui doveva far fronte, molte le decisioni che
avrebbe dovuto prendere.
Suo fratello Pietro, il figlio perfetto, come lo definiva
scherzosamente, lo aveva messo di fronte ad un ultimatum: insisteva a
tormentarlo con inutili frasi fatte, cercando di convincerlo che,
quello che stava facendo, era troppo pericoloso ed ignobile, il gioco
non avrebbe retto ancora per molto tempo, quindi doveva scegliere in
fretta da che parte stare.
Briciole di brace volarono sul completo blu scuro di lana e velluto,
inducendolo ad arretrare di qualche passo, per non bruciare i costosi
pantaloni.
“Federico! Cosa ci fai ancora qui? Credevo ti fossi
già preparato, figliolo. La messa inizierà tra
meno di mezz'ora e, con le strade dissestate per la pioggia, rischiamo
di arrivare in ritardo!”
Il giovane trasalì nell'udire la voce della madre, bassa e
perentoria.
Fissò per un istante il lungo abito nero con i pizzi alle
maniche del medesimo colore, il cappello verdone legato sotto il mento
e la piccola pochette in tinta, quindi puntò i suoi occhi
scuri e magnetici in quelli della contessa Rosa.
“Avete ragione, madre. Sarò pronto in un
secondo”
Passandole vicino, le baciò una guancia e corse su per le
scale, diretto nelle sue stanze.
La basilica di san Gaudenzio, dedicata al protettore della
città, si trovava in pieno centro, a qualche centinaia di
metri dal duomo.
Come al solito, quella domenica era gremita di fedeli, eleganti nei
loro abiti da festa, le donne sulla sinistra e gli uomini sulla destra.
Costanza, sebbene fosse solo la seconda volta che vi entrava, rimaneva
sempre affascinata al cospetto dell'immane lavoro architettonico che
gli operai dei secoli passati erano riusciti a compiere, offrendo a Dio
e a tutti loro quel meraviglioso esempio barocco.
La ragazza aveva scelto uno dei tanti posti laterali, in modo da poter
ammirare almeno una delle pareti tappezzate dai meravigliosi e
giganteschi dipinti ad olio.
Stava cercando di fissare nella mente il particolare del viso della
Madonna, così reale ed irreale al contempo.
Il capo,
inclinato di lato,
era stato ricoperto da un velo azzurro, mentre lo sguardo appariva
rivolto verso l'alto, da cui proveniva un'abbagliante aura di luce:
quando avvertì una mano toccarle il braccio destro, la
giovane distolse velocemente gli occhi.
“Cosa stai guardando?” la punzecchiò la
madre, donna Luisa, lanciandole un'occhiata di disappunto.
“Nulla, non stavo guardando nulla” rispose a bassa
voce la figlia, abbassando il capo.
Alla fine, la moglie del notaio aveva ottenuto dal marito di recarsi a
messa proprio in basilica, come aveva proposto a zia Rosa, durante il
pranzo di inizio settimana, nonostante a palazzo avessero a
disposizione una graziosissima cappella personale.
Costanza, spesso e volentieri, non riusciva a capire la madre, ma ormai
non si poneva più domande a riguardo, semplicemente obbediva.
Anche se, come in quel momento, erano infinite le volte in cui avrebbe
voluto alzarsi e andare via, lontano da lei e da tutto il resto.
Dal momento che non poteva, si rintanò di nuovo nel suo
mondo: levò lo sguardo in direzione della navata, l'altare
immacolato e le colonne di marmo bronzeo attorcigliate su se stesse,
che svettavano fino al soffitto a cupola, abbellito da angeli e putti.
La ragazza si girò e lanciò un'occhiata in
direzione del lato degli uomini, sperando di non venir di nuovo
ripresa: con la mano guantata, scostò la veletta di pizzo
bianco, quel tanto che bastava per ottenere una visuale completa,
quindi scrutò i volti dall'altro lato.
Vi erano moltissimi uomini di mezza età, qualche uomo
anziano e pochissimi bambini.
Di giovani ce ne sarà stata qualche dozzina, non di
più.
In mezzo a tutti quei banchi di legno intarsiato, Costanza
passò in rassegna i posti dove aveva visto infilarsi il
padre, don Armando, il fratello, Nicolò, lo zio, il conte
Aldo, e i cugini, Pietro e Federico.
Quando riuscì ad individuarli, rimase quasi stupita dalla
loro compostezza e solennità: sembravano davvero interessati
alla messa che, di lì a breve, avrebbe avuto luogo.
La giovane sperò che Pietro si voltasse a guardarla, ma
invano: desiderava conoscerlo più a fondo, capire che cosa
gli passasse per la mente, che cosa i suoi occhi vedessero realmente.
Nei due incontri precedenti, durante il ballo in onore degli zii, a palazzo Granieri, e nel corso del pranzo del mercoledì precedente, non si erano mai rivolti la parola, se non
per presentarsi e accomiatarsi: per questa mancanza di
dialogo, il cugino continuava a rappresentare un mistero per Costanza,
la quale lasciò perdere e ritornò a guardare
davanti a lei, dato l'ennesimo pizzicotto rifilatole dalla madre.
Dai due rosoni centrali, la ragazza cercò di intuire se
fuori avesse ripreso a piovere, ma venne quasi subito distolta dal
solenne suono che vibrava al di fuori della basilica, proprio sopra le
loro teste.
Finalmente, infatti, le campane annunciarono l'inizio della
celebrazione.
E tutti, ordinatamente, si alzarono in piedi, il coro nell'abside che
intonava uno dei salmi.
Nel
buio della sera, la
carrozza correva veloce, le grandi ruote che dribblavano
l’acciottolato romano, schizzando le pozzanghere, informi e
ormai emaciate per la scarsità d’acqua rimasta.
L’illuminazione
a gas era fievole e disseminata in maniera non del tutto uniforme,
lasciando scoperte certe viuzze e stradine secondarie.
Arrivando
da sud, si riusciva ad intravedere la cupola -non ancora terminata-
della basilica, svettare altezzosa tra le abitazioni signorili del
centro cittadino.
Vi
era una grande folla in piazza Castello, che scendeva ordinata dalle
carrozze e si dirigeva verso l’entrata del Teatro Nuovo, a
pochi metri di distanza, vicinissima alla chiesa di san Giovanni
Battista Decollato.
Sembrava
che tutti si conoscessero: si scambiavano occhiate cortesi, sorrisi di
circostanza, gli uomini togliendosi i cappelli e le donne agitando con
delicatezza una mano elegantemente guantata.
A
Costanza, invece, non importava nulla di quella gente, per il semplice
fatto di non aver mai visto prima nessuno di loro, piuttosto era interessata al contorno di ciò che l'avrebbe aspettata: era eccitata dalla
serata a cui andava incontro, sicura che si sarebbe preannunciata
meravigliosa, ricca di buona musica ed emozioni.
Quella
mattina, dopo la messa in basilica, zia Rosa aveva invitato la nipote e
la sua famiglia a teatro, all’esecuzione de “L’elisir
d’amore”
di Gaetano Donizetti, morto l’anno precedente,
nell’aprile del 1848.
I
Caccia Dominioni avevano due palchi riservati, per cui i Granieri
accettarono subito di buon grado, senza premurarsi di essere
d’intralcio.
Costanza
era andata diverse volte a teatro, insieme alla nonna, ma lo stabile
che poteva vantare Santa Maria Maggiore era davvero minuscolo, in
confronto alla grandiosità e alla luce che emanava quello in
cui stava mettendo piede adesso, per la prima volta da quando era
arrivata a Novara.
Aveva
trascorso l’intero pomeriggio immaginando quale abito
indossare -optando, alla fine, per un vestito con la gonna larga color
smeraldo, come i suoi occhi, un collier di perle ad impreziosirle il
collo-, quale acconciatura farsi pettinare da Nina e, soprattutto, non
vedeva l’ora di scrivere ogni particolare a donna Maria, per
raccontarle nella lettera successiva l’opera lirica che, era
certa, non l’avrebbe delusa.
Quando
finalmente raggiunsero l’interno del teatro, la ragazza non
poté rimanere immune all’eleganza e alla
bellezza degli affreschi che decoravano soffitto e sipario: nello specifico,
quest'ultimo rappresentava Ercole in una delle sue famose dodici
fatiche, il mitico eroe che si mormorava
avesse fondato la città di Novara, ed era talmente reale da
dimenticarsi immediatamente di tutto il resto.
Dopo averlo lungamente ammirato, si incamminó in direzione del
buffet, che era stato allestito nell’ingresso del teatro: un
mastodontico lampadario di cristallo e pietre dure emanava una luce
abbagliante, quasi a giorno, riflettendosi sul lungo tappeto rosso che
indirizzava gli spettatori verso la platea, mentre ai lati si aprivano
le due scalinate in marmo che portavano alle gallerie.
Al momento dell'intervallo, Costanza
calpestò il parquet in legno con sommo stupore, fino a raggiungere la tavola
imbandita, ampia e rettangolare davanti a lei: adocchiò del liquore alla
frutta e, indicandolo al giovane cameriere con i baffi scuri, se lo
fece versare in un calice di vetro di Murano decorato.
A
cena aveva mangiato poco, più che altro si era premurata di
spiluccare un po’ di pane e di assaggiare qualche cucchiaio
di zuppa, in quanto aveva lo stomaco chiuso per l’emozione:
in effetti, l’opera di Donizetti che stava andando in scena,
la stava sinceramente entusiasmando; certo, era solo il primo atto e,
naturalmente, si trattava pur sempre di un dramma lirico, nulla che
potesse definirsi galvanizzante, ma in quel momento, di tutto
ciò che era accaduto dal suo arrivo in città- o
per meglio dire, di tutto ciò che non era accaduto- quella
serata si stava rivelando la più ricca ed emozionante.
Stava
riflettendo sulla capricciosa condotta di Adina e
sull’ingenuità di Nemorino, quando vide
avvicinarsi Pietro: non si erano seduti vicini, perché lei
aveva dovuto prendere posto nel palco con zia Rosa e donna Luisa, come
le convenzioni suggerivano, mentre suo padre, il fratello, lo zio e i
cugini si erano sistemati nella tribuna di fianco.
La
ragazza era stata completamente assorbita dall’opera,
tuttavia aveva trovato il tempo per lanciare qualche sguardo in
direzione del primogenito dei conti, elegantemente seduto a pochi metri
dalle donne.
Con
il buio calato sulla sala, non aveva potuto ammirare i capelli
chiarissimi e gli occhi color del ghiaccio, che apparivano sempre
velati da una strana e silenziosa malinconia.
Quell’improvvisa
vicinanza, invece, avrebbe potuto rivelarsi l’occasione
perfetta per riuscire a scambiare qualche parola con lui, da soli,
essendo tutti gli altri parenti già ritornati nei palchi.
Con
la coda dell’occhio, Costanza aveva adocchiato il profilo del
giovane che, sebbene non possedesse il fisico atletico del
secondogenito dei Caccia Dominioni, riusciva ad intrigarla maggiormente.
“Vi
sta piacendo lo spettacolo?” riuscì a pronunciare
la giovane, concentrandosi sull’involtino che aveva
nel piatto.
“Sì,
è una buona versione, anche se quella di Vienna vantava una
scenografia migliore”
“Voi
siete stato a Vienna?” si stupì la cugina, alzando
gli occhi, l’espressione incuriosita sul volto.
L’altro
annuì e, un calice di champagne nella mano sinistra,
spiegò:
“Due
anni fa, per l’esattezza”
Il
ragazzo, però, sembrava non vederla: le stava parlando,
certo, tuttavia era concentrato su un punto in lontananza, dietro le
spalle di Costanza, la quale cominciò a sentirsi di troppo.
Fece
per andarsene, quando Pietro la bloccò, fermandola per un
polso:
“Sapevate
che, sebbene Donizetti non sapesse suonare alcuno strumento, era tra i
compositori più richiesti di tutte le corti
europee?”
Bevve
qualche altro sorso dal sottile calice di vetro soffiato, come se non
pretendesse una risposta, quindi proseguì:
“Morì
appena dieci mesi fa, in Francia, dopo essere uscito da un manicomio,
uno di quei posti in cui la società rinchiude i cosiddetti
pazzi. Dicono che divenne matto perché contrasse la
sifilide, ma io non ci credo”
Costanza
non riusciva a comprendere il motivo di quell’improvvisata
biografia: sorrideva educatamente, come il galateo le imponeva;
tuttavia, sebbene interessata dalle parole del cugino, davvero non
capiva perché continuasse a parlare con quella voce calma e
suadente, lo sguardo sempre puntato chissà dove.
“Perché
dite questo? Apparite molto convinto che si sia trattato di una sorta di complotto…”
“Infatti
lo sono. A mio avviso, è stato eliminato per questioni
politiche: Donizetti era membro di certe società segrete che
miravano a sovvertire l’ordine prestabilito e, si sa, la
rivoluzione, l’aria di cambiamento può far paura a
molti”
Il
suono della campanella avvertì gli ultimi avventori del
buffet di affrettarsi a ritornare ai propri posti, poiché lo
spettacolo stava per riprendere.
Pietro
finalmente fissò i suoi occhi azzurrissimi in quelli della
cugina e, dandole il braccio sinistro, la invitò a salire la
scalinata alla loro destra.
Costanza
abbozzò un sorriso, felice di quel contatto.
Quando
alzò lo sguardo, però, capì che cosa
il giovane stesse guardando con così tanta insistenza,
appena pochi attimi prima: Nicolò e Federico, infatti, erano
seminascosti dietro una colonna in marmo, intenti a discutere.
Si
stavano fronteggiando apertamente, cercando di regolare il tono di
voce, affinché le altre persone rimaste nell’atrio
non li udissero: il primo aveva l’espressione indiavolata, il
volto arrossato e continuava a puntare l’indice verso il
cugino, che invece non smetteva un attimo di scuotere il capo e di
mordersi il labbro inferiore. Non riusciva a comprendere chi dei due accusasse l'altro, e tantomeno era in grado di afferrare il senso generale del discorso, molto simile alle solite arringhe travestite da monologo di Nicolò.
“Allora,
cosa stiamo aspettando? Nel secondo atto c’è
l’aria Una
furtiva lagrima: davvero
divina” la spronò il ragazzo, spingendola a
proseguire.
Costanza
tentò di ribattere, richiamando l'attenzione del fratello,
ma ormai Pietro l'aveva spinta verso le scale, l'applauso degli
spettatori che li invitava ad accelerare il passo.
QUALCHE NOTA STORICA ...
Papa
Pio IX si rifugiò nel febbraio 1849 presso la corte di
FERDINANDO II, Re delle Due Sicilie, dopo gli scontri antipapali che
videro protagonista la città, nel novembre 1848: il
pontefice rimase alla corte dei Borbone fino al 12 aprile 1850, quando
la Repubblica Romana era già caduta da nove mesi, dal luglio
dell'anno precedente.
Per quanto riguarda l'instaurazione della Repubblica, come accennato
nel capitolo, avvenne il 9 febbraio 1849, con i voti
dell’Assemblea Nazionale eletta in precedenza a suffragio
universale (parteciparono al voto 250mila cittadini, solamente di sesso
maschile).
Fu costituito un triumvirato, composto da Carlo Armellini (morto in
esilio in Belgio), Aurelio Saffi (considerato l'erede politico di
Mazzini) e dallo stesso Giuseppe Mazzini. Sia Saffi che Armellini
aderirono alla Giovine Italia.
L'attuale
Teatro Coccia, inaugurato il 22 dicembre 1888
L'attuale
teatro di Novara è nato sulle spoglie del Teatro Nuovo,
eretto nella seconda metà del 1700.
L'antico
progetto era firmato dall'architetto pontificio Cosimo Morelli, e
presentava affreschi interni, il corredo fisso di scenografie e il
sipario rappresentante Ercole (mitico fondatore della città)
realizzati dai fratelli Galliari, scenografi ufficiali della corte
torinese.
La
costruzione del teatro fu promossa dalla neo società dei
palchettisti, costituitasi per questo scopo nel 1775-76: vendeva i
palchetti ai suoi stessi membri, mentre una parte dei fondi necessari
fu prestata dal Conte Luigi Maria Torinelli.
Esso
venne inaugurato nella primavera del 1779, con il dramma in musica
"Medonte re d'Edipo".
Nel
1830, fu ristruttutato, e nel 1832 riaperto con l'opera "La Straniera"
di Vincenzo Bellini.
Negli
anni 1853-1855 nelle sue vicinanze venne costruito un secondo teatro
cittadino, il Teatro Sociale, con il quale si accese presto una animata
competizione.
Nel
1880 il consiglio comunale acquistò i due edifici, il Teatro
Sociale e il Morelli (che dal 1873 aveva assunto la nuova denominazione
di Teatro Coccia), che venne demolito.
Una
foto di Gaetano Donizetti
La
Basilica di San Gaudenzio è stata costruita a partire
dall'841 d.C, con continui rimaneggiamenti nel Duecento, Cinquecento e
Settecento.
E' famosa per l'annessa cupola, alta 121 metri, ed opera del famoso
architetto di Ghemme, Alessandro Antonelli, lo stesso della Mole di
Torino.
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Capitolo 6 *** Il Fischietto ***
Novara,
domenica 25 febbraio 1849
Cara Nonna,
dall’ultima
volta che vi ho scritto, sono molte le cose che mi sono capitate: non
saprei se definirle positive o negative, sicuramente mi hanno toccato
il cuore.
Ieri pomeriggio,
infatti, ho accompagnato la mamma e zia Rosa all’orfanotrofio
Dominioni, un’istituzione benefica di cui lo zio Aldo
è membro onorario, che si occupa di istruire e di
insegnare un mestiere ai piccoli della città senza famiglia.
La nostra cuoca ha
cucinato delle torte e altri dolci che abbiamo portato con noi, e che i
bambini hanno letteralmente divorato, oltre a qualche vecchio abito di
quando Nicolò era piccolo, che adesso assomigliano a stracci
vecchi grazie alle forbici usate dalla mamma per “renderli
meno appariscenti”.
La struttura
è fatiscente ma ben curata, ed è gestita da un
sacerdote che gode del titolo di rettore. Egli insegna agli orfanelli a
leggere, a scrivere e a fare di conto: ci ha accolto con gentilezza,
offrendoci del tè che sapeva più di acqua che di
infuso.
Ci ha raccontato che,
ogni settimana –da lunedì a venerdì- i
piccoli ospiti vengono mandati alle varie botteghe della
città, appunto per imparare un mestiere, così, al
compimento dei diciotto anni di età, potranno uscire
definitivamente dall’orfanotrofio e rendersi indipendenti.
Ciò che mi
è rimasto nel cuore, però, sono stati i volti dei
bambini e dei ragazzi, una ventina in tutto, dei visi smunti e pallidi,
il corpo magro, che quasi scompariva dentro le inamidate divise.
Con questo non voglio
dire che non vengano trattati bene, tutt’altro, ma
è solo la mia sensazione a spingermi a descriverveli in
questi termini, cara nonna.
I più piccoli
si affollavano attorno alle nostre gonne per attirare
l’attenzione ed indurci ad accarezzarli, a prenderli in
braccio: la mamma, appena ho fatto per abbassarmi ed issare uno di essi
contro il mio petto, ha cercato di cambiare discorso, inducendo il
sacerdote che ci stava facendo da guida a proseguire la visita.
Zia Rosa, invece, ha
voluto soffermarsi ancora qualche istante, permettendomi di abbracciare
un paio di bambini particolarmente insistenti: avranno avuto tre,
quattro anni, e mi guardavano come se fossi una regina, non lasciando
un solo istante la mia mano.
Il loro sguardo mi
rimarrà impresso nella memoria per sempre: quanto vorrei
poter fare qualcosa di più per loro, poterli portare a casa
e accudirli...
Cercherò di
recarmi tutte le settimane in orfanotrofio, e farò di tutto
affinché trovino al più presto una famiglia.
E, ora, veniamo a un
avvenimento che ci tocca più da vicino, poiché
riguarda Nicolò: è sempre più strano,
nonna, ha in testa un sacco di sciocchezze sugli austriaci e la
libertà del popolo italico, idee che mi fanno molta paura.
Questa mattina, a
colazione, lui e papà hanno di nuovo litigato, in quanto la
mamma ha ritrovato l’ennesima rivista de “Il
Fischietto” dietro uno dei cuscini del sofà: lei
ha fatto finta di niente, all’inizio, rimandando a
più tardi i soliti rimproveri da elargire.
Ma, quando il
papà è sceso per sedersi a tavola, ha udito
qualche stralcio della conversazione tra Nicolò e la mamma,
la quale non è riuscita a starsene zitta e… vi
lascio immaginare le urla di tutti, solo io e le cameriere siamo dovute
rimanere in silenzio, altrimenti chissà come sarebbe andata
a finire, gli schiaffi sarebbero toccati anche a noi.
E’ stata una
scena molto triste ed improvvisa: non voglio farvi preoccupare, nonna,
ma la situazione è stata così piena di amarezza
che ho bisogno di sfogarmi con qualcuno.
Adesso Nicolò
è uscito di casa, dicendo che sarebbe andato al circolo dei
giovani letterati, una sorta di associazione culturale che, a mio
avviso, gli ha fatto il lavaggio del cervello.
Nessuno di noi
è riuscito a trattenerlo, anzi, si è portato
appresso persino la rivista incriminata.
Per finire, nonna, ho da
raccontarvi ancora una cosa: questa sera siamo stati invitati dai conti
Cabrino, clienti di papà, per una veglia danzante.
Ci sarà l’orchestra, ovviamente, e prima
verrà allestito un breve spettacolo teatrale, almeno
così hanno scritto sul biglietto che ci è stato
recapitato.
Spero di divertirmi,
anche se nutro ben poche speranze: l’opera lirica
“L’elisir d’amore” di cui vi ho
parlato nella precedente lettera, mi ha talmente entusiasmato, che non
penso riuscirò a dimenticarla.
Perdonatemi, solo ora mi
sono accorta di non aver smesso un attimo di parlare di me e dei
problemi che mi affliggono: voi come state, cara nonna?
Com’è il tempo? Qui, per fortuna, non vi
è più nebbia, ma solo foschia, soprattutto la
sera: le giornate, lentamente, stanno diventando sempre più
chiare e lunghe.
Non vedo l’ora
di poter ritornare da voi, di potervi parlare di persona, di
abbracciarvi.
Sono curiosissima di
vedere il mio nome accanto al vostro, nell’insegna de
“Il Collegio Mellerio” e de
“L’Opera pia per la salute dei
fanciulli”: la vostra idea è stata davvero
generosa e mi ha commosso, tanto più che il sindaco, il
signor Bagnasco, ha accettato così repentinamente il vostro
suggerimento di appena un paio di settimane fa.
Mi mancate molto, per
questo ho deciso di allegarvi una copia dell’ultimo brano che
il maestro Rossini mi ha insegnato: a proposito, non è
l’uomo nero di cui vi ho parlato un paio di lettere fa, il
becchino che incute timore, tutt’altro, è un
ottimo musicista –forse, più del signor Moretti- e
un piacevole conversatore, tanto più da quando mi ha
confidato di avere una figlia lontana, nelle isole inglesi.
Fatemi sapere se la
sonata è di vostro gradimento: mi immaginerò di
essere accanto a voi, mentre la eseguirete.
Vi bacio teneramente e
vi invio i miei più affettuosi saluti,
Costanza
Nicolò entrò come un fulmine al circolo: si
guardò intorno alla ricerca dell’amico
Maffucci, invano.
Fece qualche passo verso il salottino da fumo, ma non era neppure
lì.
Salì le scale, i gradini di marmo rivestiti da un lungo
tappeto rosso e blu, fino ad arrivare alle stanze in cui, dopo un certo
orario, la sera ci si poteva intrattenere con una
“piacevole” compagnia, composta da amabili
signorine con le quali trascorrere la notte.
Aprì tutte le porte che trovò sul piano, quindi
ridiscese dabbasso.
Il figlio del notaio appariva impazzito, gli occhi scuri che
analizzavano la corporatura di tutti i presenti, alla ricerca del capo
degli affiliati.
Domandò a un paio di camerieri che si stavano dirigendo
verso la sala ristorante, i vassoi con dello champagne
nell’apposito secchiello, ma anche loro non seppero
riferirgli dove fosse Eugenio.
Nicolò stava perdendo le speranze, così si
lasciò sprofondare in una delle poche poltrone libere: la
morbida pelle con cui era rivestita, gli diede immediatamente conforto, facendolo
calmare almeno per qualche istante.
Socchiuse gli occhi e si passò una mano tra i folti capelli
ricci: aveva bisogno di parlare con qualcuno, doveva sfogarsi con una
persona di fiducia, ma nessuno dei loro compagni si trovava al circolo.
Recuperò dalla tasca interna “Il Fischietto”,
sfogliandolo meccanicamente: si chiese come un giornale, un innocuo
ammasso di carta stampata, avesse potuto far così tanto
infuriare i suoi genitori.
Suo padre era diventato un uomo ottuso, altro che vantarsi di aver conosciuto Mazzini e di aver preso parte alla Carboneria, che non riusciva a comprendere
l’importanza di un’azione mirata contro quei porci
degli Austriaci, né comprendeva quanto fosse fondamentale, addirittura
vitale, che scoppiasse una guerra, una guerra di liberazione per
l’Italia intera.
Rifletté anche sul comportamento che aveva tenuto la madre,
da stupida signora annoiata che le imponeva il suo rango sociale, una
donna che si spaventava per nulla, solamente in grado di strillare e di
elargire inutili quanto dannose minacce.
Si tranquillizzó ripensando alla settimana precedente, quando al vecchio rifugio segreto era stato elogiato da
Maffucci per essere riuscito ad imparare a memoria, nel tempo
prestabilito, la lista di nomi dei nuovi affiliati della provincia:
aveva dovuto recitare i dati davanti al resto del gruppo, come una
noiosa e lunga poesia, ma vi era brillantemente riuscito.
Non aveva avuto incertezza alcuna, perché, nei sette giorni
antecedenti, quasi non aveva dormito la notte, pur di riuscire nel
compito che gli era stato affidato: ogni mattina, subito dopo
colazione, si chiudeva nelle sue stanze, e cominciava a leggere quei
nomi, poi li ripeteva ad alta voce, mormorando perché
nessuno lo sentisse, quindi di nuovo, e ancora e ancora, fino
all’ora di pranzo.
Il pomeriggio, fino a sera, la storia si ripeteva:
quell’elenco se lo sognava persino la notte, lo biascicava
nel buio, prima di andare a dormire, come una nenia infantile, come le
preghiere che la madre gli aveva insegnato da bambino.
Sentì le campane di una delle tante chiese sparse per la
città risuonare dieci rintocchi: perché è
ancora così dannatamente presto? si
domandò il ragazzo.
Dove avrebbe potuto andare? Lì, si sentiva al sicuro, certo,
ma non era come a Santa Maria Maggiore, dove quando c’era
qualcosa che lo preoccupava, quando voleva semplicemente liberare la
mente dai pensieri, si recava a passeggiare per le ampie valli
incastonate dalle montagne, in mezzo alla natura più
autentica, tra le abetaie, rifugio sicuro per i nidi dei picchi, fino
a riuscire ad udire i versi striduli delle aquile.
A volte, doveva ammettere che sua sorella aveva ragione: quella
libertà di cui godevano quando vivevano in paese, purtroppo,
in città non erano più padroni
di usufruirne. E poi, gli mancavano le partite a carte con nonna Maria e...
“Eccolo qui il mio amico Granieri!”
“Maffucci, sei proprio tu?!”
Nicolò si alzò dal divanetto e gli
andò incontro, abbracciando Eugenio, stupito da quella
dimostrazione d’affetto in pubblico.
“Ti prego, ho bisogno di parlarti. Hai tempo da
dedicarmi?”
“Per te sempre, caro compagno! Forza, seguimi!”
I due giovani salirono le scale ed entrarono in una delle numerose
stanze: era piccola, con il mobilio bianco e le tende spumose verdi.
“E’ da un po’ che ti aspettavo, credevo
che oggi non saresti venuto al circolo …”
“Ma che dici? Oggi è domenica, come potrei non
venire? E poi, devo tenere la mente libera: questa sera mi
incontrerò con la mia bella Elvira! Ti ricordi quel fiore di
ragazza che ti ho presentato la scorsa settimana? Questo è
il nostro nido d’amore, caro mio! Sapessi quanto ci divertiamo insieme…”proseguì trasognato.
“Sì sì, mi ricordo di lei e della sua
bellezza, ma sono qui perché ho bisogno di aiuto, Eugenio.
Ho litigato con mio padre, stamane, e non ho intenzione di tornare a casa. Puoi
aiutarmi a trovare un posto in cui sistemarmi per qualche
giorno?”
Maffucci si tolse il cappello nero e lo appoggiò sul
comò.
Guardò con fare falsamente allibito l’interlocutore davanti a
sé: i suoi occhi scuri e magnetici squadrarono
l’amico dalla cima dei capelli alla punta degli stivali,
perfettamente lucidati; si lisciò i baffetti tagliati
accuratamente, per poi scoppiare in una fragorosa risata, rivelando dei
denti bianchissimi e regolari.
“Di cosa parli, Granieri?!”
“Non chiamarmi così! Da adesso sarò
solo Nicolò: non voglio avere più niente a che
fare con la mia famiglia!”
L’altro giovane gli si avvicinò, regalandogli una
pacca sulla spalla sinistra.
“Ascoltami, sei tra i più validi e fedeli compagni
che possiamo vantare, per questo devi cercare di mantenere un certo
contegno: niente idee azzardate, niente colpi di testa o sciocchezze varie.
Abbiamo bisogno anche dell’appoggio economico di tuo padre per realizzare i nostri progetti…”
“Ma lui non condivide i nostri ideali! Guarda!”
continuò con fervore, mostrandogli il giornale che aveva
scatenato quell'inaspettato putiferio.
“E allora? Il
Fischietto è una semplice rivista satirica, una
testimonianza sincera ed accurata di ciò che succede in
questo mondo ingiusto! E’ normale che, davanti ad esso, molti
borghesi -e non solo, ti assicuro- storcano il naso e chiudano gli occhi: temono la
reazione del popolo, la vera rivoluzione che presto
arriverà! Lo capisci?”
Maffucci recuperò dalla tasca interna
dell’elegante giacca che indossava -un completo di lana blu
notte- un sigaro tra i più costosi in circolazione, e lo offrì con una strizzatina d'occhio a Nicolò, che lo
scaraventò per terra.
Eugenio rimase sconcertato per un istante, poi sorrise, si
abbassò e lo recuperò: si
voltò di spalle e, sbirciando in un portagioie di porcellana
bianca, che aveva tutta l'aria di conoscere molto bene, recuperò un
fiammifero con cui accese senza fretta il sigaro.
“Fatti dare un consiglio disinteressato: non ti azzardare a comportarti mai
più in questo modo, mai più, perché la prossima volta
sarai tu a finire sul pavimento. Intesi?” precisò con voce
bassa e roca.
Si voltò e si avvicinò verso l’altro:
gli mise una mano su un braccio, guardandolo dritto negli occhi, quindi
continuò.
“E’ vero, io sono tuo amico, ma ricordati che mi
devi portare rispetto. E ora, andiamo! Fatti offrire da bere!”
Nicolò rimase impalato davanti ad Eugenio, ritornato gioviale e sorridente come sempre. I pugni stretti e
lo sguardo abbassato sugli eleganti stivali neri di Maffucci, si
sentiva le gote avvampare, una rabbia crescente farsi largo nel suo
corpo.
Uscì senza guardarlo, sbattendo rumorosamente la porta, e giurando che non l'avrebbe data vinta a nessuno, né al padre né a quel damerino di avvocato donnaiolo.
NOTA DELL'AUTRICE:
Ciao a tutti, cari miei lettori! Vi lascio con le solite note storiche,
ringraziandovi immensamente del supporto che mi donate, leggendo la mia
storia!
Mi rendete tanto, tanto felice!
L'orfanotrofio maschile Dominioni venne fondato a Novara nel 1792, da Francesco Dominioni, capitano di origine milanese.
Rimase attivo fino agli Ottanta del secolo scorso, per poi essere
progressivamente abbandonato, fino a quando, nel 1994, venne passato di
proprietà, dalla giurisdizione del Comune all'Archivio di Stato.
Tutto ciò che ho scritto su questa "pia istituzione"
è autentico!
"Il Fischietto-Bizzarrie d'attualità", invece, è
stata una rivista satirica pubblicata per la prima volta nel 1848, a
Torino. Divenne quotidiano solamente cinque anni dopo, e
rappresentò un importante esempio di appoggio risorgimentale
alle vicende della penisola, sebbene sostenesse apertamente solo la
politica di Cavour e decisamente meno le imprese garibaldine.
Nel 1916 cessò le pubblicazioni, nonostante una debole
ripresa nel 1923, andata poi a vuoto.
Il primo numero, novembre 1848
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Capitolo 7 *** La festa di compleanno ***
Chiunque
voglia sinceramente la verità, è sempre
spaventosamente forte.
(Fëdor
Michajlovic Dostoevskij, Mosca 1821-San Pietroburgo 1881)
Donna Luisa aveva appena bevuto un bicchierino di rhum: era
un’abitudine che aveva acquisito da qualche mese, da quando,
per sbaglio, lo aveva scambiato per il liquore alla pesca che si faceva
preparare appositamente da una piccola distilleria di Santa Maria
Maggiore.
Aveva avuto un colloquio assai spiacevole con il maestro Rossini,
quella mattina, prima di pranzo, per questo era così
nervosa, e aveva bisogno del sapore aromatico del rhum.
Dopo che Costanza era uscita dallo studiolo dove si tenevano le sue
lezioni di pianoforte, la contessa Caccia aveva atteso che
l’insegnante di musica rimanesse da solo, per potergli
parlare del suo benestare a corteggiare la figlia.
L’uomo era stato assai scaltro, in quanto aveva
già compreso quale piega stava per prendere la
conversazione, quindi, con la scusa di dover scrivere una lettera assai
importante, si era dileguato verso la dépendance che gli era
stata messa a disposizione, nel parco del palazzo, lasciando la moglie
del notaio con un pugno di mosche in mano.
“Quel borioso,
così pieno di sé! Come si permette di trattarmi
in questo modo e, soprattutto, di rifiutare la mano della mia
Costanza?! Una ragazza tanto virtuosa e giovane, di ottima famiglia,
erede dei conti Caccia, trattata come la più infida delle
meretrici! O bontà divina, aiutaci tu!”
Donna Luisa trangugiò un altro mezzo bicchierino di rhum, la
bottiglia appoggiata sul vassoio in argento sopra il tavolino di legno,
vicino alle vetrate del salottino da fumo.
Si sedette su una delle tre poltroncine di velluto chiaro, riflettendo
sul da farsi.
“Di certo non
posso mandare via un tale genio della musica solamente per una
questione amorosa. Inoltre, a pensarci bene, è troppo
vecchio per la mia unica figlia. Un uomo di mondo come lui, un
personaggio del suo calibro, abituato a viaggiare in continuazione, in
gioventù sarà stato come i marinai, una donna in
ogni porto! Per il momento, cercherò di mandare
giù il boccone amaro che mi ha servito, pensando ad una
soluzione alternativa. A tutto il resto penserò
più avanti!”
Soddisfatta delle sue elucubrazioni, la contessa si alzò
dalla poltrona e, indecisa se versarsi per la terza volta quel liquore
tanto gustoso, alla fine optò per uscire e andare in
città.
Aveva ancora molte cose da compiere prima di quella sera, per cui
doveva sbrigarsi.
Ordinò che la carrozza venisse preparata e, intanto,
andò nelle sue stanze a cambiarsi d’abito.
Il salone da ballo era quanto di più luminoso Costanza
avesse mai visto: la cena era stata lunga e noiosa, la tavolata
composta da commensali che non conosceva minimamente.
Le portate sembravano in numero infinito, la maggior parte delle quali
non erano neppure di suo gradimento, ma adesso, finalmente, la serata
stava prendendo la giusta piega, adatta alle sue aspettative.
Vi era un’abilissima orchestra composta da flauti, violini e
pianoforte che intratteneva piacevolmente gli ospiti, mentre dozzine di
coppie si apprestavano a volteggiare al ritmo di valzer, creando
vertiginosi cerchi di abiti colorati.
Più tardi, si esibì anche una cantante di mezza
età, i capelli rossi raccolti in un’elaborata
acconciatura, elegantissima in una lunga quanto pomposa veste nera,
ricca di dettagli in pizzo.
Il viso era molto bello, peccato fosse spalmato di cerone, e la bocca
carnosa, non appena cominciò ad intonare soavi arie liriche,
romanze e barcarole, calamitò l'attenzione dei presenti.
Poco prima della mezzanotte, uno stuolo di camerieri spense tutte le
candele presenti nel salone, per poi apprestarsi a portare la torta di
compleanno per festeggiare degnamente il signor conte.
Aldo Caccia, infatti, quel giorno di inizio marzo, compiva
sessantotto anni, due in meno di quanti credeva Costanza, il primo
giorno che lo aveva incontrato, ormai un mese e mezzo addietro.
Era un uomo assai schivo, ma generoso con i più bisognosi e
non solo: la nipote aveva subito notato una luce affettuosa
attraversargli gli occhi cerulei, ogni qual volta si rivolgeva ai
più giovani, come se fosse felice di vedersi circondare da
tanta gente ancora nel fiore degli anni.
Non amava parlare molto, tuttavia, quando necessario, dispensava sempre
parole buone verso i suoi interlocutori, la voce bassa e roca, la
cadenza suadente che ipnotizzava l’uditorio.
Aveva delle mani lunghe, molto magre, come le dita affusolate che
apparivano quasi ossute, con cui aveva il vizio di toccarsi i pochi ma
folti ciuffi arancioni che ancora poteva vantare in testa, ogni qual
volta non era d’accordo con qualcosa che veniva detto.
Parte delle candele vennero riaccese e, all’istante, si
levò in aria un caloroso quanto spontaneo applauso da parte
degli invitati.
Accanto allo zio Aldo vi era la zia Rosa, che gli stampò un
casto bacio sulla guancia sinistra.
Costanza riuscì ad intravedere più avanti i suoi
genitori e il fratello, che era stato quasi trascinato a forza a quella
festa, poiché, da quando era accaduto quel tremendo litigio
a causa de "Il Fischietto",
una decina di giorni prima, Nicolò si limitava a trascorrere
pochissimo del suo tempo a palazzo, preferendo rintanarsi
chissà dove.
Quella notte, il giovane aveva vagato per le strade della
città, ritornando a casa solamente un paio di ore prima
del tramonto, cercando di fare la parte del figliol prodigo e pentito.
Avrebbe voluto ubriacarsi, per dimenticare l'amarezza di quella
domenica, ma in realtà non voleva che la sua mente cadesse preda
dell'oblio dell'alcol, annebbiandogli i sensi e la lucidità
di cui era così orgoglioso...
La sorella stava per avvicinarsi alla sua famiglia, per andare
nuovamente a rinnovare i propri auguri allo zio della madre, quando
avvertì una presenza dietro di lei, una mano che le sfiorava
un braccio.
La ragazza si voltò e si ritrovò a fissare gli
occhi azzurrissimi del cugino Pietro.
“Vi state divertendo?” le domandò
sottovoce, sussurrandole ad un orecchio, poiché gli applausi
stavano scemando solo in quel momento e, mentre una mezza dozzina di
camerieri si affrettava a tagliare la torta, l’orchestra
aveva efficientemente ripreso a suonare.
“Sì, grazie. L'organizzazione è davvero
impeccabile, vi faccio i miei complimenti”
Costanza s'irrigidì, non riuscendo a reprimere un brivido
che le attraversava la schiena, principescamente avvolta da un abito
blu ciclamino.
“Grazie, ma il merito è di mia madre. Lei ci tiene
sempre a fare bella figura con gli ospiti. Invece, permettetemi di
ringraziare voi e la vostra famiglia per aver partecipato ai
festeggiamenti. Non vi ho quasi vista per l’intera serata:
con tutta questa gente, ho dovuto assolvere al mio ruolo di
primogenito, quindi scusatemi se non sono venuto prima a
salutarvi”
La giovane non sapeva che cosa rispondergli: ogni volta che lo
incontrava, lo trovava sempre più strano, il suo
atteggiamento all’inizio era sfuggevole, per poi rivelarsi
premuroso ed attento, proprio come in quell'occasione.
“Non dovete crucciarvi. A tavola, ho avuto una buona
compagnia…” mentì, mentre ritornava a
fissare davanti a lei.
“Mi fa piacere. E’ da quella sera a teatro che non
abbiamo avuto occasione di incontrarci… siete
più andata ad assistere a qualche altro spettacolo? Anzi, a
tal proposito, se vorrete allietarmi con la vostra piacevole compagnia,
domenica prossima daranno “Il barbiere di Siviglia”
di Gioacchino Rossini. Lo conoscete?”
La ragazza annuì, disse che, seppure non conoscesse la
trama, ne aveva sentito parlare.
“Sapete qual è la cosa buffa? Il mio maestro di
pianoforte si chiama Rossini, ma mi ha rivelato di non essere
imparentato con il famoso compositore, anche se lui, da quanto hanno
riferito a mia madre che l’ha scelto, è assai
stimato: ha lavorato a Milano, Venezia, Ravenna, persino a Londra!”
concluse con un sorriso di ammirazione la giovane, sentendosi
maggiormente a suo agio rispetto a solo qualche attimo prima.
“E’ da tanto che suonate?”
continuò Pietro, prendendo i due piattini con la fetta di
torta che gli stava porgendo un giovane cameriere in livrea.
“Sì, abbastanza. Sono dieci anni. Quando abitavo a
Santa Maria Maggiore, il signor Moretti, il mio insegnante, mi dava
anche lezioni di canto”
Costanza cominciò a sbocconcellare di gusto il dolce alla
crema, aspettando che il cugino dicesse qualcosa.
“Non mi avete risposto, però. Verrete a teatro con
me?”
La ragazza alzò il viso verso di lui e, posando la forchetta
in argento, annuì.
“Se i miei genitori me lo permetteranno, sarà un
onore. Vi ringrazio fin da adesso per la possibilità che mi
state offrendo...”
Dopo un paio di minuti, quando entrambi finirono di mangiare e bevvero
un calice di champagne portato da un altro cameriere, questa volta di
mezza età, Pietro riprese la parola:
“A proposito de “Il barbiere di Siviglia”,
la scorsa settimana mi è stato regalato un libro di uno
scrittore russo, in cui vi è un accenno all’opera
di Rossini. L’autore è un tale Dostoevskij, non
credo lo abbiate mai sentito nominare”
“No, in effetti non lo conosco…”
“Comunque, il titolo del volumetto è "Le notti bianche":
è un romanzo molto breve, meno di un centinaio di pagine, ma
credo sia più adatto ad una giovane fanciulla come voi che a
uno come me. Sapete, si parla di sogni, di amore…”
La cugina rimase per un attimo interdetta: che cosa stava cercando di
insinuare? Che lei fosse una stupida ragazzina con la testa piena di
frasi e idee tratte da inutili romanzetti feuilleton?
“Credo abbiate sbagliato genere di persona, Pietro”
“Oh, non credo. Vedete, io intendevo dire…“
“Se avete voglia di prestarmelo perché lo
considerate un buon libro, allora accetteró volentieri il vostro gesto.
Altrimenti, potete anche risparmiarvi la fatica di andare a
recuperarlo!”
Costanza si stupì delle parole che aveva appena pronunciato:
era la frase più audace che avesse mai pronunciato in vita
sua, soprattutto perché rivolta ad un uomo che, in pratica,
conosceva da meno di due mesi.
Arrossì ed era già pronta per ribattere,
scusandosi dell’impetuosità con cui gli aveva
risposto, ma il giovane si arrese ad una specie di sorriso, una smorfia
che perlomeno gli assomigliava vagamente.
“Avete ragione, sono stato maleducato a pensare che voi foste
quel tipo di donna. Perdonatemi, davvero. Se volete accompagnarmi in
biblioteca, sarà mia premura donarvelo già questa
sera”
Lei annuì e lo seguì, dietro di loro i primi
ospiti che tornavano a casa.
“Eccolo qui!” esclamò il cugino,
mostrandole il libriccino, un volume rilegato ma davvero poco corposo.
“Grazie, lo comincerò a leggere quanto prima. Se
domenica dovessi venire con voi a teatro, vi farò sapere
come l’ho trovato”
La musica continuava qualche stanza più in là,
come un sottofondo molto attutito, il chiacchiericcio degli invitati
ancora rimasti che riecheggiava lontano.
“Perché non avete voluto dirmi nulla di vostro
fratello e di Nicolò?” domandò
improvvisamente la ragazza, guardandolo negli occhi.
“Quella sera all’opera mi sono accorta di come li
guardavate, mentre stavano litigando. Voi sapete qualcosa, non è così? Vi
prego, ditemi la verità! Sono molto preoccupata per questa
rivoluzione che dicono ci sia nell’aria, per una guerra che
mio fratello farnetica come fosse una profezia…!”
Pietro richiuse la vetrinetta di un’anta della biblioteca,
poi ripose la chiave in un elegante portacenere argentato, quindi
fissò lo sguardo impenetrabile in quello della cugina.
“Non so cosa dirvi. Li ho veduti che stavano discutendo,
certo, ma come li avete notati voi: credetemi, la mia era semplice
curiosità…”
"Penso invece ci sia qualcosa che non mi avete detto, qualcosa di
importante che…”
La porta della stanza si aprì all’improvviso,
lasciando entrare Federico, il secondogenito dei Caccia.
“Cugina cara, i vostri genitori vi stanno cercando! Sapendo
da mia madre quanto amate i libri, ho avuto la giusta intuizione di
venirvi a cercare qui! Allora, volete seguirmi?”
Poi, vedendo il fratello in piedi a pochi passi di distanza dalla
ragazza, le si rivolse bonariamente:
“Lasciate stare Pietro! E’ sempre così… noioso e melanconico! Stasera mi avete fatto davvero
felice ballando con me! Quasi non ci potevo credere!”
Costanza lanciò un’occhiata verso
l’altro giovane, impassibile, le mani dietro la schiena,
quindi, il libro ben stretto contro il vestito blu ciclamino, si decise
a seguire il cugino minore, non contenta della vaga risposta che aveva
ottenuto.
QUALCHE
NOTA ...
"Le
notti bianche-romanzo sentimentale" è un racconto breve di
Fëdor Dostoevskij, scritto nel 1848, l'anno prima
dell'ambientazione della storia.
Il
titolo rimanda alla peculiarità della Russia del nord, in
cui il sole, per un determinato periodo dell'anno, tramonta dopo le 22,
per il cosiddetto fenomeno del "sole di mezzanotte" o, appunto, delle
notti bianche.
Per
quanto riguarda Rossini e il suo "L'elisir d'amore", ne
parlerò nel capitolo dedicato!
A
presto!
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Capitolo 8 *** L'incontro ***
Don Armando Granieri aveva appena salutato l’ultimo cliente
della mattinata: grazie alle vecchie conoscenze della moglie, donna
Luisa, e a quelle più influenti degli zii di lei, i conti
Caccia, era riuscito ad ottenere un discreto giro
d’affari anche in quella nuova città, diventando
ben presto un punto di riferimento per le questioni burocratiche
dell’intera comunità.
Nonostante la notorietà negli ambienti nobili e alto
borghesi, nelle ultime settimane il notaio era sempre pensieroso e meno
interessato agli affari: la sua preoccupazione era dettata dallo strano
comportamento del primogenito, Nicolò, l’unico
maschio che ancora poteva vantare, dopo la morte in culla
dell’altro maschio, quasi trent’anni addietro.
L’uomo, seduto sull’elegante scranno intarsiato, i
gomiti poggiati sui braccioli, guardò la marea di carte e
documenti davanti a lui, ben impilati sulla scrivania di ciliegio, gli
occhi chiari fissi sul calamaio e una dozzina di buste che aveva
ricevuto per delle consulenze.
Si passò una mano sulla fronte, da cui spuntava una chioma
di un biondo sbiadito, intessuta di fili grigi: che cosa avrebbe dovuto
fare perché Nicolò rinsavisse,
affinché ritornasse il giovane sorridente e goliardico di
qualche mese addietro?
Era seriamente in ansia e disorientato per quella spiacevole
situazione, per la quale non riusciva trovare soluzione alcuna.
Si alzò, lo sguardo basso, e si diresse verso la finestra
alle sue spalle, che si affacciava sulla chiesa della Santissima
Trinità al Monserrato: scostò i tendoni bianchi e
pesanti, dando un’occhiata alla strada dabbasso, sul cui
lastricato passeggiavano eleganti coppie, giovani dal passo svelto e
carrozze che si disperdevano lungo Corso Sempione.
Il notaio Granieri, le mani dietro la schiena, socchiuse gli occhi:
avvertì nettamente i rintocchi del campanile, distante solo
pochi metri, che lo avvisava che era già mezzodì,
per cui avrebbe dovuto affrettarsi per ritornare a palazzo, in tempo
per il pranzo.
Il pomeriggio aveva preso un paio di appuntamenti abbastanza
importanti, per cui non poteva arrivare in ritardo:
riposizionò le tende e agguantò la pesante giacca
di lana nera che aveva appoggiato sullo schienale della poltrona,
pronto per uscire.
Stava passando davanti alle vetrine della biblioteca che esponevano
pregiati volumi di diritto romano, quando uno stralcio della
conversazione con il signor Santini, uno degli imprenditori
più influenti della città che aveva ricevuto in
mattinata, gli tornò alla mente:
“Sapete,
notaio Granieri, sono venuto a conoscenza che, certi galantuomini, se
vogliamo definirli in questo modo, per tenere sotto controllo le loro
consorti dalle abitudini un po’ troppo libertine, assumono
regolarmente degli ispettori… no, aspettate, si
chiamano investigatori, sì, qualcosa del genere. Non la
trovate una cosa buffa e geniale al contempo? I miei conoscenti mi
hanno riferito che questi servigi si possono trovare in un piccolo
ufficio, un bugigattolo più che altro, a piazza delle Erbe… voglia il Cielo che noi non ne dobbiamo mai avere bisogno!”
Don Armando si fermò per un istante, il bastone da passeggio
ben saldo nella mano destra.
Aveva deciso: se suo figlio non avesse dato segnale di rinsavimento,
nel giro di un tempo ragionevole che si sarebbe preoccupato di fissare
successivamente, avrebbe contattato una di quelle specie di guardie,
perché lo seguisse e gli comunicasse dove e con chi si
incontrava.
Annuì tra sé e sé ed uscì
dallo studiolo, scendendo i gradini di pietra con maggiore leggerezza
rispetto a poche ore prima.
Federico Caccia era appena sceso da cavallo: legò
le redini all’apposito anello di ferro fissato nel muro,
quindi si guardò intorno alla ricerca dell’uomo
che stava aspettando.
Avevano scelto il Palazzo del Mercato, la sede municipale per la borsa
dei grani, poiché era un luogo piuttosto affollato, che
garantiva un viavai pressoché continuo.
Era da pochi minuti passato mezzodì, quindi
cominciò a sperare che l’incontro si svolgesse in
breve tempo: a palazzo aveva lasciato detto che sarebbe rientrato per
il pranzo e, sebbene distasse meno di venti minuti al trotto, temeva
che un possibile ritardo potesse destare qualche sospetto nei genitori
e, ancora di più, nel fratello Pietro.
“Sono stanco
dei suoi rimproveri” si ritrovò a
pensare il giovane, passeggiando avanti e indietro “non fa altro che ripetermi che
devo scegliere, che devo decidere da che parte stare! Ma io sono certo
della mia decisione; anzi, ben presto saranno loro ad accorgersi, lui e
tutti quelli come lui, che la soluzione migliore è non fare
niente, lasciare che la corrente trascini ogni cosa, se non vogliamo
affondare inutilmente!”
Federico si guardò in giro per l’ennesima volta,
sperando di non incrociare alcun conoscente: finalmente, dopo una
decina di minuti che era lì ad aspettare, un uomo gli si
avvicinò, i capelli scuri arruffati e gli occhi neri come la
pece.
Doveva avere una quarantina d’anni, era piuttosto alto e di
corporatura robusta, e indossava un abito di seconda mano, per nulla
elegante: strinse con forza la mano del giovane, di mezza spanna
più alto e decisamente dal fisico più asciutto.
Anche lui si guardò intorno con aria circospetta, avvicinandosi come se nulla fosse, in modo da non attirare sguardi inopportuni su di sé.
“Scusate il ritardo… ho avuto delle faccende da
sbrigare, prima di venire qui. Ho ricevuto delle informazioni molto
importanti, ma venite: è meglio allontanarci di qualche
passo e mischiarci ai galantuomini che stanno entrando”.
Il ragazzo annuì e seguì il misterioso avventore,
la folla di commercianti ed imprenditori che si apriva davanti a loro.
QUALCHE NOTA STORICA ...
Ciao a tutti e buonissima Pasqua, cari lettori!
La prima immagine a sinistra è Corso Sempione, il lungo
viale a cui è affacciato il notaio Granieri, dalla finestra
del suo studio!
Quella in mezzo, con il tetto triangolare, è la
chiesa della Santissima Trinità al Monserrato.
La foto sulla destra, invece, rappresenta Palazzo Orelli, con i suoi
porticati: venne progettato dall'architetto Luigi Orelli, tra il 1816 e
il 1842.
Veniva anche definito palazzo del Mercato, perchè era sede
del foro per la contrattazione dei grani; oggi è sede della
Borsa dell’agricoltura.
E' un edificio a pianta quadrata, arricchito da un loggiato che corre
lungo tutti i lati.
Sorge sul lato settentrionale di Piazza Martiri (il parcheggio che
s'intravede anche nella foto), ma la facciata principale è
quella rivolta su corso Italia, caratterizzata da due rampe di scale ed
un frontone decorato con un altorilievo in arenaria e marmo,
raffiguranti le scene de "Il trionfo di Cesare e Bacco", e le immagini
de "L'Acqua, la Terra e l'Amor patrio".
Infine, Piazza Cesare Battisti, anticamente chiamata Piazza
delle Erbe, perchè fino al 1900 si trovava
un'edicola di legno a due ante contenente un quadro di S. Lorenzo
martire, particolarmente venerato dagli erbivendoli e fruttivendoli
novaresi.
Piccola curiosità: la piazza si estende secondo una precisa
disposizione geometrica, formado un triangolo "geodetico", centro
convenzionale della città e cioè il punto da cui
è possibile misurare le distanze precise da Novara alle
altre città, grazie ad una pietra di granito, che venne
rubata nel 1992 e ritrovata qualche mese dopo da un sacerdote che disse
di averla ritrovata nel suo confessionale ...
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Capitolo 9 *** L'incendio ***
Datemi una lista della
lavanderia,
ed io ve la
metterò in musica.
(Gioacchino
Rossini, compositore italiano, Pesaro 1792- Francia 1868)
Santa Maria Maggiore, domenica 11 marzo 1849
Cara nipote,
ti scrivo per
comunicarti che è avvenuta una cosa molto triste: ieri
notte, purtroppo, le cantine del palazzo e parte del piano terra sono
andati a fuoco.
Insieme alla
servitù, sono immediatamente uscita per capire che cosa
stesse succedendo, ma sono stata bloccata dalle numerose lingue di
fuoco che si stavano propagando, subdole ed arroganti, illuminando
sinistramente ogni cosa, come fossimo in pieno giorno.
Subito ho mandato
Giuseppe alla ricerca di quanti più secchi d'acqua riuscisse
a trovare, per spegnere quel doloroso spettacolo della natura: tutti,
cara Costanza, si sono dati da fare per aiutarmi in quel compito che
è stato davvero straziante ed infinito.
All’inizio,
erano circa le tre del mattino quando tutto è cominciato,
eravamo appena una decina a cercare di domare le fiamme, ma pochi
minuti dopo, anche i domestici dei conti miei vicini e loro stessi sono
intervenuti per aiutarci.
Nel giro di
mezz’ora o poco più, siamo riusciti a spegnere l’incendio: quando
tutto è finito, ci siamo accasciati senza forze al suolo, parte del
prato che ci circondava bruciato.
Ricordo ancora l'intenso odore
che impregnava le nostre narici: i capelli ci ricadevano arruffati e
sporchi di fuliggine sulla fronte, e non provavamo alcun imbarazzo per
avere ancora indosso camicie e vestaglie, poiché non abbiamo
avuto nemmeno il tempo di cambiarci d'abito… per un solo
istante, Costanza, ho creduto di sognare, ho pregato di sognare, per
non dover sopportare tutta quella distruzione e quel dolore che sentivo
straziarmi il cuore e la vista.
Grazie al Cielo, non ci
sono stati danni alle persone e neppure agli animali nelle stalle:
tutti noi stiamo bene, ma le botti che quest’autunno
avrebbero dovuto ospitare il mosto da fermentare, sono state distrutte,
così come i due calessi e gli attrezzi agricoli custoditi in
una delle cantine.
Metà delle
riserve di formaggio sono andate perdute, le altre sono immangiabili -
o comunque gravemente danneggiate-, senza contare la tappezzeria e un
paio di tappeti dell’ingresso completamente irrecuperabili.
Tutto il lavoro che i
miei contadini hanno fatto, il loro impegno e le mie risorse sono state
spazzate vie da una mano assassina: questa mattina, infatti, prima
dell’alba, Giuseppe è stato tanto premuroso da
recarsi dal comandante della Guardia Civica, affinché
giungesse al più presto a palazzo per effettuare un
riscontro di ciò che era accaduto.
Egli mi ha assicurato
che il nostro non è stato l’unico
episodio a verificarsi, nell’ultima settimana, ma non si
è ancora capito se tali incidenti siano da ricondursi ad un
gesto vile e codardo, oppure se sono il frutto di una
pura quanta malvagia casualità.
Il comandante mi ha
promesso che continuerà ad indagare e che mi
terrà aggiornata, invitandomi a trasferirmi per un periodo a
Milano, dove è venuto a sapere che sono proprietaria del
palazzo del mio defunto zio Giacomo.
Ho precisato che, in
realtà, non è di mia proprietà, ma del
ramo collaterale dei Cavazzi della Somaglia e… perdonami, sarà bene che la smetta di importunarti con questi
noiosissimi ed inutili discorsi di vecchia signora.
Dunque, vi è
un’altra cosa che ho da segnalarti, cara nipote, decisamente
più leggera: l’altro giorno sono andata
all’Istituto della Carità dei frati rosminiani
–gli stessi che gestiscono anche il Collegio Mellerio-,
presso il Monte Calvario, sopra Domodossola.
Abbiamo atteso invano
l’arrivo di padre Antonio Rosmini, il fondatore della
congregazione, poiché ero stata invitata appositamente per
conoscerlo: mi sono consolata con la certezza che, prima o poi,
verrà il momento in cui potrò incontrarlo.
Spero che almeno tu,
Costanza, stia bene: le tue preoccupazioni riguardo Nicolò
non mi hanno fatto dormire sonni tranquilli, lo ammetto, ma sono
convinta che la sua sia solo una passione passeggera, testimonianza di
un animo giovane e libero, desideroso di sperimentare quante
più esperienze la vita gli riesca ad offrire.
Mi fido di te e del
fatto che lo sorveglierai, come sa fare una sorella minore che ama
teneramente e sinceramente il maggiore.
Un’ultima
cosa: non dire nulla ai tuoi genitori dell’incidente che mi
ha colpito, non voglio farli preoccupare.
Vi abbraccio, cari
nipoti, e vi invio i miei più affettuosi saluti.
Vostra Nonna Maria
“Che cosa avete questa sera, cugina? Forse l’opera
non è di vostro gradimento? O magari non avete trovato
interessante il libro che vi ho prestato?”
Costanza negò un’eventualità del
genere, perché non solo aveva divorato in un solo pomeriggio il volume “Le notti bianche”, rimanendone affascinata e
turbata al contempo, ma anche lo spettacolo a cui stavano
assistendo le stava piacendo moltissimo: tuttavia, al giovane non era
sfuggito il fatto che la ragazza stesse nervosamente giocherellando con
gli orecchini di perle e pietre dure da quando era terminato il primo
atto de “Il
barbiere di Siviglia”, rifiutandosi di scendere
per gustarsi il buffet allestito nell’ingresso del Teatro
Nuovo.
Pietro aveva perciò deciso di assentarsi per
portarle una coppa di liquore alla frutta, e adesso erano entrambi in
attesa che lo spettacolo riprendesse.
“La verità è che non sono concentrata
quanto vorrei…”
“Questo lo avevo capito da me. Volete confidarvi e
spiegarmi che cosa vi affligge?”
Costanza, un elegante e sofisticato abito rosso a fasciarle la snella
ed aggraziata figura, si girò nella sua direzione, il volto
incorniciato dai capelli ricci e scuri, e fissò gli occhi
verdi in quelli azzurri del giovane:
“Stamani ho ricevuto una lettera da mia nonna: lei abita a
Santa Maria Maggiore, come credo sappiate già, e mi ha
comunicato che la scorsa notte le cantine del palazzo e parte del
piano terra sono andati a fuoco. Ha perso la maggior parte del
materiale per la vendemmia del prossimo autunno, vari attrezzi
agricoli, i calessi con cui il fattore e i garzoni si recavano in
paese, le forme di formaggio… insomma, é andato vanificato il lavoro
di interi mesi”
Pietro sospirò partecipe, lo sguardo di ghiaccio
che si tingeva di un'affettuosa smorfia paternalista.
“Comprendo la vostra angoscia, Costanza, ma non dovete
affliggervi così tanto. Vostra nonna sta bene,
vero?”
La giovane annuì convinta, spostando distrattamente una
ciocca di capelli dall'orecchio.
“Sì, sì, sta bene, nessuno è rimasto ferito. Anche i domestici che l’hanno aiutata a
spegnere l’incendio e gli animali nelle stalle non hanno
riportato alcuna lesione…”
“Vedete? Vi siete risposta da sola. Non
c’è nulla di cui preoccuparvi. Certo, il danno
economico è stato ingente, almeno a sentire le vostre
parole, ma sono certo che una soluzione si troverà”
Il ragazzo le stava parlando con voce bassa e conciliante, sempre
guardandola negli occhi, ma evitando accuratamente di sfiorarla.
“Non posso non preoccuparmi, Pietro: mia nonna Maria
è la persona a cui voglio più bene. A volte,
credo addirittura più dei miei stessi genitori…”
“Questo vi fa onore, Costanza. Tuttavia, vi ripeto che è inutile
angosciarvi: la lontananza fa ingigantire le cose,
sovrastimando i danni reali. E poi, sapete bene che potrete contare sul mio appoggio personale,
nel caso ci fosse qualsiasi genere di necessità. Economica
inclusa”
La cugina annuì e gli sorrise, grata delle affettuose parole
che le aveva appena rivolto.
Era stato una fortuna che né i genitori della giovane e
neppure quelli di Pietro fossero lì ad assistere
all’opera lirica, perché così Costanza
si era potuta sfogare liberamente, senza temere i rimproveri o le
occhiate della madre: a donna Luisa, infatti, era scoppiata
un’improvvisa emicrania che l’aveva costretta a
letto, per questo don Armando era rimasto a palazzo per starle vicino,
sebbene la figlia temesse che anche il padre covasse qualche male,
irascibile e nervoso com'era nelle ultime settimane.
Nicolò, invece, si era rintanato al solito circolo
letterario, mentre zia Rosa, lo zio Aldo e Federico erano stati
invitati, ormai
già da diversi giorni,
ad una cena di certi ex compagni dell'Accademia Navale di Genova del
secondogenito, per cui sarebbe stato scortese disdire
all’ultimo momento.
Costanza si fece coraggio e, approfittando della presenza silenziosa
e pensierosa del cugino, corse il rischio di apparire
sfacciata, spinta dalla certezza di dover osare, pur di conoscere come
erano andate le cose.
“Ora, permettetemi di sembrarvi scortese, Pietro, ma vorrei
solo per un momento ritornare sull’argomento di mio fratello:
questa sera vi ho confessato che cosa mi affligge, e spero che
vogliate ricambiare dicendomi la verità su ciò
che sta accadendo tra Nicolò e Federico…”
Il giovane strisciò con la sedia rivestita di velluto blu
sul costoso pavimento di marmo, abbandonandosi ad un moto di stizza con la mano
sinistra: perchè suo fratello doveva rovinargli anche quella
serata? La sua presenza aleggiava tra di loro, misteriosa ed
opprimente, e per un attimo Pietro si ritrovò a pensare alla
settimana precedente, a quella mattina in cui lo aveva seguito e aveva
scoperto che si era incontrato di nascosto con una losca figura,
proprio a Palazzo Orelli, la sede del mercato dei grani. Chi era quell'uomo? Che cosa voleva? Di chi e di che cosa avevano discusso?
Ma lasciò perdere quel ricordo, per ritornare al presente:
girandosi completamente verso la sua interlocutrice, la
supplicò di non ritornare sull’argomento,
poiché non c’era nulla di cui parlare.
“Smettetela di crucciarvi per una fantasia che sta solo
dentro la vostra testa! Dovete fidarvi di me, Costanza, fidatevi e
basta, vi prego!”
La ragazza abbassò il capo sul vestito, ritenendosi una
stupida testarda: forse, era davvero come sosteneva Pietro, aveva
frainteso ogni cosa, eppure il suo sesto senso la portava in
un’altra direzione, indirizzandola non verso una
verità di comodo, bensì ad abbracciare
l’autentica verità.
Quale, purtroppo, ancora non le era dato sapere.
“Oh, signorina Granieri! Che piacere vedervi qui! Conte
Caccia, buonasera anche a voi!”
I due ragazzi si voltarono, riconoscendo il tono squillante
dell’uomo che si era appena rivolto a loro.
“Maestro Rossini, cosa ci fate qua?”
domandò ingenuamente la giovane, arrossendo in volto per
l’ovvietà della risposta che avrebbe sentito
pronunciare.
“Avevo voglia di svagarmi. E poi ero curioso di
assistere a questa nuova versione de << L’almaviva o sia
l’inutile precauzione>>. Sapete,
il direttore d’orchestra è un mio caro amico: devo
ammettere che il lavoro che ha fatto non è niente male,
davvero niente male” precisò
l’insegnante di pianoforte, un sincero e incantato sorriso
sul viso dall’abituale naso aquilino e dalla bocca sottile.
Costanza notò che anche in quell’occasione aveva
scelto la solita mise
nera, composta dagli irrinunciabili stivali e abito scuri, di fattura
più elegante rispetto a quelli che gli aveva visto indossare
durante le loro lezioni di musica, certo, ma sempre dello medesimo colore
cupo.
I capelli lunghi e leggermente brizzolati erano stati raccolti da un
nastro, questa volta rosso, e il gradevole profumo di arancia
caramellata invadeva piacevolmente il palchetto dei due cugini.
“Volete accomodarvi qui con noi?” propose Pietro,
invitandolo con un cenno a sedersi.
“Oh no no, miei cari” si affrettò a
rifiutare l’uomo, le labbra incurvate in un sorriso
orgoglioso.
Prontamente, infatti, si calò in avanti e, con
l’indice ossuto della mano sinistra, indicò un
punto davanti a sé.
“Vedete quei due posti proprio di fronte a voi? Ebbene,
lì mi sta attendendo una gentil dama, un’amabile
signora che non voglio far rimanere da sola un minuto di
più! Ora che vi ho salutato, posso dunque ritornare alla mia
incantevole compagnia! Vi auguro una serena serata. Signorina Granieri,
signor conte, buonanotte”
E si dileguò canticchiando dei versi irriconoscibili, il
brusio nella platea e in galleria che andava scemandosi con
incredibile rapidità.
Un attimo dopo, gli spettatori erano tornati ordinatamente al proprio
posto: le luci del teatro si spensero con maestria, e il sipario si
alzò lentamente, mentre l'orchestra riprendeva a suonare.
QUALCHE NOTA STORICA ...
Buongiorno a tutti, cari lettori!
Come al solito vi "annoio" con qualche curiosità del periodo
in cui è ambientata la storia: dunque, partiamo dallo zio di
donna Maria, citato nella lettera.
Il conte Giacomo Mellerio è stato un personaggio realmente
esistito: nacque a Domodossola, in Piemonte, nel 1777 e
morì a Miliano nel 1847, due anni prima delle vicende
narrate in questo racconto. Viaggiò molto per Europa ed
Italia, e ricoprì numerosi incarichi anche presso il
Lombardo Veneto: ad esempio, durante il periodo napoleonico fu nominato reggente del
governo provvisorio di Milano, in seguito governatore di Milano,
consigliere aulico e cancelliere della Lombardia a Vienna, nel 1816.
Si dimise da ogni carica pubblica nel 1819, per ritornare a Milano e
dedicarsi alle opere caritatevoli che videro beneficiari contadini ed
orfani: nella sua natia Domodossola, infatti, fece costruire
l'orfanotrofio femminile delle Orsoline, ora distrutto, ma anche la
prima scuola superiore della città.
Nel 1826, a Milano, conobbe Antonio Rosmini -altro personaggio di cui
donna Maria parla nella lettera-, molto probabilmente tramite il cugino
abate e il più famoso scrittore Alessandro Manzoni.
Due anni più tardi, al Monte Calvario, venne fondato
l'Istituto della Carità Antonio Rosmini e, nel 1831, il
collegio Mellerio Rosmini di Domodossola, già citato qualche
capitolo fa.
I conti Cavazzi della Somaglia, come scritto da donna Maria, furono i
legittimi eredi del conte Mellerio.
Dalle mie ricerche, ho scoperto che i Mellerio in realtà non
vissero a Santa Maria Maggiore, ma nella vicinissima Malesco, sempre un
paesino in Piemonte: perdonatemi l'errore.
Questo
è il Sacro Monte Calvario visto dall'alto di Domodossola:
dal 2003 è
nell'elenco dell'UNESCO.
"Il
Barbiere di Siviglia" è un'opera di Gioacchino Rossini, con
debutto a Roma, nel 1816.
Il titolo originale del'opera buffa, come spiega l'omonimo maestro di
musica a Pietro e Costanza, era "L'Almaviva o sia l'inutile
precauzione": il conte d'Almaviva è innamorato di Rosina,
che abita insieme a don Bartolo, anche lui segretamente innamorato
della ragazza. Grazie all'ingegno di Figaro, il barbiere e tuttofare
della città, il conte riesce a soggiornare nella casa del
suo rivale in amore, fingendosi un soldato, e successivamente il nuovo
maestro di musica di Rosina.
Don Bartolo, però, scopre il piano del conte e del barbiere,
e convince la giovane a sposarlo.
Ma
il nobile raggira anche il notaio venuto a stendere il contratto di
nozze, sostituendo il nome del rivale con il proprio, così i
due possono finalmente convolare a nozze.
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Capitolo 10 *** Il sacro monte di Pietà ***
Il coraggio
delle proprie azioni è già di per sé
coraggio.
(Anonimo, XX secolo)
L’umidità pungente delle prime ore del mattino
stava lentamente evaporando per lasciare spazio ad un tepore quasi
primaverile.
Per strada, vi era un continuo viavai di carretti ed eleganti carrozze,
che si amalgamavano alla fiumana di persone –per lo
più artigiani e galantuomini- intenti
a destreggiarsi in quella vasta intersezione di contrade,
viuzze, cortili e porticati, mentre il nitrire dei cavalli avvisava i
pedoni di fermarsi e mettersi al riparo, magari nell’androne
di qualche palazzo nobiliare, per non essere travolti dalle possenti
ruote delle vetture.
Nicolò camminava a testa bassa, le mani protette da un paio
di guanti di pelle nera imbottiti di lana, il cappello scuro calato sui
ricci, mentre i tacchi degli stivali tenevano il ritmo
sull’acciottolato e il lastricato di sampietrini.
Via delle Torri Lunghe distava ancora qualche passo, su cui si
affacciavano, tra le altre residenze, Palazzo Medici con il vistoso frontespizio in stucchi e decorazione a bugnato, casa della Porta
e casa Rognoni, le pareti principali realizzate in stile gotico e la cornice di
formelle in terracotta ad abbracciare le finestre a sesto acuto.
Finalmente, il giovane si ritrovò davanti alla sede della
confraternita fondata da Amico Canobio, nel lontano 1566,
allora dimora del Sacro Monte di Pietà:
l’ente caritatevole era costituito da due lunghi e tozzi
edifici attaccati per un solo lato, i muri dipinti di un giallo ocra su
cui si aprivano le finestre dalle persiane marroni.
Nicolò si guardò intorno, e accortosi che nessuno
si preoccupava della sua presenza per il semplice fatto che non vi fosse
anima viva in quel momento oltre a lui, attraversò
l’ampio cortile dello stabile, il passo non più
così sicuro come pochi istanti prima.
Una lastra di marmo all’ingresso recitava la scritta
“Sacro Monte
di Pietà Amico Canobio”: senza dubbio
era quello il luogo che gli avevano indicato, il posto in cui avrebbe
dovuto impegnare parte dei propri averi per ottenere il denaro
necessario a partire e ad arruolarsi con l’esercito sabaudo.
Si sentiva nervoso ed eccitato: continuava a sistemarsi
l’orlo della giacca e a rotolare e srotolare le maniche, come
per convincere se stesso che quello che stava per fare si stesse
svolgendo nella vita reale, e non nell'ennesimo sogno ad occhi aperti.
Dopo essersi levato i guanti, li ripose in una delle tasche del
completo nero: il contatto con una busta rettangolare gli
ricordò che avrebbe dovuto recarsi a spedire il telegramma
che gli aveva affidato Costanza, quella mattina prima di colazione.
Era un breve messaggio che la sorella aveva scritto alla nonna, per
sapere come si sentiva a seguito del disastroso incendio scoppiato
nelle cantine di palazzo Mellerio.
Improvvisamente, avvertì dei rumori provenire dalla via, che
lo indussero a prendere coraggio e ad entrare, prima che la vergogna si
impossessasse della sua mente, annebbiandogli qualsiasi decisione.
“Buongiorno, signore. Posso esservi utile?”
Una voce alle sue spalle, spuntata da chissà quale angolo
dell’antico palazzo, fece sobbalzare il giovane, che si
voltò di scatto:
“Sì …” confermò
vagamente dubbioso, il cappello tra le mani “ho
bisogno di parlare con la persona che si occupa del Monte di
Pietà … sapete indicarmela?”
Il frate davanti a lui, un sessantenne basso e minuto, la barba candida
e gli occhi appannati dalla vecchiaia imminente, si fece avanti,
raggiungendo Nicolò dopo brevi e strascicati passi.
“Sono io, buon giovane, potete rivolgervi a me: venite,
faccio strada …”
L’omino precedette a fatica il ragazzo, conducendolo lungo un
breve corridoio sulla destra, scarsamente illuminato se non dalla
debole luce esterna che filtrava, i muri freddi e bianchi.
I due giunsero così in un’ampia stanza
rettangolare, le pareti spoglie, il pavimento di grandi mattonelle
nere, fino a raggiungere una sorta di scrittoio di legno puntellato di
documenti e deteriorato agli angoli dai tarli che vi avevano
indisturbatamente soggiornato negli anni.
“Prego, ditemi di cosa avete bisogno”
esordì l’uomo di Chiesa, dopo aver preso posto
sull’unica sedia presente, incredibilmente simile ad uno
scranno malandato.
“Ecco … vorrei impegnare questi monili. Vi
assicuro che sono molto preziosi e valgono diverse lire del
Regno” cominciò a convincerlo Nicolò,
posizionando sul bancone una mezza dozzina tra spille, anelli ed
orologi.
“Signore, momentaneamente abbiamo solo ducati milanesi
… vi va bene lo stesso?”
Il ragazzo lo guardò interdetto per una manciata di secondi:
deglutì ed annuì un paio di volte, spingendo
ulteriormente la mercanzia verso il frate, disgustato per la mancanza
di monete sabaude.
“Certo, come volete. Quanto potete darmi?”
L’omino aprì uno dei cassetti interni dello
scrittoio: estrasse una lente di ingrandimento e, con mani esperte,
prese ad ispezionare i gioielli.
“Mille ducati, sperando di avere in cassa una tale
cifra” si accigliò il sessantenne, cominciando a
rovistare in un piccolo forziere di ferro e bronzo, tenuto chiuso da un
lucchetto arrugginito e vagamente dorato.
“Siete sicuro che ve ne volete disfare, signore?”
Nicolò prese a mordicchiarsi il labbro interno e a
stuzzicarsi i polpastrelli della mano sinistra, cercando di reprimere
la rabbia per ulteriori spiegazioni.
“Sì, devo” confermò senza
guardare il frate.
“E poi, sono convinto di poter tornare a riscattarli molto
presto. A proposito, per quanto tempo potrete tenerli?”
“Otto mesi a partire da oggi” precisò
l’altro, riprendendo ad esaminare gli anelli, le spille e i
due orologi d’oro.
“D’accordo. Ditemi per favore dove devo firmare, ho
fretta”
L’uomo di Chiesa indugiò ancora per un attimo,
quindi fece piazza pulita della merce che gli era appena stata
affidata, riponendola in un altro cassetto del bancone.
“Siete consapevole del fatto che, se per qualsiasi motivo,
non ritornerete a riscattare i gioielli nei termini prestabiliti, la
nostra confraternita sarà costretta a metterli in
vendita?”
Nicolò annuì, spazientito per i ripensamenti che
non poteva permettersi:
“Non accadrà, frate, ve lo assicuro. Ora vi prego,
datemi il foglio da firmare, così che possa andarmene. Mi
sembra di avervi già detto di avere fretta
…” cercò di farlo ragionare, indicando
la pila di moduli sul ripiano che li divideva.
“Come volete. Compilate questo spazio con i vostri dati, e
mettete una firma qui in basso e su quest’altro foglio: mi
raccomando, abbiatene cura, perchè è la vostra
ricevuta per tornare a riscattare la merce. Tenete
…”
Il ragazzo fece come gli era stato ordinato e, dopo aver lanciato
un’ultima occhiata in direzione dei gioielli e
dell’omino che gli aveva consegnato il denaro,
uscì dalla stanza a passi veloci.
Il cortile dell’edificio che, appena pochi minuti prima gli
era sembrato infinito, adesso gli appariva stretto e claustrofobico.
QUALCHE IMMAGINE
....
Lo stabile che ospitava il
Sacro Monte di Pietà di Novara, ora in
disuso, presso cui si rivolge come un’unica risorsa economica
Nicolò.
Via delle Torri Lunghe adesso si
chiama, indovinate un po’, via Canobio.
Ecco,
invece, da sinistra a
destra, palazzo Medici, casa Rognoni e casa della Porta, i nobili
edifici
accanto a cui Nicolò si trova a passeggiare, prima di
raggiungere il monte di
pietà.
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Capitolo 11 *** Guerra e pace ***
Un
giorno faranno una guerra e nessuno vi parteciperà.
(Carl
Sandburg, poeta statunitense di origine svedese, 1878-1967, vincitore
di due premi Pulitzer)
“Questo
mi sembra un po’ stretto …”
“Ma no, figliola, com’è possibile?
E’ il quinto abito che ti provi e, ancora, non hai trovato
quello giusto! Non possiamo rimanere qui tutto il giorno!”
Costanza si stava guardando allo specchio, sorda alle recriminazioni
della madre: l’immagine che le appariva riflessa non poteva
essere la sua, il viso triste e pallido, ridicolamente imprigionata in
quella rete infinita di broccati, sete, velluti e damaschi che la
stavano opprimendo da quasi un’ora.
“Signorina, permettete di darvi un consiglio”
s’intromise la proprietaria del negozio, una donna sui
quarant’anni, la figura slanciata, che si muoveva agile e
sicura attorno alla ragazza.
“A mio avviso, ma è una semplicissima opinione che
mi permetto di darvi, sono sicura che una delle nostre sarte potrebbe
ampliare la stoffa in questi due punti … ecco,
così, in modo da recuperare parte del tessuto per abbellire
il corpetto. Cosa ne pensate?”
Costanza avvertiva gli sguardi di donna Luisa e della negoziante -gli
occhi chiari e i capelli castani intrecciati sulla nuca-
puntati addosso, entrambe sorridenti e in attesa: cominciava a provare
un certo grado di irritazione, perché lei, in quel posto,
non ci voleva affatto venire, ma la madre aveva insistito fino allo
sfinimento, fino a quando lei era stata costretta a cedere.
Non aveva alcun bisogno di abiti nuovi, non le importava affatto di
partecipare al debutto in società, a fine mese, desiderava
solamente essere lasciata in pace.
Fece un profondo respiro e, guardandosi ancora una volta nello specchio
dalla cornice dorata, scese dal piedistallo:
“Madre, per favore, possiamo tornare un’altra
volta? Non mi sento molto bene …”
“Signora Leviani, permettete che parli un attimo da sola con
mia figlia?”
La proprietaria del negozio annuì: dopo essersi assicurata
che un paio di commesse si dedicassero alle clienti appena entrate, si
allontanò.
Donna Luisa, il sorriso tirato, finse di non aver udito le richieste
della figlia, anzi, aspettò che la proprietaria si ritirasse
nel retrobottega per cominciare la sua supplica.
“Costanza, non puoi farmi questo” esordì
la contessa Caccia, stringendo convulsamente le mani guantate attorno
alla piccola pochette
di velluto nero, l’abito da giorno grigio perla con
applicazioni di macramè e nastri di raso.
“Ti ho portato nel miglior negozio, ti ho messo a
disposizione le migliori sarte che la città possa vantare!
Sei circondata da abiti lussuosi, dai tessuti più pregiati:
qualsiasi ragazza, al posto tuo, sgomiterebbe pur di possedere uno di
questi vestiti! Perché tu, invece, devi sempre essere
diversa dagli altri, perché non mi fai felice, almeno per
una volta?!”
“Perché io non sono gli altri!”
sbottò in un accesso d'ira la ragazza, chiudendo le mani a
pugno e puntando gli occhi verdi esasperati in quelli di donna Luisa.
“D’accordo, ti chiedo solo un favore”
acconsentì la madre, stremata da quella che considerava
un’inutile contrattazione.
“Scegli un abito, uno qualsiasi, poi ti prometto che usciremo
da qui immediatamente”
La moglie del notaio si guardò intorno, per capire se
qualcuno si era accorto dell’alterco che l’aveva
vista coinvolta, sorridendo educatamente alle clienti di mezza
età a pochi passi da lei.
“Madre, io …”
“Farai ciò che ti ho appena detto, Costanza!
Smettila di frignare come fossi una bambina in fasce!”
La contessa le storse con rabbia un polso, soffocando ulteriori
recriminazioni.
La ragazza si zittì all’istante e
abbassò il capo, spaventata dalla reazione spropositata
della donna, che si diresse con nonchalance
verso una delle commesse, perché potesse avvisare la signora
Leviani che avevano finalmente deciso.
“Ebbene, signorina Granieri, su quale abito è
ricaduta la vostra scelta?” domandò sorridente la
negoziante, composta in un abito di raso marrone e pizzi neri alle
maniche.
“Vorrei … vorrei vedere quello, per
favore” rispose Costanza, indicando un vestito di seta blu
cobalto, con ampie tulle ricamate.
“Ottima scelta, signorina! Avete davvero buon
gusto!” si entusiasmò la donna, che
batté le mani per richiamare l’attenzione di una
delle commesse libere, affinché portasse l’abito
da visionare.
La ragazza accarezzò il tessuto, avvertendolo morbido sotto
le dita, calde per la tensione, quindi annuì convinta,
confermando che lo avrebbe senz’altro preso.
“Avete bisogno anche di un cappellino e delle scarpette da
abbinare? Permettetemi di consigliarvi dei modelli che sono giunti da
Parigi la scorsa settimana!” continuò la
negoziante.
“No, vi ringrazio signora Leviani”
s’intromise donna Luisa Caccia “per oggi va bene
così. Potete far confezionare l’abito e,
già che ci siamo, anche quel completo bianco e rosso. Sono
convinta che per andare a cavallo sia molto elegante!”
Dieci minuti più tardi stavano salendo sulla carrozza
Landau, quando avvertirono il suono convulso e fremente delle campane
del duomo, qualche via dietro di loro.
“Che cosa sta succedendo?” domandò
allarmata Costanza, un piede sul predellino e la mano sinistra nel
palmo di quella del cocchiere, che la stava aiutando a prendere posto,
anch’egli inconsapevole di ciò che stava accadendo.
“Non lo so” scosse il capo donna Luisa, che si era
appena seduta sulla vettura.
Si affacciò sul lato aperto, in attesa di qualche passante a
cui chiedere il motivo di tanto chiasso: quando le campane risuonano in
questo modo, rifletté, sicuramente
si è verificato un evento assai spiacevole, quale
un incendio o la morte di un personaggio illustre...
“Madre, perché non smettono? Questo rumore
è assordante!” si lamentò Costanza,
continuando a guardarsi intorno.
Corso di Porta Torino era come sospeso nel tempo: le carrozze si erano
allineate ai bordi della strada, gli uomini e le donne che stavano
passeggiando si erano anch’essi fermati, domandandosi a
vicenda il motivo di quel suono incessante, cupo e stridulo al contempo.
Donna Luisa non indugiò oltre: prese per un braccio la
figlia e la costrinse a salire.
Poi, ordinò al cocchiere di avviarsi verso il palazzo e di
non fermarsi per nessuna ragione.
“Armando, cosa ci fate già a casa?” lo
apostrofò la moglie, appena si accorse della presenza del
marito nel salottino, il sigaro in bocca e lo sguardo verso la finestra
che si affacciava sul giardino.
Il notaio Granieri era abbandonato sulla poltrona personale di damasco
rosso, dando le spalle alla moglie e alla figlia.
“Siamo in guerra … l’armistizio
è stato denunciato ieri mattina a mezzogiorno”
spiegò l’uomo, dopo un minuto di silenzio, la voce
roca e quasi incredula.
“Che cosa vuol dire?” biascicò la
contessa, avvicinandosi.
“Quello che ho detto, che siamo di nuovo in guerra contro
l’Austria. Il Re, o chi per esso, ha deciso che era stanco di
questi mesi di pace, preferendo riprendere le ostilità
…” si arrese don Armando, spegnendo il sigaro e
buttando l’ultima brace nel posacenere di cristallo, sul
vicino tavolino rotondo.
“Ma … padre, cosa dovremo aspettarci da questa
decisione?”
Costanza s’intromise timidamente in quel discorso che andava
oltre la sua comprensione, una decina di passi dietro i genitori: la
madre la fissò come se si accorgesse solamente in quel
momento della sua presenza, lo sguardo spaventato.
Granieri si alzò dalla poltrona e fece qualche passo in
direzione della figlia: la osservò teneramente, gli occhi
chiari e i capelli biondi vagamente spettinati, quindi la
abbracciò.
La ragazza appoggiò la guancia sulla spalla del padre,
stringendo il tessuto ruvido della giacca blu scuro, come in un gesto
di rassicurazione.
“Non lo so che cosa succederà, che cosa dovremo
aspettarci … “ riuscì a dire con una
punta di commozione l’uomo, sciogliendosi da
quell’intreccio.
“Sicuramente niente di buono, figliola” concluse
con amarezza, uscendo dalla stanza e lasciando interdette la moglie e
Costanza.
Qualche nota storica ...
L’armistizio firmato a Milano il 9 agosto 1848 dal Capo di
Stato Maggiore generale Salasco, sanciva una tregua di sole sei
settimane dalla Prima guerra d'Indipendenza, iniziata cinque mesi
prima: il 21 settembre, infatti, le ostilità sarebbero
dovute riprendere se l’Austria non avesse concesso una pace
“equa e decorosa”.
In quel mese, quindi, i Piemontesi dovevano riorganizzare
l’esercito, equipaggiandolo con nuove risorse e decidendo se
ricorrere alle reclute o ai riservisti per i necessari rinforzi.
Inoltre, fondamentale sarebbe stato correggere gli errori militari
commessi nei quattro mesi di guerra.
Era chiaro che il sistema di comando non aveva funzionato: Carlo
Alberto, tuttavia, non appariva disposto a lasciare il comando e a
riconoscere i propri errori nella condotta della guerra, ma
accettò l’idea di sostituire Salasco con un
vecchio generale polacco, Albert Chrzanowski.
Nella seconda metà di ottobre 1848, la Camera del Parlamento
sabaudo respinse una mozione per l’immediata ripresa delle
ostilità.
Il 27 ottobre fu nominato Ministro della Guerra Alfonso La Marmora, che
si impegnò subito nell’opera di ringiovanimento
dell’esercito, mandando in congedo le classi più
anziane e sostituendole con le reclute.
Come il suo predecessore, La Marmora era convinto che una ripresa
immediata delle ostilità fosse inopportuna.
Carlo Alberto, viceversa, non vedeva l’ora di affrontare
nuovamente gli austriaci.
L’8 marzo 1849 fu stabilito, secondo il desiderio del re, che
le ostilità riprendessero il giorno 20 e che, di conseguenza
(nel rispetto degli impegni previsti), l’armistizio fosse
denunciato il giorno 12.
Chrzanowski ricevette la comunicazione il 13, quando la notizia era
già stata pubblicata dai giornali, lo stesso giorno che il
notaio Granieri informa moglie e figlia della ripresa delle
ostilità.
Il 12 marzo 1849, si era presentato a Radetzky, nella Villa reale di
Milano, il maggiore dell’esercito piemontese Raffaele
Cadorna. Uno storico austriaco racconta che «il maggiore
Cadorna si irritò che gli ufficiali austriaci si
abbracciassero per la gioia dopo che il feldmaresciallo ebbe
comunicato: “Signori, ci è stata notificata la
denuncia dell’armistizio!”».
E per tirarci su il morale, ecco
l'abito che Costanza
sceglie per il
forzato debutto in società!
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Capitolo 12 *** Una decisione irremovibile ***
Io sogno di dare alla luce un
bambino che chieda: “Mamma, che cosa era la guerra?”
(Eve Merriam, poetessa e scrittrice amercana, 1916-1992)
Novara,
domenica 18 marzo 1849
Carissima Nonna,
immagino
siate a conoscenza dei terribili avvenimenti che si apprestano ad
accadere nel Regno: la guerra contro l’Austria dovrebbe
riprendere tra appena due giorni, un tempo contemporaneamente
brevissimo e dilatato che ci separa inesorabilmente dalle sorti che il Destino
deciderà per noi.
Due giorni fa, invece, è arrivato in città il
sovrano in persona, unendosi alle truppe dislocate nei vari
accampamenti.
Si
vocifera che Carlo Alberto alloggi presso il palazzo Bellini, dove, a
causa di tali indiscrezioni, vi è sempre una folla
inneggiante che lo attende lì dinanzi.
L’atmosfera
è sempre più cupa, l’aria stessa che
respiriamo è opprimente: pensare che, appena una settimana
fa, mi lamentavo di quanto trovassi noioso e orribile questo luogo, mi
fa vergognare della mia mentalità ristretta, da stupida ed
infantile ragazzina che non ha mai affrontato alcun vero dolore nella
vita.
Ho
paura, nonna, e non mi vergogno a dirlo: temo per la mia famiglia, nonna,
soprattutto per Nicolò, il quale mi auguro
ardentemente non faccia alcuna sciocchezza di cui possa
pentirsene.
In
questi giorni di incertezza, il mio più grande desiderio
è che tutto vada per il meglio, che questa angoscia che
sentiamo nel cuore si riveli molto presto un brutto ricordo che ci
abbia sfiorato appena la mente: spero, infatti, che nessuno dei nostri
conoscenti muoia, anzi, vi confesso che il solo scrivere questa parola
mi fa tremare da capo a piedi.
Se ci sarà una battaglia, purtroppo, sarà
inevitabile uno scontro e, di conseguenza, preziose vite umane verranno
sacrificate in nome di un finto ideale, di un infingardo idolo, ovvero
la guerra e, Dio mi perdoni, del nostro sovrano.
Spero
che almeno voi stiate bene e che presto si possa fare luce sulla mano
meschina che ha appiccato l’incendio nel vostro palazzo: sono
rimasta molto scossa dalle parole che mi avete scritto, e colgo l'occasione per ingraziarvi di aver risposto al telegramma che vi ho inviato pochi
giorni orsono.
A
proposito, il comandante delle Guardie Civiche vi ha portato buone nuove?
Le indagini stanno proseguendo?
Appena
tutto questo finirà -inutile dirvi che prego con tutto il cuore
che ciò avvenga prestissimo- mi precipiterò da
voi, cara nonna, per sentire come il vostro calore e il vostro affetto
mi risollevino istantaneamente il morale.
Ora
perdonatemi se sono costretta ad interrompere la nostra conversazione,
ma il sole sta tramontando e, per ordine di mio padre, dobbiamo
risparmiare sulle candele, in caso ci servano scorte per i giorni
incerti che ci attendono.
Non
so quando riuscirò a spedire questa lettera:
sperò già domani, dal momento che la situazione
non è consona affinché il nostro garzone si metta
in viaggio per la valle e, quindi, non potrà consegnarla di
persona.
Nel
frattempo, vi stringo teneramente tra le mie braccia, tremanti e
timorose dell’avvenire che ci aspetta dietro
l’angolo.
A
presto,
Vostra
Costanza
La
cena si stava svolgendo nel silenzio più assoluto: il rumore
metallico delle posate cozzava contro i bordi dorati dei piatti, mentre
i commensali quasi non si rivolgevano neppure un'occhiata di traverso, i loro volti abbassati e tremolanti al riflesso dei vecchi candelabri che il notaio
Granieri aveva insistito per far riaccendere dalla servitù.
“Padre,
devo parlarvi …” esordì squillante
Nicolò, appoggiando il tovagliolo sul tavolo.
“Va
bene, ma preferirei finire di mangiare” acconsentì
don Armando, sorridendo mestamente.
“E’
urgente, credetemi, non posso rimandare un minuto di
più”
Donna
Luisa e Costanza alzarono lo sguardo dalle loro portate, sicure che
quel discorso non avrebbe portato nulla di buono.
“Non
ho detto che non voglio parlarti, Nicolò, semplicemente
desidererei terminare la cena. Abbiamo tutta la serata per discutere,
non temere …”
La
voce dell'uomo si stava tingendo di una nota di fastidio: aveva la gola
secca, sebbene avesse aperto bocca solamente in quell'istante,
così bevve un sorso di vino, che scese acidulo ed insapore
lungo l'esofago, costringendolo a versarsi dell'acqua dalla brocca di
cristallo.
Poi, finalmente dissetatosi, continuò ad immergere il
cucchiaio nella zuppa, ma quei movimenti lenti e ripetuti sembravano
appartenere ad un altro braccio, ad un'altra persona, talmente
apparivano meccanici e cadenzati, privi di una reale intenzione.
“D’accordo,
come volete” assecondò il figlio, alzandosi dalla
sedia.
“Un
attimo di attenzione, vi prego!” continuò a voce
alta, urtando delicatamente il bicchiere di cristallo con il coltello,
in modo da avere su di sé gli occhi degli altri commensali,
quindi, sistemandosi la giacca verdone, annunciò entusiasta:
“Domani
mattina andrò ad arruolarmi!”
Il
notaio abbandonò la posata che aveva in mano che, cadendo
all'istante sul pavimento di marmo, provocò un rumore sordo
che ruppe il silenzio creato da quelle parole.
“Tu
cosa farai?” replicò don Armando, alzandosi in
piedi per fronteggiarlo.
La
bocca gli tremava e uno strano furore gli accendeva lo sguardo, ormai
spento ed assente da diversi giorni.
“Avete
capito bene, caro padre! Questa sarà l’ultima sera
che dormirò qui con voi, in questa casa: quando
tornerò, sarò diventato un uomo, un eroe che ha
combattuto per salvare la Patria da quei maledetti usurpatori! Voi
tutti sarete orgogliosi di me e il nostro nome sarà
ricordato nei secoli come glorioso e giusto!”
Uno
schiaffo in pieno volto interruppe il fiume di parole insensate che il
giovane stava pronunciando: il vecchio Granieri, infatti, si era
avvicinato a lunghe falcate e gli aveva assestato un colpo su una
guancia glabra, il fiato corto e il braccio ancora a
mezz’aria.
“Non
farai nulla di simile, sciagurato, perché io te lo
impedirò, hai capito?! Non te lo
permetterò!”
“Armando,
vi prego, calmatevi!” s’interpose la contessa
Caccia, la voce supplicante, mentre tentava un approccio verso il
marito, che continuava a non degnarla di un'occhiata.
Costanza
aveva seguito quel discorso tra il genitore e il fratello come se fosse
in una bolla, in un sogno vissuto da altri: sentiva i battiti del cuore
accelerare senza che potesse fare nulla per cambiare la situazione,
mentre una tremenda fitta allo stomaco la costrinse quasi ad alzarsi
per vomitare quel poco che aveva faticosamente ingoiato.
Le
due cameriere che stavano servendo a tavola si ritrassero in un angolo,
appiattendosi sulla parete affrescata dalla famosa scena raffigurante
il rapimento di Europa da parte di Giove, lo sguardo basso di chi non
sa come comportarsi.
“Non
posso calmarmi, non lo farò fino a quando nostro figlio non
rinsavirà! Lo sapevo che dovevo metterti alle calcagna uno
di quegli investigatori, lo sapevo che, prima o poi, avresti compiuto
una delle tue sciocchezze!” sbraitò il notaio,
prendendosi la testa tra le mani, la voce incrinata
dall’emozione.
“Volevate
farmi spiare?! Avreste avuto il coraggio di farmi seguire come fossi il
più infimo dei delinquenti, un depravato e comune criminale?! Questo
è davvero troppo, padre, non vi permetterò di
tenermi ancora qui, prigioniero di queste quattro mura! Non mi
rovinerete la vita ancora per molto, ve lo assicuro!”
“Ma
che cosa stai dicendo?! Sarai tu l’unico artefice della tua
rovina, tu e soltanto tu!” cercò di farlo
ragionare, scuotendo convulsamente il capo.
I
due continuavano a parlarsi ad una distanza assai irrisoria, tuttavia
la lontananza mentale tra di loro appariva incolmabile.
Nicolò
scrollò ancora una volta la testa, sorridendo sprezzante:
“Il
tempo in cui mi imponevate le vostre scelte, in cui mi dicevate che
cosa dovevo o non dovevo fare, è ormai finito! Adesso sono
un uomo libero, con le mie idee, le mie convinzioni e le mie
certezze, che voi non potrete in alcun modo né calpestare e
nemmeno distruggere! Stasera stessa sparirò da questa casa e, se sarà necessario, lo farò per sempre!”
Il
giovane lanciò un’occhiata alla madre e alla
sorella, inebetite e balbettanti, poi uscì dalla sala da
pranzo, qualche istante prima di vedere il padre accasciarsi a terra e di sentire le grida concitate delle donne rimaste che chiedevano aiuto e lo imploravano di tornare.
QUALCHE NOTA STORICA ...
Sotto l'immagine di Palazzo Bellini, sul cui sfondo si intravede,
tagliata, la basilica e la cupola di san Gaudenzio, protettore della
città.
Fu un luogo importantissimo, anzi, fondamentale per la storia di Novara
e della futura Italia: lo ritroveremo più avanti nel
racconto: la sua costruzione si fa risalire al XVII secolo e
passò di mano tra le potenti famiglie nobili cittadine, fino
ad essere acquistato nel 1900 dalla Banca Popolare, fondata a Novara
nel 1871.
Dopo il completamento della facciata ad opera dell'architetto Luigi
Broggi di Milano, a partire dal 1905 divenne la sede centrale della
stessa banca.
E' un palazzo storico: ospitò personaggi e avvenimenti
importanti della Storia d'Italia.
Il 31 maggio 1800 vi fece sosta Napoleone Bonaparte, durante la seconda
campagna sul suolo italiano, prima della battaglia di Marengo. Alla
ripresa della I Guerra d'Indipendenza vi dimorò Re Carlo
Alberto, che la sera del 23 marzo 1849, dopo la sconfitta,
abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele: un atto di
capitale importanza per il Risorgimento italiano.
Dieci anni dopo, il 1° giugno 1859, vi fu ospitato Napoleone
III, Imperatore dei Francesi, che si trattenne fino all'alba del 4
giugno, studiando insieme a Vittorio Emanuele II i piani per la
battaglia di Magenta.
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Capitolo 13 *** L'attesa ***
In
spagnolo aspettare si dice “esperar” ,
perché in fondo aspettare è anche sperare.
(Anonimo)
Nicolò aveva avvertito le voci concitate provenire
dall'interno del palazzo, ma si era ripromesso di non voltarsi per
nessuna ragione al mondo: non si sarebbe fatto convincere dalle urla
isteriche della madre e della sorella, non avrebbe desistito dal suo
proposito di arruolarsi tra le fila dei Piemontesi solamente per
evitare un dispiacere alla famiglia; aveva scelto di essere libero, di
non lasciarsi condizionare dai sentimentalismi materni o paterni,
perché lui, ormai, si sentiva un uomo, era un uomo, e
come tale avrebbe dovuto comportarsi.
Nel buio della notte, si diresse a passo svelto e deciso in direzione
delle stalle, sul retro della dimora: sellò con
abilità Ermes, il suo Frisone nero, lanciando occhiate
circospette dietro di sè.
Rischiò di inciampare un paio di volte nei secchi adibiti a
raccogliere le deiezioni, ma subito li allontanò senza
troppa cura, sporcando la biada e il fieno di riserva accumulati a
pochi passi da lui.
Recuperò un'ampia saccoccia appesa sopra la testa di Ermes,
per poterla riempire con qualche cibaria che, preventivamente, aveva
nascosto in un angolo delle stalle, con l'intenzione di abbandonare il
palazzo quella notte stessa o, al più tardi, se il padre non
si fosse lanciato in quella patetica arringa, il mattino successivo.
Vi infilò un filone di pane e una piccola forma di
formaggio, quindi la richiuse, facendo attenzione a non comprimere
troppo il contenuto.
Indossò su una spalla la tracolla della borraccia colma
d'acqua, infine si preoccupò di nutrire anche il cavallo,
incitandolo a piluccare un po’ di fieno nella mangiatoia.
A un certo punto, si sentì invadere da una calma infinita:
non avvertiva più alcuna voce richiamarlo indietro, gli
unici suoni che udiva erano il sommesso nitrire del quadrupede
e lo scalpiccio impaziente degli zoccoli ferrati del bellissimo
esemplare equino.
Il ragazzo gli accarezzò con dolcezza il muso, riconoscente
per la fedeltà che gli aveva sempre dimostrato: si
issò sulle staffe e, le redini in mano, lo incitò
a mettersi in marcia.
Un minuto dopo entrambi stavano percorrendo il viale secondario che
portava fuori dalla villa, mentre Nicolò si
ritrovò a pregare che il suo piano funzionasse.
Era stata una notte davvero da incubo, trascorsa a vegliare il padre
svenuto.
Donna Luisa aveva cercato di rintracciare il figlio, mandando un paio
di domestici nelle stalle, pochi istanti dopo la sua fuga improvvisa,
ma Nicolò si era già dileguato, più
veloce di un fantino da corsa.
Il medico era stato avvisato di raggiungere al più presto il
palazzo: una volta arrivato, aveva visitato il notaio Granieri,
tranquillizzando moglie e figlia sul malore dell’uomo, certo
che fosse da attribuire ad un crollo nervoso, una sorta di isteria
incontrollata, nulla a che vedere con il cuore o con qualche altro
malanno più grave.
Aveva prescritto riposo assoluto per almeno un paio di giorni, oltre a
dei sedativi da prendere prima di coricarsi.
Con le prime luci dell’alba, Costanza aveva inviato il
cocchiere a casa degli zii, per recapitare un messaggio a Pietro.
Aveva assoluta necessità di parlargli, poiché era
convinta che il cugino sapesse molte cose su Nicolò: era
arrivato il momento di metterlo davanti al fatto compiuto, di
costringerlo a rivelarle l’intera verità, senza
altre bugie o ulteriori omissioni.
La ragazza stava guardando fuori dalla finestra della sua camera, dove
si era rifugiata dopo aver consumato una sbrigativa colazione: per
l'intera notte, la madre si era mossa a scatti, dando l'impressione che
potesse rompersi come delicata porcellana; al minimo rumore correva
verso le finestre, nella speranza di veder riapparire il figlio, e il
suo pallore faceva temere a Costanza che potesse crollare allo stesso
modo di come era collassato il notaio.
Poco dopo l'aba, donna Luisa si era decisa a coricarsi, supplicando che
la avvertissero non appena il primogenito fosse tornato,
perché era certa che egli si sarebbe ripresentato quel
giorno stesso.
Adesso, anche il padre si era finalmente addormentato, così
la giovane avrebbe potuto dedicare qualche minuto a se stessa.
Lo scialle di lana traforata le copriva le spalle, dandole quel calore
che il fuoco acceso nel camino non riusciva a trasferirle.
Abbassò per un istante i pesanti tendoni di broccato che
decoravano gli infissi, per dirigersi verso lo specchio ovale dalla
cornice dorata sulla parete opposta della stanza.
Ispezionò senza troppa convinzione la sua figura, provando
la stessa sensazione di incredulità e smarrimento che aveva
avvertito una settimana prima, nel negozio di sartoria della signora
Leviani: indossava ancora l’abito della sera precedente,
ormai stropicciato, e i capelli scuri e ricci le ricadevano sulle
spalle come avesse compiuto una corsa a perdifiato, diventati la vaga ombra
dell’elaborata pettinatura che Nina le aveva confezionato
appena il mattino scorso.
Tutto ciò le conferiva un aspetto incredibilmente
trasandato, impedendole di proseguire oltre nell'analizzare la sua
immagine riflessa, perché già sapeva quanto poco
fosse presentabile ed attraente, ma la cosa non le importava
più di tanto.
Si allontanò dalla parete e si diresse verso
l’ampio guardaroba vicino al letto a baldacchino: lo
aprì e scelse un abito poco pretenzioso, il più
semplice che avesse, composto da una giacchetta e da una gonna color
bronzo, che un tempo usava per passeggiare in montagna.
Spostatasi verso la toeletta ribaltabile di ciliegio, si sedette
sull’elegante sedia dai braccioli argentati, e
cominciò a pettinarsi la lunga capigliatura, guardandosi
nuovamente allo specchio.
Evitò di soffermarsi troppo sulle gote pallide e le labbra
screpolate, ritrovandosi a riflettere su quanto fosse sciocco dedicare tanto
tempo al proprio benessere corporale, quando era l'anima ad essere a
brandelli, spremuta e calpestata dalle idee assurde che avevano reso
folle suo fratello.
Scosse il capo, come se quel semplice movimento potesse servire a
cacciare anche le preoccupazioni che le gravavano la mente da ore,
quindi si alzò e ritornò a scrutare fuori dalla
finestra.
Il sentiero che conduceva al palazzo era ancora privo di qualsiasi
presenza umana: gli alberi del giardino erano immersi in una
leggerissima foschia, il sole di poche ore prima era adesso nascosto
dietro a compatte nuvole scure.
Sono sicura che
arriverà, continuava a ripetersi la giovane, lo
sguardo fisso in lontananza.
Rimase affacciata ancora per un buon quarto d’ora, i vetri
appannati dal suo fiato caldo, poi decise di lasciar perdere.
Era molto stanca, perché non aveva praticamente dormito
quella notte, ma non voleva e non poteva cedere allo sconforto: il
messaggio, ormai, avrebbe già dovuto trovarsi tra le mani di
Pietro da diverso tempo, ma egli tardava ad arrivare.
Per un attimo, Costanza temette che gli fosse successo qualcosa, che
magari persino lui, così integerrimo e distante dalle
convenzioni, si fosse lasciato coinvolgere in quell'assurda smania di
partecipare alla guerra.
No, non può
essere, non è come tutti gli altri, non farebbe mai una cosa
del genere, cercò di consolarsi.
Ritornò a guardare il viale che conduceva al palazzo ancora
per una decina di minuti, poi sfinita ed affranta, la ragazza si
sdraiò sul letto, dove subito si addormentò.
Un rumore alla porta la costrinse ad aprire gli occhi:
sbatté le palpebre un paio di volte, la mente offuscata dal
sonno appena interrotto.
Per un attimo, la sensazione di smarrimento e angoscia che la veniva a
disturbare quasi ogni notte, si ripresentò dopo giorni di
assenza.
Si mise a sedere e cercò di lisciarsi le pieghe del vestito,
passando a darsi una sistemata ai capelli, quindi invitò la
persona dall’altra parte ad entrare.
“Costanza, figliola, c’è Pietro che ti
attende dabbasso. Ha detto che vuole parlare con te
…”
Donna Luisa, un ampio abito color caffè, non aveva un
bell’aspetto, pallida e preoccupata com’era, ma le
occhiaie sembravano essersi decisamente attenuate.
“Finalmente è arrivato!”
esclamò la giovane, alzandosi con entusiasmo.
“Aspettavi forse una sua visita?” si
allarmò la madre, stizzita da quella gioia che traspariva
dalle parole della figlia: per lei, infatti, tutti avrebbero dovuto
mostrare una sorta di lutto per l'allontanamento repentino del
primogenito, per cui non riusciva a comprendere il comportamento di
giubilo mostrato dalla ragazza.
“Sì, ma non è come pensate voi. Questa
mattina gli ho scritto un biglietto per invitarlo a recarsi il
più presto possibile qui a palazzo”
cominciò a spiegare, mentre si avvicinava alla contessa.
“Madre, sono sicura che lui potrà darci notizie di
Nicolò!” continuò la giovane,
stringendo le mani dell’altra donna.
“Come? Perché dovrebbe sapere qualcosa di tuo
fratello? E’ scappato solo da ieri sera, nessuno di noi ha in
mente dove possa essere andato!”
Gli occhi azzurri della moglie del notaio la
fissavano increduli, inverosimilmente grandi in quel volto
pallido e preoccupato.
“E’ una storia lunga, ma abbiate fiducia in me, vi
prego. Ora lasciate che vada a parlargli, ma voi promettete che starete
tranquilla: andrà tutto bene, non temete”
Costanza la abbracciò speranzosa ed uscì dalla camera.
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Capitolo 14 *** Confessioni reciproche ***
Mai si
confiderebbe un segreto ad alcuno, se si avesse abbastanza forza per
mantenerlo.
(Bonaventure
d’Argonne, letterato francese, 1634-1704)
“Pietro! Finalmente siete arrivato!” la giovane gli
andò incontro con un sorriso, indecisa se abbracciarlo o se
mantenere la solita forzata distanza, opzione che alla fine fece
propria.
Il
primogenito dei conti Caccia era stato accomodato in uno dei salottini del piano
inferiore: consisteva in una stanza dalla forma
circolare e le
pareti color pesca, adornate da un caminetto con pietra a vista, un
paio di sofà verde acido ed altrettante poltroncine che,
come fossero state vive, sembravano si stessero crogiolando davanti al fuoco
acceso.
Al
centro della stanza, sul lucido pavimento in marmo bianco, era adagiato
un antico tappeto che ricordava i colori fenici, e su cui era stato
posizionato un basso ed allungato tavolino in stile Luigi XV,
circondato da quattro
sedie di velluto blu, imbottite e dallo schienale rifinito in oro.
In
piedi a pochi passi dalla finestra, le mani dietro la schiena, il
ragazzo si voltò al richiamo della cugina, raggiungendola.
Indossava
un completo bruno ed amaranto, gli stivali neri talmente lucidi da
potersi specchiare.
“Perdonate
il ritardo, ma ho dovuto sbrigare delle faccende assai urgenti. Cosa
è accaduto di così terribile?
Dal messaggio che mi avete fatto recapitare, ho intuito fosse
successo qualcosa di molto grave. Voi state bene?”
La
voce era come al solito calda e suadente: Costanza fissò per
un istante quegli occhi azzurrissimi, quasi privi di calore umano,
quindi abbassò lo sguardo, invitandolo ad accomodarsi su una
delle poltrone.
“Io
sì, ma i miei genitori sono distrutti: Nicolò
è scomparso… è fuggito ieri sera nel
bel mezzo della cena e adesso non sappiamo dove sia finito”
esordì lei, il tono ancora incredulo e preoccupato.
“Come
scomparso? Per quale motivo?”
Pietro sembra davvero stupito,
constatò la giovane, cercando di mantenere la
lucidità necessaria per affrontarlo e per non scoraggiarsi
ulteriormente.
“Dopo
che mio fratello ci ha annunciato che stamattina sarebbe andato ad
arruolarsi nell’Esercito, lui e nostro padre hanno litigato
come non li avevo mai visti fare: si sono detti delle cose terribili,
quasi non li riconoscevo. Erano fuori di sé, non volevano
sentire ragioni ... ”
Poi,
piegandosi in avanti, la voce incrinata, implorò:
“Vi
prego, se voi sapete qualcosa, qualsiasi cosa, vi supplico di non
tenercela nascosta! Siamo disperati: per poter vegliare mio padre che è svenuto, mia madre ed io non abbiamo
dormito un solo minuto questa notte e…”
“Si
è sentito male?” domandò impensierito
l’altro, le sopracciglia chiare aggrottate.
“Sì:
il medico che lo ha visitato ieri sera ci ha assicurato che
è stato un crollo nervoso, una forte isteria pregressa. Con
un paio di giorni di riposo e dei sedativi passerà
completamente, ma non possiamo permetterci altre soprese del genere. Mi
capite?”
“Certo,
comprendo la vostra ansia, però dovete cercare di mantenervi
lucida. Ma ditemi, avete mandato qualcuno a controllare al
Comando generale dell'Esercito di stanza in città?”
Costanza
fece segno di no con la testa, sospirando con quanta forza le era
rimasta: sentiva i polmoni collassati, incapaci di espandersi e di
rilasciarsi, e temeva di non reggere ancora per molto quel groviglio di
emozioni negative che l'avevano investita in così breve ed
improvviso tempo.
“Se
davvero Nicolò è andato ad arruolarsi, almeno per
il momento so che sta bene. Voglio dire, l’angoscia che ho
nel cuore è troppo grande da descrivere, ma fino a quando
questa guerra non comincerà veramente, nutro ancora la
speranza di riuscire a convincerlo a tornare a casa. Nel caso in cui ci
abbia detto una menzogna, se magari adesso è a girovagare
chissà dove, senza cibo, senza denaro, come farò
a rintracciarlo? Per questo, Pietro, vi supplico di raccontarmi la
verità. Che cosa sapete di mio fratello? In cosa
è coinvolto?”
Lui strinse
le mani a pugno e abbassò lo sguardo.
Avvertiva la disperazione nelle parole della cugina e, pur di non
vederla soffrire, sarebbe stato disposto a raccontarle almeno una parte
della storia: aveva bisogno di qualche secondo per riflettere
con calma, per capire se, con la sua confessione parziale,
avrebbe potuto danneggiare qualcuno o rovinare irrimediabilmente i loro
piani.
“Allora
è vero…” rincarò la dose la
ragazza, l’espressione incredula, notando il silenzio carico
di assenso e di dubbio dell'altro.
“Cosa
c’entrano Federico e Nicolò in tutta questa faccenda oscura? Parlate, per l’amor del Cielo!”
sbraitò, alzandosi dalla poltrona e fronteggiandolo.
“Calmatevi
e sedetevi. Vi ho già detto in più di
un'occasione che le vostre sono false intuizioni, dei semplici
vaneggiamenti. Datemi retta, Costanza, non intestarditevi a trovare per
forza un colpevole, perché non esiste nessun complotto,
nessuna congiura... ” tentò di rabbonirla il
giovane, afferrandola per le braccia e facendola retrocedere.
“Sarò
io a decidere se e quando calmarmi! Il tempo delle favole è
ormai finito, dovreste saperlo!” ribatté
l’altra e, dopo avergli tenuto testa per qualche secondo, si
arrese e riprese posto.
Lui sorrise con quel suo abituale modo a metà tra la beffa e
il serio.
"Vi rendete conto che quello che mi state chiedendo va al di
là della vostra comprensione? Voglio dire, gli interessi in
gioco sono talmente grandi e pericolosi che, anche solo una parola
fuori posto detta ad una persona non del nostro giro, potrebbe
rappresentare la condanna per ciascuno di noi, la fine di ogni cosa...
?-
Pietro si alzò e cominciò a camminare avanti e
indietro, le mani dietro la schiena, fino a raggiungere la finestra
davanti a loro: era incredibilmente calmo e rilassato, ma era palese
che stava compiendo un grande sforzo di autocontrollo.
La cugina fissò la sua schiena per qualche attimo,
mordendosi il labbro inferiore: non lo aveva mai visto
così preoccupato e, per un solo minuscolo istante, si era
quasi convinta a ritrarre la proposta che gli aveva fatto, ma non
poteva farlo, lo doveva a suo fratello e ai loro genitori.
"Non vi chiedo di tradire nessuno: non m'interessa in cosa siete
coinvolto, voglio solo scopire perché mio fratello ha
lasciato la sicurezza della nostra casa per avventurarsi in qualcosa di
più grande di lui ... non vi farò domande
scomode, ve lo prometto, però pretendo che voi siate
sincero, null'altro"
Il ragazzo si voltò appena e, scrutandola per un lungo
minuto sul volto pallido e preoccupato, si decise a raccontare.
“Nicolò
ed io facciamo parte di un gruppo di affiliati per
l’indipendenza degli Stati ancora sotto i governi stranieri:
si tratta di una sorta di Carboneria …”
“Lo
avete costretto a farne parte?”
“No,
certo che no!” la guardò contrariato, scuotendo
con vigore il capo “non sapevo neppure che lui fosse un
affiliato, fino a quando non ne abbiamo parlato una domenica, qui a
casa vostra, dopo pranzo. Era il giorno in cui siamo andati insieme a
messa nella basilica, circa un mese fa. Rammentate?”
“Sì,
mi ricordo. Proseguite, per favore” annuì lei,
freddamente.
“In
quella occasione abbiamo discusso delle nostre idee, delle nostre
convinzioni: era fondamentale capire di cosa fosse a conoscenza, di
quali nomi era stato portato al corrente,
così l’ho messo alle strette. Parlando,
gli ho fatto capire che anch’io ero coinvolto nel gruppo e
che sapevo tante informazioni quanto lui”
“Dove
vi ritrovate?”
“Non
sono mai andato alle riunioni: nella mia posizione non posso
permettermi alcun tipo di sbaglio, ne andrebbe di mezzo la mia
famiglia”
“Ma
saprete il nome del capo del movimento, giusto? Come si
chiama?” incalzò ancora una volta
l’altra, seria e volitiva a non demordere.
“Perché
volete saperlo?”
“Nicolò
potrebbe essersi rivolto a lui, dopo che ieri sera
è fuggito. Qui in città, a parte voi, non conosce
nessuno”
Lui tornò a fissarla con quegli occhi azzurrissimi che la
ipnotizzavano: continuava ad essere perfettamente calmo, tuttavia si
lasciò fuggire una smorfia.
“Ascoltate,
vostro fratello è ormai un uomo in grado di prendere le
proprie decisioni in autonomia e, di conseguenza, di assumersi le
responsabilità che ne deriveranno. Se vi può far
stare più tranquilla, vi accompagnerò al comando,
ma non chiedetemi di mettere in mezzo terze persone”
Costanza
abbassò lo sguardo e cercò di controllarsi: come
diamine si permetteva di parlarle in quel modo? Forse non aveva ben
compreso la gravità di quello che gli aveva detto, magari le
stava mentendo, forse non conosceva neppure il nome di
quell’uomo, forse stava solamente cercando di prendere tempo
per permettere a Nicolò di fuggire chissà dove
…
"Volete
mettere alla prova la mia pazienza? Avete appena detto che la vostra
famiglia non sa nulla di ciò in cui siete coinvolto: mi
dispiacerebbe informare gli zii e dar loro un dispiacere, non credete?"
Pietro accavallò le gambe ed incrociò le mani:
non credeva che la ragazzina riuscisse a tenergli testa, era convinto
di farla capitolare alle prime battute, invece doveva amaramente
ricredersi.
“Eugenio Maffucci” si arrese, dopo un attimo di
esitazione.
Sospirò
ed evitò di guardarla negli occhi, verdi ed arrossati dal
furore: era convinto di aver fatto la scelta più giusta in
quel momento, ma non riusciva a non provare un senso di colpa e di
oppressione gravargli sulla coscienza.
Temeva che, se non l'avesse accontentata, quella testarda avrebbe
potuto davvero metterlo in serie difficoltà, non tanto con i
genitori, quanto con le spie che sapeva costellavano la
città.
Si
bloccò per un istante e ritornò verso di lei. Si
avvicinanò con il busto alla ragazza e, a bassa voce, la
convinse suadentemente:
“Dovete
giurarmi che il suo nome non uscirà dalla vostra bocca per
nessun motivo. Mai e poi mai dovrete rivelare a qualcuno
che siete a conoscenza dell’esistenza del nostro
gruppo rivoluzionario. Avete capito? Ne va delle vite di moltissime
persone, di giovani che desiderano solamente la libertà per
tutti noi”
Lei
annuì, sforzandosi di non sorridere: nonostante
l’assurda situazione in cui si era trovata suo malgrado,
ciò non le impediva di provare un’attrazione
oscura verso quel giovane, un sentimento quasi di natura atavica, che
la spingeva ad affidarsi completamente e a credergli senza alcuna ombra
di dubbio.
“State
tranquillo, ve lo giuro, ma adesso continuate. Cosa mi potete dire di
Federico? Anche lui è coinvolto in questa
organizzazione?”
“No,
lui non fa parte del nostro gruppo, anzi” un sorriso amaro
comparve sulla bocca di Pietro, che ritornò a sedersi
composto sulla poltrona davanti a lei, le mani allungate sui braccioli.
“Mio
fratello ha degli ideali completamente all’opposto: in questi
ultimi mesi ha cercato in ogni modo di farmi cambiare idea, convinto
che non avremmo dovuto immischiarci in queste faccende”
“Non
ha tutti i torti …” ragionò ad alta
voce la giovane.
“Ma
non capite?" la sbeffeggiò "diceva così
perché gli tornava comodo: si incontrava con dei traditori
milanesi filo austriaci, che hanno tramato per tutto questo tempo alle
nostre spalle. Lui e quelli come lui non sono disposti a rischiare la
propria vita per un ideale, non vogliono un’Italia unita
sotto un unico sovrano legittimato dal popolo! Desiderano solamente la
nostra rovina, non rendendosi conto che saranno loro i primi a pagare
per gli sbagli commessi ...”
“Abbassate
i toni, per favore. Mia madre o qualcuno dei domestici potrebbe
sentirci …”
L’altro
si scusò e lanciò un’occhiata alla
porta davanti a loro.
“Adesso
che l’armistizio è stato denunciato sarete
contenti. Finalmente avrete la vostra guerra, i vostri morti sulla
coscienza …” biasimò amareggiata
Costanza, scuotendo il capo.
“Se davvero
pensate questo, siete
sulla strada sbagliata. Molti del gruppo, io per primo, non sono
d'accordo sulla fine del periodo di pace. Ma la cosa non dipende da
noi, dovreste immaginarlo: da qui, da questa città non
possiamo fare nulla per cambiare la situazione... ”
Lei
tornò ad agitarsi: avrebbe sbriciolato volentieri qualsiasi
cosa le fosse capitato tra le mani, solo per il gusto di sfogare la
rabbia e la delusione che avvertiva scaldarle il petto, solo per
dimostrare al cugino che era una persona viva, con dei sentimenti che
la facevano vivere e non sopravvivere, che era una giovane donna che
sapeva pensare con la propria testa, invece di sottostare passivamente
ai capricci degli altri.
“A
Torino, nella capitale, a cosa serve il Parlamento?”
sbottò.
“Se
è davvero giusto quello che fate, dove sono i deputati che
appoggiano la vostra causa? Perché nessuno è
intervenuto per fermare il Re?!”
"Purtroppo,
chi detiene il potere, troppo spesso si preoccupa esclusivamente dei
propri interessi e non di quelli del popolo"
sbottò deluso l'altro.
"Comunque è vero, sono fermamente convinto che bisogna fare
qualcosa per scacciare una volta per tutte gli oppressori: sosteniamo
una guerra di difesa, non d’attacco. Quando abbiamo saputo
che il Re aveva dato il via libera a riprendere le ostilità,
siamo stati investiti da un grande sconforto. Anche Federico non si
aspettava una mossa del genere, tanto azzardata quanto folle. Lui e i
suoi amici avrebbero preferito arrendersi fin da Custoza* ”
I
due rimasero in silenzio per una manciata di secondi, ognuno a
riflettere sulle parole che il cugino aveva pronunciato.
Le
tende spumose color ciano erano state leggermente tirate, in maniera da
permettere alla debole luce di marzo di entrare nella stanza: le
campane di una chiesa in lontananza batterono le undici, mentre nella
strada adiacente la villa si poteva udire piuttosto distintamente il
rumore delle ruote di qualche rara carrozza che attraversava il
selciato di terra battuta, per lasciare il posto ai carretti dei
contadini che si avviavano verso le vaste distese coltivate a mezzo
chilometro dal palazzo.
“Pietro,
spero che tutto ciò che accadrà non faccia
soffrire nessuno di noi, che potremo uscire sani e salvi dagli
avvenimenti che ci travolgeranno. Ma vi prego, datemi
l’indirizzo di questo Maffucci: forse lui riuscirà
a far rinsavire Nicolò e a riportarlo a casa”
riprese sinceramente lei, fissando i suoi occhi verdi in quelli chiari
dell’uomo.
“Lasciate
che ci parli io con Eugenio” cercò di farla
ragionare, facendo leva sull’evenienza, tutt’altro
che rara, che l’uomo non avrebbe rivelato nulla ad
un’estranea.
“Non
chiedetemi questo, sapete che non posso. Se non volete che ci vada da
sola, portatemi con voi, ma non lasciatemi ancora nel dubbio e
nell’incertezza, vi prego”
Il
ragazzo ricambiò lo sguardo di pochi istanti prima, quindi
lo abbassò.
Prese ad
aprire e chiudere i pugni, cercando di riflettere per trovare una
soluzione: come avrebbe reagito Eugenio alla vista di Costanza? Che
cosa sarebbe stato disposto a confessarle? In tutta la sua vita non era
mai stato così in difficoltà come in quel momento.
“D’accordo.
Però, promettetemi che non farete mosse azzardate: se
è quello che desiderate, vi
permetterò di seguirmi, anche se non so quanto potrete
partecipare alla conversazione”
“Perché
no? Se non lo farete, non esiterò a mettervi in cattiva luce
con i vostri tanto beneamati compagni, rivelando che non avete avuto
alcuno scrupolo a confessarmi l’esistenza del gruppo! E'
questo che volete?”
In
quel momento, la ragazza avvertiva il peso della frase pronunciata come
la più falsa tra le accuse: si sentiva vergognosamente vile
e si accorse della cattiveria che trapelava dalle sue parole.
Sebbene
non avrebbe mai tradito il cugino, neppure davanti agli altri
affiliati, anzi, soprattutto davanti a loro, non poteva e non voleva
rischiare di non trovare il fratello: era la cosa migliore da fare, non
solo per lui ma anche per i suoi genitori.
L'uomo allargò le braccia e alzò un sopracciglio,
celando la voglia di minacciarla velatamente per farle cambiare idea,
ma era anche ammirato dalla sua caparbietà, quindi
lasciò stare.
“Touché,
avete vinto voi. Dobbiamo sbrigarci, però: siete disposta ad
uscire adesso?”
Lei
si alzò ed annuì convinta: si lisciò
la gonna color bronzo e abbozzò un sorriso.
“Sì, certo che sì. Lasciatemi solo un
minuto per avvertire mia madre e poi sono pronta”
*
La battaglia di Custoza si combatté il 25 luglio 1848, tra
l'esercito dei Piemontesi e gli Austriaci che, a capo del
feldmaresciallo Radetzky, sconfissero il generale La Marmora e i suoi
soldati.
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Capitolo 15 *** Verità o menzogna? ***
Nessun
uomo ha una buona memoria sufficiente a farne un bugiardo di successo.
(Abraham
Lincoln, avvocato e sedicesimo Presidente degli Stati Uniti d'America,
1809-1865)
La carrozza procedeva a velocità sostenuta: Costanza aveva
avvisato la madre della sua uscita, senza darle false speranze, ma
dicendole semplicemente di pregare e confidare nella buona sorte che, tra l'altro,
stava permettendo al padre di riprendersi.
Il
cielo era pennellato di strisce grigie, che si alternavano alle macchie
azzurre, pronte a giocare a nascondino con le rare e lattescenti nubi.
Avevano
lasciato dietro di loro la campagna coltivata e quella incolta, le
spighe di grano che vibravano all'impercettibile brezza di fine marzo,
il giallo dorato delle pannocchie e il Ticino che scorreva pigro ed
arido, insinuandosi tra gli argini artificiali delle dighe, per
addentrarsi oltre le mura romane della città.
Era ormai mattino inoltrato, quindi bisognava sbrigarsi, per non
perdere ulteriore tempo prezioso.
“Prima,
quando mi sono presentato a casa vostra, vi ho detto che ero arrivato
in ritardo perché avevo avuto delle faccende urgenti da
sbrigare …”
Pietro,
che fino a quel momento si era limitato ad osservare il paesaggio
cittadino sfilare fuori dalla Landau, si girò nella
direzione della giovane, fissandola in volto.
“Sì,
me lo ricordo. Ebbene?”
La
fissò negli occhi, trapassandola quasi con
quell’intensità che solo il suo sguardo di
ghiaccio riusciva a possedere, facendole vibrare la pelle
lungo la spina dorsale e contorcendole la bocca dello stomaco.
“La
verità è che ero da Eugenio, per commentare
ciò che sta accadendo in questi giorni nel Regno”
Deglutì
a fatica, quindi continuò:
“Il
fatto è che non ho visto Nicolò. Questo sapete
che cosa vuol dire, vero?”
Lei
annuì con aria greve, cercando di concentrarsi sulle parole
poco fauste che le aveva appena rivelato.
“Certo
che lo so: o il vostro amico ha mentito, nascondendo di proposito mio
fratello - ma è un’eventualità che mi
sentirei di escludere- oppure, quell’incosciente di
Nicolò, è davvero andato ad arruolarsi”
rispose con insolita calma la ragazza, lanciando un’occhiata
distratta fuori dal finestrino, mentre il silenzio ripiombava
nell’abitacolo.
“Quale
eventualità preferireste?”
“Sinceramente
non saprei: in tutta questa storia, ogni cosa mi sembra assurda. Se
penso che ieri sera, a quest’ora, eravamo ancora insieme, che
nulla di tutto questo era accaduto, mi spinge a pensare di
essere in un brutto sogno ad occhi aperti”
Pietro
si umettò le labbra e s’incurvò,
accarezzandole con comprensione una spalla.
“Non
fatemi pentire di avervi portato con me, Costanza. Ricordatevi che io
mi sono fidato della vostra parola. E ora, godiamoci le vie del
centro”
Si
adagiò nuovamente contro il sedile imbottito e, scostando le
tendine nere, si abbandonò a guardare oltre i vetri,
lasciando la giovane in uno stato emotivo a metà tra
l'agitazione e un vago disprezzo per la matura freddezza dell'uomo: non
avrebbe avuto senso proseguire a punzecchiarsi, forgiare nuove
recriminazioni, dovevano solamente concentrarsi ed unire le forze per
ritrovare il primogenito dei Granieri.
Qualche
minuto più tardi, finalmente, raggiunsero
l’abitazione di Maffucci, un appartamento in Corso Sempione.
Lo
stabile aveva la facciata decorata con stucchi e colonnine di granito
rosa, su cui sporgevano un balconcino bombato e un paio di strette
finestre con le inferriate.
“Eugenio
studia da avvocato” spiegò Pietro, mentre aiutava
la cugina a scendere dalla carrozza, l'orlo della gonna color bronzo
che si sollevava timidamente.
“E’
per colpa della Facoltà che frequenta che si è
messo in testa di cambiare il mondo?” ribatté
cinica, ammorbidendo le parole con un sorriso di gratitudine.
“Scusate
se non riesco ad essere rilassata, ma ho il cuore in tumulto”
“Vi
capisco, non avete nulla da farvi perdonare. Ma ora è meglio
se mi aspettate qui: non credo sia una buona idea salire con me
…”
Costanza
assunse un’espressione di sdegno e sfida al contempo,
scuotendo con convinzione il capo.
“Pietro,
mi avevate promesso che sarei potuta venire anch’io! Lo avete
già dimenticato?”
“E’
quello che ho fatto, ma non ho mai precisato fino a dove avreste potuto
seguirmi” precisò con assoluta calma.
L’apparente
e vaga ansia che erano trapelate dal giovane, appena un’ora
prima, sembravano essersi vaporizzate nel nulla, lasciando il solito
spazio alla sicurezza e all’impenetrabilità che lo
avevano sempre contraddistinto.
“Non
prendetemi in giro! Avete capito a che cosa mi sto riferendo! Guardate
che ci metto un secondo a cambiare idea e a raccontare ai vostri amici
da quattro soldi che mi avete confessato ogni cosa di vostra spontanea
volontà!”
Il
cugino sospirò rumorosamente, le mani sui fianchi
dell’elegante giacca bruna ed amaranto.
Scorse rapidamente la strada che si apriva dietro di loro, a conferma
che nessuno li avesse seguiti, deformazione del suo lato da cospiratore
rivoluzionario.
Si
decise quindi a prenderla per un braccio, avviandosi a passi
svelti verso l’androne del palazzo di inizio secolo.
“Pietro,
cosa ci fai ancora qui?!” lo apostrofò stupito
Maffucci, una volta aperta la porta.
Indossava
una redingote nera su dei pantoloni beige, ai piedi degli stivali di
pelle, e sembrava davvero stupito di vederlo.
“Ho
bisogno di parlarti” venne subito al punto l’altro
uomo, il cappello in mano.
“D’accordo,
entra pure …”
“Aspetta”
lo bloccò il conte Caccia, voltando lo sguardo in direzione
di Costanza, rimasta nascosta nella penombra del pianerottolo, a pochi
passi da loro.
“Ci
sarebbe un’altra persona, qui con me. Può
entrare?”
“Dipende
da chi si tratta, lo sai ... ”
Eugenio
cominciava a diventare sospettoso: gli occhi scuri saettavano dalle
scale all’amico davanti a lui, mentre i baffetti curatissimi
quasi sembravano vibrare dall'ansia, perfettamente tenuta sotto
controllo.
“E’
una donna: possiamo fidarci di lei, te lo assicuro”
Maffucci
stemperò la tensione sciogliendosi in una risata: poi, dopo
aver dato una pacca di incoraggiamento a Pietro, si affacciò
alla porta.
Finalmente,
scorse anche Costanza, alla quale si inchinò scherzosamente,
quindi li agguantò entrambi, facendoli entrare
nell’appartamento.
“Potevi
anche dirmelo che avevi una fidanzata! Siete molto graziosa,
signorina…?”
“Non
sono la sua fidanzata” precisò asciutta la
ragazza, facendosi avanti.
Il
salottino in cui i tre si erano accomodati odorava di sigaro: non era
molto grande, ma accogliente, con le pareti di damasco rosso tappezzate
di costosi quadri e alti scaffali di mogano scuro, contenenti dozzine
di volumi rilegati dalle coste argentate e dorate.
“Oh,
scusate, non volevo offendervi” continuò
allegramente.
Mentre
si versava un bicchierino del liquore posto sul tavolino rotondo,
vicino al divanetto ocra su cui era seduto, non smetteva di fissare la
nuova arrivata: era decisamente curioso di conoscerne
l’identità, ma non voleva affrettare i tempi,
sebbene gli costasse un enorme sforzo di pazienza.
Pietro
rifiutò di fargli compagnia nella bevuta, preferendo venire
subito al sodo.
Lanciò
un’occhiata di approvazione da parte della cugina, composta
nel suo completo color bronzo, le mani fredde adagiate sulle ginocchia,
quindi esordì:
“Eugenio,
abbiamo bisogno di parlare con Nicolò, è molto
importante. Tu hai idea di dove possa trovarsi?”
Maffucci
si irrigidì all’istante: appoggiò con
foga il bicchierino sul ripiano da cui lo aveva preso pochi istanti
prima, quindi si alzò di scatto, invitando anche gli ospiti
a fare altrettanto.
“Non
conosco nessuna persona di nome Nicolò. E ora, per favore,
lasciatemi in pace. Sono molto impegnato …”
Il
trentenne spinse fuori dalla stanza i due ospiti, risparmiando
abbondantemente i convenevoli, e senza permettere loro di sprecare
altro fiato in inutili giustificazioni.
“Aspettate,
vi prego!” riuscì a dire Costanza, liberandosi
dalla stretta dell’uomo, che ormai si era apprestato ad
aprire la porta.
“Vi
ho già detto che non so chi sia la persona che state
cercando! Per cui sono io, cara signorina, che prego voi e il
vostro accompagnatore di uscire immediatamente da casa mia! Hai capito,
Pietro, la cosa vale anche per te!”
Avvertendo
la tensione e la svolta che stavano aleggiando nel salotto, la ragazza
si piantò in mezzo alla soglia, guardando con tutta la
sincerità e la disperazione di cui fosse capace
quell’uomo alto e dinoccolato che le si parava ostinatamente davanti.
“Sono
sua sorella! Nicolò è fuggito ieri sera da
palazzo: i miei genitori ed io siamo disperati, credetemi! Ha detto che
sarebbe andato ad arruolarsi, ma speravo che voi avreste potuto
aiutarmi, che magari si trovasse addirittura qui, al sicuro con un
amico, una persona che conosce! Per favore, ascoltatemi un solo
istante…”
Eugenio
la guardò torvo, mordendosi il labbro inferiore: scosse la
testa, poi puntò gli occhi scuri su Pietro, infine sorrise
amaramente.
“Perché
ci hai traditi? Perché le hai raccontato tutto?”
L'interrogato
lo guardò a testa alta, le sopracciglia aggrottate in
un'espressione indecifrabile.
“No, non è colpa di mio cugino!" si
affrettò a difenderlo lei, frapponendosi tra i due.
"Sono stata io che ho insistito, che l’ho supplicato di
rivelarmi qualsiasi cosa sapesse, anche la più
insignificante! Non ve la prendete con lui, signor Maffucci, ha agito
solo per il bene di mio fratello, ve lo posso giurare!”
Il
capo degli affiliati rimase in silenzio per una manciata di secondi,
indeciso su come comportarsi.
Si
mordicchiò un paio di volte il labbro inferiore, poi
passò a quello superiore, quindi picchiettò
ritmicamente il piede destro sull’elegante pavimento di
parquet.
La
pendola alle sue spalle segnò le undici e mezza, riscuotendo
i presenti dal tempo sospeso in cui erano piombati: il proprietario
dell'elegante appartamento non perse di vista un solo istante i due
malgraditi ospiti, quasi a voler indagarli nel profondo, per capire se
stessero dicendo la verità o, piuttosto, lo volessero
subdolamente ingannare.
Trascorse
un altro minuto, quindi Eugenio si arrese all’evidenza:
Pietro sapeva troppe cose, era un ottimo informatore, e lui non avrebbe
potuto mentirgli, pur essendo il burattinaio che tirava le
fila di ciascun componente del gruppo.
Si sfiorò i baffetti scuri perfettamente curati, e
pronunciò il suo verdetto, il tono roco ma sicuro.
“Va
bene, potete rimanere, però siate consapevoli del fatto che
dovrete raccontarmi una storia più che convincente,
perché altrimenti giuro che dalla mia bocca non
uscirà nemmeno una sillaba!”
NOTA
DELL'AUTRICE
Buonasera
a tutti, carissimi lettori!!!
Grazie
infinite per continuare a seguire la mia storia, mi date un'immensa
soddisfazione!
Ovviamente,
fatemi sapere, se volete, cosa ne pensate.
A
presto!
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Capitolo 16 *** Il finto intellettuale ***
Chi
non conosce la verità è uno sciocco, ma chi,
conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente.
(Bertold
Brecht, drammaturgo tedesco, 1898-1956)
L’albergo svizzero era ubicato all’angolo tra la
via che fiancheggia Palazzo Orelli, sede del mercato dei grani, e
piazza delle Erbe.
Era imponente, ma forse le appariva tale perché il cuore non
faceva altro che accelerare i battiti, tanto da sentirli riecheggiare
nelle orecchie.
La facciata era rossastra, costruita con possenti mattoni a vista: su
di essa, si apriva un lungo balconcino bombato in ferro battuto, decorato
da fini arzigogoli, oltre ad una dozzina di finestre alte e strette,
disposte su tre piani, con le inferriate agli infissi e i tendoni di
velluto scuro ad impedire ai curiosi di spiare all’interno
delle stanze.
Trovarsi di fronte a quell’edificio, proprio in quel momento,
non poteva far altro che aumentare la confusione mentale di Costanza
che, ad un solo passo dalla meta, non voleva e non poteva
arrendersi, lasciando che i dubbi la divorassero.
Grazie alla pazienza ed alla collaborazione, a tratti irritante, di
Maffucci, la giovane era riuscita a sapere dove si trovava
Nicolò e, soprattutto, come aveva trascorso le ore
immediatamente successive alla fuga da casa: Eugenio, infatti, dopo
che l’alba era sorta,
aveva accompagnato l’amico alla sede dell’Esercito
sabaudo; adesso, le sue parole trionfe e beffarde continuavano a
risuonarle nei timpani.
“Nicolò
avrebbe dovuto raggiungermi a Borgomanero, questa mattina stessa: sono
in contatto con dei compagni milanesi, a loro volta molto intimi con
delle ex spie filo austriache. Il nostro scopo sarebbe stato quello di
effettuare un’imboscata nei giorni successivi la denuncia
dell’armistizio, quando le truppe nemiche avrebbero avanzato
verso la città, se solo fonti sicure non
ci avessero sconsigliato di preparare l’attacco,
perché la nostra zona non è considerata ancora
priva di pericoli”
Il trentenne avvocato si stava accendendo un sigaro, quando
l’occhiata eloquente di Costanza lo spinse a desistere: la
ragazza, infatti, detestava profondamente l’odore di fumo,
bollandolo come uno stupido e omologato vizio da uomini.
Il capo degli affiliati la guardò per un breve istante,
sorridendo sotto i baffetti neri: doveva riconoscere che aveva
carattere, che sapeva imporsi e, queste qualità, rare in una
donna, lo spronavano ad interessarsi sempre di più alla sua
persona.
“E’
stata una banale coincidenza che abbia incontrato vostro fratello
appena fuori le mura cittadine”
continuò a spiegare, la redingote nera sollevata come la
coda di una rondine, piacevolmente in contrasto con i pantaloni di raso
beige: per consolarsi si versò un altro sorso di liquore e
riprese a raccontare.
“Grazie alle
informazioni di questi amici milanesi, il nostro gruppo ha deciso di
lasciar perdere l’attentato, per questo sono rientrato
già ieri sera in città: il cavallo di
Nicolò correva veloce nel buio della notte e, nella
concitazione del momento, quasi rischiava di finire sotto le ruote
della mia carrozza. Il cocchiere è un affiliato, per cui non
ha posto alcuna domanda, ma ha prontamente aiutato vostro fratello a
riprendersi dal miracoloso incidente, miracoloso perché
sfiorato per un colpo di inattesa buona sorte, credetemi! Né
lui né il cavallo –tra l’altro
permettetemi di dire che è uno splendido esemplare di
frisone nero- hanno riportato danni. Così, ci siamo rimessi
in marcia e, poco dopo, abbiamo fatto ritorno nel mio appartamento,
dove il buon Nicolò ha vuotato il sacco!”
La
giovane si ritrovò a pensare che
quell'uomo era a dir poco volgare e privo di scrupoli, cercando di
mantenersi calma per ricavare il maggior numero di informazioni
possibili: riportare a casa il fratello era l’unico scopo di
quell’assurda visita, lo aveva velatamente promesso alla
madre e, indirettamente, anche al padre, sebbene non volesse accennare,
nemmeno lontanamente, alla fuga del primogenito.
Non poteva deluderli, desiderava solamente che tutta quella
brutta storia si concludesse già quella mattina stessa, che
ogni cosa ritornasse al proprio posto, un ordine naturale ed apparente
che governava le loro esistenze da quando erano nati, il mondo degli
aristocratici, che tutto avrebbero potuto fare, tranne rischiare
volutamente la propria vita, tra l’altro per un
irrealizzabile ideale borghese.
“Desidererei
darvi un consiglio …” riprese
imperterrito il giovane, appoggiando il bicchierino ormai vuoto sul
tavolino rotondo di cristallo, a pochi centimetri dal divanetto ocra su
cui aveva preso posto.
“Nicolò
non cambierà idea, ne sono certo
…”
“Non potete
esserne sicuro, per il semplice fatto che non lo conoscete abbastanza. Non credete?” gli
fece presente fiduciosa e rancorosa Costanza, stropicciandosi
l’ampia gonna bronzea.
“Può
darsi che sia come affermate voi, ma ricordatevi che non si
può dire di conoscere una persona fino in fondo, nemmeno se
vivete con lei da una vita: essa ci terrà sempre dei segreti
nascosti e, se si è bravi ad indagare, chissà che
non si riesca a scovarli”
“Non mi piace
questo vostro modo di parlare: pretendo chiarezza, signor Maffucci, non
oracoli sibillini” lo fermò senza
troppi complimenti, dimenticandosi della presenza rassicurante, e
ingombrante allo stesso tempo, di Pietro, che era rimasto silenzioso ed
attento accanto a lei.
“Touché,
perdonate la mia insolenza”
acconsentì con un sorriso sornione, lanciando
un’occhiata colma di indecisione al bicchierino vuoto accanto
a loro.
“Però,
quello che intendo dire, è che è la
qualità del tempo che si trascorre con una persona a poterci
permettere il lusso di avanzare qualche pretesa su di essa, e non la
quantità”
Tornò a fissare gli occhi scuri in quelli verdi della sua
interlocutrice, certo di aver fatto leva sulla sensibilità
emotiva della ragazza.
“E’
vero, è da pochi mesi che frequento vostro fratello
e, rispetto agli anni che avete vissuto in comune, riconosco essere una
nullità, ma so quello che dico, signorina Granieri, e
Nicolò non è un uomo da rimangiarsi la parola
data: di questo dovreste esserne orgogliosa, sappiatelo”
“Ve la sentite di entrare?” la voce calda e
suadente di Pietro riscosse dai pensieri la cugina, che
annuì convinta, desiderosa di cancellare dalla mente
quell’assurda quanto irritante conversazione con quel buono
annulla di avvocato rivoluzionario, capace solo di rimanere al sicuro nella sua casa.
Sollevò quel tanto che bastava l’orlo del vestito
color bronzo, per riuscire a salire il più agilmente
possibile i gradini che la separavano dal fratello: con una mano teneva
la pochette
nera e, con l’altra, reggeva il cappellino legato sotto il
mento, come in un gesto di inconsapevole rassicurazione.
Poi, finalmente, entrò, i dubbi e le incertezze lontani anni
luce.
Le sale dell’albergo erano un via vai di soldati in uniforme,
per lo più ufficiali che passeggiavano nervosi da una stanza
all’altra, in attesa di dare e ricevere ordini.
“Sarà meglio chiedere a qualcuno
…” si azzardò a suggerire il conte
Caccia, notando lo spaesamento della ragazza.
“Sì, certo. Conoscete qualche persona a cui
possiamo rivolgerci?”
“Purtroppo, l’ambiente che frequento non si
può certo dire militaresco” cercò di
sdrammatizzare Pietro, stringendole teneramente il braccio sinistro.
“Aspettatemi qui, proverò a parlare con
quell’uomo seduto vicino alla finestra. Torno
subito”
Costanza fece per seguirlo ma, almeno in quella occasione, si
impose di obbedire e di rimanere al proprio posto.
Avvicinò con maggiore forza la pochette al suo
ventre, e si guardò intorno: quando erano entrati, un paio
di soldati li aveva fermati per chiedere dove stessero andando, un
cipiglio sospettoso sul volto.
Grazie alla prontezza del cugino, il quale aveva mostrato loro lo
stemma dei Caccia impresso sull’anello che portava
all’anulare destro, erano riusciti a passare e a proseguire
la ricerca, senza essere ulteriormente disturbati.
Tuttavia, dopo le due guardie all’ingresso, quella marea di
uomini in divisa, indaffarati nelle faccende di guerra a lei
completamente estranee, quasi non si preoccupavano della sua presenza.
La sfioravano appena con lo sguardo, per poi ritornare a fissare mappe
e altri documenti misteriosi, sicuri che quella giovane donna fosse la
fidanzata di qualche ufficiale lì allocato.
Finalmente, dopo un paio di minuti di attesa, Pietro le fece cenno di
raggiungerlo all’altro capo della sala.
“Tenente Chiusano, vi presento la signorina
Granieri”
Costanza si lasciò fare il baciamano, quindi
ringraziò il graduato per averle concesso udienza.
Dimostrava una quarantina d’anni, i capelli scuri e gli occhi
chiari, che contrastavano con gli eleganti baffi a manubrio,
più lunghi rispetto a quelli di Maffucci.
Indossava l’uniforme blu della Brigata Piemonte, con
colletto, paramani e filettature di colore rosso.
Si tolse il kepì di panno cremisi calato sulla testa e
attese di essere interrogato.
“Ditemi, tenente, sapete dove posso trovare mio fratello
Nicolò? In famiglia non abbiamo notizie di lui da ieri sera
…” proseguì preoccupata, mentre
l’ufficiale invitava i due nuovi venuti ad accomodarsi ad un
tavolino apparecchiato con una tovaglia candida.
“Vostro fratello è stato protagonista di un
curioso fatto” rispose sorridendo: aveva una dentatura ben
curata, rasente la perfezione, e labbra spesse quanto bastava per non
essere ritenute femminili.
“Questa mattina, quando si è presentato in
albergo, si è fatto passare per un giovane intellettuale,
fornendo alle guardie di collocamento una falsa identità.
Così, dal momento che non aveva mai servito
l’esercito e non aveva esperienza alcuna sui campi di
battaglia, l’ufficiale che si occupa
dell’arruolamento lo ha inserito nella Quarta divisione con
mansione di soldato semplice …”
Il tenente bevve un sorso del vino liquoroso che era stato portato al
tavolo, quindi continuò la storia:
“Ebbene, mentre veniva condotto al piano superiore, dove
avrebbe condiviso una stanza con altri commilitoni, un nostro giovane
sottoufficiale lo ha riconosciuto, chiamandolo con il suo nome, quello
autentico, intendo.
Dapprima, vostro fratello ha fatto finta di non aver udito, ma quando
il furiere in questione gli si avvicinò, il giovane Granieri
fu costretto a rivelare ogni cosa. Per farla breve, signorina, ha
davvero molta inventiva, non si può dire
altrimenti!”
Chiusano concluse il suo discorso abbozzando un sorriso divertito, che
non piacque per nulla a Costanza.
“Vi ringrazio per il fedele resoconto, signor tenente, ma ora
potete dirmi dove si trova mio fratello? E’ ancora qui in
albergo, o lo avete mandato via?”
Pietro, avvertendo l’impazienza e il fastidio trapelare dalle
parole della ragazza, intervenne per scongiurare il peggio:
“Infatti, signore, ci confermate la presenza di mio cugino in
questo albergo?”
“Certo, conte Caccia, altrimenti perché mi sarei
soffermato a parlare con voi e a raccontarvi l’episodio
occorso poche ore fa?” replicò con un moto di
stizza l’ufficiale.
La giovane si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
“In questo momento è impegnato negli addestramenti
giornalieri: grazie alla sua levatura sociale, abbiamo chiuso un occhio
sulla piccola bugia che ci ha raccontato questa mattina, promuovendolo
all’istante ad aiutante in campo del capitano Canavera. Se
avrete la pazienza di attendere, ve lo farò chiamare: le
esercitazioni stanno per finire” concluse alzandosi, e
lanciando un'occhiata compunta alla grande pendola di noce che svettava
sulla parete di fronte a lui.
Costanza guardò Pietro, l’impulso irresistibile di
abbracciarlo per la felicità che la stava invadendo, quindi
rispose entusiasta che sarebbe stata ben lieta di aspettare.
Diede ancora un rapido quanto ansioso controllo alla stanza in cui
erano stati accolti, emozionata dell'incontro che si apprestava a fare.
"State tranquilla, andrà tutto bene" cercò di
rassicurarla Pietro, posandole dubbioso una mano sulle sue, incollate
alla pochette.
Le parole di Maffucci, infatti, gli stavano tornando alla mente,
impedendogli di pensare ad altro: Nicolò
non tornerà indietro, non è un uomo da
rimangiarsi la parola data.
Qualunque cosa li aspettava, sarebbe andato fino in fondo: non poteva
pentirsi della scelta che aveva compiuto, sarebbe stato da codardo,
soprattutto dopo che aveva messo a repentaglio l'intera organizzazione,
sebbene avrebbe fatto a mano di esporsi inutilmente all'albergo
svizzero.
Anche lui, come Eugenio, era convinto che il cugino non avrebbe
cambiato idea: non sarebbe tornato a casa, perlomeno non volutamente, e
di questa certezza Costanza avrebbe dovuto cominciare a rassegnarsi.
A sinistra, uno
scorcio di PIAZZA
DELLE ERBE e a destra una cartolina ottocentesca di Piazza Martiri (allora piazza Castello), su cui si affaccia, sulla destra, palazzo
Orelli, che già abbiamo trovato nel capitolo ottavo, teatro dell'incontro tra Federico Caccia e il suo misterioso
interlocutore.
La
divisa della Brigata Piemonte, quella indossata dal
tenente Chiusano Ferraris: la descrizione del militare
è stata da me inventata, anche se, in realtà, i
cenni storici che ho trovato parlano di un luogotenente Chiusano
Ferraris, che venne insignito della medaglia d'argento dopo la
battaglia della Bicocca, mentre il capitano Giuseppe Canavera -di cui
faremo la conoscenza più avanti- fu ricordato in una
menzione speciale, sempre nel medesimo combattimento del 23 marzo 1849.
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Capitolo 17 *** Un ragazzo diventato soldato ***
La storia mi
giustificherà.
(Generale Gerolamo
Ramorino, 1792-1849)
Non appena lo vide, tutta la preoccupazione, la delusione,
l’ansia e la rabbia svanirono all’istante,
lasciando posto al sollievo più immediato.
Costanza
si precipitò ad abbracciare il fratello, la sala ristorante
-ampia, le pareti intonacate di bianco e una miriade di tavolini dalle
tovaglie perfettamente inamidate- che si stava lentamente
riempiendo di ufficiali.
“Oh
Nicolò, che gioia ritrovarti! Come stai? Ti prego, torna a
casa, la mamma è preoccupatissima e papà si
è addirittura sentito male!”
La
giovane lo strinse in un affettuoso abbraccio, in attesa di una sua
risposta.
“Così
mi stropiccerai la divisa …” riuscì
solo a dire il ragazzo, sistemandosi la tunica monopetto blu.
Il
viso era imperlato di sudore e rifletteva un’espressione
affaticata: i capelli scuri e ricci erano un groviglio spettinato da
chissà quale cieco furore, mentre la mano destra impugnava
l’elsa della spada, protetta nel fodero al suo fianco.
La
sorella si allontanò di un paio di passi, incredula che
quell’uomo duro e senza emozioni fosse davvero il fratello
perduto, impettito nella divisa sabauda.
“Hai
sentito quello che ti ho appena detto? A casa siamo tutti preoccupati
per te! Sono sicura che riusciremo a convincere il tenente Chiusano a
lasciarti andare! Gli spiegheremo che è stato tutto un
enorme malinteso e …” cominciò
impaziente, cercando di non perdere la lucidità necessaria
per convincerlo.
“Mi
dispiace per nostro padre, ma non so come il mio eventuale ritorno
possa giovargli. Ti sei già scordata del modo in cui mi ha
trattato? Hai dimenticato che voleva farmi seguire?”
Gli
occhi color ambra erano vacui, e fissavano con disprezzo la
giovane che aveva davanti, come se non la vedesse: era
palesemente impaziente di troncare l'intera conversazione, e l'ultima
cosa che gli importava era di urtare i sentimenti di Costanza.
Per lui, ormai, la sua famiglia non esisteva più, ed era
inutile prestarsi a quella infantile rimpatriata, quando entrambi
sapevano che il loro sarebbe stato un addio: tanto valeva sbrigarsi,
evitare di farla soffrire più del necessario,
perchè non avrebbe giovato a nessuno.
“Per
favore, Nicolò, ascoltala. Sono convinto che potremo
dimostrare la nostra avversione contro il nemico anche in un altro
modo, senza per forza doverti arruolare nell’esercito! Sarai
costretto a sottostare a degli ordini, non potrai tirarti indietro! E
poi, da quello che ci ha detto il tenente Chiusano, tu non sai neppure
come si deve comportare un soldato!” s’intromise
Pietro, che fino ad allora era rimasto in disparte, dietro
Costanza.
“Tu,
invece, sai perfettamente come si comporta un traditore! Tu e
quell’ingrato di Maffucci non avete avuto alcuna remora a
spifferare ogni cosa alla mia sorellina!” ribatté
l'altro, beffardo e sorridendo grottescamente.
Era come un automa, immobile ed in balia di mosse predestinate: apriva
la bocca per ribattere, ma senza alcuna convinzione reale.
Il corpo era perfettamente fermo ed allineato, in attesa che
l'invisibile burattinaio tirasse le file e gli suggerisse quale mossa
avrebbe seguito alla successiva, quale gesto o frase avrebbe sfoderato per impressionare i suoi interlocutori.
“Smettila
di parlare in questo modo!” tornò a farsi avanti
Costanza, perdendo le staffe.
“Sono
stata io ad accorgermi di tutto. Ti ricordi di quella sera a teatro,
quando siamo andati a vedere l’opera di Donizetti? Ho visto
che litigavi con Federico e, quando ieri sera sei scappato, ho subito
pensato di chiedere aiuto a Pietro, perché ero certa che lui
sapesse molto di più rispetto a quello che avevi raccontato
a casa! E, infatti, non mi sono sbagliata! L’ho costretto a
portarmi da Maffucci, altrimenti lui non lo avrebbe mai fatto.
Credimi!”
Nicolò
sospirò rumorosamente, levando gli occhi al soffitto
intonacato di bianco:
“Ormai
non è importante come si sono svolte le cose. Adesso sono
qui, ed è mia ferma intenzione rimanerci fino a quando non
vinceremo ogni singola battaglia! Ora devo andare a finire
l’addestramento. Con permesso” concluse il ragazzo,
il solito furore negli occhi.
“Aspetta!
Dimmi almeno se potremo trovarti sempre all’albergo
svizzero!” lo rincorse la sorella, bloccandolo per un braccio.
“Non
credo. Domani mattina oltrepasseremo il Ticino, per unirci al resto
delle truppe. Il generale Ramorino ha ricevuto ordini da Sua
Maestà in persona di accerchiare il nemico attorno a Pavia,
contando sull’appoggio della Legione Lombarda Ticino e
… basta, vi ho già detto troppo” si
zittì, voltandosi ed uscendo dalla sala ristorante.
“Ci
sarà presto una battaglia, quindi?”
s’intromise Pietro, una decina di metri a separarli.
Nicolò
si girò nuovamente: squadrò da cima a fondo il
cugino e, dopo qualche secondo di silenzio, annuì.
“Certo,
più di una. Perché i vili come te e Maffucci si
pentano di non essere saliti sul carro dei vincitori. Addio,
Costanza”
Questa
volta il giovane Granieri uscì davvero da una porta sul
retro, lasciando nell’incertezza la sorella, che si
accasciò sconfitta sulla sedia più vicina.
Non
sapeva che cos’altro dire, che cosa pensare: ogni singola
parola che il
fratello aveva
pronunciato sembrava frutto della sua immaginazione, le appariva
ridicola e priva di senso.
Che
cosa lo aveva spinto a cambiare in maniera tanto radicale?
Perché non si era confidato con nessuno, a casa?
Tra
di loro c’era sempre stato un rapporto di fiducia reciproca,
una sorta di alleanza non dichiarata, nonostante ci fossero sette anni
di differenza e, soprattutto, lei fosse secondogenita e femmina.
Quelle
due condizioni non erano mai state d’ostacolo tra di loro,
proprio per questo non riusciva a darsi pace per non essersi accorta
del mutamento interiore che lo aveva visto protagonista.
Avrei dovuto confrontarmi
direttamente con Nicolò, senza aspettare che arrivasse ad
arruolarsi, ad un punto di non ritorno che lo farà solamente
soffrire.
“Non
vi affliggete … sono sicuro che troveremo una soluzione per
costringerlo a tornare a casa” la consolò Pietro,
inginocchiandosi per recuperare la pochette
che era caduta sul pavimento.
“Credo
che, ormai, non si possa fare più nulla per convincerlo a
tornare sui suoi passi. Voi non sapete quanto sia diventato diverso, in
questi ultimi mesi, non avete visto quel fuoco divampare negli occhi,
mentre pronunciava un assurdo monologo sui moti del ’21! Lui
non è più mio fratello …” si
arrese all’evidenza la ragazza, scuotendo il capo.
Faceva
davvero fatica a ricacciare indietro le lacrime: la vista cominciava ad
annebbiarsi, e temeva di svenire.
Tuttavia
non disse nulla, affranta e senza speranze, perchè l'ultima
cosa che avrebbe voluto era farsi compatire.
“Invece
so a cosa vi riferite” la contraddisse Pietro, prendendo
posto vicino a lei.
“Cosa
volete dire? Quell’assurdo discorso lo ha pronunciato in
camera sua: l’ho udito per caso, come potete
conoscerlo?”
“Ero
al circolo, il giorno in cui lo ha declamato a gran voce. Ricordate
cosa vi ho detto, questa mattina a palazzo? Che alle riunioni degli
affiliati non sono mai andato, ma a quelle ufficiose, al circolo, vi
andavo ogni volta. E’ un luogo che non crea problemi, un
posto che nessuno andrebbe a cercare come covo di rivoluzionari
indipendentisti … da tutti, in città,
è visto alla stregua di un noioso ritrovo di giovani
aristocratici, simil intellettuali e colti borghesi”
Costanza
lo guardò, mentre la delusione per se stessa
riaffiorava: si sentiva una stupida, una viziata ottusa con manie di
grandezza, il cui desiderio odierno era quello di cercare di cambiare
il corso della vita degli altri.
Avrebbe dovuto immaginare, quel giorno di ormai due mesi addietro, che
suo fratello non fosse così pazzo da pronunciare un simile
discorso patriottico solamente per se stesso, davanti allo specchio
delle sue stanze.
Era
una ragazzina senza un briciolo d’inventiva, senza fantasia,
per questo non era riuscita a fermare Nicolò, ad impedirgli
di partire insieme al resto delle truppe.
I
suoi genitori non glielo avrebbero mai perdonato e,
d’altronde, come avrebbe potuto biasimarli?
“Vi
sentite bene?” la riportò alla realtà
Pietro, posandole una mano sul braccio.
“Sì,
ho solo bisogno di mangiare qualche cosa. Potete accompagnarmi fuori di
qui?”
La
giovane si alzò dalla sedia e si guardò intorno:
la sala ristorante ormai era gremita di ufficiali che, di lì
a breve, avrebbero cominciato a pranzare.
Il vociare dei presenti continuava ad essere più pressante
che mai: era come se le urlassero direttamente nei timpani e l'eco
delle voci sconosciute la costringesse a sopportarli senza alcuna
difesa.
Annuì
grata, così lei e Pietro si avviarono verso
l’esterno, l’aria frizzante sul volto impallidito.
“Vi
riporto a casa, d’accordo?” propose il cugino,
mentre si avviavano verso la carrozza.
“Preferirei
di no. Avete ancora del tempo da dedicarmi? Perché, se
così fosse, mi piacerebbe mangiare qualcosa con voi
…”
“Sarebbe
un onore. Venite, conosco un locale molto grazioso. Ci arriveremo
direttamente con la vettura”
I
due si avviarono verso la Landau, il braccio destro di lei avvolto a
quello sinistro di lui: il traffico di carrozze e pedoni sfrecciava e
li circondava, insensibile al dolore e al senso di smarrimento che
provava Costanza.
Non aveva alcun senso continuare a rimuginare sul disastroso incontro appena concluso: la testa le doleva, tanto da temere che sarebbe scoppiata, ma nonostante questo non aveva alcuna intenzione di tornare a palazzo, perlomeno non nell'immediato.
I suoi genitori l'avrebbero rimproverata per l'inefficienza di cui si era macchiata, avrebbero continuato a rinfacciarle la colpa per l'allontanamento del fratello.
E nonna Maria? Anche lei non l'avrebbe perdonata? Oppure l'avrebbe compresa, prendendo addirittura le sue difese?
Ma lei, più di così, davvero non sapeva che cosa avrebbe potuto fare.
Perchè ognuno, in fondo, pensa solo a se stesso: per questo, si convinse ancora una volta che doveva resistere e, una volta lucida, escogitare la mossa successiva da intraprendere.
NOTA DELL'AUTRICE
Ciao a tutti, carissimi e favolosi lettori!
Mi scuso con i recensori a cui non ho ancora risposto, ma ho avuto una
settimana infernale, e la prossima sarà pressochè
identica: vi prometto che entro brevissimo risponderò a
tutti!
Nel frattempo vi ringrazio di tutto cuore ed oltre!!!
Un abbraccio!
Il generale Ramorino è stato un generale dell'Esercito
sabaudo.
Combatté a fianco di Napoleone nelle campagne d'Austria e di
Russia e prese parte ai moti rivoluzionari del 1821, dopo i quali si
esiliò in Francia e in Polonia. Venne condannato a morte per
fucilazione il 22 maggio 1849, perchè ritenuto traditore
della patria: si dice, infatti, che fu lui a decidere di schierarsi
dalla parte del Po, invece che da quella del Ticino, permettendo agli
Austriaci la prima delle avanzate sul fronte nemico.
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Capitolo 18 *** La Guerra, il Nulla e l'Incerto ***
Affrontare la realtà
è sempre doloroso.
Ma diventa più accettabile se lo si fa in compagnia.
(Anonimo, XX secolo)
Si guardò intorno e si accorse che, oltre a loro, non vi
erano molti avventori: durante il breve tragitto in carrozza verso il
ristorante, Costanza aveva notato come anche le strade, rispetto a solo
qualche giorno prima, si fossero letteralmente svuotate.
Il centro cittadino sembrava non fosse mai stato abitato:
Pietro aveva constatato che, a quell’ora, la gente
si trovava raccolta nelle proprie abitazioni a pranzare, tuttavia il
tono di voce che aveva impiegato per rassicurarla non rispecchiava
affatto le parole pronunciate, cupe e malferme.
Era inutile negare che tutti, in città, avevano cominciato a
nutrire una sorta di timore reverenziale verso la Guerra imminente,
verso il Nulla e l’Incerto che rappresentavano
l’argomento principale di ogni conversazione, formale ed
informale, che si svolgeva dentro e al di fuori delle residenze di ogni
levatura sociale.
Ma nessuno aveva davvero voglia di complicarsi anticipatamente
l’esistenza con quei pensieri astratti, tantomeno Costanza,
che voleva approfittare del ristorante in cui il conte Caccia
l’aveva portata per cercare di sgombrare la mente dai
pensieri.
Seduti ad un elegante tavolo, un cesto di fiori secchi e nastrini di
raso bianco al centro, la ragazza si tolse i guanti color pece e
tornò a guardarsi intorno: il locale aveva
un’ampia sala dalle pareti giallo limone, tappezzate di
quadri raffiguranti nature morte protette da cornici dorate, mentre un
lungo bancone correva sul muro a nord, ricco di bottiglie colme di
liquidi colorati.
“Allora, vi piace?” s’informò
Pietro, abbozzando un autentico sorriso.
“Sì, avevate ragione: il posto è molto
grazioso” annuì l’interlocutrice
“anzi, adesso che mi ci fate pensare, è la prima
volta che vi vedo sorridere”
Il cugino rimase in silenzio, sorpreso da quell’azzardo: in
effetti, la giovane non aveva tutti i torti, quindi preferì
non replicare, concentrandosi sulla carta del menù che era
appena stata portata.
“Spero non vi siate offeso …”
tentò di rimediare Costanza, che aveva già scelto
il piatto da ordinare.
“Oh no, niente affatto” si affrettò a
precisare l’altro, gli occhi azzurri puntati in quelli verdi
di lei.
Si passò una mano tra i capelli, per rimettere a posto un
ciuffo biondo sfuggito dalla chioma.
“Non amo sorridere, o meglio, non mi hanno abituato a farlo
così spesso quanto dovrei. Mi auguro che, per questo, non mi
reputiate un inguaribile maleducato …”
confessò malandrino, distogliendo subito lo sguardo.
Approfittando del momentaneo sbigottimento della cugina,
richiamò il cameriere per poter ordinare, non dando alla sua
commensale il tempo di controbattere.
Il rumore della porta che si apriva alle sue spalle, tuttavia, fece
voltare Costanza, che rimase piacevolmente stupita dalla nuova presenza
che aveva appena varcato la soglia.
“Guardate! C’è il maestro
Rossini!” esclamò la giovane, mentre con un gesto
della mano cercava di attirare l’attenzione
dell’insegnante di musica.
Da quando quella dolorosa mattinata aveva avuto inizio,
l’uomo era la seconda persona, dopo il conte Caccia,
naturalmente, che la ragazza era contenta di incontrare, certa
dell’appoggio morale che avrebbe ricevuto.
“Forse non ci ha visti …”
azzardò il cugino, lo sguardo basso sulla tovaglia bianca
ricamata.
“Vi sentite bene?” s’informò
dubbiosa la signorina Granieri.
Non le era sfuggito, infatti, il repentino cambiamento di Pietro, che
sembrava non volesse farsi vedere dal musicista.
Tuttavia, egli sembrava essersi ormai accorto della presenza dei due
avventori, a cui andò incontro sorridendo.
“Buongiorno!” li salutò allegramente,
dopo averli raggiunti, la solita redingote nera indosso.
Sollevò il cappello e s’inchinò
lievemente al cospetto di Costanza, la quale, prontamente, lo
invitò ad unirsi al loro tavolo.
“Oh non vorrei disturbare, mia cara …”
tentò di rifiutare assai debolmente, ma l’altra fu
irremovibile, insistendo che le avrebbe fatto piacere la sua compagnia.
“Se il vostro nobile cugino non ha nulla in contrario, ne
sarei davvero felice!”
I due uomini si lanciarono un’occhiata ambigua ma cortese,
come se stessero nascondendo qualche reciproco segreto.
“Assolutamente, signore. Anzi, sarò ben lieto
della vostra gioviale compagnia, quindi non aspettate ancora e sedetevi
insieme a noi”
Ad un cenno di assenso di Pietro, Rossini si accomodò in
mezzo a loro e, dopo aver scelto il menù, ritornò
a concentrarsi sui commensali.
“Ebbene, signorina Granieri, vi state esercitando al brano
che vi ho lasciato da provare lo scorso mercoledì?
Dopodomani dovrete stupirmi, mi raccomando!” le disse,
puntando l’indice scherzosamente, a sottolineare le
aspettative che nutriva verso la sua allieva.
“Purtroppo, non credo di riuscire a concentrarmi a dovere
… ” confessò la ragazza, sentendosi in
colpa e abbassando lo sguardo.
“Vi è forse successo qualcosa? Perché
non è da voi presentarvi impreparata alle nostre lezioni di
pianoforte!”
L’uomo trangugiò un sorso di vino dalla caraffa
che il giovane cameriere aveva appena portato, quindi
ritornò a concentrarsi sulle parole della sua interlocutrice.
La ragazza appariva turbata ed indecisa: che cosa nasconde?
si chiese l’insegnante di musica, frastornato dal pallore che
le sue gote emanavano.
“Se non avete voglia di parlarne, potete sentirvi libera di
cambiare argomento …” formulò poi ad
alta voce, desideroso tuttavia di saperne di più sul
misterioso atteggiamento della giovane Granieri, che non se lo fece
ripetere due volte.
“Si tratta di mio fratello: Nicolò è
scappato di casa ieri sera, per arruolarsi nell’esercito. Il
dispiacere è stato talmente grande che nostro padre
è svenuto a causa di un collasso nervoso. Mio cugino ed io
veniamo proprio dall’albergo svizzero dove alloggiano gli
ufficiali, ma non siamo riusciti a convincerlo a tornare indietro con
noi”
Il maestro Rossini lanciò un’occhiata complice in
direzione di Pietro: l’espressione sul suo volto allungato e
glabro ricalcava la preoccupazione per la novità di cui era
appena stato messo al corrente, ma l’impressione solo
vagamente stupita testimoniava tutt’altro, come fosse un
avvenimento di cui aveva in precedenza intuito le conseguenze.
Avvertendo il silenzio improvviso calato tra i due uomini, Costanza lo
interpretò come amarezza e senso di partecipazione da parte
dell’insegnante di musica.
“Voi, maestro, conoscete qualche persona in grado di
aiutarci? Potete aiutarmi a riportarlo a casa?”
“No, mia cara, purtroppo non ho conoscenze tanto in alto
…” ammise tristemente, posando una mano ossuta su
quella di lei.
“Domani partirà alla volta di Pavia insieme alla
sua brigata e ho paura di non rivederlo mai più
…”
La giovane si abbandonò ad un pianto isterico, sconfortata e
stanca di lottare: doveva ammettere a se stessa e agli altri di aver
fallito miseramente, che avrebbe dovuto arrendersi, altrimenti sarebbe
impazzita, peggio del crollo nervoso che aveva colpito il padre.
“Non dovete neppure pensare ad una cosa del
genere!” si rabbuiò il musicista, bevendo un altro
sorso di vino.
“Vostro fratello è in gamba: sono sicuro che se la
saprà cavare, non temete! A quale brigata avete detto che
è stato assegnato?”
“Alla Quarta divisione della Brigata Piemonte. Lo hanno
arruolato con funzione di aiutante in campo del capitano Giuseppe
Canavera” precisò Pietro, notando ancora
l’incertezza e l’apprensione sul volto della cugina.
“Certo, dati i natali della vostra famiglia, non poteva
presentarsi come soldato semplice: questo, cara signorina, vi assicuro
che giocherà a suo favore! La mansione che
ricoprirà non richiederà una grande dose di
coraggio e, di conseguenza, non verrà esposto a inutili
pericoli. Fidatemi di me, mia cara”
“Come fate ad affermarlo con tanta sicurezza? Siete forse
stato nell’esercito?” si stupì la
ragazza, notando la serenità che traspariva dalle
rassicurazioni dell’uomo.
“Personalmente non ho avuto questo onore, ma ho un fratello
che è colonnello da qualche parte in Francia, nei territori
del Nord, se non ricordo male: sapete, sono diversi anni che non ci
incontriamo, anche se qualche volta manteniamo una fitta
corrispondenza” tenne a precisare, abbozzando un sorriso di
incoraggiamento nella direzione della sua interlocutrice.
“E’ il pensiero che gli possa accadere qualche cosa
di brutto che non mi fa stare tranquilla. Dovevate vedere i suoi occhi,
maestro, mentre mi parlava: era come fossi un’estranea, come
se non riconoscesse chi aveva davanti! Lo guidavano la rabbia e
l’assoluta convinzione delle frasi che pronunciava e, ancora
adesso, vi giuro che non riesco a credere che fosse mio fratello, non
ci riesco …”
Costanza stava di nuovo abbandonandosi ad un pianto isterico, quando la
vista le si annebbiò per un istante: chiuse gli occhi e
sbatté le palpebre un paio di volte, quindi si fece versare
da Pietro dell’acqua nel bicchiere di cristallo che aveva
davanti.
Finalmente, tutto tornò come prima, e poté
rassicurare gli altri commensali che stava bene.
“Le vostre domestiche hanno fatto scorta dei generi
alimentari di prima necessità?” cambiò
discorso Rossini, mentre il cameriere portava i piatti che avevano
scelto pochi minuti prima.
“No, non credo … perché?”
volle sapere incuriosita la giovane, gustando il primo cucchiaio di
zuppa calda.
“Sono solo voci che girano, badate bene. Fatto sta che, la
nobildonna con cui mi avete visto a teatro la scorsa settimana, ha
ordinato alla sua cuoca di comprare quanta più farina,
zucchero e riso riuscisse a trovare: si teme che, se mai dovesse
esserci un assedio alla città, le scorte primarie
risulteranno irrecuperabili …”
“Ma Novara cosa ha a che fare con la guerra? Voglio dire,
anche Nicolò mi ha detto che, domani mattina,
oltrepasseranno il Ticino per spostarsi verso Pavia ed unirsi al resto
dell’Esercito. Noi, qui, siamo al sicuro!” rispose
tranquillamente, volutamente ignorando
l’eventualità che la città potesse
imbattersi in qualsivoglia pericolo.
“Infatti, è così, non temete, ma mi
sentivo in obbligo di riferirvi tali voci. Frutta, verdura, pasta, ogni
cibo in più che andrà a rifornire la dispensa
sarà solo un bene, signorina Granieri, datemi
retta”
“Il maestro Rossini non ha tutti i torti”
s’intromise Pietro, pulendosi la bocca con il tovagliolo
immacolato.
“Dirò anch’io a mia madre di avvisare le
nostre domestiche affinché si rechino al mercato, domani di
prima mattina, in modo da scegliere la merce migliore”
Costanza annuì alle parole sensate del cugino, promettendo
che avrebbe fatto lo stesso.
Un brivido di freddo le percorse la schiena avvolta dal completo color
bronzo, lo stesso che le sembrava di indossare da anni:
regalò un’occhiata colma di angoscia alla strada
deserta oltre i vetri del grazioso locale, notando il cielo plumbeo e
scarsamente amichevole, quindi riprese a mangiare, la zuppa ormai
tiepida e l'emicrania che tornava a farle compagnia.
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Capitolo 19 *** Il capanno dei segreti ***
La fantasia non
saprebbe inventare tante diverse contraddizioni quante ce ne sono
naturalmente nel cuore di ogni uomo.
(François
de La Rochefoucauld, scrittore e filosofo francese, 1613-1680)
Quando tornò a palazzo, Costanza si sentiva stanca e
pensierosa.
Una
fastidiosa emicrania l’aveva costretta a rientrare a casa
subito dopo la fine del pranzo, lasciando Pietro da solo e facendosi
accompagnare da una vettura a noleggio, che il maestro Rossini aveva
fermato davanti al Teatro Nuovo.
Lasciò
l’uomo nella dependance
all’entrata del parco, promettendo che se avesse avuto
notizie di Nicolò, egli sarebbe stato il primo a conoscerle,
quindi si avviò verso l'entrata della dimora.
Al
piano terra regnava un silenzio irreale: i soffici tendoni bianchi e
verdi erano stati tirati, lasciando l'intero piano nella più
cupa penombra.
Non c’era nessuno ad attenderla, alcun membro della
servitù accorse al suo ingresso, affacciandosi con
celerità e compostezza allo scricchiolare del parquet sotto
le sue suole.
Si domandò di sfuggita dove fossero il maggiordomo e la
governante, rispondendosi che, probabilmente, si trovavano indaffarati
a rimproverare qualche giovane ed inesperto apprendista o cameriere
occorso tra le loro grinfie.
Sorrise distrattamente, sebbene una spiacevole sensazione di abbandono
cominciava a fare capolino nella sua mente: aveva necessità
di abbandonarsi nell'acqua calda della vasca di ceramica, con la
consapevolezza che Nina l'avrebbe attesa per spazzolarle i lunghi ed
indomiti ricci scuri, simbolo di una banale routine che l'aiutasse a
lasciarsi alle spalle, almeno per qualche minuto, quelle snervanti
ultime ore.
Salì la lunga scalinata di marmo, ricoperta da un tappeto
rosso, con l'intento di raggiungere la camera da letto dei genitori e
raccontare a cosa era andata incontro da quando era uscita quella
mattina.
Bussò
timidamente alla porta, mentre l'ennesima fitta di emicrania
tornò ad offuscarle la vista.
Nel caso stesse
riposando ancora, non
voleva disturbare il padre moribondo, ma quando
udì la sua voce darle il permesso per entrare, la giovane fu
felice di vederlo seduto a mezzobusto sul letto, un’elegante
vestaglia di raso amaranto che gli ravvivava il volto impallidito dalle
preoccupazioni e dalla carenza di sole.
“Oh
padre, siete sveglio! Come vi sentite?” si
avvicinò prontamente la figlia, sedendosi sulla sedia
accanto al baldacchino e stringendogli le mani.
“Meglio,
ti ringrazio. Ho persino mangiato qualche cucchiaio di riso: sono
sicuro che già da doman ,sarò in grado di
alzarmi e di uscire da questa specie di prigione in cui mi ha costretto
il medico!”
L’uomo
le accarezzò dolcemente una guancia, i capelli biondi
brizzolati che gli ricadevano in
disordine sul capo.
Costanza
sorrise rilassata, gli occhi verdi in quelli azzurri del notaio: dopo
tutto quello che aveva passato, almeno una piccola soddisfazione
sembrava meritarla.
“Se
hai bisogno di tua madre, è andata a riposare nella camera
di fianco …”
“Vi
ringrazio. Se vi fa piacere, però, posso rimanere a farvi
compagnia. Ho già pranzato insieme a Pietro e al maestro
Rossini e... prima siamo andati all'albergo svizzero, ma non sono riuscita a convincere
Nicolò a tornare a casa …”
confessò cupamente, temendo di provocare un altro crollo
nervoso al padre.
“Da
quando ieri sera tuo fratello ha varcato la porta di questo palazzo, io
non ho più un figlio! Tu sei e sarai la mia unigenita,
l’erede dei miei beni, l’unica che non mi
tradirà!” la interruppe l’uomo, la voce
e lo sguardo induriti dall’amarezza e dalle sofferenze che
aveva patito nelle ultime ore.
“Ascoltami
bene, Costanza: nessuno, in questa casa, dovrà
più pronunciare il nome di quell’ingrato, nessuno!
E’ un ordine, hai capito?”
“Ma
padre … cercate di ragionare, vi prego! Sono convinta che
capirà l’errore che ha fatto
…” si agitò sulla sedia la ragazza,
stropicciandosi un lembo dell’ampio vestito color bronzo,
mentre l'ennesima fitta di emicrania riaffiorò a tormentarla.
“Non
sono io quello che non ragiona, figliola, ma lui! Ora, per favore, ho
bisogno di riposare. Se vorrai, potrai tornare a farmi compagnia
più tardi …”
Costanza fissò ancora una volta le labbra indurite dell'uomo
e il volto vagamente emaciato: si alzò con aria remissiva,
il capo chino, capendo che era meglio non ribattere, per evitare di
affaticare ulteriormente il genitore già debilitato.
Prima o poi
capirà e lo perdonerà. Ha solo bisogno di tempo,
d'altronde come tutti noi.
Aveva
finito di sorseggiare il tè nelle sue stanze, seduta sul
letto a baldacchino.
Nina
l’aveva aiutata a rilassarsi con un bagno caldo, ad indossare
un abito più comodo, e a raccogliere i lunghi capelli ricci
in morbide onde fermate sul capo da piccoli pettini trasparenti.
L’emicrania
le era passata da diversi minuti, ormai, lasciandole la testa pesante e
una sensazione di intontimento che non cessava a diminuire.
La preoccupazione le attanagliava lo stomaco e le annebbiava la mente,
impedendole di riflettere con lucidità: tutto ciò
che stava accadendo era assurdo, la guerra era assurda, sebbene fosse
sempre stata la più sciocca ed inutile tra le
attività umane; la fuga di Nicolò era
incomprensibile, persino quell'insana paura che le aveva messo
in testa il maestro Rossini sulla
necessità di racimolare quante maggiori scorte possibili, le
appariva sconclusionata e priva di senso.
Novara non verrà mai
presa d'assalto, non dovremo mai subire un assedio: qui dentro, tra
queste mure, siamo al sicuro ...
Lanciò un'occhiata speranzosa e malinconica in direzione
dello scrittoio di ciliegio, al cui ripiano era solita vergare le
lettere da spedire alla nonna Maria.
Con tutto quello che era successo, non aveva ancora avuto tempo per
scriverle, sebbene le due settimane canoniche dalla loro ultima
corrispondenza non erano trascorse.
Ho tanto bisogno dei
suoi consigli, della sua presenza: se fosse qui con me, saprebbe
sicuramente che cosa fare per riportare a casa Nicolò, lo
convincerebbe senza alcuna remora a ritornare e a dimenticare quei
folli pensieri che gli ha inculcato quella marmaglia di rivoluzionari.
Non aveva avuto tempo per riflettere sulla sorpresa che le aveva
riservato Pietro, confessandole la sua appartenenza al gruppo di
sommossa: un giovane
nobile, cresciuto nella bambagia, in mezzo agli agi e al lusso, timido
fino all'inverosimile, che si è lasciato trascinare in
questioni di bassa politica! Eppure, devo riconoscere il coraggio che
ha avuto e che continua a vantare nel difendere i propri ideali e le
proprie convinzioni! In questo, lui e mio fratello sono molto simili.
Chissà se lo zio Aldo e la zia Rosa fossero venuti a
conoscenza delle attività sovversive del primogenito come si
sarebbero comportati: per quel poco che aveva avuto modo di conoscerli,
entrambi godevano di ampie vedute liberali, ma fino a che punto
sarebbero stati felici di avere un figlio rivoluzionario? O meglio,
due! Non bisognava dimenticare, infatti, che anche Federico, scaltro e
dal sangue bollente, aveva un segreto da nascondere, un segreto agli
antipodi rispetto a quello che celava Pietro, ma ugualmente pericoloso.
Costanza scrollò il capo, affaticata da quei ragionamenti
che la inducevano a preoccuparsi ulteriormente anche per i due cugini,
quindi si avvicinò ad uno dei cassetti del mobile, sfiorando
il pomello per recuperare la carta con cui scrivere: lo stava per
aprire, quando qualcuno bussò alla porta della camera.
Era donna Luisa, che entrò mesta e pallida, un lungo abito
grigio perla con il corpetto abbellito da pizzi e macramè.
“Tuo
padre mi ha detto che sei tornata … sei riuscita a parlare
con Nicolò?” volle sapere la contessa,
avvicinandosi.
“No
… “ dovette confessare la giovane, abbracciandola.
Quindi,
le raccontò ogni cosa, sfogando i propri sentimenti di
smarrimento.
Le spiegò con dovizia di particolari di come si era svolto
l’incontro con il fratello, del fatto che era stato arruolato
come aiutante in campo di un capitano, che lei e Pietro avevano cercato
in ogni modo di convincerlo a ritornare a casa.
Confessò persino che l’indomani mattina il
reggimento del ragazzo sarebbe partito alla volta della Lombardia, per
unirsi al resto delle truppe dell'Esercito sabaudo, come aveva
espressamente ordinato Sua Maestà.
L’unica
cosa che aveva omesso di dirle era l’esistenza e il ruolo
chiave che aveva avuto Eugenio Maffucci nel nascondere e
accompagnare il fratello all’albergo svizzero, oltre
naturalmente al coinvolgimento del primogenito in un gruppo
rivoluzionario per l’indipendenza dei territori italiani
occupati da truppe straniere.
La
preoccupazione e lo scalpore che avrebbero suscitato quelle
rivelazioni, di certo, non avrebbero giovato all'attuale equilibrio
precario della madre.
“Pietro
ed io abbiamo pranzato con il signor Rossini: a tal proposito, il
maestro ci ha consigliato di fare scorta di quanti più
generi alimentari riusciremo a trovare, perché si teme che
anche la città possa venir coinvolta nella guerra”
Gli
occhi cerulei di donna Luisa si riempirono di lacrime: si
portò le mani ai capelli, scuri e folti, cominciando a
strapparseli convulsamente.
“Che
cosa vi prende? Per favore, smettetela, o rischierete di farvi
male!” la bloccò Costanza, impotente davanti al
pianto isterico della madre.
“Non
dovevamo venire qui! Non dovevamo abbandonare la nostra vita per questo
posto!” cominciò ad urlare disperata la moglie del
notaio, scuotendo il capo.
“Fino
all’ultimo giorno della sua vita, mio padre si è
preso gioco di noi! Questo palazzo non è altro che una beffa
per vendicarsi di tua nonna, di me, persino di tua zia!
Perché continua a farci soffrire, perché gode nel
vedere le nostre disgrazie anche adesso che è morto?
Perché non ci lascia in pace?!”
“Madre,
vi supplico, non fate così! Il nonno non c’entra
nulla con quello che sta succedendo: questa guerra è stata
voluta dal Re, dal Governo, non da lui! Ascoltatemi
…” cercò di farla ragionare, tentando
di abbracciarla, ma invano.
“Partiamo!
Domani andrò a parlare con Nicolò! Sono certa che
riuscirò a convincerlo e, così, potremo ritornare
in montagna, lontano da questa città e dalla
guerra!” vaneggiò donna Luisa, alzandosi di scatto
dal baldacchino.
Costanza
temeva che anche la madre stesse per impazzire: lo sguardo era acceso
da una luce sinistra, le gote arrossate da un calore
improvviso, e non riusciva a smettere di annuire senza alcuna ragione
apparente.
“D’accordo,
faremo come volete, ma adesso calmatevi!”
acconsentì la figlia, cercando di rimetterla a sedere.
“Ora
vi porto un po’ d’acqua …”
continuò, dopo che la contessa si era accomodata sulla sedia
di ciliegio, davanti allo scrittoio ribaltabile.
La
ragazza uscì dalla stanza, ritornando poco dopo con un
bicchiere riempito fino all’orlo: non voleva che le
domestiche vedessero la padrona in quelle condizioni, per questo era
scesa nelle cucine con una scusa, fingendo di aver perso una spilla,
per poi aspettare il momento propizio per versare dell’acqua
in una caraffa e sparire ai piani di sopra.
Una
volta accertatasi che la madre si era calmata, la riportò
nella camera dove aveva riposato dopo il pranzo, pronta per recarsi dal
maestro Rossini a chiedere aiuto.
La
piccola dependance
era stata ricavata da un vecchio capanno di caccia allestito sul lato
ovest del parco che circondava il palazzo, a pochi metri dal cancello
d’ingresso.
Donna
Luisa si era preoccupata personalmente di arredarlo con i migliori
complementi, in vista dell’arrivo del rinomato insegnante di
musica, ormai due mesi addietro.
Il
sole stava per tramontare, pennellando l'orizzonte con i caldi colori
dei suoi raggi ormai alla fine del loro ciclo giornaliero, lanciando
alte ombre su una parete e sul tetto di legno del casotto.
L’uomo, quando aprì la porta, rimase assai stupito
nel ritrovarsi davanti la giovane Granieri: subito temette che ci fosse qualche
cattiva notizia che riguardasse Nicolò, ma i suoi presagi
vennero prontamente smentiti da Costanza, che gli confessò
quanto fosse disperata e priva di idee per riportare a casa il fratello.
Si premurò di raccontargli il rifiuto del padre a sentir
pronunciare il nome del figlio, gli confessò persino
dell’esagerata reazione che la madre aveva avuto pochi minuti
prima, quando le aveva innocentemente raccomandato di fare scorta di
provviste.
“E’
normale, mia cara” cercò di tranquillizzarla il
musicista, dopo che si accomodarono nel salottino, sistemandosi su due
divanetti rossi, uno di fronte all'altro, piacevolmente in contrasto
con le pareti affrescate da scene mitologiche.
“La
fuga di vostro fratello ha rotto gli equilibri famigliari: i vostri
genitori sono in pena per lui, temono che possa accadergli qualcosa di
male. Anch’io, come è
comprensibile, desidero solo il meglio per la mia
Charlotte ... ”
divagò l’uomo, regalando una pacca affettuosa sul
braccio della ragazza.
“Sì,
questo lo capisco, ma io non credo di riuscire a reggere tutta questa
situazione ancora per molto! Se non fosse per voi e per
Pietro, penso che anch’io sarei fuggita o
impazzita!” si lasciò andare Costanza, mordendosi
un labbro.
“Suvvia,
non dite così. Ve l’ho detto oggi a pranzo: una
soluzione si troverà, dovete solo essere
fiduciosa!”
“Ma
voi non sapete in quali guai si è messo mio fratello! Lui
è cambiato, ha in testa strane idee! Quel Maffucci
…”
Uno
sguardo di puro terrore tramutò l’espressione
impensierita che la giovane aveva assunto fino a quel momento: la
confusione e l’incertezza che stavano prendendo il
sopravvento nella sua famiglia l’avevano indotta a tradirsi,
ad ingannare la fiducia che Pietro e gli altri affiliati,
inconsapevolmente, avevano riposto in lei.
“Perdonatemi,
ora devo proprio andare … vi terrò aggiornato.
Buonasera” tagliò corto la giovane, rimettendosi
guanti e cappellino.
“Eh
no, signorina, dove state andando?” si alzò a sua
volta l’uomo, le sopracciglia aggrottate.
“A
casa, ve l’ho detto. E’ tardi, e non ho avvisato
nessuno che sarei uscita …”
“Un
attimo ancora. Che nome avete detto solo un attimo fa?”
“Ma
nessuno! Che cosa state dicendo?!” cercò di
replicare Costanza, il più naturalmente possibile.
“Non
prendetemi in giro, per favore! E’ vero, sono vecchio, ma il
mio udito funziona ancora bene! Allora? Quale nome avete
pronunciato?” insisté il maestro di musica, le
braccia conserte.
La
ragazza si guardò intorno, per cercare di capire come
avrebbe potuto uscire di lì nel modo più veloce e
sicuro possibile.
Tuttavia,
dovette arrendersi all’evidenza che non vi era alcuna maniera
per abbandonare la dependance
senza il permesso di un autorevole Rossini, che si era parato davanti
alla porta di legno di quercia del salottino, a pochi metri
dall’ingresso.
“Io
… non ho nulla da dirvi … e ora, per favore,
lasciatemi passare, altrimenti mi metterò ad
urlare!” cercò di convincerlo, i battiti del cuore
che acceleravano vertiginosamente.
L’uomo
si abbandonò ad una sonora risata, scuotendo il capo ed
allargando le braccia in segno di resa.
“Per
carità, signorina, non credo bisogna arrivare ad una tale
eventualità! Io non ho mai fatto del male ad alcuna
fanciulla e, vi assicuro, non intendo cominciare con voi! Molto bene,
se non volete rivelarmi che cosa sapete su Eugenio Maffucci
sarà mia premura lasciarvi andare!”
“Eugenio
Maffucci? Voi lo conoscete?” cadde in contraddizione
Costanza, la testa che tornava a pulsarle.
“Certo
che sì, mia cara. Adesso vi ho convinto a
restare?” continuò con tono conciliante
l’uomo, ammiccando furbescamente.
La
giovane sospirò e ritornò a sedersi,
convinta che le sue orecchie avrebbero sentito spiegazioni a lei
solo in parte sconosciute.
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Capitolo 20 *** Un nuovo affiliato ***
E' facile polemizzare alla fine
di tutto.
Bisogna essere sul campo, e poi, eventualmente, criticare le azioni
fatte o quelle non fatte.
(Anonimo XX secolo)
Rossini le domandò se gradisse qualcosa da bere, ma Costanza
era smaniosa di capire che cosa sapesse quell'uomo su Eugenio Maffucci,
l'avvocato rivoluzionario a cui suo fratello era tanto affezionato,
tanto da idolatrarlo, almeno a sentire le parole di Pietro.
E poi, non poteva permettersi di assentarsi troppo a lungo da palazzo,
perchè non aveva avvisato nessuno della sua innocente "gita
fuori porta".
Il musicista la invitò a prendere posto e, dopo essersi
seduto, cominciò a raccontare, lo sguardo sognante perso nei
ricordi.
“Sono nato nel Lombardo Veneto, in un paesino alle porte di
Milano: i miei genitori appartenevano alla facoltosa borghesia, per
questo crebbi in mezzo a tutti gli agi possibili, tra musica e feste,
istruito dai migliori precettori.
Quando
avevo circa vent’anni, però, mi resi conto che la
monotonia della mia esistenza mi spingeva ad esplorare nuovi lidi, a
fare nuove esperienze, tanto che decisi di partire alla volta del Nord
Europa, per tentare di diventare un importante compositore ed
orchestrale: ci stavo riuscendo, cara Costanza, credetemi, almeno fino
a quando tutto cambiò.
Ero
in Francia, infatti, quando venne annunciata la morte di Napoleone, nel
maggio del 1821, un evento che divenne ben presto un pretesto per il
popolo di liberarsi dalla tirannia durata anni, tirannia che, appena
qualche mese prima, un'intera nazione acclamava e reclamava.
Fu
in quei mesi tormentati che crebbe in me il senso di ribellione per la
mia patria invasa dall’oppressore: mi domandavo per quale
motivo nessuno di noi Italiani avesse il coraggio di rispondere alla
barbarie, così ripresi a viaggiare, questa volta spingendomi
fino alle coste dell’Inghilterra, dove era mia intenzione
imparare ad esercitare il mestiere di politico liberale.
Ma il Destino decise diversamente, e mise sulla mia strada Catherine,
una giovane aristocratica, che conobbi circa un anno dopo il mio arrivo
a Liverpool.
Lei sarebbe diventata la madre di Charlotte, una donna
bellissima e al contempo pericolosa.
Appartenevamo
a due mondi troppo distanti, nonostante professassimo entrambi di
portare avanti ideali comuni.
Il divario tra di noi, alla fine, crebbe talmente tanto che
rifiutò di sposarmi, preferendo un vecchio gentleman, che
subito adottò la mia unica figlia come fosse stata sua.
Così,
dopo oltre trentacinque anni di vagabondaggio in giro per
l’Europa, nonostante abbia cercato in ogni
modo di stare
vicino a Charlotte, finalmente tornai in Italia"
Rossini si scusò per l'interruzione del racconto, adducendo
come pretesto un'arsura
improvvisa grattarmi la gola.
Domandò
nuovamente a Costanza se desiderasse qualcosa da bere e, alla sua
risposta negativa, raggiunse a passi malfermi la credenza di legno
scuro dal lato opposto del salottino.
Si versò due dita di vino liquoroso dalla caraffa di vetro
in bellavista sul mobile, quindi tornò a sedersi,
chiedendosi a che punto fosse arrivato.
"Ah, certo, al mio rientro in Italia. Dunque, veniamo alla parte che vi
interessa, mia cara ragazza, e abbiate ancora un pò di
fiducia nelle parole di questo povero vecchio.
Allora, ho conosciuto Eugenio a Firenze, nel febbraio dello scorso
anno. Il
granduca Leopoldo aveva lasciato la Toscana da pochi giorni e,
nell’intera regione, si respirava un clima di
libertà, di cambiamento politico.
Accompagnato
da un mio caro amico, partecipai
ad una riunione di giovani indipendentisti, e fu proprio in
quell’occasione che lo incontrai per la prima volta.
Era
stato invitato dagli organizzatori, così, tra un bicchiere
di vino e l’altro, facemmo conoscenza: Maffucci era ed
è un idealista, ma anche un ragazzo colto e molto
intelligente, che sa imporre le proprie convinzioni; in questo, mia
cara, se avete avuto modo di conoscerlo anche solo un briciolo, non
è affatto cambiato.
Mi
invitò alla fine di dicembre a raggiungerlo qui a Novara,
perché aveva fondato da qualche mese un gruppo analogo a
quello fiorentino: per caso, lessi sul giornale un inserto che vostra
madre aveva fatto mettere, riguardo la necessità di un
rinomato maestro di musica che impartisse lezioni di pianoforte a sua
figlia.
Ebbene,
colsi la palla al balzo, come si è soliti dire, non
lasciandomi sfuggire l’occasione di trovare un buon impiego e
di ricongiungermi con il mio amico Maffucci.
Devo
confessarvi, cara signorina, quando seppi che anche Nicolò
faceva parte del nostro gruppo, rimasi piuttosto meravigliato: si era
appena trasferito in città, ma aveva avuto modo di trovare i
giusti appigli per diventare un membro a tutti gli effetti degli
affiliati.
E in più, era persino il fratello della giovane
Granieri, una famiglia rispettabilissima, distante, da quanto ne
sapevamo, dall' appoggiare le simpatie rivoluzionarie del primogenito.
Insomma,
Eugenio mi domandò di tenerlo d’occhio, per capire
se davvero avremmo potuto fidarci di lui: cominciai a seguirlo,
accompagnando ogni suo movimento, controllando con chi si incontrasse e
dove; per farla breve, ero diventato la sua ombra.
Ci
fu una volta che quasi mi scoprì, perché, cara
Costanza, Nicolò è un ragazzo davvero in gamba,
ma permettetemi di dire che non ragiona: il suo difetto
è farsi trasportare dai sentimenti e, a lungo
andare, potrebbe rappresentare un bel problema"
L'uomo si interruppe nuovamente, gustandosi dell'altro liquore
rossastro.
"Non appena
si è diffusa la notizia della denuncia
dell’armistizio, alcuni del
gruppo hanno voluto arruolarsi nell’esercito, non
capendo che non siamo minimamente preparati per condurre una nuova
guerra.
Abbiamo bisogno di tempo per riorganizzarci, di reclute scelte e
comandanti degni della loro nomina! Quel polacco dal nome
impronunciabile, quel Chrzanowski, è solamente il
burattinaio di Carlo Alberto! Non è uno stratega, non ha
esperienza di come si conduce una guerra e, soprattutto, non
è amato dalle nostre truppe, per il semplice fatto che non
lo conoscono!"
Poi, forse rendendosi conto di aver calcato troppo la mano, si
affrettò ad aggiungere che Nicolò se la sarebbe
cavata benissimo, essendo un giovane di buon senso.
Il
maestro Rossini terminò la sua spiegazione con un sorriso,
brandendo in una mano il bicchiere colmo di vino rosso, in un gesto di
buon augurio.
Nell’ultima
parte del discorso aveva
largamente gesticolato, infervorato al pensiero di un esule straniero a
guidare il glorioso Esercito sabaudo.
Aspettò
una reazione di Costanza, una qualsiasi reazione, a testimonianza del
fatto che avesse udito le parole che le erano state dette.
La
giovane, invece, quando
l’uomo ebbe finito di raccontare, aveva
subito abbassato lo sguardo, mentre un bruciore agli occhi quasi le
impediva di vedere.
Erano
forse lacrime quelle che avvertiva scorrerle sulle guance?
Come avrebbe potuto non sentirsi delusa per quella montagna di bugie
dalla quale era stata circondata in quei due mesi?
Nessuno era stato sincero con lei, non Pietro, non Nicolò,
neppure quell’insulso musicista travestito da becchino!
Adesso capiva gli sguardi di imbarazzo che i due uomini si erano
scambiati appena poche ore prima, durante il pranzo al ristorante.
Si
sentiva usata, come fosse stata uno straccio vecchio di cui disfarsi,
una
scomoda presenza che non importava più a nessuno.
Suo
fratello era stato condotto alla rovina da una banda di fanatici
rivoluzionari, suo padre aveva avuto un collasso nervoso, la stessa
donna Luisa, sempre forte in ogni circostanza, aveva drammaticamente
ceduto.
Della
sua famiglia, ormai, erano rimaste solo lei e l’adorata
nonna, lontana chilometri, ignara di quello che stava succedendo.
“Forse
adesso non capirete …” riprese Rossini, il tono di
voce conciliante e l’espressione paterna sul volto
“ma vi assicuro che, quando tutto questo sarà
finito, quando la nostra Italia verrà liberata e
sarà un Paese indipendente, le cose del passato vi
appariranno limpide ed ovvie, signorina. Sarete felice di vivere in una
patria non più assoggettata, invasa ed usurpata, felice di
poter passeggiare per le strade senza sentire l’odioso suono
di una lingua straniera, felice di muovervi da uno Stato
all’altro, parte di una stessa nazione! Date retta ad un
povero vecchio come me, e abbiate fiducia nel folle coraggio del nostro
Esercito”
L’uomo
fece per alzarsi e sedersi sul divanetto di fronte, sul quale Costanza
aveva smesso di piangere, ma continuava a mantenere lo sguardo basso.
“Non
c’è bisogno di capire, perché non
c’è nulla da capire. Con tutte le vostre menzogne,
i vostri sogni di grandezza, avete rovinato una famiglia, la mia famiglia, e
Dio solo sa quante altre incappate nella vostra rete!”
La
ragazza si drizzò in piedi e, asciugandosi le guance con le
mani guantate, uscì dalla dependance, ad
attenderla il freddo pungente di un pomeriggio ormai agli sgoccioli.
Rossini tentò di seguirla, ma capì che era meglio
lasciarla andare, in modo che potesse sfogare e dar adito ai sentimenti
contrastanti che in quel momento la stavano agitando.
Ci sarebbe stato tutto il tempo del mondo per convincerla che la loro
causa era giusta e condivisa dall'Italia intera, sebbene molti avessero
paura ad ammetterlo.
L'uomo emise un profondo sospiro di sollievo, e tornò a
sedersi sul divanetto, il bicchiere vuoto tra le mani.
Chiuse gli occhi e aspettò che la sera calasse.
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Capitolo 21 *** La traversata sul ponte ***
Perchè una
guerra sia giusta sono necessarie tre cose:
la prima, l'autorità del sovrano; la seconda, una giusta
causa; la terza una giusta intenzione.
( San Tommaso d'Aquino, 1225-1274, frate domenicano,
filosofo e padre della Chiesa)
Il general maggiore Albert Wojciech Chrzanowski sapeva di non essere
amato dalle truppe sabaude, ma la cosa non lo toccava più di
tanto: d'altronde, era stato chiamato a guidare l’Esercito piemontese
dal sovrano in persona, Sua Maestà Carlo Alberto di Savoia,
Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, perché riponeva
fiducia nelle sue doti di buon organizzatore e conoscitore degli affari
militari.
A suo sfavore, tuttavia, giocava il fatto per nulla irrisorio di sapere
a malapena dove si trovasse
geograficamente l’Italia, quello staterello
smembrato dal potere straniero, un pò come la sua amata
Polonia, e di non parlarne la lingua.
Ma aveva comunque deciso di accettare, ben conscio della caterva di
gelosie che serpeggiavano tra gli ufficiali sabaudi, ancora
più gravi delle insufficienti qualità
tattico-militari che li contraddistinguevano.
Per questo, dopo
la nomina a generale maggiore dell’Esercito Piemontese,
decretata dal consiglio dei ministri del 7 febbraio del 1849, il
polacco aveva lasciato la Francia, dove aveva vissuto da esule,
condizione impostagli dalla sconfitta derivante dalla guerra di
liberazione condotta in patria contro la terribile madre Russia.
Circa un mese più tardi, il 9 marzo, il maggiore Cadorna,
per volere del governo sabaudo guidato da Vincenzo Gioberti, raggiunse
Milano per formalizzare la ripresa delle ostilità con gli
Austriaci.
Tale ambasciata, metteva definitivamente fine all’armistizio tra
il conte Carlo Canera di Salasco e il generale nemico von Hess,
siglato il 9 agosto 1848 a Vigevano, dopo la sconfitta sabauda
di Custoza, nel luglio dello stesso anno.
Le centonovantadue ore indotte dalla ricezione formale della
dichiarazione di guerra e la denuncia ufficiale dell'armistizio
-avvenuta lunedì 12 marzo alle ore dodici- erano ormai
trascorse, quindi le ostilità avrebbero ripreso il
mezzodì del 20 marzo.
Il piano di guerra del generale polacco era molto semplice: parte delle
truppe sarebbe andata in ricognizione oltre il Ticino, partendo da
Trecate, in terra amica, per spiare le eventuali mosse austriache.
Se il nemico fosse stato avvistato intento a ritirarsi, ecco che
sarebbe scattata l’avanzata verso la roccaforte austriaca, in
direzione di Milano, dove si sarebbero accerchiate, messo alle strette
e distrutte le forze imperiali.
In caso contrario, il generale maggiore avrebbe dato l’ordine
di contrattaccare nella zona tra Garlasco e Tromello, nella campagna
pavese.
Per questo, quando alle ore 12 di martedì 20 marzo 1849, il
II° corpo d’Armata del feldmareciallo austriaco Josef
Radetzky era pronto a varcare il fiume Gravellone –linea
ideale di confine tra il Regno di Sardegna e quello Lombardo Veneto-
per passare da Pavia, cogliere alle spalle l’Armata sarda ed
impedirle che potesse ritirarsi nelle roccaforti di Torino ed
Alessandria, lo stesso Carlo Alberto e il suo inesperto generale
polacco si trovavano ancora fermi sulle sponde del Ticino.
Le cose non avrebbero dovuto mettersi poi così tanto male,
perché nei dintorni di Pavia, nelle campagne circostanti, il
re era sicuro che ci fosse stanziata la 5° Divisione Lombarda (denominata così
perché formata da esuli e volontari dello Stato occupato)
del generale Gerolamo Ramolino, ma la vera sorpresa, per i Piemontesi,
fu che Ramolino non si trovasse affatto al posto che gli era stato
ordinato da
Chrzanowski
a partire dal 16 marzo, ovvero quattro giorni prima.
Egli, infatti, aveva deciso di disobbedire ai comandi, fermandosi a
Piacenza, al di là del Po, certo che la minaccia sarebbe
arrivata da Sud, dai Ducati di Parma e di Piacenza, e non dal Nord.
Così, nessun rombo di cannone avvisò Carlo
Alberto e il suo general maggiore che la sponda lombarda del Ticino era
sotto assedio, perché non vi era nessuna 5°
Divisione a respingere l’avanzata nemica.
Chrzanowski, infatti, ricevette le informazioni in tal senso solamente
alle ore 21.00, nove ore dopo l'inizio dell'avanzata, quando Ramorino
fornì un rapporto dettagliato della situazione, insistendo
che si fosse trattato di un falso attacco, per
mascherare le reali intenzioni di un attacco austriaco ad Alessandria.
Intanto, l'ottantaduenne feldmaresciallo Radetzky, approfittando della
confusione che si respirava tra le fila nemiche, ne
approfittò per dirigere l’esercito imperiale verso
Vigevano, con lo scopo di effettuare la controffensiva decisiva a
Mortara, nel Pavese.
La Quarta Divisione rispondeva al comando del generale Ferdinando di
Savoia, duca di Genova e secondogenito di Re Carlo Alberto, e il 20
marzo aveva ricevuto l’ordine, insieme alla Terza Divisione
del generale Ettore Perrone, di convergere sul ponte che collegava
Novara a Milano.
Nicolò, in sella al suo baio bianco e grigio, faceva parte
della Brigata Piemonte, alla cui guida era stato posto il generale
Giuseppe Passalacqua, e stava trottando avanti e indietro senza meta.
Il giovane era sveglio dalle prime luci dell’alba, anzi, in
realtà non era riuscito neppure a dormire bene, quella
notte, avendo continuato a rigirarsi nel giaciglio di paglia, nervoso
ed emozionato per aver finalmente realizzato il proprio sogno di
servire la causa di liberazione.
La giornata era apparsa fin da subito uggiosa e metereologicamente poco
propizia: vi era una bassa e leggera foschia che faticava a diradarsi,
e il freddo era quasi più pungente che nei mesi invernali.
La tensione era palpabile, l’adrenalina alle stelle, sebbene
non si fosse ancora entrati nel vivo dello scontro.
Nicolò si stava guardando intorno, il paesaggio
piatto della campagna davanti a sé: non conosceva nessuno
nella Brigata, tuttavia si era subito ambientato piuttosto bene,
soprattutto con il suo capitano.
I compagni erano molto giovani, nuove reclute inesperte come
lui, che avevano deciso di arruolarsi per ricevere una paga sicura e la
vana idea della gloria eterna, tralasciando il piccolo particolare che
avrebbero dovuto servire nell’esercito per quattordici mesi
consecutivi, pronti a rimanere a disposizione per rinfoltirne le fila
per i successivi quindici anni.
Ciò voleva dire altre battaglie, altri combattimenti, altre
guerre, dall’esito incerto ed oscuro.
“Fa freddo, vero?” lo riportò alla
realtà un ragazzo di vent’anni, gli occhi e i
capelli chiari, che gli si avvicinò trottando.
Sorrideva, apparendo
incredibilmente
rilassato: stava fumando una sigaretta, anzi, un surrogato che ne
ricordava le fattezze, il fumo denso e irritante che saliva verso il
cielo in eleganti volute.
“Già … fa davvero molto
freddo” si limitò a commentare Nicolò,
gettandogli una fugace occhiata.
“Sei nervoso?” lo punzecchiò
l’altro, facendogli l'occhiolino ed offrendogli una sigaretta
dalla tasca interna della tunica monopetto blu.
L'altro lo scrutò dall'alto verso il basso, reprimendo un
moto di stizza.
“Certo che no. Semplicemente detesto l’attesa,
questo tempo sospeso in cui non sappiamo cosa fare, in cui non ci viene
detto come dobbiamo comportarci …”
puntualizzò, scrollando le spalle con fare spavaldo e
rifiutando la cartina.
Desiderava allontanare il più in fretta possibile
quell'inaspettata scocciatura, ma allo stesso tempo non voleva
inimicarselo.
Sapeva, infatti, quanto fosse importante poter contare sui propri
compagni, e quanto le scorrettezze, anche le più
involontarie e minuscole, sarebbero state un intralcio insormontabile
sul campo di battaglia.
“Però, parli bene tu: sei un intellettuale, una
sorta di poeta?”
Granieri si voltò nuovamente nella direzione dello
sconosciuto, lo scalpiccio nervoso del suo baio sul terreno erboso.
Trasse un profondo sospiro, mentre il fiato si espandeva nell'aria
pungente della mattina.
Deglutì, con l'intento di ritrovare la calma e cercare di
uscire da quel discorso non voluto nella maniera più consona
possibile.
“Mi chiamo Nicolò, aiutante in campo del capitano
Giuseppe Canavera. Adesso scusami, ma devo ritornare alla
base”
Aizzò il cavallo con gli speroni e, le redini tra le mani,
era già pronto per fare dietrofront, quando l'altro
ragazzo lo seguì, affiancandolo.
“Base? Ma quale base! Siamo già nel nostro
accampamento. Non la vedi quella distesa a perdita d'occhio di tende
piemontesi?"
Il biondino aspirò il fumo dal moncherino tra le dita,
sorridendo beffardo.
Nicolò fece finta di niente: non voleva rispondere a quella
sciocca quanto inutile provocazione, ricordandosi i buoni propositi di
appena qualche minuto prima, sebbene ciò gli costasse
un'immensa sforzo.
Certo che anche lui sapeva riconoscere i fabbricati di pelle e tessuto
che ricoprivano la zona tutto attorno, ma era stato un modo come un
altro per cercare di togliersi di dosso la presenza ingombrante del
ventenne!
"Comunque io sono Stefano, aiutante
in campo di me medesimo e contadino per vocazione. Piacere
di conoscerti!”
Si portò l'indice sulla falda del kepì di
panno cremisi e accennò ad un inchino, mantenendo le redini
ben salde nella mano opposta.
Il figlio del notaio, anche lui in sella al baio, cominciò a
muoversi in cerchio, tracciando una linea immaginaria nel morbido
terreno sotto gli zoccoli dell'equino, avvicinandosi cautamente allo
sconosciuto.
Doveva ammettere che quel contadinotto aveva davvero fegato: non
desisteva tanto facilmente, inoltre sembrava un giovane sveglio e
decisamente furbo.
Forse fin troppo,
si ritrovò a riflettere Granieri, ma può sempre
rivelarsi un fedele compagno. E poi, sono stanco di questa
solitudine che mi sono autoimposto: qualche chiacchiera non
potrà certo arrecarmi danno.
I due si strinsero la mano, strappandosi un sorriso a vicenda, e
rimasero in silenzio per una manciata di secondi, fino a quando
Nicolò non vide allontanarsi dalla sua tenda il capitano
Canavera, impegnato nell’ennesima riunione di alti ufficiali,
intenti a decidere le sorti della battaglia.
"Tu sai dove stanno andando?" domandò al
commilitone, per nulla interessato a quella sfilata di graduati.
“E
che ne so? Sei tu quello in confidenza con il capitano, mica mi!”
Nicolò
fece finta di non aver sentito, quindi cercò di spiegargli
in modo molto semplice ciò che aveva udito pochi minuti
prima, quando era stato affiancato da un gruppetto di sottoufficiali.
“Ho
sentito che alcuni dicevano che i piani del polacco non sono andati
come previsto: una delle nostre vedette è tornata tutta
trafelata, e ha voluto parlare immediatamente con un alto in grado
…”
“La marca male,
amico, dai retta a me. Tsè”
Stefano sputò il mozzicone sul terreno brullo e, scuotendo
la testa, commentò:
“Questi
potenti proprio non li capisco, non li capisco per niente”
"Non
sei tu a dover capire, ma i nostri superiori. Sono loro che ci
condurranno alla vittoria finale, non tu"
Il biondino fece spallucce e sbuffò, grattandosi
distrattamente il mento imberbe.
Il giovane Granieri ripensò alle parole che aveva udito
qualche attimo prima, e desiderò di essere una mosca per
poter seguire indisturbato il capitano Canavera, carpendo
così le mosse e i piani tattici a cui avrebbe dovuto
sottostare.
Si mormorava, infatti, che l’Armata sarda fosse stata colta
di sorpresa sulla sponda lombarda del Ticino, addirittura che un
manipolo di bersaglieri della Luciano
Manara* e qualche scarso reparto di fanteria avesse dovuto
ripiegare in tutta fretta, dopo aver cercato di resistere per sei
lunghe ore.
Non
si sapeva ancora con esattezza che cosa fosse successo: sicuramente,
qualche cosa era andata storta, altrimenti a quell’ora
l’esercito sabaudo avrebbe già dovuto marciare
trionfante in direzione di Milano, per liberarla definitivamente dal
giogo straniero.
“Quando
credi attaccheremo?” domandò Stefano, irritato per
quel viavai di ufficiali.
“Spero
presto. Cosa ti ho detto poco fa? Questa attesa è
snervante” ribatté Nicolò, facendo
scorrere lo sguardo lungo la campagna che si perdeva all'orizzonte.
Aveva
sentito dire che Carlo Alberto si trovava al Quartier generale, a pochi
passi di lui: se così fosse stato, il giovane avrebbe fatto
di tutto per poterlo incontrare e, magari, stringergli la mano, persino
combattere fianco a fianco per difenderlo e sfondare insieme al Re le
linee nemiche.
Perciò,
quando alle ore 13.30 di quello stesso martedì 20 marzo, la
Brigata Piemonte, compatta con il resto della Quarta Divisione,
attraversò il ponte che collegava Novara a Milano, in
direzione di Magenta, miracolosamente senza trovare alcuna opposizione
da parte del nemico, Nicolò quasi non credeva ai propri
occhi: alla testa delle truppe, infatti, vi era Sua Maestà
in persona.
Fu
in quel momento, quando lo intravide da lontano, che si convinse ancora
una volta di aver fatto la scelta più giusta: non sarebbe
tornato indietro, non avrebbe avuto alcun ripensamento,
perché il Re era con loro, aveva scelto la sua Brigata per
liberare la roccaforte del Lombardo Veneto dalle truppe usurpatrici.
E, questo,
non poteva che essere un segno del destino.
* Luciano
Manara è stato un patriota milanese, morto durante gli
scontri della Repubblica Romana, nel giungo 1849. Nell'agosto dell'anno
precedente, insieme ad un gruppo di esuli lombardi, fu nominato
maggiore di un corpo di bersaglieri, che facevano a capo del generale
Ramorino, lo stesso "pasticcione" che ha determinato l'inzio
dell'avanzata nemica. Dopo la battaglia di Novara, abbandonò
il Piemonte per Roma, dove venne nominato capo di Stato Maggiore da
Giuseppe Garibaldi.
QUALCHE
NOTA STORICA ...
Buonasera
a tutti!
Scusate
la noia che può avervi suscitato la prima parte di questo
capitolo, ma mi sembrava doveroso inserire date e nomi per completezza
e veridicità storica.
Se
non avete capito nulla, non temete, non è importante:
fondamentale, invece, è aver compreso quanto sciocchi siano
stati i Piemontesi e il suo Governo a rompere l'armistizio con gli
Austriaci, determinando di fatto il loro primo passo verso la sconfitta.
Ma
se così non fosse accaduto, avremo mai ottenuto la nostra
Italia unita, così come la conosciamo? Gli storici, infatti,
sono concordi nel dire che la battaglia di Novara è stata
decisiva per il Risorgimento.
La
tregua tra Piemontesi ed Austriaci sarebbe durata solamente sei
settimane, dal 9 agosto 1848 al 21 settembre dello stesso
anno, se non fossero intervenuti francesi ed inglesi a mediare e a
prolungarne la durata, fino appunto al 12 marzo 1849.
Tutto
ciò che ho scritto relativamente al generale polacco e alle
altre personalità/paesi/città/sovrano
è vero, così come il compito della Quarta
Divisione -e della Brigata Piemonte di cui fa parte Nicolò-
di sorvegliare il ponte che da Novara portava a Milano, una cinquantina
di chilometri di distanza.
Vincenzo
Gioberti
(1801-1852) conobbe Carlo Alberto quando era suo cappellano personale.
In
seguito, venne esiliato dai filomonarchici, che temevano la
sua influenza sul sovrano.
Dopo
aver trascorso tredici anni tra Parigi e Bruxelles, il Re
dichiarò un'amnistia, che permise a Gioberti di ritornare in
patria, dove divenne Presidente della Camera dei Deputati dal dicembre
1848 al febbraio 1849, giusto in tempo per portare la dichiarazione di
guerra agli Austriaci.
Piccolo
accenno a Leopoldo
II d'Asburgo
di Lorena, granduca di Toscana, di cui ho vagamente parlato nello
scorso capitolo: nel febbraio 1849 riparò a Gaeta, nel
Lazio, dai Borbone, dopo che si autoesiliò per paura delle
mire espansionistiche di Carlo Alberto.
A
Firenze venne formato un governo filopiemontese, fino alla sconfitta di
Novara, quando Leopoldo potè tornare a Firenze, grazie
all'appoggio degli Austriaci.
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Capitolo 22 *** La processione infinita ***
Non stare in ansia per
l'avvenire, perchè ci arriverai, se dovrai, portando in te
la stessa ragione di cui ti avvali ora del presente.
(Marco
Aurelio, imperatore, filosofo e autore romano, 121-180 d.C)
Erano quasi due ore che stavano marciando in groppa ai cavalli, stanchi
ed affamati.
Davanti
a loro si aprivano solamente distese a perdita d’occhio di
campi coltivati a granoturco alternate a zone brulle, in cui gli alberi
si apprestavano timidamente a far maturare i propri frutti.
La
colonna di soldati della Quarta Divisione guidata dal duca di Genova,
Ferdinando V di Savoia, procedeva compatta lungo il confine piatto tra
Piemonte e Lombardia: come monotono sottofondo, il
cadenzato ed elegante scalpiccio degli zoccoli ferrati e il nitrire
degli stalloni, che risuonavano vaghi ed attutiti in quel paesaggio
spettrale, mentre la solita pressante foschia delle ore
precedenti impediva di mantenere un buon passo al trotto.
Appariva
tutto così calmo da sembrare irreale: i casolari che si
snodavano lungo il tragitto esibivano le finestre e la porta di legno
sbarrate, a sottolineare che non c'era nulla da rubare, a
pregare le truppe di passaggio di non saccheggiare e fare razzia di
quelle umili abitazioni, innocenti in quella terra di mezzo.
Qualche centinaio di metri più avanti, in piena
contraddizione con il panorama di desolazione di cui erano stati
spettatori, uno sparuto gruppo di contadini -tre donne e due uomini di
mezza età- era intento a vangare e rassodare parte del
terreno che si apriva sotto i loro piedi.
Erano talmente concentrati che quasi non si accorsero del passaggio
delle truppe piemontesi, sebbene il loro disinteresse sembrasse
studiato per non attirare l'attenzione degli sconosciuti.
La Brigata Piemonte oltrepassò i lavoratori, degnandoli di
una fugace occhiata, accingendosi ad attraversare l'ennesimo ponte che
sovrastava la sponda lombarda del Ticino, ormai in
territorio nemico.
Erano finalmente in prossimità della Lomellina, la vasta
zona che contornava Pavia, lambita proprio dal fiume che contornava i
due Stati, dove avrebbe dovuto trovarsi il distaccamento del generale
Ramorino.
Nicolò rallentò impercettibilmente, approfittando
dell'avanzata delle avanguardie, pronte ad esporsi per controllare
l'altro lato del collegamento, e recuperò la borraccia
penzolante sul fianco sinistro, avido di sete: si pulì la
bocca con una mano, quindi porse il prezioso contenitore a Stefano,
qualche passo dietro di lui.
“Ti
ringrazio, ma tienila per te: la mia è ancora piena
…” gli rispose il biondino, la voce fiaccata dalla
fatica.
Il
giovane Granieri non se lo fece ripetere due volte, riprendendo a
galoppare insieme al resto della colonna, che si era nuovamente messa
in marcia.
Avevano abbondantemente superato Magenta, poiché i nuovi
ordini comandavano di convergere immediatamente verso nord, in
direzione di Vigevano.
Il
giorno stava ormai calando, il buio ed il freddo della notte avrebbero
presto preso il suo posto, demoralizzando ancora di più la
truppa.
Dopo
aver piantato l’accampamento in una zona abbastanza protetta
dalla scarsità di boscaglia e
casolari, l’Armata sarda si fermò per
riposare qualche ora.
I
soldati più agili e di bassa statura vennero inviati in
ricognizione, in mezzo alle chiome degli alberi, per avvisare
dall’alto l’eventuale avvicinamento del nemico,
richiamando così, con l’apposito fischietto,
l’attenzione del resto delle divisioni.
Un
altro gruppo di giovani leve venne incaricato di accendere i fuochi per
permettere alle vivandiere*
di cucinare un minimo di cibo, regalando alla truppa la parvenza di una
cena normale.
“Che
guardi?” volle sapere Stefano, notando l’insistenza
con cui Nicolò stava
fissando un gruppo di tende sul lato opposto rispetto al loro.
“Nulla,
stavo riflettendo su quanto sia impossibile avvicinarsi a Sua
Maestà: è praticamente sempre accerchiato dai
Carabinieri reali, lo seguono come un'ombra in ogni suo spostamento,
nemmeno fosse un bambino!”
s’infervorò il giovane, addentando un pezzo di
pane azzimo e ormai indurito dalle pessime condizioni atmosferiche che
l’addiaccio imponeva.
Entrambi
i giovani erano seduti su due massi, grandi ed irregolari, e si erano
appena proposti al capitano Canavera di rimanere a guardia di quel
tratto di accampamento.
“Rilassati,
amico! Lo hai detto tu che si tratta di Carlo Alberto in persona! Non
vorrai che lascino da solo ed indifeso l’uomo per cui tutto
questo ha avuto inizio, il grande Re per il quale ci troviamo qui, in
mezzo a questo buco di mondo, con lo stomaco che grida fame, i piedi
gonfi e la gola infiammata dalla polvere sollevata dagli
zoccoli!?”
Il biondino addentò innervosito il pezzo di pane che gli era
rimasto, scrollando il capo con fare incredulo e canzonatorio.
Per quanto quella sorta di intellettuale gli piacesse, davvero non
riusciva a comprendere come facesse ad immedesimarsi così
tanto nella parte dell'eroe senza macchia e senza paura, pronto ad
immolare la sua stessa vita per un ideale che gli era stato inculcato
da appena pochi mesi.
“Sei
tu che devi darti una calmata!” lo minacciò
l’altro, alzandosi improvvisamente in piedi e sollevandolo
per il bavero della divisa inzaccherata.
La
brace davanti a loro scoppiettava imperterrita e malandrina, mentre le
lingue di fuoco illuminavano i due giovani.
Il volto di Nicolò appariva simile a quello di un
demone notturno, furioso e beffardo, e quasi il ventenne si
spaventò di fronte a quella reazione irrazionale.
“Se
vuoi andare d'accordo con me, devi portare rispetto a Sua
Maestà, Stefano, altrimenti non ci impiegherò due
volte ad andare dal mio capitano per riferirgli che in mezzo a noi si
nasconde un falso patriota, un bugiardo senza scrupoli che va in giro a
dire menzogne sul nostro amato e giusto sovrano!”
Il
primogenito dei Granieri rimase ancora per qualche secondo a fissarlo
negli occhi, quindi lo lasciò perdere, sciogliendo la presa
per il bavero: il biondino cadde all’indietro, soffocando
un'imprecazione e lamentandosi per essersi scorticato i palmi delle
mani sul masso su cui, fino a pochi istanti prima, era seduto.
“Ti ti sei tut mat, boia cane!
Sfoga la tua rabbia contro gli Austriaci, non su di me! Ma guarda
te!”
"E'
quello che ho intenzione di fare appena si presenterà
l'occasione, puoi starne certo"
Nicolò scosse la testa e riprese ad addentare il pezzo di
pane avanzato, concentrandosi sui giochi di luce creati dalle fiammelle
del focherello, mentre il compagno si allontanava di qualche passo,
bofonchiando quanto fosse pazzo.
Intorno
alle 3 del mattino di giovedì 21 marzo, il generale
Chrzanowski decise di inviare la Quarta divisione a Vigevano, in aiuto
della Seconda divisione guidata dal pari in grado Michele Bes.
Il
capitano Canavera ordinò così ai sottograduati di
radunare tutti gli uomini, per comunicare l’immediata
partenza: il giovane Granieri e il suo nuovo amico si erano guadagnati
qualche ora di riposo, e in quel momento stavano dormendo in una delle
tende lì vicino, dopo il turno della tarda serata appena
trascorsa.
“Ma
che succede?” s’informò Stefano, non
appena una delle sentinelle notturne entrò nel loro
accampamento, spronandoli ad alzarsi e a ritirare il più
velocemente possibile i loro pochi averi.
“Il
capitano ha detto di muoverci! Dobbiamo raggiungere Vigevano il prima
possibile, ordini del generale maggiore! Alcuni dei nostri in
ricognizione hanno avvistato gli Imperiali proprio in quei
paraggi!” precisò l’imberbe soldatino,
allampanato e dai capelli castani, il viso cosparso di efelidi.
“Ma
è notte!” tentò di replicare il
biondino “non possiamo aspettare che spunti
l’alba?!”
“Quale
alba e alba! Il nemico non aspetta i tuoi comodi” gli
ribatté Nicolò, alzandosi di scatto in piedi e
lanciandogli contro gli stivali.
Si
riabbottonò velocemente la tunica monopetto della divisa blu
scuro, lisciando la fascia azzurra a tracolla che simbologgiava la sua
carica di aiutante in campo.
Nel
frattempo, dedicò un'occhiata colma di curiosità
verso il varco d'ingresso, cercando di capire invano cosa stesse
accadendo al di fuori della loro tenda, la folla di soldati in fermento.
Poi, l'adrenalina alle stelle, recuperò il cinturone da
sotto il giaciglio di paglia, e vi infilò la pistola,
sistemando nell’apposito fodero la spada che aveva nascosto
tra le coperte.
Infine, a passi sicuri, andò a recuperare il fucile
che aveva adagiato sul pavimento di terra battuta, a pochi passi dal
letto di fortuna.
“Sei
tu Granieri, giusto?” riprese la sentinella, facendo qualche
passo nella sua direzione.
L’altro
annuì, curioso di sapere cosa volesse e come sapesse il suo
nome: lo fissò dall'alto verso il basso, aspettando che
proseguisse.
Da una fessura della tenda rimasta aperta per l'improvvisa brezza
notturna filtrava il fievole chiaror lunare, che permise al
giovane di riconoscere quasi
distintamente il
soldato che gli aveva dato il cambio di guardia, circa tre ore prima.
“Il
capitano Canavera dice che questa notte ti vuole al suo fianco,
perché tu veda come si compili un registro di
unità. Prima, però, devi assicurarti che la sella
del suo cavallo sia stata ben posizionata, che le briglie ne reggano il
peso e che le staffe non cedano. Hai capito tutto?”
enumerò solenne il giovinetto, senza attendere la replica
dell'interlocutore.
“Mi
ha anche chiesto di
domandarti quante scorte di acqua e di viveri ti sono
rimasti”
Nicolò
si recò nell’angolo dove aveva nascosto il cibo e
la borraccia, reprimendo un moto di stizza nell'udire quegli ordini
declamati da un insulso ragazzetto: tuttavia, non si abbassò
a dire nulla, recuperando ciò che gli era stato comandato e
lo mostrò al commilitone.
“Ho
ancora mezza pagnotta di pane di segale ed una fiaschetta piena per
metà di acqua …” commentò il
figlio del notaio, cercando di non lasciar trapelare la frustrazione
per aver permesso che la fame e la sete travolgessero la sua forza di
volontà, dimezzando le scorte che gli erano state affidate
appena la mattina precedente.
L’altro
disse che andava bene e, con il fucile portato su una spalla,
uscì dalla tenda, seguito a ruota dai due ragazzi e dal
resto dei soldati presenti in quella parte di accampamento.
Nicolò
si sentiva deluso da se stesso: se solo fosse toccato a lui il turno di
notte, avrebbe avuto l’occasione per dimostrarsi capace agli
occhi del suo capitano, esibendo
le proprie doti di accurato organizzatore.
Invece,
la sorte aveva permesso che fosse quell’insulso ragazzo, il
volto cosparso di efelidi e investito del medesimo ruolo di aiutante in
campo, a trasmettere gli ordini del comandante e a farli rispettare.
Lo
aveva umiliato, forse non volutamente, ma lo aveva fatto.
Quando gli aveva detto di controllare quell’elenco
di compiti che si addicevano maggiormente ad un semplice stalliere
piuttosto che a un giovane della sua levatura sociale, si era sentito
improvvisamente inutile e sottomesso: per un
fulmineo istante, si era domandato che senso avesse rischiare la
propria vita per eseguire delle mansioni così basilari e
prive di qualsiasi valore militare, ma ormai capiva che non valeva la
pena recriminare su ciò che era accaduto.
Avrebbe
fatto di tutto perché Canavera si accorgesse di lui e del
suo coraggio, facendogli cambiare idea e affidandogli compiti di
importanza strategica.
Certo, doveva ammettere che di eserciti e di guerra non poteva
affatto definirsi un esperto, tanto più
che si era arruolato da meno di quarantotto ore, un tempo che non lo
autorizzava a poter contare su una solida esperienza, tuttavia era pur
sempre il figlio di una contessa e di un notaio, non di un umile
commerciante o di un contadino.
Inoltre,
comprendeva perfettamente che il tenente Chiusari gli aveva fatto un
immenso favore, nominandolo aiutante di campo del capitano: un altro
ufficiale, al suo posto, non avrebbe esitato a farlo fucilare o
imprigionare seduta stante, a causa di quella stupida bugia che aveva
raccontato all'albergo svizzero circa la propria falsa
identità.
Per
questo, e per dimostrare a se stesso quanto poteva e doveva farcela,
non si sarebbe fatto sfuggire un’altra occasione
così propizia.
Alle
ore 11 di giovedì 21 marzo, reparti in ricognizione del
generale Bes si scontrarono con parte delle truppe nemiche, dando
inizio alla stoica resistenza piemontese nei pressi di Borgo San Siro,
che culminò tra le 18 e le 19 dello stesso giorno, con i
combattimenti vittoriosi a Gambolò e alla Sforzesca*
Quei
tre scontri nella campagna lombarda si rivelarono tatticamente
fondamentali, poiché la strada per Vigevano era ora protetta
da diverse divisioni piemontesi.
Tuttavia,
ciò non impedì che Mortara, fino ad allora nelle
mani dell’Armata sarda, cadesse sotto il fuoco
dell’artiglieria nemica.
Due
brigate della Prima divisione, la Cuneo e la Regina, al comando dei
generali Trotti e Durando, vennero praticamente decimate dagli
Imperiali.
La
notizia della disfatta arrivò al generale Chrzanowski
solamente nella notte tra il 21 e il 22 marzo, quando nulla era
possibile per impedire o arginare i danni subiti.
All'arrivo
di quelle sgradevoli quante inaspettate notizie della disfatta, venne
immediatamente rintracciato il Re, intento a dormire ignaro in una
delle tende dell’accampamento, in mezzo ai soldati della
Brigata Savoia.
Quindi,
dopo averlo consultato, si decise di istituire un Consiglio di Guerra
alla Sforzesca, a cui parteciparono anche i comandanti della Seconda e
Quarta divisione, il generale Bes e il duca di Genova.
A
seguito di varie ed infinite discussioni, i quattro si accordarono per
effettuare l’imminente e necessaria ritirata verso Novara,
invece che verso la ormai decisa Vercelli, strategicamente
più vicina a Torino, la capitale del Regno.
La
scelta non fu accolta con entusiasmo, perché ci si rendeva
conto che, preferendo Novara invece di Vercelli, le truppe stanziate ad
Alessandria non avrebbero potuto intervenire tempestivamente, in caso
di un massiccio attacco, dovendo percorrere ventisette chilometri in
più in un tempo assai ristretto.
Tuttavia, se
Chrzanowski avesse giocato d’astuzia, i Piemontesi avrebbero
collezionato la vittoria suprema.
Il
feldmaresciallo Radetzky, infatti, venuto a conoscenza del piano
nemico, si convinse che si trattasse dell'ennesima trappola per indurre
gli Austriaci a traslocare l’intero esercito a Novara,
lasciando scoperta la strategica Vercelli.
Per
questo, egli non allontanò le truppe imperiali da Vercelli,
dando all’Armata sarda la possibilità di
attaccarli alle spalle.
Ma
il general maggiore polacco non ordinò l’affondo,
preferendo seguire il piano stabilito insieme al Consiglio di Guerra.
E,
di nuovo, come la disobbedienza senza fondamento di Ramorino che aveva
messo a dura prova il giorno prima la tenuta dell'Esercito sabaudo,
quello fu l'ennesimo inizio verso il tragico epilogo.
* Le vivandiere erano mogli di sottoufficiali che svolgevano compiti di
sussistenza, come preparare e portare da mangiare e da bere ai soldati,
aiutare a lavare e tenere in ordine le divise, oltre che ad essere le
prime "crocerossine" che si prendevano cura dei feriti dopo le
battaglie.
*Dal nome della tenuta agricola alla periferia di Vigevano, costruita
per volontà degli Sforza.
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Capitolo 23 *** La prima missione ***
Una volta nel gregge,
è inutile che abbai: scodinzola.
(Anton Cechov,
scrittore, drammaturgo e medico russo, 1860-1904)
La ritirata ufficiale delle forze piemontesi iniziò alle tre
del mattino di venerdì 22 marzo e terminò
solamente intorno alle 16 dello stesso giorno, quando la Quarta
divisione guidata dal duca di Genova, generale Ferdinando di Savoia,
raggiunse Novara, la città scelta nella notte per il
dietrofront.
La
pioggia cadeva fitta e compatta, insinuandosi nella falda del kepì di
ordinanza, offuscando la vista dei soldati costantemente all'erta,
mentre l’esercito di Carlo Alberto si ritirava alla
spicciolata dentro i bastioni di quella che, inutilmente, credevano
avrebbe rappresentato la loro inespugnabile roccaforte.
Non tennero in considerazione l'evenienza tutt'altro che remota di
quanto fosse fuori il reale pericolo, incarnato da una minima parte
delle truppe Imperiali, già in procinto di accamparsi
attorno al perimetro cittadino.
"Cosa ci fanno gli
Austriaci a un tiro di schioppo dalle nostre case, dalle nostre donne?"
si sentì infervorare qualcuno.
Ma subito, di rimando, in mezzo alla bolgia delle retrovie, ecco che
non tardò ad arrivare la risposta:
"L'è ul
diavul che il manda!" mormorò un caporale
sessantenne, contadino prestato alla guerra, il volto increspato da
minuscole rughe e le vene delle braccia che pulsavano di rabbia, sotto
la sudicia tunica blu monopetto.
Il feldmaresciallo Radetzky sembrava non nutrire alcuna paura per quel
pugno di ribelli: aveva accolto con un
certo smarrimento iniziale la
decisione dei Piemontesi di convergere in massa in mezzo alle distese
di risaie e foschia, sicuro che non si sarebbe rivelata la salvezza
tanto invocata dalle truppe nemiche, ma aveva assecondato quella sorta
di suicidio di massa, ben contento di raccoglierne i frutti.
Appena
le tenebre della notte cominciarono a calare e il buio meschino si
divertiva ad ammantare i contorni di ogni cosa vivente o inanimata che
fosse, di nuovo i soldati tornarono a preoccuparsi della
presenza degli Imperiali a poche centinaia di metri di distanza, in
preda alla confusione che prese a regnare sovrana: dall’alto
delle mura della città, infatti, venne aperto il fuoco sul
generale Bes e la sua Seconda divisione, colpiti inaspettatamente a
cannonate perché confusi con gli Austriaci.
C'era
chi gridava inascoltato, chi implorava pietà, chi pregava di
finirla con quell'assurdo assedio fraterno, mentre il cielo plumbeo
veniva rischiarato dalle fiamme sputate dalla bocca di metallo.
Fin dal mattino del 22 marzo, Novara diventò oggetto della
violenza dei soldati di casa Savoia che, in seguito alla sconfitta di
Mortara, si apprestavano a ritirarsi alla spicciolata verso la
città.
Appena il giorno avanti, duemila
sabaudi furono resi prigionieri dagli Austriaci, decimando un esercito
già scarsamente equipaggiato e
preparato.
Una
parte degli sbandati, quelli ancora lungo la terra di mezzo tra
Lombardia e Piemonte, si rifugiarono a Vercelli, sperando di
raggiungere incolumi la capitale del Regno, Torino.
In quelle
ore, si contarono centinaia di disertori, sfiniti fisicamente e
psicologicamente da ciò che avevano dovuto vedere e
sopportare nelle battaglie di Pavia, Borgo San Siro, Gambolò
e della Sforzesca, desiderosi solamente di ritornare dalle loro
famiglie.
Disordini,
furti e violenze diventarono protagonisti indiscussi nelle strade di
Novara, frutto dell’odio delle truppe allo sbando, che non
temevano di inveire ad alta voce contro il sovrano, la guerra e il
Governo liberale di Gioberti, a loro dire colpevoli dell'assurda
bramosia di riscattare a tutti i costi la disastrosa sconfitta di
Custoza del luglio 1848.
Soldati
che non avevano più nulla da perdere -se non la loro stessa
vita- si riversarono in massa nei meandri della città,
stanchi, provati, affamati e feriti: si abbandonarono senza
riserve al saccheggio di botteghe e abitazioni nobiliari lasciate
inermi dai loro proprietari, fuggiti al riparo nella
campagna.
A
un certo punto, nel mezzo degli scontri senza opposizione, dovette
intervenire persino la Cavalleria, che non si sottrasse all' uccisione
di buona parte dei saccheggiatori.
E adesso? Che cosa
dobbiamo fare? E' finita! Se cominciamo a combattere tra di noi, contro
il nostro stesso compagno, quale destino glorioso
potrà attenderci?
Carlo
Aberto giunse a Novara solamente alle 18 del 22 marzo, avvilito,
convinto che la forzata quanto improvvisa ritirata
rappresentasse un funesto presagio per le
sorti della guerra.
Il
Re, insieme alla scorta formata dai Carabinieri reali, si
stabilì di diritto a Palazzo Bellini, il luogo da cui tutto
ebbe inizio, da cui Sua Maestà partì appena tre
giorni prima.
E
forse, fu nel momento stesso in cui il primo esponente di casa Savoia
intravide l'edificio, quando calpestò i lastroni del suo
ampio cortile d'ingresso, che cominciò a pensare che non
tutto era perduto, se solo avesse deciso di abdicare e lasciare il
trono al figlio primogenito, il principe ereditario Vittorio Emanuele.
Ma
si rivelerà davvero quella la decisione migliore, la scelta
che avrebbe potuto essere in grado di determinare le sorti della
battaglia e di rivosciarle nuovamente in favore delle sue truppe?
Sarà Dio a
decidere, mi rimetterò nelle sue mani.
Qualche ora prima
Nicolò
era stato ferito di striscio al braccio sinistro, durante
l’offensiva della Sforzesca, nel tardo pomeriggio del giorno
precedente.
Durante
l’avanzata di quella
notte verso
Vigevano, il
capitano Canavera gli aveva più volte suggerito come
avrebbe dovuto comportarsi in caso di attacco: difendersi, mantenendo
la testa bassa, il più possibile rasente le staffe del
cavallo, ma lo sguardo fermo, in direzione del nemico, per anticipare
anche la sua più piccola mossa.
"Ricordatevi, Granieri, in una
mano il fucile e nell'altra la spada: saprete quale usare appena
scorgerete da lontano la testa del nemico, e riporrete l'arma che non
utilizzerete con la stessa cura e velocità con cui vi
preoccupereste di nascondere vostro figlio"
Di prole ancora non ne aveva, ma era riuscito ugualmente a
comprendere molto bene ciò che l'ufficiale intendeva
suggerirgli.
Tuttavia, il giovane non si era lasciato sfuggire l'occasione per
cercare di ribattere e di fargli capire, in modo assai velato ed
educato, quanta fosse la voglia di combattere, di contribuire a
spianare la strada alla vittoria.
Ma,
notando la reticenza del superiore a dargli corda, Nicolò
preferì rimanere in silenzio, parlando solamente se
interpellato, e rispondendo sempre con il rispetto che imponeva il suo
umile ruolo.
Per
questo, quando il colpo di uno Stützen nemico non lo
colpì in pieno per un soffio, la traiettoria deviata
dall’abile mira di un soldato davanti a lui, quasi non
riuscì a credere di essere scampato alla morte senza aver
combattuto, senza aver provato a difendersi.
La
sensazione di viltà tornò prepotente ad
impadronirsi della sua mente, desideroso di dimostrare quanto grande e
sincero fosse il proprio valore in campo.
Si
guardò intorno, rimanendo stupito di come le centinaia di
soldati che fino a poche ore prima non gli permettessero neppure di
muoversi in sella, adesso si erano ridotte ad uno sparuto numero di
uomini
completamente afflitti: in mezzo
ai molti sani, all'infinità dei feriti, alle migliaia di
giovani e alle centinaia di anziani, tutti apparivano
come un'unica onda spossata, mossa
dal mare dell'Obbligo.
Quasi nessuno godeva ancora di un briciolo di esultanza o di senso del
dovere: ci si trascinava in sella ai cavalli solamente
perché si aveva troppa paura di inoltrarsi da soli in quel
buio senza nome.
“Come
va il braccio?” s’informò Stefano, che
continuava a marciare di fianco a lui.
“Bene
…”
Nicolò
abbassò gli occhi scuri sulle briglie manovrate dal braccio
sano, per poi concentrarsi brevemente sulla fasciatura macchiata di sangue, senza dare troppo adito alle parole di fraterna preoccupazione
del compagno.
Un senso di repulsione, infatti, lo invase, quando notò la
divisa deturpata da un piccolo strappo, testimonianza dello sventato
attacco a cui era fortunatamente scampato.
“Almeno
ha smesso di piovere: ho l'acqua quasi fin dentro le mutande, boia cane
…” cercò di fare
conversazione l’altro, la voce meno allegra dei giorni
precedenti, ma sempre con quella nota di speranza che non lo aveva
ancora abbandonato.
“E’
solo una breve tregua. Guarda il cielo da quella
parte,
è pieno di nubi scure”
Il
giovane Granieri puntò l’indice destro verso
l’alto, sicuro delle sue parole.
“Se
lo dici tu … senti un pò, perché non
mi racconti della tua famiglia? Sono stanco di questo
silenzio”
"Non c'è nulla da dire: l'unica famiglia che mi è
rimasta siete voi"
Nicolò continuò a procedere al trotto, i muscoli
del collo indolenziti per la prolungata stazione eretta:
riuscì a vincere l'impulso di massaggiarsi la zona
dolorante, mentre un improvviso senso di fame gli attanagliò
la bocca dello stomaco.
Erano quasi otto ore che non ingoiava nulla, e aveva già
finito l'acqua nella borraccia, quindi avrebbe dovuto aspettare di
raggiungere la città per poter essere investito dal profumo
della cena preparata dalle vivandiere.
Chissà che cosa avrebbero mangiato i suoi genitori e
Costanza, quella sera: odiava doverlo ammettere, ma in quei momenti di
sconforto gli sarebbe piaciuto trovare un volto amico in mezzo alla
folla di soldati sconosciuti e maleodoranti.
E nonna Maria? Erano tre mesi che non la vedeva: di lei aveva avuto
notizie solamente tramite la corrispondenza che intesseva con la
sorella, anche se il suo amorevole sorriso e le sue sagge parole
continuavano a rimanergli indelebili nella mente.
Sicuramente non
approverebbe il mio comportamento avventato e nemmeno i dispiaceri che
devo aver causato a casa. Ma ormai sono qui, sono felice di far parte
di questo glorioso Esercito, e mi convinco ogni ora che passa di aver
fatto la scelta migliore: quello che ho visto, che ho sentito e
provato, nessuno me lo potrà mai restituire, così
come nessuno può capirlo, se non lo ha vissuto come lo sto vivendo io
adesso.
"Ho capito che non vuoi parlare, però almeno degli amici ce
li avrai, no? Con tutti i nobili e i borghesi che conosci non
ci credo che non ne hai nemmeno uno!"
Stefano aveva interrotto il silenzio che era nuovamente
calato tra di loro, mentre il vociare confuso e lamentoso dei feriti
permeava l'intera colonna.
"Sì, hai ragione, un amico ce l'ho. Si chiama Eugenio ed
è il mio maestro: da lui ho imparato tutto, è a
lui che devo ogni cosa che so, ed è anche per lui che ho
deciso di arruolarmi, per dimostrargli quanto valgo"
Il giovane Granieri si lasciò andare ad un sorriso
soddisfatto, ricordando l'arrivederci che si era scambiato con
Maffucci, dopo che il trentenne con i baffetti lo aveva accompagnato
all'albergo svizzero, meno di quattro giorni prima.
"Ed è un poeta come te?"
"E' un avvocato, un promettente avvocato. Ma quante volte ti devo
ripetere che non sono un poeta?! E adesso stai un po’ zitto,
per favore, che mi devo concentrare"
Nicolò scrollò il capo con aria a metà
tra il diverito e l'infastidito: in fondo, era contento di
dividere l'estenuante marcia con quel contadino chiacchierone,
l'unico vero compagno che era riuscito a trovare in mezzo alla distesa
di soldati senza nome.
Con la mano sana, gli diede un buffetto su una gamba, quindi
tornò a guardare avanti.
Quando
entrarono a Novara, la pioggia aveva ripreso a riversarsi sulle loro
teste: la Brigata Piemonte arrivò in città
intorno alle sedici, stanca e demoralizzata.
La
Quarta divisione guidata dal generale Passalacqua e sotto il comando
del duca di Genova avrebbe dovuto stanziarsi nei pressi della Bicocca,
a Porta Mortara, lontano dagli scontri che avrebbero visto coinvolto
parte delle truppe sbandate.
“Il
nome non sembra promettere bene …”
tentò di sdrammatizzare Stefano, quando finalmente
raggiunsero la postazione assegnata.
“A
me, invece, non sembra beneaugurante scherzare su un fatto
così grave come la battaglia che abbiamo combattuto appena
ieri pomeriggio…”
“Io
non ho combattuto proprio un bel niente: ero troppo impegnato a non farmi uccidere” bofonchiò
in risposta il biondino, mentre scendeva da cavallo, la divisa blu
impolverata e gli stivali inzaccherati dal fango.
Si
guardarono intorno, accerchiati da infinite distese a perdita
d’occhio di centinaia di uomini tra ufficiali, sottoufficiali
e soldati, intenti a riversarsi nel fazzoletto di terra a loro
destinato, in cui si sarebbero accampati per la notte.
Nicolò
avvertiva una strana sensazione gravargli sulle spalle, tanto da non
riuscire neppure a definirla con esattezza: si sentiva sospeso, in
bilico tra due mondi, come se avesse compiuto un lunghissimo viaggio
attraverso gli occhi di un’altra persona, un viandante che
gli aveva raccontato in maniera talmente dettagliata i pericoli, le
emozioni, le gioie e le tristezze del tragitto, da sembrare di averle
vissute.
In
quel momento, egli provava esattamente quello: era stato un semplice
spettatore o, tutto ciò che credeva fosse accaduto in quei
tre giorni da quando si era arruolato, aveva per davvero rappresentato
la realtà?
“Ho
abbandonato questa città da poco più di
quarantotto ore, convinto che sarei andato lontano, che avrei
combattuto chissà dove. Invece, eccomi di nuovo qui, a non
sapere cosa succederà domani, a non capire il motivo di
questa ritirata…”
"Ma
non eri tu che mi dicevi che non tocca a noi semplici soldati fare
domande? Che saranno i nostri ufficiali a portarci alla vittoria
finale?!" lo canzonò l'altro, mentre a piedi si
incamminavano verso le prime tende che venivano già montate
per gli ufficiali.
"Se è per questo, ne sono ancora convinto"
All'improvviso, un sergente a cavallo si avvicinò a Stefano,
ordinandogli di ritornare in sella e di seguirlo: avrebbero dovuto fare
da scorta ad un gruppo di vedette con il compito di addentrarsi a nord,
al confine con i campi, per cercare di individuare eventuali truppe
nemiche.
Nicolò
gli fece un cenno di saluto, non invidiandolo per quello che lo
aspettava: aveva la schiena a pezzi per la prolungata stazione eretta e
leggermente incurvata che aveva tenuto in groppa al purosangue,
posizione che gli aveva indolenzito i muscoli delle spalle e del collo,
pronti ad essere finalmente massaggiati.
Abbassò
lo sguardo sul braccio lievemente ferito, alzando subito dopo quello
sano: "Stai attento e..."
Ma l’amico era già lontano, un puntino sempre
più sfocato nella calca di uomini davanti a lui.
Quando
Stefano rientrò alla postazione erano quasi le diciannove.
Il buio aveva inglobato ogni cosa, ormai, e il vociare basso ma concitato
degli uomini aveva i risvolti di un malaugurante incontro.
I
loro volti, infatti, erano completamente avvolti dalle ombre, tanto da
risultare difficile attribuire un nome a tutti quei suoni: per tale
motivo, alcuni soldati stavano mormorando stoltamente quanto per un
austriaco in grado di comprendere e parlare bene la loro lingua, non
sarebbe stato difficile riuscire a mischiarsi con l’Armata,
cogliere di sorpresa le prime avanguardie e, finalmente, far avanzare
il resto degli Imperiali.
Per
fortuna, era un’eventualità del tutto improbabile,
oltre che praticamente impossibile, accennata con il solo scopo di
movimentare la serata.
Nicolò
ascoltava in silenzio i discorsi degli altri uomini, assorto nei propri
pensieri: la pancia piena della zuppa e del pane raffermo che le
vivandiere avevano preparato, da quando era partito si sentiva per la prima volta
felice e soddisfatto del lavoro che aveva svolto.
Il
capitano Canavera, infatti, lo aveva raggiunto qualche minuto dopo la
partenza del biondino, per comunicargli che sarebbe
stato compito suo istruire
i soldati sulla disposizione che avrebbero dovuto assumere quella
notte, suddividendosi i compiti riguardanti semplici mansioni, quali
gli allestimenti delle tende per le truppe, la distribuzione dei ranci
e l’accensione dei fuochi.
“Allora,
amico, prima che mi stavi dicendo? Che sei stato promosso sul campo,
eh?” lo punzecchiò Stefano, accendendosi una
sigaretta.
“Sarebbe
meglio che non fumassi …” lo redarguì
l’altro, fissandolo negli occhi e preparandosi a riportare al capitano le mappe
con la dislocazione delle tende.
Il
suo sguardo era serio, ma anche impensierito.
“E
perché? Adesso fai finta di preoccuparti per la mia
salute?”
Il
biondino si lasciò andare ad una sonora risata,
giocherellando con la cartina tra le labbra.
“Smettila
di fare il gradasso!” lo rimproverò, puntandogli
le carte sul petto.
“E’
un ordine diramato dal comandante in persona: si teme che gli Imperiali
possano avvistare le volute di fumo e spararci con i loro maledetti
Stützen! Non vedi che abbiamo dovuto spegnere persino i fuochi
accesi per riscaldarci?!”
"Eccome
se lo vedo, boia cane.
Ma sono stanco di tutti questi divieti: ci manca solo che ci dicano di
non pisciare e poi sarebbe davvero il colmo!"
Stefano scrollò le spalle e ricambiò
l’occhiataccia, arrendendosi.
Prese
la sigaretta tra le mani e la spense, soffiando forte sulla cartina
appena cominciata.
La
gettò a terra, schiacciandola con la punta dello stivale,
ormai rosolato nella polvere di quelle lunghe marce, quindi si
allontanò da Nicolò, borbottando parole a mezza
voce su quanto quella
specie di intellettuale fosse matto come una campana.
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Capitolo 24 *** La battaglia della Bicocca ***
Ci sono
molte persone nel mondo, ma tuttavia ci sono più volti,
perché ognuno ne ha diversi.
(Rainer Maria Rilke, scrittore, poeta e drammaturgo boemo, 1875-1926)
La voce del vento accarezzava con violenza le tende dell'accampamento,
lasciando intravedere, nei radi spazi lasciati aperti, il buio
incontrastato della notte.
Al di fuori del giaciglio, vi era un silenzio tombale,
un’assenza di rumori che non presagiva
alcunché di positivo.
Ad un certo punto, il drappo di pelle che proteggeva i soldati venne
inaspettatamente sollevato, preceduto da misteriosi passi felpati che
calcavano la terra sporca e fangosa.
Costanza entrò decisa, illuminando il viso di
Nicolò con una lanterna: l'intera figura era occultata da un
ampio mantello nero, forse di lana, che ricopriva anche i lunghi
riccioli scuri.
Gli si avvicinò senza sorridergli, e rimase a fissarlo per
un interminabile istante, non preoccupandosi di poter svegliare il
resto dei soldati.
"Cosa ci fai qui, sorella mia? E' pericoloso, gli Austriaci potrebbero
attaccarci da un momento all'altro!"
Il giovane Granieri si sollevò a sedere, mentre lo
scricchiolio prodotto dalla paglia accompagnava il suo gesto.
Ma Costanza non accennava a rispondere, semplicemente
s'inginocchiò e cominciò a pregare, a mugugnare
qualche stralcio di supplica in latino, gli occhi sempre ben fissi sul
fratello.
"Perché non parli? E come hai fatto ad oltrepassare le
nostre linee? Qui, nel campo, le uniche donne a potervi mettere piede
sono le vivandiere, le mogli dei nostri sottoufficiali ..."
Nicolò, adesso, si sentiva spaventato: si
allontanò di qualche passo dalla ragazza, retrocedendo fino
a sfiorare il lembo della tenda, sobbalzando per l'improvviso
contatto.
Abbassò la testa, lo sguardo sbarrato sulla difensiva: in
quel momento, si accorse di non avere indosso la divisa, ma solamente
una camicia immacolata e dei calzoni strappati, che
neppure ricordava di possedere.
I piedi nudi affondavano nella terra umida e fredda: il giovane si
tastò i fianchi, alla ricerca della pistola di
ordinanza e della baionetta, inorridendo per la loro assenza.
Non gli rimaneva altro che urlare, e così fece:
Nicolò si ritrovò a gridare come mai avrebbe
pensato di riuscire, nel tentativo assurdo di ricacciare indietro
quell'ombra sbiadita che ricordava lontanamente la sorella.
Poi, una parte del suo inconscio lo riportò alla
realtà, inducendolo a risvegliarsi.
Il primogenito dei Granieri cominciò a respirare con ritmo
affannoso, i palmi ben piantati sul misero giaciglio di paglia.
Si guardò attorno, spaesato, incapace di mettere a fuoco i
contorni delle cose avvolte nella notte: trasse un sospiro di sollievo, l'istante in cui percepì la vicinanza delle armi sotto il giaciglio, lo stesso sollievo che provò nel constatare che vestiva la sua inseparabile divisa.
La bocca semi aperta, si passò una mano tra i folti capelli
ricci, mentre avvertiva miriadi di piccole gocce di sudore calargli
lungo la schiena.
Una volta che la vista si fu abituata al buio sovrano, il ragazzo
lanciò un'occhiata in direzione del pagliericcio di Stefano,
constatando che il compagno stava dormendo indisturbato, a tratti persino
russando, alla stregua del resto dei commilitoni che divideva con loro
la tenda.
Nicolò tornò a sdraiarsi, il cuore che martellava
nel petto: asciugò la fronte madida con il dorso della mano,
non smettendo di fissare il pertugio lasciato aperto nel drappo.
Era stato solo un incubo, il primo della sua vita, ma tanto era bastato
per cancellargli il labile desiderio di riposare e indurlo a pensare a
cosa volesse dire il Destino.
Cosa avrà
voluto dirmi Costanza? Perché so che si trattava di lei,
sebbene avesse più le sembianze di uno spirito demoniaco.
Oggi è il grande giorno, il giorno in cui dovrò
dimostrare, una volta per tutte, quanto io valga. Non devo farmi
suggestionare da uno stupido incubo, non devo!
Deglutì stremato, il respiro che stava riprendendo il ritmo
normale, mentre un fastidioso retrogusto amaro gli permeava il palato.
Intanto, la voce del vento accarezzava con violenza le tende
dell'accampamento, proprio come l'inizio del sogno ...
Alle nove
di mattina di venerdì 23 marzo 1849,
ciò che era rimasto dell’esercito sabaudo venne
schierato a sud di Novara, nei punti strategici di collegamento verso
la confinante Olengo, Vercelli e, naturalmente, Milano.
Il tempo non ricordava affatto le miti temperature primaverili: il
cielo plumbeo offuscava ogni cosa, mentre il freddo e
l’umidità penetravano fin dentro le ossa.
Carlo Alberto e il suo generale polacco nutrivano numerosi
dubbi sul buon esito dello scontro con gli Imperiali:
consapevoli della loro inferiorità numerica, tattica,
logistica e di mezzi, trasmisero di riflesso la loro scarsa fiducia
anche sui soldati schierati.
Quando il Re, infatti, passò in rassegna le truppe, gli
uomini non lo acclamarono festosi, come invece era accaduto
più volte in passato, ma attendevano impensieriti e cupi che
venissero gridati gli ordini a cui avrebbero dovuto sottostare.
Si potevano contano senza troppa difficoltà le numerose file
lasciate vacanti dalle massicce diserzioni dei giorni precedenti,
testimonianza di uno scoraggiamento generale.
Alle ore 10, il nemico cominciò ad avvicinarsi alla
città, abbandonando la postazione di Garbagna, un paese nei
pressi di Novara.
Alle 11, ad Olengo, cacciatori tirolesi e la cavalleria distrussero la
resistenza di fanti e bersaglieri, che combatterono gloriosamente per difendere le postazioni.
Questione di pochi chilometri e gli Imperiali si ritrovarono
indisturbati dentro le mura di Novara: alla Bicocca, i primi
luoghi simbolo a cadere furono la cascina Castellazzo e villa Visconti,
presto riconquistate.
La Brigata Savona,
composta da 4000 fanti, venne costretta ad arretrare, altrimenti
sarebbe stata decimata dall'ingordigia nemica.
Ed ecco che, in suo aiuto, entrò in gioco anche la Brigata Savoia,
appartenente alla Terza divisione guidata dal generale Ettore Perrone
che, coraggiosamente, riuscì a riconquistare i territori
sopra citati appena perduti.
Purtroppo e per fortuna, però, in quanto tale mossa diede la
conferma al feldmaresciallo Radetzky che, davanti a loro, era stata
dispiegata l’intera Armata sarda, e non un misero avamposto
come aveva creduto fino al giorno prima, quando aveva mantenuto la
maggior parte dell’esercito austriaco a Vercelli.
Così, agli Imperiali venne ordinato di attaccare, questa
volta con maggiore forza: la linea del fronte correva per quattro
chilometri, toccando campi, fossi e cascinali, che diventarono subito
teatro di battaglia.
Un’ora dopo l’inizio degli scontri alla Bicocca,
alle ore 12 accadde un fatto inaspettato, che avrebbe potuto concludere
all'istante le sorti della guerra: a villa san Giuseppe,
infatti, una delle numerosissime cascine che costellavano la zona,
trovò rifugio Sua Maestà Carlo Alberto, ancora
indeciso sul modus
operandi da adottare per portare avanti la guerra.
Un gruppo di fanti ungheresi, mandato in ricognizione, lo
avvistò nel cortile del casolare abbandonato, e subito ne
approfittò per tentare di catturalo: il rapimento venne
sventato dall' onnipresente scorta dei Carabinieri reali, che uccise il
nemico.
Nel frattempo, sempre alle ore 12, un altro gravissimo errore tattico
rischiò di far cessare all’istante la battaglia:
la zona all’opposto della Bicocca, denominata Torrion Quartara,
si ritrovò invasa dagli Austriaci, impegnati a respingere
una singola divisione sabauda.
Infatti, Chrzanowski aveva giudicato il Torrione un’area
troppo lontana dal grosso delle truppe, ritenendolo un punto
strategicamente meno importante: con tale congettura del tutto
infondata, compì l’ennesimo errore vitale.
Intorno alle 12.30, sempre alla Bicocca, entrò in campo la
Quarta divisione, militarmente la migliore e la più
preparata, a supporto della Brigata Savoia, (la stessa che, appena
un'ora e mezza prima, era stata mandata in aiuto della Brigata Savona):
tuttavia, il suo valoroso comandante Perrone venne
ucciso qualche ora più tardi, alle 16, da una palla di
cannone alla testa.
Alle 13, si decise per l'avanzamento della Brigata Piemonte,
che ben presto perse il generale Passalacqua,
colpito a morte alle spalle dai cacciatori tirolesi, mentre incitava i
suoi uomini all’attacco.
La situazione, però, non appariva ancora irrimediabilmente
perduta: per un’ora, dalle 13.30 alle 14.30, gli Austriaci
furono costretti a ritirarsi, perché in numero inferiore
rispetto agli sgangherati Piemontesi.
Grazie
al contrattacco della Birgata
Pinerolo, dovettero
abbandonare Olengo, appena tre ore prima conquistata.
Contemporaneamente, giunsero le retrovie a rinfoltire entrambe le file
emaciate degli eserciti, facendo passare, ancora una volta, il nemico
in superiorità numerica.
Alle 16, gli Imperiali effettuarono un nuovo attacco: venne
così riconquistata la cascina Castellazzo, che era stata
persa e subito dopo riconquistata nella primissima ora della battaglia.
Alle 17, dopo cinque ore di incessanti cannonate e scontri a fuoco, lo
sguarnito Torrion Quartara subì la conquista da parte della Brigata Aosta
della Prima divisione, sotto la guida del comandante Giovanni Durando.
Alle 17.30, nonostante l’eroica resistenza della Brigata
Piemonte e della Brigata Savoia, la Bicocca venne definitivamente
invasa dagli Austriaci.
Subito dopo, caddero anche il Torrion Quartara e villa Visconti, nelle
mani piemontesi dalla mattinata.
Alle ore 18, il feldmaresciallo Radetzky ordinò il
contrattacco finale.
Carlo Alberto, dopo aver tentato quattro volte di essere ucciso in
battaglia –invano, grazie ai Carabinieri reali che
riuscirono a proteggerlo e morirono al suo posto, mentre uno degli
aiutanti in campo lo allontanava a forza-
rientrò demoralizzato a Palazzo Bellini.
Da qui, mandò il conte
di Cossato, nonché sotto capo di Stato
Maggiore, all’accampamento nemico, per trattare una tregua:
il generale von Hess avrebbe accettato subito, ma Radetzkj esigeva
quale garante dell’Armistizio il Principe ereditario Vittorio
Emanuele, in quanto non nutriva più alcuna fiducia in Carlo
Alberto.
Ormai la guerra si poteva considerare perduta, non solo le singole
battaglia di quel giorni infinito: eppure, la Brigata Piemonte, rimasta
sotto la guida del duca di Genova e secondogenito del Re, dopo la morte
a tradimento del generale Passalacqua, riuscì a tenere testa
agli Austriaci, respingendoli e ritardando la loro avanzata in
città.
Alle 19, si cessò di combattere: Piemontesi ed
Imperiali apparivano stanchi e provati, non avevano la forza di
fronteggiarsi ancora.
L’esercito sabaudo si ritirò alla spicciolata
all’interno delle mura di Novara, creando ulteriore
confusione, muovendosi in disordine, con la pioggia che si riversava
inclemente sulle loro teste e il freddo pungente più simile
all'inverno che alla primavera da poco iniziata.
La città, però, non voleva demordere: dai
bastioni, infatti, partì qualche isolata raffica di fucile e
qualche cannonata disperata degli ultimi reduci, caparbi a salvare il
salvabile.
Alle ore 21.15,
Sua Maestà Carlo Alberto Emanuele Vittorio Maria Clemente
Saverio di Savoia Carignano, Re di Sardegna, Duca di Savoia e Principe
di Piemonte, nella sala del trono di palazzo Bellini abdicò
in favore del primogenito, Vittorio Emanuele, dopo aver avuto la
certezza, dai generali superstiti, che era impossibile proseguire e
vincere la guerra.
All’1 di sabato 24 marzo 1849, l'ex monarca lasciò
su un’anonima carrozza Novara, in direzione di Oporto, in
Portogallo, dove morirà il 28 luglio dello stesso anno:
provato ed affranto, gli unici a seguirlo furono un servitore
ed un aiutante in campo.
Nel frattempo, i soldati superstiti si lasciarono andare di nuovo alla
pazzia più sfrenata, proprio come era accaduto appena il
giorno precedente: depredarono ville, case, botteghe, rubando cibo e
denaro, violentando persino le loro stesse donne.
Intervenne la Cavalleria, in perfetto stile ricalcante il giorno
avanti, su precisa volontà del duca di Genova, a capo della
Brigata Piemonte, ma senza grandi risultati.
I tafferugli e i disordini, infatti, proseguirono fino
all’alba del 24 marzo, quando i commilitoni rimasti in vita
si spostarono nei paesi limitrofi, cercando rifugio e perpetrando le
insane scorribande.
QUALCHE NOTA STORICA ...
Anticamente, palazzo Bellini apparteneva alla potentissima famiglia dei
conti Tornielli (a Novara dal XII secolo), poi passò ai
Bagliotti, che lo fecero restaurare nel 1680, e nel 1751 divenne
proprietà della famiglia dei conti Bellini.
Ad essa si debbono i grandi lavori decorativi delle sale, abbellite con
affreschi, stucchi e specchi in pregevole stile rococò.
Nel 1900 venne acquistato dalla Banca Popolare, fondata a Novara nel
1871.
Il 31 maggio 1800 ospitò Napoleone Bonaparte,
durante la seconda campagna sul suolo italiano, prima della battaglia
di Marengo; alla ripresa della I^ Guerra d'Indipendenza, vi
dimorò Carlo Alberto, che la sera del 23 marzo 1849, dopo la
sconfitta contro gli Austriaci, abdicò in favore del figlio
Vittorio Emanuele.
Dieci anni dopo, il 1° giugno 1859, vi fu ospitato Napoleone III,
Imperatore dei Francesi, che si trattenne fino all'alba del 4 giugno,
studiando insieme a Vittorio
Emanuele II i piani per la battaglia di Magenta.
Tra le decine di stanze, si possono ammirare la Galleria degli Arazzi
(una stanza caratterizzata da due grandi arazzi settecenteschi, che
conserva anche la preziosa collezione di coralli Siciliani del XVII
secolo), la Sala
Maggiore (destinata ai balli e ai ricevimenti, detta anche
"degli Specchi" o "della Musica", per i dieci grandi specchi che le
conferiscono una speciale luminosità e per le decorazioni a
stucchi e bassorilievi allegorici di soggetto musicale).
Questa
stanza è la più ampia del palazzo: possiede due
splendidi lampadari in
vetro di Murano e un grandioso affresco ne orna il soffitto, oltre al
pavimento in mosaico.
Infine, da ricordare la Sala
dell'Abdicazione, rimasta esattamente come allora,
compreso il caminetto vicino a cui il sovrano firmò
l’atto formale. Vi è una lapide a ricordo
dell’avvenimento e i ritratti di Carlo Alberto e Vittorio
Emanuele II.
L'esterno di Palazzo
Tornielli Bellini, attuale sede della Banca Popolare
di Novara
La
Sala dell'Abdicazione
L'attraversamento
del Ticino, raccontato nel capitolo 21 (combattuta il
20 marzo, a cui seguì il 21
marzo la battaglia di Mortara)
Soldati piemontesi (a
sinistra, con le mostrine rosse) e i Grenzer
austriaci che combattono alla Bicocca con solo la
baionetta . I
Grenzer erano fanti croati, che si occupavano di presidiare
i confini.
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Capitolo 25 *** Un destino ancora incerto ***
Le anime più forti
sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più
solidi sono cosparsi di cicatrici.
(Kahlil Gibran, poeta,
pittore e filosofo libanese, 1883-1931)
Nicolò
aprì gli occhi, preda di una stanchezza che mai aveva
provato: era caduto in uno stato di incoscienza che, in un primo
momento, non gli aveva permesso di mettere a fuoco ciò che
lo circondava, né tantomeno di ricordare quello che gli era
successo.
Sbatté
le palpebre un paio di volte, per cercare di annullare la nebbia
nerastra che gli impediva di vedere, incapace di capire se fosse della
semplice polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli.
Sentiva
le membra intorpidite e la testa pesante: tentò di muovere
braccia e gambe, ma una fitta improvvisa e lancinante gli
trapassò l’arto superiore sinistro, rimasto ferito
durante la battaglia della Sforzesca, appena due giorni prima.
Mosse
il capo e cercò di sollevarsi, ma inutilmente: continuava a
vedere solo ombre e contorni offuscati.
Si
portò la mano destra alla fronte, spaventandosi per
ciò che avvertì scorrere tra le dita: era sangue,
non copioso, però era pur sempre sangue.
In
alcuni punti, il liquido rossastro si era già coagulato,
quindi voleva dire che era stato ferito da almeno parecchi minuti, se
non addirittura ore.
Non
voleva abbandonarsi alla tristezza, all’angoscia o, peggio
ancora, al pianto, tuttavia il giovane non poté evitare di
sentirsi impotente e rabbioso: socchiuse gli occhi, incapace di
mantenerli aperti per oltre una manciata di secondi di seguito, quindi
tentò nuovamente di mettere a fuoco il paesaggio che lo
circondava, fatto di uomini in sella e di altre semioscurità
che si affaccendavano vicino a lui, dove si ammassavano altri soldati
distesi e moribondi.
Con
uno sforzo immane, riuscì a voltarsi dalla parte del braccio
non ferito: non capiva cosa gli fosse accaduto, perché si
trovasse immobile sul terreno di battaglia, sul quale, appena pochi
istanti prima, aveva coraggiosamente e strenuamente combattuto insieme
al resto dei commilitoni.
Cercò
di sforzarsi a mettere in ordine gli eventi che avevano preceduto
quello stato confusionario e oscuro in cui era sprofondato.
L’unica
cosa che all’inizio si ricordò con precisione, fu
la voce imperiosa del capitano Canavera: il superiore gli aveva
ordinato di scendere in campo, ma di non perdere mai di vista le sue
mosse, seguendolo passo a passo e imponendogli di non compiere alcuna
mossa azzardata.
Doveva
essere da poco trascorso il mezzogiorno* di
venerdì 23 marzo, continuò a ripercorrere con la
mente aggrovigliata il giovane Granieri, quando la Brigata Piemonte fu
costretta ad entrare nel vivo dello scontro per dare aiuto alla Brigata
Savoia, nella zona della Bicocca, a sud della città di
Novara.
Nicolò,
inizialmente, si sentiva elettrizzato e intimorito al contempo, poi,
lentamente, la tensione si sciolse, trasformandosi in rabbia crescente
e voglia di combattere.
Protetto
dal capitano Canavera, il ragazzo riuscì a dar prova del suo
coraggio, sparando un paio di colpi con la baionetta e una mezza
dozzina con la pistola, arrivando persino ad uccidere un austriaco.
La
morte improvvisa del generale Passalacqua, una mezz’ora dopo
la discesa in campo della Piemonte,
sconquassò l’ordine dei soldati, che strenuamente
ritornarono a guerreggiare e a difendere le postazioni affidate.
Dopo
innumerevoli sforzi, l’ultima immagine nitida che
Nicolò riusciva a ricordarsi, era rappresentata dal
ferimento di Stefano: il sole stava lentamente calando nel cielo,
dovevano essere le cinque o le sei, e ormai l’entusiasmo
generale si era trasformato in una stoica quanto inutile resistenza.
Il
suo compagno d’armi stava combattendo di fianco a lui,
euforico per aver abbattuto un paio di cacciatori tirolesi.
Una
granata, all’improvviso, squarciò
l’aria, disarcionando il biondino, che subito cadde a terra.
Nicolò
lo incitò ad alzarsi, ma il contadino ventenne sembrava non
sentirlo: non gli rispondeva, non accennava a ricambiarne
l’interesse, e neppure le sue urla, sovrastate dalla
confusione collettiva che li circondava.
Stefano
giaceva in mezzo al campo polveroso, le braccia e le gambe mollemente
divaricate, gli occhi chiusi e la terra polverosa che si tingeva di
rosso, proprio in prossimità della nuca.
“Dio santo, alzati! Alzati,
dannazione! Dobbiamo muoverci, metterci al riparo!”
gridava isterico il figlio del notaio, in sella al cavallo.
Le
redini tra le mani tremanti, prese a ruotare attorno
all’amico, mentre gli zoccoli dell’equino
scalciavano e graffiavano il campo sporco di sangue, di sudore e di
altri liquidi umani.
“Stefano, ti prego, ti prego
alzati!”
Nicolò
era pronto per scendere dal suo destriero e accucciarsi di fianco al
compagno, in modo da cercare di prestargli le prime cure e aiutarlo ad
allontanarsi da quel terreno di morti e feriti, quando venne raggiunto
dal loro ufficiale.
Il
capitano Canavera, infatti, si avvicinò ai due ragazzi pochi
attimi dopo e, intuendo la gravità della situazione,
gridò a un paio di barellieri indaffarati lì
vicino di recarsi immediatamente da loro, per prelevare e portare in
sicurezza il ferito.
Poi,
tutto divenne scuro, buio, senza luce: Nicolò
avvertì un dolore insopportabile penetrargli il braccio
sinistro già ferito, mentre la nebbia si impossessava dei
suoi occhi.
Cadde
anche lui da cavallo, perdendo i sensi: adesso che si era risvegliato,
il sole era ormai tramontato da qualche ora, ma la confusione e il
dolore non accennavano a diminuire.
Sperò
solo che qualcuno arrivasse a soccorrerlo e a portarlo via, lontano da
lì, mentre il pensiero correva preoccupato a Stefano,
scomparso chissà dove.
L’ospedale
Maggiore era ubicato lungo il corso di Porta Genova, a poche centinaia
di metri dal centro storico cittadino.
La
facciata dell’edificio era abbellita dalla porta
d’ingresso in granito e da due grosse colonne che la
sorreggevano, regalando al complesso un’aria solenne e
mastodontica.
Un
ampio cortile con portici decorati da pilastri e capitelli in stile
dorico troneggiava poco più in là, lo stesso
spazio sotto cui i pazienti meno gravi potevano passeggiare
all’aria aperta.
Nelle
sale dedicate all’infermeria vennero poste due statue in
pietra arenaria, raffiguranti le virtù della
Carità e della Beneficienza.
Una
zona, inoltre, fu dedicata agli infermi cronici e ai malati di
sifilide, una piaga dilagante per l’epoca.
Con
una capienza di posti letti fissata a 260, in situazioni di emergenza
il presidio poteva arrivare ad ospitare fino a 520 malati, accuditi da
numeroso personale sanitario: cinque medici, due chirurghi, due
flebotomi*,
uno speziale che gestiva le incombenze della farmacia e un ginecologo che formava
le cosiddette mammane
di città e provincia, ovvero le ostetriche del tempo.
Inoltre,
a continuo e diretto contatto con i pazienti, si premuravano
vicendevolmente otto suore e altrettanti tra infermieri ed infermiere:
se essi si occupavano delle ferite del corpo, i quattro padri
cappuccini e il frate laico stanziati all’interno del
Maggiore si prendevano cura delle piaghe dell’anima dei
moribondi.
Per
i malati meno gravi e per i loro famigliari, venne creata una chiesa
dedicata a san Michele: i fedeli affidavano le loro preghiere alla
Beata Vergine, ritratta nell’atto di vestire il pianeta, ma
anche a san Idelfonso, a san Carlo, a san Felice e alla Madonna con il
Bambino.
Infine,
in una zona a parte dell’Ospedale, ci si premurò
di adibire un ricovero per fanciulli: 56 bambine, orfane o indigenti,
ricevevano infatti un’istruzione di base in cambio
dell’aiuto in cucina, nel ricamo e nella riparazione della
biancheria dell’Ospedale, oltre che nella realizzazione di
vestiti da rivendere; 56 maschi, invece, venivano istruiti a leggere, a
scrivere e a contare, per essere poi mandati nelle botteghe ad imparare
un mestiere con cui si sarebbero sostentati dopo la maggiore
età.
Nelle
ore e nei giorni successivi la battaglia del 23 marzo 1849, il Maggiore
-che era stato costruito per ospitare, ricordiamo, un massimo di 520
posti letto-, si ritrovò a doverne occupare circa tremila,
quasi sei volte in più l’ordinaria capienza.
Nei
primi momenti successivi gli scontri conclusi in serata, da parte
piemontese si contarono 1405 feriti, più mille tra coloro
che morirono ancora prima di arrivare al presidio.
Al
Torrion Quartara e nelle zone più lontane rispetto al corso
di Porta Genova, i moribondi vennero ammassati e curati
all’interno delle parrocchie, i luoghi apparentemente
più sicuri, perché si immaginava che mai il
nemico avrebbe osato mettervi piede.
Le
ferite d’arma da fuoco, rappresentate dalle pistole degli
Imperiali e dai fucili Stützen
dei tirolesi, si contavano in numero spropositato, seguite dalle
cosiddette ferite d’arma bianca -provocate dalle appuntite
spade- e dai traumi da caduta: i cavalli, infatti, erano spesso dei
purosangue, soprattutto quelli degli ufficiali, per cui precipitare da
un garrese che misurava anche un metro e venti avrebbe potuto rivelarsi
assai rischioso, tanto più se si veniva calpestati dagli
zoccoli o dalla bolgia dei soldati in fuga.
La
città, nel frattempo, cadde nel caos più totale: oltre alla
depravazione delle truppe, che come già descritto si
trasformarono in bande di ladri, assassini e violentatori, vi
era anche l’enorme problema di come e dove curare la
moltitudine di feriti delle ore successive gli scontri.
Il
fattore tempo era decisivo, ma l’Ospedale non avrebbe saputo
accogliere la fiumana di disperati che aveva bisogno di protezione e
terapie immediate.
Che
fine avrebbero fatto Nicolò, Stefano e tutti gli altri? Ci
sarebbe stato posto per quegli uomini in condizioni tanto
critiche? Oppure il loro destino sarebbe stato andare incontro alla
morte in modo così poco glorioso, dopo essere sopravvissuti
ai combattimenti diretti contro il nemico?
I calessi e gli stessi cavalli marciavano a folle velocità
verso corso di Porta Genova, con l'unico intento di salvare il maggior
numero possibile di
commilitoni.
Le strade apparivano deserte, ammassi di macerie erano riversate ai
lati delle vie, mentre nubi di fumo si innalzavano in direzione del
cielo ormai scuro, simbolo della distruzione in massa ad opera dei
soldati sbandati.
Le porte delle botteghe e delle abitazioni divelte incitavano
silenziosamente i barellieri a fare in fretta, nell'accreditato sentore
di rimanere vittime di qualche folle appostato, pronto a derubare le
loro armi, gli unici averi che ancora potevano vantare.
La notte passò, portando con sé le anime delle
migliaia di morti e l'eco delle grida dei feriti e degli spaesati,
lasciando il posto all'alba di un giorno freddo ed umido, che avrebbe
inconsapevolmente offerto ancora tanto da affrontare.
QUALCHE NOTA STORICA ...
Le prime
origini del Maggiore sono databili intorno all'XI secolo d.C., in un
sobborgo completamente all'opposto rispetto a quello in cui
è tutt'oggi ubicato.
Inizialmente,
venne chiamato "Casa di san Michele della Carità", ed era
gestito dai frati e dalle suore dell'Ordine degli Umiliati, che si
premurava di soccorrere i poveri, i vecchi invalidi e i pellegrini.
Fu
solo dalla fine del Duecento che l'Ospedale si occupò anche
della cura dei malati come li intendiamo noi.
Il
presidio viveva grazie alle donazioni e ai lasciti dei cittadini:
inoltre, pur essendo gestito dal gruppo religioso sopra citato,
risultava di proprietà del Comune, che sceglieva gli
amministratori.
Nel
1643 venne inaugurata la nuova sede in corso di Porta Genova, dove fu anche trasportata la chiesa di san Michele, citata nel capitolo e
al cui santo era dedicato il nome iniziale del Maggiore.
Nel
corso dell'Ottocento prese le forme attuali, anche grazie all'opera
dell'architetto novarese Alessandro Antonelli, lo stesso che
si occupò della costruzione della Mole Antonelliana di
Torino e della cupola di San Gaudenzio di Novara.
* Nicolò si orienta
con la luce del sole: in realtà, la discesa in campo della
Brigata Piemonte avvenne all'una del 23 marzo, e non a mezzogiorno come
tenta di ricordare il ragazzo.
* I
flebotomi erano i medici specializzati nel salasso.
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Capitolo 26 *** Un rifugio sicuro in attesa della Pasqua ***
Perché
aspetti con impazienza le cose? Se sono inutili per la tua vita,
inutile è anche aspettarle. Se sono necessarie, loro
verranno e verranno nel momento giusto.
(Amado
Nervo, poeta e scrittore messicano 1870-1919)
Novara, sabato 24 marzo 1849
Carissima
Nonna,
sembrano
trascorsi cento anni da quando vi ho scritto l'ultima volta, invece,
sebbene non sia riuscita a spedirvi la mia lettera, non è
passata neppure una settimana, sette giorni in cui l'Inferno
è calato sulla nostra povera terra, martoriandola e
privandoci della tranquillità che la pace aveva portato con
sé negli ultimi mesi.
Il glorioso esercito sabaudo è ormai allo sbando e privo di
forze: sono numerosissime le voci, infatti, che si rincorrono in
città e non solo, voci accreditate che ci spingono ancora di
più nelle desolate lande della disperazione,
perché i soldati piemontesi sembrerebbero essere stati
decimati, e chi, grazie a Dio, non è stato ucciso o ferito, si
è dato alla macchia, diventando un inetto malfattore.
Oggi, cara nonna, anche il tempo sembra piangere insieme a noi:
è una giornata fredda e gelida, per nulla primaverile.
Pensate che intorno alle nove ha persino cominciato a nevicare, uno
strato sottile di acqua ghiacciata che, visto precipitare dalle
finestre ben chiuse della mia camera, probabilmente neppure
avrà il coraggio di attecchire.
In
queste ore angosciose e prive di luce futura, penso a domani, a quanto
sarà triste
come Santa Pasqua: nessuno avrà voglia di festeggiare e di
brindare alla Resurrezione di Nostro Signore, né tantomeno
di innalzare canti di gloria in Suo onore; le uniche grida che
invocheremo al Cielo saranno inni di morte e di pietà.
La
notizia, infatti, per cui vi ho scritto riguarda l’assedio
della città: Novara è stata occupata dalle truppe
austriache, che proprio in queste ore stanno marciando per le nostre
stesse strade, alla stregua di ingordi predatori venuti a stanare le
loro piccole ed indifese prede.
Credetemi,
se vi dico che stiamo vivendo una situazione inverosimile, di caos
assoluto.
Solamente
ieri, carissima nonna, nella
zona a sud della città, si
è svolta una tremenda battaglia che ha visto fronteggiarsi
il nostro esercito contro quello degli Imperiali, vincitori di questo impari
scontro .
Nessuno
si aspettava che la guerra potesse avvicinarsi così tanto a
noi, alle nostre vite, alle nostre quotidiane esistenze: si mormora che
sia stato per colpa di un alto generale dell’Armata, un tale
Ramorino, che si è rifiutato di obbedire agli
ordini di Sua Maestà in persona.
Ebbene, da questa ipotetica mancanza -che non credo essere
completamente infondata- sembrerebbe sia scaturita una concatenazione
di eventi negativi che hanno poi portato, come estrema conseguenza,
allo svolgersi della battaglia di ieri.
Una
battaglia che è durata tutto il santo giorno, tanto da
apparire infinita: riuscivo a distinguere l’eco delle palle
di cannone che s’infrangevano con violenza nei
campi, percepivo senza troppa difficoltà i loro pericolosi
sibili nel cielo, mentre i colpi di fucile e
mortaio squarciavano senza pietà alcuna il silenzio
irreale, frutto della snervante attesa.
E’
stato orribile, non so in quale altro modo definirlo: sebbene non siamo
stati coinvolti direttamente negli scontri, l’udire quei
rumori, quei suoni devastanti ed angoscianti, ci ha letteralmente fatto
precipitare il morale a terra.
Questa
mattina, intorno alle otto, gli Austriaci hanno di nuovo aperto il
fuoco contro di noi, colpendo le mura dei bastioni esterni: non so
perché lo abbiano fatto, forse per indurre i nostri soldati
a riprendere a combattere, soldati che, da due giorni, si divertono a
depredare case e botteghe, accecati dalla rabbia e dal furore che hanno
la forza ed il vile coraggio di riversare esclusivamente sui
più deboli, i loro stessi fratelli e sorelle che alcuna
colpa hanno in questo girone dantesco…
Ma
tornando a stamani, carissima nonna, meno di due ore dopo
l’inizio dei cannoneggiamenti, i colpi sono cessati, e tutto
è ripiombato nel silenzio.
Come
vi ho già scritto, le truppe imperiali ne hanno subito
approfittato per entrare a Novara da vincitori: dalle finestre del
palazzo, quelle dei piani alti, a meno di un chilometro in linea d’aria
dall'ingresso in città, siamo riusciti ad intravedere la sfilata
avanzare, una miriade di punti indefiniti, colorati di bianco e di rosso che
procedevano compatti, le baionette verticali ad annunciare
pericolosamente la loro supremazia.
Si
dice che questa notte il nostro Re abbia abdicato in favore del
principe ereditario, e che addirittura sia fuggito come un ladro, verso
chissà quale destinazione.
Non
so più a chi e a cosa credere, cara nonna, non lo so
più, ma mi rifiuto di pensare che lo stesso uomo che ha
così tanto ostentatamente desiderato questa guerra, si sia
invece rivelato un inetto, un traditore che ha preferito salvare se
stesso piuttosto che la nostra amatissima Patria piemontese
…
Ma
voi state tranquilla, non dovete affatto preoccuparvi,
perché in famiglia siamo tutti in salute e, soprattutto, in
sicurezza: prego e spero che almeno da voi la situazione sia calma e
priva di pericoli, che abbiate risolto il problema
dell’incendio che ha avvolto le vostre cantine e parte del
primo piano, e che il colpevole –se vi è stata
causa umana- sia già stato assicurato alla giustizia.
In
attesa di ricevere vostre nuove, vi abbraccio teneramente, sicura che
presto potremo finalmente riabbracciarci.
Costanza,
nipote affezionatissima e sempre devota
“Pietro,
ho bisogno di chiedervi un favore …”
La
giovane Granieri trovò il cugino seduto su una delle
poltrone del boudoir,
intento a fissare i vetri della finestra che dava sul giardino, opachi
per il freddo e l’umidità.
Il
trentenne era vestito con un completo blu scuro di velluto ed una
camicia di seta bianca scozzese, e sembrava intensamente concentrato ad
osservare il paesaggio all'esterno.
Aveva la mano destra che sosteneva il capo, mentre il gomito era
appoggiato sul bracciolo della poltroncina verde oliva, i capelli folti
e chiari a contrastare la quasi totale assenza di luce nella piccola
stanza raccolta.
L'uomo fece un gesto di assenso con la mano in direzione
dell'interlocutrice, quindi si voltò a mezzobusto, per un
attimo felice che almeno la giovane stesse bene.
Erano infatti due giorni che lei e la sua famiglia si erano trasferiti
nel palazzo degli zii di donna Luisa: dopo le scorrerie ad opera dei
soldati sbandati che avevano seminato il terrore per le strade della
città e le vicende poco piacevoli occorse alla famiglia
della cugina, Pietro si era offerto di andare a recuperare i parenti,
in modo da garantire loro riparo e sicurezza.
La
madre di Costanza, la sera stessa in cui la ragazza aveva scoperto il
coinvolgimento del maestro Rossini nell’organizzazione
indipendentista, era caduta preda di una febbre altissima, non ancora
cessata, che aveva indotto la figlia a chiedere aiuto agli zii.
Immediatamente,
essi mandarono un medico di fiducia a visitare la donna, il dottor
Cerutti, che impose a Luisa il più assoluto riposo, se non
voleva rischiare di essere ricoverata d'urgenza per una crisi d'isteria.
Per scongiurare tale nefasta eventualità, don Aldo e la
contessa Rosa decisero infine di accogliere in casa loro le
nipoti e don Armando, che nel frattempo si era quasi del tutto rimesso,
dopo il collasso nervoso che lo aveva colpito appena due giorni prima.
La
mattina di venerdì 22 marzo, perciò, dopo aver
rimandato alle loro famiglie l’intera schiera dei domestici,
Costanza e i genitori si trasferirono a casa dei conti Caccia
Dominioni, ignari del putiferio che sarebbe accaduto in
città di lì a breve.
“Ditemi
…” rispose il cugino, il tono asciutto e privo
della preoccupazione che invece traspariva dai suoi occhi azzurrissimi:
si alzò e attese ulteriori spiegazioni, mentre cercava di
rischiarare la stanza, sostituendo i moccoli delle candele ormai
consumate con una nuova scorta celata in un cassetto del
comò di mogano.
La
ragazza gli si avvicinò, il volto provato dalle notti
insonni: estrasse dalla manica sinistra dell’abito rosa
pallido un paio di buste color avorio, sigillate dalla ceralacca,
quindi le porse al giovane.
“Ho
scritto a mia nonna, per rassicurarla su ciò che sta
accadendo. In realtà, non so neppure se da lei siano
già giunte notizie riguardo ciò che si sta
verificando in questi giorni, ma preferisco informarla di persona, per
evitarle qualsiasi dispiacere” cominciò a spiegare.
Nel frattempo, Pietro appoggiò le lettere su un tavolino
rettangolare in stile barocco, e lanciò un'occhiata
soddisfatta ai giochi di luce creati sulle pareti del boudoir.
“Le
avete anche raccontato di Nicolò e del vostro momentaneo
trasferimento da noi?” domandò con voce bassa e
interessata, lo sguardo di ghiaccio in quello smeraldo della cugina.
“No”
scosse il capo decisa, la voce salda ma a tratti incrinata per
l'emozione che quelle parole le suscitavano.
“Non voglio farla preoccupare inutilmente. Ebbene, le avevo
già scritto la settimane scorsa, prima della denuncia
dell’armistizio, ma con tutto quello che ne è
derivato, non sono riuscita a spedire la busta”
“Costanza
…” la interruppe il cugino, il tono conciliante di
chi si sente nella ragione.
Le prese le mani tra le sue, mentre le fiammelle si consumavano
lentamente e la gracchiata di un paio di corvi si levò nel
silenzio del giardino, aggiungendo ulteriore tensione a quella
già accumulata.
“Sapete benissimo che non possiamo uscire, che la
città è occupata ...lo abbiamo visto con i nostri stessi occhi poche ore fa”
“Lo
so, lo so” ammise lei con una scrollata di spalle, cercando
di reprimere la rabbia e il nervoso che avvertiva circolarle in corpo.
“Infatti
non vi chiedo di rischiare la vostra vita per queste lettere, ma vi
prego invece, appena la situazione si sarà definita, di
recarvi all’ufficio postale, o quantomeno di accompagnarmi.
Per favore, è molto importante, e voi sapete benissimo
quanto io sia affezionata a mia nonna …”
sottolineò la ragazza, ricambiando la stretta di Pietro.
Il primogenito dei conti Caccia abbassò lo sguardo ed
inclinò leggermente la testa di lato, quindi
fissò per un lungo istante la ragazza, annuendo con
aria poco soddisfatta.
“D’accordo,
se questo potrà farvi stare più tranquilla,
sarà mia premura assecondarvi quanto prima”
La
figlia del notaio incurvò le labbra in un gesto che voleva
assomigliare il più possibile ad un sorriso: era
così stanca, così provata e preoccupata, che non
aveva neppure la forza di trovare il giusto modo per ringraziarlo di
tutta la gentilezza che, nell’ultimo periodo,
l’uomo le stava dimostrando.
“C’è
ancora una cosa che devo chiedervi …”
ritornò a dire Costanza, stropicciandosi le mani e sfuggendo
gli occhi azzurrissimi di Pietro.
Temeva
che, probabilmente, avrebbe ricevuto una risposta negativa, ma doveva
almeno provarci.
L'altro
la invitò a proseguire, curioso dell'ennesima richiesta
della cugina.
“Devo
sapere che fine ha fatto Nicolò. Portatemi
all’ospedale, sono certa che sia stato trasferito
lì!”
Il
trentenne scosse la testa, le mani sui fianchi della redingote, mentre
tentava di tenere a freno la lingua e di modulare il tono di voce, ora
calmo e suadente come il solito.
“Non
siate avventata, per l'amor del Cielo. Vi ho appena detto che non
possiamo uscire per nessuna ragione, e lo sapete molto bene anche voi,
Costanza. Perché vi ostinate ad avanzare preghiere che, al
momento attuale, non possono in alcun modo essere esaudite?”
tentò di farla ragionare, prendendole le braccia.
“Ho
bisogno di sapere se mio fratello è stato ferito, se
è ancora vivo!” rispose rabbiosa, dimenandosi
dalla presa.
“Sono
sicura che non ci faranno storie, se andremo dritto
all’ospedale!” riprese a supplicare, riferendosi
alle truppe austriache disseminate all'entrata ed all'uscita di Novara.
"Non posso accontentarvi, non chiedetemelo più ..."
“Ma
non capite?! Lì saranno in grado di darmi qualche notizia su
Nicolò, sapranno suggerirmi dove trovarlo! Vi prometto,
anzi, vi giuro, che poi torneremo immediatamente a casa,
credetemi!”
Pietro cercò di controllarsi ulteriormente: si
passò una mano sul volto stanco e preoccupato, quindi
cercò nuovamente di farla ragionare.
“Non
oggi, Costanza, e nemmeno domani! Se le guardie civiche non verranno a
comunicarci la fine del coprifuoco, non vi porterò neppure a
fare un giro nel parco! Non capite che ne va della vostra sicurezza e
di quella di tutti noi?” continuò imperterrito, il
tono di voce lievemente alterato.
“Siete
voi a non voler capire!"
"Se metterete piede fuori da questo palazzo, potrebbe accadervi Dio
solo sa cosa! I disordini delle notti precedenti, gli Austriaci che si
divertono alla caccia al topo, tutto rappresenta un pericolo! Persino
quest’assurda neve che è caduta
stamattina!” proseguì, indicando con una mano la
finestra alle spalle.
“Ero
convinta che di voi avrei potuto fidarmi!”
“Ed
è così, infatti!” le rispose Pietro, in
uno slancio di sincerità ed entusiasmo.
“No,
non è così, non più. Almeno
potrò contare sul vostro appoggio per la corrispondenza?"
"Non trattatemi come se fossi un mostro ... vi ho già detto
che ..."
Costanza trasse un profondo sospiro, interrompendolo senza mezzi
termini.
"Allora vi ringrazio per aver accettato di spedire le lettere. Ora
scusatemi, ma sono molto stanca …”
L’uomo
rinunciò a seguirla o a bloccarla, perché sapeva
perfettamente che non gli avrebbe dato retta, almeno in quel momento.
Doveva
sorvegliarla, per impedire che commettesse qualche sciocchezza.
Poi,
quando tutto sarebbe diventato più tranquillo, non avrebbe
esitato ad accompagnarla all’ospedale, o in qualsiasi altro
posto che avrebbe potuto fornirle notizie di Nicolò.
Fissò
per qualche attimo le buste sigillate a pochi metri da lui, quindi se
le infilò in tasca e ritornò a sedersi sulla
poltrona, le fiammelle che tremolavano al suo passaggio.
SCUSE
DELL'AUTRICE ...
Buon pomeriggio a tutti!!
Scusatemi tantissimo per il ritardo con cui ultimamente aggiorno la
storia, ma questi mesi sono costellati dal continuo studio, dal lavoro
e da una serie di vicende che non mi permettono con
puntualità di rileggere i capitoli già pronti e
di pubblicarli settimanalmente.
Vi chiedo clemenza!! E di continuare ovviamente a seguirmi in questa
avventura!
Abbraccio di cuore e con tutto l'affetto possibile quanti
leggono e recensiscono il racconto (prima o poi mi metterò
in pari anche con i miei adoratissimi recensori ...)
A presto!
QUALCHE
NOTA STORICA …
Il
nuovo Re, Vittorio Emanuele II, ordinò fin dalla notte del
23 marzo, l’evacuazione delle truppe e del Quartier Generale
piemontese da Novara a Momo, un paese sulla strada verso il lago
d’Orta.
Da
lì, l’Armata sarda si sarebbe ricomposta per
tornare a Torino, la capitale del Regno.
La
situazione in città, intanto, precipitò
già nelle prime ore di sabato 24 marzo, quando, intorno alle
otto, gli Imperiali spararono cannonate contro le mura, certi che, al
suo interno, vi fossero accampati i soldati nemici.
Il
nuovo sovrano, nel frattempo, tentò inutilmente di mettersi
in contatto con il generale von Hess e il feldmaresciallo austriaco,
per convincerli a chiedere una tregua.
Per
questo, Vittorio Emanuele pregò il sindaco ed il vescovo
Gentile (grande benefattore e illuminato, di cui parla anche donna
Luisa nel secondo capitolo) di incamminarsi
verso l’accampamento straniero, in modo da
convincerli a cessare il fuoco.
Alle
ore 9, dopo le trattative andate a buon fine, le truppe austriache
entrarono a Novara, mentre la neve cominciava a cadere sulle loro teste.
Nel
pomeriggio dello stesso giorno, verso le 17, il nuovo sovrano e
Radetzky si incontrarono a Vignale, una delle frazioni della
città, in una cascina ancora oggi esistente e ricordata
per aver fatto da sfondo ad un evento storicamente
fondamentale: qui, infatti, i due uomini si accordarono per firmare
l’armistizio, che passerà alla storia
come Armistizio
di Vignale, ma che verrà ufficializzato
solamente due giorni dopo, e di cui parleremo nel prossimo capitolo.
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Capitolo 27 *** Agire da soli ***
Un pettirosso in gabbia
scatena in tutto il
cielo Rabbia
(William
Blake, poeta e pittore inglese, 1757-1827)
Costanza ritornò nella camera che le era stata concessa di
occupare con il cuore che le palpitava nel petto: come aveva osato
Pietro contraddirla, fingendo di temere esclusivamente per la sua
incolumità? Nessuno in quella stramaledetta casa riusciva a
comprendere il suo stato d’animo, l’angoscia di una
sorella nei confronti del suo unico fratello? Neppure il premuroso
cugino a cui si stava sinceramente affezionando, e che tanto aveva
fatto per lei e per la sua famiglia in quei giorni tormentati di fine
marzo, appariva accondiscendente e volente alle sue umane richieste.
La
ragazza aprì la porta della stanza da letto con il respiro
affannato e un odio profondo che le vorticava dentro: detestava la
guerra, disprezzava l’ormai precedente sovrano e persino
quello attuale, odiava gli Austriaci e l'incessante quanto
abominevole mania di grandezza che aveva da sempre caratterizzato la
vita dell’uomo, ottenendo come unico scopo la lenta rovina
del mondo.
Se
l’avversione per la nuova città in cui si era
trasferita da quasi tre mesi era lentamente scemata
nell' ultima settimana, adesso quel sentimento truce e
negativo stava riaffiorando in maniera, se possibile, ancora
maggiormente prepotente.
Mai
come in quei momenti, Costanza avrebbe desiderato fuggire da Novara,
ritornare a Santa Maria Maggiore, tra le braccia confortanti della
nonna, donna Mellerio, lontano dalle ingiustizie, dalle bugie e dal
dolore che la stavano circondando.
Il
vestito rosa pallido ancora indosso, si
lasciò cadere stancamente sul bordo del piccolo letto a
baldacchino, abbellito da tendaggi dorati e pliche di velluto ricamate
con del macramé.
Sospirò
profondamente e si morse il labbro inferiore un paio di volte, fino a
farlo sanguinare: il sapore dolciastro del liquido rossastro le
bagnò il palato e la lingua, provocandole una sensazione di
assurda ma immediata calma.
Abbassò
gli occhi verde smeraldo sul grande tappeto persiano blu cobalto, come
a cercare un consiglio tra la trama di quel prezioso arredo, caldamente
illuminato dalle scintille aranciate che fuoriuscivano dai tozzi
ardenti del caminetto.
Aveva
bisogno di qualcuno che le indicasse la strada da percorrere, che la
prendesse per mano e la aiutasse in quel tortuoso cammino che stava
diventando la sua esistenza.
“La realtà
è che non posso fare affidamento su nessuno: i miei genitori
sono sull’orlo dell’ennesima crisi di nervi, Pietro
si è intestardito a sottostare alle stupide leggi del
nemico, e persino il maestro Rossini si è rivelato un vile
traditore! Certo, rimarrebbero la zia Rosa e lo zio Aldo, ma non voglio
caricarli di ulteriori preoccupazioni…”
Costanza
trasse un lungo respiro, preda dello sconforto, quindi si
alzò dal baldacchino e si avvicinò
all’intelaiatura che rappresentava la finestra, un pertugio
piuttosto largo e dai toni caldi del legno color cioccolato:
scostò le tende verde oliva che lambivano il pavimento di
marmo, ritrovandosi a fissare il sentiero posteriore del palazzo,
quello che si inoltrava nella parte del giardino che conduceva al
casotto di caccia, ormai in disuso da oltre un secolo.
Aveva
smesso di nevicare da poco più di due ore, e i fiocchi
ghiacciati per fortuna non avevano minimamente attecchito: il cielo,
tuttavia, persisteva a presentarsi sotto le spoglie di un grigio
violaceo, mentre una bassa e rada foschia occludeva
la vista oltre la radura di abeti, a un centinaio di metri sotto la
stanza della giovane.
“Che cosa devo fare? Come posso
rintracciare Nicolò e sapere dove si trova, se è
in buona salute o se gli è occorso qualcosa di grave?”
La
ragazza continuava a porsi quegli unici interrogativi senza apparente
via di fuga, ai quali non era in grado di porre risposta alcuna.
Si
grattò distrattamente un polso e portò le mani al
volto, nella disperata ricerca di una soluzione che le permettesse di
uscire dal labirinto infinito che era diventata la sua mente tormentata.
Poi,
all’improvviso, alzò il viso e sgranò
gli occhi, folgorata da un’idea che le era balzata alla testa
in quel preciso istante.
“Potrei domandare ad Eugenio
Maffucci: in fin dei conti, è anche per colpa sua se mio
fratello si è cacciato nei guai. Sono convinta che senza il
loro incontro e gli indottrinamenti con cui ha infarcito il cervello di
Nicolò, a quest’ora lui sarebbe qui con noi. Ma
come faccio a rintracciarlo? Se non si è arruolato, chi mi
assicura che si trovi ancora nell’appartamento di corso
Sempione? Può essere fuggito, riparandosi chissà
dove, oppure, se ha combattuto, potrebbe anch’egli essere
stato ferito o reso prigioniero …”
Costanza
riprese a tormentarsi l’anima con quella caterva di dubbi,
ben consapevole che nuotando nel mare dei se e degli interrogativi nessuno era mai riuscito a trovare una soluzione ai propri problemi.
Decise
perciò che quel pomeriggio, prima di cena, avrebbe
escogitato un modo per uscire indisturbata dal palazzo e recarsi
all’ospedale cittadino a domandare notizie di
Nicolò, perché in cuor suo sapeva che lo avrebbe trovato lì.
Tuttavia, solo
allora la giovane Granieri si rese conto di non
sapere minimamente dove fosse ubicato il presidio e, di conseguenza,
quale fosse il tragitto per raggiungerlo.
“Prima di inoltrarmi in zone a me
sconosciute, potrei andare all’albergo svizzero, dove era
stanziato il Quartier generale del nostro esercito. Se sarò
un po’ fortunata, è possibile che riesca a
rintracciare un ufficiale o qualcuno che sappia dirmi cosa devo fare
…”
Il
cuore più sollevato, Costanza si stava apprestando a
richiudere i tendoni, in modo da sdraiarsi sul letto e riflettere sul
piano che avrebbe messo in atto entro poche ore.
Ma
la mano le rimase bloccata a mezz’aria, quando la direzione
del suo sguardo cadde sulla figura che, completamente avvolta di nero,
stava percorrendo il viale che conduceva ad una delle porte secondarie
di palazzo Caccia.
“Potrei giurare sulla mia stessa
vita che sotto quel goffo travestimento funereo si celi Federico! Lui
sì che è libero di poter gironzolare come meglio
crede per le strade della città: i suoi amici Austriaci non
gli vieteranno di accomodarsi dove meglio crede, né
tantomeno di rispettare degli assurdi limiti d’orario!”
Di
nuovo, i sentimenti di odio e di impotente rabbia tornarono prepotenti:
a ridosso della santa Pasqua, la ragazza giurò che avrebbe
tenuto fede al proprio patto interiore, ovvero che avrebbe fatto
qualsiasi cosa in suo potere pur di riportare a casa Nicolò
sano e salvo.
Qualsiasi
cosa, anche mettersi contro Pietro e il resto della famiglia, persino
confrontarsi con quel codardo di Maffucci o con quegli sbruffoni degli
invasori sarebbe stato meglio che rimanere ad attendere
chissà quale contrordine da parte del nemico, mentre il
dubbio le rodeva dentro!
Decise
perciò di cambiare idea, accantonando la decisione di
riflettere nella solitudine della camera, sdraiata sul comodo
baldacchino: sarebbe piuttosto scesa a cercare uno dei pochi domestici
ancora rimasti, approfittando del suo ruolo di ospite dei conti per
domandare informazioni utili sul percorso da compiere per raggiungere
l’ospedale.
Nel
caso in cui l’edificio si fosse trovato a breve distanza,
avrebbe scartato le opzioni di recarsi all’albergo svizzero o
addirittura in corso Sempione, dal capo degli affiliati.
Ma
tutto questo, ovviamente, avrebbe potuto scoprirlo solamente armandosi
di coraggio ed astuzia.
Due
giorni dopo l’incontro tra il nuovo Re, Vittorio Emanuele II
e il feldmaresciallo austriaco Josef Radetzky, la sera di sabato 24
marzo 1849 venne ufficialmente siglato l’armistizio di
Vignale, presso la località omonima alle porte di Novara, in
cui aveva sede il quartier generale nemico.
Tale
accordo –di natura indeterminata- sancì la fine
della Prima guerra di Indipendenza e comportò
l’abdicazione ufficiale di Carlo Alberto: i Piemontesi
avrebbero dovuto ritirare la propria flotta stanziata sul mar
Adriatico, avrebbero dovuto sottostare all’occupazione di
Alessandria (molto più vicina a Torino rispetto alla
città in cui si era verificata la disfatta sabauda e che
ritornò libera solamente ad agosto), del Monferrato e della
Lomellina (ovvero la zona tra il Ticino ed il Sesia) e pagare
un’indennità di guerra pari a 200 milioni di lire
(poi diminuita a 75 milioni).
In
cambio, sarebbe stata garantita l’amnistia per tutti gli
esuli del Regno Lombardo Veneto.
Contemporaneamente,
le notizie della disfatta, dell’abdicazione di Carlo Alberto
e dell’inevitabile resa raggiunsero Torino, dove il Governo
liberale guidato da Gioberti non riuscì a credere che
la guerra fosse finita in maniera così tragica e
senza resistenza alcuna.
La
Camera si oppose fin da subito alla cessazione delle
ostilità contro gli Imperiali, mentre l’ala
democratica –ovvero il gruppo progressista del Parlamento
piemontese, di stampo patriottico e sostenitore della piccola
borghesia- invocò la ripresa della guerra, in
virtù del coraggio e del valore dei patrioti che, nella
Repubblica di Venezia, in quella Romana, nel Granducato di Toscana e
negli altri Stati del centro continuavano strenuamente a combattere il
nemico.
Nessuno
dei deputati, purtroppo, riuscì a comprendere che
l’esercito sabaudo era ormai ridotto allo stremo, che
moltissimi erano stati i disertori, perché carente di una
collaborazione e di una preparazione a livello centrale.
L’intero
Regno di Sardegna si ritrovò nel caos più
assoluto: il nuovo sovrano tentò addirittura di chiedere
aiuto a Francia ed Inghilterra e sciolse l’entourage
giobertiano, nominando il 7 maggio capo del Governo il marchese Massimo
d’Azeglio, rappresentante dell’ala democratica, ma
la situazione non migliorò, anzi, si crearono nuove tensioni
tra la minoranza dei deputati e casa Savoia, oltre a nuovi sentimenti
di rivalsa che culminarono, esattamente dieci anni dopo, nella Seconda
guerra d'Indipendenza.
Il
campanile in lontananza aveva scoccato i cinque rintocchi:
all’esterno, era ormai quasi completamente buio e faceva freddo, ma le basse
temperature non avrebbero fermato i buoni propositi della giovane.
Costanza
richiuse con delicatezza la porta della sua camera da letto
–in cui si era rintanata per un paio di ore, fingendo di
leggere un libro- e scese attentamente le scale, controllando che
nessuno la stesse osservando.
Zia
Rosa era andata nelle cucine per predisporre gli ultimi preparativi per
il pranzo del giorno successivo, che teneva fosse cucinato con la
medesima cura che bisognava
riporre per qualsiasi festività sacra, tanto più
in un momento così complicato e cupo come quello che stavano
attraversando durante quelle precarie ore.
Lo
zio Aldo ed il padre stavano discutendo in biblioteca, poteva avvertire
piuttosto distintamente le loro voci mentre attraversava
l’ingresso rivestito di marmi e quadri paesaggistici alle
alte pareti tappezzate.
Sua
madre e Pietro, invece, dovevano essere nelle loro stanze, mentre
Federico non era ancora rientrato, ma nessuno sembrava essersi accorto
della sua sospettosa lontananza.
La
ragazza si legò la mantella di lana scura attorno al collo,
calandosi il cappuccio sul capo, in modo da nascondere il volto
smagrito e i capelli ricci.
Era
d’accordo con l’unico stalliere rimasto
–un uomo anziano dai capelli grigi e la barba folta-
che avrebbe trovato un piccolo calesse parcheggiato vicino ad
uno degli ingressi secondari.
Vito,
così si chiamava il servitore, si era reso disponibile per
accompagnarla, ma la giovane non aveva sentito ragioni di fargli
rischiare inutilmente la propria vita, e si era semplicemente premurata
di ringraziarlo a dovere per averle spiegato dove fosse ubicato
l’ospedale, in prossimità del Teatro Nuovo,
donandogli qualche moneta come tangibile ricompensa.
Costanza
era ormai pronta, i piedi che stavano percorrendo i gradini che
l'avrebbero condotta al seminterrato, e da lì alla porticina
verso l’esterno, quando avvertì una presenza alle sue spalle che la indusse a girarsi e a dimenticare momentaneamente i
propri buoni propositi.
QUALCHE NOTA STORICA ...
La gigantografia
che ricorda l'armistizio siglato la sera del 24 marzo1849
( a sinistra, seduto, Vittorio Emauele II e a destra
il feldmaresciallo
austriaco)
L'incontro
tra i due garanti: l'armistizio venne ratificato il 6 agosto dello
stesso anno, con la cosiddetta pace di
Milano,
che sancì definitivamente la fine
delle ostilità.
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Capitolo 28 *** Il giorno di Pasqua ***
L’astuzia
è l’arte di celare i nostri difetti, e di scoprire
le debolezze degli altri.
(William
Hazlitt, 1778-1830, scrittore, critico, filosofo e pittore inglese)
"Buonasera
..."
Costanza si bloccò al suono di quella voce tanto sgradevole:
la mantella di lana nera riusciva a coprirle non solo l'esile figura ma
anche il lieve tremolio delle membra che avvertiva attraversarle il
corpo.
Tuttavia, continuò a rimanere immobile, la bocca carnosa
semiaperta per la sorpresa di ritrovarsi ad un passo dall'ambiguo
soggetto che l'aveva appena salutata.
Abbassò per un istante lo sguardo, cercando di regolare il
ritmo del respiro che tendeva ad accelerare, poi puntò gli
occhi verde smeraldo contro il legno nodoso che rivestiva la porta
davanti a lei, quella che avrebbe dovuto condurla fuori dal palazzo, in
cerca di notizie di Nicolò, e finalmente fu pronta per
voltarsi ad affrontare il ragazzo.
"Buonasera anche a voi, cugino. Noto con piacere che avete fatto
ritorno a casa ..."
Federico, infatti, era apparso dalle tenebre che avvolgevano quel
sabato di fine marzo ormai agli sgoccioli, i movimenti felpati ed
attenti alla stregua di un gatto.
Indossava un'elegante redingote color avorio e degli stivali nella
tonalità del prugna, mentre sul braccio sinistro fluttuava
un lungo cappotto scuro.
Sfoderò uno dei suoi sorrisi seducenti, pentendosi per
averle rivolto la parola, quindi si levò il cappello che
aveva ancora calato sulla massa di capelli lisci e mori.
"Non vi sfugge proprio nulla! Ebbene sì, sono ritornato alla
base: sapete, sono andato a sedermi su una delle panchine del parco,
quelle vicino ai due querceti. Confesso che avevo bisogno di
rilassarmi. E voi, invece? Avete provato un improvviso desiderio di
visitare le nostre fornite e famose cantine?"
Il tono del secondogenito dei conti Caccia si stava tingendo di velata
ironia, ma si intuiva perfettamente che lo scopo di quella domanda era
capire perchè e dove la giovane volesse andare.
"Le vostre cantine, dite? Oh, che sbadata che sono!" tentò
di giustificarsi in maniera convincente Costanza, abbozzando a sua
volta un sorriso e scuotendo il capo cosparso di ricci scuri.
"Nonostante sia qui ormai da due giorni, ancora riesco a perdermi!
Perdonatemi, cugino, penserete che sono la classica fanciulla imbranata
che senza l'adeguata compagnia non è in grado di compiere
neppure un passo! Comunque era mia intenzione seguire il vostro
medesimo comportamento, ovvero approfittare della serata per
passeggiare al chiaro di luna!"
L'altro la squadrò per una manciata di secondi, cercando di
scoprire in quale misura stesse mentendo: ridusse gli occhi color ambra
a due fessure, per poi sciogliere la tensione del viso glabro annuendo
convinto.
Dopotutto, l'arte del raccontare bugie doveva essere una dote che
accumunava entrambi i loro geni.
"Non preoccupatevi, cara cugina! La colpa è della solitudine
di cui vi siete circondata da quando siete arrivata: stare praticamente
tutto il giorno nella vostra camera non aiuterà di certo il
morale della vostra famiglia a risollevarsi, anzi, rischiate di
precipitare in una depressione ancora più grave di quella
che vi sta affliggendo, date retta a me!"
La ragazza avrebbe voluto replicare in maniera altrettanto sarcastica e
pungente, ma decise di non piegarsi alle maldicenze espresse da
Federico, per cui cambiò strategia.
"Avete ragione, cercherò di ascoltare i consigli che mi
avete affettuosamente elargito"
"Molto bene! Allora, con il vostro permesso, andrei a prepararmi per la
cena! Però, se sarà di vostro gradimento,
più tardi mi piacerebbe condurvi a visitare le cantine: sono
sicuro che non ve ne pentirete ..."
Costanza annuì cortese, sebbene avesse voluto con tutto il
cuore riversare la rabbia ed il disgusto che provava verso di lui
sputandogli sul prezioso abito.
L'istante dopo in cui il conte Caccia s'inchinò per
accomiatarsi e, voltandosi, prese a dirigersi verso l'immensa scalinata
di marmo, l'interlocutrice lo fermò.
"Aspettate ancora un attimo, cugino, ho una curiosità da
domandarvi: hanno per caso sospeso il coprifuoco?"
L'altro si voltò, un piede sul primo gradino rivestito dal
lungo tappeto rosso, quindi la fissò con aria interrogativa,
e decise di stare al gioco.
"Che io sappia non ancora ... per quale motivo vi interessa saperlo?"
"Semplice curiosità, come vi ho anticipato: sapete, dal
momento che subito dopo pranzo siete scappato e nessuno di noi vi ha
più veduto fino adesso, ho creduto che vi foste allontanato
da palazzo, che foste addirittura uscito, pensate che sciocca! Adesso
che vi guardo bene, sbaglio o vi siete persino cambiato d'abito?"
Al giovane non sfuggì il tono canzonatorio ed irriverente
con il quale la ragazza gli si era rivolta, tuttavia dovette ammettere
che era stata furba ad attirarlo in quel tranello di retorica, ma lui
sarebbe stato ancora più scaltro a non demordere e a
risultarne l'unico vincitore.
"Infatti avete ragione: ho dovuto abbandonare la mise di stamani
perché mi sono accorto di essermi macchiato con il
condimento del riso. Che sbadato, non trovate? E purtroppo no, non sono
uscito: ho semplicemente trascorso un paio d'ore nel mio studiolo
privato a leggere un buon libro, null'altro! Ora che spero di avervi
soddisfatto, posso andare?"
Sfoderò l'ennesimo sorriso incantatorio, affrettandosi a
salire i gradini che lo separavano dalla salvezza.
Ma il suo piano di fuga venne presto sventato dall'arrivo di zia Rosa,
che era ricomparsa dalla porta opposta a quella che portava alle
cantine, rilassata dopo la favorevole incursione nelle cucine.
Indossava un lungo abito color terracotta che proteggeva la sua figura
minuta ed aveva acconciato i capelli biondi e quasi trasparenti in uno
strettissimo chignon.
Sul suo volto diafano risaltavano gli occhi nocciola, che si accesero
di domande quando incrociarono Costanza, vestita come se dovesse uscire.
"E' forse successo qualcosa?" le domandò la contessa
sessantenne, preoccupata.
"No, non è successo nulla, non temete. Avevo solo bisogno di
fare una passeggiata per schiarmi le idee, però appena ho
visto Federico mi sono fermata a parlare con lui ..."
"Oh, grazie al Cielo è tornato!"
Donna Rosa lasciò perdere la nipote e si affrettò
a raggiungere il secondogenito, accarezzandogli di sfuggita un braccio.
Il ragazzo lanciò un'occhiata fugace in direzione della
cugina, capendo di essere stato colto in flagrante.
"Ma no, mamma, vi state sbagliando! Non sono andato proprio da nessuna
parte! Ve l'ho detto no, che sarei andato a riposarmi e a leggere nello
studiolo! Rammentate?"
"Sì, certo che ricordo, ma quando un'ora fa sono passata
lì davanti, l'uscio era semiaperto e la brace del camino
ormai spenta ... dimmi la verità, figliolo, hai infranto il
coprifuoco?"
Il bel volto della donna si accese di preoccupazione, subito confortata
dalle parole allegre del giovane.
"E va bene, avete vinto voi! Sono andato al distaccamento del Comando
austriaco per ottenere il permesso per far venire qui la marchesa
Letizia, in modo che possa trascorrere la Pasqua assieme a noi! Avrei voluto che fosse
una sorpresa, ma avete saputo smascherarmi quasi subito!"
Costanza stava seguendo quel dialogo tra madre e figlio in disparte, a
una ventina di metri più indietro rispetto a loro, e non
capiva davvero se faceva bene a credere alle giustificazioni del
cugino, il quale continuava ad apparire incredibilmente sincero e a suo
agio.
Tastò l'interno della redingote avorio, da cui estrasse una
busta con impresso sulla ceralacca lo stemma regale asburgico, quindi
la porse alla contessa.
"Dal momento che vostra zia Letizia è ormai rimasta sola e
non abbiamo notizie di lei da diverse settimane, ho ricevuto il
permesso da parte del tenente Kalberg di recarmi domattina a palazzo Balbi, per portarla a trascorrere qualche giorno in nostra compagnia"
La donna si girò tra le mani la preziosa lettera, quindi
aprì l'involucro di carta e ne lesse il contenuto,
sorridendo contenta.
La marchesa Letizia, infatti, era l'unica parente in vita di zia Rosa,
essendo la sorella del padre, ed era rimasta vedova da circa sei mesi.
Aveva quasi ottant'anni e numerosi problemi alle articolazioni che le
impedivano di muoversi agevolmente ed in autonomia: inoltre, dalla
festa di compleanno del conte Aldo, all'inizio del mese, le due
nobildonne non si erano più riviste, e la dichiarazione di
guerra degli ultimi giorni aveva complicato ulteriormente i rapporti
familiari.
"Sei stato davvero molto generoso a pensare alla tua prozia, figliolo!
Sono orgogliosa di te, caro, davvero orgogliosa!"
La contessa Caccia abbracciò teneramente il secondogenito, supplicandolo di non compiere altri gesti avventati e potenzialmente pericolosi per la sua incolumità,
quindi rivolse un sorriso anche alla nipote, spiegandole
l'identità della misteriosa donna di cui stavano parlando.
Dopodiché, salirono insieme la scalinata di marmo,
lasciandola da sola e piena di dubbi.
"Se Federico, come credo, è in combutta con gli Austriaci ed
è persino riuscito a farsi concedere da loro un
lasciapassare, allora può darsi che possa essermi d'aiuto
per rintracciare Nicolò, che sappia addirittura a quali
persone debba rivolgermi ..."
La giovane s'illuminò di nuove speranze e linfa vitale ma,
riflettendo con maggiore razionalità, si rese conto che non
avrebbe potuto scendere a compromessi con lui e i suoi amici,
perché ciò sarebbe andato contro i suoi stessi
princìpi etici: supplicare coloro che avevano rappresentato
la rovina per il Regno di Sardegna, per Novara e per la sua stessa
famiglia, le appariva come il più meschino dei tradimenti.
Perciò, abbandonò i suoi propositi di fuga,
almeno per quella sera, e decise di rimandare ogni piano al giorno
successivo, sperando che la sacralità della Pasqua le
avrebbe portato consiglio.
Uscì dal portone massiccio ed intarsiato che conduceva al
vialetto d'ingresso, pronta ad avvisare Vito che il calesse che le
aveva preparato non le sarebbe servito: ringraziò ancora una
volta l'anziano stalliere, quindi si arrese a fare dietrofront,
ritornando in casa, avvolta dal suo tepore e dal clima di mistero che
si respirava tra le pareti.
La mattina successiva, Costanza si alzò di
buon'ora: le campane della chiesetta di san Giuseppe
scandirono sei rintocchi, mentre il cielo si pennellava delle
prime strisce di luce rossastra.
Il freddo penetrante che si avvertiva all'esterno era sinonimo di una
giornata priva della neve che era caduta appena ventiquattro ore prima,
tuttavia permaneva quella leggera foschia che ammantava prepotentemente
i prati erbosi e le fronde più basse dell'ampia
varietà di alberi del giardino, tanto da nascondere i
boccioli delle primizie che stavano faticosamente spuntando nella terra
umida di inizio primavera.
La ragazza, dopo aver consumato una frugale colazione in compagnia
della contessa, trascorse il resto della mattinata insieme alla madre e
al padre.
Donna Luisa, infatti, aveva ancora la febbre, ma le si era quasi del
tutto abbassata, permettendole, qualora avesse voluto, di scendere
dabbasso per condividere il pranzo con il resto della famiglia.
Il suo carattere volitivo e deciso aveva lasciato spazio ad
un’apatia da cui non dava segno di volersi riscuotere.
Passava dal letto all'elegante poltrona di stoffa di Liegi, vestendosi
con un lungo abito nero da lutto, che aveva l'unico funesto vantaggio
di metterle in risalto il volto impallidito e gli occhi azzurri ormai
spenti, gonfi per il pianto e ancora febbricitanti.
Don Armando, invece, si era ripreso dal collasso nervoso senza alcuna
apparente conseguenza, nonostante continuasse a non voler nominare il
nome del figlio, e a pretendere che nessuno lo nominasse in sua
presenza.
"Sei tu la mia unica
erede, Costanza, e gli unici nipoti legittimi che
riconoscerò saranno quelli che mi darai, sia ben chiaro. Anzi, appena tutto questo finirà, cominceremo a cercare un buon pretendente per la tua mano"
ripeteva come un mantra il notaio, ogni volta che qualcheduno si
addentrava nel discorso.
Intorno alle dieci, Federico fece il suo ritorno trionfale in compagnia
della marchesa Letizia Balbi, originaria di Milano, che venne accolta
con ogni onore da parte della famiglia dell'unica parente diretta
rimasta.
La donnina, pur avendo quasi ottant'anni, appariva piuttosto in buona
salute, sebbene si muovesse con un bastone dal pomo in argento e
dorato, testimonianza dei suoi problemi alle articolazioni, e
strizzasse gli occhi celesti per riuscire a mettere a fuoco le figure
delle persone con cui parlava.
Assomigliava incredibilmente alla contessa Caccia: come lei, infatti,
vantava una pelle chiarissima, quasi diafana, e aveva una massa folta e
chiara di capelli arricciati sulla nuca.
Zia Rosa si occupò delle presentazioni, per poi accompagnare
l'anziana consanguinea in uno dei boudoir
al piano inferiore, dove fu servito del té caldo
aromatizzato alla cannella e dei biscotti al profumo di limone.
"Ho visitato diverse volte le vostre montagne, quando ero giovane" si
rivolse gentilmente la marchesa alla figlia del notaio, rivelando una
voce decisa e dal tono altisonante, decisamente in contrasto con il verde edera delicato dell'ampio abito ricamato con pizzi.
"E vi sono piaciute?" azzardò timidamente lei, felice di
poter parlare dei posti che tanto amava.
"Certamente, cara, tanto da portarli ancora nel cuore"
Donna Luisa si intromise nella conversazione in maniera quasi sgarbata,
reclamando di voler ritornare nella sua camera, sorda alle insistenze
premurose della zia Rosa.
Costanza, improvvisamente triste e spaesata, insisté per
accompagnare la madre a riposare, in modo che potesse ritrovare un
minimo di forze in vista del banchetto pasquale che si sarebbe svolto
di lì a poche ore.
"Non sembra neppure un giorno di festa ..." ammise la stessa donna
Luisa, dopo essersi nuovamente accomodata nella camera da letto,
sistemandosi sulla poltrona.
Lisciò pieghe invisibili dall'abito listato a lutto, quindi
attese che la figlia replicasse, in modo da donarle un minimo di
sollievo.
"Ne siamo tutti consapevoli, ma non dobbiamo permettere che l'angoscia
offuschi le nostre menti. Sono sicura che presto, prima di quanto
possiamo immaginare, ritorneremo nella nostra casa, tutti insieme ..."
L'altra fece una smorfia di disappunto, replicando con voce roca e
cavernosa.
"Tutti insieme, dici? Tuo fratello non farà mai ritorno a
casa: se è vivo, come prego ogni ora, il suo orgoglio gli
impedirà di riappacificarsi con tuo padre, e lo stesso
varrà anche dalla sua parte ... "
Costanza decise di non insistere ulteriormente, così si
rassegnò a portarle un minimo di conforto con la lettura di
alcune poesie francesi.
Finalmente, giunse l'ora di scendere insieme al resto dei commensali.
Nessuno, in realtà, come aveva sottolineato egoisticamente la
moglie del notaio, smaniava dalla voglia di festeggiare: il pranzo,
assai misero per la mancanza di generi alimentari freschi ma
estremamente curato nelle porzioni e nell'impiattamento dalla
puntigliosità della contessa, si svolse in maniera
sobria e silenziosa.
Lo zio Aldo, allo stesso modo, si stava rivelando un ottimo padrone di
casa, preoccupato che agli ospiti non mancasse nulla, e sembrava
l'unico, insieme alla zia Rosa, a cercare di risollevare il morale dei
convitati.
Di solito di poche parole, infatti, quel giorno aveva dato prova di
essere un piacevole interlocutore, discutendo di qualsiasi argomento
che non riguardasse l'aspetto politico che la città stava
patendo in quelle ultime ore.
"Dopo pranzo, se vi fa piacere, Rosa potrebbe suonarvi qualcosa ..."
La moglie annuì, complice del consorte, che non
tardò a continuare.
"Se non ricordo male, ha appena imparato uno dei Notturni di Chopin.
Sapete di chi si tratta, vero? E' quel giovane pianista polacco tanto
acclamato, famoso anche per aver intessuto una relazione amorosa con una francese,
che non solo si veste da uomo, ma ha persino modificato il propio nome
in uno maschile, in modo da poter essere libera di esprimersi nella sua
arte, la scrittura. Non trovate che abbia avuto un grande coraggio? Al contempo, credo sia quasi vergognoso che nel 1849 esista ancora tutta
questa diffidenza verso il ruolo delle donne nella società"
I convitati si bloccarono per un impercettibile secondo: udire una
presa di posizione così evidente da parte di un uomo di
sessantotto anni, di levatura nobiliare, era qualcosa di estremamente
innovativo.
Ma la spontaneità del conte e la limpidezza dei suoi occhi
cerulei smisero di stupire ben presto, mentre vaghi mormorii si
levarono dalla tavolata.
"Si chiama George Sand e dicono sia molto brava: pensate che
è impegnata anche sul fronte politico ..."
Pietro non voleva far cadere il discorso in maniera tanto precoce,
quindi tentò di risollevare la curiosità dei
presenti, inutilmente: nessuno di essi aveva la mente abbastanza libera
da potersi permettere una tale divagazione, sebbene importante e giusta
che fosse.
Costanza, dal canto suo, riconosceva di essere pienamente d'accordo con
lo zio ed il cugino, anche se tutti i pensieri erano concentrati verso
un nuovo piano di fuga che le permettesse di avere notizie del
fratello, proposito che appariva ancora lontano dal realizzarsi.
Aveva dovuto sedersi vicino al giovane conte, sebbene non riuscisse a
perdonargli il fatto di non averla accompagnata all'ospedale, il giorno
prima, ma qualsiasi posto sarebbe stato meglio piuttosto che pranzare
di fianco a Federico, che lei - non troppo inconsciamente- continuava a
reputare un vile traditore, intento a tramare e a sperare nella
sconfitta dell’Armata Sarda, come purtroppo era accaduto.
Ad un certo punto, nel bel mezzo della zuppa di pasta e lenticchie, il
batacchio della campanella esterna prese a suonare, rompendo il
silenzio che si era ancora una volta creato.
I volti degli otto commensali si diressero automaticamente in direzione
dell'ingresso, spaventati e curiosi di scoprire di chi si trattasse.
Lo zio Aldo si asciugò la bocca nel tovagliolo color crema,
quindi rassicurò con uno dei suoi dolci sorrisi la famiglia,
e si alzò da tavola, non aspettando che il maggiordomo lo
mettesse al corrente dell'identità del nuovo venuto.
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Capitolo 29 *** La spiga di grano ***
Tutte le infelicità
umane provengono dal non affrontare con coraggio
la realtà per quello che è
(Siddhartha Gautama Buddha, monaco e filosofo, 566-486 a.C.)
La fine del coprifuoco aveva permesso a Costanza di uscire dal palazzo
senza adottare inutili e pericolosi sotterfugi.
La
parte del Comando austriaco stanziato in città aveva mandato
un manipolo di soldati di casa in casa, in modo che avvisassero gli
abitanti di Novara della beneaugurante concessione.
Era
trascorso meno di un giorno dal pranzo di Pasqua interrotto
dall’incoraggiante notizia, così quella mattina
lei e Pietro si stavano recando al presidio ospedaliero per avere
finalmente notizie del fratello disperso.
La
ragazza, infatti, non aveva neppure la forza mentale di pensare che
Nicolò potesse essere morto o reso prigioniero,
perché in cuor suo sapeva che sarebbe riuscita a
rintracciarlo e a convincerlo a fare ritorno a casa.
Mentre
rifletteva su quelle convinzioni, non poteva non accorgersi del
paesaggio martoriato che sfilava dal finestrino della Landau
nera, a dir poco desolante: Novara appariva completamente stravolta,
artefatta, quasi deformata, rispetto ad appena una settimana prima.
I
lati delle strade rivestite da sampietrini erano diventati un ammasso
contorto di falò ormai spenti, le insegne delle botteghe
apparivano divelte, così come le vetrine avevano
subìto ingenti danni da parte dei soldati allo sbando.
Per
le vie del centro in gran parte deserte -eccetto per le truppe di
ricognizione nemiche e qualche raro avventuriero- regnava un silenzio
surreale, accentuato dal rumore ritmico e cupo degli zoccoli ferrati
dei cavalli.
In
prossimità delle porte di accesso alla città, si
notavano fin troppo bene i cumuli di macerie che una volta
rappresentavano parte delle mura, esito dei cannoneggiamenti degli
Austriaci la notte tra venerdì 23 e la
mattina del 24 marzo.
Quel
paesaggio di desolazione e di morte repressa portò alla
deriva i ricordi della giovane Granieri, che ritornò
indietro con la memoria.
Quando
erano piccoli, infatti, lei e Nicolò trascorrevano gran
parte della bella stagione nel palazzo di donna Mellerio.
Suonavano
il pianoforte (Costanza veniva indirizzata anche alle lezioni canore,
come si addiceva ad una signorina del suo rango), passeggiavano in
mezzo alle pinete che sovrastavano Santa Maria Maggiore, ricevevano gli
ospiti della nonna nel salotto con la finestra che si affacciava sul
grande parco della villa, bevendo tè alla cannella o
mangiando budini e torte preparate dalla cuoca della marchesa, e spesso
trascorrevano le serate nel teatro del paese, divertendosi a commentare
gli abiti bizzarri dei notabili della piccola comunità
montana.
Verso
inizio agosto, arrivavano in visita dalla Francia anche la zia Eleonora
e lo zio Alfredo, insieme ai loro tre figli, Matteo, Amedeo e
Margherita.
Una
volta –Costanza avrà avuto sette anni e
Nicolò quindici- i due cugini maschi, uno della stessa
età del primogenito dei Granieri e l’altro di un
paio di anni più piccolo, portarono a Villa Mellerio una
collezione di spade in argento che i genitori avevano comprato loro
durante un viaggio a Toledo.
Naturalmente,
i tre vollero subito provare i nuovi giocattoli, impedendo alle bambine
di unirsi alla combriccola.
Ma
Costanza, che rispetto a Margherita aveva un anno di meno però era
più risoluta, non aveva alcuna intenzione di demordere,
smaniosa di seguire il fratello anche in quell’avventura:
così, dopo che le suppliche non sortirono
l’effetto desiderato, la piccola approfittò di un
momento di distrazione dei tre moschettieri per rubare una delle
preziose spade e nasconderla dietro uno dei roveti del grande giardino.
Inutile
raccontare le ire del fratello e dei cugini che, dopo aver recuperato
il maltolto, decisero di tenere buona la bambina raccontandole una
delle storie che la vecchia balia di Matteo era solita narrare per
spaventarli quando si comportavano in maniera riprorevole.
C’era
una volta una giovane madre, la quale aveva perso da poco il suo unico
figlio a causa di una terribile carestia che le aveva impedito di
nutrirlo a dovere.
Disperata,
la donna passava le notti a piangere e a sospirare dal dolore, pregando
Dio che le restituisse il proprio piccolo.
Una
di queste sere, mentre era nel letto supplicante, udì una
voce, profonda e tonante, che le intimava risoluta di smetterla.
Era
la voce di Dio, che le ordinò di recarsi per le case del
paese, bussando a ciascuna porta che incontrava nel tragitto, e di
chiedere a coloro a cui la Morte non aveva mai fatto visita di donarle
una spiga di grano.
In
cambio delle spighe di grano, infatti, il Signore le avrebbe restituito
il figlio.
La
giovane madre, obbediente e speranzosa, si recò di casa in
casa, ma ben presto rimase delusa dalla nullità del bottino,
in quanto si accorse che nessuno dei suoi compaesani aveva mai avuto la
fortuna di non conoscere cosa fosse la Morte, quindi ritornò
a mani vuote nella sua umile abitazione, piangendo lacrime calde e
amare.
Quella
notte, la voce di Dio le apparve nuovamente, questa volta consolandola
con tono amorevole, e facendola profondare in un sonno profondo, nel
quale poté finalmente riabbracciare il suo bambino.
In quei lunghi momenti che ormai stavano durando giorni, Costanza aveva
pregato che non toccasse a lei l'ingrato ruolo di
interpretare la sfortunata donna, e che Nicolò
potesse essere ancora vivo.
“Siete
pronta?” la riscosse dall’effluvio di pensieri
Pietro, una redingote blu scuro, già prontamente sceso dalla
carrozza.
La
ragazza, un abito di lana leggera color bronzo, gli porse la mano
destra per aiutarla a smontare dalla vettura, annuendo con la massima
convinzione di cui fosse capace.
La
mastodontica facciata in granito e pietra arenaria
dell’Ospedale aumentò la tensione che Costanza
avvertiva dal pomeriggio scorso, da quando i soldati erano venuti a
bussare al palazzo degli zii, per avvertirli che il coprifuoco era
finalmente concluso.
***
Una
volta attraversato l’ampio cortile, i due giovani si
ritrovarono nell’atrio dell’edificio, i soffitti
estremamente alti e le pareti dipinte di un bianco immacolato.
Li
accolse una gran confusione uditiva, provocata da un mormorio
incessante che proveniva da ogni lato del fabbricato: voci indistinte
che si lamentavano e invocavano grida verso chissà chi,
infatti, scossero le orecchie dei nuovi visitatori, che si guardarono
attorno in cerca di qualcuno a cui chiedere informazioni.
Dalle
porte con i pannelli in vetro smerigliato, si riusciva ad intravedere
un viavai continuo di figure indaffarate, che apparivano e scomparivano
come in uno spettacolo di magia.
Costanza
si avvicinò automaticamente verso quelle ombre indistinte,
la mano pronta sulla maniglia, speranzosa di poter trovare una persona
pronta a consigliarla.
“State
cercando qualcuno?”
Una
voce di mezza età appartenente ad una donna fece voltare lei
e Pietro, che annuirono contemporaneamente.
“Buongiorno
sorella" la salutò la giovane, ritornando sui propri passi.
"Sto cercando mio fratello. Si chiama Nicolò Granieri: ha
venticinque anni, è alto, con i capelli ricci e scuri e gli
occhi color ambra. Per caso, lo avete visto?”
La
suora, l’abito dell’Ordine immacolato, raggiunse i
due ragazzi: aveva il volto rugoso e gli occhi molto chiari e
velati, a testimoniare la quasi cecità delle
pupille.
Sorrise
comprensiva, mentre la bocca sottile rivelava una dentatura completa e
diritta, che mal si addiceva alla sua veneranda età.
“Cara
ragazza, qui è pieno di giovani che assomigliano a vostro
fratello. Chi vi ha detto che si trova qui?”
La
donna di Chiesa accarezzò dolcemente un braccio di Costanza,
che deglutì per non mettersi a piangere dalla disperazione:
solo in quel momento, infatti, si stava rendendo conto di quanto la sua
storia rappresentasse appena una minuscola goccia tra le decine di migliaia
che stavano accumunando altrettante famiglie, angosciate ed afflitte
alla stessa maniera.
“Nessuno,
purtroppo, sono venuta di mia spontanea iniziativa. Ma so che si era
arruolato qualche giorno prima della battaglia, per cui ho pensato che
potesse essere stato ferito, che qualcuno lo avesse portato in ospedale per
essere curato …”
La
suora fissò con lo sguardo vacuo Pietro, rimasto in silenzio
ma sempre vicino alla cugina.
Il
cappello tra le mani, avvertendo la tensione di Costanza,
s’intromise nel discorso.
“Sorella,
io sono il cugino del ragazzo. Per favore, a casa siamo tutti molto in
pena per lui, e non sappiamo in quale altro modo rintracciarlo. Se
riuscisse a darci qualche notizie, ad indirizzarci da chi potrebbe
esserci d’aiuto, ve ne saremmo davvero grati”
“Figliolo”
tentò di farlo ragionare la suora, regalando un altro
sorriso “ogni genitore, ogni sorella, ogni moglie
è in pena per i nostri soldati, proprio come lo siete voi.
Ma dovete comprendere che questo è un ospedale: la prima
cosa che facciamo, quando ci vengono portati i feriti, è
curarli, cercare di alleviare le loro sofferenze, fisiche e spirituali
che siano. Solamente dopo, una volta che non correranno più
pericolo, allora ci preoccuperemo di chiedere loro i nominativi e gli
indirizzi per scrivere e rassicurare le famiglie …”
La
voce pacata e cantilenante della vecchietta non riuscì
tuttavia a placare le ansie di Costanza, che subito si
lanciò in una richiesta che rasentava la
disperazione.
“Per
favore, ci permetta di entrare per vedere se mio fratello è
qui! Mi basterebbe un minuto, non di più!”
“Impieghereste
molto più di un minuto, figliola, credetemi. E poi,
è vietato, non posso fare entrare nessuno, a meno che non
sia un parente accertato o un volontario venuto ad aiutarci
…”
“Allora
contate su di me!” la interruppe l’altra
“posso darvi una mano fin da ora! Sono disposta a non tornare
a casa, a mettervi a disposizione qualsiasi cosa chiediate! Ma vi
supplico, permettetemi di entrare!”
La
ragazza riuscì a trattenere a stento le lacrime e,
mettendosi in ginocchio, cercò ancora una volta di
convincere la pia donna.
“Non
è me che dovete pregare” ribatté la
suora con voce dolce, aiutando Costanza a rialzarsi.
“Vi
assicuro, figliola, che se dipendesse da me vi farei entrare
immediatamente, ma la situazione è davvero disperata.
C’è molto da fare, e non possiamo permetterci di
perdere tempo. Però, se questo vi permetterà di
stare più tranquilla, lasciatemi l’indirizzo di
dove posso rintracciarvi, nel caso in cui vostro fratello sia stato
portato qui. Aspettatemi un attimo, vado a prendere un foglio su cui
scrivere …”
La
donnina non permise di ribattere alcunché, perché
subito si dileguò dietro i vetri smerigliati, ritornando
dopo pochi secondi con un pezzo di carta e una matita tra le mani
rugose.
La
ragazza incrociò lo sguardo di Pietro, che
impercettibilmente le disse di continuare, che stava compiendo la
scelta giusta: prese quindi a complilare i dati di Nicolò e quelli relativi
la strada in cui era ubicato il palazzo degli zii, infine strinse con
riconoscenza le dita sottili e fragili della suora.
“Spero
con tutto il cuore di farvi avere presto notizie. Ora devo andare,
scusatemi. Che il Signore sia con voi, figlioli …”
Li
benedisse e ritornò sui suoi passi, mentre le grida di
lamento e di dolore riaffioravano sempre più pressanti e
disperate oltre i vetri smerigliati delle porte.
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Capitolo 30 *** Nuove speranze ***
Dal
disordine e dalla confusione cercate di tirare fuori la
semplicità.
(Albert
Einstein, premio
Nobel nel 1921, fisico e filosofo tedesco,
1879-1955)
I piedi nudi che cozzavano contro il marmo freddo ed inospitale della
scalinata sospingevano Costanza a rintanarsi nel budoir, la notte
ancora vagamente gelida oltre le vetrate sigillate del palazzo.
L’incontro con la donna di Chiesa, appena qualche ora prima,
l’aveva profondamente turbata ed immersa in un vortice di
incertezze e di impotente frustrazione, che la sua camera ed il letto non erano riusciti a lenire: mentre si dirigeva verso la
piccola stanza del piano terra, infatti, la ragazza si
ritrovò a riflettere sulle ultime settimane, da quando, il
12 marzo, era stata proclamata la fine dell’Armistizio con
gli Austriaci.
Quel giorno, se lo ricordava alla perfezione, la sua unica angoscia era
dettata dal fatto di accontentare le inutili pretese della madre nel
scegliere un abito adatto al suo debutto in società, evento
che avrebbe dovuto tenersi qualche settimana dopo, intorno alla
metà di aprile, e che con ogni probabilità non
avrebbe più avuto luogo.
Si rintanò su una delle poltrone di velluto chiaro, la
camicia da notte di flanella leggera a coprirle le ginocchia.
Chissà, se
tutto questo non fosse successo, forse a quest’ora sarei
stata corteggiata da qualche giovane dell’alta borghesia, o
magari mia madre avrebbe fatto di tutto per spingere lo stesso maestro
Rossini a prendermi in moglie.
Quel pensiero tanto assurdo quanto buffo le regalò un
sorriso: in effetti, le avrebbe fatto piacere conoscere
l’adorata figlia del musicista, Charlotte, ma non di certo
diventarne la matrigna.
E poi, le rivelazioni a cui l’uomo l’aveva
messa al corrente, neppure una settimana prima, avevano avuto il potere
di delinearlo sotto una luce diversa, a tratti persino minacciosa.
Non riesco proprio a
perdonargli di avermi mentito per così tanto tempo! Insomma,
io mi fidavo di lui e mi aspettavo altrettanta confidenza e
sincerità!
Ma dopotutto, Costanza non poteva biasimarlo più di tanto:
in fondo, gli stessi Nicolò, Pietro, Federico e anche quel
furbo di Maffucci non avevano fatto altro che manipolarla e mentirle,
cercando di attirarla dalla loro parte, però ciò
che provava per quel buffo insegnante di musica –ammirazione
e istintiva simpatia, nonostante l’iniziale diffidenza dovute
alle mire materne- le aveva fatto crollare il muro di fiducia che si
era ingenuamente costruita.
Così, vagando con la mente tra i meandri dei ricordi, si
ritrovò ad addormentarsi sulla poltrona, i ricci scuri
abbandonati come un ventaglio sullo schienale.
La svegliarono i cinque rintocchi del campanile poco distante, una mano
sul collo dolorante per la scomoda posizione assunta in quel paio di
ore, e ritornò silenziosa nella sua stanza, preda della
stanchezza e dimentica delle preoccupazioni.
Erano trascorsi due giorni, ormai, da quando Pietro e Costanza si erano recati
all’ospedale per avere notizie di Nicolò.
La suora con cui avevano parlato non si era ancora premurata di far
avere loro informazioni, e la situazione, a palazzo, non accennava a
migliorare.
Donna Luisa era ormai fisicamente guarita, ma continuava a rimanere
apatica e a non mostrare alcun interesse verso le persone e le cose che
la circondavano.
Tutti gli abitanti della villa attribuivano quel malessere interiore
alla mancanza del primogenito, di cui non si sapeva nulla da quasi una
settimana, eppure non potevano non tediarsi per la sua salute psichica.
Sebbene il notaio Granieri continuasse a non voler pronunciare il nome
del figlio, così come aveva vietato che lo si menzionasse in
sua presenza, anche l’uomo era naturalmente e segretamente
preoccupato per le sorti del giovane.
Costanza, dal canto suo, avrebbe voluto ritornare
all’ospedale, per spronare la suora con cui aveva parlato o
chiunque altro avesse incontrato, a permetterle di entrare nella sorta
di limbo dei moribondi per cercare il fratello, non volendo ammettere
che, seppure fosse devastante da immaginare, il ragazzo avrebbe potuto
essere stato ucciso o reso prigioniero dagli Austriaci.
Gli incerti pensieri sul futuro si alternavano alla viscerale voglia di
ritornare a casa, dalla nonna, per rifugiarsi lontano da quella
città infernale e dal dolore che non la abbandonava un
istante.
Pietro, il giorno prima, aveva spedito le due lettere che la ragazza
aveva scritto la vigilia di Pasqua, e adesso la giovane sperava
ardentemente che le parole della nonna avrebbero potuto darle conforto.
Don Armando, invece, aveva accennato ad un discorso opposto a quello
intimamente formulato dalla figlia, esprimendolo quello stesso giorno
durante la colazione: adesso che la moglie si era ripresa, infatti, non
desiderava arrecare ulteriore disturbo agli zii di donna Luisa,
manifestando la volontà di far ritorno a palazzo quanto
prima.
Costanza si sentì sprofondare, il cuore in tumulto: era
convinta di non riuscire a reggere la convivenza in solitudine con i
suoi genitori, l’uno completamente e apparentemente
insensibile alle vicende del primogenito, l’altra sul baratro
della follia.
Guardò il posto vuoto di Pietro, che aveva consumato una
frugale colazione per poi dirigersi nello studio al primo piano, e
provò una sensazione di vuoto e di perdita: se la decisione del padre fosse stata accolta,
ciò avrebbe significato non poter usufruire quotidianamente
della sua presenza e, doveva ammetterlo, anche dei buoni
consigli che non si erano mai rivelati sbagliati.
Tuttavia, fu felice che a gongolare della sua visibile disperazione non
ci fosse neppure Federico, misteriosamente avvolto in biblioteca da
certe strane faccende che non aveva spiegato al resto della tavolata.
“Ma padre …” tentò di
infilarsi nella conversazione la ragazza, quando venne interrotta dalla
voce della contessa, un abito azzurro chiaro che le esaltava ancora di
più l’incarnato diafano.
“Forse non vi trovate bene qui da noi?”
s’intromise zia Rosa con una punta di risentimento, mentre
sorseggiava il tè.
“Niente affatto, cara contessa, ma
…”
“Allora non accetto alcuna obiezione! Voi siete nostri
graditissimi ospiti, per cui continuerete a rimanere a palazzo fino a
quando la situazione non darà segni di
miglioramento!” tagliò corto la donna, gli occhi
azzurri e la folta chioma castana.
Lo zio Aldo, la solita capigliatura rossastra e lo sguardo gentile,
confermò le parole della moglie, sebbene con meno veemenza:
“Rosa ha ragione, Armando. Non sapete neppure se vi sono
stati dei danni, nella zona in cui vivete. Essendo così
vicina al Torrion Quartara, non è
un’eventualità da escludere, lo sapete bene anche
voi …” lo rassicurò, sorridendogli
comprensivo.
“Avete ragione, ma prima o poi dovrò decidermi ad
andare a vedere se il palazzo è ancora in piedi!”
continuò il notaio, lanciando un’occhiata alla
moglie, immobile sulla sedia di fronte a lui.
Era sul punto di spronarla a formulare una propria ipotesi sul discorso
che stavano portando avanti, quando si rassegnò alla triste
evidenza che la donna continuava a vivere su di un altro pianeta,
lontana dalle mere preoccupazioni economiche e materiali del consorte.
“Quando verrà il momento, contate pure sulla mia
presenza” gli promise il conte Caccia, distraendolo
dall'intima delusione.
“La verità è che non posso permettermi
di trascurare ulteriormente i miei impegni lavorativi, don
Aldo” proseguì imperterrito l’uomo,
pulendosi nervosamente l’angolo della bocca con il tovagliolo
crema ricamato.
“Come ben sapete, il mio studio si trova in corso di Porta
Genova, nel pieno del centro storico, e temo di poter trovare qualche
brutta sorpresa, quando mi deciderò a rimettervi piede:
lì dentro custodisco tutte le pratiche, i documenti
ufficiali, gli atti giudiziari che, in questi tre mesi, hanno composto
la mia carriera in questa nuova città, permettendomi di
ricoprire un ruolo di rilievo tra le principali professioni novaresi.
Perdere anche solo una minima parte di ciò, significherebbe
senza ombra di dubbio la rovina a breve termine!”
“Ma non penserete che gli Austriaci abbiano avuto il coraggio
di depredare gli uffici e le proprietà private?”
indagò con una punta di innocenza il conte Caccia, le guance
imporporate che divennero quasi del medesimo colore della redingote
corallo.
“No, certo che no, perlomeno è quello che mi
auguro, però il mio discorso era riferito ai disordini
perpetrati ad opera dei nostri soldati allo sbando: lo sappiamo tutti,
purtroppo, delle maldicenze che corrono di casa in casa in questi
ultimi giorni. Persino la vostra servitù, donna Rosa, ha
udito storie al limite della credibilità su ciò
che è accaduto per le strade della nostra città,
già la notte prima degli scontri, e si sa che vox populi vox Dei!”
“Io non mi preoccuperei più di tanto”
s’intromise la parte in causa, recuperando una certa dose di
autocontrollo.
“Se andare a controllare le vostre proprietà vi
farà stare più tranquillo, non sarò
certo io ad impedirvelo, caro Armando, ma non ho vergogna ad ammettere
che sarei molto più tranquilla se, una volta appurato il
buono stato del palazzo e del vostro ufficio, deciderete di rimanere
nostri ospiti fino a quando le acque non si calmeranno
definitivamente”
“D’accordo ma …”
tentò di ribattere il notaio.
“Molto bene, adesso che abbiamo trovato una soluzione,
possiamo terminare la colazione …”
sancì zia Rosa, ponendo al centro della tavola il piatto di
porcellana francese con i biscotti ripieni di limone
e cannella.
“Scusatemi, non mi sento molto bene”
annunciò improvvisamente donna Luisa, che si alzò
da tavola e uscì dalla sala da pranzo, seguita dagli sguardi
dei commensali.
Tutti quei discorsi campati in aria, infatti, l’avevano
ancora di più subissata tra le tenebre della cupa quanto
profonda malinconia, rendendola sorda e disinteressata alle terrene
preoccupazioni del marito.
Costanza era seduta in giardino, su un'isolata panchina di ferro e di
legno, riparata da un'imponente quercia.
Il sole era tiepido, ma l’aria si stava riscoprendo
piacevolmente frizzante: quel pomeriggio aveva deciso che sarebbe
ritornata a cercare la suora, con o senza l’aiuto di Pietro.
Era convinta, infatti, che se fosse riuscita a mettersi in contatto con
il fratello e a persuaderlo a fare ritorno in famiglia
–condizioni fisiche permettendo- il padre avrebbe rivalutato
la propria decisione di ritornare nell’immediato a palazzo,
in modo da concedere a Nicolò tutte le amorevoli cure che
zia Rosa avrebbe di certo confezionato per la sua completa guarigione.
“Posso sedermi vicino a voi?” la voce squillante di
Federico, un completo di lana grigio perla, la indusse a girarsi nella
sua direzione.
Cercando di tenere a bada il disgusto che provava, distolse lo sguardo,
concentrandolo sul lungo abito cobalto, quindi accennò ad
alzarsi.
“E’ tutta vostra, stavo giusto rientrando in casa
…” spiegò amara la ragazza, invitando
il cugino a prendere posto.
“Vi ho per caso fatto qualcosa?”
Federico la bloccò per un braccio, la figura atletica di
fianco alla sua: fissò gli occhi color ambra in quelli verdi
di lei, in attesa di una risposta.
“Nulla, perché avreste dovuto?”
continuò sprezzante, riuscendo a divincolarsi.
“Ah, ora capisco a cosa state alludendo! Siete rimasta offesa
perché sabato non vi ho portato a fare il giro turistico per
le cantine del palazzo, come invece vi avevo promesso! Ma non temete,
possiamo rimediare anche subito!”
Il conte la stava già invitando, senza troppi complimenti,
verso l’ingresso della dimora, quando lei gli disse che non
le interessava affatto, anzi, aveva solamente desiderio di rientrare in
casa.
“Peccato, sono sicuro che vi sarebbero piaciute”
proseguì l’altro, ignorando il resto della frase e
continuando nel suo monologo.
“Allora direi che, data la nostra giovane età e il
grado di parentela che ci unisce, sarebbe il momento di darci del tu.
Non credi, cugina?”
Costanza guardò il sorriso bianco e regolare far capolino
dalla bocca del ragazzo, i capelli castani che rilucevano alla scarsa
luce solare.
“Preferirei di no. Sapete, con i traditori non voglio avere
nulla a che fare”
“Di cosa state parlando?” la rincorse Federico,
mentre l’altra si allontanava.
“E’ colpa di quelli come voi se mio fratello ha
deciso di arruolarsi! Gente senza scrupoli, opportunisti, disertori
senza un briciolo di umanità, disposti a vendere il proprio
Paese al migliore offerente, per il solo gusto di vederlo sconfitto per
chissà quale assurda ragione! Siete solo degli ignavi, ecco
quello che siete!”
Il giovane la costrinse a girarsi e a guardarlo negli occhi, mentre
tentava di non far trapelare la crescente rabbia che avvertiva
pungergli le mani.
Quindi, sibilando minacciosamente, le storse un polso:
“Voi siete una sciocca, invece, un’ingenua tra le
più stupide! Cos’è, mio fratello e i
suoi amichetti vi hanno inculcato i loro inutili ideali?”
Costanza lo colpì in pieno volto, non riuscendo a trattenere
la collera per quelle insulse parole.
“Complimenti …” scherzò
Federico, massaggiandosi la guancia "ma tanto è inutile,
continuerete a non capire che tutto ciò che è
accaduto è stata colpa delle vostre inutili e deviate
convinzioni! Se invece di predicare un mondo libero, Pietro e i suoi
compari si fossero concentrati e adoperati per trovare una soluzione
alternativa, a far rimanere le cose come erano prima della denuncia
dell'Armistizio, a quest'ora vostro fratello e migliaia di altre
persone invasate come lui non sarebbero morte per uno stupido capriccio
del nostro amato ex sovrano!”
“Mio fratello non è morto!”
abbaiò adirata, mentre le lacrime cominciavano a rigarle il
volto.
“E voi come fate ad esserne così
sicura?!” continuò a pungolarla, mentre una luce
di rivincita attraversava il suo sguardo.
“Io non vi permetto di insinuare una bestemmia del genere e
…”
In quel momento, il rumore della campanella alla porta sciolse i due
dalla tensione che li stava divorando.
Si voltarono in direzione della cancellata in ferro, dove un uomo
vestito di nero attendeva di poter entrare.
“Ma è il maestro Rossini …!”
lo riconobbe Costanza, immobile vicino al cugino.
“E chi sarebbe? Come fate a conoscerlo?”
s’informò l’altro, sospettoso.
Il maggiordomo in età avanzata -uno dei pochi domestici
rimasti a palazzo Caccia- li raggiunse proprio in quel momento,
recandosi all’ingresso con aria composta, per sentire cosa
volesse lo sconosciuto.
Ritornò pochi istanti dopo e, rivolgendosi alla ragazza, le
comunicò quasi con partecipazione:
“Quell’uomo dice di avere notizie di vostro
fratello, signorina. Lo posso fare entrare?”
Lei deglutì, indecisa sul da farsi: alla fine,
però, si arrese entusiasta e acconsentì a
vederlo, la felicità che rischiava di farle scoppiare il
cuore e la mente.
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Capitolo 31 *** Uno spettro di nome Nicolò ***
A
volte allontanarsi è l’unico modo di essere
lì per qualcuno.
(Wesley
Eisold, cantante, musicista, poeta e autore americano, 1979)
Costanza
si affrettò ad andare nella direzione del nuovo arrivato,
l’alto cancello di ferro battuto che si era aperto pochi
istanti prima grazie alla sollecitudine del maggiordomo, mentre
Federico la seguiva irritato alle calcagna.
“Pretendo
delle spiegazioni, cugina! Non potete permettervi di far entrare in
casa mia un perfetto sconosciuto!” continuava infatti ad
infastidirla, pochi passi dietro di lei.
La
ragazza si fermò un istante, lanciò
un’occhiata speranzosa verso l’ospite, accennando
con la mano di avere ancora un attimo di pazienza, quindi si
voltò per fronteggiare la stazza atletica di Federico,
l’espressione degli occhi ambrati guardinga e un ciuffo di
capelli castani fuori posto.
Doveva
trovare al più presto una scusa qualunque per levarsi di
torno la presenza ingombrante del conte, ma la sua testolina preda
delle emozioni più disparate non riusciva a trovarne alcuna
credibile, per cui alla fine optò per la
verità, seppure leggermente manomessa.
“Se
solo non foste così dannatamente borioso, caro cugino, la
vostra memoria ne gioverebbe, credetemi! Quell’uomo
è il mio insegnante di musica, il maestro Rossini, che voi
avete avuto l’onore di conoscere qualche tempo fa, durante un
pranzo a casa della mia famiglia. Gli ho scritto ieri mattina per
chiedergli se avesse avuto notizie di mio fratello, dal momento che
è stato un ufficiale di cavalleria e ha la fortuna di
conoscere personalmente tanti valorosi combattenti, una fortuna che
sono sicura voi non possedete”
Federico
continuò a scrutarla con fare sospettoso e innervosito,
tuttavia non aveva intenzione di invischiarsi in un’inutile
scenata nel giardino del palazzo, sotto gli occhi dei genitori e di
quel ficcanaso di Pietro.
“D’accordo”
si arrese platealmente, la voce in falsetto “avete vinto voi,
mia scaltra Costanza! Vi lascerò da soli, ma se vengo a
scoprire che la mia innocente cuginetta insieme a quella specie di
beccamorto tramano in casa mia, state pur certa che ve la
farò pagare assai cara! Ora, con il vostro permesso, andrei
a ritirarmi …”
Il
giovane si abbassò in un galante inchino, quindi si
accomiatò per dirigersi verso l’entrata della
dimora, approfittando ogni due passi per girarsi e sbirciare ancora una
volta le due figure ormai distanti.
Il
maestro Rossini, grazie al Cielo, non aveva mentito quando si era
presentato con la promessa di avere notizie di Nicolò:
quella stessa mattina, infatti, si era recato in ospedale per
rintracciare il giovane disperso, dopo che Pietro gli aveva
segretamente scritto il pomeriggio precedente.
“Il
giovane conte Caccia è un ragazzo di nobili sentimenti: era
assai preoccupato per le sorti della vostra famiglia”
continuò a spiegare l’uomo, seduto sulla stessa
panchina di pietra su cui aveva preso posto la sua interlocutrice.
“Così,
dopo che l’altra sera ci siamo incontrati per caso al circolo
–e sapete a cosa mi riferisco- abbiamo cominciato a parlare e
a raccontarci tutto ciò che ci era accaduto in
quest’ultima settimana …”
Il
musicista, infatti, quando i Granieri si erano trasferiti a palazzo
Caccia ormai sei giorni prima, aveva abbandonato la dependance per
rifugiarsi nella villa della nobildonna che lo aveva accompagnato a
teatro a vedere l’opera lirica Il barbiere di Siviglia,
ormai settimane addietro, e di cui Costanza si ricordava vagamente i
tratti.
“Ma
non sono qui per raccontarvi di me, cara ragazza!”
tagliò corto il nuovo venuto, stringendo le mani di Costanza.
“Nicolò
è vivo! Ho parlato con una suora, la stessa che Pietro mi ha
detto avete incontrato due giorni fa, scusandosi per non avervi rintracciato come aveva promesso, ma era stato vostro fratello a impedirglielo, perché non voleva farvi preoccupare inutilmente! Mi ha confessato che è
stato operato ad un braccio dopo aver contratto una
brutta infezione che rischiava di mandarlo in cancrena. Ma adesso sta
bene, a parte il fatto che non vede ancora molto …”
“Che
cosa vuol dire?” si rianimò la giovane, felice per
aver finalmente saputo che il fratello era vivo e, tutto sommato, in
salute.
“Sembra
che una granata gli sia scoppiata a pochi metri di distanza: le schegge
gli hanno tagliato il cuoio capelluto e, non si sa come sia stato
possibile, devono aver danneggiato anche gli occhi. Ma non temete,
è assai probabile che sia solo una cosa passeggera, che
addirittura riprenderà a vedere meglio di prima!”
tentò di consolarla, sorridendo fiducioso.
“Potete
accompagnarmi da lui?” domandò, facendo finta di
non aver udito l’ultima parte della spiegazione.
“Oh
sì, certamente. Adesso?”
Costanza
annuì, mentre dedicava qualche fugace occhiata in direzione
del palazzo dietro di loro, per capire se quel ficcanaso di Federico
fosse intento a spiarli.
“Ascoltate,
avete presente quel giovane con cui stavo parlando, proprio durante il
vostro arrivo? Ebbene, lui è …”
“Vostro
cugino, certo, l’ho già incontrato a palazzo
Granieri, ma che cosa vi preoccupa?” indagò con
una punta di ironia l’uomo, facendo spallucce.
“Credo
che lui sia in combutta con gli Austriaci: durante il coprifuoco
è stato l’unico della famiglia che è
potuto uscire indisturbato e tornare dopo diverse ore, nonostante alla
madre avesse raccontato che si era semplicemente rintanato in
biblioteca! Inoltre, ha ottenuto un permesso speciale per far
trascorrere qui a palazzo la Pasqua ad una lontana zia. Tempo fa ho
visto che litigava insieme a Nicolò, e poi Pietro non ha una
buona opinione di lui! Se aveste sentito i discorsi con cui ha cercato
di convincermi, non avreste alcun dubbio, credetemi! Ho
persino dovuto inventarmi che siete stato un ufficiale di cavalleria,
pur di levarmelo dai piedi!”
Il
maestro Rossini la rimproverò con lo sguardo: affibiargli la
pessima nomea di graduato insensibile alla vita dei suoi uomini, lo
fece infuriare per un lungo istante, ma poi decise bonariamente di
sorvolare.
Le
pose una mano sulle sue, congiunte in grembo e adagiate
sull’abito azzurro, rassicurandola sul fatto che Federico non
avrebbe rappresentato alcun problema né per la loro
associazione né tantomeno per le loro idee.
“Ora
possiamo andare?” si alzò l’altro,
invitandola a fare altrettanto.
“Aspettate
ancora un attimo, vi prego. Prima mi avete detto che voi e Pietro vi
siete incontrati al circolo: avete notizie degli altri affiliati?
Insomma, so di non conoscerli, a parte Maffucci, ma mi piacerebbe
sapere che stanno tutti bene …”
L’uomo
distolse per un breve istante lo sguardo, puntandolo lungo il vasto
perimetro del giardino che li stava ospitando.
“Non
lo sappiamo, non sappiamo quasi nulla di nessuno di loro” si
decise a spiegare, ritornando a sedersi.
“E’
pericoloso ritrovarci nell’appartamento sfitto che era il
nostro covo, e anche il circolo potrebbe rivelarsi una trappola
mortale. Probabilmente molti dei ragazzi si sono arruolati, ma
potrebbero essersi dati alla macchia, fuggiti chissà dove in
attesa che le acque si calmino. I giornali riportano che la situazione
a Torino è assai drammatica, il governo liberale di Giolitti
è allo sbando e l’abdicazione di Carlo Alberto non
è stato di certo un colpo magistrale per la nostra
già acciaccata monarchia … mi spiace non potervi
dare notizie più solide, ma la cosa importante è
aver ritrovato vostro fratello! Non pensate anche voi?”
“Mi
avete reso davvero felice, non potete immaginare quanto! E’
solo che vorrei che anche altre persone potessero sentirsi come mi
sento io, in questo momento”
"Siete molto generosa, ragazza mia, però sarà
meglio affrettarci, altrimenti calerà presto il buio:
venite, ho la carrozza proprio qui fuori!"
Rivedere
l’ingresso mastodontico dell’ospedale le incuteva
lo stesso timore di appena due giorni prima: tuttavia, a tale
sentimento si aggiungeva l’incertezza di non sapere che cosa
si sarebbe trovata davanti, soprattutto a chi si sarebbe
trovata davanti, e quali possibili reazioni avrebbe comportato
l’incontro con l’amato fratello.
Il
cuore era in tumulto, le mani guantate preda dell’agitazione
fisica e le tempie le pulsavano per la gioia e la paura che la stavano
travolgendo.
L’insegnante
di musica le aveva domandato se voleva che l’accompagnasse
all'interno, ma Costanza sentiva di dover compiere da sola
quell’immane passo: adesso che stava percorrendo il lungo
corridoio intonacato di bianco, la ragazza avvertiva che
c’era qualcosa di diverso dall’altra volta, e
rintracciò quella mancanza nel silenzio che avvolgeva ogni
cosa.
Nessun
grido di dolore, nessun lamento, nessuna supplica disperatamente
invocata la stava scortando nel suo viaggio verso il capezzale del
fratello, solo la figura anonima e scarsamente rassicurante di una
giovane suora dalla veste immacolata.
“Eccoci,
signorina, siamo arrivate”
Costanza
annuì alla donna di Chiesa, che le sorrise e le disse di
accomodarsi.
“Quanto
tempo potrò stare?” domandò titubante
la ragazza.
“Alle
sei verrà distribuita la cena. Se volete fermarvi fino a
quell’ora e aiutare vostro fratello a mangiare, potete farlo,
a patto che non lo stanchiate”
L’altra
le disse che ci avrebbe pensato, che quasi sicuramente si sarebbe
fermata.
Quindi
la ringraziò e si accinse ad abbassare la maniglia della
porta, l’intelaiatura di legno con una grande, doppia vetrata
centrale.
La
figlia del notaio avanzò cautamente oltre la soglia, un
brivido freddo che le percorse la schiena.
Si
sentiva la gola secca ed avvertiva una strana sensazione di
smarrimento: scorse con lo sguardo perso le mura che la ospitavano,
alla ricerca del fratello.
Dopo
una manciata di giri a vuoto, finalmente lo vide, o perlomeno le
sembrò di riconoscerlo.
Nicolò
era sdraiato in un letto lungo e largo, le lenzuola macchiate di giallo
in alcuni punti: aveva gli occhi chiusi e la testa fasciata, con le
bende sporche di sangue e il braccio sinistro che aveva assunto
un’innaturale angolazione, anch’esso avvolto in
garze all’apparenza più pulite.
Costanza
procedette titubante verso di lui, stringendosi al petto la pochette in tinta
con l’abito azzurro tenue.
In
quello stanzone, constatò stupita, dovevano esserci almeno
una ventina di uomini: c’era chi era più moribondo
degli altri, chi era intento a guardare verso la finestra o a parlare
sommessamente con i parenti, chi invece riposava pacifico.
La
ragazza aveva atteso talmente tanto quel momento che quasi non credeva
che fosse finalmente arrivato: si avvicinò al capezzale del
fratello, emozionata, e si sedette su uno sgabello di legno
lì vicino.
Gli
accarezzò dolcemente un braccio, indecisa su come
approcciarsi: il gesto indusse il giovane a rivoltarsi nel letto,
agitandosi inutilmente.
Quando
aprì gli occhi, infatti, sembrò non riconoscerla.
“Chi
siete?” domandò con un filo di voce, aggrottando
le sopracciglia per mettere a fuoco la nuova venuta.
Aveva
il volto emaciato e livido, a causa delle tumefazioni che deturpavano
la pelle, e le labbra erano screpolate e ricoperte da minuscoli tagli
in più punti.
La
sorella rimase in silenzio per qualche secondo: non sapeva che cosa
dirgli, non sapeva neppure se fosse giusto rimanere o, forse, se
sarebbe stato meglio scappare per ritornare un’altra volta,
quando la mente sarebbe stata preparata a ciò che avrebbe
visto.
Che cosa sto dicendo? Non posso
abbandonarlo, non posso trasformarmi in una vigliacca proprio in questo
momento, si disse amaramente, per cui trovò il
coraggio di rispondergli.
“Sono
io, Nicolò … sono Costanza. Come stai?”
“Costanza?!
Cosa ci fai qui? Ti prego, vattene, non voglio che tu mi veda in queste
condizioni!” l’altro riprese ad agitarsi, intuendo
dalla voce roca che la ragazza era sul punto di piangere.
Tentò
di mettersi a sedere e di cacciarla con una mano, ottenendo come unico
risultato quello di muovere l’aria viziata che li circondava.
“No,
invece, non me ne andrò! Ti ho cercato tanto in questi
giorni, ho sperato che fossi ancora vivo e che non ti fosse accaduto
nulla di male” continuò l’altra,
cercando di stringergli il braccio sano.
“Sono
venuta lunedì, lo sai? Volevo sapere se ti avevano portato
in ospedale, ma non mi hanno permesso di vederti perché
ancora non sapevano se eri tra i feriti”
“Lunedì
…” biascicò Nicolò,
distogliendo lo sguardo affaticato “non so neppure che giorno
sia oggi”
“E’
mercoledì, oggi è mercoledì
… fuori c’è il sole, c'è un
sole tiepido e l'aria è frizzante. Pensa che il sabato di
Pasqua ha persino nevicato, non lo trovi buffo?!”
tentò di farlo sorridere, non riuscendoci.
“Non
m’importa. Anzi, vorrei solo che questo mondo finisse, allo
stesso modo di come la mia vita è ormai finita
…”
Nicolò
si portò la mano destra sugli occhi, quindi voltò
nuovamente la testa dalla parte opposta di Costanza.
“Non
devi dire così! La tua vita non sarà mai finita,
almeno fino a quando resteremo insieme! La mamma e il papà
ti aspettano a casa, così come gli zii e Pietro! Sai, ho
scritto due lettere alla nonna, ma non le ho parlato di te, per non
darle un dispiacere: devi
rimetterti in sesto per lei,
per noi, ma soprattutto per te! Sono convinta che ritornerai a
vedere, che dimenticherai tutto quello che è successo! Ma
devi crederci, hai capito?”
“Non
potrò mai dimenticare. Il braccio mezzo maciullato e i miei
occhi praticamente ciechi mi impediranno di farlo. Adesso, ti prego,
sono stanco, lasciami da solo” commentò cinico,
cercando di mascherare l’amarezza che aveva preso il
sopravvento.
“Aspetta
ancora qualche minuto … ho ancora tante cose da
dirti!”
“Io
invece no. Vattene, maledizione, vattene! E non tornare mai
più!” le urlò rabbioso.
Cercò
nuovamente di tirarsi su, ricadendo subito dopo sul cuscino per la
stanchezza e la debolezza degli arti.
Costanza
si alzò dallo sgabello, le lacrime che scendevano copiose:
fissò per un lungo istante il fratello, disilluso e
dimagrito, facendo fatica a riconoscere in quell'ammasso di carne, ossa
e nervi la stessa persona piena di ideali e caparbietà che
aveva abbandonato la loro casa.
Si sentì persa, affranta, impotente, incapace di essergli
d'aiuto e di comprenderlo fino in fondo.
Non le rimase altro che uscire dalla stanza con un senso di sofferenza
mai provato prima, la speranza alle spalle.
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Capitolo 32 *** Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio ***
L'invidia
è una buona stoffa per confezionare una spia.
(Victor Hugo, 1802-1885,
frase tratta da "L'uomo che ride", 1869)
“Allora?! Come è andata?” volle sapere
il maestro Rossini, non appena vide emergere Costanza da uno dei
numerosi portici.
L’aveva
attesa nel cortile dell’ospedale, per permettere alla ragazza
di parlare in tutta tranquillità con il fratello, sperando
che l'incontro sarebbe andato per il verso giusto.
Adesso,
sebbene mancassero ancora un paio d’ore al tramonto, il sole
si stava abbassando all’orizzonte, disegnando numerose e
allungate ombre che costeggiavano il perimetro rettangolare della
struttura.
L’uomo
si strinse nelle spalle e le andò incontro, reprimendo un
brivido di freddo percorrergli la schiena.
“Mi
ha mandato via … non vuole vedere nessuno” rispose
disperata, smorzando qualsiasi espressione di entusiasmo
dell’uomo.
“E’
comprensibile. Voglio dire, immagino sia ancora stanco per
l’operazione e provato per ciò che ha visto e
sentito…” tentò di incoraggiarla, un
sorriso affabile sul volto pallido e profumato.
“Apprezzo
le vostre parole, ma adesso vorrei solo tornare a casa: non ha senso
rimanere qui”
La
ragazza si avviò verso la Landau nera, precedendolo di
qualche passo: l’unica cosa che desiderava, infatti, era
allontanarsi il più velocemente da quel luogo di morte,
dimenticandosi di come Nicolò l’aveva trattata, e
dell'odio che le aveva riversato contro.
Il
pensiero, o meglio, la certezza che quella specie di spettro fosse
proprio il suo amato fratello maggiore, l’aveva a dir poco
destabilizzata: si era sentita un nemico da combattere, e si
ritrovò a riflettere su quanto la vita si rivelasse beffarda
e piena di preoccupazioni, su quanto il Destino fosse l’unico
artefice dell’esistenza umana, e su come tutti sulla Terra,
nessuno escluso, rappresentasse un insignificante burattino senza reale
autonomia di scelta, le cui fila invisibili venivano costantemente
tirate da altrettante mani tanto potenti quanto intangibili.
Una
volta saliti sulla carrozza, Costanza si sforzò di lasciar
naufragare quell’effluvio meditabondo che le arrecava
solamente dolore, escogitando già un nuovo piano per far
cambiare idea a Nicolò.
Il
musicista, sul sedile di fronte al suo, si rivolse al cocchiere
–un uomo sulla sessantina, i capelli folti e bianchi e un
paio di occhiali con le lenti rotonde- per intimargli di riprendere il
cammino verso il palazzo, quindi continuò la
conversazione con la ragazza.
“Sono
sicuro che se tornerete tutti i giorni, vostro fratello
riuscirà a riacquistare la fiducia perduta. Dategli tempo,
gli serve solamente questo…” le
suggerì, consolandola con un sorriso comprensivo.
“Come
farò a raccontare ai miei genitori che il loro unico figlio
non vuole più vederli? Che è in un letto di
ospedale, vivo per miracolo, pieno di rabbia e rancore verso il mondo
intero?!” si sfogò la giovane, scuotendo il capo e
gesticolando rassegnata.
“Non
diteglielo, non è necessario” rispose
semplicemente l’altro, scrollando con ovvietà le
spalle.
“Cosa
state dicendo? Voi non avete visto come si è trasformata mia
madre, in questi ultimi giorni! E’ diventata il fantasma di
se stessa! Non parla, quasi non mangia! E mio padre? Continua a non
voler sentire pronunciare il nome di Nicolò! E’
orribile, è tutto orribile da sembrare irreale!”
Costanza
si abbandonò ad un pianto liberatorio, cullata dal moto
ondulatorio della carrozza.
Il
maestro Rossini esitò un solo istante, indeciso se lasciarla
sfogare, ma alla fine cedette a confortarla: le si sedette vicino e,
cingendole le spalle, accarezzò la sua testa ricciuta e
scura con gesti paterni.
“Non
ho detto che non dovete renderli partecipe di questa meravigliosa
notizia. Dite semplicemente loro che Nicolò sta bene, che
è rimasto ferito, ma che è vivo”
“Ma
se mi chiederanno di vederlo? Che cosa dovrò
rispondere?!” continuò imperterrita, alzando il
viso rigato di lacrime.
“Che
non è ancora possibile. Che l’ospedale
è talmente affollato da essere impraticabile
l’ingresso ai parenti!”
s’inventò il musicista, sorridendo soddisfatto.
La
ragazza scosse il capo, abbozzando una smorfia divertita.
Si asciugò il volto con il dorso delle mani guantate,
imbarazzata per aver ceduto allo sconforto e vergognandosi di
mostrarsi ancora così debole di spirito.
“Ora
capisco come avete fatto a mentire per tutto questo tempo: avete un
talento naturale per le bugie”
“Grazie,
mia cara, lo prendo come un complimento” stette al gioco
l’uomo, facendo finta di inchinarsi.
Poi,
recuperò da una tasca dei pantaloni neri un fazzoletto
ricamato, e lo porse a Costanza.
“Tenete:
sarò anche un bugiardo, ma detesto veder piangere una
fanciulla tanto graziosa come voi…”
Lei
lo guardò e sorrise, il quadrato di stoffa tra le mani.
“Ma
dove siete stata?” la rimproverò Pietro, in attesa
sulla porta d’ingresso del palazzo: non appena aveva visto
arrivare una carrozza, si era precipitato fuori, sperando che fosse la
cugina.
“L’ho
trovato! E’ vivo, è vivo!”
confessò Costanza, stringendolo in un abbraccio
d’entusiasmo.
“Avete
trovato Nicolò?! E come sta? E’ in
ospedale?” incalzò l’altro, ricambiando
con trasporto il gesto della ragazza.
“Sì,
è lì, ma è rimasto ferito: ha un
braccio operato, che a causa di un’infezione rischiava di
andargli in cancrena. E poi ha dei problemi alla vista: i suoi occhi
non sono ancora completamente a posto …”
“In
che senso?” continuò l’altro,
indirizzando uno sguardo apprensivo verso il maestro Rossini, qualche
passo indietro rispetto alla giovane.
“Una
granata lo ha colpito alla testa e, a quanto pare, anche agli occhi:
quando mi sono seduta accanto a lui, non mi ha neppure riconosciuta
… “
Costanza
non voleva rimettersi a piangere: era stanca di lacrime, di dolore e di
tristezza, per cui s’impose di non abbandonarsi al pianto.
“E
cosa dicono i medici? Potrà riprendere a vedere?”
“Non
lo so … non ho visto nessuno, se non delle suore intente a
curare i feriti. Il fatto è che mi ha cacciato: non vuole
vedere nessuno, Pietro, non mi vuole, non desidera la mia compagnia
…!” gli spiegò, mentre scuoteva
incredula la testa.
“Cercate
di dirglielo voi che è una cosa passeggera”
s’intromise il musicista, avvicinandosi di qualche metro.
“Convincetela che Nicolò capirà molto
presto di quanto abbia bisogno della sua famiglia e della loro
vicinanza!”
Il
conte annuì con tutta la convinzione che aveva in corpo,
quindi strinse con tenerezza le spalle della cugina, trasferendole un
po’ della speranza che provava in quel momento.
“Ma
certo, è così! Dovete avere fiducia, non dovete
abbandonare proprio adesso, ricordatevelo! Anzi, sapete cosa facciamo?
Domani mattina vi accompagnerò a trovarlo! Cosa ne
dite?” propose il cugino, gli occhi azzurrissimi in attesa di
un riscontro positivo.
Lei,
inizialmente titubante, alla fine annuì: non sapeva
più distinguere che cosa sarebbe stato giusto fare da
ciò che era meglio evitare anche solo di pensare.
Stava quasi perdendo la nozione del tempo, esattamente come era
accaduto a Nicolò, ma in fondo al suo cuore, in una parte
remota della sua coscienza, sapeva che ciò che aveva fatto e
ciò che avrebbe ancora fatto, si sarebbe rivelato fruttuoso
per ricucire il rapporto con lui.
Non poteva e non voleva demordere proprio adesso, altrimenti i suoi
sforzi sarebbero stati vani ed inconcludenti.
“Grazie,
grazie ad entrambi per quello che avete fatto per me e per mio
fratello” confessò riconoscente.
“Oh
figliola, mi farete commuovere!” le regalò un
buffetto affettuoso il maestro Rossini, l’espressione
empatica sul volto glabro.
“Non
vorrete far piangere il nostro valoroso amico, non è vero
cugina?”
Costanza
sorrise mestamente, felice di ricevere tutto quel supporto e quella
dimostrazione di disinteressate premure, un autentico toccasana per il
suo spirito ferito.
“Bene,
allora avrei una proposta da fare anche a voi, caro Rossini: per
festeggiare questo giorno importantissimo, vi invito
ufficialmente a rimanere a cena con noi! Cosa ne pensate? Ah,
sempre che non avete altri impegni, è naturale”
Pietro
si diresse verso il musicista, che annuì entusiasta,
affermando che per la
piccola Costanza avrebbe sempre avuto del tempo da
dedicarle e, stringendosi reciprocamente con vigore e gratitudine la
mano, li invitò ad entrare in casa.
Federico
li stava osservando da diversi minuti, più o meno da quando
aveva avvertito le ruote possenti della Landau fare il proprio ingresso
nella stretta via dirimpetto al palazzo.
Le
tende della biblioteca ancora leggermente spostate, non aveva perso di
vista quei tre che confabulavano: all’inizio, soprattutto
Costanza, appariva nervosa e provata, ma poco prima di scomparire nel
buio dell'ingresso, gli sembrò di udirli addirittura
sciogliersi in una risata liberatoria, almeno dagli ampi sorrisi che si
erano scambiati.
Certo,
doveva ammettere che, dalla posizione in cui si trovava, non poteva
udire con chiarezza l’intero filo del discorso, tuttavia i
volti gli apparivano nitidi e ben visibili, e tanto bastava per
comprendere lo stato d’animo generale.
Sono
sicuro che quei tre nascondono qualcosa … Costanza ha tanto
l’aria di essere una povera e fragile ragazza, una sorta di
monachella intonsa, aizzata da quell’altro stolto di mio
fratello, e l’arrivo improvviso dell’insegnante di
musica non mi convince affatto. Ma scoprirò che cosa stanno
tramando, e allora sì che li avrò in pugno,
soprattutto la mia cara cuginetta.
Il
giovane conte, infatti, non poteva più celarsi dietro una
maschera di estrema cortesia e falsa indifferenza.
Nutriva un debole per la ragazza, la cui bellezza lo aveva ammaliato
soprattutto durante la festa di compleanno di suo padre, don Aldo,
all'inizio del mese: gli occhi verdi, così puri ed intensi,
e i lunghi capelli folti e ricci, gli trasmettevano una sensazione di
pienezza interiore e di desiderio molto simile alla bramosia.
Avrebbe
fatto di tutto per averla e indurla a cambiare idea, era disposto a
giurarlo su qualsiasi cosa o persona!
E
poi, lei non sapeva quanto potere concentrava tra le mani: gli sarebbe
bastata una sola parola per distruggere una volta per tutte
l’odioso Pietro, il primogenito impeccabile e, di
conseguenza, anche la schiera di fannulloni rivoluzionari che
si portava appresso.
La
sua collaborazione con gli Austriaci e la sua appartenenza ad un gruppo
di filo-austriaci, mettevano Federico in una posizione di supremazia
rispetto al resto della famiglia: gli altri compari, certi come lui che
la guerra si sarebbe rivelata l’ennesima sciocchezza
perpetrata da casa Savoia, gli avevano chiesto di denunciare alle
autorità asburgiche qualsiasi sospettato, uomo o donna che
fosse, di tremare contro i vincitori, in modo da sgominare ogni forma
di opposizione o di resistenza.
La
resa dei conti è ormai vicina, caro fratello. E, almeno per
una volta, sarai tu il perdente.
Il
ragazzo si lasciò sfuggire un sorriso di rivincita, quindi
riabbassò le tende e tornò a concentrarsi sui
numerosi scaffali che componevano la biblioteca, alla ricerca di un
romanzo tedesco che aveva adocchiato qualche giorno prima.
NOTA DELL'AUTRICE
Buongiorno carissimi lettori!!
Con questi ultimi tre aggiornamenti pubblicati, sto cercando di essere
il più puntuale possibile, dopo la lunga assenza da EFP!
Dunque, spero che la storia continui a piacervi, e invito tutti coloro
che la leggono e che l'hanno inserita in una delle liste, di farmi
sapere che cosa ne pensano: non manca molto alla fine del racconto, ma
mi farebbe comunque piacere ricevere un vostro parere o
critica!
Bene, nel frattempo ringrazio i miei gentilissimi e adorati recensori
per la loro vicinanza e il loro costante supporto!
A presto!
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Capitolo 33 *** Colpevoli o innocenti? ***
Combattere per un ideale
è semplice,
il difficile
è continuare a sostenerlo quando il gioco si fa duro.
(Anonimo, XX secolo)
La notizia che Nicolò era ancora vivo, seppure ferito,
riportò un barlume di felicità nella famiglia
Granieri e Caccia.
La
madre, donna Luisa, si abbandonò ad un pianto liberatorio,
cominciando a sgranare nevroticamente il rosario di madreperla che
aveva nascosto nel corpetto di ogni abito che indossava, mentre il
notaio si era arreso ad un sorriso che tradiva tutta la sua contentezza
malcelata in quei lunghissimi ed interminabili giorni.
Costanza,
come le aveva suggerito il maestro Rossini, si era mantenuta in una
posizione di assoluta prudenza nei confronti dei genitori e degli zii,
assicurando loro che il fratello versava in buone condizioni, ma che
nessuno di essi poteva ancora fargli visita a causa dei numerosi feriti
e degli spazi angusti che contraddistinguevano l’ospedale che
lo stava ospitando.
All’angoscia
per le bugie che era costretta a raccontare, si sommava la presenza
ingombrante e sospettosa di Federico, sempre in agguato a coglierla in
fallo o a farle notare il più piccolo errore di
comportamento, a volte inventato per il solo scopo di esasperarla.
Ciò,
come prevedibile, non permetteva alla ragazza di rilassarsi
completamente, tuttavia non aveva alcuna intenzione di farsi rovinare
quel meraviglioso momento dai capricci di un nobile viziato e
traditore, per cui si convinse che le sue erano ingenue macchinazioni
dovute alla prolungata stanchezza accumulata in antecedenza.
Nel
frattempo, giovedì 29 marzo, il nuovo sovrano Vittorio
Emanuele II giurò fedeltà allo Statuto Albertino,
la carta costituzionale concessa dal padre appena l’anno
precedente: per non averlo abrogato, venne definito il Re gentiluomo.
Si
era ormai alla fine del mese e, nonostante le miti insistenze del conte
Aldo, don Armando aveva deciso di recarsi senza essere accompagnato in
corso di Porta Genova, dove era ubicato il suo studio notarile.
Si
era giustificato con la scusa –non totalmente infondata- che
aveva bisogno di stare da solo, in modo da constatare gli eventuali
danni e stilare un inventario: in realtà, non voleva
apparire agli occhi dello zio acquisito come una persona fragile, ma
tremava al pensiero che gli Austriaci, o peggio ancora qualche manipolo
di sbandati dell’Esercito sabaudo, avesse distrutto il suo
sogno degli ultimi mesi.
Per
la prima volta da quando si era trasferito a Novara, immediatamente
dopo Natale, accettando così l’eredità
del suocero, un fugace pensiero gli balenò nella mente,
precario quanto impalpabile da essere quasi rimosso
all’istante, ovvero ritornare senza indugi a Santa Maria
Maggiore.
Non
poteva negare la tristezza che aveva notato crescere e maturare nella
figlia, marcando i contorni del volto della sua adorata Costanza, la
quale era apparsa fin da subito contrariata a quella repentina
decisione che aveva comportato il trasferimento nella nuova
città, ma gli interessi economici e il desiderio
tutt’altro che recondito di acquisire una certa dose di
riconoscimento sociale avevano spinto l’uomo a sorvolare le
deboli proteste della moglie e della secondogenita.
L’unico
che aveva nutrito un certo entusiasmo per la novità era
stato Nicolò, così giovane, così
estroverso, così sincero, a volte fin troppo …
“Vorrei tanto poterlo rivedere
presto … vorrei dirgli che mi dispiace per come
l’ho trattato, per come sono andate le cose tra di noi, che
rimarrà sempre mio figlio ed io suo padre, e che niente e
nessuno potrà cambiare ciò che siamo
l’uno per l’altro”
Il
lento rallentare della carrozza lo indusse ad accantonare quei pensieri
così intimi, sebbene si ripromise che avrebbe fatto di tutto
per andare a riabbracciare Nicolò quanto prima.
Scese
dalla vettura che erano le dieci di un mattino soleggiato,
caratterizzato da una calma incredibilmente piatta, quasi sospesa: il
cielo era sgombro di nuvole, una lunga pennellata di un azzurro
accecante e rassicurante al contempo.
Il
notaio si sistemò il bavero del cappotto di lana inglese blu
notte che aveva indosso, quindi si tolse il cappello di feltro che gli
copriva la nuca bionda e diede un’occhiata timorosa in
direzione dell’elegante palazzo che si ergeva a pochi metri
da lui, sentendosi avvampare per il caldo e l’emozione.
Si
girò un istante, promettendo al cocchiere che avrebbe
cercato di non impiegarci troppo, e finalmente si incamminò
verso il grande portone di legno massiccio scuro che lo reclamava come
fosse stato una calamita.
La
punta del suo bastone batteva timidamente sul lastricato di
sampietrini, fino a quando si ritrovò a calpestare
l’elegante pavimento di marmo che formava l’atrio
dell’ingresso.
Lo
stabile era interamente occupato da altri uffici come il suo, quindi
non si stupì nel vedere che non ci fosse anima viva ad
incrociare i suoi passi.
D’altronde,
l’intero corso, una volta brulicante di passanti, pulsante di
vita, animato dal rumore degli zoccoli e dalle ruote delle carrozze e
dei carretti sul selciato, adesso appariva incredibilmente diverso: don
Armando aveva tristemente notato come la quasi totalità dei
lussuosi locali che si aprivano ai lati della strada fossero ancora
chiusi.
Anzi,
per la verità, la metà di essi, almeno ad
un’occhiata sommaria, riportava ancora i danni degli scontri
avvenuti nella notte tra il 23 ed il 24 marzo scorsi, sebbene la gente
avesse timorosamente ripreso a riversarsi per le vie, l’aria
guardinga che caratterizzava i volti forzatamente naturali dei passanti.
L’uomo
indugiò per qualche istante sulla soglia del portone,
voltandosi ad osservare la chiesa della Santissima Trinità
al Monserrato, la facciata biancastra ed imponente, la gradinata di
pietra ed il campanile stretto ed allungato che svettava contro il
cielo decisamente primaverile.
Aveva
necessità di un conforto morale, di qualcosa che lo
spingesse a salire al secondo piano per constatare se
l’ufficio fosse ancora agibile.
Solo
in quel momento, però, il notaio si accorse di un volantino
che era stato affisso lungo il muro adiacente la costruzione religiosa,
spiegazzato e arricciato in un angolo in basso.
Si
avvicinò con cautela, attraversando la strada e scansando un
paio di coppie a passeggio, fino a quando si ritrovò faccia
a faccia con le parole impresse sulla carta in simil pergamena:
Il Re Tentenna ha abbandonato la barca, lasciando che affondasse tra le
mani inesperte dei giullari di corte, ed ora il testimone è
passato al figlio.
Fratelli,
sorelle! Se anche voi siete stanchi del potere che da troppo tempo
è incentrato nelle mani di un’inutile dinastia
francese, allora ribellatevi insieme a noi! Sconfiggeremo il nemico,
Savoia o Austriaco che sia, e ci riprenderemo le nostre esistenze
brutalmente deturpate e rubate!
W
la Libertà!
Don Armando rimase una manciata di secondi a fissare il documento di
protesta, semplice quanto incisivo, sbattendo le palpebre e corrugando
le sopracciglia, l’espressione contrita ma anche ammirata: se
non avesse avuto la certezza che Nicolò si trovasse ferito
in un letto di ospedale, avrebbe potuto benissimo credere che quelle
parole fossero state scritte o dettate da lui.
Ma
poi si ricordò della passione che il figlio nutriva nei
confronti del re
Tentenna, il vecchio Carlo Alberto in esilio in
Portogallo, e un sorriso amaro gli solcò il viso glabro,
riflettendo su come conoscesse poco i pensieri più personali
del primogenito, e per questo si ripromise che avrebbe rimediato anche
a tale aspetto.
Il
notaio lanciò ancora un’occhiata al manifesto
rivoluzionario, in cuor suo orgoglioso del coraggio che avevano
mostrato quegli sconosciuti nel decidere di affiggerlo, quindi fece
dietrofront e si accinse a ritornare sui propri passi, quando la sua
attenzione venne nuovamente attirata da un manipolo di Guardie Civiche
in perlustrazione, che si muoveva a gruppetti di due o massimo tre
soldati: erano giovanissimi, probabilmente appena diciottenni, e
fissavano con ostilità repressa e solennità
chiunque capitasse nel loro campo visivo.
Una
morsa allo stomaco indusse l’uomo a non indugiare oltre,
domandandosi come si potesse arrivare ad arruolare dei ragazzi che
erano poco più che bambini.
Lasciò
che la schiera imberbe passasse, dedicando loro un raro sguardo a
processione finita, mentre avvertiva l’amarezza impossessarsi
di lui.
Quando
aprì la porta del suo studio, la chiave
dall’impugnatura dorata che tentennava nel palmo e si univa
alla serratura in un meccanico abbraccio, don Armando tirò
un sospiro di sollievo: la stanza era rimasta intatta ed uguale a come
l’aveva, per così dire, salutata qualche giorno prima.
Le
tende pesanti e bianche lasciavano entrare i caldi raggi solari,
facendo volteggiare il pulviscolo che si era accumulato sugli oggetti,
le vetrine della libreria che proteggevano i tomi di diritto romano
erano ancora lì, così come la massiccia scrivania
di mogano, l’elegante quanto solida poltrona ed i mucchi di
scartoffie e documenti ordinatamente impilati sul piano di lavoro.
Accarezzò,
sfiorandoli timidamente, i quadri di paesaggi alle pareti chiare,
sentendosi pervadere da un’ondata di muto riconoscimento per
non aver subito danni.
Si
sedette sulla poltrona, non resistendo oltre all’impulso di
riportare tutto alla normalità, o meglio, di ricreare una
parvenza di quotidianità che la guerra e ciò che
era accaduto alla sua famiglia sembravano aver cancellato per sempre.
Tirò
un sospiro di sollievo, socchiudendo gli occhi, per poi riaprirli ed
ammirare quell’abituale panorama artificiale che lo
circondava, e stette lì per qualche secondo, le dita
incrociate prima sul grembo e poi sul bordo della scrivania,
abbandonandosi ad un mesto sorriso di esultanza.
Persino
la pendola in un angolo dell’ufficio era stata risparmiata
dai saccheggi che erano stati ingiustamente perpetrati, continuando a
battere ritmicamente i secondi ed i minuti, a ricordare che il tempo
proseguiva a scorrere come se niente fosse, fino a quando
l’uomo decise che non doveva approfittare di quel regalo
inaspettato che il Cielo gli aveva fatto.
Si
alzò soddisfatto dalla poltrona e, abbracciando con lo
sguardo ogni oggetto che arredava la stanza, uscì felice,
richiudendo con delicatezza la porta.
Una
volta in strada, il notaio andò a raggiungere la carrozza
ferma ad un angolo della via, a pochi passi dall’edificio
religioso che si ergeva davanti a lui.
Prese
posto con il cuore più leggero, pronto a fare ritorno a
palazzo e a condividere la bella notizia con il resto della famiglia.
Il
cocchiere aveva già invitato la coppia di cavalli
–due magnifici esemplari dal manto color caffè- ad
avviarsi al trotto, quando l’uomo vide sfilare una mezza
dozzina di giovani uomini ammanettati, uno dietro l’altro, al
loro fianco il rimanente manipolo dei compagni dei soldati che avevano
marciato qualche minuto prima.
I
prigionieri indossavano camicie bianche, il cui candore era stato
sporcato da alcune macchie di quello che sembrava sangue, i volti
stravolti ma solenni, ed i capelli leggermente lunghi che apparivano
come una massa disordinata sulle spalle a tratti incurvate.
Vestivano
la parte inferiore di una divisa, i pantaloni di panno blu scuro
impolverati e strappati all’altezza delle ginocchia, e gli
stivali testimoniavano di aver passato giorni migliori, lerci in punta
e sui tacchi.
Don
Armando domandò al cocchiere di accostare un attimo e si
protese dal finestrino: gli bastò un attimo per comprendere
l’identità di quella affaticata fila indiana, e
avvertì una profonda tristezza stringergli il cuore.
Quei
giovani, infatti, erano i soldati del loro glorioso Esercito,
i disertori, coloro che si erano dati alla macchia pur di non uccidere
e di non farsi uccidere, ma non avevano l’aria minacciosa con
cui erano stati dipinti dalla vox
populi, bensì apparivano semplicemente normali,
fieri ma anche smarriti, lo sguardo alto davanti a sé.
Dove li staranno portando? Li
passeranno sotto le armi? O saranno così clementi da
predisporre un processo? Non riesco a credere che questi stessi giovani
siano stati gli artefice delle scorribande che hanno distrutto la
città. Sembrano innocui, vittime della crudeltà e
della stoltezza di un pugno di uomini.
La
silenziosa schiera passò di fianco alla carrozza,
superandola e degnandola di vaghi sguardi, un paio dei quali
incrociarono gli occhi azzurri del notaio, che li abbassò di
riflesso, vergognandosi di non poter fare nulla per salvarli.
La
felicità che aveva provato fino a qualche istante prima
svanì, tanto da fargli dubitare se l’avesse
davvero provata.
Perché tutto questo
dolore? si domandò, perché la guerra ha
stravolto le vite di ciascuno di loro, strappando quei giovani e molti
altri alle loro tranquille e forse persino monotone esistenze?
“Signore,
posso ripartire?”
La
voce pacata e professionale del servitore –un sessantenne dai
capelli grigi e gli occhiali dalle lenti rotonde- riscosse
l’uomo dalle sue riflessioni.
Indugiò
per cinque, forse sei secondi, per poi acconsentire alla richiesta del
cocchiere, il cielo che si tingeva improvvisamente di nuvole soffici e
incombenti.
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Capitolo 34 *** Una nuova vita ***
Correva il 24 (o 25) di marzo dell'anno 1849, verso sera quando una
misteriosa carrozza entrò in Arona dalla strada per Novara,
lungo quello che è l'attuale corso Repubblica. Nell'attuale
piazzetta Garibaldi, nonostante l'ora e il cattivo tempo, sostava una
piccola folla ansiosa di notizie: il 23 marzo proprio a Novara
l'esercito piemontese si era scontrato con quello austriaco subendo una
completa disfatta. Ad Arona erano giunte fino ad allora solo voci
confuse e quella carrozza non poteva dunque passare inosservata: veniva
da Novara, e per di più al suo interno ospitava alcuni
militari in divisa, due o tre a seconda delle versioni. Uno di loro
esibiva addirittura i gradi di generale, e qualcuno credette di
riconoscerlo: poteva trattarsi di Gerolamo Ramorino, comandante di una
divisione dell'esercito reale. Che ci faceva ad Arona? La voce corse,
giunse alle orecchie delle autorità locali, che ordinarono
alla guardia nazionale […] dapprima di circondare per
precauzione l'albergo della Posta, dove i misteriosi ufficiali avevano
preso alloggio, poi di trarli in arresto. Il generale si
qualificò proprio come Gerolamo Ramorino.
Giustificò la propria presenza in città esibendo
ordini superiori che già a un primo esame si rivelarono
apocrifi. Il 26 marzo giunse a prelevarlo un'imponente scorta militare
che lo condusse alla cittadella di Torino, dove venne processato per
direttissima con la grave accusa di aver causato la disfatta di Novara
disobbedendo alle consegne.
Dire
che la sua disubbidienza avesse causato la sconfitta del Piemonte era
un'esagerazione: anche se non si fosse mosso avrebbe potuto fare ben
poco per bloccare un nemico ben più numeroso. Ma Ramorino
era il capro espiatorio ideale, da dare in pasto all'opinione pubblica
che reclamava un colpevole per il disastro. Alle accuse di
insubordinazione si aggiungeva un altro sospetto: che ci faceva
Ramorino ad Arona? Oltre che un indisciplinato era anche un disertore?
A sentir lui, dopo la battaglia di Novara aveva perso i contatti con il
comando supremo, e lo stava disperatamente cercando. Ma Arona era
davvero troppo fuori mano per potergli credere. Molto probabilmente la
sua meta era la non lontana Svizzera, cioè la salvezza da
una commissione d'inchiesta sul suo operato a Cava Manara. Alcuni
testimoni aronesi, tra cui un milite della guardia nazionale,
riferirono anzi che mentre Ramorino si trovava all'albergo della Posta,
prospiciente il lago, una barca non identificata si era avvicinata a
riva: a bordo c'era solo il timoniere e una specie di grossa botte,
dalla quale improvvisamente erano usciti due uomini. Scorgendo i
soldati schierati intorno all'albergo l'equipaggio del misterioso
vascello aveva però fatto bruscamente dietrofront, e non si
riuscì mai a stabilire se si trattasse di semplici
contrabbandieri, di cui il lago Maggiore allora pullulava, o di
complici venuti a prelevare Ramorino.
(dal
sito internet "Carneade, chi era costui?")
Riuscire ad ottenere delle notizie dall’esterno era
pressoché impossibile, ma nei rari casi in cui il
desiderio di novità faceva
ancora capolino nella mente di Nicolò,
puntualmente l’apatia e la rassegnazione ne prendevano il
sopravvento.
Lo
stanzone in cui era adagiato giorno e notte, e da cui aveva rifiutato
più volte di uscire almeno per distrarsi per qualche minuto,
era diventato la sua prigione.
Costantemente
inondato da un odore malsano che ricordava ondate di disinfettante
misto a corpi umani sudati e non lavati, emetteva un senso di profonda
oppressione: il candore perfetto degli abiti delle sorelle e dei camici
dei medici, alternato al rosso cupo che imbrattava i grembiuli dei
sanitari e le fasciature dei malati, faceva apparire ogni cosa irreale
e al contempo devastante.
Nicolò
non era riuscito a legare con nessuno degli uomini presenti nella
stessa camera: provava un rifiuto totale, un’avversione di
cui non sapeva spiegare la ragione nemmeno a se stesso, ma era come se
ciò che gli fosse accaduto gli impedisse di riconciliarsi
con il mondo, e di conseguenza di riallacciare un qualsiasi tipo di
relazione quotidiana.
Più
volte si era accorto di come gli altri feriti lo guardassero con
insistenza, sempre così assorto nel suo mutismo,
privilegiato della compagnia giornaliera di una graziosa signorina.
Aveva
enorme difficoltà ad addormentarsi la sera, e rimaneva
supino per dei momenti interminabili, aprendo e chiudendo gli occhi che
ancora non accennavano a dare segni di miglioramento, strizzandoli fino
a fargli girare la testa, fino a quando si voltava nel letto dalla
parte destra, quella del braccio sano, e cominciava a contare fino allo
sfinimento.
Avrebbe
tanto voluto piangere, dare sfogo alla frustrazione che non lo
abbandonava per un solo istante, ma non ci riusciva.
Pensava
solamente al motivo per il quale la granata che lo aveva colpito gli
avesse risparmiato la vita, al perché non fosse morto in
quel pomeriggio di fine marzo: persino essere un prigioniero sarebbe
stato meglio che subire quella logorante attesa, vivere
quell’esistenza a metà.
Mentre
era inglobato in queste riflessioni, pregava di diventare un pazzo
senza più ricordi, in modo da dimenticare tutto il dolore
che aveva provato e che stava ancora provando.
E
quando le tenebre avvolgevano ogni cosa, le lanterne appese in
corridoio conferivano una tremolante visione dei contorni di persone e
oggetti, risparmiando a Nicolò ulteriori sforzi nel cercare
di mettere a fuoco ciò che lo circondava, poiché
tutto si trasformava in un vacillante panorama fatto di ombre.
Finalmente,
solo allora, riusciva a riposare per tre o quattro ore, risvegliandosi
come se avesse appena assistito ad un incubo, pronto a ripiombare tra
le braccia di Morfeo quando ormai l’alba sorgeva.
Costanza
si era recata da Nicolò ogni mattina, fino a quando il 9
aprile venne dimesso.
In
quei dodici giorni di visite assidue, che spesso si ripetevano nel
tardo pomeriggio, Nicolò non aveva mutato più di
tanto l’atteggiamento negativo e disinteressato nei confronti
della sorella: certo, le permetteva di rimanergli accanto fino a quando
la invitava ad andarsene, senza ringraziarla del tempo o della pazienza
che le aveva riservato per l’ennesima volta.
Spesso
e volentieri, neppure le rivolgeva la parola, eppure lei continuava
imperterrita a raccontargli tutto ciò che accadeva a palazzo.
Ometteva
di riferire notizie politiche che avrebbero potuto turbare il suo stato
d’animo già così precario, nonostante
gran parte della città fosse addobbata da manifesti
rivoluzionari a cui si affiancavano i proclami del nuovo sovrano
“La nostra
impresa deve essere di mantenere salvo ed illeso l’onore, di
rimarginare le ferite della pubblica fortuna, di consolidare le nostre
istituzioni costituzionali” e i giornali
riportassero quasi esclusivamente articoli della disfatta,
sapientemente camuffata in una vittoria a metà.
Tutte
quelle frasi di circostanza, però, le apparivano vuote e
prive di un autentico significato: Vittorio Emanuele II era stato
costretto a scriverle per salvaguardare il ricordo del padre e
l’avvenire che lo aspettava? Ma quanto credeva
veramente a ciò che aveva fatto pubblicare? Quanto si
dispiaceva al solo pensiero che migliaia di giovani erano morti o erano
stati feriti, che erano magari impazziti, che avevano perso un arto o
si erano abbruttiti fino a saccheggiare e depredare degli innocenti?
Ripensando
all’abbraccio falso e troppo stretto di Federico quando aveva
comunicato a casa la notizia del ritrovamento del fratello,
avvertì brividi d’odio percorrerle la schiena, lo
stesso ribrezzo che scopriva di possedere nei confronti di coloro che
avevano determinato quell’assurda situazione.
Ma
quello non era il tempo da dedicare alle recriminazioni, quello era il
momento della rinascita.
L’abito
cipria, Costanza entrò sorridendo nell’enorme
camera che adesso ospitava solo una dozzina di malati: trovò
il ragazzo seduto su una sedia a dondolo, in un angolo della stanza,
con il viso rivolto verso il soffitto e l’espressione
assorta.
“Come
ti senti oggi? Sei pronto per tornare a casa?”
Nonostante
i passi cadenzati della sorella, Nicolò non accennava a
smuoversi da quella posizione all’apparenza scomoda.
Lei
gli si avvicinò con cautela, dimenticandosi della presenza
di estranei, desiderando all’istante di uscire da
lì il prima possibile: il tiepido sole primaverile e la luce
mattutina già le mancavano, tanto da non riuscire a
comprendere come facesse il fratello a non essere già in
piedi e a supplicarla di portarlo lontano da quel luogo.
Arrendendosi
all’evidenza che neppure allora si sarebbe
rivelato loquace, andò a recuperare lo sgabello di
legno di fianco al letto del ragazzo, pronta a sedersi di
fronte a lui.
“In
realtà, staremo ancora qualche giorno dagli zii, ma non
sarà per molto: insomma, zia Rosa e zio Aldo non ti faranno
mancare nulla, potrai avere tutte le comodità di cui
necessiti, e la convalescenza passerà sicuramente
più in fretta!”
La
contentezza che trapelava dalle parole della giovane non
riuscì a contagiare anche il fratello, che sembrava sempre
più impassibile.
Indossava
una vestaglia glicine che donna Luisa aveva insistito per fargli avere,
le mani solcate da piccoli graffi abbandonate sulle cosce smagrite.
Teneva
il braccio sinistro in una posizione irregolare, con il gomito
leggermente abdotto rispetto al fianco e fasciato: il medico con cui
Costanza aveva parlato quel mattino stesso, prima di recarsi nello
stanzone del fratello, le aveva raccomandato di convincere il ragazzo a
mantenere anche a casa quella sorta di tutore, in modo da raddrizzare
l’arto.
La
ferita che si allungava al di sotto dell’omero e lambiva il
polso si era rimarginata senza alcuna difficoltà, sebbene la
pelle fosse ancora molto edematosa e dolorante.
Anche
le varie escoriazioni che avevano deturpato il capo e parte del corpo
si stavano cicatrizzando assai velocemente.
“Nicolò,
vuoi guardarmi un solo istante? Mi hai sentito?”
Sbuffò
esasperata, speranzosa che quel mutismo si sarebbe volatilizzato non
appena i due avessero messo piede fuori dall’ospedale.
“Magari
ti aiuto a cambiarti, così potremo finalmente uscire! Fuori
ci sono la mamma e il papà ad aspettarci e
…”
“Non
potrò vederli … perché li hai fatti
venire? Te l’ho chiesto espressamente che non volevo
nessuno”
Il
fratello abbassò il capo e continuò a evitare di
guardare nella sua direzione, rivolgendo invece l’attenzione
alla porta dal vetro smerigliato che rappresentava l’entrata.
“Ma
è da giorni che non vedono l’ora di
riabbracciarti! Hanno compreso che tu abbia proibito loro di venire a
trovarti solo quando mi sono inventata che era stato sconsigliato dai
medici per evitare di intralciare la cura dei feriti, poi ho dovuto
dire che non volevi che ti vedessero in un letto d’ospedale,
adesso quale altra scusa mi suggerisci? Forza, sentiamo!”
Costanza
si sistemò meglio sullo sgabello, quando in
realtà avrebbe voluto alzarsi e scrollare la persona che
aveva davanti, di certo non lo stesso Nicolò di qualche
settimana prima.
“Non
erano scuse, era la verità” le rispose a voce
bassa, la schiena sempre rivolta alla sorella.
A
questo punto, lei gli si parò davanti e, abbassandosi alla
sua altezza, lo spronò come non aveva mai fatto.
“Non
è vero, e tu lo sai! Hai creduto che in un modo o
nell’altro tutti noi ti avremmo lasciato in pace, che ti
avremmo dimenticato, come se non fossi mai esistito! Ma non puoi andare
avanti all’infinito a recitare questa farsa! E’
arrivato il momento di affrontare la realtà, di renderti
conto che non potrai nasconderti per il resto della tua vita dietro ad
una montagna di menzogne e di mancanza di
responsabilità!”
“E’
invece quello che intendo fare” ribatté apatico,
muovendo lentamente il collo a destra e poi a sinistra.
Si
guardò la mano sana e cominciò a chiuderla a
pugno per un paio di volte, lamentandosi di quanto gli si
fosse intorpidita.
“No,
invece! Noi non te lo permetteremo! Il fatto che tu non possa ancora
utilizzare bene il braccio o il fatto che tu non riesca a mettere a
fuoco il mondo che ti circonda, per noi non sarà mai un
problema! Saremo sempre pronti ad aiutarti e a sostenerti, qualsiasi
sia la tua decisione!” tentò di farlo ragionare la
sorella.
Costanza
si sedette, il cuore che accelerava i battiti, delusa ancora una volta
dal comportamento di quel fratello che stentava a riconoscere.
“Per
me è un problema, per me sarà un
problema…” la guardò dritta negli
occhi, sbattendo le palpebre affaticate dallo sforzo di non urlare.
“Smettila
di piangerti addosso! E ora alzati, non possiamo rimanere qui tutto il
giorno!”
Lei
si sollevò nuovamente, andando a recuperare il
piccolo baule con i vestiti che donna Luisa si era premurata di
scegliere personalmente: li appoggiò sul letto, rivolgendosi
nuovamente al fratello, poi gli si avvicinò per spronarlo a
mettersi in piedi.
“Mi
stai facendo male” piagnucolò l’altro,
mentre tentava una debole resistenza per rimanere seduto.
“Ho
detto che mi stai facendo male!” continuò, notando
che la sorella non accennava ad assecondarlo.
“Ah
sì? Allora tu avresti potuto rimanere a casa, invece che
arruolarti e farti ridurre in questo modo a dir poco penoso!”
Nicolò
si issò come se avesse avuto una molla nascosta sotto la
sedia, fronteggiando la ragazza con un furore accecante nello sguardo
fino ad allora spento: la schiaffeggiò con tutta la forza di
cui si sentì capace, quindi rimase fermo ed in piedi davanti
a lei, il respiro affannoso.
Alcuni
degli uomini presenti nello stanzone si girarono quasi
all’unisono, animandosi per la curiosità dettata
da quell’improvviso battibecco.
“Bravo,
sei stato bravo, non posso dire diversamente”
continuò l’altra, la voce modulata per non farsi
sentire dai feriti.
“Se
questo è servito a sfogarti, a dare un senso al rancore che
provi, allora mi fa piacere di essere stata il tuo capro espiatorio! Ma
adesso muoviti, è tardi”
Costanza
gli voltò le spalle e riprese a scegliere meccanicamente tra la
mezza dozzina di abiti, accecata da un’eccitazione che non
sapeva spiegare.
“Va
bene, torno a casa, però prima devo sapere che fine ha fatto
una persona”
Il
fratello si arrese e si sedette sul letto: cominciò a
vestirsi, lasciandosi aiutare dalla ragazza, che nel frattempo aveva
tirato prontamente il paravento dietro di lui.
“Di
chi si tratta?”
“E’
un mio commilitone della brigata Piemonte. Si chiama Stefano Gardini:
l’ultima volta che l’ho visto è stato il 23 marzo, il
giorno della battaglia”
Sembrava
stesse compiendo un enorme sforzo nel ricordare quei momenti, eppure le
parole presero a fluire sicure e quasi distaccate.
“Lui
è caduto da cavallo poco prima che venissi colpito: il
capitano Canavera, il nostro diretto superiore che hai conosciuto anche
tu, ci ha raggiunti per capire cosa stesse succedendo, ma non
c’è stato il tempo di renderci conto di nulla,
perché poi sono stato disarcionato e sono svenuto. Da allora
non ho più avuto notizie né del capitano e
neppure di Stefano”
Costanza
smise di allacciargli i bottoni della giacca color cenere: lo
guardò negli occhi ambrati, lucidi e sinceri, sebbene ancora
velati, quindi lo abbracciò.
“Ti
prometto che troveremo entrambi. So che alcuni ufficiali del tuo
Reggimento sono stati insigniti della medaglia d’argento:
forse, tra di loro, c’è anche il tuo
capitano”
Nicolò
annuì, ritornando ad incupirsi.
“Dovrai
essere tu i miei occhi, sorella: prima di mettere piede fuori di qui,
ho bisogno di parlare con un medico, una suora, insomma qualsiasi
persona che mi possa aiutare a rintracciare il mio amico! Per favore,
aiutami…” le strinse con forza un braccio,
fissandola sempre con quello sguardo dolorosamente vacuo.
“Ho
capito, non preoccuparti”
“No,
tu non capisci: ormai io vedo solo ombre, ombre dappertutto, ma ancora
mi ricordo com’è fatto! Ascoltami bene, ha
vent’anni, è un po’ più alto
di me, forse di un paio di centimetri. E’ molto magro ed ha i
capelli biondi, gli occhi sono chiari e … stai prendendo
nota?” si fermò un istante, per toccare le mani di
Costanza.
“Sì,
certo, me lo sto immaginando mentalmente. Ma perché mi stai
dicendo tutto questo? Tu puoi parlare e descrivere qualsiasi cosa o
persona tu abbia conosciuto, senza bisogno di intermediari”
gli fece presente, parlandogli con dolcezza e accarezzandogli il volto
smagrito e sbarbato di fretta.
“Lo
so, però ho bisogno di sapere che tu ci sarai, che non mi
lascerai solo”
“E’
da giorni che continuo a ripetertelo, come faccio a fartelo
capire?”
I
due si abbracciarono, per la prima volta da settimane realmente in
sintonia.
“Aspetta
qui, vado a cercare un medico”
Il
sanitario con cui parlarono doveva avere una quarantina
d’anni: era allampanato e aveva i capelli castani e gli occhi
scuri.
Fissava
i due fratelli attraverso le lenti degli occhiali dalla montatura
rotonda, mentre un sorriso fiducioso si apriva sul viso ben curato:
sembrava infatti ricordarsi dell’amico di Nicolò.
“Credo
di aver capito di chi state parlando … ma non è
più qui, è stato trasferito a Torino”
“A
Torino?”
“Sì,
dopo le primissime cure che gli abbiamo fornito appena ci è
stato portato”
“Ma
perché avete deciso di spostarlo?” si
allarmò il ragazzo, ancora seduto sul letto.
Il
sanitario si portò una mano ad una tempia, indeciso se
proseguire.
“Non
posso sbilanciarmi, signore, il mio codice deontologico mi impone di
mantenere il segreto professionale…”
“Vi
prego, per noi è una questione molto importante! Lui e mio
fratello hanno combattuto insieme, e adesso ha il diritto di sapere che
cosa gli è accaduto!”
Il
medico si umettò le labbra, distogliendo lo sguardo per
qualche attimo.
“Se
non rammento male, ha riportato delle ferite molto gravi alla schiena:
non sappiamo se potrà riprendere a camminare, per questo
abbiamo preferito trasferirlo in un centro più
attrezzato”
“E
quando è partito?” continuò incredulo
l’altro, abbassando lo sguardo e stringendo i pugni.
“Ora
mi state chiedendo davvero troppo: lo vedete anche voi quante ancora
centinaia di feriti abbiamo da curare…”
“Fate
uno sforzo, per favore”
Costanza
non voleva deludere Nicolò, la verità
è che non poteva ingannarlo come la Vita stessa lo aveva
disilluso.
“Attendete
un momento, vedo se riesco a trovare la copia del documento del
ricovero”
Una
manciata di secondi più tardi, l’uomo
tornò con un mezzo sorriso sulle labbra ed una cartelletta
scura tra le mani.
“E’
stato portato al Regio Ospedale una settimana fa. So che è
riuscito a superare il viaggio, però non ho altre notizie.
Mi dispiace…”
“Almeno
avete l’indirizzo dell’ospedale?”
“Sì,
ma nelle vostre condizioni è meglio che non affrontiate
spostamenti così lunghi e faticosi. Per il
vostro commilitone è stato necessario, ve l’ho
detto, anche a rischio delle possibili conseguenze, ma per voi non la
reputo una buona cosa…”
“Lasciate
decidere a me” rispose nervoso Nicolò, cercando di
dominare la rabbia.
Il
medico fissò per un lungo istante prima lui e poi Costanza,
quindi acconsentì.
Comunicò
il nome della struttura e si accomiatò, dubbioso di aver
fatto la scelta giusta.
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Capitolo 35 *** Duello all'ultimo sangue ***
Spesso,
l'invidia è il motivo migliore per odiare qualcuno.
(Anonimo XX° secolo)
Il circolo si stava lentamente ripopolando: non vi era ancora
l’effervescenza culturale che si poteva respirare fino a
qualche settimana prima, ma il semplice fatto che i gentiluomini non
avessero più timore ad uscire dalla sicurezza delle loro
case era già un ottimo punto di partenza.
Pietro salutò con un cenno del capo un signore anziano in
compagnia del nipote, entrambi impegnati a conversare insieme ad altri
ospiti, quindi si guardò intorno: la persona che stava
cercando non sembrava essere ancora arrivata.
Tamburellò sul cappello nero, indeciso se attardarsi ad
aspettarlo o recarsi direttamente all’abitazione
dell’uomo, ma alla fine optò per la prima
soluzione.
Si sedette ad uno degli eleganti tavolini ricoperti da una tovaglia
rossa con il bordo di pizzo giallo, e si fece servire del rhum da uno
dei camerieri che gli si era prontamente avvicinato.
Detestava bere di mattina, ma sentiva la necessità di
impiegare il tempo in un modo che risultasse tanto piacevole quanto
consono ad un luogo del genere.
Prese a sorseggiare il liquido ambrato, rimuginando
sull’incontro che lo avrebbe visto coinvolto: sapeva che
sarebbe arrivato, glielo aveva letto negli occhi, e poi non poteva
permettersi di deludere né Costanza e neppure
Nicolò.
Il pomeriggio di due giorni avanti, infatti, prima di scendere a
cenare, Pietro aveva esposto alla cugina l’idea che gli era
venuta ormai dalla settimana precedente: per cercare di riscuotere il
ragazzo dall’apatia in cui era piombato, le aveva suggerito
la sua disponibilità per l’indomani mattina di
recarsi da Eugenio Maffucci, il capo del gruppo dei giovani
rivoluzionari, per indurlo ad incontrare Nicolò e aiutarlo
nel tortuoso percorso di rinascita.
Non era stato difficile trovare Eugenio: l’avvocato dai
baffetti aveva trascorso i giorni dell’assedio rintanato
nella soffitta del suo elegante appartamento in centro, dove aveva
ripreso la sua attività di stimato professionista.
Inoltre, era sinceramente curioso e preoccupato di sapere come stava il
giovane Granieri, l’unico degli affiliati di cui ancora non
aveva avuto notizie, dopo la disastrosa battaglia della Bicocca.
Accettò con entusiasmo di rincontrare l’amico,
convinto che la sua presenza avrebbe avuto il potere di riportarlo in
mezzo a loro, tra i vivi, ma era anche consapevole
dell’importante fardello morale di cui era stato investito.
Per questo, Pietro sapeva che si sarebbe presentato
all’appuntamento concordato per le undici, fissato apposta
per spiegargli come avrebbe dovuto comportarsi con il fratello di
Costanza.
Immerso nelle congetture, il conte Caccia continuò a
sorseggiare il liquore, sperando di non dover attendere ancora per
molto: non poteva dimenticare di essere cauto, e di certo mostrarsi in
compagnia di un esponente del gruppo rivoluzionario qual era Eugenio
avrebbe potuto rivelarsi pericoloso per
l’incolumità di entrambi.
Scrutò ancora una volta nell’ampio salone,
riconoscendo la quasi totalità dei volti dei nobiluomini
intenti a chiacchierare o a leggere il quotidiano.
In quel mentre, si accorse di una figura solitaria che gli dava le
spalle, a pochi passi dallo scalone che conduceva al piano superiore,
eppure gli fu sufficiente un’occhiata per insinuare il dubbio
di averla riconosciuta, dubbio che si
apprestò prontamente a spazzare via.
Quando finì il rhum, pronto ad alzarsi e ad andare a
domandare al proprietario del circolo se qualcuno avesse lasciato un
messaggio da recapitargli, si sentì chiamare.
“Buongiorno fratello, anche tu qui?”
Federico gli si parò davanti con il solito sorriso beffardo,
pronto ad esibirsi nell’ennesimo duello verbale con Pietro,
che non lasciò trapelare lo stupore per quella sgradita
sorpresa.
Era lui, infatti, la figura misteriosa che aveva creduto di distinguere
pochi attimi prima.
“Dovrei essere io a domandartelo. Sbaglio o sono mesi che non
frequenti questo posto?”
L’altro annuì sornione, il completo cenere e gli
stivali neri, quindi si avvicinò di qualche ulteriore passo,
la voce bassa.
“Adesso le cose sono cambiate, dovresti essertene accorto.
Vedi, Pietro, è anche nel mio interesse salvaguardare
ciò che ancora si può difendere dalle grinfie
rapaci del nemico, esattamente come stanno facendo tutti in questa
città. Non trovi che faccio bene?”
“A cosa ti riferisci?” insinuò
sospettoso.
“Beh, a molte cose e a nessuna. Che ne so, ad esempio
all’onore o alle amicizie a noi più care, che
troppo spesso rischiano di andare perduti …”
proseguì lascivo.
“Tu parli di onore e di amicizia? Davvero non ti riconosco
più, fratellino!”
Il primogenito dei Caccia gli batté su una spalla: in un
gesto di saluto, si portò l’indice al cappello che
si era calato sulla testa, quindi lo superò per uscire dal
circolo.
Farsi vedere in compagnia di Maffucci, infatti, avrebbe potuto
rivelarsi molto pericoloso e alimentare fantasie aggiuntive alla
già fervida immaginazione di Federico.
“Non penserai di andare via proprio adesso! Da come ti
guardavi in giro, mi sembrava che stessi aspettando qualcuno, fratellino”.
Pietro continuò a dargli le spalle, ma quasi riusciva ad
avvertire il fiato dell’altro sul collo.
“Ti sbagli” riuscì a rispondere con
naturalezza, voltandosi nella direzione di Federico.
“Sono venuto perché mi aspettavo di trovare una
persona, ma evidentemente non è ancora arrivata. Ti ricordi
di Guido, il figlio del marchese Tornielli?* Ebbene, è
qualche settimana che non lo vedo e avevo piacere di scambiare due
parole con lui, anche se a questo punto credo dovrò
rimandare ad un’altra volta. Ora scusami, ma ho delle
commissioni da sbrigare. Ci vediamo più tardi a
casa”
“Pietro!” lo richiamò ad alta voce
l’altro.
Mancavano pochi metri all’uscita: dalla posizione in cui si
trovava, il biondo riusciva a vedere chiaramente la strada deserta.
Avvertì i rintocchi del campanile battere le undici, mentre
il vociare educato dietro di lui gli inondava l’udito e la
mente, innervosendolo a tal punto da non trovare una soluzione efficace
per levarsi da quell’impiccio.
Rifletté che non poteva nemmeno fuggire, perché
tale comportamento avrebbe insospettito Federico, perciò si
arrese a continuare quell’assurda farsa,
aspettando la replica del fratello.
“Ricordati di non fare qualche mossa sbagliata: non vorrei
che ci andasse di mezzo la nostra cara cugina …”
Il primogenito si girò di scatto, reprimendo la rabbia ed il
disgusto per quelle sordide affermazioni.
“Che cosa intendi?” sibilò in un
grugnito, mantenendo un’adeguata distanza dal suo
interlocutore.
Egli si avvicinò e lo guardò con aria di
superiorità, pronto a spiegargli all’orecchio
l’origine di quelle parole.
“So molte più cose di te e dei tuoi amichetti di
quanto tu possa immaginare. Basterebbe una mia sola parola a
distruggerti e a far arrestare te e l’intera banda di folli
che ti circonda”
“Smettila di giocare al cospiratore!” gli
intimò Pietro, allontanandosi nauseato.
“Tu dici? Se non mi credi, puoi sempre mettermi alla
prova”
Il fratello maggiore serrò le mascelle, sforzandosi di
controllarsi: lo avrebbe preso volentieri per il bavero e scaraventato
contro il muro, ma quello non era il luogo adatto a simili esibizioni.
“Perché mi odi così tanto?”
preferì invece ribattere.
“Io odiarti?” Federico scoppiò in una
sonora risata, quindi scosse la testa con aria divertita.
“Allora hanno ragione a definirti il più
intelligente della famiglia! La tua arguzia mi stupisce ogni giorno che
passa, fratellone!” gli regalò una pacca su una
spalla, per poi ritornare subito serio.
“Non dimenticare che non sto scherzando, che non ho nulla da
perdere, anzi, ho solo da guadagnare in tutta questa storia”
“Certo, tu sei solo uno stupido ragazzino che gioca a fare la
spia e a divertirsi sulle disgrazie altrui! So bene chi sei, Federico,
cerca anche tu di non dimenticare quante cose so io di
te…”
Pietro lo sfidò ancora una volta con i suoi occhi di
ghiaccio, quindi girò i tacchi e fece per andarsene.
“Tu non mi credi, è così? Tu non credi
possibile che possa essere il fautore delle tue disgrazie, che posso
arrivare a rovinarti la vita?”
Un lampo di disprezzo e di rabbia attraversò lo sguardo del
giovane Caccia, stanco di essere continuamente messo in secondo piano
dalla perfezione del primogenito, che continuò a dargli le
spalle.
“Te lo ripeto, Pietro, basterebbe una sola parola a
disintegrarti, un semplice e solo sì a chi di dovere e mi
pregherai in ginocchio di salvarti”
“Non daresti mai un tale dispiacere ai nostri genitori, lo
so. Ma se non vuoi avere guai, stai lontano dai miei amici e
soprattutto da Costanza”
"Ah, la povera e innocente Costanza. Se sapesse tutto quello che fai. Allora sai cosa ti dico? Ti sfido a duello!"
Federico tirò fuori dall'interno della redingote color
cenere un fazzoletto di lino, con cui schiaffeggiò il
fratello.
"Non fare lo sciocco, dammi retta!"
Ma ormai il danno era fatto: la totalità dei presenti si era
voltata nella loro direzione, tentando di reprimere la
curiosità per quel gesto a dir poco plateale.
"Non sto scherzando, Pietro, io
non scherzo mai! Ti ho appena sfidato a duello perché
è ciò che intendo fare! Anzi, ti dirò
di più!"
Ruotò il busto verso i galantuomini che avevano in parte
distolto lo sguardo, sorridendo solenne.
"Signori! Sono stato offeso pubblicamente dal qui presente conte Pietro
Caccia Dominioni: per questo, vi chiamo a testimoni del gesto a cui
tutti voi avete appena assistito! Nomino come padrino il duca Rodolfo
degli Antinei, il quale farà pervenire allo sfidante il
luogo e l'orario in cui avverrà il duello. A te la scelta
dell'arma da utilizzare, fratello"
spiegò sprezzante Federico.
"Non intendo accettare per nessun motivo: non mi presterò a
questa pantomima!"
"Lorsignori hanno sentito come ho sentito io?! Il qui presente conte
rifiuta di combattere! E' forse un segno di viltà il suo?"
lo punzecchiò, puntandogli l'indice contro il petto.
I gentiluomini ripresero a fissarsi reciprocamente con aria smarrita,
l'imbarazzo che trapelava dai volti curati.
"Smettila di renderti ridicolo e vieni via. E' meglio per tutti"
Pietro infilò le mani nelle tasche blu del cappotto e
finalmente uscì dal circolo.
"Non finisce qui!" replicò l'altro, la voce che ormai era
diventata un'eco lontana.
Si era poco oltre la metà di aprile, e Nicolò
aveva fatto ritorno a palazzo Caccia da una decina di giorni.
Donna Rosa avrebbe voluto organizzare una festa in suo onore, un paio
di sere prima, ma il giovane aveva insistito di non essere ancora
pronto per quel genere di cose, così la contessa
aveva desistito
a malincuore.
Costanza trascorreva la maggior parte del tempo in compagnia del
fratello: approfittando delle tiepide giornate di sole, lo invitava a
fare lunghe passeggiate per il parco, qualche volta osando addirittura
addentrarsi nelle vie adiacenti, il braccio di lei attorno a quello di
lui per guidare i suoi passi insicuri e stanchi.
I momenti più difficili in cui l’imbarazzo
prendeva quasi il sopravvento sulla gioia di riaverlo finalmente tra
loro avvenivano durante i pasti, quando l’intera tavolata
sembrava cadere in un torpore inspiegabile.
I commensali non sapevano di cosa o di chi parlare che non avesse a che
fare, in un modo o nell’altro, con le vicende belliche appena
accadute: la città era ancora occupata, i ricevimenti
pubblici erano praticamente inesistenti, così come le
manifestazioni o le riunioni politiche.
Gli sguardi della famiglia si alzavano ridenti su Nicolò, il
desiderio ardente di coinvolgerlo nella quotidianità, ma
subito si riabbassavano perché si accorgevano che non vi era
praticamente nulla di sensato o di positivo da condividere con lui.
A tirarli fuori da quella situazione incresciosa, spesso era proprio il
ragazzo: sebbene il tempo trascorso non avesse modificato
l’atteggiamento riottoso del giovane, e gli occhi apparivano velati e
sfuggenti, allo stesso modo dell’assenza di qualsiasi ombra di sorriso sul
volto, lui stesso compiva enormi sforzi per riuscire a non apparire
perennemente imbronciato.
L’attimo prima, ad esempio, sembrava essersi mentalmente
ripreso, sorrideva e conversava con affettata naturalezza sulla
bontà delle pietanze servite o della trama del libro che la
sorella gli stava leggendo, mentre quello successivo il suo umore
cambiava di colpo, incupendosi nuovamente.
Si chiudeva a riccio e non permetteva a nessuno di avvicinarsi, nemmeno
alla madre che, da quando era tornato, non solo era
rinsavita, ma lo trattava con ogni riguardo, come se fosse
nato per la seconda volta.
Allora, in quelle occasioni, si rifugiava in un angolo remoto del vasto
parco della villa degli zii, seduto sulla terra fredda ed umida che
celava le radici di uno dei secolari tronchi degli abeti, e la mente
cominciava a vagare, tornando indietro alle settimane precedenti: nel
mare dei ricordi, riaffioravano le immagini sbiadite- eppure ancora
così vivide- della notte in cui era fuggito di casa per
cercare rifugio dal suo amico Maffucci, e ancora dell’euforia
che lo aveva invaso quando era riuscito ad arruolarsi
nell’Esercito sabaudo, e degli intensi allenamenti con la
spada e il tiro al fucile nel cortile dell’Albergo svizzero.
La compagnia del mite e allegro Stefano, la cui voce e il suo viso non
riusciva a dimenticare, lo inducevano ancora di più nello
sconforto.
Sovente, inoltre, ripercorreva le ore interminabili della traversata
sul Ticino, i soldati in fila indiana in perenne allerta, circondati
dalla campagna metà piemontese e metà lombarda,
mentre i volti incuriositi ma ostinati dei contadini li scrutavano da
sotto i cappelli: allora, l’unico sentimento che lo animava
era la speranza di vincere e di mostrare sul campo il coraggio che lo
animava da mesi.
Si sentiva forte e incredibilmente invincibile, sicuro che la sorte non
gli avrebbe mai voltato le spalle; e proprio in quei momenti, quando il
cuore si stringeva per la pena, la mente rievocava le battaglie a cui
aveva partecipato, dalla Sforzesca a quella della Bicocca, e
un’improvvisa fitta alla testa lo riportava bruscamente alla
realtà.
Si sentiva svuotato, insensibile a provare qualsiasi emozione che non
fosse una profonda tristezza: anche una semplice risata gli provocava
un violento fastidio che riusciva a reprimere a
fatica, stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche e
mordendosi le labbra in modo da sentire il sapore metallico del sangue
sulla lingua.
Il braccio sinistro era quasi ritornato sano, riusciva tranquillamente
a piegarlo oltre il gomito, a mangiare e ad allacciarsi i bottoni di
camicie e giacche senza chiedere l’aiuto di qualcuno,
tuttavia, soprattutto la notte, il dolore provocato dalle fitte
lancinanti non lo lasciava riposare.
Gli occhi erano sempre velati da un’oscurità che
non accennava a dissiparsi, anzi, Nicolò era
convinto che la sua vista fosse ormai irrimediabilmente perduta.
Non riusciva a ritenersi fortunato per essere tornato sano e salvo dai
combattimenti, perché più i giorni passavano e
più lui era convinto che sarebbe stato meglio morire.
Di notte, quando non riusciva a dormire a causa del braccio ferito,
pregava un Dio in cui non credeva più di donargli sorella
Morte, sgravandolo di quel peso che era diventata la Vita.
E di giorno, quando la confusione lo stordiva e lo sguardo cadeva in
uno degli specchi del palazzo, subito si voltava dall’altra
parte: non aveva il coraggio di fissare la sua immagine deturpata dallo
scoppio della granata nemica, la odiava e la temeva al contempo, e
soprattutto temeva di non ricordarsi più il suo
vero viso.
Un pomeriggio, però, verso l'imbrunire, si era ritrovato a percorrere i lineamenti della fronte e
degli zigomi con la mano del braccio sano, ma subito si era fermato,
pentendosi di quell’azzardo.
La cute era disseminata di lievi cicatrici agli angoli degli occhi,
all’attaccatura dei capelli e, nascoste alla vista dalla
folta chioma, sullo stesso cuoio capelluto.
Un sorriso beffardo gli increspò le labbra, simile ad un
ghigno informe: il pensiero che appena tre mesi prima si dilettava a
pronunciare discorsi patriottici davanti alla grande specchiera della
sua camera da letto, vantandosi della sua bellezza e della sua bravura
come il superbo Narciso, gli provocava un’irrefrenabile
voglia di ridere e piangere.
In fondo, anche lui si era comportato come quel giovane mitologico,
sfidando una divinità più forte e potente della
sua misera condizione di mortale, che non aveva desistito a punirlo
della sua sfacciataggine: il Destino si era beffato della sua
presunzione, condannandolo ad un’esistenza informe e priva di
luce, e avrebbe fatto meglio a farsene una ragione.
*
I Tornielli erano una potente famiglia novarese,
proprietaria di numerosi feudi e del titolo di conti e marchesi, le cui
origini sono rintracciabili nella zona fin dal 966. Nel palazzo di
famiglia è avvenuta la famosa abdicazione di Carlo
Alberto: attualmente ospita la sede della Banca Popolare di Novara.
Inoltre,
in città vi è un liceo dedicato alla contessa
Tornielli Bellini, una delle ultimi esponenti del casato.
Grazie a tutti i miei adorati lettori e recensori: scusate se sono
ritornata ad essere incostante con pubblicazioni, risposte e recensioni
di altre storie, ma la tesi si è di nuovo impossessata delle
mie giornate :(
Rimedierò ad ogni cosa già domani (spero).
A presto e vi auguro una serena buonanotte!!!
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Capitolo 36 *** Riunione in chiesa ***
Lieta del fato Brescia
raccolsemi,
Brescia la forte,
Brescia la ferrea,
Brescia leonessa
d’Italia
beverata nel sangue
nemico.
(Da "Odi
barbare", Libro V, maggio 1877)
(Giosué Carducci, 1835-1907, poeta e scrittore,
primo premio Nobel italiano)
Erano
ormai le undici e trenta, le strade si stavano rianimando di carrozze e
passanti pronti a fare ritorno nelle loro case per il pranzo, mentre i
commercianti ambulanti esponevano la loro mercanzia ai lati delle
piazze e delle vie.
Pietro
uscì dal circolo con una grande rabbia in corpo: suo
fratello era diventato un sadico senza scrupoli, che non aveva
tentennato nemmeno per un momento di schierarsi contro il suo stesso
sangue.
“Mi piacerebbe proprio conoscere
quei miserabili traditori che lo hanno reso così insensibile
all’onore ed al giudizio più elementare!”.
Lo
sguardo dritto davanti a sé, desiderava solamente
allontanarsi il prima possibile da ciò che era successo.
Il
passo veloce degli stivali sul selciato, il conte raggiunse la prima
vettura a noleggio libera: aveva già le dita attorno alla
maniglia, quando gli sembrò di avvertire una presenza che lo
fissava, a pochi passi dietro di lui.
Si
girò di scatto, temendo che Federico lo avesse raggiunto, ma
subito sospirò di sollievo, quando si accorse che ad
attenderlo era invece Eugenio Maffucci, brillante avvocato e capo del
gruppo di giovani rivoluzionari.
“Pietro,
perdona il ritardo, ma davanti a casa mia sostava un manipolo di
soldati che non sembrava intenzionato ad
andarsene…”
L’uomo
dai baffetti, allampanato e con i capelli scuri, strinse
affettuosamente un braccio all’amico, guardandolo con aria
preoccupata.
“Hai
fatto benissimo ad aspettare, non preoccuparti. Purtroppo ho poco
tempo, ma vieni, conosco un posto in cui potremo parlare
tranquillamente”
I
due si allontanarono nella direzione opposta alla quale si erano
incontrati, fino ad addentrarsi in un labirintico intreccio di stradine
secondarie e vecchi palazzi fatiscenti.
Una
dozzina di minuti più tardi, sbucarono in una minuscola
piazzetta esagonale dal lastricato di sampietrini: su uno dei suoi
lati, si apriva la chiesa di Nostra Signora del Carmine, una
costruzione del XVIII secolo dalla facciata neoclassica.
“Non
ti facevo così religioso” cercò di
alleggerire l’atmosfera l’avvocato, seguendolo a
ruota.
Entrarono
nell’edificio, il sibilo del massiccio portone
d’ingresso che sfregava sul marmo bicromo, e si diressero in
un angolo appartato, vicino al fonte battesimale.
La
luce che filtrava dai rosoni era attutita dal passaggio improvviso di
nembi scuri, che per qualche istante oscurarono il sole di
metà aprile.
“Allora?
Quando potrò vedere Nicolò?”
s’informò senza inutili preamboli Maffucci, una
volta che entrambi si furono accomodati su una delle panche presenti.
“Vieni
a palazzo domani pomeriggio verso le due e trenta. A
quell’ora, mio fratello sarà già in giro a
compiere chissà quali nefandezze”
Pietro
si sistemò meglio la redingote e appoggiò il
cappello sulle gambe, guardandosi intorno nervosamente.
“Sei
ancora convinto che prenda parte ad una delle bande che sostengono gli
Austriaci?”
L'altro
sospirò sconsolato, spiegandogli brevemente ciò
che era accaduto al circolo, mentre avvertiva di nuovo nascere dentro
di sé un crescente senso di rabbia e delusione per il
giovane che era diventato Federico.
“Ho
capito quello che provi, amico mio, ma non preoccuparti troppo per
questa storia del duello: sono convinto che tuo fratello conservi
ancora un briciolo di intelligenza necessaria a rendersi conto
dell’immane sciocchezza che ha compiuto nei tuoi
confronti”
Il
conte annuì, poco speranzoso in un lieto fine, ma in parte
rincuorato per le parole pronunciate dall’amico.
In
quel momento, il portone si aprì, lasciando entrare
un’anziana donna vestita a lutto, facendo zittire i due
uomini.
Essi seguirono
con lo sguardo i passi stanchi della nuova venuta, che si
trascinò fino ad uno dei posti in prima fila, quindi si
inginocchiò non senza fatica, sgranò il rosario
che aveva tra le mani e abbassò il capo in direzione del
grande crocefisso davanti a lei.
“Comunque
non dobbiamo perdere la speranza, Pietro” lo
consolò l’avvocato, avvicinandosi per non alzare
il tono di voce.
“A
Brescia, i nostri fratelli hanno combattuto strenuamente per dieci
lunghi giorni: l’intero popolo si è riversato per
le strade, ha costruito dal niente centinaia di barricate per
contrastare quei maledetti Austriaci! Ti ricordi di Tito Speri? Lo
abbiamo conosciuto durante una riunione della zona lo scorso autunno.
Ebbene, è stato lui a capeggiare la rivolta, lui e un prete,
pensa te! Sai cosa significa tutto questo? Che la gente ha voglia di
cambiare, Pietro, vuole combattere per liberarsi dal giogo nemico, ma
sa che dobbiamo essere più uniti che mai, che se molla uno,
inevitabilmente si rischia di provocare l’effetto
domino!” spiegò con fare accalorato il trentenne
dai baffetti, deglutendo entusiasta.
“Lo
so, Eugenio, ma so anche che sia qui che a Brescia abbiamo perso: la
buona volontà non è sufficiente a contrastarli,
se dall’alto non arrivano gli aiuti necessari e gli stessi
uomini di Stato non sono a loro volta opportunamente preparati. Non hai
sentito che Ramorino è stato arrestato e rischia la condanna
a morte? Ecco, quello che voglio dire è che vi sono ancora
troppe lotte intestine per permetterci di guardare tutti in
un’unica direzione, verso la direzione della
Libertà!”
Maffucci
aprì la bocca per ribattere, ma poi desistette, abbassando
lo sguardo e scuotendo la testa.
“Non
credi più alla nostra causa, vero?” si arrese a
domandare, il tono di voce ancora più basso.
“Come
puoi pensarlo!? Io desidero con tutto me stesso che il nostro Paese sia
finalmente libero di governarsi, ma è inutile affrettare i
tempi, Eugenio, anzi, facendo così ci facciamo solo del
male!”
Il
campanile sopra le loro teste batté i dodici rintocchi:
Pietro regalò una pacca sulla spalla dell’uomo, sorridendogli comprensivo.
“Ora
devo andare: mio padre ha accompagnato il marito di mia cugina Luisa a
controllare lo stato del loro palazzo al Torrione. Ho promesso che
sarei arrivato prima di pranzo, e temo che Federico possa accorgersi
della mia assenza e approfittarne per trarre conclusioni
affrettate”
I
due si alzarono in silenzio ed uscirono dalla chiesa, il sole di nuovo
alto nel cielo.
Il
conte si calò il cappello e abbracciò brevemente
l’amico.
“Ti
aspetto domani pomeriggio: mi raccomando, Nicolò ha bisogno
di tranquillità, non aspettarti che parli della guerra come
una volta. Lo troverai molto cambiato, cupo e fisicamente provato, ma
trattalo allo stesso modo di sempre”
L’avvocato
lo fissò duramente, le mani nelle tasche
dell’abito blu notte.
“Non
temere, andrà come vuoi tu”
E
dopo un’ultima occhiata carica di significati nascosti,
finalmente si allontanarono dandosi le spalle.
Don
Armando aveva deciso di fare ritorno a casa, nel palazzo lasciato in
eredità dal suocero.
L’ospitalità
degli zii della moglie era stata completa e preziosa, un autentico
ricostituente contro le sofferenze che avevano patito lui, donna Luisa
e i loro due figli.
Il
ritorno di Nicolò gli aveva inoltre infuso nuove speranze e,
anche se era stato difficile ammetterlo, aveva messo da parte il
proprio orgoglio per abbracciare il primogenito e regalargli un sorriso
che significava molto più di mille frasi affettuose.
Dagli
sguardi di donna Luisa e di Costanza, quando quella mattina a colazione
aveva annunciato la grande novità, aveva intuito che non
fossero propriamente entusiasti di rinunciare
all’ospitalità di zia Rosa e zio Aldo, tuttavia,
non potevano fare altrimenti.
Nicolò
non aveva espresso alcuna emozione, né
perplessità né gioia, nulla che lo inducesse a
manifestare disapprovazione o apprezzamento per la decisione del padre.
Continuava
a rimanere assorto nel suo mondo, per risvegliarsi brevemente con frasi
di circostanza, come l’educazione impostagli da piccolo gli
intimava di fare.
Così,
quella mattina, anche per lui e per ridargli una parvenza di
quotidianità, il notaio e il conte Aldo si erano recati a
vedere le condizioni in cui versava la dimora di famiglia, che distava
solamente una manciata di chilometri dalla zona del Torrion Quartara,
uno dei luoghi insanguinati e devastati dalla battaglia della Bicocca
del 23 marzo scorso.
Don
Armando temeva di aver cantato troppo presto vittoria, ma qualcosa nel
profondo gli suggeriva di continuare ad essere fiducioso.
Scesero
dalla carrozza che erano quasi le dieci, il cuore in gola per
l’emozione e le possibili conseguenze lasciate dagli scontri
bellici.
Entrambi
si guardarono con attenzione attorno, a vista d’occhio le
uniche due presenze umane. La campagna circostante conservava ancora le
tracce lasciate dalle palle di cannone e dai proiettili nemici, che
avevano ignobilmente violato il suo suolo: le spighe di frumento erano
state bruciate dalla potenza della polvere da sparo, e il ruscello che
scorreva poco distante appariva prosciugato e sofferente.
“Armando,
se volete posso andare da solo a controllare…”
Il
conte Aldo si era mantenuto fianco a fianco del nipote acquisito, come
per infondergli coraggio, sentendosi ugualmente coinvolto in quella
lenta e misteriosa riscoperta di luoghi tanto cari.
“Non
temete, ho solo bisogno di sperare che, almeno qui, tutto sia andato
per il meglio. Già vi ho fatto lasciare la carrozza sul lato
opposto, in modo da non subire sgradite sorprese, non vi
chiederò di sostituirvi a me, ma grazie lo stesso,
davvero”
I
due uomini si sorrisero, le chiome bionde illuminate dal sole di
metà mattina, quindi si avviarono nella direzione della
dimora, le cui finestre del piano più alto si riuscivano ad
intravedere.
“Che
Dio sia lodato!” si lasciò sfuggire il notaio,
avvicinandosi felice, e compiendo un primo giro di perlustrazione
sommaria.
Il
palazzo, fortunatamente, non aveva subito alcun danno irreparabile, se
si escludeva il fatto che il grande portone di legno che conduceva
all’aia e al vasto cortile sul retro era stato divelto dai
cardini e spezzato in più punti, e se non si contavano le
scorte di viveri nel granaio e nella dispensa in buona parte depredate.
L’interno
dell’abitazione non era stata forzata, risparmiata grazie al
sacrificio dei soldati piemontesi che avevano coraggiosamente respinto
il nemico nella zona adiacente, almeno era ciò che si era
immaginato don Armando, osservando con tristezza le strisce di sangue
che insozzavano la terra battuta antistante il palazzo, ad appena un
centinaio di metri dall’ingresso della casa.
Anche
il giardino, sul lato principale, era stato incredibilmente rispettato
dalle scorribande degli Eserciti: tuttavia, in quelle tre settimane di
lontananza forzata, l’erba non era stata curata, per cui era
cresciuta spregiudicatamente indisturbata, dando un aspetto trasandato
all’ampia distesa verde e fiorita selvaggiamente.
Grazie
alla buona Sorte, il notaio Granieri aveva deciso che il giorno dopo,
lui e la sua famiglia, avrebbero fatto ritorno nel palazzo lasciato in
eredità dal suocero, cercando di lasciarsi alle spalle
quella dolorosa parentesi di vita.
L’uomo
aveva già informato la servitù di presentarsi per
mezzodì al loro cospetto, mandando di persona nelle varie
abitazioni di cuoca, camerieri, cocchiere e giardinieri uno degli
inservienti dei conti Caccia.
“E’
davvero un miracolo che non vi siano danni strutturali”
osservò compiaciuto don Aldo, mentre ritornavano alla
carrozza.
“Avete
ragione, è davvero straordinario! Sono convinto che, da
adesso in poi, ogni cosa si aggiusterà!”
L’altro
annuì, sorridendo con gli occhi azzurri.
“Sono
molto felice per voi, caro Armando, vi meritate tutta questa gioia, ve
la meritate come nessun altro”
NOTA
DELL'AUTRICE
La facciata neoclassica della chiesa del Carmine
Nel
1848, il popolo bresciano organizza un comitato clandestino capeggiato
da Tito Speri e da don Pietro Boifava, curato a Serle.
Il
23 marzo del 1849 la notizia della prevista riscossione da
parte degli Austriaci di una multa cospicua, imposta alla cittadinanza
per una precedente insurrezione cittadina, scatenò la
ribellione collettiva contro l’oppressore.
Brescia,
insorta confidando nell’aiuto piemontese, scelse di non
arrendersi agli Austriaci nuovamente vincitori a Novara, ingaggiando
una resistenza per dieci, lunghissimi giorni, con il coinvolgimento
della gente, che lottò strenuamente casa per casa e dietro
le barricate allestite nei punti chiave della città, mentre
gli austriaci, arroccati in Castello, bombardavano il perimetro urbano.
La
resa della Leonessa d’Italia si ebbe il 1° aprile
1849, dopo che il maresciallo Haynau, detto “la
jena”, accorso in sostegno della guarnigione austriaca
guidata dal generale Nugent.
L’insurrezione
fu spenta nel sangue, con una repressione violenta nei confronti dei
civili, piegati da fucilazioni che si protrassero nel tempo, fino al 12
agosto, data dell’amnistia voluta da Radetzky. Gli insorti
fatti prigionieri vennero rinchiusi in Castello e molti di loro
fucilati nei fossati e sugli spalti e sepolti sul posto. Nel complesso
furono 378 i civili morti durante le Dieci Giornate.
Tito
Speri animerà un nuovo comitato insurrezionale, ma
finì impiccato sugli spalti di Belfiore, a Mantova, nel 1853.
(tratto
da "Brescia Musei")
|
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Capitolo 37 *** All'attacco, Bersaglieri! ***
«
Mio caro generale,
vi
ho affidato l'affare di Genova perché siete un coraggioso.
Non potevate fare di meglio e meritate ogni genere di complimenti.
Spero
che la nostra infelice nazione aprirà finalmente gli occhi e
vedrà l'abisso in cui si era gettata a testa bassa
Ricordatevi
di far condannare dai tribunali tutti i delitti commessi da chiunque e
soprattutto nei confronti dei nostri ufficiali; di cacciare
immediatamente tutti gli stranieri e di farli accompagnare alla
frontiera e di costituire immediatamente una buona polizia.
Informateci
su ciò che succederà, sullo stato della
città, sul suo spirito, su coloro che hanno preso
più parte alla rivolta, e cercate se potete di far
sì che i soldati non si lascino andare a eccessi sugli
abitanti.
Li
8 aprile 1849
Vostro
affezionatissimo
Vittorio
»
Abbandonata
la campagna, si stavano addentrando nel centro cittadino, in
prossimità del Teatro Nuovo, quando la carrozza dovette
fermarsi.
“Che
succede?” domandò il conte Aldo al cocchiere, picchiettando
con il bastone sulla parete divisoria dietro il servitore.
“Ci
sono delle barricate, signore…”
In
quel mentre, il nitrire imbizzarrito dei due cavalli bianchi che
trainavano l’elegante Landau fece sobbalzare i galantuomini.
Don
Armando fissò per un fulmineo istante lo zio acquisito,
quindi si protese ad abbassare la maniglia della vettura, quando un
rombo acuto ed incredibilmente vicino lo trattenne dal compiere
qualsiasi altro gesto.
“Dobbiamo
capire che cosa sta accadendo” cominciò ad
agitarsi il notaio, irritato dal non sapere l’origine di
tutto quel trambusto.
“Torniamo
indietro, datemi retta. Faremo una strada alternativa per arrivare a
palazzo, più lunga certo, ma di indubbia sicurezza”
Granieri
scostò la tendina di velluto che li proteggeva alla vista
altrui, ritrovandosi ad ammirare uno spettacolo a dir poco
apocalittico: la Guardia Civica a cavallo aveva formato una sorta di
muraglia umana che stava tentando di contrastare la folla inferocita a
pochi metri dal loro schieramento.
Alcuni
soldati brandivano spade affilate, con cui cercavano di fendere
l’aria per allontanare l’assembramento
indesiderato, mentre altri avevano già caricato le pistole
ed i fucili, che mantenevano ben saldi in mano.
La
calca assomigliava ad un’unica ed immensa marea, pronta a
spostarsi avanti, indietro o di lato, a seconda del pericolo che
incombeva.
Uomini
e donne di qualsiasi età impugnavano con grinta e coraggio
dei bastoni di legno e dei forconi, gridando con una sola voce
“Abbasso Casa
Savoia! A morte il Re! A morte il Re!”.
Don
Armando avvertì una fitta di repulsione e di sbigottimento
attanagliargli lo stomaco: non riusciva a capire quale fosse la causa
che aveva scatenato quell’immenso putiferio. La gente non era
stanca dei morti e dei feriti che la recente guerra contro
l’Austria aveva causato inutilmente? Quanti altri giovani
come suo figlio avrebbero dovuto soffrire e rovinarsi la vita per i
capricci altrui?
“Non
servirà a nulla rimanere qui” il conte Caccia lo
ridestò dai suoi pensieri, intimandogli nuovamente di
allontanarsi il prima possibile dalla piazza.
Il
notaio annuì, notando il volto addolorato
dell’uomo, anch’egli spettatore della bolgia
infernale che si stava verificando a pochi metri.
All’ordine
del padrone, il cocchiere impugnò le redini e
spronò gli esemplari equini a riprendere la marcia.
Lentamente,
le voci dei manifestanti si affievolirono, trasformandosi in
un’eco lontana ed indistinta.
Improvvisamente,
però, la carrozza rallentò ancora una volta, fino
a fermarsi completamente.
Una
voce maschile aveva intimato al vetturino di frenare:
confabulò con il servitore qualcosa che i due uomini non
riuscirono a sentire, quindi un colpo di nocche fece calare il silenzio
all’interno della carrozza.
Il
nobile ed il borghese si guardarono per un lungo istante negli occhi,
mentre le loro teste si riempivano delle congetture più
stravaganti: erano i rivoluzionari? Li avrebbero uccisi? Li avrebbero
derubati e picchiati? Ma che cosa volevano? Come si sarebbero
comportati?
Poi,
la ritrovata lucidità impose ad entrambi che non poteva
trattarsi della folla che avevano incontrato solo pochi istanti prima,
perché nessuna persona con malvagie intenzioni avrebbe
bussato prima di compiere qualche nefandezza, né tantomeno
si sarebbe attardata a scambiare due parole con il cocchiere.
Don
Aldo aprì con cautela la portiera della Landau, ritrovandosi
di fronte un uomo sui trent'anni, la divisa impeccabile, in sella ad un
baio bianco.
Era alto, leggermente stempiato e sbarbato, e alle sue spalle si
stagliavano un paio di giovani soldati, anch’essi a cavallo.
“Buongiorno,
signori. Sono il comandante della Guardia Civica, Luigi Tornielli*: vi
prego di fornirci le vostre generalità per permetterci di
effettuare un semplice controllo delle vetture che transitano in questa
zona”
“Per
quale motivo, comandante? Vi state per caso riferendo a ciò
che sta capitando in piazza Castello?” si fece avanti il
notaio, le sopracciglia chiare aggrottate.
“Con
chi ho il piacere di parlare, signore?” ribatté
imperturbabile l'altro.
“Sono
il notaio Armando Granieri. Il conte Aldo Caccia ed io stiamo per
l’appunto venendo da quel luogo”
Il
più giovane dei due soldati davanti a loro
scarabocchiò i nomi su un taccuino rilegato in pelle, quindi
ritornò impassibile a fissare un punto indefinito
all’orizzonte.
“Esatto,
signor Granieri. Un manipolo si è riunito per manifestare
contro i fatti di Genova: inneggiano in sfavore del nostro amato sovrano,
per questo siamo stati chiamati da onesti cittadini a cercare di
placare i disordini e a controllare chiunque passi nei
dintorni”
“I
fatti di Genova?” si animò il nobiluomo, temendo a
cosa si stesse riferendo l’altro.
“Sì,
signor conte. Credo che sappiate ciò che è
accaduto nei giorni scorsi in quella città: il popolo si
è ribellato nei confronti dei nostri soldati e il Re
Vittorio Emanuele ha inviato rinforzi per contrastarlo. Ebbene, adesso
anche il nostro popolo insorge inutilmente, non comprendendo quanto
questo comportamento sia inefficace e dannoso per tutti”.
Tornielli,
gli occhi scuri e penetranti, continuava a mantenere un autocontrollo
incredibile, allo stesso modo del suo destriero, immobile e silenzioso.
Sia
Granieri che Caccia avevano letto sulla "Gazzetta Piemontese" un
articolo che riportava ciò a cui il comandante aveva
accennato.
Dopo
l'insurrezione pressoché in contemporanea di Brescia, tra il
5 e l’11 di aprile, infatti, la folla genovese era insorta
contro casa Savoia, in seguito alla disfatta di Novara.
I
cittadini di quella città del Regno si erano sentiti
sfiduciati ed abbandonati e non avevano alcuna intenzione di piegarsi
agli Austriaci.
In
loro aiuto, erano scesi in campo persino gli Americani e gli Inglesi, questi ultimi
garanti dell’Armistizio che Carlo Alberto aveva
infranto il 12 marzo dello stesso anno.
In tutta risposta, il nuovo sovrano non si era speso in alcuna
mediazione diplomatica, preferendo schierare il generale
Alfonso La Marmora insieme ai suoi bersaglieri e a parte
dell'Esercito ancora in piedi.
Dopo
una strenua resistenza, Genova cadde e venne sottoposta alle
più disparate violenze: molti soldati sabaudi,
infatti, compirono, come era successo a Novara, enormi
nefandezze, depredarono, violentarono ed uccisero i civili, accanendosi
su cose e persone.
Correva
voce che Lorenzo Parato, capo della Guardia Civica cittadina, si fosse
schierato con i Genovesi, tanto da venire arrestato ed inserito in una
lista di proscrizione, salvo essere graziato dall’amnistia
voluta dal sovrano e venire eletto nel luglio 1849 Presidente della
Camera.
“Dove
siete diretti?” continuò ad interrogarli Tornielli.
“A
Palazzo Caccia, a nemmeno un chilometro da qui. Possiamo andare,
comandante?” rispose rabbuiato il nobiluomo, addolorato per
l'ennesima manifestazione di degrado e di profanazione della
libertà a cui avevano dovuto assistere.
“Certamente.
Signor conte, signor notaio, vi auguro una buona giornata”
Si
scambiarono un accenno di saluto, portandosi le mani ai cappelli,
quindi don Armando richiuse lo sportello della Landau, mentre
l’altro ordinava nuovamente al cocchiere di ripartire.
Il
giorno dopo, a Palazzo, si respirava un’aria di partenza e di
incertezza.
Quando
nella tarda mattinata zio e nipote erano rientrati a casa, e il padre
di Costanza aveva diffuso la bella notizia
dell’incolumità della loro abitazione, tutti
–eccetto Nicolò che si limitò a
sorridere senza entusiasmo- si erano congratulati con lui e avevano
diretto una muta preghiera a Dio.
“Non
avreste potuto regalarci un dono più bello!”
esclamò confortata zia Rosa, abbracciandolo.
“Sono
sicura che le cose si sistemeranno! Dovete avere fiducia, caro Armando,
tutti noi dobbiamo avere fiducia e sperare di ritornare al
più presto alla vita di prima”
La
contessa lanciò un’occhiata elusiva al giovane
nipote, a cui erano palesemente rivolte quelle parole di
incoraggiamento, tuttavia il primogenito del notaio non
sembrò averla sentita.
Dopo
la volontà dell’uomo, già manifestata
in diverse occasioni di riappropiarsi della casa di famiglia, Costanza lo
aveva tirato in disparte, spiegandogli se fosse stato possibile
attendere un paio di giorni ancora, poiché il pomeriggio
successivo Nicolò avrebbe finalmente ricevuto la visita di
un suo caro amico, una persona che lo avrebbe senz’altro
aiutato a ristabilirsi.
Superato
un primo momento di smarrimento,
l’altro annuì comprensivo, temendo di
domandarle l’identità di questo misterioso amico:
chi era lui, in fondo, per giudicare le conoscenze del suo amato
figlio? Semplicemente, si concesse di accarezzarle
teneramente una guancia, per poi ritornare in mezzo agli altri.
Adesso,
mancavano appena una ventina di minuti alle quattordici e trenta,
l’ora in cui Pietro aveva fissato l’appuntamento
con Maffucci.
Costanza
aveva trascorso con trepidazione gli attimi che precedevano
l’incontro: sperava di rendere felice il fratello, desiderava
non deluderlo e, soprattutto, temeva di essersi spinta troppo in
là, oltrepassando la debole linea divisoria che
Nicolò continuava ad erigere tra lui ed il resto del mondo.
Per
tenersi indaffarata e non pensare a ciò che li
avrebbe aspettati, subito dopo il pranzo si era recata in camera sua
per cominciare a preparare le valigie per la partenza
dell’indomani.
Nina,
la giovanissima cameriera che l’aveva seguita anche a Palazzo
Caccia, la stava aiutando a riempire i bagagli, quando qualcuno
bussò alla porta socchiusa.
La
servetta, i capelli biondi sotto la cuffietta inamidata e gli occhi
azzurri, guardò in attesa di un accenno la sua padroncina,
che non tardò a domandare chi fosse e ad andare lei stessa
ad aprire.
“Spero
di non avervi disturbata…”
Pietro
la salutò con un sorriso imbarazzato –almeno fu
quello che interpretò la cugina- e, con un vago cenno del
capo, indicò la stanza che si intravedeva con chiarezza.
“No,
certo che no. E’ già arrivato?”
La
voce di Costanza si tinse di una nota di incertezza, mentre si umettava
le labbra.
“No,
non ancora. Però, avrei bisogno di parlarvi”
La
ragazza annuì, indirizzando uno sguardo a Nina e congedandola.
Rimasti
soli, i due si accomodarono al centro della camera, il parquet di
ciliegio ai loro piedi.
“Ecco
a voi la lettera che attendevate… “
Il
giovane estrasse dalla tasca interna della redingote blu scuro la busta
che era andato a recuperare la mattina stessa all’ufficio
postale: nonna e nipote, infatti, in seguito agli avvenimenti capitati
in città e all’impossibilità del
garzone dei Granieri di recarsi ogni due lunedì nelle valli
in cui abitava l’anziana donna, avevano deciso di continuare
la loro corrispondenza usufruendo del servizio delle Regie Poste, un
mezzo più sicuro e tutto sommato maggiormente veloce.
Costanza
lo ringraziò, finalmente rassicurata dalla lettera
dell’adorata nonna, ma continuò a non muoversi,
entrambi immobili l'uno di fronte all'altra.
Non
riusciva infatti a guardare in viso quel ragazzo che, in nelle ultime
settimane, aveva fatto tanto per lei e per il fratello: gli era
riconoscente per non essersi tirato indietro quando gli aveva chiesto
ripetutamente aiuto, accompagnandola in giro per la città ed
esponendosi al pericolo di poter essere arrestato per
l’attività sovversiva che svolgeva, e gli era
anche grata per le parole di comprensione che le aveva manifestato in
diverse occasioni.
Adesso,
invece, dopo che il padre aveva annunciato il loro ritorno a casa, la
giovane temeva che il rapporto di confidenza e amicizia che si era
creato avrebbe potuto irrimediabilmente incrinarsi, facendo ripiombare
Pietro in quella calma ostile che tanto l’aveva affascinata e
incuriosita.
“Siete
silenziosa: siete forse preoccupata per la vostra partenza?”
Il
cugino alzò lo sguardo nella sua direzione, sorridendole con
quegli occhi azzurrissimi che la incantavano ogni volta.
Costanza
ritirò la lettera della nonna in una delle maniche del lungo
abito color crema: non sapeva se dirgli la verità, temendo
che la schernisse, oppure minimizzare l’intera faccenda.
“Non
esattamente. Quello che sto cercando di dirvi è che...
sì, insomma, ci avete trattato con talmente tanto riguardo,
facendoci sentire a nostro agio, che ho quasi paura di ritornare a
casa, lontana dalla risata severa di zia Rosa, dai commenti sulle
letture che più ci piacciono, dagli sguardi affettuosi dello
zio Aldo … insomma, ho già provato questa
sensazione quando ho dovuto lasciare il paese e mia nonna, e vi
assicuro che non è stato affatto piacevole”
“Ma
domani non vi trasferirete in un'altra città, tornerete
solamente nella vostra casa, a nemmeno mezz’ora da qui! Vi
prometto che verrò a trovarvi spesso, talmente sovente che
pregherete di liberarvi di me!”
La
cugina sorrise, stringendogli una mano: era proprio quello che voleva
sentirsi dire, quelle erano le parole che sperava Pietro pronunciasse,
perché significavano che dietro la corazza che aveva
abilmente costruito, lui teneva alla complicità che si era
creata tra di loro, e non vi avrebbe rinunciato per nessun motivo.
“La
verità è che non vi ho mai ringraziato abbastanza
per tutto quello che avete fatto per la mia famiglia: anche la proposta
avanzata ieri sera, quella di accompagnare Nicolò fino a
Torino alla ricerca del suo amico, è stato un gesto che vi
fa onore…”
Pietro
si schernì con un gesto di sufficienza della mano sinistra.
“Aspettate
a decantare le mie doti, cara cugina, in fondo dobbiamo ancora partire:
quando e se riusciremo a trovare il soldato a cui vostro fratello
è tanto affezionato, allora sì, se ancora
vorrete, avrete tutto il diritto di ringraziarmi, ma adesso non
è necessario, credetemi”.
La
ragazza restituì il sorriso che le era stato rivolto, poi si
concentrò a guardare la finestra alla sua destra, le tende
aperte e gli infissi dischiusi a metà.
Il
sole era piacevolmente caldo ed inebriante: Costanza avrebbe voluto
rimanere lì ancora per molto tempo, lasciandosi cullare dal
tepore dell’astro luminoso e dalla voce bassa e suadente del
ragazzo, la cui vicinanza le infondeva tranquillità e
sicurezza, ma non poteva dimenticare l’incontro che sarebbe
avvenuto di lì a breve.
Indugiarono
in silenzio per una manciata di secondi, indecisi su come proseguire
quella conversazione, fino a quando il suono acuto del batacchio della
campanella all’entrata non squarciò
l’aria.
I
due giovani si voltarono in quella direzione, e rimasero a fissare la
figura di un trentenne alto e magro, i capelli scuri e gli
inconfondibili baffetti neri.
“E’
arrivato. Me lo sentivo che sarebbe stato in
anticipo…”
Pietro
si avvicinò agli scuri, abbozzando un sorriso.
“Forse
sarà meglio scendere” continuò il
conte, rivolgendosi alla cugina.
Lei
annuì, le mani intrecciate e nervose, mentre avvertiva un
tuffo al cuore.
Improvvisamente,
si domandò se quello che stavano facendo era giusto, se era
quello che Nicolò avrebbe voluto.
Non
poteva rischiare di sbagliare anche quella volta, non voleva sminuire
il fratello o spingerlo ad auto commiserarsi più di quello
che già stava facendo ogni santo giorno.
“Come reagirà alla
vista del suo mentore? Vorrà vederlo, vorrà
parlargli?”
Costanza
seguì come un automa l’invito di Pietro ad uscire
dalla stanza, avvertendo uno strano vortice che le apriva il petto in
due.
Era
inutile tempestarsi di interrogativi: la verità è
che avrebbero dovuto attendere solo pochi minuti, e poi avrebbero avuto
tutte le risposte che cercavano.
NOTA DELL'AUTRICE
Ciao a
tutti!
Spero
che la storia continui a piacervi: ne approfitto per ringraziare tutti
coloro che la leggono, la seguono e la recensiscono.
Per
quanto riguarda il capitolo, non so se a Novara vi è stata
una ribellione popolare a sostegno dei moti di Genova, ma mi
è servita come espediente per spiegarvi questa pagina
storica del nostro Risorgimento!
*Il
marchese Luigi Tornielli (1817-1890) è stato un politico e
senatore dell’Italia Unita.
*Un altro importantissimo protagonista dei moti di Genova, oltre a
Pareto, fu sicuramente il giovane studente di Medicina Alessandro de
Stefanis, che il 5 aprile, durante una perlustrazione, rimase coinvolto
in uno scontro a fuoco con i Piemontesi; ferito ad una gamba,
riuscì a rifugiarsi in una cascina, ma venne trovato dai
soldati sabaudi, che lo picchiarono a calci e pugni e a colpi di
baionetta, lasciandolo in fin di vita. Fu trovato da un ufficiale con
il quale aveva combattuto a Custoza, l’anno precedente, che
lo soccorse e lo trasportò dapprima in ospedale e poi nella
sua casa. Il ventitreenne patriota, amico di Mameli, morì
dopo un mese di agonia.
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Capitolo 38 *** L'amico ritrovato ***
Il perdono
è il sentimento più difficile che ci hanno
insegnato a provare.
(Anonimo, XX° secolo)
Dopo le opportune strette di mano e i convenevoli saluti, i tre
attraversarono indisturbati l’ampio ingresso, luminosissimo
grazie alla mezza dozzina di finestre lasciate aperte per fare entrare
il caldo sole primaverile.
Costanza
e Pietro accompagnarono Maffucci su per l’elegante scalinata
di marmo, i volti impensieriti.
Con
una mano, la giovane reggeva il lungo abito color crema, mentre con
l’altra il corrimano di legno intarsiato, non riuscendo ad
evitare quella sorta di tensione palpabile che gravava
nell’aria: al timore per l’inconsapevole reazione
che avrebbe potuto scatenarsi nel fratello, infatti, si aggiungevano
gli sguardi affilati e titubanti che il trentenne dai baffetti si era
premurato di rivolgere al cugino.
Era
come se cercasse di leggergli l’anima, come se volesse, con
la sola forza delle occhiate, comprendere a fondo i segreti che egli
celava.
Finalmente
in cima alla meta, la ragazza condusse l’ospite lungo un
largo corridoio parzialmente al buio, le cui pareti erano tappezzate di
quadri di antenati della famiglia Caccia e di fumosi paesaggi lacustri.
Si
fermarono davanti ad una porta immacolata alla loro sinistra,
completamente chiusa.
“Se
attendete un minuto, vi annuncerò a Nicolò. Devo
però chiedervi un favore: da quando è tornato,
mio fratello è molto cambiato, non solo nel corpo, ma anche
nella mente”
“Lo
so” la interruppe l’avvocato
con un
gesto di sufficienza della mano, accarezzando con gli occhi neri la
figura di Costanza.
“Pietro
mi ha già istruito sul comportamento che mi
converrà tenere durante il nostro incontro, non
temete”
La
giovane Granieri rimase per qualche istante sorpresa
dall’intonazione tagliente che il trentenne aveva utilizzato:
certo, non era nuova allo stile provocatorio dell’uomo,
tuttavia qualcosa dentro di lei le suggeriva che quelle parole avevano
più il sapore di una presa in giro piuttosto che della
semplice verità che racchiudevano in sé.
“Molto
bene” tentò di riprendere le fila del discorso
“potete stare tranquillo che qualunque cosa uscirà
dalla bocca di Nicolò non sarà rivolta
direttamente a voi, ma ai suoi incubi del passato…”
Maffucci
annuì con aria greve, il cappello pece tra le mani, e la
consolò rassicurandola che aveva capito: questa
volta, inaspettatamente, il suo tono appariva sincero e per nulla
canzonatorio.
Costanza
annuì, gli angoli della bella bocca carnosa abbassati in un
sorriso, quindi si decise a bussare leggermente al pannello davanti a
loro e, senza attendere risposta, ad abbassare la maniglia, sparendo
all’interno della stanza.
La
camera da letto era ampia come il resto del palazzo e particolarmente
luminosa: un piccolo tavolino decorativo di ciliegio era adagiato ai
piedi di un vecchio baule da viaggio, circondato da un paio di
poltroncine imbottite di velluto rosso; di fronte a lei, a fianco della
parete su cui si apriva la finestra dalle spumose tende scure -ora
accostate- era adagiato un grazioso scrittoio di mogano, con davanti un
elegante scranno intarsiato.
Infine,
alla sinistra di chi entrava, oltre un larghissimo tappeto dai colori
sgargianti, svettava un altissimo armadio con le ante raffiguranti un
paesaggio campestre e i grandi pomelli di madreperla.
“Nicolò,
c’è una visita per te…”
Il
giovane era mollemente disteso sull’infinito letto a
baldacchino, dando le spalle alla sorella.
Era
rannicchiato su un fianco, come un feto nel grembo materno, e sembrava
dormire: non si mosse di un centimetro, ma Costanza sapeva che il
fratello non stava affatto riposando.
Infatti,
non appena gli ripeté la domanda, lui si mosse leggermente,
mugugnando che non voleva vedere nessuno.
“Ho
sonno, lasciami in pace” biascicò, sgusciando con
il capo sotto il soffice guanciale.
“Non
posso. Questa persona è venuta apposta per incontrarti:
tiene molto a te, e sono sicura che è lo stesso sentimento
che provi nei suoi confronti”
L’altro
non ribatté, preferendo ritornare immobile, come se le fila
invisibili che lo avevano mosso fino a quel momento si fossero
improvvisamente spezzate, lasciandolo nuovamente inerme e privo di
volontà propria.
La
ragazza non aveva alcuna intenzione di demordere, non quando era ad un
passo dalla meta, perciò fece finta di ignorare le deboli
suppliche del fratello, spronandolo a sollevarsi e ad accogliere
l’ospite nel migliore dei modi.
La
figlia del notaio riaprì la porta e, con un gesto di
incoraggiamento, diede il via libera a Maffucci per entrare.
“Bene,
ora vi lascio soli… per qualsiasi cosa, io sono
dabbasso”
Costanza
uscì senza voltarsi, il cuore che voleva strariparle dal
petto, speranzosa di aver compiuto la scelta più giusta.
Guardò
Pietro, impeccabile nella sua redingote blu scuro, le mani dietro la
schiena, e attese un cenno di incoraggiamento, che non
attardò ad affiorare sul bel volto sbarbato.
Le
offrì il braccio destro, gli occhi azzurrissimi che le
infondevano una muta fiducia, quindi la invitò ad aspettare
in biblioteca.
“Là
staremo più comodi, venite”
I
due si sorrisero e scesero senza fretta i gradini.
“Ciao,
Nicolò. Come stai?”
All’udire
il suono di quella voce che tanto aveva idolatrato, il giovane Granieri
balzò a sedere, stando attento a non mostrare il volto.
Quel
movimento repentino gli provocò l’ennesima fitta
di dolore della giornata, bersaglio il braccio sinistro ormai guarito,
la cui pelle però continuava ad apparire come un unico
rattoppo di carne.
“Eugenio…
che cosa ci fai qui? Chi ti ha chiamato?”
Maffucci
si avvicinò di qualche passo, indeciso se proseguire o
fermarsi.
Sorrise
tristemente e scrollò le spalle, dicendogli che non
importava chi lo avesse contattato.
“In
questi giorni, non ho più avuto tue notizie, così
ho chiesto ai nostri amici che ancora sono in città se
qualcuno ti avesse visto, se sapevano dove ti eri cacciato. Sai,
immaginavo che non saresti rimasto con le mani in mano:
d’altronde, l’ultima volta che ci siamo salutati,
ti ho lasciato proprio davanti all’albergo
svizzero...”
Nicolò
si agitò sul materasso, la schiena dritta e le mani in
grembo: sollevò appena il mento, perdendosi a guardare oltre
i pannelli della finestra.
“Deve
fare piuttosto caldo, oggi: il tepore del sole riesce a filtrare
persino dalle tende tirate. Dimmi, tu che vieni da fuori, è
così?”
Il
trentenne con i baffetti e il cappello ancora tra le mani fece qualche
passo nella direzione del suo interlocutore, poi annuì.
“Sì,
è vero, sembra quasi estate: sai, a volte credo che il tempo
sia balordo come le persone, non lo pensi anche tu? Insomma, siamo solo
a fine aprile! Certo è che se continueranno ad esserci
queste temperature, tra un paio di mesi passeremo le nostre giornate a
mollo nella vasca!”
Il
nuovo venuto aprì la bocca per continuare, tuttavia,
accorgendosi della mancanza di collaborazione da parte di
Nicolò, preferì attendere una manciata di secondi
prima di profferire alcunché.
Si
guardò intorno, ammirando la fattura elegante degli arredi,
quindi si decise a proseguire quello che aveva tutta l’aria
di evolversi in un lungo ed estenuante monologo.
“Raccontami
qualcosa, che ne dici? Anzi, ti faccio una proposta: perché
non vieni a trovarmi a casa?” suggerì animandosi,
avvicinandosi ulteriormente.
“Potremo
trascorrere qualche ora in compagnia, solo tu ed io, o se preferisci
potremo uscire a cena o andare a bere al circolo: a questo
proposito, la mia bella Elettra mi chiede spesso di te, ed io
sono quasi geloso di tutto questo interesse nei tuoi
confronti!”
L’avvocato
abbozzò una risatina che risuonasse il più
naturale possibile, mentre continuava a tormentare il cappello che
aveva tra le mani.
“Immaginavo
facesse caldo… “
Nicolò,
ora con le spalle incurvate rivolte all’amico, era come se
non avesse sentito ciò che gli era stato detto: la voce
risuonava monocorde, roca, quasi assonnata.
Un
brivido freddo percorse la schiena di Eugenio, che improvvisamente si
rese conto di non sapere come comportarsi: forse, intraprendere la
strada dell’allegria forzata e delle battute goliardiche non
rappresentava la soluzione più consona.
Non
poteva uscire da quella stanza sconfitto, soprattutto non voleva:
sebbene le divergenza del giorno precedente occorse con il conte Caccia
a riguardo dei recenti fatti di Brescia, Pietro e la bella Costanza
avevano riposto completa fiducia in lui, quindi era suo preciso dovere
non deluderli.
Un
pensiero fece capolino nella mente del trentenne, un pensiero tanto
assurdo quanto sciocco, tanto che quasi si vergognò di
averlo anche vagamente formulato: il suo affezionato e sincero amico
riusciva ancora a sentire bene? Quel giovane patriota di cui tanto era
stato orgoglioso aveva conservato il prezioso dono
dell’udito? Certo, tale senso non doveva aver riportato alcun
danno, si convinse il capo degli affiliati, altrimenti non lo avrebbe
salutato con il proprio nome, quando era entrato nella stanza.
Allora
perché non rispondeva a dovere alle sue domande,
perché sembrava rifugiarsi in un mondo a lui solo
famigliare? D’altronde, la sorella lo aveva avvisato che non
era del tutto rinsavito…
“Se
non hai voglia di parlare, ti capisco. Posso tornare più
tardi, magari anche domani, o addirittura un altro giorno. Sempre che
ti faccia piacere, è chiaro…”
Nicolò,
la schiena ancora rivolta all’interlocutore, si
animò nuovamente sul baldacchino: si morse con violenza il
labbro inferiore e strinse con forza i pugni, facendo sbiancare le
nocche, come gli capitava quando era nervoso, rabbioso, impotente, gli
stessi sentimenti che avvertiva esplodergli nel petto.
Tutto
il suo ardore e la speranza per le nascenti Repubbliche
–quella veneta prima e quella romana poi-, la fuga del
granduca Leopoldo dalla Toscana e del papa Pio IX, da febbraio
rifugiato a Gaeta, che giovamento gli avevano arrecato? Nessun
beneficio, si convinse.
Di nascosto, durante quei giorni di prigionia dorata, aveva colto i
discorsi del padre e dello zio Aldo sulle rivolte di Brescia e di
Genova, e nel suo cuore aveva cominciato a farsi strada la tristezza
più cupa, per questo non riuscì a trattenersi
oltre.
“Certo, vai pure! Dopotutto, tu sei stato capace solamente a
nasconderti, a recitare la parte del valoroso eroe, non è
forse vero? Peccato che quando è stato il momento di
combattere, di metterci la faccia, ti sei rintanato chissà
dove, hai fatto la parte del topo, il miglior ruolo che tu abbia mai
interpretato! Ma voglio comunque farti vedere una cosa: guarda, guarda
con i tuoi occhi da inetto quello che sono diventato!”
Solo
a quel punto, infatti, il giovane Granieri balzò in piedi e
si voltò, avvicinandosi furioso a Maffucci: si
strappò la camicia di seta che aveva indosso, denudando il
braccio sinistro, ferito durante la battaglia della Sforzesca.
“Guarda
le cicatrici che adesso deturpano il mio corpo! Il dolore che provo la
notte non è nemmeno lontanamente immaginabile! Guarda il mio
viso, la mia fronte, i miei capelli! I miei occhi sono costantemente
velati, quasi al buio! A malapena riesco a riconoscere le ombre che mi
circondano, e tu mi vieni a parlare di quanto sia geloso che la tua
Elettra chieda di me! Nessuna donna vorrà più
avere a che fare con me, nessuna persona mi tratterà come
prima, nessuno mi guarderà con la stessa naturalezza di
prima! Avvicinati, non avere paura, guarda come mi sono ridotto, e
dimmi: tu dov’eri quando ho sacrificato tutto per la nostra
causa?! Dov’eri, Eugenio, dove sei stato, dove ti sei
nascosto?! Dimmelo, maledizione, dimmelo adesso!”
Il
trentenne arretrò di scatto, impaurito dalla follia che
emanava il suo antico compare, in affanno davanti a lui, i ricci
scomposti e gli occhi di bragia.
Che cosa gli è
accaduto? si domandò, come ha fatto la guerra a
cambiarlo tanto radicalmente, a sostituire la pazzia genuina che tutti
noi provavamo con una rabbia atavica che lo divora
dall’interno?
“Io…
io ero nascosto, è vero, ma non è come
pensi” riuscì a dire l’avvocato, lo
sguardo basso e la voce simile ad un sussurro.
“Dopo
che il 20 marzo ti ho accompagnato all’albergo svizzero per
arruolarti, sono tornato a casa a prendere tutto il denaro e i preziosi
che avevo, in modo da poterli vendere al mercato nero e acquistare
più armi possibili con cui finanziare il nostro Esercito.
Armi che ho fatto avere ad un mio amico ufficiale, Nicolò,
credimi”
A
sentir pronunciare il proprio nome, l’altro si
animò nuovamente: arretrò di qualche passo, il
respiro ancora alterato, e si abbandonò sul letto, il petto
nudo.
“Non
ho potuto arruolarmi, ma avrei voluto, e non è una bugia
quella che ti sto raccontando: sei la prima persona a cui lo confesso,
ma quando ero molto piccolo, avrò avuto due o tre anni, ho
contratto la polmonite, una malattia che mi ha lasciato numerosi
strascichi. Mi affatico appena cammino un po’ più
a lungo del solito, i miei polmoni non riescono a supplire alla
mancanza d’aria, e immaginare di combattere in mezzo alla
polvere sollevata dagli zoccoli equivarrebbe a uccidermi! Anzi, ti
dirò di più: la sera stessa in cui tu venisti a
chiedermi aiuto, la sera del 19 marzo, non potevo accettare di non
rendermi realmente utile dopo tutto ciò che avevo raccontato
a voi, ai miei affiliati!”
Fece
una breve pausa, deglutendo e ritornando a fissare gli occhi neri in
quelli ambrati dell’amico.
“Quel
pomeriggio, infatti, sebbene non ci speravo troppo, ero andato
anch’io all’albergo svizzero per chiedere di
potermi arruolare, ma venni scartato dal medico ufficiale, proprio a
causa dei miei problemi di salute. Ebbene, se non ci credi, amico mio,
vieni con me: a casa ti farò vedere il certificato che
conferma le mie parole!”
Nicolò
aprì la bocca, gli occhi colmi di lacrime che non avevano il
coraggio di uscire, devastato come ogni volta che la rabbia e la
desolazione prendevano il sopravvento sulla razionalità
della mente.
“Ho
dovuto nascondermi in soffitta perché la notte degli scontri
in città, tra il 23 ed il 24 marzo, alcuni soldati si sono
introdotti nel palazzo in cui vivo, con l’evidente intenzione
di depredare qualsiasi forma di ricchezza sarebbero stati in grado di
sgraffignare: non so di quale fazione fossero, se appartenessero al
nostro Esercito o a quello degli Austriaci, perché le loro voci mi arrivavano attutite, e sicuramente non potevo
permettermi che mi scoprissero, tanto più se si trattava di
nemici, poiché l’identificazione del mio ruolo nel
gruppo rivoluzionario avrebbe potuto mettere in grave pericolo noi
tutti"
Deglutì ancora una volta, acquistando così una
maggiore sicurezza.
"Io… io ti chiedo scusa, Nicolò, se non ho potuto
affiancarti anche sul campo di battaglia, ti supplico di perdonarmi se,
con le mie parole, ho rischiato di farti perdere la vita. Ti prego,
lascia che continui ad incontrarti, per favore: non potrei sopportare
di perderti, proprio adesso che ci siamo rincontrati”
All’improvviso,
il giovane Granieri provò una vergogna che mai aveva
avvertito in tutta la vita: si sentiva indebolito, sfibrato, stremato,
quasi prosciugato, tuttavia non riusciva a pentirsi completamente per
lo sfogo a cui aveva dato fiato pochissimi istanti prima.
Doveva
ammettere di aver giudicato troppo in fretta, si era lasciato
trasportare dai sentimenti di odio e vendetta che, nelle ultime
settimane, erano ormai la sua unica vera compagnia, ma non poteva
più convivere con quel macigno che gli opprimeva ogni
singolo pensiero, con la frustrazione e l’invidia verso
coloro che non avevano condiviso il destino suo e di Stefano.
Fissò
con lo sguardo perso Maffucci e, non riuscendo più a
trattenere le lacrime, scoppiò a piangere, nascondendosi il
viso con le mani.
Si
accasciò disperato sullo scendiletto, umiliato e folle al
contempo.
Eugenio
lasciò cadere il cappello sul lucido parquet, quindi si
avvicinò senza remora al giovane: si abbassò al
suo livello e lo abbracciò sinceramente, stringendogli con
forza e riconoscenza le spalle, orgoglioso e ammirato dal sacrificio
che aveva compiuto.
NOTA DELL'AUTRICE
Buon pomeriggio a tutti, carissimi e adorati lettori!
Vi è piaciuto il capitolo? E come vi sono sembrati il
comportamento di Maffucci e di Nicolò? Spero che tutto sia
stato verosimile e piacevole da seguire.
Se alla mia mente contorta non verranno in mente altre strane idee, non
dovrebbero mancare più di sette capitoli alla fine di
quest'opera (permettetemi di chiamarla così, data la
lunghezza) a dir poco infinita!
Bene, allora vi ringrazio e vi auguro buon proseguimento di giornata!
A presto!
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Capitolo 39 *** Nuove minacce ***
Chi la fa l'aspetti.
Eugenio Maffucci, l’avvocato trentenne a capo del gruppo dei
rivoluzionari novaresi, era appena andato via: le speranze che Costanza
e Pietro avevano nutrito in lui erano state esaudite completamente.
Nicolò
aveva accompagnato all’ingresso il suo amico, dopo che i due
si erano rintanati in camera del giovane Granieri per quasi un paio di
ore.
Suo
fratello era visibilmente sereno, persino felice, e sembrava non avere
più vergogna di mostrare il suo volto deturpato davanti agli
altri.
Era
come se vi fosse una nuova luce che gli brillava negli occhi velati,
una sorta di improvvisa quanto matura consapevolezza che il suo
futuro avrebbe potuto prendere una piega diversa, quasi in
positivo.
Costanza
abbracciò con trasporto e commozione il fratello, cercando
di trasmettergli fiducia e serenità: gli carezzò
una guancia e poi lo baciò sulla fronte, alzandosi sulle
punte delle scarpette.
“Sei
stato molto coraggioso ad affrontare tutto questo: sappi che io sono
orgogliosa di te e di quello che sei diventato. Sono convinta che
insieme ce la faremo, te lo prometto”
Il
ragazzo la scrutò con il solito sguardo incolore e
concentrato, ma subito una smorfia di approvazione solcò il
viso smagrito e glabro: ricambiò la carezza e le prese il
volto tra le mani, la voce ammorbidita dal rancore che, fino a quel
momento, l’aveva fatta da padrone.
“Lo
so, sorellina, adesso lo so anch’io. E la prossima mossa
sarà quella di ritrovare Stefano, glielo devo”
Nicolò
si fece riaccompagnare in casa, i passi decisi come non lo erano da
tempo, mentre la giovane alzava lo sguardo verso una delle numerose
finestre disseminate sull’ampia facciata della villa:
avvertiva di essere osservata, e non a caso gli occhi verdi
incrociarono quelli azzurrissimi di Pietro, affacciato al parapetto,
per poi salutarsi con un cenno della mano.
Le
narici si dilatarono impercettibilmente, il cuore accelerò i
battiti e un sorriso sghembo fece capolino sulle sue labbra carnose:
finalmente, dopo tanto tempo, si sentì del tutto rassicurata.
Santa
Maria Maggiore, domenica 15 aprile 1849
Carissima
nipote,
come
stai? Mi auguro che dall’ultima volta che ci siamo scritte la
situazione in quella città disgraziata sia migliorata.
Penso
sempre a te, a Nicolò, persino ai tuoi folli genitori che
hanno preferito abbandonare i nostri variopinti monti per la scialba
pianura.
Sono
seduta nell’angolo del parco che tanto ti piace, in mezzo
alle siepi di phorsythia e ai roseti: quest’anno i cespugli
di ortensie sono ancora più rigogliosi, per non parlare dei
gigli in fiore, i cui gambi sono talmente alti da occludere la visuale
dei vasi di aspargina!
Capirai
dalle mie parole che sono molto felice: appena due giorni fa, infatti,
il comandante delle Guardia Civica è venuto di persona alla
villa per comunicarmi che avevano arrestato i malviventi che, quella
terribile notte di oltre un mese fa, avevano incendiato le cantine e
parte del primo piano del palazzo.
Ebbene,
carissima Costanza, sono due folli bagordi, due ubriachi svizzeri che,
passato il confine in maniera subdola, hanno cominciato a depredare le
abitazioni signorili della nostra zona: al comandante hanno giurato che
non volevano far del male a nessuno, ma la situazione rimane comunque
oscura.
Io
non so se credere alle loro parole: dopotutto, se davvero non era loro
intenzione comportarsi in modo tanto subdolo, perché dare
fuoco alle cantine? Avrebbero potuto limitarsi a rubacchiare le forme
di formaggio, le otri del vino e le giare con l’olio, oppure,
cosa assai migliore, bussare alla mia porta e domandare un
po’ di cibo ed un lavoro onesto che, conoscendomi come mi
conosci tu, non avrei negato.
Lo
sai bene che davanti alla povertà non mi volto mai
dall’altra parte, che donerei metà della mia casa
pur di non veder soffrire un altro essere vivente, per questo non
riesco a giustificare il comportamento di quei due
“signori”.
L’importante,
cara nipote, è che le forze dell’ordine abbiano
arrestato i colpevoli, facendoci dormire sonni tranquilli.
I
lavori di ristrutturazione sono ormai ultimati, grazie al Cielo, e i
danni sono stati quasi completamente arginati: quest’anno,
purtroppo, dovremo far fronte alla generosità dei nostri
vicini, altruismo che non è affatto mancato: non
potrò né vendere né dividere con i
miei contadini formaggio, vino ed olio, ma non è mia
intenzione arrendermi e rinunciare alla nostra pregiata produzione.
Inoltre,
la fuliggine che imbrattava le pareti dell’ingresso
è stata pulita e lavata via, per cui non posso davvero
lamentarmi.
Ora
devo andare, nipote adorata, perché ho un appuntamento con
il sindaco, il signor Bagnasco, per discutere di alcune noiosissime
faccende di cui non conosco ancora la natura.
Nel
frattempo, ti abbraccio affettuosamente, e lo stesso spero tu farai da
parte mia con tuo fratello Nicolò e con quelli sciagurati di
genitori che ti ritrovi.
Tua
devota nonna Maria
Le
sei e mezza erano state battute da qualche minuto dal campanile della
chiesa di san Giuseppe: il sole caldo e famigliare che aveva illuminato
quella giornata di fine aprile stava cominciando la sua lenta discesa
all’orizzonte, provocando continui giochi di luce ed ombre.
Costanza
aveva letto la lettera dell’adorata nonna seduta su una delle
panchine del parco, sorridendo per la bella notizia che le aveva
comunicato: non vedeva l’ora di riabbracciarla, di
raccontarle della paura viscerale che l’aveva imprigionata
durante i giorni in cui Nicolò era lontano, inglobata
nell’incertezza e nel timore notturno dell’assedio
tra il 23 ed il 24 marzo.
Stropicciando
la busta e lisciandola subito dopo, si stava persino convincendo a
confessarle dell’affetto profondo e un po’
misterioso che sentiva di nutrire per Pietro: rilesse meccanicamente le
ultime righe dell’epistola, quindi sbatté le
palpebre un paio di volte, riscuotendosi da quel torpore e dandosi
della stupida sentimentale.
Quella
sera, dopo cena, avrebbe domandato ai suoi genitori di poter invitare
la nonna a trascorrere qualche settimana a palazzo, approfittando del
tempo assai clemente e delle giornate che si erano notevolmente
allungate.
Sapeva
che donna Maria non avrebbe accettato facilmente, dal momento che non
faceva mistero di provare una certa avversione, a tratti tendente
persino all’odio, per quella città in cui si era
ritrovata a vivere per trent’anni, prima di ritornare ad
abitare con marito e figlie a Santa Maria Maggiore.
Ma
la ragazza era abbastanza certa che la nonna non si sarebbe tirata
indietro ad accontentare la sua richiesta, tanto più dopo i
gravosi avvenimenti che avevano seguito la battaglia della Bicocca.
La guerra: che esperienza
terribile e surreale che si è rivelata. Non ha fatto altro
che sconvolgere i nostri progetti e i nostri sogni, legandoci ad una
quotidianità di infelice miseria.
All’improvviso,
una vaga malinconia s’impadronì di lei, non appena
pensò che avrebbe dovuto finire di controllare che i bagagli
fossero pronti per la mattina successiva, quando i Granieri al completo
avrebbero fatto ritorno a palazzo, nella zona del Torrion Quartara.
Quelle
quasi quattro settimane alla villa degli zii erano trascorse come in un
sogno, coccolata e accontentata non solo dall’efficiente
servitù, ma anche dai componenti della famiglia della madre.
Questo
mese mi ha insegnato a non smettere di lottare per me e per gli altri:
sono diventata indubbiamente più forte e meno timorosa di
quello che le mie azioni potrebbero comportare, e ciò ha
contribuito a farmi crescere come donna, sorella e figlia.
Una
leggera brezza s’insinuò tra i rami bassi e nodosi
del salice piangente, le cui radici si aprivano nel terreno alle spalle
di Costanza: la giovane rabbrividì, poiché un
senso di freddo che non sapeva spiegarsi razionalmente le stava
percorrendo le spalle lasciate nude dall’abito color cipria.
Non
aveva desiderio di alzarsi e di rientrare in casa, tuttavia il vento
dispettoso non accennava a diminuire, facendola desistere dai suoi
propositi di rispondere alla nonna e di raccontarle le ultime
novità.
Stava
già camminando lungo il viale alberato, circondato da
gladioli, violaciocche e margherite nel pieno tripudio dei loro profumi
e colori, quando sentì il cancello dietro di sé
aprirsi, mentre i passi degli stivali di un uomo risuonavano accelerati
sul selciato.
La
ragazza si voltò appena, incuriosita dalla nuova presenza:
il suo innocente interesse lasciò ben presto spazio al
livore e al ribrezzo.
Federico,
infatti, elegante in un completo da giorno grigio perlaceo, la stava
fissando con il solito sorriso beffardo sul bel volto disegnato, i
capelli scuri che brillavano ai riflessi del sole ormai sulla via del
tramonto, gli occhi color ambra che sembravano deriderla apertamente.
Allungò
il passo e in pochi secondi raggiunse la cugina.
“Permettete
di scortarvi fino a destinazione?”
Costanza
si costrinse senza difficoltà alcuna a non degnarlo di uno
sguardo, sollecitando a sua volta la camminata.
“Non
è necessario, caro cugino, sto solamente rientrando in
casa…”
“Ed
io che pensavo vi stavate affrettando per non parlare con me!
Già, d’altronde voi avete ben altri interessi, non
è così? Ad esempio, quel ragazzo che è
uscito da palazzo meno di mezz’ora fa: ho visto il modo
ossequioso in cui si rivolgeva a voi e al mio caro fratello. A
proposito, com’è che si chiama? Maffucci, se non
vado errato…”
La
ragazza si irrigidì per un istante, ma non voleva dargliela
vinta: come era venuto a conoscenza dell’identità
del trentenne che aveva fatto compagnia a suo fratello in quel
pomeriggio gioioso di fine aprile?
Quel
giovane era un mostro, un essere insensibile, che pensava solamente al
proprio tornaconto.
Dev’essere
rientrato senza che ce ne accorgessimo, rifletté
amaramente la giovane,
in quanto Pietro aveva appositamente scelto un orario in cui fossimo da
soli a ricevere Eugenio.
Finalmente,
giunsero sulla soglia dell’immenso portone spalancato, ma
Federico non esitò a bloccare Costanza, proprio
nell’istante che le avrebbe permesso di sgusciare al sicuro
all’interno.
“Ricordatevi
che io so molte più cose di quante voi possiate immaginare.
Una mia parola a chi di dovere e potrei farvi male come non vi sareste
mai aspettata”
Il
secondogenito dei conti Caccia attese la replica della giovane, che
preferì stare in silenzio e alzare lo sguardo al cielo, in
cerca di un qualsiasi aiuto: se solo Pietro si fosse affacciato!
“Tuttavia,
non ho intenzione di lasciarmi sfuggire alcunché sulle
amicizie poco rispettabili del mio caro fratello Pietro o di
Nicolò, ma non tirate troppo la corda, cugina,
perché anche la mia pazienza ha un limite, sappiatelo fin da
ora… ”
Lei
lo fissò con uno sguardo carico d’odio, gli occhi
verdi che avrebbero voluto incenerirlo.
Strattonò
il braccio imprigionato in quelle grinfie, modulando il respiro
affannato, e avanzò decisa verso la scalinata di marmo,
soffocando la rabbia per non averlo schiaffeggiato.
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Capitolo 40 *** Nonna Maria ***
A volte,
un abbraccio è meglio di mille parole.
(Anonimo,
XX secolo)
Il mattino successivo, a colazione, la tavolata era assorta nei propri
pensieri: nemmeno le invitanti visioni delle torte appena sfornate, lo
stuzzicante profumo di cannella e limone dei biscotti o il dissetante
succo di more riuscivano a risvegliare i commensali dal velo di
tristezza che aveva ammantato le loro menti.
I
bagagli, infatti, erano già stati caricati nelle due
carrozze che avrebbero condotto i Granieri nel loro palazzo, nella zona
del Torrion Quartara.
Dalle
finestre lasciate aperte, si intuiva facilmente che anche quella
sarebbe stata una giornata di sole, fragrante ed invitante come
soltanto il caldo della primavera inoltrata sapeva diffondere.
Nicolò
era sceso dabbasso con il sorriso sulle labbra e con un appetito
davvero spropositato: si era servito abbondantemente di latte e
caffè, non disdegnando di inzuppare due fette di crostata
alla crema, lasciando piacevolmente incredulo il resto del gruppo.
In
mezzo a quei volti sovrappensiero, infatti, il suo era
l’unico che riusciva a trasmettere ancora un briciolo di
serenità.
Costanza
era molto felice per quel cambiamento che vedeva protagonista il
fratello, tanto più che il giorno successivo si sarebbe
messo in marcia, insieme al fedele Pietro, per andare alla ricerca del
suo amico Stefano, sperando che fosse ancora ricoverato
nell’ospedale militare di Torino.
Inoltre,
la sera precedente, la ragazza aveva ottenuto dai genitori di poter
invitare l’adorata nonna a trascorrere un po’ di
tempo con loro: la stessa donna Luisa, che non era mai andata troppo
d’accordo con la madre, aveva accettato con entusiasmo
l’idea della figlia, stupendo persino don Armando, ormai
arrendevole a qualsiasi richiesta proveniente dalle donne di casa.
Zia
Rosa avevo lo sguardo abbassato, incantata dalla tazzina di
tè che si era versata ormai da diversi minuti, riducendolo
ad una brodaglia tiepida e senza zucchero.
Non
riusciva davvero a capacitarsi del perché la famiglia della
nipote insistesse così tanto per fare ritorno a palazzo:
avrebbero potuto fermarsi ancora per un paio di settimane, fino gli
inizi di maggio, non c’era motivo di accelerare la partenza,
ma le negoziazioni –come le aveva definite- non erano andate
a buon fine.
Insomma,
nessuno riusciva a capire i suoi sentimenti: la contessa aveva
finalmente trovato un po’ di compagnia, della vera compagnia,
e si dilettava enormemente a parlare di romanzi e di musica con
Costanza, a ricamare a punto e croce con Luisa, si era persino abituata
alla muta presenza di Nicolò, che adesso sembrava aver
recuperato la piena forma mentale.
La
donna, da quando era venuta a conoscenza del ritorno a palazzo, aveva
cercato di far ragionare don Armando, ma l’uomo era stato
irremovibile, sorridendo con tenerezza alle richieste sincere della zia
acquisita.
Intimamente
comprendeva il naturale desiderio di riprendere la
quotidianità dei Granieri, d’altra parte il suo
sentirsi una sorta di mamma chioccia le impediva di ragionare con
lucidità.
Scosse
la testa contrariata, lanciando un’occhiata distratta a suo
marito, il conte Aldo, come volesse spronarlo a dire qualcosa
per indurre i nipoti a cambiare idea, ma lui aveva cominciato
a chiacchierare con il notaio su certe faccende burocratiche.
E
poi c’era l’ambiguità dei rapporti tra
Pietro e Federico a preoccuparla: per quanto si sforzasse, infatti, non
aveva potuto evitare di accorgersi degli sguardi appena sfiorati che i
due fratelli si ostinavano a scambiarsi.
Li
aveva sorpresi intenti a parlottare in biblioteca e nello studiolo del
marito, convinti che nessuno li ascoltasse: dalla porta socchiusa, era
riuscita ad origliare solo minimi stralci di conversazione riguardo
misteriosi gruppi e nomi di cui mai era stata messa al corrente.
Il
tono basso e sommesso che utilizzavano l’aveva
ulteriormente allarmata, tanto che si era decisa di scoprirne
di più, se non che Federico era balzato fuori dalla
biblioteca furibondo, scontrandosi con la madre e dileguandosi senza
troppi complimenti.
Anche
adesso che erano tutti e otto seduti alla medesima tavola, donna Rosa
osservava e criticava i commensali in maniera imparziale,
dimenticandosi per qualche istante dell’addio a cui avrebbero
assistito di lì a breve.
Così,
un paio di ore dopo, i Granieri ridiscesero per l’ultima
volta la scalinata di marmo che dalle loro camere conduceva
all’ampio ingresso.
Uscirono
nel parco inondato di luce, avvertendo gli undici rintocchi di un
campanile a poche centinaia di metri dal palazzo.
Si
scambiarono abbracci e strette di mano, promettendosi di vedersi al
più presto.
“Suvvia,
cugina, non siate triste: non state mica andando all’altro
capo del mondo! Anzi, ricordatevi che già domani sarete
costretta a vedermi: verrò a prendere vostro fratello
intorno alle nove, gliel’ho rammentato proprio poco
fa”
Costanza
annuì, comoda in un abito da giorno color turchese pallido,
i lunghi capelli ricci raccolti da un fermaglio di madreperla.
“Mi
sembra superfluo aggiungere che voi e i vostri genitori sarete sempre i
benvenuti nella nostra dimora”
Lei
gli porse la mano destra, il cui dorso il giovane sfiorò
appena con le labbra.
“Grazie
per quello che avete fatto e per ciò che farete, Pietro. La
vostra vicinanza mi è preziosa come poche cose in questa
vita”
L’altro
le dedicò l’ennesima occhiata di ghiaccio, un
ghiaccio caldo e piacevole, che la fece sentire subito a suo agio.
“Grazie
a voi per la fiducia che avete umilmente riposto in me, cugina. A
presto”
Finalmente,
dopo i saluti di rito e gli abbracci affettuosi – a cui
Federico ebbe la compiacenza di mostrarsi particolarmente distaccato-
la famigliola salì sulla carrozza, al loro seguito
l’altra Lindau con i bagagli e Nina, la cameriera personale
della piccola Granieri.
Arrivarono
a palazzo mezz’ora dopo: per strada non incontrarono molte
vetture, e le strade di campagna che conducevano alla signorile
abitazione dei Granieri erano come al solito dissestate e
incredibilmente asciutte.
La
terra si spaccava sotto le pesanti ruote, inaridita
dall’assenza di pioggia di quei lunghi giorni di fine aprile:
sembrava il volto strabordante di rughe di una donna anzianissima, e
Costanza si divertiva a contare il maggior numero di avallamenti che
incontravano.
Era
quasi emozionata all’idea di rivedere la casa che, fino a
qualche settimana prima, detestava con tutta se stessa.
Non
che adesso gridasse dalla gioia al pensiero di tornare ad abitarci, ma
era decisamente più tranquilla e consapevole di
ciò che aveva vissuto e di quello che avrebbe potuto
perdere, se le cose fossero andate diversamente.
Scesero
dalla carrozza con il cuore in gola: la prima a parlare fu donna Luisa,
stupita per il portone inchiodato alla bell’e meglio che don
Armando aveva fatto aggiustare da un paio di contadini della zona.
“Siamo
stati fortunati a non subire alcun danno di grande
entità” commentò, entrando dal retro
dell’abitazione, in mezzo all’aia e al cortile
polverosi.
Il
marito e i figli la seguirono, ritrovandosi nel vasto parco disseminato
da erbacce e sterpaglie: le aiuole e i cespugli reclamavano acqua a
gran voce, ma nel complesso nessuno di loro si poteva davvero lamentare.
“Finalmente
questo posto ha assunto un’aria selvaggia!” si
lasciò andare Nicolò, sorridendo.
I
Granieri si decisero ad entrare nella villa, costeggiando il lungo
viale alberato.
Il
sole era ormai alto nel cielo, mandando bagliori sempre più
luminosi e inondandone di calore i corpi.
Mancava
ancora un po’ all’arrivo della servitù,
per cui avrebbero potuto compiere un primo veloce sopralluogo
dell’abitazione.
Mentre
il notaio infilava la spessa chiave nella toppa d’ingresso,
la sua mano sembrava quasi tremare: anche lui era felice di essere
ritornato a casa, dopo tutte le angosce che lo avevano
caratterialmente distrutto.
L’atrio
era buio ed emanava un odore di muffa, probabilmente scaturito dagli
antichi quanto costosi mobili di legno e dai vasti tappeti, innocenti
reclusi di una guerra non cercata.
Nicolò
aiutò il padre a spalancare le finestre, per far entrare un
po’ di luce e verificare meglio lo stato in cui versava il
palazzo.
Era
desolante non sentir risuonare alcun rumore: i passi svelti delle
cameriere, le grida appena accennate della cuoca, la voce bassa ed
obbediente del maggiordomo, la risata allegra del giardiniere che
chiacchierava con i garzoni… sembrava essere passato un
secolo da quando la vita aveva animato le stanze di
quell’immensa villa, eppure non era trascorso neppure un mese.
Donna
Luisa si lasciò scappare qualche riga di lacrime, ricordando
i fasti della casa dove lei era nata e vissuta fino ai
vent’anni.
Mai
avrebbe immaginato di dover sopportare quel dolore per
l’allontanamento del figlio, quella malinconia che
l’attanagliava quando pensava all’abitazione in
balia di chissà chi, durante quelle strenue settimane di
lontananza.
A
sua insaputa, don Armando aveva fatto lavare le tracce di sangue che lo
avevano così duramente colpito, la prima volta che era
ritornato a controllare le condizioni del palazzo insieme al conte
Aldo, qualche giorno addietro.
Costanza
aiutò il padre e il fratello a far arieggiare il primo
piano, fino a quando dovette uscire per prendere una boccata
d’aria.
Si
sentiva improvvisamente claustrofobica, di nuovo imprigionata senza ben
rendersene conto da chi o da cosa, probabilmente perché
quelle mura prive di suoni umani la immalinconivano enormemente.
Si
accomiatò per un attimo, chiedendo scusa ai genitori, ed
uscì nel vasto parco.
Rifletté
su quanto fosse complicato riabituarsi ad una condizione che tanto
aveva detestato, ma che in confronto agli ultimi avvenimenti accaduti
appariva salvifica e del tutto naturale.
In
quel mentre, a distoglierla dalle sue meditazioni, arrivarono i calessi
trainati dalla servitù, e la giovane si sentì
invadere da una certa tranquillità per l’ennesimo
tassella che andava ricomponendosi.
Si
preoccupò all’istante di richiamare
l’attenzione della famiglia, avvisandoli che i domestici
erano finalmente arrivati.
I
quattro si avviarono verso i cancelli, aprendoli per lasciar entrare i
nuovi arrivati.
Si
scambiarono sincere strette di mano, gli sguardi annacquati da lacrime
di gioia represse.
Anche
la servitù, infatti, era emozionata al pensiero di poter
riprendere il proprio posto alla villa, rioccupando le mansioni per cui
venivano ricompensati con generosità: in effetti, quei
giorni in cui non avevano potuto lavorare, rappresentavano meno denaro
per loro e i propri cari, quindi erano stati felici ed onorati che i
signori avessero deciso di ritornare.
Costanza
stava richiudendo i battenti dietro la processione ormai ultimata,
quando avvertì il rumore degli zoccoli ferrati di un paio di
cavalli.
Si
affacciò alla strada, dove vide che una carrozza nera e
lucida stava avanzando al trotto nella loro direzione.
Era
certa di aver già visto quella vettura, per cui attese di
assistere alle prossime mosse dell’elegante Landau.
Quando
la vettura si fermò a pochi metri dal cancello, la giovane
alzò lo sguardo sul cocchiere, un uomo sui
sessant’anni e di corporatura minuta, i fitti capelli grigi
che contrastavano con gli occhi verdi.
Ma
come era possibile? Quella persona assomigliava incredibilmente al
signor Mario, il tuttofare di sua nonna Maria.
Si
mise una mano sulla fronte, pensando di aver avuto un colpo di sole:
stropicciò gli occhi un paio di volte, pronta a chiedere
spiegazioni, quando una donna di mezza età -elegantissima in
un completo da viaggio color tabacco- scese dal predellino, aiutata
proprio dallo stesso uomo che conduceva i cavalli.
Sulla
chioma folta e candida, la nuova venuta portava un piccolo cappellino
di stoffa veneta ornato con qualche fiore di campo essiccato, mentre
con le mani reggeva una pochette dello stesso colore
dell’abito.
Alzò
lo sguardo sull’abitazione a lei famigliare, ritrovandosi
davanti la figura della ragazza.
La
signora non riuscì a nascondere un’esclamazione di
sorpresa e, allargando le braccia, esclamò incredula:
“Costanza!
Oh bambina mia, come stai?”
“N-nonna?!
Ma cosa ci fate qui?!”
La
giovane, anche lei stupita, si lasciò andare
all’abbraccio con la donna, mentre entrambe cercavano di
reprimere lacrime di gioia.
Donna
Maria Mellerio si staccò dalla nipote solamente dopo un
lungo momento, fissando i propri occhi cerulei in quelli della nipote.
“Ti
ho fatto una sorpresa, mia cara! Non sei felice di rivedermi?”
L’altra
annuì, riabbracciandola e baciandola con il cuore gonfio di
eterno affetto.
“Sai
bene quanto detesti questa città, ma non ho potuto resistere
ancora un giorno di più! Ho voluto sincerarmi di persona che
tu stessi bene! Dalle tue lettere capivo che c’era qualche
cosa che ti turbava, e di certo non era solo da imputare alla guerra
che, grazie al Signore, non ci ha sfiorato nella nostra adorata valle.
Allora, nipote adorata, mi fai entrare in quella che è stata
anche la mia casa o devo aspettare di essere ricevuta come un
ospite?”
Costanza
abbracciò ancora una volta la donna, che nel frattempo
ringraziò Mario e lo invitò a portare i bagagli
con calma.
La
ragazza pensava che la nonna avesse scelto davvero il momento meno
opportuno per farle visita, sebbene era la cosa che maggiormente
desiderava: avrebbero dovuto spiegarle il motivo di quella sorta di
trasloco della servitù, l’odore di muffa che
impregnava le pareti del palazzo, il braccio e la vista feriti di
Nicolò… ma poi si convinse che per quello ci
sarebbe stato tempo, tanto tempo da dedicare alle spiegazioni da
dimenticare l’indecisione e l’ansia che
l’avevano attanagliata nell’ultimo periodo.
Adesso,
la cosa importante, era che lei fosse lì con loro.
Tutto
il resto sarebbe venuto più avanti.
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Capitolo 41 *** I duellanti ***
A Ivano
E' stato bello conoscerti anche se per poco tempo.
I tuoi "raccontini" sono stati una delizia per la mia mente e per la
mia immaginazione.
Ciao, Tarlo... ovunque tu sia
Nell’ingresso di palazzo Caccia –ora Granieri- la
vita aveva rapidamente preso il sopravvento sulla muffa ed il buio che
avevano impregnato le pareti in quell’apparente interminabile
mese di lontananza.
La
servitù si era premurata di sistemare con estrema
celerità ma curatezza i pochi averi nel piano mansardato a
loro adibito, e adesso stava dando una mano a donna Luisa e a
Nicolò ad aprire porte e finestre per far
arieggiare l’edificio.
Gli
strati di polvere erano riusciti a depositarsi in maniera fitta e quasi
meticolosa, nonostante le precauzioni adottate dai padroni di casa che
avevano ricoperto ogni pensile e l’intero mobilio con spesse
lenzuola.
L’aspetto
interno della villa, tuttavia, aveva conservato il vanto passato,
sebbene adesso a tratti risultasse disordinato e grottesco, ma non
aveva subìto alcun danno ingente: l’esterno,
invece, come già avevano avuto modo di constatare don
Armando ed il conte Aldo in precedenza, aveva indubbiamente visto
giorni migliori.
A
parte le tracce di sangue sul retro della zona adibita a magazzini che
avevano deturpato l’aia e che il notaio si era premurato di
far lavare da alcuni contadini dei dintorni, vi era ancora il problema
dei cardini divelti e spezzati in più punti del grande
portone di legno che conduceva sul vasto cortile, oltre di quello assai
più imminente delle scorte di viveri nascoste nel granaio e
nella dispensa, ubicate anch’esse in quell’area
della casa, in buona parte depredate da scorribande senza
identità.
Don
Armando, insieme alla cuoca e a un paio dei garzoni, aveva compiuto un
primo sopralluogo approfondito, e stava dando istruzioni su quali
fossero i beni di prima necessità che andavano reperiti nel
minor tempo possibile.
“Direi
che un paio di chili di farina per cominciare potrebbero essere
sufficienti, signore. Mio cognato dovrebbe riaprire il mulino entro la
prossima settimana, e fino ad allora due sacchi mi basteranno. Domani
mattina provvederò a riportarvi le galline che mi avete
affidato, così le uova non ci mancheranno, non
temete” stava elencando Erminia, un donnino alto e magro, con
le guance olivastre ed i capelli grigi raccolti in una crocchia
ordinata. Aveva occhi nocciola piccoli ma profondi, che esprimevano
un’intelligenza ed un’acutezza non comune.
Donna
Luisa, infatti, aveva demandato al marito l’onere di
occuparsi delle incombenze immediate, preferendo di occuparsi insieme
ai figli della parte domestica della villa.
“Molto
bene, se ne sei sicura non sarò certo io ad
obiettare”
Il
notaio lanciò un’occhiata in direzione del garzone
che era stato reclutato per scrivere l’ordine con cui sarebbe
sceso in città, quindi domandò ad Erminia di
cos’altro avessero bisogno.
“Almeno
quattro libbre di zucchero, sei di verdura fresca, una mezza dozzina di
cartocci di legumi e naturalmente sale per poter conservare i cibi,
Giannino. Poi, se dovessi trovare dei limoni come dico io
–sai quelli grandi e succosi?- ecco, prendine pure cinque,
così potrò cominciare a preparare la mia famosa
torta alla crema!”
Erminia
appariva gongolante e quasi felice di poter riprendere in mano la sua
quotidianità: inutile dire quanto si sentisse onorata del
fatto che il padrone l’avesse personalmente incaricata di
aiutarlo ad effettuare una prima stima dei danni di quella banda di
zoticoni che avevano osato usurpare le sue ordinatissime scorte di
vivande, e l’autostima è un ottimo deterrente alle
difficoltà che si incontrano nel corso della vita.
“Bene,
dal momento che vedo che ve la cavate perfettamente anche senza di me, cara
Erminia, ti lascio e ritorno da mia moglie. Ah, nel frattempo Gentile,
potresti recuperare dell’olio, delle viti e… beh,
insomma, del materiale necessario per riparare questo
portone?”
Granieri
indicò con un cenno sbrigativo della mano il pesante oggetto
davanti a loro, mentre un giovanotto di non oltre venticinque anni
annuiva prontamente.
Don
Armando bofonchiò qualcosa che avrebbe dovuto assomigliare
ad un saluto, quando udì dei passi precederlo sul vialetto
principale, quello che conduceva all’ingresso del palazzo.
Le
erbacce e le sterpaglie che deturpavano i prati e inondavano
narcisisticamente aiuole e cespugli creavano uno spiacevole rumore
quando si passava sopra di esse, un ciac ciac molesto e pressante.
L’uomo
riuscì appena ad intravedere le gonne della figlia e di
un’altra figura femminile, quando riconobbe la voce della
suocera, almeno così gli parve di udire.
Non
perse tempo e si affrettò a varcare l’uscio della
villa, rimanendo costernato dalla presenza di schiena che si stagliava
davanti a lui.
“Marchesa
Mellerio? Maria? Siete proprio voi?!”
La
donna chiamata in causa si voltò nella sua direzione,
rivolgendogli un sorriso a metà tra il sollievo ed il
rimprovero.
“Noto
con piacere che ancora vi ricordate di vostra suocera, caro Armando!
Sono molto felice di rivedervi, non abbiate idea di quanto fosse
opprimente non aver avuto vostre nuove nelle ultime settimane”
Gli
si avvicinò e gli strinse le mani, quindi si protese ad
abbracciarlo con sincerità.
Il
tessuto di seta e velluto color tabacco accarezzò quello
ruvido della redingote nera dell’uomo d’affari, che
ricambiò il gesto.
Nel
giro di una manciata di secondi, donna Luisa e Nicolò fecero
la loro comparsa dal piano superiore: il braccio del figlio era
intrecciato a quello della madre, avvolta in un abito blu notte, e
sembravano intenti a parlottare di chissà quale
interessantissimo argomento, quando la contessa si bloccò
con un piede a mezz’aria.
“Che
c’è, madre? Abbiamo dimenticato di controllare
qualche stanza?” si premurò di anticiparla il
ragazzo, i bei ricci scuri e gli occhi ancora velati.
“N-no,
è che c’è una persona dabbasso
che… che non mi aspettavo di trovare qui. Si tratta di tua
nonna, caro”
Madre
e figlia si scambiarono un’occhiata d’intesa,
l’una concentrata sul nipote, così diverso,
così strano nell’aggrapparsi a donna Luisa,
l’altra sull’assurdo cappellino di stoffa veneta
ornato con i fiorellini di campo.
“Ciao
figliola, come stai?”
Le
due si ritrovarono l’una di fronte all’altra:
Costanza avvertiva quella solita e fastidiosa tensione attraversare i
loro corpi, e già smaniava per urlare di dirsi qualcosa,
qualsiasi cosa, pur di smetterla con quegli sguardi privi di reale
affetto.
Don
Armando, invece, si era fatto da parte già da qualche
istante, e adesso stava cingendo le spalle della secondogenita, anche
lui imbarazzato da quella situazione ormai famigliare.
“Ciao
Nicolò, non abbracci la tua vecchia nonna? Sai, tua sorella
mi ha raccontato sempre di te nelle nostre lettere. Come stai, tesoro
mio?”
Donna Maria si fiondò sul nipote, non riuscendo a reprimere
le lacrime: lo avvolse in una prolungata stretta, accarezzandogli la
schiena.
Deglutì
a fatica, cercando di mandare via il groppo che le si era formato in
gola, non appena si era resa conto degli occhi ambrati ma velati e
delle minuscole e numerose cicatrici che solcavano il volto del giovane.
E
poi, l’innaturalezza con cui reggeva accostato al fianco il
braccio sinistro… che cosa le avevano mantenuto nascosto in
quei lunghi mesi? Che cosa era accaduto a Nicolò che la sua
adorata Costanza non aveva trovato la forza ed il coraggio per metterla
al corrente?
“Mamma,
forse è meglio se andiamo nel salotto. Ci sono diverse
novità che dobbiamo raccontarci. A proposito, avete fatto buon
viaggio? Vi faccio subito portare nella vostra camera i bagagli,
così dopo vi aiuto a sistemarvi. Venite”
Il
cartello di sfida era giunto quella stessa mattina, poco dopo la
partenza dei cugini per il Torrion Quartara.
Federico
glielo aveva consegnato in biblioteca, con la stessa aria lasciva e un
po’ sadica che lo contraddistingueva da settimane, ormai,
senza lasciargli alcuna ombra di dubbio sulle sue reali intenzioni di
nuocergli.
Più
che epistola sarebbe stato meglio definirlo come un breve biglietto,
asettico nel contenuto e lapidario nel concetto quanto nella scelta
della carta, grezza e mal ritagliata:
“Al signor conte Pietro Alberto
Ermanno Gaudenzio Caccia,
il
sottoscritto, Federico Sereno Ermanno Gaudenzio Caccia ritenendosi
offeso dalla S.V. perché schiaffeggiato pubblicamente in
mezzo a galantuomini presso il circolo cittadino, ha pregato i signori
duca di Sanseverino e duca di Martengo di chiederle in suo nome una
spiegazione, una ritrattazione o una riparazione, a seconda di quanto
crederanno, per la tutela del suo onore.
Avendo i sunnominati signori
accettato questo mandato, la S.V. vorrà considerarli quali
rappresentanti del sottoscritto e muniti all’uopo di pieni
poteri”
Seguiva
la firma
Pietro
se l’era rigirato tra le mani per una manciata di secondi,
quindi aveva guardato negli occhi ambrati il fratello, cercando di
carpirne la reale essenza.
“Qui
c’è chiaramente scritto che la tua missiva avrebbe
dovuto essere recapitata dai tuoi padrini, due duchi che di nobile sono
certo abbiano solo il titolo…” lo
provocò senza mezzi termini.
“Non
essere puntiglioso, fratello caro. Sai bene che queste rappresentano le
classiche quanto noiose formalità a cui dobbiamo attenerci,
nulla di più e nulla di meno. Ebbene, anche per quanto
riguarda nello specifico la soddisfazione, pretendo ovviamente una
riparazione al danno arrecatomi. Non sei d’accordo anche
tu?”
“E
per quanto concerne il luogo e la scelta delle
armi?”
In
quel mentre dovettero abbassare il tono di voce, poiché
avvertirono dei passi risuonare sul marmo esterno.
Aspettarono
che l’inatteso visitatore li oltrepassasse, quindi Federico
riprese come se nulla fosse.
“La
cascina di Valstrona mi sembra ideale, non trovi? Vi passa un affluente
del Ticino che non è niente male. Per le armi… a
te la scelta tra fioretto e pistola”
Pietro
non poteva di certo definirsi un esperto di manomachia, sempre che
quella fosse la definizione corretta, né tantomeno era un
provetto maneggiatore di qualsiasi arma che non fosse quella con cui
era stato costretto ad allenarsi da piccolo.
Annuì
poco convinto, già pronto a congedare quella serpe del
fratello, ma prima decise di mettere in chiaro una cosa fondamentale,
che forse a Federico continuava volutamente a sfuggire.
“Spero
tu abbia compreso che non ho alcuna intenzione di battermi con te,
né stasera né mai. Puoi dire ai tuoi amici di
rimanere a casa e di non disturbarsi a sporcare le ruote delle loro
carrozze e le punte preziose dei loro stivali lucidati nella nostra
povera campagna”
Il giovane
conte Caccia lo guardò con aria sardonica e gli si
avvicinò, girando in tondo.
“Ah,
Pietro Pietro… ancora non hai capito quanto sia
pericoloso mettersi contro di me e le mie conoscenze?”
Poi,
con fare minaccioso, gli ringhiò:
“Costanza,
Nicolò, Eugenio Maffucci, persino quella specie di becchino
–Rossini, se non vado errato- che hai avuto la faccia tosta
di portare a cena qualche giorno fa, sono convinto abbiano a che fare
qualcosa con la tua sordida cerchia di fanatici sovvertitori
dell’ordine precostituito. Quindi, fratellino caro, se non
vuoi che una mia innocentissima parola arrivi alle orecchie delle
persone sbagliate…beh, farai bene a presentarti questa sera.
Accompagnato, s’intende, con i tuoi due padrini che ti
spettano di diritto, per carità, ma la tua presenza
è, come si suol dire, assai gradita in tale
circostanza”
Il
primogenito si umettò le labbra e deglutì
disgustato, reprimendo la rabbia prudergli le mani.
Si
fissarono per un istante che gli parve interminabile, quindi Federico
uscì, più soddisfatto di quando era entrato pochi
minuti prima.
La
cascina Valstrona si trovava a una dozzina di chilometri dalle mura
cittadine, in una zona della campagna poco frequentata da persone che
non fossero contadini che avessero più di
cinquant’anni.
Fino
ad un paio di decenni antecedenti il 1848, infatti, la zona apparteneva
ai marchesi omonimi, e la terra prosperava in fecondità e
ricchezza.
In
seguito al trasferimento dei nobili, l’area e i suoi ettari
erano stati messi all’asta e poi a mezzadria, diventando il
regno a metà di contadini sufficientemente benestanti da
essere autonomi nella coltivazione e nel commercio e di signorotti
locali con scarsa inventiva e troppo denaro nelle tasche dei calzoni.
Pietro
arrivò alle sei meno un quarto in compagnia dei due
marchesi Tornielli, Guido e Andrea, anch’essi coinvolti nel
gruppo di rivoluzionari, sebbene in maniera meno espositiva: si
occupavano infatti di sovvenzionare economicamente e materialmente il
resto degli affiliati.
Il
cielo si preparava ad un lento e dolce tramonto, che nel giro di
un’ora o poco più avrebbe lasciato spazio alla
luna calante.
Scesero
dalla Landau con circospezione, sicuri che la situazione non sarebbe
stata semplice da domare.
“Stai
tranquillo, Pietro” s’intromise nei suoi pensieri
Andrea, il secondogenito, un giovane sui ventotto anni dai capelli
mossi e chiari e gli occhi scuri.
Si
scambiarono un’occhiata d’intesa e si sorrisero
tutti e tre, speranzosi.
“Mio
fratello è molto cambiato, ultimamente. Forse troppo
cambiato, cari amici, e temo che l’astio che da tempo prova
nei miei confronti abbia trovato il giusto sfogo proprio in questa
assurda pantomima”
“Stasera
non accadrà nulla di spiacevole a nessuno, noi siamo qui per
questo” rincarò la dose Guido, qualche anno
più grande ma fisicamente simile al marchesino.
Pochi
minuti dopo, quando ormai la perlustrazione visiva e pratica si era
conclusa, avvertirono le ruote di una carrozza farsi più
vicine, fino a fermarsi dietro di loro.
In
men che non si dica, scesero Federico e i suoi padrini, i caratteri
nordici a rivelare la loro origine.
“Vedo
che in queste ore hai avuto modo di riprendere la retta via e hai
riflettuto a dovere. Bene, fratellino, sono molto contento per
entrambi”
Gli
regalò un sorriso sornione ed una pacca degna di un
traditore, quindi passarono ai fatti.
“Dunque,
cosa vogliamo scegliere per il nostro duello all’ultimo
sangue? Fioretto o pistola?”
I
marchesi Tornielli lanciarono un’occhiata truce in direzione
di Federico e dei suoi padrini, quindi Guido domandò qualche
secondo per poter consultarsi insieme a Pietro, lo sfidante.
“Cercheremo
di farli ragionare e di trovare una soluzione. Sono sicuro che tuo
fratello non intenda perpetrare un simile atto scellerato, un atto che
gli costerà caro davanti alla vostra famiglia e
all’intera nobiltà novarese”
puntualizzò razionalmente Andrea, il più giovane
dei marchesini.
“Ha
ragione, non arriverà ad esporsi in maniera tanto sciocca,
dobbiamo essere fiduciosi che la sua intelligenza abbia il sopravvento
su qualsiasi altro sentimento negativo stia animando i suoi
pensieri”
Guido
era già pronto a sentire la replica accondiscendente
dell’amico, quando questi scosse con poco convinzione il capo.
“Voi
non lo conoscete quanto lo conosco io. Anzi, arrivati a questo punto
credo di non averlo mai conosciuto abbastanza” si arrese ad
ammettere Pietro.
“Sa
troppe cose su di noi e sul nostro gruppo, cose che mi domando come
abbia fatto a scoprire, se non tramite misteriosi e discutibili
mezzucci dei suoi altrettanto amici subdoli. Non ho intenzione di
sprecare vite innocenti per una questione meramente famigliare, voglio
che vi sia ben chiaro” replicò il conte Caccia,
rassicurandoli con una stretta affettuosa sulle spalle di entrambi.
“Allora?
Non abbiamo tutto il tempo dalla nostra!” li interruppe con
una punta d’ira Federico, avvicinandosi con i due compari
duchi, ognuno che reggeva la custodia aperta celante un’ampia
scelta di fioretti e pistole.
In
lontananza, stava sopraggiungendo un carretto probabilmente di
contadini, che di certo non si sarebbero soffermati, ma la cui
curiosità si sarebbe potuta rivelare pericolosa per il
futuro.
“Fioretto,
il secondo da sinistra andrà bene”
tagliò corto Pietro, non guardando negli occhi nessuno dei
presenti.
Il
duca di Sanseverino gli porse la custodia, e il conte prese tra le mani
la lama quadrangolare, lunga e flessibile, fredda al tatto e brillante
alla luce del sole. La soppesò meccanicamente, rendendosi
conto che non doveva raggiungere oltre i cinquecento, seicento grammi.
“Ma…
ti prego, Pietro, rifletti bene!” cercarono quasi
all’unisono di riportarlo alla realtà i marchesi
Tornielli.
"Ottima scelta” si ritenne soddisfatto il fratello, improvvisamente
sordo.
I
duellanti presero posizione uno di fronte all’altro nel mezzo
della campagna lì vicina, le armi ben in pugno dinnanzi al
viso, gli sguardi fieri ed orgogliosi, figli dello stesso sangue.
Terminati
i dieci passi di rito, Pietro e Federico si voltarono dandosi le spalle
ed abbassando i fioretti.
Poi,
i padrini si schierarono a loro volta, e il duca di Martengo
intimò l’attenti.
“En
garde!”
Il
primogenito dei Caccia trasse un respiro profondo, quindi attese.
“Allez!”
NOTA
DELL’AUTRICE
Chiedo scusa a tutti i lettori e recensori se non rispondo agli ultimi
aggiornamenti, ma oggi è esattamente un mese che sono
“in vacanza” in ospedale, quindi mi risulta
già un’impresa titanica collegarmi con il wi-fi,
ed ogni minuto che mi funziona la connessione è prezioso per
aggiornare. Per questo ho dovuto fare una scelta tra rispondere,
recensire a mia volta ed aggiornare. Spero di non essere stata troppo
egoista e che mi perdonerete gli errori di non revisione.
Un abbraccio a tutti e grazie della comprensione!
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Capitolo 42 *** Le ultime volontà di Pietro ***
"Chiunque
sia sospettoso invita al tradimento."
(Voltaire,
principalmente filosofo francese, 1694-1778)
L’intera giornata era trascorsa serenamente, ammantata da
sentimenti di speranza e di gioia per il ricongiungimento con
l’adorata nonna Maria.
Era
stato lo stesso Nicolò a raccontarle le disavventure che gli
erano capitate nell’ultimo mese e mezzo –e che lui
stesso aveva ammesso di essersi cercato-, dalla fuga di notte da
palazzo Granieri, all’arruolamento sotto mentite spoglie
nell’Armata sarda, fino all’attraversata sul Ticino
e le conseguenti battaglie campestri in terra lombarda e piemontese,
con la rovinosa disfatta della Bicocca, proprio alle porte di Novara.
Il
ragazzo narrava con lucidità e coinvolgimento emotivo
ciò che aveva dovuto subìre in prima persona,
senza mai permettere alla follia di un tempo o all’estremismo
del passato di prendere il sopravvento sull’intelligenza
riacquisita.
Il
resto della famiglia –donna Luisa, don Armando e la piccola
Costanza- subivano il medesimo fascino oscuro dei racconti di
Nicolò, sentendoli per la prima volta anche loro:
rinchiusi nel boudoir
dopo un pranzo che non si sarebbe potuto definire abbondante a causa
della penuria delle scorte che la servitù aveva dovuto
racimolare in così breve tempo, sussultavano ed inorridivano
assieme alla marchesa Mellerio nell’udire le gesta eroiche
dei soldati sabaudi e della Brigata Piemonte, a cui il giovane aveva
fieramente preso parte.
“E
questo è tutto” concluse con un sorriso amaro il
primogenito del notaio, allargando le mani in segno di resa.
Seduto
su una delle poltroncine rosse della stanza, le tende spumose tirate a
far entrare il caldo sole pomeridiano, Nicolò sembrava aver
esaurito forze e voce, ma continuava ad apparire sereno.
“Non
provo il desiderio di raccontarvi della mia convalescenza, nonna, ma
sappiate che sono stato curato amorevolmente anche grazie alla mia cara
sorella, un vero angelo che è venuta a trovarmi ogni singolo
giorno delle oltre due settimane in cui sono stato rinchiuso
lì dentro”
Gli
occhi velati e lucidi per la commozione, il ragazzo cercò la
mano di Costanza e la accarezzò dolcemente, stringendola con
tenerezza e riconoscenza.
Lei
si schernì timidamente, dicendo che aveva fatto
semplicemente il proprio dovere di sorella devota, e che lo avrebbe
rifatto altre mille volte se fosse servito a ridargli la fiducia in se
stesso e la voglia di vivere che adesso vedeva splendere in lui.
“Sono
orgogliosa di entrambi, figlioli. Siete dei nipoti forti e tenaci, i
migliori nipoti che avessi mai potuto avere, credetemi”
Nonna
Maria si alzò dallo scranno dorato che donna Luisa le aveva
ceduto, e si avvicinò con slancio ai due giovani,
abbracciandoli affettuosamente.
“Non
volete andare a riposarvi per qualche ora?”
suggerì la figlia della marchesa, asciugandosi
distrattamente una lacrima con il fazzolettino di seta che aveva tirato
fuori da una manica dell’abito verde da giorno.
“Il
viaggio è stato lungo e tortuoso, lo avete ammesso anche
voi. E tutte queste emozioni di certo vi avranno fiaccato nel corpo e
nello spirito, madre. Cosa ne dite?”
“Sì,
donna Maria, Luisa ha ragione. Manca ancora qualche ora alla cena,
approfittate per riposare e recuperare le forze, di modo che potrete
raccontarci nel dettaglio gli ultimi avvenimenti accaduti a Santa Maria
Maggiore. La nostra Costanza non ci ha mai parlato delle lettere che
eravate solite scambiarvi, sapete?” s’intromise don
Armando, indirizzando uno sguardo eloquente alla secondogenita.
“E
va bene, mi avete convinto” si arrese la nobildonna,
fingendosi irritata.
“Ma
a patto che venga anche Costanza: lei ed io dobbiamo discutere di certe
faccende…femminili”
La
ragazza la guardò non capendo a cosa si stesse riferendo, ma
fu ben lieta di rincantucciarsi per qualche ora tra le braccia
dell’adorata nonna, come era solita fare quando era
più piccola.
Salutarono
i presenti, mentre donna Mellerio accarezzava affettuosamente ancora
una volta il bel volto di Nicolò, quindi salirono a
braccetto la scalinata di marmo che conduceva al primo piano.
Percorsero
il lungo corridoio e si fermarono davanti ad una porta bianca sulla
destra, appena dopo quella della camera da letto di Costanza.
Entrarono
e si accomodarono sul baldacchino dai tendaggi zaffiro e lo scendiletto
persiano che ricopriva il caldo parquet illuminato dai raggi solari.
Si
tolsero gli stivaletti e si buttarono sul letto, sorridendo soddisfatte.
“Ah
nipotina mia, quanto mi sei mancata!” esordì la
donna anziana, abbracciando e baciando la giovane, che ne
approfittò per accomodarsi sul suo petto.
Il
profumo di talco, di sapone e di mandarino inebriarono le narici di
Costanza, che all’istante si risentì a casa, nelle
sue adorate valli.
“Anche
voi, nonna, mi siete mancata immensamente. Pensate che stamane era mia
intenzione scrivervi per invitarvi a trascorrere un po’ di
tempo in nostra compagnia, invece ci avete fatto una bellissima
sorpresa, anticipandoci sui tempi!”
Donna
Maria accarezzò la testa riccioluta della nipote, baciandola
con gioia.
“Mi
sentivo sola, bambina mia, mi sentivo tanto sola, e appena la neve si
è sciolta e la pioggia ha smesso di molestarci, ho preso
questa decisione: e poi, ad essere del tutto sincera, le notizie della
disfatta del nostro Esercito sono giunte fino a Santa Maria, sebbene
fossero notizie confuse e spesso contraddittorie. Il tuo lungo silenzio
e l’interruzione dei collegamenti, anche a causa
dell’arruolamento più o meno forzato di molti
giovani, non hanno certo giovato sul morale e sullo stato
d’animo di una povera vecchia come me, tesoro, e sentivo che
era mio dovere venire a sincerarmi di persona come stessi tu,
l’irruento Nicolò, e perfino tua madre e tuo
padre”
Costanza
alzò lo sguardo, ritrovando la limpidezza e
l’ingenuità degli occhi cerulei
dell’adorata nonna: quanto le era mancato quello sguardo
intelligente e sincero, quanto aveva desiderato baciare quelle guance
magre e morbide, prive di rughe, e sentirsi avvolgere dal calore di un
abbraccio autentico e disinteressato qual era sempre stato quello della
marchesa.
Le
sorrise e le accarezzò la chioma bianca, che a tratti veniva
attraversata dai riflessi dorati della luce non ancora prossima al
tramonto.
Quasi
pianse di contentezza nel realizzare che la nonna era lì con
lei, ridacchiando mentalmente per quel naso a patata che la nobildonna
tanto detestava, e per quella bocca sottile che, invece, racchiudeva un
sorriso caldo e gentile per chiunque.
Affondò
di nuovo il volto sulla sua spalla, reprimendo tutti i sentimenti che
le avevano oppresso il cuore in quell’ultimo estenuante mese
e mezzo, riconoscente al Destino.
“Di
cosa volevate parlarmi?” continuò la ragazza,
stringendole la mano.
Solo
allora si accorse che era la stessa mano di sempre, un
po’ fredda sul dorso, dalle dita affusolate e la carnagione
leggermente scura, con le vene ben in rilievo e le unghie squadrate,
una mano che aveva saputo consolarla ed accarezzarla con amorevolezza
perpetua.
“Di
niente, piccola Costanza, era solo un modo per poter stare da sole, tu
ed io, senza temere che tua madre venisse a disturbarci!”
sorrise innocentemente la nobildonna, ammiccando con aria cospiratrice.
La
nipote sorrise soddisfatta e cominciò a farle il solletico,
uno dei loro giochi di quando era bambina: continuarono così
per qualche secondo, quindi decisero per una tregua.
Sprimacciarono
per bene i cuscini e, dopo essersi scambiate l’ennesimo
sorriso, si addormentarono l’una vicino all’altra.
Un
paio di ore più tardi, intorno alle sei e mezza, il
campanello e il batacchio del portone d’ingresso
risvegliarono prepotentemente gli
abitanti del palazzo dalla
gioiosa apatia in cui erano piombati.
Il
maggiordomo era andato ad aprire con la solita compostezza che lo
contraddistingueva, e aveva annunciato a donna Luisa l’arrivo
di due ospiti che avevano urgente necessità di parlare con
la signorina Costanza.
Nina,
la giovane cameriera della ragazza, corse per le scale ad avvisare la
padroncina, ancora sdraiata sul letto in compagnia di nonna Maria.
La
secondogenita del notaio si mise a sedere con uno scatto, per una
frazione di secondo non ricordandosi di dove si trovasse.
Si
passò una mano tra i capelli, accorgendosi dallo specchio
ovale e dalla cornice dorata all’altro capo del muro, vicino
alla toeletta in legno di ciliegio, di avere una parvenza decisamente
poco presentabile, a causa dei folti ricci scuri che le si erano
sciolti ed aggrovigliati sulle tempie.
“Che
sta succedendo, mia cara?” volle sapere la marchesa,
anch’essa messasi a sedere.
“Non
lo so, nonna. C’è qualcuno dabbasso che desidera
vedermi”
Subito
il pensiero corse a Pietro, l’adorato e coraggioso cugino di
cui ancora non aveva avuto modo di parlare a donna Maria.
Domandò
a Nina di aiutarla a pettinarsi, dal momento che le dita della servetta
erano abili e veloci, e finalmente fu pronta.
Tutte
e tre le donne scesero al piano terra, Costanza incuriosita e dandosi
della sciocca per non aver domandato chi fossero gli improvvisi ospiti
che tanto urgentemente la stavano attendendo.
Quando
si ritrovò davanti il maestro Rossini e Maffucci, un groppo
alla gola la assalì, forse anche a causa dei volti
preoccupati che non lasciavano presagire nulla di positivo.
“Buonasera
a voi, Costanza. Dove possiamo parlare in tutta
tranquillità?” non perse tempo
l’insegnante di musica, avvicinandosi e dimenticandosi di
inchinarsi secondo le norme del galateo.
“Così
la allarmerete soltanto, Paolo” s’intromise
l’avvocato dai baffetti.
La
giovane non stava capendo nulla di quel dialogo, ma non
riuscì a non stupirsi all’udire il nome di
battesimo di Rossini: Paolo era un bel nome, si ritrovò a
pensare, un nome che tuttavia non avrebbe mai immaginato appartenesse a
quell’uomo, che lei all’inizio della loro
conoscenza aveva puerilmente soprannominato il becchino o a cui
si era sempre rivolta con la dedizione che comportava l'accezione di maestro.
“Fermatevi
un istante, signori!” li zittì, ritrovando la
calma e la lucidità.
Donna
Luisa e nonna Maria erano in piedi dietro di loro, mentre la piccola
Nina si era già dileguata per raggiungere il resto della
servitù al piano inferiore.
Costanza
guardò madre e figlia e sorrise, dunque si
scusò e indirizzò i nuovi venuti verso il boudoir alla loro
destra.
Una
volta fatti accomodare gli ospiti, richiuse dietro di sé la
porta decorata ad acquerello, quindi congiunse le mani e trasse un
profondo respiro.
“Bene,
adesso che siamo da soli, abbiate la compiacenza di spiegarmi
singolarmente che cosa sta accadendo di così importante da
venire fino a qui a quest’ora e, soprattutto, toglietevi
dalla faccia quell’espressione cupa!”
Maffucci
e Rossini si lanciarono un’occhiata reciproca, aprendo la
bocca per ribattere.
Eugenio,
un biglietto stropicciato e con la ceralacca ormai a brandelli tra le
mani, attese il cenno d’assenso dell’insegnante di
musica, e finalmente iniziò a raccontare.
“Poco
più di un’ora fa ho ricevuto questo da parte di
Pietro. E’ indirizzato a me e a Paolo, ma siamo
dell’idea che sia importante che conosciate anche voi il suo
contenuto, cara Costanza…”
La
giovane, fino ad allora in piedi davanti a loro, capì che la
situazione stava prendendo una piega assai amara, e che forse sarebbe
stato meglio sedersi per evitare di incorrere in spiacevoli sorprese.
“Continuo
a non capire, signori. Abbiate la benevolenza di parlare in modo chiaro
e diretto, senza ulteriori preamboli”
L’avvocato
trentenne annuì, mentre Rossini si soffiò il
naso, forse un po’ troppo rumorosamente per l'occasione.
“Ecco,
tenete…” si arrese Maffucci, consegnandole il
foglio che aveva tra le dita.
Lei
lo prese e cominciò a leggerlo, il cuore che le martellava
nel petto e le tempie che le pulsavano in modo incredibilmente
fastidioso.
“Cari amici,
se entro le ore 19 di quest’oggi, lunedì 30
aprile, anno del Signore 1849, non mi vedrete ritornare in
città e, più precisamente tu, fedele Eugenio, non
udirai il campanello della tua porta suonare per mano mia, venite a
recuperare il mio corpo in località cascina Valstrona, a una
dozzina di chilometri dal circondario novarese. Insieme a me, che Dio
non voglia, potreste trovare anche i marchesini Tornielli, Guido e
Andrea. Ricordate che la nostra causa è stata per me fonte
di orgoglio e di assoluta dedizione, e che tutto questo, se
accadrà, accadrà per volontà di taluni
stolti che, accecati dal denaro o dal potere, hanno ammorbato la mente
di colui che è stato sangue del mio sangue. Eugenio caro,
Paolo caro, vi saluto e vi ringrazio per l’amicizia che mi
avete donato. Portate i miei omaggi alla dolce e forte Costanza, e alla
famiglia tutta. In fede, conte Pietro Alberto Ermanno Caccia,
lì Novara, 30 aprile 1849”
Costanza
deglutì e socchiuse la bocca carnosa, lasciando scivolare
sulle ginocchia l’epistola che, amaramente, appariva come le
ultime volontà dell’adorato cugino.
Strizzò
con rabbia il bracciolo della poltrona, mentre avvertiva un senso di
nausea e di impotenza cingerle la vita.
“Si
riferisce a Federico, non è così?”
riuscì a dire, evitando di fissare negli occhi i due ospiti.
“Sì,
crediamo di sì” annuì con un filo di
voce Eugenio, le dita intrecciate davanti a sé.
“Ma
l’ora designata non è ancora scoccata, mia
cara!” cercò di tranquillizzarla Rossini,
protendendosi verso di lei.
Abbozzò
un sorriso assai mesto, quindi sospirò a sua volta.
“Non
dobbiamo disperare, amici, è questo che sto cercando di
dirvi” continuò l’insegnante di musica,
ritrovando l’aria battagliera e vagamente ironica che lo
aveva da sempre contraddistinto.
“Nessuno
ha intenzione di farlo” ribatté a sua volta la
ragazza, sollevando il mento, gli occhi verdi infuocati.
“Che
ore sono?” domandò, mentre con lo sguardo cercava
la pendola appesa in un angolo vicino alla porta.
Erano
le sei e quarantacinque: in effetti, con un briciolo di fortuna e con
una buona carrozza, avrebbero potuto raggiungere la cascina in poco
tempo.
“Qualcuno
di voi conosce il luogo nominato da Pietro?”
proseguì imperterrita Costanza, alzandosi.
“Sì,
non è lontana. Nel giro di venti minuti, non di
più, dovremmo riuscire a raggiungerla, ma dobbiamo fare in
fretta, dobbiamo subito metterci in marcia” spiegò
Maffucci, abbandonando a sua volta il posto, seguito da Rossini.
“Molto
bene. Con quale vettura siete venuti? Con una di cortesia?”
“Con
la mia nuova e fiammeggiante Landau, è ovvio” la
corresse orgoglioso l’avvocato.
“Era
quello che volevo sentirmi dire, così non perderemo tempo a
far preparare la nostra vecchia
ed umile
carrozza” calcò con una punta di sarcasmo e di
insofferenza, per poi concludere:
“Forza,
muoviamoci, signori”
I
tre uscirono dal boudoir
e, l’ingresso deserto, uscirono sul vialetto, dove
incontrarono donna Luisa e nonna Maria.
“Tornerò
per cena, madre” la rassicurò, quindi
salutò con la mano la marchesa e corsero verso la loro
destinazione, pregando che Pietro fosse ancora in vita.
NOTA DELL'AUTRICE
Buon fine anno a tutti e buon principio 2017!
Ho dovuto dividere il capitolo perché troppo lungo, quindi
alla fine del racconto mancano altri cinque capitoli (epilogo incluso).
A presto e grazie ad ognuno di voi che continua a seguire la storia :)
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Capitolo 43 *** Seconda parte- Le ultime volontà di Pietro ***
Io
disapprovo profondamente i duelli. Se un uomo dovesse sfidarmi, lo
prenderei gentilmente e con aria di perdono per la mano e lo porterei
in un posto tranquillo e lo ucciderei.
(Mark
Twain, pseudonimo di Samuel L. Clemens, autore e docente americano,
1835-1910)
Mentre la carrozza correva veloce verso la cascina Valstrona
–uno stabile decadente in mattoni e calce-, schiantando la
terra secca ed arida sotto le ruote inaugurate da poco, il maestro
Rossini passava il tempo a controllare il suo orologio da taschino.
“Smettetela,
per l’amor del Cielo!” sbraitò
all’ennesima occhiata Costanza, irrigidendosi sul sedile
color mattone.
“La
ragazza ha ragione, Paolo. Non fate altro che innervosirci con questo
vostro gesto ripetuto e decisamente stizzoso di guardare ogni secondo
quell’affare!”
L’insegnante
di musica richiuse con uno scatto l’elegante ingranaggio
argentato, facendolo scivolare all’interno della giacca nera.
“Scusatemi,
è che mi sembra di andare troppo piano e non sopporterei
l’idea di arrivare tardi e trovare
Pietro…”
“Non
dite altro, vi prego! Noi non arriveremo tardi, non arriveremo tardi,
lo so!” disse ad alta voce la giovane, più per
persuadere se stessa che per reale convinzione.
Strinse
le mani a pugno, accorgendosi che per la fretta si era dimenticata di
indossare i guanti cipria in tinta con l’abito turchese, un
vezzo che avrebbe abbondantemente barattato con la totale
incolumità dell’adorato cugino.
Non
avrebbe mai perdonato a Federico la morte di Pietro, gliela avrebbe
fatta pagare in qualsiasi modo, lo avrebbe perseguitato fino al suo
ultimo respiro, se fosse stato necessario, e gli avrebbe fatto scontare
lo scotto davanti alla giustizia.
“Guardate,
Costanza! Quella che s’intravede là in fondo
è la cascina Valstrona! In un paio di minuti saremo
finalmente arrivati!” la riportò alla
realtà Maffucci.
Forza,
prepariamoci a scendere e, Dio non voglia, teniamoci pronti al peggio.
Pietro
si sentiva stremato: si stava arrabattando in quel duello ad armi
impari da… quanto? Dieci minuti? Mezz’ora?
Un’ora? Aveva completamente perso la concezione del tempo e
l’unica cosa che desiderava era che tutto quel supplizio
avesse presto fine.
“Allora,
fratellino? Tocca a te! Non ti sarai già stancato,
spero?!”
Il
giovane conte Caccia, in maniche di camicia come lo era lui, gli aveva
appena regalato l’ennesimo affondo, colpendolo di striscio su
un ginocchio.
Il
ragazzo guardò appena la ferita che si intravedeva al di
sotto del tessuto scuro dei pantaloni, squarciato dalla lama perfetta
del fioretto, per ritornare a concentrarsi sulla figura davanti a lui.
Con
la coda dell’occhio, Pietro riusciva a vedere i marchesi
Guido e Andrea Tornielli, suoi padrini, che seguivano con apprensione
lo scontro, incitandolo a smetterla e a ritirarsi.
Ma
non voleva dare alcun pretesto a quel folle del fratello per far del
male a loro o a Costanza: sarebbe stato disposto a perdere vita e
reputazione pur di salvare i suoi amici, ma non avrebbe rinunciato a
portare avanti il duello, di questo ne era sicuro.
Avanzò
a fatica verso Federico, il fiato corto e la testa pulsante, mentre con
la mano sinistra impugnava meglio l’elsa.
“Quando
ti renderai conto che tutto questo non ha senso? Che sarai tu il primo
a pentirti di ciò?”
Pietro
lanciò l’affondo che gli spettava, la gamba
mancina in avanti a dargli lo slancio e il corrispettivo braccio che
sfiorò appena il torace del fratello.
“Ah,
molto bene, davvero un’ottima mossa!” si
congratulò l’altro, sorridendo sardonico.
“Ma
non sono d’accordo sui tuoi consigli: sai, li ho sempre
trovati così noiosi, così dannatamente moralisti,
così… tipicamente da fratello maggiore!”
Federico
approfittò della concentrazione catturata di Pietro per
colpirlo nuovamente, questa volta centrandolo sulla spalla destra.
Il
tessuto di seta della bella camicia madida di sudore si
strappò come fosse una vecchia tenda sotto le forbici di
un’abile sarta, lasciando intravedere la carne rossa e dai
contorni nettamente tagliati.
“Oh,
forse ho esagerato…”
Il
giovane conte si lasciò andare ad una risata sguaiata e si
asciugò la fronte.
Pietro
sentì le forze venirgli meno, la testa farsi pesante e un
senso di nausea attanagliargli lo stomaco.
Cadde
carponi, la ferita al ginocchio che era nulla in confronto al dolore
lancinante che avvertiva premergli la spalla.
Con
la mano sinistra cercò a tentoni lo squarcio:
avvertì il sangue bagnargli le dita e l’odore
ferroso stuzzicargli le narici.
Sta per finire tutto, ora non
devo più fingere di essere un bravo spadaccino,
riuscì a pensare con un mezzo sorriso, stupendo il fratello,
che rimase interdetto davanti a quella reazione.
“Cos’è?
La cosa ti diverte?” lo stuzzicò, avvicinandosi.
Non
si abbassò per aiutarlo o per cercare di sincerarsi della
gravità del taglio, non gli porse una mano per sorreggerlo a
rialzarsi: rimase semplicemente in piedi davanti a lui, gli stivali
sporchi di terra e di erba a pochi passi dalle ginocchia
dell’altro, i capelli scompigliati e la camicia arrotolata
sino ai gomiti e lasciata aperta sul petto.
La
bocca gli si aprì in una smorfia di trionfo: erano anni che
non si sentiva primeggiare, che non aveva coscienza di essere il
più forte; era come trovarsi davanti alla sua nuova preda, e
questa sensazione gli provocava un’enorme soddisfazione e un
senso di pura euforia repressa.
Guardò
ancora una volta il fratello, il volto sofferente attraversato da
un’ombra tenace, a rappresentare che non voleva dargliela
vinta, fino a quando avvertì le ruote di una carrozza farsi
largo dietro di loro.
“Pietro!”
Eugenio scese per primo dalla vettura, temendo di trovarsi davanti ad
una scena raccapricciante.
Gli
si avvicinò e gli si inginocchiò, mentre Federico
era lì a seguire i suoi movimenti.
“Ah
bene, vedo che sono arrivati i rinforzi!” lo
schernì, scuotendo il capo e ritornando verso i duchi di
Sanseverino e di Martengo, che gli regalarono ampi sorrisi e pacche
sulle spalle.
“Dov’è
il medico? Dove sono il secondo e l’accompagnatore che
spettano in ogni duello degno di tale nome?!”
Il
secondogenito dei Caccia aggrottò un sopracciglio,
rivolgendosi con aria beffarda.
“Non
è un duello all’ultimo sangue, signore, ed inoltre
non mi sembra di vedere alcuno in pericolo di vita, o sbaglio? E per
quanto riguarda il secondo, nessuno di noi duellanti è
così stanco da non riuscire a continuare, allo stesso modo
di come non reputo necessaria la presenza di qualcuno che vigili su un
banale scontro tra fratelli…”
“Sapete
anche voi che, una volta che l’avversario è stato
ferito, si deve immediatamente smettere e…”
Rossini
e Costanza scesero pressoché insieme, quindi la ragazza
raggiunse il cugino e l’avvocato, che si trattenne dal
continuare a controbattere la sbruffonaggine di Federico.
“Oh
Dio, che cosa vi hanno fatto?” riuscì a dire la
ragazza, ipnotizzata dalla ferita alla spalla.
Gli
sembrava di essere tornata indietro nel tempo, di rivedere la
sofferenza del fratello e la sua impotenza nel non poterlo aiutare.
Si
fece dare i loro fazzoletti dall’insegnante di musica, da
Maffucci e dai marchesi Tornielli –che nel frattempo erano
accorsi per valutare le condizioni dell’amico-, in modo da
comprimere la ferita sulla spalla, e cominciò a premere con
forza, come aveva visto fare anni prima da uno dei contadini di donna
Mellerio, quando si era tagliato in uno dei numerosi roveti della villa.
“E’
solo una ferita di striscio…” cercò di
minimizzare Pietro, mal sopportando tutte quelle attenzioni e
allontanando le bende di fortuna.
Con
quel gesto, sfiorò la mano di Costanza, così
calda rispetto alla sua, fredda per la tensione e il sudore di quei
minuti interminabili.
I
loro occhi si accarezzarono e si dissero molte più cose di
quanto fosse necessario pronunciare a parole.
“Date
retta al povero Pietro, cugina, non c’è nulla di
cui preoccuparsi! E’ una semplice sbucciatura che
sparirà nel giro di qualche ora, credetemi!”
Federico
si avvicinò a lei e ai tre uomini: aveva rindossato la
giacca grigio tortora e si era ravvivato i capelli, le guance ancora
arrossate dal duello appena trascorso.
“Diglielo
anche tu, fratellino, che non è successo nulla! Si
è trattato solo di uno screzio senza alcuna importanza. Non
è forse così?” continuò
imperterrito il giovane.
“Allora?
Non vorrai diventare eroe anche agli occhi dei tuoi amici!”
“Smettetela!”
sbraitò Costanza, lasciando Eugenio a premere sulla ferita.
Si
alzò di scatto, il vestito turchese inzaccherato, e rivolse
uno sguardo truce in direzione del cugino.
“Ma
non provate un minimo di vergogna per ciò che avete fatto?
Non vi sentite sporco dentro? Marcio nell’anima? Avete
cercato di uccidere il vostro stesso fratello, lo avete attirato fino a
qui con chissà quali inganni! Non provate un briciolo di
pietà, di amore, di semplice affetto per lui? Non siete
pentito?”
I
capelli ricci, raccolti solo da un grosso fermaglio dietro la nuca, le
ricadevano ribelli come un ventaglio sulle spalle, conferendole
un’aria ancora più battagliera.
Una
luce molto simile all’odio aveva preso a brillare negli occhi
verdi della ragazza, che ormai non temeva ulteriori e possibili
conseguenze.
“Pietro
non vi merita, cara cugina, e voi ancora non lo avete capito!
E’ l’ennesima dimostrazione di quanto il suo animo
sia corrotto, non il mio! E’ sempre stato un ottimo attore,
bravissimo nel ricreare la giusta atmosfera di vittima sacrificale:
almeno questo, in tutti i mesi di frequentazione, dovreste averlo
imparato…”
Un
unico e potente schiaffo mise fine ai vaneggiamenti del giovane, che si
portò la mano alla guancia colpita, impreparato a quel gesto
a dir poco teatrale.
Non
ribatté, preferendo scuotere il capo e sorridere come se
tutto gli fosse dovuto.
In
quel mentre, però, proprio quando Rossini e i fratelli
Tornielli cercavano di rialzare il conte, il frastuono degli zoccoli
dei cavalli e lo stridio delle ruote di un carro interruppero il breve
istante di silenzio che si era creato.
Tutti
e nove i presenti si voltarono nella direzione indicata dal rumore, chi
volgendo il busto e chi semplicemente sollevando lo sguardo: nemmeno un
minuto dopo, infatti, alcuni esponenti della Guardia Civica raggiunsero
il luogo dove si era svolto il duello.
Dalle
mostrine di cui faceva sfoggio, alla testa del corteo si trovava un
tenente, un trentacinquenne allampanato e con i baffi bruni a manubrio;
al suo fianco, vi era un sottoufficiale di qualche anno più
giovane, i lineamenti scuri, mentre a cassetta della vettura
d’ordinanza si stagliavano le figure di due soldati semplici
di non oltre vent’anni.
Maffucci,
Rossini, i marchesi Tornielli, Pietro e Costanza rimasero interdetti
per il favorevole avvento degli uomini di Legge, mentre Federico e i
suoi padrini sembravano perfettamente a loro agio, come se si
aspettassero una mossa del genere.
“E’
quella che qualcuna chiama Provvidenza ad avervi mandato!” si
lasciò scappare l’insegnante di musica, gongolante
come un bambino.
Il
tenente gli lanciò un’occhiata distratta, quindi
scese dal destriero bianco e, la divisa di panno blu scuro sui
pantaloni immacolati, diede un’approfondita scorsa al gruppo
che si stagliava davanti a lui.
“Buonasera,
signori. Che cosa sta accadendo qui?”
“Un
duello, signor tenente” rispose Eugenio, sperando di mettere
nei guai il giovane conte.
“Un
duello, dite… E sapete che il Regno di Sardegna non tollera
che sul suo territorio vi siano esibizioni guerrigliesche di siffatta
risma? Si potrebbe incorrere in sanzioni assai pesanti, pecuniarie e
addirittura penali…”
“Non
date retta a quest’uomo” s’intromise
ossequiosamente Federico “si è trattato di una
semplice scaramuccia, un contenzioso tra fratelli.
Null’altro, ve lo posso assicurare sul mio onore”
“Onore?!”
Costanza non riuscì ad evitare di obiettare
l’assurdità di una tale replica, ma venne
prontamente bloccata dal trentenne dai baffetti.
“Comunque
sia, chi di voi è il conte Pietro Alberto Ermanno
Caccia?”
Il
chiamato in causa, che fino a quel momento non si era dato pena di
comprendere la situazione, ma desiderava solamente che tutto finisse,
sollevò la testa bionda e, con le ultime forze rimaste,
tentò di mettersi in piedi.
Una
fitta al ginocchio colpito lo costrinse a piegarsi in avanti, mentre
con la mano sinistra comprimeva senza troppa importanza la ferita alla
spalla.
“Sono
io, tenente. Cosa volete?”
L’uomo,
fautore dell’Ordine pubblico, gli si avvicinò a
passi calibrati e gli si parò davanti, continuando a non
degnare il resto dei presenti di nemmeno una misera occhiata.
“Signor
conte, in seguito a denuncia anonima giunta presso la nostra sede
cittadina nella giornata odierna, 30 aprile 1849, e con i poteri
giuridici conferitemi dal mio ruolo di tenente della Guardia Civica del
Regno di Sardegna di Sua Maestà Vittorio Emanuele II, vi
dichiaro in arresto per il reato di tradimento ai danni della patria.
Verrete tradotto in carcere, presso il castello Sforzesco della
città, e ivi rimarrete fino a nuove disposizioni”
“Ma…non
potete!” riuscì a controbattere Costanza,
sconcertata.
“Non
vedete che è ferito?! Dobbiamo farlo visitare da un
medico!”
Il
tenente si voltò nella sua direzione e
s’inchinò leggermente.
“Voi
chi sareste, signora?”
“Mi
chiamo Costanza Granieri e sono la cugina del conte. Sono convinta ci
sia stato un enorme quanto grossolano sbaglio, signor tenente! Pietro
non è un traditore, lui ama la nostra patria come pochi, ve
lo posso giurare! Ma vi prego, prima di qualsiasi cosa, permettetegli
di essere visitato da un medico! E’ stato colpito in un
duello da lui non cercato proprio pochi minuti fa, e vedete anche voi
che le ferite sono ancora troppo fresche per scongiurare qualsiasi
pericolo per l’incolumità della sua
salute!”
La
giovane si zittì per riprendere aria e riordinare
velocemente i pensieri: doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di
salvare Pietro ed impedirne l’arresto.
“La
ragazza ha ragione, signor tenente” s’intromise
Eugenio, aspettando un segnale da parte di Pietro, che tuttavia aveva
riabbassato il capo ed era ricaduto carponi, lasciando che fossero i
marchesi Tornielli a tamponargli le ferite da taglio.
“Sono
l’avvocato Maffucci e rappresenterò legalmente il
conte. Ebbene, quando siamo arrivati pocanzi –la signorina
Granieri, il maestro Rossini ed io- abbiamo trovato il nostro amico
versare in queste condizioni critiche, ed è sotto gli occhi
di tutti che urge reperire la presenza di un buon medico per prestargli
le cure adatte alla sua condizione. Non siete forse d’accordo
anche voi?”
Il
tenente contrasse la mascella sbarbata e, le mani dietro la schiena,
dedicò uno sguardo ai tre soldati alle sue spalle, due
ancora alla testa del carro e l’uno sceso da cavallo.
“Non
temete, avvocato. Data la condizione sociale dell’arrestato e
l’evidente necessità in cui si trova,
sarà mia premura, una volta arrivati al castello, far venire
il medico del carcere per visitare il vostro amico”
Eugenio
annuì poco convinto e si voltò per scrutare
ancora una volta il resto della combriccola: gli unici a loro agio e
decisamente fin troppo rilassati erano Federico e i duchi di
Sanseverino e di Martengo, l’espressione palesemente
irriverente per la notizia dell’arresto.
“Permetterete
almeno di scortare il conte a destinazione e di verificarne la
sistemazione, signor tenente?” continuò calmo e
lucido Maffucci.
“Se
insistete, non sarò certo io a negarvelo. Ebbene,
è giunto il momento di andare. Ce la fate a sollevarvi,
signor conte?”
A
quelle parole, Pietro parve risorgere: puntò gli arti buoni
sul terriccio e, con l’aiuto dei marchesi Tornielli e di
Rossini, si mise finalmente in piedi, la camicia ed i pantaloni sporchi
e sudati appiccicati come una seconda pelle.
“Non
sei costretto ad andare” cercò nuovamente di farlo
ragionare Guido, bloccandogli il braccio sano.
“Eugenio
saprà difenderti e tirarti fuori da questo
equivoco” rincarò la dose Andrea, preoccupato come
il fratello.
Ma
l’amico sembrava aver perso l’uso della parola: con
i suoi occhi azzurro ghiaccio cercò di rassicurarli e di
sorridere, quindi rivolse uno sguardo grato anche al maestro Rossini,
in apprensione come non mai, ed infine alla bella quanto disperata
Costanza.
Barcollante
e zoppicante per il ginocchio ferito, le passò di fianco e
le sfiorò una mano, stringendogliela impercettibilmente.
“Oh
Pietro, Pietro vi supplico, non cedete, non permettete che vi facciano
altro male, vi prego! Non sopporterei nuovo dolore nella nostra
famiglia, non riuscirei più a veder soffrire una persona che
amo. Per favore, dite qualcosa!”
Il
cugino, la spalla da cui non fuoriusciva più sangue,
cercò di tranquillizzarla con un’altra carezza,
poi la oltrepassò, senza aggiungere altro.
Costanza
fece per seguirlo, ma il sottoufficiale che era arrivato a cavallo con
il tenente le sbarrò prontamente la strada.
“Andate
a casa” le intimò teneramente Maffucci, voltandosi
“e aspettate prima di allarmare i genitori di Pietro. Appena
saprò qualcosa, sarà mia premura venire da voi a
palazzo per riferirvelo, ma fino ad allora non avvertite nessuno.
Paolo, siamo nelle vostre mani”
L’avvocato
diede una pacca amichevole a Rossini e ai marchesi, quindi
salì sul carro della Guardia Civica vicino a Pietro, che si
issò lentamente e a fatica.
Poi,
i due soldati a cassetta spronarono i cavalli a mettersi in marcia,
preceduti dagli eleganti bai del tenente e del suo compare.
Il
sole di fine aprile stava calando all’orizzonte, e un freddo
improvviso raggiunse chi era rimasto sul luogo del misfatto, un freddo
simile all’abbandono e alla tristezza.
Costanza
avvertiva che avrebbe ceduto da un momento all’altro, ma non
poteva permettere di dargliela vinta a Federico, che insieme ai suoi
sgherri aveva preso posto nella carrozza con cui aveva raggiunto la
cascina, poco più di un’ora prima.
I
loro sguardi si incrociarono per un istante, giusto il tempo
perché l’odio della ragazza rimanesse ben impresso
nella mente corrotta del cugino.
E
Costanza capì: si abbassò, prese una manciata dei
numerosi sassolini presenti lì intorno e, con la rabbia in
corpo, scagliò quell’arma primordiale contro la
carrozza che si stava ormai velocemente allontanando.
“Siete
stato voi! Sei stato tu, maledetto! Tu ad aver denunciato Pietro! Torna
indietro, torna indietro e abbi il coraggio delle tue azioni!”
Rossini
e i marchesi Tornielli le si avvicinarono con aria preoccupata,
bloccandole le braccia: i sassolini nel palmo della mano caddero uno
dopo l’altro, e lo stesso fece la giovane, che si
accasciò senza più forze.
“Suvvia,
mia cara, non sprecate il vostro fiato per un essere tanto vile.
Vedrete che Eugenio troverà presto una soluzione, abbiate
fiducia”
L’insegnante
di musica la avvolse in un abbraccio consolatorio, mentre Guido le
accarezzava una spalla.
“Il
maestro Rossini ha ragione. Permettetemi di darvi un consiglio:
Federico e quelli come lui godono nel vedere la disperazione della
gente, e non saranno certo le vostre comprensibili imprecazioni a
mettere la parola fine su questa sorta di faida famigliare. Vi giuro
che domattina andrò di persona ad interessarmi sullo stato
di salute e giuridico del nostro amico, sempre che Maffucci non sia
già riuscito a farlo scagionare!” cercò
di farla sorridere il ragazzo, alto e moro.
“Apprezzo
il vostro ottimismo, ma voi non conoscete la bassezza e i modi
infingardi che contraddistinguono mio cugino. Se non troviamo un modo
per provare l’innocenza di Pietro, temo che verrà
esiliato o, peggio ancora, condannato a morte! E questo non sarebbe
giusto, non è giusto!”
Costanza,
ancora avviluppata a Rossini, avvertì un tuffo al cuore al
solo pronunciare quell’infausto presagio.
“Federico
sa che sta mentendo” s’inserì nella
conversazione Andrea, il più piccolo dei Tornielli
“lo sa perfettamente. Anzi, sono convinto che la sua sia
solamente una mossa per prendere tempo e fuggire verso il Lombardo
Veneto, dove di sicuro potrà contare su degli appoggi
altrettanto depravati quali sono i duchi di Sanseverino e di Martengo.
Il nostro compito è sostenere Pietro in ogni maniera, anche
avendo fiducia in lui e nella sua intelligenza. E poi, non dimenticate
che Eugenio è tra i migliori avvocati della città
e dell’intera provincia: i suoi studi lo hanno portato in
giro per l’Italia, e di certo saprà come tirare
fuori dai guai Pietro!”
Guido
e il maestro di musica annuirono alle parole del ragazzo, mentre
Costanza pregava che tutto ciò che avevano detto si
avverasse presto.
“E’
ora di andare” dichiarò Rossini, ringraziando con
un cenno del capo ed una stretta di mano i marchesini.
La
giovane salutò assorta nei suoi pensieri, quindi si
lasciò trascinare fino alla carrozza di Maffucci,
abbandonata a pochi metri di distanza.
Il
cocchiere –un uomo sui trent’anni, il viso
butterato ma ben proporzionato come il resto del corpo e gli occhi
chiari- era favorevole alla causa di Liberazione, per cui non fece
domande riguardo la scena che aveva assistito: era il tuttofare del
gruppo di affiliati e di lui ci si poteva fidare ciecamente.
Quando
Rossini e Costanza presero posto sulla vettura, ella domandò
se fosse possibile non andare subito a palazzo.
“Non
me la sento di farmi vedere in queste condizioni: temo di non riuscire
a starmene zitta e a rivelare ogni cosa ai miei genitori, talmente
grandi sono l’angoscia e la disperazione che provo. Inoltre,
non ho alcuna intenzione di far soffrire inutilmente zia Rosa e lo zio
Aldo, proprio loro che sono stati così buoni ed ospitali nei
nostri confronti”
L’insegnante
rifletté per qualche secondo sulle parole della sua
interlocutrice, poi il volto gli si illuminò soddisfatto.
“Che
ne dite, mia cara, se vi porto a conoscere la nobildonna che in questo
periodo ha avuto la gentilezza di aprirmi le porte della sua dimora?
E’ assai affabile e di ottime maniere, una signora
d’altri tempi, credetemi!”
“No,
maestro, non ho voglia di vedere nuove persone. Piuttosto, portatemi a
fare un giro per la città, un giro senza meta, in modo da
rischiararmi le idee e riflettere meglio. Approvate?”
L’altro
fece spallucce e sorrise bonariamente, annunciando al vetturino di
partire per il centro di Novara.
“Se
non fosse per ciò che è appena accaduto, questa
sarebbe una serata perfetta per passeggiare con voi”
Scostò
le tendine bordeaux per permettere al chiaro di luna e al cielo
stellato di penetrare nella carrozza, buia e cupa fino a quel momento.
Costanza
sospirò speranzosa e rincuorata: lo spettacolo della natura
era il miglior balsamo alle sofferenze umane, e adesso sapeva che ce
l’avrebbero fatta a dimostrare l’innocenza di
Pietro.
Avrebbe
lottato con le unghie e con i denti pur di scagionarlo, lo giurava e lo doveva a se stessa e a tutti coloro che credevano nella
Giustizia.
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Capitolo 44 *** I sotterranei del carcere ***
Ogni
individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a
che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico
processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la
sua difesa.
(Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani, articolo 10, 1948)
Le
Regie Carceri Mandamentali si ergevano sui resti dell’antica
cinta muraria romana, dove a partire dal XIII secolo i Visconti,
signori del Ducato di Milano, avevano cominciato a costruire una
fortezza dal carattere militare-amministrativo, che con il tempo si era
ampliata ed era stata rimodellata a piacimento di chi deteneva il
potere cittadino, fino a diventare nota come il Castello Visconteo
Sforzesco.
Il
cotto lombardo era il materiale principe che sorreggeva
l’intero edificio e con cui, nei secoli, si aveva plasmato
ogni elemento architettonico, dai bastioni alle merlettature, dalle
antiche torrette fino ai camminamenti: in lontananza, da qualsiasi
punto cardinale si giungesse, si poteva già intravedere il
vecchio ponte levatoio con il profondo fossato, ai cui lati del
massiccio portone in legno erano state appese le fiaccole per rendere
più agevole il lavoro di sentinelle delle guardie.
Davanti
al Castello, a qualche centinaio di metri, sorgeva l’omonima
piazza su cui era stato edificato il Teatro Nuovo, dove Costanza aveva
assistito mesi prima alle esecuzioni liriche de “L’elisir
d’amore” e de “Il barbiere di Siviglia”.
Il
carro delle Guardia Civica galoppava sostenuto nella notte, a fare da
apripista il tenente e il sottoufficiale a cavallo: mancavano una
decina di minuti alle otto di sera, e per le strade della
città vi erano pochi avventori di dubbia
moralità, i volti rischiarati dai lampioni e dalla luce
lunare.
“Come
ti senti?” domandò Eugenio a Pietro, seduti
l’uno di fronte all’altro, ognuno perso nei propri
pensieri.
Non
si erano rivolti la parola, sebbene Maffucci, di tanto in tanto,
lanciasse occhiate interrogative e cariche di significato
all’amico, che rimaneva immobile con il capo abbassato, come
a volersi proteggere da eventuali inquisitorie.
“Bene”
“Non
hai dolore?”
“Non
particolarmente. Solo qualche rara fitta alla spalla, ma il ginocchio
è tornato come nuovo”
L’avvocato
annuì, poi aprì bocca per ribattere, stanco di
quel teatrino senza senso.
“Devi
smetterla con questo atteggiamento disfattista, Pietro! Non ti
servirà a nulla, maledizione! Che fine ha fatto
l’uomo coraggioso ed altruista che ho conosciuto?! Non
capisci che così facendo rischi di far soffrire chi ti vuole
bene, dalla tua famiglia ai tuoi amici?! E parla, per l’amor
di Dio, parla, di’ qualcosa!”
Il
conte Caccia fissò gli occhi di ghiaccio in quelli scuri
dell’avvocato, elegante in un completo verdone, tutto
l’opposto della sua camicia strappata e dei suoi pantaloni
lacerati.
Si
guardò la punta inzaccherata degli stivali, quindi prese la
parola.
“Eugenio,
non voglio che nessuno di voi venga coinvolto in questa stupida storia!
Né tu, né gli altri ragazzi del gruppo,
né Paolo… nessuno! Devi promettermi che
proteggerai la mia famiglia da un’eventuale onta in qualsiasi
modo e con qualsiasi mezzo! Quello che sta accadendo è una
questione che riguarda solamente mio fratello e me, lo
capisci?”
Maffucci
scosse con vigore il capo, sbuffando e piantandosi le unghie sulle
cosce.
“No
che non lo capisco! Tu sei nostro amico, Pietro, e gli amici non si
abbandonano nel momento del bisogno! E poi, tu sei innocente e lo
dimostreremo! Se solo questi damerini travestiti da soldati sapessero
quanto abbiamo lottato per aiutare l’Esercito e la causa di
Liberazione, se solo potessero comprendere quanta profonda e sincera
sia la dedizione che abbiamo impiegato per prodigarci in tutto questo!
Sarebbero i primi a gridare a gran voce la tua rettitudine e a
supplicare il tuo perdono, ne sono certo!”
“Ma
loro non possono saperlo, Eugenio, non possono. Rischieremmo che tali
informazioni vengano udite da orecchie indiscrete, da persone che
potrebbero riferirle ai nemici, ai filo Austriaci, e questo non
possiamo permettercelo. Tu lo sai bene che non
possiamo…”
Uno
scossone fece sobbalzare i due giovani, che si ritrovarono catapultati
con la spalla contro il finestrino.
“Non
pensi a Nicolò? Al sacrificio che lui e tanti come lui hanno
compiuto per cercare di farci vincere e di vivere in uno Stato
libero?”
In
quel mentre, la porta della vettura si aprì, lasciando
intravedere i due soldati a cassetta che li incitavano a scendere.
Eugenio
aiutò il conte a muoversi, quindi alzarono lo sguardo verso
l’ampio cortile del Castello, disseminato da torce e uomini
in divisa che montavano di guardia.
“Venite,
da questa parte…”
Il
tenente comparve dietro di loro e, dopo aver bisbigliato qualche parola
con il sottoufficiale ed i soldati che avevano assistito
all’arresto, condusse gli ospiti oltre lo spiazzo, fino a
raggiungere una porta laminata lasciata aperta.
I
cinque la attraversarono e si ritrovarono a percorrere un corridoio
lungo e spoglio, dalle pareti di cotto e verniciate in qualche raro
punto di bianco, mentre gli imberbi militari facevano luce con altre
fiaccole che reggevano tra le mani.
L’atmosfera
aveva un che di cupo, non si poteva definire allegra, ma al contempo
vantava qualcosa di rassicurante e di calmo, forse per i bagliori che
proiettavano ombre allungate sulle pareti e sui volti del misto
gruppetto di avventori, fornendo una strana sensazione di calore.
Una
decina di minuti più tardi, il tenente si fermò
davanti ad un’altra porta, questa volta di legno massiccio:
bussò un paio di colpi con le nocche ossute, quindi
aspettò il nullaosta per entrare.
“Aspettate
qui” sentenziò con tono piatto, poco prima di
sgusciare all’interno della misteriosa stanza.
Eugenio
ne approfittò per guardarsi intorno e lanciare uno sguardo
d’incoraggiamento in direzione di Pietro, che
ricambiò appena.
Il
dolore alla spalla era quasi scemato, ma le fitte al ginocchio, a causa
della deambulazione sostenuta, lo stavano quasi facendo impazzire.
D’altro
canto, vi era qualcosa di angusto e di malsano in quel posto, qualcosa
che innervosiva l’avvocato.
“Come
luogo di villeggiatura non è certo il
massimo…” tentò di alleggerire la
tensione, mentre l’amico si stringeva nelle spalle e
rabbrividì appena.
Dovevano
essere scesi di qualche metro, pensò il conte, dal momento
che il pavimento di pietra appariva in lieve pendenza e la temperatura
si era raffreddata di qualche grado.
“Hai
freddo?” sembrò leggergli nel pensiero Eugenio,
che fu subito pronto a togliersi la giacca e a donargliela.
“Non
importa, non preoccuparti. E’ solo la naturale reazione
all’essere stato ferito”
Ma
Maffucci non demorse e, con un’occhiata di sbieco, gli impose
in silenzio di accettare.
Il
rumore dei cardini poco oliati riportò i presenti in quel
luogo di sofferenza e di oscurità.
“Signor
conte, entrate. Nel frattempo, andrò a chiamare il medico
perché vi visiti”
Pietro,
riprendendo a zoppicare, oltrepassò il lieve scalino che lo
condusse nel locale, mentre Eugenio lo seguiva.
“No,
avvocato, voi dovete attendere fuori. Non ci vorrà molto,
state tranquillo” lo bloccò il tenente, che subito
si allontanò lungo il corridoio che si apriva alla loro
sinistra.
“Ma
non potete escludermi dall’interrogatorio del mio
assistito!” tentò di ribattere il trentenne dai
baffetti, la cui debole protesta si perse nell’eco di quei
sotterranei.
L’imputato
entrò in una stanza quadrangolare e spartana: su una parete,
davanti ad una finestrella minuscola e protetta da spesse inferriate,
lo accolse l’ennesimo soldato
–all’apparenza non particolarmente alto, la
carnagione chiara e gli occhi scuri come i capelli lisci- che, seduto
dietro una scrivania ordinata e quasi sgombra, gli intimò di
prendere posto sulla seggiola di legno davanti a lui, mentre segnava
l’orario sul primo dei fogli che aveva dinnanzi.
Pietro
arrancò con dignità verso il carceriere, notando
il pavimento irregolare costruito in sasso e due dei muri in pietra
ricoperti da scaffali ricolmi di vecchi volumi e fascicoli numerati.
La
luce delle torce, più numerose rispetto al corridoio che
avevano percorso poco prima, permise al giovane di vedere con chiarezza
il volto del militare, che pressappoco avrà avuto
venticinque anni.
“Prego,
sedetevi”
Il
carcerato spostò quel tanto che bastava la seggiola, quindi
si lasciò cadere con aria atona e fiacca.
“Dunque,
confermate di essere il conte Pietro Alberto Ermanno Caccia, nato a
Novara il 16 giugno 1818?”
L’interrogato
annuì.
“Confermate
altresì di essere il figlio primogenito del conte Aldo Guido
Teresio Giuseppe Caccia e della marchesa Rosanna Agnese Maria Eufemia
Biroli Montalenti?”
E
ancora Pietro annuì, le mani conserte abbandonate sulle
gambe.
“Siete
a conoscenza del motivo per cui siete stato arrestato?”
L’altro
ebbe un attimo di esitazione, indeciso se negare, ma alla fine
optò per la verità.
“Mi
si accusa di tradimento ai danni della patria, sebbene nello specifico
non abbia alcun dettaglio a riguardo…”
Il
soldatino finì di compilare il documento che aveva davanti,
poi alzò la testa con sguardo incolore e aria compita.
“Esattamente,
signor conte. Stamani è giunta denuncia anonima in cui vi si
accusa di aver cospirato contro il nostro ex sovrano, Carlo Alberto, e
di aver inoltre tramato con le truppe austriache per l’esito
disfattista della battaglia del 23 marzo scorso”
Lo
scribacchino riabbassò il capo, intinse la penna
d’oca nel calamaio e continuò a riempire il
modulo, fino a quando Pietro non richiamò la sua attenzione.
“Vorrei
sapere se vi sono delle prove a mio carico. E se è possibile
visionarle”
“Per
quanto concerne la loro visualizzazione, non spetta a me negarvi o
assecondarvi il permesso, bensì al signor tenente. Tuttavia,
posso accennarvi che il denunciante ha provveduto ad elencarne alcune,
principalmente riguardanti la vostra appartenenza a certi gruppi
rivoluzionari che mirano a far decadere il governo de Launay
e l’attuale regnante, Sua Maestà Vittorio Emanuele
II. Rispondete dunque, è la verità?”
“Certo
che no” tagliò corto l’imputato, le
fitte alla spalla che tornavano a pressarlo.
Ma
egli non demorse: doveva saperlo e lo doveva fare in quel momento,
prima che tutto andasse perduto.
“E
ditemi, soldato, queste famose prove di cui mi avete parlato riportano
i nomi di altre persone oltre al mio?”
“Non
so dirvelo” rispose l’altro, continuando a redigere
l’atto d’arresto “non sono stato io ad
averle visionate, signore. Bene, avete qualche cosa da dichiarare a
proposito?”
“Nessuna…”
“Avete
effetti personali o lettere che desiderate far pervenire ai vostri
famigliari o conoscenti?”
L’interrogato
fece di no con la testa, soffocando un sorriso di scherno: suo fratello
lo avevo lasciato letteralmente senza nulla, aveva i vestiti a
brandelli, era senza armi, né tantomeno possedeva un
orologio o altri oggetti di valore.
“Vi
ritenete colpevole per il reato ivi ascritto e di cui siete stato messo
a conoscenza pocanzi?”
“Nella
maniera più assoluta sono e mi ritengo innocente,
soldato”
Il
militare, il volto illuminato per metà dalla luce delle
fiaccole appese ai muri, aggrottò un sopracciglio e si
accinse a scrivere qualcos’altro sul documento.
Rilesse
le parole, quindi voltò pagina e avvicinò il
foglio a Pietro, chiedendogli di firmare.
“Molto
bene, signor conte. Potete accomodarvi fuori. Dopo la visita medica di
cui mi hai informato il signor tenente, verrete condotto in una cella
singola fino all’interrogatorio ufficiale di domattina.
Addio”
“Allora?
Cosa ti hanno detto?”
Eugenio
lo assalì non appena l’amico uscì dalla
stanza.
“Nulla,
sta’ tranquillo. Mi hanno solo rivolto delle domande formali
per compilare i documenti riguardanti il mio arresto, ma non mi
è stato chiesto niente di specifico o di particolarmente
compromettente, non temere”
I
soldati che li avevano accompagnati fino a lì erano ancora
sull’attenti, di fianco ad altre due guardie più
anziane, anch’essi con i fucili su una spalla.
I
passi sicuri di alcuni stivali interruppero il silenzio che si era
creato, lasciando intravedere l’arrivo del tenente.
“Vedo
con piacere che avete già finito, signor conte. Allora
possiamo andare: venite, da questa parte…”
“E
il medico che ci avevate promesso?” lo assalì
Maffucci, affiancandolo.
“Mi
sembra di vedere maggiormente preoccupato voi, caro avvocato, rispetto
al vostro cliente. Stiamo andando dal dottor Terzani, è lui
che si occupa dei nostri ospiti di riguardo”
Pietro
arrancava dietro al gruppetto, alternando il dolore al ginocchio a
quello provocato per le fitte alla spalla.
“Non
pretendo trattamenti di favore, signor tenente”
cercò di farlo ragionare, trattenendo il fiato per non
avvertire ulteriore male.
“Infatti
non avrete alcun trattamento di favore, non temete. E’ la
normale prassi che si usa per i nuovi arrivi in condizioni precarie,
esattamente come è la vostra situazione: una veloce visita
medica, tanto più nelle vostre condizioni, non
potrà che farvi bene. Inoltre, dato il rango di cui godete,
avete il diritto di usufruire di una cella singola e della cena,
sebbene fuori orario. Ma, passatemi il termine, se le accuse che vi
sono state rivolte si riveleranno fondate, state pur certo che nessuna
condizione sociale di cui godete vi preserverà dalla pena
capitale e dal servizio
annesso”
“A
cosa vi riferite? Mi auguro non alla tortura
perché… ” s’intromise Eugenio.
“Calmatevi,
avvocato, ne discuteremo a tempo debito. Piuttosto, eccoci
arrivati…”
Il
tenente fece un cenno d’assenso ai due soldati che avevano
continuato a seguirli fino a lì: essi si posizionarono
sull’attenti, mentre l’ufficiale bussava ad una
porta di legno di colore chiaro, le torce negli appositi anelli in
ferro a rischiarare le pareti in cotto e i loro volti.
Una
voce profonda e allo stesso tempo squillante intimò ai nuovi
venuti di entrare.
Una
volta dentro, Pietro, Eugenio e il militare si ritrovarono davanti ad
un uomo sui cinquant’anni, brizzolato e con gli occhiali, la
corporatura robusta e la mascella ispida di barba.
“Dottor
Terzani, questo è il prigioniero di cui vi ho parlato.
Fatevi avanti, signor conte”
Il
medico e il carcerato si lanciarono un cenno di saluto con il capo,
quindi lo scienziato invitò il giovane a sedersi su una
specie di lettino di legno duro.
In
religioso silenzio, visionò senza troppi complimenti le
ferite alla spalla e al ginocchio destri, poi si concentrò a
pulirle con delle pezze biancastre imbevute di acqua, che aveva
preparato in un catino sbrecciato appoggiato su un tavolino
rettangolare, quindi le disinfettò con un miscuglio di
tintura e alcool.
Pietro
soffocò un gemito dopo l’altro, piantandosi le
unghie nella carne.
Infine,
si avvicinò ad una vetrinetta dietro di lui, la
aprì e recuperò un bandolo di bende, che avvolse
con destrezza attorno alle ferite.
Contemplò
per una manciata di secondi il lavoro che aveva fatto, poi
passò ad una rapida visita delle sclere e delle
articolazioni.
“Abbiamo
finito. Per me non c’è nulla di cui preoccuparsi,
potete accompagnarlo in cella”
Eugenio
avrebbe voluto ribattere, cercare di procrastinare quel momento per
impedire che Pietro venisse allontanato ed isolato.
Ma
nemmeno il diretto interessato aveva alcuna cura di angosciarsi per il
suo destino.
La
cella era grande tre metri per due e vi era una finestrella su di una
parete, quasi prossima al soffitto, le cui grate non permettevano di
far entrare troppa luce e neppure di vedere all’esterno, se
si escludeva uno strappo di cielo buio e puntellato di stelle.
Da
un muro pendeva un tavolaccio infisso con degli anelli arrugginiti,
ciò che con molta fantasia avrebbe spinto a pensare di
trovarsi in presenza di un letto.
A
pochi passi, era stato posizionato un tavolo ed uno sgabello, entrambi
mangiati dalle tarme: sul tavolo era stato lasciato un piatto con delle
fette di pane, del formaggio e di fianco un bicchiere di vino
abbondantemente annacquato.
“Se
desiderate una coperta, fatelo presente alla guardia qua fuori, e ve la
porterà. Ci vediamo domani mattina. Buonanotte, signor
conte”
Il
tenente si stava apprestando ad uscire, quando Maffucci lo
bloccò.
“Per
che ora è previsto l’interrogatorio?”
“Alle
nove. Adesso dovreste uscire anche voi, avvocato. Fino a prova
contraria è il vostro amico ad essere stato arrestato, non
voi…”
“Certo,
vi chiedo solamente un minuto, poi me ne andrò”
Il
trentenne dai baffetti attese che l’ufficiale se ne andasse,
quindi rivolse la sua attenzione a Pietro.
“La
notte porta consiglio, non temere. Vedrai che domattina troveremo una
soluzione: stanotte, se necessario, starò sveglio per
trovare la migliore linea difensiva che abbia mai scritto! Ma tu, amico
mio, promettimi che mangerai e che avrai cura di te, Pietro.
Promettimelo, ti prego!”
L’altro
lo guardò per qualche secondo, quindi annuì e gli
diede una pacca su una spalla.
“Ti
prometto che farò il bravo bambino. A domani,
Eugenio”
Maffucci
lo abbracciò, stando attento a non sfiorare le ferite.
Uscì
a passi lenti, voltandosi ancora una volta prima di oltrepassare la
soglia illuminata dalle torce e sorvegliata dall’ennesimo
soldato.
Fece
ancora un cenno con la mano e scomparve, inghiottito nel buio di fine
aprile.
QUALCHE
NOTA STORICA
La
pena di morte restò in vigore fino
al 1947 nel nostro codice penale civile e fino
al 1994 nel
codice penale militare.
Il Castello di Novara - detto anche castello visconteo - sforzesco - ha
origini molto antiche. Si narra che in quello stesso luogo sorgesse in
epoca celtica una costruzione e poi in epoca romana un altro edificio,
realizzato con ciottoli di fiume i cui resti sono parzialmente
interrati sotto il cortile centrale.
Ma è nel Medioevo che il Castello di Novara prende corpo e
forma:
nel 1272 l'allora signore di Milano, Francesco Torriani, fece
realizzare una torre con recinto, con
il dominio di Galeazzo Visconti, verso la seconda metà del
Trecento, il castello diventa un'importante piazzaforte.
Verso
la metà del Cinquecento, l'amministrazione spagnola del
Ducato di Milano decise di rafforzare i baluardi difensivi e il
Castello ebbe un ruolo essenzialmente militarizzato. Fu sotto
l'amministrazione sabauda, nel Settecento, che i bastioni furono
trasformati in luoghi di passeggio pubblico.
Nel
periodo napoleonico, divenne carcere fino al 1973.
Nella
seconda metà dell'Ottocento, fu abbattuta buona parte della
cinta di bastioni e fu realizzato un bel giardino - Parco dell'Allea
San Luca - attorno al castello, con alberi secolari e piante
rare.
Claudio Gabriele de Launey, aristocratico, generale e reazionario, fu
eletto primo ministro il 27 marzo 1849. Rimase in carica fino al 7
maggio dello stesso anno, dopo che il 6 maggio si dimise per
incomprensioni interne. A lui successe Massimo
d’Azeglio, anch’egli aristocratico ed esponente
della Destra storica.
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Sopra
e di fianco, l'interno e parte della facciata esterna con il ponte
levatoio ed il fossato del Castello.
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Capitolo 45 *** Patto tra fratelli ***
I
patti vanno rispettati fino a quando una delle controparti non si
stanca e tradisce l'altra.
(Anonimo,
XX secolo)
Costanza era tornata a palazzo che erano le nove passate: lei e il
maestro Rossini erano passati sotto casa di Maffucci per vedere se
avesse già fatto rientro a casa, ma le luci del suo elegante
appartamento in corso Genova erano spente e alla porta non aveva
risposto nessuno.
Lasciarono
la carrozza dell'avvocato sotto la responsabilità del
cocchiere tuttofare, quindi si diressero fino in corso Carlo Emanuele
per noleggiare una vettura che li portasse a destinazione.
I Granieri stavano aspettando la figlia in salotto, preoccupati per la
sua improvvisa sparizione di qualche ora prima: il maestro di musica
l’aveva accompagnata fin dentro e si era preso
l’intera responsabilità di quel ritardo, adducendo
come scusa una serata trascorsa in compagnia di una baronessa sua amica.
La
ragazza gli era stata riconoscente per quella prontezza di spirito,
sebbene si scorgesse tutta la preoccupazione che la opprimeva
riversarsi sul bel volto, pallido e dallo sguardo corrucciato.
Donna
Luisa aveva sorriso come richiedevano le circostanze, tentando un
debolissimo rimprovero, poi aveva abbracciato la figlia e aveva
invitato Rossini a fermarsi a cena, ma egli aveva declinato
l’invito con il solito sorriso enigmatico e il baciamano a
cui la contessa non sapeva resistere.
Nonna
Maria, seduta su una delle poltroncine di velluto verde, era
l’unica che aveva intuito che ci fosse qualche cosa di grave
ad impensierire la nipote, tuttavia non aveva insistito.
Costanza
si scusò con i genitori e la marchesa, poi salì
in camera sua per riposarsi: aveva lo stomaco chiuso e non le andava di
piluccare nemmeno un tozzo di pane.
Sentiva
però la necessità di confessare
l’enorme segreto dell’arresto di Pietro a qualcuno,
in modo da dividere quel peso, quel macigno opprimente che la
angosciava, ma a chi avrebbe potuto dirlo senza temere che la zia Rosa
e lo zio Aldo venissero a saperlo? Era sicura che la marchesa Mellerio
avrebbe senz’altro saputo mantenere il silenzio, tuttavia non
voleva caricarla di preoccupazioni, né tantomeno poteva
rivelarle la verità sulla doppia vita di Pietro e
sull'esistenza nascosta del gruppo di rivoluzionari.
La
verità era che avrebbe tanto voluto confrontarsi con
Nicolò, da giorni visibilmente più sereno, ma si
convinse che non poteva turbarlo senza sapere ancora il destino che
attendeva l’adorato cugino, per cui decise di lasciar perdere.
Quando
incrociò il suo sguardo, sempre velato da ombre, gli sorrise
automaticamente e gli strinse una mano, come a voler infondersi
coraggio, poi si defilò in camera sua, dove dormì
un sonno infestato da incubi e visi che si sovrapponevano.
Pietro
aveva trascorso una notte incredibilmente tranquilla, senza pensieri:
si era lasciato scivolare sul pavimento di terra battuta, la schiena
che sfregava contro il sasso freddo ed inospitale, subito dopo che
Eugenio se n’era andato.
Aveva
fissato per qualche minuto il vuoto che lo circondava, quel vuoto
riempito dall’asse di legno che avrebbe dovuto rappresentare
il giaciglio pronto ad accoglierlo, da quel tavolaccio con le fette di
pane marmorizzate accompagnate da un pezzo di formaggio e da un
bicchiere di vino annacquato.
Si
sentiva calmo, rilassato, come se si trovasse in una realtà
parallela: alzò gli occhi azzurro ghiaccio al soffitto,
cercando di incrociare il ritaglio della finestrella che si affacciava
sul cielo macchiato di stelle, dove qualche uccello notturno si stava
cimentando in un canto d’amore, mentre le luci prodotte dalle
torce infuocate creavano disegni dai contorni sfocati sulle pareti.
Le
fitte alla spalla tornarono a presentargli il conto, ma il dolore al
ginocchio si era fortunatamente placato: si portò una mano
su entrambe le bende che gli aveva confezionato il dottor Terzani,
accarezzandole come se fosse il capo di un bambino.
Aveva
la mente svuotata, la bocca asciutta e il cuore arido di sentimenti:
dopo tutto il lottare che aveva fatto, le speranze che aveva riposto
nella causa di Liberazione e gli uomini che aveva incontrato negli
ultimi anni, da quando aveva deciso di abbracciare il movimento del
gruppo di giovani rivoluzionari, ora ogni cosa gli appariva svuotata di
significato.
Che
senso aveva avuto battersi nell’ombra e nel silenzio? Tremava
e cercava di infondersi un minimo di calore sfregandosi con vigore il
braccio funzionante e parte del corpo con la mano del lato sano.
Forse,
in fondo al suo cuore, neppure gli importava di morire, di essere
condannato, ma non trovava giusto che passasse alla storia come un
traditore ai danni della patria, perché lui amava
profondamente il Regno di Sardegna e l’Italia intera: avrebbe
voluto semplicemente che la sua nazione fosse libera di autogovernarsi,
libera di darsi delle leggi che non venissero imposte da una potenza
straniera, estranea alle abitudini e ai desideri del popolo che la
abitava.
Brividi
di freddo gli percorsero la schiena, facendogli battere i denti per
l'inospitale temperatura del tugurio che tendeva ad abbassarsi di
minuto in minuto.
Era
inutile rivangare il passato, doloroso e anche da sciocchi
sentimentali: non era in possesso di alcuna prova per dimostrare
l'assoluta innocenza dalle accuse che gli venivano mosse, non aveva
testimoni che potessero mettere una buona parola per scagionarlo, non
sapeva neppure quanto tempo avrebbe dovuto rimanere chiuso
lì dentro, tuttavia non si pentiva di nulla, avrebbe rifatto
qualsiasi azione che lo aveva spinto a ritrovarsi in quella situazione
incresciosa e surreale.
Lasciò perdere quei pensieri cupi e si alzò a
fatica, zoppicando verso il tavolo che ospitava la magra cena che
sarebbe stato meglio consumasse, prima che i topi godessero del
banchetto al posto
suo: si sedette sullo sgabello mangiato dalle tarme e prese un pezzo di
pane, sbocconcellandolo con aria indifferente, mentre i rumori degli
stivali dei soldati all’esterno della cella gli facevano
compagnia.
Ingoiò
il cibo e il vino senza reale interesse, poi si avvicinò
alle grate che lo dividevano dal corridoio lungo e stretto: si
affacciò timidamente, spinto da una curiosità che
non gli apparteneva, fino a quando la guardia a pochi passi da lui non
lo guardò con aria torva, il fucile su una spalla e il viso
butterato dal vaiolo.
Alcune
risate sguaiate accompagnate da un paio di ululati umani interruppero
quello scambio per nulla amichevole: forse era scoppiata una rissa tra
i prigionieri dell’altra ala del sotterraneo, così
Pietro ritornò sui suoi passi e si stese sul tavolaccio,
raggomitolandosi in posizione fetale, e lasciandosi cullare dalle voci
brutali e sconosciute a pochi metri da lui.
Quando
si svegliò, erano ormai le prime luci dell’alba:
le ruote dei carri e delle vetture che si snodavano lungo piazza
Castello gli annunciarono il risveglio.
Un
riverbero di raggi solari gli illuminò il volto e lo indusse
a mettersi seduto, la schiena a pezzi e la spalla che aveva ripreso a
pulsargli.
Rabbrividì,
sebbene si sentisse il corpo in fiamme, come se avesse la febbre: si
guardò intorno, sospirando con aria stordita, avvertendo i
palmi delle mani sudati che sfregavano contro le schegge di legno
marcio.
Pochi
secondi dopo, la chiave nella serratura arrugginita annunciò
l’arrivo del soldato che veniva a portargli una scodella con
un miscuglio non meglio definito che avrebbe dovuto rappresentare la
colazione, assai simile a del pane innaffiato con del latte rancido.
Il
nuovo venuto gli lanciò un’occhiata di traverso,
continuando a rimanere in silenzio, quindi andò a recuperare
il vaso da notte e uscì per svuotarlo.
Pietro
deglutì, la bocca dalla salivazione azzerata, pronto a
domandargli l’orario, ma la guardia aveva già
richiuso la porta della cella e si era dileguata lungo il corridoio
illuminato dalle torce.
Ad
occhio e croce, dovevano essere le sei, forse le sette, quindi aveva
ancora un po’ di tempo per riposarsi prima che avesse inizio
l’interrogatorio con il magistrato e il tenente che lo aveva
arrestato il giorno prima.
Gli
pareva strano pensare a quel termine: di solito, infatti, si arrestano
i delinquenti, i malfattori che avevano agito contro la legge, non gli
innocenti.
Dopotutto,
chi poteva definire con assoluta certezza chi fossero i colpevoli e chi
gli innocenti? Dio? Gli uomini e la loro giustizia, fin troppo sovente
fallace? L’unica cosa che sapeva era che non voleva far
preoccupare i suoi genitori, soprattutto suo padre che cominciava ad
avere una certa età, e che era sempre stato così
buono con lui, inculcandogli l’amore per la cultura e per la
libertà politica.
Con
quel pensiero, l’uomo ripiombò in un sonno
profondo, fino a quando il rumore della serratura lo
risvegliò nuovamente.
Il
sole doveva ormai essere alto nel cielo, eppure lui avvertiva un gran
freddo penetrargli nelle ossa, scuoterlo fino al midollo.
“Pietro,
amico mio!”
Quella
voce gli era famigliare… dove l’aveva
già sentita? Ma certo, era Maffucci!
“Eugenio,
cosa ci fai qui?”
Il
conte si mise seduto, uno sforzo che gli costò
un’immane fatica, come se avesse dovuto spostare un enorme
ostacolo.
“Tra
meno di un’ora ci sarà il tuo interrogatorio, te
lo sei scordato?!”
Il
trentenne dai baffetti gli si avvicinò con un sorriso
d’incoraggiamento sulle labbra sottili, che subito si spense
quando si accorse del rossore che imporporava le guance
dell’altro.
Gli
passò una mano sul volto e sulla fronte, scuotendo la testa
contrariato.
“Ma
tu scotti! Hai la febbre! Perché non hai chiamato
nessuno?”
“Non
è niente… devo aver preso freddo questa notte.
Sto bene, davvero, non preoccuparti”
L’avvocato
arretrò di qualche passo e colpì energicamente le
sbarre della cella, chiamando a gran voce la guardia.
“Soldato,
chiamatemi immediatamente il medico del carcere! Non vedete che il
conte è febbricitante?!”
Un
ragazzetto sui vent’anni, ossuto e pallido, lanciò
un’occhiata distratta in direzione del prigioniero, quindi
annuì senza troppa convinzione, la voce incolore.
“Aspettate,
vado a chiamarlo” e si allontanò a passi cadenzati
e privi di fretta verso il lato opposto.
Maffucci
tornò a concentrarsi sull’amico, aiutandolo a
coprirsi con la sua giacca: se la tolse e gliela infilò,
abbottonandogliela con cura.
“Sta’
tranquillo, Pietro, questa sera al più tardi sarai fuori. La
tua posizione sociale e le conoscenze influenti che possiamo vantare
saranno sufficienti per far decadere l’accusa: ne uscirai
più pulito di quando sei entrato, credimi! Anzi, se
sarà necessario scriveremo al primo ministro, mi
farò ricevere da lui stesso, dal re in persona, ma io non ti
lascio qui dentro, te lo giuro!”
Pietro
lo afferrò per un polso e gli sorrise, mentre avvertiva
l’ennesimo brivido freddo accarezzargli la schiena.
“La
mia coscienza è a posto, Eugenio, ed è questa la
cosa più importante. Comunque vada, promettimi che
continuerete a lottare: sai, quasi me ne vergogno, ma stanotte sono
arrivato a chiedermi che senso avesse avuto tutto ciò che
abbiamo fatto, ma adesso l’ho capito”
“Che
cosa hai capito?” domandò con aria corrugata
l’avvocato, sedendosi di fianco al trentenne.
“Che
stiamo combattendo non solo per la nostra libertà, ma anche
per quella delle generazioni future, che qualsiasi
difficoltà incontreremo, ogni ostacolo apparentemente
insormontabile rappresenterà un ulteriore tassello per gli
anni migliori che attenderanno tutti noi…”
“Sì,
va bene, però tu continuerai a lottare insieme a noi! Te lo
ripeto, non ti lascerò marcire in questa cella,
intesi?!”
In
quel mentre, dei passi si fermarono davanti alla gattabuia, seguiti da
altri passi.
“Oh,
finalmente! Dottore…”
Eugenio
aveva alzato la testa nella direzione dei nuovi venuti, ma subito si
zittì, una rabbia crescente che si impadronì di
lui.
“Che
cosa ci fai qui?”
Un
ragazzo vestito elegantemente, un completo blu scuro di cotone e lino e
il cappello calato in testa, accennò ad un saluto con il
bastone da passeggio.
“Sono
venuto a trovare mio fratello, signor
Maffucci”
Federico
lanciò un cenno d’intesa alla guardia, il ventenne
ossuto di qualche minuto prima, che gli aprì la cella e si
mise da parte, in modo da lasciarlo entrare.
“Come
osi presentarti? L’unico responsabile di questa situazione
sei tu, eppure non hai un briciolo di umanità o di vergogna
che ti impedisca di trascinarti fino a qui e di mostrare la tua sordida
faccia da traditore!”
Il
giovane conte abbozzò un sorriso beffardo, gli occhi scuri
socchiusi a due fessure, che subito puntò contro
l’avvocato.
“Non
mi pare di essere in tale confidenza con voi da rivolgermi alla vostra
persona dandovi del tu. O sbaglio?”
L’altro
serrò la mascella, mordendosi il labbro interno e reprimendo
la voglia irrefrenabile di tirargli un cazzotto.
“Comunque
sia, non sono qui per parlare con voi, ma con mio fratello. Avete
dunque la compiacenza di lasciarci da soli per qualche
istante?”
Eugenio
inspirò, incenerendolo con lo sguardo, poi lanciò
un’occhiata indecisa in direzione dell’amico, che
annuì, e solo allora si decise ad abbandonare la cella.
“Allora,
hai trascorso una notte tranquilla?”
Federico
si avvicinò a Pietro, ancora seduto sul tavolaccio, e attese
che gli rispondesse, ma l’altro non disse nulla.
“Forse
ti hanno fatto mancare qualcosa?” continuò
imperterrito il secondogenito dei Caccia.
Non
ricevendo alcun segnale da parte del fratello, accartocciò
le labbra e si voltò, percorrendo con lo sguardo il
perimetro del tugurio in cui erano rinchiusi.
“Credi
che mi stia divertendo? Pensi che mi faccia piacere essere qui, vederti
in queste condizioni a dir poco pietose? Scommetto che non sei nemmeno
arrabbiato con me. Non è così?”
“So
che non volevi uccidermi, e questo mi basta. Non è
necessario che tu finga di avere un cuore
insensibile…” si decise finalmente a ribattere
Pietro, dopo un lungo sospiro.
L’altro
si girò e non riuscì a trattenere un sorriso, le
mani congiunte sul pomello del bastone.
“E
cosa te lo fa pensare?”
“Da
che mondo è mondo, i duelli si svolgono all’alba,
invece tu hai deciso di batterti di sera, in una zona facilmente
raggiungibile dal centro abitato; in secondo luogo, mi hai permesso di
scegliere l’arma, e sapendo che non sono capace di mirare con
la pistola, hai portato un’ampia scelta di spade e fioretti
tra cui scegliere. E poi, sebbene hai continuato a menare fendenti a
destra e a manca, hai sempre tirato di striscio, evitando di colpirmi a
morte"
Fece una piccola pausa, continuando a fissare lo sguardo in quello del
fratello, visibilmente in imbarazzo.
"Dopotutto, per un ex allievo della Regia Accademia Navale di Genova,
non dovrebbe essere così complicato distruggere la vita di
un uomo...”
Federico
evitò d’incrociare i suoi occhi, preferendo
camminare in lungo e in largo sul lato opposto della cella.
“No,
ti sbagli. Le ferite che ti ho inferto sono state calibrate con cura:
io volevo
farti del male, ho visto il tuo volto sofferente quando ti ho colpito
alla spalla… e vuoi sapere una cosa? Non provavo
pietà mentre lo facevo, non provavo nulla”
Un
ghigno appena abbozzato incurvò le labbra di entrambi gli
interlocutori, quasi come se fossero l'uno lo specchio dell'altro.
“Può darsi, ma rimango convinto della mia
idea”
Rabbrividì
ancora una volta, la temperatura che continuava a salire, e si
sistemò meglio la giacca dell’amico.
“Qualunque
cosa tu creda, sono qui per proporti un patto, una sorta di alleanza
che, se sei davvero intelligente come tutti hanno decantato in questi
anni, non potrai rifiutare”
Pietro
inspirò ed espirò per ritrovare la
lucidità che avvertiva svanirgli tra le dita, mentre le
tempie cominciavano a pulsargli.
“Di
che si tratta?”
Federico
fece dietrofront e si parò davanti al fratello:
guardò poco entusiasta lo sgabello di legno davanti al
tavolo su cui era abbandonata la scodella della colazione ancora
intatta, quindi scosse il capo e tornò a concentrarsi sul
suo interlocutore.
“Confessa, ed io ritratteró ogni accusa.
Semplicemente confessa i nomi dei damerini che ti hanno spinto ad
entrare nel gruppo di rivoluzionari: io lo so che ti sei lasciato
coinvolgere, che non hai agito di testa tua, quindi non ti
costerà nulla disfarti di qualche omuncolo e
denunciarli…”
Il
trentenne chinò la testa e chiuse gli occhi.
“Come
puoi anche solo lontanamente pensare che mi abbassi a compiere un gesto
tanto ignobile e falso?! Tutto ciò che ho fatto,
l’ho fatto di testa mia, nessuno mi ha mai obbligato! Tu,
piuttosto, perché hai lasciato che ti facessero il lavaggio
del cervello? Perché sei passato dall’altra parte,
tradendo tutti gli ideali che nostro padre ci ha sempre
insegnato?!”
“Che ti ha insegnato,
vorrai dire!” sbraitò il minore, battendo con
forza la punta del bastone sul pavimento argilloso.
“Io
non sono mai esistito per lui, a malapena la mamma si accorge di me! E
tu ti fai degli scrupoli per dei pidocchiosi di cui a malapena conosci
le facce?!”
“Non
offenderli, Federico, non se lo meritano, ti chiedo solo
questo…” cercò di controllarsi il
ragazzo, deglutendo a fatica per la gola arsa, simile alla cartavetrata.
“Va
bene, se servirà a convincerti ad aver salva la pelle, non
li offenderò. In cambio, però, dimmi i nomi, e
facciamola finita con questa storia: è già durata
troppo, per i miei gusti”
Il
giovane conte Caccia tirò fuori da una delle tasche della
giacca un pezzo di carta intonso, pronto a chiamare il soldato per
reclamare un calamaio e una penna d’oca.
“Se
mi conosci anche solo un po’, sai bene che non mi
macchierò di una tale infamia!”
“Non
fare l’eroe, dannazione! Per una volta, pensa a te
stesso!”
Pietro
tentò di alzarsi e di avvicinarsi, ma dopo qualche passo
vacillò, le orecchie che gli ronzavano, e si
accontentò di puntargli addosso un indice inquisitorio.
“Ma io sto pensando a me stesso, sei tu che non hai rispetto
per te, altrimenti non avresti acconsentito a questa farsa,
né tantomeno ad allearti con dei mercenari al soldo del
nemico!”
“Nemico?!”
gridò a voce più alta Federico “chi ti
dice che sono dei nemici? La tua coscienza o la gente che ti sei messo
a frequentare?! Siete responsabili della morte e del ferimento di
migliaia di soldati del glorioso
Esercito sabaudo, avete rischiato di distruggere un’intera
città, e per che cosa poi? Per creare l’ennesima
Repubblica che sta martoriando il nostro Paese? Per essere eletto a
capo di un triumvirato, esattamente come è accaduto a
Roma?!”
Pietro
stava per ribattere, esausto, quando un capogiro lo costrinse a
chiudere gli occhi e ad aggrottare la fronte: si portò una
mano sul viso, massaggiandosi le tempie, quindi puntò di
nuovo lo sguardo sul fratello.
“Io
almeno una coscienza ce l’ho, e qualsiasi cosa ho fatto o
deciderò di fare, dovrò rendere conto solamente a
me stesso, e non ad un branco di sgherri senza pietà e senza
coraggio…”
Il più piccolo disegnò una C sul pavimento
argilloso con la punta del bastone, ammirandola subdolamente.
“E
Costanza? A lei non pensi?”
“Costanza
non c’entra nulla in questa storia: non provare a
coinvolgerla, non farlo, lei non ha alcuna colpa né
responsabilità. E lo sai anche tu…”
sibilò Pietro, stanco di quel teatrino e delle sciocchezze
che era costretto a sentire.
Federico
annuì e si sciolse in un sorrisetto beffardo, riprendendo a
camminare.
“Costanza
adesso è sconvolta ed è convinta della tua
innocenza: ma quando verranno fornite delle prove a tuo carico, il
dubbio si insinuerà nella sua testolina, un dubbio che la
roderà e la farà vacillare… ma allora
sarà troppo tardi, forse la sentenza sarà
già stata eseguita, e tu non potrai fare più
nulla per consolarla o per farle cambiare idea” concluse con
tono viscido, facendo spallucce.
“Non
ci sono prove a mio carico!”
“Questo
lo dici tu…”
“Non
firmerò nulla, non tradirò nessuno, non mi
costringerai a fare qualcosa che non voglio!”
Pietro
era nuovamente scosso dalle fitte alla spalla, a cui si sommavano i
brividi per la febbre che, ormai doveva rendersene conto, lo stava
fiaccando.
“Guardati”
cercò di convincerlo, allargando le mani per mostrargli il
tugurio in cui era stato rinchiuso.
“Sei
ferito, febbricitante, senza abiti decenti addosso! E sono anche certo
che tu e il tuo amico avvocatuccio non avete nemmeno uno straccio di
linea di difesa degna di questo nome! Insomma, che cosa ti spinge a non
lasciarti andare, ad acconsentire ad accettare il patto che ti sto
proponendo?! Ragiona, ragiona, e dammi i nominativi che ti salveranno
la vita!”
Pietro
parve rifletterci per un istante, il capo reclinato in avanti e il
petto che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro affannato per
le precarie condizioni di salute in cui versava.
Poi,
alzò la testa e lo guardò senza timore.
“Non
ti darò nulla, Federico, e non mi farò intimidire
dai tuoi ricatti su Costanza. Però, permettimi di farti una
supplica, di chiederti ancora una cosa, solo una: fino a quando
sarà possibile, tieni nascosta la mia prigionia ai nostri
genitori. Di’ loro che sono dovuto partire
all’improvviso, che dovrò assentarmi per qualche
tempo, inventati una scusa, ma non lasciare che soffrano per causa
nostra…”
Federico
sospirò e contrasse la mascella, giocherellando con
l’impugnatura del bastone da passeggio.
“Se
è per questo, non devi temere: ieri sera ho detto loro che
sei andato fuori città per alcune questioni riguardanti le
terre che nostro padre ti ha lasciato da amministrare”
Pietro
annuì, esausto ma soddisfatto, desiderando di rimanere da
solo per tornare a dormire e riposare le membra stanche.
“Venendo
a noi: è la tua ultima risposta? Sei deciso a non
collaborare?”
L’altro
lo guardò con gli occhi penetranti, il rossore soffuso sul
volto, mentre le tempie gli pulsavano.
“Sì,
è la mia ultima risposta. E non tornerò
indietro”
Il
fratello abbassò lo sguardo e aggrottò un
sopracciglio, quindi distorse la bocca in una smorfia di disappunto e
si preparò ad abbandonare la cella.
“Addio,
Pietro. Se dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi”
Uscì
dalla gattabuia senza voltarsi indietro, il ritmare cadenzato degli
stivali e del bastone da passeggio ad accompagnarlo.
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Capitolo 46 *** Caccia al tesoro ***
L'abito
non fa il monaco.
Pietro aprì gli occhi assonnati, socchiuse appena le labbra
secche e deglutì: la cella rettangolare dal pavimento in
argilla e le pareti di sasso aveva lasciato il posto a uno scorcio
bianco e dall’intenso odore di disinfettante.
Inalò con fastidio quel profumo pungente, avvertendo una
sensazione di prurito raschiargli la gola e solleticargli le narici.
Si
guardò intorno, aggrottando le sopracciglia
perché non riusciva a capire che cosa gli fosse accaduto: un
paravento di un indefinito colore grigio gli oscurava la visuale alla
sua sinistra, mentre ad un centinaio di metri davanti a lui riusciva ad
intravedere una serie di letti immacolati.
Sulla
destra, sotto ad una stretta finestra con le inferriate e le tende
livide e giallastre per lo sporco, un armadio alto la metà
del soffitto a volta e con le ante trasparenti ospitava una serie di
flaconi scuri.
Il
giovane conte tentò di mettersi seduto, lanciando di lato il
lenzuolo ruvido, ma un senso improvviso di mancanza di equilibrio lo
bloccò a mezzo busto: si sentiva la fronte scottare, e solo
allora si accorse che la spalla e il ginocchio ancora bendati erano
incredibilmente gonfi e sempre più doloranti.
Dovette
mugugnare qualcosa, poiché attirò
l’attenzione di un uomo, il rumore dei passi pesanti a breve
distanza da lui.
“Ti
sei svegliato, finalmente!”
La
voce di Eugenio lo riportò nel mondo dei vivi, quindi
comparve anche la sua figura snella, sempre avvolta dal completo blu
scuro che gli aveva visto indossare poco prima… o giorni
prima?
“Cosa
è successo? Perché non sono più
rinchiuso? Mi hanno già interrogato?”
L’avvocato
scosse il capo e si sedette su una sedia arrugginita che aveva
recuperato da dietro il paravento, lasciandosi cadere composto.
“Dopo
che è andato via tuo fratello” e a pronunciare
quel termine per un secondo il suo sguardo si rabbuiò
“hai avuto una sorta di mancamento: abbiamo chiamato il
dottor Terzani, il medico del carcere, che ti ha misurato la
temperatura. Era molto alta e le ferite si stavano infettando, per
questo ti ha condotto qui in infermeria: il tenente ha rimandato
l’interrogatorio alla fine della settimana, a meno
che tu ti rimetta prima”
Pietro
distolse per un istante gli occhi dal volto dell’amico,
fermandosi a riflettere se quell’attesa si sarebbe rivelata
un bene o un male per la sua sorte.
“Ho
dormito per molto?”
“Un
paio di ore. Ti hanno somministrato dei farmaci e più tardi
te ne faranno altri, ma la cosa più importante è
che tu ti riposi, in modo da sfruttare questo inaspettato momento di
pausa per decidere le prossime mosse da fare”
Maffucci
divenne d’un tratto ancora più serio e, posando
una mano sul braccio dell’amico, glielo strinse con sincero
affetto.
“Pietro,
ti devi aiutare, dico sul serio: devi farti venire in mente qualcosa,
qualsiasi cosa che ti scagioni dall’infame accusa di
tradimento. Sai perfettamente che non c’è nulla di
cui scherzare, che rischi la pena capitale…”
L'altro
annuì stravolto, gli occhi di ghiaccio febbricitanti ed
alonati.
“Lo so, e lo sa anche Federico: è venuto per
propormi un patto…”
“Un
patto?” il tono di voce preoccupato di Eugenio si tinse di
una sfumatura di inquietudine, quindi gli chiese che cosa intendesse.
“Mi
ha detto che è disposto a ritirare le accuse a mio carico,
se in cambio gli darò i nomi degli affiliati del
gruppo”
“Dio
santo! Tuo fratello è un mostro! Non ha un anima, non ha un
briciolo di cuore!”
L’avvocato
sbatté con rabbia il piede destro sul pavimento formato da
ampie mattonelle maculate, poi sbuffò sonoramente e scosse
il capo con aria contrariata.
“Inutile
dirti che non ho accettato, tuttavia una soluzione la troveremo.
Sta’ tranquillo”
Eugenio
lo guardò per una manciata di secondi che parvero
interminabili, contraendo alternativamente la mascella; si
alzò dalla sedia e si sistemò meccanicamente la
giacca di cotone, tirando fuori da una tasca un sigaro mezzo
mangiucchiato e mettendoselo in bocca.
“Certo
che la troveremo: io ho fiducia in te, Pietro. Ora devo andare,
verrò a trovarti questo pomeriggio”
Quella
mattina a colazione, Costanza aveva piluccato poco e niente della
tavola imbandita con cura da cuoca e cameriere.
Seduta
di fianco alla nonna, avvertiva le occhiate di sottecchi che la
marchesa le lanciava a cadenza regolare, sussultando appena i
loro gomiti si sfioravano.
Anche
donna Luisa e don Armando si erano accorti del cambiamento
d’umore che aveva visto protagonista la figlia: entrambi
avevano intuito che fosse accaduto qualcosa la sera precedente, quando
prima di cena il maestro Rossini e quel giovane dai baffetti erano
venuti a prenderla per andare chissà dove.
La
ragazza non aveva mai dato loro preoccupazioni, ma forse gli ultimi
avvenimenti capitati a Nicolò li avevano fatto trascurare
troppo la secondogenita e i suoi problemi di diciottenne
prossima al debutto in società, che negli ultimi mesi aveva
sofferto e lottato per favorire la rinascita del fratello.
“Figliola,
non hai fame stamani?” esordì la contessa Caccia,
sorseggiando la tazza di tè e latte.
“Io…
non ho dormito bene, madre. Ho avuto un po’ di mal di stomaco
e non mi sono ancora ristabilita completamente” si
sforzò di sorridere, sbocconcellando il solito biscotto che
aveva tra le mani da un minuto abbondante.
“Questo malessere
ha a che fare con il tuo insegnante di musica?” non demorse
il notaio, pulendosi gli angoli della bocca con il tovagliolo di lino.
L'interrogata
fece di no con la testa e si concesse ancora qualche istante prima di
rispondere, ingoiando finalmente quell'innoente pezzetto di pastafrolla.
“No, certo che no, padre. Lui è stato
così gentile da farmi incontrare una sua amica. Ma ve lo ha
già detto ieri sera, non rammentate?”
"Sì,
tuttavia vorrei conoscere i dettagli di questo insolito appuntamento..."
“Suvvia, Armando, non statele troppo addosso!”
s’inserì nella conversazione donna Mellerio
“ho io la soluzione adatta alla nostra piccola
Costanza”
L'anziana
signora si alzò scostando con delicatezza la sedia,
mostrando il bell’abito indaco e invitò la nipote
a fare altrettanto.
“Dove
andate?” s’irritò la moglie del notaio,
cercando di reprimere l’indisposizione per
l’ingerenza della madre nell’educazione della sua
unica figlia.
“Ho
portato con me un’ampia scelta di tisane, un toccasana per
qualsiasi indisposizione. Tu, Luisa cara, dovresti ricordarti delle
tazze che ti facevo preparare quando eri piccola…”
La
contessa incurvò appena le labbra in una smorfia assai
simile ad un sorriso di circostanza, quindi le lasciò andare.
Così,
accomiatandosi dai genitori e dal fratello, Costanza seguì
la nonna fino alla sua camera, dove gli sguardi elusivi della marchesa
e il desiderio di confessarsi con qualcuno spronarono la ragazza a
raccontarle ciò che era accaduto il pomeriggio precedente,
omettendo naturalmente l’esistenza del gruppo di giovani
rivoluzionari e l’appartenenza di Pietro, Eugenio e Rossini
all’organizzazione segreta.
“Non
vedo tuo cugino Pietro dall’età di uno o due anni:
era un bambino molto bello e timido, con dei riccioli biondi e gli
occhi azzurrissimi, ma adesso credo di non saperlo neppure
più riconoscere!” la donna sorrise e
sospirò in quel mare di ricordi.
“Poi,
dopo quello che è accaduto a causa di tuo nonno Ermanno, ho
perso i contatti con il ramo Caccia della famiglia, tanto che Federico
non l’ho mai incontrato e non so nemmeno che viso abbia.
Tuttavia, bimba adorata, nutro delle perplessità a credere
che un fratello possa duellare, ferire e far imprigionare il suo stesso
fratello per della banale gelosia. Non credi anche tu che sia una
ricostruzione quantomeno fantasiosa?”
L’unica
scusa che era venuta in mente alla nipote, infatti, era di attribuire
l’invidia del minore ad un fatto amoroso occorso a causa di
una misteriosa fanciulla di nobile lignaggio, tanto più che
anche la stessa nonna l’aveva attirata con
l’inganno: non vi era infatti alcuna selezione di tisane
miracolose ad attenderla, ma solo una sana preoccupazione da parte
della parente di recarle conforto.
“Che
cosa posso fare per aiutare il suo amico avvocato a
scarcerarlo?” continuò preoccupata Costanza,
stropicciandosi l’abito cipria ed eludendo le insinuazioni
dell'altra.
“Se
l’accusa che gli si contesta è di tradimento ai
danni della patria, l’imputazione di gelosia non
basterà a Federico per reggere l’intero impianto
accusatorio, non temere. Tuttavia, c’è forse una
motivazione più grave che non vuoi rivelarmi?”
L’occhiata
indagatrice della marchesa fece piombare nel dubbio la ragazza: era
meglio se avesse tenuto per sé la storia della carcerazione
del cugino, evitando così di incorrere in inutili quante
pericolose contraddizioni.
“Scusatemi,
nonna, forse non avrei dovuto parlarvene. Anzi, vi prego di dimenticare
la nostra conversazione” la baciò su una guancia
ed uscì veloce dalla camera, ridiscendendo le scale ed
uscendo in giardino a prendere una boccata d’aria.
Varcata
la soglia dalla serra d’inverno, Costanza si accorse di una
carrozza incredibilmente famigliare che si era appena fermata davanti
al cancello in ferro battuto.
La
ragazza percorse con passo rapido il vialetto di ghiaia e si
affrettò ad aprire, permettendo al nuovo venuto di entrare.
“Eugenio!
Ci sono novità? Avete incontrato Pietro?”
Il
trentenne dai baffetti accennò al baciamano, quindi le disse
che doveva parlarle con urgenza.
I
due si accomodarono all’ombra di uno dei salici del parco, su
di una panchina in granito lontana da occhi indiscreti.
“Come
ha trascorso la notte? Lo hanno già interrogato?”
Maffucci
le sfiorò una spalla e la invitò a calmarsi:
trasse un profondo respiro di incoraggiamento e, il busto proteso in
avanti, si decise a spiegarle ogni cosa.
“Pietro
è stato portato d’urgenza
nell’infermeria del carcere…”
Una
smorfia di puro orrore contorse i bei lineamenti, mentre il cuore
accelerava vertiginosamente i battiti nel petto.
“Non ditemi che le ferite si sono infettate...”
“Purtroppo
sì, e la temperatura di conseguenza si è alzata.
Però dovete stare tranquilla, credetemi: gli hanno
somministrato dei farmaci e prescritto qualche giorno di riposo. Ma
adesso sta abbastanza bene, non temete”
“E
l’interrogatorio?” si apprestò a
domandare l'altra, deglutendo preoccupata.
“Date
le condizioni fisiche, il tenente ha rimandato l’udienza alla
fine di questa settimana. Costanza….”
L’avvocato
le prese le mani tra le sue e la fissò con
serietà negli occhi verdi e grandi per l’angoscia.
“Federico
si è presentato in carcere questa mattina, poco prima che
Pietro si sentisse male: gli ha proposto un
patto, promettendogli che sarebbe disposto a ritirare tutte le
accuse se vostro cugino gli darà i nomi degli
affiliati… se gli darà i nostri
nomi” precisò rabbuiandosi, le sopracciglia
aggrottate.
“Lui
non ha accettato, vero?”
Egli
scosse il capo e si sistemò meglio sul freddo sedile.
“Sono
venuto qui perché voi siete l’unica speranza che
ci rimane per salvarlo: avete vissuto per un periodo a palazzo Caccia,
proprio durante l'assedio della città, e magari avete avuto
occasione di accorgervi di qualche mossa azzardata, di un comportamento
insolito che ha visto protagonista Federico… Riuscite a
ricordare?”
“Ma
non saprei… lui trascorreva molto tempo fuori, anche durante
i giorni del coprifuoco. E quando era a casa, passava ore rintanato
nello studio o in biblioteca”
Le
venne però in mente della vigilia di Pasqua, quando quella
sera aveva preparato il piano di fuga per recarsi da sola alla ricerca
di Nicolò, e il cugino l’aveva bloccata sulla
soglia, contraddicendosi più volte sull’assenza
pomeridiana, fino a raccontare l’ennesima frottola anche in
presenza della madre.
“Molto
bene. Vedete che se volete siete in grado di rammentare molte
più cose di quanto pensiate? Ora, dovremmo trovare delle
prove scritte che testimonino il legame tra Federico e le bande di filo
austriaci presenti in città e nella zona”
Maffucci,
il volto illuminato per quella piccolissima indiscrezione,
tornò serio: quello, infatti, era il momento di farle una
proposta da cui sarebbe dipesa la vita dell’amico.
“Se
davvero tenete a Pietro come sono certo che sia, dovete recarvi a
palazzo dai vostri zii e rintracciare queste prove tra le carte di quel
depravato di Federico…”
“Mi
state chiedendo di frugare tra i suoi documenti?! Nei suoi
cassetti?”
L’altro
la guardò per un breve istante, quindi annuì con
aria greve.
“Lo
so, Costanza, che spingervi a fare ciò che vi sto chiedendo
non è propriamente un gesto degno di una persona perbene, ma
se ci fosse un altro modo, qualsiasi modo per impedire che Pietro venga
condannato, vi giuro che non ve lo avrei mai chiesto! Se vi ripugna, lo
capisco, però non possiamo fare altrimenti, credetemi, tanto
più che Federico ha parlato di prove false che è
pronto a fornire alla prima occasione”
Ella
parve rifletterci su per qualche attimo: si stropicciò le
dita, si piantò le unghie nella carne dei palmi e si morse
il labbro inferiore, in preda al dubbio e all’ansia.
“Possibile
che non ci sia un’altra soluzione, Eugenio? Le conoscenze
della famiglia Caccia non sono abbastanza influenti per far decadere
una simile infamia? Non possiamo corrompere qualcuno?! Fornire anche
noi delle prove?”
Il
trentenne dai baffetti si allontanò di qualche centimetro
per guardarla e sorriderle.
“Non
vi credevo capace di simili nefandezze, signorina Granieri! Tuttavia,
vi ripeto che non abbiamo alcuna prova che scagioni Pietro. E vi posso
assicurare che da un accusa di tradimento ai danni del Re e quindi
della patria non si esce tanto facilmente, che non esistono amicizie
abbastanza influenti da permettere all’imputato di uscirne
vittorioso”
Costanza
sospirò e si passò una mano sulla fronte, come a
scacciar via quel mare di pensieri cupi che la stavano tormentando.
La
vita di Pietro dipendeva davvero dalla sua risposta? Sarebbe riuscita
ad intrufolarsi nella dimora degli zii senza destare sospetti? E se
qualcuno l’avesse scoperta, come si sarebbe giustificata? E
poi, cosa più importante, avrebbe dovuto scegliere il
momento in cui il cugino minore non si trovava in casa, altrimenti non
avrebbe potuto nemmeno lontanamente azzardarsi ad avviare le ricerche.
Alla
fine, però, scelse l’unica strada che il suo cuore
le dettava in quel momento, e che la coscienza le permetteva di
percorrere.
“Va
bene, va bene, farò ciò che mi avete chiesto,
però spiegatemi esattamente come dovrò
comportarmi e a chi dovrò portare le prove, nel caso le
troverò”
Il
volto di Maffucci s’illuminò e su di esso si
allargò un sorriso di riconoscenza: le baciò le
mani e si apprestò a spiegarle il piano nei dettagli.
Quel
pomeriggio stesso, dopo pranzo, la giovane aveva convinto nonna Maria
ad accompagnarla dai conti Caccia per una visita di cortesia: la
marchesa aveva acconsentito con una certa dose di riluttanza,
poiché non era così entusiasta al pensiero di
rivedere i parenti del marito defunto l’anno prima, ma aveva
comunque accettato per far contenta la nipote.
Scesa
dalla carrozza, la ragazza aveva continuato a pregare ancora
più intensamente che Federico non fosse in casa, tuttavia
grande fu la sua delusione quando incrociò il suo sguardo
mentre scendeva lo scalone di marmo che dai piani superiori portava
all’ingresso.
“Figliola”
bisbigliò donna Mellerio alla nipote, notando la
disperazione incupirle il volto già di per sé
pallido “sei sicura del motivo per cui siamo qui? La nostra
visita non ha a che fare con la storia che mi hai raccontato questa
mattina, vero?”
Costanza
si voltò di scatto versa la nonna, supplicandola con gli
occhi di non proseguire.
“Vi
prego, non dovete fare parola di quello che vi ho raccontato con
nessuno, soprattutto con la zia Rosa e lo zio Aldo! Loro non sanno dove
si trova Pietro, almeno credo, e non si meritano un tale
dispiacere!”
L’altra
la tranquillizzò abbozzando un sorriso e regalandole un
buffetto su una guancia.
“Non
temere, bambina mia, so mantenere le
promesse”
In
quel mentre arrivò la contessa Caccia, sorridente in un
abito verde scuro, e andò incontro alla cognata: si
guardarono per un istante che alla ragazza parve infinito, poi si
abbracciarono e si abbandonarono ad un bacio di circostanza.
Costanza
trasse un sospiro di sollievo e diede inizio alla recita.
Pochi istanti dopo, nel salottino cinese, al gruppetto si aggiunsero il
conte e Federico, che riusciva incredibilmente a comportarsi come se
nulla fosse: bevvero del tè e si fecero portare dei biscotti
al burro, conversando sui tempi felici in cui la loro era una
famiglia unita e rispettata, dedita al commercio tra il
Piemonte e la Svizzera, e l'onta dello scandalo e della clausura di
Ermanno Caccia era ancora lontana.
Ogni
tanto, il cugino lanciava delle occhiate eloquenti ed annoiate verso la
giovane, ma lei non lo degnava più di quanto avrebbe
dedicato attenzione ad un insetto fastidioso.
Doveva
trovare una scusa per assentarsi e salire al piano superiore, in modo
da raggiungere lo studio e la camera da letto del secondogenito: la
biblioteca era a pianterreno, dall’altro lato rispetto al
salottino in cui si erano accomodati, per cui quell’area
della casa era momentaneamente irraggiungibile, almeno fino a quando
sarebbero stati tutti assembrati lì dentro.
Un’ora
più tardi, dopo che la tensione iniziale si era sciolta e le
chiacchiere fluivano amabilmente tra bevande e manicaretti, Costanza
stava perdendo le speranze di riuscire a rovistare tra gli effetti
personali di Federico, cominciando a pensare ad un altro pretesto che
la riportasse l’indomani a casa degli zii, quando il cugino
si alzò e fece un inchino ai presenti.
“Vogliate
scusarmi, ma degli impegni al Circolo mi reclamano.
E’ stato un piacere conoscervi, donna Maria, anzi zia Maria.
Portate i miei saluti ai vostri genitori e a Nicolò,
Costanza”
La
ragazza dovette fingere e regalargli un mezzo sorriso, mentre la
contessa elogiava l’impegno politico e letterario del figlio
più piccolo.
Quando
finalmente la serpe in seno uscì dal salotto, la giovane si
sentì al sicuro e libera di agire: attese
ancora qualche minuto, poi domandò a zia Rosa se avrebbe
potuto assentarsi per andare a cercare un
orecchino che aveva perso, probabilmente nella
camera da letto che l’aveva ospitata quasi un mese prima.
“Sapete,
ci tengo molto: è stato un regalo di mia madre per la santa
Cresima e sarebbe davvero un dolore se non lo ritrovassi. Sono quasi
convinta di averlo lasciato qui da voi, perché è
stato tra i pochi averi che mi sono portata appresso nei giorni in cui
ci siamo trasferiti”
La
contessa assunse un’aria compartecipe, tuttavia
precisò che le sue domestiche l’avrebbero di
sicura messa al corrente se avessero trovato qualche monile durante il
loro quotidiano lavoro di pulizie.
“Non
lo metto in dubbio, zia, tuttavia permettetemi di dare
un’occhiata. E’ questione di pochi minuti, non di
più”
“Ma
certo cara, se questo ti farà stare tranquilla,
va’ pure. Noi continueremo a rievocare i bei tempi che
furono!”
Le
due donne si guardarono e lo stesso fecero con il conte Aldo, quindi
Costanza si alzò dalla poltroncina bordeaux e diede inizio
alla caccia al tesoro.
La prima stanza che passò in rassegna fu lo studio, per il
semplice fatto che lo trovò sul suo percorso, appena salite
le scale.
La
porta era chiusa senza mandate, quindi abbassò lentamente la
maniglia per non fare rumore, ed entrò altrettanto
silenziosamente.
Si
guardò intorno e, tralasciando la ricercatezza quanto la
sobrietà di tappeti persiani, mobili in ciliegio e soffici
tende giallo chiaro in tinta con la volta affrescata raffigurante
Apollo, il dio del sole, si concentrò sulla scrivania a
qualche metro da lei: sollevò il piano ribaltabile,
frugò tra le cartelline e la pila ordinata di documenti
sopra di esso, aprì una mezza dozzina di cassetti, ma non
trovò nulla.
La
pendola appesa nell’angolo vicino all’entrata
segnava le quattro e mezza: erano già dieci minuti che si
trovava lì dentro, doveva affrettarsi se non voleva destare
sospetti e rischiare che qualcuno la venisse a cercare.
Continuò
a pensare a dove avrebbe potuto rovistare: le mensole semivuote di uno
scaffale erano state abbellite da soprammobili in ceramica e vetro di
Murano, eppure non contenevano neppure l’ombra di fogli o
altri scritti illeciti.
Con
un sospiro demotivante, Costanza si guardò intorno ancora
una volta e, aprendo circospetta la porta, uscì
dalla stanza.
In
giro non vi era ancora anima viva, così, cercando
di fare il minimo rumore possibile, si diresse verso una porta
alla sua destra, un paio di stanze più avanti, e si
trovò davanti la camera da letto di Federico:
ripeté le stesse operazioni silenziose di pochi minuti
prima, non riuscendo a trattenere un sorriso quando anche
quella maniglia si abbassò senza alcuna fatica sotto le sue
dita tremanti e speranzose.
Il
letto a baldacchino era perfettamente in ordine, come il resto
dell’arredamento, abbellito nelle tinte del rosso e del
verde: la giovane si concentrò sul comò, dove
trovò solamente della biancheria, quindi aprì i
cassetti della scrivania e l’armadio con gli abiti.
Dovevano
essere passati altri dieci minuti, quando il senso di sconforto la
colse nuovamente: lì non avrebbe trovato nulla, ne era quasi
convinta, poi lo sguardo le cadde su una minuscola scatola nascosta
dietro ad un paio di pantaloni neri, proprio in un angolo del
guardaroba.
Si
abbassò e la raccolse: cercò di aprirla, ma era
chiusa a chiave.
Non
l'avrebbe trovata facilmente, tanto più che non
l’aveva vista in nessun cassetto, quindi avrebbe
dovuto usare l’ingegno.
Si
guardò intorno in cerca di un sostituto, quando si
ricordò delle forcine che aveva in testa: ne tirò
giù una dall’elaborata acconciatura che le aveva
fatto Nina quel mattino, e cercò di far combaciare le punte
con gli ingranaggi della scatolina.
Al
quarto tentativo, finalmente, la serratura scattò, rivelando
una serie di scritti e di biglietti.
Li
scorse uno per uno, fino a quando non lesse qualcosa che
catturò la sua attenzione.
P.
Orelli, ore 11. Venite da solo, come al solito.
Oppure:
I nostri amici sono stati contenti del resoconto. A presto
E
ancora:
Aver
sacrificato vostro fratello è stato necessario. Sapremo come
ricompensarvi.
Costanza
rabbrividì e allo stesso tempo sussultò dalla
gioia: aveva per davvero trovato le prove che con ogni
probabilità avrebbero scagionato Pietro da qualsiasi accusa!
Richiuse
il cofanetto con uno scatto, non prima di aver intascato le prove, ed
uscì dalla stanza soddisfatta del lavoro svolto.
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Capitolo 47 *** Un pesce di nome Federico ***
Chi supplica qualcuno dev'essere
sull'orlo della disperazione.
Ma la disperazione sa anche rendere più forti e
più consapevoli di ciò che si fa.
(Anonimo, XX° secolo)
Palazzo Orelli si affacciava imponente ed elegante su corso Regina
Elena, una delle traverse di piazza Castello: i carretti degli
ambulanti erano stati distribuiti in mezzo e lungo il perimetro della
sede del foro per la contrattazione dei grani, in modo da attirare
più clienti possibili mettendo in bella mostra la mercanzia
da vendere.
La
giornata era splendida, calda ed umida come le mattinate di inizio
maggio sanno essere, e nell’aria si respirava un fragrante
profumo di pane che si mescolava a quello pungente dello sterco di
qualche stalla lì vicina.
Maffucci
si aggirava tra le ceste di granoturco, frumento, orzo e riso,
fingendosi un acquirente interessato a qualche sacchetto di quelle
grezze prelibatezze.
Fece
il giro del cortile un paio di volte, ora le mani dietro la schiena,
ora nelle tasche dei pantaloni antracite, quindi si diresse verso
l’entrata opposta rispetto a quella da cui era arrivato,
appena una ventina di minuti prima.
Accarezzò
il muso del suo cavallo, lisciandogli il manto scuro con qualche
carezza pensosa: era infatti la terza mattina di seguito che si recava
al mercato dei grani, ma ancora non si era imbattuto nemmeno
nell’ombra di Federico, e il piano che aveva ingegnato per
indurlo a confessare rischiava di sgretolarsi come un castello di carte,
ancora prima di essere stato messo in atto.
Da
quando Costanza gli aveva fatto pervenire i biglietti
dell’anonima corrispondenza tra il cugino e il misterioso
interlocutore, per l’appunto la sera di tre giorni prima,
l’avvocato si era subito attivato per delineare una nuova
strategia difensiva che servisse ad incastrare il giovane conte Caccia.
Mentre
lanciava l’ennesima occhiata circospetta in direzione del
quadrilatero di fronte a sé, sorrise al pensiero
dell’ingenuità della ragazza, che aveva
sì rischiato di essere scoperta mentre frugava tra gli
effetti personali del giovane, ma che tuttavia non si era posta lo
scrupolo di lasciare le cose come stavano e riferirgli semplicemente
della scoperta che aveva fatto.
Se Federico si fosse accorto
della mancanza dei foglietti, allora non riusciremmo mai ad incastrarlo:
di certo non si farebbe vedere per un pezzo in compagnia dei suoi
compari, e tantomeno metterebbe piede qui a palazzo Orelli, dove sembra
si incontrasse con i traditori, però non potevamo rischiare
che le prove andassero perdute.
Eugenio
sospirò e si passò una mano tra i capelli folti e
neri, aggrottando preoccupato le sopracciglia: domani, infatti, si
sarebbe svolto l’interrogatorio di Pietro, come prefissato
dal tenente della Guardia Civica. L’amico si stava lentamente
riprendendo dalla pericolosa febbre che lo aveva colpito ad inizio
settimana, tuttavia era ancora fisicamente debole e le ferite non si
potevano di certo definire guarite.
Nonostante
le precarie condizioni fisiche, i gendarmi lo avevano ritenuto in grado
di sostenere qualche domanda
di routine, come erano state definite, per questo il
venerdì alle otto si sarebbe svolta la prima tranche di un
processo che si preannunciava sarebbe stato tanto rischioso quanto
finemente machiavellico.
La
sola idea che Federico la scampasse ai danni del fratello maggiore era
un’idea assurda ed inconcepibile per l’avvocato, un
pensiero che gli provocava un senso di profonda ingiustizia e di
ribellione: dopo la denuncia dell’armistizio, la
dichiarazione di guerra e la battaglia della Bicocca, erano molte le
cose cambiate all’interno del gruppo di giovani rivoluzionari.
Pochi
avevano aderito ad arruolarsi come volontari nell’Esercito
sabaudo, mentre molti preferirono combattere nell’ombra,
compiendo azioni logistiche che si rivelarono ben presto inefficaci e
premature per la piega che presero gli avvenimenti tra Piemontesi ed
Austriaci: gli affiliati, infatti, speravano che l’ala
liberal moderata del Parlamento si attivasse in favore della cessione
delle ostilità e di un nuovo armistizio, in maniera da
riordinare le fila dei soldati e decidere razionalmente e senza impulsi
la tattica militare da intraprendere, circostanza che avvenne con tempi
e modalità troppo dilatati, tanto da non riuscire ad
impedire la carneficina novarese.
I
gruppi liguri, lombardi, veneti, parmensi, modenesi, toscani e romani
che appoggiavano il Regno di Sardegna non poterono impedire la rovinosa
conclusione di quella che sarebbe passata alla Storia come la Prima
guerra d’Indipendenza, sebbene nessun patriota si arrese e
smise di dare manforte alla causa di Liberazione: ne erano stati esempi
appassionati Genova e Brescia, che arricchirono di nuova linfa vitale
le speranze appassite di troppi cittadini.
Maffucci
pensava a tutto ciò, ormai pronto a rimettersi in sella e a
fare ritorno al Circolo per discutere dell’ennesimo buco
nell’acqua con Rossini e un gruppo sparuto di insospettabili
aderenti al gruppo, quando il piede si bloccò sulla staffa.
A
un centinaio di metri, infatti, nella direzione opposta a quella in cui
si trovava, poteva distinguere chiaramente la stazza odiosa ed elegante
di Federico e di un paio di uomini avvolti in ampi mantelli neri.
L’avvocato
si nascose tra il cavallo e un’edicola in pietra, in modo da
attendere il momento in cui si sarebbero avvicinati a sufficienza per
uscire dal nascondiglio e affrontarli.
Pochi
istanti dopo, mentre i campanili della chiesa di san Giovanni Battista
Decollato e del Duomo battevano gli undici rintocchi, Eugenio si
parò davanti ai tre avventori, accogliendoli con un sorriso
di sfida.
“Buongiorno,
signor conte”
La
sorpresa del ragazzo fu tale che quasi inciampò in uno dei
sampietrini, ma subito si ricompose e stette al gioco.
“Non
sapevo che vi interessaste di commercio, signor Maffucci. Avete fatto
qualche acquisto interessante?”
I
due scagnozzi rimasero fermi ai lati del Caccia: l’avvocato
li squadrò con aria fintamente disinteressata, soffermandosi
ad imprimere nella mente la notevole altezza e i lineamenti.
Uno
doveva avere all’incirca una quarantina d’anni, i
capelli lunghi arruffati e gli occhi neri come la pece: era robusto e
sotto il mantello s’intravedeva un abito di seconda mano, di
fattura per nulla elegante. Il secondo, invece, più giovane,
sembrava imparentato con l’altro, almeno da quello che si
poteva intuire dalla considerevole somiglianza.
“Oh
sì” riprese la recita l’avvocato
“ho comprato un pesce assai raro, un pesce che temevo non
avrei mai trovato da queste parti. Siete forse curioso di
vederlo?”
Federico
si rabbuiò per un attimo: strinse i pugni in un gesto
meccanico, lanciando un’occhiata di aiuto in direzione dei
compari, ma questi parevano statue di sale, immobili e impersonali, lo
sguardo truce che sembrava attraversare l’uomo di legge e
qualunque cosa capitasse ad incrociare i loro sguardi.
“Non
mi pare di capirvi, amico
mio. Tuttavia, se avrete la compiacenza di spiegare la natura della
merce da voi acquistata, sarò ben lieto di
ascoltarvi”
Il
trentenne dai baffetti si lasciò andare ad un sorriso di
soddisfazione: si passò una mano sulla mascella glabra e
sospirò sonoramente, fingendo profondo interesse per la
bella criniera del suo destriero.
“Vedete,
la questione potrebbe protrarsi per diversi minuti, anche se
ciò dipende dall’acutezza della vostra mente a
riconoscere la razza di pesce da me acquistata. Non credete sia meglio
che i vostri gentilissimi accompagnatori ci lascino da soli a discutere
di ittica? Sono certo che lo troverete interessante e assai proficuo,
tanto che ne uscirete con nozioni che vi faranno particolarmente comodo
per l’imminente avvenire…”
Il
giovane conte abbassò lo sguardo: aveva la gola
improvvisamente secca, oltre ad avvertire un’incalzante
stretta allo stomaco simile alla paura che gli suggeriva di scappare.
Si
umettò le labbra e deglutì pensieroso, rendendosi
conto che avrebbe dovuto scegliere la prossima mossa da compiere nel
più breve tempo possibile.
“Va
bene” si arrese alla fine “verrò con
voi, ma non posso permettermi di perdere troppo tempo. I miei amici ed
io abbiamo questioni assai urgenti da sbrigare”
Maffucci
aprì le braccia in un gesto di arrendevolezza,
rassicurandolo che ci avrebbero impiegato solamente il tempo necessario.
Una
volta rimasti soli in una bettola da pochi soldi che si stagliava a
pochi metri dal palazzo del Mercato, i due uomini prenotarono un
bicchiere di vino rosso, e cominciarono a sorseggiarlo l’uno
di fronte all’altro.
Il
locale era scarsamente illuminato e angusto, il mobilio di legno
ammuffito e scheggiato indicava una scarsa qualità, tuttavia
l’oste e i prodotti che serviva compensavano la pessima
immagine del posto.
“Allora,
a cosa devo la fretta con cui mi avete distolto dai miei impegni per
portarmi in questa specie di tugurio di
second’ordine?” esordì il conte.
L’altro
fece roteare il calice di vetro come a voler riflettere, mentre
avvertiva l’impazienza crescere nel ragazzo.
“Vi
chiedo scusa se la signoria vostra non è abituata a
frequentare questi luoghi, ma ve l’ho detto che è
mia intenzione mostrarvi un acquisto assai particolare: una autentica
prelibatezza, credetemi, una prelibatezza che vi imporrà non
solo di ascoltarmi ma anche di assecondarmi”
Si
fissarono per qualche istante, l’odio palpabile che riempiva
la distanza tra i loro corpi.
“Non
prendetemi in giro, altrimenti ve ne pentirete” si
aizzò Caccia “e smettetela di raccontarmi la
storiella della lezione di ittica, perché se continuerete a
farlo non impiegherò un secondo di più ad alzarmi
da questa sedia e a lasciarvi ai vostri stupidi quanto folli
vaneggiamenti!”
Eugenio
sospirò e scosse la testa, ben consapevole di avere la
situazione in pugno: trangugiò un altro sorso di vino
acidulo, concentrandosi ad esaminare la marmaglia che riempiva il
locale, perlopiù avventori di dubbia moralità,
uomini di mezza età baciati da Bacco o sulla strada
dell’ubriachezza, i vestiti lerci o di fattura scadente,
intenti a riempirsi lo stomaco di ogni sorta di liquido commestibile e
a parlare a vanvera.
“Va
bene, se proprio insistete, verrò subito al dunque”
L’avvocato
tirò fuori dal taschino interno della giacca color antracite
il mucchietto di biglietti che Costanza gli aveva fatto pervenire tre
giorni prima, e li mise sul tavolo, sparpagliandoli con cura in modo
che l’altro potesse leggerli senza protendersi con il busto.
“Dove
li avete presi?” cercò di rimanere calmo Federico,
sebbene stesse compiendo un enorme sforzo pur di non inalberarsi e
strappare quelle prove.
Ma
ragionò sul fatto che su quei foglietti non vi fosse
né il suo nome né la sua firma, per cui avrebbe
cercato di sviare l’attenzione dell’omuncolo in
qualsiasi maniera possibile.
“Intendevo
dire, per quale motivo me li state mostrando? Hanno forse a che fare
con gli affari illeciti di mio fratello Pietro?”
Il
trentenne dai baffetti sorrise appena, innervosendosi per la scaltrezza
del nemico.
“Permettetemi
di dirvi che avete smesso di essere fratello di Pietro dopo
ciò che gli avete fatto: non credete anche voi?”
“Oh
insomma, smettetela con questi sentimentalismi!”
sbraitò, picchiando con troppa enfasi il bicchiere di vetro
mezzo pieno, per tranquillizzarsi subito.
“Scusate
il gesto, però non avete risposto alla mia domanda,
avvocato: devo forse ripetervela?”
“Certo
che no, signor conte. Pensavo avreste riconosciuto la calligrafia:
scommetto che chi li ha vergati è uno degli scagnozzi che vi
siete portati appresso stamani…”
“Le
vostre sono farneticazioni senza fondamento” riprese
spazientito Federico, abbandonandosi ad un altro sorso di vino.
“Quei
due gentiluomini di poco fa sono dei semplici conoscenti che mi aiutano
nella contrattazione per la vendita e l’acquisto del grano
che coltiviamo nelle terre della mia famiglia. Vi basta come
giustificazione?”
“Ma
voi non dovete giustificarvi di nulla, caro conte!”
ribatté Eugenio, sistemandosi l’abito e
riappoggiandosi con studiata calma allo schienale.
“Le
mie non sono accuse, tutt’altro, bensì certezze.
Poco fa, infatti, mi avete chiesto dove avessi preso questi foglietti,
e la risposta è semplice quanto ovvia… volete
forse darmi la conferma o devo proseguire nella mia arringa?”
L’altro
contrasse la mascella e si passò una mano sul viso: chi mai
si era potuto intrufolare nella sua camera da letto e rovistare tra i
suoi averi? Se non avesse incastrato Pietro, avrebbe di sicuro pensato
a lui, ma era una congettura impossibile, dal momento che non avrebbe
avuto senso attendere la vigilia del processo per smascherarlo.
E,
come se gli avesse letto nella mente, Maffucci proseguì per
la sua strada, avvicinandosi con il busto all’interlocutore.
“Immagino
sappiate dalle conoscenze che potete vantare tra le alte sfere della
Guardia Civica che domani vostro fratello
verrà interrogato: sapete, oltre le ferite inferte durante
il duello, la visita che gli avete fatto ha ulteriormente aggravato il
suo stato di salute, tanto da farlo ricoverare
nell’infermeria del carcere. Solo per questo, infatti, il
tenente che si occupa del caso ha rimandato la prima tranche del
processo a domattina”
“Perché
mi state dicendo tutto questo?” lo interruppe con un gesto di
fastidio della mano.
“Diciamo
che desidero farvi redimere dai vostri peccati…”
“Io
non ho commesso alcun peccato” sibilò senza troppa
convinzione il giovane conte.
“Comunque
la pensiate, non spetta a me condannare la vostra anima, sempre che ne
abbiate una, è sottointeso”
A
quell’ennesima provocazione a viso aperto, Federico si
aggrappò con forza al bordo del tavolo e, le unghie piantate
nel legno, mise in chiaro le cose.
“Non
vi permetto di mancarmi di rispetto, mi avete capito? Siete solo un
avvocatuccio senza alcuna rilevanza, un mezzo uomo che posso
distruggere ogni volta che ne avrò voglia. E ora ditemi il
motivo di questa assurda messinscena, se non volete passare guai
seri!”
Eugenio
si protese in avanti verso l’interlocutore, le mani congiunte
e l’aria di sfida sul volto serio.
“Questi
biglietti rappresentano la prova del vostro coinvolgimento
nell’arresto di Pietro. Siete in grado di leggere, no? E
allora leggete ed illuminatevi”
Il
trentenne dai baffetti avvicinò le scritte incriminate e
attese in silenzio.
P.
Orelli, ore 11. Venite da solo, come al solito.
Aver
sacrificato vostro fratello è stato necessario. Sapremo come
ricompensarvi.
I
nostri amici sono rimasti contenti del lavoro svolto.
P. Orelli,
ore 10. Venite da solo, come al solito, ma fermatevi al secondo banco
sulla sinistra.
“Non
significano nulla: come fate ad accusarmi? Sopra non vi è
scritto il mio nome né nessun riferimento che faccia anche
solo lontanamente pensare ad un mio eventuale coinvolgimento
in…”
“In?
Vi prego, proseguite!”
Il
trentenne dai baffetti era ormai sicuro di averlo in pugno: Federico si
stava tradendo, sebbene si fosse fermato in tempo, e lo sguardo di
terrore e di smarrimento indicava che il piano stava funzionando alla
perfezione.
“Non
ho nulla da aggiungere. E adesso, se permettete, devo andare: mi avete
già fatto perdere tempo a
sufficienza!”
Il
ragazzo si alzò dalla sedia e lanciò sul
tavolaccio qualche moneta con cui pagarsi il bicchiere di vino; si
allontanò a passi svelti verso l’uscita, quando
Maffucci, ancora seduto, gli intimò di fermarsi un
attimo.
“Se
non ritirerete la falsa accusa nei confronti di Pietro entro questa
sera, andrò io stesso dalla Guardia Civica a denunciare i
vostri loschi affari: nella fretta, caro signor conte, avete
dimenticato di portare con voi i biglietti, e sebbene non vi sia
segnato alcun esplicito riferimento, queste prove sono state trovate a
casa vostra, nell’armadio della camera da letto in cui
dormite, e vi posso assicurare che la persona che le ha rinvenute
è disposta a testimoniarlo sotto giuramento!”
Il
nobile si diede dell’imbecille per non aver arraffato quei
maledetti foglietti, addirittura per non averli distrutti a tempo
debito, dopo averli letti: si voltò, le mani in tasca che
gli prudevano per la rabbia e l’impotenza, mentre nella sua
mente vorticava il bel volto di Costanza, la misteriosa ladra che
adesso intuiva essersi introdotta nella sua stanza, molto probabilmente
il pomeriggio in cui era venuta a prendere il tè con donna
Mellerio.
“Ebbene?
Se ciò non bastasse, sono altrettanto sicuro che quei due gentiluomini con
cui vi ho incontrato poco fa appartengono allo stesso gruppo filo
austriaco che ha cercato di boicottare il nostro Esercito!
Chissà che non siano conoscenze già note anche
alla gendarmeria…”
“Smettetela!
Siete l’ultima persona sulla faccia della terra a dirmi come
devo o non devo comportarmi! So perfettamente che siete coinvolto nella
stessa organizzazione in cui milita mio fratello, quindi piantatela di
fare l’amico innocente, perché non lo siete
affatto!”
Eugenio
abbassò lo sguardo e sorrise sornione, quindi
trangugiò l’ultimo sorso di vino rosso e riprese
con tono conciliante e sincero l’arringa più
importante che avrebbe mai realizzato.
“Mettete
da parte il rancore o qualsiasi altro sentimento negativo coviate per
Pietro: la sua vita dipende da voi, e lo sapete molto bene.
Promettetemi che lo farete, promettetemi che andrete alle carceri e lo
farete scagionare…”
Federico
si grattò la punta del naso, ulteriormente innervosito dalla
presenza di una mezza dozzina di avventori troppo chiassosi,
stravaccati a pochi metri da loro.
Guardò
per un lungo istante il trentenne dai baffetti, gli occhi scuri persi a
rincorrere i propri pensieri, poi aprì la bocca per
ribattere, ma non uscì alcun suono.
Fece
dietrofront ed uscì dalla bettola, il sole di mezzogiorno ad
accoglierlo.
NOTA DELL'AUTRICE
Buonasera, cari
lettori!
Spero che la storia
continui ad essere di vostro gradimento: grazie a chi sta proseguendo a
supportarla, a leggerla, a recensirla e a seguirla!
Nel prossimo capitolo
scopriremo che cosa avrà scelto Federico e, di conseguenza,
quale sarà il destino di Pietro.
L'aggiornamento
successivo sarà anche l'ultimo capitolo, poi
concluderò con l'epilogo che si svolgerà parecchi
anni dopo l'ambientazione cronologica della narrazione.
Bene, allora a presto!
Un abbraccio
P.s. Uno dei due
scagnozzi in compagnia di Federico è lo stesso conosciuto
nel capitolo ottavo; per quanto riguarda Palazzo Orelli, l'ho descritto
nei particolari sempre nel capitolo 8, mentre la chiesa di san Giovanni
Battista Decollato è quella vicina al Teatro Nuovo, di cui
ho parlato nel capitolo 5.
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Capitolo 48 *** Né vincitori né vinti ***
La storia mi
giustificherà.
(Gerolamo Ramorino, Genova 1792- Torino 1849, generale
dell'Armata sarda)
La testa bassa e le mani infilate nelle tasche della giacca verdone,
Federico procedeva di filato verso le Regie Carceri Mandamentali.
Il sole di mezzogiorno lo stava facendo sudare, mentre il gusto acidulo
del vino appena bevuto ristagnava come un avvertimento alla bocca dello
stomaco: senza diminuire la velocità, recuperò un
fazzoletto di seta con cui si tamponò la fronte e le tempie,
quindi ripercorse con la mente la conversazione che aveva sostenuto con
Maffucci.
“Quell’avvocatuccio
da quattro soldi crede di intimorirmi, ma non ha nemmeno lontanamente
idea della pericolosità delle persone che frequento! Se non
trovo una maniera per uscire da questa situazione, chi ci
rimetterà sarà soltanto il sottoscritto, non di
certo lui e neppure quella gatta morta di Costanza!”
Sospirò nervoso, ripensando con stizza ai due energumeni che
era stato costretto ad abbandonare nel cortile di palazzo Orelli, dopo
che lo avevano minacciato di fargliela pagare, nel caso gli fosse
scappata anche solo mezza parola, per poi subito dileguarsi celermente
come la brezza estiva in un giornata afosa.
Una manciata di minuti più tardi, il giovane si
ritrovò davanti all’entrata sobria e militare
delle Carceri, il cotto lombardo che riluceva sotto i raggi caldi della
mattinata ormai agli sgoccioli.
Si guardò intorno, controllando che nessuno lo avesse
seguito e che non ci fosse nemmeno l’ombra di un conoscente a
rovinargli i piani, quindi fece qualche passo in avanti.
Non si era mai trovato in difficoltà come in quei momenti,
quando la vita di suo fratello Pietro dipendeva esclusivamente da lui:
un altro centinaio di metri e avrebbe compiuto il suo dovere, ritirando
tutte le false accuse che aveva mosso contro il primogenito dei Caccia,
ma era davvero questo ciò che voleva? Era sicuro di volergli
salvare la vita, di fare marcia indietro?
Per un istante, rivide i volti dei loro genitori, i capelli rossastri e
radi del conte Aldo, gli occhi azzurri buoni ed aperti verso il mondo,
in contrapposizione alla folta chioma della madre e al suo sguardo
nocciola.
Strizzò le palpebre, in un gesto che voleva scacciare
all’istante quei fantasmi dalla sua testa, e
ritornò a concentrarsi sulla struttura tardo medievale che
si stagliava di fronte a lui.
Gli altri che cosa si aspettavano che facesse? Che cosa doveva fare?
Abbassò la vista su un mucchietto di sassolini che
precedevano l’entrata argillosa e in parte erbosa che
conduceva al cortile del Castello Sforzesco.
Erano così simili, così bianchi, eppure alcuni
dovevano essere più piccoli, altri dovevano avere gli angoli
smussati, altri ancora più appuntiti… Federico si
sentiva un po’ come loro, che all’esterno
apparivano uguali a chi li osservava, ma che all’interno
erano pieni di una miriade di imperfezioni, caratteristiche che li
rendevano unici e diversi.
“Sì,
Pietro ed io non siamo gli stessi, non lo siamo mai stati, ed io non
voglio sacrificarmi per lui, anche se per tutti siamo fratelli, ed il
legame di sangue che ci unisce è importante sopra ogni cosa”.
Trasse un profondo respiro e lanciò un’ultima
occhiata verso la facciata delle Carceri, ora così lontane,
così sconosciute.
Ricacciò le mani nelle tasche della giacca di lino e si
allontanò, la schiena che gli faceva da scudo contro
qualsiasi ripensamento.
Il 7 maggio 1849, Vittorio Emanuele II nominò Primo Ministro
del Regno di Sardegna lo scrittore e artista Massimo
d’Azeglio, un politico liberale e moderato, che andava a
sostituire Vincenzo Gioberti.
Il nuovo Presidente del Consiglio è profondamente convinto
dell’importanza di redigere una pace sicura e duratura con
l’Impero Asburgico, sia per il bene del Piemonte che per
poter riprendere un giorno la lotta per l’indipendenza
italiana.
Le trattative di pace si svolgono nella capitale del Lombardo Veneto:
per parte sabauda la mediazione è affidata al diplomatico
Carlo Beraudo di Pralormo, mentre per parte austriaca a von Bruck,
rigido ministro del Commercio.
Inaspettatamente, è l’intervento di Radetzky a
chetare gli animi e a spezzare una lancia in favore dei Savoia, in
quanto il Piemonte viene considerato dall'anziano feldmaresciallo come
perno di un nuovo equilibrio moderato e antirivoluzionario per l'intera
penisola italiana.
Il 6 agosto dello stesso anno viene dunque siglato il trattato di pace,
le cui condizioni non sono affatto controproducenti: in cambio del
parziale disarmo e di un indennizzo in denaro in favore del nemico, il
Piemonte ottiene l’amnistia per i patrioti del Lombardo
Veneto, la restituzione dei territori occupati e l’abolizione
di dazi e convenzioni economiche sfavorevoli.
Alle evidenti resistenze messe in atto dalla Camera del Parlamento
subalpino, il re e il nuovo Presidente decidono di scioglierla e di
indire nuove elezioni, che si svolgeranno il 9 dicembre 1849, ma
bisognerà aspettare esattamente un mese dopo per
l’approvazione dei negoziati di pace.
Nel frattempo, il 22 maggio viene fucilato a Torino il
generale Ramorino, a monito della sua disobbedienza che era costata
assai cara al Regno di Sardegna e alle sorti della guerra contro gli
Asburgo, dopo che gli è stata negata la grazia da Vittorio Emanuele
II. La sentenza viene eseguita nella piazza d'Armi, dove si svolgono
le parate militari dell'Esercito: a comandare il plotone di soldati è lo stesso generale.
Sabato 30 maggio 1849
La carrozza correva veloce lungo la strada argillosa e bollente,
costeggiata da file interminabili di campi coltivati e da zone dedicate
al maggese, che avevano preso il posto degli specchi d’acqua
delle risaie e di qualche disinteressato airone che ne sondava gli
argini; il tepore che filtrava dal finestrino assomigliava ad
un’audace quanto prepotente carezza di un amante, che si
insinua risoluta sotto le vesti, consapevole di non doversi conquistare
alcun permesso.
Il capo ciondoloni sul petto, il corpo di Nicolò sobbalzava
al ritmo di quel piacevole dondolio: gli occhi ancora chiusi, si
scostò meccanicamente un ciuffo di capelli ricci che gli
ricadeva sfacciatamente sulla fronte di porcellana, ormai quasi scevra
di cicatrici visibili.
Il ragazzo si sistemò meglio contro lo schienale di pelle,
il gomito del braccio destro, quello sano, appoggiato mollemente contro
la parete interna della Landau nera: improvvisamente,
avvertì una profonda stanchezza impossessarsi delle sue
membra, una spossatezza atavica e senza una ragione precisa, che lo
induceva ad abbandonarsi ad un sonno lungo e profondo.
Un lieve scossone non preannunciato, e il galoppo dei cavalli
lasciò il posto al passo cadenzato dei loro zoccoli ferrati,
mentre un’altra carrozza passava loro di fianco.
Il giovane Granieri riaprì contrariato gli occhi, quindi
tastò un ginocchio del suo accompagnatore.
“Sono emozionato. Sai, non vedo l’ora di poter
riabbracciare Stefano e di sapere come sta... Spero solo che si ricordi
ancora di me, e che gli faccia piacere ricevere la mia visita”
Il fruscio appena accennato delle pagine di giornale testimoniavano che
l’interlocutore stava lasciando da parte la lettura per
dedicarsi alle parole di Nicolò.
“Sono convinto che anche il tuo amico sarà molto
felice di rivederti, ne sono certo” e così dicendo
gli regalò una pacca affettuosa su una spalla, sorridendogli.
“Abbiamo fatto bene a mandare un telegramma
all’ospedale, almeno avrà potuto prepararsi a
dovere e non trovarsi in imbarazzo per un’ eventuale sorpresa
che inizialmente avrei voluto fargli”
La voce del ragazzo trapelava l’impazienza e la gioia che
avevano accompagnato l’idea di quel viaggio, organizzato fin
nei minimi particolari da settimane ormai, da quando aveva trovato il
coraggio di riallacciare i fili di quel passato bellicoso che non lo
avrebbe più lasciato.
Si strofinò con ansia i palmi delle mani sui pantaloni
chiari, ben consapevole di ciò che lo spontaneo Stefano
aveva dovuto subire durante quei mesi di convalescenza, dopo il
ferimento che lo aveva visto coinvolto alla Bicocca, il 23 marzo.
Per un attimo, Nicolò ripercorse suo malgrado la lunga
marcia sul Ticino, l'attraversamento di Magenta, la
moltitudine di accampamenti spartani a cui si era dovuto abituare; e
poi, la mente, subdola e malvagia, lo accompagnò nei meandri
rappresentati dalle battaglie di Borgo San Siro, di Gambolò
e della Sforzesca, dove era stato colpito al braccio sinistro, lo
portò a rammentare l’avanzata stanca verso
Vigevano, e da lì il ripiegamento in direzione della brumal Novara, la bestia nera, come scrisse anni dopo Carducci nell'ode "Piemonte", fino
al tragico epilogo nelle campagne circostanti.
Al solo rievocare quei ricordi dolorosi, il giovane
rabbrividì e si agitò sul sedile, mentre rivoli
di sudore freddo gli accarezzavano languidi la schiena.
“Devo dirti una cosa, una cosa che ancora non ho detto a
nessuno, nemmeno a Costanza…”
Nicolò si fermò un istante, deciso a calibrare
con cura le parole che stava per pronunciare, e anche timoroso di non
essere realmente compreso.
“Dimmi, ti ascolto…”
L’altro lasciò andare la tendina di velluto che
aveva scostato per ammirare il paesaggio al di fuori, in maniera da
concentrarsi esclusivamente sul volto dubbioso
dell’interlocutore.
“Ecco, il fatto è che credo di…
sì, insomma, credo di star recuperando la vista.
Cioè, non ne sono del tutto convinto, ma da qualche giorno
non vedo più solo ombre, riesco a riconoscere i colori degli
oggetti che mi circondano, persino i contorni una volta sfumati delle
persone sono quasi nitidi… Tu credi sia possibile una cosa
del genere?”
L’uomo si mordicchiò un labbro e alzò
le spalle, indeciso su quale risposta il ragazzo si aspettasse di
sentire, quindi si sedette vicino al giovane Granieri e gli sorrise
fiducioso.
“Beh, non lo so se sia possibile, però sono molto
contento di quello che mi hai appena detto, davvero molto! Se
è vero –e non ho alcun dubbio per credere il
contrario- tutti noi saremmo pronti a supportarti e a portarti dai
migliori specialisti, in modo che tu possa riacquistare completamente
la vista e riappropriarti della tua vita! Te lo posso giurare, caro
cugino! E ora, fatti abbracciare, te lo sei meritato!”
I due si strinsero affettuosamente, fino a quando i loro corpi si
fusero in uno solo, e gli occhi di Nicolò si abbandonarono
alle lacrime, timide e salate.
“Grazie, Pietro, grazie per esserci sempre stato. E grazie
per avermi accompagnato, te ne sarò grato per
l'eternità”
Arrivarono a Torino che era pomeriggio: si fecero indicare da una
coppia di passanti piazza Emanuele Filiberto, dove era ubicato il Regio
Ospedale Militare.
La presenza del conte Caccia indusse il ragazzo a farsi coraggio,
poiché un’improvvisa ansia gli stava attanagliando
come un mostro la bocca dello stomaco: forse aveva sbagliato a
presentarsi dopo tutto quel tempo, forse a Stefano non importava nulla
di rivederlo, forse il suo amico desiderava semplicemente dimenticare e
lasciarsi parte del passato alle spalle.
D’altronde, il telegramma di risposta che aveva ricevuto
circa una settimana prima non lo informava delle condizioni specifiche
in cui versava il soldato ferito, ma il medico che glielo aveva inviato
scriveva solo che il ragazzo si trovava ancora lì, per
ultimare gli ultimi giorni di riabilitazione che ancora gli spettavano.
“Che c’è?” gli
domandò Pietro, aiutandolo a scendere dalla vettura.
“Nulla…”
“Non è che ci stai ripensando, vero? Ora che sei
ad un passo dal traguardo, non puoi abbandonare!”
“No, certo che no. Scusa, andiamo pure”
Si incamminarono quindi verso un mastodontico stabile rettangolare, che
si ergeva immacolato a qualche centinaio di metri da loro: lasciarono
detto al cocchiere che si sarebbero ritrovati dopo un paio di ore
all’angolo della piazza, poi schivarono qualche altra
carrozza e, finalmente, si ritrovarono davanti all’ospedale.
Pietro si guardò intorno, notando le fila di porticati che
ospitavano una dozzina di negozi e un paio di palazzi alto borghesi: a
quell’ora, non vi era quasi nessuno in giro, solo una
manciata di Landau che andavano in direzioni opposte rispetto alla loro.
Nicolò si sentiva una pedina degli scacchi attorno a cui
vorticavano figure e mosse a lui sconosciute, la confezione di
cioccolatini in una mano, il regalo che Costanza gli aveva suggerito di
scegliere.
Si aggrappava al cugino come fosse un’àncora di
salvezza, il cuore che accelerava i battiti e una voragine che si
apriva in prossimità dello stomaco, come se lo stesse per
risucchiare.
E fu allora che si sentì stupido, impreparato, codardo:
aveva tanto blaterato contro la sorella, contro Eugenio e chi lo voleva
aiutare a dimenticare tutta quella brutta storia, quando invece era lui
il primo a comportarsi da vigliacco e a non voler prestare aiuto al suo
amico.
Attraversarono l’entrata di marmo a sesto acuto che conduceva
nell’ampio parco all’italiana, e si ritrovarono in
un mondo a parte, un universo popolato da suore, camici bianchi e
pazienti pallidi e smagriti.
La mente del giovane Granieri tornò ai giorni lontani eppure
così vicini della degenza, all’odore aspro e
pungente del disinfettante che accompagnava le visite del personale, al
calore malsano emanato dai corpi degli altri malati e dei moribondi.
Istintivamente, si ritrovò a stringere ancora più
forte il braccio di Pietro, che lo guardò e gli disse che
sarebbe andato tutto bene.
Abbandonato il giardino, domandarono in portineria dove poter trovare
il reparto di riabilitazione in cui Stefano era degente, quindi si
addentrarono lungo un corridoio dalle pareti grigiastre e dal soffitto
macchiato di umidità agli angoli.
Salirono con lentezza i gradini di pietra, Nicolò
appoggiandosi al corrimano di legno, fino al secondo piano indicato
dall'uomo di mezza età a cui avevano chiesto all'ingresso.
Da una delle tre finestre che si aprivano sull'unica parete libera di
porte, i raggi solari di fine maggio si insinuavano energici in
quell'ala della costruzione, donandole un briciolo di
umanità che sembrava mancare al resto dell'austera struttura.
"Aspettami qui, vado a cercare qualcuno..."
Pietro aiutò il cugino a sedersi sull'unica panchina
disponibile, e cominciò ad ispezionare la fila omologata di
porte bianche alla sua sinistra; alla sesta occhiata, si
fermò e bussò in prossimità della
stanza che recava il nome del medico che aveva inviato il telegramma la
settimana precedente.
Il conte attese il permesso per poter entrare, quindi
sgusciò all'interno e vi uscì un minuto
più tardi.
Andò a recuperare Nicolò, fermo ed imbarazzato
dove lo aveva lasciato poco prima, e gli disse di seguirlo dal dottor
Damiani, che li ricevette nel suo studio asettico, colmo di volumi
enciclopedici e di una caterva di documenti mezzi ingialliti.
“Mi dispiace molto avervi fatto venire fino a qui, ma il
signor Gardina non desidera ricevere visite"
"Ma come?! Eravamo d'accordo che ci saremo visti proprio oggi, che lo
avrei incontrato! Perchè adesso mi state dicendo questo, non
capisco!"
Il giovane Granieri, infatti, non riusciva a capacitarsi delle parole
che stava udendo: quell'uomo di media statura e l'aspetto aristocratico
gli stava facendo sgretolare la poca forza di
volontà e di sicurezza che aveva faticosamente racimolato
durante le ultime settimane in cui aveva ripreso in mano le redini
della sua precaria esistenza.
"Possiamo sapere se questo improvviso cambiamento ha a che fare con le
sue condizioni di salute?" s'intromise il conte Caccia, appoggiando una
mano sul ginocchio di Nicolò, inducendolo a calmarsi.
"No, vi posso assicurare che il vostro amico si è ripreso in
modo assai stupefacente, anche se il percorso è di certo
ancora lungo e tortuoso. Tuttavia, non posso obbligarlo a vedervi, se
ciò va contro la sua volontà. Mi capite, vero?"
Il cinquantenne, la stilografica che aveva recuperato davanti a
sé, li guardava con gli occhi chiari ed empatici, ma il tono
della voce appariva irremovibile.
"Certo, vi capiamo e comprendiamo il gesto del signor Gardina.
Permettete un attimo..."
Pietro si abbassò per sussurrare all'orecchio del vicino se
aveva intenzione di lasciare comunque la scatola di cioccolatini
acquistata per Stefano: l'altro lo guardò appena, la
mascella contratta e le dita irrigidite sulla confezione regalo, poi
annuì senza troppa convinzione e appoggiò il
pacchetto tra lui e il dottor Damiani.
"Bene, allora se non abbiamo più niente da dirci, noi
toglieremmo il disturbo: sapete, la strada per Novara è
piuttosto lunga..."
Le parole del conte Caccia trasudavano una certa dose di irrequietezza,
sebbene continuasse a rimanere perfettamente calmo: si alzò
dalla sedia di mogano, prendendo per un gomito il cugino,
già pronto ad accomiatarsi.
"Aspettate..." ribatté il medico.
Recuperò da una tasca del camice un foglio spiegazzato e
piegato in quattro, quindi lo porse a Nicolò.
"Il vostro amico mi ha personalmente incaricato di darvi questa
lettera, tenete"
Il giovane allungò il braccio sano e tastò appena
il misterioso scritto, indeciso se replicare o magari insistere per
rivedere l'ex soldato.
Alla fine, optò per un semplice quanto poco convincente
grazie ed una stretta di mano, mentre Pietro si limitava a fare lo
stesso, e finalmente lasciarono la stanza.
Una volta districatisi da quel labirinto, i cugini si fermarono quasi
all'unisono, dirigendosi verso l'uscita del complesso ospedaliero.
Il più grande indirizzava affettuosamente i passi
strascicati dell'altro lungo il vialetto di ghiaia e terra battuta,
pronto a ricongiungersi con il cocchiere nella piazza antistante.
Non si scambiarono mezza parola, ognuno assorto nei propri pensieri:
avevano compiuto un viaggio a vuoto, avevano percorso chilometri
inutilmente, solo per ottenere un rifiuto e una lettera che nessuno
aveva il coraggio di leggere.
A quella riflessione, Nicolò sorrise dentro di sé
amaramente, pensando a quanto fosse sciocca quella strana coincidenza:
sebbene stesse lentamente ed incredibilmente recuperando la vista,
ancora non poteva definirsi autonomo nelle incombenze quotidiane, ed
una di queste era per l'appunto leggere quelle parole che il suo amico
aveva deciso di scrivergli, non sapendo quanto questo gli costasse
un'enorme fatica.
O forse no, forse quello era una sorta di segnale che lo induceva a
mettersi alla prova, a tentare di interpretare le file di parole una
dietro l'altra che componevano il messaggio dell'amico;
perciò, strappò delicatamente il foglio dalle
mani di Pietro, e lo spinse a seguirlo sulla prima panchina
disponibile, vicino ad un laghetto artificiale.
"Che ti succede? Non ti senti bene?"
domandò allarmato il conte, sedendosi a
sua volta.
Il cugino scosse la testa, tranquillizzandolo con un mezzo sorriso.
"Voglio provare a leggerla da solo" cominciò a spiegare,
riferendosi alla lettera che gli scottava tra le dita, e che
accarezzava come fosse il più prezioso dei tesori.
"Va bene, però se vuoi ti aiuto volentieri: non mi costa
nulla, lo sai, vero?"
"Sì, ma è una cosa che devo fare io, o quanto
meno che devo tentare di fare... Se ho bisogno di te, non
esiterò a chiedertelo, davvero"
Il trentenne annuì comprensivo, stringendogli
affettuosamente una spalla ed allontanandosi di qualche passo dal
cugino, in direzione di una delle magnifiche sequoie, in modo da
lasciarlo a concentrarsi.
Nicolò attese che l'altro si fu allontanato, quindi si
decise ad aprire il foglio e ad avvicinarlo il più possibile
agli occhi: le parole gli apparivano come microscopici ballerini dalle
forme sgraziate, una troppo alta, una troppo bassa, una sghemba, una
sbavata per l'eccesso d'inchiostro... insomma, un mare di confusione in
cui avrebbe dovuto nuotare per riuscire a salvarsi dal buio che lo
stava abbandonando ogni giorno che passava.
"Basta provarci,
ricordare la forma delle lettere e metterle insieme una dopo l'altra...".
Trasse un sospiro di incoraggiamento, la testa che gli girava, e
riprovò per la seconda volta: lentamente, le dita appena
tremolanti, riuscì a decifrare qualche frase, fino a
completare l'intera lettura.
Torino, 29 maggio 1849
Caro Nicolò,
non sono bravo con le parole, credo che tu lo hai capito quando ci
siamo incontrati e conosciuti.
Appena il dottor Damiani mi ha deto che volevi venire a trovarmi, sono
stato felice, molto felice, come non lo ero da tanto tempo.
Però, rifletendoci, ho capito di non essere ancora pronto
per questo passo, per ricongiungermi con il mio passato: ho paura di
soffrire tropo, di non acettare di rivederti, perché non
sono in quela che si definisce una ottima forma.
Mi sposto ancora con le grucce, e speso mi sento debole, ma sto bene
nel complesso, credimi.
Spero tanto di trovare presto la forza per farlo, per poterti
riabbracciare e parlare del piu e del meno con la stessa legerezza del
prima.
Ti lascio il mio indirizzo: tra una settimana farò ritorno a
casa, a Novara, e chissa che li non riprendo ad essere normale e sereno
come sono sempre stato.
Ti ricordo sempre con affeto e riconoscienza, ma domani, quando verai, non insistere per parlarmi, te ne prego.
Il tuo grande amico Stefano
Dimenticavo, scusa per gli errori!
Nicolò si ritrovò a sorridere e a
ridere al contempo, incurante degli sguardi lanciati di sfuggita da
qualche capannello di persone che passava di lì: ci aveva
impiegato cinque, forse addirittura dieci minuti per riuscire a capire
cosa ci fosse scritto, ma solo così aveva avuto la certezza che
stava davvero riacquistando la vista.
Strinse al petto la lettera, cominciando a singhiozzare in silenzio e a
piangere, sfogando il risentimento, la rabbia, la delusione e la
frustrazione che l'avevano accompagnato in tutto quel tempo: lui si
rispecchiava in quello che gli aveva scritto Stefano, lo comprendeva
alla perfezione, e si rese conto che quasi non gli importava di non
averlo visto, perché ci era passato anche lui,
perché non era necessario affrettare i tempi e rovinare i
progressi fatti.
Divenne consapevole che la guerra, in fondo, rendeva uguali chi l'aveva
vissuta: vinti e perdenti in realtà erano tutti dei
perdenti, che per ritornare ad essere dei vincitori avrebbero dovuto
attraversare nuovi orizzonti di vita e, prima che con il nemico, fare
pace con se stessi.
Dopo essersi sfogato, fece un cenno in direzione di Pietro, e lo
abbracciò con slancio fraterno.
"Ora sono pronto, possiamo andare".
NOTA
DELL'AUTRICE
Buonasera,
cari lettori!
Tranquilli,
avete letto bene, non ho saltato nulla: Federico sembrava che avesse
deciso di andare dritto per la sua strada, di non aiutare il fratello,
invece, quasi quattro settimane dopo, ritroviamo il nostro primogenito
conte Caccia vivo e vegeto, pronto a fare compagnia a Nicolò
in quel di Torino, dove purtroppo non hanno potuto incontrare il
commilitone del ragazzo, anche lui profondamente turbato dai ricordi di
guerra.
Questo,
come anticipato, è l'ultimo capitolo, ma nell'epilogo
spiegherò che fine hanno fatto i vari personaggi, compiendo
un salto temporale di trent'anni, raccontandovi brevemente anche come
ha fatto Pietro a salvarsi e, soprattutto, se alla fine Federico ha
deciso di fare marcia indietro, ritirando le accuse.
In
attesa di tutto ciò, vi ringrazio per il supporto, e vi
saluto!
A
presto
|
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Capitolo 49 *** L'edera rampicante ***
Erano
arrivate nella tarda mattinata di sabato 22 marzo 1879, una giornata
tiepida e caratterizzata da una brezza mite che preannunciava
l’arrivo della primavera alle porte: avevano preso alloggio
presso l’Albergo Italia, una costruzione molto elegante e
dagli arredi ricercati, che si affacciava sulla piazza del duomo.
Il
viaggio in carrozza fino alla stazione di Arona era stato piuttosto
breve e per nulla faticoso, mentre il tragitto in treno si era rivelato
rumoroso e fin troppo veloce, non permettendo di ammirare al di fuori
dei finestrini il paesaggio lacustre che si mescolava a case, alberi e
campi, in una danza vorticosa e quasi demoniaca, aggravata dal fumo
nero e denso del carbone che usciva dalla ciminiera del locomotore.
Quel
pomeriggio, dopo aver pranzato ed essersi riposate, Costanza aveva
portato Elena a fare un giro turistico della città: la donna
più grande aveva trovato una città completamente
cambiata e rinnovata in quasi trent’anni della sua assenza,
tanto da non riuscire a riconoscere i pochi posti che avevano fatto da
sfondo al periodo in cui aveva soggiornato a Novara.
Palazzo
Caccia Granieri era stato venduto molti decenni prima, quando don
Armando e donna Luisa si erano trasferiti a Santa Maria Maggiore, dove
tutt’ora, all’alba dei settant’anni,
vivevano: la dimora di famiglia era passata di mano ad una sconosciuta
coppia borghese, le cui trattative di vendita erano state concordate
dal primogenito Nicolò; palazzo Caccia continuava a
stagliarsi in prossimità del centro, sobrio e signorile come
se lo ricordava, ma le appariva estraneo e desolatamente chiuso:
nessuna presenza umana, infatti, calpestava da tempo gli eleganti
pavimenti di marmo e in parquet, né voce alcuna si sentiva
risuonare tra le stanze sapientemente affrescate.
“Tutti i bei momenti che ho
vissuto lì dentro fanno ormai parte del passato, e non
torneranno…”
Le
sembrava quasi di violare un luogo sacro, divenuto preda
dell’incuria e delle cascate di edera rampicante, che
sfacciatamente soffocavano i muri, per questo preferì non
sostare ulteriormente.
La
coppia di turiste proseguì dunque nel loro tragitto, e pochi
minuti dopo si soffermò davanti all’edificio che
una volta ospitava l’ufficio di don Armando,
anch’esso preso in affitto da estranei molti anni prima:
già ad una superficiale occhiata, corso Sempione si
presentava modernizzato, colmo ad ogni angolo di negozi di pasticceria
e di locali eleganti in cui le signore si trastullavano a sorseggiare
tè caldo o cioccolata, mentre la chiesa della Santissima
Trinità al Monserrato era stata abbellita da un geometrico
timpano che ne sovrastava la sommità, e che la faceva
apparire ancora più maestosa.
Costanza
portò la ragazza in pieno centro: entrarono meravigliate
nella Basilica di san Gaudenzio, ora completata dal cupolino che la
faceva assomigliare ad una delle moschee orientali, e rimasero sedute
ad ammirare la vertiginosa altezza delle pareti e del soffitto
magistralmente decorati*.
Uscirono
e si incamminarono verso il Circolo dei giovani aristocratici, dove suo
fratello Nicolò amava trascorrere intere giornate a
discutere di politica: sebbene all’esterno
l’edificio apparisse immutato, una sana curiosità
le imponeva di affacciarvisi, ma subito si rese conto
dell’assurdità di ciò che aveva
pensato, dal momento che era un ritrovo ad uso esclusivo degli uomini.
Quando
poco dopo si ritrovarono a costeggiare l’albergo svizzero, un
brivido scosse le spalle di Costanza: nonostante le pareti si fossero
ingrigite e tinte di un indecifrabile giallo rossastro, testimonianza
di varie scrostature che avevano danneggiato l’intonaco, la
donna manteneva ancora ben vivido il ricordo di quei giorni di marzo
inoltrato, quando era andata a supplicare Nicolò di lasciare
l’Armata Sarda e di far ritorno a casa; riusciva a rammentare
perfettamente il furore e l’alterigia che trapelavano dai
suoi occhi, il vociare indistinto e molesto degli ufficiali, i tavolini
apparecchiati per l’imminente pranzo, il breve colloquio con
il tenente Chiusano… esperienze e ricordi che avevano
solamente il potere di incupirla.
“Vi
sentite bene?” Elena appoggiò con tenerezza una
mano sul braccio della sua accompagnatrice, la quale si
sistemò meglio la mantellina marrone e annuì
nella maniera più convincente possibile.
Proseguirono
a braccetto, soffermandosi davanti a qualche vetrina, quindi
oltrepassarono il Teatro Nuovo, vicino al quale era stato costruito nel
1855 il Teatro Sociale, luogo di incontro per ballare: a pochi metri di
distanza, il negozio di sartoria della signora Leviani, quello in cui
l’ex signorina Granieri aveva comprato l’abito di
seta blu cobalto per il suo debutto in società il giorno in
cui era stato denunciato l’armistizio tra Piemontesi e
Imperiali, si era ingrandito e pullulava di dame che si affaccendavano
a scegliere stoffe e accessori da sfoggiare al prossimo ballo che si
sarebbe tenuto in qualche dimora altolocata.
Davanti
a loro, non troppo lontano, oltre piazza Castello si affacciavano le
Regie Carceri Mandamentali, e di nuovo, come era successo di fronte
all’albergo svizzero, Costanza ebbe un tuffo al cuore: quel
luogo era stato fonte della sua angoscia, quasi quanto
l’ospedale* in cui era stato ricoverato l’adorato
fratello, un’angoscia profonda e cupa, che nei primi di
maggio del 1849 l’aveva fatta sprofondare in un abisso di
tristezza.
Erano
infatti i giorni in cui il conte Pietro Caccia, il cugino che tanto si
era prodigato per lei e la sua famiglia, si trovava rinchiuso nei
sotterranei del castello Sforzesco, in balìa di una
imputazione per tradimento ai danni del sovrano e della patria, che
avrebbe potuto trasformarsi in una condanna assai dannosa per la sua
incolumità.
Dopo
il duello con Federico, l’altro cugino, il ferimento ad una
spalla e ad un ginocchio, Pietro era caduto preda di un torpore durato
quattro giorni, un torpore dettato dalla febbre alta, diretta
conseguenza delle lievi infezioni che erano derivate dalle ferite
subite.
Venerdì
4 maggio, il giorno prestabilito per l’interrogatorio, Pietro
era stato condotto dall’infermeria alla stanza adibita a sala
udienza, il corpo ancora debole: qui, il tenente della Guardia Civica
che lo aveva arrestato e che era stato incaricato di svolgere le
indagini, aveva appena cominciato a porgli le prime domande di routine,
quando un soldato semplice irruppe nel locale e consegnò una
busta sigillata all’ufficiale.
L’uomo
guardò l’imputato, al cui fianco si stagliava la
figura rassicurante e caparbia di Eugenio Maffucci, amico ed avvocato
del conte, quindi ruppe il sigillo di ceralacca e tirò fuori
un foglio di carta, che aveva tutta l’aria di essere una
lettera.
Passò
qualche secondo, forse un minuto, poi il tenente fece cenno al soldato
che gli aveva portato la misteriosa comunicazione di avvicinarsi:
bisbigliò qualche parola all’orecchio, poi
l’altro annuì ed uscì
sull’attenti.
Poco
dopo il ragazzetto tornò in compagnia di un capitano, un
sessantenne alto e massiccio, e dai folti baffi bianchi: i due
ufficiali confabularono ancora per un istante, fino a quando il
più anziano si allontanò ed uscì di
scena, lasciando la parola al tenente.
Nel
frattempo, nel cortile del castello, Costanza e il maestro Paolo
Rossini, l’insegnante di musica che era diventato un punto di
riferimento per la giovane, attendevano pieni di speranze e di ansia il
verdetto parziale dell’interrogatorio: erano ben consapevoli
che la difesa preparata da Eugenio non fosse abbastanza solida per
scarcerare da ogni accusa Pietro, tuttavia dovevano e potevano
aggrapparsi a quell’unica possibilità, ovvero
all’arringa del valido avvocato, dal momento che i biglietti
che la ragazza aveva trovato nella camera da letto di Federico erano
prove insufficienti –se di prove si poteva parlare- da
mostrare in un eventuale processo.
In
quel mentre, Maffucci uscì da una delle porte in legno
massiccio, e sorrise andando loro incontro:
“E’
salvo, è salvo!” riusciva solo a ripetere, mentre
abbracciava i due amici.
La
missiva che era giunta durante l’interrogatorio, infatti,
scagionava Pietro da qualsiasi accusa mossa nei suoi confronti, e lo
liberava seduta stante: in realtà, a nessuno fu permesso di
leggerne il contenuto, ma tanto bastava per tirare un sospiro di
sollievo e preparare il rientro a casa del cugino.
Un’ora
più tardi, il conte Caccia, ancora zoppicante e con una
lieve febbricola, fu scarcerato: Rossini propose di farlo soggiornare
per qualche giorno nel palazzo della nobildonna che lo stava ospitando
negli ultimi due mesi, dal momento che l’uomo doveva
riprendersi dai recenti avvenimenti e, soprattutto, don Aldo e la
contessa Rosa non sapevano ciò che era accaduto al
primogenito: lo credevano infatti lontano per questioni economiche
circa alcuni possedimenti da amministrare, come Federico aveva
abilmente propinato ai genitori.
Sebbene
nessuno volesse parlarne apertamente, la ragazza e i tre uomini
sospettavano che dietro quell’improvvisa liberazione ci fosse proprio
lo zampino di Federico, la stessa persona che aveva denunciato il
fratello.
Nonostante
fossero passati trent’anni, Costanza continuava a provare
verso di lui un’avversione profonda, che rasentava
l’odio, l’opposto della dolorosa consapevolezza che
aveva spinto il maggiore a cercarlo inutilmente: si erano infatti perse
le sue tracce la sera stessa della scarcerazione di Pietro, quando il
secondogenito aveva preparato i bagagli in tutta fretta e aveva scritto
una lettera ai genitori, in cui diceva loro di non preoccuparsi, che
doveva allontanarsi per qualche mese per via di certe questioni amorose
che gli erano sfuggite di mano, e che si sarebbe riparato in Svizzera;
poi da lì, se fosse stato necessario, sarebbe partito alla
volta della Francia, ma avrebbe fatto avere al più presto
sue notizie.
A
parte la disperazione iniziale dei generosi conti, il figlio scrisse
regolarmente ogni mese, senza mai specificare dove si trovasse: la
busta, infatti, recava solamente l’indirizzo del
destinatario, nessun riferimento al mittente e nessun timbro che
potesse far risalire alla città in cui era stata imbucata.
Mentre
meditava su tutto ciò, Costanza rifletté che
adesso il cugino avrebbe dovuto avere cinquantasette anni, tuttavia
dopo la morte del padre, cinque anni prima, nessuno aveva ricevuto
altre lettere da parte dell’uomo.
“Possiamo
andare?” Elena risvegliò dai ricordi la donna, che
fu subito pronta a proseguire verso l’ultima tappa, corso di
Porta Genova, dove sapeva da Nicolò che Eugenio Maffucci
abitava quando soggiornava in città.
Il
palazzo di inizio secolo appariva ancora elegante e ben tenuto,
tuttavia il terzo piano aveva le finestre sprangate: Costanza
bussò alla porta un paio di volte, ma non vi fu risposta,
quindi si allontanò sconsolata, ritornando con la sua
accompagnatrice alla vettura che le avrebbe riportate
all’albergo.
In
realtà, a distanza di un anno dagli avvenimenti narrati,
l’uomo si era trasferito a Firenze e poi a Torino, dove si
era affermato come magistrato; nel 1877, inoltre, a cinquantotto anni,
si era sposato con una donna molto più giovane di lui, che
assomigliava incredibilmente a Costanza: l’ex avvocato,
infatti, aveva avuto un debole per la ragazza fin dal loro primo
incontro, ma non le si era mai dichiarato apertamente, tanto che quando
nel 1852 la sorella di Nicolò si trasferì
definitivamente a Santa Maria Maggiore e prese ad abitare in
un’ala di palazzo Mellerio insieme all’adorata
nonna Maria, l’uomo lo prese come un gesto del destino, e
lasciò perdere ogni interesse fisico nei suoi confronti.
Quello
stesso anno, la signorina Granieri divenne la baronessa Andreoli, dal
momento che sposò il barone Elia Andreoli, un nobile di un
paio d’anni più grande di lei: nel 1854 nacque la
loro prima figlia, Margherita, nel 1856 fu la volta di Odoardo e nel
1861 di Elena, la terzogenita che aveva portato con sé in
quel viaggio della memoria.
Adesso
Costanza aveva quarantotto anni, era una donna raffinata e generosa,
presidentessa delle medesime istituzioni caritatevoli che aveva fondato
la marchesa Maria, deceduta dieci anni prima: si poteva definire largamente soddisfatta
dell’esistenza che aveva vissuto e che stava vivendo,
tuttavia avrebbe voluto che tutti i suoi affetti non si fossero
allontanati come invece era accaduto.
A
partire da Nicolò, ormai cinquantacinquenne, che era
diventato un discreto scrittore a Parigi, dove si era trasferito nel
1851: dopo mesi, infatti, aveva recuperato completamente la vista,
grazie anche all’intervento a cui era stato sottoposto in una
clinica privata svizzera, si era riavvicinato al suo amico ed ex
commilitone Stefano Gardina, e aveva continuato ad interessarsi di
politica, sebbene in maniera meno diretta e pericolosa.
Non
si era mai sposato, anzi, ancora viveva come un libertino parsimonioso
ed idealista, ma amava sinceramente la sua famiglia
–soprattutto la sorella- e non aveva perso di vista
Eugenio Maffucci, con il quale sovente si incontrava.
Lo
stesso aveva fatto Pietro, un sessantenne scapolo sempre in giro per il
mondo, con la passione per la natura, tanto da diventare esploratore:
si era trasferito anni prima in Inghilterra, dove aveva conosciuto un
certo Charles Darwin, con cui aveva svolto studi
sull’evoluzione ed era partito alla volta di numerose quanto
esotiche destinazioni.
Al
rientro in albergo, il sole ormai stava calando: affacciata alla
finestra della camera, mentre Elena si preparava per la cena, Costanza
proseguì a ritroso il viaggio che si era imposta di fare, e
subito ritornò a pensare a Pietro: erano quasi tre anni che
non lo vedeva, da quando era tornato dall’India.
Dal
momento che palazzo Caccia era stato venduto dopo la morte di don Aldo
e della contessa Rosa, avvenuta rispettivamente a novantatré
anni nel 1874 e a ottantotto anni nel 1878, il cugino era stato
invitato a Santa Maria Maggiore, a palazzo Andreoli, per una cena in
suo onore.
Vi
era stato un tempo in cui la baronessa era convinta di provare una
forte attrazione per l’uomo, quasi una passione amorosa, e
anche nei rari momenti in cui avevano la fortuna di continuare ad
incontrarsi, le appariva difficile sostenere lo sguardo limpido dei
suoi occhi azzurri.
Parlavano
di letteratura, di pittura e di fiori, sentendosi perfettamente a loro
agio, ed era naturalmente affascinata dalla padronanza e dalla
scioltezza con cui narrava le abitudini e i popoli di terre
lontanissime e sconosciute, tanto da permetterle di sfiorare con la
mente quei luoghi.
Ma
quelle erano state solamente delle convinzioni giovanili e passeggere,
aveva cercato di convincersi, che non erano sfociate in nulla di fatto.
E
per la prima volta da quando aveva deciso di partire, Costanza non
riusciva a confessare a se stessa il motivo sottinteso che
l’aveva spinta a ritornare a Novara: certo, il giorno dopo ci
sarebbe stata l’inaugurazione della Piramide monumentale, lo
aveva letto sul giornale del marito la settimana precedente, tuttavia
la verità era che ciò che era accaduto in quella
stessa città nei giorni di fine marzo 1849,
l’aveva talmente scossa da non riuscire a condividerne il
ricordo con nessuno, solo con la carne della sua carne, appunto con la
piccola Elena, anch’ella diciottenne come lo era lei durante
le settimane burrascose di trent’anni prima.
Era
un evento che sentiva di appartenerle intimamente, al punto tale di
aver ingannato il buon Elia, al quale aveva detto che sarebbe andata a
trovare un’amica di vecchia data: in ventisette anni di
matrimonio, non aveva mai mentito al consorte, e questa consapevolezza
la destabilizzava non poco.
Improvvisamente
si sentì stanca, affranta, disorientata, tanto da domandarsi
se avesse fatto la scelta giusta a ritornare nei luoghi che le stavano
provocando così tanta sofferenza.
“Madre,
io sono pronta… Andiamo?”
Elena
le toccò con delicatezza una spalla: Costanza si
voltò e ammirò la figlia in tutto il suo
splendore, dimenticandosi dei dubbi che l’avevano assalita
pochi istanti prima.
Notò
con soddisfazione che somigliava a lei alla sua età: gli
stessi capelli lunghi e ricci, il medesimo volto affilato e la stessa
bocca carnosa, solamente gli occhi non erano verdi ma tendenti al
grigio, come quelli del padre.
La
abbracciò, scostandole una ciocca rimasta fuori
dall’acconciatura, poi uscirono mano nella mano, orgogliosa
della ragazza e felice che non avesse dovuto patire ciò che
lei aveva subito.
Alle
dieci della mattina seguente, le due donne avevano già
raggiunto la sede della manifestazione nel quartiere della Bicocca,
un’area colma di campi coltivati, distese d’erba e
cascinali per il ricovero di cavalli e contadini, innaffiata dalle
sorgenti del torrente Arbogna.
Vi
era una nutrita folla che sostava in piedi, perlopiù formata
da ufficiali, soldati e commilitoni ora in congedo, che discutevano
animatamente tra di loro; uno sparuto gruppo di rappresentanza stava
intrattenendo gli ospiti illustri, ovvero il Prefetto, il sindaco, il
vescovo e parte degli esponenti del Consiglio provinciale, oltre ad una
delegazione proveniente da Roma, la capitale**.
I
giornali davano per certo l’arrivo del duca Genova, Tommaso
Alberto Vittorio di Savoia, nipote del defunto Vittorio Emanuele II**.
La
baronessa si guardò intorno, alla ricerca di qualche volto
amico, rendendosi conto di quanto fosse vuota quella speranza, dal
momento che in quella città non frequentava più
nessuno da molti, forse troppi anni.
Lei
e la terzogenita si fecero largo in mezzo ad un gruppetto di
nobildonne, probabilmente le mogli degli ex soldati, e si avvicinarono
ai cannoni con il vessillo del Regno d’Italia posto alla
sommità, pronti a sparare a salve al momento opportuno.
Le
armi erano protette da alcuni membri della Guardia Civica a cavallo,
fieri nelle loro alte uniformi, e sorvegliavano con impassibile ed
immutato sguardo le mosse di Elena, che ammirava la lucentezza di quei
pezzi di artiglieria.
Costanza
ne approfittò per avvicinarsi di qualche passo in direzione
della solenne costruzione a forma di piramide, l’Ossario
monumentale, che conservava i resti umani dei caduti piemontesi ed
asburgici della battaglia del 23 marzo 1849. Dalla sua postazione,
riusciva ad intravedere l’aquila in bronzo con due corone di
alloro tra gli artigli, che sovrastava la porta di ferro e vetro che
fungeva da ingresso: vi era anche una scritta collocata su una tavola
in marmo, ma la distanza non le permetteva di leggerne le
parole***.
In
mezzo a tutta quella folla che la sfiorava appena e
l’accarezzava con sguardi disinteressati, Costanza si
sentì all’improvviso sperduta ed estranea: avrebbe
tanto voluto che accanto a lei ci fosse almeno Nicolò, ma
aveva compreso il suo desiderio di non partecipare alla manifestazione,
per timore che ciò rappresentasse un rinnovato dolore a
rivivere quel fatidico giorno.
Nel
mentre, le sembrò di scorgere la figura nera e dinoccolata
del maestro Rossini, ora ottantenne e ricoverato in un ospizio per ex
musicisti, e sorrise tra sé e sé a
quell’idea assurda: era da quasi un mese che non andava a
trovarlo, e decise seduta stante che appena rientrata a Santa Maria
Maggiore sarebbe andata a fargli una visita ad Orta, dove appunto
soggiornava da una decina di anni.
Costanza
stava andando a recuperare la figlia, dal momento che le fanfare
stavano risvegliando l’attenzione dei presenti per indurli a
mettersi sull’attenti al momento dell’esecuzione
dell’inno, quando la baronessa si sentì toccare un
braccio, una vibrazione gentile, quasi timida.
La
donna si voltò e si rese conto di trovarsi di fronte ad un
volto che aveva già visto, ma che ormai da decenni non
incrociava: gli occhi erano sempre neri, profondi, interrogativi, forse un
po’ più acquosi di come se li ricordava; i capelli
erano più corti e meno neri, però quei baffetti
irriverenti –seppure ingrigiti dal tempo- restavano
inconfondibili nella sua memoria.
Costanza
sorrise al nuovo venuto, gli strinse una mano, e poi si abbracciarono,
mormorando l’uno il nome dell’altra: in mezzo alla
confusione che stava velocemente scemando, cercarono di parlare
sottovoce per non disturbare.
L’uomo
le chiese se fosse venuta da sola, ma la baronessa gli rispose che era
in compagnia della figlia Elena, a pochi passi da loro.
“Io
invece non ho accompagnatori: la mia dolce metà è
rimasta a Torino, così non so con chi trascorrere il resto
della mattinata… A proposito, cosa ne dite se più
tardi andiamo a pranzo insieme? Mi fermerò in
città per qualche giorno e mi farebbe piacere riprendere la
nostra vecchia amicizia, cara Costanza”
“Non
chiedo di meglio: abbiamo molte cose di cui discutere, e sono contenta
di poter passare del tempo con voi”
“Molto
bene! Allora portatemi a conoscere la vostra Elena: Nicolò
mi decanta la bontà e l’intelligenza dei nipoti
come se fossero suoi figli!”
Lei
gli sorrise ed annuì orgogliosa e felice: era da tanto tempo
che non incontrava un volto amico.
NOTE
STORICHE E DELL’AUTRICE
* Costanza si
ritrova a passeggiare per le vie di una città molto diversa
da come se la ricordava.
Nel 1854, ad esempio, venne
costruita la caserma Perrone, intitolata al generale deceduto
nella battaglia della Bicocca, e sempre nello stesso anno la stazione
ferroviaria, all’interno di un’arena immersa in un
giardino.
Tra il 1856 e il 1864 venne
ampliato l’ospedale: l’architetto
Antonelli mise mano alla costruzione di una nuova e imponente ala,
grazie alla generose elargizioni da parte dei cittadini più
abbienti.
Nel 1858 venne fondato il
Civico Istituto Brera, voluto per opera del maggiore Fedele Brera, per
dotare la città di una scuola musicale.
Tra il 1854 e il 1863 venne
costruito il porticato esterno del Duomo; tra il 1864-69 venne
ricostruito l’edificio portante del Duomo, dopo che era stato
volutamente distrutto, ad eccezione del presbiterio e del coro: nel
1876 venne completato il cupolino, tuttavia il cantiere
terminò solamente nel 1888, alla morte
dell’Antonelli.
Nel 1865 ci fu la delibera da
parte del Consiglio provinciale per la creazione del
manicomio cittadino, i
cui lavori cominciarono nel 1870 grazie all’intervento
economico delle opere pie e del municipio; venne inaugurato nel 1875 in
concomitanza con una grande mostra agraria.
Infine, nel 1871 nacque la
Banca Popolare di Novara,
che inglobò la Banca del Piccolo Credito Novarese, chiusa
nel 1869.
**
Nei
trent’anni che dividono la narrazione, le guerre per
l’indipendenza non cessarono.
Il 26 aprile 1859 scoppia la Seconda
Guerra d’Indipendenza:
l’Austria dichiara guerra al Regno di Sardegna, le cui truppe
vengono comandate da Napoleone III, grazie all’alleanza tra
Piemonte e Francia.
Le
principali vittorie franco-sabaude si riscontrano a Montebello, San
Fermo (grazie alla guida di Garibaldi), Palestro e Magenta, che apre la
via per la capitale del Lombardo Veneto, Milano.
L’8
giugno infatti i Piemontesi entrano a Milano, e qualche settimana
più tardi gli Imperiali vengono sconfitti a Solferino.
Dopo sette mesi di guerra, il
10 novembre viene firmata la pace di Zurigo: la Lombardia entra
ufficialmente a far parte del regno di Sardegna.
Il 5 maggio 1860 parte da
Quarto (Genova) la spedizione dei Mille capitanati dal generale
Garibaldi: sbarcheranno a Marsala l’11 maggio.
Il 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino
proclama il Regno d’Italia: Vittorio Emanuele II diventa
primo re d’Italia.
Nel 1865 la capitale del Regno
passa da Torino a Firenze, mentre l’8 aprile 1866
ha inizio la
Terza guerra d’indipendenza.
Il
24 giugno 1866 l’esercito italiano viene sconfitto a Custoza
e il mese successivo al largo dell’isola di Lissa.
Grazie a Garibaldi, in valle
Bezzecca (Trentino), le sorti si invertono, e i Piemontesi vincono una
battaglia decisiva: dopo sei mesi di guerra, il 3 ottobre viene firmata
la pace di Vienna,
che permette all’Italia di ottenere il Veneto.
Nel
1871, dopo Firenze, diviene capitale Roma, liberata dal potere
temporale del papa il 20 settembre 1870 dai bersaglieri, con la famosa
Breccia di Porta Pia: il Papa rifiuta ogni contatto con lo Stato
italiano, dichiarandosi suo prigioniero.
Nel 1878 muore Vittorio Emanuele II, a
cui succede il figlio Umberto I.
***
Domenica
23 marzo 1879 viene
inaugurato l’Ossario dei Caduti: l’edificazione fu
voluta da un comitato di cittadini che lanciò una
sottoscrizione, dopo che si seppe che a Custoza, teatro della pesante
sconfitta da parte dell’esercito italiano nel 1866, era stato
costruito un monumento analogo. Tra i 38 progetti presentati,
venne scelto quello dell’ingegnere Broggi, che prevedeva una
piramide realizzata in pietra dura di Sarnico e alta diciotto metri.
Tuttavia
non mancarono le polemiche: in primis, per l’assenza di
simboli religiosi (nel 1901 venne apposta una croce in marmo bianco) e
in secondo luogo per la forma della struttura, considerata un simbolo
massonico.
Sotto
la porta d’ingresso vi è una tavola in marmo con
la seguente iscrizione: AI CADUTI- NELLA BATTAGLIA DI Novara- IL XXIII
MARZO MDCCCXLIX.
Nel
1910 fu collocato il trittico con le effigi in bronzo di Carlo Alberto
e dei generali Perrone e Passalacqua.
Il
sacrario ospita i resti militari di entrambi gli eserciti.
Buonasera
a tutti!
Siamo
arrivati alla conclusione di questo lunghissimo racconto, durato
più di un anno: è stato faticoso scriverlo, mi
riferisco soprattutto alle parti storiche, ma sono piuttosto
soddisfatta, anche se rileggendo i capitoli ho già
modificato alcuni punti!
Ci
tengo molto a ringraziare tutti i lettori, soprattutto i
recensori fissi: grazie infinitamente, davvero, siete stati
preziosissimi, puntuali e gentilissimi! Un grazie anche ai recensori
che mi hanno lasciato un loro parere solo una volta: mi ha fatto tanto
piacere lo stesso.
Ringrazio
anche le persone che hanno inserito la storia in una delle liste: siete
state tantissime, grazie di cuore anche a voi!
Insomma,
grazie a tutti coloro che mi hanno sostenuto: spero di ritrovarvi in
qualche altro mio e/o vostro racconto.
Un
abbraccio
|
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