Sai mantenere un segreto?

di Sacchan_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Prologo- ***
Capitolo 2: *** Giorno 1 (prima parte) ***
Capitolo 3: *** Giorno 1 (seconda parte) ***
Capitolo 4: *** Giorno 1 (terza parte) ***
Capitolo 5: *** Giorno 2 (Prima parte) ***
Capitolo 6: *** Giorno 2 (Seconda Parte) ***
Capitolo 7: *** Giorno 2 (Terza Parte) ***
Capitolo 8: *** Giorno 3 (Prima parte) ***
Capitolo 9: *** Giorno 3 (Seconda Parte Extra: Eris) ***
Capitolo 10: *** Giorno 3 (Terza Parte Extra: Brendon&Fabian) ***



Capitolo 1
*** -Prologo- ***


Sospirai affranta.
Avevo lasciato tutto alle mie spalle: la mia vecchia vita, i miei genitori, quei pochi veri amici ed ero scappata di casa.
Scappata non era il termine esatto: il consenso ai miei l'avevo chiesto e l'avevo ottenuto; così, bagaglio alla mano, sono fuggita dal mio piccolo paese per andare a vivere da mia zia, sorella di mia madre, in una città sconosciuta e ancora più grande. Avevo preso la decisione giusta? Sì, forse. Lo speravo, perlomeno.
Ora, però, mi ritrovavo più spaesata che mai: il cielo grigio e carico di pioggia, i grattacieli che si innalzavano fino al cielo, i rumori assordanti delle macchine in corsa, i clacson e gli schiamazzi che si riversavano nelle strade. A nulla di tutto questo ero mai stata abituata, io povera ragazza vissuta lontano dalla grande città.
Sarebbe stato difficile ambientarmi, farmi dei nuovi amici, soprattutto lasciare indietro i problemi del passato. Però era stata una mia decisione e non potevo assolutamente darmi per vinta ancora prima di averla affrontata. Ero giunta fino a qui proprio per ricominciare e ritrovare il mio equilibrio interiore. Solo allora sarei tornata indietro.
Uscii sulla terrazza per prendere una boccata d'aria fresca e stiracchiarmi le braccia, ne avevo bisogno dopo tutte quelle ore passate in treno. Ai vestiti e agli effetti personali ci avrei pensato poi; in quel momento ero solo curiosa di poter studiare quel nuovo quartiere e quella nuova città. Sfortunatamente mi resi ben presto conto che mi sarebbe stato impossibile sperare in una veduta dall'alto: il grattacielo affianco, gemello in tutto e per tutto a quello dove mi trovavo, era così vicino da ostruirmi la visuale; talmente vicino che potevo benissimo comunicare con i coinquilini dell'appartamento di fronte se solo avessi gridato. Avvicinandomi ancora di più al muretto del balcone notai, tuttavia, che era presente un dislivello tale che mi permetteva di poter dare un'occhiata al suddetto appartamento sfruttando le finestre; in particolare, proprio di fronte alla mia nuova camera da letto, doveva trovarsi la camera da letto di qualcuno e questo pareva chiaro dal mobilio che riuscivo a intravedere seppure le ombre della sera iniziarono a riversarsi dentro. Di chiunque fosse quella camera da letto il proprietario se ne era andato lasciando le tende completamente aperte.
Assorta nei pensieri studiai l'interno di quella camera fino a che non notai qualcosa di strano: dalla mia posizione non riuscivo a vedere il letto per intero, tutto ciò che ne vedevo era soltanto un piccolo spicchio, ma era comunque abbastanza per farmi notare che qualcuno vi era sdraiato sopra. Non ci sarebbe stato nulla di strano, in questo, se non fosse stato che le paia di gambe che vedevo erano decisamente troppe per appartenere a una persona sola. Assottigliai gli occhi, mettendo a fuoco per quanto potevo, e non mi ci volle molto per capire che su quel letto c'erano sdraiate due persone e ciò che stavano facendo era ben chiaro: chiunque fossero quei due -amanti, fidanzati, marito e moglie o non si sa cosa- ci stavano dando dentro alla grande, in pieno giorno e con la finestra bella in vista. Mi ritrassi indietro sbalordita, decisa a rientrare dentro per non fare la figura della guardona. Ma fu proprio in quel momento che avvertii una voce alle mie spalle: era una voce bassa, ma calma; era la voce di un ragazzo.
"Ehi."
Mi girai di scatto spaventata: esattamente di fronte a me, dalla parte opposta e poco più in basso vi si trovava un ragazzo che mi fissava divertito. Aveva la camicia ancora aperta e l'aspetto trasandato, fra le dita teneva una sigaretta sicuramente accesa da poco. Rimasi in silenzio, non sapendo cosa dire o come giustificarmi, sempre ammesso che ero tenuta a farlo.
"Non sai che spiare è reato?" Domandò calmo mentre con una mano si tirava indietro le ciocche di capelli che gli erano caduti davanti al viso.
"S-siete voi che stavate facendo cose, senza esservi premurati di tirare le tende." Tentai di difendermi; certamente io avevo indugiato, ma la colpa non era solo mia.
Lo vidi scrollare le spalle per poi gettare a terra la sigaretta.  Lo sguardo che mi lanciò mi congelò sul posto
"Vuoi venire a provare?" Mi sorrise sarcasticamente, in una maniera così strafottente che mi diede sui nervi. Nonostante ciò non fui abbastanza lesta nel rispondergli a dovere.
"Cosa?"
"Dai." Incitò. "Si vede che muori dalla voglia."
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: girai i tacchi e rientrai dentro la mia camera senza più voltarmi indietro. Come primo giorno in quella nuova città era partito davvero alla grande.


Angolo Autrice:

Buongiorno a tutti, essendo nuova nel fandom mi presento. Io sono Sacchan e qui su EFP mi diletto per lo più nella stesura di fan-fiction, le originali non sono mai state il mio forte, dubito che lo saranno mai. Ma questa storia è nata nella mia mente anni e anni fa; quando invece di pubblicarla la accantonai per dedicarmi alle fan-fiction, ora che sono più grande e matura -si spera xD- ho pensato bene di riprenderla e, perché no, provare a pubblicarla. Come citato anche nello specchietto saranno menzionate tematiche delicate, più avvertimenti omosessuali. Il raiting è stato lasciato arancione, se riterrò di doverlo alzare perché nella stesura sarà reso opportuno lo farò. E niente, spero che vi possa interessare. Nel caso non mancatemi di farlo sapere poiché, lo ricordo, si tratta della mia prima original. 

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Capitolo 2
*** Giorno 1 (prima parte) ***


Camici bianchi attorno a me, in un ambiente completamente bianco, dalle mura bianche, persino la luce era bianca. 

Perché? 

Mi continuavano a chiedere. 

Non lo so. Rispondevo. 

Non c'era una valida motivazione, o forse sì; quella la sapevo solo io. Semplicemente mi piaceva lo stridere della mia pelle.

Mi svegliai di soprassalto, giusto in tempo per far sì che le mie orecchie venissero investite dal trillo noioso della sveglia.
Allungai una mano sopra di me per spegnerla e salvare così i miei lobi. Una volta fatto mi passai l'altra sulla fronte. 
Era l'inizio della mia prima, vera, giornata in quella nuova città, in un nuovo liceo dove avrei dovuto ricominciare da capo con lezioni, compagni, nuovi amici -si sperava- e nuovi professori. Il solo pensiero mi faceva venire voglia di nascondermi di nuovo sotto le coperte. 
Ma non potevo farlo perciò gettai a terra i piedi, alzandomi con più impeto di quanto avrei dovuto e trascinandomi di malavoglia in bagno per una veloce doccia mattutina. Avevo la fortuna di avere un bagno personale in camera, già.
Davanti allo specchio mi osservai con attenzione: sicuramente non avevo avuto una delle mie nottate migliori a giudicare dalle borse sotto agli occhi; poco male: ci avrebbe pensato un velo di correttore e di fondotinta per mascherarle. 
Mi tolsi in fretta il pigiama, lasciandolo scivolare a terra, per entrare nel piano doccia. Il contatto con l'acqua calda mi rilassò talmente tanto al punto da desiderare di poter tornare a letto. 
Doveri: vivere una vita normale, provare almeno. 
Questo era il patto, non potevo certo venirne a meno senza ancora aver iniziato il percorso. 
Davanti allo specchio osservai il mio viso. Era spento, come se non ci fosse vita. Sospirai distogliendo gli occhi dalla mia figura. 
La scelta dei vestiti da indossare si rivelò più ardua di quanto mi sarei aspettata. La prima impressione era quella che contava, no? Tuttavia non sapevo davvero se optare per un abbigliamento formale o uno più sobrio e comodo. Alla fine scelsi una camicia e una gonna tra gli abiti che mi ero portata dietro con me. Certo, mia zia mi aveva fatto trovare un armadio pieno di maglie, t-shirt, jeans e vestitini all'ultimo grido, ma ancora non avevo avuto la voglia di mettermi a guardarli con attenzione. 
Uscii dalla mia camera giusto in tempo per vederla uscire dal bagno comune, fasciata in un elegante completo nero, i capelli raccolti in una coda di cavallo e un vivace rossetto sulle labbra.
Appena mi vide curvò le labbra in un sorriso, mostrando denti bianchi e perfetti. 
Lei e mia madre si portavano, sì, solo cinque anni di differenza ma erano completamente l'opposto. 
"Selena, buongiorno." Mi salutò cordiale. "Dormito bene?" 
Tentai di imitarla, per quanto possibile. 
"Mh, sì bene... grazie." Mentii. 
Seguirono molte domande sulla città, su come la trovavo, sul quartiere dove ora abitavo e cose così. 
Sì, no, boh, forse... come potevo giudicare una città che ancora non conoscevo? 
La seguii in cucina dove il caffè già traboccava dalla caffettiera; aprendo un mobile ne tirò fuori due tazzine e dopo averle riempite me ne porse una. Lo bevvi in un sorso, senza metterci dello zucchero dentro. Non mi erano mai piaciute le cose zuccherate. 
Lei mi guardò con occhio vigile, mentre beveva il suo, e una volta finito prese entrambe le nostre tazzine per posarle dentro il lavello. 
"Ieri sera ho sentito tua madre." Disse mentre faceva scorrere l'acqua. 
Avvertii le mie spalle irrigidirsi. 
"E..?" Incitai. 
"Vorrebbe che la chiamassi." Sospirò. "Quantomeno vorrebbe sentire la tua voce." E io con lei. 
"Lo farò, a tempo debito lo farò." Sottolineai per poi ritornare nella mia camera da letto; era quasi giunto il momento di uscire e iniziare la giornata. Afferrai la mia polsiera, abbandonata la notte prima sul comodino accanto al letto; era una di quelle comuni, comprata in un semplice negozio di articoli sportivi, e la indossai al mio polso sinistro. Mi era sempre piaciuto l'effetto che mi dava, però mi chiedevo anche se non fosse strano vedere una ragazza indossarne una. Scrollai le spalle: la giacchetta sopra la camicia l'avrebbe comunque coperta.
Da una sedia recuperai lo zaino preparato la sera prima, poi, spostando gli occhi sulla finestra, osservai il palazzo di fronte. Chiunque abitasse in quell'appartamento ora aveva le serrande completamente abbassate. 
Lasciai, di nuovo, la mia stanza pronta ad uscire di casa. 
Mia zia aveva insistito ad accompagnarmi a scuola almeno oggi, ma io mi ero rifiutata categoricamente; non volevo certo creare disagi più di quanto ne avevo già creati. 
Sarei andata a scuola da sola, la sera prima avevo consultato su Google Maps tutti i collegamenti pubblici messi a disposizione. In più, confidavo nel mio orientamento infallibile per non perdermi. 
E difatti, quello, non si sbagliò nemmeno stavolta. 
Certo, trasferirmi a metà anno già iniziato non era stata una grande furbata ma, speravo, che le cose sarebbero andate bene, quantomeno la mia integrazione in classe. 
Tuttavia, nonostante il mio orientamento indiscutibile, dovetti chiedere indicazioni più di una volta per raggiungere la mia classe della prima ora di lezione. 
Ovviamente, per non ricominciare da capo, avevo scelto lo stesso indirizzo liceale della mia vecchia scuola, ma non potevo ancora sapere se i programmi combaciavano o se il mio vecchio programma di studio era più indietro o più avanti di quello attuale. 
La prima ora era quella di scienze e appena entrai in classe attirai su di me gli sguardi di tutti, come era da aspettarsi. 
Feci un lieve cenno col capo, imbarazzata, per poi guardare un eventuale banco libero. Se fosse stato possibile ne avrei preferito uno in fondo e dal lato delle finestre. 
Non feci nemmeno in tempo a fare un passo che una voce femminile mi colse di sprovvista. 
"Ciao! Tu devi essere quella nuova, Selena, vero?" Mi sorrise entusiasta una ragazza rossiccia e dalla pelle lentigginosa venendo dalla mia parte. "I professori mi hanno avvertita di un trasferimento in questi giorni. Io sono Eris, la rappresentante di classe." E mi porse una mano che esitai a stringere. Gruppi di ragazze, poco più in là, ridacchiavano tra loro. 
La squadrai da cima a fondo: Eris era alta quanto me e aveva dei lunghi capelli mossi, raccolti in una coda bassa. Portava occhiali spessi e un abbigliamento piuttosto nerd. Se davvero era la rappresentante di classe aveva quell'aspetto da geek che sembrava renderla perfetta al ruolo. 
"Mh, dove posso sedermi?" Domandai, dimenticandomi di presentarmi. 
Eris mi illustrò due posti lasciati vuoti. Uno era in seconda fila, in posizione centrale, comodo per guardare la lavagna ma troppo al centro dell'attenzione. Il secondo era in ultima fila, sempre al centro, ma almeno non avrei avuto nessuno dietro. 
Inutile dire quale fu la mia scelta. 
Tuttavia, avvicinandomi al mio banco, sbiancai di colpo notando chi era il mio vicino. 
"Ciao." Mi salutò atono, svogliato quanto la mia voglia di essermi alzata quella mattina. 
Era lui, il ragazzo che il giorno prima avevo sorpreso nell'appartamento di fronte a fare cose poche consone durante il giorno. 
"Ciao." Risposi di rimando, più spiazzata che mai, mentre mi sedevo. 
"Incredibile che oggi ci hai degnato della tua presenza." Gli commentò dietro Eris, incrociando le braccia al petto. 
Lo udii emettere un verso con la lingua infastidito. 
"Non rompere, Eris. Sono venuto solo perché, se fossi stato assente anche oggi, sarebbero state cinque assenze di fila non giustificate. Non ho tempo né voglia di passare dalla preside." 
Eris alzò gli occhi al soffitto. 
"Quantomeno cerca di non disturbare la nuova arrivata." 
Quell'ammonimento non lo scompose nemmeno, anzi, mi rivolse una tale occhiataccia che fu in grado di gelarmi sul posto, sensazione che avevo provato anche il giorno prima: ora che avevo la possibilità di osservarlo da vicino potevo notare che aveva due occhi grigi e taglienti e un viso incorniciato da capelli color cenere. L'abbigliamento era trasandato e prevalentemente composto da capi scuri. 
Incurvai appena le spalle. 
"Non sarà necessario alcun aiuto, grazie." 
"E io non avevo intenzione di dartelo." Ribatté lui, come a volermi rinfacciare l'inconveniente del giorno prima. 
Vidi Eris aprire la bocca, per dire qualcosa, ma cambiò subito idea quando il professore entrò in classe, cosa che la fece schizzare a sedere al suo posto. 
Di una cosa ero certa: sarebbe stata una lunga giornata.

A lezione conclusa Eris mi si avvicinò, preoccupandosi se il programma mi era chiaro almeno in quella materia. 
Fortunatamente ero al passo. 
"Tutto chiaro, grazie." Le risposi. 
Che fosse per il suo ruolo di rappresentante o no, pareva una ragazza gentile di natura. 
"Bene." Applaudì lei. "Che ne dici se durante la pausa pranzo ti porto a fare un giro del liceo? Così inizi a familiarizzare con la scuola?" Mi propose allegra, ma prima di poterle rispondere notai un ragazzo, più grande di noi, chiamarla dal corridoio. 
Appena se ne accorse Eris volò fuori dall'aula, con un impeto tale che mi fece chiedere se fosse il suo fidanzato. 
Stavo anche per ritornare al mio posto quando, d'improvviso, la vidi  sbracciarsi e chiamarmi fuori. 
"Ecco, lei è la nuova arrivata." La sentii parlare mentre mi avvicinavo e il ragazzo mi rivolse un sorriso affabile. 
Era bello, dal viso femminile e con capelli biondi che ricadevano ai lati dello stesso. Gli occhi erano di un azzurro molto chiaro e il suo abbigliamento era tanto formale, ma dai colori neutri. 
Totalmente l'opposto del mio vicino di banco, pensai. 
"Selena lui è Fabian, il rappresentante degli studenti di questo istituto." Lo presentò Eris. 
Fabian si passò una mano fra i capelli biondi, tendendo l'altra con un modo così genuino che mi sentii subito in dovere di stringergliela.
"Ho letto il tuo fascicolo proprio ieri pomeriggio, spero che ti troverai bene qui." 
"Oh, beh, lo spero anche io..." Abbassai gli occhi, pregando che sarebbe stato davvero così. 
"Comunque..." Ci interruppe Eris. "Come mai sei venuto qui, Fabian?" 
I toni dell'atmosfera cambiarono immediatamente a quella domanda. 
"Oggi Brendon si è presentato a scuola, vero?" Sospirò lui, portando Eris ad annuire. "La preside vuole vederlo. Deve dare una giustificazione su queste ennesime assenze senza motivazione." Eris arricciò appena le labbra, muovendo gli occhi verso il banco oramai vuoto. 
Difatti, Brendon era fuggito via dalla classe a lezione finita. 
"Arrivi tardi. Ha lasciato la classe dopo che la lezione è terminata." 
Non che io ci capissi molto in quel momento, ma fu sufficiente a leggere la delusione sul viso di uno e l'esasperazione sul volto dell'altra; evidentemente era un ragazzo problematico. 
Fabian guardò l'orologio, stringendo gli occhi infastidito. 
"Devo andare ora. Eris, puoi dirglielo tu?" 
Eris iniziò a lamentarsi contrariata. 
"Cosa? Perché dovrei occuparmene io? Brendon neanche mi dà ascolto." 
Fabian le scompigliò affettuosamente i capelli prima di dileguarsi. 
"Perché sei la rappresentante della sua classe." Le rispose, dandomi l'impressione che l'avesse appena messa nel sacco. Eris divenne muta all'istante.
"Davvero è così terribile?" Le domandai ingenuamente, spezzando il silenzio che si era creato. 
"In realtà non è un cattivo ragazzo..." Mi rispose lei, scrollando le spalle. "Ma è intrattabile e difficilmente si lascia avvicinare. Non so che problemi abbia." Ci pensò su. "Idea! Potresti dirglielo tu per me?" Chiese innocente. 
Mi ci volle qualche secondo per realizzare ciò che mi aveva appena chiesto di fare.
"Eh?"

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Capitolo 3
*** Giorno 1 (seconda parte) ***


wattpad
Ero stata messa nel sacco.
Già, decisamente mi ero lasciata fregare dagli occhi azzurri di Fabian e dai sorrisi gentili di Eris.
"Non so nemmeno dove andarlo a cercare." Lamentai, sperando così di impietosirla.
Cosa che non ebbe nessun effetto sperato: Eris portò le mani davanti agli occhi, giungendole a preghiera e guardandomi supplicante.
"Ti prego, mi toglieresti questo peso di dosso."
La guardai dubbiosa ricordandole che, proprio come aveva detto Fabian poco prima, era la rappresentante della nostra classe e stava a lei comunicare agli studenti comunicazioni dotate di una certa importanza. Eris chinò il capo consapevole di quanto le mie parole fossero vere.
"Ho pensato che, poiché sei nuova, magari a te Brendon avrebbe dato un minimo di ascolto. Di solito quando mi avvicino a lui per comunicargli qualcosa poco ci manca che mi caccia via a calci nel sedere. E credimi, sarebbe capace di farlo."
Scossi il capo per nulla convinta da ciò che mi veniva chiesto di fare, tuttavia Eris continuava a fissarmi con quello sguardo supplicante che, o avrei fatto come mi avrebbe chiesto, o avrebbe mantenuto quella espressione fino a quando mi sarei lasciata convincere.
Sospirai al pensiero che avrei dovuto di nuovo rivolgere la parola a quel ragazzo, ma a pensarci bene si trattava solo passargli una comunicazione: non è che dovevamo dialogare per conoscerci.
"Va bene, hai vinto." Mi rassegnai. "Dimmi solo dove posso trovarlo." Non mi sarebbe piaciuto l'idea di rincorrere qualcuno per tutta la scuola solo per dire un paio di parole.
Eris mi abbracciò contenta, portandomi quasi a chiedere se il ruolo di rappresentante fosse adatto a lei.
"Oh, ti ringrazio! Mi hai tolto un peso!" Mormorò contro il mio orecchio. "Solitamente, quando non ha voglia di seguire le lezioni, Brendon sale sul terrazzo della scuola."
Ah, bellissimo. Pensai, incrociando le braccia.
"Nella mia vecchia scuola il terrazzo era una zona a divieto d'accesso durante le lezioni." Precisai, pensando che potesse essere lo stesso.
"Lo è anche qui. Gli studenti possono salirci solo durante la pausa pranzo fra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio." Eris abbassò lo sguardo fino ai piedi. "A Brendon non è mai importato del divieto, quindi è sicuro che lo troverai lì."
Annuii in risposta, precisando però che avrei aspettato la fine delle lezioni mattutine e mi sarei mossa solo se non si sarebbe mostrato prima.
Eris mi guardò colpevole.
"Non ti avrei comunque chiesto di salirci adesso." Precisò, cosa che mi rimproverare me stessa per essere stata troppo dura verso l'unica che, finora, si era mostrata cortese verso di me.
Il piccolo intermezzo fra una materia e l'altra finì in quel preciso momento e il resto della mattinata volò fra ore di matematica e letteratura. Allo scoccare della pausa lunga Eris spinse verso di me un quaderno pieno di appunti, nel post-it attaccato alla copertina la sua calligrafia mi metteva al corrente che potevo tenerlo in prestito per quei primi giorni e si scusava per il disturbo. Le alzai il pollice sorridendole prima di avventurarmi fuori in corridoio alla ricerca delle scale che portavano verso il terrazzo.
La mia nuova scuola era da poco stata ristrutturata, quindi nasceva sulle basi della vecchia, messa in sicurezza grazie alle nuove normative che vigevano per gli edifici pubblici.
Si componeva di due piani: un piano terra e un primo piano, collegati soltanto da una scala di una quindicina di gradini per piano. Al piano terra, oltre all'ingresso e alla segreteria, vi si trovava un lungo corridoio che metteva a disposizione degli armadietti per gli studenti. Il colore degli armadietti determinava l'anno di chi lo usufruiva. Ai lati di questo corridoio vi si trovavano diverse aule, più la sala professori, l'ufficio della preside -che avevo avuto il piacere di conoscere solo telefonicamente-, e una sala studio che fungeva anche da biblioteca. Salendo al primo piano si trovavano i laboratori e il resto delle classi; infine, proprio in fondo a questo, una piccola scalinata conduceva al terrazzo della scuola. Non essendo grande come istituto era presente una sola sezione, per un totale di cinque classi in tutto.
Queste erano le informazioni che ero riuscita ad ottenere durante le mie ricerche sulla scuola stessa.
Mi aggregai a un gruppetto di studenti che stavano andando fuori per salire i cinque scalini che portavano a dove ero diretta. Attaccati alla parete cartelli di divieto invitavano studenti e professori a non fumare sulla terrazza.
Guardai in giro, pregando che colui che cercavo non se ne fosse già andato; il sole mi batteva contro gli occhi impedendomi la visuale, li andai a coprire con una mano mentre avanzavo.
Girai più d'una volta la testa fino a quando lo vidi: era appoggiato al parapetto di sicurezza, di spalle e con una sigaretta accesa fra le dita.
Mi avvicinai cauta, guardando schifata la sigaretta: non sopportavo il fumo, tanto più chi fumava.
"Ero convinta di aver letto un cartello con un divieto di fumo prima di salire qui." Mi lasciai scappare.
Brendon si girò lentamente dalla mia parte, per nulla sorpreso che io potessi trovarmi davanti a lui in quel momento. I capelli color cenere venivano spinti di lato da una leggera brezza di vento, alcune ciocche gli ricadevano sugli occhi, ma la cosa non sembrava minimamente dargli fastidio.
Prima di rispondermi prese un'altra boccata di fumo.
"Il divieto di fumo è totalmente inutile se sei in uno spazio aperto, non trovi?" Mi domandò fisso negli occhi, una arroganza tale che mi venne da rispondergli all'istante.
"Non so, se il cartello è stato appeso un motivo ci sarà."
Fece saettare lo sguardo di lato.
"Guardati attorno, nessuno sta rispettando il divieto."
Seguii i suoi occhi, notando che altri gruppetti di ragazzi stavano fumando le loro sigarette, disposti in cerchio.
"Eppure tu sei qui a dare contro solo a me." Concluse allargando le braccia e assumendo l'atteggiamento di un bambino, fingendosi una povera vittima.
"Solo perché adesso sto parlando con te." Precisai, cercando di non perdere la pazienza. Ero salita solo per poter dire una stupidissima cosa, non era mio intento litigare.
Brendon rigirò la sigaretta, quasi finita, fra le dita per poi porgermela.
"Vuoi provarla?" Chiese serio, portando i miei occhi a corrucciarsi.
"Sei qui per questo, no?" Domandò poi con malizia, cosa che mi fece quasi perdere la pazienza per la sua sfrontatezza.
"Non fumo." Replicai decisa, incrociando le braccia sotto al petto. La mia pazienza stava scemando sempre più.
Brendon la fece cadere a terra e poi la calciò via con il tacco della scarpa, facendola cadere giù di sotto dove, presumibilmente, c'era il giardino della scuola.
Quella tale mancanza di rispetto mi portò istintivamente ad aprire la bocca per dirgliene quattro, ma lui fu più veloce di me nel farmi tacere, forse aveva già previsto le mie intenzioni.
"Cosa vuoi, dunque?"
Contai fino a tre prima di rispondere, dovevo ritrovare la mia tipica compostezza.
"Eris dice che la preside vuole vederti." Risposi nel modo più calmo possibile. Dovevo solo dire quelle parole, non dovevo certo fare altro.
Brendon inclinò lo sguardo di lato.
"Scommetto che è stato Fabian a dirglielo." Pensò ad alta voce.
"Beh, sì." Gli rivelai io. D'un tratto sembrava essere diventato pensieroso, al punto di portarsi le nocche delle dita alle labbra.
Ma quel momento di riflessione durò ben poco.
"Come al solito non è capace di dirmelo di persona." Brendon scrollò le spalle con una risatina, lasciandomi per un attimo di stucco davanti a quel cambiamento improvviso. Portò poi le mani dentro al suo giubbotto e si incamminò verso di me, senza mai distogliere lo sguardo dal mio viso per un secondo.
"Posso chiederti che cosa hai esattamente visto ieri?"
Non sapevo spiegarlo, ma c'era un modo nel suo fissarmi e nel tono di voce che aveva usato da farmi presagire che, se avessi risposto nella maniera sbagliata, me l'avrebbe fatta pagare per un qualcosa che neanche potevo comprendere.
"Nulla, in verità." Abbassai il mento, scegliendo bene cosa dire. "La stanza non era illuminata e dalla mia posizione il letto non si vedeva nemmeno bene."
Un tocco mi sfiorò leggermente la spalla: Brendon si era avvicinato così tanto al punto da potersi chinare per sussurrarmi qualcosa all'orecchio.
"Dimentica ciò che hai visto." Mi intimò a bassa voce prima di ritornare verso l'interno dell'edificio.
Per un attimo avevo avvertito i brividi sulla schiena.

Il peggio della giornata arrivò proprio a fine della giornata stessa, quando la preside -una signora di mezza età agghindata da un pesante trucco sul viso, sì finalmente l'avevo conosciuta- mi aveva trattenuto nel suo ufficio per siglare le pratiche che ancora mancavano di una mia firma e che sarebbero poi finite nel mio dossier scolastico.
Con il sole che ormai calava giù per le finestre, donando al bianco dei muri un aspetto dorato, raccolsi le ultime cose sia da sotto il mio banco che dal mio armadietto personale. Era già passata un'ora dalla fine delle lezioni, gli studenti se ne erano andati tutti e anche i professori che si erano attardati avevano lasciato l'edificio. Restava solo la preside, chiusa però nel suo ufficio.
Fu in quel momento, un momento di assoluto silenzio, che udii uno schianto metallico, come se qualcosa avesse sbattuto. Mi girai di scatto verso il rumore, non curandomi del mio zaino lasciato aperto, per andare a vedere cosa fosse successo e, girando l'angolo, capii di essere finita nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La mano di Brendon era premuta contro il collo di Fabian, quest'ultimo pressato contro un armadietto.
L'impeccabile camicia di Fabian era sgualcita come se qualcuno l'avesse afferrata di forza, le sue mani facevano pressione sul braccio che lo tenevano bloccato.
Entrambi si accorsero di me non appena sbucai da dietro l'angolo.
Fu Brendon il primo a parlare.
"Non sei ancora andata a casa, eh?"

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Capitolo 4
*** Giorno 1 (terza parte) ***


wattpad Forse ero ancora in tempo a svignarmela, a passare loro davanti e ad andarmene come se non fosse successo e non avessi visto nulla. Forse ero ancora in tempo ad evitare tante cose. Ma ormai era troppo tardi. 
Brendon lasciò andare la morsa sul colletto di Fabian, il quale si portò una mano al collo per massaggiarlo. Aveva il respiro mozzato, respirava a fatica da quanto potevo vedere. Chissà Brendon con quanta forza l'aveva spinto per ridurlo così. 
"Va tutto bene, Selena." Riuscì a dirmi, guardando dalla mia parte. "Non è successo nulla." Tentò di rassicurarmi; io ero rimasta ancora ferma sul posto, senza muovere un muscolo e senza dire una sola parola. 
"Hai la straordinaria capacità di trovarti sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, sai?" Mi canzonò Brendon. "Ora deciditi se vuoi restare lì impalata a guardare cosa succede, o se vuoi venire ad aiutare questo povero sfigato." 
Quelle ultime parole parvero irritare Fabian che, con una spinta, provò ad allontanarlo da sé senza ottenere risultati. 
"Adesso smettila, Brendon!" Gli urlò contro, tentando inutilmente di sottrarsi alla sua presa. Quella minima resistenza opposta lo fece adirare ancora di più, portandolo a spintonare Fabian ulteriormente contro l'armadietto. Il ragazzo biondo gemette per il dolore alla schiena. 
"Va davvero tutto bene, Selena." Ripeté. "Credimi, puoi andare." Mi provò a rassicurare vedendo che io continuavo a starmene immobile. 
Brendon sbuffò con una risata. 
"Proprio tipico da te, eh? Non chiedere aiuto e atteggiarti a santarellino. Dovresti farlo invece, lo sai che le cose potrebbero finire peggio." 
Non capii a cosa si riferisse, sta di fatto che Fabian divenne pallido al punto di schiacciarsi ancora di più contro la parete e l'armadietto dietro di lui. Sembrava avere paura e solo allora Brendon indietreggiò ponendo dello spazio fra loro: ora teneva le mani in tasca e lo guardava come se il solo vederlo lo schifasse da capo a piedi. 
Le mie mani si strinsero a pugno, ciò che avevo visto era davvero troppo per essere ignorato. 
"Vuoi restare lì immobile? O ti decidi ad andartene?" Mi sentii chiedere. 
A capo chino mi incamminai verso di loro, e quando mi ritrovai abbastanza vicina a Brendon lo colpii con uno schiaffo sulla guancia. 
Non mi resi conto di ciò che avevo fatto finché il palmo della mia mano prese a bruciare; il viso di Brendon era girato di lato e la sua postura non aveva vacillato neanche un attimo. 
Nonostante ciò iniziavo a sentire sudori freddi addosso, mi ero di sicuro cacciata in un guaio e anche Fabian era rimasto attonito.
Mi ritrassi indietro nello stesso momento in cui i suoi occhi grigi si spostarono su di me, privi di espressione. 
Era calato il silenzio, nessuno di noi tre fiatava e questa condizione andò avanti fino a quando decisi di porre la parola fine alla situazione stessa. 
"Puoi continuare ad atteggiarti in questo modo ancora, se vuoi." Sibilai a denti stretti, la rabbia repressa. "Ma sappi che non mi ci vorrà nulla domani mattina ad andare nell'ufficio della preside e raccontare ciò che è successo e ho visto oggi. Vedo già una sospensione dietro l'angolo." Lo ammonì senza guardare in faccia nessuno dei due poi, dopo essermi sistemata meglio la spallina dello zaino sulla spalla, li superai entrambi con ampie falcate, senza voltarmi indietro. 
Corsi letteralmente fuori dall'edificio e fuori dall'ingresso della scuola, il cuore che mi batteva forte nel petto. 
Cosa avevo appena fatto? Era il mio primo giorno di scuola e si era concluso nel peggiore dei modi. Non era a questo che auspicavo stamattina quando ero uscita di casa. 
Mi appoggiai a un muretto con la schiena, il fiato mi stava diventando pesante. Dovevo calmarmi o sarebbe stato peggio. Cercai di regolare il respiro, esattamente come mi avevano insegnato a fare. Riuscii a intervenire in tempo per fortuna. 
"Ohi." 
Mi voltai di scatto, trovandomi Brendon a poca distanza da me. Quando era arrivato e da quanto tempo proprio non me ne ero accorta. Aveva visto che mi stavo sentendo male? Sperai di no e appena lo vidi venire verso di me provai l'irrefrenabile impulso di scappare. Le mie gambe però erano molli e non sembravano volermi dare ascolto. 
Si fermò a pochi centimetri da me, sebbene il suo sguardo era serio non riuscivo a interpretare alcuna reazione. 
"Lo faresti davvero?" Mi domandò aggrottando la fronte, lì per lì neanche capii a cosa si riferiva, solo dopo realizzai. 
"Vorrei evitare di farmi dei nemici dal primo giorno di scuola." Risposi. "Però si, lo farei davvero se vedessi di nuovo una scena del genere." Ritenni importante mettere in chiaro da subito la questione, sperando di non dovermene pentire in seguito. 
Vidi Brendon schioccare la lingua infastidito. 
"No che non lo faresti."
Lo guardai interrogativa, da dove gli veniva tanta sicurezza? Neanche mi conosceva. 
Un suo braccio si allungò fulmineo verso di me, tirandomi avanti per il polso. 
Inizialmente mi lamentai solo per la sorpresa e il dolore, poi cercai di tirarmi indietro quando lo vidi sollevare la manica della mia giacca, insieme alla camicia, e sfilarmi la polsiera di dosso. 
Il mio polso sinistro rivelò ciò che nascondeva: striature bianche cicatrizzate percorrevano la mia pelle, insieme a chiazze rosse e violacee. Con l'altra mano forzai la sua a lasciarmi andare, scoprendo però di non possedere forza abbastanza per farlo. 
"Interessante." Disse lui, contemplando il mio polso. "Mi chiedevo perché portassi solo una polsiera, ora capisco tutto." Mi lasciò andare e io indietreggiai, nascondendo il polso dietro di me. 
"Come hai fatto a notarla?" Gli domandai agitata. Che cosa avrebbe potuto pensare ora? 
Posò gli occhi grigi sui miei. 
"Siamo vicini di banco, no? Ti ho solo osservata bene. La polsiera ogni tanto veniva fuori dalla manica della giacca." 
Lo guardai spaventata: non era possibile che, al mio primo giorno di scuola, qualcuno avesse già scoperto il mio segreto. 
"Così siamo pari. Io non andrò in giro di raccontare di quella." E indicò il mio polso. "E tu non racconterai di ciò che è successo in corridoio." 
"E davvero dovrei fidarmi?" Non ne ero del tutto sicura. 
Brendon mi sorrise affabile. 
"Naturalmente no. Il mio silenzio ti costerà un po' più caro." 
Iniziai davvero ad avere paura. Cosa voleva fare? O cosa voleva che io facessi? Sperai che si trattasse solo di uno scherzo andato un po' troppo in là. 
Mi guardò serio, più di quanto non facesse già di solito. 
"Ti aspetto domenica mattina a casa mia." Mi sventolò un foglietto davanti al naso. "Qui c'è il mio indirizzo e come arrivarci e, se vuoi un consiglio, vestiti comoda."
Deglutii nervosa mentre mi veniva dato in mano il foglietto che, rigirandolo fra le dita, conteneva davvero un indirizzo e una serie di indicazioni su come arrivarci ma nessun nominativo o numero di cellulare.
Vestirmi comoda? 
Che razza di richiesta era quella? 
Brendon si era già dileguato, immaginavo che sarebbe stato inutile chiedere spiegazioni. 
La mia polsiera giaceva a terra nella polvere, mi chinai per raccoglierla e rimetterla al polso. 
Era tutto di nuovo come prima. O quasi? 

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Capitolo 5
*** Giorno 2 (Prima parte) ***


Il resto della settimana passò tranquillamente, cosa dovuta all'assenza di Brendon nel banco affianco al mio. Ancora non mi sapevo spiegare come avesse capito cosa nascondevo sotto la polsiera. La afferrai per giocarci con la mano, rigirandola fra il polso. Cosa mascheravo lì sotto era il mio segreto, una macchia sul mio corpo che ancora mi perseguitava e che era stato motivo principale della fuga da casa dei miei genitori.
Era domenica mattina il giorno concordato in cui sarei dovuta andare a casa sua; a fare cosa proprio non lo sapevo, sebbene dovesse garantire il suo silenzio.
Mi guardai allo specchio e afferrai una spazzola dal ripiano a fianco per strigliare i miei capelli. Le occhiaie erano svanite, ma gli incubi notturni no. Con movimenti bruschi tentai di ravvivare i miei capelli e li legai in una coda di cavallo, sarei dovuta andare a tagliarli ma non era il mio aspetto il mio cruccio principale.
Mi lavai i denti con lo spazzolino da viaggio che mi ero portata dietro, nel mobiletto in bagno trovai persino del colluttorio. Mia zia proprio non si faceva mancare niente.
Casualmente l'occhio calò sulle sue lamette usa e getta, ancora confezionate e dentro la plastica.
Serrai le labbra fino a farle diventare bianche: avevo deciso che non ne avrei più maneggiata una in vita mia, indipendentemente dall'uso.
Uscii dal bagno e mi incamminai a piedi nudi verso la mia camera, da lì dentro osservai le finestre dell'appartamento di fronte al mio.
Le persiane erano serrate; nonostante fosse già mattina tardi ancora nessuno le aveva innalzate.
Una cosa, tuttavia, l'avevo capita: Brendon mi aveva dato l'indirizzo di casa sua e, consultando da Google, la sua abitazione si trovava in un quartiere residenziale poco fuori dal centro cittadino. Per raggiungerla avrei dovuto persino prendere l'autobus, quindi non poteva essere lui uno degli inquilini che abitavano di fronte a me.
Ma non potei fare a meno di chiedermi allora chi vi abitasse. Forse la sua fidanzata, forse qualcuna con cui si divertiva di tanto in tanto; magari era una donna anche più grande di lui.
Scossi la testa: non era cosa che mi doveva importare.
Davanti allo specchio dell'armadio finii di vestirmi: avevo indossato dei jeans, una t-shirt e una felpa con la cerniera. Era stato lui a suggerirmi di vestirmi comoda e io, in quel momento, ero il ritratto della comodità.
A mia zia, che ancora non si era svegliata, causa una festa di addio al nubilato di chissà quale collega di lavoro, avevo lasciato un bigliettino sul tavolo della cucina.
Esco con una compagna di classe, vuole portarmi a fare un giro in un centro commerciale della zona. Ho il mio cellulare dietro con me in caso di bisogno.
C'era scritto.
Silenziosamente uscii di casa e dal palazzo senza incontrare nessuno, la fermata dell'autobus distava circa duecento metri a piedi e io avevo una quindicina di minuti a disposizione. Nello zainetto che mi ero portata appresso, oltre al cellulare, avevo solo una bottiglietta d'acqua, il portafoglio e l'ipod per passarmi il tempo.
Mi augurai che, qualsiasi cosa Brendon avesse in mente di fare e di cui aveva bisogno di me, fosse una cosa veloce.
Sperai persino di non pentirmene in seguito.


Quando arrivai a destinazione mi ritrovai in una zona periferica della città, dove le villette a schiera si susseguivano una dietro l'altra. Erano tutte dotate di una entrata indipendente e di un giardino.
A differenza del quartiere dove abitava mia zia, pieno centro cittadino e su una delle strade principali, i clacson erano inesistenti, le rotonde più frequenti dei semafori e i negozi si riducevano a due o tre per via.
Parchi e viali alberati erano visibili dall'altra parte della strada, assieme a collinette e parchi-giochi dove alcuni bambini si divertivano a calciare un pallone.
Questo scenario calmo era molto più simile alla realtà dove vivevo prima, ma non era il luogo che potevo chiamare casa.
Mi colpii le guance, ricordandomi il motivo per cui ero andata fino a lì: la casa di Brendon non doveva essere lontana, ora non rimaneva che chiedere qualche informazione in giro o, in altri casi, attivare il gps del mio cellulare.
Trovai la via che Brendon mi aveva scritto sul foglietto grazie a una anziana signora che portava a spasso il proprio cane. Come avevo visto dal computer la sera prima si trattava di una viuzza interna, un poco lontana da dove l'autobus mi aveva lasciata, ma non troppo.
Le casette, non più a schiera ma delle vere e proprie villette, erano per lo più bianche o dai colori tenui. Quella di Brendon, per intenderci, era celestina, con un ampio giardino, un portico e il cartello "Attenti al cane" che svettava in bella vista attaccato al cancello e vicino alla buchetta della posta.
Ormai non potevo più indugiare, perciò feci appello a tutto il mio coraggio e avvicinai un dito al campanello per premerlo.
"Finalmente sei arrivata." Mormorò qualcuno dietro di me.
Sussultai sul posto, solo per rendermi conto che, ovviamente, si trattava di Brendon.
La sua capacità di sorprendermi alle spalle era notevole, considerato che quella era già la terza volta.
"Ciao." Lo salutai, priva di espressione; saluto che nemmeno ricambiò dato che aveva già inserito la chiave nella toppa del cancelletto e l'aveva aperto davanti a me, facendomi intendere di precederlo.
Quella mattina era stranamente vestito bene: niente abiti trasandati, niente fuori posto. Aveva persino il viso rasato e questo gli faceva risaltare ancora di più la mascella e le maniche rimboccate della camicia mettevano in risalto le sue braccia. Chi sfigurava, piuttosto, ero io nella mia felpa extra-large.
Lo seguii in rigoroso silenzio, fino a che non aprì l'ingresso di casa sua rivelando un grazioso corridoio che portava sino alle scale che conducevano al piano superiore.
"Lasciamo stare i convenevoli." Sputò come se andasse di fretta. "Troverai tutto ciò che ti serve là dentro." E indicò una porticina sottoscala. "E qui l'elenco di cose che devi fare." Mi ritrovai fra le mani un foglio di carta ripiegato. "Al piano di sotto c'è la zona giorno, la cucina e lo studio che sono quelle che mi interessano di più. Al piano di sopra ci sono le camere da letto e i bagni. La lavanderia è là in fondo e ci troverai tutto ciò che ti serve. Ti ho lasciato la chiave attaccata alla serratura, quando esci a buttare la spazzatura ricordati di chiudere e di prendertela con te. Tutto chiaro?"
Tutte quelle informazioni mi avevano fatto storcere le labbra e aggrottare la fronte, nella mia mente realizzai che due più due fa quattro come quattro più quattro fa otto e via dicendo. Inorridii al pensiero che ciò che avevo pensato potesse essere vero.
"Aspetta! Che stai dicendo? Cosa dovrei fare?" Gridai e solo allora ottenni un po' di considerazione.
"La signora che si occupa delle pulizie oggi non può venire, ha il figlio piccolo malato o qualcosa del genere." Rispose seccato. "E domani tornano i miei a casa dopo più di un mese di assenza, non posso mostrare loro la casa in queste condizioni e io devo andare a lavorare. Quindi farai tu la donna delle pulizie oggi."
Avvertii una voragine aprirsi davanti a me: mi ero fatta diverse ipotesi e una simile non mi aveva sfiorato minimamente. Indietreggiai fino al vano d'ingresso.
"Non esiste! Io torno a casa!" Sarei potuta scappare appena in tempo se la sua stretta, che scoprii bella forte e potente, non mi trattenne.
"Aspetta..." Sussurrò quieto. "Pensavo avessimo un patto."
Tirai il braccio, facendo mollare la presa.
"Sì, ma..."
"Non vuoi che domani inizino a circolare voci, vero?" Mi afferrò per il polso, esattamente quello dove tenevo la polsiera e potei giurare di vedergli un ghigno beffardo disegnargli le labbra quando si accorse che, anche quella mattina, la indossavo.
Alla fine era lui che teneva il coltello dalla parte del manico e io potevo solo chinare il capo per nascondermi nella rabbia.
"Va bene." Dissi sommessamente.
"Non ti ho sentito."
"Ho detto che lo farò!" Risposi a voce più alta e solo allora Brendon mi liberò dalla sua stretta.


Mi ritrovai da sola, in una casa a me completamente sconosciuta. Non sapevo nemmeno dove sbattere la testa o come muovermi, fortunatamente nella lavanderia trovai mocci, scope e palette più tutto ciò che mi sarebbe potuto servire. Era tutto organizzato, probabilmente merito della signora delle pulizie che, proprio quella mattina, non si era potuta presentare.
Mi feci coraggio ed entrai in quella che ritenni essere la cucina.
Per poco sfiorai lo svenimento: era tutto all'aria!
Stoviglie sporche erano impilate dentro il lavello, gli strofinacci erano abbandonati a terra o su sedie scaraventate lontano dal tavolo. Sul pavimento erano presenti numerose confezioni di snack aperte e consumate, le briciole erano sparse quasi ovunque. I cuscini dei divani erano tutti stropicciati, i tappeti arricciati e altra immondizia era riversa sotto le poltrone e i tavoli. Sopra quest'ultimi erano presenti lattine di birra schiacciate, bottiglie di vodka e red bull completamente vuote accanto a posacenere pieni zeppi di mozziconi di sigaretta.
Mi venne quasi da piangere mentre ispezionavo le condizioni di quella povera cucina; a un certo punto il suolo della mia scarpa calpestò qualcosa di piccolo.
Mi abbassai per osservare cosa.
Era una confezione piccola e argentata, dalle dimensioni quadrate ma dove al centro svettava una struttura circolare e dotata di un fondo proprio nel centro.
Un preservativo, pensai.
Con un impeto di rabbia lo calciai lontano da me, mandandolo a finire in un angolo.
Altro che malattia! La signora delle pulizie aveva utilizzato la scusa della malattia del figlio per non presentarsi al lavoro quella mattina, ne ero sicura.
Brendon e i suoi amici si erano sicuramente dati alla pazza gioia la sera prima. E io ora dovevo ripulire tutto quello schifo.
Gli occhi mi pizzicavano, era una umiliazione bella e buona essersi abbassata a questo pur di mantenere il mio segreto tale. E non avevo ancora la certezza che l'avrebbe fatto per davvero.
Strinsi i pugni ai miei fianchi, mandando giù quel boccone amaro.
Avrei fatto un lavoro coi fiocchi.
E l'avrei fatto giurare di tenere la bocca chiusa una volta che sarebbe rientrato a casa verso sera.
Mi slacciai la zip e gettai lontano la felpa, restando solo con la mia t-shirt a manica corta: ora era chiaro persino il perché del vestirmi comoda.


Ci vollero ben un paio d'ore per ripulire tutto quanto: dare giù allo sporco delle stoviglie, riempire la lavastoviglie e capire come metterla in moto, sciacquare ciò che non ci era potuto entrare, spazzare a terra, radunare tutta l'immondizia, dare l'aspirapolvere, sistemare il divano e il tavolo, pulire i posacenere e passare lo straccio a terra. A lavoro finito avevo la fronte imperlata di sudore che asciugai con un lembo della mia maglietta. I sacchi pieni di spazzatura li avevo legati e lasciati davanti alla porta di ingresso, li sarei andata a buttare in seguito.
Non potevo che complimentarmi con me stessa, dato che la cucina si presentava molto meglio ora, rendendo l'idea di ciò che doveva essere piuttosto che una discarica.
Ma la casa era grande e io avevo ancora lo studio, i bagni e le camere da letto da passare in rassegna.
E l'orologio a muro nel corridoio mi guardava minaccioso, non avevo tempo da perdere nemmeno con lo stomaco che gorgogliava.
Lo studio si rivelò meno ostico della cucina: era tenuto bene, nonostante l'aria di chiuso che aleggiava e che necessitava di spalancare la finestra. Al centro della stanza un pianoforte a coda dal colore nero brillante faceva la sua bella figura. Lo accarezzai scoprendolo tenuto bene, solo ricoperto da un leggero strato di polvere. Pur non capendo nulla di musica premetti qualche tasto a caso creando una sinfonia strampalata.
Sui mobili attorno a me erano presenti trofei con targhette che non ero in grado di decifrare. La scrivania sotto la finestra era completamente nuda e non mi forniva alcun tipo di indizio. Forse avrei scoperto di più se avessi aperto i cassetti, ma non pareva il caso. Alla fine, non necessitando di chissà cosa, mi limitai a spolverare mobili, mensole, scrivania e pianoforte chiedendomi come mai, in uno studio, non erano presenti né foto né cornici che ritraevano la famiglia per intero.
Per fare un lavoro fatto bene passai l'aspirapolvere anche lì, e un'altra ora se ne era andata.
Non mi rimaneva che accedere al piano superiore che, come sotto, si componeva di un corridoio da cui si accedeva alle camere. In tutto contai due camere da letto e un bagno, più un piccolo ripostiglio che a mio avviso non meritava nemmeno di attenzione.
Brendon mi aveva detto che sarebbe rientrato verso le sei di sera ed erano da poco passate le due del pomeriggio. Feci un rapido calcolo a mente: potevo farcela.


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Capitolo 6
*** Giorno 2 (Seconda Parte) ***


Nel piano superiore aleggiava la stessa aria di stranezza che avevo avvertito per tutta la casa: non c'erano, quadri, cornici, non c'era nulla di nulla che mi permettesse di capire chi fosse Brendon e chi fossero i suoi genitori.
Ricordavo la mia vecchia casa, dove le scale erano tappezzate di foto e stampe mie e dei miei durante le nostre gite, i nostri compleanni o qualche altro avvenimento importante. Qui non c'era niente di tutto questo, l'unico indizio che avevo ricevuto era il pianoforte nello studio e le innumerevoli coppe e targhette chiuse dentro alla bacheca, ma queste non permettevano lo stesso di venire a capo alla domanda cruciale: Chi era Brendon? E i suoi genitori? Che tipo di lavoro facevano per rimanere lontano da casa per così tanto tempo?
Non era da me ficcanasare, tuttavia, in quella assurda situazione, mi era proprio impossibile non pormi delle domande. Forse le camere da letto mi avrebbero dato delle risposte, solo che né il bagno, né quella che -immaginai- essere la camera dei suoi avevano la necessità di essere ripulite; merito sicuramente dell'egregia donna delle pulizie e della sua decisione di prendersi un giorno di permesso ficcando me in questa situazione stramba.
Fu la camera di Brendon, invece, a farmi corrucciare le labbra: avevo già visto le pietose condizioni della cucina e mi era costato ben due ore di fatica per ridarle un aspetto decente; mi augurai di tutto cuore che la sua camera da letto non fosse nelle stesse indecenti condizioni, peccato che appena vi entrai fui investita dall'orribile visione del disordine e dei vestiti gettati a terra e agli angoli senza nessun criterio.
Presi un lungo respiro: dopo aver rimesso a posto la sua camera avrei finalmente finito e mi sarei potuta riposare nell'attesa che lui ritornasse a casa e che io potessi fare lo stesso. Perciò non avevo tempo da perdere e mi misi subito all'opera, a cominciare dal letto.
Ispezionai la sua camera, come avevo fatto con le stanze precedenti: non aveva nulla di diverso da una comune camera da letto di un ragazzo, certo, Brendon aveva la fortuna di disporre di un letto matrimoniale e il che mi fece pensare che in certe situazioni gli tornasse assai comodo, ma il resto era normalissimo: un letto, un armadio, un comodino dotato di lampada, una scrivania su cui era poggiata una televisione a schermo piatto, con affianco una consolle per videogiochi e, poggiato sopra, un netbook portatile. Affianco c'erano persino custodie di videogiochi. alcuni li conoscevo persino io.
Scansai i vestiti a terra per aprire la finestra che dava a un piccolo balconcino esterno, chissà magari in tutto quel caos avrei trovato persino un tesoro.
Aria fredda mi sferzò il volto, la temperatura si stava abbassando di qualche grado. Tornai a prestare attenzione alla camera, osservando i poster attaccati al muro. Erano poster musicali, di gruppi rock, alcuni noti anche a me, mentre altri mi erano totalmente sconosciuti.
Scossi appena la testa, stringendo le labbra come ero solita fare quando facevo qualcosa che sapevo non essere il caso: mi fiondai verso il suo armadio e lo aprii, mucchi di vestiti arrotolati tra loro mi caddero addosso, schiantandosi con un tonfo sordo sul pavimento.
Mi piegai per raccoglierli: magliette, felpe, jeans e tute da casa, tutte dai colori scuri o freddi. Non c'era nulla di strano in questo abbigliamento, anzi era fin troppo normale.
Scavai dentro l'armadio più a fondo, finché le mie dita vennero a contatto con una borsa nera. La tirai fuori, pesante come era, strattonandola un poco, per accorgermi che non si trattava di una semplice borsa: era una custodia. La custodia di una chitarra per essere precisi.
La appoggiai delicatamente a terra e aprii le due zip per svelarne il contenuto. Una chitarra acustica, dal colore marroncino vi era nascosta dentro, assieme a un paio di plettri dal colore grigio argentato.
La adagiai sulle mie ginocchia, studiandola. Nonostante qualche leggero graffio sul corpo era tenuta bene.
Controllai le tasche della custodia, trovandovi dei foglietti ripiegati dentro: erano spartiti di musica con le note scritte a matita, in molti punti c'erano delle correzioni e dei segni rossi, in altri le correzioni erano state del tutto cancellate a biro.
Ora pareva chiaro: Brendon suonava la chitarra, chissà di chi era, allora, il pianoforte giù di sotto. Forse del padre? Forse la sua famiglia amava la musica classica?
Alzai appena il viso e l'occhio cascò verso l'angolo dell'armadio dove un'ombra e qualcosa che sporgeva attirò la mia attenzione; riposi la chitarra nella sua custodia, facendo attenzione a non graffiarla, e gattonai verso l'angolo di mio interesse.
Anche lì vi era una chitarra!
Ma era una di quelle elettriche, dai colori blu e rosso sfavillanti, con i cavi ancora attaccati.
Ok, ora pareva ancora più chiaro che a Brendon piacesse suonare la chitarra se addirittura ne aveva due. Però si trattava solo di questo, non che avessi scoperto poi molto.
Decisi allora di darmi un'ulteriore possibilità aprendo i cassetti del comodino, chiedendomi chissà cosa aspettavo di trovare.
Dentro vi era un po' di tutto: dai pettini al gel per capelli e persino qualche profumo e qualche deodorante da uomo.
In un altro cassetto c'erano delle foto: queste sì che erano decisamente più interessanti da guardare!
Le osservai una a una: erano foto fatte tra amici, feste, compleanni, persino lauree di ragazzi più grandi. Da quel che potevo vedere aveva un sacco di amici e conoscenti, in alcune era persino ripreso da solo con la chitarra in mano.
Ma in nessuna di queste compariva una persona adulta, in nessuna pareva esserci lui con uno dei suoi genitori. Rimurginai sulla cosa e, non trovando una risposta, mi picchiettai le guance con i palmi delle mani: avevo perso fin troppo tempo e io dovevo finire prima che lui ritornasse a casa. Mi rimboccai nuovamente le maniche, rimettendo a nuovo anche quella stanza, senza trascurare il minimo particolare: Brendon non doveva appoggiarsi a nulla per venire meno alla parola data. In poco più di un'ora quella camera da letto tornò come nuova.
Quando scesi al piano terra erano ormai le cinque e mezza del pomeriggio passate e il cielo stava assumendo i colori dell'imbrunire. Pregai che il suo ritorno non ritardasse troppo mentre aprivo il frigo e vi sbirciavo dentro: avevo fame e non avevo mangiato, in più c'erano dei sandwich al tonno e maionese davvero invitanti per il mio povero stomaco. Ne afferrai uno e lo scartai dalla pellicola, mentre con l'altra mano ero indaffarata a mandare un messaggio a mia zia per rassicurarla su dove mi trovavo. Sullo schermo del mio cellulare, difatti, lampeggiavano già due chiamate senza risposta e un messaggio.  Ovviamente, mi inventai che ero ancora in compagnia della mia compagna di classe: si trattava di una bugia a fin di bene. Una volta scritto e inviato silenziai il mio smartphone e osservai lo schermo nero del televisore posto di fronte a me. Afferrai il telecomando, decisa a fare zapping per passare il tempo e mi gettai a sedere su una poltrona, poggiando persino la testa sul poggiatesta per non farmi mancare niente. In Tv i canali non offrivano nulla di interessante, nemmeno quelli musicali. Sbadigliai realizzando solo in quel momento quanto stanca fossi effettivamente, ero comunque decisa ad aspettare sveglia il ritorno del padrone di casa.
Tuttavia ci vollero solo un paio di minuti per far sì che il telecomando sfuggì alla mia mano, cadendo a terra, e le palpebre cedettero al sonno da quanto erano pesanti.


Erano ritornati, gli incubi erano ritornati.
Non erano veri e propri incubi, i dottori mi avevano fornito tutte le spiegazioni scientifiche del caso per rassicurarmi: si trattava di illusioni ipnagogiche o ipnopompiche a seconda se si verificavano prima o dopo la veglia.
Il soggetto affetto da questo disturbo, come me, percepisce attorno a sé contatti talmente vividi da prenderli per reali.
Nel mio caso queste illusioni erano affiancate persino da una paralisi del sonno: potevo vedere, per quanto la mia vista riusciva a mettere a fuoco, ma non potevo muovermi ed era questo ciò che mi spaventava di più perché, ogni volta, sentivo come una presenza attorno che sussurrava il mio nome e che avrebbe anche potuto farmi del male se non mi fossi mossa in tempo.
I dottori mi avevano avvertita che nulla era reale, ma queste allucinazioni erano così chiare da farmi assalire dal terrore ogni volta che si presentavano.
In particolare, in quel frangente, oltre la porta chiusa della cucina, mi pareva che ci fosse qualcuno pronto ad irrompere dentro e io non avrei potuto fare assolutamente nulla per fermarlo; fuori, dall'esterno, mi sembrava persino di udire il latrare di un cane.
No, chiunque fosse era entrato: riuscivo a sentire dei passi. Dovevo assolutamente riprendere il controllo del mio corpo prima che fosse troppo tardi.
Nulla riuscii a fare, quella presenza era già vicina a me e si stava abbassando sul mio viso, ciocche di capelli mi venivano spostate via da una guancia. Improvvisamente avvertii un dolore al lobo sinistro, assieme a qualcosa di aguzzo che premeva sulla mia carne. Urlai di rimando: erano denti e quando i miei sensi si stabilizzarono trovai il viso di Brendon a pochi centimetri dal mio. Mi stava scrutando, con i suoi occhi grigi taglienti.
"Addormentarsi in casa di sconosciuti? Non è molto saggio, tu che dici?" Mi parlò nell'orecchio, solleticandomi col suo fiato fino a farmi alzare di scatto. Lo scansai di lato, inciampando nel telecomando ancora a terra.
Brendon si chinò a raccoglierlo per poi adagiarlo sul tavolo.
"Stai bene?" Mi domandò, notando che io non parlavo.
Ripresi fiato, finalmente il contatto con la realtà stava ritornando. Scossi la testa affermativamente, poi rimasi immobile.
Nemmeno Brendon parlò, poi iniziò a sondare la cucina con lo sguardo e, infine, emise un fischio di approvazione.
"Però!" Esclamò. "Quasi perfetto!"
"Sì, beh..." Mi decisi a parlare. "Mi è costato solo due ore di fatica." Calcai. "Ora che sei tornato direi che posso tornarmene a casa, no? Ho fatto ciò che volevi quindi, adesso, puoi anche promettermi che non ci saranno storie su di me a partire da domani, vero?" Gli ringhiai contro, sotto sotto però la mia voce era supplicante.
"Non così in fretta..." Borbottò lui e io sentii un macigno cadermi addosso. "C'è ancora qualcosa che non hai fatto."
Assottigliai gli occhi, guardandolo malissimo, fino a quando non udii un cane abbaiare da fuori, in cortile.
Andai alla finestra per vedere un pastore tedesco di colore marrone scuro rotolarsi nell'erba. Sperai che ciò che ancora non avevo fatto non avesse a che fare con questo cane.
"Deimos!" Mormorò Brendon, dietro di me. "Era dal veterinario per fare alcuni vaccini, e ora che è tornato a casa penso che non veda l'ora di sgranchirsi un po' le gambe." Mi ritrovai improvvisamente un guinzaglio fra le mani. "Perché non lo porti a fare una passeggiata nei dintorni mentre io vado a farmi una doccia?"
Non mi diede il tempo per replicare che già era sparito, salendo le scale.
"Oh, e già che ci sei, compra qualcosa per la cena!" Mi gridò dal bagno, mentre io ero rimasta ferma e immobile osservando il guinzaglio.
Avevo già fatto tanto... un piccolo sforzo in più non mi sarebbe costato nulla, giusto?
No, diamine! Non c'era mai fine al peggio!
Imprecai fra me e me mentre andavo incontro a quel cucciolo, ancora intento a grattarsi la schiena contro l'erba del giardino.


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Capitolo 7
*** Giorno 2 (Terza Parte) ***


Mi avvicinai a Deimos con cautela: non avevo paura della sua stazza, ma era pur sempre un cane che non mi conosceva, quindi poteva diffidare di me e iniziare a ringhiare. Non appena Deimos si accorse della mia presenza, infatti, smise di rotolare nell'erba e si immobilizzò, restando a fissarmi, forse per capire le mie intenzioni. 
Da piccola mi avevano insegnato che non è mai cosa giusta piegarsi su un cane che non si conosce, potrebbe essere frainteso dall'animale come una postura di minaccia; al contrario inginocchiarsi davanti a lui è la cosa migliore da fare, in quanto si rimarrebbe alla stessa altezza dell'animale. Questo è ciò che feci: mi inginocchiai davanti a Deimos e lasciai che fu lui, per primo, a venire da me. 
A giudicare dall'aspetto Deimos doveva essere poco più di un cucciolo, tuttavia era già grande abbastanza da arrivarmi alle ginocchia, se mi fossi alzata in piedi. 
Quando riconobbe che le mie intenzioni non erano ostili lo vidi avanzare piano, con occhi curiosi e la lingua penzolante fuori dalla bocca; capii che quello era il momento giusto per fargli vedere che ero un'amica: allungai una mano verso di lui per fargli annusare il mio odore, di modo che potesse conoscermi. Solo allora il cane mutò il suo atteggiamento, capendo che non avevo intenzioni cattive ed ero andata da lui solo per giocare. Difatti Deimos abbaiò un paio di volte per poi sdraiarsi sull'erba a pancia all'aria, in un chiaro segno che voleva essere accarezzato. 
"Ok, ok!" Risi, facendogli qualche grattino sulla pancia. "Sei sicuramente più bello del tuo padrone!" 
Si lasciò accarezzare e fare qualche coccola, per poi continuare a rotolare sul prato e a guardarmi di tanto in tanto come a invitarmi a giocare con lui. 
Da quel che avevo potuto capire sembrava un cane socievole, dal suo aspetto ben tenuto e dal pelo lucido potevo persino intuire che Brendon avesse molta cura di lui. 
Disperso nell'erba trovai un giochino per cani a forma di osso con un sonaglio attaccato e lo usai per richiamarlo a me, non appena di accorse che stringevo in mano il suo giocattolo, difatti, il cane corse dalle mie parti e io fui veloce abbastanza da alzarmi in piedi e allontanarglielo: Deimos si mise seduto sulle zampe, abbaiando un paio di volte e scuotendo la sua enorme coda. 
Quello era il momento adatto per infilargli il guinzaglio. 
"Il tuo padrone dice che hai voglia di muoverti e si vede." Scherzai, facendo passare il guinzaglio attorno al suo collo. "Ma oggi sarò io a farti fare la passeggiata, sei contento?" Deimos latrò in risposta. 
Agganciai il guinzaglio al collare e strinsi forte la presa, subito Deimos puntò al cancellino che dava fuori, sulla strada. Per un attimo vacillai, aveva davvero forza nel tirare. 
"Ehi, ehi! Cerchiamo di andare d'accordo, ok?" Lo ammonii ridendo, cercando di rafforzare la presa per evitare che fosse lui a trascinare me. 
Con uno strattone gli feci capire che la nostra passeggiatina serale avrebbe avuto inizio.

Nonostante fosse ormai orario di sera le strade del quartiere dove abitava Brendon continuavano a rimanere tranquille e per nulla trafficate, il bagliore del sole che tramontava dava all'asfalto un colore dorato e sui marciapiedi le foglie morte degli alberi continuavano a cadere come pioggia. Alcuni ragazzini passeggiavano mangiando cialde farcite, i pochi negozi presenti sulla via più trafficata iniziavano già ad abbassare le serrande, mentre persone anziane si radunavano nei bar e nei circoli per chiacchierare fra loro. 
Mi lasciai guidare da Deimos per le strade, prima arrivando in un parco pubblico per poi proseguire per viali alberati, parcheggi e palazzetti sportivi. 
In realtà non mi ero allontanata più di tanto, per essere più precisi avevo girato in tondo esplorando in qua e in là quella zona residenziale. 
Ogni tanto Deimos tirava e abbiava quando scorgeva altri cani, altre volte si fermava per marchiare il territorio ma, in ogni caso, non mi diede alcun particolare problema e la nostra passeggiata durò sui venti-trenta minuti quando decisi che era ormai ora di ritornare indietro. 
"Se non fosse che il tuo padrone vorrebbe qualcosa per cena..." Mormorai esasperata a Deimos e lui mi guardò beffardo, come se avesse capito il motivo del mio turbamento. 
Non avevo idee su cosa comprare per cena, soprattutto dove. Certo c'erano delle rosticcerie ancora aperte, ma non conoscevo i gusti di Brendon e potevo rischiare di comprare qualcosa che poi avrebbe finito per lanciarmi dietro. 
"Meglio evitare." Pensai, non avevo nemmeno così tanti soldi con me. 
Improvvisamente, girando un angolo, un odorino di pizza cotta a legna passò sotto il mio naso. La scritta "pizzeria d'asporto", illuminata dai led, fu la prima cosa che i miei occhi colsero. Una mamma con due bambini stava uscendo dal negozietto reggendo in mano due cartoni fumanti. 
Guardai Deimos, sperando in un segno affermativo. 
"Cosa ne pensi?" Gli sorrisi. "Andiamo a colpo sicuro, no?" 
Per tutta risposta il cane iniziò a tirare verso la pizzeria con ancora più forza.

"Esattamente..." Commentò Brendon mentre sollevava il coperchio della pizza. "Cosa ti ha fatto pensare che a me piace la pizza?" 
Quando ero rientrata nella sua casa l'avevo trovato in cucina, intento a bere dell'acqua tonica direttamente da una bottiglietta recuperata dal frigo. Aveva ancora i capelli bagnati, per questo teneva un asciugamano sulle spalle e si era cambiato con abiti più comodi come una maglietta e dei pantaloni larghi. Nonostante non fosse più estate la maglietta aveva le maniche corte e notai che anche ai piedi non indossava calze. 
Sebbene non avevo più motivi di dover rimanere mi aveva chiesto -ordinato- di non andarmene. 
"Che noioso che sei!" Gli gridai dietro. "La pizza piace a tutti! Se non ti piacciono le verdure scarta quelle, se sei vegetariano scarta la salsiccia! Ho scelto una combinazione perfetta!" 
Pizza salsiccia e radicchio, era stata quella la mia scelta. Quando il commesso della pizzeria mi aveva chiesto a che gusto la volevo ero andata totalmente nel panico, iniziando a biascicare parole totalmente senza senso. Avrei potuto prendere la classica margherita, ma -diamine- la scena di un Brendon che mi prendeva in giro si era formata nella mia mente esattamente come il fumetto di un cartone animato. Alla fine mi ero lasciata consigliare dal commesso. 
"Per tua fortuna non sono vegetariano e la salsiccia mi piace." Commentò poi, e la tensione che avevo accumulato scivolò via dalle mie spalle. "Tu non mangi?" Mi domandò dopo, mentre era intento a tagliare la pizza a metà.
"Eh, uhm..." Come spiegare che non avevo abbastanza soldi con me per comprarne due? Soprattutto quando speravo che quello fosse il mio ultimo incarico e dopo sarei stata libera di tornarmene a casa? 
"No money?" Mi domandò burlone e io gli lanciai un'occhiataccia. 
"Non avevo messo in conto di dovermi fermare ancora!" Gli risposi stizzita. 
Brendon non mi rispose, al contrario rimase in silenzio intento ad armeggiare con la sua pizza. Io stessa distolsi lo sguardo da lui, almeno fino a che qualcosa non scivolò dalla mia parte: si trattava di un trancio di pizza avvolto in un tovagliolo. 
"Non è comunque divertente mangiare da soli." Commentò lui, prendendomi come esempio e guardando altrove: fuori dalla finestra non c'era più luce. 
Afferrai la pizza per mangiarne qualche boccone mentre lui finiva la sua, era diventata un po' fredda ma per il mio stomaco affamato era buona lo stesso.
"Mh, Brendon... tu vivi qui da solo?" Mi azzardai a chiedere: si era creato un silenzio fin troppo imbarazzante. 
Brendon non rispose subito, si prese del tempo prima pulendosi le labbra con il pollice: aveva ancora i capelli bagnati, attaccati ai lati del viso e l'asciugamano sulle spalle. 
"I miei viaggiano per il mondo, tornano a casa di rado." Tirò un sospiro, prima di riprendere. "Quando loro non ci sono sarebbe mio zio a prendersi cura di me, ma lui ha la sua famiglia e abita fuori dalla città. Ha due bambini piccoli, non sarebbe giusto che si accollasse anche me... e poi io sono abituato a vivere da solo." Concluse ridendo. 
"Mmm... che lavoro fanno i tuoi?" Mi sentivo a disagio, non volevo impicciarmi troppo della sua vita privata ma anche restare continuamente in silenzio mi creava imbarazzo: alla fine, non sapendo cosa chiedere, quella fu la domanda più naturale da porre. 
Brendon non rispose subito: lo vidi prima farsi pensieroso, poi decidersi a darmi una spiegazione.
"Lavorano come musicisti, mia madre suona il violino, mio padre il pianoforte. L'avrai visto nel suo studio, no? Beh quello è il suo." 
In un attimo ricollegai il tutto. 
"Oh, quindi sei figlio d'arte? E tu suoni la chitarra? Le ho viste nella tua camera mentre mettevo a posto." Mi lasciai scappare e capii di aver detto troppo quando Brendon mi guardò malizioso. 
"Ah, quindi hai curiosato?" 
Mi ritrassi indietro per la vergogna, portandomi le dita alle labbra. Avevo detto, decisamente, troppo. 
"Le ho solo notate mentre mettevo a posto." Sussurrai a occhi bassi. 
"La suono da quando ero piccolo." Mi raccontò Brendon, togliendomi da quella situazione imbarazzante. "I miei mi hanno fatto provare diversi strumenti musicali. So suonare la chitarra, sì, ma anche il piano, il violino e un po' il flauto." Ammise con tono naturale. 
I miei sospetti che potesse non avere i genitori si erano dipanati, tuttavia continuai comunque ad avere il sentore che ci fosse qualcosa che non voleva dirmi. Non sembrava contento che i suoi ritornassero, piuttosto appariva molto indifferente alla cosa. 
Decisi di non indagare ulteriormente sulla cosa, non sarebbe stato nemmeno carino e avrebbe potuto pensare che fossi una ragazza invadente. 
"Dimmi di te." Mi risvegliò con quelle parole, facendomi sollevare la testa. "Quella..." Guardò il mio polso. "Come te la sei fatta?" 
Il tono di voce che aveva usato mi portò instivamente a coprimi il polso marchiato e nasconderlo sotto il tavolo. Distolsi gli occhi da lui, serrando le labbra. 
"Non voglio parlarne." Ammisi, sperando che la smettesse di fissarmi. 
"Da qua." Allungò la sua mano verso di me, chiedendo la mia. Avevo capito cosa voleva fare e io non volevo. Non c'era nulla di bello in quel polso tutto tarchiato e io ne provavo vergogna. 
"No..." Mugolai, stringendomi appena nelle spalle e rafforzando la presa sul mio polso. Ma, evidentemente, Brendon non conosceva il significato della parola no dato che lasciò scivolare la sua mano sulla mia, tirandomela appena fuori dal suo nascondiglio. Con le dita sfilò la polsiera, rivelando la pelle più interna. Aveva mani davvero belle, dovevano esserlo per davvero se sapeva suonare ben quattro strumenti musicali. 
"Ti prego..." Lo implorai quando mise a nudo la mia cicatrice e tutta la zona rossa che vi era attorno. La studiò con attenzione, ignorando le mie proteste. 
"Non dovresti farti cose simili..." Mormorò stringendo appena gli occhi e posando le labbra sulla cicatrice più grande, in un contatto gentile e delicato. Lo guardai spaventata, nessuno aveva toccato la mia cicatrice in quel modo finora in più non avevo capito per niente cosa aveva detto prima da quanto ero stordita dalla situazione in sé. Quando si staccò mi lasciò anche andare il braccio e la prima cosa istintiva che feci fu andare a coprire quella parte lesionata con la mia polsiera di fiducia. 
"Sai, conosco qualcuno che ti è molto simile..." Lo sentii mormorare mentre nascondevo di nuovo il mio polso alla vista di tutti. 
"Eh?" 
I suoi occhi si alzarono sull'orologio a muro. 
"Quando hai il prossimo autobus?" 
Fissai anche io l'orologio, mettendo a fuoco nella mia mente la tabella degli orari del ritorno. 
"Oh! Fra venti minuti! Sarà meglio che io vada!" Mi alzai di scatto, ridestandomi da quella situazione stramba per afferrare zaino e felpa. Non volevo perdere l'autobus, anzi stavo già per dirigermi alla porta se non fosse stato per Brandon che mi aveva bloccato per il gomito. 
"Aspettami, ti accompagno." 
Rimasi stupita e immobile mentre dal corridoio afferrava la giacca.

Nonostante camminavamo fianco a fianco nessuno di noi due parlò, come se gli argomenti fossero esauriti di colpo. 
Io ripensavo a quanto successo prima e a altre cose in generale, mentre Brandon camminava disinvolto a passo col mio. 
"Mh, Brendon?" Lo chiamai. "Riguardo a me..." Iniziai, dovevo essere sicura che, a parte lui, non si sarebbe lasciato scappare una singola cosa che mi riguardasse. 
Intuendo, probabilmente, ciò che volevo chiedergli lo vidi aggrottare le soppracciglia e farsi serio. 
"Non avrei detto nulla comunque." Confessò. "Mi serviva solo qualcuno che mi aiutasse a rimettere a posto la casa, i miei sono molto severi quando ritornano."
Annuii in risposta, da lontano si iniziava a scorgere la pensilina della fermata. 
"Io, sai, mi sono fatta un'idea diversa di te oggi." Gli riconobbi. "Ma, allora, perché l'altro giorno ti sei comportato così con Fabian?" 
Il suo passo si arrestò, forse non aspettandosi una simile domanda, per poi riprendere tranquillo. 
"Io e lui siamo sempre così." Rispose semplicemente. 
"Ma lui sembra una persona così gentile e ben disposta! Ho sentito molte voci in questi giorni a scuola ed erano tutte belle voci!" 
"Quindi che idea ti sei fatta?" Mi domandò, voltandosi dalla mia parte. 
Quella domanda mi spiazzò: ero ben conscia di non potere giudicare una persona solo dalle voci che circolavano, ma tutte le volte che Fabian mi aveva incrociato nel corridoio si era fermato a salutarmi e a farmi domande sulla mia integrazione a scuola. 
"Credo... sia una persona buona e gentile." Esitai a rispondere. 
Eravamo ormai arrivati alla fermata e Brendon si fermò per girarsi dritto davanti a me. Mi guardò dall'alto, facendomi sentire piccola piccola. 
"Se lo conoscessi meglio ti accorgeresti, allora, che lui non è affatto né buono né gentile." 
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma Brendon mi precedette. 
"Tuttavia penso che dovresti frequentarlo, sai? Tu e lui siete... come posso dire... simili? Sì, credo che potreste capirvi a vicenda." E sottolineò la frase in un modo così derisorio e ambiguo da farmi infuriare. Alzai un pugno con l'intenzione di colpirlo per scherzo sulla spalla, quando in lontananza vidi il mio autobus avvicinarsi e farmi desistere dal mio obbiettivo. 
"Beh, è stato un piacere lavorare per te! Ti saluto!" Afferrai saldamente una spallina del mio zaino per correre verso la fermata, prima però venni fermata da Brendon che mi sventolò davanti al naso una busta bianca. 
"Dimentichi questa. E comunque non ho mai detto che avresti lavorato gratis." Sfoggiò il suo arguto sorriso prima di incitarmi a sbrigarmi. "Ora vai, a domani." Mi salutò e io ricambiai correndo verso il bus già fermo in attesa. 

Seduta sul sedile aprii la busta bianca rivelando il contenuto che si mostrò esattamente ciò che pensavo: la paga della giornata. Se non altro era stata fruttifera, però avrei dovuto nascondere quei soldi nel mio portafogli se non volevo dare delle noiose spiegazioni a mia zia. 
L'autobus sfrecciò verso il centro cittadino addentrandosi nel caos e nelle rotonde, dai finestrini potevo vedere le insegne accese dei ristoranti, dei pub e dei locali notturni. Quando il display illuminò la mia fermata premetti il tasto per prenotarla e scesi facendomi largo fra la gente che voleva salire. La mia zona era totalmente diversa da quella dove abitava Brendon, più frenetica e molto più frequentata. Alle mie orecchie arrivavano persino accenti stranieri. 
Vento freddo mi fece rabbrividire, portandomi ad alzare il colletto della felpa e a calare il cappuccio sulla mia testa. A passo svelto mi trascinai fuori dalla folla e tentai di ricordare la vià più breve per arrivare a casa, tuttavia qualcuno mi strattonò portandomi a imprecare mentalmente. 
"Selena?" 
Riconobbi la voce di Fabian, quando mi girai, difatti, lo trovai dritto davanti a me che mi guardava sorpreso esattamente come lo ero io. Oltre alla giacca teneva legata al collo anche una sciarpa di colore grigio chiaro.
"Oh, scusa!" Si scusò per primo. "Non ero sicuro fossi davvero tu." 
"Ciao Fabian!" Lo salutai incredula di trovarmelo lì davanti. "Stai tornando a casa?" Mi venne da chiedergli. 
"Come mai sei in giro da sola?" Mi domandò dubbioso ricevendo un mio sguardo interrogativo. "Scusami, non mi volevo impicciare." Rise imbarazzato, facendo sì che venisse da ridere anche a me. 
"Sono andata ad esplorare la città!" Allargai le braccia, ricordandogli che ero nuova di quelle parti. 
"Ah, e come l'hai trovata?" Chiese con voce educata e interessata.
Mugolai pensierosa in risposta, non sapevo che cosa dire dato che non avevo visto poi nulla di significativo e di questo Fabian se ne accorse. 
"Avrai modo di poterla esplorare ancora meglio." Convenne al posto mio. "Stai andando verso casa? Vuoi essere accompagnata?" 
Mi sopresi da quanto poteva essere ben disposto e galante nei miei confronti sebbene non ci conoscessimo per niente. Tuttavia scrollai la testa con decisione, non volevo dare disturbo se non era necessario. 
"Non serve, abito vicino!" Lo rassicurai e ci salutammo consci che ci saremmo rivisti il giorno dopo a scuola. 
Prendemmo strade completamente opposte, tuttavia dopo qualche passo indugiai sulla sua figura che si allontanava e si disperdeva fra la calca di gente che camminava per le vie del centro cittadino. Mi tornarono in mente le parole di Brendon, che l'aveva additato come non gentile e non buono come appariva. Chissà cosa voleva dire e soprattutto come poteva dirlo? 
In più, la città era davvero grande: il fatto che ci fossimo incontrati casualmente era davvero strano, che abitasse anche lui da queste parti? 

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Capitolo 8
*** Giorno 3 (Prima parte) ***


Il lunedì mattina iniziò in modo del tutto normale, esattamente come dovrebbe essere l'inizio di una nuova settimana scolastica; le verifiche e le interrogazioni erano sempre dietro l'angolo, fortunatamente i professori si erano dimostrati benevoli nei miei confronti grazie anche all'intervento di Eris che aveva interceduto per me. 
Oltre a lei non avevo ancora creato legami con nessuno all'interno della mia nuova classe: certo molte ragazze si erano dimostrate incuriosite nei miei confronti, all'inizio, facendomi domande anche a livello personale, ma la cosa era nata e morta lì. 
Ovviamente erano tutte molto cordiali verso di me, tuttavia non si poteva dire che avessero poi fatto chissà quali passi nella mia direzione. 
D'altro canto non potevo nemmeno biasimarle, poiché io stessa avevo spesso evitato la loro compagnia. 
Di tutto questo vorrei anche aggiungere che entrare a fare parte di un gruppo, quando questi si è già consolidato, è estremamente difficile: le mie difficoltà ne erano la prova. 
Appoggiai il palmo della mano al mento, per poi voltarmi pensierosa alla mia sinistra, troppo distratta alla lezione. 
Il banco di Brendon era vuoto, nonostante la sera prima c'eravamo salutati con la consapevolezza che ci saremmo rivisti il giorno seguente. 
Fu naturale chiedermi se la sua assenza era dovuta all'imminente arrivo dei suoi genitori. Sicuramente era stato così: aveva preferito restare in loro compagnia piuttosto che venire a sorbirsi quella noiosa ora di scienze naturali. Chissà se i suoi genitori erano a conoscenza delle numerose assenze che collezionava a scuola? Brendon era stato vago sull'argomento, definendoli solo come molto severi. 
Provai ad immaginarmeli: sicuramente erano due bei signori di quasi mezza età, dotati di classe e di eleganza che si esibivano in tour in giro per il mondo. Magari il papà da giovane aveva avuto gli stessi capelli color cenere del figlio, mentre la madre era dotata di grandi occhi grigi. 
Sbuffai; la sera precedente, una volta tornata a casa, ero così stanca che ero finita per andare a letto quasi senza cenare; nemmeno mi aveva sfiorato l'idea di poter fare una ricerca su internet a riguardo.
Decisi che dare un volto ai genitori di Brendon sarebbe stato il primo dente da togliermi appena tornata a casa, come faceva di cognome pure? 
Sospirai, nemmeno li ricordavo tutti i cognomi dei miei nuovi compagni di classe. 
Presi in mano la matita e iniziai a scribacchiare colta dalla noia, chiedendomi come sarebbe stata quell'ora se al mio fianco ci fosse stato Brendon. Sicuramente più divertente: lo immaginai sbadigliare annoiato, dondolandosi appena sulla sedia, almeno fino a che il professore, girando fra i banchi, non gli avrebbe intimato di prestare attenzione alla lezione. 
Allargai le labbra in un sorriso nascosto. Se lo si conosceva meglio Brendon risultava essere persino divertente, oltre che sfacciato. 
Ripensai poi alle parole che aveva rivolto a Fabian; qualcosa del tipo che la sua gentilezza era fasulla. Come poteva essere? 
Nemmeno mi resi conto della fine della lezione fino a quando non vidi la mano di Eris appoggiarsi sul mio banco; alzando gli occhi la notai fissarmi fino a quando non le chiesi di cosa aveva bisogno. 
"Sai, ho pensato che non ti sei ancora iscritta a nessun club scolastico." 
Inclinai appena il viso: anche in questo liceo erano fissati con le attività extra-scolastiche?
"Dovresti farlo." Mi consigliò con un sorriso. "Ti aiuterebbe a integrarti." 
La guardai in malo modo, sperando che capisse che non c'era bisogno di girare il coltello nella piaga, soprattutto quando non era affatto necessario. Tuttavia Eris non era famosa per capire le cose subito e al volo. 
"Abbiamo tanti club fra cui scegliere: da quelli sportivi a quelli ricreativi. Nella tua vecchia scuola quale frequentavi? Possiamo iniziare da quello." Scossi il capo. 
"Non ne frequentavo neanche uno." Risposi schietta: era la verità, avevo altre gatte da pelare per dedicarmi a delle attività supplementari. 
Eris corrucciò le labbra, delusa dalla mia risposta. 
"Allora hai qualche preferenza in particolare?" 
"Nessuna." Le risposi disinteressata, poggiando una guancia contro il palmo della mano destra. 
"Io faccio parte del club di pittura e disegno! Vuoi provare a vederlo? Non siamo in tanti e siamo sempre alla ricerca di nuovi membri." Si puntellò il petto con un pollice e io capii che, o le davo corda, o lei non si sarebbe arresa tanto facilmente.
In più il suo tentativo di reclutare nuovi membri, se di questo si trattava, era stato davvero scadente.
"Va bene, Eris. Entrerò a far parte di un club, ma solo a patto che tu me li mostri uno a uno. Dopotutto sei la mia rappresentante." Le risposi con un ghigno divertito sul volto; nel tentativo di formulare una risposta coerente la vidi persino sbiancare.
"V-va bene. A-allora che ne dici se ci troviamo in mensa dopo la pausa pranzo? Oggi non ci sono lezioni di pomeriggio e sicuramente troveremo la maggior parte dei club aperti." 
Le annuii decisa mentre lei continuava a tormentarsi le sue ciocche rossiccie di capelli, inspiegabilmente le sue guance erano diventate persino più rosse. Provai quasi imbarazzo per averla messa a disagio.
"Allora siamo d'accordo! Dopo pranzo in mensa, ok?" E sfrecciò via lasciandomi finalmente sola con i miei pensieri. 
A cosa stavo pensando prima che arrivasse lei? Ah, sì. Brendon e Fabian. 
Che strano ritrovarsi a pensare a due ragazzi contemporaneamente.

Eris era stata puntuale e di parola, facendosi trovare esattamente in mensa una volta terminata l'ora di pranzo; mi guidava per i corridoi parlottando del più e del meno. 
"Per primo vorrei mostrarti il mio club; siamo in pochissime, per lo più ragazze, per questo spero che ti vorrai unire a noi." Si fermò davanti ad una porta e la spalancò, rivelando un aula piena di banchi vuoti, moltissimi fogli colorati attaccati alle pareti e alcune tele da disegno imbrattate di pittura. Solo un banco era occupato a sedere da una ragazza curva su un foglio da disegno, intenta a tracciare linee tenendo una matita in mano. 
Eris la salutò per poi chiederle dove fosse la loro presidentessa e quella ragazza non staccò gli occhi dal suo disegno nemmeno per un attimo, rispondendo solo che non era ancora arrivata.
"La vado a cercare." Rispose Eris con un sorriso. "Tu perché non dai un'occhiata ai nostri disegni e alle nostre tele?" E detto questo la rappresentante corse via sparendo dietro l'angolo in direzione delle scale, probabilmente sapendo già dove andare. 
Avanzai all'interno dell'aula, diretta verso la ragazza intenta a disegnare: non aveva staccato l'attenzione al suo disegno nemmeno per un secondo. La osservai in silenzio: era minuta e magra, con una cascata di capelli neri e lisci che le ricadevano sul viso e la frangetta che le nascondeva gli occhi impegnati a tratteggiare chissà cosa. 
"Ciao!" La salutai quasi a disagio. "Io sono Selena, forse sarò un nuovo membro del club." Molto forse, avrei voluto dire. 
Finalmente mi diede qualche attenzione, sollevando il viso e rivelando due occhi piccoli color pece e due labbra minute e rosse sulla pelle bianca. 
"Lo so chi sei. Siamo in classe assieme." Mi rispose e io gelai all'istante. Che cosa aveva appena detto? Stentavo a crederci, che figura di merda avevo appena fatto?
"Non devi preoccuparti se non ti ricordi di me." Continuò lei, leggendomi nel pensiero. "In classe io sono invisibile, nessuno mi presta attenzione." Abbandonò la matita al lato del foglio per poi alzarsi in piedi. "Mi chiamo Letty, piacere." 
"Piacere, cosa stai disegnando?" Le domandai ancora spaesata dalla sua risposta e al tempo stesso incuriosita, allungando l'occhio verso il foglio su cui stava lavorando. 
Letty sollevò il foglio fino a porgermelo in mano. 
"Nulla di che, è un bozzetto." 
Osservai il disegno: se quello si chiamava bozzetto chissà allora che nome dovevano avere i miei scarabocchi; Letty aveva disegnato una fata inginocchiata, con ampie ali a farfalla e una veste adornata di pieghe e ghirigori, le proporzioni erano pressoché perfette e le linee del disegno andavano dalle più morbide alle più dure, segno della immensa cura che ci aveva messo. 
"Sei davvero brava: è bellissimo." 
Letty incurvò le spalle, forse a disagio dalle mie parole. 
"Mai quanto la presidentessa." Asserì. "Guarda tutti i disegni attaccati alle pareti: sono opera sua."
Avevo già notato come i muri fossero tappezzati da quadri e disegni, ma non riuscì a guardarli attentamente a causa di Eris che era ritornata indietro.
"Niente, dobbiamo proseguire il nostro giro." 
Annuii e la affiancai, dopo aver salutato Letty che, silenziosamente, era ritornata a dedicarsi al suo disegno. 
Poiché i club sportivi non mi interessavano e io non ero poi una gran sportiva mi rifiutai categoricamente di vederli, Eris mi condusse allora ai laboratori di cucito, descrivendoli come uno dei laboratori più interessanti. E quando le chiesi il perché mi rispose solo che avrei visto con i miei occhi. 
Quando Eris spalancò la porta dell'aula adibita al club di cucito mi trovai davanti a un surreale camerino in subbuglio, con manichini in polisterolo mezzi vestiti e abiti sparpagliati a terra. Avrei voluto chiedere ad Eris se la cosa fosse normale, ma il suo sorriso raggiante mi fece capire che sarebbe stata una domanda fuori luogo. 
"Lya! Alex! Vi ho portato un nuovo membro!" 
Con chi stava parlando proprio non me ne rendevo conto. 
"Seriamente Alex..." Tuonò una voce femminile da un punto indefinito della stanza. "Che senso della moda hai? Quando mai hai visto una ragazza vestirsi con un vestito color arcobaleno?"
"Sei tu che non riesci a comprendere la perfetta combinazione dei sette colori. Perché doversi scervellare nel trovare la perfetta armonia dei colori quando li puoi indossare tutti quanti?" 
"Perché non tutti indosserebbero sciarpe e cappelli color arcobaleno come te, men che meno delle ragazze."
"Siete troppo complicate, guardate solo il fattore estetico dimenticandovi che i colori sono pura poesia... Oh, Eris! Qual buon vento ti porta qua?"
Eris avanzò a passo sicuro conducendomi dietro a uno scaffale dove si trovavano i proprietari di quelle due voci: un ragazzo e una ragazza dallo strano dubbio estetico. Lei era alta e slanciata, dalla bellezza invidiabile come una modella. I biondi capelli le arrivano fino al fondoschiena dove la minigonna a pieghe dava sfoggio a un paio di gambe toniche e altamente invidiabili. Dalle ginocchia in giù indossava dei stivali neri che terminavano con un tacco parecchio alto. Mi chiesi se era possibile vestirsi così in un edificio pubblico, ma quella ragazza aveva tutte le carte in regola per dare sfoggio al suo fisico mozzafiato. Sul torace indossava una camicia bianca dall'aspetto decisamente vintage e piena di fronzoli, una spilla color smeraldo adornava il petto.
"Eris, fallo ragionare. Sono minuti che provo a convincerlo che a nessuno dei membri del nostro club verrebbe voglia di lavorare su delle stoffe color... arcobaleno." 
Il ragazzo, Alex, agguantò Eris per le spalle.
"Eris pensa con il tuo cervello e non con il tuo gusto estetico da ragazza." 
"Mmm, beh..." Tentennò lei e Alex capì che era meglio lasciar perdere.
"Aaaah, va bene, va bene! Torniamo a lavorare su quelle orrende stoffe color oro e rosso, manco fossimo a natale."
Alex era decisamente più stravagante: i capelli neri, decisamente troppo lucenti, erano tenuti raccolti da un codino dove solo due ciuffi laterali scappavano ricadendogli ai lati sulle tempie; indossava un cappellino pieno di spille rotonde fissate sulla stoffa e un foulard al collo dallo strano colore lilla tendente al grigio. Pantaloni color verde militare erano agghindati da un giubbino di pelle legato in vita; la polo azzurra che indossava aveva la stampa di un gatto color arcobaleno con la montatura di occhiali da sole indosso -ero sicura di averlo già visto su internet-; mentre ai piedi anfibi color nero pece sovrastavano i pantaloni. 
Nonostante l'abbigliamento aveva un viso davvero bello con un accenno di barba e la pelle leggermente abbronzata.
"Oh, ma sei un viso nuovo!" Esclamò quando si accorse di me. 
"Beh, sì." Tentennai per poi essere preceduta da Eris. 
"Selena si è trasferita qui da una settimana; ho pensato che farla aderire a uno dei nostri club scolastici l'avrebbe aiutata ad integrarsi." 
"E tu l'hai portata qui solo adesso?" Alex fece un balzo in avanti nella mia direzione. "Deve essere dura ambientarsi in una città nuova." 
"No, neanche tanto. Io..."
"Non va affatto bene! Anche io mi sono trasferito qui un paio di anni fa, so come ci si sente."
"Dicevo che..." 
"All'inizio ti calcolano tutti, per poi non calcolarti più nessuno."
"Ma no, Eris è stata..." 
"E poi c'è questa città nuova che è tutta da scoprire! Ci sono i centri commerciali, i negozi del centro, le boutique delle vie storiche e una quantità infinita di cose che da sola non scopriresti mai. 
"Beh, in effetti..."
"Ho deciso, allora! Devo portarti in giro! Bisogna sapere quali sono i migliori negozi dove comprare i propri vestiti e i migliori locali dove passare i propri sabati sera." 
"Ah.." 
Come ci eravamo finiti in questa assurda situazione? Dietro di lui, Lya sembrava che stesse per perdere la pazienza. 
"Falla finita, Alex! Così dai solo l'impressione di essere invadente." Lo ammonì tirandogli una pacca sulla schiena. 
"Ah, sei sempre così rude, ma petite!" 
Lya ed Eris tirarono un sospiro di sollievo, ma non sembrò che Alex volesse demordere così in fretta. 
"Comunque non scherzavo, Lya venerdì pomeriggio non dobbiamo passare al negozio del tuo ragazzo? Lei potrebbe venire con noi e intanto le mostriamo un po' la città."
Lya intrecciò le braccia al petto pensierosa. 
"Dobbiamo andare a scegliere delle stoffe, potrebbe annoiarsi..." 
"No, vengo!" Mi intromisi seria. 
Effettivamente potevo anche annoiarmi, ma non potevo rifiutare un invito che mi avrebbe permesso di conoscere meglio i dintorni di questa nuova città. Avevo già preso a fare delle esplorazioni per conto mio, ma da sola non era per niente divertente; forse in compagnia di qualcuno mi sarei divertita di più e poi era un ottimo modo per fare nuove conoscenze. 
Alex sembrò brillare di gioia per la mia risposta affermativa. 
"Perfetto! Allora venerdì ci incontriamo qui dopo le lezioni che ne dite? Vieni anche tu, Eris?" 
Eris sventolò le mani in aria davanti al viso, ridendo appena.
"Oh, no, no, passo!"
Alex mi prese le mani tutto contento. 
"Allora venerdì pomeriggio, ok?" E io annuii trasportata dalla sua esuberanza.
Alla fine, quando lasciammo il club, non si parlò nemmeno di un mio eventuale inserimento; Eris si cacciò a ridere rivelandomi che Alex si era persino contenuto e che, se avessi stretto amicizia con lui, mi sarei solo divertita alla grande. Mi rivelò inoltre che il laboratorio di cucito si occupava dei costumi per i saggi di fine anno del liceo, per la maggior parte degli eventi realizzato dallo stesso e che, sia Lya, che Alex erano figli di due impiegati che lavoravano in una delle maggiori agenzie di moda della città. E questo spiegava già molte cose.
"Ti piacerebbe far parte del loro club, allora?"
Ridacchiai pensando a come poteva essere passare un pomeriggio in loro compagnia. 
"Non lo so, Eris. Non ho ancora deciso se e in quale voglio farne parte, ma grazie per avermi dedicato la giornata." 
Eris mi sorrise tutta contenta.
"Non c'è di che..." La sua risposta venne interrotta da Letty che ci stava venendo incontro; non me ne ero accorta, ma eravamo ritornate verso l'aula del club di disegno e pittura. 
"Eccoti! C'è Syria che ti sta aspettando." E indicò il loro club. 
Eris smorzò appena il viso, affrettandosi a raggiungere la loro aula a passo svelto, salutandomi in fretta e chiudendo la porta del club alle sue spalle, isolandolo dal corridoio. 
Era strano per Eris, abituata sempre a prendersela con calma, affaccendarsi in quel modo. 
Di fianco a me, Letty sistemava le sue cose nel suo zaino pronta per andare verso casa. 
"Ma come..?" Mi venne spontaneo chiederle. "Tu non vai dentro con loro?" 
Dopotutto anche Letty ne faceva parte. 
Lei non rispose subito, finì di sistemare con calma le sue cose e poi indossò il suo zaino sulla schiena. 
"Syria ed Eris stanno lavorando per una mostra..." la vidi corrucciare le labbra e stringere gli occhi in direzione della porta chiusa. "E quello che stanno facendo è un segreto." Si incamminò verso la fine del corridoio, dove in lontananza si potevano vedere le grandi porte a specchio che davano sul cortile esterno. Io la seguii, indugiai soltanto un attimo davanti alla porta chiusa del club di disegno e di pittura. 
Chissà a che cosa stavano lavorando quelle due.


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Capitolo 9
*** Giorno 3 (Seconda Parte Extra: Eris) ***


Eris chiuse la porta alle sue spalle tirando un leggero sospiro di sollievo. 
Amava il club di pittura e di disegno, ma lo amava ancora di più quando poteva serrarne la porta e far dividere quell'aula dal resto della scuola. 
O del mondo... 
Avvertì una risata cristallina dietro di lei. 
"Sei in ritardo oggi? Cosa ti è successo? Qualcosa di bello?" 
Eris rise a sua volta in direzione di Syria. 
"Penso di essermi fatta una nuova amica, tutto qui." Le rispose rilassando le spalle. 
Era bella, Syria, più bella di qualsiasi altra ragazza che avesse mai incontrato all'interno dell'istituto. Calma come acqua quieta e gentile verso tutti; nonostante non avesse molti amici a scuola nessuno aveva mai osato parlare male di lei. 
I lunghi capelli ondulati, color cioccolato, le ricadevano sulla schiena come una cascata e le mani, abili come solo le sue sapevano esserlo, si muovevano sulla tela stendendo lunghe pennellate di colore. La frangetta le copriva appena gli occhi, senza darle troppo fastidio, un piccolo neo faceva capolino sotto l'occhio destro, spiccando sulla pelle rosea. 
Eris, ogni volta, si ritrovava ad osservarla trattenendo il fiato: c'era troppa eleganza nei suoi movimenti, persino il semplice spostarsi dei capelli da davanti a dietro erano in grado di ammaliarla. 
"Dai, non perdiamo tempo." Le sussurrò Syria accortasi della sua immobilità, la voce morbida e vellutata di sempre. 
Eris si avvicinò al centro stanza, dove due banchi erano stati uniti insieme e una sedia era stata posta poco lontano da essi. 
Ripiegato, sopra i due banchi uniti, vi era un lenzuolo bianco immacolato pronto all'uso. 
Eris si sbottonò i primi bottoni della sua camicetta mentre Syria si era alzata per appurare che la porta fosse effettivamente chiusa a chiave. Chissà a cosa avrebbero pensato i professori se avessero scoperto cosa combinavano in quella stanza, loro due da sole e rinchiuse. 
Lentamente la camicetta scivolò via dalle braccia e venne fatta sollevare sopra i jeans che furono sbottonati; le scarpe furono tolte, i calzini pure assieme a tutto il resto, fino a restare solo con l'intimo addosso. 
Eris ricordava benissimo l'imbarazzo che aveva provato la prima volta. 
"Anche le mutandine?" Aveva chiesto, timida e imbarazzata. 
"Anche le mutandine."

Reggiseno e slip furono rimossi.
Ora non c'era più traccia di quell'imbarazzo iniziale; anzi, ogni volta, c'era una sorta di eccitazione accompagnata da una lieve euforia: erano lei e Syria, completamente da sole, senza alcun disturbo esterno. 
Syria era molto professionale quando dipingeva: sedeva sullo sgabello con la schiena dritta, in una mano reggeva la tavolozza con i colori mischiati e nell'altra il pennello più adatto per disegnare; un tavolino lì accanto le permetteva di adagiare tutti gli strumenti che le servivano. 
Eris amava vederla seria e assorta nei suoi pensieri, alla ricerca della migliore sfumatura o del colore più simile a quello reale; continuando ad osservarla prese il lenzuolo e lo usò per coprirsi la parte bassa del proprio corpo mentre saliva sui due banchi e assumeva una posizione semi-sdraiata. 
Drappeggiò il lenzuolo attorno al proprio corpo, facendo sì che coprisse solo i punti strategici del proprio corpo, esattamente come Syria le aveva chiesto di fare la prima volta. 
"Il mento." La corresse. "Lo stai tenendo troppo inclinato; ecco, così, ora va meglio. Rilassa le spalle, oggi sarà veloce."
Syria era figlia di una pittrice hobbystica che, tuttavia, non aveva nulla da invidiare a un pittore di professione. La passione della madre era stata trasmessa alla figlia e Eris ricordava ancora quanto era rimasta affascinata dalla sua bravura il giorno in cui decise di entrare a far parte del club di disegno e di pittura, da sempre anche una sua passione. 
Eris non era mai andata d'accordo con le sue coetanee dai caratteri troppo esuberanti e vivaci, ma con Syria la problematica non si era mai presentata fin dall'inizio: Syria aveva modi gentili e pacati per rapportarsi con i suoi compagni e, quando le aveva chiesto di aiutarla per una mostra a cui aveva intenzione di partecipare, con quel sorriso irresistibile sulle labbra in grado di scioglierla, Eris non ci aveva pensato due volte: aveva accettato seppure ciò significava mettersi a nudo di fronte a un'altra persona. 
Poi era successo: si erano scambiate un bacio sulle labbra, complice un momento di fin troppa intimità, e dopo quello ne erano seguiti altri. 
"Teniamolo segreto, ok?" 
Le aveva detto Syria, accarezzandole i capelli, ed Eris aveva annuito. Da allora il rapporto fra le due si era evoluto, ma veniva tenuto custodito all'interno di quelle quattro mura, finché quel sentimento non era diventato talmente forte da diventare opprimente. 
"Penso di aver trovato la sfumatura giusta per i tuoi capelli, sai?" Scherzò Eris, tratteggiando le onde dei suoi capelli sulla tela a cui stava lavorando. "Mi hanno fatto penare, sai?" 
"Mmm, questo colore di capelli è orribile." Sussurrò Eris toccando una delle sue ciocche ribelli. "Scusa." 
"Orribile? Stai scherzando, vero?" Syria mischiò ulteriore colore, per crearne di nuovi, sulla tavolozza. "Io trovo che siano unico e adatto a te." 
Eris arrossì appena, distogliendo lo sguardo, tentando di nascondere l'imbarazzo e il rossore sulle guance. 
"Non tenere gli occhi bassi." La rimproverò gentilmente Syria e subito Eris si ricompose. "Oggi sei assente." Commentò poi poggiando il pennello sulla tavolozza e sfregando le mani contro il grembiule legato in vita, ormai chiazzato e sporco. 
"Ma no." Rispose Eris sedendosi composta. "Stavo solo pensando..."
Syria si alzò dal suo sgabello e le si avvicinò, poggiando le mani sui due banchi uniti esattamente a lato dei suoi fianchi. 
"Cosa?" Sollecitò. 
"Ti andrebbe bene se qualcun'altro si unisse a noi?" Trovò l'ardore di dire. 
Syria si sollevò, inarcando le sopracciglia verso l'alto. 
"Questo è un club scolastico, chiunque è il benvenuto qui." Le rispose con semplicità; Eris spostò gli occhi di lato pensierosa. 
"Dai, dimmi cosa c'è che non va." Syria sollevò una mano, spostandole una ciocca di capelli dietro l'orecchio, che, tuttavia, non servì a tranquillizzare la ragazza. "Stai tranquilla." Le mormorò, chinandosi su quel lobo. "Nessuno scoprirà di noi."
Eris si sentì attraversare da un fremito.
"Ho chiesto a una mia amica se volesse unirsi a noi." Si confidò infine. 
Syria prese posto a sedere accanto a lei, sollevando il sedere e lasciando che le gambe ciondolassero avanti e indietro; Eris ne approfittò per poggiare il capo contro la sua spalla. 
"Era per lei che prima sei entrata tutta sorridente?" Sirya l'abbracciò da dietro, avvolgendole la schiena e un fianco, tirandola verso sé, Eris chiuse gli occhi godendosi quelle coccole. 
"Mh, sì, è una nuova, arrivata la scorsa settimana. Le ho proposto di entrare nel nostro club, ma ora, pensandoci, forse ho fatto male." 
Syria si staccò appena, guardandola dubbiosa, Eris si mordicchiò il labbro inferiore alla ricerca delle parole adatte per risponderle. 
"In fondo, solo in questo club, io e te possiamo essere... solo io e te..." Eris non riuscì a terminare la frase: Syria l'aveva zittita poggiando il dito indice sulle sue labbra. 
"Non pensarci nemmeno. C'è anche Letty eppure continuiamo lo stesso a restare da sole, no?" Le baciò la fronte, spostandole appena la frangetta.
"Letty, lei sa..." Mormorò Eris, una punta di panico nella voce. "Sono certa che lei sappia di noi. E se decidesse di parlare, se andasse a spifferare qualcosa a qualcuno..." Si sentì premere sulla bocca da qualcosa di morbido e fresco, a tratti appiccicoso forse a causa di un velo di lucidalabbra; Eris non si lasciò scappare l'occasione di dischiudere le labbra, lasciando che le loro lingue si sfiorassero in un continuo mordi e fuggi. 
Quando si staccarono si ritrovò talmente senza fiato da non riuscire a completare ciò che stava dicendo qualche istante prima. 
Syria le accarezzò il capo, scompigliandole affettuosamente i capelli rossicci, nel tentativo di rassicurarla. 
"Non accadrà. Letty non è quel tipo di persona. E anche se dovesse accadere... non cambierà ciò che c'è fra me e te, giusto?" Asserì con espressione seria, guardandola dritta negli occhi e trasmettendole ogni tipo di sicurezza. Il cuore di Eris si inondò di felicità, fino a spingerla a trovare rifugio tra le sue braccia.
"Scusami, sono sempre così insicura." Mormorò, soffocando le parole contro il suo petto, la fronte poggiata lì dove pulsava il cuore. 
"Non farti più venire in mente brutte idee." Syria le strinse appena le spalle e la staccò da sé. "Ok, è ora di tornare a lavoro, che ne dici?" Rise divertita, stringendole appena il mento fra le dita e sorridendole dolcemente. 
Eris sollevò le braccia in alto, appoggiandole sopra la sua nuca e premendola verso sé, facendo sì che le loro labbra si congiungessero di nuovo. 
Si scambiarono ulteriori baci: lenti o veloci, fugaci o più approfonditi, finché entrambe desiderarono staccarsi per poi guardarsi negli occhi. 
"Non voglio affatto che tu torni a sederti su quello sgabello." Mormorò Eris contro le labbra di Syria, prendendole una mano e intrecciando le dita fra le sue in una presa talmente forte che non ammetteva di essere lasciata. "Abbiamo sempre così poco tempo a disposizione e solo qui possiamo stare insieme. Ti prego, non consumiamolo." 
Syria sgranò appena gli occhi per poi inclinare i lati della bocca verso l'alto. 
"Lo sai che è proprio questo il motivo per cui non riusciamo a portare a termine quel dipinto?" Commentò maliziosa, per poi farla stendere sotto di sé. "Ma va bene uguale." Si sfilò il grembiule dalla vita, lasciandolo scivolare a terra, per poi chinarsi sul collo candido e iniziare a succhiarne la pelle, Eris si portò il palmo della mano alla bocca per tapparsela.
Era da sempre così: da quando avevano scoperto che oltre ad attrazione fisica c'era molto di più; quello era l'unico momento in cui riuscivano ad esternare i loro sentimenti, senza doversi nascondere dietro ad una facciata di pura finzione, quando la scuola era quasi deserta, i pochi professori rimasti erano rinchiusi in sala professori e gli studenti, che si dedicavano alle attività extra-scolastiche, segregati nei loro club. 
Nessuno le aveva mai scoperte finora, seppure erano consapevoli che non avrebbero potuto continuare a lungo a nascondersi o a usare quell'aula. 
Eppure quel club era davvero il loro piccolo rifugio nascosto e segretamente pregavano che sarebbe rimasto tale ancora per tanto tempo, almeno fino a che non avrebbero trovato un'altra soluzione per restare insieme da sole. 
Eris scalciò appena con le gambe quando Syria tracciò il solco di pelle che dal seno scendeva fino all'ombelico; poi si sollevò di poco per portarsi la mano ai bottoni della cintura dei jeans e slacciarli; li fece scivolare giù fino alle cosce. 
I loro bacini si scontrarono più e più volte e le bocche si suggellarono reciproche, le dita affondarono nei capelli percorrendone la lunghezza. 
Eris trascinò giù con sé Syria fino a tenerla stretta contro il torace. 
"Sei l'unica persona che mi fa davvero stare bene qui." Le sussurrò baciandole il capo; Syria lo sollevò appena sorridendole. 
"Non vorrei mai più vederti soffrire a causa di un amore non corrisposto." Mugolò sistemandosi contro la sua spalla. 
"Fabian, eh?" Rimembrò Eris. "Non penso più a lui da quando ho conosciuto te."
Già, perché era stato quello il motivo per cui Eris era scoppiata a piangere quel giorno e Syria si era ritrovata a consolarla, generando poi ciò che sarebbe successo in seguito.
Non si dissero più niente in quanto nulla era necessario: bastavano soltanto le carezze reciproche e gli sguardi. 
Almeno fino a che Syria non fece forza sulle mani e si sollevò, prendendole entrambi i polsi e trascinando con sé Eris. 
Il lenzuolo, usato per coprirle le parti del corpo, era scivolato sul pavimento.
"Dai, rivestiamoci." Suggerì ricomponendosi i vestiti. "L'orario di chiusura si avvicina." 
Eris annuì, allungando una mano verso la sedia dove aveva riposto i propri vestiti; anche per quella giornata il loro tempo a disposizione era terminato e, ogni volta, si sentiva preda dell'angoscia: ritornate in corridoio lei e Syria avrebbero riassunto i loro comportamenti normali, atteggiandosi semplicemente a due amiche che condividevano la stessa passione. 
Ma non era proprio possibile continuare così e loro due lo sapevano bene, ogni giorno che passava sarebbe stato sempre peggio.






Curiosamente Letty prendeva il mio stesso autobus per tornare a casa.
L'avevo seguita a debita distanza, fingendo semplicemente che entrambe andassimo nella stessa direzione; il che, in parte, era anche vero. 
Non mi capacitavo ancora di come avevo potuto fare quella figura davanti a lei: certo, c'erano molte compagne di classe con cui ancora non avevo avuto modo di discutere e conoscere, ma non ricordarsi di una di loro era pressoché impossibile. 
La osservai curiosa: quando era arrivata alla fermata del bus, già gremita di studenti e di qualche professore, non aveva rivolto parola a nessuno e nessuno aveva salutato. Al contrario era rimasta ferma e immobile, assorta in chissà quali pensieri, mentre gruppi di amici e ragazzi le scivolavano accanto non accorgendosi di lei.
Ostentando un comportamento di naturalezza, unito a una mera coincidenza, la affiancai con la scusa di parlarle di nuovo. 
"Pare che prendiamo lo stesso autobus." Scherzai allegra. 
"Pare." Rispose lei piano e sottovoce. 
Non era esattamente stato un gran metodo di approccio; provai, allora, un'altra strada. 
"Se facessi richiesta per entrare nel tuo club saresti contenta?" Le domandai direttamente per poi mordermi la lingua da sola. 
Che razza di domanda era? Mi diedi della stupida, ma almeno ottenni un minimo di attenzione. 
Finalmente Letty mi rivolse lo sguardo. 
"Non avrei nulla in contrario." 
"Ah, bene..." Risi nervosa. "Anche se non ho ancora deciso dove andare." Mi passai la mano fra i capelli a disagio, Letty mi continuava a guardare senza trasparire alcuna emozione, come aveva sempre fatto fin dall'inizio. 
Alla fine spostai timidamente i miei occhi da lei fino alla punta dei miei piedi, per qualche minuto calò un silenzio imbarazzante disturbato dal gran vociare e caos provocato dagli studenti che smaniavano di tornare a casa. 
In lontananza l'autobus che tutti quanti stavano aspettando svoltò l'incrocio e imboccò il viale della scuola; gruppi di ragazzi iniziarono a spintonarsi scherzosamente fra di loro, creando delle file, mentre il mezzo si avvicinava alla banchina. 
"Tuttavia vorrei solo dirti una cosa..." 
Mi risvegliai dai miei pensieri. 
"Quando trovi la porta del club chiusa... è meglio che non ci metti il becco." 
Letty si dileguò, integrandosi con la fila che si era creata per salire, lasciandomi con un'espressione ebete condita dai miei occhi leggermente sgranati; soltanto uno spintone mi fece capire che dovevo muovermi.


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Capitolo 10
*** Giorno 3 (Terza Parte Extra: Brendon&Fabian) ***


Ricordai che, quella notte, gli spasmi muscolari si erano susseguiti uno dopo l'altro. Ne avevo contati almeno tre, tutti nella fase dell'addormentamento, al terzo consecutivo ci avevo rinunciato; ero scesa dal letto, infilando le pantofole, per dirigermi verso la finestra; la cui tapparella era così alzata da lasciar permettere a parecchia luce lunare di infiltrarsi dentro. Quale era il loro nome? Non lo ricordavo, per quanto mi sforzassi.
Qualcosa che iniziava con la "m"? Poteva essere.
Mio-qualcosa? Mmm...
Mioclonie!
Sì, vero si chiamavano mioclonie. Una contrazione improvvisa dei muscoli, un salto proprio. Una sorta di spasmo ipnico che disturbavano il mio sonno, esattamente come le mie paralisi mi impedivano di svegliarmi serenamente alla mattina.
Sbuffai, per poi guardare la finestra di fronte alla mia camera: nonostante la mezzanotte, già abbondantemente passata da un bel po', la luce era ancora accesa, ma le stesse tende tirate dell'altro giorno mi impedivano di guardare dentro.
Decisi di tornare sotto le coperte: avevo curiosato anche troppo.
Il corridoio della scuola, quella mattina, era calmo nonostante l'orario di ricreazione. Forse, visto il sole e la bella giornata che si era presentata, la maggior parte degli studenti si era riversata in cortile; forse, semplicemente, quella giornata doveva essere così.
Sbadigliai: non avevo chiuso occhio.
"Che occhi gonfi! Sicura di aver dormito bene?"
Furono le prime parole che Eris mi rivolse appena entrai in aula. Come al solito la ringraziai mentalmente per avermi ricordato l'evidenza delle cose: avevo passato molto tempo davanti allo specchio a correggere le mie palpebre utilizzando il correttore di mia zia.
"Così non hai ancora deciso in che club entrare, eh?" Mi domandò Eris, appoggiata con i palmi delle mani ad una delle tante finestre nel corridoio che davano sul cortile; guardava fuori con aria allegra, come se quella mattina qualcosa l'avesse fatta alzare dal letto di buonumore. Beata lei.
"Non ho neanche potuto conoscere la presidentessa del tuo club." Le ricordai, grattandomi il capo.
"Ah, vero." Esclamò Eris. "Ma ho parlato di te a Syria e non vede l'ora di conoscerti." Mi sorrise.
Quel giorno, notai, Eris era incredibilmente di buonumore.
"E anche con parecchia fretta."
Udii una voce femminile, dietro di noi, che mi fece voltare all'istante proprio per scoprire che una bella ragazza castana ci aveva avvicinato. Il sorriso divertito sulle labbra mi fece indietreggiare istintivamente. Quella mattina si erano davvero alzati tutti bene a parte me.
"Syria!" La chiamò Eris; sembrò stupita di trovarsela davanti.
Dopo lo stupore iniziale mi ricomposi immediatamente: quindi era lei Syria, non ero riuscita a conoscerla il giorno precedente dentro al club e ora eccola qua.
Syria scambiò un veloce paio di saluti con Eris prima di tornare a parlarmi; loro due sembravano andare parecchio d'accordo: Eris era solita tenere lo sguardo rivolto verso il basso quando qualcuno le rivolgeva parola, ma con Syria la cosa sembrava essere parecchio differente.
"Veniamo a noi: ti unirai al nostro club, dunque?" Mi domandò direttamente, al punto tale da spiazzarmi con la risposta.
"Non lo so, io..."
Syria fece scivolare un suo braccio attorno alle spalle di Eris.
"Eris mi ha detto che, in compagnia tua, si trova molto bene. E questo, per me, è sufficiente a fare di te una benvenuta."
Mi sentii lusingata da quelle parole, al punto tale da risponderle timidamente.
"Ora, se vuoi scusarci..." Syria non finì la frase, ma afferrò Eris trascinandola con sé; forse disse anche qualcosa, che io non riuscì a capire e che mi fece assumere una posa da ebete ferma e fissa nel corridoio.
"Dovranno discutere di qualcosa."
Quel sussurro mi arrivò dritto all'orecchio e, quando mi voltai, mi trovai Letty accanto a me.
Non mi ero proprio accorta che fosse uscita dalla classe. Anche quella mattina portava i lunghi capelli scuri sciolti su tutto il busto; la camicetta e i pantaloni neri contrastavano con il suo pallore.
Proprio come un'ombra, pensai.
"Sicuramente, non vedrai più Eris per tutto il resto della ricreazione." Disse semplicemente. "Posso restare io con te."
"Ah, mh, sì... Ah!" Allungai lo sguardo verso la fine del corridoio: era davvero Brendon quello che avevo visto passare, veloce come un fulmine?


Brendon era ritornato a scuola dopo che i suoi erano ripartiti, di nuovo, per qualche tour fuori città.
Era arrivato tardi, come al solito, perciò pareva ben chiaro da chi doveva passare per primo. Peccato che quel qualcuno, quel giorno, aveva deciso di non farsi trovare e lui aveva già girato tutto l'istituto in lungo e in largo, finendo ben presto per perdere la pazienza.
Poiché si era svegliato tardi, era entrato con ben tre ore di ritardo e ora gli serviva il modulo per giustificare la cosa.
Peccato che doveva passare da Fabian, per forza di cose, e non aveva la benché minima idea di dove si trovasse. Era già passato per la sala del consiglio studentesco, ma, a parte la vice-rappresentante, non aveva ottenuto alcuna informazione utile su dove si trovasse.
Poi, voci di corridoio, gli avevano spifferato che forse si trovava ancora in palestra, dato che la sua classe aveva avuto ginnastica alle prime tre ore; magari, con un po' di fortuna, lo avrebbe beccato in tempo.
"Ginnastica, eh?" Schioccò con la lingua.
Lo ricordava ancora come se fosse ieri. Il giorno in cui loro due si erano parlati per la prima volta.

"Mia! Mia" Passala a me!"
Si trattava dell'anno scorso, quando sia Brendon che Fabian facevano parte della stessa classe.
Entrambi del primo anno, dovettero ricominciare da capo a formarsi nuove amicizie; Brendon, in questo, non ebbe particolari problemi, al contrario di Fabian, più timido e riservato.
Non c'era nulla di cui stupirsi se, durante quella partita di pallavolo, Brendon era stato scelto come membro fisso di una delle due squadre, mentre Fabian doveva accontentarsi di sedere a bordo campo e giocare solo quando la rotazione glielo permetteva.
"Free Ball!" Gridò un ragazzo, salvando la palla dal cadere a terra.
"Vai, Brendon! L'ultimo tocco è tuo." Urlò un altro, alzando la palla verso il centro, dove Brendon saltò con il chiaro intento di fare una schiacciata.
La palla venne colpita e schiantata a terra nel campo avversario con una facilità sorprendente, costringendo Fabian a doversi alzare e dirigersi fuori campo, in zona di battuta.
"Ehi! Tiragli una bomba!" Scherzò qualcuno.
Ma il servizio, sebbene venne battuto, andò a schiantarsi contro la rete, cadendo a terra miserevole, dalla propria parte di campo.
"Che sfigato!" Gridò lo stesso di prima, costringendo Fabian a fare una smorfia deluso.
Lui era sempre stato negato per gli sport; da piccolo non ne aveva praticato neanche uno, preferendo restare curvo sui libri per alzare sempre di più la media dei propri voti.
Sollevò i suoi occhi color ghiaccio giusto in tempo per vedere quelli grigi di Brendon ancora fissi su di lui.
"Non pensiamoci. La partita non è ancora finita."
Chissà perché i ragazzi si infervoravano così tanto quando giocavano a qualcosa; non era nemmeno una partita ufficiale o un'amichevole: era soltanto una partita qualunque di una qualunque ora di ginnastica.
Ciò che contava erano i voti. Sì, i voti e nient'altro.
Più voti alti si ottengono, più è alta l'approvazione che ti viene rivolta. Quando hai l'approvazione hai tutto.
"Tua!" Gridò un compagno, spostandosi di lato, lasciando che la palla gli arrivasse dritta in faccia.
"Ma non ce la fai proprio a prenderla?"
Negli spogliatoi la situazione era più o meno simile: se, da un lato, Brendon era spesso accerchiato da ragazzi che gli parlavano amichevolmente, Fabian sedeva su una panchina sulle sue. Poi, spesso, si erano anche sorpresi a guardarsi l'un l'altro: come se, nel momento esatto in cui uno dei due fissava l'altro, quest'ultimo capiva l'intenzione e faceva lo stesso.
Fabian non aveva ancora trovato il perché a quella situazione, ma di una cosa era certo: Brendon era incredibilmente attento; aveva uno spirito d'osservazione incredibilmente alto e, proprio per questo, Fabian sapeva che poteva diventare estremamente pericoloso.
Tuttavia c'erano volte in cui lo osservava lo stesso, curioso com'era.
Ad esempio, quello era uno di quei momenti: Brendon era distratto a parlare con i compagni, mentre si tamponava il sudore con un asciugamano e rispondeva alle loro battute sceme. Da sotto i suoi capelli biondi e gli occhi color ghiaccio, Fabian poteva notare la pelle perfetta della schiena, senza una sola imperfezione, senza grossi nei che rovinassero l'estetica.
Ah, quindi è così che deve essere...
"Fabian! Fabian!" Sollevò il viso di scatto quando, quello che era il suo compagno di banco, lo chiamò aumentando il tono di voce sempre più in alto.
"Eh?"
"Non ti sei ancora cambiato! Guarda che tutti noi abbiamo finito, ormai."
Fabian si risvegliò immediatamente: tutta l'intera classe maschile si era ammutolita per un attimo, per poi tornare a perdersi in chiacchiere. Anche Brendon aveva fatto lo stesso.
"Ogni volta è sempre la stessa storia." Si lamentò il ragazzo di prima, costringendo Fabian ad afferrare il deodorante e l'asciugamano dal suo zaino.
Era davvero sempre così: tutti i suoi compagni uscivano, pronti e cambiati, lasciando lui dentro da solo.
Fabian non si preoccupava mai di essere l'ultimo poiché, dal muro accanto, si sentiva ancora il vociare delle ragazze, e se inizialmente qualcuno si era anche proposto di restare con lui per fargli compagnia, adesso tutti i suoi compagni si erano abituati a quella sua bizzarria nel voler rimanere da solo e così lo lasciavano.
Ma quella mattina le cose andarono diversamente dal solito.

Brendon aveva visto giusto.
La sua ex-classe, quella di Fabian, aveva davvero avuto ginnastica quella mattina e, difatti, i suoi ex-compagni ora si stavano godendo la ricreazione concedendosi a qualche sigaretta.
Nonostante fosse stato bocciato, quindi spostato di classe, aveva mantenuto i suoi buoni rapporti con ognuno di loro. Salutandoli uno ad uno notò che Fabian non era ancora uscito dallo spogliatoio, prevedibile come sempre. Qualcuno lo intuì anche e scherzò con qualche frase del tipo: il principino ci sta mettendo troppo, così lo avevano soprannominato al primo anno, a causa dei suoi capelli biondi e degli occhi chiari.
Brendon rispose con un sorriso eloquente, per poi lasciarli e dirigersi verso gli spogliatoi maschili: se c'era qualcuno che aveva il diritto di entrarvi, in questo preciso momento, era soltanto lui.

Fabian si lavò come prima cosa il viso: odiava la sensazione del sudore appiccicato alla pelle, era proprio una cosa a cui non era abituato.
Sollevò faticosamente le braccia per togliersi la maglietta madida. Dio, quanto dolore che gli facevano. Adesso era solo; all'inizio dell'ora gli risultava anche più problematico doversi cambiare senza farsi scoprire. Per fortuna che nessuno aveva ancora detto niente sulla sua tattica del 'prendi i vestiti che ti servono e vatti a cambiare in bagno'.
Sospirò davanti allo specchio, che gli restituiva la sua immagine riflessa e nitida. Fabian era consapevole di essere bello: sua madre glielo ripeteva sempre e la bellezza nella società aveva un certo peso. Il suo viso era bellissimo. Liscio e perfetto pareva lavorato in porcellana, ma allora perché...
Perché questi? Che cosa sono? Ripeteva ogni volta che si osservava allo specchio.
Macchie violacee si estendevano in modo esagerato sulla sua schiena, in alcuni tratti più scure, in altre parti più rosse; gialle lì dove stavano per guarire, nere dove erano più fresche. Quelle macchie erano il suo segreto, che disperatamente tentava di nascondere a tutti.
Quell'uomo, evita il mio viso solo per salvare le apparenze...
Era una delle prime verità che aveva scoperto: il suo viso non veniva mai toccato, e anche le braccia, dal gomito fino alla punta delle dita erano sempre salve, così come le gambe. Ma la schiena... quella proprio Fabian non ricordava se e quando l'aveva vista sana almeno una volta.
Fabian si toccò una di quelle ecchimosi con la punta delle dita. Era in via di guarigione, quasi, quindi non faceva male; tuttavia la pelle pareva più calda al tatto. C'erano persino state volte che, tutte quelle contusioni, gli avevano procurato un innalzamento della temperatura, costringendolo a restare a letto.
Scrollò il viso con vigore: doveva cambiarsi in fretta e raggiungere gli altri, doveva salvare anche lui le apparenze o altrimenti sarebbe stato peggio. Ma quel peggio doveva ancora arrivare.
Con un grugnito di frustrazione si allontanò dallo specchio, giusto in tempo per vedere qualcuno che, aprendo la porta dello spogliatoio, aveva visto tutto.
In quel momento, Fabian ebbe l'impressione che l'intero mondo gli fosse cascato addosso. I suoi occhi si sgranarono più che poterono, sentendo un orrore tale accrescere in lui al punto da provare ribrezzo verso se stesso. Ma la persona che l'aveva scoperto non stava tenendo nessun tipo di reazione: non c'era sorpresa nel suo sguardo, non c'era orrore, non c'era nulla di nulla. Era lo sguardo tipico e composto di sempre, quello che analizzava sempre tutto.
"Mi stavo giusto chiedendo... il motivo per cui rimanevi sempre indietro."



"Sei patetico." Mormorò Brendon, guardandolo dall'alto in basso.
Fabian non rispose, sollevandosi da terra a capo chino.
"So già quanto sono patetico da solo. Non serve che tu me lo ricordi."
La destra di Brendon partì da sola, avventandosi contro la guancia di Fabian con un sonoro schiaffo che lo fece vacillare di lato.
"Per quanto tempo andrai avanti così? Si tratta già di un anno."
Fabian si strofinò l'angolo della bocca, dove era stato colpito. Non disse nulla, rimase solo muto, incapace di fronteggiare la persona davanti a sé. 
"Considerati fortunato: io ti colpisco in pieno viso, dove tutti ti possono vedere. E se qualcuno dovesse venire a lamentarsi per un graffio o un livido ammetterei di essere stato io."
Fabian continuò a restare muto.
"Dì qualcosa, dannazione!" Gli gridò contro Brendon, ormai giunto al limite della propria sopportazione.
Fabian abbassò il braccio affranto, giusto per venire afferrato rudemente da Brendon che lo costrinse a sollevare lo sguardo.
Di natura calma e gentile, tendente a reprimere qualsiasi impulso che sentiva nascere dentro di sé, Fabian aveva imparato da tempo che solo Brendon sapeva tirare fuori il peggio di lui.
Afferrò quella stretta forte, facendo resistenza con entrambe le mani; la forza ce l'aveva, semplicemente nessuno gli aveva mai insegnato a usarla.
"Che cosa dovrei dire? Quell'uomo è mio padre, maledizione!"
Solo allora Brendon lo lasciò andare, facendolo barcollare all'indietro.
"Non c'è modo, per me, di oppormi." Mormorò a voce bassa.
Si formò un silenzio opprimente fra i due, uno di quelli che ti pesava persino sul petto. Fabian sollevò il viso lentamente, poi si mosse avanzando fino a stringere le maniche della giacca di pelle di Brendon. Appoggiò la fronte sul suo petto, poco sotto il collo, dando finalmente sfogo a quelle lacrime che volevano uscire già da prima.
Brendon sospirò capendo il gesto: quello era il segnale che Fabian voleva essere consolato, in un modo o nell'altro.
Lo spinse indietro, fino al muro, inchiodandolo con le braccia per poi avventarsi sulle sue labbra forzandole ad aprirsi. Rumori provenienti dal corridoio implicavano il passaggio di alcune ragazze, che stavano parlottando tra di loro, ma questo non li frenò nel volersi fermare. Fabian ambiva a quei baci, così violenti e seducenti, tali da togliergli l'ossigeno; Brendon era l'unica persona capace di darglieli.
Non si spiegava il perché, per un anno intero, Brendon aveva mantenuto il suo segreto, come da accordi. Tuttavia, sapeva che, se di un uomo aveva bisogno nella sua vita, questi non poteva che essere che lui. Un gemito gli sfuggì dalle labbra quando si sentì baciare il collo.
Quali furono le prime parole che si scambiarono? Ah, già.
"Mi stavo giusto chiedendo... il motivo per cui rimanevi sempre indietro."
"Ma perché sei tornato indietro?"

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