Appunti di un giovane medico

di Zachriel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Baltimora ***
Capitolo 2: *** Verso Casa ***
Capitolo 3: *** Il gran galà ***



Capitolo 1
*** Baltimora ***


Baltimora, 20 novembre 1893. Stamani ho ricevuto l’infausta notizia. In una busta nera come la morte, tra le dita esangui della mia assistente americana, Alice, è giunta la terribile verità. Alla vista di quella lettera avevo già capito, già un presentimento mi stava perseguitando da un paio di settimane. Ero preoccupato, come ogni dottore dovrebbe essere. Il mio defunto padre, sempre possa essere ricordato il suo nome, era sempre stato in disaccordo coi miei studi, sempre convinto che io fossi un fallito e un eterno bambino, pronto a scappare piuttosto che ad adempiere ai sacri obblighi famigliari. Invece ero preoccupato, non solo per i miei pazienti, quasi tutti isterici per mia scelta, ma anche per uno oscuro presentimento che non mi lasciava da giorni. Ed infatti eccola: un altro Mickalov morto. Dolce Alice, piccola ragazza fatta di sospiri e di sogni, che sempre mi prendi in giro per il mio accento "exotic", per i miei capelli scompigliati e per le mie negligenze, dimmi, piccola mietitrice, chi hai ucciso? Di chi è il nome che la mia cara e dolce cognata Eva si è premurata di vergare sulla lettera? Prendendo in mano l’odiata busta, riconobbi il sigillo dalla testa di gatto con una lisca di pesce tra le fauci. Avevo nutrito una piccola speranza a riguardo: magari era destinata ad un altro Yuri Mickalov, magari Eva non era l’unica ad usare le buste nere per comunicare con gli altri parenti. Oh Yuri, eterno sognatore fallito, quante volte la tua mente ha cercato di portarti fuori strada, cercando di deviarti dalle mere e pure conclusioni empiriche?. Aprii il sigillo, privando il gatto della sua preda e della mandibola, e riconobbi subito la scrittura austera e spartana di Eva. Un pensiero mi trafisse la mente come un ago per la lobotomia: che fosse Pëtr la vittima della trista mietitrice? che fosse morto solo, e con una malattia che io stesso sarei stato in grado di curare? Morto, lontano da me. No. Non poteva essere il mio piccolo faunetto dagli occhi espressivi e dalla boccuccia turgida. Lessi velocemente il contenuto, fortuna che Eva era una donna pragmatica e dai modi diretti, trovai con facilità quello che stavo cercando: Viktor Bojanovič Mickalov morto in data 31 ottobre 1893 a Venezia, Suicida. Il sollievo che provai in quel momento fu una sorta di colpa. Mors tua, vita mea, certo, ma Viktor era comunque, per quanto insopportabile, un membro della famiglia, frutto del seme di mio fratello Bojan e di madonna Katjuša, la bellissima donna che perse il senno dopo la nascita di Viktor. Quanto dolore si era abbattuto su quel ramo della famiglia Mickalov, facendo soffrire l’intero albero. D’altronde, quando un arto inizia ad andare in cancrena, tutto il corpo ne risente; i batteri non si limitano a mangiare e a corrodere i tessuti morti, ma intaccano la carne sana, la malattia si diffonde fino alla morte dell’ospite. Che fosse quello il destino della nostra intera famiglia?. La lettera di Eva continuava, affermando che il ritrovamento del corpo non è stato di Gaspare, come mi sarei aspettato, ma di un tale di nome Frattaglia, che, affermando di essere amico di Viktor, aveva insistito per porgergli gli ultimi omaggi a Soroka. La parola amico mi cadde immediatamente all’occhio e mi suscitò non pochi sospetti. Viktor non aveva amici, quel povero ragazzo era stato ustionato dalla madre all’età di diciotto anni. Le ustioni di terzo grado si cicatrizzarono, conferendo a mio nipote un aspetto singolare per quanto riguarda il lato sinistro del viso. Fortunatamente il calore non gli intaccò l’occhio o la bocca. La ferita, per quanto grave, poteva essere sopportabile per un uomo comune (mi ricordo, quando ancora ero studente, di una lezione di medicina riguardante l’argomento ustionati: il professore ci mise davanti dei ritratti di cadaveri provenienti dal grande incendio che divorò New Orleans nel 1788 e successivamente del 1794. Alcuni di loro erano del tutto irriconoscibili e carbonizzati, altri avevano il volto totalmente sciolto e quasi irriconoscibile) ma Viktor non era un uomo comune, era un ragazzo debole, vittima dei suoi stessi demoni e di un destino infausto. Eva richiedeva la mia presenza, come membro della famiglia. Mi sembrava quasi di sentire le sue parole attraverso la lettera: “ è colpa tua” o anche “katjuša peggiora, e dove sei tu, o grande medico visionario che hai lasciato la famiglia per puttane ed alcool?” la cara vecchia e premurosa Eva, che non si dimenticava mai di rammentare ad ogni uno il suo posto (me in primis). Per quanto nobili possano essere le mie intenzioni, lei cercherà sempre del marcio, e non si fermerà finchè non lo avrà trovato. Ho le mie buone ragioni per essermene andato, ma non ho intenzione di parlarne in questo frammento di diario. Ora devo avvisare immediatamente Alice della partenza, fare i bagagli e prendere la mia auto alla volta di New Orleans. Sono 1124 miglia da qui al battello che ci porterà in Francia e da li alla volta di Soroka; spero di riuscire a percorrerle in tre giorni, il battello ci metterà piu o meno tre settimane, se le correnti sono favorevoli. Ho deciso di portare Alice con me, è la mia assistente dopotutto e ha bisogno di imparare sul campo. Le insegnerò il russo durante il viaggio. Yuri Vladimirovič Mickalov.

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Capitolo 2
*** Verso Casa ***


Da qualche parte in mezzo all’oceano Atlantico, 30 Novembre 1893. Sono riuscito senza poche difficoltà a prendere il battello di New Orleans. Appena arrivammo, ci venne comunicato che la nave era già salpata senza di noi che il prossimo viaggio sarebbe stato tra tre giorni. Trovammo due stanze d’albergo a basso prezzo, proprio vicino al molo. Questo ulteriore ritardo avrebbe fatto slittare la mia data di arrivo. Speravo di arrivare in tempo per il funerale, però. Non volevo dare motivo ad Eva e a quell’incompetente di mio fratello Lazar’ di criticarmi ancora, dandomi del fannullone. Quella sera stessa decisi che era giunto il momento di svagarmi un po’ dai miei doveri di lavoro e mi recai in un bordello, nella periferia della città. Si, avevo la brutta abitudine di frequentare le prostitute ma d’altronde, io non cercavo amore, ma solo uno sfogo a un bisogno corporeo non molto diverso dal nutrirsi, respirare o dormire. Trovai una ragazza sui ventiquattro anni abbastanza graziosa, dai lunghi capelli biondi (quasi mai andavo con ragazze dai capelli castani, gli occhi chiari, ed una certa giovinezza). Ci appartammo in una stanza al piano di sopra. Prima di iniziare, feci i miei soliti controlli di routine alla ragazza: le chiesi di spogliarsi e, inforcati gli occhiali, il medico prese il sopravvento sull’uomo. Le controllai ogni centimetro della pelle alla ricerca di ulcere, papule o qualsivoglia eruzione cutanea. Non volevo rischiare di contrarre la sifilide in alcun modo. Certe volte, le conoscenze mediche tornano utili anche per questo. Mi diede quello che cercavo per un paio di dollari e di ore nelle quali dimenticai tutti i miei problemi, tutte le accuse mosse contro di me. Volevo solo sfogarmi, anche se la mia mente non era dello stesso avviso. Come ogni volta, fantasticavo di avere sotto di me non una donna, bensì un uomo, anzi un ragazzo, un dolce quattordicenne dalle gambe atletiche, i glutei sodi e le labbra turgide. Il mio piccolo giovane faunetto, l’amore della mia vita. Si, sono innamorato di lui dal primo momento in cui l’ho visto. Il mio piccolo bambino, solo mio, di nessun altro. Ah come è nero il mio cuore nel partorire questi pensieri! Mi struggo e brucio d’amore per lui. A lungo ho aspettato, facendo ricerche, aspettando che il tempo fosse maturo per cogliere la sua ingenuità. In parte, è anche per questo che dovetti lasciare la fredda e amata Soroka. Non potevo sopportare la sua vicinanza, non potevo lasciare che le pulsioni prendessero il sopravvento sulla ragione. “non ancora” mi ripetevo, e intanto pensavo a quegli antichi filosofi e ai loro discepoli, a quanto fosse socialmente accettabile nell’antica Grecia. E non è forse quella greca la cultura a cui noi volgiamo lo sguardo e i dilemmi? Perché castrare certe usanze ed adottarne altre? L’ipocrisia è nata ancor prima che l uomo potesse parlare. Ah dottor di folle ardore, dove ti porterà la tua insana malattia? Non è forse vero che chi ama distrugge se stesso e si annichilisce nell’altro? Il giorno dopo mi svegliai nel tardo mattino, tra le proteste della mia assistente, la quale mi ricordava che anche lontano da casa, le osservazioni non ti lasciano in pace. Mi vestii prima di raggiungerla fuori dall’hotel, le dissi che dovevo sbrigare delle commissioni e prendere dei regali per i miei familiari, in realtà l’unico a cui volevo fare un regalo era Petr, il mio piccolo soldatino cosacco. Cercai per quasi tutto il giorno, pensando a che cosa potesse garbare ad una scimmietta pestifera e curiosa come lui: un soldatino della guerra di secessione? No, figurarsi se poteva immaginare cosa fosse, probabilmente l avrebbe scartato definendolo stupido e poco russo. Un moschetto nuovo? Per carità, Boris lo avrebbe usato contro di me. Non avevo idee quando improvvisamente mi ricordai che Pëtr era uno dei pochi Mickalov senza un gatto. Per noi i gatti, emblema della famiglia dagli albori, sono una cosa seria. Quando un Mickalov nasce viene creato un anello con lo stemma della famiglia e, col tempo, gli viene assegnato un gatto. Io stesso ne posseggo uno, una gatta in realtà; la mia piccola Brugola, rossa, e bianca che ho lasciato a Soroka. Pëtr non aveva nessun gatto, nessun animale che facesse al cao suo. Un’idea iniziò a balenarmi in testa, a prendere forma. Perché regalare un normale felino al mio piccolo faunetto? Non sarebbe stato meglio un animale del tutto esotico e nuovo capace di sopportare il gelido freddo di Soroka e in grado di procacciarsi il cibo in ogni circostanza? Fu così che mi misi all’opera immediatamente; chiesi ad Alice di procurarsi una grossa cassa con dei fori, nel frattempo io mi sarei occupato della bestia. In realtà fu piu facile del previsto catturare un procione: si trovano in tutte le grandi metropoli americane e si nutrono principalmente dei rifiuti umani. Catturai un giovane esemplare e mi assicurai che non avesse contratto la rabbia, cercando in lui morsi recenti o salivazione eccessiva. In realtà il Procyon Lotor era di indole molto mansueta e si attaccò quasi subito alla mia gamba in cerca di attenzioni. Due giorni dopo ci imbarcammo, io, il procione, la mia auto e la mia assistente. Non sapevo che insegnare il russo ad Alice fosse una impresa così ardua. Il suo accento era terribile, non capiva la differenza tra buongiorno ed arrivederci, per non parlare dei patronimici! D’altronde come biasimarla? In una terra giovane ed eterogenea come l’America non c’era bisogno di una cosa del genere. In Russia, d’altronde, i casi di omonimia sono quasi all’ordine del giorno. ora cercherò di chiudere gli occhi, sperando di non fare sogni anche se l’ansia e la smania di rivederlo sono davvero troppo forti in me anche se la strada da percorrere è ancora lunga. Immagino già il suo piccolo visino dipinto dallo stupore di ricevere questo esserino esotico, curioso e pestifero come lui. Devo inventarmi un modo per far passare il regalo come qualcosa di innocente e assolutamente non premeditato. Spero che la notte, mi porti almeno consiglio. Yuri Vladimirovič Mickalov

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Capitolo 3
*** Il gran galà ***


Soroka, 25 Dicembre 1894 È vivo. Mio nipote Viktor è vivo, per la tromba di Eustacchio! Non so ancora come spiegarmelo ma, è vivo, ne sono certo. Si è palesato davanti a me, davanti a tutti i Mickalov la notte del gran galà di Natale; sono appena tornato nei miei alloggi dopo averlo visitato e… no. Mi sto facendo trascinare troppo dagli eventi. È meglio procedere per ordine, ricostruendo nei minimi dettagli tutto ciò che è successo dopo il mio ritorno a Soroka; si, questo metodo di ricostruzione degli eventi, come dice Freud, mi aiuterà sicuramente a far chiarezza e a trovare una spiegazione scientifica a tutto ciò che è successo stanotte. Arrivato a destinazione, trovai non pochi intoppi nel guidare la mia autovettura lungo le strade scoscese ed innevate di Soroka: erano fatte per il trasporto di carri e cavalli, la nuova invenzione di Ford non era ancora giunta a loro; inoltre le mie gomme non riuscivano a mordere il tappeto nevoso e mi costringevano a fermarmi in continuazione per evitare di andare fuori strada. Avevo uno strano presentimento mano a mano che mi avvicinavo al maniero, due parole in particolare mi ronzavano nella testa da che ero entrato nella mia triste e retrograda cittadina russa: “gran galà”, il che era assurdo visto che stavo andando ad un funerale. Appena arrivai alle soglie del grande maniero, lasciai la mia assistente vicino al grande labirinto botanico costruito dal mio defunto fratello Bojan per la sua dolce sposa, madama Katjusa e le diedi precise istruzione sull’ubicazione scelta per nascondere la piccola creatura pelosa. Alla fine, ero riuscito ad escogitare un metodo per far passare il regalo per il mio dolce amante come un evento del tutto fortuito ed inaspettato: l’idea mi era venuta sul traghetto per la Francia, quando vidi dei bambini giocare a caccia al tesoro. Nascondendo il procione in un posto impossibile per dei bambini e sussurrando a Petr il luogo esatto, nessuno avrebbe sospettato di niente. Con questa convinzione decisi che era arrivato il momento per la mia apparizione in famiglia. Parcheggiai la macchina davanti alla grande scalinata, una neve silenziosa ma tenace stava cadendo dal cielo. Appena scesi dalla macchina, vidi mia nipote Anastasija Lazarovna Mickalova corrermi incontro seguita dal piccolo Feliks Borisovic. Entrambi avevano le gote rosse un po’ per il freddo, un po’ per la corsa che le loro piccole gambine avevano fatto per precipitarsi in braccio a me, incuriositi dalla nuova diavoleria che avevo portato con me. Sentii della musica provenire dall’interno: vestiti lunghi, neri come la morte, volavano nel grande e lussuoso salone del maniero dove vissi da piccolo, tutti in rigoroso silenzio, guidati da un valzer come anime dannate nel loro inferno personale. Nel frattempo arrivarono tutti gli altri Borisovic, contando la figlia di Lazar’ e le due gemelle di mio cognato Gaspare, avevo intorno a me ben otto giovani Mickalov, ma il mio sguardo vagava tra loro, alla ricerca disperata del mio piccolo, unico amore: Petr. Petr con le sue gambe forti, il suo petto sviluppato a seguito degli allenamenti del padre, con i suoi grandi occhi curiosi che mi scrutavano come se fossi l’animale piu strano che avesse mai visto, le mani paffute, non ancora grossolane come quelle degli adulti, che toccavano costantemente i miei testi di medicina o i miei capelli nelle fredde e lunghe notti di Soroka, sette e sette anni ancora fa. Ma lui non c’era. Non era tra nessuno di quei giovani. Per evitare sospetti finsi il mio solito sorriso sornione e chiesi ai ragazzi come mai non erano tutti in lutto per Viktor. La voce di Lev mi disse che Viktor era stato tumulato poco prima; i bambini si misero a scherzare sul fatto che il Borisovic si fosse spaventato dopo aver trovato la bara vuota. Cosa avranno voluto dire in realtà? Era solo un sogno di Lev? Oppure poteva trattarsi di un caso di sepoltura prematura? Ma cosa piu importante: se avessero tumulato il povero Viktor vivo? Vidi che tutti gli sguardi erano posati su di me; mi avevano posto una domanda? Non ne ero sicuro, optai per cambiare discorso e il piccolo Feliks non perse occasione per ricordarmi le dolci preoccupazioni della mia cara cognata Eva sul mio arrivo. Quella specie di serpe, sempre pronta a parlare male! Come se fossi chissà che uomo snaturato, privo di qualsiasi attaccamento alla famiglia. Avesse prestato attenzione un poco di piu al pene di suo marito e non ai miei affari, sarebbe stata meno acida e velenosa. Espressi il mio pensiero in modo enigmatico e a voce alta ai piccoli Mickalov che mi avvisarono che Eva era in dolce attesa per la quarta volta. Ah! Ecco svelato l’arcano! Alzai gli occhi e vidi in cima alle scale una rivelazione: il mio piccolo faunetto, diventato ormai un giovane ragazzo, di fianco a suo fratello Ivan. Era bellissimo Petr, tanto da attirare tutta la mia attenzione. Si era fatto piu alto, piu slanciato, i capelli erano cresciuti e ricadevano sulle spalle in deliziosi boccoli morbidi. Il nasino alla francese si era fatto un poco piu marcato e i suoi occhi. Per la tromba di Eustacchio i suoi occhi! Gli stessi che si erano posati e chiusi sopra di me tanto tempo addietro, ora erano velati di malizia tipica della sua età. Feci un sorriso raggiante nel vederlo ma lui voltò il viso, indispettito ed arrabbiato. Era plausibile che la mia lontananza avesse scatenato quella reazione in lui, o forse suo fratello gli stava dicendo qualcosa, sentita sicuramente dalle serpi della famiglia, poco lusinghiera sul mio conto. Mi rabbuiai nel pensare che il mio piccolo potesse pensare male di me. Che non mi volesse piu? Che fossi troppo “vecchio” o poco interessante per lui? Che cosa era cambiato durante la mia assenza? Cercai di non darmi per vinto, accennando al regalo che avevo portato dalle Americhe. Ripresi il mio solito sorriso e sicurezza, o almeno, questo è quello che diedi a vedere ai miei piccoli interlocutori. Parlai anche di Alice, non tanto per presentarla ufficialmente quanto per vedere la reazione di Petr. È risaputo, quando non si sa piu cosa pensare riguardo ai sintomi, bisogna andare per prove ed errori finchè il paziente non reagisce. E così fu. Sul volto del mio faunetto vidi dipingersi la gelosia e la rabbia. Com’era adorabile quando manifestava quel musino corrucciato. Allora ci teneva ancora al suo zietto. Dissi ai bambini di iniziare la caccia al tesoro e lo vidi corrermi incontro, come sette anni prima, quando si gettava tra le mie braccia e si faceva improvvisamente il bambino piu calmo di tutta Soroka. Gli presi il braccio e lo tirai verso di me con dolcezza, lanciando uno sguardo di sfida a suo fratello Ivan, ancora fermo sulla scalinata. Sentii i suoi muscoli guizzare e contrarsi sotto la stoffa, al mio tocco. La voglia di baciarlo era quasi incontrollabile ma mi limitai a una sola frase “in fondo a destra, nella bocca del pesce della fontana delle sirene”. Lo vidi correre trafelato e sbucare qualche minuto dopo con la grossa cassa in braccio. Risi sotto i baffi nel vedere tutti i bambini avvicinarsi con fare curioso e capii di aver scelto il regalo giusto nel vedere la faccia sorpresa del mio amore alla vista di quell’animale. Dottor Duraciok. È così che chiamò quel piccolo animaletto. Mi guardò nel pronunciare quel nome. Un misto di sfida e malizia. Il mio piccolo amore stava solo giocando col mio cuore, e la cosa inquietante era che a me piaceva. Quello che accadde dopo lo ricordo molto vagamente. Entrai nel maniero a me così familiare, mi aspettava, come una madre aspetta il figlio sulla soglia di casa, o come la prigione aspetta l’assassino. Mani applaudirono, bocche parlarono e io, da bravo burattino ligio alle regole, mi inchinai e sorrisi ad ogni parente, molti dei quali neanche rammentavo. Mi guardai intorno, alla ricerca del volto singolare di Katjusa, ma non la trovai da nessuna parte. Nel mentre vidi un vasto e sontuoso banchetto, addobbi in ogni dove e gioielli su ogni dama della famiglia Mickalov. Da dove avevano preso i soldi necessari per organizzare un evento simile? Da molti anni la famiglia verteva in una situazione economica del tutto disastrosa tanto che molti dei nostri terreni dovettero essere venduti ad un gruppo di mercanti che stavano trovando fortuna a Soroka: i Rodcenko. Cercai di nuovo di scorgere Katjusa, incontrando invece il volto severo ed austero di mia cognata Eva. Vi ho già parlato di lei vero? Una donna squisitamente severa. Era vestita di nero dalla testa ai piedi, il suo profilo duro e affusolato che spiccava di una spartana bellezza; le donava il lutto, come se fosse nata per quei momenti di disperazione. Dietro di lei riconobbi Juditta e Veronika, le due spose dei suoi figli maschi, sempre intente a compiacerla, a sostenerla e fare si con la testa, da brave marionette nelle sue mani. Come dar torto a quelle povere anime? Se si fossero azzardate ad andare contro alla cognata, avrebbero perso i rispettivi mariti. Ebbene si, nel ramo di Lazar’ non era mio fratello a tenere le redini, ma lei. Dietro al funesto terzetto, intravidi la mia seconda cognata: la bellissima ed agitata Olga, sposa di mio fratello Boris, il piu ligio alle regole, il ferreo cosacco andato in guerra. Mi sorprendeva sempre quella loro curiosa unione ma, come dice un antico proverbio, gli opposti si attraggono; o forse hanno troppa paura di morire da soli, senza una progenie che ricordi i loro nomi. Salutai con troppa enfasi il gruppo, piu per indispettire Eva che per sincera felicità nel vederli. Chiesi immediatamente informazioni sulla mia ultima cognata, rimasta ormai vedova di marito e figlio: Katjusa ma Eva mi rispose subito che la poveretta era stata trasferita ad una delle ultime residenze dei Mickalov, il bastione Corvato in quanto le sue condizioni di salute erano precipitare ulteriormente. Una domestica, nel frattempo, mi aiutò a togliermi il cappotto, rivelando la mia camicia da lavoro ed un paio di bretelle, davvero poco consono ad un gran galà, non che la cosa mi importasse particolarmente, anzi, trovai un certo gusto perverso nel far infuriare sempre piu la mia cara cognata che ora mi stava fissando con disprezzo ed odio puro. Mi venne incontro la ansiosa e premurosa Olga, iniziando a sistemarmi come meglio poteva, mentre il discorso con e ed Eva iniziava a prendere una piega quanto mai insolita; avevo deciso, infatti, di scandalizzare ancora di piu la mia cara cognata, una piccola e subdola rivincita verso un trattamento del tutto ingiusto nei miei confronti. Iniziai a parlarle di un nuovo metodo di terapia per trattare i casi di isteria come quello. Non mi risparmiai su nulla, scesi nei particolari di questa nuova invenzione dell’austriaco Freud: un cilindro vibrante di forma fallica per permettere la stimolazione vaginale alle pazienti ed un relativo sollievo dalle loro turbe psichiche. Ovviamente non mi sarei mai permesso di utilizzare uno strumento del genere su Katjusa, la mia era solo una piccola frecciata verso Eva, come a ribadirle che avrebbe dovuto passare piu tempo sotto le lenzuola con Lazar’ piuttosto che ficcanasare e metter voce su ogni cosa le capitasse a tiro. Mi fermai un attimo, intanto intorno a me erano arrivati anche mio fratello Lazar’ e i suoi due figli maggiori. Percepì il panico e l’imbarazzo in ognuno di loro, ma non mi fermai, anzi, continuai a provocare ancora di piu Eva sottolineando come le prostitute, che lei sapeva io frequentassi assiduamente, non erano mai isteriche proprio per la stimolazione vaginale che ricevevano. Il viso di mia cognata era davvero incomparabile ma la colpa era soltanto sua e di nessun altro. Mi aveva sempre dipinto come un fannullone, come la feccia, la mela caduta lontano dall’albero puro e perfetto dei Mickalov. Io. L’eterno fannullone, il celibe scappato due volte dall’altare e poi dall’altra parte del mondo piu per pigrizia che per vero amore per lo studio. E io ero fermamente convinto di continuare a portare avanti quella recita, di essere il fallito che loro volevano che io fossi, crogiolandomi nei loro scandali dettati da regole ridicole, ridendo di loro per quella alienazione che vedevo dipinta su ogni viso. Stavo ancora ridendo tra me e me quando vidi un cambio di espressione repentino sul viso di mio fratello maggiore. Mi accorsi immediatamente che qualcosa non andava, che c’era un pericolo, non vedevo quel viso spaventato dai tempi dell’infanzia, quando io e lui venivamo sorpresi da mio padre a combinarne una delle nostre. Ma non poteva essere, nostro padre era morto molto tempo addietro. Gli mimai un “Che c’è?” con le labbra e mio fratello mi fece un gesto inequivocabile di morte passandosi un dito sotto la gola. Mi voltai lentamente, con la stessa calma di un cacciatore che improvvisamente diventa preda e, in effetti, era davvero così. Dietro di me c’era la piu grande sciagura che mi potesse capitare: l’altro mio fratello, Boris, il Capo Cosacco con gli occhi che mandavano scintille. Sorrisi, fingendo tranquillità, forse non aveva sentito tutto il discorso, giusto? Giusto!?! E invece aveva sentito forte e chiaro. Mi prese per un orecchio trascinandomi lontano dai miei interlocutori tanto attenti, mi trattava ancora come un bambino. Dovetti gridare un perdonatemi altrimenti il sadico mi avrebbe staccato l’orecchio talmente tirava; suscitammo risa tra la folla, il che non era poi così grave. Ero ancora frastornato quando Eva mi chiese chi fosse la ragazza timida che stava entrando. Ah, già. Alice. Mi ero totalmente scordato di lei, d’altronde, quando qualcuno ti prende per il padiglione auricolare e ti trascina con veemenza per quasi tutto il salone, è difficile tenere la concentrazione, non trovate? Sentii Eva e Olga ridacchiare e scambiarsi commenti maligni, non riuscì a capire esattamente le loro parole ma potevo intuire l’argomento di conversazione: io e Alice a letto. Vecchie racchie maligne! Subito pronte a puntare il dito contro qualsiasi essere femminile mi stesse accanto, come se fossi un deviato incallito. Si, è vero, a volte avevo avuto rapporti con alcune mie pazienti che non potevano pagare i miei servigi, ma mai con Alice. Avevo preso quella giovane assistente piu per dovere personale che per amore verso la sua persona. I suoi genitori erano morti di scarlattina sotto le mie cure; ancora oggi non riesco a perdonarmi quell’episodio. Per me non era un rapporto di tipo sessuale, mai stato, anzi, per quanto possa sembrare inverosimile, la vedevo come il fantasma della figlia che non ho mai avuto (non che avessi mai anelato ad avere un figlio, sia chiaro!). Un tonfo sordo mi risvegliò da quei pensieri: la mia goffa assistente era inciampata, andando niente meno che addosso al Capo Cosacco; iniziò subito un fiume di scuse ed inchini, tra i risolini e le ammiccate generali delle donne Mickalov. Olga fece un commento sull’accento della povera Alice; dovevo intervenire prima che quella poveretta fosse inghiottita da quelle serpi: le misi un braccio intorno alla vita per rincuorarla, scherzando sul fatto che ora, non era piu il mio accento ad essere strano. Eva mi informò che al maniero era giunto un italiano insieme al feretro di Viktor. Dissi ad alta voce un mio pensiero rivolto a mio fratello maggiore, Bojan. Lui amava il casino, il viavai di persone per il maniero e per Soroka, amava conoscere gente nuova ed imparare. Sotto questo aspetto eravamo molto simili io e lui, ma era Bojan il capofamiglia giusto per i Mickalov, severo ma flessibile, innamorato perso di Katjusa, tanto da aver costruito per lei un intero labirinto di serre e fontane; e fu proprio grazie a questo labirinto se il ventre guasto di Katjusa poté partorire Viktor. Mi ridestai alla vista delle lacrime di Olga; quella bellissima e malevola creatura al tempo stesso, tanto facile alle lacrime quanto alle cattiverie, ora si sentiva in colpa per aver tenuto un gran Galà dopo la dipartita del nipote. Cercai con lo sguardo mio fratello Boris, trovandolo in preparazione con i suoi piccoli cosacchi nella solita esibizione del lancio di coltelli e saske. In tutta sincerità non mi andava minimamente di assistere a quella inutile dimostrazione di forza e di tradizioni, ma il mio sguardo cadde su Petr, sulle sue gambe sode e guizzanti, salì fino al sedere sodo e al petto ampio che mi venne voglia di toccare. Quel piccolo ragazzino che tanto tempo fa si accoccolava sulle mie ginocchia, si stava facendo sempre piu uomo. Era perfetto così com’era, ancora illibato dal tocco malevolo della pubertà. Non piu un bambino, ma neanche un uomo. L’’esibizione finì e con essa il mio fantasticare. Incredibile come l’aria di casa mi rendesse piu sognatore e meno pragmatico. Era come se il tempo si fosse fermato, a Soroka, come se non me ne fossi mai andato: il maniero era uguale a come lo avevo lasciato, le tradizioni, le usanze, persino la musica erano le stesse della mia giovinezza; un paesaggio statico e immutabile in contrapposizione a quello dinamico e innovativo dell’America. E io, da bravo russo, avevo nostalgia di Soroka o meglio, avevo nostalgia di qualcosa che esisteva solo li, ma non sapevo esattamente cosa. Toska avrebbero detto i miei parenti, a queste mie parole. Come a confermare le mie parole, ecco che spuntò Gaspare, con un marchingegno di medie dimensioni, un suo giocattolo, sicuramente. Tutti i bambini andarono ad osservare il carillon a forma di maniero. Tutti, tranne quattro, i figli maggiori di Boris: Igor, Edgar, Ivan e Petr. Quest’ultimo aveva il fuoco della frustrazione negli occhi. Decisi che era giunto il momento di punzecchiarlo ancora un po’. Mi avvicinai a lui e gli domandai il perché della sua astensione da quel momento di gioia. Mi rispose, come prevedibile, che ormai era grande e si allontanò. Oh piccolo cosacco, in te non si è ancora spenta la scintilla della infanzia, perché la vuoi soffocare così in fretta? Non sai che crescendo anche i guai diventano piu grandi e così le responsabilità? Improvvisamente ci fu silenzio, l’unico suono era quello della dolce melodia del carillon. Mi voltai anche io verso due figure, un uomo con una maschera felina a coprirgli i lineamenti e un altro alle sue spalle dai capelli rossi e con la maschera di volpe. Cercai di cogliere la conversazione mentre con gli occhi trovai Petr, frastornato e confuso tanto quanto me. Avvicinandosi, riconobbi i lineamenti di Viktor. Cos’era? Uno scherzo nei miei confronti? Un pessimo scherzo! Guardai gli altri ma tutti sembravano atterriti e spaventati; no, non poteva essere una goliardata, era tutto reale. Un desiderio non poco cavalleresco si impadronì di me: dopotutto noi uomini discendiamo dalle bestie no? E cosa fanno le bestie impaurite? O attaccano o scappano. Non sono mai stato un uomo di azione, preferisco combattere con l’intelletto le mie battaglie, ma davanti a una manifestazione tanto inverosimile, anche io avevo le mie remore. Cercai di allontanarmi , facendo un passo indietro, ma a bloccarmi la strada, trovai Foma, il triste e melanconico figlio di Fedor, piu simile a mio fratello Boris che al padre, in effetti. Lo maledissi mentalmente, costringendo me stesso a guardare avanti. Il Capo Cosacco, a differenza mia, aveva sfoderato la spada e stava minacciando l’ospite di infangare la memoria dei morti. La volpe di fianco a lui assicurò, con voce ferma, che si trattava davvero di Viktor. Ma nessuno sembrava convinto di questa affermazione. Improvvisamente ebbi un mancamento alla vista di mia cognata, Katjusa, che varcava la soglia del maniero, con la sua veste bianca e gli occhi di un rosso cremisi o, come avrebbe detto quel poeta italiano, “dagli occhi di bragia” identici a quelli del ragazzo con la maschera da gatto. Sembrava guarita dalla pazzia, Katjusa, una donna nuova, rinvigorita e traboccante d’amore. Tolse la maschera da gatto e baciò a fior di labbra Viktor, il ragazzo dal viso sfregiato. Colui che la morte respinse a malincuore. Sono riuscito a scrivere fin qui, ma ora devo proprio andare al piano di sotto. Mi stanno aspettando per “visitare” mio nipote e sua madre. Spero solo di tornare vivo da questa esperienza. Che la scienza possa assistermi ed essermi da guida dinnanzi a tali eventi. Yuri Vladimirovic Mickalov.

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