The girl who cried wolf

di unannosenzapioggia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Wide awake or dreaming ***
Capitolo 2: *** Middle of nowhere ***
Capitolo 3: *** All falls down ***
Capitolo 4: *** Big bad wolf ***
Capitolo 5: *** Monster ***
Capitolo 6: *** Wolves without teeth ***
Capitolo 7: *** Bite my tongue ***
Capitolo 8: *** Triskele ***
Capitolo 9: *** Remember we die ***
Capitolo 10: *** Poison the well ***
Capitolo 11: *** Lead me out of the dark ***
Capitolo 12: *** Broken bones ***
Capitolo 13: *** War of hearts ***
Capitolo 14: *** Rusalki ***
Capitolo 15: *** Human ***
Capitolo 16: *** We must be killers ***
Capitolo 17: *** The girl who cried wolf ***
Capitolo 18: *** Black out days ***
Capitolo 19: *** Can you feel my heart ***
Capitolo 20: *** Find my way back ***



Capitolo 1
*** Wide awake or dreaming ***


salve, popolo di Teen Wolf!
è la prima volta in assoluto che scrivo qualcosa su questa serie tv, ANZI, è la prima volta in assoluto che scrivo su una qualsiasi serie tv, quindi perdonatemi se questa storia farà schifo! non sono abituata a scrivere su personaggi già esistenti, che hanno già una loro fisicità, un loro carattere e così via; di solito sono io a creare tutto dal niente.
questo è il motivo per cui ho deciso di inserire lo "spazio autore" all'inizio; perchè vorrei spiegarvi alcune cose.
  • la storia ha i personaggi/luoghi e qualsiasi altra cosa che appartenga a TW ma ho stravolto un po' le cose, quindi non è inserita all'interno di una delle stagioni; è una storia del tutto nuova, anche se ci saranno riferimenti a eventi accaduti nella serie
  • il primo capitolo fa schifo ma non essendo abituata a scrivere su serie tv è un po' difficile per me, abbiate pazienza!
  • i personaggi saranno un po' tutti presenti (ad eccezione di Allison, perchè avrei dovuto affrontare il discorso della sua morte e già la storia in sè sarà complicata, quindi ho deciso di non metterla)
spero di aver detto tutto, in casa abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia
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CAPITOLO UNO: WIDE AWAKE OR DREAMING
 
Il vento soffiava forte, impedendole di camminare e l’oscurità la circondava. Non sapeva con precisione dove si trovasse: i suoi occhi si erano abituati al buio, ma non riusciva a vedere. Muoveva piedi e gambe con incertezza, cercando di non inciampare o rimanere incastrata nella poltiglia di terra e foglie che ricopriva quella zona. Era abbastanza sicura di essere in un bosco: ogni tanto si era fermata e allungando le mani aveva incontrato la superficie ruvida di qualche albero. Non sapeva cosa ci facesse lì, né il perché e come ci fosse finita. Sapeva solo di star camminando verso una precisa meta – anche se non la conosceva – e di non star scappando da qualcuno. Si voltò di scatto un paio di volte, guardandosi alle spalle. Aveva sentito un rumore, come un fruscio di foglie, come se ci fosse qualcun altro lì con lei. Ma quando si fermò ad ascoltare meglio, non sentì più niente. Con il cuore che le scoppiava nel petto, le gambe che le facevano male e lo sforzo mentale che stava facendo per capire dove fosse, continuò a camminare. L’unica fonte di luce era la luna piena, ma nonostante il suo bagliore bianco, non era molto d’aiuto.
Il fruscio di foglie si presentò di nuovo, bloccandola sul posto. Si voltò ancora e quello scomparve. Si mosse di nuovo e sentì le foglie sotto di sé scricchiolare. Fu presa dal panico, quando si rese conto di non essere lei la causa del movimento delle foglie sparse a terra. Rimase in attesa per qualche secondo, finchè non sentì di nuovo quei passi, che però si stavano allontanando velocemente.
Tirò un sospiro di sollievo, fece qualche altro metro ma fu costretta a fermarsi quando i suoi piedi incontrarono una pozzanghera. Alzò lo sguardo e con grande sorpresa, riuscì a vedere ciò che aveva davanti. Un lago in mezzo al nulla si estendeva in lontananza fino a confondersi con l’orizzonte. Aveva un colore grigiastro, probabilmente dovuto alla luna che si rifletteva sull’acqua. Era circondato da alberi alti e scuri e da una leggera nebbia che rimaneva sospesa e rendeva l’atmosfera ancora più inquietante.
Fece un passo indietro, controllando la sua paura. Era sicura di essere sola: i passi che aveva sentito erano scomparsi del tutto.
Nonostante il terrore e il buio impenetrabile, decise di tornare indietro. Non si ricordava come fosse finita lì, ma l’unica cosa che desiderava era tornare a casa. Stava per farlo, quando sentì un pianto: era un bambino. Non sapeva da dove provenisse, ma diventava sempre più forte, più doloroso per le sue orecchie e il suo cuore. Prese a correre nella direzione dalla quale secondo lei provenivano quei singhiozzi. Corse sempre più veloce: le gambe non le facevano più male, il cuore batteva forte, la collana di sua madre si scontrava con la sua pelle chiara ad ogni passo e il respiro si faceva sempre più irregolare.
Continuò a correre, mentre il pianto di quel bambino si trasformava in una serie di singhiozzi ritmici, quasi inumani. Erano sempre più forti ed era sicura che le avrebbero perforato i timpani. Fu costretta a fermarsi e cadde a terra sulle ginocchia, tenendosi la testa per tapparsi le orecchie.
 
Il suono ritmico e metallico della sveglia sul comodino le fece aprire gli occhi di scatto e respirare con difficoltà. Si guardò intorno preoccupata, immersa in un bagno di sudore, ma quando si rese conto di essere nella propria camera al sicuro, si rilassò rimanendo per qualche minuto sotto le coperte. Il suo respiro tornò regolare, così si alzò fiondandosi sotto la doccia, per paura di far tardi a scuola.
Quello sarebbe stato il suo primo giorno: se n’erano andati da Beacon Hills quando aveva appena tre anni, per via del lavoro di suo padre, ma adesso che l’uomo aveva ottenuto un trasferimento, avevano deciso di tornare lì.
Ovviamente, non si ricordava quasi niente di quella cittadina e non conosceva nessuno, quindi era come se avesse dovuto cominciare una nuova vita da tutt’altra parte.
L’acqua scivolava calda e confortante su tutto il suo corpo, permettendole di rilassare i muscoli tesi e la mente. Non era la prima volta che faceva un incubo del genere: da quando era tornata in quella cittadina – un mese prima, ad agosto – si era presentato quasi tutte le notti, ma comunque era stato una costante durante tutta la sua vita.
Non gli aveva mai dato molta importanza, anche se non la faceva dormire la notte, perché alla fine era uno stupido incubo. Piuttosto, la cosa che la incuriosiva di più era che fosse sempre lo stesso e che in tutti quegli anni non fosse mai riuscita a capire chi fosse il bambino e chi l’avesse seguita, prima di giungere al lago.
Ritornò alla realtà, quando un po’ di sapone le finì negli occhi e fu costretta a sciacquarli, per poi fare lo stesso con il resto del corpo e uscire dalla doccia.
Si preparò in fretta e in modo confuso, con l’ansia che le scorreva letteralmente nelle vene. Dimenticò l’incubo, preparò la cartella infilandoci gli ultimi libri e si avviò al piano di sotto per fare colazione.
Sorrise entrando in cucina e vedendo la madre prepararle la solita tazza di caffè, accompagnata dai suoi biscotti al cioccolato preferiti.
«Buongiorno» le disse la donna, pulendosi le mani per poi baciarla affettuosamente sulla fronte. Con un gesto della mano, le indicò la colazione pronta sul tavolo. Poi però, il suo sguardo si fermò preoccupato sul viso della figlia «Tesoro, stai bene? Sei un po’ pallida»
«Sto bene» rispose la ragazza, sperando che non le facesse altre domande. La madre non sapeva di quell’incubo e di quante volte si fosse svegliata nel cuore della notte sudata, impaurita e in lacrime «Sono solo un po’ nervosa per il primo giorno»
 
A: Derek (8:09 am)
“Ci vediamo oggi pomeriggio al loft per allenarci?”

Da: Derek (8:10 am)
“Ok, ma niente Stiles”

A: Derek (8:10 am)
“Come? Perché?”

Da: Derek (8:11am)
“Perché mi manda in bestia”

A: Derek (8:12 am)
“Guarda che sono qui!! Riesco a leggere quello che scrivi!! –Stiles”

Da: Derek (8:12 am)

“Meglio, riesci anche a capirlo?”
 
«E’ fastidioso, dio!» esclamò il ragazzo, camminando accanto all’amico e cercando di non andare a sbattere contro gli studenti che venivano dalla direzione opposta. Scott sorrise come al suo solito, arricciando leggermente il naso, mentre teneva ferma la cartella sulle spalle.
«E’ Derek» disse infine, arrivato al suo armadietto. Ripose il cellulare in tasca e afferrò i libri che gli sarebbero serviti quel giorno «Comunque, puoi venire oggi, non ti ucciderà»
Stiles alzò entrambe le sopracciglia con fare ovvio «Lo so»
L’amico stava per replicare, quando Kira arrivò correndo, fiondandosi tra le braccia di Scott.
I due cominciarono a parlare di argomenti schifosamente romantici e a scambiarsi qualche bacio: Stiles sbuffò annoiato e si allontanò lasciandoli soli, per avviarsi in classe. Un altro anno stava per iniziare e sperava di poter vivere tranquillamente, senza dover salvare il proprio migliore amico dalle grinfie di qualche mostro con poteri soprannaturali. Scott era il lupo mannaro, ma senza Stiles non poteva farcela. Continuò a camminare, con un’espressione disgustata, stanca e annoiata stampata sul volto, percorrendo tutto il tragitto verso la prima lezione di quella mattina. La matematica gli piaceva, ma era un tipo pigro quando si trattava di scuola e lacrosse, quindi avrebbe preferito rimanere al caldo, sotto le coperte, anche quella mattina. Sovrappensiero – come sempre – arrivò a destinazione, dimenticandosi per un attimo di Scott e Kira che stavano orribilmente attaccati come due sanguisughe contro gli armadietti e svoltò l’angolo, per entrare in classe. Invece di trovare la porta dell’aula, andò a sbattere contro qualcuno facendolo cadere a terra.
«Scusa!» esclamò, cadendo dalle nuvole.
La ragazza che aveva di fronte gli era sconosciuta, ma non sembrava arrabbiata. Aveva i capelli mossi e scuri che le ricadevano sulle spalle e gli occhi azzurri e cristallini come il mare. La sua pelle era chiara, quasi pallida e le labbra più rosee del dovuto. Assomigliava a Biancaneve.
Ritornò alla realtà e si accucciò accanto a lei, aiutandola a recuperare le sue cose. Si alzarono entrambi e per un po’ un silenzio carico d'imbarazzo aleggiò tra di loro.
«Allora… grazie» cominciò la ragazza.
«Di niente» sorrise Stiles «Sei nuova? Sono Stiles, comunque»
«Emma, piacere» rispose timidamente. Le sue guance si tinsero di rosso e il ragazzo la trovò tremendamente adorabile «Sì, si vede tanto?»
«Un po’, mi sembri... persa»
«Lo so, infatti, stavo cercando l’aula di matematica»
Stiles sfoggiò il suo sorriso da “Io lo so e posso aiutarti” che secondo lui riusciva a conquistare tutte le ragazze, ma a detta di Scott era inquietante e «E’ questa, anch’io ho matematica adesso»
La ragazza gli sorrise riconoscente ed entrambi entrarono e presero posto. Furono raggiunti dopo qualche minuto da Scott e Kira che si sedettero vicini, dietro a Stiles.
Emma non si unì a loro: si limitò a sedersi in prima fila, vista la difficoltà a vedere nonostante gli spessi occhiali da vista appoggiati sul naso, e non parlò più con nessuno. Non le era mai stato facile fare amicizia e nonostante Stiles – che non poteva certo considerare un amico, visto che si erano solo scontrati in corridoio – sapeva che avrebbe faticato anche in quella scuola. Infatti, l’unica cosa che le mancava veramente della sua vecchia città erano gli amici.
La lezione durò un’ora, ma sembrò passare in cinque minuti. Le piaceva la matematica e tutto ciò che riguardava la scienza, quindi per lei era divertente e molto interessante studiare quelle materie. Non sapeva da chi avesse preso tutta questa sua bravura a scuola, ma era sicura che fosse nel suo DNA: magari qualche suo antenato era stato un brillante scienziato.
Anche il resto della giornata passò velocemente, sebbene non avesse scambiato parola con qualcuno. Saltò il pranzo, troppo imbarazzata da sedersi da sola ed esser osservata da tutti e non troppo speranzosa nel fatto che Stiles le chiedesse di unirsi a lei. Così, preferì scegliere la strada più facile: si chiuse in biblioteca a mangiare il suo panino e a leggere un libro.
L’ora di tornare a casa arrivò in un battibaleno e senza nemmeno rendersene conto, si ritrovò in piedi di fronte al suo armadietto per riporre i libri prima di tornare a casa.
Lo aprì e mise in ordine alcuni quaderni, ma fu distratta da un suono assordante provocato da un corpo sbattuto contro un armadietto vicino al suo.
Quando si accorse di Stiles completamente schiacciato contro il metallo azzurro da un altro ragazzo, spalancò gli occhi, colpita da un misto di sorpresa e paura.
«Prova a dire di nuovo una cosa del genere e giuro che ti stacco la testa a morsi» sibilò il ragazzo, tenendolo stretto per il colletto.
«Non essere così drammatico, Derek» lo riprese Stiles «Non è colpa mia se sei noioso e tieni sempre il muso!»
Ad Emma scappò da ridere, senza nemmeno accorgersene, ma si bloccò immediatamente quando due occhi chiari – probabilmente un misto tra verde e grigio – le fermarono il battito cardiaco e il respiro nei polmoni. Brillarono sotto il neon bianco del corridoio e la fecero tremare di paura. Rimase ferma in quella posizione, mentre lui si avvicinava lentamente e non le staccava gli occhi di dosso. Era alto, con i capelli corvini e vestito completamente di nero. Uno così non passava inosservato, ma una come lei lo avrebbe ignorato senza pensarci due volte.  
Si fermò solo quando notò che lo sportello aperto dell’armadietto fosse l’unico ostacolo a dividerli. La guardò ancora negli occhi, scrutandola attentamente, sperando veramente di impaurirla, per quello che ad Emma sembrò un tempo infinito.
«Che hai da ridere, uhm?» ringhiò alla fine. Emma sobbalzò e fece un passo indietro.
«Derek!» lo riprese Stiles con tono severo. Il ragazzo fece finta di non sentire quella voce così fastidiosa da essere la protagonista della sua vita da qualche anno ormai e un sorrisetto soddisfatto si formò sul suo volto quando tornò a guardare la ragazza e l’unica cosa che vide furono i suoi occhi ancora spaventati.
Alla fine si allontanò senza aggiungere altro ed Emma riprese a respirare, lasciandosi andare contro il metallo freddo dell’armadietto. Stiles si precipitò da lei, con la paura che svenisse da un momento all’altro, ma «Sto bene» fu tutto ciò che uscì dalla bocca della ragazza.
Tirò fuori la sua bottiglietta d’acqua e gliela passò «Scusalo»
«Chi è?» chiese infine, dopo aver bevuto un bel sorso d’acqua.
«Derek Hale» rispose tranquillo «E’ un mio amico»
Emma spalancò gli occhi e per poco non si strozzò con l’acqua «Un tuo amico? Scherzi, vero?»
Stiles alzò le spalle «Ogni tanto mi stupisco anch’io, sai, ma poi ti ci abitui» disse «Comunque, non prenderla sul personale, fa così con tutti: la parola felicità non fa parte del suo vocabolario»
Emma rise scuotendo la testa e insieme si avviarono all’uscita.
 
«Spero per te che-»
«Sorpresa!» esclamò Stiles, entrando nel loft, seguito da Kira e Isaac.
Derek chiuse gli occhi, cercando di mantenere la calma, poi li riaprì guardando Scott e alzando entrambe le sopracciglia, per fargli chiaramente capire di non gradire la presenza di quel ragazzino. Scott alzò le spalle, con aria arrendevole.
«Che sono quelle facce? Faccio parte del branco anch’io!» si lamentò Stiles «E poi devi farti perdonare per come hai trattato Emma, era spaventata a morte»
«Emma?» intervenne Kira.
Derek e Stiles la ignorarono «Meglio se lo era, almeno non riderà più di me»
«Ma-»
«La minaccia di questo pomeriggio è ancora valida, Stilinski»
Il ragazzo sbuffò e decise di tacere una volta per tutte. Derek sembrò finalmente soddisfatto e un sorrisino divertito si formò spontaneamente sul suo volto, quando ripensò a quella ragazza. Gli era piaciuto spaventarla, ma quando quegli occhi azzurri – quasi più azzurri dei suoi – l’avevano guardato, aveva sentito una strana sensazione all’altezza dello stomaco. Non gli erano nuovi: sapeva di averli già visti in passato ma non sapeva dove o come. Ripensandoci, l’intero viso di quella ragazza gli ricordava vagamente qualcosa, o meglio qualcuno, ma per quanto si fosse sforzato e continuasse a farlo, non riusciva a darsi una risposta.
Però doveva ammettere che fosse carina: gli occhi grandi, la pelle chiara, le labbra sottili e rosate. Sarebbe stato tutto perfetto, se non fosse stata amica di Stiles.
«Cominciamo?» esclamò Scott, non appena Erica e Boyd si unirono al gruppo.
«Certo!» intervenne Stiles raggiante, che si limitava a rimanere in disparte mentre li guardava azzannarsi a vicenda. Ancora non capiva come potesse piacergli tutta quella storia dei lupi mannari. Forse lo faceva per Scott: dopotutto era il suo migliore amico.
Tornò alla realtà e guardò il ragazzo «Posso ucciderti?»


 

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Capitolo 2
*** Middle of nowhere ***


salve a tutti!
finalmente sono riuscita ad aggiornare, nonostante (e come sempre) questo capitolo non mi piaccia per niente! detto così, non è proprio un bell'invito per voi a leggere, ma è la verità e a me piace sincera ahaha comunque, volevo ringraziarvi per aver letto, recensito e aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite, GRAZIE MILLE!
riguardo alla storia, volevo dire una cosa: come vi avevo detto all'inizio, per me è difficile scrivere su personaggi già creati dal punto di vista estetico ma soprattutto caratteriale e psicologico e giustamente, una ragazza nella sua recensione mi ha fatto notare che Derek (alla fine dello scorso capitolo) non avrebbe mai sorriso al ricordo di una Emma spaventata perchè semplicemente non fa parte del suo carattere. quindi ho pensato: se notate nei miei capitoli aspetti del carattere dei personaggi che non rispecchiano i personaggi della serie, siete autorizzati a dirmelo! non mi offendo, anzi, è un modo per me per migliorare! ovviamente, non riuscirò ad essere fedele al 100% alla serie tv, cioè io di proposito darò aspetti del carattere ai personaggi che loro di normale non hanno, però se notate qualcosa, parlate pure!
ok, ho scritto moltissimo, ma volevo dire un'ultima cosa: anche questo capitolo è tremendamente noioso, ma ho bisogno di qualche capitolo così per farvi entrare nel vivo della storia quindi abbiate pazienza! ne vale la pena (spero!!) ahahah

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia
 
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CAPITOLO DUE: MIDDLE OF NOWHERE
 

La campanella suonò fastidiosamente riportandola alla realtà: chiuse di scatto l’armadietto, seccata da tutto quel baccano che la circondava e che certamente non era il massimo di prima mattina.
Il solito incubo si era presentato tutte le notti ed era abbastanza convinta che avrebbe continuato. Non aveva dormito molto bene ed era nervosa, quindi qualsiasi cosa succedesse intorno a lei la rendeva ancor più irritabile. 
Anche la seconda settimana di scuola si era quasi conclusa e ancora non era riuscita a farsi nessuno amico. Aveva conosciuto qualche studente durante le lezioni, ma nessuno ancora l’aveva invitata a sedersi a pranzo e, proprio come il primo giorno, aveva passato quelle prime due settimane in biblioteca con un libro in una mano e un panino nell’altra. Scosse la testa, ripiombando nella realtà, avviandosi in classe: la prima lezione sarebbe stata quella di chimica: si alzava più volentieri la mattina al solo pensiero di poter partecipare a quella lezione, oppure a biologia o matematica. Le piaceva tutte ciò che avesse a che fare con la scienza e poteva ritenersi anche abbastanza brava.
Nonostante questo, non era mai stata un tipo competitivo e nemmeno una di quelle persone che avrebbe fatto del male a chiunque pur di emergere e raggiungere il proprio scopo.
Con questi pensieri nella mente, entrò finalmente in classe e si sedette in uno degli ultimi posti – visto che quelli in prima fila erano stati occupati – vicino ad un ragazzo, che se ne stava appoggiato con la testa sul banco e sembrava che dormisse.
«E’ libero?» chiese.
Lui aprì di scatto gli occhi e annuì, passandosi una mano sul viso sperando di portare via la stanchezza che lo attanagliava e non gli permetteva nemmeno di tenere gli occhi aperti. Emma si sedette, tirò fuori il materiale e sperò che almeno quel giorno il professore le avrebbe fatto fare qualche vero e proprio esperimento.
Quando, distrattamente, alzò lo sguardo in direzione della porta d’ingresso, vide entrare Lydia Martin. Non la conosceva personalmente, ma aveva sentito parlare molto di lei: alcuni dicevano che fosse una sensitiva, ma guardandola bene, Emma constatò che fossero solo voci di corridoio. Come poteva una ragazza del genere, bella, popolare, alla moda essere una sensitiva? Mentre altri dicevano soltanto che fosse un piccolo genio in chimica. E questo poteva anche essere credibile. Non le staccò gli occhi di dosso finchè non si mise seduta e tirò fuori il proprio quaderno. Poi entrò un altro ragazzo che le si sedette vicino e la salutò con un sorriso. Era poco più alto di Lydia e aveva i capelli scuri e la pelle olivastra.
«Buongiorno!» la voce squillante del professore la costrinse a spostare lo sguardo di fronte a sé. L’uomo sistemò il materiale sulla cattedra e vi si appoggiò pronto a parlare «Oggi lavorerete a coppie per portare a termine un piccolo e semplice esperimento»
Afferrò l’elenco dei suoi alunni e cominciò a formare qualche coppia. Quando Emma sentì pronunciare il proprio nome, istintivamente trattenne il respiro e si preparò al peggio.
«Grimes» la voce del professore riecheggiò per tutta la stanza. Il resto della classe guardò nella sua direzione, ma Emma cercò di non farci caso. Quella situazione si ripeteva ormai da due settimane: essendo quella nuova, ogni volta che qualcuno chiamava il suo nome, tutti si giravano a guardarla, come se fosse stata un extraterrestre «Potresti lavorare con Lahey»
La ragazza si guardò un po’ intorno, cercando il suo compagno, mentre il professore riprendeva a scorrere l’elenco dei nomi. Nessuno aveva alzato la mano, nessuno si era fatto avanti: forse era semplicemente assente, o forse…
«Sono io» parlò il ragazzo seduto vicino a lei, ancora mal disteso sul banco con gli occhi chiusi, interrompendo i suoi pensieri. Li aprì lentamente e si tirò su, sorridendole. Era davvero carino e, Emma potè constatare, molto più alto di lei: aveva i capelli scuri e gli occhi azzurri «Ma ti avverto: non sono per niente bravo in chimica»
Ridacchiò, scuotendo la testa: per lo meno era simpatico. Da quando frequentava quella scuola, non aveva conosciuto molte persone e quelle poche con cui aveva parlato non erano state per nulla simpatiche.
«Sono Isaac, comunque» continuò lui, afferrando qualche strumento per l’esperimento da compiere.
«Emma» rispose allungando la mano verso di lui e stringendo la sua che sembrava molto più grande. Non l’aveva mai detto a nessuno, perché la metteva in imbarazzo, ma i ragazzi con le mani grandi erano sempre stati una sua debolezza.
Quelle due ore di lezione passarono velocemente: non riuscirono a concludere l’esperimento perché troppo impegnati a parlare del più e del meno. Non avevano affrontato argomenti importanti, ma Isaac le aveva raccontato qualcosa di se stesso e di Beacon Hills. La campanella suonò e nessuno dei due se ne accorse. Si resero conto della fine della lezione, quando metà classe era corsa via per non far tardi per pranzo ed anche il professore aveva lasciato l’aula. Così, accecati dalla fame per l’ora tarda, riposero le loro cose velocemente negli zaini, e si diressero verso l’uscita.
«Ti va di mangiare insieme?» le chiese Isaac.
La verità era che a lui era subito piaciuta: aveva dormito per i primi quindici minuti di lezione perché gli allenamenti di Derek lo uccidevano. Il giorno seguente aveva sempre sonno e i muscoli gli facevano male. Però si era accorto di Emma, con quei capelli scuri, gli occhi azzurri e le labbra rosee; si era accorto che fosse timida, che non parlasse molto e che mangiasse ogni giorno chiusa in biblioteca. Non la stava invitando per pietà, ma perché credeva che fosse simpatica e, dopo le due ore passate insieme, ne era del tutto convinto.
«Dici davvero?» chiese la ragazza sorpresa, facendolo ridere. Poi si rese conto della risposta stupida e cercò di rimediare «Sì, scusa, mi- Sì, mi piacerebbe»
Isaac annuì serio e si avviarono insieme alla mensa: quando entrarono, il ragazzo si incamminò sicuro verso un tavolo in particolare e quando Emma vide chi vi fosse seduto, trasalì: aveva capito che avrebbero mangiato insieme. Loro due. Da soli. Ma, chiaramente, aveva frainteso. Non che fosse un problema, ma per lei era già difficile relazionarsi con una persona alla volta, farlo con un intero gruppo le era praticamente impossibile.
Lo seguì, finchè non si fermò di fronte al gruppo. Stiles la vide e alzò una mano per salutarla e sorrise, cercando di masticare tutto quello che aveva in bocca. Emma lo trovava adorabile e buffo allo stesso tempo. Ecco perché le era piaciuto sin dall’inizio, anche se aveva parlato con lui solo il primo giorno di scuola.
«Ciao ragazzi» disse Isaac; Emma si sedette in mezzo tra lui ed una ragazza dai capelli biondo cenere «Lei è Emma»
Tutti, ad eccezione di Isaac e Stiles, la scrutarono per qualche secondo, rendendo la situazione abbastanza imbarazzante. Lo sguardo del ragazzo che durante chimica si era seduto vicino a Lydia la stava trapassando e fu costretta a distogliere il proprio per paura di rimanerne pietrificata da un momento all’altro. Sembrava che un paio d’occhi così potessero uccidere.
«Lui è Scott» Isaac ruppe il silenzio, un po’ infastidito. Sapeva che volessero capire se Emma fosse un lupo mannaro od una semplice umana, ma stavano esagerando e la stavano chiaramente spaventando. Già lui stesso, in classe, aveva appurato che si trattasse di una normalissima ragazza, ma ovviamente non ne fece parola con nessuno «Poi ci sono Malia,» continuò indicando la ragazza seduta accanto ad Emma «E poi Lydia, Kira, Boyd ed Erica»
Emma gli sorrise riconoscente e in men che non si dica, la situazione intorno a sé cambiò. Quel momento imbarazzante in cui aveva avuto gli occhi dell’intero gruppo su di sé si era finalmente concluso e tutti ripresero a parlare, passando dal cibo scadente della mensa, al test di matematica della settimana seguente, alla partita di lacrosse di quel sabato.
«A proposito,» cominciò Malia, voltandosi verso di lei «Ti va di venire?»
La ragazza rimase ferma immobile con la forchetta a mezz’aria e gli occhi spalancati. Le stavano davvero chiedendo di vedere la partita di lacrosse insieme sabato sera? Le scappò un sorriso: non poteva crederci. Nel giro di qualche ora si era fatta qualche nuovo amico e aveva una partita a cui partecipare quello stesso weekend.
«Si, è divertente» esclamò Lydia «Io, tu, Malia e Kira possiamo vederci nel pomeriggio e andare insieme alla partita, che ne dici?»
Emma era sempre più sbalordita: aveva pensato – e ne era convinta – che quella ragazza non le avrebbe mai rivolto la parola, perché troppo impegnata a mantenere la sua facciata da ragazza bella e popolare che non si abbassa a parlare con gli alunni che nessuno conosce e che frequentano quella scuola da sole due settimane. Invece, fu costretta a ricredersi: era stata davvero gentile.
«Davvero?» ripeté, incredula.
Malia annuì sorridendo, per poi ricordarsi di un’imminente lezione di matematica. Dopo aver insistentemente pregato Stiles di non farla andare, recuperò lo zaino e qualche libro e si allontanò con un’espressione imbronciata, facendo ridere l’intero gruppo.
 
Non era mai stata ad una partita di lacrosse. Anzi, non era mai stata ad una partita. Non aveva mai fatto parte di una squadra, suo padre non era mai stato un tipo sportivo, quindi era abbastanza ovvio che non avesse alcuna passione per l’attività fisica e non fosse una grande tifosa. Nonostante questo, le piaceva l’atmosfera: erano sedute sulle gradinate in attesa che cominciasse. Aveva trascorso il pomeriggio con le tre ragazze ed era arrivata alla conclusione che fossero davvero simpatiche, anche se quella con cui aveva stretto più amicizia era stata Malia. Le piaceva perché era gentile con tutti, ma allo stesso tempo non aveva peli sulla lingua e non si vergognava di dire ciò che le passasse per la testa. Le avevano raccontato che Scott, Isaac e Stiles fossero nella squadra, ma che quest’ultimo non fosse molto bravo a giocare.
Infatti, non appena si fece buio e le luci del piccolo campo furono accese, i giocatori uscirono dagli spogliatoi e Stiles fu il primo a sedersi in panchina. Lo salutò con un sorriso e un gesto veloce della mano, quando si voltò nella loro direzione e fece intendere loro che stasera era sicuro che avrebbe giocato. Malia sbuffò, sorridendo e scese dalle gradinate per andare a salutarlo ed Emma ipotizzò che fosse la sua ragazza, mentre Kira fece lo stesso con Scott.
Nel giro di pochi minuti, anche la squadra avversaria entrò in campo e la partita ebbe inizio. Non aveva mai sentito parlare di lacrosse, quindi per la maggior parte del tempo le fu difficile capire come si giocasse: aveva intuito che fosse simile ad altri sport come il football, ma oltre a quello sapeva di non essere una grande esperta.
Lydia si alzò, dicendole che sarebbe andata a prendere da bere qualcosa per tutte, così nel giro di pochi minuti si ritrovò seduta da sola. Si guardò un po’ intorno per vedere se ci fosse qualche faccia conosciuta, ma non incontrò gli occhi di nessuno. Fu la voce di Isaac a richiamarla dal campo che la riportò alla realtà. Lo salutò con un cenno della mano mentre attraversava il campo per avvicinarsi a Scott e Kira. Si scambiarono qualche parola, che a detta di Emma non aveva niente a che fare con la partita, per poi dividersi di nuovo e tornare a giocare.
I suoi occhi si muovevano in tutte le direzioni, cercando di seguire il gioco, ma all’improvviso la sua attenzione fu attirata dal suono di un cellulare. Si guardò un po’ intorno cercando di capire da dove provenisse, ma senza successo. Così, per sicurezza, controllò che non fosse il suo. Infine, si accorse della borsa di Lydia rimasta appoggiata sulla sua postazione, vicino a lei. La suoneria proveniva da lì. Lo lasciò squillare e tirò un sospiro di sollievo quando smise. Ma quella persona richiamò per altre tre volte e Emma si guardava intorno sempre di più in cerca della rossa, per chiederle per favore di rispondere a quel telefono perché la stava facendo impazzire.
Alla quarta chiamata, sbuffò sonoramente e «Al diavolo!» esclamò, infilando una mano dentro la borsa dell’amica, estraendone il cellulare.
Rispose senza nemmeno vedere chi fosse «Pronto?»
«Lydia!» tuonò una voce maschile dall’altra parte.
Trasalì spaventata «No, sono Emma. Lydia è-»
«Emma? Emma chi?» rispose confuso, senza aspettare risposta «Devo parlare con Lydia»
Il suo tono era così serio e piatto che ebbe ancora più paura. Non sapeva se fosse meglio rispondere oppure chiudere la chiamata. Optò per la seconda opzione e agganciò, leggendo Derek, sullo schermo del cellulare. Roteò gli occhi infastidita. Adesso ricordava: l’amico di Stiles.
Si affrettò a riporlo nella borsa non appena vide Lydia tornare e non appena la rossa si sedette, il telefono riprese a squillare.
L’afferrò e rispose «Hey Derek»
«Dovete venire qui, subito»
Lydia si fece pallida «Che sta succedendo?»
«Abbiamo visite» rispose, facendola respirare velocemente «So che vi sto mettendo in pericolo, ma non so se posso farcela da solo contro sei alpha. Mio zio compreso»
«Stiamo arrivando» rispose decisa, mentre cercava di metabolizzare l’accaduto.
Solo in quel momento si ricordò di Emma, seduta vicino a sé, quindi si voltò verso di lei sfoderando un bel sorriso, ma notando comunque la sua espressione turbata, e allo stesso tempo curiosa.
«Tutto bene?» azzardò, notando lo sguardo assente della ragazza.
Lydia ritornò alla realtà «Sì, ascolta» iniziò «E’ meglio se chiami tuo padre e torni a casa»
Corrugò la fronte «Perché?»
«Fa come ti dico, ok?» la ragazza la guardò alzarsi e dirigersi verso Kira e Malia che erano rimaste a bordo campo, per seguire meglio la partita. Le osservò attentamente mentre parlavano tra loro e in un momento – come se potessero sentire da metri di distanza – anche Scott e Isaac furono vicini a loro.
Non capì come riuscirono a convincere il coach a lasciarli andare, forse non ci provarono nemmeno. Stiles si unì a loro e Isaac la guardò preoccupato per un’ultima volta, prima di allontanarsi e sparire completamente dalla sua visuale.
 
Quando arrivarono, con ancora le divise di lacrosse indosso, la porta del loft di Derek era già aperta, così non si fecero problemi ad entrare. Tutto quello che videro, furono sei enormi alpha che li guardavano quasi ridendo come se avessero voluto ucciderli da un momento all’altro. E forse, era proprio per quello che si trovavano lì. Derek dava loro le spalle, ma si voltò quando lì sentì entrare e nonostante non lo desse a vedere, si rilassò, confortato dalla presenza di un aiuto.
«Hai portato i rinforzi?» uno di loro parlò lentamente, facendo qualche passo avanti nella loro direzione. Aveva in mano un bastone e Scott non ne colse subito il senso: solo in un secondo momento si rese conto che fosse cieco e si chiese come fosse possibile. Gli altri cinque rimasero alle sue spalle, mentre il ragazzo e Isaac si avvicinavano sempre di più a Derek, lasciando indietro le ragazze.
«Sei contro uno: non mi sembrava giusto» rispose Derek.
«Sono qui solo per parlare» continuò l’uomo, rimanendo fermo sul posto. Furono gli altri lupi ad avvicinarsi. Il loro aspetto era ancora umano, ma gli occhi rossi, i canini e gli artigli erano visibili ormai da minuti interi.
«Parla»
«Ti dice niente Emma Grimes?»
Derek corrugò la fronte, senza capire, ma era sicuro di aver già sentito quel nome da qualche parte. Poi ricordò: la ragazza che aveva incontrato a scuola, quando stava litigando con Stiles e la stessa che le aveva risposto al telefono quasi un’ora prima. Senza però capire cosa c’entrasse lei in tutta questa storia, si voltò verso il diretto interessato.
«Cosa c’entra Emma?» chiese Stiles.
«Ancora niente» rispose l’Alpha «Ma mi sarà utile. Lei stessa vorrà essermi utile, visto il conto in sospeso che ho con i suoi genitori»
«No!» esclamarono all’unisono Stiles ed Isaac; Derek alzò un sopracciglio e li guardò senza capire tutta quella loro volontà nell’aiutarla: alla fine era una questione tra Deucalion e quella ragazza. Perché si era rivolto a lui? Sapeva qualcosa di cui lui non era a conoscenza? Ma all’improvviso, cominciò a sentire lo stesso sentimento dei due ragazzi. Ripensò al suo viso e al fatto che gli fosse famigliare, che non fosse nuovo. E fu questo essenzialmente e inspiegabilmente che spinse Derek a reagire, a schierarsi dalla parte di Isaac e Stiles.
«Non lasceremo che le facciate del male»
Se l’avessero intesa come una minaccia o un semplice avviso, questo Derek non lo sapeva, ma delle sue parole era sicuro al cento per cento. Guardò Deucalion sorridere spietatamente come se avesse accolto quella frase, quella minaccia, quella sfida felicemente e senza paura. Nessuno aggiunse altro, così senza il minimo rumore i sei Alpha se ne andarono, con la silenziosa, ma consapevole, promessa che sarebbero tornati presto.
Derek sospirò pesantemente, rilassandosi dopo minuti interminabili durante i quali aveva teso i muscoli fino a farli quasi strappare, e si voltò completamente verso il resto del gruppo. Isaac e Stiles lo guardavano preoccupati, mentre sul volto degli altri era dipinta la stessa domanda a cui nemmeno lui riusciva a trovare risposta: perché Emma?
«Allora?» Isaac ruppe il silenzio.
«Dobbiamo proteggerla»

 

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Capitolo 3
*** All falls down ***


salve lupetti :-)
finalmente, riesco ad aggiornare dopo quasi un mesetto! meglio tardi che mai, no? comunque, come va? spero tutto bene, io sono stata un po' pigra e poi un po' impegnata con università e amici, ma cerco di ritagliarmi (quando posso) un piccolo spazio per la scrittura! prima di passare alla storia, vorrei ringraziarvi per aver letto e recensito e per averla aggiunta alle preferite/ricordate/seguite. sono davvero fiera di questa storia e di come sto cercando di sviluppare la trama: per me è come una nuova sfida visto che normalmente scrivo cose romantiche e non mi cimento mai in generi diversi, come sta accadendo in questo caso, quindi sono davvero emozionata e spero che leggiate perchè ci tengo veramente!
venendo alla storia: già da questo capitolo, la storia (grazie a dio) comincia ad ingranare, perchè vengono fuori segreti che saranno fondamentali per la trama. sto ancora facendo la scaletta di ciò che inserirò in ogni capitolo e vi giurò che mi sto davvero impegnando per rendere ognuno di loro leggibile, carino e sempre con qualche colpo di scena. 
non aggiungo altro, perchè voglio che leggiate, ad eccezione di due cose: 1) non fatevi convincere dal carattere così taciturno e timido di Emma, molto presto metterà fuori gli artigli anche lei (in senso figurato, mi dispiace ma non diventerà un lupo mannaro ahahah). Emma, se vogliamo, è un po' come la Allison della prima stagione: da fuori, sembra che abbia paura persino della sua ombra, ma poi quando c'è da combattere, combatte: quindi due parole,be ready!; 2) vi piace il nuovo banner? l'ho fatto io, c'ho messo tipo 3 giorni ma ne sono troppo soddisfatta!

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia
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CAPITOLO 3: ALL FALLS DOWN
 
Sentiva freddo intorno a sé: aveva le mani gelate, gli occhi che pizzicavano e le gambe intorpidite, eppure era convinto di essere disteso e mezzo addormentato nel suo letto. Non che casa sua fosse una fornace, ma non si moriva così di freddo. Sbuffò, infastidito e aprì gli occhi, rimanendo spaesato per qualche secondo. Ciò che aveva di fronte non era la parete mezza intonacata alla destra della grande finestra – ancora doveva finirla, ma non si era deciso a scegliere il colore della tinta – ma la casa dove aveva vissuto prima della morte dei suoi genitori. Non la vedeva da anni ormai, eppure era sempre la stessa: non si era rovinata quasi per niente, aveva ancora quel colorito crema che piaceva tanto a sua madre, le persiane color legno e il tetto rosso mattone. Era esattamente uguale alla casa che aveva lasciato quando venne a conoscenza della tragica notizia. Gli era sempre piaciuto quel posto: era immerso nel bosco, d’estate era illuminato dai raggi del sole che filtravano attraverso i rami degli alberi e lui era libero di girovagare dove volesse, senza mettersi nei guai. Ma tutto ciò che ricordava era solo nella sua mente, perché di fronte a sé, il buio, il freddo ed il silenzio regnavano e la casa sembrava grigia e triste, come una fantasma che si era arreso alla sua condizione e non riusciva a trovare pace. Non sapeva perché fosse lì: un momento prima era nel suo loft e quello successivo di fronte ai suoi ricordi più nascosti. Probabilmente stava solo sognando, ma allora perché non riusciva a svegliarsi? Non era un tipo timido o codardo Derek, ma stare lì non gli piaceva e voleva tornare a casa. Fece qualche passo verso la casa, finchè i suoi piedi non toccarono il primo scalino, dei tre che conducevano al portico. Si fermò di scatto quando sentì una presenza alla sua destra. Alzò lo sguardo e seduta sulla sedia a dondolo, vide sua madre. Sbattè gli occhi più volte per capire se fosse vero, ma quella figura non se ne andava. Si rese conto che non si fosse accorta di lui e che, invece, si stesse rivolgendo a qualcun’altro. Salì i restanti scalini: sua madre era pallida come un fantasma ed era leggermente accucciata verso il basso, per poter parlare ad un bambino. Derek lo osservò per bene: avrà avuto sei anni circa, era corvino con gli occhi chiari e prima ancora che ne avesse piena consapevolezza, si rese conto di star guardando sé stesso da piccolo. Solo che non ricordava quella scena e non capiva cosa sua madre gli stesse sussurrando.
Fece un altro paio di passi verso di loro e si accucciò all’altezza del bambino, seduto a terra con alcuni giocattoli.
«Derek» lo chiamò la voce dolce, ma autorevole di sua madre «Promettimi che te ne occuperai»
«Promesso, mamma» rispose il bambino, senza nemmeno guardarla, troppo impegnato con il suo trenino a vapore. Derek sorrise, intenerito. Nonostante gli anni passati, i ricordi sbiaditi e il dolore che non lo lasciava mai libero, sorrideva ancora al pensiero dei suoi genitori.
«Derek, guardami» lo richiamò; alzò di scatto la testa e rimase ipnotizzato di fronte agli occhi rossi di sua madre. Talia odiava dover ricorrere a quei metodi per ricevere attenzione dai suoi figli, ma in quel caso, fu costretta, vista la situazione «Promettimelo»
Il bambino annuì, serio «Promesso»
 
Si svegliò di soprassalto, quando sentì il campanello suonare. Si alzò dal divano su cui si era appisolato, mentre stava pensando e ripensando ad un possibile collegamento tra Deucalion e quella ragazza e si avviò alla porta. Si passò una mano sul viso, annotandosi mentalmente che avrebbe dovuto ripensare a quel sogno così strano, visto che non sognava più sua madre, o la sua famiglia, da anni, ed aprì. Davanti a sé, Stiles, Scott, Isaac e Malia stavano aspettando di entrare. Si spostò permettendo loro di passare, quando si accorse che a chiudere la fila ci fosse Emma. Corrugò la fronte, mentre la guardava entrare in casa sua, senza che lei alzasse minimamente lo sguardo verso di lui. Perfetto, adesso non lo sopportava nemmeno.
Ma Emma non doveva essere lì: aveva chiamato i più fidati proprio per parlare di lei, proprio per riuscire a trovare una soluzione a quello che era successo qualche giorno prima.
Chiuse gli occhi per un momento, recuperando la calma e afferrò malamente Stiles per un braccio, trascinandolo dove nessuno – o meglio, Emma – avrebbe potuto sentirli.
«Che ci fa lei qui?» sibilò.
Stiles si liberò dalla sua presa e si aggiustò la maglietta «Non dovevamo parlare di lei?»
«Sì, di lei» rispose «Non con lei»
«Derek, può aiutarci, se solo le dicessimo qualcosa» riprese il ragazzo «Non sappiamo niente di lei, della sua famiglia e dei rapporti che possa aver avuto con Deucalion. Magari sa qualcosa che a noi, ovviamente, sfugge»
Soppesò per un attimo le parole dell’amico: aveva ragione, ma questo avrebbe portato anche a dover condividere con lei il loro più grande segreto «No» decise «Ce la faremo da soli: portala via di qui»
«Cosa? Ma-» tentò Stiles; Derek lo guardò, quasi ringhiando ma lo evitò «Le ho detto che sarebbe stata una serata tra amici»
Si massaggiò il collo spazientito «Va bene, allora andate a prendere delle pizze e tornate qui fra un paio d’ore»
Stiles non replicò, ma si allontanò da lui, dirigendosi verso Emma. Lo guardò scambiare qualche parola con la ragazza e poi uscire insieme, ma non prima che lei gli avesse rivolto un’occhiata interrogativa. Distolse lo sguardo e tornò dagli altri.
«Allora?» chiese Scott.
«Ho pensato a qualunque cosa e ho fatto qualche ricerca, ma niente» cominciò Derek «Mi ha dato una mano lo sceriffo: i suoi genitori non sono originari di Beacon Hills. Si sono trasferiti qui dopo la laurea e poi se ne sono andati quando lui ha ottenuto un trasferimento. Sono tornati più o meno un mese e mezzo fa»
«Che collegamento potrebbero mai avere con Deucalion?»
«Non lo so»
«E se avesse ragione Stiles?» s’intromise Malia «Magari dovremmo chiedere a lei qualche informazione»
«No» rispose Derek.
«Perché?» questa volta fu Isaac a parlare.
«Perché questo comporterebbe dirle che siamo un gruppo di esseri soprannaturali, sopra cui la gente inventa leggende metropolitane»
«Dovremmo farlo invece» affermò Malia. Derek la guardò, con le sopracciglia leggermente alzate, aspettando che continuasse «I gemelli che fanno parte del branco di Deucalion hanno iniziato a frequentare la nostra scuola: dovremmo metterla in guardia»
Scosse di nuovo la testa, seppur meno convinto. Voleva evitare di aggiungere un’ulteriore persona al suo branco, voleva evitare di mettere in pericolo qualcun altro, solo perché sapeva troppo. Era stanco di vedere soffrire le persone a causa sua. Però, cedette «Va bene»
 
«Sei sicuro che a Derek vada bene che rimanga a cena?» domandò Emma con tre cartoni di pizza tra le mani, mentre si avviava alla porta seguendo Stiles. Lo aiutò, afferrando le chiavi della macchina che gli stavano per cadere di mano.
«Grazie» disse, suonando il campanello. Avrebbe potuto tirare tranquillamente la maniglia e aprire il portone, ma aveva le mani occupate «Non lasciarti spaventare da lui, è un po’ musone. E poi non penso proprio che una ragazza taciturna come te possa dargli fastidio: quello è il compito che spetta al sottoscritto»
Emma sorrise, ma non ebbe il tempo di replicare, che si ritrovò Scott sulla soglia della porta. Li lasciò entrare aiutandoli con le pizze e le appoggiarono sul tavolo. In realtà, come Emma potè constatare, non era un tavolo per mangiare, ma uno di quelli bassi e piccoli che la gente metteva nel proprio salone per posarvi sopra altri inutili soprammobili o più semplicemente i piedi.
Si sedettero come potevano: chi sul divano, chi per terra, appoggiando i gomiti al tavolo e allungando le gambe sotto di esso.
Emma si ritrovò incastrata tra Scott ed Isaac, mentre gli altri erano in cerchio intorno a lei. Afferrò un pezzo di pizza e mangiò, cercando di evitare l’imbarazzo dovuto al momentaneo silenzio sceso sulla stanza. Forse avrebbe dovuto dire qualcosa, ma non sapeva cosa. Non era mai stata brava ad attaccare bottone.
«Allora» cominciò Malia, dopo aver bevuto un sorso d’acqua. Guardò Derek che molto poco gentilmente la invitò a continuare e a non fare la persona timida proprio in quel momento «Da quanto ti sei traferita qui?»
«Da agosto» rispose la mora «Da quando mio padre ha ottenuto un nuovo lavoro»
«Che lavoro fanno i tuoi?» s’intromise Scott, cercando di non apparire invadente.
«Mio padre è insegnante di scuola elementare, mentre mia madre è avvocato» rispose «I tu-»
«Quando è stata l’ultima volta che sei stata qui?» questa volta fu Derek a parlare, interrompendola e arrivando al dunque.
Emma aggrottò la fronte, colta di sorpresa. La pizza non le andava più, così appoggiò nel piatto ciò che le era rimasto in mano «Come fai a…?»
«Dimmelo» impose severo. Quella non era una semplice conversazione.
«Derek» lo ammonì Stiles.
Emma gli sorrise riconoscente e sospirò «I miei vivevano qui prima che io nascessi… Suppongo»
«Supponi?»
Lei respirò profondamente prima di continuare. Non sapeva come la conversazione avesse potuto arrivare a quel punto, ma non sembrava più una normale serata tra amici. C’era qualcosa che non sapeva e che loro non volevano dirle. E di questo ne era stata sicura, sin dalla sera in cui avevano lasciato tutti la partita di lacrosse di corsa.
«Sono stata adottata» disse infine, alzando gli occhi su Derek. I suoi occhi verdi brillavano nonostante la poca luce e di fronte alle sue parole, si erano dilatati e la scrutavano come se avessero improvvisamente trovato la soluzione di un enigma. Tutti la guardarono in silenzio, nessuno si azzardò ad aprire bocca. Non sapendo che fare, continuò «I miei veri genitori sono morti in un incidente d’auto quando avevo un anno. Poi sono stata adottata e fino al compimento dei miei tre anni, abbiamo vissuto a Beacon Hills»
«Non dovevi-» il primo a parlare fu Isaac «Voglio dire-»
«Tranquillo» lo interruppe «Non è un problema per me parlarne: insomma, voglio bene ai miei genitori adottivi e li considero la mia famiglia al cento per cento, visto che ho a malapena una fotografia di quelli biologici. Solo che non lo racconto spesso, tutto qui»
Tutti annuirono e cercarono di cambiare argomento, probabilmente convinti di aver ottenuto abbastanza informazioni. Tutti, ad eccezione di Derek. Continuò a pensare tutta la sera a quella rivelazione, arrivando alla conclusione che in effetti avrebbe potuto essere possibile un collegamento tra Deucalion e i genitori di Emma. Quelli morti nell’incidente.
Soltanto quando Emma e Stiles decisero di tornare a casa, ebbe la possibilità di parlare agli altri «Il collegamento c’è»
«Allora non sono l’unico ad averlo pensato!» esclamò Scott.
«Davvero vuole farmi credere che siano morti in un incidente?» chiese retoricamente con tono sarcastico Derek.
«Magari è quello che le hanno raccontato i suoi genitori adottivi, perché non dovrebbe crederci?»
«Malia ha ragione» disse Isaac.
«Non dobbiamo perderla di vista» riprese «Tu» disse indicando Scott «Isaac e Stiles tenetela d’occhio a scuola; Malia, tu e Kira durante il pomeriggio: se è vero che i gemelli frequentano le vostre stesse lezioni, dobbiamo tenerla lontano da loro»
Il branco annuì serio e finalmente, da bravi adolescenti qual erano, decisero di tornare a casa. Si era fatto tardi e per una volta che non c’era un problema da risolvere, era meglio se avessero dormito qualche ora in più prima della scuola.
«Sei sicuro sia del tutto umana?» chiese Scott preoccupato, voltandosi verso l’amico, con un piede sulla soglia della porta.
«Lo spero»
 
Quella notte non aveva dormito per niente bene: l’incubo si era presentato di nuovo, in forma ancora peggiore. Non aveva praticamente mai chiuso occhio e quelle poche volte che lo aveva fatto, aveva finito per preferire rimanere sveglia piuttosto che rivedere quel bosco infernale e sentire quel pianto così sofferente. Si diresse a passo svelto verso il suo armadietto con le Nike ai piedi che nemmeno battevano per terra. Aveva la mente stanca, visto che aveva passato gli ultimi due giorni a pensare a quello che era successo da Derek, ma non aveva concluso nulla. Chissà perché cosi tante domande. Quel ragazzo ancora la spaventava, ma credeva che, nel profondo della sua anima, non fosse cattivo e questo glielo faceva piacere un po’ di più. Forse aveva ragione Stiles: era soltanto asociale. Ma la luce dei suoi occhi verdi e il fisico statuario compensavano la poca capacità di relazionarsi con gli altri.
Giunse all’armadietto e lo aprì, tentando di tenere tutti i libri in una mano. Ne portava sempre troppi con sé e se ne pentiva amaramente nel momento successivo, perché non riusciva mai ad aprire armadietti, ombrelli, ad infilare la giacca o aprire la porta di un’aula. Era davvero senza speranza.
«Serve una mano?»
Si voltò di scatto, seguendo la voce che le aveva parlato. Dietro di lei, era fermo un ragazzo abbastanza alto, con i capelli corti e un sorriso gentile stampato sul volto. Tese una mano verso di lei, affinchè le passasse qualche libro.
«No no, grazie» rispose Emma. Gli dette le spalle e provò di nuovo ad aprire l’armadietto, ma nel farlo i libri caddero tutti rovinosamente a terra.
Il ragazzo si accucciò insieme a lei, aiutandola a mettere in ordine quel casino. Si rialzarono insieme e le porse i libri.
«Grazie mille»
«E’ stato un piacere» rispose lui, allungò la mano verso di lei «Sono Aiden, comunque»
«Piacere, Em-»
«Ehi, Emma!» esclamò troppo felicemente Isaac arrivandole da dietro e circondandole le spalle con il braccio «Ti ho cercato dappertutto, dov’eri?»
Emma lo guardò senza capire «Mh, eravamo insieme a lezione di chimica fino a dieci minuti fa… Va tutto bene, Isaac?»
Il ragazzo nemmeno la sentiva, poiché era concentrato nel tenere a bada il suo istinto di lupo nei confronti di Aiden. Malia aveva ragione: i gemelli erano a scuola e non stavano perdendo occasione per ronzare intorno ad Emma.
«Isaac» sibilò Aiden, salutandolo un po’ infastidito. Il ragazzo sorrise, felice di avergli rovinato qualsiasi cosa avesse in mente di fare.
«Ti dispiacerebbe venire con me?» riprese, rivolgendosi alla ragazza «Ho un dubbio su un argomento di chimica e ho proprio bisogno che tu me lo risolva»
Emma annuì, sorridendo ancora una volta riconoscente al ragazzo appena conosciuto e si allontanò. Non appena svoltarono l’angolo si fermarono. Isaac non poteva più aspettare e sapeva che Aiden avrebbe sentito comunque, ma doveva metterla in guardia.
«Devi stare lontana da lui»
«Come scusa?» chiese Emma. Va bene che erano amici, ma non poteva permettersi di dirle con chi dovesse parlare e con chi non potesse.
«Fidati, lo conosco» rispose Isaac, cercando di essere più gentile «E’ pericoloso e non ha una buona reputazione: promettimi che non gli parlerai più»
Sospirò «Va bene»
Il resto della giornata passo velocemente: non appena tornò a casa, trovò un biglietto lasciato da sua madre sullo sportello del frigo che diceva di non aspettarla per cena e di preparare qualcosa per sé e suo padre. Studiò un po’, nonostante non avesse un briciolo di concentrazione. Continuava a pensare al perché Isaac l’avesse messa in guardia con così tanta foga da Aiden e non riusciva a togliersi dalla testa i suoi genitori biologici. Da quando ne aveva parlato con gli altri, si era resa conto di sapere poco o nulla su di loro. Sua madre e suo padre le avevano a malapena raccontato come fossero morti, ma era alquanto strano non avere una loro foto o un articolo di giornale che riportasse la notizia dell’incidente. Tutto ciò che Emma aveva della sua vera madre era una collana. Il ciondolo era di media grandezza e riportava un simbolo di cui non era a conoscenza, ma le piaceva comunque. La indossava come portafortuna e di solito la teneva nascosta sotto la maglietta, per poi riporla al sicuro ogni sera.
Anche quel giorno, fece la stessa cosa. Si affacciò alla finestra e prima di chiudere le tende, si accorse che ci fosse la luna piena. Ne era sempre stata affascinata ed era felice di avere una vista così mozzafiato proprio dalla sua finestra.
Improvvisamente però, sentì un rumore provenire dalla sua destra, così senza nemmeno controllare, mise la testa dentro e chiuse per bene la finestra, infilandosi a letto. Era solo il vento, si disse.
Derek tirò un sospirò di sollievo, ringraziando Dio per non esser stato beccato da Emma. Era appoggiato al davanzale di una delle finestre di casa sua e cercava di raggiungere il tetto più basso del garage in modo da avere una visuale completa della camera della ragazza. Ci riuscì dopo vari tentativi e si mise comodamente seduto. Avrebbe passato la notte lì: era abbastanza sicuro che fosse solo umana, ma decise di tenerla sott’occhio durante la luna piena.
Piegò la testa guardandola mentre dormiva al caldo nel suo letto: aveva dimenticato di chiudere le tende, così Derek poteva avere una visuale completa.
Non conosceva il motivo, ma sentiva di doverla controllare. Non controllarla come se fosse stata un nemico, ma come se avesse dovuto proteggerla. Era timida, silenziosa e indifesa, ma sotto nascondeva qualcos’altro e a lui, alla fine, faceva tenerezza. Non era il tipo a cui piacessero tanto le persone in generale, ma sentiva di essere in qualche modo legato ad Emma. Infatti, più passava il tempo e più si convinceva di aver già visto quel volto, quegli occhi grandi e azzurri e quelle labbra così piene, eppure non riusciva a ricordare. Si era pentito di averla trattata male e in modo freddo ogni volta che l’avesse vista, perché alla fine non stava facendo del male a nessuno, anzi sembrava che volesse trovare il suo posto in quel mondo così crudele e subdolo. In quel mondo dove anche lui viveva e dove dopo anni ancora si sentiva fuori posto. Giunse alla conclusione, appoggiato alle tegole fredde del tetto con la luce bianca della luna che gli illuminava il viso, che fossero più simili di quanto pensasse e giurò a se stesso che, qualunque fosse stato il motivo o il sentimento, l’avrebbe protetta da tutta quella malvagità.


 

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Capitolo 4
*** Big bad wolf ***


salve lupetti :-)
strano ma vero, ma sono riuscita a postare molto presto: solo dieci giorni dopo il terzo capitolo, sono stata brava eh? la verità è che ho avuto un po' di tempo libero per scrivere in questi giorni e ne ho approfittato, quindi spero non vi dispiaccia!
intanto, vorrei ringraziarvi di cuore per aver letto, recensito e aver aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite; come già avevo detto nel precedente capitolo, tengo moltissimo a questa storia perchè è come una nuova sfida per me, quindi grazie davvero! significa molto per me, anche il solo fatto che voi passiate per leggere.
adesso, veniamo alla storia: allora 1) questo capitolo è di passaggio, ad eccezione del finale; mi dispiace molto, ma ho dovuto comunque inserirlo anche se noioso, però vabbè dai potete consolarvi con la fine ;-) 2) è un capitolo interamente dedicato ad Emma e Derek: come vedrete, si stanno avvicinando molto, anche se entrambi - specialmente Derek - non se ne rendono conto; ancora non si fidano completamente l'uno dell'altro, ma cominciano a capire di avere qualcosa in comune, ma soprattutto di desiderare la presenza dell'altro; è il primo capitolo che ho dedicato completamente a loro e l'ho amato, non vedo l'ora di scriverne altri! 3) sto ancora ultimando la scaletta: sono arrivata al 12' capitolo e posso assicurarvi che ne succederanno delle belle, quindi state pronti e non mi abbandonate!
ultima cosa: questa storia potete leggerla anche su Wattpad (il link lo trovate tra i miei contatti)

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia
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CAPITOLO 4: BIG BAD WOLF
 
Chiuse definitivamente il libro di spagnolo, esausta ma felice di aver finito di studiare anche per quel giorno. Era stanca, per via del massimo impegno che stava mettendo nella scuola e perché ormai non riusciva a dormire più bene la notte. L’incubo si presentava ogni sera, sempre più realistico e vivo in ogni suo più piccolo dettaglio: la teneva sveglia e quando al mattino, era costretta ad alzarsi, faceva sempre una fatica immensa. Durante la giornata, per quanto cercasse di non perdere la concentrazione durante le ore di lezione, la sua testa ritornava sempre lì. Aveva cominciato a farsi molte domande e le era sorto il dubbio – anzi, giorno dopo giorno ne era sempre più sicura – che ciò che sognasse di notte fosse strettamente legato in qualche modo alla morte dei suoi genitori. La loro scomparsa non era mai stata un problema per lei: alla fine, aveva avuto fortuna, trovando due genitori adottivi come i suoi, quindi non aveva mai dato importanza a quell’incidente. Ma adesso, che era tornata a Beacon Hills e quel sogno si era fatto più presente e vero, non sapeva più cosa pensare. E poi, ci si metteva anche Derek con tutte quelle domande che sotto sotto l’avevano incuriosita e spaventata. Aveva cercato di non pensarci, probabilmente era stata una coincidenza, ma il tono con cui si era rivolto a lei l’ultima volta che si erano visti non era stato per niente amichevole. Forse ce l’aveva con lei, forse non gli stava simpatica, ma non importava essere così maleducato. Nonostante questo, non c’era giorno in cui non pensasse a lui: se da una parte la infastidiva il suo comportamento, dall’altra trovava adorabile e quasi paterno il modo sarcastico in cui rispondeva ad una battuta di Stiles o ad una preoccupazione di Scott. Anche se era ormai sicura che tutti le stessero nascondendo qualcosa: talvolta, il ragazzo aspettava tutti gli altri all’uscita di scuola per poi andarsene insieme, senza dirle niente. Non che lo volesse, ma qualche volta si era chiesta se mai Derek si fosse presentato lì per lei, anche solo per vederla.
Infilò la penna e l’evidenziatore nell’astuccio, tirando poi di scatto la cerniera. Il sole pallido di fine ottobre entrava pigro dalla finestra e illuminava di traverso il letto. La sua luce era più arancione per via delle foglie ormai ingiallite degli alberi. Le piaceva l’autunno, era sempre stata la sua stagione preferita. Non sapeva bene perché, ma quei colori così caldi – arancio, giallo, rosso – la pioggia improvvisa e gli stivali di gomma per non bagnarsi una volta finiti accidentalmente nelle pozzanghere erano sempre stati una sua debolezza.
Ripiombò nella realtà, quando il cellulare emise un piccolo suono, segnalando un messaggio appena arrivato. Rimanendo seduta sulla sedia, si spostò aiutandosi con le piccole ruote attaccate sotto di essa ed arrivò al letto, afferrando il telefono.
Aprì il messaggio e lesse.
 
Da: Malia (5:49 pm)
“Sabato sera siamo invitate alla festa di Halloween di Lydia! Andiamo, vero? Ti prego!!”
 
Sorrise divertita di fronte a quella supplica, anche se decise di non rispondere immediatamente. Però le aveva fatto piacere che Malia avesse pensato subito a lei come compagna di divertimento. Si erano molto avvicinate negli ultimi tempi – soprattutto dopo quella serata così divertente a casa di Derek – e aveva scoperto di avere in comune con lei più di quanto pensasse. Anche la madre e la sorella di Malia erano morte quando era più piccola e lei adesso viveva solo con suo padre. Ma ciò che forse le aveva fatte avvicinare di più era il fatto che fossero poli opposti: Emma era timida, riservata, brava in matematica e chimica, mentre l’amica non perdeva occasione per parlare, era socievole, senza peli sulla lingua, sarcastica e pessima nelle scienze. È proprio con qualche ripetizione di matematica che avevano stretto amicizia. Erano diverse, eppure la personalità frizzante e perennemente vivace di Malia l’aveva conquistata e adesso passavano sempre un sacco di tempo insieme. Ritornò al messaggio: non era un tipo da feste, ma Halloween le era sempre piaciuto molto, soprattutto per il fatto di doversi mascherare ed essere irriconoscibile a tutti. E poi, di sicuro, ci sarebbero stati anche tutti gli altri.
 
A: Malia (5:56 pm)
“Sì, andiamo! Sei felice adesso? (-:”
 
Scese dalla sua camaro nera perfettamente tirata a lucido, ma malamente parcheggiata sul ciglio della strada e si avviò verso la casa di Emma. Non sapeva nemmeno lui perché fosse lì, ma ormai – come d’abitudine – quello di controllarla di tanto in tanto era diventato un rituale a cui non voleva fare a meno. Alla fine, doveva ammetterlo a se stesso, gli piaceva guardarla da dietro la tenda della sua finestra, ovviamente ben nascosto, mentre stava per andare a dormire, mentre ancora studiava con la luna che le illuminava il viso perché i compiti per casa erano sempre troppi oppure mentre rientrava in camera con solo un asciugamano avvolto intorno al corpo, dopo essersi fatta una doccia. Doveva ammettere che fosse carina: era un po’ troppo minuta per i suoi gusti e non dimostrava di certo i suoi diciassette anni, ma questo non gli impediva di certo di godersela mentre viveva la sua routine.
Si avviò lungo il vialetto, immerso nei suoi pensieri: il sole stava per tramontare. Alzò gli occhi per un attimo e ammirò quella casa: dal tetto non vedeva mai niente, ma da lì potè constatare che fosse davvero bella. Chissà quanto bisognasse guadagnare per potersela permettere.
Salì i gradini del portico e si fermò davanti alla porta. Se gli avessero chiesto perché fosse lì e non sopra il garage non avrebbe saputo rispondere, ma era Derek Hale e non doveva giustificarsi proprio con nessuno.
Inspirò profondamente, prima di alzare meccanicamente la mano e suonare il campanello. Aspettò qualche secondo, poi sentì dei passi susseguirsi velocemente e infine un chiavistello che veniva aperto con forza. Non appena la porta si aprì, l’espressione sorpresa sul viso di Emma fu la prima cosa che notò. Poi, i suoi occhi scesero lentamente lungo il suo corpo: indossava una maglietta di tre taglie più grande – probabilmente di suo padre, o… Del suo ragazzo? – e un paio di pantaloni del pigiama grigi con delle stelline blu. Represse un sorriso e finalmente la guardò.
«Ciao» disse lei, in un sussurro. Derek fece un leggero movimento con la testa accompagnato da un saluto con la mano e non aggiunse altro «Che ci fai qui? E’ successo qualcosa?»
«Mh no, non che io sappia» rispose lui, notando per la prima volta i suoi occhi arrossati. Aveva pianto? E perché? Non è che uno dei gemelli aveva fatto irruzione, facendole del male? No – pensò rilassandosi – era impossibile, altrimenti sarebbe stata ferita o impaurita «A te invece cosa è successo? Stavi piangendo?»
Lei si passò una mano sul volto e rise, di fronte all’espressione eccessivamente preoccupata di Derek. Possibile davvero che si preoccupasse di tutto? «No… Cioè, sì: stavo guardando un film e mi sono commossa»
Il ragazzo rilassò le spalle, rimanendo fermo sulla soglia della porta. Emma fece la stessa cosa, ma alla fine decise di parlare «Vuoi entrare?»
Si mise da parte, per farlo passare, mentre lo sentiva mormorare un veloce «Sei strana» per poi chiudersi la porta alle spalle. Si avviarono entrambi in sala, dove regnava la televisione più grande che Derek avesse mai visto e un divano di enormi dimensioni. Sullo schermo della tv, notò l’immagine in pausa di una nave che stava colando a picco nel mare.
«Devi dirmi qualcosa?» ruppe il silenzio la ragazza, sedendosi sul divano sommerso da coperte e cuscini. Le piaceva stare al caldo quando guardava un film «Sei strano»
«Non dovresti studiare?» rispose Derek con un’altra domanda.
«Ho finito prima oggi» disse, afferrando il telecomando e arrendendosi: si vedeva che non volesse dirle il perché fosse lì «Vuoi vedere il film con me? Hai mai visto Titanic
Lui scosse la testa e si sedette sul divano a debita distanza, lasciandola perplessa più del dovuto. Come faceva a non aver mai visto quel film? Lo conoscevano tutti, anche i bambini più piccoli, nati due generazioni dopo l’uscita di quella pellicola. Nonostante questo, non replicò e fece ripartire il film da dove si era interrotto.
Come da copione, pianse fin quasi alla fine. La tristezza di quella storia era disarmante, ma l’amava talmente tanto da averlo visto milioni di volte e sapere la maggior parte delle battute. Derek invece non versò nemmeno una lacrima, anzi, lo sentì sbuffare un paio di volte, come se la ritenesse una cosa stupida. Non arrivò nemmeno alla fine, che si addormentò lentamente, per via di tutta la stanchezza accumulata nei giorni precedenti.
Quando Derek sentì qualcosa di duro appoggiarsi sulla sua spalla, aprì gli occhi – che aveva tenuto chiusi per un bel po’ per non doversi sorbire quel film orrendo e finto – di scatto, impaurito, e si sentì improvvisamente a disagio quando si accorse che la testa di Emma lo stesse usando come cuscino. Quel gesto inconsapevole della ragazza da una parte lo spaventò e spiazzò completamente: non era abituato a certe cose, anzi, non lo era mai stato; ma dall’altra, sentì una sensazione di calore, tranquillità e intimità invaderlo, fino a entrargli nei polmoni e tra le ossa. Era bello: non aveva mai provato qualcosa del genere. Rimase in quella posizione per un po’, spostando lo sguardo di tanto in tanto su Emma, che così vicina gli sembrava ancora più bella. Il film non gli interessava più tanto, piuttosto non riusciva a staccare gli occhi da quelle labbra piccole ma molti invitanti, dal suo modo di essersi raggomitolata nelle coperte e contro di lui e da quella calma apparente con cui sembrava stesse dormendo.
I titoli di coda arrivarono troppo presto e così anche il momento per Derek di andarsene. Non era stata una brutta idea presentarsi lì senza motivo, ma era sicuro di aver alimentato ancora di più i dubbi della ragazza.
Si mosse lentamente, per alzarsi, cercando di non svegliarla, ma la sentì muoversi contro il proprio braccio.
«Emma, devo andare» sussurrò.
«Mhmh» rispose lei, senza nemmeno aprire gli occhi. Si alzò definitivamente, facendole appoggiare delicatamente la testa su un cuscino e si avviò verso l’ingresso. Si sistemò meglio la giacca di pelle sulle spalle ed uscì, chiudendo piano la porta.
Salì in auto e respirò profondamente stringendo il volante: osservò il suo riflesso nello specchietto retrovisore e notò che i suoi occhi brillassero, fossero lucidi. Non era merito delle sue doti da lupo, ma di quello che Emma, involontariamente, gli stava facendo.
 
La casa di Lydia Martin era una reggia: una di quelle case enormi, eleganti, regali che si vedono soltanto nei film. E invece eccola qua, proprio a Beacon Hills. I giorni erano passati velocemente: scuola, compiti, notti insonni e la solita quotidianità ricominciava. Ma Malia le aveva tenuto la mente occupata per tutta la settimana, per via della scelta della maschera da indossare per la festa. Alla fine aveva optato per qualcosa di elegante, ma non troppo particolare: un semplice abito bianco che le arrivava alle caviglie ed una coroncina di fiori appoggiata sui capelli scuri, lasciati sciolti. Aveva trovato quell’abito in uno scatolone in soffitta e su consiglio di Malia aveva aggiunto dei fiori, così da assomigliare di più ad una ninfa dei boschi.
La famiglia Martin aveva addobbato la casa in modo che assomigliasse ad una infestata; c’erano luci introspettive, sagome di fantasmi, vampiri, zombie sparse per tutto il giardino e ovviamente, l’immancabile zucca, vicino al cancello d’entrata.
Emma e gli altri si ritrovarono proprio di fronte alla zucca, prima di entrare tutti insieme. Malia era vestita da cappuccetto rosso, Kira da una Dorothy versione zombie de Il mago di Oz e, per finire in bellezza, Isaac, Stiles e Scott da tre moschettieri.
Si diressero all’interno della casa, dove una Lydia mascherata da sposa fantasma li accolse sorridendo e offrendo loro qualcosa da bere. C’erano davvero tante persone: probabilmente la rossa non aveva badato a spese e aveva invitato tutta la scuola. Emma non la conosceva ancora bene per poter esprimere un vero e proprio giudizio su di lei, ma le sembrava simpatica. Si erano parlate poco nelle settimane precedenti ma le aveva fatto piacere ricevere l’invito per la sua festa.
Alcuni ragazzi le fecero i complimenti per la maschera e la ragazza non potè fare a meno di arrossire lusingata, sotto lo sguardo divertito e malizioso di Malia.
«Sei davvero bella con quest’abito» le disse Isaac aggiungendosi agli altri, mentre camminavano verso la sala più grande della casa.
«Anche tu stai molto bene, mi piacciono i moschettieri»
Lui le sorrise prendendola per mano e portandola a ballare. Si vergognava moltissimo, ma le luci psichedeliche nascondevano le sue pochissime abilità, quindi non si preoccupò più di tanto.
Alla fine, decise di fermarsi per riposarsi un po’: aveva accumulato abbastanza stanchezza anche quella settimana e cominciava a farsi sentire.
Si stava divertendo molto, ma – se avesse dovuto ammetterlo a sé stessa – sarebbe tornata a casa immediatamente, per infilarsi sotto le coperte e dormire.
Bevve un sorso d’acqua e dopo aver avvisato Malia che sarebbe andata a prendere una boccata d’aria, si fece spazio tra la gente per raggiungere la grande porta a vetri che dava sul giardino. Uscì, rabbrividendo quando la sua pelle entrò a contatto con l’aria gelida ed una piccola nuvola di vapore uscì dalla sua bocca. Fece qualche passo, allontanandosi dalla marea di gente e si sedette su un piccolo muretto in fondo al giardino, proprio a ridosso del cancello da cui erano entrati. L’aria era umida e gelida e nonostante il freddo e la stanchezza, che calava inesorabilmente sulle sue palpebre, stava bene. Dentro era troppo affollato e si moriva di caldo.
Si guardò un po’ intorno curiosa, finchè i suoi occhi si fermarono su una figura scura che andava verso di lei. La conosceva troppo bene, per non sapere chi fosse. Stava parlando al telefono e lo sentì sbraitare un «Scott! Scott, mi senti? Scott- Dovevi dirmelo, ok?»
Lo osservò attraversare il cancello per poi voltarsi di scatto verso di lei, come se avesse percepito la sua presenza. Lo vide calmarsi, rilassarsi, come se fosse stato contento di averla vista viva e vegeta, e si incamminò verso di lei.
«Ciao» la salutò, riponendo il cellulare in tasca. Emma si alzò e lo salutò, sorridendo. Derek inspirò a fondo: se solo Scott gli avesse detto che sarebbero andati ad una festa, in cui probabilmente anche i gemelli si sarebbero fatti vedere, si sarebbe sentito meglio e avrebbe potuto controllare la situazione. E invece no, di nuovo aveva prevalso il cervello di un normale diciassettenne.
«Ti stai divertendo?» le chiese allora, più gentilmente. Voleva portarla via di lì: non era al sicuro, nemmeno con la sua presenza. Se i gemelli fossero arrivati, non sarebbe finita per niente bene.
«Sì» rispose Emma, sbadigliando «Ma sto morendo di sonno»
«Vuoi che ti porti a casa?» domandò, senza nemmeno pensarci. Da quando era così gentile?
Emma non rispose subito, Derek notò che fosse un po’ interdetta. Avrebbe voluto dire sì, ma non lo conosceva abbastanza da fidarsi, però dall’altra parte era davvero stanca e non sarebbe riuscita ad aspettare Malia, visto che erano venute con la sua auto: conoscendola, avrebbe fatto baldoria fino all’alba.
«Va bene» rispose infine titubante. Si alzò e si incamminarono in silenzio e rimanendo a debita distanza l’uno dall’altra, verso l’auto del ragazzo.
«Tieni» disse, all’improvviso Derek, cercando di mantenere la sua facciata seria e da duro, dopo essersi accorto che stesse tremando come una foglia. Si tolse la giacca nera di pelle e gliela passò «Non voglio che tu muoia di freddo»
Emma la infilò, crogiolandosi nel calore che emanava.
Nessuno dei due parlò più: salirono in macchina, Derek partì e il silenzio regnava. Però, ad Emma non dava fastidio: non era imbarazzante come si era aspettata, anzi, era quasi confortante. Poteva osservare Derek, nella poca luce dell’abitacolo, mentre guidava. Era rapita dal modo in cui le sue mani erano strette intorno al volante, dell’espressione seria stampata sul volto, dalla meccanicità con cui cambiava le marce e i muscoli delle sue braccia si contraevano ad ogni movimento.
Quell’auto poi, secondo Emma, rispecchiava a pieno la sua personalità: era nera e misteriosa. Proprio come Derek, che parlava il giusto e si relazionava a fatica con gli altri. Era sicuramente misterioso, ma per il semplice motivo di non voler parlare di sé a tutti. Non lo faceva di proposito, era così e basta.
All’improvviso Derek si accorse di una presenza dietro di loro. La ragazza accanto a sé non avrebbe mai potuto percepirla, ma lui, con i suoi sensi sopra sviluppati, sì. Aveva intravisto dei movimenti attraverso lo specchietto retrovisore, aveva sentito dei passi furtivi dietro di lui e, infine, l’odore che gli aveva permesso di riconoscere con sicurezza di chi si trattasse: suo zio.
Lo avevano fregato: i gemelli alla festa non si erano visti e lui si era rilassato, ma la verità era che tutto era stato programmato. Chiunque fosse tornato a casa con Emma, si sarebbe imbattuto in Peter Hale. Ma suo zio non sapeva che ci fosse lui, al posto di Scott o Malia e che non sarebbe stato così facile come previsto.
Sul volto di Emma si dipinse un’espressione interrogativa e preoccupata, quando si accorse che Derek stesse rallentando per poi fermarsi sul ciglio della strada, sebbene fossero a cento metri da casa sua.
«Rimani qui e non ti muovere, va bene?» le impose, guardandola negli occhi. Sapeva di averla spaventata, ma doveva affrontarlo.
Lo guardò scendere dall’auto per poi incamminarsi lungo la strada. Guardò oltre il finestrino, ma non vide nulla se non il cemento nero illuminato da qualche lampione e la nebbia bassa. Quella situazione era inquietante, ma perché allora Derek era sceso se non ci fosse nulla di cui preoccuparsi? Si appoggiò di nuovo al sedile e aspettò. Improvvisamente, sentì un suono acuto e prolungato molto vicino a lei, come una specie di ululato. Poi ne sentì un altro, leggermente diverso.
Era terrorizzata, ma se davvero c’erano i lupi a Beacon Hills non poteva rimanersene lì e non avvertire Derek. Gli avrebbero fatto del male.
Così, senza nemmeno pensarci due volte, sbloccò la cintura ed uscì dall’auto, lasciando lo sportello aperto dietro di sé. Adesso c’erano due persone in lontananza, anche se le loro fattezze sembravano diverse: erano più alti del normale e di massa eccessiva. Solo che erano figure nere, non riusciva a distinguerle. Provò a chiamare il ragazzo, ma non uscì nemmeno una sillaba dalla sua bocca.
Come se si fossero accorti della sua presenza, entrambe le figure si voltarono vero di lei e cominciarono a correre – troppo – velocemente nella sua direzione.
E poi li vide: due occhi rossi che venivano verso di lei, pieni di rabbia, di cattiveria, di voglia di uccidere. Si tappò la bocca con le mani e rimase ferma. Voleva urlare, chiamare aiuto, ma non ci riuscì.
Stava per morire e non sapeva cos’altro fare. Chiuse gli occhi aspettando la fine, che però non arrivò quando sentì alla sua destra, al di là dell’auto, uno spostamento veloce che si appropriò di quel corpo dagli occhi rossi, facendolo finire rovinosamente a terra.
Il suo sguardo spaventato si mosse verso di loro: erano uguali, sembravano umani in carne ed ossa, ma non lo erano completamente. Fece un passo indietro, quando quello che l’aveva salvata si voltò verso di lei.
Le si mozzò il fiato in gola, quando si ritrovò faccia a faccia con lui: gli occhi azzurri brillavano sotto la luna ed erano contornati da una viso che conosceva troppo bene, ricoperto da un’eccessiva quantità di peli. I canini spuntavano da sotto le labbra e le mani piene di artigli tremavano leggermente.
«Derek…» sussurrò, ma la voce le morì in gola. Il ragazzo continuava a guardarla, dispiaciuto perché sapeva che adesso non avrebbe mai più voluto avere a che fare con una bestia come lui. Però non poteva rimanere lì senza far niente: doveva proteggerla comunque, doveva occuparsi di suo zio.
«Corri!» le urlò forte, ma la sua voce uscì mescolata ad un ringhio. Cercò di non farci caso e la intimò ancora «Corri! Vattene, Emma!»
Come se tutte le sue forze fossero tornate per magia, la ragazza cominciò a correre verso casa, senza guardarsi indietro. Correva veloce, nonostante il fiato le mancasse sempre di più nei polmoni. Corse finchè non arrivò di fronte alla porta di casa. Entrò immediatamente, fregandosene del rumore che avrebbe potuto fare, visto che i suoi genitori dormivano già da un pezzo. Si chiuse la porta alle spalle, girando la chiave un paio di volte, e vi si appoggiò.
Non poteva credere a quello che aveva visto: Derek era… Un lupo mannaro? Non ne era sicura al cento per cento, visto che non era mai stata un’appassionata di soprannaturale, ma soprattutto perché era sempre stata sicura che creature del genere non esistessero nella realtà.
Salì le scale e ancora ansimava, mentre mille domande le affollavano la mente: chi era l’altro? E perché i loro occhi avevano colori diversi? Scott e gli altri lo sanno? Oppure… Oppure anche loro sono come lui?
Si spogliò velocemente, gettando tutto a terra senza preoccuparsene molto. Infilò il pigiama e controllò che la finestra fosse ben chiusa. Non solo aveva paura, ma era terrorizzata. Quanti ce n’erano come lui a Beacon Hills?
Si sdraiò sotto le coperte e spense la luce.
Cercò di respirare e di rilassarsi, ma non ci riuscì molto bene.
«Lupo mannaro…» furono le ultime parole che pronunciò, prima di prepararsi e abbandonarsi all’ennesimo sonno ricco di incubi.


 

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Capitolo 5
*** Monster ***


salve, lupetti :-)
scusate se vi chiamo sempre "lupetti", ma è dolce dai, mi piace moltissimo!
comunque veniamo a noi: devo dire di essere fiera di me per riuscire ad aggiornare con così tanta costanza (ormai lo faccio ogni dieci giorni), ma non abituatevi troppo perchè, conoscendo me e gli impegni che ho all'Uni, potrei variare un po' le date di pubblicazione
vabbè, parliamo di cose serie: non ho intenzione di dire molte cose su questo capitolo (anche se ho adorato scriverlo, perchè ormai amo troppissimo i miei Demma - nuova coppia, nuovo nome, no? - e le scene che li vedono protagonisti sono sempre sempre sempre importanti), ad eccezione di
  • volevo precisare che i genitori di Derek non sono morti nell'incendio come accade nella serie, ma loro e le due sorelle di Hale (Cora compresa) sono morti in altre circostanze, che per ora non conosce nemmeno lui
  • ho apprezzato il fatto che vi piaccia che tra Emma e Derek le cose si stiano muovendo lentamente, ma ecco.. diciamo, che questo capitolo le smuove un po'
  • la scena in cui Scott racconta ad Emma di loro è volutamente leggera e comica; è vero che Emma è confusa, un po' spaventata e abbastanza scioccata, ma non mi andava di rendere il tutto pesante, perchè fidatevi ce ne saranno di cose fin troppo pesanti!
per ultima cosa, poi vi lascio davvero, voglio di nuovo ringraziarvi per aver letto, recensito e aver aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate, non sapete quanto mi renda felice questa cosa! e poi, come sempre, potete trovare questa storia anche su Wattpad (link tra i miei contatti)

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia
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CAPITOLO CINQUE: MONSTER
 
Era sempre la stessa storia: il buio ed il freddo la circondavano fino quasi ad inghiottirla. Camminava lentamente, cercando di percepire ciò che pestasse con i piedi: sentiva sempre lo stesso rumore fastidioso delle foglie secche che scricchiolavano sotto di lei. Oppure, le sembrava di perdere l’equilibrio e scivolare, quando i suoi passi incontravano il terreno umido. Però, sapeva dove si stesse dirigendo: dopotutto, camminava fra quegli alberi tutte le notti e aveva imparato a riconoscere la differenza tra i suoi passi e quelli di qualcun altro e il fruscio del vento da quello causato da chi fosse lì con lei. Non era sola, non lo era mai stata, e questo lo sapeva molto bene. Ma la persona – o l’animale – che le teneva sempre compagnia, spaventandola più del dovuto, non si era mai fatto vedere. La luna piena e bianca illuminava i tronchi degli alberi disegnando ombre spaventose a terra. Gli occhi si erano abituati a quel buio biancastro e ben presto, si ritrovò esattamente dove arrivava ogni notte. Il lago che aveva di fronte sembrava più grande, vasto e profondo di sempre; gli alberi che lo circondavano erano fitti e neri e lo escludevano dal resto del bosco che rimaneva in penombra. Si fermò solo quando l’acqua le sfiorò i piedi e filtrò lentamente all’interno delle sue scarpe, lasciando una macchia più scura, quasi nera. Si strinse nella giacca nera, continuando a chiedersi di chi fosse: era da uomo, quindi era sicura che non fosse sua, tanto meno di suo padre. Con le braccia incrociate al petto, nel tentativo vano di riscaldarsi, distolse gli occhi dall’indumento, rivolgendoli per l’ennesima volta verso la distesa d’acqua che aveva di fronte e che sembrava mescolarsi in lontananza con l’orizzonte. Molte volte si era incamminata verso il punto più lontano, per vedere effettivamente dopo quel lago si fermasse, ma non c’era mai riuscita. Chiuse gli occhi, respirando profondamente e si preparò di nuovo al peggio. Ormai, non tentava nemmeno più di cercare la strada per tornare a casa, di svegliarsi. Si era rassegnata a quell’incubo e si era convinta che se lo avesse vissuto a pieno, avrebbe trovato la risposta a molte delle sue domande.
Intorno a lei, però, regnava il silenzio. Niente più vento, niente più passi ambigui che la seguivano, nessun pianto e nessun bambino. Aprì lentamente gli occhi, guardandosi intorno di nuovo. C’era qualcosa che non andava: di solito, a quel punto, il solito bambino cominciava a piangere come se venisse torturato, portandola a tapparsi le orecchie per evitare di soffrire, come stesse facendo lui. Rimase ferma sul posto, in piedi, cercando di sentire meglio, ma c’era silenzio assoluto. Cominciò ad aver paura: non sapeva cosa l’avrebbe aspettata.
Fece un passo indietro, pronta di nuova a scappare, quando udì delle urla: non erano quelle di un bambino, ma sembravano quelle di un gruppo di persone. Provenivano da dietro gli alberi situati a ridosso del lago. Erano urla di dolore, strazianti, di volontà di combattere, avendo però la consapevolezza di aver già perso. Quelle persone rimanevano nascoste, ma Emma le sentiva chiedere pietà, misericordia e perdono per quello che avevano fatto.
Non si mosse di un centimetro: avrebbe potuto correre nella direzione da cui provenivano le urla ed aiutare quelle persone, ma non ne ebbe il tempo. Improvvisamente, il silenzio calò di nuovo lungo le rive del lago e si chiese se fosse un brutto segno o meno. Così, cominciò ad indietreggiare lentamente, ma si fermò di nuovo quando un ringhio chiaro, violento e rabbioso giunse alle sue orecchie. Era dietro di lei.
Si girò con altrettanta lentezza, tremando di paura, e si ritrovò di fronte ad un vero e proprio lupo. I suoi occhi erano rossi come il fuoco e i suoi canini erano lunghi, taglienti e lucidi sotto la luce della luna. L’animale digrignò di nuovo i denti, facendo un passo verso di lei e costringendola ad arretrare verso il lago.
Se fosse scappata, l’avrebbe presa: così continuò ad indietreggiare fino a tuffarsi nelle acque più alte del lago, sicura che non l’avrebbe seguita.
 
La sensazione di apnea la risvegliò, facendola sedere di scatto sul letto. Si guardò intorno, respirando affannosamente. Aveva avuto paura di affogare in quel lago, ma soprattutto aveva avuto paura di quel lupo. Si alzò, cercando di scacciare quelle immagini dalla sua mente e si infilò velocemente sotto la doccia. Non era facile non pensarci, soprattutto dopo quello che era successo la notte di Halloween. Il week-end era terminato e quella mattina sarebbe dovuta tornare a scuola e affrontare la situazione. Non se la sentiva per niente, ma avrebbe rivisto sicuramente Derek e non avrebbe potuto far finta che non fosse successo. Non le aveva nascosto un semplice segreto, ma una parte importante – seppur impossibile – della sua vita. Ancora non riusciva a crederci, nonostante avesse passato la domenica pomeriggio ad informarsi su internet. Al di là delle leggende, ogni sito che avesse visitato aveva assicurato che non esistessero esseri soprannaturali del genere. Quindi, come poteva essere possibile? Chiuse gli occhi, crogiolandosi sotto l’acqua bollente, ma non appena l’immagine del lupo si ricreò nella sua mente, fu costretta a riaprirli.
Uscì dalla doccia e si preparò velocemente, senza nemmeno fermarsi per colazione: afferrò un biscotto sotto lo sguardo sorpreso di sua madre – non saltava mai quel pasto – ed uscì, a passo spedito. Si era promessa che, prima di parlare con Derek, avrebbe fatto qualche domanda agli altri. Aveva intuito che fossero amici da tempo, quindi sicuramente sapevano di questa sua diversità. O forse, persino loro erano esattamente come lui. Questo la spaventava ancora di più: un vero e proprio branco in una cittadina così piccola, che avrebbe potuto portare scompiglio, vittime e morte nel giro di poco tempo.
Continuò a camminare veloce, sembrava quasi corresse e in men che non si dica, si ritrovò di fronte all’ingresso della scuola. Gettò uno sguardo distratto all’orologio legato al polso, accorgendosi di essere in anticipo.
«Tanto meglio» sussurrò tra sé e sé: avrebbe avuto più tempo per parlare con gli altri. Oltrepassò la soglia, piegando la maniglia della porta ed entrò. C’erano ancora pochi alunni in giro e le classi erano ancora totalmente vuote. Solo in alcune, i professori già sedevano alla cattedra in attesa dei propri studenti.
Sperava di trovarli tutti lì, o per lo meno coloro che sembravano più vicini a Derek. Fece il giro del primo piano senza incontrare nessuno, così decise di salire al secondo, anche perché la sua prima lezione sarebbe stata matematica.
Svoltato l’angolo, dopo le scale, i suoi occhi incontrarono le figure di Stiles e Scott tranquillamente appoggiate agli armadietti, intente a parlare del più e del meno.
Respirò tranquillamente, cercando di recuperare la calma e la serenità che aveva perso durante quel week-end, in cui non aveva risposto alle telefonate di nessuno e si incamminò verso di loro.  
Non appena la videro arrivare, le sorrisero «Hey, ciao Em-»
La ragazza sbattè forte lo sportello dell’armadietto che la divideva dai due amici, facendoli sobbalzare «Anche voi siete come lui?»
Forse non era stato il modo migliore per iniziare quella conversazione, ma aveva talmente tanto bisogno di risposte, che la sua pazienza aveva superato e perso completamente il limite. Un attimo prima, si era detta che avrebbe indagato senza dare nell’occhio, ma ripensandoci era meglio arrivare subito al dunque.
«Come lui, chi?» rispose Scott, perplesso.
«Derek!» esclamò lei «E’ una specie di lupo o…?»
I due spalancarono gli occhi, guardandosi senza capire bene cosa stesse succedendo. Derek non aveva detto loro niente. Possibile che avesse deciso di svelare il segreto ad Emma, senza informarli?
«Allora?» continuò lei, con lo sguardo fiero di chi non vuol essere preso in giro, lo zaino in spalla e le braccia incrociate sul petto. Il suo viso ne sapeva più di quanto avesse detto.
Scott si guardò intorno, cercando di vedere se qualcuno avesse origliato o accidentalmente sentito quella conversazione. La campanella stava per suonare e i corridoi si stavano riempiendo sempre più di alunni che di corsa si dirigevano ai propri armadietti, per poi andare in classe.
«Non possiamo discuterne qui» parlò Scott. Stiles continuava a rimanere in silenzio al suo fianco, piacevolmente sorpreso dal fatto che Emma potesse avere la faccia tosta di chiedere una cosa del genere nel bel mezzo di una scuola pubblica, all’ora di punta. L’aveva sottovalutata «Vediamoci dopo pranzo in biblioteca, a quell’ora non c’è quasi mai nessuno»
Emma si calmò di fronte a quella risposta così fredda, come se Scott avesse già vissuto quella situazione altre volte, come se si aspettasse la sua irritazione. Non aggiunse altro, nonostante gli sguardi furenti che entrambi si scambiarono e li guardò allontanarsi, fino a scomparire dietro l’angolo. Si appoggiò agli armadietti e rilassò i muscoli che aveva teso fino a quel momento, cercando di dare l’impressione di una che non avesse paura.
 
Contò i minuti che la dividevano dall’ora di pranzo, come se fosse stata questione di vita o di morte. L’ultima ora della mattina era quasi terminata, ma quei cinque minuti al suono della campanella sembravano non passare mai. Ormai aveva smesso di ascoltare la professoressa di storia da mezz’ora, lasciando che la sua mente viaggiasse tra le possibili risposte che Scott le avrebbe dato e tornasse di tanto in tanto a chiedersi perché quelle maledette lancette non si muovessero. Quando finalmente la campanella suonò, fu la prima ad uscire dall’aula. Infilò malamente libro, quaderno e astuccio nello zaino, mettendolo in spalla e si diresse verso l’uscita, senza nemmeno ascoltare quello che ancora la professoressa stesse dicendo. Si sentiva impaziente e stupida, ma in quel momento sapere la verità le sembrava più importante del sapere chi fosse stato il presidente degli Stati Uniti ad essere eletto dopo Abraham Lincoln.
Si diresse quasi di corsa alla biblioteca, scusandosi ogni volta che andava a sbattere contro qualcuno. Quando finalmente fu di fronte all’ingresso, inspirò profondamente ed entrò. Era completamente deserta, ad eccezione di un paio di studenti seduti ad una scrivania per studiare. Si incamminò, senza sapere bene dove andare, ma passando tra i vari scaffali notò la cartella di Stiles, così penso che fossero lì. Svoltò l’angolo e trovò tutti – Scott, Stiles, Isaac, Boyd, Erica, Kira, Malia e Lydia – seduti a terra e nascosti dal guardiano che girava per la grande stanza e non voleva che gli studenti si fermassero tra gli scaffali.
«Ciao» li salutò, adesso titubante e non più così sicura di sé, come qualche ora prima. Si sedette anche lei e sapeva di dover parlare. Tuttavia rimase in silenzio e aspettò che qualcuno lo facesse.
«Cosa è successo?» iniziò Scott.
«Sabato sera» cominciò, ma il ragazzo le fece segno di abbassare la voce. Nessuno doveva sentirli «Derek è venuto alla festa di Lydia e mi ha chiesto se volessi un passaggio per tornare a casa» continuò, poi guardò Malia «Scusa se non ti ho più risposto, ma ero confusa. Comunque, mentre eravamo macchina, credo abbia percepito qualcosa, così si è fermato ed è sceso. Un momento prima era lui e quello dopo aveva gli occhi azzurri, i canini e gli artigli. Mi ha detto di scappare così sono tornata a casa, ma così facendo non ho potuto parlargli. Così ho pensato che voi avreste potuto saper qualcosa o-»
«O essere come lui» Isaac terminò la frase al posto suo.
«Sai da chi ti ha chiesto di scappare? L’hai visto?» domandò Scott.
«No» scosse la testa «Ho solo notato che avesse gli occhi rossi»
Il ragazzo annuì lentamente senza aggiungere altro e guardò il resto del gruppo. Sapeva che avessero accordato con Derek di non dirle nulla, almeno finchè non sarebbe stato necessario, ma se quello che Emma aveva visto era vero, non c’era nient’altro da fare se non raccontarle tutto. Gli altri non gli sembrarono contrari a quell’idea, così decise di parlare.
«Noi siamo come lui» affermò, dando risposta ad uno dei suoi dubbi «Non tutti nella stessa forma, ma siamo come lui»
Emma aggrottò la fronte di nuovo confusa «Che significa?»
«Io, Isaac, Boyd ed Erica siamo lupi mannari; Malia è un coyote mannaro, Kira una kitsune, oppure volpe e Lydia una banshee»
La ragazza rimase in silenzio, spostando gli occhi su ognuno di loro. Forse, avrebbe dovuto aver paura, visto che era circondata da un intero gruppo di esseri soprannaturali, ma la verità era che fosse confusa e sorpresa. Aveva passato la notte a cercare informazioni su quella specie, ma niente l’aveva preparata a qualcosa del genere. Non solo i lupi mannari esistevano, ma anche esseri come coyote, kitsune e banshee facevano parte del mondo reale. Nonostante tutto questo, nonostante il fatto che li avesse praticamente obbligati a condividere con lei questo segreto, capiva perché non lo avessero fatto prima: per un semplice motivo di fiducia. Raccontare una cosa del genere non era facile e probabilmente esistevano persone addestrate adeguatamente pronte ad uccidere creature del genere.
Intorno a sé continuava a regnare il silenzio, tutti stavano aspettando un suo commento. In realtà, non sapeva cosa dire: era talmente scioccata da ciò che aveva scoperto che qualsiasi pensiero le morì nella mente. Nessuna parola sarebbe stata abbastanza per descrivere quella situazione.
«Quindi,» cominciò «tu, Isaac, Boyd ed Erica siete lupi mannari; tu un coyote, tu una volpe e tu una… Banshee? Che diavolo è una banshee?»
Stiles scoppiò a ridere di fronte a quel tono sorpreso: gli piaceva sempre di più.
«E’ uno spirito femminile, che predice la morte e piange o si dispera quando qualcuno muore» rispose Lydia, rimanendo sulle sue. Probabilmente si era offesa per il tono con cui la ragazza si era rivolta a lei. Non si conoscevano ancora bene, ma Emma non si sarebbe mai aspettata che Lydia Martin, una delle ragazze più popolari e carine della scuola, nonché piccolo genio in chimica e latino arcaico, fosse una creatura mitologica.
«Aspettate» disse poi Emma, distogliendo lo sguardo dalla rossa, che ancora la fissava come se si aspettasse delle scuse da un momento all’altro «Stiles, tu cosa sei?»
Il ragazzo accennò un sorriso e allargò le braccia «Io, grazie a dio, sono umano quanto te»
 
La zona in cui si trovava il loft di Derek non era per niente bella ed accogliente: gli edifici erano tutti uguali; squallidi, grigi, tristi alla stesso modo. In quel momento, nemmeno il mal tempo riuscì a migliorare la situazione. Il cielo era tappezzato da nuvoloni neri e il vento muoveva freneticamente le foglie gialle e secche degli alberi e le pagine di giornale lasciate a terra dai passanti. Non aveva detto a nessuno di essere lì: sebbene non si ricordasse di preciso dove vivesse Hale, aveva dovuto fare uno sforzo mentale per ricordarlo e cercare l’indirizzo su internet. Per il momento, non voleva che gli altri sapessero della sua visita. Scese dall’autobus, che si era fermato ad un paio di isolati dalla sua meta e si incamminò a passo svelto. Non le piaceva per nulla quella zona: ogni volta che era stata lì – seppur poche – aveva sempre avuto l’impressione di essere seguita, osservata da qualcuno che rimaneva ben nascosto. Si strinse nella proprio giacca, tenendo ben stretta tra le mani quella di Derek e sulle spalle la borsa a tracolla. Camminò per un tempo che le sembrò infinito, guardandosi continuamente alle spalle, finchè arrivò di fronte all’edificio. Il discordo che si era preparata – un vero e proprio monologo che il ragazzo avrebbe sicuramente trovato noioso e stupido – non aveva già più alcuna importanza. Solo il fatto di essere lì le aveva fatto dimenticare qualsiasi cosa avesse voluto dirgli. Cercò di recuperare la calma e inghiottire quel nodo che le si era formato in gola ed entrò.
Salì le scale – chiedendosi perché non ci fosse un ascensore come in tutti i normali edifici – e in men che non si dica, fu di fronte al grande portone del suo loft. Temporeggiò per un momento: tutto il coraggio che aveva avuto fino a pochi secondi prima si stava affievolendo sempre di più e la paura iniziava a farsi sentire. Era Derek, era sempre lui – pensò, doveva rimanere calma.
Chiuse gli occhi, respirando ancora, poi li riaprì e senza pensare oltre suonò il campanello. Per qualche secondo, ci fu silenzio assoluto: nessuno aprì la porta, nessuno sembrava camminare dentro casa. Non riusciva nemmeno più a sentire il suo respiro regolare. L’unico rumore era il suo cuore che batteva e sembrava stesse per esploderle nel petto da un momento all’altro.
Alla fine, il portone fu tirato di scatto verso destra e la figura di Derek apparve ai suoi occhi. Per secondi interminabili si guardarono senza dire niente: l’espressione eccessivamente sorpresa del ragazzo la fece quasi sorridere, ma rimase seria per evitare di farlo arrabbiare. Quel silenzio era imbarazzante e forse, aveva sbagliato ad andare lì.
Rimaneva fermo sulla soglia della porta, sbalordito di vederla. Era l’ultima cosa che avesse immaginato. Aveva pensato che fosse troppo spaventata, che non avesse voluto a che fare mai più con uno come lui, invece eccola lì: di fronte alla porta di casa sua.
«Ciao» parlò finalmente Emma.
«Se sei venuta per-» rispose subito a tono Derek. La verità è che non gli piaceva per niente rivolgersi così a lei, ma non era abituato a ricevere visite, a persone che, nonostante la sua diversità, continuavano a tornare. Era sempre stato solo e ce l’aveva sempre fatta molto bene. Non aveva bisogno di nessuno.
«No» rispose lei interrompendolo, tranquilla, intuendo il suo stato d’animo «Sono venuta per restituirti questa»
Derek abbassò gli occhi sulle braccia della ragazza per vedere cosa tenesse in mano: la sua giacca nera di pelle.
«Posso entrare?» continuò lei, mentre ancora cercava di capire a fondo cosa stesse veramente succedendo. Annuì senza aggiungere altro, ancora meravigliato, e si spostò di lato, lasciandola entrare.
Emma scese i tre scalini che architettonicamente permettevano l’entrata in casa, seguita da Derek, e si voltò verso di lui, con la giacca in mano.
«Lasciala pure lì» le disse lui, con tono distaccato.
Seguì la direzione che le stesse indicando e appoggiò l’indumento sul piccolo tavolo su cui avevano mangiato tutti insieme, l’ultima volta che era stata lì. Si guardò intorno un po’ in imbarazzo, percependo lo sguardo profondo e caldo di Derek su di sé: aveva capito che fosse andata lì per uno scopo preciso, ma le sembrava arrabbiato e scocciato dalla sua presenza, quindi non sapeva come iniziare il discorso e chiedergli finalmente spiegazioni.
Si incamminò verso il tavolo più alto posto sotto la grande finestra a vetri e vi si appoggiò. Lo guardò negli occhi e sorrise, forse sperando che aprisse bocca per parlare. Ma, come sempre, non accadde.
«Mi piace questo posto» mormorò, rompendo il silenzio mentre si guardava intorno con poca attenzione.
«Bugiarda» scattò Derek, facendo qualche passo verso di lei. Poteva sentire molto bene il suo cuore battere e chiaramente stava mentendo.
«Non puoi saperlo»
«Sì, invece»
«Come fai?»
Il ragazzo stava per replicare di getto, quando si accorse che Emma lo avesse portato – senza nemmeno che lui se ne accorgesse – ad ammettere ciò che fosse veramente. La guardò negli occhi per un momento, scrutandola attentamente. Era davvero bella, forse anche troppo per uno come lui. I capelli le ricadevano leggermente mossi sulle spalle e gli occhi incuriositi e assetati di verità gli facevano tenerezza. Indossava un paio di jeans a vita alta ed un maglioncino rosa chiaro che faceva risaltare il colorito acceso delle sue guance. Sapeva di non poter evitare quell’argomento per sempre e anzi, di doverle raccontare la verità anche se non fosse pronto o non sapesse da dove iniziare.
Riemerse dai suoi pensieri quando Emma si mosse, appoggiando le mani sul tavolo e dandosi una leggera spinta per sedersi sul legno marrone e freddo. Scosse la testa, quasi divertito, e si avvicinò a lei. Si fermò solo quando i suoi addominali si scontrarono debolmente con le sue ginocchia: quel contatto così ravvicinato fece tremare entrambi, ma nessuno dei due disse niente.
«Riesco a sentire il tuo battito cardiaco» rispose infine, calibrando parola per parola.
«E’ perché sei…?»
«Sì, è una delle tante nostre capacità»
Emma annuì, senza rispondere. Non voleva obbligarlo a parlare, ma era davvero curiosa di sapere di più. Più lo fissava, più il cuore le batteva forte nel petto: forse per la vicinanza, forse per quello che era, forse perché, alla fine, era diventato importante per lei.
«Mi dispiace per quello che hai visto l’altra sera» iniziò, abbassando gli occhi «Non volevo che lo sapessi così; anzi, non volevo proprio che lo sapessi, ma-»
«Perché no?»
«Ti avrei messa in pericolo»
La ragazza rimase sorpresa di fronte a quell’affermazione. Cosa significava? Che c’erano pericoli più grandi di quello a cui si trovava di fronte? Non che Derek lo fosse, ma aveva avuto paura di quello che aveva visto e forse, ne aveva ancora.
«Sei sempre stato così?» cambiò discorso lei. L’idea di essere in pericolo la spaventava e almeno per il momento non voleva parlarne.
«Sì, provengo da una famiglia di lupi mannari» riprese Derek, rimanendo davanti a lei, senza muoversi di un centimetro «Mia madre era l’unica della famiglia a potersi trasformare completamente in un lupo. Avevo due sorelle: Cora e Laura. E infine mio padre, ma lui era un umano a tutti gli effetti. Sono morti tutti quando avevo sei anni e ancora non so quali siano le circostanze»
Emma rimase senza parole all’udire la tragica fine della sua famiglia: un po’ perché, facendo velocemente un conto, erano morti lo stesso anno in cui anche i suoi genitori biologici se n’erano andati – cosa che le fece sorgere nella mente altrettante domande; un po’ perché questa cosa poteva accomunarli e avvicinarli più di quanto avesse pensato.
«Ho anche uno zio: il fratello di mia madre, ma lui-» sospirò, scuotendo la testa «Non è proprio una brava persona»
Emma sorrise, divertita dal tono sarcastico che Derek aveva usato per parlare dell’uomo. Però, capì anche non gli piacesse molto parlare della sua famiglia, ed in parte lo capiva. Così, decise di cambiare di nuovo argomento.
«Quindi» disse, sollevando un sopracciglio «Cos’hai di così diverso da un semplice essere umano?»
«Fai troppe domande, ragazzina» rispose lui divertito, facendola arrossire per colpa di quel nomignolo «Comunque, sono più forte, più veloce, i miei cinque sensi sono molto più sviluppati; posso sentire e vedere cose che nemmeno immagini, posso assorbire il dolore di un’altra persona»
«Posso vedere?» chiese Emma, timidamente. Non aveva fatto altro che pensare a quell’azzurro freddo dei suoi occhi e voleva vederlo da vicino, un’altra volta.
«Cosa?» chiese, confuso.
«I tuoi occhi»
Derek scivolò lentamente, senza nemmeno rendersene conto, tra le gambe di Emma, fino ad arrivare ad un centimetro dal suo viso. Stava rivalutando quella ragazza: la prima volta che l’aveva vista, aveva avuto talmente tanta paura di lui che aveva pensato di non vederla mai più e invece, adesso, eccola lì a chiedergli con uno sguardo fiero e coraggioso e le guance leggermente arrossate d’imbarazzo di mostrargli i suoi occhi. Li chiuse lentamente, ascoltando il cuore di Emma: batteva così forte che per un momento si spaventò e pensò potesse uscirle dal petto. Appoggiò le mani ai lati del corpo della ragazza e altrettanto lentamente, li riaprì puntando il suo sguardo freddo come il ghiaccio in quello di Emma.
Per qualche secondo, rimase senza fiato e stordita davanti a quegli occhi così belli e ben lontani dall’umano. Le persone – lei stessa, anche – avevano occhi di sfumature azzurre meravigliose e rare da trovare, ma quelle di Derek erano ben lontane dal raro. Erano uniche.
Senza staccare il contatto visivo che si era creato, Emma si avvicinò ulteriormente al suo viso. Nemmeno lei sapeva perché lo stesse facendo, ma in quel momento sembrava così giusto. Di scatto e senza preavviso, appoggiò le sue labbra su quelle di Derek, unendole in un bacio, che alla fine, sorprese entrambi. Si ritrovarono a fare i conti con dei sentimenti che non avevano mai conosciuto o che li avevano lasciati troppo feriti, per provarli ancora una volta. Il ragazzo spalancò gli occhi, che ritornarono lentamente al solito colore, colto di sorpresa. L’ultima volta che aveva baciato qualcuno – Erica, per la cronaca – si era arrabbiato tanto da scaraventarlo contro la parete. Ma Emma non era un lupo mannaro, Emma non era Erica. Sentiva che fosse diverso e, nonostante la paura per quello che stesse provando, appoggiò le mani sul viso della ragazza e intensificò il bacio.
Ed era bello, bello davvero. Era talmente perfetto e giusto, da togliergli il fiato nei polmoni e la razionalità. Ma poi ricordò ciò che era successo l’ultima volta che aveva veramente voluto bene a qualcuno: quel qualcuno aveva sofferto a causa sua, perché la verità era che fosse una bestia piena di sé e di egoismo. Era una persona la cui anima giaceva in fondo ad un baratro buio e scuro da cui non si sarebbe mai più salvata. Non poteva permettersi di far soffrire chiunque fosse intorno a lui, di far soffrire lei.
«Oddio, scusami» la voce imbarazzata di Emma lo riportò alla realtà. Aveva interrotto il bacio all’improvviso e lui se n’era reso conto solo in un secondo momento. Lo sguardo della ragazza era basso e le sue guance sembravano bruciare da quanto fossero arrossate «Non so cosa mi sia preso… Io, cioè-»
Fece per scendere dal tavolo e andarsene – perché, in quel momento sembrava la cosa più normale e ragionata da fare, ma Derek la bloccò, appoggiando le proprie mani sulle sue ginocchia.
«Non muoverti» le disse, serio. Poi il suo viso si aprì in un sorriso, leggermente divertito «Era il tuo primo bacio?»
Emma annuì, imbarazzata. I suoi occhi si spostarono sulle mani che teneva in grembo e torturava leggermente, insieme al maglioncino.
«Notevole» commentò lui.
«Mi prendi in giro?» scattò la ragazza, facendo incontrare di nuovo i loro occhi.
Derek scosse la testa, senza aggiungere altro. Era così forte l’attrazione che sentiva in quel momento verso di lei, che gli faceva male. Era confuso, come non lo era mai stato prima e questo lo irritava. Voleva darsela una seconda possibilità, voleva davvero trasformare tutta quella rabbia che aveva in corpo da anni in qualcosa che lo potesse far stare bene una volta per tutte. Voleva trovare la sua ancora, un buon motivo per combattere. Ma questo non avrebbe redento i suoi peccati, non lo avrebbe reso migliore.
«Non dovresti nemmeno essere qui» parlò infine. Il suo tono era cambiato: piatto, distaccato. Eppure non osò muoversi dalla sua posizione. Avrebbe potuto allontanarsi e lasciarla andare, ma non lo fece «Non confonderti con uno come me: sono un mostro e avresti paura se ti dicessi tutto quello che ho fatto»
Emma sorrise «Tu non sei mostro» sussurrò ad un centimetro dalla sua bocca. Derek poteva sentire il suo profumo fresco e giovane: lo faceva impazzire «E io non ho paura»
La guardò alzarsi e recuperare la borsa che aveva appoggiato sul piccolo tavolo insieme alla giacca nera del ragazzo. Si avviò all’uscita – incapace di sostenere altre conversazioni, senza sentirsi in imbarazzo per averlo baciato.
Quando fu sulla soglia della porta, pronta ad uscire, si voltò per un’ultima volta verso di lui «Ho detto la verità prima»
«Su cosa?»
«Mi piace davvero questo posto»
Derek scosse la testa, piacevolmente sorpreso mentre la guardava uscire e chiudersi la porta alle spalle.


 

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Capitolo 6
*** Wolves without teeth ***


salve, lupetti :-)
finalmente, dopo ben venti giorni (il doppio rispetto al solito, lo so mi faccio schifo da sola) sono riuscita ad aggiornare, ma per farmi perdonare da voi bellissimi e amatissimi lettori ho scritto un capitolo super iper mega lungo (per i miei standard ovviamente) e quindi spero siate clementi nei miei confronti.
vi ringrazio moltissimo ancora per aver recensito, letto e aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate, non sapete quanto mi faccia felice questa cosa, quindi grazie mille!
non voglio dilungarmi troppo, quindi cercherò di essere breve ma devo lasciarvi assolutamente qualche precisazione su questo capitolo:
  • non ricordavo quale sport praticasse Derek al liceo, sono convintissima sia il basket, ma non ho ricontrollato quindi scusatemi in anticipo nel caso sia sbagliato
  • anche la storia di Paige non la ricordavo nei minimi dettagli, quindi scusate di nuovo (bello questo spazio autore pieno di scuse ahahah)
  • questo capitolo ed il prossimo saranno dedicati essenzialmente alla storia che sta nascendo (ancora molto lentamente) tra Derek ed Emma ma credetemi che a partire dall'8 capiremo di più sulla morte dei genitori di Emma e il collegamento che avevano con la famiglia di Derek
  • vi prego, voglio il tappetto rosso e i petali di rosa per un favoloso annoying!Stiles, spero vi piaccia :-)
  • anche sul personaggio di Aiden vorrei dire una cosa: sarà ovviamente un personaggio secondario e non si innamorerà di Emma, però io amavo i gemelli e quando Aiden è morto ho pianto come una disperata, quindi ci tenevo particolarmente a dargli questa doppia sfaccettura: è visto come il nemico, fa il cattivo, ma in realtà è un ragazzo come gli altri, semplicemente capitato nel branco sbagliato; quindi spero non vi dispiaccia
ovviamente, shippo la mia coppia di bellissimi Demma e spero lo facciate anche voi, perchè - a differenza di molte altre coppie su cui ho scritto - mi piacciono da morire e mi stanno facendo soffrire moltissimo. come vedrete, Emma ha già le idee abbastanza chiare su quello che prova per Der, mentre è lui ad essere ancora confuso per il semplice motivo che ha paura ad aprirsi; quindi nulla, spero vi piaccia come si sta sviluppando la loro storia
ultima cosa, poi vi lascio: ricordo che questa storia sia anche su Wattpad (link tra i miei contatti)

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio (e Buona natale!),
Giulia
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CAPITOLO SEI: WOLVES WITHOUT TEETH
 
Tirava vento, ma il freddo era l’ultima cosa di cui doveva preoccuparsi. La casa, nella quale aveva passato parte della sua infanzia, era illuminata dalla luce fioca della luna e i rami secchi e scheletrici degli alberi creavano ombre che rendevano ancora più spettrale quell’edificio. Ma non aveva paura, non ne aveva mai avuta. Alla fine, quella era sempre stata casa sua: un luogo che significava calore, rifugio, famiglia. Quella stessa famiglia che da un giorno all’altro gli era stata portata via. Aveva sei anni, eppure – ancora in quel momento – non riusciva a ricordare bene cosa fosse successo. La sera della morte dei suoi genitori risultava così sfuocata nella sua testa, che il solo tentativo di ricordare di più gli faceva male. Ecco perché alla fine, ci aveva rinunciato, era cresciuto come un normale orfano, pieno di rabbia repressa e aveva accettato la situazione attribuendo il tutto ad un incidente qualsiasi, oppure – quando era piuttosto triste – al destino. Alzò gli occhi verso il cielo scuro, ma puntellato di stelle, sparse qua e là, quando sentì alcune gocce bagnargli la fronte. Non ci pensò nemmeno due volte e si incamminò verso casa sua, salendo i tre scalini e rifugiandosi sotto il porticato. Per quanto fosse affezionato a quell’edificio, non significava più niente per lui: non era famigliare e la loro morte aveva oscurato qualsiasi bel ricordo. Sfregò le mani una contro l’altra, perché il freddo cominciava a farsi sentire. Si appoggiò alla parete cadente, accanto alla porta d’ingresso, e per un po’ fissò la pioggia cadere sempre più violentemente. Trovarsi di tanto in tanto immerso in quella situazione così irreale e inquietante, lo preoccupava più del dovuto. Si sentiva osservato, con le spalle scoperte, come se qualcuno fosse pronto ad attaccarlo, come se avesse dovuto risolvere una questione, senza sapere quale fosse o come portarla a termine. Sospirò, chiudendo per un momento gli occhi: era solo un sogno. Doveva solo pregare di svegliarsi il prima possibile e tutto sarebbe scomparso.
All’improvviso, una folata piuttosto forte di vento spalancò la vecchia porta di legno, facendola poi sbattere di nuovo in avanti. Derek aprì di scatto gli occhi, lievemente impaurito e si guardò intorno guardingo, senza però scorgere niente. Delle voci, provenienti dall’interno della casa, attirarono la sua attenzione. Inizialmente, le ignorò: riconosceva il tono di voce di sua madre e quello di alcuni bambini, probabilmente lui stesso e le sue sorelle. Ma in un secondo momento, dopo aver udito il lamento di un bambino affievolirsi fino a scomparire del tutto, decise di entrare.
Varcò l’ingresso, immergendosi immediatamente nelle ragnatele di ricordi e nella polvere che ricopriva ogni mobile. Le luci erano spente, ma per fortuna la luna illuminava quel poco che serviva a vedere qualcosa. L’arredamento era esattamente al suo posto. Era tutto come l’ultima volta che aveva dormito in quella casa, prima di lasciarla per sempre.
Si incamminò verso le scale che portavano al piano di sopra, completamente ipnotizzato dalle voci dei suoi familiari. Le salì velocemente, dirigendosi poi verso la camera che divideva con Cora e Laura, senza un preciso motivo. O meglio, perché era l’unica stanza dalla cui porta usciva uno spiraglio di luce. Era da lì che proveniva il lamento del bambino.
Sospirò profondamente, appoggiando la mano sulla maniglia, ma sperando di svegliarsi proprio in quel momento. Ad essere sinceri, non voleva proprio sapere cosa si nascondesse al di là di quella porta. Ma di svegliarsi non ne aveva intenzione, così aprì. La prima – ed unica – cosa che vide fu sua madre, più pallida del solito, seduta su una grande sedia a dondolo, che non gli era per niente famigliare. Ma ciò che veramente lo lasciò sorpreso fu il bambino infagottato che teneva in braccio e cullava con dolcezza. Inizialmente, pensò di vedere di nuovo sé stesso da piccolo, ma poi notò le due sorelle giocare in un angolo della stanza. Non poteva essere lui quel bambino, perché Cora e Laura erano nate dopo di lui. Così, si guardò insistentemente intorno cercando la sua piccola versione, ma non ce n’era traccia.
«Derek» la voce della madre lo riportò alla realtà. Continuò a perlustrare la stanza, aspettandosi l’arrivo di un bambino di sei anni, dai capelli neri, gli occhi verdi e le ginocchia sbucciate per l’eccessivo divertimento. Ma non accadde.
La madre aveva gli occhi fissi sulla sua figura, così deglutì e si avvicinò.
«Non è una meraviglia?» continuò la donna, guardando la piccola creatura che teneva tra le braccia. Derek si arrese ed annuì, avvicinandosi a lei «Perché non l’hai protetto, come avevi promesso?»
Il ragazzo spalancò gli occhi «Ma-»
«Derek, tesoro» lo richiamò dolcemente «Puoi farlo adesso: proteggilo e nessuno si farà del male»
«Va bene» furono le uniche parole che lasciarono la sua bocca.
 
Aprì gli occhi, sedendosi di scatto sul divano, cercando di eliminare l’immagine di sua madre con un bambino in braccio dalla sua mente. Scosse la testa, serrando inconsapevolmente la mascella: si sentiva così impotente, non riusciva a collegare tra loro tutti quei sogni strani ed enigmatici che faceva e a trovare una soluzione. Davvero sua madre gli aveva chiesto di proteggerlo? E poi chi era quel bambino? O forse, era una bambina? Non l’aveva guardato abbastanza per capire se fosse uno o l’altro. Scosse di nuovo la testa, passandosi una mano sul viso e decise di alzarsi. Si avviò lentamente verso il grande tavolo, posto al centro della stanza, e afferrò il cellulare. Erano quasi le tre e mezza. I ragazzi sarebbero usciti da un momento all’altro da scuola e, per quanto si sentisse ancora a disagio a raccontare di Deucalion ad Emma per paura di metterla in pericolo, più di quanto non fosse già, doveva farlo. Se davvero il lupo aveva avuto a che fare in passato con la famiglia della ragazza, aveva tutto il diritto di sapere.
Sospirò, finalmente decidendo di uscire: ripose il cellulare nella tasca posteriore dei jeans, afferrò la sua immancabile giacca nera di pelle e le chiavi, attaccate vicino alla porta, ed uscì, chiudendosela alle spalle.
In un secondo fu seduto in auto: aveva la testa completamente da un’altra parte e non si accorgeva minimamente di compiere le più semplici azioni quotidiane, dando loro la giusta attenzione. Non si era reso conto di aver chiuso il portone – lo aveva fatto, vero? – di aver sceso le scale, aperto l’auto e di esser salito.
Adesso guidava abbastanza deciso e leggermente al di sopra del limite di velocità. Le uniche cose a cui riusciva a pensare erano sua madre e quel bacio così piccolo e casto che Emma gli aveva timidamente regalato l’ultima volta che si erano visti. Stava diventando sempre più difficile per Derek non pensarla in quella determinata circostanza. Nella sua mente, non si creava più l’immagine di una ragazza qualsiasi, ma tendevano a prender spazio tutte quelle piccole cose di lei a cui una persona normale non avrebbe fatto caso: il modo in cui sorrideva – quando i suoi occhi azzurri si facevano più piccoli e luminosi ed una fila di denti bianchi e dritti appariva tra le sue labbra; il modo in cui si muoveva – che non richiedeva attenzione, che voleva passare il più possibile invisibile, ma che lui aveva notato lo stesso; il modo in cui parlava, o meglio come si rivolgesse a lui ogni volta – con gli occhi curiosi, ma la voce tremante e il cuore che le esplodeva nel petto. E, dopo vari tentativi, Derek aveva ceduto e imparato ad apprezzare Emma per quello che fosse, ad apprezzare cose visibili a tutti e aspetti che solo lui era riuscito a cogliere.
Ritornò improvvisamente alla realtà, quando entrando nel parcheggio della scuola, fu costretto a diminuire drasticamente la velocità e a fare lo slalom tra i primi ragazzi che uscivano, al suono della campanella, e si avviavano alla propria auto o all’autobus. Non sopportava quell’ammasso di gente, specialmente gli studenti. Non era mai stato un tipo da scuola superiore: l’aveva frequentata a suo tempo, ovviamente, ma solo dopo il diploma si potè definire felice e soddisfatto di sé. Era stato nella squadra di basket per un paio d’anni e ciò gli aveva procurato quel pizzico di popolarità che serviva per sopravvivere in quell’ambiente, ma nonostante questo – anche per il fatto che si sentisse diverso – non aveva vissuto bei momenti in quell’edificio. Ed ogni volta, tornare lì era sempre più difficile.
Parcheggiò l’auto in uno dei posti più lontani dall’uscita e scese, chiudendo lo sportello e appoggiandovisi con fare stanco. Guardò davanti a sé, osservando per un po’ il viso di ogni studente che stesse uscendo dalla scuola. Notò Malia e Kira dirigersi verso la biblioteca, seguite da Lydia e si aspettò da un momento all’altro anche l’arrivo dei ragazzi. In un secondo momento, si ricordò che avessero gli allenamenti di lacrosse per gran parte del pomeriggio.
«Ciao» una voce femminile lo richiamò. Abbassò lo sguardo, riconoscendo Emma ferma di fronte a lui, con lo zaino in spalla e qualche libro tra le braccia. Arrossì, quando si accorse di essere fissata dai suoi grandi occhi verdi «Che ci fai qui?»
Temporeggiò per qualche secondo. Sembrava che fosse lì per riaccompagnarla a casa, come un perfetto fidanzato, anzi, questa era proprio l’idea che dava. Così, distolse lo sguardo e si voltò, dandole le spalle e aprendo lo sportello.
«Dobbiamo parlare» disse, freddo e distaccato. Emma aggrottò la fronte, dubbiosa «E’ importante»
«Ma io devo andare in biblioteca con le ragazze» protestò «Dobbiamo studiare»
«Puoi studiare da me» propose, con un tono che non ammetteva un no, come risposta.
Annuì, senza aggiungere altro e fece il giro dell’auto, per salire. Derek fece lo stesso e in pochi secondi si ritrovò ad imboccare la strada diretto a casa propria.
Il viaggio fu silenzioso, le uniche cose che facevano il minimo rumore erano il cuore di Emma e le auto che sfrecciavano veloci accanto alla loro.
Ma non le dava fastidio quel silenzio, non quando era con Derek. Era contenta che si fosse presentato lì all’improvviso. Dopo il bacio che c’era stato, aveva sinceramente pensato che non le avrebbe mai più rivolto la parola, per il troppo imbarazzo o semplicemente per non farle sapere che a lui una come lei non piaceva per niente.
Mandò un messaggio a Malia avvertendola del cambiamento di programma e quando alzò la testa, mentre lo riponeva in tasca, si rese conto di essere arrivata a destinazione.
Non aveva mentito quando aveva pensato che quel posto le mettesse i brividi, ma nemmeno quando aveva detto al ragazzo quanto casa sua gli piacesse. Certamente, non era stata arredata dai migliori arredatori in circolazione e probabilmente non emanava nemmeno quel senso di calore che ogni casa dovrebbe dare, ma lì si sentiva al sicuro.
Entrò dentro, seguendo Derek, e appoggiò le sue cose sul divano per poi rimanere in piedi vicino al piccolo tavolo.
«Di cosa devi parlarmi? Perché non ci sono anche gli altri?» incominciò.
Derek roteò gli occhi infastidito: perché doveva sempre fare così tante domande? «Arriveranno più tardi, i ragazzi hanno l’allenamento di lacrosse»
Emma annuì, senza aggiungere altro e aspettò che lui continuasse. Il ragazzo le fece cenno di avvicinarsi e la invitò a sedersi sul grande tavolo sotto la finestra, come aveva fatto l’ultima volta.
«Non siamo l’unico branco qui» iniziò; la ragazza impallidì, ma lui continuò «Loro sono tutti Alpha»
«Cos’è un Alpha?» lo interruppe.
«Esistono tre tipi lupi mannari» rispose «Gli Alpha, i Beta e gli Omega. I primi sono i leader del branco. Sono in grado di assumere varie forme, talvolta prendono l’aspetto di un lupo a tutti gli effetti – come succedeva a mia madre. Molto dipende dal carattere della persona e la loro forma varia da completamente normale a mostruosa. I Beta sono coloro che fanno parte del branco e seguono il loro Alpha. Infine, gli Omega sono lupi solitari, senza un branco»
Emma era piuttosto pensierosa: nell’immaginario che si era creata non risultava nessun leader nel branco di Derek, però non erano nemmeno degli Omega, visto che comunque vivevano in gruppo e collaboravano tra loro.
«Voi siete un branco, giusto?» chiese allora, confusa. Derek annuì «Dov’è il vostro Alpha?»
«Non c’è» rispose tranquillo.
«…Però non siete nemmeno degli Omega» precisò.
«Nemmeno»
«E allora come fate a sapere chi sia quello che prende le decisioni, che comanda o che comunque tiene a bada tutti gli altri?»
Derek scosse la testa, lievemente divertito. Gli piaceva quella sua troppa ed eccessiva curiosità e il fatto che ogni volta, invece di aver sempre più paura e desiderare di non far più parte di quel mondo, facesse sempre più domande per entrarne ufficialmente a far parte.
«Normalmente sono io a prendere le decisioni più importanti, visto che sono il più esperto, ma per il resto – per quanto talvolta non sopporti voi ragazzini – è un lavoro di gruppo»
Emma non rispose e si sistemò meglio sul legno ruvido e freddo del tavolo. Notò quanto fosse teso il ragazzo e probabilmente avrebbe dovuto esserlo anche lei, dopo la bomba che aveva appena sganciato. Se prima si era spaventata per un branco di lupi diciassettenni, adesso non sapeva proprio cosa pensare alla notizia della presenza di un ulteriore gruppo. Tutti Alpha. Tutti creature mostruose.
«Comunque, stavo dicendo» la voce roca e profonda di Derek la riportò alla realtà. Si era accorto di come il suo corpo fosse cambiato alla notizia degli Alpha. Adesso poteva percepire veramente la sua paura, ma anche lui, come lei in precedenza, aveva bisogno di risposte «Poco dopo l’inizio della scuola, il capobranco è venuto da me, chiedendomi se conoscessi una certa Emma Grimes e-»
«Ma sono io» lo interruppe, ingenuamente, schiudendo leggermente la bocca per la sorpresa.
«Infatti» riprese «Dice di aver un conto in sospeso con tuo padre e tua madre. Quando mi hai detto della morte dei tuoi genitori, ho subito pensato ad un collegamento»
«Ma loro sono morti in un incidente d’auto» replicò Emma «E non vivevano qui»
«Questo è quello che sai tu, quello che ti hanno detto i tuoi genitori adottivi» fece una pausa «O quello che altre persone hanno fatto credere a loro»
«Non è possibile» disse Emma, in tono sconcertato «Tu credi che questo branco abbia a che fare con la loro morte?»
«Non lo so, forse» rispose «Sai qualcosa di più?»
Emma rimase in silenzio. Non riusciva a rispondere, perché la sua mente si stava riempiendo lentamente di domande che la offuscavano completamente. Non poteva essere possibile: no, tutta la sua vita non poteva esser stata basata e costruita su una menzogna come quella. Alcune lacrime cominciarono a punzecchiare i suoi occhi, pronte per uscire ma cercò di ricacciarle indietro. Non voleva farsi vedere così debole da Derek, ma sapere che i suoi veri genitori erano stati molto probabilmente uccisi non la rendeva certo felice. Non aveva niente di loro: nessuna foto, nessun ricordo, nessuna ninna nanna, nessun regalo di compleanno o di Natale, perché le erano stati portati via così atrocemente. Non c’era ancora niente di sicuro, ma aveva smesso di credere alla storia dell’incidente nell’esatto istante in cui Derek aveva insinuato l’idea di un omicidio.
«Stai bene?» la voce preoccupata del ragazzo la riportò alla realtà.
Alzò gli occhi lucidi su di lui e abbozzò un sorriso «Sì, tranquillo. E comunque non so nient’altro, se non ciò che ti ho già detto»
«Troveremo una soluzione, va bene?» disse infine «Ho promesso a me stesso e agli altri che ci saremmo riusciti: non lasceremo che ti facciano del male»
 
Non era stato per niente facile mettersi a studiare dopo una conversazione del genere, ma di certo il compito di chimica del giorno successivo non si sarebbe portato a termine da solo. Le rassicurazioni di Derek riguardo al trovare una soluzione a quell’enigma l’avevano tranquillizzata ma il solo pensiero di come fossero morti i suoi genitori le causava tristezza e rabbia. Le faceva letteralmente ribollire il sangue nelle vene.
Ma il dovere e lo studio si erano fatti sentire e fu costretta a sedersi sul divano di fronte al piccolo tavolo per ripassare un po’ di chimica e sperare almeno in una sufficienza.
Dopo due ore passate sui libri, senza risolvere granché, decise di arrendersi: chimica era la sua materia preferita, il suo cavallo di battaglia, ma in quel momento non aveva la concentrazione adatta per andare avanti.
Nemmeno Derek stesso l’aveva aiutata a studiare meglio ed in tranquillità visto che, approfittando del momento di silenzio, aveva pensato bene di allenarsi. Si era tolto la maglietta che gli fasciava il petto con un disinvoltura allucinante, come se traesse piacere da quel gesto e dalla consapevolezza che lì ci fosse qualcuno che ogni tanto alzava lo sguardo e ammirava le sue spalle larghe, la vita stretta, le gambe toniche, le braccia muscolose e come queste parti del corpo armonicamente si contraessero ad ogni suo movimento.
Emma potè constatare che quella fosse una visione a dir poco celestiale, perché – oggettivamente e senza ombra di dubbio – era davvero un bel ragazzo.
Ma sapeva anche che lui lo facesse di proposito, per imbarazzarla e per potersi godere il rossore che si formava sulle sue guance ogni volta che la beccava a guardarlo con la bocca leggermente aperta, costringendola a spostare lo sguardo.
«Basta» esclamò, all’improvviso, chiudendo il quaderno «Non ne posso più»
Derek fece un ultimo piegamento e poi si avvicinò a lei, infilando la maglietta «Vuoi una mano?»
«Sei bravo in chimica?» chiese, alzando un sopracciglio.
«Per niente» rispose lui, sedendosi accanto a lei sul divano. Non sembrava minimamente stanco dopo le due ore di allenamento ed era sicuramente più bello. Si avvicinò ancora di più a lei, guardandola dritta negli occhi, con quell’espressione maliziosa e timorosa (di sbagliare) allo stesso tempo. Emma deglutì per la vicinanza e persino lei sentì il suo cuore esploderle nel petto e il respiro farsi corto «Io intendevo un altro tipo di aiuto»
I loro visi si fecero sempre più vicini e capì che a Derek non era dispiaciuto affatto il suo bacio, visto che adesso era lui a voler fare la stessa cosa. Ma nel momento in cui le loro labbra si sfiorarono, il portone fu tirato con forza e aperto. Quel rumore fastidioso riportò entrambi alla realtà: si allontanarono per evitare di esser presi con le mani nel sacco, ma ormai era troppo tardi.
«Hey, ragazzi-» esclamò Stiles, entrando per primo «Oh, scusate… Abbiamo- abbiamo interrotto qualcosa?»
I due si guardarono per qualche secondo sotto lo sguardo sconvolto di tutti gli altri. Derek si alzò, visibilmente imbarazzato, senza aprire più bocca. Emma, dal canto suo, arrossì violentemente ma cercò in tutti i modi di non darlo a vedere.
«Stavate per baciarvi!» trillò Malia, battendo le mani «Oh mio dio!»
«Ew!» intervenne Stiles «Con lui? Davvero
«Sta zitto, cretino!» lo riprese la ragazza, dirigendosi verso Emma e sedendosi vicino a lei «Allora, dimmelo: state insieme? Eh, dai, dimmelo, dimmelo, dimmelo!»
«No!» esclamarono all’unisono i due diretti interessati, con tono esasperato. Si guardarono di nuovo per un tempo che sembrò infinito, facendo calare il silenzio nella stanza, sorpresi entrambi della risposta che l’altro aveva dato. Entrambi avevano risposto che non ci fosse niente tra loro, quindi il bacio che c’era stato e le occhiate che si erano scambiati non significavano più niente?
Il ragazzo distolse definitivamente lo sguardo da Emma e fissò il suo branco «Siamo qui per spettegolare o per allenarci? Forza, datevi una mossa»
 
«Emma, dai, dimmelo»
«Stiles, smettila»
«Per favore»
«Ho detto di no»
«Ragazzi, potete fare più piano?» intervenne Lydia «Sto cercando di studiare»
«Dai» sussurrò insistente, mettendo il broncio «Ti prego, ti prego, ti prego»
Emma posò l’evidenziatore sul libro e si voltò del tutto verso l’amico. Quando gli altri avevano iniziato ad allenarsi, aveva ripreso a studiare insieme a Lydia e il ragazzo si era unito a loro, ma sicuramente il suo intento non era quello di ripassare chimica «Perché ti interessa tanto?»
«Perché sono tuo amico» rispose, sorridendole «E perché non capisco cosa tu ci trovi in uno come lui»
Sospirò «Ci siamo baciati»
Lydia alzò la testa dal libro, guardandola scioccata, mentre sul volto di Stiles si aprì un sorrisetto furbo, tipico di chi crede di saperla lunga. La ragazza arrossì, sentendosi osservata dai due e fece una smorfia quando si rese conto che nessuno avrebbe aggiunto altro. Recuperò l’evidenziatore e abbassò di nuovo la testa sul libro, cercando di riprendere la concentrazione.
«Ti piace?»
Il tono di voce del ragazzo cambiò drasticamente: da spiritoso che era stato un momento prima era diventato dolce, gentile, ma allo stesso tempo serio. Emma lo guardò ancora una volta e si accorse che esigesse una risposta al più presto. Stiles diceva la verità: era suo amico e gli interessava sapere cosa provassero le persone a cui teneva. Questo fu, soprattutto, il motivo che spinse la ragazza a rispondergli: non aveva mai avuto amici veramente interessati ai suoi sentimenti o idee e il solo pensiero di averli adesso la fece sentire completamente accettata dal gruppo.
«Non lo so» rispose lentamente arricciando il naso «Credo di sì, solo che lui è così-»
«Difficile» la interruppe lui.
«No» rise «E’ solo che non capisco mai a cosa stia pensando, cosa gli passi per la testa. Fa il duro un attimo prima e quello dopo cerca di baciarmi. Gli piace farmi arrossire, ma non sopporta tutte le domande che faccio; mi dice di stargli lontano perché è un mostro e poi mi aspetta fuori scuola. Mi confonde, però in senso positivo»
«Quindi ti piace» constatò Stiles e anche Lydia si dimostrò d’accordo con lui.
Si strinse nelle spalle «Sì»
Prima che il ragazzo potesse replicare, il resto del branco si avvicinò al piccolo tavolo, sedendosi chi a terra, chi vicino ad Emma e Stiles sul divano. L’allenamento anche per quel giorno si poteva definire concluso. Malia chiarì i suoi ultimi dubbi sul compito di chimica del giorno successivo e poi se ne andarono tutti a casa per una bella doccia calda e la cena, lasciando di nuovo soli Emma e Derek.
«E’ meglio se ti accompagno a casa» disse Derek senza nemmeno voltarsi verso di lei, mettendo in ordine la stanza, cercando di rimediare alla confusione provocata dall’allenamento «E’ tardi»
Emma non rispose, cercando di non pensare al motivo per cui si stesse comportando così. Quel no che entrambi avevano esclamato un paio d’ore prima aveva lasciato sorpresi tutti e due. Sinceramente, non si erano nemmeno aspettati che l’altro dicesse , ma quella risposta aveva prodotto molti altri punti di domanda.
Derek, però, aveva sentito quella che la ragazza aveva detto a Stiles, poco prima. Non aveva certamente origliato, semplicemente i suoi sensi ultra-sviluppati gli avevano permesso di sentire qualcosa di più. E adesso, si ritrovava a sorridere se pensava a quello che lei aveva detto. Aveva ragione su tutto e il solo fatto che avesse ammesso che gli piacesse gli faceva venire una voglia matta di prenderla e baciarla. Ma non lo fece: rimase sulle sue e si avviò all’auto, seguito da Emma.
Anche il viaggio di ritorno fu immerso nel silenzio: nessuno dei due sapeva cosa dire e mano a mano che si avvicinavano alla casa della ragazza le possibilità di affrontare la cosa diminuivano sempre di più.
«Grazie per avermi accompagnata» disse Emma, una volta fermi di fronte al piccolo cancello bianco di casa sua. Abbozzò un sorriso sghembo e fece per scendere, quando Derek la fermò.
«Perché hai detto di no?» chiese.
La ragazza richiuse lo sportello e si voltò verso di lui «Perché non so cosa vuoi: ci conosciamo da poco e da quanto ho capito, non sopporti che qualcun altro prenda le decisioni al posto tuo» disse «Tu, perché hai detto di no
Sospirò «Perché voglio proteggerti»
«Da cosa?»
«Da me, Emma» esclamò, spazientito.
«Non credi che,» iniziò «Se tu avessi voluto, mi avresti già fatto del male? Hai avuto molte possibilità per farlo, eppure sono ancora viva e vegeta»
Il ragazzo annuì, senza rispondere, ma capì perfettamente le ragioni di Emma e il motivo per cui lei non avesse paura. Era lui quello terrorizzato: quello che voleva darsi una seconda possibilità, ma l’idea di lanciarsi nel vuoto lo fermava, gli faceva mancare l’aria nei polmoni e finiva sempre a dirsi “Sarà per la prossima volta”. Ma Emma lo stava tirando sempre più verso il precipizio e non c’era modo di tornare indietro quella volta. Doveva buttarsi e sperare di sopravvivere.
«E’ meglio che vada» disse infine la ragazza, sapendo che tanto non avrebbe aggiunto altro. Si sporse verso di lui, lasciandogli un bacio sulla guancia.
Si voltò per aprire lo sportello, ma Derek l’afferrò di nuovo per un braccio, costringendola a voltarsi, e fece incontrare le loro labbra. Non solo si era buttato, ma l’arrivo alla fine del precipizio era stato più dolce e morbido di quanto avesse pensato. E fu costretto a ricredersi: avrebbe dovuto baciarla molto tempo prima. Emma intensificò il bacio, sorridendo contro la sua bocca per poi interromperlo, per riprendere fiato.
«Ci vediamo domani all’uscita» sussurrò Derek, sfiorando ancora le sue labbra con quelle della ragazza.
Emma annuì, per poi scendere dall’auto e rifugiarsi in casa.
 
I pomeriggi da Derek ormai erano diventati un’abitudine. Tutto il branco ormai aveva intuito, o meglio, capito perfettamente cosa ci fosse tra i due e, nonostante le battutine stupide e sarcastiche di Stiles, nessuno aveva da lamentarsi. Alla fine, Emma si era ambientata bene all’interno del branco e lentamente, stava cercando di conoscere tutti. Gli allenamenti non erano programmati per tutti i giorni, quindi talvolta si ritrovavano a passare tutto il pomeriggio da soli, immersi in qualche bacio, qualche piegamento senza maglietta e una pagina di storia o di letteratura americana. Ma andava bene così, l’importante era passare del tempo insieme.
Anche quel pomeriggio, in attesa che arrivassero gli altri, Derek si divertiva ad allenarsi senza maglietta e a sentire il battito cardiaco di Emma accelerare ad ogni suo piegamento. Era la cosa che più lo divertiva.
Ogni volta che la beccava a guardarlo, arrossiva ma faceva finta di niente per non dargli soddisfazione. Emma notò che avesse anche un tatuaggio, ma – per quanto fosse convinta di aver già visto quel simbolo in passato – non riuscì a riconoscerlo.
«Ti piace quello che vedi?» esclamò Derek con tono malizioso e l’intento preciso di imbarazzarla. Emma abbassò la testa sul libro, mostrandogli il dito medio e facendolo ridere.
Stava per replicare, quando il resto del gruppo fece capolino dalla porta.
«Stiamo per entrare» annunciò Stiles «Nel caso dobbiate rivestirvi o mettervi in una posizione consona, fatelo adesso o ne rimarrò segnato per tutta la vita»
«Non fare il cretino!» esclamò Malia, entrando, solo dopo avergli dato una pacca sulla testa.
Derek scosse la testa, sbuffando e infilò la maglietta.
Stiles e Lydia si diressero direttamente da Emma per scambiare due parole e studiare, mentre gli altri cominciarono l’allenamento.
Tutto filò liscio, finchè il lampeggiante posto vicino alla porta si illuminò di rosso e prese a suonare forte. Emma non aveva mai fatto caso a quell’oggetto, per il semplice motivo che non si era mai attivato in sua presenza e quindi si chiese immediatamente il perché della sua accensione improvvisa. Puntò gli occhi su Derek, notando che la fissasse a sua volta con un’espressione sconvolta e preoccupata sul viso. Spostando lo guardo, da Isaac a Stiles, da Scott a Lydia, potè notare che tutti avessero la stessa espressione. Rimasero tutti fermi ed in silenzio, finchè il portone fu tirato verso destra ed un gruppo di sei persone fece il suo ingresso.
Derek guardò Isaac e gli fece cenno di muoversi verso Emma e di rimanere con lei finchè il pericolo non fosse scampato.
«Chi sono?» mormorò Emma, muovendosi dalla sua posizione, mentre Isaac si avvicinava.
«Stai dietro di me e non muoverti» le intimò soltanto.
«Chi siamo?» ripeté uno di loro, attirando l’attenzione della ragazza. Camminava con un bastone, come se fosse cieco, eppure sembrava che si orientasse bene all’interno della stanza.
Derek fece un passo verso di lui, per fargli capire di non avvicinarsi ulteriormente. L’uomo lo evitò, avvicinandosi ad Emma e mostrando i suoi occhi rossi.
«Sei tale e quale a tua madre: occhi azzurri, pelle diafana, capelli scuri» parlò «E pensare che fosse così brutta e distrutta dopo la sua morte»
Emma sentì il respiro farsi corto e il cuore battere forte nel petto. Aveva capito benissimo chi fossero e dopo aver visto quegli occhi rosso fuoco, ne aveva avuto la conferma. Se solo non fossero stati lupi mannari, sarebbe scappata dalla stretta di Isaac per prendersela con quell’uomo spregevole. Cercò Derek con gli occhi, ma lui non la stava guardando: era troppo concentrato a mantenere una buona facciata per non spaventarla. Così, i primi occhi che incontrò furono quelli di Aiden. Non sembravano occhi pronti a fare del male, anzi sembrava quasi che le stessero chiedendo perdono per quello che sarebbe accaduto in futuro, perché – diciamoci la verità – entrambi avevano già capito che quella storia non sarebbe finita bene. Ma erano uno contro l’altro e non c’era spazio per amicizie segrete e giustificazioni.
Solo quando sentì Isaac ringhiare furiosamente contro Aiden, vide i suoi occhi farsi rossi e in men che non si dica i due furono l’uno sopra all’altro.
Emma fece un passo indietro spaventata, mentre Stiles la raggiungeva e la portava ancora più indietro: quello non era un semplice allenamento. Gli occhi ambrati di Isaac erano cattivi quanto quelli di Aiden; la lotta era nata per un motivo stupido e Derek lo fece notare immediatamente, fermando il suo Beta e spingendolo lontano dall’altro.
«Cosa vuoi?» chiese allora duramente, rivolgendosi a Deucalion. Guardò suo zio, Peter Hale, con disprezzo per poi tornare sul capobranco.
«Niente di importante» rispose «Solo vedere il risultato dell’amore delle due persone che io ho odiato di più in vita mia e per dirti che potrò ritenermi soddisfatto quando anche l’ultima componente della famiglia riposerà sotto terra»
«Prima dovrai far riposare me sotto terra» sibilò Derek, facendo un passo verso di lui.
Deucalion non si lasciò impaurire e, fatto cenno a tutti i suoi seguaci, si avviò all’uscita, lasciando un silenzio di tomba all’interno della stanza.
Il ragazzo sospirò riposando i muscoli che aveva teso fino a quel momento, poi si voltò verso gli altri «E’ meglio che andiate a casa, ci vediamo domani»
Tutti annuirono e si avviarono alla porta: non c’era stato alcun combattimento, ma anche la sola vista di quel gruppo di Alpha riusciva a togliere completamente tutte le forze. Le loro facce erano sconcertate, afflitte e stanche come se avessero corso una maratona, ma in realtà era stata la paura a renderli così.
«Vuoi che ti porti a casa?» la voce di Isaac la riportò alla realtà.
«No, ci penso io» parlò Derek, facendogli segno di andare.
Si avvicinò ad Emma ed inizialmente non seppe cosa dire: stava letteralmente tremando di paura ed era sicuro che da un momento all’altro sarebbe scoppiata a piangere. Non la biasimava per niente: se fosse stato un essere umano, per di più minacciato di morte da un mostro come lui, avrebbe reagito esattamente allo stesso modo.
La ragazza fece un passo verso di lui, circondando la sua vita con le braccia. Si attaccò a lui in modo quasi malsano, ma se non lo avesse fatto sarebbe caduta a terra. Non credeva a quello che aveva sentito: non solo aveva la conferma di come fossero morti i suoi genitori, ma lei stessa adesso era in pericolo. Qualche lacrima lasciò i suoi occhi e fu subito assorbita dalla maglietta di Derek.
«Scusa» balbettò, asciugandosi gli occhi e guardando la piccola macchia bagnata sulla stoffa.
Derek scosse la testa, per poi prenderla per mano e sedersi con lei sul divano «Stai bene?»
«Sì» rispose, ma lui alzò un sopracciglio sorpreso «Ok, no, per niente»
«Risolveremo questa cosa, promesso» disse «E non lascerò che nessuno ti faccia del male»
Per un po’ il silenzio calò tra i due: mille domande affollarono la mente di Emma, ma non disse nulla. In quel momento esternarle non sarebbe servito, visto che anche Derek non avrebbe trovato risposta. Però ne aveva una, a cui sicuramente sarebbe stato facile rispondere.
«Posso chiederti una cosa?»
«Mhmh» rispose lui, che aveva lasciato andare indietro la testa sul divano, chiudendo gli occhi. Gli aprì e la guardò.
«Perché i vostri occhi hanno colori diversi?» domandò «Perché, se tu ed Isaac siete entrambi Beta, i tuoi sono azzurri e i suoi ambrati?»
Derek si sedette meglio, con un’espressione sorpresa dipinta sul viso. Quella era stata un’altra delle tante conversazioni che per il momento aveva voluto evitare con lei, perché significava raccontare episodi della sua vita di cui non andava fiero.
«Non credo tu voglia saperlo davvero» disse infine, guardandola seriamente negli occhi.
«Invece sì» disse «Ho bisogno di sapere, penso di averne il diritto, no?»
«Dio, sei peggio di Stiles» rispose, facendola ridacchiare «Gli occhi rossi sono riservati agli Alpha; i Beta possono averli azzurri oppure ambrati»
«Qual è la differenza?» insistette lei e per un attimo Derek sperò si accontentasse della risposta che le aveva fornito.
«Coloro che hanno gli occhi azzurri hanno ucciso un innocente» parlò lentamente, vedendo come l’espressione facciale di Emma cambiasse. Stava ovviamente collegando tutti i pezzi «Isaac, come anche Scott, ha gli occhi ambrati perché non ha ucciso nessuno»
«Chi- chi hai ucciso?» balbettò.
Il suo cuore batteva forte, pregno di terrore ma allo stesso tempo di curiosità. Era tipico di Emma.
«Paige» rispose lui, sentendo ogni singola ferita riaprirsi di fronte a quel nome «Ci siamo conosciuti a scuola: lei adorava la musica, mentre io giocavo a basket. Ci siamo innamorati per caso e forse anche per sfortuna, visto che lei non mi sopportava» Emma sorrise «Lei non sapeva cosa fossi e mio zio mi convinse a trasformarla in lupo cosicché potessimo stare insieme. Quando cambiai idea era ormai troppo tardi: Ennis l’aveva morsa. Ma il morso non sempre trasforma in lupo, talvolta ti uccide e basta. Questo è quello che successe a Paige» mormorò con pochissima enfasi quest’ultima frase. Lui stesso aveva paura a continuare. Emma gli fece cenno di smettere, ma lui la ignorò «Lei mi disse che aveva capito che fossi diverso e mi chiese di ucciderla, per metter fine alla sua sofferenza»
«Mi dispiace» fu l’unica cosa che riuscì a dire, mentre si malediceva per esser stata così curiosa. Doveva smetterla di fare domande e portare la gente a raccontare cose di cui probabilmente non voleva parlare.
Derek rimase in silenzio per un po’, senza saper cosa dire. Non aveva mai raccontato a nessuno di Paige – nemmeno a Stiles o Scott – e riaprire questa finestra sul suo passato era stato più doloroso di quanto avesse creduto.
«So a cosa stai pensando» parlò di nuovo la ragazza. Si voltò verso di lei e la fissò senza capire cosa intendesse «Non ho paura di te, non ne ho motivo»
«Ho ucciso un’innocente»
«Perché te l’ha chiesto, perché la amavi» disse «Non perché sei una persona cattiva»
Derek abbassò lo sguardo e sorrise, per poi tornare a guardarla. Non aveva mai incontrato una persona così, forse perché non aveva dato modo a nessuno di buttare giù quella torre di mattoni che si era costruito intorno. Ma Emma ce la stava facendo e questo ovviamente lo spaventava, perché non era pronto a mostrarsi debole, insicuro e vulnerabile come qualsiasi altra persona.
Si avvicinò a lei, lasciandole un bacio sulla fronte, e l’abbracciò «Grazie»


 

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Capitolo 7
*** Bite my tongue ***


salve lupetti e buon anno! :-)
come avete passato le feste? io abbastanza bene dai, anche se ho mangiato troppissimo e devo mettermi di nuovo a dieta! scusatemi immensamente per il ritardo ma tra panettoni, regali, mattinate passate a letto (e poi ogni tanto ho studiato) non ho avuto molta voglia di scrivere
comunque, venendo al capitolo: non voglio essere lunga quindi cercherò di farla molto breve
  • come già avevo anticipato nello scorso capitolo, il 6 ed il 7 sarebbero stati dedicati ad Emma e Derek come coppia; spero vi piaccia il modo in cui si sta sviluppando la loro storia, entrambi stanno piano piano capendo di essere innamorati l'uno dell'altra e che forse vale la pena soffrire un po' per amore di qualcun altro
  • questo è uno dei capitoli per cui il rating della storia è arancio: non vi anticipo nulla e lascio il commento di una scena in particolare a voi, perchè io non mi pronuncio (e tra l'altro non mi piace nemmeno come l'ho scritta, spero solo vi piaccia)
  • il pezzo finale - dedicato a Deucalion - è uno dei piccoli indizi che portano poi a capire i rapporti tra la famiglia Hale e quella di Emma e il significato degli incubi, ma di nuovo non dico niente per non spoilerare; la figura di Joan (spero sia un nome da donna, nel caso non lo sia amen perchè lo terrò: lo adoro) sarà ovviamente importante
  • dal prossimo capitolo ci concentreremo meglio su tutti questi misteri e ci saranno molti colpi di scena, quindi stay tuned!
vi ringrazio ancora per aver letto, recensito e aver aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate, grazie mille davvero: tutto questo mi rende davvero felice!
ultima 2 cose poi vi lascio:
  • come sempre, potete trovare la storia aggiornata regolarmente anche su Wattpad (link nei miei contatti)
  • vi lascio qui la gif da cui ho preso ispirazione per la scena dei Demma nella camera della ragazza: x
spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia
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CAPITOLO SETTE: BITE MY TONGUE
 
«… Il primo ordine esecutivo, emanato il 22 Settembre 1862, decretava la liberazione di tutti gli schiavi dai territori…»
Distolse l’attenzione dalla figura dell’insegnante, che stava spiegando nuovamente un argomento già studiato e guardò fuori dalla finestra. Il cielo era ricoperto da nuvole grandi e grigie, quasi nere, che promettevano pioggia da un momento all’altro. Alcuni uccelli neri, forse corvi, attraversavano l’aria con le loro ali dinamiche, come se si annoiassero e non avessero nient’altro da fare. Riportò lo sguardo sul suo quaderno aperto: la penna blu era appoggiata sulla pagina mezza bianca, l’astuccio malamente aperto era posto in cima al banco e lei teneva le sue mani in grembo, senza nessunissima intenzione di prendere nuovi appunti. Non aveva la concentrazione adatta da alcuni giorni ormai: la sua mente viaggiava alla velocità della luce e l’unica cosa che aveva in testa era Derek. In quei giorni non si erano più sentiti, un po’ perché aveva avuto impegni con la scuola, un po’ perché erano diminuite anche le occasioni di incontro per la sospensione degli allenamenti. Esistevano i telefoni cellulari, ma Derek non si era mai fatto sentire. Aveva paura che fosse arrabbiato con lei: dopotutto, da quando era arrivata, aveva portato solo scompiglio nella sua vita. Deucalion era il problema e il pericolo maggiore a cui aveva sottoposto il ragazzo e quindi capiva se non avesse voluto più avere a che fare con lei. Oppure se non l’avesse chiamata perché si fosse semplicemente stancato di frequentarla.
«Qual è il problema?» sussurrò Malia, dal banco di fronte al suo.
Ripiombò nella realtà e si mosse sulla sedia, avvicinandosi a lei «Cosa?»
«Il tuo cuore sta esplodendo» rispose l’amica, voltandosi indietro e guardandola «E posso quasi sentire le rotelle del tuo cervello muoversi freneticamente, che c’è?»
«Non c’è niente»
«Bugiarda» rispose un’altra voce, proveniente dal banco alla sua destra.
Si voltò verso Stiles e lo guardò mentre la fissava con una mano sospesa in aria senza particolare motivo e la penna incastrata tra le labbra.
«Non sento Derek da qualche giorno» sbuffò, giocherellando con l’angolo della pagina del libro «Ma non è una cosa importante»
Malia la guardò accennando un sorriso e prima ancora che potesse replicare, la professoressa richiamò la sua attenzione «Tate, può dirci gentilmente chi ha promulgato il Proclama di Emancipazione nel 1863?»
La bionda annuì, rimanendo in silenzio. Era ovvio che non conoscesse la risposta, così si infilò l’evidenziatore in bocca ed aprì il libro alla ricerca di un nome, sotto lo sguardo attonito dell’insegnante. Non trovando niente, guardò prima Stiles in cerca d’aiuto, ma lo trovò a ridere come un idiota per una cosa che gli aveva appena detto Scott, così Emma si protese in avanti, avvicinandosi alla testa dell’amica, cercando di non farsi vedere dall’insegnante «Abraham Lincoln» sussurrò.
Malia ripetè sicura la risposta e l’insegnante sorrise compiaciuta «Grazie per la risposta, signorina Grimes»
L’intera classe scoppiò a ridere, mentre Emma arrossiva di vergogna per esser stata scoperta e Malia scuoteva la testa, lievemente divertita.
 
«Vuoi un passaggio fin da Derek?»
Stiles apparve al suo fianco, mentre, dopo l’ultimo suono della campanella, si avviavano all’uscita. Il ragazzo era sorridente e felice di uscire finalmente da quel posto infernale. Strinse le mani intorno alle bretelle del suo zaino e continuò a camminare.
«Non ho in programma di andare da lui oggi»
«Ma vorresti»
«Stiles, per favore» sbuffò.
Il ragazzo la ignorò completamente: sapeva che non avessero litigato e nemmeno che ci fossero problemi di altro tipo, ma Emma era una sua amica e vederla per giorni con un’espressione pensierosa stampata sul volto non era stato bello. Non c’erano molte occasioni per cui essere felici, nonostante fossero adolescenti in piena crescita e dovessero pensare solo a divertirsi, quindi non voleva proprio che fosse triste soltanto per – ne era sicurissimo – uno stupido malinteso. L’afferrò goffamente per un braccio e la trascinò verso la sua jeep azzurra, ignorando completamente le sue lamentele.
Gemette per la disperazione e l’impulsività dell’amico per tutto il viaggio e alzò il dito medio verso di lui, quando la scese di fronte al loft di Derek.
«Me ne torno a casa» disse, sporgendosi dal finestrino e arricciando le labbra per mandarle un bacio volante. Emma chiuse gli occhi e scosse la testa: aveva ragione Derek, era davvero fastidioso «Tanto non credo che tu abbia bisogno di me»
La ragazza nemmeno lo ascoltò: lo sentì sgommare via e rimase sola di fronte a quell’edificio che tanto la terrorizzava. Anzi, tutto il quartiere, in realtà, le faceva venire voglia di scappare a gambe levate.
Sospirò, cercando di calmarsi e si avviò al suo interno. Non c’era motivo di essere nervosi: era stata lì molte volte e conosceva bene Derek, quindi perché doveva tremare come una foglia e sentire il cuore in gola? Forse aveva paura. Paura che fosse arrabbiato e che la buttasse fuori di casa con la stessa velocità con cui era entrata.
Scosse la testa, dandosi mentalmente della stupida, e si avviò all’interno: trovò il portone principale aperto, così salì le scale fino a trovarsi di fronte alla tana del lupo. Alzò la mano per bussare, ma la porta si aprì senza che lei avesse fatto niente e si ritrovò di fronte ad un Derek piuttosto sorpreso.
«Hey» disse, imbarazzata.
Lui si spostò lasciandola entrare, senza liberarsi di quell’espressione confusa che aveva stampata sul volto «Non dovresti essere a scuola?»
«Siamo usciti un’ora prima»
«Ah» rispose soltanto, poi si sforzò di dire qualcos’altro «C’è qualche problema? È successo qualcosa?»
Emma scosse la testa guardandosi attorno per un po’, per poi tornare a fissare il ragazzo di fronte a sé. Indossava una canotta grigia che li fasciava perfettamente il petto, pregna di sudore. Sicuramente si stava allenando. Aveva un paio di pantaloni, anch’essi stretti, ed era scalzo. Stava in piedi di fronte a lei e la guardava come se si aspettasse qualcosa. Si pentì immediatamente di essere lì, forse avrebbe dovuto lasciare che le cose facessero il loro corso. Eppure sembrava che tutto stesse andando bene: stavano ancora provando, ma avevano trovato un equilibrio tutto loro, fatto di un misto di curiosità ripagata e mistero ancora incompreso. Si passò una mano dietro il collo, massaggiandoselo lievemente, fece poi ricadere il braccio lungo il fianco e lo guardò negli occhi.
«Sei arrabbiato con me?»
La sua voce rimbombò in quella stanza così grande e vuota, eppure già piena di bei ricordi vissuti insieme. Derek la sentì arrivare alla sua mente, ma anche al suo cuore e la sua confusione aumentò. Arrabbiato? Con lei? Gli venne quasi da sorridere per la ridicolezza della situazione. Lei avrebbe dovuto essere quella arrabbiata con lui, soprattutto dopo averle raccontato ciò che aveva fatto a Paige.
«No» rispose quindi lentamente, cercando di intuire la sua reazione.
La bocca della ragazza si aprì in una o muta, piena di sorpresa. Si era aspettata qualsiasi risposta: da un semplice ad un insulto vero e proprio, ma non si era certo preparata a questo.
«Perché pensi che debba essere arrabbiato con te?» continuò il ragazzo, facendo un passo verso di lei e intrappolandola tra il suo corpo e la piccola colonna che era sulla parte destra della stanza.
«Per quello che è successo con Deucalion: Isaac e Aiden stavano per sbranarsi e-» iniziò «Insomma, vi sto mettendo in pericolo»
«Ne ho viste di peggio» rispose allora il ragazzo, accennando un sorriso di conforto «Piuttosto, tu sei arrabbiata con me?»
«Che?»
«Sì, sai… Per la storia di Paige»
Emma lasciò cadere all’indietro la testa e una risatina divertita lasciò la sua bocca, mentre Derek continuava a fissarla senza capire cosa stesse succedendo. La ragazza tornò seria e lo guardò di nuovo «Ti ho già detto che non ha importanza»
Se fosse stata un’altra persona a dargli una risposta del genere si sarebbe infuriato. Ma aveva Emma di fronte e non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello di arrabbiarsi. L’ultima cosa che voleva era farla soffrire, farle del male; l’ultima cosa che voleva era vederla distrutta ed in pericolo per uno come lui. Era questo in parte il motivo per cui non l’avesse mai chiamata in quei giorni: gli piaceva, di questo ne era sicuro, ma avrebbe fatto del bene ad entrambi se l’avesse allontanata il più possibile da lui e dalla sua vita. Era difficile, perché Emma gli stava facendo provare sentimenti che aveva pensato di non essere più in grado di possedere ed usare, ma la cosa che contava era allontanarla da lui per proteggerla.
«E invece sì!» esclamò alla fine. Emma cercò di fare un passo indietro colta di sorpresa, ma la colonna glielo impedì «Perché non riesci a vederlo? Ho ucciso un’innocente e non mi meraviglierei se uccidessi qualcun altro! Sono un mostro e non mi merito questo. Faccio del male agli altri, metto sempre tutti in pericolo: sono stanco di questa situazione, sono stanco di dover proteggere sempre tutti da me stesso, tu compresa. Non ce la faccio più»
Deglutì a fatica, cercando di rimandare indietro le lacrime. Aveva finalmente capito cosa provasse Derek, ma a sua volta non voleva rinunciare a lui. Sapeva di essere egoista, sapeva che lo avrebbe quindi obbligato a tenerla lontana da qualsiasi tipo di pericolo, ma quello che c’era tra loro avrebbe fatto del bene entrambi. Poteva essere anche un mostro, ma non si meritava di rimanere da solo come un cane per tutta la vita.
«Tu dovresti aver paura di me» riprese, visto che lei non aveva aperto bocca «Dovresti vivere la tua vita e stare lontana da questo posto, perché quelli come noi portano solo guai»
Ancora una volta non replicò, anzi lo guardò per secondi che sembrarono interminabili per poi superarlo e avviarsi verso l’uscita, dopo aver recuperato la borsa. Si sentiva delusa, sconfitta. Aveva pensato che potesse davvero esserci qualcosa di buono e sincero tra di loro, ma non era così.
Scosse la testa e decise di lasciar perdere: si avviò a passo spedito alla porta, ma si fermò di scatto quando fu sulla soglia.
«Sai di cosa ho veramente paura?» Si voltò di scatto, guardandolo con gli occhi lucidi; scese i tre scalini e si avviò lentamente verso di lui. Derek rimase fermo, senza aprir bocca o muovere un muscolo «Ho paura quando mi guardi dalla parte opposta della stanza e non mi parli; quando non so cosa ti passi per la testa; quando sparisci per giorni e pretendi che non mi preoccupi, quando non rispondi alle mie chiamate, quando penso che potresti essere da qualche parte disteso a terra e sanguinante. Ho paura quando penso a quello che provo per te, a quanto tu mi faccia star bene: quando ci penso e mi sento il cuore in gola. Di questo ho paura, Derek, ma non di te»
Il ragazzo rimase per un attimo completamente immobilizzato da quelle parole sincere, uscite come un uragano dalla bocca di Emma. Era sorpreso, stupito, forse anche confuso. Nessuno gli aveva mai parlato così. Nessuno si era mai preoccupato per lui, visto che non aveva mai avuto nessuno che lo amasse e su cui fare affidamento. Ma adesso l’aveva trovato e non era un altro lupo, un amico, o magari un Alpha, come aveva sempre pensato, ma una ragazzina di diciassette anni, che adesso era in piedi di fronte a lui incredula delle sue stesse parole. Così fu costretto a fermarsi un momento, a riflettere: se quello che aveva appena detto fosse vero, se da quelle parole traboccassero i veri sentimenti di Emma, cosa avrebbe dovuto fare? Sentiva uno sfrenato desiderio di parlare, di dire qualcosa, di esprimere i suoi sentimenti, perché ne aveva parecchi per lei, ma qualsiasi cosa pensasse non era abbastanza esatta, precisa, vera in confronto a quello che lei aveva appena detto. Si guardarono per secondi interminabili, vogliosi entrambi che l’altro dicesse qualcosa e rompesse quel silenzio, ma non accadde. Emma voleva scappare e nascondersi da qualche parte, tanto era l’imbarazzo per i pensieri a cui aveva dato voce. Non ci aveva pensato: erano venuti fuori contro il suo volere, ma erano esattamente ciò che stesse provando per Derek. Aveva capito da tempo di avere sentimenti per lui, ma solo in quel momento diventarono concreti e reali. Diventarono parte di ciò che entrambi, insieme, stavano costruendo. Diventarono le fondamenta. Non si aspettò che Derek facesse lo stesso: non era bravo con le parole e probabilmente ancora non era il momento giusto per lui per aprirsi completamente, ma sapeva che sotto quei muscoli e quella corazza dura ed impenetrabile ci fosse un ragazzo normalissimo con sentimenti umani.
«Ti porto a casa» la voce roca del ragazzo la riportò alla realtà, distogliendola dai pensieri. Lo guardò afferrare la giacca e le chiavi dell’auto, mentre un sorrisino di pura e vera felicità si formava sul suo volto. Notò che cercasse di nasconderlo a tutti i costi, e questo la fece sorridere a sua volta. Forse non era troppo tardi.
 
L’acqua cadeva fitta: come aveva predetto quella mattina, guardando il cielo grigio fuori dalla finestra della propria classe, stava piovendo a dirotto. Era ancora seduta nella sua auto e aspettava il momento giusto per scendere. Entrambi sapevano che fosse una bugia. Osservò le goccioline d’acqua rincorrersi sul finestrino e il vetro appannarsi leggermente per via del riscaldamento acceso all’interno del mezzo. Voleva scendere, ma non ci riusciva. Da una parte voleva sapere disperatamente cosa pensasse Derek di ciò che aveva detto minuti prima nel suo loft, dall’altra parte l’idea di rimanere sola in casa, come ogni pomeriggio, per studiare in attesa che tornasse sua madre non l’allettava per niente.
«Vuoi entrare?» disse alla fine, voltandosi verso di lui. Era imbarazzata, perché quella frase significava tutto e niente e nascondeva altrettanti significati. Il ragazzo la guardò piacevolmente sorpreso, ma non ebbe il tempo di rispondere «I miei non ci sono, tornano più tardi»
Annuì e gli venne spontaneo. Non sapeva cosa aspettarsi, ma accettò comunque. Nessuno dei due aveva un ombrello, così scesero dall’auto e corsero fin sotto il portico della casa della ragazza. Aprì velocemente ed entrarono, colpiti in pieno dal confortevole torpore che sempre la caratterizzava. Derek si sentiva un pesce fuor d’acqua: non era abituato ad andare a casa degli altri e quando l’atmosfera accogliente di quell’edificio lo colpì in pieno petto si senti a disagio. Eseguì meccanicamente gli stessi movimenti di Emma e la seguì in giro per la casa, per paura di perdersi.
Ma quando sentì le sue dita intrecciarsi a quelle della ragazza, mentre lo trascinava su per le scale, si rilassò completamente. Capì che fosse solo il posto a renderlo insicuro, ad imbarazzarlo e sapeva che forse sarebbe sempre stato così, ma finchè fosse stato con lei si sarebbe sentito libero. Si rese conto in quel momento, mentre entravano in camera della ragazza, che per quanto fosse scappato, per quanto avrebbe corso, per quanto avesse continuato a tenere eretta quella torre di mattoni che aveva costruito intorno a sé, ogni volta che l’avrebbe guardata o solo pensata si sarebbe sentito a casa.
Rimase fermo sulla soglia della porta, mentre Emma gettava malamente lo zaino a terra e lo apriva tirando fuori qualche libro. Appoggiò il tutto sul letto e guardò Derek, invitandolo finalmente ad entrare.
«Prima però, potresti-? Potresti voltarti?» gli chiese arrossendo «Devo cambiarmi»
L’espressione del ragazzo passò da confusa a consapevole, per poi dar vita ad un piccolo sorrisetto sornione. La guardò un’ultima volta, sperando che cambiasse idea e poi si voltò puntando gli occhi sulla scrivania su cui torreggiava un computer ed un porta penne colorato.
Emma si cambiò velocemente: sfilò il maglioncino, poi il reggiseno e infilò una vecchia felpa di suo padre tirando su la cerniera; fece lo stesso con i jeans, indossando poi gli shorts del pigiama. Infine tolse la collana di sua madre, chiudendola con premura nel primo cassetto del suo comodino.
«Ho fatto, puoi voltarti» disse in un sussurro, mentre si legava i capelli in una coda improvvisata. Quando alzò lo sguardo ed incontrò quello di Derek non potè far altro che arrossire fino alla punta delle orecchie: i suoi occhi la scrutarono attentamente dalla testa ai piedi, soffermandosi in particolare sulle sue gambe nude. Quegli occhi la stavano letteralmente bruciando, ma non riusciva a muoversi, a liberarsi di loro.
«Devi studiare?» parlò alla fine il ragazzo, indicando con un gesto veloce i libri. Non aveva nessunissima voglia di starsene seduto a fissarla mentre leggeva uno stupido libro. Voleva baciarla, perché le mancava da morire e voleva sentire il suo cuore battere, anzi esplodere, nel petto.
«Posso farlo più tardi» rispose.
«Speravo tu lo dicessi» disse, facendo un passo o due verso di lei. Le prese delicatamente il viso tra le mani e avvicinò le labbra a quelle di Emma. La ragazza non aspettò ulteriormente e intensificò il bacio, cercando un appiglio nel corpo statuario di Derek. Non trovando niente, indietreggiò finchè le sue gambe non toccarono il bordo del letto: il ragazzo la seguì lentamente, senza mai far staccare le loro labbra e si ritrovarono malamente sdraiati l’uno sopra l’altro.
Quando la bocca di Derek lasciò la sua, gemette in disapprovazione, facendolo ridere ma quando la sentì scendere lungo la sua mascella fino al collo, fu costretta a mordersi il labbro inferiore per evitare di approvare in modo troppo evidente. Le labbra del ragazzo le lasciavano dei baci dolci sul collo che la facevano rabbrividire e lui si rese conto di quanto forte battesse il suo cuore e di come reagisse il suo corpo ogni volta che le sue labbra le sfioravano la pelle. Forse anche il suo cuore stava per esplodere e anche lui si ritrovò a scoprire delle sensazioni che aveva dimenticato da tempo. Si sorprese di come il suo corpo si incastrasse e si intendesse perfettamente con quello di Emma, come le loro bocche fossero state fatte per baciarsi e quanto non gli importasse di ciò che stesse succedendo nel mondo. Quando la baciava, il resto scompariva. E questo lo spaventava, perché sapeva che Emma potesse essere una distrazione, una debolezza, ma ne era così preso che non riusciva a smettere.
Si staccò da lei, togliendosi la giacca che ingombrava per poi tornare con le sue labbra a baciarla: una sua mano scivolò più in basso rispetto al collo, fermandosi esattamente sulla cerniera della felpa. La tirò giù lentamente e si aspettò da un momento all’altro che Emma lo fermasse, ma non accadde. Quando i due lembi di cerniera si staccarono, la sua mano continuò il suo percorso circondando il bacino della ragazza, fino a fermarsi sulla schiena. Premette leggermente per avvicinarla di più a sé e fece combaciare di nuovo le loro labbra. Le mani di Emma si attaccarono al collo del ragazzo per attirarlo a sé, scivolando poi sulla sua schiena con la tacita richiesta di togliersi la maglietta.
Derek fu costretto ad allontanarsi per farlo e quando si riavvicinò, sentendo la loro pelle entrare in contatto, un brivido – forte e deciso – percorse la sua spina dorsale, facendolo sentire per la prima volta vivo. La sua mano lasciò la schiena della ragazza per sfiorare il suo addome risalendo sempre più su verso il suo petto. La sentì rabbrividire e irrigidirsi sotto il suo tocco, così si limitò a seguire il segno dell’attaccatura del seno con i polpastrelli caldi delle sue dita.
«A cosa devo tutto questo affetto?» chiese Emma in un sussurro, interrompendo il bacio. Sentiva ancora le mani di Derek su di sé e avrebbe voluto rimanere in quella posizione per sempre.
«Pensi davvero quello che hai detto prima?» rispose lui con una domanda. Aveva gli occhi bassi, mentre disegnava cerchi immaginari sulla pelle chiara della ragazza.
«Sì» disse semplicemente. Il ragazzo alzò di scatto la testa e incastrò il suo sguardo verde con quello azzurro come il mare di Emma. Un sorriso sincero, felice, vero si aprì sul suo volto e alla ragazza non servì altro per capire che anche lui, alla fin fine, provasse la stessa cosa. Lo guardò in silenzio per un tempo che sembrò eterno: scrutò i suoi occhi verdi e profondi, eppure così rassicuranti, le sue labbra leggermente rosse per via dei baci e, spostando lo sguardo, le sue mani grandi e calde.
«Perché mi guardi in quel modo?» alla fine Derek ruppe il silenzio.
Lei alzò le spalle con noncuranza «Mi piaci quando sorridi così»
Stava per replicare quando i suoi occhi da lupo guizzarono verso la finestra. Perso completamente nei suoi pensieri e in Emma, non si era accorto di un rumore, proveniente dall’esterno.
«Derek, che succede?» chiese lei, preoccupata.
«Ssh» le disse lui. Rimase un attimo in ascolto, poi si rilassò e scosse la testa divertito «Tua madre è appena scesa dall’auto»
Emma ricadde a peso morto sul letto, poi quando elaborò alla perfezione ciò che il ragazzo le aveva appena detto, saltò di scatto a sedere e lo spinse via. Richiuse la felpa, arrossendo al solo pensiero di quello che era appena successo e cercò un modo per farlo uscire di casa senza che sua madre se ne accorgesse.
«Esco dalla finestra, tranquilla» la rassicurò, leggendole nella mente.
Alzò un sopracciglio, scuotendo la testa e si avviò con lui al davanzale. Non voleva che quella giornata finisse così e se sua madre non fosse arrivata avrebbero sicuramente continuato.
Fuori stava ancora piovendo forte, ma il ragazzo non sembrò preoccupato. Si avvicinò a lei dandole un ulteriore bacio e poi infilò una gamba fuori dalla finestra.
«Dico ad Isaac di venirti a dare un’occhiata tra un po’, va bene?» l’avvertì «Sicuramente tua madre lo farà entrare»
Emma annuì e Derek stava per andarsene, quando lo fermò di nuovo «Dormi con me stasera? Ti- Ti mando un messaggio quando i miei-»
«Sì» rispose lui sicuro, interrompendola.
Emma lo guardò scendere con abilità e piombare con i piedi perfettamente a terra. Seguì la sua figura alta e slanciata fino a che salì in auto e partì, scomparendo tra la pioggia e la nebbia.
Sorrise felice, dirigendosi verso il letto e aprendo un libro per studiare.
Entrambi non lo sapevano, ma quella notte nessuno dei due avrebbe avuto alcun tipo di incubo.
 
Era ormai notte fonda. La pioggia non aveva smesso un attimo di cadere e tutto, all’interno di quella fabbrica ormai mezza distrutta e completamente abbandonata, era bagnato e scivoloso. Le gocce d’acqua cadevano incessantemente attraverso i vetri rotti toccando il pavimento, rendendolo più umido del solito. Alcuni animali, come topi di campagna ed insetti, si aggiravano silenziosi mentre l’intero branco di Alpha si allenava con dedizione. Era lì che avevano trovato rifugio una volta arrivati a Beacon Hills. Quando erano stati lì per la prima volta – ai tempi in cui Talia Hale era ancora viva – avevano avuto a disposizione abitazioni più accoglienti, ma una volta scappati non avevano potuto portare niente con loro. Quella fabbrica distrutta, non molto lontano dal bosco e dalla vecchia casa Hale, era tutto ciò che avevano.
Deucalion era seduto su uno scalino di cemento mal messo. Aveva smesso da tempo di allenarsi, un po’ perché non era mai lui quello che combatteva in prima linea e un po’ per via della sua cecità. Preferiva rimanere seduto e a riposo, in quanto leader di quel branco, a guardare gli altri sudare e farsi giustamente del male, per ottenere una vittoria.
Non aveva avuto un vita facile ed era stato anche una persona migliore in passato, ma la vita non gli aveva regalato gioie, anzi aveva portato solo tristezza, sofferenza, distruzione e morte. Era cresciuto così: nella costante paura di non farcela, di morire prima di vivere. Così, aveva costruito quel branco e aveva eliminato i pericoli molto prima che questi potessero eliminare lui.
Sospirò, appoggiato al suo bastone e distolse lo sguardo dai suoi compagni. Infilò la mano libera nella tasca della sua pesante e immancabile giacca nera ed estrasse una fotografia ormai rovinata dal tempo. Sul suo volto si dipinse un piccolo sorriso malinconico e con un dito accarezzò la faccia della donna ritratta nella foto. Era stata la sua bellezza travolgente, la sua parlantina talvolta fastidiosa e la sua intelligenza a conquistarlo. Quando la conobbe, erano entrambi molto giovani: lui aveva ancora i suoi occhi e lei si era appena laureata. L’unica cosa di cui si era pentito era di non averle mai detto di amarla. L’aveva sempre osservata da lontano, senza mai fare un passo avanti con la paura di non venir accettato. Oppure, aveva semplicemente scelto di amarla da una distanza più lunga di un metro, per il semplice motivo di vederla vivere la sua vita, senza metterla in pericolo o trasformarla in un lupo. Non voleva questo per lei.
«Chi è?» la voce di Ennis lo riportò alla realtà. Il suo branco non conosceva quella storia, tanto meno l’esistenza di quella fotografia «Perché è strappata?»
Deucalion chiuse gli occhi per un momento e respirò, mantenendo la calma. Non era abituato a parlare di sé e della sua vita agli altri e non ne aveva intenzione nemmeno in quel momento. Era strappata perché la foto originale non raffigurava soltanto la sua amata. Era strappata perché a lui interessava solo lei. La guardò un’ultima volta, prima di ripiegarla e riporla in tasca come se fosse la cosa più preziosa del mondo, come se fosse il suo unico tesoro, l’unico motivo per combattere e continuare a vivere. Forse, lo era davvero; forse quella donna era stata la sua ancora per tutto quel tempo e lui non se n’era mai accorto.
Si appoggiò meglio al suo bastone ed alzò lo sguardo verso Ennis, parlando con un tono triste e disarmante «Joan»


 

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Capitolo 8
*** Triskele ***


salve lupetti :-)
finalmente sono tornata e ce l'ho fatta ad aggiornare! ho avuto due esami nell'ultima settimana e sono stata un tantino occupata, ma alla fine stamattina ho avuto un paio d'ore libere e ne ho approfittato per scrivere.
vi ringrazio di nuovo e con molto piacere per aver letto, recensito e aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate: grazie mille davvero, significa molto per me ed è una grande soddisfazione
come già avevo detto, questo capitolo è IL capitolo: finalmente scopriamo i rapporti che ci sono stati tra la famiglia Hale e quella di Emma, ma soprattuo il modo in cui sono stati uccisi; non si sa il motivo, perchè ho voluto creare un po' susssspence e quindi dovrete avere pazienza ed aspettare un altro po'. 
ho adorato scrivere la storia dei loro genitori, anche perchè sarà importante per il resto della trama.
già vi dico sin da ora, che il prossimo capitolo sarà piuttosto triste: Derek sarà costretto a vivere un tuffo nel passato e non sarà per niente piacevole, ma chissà.. magari con Emma vicino non sarà poi così difficile
a proposito dei Demma, questo capitolo non li affronta molto, ma attraverso i pensieri di Deaton potete capire come si stanno evolvendo le cose tra di loro: Emma potrebbe essere quell'àncora positiva che il nostro licantropo non ha mai avuto e potresse essere la sua unica possibilità per essere felice, quindi chissà come andrà!

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia
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CAPITOLO OTTO: TRISKELE
 
Quella notte nemmeno la luna piena si era fatta vedere: era rimasta nascosta dietro gli spessi nuvoloni neri, senza alcuna voglia di uscire allo scoperto. Anche lei sentiva la paura, il terrore, la frustrazione. La ragazza camminava nel bosco più incerta del solito: alcune stelle brillavano, ma non erano abbastanza per far una minima luce sul percorso su cui si stesse muovendo. Le foglie secche scricchiolavano sotto le sue scarpe di tela e quelle umide la fecero quasi cadere rovinosamente a terra un paio di volte. Aveva paura. L’ultima volta che era stata lì, tutto era cambiato: non aveva sentito il bambino piangere, aveva incontrato un lupo e sentito un gruppo di persone urlare di dolore. Ogni volta era diverso e anche in quel momento non sapeva cosa aspettarsi. C’era silenzio intorno a lei e non sapeva se fosse una cosa positiva o meno; era certa, comunque, che se qualcuno fosse arrivato all’improvviso da qualsiasi direzione l’avrebbe colta di sorpresa.
Continuò a camminare lentamente, non sapendo dove andare. Non si ricordava di aver lasciato casa sua, ma di aver aperto gli occhi e di essere già lì, quindi non poteva far niente per tornare indietro. Doveva adattarsi a quella situazione e andare avanti.
Si fermò di scatto quando i suoi piedi si inzupparono d’acqua: sapeva di essere di nuovo arrivata al lago. Rimase ferma ed imbambolata di fronte a quell’immensa distesa d’acqua, senza vedere niente. Il cielo era coperto e l’acqua del lago sembrava nera e spaventosa.
Fece un passo indietro e decise di allontanarsi: aveva una strana sensazione. Era come fosse in grado di percepire il pericolo imminente e in quel momento, lo sentiva sempre di più incombere sulla sua figura.
Così, riprese a camminare in una direzione sconosciuta, costatando con sollievo che finalmente la luna stesse facendo capolino timidamente dalle nuvole. Riuscì quindi a scorgere dove almeno mettesse i piedi e passo dopo passo, non dopo molto tempo, si ritrovò di fronte ad una casa.
Era abbandonata e scura, ma sembrava in buone condizioni. Il tetto era leggermente cadente ed una finestra, al piano inferiore, aveva il vetro completamente distrutto, ma in tempi addietro era stata sicuramente una bella casa. Chissà chi aveva avuto la bellissima idea di costruirne una in mezzo al bosco, lontana dalla gente e dai bisogni primari. Non avevano avuto paura a vivere lì tutti soli e circondati dal silenzio?
Fece un passo verso quel piccolo edificio e si fermò di fronte ai tre scalini che conducevano al portico, prima della porta d’ingresso. Alzò lo sguardo e solo da quella posizione, potè notare quanto fosse grande, ma soprattutto alta. Avrà avuto tre piani.
All’improvviso, un piccolo rumore richiamò la sua attenzione. Abbassò velocemente lo sguardo e la prima cosa che vide fu una culla. L’oggetto dondolava leggermente, come se qualcuno lo avesse spinto o come se ci fosse qualcuno al suo interno che si stesse muovendo. Quell’immagine fu ciò che la riscosse: salì velocemente i tre scalini e si accucciò per guardare meglio: dentro la culla, c’era davvero un bambino. Si lamentava, ma non piangeva: aveva gli occhi azzurri ed una tutina gialla. Non appena la vide, alzò le sue manine verso di lei, chiedendole implicitamente di essere preso in braccio.
Ma Emma non lo fece: piuttosto, afferrò il manico della piccola culla e la trascinò per riportarla ai genitori. Sicuramente erano i proprietari di quella casa, ma come potevano un padre ed una madre andarsene e lasciare lì il proprio figlio? Avrebbe potuto morire di freddo in una notte come quella.
Si guardò intorno ma non vide niente che avrebbe potuta aiutarla, né la strada giusta per tornare a casa.
Fu in quel momento che vide due puntini rossi fissarla da dietro un cespuglio di rovi non molto lontana dalla casa. Soffocò un urlo, capendo immediatamente cosa fosse. Non appena il lupo si mosse e prese a correre verso di lei, strinse la mano intorno al manico della cula e cercò di aprire con tutte le sue forze la porta d’ingresso della casa. Con il corpo che tremava di rabbia e paura, ci riuscì ed entrò velocemente, chiudendosi la porta alle spalle.
Ma una semplice porta di legno non era niente per un lupo, che vi ficcò gli artigli e la strappò via, provocando un rumore assordante. Emma urlò, ma nessuno sentì niente.
 
Aprì gli occhi, sedendosi di scatto sul letto. Si guardò intorno per un attimo rendendosi conto di non essere nel proprio letto, poi si ricordò: era a casa di Derek. La maglietta che stava indossando era bagnata di sudore, aveva il battito cardiaco più che accelerato e le mani che tremavano. Se ne passò una tra i capelli, sperando di calmarsi, ma non ci riuscì. Quella volta non ci riusciva.
Respirava con fatica, aveva la gola secca e sentiva le lacrime far forza contro i suoi occhi per poter uscire. Le ricacciò indietro con fatica, sentendo un groppo in gola difficile da mandar giù e dimenticare.
«Che succede?» il sussurro di Derek la riportò alla realtà. Si voltò verso di lui senza dire niente: l’unica cosa che fece fu scoppiare a piangere come una bambina. Si sentiva ridicola a comportarsi in quel modo, ad aver avuto paura di uno stupido incubo, ma le era sembrato così reale, da spaventarla.
Il ragazzo si avvicinò con cautela chiudendola in un abbraccio. Appoggiò la testa sul suo petto e sentì la mano di Derek massaggiarle la schiena. Rimasero in quella posizione finchè le lacrime lasciarono il posto a degli sporadici singhiozzi e il respiro tornò ad essere regolare.
Emma era troppo scioccata per parlare, per poter solo far uscire una sillaba dalla sua bocca, così il ragazzo si accontentò del suo silenzio e non continuò con le domande.
Avrebbe voluto, ma aveva capito che il suo era stato solo un incubo. Ripensò per un momento ai suoi e trovò strano il fatto che entrambi li avessero. Emma non gli aveva mai parlato dei suoi, quindi cominciò a pensare che cosa avesse sognato. E poi, ne soffriva da molto tempo? Oppure era stata solo una coincidenza e normalmente dormiva benissimo?
Ripiombò nella realtà, quando Emma chiuse le mani intorno al tessuto della sua maglietta, per spingerlo a sdraiarsi di nuovo con lei. Si lasciò muovere dalla ragazza e l’attirò di nuovo a sé, una volta sotto le coperte.
Notò che tremasse ancora e che i suoi occhi fissassero il soffitto senza nemmeno sbattere le ciglia: aveva paura ad addormentarsi. Così la strinse contro il suo petto e le baciò la fronte.
«Emma» sussurrò e lei si voltò lentamente «Non può farti male, era solo un incubo: adesso, concentrati su qualcos’altro»
«Su cosa?» la sua voce uscì roca ed irriconoscibile.
«Su di me»
 
Quando i primi raggi del sole colpirono la grande finestra ed illuminarono il letto ed il pavimento di legno, Derek aprì lentamente gli occhi, stropicciandoli con le mani. Si mise seduto e pigramente distese i muscoli, prima di voltarsi verso Emma. Stava dormendo molto più tranquillamente rispetto alla notte precedente: i suoi capelli scuri era sparpagliati sul cuscino, la bocca era leggermente socchiusa ed un’espressione più serena alleggiava sul suo volto. Erano quelli i momenti in cui poteva guardarla senza che se ne accorgesse: cercava di farlo anche quando fosse sveglia, ma nel momento preciso in cui lei ricambiava lo sguardo, lui distoglieva il suo per puro imbarazzo. Si faceva sempre trovare con le mani nel sacco e odiava quella sensazione. Odiava sentirsi come un adolescente alle prese con una cotta stratosferica, quindi finiva sempre per non guardarla in quel modo. Almeno non quando era sveglia.
Fece per alzarsi e vedere se riuscisse a preparare un po’ di colazione per entrambi, con quel poco cibo che aveva in casa, quando notò qualcosa brillare intorno al collo di Emma. Un raggio di sole batteva proprio in quel preciso punto, creando un riflesso e rendendolo abbagliante.
Incuriosito si avvicinò, mettendosi di spalle al sole in modo che la sua luce non potesse più infastidirlo e guardò nel punto che era stato illuminato. Ciò che vide aumentò considerevolmente il suo battito cardiaco. La gola si fece secca e il respiro irregolare. Come era possibile che Emma avesse quella collana? Perché non aveva mai fatto caso al piccolo triskele che pendeva sul suo petto?
Sapeva di essere esagerato e comportarsi da egoista, ma non poteva aspettare. Cercò di reprimere tutta la frustrazione e le domande che annebbiavano la sua mente e si avvicinò di più a lei, con l’intento di svegliarla.
Appoggiò la sua mano sul braccio della ragazza, scuotendola leggermente, ma questa spalancò gli occhi, spaventata come se avesse percepito il pericolo.
«Sono io» disse Derek «Tranquilla»
Emma annuì distrattamente, poi si mise seduta sul letto. Il ragazzo notò come la collana fosse completamente uscita fuori e dondolasse sulla sua maglietta. Doveva sapere, ma sperava di sbagliarsi.
«E’ successo qualcosa?» chiese allora Emma.
Derek scosse la testa, quasi mortificato per averla svegliata così, ma poi decise di parlare «Dove hai preso quella collana?»
Gli occhi della ragazza subito corsero sull’oggetto interessato. Lo prese tra le mani, rigirandoselo un paio di volte prima di tornare a guardare Derek «Non lo so… Forse, me l’ha data mia madre prima che morisse. I miei genitori adottivi hanno sempre sostenuto che ce l’avessi già prima che mi adottassero» fece una pausa, ma l’espressione del ragazzo la incuriosì e spaventò allo stesso tempo «Perché?»
Derek respirò profondamente, cercando di trovare un senso a quella situazione, a quell’oggetto. Poi si avvicinò alla ragazza e gliela sfilò dolcemente dal collo «Mia madre ne aveva una identica: ecco perché ho il triskele tatuato sulla schiena, ma la sua…» lasciò cadere il discorso, rigirandosi il ciondolo – rappresentante un simbolo così importante per lui – tra le mani e sentì il sangue gelarsi nelle vene quando lesse le due piccole iniziali incise sul retro «Era firmata T.H.»
Per un momento si guardarono negli occhi senza sapere cosa dire. Erano entrambi confusi, ma una cosa l’avevano capita, o almeno credevano di esserne sicuri: le loro famiglie si conoscevano. Ma anche quella di Emma era una famiglia di esseri soprannaturali o erano tutti umani? Alla fine, Derek scosse la testa contrariato: sua madre non avrebbe mai fatto amicizia con degli umani, con il rischio di metterli in pericolo. Però, Emma aveva la sua collana e solo Talia avrebbe potuto dargliela, visto che la portava sempre al collo e non se ne separava mai.
«Cosa facciamo adesso?» mormorò la ragazza, guardandolo. Si sentiva a disagio: se quella storia fosse stata vera, aveva avuto tutta la vita un oggetto che non le era mai appartenuto. Lo aveva sempre conservato come se fosse la cosa più preziosa del mondo, come se fosse l’unico ricordo dei suoi genitori, ma adesso, all’improvviso, aveva scoperto che non fosse più sua e che avesse privato il vero proprietario dei suoi ricordi «Sei arrabbiato con me?»
Derek distolse gli occhi dal ciondolo e la guardò. Sorrise dolcemente e scosse la testa: come poteva credere che fosse arrabbiato? Non aveva fatto niente di male, anzi aveva mantenuto vivo il ricordo di entrambe le loro famiglie, anche se inconsapevolmente «Certo che no, perché dovrei? Ma adesso dobbiamo alzarci e andare dall’unica persona che possa darci qualche risposta, dall’unica che conoscesse veramente bene i miei genitori»
 
Emma aggrottò le sopracciglia curiosa e dubbiosa allo stesso tempo, quando la camaro nera di Derek si fermò di fronte alla studio veterinario di Beacon Hills. Sapeva che Scott lavorasse lì, ma era domenica e poi non credeva proprio che fosse lui la persona con cui Derek aveva parlato al telefono, circa mezz’ora prima, quando ancora erano nel suo loft. Parcheggiò di fronte all’entrata ed in rigoroso silenzio, scesero entrambi.
Erano assorti nei loro pensieri ed Emma non riusciva a togliersi dalla testa il fatto che di lì a pochi minuti, probabilmente sarebbe venuta a sapere qualcosa di più – o peggio, la verità – su ciò che fosse accaduto ai suoi genitori. Da quando era tornata a Beacon Hills e aveva incontrato Derek, aveva sempre avuto questo desiderio. Dopo l’incontro con Deucalion si era convinta di voler sapere veramente come fossero morti. Ma era pronta? Era sicura, adesso, in quel preciso momento, di volerlo sapere? Derek la prese per mano, percependo quanto fosse nervosa e cercò di confortarla, stringendo leggermente la presa. In quel momento, nemmeno lui sapeva cosa dire e cosa fare. Se c’era una cosa che aveva in comune con Emma, in quell’istante, era di non esser veramente sicuro di voler sapere cosa fosse successo alla sua famiglia. In tutti quegli anni, aveva sempre evitato l’argomento, arrivando a quell’età senza sapere con certezza i fatti. Ma il dolore aveva lasciato delle ferite profonde che con il tempo si era rimarginate. Aveva imparato a controllarsi semplicemente usando la rabbia. Una rabbia che nasceva dalle ingiustizie apportate alla sua famiglia. Ma questo era tutto ciò che sapeva, tutto ciò che aveva voluto sapere. Aveva ricordi sfuocati della notte in cui erano morti: l’unica immagine viva che aveva era quella di Deaton che lo trascinava fuori di casa. Ecco perché era stata la prima persona a cui avesse pensato e poi chiamato per sapere una volta per tutte la verità.
Ma si accorse che né lui né Emma fossero pronti a ricevere una notizia del genere, perché sapeva che non sarebbe stato facile, sapeva che fossero stati uccisi e che la rabbia avrebbe preso di nuovo a ribollire.
Quando arrivarono all’entrata un grande cartello con su scritto CHIUSO si muoveva insistentemente sul vetro della porta. Si era alzato un po’ di vento e quel pezzo di carta non riusciva a stare fermo.
Entrarono dentro senza problemi lasciando che la porta si richiudesse alle loro spalle. Derek andò con passo diretto verso la stanza principale di quell’edificio, superando la sala d’aspetto. La ragazza camminava dietro di lui, senza capire perché dovessero parlare con un veterinario.
Quando entrarono in quello che doveva essere il posto in cui venivano curati gli animali, c’era un uomo ad aspettarli. Era di media altezza, con gli occhi scuri e la pelle ambrata. Il suo volto non lasciava trasparire alcuna emozione e non sorrise né accolse i due ragazzi caldamente quando li vide entrare.
Quella stanza era incorniciata da un numero improponibile di armadietti pieni zeppi di medicinali e al centro c’era una specie di lettino su cui, ipotizzò Emma mentre osservava rapita quel posto, venissero curati o operati gli animali.
«Abbiamo trovato questa» la voce di Derek risuonò nella piccola stanza mentre mostrava la collana a Deaton, catturando l’attenzione di Emma «La riconosci?»
L’uomo l’afferrò rigirandosela tra le mani: quando lesse le due iniziali incise sul retro, alzò di scatto gli occhi e fissò la ragazza.
«Emma» disse. La sua voce era ferma, sicura, stabile, ma sorpresa. La diretta interessata fece involontariamente un passo indietro, colta di sorpresa. Quell’uomo sapeva di più rispetto a quanto Derek le avesse fatto credere e questo la spaventò a morte.
«Tu sai come sono morti i nostri genitori, vero?» scattò allora il ragazzo. La sua voce era un misto di rabbia, frustrazione, tristezza e delusione. Se solo Deaton gli avesse raccontato tutta la storia prima, adesso non sarebbero in quella situazione.
L’uomo annuì: conosceva Derek e sapeva che tipo di persona fosse. Sapeva anche di aver sbagliato con lui, ma l’aveva fatto per il suo bene.
«Perché non mi hai mai detto nulla?» ringhiò.
«Perché» iniziò Deaton, mantenendo la calma «Eri un ragazzino arrabbiato con te stesso. Pensavi fosse stata colpa tua, pensavi di non esser riuscito a proteggere la tua famiglia. Così ho evitato di raccontarti l’intera storia e-»
«Se tu me l’avessi raccontata, non sarei la persona che sono!» urlò Derek.
«L’ho fatto per te»
«Derek, ha ragione» Emma parlò per la prima volta da quando era entrata lì dentro. Il ragazzo si voltò verso di lei, cercando di recuperare la calma. Le piccole dita di Emma si insinuarono tra le sue, trasmettendogli immediatamente una sensazione di calore e serenità. Non sapeva come facesse, ma riusciva sempre a calmarlo «Lascia che rimedi al suo errore e ci racconti la storia adesso»
Il suo tono non era del tutto convinto, ma voleva che lo fosse per Derek. Quel ragazzo non si meritava di vivere con quei sensi di colpa per tutta la vita ed il minimo che si potesse fare per lui era raccontargli la verità.
«Sei sicura di volerla sapere?» le mani del ragazzo lasciarono la presa e racchiusero lievemente il volto di Emma, costringendola a scontrarsi con i suoi occhi verdi. Alla fine, lei annuì e dopo averla osservata per un po’ – il suo cuore batteva troppo forte persino per lui – annuì a sua volta «Va bene»
Entrambi si rivolsero a Deaton, così fu costretto a parlare «Le vostre madri si sono conosciute al college. Erano una il contrario dell’altra, ma dopo un paio di uscite di gruppo, divennero migliori amiche: erano inseparabili. Per pura coincidenza, anche i vostri padri erano amici: entrambi giocavano nella squadra di basket del college e conobbero Talia e Marion ad una partita» iniziò «Si laurearono tutti insieme e, diversamente dagli altri che finirono per allontanarsi e perdersi di vista, i vostri genitori continuarono ad uscire insieme. Nonostante le loro vite così diverse, nonostante il fatto che Talia fosse un Alpha e nonostante i figli, continuarono a vedersi»
«Mia madre sapeva che Talia fosse un lupo?» lo interruppe Emma curiosa.
Deaton annuì «Credo che Talia glielo avesse confessato dopo la laurea, quando ormai la scuola era finita. Comunque» riprese, lanciando di tanto in tanto un’occhiata a Derek che rimaneva in silenzio e non sembrava così curioso come Emma «Ho visto solo una volta Marion e Ben: lei era incinta di te ed entrambi erano al settimo cielo. Emma, se mai qualcuno ti avesse messo in testa strane idee suoi tuoi genitori, non devi ascoltarle: loro ti amavano, tanto da essere disposti a sacrificarsi, a morire per te. Talia mi diceva sempre che fossero dei genitori meravigliosi» sorrise al solo ricordo «Sono convinto che quelle due fossero molto più di due semplici migliori amiche, erano come sorelle. Erano pronte a difendersi l’un l’altra e a mettere al sicuro i figli dell’altra, se fosse stato necessario»
Derek si mosse, scocciato da quei racconti. Gli interessavano certo, ma si sentiva sempre a disagio quando qualcuno parlava così di sua madre: anche lui la ricordava come una persona splendida ed una madre affettuosa, ma non voleva sentirselo dire da altri. Gli dava fastidio.
«Puoi dirci come sono morti sì o no?» esclamò quindi infastidito. Emma gli tirò un’occhiataccia, ma lui la ignorò.
«E’ stato Deucalion ad ucciderli» cominciò, osservando le possibili reazioni di entrambi «Non so quale motivo avesse per uccidere due intere famiglie, ma l’ha fatto. Ha drogato tua madre con dello strozzalupo, in modo che non potesse difendere se stessa, tuo padre, i suoi figli e la famiglia di Emma. Erano a cena tutti insieme quella sera e Deucalion non potè scegliere momento migliore» si fermò per un attimo, sospirando. Nemmeno per lui era facile rivivere l’accaduto «Talia non li sentì arrivare, ma si accorse che qualcosa non andasse quando si rese conto che Kali avesse ucciso Laura e Cora. A quel punto, cerco di mettere al sicuro ciò che rimaneva: quando li sentì arrivare» si rivolse a Derek «Ti disse di nasconderti con Emma, che aveva probabilmente quasi un anno, e di rimanere lì finchè non fosse finito tutto. Deucalion riuscì a catturarli tutti e li uccise, affogandoli nel lago – quello a duecento metri da casa Hale»
Il silenzio alleggiò nella stanza per qualche secondo, ma Emma non ci fece caso: sentiva le rotelle del suo cervello lavorare freneticamente alla ricerca di un collegamento. Quella situazione, quel racconto non le erano nuovi. Poi, capì.
«Il lago…» sussurrò.
«Conosci quel lago?» chiese Deaton sorpreso. Derek si avvicinò a lei e con uno sguardo le chiese di spiegarsi.
«Da quando sono piccola, ogni notte faccio sempre lo stesso incubo» iniziò, ancora confusa «Quando mi sono trasferita qui, sono diventati più veri, più reali. Mi ritrovo sempre di fronte a questo lago e sento piangere un bambino, oppure…» si interruppe, pensierosa. Capì che ciò che sognava fossero le urla strazianti delle loro famiglie pochi secondi prima di morire.
«Oppure?» la incalzò Derek.
«Sono le loro urla» rispose con voce tremante, con le lacrime pronte ad uscire «Non riesco mai a vedere chi siano, ma li sento urlare e mi fanno male»
Il ragazzo guardò Deaton preoccupato «Potrebbe essere un semplice riflesso» spiegò l’uomo «E’ vero, Emma era troppo piccola per poter ricordare, ma il fatto che tu sia tornata qui può aver ampliato i tuoi pensieri, le tue teorie, le tue sensazioni» poi tornò a guardare Derek «Tu hai incubi?»
Si sentì preso in contro piede, ma decise di essere sincero. Alla fine, stavano facendo tutto questo, per scoprire la verità «Sì, ma io… Io continuo a sognare mia madre che mi chiede di proteggere un bambino, che io nemmeno conosco»
Deaton sorrise, con la soluzione tra le mani «Perché è successo davvero e quella bambina era Emma» Derek lo guardò a bocca aperta «Prima di lasciarti, tua madre mise al collo di Emma la sua collana e ti chiese di proteggerla qualunque cosa fosse successa»
«Allora perché noi ci siamo incontrati solo adesso?» chiese la ragazza «A sedici anni di distanza?»
«Quella notte» riprese Deaton «Quando sentii il ringhio straziante di tua madre, capii che fosse successo qualcosa. Così, venni immediatamente a casa vostra, ma la trovai vuota. Sapevo che tua madre fosse un lupo, ma chiamai immediatamente il 911 e la polizia. Poi mi accorsi di voi due: Emma dormiva nella sua culla, come se niente fosse accaduto, mentre tu, Derek, eri spaventato a morte e non riuscivi nemmeno a mantenere la tua forma umana. Fui costretto a portarti via con me prima che qualcuno della polizia ti vedesse e lasciai Emma lì, sapendo che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno. Continuavi a parlare di questa promessa, ma inizialmente non ti credetti: alla fine, avevi solo sei anni ed eri terrorizzato»
«Come hai potuto fare una cosa del genere?» ringhiò Derek, scattando verso di lui e afferrandolo per il colletto della camicia, sbattendolo con poca gentilezza contro uno degli armadietti. Emma fece un passo indietro colta di sorpresa, poi notò come fosse tranquillo Deaton tra gli artigli del ragazzo.
Non aveva paura di lui.
«Non ho avuto altra scelta!» esclamò.
Emma prese coraggio e si affiancò a Derek «Lascialo andare»
Il ragazzo la guardò sorpreso per qualche secondo, poi lo liberò dalla sue grinfie. Chiuse gli occhi cercando di recuperare la calma, mentre lentamente ogni artiglio scompariva ed ogni canino si ritirava «Ti rendi conto di quello che ha fatto?!»
«Lo so che per te è troppo» iniziò Emma «Ma non mi è mai successo niente: ho avuto fortuna e ho trovato due genitori adottivi che mi amano, mi viziano e farebbero di tutto per me. Ormai è passato»
Esaminò per un momento le sue parole e giunse alla conclusione che avesse ragione. Non aveva avuto la possibilità di proteggerla durante tutti quegli anni, ma la fortuna era stata dalla loro parte. Emma aveva trovato due genitori splendidi che avevano vissuto lontano da Beacon Hills, evitando, involontariamente, di metterla in pericolo.
Non era stata colpa sua se non avesse avuto rispettato la promessa di sua madre, ma adesso sarebbe stato ancora più intenzionato a farlo. E adesso si spiegava anche il perché gli era sembrata così famigliare quando l’aveva vista la prima volta: lui aveva già conosciuto Emma, solo che non la ricordava.
«Hai ragione» disse infine, poi guardò Deaton «Scusami, mi dispiace averti aggredito»
Lui scosse la testa, come se non fosse stato importante e per la prima volta, da quando erano arrivati, sorrise. Alla fine, da un certo punto di vista, era felice che si fossero ritrovati. Aveva visto come Emma riuscisse a tirar fuori il lato migliore, più umano di Derek, come riuscisse a calmarlo quando nessuno altro avrebbe potuto farlo. Forse si stava sbagliando, forse era solo un’idea, ma sperava davvero che quella ragazza potesse essere l’àncora che Derek aveva sempre desiderato, ma mai ricevuto. Si meritava di essere amato, di amare, ma soprattutto di avere qualcuno per cui combattere. L’amore e la felicità erano le uniche cose che gli erano sempre mancate e dopo la morte dei suoi genitori, Deaton aveva sempre sperato e desiderato che Derek potesse averne un po’ da quella vita che era stata così crudele con lui.
Le loro voci lo riportarono alla realtà: lo salutarono con aria stanca e afflitta, nonostante fosse quasi l’ora di pranzo. Accompagnò i due alla porta e li osservò uscire e salire in auto, sperando che quella fosse davvero la volta buona. Poi, spense le luci, uscì all’aperto e chiuse a chiave la porta prima di incamminarsi verso casa.


 

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Capitolo 9
*** Remember we die ***


salve lupetti :-)
questa volta sono stata davvero brava e sono riuscita ad aggiornare in una decina di giorni: purtroppo, sono nel periodo della sessione invernale e quest'anno ho dovuto studiare per ben quattro esami (due dei quali, però, grazie a dio, ho già dato e superato, yay)

venendo al capitolo, vi lascio qualche indicazione ma non voglio comunque dilungarmi troppo
  • come già avevo anticipato, questo capitolo sarebbe stato triste - soprattutto dal punto di vista di Derek; all'improvviso si ritrova faccia a faccia con i ricordi e - per lo meno all'inizio - ci annega completamente e sembra che non riesca a sopravvivere ma poi capisce e supera questa sua paura, imparando ad apprezzare i bei ricordi della sua famiglia
  • finalmente, si scopre qualcosa sulla morte di queste due famiglie: ancora sono tutte ipotesi, ma con l'andare avanti dei capitoli chissà se diventeranno prove vere oppure tutto cambierà!
  • spero non vi dispiaccia la scena di Emma con Malia e Stiles, alla fine tutto il branco è protagonista e quindi mi faceva piacere inserirli (e poi, è sempre Stiles a voler entrare di nascosto nella stazione di polizia e di esser puntualmente beccato dal padre)
  • anche la scena del bacio tra i Demma è stata inserita per smorzare l'atmosfera triste, però un po' di bella e sana eccitazione ci vuole ogni tanto, no? che ben venga!
  • questo capitolo - e altri mano a mano che si va avanti - l'ho scritto ascoltando la versione di Boyce Avenue di Story of my life (se non l'avete ascoltatela, fatelo perchè è meglio dell'originale!)
vi ringrazio infinitamente per le visualizzazioni e per aver aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate, grazie davvero!
inoltre, vi ricordo che la storia è regolarmente aggiornata su Wattpad (link tra i miei contatti)

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia
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CAPITOLO NOVE: REMEMBER WE DIE
 
Le vacanze di Natale stavano per giungere a termine: gli abeti pieni di decorazioni e le lucine colorate ancora facevano capolino da ogni angolo della strada e davano un aspetto più gioioso alla grigia Beacon Hills. Emma aveva sempre amato quella festa e per quanto avesse riempito casa sua di decorazioni, luci, stelle colorate e calze di ogni genere, non era riuscita a fare la stessa cosa nel loft di Derek.
Dopo aver parlato con Deaton, aveva cercato di distrarlo in tutti i modi, anche se sapeva che prima o poi avrebbero dovuto affrontare l’argomento e aveva deciso di convincerlo a fare un piccolo albero anche a casa sua, tanto per renderla più accogliente durante il periodo natalizio. Il ragazzo, ovviamente, non ne aveva voluto sapere niente: odiava il Natale e come cambiavano le persone in occasione di quella festività: sembrava che il mondo cominciasse a funzionare soltanto il 25 Dicembre e che ogni persona diventasse magicamente buona, quando in realtà si rivelava soltanto ipocrita. Emma aveva cercato di convincerlo in tutti i modi, ma il suo loft era rimasto esattamente così com’era. Dopotutto, anche la zona in cui Derek viveva non aveva grande spirito natalizio: la gente del quartiere aveva allestito un albero in mezzo ad un piccolo parco lì vicino, ma nessuna delle loro case brillava sotto il bagliore di luci colorate.
Diversamente da come si era aspettata, non faceva molto freddo e di neve se n’era vista ben poca: ma alla fine, era una cosa normale. Quella era la California e il sole scaldava la terra quasi tutto l’anno.
Appoggiò l’evidenziatore accanto al libro, sul tavolo di legno scuro, tornando alla realtà: alzò gli occhi da ciò che stava facendo e guardò Derek fare un paio di ultimi piegamenti prima di toccare di nuovo terra con i piedi e riposarsi qualche secondo. Il loft era diventato anche un po’ casa sua e si meravigliava di se stessa per essere una bravissima bugiarda ed inventare una scusa diversa ogni volta che salutava sua madre e le diceva di uscire.
Guardò il ragazzo riprendere l’allenamento, mentre un pensiero continuava a bussare alle porte della sua mente: erano settimane che rimandava quella domanda, quel dubbio che aveva, ma non poteva più aspettare.
Aveva voluto che Derek si distraesse un po’ e non pensasse troppo ai suoi genitori, ma lei aveva bisogno di sapere; a lei interessava scoprire come esattamente fosse morta la sua famiglia.
«Derek?»
Si staccò dalla sbarra, attaccata in alto, piombando a terra con entrambi i piedi e si voltò verso di lei, rimanendo in totale silenzio, ma incitandola a continuare con un solo sguardo.
«Esiste ancora casa tua?» chiese, non sapendo quale reazione aspettarsi «Voglio dire, è ancora in piedi oppure tu e Deaton l’avete venduta o-»
«No, è ancora là» la interruppe il ragazzo, appoggiandosi al tavolo. Per un attimo, Emma perse il filo del discorso, troppo concentrata ad osservare il petto di Derek che si alzava e abbassava ancora velocemente, per via dell’allenamento. Alcune gocce di sudore attraversavano pigre il suo collo, per poi scendere verso l’addome e arrivare infine all’elastico dei pantaloni della tuta, dove finivano tutte per essere assorbite dalla stoffa.
Il ragazzo sorrise sornione mentre ascoltava il battito cardiaco di Emma aumentare sempre di più e la osservava divertito mentre era ferma a fissare il suo corpo.
«Pensavo» riprese lei, distogliendo lo sguardo una volta per tutte e riportandolo sul suo viso «Che potremmo andare là e dare un’occhiata: magari troviamo qualcosa che la polizia non ha notato o che pensava non fosse utile»
Derek corrugò la fronte, rimanendo spiazzato di fronte a quella richiesta. Non entrava in quella casa da quando se n’era andato quella notte e non credeva di esser pronto ad entrarvi così all’improvviso dopo quasi vent’anni. La sua mente lavorava velocemente e il suo cuore era carico di angoscia e preoccupazione. Come poteva tornare lì? Come poteva farlo e pensare di sopravvivere ad una cosa del genere? In quell’edificio c’erano la sua infanzia, i bei ricordi della sua famiglia, di sua madre, delle sue sorelle. C’era l’unico ricordo che avrebbe voluto tanto dimenticare: la loro morte. No, non poteva farcela.
«Hai ragione, è un’idea stupida» la voce della ragazza lo riportò alla realtà. Aveva capito che per lui fosse troppo tornare in quella casa, lo aveva capito dal suo silenzio. Ma se davvero lì ci fosse stato qualcosa che avrebbe potuto aiutarla? Sapeva che non gli interessasse andare a fondo e trovare la verità – era abbastanza ferito così – ma a lei sì. Lei voleva sapere.
«No» rispose il ragazzo. Sarebbe stato impossibile per lui attraversare la soglia di casa, ma Emma aveva tutto il diritto di conoscere la verità e non sarebbe stato lui ad impedirglielo «Andiamo»
 
Dopo una doccia fredda e veloce e un viaggio di una decina di minuti in macchina, passato in rigoroso silenzio, la camaro nera di Derek si fermò in mezzo al bosco, esattamente di fronte alla sua vecchia casa. Non era stato più lì: ogni volta che aveva fatto un giro nel bosco aveva sempre evitato quella zona.
Puntò i suoi occhi verdi sulla ragazza seduta vicino a lui e si accorse di quanto fosse curiosa e determinata a trovare qualcosa, anche se poteva percepire un pizzico di angoscia e dispiacere per averlo trascinato fino a lì. Gli occhi di Emma erano fissi sull’edificio, ancora ben conservato. Nei suoi sogni, era stato dipinto quasi come una casa degli orrori: buio, con le tegole che cadevano a pezzi ed una finestra – quella al piano terra – con il vetro completamente frantumato. Mentre, in realtà, era rimasta intatta: la tinta delle pareti esterne era sbiadita – da crema, erano diventate quasi bianche – e le tegole erano state rovinate dalle intemperie, ma per il resto poteva dirsi davvero una bella casa.
«Sognavi anche la casa?» parlò infine Derek.
Annuì «Sì, ma era molto più brutta e distrutta di quanto non sia in realtà» gli sorrise, poi sospirò «Senti, non dobbiamo farlo: possiamo tornare a casa e trovare un altro modo»
«Non preoccuparti, sopravvivrò»
Entrambi scesero dall’auto e si incamminarono verso la casa, lasciandosi il mezzo alle spalle. Derek tirò fuori le vecchie chiavi, leggermente arrugginite e salì velocemente i tre scalini del portico, infilandole nella serratura. Non si guardò intorno nemmeno per un secondo: non voleva vedere niente, voleva trovarsi faccia a faccia con i ricordi il meno possibile. Sapeva che sul portico ci fosse ancora la sedia a dondolo di sua madre, ma la evitò con tutte le sue forze.
Una volta fatta scattare la chiave nella porta, entrarono e la prima cosa che colpì entrambi fu il forte odore di muffa ed umido. I loro nasi furono punti dall’enorme coltre di polvere che alleggiava in giro per tutte le stanze. Come poterono constatare, ogni cosa era rimasta esattamente al suo posto ed ora tutto era ricoperto da immensi teli bianchi.
Il ragazzo non potè fare a meno di guardarsi intorno e rivivere i primi sei anni della sua vita, gli unici passati lì dentro: probabilmente, sotto quei teli, c’erano ancora la tavola intorno alla quale tutti si riunivano per mangiare, la scatola dei giocattoli posta in un angolo del salotto, il caminetto, la libreria di suo padre colma di libri – ne aveva talmente tanti, che aveva intenzione di comprarne un’altra ed occupare un’ulteriore parete. I ricordi lo colpirono come un pugno in faccia e per un momento, i suoi polmoni si svuotarono dell’aria necessaria per respirare e nella sua gola si formò un groppo difficile da mandar giù. Per la prima volta, assaporava la tristezza. Quella vera, quella che ti mette in ginocchio, che ti fa male al cuore e ti fa scappare, quella che ti fa piangere. Derek sentiva le lacrime nascoste dietro ai suoi occhi pronte ad uscire, ma non voleva farlo lì, non voleva che Emma lo vedesse così vulnerabile e perso, come un bambino.
«Avevate una soffitta?» chiese all’improvviso Emma, aggirandosi per le stanze del piano terra, alzando di tanto in tanto un telo per vedere cosa vi si nascondesse sotto.
«Sì, al terzo piano» rispose con la voce roca e leggermente tesa. Emma lo guardò per un attimo, valutando la possibilità di andarsene una volta per tutte, ma non ne ebbe il tempo, visto che il ragazzo la superò e si diresse verso il piano superiore, salendo le scale.
Si affrettò subito dietro di lui ed in un attimo furono di sopra: un piccolo, ma lungo corridoio su cui si affacciavano diverse porte si apriva di fronte a loro. Emma non si fermò e continuò a salire le scale, per arrivare alla soffitta.
Quando si accorse che il ragazzo non l’avesse seguita si bloccò sul posto «Non vieni?»
Lui si voltò di scattò, come se fosse ripiombato nella realtà all’improvviso e accennò un sorriso «Voglio vedere una cosa, ti raggiungo subito» disse «La soffitta è sulla destra»
Emma lo guardò preoccupata per un’ultima volta, prima di scomparire e percorrere a passo svelto l’ultima rampa di scale. Derek chiuse gli occhi, cercando di respirare correttamente e riprendere il controllo delle sue facoltà mentali. Ce la stava mettendo tutta per non crollare di fronte a lei e adesso aveva bisogno di un minuto per riprendersi definitivamente. Si inoltrò nel corridoio, proprio come succedeva nei suoi sogni, e si fermò di fronte alla porta della sua camera. Era la stanza protagonista dei suoi incubi, quella in cui molte volte aveva rivisto sua madre tenere in braccio Emma.
Appoggiò delicatamente la mano sulla maniglia, per paura che si disintegrasse da un momento all’altro e la spinse verso il basso, aprendo la porta.
Anche in quella stanza tutto era ricoperto da teli bianchi e i piccoli granuli di polvere si muovevano pigramente nell’aria. Per un momento, vide di nuovo se stesso da piccolo giocare con Cora e Laura; vide sua madre arrabbiarsi con lui in un pomeriggio di luglio per aver tirato i capelli alle sue sorelle; vide suo padre aiutarlo a rimettere in piedi un trenino che Cora gli aveva distrutto per vendicarsi; rivide le uniche persone di cui si fosse davvero fidato, le uniche che lo avessero davvero amato. Alzò qualche telo, rivelando i suoi vecchi giocattoli, i vecchi fogli scarabocchiati adesso divenuti gialli e pieni di muffa, il suo letto con la testata bianca e quei pochi libri che sua madre gli aveva regalato, ma che lui non aveva mai letto.
Girovagò per un po’ in quella stanza, completamente immerso nei suoi pensieri: sentiva di avere un masso gigante al centro del petto, ma almeno era felice di aver superato una delle sue più grandi paure: il ricordo della sua famiglia. Forse, andare lì quel giorno non era stata per niente una brutta idea e, ancora una volta, doveva ringraziare Emma per questo.
Fu proprio un rumore strano al piano di sopra – proveniente dalla soffitta – ad attirare la sua attenzione ed a riportarlo bruscamente alla realtà. Uscì velocemente dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle e prese a salire le scale a grandi falcate, arrivando a destinazione in pochi secondi.
«Che succede?» chiese allarmato, vedendo Emma sommersa dagli scatoloni.
«Niente» rispose, ridendo «Cercavo di tirar giù questo scatolone, ma mi è caduto addosso»
Derek scosse la testa divertito, aiutandola a rialzarsi. Poi si guardò intorno e rimase piacevolmente sorpreso da ciò che vide: sapeva dell’esistenza di quella soffitta, ma non che fosse piena zeppa di scatoloni. Evidentemente ai suoi genitori, piaceva davvero tanto conservare le cose: si andava da cianfrusaglie di ogni genere ad oggetti più significativi, come i trofei di basket di suo padre o le toghe, che avevano indossato per la laurea, appese ad una gruccia, infondo alla stanza.
«Allora, da dove cominciamo?» chiese, sfregando le mani una contro l’altra. Faceva troppo freddo anche per lui, ma si sfilò comunque la giacca e la passò ad Emma che batteva i denti e tremava come una foglia.
«Quello che è successo prima che le nostre madri si conoscessero non ci interessa, giusto?» cominciò la ragazza, aggirandosi tra gli scatoloni «Quindi, dobbiamo partire dal momento in cui sono diventate amiche»
Gli occhi di Derek si illuminarono «Il college!»
Riuscirono a trovare cinque scatoloni che riportavano la scritta college: due erano del padre del ragazzo, tre della madre. Decisero di scartare quelli del signor Hale, per concentrarsi sugli altri.
Passarono le successive due ore ad analizzare attentamente ogni oggetto – importante o meno che fosse – che Talia Hale avesse conservato con così tanta cura, ma non giunsero a niente di concreto. Sembrava che le loro madri fossero state amiche soltanto nella memoria di Deaton, perché lì – in mezzo a tutti quei ricordi – non c’era niente che potesse essere ricollegato alla loro amicizia e alla loro morte.
«Qui non c’è niente» parlò infine Derek con un tono arrendevole.
«Qua nemmeno» gli fece eco Emma.
Ormai senza speranze si alzò e cominciò a frugare nel terzo ed ultimo scatolone. Stava morendo di freddo e, ad essere sinceri, non vedeva l’ora di andarsene, ma per lo meno la giacca di Derek le dava un po’ di calore.
Aveva le mani piene di polvere, però continuò a cercare. Si liberò di oggetti inutili, come vecchi quaderni pieni zeppi di appunti, libri, medaglie vinte a qualche gara di matematica e riconoscimenti ricevuti. Infine, fu una piccola busta bianca da lettere ad attirare la sua attenzione. Era sul fondo della scatola, come se fosse stata coscienziosamente nascosta. La prese con non poche difficoltà, visto che si era attaccata allo scatolone e la portò alla luce.
L’aprì con cautela, aspettandosi una lettera: in realtà ciò che vide fu una fotografia. Era ingiallita e rovinata sui bordi; raffigurava tre ragazze, il giorno della loro laurea.
«Derek» lo chiamò con la gola secca, senza staccare gli occhi da quell’immagine. Il ragazzo le fu vicino in un secondo e i suoi occhi furono catturati subito da quelle tre ragazze.
«Questa» riprese Emma, con voce tremante indicando una delle tre «E’ tua madre, giusto?»
Il ragazzo ne indicò un’altra «E questa dovrebbe essere la tua: sei la sua copia»
Emma potè notare che avesse ragione: era tale e quale a sua madre. Entrambe avevano i capelli scuri, gli occhi azzurri e la pelle chiarissima.
«E questa chi è?» riprese infine ed entrambi spostarono gli occhi sulla terza ragazza.
«C’era una lettera insieme alla foto? O un biglietto? Qualsiasi cosa» cominciò Derek, ma Emma scosse la testa. Per caso, però, girò la fotografia notando che riportasse delle scritte. Chiunque avesse lasciato quel messaggio, aveva usato quell’immagine come una cartolina. Il tratto della penna si era scolorito con il tempo, ma era ancora leggibile.
“Essere laureate non significa perdersi di vista una volta per tutte e per sempre; però, nel caso accada, ricordate che saremo migliori amiche per sempre! Con amore, Joan” diceva la fotografia.
Un silenzio quasi assordante riempì la stanza e i due non poterono far altro che guardarsi per minuti interi negli occhi, con un’espressione dubbiosa stampata sul volto.
Emma si rigirò quella fotografia tra le mani, collegando finalmente quel nome al viso della ragazza rimasta «Lei deve essere Joan, hai mai sentito parlare di lei?»
Derek scosse la testa deciso. In realtà, non si ricordava nemmeno la madre di Emma, quindi quella Joan gli era sconosciuta al cento per cento.
«E nemmeno Deaton, visto che non ce n’ha parlato» aggiunse.
«E se parlassimo con lei?» riprese Emma, improvvisamente sicura di essere vicina a scoprire la verità «Magari vive qui, è sposata, ha figli…»
«Non sarebbe male, ma come la troviamo?» obbiettò il ragazzo «Non sappiamo nemmeno il suo cognome»
La ragazza annuì, abbandonando ogni speranza che si era creata. Il nome Joan non era molto utilizzato, ma era sicura che a Beacon Hills ce ne fosse più di una. Poi però, le venne in mente un’idea.
«L’annuario!» esclamò, voltandosi di scatto verso gli scatoloni e lasciando la foto tra le mani di Derek. Frugò tra tutti i libri che aveva tirato fuori, fino a trovare ciò che le interessasse davvero «Frequentavano lo stesso corso, quindi il suo nome deve pur essere da qualche parte»
Lo sfogliò velocemente, con la fronte leggermente corrucciata e il ragazzo non potè far altro che sorridere compiaciuto. Emma era più intelligente di quanto avesse pensato; per quanto non volesse ammetterlo, era una specie di versione femminile di Stiles. Lui era sempre stato la forza fisica, ma Emma era assolutamente la mente. Ammirava la sua voglia di scoprire la verità, anche se sapeva quanto le facesse paura, quanta rabbia avrebbe riportato a galla, ma ne andava fiero. Era contento di aver trovato una di quelle persone che non si abbattono, non si arrendono al primo ostacolo. Lui si era sempre sentito così, senza mai trovare qualcuno che fosse esattamente il contrario. Ma adesso che c’era Emma, era sicuro di aver finalmente raggiunto un suo equilibrio.
«Joan Millstone!» esclamò la ragazza, riportandolo alla realtà «Sapevo che l’avrei trovata qui»
«Adesso potremmo chiedere a Stilinski» Emma corrugò la fronte senza capire, così Derek si chiarì «E’ lo sceriffo: dovrebbe conoscere ogni abitante di questa città. Chiediamo a lui e vediamo se sa darci qualche informazione»
La ragazza sorrise felice e infilò tutto di nuovo nello scatolone. Avevano ottenuto ciò che volevamo, o perlomeno, una minima parte. Piccola, ma comunque importante: sicuramente adesso si trovavano più vicini alla verità di quanto lo fossero stati qualche ora prima.
Derek ripiegò con cautela la fotografia e la infilò nel portafoglio, poi prese per mano Emma ed uscirono definitivamente da quell’edificio. Era stato difficile per lui rivivere tutti quei ricordi, ma una volta fuori, voltandosi verso la sua casa, potè constatare che fosse stato triste, ma non così dura come aveva sempre pensato. Quel tuffo nei ricordi gli era stato utile: era sicuro che da quel momento in poi, non avrebbe avuto problemi ad aggirarsi in quella zona e a ripercorrere con piacere le memorie della sua infanzia.
Tornò alla realtà e si avviò all’auto, convinto che Emma lo stesso seguendo. Solo quando aprì lo sportello e fece per salire, si accorse che la ragazza si fosse incamminata verso la direzione opposta.
La chiamò un paio di volte, ma non rispose. Sembrava stesse camminando ad occhi chiusi come se fosse attratta da qualcosa e completamente ipnotizzata. Così la seguì, senza mai fermarla, senza mai chiamarla. Camminarono per un tempo che ad entrambi sembrò interminabile e si fermarono solo quando le scarpe di tela di Emma si inzupparono d’acqua.
Derek alzò lo sguardo di fronte a sé e notò il lago. Serrò la mascella di scatto quando si accorse che fosse il luogo sognato da Emma, nonché dove fossero stati uccisi i loro genitori. La ragazza stava in piedi di fronte a quella distesa d’acqua con gli occhi persi nel vuoto. Non conosceva la strada per arrivare lì, eppure aveva camminato sicura fino alle sue rive. Era come se ci fosse stata una calamita ad attirarla, come se riuscisse a sentire di nuova le loro urla. Non riusciva a distogliere lo sguardo e sentiva come se avesse dovuto fare un passo in più ed unirsi completamente all’acqua. Nella completa assenza delle sue facoltà mentali, mosse un piede verso il lago, ma Derek l’afferrò per un braccio, bloccandola.
Emma sbattè gli occhi velocemente risvegliandosi da quello stato di trance e voltandosi verso di lui: cosa stava facendo? Come era arrivata fino a lì? Non se n’era accorta.
Fece un passo indietro, impaurita, scontrandosi con il petto del ragazzo.
«Ehi, stai bene?» mormorò lui. Il suo respiro caldo solleticò il collo di Emma, che chiuse gli occhi e si rilassò contro il suo corpo.
«Io- Io non lo so-» balbettò «Era come se il lago mi chiamasse, come se-»
La voce le morì in gola e il cuore prese a batterle forte nel petto: cosa le stava succedendo? Quella era la realtà, non uno dei suoi incubi. Si rifugiò tra le braccia di Derek e si strinse al suo busto.
«Tranquilla» la consolò, cercando di evitare il fatto che stesse tremando talmente tanto da spaventarlo e si avviarono di nuovo alla sua camaro «E’ tutto passato, sta tranquilla»
 
Le mani di Derek erano appoggiate saldamente sulle cosce della ragazza, mentre le loro labbra si incontravano freneticamente, nel piccolo abitacolo della camaro, parcheggiata di fronte alla casa di Malia. I vetri oscurati non lasciavano trasparire alcuna immagine, ma a loro non interessava. Emma non aveva mai pensato di trovarsi in quella situazione, a baciare in quel modo un ragazzo, malamente a cavalcioni sulle sue ginocchia, nella sua auto: le loro labbra si rincorrevano, ostacolate di tanto in tanto da qualche risata, soffocata poi da un altro bacio; le piccole mani della ragazza stringevano la maglietta di Derek, mentre quelle del ragazzo erano ferme sulle sue gambe, perché se solo si fosse mosso, sarebbe stato un bel casino. Buttò la testa all’indietro – per quanto fosse possibile – gemendo vergognosamente quando le labbra di Emma lasciarono le sue e si spostarono sulla mascella, per arrivare fino al collo. Se fossero stati al loft, completamente soli e più comodi, probabilmente avrebbe urlato di piacere. Strinse la presa sulle sue gambe, quando sentì Emma mordicchiargli scherzosamente la pelle delicata del collo.
«Emma, dio-» provò, respirando con leggero affanno «I morsi no, ti prego»
La sentì ridere contro il suo petto, soddisfatta di aver trovato il suo punto debole. Lo avrebbe sicuramente usato a suo favore.
Aprì gli occhi per guardarla: le sue guance erano arrossate, ma vive e gli occhi brillavano. Spostò le mani dalle sue gambe, al viso della ragazza facendo di nuovo scontrare le loro labbra. Diceva sempre di odiare quelle situazioni così schifosamente romantiche e di detestare il fatto di sentirsi come un adolescente che ha a che fare con la sua prima cotta, ma in quel momento non gli importava. Preferiva concentrarsi sul respiro irregolare di Emma, sul suo battito cardiaco, sui loro corpi che si toccavano e poi allontanavano in continuazione, su quella sensazione di eccitazione che ormai aleggiava in quello strettissimo ambiente già da un po’. Quel bacio fu più lungo rispetto agli altri e Derek si sentì quasi soffocare dalla sua intensità. Ne ebbe conferma quando il corpo di Emma si mosse troppo contro il suo, facendolo gemere più del dovuto.
«Ragazzina, è meglio se ti fermi» le disse, recuperando fiato, dopo aver interrotto il bacio «Se continui così, non mi basteranno nemmeno dieci docce fredde per riprendermi»
Emma si fermò di scatto, arrossendo fino alla punta delle orecchie, ma prima che potesse replicare o baciarlo di nuovo, qualcuno bussò impaziente al finestrino.
Derek sapeva che fosse Malia, così roteò gli occhi infastidito per esser stato interrotto e abbassò il vetro oscurato.
«Cosa vuoi?»
Malia arricciò il naso «Non ne posso più delle vostre effusioni e poi siamo in ritardo, possiamo andare?» esclamò scocciata, guardando l’amica.
«Dacci cinque minuti»
La ragazza assottigliò lo sguardo «Uno»
«Quattro» insistette Derek.
«Tre minuti, non un secondo di più»
Roteò di nuovo gli occhi, alzando il finestrino fino a chiuderlo per poi tornare a baciare Emma, che sorrideva divertita. Ricambiò il bacio, giusto in tempo, visto che di nuovo l’amica bussò allo sportello della loro macchina.
«Non sono passati tre minuti» si lamentò Emma, guardando supplichevole Malia.
«Forse non nel vostro mondo idilliaco e pieni di arcobaleni ed usignoli, ma nel mio – quello reale - sì» disse «Stiles ci sta aspettando»
«E’ meglio che vada» sospirò Emma, guardando Derek. Lui si sfilò la giacca nera di pelle e, come al suo solito, gliel’appoggiò sulle spalle.
«Fa attenzione» l’ammonì.
Emma annuì e dopo un ultimo bacio veloce, saltò giù dall’auto, dirigendosi verso quella di Malia, che la stava aspettando appoggiata allo sportello con uno sguardo truce stampato sul volto. Derek le stava simpatico – per quanto potesse dire di conoscerlo – ma quando si trattava di Emma, diventava irrecuperabile.
Gli rivolse un’ultima occhiata, prima di salire in auto e partire: il viaggio fu silenzioso, ma breve visto che la casa della ragazza non si trovava molto lontana dalla stazione di polizia. Quando parcheggiarono di fronte all’edificio, la prima cosa che notarono fu la jeep azzurra di Stiles e la figura del ragazzo intento a chiudere lo sportello.
«Siete in ritardo» si lamentò, raggiungendole ed avviandosi all’interno.
«Emma era troppo occupata a limonare con Derek, colpa sua!»
Sulla faccia di Stiles si formò una vera e propria espressione di disgusto che presto si tramutò in una risata piena di gusto, quando le guance di Emma si tinsero di un rosa più acceso del normale. Per quanto le volesse bene, adorava metterla in imbarazzo.
Dentro la stazione di polizia, tutti erano occupati così nessuno si accorse del loro arrivo e della loro presenza. Nessuno, ad eccezione dello sceriffo Stilinski. Stava uscendo dall’edificio a passo spedito, ma si fermò di scatto quando notò il proprio figlio, accompagnato dalle due ragazze. Sapeva che ogni volta che Stiles si trovasse lì, era perché aveva bisogno di sapere qualcosa che in realtà non avrebbe dovuto conoscere.
«Cosa ci fate qui?» domandò con sguardo indagatore.
«Dobbiamo cercare informazioni su una persona» rispose il figlio, rimanendo sul vago.
Lo sceriffo assottigliò lo sguardo «Adesso non posso aiutarvi, devo uscire per un’emergenza e… E comunque non potreste proprio stare qui!»
«Per favore, papà!» si lamentò il ragazzo «Entriamo, cerchiamo e ce ne andiamo: nessuno si accorgerà di noi»
L’uomo chiuse gli occhi e respirò profondamente, cercando di recuperare la calma. Certe volte si chiedeva se quel ragazzo fosse davvero suo figlio, visto che era iperattivo e troppo curioso. In poche parole, tutto il suo contrario. Riaprì gli occhi puntandoli sulle ragazze che lo stavano silenziosamente pregando con i loro sguardi.
«Va bene: fate la ricerca nel mio ufficio» disse sottovoce e Stiles sorrise soddisfatto «Se entra qualcuno, dite che mi state aspettando»
I tre ragazzi esultarono e l’uomo scosse la testa, ormai arreso, avviandosi verso l’uscita. Poi si bloccò e si rivolse di nuovo a loro «Chi state cercando?»
«Joan Millstone, la conosce?» rispose Emma.
L’uomo accennò un sorriso tirato e «Buona fortuna»
Le due ragazze si guardarono perplesse per un paio di secondi, poi non appena la voce di Stiles le richiamò, si affrettarono all’interno dell’ufficio dello sceriffo e si chiusero la porta alle spalle.
Stiles si sedette alla scrivania e aggeggiò con il computer, fino a che non riuscì ad aprire l’applicazione che avrebbe dovuto aiutarli a cercare quella donna, all’interno dell’archivio della polizia.
Malia ed Emma rimasero in piedi vicino a lui e, dopo aver digitato il nome nella barra di ricerca, attesero i risultati: ciò che si aprì di fronte ai loro occhi non era per niente quello che si erano aspettati.
Saltarono volontariamente le notizie sull’identità della donna, concentrandosi su una voce a fine pagina: “deceduta”.
«E’ morta?!» esclamò Stiles, staccando in modo drammatico le mani dalla scrivania e appoggiandosi alla poltrona. Malia sbuffò, mentre il cervello di Emma cominciò a lavorare immediatamente, riempiendosi subito di domande.
«Come è morta?» fu la prima che riuscì a formulare, dopo un momento di stupore. Aveva capito di dover arrendersi: tutti quelli che avrebbe potuto usare per arrivare alla verità erano morti e sembrava che il destino ce l’avesse con lei.
«Non lo dice» rispose Stiles «Ma… Possiamo fare una ricerca su internet»
La ragazza tirò fuori immediatamente il cellulare per cercare informazioni: non era sicura di trovarne visto che quella donna avrebbe potuto benissimo avere un normale tumore o attacco di cuore – per cui non c’era motivo di riportare la notizia su internet o su un qualsiasi giornale – ma lo fece. Ormai non aveva più niente da perdere e si poteva comunque tentare.
Tra tutte le voci che apparvero, decise di aprire la prima e cominciò a leggere «“Joan Millstone, avvocato di 26 anni, viene ritrovata morta sul ciglio dell’unica strada che porta dalla periferia di Beacon Hills al bosco. Non sono ancora note le cause del decesso, ma sul corpo della vittima sono state ritrovate molte ferite, probabilmente morsi di animali. Uno in particolare ha attirato l’attenzione della polizia: è un morso molto profondo sul collo. Sembra quasi che ci siano bestie molto feroci che si aggirano nel bosco di Beacon Hills, ma che abbiano voluto soltanto divertirsi con questa ragazza, senza cibarsene completamente. Soltanto nei prossimi giorni, l’autopsia potrà rivelare in quali circostanze sia morta”»
Emma alzò gli occhi lentamente dallo schermo del cellulare per osservare la reazione dei due amici: Stiles era a bocca aperta, probabilmente più sorpreso di lei e Malia aveva un sopracciglio inarcato, segno evidente che ci fosse qualcosa che non le tornasse.
«Non dice altro?» il ragazzo fu il primo a parlare, rompendo quel silenzio carico di tensione.
Emma ritornò alla realtà e riprese a muovere il dito sullo schermo, leggendo velocemente altri articoli a lei dedicati «No, qui dice che è morta un anno prima dei miei genitori e che anche l’autopsia ha confermato che sia stata uccisa da alcuni animali»
«C’è qualcosa che non mi torna» intervenne Malia, appoggiandosi con una gamba alla scrivania.
«E’ quel “morso sul collo” che non convince» si intromise Stiles, simulando le virgolette con le mani.
«E se fosse stata morsa davvero? Da un lupo mannaro, però» azzardò Emma.
Stiles aggrottò la fronte «Chi avrebbe potuto morderla? …E perché?»
«A quei tempi, erano solo due i lupi mannari di Beacon Hills: Talia e Deucalion» rispose.
«Tu pensi che Talia…?» chiese Malia, lasciando cadere la frase. Non poteva essere, era troppo assurdo.
«Mia madre sapeva che fosse un lupo mannaro, quindi non vedo perché non avrebbe dovuto saperlo anche Joan: alla fine erano migliori amiche, no?» cominciò.
Stiles cominciò a capire, ma era più convinto che avesse potuto essere stato l’altro a morderla «E se fosse stato Deucalion?»
Emma ci riflette «Derek mi ha detto che il morso può trasformarti od ucciderti completamente; quindi, se Deucalion l’avesse davvero morsa, perché prendersela con mia madre e Talia?» disse «Potrebbe esser andata così: Joan voleva a tutti i costi essere un lupo mannaro e Talia, alla fine, ha acconsentito e l’ha morsa. Ma il morso non ha avuto l’effetto desiderato e Joan è morta. Probabilmente Deucalion aveva qualche rapporto con la Millstone e la sua morte lo ha spinto a vendicarsi»
«Tu credi che fossero innamorati?» chiese Malia.
«Non lo so, ma dovevano conoscersi molto bene, se Deucalion ha poi deciso di sterminare due famiglie»
«Però manca qualcosa» parlò Stiles, che era rimasto in silenzio durante tutto quel tempo. La teoria di Emma era abbastanza convincente, ma conosceva Talia Hale attraverso le (poche) parole di Derek e non le sembrava il tipo di Alpha che andava in giro a mordere la prima persona che trovasse, solo per soddisfare un suo effimero desiderio «Joan è il collegamento tra tua madre e Deucalion, è il movente; ma quello che manca è l’anello che unisce Joan a quell’odioso Alpha»
 
Era stato piuttosto difficile prendere quella decisione. In vita sua, non aveva mai pensato che un giorno si sarebbe ritrovato di fronte al quel cancello grigio topo, di ferro battuto mezzo arrugginito. L’aria era umida e una coltre nera di nuvole aleggiava sopra la sua testa. Aveva bisogno di fare quel passo da solo, per cui – non appena Emma se n’era andata con Malia – aveva approfittato della situazione. L’atmosfera era inquietante e tetra persino per uno come lui, che viveva costantemente nel grigiore e nella solitudine di una vita che non sopportava. Sospirò, chiudendo per qualche secondo gli occhi, cercando di percepire le sue stesse emozioni. Sentiva rabbia, tristezza, paura. Fare quel passo lo terrorizzava e avrebbe voluto scappare a gambe levate, ma doveva smetterla di comportarsi come un ragazzino, che si rifiutava di vincere ciò che lo spaventasse di più.
Aprì gli occhi, puntandoli sulla nebbia che creava un’ombra profonda sul cimitero e decise di entrare. In tutti quegli anni, non era mai andato a trovare la sua famiglia: aveva sempre evitato quel posto e il fatto stesso che fossero tutti seppelliti lì. Solo il pensiero che fossero sotto terra gli metteva angoscia, ma adesso era il momento di superarla. Superò il cancello e si incamminò tra le lapidi che sembravano osservarlo. Notò che anche altre persone fossero presenti all’interno, mentre parlavano ad una tomba in particolare o sistemavano i fiori su un’altra.
Il cimitero di Beacon Hills non era grande e – con sua grande sorpresa – non fu così difficile trovare la sua famiglia.
Fu strano, quasi assurdo vedere i nomi dei suoi genitori e delle sue sorelle incastonati nella pietra. Si guardò un po’ intorno, poi si accucciò e puntò gli occhi sulla foto di sua madre. Anche in quella circostanza, pensò che fosse davvero bella. Una delle poche cose che ricordava della sua infanzia era quella moltitudine di momenti in cui suo padre le dicesse quanto fosse bella e quanto i suoi figli lo fossero, visto che erano tali e quali a lei.
Sorrise al pensiero e si sedette definitivamente a terra, ignorando l’erba umida.
«Ho trovato Emma» disse, accennando un sorriso tirato, mentre continuava a guardarsi intorno per vedere se qualcuno lo stesse fissando. Trovava stupide le persone che parlavano alle lapidi, eppure lui stava facendo la stessa cosa e in quel momento non sembrava così patetica «E’ accaduto così in fretta, però… Credo che sia speciale. E se tu fossi stata qui e me lo avessi detto per prima, probabilmente ti avrei dato torto»
Una folata di vento lo fece rabbrividire, ma il suo sguardo non si mosse dalla figura di sua madre «Mi dispiace per-» parlò di nuovo, ma il magone che aveva inghiottito per tutti quegli anni non gli dava la possibilità di parlare «Non ho mantenuto la tua promessa, mamma: se avessi saputo prima cosa fosse successo, avrei ucciso Deucalion con le mie stesse mani e risparmiato ad Emma di vivere praticamente sotto scorta» una lacrima calda ed estranea rigò il suo volto. Cercò di ricacciare indietro tutte le altre, ma non ci riuscì «Non so cosa fare, come agire. Sta accadendo tutto troppo velocemente e rischio di mettere in pericolo la sua vita. Non me ne frega nulla della mia, capisci? Io voglio solo che lei sia al sicuro, voglio vederla sorridere. Odio quando le si forma quella piega orribile sulle fronte, ogni volta che pensa troppo e che è preoccupata; oppure quando gli occhi le si riempiono di lacrime perché è triste o ha paura. Non-» ispirò profondamente «Non voglio vederla così»
Si bloccò immediatamente, asciugandosi le guance bagnate con il maglione, quando un’anziana donna, gli passò vicino. La guardò allontanarsi lentamente e infine, decise di alzarsi e andarsene una volta per tutte.
Adesso quelle tombe sembravano molto meno spaventose di prima, ma ugualmente tristi. Prima di uscire dal cimitero, si voltò di nuovo verso il nome di sua madre e lo fissò intensamente «Prometto che la proteggerò, anche a costo di morire»
 
«Gliel’hai detto?»
«Cosa?» scattò Emma, voltandosi verso Malia, mentre la stava accompagnando al loft di Derek. Era talmente presa da tutte le domande che giravano come un vortice nella sua mente che non aveva ascoltato l’amica mentre alternava discorsi e le parole di una canzone, che stavano passando alla radio.
«Del ballo d’inverno» rispose Malia, con fare ovvio.
Emma alzò leggermente le spalle e sospirò «Non mi interessa venire»
«Cosa? Scherzi?!» esclamò l’altra.
«Sì, ok, forse un po’ mi interessa, ma lui non verrebbe mai: sai com’è fatto»
Malia sorrise, entrando finalmente nella piccola via, alla fine della quale c’era l’edificio in cui si trovava il loft di Derek. Qualche goccia d’acqua aveva preso a cadere e se non fosse subito corsa dentro, si sarebbe beccata un bell’acquazzone.
«So che è un cretino» disse Malia, all’improvviso, fermandosi di fronte all’entrata con una ruota sul marciapiede «Prova a chiederglielo: voglio che la mia migliore amica venga con me a quella festa»
Emma rise e le assicurò che avrebbe provato, poi la salutò con un bacio sulla guancia e si rintanò dentro l’edificio salendo velocemente le scale.
Quando si ritrovò di fronte alla porta del loft, bussò decisa – mentre tremava di freddo, visto che la giacca nera di Derek era umida e non la riscaldava più – e aspettò che le aprisse, mentre spostava il peso da un piede all’altro. Il ragazzo aprì con forza il portone, senza nemmeno guardarla in faccia, e tornò a sedersi sul divano. Capì subito che ci fosse qualche problema: sembrava più stanco del normale, i suoi occhi erano tristi e il suo viso troppo pensieroso. Si sfilò la giacca e si sedette vicino a lui, appoggiando lentamente una mano sul ginocchio. Lui alzò lo sguardo su di lei e accennò un sorriso.
«Tutto bene?»
Derek appoggiò a sua volta la mano su quella di Emma e fece intrecciare le loro dita «Adesso che sei qui, va molto meglio» inspirò «Avete scoperto qualcosa?»
«Sì, ma non ne voglio parlare adesso» rispose.
Ovviamente era importante e voleva discuterne con lui, ma per quel giorno entrambi avevano fatto abbastanza e adesso, era troppo stanca per creare ulteriori teorie. Avevano bisogno che le rotelle dei loro cervelli si fermassero per un po’ e si prendessero una pausa.
«Rimani?» le chiese, guardandola mentre i suoi occhi la pregavano «Non voglio restare da solo stasera»
Sul viso di Emma si aprì un sorriso a trentadue denti: si avvicinò a lui e fece combaciare le loro labbra in un bacio veloce, che Derek intensificò immediatamente appoggiando le sue mani sulle guance della ragazza, attirandola a sé. Sognava anche la notte momenti del genere: quando – anche solo attraverso il tatto – si rendeva conto di quanto avesse bisogno di lei, della sua presenza, del suo odore e del suo cuore che batteva nel petto. Aveva bisogno di Emma, perché lo faceva sentire vivo e gli faceva vedere le cose sotto un’altra luce.
«Rimango» parlò lei, interrompendo il bacio, con sguardo birichino «Solo se posso farmi una doccia e mangiare una pizza per cena»
«Affare fatto» rispose Derek, facendole l’occhiolino «Metti uno dei miei maglioni, stasera fa freddo»
La ragazza gli schioccò un bacio sulla guancia e si alzò dal divano, nonostante Derek facesse di tutto per tenerla lì con sé. Si incamminò verso le scale a chiocciola, quando si ricordò delle parole di Malia. Scosse la testa: quello non era assolutamente il momento più adatto per discutere di una cosa del genere.
«Perché sei così nervosa?»
Lei sbuffò, maledicendolo per le sue doti ultra-sviluppate, e si voltò, tornando di fronte a lui «Posso chiederti una cosa?» Derek annuì «Tra un paio di settimane, c’è il ballo invernale a scuola e mi stavo chiedendo se volessi accompagnarmi»
Il ragazzo rimase per qualche secondo in silenzio, divertito dalla situazione «Tutta questa angoscia per… Un ballo
«Hai detto che non ti piace la scuola e questo genere di cose, quindi ho pensato che-»
«Ti accompagno» la interruppe Derek.
«Davvero?» esclamò sbalordita.
«Sì»
Emma sorrise felice, correndo verso di lui e saltandogli letteralmente addosso, cogliendolo di sorpresa. Fece scontrare le loro labbra, facendolo ridere.
«Va a farti la doccia!» la riprese lui «…Prima che cambi idea»
«Sì, signore!» esclamò, staccandosi immediatamente da lui e correndo su per le scale.


 

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Capitolo 10
*** Poison the well ***


salve lupetti! :-)
dopo venti giorni, due esami all'università e tanta fatica, finalmente sono riuscita ad aggiornare!
il capitolo che andrete a leggere non mi piace molto, ma ahimè sono vittima di stanchezza e questo è il meglio che sono riuscita a fare: spero davvero che comunque possiate apprezzarlo e se avete commenti da fare, non siate timidi ed esprimetevi liberamente
vi lascio qualche precisazione, prima del capitolo:
  • uno dei personaggi (non vi dico chi, altrimenti vi rovino la sorpresa) viene lievemente torturato; la scena non è descritta nei minimi dettagli, anzi la tortura è solo accennata, ma mi sembrava giusto avvertirvi comunque, perchè a qualcuno anche il semplice pensiero potrebbe dar fastidio
  • ci sono scene che si spingono più in là di un bacio tra due personaggi: se siete deboli di cuore, procedete con cautela
  • questo è un capitolo di passaggio (ecco perchè è così noioso ahahah), ma introduce quello che accadrà nei capitoli 11, 12 e, credo, 13; quindi, riguardano tutti lo stesso evento (che vi potrà sembrare fuori luogo, ma in realtà sarà utilissimo quando Emma e Derek fronteggeranno Deucalion), che io ho dovuto ovviamente dividere in più capitoli
  • il cloroformio è una sostanza chimica - usata anche in medicina - che ha un effetto deprimente sul sistema nervoso centrale, da cui il suo effetto anestetico; in poche parole porta allo svenimento/perdita di sensi (ma in casi estremi, anche alla morte) proprio perchè "addormenta il cervello"
  • il vestito che indossa Emma per il ballo è questo: x
vi ringrazio ancora moltissimo per aver letto, recensito e aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite: grazie di cuore, davvero!
vi ricordo che la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link tra i miei contatti)

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia
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CAPITOLO DIECI: POISON THE WELL
 
«Tesoro!» la voce di suo padre risuonò nel piccolo ingresso, proprio di fronte alla porta. La sua testa era rivolta alle scale, attendendo che la figlia scendesse «E’ arrivato Isaac!»
Il ragazzo stava in piedi di fronte all’uomo, leggermente in imbarazzo, con le chiavi dell’auto che ciondolavano pigre tra le dita lunghe della sua mano. Sorrise, quando sentì i piedi di Emma battere velocemente ed impazientemente sugli scalini, per poi vederla apparire in cima alle scale in un vestito lilla, a balze leggere, che le arrivava leggermente sotto il ginocchio, accompagnato da un paio di scarpe dello stesso colore, con un bel tacco – sebbene, non fosse vertiginoso. La ragazza scese gli ultimi scalini, diede un bacio sulla guancia ad Isaac e salutò il padre, mentre apriva la porta.
«Mi raccomando, eh» disse l’uomo serio, rivolgendosi più al ragazzo, che alla figlia.
Isaac ispirò profondamente e sorrise «Non si preoccupi, signore: la riporterò a casa sana e salva»
Il padre della ragazza gli strinse la mano un’ultima volta e poi li guardò allontanarsi ed entrare in macchina, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Ad Emma era dispiaciuto chiedere ad Isaac di venirla a prendere, facendo credere al padre che ci fosse qualcosa tra i due, ma era l’unico di cui il signor Grimes si fidasse – visto che aveva avuto modo di conoscerlo e di parlargli quando, qualche volta, si era fermato a cena dopo aver passato il pomeriggio a casa loro per studiare. E poi, se si fosse presentato Derek al posto suo, probabilmente suo padre non lo avrebbe nemmeno fatto entrare in casa.
«Sei davvero carina» affermò Isaac, mentre metteva in moto l’auto, facendola arrossire.
«Grazie» rispose sorridendogli «Anche tu stai molto bene, hai intenzione di fare colpo su qualcuno stasera?»
Il ragazzo irrigidì la mascella, colto di sorpresa e profondamente imbarazzato. Emma ridacchiò e, anche senza super poteri, potè constatare che le nascondesse qualcosa.
«Dai, dimmi chi è» disse seria, ma lui scosse la testa, cambiando la marcia, per svoltare ad un incrocio «Isaac, forza»
Lui sbuffò «Si chiama Daisy, ci siamo conosciuti ad un allenamento di lacrosse»
«Gioca a lacrosse?!» esclamò Emma, perforandogli i timpani: doveva essere davvero un tipo tosto.
«No, il suo ragazzo gioca a lacrosse» rispose, teso «Ecco perché non te lo volevo dire»
La ragazza rimase in silenzio, rimuginando sulle parole dell’amico: poi la sua attenzione fu attratta da una marea di ragazzi fermi di fronte all’entrata della palestra. Isaac entrò all’interno del grande piazzale della scuola e parcheggiò. Non fu difficile – nemmeno per lei – vedere dove si trovassero gli altri, perché la jeep azzurra di Stiles era riconoscibile ovunque e a qualunque distanza. Erano tutti intorno al mezzo ad aspettare che gli ultimi ritardatari del gruppo arrivassero.
Tornò alla realtà, quando Isaac si liberò della cintura, facendola scattare. Si voltò vero di lui e gli sorrise «Non preoccuparti del fidanzato, sono sicura che tu sia molto più carino e simpatico di lui»
Il ragazzo scosse la testa di nuovo imbarazzato e finalmente scesero dall’auto, dirigendosi verso il resto del gruppo.
I primi occhi che incrociò furono quelli di Derek: ancora non credeva di averlo convinto con così tanta facilità a venire a quel ballo. Sapeva che la scuola risvegliasse in lui ricordi poco gradevoli e non voleva vederlo mentre li riviveva uno ad uno, ma aveva tentato lo stesso e con sua grande sorpresa, lui aveva accettato.
Come tutti gli altri ragazzi, era vestito abbastanza sportivo ed in mezzo a quei diciassettenni sembrava persino più giovane: indossava un paio di jeans neri abbastanza aderenti, una maglietta bianca e sopra l’immancabile giacca nera di pelle. A guardarlo meglio, si vestiva più o meno così tutti i giorni, ma la t-shirt chiara gli dava un’aria più elegante.
«Hey» la salutò, avvicinandosi e passandogli una mano intorno alla vita. Gli schioccò un bacio sulla guancia e sorrise «Sei davvero bella»
Emma sorrise sorniona «Lo so, non sei il primo che me lo dice!»
I muscoli del viso di Derek si tesero fin quasi a strapparsi, causando una risata generale, proveniente soprattutto da Scott e Stiles. Sentiva il petto alzarsi e abbassarsi velocemente, mentre un sentimento nuovo e sconosciuto lo stava attanagliando: la gelosia. Derek Hale era schifosamente geloso di chiunque avesse detto alla sua ragazza che fosse bella. E la cosa che più lo infastidiva era che non fosse stato il primo, sebbene il suo complimento fosse il più sincero. Aveva pensato un sacco a come si sarebbe vestita, ma mai aveva immaginato un vestito del genere: ancora ricordava quello della festa di Halloween, ma non era niente paragonato a quello. Quel vestito attillato sul busto e più largo a partire dai fianchi accentuava le sue forme ed le balze lilla la facevano somigliare ad una fata. Era bellissima e sua: per la prima volta, si chiese cosa avesse fatto di buono nella vita per meritarsi una persona del genere. Su questo fronte, era stato davvero fortunato.
Ripiombò nella realtà, quando sentì le piccole mani di Emma stringere la sua giacca e le labbra premere sulle sue. Chiuse le mani a coppa sulle sue guance, attirandola ancora di più a sé, per intensificare il bacio, mentre voci insistenti e fastidiose facevano da sfondo al loro momento.
«Uh-uh il nostro lupo sbruffone ha baciato una ragazza!» esclamò Stiles.
«Che carini!» continuò Scott, prendendoli in giro e facendo ridere tutti, mentre anche Boyd ed Erica si aggiungevano al gruppo «Oh ma guarda, Stiles! Adesso sorride anche, l’abbiamo perso!»
Derek interruppe il bacio, evitandoli di proposito e sorrise ad Emma, sfiorandole il naso con un dito. Poi la prese per mano e si incamminò verso l’entrata della palestra, lasciandosi tutti alle spalle «Entriamo o giuro che strappo la testa a morsi a tutti»
La ragazza ridacchiò, stringendogli la mano e finalmente varcarono la porta e si addentrarono nella palestra decorata, seguiti dagli altri.
Derek ricordava perfettamente quei balli: l’imbarazzo di chiedere a qualcuno di ballare con te, le bevande analcoliche che finivano per essere allungate con l’alcool, qualche sigaretta fumata fuori al freddo e l’immancabile noia che aleggiava su tutti un paio d’ore dopo l’inizio della festa. Ma quando guardò Emma, fu costretto a ricredersi: probabilmente era stata a feste scolastiche del genere prima d’ora, ma vederla con la bocca aperta mentre osservava le decorazioni e le luci – che alternavano colori che andavano dal bianco al blu – e con gli occhi che brillavano, gli aveva fatto cambiare idea su tutto. Forse non sul succo di frutta mescolato alla vodka, ma sicuramente sul resto sì. Osservò gli altri correre verso la pista da ballo, così prese per mano Emma e fece la stessa cosa: una canzone orribile e fuori dai suoi standard stava per finire. Lasciò il posto a qualcosa di più lento e tranquillo, che gli permise di passare un braccio intorno alla vita di Emma, attirandola di nuovo a sé. Quel calore che emanava era aria per i suoi polmoni: ogni volta che l’abbracciava riprendeva a respirare, come se fino a quel momento avesse vissuto in apnea. Presero a muoversi lentamente, limitandosi a spostare il peso del corpo da un piede all’altro. Nessuno dei due sapeva veramente ballare, ma andava bene così.
Emma appoggiò la testa sulla spalla del ragazzo e si lasciò cullare, mentre con la coda dell’occhio, riusciva a vedere Stiles e Scott prenderli in giro e sghignazzare come due bambini, mentre Malia e Kira mostrarono sorrisi a trentadue denti, accompagnati da un occhiolino. Vide Isaac, intento a chiedere ad una ragazza (chissà se era Daisy) di ballare e Boyd ed Erica baciarsi con trasporto in un angolo della palestra: con sua fortuna, l’unico angolo che potesse vedere bene da quella posizione.
Aprì la bocca sorpresa, mentre staccava la testa dal corpo del ragazzo. Derek aggrottò le sopracciglia senza capire cosa stesse succedendo, poi guardò nella stessa direzione in cui stesse guardando Emma e spalancò la bocca a sua volta.
«Non siamo gli unici a nascondere qualcosa» ridacchiò Emma, contro la sua spalla.
«Non l’avrei mai detto» mormorò Derek, senza staccare gli occhi dai due beta.
«Smettila di fissarli, sei inquietante!» esclamò allora la ragazza, attirando di nuovo la sua attenzione. Il ragazzo non si impegnò nemmeno a replicare e fece combaciare di nuovo le loro labbra: sapeva che le prese in giro sarebbero arrivate molto presto, ma non gliene importava nulla. Intensificò il bacio, lasciando che le loro lingue si incontrassero lentamente e si unissero. Emma afferrò il volto del ragazzo per averlo più vicino e Derek rise contro le sue labbra, per il gesto brusco. Le sue mani grandi l’afferrarono per i fianchi, stringendoli di tanto in tanto, quando il bacio diventava troppo intenso, forte, asfissiante.
Quando la canzone terminò e l’ennesima cantilena orribile tipica delle discoteche cominciò a far tremare le pareti, Emma interruppe riluttante il bacio, facendo lamentare il ragazzo. Le afferrò la mano per uscire dalla pista e bere qualcosa, quando i suoi occhi incontrarono quelli di Aiden: era a qualche metro da loro e si stava dirigendo verso Lydia, ma si era fermato immediatamente quando si era accorto di Derek.
Emma, con un’espressione confusa, guardò nella stessa direzione e anche i suoi occhi si fermarono sul ragazzo che la stava fissando già da un po’. Si sentì estremamente fuori posto: il modo in cui la guardava le faceva venire i brividi, ma il suo sguardo diceva altro. Era come se avesse voluto parlarle, o semplicemente salutarla, perché quella era una festa per tutti gli alunni e non sarebbero dovute esserci incomprensioni. Gli accennò un sorriso tirato e lui fece lo stesso, alzando la mano in segno di saluto.
Ma quando fece un passo verso di lei, Emma, di riflesso, ne fece uno indietro, sbattendo contro il petto di Derek. La musica era troppo alta, troppo elettrica e rimbombava nelle sue orecchie, facendola tremare. Gli occhi del ragazzo dietro di lei si accesero di azzurro, bloccando l’Alpha sul posto. Chiuse la mano intorno al polso di Emma e la trascinò definitivamente fuori dalla pista.
Fuori faceva freddo e Derek se ne reso conto immediatamente: la ragazza silenziosa che gli camminava accanto tremava come una foglia: ero sicuro che fosse paura, ma una buona dose era dovuta anche alle basse temperature. Così si sfilò la giacca e gliela passò intorno alle spalle, aiutandola ad infilarsela.
Era arrabbiato e non sapeva nemmeno perché: forse la sola presenza dei gemelli, il pensiero che respirassero la sua stessa aria e che avessero rovinato la loro serata erano le cose che lo stavano facendo imbestialire. E poi, era disperatamente geloso. Aveva visto come Aiden avesse guardato Emma: come se fosse sua, come se volesse saltarle addosso da un momento all’altro. Negli occhi del ragazzo aveva visto aleggiare un misto di piacere, lussuria e malizia, che lo stavano facendo impazzire e se poi aggiungeva il fatto che fosse uno di quelli che la volevano morta, allora perdeva completamente le staffe.
«Andiamo, ti porto a casa» disse alla fine, avviandosi alla camaro, ma Emma non lo seguì.
«Derek…» sussurrò. Perché doveva comportarsi in quel modo? Perché doveva preoccuparsi inutilmente? Aiden era un pericolo – anche lei lo sapeva bene – ma non sarebbe successo niente di grave quella sera «Rimaniamo un altro po’»
Il ragazzo sbuffò e tornò verso di lei: doveva stare calmo, poteva farcela «Se solo succede qualcosa, io-»
«Non succederà nulla, promesso» lo interruppe, prendendolo per mano e trascinandolo dentro, per ballare di nuovo.
 
Erano le due passate quando la camaro nera di Derek si fermò nel vialetto di fronte alla casa di Emma. Al suo interno, le luci erano spente, segno che i suoi genitori stessero dormendo già da un po’. Dopo il faccia a faccia con Aiden, la serata era passata in tutta tranquillità, nonostante Scott ed Isaac – su ordine di Derek – fossero rimasti sull’attenti e pronti a qualsiasi cosa per tutto il tempo. Alla fine, si era fatto veramente tardi, ma Emma, con orgoglio, potè constatare che sotto sotto anche Derek si fosse divertito davvero.
Il ragazzo spense il motore dell’auto, rimanendo in silenzio. Alla fine gli era piaciuta quella serata, ma non riusciva a togliersi dalla testa le occhiate di Aiden e il sorriso che aveva rivolto ad Emma. Quella nuova sensazione che ormai lo attanagliava da tutta la sera non gli piaceva per niente e lo faceva andare fuori di testa completamente, eppure era lì, sempre presente e lui non poteva far niente per farla scomparire. Non voleva andarsene.
«Rimani a dormire?» la voce di Emma interruppe i suoi pensieri.
Annuì, poi però una domanda sorse spontanea «Come fai con i tuoi? Domani è domenica»
Lei sorrise rilassata «La domenica non si svegliano prima delle nove: hai tutto il tempo di andartene»
Derek annuì ammirato ed insieme scesero dall’auto; attraversarono la strada a passo spedito e percorsero il vialetto per poi fermarsi di fronte alla porta d’ingresso. Emma cercò di fare il minimo rumore, mentre infilava le chiavi nella toppa e le girava lentamente.
Una volta dentro, richiuse la porta a chiave e si sfilò le scarpe per evitare di fare ulteriore rumore, visto che già a piedi nudi il pavimento cigolava in modo fastidioso.
Salirono in completo silenzio le scale e una volta essersi chiusi – rigorosamente a chiave – in camera, entrambi tirarono un sospiro di sollievo.
Derek si sfilò la giacca, che appoggiò sulla scrivania, e poi le scarpe, sedendosi infine sul letto. Guardò Emma girare per la stanza e lasciare qua e là pezzi di quello che stava indossando: la borsa sul letto, le forcine dei capelli sparpagliate sulla scrivania, la collana di sua madre nel piccolo cassetto del comodino…
«A proposito» la ragazza interruppe di nuovo i suoi pensieri; la guardò fermarsi di fronte a lui con il ciondolo del triskele tra le mani «Volevo restituirti questa: so che l’ho avuta per tutto questo tempo, ma non mi appartiene»
Derek le sorrise «Mia madre l’ha data a te. E poi,» respirò, rigirandoselo tra le mani «Preferisco vederla intorno al tuo collo, piuttosto che chiusa da qualche parte a prendere polvere»
Emma la recuperò dalle sue mani e la chiuse definitivamente nel primo cassetto del comodino. Poi afferrò una vecchia maglietta di suo padre e si diresse verso un’altra stanza che si affacciava direttamente sulla sua camera.
«Hai il bagno in camera?» esclamò sorpreso Derek, mentre lei accendeva la luce e si chiudeva la porta alle spalle. Sapeva di non doversi vergognare di fronte a Derek quando doveva cambiarsi, ma era più forte di lei. Si sentiva ancora in imbarazzo.
«Sì» rispose dall’altra parte della parete, ma sapeva che riuscisse a sentirla «Quando siamo arrivati qui, i miei si sono presi la stanza più grande e hanno lasciato a me quella col bagno. Il bagno c’era già: probabilmente è stato fatto dalla famiglia che viveva qui prima, però è comodo» continuava a parlare, senza fermarsi, mentre il ragazzo l’ascoltava dall’altra parte, girovagando per la stanza «Voglio dire, posso fare la doccia quando voglio e non sono costretta ad aspettare che mia madre abbia finito di truccarsi la mattina»
Pronunciate queste parole, aprì la porta del bagno e spense la luce, prima di rientrare in camera. Gli occhi di Derek si caricarono di pure piacere quando scannerizzarono il suo corpo minuto dentro quella t-shirt bucata e troppo grande, facendola arrossire fino alla punta delle orecchie. Emma distolse lo sguardo dal ragazzo e appoggiò il vestito sulla sedia girevole, di fronte alla scrivania.
Il ragazzo notò che si fosse struccata, per il semplice motivo che al naturale fosse ancora più carina e che lui non avesse potuto fare a meno di notarlo. La guardò camminare verso l’armadio, reprimendo il desiderio di prenderla e baciarla, tanta era la voglia.
Aprì le ante e osservò l’interno, pensierosa «Vuoi qualcosa da mettere?» chiese, allungandosi verso la parte più alta dell’armadio. La maglietta – seppur lunga – salì vertiginosamente lunghe le gambe, rendendo visibili gli slip bianchi e lasciando ben poco all’immaginazione. Derek chiuse gli occhi per un secondo, poi si alzò «Posso darti una maglietta di- Uffa, non c’arrivo! Dicevo… Una maglietta di mio padre-»
Ma le braccia di Derek – arrivatole alle spalle – strette intorno ai suoi fianchi interruppero la sua ricerca «Non voglio proprio niente» sussurrò lui, contro il suo collo, mentre l’alzava senza alcuna fatica e la portava verso il letto.
Si divincolò dalla sua presa, ma non ci riuscì e non fu libera, finchè la sua schiena non toccò il materasso morbido del letto.
Il corpo del ragazzo si intrufolò tra le gambe nude di Emma, per poi piegarsi verso di lei ed unire le loro labbra in un bacio. Le mani di Derek scorrevano sul corpo minuto che aveva sotto di sé, senza mai lasciare che le loro labbra si dividessero. Se avesse potuto, avrebbe baciato ogni centimetro della sua pelle, solo per sentirla fremere sotto il tocco delle sue dita. Emma fece scorrere le mani sotto la maglietta bianca, percorrendo con le dita il petto di Derek, per poi scendere verso il basso e percepire gli addominali duri e tesi contro le sue mani morbide. Il ragazzo si lasciò scappare un gemito di approvazione e incapace di resistere ancora a lungo, interruppe il bacio per sfilarsi la t-shirt e gettarla in un angolo buio della stanza. Si concentrò di nuovo su di lei, mentre la sua bocca lasciava dei piccoli baci lungo la mascella, per poi scendere sul collo. La sentì rabbrividire sotto le sue labbra e pensò che il suo cervello stesse per esplodere da un momento all’altro, per colpa del cuore di Emma che rimbombava forte come un tamburo. Ma quel rumore uccideva ogni dubbio, perché quando lo sentiva battere così, sapeva che fosse a causa sua, che martellasse così solo ed esclusivamente per lui. Si spinse più contro di lei, facendo scontrare i loro bacini, lasciando che la stanza si riempisse di gemiti strozzati ed interrotti di tanto in tanto da qualche bacio riparatore. Se solo i suoi genitori avessero sentito qualcosa, lo avrebbero cacciato fuor di casa a calci.
Le sue labbra scesero maggiormente verso il basso, scontrandosi con le spalle lasciate scoperte dal colletto della maglietta, ormai slargato, con le clavicole sporgenti, per giungere infine alla pelle più morbida sopra il seno. Emma si morse un labbro, rimandando indietro l’ennesimo lamento e respirò con irregolarità, quando i denti del ragazzo si appoggiarono sulla sua pelle e la mordicchiarono dolcemente. Derek sorrise soddisfatto di averle reso il favore del morso, che lei gli aveva meschinamente dato qualche giorno prima in macchina.
Entrambi trasudavano eccitazione ed il lupo lo sentiva benissimo: l’odore che aleggiava nella stanza non lasciava molti dubbi e se solo qualcuno come Scott fosse stato lì lo avrebbe riconosciuto. Accarezzò i fianchi, lasciati scoperti dalla maglietta, e con le mani alzò il tessuto di cotone fin sotto il seno, incollando di nuovo le labbra alla pelle chiara di Emma. Lasciò una scia di baci, muovendosi lentamente e con naturalezza, alzando di tanto in tanto la testa per guardarla. Ogni volta che lo faceva, rimaneva estasiato da quello che vedeva: le guance arrossate, gli occhi serrati e le mani che impugnavano le lenzuola. Riprese a baciarla, ma si fermò quando incontrò l’elastico degli slip.
A quel punto, sorrise soddisfatto e si interruppe, riportando il viso di fronte a quello di Emma.
«Perché ti sei fermato?» esclamò lei infastidita ed impaziente.
«Perché è ora di dormire» sentenziò, baciandole la punta del naso.
«Scherzi, vero?» scattò lei.
Derek scosse la testa e si alzò definitivamente in piedi, si sfilò anche i jeans e fece il giro del letto, per poi infilarsi definitivamente sotto le coperte. Emma si mise seduta e lo guardò a bocca aperta, osservando come abbracciasse il cuscino e come il suo respiro fosse tranquillo, diversamente dal proprio. Per un attimo non si mosse da quella posizione, poi cominciò a chiedere se fosse stata a lei a spingerlo a fermarsi, se fosse stata lei ad aver fatto qualcosa di male.
«Bhè, io non ho sonno» disse, mettendo il broncio. Si massaggiò il collo, senza sapere che fare, ma quando le sue dita scesero più in basso, la pelle – in quel punto – le bruciò leggermente e sembrò più sensibile. Si rifletté nello specchio posto esattamente di fronte al letto e notò che Derek avesse morso troppo la sua pelle, lasciando un piccolo livido violaceo. Sorrise, felice che lo avesse fatto, ma fece finta di esserne infastidita «Cosa racconterò ai miei quando vedranno questa cosa?»
Derek si voltò verso di lei e sorrise soddisfatto «Che Aiden sa esattamente a chi appartieni e che se solo si avvicinasse, perderebbe immediatamente la testa»
La ragazza aggrottò la fronte, confusa dalla risposta. Aveva pensato per tutta la sera che fosse arrabbiato per il fatto che i gemelli fossero venuti alla festa e che venissero considerati come una minaccia, ma mai avrebbe pensato che Derek potesse odiarlo per un motivo così personale. Quando l’idea raggiunse definitivamente la sua mente, scosse la testa divertita e si sdraiò vicino a lui.
«Sei geloso, per caso?»
«Assolutamente no» rispose lui, con la faccia contro il cuscino.
«Non sei per niente bravo a dire le bugie!» esclamò lei, ridendo, ma Derek non aggiunse altro. Ci fu un momento di silenzio ed Emma capì che, al di là dello scherzo, quel ragazzo non aveva mai avuto niente che potesse chiamare suo, niente che valesse la pena di essere protetto e che persino per lui, quel sentimento fosse qualcosa di nuovo, che ancora non riusciva a controllare «Derek, non c’è motivo di essere gelosi»
«Ti ho detto che-»
«Non ce n’è motivo perché io non vedo nessun’altro se non te» lo interruppe, facendolo voltare verso di lei «Perché sei l’unico che sa come prendermi quando sono arrabbiata, triste, felice; l’unico che bacio in mezzo alla strada di fronte ai miei amici, senza sentirmi imbarazzata; perché sei l’unico che mi protegge e che mi fa perdere la pazienza quando è troppo protettivo o preoccupato; sei l’unico che mi ascolta quando dico qualcosa e l’unico che mi fa venire i brividi; l’unico di cui mi fidi e che non vorrei mai e poi mai perdere»
Derek si sentì stupido in quel momento, come se non lo fosse abbastanza quando si trattava di Emma. Per l’ennesima volta, aveva avuto dubbi e aveva messo in discussione quello che sentisse per lui. Era sempre stato convinto che qualcosa ci fosse, ma solo in quel momento ne ebbe piena conferma.
«Vieni qui» sussurrò, dolcemente, alzando la coperta in modo che lei si sdraiasse vicino a lui.
Nessuno dei due disse più niente, ma Derek giurò di sentire il proprio cuore esplodergli nel petto ed una strana sensazione di pienezza e gioia si fece spazio nel suo stomaco, poco prima che si addormentasse, con la testa di Emma appoggiata alla sua spalla.
 
Quando aprì gli occhi, i raggi di un sole piuttosto pallido e pigro filtravano dalla finestra. La camera era in penombra, ma c’era abbastanza luce per vedere che cosa lo circondasse. Si passò una mano sul viso, rilassandosi contro il cuscino. I suoi occhi si mossero sull’orologio attaccato alla parete, di fronte al letto, che segnava quasi le dieci. Si sistemò meglio contro il cuscino, felice di aver sentito i genitori di Emma uscire presto, lasciandoli soli in casa.
Gli avvenimenti della sera prima balenarono uno dietro l’altro nella sua mente per qualche secondo: la festa a scuola, Aiden, le sue labbra a contatto con la pelle chiara di Emma: un fremito di eccitazione attraversò il suo corpo, facendolo sorridere. Scosse la testa per liberarsi di quell’immagine e si voltò verso la ragazza, che ancora stava beatamente dormendo sotto le coperte. Era distesa in pancia in giù, con le braccia che stringevano il cuscino; la bocca era socchiusa ed i capelli scuri sparpagliati sulle spalle. Gli piaceva guardarla mentre dormiva: ispirava calma e tranquillità. Molte volte si ritrovava a chiedersi come era possibile che un sonno così tranquillo fosse disturbato da incubi terribili.
Alzò leggermente le spalle, senza dare una risposta a quella domanda e finalmente si mise seduto: si guardò un po’ intorno e sbuffò. Non sapeva che fare, visto che era confinato in quella stanza e non voleva di certo andarsene prima di aver salutato Emma. Sarebbe potuto andare al piano di sotto per prendere qualcosa da mangiare, ma non voleva farsi beccare, nel caso fossero tornati i genitori della ragazza.
Tornò a guardarla e decise di svegliarla: le tolse lentamente le lenzuola di dosso, fino a che non intravide le gambe. Emma si lamentò nel sonno e Derek fu costretto a fermarsi; quando il silenzio piombò di nuovo nella stanza, le mani del ragazzo si intrufolarono sotto la maglietta di Emma, venendo a contatto con la sua schiena calda e delicata. Quel contatto fece rabbrividire entrambi: Emma si mosse di nuovo, ma non si svegliò.
Così, ancora lentamente, si piegò in avanti appoggiando le labbra sulla parte inferiore della schiena, per poi salire sempre più su, lasciando una scia di baci. Di tanto intanto, si fermava per guardare Emma e poi riprendeva nel suo intento. Quando arrivò alle scapole, i suoi occhi incontrarono quelli ancora assonnati della ragazza.
«Hey» sussurrò contro il cuscino, con la voce piena di sonno. Derek sorrise e la baciò, facendo combaciare le loro labbra, ma Emma si ritirò imbarazzata «Non ho ancora lavato i denti»
«Non m’importa» rispose lui, riprendendo a baciarla.
Emma intensificò il bacio, ma prima ancora che ci prendesse gusto, fu obbligata ad interromperlo «Che ore sono?»
«Mh, le dieci, credo» rispose Derek, troppo impegnato a baciarle il collo.
«Le dieci?!» esclamò, allontanandolo «Cavolo, i miei saranno svegli da molto e si saranno chiesti perché io sia ancora a letto e- Ohmiodiocomefaccio
«Calma» la fermò il ragazzo «Sono usciti un paio d’ore fa, ti hanno lasciato un post it sulla porta: li ho sentiti mentre lo attaccavano»
Emma si tranquillizzò immediatamente, uscendo da sotto le coperte ed incamminandosi verso la porta. L’aprì, dopo aver girato la chiave, e staccò il bigliettino dal legno scuro: “Tesoro non volevamo svegliarti: siamo al centro commerciale, ma torneremo per l’ora di pranzo. Un bacio, mamma
Quando rientrò in camera, Derek era seduto sul letto con un sorriso sornione stampato sul volto «Allora, che si fa?»
Emma afferrò il cuscino e glielo tirò contro, facendolo ridere.
 
Ricominciare la settimana dopo quel week-end era stato abbastanza difficile. Per tutta la domenica mattina, Derek le aveva fatto compagnia aiutandola con i compiti, anche se non si intendesse per niente di chimica o storia. Poi l’aveva lasciata, non appena i suoi genitori avevano parcheggiato l’auto nel vialetto di fronte alla loro casa.
Il lunedì mattina, la sveglia suonò puntuale alle sette e fu costretta a riprendere la sua odiosa routine. In realtà, le piaceva, ma dopo un fine settimana del genere, andare a scuola le sembrava come dover andare al patibolo. Se avesse potuto, sarebbe rimasta volentieri sotto le coperte al caldo.
Prima ancora che potesse prendere sul serio un pensiero del genere, si tolse il piumone di dosso, spense in modo maldestro la sveglia, facendola cadere a terra, e si avviò lentamente in bagno.
Si fece una doccia veloce, per vedere se riuscisse almeno a tenere gli occhi aperti e in poco tempo, si ritrovò sulla porta della propria camera, vestita e con un filo quasi invisibile di trucco sugli occhi.
Afferrò lo zaino e quando aprì la porta, trovò un altro post it attaccato: a sua madre doveva piacere davvero tanto quel nuovo metodo di comunicazione – che usava quando una delle due dormiva tranquillamente. In effetti, pensò mentre lo staccava e sorrideva, non era per nulla una brutta idea.
Cominciò a scendere le scale, tentando di leggerlo: “Devo uscire prima stamattina e papà, come sempre, è già a scuola. Il latte è sul fornello, dovrebbe essere ancora caldo. Ci vediamo stasera, un bacio
Scosse la testa divertita ed entrò in cucina, notando che effettivamente il latte fosse ancora fumante. Appoggiò lo zaino sullo sgabello accanto a sé e si allungò verso la credenza più alta per afferrare una tazza. Poi, meccanicamente, aprì il primo cassetto alla sua sinistra e afferrò con destrezza un cucchiaino.
Non vedeva l’ora che quella giornata terminasse, solo per salire sulla jeep azzurra di Stiles e andare da Derek per passare lì il pomeriggio. Amava stare al loft, perché lì qualsiasi cosa le ricordava il ragazzo, ma soprattutto perché erano più liberi rispetto a casa sua: nessuno li controllava e nessuno poteva aprire la porta all’improvviso e coglierli sul fatto. Non che facessero qualcosa di strano, ma era sempre meglio prevenire che curare.
Versò del latte nella tazza, ancora immersa nei suoi pensieri, quando un rumore proveniente dall’ingresso attirò la sua attenzione. Si fermò di scatto voltandosi verso la direzione da cui proveniva, rimanendo comunque bloccata sul posto. Teneva la tazza fumante tra le mani, ma fu costretta ad appoggiarla sul  tavolo quando quel rumore si fece sentire di nuovo.
«Derek?» chiese con un fil di voce, senza ricevere alcuna risposta. Sapeva che se fosse stato lui, l’avrebbe avvertita per non spaventarla, ma la paura la spinse a chiamarlo comunque.
«Isaac?» provò allora, sapendo quanto gli piacesse entrare di soppiatto in casa sua: l’aveva fatto qualche volta solo per vedere la sua faccia impaurita. Ma, di nuovo, nessuna risposta «Scott? Malia?»
Sentì di nuovo il rumore, sebbene fosse strano ed irriconoscibile. Si guardò intorno in cerca di qualcosa di grosso e pesante da usare come arma e la prima cosa che trovò fu il mattarello. Lo afferrò stringendolo tra le mani. Ma quando l’ennesimo rumore – questa volta riconoscibile – di un pezzo di vetro che va in frantumi riecheggiò tra le stanze, fece un passo indietro impaurita.
Poi, accadde tutto molto velocemente, una mano grande che teneva in mano un fazzoletto bianco umido si appoggiò sulla sua bocca, per costringerla al silenzio. Cercò di urlare, di liberarsi da quella presa, con il cuore che batteva forte e il respiro mozzato. L’odore dolciastro di quel fazzoletto le fece girare vorticosamente la testa per qualche secondo e poi, buio totale.
 
Aprì gli occhi lentamente, cercando di muovere la testa. Rinunciò in un secondo momento, quando fitte di dolore si susseguirono una dietro l’altra, colpendo a tratti varie parti del suo corpo. Provò a muovere braccia e gambe, ma non ci riuscì. Aveva pochissime forze e doveva usarle perlomeno per respirare e continuare a far battere il suo cuore. Quell’odore dolciastro che aveva sentito dentro casa aleggiava ancora nell’aria e sembrava più forte. Non sapeva cosa fosse, ma aveva comunque un certo effetto su di lei: la intontiva, le faceva girare la testa a tal punto da dover chiudere gli occhi e sperare di morire il più presto possibile. Gli occhi le bruciavano, ma cercò di tenerli aperti per vedere dove si trovasse: tutto intorno a sé era in penombra. C’erano luci soffuse attaccate a delle pareti scure che creavano ombre gigantesche contro il pavimento freddo. Le sembrava di esser sdraiata a terra, su un fianco, raggomitolata su se stessa, con la schiena schiacciata contro qualcosa di ancora più freddo e gelido del pavimento. Sembrava ferro.
Di fronte, aveva un apparecchio con una moltitudine di tasti e specchietti numerati che sembravano misurare il livello di corrente. Fu in quel momento che si rese conto – quando provò di nuovo a muovere mani e piedi – di essere attaccata ad una marea di fili che portavano direttamente a quei macchinari infernali. Tentò di staccarseli di dosso, perché bruciavano e stringevano troppo la sua pelle, ma non ci riuscì.
Gemette silenziosamente, chiedendosi di nuovo dove si trovasse e cosa ne avrebbero fatto di lei. Improvvisamente, sentì delle voci e strinse le labbra tra loro per evitare di lamentarsi, o anche solo di dar l’idea di essere sveglia. L’ultima cosa che voleva era che le facessero del male.
Le voci si avvicinarono e con loro alcuni passi pesanti: un uomo sulla cinquantina si fermò di fronte a lei. Era basso, grasso, con due baffi neri sotto il naso e aveva un accento russo. Parlava la loro lingua con difficoltà, ma si faceva capire comunque. Emma continuò ad osservarlo con gli occhi socchiusi, notando la tuta mimetica e pesante che stesse indossando ed un paio di guanti marroni.
Serrò gli occhi, quando questo si accucciò di fronte a lei, osservandola per bene.
Con una spinta brusca, ma precisa mosse il suo corpo inerme, facendola sdraiare supina e la ragazza, a tradimento, gemette forte per il dolore. Le pinze da cui prendevano vita i fili di corrente premevano sul suo corpo e la testa le doleva più del normale.
L’uomo si rialzò soddisfatto, si posizionò dietro all’apparecchio, premendo un tasto rosso, ed una scarica elettrica si diffuse lungo tutti i fili, fino a colpire i nervi di Emma. Immediatamente, accecata dal dolore, perse di nuovo i sensi.
 
La prima ora si era quasi conclusa e di Emma nemmeno l’ombra. Malia uscì dall’aula di matematica, subito dopo il suono della campanella e si avvicinò a Stiles che stava attraversando il corridoio, per avviarsi alla prossima lezione.
«Emma non c’è» disse semplicemente.
Stiles la guardò, per niente sorpreso «E allora? Avrà voluto saltare l’interrogazione di storia, o… O magari, è con Derek»
Si imbatterono in Isaac e Lydia che stavano animatamente discutendo di un argomento di chimica che il ragazzo non aveva ben chiaro.
«Ma ci siamo sentite ieri sera e ha detto che sarebbe venuta» continuò la ragazza, attirando l’attenzione di tutti «E’ strano: non salta la scuola nemmeno quando ha l’influenza»
«Che succede?» intervenne Isaac.
«Malia pensa che sia strano che Emma abbia bidonato la scuola, oggi» rispose Stiles, battendo il cinque a Scott, che era appena arrivato.
La ragazza sbuffò, infastidita dal fatto che nessuno mai le credesse. Sapeva di aver ragione: non l’aveva più sentita dal pomeriggio precedente e quando le aveva mandato il solito messaggio mattutino, chiedendole qualche aiuto su un compito in classe o un’interrogazione imminente, non le aveva risposto.
Ritornò alla realtà, quando intorno a sé, calò il silenziò e tutti gli occhi erano fissi su Lydia. La rossa fissava un punto indefinito nel corridoio e l’intero gruppo sapeva che non ci fosse niente di strano negli armadietti azzurri e arrugginiti o nelle maniglie mal ridotte delle porte. La sua mente stava viaggiando alla velocità della luce: vedeva un posto buio, in una delle zone più remote di Beacon Hills e sentiva delle gemiti strazianti. Non sapeva di chi fossero, ma non era certo una coincidenza che Emma non si fosse presentata a scuola quella mattina.
«…Lydia» la chiamò piano Scott «Lydia!»
La ragazza si risvegliò da quello stato di trance e guardò negli occhi ognuno di loro. Avevano un’espressione preoccupata, mentre lei – ne era sicura – era sconvolta ed impaurita. Non sapeva se quella che avesse appena sentito fosse Emma, ma l’unica cosa certa è che qualcuno fosse in grave pericolo.
«Lydia, che succede?» questa volta fu Malia a parlare.
«Qualcuno sta soffrendo» disse lentamente «Dobbiamo trovarlo»
«Non possiamo uscire da scuola adesso» obiettò Stiles.
«E se fosse Emma?» insistette Malia «Sappiamo tutti che sia strano che non si sia fatta vedere stamattina e se devo dirla tutta, anche i gemelli sono assenti»
«Che cosa?!» esclamarono Isaac e Scott nello stesso momento «Perché non l’hai detto subito?»
La ragazza sbuffò e si avviò all’uscita: ancora il funzionamento della scuola a proposito delle uscite ed entrate straordinarie non le era molto chiaro, ma in quel momento non le interessava per niente. Uscì lasciandoseli tutti alle spalle: non le importava se non avrebbero voluto aiutarla, ce l’avrebbe fatta da sola. Emma era la sua migliore amica e l’avrebbe trovata anche a costo di morire.
Si fermò di fronte alla sua auto e chiamò Derek: desiderava profondamente sbagliarsi; voleva chiamarlo e sentirsi dire che Emma fosse lì con lui – come pensava Stiles – ma il tono preoccupato con cui il ragazzo le rispose non fu per niente rincuorante.
Lo avvertì di quello che stava succedendo e decisero di incontrarsi a casa di Emma, per vedere se fosse semplicemente rimasta a casa, prima di creare un putiferio per niente.
Quando si voltò per l’ultima volta verso la scuola, vide Scott – seguito da tutti gli altri – camminare verso di lei «Veniamo con te»
«Cosa vi ha fatto cambiare idea?» chiese allora, offesa.
«Lydia ha notato un particolare della sua visione e potrebbe essere davvero Emma la persona che stiamo cercando»
«Va bene, andiamo» mormorò, salendo in auto.
In pochi minuti si ritrovarono di fronte alla casa della ragazza, la camaro nera di Derek era parcheggiata sul vialetto, di fronte al cancellino bianco e lui stava camminando avanti ed indietro, impaziente mentre provava a chiamarla ripetute volte, ottenendo sempre lo stesso risultato. Non poteva e non voleva credere che fosse scomparsa, sperava con tutto se stesso che rispondesse al telefono con la sua solita allegria e con quel sorriso che aleggiava sempre sul suo viso. Sperava che i ragazzi si sbagliassero e quando li vide arrivare e fermarsi dalla parte opposta della strada, si diresse verso di loro.
«In casa non c’è» li informò immediatamente, senza nemmeno dar loro il tempo di scendere dalle auto «Dove cazzo è, cristo santo, dove-»
«Aspetta» lo interruppe Scott, attraversando la strada e osservando la casa di fronte a sé «Non lo senti?»
Derek si avvicinò a lui e si concentrò: senza fare attenzione, tutto sembrava esattamente al proprio posto, sembrava che niente fosse stato modificato o solo influenzato, ma poi li sentì. Sentì l’odore di Emma che riecheggiava intorno alla casa, uno strano odore dolciastro che non riuscì a definire ed infine un odore che, purtroppo, conosceva molto bene.
Una sensazione di rabbia si impossessò di lui, fin quasi a fargli esplodere il cuore nel petto e gelargli il sangue nelle vene. Sapeva che sarebbe successo, sapeva che, nonostante la sua protezione, non sarebbe stato abbastanza, sapeva che prima o poi, l’avrebbe persa perché quelli come lui non si meritavano di essere felici. Respirò profondamente, cercando di controllarsi, perché il suo lato umano, pregno di risentimento, stava lasciando il posto all’animale che giaceva nei meandri della sua mente. Giurò su se stesso che se solo le avessero torto un capello, avrebbe ucciso tutti, dal primo all’ultimo; avrebbe rischiato la vita pur di riportarla a casa sana e salva. L’unico problema era trovarla e al solo pensiero, il panico balenò nei suoi occhi.
Serrò la mascella, mentre Scott lo guardava per capire se lo avesse percepito anche lui. Annuì e strinse i pugni lungo i fianchi, finchè le sue nocche non divennero bianche «Peter Hale» 


 

 

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Capitolo 11
*** Lead me out of the dark ***


salve lupetti :)
scusate per l'immenso, infinito, lunghissimo ritardo, ma finalmente sono riuscita ad aggiornare!
mi dispiace avervi fatto aspettare così tanto per il capitolo, ma ho dovuto sbrigare alcune faccende in casa ed in famiglia (positive, per lo meno!) e non ho avuto tempo per studiare e tanto meno per trovare un paio d'ore e scrivere.
vi ringrazio per le recensioni, per il semplice fatto che leggiate e apprezziate questa storia e per averla aggiunta alle preferite/ricordate/seguite: grazie i n f i n i t a m e n t e.

bene, vi lascio qualche chiarimento sul capitolo ma sarò brevissima:
  • questo è stato un capitolo molto difficile da scrivere perchè i miei tanto amati Demma mi hanno fatto soffrire come un cane; il capitolo è raccontato quasi tutto dal punto di vista di Derek, perchè volevo che i lettori capissero meglio il suo punto di vista ma sopratutto quello che prova per Emma
  • vi stupirà - o almeno, inizieranno a sorgere dubbi - il personaggio di Aiden: come ho sempre detto, fa il cattivo, ma non lo so mica se è totalmente convinto di essere dalla parte giusà... chissà!
  • abbiamo una new entry, anzi una guest star, visto che sarà presente solo in questo capitolo: il mitico ed inimitabile Chris Argent che accorre in aiuto del nostro branco
ok, non aggiungo altro perchè non voglio spoilerare troppo, ma se avete domande scrivete tutto quello che volete e che vi passa per la testa, sarò davvero felice di rispondere ai vostri dubbi!
ricordo che la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link nei miei contatti).

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO UNDICI: LEAD ME OUT OF THE DARK
 
Aprì gli occhi lentamente, facendo cadere con pigrizia il suo sguardo sul gruppo di diciassettenni riuniti intorno al grande tavolo di legno del suo loft, intenti ad osservare e commentare una vecchia cartina di Beacon Hills. Erano passate quarantotto ore, o due giorni – non sapeva quale definizione di tempo fosse peggiore – dalla scomparsa di Emma e ancora non erano riusciti ad identificare il luogo che continuava ad apparire nelle visioni di Lydia. A differenza degli altri, stava perdendo le speranze: da alcune ore, ormai, aveva perso l’odore della ragazza e non conosceva molti altri metodi per poterlo recuperare. Si sentiva terribilmente in colpa: sapeva che prima o poi il branco di Deucalion avrebbe teso loro una trappola, avrebbe fatto del male a qualcuno. Aveva sempre pensato di esser lui la cavia, lui a dover soffrire ed invece gli Alpha avevano puntato direttamente alla preda più umana, semplice, ingenua ed indifesa. Ogni volta che chiudeva gli occhi e pensava ad un possibile nascondiglio, l’immagine terrificante di una Emma ferita, agonizzante o – peggio, ancora – morta faceva capolino nella sua mente e un ringhio trattenuto lasciava le sue labbra per rimbalzare contro le pareti bianche e piene di umido del suo loft. Ogni minuto che passava, per lui, era sempre più difficile credere di poterla ritrovare. Lo voleva, lo voleva disperatamente, ma conosceva la cattiva sorte che lo aveva sempre perseguitato nel corso della sua vita e di nuovo, gli sembrava giusto almeno un po’ piangersi addosso e lasciare che il suo cuore si rompesse in mille pezzi, una volta caduto con forza sul pavimento di legno di casa sua.
Tutti la stavano cercando, sebbene senza successo: il branco, la polizia, i suoi stessi genitori – che da quanto aveva sentito da Malia, erano abbastanza scioccati ed impauriti, visto che non avevano la minima idea che qualcuno potesse avercela con la loro figlia, in una piccola e tranquilla cittadina come quella. Lo sceriffo Stilinski lo aveva chiamato immediatamente, una volta saputa la notizia, e gli aveva chiesto un aiuto nelle indagini. Ma Derek sapeva perfettamente che ne la polizia ne i signori Grimes sarebbero riusciti a trovarla: il branco era l’unica ed ultima possibilità, che comunque si stava dimostrando inutile, visto che nemmeno i loro poteri soprannaturali stavano dando loro modo di rintracciare il luogo dove si trovasse.
«Questa è l’unica cosa che ho trovato» la voce di Malia riempì la stanza. Il ragazzo piombò nella realtà ed il suo sguardo si appoggiò indifferente sulla figura della ragazza, che stava rientrando nel loft con il cuscino di Emma tra le mani.
Alla vista di quell’oggetto, gli si formò un groppo in gola: per un momento smise di respirare e gli occhi si riempirono di lacrime, che – come sempre aveva fatto in vita sua – cercò di reprimere e far scomparire del tutto. Quell’oggetto riportò a galla ricordi e dettagli che persino lui aveva temporaneamente dimenticato. Quante mattine aveva passato a guardare Emma appoggiata alla stoffa bianca e soffice del cuscino mentre dormiva tranquilla, quante volte entrambi si erano sdraiati su quell’oggetto, a parlare, a confidarsi pezzi di vita che nessun altro conosceva, fino a che le loro voci si mescolavano e si affievolivano, per poi cadere in un sonno profondo.
Sospirò mettendosi seduto sul divano con le braccia appoggiate alle ginocchia e le mani sotto il mento, per sorreggere la testa. Erano passati solo due giorni, eppure sembrava trascorsa un’eternità. Era stanco, afflitto e completamente nel panico: il suo cervello non riusciva a sbloccarsi e a trovare una soluzione. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era: come avrebbe fatto ad andare avanti con la sua vita, se l’avesse persa?
«Credi che funzionerà?» la voce preoccupata di Kira richiamò la sua attenzione. Guardò quei ragazzini di diciassette anni così forti e coraggiosi e per un momento, seppur piccolo, si sentì al sicuro. Non avevano bisogno di un Alpha per essere un branco e non avevano bisogno di uccidere e fare del male agli altri per essere più forti. Bastava avere fiducia l’uno nell’altro e per quanto, molto spesso, non li sopportasse, sapeva che avrebbe potuto contare su di loro in qualsiasi momento, perché ci sarebbero sempre stati per lui.
«Perché non dovrebbe?» intervenne Stiles sicuro, sebbene la sua voce fosse preoccupata, cercando di convincere più se stesso, che gli altri «Funziona sempre e funzionerà anche questa volta»
«Derek?» Scott lo richiamò.
Si alzò a fatica e con lentezza, rimanendo in completo silenzio mentre tutti gli occhi dei ragazzi si appoggiavano preoccupati sulla sua figura. Si avvicinò alla ragazza e le sfilò dalle mani quell’oggetto, a cui si stava aggrappando con tutta la sua forza per non cadere nel baratro profondo e doloroso della sua mente. Doveva smetterla di pensare, doveva solo agire. Lo strinse tra le dita e guardò come la stoffa si piegava sotto la sua stretta, respirò a fondo tentando di reprimere l’ennesimo ringhio di frustrazione e allentò la presa.
«Deve funzionare» parlò infine, a fil di voce, ma sapeva che lo avrebbero sentito «E’ l’ultima possibilità che abbiamo»
Guardò di nuovo il cuscino pallido e morbido come la pelle di Emma, avvicinandolo al viso ed ispirando a fondo il suo odore. Il profumo fresco della ragazza lo colpì come un pugno nello stomaco ed ebbe la tentazione di strapparlo a morsi pur di non doversi trovare in quella situazione, ma continuò comunque ad ispirare. Voleva sentirlo, voleva che il suo profumo gli rimanesse imprigionato nella mente, nel cuore, tra le vene e le ossa per sempre. Sapeva di menta, di eucalipto e di qualcos’altro altrettanto fresco che non riusciva a capire, ma soprattutto sapeva di lei. Ognuno di loro aveva un proprio odore particolare, personale e lui, quello di Emma, sarebbe riuscito a riconoscerlo tra mille.
Appoggiò l’oggetto sul tavolo e guardò gli altri «Ripartiamo da casa sua»
Gli altri annuirono e senza aggiungere altro, si diressero verso il divano dove avevano malamente gettato le giacche. Cercando di fare il minimo rumore, le indossarono e si avviarono all’uscita. Derek rimase fermo dov’era: doveva muoversi, prendere la giacca, le chiavi della macchina, chiudere la porta ed andare, ma tutto ciò che riuscì a fare fu sospirare e appoggiare le mani sul tavolo, per poi chinare la testa verso il basso, per scrutare i suoi piedi. Non l’avrebbero trovata, probabilmente l’avevano già uccisa e tutto quello che stavano facendo era completamente inutile.
«Derek» Scott richiamò la sua attenzione. Il ragazzo si voltò e puntò il suo sguardo indifferente sul viso dell’amico. Indugiò per un po’, poi fece un passo verso di lui e gli appoggiò la mano sulla spalla «La troveremo. Viva, la ritroveremo viva. Promesso»
Derek annuì impercettibilmente e alla fine si mosse. Afferrò tutto il necessario senza nemmeno rendersene conto, mentre vide gli altri affrettarsi fuori e dirigersi verso le loro auto. Anche lui fece lo stesso: salì – seguito da Malia e Lydia – mise in moto e seguì la jeep azzurra di Stiles, verso casa di Emma.
 
Nonostante la luce fioca di quella stanza, i suoi occhi bruciavano. Non sapeva se quel fuoco ardente fosse la conseguenza delle scosse elettriche ricevute – che le avevano tolto ogni possibilità di movimento – oppure delle lacrime che aveva versato. I cavi elettrici erano ancora ben ancorati alla sua pelle, piena di lividi e ustioni e quando meno se lo aspettava alcune scosse sempre più forti la risvegliavano dal suo torpore. Non urlava più per il dolore: aveva fatto l’abitudine alle ferite che aveva, alle scariche elettriche e all’ago della siringa che ogni tanto sentiva entrare nella pelle del braccio. Ogni volta che le iniettavano quella sostanza trasparente come l’acqua – all’apparenza del tutto innocua – cadeva in un sonno profondo e si ridestava con la testa che le doleva troppo forte, per potersi solo lamentare. Non vedeva mai chi fossero i massacratori, ma dopo un po’ aveva capito chi fosse dietro a quel folle piano. Era sicura che tutto ciò fosse stato architettato da Deucalion, il quale però non si era mai fatto vedere. Storse la bocca al pensiero di quanto credesse di essere il forte ed il cattivo, quando in realtà era solo un codardo che non riusciva nemmeno a torturare o uccidere una persona con le sue stesse mani. Ogni tanto sentiva delle voci provenire dall’esterno, facevano eco nella sua testa e la facevano pulsare dolorosamente: erano accenti stranieri, forse russi, ma era talmente drogata da mille sostanze diverse, che in alcuni momenti pensava fosse tutto frutto della sua immaginazione.
In tutto quel tempo – non sapeva nemmeno più che giorno fosse – aveva sempre cercato di non pensare a Derek. Era difficile e doloroso immaginarselo di fronte a casa sua o disteso sul suo divano, mentre stava in silenzio e pensava a come risolvere la situazione. Aveva provato con tutta se stessa, ma le fitte al cuore le facevano più male di qualsiasi ustione. Sapeva che la stava cercando, ma non voleva che la trovasse. Avrebbe messo in pericolo lui e gli altri e l’ultima cosa che voleva era fargli del male. Sapeva di star ragionando da (finta) eroina dei film, ma sapeva anche che fosse normale, per via delle sostanze che giravano nel suo sangue e per un po’, quindi, il pensiero di saperlo al sicuro l’aveva fatta sopravvivere. Preferiva morire, piuttosto che permettere a Deucalion di torcere anche un solo capello a Derek. Non c’aveva mai pensato, ma sarebbe morta per lui. E quel pensiero la colpì con così tanta semplicità e naturalezza, che per un attimo non ebbe più paura.
 
«Lydia, concentrati»
La rossa osservò la casa di fronte alla quale si erano fermati con sospetto. Le sue abilità da banshee ancora non erano del tutto sviluppate e lei non sempre riusciva a controllarle, ma per la prima volta cercò davvero di impegnarsi. Guardò Scott e Stiles al suo fianco e annuì un po’ più convinta, quando le rivolsero un sorriso d’incoraggiamento. Poi guardò Derek, che aveva gli occhi puntati sulla finestra della camera di Emma e per un momento, cercò di percepire cosa stesse sentendo. Sapeva che il dolore stava circolando nelle sue vene e che non aveva la minima idea di cosa fare: per la prima volta lo vide con l’acqua alla gola, con il panico costantemente dipinto sul volto. Per la prima volta, vide Derek Hale arrendersi. Ma lei era Lydia Martin e raramente lasciava perdere qualcosa, raramente diceva “non ci riesco”. Avrebbero risolto la situazione, ne era convinta.
Chiuse gli occhi e lentamente, nella sua mente si formò la solita immagine: una stanza per lo più buia, illuminata solo da qualche luce soffusa che dava ben poco spazio all’immaginazione. Nel solito angolo, sdraiata e ad occhi chiusi, c’era una ragazza. Assomigliava vagamente ad Emma, ma non era sicura fosse lei, come non era convinta del tutto che fosse morta. Quello era ciò che le dava la speranza per continuare a cercare. Improvvisamente, qualcuno entrò in quella stanza, aprendo una porta a vetri, con una grande maniglia nera. Era rimasto un solo vetro intatto e su questo, c’era un simbolo: era circolare, rosso e giallo e riportava un piccolo lupo nero che ululava.
Spalancò gli occhi, senza rendersi conto che stesse respirando affannosamente e Scott le fu subito vicino «Hai visto qualcos’altro?»
Lydia si voltò di scatto verso di lui, mentre vedeva anche tutti gli altri avvicinarsi. Fece un passo indietro, togliendosi da quella posizione centrale e aspettò che il suo respiro fosse di nuovo regolare «E’ entrato qualcuno e… Ha aperto una porta e c’era il simbolo giallo e rosso di un lupo» Derek ed Isaac si guardarono perplessi, ma rimasero in silenzio.
«La centrale elettrica» mormorò Boyd tra sé e sé.
«Conosci quel posto?» scattò Derek, lasciandosi sfuggire un ringhio di impazienza. Non ce la faceva più.
«Sì» rispose titubante, di fronte agli occhi azzurri e famelici del ragazzo «Mio padre lavora lì: si chiama Audax Elettric Center, ma…»
«Ma?» lo incalzò Stiles.
Si trattenne per qualche secondo, poi riferì la brutta notizia «E’ 890 metri quadrati e somiglia ad un labirinto, potrebbero volerci giorni e giorni per trovarla»
Derek chiuse gli occhi per qualche secondo, reprimendo la sua voglia di strappargli il collo a morsi. Ovviamente, Boyd non aveva nessuna colpa, ma la sua pazienza stava giungendo a termine e se non l’avesse trovata in quello stesso istante, sarebbe impazzito. Rimandò indietro gli artigli e respirò a fondo, recuperando la calma. Non vedeva via d’uscita o meglio, qualsiasi soluzione passasse sotto ai suoi occhi, lui era troppo cieco e angosciato per vederla e capirla.
«Ma abbiamo il suo odore, no?» intervenne Kira, rompendo il silenzio asfissiante che si era creato «Possiamo seguire quello e sarà facile trovarla»
Gli occhi di tutto il branco si illuminarono di speranza, Derek sorrise per la prima volta da quando Emma era sparita e non aspettarono un secondo di più: piombarono nelle loro auto, con il profumo della ragazza che aleggiava nell’abitacolo.
«Lydia, tu e gli altri rimarrete qui» disse Scott «Andremo io, Derek e Kira: meno siamo e meno probabilità abbiamo di essere scoperti»
«Io voglio venire!» esclamò Stiles, seguito immediatamente da Malia e Isaac.
La rossa sospirò infastidita dall’insistenza del ragazzo «Va bene, andate voi: io, Erica e Boyd rimaniamo nei paraggi e avvertiamo la polizia»
La scia di Emma li portò mezz’ora dopo a destinazione: nessuno di loro era mai stato lì – ad eccezione di Boyd. Era piuttosto fuori Beacon Hills e lontano da qualsiasi fonte di vita o di soccorso. Era in mezzo ad un piazzale di cemento grigio e triste che si estendeva fino all’orizzonte: nemmeno loro, con la loro vista ultra-sviluppata, riuscirono a capire dove si fermasse. Ma la cosa che tolse loro il fiato fu l’edificio che si innalzava di fronte ai loro occhi. Sembrava più grande di quanto Boyd avesse detto e per un momento, le loro speranze si azzerarono di nuovo. Un immenso edificio color acciaio campeggiava al centro, incorniciato da alte torri a cui si attaccavano una miriade di fili. Per un attimo, i lupi rabbrividirono di fronte all’alta quantità di corrente elettrica che scorreva all’interno e alle molte probabilità che qualcuno rimanesse gravemente ferito. Gli occhi di Kira si accesero e prima ancora che Scott potesse dire o fare qualcosa, la ragazza – come ipnotizzata – prese a camminare in direzione di quella che doveva essere un’entrata secondaria. Nessuno di loro sapeva chi li avrebbe accolti all’interno.
Soltanto quando Kira fu vicina alla porta d’ingresso, gli altri si affrettarono verso di lei ed entrarono all’interno, senza riuscire a vedere niente. La centrale era chiusa e tutto le luci erano spente, quindi ebbero bisogno di qualche secondo per abituare i propri occhi all’oscurità. Non soltanto il buio non aiutava la loro ricerca, ma le strade che si ramificavano e si disperdevano per tutto l’edificio non rendevano il loro compito più semplice. I beta si concentrarono, riuscendo a recuperare la pista da seguire. Camminarono per quelle che sembrarono ore e ci furono momenti in cui avrebbero voluto lasciar perdere, visto che qualsiasi sentiero imboccassero era esattamente uguale per colore e lunghezza a quello precedente: sembrava di percorrere sempre gli stessi cento metri, senza mai arrivare a destinazione. Ogni tanto si scambiavano qualche parola, tanto per sentire se fossero ancora tutti lì e per smorzare l’ansia e il peso che stavano attanagliando i loro petti. Derek era il più silenzioso di tutti: più avanzavano e più l’immagine di Emma ormai morta si faceva spazio nella sua mente e sembrava diventare sempre più reale. Probabilmente, se l’avesse ritrovata viva, non avrebbe creduto per niente a quella situazione. Cercò di ascoltare meglio i rumori intorno a sé: ad eccezione dei passi strascicati contro il cemento ruvido e i loro respiri preoccupati, non sentiva niente. Lo faceva di tanto in tanto, sperando di essere vicino alla meta e di poter udire il battito cardiaco di Emma sfondargli i timpani. Avrebbe preferito diventare sordo, piuttosto che trovarsi di fronte al suo cadavere. L’unica cosa positiva era che il profumo della ragazza si faceva sempre più forte: era pregno anche di altri odori a loro sconosciuti, ma erano sicuri che fosse quello. Si sentivano leggermente storditi, le loro teste giravano e Stiles di tanto in tanto era costretto a sorreggerli quando sembravano sul punto di cadere a terra. Scott, inizialmente, pensò a dello strozzalupo, lasciato lì proprio per non permetter loro di arrivare a destinazione, ma quando si accorse di un altro odore sparso nell’aria dovette ricredersi. Era lo stesso odore dolciastro che avevano sentito due giorni prima di fronte alla casa di Emma. Era una sostanza chimica e se solo ci fosse stata Lydia, di sicuro sarebbe riuscita a darle un nome.
All’improvviso, sentirono alcune voci provenire da lontano. Non facevano eco ed erano leggermente attutite dalle mille pareti che sezionavano l’edificio, ma il loro udito le aveva percepite. Si fermarono sul posto, rimanendo in ascolto: si susseguirono altre voci maschili, poi il rumore di una scossa elettrica ed infine un brontolio sordo e mite. Si guardarono negli occhi e si incamminarono velocemente nella direzione da cui tutti quei rumori provenivano: si misero a correre e furono costretti a bloccarsi quando la porta a vetri con su attaccato il simbolo di quella centrale elettrica si materializzò di fronte ai loro occhi. Da dentro proveniva una luce fioca e capirono di esser giunti a destinazione: senza nemmeno pensare, entrarono di getto mostrando le fauci ben affilate, attirando l’attenzione dei due uomini lì presenti.
Del branco nemmeno l’ombra, ma i due afferrarono un paio di fucili e cominciarono a sparare a raffica sui licantropi, mentre questi cercavano in tutti i modi – grazie anche alla katana di Kira – di metterli a tappetto. Derek non riusciva a liberarsi dagli spari dei due e la sua unica preoccupazione era trovare Emma. Quando – con il fucile puntato al petto – indietreggiò fino a toccare la parete di cemento freddo, la vide. Il panico lo assalì fino a togliergli il respirò: era sdraiata a terra con gli occhi chiusi e una serie di fili attaccati alla pelle chiara, costellata da ferite. Nonostante il metallo freddo dell’arma che pungeva il suo petto e da cui sarebbe ben presto uscito un proiettile, si concentrò sulla ricerca del battito della ragazza. Quando lo trovò e si accorse poi che stesse respirando, tirò un sospirò di sollievo e mostrò i canini al cacciatore, più convinto che mai a staccargli la testa a morsi.
«Stiles! Stiles!» gridò al ragazzo che era rimasto in disparte per tutto quel tempo cercando di colpire a mano nuda i due uomini e di evitare di esser ferito. Alzò gli occhi su Derek, poi lo spostò sugli altri e pensò che non ce l’avrebbero fatta.
«Stiles!» lo chiamò di nuovo Derek, per poi indicargli Emma a terra «Portala via!»
Prima che Stiles potesse fare qualsiasi movimento verso la ragazza, sentì una voce forte, potente, ma soprattutto conosciuta e rincuorante alle sue spalle «Abbassatevi!»
Chris Argent apparve dal niente alle spalle dei ragazzi, sparando a raffica contro i due uomini, che solo in quel momento furono raggiunti da un terzo.
Stiles ritornò alla realtà e corse da Emma, liberandola dai fili, poi la prese in braccio e lei aprì gli occhi, facendolo sorridere di gioia: era viva.
«Stiles» mormorò debolmente e talmente piano che lui pensò di esserselo immaginato.
Stava per risponderle, quando Derek gli urlò contro di nuovo di andarsene e di portarla all’ospedale. Uscì da lì di corsa, dirigendosi lungo la prima strada che trovò di fronte a sé: corse per un periodo di tempo che gli sembrò infinito, poi si fermò di scatto e si rese conto che senza le abilità di un lupo mannaro non sarebbe riuscito ad uscire di lì. Si fermò con una Emma completamente e di nuovo senza sensi tra le braccia e pensò ad un’alternativa. Lui era la mente del gruppo, lui era quello che non aveva bisogno di istruzioni perché riusciva sempre a far funzionare tutto. Lui era quello che trovava sempre una soluzione. Si guardò intorno, completamente inghiottito dall’oscurità ed ogni speranza che aveva arse viva nella sua testa. Così afferrò il cellulare e si fece luce: non c’era niente intorno a loro, ad eccezione di una quantità industriale di cemento grigio. Non sapeva più come fare e alla fine, riprese a camminare pensando che tutte quelle strade portavano fuori e che prima o poi avrebbero rivisto entrambi la luce.
Camminò titubante per qualche minuto, quando, alla fine, in lontananza notò due minuscoli punti rossi sospesi in aria. Non aveva bisogno di azionare il cervello per sapere di cosa si trattasse.
«Oh merda» sussurrò tra sé e sé, serrando la mascella. Era inutile scappare: il licantropo li avrebbe presi e (con buone probabilità) uccisi. Così rimase fermo e attese che l’altro facesse la prima mossa.
I due occhi rossi cominciarono a diventare sempre più distinguibili e ad avvicinarsi sempre di più, finchè la figura di Aiden fu colpita dalla torcia del cellulare di Stiles.
Si guardarono per un tempo che sembrò infinito: gli occhi di Aiden si muovevano da quelli impauriti, ma allo stesso momento infastiditi di Stiles, alla figura di Emma tra le sue braccia.
«Vieni con me» disse infine.
Stiles aggrottò le sopracciglia e «Dovrei fidarmi di te?» domandò sarcasticamente.
Aiden si fece serio «Sì, se vuoi che arrivi viva in ospedale»
Il licantropo prese a camminare nella direzione da dove Stiles proveniva e si fermò soltanto quando la sua voce lo richiamò «Dove stiamo andando?»
Aiden alzò sommessamente le sopracciglia, anche se sapeva che non lo avrebbe potuto vedere al buio, poi parlò con tono ovvio «Fuori di qui»
 
Le luci bianche della sala d’aspetto lo colpirono come un pugno in faccia. Non dette nemmeno il tempo ai suoi occhi di abituarsi al cambio di illuminazione, che già si stava dirigendo a passo spedito – anzi, correndo – verso l’ascensore. Mille pensieri e domande affollavano la sua mente e nonostante Scott, Malia, Kira ed Isaac camminassero qualche passo dietro a lui, non dette loro alcuna importanza. Voleva arrivare da Emma: voleva vederla, voleva parlarle, voleva una volta per tutte controllare con i suoi stessi occhi che fosse viva. Entrarono all’ultimo momento in ascensore, mentre le porte si stavano chiudendo. Gli altri erano in silenzio. Erano sporchi di sangue e pieni di ferite che lentamente stavano guarendo: nessuno di loro era stato colpito dai proiettili dei cacciatori, ma il liquido rosso che scendeva pigro lungo la loro pelle era simbolo dei danni che stavano riportando. Derek si appoggiò con la schiena alla parete e chiuse gli occhi. Sentì Scott premere su uno dei tasti e l’ascensore sobbalzare leggermente per poi partire lenta verso l’alto. Non sapeva a che piano fossero diretti. Probabilmente nemmeno gli altri ne erano a conoscenza, ma Scott era esperto quanto sua madre e aveva tirato a caso, sperando di azzeccare quanto prima il reparto in cui si trovasse Emma.
Aprì gli occhi di scatto, riportando il corpo in posizione eretta, non appena l’ascensore si fermò e altrettanto pigramente aprì le porte. Si mosse sul posto impaziente, ripercorrendo per un attimo tutto quello che era successo. Era felice di averla ritrovata, ma ancora non sapeva come stesse e questa era la cosa che più lo spazientiva. Aveva bisogno di entrare in quella stanza e di trovarla con gli occhi aperti e lo sguardo fisso sul suo viso, mentre gli sorrideva felice. Aveva bisogno di sentirlo di nuovo il battito del suo cuore, perché gli sembrava che quello sentito alla centrale elettrica fosse stato frutto della sua immaginazione.
A grandi falcate, si incamminò lungo il corridoio, seguito dagli altri, e sorrise confortato dalla figura di Stiles piegata in avanti e seduta su un divanetto: avevano trovato subito il reparto. Si avvicinò a lui, che si accorse della sua presenza e lo guardò senza dire niente.
«Come sta?» chiese subito.
Il diciassettenne si passò una mano sul volto stravolto «Non lo so, non mi lasciano entrare ma quando siamo arrivati qui, aveva perso i sensi e-»
La voce del ragazzo si bloccò, quando Derek ormai non più interessato ai suoi discorsi, lo superò dirigendosi verso la madre di Scott che si stava avvicinando a loro, con una cartellina in mano. Di sicuro Stiles l’aveva avvertita e lei stava cercando in tutti i modi di occuparsi della faccenda.
«Voglio vederla» le disse senza tanti giri di parole, mantenendo a stento la calma. Scott si avvicinò a lui e appoggiò una mano sulla sua spalla, con l’intenzione di tranquillizzarlo.
«Quando si sveglierà, potrai entrare» rispose la donna spavalda senza farsi spaventare dal licantropo.
«Almeno mi dica cos’ha» mormorò Derek, con tono arrendevole «Si sveglierà, vero?»
Melissa guardò Scott riluttante, ma il ragazzo le lanciò un’occhiataccia e fu costretta a parlare «Le ferite che ha riportato non sono così gravi, ma le ustioni sono di secondo grado: ciò significa che in alcuni punti potrebbero rimanere delle cicatrici» aprì la cartellina e dette uno sguardo ai fogli raccolti al suo interno «E’ stata drogata con del cloroformio e del normalissimo sedativo: le sono stati iniettati in quantità eccessive ed è per questo che ancora non si sveglia»
«Ma lo farà, giusto?» insistette, speranzoso.
La donna non rispose, ma evitò di guardarlo gettandosi un’occhiata intorno. Non voleva dirgli che non si sarebbe svegliata, perché non era la verità, ma dalle ferite riportate, non si poteva nemmeno essere sicuri del contrario. Derek fece per replicare di nuovo, ma lei cercò di dileguarsi.
«Devo avvertire i genitori» disse, seria.
«No» scattò il ragazzo.
Melissa guardò di nuovo suo figlio, implorando aiuto, così Scott si fece avanti «Mamma, facciamo così: avvertiremo i genitori solo quando si sarà svegliata, va bene?»
La donna annuì scocciata e si allontanò per far visita ad un altro paziente.
Derek girò su se stesso, cercando di contenere la voglia di buttare giù la porta della stanza di fronte a lui e vedere Emma, ma sapeva che Melissa e Scott si sarebbero arrabbiati e lo avrebbero fatto allontanare immediatamente. Tornò verso i due amici, con lo stesso pensiero inchiodato nella mente. Aveva capito che non c’era la certezza assoluta che Emma si risvegliasse e questo, forse lo aveva sempre saputo. Soltanto che in quel momento, la verità lo colpì come una ventata di aria gelida che filtrò tra le sue ossa e gli mozzò il respiro in gola. Boccheggiò per qualche secondo, sentendo sempre di più i canini crescere veloci nella sua bocca e le unghie affilarsi sempre di più. Appoggiò le mani alle pareti e prese a respirare con fatica, mentre le gambe tremavano in modo inumano e sembravano non poter reggere il peso del suo corpo. Scott e Stiles si accorsero immediatamente che ci fosse qualcosa che non andasse: quando videro i suoi occhi farsi azzurri, lo afferrarono sotto le braccia e lo trascinarono in una stanza vuota. Stiles si chiuse la porta alle spalle, controllando che nessuno li avesse seguiti e quando si voltò, Derek era di nuovo appoggiato al muro, completamente immerso in un attacco di panico. Respirava a fatica ed era sempre sul punto di trasformarsi; era come se non riuscisse a controllarsi e mantenere la sua forma umana. I due diciassettenni si guardarono per qualche secondo senza sapere cosa fare, poi lo affiancarono sperando che si calmasse.
Derek non aveva la minima idea di ciò che stesse accadendo intorno a lui: non sapeva come fermarsi, non sapeva come tornare a respirare normalmente. Si sentiva come se stesse affogando e non riuscisse a far niente per riemergere.
Fu a quel punto che sentì Scott richiamarlo «Alpha, beta, omega» disse «Ripetilo, Derek, forza: alpha, beta, omega»
Il ragazzo respirò a fondo e provò a parlare, ma la sua voce uscì mescolata ad un ringhio carico di frustrazione «Alpha, beta, omega… Alpha, beta, omega» poi prese un altro respiro, ma gli sembrava che la situazione stesse degenerando, piuttosto che migliorare «Alpha, beta, omega… Alpha, beta, omega»
«S-Scott, non funziona!» esclamò Stiles, passandosi una mano sul viso in cerca di una soluzione «Non funziona, cristo!, come facciamo?!»
L’amico provò un altro metodo «La rabbia, Derek: concentrati sulla rabbia»
Derek ci provò, ci provò davvero, ma non funzionò nemmeno in quel modo. Fu in quel momento che Stiles si rese conto che la rabbia e tutto l’odio che il ragazzo aveva sempre avuto per se stesso non erano più la sua ancora.
Sorrise sperando che quella volta funzionasse e si avvicinò al viso dell’amico. Gli appoggiò una mano sulla spalla e la massaggiò lentamente, cercando di calmarlo «Derek, pensa ad Emma» mormorò piano, con tono quasi melodico, sperando che l’attacco di panico scomparisse «Aggrappati al pensiero di Emma: ai bei momenti, a quando vi siete conosciuti, a quello che provi»
Pian piano, ogni singolo ricordò fece capolino nella mente del ragazzo: il loro primo bacio, il cuore della ragazza che batteva forte quando lo guardava allenarsi, ogni volta che l’aveva tranquillizzato prendendolo semplicemente per mano. Ogni minimo dettaglio si fece spazio nella sua testa, divenendo l’unico pensiero di quel momento. Anche il suo corpo reagì di conseguenza: i muscoli si sciolsero, rilassandosi, tanto che fu costretto ad appoggiarsi ai due ragazzi per rimanere in piedi; il respiro tornò, seppur lentamente, regolare e l’aria riprese a circolare liberamente nei suoi polmoni.
Sorrise quando sentì Scott e Stiles tirare un sospirò di sollievo. Uscirono da quella stanza come se niente fosse accaduto, ma solo quando tornarono a sedersi sulle poltroncine disposte in corridoio, Derek si rese conto veramente di ciò che fosse appena successo. Emma era la sua ancora, l’unica cosa che lo rendesse migliore, l’unica che facesse prevalere l’uomo sulla bestia, l’unica che sapesse calmarlo in qualsiasi momento, anche quando non era fisicamente presente.
Guardò distrattamente Scott andare a prendere un caffè alle macchinette e appoggiò la testa con fare stanco contro la parete bianca del corridoio.
«Non posso perderla» mormorò tra sé e sé.
«Mh?» disse Stiles, seduto vicino  al lui.
Derek aprì gli occhi di scatto e si sentì imbarazzato, ma poi decise di parlare. Ormai non c’era più motivo di vergognarsi «Ho perso la mia famiglia e per colpa del mio smisurato egoismo, anche Paige. Mi sono odiato per così tanto tempo e ho sempre pensato di meritarmelo e poi-»
«E poi, è arrivata Emma» concluse Stiles, abbozzando un sorriso.
«Esatto» disse, sospirando «Mi ha fatto vedere le cose sotto un’altra prospettiva, mi ha fatto riscoprire sentimenti che pensavo di non avere più, di non poter provare più. Non posso permettermi di perdere anche lei»
Stiles stava per replicare quando Melissa arrivò a passo spedito e si fermò di fronte a loro.
«Si è svegliata» ammise, infine, sorridendo, mentre una serie di respiri di sollievo riempì il corridoio. Tutti gli occhi erano fissi su Derek, il quale però stava guardando Stiles. Adesso aveva paura, paura che Emma non lo avesse voluto nemmeno vedere. E se avesse pensato che era stata tutta colpa sua? Che era stato lui ad esporla a quel pericolo così grande? Il diciassettenne gli sorrise incoraggiante e alla fine, si alzò dirigendosi verso la porta color legno esattamente di fronte a lui. Quando l’aprì ed incontrò lo sguardo vigile di Emma, tutto intorno a lui scomparve: le voci dei suoi amici gli arrivarono ovattate e sentì l’eco della voce di Melissa avvertire Scott che avrebbe chiamato i signori Grimes.
Si avvicinò al letto e sorrise «Hey»
«Hey» gli fece eco Emma, accennando un sorriso.
Nessuno dei due sapeva bene cosa dire: era come se fossero tornati all’inizio ed un sottile strato di imbarazzo e disagio aleggiava sulle loro teste.
Derek prese coraggio e fece un passo avvicinandosi ancora di più e le sfiorò delicatamente una guancia con la mano. Alla ragazza si scaldò il cuore di fronte a quel gesto e sentire la mano calda di Derek contro la sua pelle la fece sentire meglio e più viva. Si crogiolò in quel momento tutto loro, chiudendo gli occhi ed ispirando il suo profumo. Gli era mancato troppo e solo ora se ne rendeva conto.
Il ragazzo avrebbe voluto dire tante cose in quel momento: che gli dispiaceva per quello che era successo, che avrebbe ucciso Deucalion di propria mano se solo fosse servito a farla star meglio, che l’amava. Sì, avrebbe rischiato un suo possibile rifiuto, ma se avesse avuto un briciolo di coraggio in più nel trasformare in parole i suoi sentimenti, lo avrebbe fatto.
Invece rimasero in silenzio a guardarsi, finchè Emma sorrise scuotendo la testa.
«Perché ridi?» le chiese Derek.
«Mi è venuta in mente una cosa» disse lei e il ragazzo aggrottò le sopracciglia «Perché non mi insegni a combattere? Almeno, saprei come scappare a gambe levate da un lupo mannaro: odio sentirmi impotente»
Derek rise, alzando gli occhi al cielo, ma non riuscì a dirgli di no. Stava per replicare con una battuta, quando Malia fece capolino dalla porta.
«Possiamo entrare?» mormorò. Emma annuì e l’amica spalancò la porta, lasciando che anche Scott, Stiles, Kira ed Isaac potessero entrare.
Tutti le furono intorno in pochi secondi e sebbene dovesse riposare, era contenta di averli lì e di poterli vedere di nuovo. Nessuno di loro – tanto meno Derek – le chiese chi fossero coloro che l’avevano torturata e cosa le avessero fatto di preciso. Per un momento, nessuno voleva pensarci e tutti volevano godersi la luce viva che brillava negli occhi di Emma e le battutine divertenti di Stiles fatte esclusivamente per risollevare l’umore a tutti.
Passarono la mezz’ora successiva in quella posizione a scherzare, finchè non bussarono di nuovo alla porta e i genitori di Emma entrarono a passo spedito, facendosi spazio tra tutti i ragazzi riuniti intorno al letto della ragazza. La madre l’abbracciò, scoppiando a piangere mentre suo padre – profondamente commosso e sul punto di scoppiare in lacrime – si piegò su di lei, lasciandole un bacio leggero sulla guancia, dove poco prima si era appoggiata la mano di Derek. Poi, il signor Grimes si voltò verso il gruppo – che aveva fatto qualche passo indietro per lasciar spazio alla famiglia – e lo ringraziò per essere lì.
Aggrottò le sopracciglia con fare sospetto e guardò Derek – sicuro di non averlo mai visto «E lui chi è?»
Calò un silenzio imbarazzante nella stanza mentre il ragazzo rivolse uno sguardo sconcertato e carico di panico ad Emma, ma fu Stiles a rompere il silenzio «Uhm, lui è…» si grattò la testa imbarazzato «Mio cugino… Miguel»
Scott cercò di reprimere una risata, mentre gli altri si guardavano senza capire. Derek scosse la testa, di nuovo convinto che avrebbe dovuto davvero staccargli la testa a morsi una di quelle volte, ma quando incrociò lo sguardo divertito di Emma, non potè far altro che sorridere.


 

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Capitolo 12
*** Broken bones ***


salve lupetti :)
vorrei prendermi a schiaffi per il mega super iper lunghissimo ritardo che ho fatto nel postare, ma in questo ultimo periodo mi è mancato proprio il tempo materiale per sedermi di fronte al pc e scrivere, perciò davvero abbiate pietà e siate clementi: mi vergogno tantissimo

vi lascio due indicazioni veloci sul capitolo e poi vi lascio alla lettura:
  • questo è un capitolo di passaggio: ebbene sì, vi ho fatto aspettare più di un mese per un capitolo del genere; purtroppo c'è bisogno anche di qualcosa che sia solo di passaggio
  • le due scene principali del capitolo - che sono Demma - sono le mie preferite: la prima è molto dolce, mentre la seconda è piena di sofferenza, non sapete le lacrime agli occhi che avevo (e tanti sensi di colpa!!) mentre la scrivevo, quindi spero vi piaccia!
  • i prossimi due capitoli (13^ e 14^) saranno davvero pieni di cose nuove: ancora devo scriverli, ma la loro trama - a mio modesto parere - è davvero figa e non vedo l'ora che li leggiate! riguarderanno soprattutto Emma e sono sicura che vi dividerete tra "WTF?" e "oh mio dio, che figata", anyway, vedremo!
come sempre, vi ringrazio per aver letto, recensito, aver aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate e vi ricordo anche che la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link tra i miei contatti).

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO DODICI: BROKEN BONES
 
Quando l’infermiera le appoggiò la garza leggermente umida sulla ferita, sobbalzò all’improvviso, colta da una fitta lancinante al fianco. La donna sorrise, ripetendole per l’ennesima volta che era normale che le facesse ancora così male la ferita, ma che ben presto sarebbe rimasta soltanto la cicatrice. Emma lo sapeva, sapeva tutto: in quei due giorni, che aveva passato all’ospedale per i soliti controlli prima di tornare a casa, i dottori le avevano spiegato per filo e per segno tutto quello che le era accaduto. All’inizio, non aveva capito molto, visto che anche le loro stesse diagnosi erano state abbastanza confuse – “Fili elettrici? Chi, al giorno d’oggi, utilizza questa tecnica di tortura?” – ma alla fine, Melissa McCall le aveva raccontato come davvero erano andate le cose, soprattutto sulla base di quello che suo figlio le aveva riferito.
Il branco aveva passato in ospedale gran parte dei due pomeriggi: uscivano da scuola, salivano chi sulla moto, chi sulla jeep di Stiles e si precipitavano lì, per tenerle compagnia o passarle gli appunti che prendevano durante le lezioni, perché non volevano che ne perdesse nemmeno una.
Derek si era fatto vedere meno: non perché non venisse volentieri, ma perché preferiva non incontrare i genitori di Emma e doversi inventare qualche scusa sul motivo per cui Stiles avesse un cugino messicano. Entrava dalla finestra, in piena notte, quando sapeva che tutti se ne fossero andati e che la ragazza non stesse dormendo, per via dei medicinali somministrati e dei continui rumori fastidiosi che provenivano dai corridoi. Si sdraiava nel letto con lei, anche se stavano stretti, e parlavano fino a che la voce della ragazza si affievoliva e diventava un sussurro quasi incomprensibile. A quel punto, Derek si sedeva sulla poltrona vicino al letto e rimaneva con lei, fino a quando i primi raggi di sole filtravano attraverso i vetri appannati della camera.
«Fatto» la voce dell’infermiera la riportò alla realtà. Erano quasi le nove e mezzo di sera e dopo una giornata passata a rincorrere il dottore per poter richiedere il permesso, stava finalmente per essere dimessa e tornare a casa «Devi cambiare la garza almeno una volta al giorno e prendere le pasticche che ti ha prescritto il dottore, capito?»
Emma annuì, ma la donna continuò a parlare come se non avesse ripetuto quelle cose almeno un centinaio di volte «Sentirai dolore ancora per un paio di giorni, poi dovrebbe diminuire; se entro la prossima settimana questo non accade, dovrai tornare qui»
Annuì di nuovo, accennando un sorriso e finalmente, questa uscì, dirigendosi da un altro paziente. Sospirò, scendendo dal letto e poggiando i piedi a terra: per un momento ebbe la sensazione di star per cadere, ma poi si rese conto che fosse stato un semplice giramento di testa. Si stava infilando la maglietta, quando entrò sua madre.
«Tesoro, sei pronta?» le disse, andandole incontro e chinandosi a terra per prenderle le scarpe e passargliele. Non attese risposta e si mosse intorno al letto, afferrando la piccola borsa con il pigiama, lo spazzolino, il dentifricio e lo stretto necessario, e chiudendola con uno scatto «Possiamo andare adesso, papà ci sta aspettando in macchina»
Uscirono dalla stanza e si diressero all’ascensore, salendovi sopra. Emma era silenziosa, anzi in quei giorni – ad eccezione dei momenti che aveva passato con Derek, anche se non avevano parlato molto di quello che era successo – non aveva aperto bocca. Era convinta che fosse lo shock, che una volta tornata a casa e ripresa la vita di sempre, tutto sarebbe tornato al proprio posto, ma c’era un piccola parte di lei che sapeva che non sarebbe stato così. Era terrorizzata all’idea di dover vivere la sua vita, tenendo sempre gli occhi aperti e avendo la costante e spaventosa sensazione che qualcosa di brutto sarebbe accaduto prima o poi. Non sapeva se sarebbe riuscita a sopportare una situazione del genere.
Quando arrivarono al piano terra, passarono di fronte al pronto soccorso ed incontrarono la madre di Scott. La donna le sorrise incoraggiante, per poi superare il bancone dietro al quale stesse lavorando per dirigersi verso di lei ed abbracciarla. Sua madre rimase sorpresa di fronte a quel gesto, ma fece finta di niente e le oltrepassò, aspettandola sulla soglia dell’entrata.
«Vedrai, andrà tutto bene» sussurrò Melissa, guardandola e sorridendo incoraggiante.
Emma fece lo stesso e la salutò di nuovo, prima di tornare da sua madre e avviarsi alla macchina, parcheggiata esattamente di fronte all’entrata. Salì, lasciandosi andare contro i sedili posteriori e allacciò la cintura.
«Felice di tornare a casa?» chiese suo padre, sprizzando gioia da tutti i pori mentre metteva in moto.
«Papà, non sono stata via così tanto» replicò Emma, cercando di forzare un sorriso. Avrebbe voluto dirle che no, non aveva una voglia matta di tornare alla vita di tutti i giorni «Scommetto che in camera, il mio maglione verde è ancora appallottolato sul bordo del letto»
Sua madre rise, per poi nascondere la faccia tra le mani «Avrei dovuto metterlo io nell’armadio!»
La ragazza e suo padre si guardarono per un attimo sorpresi e poi scoppiarono a ridere.
 
Nonostante l’ora tarda, erano andati a mangiare nel primo fast food che avevano trovato. Dopo aver scherzato sul maglione, la prima cosa che Emma aveva detto ai suoi genitori era stata che avesse molta fame e che non avesse mangiato quasi niente, visto il cibo scadente dell’ospedale.
Adesso erano le undici passate: sua madre l’aveva aiutata a mettersi il pigiama, visto che i movimenti erano limitati per evitare che l’ustione facesse più male del normale e poi si era infilata sotto le coperte, a fissare il soffitto. Era strano, ma non aveva sonno.
Sentì i suoi genitori chiudere a chiave la porta di casa e salire le scale, per poi chiudersi la porta della loro camera alle spalle. A differenza sua, probabilmente loro erano stanchi morti, sia per le troppe ore che avevano passato in ospedale, sia per lo spavento che si erano presi. Ma lei adesso stava bene e loro potevano finalmente rilassarsi.
Sospirò annoiata, sistemandosi meglio sotto le coperte. Non aveva per niente sonno e doveva trovare qualcosa da fare per non pensare e non tornare a quella mattina.
Si mise seduta, quando lo schermo del suo cellulare, appoggiato sul comodino, si illuminò. Lo afferrò allungando il braccio e gemendo per il dolore. Tornò a sedersi sul letto e lo sbloccò: c’era un messaggio di Derek.
 
Da: Derek (11:57 pm)
“Sono qui sotto, mi fai entrare?”
 
Sorrise, appoggiando il cellulare sul cuscino, per poi dirigersi verso la finestra. Aspettò che la figura del ragazzo si presentasse dall’altra parte del vetro e l’aprì piano, cercando di non farla cigolare. Una folata di aria gelida entrò insieme a lui, facendola rabbrividire. Derek lo notò immediatamente e si affrettò a richiuderla, prima che l’intera stanza congelasse del tutto.
Quando si voltò, gli occhi di Emma furono la prima cosa che incontrò: stranamente, intorno a loro tutto era in silenzio e persino le loro voci avevano deciso di non lasciar passare nemmeno un suono. Era strano: l’ultima volta che Derek era stato lì era il giorno prima che Emma venisse rapita e quando il pensiero gli sfiorò la mente, il suo corpo rabbrividì, colto di sorpresa da un sentimento di rabbia, paura ed angoscia. La ragazza lo guardò per un po’, grata che fosse lì a farle compagnia, così si sedette sul letto, più tranquilla, e aspettò che anche lui facesse lo stesso. Aveva così tante cose da dirgli, avrebbe voluto raccontargli cosa fosse accaduto in quella centrale elettrica infernale, visto che nei due giorni precedenti, avevano evitato l’argomento come se fosse stato una malattia mortale. Solo che ogni volta che quelle immagini tornavano alla sua mente, ogni parola le moriva in gola e non riusciva ad affrontare il discorso. Forse aveva solo bisogno di tempo per assimilare l’accaduto e poterne parlare senza problemi.
«Non riesco a dormire» mormorò infine, seduta a gambe incrociate, sicura che Derek l’avesse sentita.
Il ragazzo si sedette sul bordo del letto e appoggiò una mano sulla coscia della ragazza, rimasta scoperta «Cosa vuoi fare, allora?»
Il tono neutro con cui aveva parlato la spaventò: se si fossero trovati in una situazione diversa, probabilmente quella frase sarebbe uscita più maliziosa, ma non in quel caso. Emma sapeva quanto si sentisse in colpa per quello che era successo. Non glielo aveva detto esplicitamente, perché Derek non parlava mai di quello che gli passava per la testa, ma lei l’aveva notato. Non era un lupo mannaro e non aveva poteri soprannaturali, ma notava comunque le espressioni preoccupate e tristi che si susseguivano sul suo viso, oppure il fatto che stesse più in silenzio del solito, che talvolta non la guardasse nemmeno negli occhi.
Appoggiò la sua mano su quella di Derek ancora a contatto con la sua pelle, facendolo voltare di scatto verso di lei. Non la stava guardando: i suoi occhi erano rivolti sulla parete di fronte al letto e la sua mente stava lavorando troppo. Di nuovo. Gli sorrise, incoraggiante e si avvicinò «Una doccia» disse «In ospedale, me ne hanno fatta fare solo una in due giorni e mezzo e mi sento sporca»
Il ragazzo annuì rimettendosi in piedi e si sfilò la giacca appoggiandola sulla scrivania. Guardò Emma chiudere a chiave la porta della camera, per poi dirigersi verso quella del bagno. Lui la seguì e si fermò, quando raggiunse la soglia della porta. Si appoggiò allo stipite e la guardò, senza dire niente. Ne avrebbe avute di cose da dire: avrebbe dovuto iniziare con uno “scusa, è tutta colpa mia” e terminare con “ucciderò Deucalion, anche se fosse l’ultima cosa che faccio”, ma rimase in silenzio. Non sapeva perché si comportasse così, ma vedere Emma in quel letto di ospedale gli aveva riportato alla mente Paige, a cui aveva continuato a pensare anche dopo l’attacco di panico. L’aveva persa per uno stupido errore, l’aveva uccisa per risparmiarle il dolore, ma cosa aveva ottenuto? Una vita segnata dai sensi di colpa, dalla rabbia, una vita che gli faceva schifo. Ma per una sola misera volta, aveva avuto fortuna, aveva ricevuto una seconda possibilità: si era ripromesso che non avrebbe compiuto nemmeno un errore, eppure eccola lì, con un cerotto grande quanto la sua mano, sotto al quale si trovava un’ustione di secondo grado che sarebbe rimasta impressa sulla sua pelle per sempre. Come faceva a non pensare che fosse solo e soltanto colpa sua?
Lo scroscio della doccia ed il vapore che ormai si era liberato nella piccola stanza lo riportò alla realtà. Continuò a guardarla, mentre si toglieva la maglietta ed i pantaloncini del pigiama, ma i suoi occhi non riuscivano a staccarsi dalla ferita. Non le aveva nemmeno chiesto se le facesse male.
Distolse lo sguardo e tornò sul suo viso, quando Emma gli si avvicinò «Fai la doccia con me?»
Alzò entrambe le sopracciglia sorpreso e stava quasi per dire di no, che non se la sentiva, ma lo sguardo serio di Emma gli fece cambiare idea. Il suo battito cardiaco era irregolare e veloce, segno che si fosse spinta oltre i suoi limiti, ma forse entrambi avevano bisogno di sentire l’altro vicino. Soprattutto lui. Soprattutto Emma. I suoi occhi si mossero, scendendo lungo il suo corpo, mettendolo bene a fuoco, come mai aveva fatto prima e qualcosa dentro di lui cambiò. Si rese conto che il silenzio non sarebbe servito a niente, che se volevano risolvere quella situazione dovevano aiutarsi a vicenda, parlare, capirsi. Dovevano essere una squadra.
Così, sorrise, per la prima volta quella sera. Prese per mano Emma ed entrò in bagno. La ragazza finì di spogliarsi e togliersi il cerotto dalla ferita e Derek cercò di non guardarla, per non imbarazzarla, ma la sentì fiondarsi sotto la doccia. Lui si liberò degli abiti velocemente e la raggiunse.
Rilassò i muscoli, quando il getto d’acqua calda colpì le sue spalle ed il suo collo, mentre rilassò la mente quando Emma lo guardò con quei suoi occhioni azzurri e il mondo intorno a loro sembrò scomparire del tutto, lasciandoli vivere nella loro piccola bolla di felicità. La quale, però, scoppiò immediatamente, facendoli ricadere in quella realtà che odiavano tanto, quando lo sguardò di Derek si appoggiò sulla ferita di Emma.
Per la prima volta, la vide in tutta la sua grandezza: le attraversava il fianco, partendo da un punto vicino all’ombelico, per poi continuare e arrivare quasi sulla schiena. Era lunga, sembrava profonda e minacciosa. Avvicinò le sue dita alla ragazza e tracciò il contorno dell’ustione, ma non appena la toccò, la sua mano si riempì di vene nere che scorrevano veloci lungo il suo braccio, verso le spalle. Allontanò di scatto la mano e guardò Emma «Perché non mi hai detto che ti faceva così male?»
Quel poco dolore che le aveva assorbito gli aveva fatto girare la testa e intorpidito tutto il corpo.
«Non mi fa male» mentì la ragazza.
«Emma, per favore»
Fece un passo verso di lui e circondò la sua vita con le braccia, appoggiando la testa sul suo addome. Si strinse a lui e per un attimo, si sentì al sicuro «Non mi fa poi così tanto male…» sussurrò, mentre Derek sentiva la sua voce rimbombare contro il suo corpo. Di nuovo, stava mentendo, ma non disse niente «Non voglio che tu assorba il dolore, stando male quanto sto male io»
Derek sospirò, stringendola contro di sé «E’ il minimo che possa fare, lo sai»
La ragazza annuì lentamente e rimasero in quella posizione per un tempo che sembrò infinito. Era bello, perché quell’imbarazzo che li aveva accompagnati fino a qualche minuto prima non c’era più ed ora, più che mai, potevano considerarsi una cosa unica.
Quando i loro corpi cominciarono a bruciare sotto l’acqua bollente, decisero di lavarsi velocemente ed uscire dalla doccia. Derek incappucciò Emma in un accappatoio, per poi afferrare un asciugamano e legarselo intorno alla vita. Lo sguardo della ragazza cadde con nonchalance sul suo corpo tonico e muscoloso, che riportò immediatamente alla sua mente tutte le volte che l’aveva guardato allenarsi al loft, mentre lei tentava di studiare senza grande successo. Sorrise a quel ricordo.
«Perché sorridi?» chiese Derek, mentre si asciugava velocemente e infilava di nuovo i boxer e la maglietta. Emma era seduta sul marmo freddo, vicino al lavandino, crogiolandosi ancora nell’accappatoio caldo.
«Stavo solo pensando» rispose.
Il ragazzo si avvicinò e scivolò lentamente tra le sue gambe, annullando le distanze tra di loro «A cosa?»
Emma arrossì, ma non gliela diede vinta «Al fatto che non vedo l’ora di tornare al loft»
Derek annuì compiaciuto e fece scontrare le loro labbra, in un bacio che era mancato a tutti e due, come manca l’aria dopo soli cinque secondi di apnea. Sorrisero entrambi l’uno sulle labbra dell’altro, per poi allontanarsi di qualche millimetro, per scrutarsi. Emma osservò gli occhi verdi del ragazzo, notando dei riflessi grigi, come se nascondessero qualche segreto o qualche peccato, che andava ad intaccare il loro verde smeraldo. Riusciva a sentire il suo respiro, il battito del suo cuore e quell’odore che solo lui aveva e che la faceva sentire a casa.
«Stai qui» Derek spezzò il silenzio «Vado a prenderti qualcosa da mettere»
Lo guardò uscire, sorpresa che ormai conoscesse la sua camera talmente tanto, da sapersi muovere da solo. Era bello, perché significava che aveva trovato un altro posto in cui si sentisse così a suo agio, oltre al loft in cui viveva. Senza pensarci, saltò giù dal lavandino, maledicendosi due secondi dopo per la fitta lancinante all’addome, che le mozzò il respiro nei polmoni. Aspettò qualche secondo, per riprendere fiato e poi si asciugò velocemente.
Quando il ragazzo rientrò, si rivestì con la maglietta e gli slip che le aveva portato e stava per tornare in camera, quando la fermò.
«Prima questo» Derek le mostrò un nuovo cerotto «Tirati su la maglia»
Emma fece come le era stato ordinato e si rilassò quando sentì le mani calde di Derek sulla sua pelle, per poi rabbrividire quando furono sostituite dal cerotto freddo, facendolo ridere.
Non replicò, visto che cominciava finalmente a sentire la stanchezza e lui lo notò immediatamente. Così lasciò l’involucro del cerotto vicino al lavandino e tornarono in camera, sdraiandosi sotto le coperte.
Niente incubi per quella notte.
 
Il ticchettio fastidioso delle gocce di pioggia, che ricadevano oblique sul vetro della finestra la svegliò. Aprì gli occhi lentamente, accorgendosi di essere rannicchiata su un lato del letto. Allungò un braccio, verso l’altro lato – dove si aspettava ci fosse Derek – ma tutto ciò che trovò fu il materasso freddo. Sbuffò, infastidita e si mise seduta, stiracchiandosi e preparandosi ad un nuovo giorno di scuola. Sua madre le aveva ripetuto più volte di rimanere a casa un altro paio di giorni per riprendersi definitivamente, ma lei non voleva. Aveva bisogno di non pensare: di andare a scuola, studiare, stare in compagnia dei suoi amici. Qualsiasi cosa era meglio della sua mente che in qualsiasi momento tornava a quella centrale elettrica. Doveva tenersi occupata, perché era l’unico modo per poter riprendere a vivere. Tornò alla realtà, quando la sveglia cominciò a suonare: si voltò pigramente verso di lei e con un colpo secco e piuttosto infastidito la spense. Spostò lo sguardo e notò un post-it attaccato sul legno lucido del comodino. Riconobbe la scrittura di Derek: “Scusa se sono scappato, ma i tuoi si sono alzati davvero presto. Ci vediamo oggi all’uscita ;)
Sorrise divertita, per poi scendere definitivamente dal letto e dirigersi in bagno. Intorno a lei regnava il silenzio e per un momento, una paura asfissiante la colpì, al solo pensiero di essere di nuovo sola in casa. Poi il profumo di caffè e il rumore che i cucchiaini facevano contro le tazze piene di latte la calmarono. I suoi erano in casa e poteva stare tranquilla.
Fece una doccia veloce, tanto per eliminare la stanchezza, cambiò il cerotto alla ferita e si vestì in fretta, per poi scendere le scale e sedersi a fare colazione.
Sua madre era in piedi, appoggiata al tavolo, mentre sorseggiava lentamente una tazza di caffè ed osservava la figlia, preoccupata.
«Tesoro, sei sicura di voler tornare a scuola?» le chiese per l’ennesima volta «Puoi riposarti ancora per qualche giorno»
Emma sorrise, afferrando una fetta di pane e spalmando un po’ di marmellata all’albicocca «Sì, mamma, sicurissima»
Suo padre abbassò il giornale e si rivolse alla moglie «Fa bene a tornare a scuola, ma» si voltò verso la figlia «Se ci fosse qualche problema, non esitare a chiamarci, ok?»
La ragazza annuì, ingurgitando a grossi bocconi quella fetta di pane per poi bere il latte tutto d’un sorso. Si era svegliata in anticipo, ma aveva perso tempo a fare la doccia e così era in ritardo. Se non fosse partita subito, non sarebbe arrivata in tempo per la prima lezione.
Si alzò da tavola, afferrando la giacca ed infilandosela, gemendo – sotto gli occhi ancora preoccupati di sua madre – per la fitta che le colpì l’addome ed infine, prese di corsa la cartella.
Baciò entrambi i genitori ed una volta fuori di casa, potè respirare di nuovo a pieni polmoni. Capiva le preoccupazioni dei suoi, ma aveva bisogno di uscire da quella casa dove tutto era cominciato, e distrarsi.
Si incamminò verso scuola, quando una moto le arrivò da dietro e si fermò proprio accanto a lei, che stava camminando sul marciapiede. La ragazza affrettò il passo, ma quando una voce a lei conosciuta la richiamò, non potè far altro che voltarsi e sorridergli.
Isaac si sfilò il casco, appoggiandoselo in grembo e le sorrise sornione «Hai bisogno di un passaggio?»
Emma scosse la testa e si avvicinò alla sua moto. Da vicino, sembrava più grande di quanto non fosse in realtà: la superava quasi in altezza e sembrava una di quelle che andasse davvero veloce. Non era mai salita su una moto, ma le sarebbe piaciuto. I suoi genitori probabilmente non avrebbero approvato, vista l’alta percentuale di incidenti, ma adesso non potevano vederla e lei era terribilmente in ritardo.
Afferrò il casco che Isaac le stava porgendo, lo infilò e salì dietro di lui, reggendosi forte alla sua giacca. Sperava solo di arrivare sana e salva a scuola. Anche il ragazzo fece lo stesso e mise in moto il mezzo, mentre sentiva il cuore di Emma battere spaventato, ma allo stesso tempo eccitato contro la sua schiena. Riprese a sfrecciare tra le strade di Beacon Hills e in pochi minuti, furono nel parcheggio della scuola.
Adesso non erano più in ritardo: con calma sfilarono i caschi e si avviarono verso il branco, che si trovava vicino all’entrata. Non appena Malia la vide, le corse incontro con un sorriso a trentadue denti e l’abbracciò stretta, senza lasciarla andare.
«Non preoccuparti, adesso ti facciamo noi da scorta» le disse l’amica, mentre si allontanava da lei, per darle modo di salutare tutti gli altri. Emma storse il naso, sicura che fosse stato Derek ad ordinare a tutti di tenerla molto più sott’occhio rispetto al solito, ma un po’ a lei dava fastidio. Non perché non volesse essere protetta, ma se solo lui le avesse insegnato qualche tecnica di difesa, gli altri non sarebbero stati costretti a controllarla ogni due secondi e a farsi male per colpa sua.
Nonostante questo, non aggiunse niente: abbracciò tutti gli altri, anche se Stiles voleva tenerla tutta per sé ed infine si diressero nelle loro classi, richiamati dal suono della campanella.
 
La prima cosa che vide quando uscì fuori, dopo una dura giornata di lezioni, fu – oltre ad alcuni raggi di sole che pigramente facevano capolino da dietro le nuvole – Aiden, che parlava animatamente con Lydia. Respirò profondamente, facendo finta di niente e s’incamminò nella direzione opposta, verso la camaro di Derek, che aveva intravisto da lontano. Stiles le aveva raccontato, durante la pausa pranzo, che era stato proprio il beta a dar loro una mano, per uscire fuori da quel labirinto infernale, che era la centrale elettrica. Non ne era rimasta poi così sorpresa: aveva capito che Aiden non fosse cattivo, o almeno che non lo fosse quanto il branco di cui facesse parte, e ne era rimasta piacevolmente felice. Ed era anche contenta che avesse iniziato a frequentare una ragazza come Lydia: sperava davvero che si rendesse conto quale fosse il miglior posto per sé, nel mondo. Continuò a camminare, fino a fermarsi di fronte ad un Derek stranamente di buon umore. Era appoggiato allo sportello chiuso della sua auto, con la giacca nera di pelle sulle spalle e gli occhiali da sole appoggiati sul naso. Scosse la testa, divertita, mentre si avvicinava e lo guardava staccarsi dalla camaro, per fare un passo verso di lei.
Il ragazzo fece unire immediatamente le loro labbra e per un momento, entrambi ripresero a respirare: tutto intorno a loro era scomparso e l’unica cosa che contava era il bacio che si stavano scambiando, i loro corpi che si toccavano e i loro cuori che sarebbero stati udibili anche a chilometri di distanza, tanto battevano forte. Emma interruppe il bacio, sorridendo finalmente dopo quella giornata infernale di scuola e decisero infine di salire in auto, per dirigersi al loft.
«Come stai?» le chiese Derek, mettendo in moto.
Sapeva a cosa si riferisse ed ogni volta che ritornava su quell’argomento, vedeva gli occhi verdi di Derek farsi tristi e la sua espressione cambiare. Non voleva che quel momento felice – dopo giorni e giorni di tensione – venisse rovinato da una stupida ferita.
«Meglio» rispose, infine. Si accorse solo in quel momento che quella non fosse una risposta di circostanza e che lei si sentisse effettivamente molto meglio rispetto alla sera precedente. Il dolore alla ferita era diminuito moltissimo e durante la giornata non aveva nemmeno fatto attenzione alle fitte che di tanto in tanto le avevano colpito l’addome. Com’era possibile? Aggrottò le sopracciglia, pensierosa, poi capì. Si voltò completamente verso di lui e alzò un sopracciglio «Quanto dolore hai assorbito, Derek?»
Il ragazzo sorrise di fronte a quel tono così infastidito, ma che appariva anche piacevolmente sorpreso. Alzò le spalle con noncuranza, continuando a guidare «Mai»
«Derek!» lo riprese lei.
«Una volta sola» rispose allora, ma Emma gli fece chiaramente capire di non credergli «Ok, due: una stanotte mentre dormivi ed una questa mattina, prima che me ne andassi»
Emma sbuffò, ricadendo pigramente contro il sedile, mentre l’auto del ragazzo stava perdendo velocità, per entrare nel parcheggio del loft «Lo sai che non voglio: ho le medicine per guarire»
Spense il motore «Lo sai che non me ne importa nulla e che è il minimo che possa fare» rispose, con il suo stesso tono, per prenderla in giro.
La ragazza sorrise e lasciò perdere: alla fine le faceva davvero piacere, ma allo stesso tempo non voleva che Derek si prendesse tutta la responsabilità e tutto il dovere di guarirla e proteggerla. Aveva i medicinali per la prima cosa e se stessa per la seconda. Non era poi così difficile, poteva farcela.
Non appena scesero dall’auto, la jeep azzurra di Stiles e le moto di Scott ed Isaac si fermarono vicini a loro: così, insieme si diressero all’interno dello stabile.
Una volta dentro, Emma si sentì a casa: quel posto le era mancato più di quanto pensasse, anche se era stata via solo per qualche giorno. Ma essendo abituata a passare lì quasi tutto il suo tempo libero dopo la scuola ed ogni tanto anche la notte, era davvero felice di essere di nuovo lì. Tutto intorno a lei era come lo ricordava e sapeva ancora di più di casa: le finestre grandi che davano su una vista orrenda, ma che a lei piaceva comunque, il divano piccolo e verdognolo, l’enorme tavolo di legno. Era tutto più bello.
Tornò alla realtà, quando si accorse di essere rimasta per alcuni minuti in piedi al centro della stanza senza nemmeno muoversi, mentre gli altri si erano già disposti intorno al tavolo per discutere. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato prima o poi. Non si sentiva pronta e forse non lo sarebbe mai stata, ma proprio per questo voleva affrontare il problema e liberarsi da quelle immagini così cruente che ancora girovagavano come fantasmi nella sua mente, di tanto in tanto.
Così, si avvicinò a loro e si posizionò tra Scott e Lydia, esattamente di fronte a Derek, che la stava scrutando per capire se stesse bene o meno e se le andasse a genio questa cosa di affrontare il discorso così presto. Emma gli sorrise, cercando di tranquillizzarlo e lui annuì impercettibilmente, senza che gli altri se ne accorgessero.
«Allora,» cominciò «Io ed Emma abbiamo trovato questa foto nella soffitta di casa mia, che raffigura mia madre, sua madre e-»
«E Joan Millstone» lo interruppe Stiles.
Derek annuì, lanciando di tanto in tanto sguardi ai presenti, per vedere se stessero seguendo «Abbiamo ipotizzato che Deucalion-» si bloccò, quando vide Emma rabbrividire, ma lei fece finta di nulla, così riprese «Che abbia ucciso i nostri genitori, perché questi hanno spinto Joan a voler ricevere il morso, che però l’ha uccisa: siamo tutti d’accordo?»
Il branco annuì, ma Malia intervenne «Ma perché ha catturato solo Emma? Perché vuole uccidere solo lei? Alla fine, il lupo era tua madre, la sua può solo aver convinto Joan a parole»
«Oppure» intervenne Scott «Nessuno ha convinto Joan: lei stessa ha deciso di voler esser morsa per essere come Talia»
«Perché è più facile uccidere un’umana come me» fu proprio Emma a rompere quel silenzio carico di domande, che si era creato «Deucalion sa di poter rischiare la vita se decidesse di colpire Derek, visto che entrambi sono lupi ed entrambi hanno un branco. E’ stato furbo e ha puntato sulla preda più facile»
«Cosa possiamo fare per fermarlo?» chiese Isaac.
«Possiamo convincere gli altri a passare dalla nostra parte» disse Stiles, mentre Derek alzava un sopracciglio sorpreso, senza capire. Il diciassettenne sbuffò e cercò di spiegarsi meglio «Aiden, per esempio: mi ha aiutato ad uscire dalla centrale insieme ad Emma. Se facciamo loro capire che Deucalion ha organizzato tutto questo per una semplice soddisfazione personale e non per garantire il successo e la gloria che – sono sicuro al cento per cento – ha promesso loro, allora saremo già un passo avanti»
«E chi dovrebbe convincere Aiden ed Ethan, tanto per cominciare?» chiese Derek dubbioso.
Stiles rimase in silenzio, anzi tutti non lasciarono nemmeno uscire un suono dalle loro bocche e per qualche secondo Derek non capì. Quando realizzò, strinse le mani sul bordo del tavolo fino a che le nocche divennero bianche. Cercò di mantenere la calma, perché alla fine quella era solo un’idea e Stiles uno dei suoi migliori amici e un componente del branco. Era fastidioso, ma pur sempre uno di loro.
«Non pensarci nemmeno» disse infine, mentre il pensiero di perdere Emma si faceva spazio di nuovo nella sua mente. Non poteva permetterselo una seconda volta «No, neanche per sogno»
«E’ l’unica di cui si fidi» replicò l’amico.
Anche Emma era d’accordo con Stiles: alla fine, Aiden non le aveva mai fatto del male e si era sempre mostrato gentile con lei. Sapeva che facesse parte del branco nemico e che fosse costantemente convinto che le sue azioni fossero giuste e in futuro ben ripagate dal capobranco, ma non le aveva mai torto un capello.
«Derek-» provò allora, cercando di convincerlo, ma tutto ciò che ebbe in cambio fu un’occhiataccia furiosa da parte sua.
«Ho detto di no!» esclamò. Poi respirò, cercando di recuperare la calma «E adesso tutti fuori, ci vediamo domani per gli allenamenti»
Stiles, diversamente dalle altre volte, decise di tacere ed insieme agli altri si incamminò verso l’uscita, non senza aver guardato per un’ultima volta Emma, che si strinse nelle spalle ed accennò un sorriso.
Solo quando il silenzio calò di nuovo nella stanza, la ragazza alzò gli occhi su Derek «Perché ti comporti così?»
Fu colto di sorpresa dal tono con cui si rivolse a lui: sapeva di rabbia, risentimento, sapeva di delusione. Come faceva a non capire che non volesse di nuovo scherzare con il fuoco e rischiare di perderla una volta del tutte?
«Così, come?» disse allora, atono, fissandola con insistenza.
«Siamo tutti qui alla ricerca di un modo per farla pagare a Deucalion» iniziò, alzando leggermente il tono di voce «Stiles ha avuto un’idea geniale e a te non va bene: perché?! Non sei solo, Derek, siamo una squadra!»
«Nel caso non l’avessi capito, l’idea riguarda te che di nuovo entri nella tana del lupo e metti in pericolo la tua vita! Per cosa poi? Per convincere un ragazzino, a cui non importa niente di te, a passare dalla nostra parte? Davvero credi che sia un’idea geniale?»
Emma lo sentiva che stava perdendo la pazienza: che tutta quell’ansia, quei pensieri, quei sentimenti che aveva covato e poi nascosto per tutti quei giorni stavano per uscire. Li aveva tenuti tutti lì, proprio ad appesantirgli il cuore ed il petto e, adesso, erano tutti lì, pronti a farlo esplodere.
«Se solo tu…» iniziò, frustrata «Se solo tu mi allenassi come fai con gli altri, potrei almeno provare a convincere Aiden, senza dover rischiare di morire»
Gli occhi di Derek si accesero di azzurro a quelle parole, ma Emma non ebbe paura. Era troppo abituata a lui, per averne timore «Non hai bisogno di nessun allenamento: hai un intero branco che può proteggerti!»
«Ma non è quello che voglio!» esclamò, spazientita, con le lacrime che si nascondevano dietro agli occhi. Come faceva a non capire? «Non voglio essere protetta da qualcuno, voglio essere in grado di farlo da sola!»
«Ci sono io» disse Derek, atono, evitando di guardarla. Sentiva il suo cuore battere veloce, velato da una nube di tristezza e delusione. Lo sapeva che la stava deludendo, che non le stava dando la fiducia che meritava, ma lui aveva paura. Paura che morisse senza che lui avesse almeno provato a difenderla «Basta questo»
«Bhè, a me no» sbottò a quel punto Emma. Una lacrima pigra scivolò lungo la sua guancia, ma la portò via con un dito prima che lui potesse vederla «Perché lasci gli altri fare come vogliono? Perché li metti costantemente in pericolo, senza preoccupartene? Perché non puoi darmi un po’ di fiducia e insegnarmi qualcosa di utile?»
Derek rimase in silenzio, con lo sguardo di fronte a sé, oltre la figura di Emma, le cui parole la colpirono come una ventata di aria gelida. Solo adesso che le aveva pronunciate a voce alta, solo ora che erano diventate un ragionamento sensato, logico e concreto, aveva capito la triste verità. Aveva capito il vero motivo per cui Derek non voleva che facesse parte dei suoi allenamenti e di quella sfumatura della sua vita.
«Tu non mi consideri parte del branco» sussurrò, incrociando il suo sguardo azzurro e lucido con quello verde e grigio di Derek. Sorrise, amaramente, riappropriandosi della borsa e dirigendosi verso l’uscita.
«Non è quello che ho detto» replicò il ragazzo, affrettandosi dietro di lei.
«Ma lo pensi» disse, atona, con gli occhi arrossati. Si era aspettata di tutto, ma non di ritrovarsi il cuore spezzato nel giro di poche ore. Se quella era la considerazione che aveva di lei, dopo tutto quello che avevano passato, allora era meglio finirla lì.
Derek rimase in silenzio e la guardò tirare la maniglia del portone ed uscire. La porta si richiuse lentamente di fronte ai suoi occhi. Sentì i canini crescergli in bocca e le zanne affilarsi sempre di più: era arrabbiato con se stesso, per non averle spiegato i veri motivi, per aver probabilmente fatto l’errore peggiore della sua vita. Emma era quella che – ai suoi occhi – faceva parte del branco, più di tutti gli altri, ma non poteva permetterle di mettersi in pericolo, solo per una sua personale soddisfazione.


 
 
 

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Capitolo 13
*** War of hearts ***


salve lupetti :-)
finalmente dopo quasi un mese, sono riuscita ad aggiornare! sono immensamente dispiaciuta per i ritardo che faccio ogni volta, ma sono sommersa di impegno (scolastici, soprattutto) ed è davvero difficile trovare un minuto libero per scrivere!
comunque,veniamo al capitolo: vi lascio qualche appunto, ma sarò breve anche perchè non voglio spoilerarvi niente
  • i miei amati Demma che ancora litigano, ma sono più shippabili del solito
  • come anticipato nello scorso capitolo, questo sarebbe stato caratterizzato da un bel colpo di scena: bene, ecco, spero davvero che vi piaccia, perchè è un'idea che mi è venuta in mente per caso, ma mi sembrava perfetta per questa storia; vi do solo un indizio: chissà se è stata davvero Emma a causare ciò che accade (non vi dico cosa), oppure no
    il capitolo si conclude, volutamente, lasciandovi a bocca aperta (speriamo), ma soprattutto con molti dubbi, che comunque verrano chiariti tutti nel prossimo capitolo
come sempre vi ringrazio per aver letto, recensito ed aver aggiunto la storia alle seguite/preferite/ricordate: grazie, grazie, grazie! non sapete quanto questo sia importante per me, perchè tengo davvero tanto a questa storia; vi ricordo anche che la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link in bio).

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO TREDICI: WAR OF HEARTS
 
Mancavano dieci minuti al suono della campanella, ma sembrava che l’orologio si fosse bloccato all’improvviso, impedendole di alzarsi, uscire da quella classe e prendere una boccata d’aria. Aveva smesso di ascoltare l’insegnante di matematica ormai da un bel po’ ed era sicura che se le avesse chiesto qualcosa proprio in quel preciso istante, non avrebbe saputo rispondere. Lei, Emma Grimes, che non sapeva rispondere ad una domanda e che non stava attenta in classe: incredibile. Sbattè gli occhi un paio di volte, cercando di rimanere con i piedi per terra e fissò lo sguardo su Malia, in piedi, di fronte alla lavagna, ormai alla fine della sua interrogazione. Notò che la stesse fissando come se avesse voluto mangiarla da un momento all’altro, visto che le aveva promesso qualche suggerimento, ma la sua mente aveva vagato senza sosta nei suoi pensieri e Malia aveva dovuto fare tutto da sola. Sapeva quanto fosse arrabbiata per quell’insufficienza che di sicuro avrebbe preso, ma sapeva anche che era la sua migliore amica e avrebbe trovato un modo per farsi perdonare.
«Ehi, tutto bene?» la voce di Scott, dietro di lei, le arrivò ovattata.
Erano due settimane che, puntualmente, a dieci minuti dal suono dell’ultima campanella della giornata, l’amico le rivolgeva la stessa domanda. Non poteva biasimarlo: le cose con Derek non si erano sistemate e non c’erano stati segni di arresa da nessuna delle due parti. Entrambi erano testardi, entrambi orgogliosi e non avrebbero cambiato la loro idea, per nessuna cosa al mondo. Da quello che Stiles le aveva detto, Derek era più irritabile del solito, più silenzioso e chiuso in sé stesso. Non che ne fosse felice, ma lei era più o meno nelle stesse condizioni e non si sarebbe piegata a lui per nessun motivo.
Si appoggiò alla sedia, senza voltarsi, sicura che potesse sentirla «Sì, perché?»
«Hai il battito cardiaco accelerato» rispose lui, sottovoce, facendosi più vicino. Quando il professore alzò il suo sguardo omicida su di lui, il ragazzo si affrettò a ricomporsi, ma tornò all’attacco non appena l’uomo riportò i suoi occhi sconsolati sull’equazione sbagliata di Malia, scritta alla lavagna «Pensi a Derek?»
«No, certo che no» rispose Emma. Anche lei stessa potè sentire il proprio cuore alterare ancora di più il battito.
«Bugiarda» replicò lui, lasciandosi scappare una leggera risata.
Emma sbuffò e maledì per l’ennesima volta i suoi sensi ultra-sviluppati. Ogni volta che uno di loro li usava contro di lei, si sentiva come se avessero potuto persino leggere e sapere cosa le passasse per la testa: talvolta, era davvero fastidioso.
Il suono assordante della campanella la riportò immediatamente alla realtà: in men che non si dica, metà classe si riversò fuori dall’aula, mentre la parte del branco che aveva seguito quella lezione ripose le proprie cose nelle cartelle e aspettò Malia.
Emma si avviò verso di lei e si piazzò di fronte al suo banco «Mi dispiace» l’amica si lasciò scappare un ringhio sommesso, mentre riponeva nello zaino l’ultimo quaderno rimasto sul banco «Dimmi come possa farmi perdonare»
Malia sorrise, poi insieme si incamminarono verso l’uscita «Tanto per cominciare, ripetizioni tutti i giorni di matematica: se non passo questa materia, mi bocceranno e…» ci pensò per un po’, finchè non furono fuori dall’edificio con il primo sole di primavera che batteva sulle loro teste «Secondo, promettimi che chiamerai Derek»
Il volto di Emma cambiò espressione «E’ lui quello nel torto»
Malia annuì, mentre si avviavano alla jeep di Stiles «Sì, ma devi anche capire che siamo un branco e tu e Stiles – in quanto a forza fisica – siete gli anelli deboli: lui vuole solo proteggerti»
«Lui non pensa che io faccia parte del branco» replicò secca, mentre anche Stiles ed Isaac si stavano avvicinando a loro.
«Che cosa?!» esclamò Malia «Quando ti ha detto una cosa del genere?»
«L’ultima volta che abbiamo parlato» rispose Emma «Ma forse è meglio così, almeno ho un buon motivo per chiudere»
Malia avrebbe voluto rispondere, ma era letteralmente rimasta senza parole. Era nel mondo degli uomini da poco e tra lei e Stiles, ovviamente, c’erano stati vari fraintendimenti, ma mai erano arrivati a quel punto. Aveva sempre pensato che Derek tenesse ad Emma più di qualsiasi altra cosa e persona al mondo, che si fidasse di lei, che le avrebbe messo il suo mondo tra le mani, senza battere ciglio. Ed invece, eccola lì, la conferma che ancora una volta fosse la persona più fredda e senza sentimenti che avesse mai conosciuto.
Tornò a guardare Emma, la quale stava parlando di un argomento di chimica con Isaac. Sembravano abbastanza affiatati eppure sapeva che l’amica non avrebbe mai rinunciato ad uno come Derek.
«Emma, vuoi un passaggio a casa?» le chiese allora, salendo sulla jeep di Stiles.
La ragazza sorrise ed indicò Isaac «No, mi da un passaggio lui in moto, ma grazie lo stesso»
 
«Vuoi entrare?» chiese al ragazzo, mentre lo guardava sfilarsi il casco e aggiustarsi i riccioli mori con una mano. Isaac sorrise e s’incamminò dietro di lei, fino alla porta d’ingresso. Avrebbe dovuto già essere in viaggio verso il loft di Derek per gli allenamenti, ma era tanto che non passava un pomeriggio a casa Grimes e sperava davvero di poter mangiare di nuovo la torta alle mele della madre di Emma. Era la più buona che avesse mai mangiato.
Sentì la chiave girare nella toppa della porta e seguì Emma all’interno della casa, fino alla cucina. Non appena varcò la soglia di quella stanza un forte e gradevole odore di mele lo colpì in pieno viso. Inspirò profondamente ed Emma sorrise.
«Vuoi una fetta di torta, Isaac?» lo prese in giro. Il ragazzo annuì e si sedette al tavolo, mentre guardava Emma aprire la credenza per prendere due piccoli piatti e poi il cassetto per il coltello e le forchette.
Alla fine, si sedette di fronte a lui e tagliò una fetta ciascuno.
Diversamente dal solito, c’era un preciso motivo secondo il quale aveva fatto entrare Isaac e gli aveva offerto una fetta di torta, che stava letteralmente divorando. L’idea le era venuta in mente quando erano usciti da scuola, almeno una mezz’ora prima.
«Posso chiederti una cosa?» parlò alla fine, dando uno sguardo alla fetta di torta ancora quasi intatta nel piatto di fronte a lei. Isaac era già alla fine del secondo pezzo.
«Certo» rispose, con la bocca piena.
«Stavo pensando…» cominciò, cercando le parole giuste «Tu sei allenato ed esperto di lotta fisica e cose del genere, quindi non è che-»
«Non ci pensare nemmeno» rispose lui, appoggiando la forchetta sul tavolo.
«Ma non sai nemmeno cosa voglio chiederti!» esclamò, spazientita Emma.
«Sì, invece» rispose lui, sorridendole divertito «Vuoi che io ti alleni, ma non lo farò»
«Perché no?»
«Primo, perché non sono abbastanza esperto di allenamenti e cose di questo tipo: potresti farti male anche solo camminando; secondo, Derek mi staccherebbe la testa a morsi»
«La tua sincerità e lealtà nei suoi confronti mi commuovono» esclamò sarcasticamente Emma, rimanendo seduta al tavolo.
«Immagino» replicò il ragazzo, ridendo. Lo guardò alzarsi dal tavolo e afferrare il casco, appoggiato sulla sedia, vicina a lui «Adesso devo andare, ho gli allenamenti»
Emma gli tirò la migliore delle sue occhiatacce e lo accompagnò alla porta. Il ragazzo le lasciò un bacio sulla guancia, facendole spuntare sul volto un sorriso tirato e si avviò alla moto, per poi partire in fretta e furia.
Rientrò dentro e si chiuse la porta alle spalle. Il pensiero di volersi allenare ed imparare qualcosa non lasciava mai la sua mente e ronzava costantemente tra i suoi pensieri: non si sarebbe fermata, finchè non avrebbe ottenuto quello che voleva. Era sicura di potersi proteggere da sola, ma aveva bisogno di qualcuno che glielo insegnasse.
Derek ed Isaac si erano rifiutati e sapeva che anche Scott avrebbe reagito allo stesso modo, così tornò in cucina, afferrò il cellulare rimasto sul tavolo, vicino alla poca torta che era avanzata dopo il passaggio di Isaac, e compose il numero di Malia.
«Mi alleni?» le chiese, non appena sentì la voce dell’amica dall’altra parte del telefono.
«Cosa?» esclamò lei.
«Derek ed Isaac non vogliono farlo» spiegò Emma «Sei l’unica che mi è rimasta! Ti prego, Malia, mi devi un favore!»
L’amica rise «In teoria, sei tu che me ne devi uno, visto che ho un’ulteriore insufficienza a scuola, ma comunque, no, non posso»
«Perché?» esclamò l’altra, lasciandosi andare su una sedia.
«Perché se solo ti facessi male o, nel migliore dei casi, avessi anche un solo graffio sul tuo corpo, Derek mi manderebbe dieci boia a casa per torturarmi ed uccidermi»
Emma, nonostante il rifiuto, scoppiò a ridere «Stai studiando storia?»
«Sì, e mi sta letteralmente scoppiando il cervello!» esclamò, esausta «Come fai a ricordarti tutte quelle date?»
Emma rise di nuovo e passò il resto del pomeriggio, con l’orecchio attaccato al telefono, per essere sicura che Malia imparasse tutte quelle nozioni.
 
Sapeva che ci fosse qualcosa che non andasse in quella giornata, quando – dopo il suono dell’ultima campanella – tutto l’intero branco si precipitò alla jeep di Stiles, senza nemmeno rivolgerle un saluto. Inizialmente, fu il sospetto che ci fosse qualcosa sotto a prendere il sopravvento, ma in un secondo momento arrivarono la rabbia, la frustrazione e la voglia malata di sapere cosa stesse effettivamente succedendo. Non ci pensò nemmeno due volte: scese gli scalini che dividevano l’entrata dal parcheggio, di fronte alla scuola, e si diresse a passo spedito verso di loro. Erano tutti lì, non mancava proprio nessuno. Anzi, lei era l’unica che mancasse, ma sembrava che nessuno di loro se ne fosse accorto. Erano disposti di fronte allo sportello del guidatore, quasi in cerchio, e stavano discutendo di qualcosa che doveva sembrare davvero interessante.
«Che fai?»
Una voce alle sue spalle la fece sobbalzare; si voltò, fermandosi sul posto e vedendo Aiden intento a guardare nella stessa direzione in cui erano puntati anche i suoi occhi «Dio, mi hai spaventata»
Sapeva che avrebbe dovuto aver paura di lui, che avrebbe dovuto allontanarsi immediatamente o non permettergli nemmeno di rivolgerle la parola, ma la verità era che Aiden le piaceva. Diversamente da come diceva Derek, non le aveva mai torto un capello e mai si era intromesso all’interno del branco. Anzi l’unica cosa che aveva fatto per lei era stato farla uscire da quel labirinto infernale, affinchè arrivasse in ospedale sana e salva.
«A proposito» riprese la ragazza «Non ti ho ringraziato per aver aiutato me e Stiles ad uscire dalla centrale» fece una pausa «Quindi…Grazie»
«Figurati» si limitò a rispondere Aiden, abbozzando un sorriso.
Emma stava per replicare quando notò lo sguardo del ragazzo fisso sugli occhi di tutto il branco, che stava osservando i due ed era pronto a scattare, nel caso in cui Aiden si fosse anche solo mosso di un millimetro.
«E’ meglio che vada» disse la ragazza «Ci vediamo, ok?»
Aiden annuì senza aggiungere altro e raggiunse il fratello, per poi sfrecciare via con la sua moto. Emma, invece, prese coraggio, respirò profondamente e decise di unirsi al gruppo per cercare di scoprire cosa stesse accadendo.
«Non devi parlare con Aiden, lo sai» fu la prima cosa che giunse alle sue orecchie, non appena li raggiunse.
«Non faccio parte del branco» sottolineò lei, con un tono alquanto scocciato «Faccio quello che voglio»
Tutti rimasero in silenzio, così Emma ne approfittò per riprendere a parlare «Cosa stavate facendo qui? Stavate scappando da me?»
«Cose del branco» rispose, in modo altrettanto scocciato, Erica. Emma le tirò una delle sue peggiori occhiatacce, ma cercò di non saltarle addosso e strapparle i capelli dalla testa. Di solito, era una ragazza simpatica, ma quando ci si metteva sapeva diventare la peggior vipera mai vista a Beacon Hills.
«Derek ci ha convocato tutti oggi» parlò alla fine Stiles «Allenamento speciale: ecco perché non ti abbiamo detto niente»
«Volevamo, però» aggiunse Malia «Visto come stanno le cose…»
Emma annuì lentamente, cercando di assorbire ogni parola: ovvio che non sapesse niente, che Derek non l’avesse nemmeno chiamata. Lei non faceva parte del branco ed era giusto che passasse il pomeriggio a studiare come qualsiasi studente di quella scuola. Avrebbe fatto sicuramente così, se non fosse stata la (quasi ex?) ragazza di un licantropo e non avesse avuto come amici un branco composto da creature sovrannaturali. Non era certo nella posizione più giusta per comportarsi come una stupida umana all’oscuro di tutto. Ed in più, voleva ancora essere allenata e l’ultima possibilità che aveva era quella di insistere ancora una volta con Derek.
«Vengo anch’io» esclamò, mentre il volto di ognuno di loro reagiva di conseguenza.
«Non credo sia una buona idea» s’intromise di nuovo Erica «Derek è già nervoso di suo, daresti solo fastidio»
Malia roteò gli occhi, infastidita, ma la evitò comunque «Sei sicura? Non so quanto sarà felice di vederti: è piuttosto arrabbiato»
«Non m’importa» rispose Emma «Me ne starò buona in un angolo con Stiles e vi guarderò e basta, giuro»
L’amica sospirò pesantemente: sarebbe stato un pomeriggio davvero interessante.
 
Si era dimenticata quanto fosse cupa e grigia la zona in cui si trovava il loft di Derek. Quel giorno il primo sole di primavera splendeva alto sopra le loro teste e si stagliava contro il cielo azzurro, eppure sembrava che in quella parte di Beacon Hills, i nuvoloni e l’aspetto tetro degli edifici spaventassero i suoi raggi, allontanandoli da lì. Inspirò profondamente, scendendo poi dalla moto di Isaac e sfilandosi il casco. Il suo cuore stava battendo talmente forte nel suo petto che pensò che sarebbe scoppiato da un momento all’altro ed era sicura che se ne fossero accorti tutti. Nonostante questo, nessuno aprì bocca per parlare e, più tesi di una corda di violino, si avviarono tutti all’interno dell’edificio.
Salirono le scale in rigoroso silenzio ed in men che non si dica, si ritrovarono tutti di fronte al portone del loft.
Isaac sentì il cuore di Emma battere in modo incredibilmente forte, pregno di ansia, rabbia, frustrazione, ma anche tristezza. Sapeva quanto le mancasse Derek, ma era una ragazza cocciuta e non lo avrebbe mai ammesso nemmeno a sé stessa. Guardò Malia, ferma vicino a lui, la quale gli fece intendere di aver sentito anche lei il cuore di Emma, ma che fosse meglio non dir niente. Alla fine, era una cosa che solo loro due potevano risolvere.
Quando sentì il chiavistello muoversi dietro la porta, Emma trattenne il fiato: aveva così paura di rivederlo. Aveva paura che la cacciasse, che non volesse nemmeno rivederla, che la odiasse. Ma quando il portone si spostò e la figura di Derek apparve intera di fronte ai suoi occhi, tutto ciò che riuscì a vedere fu un’espressione sorpresa. Era sempre lo stesso, eppure sembrava diverso: i lineamenti più marcati, gli occhi sempre verdi e brillanti, ma leggermente infossati, lievemente più muscoloso nel corpo e con un’espressione di costante irritazione stampata sul volto. Per un momento, pensò che fosse stata davvero una cattiva idea presentarsi lì, ma ormai era troppo tardi.
Nessuno dei due, comunque, disse niente: Derek si spostò su un lato per lasciare che l’intero gruppo entrasse e poi, lentamente, prendendo tempo, chiuse la porta. Erano due settimane che non vedeva Emma: sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, che avrebbero dovuto affrontare la situazione, ma lui non si sentiva pronto. Era ancora arrabbiato, aveva bisogno di sbollire tutta la frustrazione che aveva in corpo. Ma non in quel momento, non nel suo loft. Gli era mancata, ovviamente, ma c’era qualcosa che ancora lo frenava dall’andare da lei e dirgli che gli dispiaceva.
Così, mantenne la sua faccia da duro e fece finta di niente.
Si voltò verso il branco e si avviò verso di loro, per spiegare in cosa consistesse l’allenamento del giorno: guardò con occhi indifferenti Stiles tornare dalla cucina con un bicchier d’acqua, che poi abbandonò, ancora pieno, sul grande tavolo di legno, perché troppo interessato a quello che lui stava per dire.
Nella stanza c’era silenzio: nessuno del branco si azzardava a proferire parola. Derek sapeva perché lo stessero facendo e gli dispiaceva, ma non fece nulla per cambiare la situazione. Cercò varie volte di riordinare le idee in testa e cominciare a parlare, ma ogni volta il suo sguardo ricadeva su Emma e finiva per dimenticare qualsiasi cosa.
«Perché sei venuta?» chiese alla fine, dando voce ai suoi pensieri.
Emma alzò un sopracciglio, assumendo un’aria superiore, con l’intento preciso di infastidirlo «Voglio assistere all’allenamento» rispose «Che c’è? Adesso sono troppo debole anche per guardare?»
Derek fece un passò verso di lei: odiava quel tono «Vuoi vedere com’è un vero allenamento?»
«In realtà, vorrei prenderne parte, ma sai com’è… Non faccio parte del branco» replicò lei.
Il ragazzo chiuse gli occhi per un momento, cercando di recuperare la calma. Era solo Emma, poteva farcela. Gli dava davvero fastidio che dicesse di non far parte del branco, soprattutto perché lui non aveva mai affermato una cosa del genere. Se c’era qualcosa che non sapeva fare per niente, era convincere le persone delle sue parole, idee, pensieri – anche quando rimanevano intrappolati nella sua mente e solo lui ne era a conoscenza.
Quando sentì di essersi tranquillizzato, lì riaprì e la guardò «Non hai risposto alla mia domanda»
Emma fece un passo verso di lui «, voglio vedere com’è un vero allenamento»
«Inizia a correre» affermò allora Derek, serio.
«Cosa?» esclamò Emma confusa.
«Vuoi allenarti?» chiese lui, retoricamente. Le avrebbe dato quello che voleva solo per dimostrarle che non sarebbe mai stata in grado di fronteggiare un lupo mannaro o qualsiasi altra creatura sovrannaturale «Corri. Se ti prendo, ho vinto io»
«Derek, non credo sia una-» s’intromise Stiles.
«Zitto tu» rispose Derek, senza staccare gli occhi da Emma «Allora?»
«Non è giusto» replicò lei «Sono troppo lenta per te»
Lui sorrise soddisfatto «Non eri tu quella che voleva “proteggere sé stessa senza l’aiuto di nessuno”? Forse mi sono sbagliato» disse, cercando di provocarla.
Emma ispirò profondamente e guardò Malia, al suo fianco. Nessuno aveva osato parlare – ad eccezione di Stiles. L’amica accennò un sorriso di incoraggiamento perché sapeva che ormai Derek non sarebbe mai tornato sui suoi passi. Aveva deciso che le avrebbe dimostrato veramente come si allenano i licantropi, a ridosso di un combattimento, e, conoscendo la sua testardaggine, non avrebbe rinunciato a quello spettacolo per nessuna cosa al mondo.
Emma ricambiò con un’occhiata carica d’ansia – Malia poteva sentirlo benissimo – e si incamminò al centro della stanza, sotto gli occhi di tutti. Derek la seguì e quando la ragazza alzò gli occhi su di lui, si ritrovò di fronte ad un licantropo vero e proprio: gli occhi blu scintillavano come il ghiaccio sotto il sole, le zanne e gli artigli si erano allungati e sembravano più affilati del solito. Non che avesse avuto molte altre occasioni per poter fare un confronto, ma quel giorno, sembrava che aspettassero solo lei e la sua pelle candida e morbida. Fu in quel preciso momento che, per la prima volta, si accorse di aver paura. Paura di Derek Hale.
Anche lui se ne rese conto e per un momento, gli balenò in mente l’idea di mettere fine a tutta quella messinscena e discutere della cosa come due adulti maturi e civili. Sentire quanta paura Emma avesse di lui in quel momento lo feriva terribilmente, ma era più importante farle capire che avesse bisogno di lui – oltre che di sé stessa – per potersi difendere.
«Allora? Non corri?» ruppe il silenzio.
Emma ispirò profondamente e si voltò nella direzione opposta a Derek, cominciando a correre. Il licantropo le lasciò qualche secondo di vantaggio per potersi allontanare il più possibile da lui. Poi, all’improvviso, scattò verso di lei e in pochi istanti riuscì a raggiungerla e a bloccarla contro la parete. Oltre al battito del cuore di Emma che sembrava impazzito, il ragazzo poteva sentire anche quello del resto del gruppo. Tutti trasudavano ansia e preoccupazione.
Riportò la sua attenzione su Emma, intrappolata tra la parete ed il suo corpo, che si dimenava in qualsiasi modo possibile, per riuscire a liberarsi. Derek fece brillare ancora di più i suoi occhi, mostrando le zanne affilate e stringendo la presa sui suoi fianchi. Non le avrebbe fatto del male, questo lo sapeva. I suoi artigli ormai avevano rovinato la maglietta della ragazza, e adesso poteva benissimo sentirli sfiorare la sua pelle morbida, ma mai e poi ma si sarebbe spinto oltre. Lo sguardo di Emma era carico di paura e rabbia: si sentiva bloccata da qualcosa che non avrebbe mai sconfitto e per un momento, le tornarono in mente la centrale elettrica, il suo massacratore e tutte le ferite che aveva riportato. La presa di Derek si stava facendo sempre più stretta, sentiva gli artigli bucarle la pelle. Il suo volto era troppo vicino e sembrava che le zanne volessero morderla da un momento all’altro. Ogni movimento era inutile.
«Cerca di liberarti!» la spronò Derek, nonostante la sua voce uscisse più come un ringhio che come un insieme di parole.
«Derek, lasciala!» scattò a quel punto Isaac, vedendo che Emma non riuscisse in nessun modo a liberarsi dalla sua stretta, ma Scott lo fermò prima che saltasse su Derek e gli facesse seriamente del male.
Il lupo non si accorse nemmeno di quella dinamica, tanto era concentrato sul volto della ragazza, contratto dalla paura, dalla rabbia e probabilmente dalla rassegnazione.
Emma aveva capito: Derek aveva ragione, non sarebbe mai stata in grado di proteggersi da sola, di poter perlomeno scappare a gambe levate da un licantropo, perché questo sarebbe sempre riuscito a prenderla.
Le mancava l’aria, il suo corpo era scosso da tremori forti e le immagini della centrale elettrica si susseguivano sempre più veloci e vivide tra i suoi pensieri, ammassandosi nella sua mente. Anche le parole di Derek – adesso, solo di incoraggiamento – le arrivavano ovattate. Aveva la vista annebbiata e sentiva dentro di sé talmente tanta ansia e paura che pensò le si fosse formato un masso pesante al centro del petto, che le impediva di respirare. Doveva liberarsi, doveva almeno dimostrare di saper scappare da un essere sovrannaturale.
Decise di provarci per l’ultima volta, poi avrebbe abbassato la guardia e ammesso che Derek aveva avuto ragione su tutto. La sua presa le toglieva sempre di più l’aria nei polmoni e il suo sguardo blu che trafiggeva i suoi occhi stava seriamente cominciando a darle fastidio. Non poteva sopportarlo.
Così strinse gli occhi, chiudendoli, fino a che ogni forma di luce non scomparve, lasciandola immersa nel buio più totale. Sentì dentro di sé un vortice caldo salire dal petto fino al cervello e per qualche secondo tutto il suo corpo bruciò. Le sue mani si mossero da sole, per quel poco che potevano, in una direzione a lei sconosciuta.
Solo quando sentì un forte gemito di dolore, provenire dallo spazio intorno a lei, aprì gli occhi di scatto e la prima cosa che vide fu un lungo serpente d’acqua che nasceva piccolo dal bicchiere appoggiato sul tavolo e diventava più grande mano a mano che si allontanava e si attorcigliava intorno al corpo di Isaac. Dall’acqua si sollevava del fumo e capì che fosse vapore bollente, quando il ragazzo cominciò a lamentarsi di quanto bruciasse e ad urlare forte dal dolore.
«Che diavolo è?!» la voce impaurita di Stiles fece eco nell’enorme loft. Il resto del branco tentò di aiutare Isaac, ma era impossibile, visto il calore.
Il viso di Derek lasciò immediatamente Emma, per voltarsi verso il beta. Lo vide contorcersi a terra, mentre il serpente d’acqua continuava a stringerlo fino a togliergli la capacità di respirare. Lo stava letteralmente bruciando.
Per qualche secondo, non ebbe la minima idea di quello che stesse succedendo, ma soprattutto da dove provenisse quel serpente d’acqua, ma solo quando tornò a fissare lo sguardo di Emma si rese conto della situazione.
Gli occhi della ragazza sembravano più luminosi del solito, ma la cosa che lo colpì maggiormente fu che fossero fissi ed immobili, come ipnotizzati, sulla figura di Isaac ormai quasi senza sensi, distesa malamente a terra. Derek era confuso, non riusciva a capire: se davvero era stata tutta opera sua, come mai lui non si era mai accorto di una cosa del genere? Eppure aveva sempre pensato che fosse un’umana al cento per cento. Dall’altra parte, però, cercò di consolarsi, ripetendosi che non poteva essere frutto della sua mente, che doveva esserci per forza una spiegazione a tutto quello che stava accadendo.
Guardò di nuovo Isaac, per poi tornare su Emma «Smettila! Fallo smettere!» esclamò, finalmente lasciando la presa e facendola cadere a terra inerme.
Emma si raggomitolò contro la parete, senza che i suoi occhi lasciassero il serpente d’acqua. Nemmeno lei sapeva se fosse tutta opera sua, ma comunque non riusciva a guardare altrove. Era ipnotizzata, attirata dall’acqua e dal vapore come se fosse stata una calamita.
«Smettila!» urlò di nuovo Derek, abbassandosi per essere alla sua altezza, in modo che non potesse vedere ciò che aveva di fronte «Basta, Emma!»
La ragazza chiuse di scatto gli occhi e il serpente d’acqua si disintegrò riversandosi in una pozzanghera tiepida, intorno ad Isaac, che riprese lentamente fiato e si mise seduto.
Quando li riaprì, tutti la stavano fissando: i suoi migliori amici avevano un’espressione sorpresa, ma anche impaurita, stampata sul volto, mentre Derek sembrava quasi disgustato. Non tanto per quello che era accaduto, quanto per il fatto che probabilmente Emma gli aveva mentito sulla sua vera identità e lui nemmeno se n’era reso conto. Era stata davvero brava.
Nessuno, però, disse niente: Isaac non la guardò nemmeno, Stiles e Malia fecero per avvicinarsi a lei, ma un’occhiata gelida da parte di Derek li bloccò entrambi sul posto.
Emma si guardò intorno e sperò che potessero perdonarla, che Derek ed Isaac potessero perdonarla per quello che aveva fatto. Non ebbe il tempo di far qualcosa o dire almeno una parola, che la mano calda del ragazzo si chiuse malamente intorno al suo braccio e la tirò bruscamente, facendo in modo che si alzasse in piedi. Sentiva le gambe molli, che tremavano e aveva paura di non riuscire nemmeno a camminare. Si sentiva incredibilmente debole.
Derek la guardò un’ultima volta, poi si voltò, dirigendosi verso la porta del loft, e dopo un veloce «Vieni con me, voi restate qui» la trascinò fuori, senza nemmeno dirle dove stessero andando.


 

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Capitolo 14
*** Rusalki ***


salve lupetti :-)
son mia grande sorpresa, sono riuscita ad aggiornare prima del solito!
sarò molto veloce, perchè il capitolo è molto lungo e ricco di sorprese e quindi non voglio assolutamente dilungarmi con questo spazio autore, che poi diventa troppo noioso.
vi ringrazio moltissimo per aver letto, recensito e aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate: grazie davvero, per me significa molto, visto che tengo veramente tanto a questa storia.

vi ricordo che la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link in bio)

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia




CAPITOLO QUATTORDICI: RUSALKI
 
I suoi occhi cercavano di seguire gli alberi che si susseguivano velocemente, uno dietro l’altro, lungo il ciglio della strada. La camaro di Derek si muoveva velocemente sull’asfalto, lasciato umido dalla pioggia. Forse troppo velocemente, per i suoi gusti. Da quando erano usciti, in fretta e furia, dal suo loft non si erano scambiati nemmeno una parola. Tutto, intorno a lei, era come se si fosse congelato in quell’unico momento che non avrebbe mai più dimenticato.
Ancora si chiedeva come potesse essere successo: era convinta – anche se aveva avuto bisogno di qualche minuto per accettare la cosa – di esser stata lei a provocare quel serpente d’acqua, ma da quello che ne sapeva, quel potere non si era mai manifestato durante la sua vita e per di più, aveva sempre pensato e saputo di essere completamente umana.
Seguì con lo sguardo una piccola goccia d’acqua correre impaurita lungo il finestrino: si mosse leggermente, appoggiando un dito sul vetro, per seguire la sua scia, finchè non la vide unirsi ad un’altra più grande.
Cercava di trovare qualsiasi cosa da fare, pur di non guardarlo. Non riusciva a parlargli – anche se, avrebbe avuto una marea di cose da dirgli e un milione di domande da fargli – e non riusciva nemmeno ad alzare lo sguardo e fissare i suoi occhi verdi.
L’unica cosa che rientrava nel suo piccolo campo visivo erano le mani di Derek. Grandi come sempre, ma tese, come raramente le aveva viste. Le teneva ben salde sul volante, stringendolo più del dovuto. Non appena sentiva le nocche farsi bianche, lo guardava allentare la presa e prendere un bel respiro, come se avesse vissuto in apnea fino a quel momento.
La verità era che Derek Hale si sentiva tradito e arrabbiato. Ad essere del tutto sinceri, non sapeva nemmeno contro chi avesse tutta questa ostilità – verso sé stesso per non essersene accorto prima o verso Emma per avergli mentito? – che lo stava facendo andar fuori di testa.
Forse era stata tutta colpa sua: non avrebbe dovuto dirle di allenarsi, non avrebbe dovuto obbligarla e forzarla in quel modo. Se non l’avesse pressata così tanto, spaventata a morte, forse non sarebbe accaduto nulla di tutto ciò. O forse – pensò, entrando nel parcheggio di fronte alla clinica di Deaton – sarebbe successo ugualmente e lui sarebbe stato costretto a trovare una soluzione.
Lanciò un’occhiata veloce ad Emma, che gli dava le spalle. Il suo volto era completamente rivolto verso il finestrino, ma, nonostante questo, poteva benissimo sentire il suo cuore battere velocemente ed intuire il suo stato d’animo. Trasudava tristezza, rabbia e frustrazione.
Parcheggiò e spense il motore: per un attimo, nel piccolo abitacolo dell’auto, ci fu silenzio. Derek si preoccupò, però, di spezzarlo immediatamente per evitare che diventasse imbarazzante.
«Andiamo» le ordinò, atono, mentre apriva lo sportello e scendeva.
Deaton era la prima persona a cui aveva pensato, per il semplice motivo che conoscesse Emma molto bene e perché fosse l’unico ad intendersi di creature sovrannaturali. Era abbastanza sicuro che avrebbe potuto dare un nome a quello che la ragazza aveva combinato, ma la cosa che lo spaventava maggiormente era la possibilità che Emma potesse improvvisamente trasformarsi in un nemico da tenere alla larga.
Un aggroviglio di pensieri ed emozioni si attorcigliava e diventava sempre più stretto nella sua mente. Era così arrabbiato con Emma per averlo provocato, per non essersi fidata di lui, ma allo stesso tempo riusciva a vedere – mentre la guardava scendere di macchina – quanto si sentisse persa, confusa e piccola in quella felpa, che le andava un po’ grande. Per la prima volta, da quando avevano litigato, provò il forte impulso di andare da lei, abbracciarla e dirle che, qualunque cosa fosse successa, sarebbe andato tutto bene. Però, il suo orgoglio lo richiamò e lui non fece niente di ciò che aveva immaginato.
La clinica, fortunatamente, era ancora aperta, così sì avviò spedito verso l’ingresso, spingendo la porta e richiudendosela alle spalle, una volta che anche Emma fu dentro.
Nell’ingresso non c’era nessuno: si guardarono entrambi un po’ intorno, facendo comunque attenzione a non far incontrare i loro sguardi. Emma temeva che, se l’avesse guardato e avesse sentito tutta la rabbia che aveva per lei, avrebbe rischiato di rimanere fulminata sul posto. Non era un lupo mannaro e, per quanto ne sapesse, non aveva doti sensoriali ultra-sviluppate, ma poteva sentire la frustrazione del ragazzo colpirla come un pugno nello stomaco. Un pugno che si era meritata, ma che faceva male da morire.
Rimasero in silenzio ed in attesa, fino a che la porta della stanza in cui Deaton curava gli animali si aprì all’improvviso e ne uscì una bambina con un cagnolino in braccio, seguita dal proprio padre e dal veterinario.
«… Devi tenere Daisy al caldo e a riposo» le stava dicendo «In pochi giorni, dovrebbe rimettersi, intesi?»
La bambina annuì felice, ferma sulla soglia della porta «Grazie, dottor Deaton»
L’uomo le sorrise e la seguì con lo sguardo fino a che lei ed il padre non furono fuori dall’edificio. In un secondo momento, si avviò verso la porta d’entrata e la chiuse a chiave, convinto che fosse successo qualcosa di serio, viste le espressioni sconvolte che aleggiavano sui volti dei due ragazzi.
Senza dire niente, li fece accomodare dentro la stanza e si chiuse la porta alle spalle. Emma ricordava perfettamente quell’ambiente, ed anche in quel momento, le sembrò così distaccato e formale. Non si era mai sentita a suo agio lì e sapere che Derek l’avesse trascinata lì dentro solo per scoprire di quale bestia si trattasse, non migliorava di certo le cose.
Deaton girò intorno al lettino, su cui fino a due minuti prima aveva curato quella dolce cagnolina, e non appena si rivolse a loro, il suo sguardo cadde perplesso sulla maglietta completamente a brandelli di Emma.
«Perché è strappata?» domandò lentamente, rivolgendo i propri occhi a Derek, il quale sbuffò come se fosse stato scontato che fosse stato lui a ridurla così. Il che era vero, ovviamente, ma gli dava fastidio che il primo pensiero di Deaton fosse stato lui.
Emma rimase in silenzio e abbassò la testa, senza il coraggio di rispondere. Era così difficile spiegare cosa fosse successo, perché nemmeno lei sapeva come aveva potuto tirar fuori un potere così grande da un corpo minuto come il suo.
«Sono stato io» rispose allora il ragazzo, dando sfogo ai suoi pensieri. Aveva una voglia matta di fare a pezzi tutto ciò che aveva intorno, soltanto per liberarsi da quel peso estraneo che sentiva all’altezza del petto. Aveva voglia di ferire, distruggere, uccidere, annientare qualcosa, aveva un bisogno disperato di rilasciare tutta l’ansia che stava trattenendo e che non lo faceva respirare «Ci stavamo allenando-»
«Vi stavate allenando?» lo interruppe Deaton, perplesso, guardando la ragazza «Emma, perché ti alleni?»
«Io… Io-» balbettò, ma Derek fermò quel fluire incerto di parole, per continuare il suo racconto.
«Abbiamo litigato perché sostiene che debba allenarla come faccio con gli altri» raccontò «Non volevo farlo, ma lei mi ha provocato: l’ho bloccata contro la parete con gli artigli che le sfioravano la pelle e ad un certo punto un vortice d’acqua è uscito da un bicchiere e ha quasi bruciato Isaac!»
Le parole uscirono una dopo l’altra, in modo veloce, confuso e talvolta senza senso, ma la sensazione che provò dopo aver dato voce ai propri pensieri lo fece sentire meglio: era come se avesse confidato un segreto a qualcuno di cui si fidasse e non fosse più costretto ad essere l’unico a sapere, a doverlo mantenere.
«Aspetta» disse Deaton, appoggiando le mani sul lettino e sporgendosi verso di loro «Questo vortice d’acqua è uscito da un bicchiere?»
Derek si sentì lievemente infastidito dal tono con cui il dottore si era rivolto a lui, come se non credesse alle sue parole, come se lo stesse prendendo in giro.
«Sì» rispose la voce di Emma. La ragazza incontrò lo sguardo di Deaton ed una lacrima solitaria e pigra le rigò una guancia. Derek serrò gli occhi, reprimendo l’istinto di asciugarle il viso e dirle di stare tranquilla.
L’uomo ricambiò lo sguardo e parve convincersi delle parole del ragazzo, ma, nonostante questo, continuò a rivolgersi ad Emma «Credi di essere stata tu a provocare il vortice d’acqua?»
«Sì» rispose lei «Stavo quasi per uccidere Isaac»
Deaton rimase per un attimo un silenzio: la sua mente stava già lavorando, andando a recuperare nei meandri delle sue conoscenze il famoso bestiario a cui normalmente faceva riferimento quando qualche nuova creatura giungeva più o meno furtivamente a Beacon Hills.
«Come ti sei sentita in quel momento?» chiese allora, cercando già di farsi un’idea e di dare un possibile nome a quel potere.
Emma ci pensò per un po’: come si era sentita? Come se fosse stata in trappola, come se ogni convinzione che aveva avuto fino a quel momento fosse stata smentita da Derek e dai suoi occhi color ghiaccio che le chiedevano di arrendersi. Sospirò ed evitò volutamente lo sguardo del ragazzo su di sé, che stava aspettando risposta «Inizialmente, è stata come una combinazione di rabbia, ansia e paura, poi ho sentito come un calore salire su dallo stomaco, verso la gola e fino al cervello. Alla fine, quando ho aperto gli occhi e ho visto quel vortice, ero come paralizzata: tutto ciò che riuscivo a vedere e sentire era lo scroscio dell’acqua. Mi sentivo attratta da quel vortice come se fosse stata una calamita»
Mentre raccontava a voce alta quello che aveva sentito in quel preciso momento, le venne improvvisamente in mente che aveva già sperimentato quella sensazione di attrazione nei confronti dell’acqua, solo che non riusciva a ricordarla.
«E quando hai visto Isaac in quelle condizioni?» azzardò Deaton.
Quella fu la risposta più difficile da dare e per la prima volta, la ragazza si voltò verso Derek e lo guardò negli occhi in cerca di aiuto. Erano a soli dieci centimetri di distanza, eppure sembravano distanti anni luce. Sembravano due estranei, eppure per un motivo a lei sconosciuto, sentiva di aver bisogno di lui in quel momento, perché sapeva che fosse l’unico che potesse capire il suo stato d’animo.
«Mi sono sentita un mostro» rispose, mentre un’altra lacrima lasciava i suoi occhi, che non si staccarono nemmeno per un secondo dal ragazzo.
Quella piccola frase colpì Derek così forte da fargli male e non potè altro che fare un passo verso di lei e stringerla a sé, per tornare finalmente a respirare. Emma circondò la sua vita con le braccia e si strinse a lui come se fosse stata la sua ancora di salvezza.
Il ragazzo interruppe il contatto e la guardò, sorridendo e appoggiandole le mani sulle guance per portare via qualche lacrima. «Emma, non sei un mostro»
«E’ la prima volta che succede una cosa del genere?» Deaton riprese a parlare.
Emma deglutì prima di rispondere «No- Cioè sì» affermò, confusa «Non ho mai provocato un vortice d’acqua in vita mia, ma ho già avuto questa sensazione di attrazione nei confronti dell’acqua, ma non ricordo-»
«Il lago» si intromise Derek, guardando entrambi «Quando c’hai raccontato di sognarlo, hai detto che era come se ti chiamasse; e la stessa cosa è accaduta anche quel giorno, quando ce ne stavamo andando da casa mia, che ti sei ritrovata di fronte al lago, senza nemmeno rendertene conto»
La ragazza aggrottò le sopracciglia, pensierosa, mettendo insieme i pezzi di quel puzzle così complicato, che era la sua vita da quando era arrivata in quella cittadina. Ripercorse velocemente gli incubi passati ed il ricordo di cui aveva parlato Derek, per poi rendersi conto che avesse di nuovo ragione. Per quanto considerasse tutto ciò che era accaduto quel giorno strano ed inquietante, fu costretta ad ammettere a se stessa che alcuni sintomi, che avevano portato a quel risultato, avevano sempre fatto parte di lei.
Ricambiò l’occhiata del ragazzo, adesso più preoccupato che mai, e si voltò verso Deaton in attesa di una risposta. Non sapeva se l’uomo sarebbe stato in grado di fornirgliene una, ma era la sua unica ed ultima possibilità. Doveva sapere, altrimenti non sarebbe mai più riuscita a vivere in modo tranquillo ed equilibrato.
L’uomo non rispose subito, ma si prese qualche minuto prima di aprire bocca e parlare. Aveva una vaga idea della risposta da dare: aveva velocemente selezionato alcune creature sovrannaturali e sperava di continuare così – attraverso le rivelazioni della ragazza – e poter giungere con certezza ad una sola.
«Credo di sapere di cosa si tratti» disse infine, parlando lentamente. Gli occhi dei due ragazzi erano fissi sulla sua figura. Era abituato a quelli sguardi fermi, vuoti, immobili, ma curiosi di ricevere comunque una risposta «Le chiamano rusalki»
«Rusalki?» affermò Derek, alzando un sopracciglio, sorpreso.
Emma rimase in silenzio, sconvolta nel profondo da quel nome. Non sapeva di quale creatura si trattasse, eppure i suoni di quella parola erano così duri e distanti da lei, che provò soltanto odio e ribrezzo. Quel nome poteva soltanto predire qualcosa di negativo.
Deaton sospirò, cercando di trovare le parole giuste, visto che nessuna di loro sarebbe stata di conforto «Sono gli spiriti femminili associati ai fiumi e ai laghi della mitologia slava o russa. Se può risultare più semplice, sono la versione slava delle tipiche sirene» iniziò «Nell’antichità, venivano festeggiate durante la primavera, perché potevano influire sulla fertilità delle donne, sui raccolti, sulla pesca, sulla caccia, curare malattie, ma anche causare la morte. È per questo che, nella maggior parte dei casi, vengono considerate come demoni veri e propri» s’interruppe, ma nessuno dei due ragazzi si azzardò ad aprire bocca. Derek era troppo sconcertato anche solo per credere a quelle parole, mentre Emma avrebbe preferito morire «Le rusalki sono in grado di uccidere gli uomini – molto spesso i loro amanti – semplicemente ridendo. Secondo quello che raccontano le varie leggende, custodiscono le anime di giovani donne suicide o morte per annegamento nei pressi di un determinato lago o fiume»
L’uomo si fermò di nuovo, sicuro che questa fosse la storia giusta. Voleva solo aspettare che Emma si rendesse pienamente conto delle sue parole.
«Mia madre è stata annegata in un lago» la voce della ragazza uscì rauca e sconvolta dalla sua bocca «E… Ed era giovane»
«Deaton, non è possibile» s’intromise Derek, cercando di dare una connotazione quantomeno reale a quella storia, avendo già capito come stessero le cose, ma l’uomo non gli rivolse nemmeno uno sguardo, troppo concentrato sulla figura di Emma.
«Custodisco l’anima di mia madre?» chiese, allora, titubante la ragazza ed il dottore fu costretto ad annuire, per poi riprendere il suo racconto.
«Queste creature non sono malvagie, cercano solo giustizia» riprese «Nel momento in cui l’anima della giovane donna rimane a girovagare nel limbo e porta con sé una questione in sospeso, nasce una rusalki, che si prende la briga di riportare quell’anima sulla terra e cercare vendetta»
«Vendetta?» domandò Emma, perplessa.
«Le leggende raccontano che solo quando la rusalki riesce a togliere la vita a chi ha ucciso la giovane donna, allora scompare per sempre»
Emma scattò, facendo un passo indietro, come se si fosse bruciata «Non voglio questo potere, non voglio uccidere nessuno»
«Perché questa…» Derek gesticolò nervoso, indicando Emma «Cosa si è manifestata solo adesso?»
«Hai sottoposto Emma ad un alto grado di rabbia, angoscia, rancore e paura: tutto questo ha scaturito la rusalki. Il suo è stato semplicemente un modo per difendersi»
«Allora perché non è successo niente quando è stata rapita?» continuò Derek.
«Perché è stata sedata e questo non le ha dato la forza necessaria per proteggersi»
Ad Emma tutte quelle parole arrivavano ovattate: aveva smesso di ascoltare la conversazione dei due da un bel po’, troppo concentrata su tutte quelle storie che Deaton le aveva appena raccontato. Poteva credere ai lupi mannari, alla loro capacità di assorbire il dolore e ai loro sensi ultra-sviluppati, ma non poteva credere che l’anima di sua madre – morta ormai da più di quindici anni – fosse all’interno del suo corpo. Non poteva credere una cosa del genere, era troppo surreale per poter essere vera. Eppure, aveva scatenato quel vortice d’acqua, aveva sentito Isaac bruciare ed urlare come se fosse sul punto di morire. Come poteva non vedere come stessero realmente le cose, quando aveva prove così evidenti di fronte ai suoi occhi?
Derek e Deaton stavano ancora parlando, ma non le importava molto. Aveva bisogno di sapere, di trovare risposta a tutte le domande che stavano girando come un vortice, nella sua mente.
«Cosa…» prese un respiro profondo, interrompendo i due «Cosa sono in grado di fare?»
Il veterinario congiunse le mani di fronte al petto «Questa creatura è un demone, Emma, e non sempre è facile controllarlo. Puoi far del male alle altre persone, soprattutto quelle a cui tieni» fece una pausa «Proprio come è successo oggi con Isaac. Ma puoi anche guarire gli altri: di solito, le uniche ferite a cui puoi porre rimedio sono quelle che tu stessa hai causato»
A quelle parole, gli occhi della ragazza cercarono immediatamente la figura di Derek: sapeva che non sarebbe riuscita a tenere sotto controllo il suo potere e che avrebbe finito per fargli del male, e per quanto ancora fosse arrabbiata con lui, non avrebbe voluto nemmeno torcergli un capello.
«Non voglio essere questa cosa» ripetè, stringendosi nelle spalle e trattenendo a stento le lacrime «Non voglio essere un mostro che fa del male agli altri, non-» singhiozzò.
«Ci deve pur essere un modo per eliminare questo demone, no?» l’anticipò Derek, guardandola e sentendo il suo cuore batterle furiosamente nel petto. Quel rumore così martellante lo faceva star male.
«Sì, esiste» rispose tranquillo Deaton, ed in un attimo, le espressioni di Derek ed Emma si riempirono di speranza «Emma deve uccidere chi ha affogato sua madre nel lago»
«Deucalion» sussurrò la ragazza tra sé e sé, sicura che entrambi, comunque, l’avrebbero sentita.
«Esatto» rispose l’uomo «Uccidi Deucalion: la rusalki se ne andrà e tu perderai ogni potere, tornando ad essere una semplice umana»
«Non ucciderò proprio nessuno!» esclamò lei, risentita «Non sono un’assassina, e poi- Poi, non saprei nemmeno come fare! E’ un licantropo, è mille volte più forte di me»
Deaton appoggiò le mani sul lettino, che ancora faceva da divisorio tra loro, e si piegò in avanti verso di lei «Sai manipolare l’acqua e renderla bollente: usa questo potere a tuo favore» rispose soddisfatto, sapendo di avere ragione «Devi solo imparare a controllarlo e Derek può aiutarti in questo»
 
Quando fu di nuovo al sicuro, nella camaro nera di Derek, potè riprendere a respirare. Non si sentiva assolutamente meglio, nonostante fosse riuscita a dare un nome alla confusione che aveva creato, al dolore che aveva causato ad Isaac.
Rusalki.
Quel nome rimbombava nella sua mente e faceva un eco continuo, ogni volta che andava a battere contro le pareti del suo cervello. Non riusciva a toglierselo dalla testa e più ci pensava, più credeva davvero di essere di nuovo in uno dei suoi peggiori incubi. Non voleva quel potere, non voleva custodire l’anima di sua madre per una semplice sete di vendetta, ma soprattutto non voleva uccidere nessuno. Portava rancore verso Deucalion, per il semplice motivo che non capisse il perché avesse dovuto sterminare due intere famiglie, ma non era mai stata un tipo vendicativo e di sicuro non lo sarebbe diventata in quel momento. Sicuramente, qualche volta, aveva desiderato che l’Alpha morisse, ma non le era mai passato per l’anticamera del cervello che avrebbe dovuto essere la sua, di mano, a togliergli l’aria nei polmoni ed il battito cardiaco nel cuore. Sbattè più volte gli occhi, cercando di scacciare quei pensieri: lei non avrebbe ucciso Deucalion. Avrebbero trovato un modo per sbarazzarsi della rusalki senza far del male a nessuno.
«A cosa pensi?» la voce di Derek si era fatta piccola, come se avesse avuto paura di scaturire in lei una qualche reazione negativa. Emma si era quasi dimenticata della sua presenza, perché troppo presa dai suoi pensieri; non si era accorta di essere già in viaggio, verso una meta che non conosceva.
«A niente» rispose, continuando a tenere lo sguardo fisso sulla strada. Non voleva guardarlo, non voleva vedere riflesso nei suoi occhi il disgusto per essere a stretto contatto con un mostro ed un potenziale assassino.
«Puoi almeno evitare di mentirmi?» replicò lui, secco.
Emma lo ignorò «Puoi portarmi a casa, per favore?»
Il ragazzo non rispose, ma si avviò comunque verso la destinazione che gli era stata indicata. Capiva che per Emma fosse difficile accettare tutto ciò e superare i vari traumi che avevano caratterizzato la sua vita negli ultimi mesi, ma lui voleva aiutarla. Non gli importava più il motivo per cui avessero litigato, desiderava solo che lei gli parlasse, che gli facesse capire di cosa avesse paura. Solo in quel modo, sarebbe riuscita ad andare avanti.
Per il resto del viaggio, nessuno dei due osò aprir bocca: Emma sapeva di essere nel torto, sapeva che Derek fosse l’unico a poterle dare una mano, ma in quel momento aveva bisogno di stare da sola. Aveva bisogno di assimilare gli accadimenti delle ultime ore, senza contare tutto quello che era successo da quando era tornata a Beacon Hills. Voleva prendersi una pausa, chiudersi in camera sua, in completo silenzio e assoluta solitudine, e pensare. Non sarebbe riuscita a sopportare una presenza in più, a ripeterle continuamente che tutto sarebbe andato per il meglio, perché sapeva che non sarebbe stato così. Forse stava esagerando, forse era solo paranoica, e agli occhi di Derek e del resto del branco, sarebbe apparsa come una bambina capricciosa incapace di sopportare qualcosa di più forte della sua monotona vita di tutti i giorni, però non le importava. In quel momento, voleva soltanto rimanere sola, voleva piangersi un po’ addosso, sentirsi meno coraggiosa di come era normalmente. Avrebbe superato il tutto, aveva solo bisogno di un po’ di tempo.
Ripiombò nella realtà, quando l’auto di Derek si fermò di fronte a casa sua: i nuvoloni neri stavano lasciando spazio alla luna, ma i suoi genitori non erano ancora rientrati. Emma sospirò rumorosamente e si slacciò la cintura, pronta a scendere e rintanarsi in casa, prima che cominciasse di nuovo a piovere. Si sentiva così stanca e afflitta, che le lacrime era perennemente nascoste dietro i suoi occhi. Le ricacciava sempre indietro, cercando di mantenere la sua facciata da ragazza coraggiosa, ma sapeva che prima o poi sarebbe scoppiata.
«Grazie per avermi accompagnata» disse, cercando di evitare quel groppo che sentiva in gola. Era come se non la facesse nemmeno respirare.
Derek, in tutta sincerità, si aspettava qualcosa di più: sapeva quanto fosse scossa, ma un “rimani a dormire stasera?” sarebbe stato l’ideale. Accennò un sorriso forzato ed un «Figurati» sussurrato.
Non riusciva a credere che il loro rapporto fosse stato ridotto a brandelli nel giro di pochi giorni, ma non voleva arrendersi. Aveva paura di perderla, aveva paura che lei si fosse stancata di un tipo silenzioso e spesso possessivo come lui. Aveva fatto grandi passi avanti con lei, si era accettato e amato per quello che era veramente e non era pronto a gettare tutto al vento, come se niente fosse accaduto.
Nonostante questo, rimase in silenzio. Guardò Emma aprire lo sportello e mormorare un saluto veloce e indifferente, ma prima ancora che fosse completamente fuori dall’auto, le afferrò debolmente un braccio, costringendola a voltarsi.
«Ti chiamo più tardi» le comunicò, pieno di speranza.
Emma chiuse gli occhi per qualche secondo, lasciando che una lacrima le rigasse il viso. Quando li riaprì, il suo sguardo era freddo, distante. Era come se soffrisse nel trovare le parole giuste da dirgli.
«E’ meglio di no» parlò infine, trattenendo a stento le lacrime. Si liberò dalla sua presa e fece un passo indietro, in modo che lui non potesse afferrarla un’altra volta «E’ meglio se per un po’ non ci sentiamo»
Il ragazzo non ebbe nemmeno tempo di rispondere che Emma aveva già attraversato la strada, dirigendosi a passo spedito lungo il vialetto di casa, fino alla porta. Sentì i cocci rotti del suo cuore conficcati nel petto. Pungevano e bruciavano così tanto che per un momento pensò di essere veramente ferito. Si portò una mano al petto per verificare di essere ancora tutto intero, mentre diverse lacrime gli solcavano le guance e le sue orecchie potevano sentire nitidamente i singhiozzi di Emma al di là della porta.
 
Quando arrivò al loft, il branco si trovava ancora lì. Si stupì della loro presenza: pensava che se ne fossero andati, per paura di dover fronteggiare un altro pericolo.
Entrò, in silenzio, sentendo lo sguardo di tutti fisso sulla sua figura: si sbarazzò della giacca nera, che gettò malamente sul divano e prese un bel respiro prima di alzare la testa e guardarli tutti negli occhi.
«Che è successo?» Scott fu il primo a parlare, dopo aver sentito le emozioni che si aggiravano come fantasmi nella mente di Derek. Aveva notato anche i suoi occhi arrossati, ma non ebbe il coraggio di dire niente a riguardo.
Il ragazzo sospirò di nuovo e si appoggiò al grande tavolo di legno, sotto la finestra «Non so nemmeno da dove cominciare»
«Dall’inizio, forse?» domandò retoricamente Malia, beccandosi una bella occhiataccia da Stiles.
Derek non sembrava nemmeno aver notato quello scambio di battute: cercò Isaac con lo sguardo, finchè non lo trovò seduto a terra, con le spalle contro il divano. Non sembrava arrabbiato, piuttosto poteva sentire quanto fosse scioccato per aver scoperto che una delle sue migliori amiche era una creatura che l’aveva quasi ucciso.
Isaac si sentì osservato ed alzò immediatamente la testa, incontrando gli occhi verdi di Derek. Accennò un sorriso tirato e sussurrò un «Sto bene, tranquillo»
Ma Derek sapeva che stesse mentendo.
«Avete scoperto di cosa si tratta?» questa volta fu Stiles a parlare.
Il ragazzo sospirò un’altra volta, ma alla fine si decise a parlare «E’ una rusalki» spiegò, mentre tutti gli fecero chiaramente capire di non conoscere quella creatura «E’ uno spirito… Un demone, non lo so nemmeno…» chiuse gli occhi per qualche minuto, cercando di recuperare la calma, poi li riaprì «Fa parte della mitologia slava: vive a ridosso di laghi o fiumi, è una specie di sirena che custodisce l’anima di una giovane donna, che si è suicidata o è stata uccisa nei pressi del lago o del fiume a cui appartiene»
«E di chi è l’anima che Emma custodisce?» continuò Stiles, più curioso che preoccupato.
«Di sua madre» rispose «Deaton sostiene che l’anima di Marion sia contenuta dalla Rusalki che c’è in Emma e l’unico modo che ha per eliminarla è uccidere chi ha annegato sua madre nel lago»
«Deucalion» fece eco Kira.
«Esatto» confermò Derek.
«Bhè» parlò Stiles dopo qualche secondo di silenzio «Poteva andare peggio, no?»
Derek rimase in silenzio di fronte a quella domanda. Poteva andare peggio? Sì, ma poteva andare anche meglio. Lui non stava facendo niente per aiutare Emma e lei aveva chiuso qualsiasi tipo di rapporto con lui e – lo credeva molto probabile – con il branco intero. Si era sentito così impotente di fronte alla sua richiesta di esser lasciata sola, perché avrebbe desiderato il contrario. Sapeva di aver sbagliato, di averla provocata troppo e soprattutto di non essersi fidato di lei, ma adesso poteva aiutarla. Emma poteva diventare pericolosa e lui era l’unico a poterle insegnare un po’ di autocontrollo.
«Posso chiamarla?» chiese Malia, con ingenuità.
Derek scosse la testa «No» disse, atono «Ha detto che non vuole sentire nessuno, che ha bisogno di stare da sola»
Sentì di nuovo le lacrime pizzicargli gli occhi ed un groppo in gola talmente grande da non riuscire a respirare. Per un momento, pensò di avere un altro attacco di panico, ma riuscì a controllarsi, cercando di respirare con regolarità e di rimanere calmo.
«Derek, che succede?» Scott provò di nuovo. Sapeva che non gli avesse detto tutta la verità «Non hai una bella cera»
«Non è vero che non vuole sentire nessuno» mormorò, guardando Malia «Lei non vuole sentire me»
«Che significa?»
«Che ci siamo lasciati» ruggì, trattenendo a stento la rabbia.
Nessuno osò dire niente: il ragazzo si staccò dal tavolo e girovagò per la stanza, guardandosi intorno e cercando di trovare una distrazione. Tutto, pur di non pensare alle parole di Emma e al suo sguardo indifferente quando gli aveva detto di aver bisogno di un po’ di tempo per capire cosa stesse succedendo.
Le parole di Stiles, però, lo bloccarono sul posto ed un piccolo spiraglio di speranza si fece spazio sul suo volto «Parlo io con Emma, riuscirò a farle cambiare idea»
 
Non sapeva come ci fosse riuscita, ma aveva trovato il modo di convincere sua madre a non mandarla a scuola quella mattina. Si era inventata qualche scusa banale, del tipo che aveva mal di testa per colpa del ciclo, e sua madre non aveva esitato nemmeno un momento nell’essere d’accordo con lei.
Il vero motivo per cui aveva saltato scuola quella mattina era il non voler incontrare il branco. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto farlo, ma in quel momento non se la sentiva di rispondere alle loro mille domande, di sentirsi in prigione, ma soprattutto di dover incontrare Isaac e trovare qualcosa di utile da dire, per farsi perdonare. Si sentiva così in colpa nei suoi confronti, che solo il pensiero di quello che era accaduto le faceva venire la nausea.
Per ora, aveva bisogno di un po’ di tempo per sé, di stare lontana da lupi mannari, banshee e compagnia bella per cercare di ritornare ad una vita monotona, ma perlomeno normale. Doveva dimenticare di essere una rusalki e ricordarsi di non stare troppo vicino a fonti d’acqua, soprattutto quando era spaventata o arrabbiata. Se fosse riuscita a seguire questi due ultimi punti, non avrebbe fatto del male a nessuno.
Aveva passato la mattinata a crogiolarsi nel letto: la voglia di studiare era sotto zero, così cercò di trovare qualche altro passatempo per liberare la mente e non pensare costantemente a Derek.
Non sapeva nemmeno lei se fosse davvero finita tra di loro, ma gli mancava da morire. Aveva voluto prendere le distanze, per paura di ferirlo, di fargli del male. Si stava comportando come una stupida – questo lo sapeva – visto che il ragazzo poteva essere l’unico ad insegnarle come controllarsi, ma il terrore di fargli del male, o peggio ucciderlo, aveva preso il sopravvento ed era davvero difficile cambiare idea.
Il bip del cellulare la distolse dai suoi pensieri, segnalando l’arrivo di un messaggio. Erano quasi le tre e mezza di pomeriggio, i suoi erano ancora a lavoro e lei si stava annoiando a morte. Se solo si fosse fatta qualche amico al di fuori del branco, forse in quel momento avrebbe mangiato un gelato con lui, si sarebbe dimenticata per un secondo dei suoi problemi e avrebbe preso una boccata d’aria.
Si allungò sul letto e afferrò il cellulare, sbloccandolo e trovando un messaggio da parte di Malia.
 
Da: Malia (3:27 pm)
“Ehi, ciao… Senti, non voglio disturbarti e so che non vuoi parlare con nessuno, ma… Stamattina non ti ho visto a scuola e mi sono preoccupata. L’ultima volta che è successo sei stata rapita e non vorrei che… Insomma, dammi cenni di vita :-)
 
Ps: Sei hai bisogno di parlare, sai dove trovarmi x”
 
Emma sorrise di fronte all’imbarazzo e la tenerezza di cui era così pregno quel messaggio e non potè far altro che pensare a quanto fosse fortunata ad avere un’amica come lei. Era un tipo impulsivo, senza peli sulla lingua e con la battuta sempre pronta, però quando c’era da aiutare qualcuno, soprattutto gli amici, era la prima a farsi in quattro ed a non tirarsi mai indietro.
Così, aprì un nuovo messaggio per risponderle.
 
A: Malia (3:29 pm)
“Non me la sentivo di venire a scuola stamattina, ma sto bene. Sono a casa, comodamente distesa sul letto a leggere un libro. So che dovrei parlarne con qualcuno, ma non ce la faccio adesso. Non so nemmeno quando tornerò a scuola, ma grazie per esserti preoccupata :-)
Ti voglio bene, Mali”
 
Non ebbe nemmeno il tempo di riprendere a leggere che il campanello suonò. Aggrottò le sopracciglia mentre un misto di fastidio e preoccupazione si fece spazio dentro di lei. Non era in programma che qualcuno si facesse vivo a quell’ora di pomeriggio. Per un attimo, pensò di essere di nuovo in pericolo, ma in un secondo momento, si sbarazzò di quell’idea, dandosi della stupida.
Chiuse di scatto il libro, lasciandolo sul letto e corse giù dalle scale, mentre sentiva di nuovo suonare il campanello. Questa volta il suono sembrava più intenso ed insistente, ma cercò di non farci caso.
Quando aprì la porta, la figura di Stiles si stagliò di fronte ai suoi occhi. Il ragazzo indossava la divisa di lacrosse, aveva i capelli spettinati e teneva appoggiato malamente sulle spalle il suo zaino, mentre tra le mani aveva qualche libro.
«Che ci fai qui?» quella frase le uscì un po’ diffidente, distante e atona. Tutti sapevano che voleva esser lasciata sola, ma allora perché lui era lì?
Stiles, però, non si fece intimorire da quel tono e fece un passo verso di lei, sventolandole sotto il naso i libri che teneva tra le mani «Ti ho portato i compiti e gli appunti di oggi, non vorrai mica rimanere indietro con le lezioni?»
Emma sbuffò, facendosi da parte per farlo entrare. Richiuse la porta e gli indicò di entrare in sala. Si sedettero entrambi sul divano ed il ragazzo aprì immediatamente un quaderno per mostrarle cosa avessero fatto quella mattina.
«Allora» esclamò poi, con nonchalance «Come stai? Derek mi ha detto che-»
«Che volevo rimanere da sola, forse?» terminò lei la frase ed il ragazzo annuì «Allora che ci fai qui? Posso anche recuperare senza sapere gli argomenti esatti di cui avete parlato stamattina in classe»
Stiles sospirò «Emma» disse, appoggiandole una mano sulla spalla.
A quel contatto, la ragazza scattò all’indietro, allontanandosi immediatamente da lui «Non mi toccare» disse, mentre il ragazzo la guardava confuso «Non voglio farti male»
«Non puoi farmi male» replicò lui, cercando di tranquillizzarla «Non c’è acqua qui»
«Nessuno dei due sa di cosa sono veramente capace» mormorò lei, mortificata «Ho quasi ucciso Isaac, Stiles: sono un mostro, non voglio che tu mi stia vicino»
Le sorrise incoraggiante e si avvicinò di più a lei. Si liberò entrambe le mani, appoggiando i libri a terra e si mise comodamente seduto. Aveva fatto una promessa a Derek e, per quanto talvolta non lo sopportasse, non gli piaceva per niente vederlo in quelle condizioni. Sarebbe riuscito nel suo intento e avrebbe convinto entrambi a parlarsi e chiarire.
«Ti ho mai raccontato di quando Scott è stato morso?» sbottò all’improvviso, attirando l’attenzione della ragazza. Emma scosse lentamente la testa, spronandolo silenziosamente ad andare avanti «Peter lo ha morso»
«Lo zio di Derek?» domandò la ragazza sorpresa.
«Mhmh» rispose lui «Sai, all’inizio è stato davvero difficile: si sentiva un mostro, non sapeva controllarsi… Ricordo che ad ogni luna piena, ero costretto a trovare un modo per legarlo da qualche parte ed impedirgli di fare una strage, e qualche volta ho anche rischiato la vita» rise «Aveva paura di uscire, uccidere e non ricordarsi nemmeno di averlo fatto. Poi, abbiamo conosciuto Derek: non è stato facile all’inizio, perché Derek è un vero rompipalle, ma gli ha insegnato tutto»
«Cosa vuoi dire con questo?» domandò Emma con tono risentito.
«Che Scott non ha chiesto di diventare un licantropo» rispose «E nemmeno tu di essere una rusalki, ma è accaduto comunque. Quello che voglio dire è che non sei un mostro, Emma. So che hai una paura matta di far del male a chi ti sta vicino: a me, alla tua famiglia, a Derek, ma se solo riuscissi ad accettare quello che sei davvero, ti accorgeresti di essere la persona più fortunata del mondo ad avere uno come lui accanto a te, ti renderesti conto di non essere un mostro e di poter fare qualcosa di buono con i tuoi poteri» si fermò, cercando di intuire i pensieri di Emma. Non ci riuscì tanto bene, ma riprese comunque a parlare «Derek può aiutarti a controllare la rusalki; alla fine funziona allo stesso modo di un paio di zanne che vengono fuori nei momenti meno opportuni» Emma sorrise «Non tutti i mostri compiono cose mostruose»
La ragazza alzò lo sguardo su di lui e fissò i suoi occhi in quelli marroni come il cioccolato di Stiles. L’ennesima lacrima scivolò veloce lungo la sua guancia, ma non si preoccupò di asciugarla. Piuttosto prese un respiro profondo, accennando un sorriso, come se avesse voluto in qualche modo tranquillizzare il volto preoccupato dell’amico «Isaac non mi perdonerà mai»
Stiles si avvicinò a lei e le appoggiò una mano sulla gamba «A dir la verità, è stato il primo a chiedere di te stamattina, quando ci siamo accorti della tua assenza»
«Davvero?» Stiles annuì con vigore. Quel piccolo dettaglio le aveva restituito un po’ di fiducia in se stessa. Forse non era un mostro, forse i suoi amici l’avrebbero accettata per quello che era veramente. Aveva una voglia matta di chiamare Isaac e dirgli quanto le dispiacesse, ma adesso, era un’altra la persona che occupava i suoi pensieri. Respirò profondamente e si fece coraggio «E Derek come sta?»
Stiles strofinò le mani sui pantaloncini rossi e si alzò in piedi. Inizialmente, la ragazza pensò che ci fosse qualcosa che non andasse, ma quando vide spuntare sul volto del ragazzo un sorrisino compiaciuto si tranquillizzò e incuriosì allo stesso tempo «Perché non glielo chiedi tu direttamente?»
Emma aggrottò la fronte, senza capire «Come scusa?»
Stiles afferrò agilmente la cartella ed i libri e si avviò all’ingresso, seguito dalla ragazza «E’ qui fuori: non riesce a starti lontano nemmeno per un secondo, è così patetico»
La ragazza lo guardò uscire e quando si appoggiò allo stipite della porta, lo vide. Era appoggiato alla sua camaro con uno degli sguardi più tristi e arrendevoli che avesse mai visto in vita sua. Per il resto era sempre lo stesso – sebbene in quegli ultimi tempi, non l’avesse mai guardato davvero: il corpo muscoloso e teso, stretto in una maglietta verde militare e in un paio di jeans neri; i capelli corvini un po’ arruffati e gli occhi verdi, che poteva vedere brillare anche da quella distanza.
I saluti di Stiles le arrivarono ovattati, ma il ragazzo non si fece molti problemi e si avviò alla sua jeep azzurra per togliersi di mezzo una volta per tutte e lasciarli parlare. Il suo lavoro si era concluso. Egregiamente, avrebbe aggiunto.
Prima ancora che se ne rendesse conto, Derek era di fronte a lei. Deglutì rumorosamente, facendolo sorridere sotto i baffi. Roteò gli occhi, infastidita e sicura che stesse sentendo molto bene il suo cuore battere e tradire le emozioni per l’ennesima volta. Lo lasciò entrare, chiudendosi la porta alle spalle e tornarono in sala, perché – dopo tutti quelli avvenimenti – l’unica cosa che riusciva a fare era stare seduta su un divano. Per metà, era il suo lato pigro a parlare, ma si sentiva talmente stanca da non riuscire nemmeno a stare in piedi.
Il ragazzo si sedette vicino a lei e per un po’ ci fu silenzio. Era imbarazzante, come se fossero due estranei seduti a cinque centimetri di distanza, ma lontani anni luce.
«Hai sentito tutto?» chiese alla fine Emma, rompendo il silenzio.
«Sì» rispose lui, poi accennò un sorriso sperando di divertirla «Anche la parte in cui Stiles mi ha dato del rompipalle e del patetico: pagherà per questo»
Il silenzio cadde di nuovo tra loro. Entrambi sapevano che se non avessero detto niente, quella distanza, che già c’era tra loro, si sarebbe consolidata e non ci sarebbe stato più nulla da fare.
«Mi dispiace» disse alla fine Derek «Per non averti dato fiducia, per averti fatto pensare di non essere parte del branco e per averti provocato» Emma rimase in silenzio «E’ solo che per me è così difficile fidarmi degli altri e lasciarmi andare. Ogni persona che abbia mai incontrato sulla mia strada mi ha convinto, mi ha manipolato, ha fatto in modo che mi fidassi ciecamente e poi mi ha pugnalato alle spalle» sospirò «Avevo paura di perderti un’altra volta… Cazzo, ho costantemente paura che possa accaderti qualcosa di brutto… Lo so che non vuoi nemmeno vedermi e che mi odi, ma volevo che tu sapessi come stessero veramente le cose»
«Io non ti odio» affermò Emma convinta, scattando sulla difensiva. Derek sembrò sorpreso di fronte a quella affermazione e decise di fare un passo avanti «Non voglio farti del male, tutto qui»
Il ragazzo scrollò le spalle, tranquillo, come se avesse voluto farle intendere che non aveva paura di un po’ d’acqua e si avvicinò ulteriormente a lei, fino a che le loro ginocchia non si toccarono. Si sporse lentamente in avanti: i loro visi adesso erano talmente vicini che Emma poteva sentire il suo respiro caldo sulla pelle «Non mi odi?»
«N-no» balbettò Emma, colta di sorpresa. Derek si fece ancora più vicino e le appoggiò una mano su un fianco, tirandola dolcemente verso di sé «Tu mi piaci, Derek, mi piaci tanto. Io-»
«Io cosa?» la incalzò lui, quasi sfiorando le sue labbra con le proprie.
Forse non era il momento più adatto per dire una cosa del genere. Forse erano successe talmente tante cose negli ultimi tempi che non c’era bisogno di aggiungere quello che lei considerava essere un problema, una scocciatura in più. Forse era proprio colpa degli ultimi avvenimenti che la sua mente aveva prodotto quella frase, di cui lei aveva così paura. Forse non era pronta a pronunciarla, eppure era lì, sulla punta della sua lingua, come se insistesse in modo quasi violento per uscire e farsi sentire.
Sospirò, chiudendo gli occhi, e lasciò che la sua mente parlasse «Ti amo, Derek»


 

 
 

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Capitolo 15
*** Human ***


salve lupetti :-)
finalmente sono riuscita ad aggiornare: gli esami sono finati e quindi ho tutto il tempo per dedicarmi alla mia tanto amata pigrizia, alle serie tv, ai libri e ovviamente alla scrittura; prima di darvi qualche chiarimento veloce sul capitolo, vi voglio ringraziare infinitamente per averl letto, recensito e aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite: grazie davvero, significa moltissimo per me!

quindi, veniamo al capitolo​:
  • è uno dei capitoli più schifosamente diabetici che abbia mai scritto in vita mia; ho cercato di contenere l'alto tasso di dolcezza, ma non credo di esserci riuscita molto bene
  • per questo capitolo, mi sono ispirata alla cover di Demons degli Imagine Dragons, fatta da Boyce Avenue (ascoltatela, perchè è sublime!) e ad una citazione della serie tv Arrow, che dice "once you let the darness inside, it never comes out"
  • è essenzialmente un capitolo di passaggio, anche se abbastanza importante per consolidare il rapporto tra due coppie in particolare
vi ricordo solo che potete leggere la storia anche su Wattpad (link nella mia bio), perchè la storia è aggiornata regolarmente anche lì.

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO QUINDICI: HUMAN
 
«Prova di nuovo»
La ragazza sbuffò, passandosi una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore. Le pareti del loft di Derek la intrappolavano in quel piccolo spazio ed il ragazzo le stava di fronte, con zanne e artigli in bella vista e gli occhi azzurri, come il cielo d’estate, che brillavano ed illuminavano la stanza.
Assunse la posizione corretta che Derek le aveva insegnato e su cui la stava allenando ormai da ben due settimane; mise i pugni, chiusi dentro ad un paio di guantoni, di fronte al viso e si preparò a colpire. Il ragazzo aspettò invano di ricevere un pugno.
«E poi» s’interruppe di nuovo lei «Dove hai trovato questi guantoni?»
Derek sbuffò, infastidito, lasciando cadere le braccia lungo il corpo, con fare stanco. Avevano mangiato una pizza velocemente e poi avevano ripreso l’allenamento. Adesso era quasi notte fonda, a stento riuscivano a rimanere svegli, eppure erano ancora fermi l’uno di fronte all’altra, pronti a scattare.
«Sono di Isaac» rispose «Prima di diventare un licantropo, faceva un po’ di kick-boxing, ogni tanto. Adesso riprova, forza»
Emma si posizionò esattamente come aveva fatto prima e si preparò a cadere a terra per l’ennesima volta. Erano stati rari i casi in cui era riuscita a mettere Derek al tappetto, anche perché era praticamente impossibile stendere uno come lui.
Entrambi fecero qualche passo avanti, l’uno verso l’altra: nonostante la stanchezza, Emma cercò di rimanere il più possibile vigile, cercando di capire quale fosse il momento migliore per colpirlo. Come al solito, il fatto che artigli e zanne fossero onnipresenti non l’aiutava per niente. Sapeva che Derek non si sarebbe mai spinto oltre, non le avrebbe mai fatto del male, ma ogni tanto le capitava di immaginarsi con uno di quegli artigli infilzati nel petto e non poteva far altro che sentirsi estremamente a disagio ed impaurita.
Continuarono ad avvicinarsi finchè non ci fu soltanto un metro di distanza tra di loro: Derek fece brillare gli occhi, pronto ad attaccarla e quello fu il momento in cui Emma riuscì a difendersi, sganciando un pungo e subito dopo un calcio.
Quelle mosse non spostarono Derek di un centimetro, così la ragazza lo attaccò di nuovo, senza dargli tregua, fino a costringerlo ad indietreggiare. Fu a quel punto, che – mentre stava per sferrare l’ennesimo calcio – afferrò con forza la sua gamba, facendole perdere l’equilibrio. Emma cadde a terra, rimanendo sdraiata per qualche secondo in più.
«Basta, ti prego, sono stanca» si lamentò, con un tono di voce che a Derek sembrò la cosa più tenera del mondo. Sorrise a quel pensiero, ma cercò di non darlo a vedere «E poi, non serve a niente: perché non posso semplicemente imparare a controllare il mio potere?»
Le porse una mano, aiutandola ad alzarsi.
«Il tuo potere non funziona se non c’è acqua» le ricordò, addolcendo il tono di voce, come se stesse spiegando qualcosa di estremamente difficile ad una bambina. Le prese lentamente le mani tra le sue e le sfilò i guantoni, gettandoli malamente sul divano.
Emma sbuffò, facendo ricadere lo sguardo sul fisico tonico ed asciutto di Derek. Il fatto che si allenasse sempre indossando solo un paio di pantaloncini di tela non le rendeva l’impresa più semplice. Forse lo faceva proprio per quel motivo, o forse, perché voleva essere spudoratamente guardato da qualcuno – lei – e sentire come il suo cuore battesse furiosamente nel petto. Odiava essere così prevedibile e scontata; odiava sentirsi come un libro aperto quando si trovava con lui. Era come se non potesse nascondergli nulla, nemmeno un pensiero, un sentimento, una reazione fisica a qualcosa. Però, la cosa che odiava di più era che lui fosse uno scrigno chiuso a chiave, al quale nessuno – lei compresa – aveva accesso pieno. Aveva cercato di dimenticare il fatto che non avesse risposto al suo “ti amo”, anche se lo aveva trovato comprensibile. Durante i primi giorni, in cui Derek aveva fatto esplicitamente finta che niente fosse accaduto, aveva pensato di essere stata una stupida a sganciare una bomba del genere; in un secondo momento, aveva ripensato alle sue parole ed era arrivata alla conclusione che forse il ragazzo non fosse ancora pronto a fare un passo del genere e lei, certamente, non voleva mettergli fretta.
«Se ti trovassi senza acqua, da sola e circondata da un branco di lupi, cosa faresti?» riprese, riportandola alla realtà.
«Scapperei, forse…?»
Lui trattenne un sorriso e le si avvicinò, chiudendo il viso della ragazza tra le sue mani «Emma, non ti sto insegnando a proteggerti» inspirò, cercando di trovare le parole giuste «Sto cercando di insegnarti a combattere e voglio esser certo che tu lo sappia fare, anche nel caso in cui io non sia presente»  
Emma annuì lentamente «Però non sta funzionando… Ed in più non riesco a controllare il mio potere e finisco sempre per bruciare qualcosa»
Derek si abbassò lentamente verso di lei, ascoltando quanto martellasse il suo cuore e crogiolandosi nel fatto che fosse tutto merito suo, e appoggiò le sue labbra su quelle della ragazza. Non ci volle molto prima che entrambi decidessero di intensificare il bacio: Emma ancorò le braccia al suo collo e le mani di Derek le attraversarono letteralmente tutto il corpo prima di arrivare alle sue gambe. Strinse di scatto la presa sulle sue cosce e la tirò su di peso, in modo che le agganciasse al suo bacino. Senza interrompere il loro contatto, mentre si alternavano baci più intensi, più leggeri, sorrisi, respiri caldi l’uno contro la pelle dell’altra, finirono malamente sul divano, scoppiando a ridere ed interrompendo il tutto.
Per un po’ ci fu silenzio: i loro occhi che si scrutavano come se fosse la prima volta erano l’unica cosa che parlasse davvero. Derek sarebbe rimasto a guardare quegli occhi azzurri come il mare per tutta la vita e avrebbe voluto dirle talmente tante cose da costringerla a zittirlo, ma come al suo solito, non ci riusciva. Quel “ti amo” pieno di paure che le aveva rivelato Emma ancora si aggirava nella sua mente, come un’anima in pena. Si era sentito così felice, cambiato, migliore in quel momento. Si era sentito accettato e amato per la prima volta in vita sua, eppure non era riuscito a rispondere a sua volta. L’amava, di questo ne era certo. Se c’era qualcosa su cui non aveva alcun dubbio erano proprio i suoi sentimenti per Emma, però non riusciva a trasformare quelle emozioni in parole. Si giustificava, pensando di non essere ancora pronto per un passo del genere, ma la verità era che nemmeno lui capiva il suo stesso comportamento.
«A cosa stai pensando?» la voce della ragazza lo fece ripiombare nella realtà. La guardò sorridendo, mentre era malamente sdraiata sopra di lui e non sembrava essere nemmeno un po’ in imbarazzo. Gli piaceva sempre sentire l’odore di eccitazione che aleggiava intorno a lei quando la beccava a fissare il suo corpo mezzo nudo, però gli piaceva. C’erano momenti in cui sapeva che Emma avrebbe preferito scomparire piuttosto che ammettere di aver dato una sbirciatina al suo fisico più del dovuto, ed altri – come in quel caso – in cui la loro intimità superava il limite possibile e non c’era niente di cui vergognarsi.
«Niente di importante» rispose, allungando una mano verso di lei, per metterle una ciocca, uscita malamente dalla coda, dietro all’orecchio.
«Non mi stai mentendo, vero?» sussurrò «Se ci fosse qualcosa che non va, me lo diresti, no?»
«Va tutto alla perfezione, tranquilla» rispose, confortandola «Finiamo l’allenamento e poi a dormire»
Emma sbuffò di nuovo, rimanendo seduta sul divano. Il ragazzo, invece, si alzò, s’incamminò verso la sua piccola cucina e dopo qualche minuto, tornò con una bacinella piena d’acqua.
L’appoggiò a terra e, come ormai facevano ogni volta, si sedettero entrambi l’uno di fronte all’altro. A dividerli, c’era solo un po’ d’acqua.
«Cosa devo bruciare questa volta?» chiese sarcastica.
«Me» rispose Derek serio.
Emma aggrottò di scatto le sopracciglia, sorpresa. Aveva sicuramente sentito male: non poteva averle veramente chiesto di essere la sua cavia. Non lo avrebbe fatto nemmeno sotto tortura, perché la sola idea di fargli del male le faceva venire la nausea.
«Non ci pensare nemmeno» rispose duramente.
«Invece, sì» scattò lui.
«Perché non posso bruciare… Non so, una maglietta, una forchetta, i miei libri di scuola?»
«Perché i lupi mannari non sono forchette, sono persone» rispose, sarcasticamente, accennando un sorrisino divertito, in modo da irritarla ancora di più.
«E se ti faccio male?» domandò Emma, abbassando lo sguardo e fissando l’acqua. Era cosi strana quell’attrazione e la spaventava a morte. Molte volte, quando era a casa con i suoi genitori, e si avvicinava all’acqua per puro caso, la colpiva una paura lancinante e dolorosa di poter far loro del male «…O peggio, se ti…? Deaton ha detto che-»
«Non mi ucciderai» la interruppe lui.
«Come fai ad esserne così sicuro?»
Derek sospirò e, se pensava di non poter rispondere a quella domanda, allora aveva commesso un gravissimo errore. La risposta si presentò nella sua mente con una facilità, semplicità e naturalezza disarmanti, come se l’avesse saputa per tutta la vita e quello fosse solo il momento migliore per lasciarla uscire definitivamente. Avrebbe solo voluto che Emma, in quel momento, avesse potuto sentire il suo cuore, pregno di verità, battergli forte nel petto.
«Perché mi fido di te» disse infine, con tono fermo e sicuro «Non mi succederà niente, promesso»
Credeva alle sue parole, ci credeva con tutto il cuore e per un momento, si sentì sollevata. Ciò a cui, però non credeva – e di cui nemmeno si fidava – era il suo potere. Nei giorni precedenti, c’erano stati momenti in cui era riuscita a controllarlo, ma era più semplice visto che si trattava di avere a che fare con un oggetto senza storia e significato. Ora, invece, stava mettendo in pericolo la vita della persona a cui tenesse di più. Proprio come aveva detto Deaton.
Nonostante questo groviglio di pensieri, non rispose. Era stanca e voleva finire quell’allenamento il prima possibile, così cercò di concentrarsi al massimo.
Chiuse gli occhi e – come le aveva insegnato Derek – cercò di pensare al motivo principale della rabbia sepolta dentro di sé. Velocemente le immagini di Deaton, del branco, i pochi ricordi dei suoi veri genitori e la vecchia casa abbandonata della famiglia Hale si fecero spazio nella sua mente, invadendola completamente. Cominciò a tremare dalla rabbia e sentì il solito calore salire dal petto, lungo la gola, fino ad arrivare al suo cervello. Quello era il momento peggiore, perché non riusciva a pensare razionalmente, tutto ciò che occupava la sua mente ed i suoi pensieri erano una rabbia ed una voglia di vendetta accecanti. Aprì di scatto gli occhi, guardando Derek di fronte a sé: l’acqua lo aveva già circondato e stava stringendo sempre di più la sua presa su di lui.
Voleva fermarsi, voleva che quel liquido fluttuante tornasse ad essere qualcosa di completamente innocuo. Le sue mani si muovevano lentamente, senza che potesse controllarle in qualche modo. Era come se dirigessero il flusso d’acqua indicando chiaramente come e quanto soffocare la vittima.
Derek stava dando i primi segni di dolore lancinante: lo vedeva dall’espressione del viso, dagli occhi blu che brillavano e chiedevano pietà e dalle zanne conficcate nei palmi delle mani, nel tentativo inutile di reprimere il dolore. L’acqua bruciava troppo anche per uno come lui e ben presto nuvole di vapore bianco cominciarono ad alzarsi verso il soffitto.
Cercò con tutte le sue forze di spegnere quel fuoco che aveva dentro di sé, ma non era così semplice. Non poteva semplicemente accenderlo e spegnerlo, era molto più di quello. Tentò in tutti i modi di reprimere quel senso di rabbia, ma non ci riusciva e le condizioni di Derek stavano peggiorando. Non poteva lasciarlo morire.
«Non ce la faccio» ammise alla fine, distogliendo lo sguardo da quell’orrendo spettacolo che si presentava ai suoi occhi. Ritornò a fissare l’acqua e attese la fine.
«Emma, guardami» la voce debole di Derek le arrivò chiara e nitida «Puoi farcela»
«No, non posso» rispose, mentre qualche lacrima faceva capolino e scendeva velocemente lungo le sue guance.
«Sì, invece, guardami» ripetè il ragazzo, mentre la sua voce si affievoliva sempre di più «Guardami»
Emma alzò gli occhi su di lui e si concentrò solo su quelli. Le aveva detto molte volte che, per riprendere il completo possesso della propria mente e del proprio corpo, l’unica cosa da fare fosse trovare un appiglio. Non importava quanto fosse grande o importante, la cosa fondamentale era trovarne uno e usarlo per recuperare il controllo.
Gli occhi del ragazzo stavano perdendo la loro vivacità, ma erano l’unica cosa che la tenesse ancorata al presente e alla realtà. I suoi occhi erano la parte che preferiva, erano ciò che la facevano sentire al sicuro, a casa, che c’erano sempre per lei e che contenevano ogni risposta alle sue domande. Erano l’unica porta d’entrata che Emma aveva per la mente ed il cuore di Derek ed, infine, erano l’unico sostegno che aveva a disposizione.
Si ripetè di concentrarsi su quei due zaffiri e di non pensare ad altro. Dopo qualche secondo, la sua mente cominciò a riempirsi di cose riguardanti la sua vita, ma soprattutto di Derek. La rabbia che l’aveva accompagnata fino a quel momento stava lentamente scemando, lasciando spazio alla razionalità totale. Chiuse gli occhi, cercando di far tacere definitivamente quel fuoco e quando li riaprì il ragazzo la stava guardando, mezzo distrutto e sdraiato a terra in una pozza d’acqua.
«Mi dispiace tanto, scusami davvero, io non volevo, non-» Emma cominciò a parlare a macchinetta, mentre si alzava, scavalcava la bacinella ormai vuota e si sedeva di nuovo vicino a Derek. Adesso, erano entrambi bagnati, vista l’acqua che si allargava sotto i loro abiti, sul pavimento, ma a nessuno dei due importava.
«Ce l’hai fatta» sorrise lui, con gli occhi stanchi.
«Ti ho quasi ucciso, dio!, se solo-»
«Ehi» la richiamò lui, costringendola a scontrarsi di nuovo con i suoi occhi verdi smeraldo «Sei riuscita a controllarti ed è questo che conta»
«Ma ti ho fatto male»
«Sto bene» la consolò lui «Guarisco in fretta»
Emma provò a credergli, ma il dolore glielo leggeva negli occhi. Sapeva che sarebbe guarito nel giro di qualche minuto, ma temeva che avrebbe avuto paura di lei. Si accorse dei suoi movimenti solo quando il ragazzo le allungò una mano per aiutarla ad alzarsi.
«Che c’è?» le chiese alla fine, quando furono di nuovo faccia a faccia.
Sospirò «Non hai paura di me, vero?»
«No, non mi fai paura» esclamò, rendendo il suo tono di voce quasi cavernoso e allo stesso tempo ridicolo, facendola scoppiare a ridere «Andiamo a farci una doccia e poi giuro che non lascerò il letto per due giorni»
 
Quando la luce del sole oltrepassò i vetri ingialliti della finestra e colpì direttamente il suo viso, fu costretto ad aprire lentamente i suoi occhi. Si mosse leggermente in modo da non essere più esposto ai suoi raggi e si passò una mano sul viso, cercando di svegliarsi definitivamente. Si sentiva ancora stanco: aveva i muscoli doloranti e gli occhi che non volevano rimanere aperti per nessuno motivo. Allungò una mano verso il comodino, toccando vari oggetti senza nemmeno guardarli. Quando fu sicuro di aver afferrato la sveglia, si voltò in quella direzione per vedere che ora fosse. L’orologio segnava quasi le undici, ma non gli importò più di tanto, visto che era domenica mattina.
Infine si mise seduto sul materasso e si stiracchiò per bene, prima di voltarsi verso Emma.
Stava ancora beatamente dormendo ed in alcuni momenti avrebbe voluto essere un dormiglione come lei: l’unica cosa positiva che riguardava il sonno di entrambi era che nessuno dei due avesse più incubi. In realtà, ogni tanto, capitava che Emma sognasse di venir rapita di nuovo, ma i casi erano rari.
Si sdraiò di nuovo senza distogliere lo sguardo dalla sua figura: dormiva in una posizione strana e questo lo faceva sempre sorridere. Era in pancia in giù, con una gamba stesa ed una piegata, e le braccia che circondavano e stringevano il cuscino. La maglietta che indossava le aveva lasciato scoperta la parte inferiore della schiena e Derek fu costretto a trattenersi per non toccarla e sentire quella scintilla, che tanto amava, comparire ogni qual volta venisse in contatto con il suo corpo.
Non ricordava l’ultima volta in cui si era abituato a dormire con qualcuno. Aveva sempre vissuto da solo, notte e giorno, e pensava che sarebbe stato complicato dover condividere il letto con qualcun altro. Invece, con Emma, era avvenuto tutto in modo naturale: era entrata così lentamente e silenziosamente nella sua vita che lui nemmeno se ne era accorto, eppure adesso non riusciva più a farne a meno. La voleva sempre al loft, perché gli piaceva vederla girare per casa come se non fosse una semplice ospite, ma come se quella fosse casa loro; gli piaceva averla intorno quando era triste, oppure quando era felice; gli piaceva addormentarsi con lei e sentire la sua presenza vicino, e poi svegliarsi e trovarla addormentata in quella strana posizione. Era bello aprire gli occhi al mattino e trovarla lì, sapere che non se ne fosse andata e che, forse, non lo avrebbe mai fatto.
Ma, probabilmente, la cosa che in quel momento amava di più era il ricordo di quello che era successo la sera precedente. Emma lo aveva quasi ucciso e questa cosa lo divertiva, ma era davvero contento che avesse trovato la sua ancora. Non era facile trovarne una così presto e per un po’, durante la notte, era rimasto sveglio a chiedersi come mai fosse lui. L’aveva capito che la ragazza si era aggrappata all’unica cosa che la tenesse davvero con i piedi per terra, ma non riusciva a credere che fossero stati i suoi occhi.
Per lui era stato tutto più semplice e quasi ovvio: la sua ancora era Emma, perché era l’unica che vedesse il meglio di lui, che fosse riuscita ad amarlo per quello che era davvero, ma lui come faceva ad essere la sua? Lui che non aveva quasi niente da dare ad una persona che non aveva bisogno di cambiare, di migliorare; ad una persona che non aveva mai odiato o ucciso in vita sua.
Molte domande gli affollavano la mente, ma non voleva pensarci.
Ripiombò nella realtà quando Emma si mosse sotto le coperte e aprì lentamente gli occhi, sorridendogli in modo pigro, con il viso contro il cuscino.
«Ehi» sussurrò semplicemente.
Derek si sdraiò di nuovo vicino a lei e le si avvicinò, premendole le labbra sulla fronte «Buongiorno, dormito bene?»
Emma gli sorrise di nuovo e si crogiolò nel calore che emanava il suo corpo «Sì, tu?»
«Benissimo» rispose, senza distogliere lo sguardo da quello della ragazza.
Emma ne approfittò per prendere coraggio ed avvicinarsi ancora di più, fino a far combaciare perfettamente le loro labbra. Il ragazzo appoggiò una mano sulla sua gamba e la tirò contro di sé, intensificando il bacio. Nel giro di pochi secondi, si ritrovarono l’uno sopra all’altro, con i loro corpi che si sfioravano e tremavano di eccitazione. Le labbra di Derek lasciarono la bocca della ragazza, per spostarsi lungo la mascella, fino al collo, lasciando una scia di baci caldi e morbidi che fecero rabbrividire Emma. Il ragazzo continuò così per un po’, quasi ipnotizzato dalla fusione dei loro battiti cardiaci notevolmente accelerati. Continuò la sua lenta e dolce tortura, fino ad arrivare alle clavicole sporgenti della ragazza, lasciate scoperte dal colletto ormai troppo slargato della maglietta che le aveva prestato e che lei stava indossando in quel momento. Quando si fermò, alzò lo sguardo, incrociando gli occhi di Emma e tutto ciò che riuscì a vedere furono le sue labbra arrossate, gli occhi che brillavano e quell’espressione diversa, più luminosa che aleggiava sul suo volto. Probabilmente, era la stessa espressione che aveva lui, ma cercò di non pensarsi in quel preciso frangente. Ciò che lo riportò alla realtà furono di nuovo le labbra di Emma che si univano alle sue in un bacio veloce e che, poi, scendevano verso il basso e si soffermavano sul suo collo. La ragazza amava quella sua parte del corpo, perché sapeva quanto fosse sensibile e quanto gli desse fastidio che qualcuno la usasse contro di lui. Lo spinse lentamente verso il materasso, fino a che non si trovò malamente distesa sul suo corpo. Scoprì i denti, mordicchiandogli la pelle, proprio vicino al pomo d’Adamo e sorrise diabolica e soddisfatta, quando lo sentì gemere di piacere. Non ebbe il tempo di continuare, che Derek scattò, sedendosi sul letto e tirandola verso di sé, facendola finire seduta sulle sue ginocchia.
«Sei una stronza, lo sai che-»
«Che ti piace tanto quando faccio così» lo interruppe la ragazza, sorridendogli dolcemente come una bambina. E Derek poteva resistere a tutto, ma non ad Emma.
La baciò di nuovo, stringendo lievemente la presa sui suoi fianchi, sorridendo contro le sue labbra ogni qual volta Emma si lasciasse scappare qualche gemito di troppo. Però adorava quel rumore così pregno di eccitazione e piacere e avrebbe potuto ascoltarlo per tutta la vita.
Quando la ragazza interruppe il bacio, si lamentò silenziosamente e mise il broncio come un bambino insoddisfatto facendole alzare gli occhi al cielo.
Senza nemmeno rendersene conto, guardò ipnotizzato Emma sfilarsi la maglietta e gettarla a terra, in un punto indefinito. Non ebbe tempo di replicare, che la sua bocca era di nuovo contro quella della ragazza. I loro corpi, adesso a stretto contatto, erano pelle contro pelle, erano caldi, si incastravano alla perfezione, come se fossero stati creati l’uno per l’altra. Derek strinse la presa sui suoi fianchi, per rimanere ancorato alla realtà ed impedirsi di spingersi troppo oltre e perdere il controllo. Voleva disperatamente Emma; la voleva sin dalla prima volta che l’aveva vista ed era quasi doloroso dover essere sottoposto a quella tortura senza fare un passo avanti. Era completamente drogato di quei baci così intensi e pregni d’amore, eppure sapeva che ci fosse ancora qualcosa in lui che gli impedisse di andare avanti.
La sua schiena toccò di nuovo il materasso, mentre sentiva le piccole mani di Emma appoggiate sul suo petto. Quando la guardò dal basso e notò le sue guance arrossate ed il suo sguardo imbarazzato capì quali fossero le sue vere intenzioni.
Colto di sorpresa ed impreparato, con un unico movimento, si mise di nuovo seduto, interrompendo ogni contatto avessero avuto fino a quel momento.
«Che c’è?» chiese Emma, confusa.
«Che stai facendo?» rispose lui, con un’altra domanda.
Le guance della ragazza si tinsero ancora di più di rosso, però cercò di prendere coraggio e rispondere a quella domanda così difficile. Alla fine riguardava entrambi, alla fine era solo Derek quello che aveva di fronte, quindi perché avrebbe dovuto avere paura?
Inspirò, per poi lasciare che l’aria uscisse lentamente dai suoi polmoni «Voglio fare l’amore con te…O, almeno credo- No, lo voglio davvero-»
«E’ meglio di no» tagliò corto Derek.
Emma aggrottò le sopracciglia e si sentì tremendamente stupida. Come poteva prendere una cosa del genere dalla stessa persona che non aveva nemmeno risposto al suo “ti amo”? Come poteva essere così innamorata di una persona che non esprimeva mai i suoi sentimenti e della quale non sapeva mai cosa le passasse costantemente per la testa? Come aveva potuto agire in modo così impulsivo e sconsiderato? Per un attimo, tutte le certezze che aveva riposto in loro due si disintegrarono sullo stesso pavimento di legno di quella stanza. Emma poteva sentirle benissimo toccare il suolo e rompersi in mille pezzi.
Rimase in silenzio per un po’, cercando qualcosa da dire, mentre gli occhi di Derek vagavano per la stanza, senza incontrare i suoi «Perché?»
«Perché sì, adesso non è il momento più adatto»
Emma scosse lentamente la testa, cercando di capire il perché di quel cambiamento repentino di Derek e soprattutto del perché le stesse spudoratamente mentendo. Non poteva sentire il suo cuore, ma aveva imparato dalle sue espressioni del viso e dai suoi atteggiamenti a capire quando non stesse dicendo la verità. E quello, purtroppo, era uno di quei momenti.
Si mosse dalla postazione in cui era rimasta immobile per tutto quel tempo e scese una volta per tutte dal letto «Sono stata una stupida» mormorò più a se stessa, per rimproverarsi, che a lui.
«Non è colpa tua, è solo che-» tentò il ragazzo, ma fu costretto a fermarsi quando si accorse che Emma non lo stava affatto ascoltando. Si mosse di conseguenza, arrivandole da dietro, mentre la ragazza cercava di infilarsi i jeans, ma non appena sentì le sue mani grandi sulla propria pelle, si ritirò come scottata.
Derek si allontanò di scatto, colto di sorpresa da quella reazione e si rese conto di aver combinato un casino. Per l’ennesima volta. Perché non riusciva mai a dire di sì? A trovare un modo per farla felice, per farla sorridere? O, semplicemente, per far sì che le cose potessero funzionare?
«Emma…» sussurrò, cercando di fermarla. La ragazza, adesso, era completamente vestita. Non doveva far altro che scendere al piano di sotto, recuperare la propria borsa e tornare a casa.
«Ho capito» disse lei, con tono freddo e distaccato «Non importa che tu lo ripeta all’infinito; devo andare adesso»
La guardò infilarsi le scarpe e poi correre giù per le scale. Ascoltò il suo cuore battere, la rabbia, la frustrazione e la delusione farsi spazio dentro di lei ed infine, dopo aver sentito il portone del loft sbattere con una forza quasi disumana, non potè far altro che ricadere a peso morto sul letto e nascondere la testa sotto il cuscino. Perché non riusciva mai ad essere felice?
 
Erano passati due giorni dall’ultima volta che aveva visto Derek e ciò che le era rimasto era un misto di rabbia e delusione. Era stanca di dover soffrire e sentirsi costantemente in colpa per ciò che faceva, persino quando era evidente che la colpa non fosse sua, quindi aveva trasformato tutta quella tristezza in rabbia.
Cercò di non pensare alla sua emotività instabile, concentrandosi sui libri che teneva tra le mani e che avrebbe dovuto riporre nell’armadietto. Quella giornata era stata interminabile: ore e ore passate sui libri, ma con la testa completamente da un’altra parte. Non era stato per niente semplice.
Si fermò di fronte al proprio e lo aprì di scatto, gettandovi malamente tutti i suoi libri. Di solito, era una persona meticolosa ed ordinata, che non avrebbe nemmeno lasciato una penna fuori posto, ma in quel momento non le importava e quella stupida scuola le sembrava del tutto irrilevante. Con aria frustrata, sistemò i quaderni meglio che potè ed infine, con uno scatto veloce e tagliente, chiuse lo sportellino di metallo e recuperò lo zaino, che aveva appoggiato a terra.
«Giornataccia?» la voce di Isaac risuonò nel corridoio ormai del tutto vuoto.
La sua presenza la fece sentire a disagio per qualche secondo: da quando lo aveva quasi ucciso, non avevano avuto molte occasioni per parlarsi, o meglio, lei aveva sempre cercato di ignorarlo per paura che non volesse rivolgerle la parola.
«No, sto bene» rispose, ancora ferma di fronte al suo armadietto, senza guardarlo.
«Stai mentendo» rispose lui, accennando un sorriso.
«Non mi importa!» sbottò Emma «Non sono obbligata a dirvi sempre la verità e voi non siete obbligati ad ascoltare costantemente e in modo quasi ossessivo-compulsivo il mio cuore!»
Il ragazzo rimase per un attimo sorpreso e sul suo viso, si fece spazio un’espressione confusa. Alzò un sopracciglio, ma rimase in silenzio, mentre Emma si rendeva lentamente conto di essersela presa con lui, per un motivo così stupido.
«Scusami» disse infine, mentre sentiva i suoi occhi inumidirsi «Non volevo prendermela con te e-»
«Non preoccuparti, tranquilla» la interruppe lui.
«E mi dispiace averti quasi ucciso» continuò, ignorando le sue parole, mentre qualche lacrima lasciava i suoi occhi e la sua voce si incrinava sempre di più «Non so più cosa sto facendo, non so più cosa fare per mettere fine a questa situazione e mi dispiace averti messo in pericolo, dimmi come-»
Il suo flusso di parole fu interrotto dalle braccia di Isaac che l’afferrarono e la strinsero al petto. Si aggrappò a lui con tutta la forza che aveva in corpo, perché le sembrava di essere sull’orlo di un precipizio ed una sola folata di vento avrebbe potuto farla cadere.
«Ssh» cercò di consolarla lui, massaggiandole la schiena «Va tutto bene, Emma»
Lei scosse la testa contro il suo petto e Isaac si allontanò di quel poco che bastava per guardarla negli occhi. Era una delle sue migliori amiche e gli faceva male vederla così «Non sono arrabbiato con te, quella… Cosa non eri tu e l’importante è che non sia successo nulla di grave» le sussurrò, asciugandole le lacrime «Ormai è passato, non pensiamoci più, va bene?»
La ragazza accennò un sorriso e si pulì il viso da quel pochissimo trucco che probabilmente era colato sulle guance e la faceva assomigliare ad uno zombie «Amici come prima, allora?»
«Più di prima» rispose Isaac, sorridendo. Poi, però, si fece di nuovo serio «Sei sicura che non ci sia altro?»
Annuì, cercando di essere il più convincente possibile. Il beta, ovviamente, non le credette, ma non disse niente, per evitare che si arrabbiasse di nuovo. Probabilmente, aveva solo bisogno di stare un po’ da sola e pensare. Così, le promise che l’avrebbe chiamata quella sera e scappò, ormai troppo in ritardo per gli allenamenti di Derek.
 
«Perché non sei venuto a prendere Emma a scuola oggi?» fu la prima cosa che disse Malia, una volta entrata nel loft.
«Aveva da fare» rispose Derek, indifferente, senza nemmeno guardarla «Iniziate subito ad allenarvi che siete in ritardo, vi aspettavo più di mezz’ora fa»
Nessuno osò proferire parola e cominciarono il solito allenamento, mentre Derek di tanto in tanto dava loro un’occhiata, per poi tornare a guardare Stiles e Lydia studiare, e decidere o meno se parlarne con loro, se chiedere consiglio, oppure – come al suo solito – fare di testa propria.
Alla fine, dopo aver corretto un paio di volte Isaac e Scott, decise di mettere da parte il suo orgoglio e chiedere aiuto, perché non ci stava capendo più niente e doveva smetterla di rischiare sempre di perdere Emma. Era stanco di quella situazione e del brutto carattere che aveva, quindi l’unica cosa che potesse fare per cambiare e rimediare era quella di chiedere aiuto a qualcuno di esterno.
Scosse la testa e si staccò dal tavolo, cercando di reprimere quell’imbarazzo che lo caratterizzava ogni volta che si sentiva costretto a chiedere aiuto a qualcuno, e si avviò verso il divano, in un angolo della stanza, su cui erano seduti i due ragazzi. Per un momento, valutò la possibilità di parlare ad entrambi, ma poi decise di rivolgersi solo a Stiles. Forse tra maschi, tutto quel discorso e tutti quei dubbi sarebbero apparsi meno imbarazzanti.
«Posso parlarti un attimo?» chiese, guardandolo.
Stiles annuì, lievemente sorpreso, e si alzò per seguirlo. Quando furono entrambi in cucina e lontani da orecchie indiscrete, Derek si chiuse la porta alle spalle e guardò l’amico, senza però dire niente.
«Che succede?» indagò Stiles.
«Ho fatto un casino»
«Come se non ne facessi un milione al giorno» replicò il ragazzo, con tono divertito e sarcastico, che però si preoccupò di nascondere non appena incontrò gli occhi furiosi di Derek.
«Ho fatto un casino» ripetè «Con Emma»
«Ed io cosa dovrei fare?»
«Devi aiutarmi» rispose il ragazzo, con tono ovvio. Stiles rimase in silenzio, ma lo spronò comunque a parlare. Era difficile trovare le parole che potessero esprimere al meglio quello che Derek sentiva in quel momento, ma se non si fosse sfogato con qualcuno, non sarebbe sopravvissuto a quel macigno che sentiva all’altezza del petto «Mi ha detto che vuole fare l’amore con me»
«Oh…» commentò Stiles, sorpreso. Non si sarebbe mai aspettato che uno come Derek si sarebbe rivolto a lui per un consiglio in fatto di ragazze. Non che lui fosse il più esperto, ovviamente, ed in tutta la sua vita aveva aiutato solo Scott, ma da una parte gli faceva piacere. Significava aver superato quella fase della loro amicizia fatta solo di battutine scadenti, sarcastiche e idiote, fatta di odio, di poca pazienza e sopportazione. Adesso erano al livello successivo: la fiducia.
«Ecco, lo sapevo» esclamò spazientito Derek, di fronte al silenzio dell’amico «Non avrei dovuto dirti nulla, hai solo 17 anni, come puoi capire una cosa del genere?»
Scosse la testa, dandosi dello stupido e si voltò di scatto, deciso a lasciare quella stanza e a recuperare un po’ della dignità che aveva perso nel confidargli quell’accaduto.
«Perché lei hai detto di no?» la voce di Stiles lo bloccò sul posto.
Il beta si voltò lentamente e lo guardò incuriosito «Come fai a sapere che…?»
Stiles si strinse nelle spalle e accennò un sorriso «Altrimenti non saresti qui adesso: allora, perché?»
Derek si grattò la fronte, cercando di trovare le parole giuste «Non lo so, io- Ho avuto altre donne nella mia vita, ma nessuna di loro è come Emma» si fermò, inspirando profondamente «Non voglio darle false speranze, non voglio che soffra per uno come me. Si è avvicinata così tanto a me che ho quasi paura a lasciarla entrare, perché se solo lo facesse, tutto ciò che vedrebbe sarebbero i demoni e l’oscurità che ancora mi perseguitano, tutti i peccati e le colpe che ho accumulato nella mia vita e di cui mi vergogno. Non penso di essere pronto per fare un passo così grande»
È normale avere paura» rispose Stiles, avvicinandosi «La ami?»
«Sì» rispose il ragazzo, come se fosse la cosa più normale al mondo «Ma finisco sempre per rovinare tutto»
«Se vuoi un consiglio da uno che non ha mai la cosa giusta da dire…» iniziò, facendolo sorridere «Se ti fidi di lei, diglielo. Non importa quali parole userai o quale sarà la situazione in cui glielo dirai, tu… Diglielo e basta e per lei sarà abbastanza»
Derek annuì pensieroso e per un momento un silenzio imbarazzante calò tra di loro. Erano entrambi imbarazzati, perché non era una cosa da tutti giorni che si ritrovassero a scambiarsi consigli sulle ragazze, a cercare di conoscersi di meglio e di capire come fossero fatti all’interno.
Il silenzio fu rotto dalla voce stanca di Malia, che cercava Stiles con una certa insistenza. Il diciassettenne non le dette nemmeno il tempo di ripetere il suo nome per la terza volta, che si precipitò spedito alla porta.
«Stiles» Derek lo richiamò, fermandolo sul posto. Il ragazzo lasciò andare la maniglia della porta, che aveva appena aperto e si voltò verso di lui, incitandolo a parlare. Prese un respiro e pronunciò l’unica parola che pensava non gli avrebbe mai detto in tutta la sua vita «Grazie»
 
Il vialetto della casa di Emma sembrava non finire più: forse era l’ansia che l’attanagliava o forse la ricerca inutile delle parole giuste da dire. Sta di fatto che, una volta arrivato di fronte al portone, la sua mente era di nuovo una lavagna vuota su cui avrebbe voluto scrivere di tutto. Non aveva il gesso per scrivere, però, e adesso si ritrovava con un peso all’altezza del petto, il cuore che batteva furiosamente, la gola secca e la mente offuscata. Era davanti alla sua porta e non aveva niente da dire. Tutto ciò a cui aveva pensato, tutti i discorsi che si era preparato si erano disintegrati nell’esatto momento in cui aveva superato il piccolo cancello bianco in fondo al vialetto di quella casa.
Nonostante questo, non poteva rimanersene lì come uno stupido: così prese un bel respiro e suonò il campanello. Nella sua vita, aveva attraversato pericoli e situazioni ben peggiori e raramente aveva avuto paura, ma in quel momento era come se si trattasse di vita o di morte ed era abbastanza sicuro che non sarebbe finita bene. Emma avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo, se gli avesse sbattuto la porta in faccia, dopo l’ennesima delusione.
La chiave che girava nella toppa della porta lo riportò alla realtà. Sentiva il suo respiro affannato, al di là di quel pezzo di legno e una manciata di secondi dopo, fu in grado di vedere anche i suoi occhi sorpresi e confusi.
«Che vuoi?» chiese, atona.
«Possiamo parlare?»
«Non c’è niente da dire» stesso tono, stesso sguardo indifferente.
«Per favore» la pregò.
Emma lo guardò in silenzio per qualche secondo, prima di farsi da parte e lasciarlo entrare. Non appena fu dentro, si chiuse la porta alle spalle e s’incamminò verso la cucina, in cui troneggiava un grande tavolo di legno su cui stava studiando fino a qualche minuto prima. Si sedette, ma non invitò il ragazzo a fare lo stesso, così rimase in piedi.
«Mi dispiace» iniziò.
«Anche a me» lo interruppe secca la ragazza.
«Ti prego, dimmi cosa ti passa per la testa, perché non riesco a-»
Emma si alzò di scatto e gli si piazzò davanti. In quel momento, ringraziò Dio di non avere dell’acqua a portata di mano, perché, altrimenti, avrebbe fatto una vera e propria strage «Vuoi davvero sapere cosa penso?! Cosa penso di te?!»
Derek annuì, così riprese a parlare «Che sei la persona più egoista che abbia mai conosciuto, che non te ne importa nulla di quello che provo, di quello che dico, di quello che mi rende felice o delle mie paure! Che tutto ciò di cui t’importa è sopravvivere in questa cittadina fatta di gente psicopatica e creature soprannaturali! Ti odio, perché non ci provi nemmeno, Derek! Lo dici di continuo, ma non ci provi nemmeno un po’ a fidarti di me, a lasciarmi entrare, a considerarmi parte della tua vita-»
«Non è così» affermò lui, offeso.
«Allora non sei per nulla bravo a dimostrarlo!»
«Ti ho salvata, cazzo!» esclamò, mentre sentiva la rabbia crescere sempre di più, ma sapeva di non poter perdere il controllo.
«Ah, giusto! Perché adesso salvarmi il culo significa tenere a me!» rispose Emma, sarcasticamente «Bhè, complimenti, bella dimostrazione d’affetto!, soprattutto piena di sentimento… Oh, aspetta tu non sai nemmeno cosa siano i sentimenti»
Lo sapeva. Sapeva benissimo che ogni parola lo stava ferendo sempre di più, gli stava facendo un male cane, ma era arrabbiata così tanto con lui e con il suo comportamento che non riusciva più a fermarsi. Aveva solo diciassette anni e tanta voglia di vivere la sua vita. Era innamorata di lui, cavolo se lo era!, ma se lui sosteneva di non provare la stessa cosa, qual era il senso di quella relazione?
«Dio!, certo che so cosa sono!» esclamò, perdendo completamente le staffe «Il fatto che ti ami non lo devo considerare un sentimento?!»
Emma spalancò gli occhi di fronte a quelle parole e Derek si accorse troppo tardi di aver dato voce ad una parte di pensieri che avrebbe preferito rimanessero ben nascosti nel suo cuore e nella sua mente. Un silenzio tombale e tagliente cadde tra loro, tanto che il ragazzo pensò di scappare a gambe levate, pur di non dover affrontare quella situazione.
«Non avrei dovuto dirlo così» parlò infine, con tono sommesso. Ovvio che l’amava e ovvio che desiderasse che lei lo sapesse, ma non così. Avrebbe dovuto essere più delicato, avrebbe dovuto fare un discorso d’introduzione e convincerla veramente dei suoi sentimenti. Invece, gliel’aveva urlato in faccia e adesso non sapeva come gestire la cosa.
«No, non avresti dovuto» confermò Emma.
Il ragazzo fece un passo verso di lei e sospirò «Quello che ti ho detto due giorni fa non cambia, perché… Non voglio mentirti dicendoti che non ti amo o non mi fido di te, perché, in realtà, sono gli unici due punti fermi della mia vita, ma non voglio lasciarti entrare per paura che tu veda quello che c’è dentro»
«Derek-»
«Sono cresciuto da solo, ho incontrato persone che ho lasciato entrare e che si sono approfittate della mia fiducia; ho commesso peccati che nemmeno Dio potrà perdonarti e vivo con sensi di colpa e demoni che porterò sempre con me. Non mi piace questo lato di me e non dovrebbe piacere nemmeno a te» sospirò, mentre la guardava fare un passo verso di lui «Non voglio che tu ti avvicini, non voglio lasciarti entrare, perché qui dentro è tutto buio»
Le sue labbra si incresparono lievemente in un sorriso «Perché non me l’hai detto subito?»
Lui scosse la testa, sincero «Non lo so»
«A me non importa quanto buio ci sia, perché, se me lo permetti, posso essere la tua luce» disse «E sono sicura che se tu mi lasciassi entrare, sarei in grado di ritrovare la strada di casa. Anzi, saremmo entrambi in grado di farlo» gli sorrise, avvicinandosi e intrecciando le dita a quelle di Derek «Non dobbiamo farlo per forza adesso, possiamo rimandare e procedere a piccoli passi»
Per la prima volta in vita sua, si ritrovò costretto a reprimere le lacrime. Erano lacrime di gioia, lacrime che gridavano al mondo che finalmente uno come lui, Derek Hale, avesse trovato qualcuno per cui valesse la pena combattere e amare; qualcuno che fosse così importante da lasciare entrare, qualcuno che fosse al suo fianco ogni volta si fosse trovato ad affrontare il suo passato e la sua oscurità, qualcuno di cui fidarsi.
Tirò su con il naso, come se fosse un bambino, facendo sorridere Emma e si piegò su di lei, facendo combaciare le loro labbra. Quel bacio non fu intenso e mozzafiato come i precedenti, ma leggero, libero da pesi e macigni, un bacio semplice che sigillava il loro rapporto una volta per tutte.
Quando Emma lo interruppe, Derek la guardò con lo sguardo più innamorato che avesse mai avuto ed inspirò, cercando di contenere la felicità «Grazie»
Ed Emma lo sapeva che quello era il suo modo normale per dirle che l’amava.


 

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Capitolo 16
*** We must be killers ***


salve lupetti :-)
finalmente sono riuscita ad aggiornare, anche se sono stata un tantino più veloce questa volta, perchè non è nemmeno passato un mese dalla pubblicazione del capitolo precedente! spero davvero che stiate passando delle bellissime vacanze, visto che io per ora il mare lo vedo con il binocolo perchè devo studiare per ben due esami, che avrò a Settembre.
ne approfitto subito per ringraziarvi per aver letto/recensito e aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate! grazie mille davvero!
adesso vi lascio qualche precisazione veloce sul capitolo:
  • è un capitolo di passaggio; a mio parere, non succede niente di che, però comunque si può vedere un'evoluzione nel personaggio di Emma, che comincia ad accettare completamente il suo essere rusalki, usandola spesso anche a suo vantaggio
  • come avevo già detto in precedenza, Aiden è un personaggio a cui sono affezionata moltissimo e che adoro! spero che questa variante di Aiden (diversa, per alcuni aspetti, da quella della serie tv) piaccia anche a voi, perchè per me è solo un cucciolo dolce che ha bisogno di tanto amore *ç*
  • non so tra quanto pubblicherò il prossimo capitolo: venerdi 5 parto per Salisburgo e torno il 10; poi il 14 riparto di nuovo, per tornare il 21. quindi, ahimè, mi sa proprio che dovrete aspettare la fine di agosto per leggere di nuovo sui Demma, perchè credo proprio che non riuscirò a scrivere e pubblicare tra il 10 ed il 14, quando sarò a casa.
  • mancano solo 4 capitoli alla fine, ma contando che gli ultimi due sono ambientati anni dopo, direi che la storia è ormai giunta a termine (già piango çç)! già dal prossimo capitolo, succederanno moltissime cose, che porteranno appunto all'epilogo
bene, credo di avervi detto tutto, vi ricordo solo che la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link in bio)

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO SEDICI: WE MUST BE KILLERS
 
La luce della luna filtrava pallida attraverso il vetro lievemente ingiallito della finestra. Illuminava le cornici di legno rendendole più chiare, ed infine colpiva le lenzuola color oliva che proteggevano, dalla brezza fresca di quella sera di primavera, i due ragazzi. Era tardi: Emma avrebbe avuto scuola il giorno seguente, ma non riusciva a prender sonno, troppo immersa nei suoi pensieri, mentre Derek era molto più rilassato, completamente sdraiato con gli occhi chiusi rivolti al soffitto e una mano appoggiata sulla schiena morbida e calda di Emma, sotto la sua maglietta. Di tanto in tanto, la muoveva accarezzandola dolcemente, facendola sorridere. La ragazza finiva sempre per ripiombare nella realtà, voltarsi verso di lui e guardarlo, senza dire niente. Le piacevano quei momenti, erano quelli che preferiva. Spesso duravano poche ore o, addirittura, pochi minuti, ma erano più preziosi di qualsiasi altra cosa. Per un momento, potevano far riposare le loro menti, potevano godersi quella poca intimità che si ritagliavano nel corso di un’intera giornata, ma, soprattutto, potevano conoscersi meglio. Ormai stavano insieme da mesi e mesi, ma ogni volta, per Emma, era come la prima. Quei rari istanti della loro vita insieme le permettevano di conoscere sempre un parte di Derek: o un pezzo del suo passato, o una caratteristica fisica che non aveva mai notato prima; oppure poteva soffermarsi ad osservare meglio il movimento impercettibile degli occhi, nascosti dalle palpebre, il sorriso lieve, rilassato e appena accennato che aleggiava sul suo volto e le sue mani grandi che la sfioravano. Ogni volta era come se conoscesse quel ragazzo un pochino di più. Si mosse lentamente, sistemandosi meglio sotto le lenzuola: Derek aprì gli occhi, incuriosito da quel movimento improvviso, ma quando la vide di nuova ferma e rannicchiata contro di lui, come una bambina, non potè far altro che sorridere e avvicinarsi a lei, per lasciarle un bacio veloce sulla fronte. In certi momenti, avrebbe voluto rimanere in quella posizione per tutta la vita, voleva vivere nel mondo idilliaco che aveva sempre sognato sin da bambino e che finalmente aveva trovato con Emma, ma sapeva che fosse una cosa impossibile. Quella era la vita reale e non erano ammessi momenti felici.
«A cosa stai pensando?» chiese infine, cercando di scacciare quei pensieri così positivi da metterlo in crisi.
Emma alzò i suoi grandi occhi azzurri, per incontrare il viso del ragazzo e scrollò le spalle. Le sue piccole dita si stavano arrampicando con fatica sulla mano di Derek per intrecciarle a quelle del ragazzo.
«Mh, niente di importante… Solo-» iniziò, sospirando profondamente «Deaton aveva ragione»
Derek aggrottò le sopracciglia e si sistemò meglio contro il cuscino «Su cosa?»
«Sul fatto che la sete di vendetta e il desiderio di giustizia della rusalki diventeranno sempre più forti, fino ad essere incontrollabili. Ogni volta che penso a quello che Deucalion ha fatto ai nostri genitori, mi sento ribollire di rabbia; ogni giorno è sempre più forte, diventa sempre più difficile contenerla ed ignorarla. E poi… Sento anche crescere il desiderio di ucciderlo, ma-»
«E’ normale» l’interruppe Derek, accennando un sorriso «E’ l’effetto della rusalki»
Emma sbuffò «Sì, ma- Io non voglio uccidere nessuno: mia madre merita giustizia, ma non con un altro omicidio; però, so anche che ucciderlo è l’unico modo che ho per mettere a tacere questa sete di vendetta»
«Ascolta» cominciò il ragazzo, mettendosi seduto sul materasso a gambe incrociate «So cosa si prova, so cosa vuol dire non voler uccidere qualcuno, ma essere costretti a farlo e so anche come ci si senta dopo aver commesso un omicidio, ma Deucalion si merita di andare dritto all’Inferno per quello che ha fatto. E, se non fosse stato per la questione della rusalki, lo avrei già ucciso io da tempo»
«Tu, quindi, vuoi che io lo uccida?» chiese Emma, perplessa.
Aveva pensato molto a quella situazione prima di parlarne con Derek, il quale, però, non conosceva tutta la verità. A lui lo aveva solo accennato, come se ancora fosse una cosa completamente sotto controllo, ma in realtà – nei giorni precedenti – c’erano stati momenti in cui Emma aveva davvero faticato a tenere a bada la rusalki. C’erano stati istanti in cui si era sentita costretta a non pensare e a respirare profondamente per calmarsi, a cercare un modo per far smettere di tremare di rabbia il proprio corpo, ma nella maggior parte dei casi, aveva perso coscienza per via delle fortissime emozioni e si era risvegliata distesa a terra, in un lago di sudore. Aveva iniziato a pensare che forse l’idea di ucciderlo non fosse poi così male, ma, allo stesso tempo, c’era una parte di lei che non poteva non pensare a come i suoi amici – e soprattutto Derek – l’avrebbero trattata in seguito. Non voleva essere considerata un mostro.
«Sì» rispose il ragazzo, dopo un momento di esitazione «Voglio che tu lo faccia per te stessa, ma lo voglio anche per i nostri genitori, perché sono stati uccisi senza alcun motivo e non si meritavano per niente una fine del genere»
«Quindi non penseresti mai che io sia un mostro?»
Sorrise e si piegò leggermente verso di lei, prendendole il viso tra le mani «Non sarai mai un mostro per me, non ci sarà mai niente al mondo che potrà farmi cambiare idea su di te. Emma, quando meno me lo aspettavo, tu sei entrata nella mia vita e la prima cosa che mi hai mostrato è stata me stesso: mi hai accettato per quello che ero – i miei difetti, i miei pregi, il mio passato, il mio caratteraccio – e non ti sei mai tirata indietro, nemmeno quando ho messo la tua vita in pericolo. Hai avuto una pazienza senza limiti con me e mi hai fatto vedere la vita sotto un altro aspetto, mi hai fatto capire, nonostante i miei errori, di non essere una bestia. Quindi, ora dimmi, cosa mai potrebbe farmi pensare che tu sia un mostro?»
Emma si morse il labbro inferiore imbarazzata, per poi sporgersi verso di lui e far combaciare le loro labbra in un bacio piccolo, semplice e casto.
«Lo sai che ti amo, vero?» disse, mentre sentiva le labbra morbide di Derek scendere lungo il suo collo. Rabbrividì, mordendosi la lingua per non dover gemere di piacere.
«Mhmh, lo so» rispose lui, lasciando che quelle parole rimanessero incastrate tra le sue labbra e il collo pallido della ragazza «Lo so benissimo»
 
«Fa attenzione, ok?»
Emma sbuffò, fissando lo sguardo sulla massa di studenti che si stava dirigendo pigramente verso l’entrata della scuola. Sospirò spazientita e tornò a guardarlo «Derek, sto andando a scuola, non al patibolo»
«Lo so, ma…» riprese lui, con uno sguardo preoccupato stampato sul volto. Sapeva che si trattasse di qualcosa che Emma faceva tutti i giorni, ma il pensiero che in quell’edificio, i gemelli fossero costantemente pronti a tenderle un attacco non lo tranquillizzava di certo. Se avesse potuto, sarebbe entrato con lei, ma si rendeva anche conto di star superando il limite della sanità mentale. Doveva fidarsi di Emma, del branco intero e doveva cercare di rilassarsi «Fa attenzione lo stesso»
«Tranquillo, ho un’arma segreta!» esclamò la ragazza, come una bambina, gettando di tanto in tanto un’occhiata al custode, sempre pronto a chiudere le porte d’ingresso, senza permettere ai ritardatari di entrare. Voleva solo tranquillizzarlo e sperava di riuscirci con un po’ di ironia. Derek alzò le sopracciglia, perplesso, e ciò la spronò a continuare. Aprì lo zaino e vi infilò dentro una mano «Una bottiglietta d’acqua!»
Il ragazzo scosse la testa, reprimendo un sorriso. Si piegò lievemente su di lei, facendo sfiorare le loro labbra in un bacio veloce «Ci vediamo all’uscita, va bene?»
«Puoi contarci» rispose lei, con il sapore di Derek ancora sulla bocca. Si allontanò da lui con un sorrisino soddisfatto stampato sul volto, e si avviò verso l’entrata.
Dopo qualche secondo, sentì il motore della sua auto sfrecciare via velocemente. Inizialmente, quando si erano conosciuti, Derek tendeva a passare le sue mattine appoggiato alla camaro, di fronte alla scuola, senza mai perderla d’occhio, per paura che le accadesse qualcosa. Adesso, invece, si fidava abbastanza da andarsene per qualche ora e ritornare al momento dell’uscita. Mesi prima, Emma non ne sarebbe stata molto felice, forse perché le faceva piacere sapere che fosse lì a proteggerla, ma ora che sapeva cavarsela anche da sola, era felice che anche lui si fosse accorto del fatto che potesse farcela. Lentamente, stava imparando a fidarsi di lei e non c’era niente di più bello e più importante per Emma, in quel momento.
Salì velocemente gli scalini che la dividevano dall’ingresso e si inoltrò all’interno dello stabilimento, poco prima che il custode chiudesse definitivamente le porte. Si imbatté in Stiles e dopo un saluto veloce si affrettò nell’aula di chimica, dove due facce abbastanza stanche – quelle di Isaac e Malia – la stavano aspettando.
Si sedette vicino all’amica, voltandosi poi verso i banchi alle sue spalle, per salutare il ragazzo, appena raggiunto da Scott, che non perse tempo nel tirar fuori quaderni e penne e sistemarsi al proprio posto.
«Buongiorno» disse infine Emma, sorridendo.
«Qualcuno è di buon umore stamattina, eh?» esclamò Isaac, passandosi una mano sul viso per scacciare via il sonno «Mi chiedo come tu faccia, io non mi reggo nemmeno in piedi»
«In realtà sono stata sveglia fino a tardi, ieri sera» riprese Emma.
«Eri da Derek?» s’intromise Scott.
La ragazza annuì radiosa, per poi voltarsi una volta sentita la voce del professore farsi spazio nella piccola classe. Lo vide entrare quasi di corsa, con una marea di fogli e libri tra le mani.
«Compito a sorpresa!» annunciò entusiasta, osservando le varie espressioni terrorizzate che si susseguivano sui volti dei suoi alunni.
Emma sbuffò scocciata, per poi voltarsi di scatto alla sua sinistra, dopo aver sentito il tonfo di una testa battere forte contro il banco: davanti a se, Malia era mezza sdraiata sulla superficie chiara e fredda, in segno d’arresa. Quando mai aveva studiato quella materia? Ma, soprattutto, quando mai c’aveva capito qualcosa? Emma sorrise, ripensando alle parole di Derek: forse aveva ragione lui, andare a scuola era un po’ come andare al patibolo.
 
«Allora? A te come è andata?» fu la prima cosa che Malia chiese ad Emma, una volta uscite dall’aula di chimica, dirette ai propri armadietti.
«… Bene?» rispose l’amica. La verità era che il pomeriggio precedente aveva fatto un ripasso veloce, con la paura di essere interrogata, quindi era riuscita a completare quasi tutte le domande, ma adesso di fronte all’espressione afflitta dell’amica, non voleva certo vantarsi di aver svolto il compito in modo soddisfacente.
«Oh, ecco lo sapevo!» esclamò la bionda «Perché non me ne va mai bene una?»
Emma le sorrise incoraggiante, cercando di aprire lo sportello di metallo azzurro del proprio armadietto, con qualche difficoltà. Quando si accorse di non riuscirci, lasciò perdere e si voltò verso di lei «I due precedenti sono andati bene e, allo stesso modo, le interrogazioni: non credo che questo compito decida la tua promozione o bocciatura!» cercò di consolarla «Anzi, secondo me, è andato meglio di quanto tu creda! Ti ho visto scrivere molto!»
Malia sbuffò, annoiata, riuscendo ad aprire il proprio armadietto «Stavo giocando a tris con me stessa, Emma, ho risposto a tre domande su dieci e sono sicura di averne sbagliate due»
Scosse la testa «Credo che sia andato piuttosto bene»
L’amica abbassò lo sguardo, senza rispondere, cominciando ad infilare i libri nell’armadietto, per poi sfilarne di nuovi per le lezioni successive. Emma, invece, tentò di nuovo di aprire il proprio e, per quanto fosse sicura di aver inserito il codice giusto, sembrava essersi bloccato comunque. Tirò un colpo contro il metallo, provocando soltanto un forte ed inutile baccano. La situazione non cambiò.
«Dio!, ma perché non si-»
«Posso provare io?» una voce che conosceva molto bene interruppe il suo flusso piuttosto arrabbiato e irritato di parole. Si voltò nella direzione da cui erano venute quelle parole, sicura che Malia stesse facendo la stessa cosa, per incrociare il sorriso gentile di Aiden.
«Prego» gli disse, facendo un passo indietro, per permettergli di aprire quel maledetto sportellino. Notò gli occhi dell’amica farsi azzurri, ma prima ancora che qualcuno potesse notarlo, le tirò una gomitata leggera nelle costole, affinchè distogliesse la sua attenzione da lui.
Quando tornò a guardare il ragazzo davanti a sé, notò che l’armadietto fosse stato aperto. Sorrise riconoscente, infilandovi dentro un paio di libri e prendendone altrettanti. Lo richiuse con un gesto veloce e secco e si voltò verso di lui «Grazie mille»
Il ragazzo ricambiò il sorriso, però non si mosse dalla sua posizione. Per qualche secondo, Emma si sentì confusa, poi arrivò alla conclusione che, probabilmente, aveva qualcosa di importante da chiederle.
«Devi dirmi qualcosa, Aiden?» domandò infine, mentre Malia faceva di tutto per portarla via da lì. Se solo Derek avesse saputo… Come minimo, le avrebbe tagliato la gola.
Il ragazzo non prestò attenzione al coyote mannaro e al suo desiderio palpabile di ucciderlo in seduta stante e si rivolse completamente alla ragazza che gli stava di fronte «Sì, vorrei parlare con te» Emma annuì, spronandolo a continuare, ma il ragazzo non lo fece. Si limitò ad aggiungere un piccolo, ma importante «Da soli».
«Oh…» mormorò la ragazza, sorpresa «Va bene»
Il ragazzo stava per replicare, quando Malia afferrò bruscamente Emma per un braccio e dopo un veloce «Puoi scusarci un secondo?» si allontanò di qualche passo da lui, nonostante sapesse che avrebbe origliato comunque la loro conversazione.
«Che stai facendo?!» esclamò, con un’espressione minacciosa stampata sul volto.
L’amica sbuffò, incrociando le braccia al petto «So cosa stai pensando, ma siamo a scuola, non può farmi del male»
«Emma, a lui non importa dove o come, potrebbe ucciderti anche davanti a cento persone e ne uscirebbe comunque pulito! Non puoi andare con lui: se ha da dirti qualcosa, che te la dica pure in mia presenza!»
«Malia, per favore…»
«Ho detto di no» replicò lei, più seria e convinta che mai.
«Ti prometto che non mi succederà niente e che starò con lui il meno possibile» replicò Emma «Però ti prego, lasciami andare»
La ragazza ispirò profondamente, prima di prendere la decisione che l’avrebbe mandata dritta all’Inferno. Sapeva che Derek sarebbe venuto a saperlo e dovergli mentire era qualcosa che non le piaceva affatto. Non che gli volesse bene o gli fosse particolarmente affezionata, ma aveva visto come si comportasse quando era piuttosto arrabbiato e non era di certo un bel vedere. Voleva – e doveva – a tutti i costi evitare quella situazione, ma come poteva fare? Le balenò in testa l’idea di essere lei stessa a riferirglielo, così, forse, invece che infuriarsi, l’avrebbe ringraziata per avergli detto la verità, ma così facendo, avrebbe tradito l’amicizia di Emma.
Ritornò alla realtà, quando sentì la campanella suonare piuttosto forte: l’amica era ancora ferma di fronte a lei, in attesa di una risposta.
«Va bene, ma-» iniziò, alzando l’indice, in modo da farsi ascoltare «Sta con lui pochi minuti, cerca di stare in un punto dal quale tu possa chiamare aiuto e porta con te la tua bottiglietta d’acqua, non si sa mai»
Emma sorrise raggiante e l’abbracciò «Grazie, grazie, grazie!» poi, però, si fece seria «Non dire niente a Derek, va bene?»
Malia non rispose e la ragazza interpretò quel silenzio come un . La salutò con un bacio veloce su una guancia e tornò da Aiden, che ancora la stava aspettando, appoggiato agli armadietti. Non appena gli fu abbastanza vicina, controllò che non ci fosse nessuno del branco in corridoio e la prese per mano, dirigendosi verso un’ala della scuola che Emma non aveva mai visitato.
«Dove stiamo andando?» domandò, lievemente titubante e pentendosi subito della scelta fatta. Avrebbe dovuto dare ascolto a Malia.
«Al terzo piano, lì non c’è mai nessuno» rispose lui, tranquillamente, lasciandole la mano quando si accorse che aveva recuperato la distanza e gli stava camminando accanto «E’ il posto perfetto per uccidere qualcuno!»
Il viso di Emma assunse l’espressione più terrorizzata che avesse mai avuto in vita sua, facendo scoppiare il ragazzo in una fragorosa risata. Era ovvio che la stesse prendendo in giro, che non volesse assolutamente farle del male, ma il tono con cui aveva parlato non era stato dei migliori e continuava, comunque, a pensare che quella non fosse stata una bella idea. Avrebbe dovuto dire qualcosa, trovare una scusa e tornare indietro, proprio come le aveva consigliato Malia.
«Dai, stavo scherzando!» esclamò lui, quasi dispiaciuto, non notando alcuna reazione nella ragazza. L’aveva sentita deglutire rumorosamente e i battiti accelerati del suo cuore stavano diventando assordanti. Capiva che avesse paura, ma voleva parlare senza che qualcuno stesse costantemente ad origliare le loro parole.
Emma non rispose a quell’affermazione e si accorse che si stavano allontanando sempre di più dalle loro aule ed inoltrando in una zona della scuola a lei sconosciuta, ma dove, soprattutto, non c’era nessuno. Se Aiden le avesse fatto realmente del male, non sarebbe riuscita a chiamare aiuto.
Salirono varie rampe di scale, fino a raggiungere l’ultimo piano che dava solo ed esclusivamente su una porta. Il ragazzo l’aprì con non poche difficoltà, ma una volta riuscitosi, la spalancò lasciando che il sole forte colpisse i loro volti.
Uscirono allo scoperto e, ad Emma, ci vollero alcuni minuti per capire dove si trovassero: erano sulla terrazza in cima alla scuola. Non aveva mai pensato che quell’edificio ne possedesse una, ma, ad essere del tutto sinceri, era davvero un bel posto: pieno di sole e puntellato in vari angoli da piante verdi e prosperose.
«Sei mai stata quassù?» chiese Aiden, rompendo il silenzio.
Scosse la testa, guardandosi intorno, per poi adocchiare un panchina. Rivolse un’occhiata veloce al ragazzo, attirando la sua attenzione, ed insieme si sedettero sul ferro freddo e lievemente arrugginito.
«Cosa dovevi dirmi?»
Il ragazzo si massaggiò il collo, a disagio: alla fine, non era mica così tanto bravo a fare la parte del buono «Che mi dispiace per questa situazione, per il fatto che non possiamo essere amici e nemmeno salutarci in corridoio quando ci incontriamo, perché rischio di venir fulminato solo con un’occhiata… Però non è colpa nostra, vero?»
«Aiden, è un po’ più complicato di così» replicò Emma, abbozzando un sorriso «Non ti incolpo di niente, ma tu stai dalla sua parte e lui ha ucciso i miei genitori e-»
«Ma io non c’entro niente»
Sospirò «Lo so, è solo che, ora come ora, non penso che possiamo essere amici. Non, se sei disposto ad uccidere qualcuno del mio branco perché Deucalion te lo ordina»
«Ci dev’essere una soluzione!» esclamò lui, spazientito.
La verità era che Aiden non sopportava il suo branco. Certamente, aveva deciso lui di farne parte quando Deucalion gli fece la sua offerta, invitandolo ad uccidere i membri del branco precedente per ottenere più potere. Ma adesso che frequentava la scuola, che aveva amici, avere tutto il potere non era più così bello e soddisfacente come prima. Non era abbastanza, non era ciò che potesse renderlo felice. Quando si fermava a pensare alla sua vita e al suo futuro, non si vedeva come un capobranco che impartisce ordini ed uccide ad occhi chiusi, ma come un qualsiasi ragazzo – ad eccezione della licantropia, con cui, comunque, avrebbe dovuto convivere per sempre – con degli amici, con una ragazza, un lavoro, un figlio magari. Il potere l’aveva cambiato e l’aveva reso più cattivo, ma adesso non era più quello che voleva.
«Aiden» riprese Emma, appoggiando una mano sul suo ginocchio per confortarlo «Io e te non sappiamo niente di questa storia, eppure ci sta spingendo sempre più sul fondo, fino a toglierci il respiro. Facciamo parte di due branchi a cui, per un motivo o per un altro, non apparteniamo veramente. Quello che ha fatto Deucalion non può essere risolto a parole: ci sarà una battaglia, ci faremo del male e lo faremo ai nostri avversari, ma è giusto che tu combatta per il branco di cui fai parte»
Il ragazzo annuì, abbassando lo sguardo «Io voglio solo esserti amico, anzi vorrei esserlo di tutto il tuo branco, perché non sembrate un gruppo di lupi, ma un gruppo di… Amici»
«Ti prometto che lo saremo» affermò Emma convinta «Non adesso, ma lo saremo»
Non l’aveva mai guardato sotto quella prospettiva e questo, inizialmente, la sorprese. Aveva sempre pensato che fosse una persona la cui anima era più selvaggia e animalesca, che umana; l’aveva sempre guardato come un nemico, come una persona di cui avere paura, ed invece stava soltanto cercando di trovare il suo posto nel mondo. Odiava il suo branco, si sentiva a disagio con loro ed Emma riuscì a capirlo soltanto in quel momento. Avrebbe tanto voluto aiutarlo, avrebbe voluto accoglierlo nel suo branco, ma sapeva che non dipendesse da lei. Non poteva fare niente per lui e questa la faceva intristire perché non si meritava assolutamente quella vita. Aveva tutto il diritto di scegliere ciò che gli avrebbe portato la felicità.
«E’ meglio se torniamo in classe» mormorò, dopo secondi di silenzio, Emma.
Si alzarono entrambi nello stesso momento, ma prima che la ragazza potesse fare qualche passo, Aiden l’afferrò per un braccio, facendola voltare, e se la strinse al petto, in un tenero abbraccio. Alla fine, era l’unica amica vera e sincera che avesse mai avuto in tutta la sua vita.
 
Sospirò felice, riponendo i libri di quell’ultima lezione nella cartella, prima di appoggiarsela malamente sulle spalle e recuperare la giacca di jeans che aveva appeso alla sedia. La campanella era suonata ormai da un paio di minuti, così in compagnia di Kira e Lydia, uscì velocemente dalla classe, dirigendosi fuori dall’edificio. Non appena i suoi piedi toccarono gli scalini di marmo bianco che la dividevano dal parcheggio, intravide in lontananza l’auto nera di Derek e lo stesso ragazzo appoggiato alla portiera.
Salutò velocemente le amiche, dirette in biblioteca, e lo raggiunse in un battibaleno. Ogni volta, la voglia di rivederlo ed il desiderio di parlargli erano così forti che non si accorgeva nemmeno di camminare così velocemente, di trattenere il respiro fino a che non fosse sicura di essere ad un paio di centimetri da lui. Queste sensazioni, talvolta, la spaventavano a morte perché erano qualcosa di molto più grande e potente di lei, poi però si ricordava che fosse solo Derek e allora un forte senso di tranquillità e sicurezza la investiva, facendole quasi girare la testa.
«Hey, ciao-»
«Sali» la interruppe lui, seriamente, senza nemmeno guardarla in faccia, mentre il sorriso sul volto di Emma si spegneva lentamente.
Fece come le era stato detto e, solo quando la camaro nera uscì dal parcheggio e si infilò in strada, Derek decise di spiegare il suo comportamento.
«Mi dici cosa ti è saltato in mente?!» esclamò con rabbia, mentre le sue parole rimbombavano violentemente nel piccolo abitacolo dell’auto.
«Come fai a saperlo?» chiese Emma, atona, con gli occhi sulla strada.
«Malia mi ha mandato un messaggio» rispose lui, cercando di moderare i toni, ma gli riusciva difficile in quel momento «E se anche non lo avesse fatto, me ne sarei accorto comunque visto che ti è rimasto addosso il suo odore! Cosa avete-? No, non voglio saperlo!»
«Che fai?, sei geloso adesso?» chiese sarcasticamente Emma, furiosa.
«Non sono geloso!» esclamò «Solo- Cavolo, Emma, io mi fido di te ma così mi stai davvero mettendo alla prova! E se ti avesse ucciso? Mh? Cosa avresti fatto?»
«Aiden non lo farebbe mai» mormorò, cercando di convincere più se stessa che lui «E poi so come difendermi adesso, quindi smettila di arrampicarti sugli specchi: so badare a me stessa!»
«Tu non-! Ah, lascia stare!»
Emma scosse la testa di fronte alla mancanza di motivazioni razionali con cui Derek cercava di difendere le proprie convinzioni, pensando a quanto fosse infantile, e senza aggiungere altro, tornò a guardare fuori dal finestrino.
Qualche minuto dopo, quando l’auto si fermò di fronte al loft, accanto alla jeep azzurra di Stiles e alle moto di Isaac e Scott, aprì lo sportello e scese, sbattendoselo con violenza alle spalle. Derek sbuffò, rendendosi conto di aver esagerato ma, come al suo solito, non gliel’avrebbe data vinta molto facilmente. La guardò precipitarsi su per le scale, senza degnarlo di uno sguardo, insieme ai tre ragazzi, ma preferì fare con calma, prendendosi il suo tempo. Recuperò la giacca che Emma aveva dimenticato sul sedile, chiuse l’auto e s’incamminò all’interno dell’edificio, raggiungendo gli altri in pochi secondi.
Quando salì gli ultimi tre scalini che lo dividevano dal portone d’entrata, fu l’unico dei quattro ad accorgersi che ci fosse qualcosa di strano: il portone era lievemente socchiuso, eppure lui era convinto di averlo chiuso a chiave.
«Fermi» sussurrò, raggiungendoli velocemente.
Si posizionò di fronte a loro e capì che effettivamente ci fosse qualcosa che non andava. Sperava che quella porta aperta significasse solo uno stupido tentativo di furto da parte di qualche delinquente, ma quando appoggiò la mano sulla maniglia per aprire e affrontare la situazione, riconobbe l’odore. Quello di Deucalion.
Non potevano scappare, così si voltò per guardare i tre diciassettenni che aveva alle spalle ed intimò silenziosamente ad Isaac e Scott di entrare subito dopo di lui e cercare di proteggere Emma e Stiles.
Infine, sospirò profondamente, facendosi coraggio, e tirò la maniglia della porta. Ciò che gli si presentò davanti fu, come aveva previsto, la figura di Deucalion, accompagnata da Ennis e suo zio Peter.
«Ma guarda un po’ chi abbiamo qui» parlò l’Alpha, muovendosi lentamente, accompagnato dal suo bastone «Mi stavo stancando di aspettarvi, sai?»
«Cosa vuoi?» sputò Derek, avvicinandosi minacciosamente a lui.
Tirò un’occhiata veloce ad Emma, vicina ad Isaac e notò che ci fosse qualcosa di strano. I suoi occhi erano fissi ed immobili sulla figura di Deucalion, il suo cuore batteva troppo veloce per un normalissimo essere umano e dallo zaino, che aveva con sé, si innalzava un nuvola di vapore caldo.
Lo zaino.
La bottiglietta d’acqua.
La rusalki.
Deucalion.
«Oh no» sussurrò Derek.
Per un attimo, lasciò perdere la minaccia che si stagliava minacciosa di fronte ai suoi occhi e si precipitò dalla ragazza. Stava tremando e sembrava volesse in tutti i modi reprimere quel desiderio forte di ucciderlo, ma poteva ben vedere anche lui che non ci riuscisse molto bene.
«Devo- Devo ucciderlo» balbettò Emma, abbandonando ogni briciolo di razionalità.
«No, no, no, no, Emma-» esclamò Derek, accucciandosi di fronte a lei, che non riusciva più a star ferma e a controllarsi «Isaac, tienila ferma»
Il ragazzo, titubante, cercò di non pensare a ciò che fosse accaduto l’ultima volta e si posizionò alle spalle di Emma, reggendola per i fianchi.
Scott e Stiles cercarono di rimanere in difesa per evitare un qualsiasi attacco da parte dell’altro branco, mentre a Derek non poteva importare di meno: tutto ciò che voleva fare era calmarla. Non sarebbe riuscita ad ucciderlo in quelle condizioni e si sarebbe solo fatta del male.
«Emma, guardami» sussurrò «Pensa a me… Forza, dai… Brava, così… Ancora»
Qualche minuto dopo, la ragazza recuperò le sue facoltà mentali, cadendo tra le braccia di Derek. Cercò di rimettersi in piedi e ci riuscì, seppur difficilmente, grazie anche all’aiuto di Isaac. Si sentiva debolissima, ma non aveva paura. Ormai era abituata a quella sensazione di impotenza in cui si ritrovava ogni volta che l’effetto temporaneo della rusalki scompariva del tutto.
«Ma guarda cosa abbiamo qui» s’intromise Deucalion, avvicinandosi «Una rusalki»
«Cosa. Vuoi.» ripetè di nuovo Derek, ringhiandogli contro.
L’uomo non sembrò per niente spaventato da quella reazione: infatti, fece qualche altro passo avanti, posizionandosi perfettamente di fronte al ragazzo, dietro al quale era nascosta Emma.
«Lei» rispose con tutta calma, con uno dei toni più agghiaccianti che la ragazza avesse mai sentito in vita sua. Chiuse gli occhi, reprimendo alcune lacrime e cercò con tutta sé stessa di non perdere di nuovo il controllo. Solo in quel momento, quando si accorse di correre un vero e proprio pericolo, si rese conto di quanto fossero state vere le parole di Deaton: uccidere Deucalion erano l’unica soluzione a tutti i suoi problemi e, dopo averlo guardato in faccia per minuti interminabili, sapeva che fosse la cosa giusta da fare: senza ripensamenti e senza sentirsi in colpa per un gesto così estremo, che l’avrebbe marchiata a vita.
«Mai» sbottò Derek, mostrando finalmente gli artigli e facendo scintillare gli occhi azzurri «Non avrai mai Emma, almeno non fino a quando ci sarò io»
«Ammirevole» commentò l’uomo con un lieve tono di sdegno nella voce. Accennò un sorrisino diabolico, per poi tornare serio e puntare un indice contro il petto del ragazzo «Voglio essere buono con te» iniziò «Hai due giorni di tempo per consegnarmi Emma, altrimenti ucciderò ogni membro del tuo branco di fronte ai tuoi occhi, senza che tu possa fare nulla»
La prima cosa che Derek riuscì a sentire dopo quelle parole fu il cuore di Emma esploderle letteralmente nel petto. Non poteva lasciarla andare e non lo avrebbe fatto per nessuna cosa al mondo, ma non avrebbe nemmeno messo in pericolo il suo branco, i suoi amici.
Non riuscì a trovare una degna risposta a quello che l’Alpha aveva appena detto: tutta la sicurezza che aveva avuto fino a quel momento era stata spazzata via da quel semplice, ma micidiale ricatto e per quanto ci provasse, non era capace di trovare una soluzione. Deucalion stava vincendo, anzi lo aveva già fatto e probabilmente la soluzione più semplice era quella di arrendersi, di consegnarsi al posto di Emma e morire.
L’uomo non aggiunse altro e non si mostrò interessato a ricevere una risposta, così, con un gesto veloce, richiamò i propri accompagnatori e si avviò all’uscita, lasciando soltanto un vuoto ed un silenzio, pieni di interrogativi e paure.
«Ragazzi… Andate a casa» mormorò dopo qualche secondo Derek, abbozzando un sorriso in direzione dei due beta e di Stiles.
Quando si voltò nella loro direzione, li guardò prendere i caschi delle loro moto e recuperare le loro cose. Spostò lo sguardo su Emma, che era rimasta in silenzio ed immobile per tutto il tempo.
«Stai bene?» fu l’unica cosa che riuscì a dire.
«Lui… Mi vuole morta» affermò con la voce tremante, senza guardarlo negli occhi. Il suo sguardo era fisso in un punto indefinito e non riusciva a muoversi da lì «Forse-»
«Forse, cosa?!» sbottò Derek, alzando il tono di voce «Forse dovrei arrendermi e consegnarti a lui?!»
«Non- non urlare, ti prego» mormorò Emma, come una bambina indifesa, alzando timidamente lo sguardo su di lui. Stava tremando e qualche lacrima insistente era riuscita a scappare ai suoi occhi, per poi rigarle le guance.
Il ragazzo si pentì all’istante di averle urlato contro, di essersi arrabbiato con lei quel pomeriggio e di non aver capito. Se c’era qualcosa che aveva imparato da quando l’aveva conosciuta era che valeva la pena soffrire, farsi male e combattere per chi si ama: questo non valeva solo per Emma, ma anche per il branco intero. Tutto dipendeva da lui, tutti avrebbero riposto una fiducia immensa ed infinita in lui e non poteva deluderli, non poteva perderne nemmeno uno, perché sarebbe stato come perdere un pezzo di cuore.
«Mi dispiace» sussurrò, avvicinandosi a lei e circondandole le spalle con le proprie braccia, per poi spingerla dolcemente contro il suo corpo. Emma vi sia aggrappò con tutta la forza che aveva e si lasciò scappare un singhiozzo. Il ragazzo la strinse a sé, sperando per un momento che smettesse di piangere, perché non riusciva a sopportare quelle lacrime: erano come coltelli appuntiti conficcati nel petto «Andrà tutto bene, te lo prometto»


 

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Capitolo 17
*** The girl who cried wolf ***


salve lupetti :-)
non sono morta, ci mancherebbe, ho solo avuto qualche piccolo intoppo: vi chiedo immensamente scusa, per cui non voglio tenervi qui più a lungo e vi lascio solo qualche precisazione sul capitolo e poi vi lascio alla lettura
  • capitolo tristissimo, come avevo anticipato, popolato da molte morti: alcune vi faranno piacere, altre invece no
  • mancano solo 3 capitoli alla fine della storia: il prossimo sarà ancora ambientato nel presente, mentre gli ultimi due saranno caratterizzati da un salto temporale nel futuro, quindi vedremo i nostri protagonisti un po' cresciuti
  • mi odierete dopo questo capitolo, quindi vi chiedo perdono in anticipo
vi ringrazio immensamente per aver anche solo letto, recensito e aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate e vi ricordo che la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link in bio)

spero di aver detto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO DICIASSETTE: THE GIRL WHO CRIED WOLF
 
Respirò con difficoltà per l’ennesima volta, fissando i palmi aperti delle sue mani, appoggiati sulla superficie ruvida del grande tavolo al centro del loft. Di tanto in tanto, le sue dita erano percorse da una scossa veloce ed istantanea che le faceva tremare per qualche secondo. I suoi capelli erano legati in una coda veloce ed era abbastanza sicura che quel poco trucco che aveva applicato sul viso quella stessa mattina fosse scomparso del tutto.
La luce della luna filtrava tranquilla attraverso i vetri lievemente ingialliti della finestra e ricadeva esattamente sulle sue mani, rendendole molto più biancastre del normale, molto più inquietanti.
Non riusciva a pensare ad altro che a Deucalion e a quello che aveva detto due giorni prima: se non lo avesse sconfitto una volta per tutte, sarebbe stato lui ad ucciderla, esattamente come aveva fatto con i suoi genitori. Dopo dubbi ed incertezze che avevano caratterizzato la sua vita nei giorni precedenti, aveva capito di essere l’unica speranza rimasta al branco. Era lei quella destinata ad ucciderlo, era lei che avrebbe dovuto prendersi la briga di proteggere tutti, facendolo fuori una volta per tutte. Nonostante questo, il pensiero di diventare un’assassina continuava a rincorrerla e tormentava ormai da un bel po’ di tempo il suo sonno.
Un movimento alla sua destra la riportò bruscamente alla realtà: sbattè gli occhi più volte, cercando di eliminare quei brutti pensieri che avevano inondato la sua mente e alzò lentamente lo sguardo, rivolgendolo alla persona che le stava vicino.
Malia era in piedi, ferma ed in silenzio, come se aspettasse che l’amica dicesse qualcosa. Emma, però, non disse nulla, troppo impegnata ad ascoltare le voci soffuse di Derek e del resto del branco provenienti da una stanza vicina. Era talmente impegnata nel mantenere la concentrazione e a bada i suoi stessi poteri, che non aveva la minima idea del problema di cui stessero parlando. In quei due giorni, aveva fatto difficoltà a mantenere il controllo, rischiando di scoppiare ogni volta venisse pronunciato il nome di Deucalion, per cui era stato abbastanza complicato pensare ad altro o semplicemente dimenticarsi di lui e di ciò che aveva fatto alla sua famiglia, anche solo per qualche ora.
«Vuoi provare di nuovo?» Malia sussurrò quella frase, preparandosi al peggio. Lei e Derek avevano passato i giorni precedenti ad insegnare meglio ad Emma come controllarsi, ma il risultato non era stato dei migliori. Nonostante la ragazza non avesse perso le speranze e stesse continuando comunque ad aiutare l’amica, aveva capito che l’unica cura per Emma sarebbe stata proprio quella di uccidere Deucalion: avrebbe perso il suo potere e tutto sarebbe tornato alla normalità. Le faceva male vederla così, perché la capiva: lei aveva avuto più tempo per abituarsi alle sue innate capacità sovrannaturali e alla fine, aveva imparato a controllarle, ma si ricordava perfettamente di quanto fosse stato faticoso. Le dispiaceva per Emma e voleva essere ottimista nel pensare che tutto sarebbe andato per il meglio.
«No» rispose l’amica, lentamente. Piegò di nuovo la testa, tornando ad osservare le sue mani e riprese a fare respiri profondi e ritmici con la speranza di calmarsi e di smettere di tremare dalla rabbia «Non voglio tirare troppo la corda, potrei perdere il controllo ed uccidervi tutti in una volta»
Malia annuì, sebbene sapesse che l’amica non la stesse guardando, e rimase in silenzio.
Non si allontanò, però: aveva l’incarico di rimanerle vicino in quanto Derek voleva che qualcuno la controllasse in qualsiasi momento della giornata, specialmente in sua assenza. Nonostante questo, Malia lo avrebbe fatto comunque: Emma era la sua migliore amica, era parte del branco e se fosse stato necessario, sarebbe rimasta con lei per sempre.
«Erica e Boyd non hanno ancora risposto?» la voce di Stiles entrò nella stanza come un uragano. Emma alzò di nuova la testa, staccandosi finalmente dal tavolo, per guardarlo. Il ragazzo le raggiunse in pochi secondi, seguito più lentamente dal resto del branco, su cui aleggiava un’atmosfera abbastanza preoccupata.
«No» rispose, semplicemente, Malia, gettando un’occhiata veloce allo schermo del suo cellulare.
Stiles si voltò verso gli altri «Forse dovremmo iniziare a preoccuparci»
«E se fossero morti?» azzardò Kira.
«Ve l’avrei già fatto sapere» rispose Lydia, fissando un punto preciso nella stanza. Era sicura che fossero vivi e probabilmente era da pazzi pensare alla loro morte. Era anche vero che fossero scomparsi come due fantasmi da ormai un giorno e mezzo – non si erano fatti vedere a scuola, agli allenamenti, non rispondevano al cellulare e nessuno aveva aperto la porta quando Scott e Isaac erano andati a casa loro per controllare cosa stesse effettivamente succedendo – ma era ancora presto e prematuro pensare che fossero morti.
«Lydia ha ragione» intervenne Derek «Ci sarà sicuramente un motivo molto meno serio della morte e non appena li troveremo, ci faremo dare una bella spiegazione»
Il resto del branco annuì e si dimostrò d’accordo, così per qualche minuto la situazione sembrò essere più tranquilla e meno tesa.
Il capobranco si avvicinò velocemente ad Emma, che alzò i suoi occhi azzurri e stanchi su di lui. Accennò un sorriso, come se avesse voluto convincerlo di star bene, ma sapeva che qualsiasi bugia gli avesse detto – verbalmente e non – lui se ne sarebbe comunque accorto.
«Come stai?» chiese lui infine, portandole dietro l’orecchio una ciocca di capelli scappata alla coda.
«Sono stata meglio» rispose la ragazza, con un sorriso tirato.
Derek non aggiunse altro, ma si sentì impotente di fronte a quell’espressione stanca e distrutta. Sapeva che Emma fosse l’unica a poter salvare l’intero branco, ma ogni volta che tentava di trovare una soluzione diversa, le parole di Deucalion gli martellavano in testa e non gli davano modo di fare alcuna cosa. Quell’uomo la voleva morta e lui – seppur si rendesse conto che il bisogno di Emma non fosse quello di essere protetta ma di uccidere – non poteva far altro che pensare ad una soluzione che non implicasse la perdita di nessun componente del branco. L’Alpha era stato chiaro: Emma doveva morire, altrimenti avrebbe ucciso ogni singolo membro del suo gruppo.
Fu in quel momento che la situazione risultò chiara ai suoi occhi. Impallidì immediatamente, facendo un passo indietro e barcollando. La piccola mano di Emma lo afferrò in tempo per un braccio, impedendogli di cadere ed il suo sguardo spaventato e confuso gli fece capire quanto dovesse essere terribilmente preoccupata ed impaurita l’espressione che aleggiava sul proprio volto.
«Derek, che succede?!» esclamò Emma, aiutandolo a sedersi su una sedia.
Il ragazzo si piegò in avanti, nascondendo il viso tra le mani. Quando riportò lo sguardo alla luce, tutto il branco lo stava fissando.
«Perché non c’ho pensato prima?!» esclamò, alzando la voce «Deucalion mi ha dato due giorni di tempo per consegnargli Emma, altrimenti vi avrebbe ucciso uno ad uno»
«E ha deciso di iniziare con Erica e Boyd» Stiles parlò, terminando la frase al posto suo.
«Dobbiamo trovarli, prima che sia troppo tardi» s’intromise Scott «Lydia?»
La rossa ritrovò improvvisamente gli occhi dell’intero branco puntati sulla propria figura. Per qualche secondo, aveva perso il filo del discorso, troppo immersa nella ricerca dei suoi due amici, ma quando gli sguardi preoccupati dei suoi amici fecero capolino nella sua mente, capì immediatamente che cosa dovesse fare e dire.
«Non sono morti» disse, quasi sottovoce, come se stesse ancora riflettendo intensamente, dopo qualche secondo di silenzio «Non ancora, almeno»
Derek distolse lo sguardo e sospirò pesantemente «Dobbiamo cercarli subito!»
 
Aveva viaggiato su quella jeep azzurra tantissime volte e ogni volta che ci pensava, riaffioravano nella sua mente solo bei ricordi, ma in quel momento non riusciva a scrollarsi di dosso l’idea che Erica e Boyd fossero da qualche parte agonizzanti contro il suolo solo ed esclusivamente per colpa sua. Avrebbe dovuto uccidere subito Deucalion, quando ne aveva avuta l’occasione e non lasciarsi convincere da Derek ad aspettare. Quell’uomo aveva ucciso le loro famiglie, loro due ne avevano pagato le conseguenze per una vita intera e lo avrebbero sempre fatto, ma questo non implicava che persone a cui voleva bene, che erano totalmente al di fuori di quella questione, ne uscissero ferite o addirittura morte. Chiuse gli occhi di scatto, cercando di cancellare quell’immagine dalla sua mente. Se fosse successo loro qualcosa, lei e Derek non se lo sarebbero mai perdonato.
Nel piccolo abitacolo dell’auto, regnava il silenzio: Stiles guidava velocemente e sembrava agitato, mentre Lydia era completamente assorta nei suoi pensieri. Emma provò a non pensare e rivolse lo sguardo fuori dal finestrino, soffermandosi ad osservare la grande luna piena che si stagliava orgogliosa contro il cielo nero, puntellato di stelle. Il resto del branco era avanti a loro, a piedi, impegnato nel seguire l’odore di Erica e Boyd.
Si stavano infiltrando nel bosco e prima ancora che la ragazza se ne potesse rendere effettivamente conto, con grande sorpresa da parte di tutti, si ritrovarono di fronte alla vecchia casa della famiglia Hale.
Stiles si fermò di fronte all’edificio, spegnendo il motore: la casa sembrava totalmente diversa da come Emma la ricordava. Nelle sue memorie, era bella, spaziosa, luminosa, seppur piena di polvere, vecchi scatoloni ed un arredamento ormai scadente, ma la ricordava in modo positivo, come un posto in cui un tempo aveva regnato la felicità. Ma adesso, era tutto il contrario: forse era colpa di quella notte così scura e delle ombre degli alberi che si riflettevano spaventose sulle pareti chiare e le persiane marroni ormai rovinate.
I tre ragazzi scesero dall’auto rimanendo in silenzio e raggiunsero il resto del branco, già piazzato e fermo di fronte alla porta d’ingresso. Emma salì gli scalini cercando di non far rumore, ma lo scricchiolio, che i suoi piedi provocarono sul legno umido ed in procinto di spezzarsi, le fece venire i brividi. Si infilò tra i corpi massicci di Isaac, Scott e Derek, riuscendo finalmente a capire che cosa stessero osservando con così tanta attenzione e paura.
Quando alzò lo sguardo e fissò la porta, i suoi occhi incontrarono uno strano disegnato dipinto di rosso: ritraeva un triangolo da cui partivano tre linee geometriche spezzate.
Aggrottò le sopracciglia e si voltò verso Derek «Cos’è?»
Il ragazzo le rivolse un’occhiata preoccupata, poi decise di parlare all’intero gruppo «E’ il simbolo di vendetta del branco di Deucalion: il tempo è scaduto»
Emma chiuse gli occhi per qualche secondo, deglutendo rumorosamente. Quando li riaprì, tutti gli occhi dei suoi amici erano puntati su di lei. Accennò un sorriso, sperando di rassicurarli, ma sapeva che almeno la metà di loro sarebbe stato in grado di capire il suo vero stato d’animo, semplicemente ascoltando il suo cuore. Tornò a guardare quel simbolo così misterioso e alzò un mano per sfiorarlo.
Quella vernice rossa aveva uno strano odore, era molto liquida e aveva una consistenza lievemente appiccicosa. Ben presto, la ragazza si rese conto che non fosse una semplice tinta.
«E’ sangue…» sussurrò, inorridendo. Si portò immediatamente la mano sui jeans, cominciando a strofinarla il più velocemente possibile affinchè quel poco sangue fresco rimasto sulle sue dita se ne andasse completamente «E’ quello di Erica e Boyd?»
«Potrebbe» rispose Isaac «Ma non possiamo esserne sicuri»
«Come facciamo a trovarli?» riprese Emma, impazientemente. Non dovevano perdere tempo, non poteva permettersi di perdere due membri del branco «Il loro odore si fermava qui?»
Derek sospirò, con aria arrendevole, annuendo. Era rimasto in silenzio per tutta la giornata, pensando a cosa potesse essere successo, al perché fossero scomparsi così all’improvviso, senza nemmeno lasciare un messaggio. Aveva sempre cercato di rimandare indietro l’idea che Deucalion avesse avuto a che fare con la loro scomparsa, ma adesso che era di fronte ai fatti, non poteva più permettersi di credere alle sue stesse fantasie. Il capobranco era stato chiaro: voleva Emma, altrimenti avrebbe ucciso tutti i suoi amici, ma Derek non aveva fatto niente. Non gli aveva consegnato la ragazza, ovviamente, ma non aveva provato nemmeno a trovare una soluzione alternativa. Si sentiva in colpa per questo, perché era lui il capobranco, era lui a doversi preoccupare per i membri del proprio gruppo, era lui a dover essere protettivo come se fossero stati i suoi fratelli più piccoli ed invece, tutto ciò che aveva fatto era stato mandarli dritti al patibolo. Adesso, non poteva far altro che provare a salvarli, ma conosceva benissimo Deucalion, le sue intenzioni ed il fatto che mantenesse sempre la parola data. Aveva avuto in programma di uccidere la sua famiglia e l’aveva fatto; adesso voleva fare la stessa cosa con Boyd ed Erica e ci sarebbe comunque riuscito.
Doveva provare, lo sapeva, e ce l’avrebbe messa tutta per riportarli a casa sani e salvi, perché sapeva che se mai fosse successo loro qualcosa, non sarebbe mai riuscito a perdonarselo.
Intorno a lui, tutti erano in silenzio: nessuno sapeva più cosa fare. Le tracce dei due licantropi si fermavano lì ed il primo istinto che tutti ebbero fu quello di sfondare la porta ed entrare. Quella casa poteva essere l’unico nascondiglio. Eppure, a Derek sembrò troppo facile: capì che non fossero lì, che Deucalion non gli avrebbe mai reso il gioco così semplice, che non avrebbe mai lasciato due lupi in una casa abbandonata – la sua casa – senza nemmeno una sentinella a controllare la situazione. Il loro odore si fermava lì, ma Erica e Boyd si trovavano sicuramente da tutt’altra parte.
Prima ancora che potesse riprendere a parlare, alcune grida lontane colpirono le orecchie di tutto il branco. Emma riconobbe quel suono così forte, lancinante, doloroso e vagamente ritmico: era lo stesso che aveva popolato per mesi i suoi sogni. Adesso, però, era reale e proveniva da un luogo non troppo lontano da lì. Gli occhi di Derek incontrarono il suo sguardo spaventato, ma consapevole e bastò una sola occhiata perché entrambi capissero cosa stesse succedendo, ma soprattutto da dove provenissero quelle grida.
La ragazza sentì salire la rabbia dentro di sé: il ricordo dei suoi genitori, delle loro urla, della loro morte, il pensiero di Deucalion e la paura di perdere anche due dei suoi migliori amici la stavano facendo letteralmente impazzire. Fece dietro front, prendendo a scendere velocemente gli scalini, ma la mano ferrea di Derek la bloccò sul posto.
«Che stai facendo?!» esclamò.
«Sono al lago!»
«Non puoi esserne sicura» rispose lui, lasciando la presa «Potrebbero essere in qualsiasi parte del bosco e non riusciremmo mai ad arrivare in tempo»
Emma sospirò, cercando di recuperare quel poco di autocontrollo che le era rimasto «Ma non riesci a vederlo?! Sta succedendo tutto di nuovo!»
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, guardandola con distacco. Per la prima volta riuscì a vedere la situazione dal suo punto di vista, dalla prospettiva di una rusalki incapace di mantenere il controllo e ipnotizzata dal richiamo dell’acqua.
Si voltò velocemente verso gli altri, rimasti in silenzio alle sue spalle, in cerca di una conferma. Si fidava ciecamente di Emma, ma sapeva anche che in quel momento fosse la sua sete di vendetta a parlare e di quella, in tutta sincerità, si fidava molto meno.
Scott ed Isaac si scambiarono uno sguardo d’intesa, mentre Stiles fissò il suo sguardo preoccupato su Derek. Era della sua stessa idea: Boyd ed Erica dovevano essere salvati, ma fidarsi di una rusalki – il cui intento era solo quello di uccidere – non era per niente facile.
Alla fine, fu Malia a prendere in mano la situazione: scese i tre scalini che dividevano il portico della casa dal fogliame del bosco e s’incamminò verso Emma, ponendosi esattamente al suo fianco.
Lydia fu la successiva, così Derek fu costretto a richiamare il resto del branco con un cenno della testa ed insieme si avviarono verso il lago.
La rusalki guidava l’intero gruppo: la ragazza si sentiva completamente attratta dall’acqua, come se la richiamasse. Per qualche secondo, addirittura, le sembrò di sentire una voce femminile soave e dolce chiamarla ed invitarla ad entrare nel lago. Però, quello non era il momento: continuò a camminare, seguita dal resto del branco, accompagnata dalle grida dei suoi due amici.
Le sembrava proprio di essere in uno dei suoi incubi: tutto intorno a lei era buio, le uniche cose che riusciva a percepire erano la luce bianca della luna piena ed il respiro preoccupato di Derek alle sue spalle.
Superati vari sentieri e varie zone più fitte di alberi, giunsero finalmente in un piccolo pezzo di terra su cui non era cresciuta alcuna pianta: di fronte a loro si stagliava il lago in tutta la sua grandezza ed immensità.
Emma deglutì rumorosamente, osservando i rami degli alberi più alti pendere stanchi verso la superficie argentea dell’acqua.
«Sapevo che, prima o poi, sareste arrivati»
Una voce giunse alla loro destra. L’intero branco si voltò in quella direzione e non appena la figura di Deucalion – sorretto dal suo immancabile bastone – apparve ai loro occhi, i licantropi misero immediatamente in mostra i canini.
L’Alpha non dette loro molta considerazione, piuttosto fece qualche passo verso Derek ed Emma, fermandosi esattamente a pochi centimetri da loro. La ragazza fece un passo indietro: la rusalki dentro di lei stava scalpitando e stava diventando davvero difficile tenerla a bada. Sarebbe bastata una sola parola storta da parte di Deucalion e lo avrebbe ucciso in seduta stante.
«I patti sono patti» riprese l’uomo, rivolgendosi al ragazzo «Ti ho dato due giorni di tempo per consegnarmi Emma, ma tu… Tu sei proprio come tua madre: cocciuto fino alla fine»
«Loro non c’entrano niente!» esclamò Derek «Questa è una questione fra me e te, lasciali andare! Sono disposto a prendere il loro posto!»
Deucalion scoppiò in una fragorosa risata «Gli accordi non si cambiano: Emma o loro» rispose, tornando serio «A te la scelta»
«Voglio avere la certezza che siano vivi» disse allora Derek, cercando di prendere tempo «Sei tenuto anche tu a rispettare i patti»
Deucalion sembrò trovarsi d’accordo con ciò che il ragazzo aveva appena richiesto. Decise di dargli ciò che chiedeva: così, sorrise malignamente e si limitò ad alzare l’indice verso l’alto. Tutto il branco sollevò lo sguardo seguendo il suo dito, finchè i loro occhi spaventati si fermarono sui corpi di Erica e Boyd. Quella visione fu la cosa più terrificante che Emma avesse mai visto: non riusciva a capire se fossero ancora vivi oppure morti, ma avevano i polsi legati e la corda, a sua volta, era stata annodata ad un possente ramo di un albero che pendeva sopra l’acqua.
Derek mostrò immediatamente le zanne, pronto a scagliarsi su Deucalion «Brutto figlio di-»
«Respirano ancora» lo interruppe l’uomo «Hanno solo perso i sensi: lo strozzalupo è così efficace»
«Lasciali. Andare.» tentò di nuovo il ragazzo.
«Sei sempre in tempo a scegliere» rispose il lupo, ignorando completamente la sua richiesta «La tua bellissima ragazza o il tuo branco? Chi ami di più?»
Derek si voltò verso Emma, che lo stava guardando con quei suoi occhi azzurri, di cui lui si era tanto innamorato, e lo sapeva cosa gli stava silenziosamente chiedendo. Lo stava pregando di consegnarla all’altro branco, di lasciare che facessero quella che loro consideravano giustizia e di non sacrificare tutto il gruppo solo per una questione di sedici anni prima che riguardava solo loro due. Il ragazzo la conosceva, sapeva quanto fosse coraggiosa, ma anche quanta paura avesse. Ma conosceva anche se stesso: non sarebbe mai riuscito a vivere senza di lei.
Eppure, nel momento in cui Stiles, Scott ed Isaac lo affiancarono, dimostrandosi pronti a combattere per mettere fine a quella faida, si accorse di non poter vivere nemmeno senza di loro. Il suo non era solo un branco: erano i suoi migliori amici, la sua famiglia, erano le uniche persone di cui si fosse mai fidato. Era la loro guida e non poteva lasciarli morire per una cosa del genere, per un problema che non riguardava nessuno di loro.
Si rese conto che non ci fosse una parte che amasse di più rispetto all’altra: seppure il tipo di sentimento fosse diverso, la quantità di amore che provava per loro e per Emma era esattamente la stessa. Erano un branco, un gruppo di amici, una famiglia – la ragazza compresa – e se fosse successo loro qualcosa, non sarebbe riuscito a vivere con un peso del genere per il resto della sua vita.
«Allora?» riprese Deucalion.
«Posso offrirti solo una cosa: me stesso» parlò Derek «Non azzardarti a torcere un capello ad uno di loro»
L’uomo sogghignò, scuotendo la testa «Vediamo se riesco a convincerti così»
La sua mano si alzò di nuovo, come se avesse voluto dar il via a qualcosa: le figure massicce e minacciose di Ennis e Kali apparvero ai loro occhi: i due slegarono la corda che teneva imprigionati Boyd ed Erica, facendoli ricadere nell’acqua, provocando un rumore assordante. Per qualche secondo ci fu silenzio: i due corpi presero a galleggiare a filo d’acqua, senza nessuna reazione da parte loro.
Fu quello il momento in cui Derek si rese conto che fossero già morti: Deucalion voleva Emma a tutti i costi e avrebbe dovuto saperlo sin dall’inizio che non avrebbe rispettato nemmeno una minima parte del suo accordo. Avrebbe dovuto rendersene conto subito, avrebbe dovuto trovare una soluzione diversa. Adesso, però, era troppo tardi per fare quel tipo di pensiero: Erica e Boyd erano morti e lui non aveva fatto niente, assolutamente niente, per salvarli. Aveva dato per scontato che fossero ancora vivi e questo era stato ciò che l’aveva imbrogliato. Capì che Deucalion sarebbe stato disposto ad uccidere tutti – lui compreso – pur di arrivare ad Emma e portare a termine la sua folle vendetta.
Ma non glielo avrebbe permesso: aveva già sulla coscienza due morti – che avrebbe portato sempre con sé –, non poteva permettersi di perdere altre persone a cui teneva.
Represse le lacrime – non poteva mettere in mostra le sue debolezze proprio in quel momento – e gettò un’occhiata veloce a Stiles e Lydia, incitandoli a rimanere il più possibile in disparte, in quanto umani, e di tenere al sicuro Emma, il più a lungo possibile. Dopo aver ricevuto risposta affermativa da parte dei due, si rivolse al resto del branco. Con uno sguardo, tutti gli confermarono di essere pronti a combattere e a rivendicare coloro che avevano appena perso.
Derek non se lo fece ripetere due volte: mostrò i canini e gli artigli e si lanciò immediatamente contro Ennis e Kali, dando inizio alla battaglia.
Emma si sentiva letteralmente ribollire dalla rabbia: la sua temperatura corporea si stava alzando velocemente e quel calore che sentiva ogni volta che la rusalki prendeva il sopravvento stava iniziando a venir fuori piano piano.
Dovette fare un enorme sforzo per reprimerla: nonostante, però, fosse riuscita per qualche secondo a tenerla a bada, il suo corpo era comunque bollente.
Più l’immagine di Boyd ed Erica morti in quel maledetto lago appariva come una vecchia fotografia nella sua mente, più sentiva il suo corpo scaldarsi. Avrebbe voluto combattere e torturali fino a che non le avessero chiesto di morire, invece era costretta a seguire il combattimento da un posto appartato, insieme a Lydia e Stiles.
Sapeva che Deucalion la voleva morta e che quindi prima o poi l’avrebbe trovata: forse quello sarebbe stato il momento giusto per ucciderlo una volta per tutte.
Cercava di tenere lo sguardo fisso su Derek, un po’ perché non voleva vederlo cadere da un momento all’altro, non voleva immaginarselo ferito e agonizzante a terra, prossimo alla morte, e un po’ perché era la sua ancora e l’unica cosa che le facesse mantenere il buon senso. Se non ci fosse stato lui per tutto quel tempo, probabilmente avrebbe già ucciso Deucalion da un po’. Solo in quel momento si rese conto che, se avessero temporeggiato meno e le avessero lasciato fare il suo lavoro da rusalki, a quest’ora avrebbero già ottenuto giustizia, senza la perdita di nessuno. Se solo lo avesse ucciso prima, Erica e Boyd sarebbero stati ancora vivi. Invece erano morti e lei avrebbe dovuto vivere con quel senso di colpa per tutta la vita.
Ripiombò nella realtà, quando, da un’altra zona nascosta, abbastanza vicina alla propria, uscirono le figure di Aiden e Ethan. Il primo – probabilmente aveva fiutato il suo odore – si voltò immediatamente nella sua direzione e la trovò subito, facendo intrecciare i loro occhi. Nessuno dei due fece niente: il ragazzo sembrava così diverso dall’ultima volta che si erano visti. Il suo sguardo era impassibile, di ghiaccio; i suoi occhi erano inespressivi e concentrati sull’obbiettivo.
Le lanciò un’ultima occhiata, prima di rivolgersi al gemello e fondersi con lui per creare un licantropo ancora più grande.
Emma era sicura che fosse solo la circostanza: credeva davvero in quello che Aiden le aveva detto. Era convinta che si sentisse davvero solo e di troppo in quel branco, che volesse essere veramente suo amico, ma non sapeva se sarebbe riuscita a perdonarlo, se mai avesse ucciso qualcuno quella notte.
«Dobbiamo trovare un modo per aiutarli» sussurrò Stiles ad un centimetro dal suo viso. Emma si voltò di scatto verso di lui, capendo immediatamente a cosa si stesse riferendo: quello era il momento per lasciare che la rusalki dentro di lei uscisse e chiedesse vendetta «Non possono farcela da soli»
«Cosa proponi?» chiese Lydia.
Emma seguiva attentamente e con coscienziosità il filo del discorso, ma non era in grado di dire o fare niente. Tutto ad un tratto, quella sua voglia di uccidere si era trasformata in paura. Era terrorizzata dall’idea di combattere contro un licantropo come Deucalion e, sebbene sapesse di avere un intero branco e moltissima acqua dalla sua parte, era abbastanza convinta di non potercela fare. Tutti contavano su di lei, Derek stesso stava rischiando la vita per lei, ma lei cosa stava facendo? Assolutamente nulla.
Ritornò bruscamente alla realtà, quando si accorse che la parlantina veloce e astuta di Stiles si fosse interrotta all’improvviso. Si voltò immediatamente verso i suoi amici, incontrando due sguardi pieni di terrore. Seguì la direzione dei loro occhi, fino a che inciampò nella figura possente di Deucalion – ormai a trasformazione completa – venire nella loro direzione.
Di scatto, senza nemmeno pensare, uscì dal suo nascondiglio, facendo da scudo ai due ragazzi. Chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi nel perdere definitivamente il controllo dei suoi poteri, ma non sentiva niente. Era come se la rusalki si fosse paralizzata e più questo pensiero le invadeva la mente, più il lupo si avvicinava per ucciderla.
Provò di nuovo, ma fu interrotta dagli artigli di Deucalion conficcati in una delle sue braccia. Era sicura che sul suo volto fosse dipinta l’espressione pallida di chi sa di essere ormai vicino alla morte. La faccia dell’uomo aveva assunto la classica conformazione del muso lievemente appuntito di un vero e proprio lupo; gli occhi brillavano di rosso e le zanne color avorio fuoriuscivano dalla bocca e sembravano pronte ad addentarla in qualsiasi momento.
Un ruggito in lontananza attirò la sua attenzione: distolse lo sguardo dal mostro che le stava di fronte, per puntarlo su Derek ed Isaac, che stavano accorrendo in suo aiuto.
Li vide superare il resto dei due branchi per accanirsi su Deucalion: correvano così velocemente e agilmente che non riusciva nemmeno a seguirli con i propri occhi attenti.
Cercò di nuovo di sprigionare la rusalki dentro di sé, ma i canini così affilati del lupo che la stava tenendo prigioniera non le permettevano di concentrarsi a sufficienza.
Riportò gli occhi su Derek ed Isaac, ma ciò che vide la fece rabbrividire: Ennis e Kali li avevano bloccati a terra e stavano infliggendo loro ferite, di cui avrebbero riportato le cicatrici per giorni. Deucalion sorrideva soddisfatto e compiaciuto, mentre osservava la scena e li guardava ricoprirsi lentamente di sangue, per poi perdere i sensi.
Emma provò ad urlare, per richiamare Derek ma dalla sua bocca non uscì niente: aveva sempre pensato che – nonostante tutto – sarebbero riusciti a vincere quella battaglia, ma in quel momento, vedendolo a terra, privo di forze e a rischio di morte – capì che non ce l’avrebbero mai fatta, che quel branco era troppo forte per loro.
Ennis sollevò il ragazzo, che ormai che non riusciva nemmeno più a reggersi in piedi. Emma incrociò il verde limpido e silvestre dei suoi occhi ormai tristi e spenti e le venne da piangere. Non voleva che finisse così, non voleva morire, ma non voleva nemmeno perdere Derek.
«Scegli!» ruggì Deucalion, facendo maggior pressione sul suo braccio, fino a lasciare il segno «Vuoi che sia lui a morire o vuoi salvargli la vita e toglierti di mezzo una volta per tutte?»
Emma rimase in silenzio, con lo sguardo fisso sul ragazzo, il quale scosse in modo impercettibile la testa, suggerendogli la risposta, ma la ragazza non avrebbe mai permesso una cosa del genere. Non avrebbe mai lasciato che lui si sacrificasse per lei, ma non voleva nemmeno essere lei quella a morire.
Così, decise di non rispondere, di continuare a nascondersi nel suo silenzio, ma non sapeva che quella sarebbe stata la sua scelta peggiore.
Udì Deucalion sogghignare soddisfatto «Bene, vedo che hai fatto la tua scelta»
Si voltò verso Ennis e con un cenno veloce della testa, lo invitò a fare una parte di quello che aveva sognato di fare da anni. Il licantropo portò i suoi artigli intorno al collo pallido di Derek e con un colpo secco, tagliò la sua gola. Gli occhi del ragazzo si spensero lentamente ed il suo corpo si accasciò per terra, mescolandosi al fogliame del bosco.
Emma sapeva che, in quel momento, avrebbe dovuto piangere, urlare, e piangere ancora, ma l’unica cosa che sentì fu la rabbia che le cresceva nel petto, alla vista del suo capobranco ormai morto e dell’espressione compiaciuta stampata sul volto di Deucalion.
Quel calore famigliare, che sentiva ogni volta che la rusalki era pronta ad uscire, prese a formarsi e a crescere velocemente nel suo petto. Si impegnò al massimo per perdere il controllo del suo potere: poteva farcela, anzi doveva farcela. Per Derek, Erica e Boyd.
Il richiamo dell’acqua divenne ancora più forte, poteva sentire la voce del lago chiamare il suo nome in modo chiaro, nitido, senza alcuna interferenza.
Quando il calore prese a salire, raggiungendo velocemente il suo cervello, tutto quello che doveva fare apparve all’improvviso più semplice del previsto. Deucalion sembrava non esserne nemmeno accorto, troppo occupato a non mantenere le sue promesse e a trovare un modo atroce per ucciderla. Emma si approfittò della sua distrazione, per richiamare a sé l’acqua del lago, utilizzando il braccio non imprigionato dalla stretta felina del licantropo.
In pochi secondi, un vortice d’acqua grigiastro si alzò impetuoso verso il cielo, per poi lasciare uscire un serpente di vapore, che – controllato da Emma – giunse fino a loro. I due branchi si fermarono immediatamente, troppo spaventati da quello che stava succedendo. Era sicura che i suoi amici sapessero bene cosa stesse facendo, ma era la prima volta che riusciva a controllare una quantità così immensa d’acqua. Per un momento, la ragazza sorrise, pensando che forse la quantità immane della rabbia che aveva dentro di sé fosse strettamente legata alla quantità d’acqua che aveva tirato fuori dal lago: probabilmente, le due cose erano l’una la conseguenza dell’altra.
Deucalion, alla vista di quell’imperdibile pericolo, lasciò immediatamente la presa ed Emma fu di nuovo libera. Con l’altra mano, richiamò a sé un altro serpente, per poi indirizzarli entrambi verso il licantropo, ormai tornato a sembianze umane.
Le due scie di vapore lo circondarono, fin quasi a farlo scomparire, attorcigliandosi come una morsa intorno a lui. L’uomo cominciò a dimenarsi, chiedendo aiuto al proprio branco, il quale tentò varie volte di salvarlo, ma finì sempre per scottarsi. Emma sollevò entrambe le mani verso l’alto, percependo un sentimento strano, ma piacevole, di soddisfazione, e controllò i due serpenti d’acqua, affinchè lo stringessero ancora di più. Deucalion urlava di dolore e pregava la ragazza di fermarsi, ma la rusalki dentro di lei era molto più forte: nel giro di pochi secondi, l’uomo perse i sensi, ma questo non la fermò. Continuò a stringerlo, a bruciarlo fino a che non fu sicura che fosse morto. In un secondo momento, permise all’acqua di tornare a mescolarsi con il resto del lago, ma decise che il licantropo meritasse lo stesso destino dei propri genitori: così, tenendolo ancora imprigionato tra le sue scie d’acqua, lasciò che queste tornassero a casa e lo portassero via con sé. L’ultima cosa che vide prima di crollare esausta sulle sue stesse ginocchia, fu il corpo di Deucalion risucchiato dall’acqua argentea del lago, sotto la luce della luna piena.
Per qualche secondo ci fu silenzio intorno a lei.
Quando alzò lo sguardo, il branco del lupo che aveva appena ucciso la stava fissando spaventato: chissà cosa si stavano aspettando, chissà se si stavano chiedendo se avrebbero fatto la stessa fine o se, forse, sarebbero stati graziati. Spinti più dalla paura di morire, che dal terrore vero e proprio della creatura che avevano di fronte, non appena incrociarono lo sguardo stanco di Emma, scapparono a gambe levate – Peter Hale compreso –, perdendosi nel bosco. Anche loro erano gravemente feriti e, quasi sicuramente, non sarebbero andati poi così lontano.
Ma ad Emma non importava. Non aveva nemmeno le forze per tenersi in piedi, ma cercò comunque di raggiungere il corpo di Derek.
Si accasciò su di lui, scoppiando a piangere: le sue lacrime si riversarono sul volto pallido e violaceo del ragazzo. Nascose la testa nell’incavo del suo collo ormai freddo e ferito e si aggrappò a lui con tutte le forze che aveva in corpo.
Poi, improvvisamente, si ricordò delle parole di Deaton: la rusalki era cattiva, vendicativa, ma poteva curare qualche ferita. Non aveva idea di come si facesse, ma tentò comunque. Appoggiò una delle sue piccole mani sulla ferita mortale del ragazzo e si concentrò per un’ultima volta. Doveva funzionare, non poteva finire così. Dopo tutto quello che avevano passato, non si meritavano questa fine.
In preda alla disperazione, con le lacrime che ricadevano lungo le sue guance, chiuse gli occhi per qualche secondo, ma non accadde niente. Ne ebbe la conferma, quando, riaprendoli, Derek era ancora lì, sdraiato per terra e morto.
«Perché non funziona?!» esclamò, frustrata «Deve funzionare!»
Si voltò di scatto, spaventata, quando sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla. Stiles la guardò con gli occhi lucidi e si chinò, mettendosi alla sua stessa altezza e cercando di parlarle come si fa con una bambina che si è appena fatta male.
«Dobbiamo andare» sussurrò, cercando di non guardare Derek.
«No… No, posso ancora salvarlo» singhiozzò Emma.
«No, non puoi» rispose lui «La rusalki se n’è andata»
La ragazza ricordò di nuovo cosa le avesse detto Deaton e gli occhi con cui guardò Stiles furono talmente tanto tristi, arrabbiati e pieni di sensi di colpa che il ragazzo rischiò di perdere il controllo e scoppiare a piangere.
«No, no-» cominciò Emma «E’ più forte di un taglio alla gola, è un licantropo, cazzo-» singhiozzò, tornando poi a guardare Derek «Ti prego, non mi lasciare- Mi… Mi dispiace per tutto, ma per favore, non-»
Prima ancora che potesse accorgersene, sentì le braccia esili di Stiles, spingerla verso di sé e chiuderla in un abbraccio. Scoppiò di nuovo a piangere contro la sua maglietta e le sue gambe seguirono esattamente le indicazioni del ragazzo, quando le sussurrò che fosse arrivato il momento di alzarsi e di andarsene una volta per tutte.
Stiles la prese per mano e raggiunse tutti gli altri, fermi di fronte alla jeep azzurra del ragazzo. Emma guardò ognuno di loro, senza dire niente e ancora prima che qualcuno potesse aprir bocca, si precipitò dentro l’auto e vi si chiuse dentro.
Adesso poteva sentirlo. Lo sentiva quel senso di colpa crescere lentamente ma inesorabilmente nella sua mente e nel suo petto, pesante come un macigno che avrebbe dovuto portar con sé per sempre. Tutti avevano avuto fiducia in lei, ma non solo non era riuscita a salvare Boyd ed Erica, ma era stata anche la responsabile della morte di Derek.
Era da stupidi pensarlo, ma stentava a crederci, non riusciva ad immaginarsi una vita, o semplicemente un’ora, senza di lui. Non si sarebbe mai perdonata una cosa del genere.
Si lasciò andare contro il sedile posteriore della piccola jeep e dopo aver gettato uno sguardo veloce alla luna, chiuse gli occhi, nonostante le lacrime continuassero a rigare le sue guance.
«Che ne facciamo adesso dei corpi?» e «Sarà meglio chiamare Deaton» furono le ultime cose che sentì, prima di addormentarsi ed essere divorata da incubi impossibili da raccontare.


 

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Capitolo 18
*** Black out days ***


salve lupetti :-)
questa volta sono stata super veloce e sono riuscita ad aggiornare in tempi accettabili!
ne approfitto per ringraziarvi di nuovo per letture, commenti e per aver aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate

vi lascio solo qualche precisazione sul capitolo e poi potete dedicarvi alla lettura
  • ​le parti in corsivo sono flashbacks
  • quando incontrerete tre asterischi (***) significa che tra il paragrafo precedente e quello successivo c'è un salto temporale più lungo di un mese
  • mancano solo (!!!) 2 capitoli alla fine!
  • i due ultimi capitoli saranno ambientati anni avanti
vi ricordo che, come sempre, la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link in bio)

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura!
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO DICIOTTO: BLACK OUT DAYS
 
Aprì gli occhi molto lentamente, sbattendoli di continuo perché colpiti da una luce forte e bianca, puntata esattamente sul suo viso. Si portò una mano sul volto per coprirsi, muovendo la testa a destra e a sinistra per capire dove si trovasse. Aveva lo sguardo appannato, come se tutte le lacrime che non aveva mai pianto in vita sua si fossero bloccate lì, in attesa di scivolare sulle sue guance.
Quando, finalmente, riconobbe gli armadietti pieni di medicinali dell’ambulatorio di Deaton si rese conto di dove fosse: il lettino su cui era disteso era eccessivamente freddo, percepiva il suo corpo più pensante del solito e lento nei movimenti. Provò ad alzarsi, cercando di mettersi seduto, ma una serie di fitte lo colpì, partendo dal bacino e risalendo fino alla testa.
Al ricordo di quelle ferite, si portò immediatamente una mano intorno al collo, percependo sotto i suoi polpastrelli la superficie ruvida della garza con cui era stato medicato.
Intorno a sé, comunque, regnava il silenzio: le uniche cose che riuscisse a sentire erano il ronzio di alcuni macchinari presenti nella stanza e qualche voce soffusa provenire dalla sala d’aspetto.
Rimase seduto ed immobile, mentre tremava di freddo – infatti, si rese conto di indossare soltanto i suoi inconfondibili jeans neri – cercando di ricordare esattamente cosa fosse successo, ma soprattutto quanto tempo fosse passato.
Aggrottò le sopracciglia, chiedendosi chi lo avesse portato lì e cosa ne fosse stato dell’altro branco, ma la domanda che più girovagava senza sosta nella sua mente riguardava Emma ed i suoi amici. Sperava che – oltre a Boyd ed Erica – non ci fossero stati altri feriti o, peggio, altri morti.
Si passò di nuovo una mano sul viso e provò a scendere dal lettino, cercando di mettersi in piedi. Era consapevole di essere ancora molto debole, ma aveva bisogno di risposte e sapeva che non le avrebbe ottenute, rimanendo lì a rimuginare su cose a cui non sapeva dare una spiegazione.
Non appena appoggiò il primo piede sul pavimento ruvido, il suo corpo non riuscì a reggere e finì per cadere rovinosamente a terra. Nella caduta, cercò di aggrapparsi ad un piccolo carrello su cui erano appoggiate siringhe di varie lunghezze, ma non servì a niente.
Si mise di nuovo in piedi, sbuffando sonoramente.
Quando alzò lo sguardo, Deaton era di fronte a lui con un’espressione preoccupata stampata sul volto. Si precipitò al suo fianco, sorreggendolo e lo aiutò a sedersi di nuovo sul lettino.
«Avresti dovuto rimanere fermo e sdraiato» gli disse soltanto.
Il ragazzo roteò gli occhi infastidito e riprese la posizione di partenza.
Il dottore gli gettò un’ultima occhiata per accertarsi che non si muovesse di nuovo ed uscì dalla stanza, per poi tornare qualche secondo dopo con un ago piuttosto grande tra le mani e Stiles, Scott ed Isaac al suo seguito.
I tre ragazzi lo circondarono, tirando finalmente tutti un sospiro di sollievo. Deaton, nel frattempo, si preoccupò di inserire l’ago in una delle siringhe allineate su una mensola e, dopo aver superato i corpi massici dei suoi ospiti, si ritrovò di fronte a quello più pallido, stanco e debole di Derek.
«Brucerà un po’» lo avvertì, prima di pungere la sua pelle.
Il ragazzo strizzò immediatamente gli occhi, mentre un’espressione di dolore si faceva spazio sul suo viso, ed inarcò lievemente la schiena. Dopo qualche secondo, si rilassò contro il lettino e puntò lo sguardo sui membri più fidati del suo branco.
«Cosa è successo? State tutti bene?»
Stiles si portò una mano dietro alla nuca, massaggiandola lentamente «Deucalion ti ha tagliato la gola» iniziò, ricevendo un’occhiataccia da parte di Scott, sicuramente per il poco tatto usato nella scelta delle parole «Ma Emma è riuscita ad ucciderlo, solo che il resto del suo branco è scappato, tuo zio compreso»
«Noi stiamo bene» aggiunse Isaac «Ad eccezione di Boyd ed Erica, che…»
Derek chiuse gli occhi, cercando di eliminare quel pensiero. Poi li riaprì e guardò Deaton «Perché non sono morto?»
Il dottore scrollò le spalle «Bhè, credo che il taglio non sia stato abbastanza profondo da ucciderti, anche se ha creato una ferita che ancora adesso – dopo una settimana – deve rimarginarsi»
«Una settimana?!» esclamò, scattando a sedere e gemendo l’ennesima volta per una fitta alle costole.
«Abbiamo supposto che tu fossi in una specie di coma» parlò Scott «Non eri morto, ma non ti svegliavi»
Il ragazzo si passò una mano sul visto stanco, cercando di mettere in ordine le ultime informazioni ricevute. Era già passata una settimana da quando due dei suoi migliori amici erano stati uccisi, da quando non vedeva tutti gli altri e non parlava con Emma. Nonostante non fosse lì – e quel pensiero lo tormentava più di ogni altra cosa – era fiero di lei. Era davvero contento che quell’incubo si fosse concluso una volta per tutte, proprio grazie a lei. Si rese conto, solo in quel momento, che l’unica cosa che gli avrebbe davvero fatto bene sarebbe stata la sua presenza. Anche solo vederla, scambiare con lei qualche parola o qualche sguardo sarebbe bastato a farlo guarire da quelle orrende ferite, per cui la domanda fu più che lecita e lasciò parlare la sua bocca, senza che se ne accorgesse.
«Emma dov’è?»
Stiles si schiarì la voce e fece un passo verso il lettino su cui adesso stava seduto il ragazzo e guardò i suoi due amici. Deaton terminò di sciacquare la siringa, gettò via l’ago ed uscì dalla stanza, per lasciar loro un po’ di privacy e per portare avanti il suo umile lavoro di veterinario: aveva ben due animali che lo stavano aspettando.
Non appena la porta si chiuse alle sue spalle, Derek tornò con lo sguardo sui tre ragazzi, in cerca di una risposta alla domanda che aveva appena posto.
«Emma…» cominciò il diciassettenne «Emma è partita, è andata a trovare sua nonna a Danville, dove viveva prima di trasferirsi qui, ma…»
«Ma?» lo incalzò Derek.
Stiles sospirò, cercando di trovare le parole giuste «Non tornerà, Derek»
 
Si passò una mano tra i capelli e suonò il campanello. Erano le tre del pomeriggio di un sabato uggioso. Degli immensi nuvoloni grigi si stagliavano nel cielo e non potevano che promettere pioggia. Tutto intorno a lui era silenzioso, sentiva solo il vento pungente che gli scompigliava i capelli e si infiltrava sotto la sua felpa pesante, facendolo rabbrividire. Per essere ormai in primavera, quel tempo sembrava molto autunnale.
La sua attenzione fu però catturata dal suono della chiave, inserita nella serratura, che veniva fatta girare senza difficoltà.
Quando Stiles alzò lo sguardo, tutto ciò che vide fu l’espressione stanca, dipinta sulla faccia di Emma: i suoi occhi erano rossi e gonfi, segno che avesse pianto senza mai smettere; i suoi capelli erano raccolti in una coda veloce ed il suo corpo era tenuto al riparo dal freddo che c’era fuori da una tuta grigia a maniche lunghe.
Senza dir niente, la ragazza si spostò di lato, lasciandolo entrare e la prima cosa che lo colpì fu la marea di scatoloni pieni e sparsi per tutto l’ingresso.
«Come sta?» chiese Emma, chiudendosi la porta alle spalle e seguendolo in cucina. Gli versò un bicchier d’acqua e glielo passò.
«E’ ancora vivo» confessò il ragazzo, mentre la guardava tirare un sospiro di sollievo e cacciare indietro lacrime di gioia «Ma non si è ancora svegliato. Ormai è così da un paio di giorni e Deaton non sa più che fare»
Emma annuì lentamente «L’importante è che sia vivo, no?»
«Sì» rispose «Puoi andare a trovarlo, se vuoi»
La ragazza scosse lentamente la testa, mentre nuove lacrime lasciavano i suoi occhi, per scivolare senza difficoltà sulle sue guance pallide. Aveva pensato per giorni a quella possibilità e alla fine aveva capito che, per quanto triste, quella fosse la decisione giusta per entrambi. Da quando era arrivata a Beacon Hills, aveva rischiato di morire e aveva messo in pericolo la vita dei suoi migliori amici e, peggio ancora, di Derek. Quello che era successo al lago era accaduto a causa sua: Erica e Boyd erano morti per qualcosa che non li riguardava e sapeva che, per quanto avesse provato a dimenticare, i loro fantasmi sarebbero rimasti per sempre a girovagare senza sosta nei meandri della sua mente. Aveva due morti sulla coscienza e non si sarebbe mai perdonata una cosa del genere. La sua partenza avrebbe fatto bene a tutti: il branco sarebbe tornato quello di prima, sarebbe stato ristabilito il precedente equilibrio e lei avrebbe ricominciato a vivere una vita normale altrove. Le aveva fatto male, le aveva letteralmente spezzato il cuore prendere quella decisione, ma era l’unica possibile soluzione. Aveva mentito spudoratamente ai suoi genitori, dicendo di voler tornare a Danville per terminare la scuola, perché lì non si era trovata bene, quando invece, nonostante Deucalion ed i mille ostacoli che aveva incontrato sulla sua strada, era stato l’anno più bello della sua vita. Non era pronta a lasciare tutto così, ma lo doveva ad Erica, a Boyd ed anche a Derek. Era stata il motivo della loro morte e delle sue ferite quasi mortali: non poteva permettersi di metterlo in pericolo di nuovo, in futuro.
Ed in tutto questo, sapeva anche di essere una codarda: non avrebbe aspettato il suo risveglio, sarebbe partita immediatamente perché sapeva che se lo avesse anche solo visto, avrebbe cambiato idea in seduta stante.
«E’ meglio di no» rispose infine.
«Perché no?» domandò Stiles, sinceramente confuso «Emma, cosa sta succedendo? Perché non vuoi vederlo? Perché- Oh, aspetta… Gli scatoloni-»
«Ho deciso di tornare a Danville» confessò lei, sostenendo il suo sguardo sorpreso.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia e si avvicinò a lei «Perché?»
«Perché-» sospirò, cercando di mandar giù il groppo pieno di lacrime, tristezza e colpa che le si era formato in gola e non le permetteva nemmeno di parlare e pensare lucidamente «Sono felice che Derek sia vivo, ma non posso rimanere qui e continuare a mettere la sua vita in pericolo: tutto questo è accaduto a causa mia e se non mi fossi trasferita qui… Erica e Boyd sarebbero ancora vivi e lui… Lui non avrebbe alcun tipo di pensiero»
«Emma» sussurrò Stiles, prendendole le mani «Quello che è successo non è colpa tua, non c’era niente da fare per loro, siamo arrivati tutti troppo tardi-»
«Non riesco nemmeno a guardarti negli occhi» rispose Emma «Mi spieghi come potrei vivere il resto dei miei giorni qui? Qualsiasi cosa faccia o dica, qualsiasi posto io frequenti qui e qualsiasi persona incontri… Tutto mi ricorda Erica e Boyd e come sono morti; tutto mi ricorda quanto male ho fatto a Derek e quanto gliene farò ancora, se rimarrò qui»
«Possiamo trovare una soluzione, Emma, lo facciamo sempre» riprese il ragazzo, tentando di convincerla a restare.
La ragazza scosse lentamente la testa, mentre le sue guance ormai arrossate si ricoprivano di altre lacrime. Stiles cercò di ricacciare indietro le proprie e l’unica cosa che potè fare fu stringere quella ragazza così fragile e distrutta tra le sue braccia un’ultima volta.
 
Da: Isaac (11.56 am)
“Ciao Emma, come stai? Mi dispiace disturbarti, sicuramente sarai impegnata con il trasloco, ma volevo dirti che questo weekend ci saranno i funerali di Erica e Boyd. Nessuno vuole farti pressioni nel tornare qui, ma volevamo comunque che lo sapessi. Ci manchi”
 
Aveva sempre creduto di essere la persona più triste, frustrata e sfortunata del mondo. Aveva perso i suoi genitori quando aveva appena compiuto sei anni, aveva sempre vissuto da solo, aveva imparato a superare gli ostacoli della vita, a sfamarsi, a fidarsi (anche se in quello non era mai stato granché bravo) senza l’aiuto di nessuno. Aveva sempre fatto affidamento su se stesso, senza chiedere aiuto, eppure adesso che si trovava di fronte alle lapidi di Erica e Boyd non era più così sicuro di farcela.
La cerimonia era stata molto breve, quasi indolore, però così intensa che non si era nemmeno reso conto della sua fine. Per tutto il tempo, i visi sorridenti dei due ragazzi erano rimasti intrappolati nella sua mente, senza lasciarlo tranquillo nemmeno per un secondo.
Erano stati seppelliti nel bosco, perché così aveva voluto Isaac: diceva sempre che quello era il loro posto, che le persone come loro non potevano essere sotterrate nei comuni cimiteri. Erano un branco e lo sarebbero sempre stati – nemmeno la morte li avrebbe divisi – ed il loro riposo eterno doveva appartenere alla terra, alla pioggia, alle foglie e agli alberi di quel bosco che per tanto tempo avevano amato e dove avevano trovato rifugio durante le notti di luna piena.
Derek sospirò scrollando leggermente le spalle e si allargò il nodo alla cravatta nera. Erano giorni che aveva la sensazione di non respirare: forse il motivo era la partenza di Emma o, più sicuramente, il senso di colpa che anche in quel momento lo stava divorando.
Leggere i loro nomi e le loro date di nascita e morte sulle lapidi gli metteva una tristezza infinita addosso. Non aveva mai visto la morte da vicino, sebbene anche la sua famiglia avesse fatto la stessa fine, ma in quel momento era diverso. Per quanto quelli fossero stati i suoi genitori, li sentiva lontani e ricordava poco o niente di loro, invece Erica e Boyd erano stati due dei componenti della famiglia che l’aveva accompagnato negli ultimi anni. Forse non erano fratelli di sangue, forse erano solo uno stupido branco, ma occupavano un posto speciale nel suo cuore. Erano la famiglia calda, accogliente e di cui fidarsi che non aveva mai avuto.
Chiuse gli occhi per qualche secondo, giusto per lasciare che qualche lacrima rigasse le sue guance puntellate da un po’ di barba incolta e li riaprì, fissando le foto sulle tombe. Accennò un sorriso amaro e ne tracciò i contorni con un dito.
«Mi dispiace» sussurrò.
Quando si rialzò e si voltò, pronto ad andarsene, inciampò nella figura di Stiles, in piedi, qualche passo indietro a lui. Il diciassettenne abbozzò un sorriso, con l’intento di consolarlo, ma l’espressione di Derek non mutò di una virgola. Rimasero in silenzio e si avviarono a casa.
 
***
 
Danville era esattamente come la ricordava e come l’aveva tristemente lasciata quasi un anno prima. L’iscrizione nella nuova scuola ed il trasferimento immediato erano stati così veloci che non aveva nemmeno avuto un momento per fermarsi a pensare a cosa fosse realmente accaduto.
Era arrivata in quella famigliare cittadina, accompagnata da suo padre, che poi era ripartito subito per Beacon Hills. Per qualche mese – fino alla fine dell’anno scolastico, visto che il signor Grimes era un insegnante – avrebbe dovuto dormire da sua nonna, poi anche i suoi genitori sarebbero tornati a vivere lì.
Aveva ritrovato qualche vecchio compagno di scuola, ma la sua breve permanenza a Beacon Hills, di cui tutta la scuola aveva parlato per qualche settimana, aveva cambiato la sua vita e la visione del mondo che la circondava. Si sentiva tremendamente sola, nonostante fosse stata reintegrata nei gruppi dei compagni che aveva lasciato per via del trasferimento: infatti, quando si muoveva da un’aula all’altra, quando tornava a casa oppure quando studiava in biblioteca, circondata da un silenzio quasi fastidioso, sentiva che ci fosse qualcosa che mancasse.
Alla fine, per quanto cercasse di non pensarci, capì cosa effettivamente non fosse più presente: le mancavano le battute scadenti di Stiles, i suoi monologhi incomprensibili, la sua iperattività e la sua jeep azzurra; le mancava Malia con i suoi consigli pressoché inutili, ma dati con il cuore, con la sua impulsività e vivacità; le mancavano Isaac e i suoi occhi blu e profondi come il mare, la sua moto ed il vento tra i capelli quando qualche volta aveva rinunciato al casco, il suo modo di entrare in casa di soppiatto e spaventarla; le mancavano Lydia, Scott e Kira; Erica e Boyd che abitavano i suoi ricordi ormai ogni giorno.
Ma la persona che le mancava più di tutti era Derek: non aveva più avuto sue notizie, ad eccezione di quando Stiles l’aveva avvertita che si fosse finalmente svegliato. Aveva provato molte volte ad immaginare la sua reazione di fronte alla notizia della sua partenza, ma non c’era mai riuscita bene. Chissà se si era arrabbiato, chissà se invece ne era rimasto sollevato. L’unica cosa che sapesse fin troppo bene era quanto le mancasse. Ogni tanto ripensava ai bei momenti passati insieme, alle passeggiate nel bosco rigorosamente di giorno per paura che di notte accadesse qualcosa; alle notti di luna piena durante le quali il ragazzo si chiudeva in se stesso e preferiva rimanere sveglio tutta la notte per guardarla dormire; al fin troppo cibo spazzatura che avevano mangiato insieme; alla prima volta che il branco li aveva beccati mentre si baciavano e Stiles aveva quasi avuto un collasso; al primo appuntamento che in realtà non c’era mai stato; a quelle stupide litigate e al branco che cercava in tutti i modi di farli riappacificare.
Talvolta sorrideva di fronte ai ricordi più divertenti, ma quando si ritrovava chiusa in camera, da sola, a sera, scoppiava a piangere come una bambina. Sapeva di aver preso la decisione giusta, ma la lontananza dal branco era uno scalino difficile da salire, per riuscire ad andare avanti, e le morti di Erica e Boyd pesavano ancora molto sulla sua coscienza.
Infinite volte si era ritrovata a fissare imbambolata il numero di Malia o quello di Derek sullo schermo illuminato del cellulare, con l’intenzione di chiamarli per sentire una voce amica o per sapere come andasse la vita o cosa stessero facendo in quel momento. Aveva bisogno di parlare con loro, di piangere, di affrontare le paure che aveva, ma ogni volta che il suo dito era pronto a schiacciare il tasto per far partire la chiamata, il suo cervello le faceva bloccare il telefono, per poi gettarlo dall’altra parte del letto.
Sapeva di averli persi per sempre, ma forse era meglio così. Nonostante la tristezza e la rabbia verso se stessa, sapeva che fosse meglio essere lontana, con la consapevolezza che stessero tutti bene e che fossero al sicuro. Si sarebbe sentita in colpa nel rimanere a Beacon Hills e nel mettere di nuovo a repentaglio le loro vite.
«Terra chiama Emma!»
La ragazza ripiombò bruscamente nella realtà, individuando la fonte di quella chiamata «Hanna… Ehi, scusami non ti stavo ascoltando»
«Ho notato» rispose lei, divertita, muovendo lievemente la sua voluminosa chioma bionda.
Aveva conosciuto quella ragazza il primo giorno di scuola, perché le si era seduta vicino per sbaglio durante la lezione di matematica. Non si erano mai parlate prima di quel momento, nonostante Emma l’avesse notata qualche volta in giro per i corridoi, quando ancora doveva trasferirsi a Beacon Hills. Hanna era simpatica, vivace, molto carina, ma soprattutto comprensiva. Sapeva che si fosse accorta del fatto che avesse molti segreti, che nascondesse un sacco di cose, ma non aveva mai fatto troppe domande. Forse, anche lei aveva i propri scheletri nell’armadio.
«Mi dispiace, davvero: ho un sacco di pensieri nella testa in questi giorni» riprese Emma, stringendo al petto qualche libro, mentre si avviavano in classe «Cosa mi stavi dicendo?»
«Che l’altra settimana» Hanna cominciò a parlare a macchinetta, senza interruzione: nonostante potesse diventare fastidiosa, quello era uno degli aspetti che Emma amava più di lei, perché le permettevano di non perdersi nei propri pensieri «Durante il corso di chimica, sono arrivati due ragazzi nuovi e sono troppo carini: ho parlato con entrambi e uno di loro vuole conoscerti» continuò «Chissà magari potremmo fare un’uscita a quattro!»
Emma abbozzò un sorriso «Non credo sia una buona idea, non me la sento proprio di uscire con qualcuno»
L’amica mise il broncio «Non devi mica sposarlo! Forza, sarà divertente!»
Sbuffò sonoramente, facendo ridere di gusto l’amica: entrarono in anticipo nel laboratorio di chimica, ma in perfetto orario – secondo i calcoli ostrogoti di Hanna – per conoscere i due nuovi arrivati.
«Ecco, quello è James» sussurrò, indicandole un ragazzo alto, con i capelli rossicci e qualche lentiggine sul viso. Aveva un corpo massiccio, spalle larghe e fianchi stretti: tipico di un nuotatore «Mentre lo spasimante che – modestamente direi, puoi ringraziarmi più tardi, tesoro – ti ho trovato è quello alla sua destra: Connor»
Emma piegò la testa di lato, per osservarlo meglio: non era molto alto, sebbene la superasse comunque di un bel po’ di centimetri, aveva un bel fisico, capelli corvini e leggermente più lunghi del normale, occhi color nocciola ed uno sguardo che avrebbe ucciso anche a mille chilometri di distanza.
Proprio in quel momento, il ragazzo alzò lo sguardo estraniandosi dai discorsi di poco conto che stesse facendo con i suoi amici ed incontrò quello sorpreso di Emma: le accennò un sorriso compiaciuto, guardandola con quei suoi occhi magnetici e mettendola un po’ in soggezione.
Ad Hanna scappò un gridolino di gioia e sorrise maliziosamente all’amica «Te l’avevo detto che non sarebbe stato per niente male!»
 
***
 
Durante i primi mesi, era stato difficile abituarsi all’assenza di Emma: svegliarsi da solo al mattino, affrontare da solo le notti di luna piena, dove la frustrazione era tanta e rischiava ogni volta di perdere il controllo e fare a pezzi il tavolo del loft, affrontare gli incubi, che erano tornati più vividi che mai, ma soprattutto sopportare il branco, che sembrava stesse vivendo un momento di sana depressione post-traumatica. In realtà, erano semplicemente tristi per la partenza della ragazza, perché – per quanto a loro non piacesse ammetterlo – sentivano moltissimo la sua mancanza.
Dormiva poco la notte: la morte di Erica e Boyd continuava a tormentarlo e come se non bastasse di giorno, quei ricordi lo tenevano sveglio anche di notte.
Sotto un altro aspetto, però, sapeva che Emma fosse al sicuro e che lui non dovesse preoccuparsi di niente: era ovvio che le mancasse, ma non era arrabbiato con lei. Per quanto fosse stato sorpreso nello scoprire che non sarebbe mai tornata, alla fine aveva capito le ragioni della sua partenza e non la biasimava per questo. Le crepe, non ancora rimarginate, del suo cuore sarebbero rimaste lì ancora per un po’, ma ben presto arrivò alla conclusione che fosse più giusto così. Sperava solo di rivederla presto, magari più felice e realizzata, rispetto a quando aveva vissuto a Beacon Hills.
Si sentiva anche meno solo rispetto al passato: con il suo arrivo, Emma aveva portato una ventata di aria fresca e gli aveva permesso di avvicinarsi sempre di più ai membri del suo branco, in modo da conoscerli meglio, da capire quand’è che avessero bisogno di un capobranco e quando di un semplice amico o fratello maggiore con cui sfogarsi. A quella ragazza riconosceva il merito di averlo reso una persona migliore, un uomo in grado di provare vaste sfumature di sentimenti, di compatire e piangere i suoi amici morti, di sorridere felice, di stringere amicizia con gli altri membri del gruppo ma soprattutto di imparare a fidarsi. Non solo di se stesso, ma anche degli altri.
Ripiombò nella realtà, quando sentì il portone di casa sua aprirsi con un unico scatto: i gemelli Aiden ed Ethan fecero il loro ingresso, scherzando tra loro e scambiandosi qualche occhiata divertita con il resto del gruppo.
I due beta si erano aggiunti al branco poco tempo prima, circa quattro o cinque mesi dopo la partenza di Emma: la loro integrazione era stata lunga e difficile, ma ce la stavano mettendo tutta per convincere Derek a dar loro un minimo di fiducia.
 
Isaac stava per scaraventarsi contro Scott, quando la luce rossa di emergenza, posta esattamente a destra del portone, cominciò ad illuminarsi e suonare ritmicamente. I due licantropi si bloccarono sul posto, Stiles e Lydia alzarono la testa dai libri su cui stavano studiando e tutti i loro occhi si posarono su Derek, rimasto immobile e serio al centro della stanza, con gli occhi puntati sulla porta.
Non appena questa si aprì, i corpi massicci, ma umili, di Aiden ed Ethan fecero capolino, lasciando tutti a bocca aperta.
Scott mostrò immediatamente i canini, lasciando che i suoi occhi si tingessero di oro, mentre Isaac e Malia lo affiancarono, pronti a scattare. Il loro capobranco, però, fece loro segno di calmarsi e si avvicinò di pochi passi ai due ospiti inaspettati.
«Cosa volete?» chiese atono.
Aiden fece un passo avanti e si guardò intorno, aggrottando poi la fronte, con aria confusa «Emma non c’è?»
«No» lo interruppe subito Derek «Emma non c’è»
«Volevamo chiedervi perdono» fu Ethan a parlare. Rimase qualche passo indietro al fratello, con un’espressione quasi impaurita stampata sul volto.
«Perdono?!» scattò rabbiosamente Isaac, gettandosi verso di loro, con i suoi occhi color miele che scintillavano sotto la luce biancastra del loft «Avete ucciso Erica e Boyd, quello che vi meritate davvero è morire!»
Derek lo riacciuffò per il colletto della maglia, spintonandolo alle sue spalle. Ovviamente, i suoi pensieri erano stati gli stessi di quelli che Isaac aveva trasformato in ira e parole, ma non aveva niente da perdere in quel momento ed era davvero curioso di ascoltarli.
«Non sapevamo quali fossero le vere intenzioni di Deucalion» riprese Ethan «Non sapevamo che covasse così tanto rancore, che volesse uccidere Emma solo per un semplice e puro atto di vendetta» fece una pausa «Ci dispiace davvero tanto per Erica e Boyd, ma abbiamo saputo del loro rapimento nel momento esatto in cui sono stati uccisi e ormai non c’era più niente da fare»
«Posso concedervi il beneficio del dubbio» disse Derek, stringendosi nelle spalle «Ma farvi diventare parte del branco…»
«Abbiamo bisogno di un gruppo» lo pregò Aiden «Abbiamo perso il nostro status di Alpha, siamo due Omega e se i cacciatori dovessero trovarci…»
«Quindi lo fate solo per un tornaconto personale?»
«No» scattò subito il ragazzo, scuotendo la testa «Una volta Emma mi ha detto che, prima o poi, saremmo riusciti ad essere amici e poi quel branco non ci apparteneva: è vero, abbiamo ucciso anche noi i nostri stessi membri, abbiamo ceduto al potere, abbiamo sbagliato, ma ben presto ci siamo resi conto che quello che non era il posto per noi»
Derek annuì, perso nei suoi pensieri, ma tornò ben presto a fissare duramente i gemelli negli occhi «Ci penserò»
 
Aveva pensato molto a dar loro quella possibilità ed era stato proprio grazie al ricordo di Emma che aveva permesso ai gemelli di unirsi al loro branco. La ragazza aveva sempre avuto fiducia in loro, specialmente in Aiden ed era stato proprio quello a convincerlo a dar loro una chance: in fin dei conti, era quello che Emma gli avrebbe detto di fare, se fosse stata lì.
«Siamo tutti o manca qualcuno?» esclamò, staccandosi dal bordo del tavolo.
I ragazzi si guardarono intorno, scuotendo le loro teste. Si avviarono lentamente al centro della stanza, pronti ad iniziare l’allenamento, ma fu Stiles a far cambiare idea a tutti.
«Perché non andiamo a mangiarci una bella pizza?»
Derek sbuffò spazientito, ma prima ancora che potesse dire qualcosa, il suo branco era già uscito fuori in cerca di un buon ristorante.


 

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Capitolo 19
*** Can you feel my heart ***


salve lupetti :-)
sì, sono ancora viva, è solo colpa degli esami che non mi danno tempo ne tregua per fermarmi un po' e mettermi a scrivere
comunque, non voglio dilungarmi troppo, anche perchè questo capitolo è super duper lungo (spero di farmi almeno perdonare per la mia infinita assenza con questo), per cui vi lascio qui qualche chiarimento prima di passare al capitolo
  • il capitolo è ambientato due anni dopo la morte di Boyd ed Erica, per cui Emma e Derek hanno rispettivamente 19 e 25 anni
  • è un capitolo pieno di cose mielose e altamente diabetiche, ma è risaputo che questa storia avrà un happy ending perchè Derek Hale è prezioso e si merita solo gioie, per cui spero apprezziate comunque
  • nel caso vogliate immergervi meglio nella lettura vi lascio alcune canzoni che hanno ispirato la scrittura:dust & gold degli Arrows To Athens, let's hurt tonight dei OneRepublic, somebody to die for degli Hurts ered di Taylor Swift; è un capitolo che ho scritto in un arco di tempo molto lungo per cui le emozioni che si susseguono sono diverse e vanno in base anche all'umore che avevo io quando scrivevo
ne approfitto per ringraziarvi per aver letto, recensito e stellinato questa storia: grazie mille, sul serio!
vi ricordo che la storia è aggiornata regolarmente anche su Wattpad (link in bio)

spero di aver detto tutto, in caso abbiate domande non esitate a chiedere!
adesso vi lascio e vi auguro buona lettura!
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO DICIANNOVE: CAN YOU FEEL MY HEART
 
Il desiderio che aveva espresso in occasione del suo diciannovesimo compleanno, festeggiato nemmeno tre mesi prima, si era avverato più velocemente di quanto avesse pensato. Quei due anni, passati lontano da ciò che le aveva restituito un nome, un’identità e le aveva donato una famiglia ed un branco di amici, le erano serviti per fare spazio nella sua vita e capire cosa volesse davvero. I primi mesi erano stati i più duri e, ancora adesso, non ricordava quei tristissimi giorni con piacere: aveva pianto, era rimasta in silenzio ad osservare le gocce di pioggia scorrere pigre sul vetro della finestra della propria camera, oppure si era imbambolata a seguire le ombre degli oggetti che trovava per strada, illuminati dal sole. Quel periodo le era sembrato così lungo, infinito, eterno, che aveva sempre cercato di occupare la mente, di trovare qualcosa da fare pur di non fermarsi a pensare.
Non aveva mai risposto all’ultimo messaggio, arrivato da Beacon Hills: le parole di Isaac ed il suo invito al funerale di Boyd ed Erica ogni tanto le ritornavano in mente, provocandole una sensazione di forte senso di colpa, che però nel corso del tempo era andata attenuandosi, fino a scomparire del tutto. Adesso, passati un paio d’anni, se ripensava ai due amici morti, si sentiva in pace con se stessa. Non perché non gliene importasse niente o si sentisse sollevata per la loro assenza, ma semplicemente aveva imparato a convivere con quella perdita e con la consapevolezza di non essere la responsabile della loro morte. Tutto ciò era successo per opera del piano malsano di un uomo malato, assetato di vendetta, che aveva passato la vita a tramare e progettare qualsiasi tipo di tortura, per soddisfare se stesso e fare giustizia. Era per colpa di Deucalion se i due beta erano morti, era colpa sua se non aveva mai avuto l’occasione di conoscere i suoi veri genitori, se aveva dovuto lasciare Beacon Hills senza guardarsi indietro, se aveva dovuto scappare senza nemmeno lasciare una spiegazione a Derek. Le era mancato tanto in quei due anni, ma alla fine aveva imparato a convivere con la sua assenza: non aspettava più messaggi o telefonate, non collegava a lui canzoni che glielo ricordavano o che avevano ascoltato insieme, non si soffermava più a cercare i suoi occhi o la sua figura tra la gente, non aspettava più che le facesse visita nel bel mezzo della notte, entrando dalla finestra; non si allenava più con lui, non studiava più seduta comodamente sul divano mentre lui girovagava pigramente per il loft. Con il tempo, anche il ricordo di ciò che avevano vissuto insieme aveva cominciato a farsi più sbiadito, ma ciò che aveva sempre continuato a darle sicurezza, a permetterle di vivere la sua vita era stato il suo amore per lui. Nonostante la sua fuga improvvisa, aveva sempre saputo di aver fatto la cosa giusta: Derek aveva bisogno di un nuovo inizio, di essere al sicuro, di qualcuno che non mettesse a rischio la sua vita, di qualcuno che non lo contraddicesse continuamente, di qualcuno che lo amasse.
Lei l’aveva amato, e forse continuava a farlo, ma la sola idea di tornare indietro e pentirsi delle scelte fatte le faceva venire i brividi: era stato il suo primo amore, avrebbe sempre provato qualcosa per lui, ma preferiva saperlo al sicuro e solo, piuttosto che con lei ed in pericolo.
Nonostante questo, il ricordo di Derek, con il tempo, divenne più sopportabile: era piacevole ricordare i bei momenti passati insieme, ma era altrettanto gradevole farsi nuovi amici, uscire con qualche ragazzo senza che la cosa divenisse seria, divertirsi, studiare, tornare alla normalità, tornare a vivere di nuovo.
Emma era felice così, o almeno era quello che aveva sempre creduto in quei due anni.
Fu con questo stato d’animo che, subito dopo il diploma ed in occasione del suo compleanno, decise di tornare a casa dai propri genitori. Suo padre, alla fine, non si era mai trasferito perché non aveva rinunciato alla cattedra fissa di insegnante per tornare ad essere precario ed Emma era contenta per lui, ma le mancavano entrambi terribilmente e, una volta passata la tempesta che irrompeva violentemente nella sua testa, decise che fosse il momento di tornare alle origini.
Scrollò con disinvoltura la testa, ripiombando nella realtà. I suoi occhi fecero velocemente il giro della camera, senza che cercassero effettivamente qualcosa in particolare, per poi fermarsi di nuovo sulla dozzina di fogli appoggiati sulla scrivania. Giocherellò con la matita che aveva tra le mani per poi tornare a concentrarsi sulle parole stampate.
Durante l’ultimo anno di scuola, poco prima del diploma, aveva fatto domanda in alcuni college, senza avere un’idea precisa di dove andare. Adesso che era tornata, non voleva esser costretta di nuovo a partire, ma sapeva che a Beacon Hills nessuno avrebbe mai fondato un’università.
Delle tre domande inviate, aveva ricevuto risposta da parte di una soltanto, ma c’era ancora tempo per decidere e in quel momento, avrebbe solo pensato a godersi le ultime settimane di vacanza, prima di immergersi di nuovo nello studio.
Sbuffò per l’ennesima volta, appoggiando definitivamente la matita sul legno freddo della scrivania e si alzò: il sole tiepido di fine agosto era nascosto da qualche nuvolone scuro, ma nemmeno la pioggia l’avrebbe fermata dal fare una piccola sorpresa a Malia.
Da quando era tornata, circa un paio di giorni prima, non aveva fatto altro che pensare a lei. Sapeva che l’avrebbe trovata diversa, cambiata, ma, nonostante la lontananza, era rimasta l’unica migliore amica che avesse mai avuto in vita sua e aveva davvero voglia di passare un po’ di tempo con lei.
Si alzò, recuperando la borsa, appoggiata sul letto, scese velocemente le scale, afferrando le chiavi dell’auto ed uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Attraversò il vialetto di fronte a casa sua, salendo in auto e mettendo in moto. Aveva comprato quel mezzo un anno prima, grazie ad un piccolo anticipo donatole da sua nonna, in occasione del suo diciottesimo compleanno e ai soldi che aveva guadagnato lavorando come cameriera in un piccolo e tradizionale ristorante della città, durante i week-end. Non era la migliore auto in circolazione: era piccola, usata, grigia, ma aveva imparato sin da subito a renderla sua, a sentirsi a suo agio ogni volta accendesse il motore e allacciasse la cintura. Alla fine, era riuscita a trasformarla in qualcosa a cui non avrebbe mai rinunciato, un po’ come Stiles e la sua jeep azzurra. Sorrise al ricordo e si immise nella strada principale, diretta verso la casa di Malia.
Il sole stava ormai tramontando, nonostante i suoi ultimi raggi fossero oscurati dalle nubi: qualche goccia di pioggia si lasciò andare dal cielo, ricadendo pigra e solitaria sull’asfalto della strada, bagnandolo nel giro di pochi secondi.
Per qualche minuto, guidò tranquilla, senza alcun pensiero, canticchiando una delle tante canzoni che alla radio piaceva far passare in quell’ultimo periodo. In un secondo momento, lentamente, fu costretta a diminuire la velocità, fino a fermarsi completamente dietro ad una fila immensa di automobili e camion.
Sbuffò sonoramente, controllando l’orologio che portava al polso. Aveva programmato una visita veloce, in quanto avrebbe organizzato una vera e propria serata tra ragazze nel week-end, ma se la sua sosta si fosse prolungata, sarebbe stata costretta a tornare a casa, per arrivare in tempo per cena.
Passarono i minuti e allo stesso modo passò la pioggia: una luce rosata si alzò nel cielo, regalandole un bellissimo tramonto, nonostante le ultime nuvole rimaste continuassero a far capolino, sempre pronte a lasciarsi scappare qualche goccia d’acqua.
Gettò di nuovo un’occhiata all’orologio e si accorse che fosse passata mezz’ora: la sua auto non si era mossa di un millimetro ed ormai stanca di aspettare, decise di scendere per capire cosa stesse succedendo.
Si chiuse lo sportello alle spalle e s’incamminò verso la sorgente di quella fila infinita: quando si accorse di quanto fosse veramente lunga, decise di rinunciare e chiedere a qualcuno nei paraggi.
Si avvicinò ad un SUV grigio opaco, enorme e piuttosto alto, con i vetri oscurati ed il motore acceso. Emma inarcò un sopracciglio chiedendosi quanto male avrebbe fatto all’ambiente circostante e giunse alla conclusione che avrebbe potuto comprare un’auto del genere una persona piena di sé, con un ego smisurato ed altamente ambiziosa: il suo esatto contrario, insomma.
Scrollò le spalle, constatando di nuovo di non aver molto tempo, così si affrettò ad alzare una mano e bussare freneticamente al finestrino.
«Mi scusi» iniziò, ancora prima che questo avesse rivelato del tutto il proprietario dell’auto «Sa mica perché siamo bloccati- Derek?!»
Non poteva credere ai suoi occhi. Non riusciva a credere che Derek Hale fosse davvero seduto in quella specie di marchingegno distruttore dell’atmosfera e la stesse guardando con l’espressione più sorpresa e stupita che avesse mai visto in vita sua.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, senza riuscire a spiccicare parola. Azzardò un sorriso imbarazzato, poi spense il motore e scese dall’auto, appoggiandovisi una volta chiuso lo sportello.
«Emma…» la sua voce tremava lievemente, come se fosse emozionato, come se gli fosse appena accaduta la cosa più bella del mondo, come se la sua vita avesse di nuovo senso, avesse di nuovo recuperato il suo iniziale equilibrio. Si sentì sollevato, leggero, come purtroppo non si sentiva da molto tempo. Non credeva l’avrebbe mai più rivista, o almeno, non così presto «Cosa- Cosa ci fai qui?»
La ragazza sorrise, spostandosi i capelli dalle spalle, cercando di far finta di nulla. Sapeva di non poter fingere con lui: per quanto avesse dissimulato di sentirsi completamente a proprio agio in sua presenza, sapeva che anche l’aspetto più innocuo e piccolo della sua persona, come il battito cardiaco, l’avrebbe comunque tradita.
E Derek infatti se n’era accorto e aveva sorriso al ricordo di tutte quelle volte in cui aveva percepito quello che sentisse, semplicemente guardandola e ascoltandola. Però, aveva notato anche quanto fosse cambiata fisicamente, il che era inevitabile: era più alta, i capelli le scendevano più lunghi e luminosi sulle spalle e aveva il corpo di una donna, ma tornando a soffermarsi sul suo viso, il ragazzo potè constatare che quello non fosse cambiato affatto. Aveva sempre la stessa espressione da bambina, sempre gli stessi occhi grandi, azzurri come il mare e profondi come un dirupo; le stesse labbra piene e perfette per essere baciate ed il nasino all’insù. Erano passati due anni, ma Emma era sempre la stessa.
«Sono tornata» rispose infine la ragazza, catturando di nuovo la sua attenzione.
Sorrise, felice «Davvero? Quando?»
«Pochi giorni fa» riprese «Ho pensato di passare le mie ultime settimane qui prima di partire per il college»
Derek annuì, piacevolmente sollevato nel sentire che entrambe le loro vite stavano prendendo la piega giusta, anche senza la presenza dell’altro.
«Tu invece?» domandò Emma.
«Sempre lo stesso» rispose, alzando le spalle e facendola sorridere «Ho trovato un lavoro, ho imparato a cucinare, a sopportare Stiles-»
«Hai cambiato auto» lo interruppe.
«Ho ancora la camaro» affermò, fiero di se stesso.
«Ne hai due?!»
Derek scoppiò a ridere, come mai aveva fatto prima. Emma pensò che tutto quel tempo avesse fatto bene anche a lui: lo trovava cambiato, ovviamente, ma sembrava felice. E questo la riempiva di gioia, perché la sua fuga improvvisa aveva avuto effetto: entrambi si stavano realizzando in ciò che amavano davvero, senza necessariamente fare affidamento sull’altro.
«Mi avresti mai perdonato se l’avessi venduta?» scherzò.
Emma scosse la testa, nascondendo un sorrisino divertito «No, penso proprio di no»
Derek stava per replicare, quando i motori delle auto davanti a loro si riaccesero uno dietro l’altro: i due ragazzi si guardarono per qualche secondo, entrambi con la voglia di dire qualcosa, senza sapere veramente cosa. Avrebbero avuto così tanti argomenti di cui discutere e tanti aneddoti da raccontarsi, ma il solo guardarsi negli occhi senza potersi sfiorare era una tortura, che reprimeva ogni parola.
«Sarà meglio che vada prima che comincino a lamentarsi» parlò infine, Emma.
L’altro accennò un sorriso imbarazzato senza replicare, ma non appena la ragazza si allontanò di qualche passò, la recuperò, afferrandola per un braccio.
«Sto correndo troppo in fretta, lo so» disse «Ma ti andrebbe di uscire uno di questi giorni?»
La ragazza annuì «Certo»
Il volto di Derek si illuminò ed i suoi occhi verde petrolio si riempirono di gioia «Ti chiamo io: hai sempre lo stesso numero?»
«Sempre lo stesso numero» confermò.
 
Respirò profondamente, cercando di calmarsi. Perché avrebbe dovuto sentirsi nervosa? Quella era la casa di Malia ed era rimasta la stessa: portone color verde petrolio, portico dipinto di bianco e la solita sedia a dondolo nell’angolo più lontano. Ma lei, Emma, era sempre la stessa? Forse no, non lo era più, ma sapeva che il bene che voleva a quella ragazza non se n’era mai andato. Doveva soltanto continuare ad essere se stessa, bussare a quella porta e abbracciare una delle persone che più le erano mancate nei due anni appena passati.
Sospirò un’altra volta, facendosi finalmente coraggio: si sistemò la borsa sulla spalla e si strinse meglio nella giacca di jeans, per poi sollevare la mano e suonare il campanello.
Aspettò una manciata di secondi, in completo silenzio, con il fiato sospeso e la paura che si fosse dimenticata di lei; poi sentì dei passi veloci nell’ingresso ed infine la chiave girare nella toppa della porta.
«Emma?!» fu la prima cosa che riuscì a sentire, perché troppo impegnata a fissare la bellissima ragazza che aveva di fronte. Malia era cresciuta tantissimo, non aveva più diciassette anni e nemmeno quei capelli lunghi e giallastri che le ricadevano lungo le spalle. Adesso avevano un colorito dorato che le incorniciava il viso e faceva risaltare i suoi occhi da cerbiatta, color cioccolato. Era molto più alta di quanto ricordasse, ma l’espressione sorpresa sul suo viso era sempre la stessa «Emma, oddio, Emma! Che ci fai qui?»
La ragazza sorrise «Sono tornata e ho pensato di fare una sorpresa alla mia migliore amica!»
Malia fece un passo verso di lei, saltandole letteralmente addosso. Caddero entrambe per terra, scoppiando in una fragorosa risata e si abbracciarono, cercando di reprimere le lacrime.
«Forza, vieni dentro!» esclamò «Ci sono anche gli altri! Oddio, non riesco a crederci!»
Quelle parole la riempirono di gioia: si ricordava di lei e sembrava davvero felice di vederla. Afferrò la mano che le stava porgendo e lasciò che la trascinasse in casa, senza nemmeno curarsi di chiudere la porta. Si affrettarono, entrando in cucina, dove una dozzina di occhi – che conosceva molto bene – la puntarono curiosi.
«Guardate un po’ chi c’è qui!» esordì Malia, causando il caos generale.
Stiles ed Isaac si alzarono immediatamente, con un’espressione incredula stampata sul volto, andandole incontro per abbracciarla.
«Non posso credere che tu sia qui davvero!» disse Stiles.
«Quando sei tornata? Perché sei tornata? Cioè, voglio dire-» si intromise Isaac.
Emma non faceva altro che sorridere, mentre si godeva il suo momento, incastrata tra i due corpi, ormai massicci e molto più mascolini, dei suoi due amici, incapace di rispondere a qualsiasi domanda.
«Va bene, va bene, calma» esclamò Lydia «Facciamola sedere, così potrà raccontarci tutto»
Malia si mostrò d’accordo con l’amica e aggiunse subito una sedia, permettendo alla ragazza di sistemarsi, sedendosi tra Scott e Kira.
«Sono tornata pochi giorni fa» iniziò Emma «Visto che ho fatto domanda in qualche college della zona, ho pensato di fermarmi qui per un po’ prima di ripartire di nuovo»
«Dove hai spedito le domande?» s’informò Scott.
«All’Università di Sacramento, a quella di Berkeley e a San Francisco»
«Hai già ottenuto risposta?» indagò Stiles.
«Sì, per ora mi hanno preso solo a Sacramento» rispose Emma.
«Davvero?!» esclamò Malia «Anche a me hanno accettato la richiesta lì! Non posso crederci!»
Il gruppo scoppiò a ridere, mentre la ragazza non riusciva a capirne il motivo: forse li aveva divertiti il semplice fatto che fosse così entusiasta del ritorno dell’amica e del fatto che, probabilmente, avrebbero frequentato lo stesso college.
«Voi, invece?» riprese la ragazza «Come va?»
«Sempre la solita routine» rispose Lydia «Ci siamo diplomati, ci stiamo preparando per il futuro» gettò una veloce occhiata a Stiles «Insomma, chi più e chi meno»
«Che intendi dire?»
«Che ancora non ho idea di cosa fare nella vita» rispose atono Stiles, al posto suo.
Emma aggrottò le sopracciglia, sorpresa: aveva sempre pensato che quel ragazzo avrebbe potuto fare grandi cose nella vita. Avrebbe avuto tutte le capacità di lasciare quella piccola città soffocante e studiare qualsiasi cosa volesse o trovare il lavoro dei suoi sogni. Invece era seduto in quella minuscola cucina, a diciannove anni, con un groviglio di idee confuse in testa.
«Mai pensato di lavorare con tuo padre?» azzardò, allora.
Stiles a momenti si strozzò con l’acqua che stava bevendo «Sì, ma non fa per me: ho lasciato volentieri il mio posto a Derek»
Lydia fulminò il ragazzo con un’occhiataccia omicida, mentre Malia gli tirò un calcio talmente forte negli stinchi, che avrebbe ricordato per tutta la vita. Sapevano quanto fosse difficile per Derek parlare di Emma e quanto raramente facesse il suo nome, quindi – a logica – pensarono che fosse lo stesso per lei.
Ma l’intero gruppo si rese ben presto conto che l’espressione della ragazza non era cambiata di un centimetro e che, anzi, l’aver menzionato il nome di Derek non l’avesse sconvolta o irritata nemmeno un po’.
«Aspetta» esclamò Emma sorpresa, cercando di reprimere una risata. Il ragazzo le aveva detto di aver trovato un lavoro, ma non si sarebbe mai aspettata che fosse quello. Agente Derek Hale? Chi l’avrebbe mai detto «E’ un agente? Cioè, un vero agente? Mio dio, mi ha detto di aver trovato un lavoro, ma non credevo che-»
«Ti ha detto?» domandò sconcertata Malia. Aveva quasi spezzato la caviglia a Stiles, pensando di proteggerla da qualsiasi ricordo ed invece, non era servito a nulla.
Emma si massaggiò il collo, lievemente in imbarazzo «Sì… Uhm, noi ci siamo incontrati per caso ieri: io stavo venendo qui ma sono stata per quaranta minuti bloccata in fila e lui era nell’auto davanti alla mia, così…»
«Non posso crederci» parlò Stiles, sconvolto «E come ti è sembrato? Perché, sai, con noi è sempre il solito stronzo»
«Non so…?» si sforzò di pensare bene a cosa fosse accaduto e a quello che si erano detti «Mi è sembrato tranquillo, felice anche, in pace con se stesso» rispose «Mi ha anche chiesto di uscire»
«Cosa?!» esclamò Malia «Dev’essere proprio impazzito»
«No» rispose Lydia, guardando Emma e sorridendole dolcemente, come se avesse capito tutto «Sei tornata a casa ed il suo mondo ha ripreso a girare nel verso giusto»
 
Prendere o non prendere l’ombrello?
Emma guardò quell’antipatico oggetto che teneva tra le mani e lo appoggiò di nuovo a terra, pensando che no, non le sarebbe servito. Odiava la pioggia, soprattutto quando doveva uscire o fare qualcosa di importante: in quel caso, si trattava di entrambe le cose.
Afferrò la giacca di jeans e sperò che le bastasse: l’estate giungeva ormai a termine, ma le temperature ancora non si decidevano a scendere, per cui – nonostante le nuvole pronte a minacciare il cielo azzurro della California – era abbastanza fiduciosa nel fatto che non si sarebbe bagnata e non si sarebbe presa un bel raffreddore.
Si guardò di nuovo allo specchio, piegando la testa da un lato per vedersi da un’altra prospettiva: la gonna di jeans a vita alta le andava un po’ troppo larga e non la fasciava come avrebbe voluto e la maglietta bianca troppo stretta per i suoi gusti. L’unica cosa che avrebbe salvato erano i capelli: le ricadevano leggermente mossi sulle spalle, come sempre, ma quel giorno, non le dispiacevano per niente.
Si guardò ancora per qualche secondo, controllando di non aver applicato troppo trucco e di aver messo i suoi orecchini preferiti, poi alzò le spalle e ritornò alla realtà, recuperando la giacca di jeans e infilandosela una volta per tutte.
Afferrò la borsa, appoggiata per terra, vicino alla porta, ed il suo sguardo tornò di nuovo all’ombrello. Se lo avesse preso, non avrebbe piovuto e le avrebbe dato solo fastidio; se, invece, lo avesse lasciato a casa, sarebbe tornata bagnata fradicia.
Gettò un’occhiata al cielo, proprio fuori dalla finestra, sperando di trovarvi una risposta.
«Al diavolo!» esclamò tra sé e sé, gettando malamente l’oggetto a terra ed uscendo, chiudendosi la porta alle spalle.
Tanto per rimanere coerente alla sua decisione, decise di andare a piedi: il posto che aveva proposto Derek non era poi così lontano e aveva comunque bisogno di fare una passeggiata per schiarire le idee.
Stava avvenendo tutto così velocemente che non si era nemmeno fermata a pensare alle conseguenze delle sue azioni, di quelle azioni. Aveva accettato l’invito di Derek senza nemmeno rifletterci, senza nemmeno pensare a cosa avrebbe portato quell’uscita. Non aveva paura di lui, piuttosto era di se stessa che non si fidava.
Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che avevano parlato, avevano passato del tempo insieme e se a quel tempo, era sembrato semplice come bere un bicchier d’acqua, adesso sembrava complicato come scalare una montagna.
Non voleva dargli – e non voleva darsi – false speranze, ma sapeva di essere ancora innamorata di lui, e dopo tutto quello che aveva passato, le avrebbe spezzato il cuore sapere che lui fosse andato avanti, dimenticandola. Era vero: le era sembrato molto felice di rivederla, ma questo non significava che fosse ancora innamorato di lei. E se avesse trovato qualcun altro? Se avesse ritrovato la felicità, incontrando un’altra persona?
Per qualche secondo, quel pensiero la perseguitò come l’ombra delle sue gambe che il sole rifletteva sull’asfalto umido: non era quello che aveva sempre desiderato per lui? Che fosse felice senza di lei? E allora perché quel pensiero la rendeva gelosa?
Era inutile chiederselo, la risposta era molto semplice: per quanto avesse cercato di dimenticarlo e per quanto fosse forte la sua convinzione di avercela fatta, ancora amava Derek e, se qualcuno glielo avesse chiesto, lei avrebbe risposto di voler passare il resto della sua vita con lui.
Traendo qualche conclusione, mentre cercava di non finire nelle pozzanghere che si susseguivano sui marciapiedi, capì di dover vivere quella giornata prima di giudicare. Aveva paura, ma si sentiva felice e non poteva non considerare questo secondo aspetto. Non doveva fare niente di che: soltanto sedersi ad un tavolo, in un bar, ed ascoltarlo parlare per un paio d’ore. Soltanto dopo sarebbe stata in grado di giudicare.
Fu con questi pensieri che entrò nel locale dove avrebbe dovuto incontrarsi con Derek. Era davvero lontano dal suo stile: si sarebbe aspettata qualcosa di più triste e tetro ed invece l’iniziale torpore del bar la colpì piacevolmente, mettendola subito a proprio agio.
Il posto era piccolo, quindi era facile vedere immediatamente quante persone fossero sedute ai tavoli: infatti, notò subito la mano di Derek farle cenno di raggiungerlo.
Si sedette di fronte al ragazzo, serio come al suo solito.
«Agente Hale, eh?» esordì Emma, togliendosi la giacca e sorridendo divertita «Chi lo avrebbe mai detto»
«Sì…» rispose imbarazzato, mentre la guardava sistemarsi sulla sedia «E’ stato un fulmine a ciel sereno, ma avevo bisogno di una distrazione che mi tenesse occupato giorno e notte»
La ragazza accennò un sorriso «L’importante è che ti piaccia, no? E’ un po’ strano, a dir la verità, ma è un lavoro che ti si addice!»
«Oh sì, ho sempre sognato di dar la caccia ai criminali!» rispose ironicamente, scoppiando a ridere.
«Da quando fai battute così esplicitamente sarcastiche? Stiles ha fatto davvero un bel lavoro»
Derek stava per replicare con l’ennesima battuta, quando un cameriere si avvicinò al loro tavolo per prendere le ordinazioni. Ripensò per un secondo a quello che aveva detto Emma e si rese conto di quanto fossero cambiate le cose in quei due anni: i rapporti all’interno del suo branco si erano stretti e sviluppati così tanto che adesso non si riusciva più a distinguere chi fosse il leader e chi fossero i suoi seguaci. Erano un semplice gruppo di amici, che si fidavano l’uno dell’altro e a cui piaceva passare del tempo insieme. Forse, per lui, erano fin troppo giovani, ma non li avrebbe sostituiti per nessuna ragione al mondo.
«Per me, un caffè lungo» la voce di Emma lo riportò alla realtà.
Il cameriere le sorrise e poi si rivolse a Derek, colto lievemente di sorpresa perché troppo impegnato a guardare la ragazza «Oh, stessa cosa anche per me, grazie»
«Allora» riprese «Com’è lavorare con il padre di Stiles?»
«Molto meglio di passare interi pomeriggi con il figlio» rispose «Ed è molto più rilassante da quando sa»
«Sa? Cioè, sa che siete licantropi?» chiese sorpresa, abbassando immediatamente il tono della voce.
Derek annuì ed aspettò che il cameriere, comparso all’improvviso, appoggiasse le loro tazze di caffè e se ne andasse una volta per tutte, lasciandoli parlare. Sorseggiò un po’ della bevanda calda, godendosi il battito leggermente accelerato di Emma e gli occhi straboccanti di curiosità. Era sempre la solita.
«E perché lo sa?» riprese la ragazza.
«I gemelli non se ne sono mai andati, ma hanno perso il loro status di Alpha, per via della morte di Deucalion» iniziò Derek, cautamente. Sapeva quanto quell’argomento fosse delicato per entrambi, ma si sentiva comunque abbastanza forte da riuscirne a parlare. Anche Emma sembrava tranquilla, quindi proseguì «Diversamente ha fatto mio zio: se n’è andato come un codardo sconfitto, per poi ritornare qui circa un anno fa»
La ragazza spalancò gli occhi di fronte a quella notizia, mentre una strana sensazione di angoscia mista a paura stava prendendo il sopravvento. Non poteva credere che Peter Hale fosse di nuovo in città, per lo meno non adesso che le cose sembravano sistemate e lei, per prima, era pronta a iniziare un nuovo capitolo della sua vita. Non voleva vivere di nuovo quell’incubo.
«Ho detto qualcosa che non va?» il tono dolce con cui Derek aveva parlato la riportò alla realtà.
Scosse la testa «No… No, è solo che i ragazzi non mi hanno detto niente» parlò «Dove si trova adesso?»
«Sottoterra» la informò tranquillamente il ragazzo, notando comunque la sua espressione interrogativa «L’ho ucciso»
«Tu cosa?!» esclamò la ragazza, quasi strozzandosi con il caffè «Come? Perché?»
«Ti ricordi quando ti dissi che la forma che assumi riflette la persona che sei?» Emma annuì «Lui era capace di trasformarsi completamente in un vero e proprio mostro: per giorni, abbiamo assistito a decine di omicidi, senza capire chi fosse il colpevole. Poi abbiamo capito e l’unico modo per fermarlo era ucciderlo»
«Quindi, adesso…?»
Derek annuì compiaciuto «Sono io l’Alpha adesso, sì»
La ragazza deglutì rumorosamente, rimanendo in silenzio. Era sicura che il lupo seduto di fronte a lei sapesse esattamente cosa stesse pensando e sentendo, ma poteva anche capirlo da sola. Non si sarebbe mai aspettata una notizia del genere. Cosa significava che Derek fosse diventato Alpha? Che fosse più forte o cattivo rispetto ad un normalissimo Beta? Oppure che sapesse trasformarsi completamente in un lupo? Milioni di domande le stavano affollando la mente, ma era sicura soltanto di una cosa: Deucalion ed il suo branco avevano disturbato le sue notti, provocandole incubi terrorizzanti per un anno intero, ma la stessa paura che aveva avuto per loro adesso si era trasformata in pura ammirazione per Derek. Avrebbe dovuto esserne spaventata, ma in realtà si sentiva più a suo agio di quanto avesse creduto.
«Che c’è?» esclamò il ragazzo, riportandola alla realtà. Sorrise malizioso e si avvicinò pericolosamente al suo viso «Paura?»
«Ho affrontato un branco di lupi mannari con istinti omicidi» rispose Emma a tono, avvicinandosi a sua volta «Posso gestire un solo Alpha, tranquillo»
«Ammirevole» ammise il ragazzo, tornado al suo posto. Terminò il caffè e appoggiò la tazza sul tavolo.
«Cretino» scherzò Emma, scuotendo la testa.
«Però, almeno, in tutta questa storia, qualcosa di bello c’è» affermò, guardandola in quei suoi occhi pieni di dubbi e domande. La ragazza rimase in silenzio e aspettò che continuasse «Sei tornata a casa»
 
Avevano parlato per ore, più di quanto entrambi avessero sperato. Gli aneddoti da raccontare non erano mancati: Emma era partita dall’inizio, parlando della nuova scuola, degli amici con cui aveva stretto amicizia, dei ragazzi con cui era uscita – e qui, aveva notato con assoluta soddisfazione, l’espressione irritata e gelosa stampata sul volto di Derek – e della festa che i suoi genitori e sua nonna avevano organizzato per il suo diploma. Dall’altra parte, il ragazzo le aveva raccontato cose che lei già sapeva, ma che le erano mancate terribilmente: le giornate passate ad allenarsi, a trovare un modo per zittire Stiles o convincere Scott ed Isaac a non prendersela giorno e notte con i gemelli; le raccontò di come fossero diventati parte del branco e di quanto fosse stato difficile per lui perdonarli e considerarli parte della famiglia.
Stavano ancora parlando quando ormai a tardi pomeriggio, il proprietario del bar chiese loro gentilmente di andarsene: quel giorno avrebbe chiuso prima per avere la serata libera.
«Sarà meglio andare prima che ci chiudano qua dentro» disse infine Derek, alzandosi.
Emma annuì d’accordo, facendo la stessa cosa: infilarono le giacche e una volta fuori dal locale, si accorsero che stesse piovendo a dirotto.
La ragazza roteò gli occhi, maledicendosi per l’ennesima volta per non aver preso la giusta decisione: non solo non aveva l’ombrello, ma nemmeno l’auto per tornare a casa. Già poteva vedersi sotto le coperte con la febbre a quaranta.
«Dimmi che hai l’ombrello» si lamentò Derek, sgomento di fronte alla potenza con cui stesse cadendo la pioggia.
Emma scosse la testa, ormai rassegnata «Tu, piuttosto, dimmi che hai parcheggiato l’auto qui vicino»
Il ragazzo si voltò lentamente verso di lei, con l’espressione più divertita che lei avesse mai visto: che c’era di così spiritoso in quella situazione? «Sono venuto a piedi»
Non poteva credere a quelle parole: qualsiasi cosa guardasse intorno a sé era bagnata fradicia ed il suo sconcerto aumentò, prendendo il sopravvento, quando si rese conto che ben presto lo sarebbe stata anche lei. Scosse la testa, accennando un sorriso che univa divertimento ed incredulità: si poteva essere così sfortunati? Quel sorriso ben presto divenne una risata fragorosa, che contagiò anche il ragazzo, fino a che si ritrovarono entrambi appoggiati alla parete grigia e umida dell’edificio, piegati in avanti con le mani appoggiate sulle ginocchia, a sbellicarsi fino a non avere più aria nei polmoni.
«Senti» la richiamò Derek, cercando di riprendere fiato dopo qualche minuto. Emma appoggiò la testa al muro e chiuse gli occhi, mentre sentiva i capelli farsi sempre più bagnati «Che ne dici di fare una corsa fino al loft? Possiamo asciugarci e poi ti accompagno a casa»
Non si aspettava una proposta del genere. Era uscita di casa, quel pomeriggio, con un milione di possibili modi in cui quell’appuntamento sarebbe potuto andare, ma non si era immaginata una cosa del genere, una richiesta di quel tipo.
Sapeva che fosse rischioso entrare di nuovo nel loft: era un po’ come rientrare nella tana del lupo. Solo a pensare a tutto ciò che avevano passato e vissuto lì dentro, le venivano i brividi: tutti i ricordi, belli o brutti che fossero, avevano posto lì le loro radici ed erano cresciuti, regalandole il periodo più bello ed intenso della sua vita. Non sapeva nemmeno lei se fosse pronta o meno a rivedere quell’enorme tavolo di legno sotto la finestra o la grande sala verdastra in cui si era allenata, in cui aveva baciato Derek e gli aveva urlato contro di tutto; in cui aveva studiato con Stiles e Lydia discutendo del suo primo bacio; in cui aveva mangiato una pizza, aveva perso il controllo e quasi bruciato Isaac; in cui aveva saputo del rapimento di Boyd ed Erica.
A quel pensiero, chiuse di scatto gli occhi, cercando di eliminare quell’ultima immagine dalla sua mente.
Non poteva tornare a casa a piedi, non poteva chiamare nessuno del branco perché non sapevano che fosse lì e non poteva nemmeno chiedere a suoi genitori di venirla a prendere, per tornare a casa.
Andare al loft era l’unica possibilità che aveva. Non che le dispiacesse, perché passare del tempo con Derek era sempre stata una sua priorità, un modo per ricordarsi quali fossero le cose importanti della vita: quel ragazzo era costantemente una boccata d’aria fresca. Però aveva paura di varcare la soglia della porta e ritrovarsi di fronte a tutti quei demoni ed incubi che aveva cercato di soffocare nei due anni precedenti. Questo la spaventava.
Respirò profondamente, accennando un sorriso «Va bene, andiamo»
 
Tutto era rimasto esattamente come lo ricordava: salirono le scale umide, superando ogni piano del condominio, fino a fermarsi ansimanti di fronte al portone del loft. Derek estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca posteriore dei jeans gocciolanti ed aprì, con le mani che gli tremavano ed il cuore che gli batteva nel petto senza un motivo preciso. Era così strano e surreale avere di nuovo Emma in casa sua: l’ultima volta che era stata lì era stata l’ultima volta che l’aveva vista. Aveva passato così tante nottate sveglio, a fissare il soffitto, sperando che tornasse, che bussasse a quella porta e gli dicesse che sarebbe andato tutto bene. Aveva trascorso le sue giornate immerso nelle scartoffie riguardanti casi di omicidio, nel piccolo abitacolo dell’ufficio che gli era stato assegnato, cercando di non pensare, di concentrarsi su qualcosa di estraneo, che non lo toccava nel profondo, che lo rendeva indifferente ed apatico. Solo così, era riuscito a sopravvivere e a riprendersi completamente.
Entrò spedito, seguito da Emma rimasta in rigoroso silenzio. Poteva sentire il suo cuore esploderle nel petto e, se si fosse concentrato abbastanza, avrebbe potuto udire persino le rotelle del suo cervello girare freneticamente e le domande incastrarsi ai dubbi che offuscavano la sua mente. La conosceva così bene, era un libro così aperto per lui che per un momento ebbe paura. Non sapeva in che direzione avessero ripreso a muoversi, ora che si erano ritrovati, ma era la sua ancora, il suo punto di riferimento, il faro che lo riportava a casa, al sicuro, ogni sera: non poteva perderla di nuovo.
Ripiombò nella realtà, quando sentì la ragazza battere i denti per il troppo freddo: si fermò al centro della stanza, guardandola finalmente negli occhi. Aveva paura di trovarci così tanti brutti ricordi ed incubi, che non riusciva nemmeno a respirare, ma quando incontrò uno sguardo puramente innocente e semplicemente curioso, fu costretto a ricredersi.
«Vado a prenderti degli asciugamani» le disse, avviandosi verso la scala a chiocciola.
Quando si ritrovò da sola, si guardò intorno, costatando che tutto fosse rimasto al proprio posto. Se avesse guardato attentamente, probabilmente avrebbe ritrovato la piegatura che la sua testa aveva lasciato sul cuscino del divano o le zone del pavimento bruciate dalla sua acqua bollente, per colpa della Rusalki. Sembrava che il tempo, in quelle stanze, si fosse fermato, ma avesse ripreso a scorrere nell’instante in cui, erano entrati lì dentro insieme. Era come se la finestra dai vetri ingialliti, il tavolo a cui si era appoggiata, il divano di un colore alquanto discutibile stessero aspettando soltanto loro.
Voltò lo sguardo verso le scale, quando sentì i passi pesanti di Derek scendere dal piano di sopra e avvicinarsi a lei.
«Ecco gli asciugamani» disse lievemente imbarazzato, passandoglieli «Ti ho portato anche qualcosa da mettere che fosse asciutto» abbozzò un sorriso «Torno subito, vado a cambiarmi»
Rimase in silenzio, guardandolo sparire di nuovo nel buio. Scrollò le spalle, appoggiando il tutto sul tavolo. Afferrò l’asciugamano, tamponandosi i capelli – sperava che almeno la smettessero di gocciolare – per poi passare al collo, alle spalle e alle braccia. La maglietta che aveva indosso era completamente bagnata e allo stesso modo le scarpe, che avevano incontrato più pozzanghere lungo la strada che marciapiedi asciutti. Le sfilò, lasciandole vicino alla gamba del tavolo. L’unica che si salvava era la gonna di jeans: era umida, ma poteva andare. Alla fine, l’estate non era ancora finita e, nonostante l’acqua, le temperature continuavano ad essere alte, quindi sarebbe sopravvissuta al raffreddore.
Si sfilò la propria maglietta per indossare quella decisamente familiare del ragazzo. Quando alzò lo sguardo, fu catturata dagli occhi di Derek, che la fissavano attentamente.
«Perché mi guardi così?» chiese, accennando un sorriso.
«Quella maglia…» iniziò, fissandola, immerso nei ricordi. Ripiombò nella realtà ed i suoi occhi verdi incontrarono di nuovo quelli azzurri di Emma «L’ultima volta che l’hai indossata è stato quando mi hai chiesto di fare l’amore con te»
Emma arrossì fino alla punta delle orecchie e, incapace di reggere il suo sguardo, abbassò la testa e per un momento le sue scarpe umide divennero molto più interessanti. Le faceva piacere che ricordasse, ma non poteva uscirsene con una frase del genere in quel momento: troppe cose erano cambiate, loro due per primi, e per quanto lo desiderasse, non credeva che tutto potesse tornare come lo era stato. Per alcuni versi, forse, lo sperava, ma per altri no: quell’anno passato a Beacon Hills era un capitolo chiuso, ma anche Derek Hale? Lo era anche lui?
Scosse la testa, senza tornare a guardarlo: s’incamminò verso il divano, per recuperare la borsa «E’ meglio se mi accompagni a casa»
«Emma, mi dispiace» sbuffò il ragazzo «Avrei dovuto starmene zitto»
Per qualche secondo, sentì i suoi passi seguirla, poi il silenzio. Si era fermato, perché si era reso conto di aver fatto un passo più lungo della gamba, di aver parlato troppo e sbagliato di nuovo. Scrollò le spalle, facendo finta di non averlo sentito, e salì i tre scalini che conducevano al portone. Appoggiò la mano sulla maniglia, pronta ad aprire ed andarsene, ma si fermò.
Chi era lei per dire che Derek avesse osato troppo, avesse commesso l’ennesimo errore? E soprattutto, dopo tutto quello che avevano passato e la sofferenza che avevano vissuto, con che coraggio gli voltava le spalle di nuovo, per scappare un’altra volta, perché troppo spaventata dalle conseguenze? Non sapeva cosa provasse per lui in quel momento, dopo due anni senza vederlo, né sentirlo, ma qualcosa c’era. Era sempre presente quel filo invisibile a tenerli uniti, a non permetter loro di dividersi o perdersi di vista. La loro vita, sin dalla nascita, si era basata su tutta una serie di episodi e circostanze che li avevano portati a ritrovarsi. Capì che, per quanto avesse cercato di scappare, di ignorare i propri sentimenti per lui, sarebbe sempre tornata indietro, avrebbe sempre ritrovato ciò che la faceva sentire veramente viva.
Sospirò, maledicendosi sin da subito per quello che avrebbe fatto, e – senza nemmeno accorgersene – fece dietro front, tornando verso di lui, ponendo velocemente un piede di fronte all’altro, fino a che non fu ad un passo dal suo corpo.
Si guardarono, scrutarono per un tempo che sembrò infinito, come se fossero sconosciuti, come se avessero bisogno di conoscersi e di scavare l’uno nel passato dell’altro. Per la prima volta, Emma riuscì a sentire il battito accelerato del cuore del ragazzo, il suo sguardo confuso ed impaurito; per la prima volta, lo vide incespicare nel buio, lo vide reagire da umano che ammette e riconosce i propri difetti e le proprie insicurezze.
Ma nel momento in cui si allungò verso di lui, avvicinandosi al suo corpo, Derek reagì prontamente, prendendole il viso tra le mani per baciarla. Le loro labbra si incontrarono ed incollarono in un bacio che mozzò il fiato nei polmoni ad entrambi: a nessuno dei due importava, perché era ciò che avevano sperato, sognato, agognato per tutto quel tempo. Era l’unico modo per tornare a respirare di nuovo. Le mani di Emma cercarono il corpo del ragazzo, stringendo i pugni intorno alla maglietta, con la paura che quel momento terminasse troppo presto, fosse solo un sogno da cui non voleva assolutamente svegliarsi. Aveva bisogno di appigliarsi al suo corpo, al suo respiro alterato, a quelle labbra morsicate dolcemente dai suoi denti e alla scarica di adrenalina che percorse improvvisamente il suo corpo come una forte scossa elettrica. Non poteva svegliarsi. Non ora, almeno.
Ripiombò nella realtà, quando sentì le braccia di Derek circondarle i fianchi per sollevarla e metterla seduta sul tavolo. Incastrò il proprio corpo tra le sue gambe, nonostante la gonna stretta, mentre sentiva il respiro caldo e ansimante sulla sua pelle. Si intrufolò al di sotto della sua maglietta – con l’intenzione di togliergliela – mentre le sue labbra scendevano lente lungo il collo di Emma, facendola sorridere. Proprio sul più bello, però, la ragazza lo fermò.
«Ho fatto qualcosa di male?» chiese con il fiato corto.
Emma abbassò lo sguardo sulle mani del ragazzo appoggiate sulle proprie gambe «Sicuro di volerlo fare?»
Derek aggrottò la fronte dubbioso: per un attimo, un’ondata di panico lo invase, togliendogli il fiato. Stava succedendo tutto così velocemente che non si era nemmeno fermato a pensare che Emma avrebbe potuto avere un fidanzato – qualcun altro da baciare, da amare e che adesso stava tradendo.
«Certo» rispose comunque, impaurito più che mai «Perché?»
Emma sorrise, percorrendo il colletto della maglietta del ragazzo, con un dito «L’ultima volta che ci siamo trovati in questa situazione, ti sei tirato indietro, per cui… Non dobbiamo farlo per forza, lo sai»
Si rilassò immediatamente, accarezzandole una guancia «Avevo paura e non sapevo quello che volevo. Adesso lo so e voglio farlo»
L’aiutò a scendere dalla superficie fredda e ruvida del tavolo, prendendola per mano: s’incamminarono su per le scale ed una volta arrivati in cima, si ritrovarono direttamente in camera di Derek. Quella casa non aveva molte pareti divisorie: tutto era accatastato con senso e precisione, quasi geometrica, in quelle uniche due stanze, una al piano terra e l’altra al piano di sopra.
La mano del ragazzo la tirò verso il letto e lo guardò sedersi, per poi incrociare i suoi occhi che la scrutavano dal basso. La incastrò tra le sue ginocchia, mentre le sue dita raggiunsero impazienti i bottoni della gonna, aprendoli una alla volta: ciò che rimase furono le gambe pallide, ma estremamente invitanti di Emma.
Sorrise, togliendosi la maglietta, per poi accoglierla sulle sue gambe muscolose.
La ragazza sorrise, stringendosi al suo corpo ed avvicinandosi per baciarlo di nuovo: deviò, però, il percorso, appoggiando le labbra sulla sua mascella per poi scendere lentamente lungo il collo e riempirlo di baci.
Sentì il corpo di Derek irrigidirsi sotto al suo tocco, ricordando immediatamente quante volte le avesse espressamente detto di non farlo, in quanto ogni bacio sul collo diventava sempre più difficile da sopportare. Le labbra morbide di Emma lo facevano andare letteralmente fuori di testa, per non parlare dei piccoli morsi che la ragazza prese a lasciargli sulla pelle ruvida per via della barba. L’afferrò per i fianchi, chiudendo gli occhi, cercando di controllarsi. Il semplice ed abituale fatto di essere un licantropo non lo stava per niente aiutando: più Emma lo stuzzicava con la sua innocenza, più era complicato per lui rimanere lucido e razionale, mantenere il controllo senza prendere in mano la situazione ed arrivare immediatamente al dunque. Aveva aspettato e sognato quel momento così tanto, che non poteva lasciarselo scappare: doveva viverlo fino in fondo, doveva goderselo il più possibile.
Si lasciò scappare un lamento e sentì il sorriso di Emma contro la sua pelle sensibile e arrossata dai baci. Sentiva i loro cuori battere veloci ed eccitati eppure l’unica cosa che poteva fare era sorridere come un cretino, perché gli sembrava di avere di nuovo vent’anni e che niente fosse cambiato.
«Emma…» si lamentò, aumentando la presa sui suoi fianchi. La ragazza tornò a guardarlo negli occhi, con un’espressione divertita, stampata sul volto. Alzò un sopracciglio, come se non sapesse cosa stesse succedendo «I morsi no, lo sai-»
La ragazza si avvicinò a lui, accostando le labbra al suo orecchio «Il morso è un dono, Derek Hale»
Si allontanò quel poco da lei per guardarla in faccia «Seriamente? Adesso mi citi?»
Emma scoppiò a ridere, appoggiando la testa contro la sua spalla. Derek sorrise, scuotendo la testa e l’abbracciò.
Voleva che quel momento fosse così: che non fosse troppo imbarazzante o troppo serio, che fosse plasmato su quello che loro stessi erano e sui loro desideri e sentimenti; che fosse un momento felice e scherzoso che avrebbero ricordato per sempre, a prescindere da quello che sarebbe stato il futuro.
«Che c’è?» chiese il ragazzo, sorpreso, quando Emma tornò a guardarlo. L’espressione sul suo viso era seria.
«Voglio vedere gli occhi» rispose, accennando un sorriso.
Derek ricordò di nuovo la prima volta che gli aveva fatto una richiesta del genere. Poteva ancora vedere lo sguardo confuso, impaurito e curioso di una ragazzina di diciassette anni, appena entrata in un mondo che non le apparteneva; poteva sentire ancora il battito impazzito del suo cuore e lo stupore del suo sguardo blu quando le aveva mostrato i segreti di quei due occhi azzurri e brillanti come il mare, quando le aveva raccontato la storia dietro quel colore e quando Emma lo aveva spinto a non aver paura del suo passato.
E adesso, dopo due anni, gli chiedeva la stessa cosa, però tutto era cambiato. Lo sguardo della ragazza era solo pieno di desiderio di conoscere e specchiarsi in un colore che, se fino a poco tempo prima percepiva come un pericolo, adesso era sinonimo di sicurezza.
Fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi, per riaprirli qualche secondo dopo e lasciare che la bocca di Emma si aprisse, colma di stupore, di fronte a quel rosso fuoco.
Rosso come la frustrazione, come la rabbia e la gelosia; rosso come la passione, il calore, come la vivacità; rosso come l’innamorarsi e l’aver il cuore spezzato; rosso come l’amore.
«Paura?» le chiese, dolcemente. Avrebbe preferito scherzare e prenderla in giro per come il suo cuore si era letteralmente fermato alla vista dei suoi occhi, ma sentiva di non essere nella giusta posizione. Aveva così voglia di stringerla tra le sue braccia, che non c’era tempo per gli scherzi.
Emma sorrise, scuotendo la testa e lo baciò di nuovo. Derek si spostò lentamente verso il centro del letto, senza interrompere il contatto, capovolgendo le posizioni. Lasciò le labbra della ragazza, per scendere lungo il collo, tempestandola di baci umidi, che le solleticavano la pelle. Una volta arrivato alla cucitura della maglietta, vide Emma afferrarne i lembi per toglierla, ma la fermò.
«Tienila» sussurrò «Vedertela indosso mi fa sentire a casa»
Abbandonò le sue iniziali intenzioni e si preoccupò di aiutarlo a sfilare i jeans, che gettò ai piedi del letto. In un momento, si liberarono di quei pochi abiti rimasti e rabbrividirono quando i loro corpi entrarono in contatto per la prima volta, incastrandosi come due pezzi di un puzzle, che finalmente poteva essere concluso. Era come se avessero trovato le risposte a tutte le domande rimaste in sospeso in quei due anni, come se avessero risolto un cruciverba che fino a qualche secondo prima sembrava infattibile, senza soluzione logica; come se stessero guidando un’auto da corsa su una strada a fondo chiuso, più veloce del vento e più passionale di un peccato; era come conoscere così bene qualcosa di cui in realtà non si sapeva nulla; era come se l’ultimo petalo di una rosa rossa si fosse staccato e quello che non si vedeva o che appariva nascosto, si fosse rivelato in una certezza assoluta e meravigliosa.
C’era qualcosa nella loro unione che era così scontata come il sole che sorge ad Oriente e così vecchia come il tempo, ma che racchiudeva qualcosa di speciale per entrambi. Era quello che avevano sognato in quegli anni: il poter essere felici insieme, la possibilità di aiutare quel filo che, durante gli anni, li aveva uniti e tenuti legati indissolubilmente, anche contro la loro volontà. Consisteva tutto nell’annodarlo ancora di più, nel renderlo più forte, nell’aggiungere pezzi che portassero verso nuove esperienze e sentimenti; nel legarlo ai loro polsi e non lasciare che niente e nessuno lo tagliasse.
Fu in quel preciso istante, quando Derek potè percepire quanto si sentisse bene ad appartenere in tutto e per tutto ad Emma, che capì che ne era valsa la pena.
Tutto quel dolore, tutte quelle perdite, quei litigi, quelle incomprensioni, quelle lacrime ed il male che – anche inconsapevolmente – si erano fatti li avevano portati a quel momento, alla consapevolezza che fossero fatti l’uno per l’altro.
Era una stupida leggenda appartenente al mondo animale a cui il ragazzo non aveva mai creduto. L’aveva sempre ritenuta una cosa stupida, falsa e senza senso, ma quando guardò Emma sdraiata vicino a lui, sotto le lenzuola, con le guance arrossate, gli occhi lucidi e felici, capì che quel mito fosse la semplice e pura verità.
L’aveva sentito. Quell’inspiegabile desiderio di starle vicino, di sapere qualsiasi cosa la riguardasse – bella o brutta che fosse; quella sensazione strana di fiducia, di felicità e meritata giustizia che si insinuava come un torrente in piena nelle sue vene e raggiungeva cuore e cervello; quella consapevolezza di aver trovato la persona giusta in mezzo a milioni di altri esseri umani. Emma era la persona con cui voleva passare il resto della sua vita e questa volta non l’avrebbe lasciata andare tanto facilmente.
Le dita affusolate e pallide di Emma disegnavano dei cerchi immaginari sul petto di Derek. Intorno a loro, regnava il silenzio più assoluto. Non che dispiacesse loro, era sempre stata una loro caratteristica comune quella di non avere via di mezzo tra lo starsene semplicemente in silenzio a guardarsi e l’urlarsi contro fino a perdere la voce.
La pioggia si era finalmente calmata e i nuvoloni neri stavano lasciando spazio ad un pallido sole, ormai sulla via del ritorno a casa. La luna poteva essere vista in lontananza tra un batuffolo biancastro e l’altro, ma ancora era ben lontana dall’essere la padrona del cielo.
«Mi dispiace»
Derek alzò la testa dal cuscino e la guardò. Gli occhi della ragazza erano seri e persi in qualche ricordo lontano. Sembravano tristi e pieni di rammarico «Per cosa?»
«Per essere scappata» rispose, abbassando lo sguardo «Per averti lasciato senza una spiegazione, per aver pensato solo a me stessa e per non essermi nemmeno fatta vedere per il funerale di Boyd ed Erica, ma io… Non ce l’ho fatta» sospirò, deglutendo e rimandando indietro le lacrime «Dovresti odiarmi»
«Sei incredibile» si lamentò Derek, scherzando «Pretendi che io ti odi dopo aver fatto l’amore con te? Hai proprio un bel coraggio»
La ragazza aggrottò le sopracciglia e si allontanò da lui, mettendosi seduta «Non sei arrabbiato? Perché?»
Il ragazzo sospirò «Ammetto che i primi tempi siano stati… Difficili» iniziò «Non è che fossi furioso con te, semplicemente non riuscivo a credere che tu te ne fossi andata veramente, ma poi con il tempo, ho capito perché lo avessi fatto»
«Volevo solo-» lo interruppe Emma «Sei quasi morto per colpa mia, Derek: era il minimo che potessi fare»
«Lo so» affermò lui, intrecciando le proprie dita a quelle della ragazza «Volevi che fossimo entrambi al sicuro e per farlo, avremmo dovuto vivere separati»
Emma alzò gli occhi su di lui, sorridendo divertita. Quella frase racchiudeva i due anni appena passati. Aveva sognato così tanto di tornare a Beacon Hills, che aveva finito per convincersi che forse la decisione di andarsene non era stata la più giusta, ma soprattutto che avrebbe preferito rinunciare a tutta la sicurezza del mondo, pur di non doversi allontanare nemmeno di un passo dal loft del ragazzo. Gli si avvicinò, facendo incontrare le loro labbra in un bacio tranquillo, per poi tornare a guardarlo negli occhi.
«Preferirei mille volte vivere nel pericolo perenne, pur di non dover rinunciare a te»
Derek sorrise «Finalmente, siamo d’accordo su qualcosa» ammise «Ti va una doccia e poi ti porto a casa?»
 
Il piccolo bagno era talmente pregno di vapore che Emma non riusciva nemmeno a vedere i propri piedi. Era avvolta in un accappatoio blu, seduta sul marmo caldo, proprio vicino al lavandino, con le spalle allo specchio. Il ragazzo uscì dalla doccia, avvolgendosi un asciugamano alla vita e afferrandone un altro per passarselo velocemente sul corpo e tra i capelli. Con una mano, Derek spannò lo specchio, permettendo ad entrambi di potersi vedere riflessi su quella superficie luminosa e costellata da una miriade di gocce d’acqua. Si intrufolò tra le gambe della ragazza, senza staccare i propri occhi dai suoi: voleva che quell’immagine e quel momento così felice rimanessero per sempre impressi nella sua mente; che gli occhi azzurri e brillanti di Emma continuassero a splendere per sempre nei suoi ricordi; voleva esser capace di sentire il proprio cuore battergli nel petto per il resto della sua vita; voleva che quel sentimento, quell’emozione, quell’adrenalina gli scorressero nel corpo fino a quando avrebbe avuto respiro. Voleva solo sapere cosa si provasse ad essere felici.
Inclinò lievemente la testa, appoggiando le sue labbra su quelle della ragazza, che ricambiò immediatamente il bacio, intensificando il contatto e appoggiando le proprie mani sui fianchi di Derek, per sentirlo più vicino, più suo. Se avesse saputo che il suo pomeriggio sarebbe andato in quel modo, probabilmente non sarebbe nemmeno uscita di casa. Avrebbe avuto paura di soffrire di nuovo, di doversi illudere di essere davvero felice, e di terrore continuava comunque ad averne, ma in quel momento, tutto sembrava diverso. Erano passati due anni e, con loro, tutti i possibili pericoli: non c’erano più Deucalion e la sua sete di vendetta, non c’era più la Rusalki, non c’erano più gli incubi. Erano sopravvissuti a tutto quella sofferenza e forse, nonostante ignorassero quello che sarebbe stato il loro futuro, si meritavano un po’ di tranquillità.
Emma ripiombò nella realtà, quando il ragazzo interruppe il bacio, all’improvviso, senza una qualche spiegazione precisa. Lo vide fissare un punto di fronte a sé, con gli occhi immobili ed il corpo rigido. Ormai lo conosceva abbastanza da poter capire che avesse percepito qualcosa di strano, qualcosa a cui nemmeno lui sapesse dare una spiegazione. Decise di non intervenire e lasciò che ascoltasse qualsiasi cosa stesse udendo.
Tirò un sospiro di sollievo, quando lo vide rilassarsi e sbuffare, profondamente infastidito. Scosse la testa, massaggiandosi il collo, e alzò gli occhi al cielo.
«Che succede?» chiese quindi la ragazza, tamponandosi i capelli ormai quasi asciutti.
«Mi ero dimenticato di aver invitato i ragazzi qui per cena» rispose «Li ho appena sentiti scendere dalla jeep di Stiles. Se mi dai un secondo, li mando via»
«No» lo fermò Emma «Ho voglia di passare una serata tutti insieme»
«Sicura?»
«Sì, tranquillo»
Derek le sorrise riconoscente, prendendola per mano e aiutandola a rimettersi in piedi.
«E’ bello riaverti nel branco» fu l’ultima cosa che le disse, prima di schioccarle un bacio su una guancia e scendere al piano di sotto per accogliere gli altri.
Il resto del branco entrò nel loft senza aspettare che il padrone di casa aprisse loro la porta. Piombarono all’interno in gruppo, portando una decina di cartoni di pizza ed una voglia matta di fare baldoria fino a tardi.
«Secondo te si accorgeranno che abbiamo…? Insomma hai capito» sussurrò Emma, facendo sorridere Derek, mentre si sedeva vicino a lei sul divano, in attesa che tutti gli altri si mettessero comodi. Alla fine, erano tutti licantropi: si sarebbero accorti anche della polvere invisibile che aleggiava nella stanza, sopra le loro teste e tra i loro corpi.
«Ma no, figurati» rispose lui «Si sono a malapena accorti di te, seduta esageratamente vicino a me»
La ragazza non replicò, ma tornò a guardare gli altri mettersi comodi. Stava per alzarsi per salutare l’intero branco, quando notò gli occhi di Malia e Scott fissarla in modo a dir poco insistente e imbarazzante.
«Avete fatto sesso voi due?» domandò Scott, senza mezze misure.
Nella stanza, calò il silenzio. Qualsiasi cosa gli altri stessero facendo fu interrotta e nel giro di qualche secondo, gli occhi felini di tutto il branco erano puntati sulle due figure imbarazzate sedute sul divano. I due ragazzi si guardarono per qualche secondo cercando di trovare la risposta più giusta a quella domanda, ma tutto ciò che ne risultò furono parole sconnesse ed opposte.
«No, secondo te?!» esclamò Emma, con tono ovvio, arrossendo però fino alla punta delle orecchie.
«Sì, invece» fu la risposta del ragazzo, che marcò volontariamente l’ultima parola.
Scott aggrottò le sopracciglia, senza capire, ma prima ancora che potesse replicare, fu Stiles a prendere in mano la situazione «Allora, sì o no? Vi prego, diteci la verità e passiamo oltre – omettendo i particolari, magari»
Tutto ciò che ottenne fu un ringhio ed un’occhiata rossa come il fuoco da parte di Derek.
«Sì, sì, va bene, l’abbiamo fatto, contenti?» disse Emma «Adesso possiamo andare oltre?»
«Sono davvero felice per voi» le confessò Malia, sorridendole dolcemente, mentre il campanello suonava.
Isaac si avviò ad aprire, lasciando che i gemelli ed un nuovo componente del branco entrassero dentro.
«Scusate il ritardo!» esclamò Ethan «Dovevo fare benzina!»
«Aiden!» esclamò la ragazza, correndo verso di lui e saltandogli letteralmente addosso per abbracciarlo.
«Emma?!» disse lui, sorpreso, ma sfoderando il migliore dei suoi sorrisi «Che ci fai qui?»
«Sai com’è, sono tornata»
«Ne sono felice, mi sei mancata» rispose, poi indicò il nuovo membro «A proposito, lui è Liam»
Si voltarono entrambi verso un ragazzo di circa sedici anni, biondo, con gli occhi chiari ed un viso dolce. Indossava la divisa della squadra di lacrosse e se ne stava in piedi, leggermente dietro ai gemelli, in silenzio, come se avesse paura di dire o fare qualcosa di sbagliato. Ad Emma piacque sin da quel momento: le ricordava tanto lei stessa a sedici anni, prima ancora che conoscesse Derek e le fece talmente tanta tenerezza che per un momento, pensò di abbracciarlo. Non lo fece solo per paura di spaventarlo ulteriormente.
«Ciao, io sono Emma» si presentò, alla fine, stringendogli la mano e costringendolo a guardarla negli occhi.
«Liam, piacere» rispose lui timidamente, incontrando lo sguardo azzurro e magnetico della ragazza, alla quale dovette rinunciare con dispiacere. Quegli occhi lo avevano stregato così tanto nel profondo, nel giro di un secondo, che arrossì fino alla punta delle orecchie, accorgendosi di essersi preso una bella cotta per lei. Era bella, aveva una pelle chiara, diafana e due occhi che facevano invidia al più azzurro dei mari, eppure era assolutamente irraggiungibile.
Emma stava per replicare, con qualche solita domanda di routine, quando sentì un ringhio frustrato alle sue spalle. Lasciò perdere Liam, per tornare da un Derek alquanto irritato e scontroso: l’espressione che aveva dipinto sul volto parlava per lui, ma la cosa peggiore è che lei lo trovasse ancora più carino così.
«Che c’è?» gli chiese, fingendosi infastidita dal suo comportamento. Derek ringhiò di nuovo: sembrava un bambino privato delle caramelle e la ragazza dovette reprimere un sorriso «Allora?»
«Haunacottaperte» borbottò lui, velocemente.
Emma capì, ma decise di divertirsi un po’ «Come scusa? Non ho capito»
«Ha una cotta per te» sussurrò, più lentamente.
«Continuo a non capire» insistette, incrociando le braccia al petto ed irritandolo ancora di più.
«Ha. Una. Cotta. Per Te.» ringhiò Derek a denti stretti, facendola sorridere.
«Sei geloso?» chiese, divertita.
«Da morire» ammise il ragazzo.
Emma gli si avvicinò, circondando i suoi fianchi con le proprie braccia e appoggiando il proprio mento sul suo addome, in modo da poterlo guardare negli occhi «Ha sedici anni, gli passerà» lo consolò «E comunque, io ho una cotta per te, quindi non vedo il problema»
«Una cotta? Solo una cotta?» esclamò, facendo il finto offeso «Io non ho una cotta per te»
«Ah, no?» chiese Emma, aggrottando la fronte.
«Io ti amo» confessò.
Quella era la prima volta che glielo diceva chiaro e tondo, senza filtri e senza ripensamenti: la prima di una lunga serie.


 

 

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Capitolo 20
*** Find my way back ***


salve a tutti! 
per l'ultima volta, ho l'occasione di scrivere questo spazio autore: sono tristissima per la fine di questa storia, ma felice che Derek Hale abbia ottenuto la felicità che ho sempre pensato si meritasse.

per cui sarò brevissima: mi limito a ringraziarvi per aver letto questa storia e per aver apprezzato i personaggi - in particolar modo, Emma e Derek
ho in programma, inoltre, di scrivere una raccolta di missing moments, ma sarò molto più lenta negli aggiornamenti

vi ricordo che la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link in bio)

adesso vi lascio e vi auguro (un'ultima) buona lettura!
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO VENTI: FIND MY WAY BACK
 
Emma alzò finalmente lo sguardo dalle scartoffie appoggiate sul tavolo di fronte a lei. Era una giornata tranquilla, una di quelle che, sin dall’inizio, non mette fretta: il sole pallido di settembre entrava dalla grande finestra del loft, diviso in raggi di luce grandi e larghi, che si riflettevano sul pavimento. La ragazza si guardò intorno rilassata e si crogiolò in quel silenzio, che, molto raramente, aveva l’occasione di vivere.
In quei cinque anni appena trascorsi da quando era tornata a Beacon Hills, c’erano stati ben pochi momenti di tranquillità: erano stati felici, dinamici, movimentati, stressanti, ma mai calmi. O silenziosi.
Si riappropriò della penna, rimasta nascosta sotto un foglio, e riprese a leggere. Per quanto fosse faticoso e, molto spesso, rischioso, le piaceva fare l’avvocato. Non era mai stato il lavoro dei suoi sogni, ma come Derek aveva affermato riguardo all’essere un agente di polizia, anche lei, ad un certo punto, aveva sentito il bisogno di trovare un mestiere che le permettesse di aiutare gli altri.
Così, l’idea di frequentare la facoltà di giurisprudenza era arrivata un po’ all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno. Ancora ricordava bene quel momento: stava discutendo con Malia riguardo alle domande accolte o meno dalle varie Università, quando il dépliant della facoltà di legge le capitò fra le mani, interessandola fin da subito.
I suoi genitori pensarono sin dal primo momento che fosse un rischio frequentare corsi relativi a materie e argomenti a cui lei non si era mai interessata, ma Derek fu l’unico ad incoraggiarla davvero e a convincere i signori Grimes che fosse la scelta migliore per lei.
Quel pensiero la riportò immediatamente a quando aveva fatto conoscere al ragazzo i suoi genitori: era stato, probabilmente, il momento più imbarazzante della sua vita, visto che Derek non aveva mai conosciuto la famiglia di una delle sue fidanzate e non era certamente abituato ad una situazione del genere. Il tutto, però, era andato a buon fine: sua madre lo adorava essenzialmente perché era un bel ragazzo sia dal punto di vista fisico («Emma, tesoro, adesso tuo padre non mi sembra più così bello come credevo»), che caratteriale; mentre a suo padre piaceva così tanto perché la rendeva felice e la faceva sorridere di continuo. E perché – cosa altrettanto fondamentale – tifavano per la stessa squadra di baseball.
Sorrise al pensiero, scuotendo la testa divertita, mentre sottolineava con un evidenziatore giallo una frase importante riguardo ad un caso su cui stava lavorando.
Alzò la testa di scatto, quando sentì un paio di chiavi girare nella toppa della porta. La prima cosa che vide fu Derek stretto nella sua infallibile giacca di pelle nera, ormai vecchia e rovinata: teneva in una mano le chiavi dell’auto ed il cellulare; nell’altra la piccola mano di Oliver che strascicava dietro di sé, con apparente fatica, un coniglietto azzurro di pezza. Il bambino entrò in casa correndo, non appena vide la madre, e gli mostrò il giocattolo.
«Mamma, guarda!» esclamò, mentre gli occhi verdi come lo smeraldo si illuminavano felici. Emma si accucciò per essere alla sua altezza ed in un secondo momento, lo prese in braccio «La nonna me l’ha aggiustato!»
«Ha fatto davvero un bel lavoro» ammise la ragazza con sincera ammirazione. Guardò il ragazzo divertita e mise giù il bambino, che già stava scalpitando per poter andare a giocare.
«Togliti la giacca, scimmietta» gli ricordò Derek, passandogli una mano tra i capelli corvini «E le scarpe»
Il bambino annuì, perso nelle proprie fantasie ed i due ragazzi lo guardarono allontanarsi, mentre trotterellava e canticchiava, mangiandosi di tanto in tanto le parole, per via del ciuccio che teneva tra i denti.
Emma ridacchiò, divertita per poi rivolgere la sua attenzione a Derek, il quale aveva una strana espressione stampata sul volto. Sembrava stesse cercando la risposta ad un enigma impossibile. Ad un tratto, come se niente fosse, tornò in sé.
«Tutto bene?»
Non si preoccupava più così tanto, come aveva fatto in passato. In quei cinque anni, non si erano presentati problemi catastrofici o creature sovrannaturali di nessun genere, per cui tutto il branco aveva imparato a vivere nella normalità della vita quotidiana. Persino Derek – che non aveva mai vissuto una vita tranquilla – aveva pian piano allentato la tensione, aveva capito come poter vivere normalmente senza esser costretti a restare vigili ventiquattr’ore su ventiquattro. E’ vero che, con l’arrivo di Oliver, comportamenti e atteggiamenti vari di preoccupazione ed ansia si erano fatti più forti, ma Emma era convinta che fosse una semplice e naturale reazione all’idea di avere e dover crescere un figlio.
«Sì, è solo che-» Derek sospirò, cercando di concentrarsi. Era tornato in sé, eppure sembrava ancora inseguito da questo dubbio a cui non riusciva a dare risposta «Sento un battito in più»
«Che vuoi dire che senti un battito?» la ragazza corrugò la fronte «Percepisci i nostri: il mio, il tuo e quello di Oliver»
«E un altro» aggiunse.
Emma stava per replicare, quando il bambino entrò nella stanza, correndo verso il centro – stracolmo di giocattoli – per sedersi a terra e riprendere quello che aveva interrotto prima di uscire.
«E’ qui, in questa stanza» riprese Derek «Con noi»
«Non è possibile» commentò «Ci siamo solo noi qui»
«Lo so, è che-» s’interruppe, finalmente con la soluzione davanti agli occhi «Oddio
«Che c’è?»
Il volto del ragazzo si aprì in un sorriso troppo felice per essere vero ed i suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia, scintillando come diamanti. Emma lo guardò, senza capire, continuando a vagare nella propria ignoranza, chiedendosi cosa stesse succedendo. L’ultima volta che aveva visto Derek in quelle condizioni – seppure più spaventato – era stato quando gli aveva detto di essere incinta di Oliver. Quel momento era ancora impresso nella sua mente: aveva solo ventitré anni, l’università appena finita ed un lavoro da trovare. Era stata per giorni senza dire niente a nessuno, tanto meno a lui, ma alla fine si era fatta coraggio: come avrebbe fatto senza l’aiuto di Derek?
«Emma, sei incinta»
Le parole, stracolme di gioia e stupore, del ragazzo le arrivarono ovattate e rimbombarono in tutta la stanza. Solo Oliver continuò la propria routine di gioco senza minimamente accorgersi di quello che stesse accadendo intorno a lui.
Sul volto della ragazza, comparve un timido sorriso, quasi di incredulità, che in un secondo momento si trasformò in pura e semplice felicità: quei due bambini non erano mai stati programmati, eppure era arrivati lo stesso e avrebbero portato comunque allegria. Saltellò sul posto, come una bambina, nonostante i suoi ventisei anni.
Si lanciò letteralmente verso Derek, abbracciandolo. Il ragazzo scoppiò a ridere, prendendole poi il viso tra le mani per baciarla. Quel bacio era diverso da tutti gli altri: era dolce come il miele, salato come le lacrime che entrambi stavano versando e sapeva di bambino, di tenerezza e amore. Era un bacio unico ed Emma l’avrebbe ricordato per sempre.
Il ragazzo interruppe il contatto e la guardò «Adesso dovremmo dirlo ad Oliver, no?»
Annuì, prendendolo per mano, per avviarsi al centro della stanza: si sedettero a terra vicino al bambino ed Emma lo prese in braccio, stritolandolo in un abbraccio.
«Scimmietta, che dici? Ti piacerebbe avere un fratellino o una sorellina?»
Oliver socchiuse lievemente gli occhi, guardandoli senza capire. Poi si voltò verso sua madre e scosse la testa «No, non lo voglio»
Derek ridacchiò, per niente sorpreso da quella risposta. Era stato l’unico maschio in mezzo ad una marea di donne e per quanto il destino non avesse dato lui la possibilità di crescere con le sue sorelle, ricordava quanto fosse faticoso e per niente divertente passare le giornate con fratelli e sorelle maggiori. Per cui capiva benissimo il bambino, ma se fosse stato per lui, avrebbe voluto avere minimo cinque figli, perché una grande famiglia era quello che aveva sempre desiderato. Aveva impiegato un po’ di tempo per capirlo, ma alla fine c’era riuscito.
«Come no?!» esclamò Emma, guardando Oliver che continuava a scuotere la testa contrariato «Immagina se tu avessi una sorellina»
«Mi piacerebbe avere una bambina» se ne uscì Derek «Potremmo chiamarla-»
«Talia» lo interruppe lei.
Il ragazzo rimase per qualche secondo in silenzio, mentre quel nome arrivava alla sua mente e richiamava ricordi ormai lontani e quasi dimenticati. Talia era il nome di sua madre, il nome della famiglia e di quella vita che aveva perso ingiustamente e troppo presto; Talia era il modo più innocente possibile per collegarsi di nuovo al passato, per avere qualcosa da raccontare ai propri figli una volta cresciuti; era ciò che gli aveva regalato Emma e lo aveva reso felice. Era ciò da cui era iniziato tutto.
Di nuovo, le lacrime erano pronte, proprio dietro le ciglia scure e lunghe, a scendere come fiumi sulle sue guance, ma cercò di resistere. Distolse lo sguardo dagli occhi soddisfatti – e sicuri di aver colto nel segno – di Emma e per qualche secondo osservò Oliver giocare con i suoi peluche. Tirò su con il naso e sorrise, scuotendo la testa.
Rivolse di nuovo i suoi occhi alla ragazza e si concentrò qualche secondo sul minuscolo battito cardiaco che proveniva dal suo corpo: sembrava così lento, basso, indifeso, eppure sapeva che sarebbe stato forte, proprio come il fratello.
Pensò di nuovo a sua madre e al fatto che non lo avrebbe mai visto felice, che non avrebbe mai incontrato Emma e mai conosciuto i suoi figli: si sentì strano, come se gli mancasse un pezzo.
Non pensava quasi mai a lei, ma quel nome continuava a rimbombargli nella mente e lo intristì rendersi conto che non sarebbe mai più stata accanto a lui.
La ragazza sembrò accorgersi del suo strano silenzio e gli si avvicinò, appoggiando la propria testa sulla sua spalla e stringendosi a lui. Derek sorrise, abbracciandola a sua volta: tutto era così perfetto da sembrare finto. Se c’era una cosa di cui entrambi avevano paura era che quella loro piccola bolla quotidiana di felicità potesse scoppiare da un momento all’altro, che quel sole che illuminava costantemente le loro giornate potesse esser sostituito da un forte temporale. Si ripetevano continuamente di essere al sicuro – ed effettivamente lo erano – ma la paura rimaneva e, nonostante tutto, ogni tanto si faceva sentire. Come in quel momento, con un altro bambino in arrivo.
Il ragazzo sospirò e lasciò un bacio leggero sulla fronte di Emma «Che Talia sia»
 
***
 
Talia era diversa dalle altre bambine: era sveglia, vivace, impulsiva, energetica, simpatica, sarcastica e sempre con la battuta pronta. Se non fosse stato per la fortissima somiglianza fisica con Emma, la gente l’avrebbe scambiata per la figlia di Stiles.
Aveva tre anni, i capelli castani legati in un paio di codini, due occhi azzurri come il mare d’inverno ed un amore sfrenato per gli orsacchiotti di pezza, la cioccolata calda e, soprattutto, suo padre.
Mentre Oliver era fisicamente la copia in miniatura di Derek, Talia gli somigliava caratterialmente: oltre ad essere ironica e costantemente sorridente, molto spesso era permalosa, scontrosa, talvolta silenziosa. In più, da quando aveva visto il padre roteare gli occhi infastidito, aveva imparato a farlo anche lei e non c’era giorno in cui non lo imitasse.
Vista la sua indole impulsiva e lupina, aveva circa tre anni e mezzo, quando tornò per la prima volta dall’asilo con una sbucciatura sul ginocchio, piena di sangue.
«Papà, ma mi ascolti?!» esclamò infastidita, mentre Derek la metteva seduta sul tavolo della cucina, in cerca di un modo per disinfettarle la ferita. Il ragazzo annuì, raggiante, pronto ad ascoltare ogni sua parola.
La verità era che stravedesse per lei: non aveva un figlio preferito, questo era ovvio, ma è risaputo che le bambine vadano molto più d’accordo con i padri e i bambini con le madri. Dal primo momento che l’aveva vista in ospedale era come se si fosse innamorato per la seconda volta, e mano a mano che la vedeva crescere, l’amava ancora di più. Era semplicemente Talia, la sua Talia, ma a lui bastava quello. Era completamente impazzito, e tutti – Stiles compreso – lo prendevano in giro per il modo in cui si comportava in sua presenza: non era più scorbutico, non si arrabbiava mai, l’ascoltava sempre, le leggeva favole e guardava con lei i suoi cartoni animati preferiti; le raccontava antiche leggende sui lupi e quando vedeva quanto pendesse dalle sue labbra non poteva che sentirsi fiero della persona che stava diventando; mangiavano il gelato insieme, facevano il bagno insieme e molto spesso si addormentavano insieme sul divano, con un libro appoggiato sul petto.
Però sapeva essere anche un padre severo: non la viziava ed non sopportava chi lo facesse. Molto spesso Emma tendeva a cedere di fronte a qualche richiesta dei bambini e lui sbuffava sempre perché «troppa cioccolata fa male!», «troppa tv fa male!» oppure «troppo Stiles fa male, Emma!». La ragazza annuiva d’accordo, per poi tornare a guardare i bambini e a far loro l’occhiolino, affinchè non si preoccupassero: Derek voleva essere severo, ma non avrebbe saputo dir di no nemmeno ad una semplicissima domanda, se richiesta dai suoi bambini.
«Papà, allora!» la voce di Talia lo riportò alla realtà. Le aveva sfilato le scarpe e aveva arrotolato i jeans della bambina sopra al ginocchio, nonostante – nell’impatto – si fossero strappati, lasciando in bella vista un buco abbastanza grande, incrostato di sangue.
«Certo che ti ascolto» affermò sicuro, mentre recuperava un po’ di disinfettante «Piuttosto dimmi cosa hai fatto per farti così male»
«Tess dice che io e Jude non possiamo stare insieme! E’ gelosa perché lui sta con me e non con lei!» piagnucolò «Quindi abbiamo fatto a botte»
Derek alzò lo sguardo serio su di lei «Cos’è questa storia di te e Jude?»
«Papà, siamo fidanzati, non capisci?»
Il ragazzo alzò un sopracciglio «Da quando, scusa?»
«Da ieri, ma ti giuro che la nostra è una cosa seria: ci sposeremo presto»
Represse un sorriso, tornando a concentrarsi sul ginocchio della bambina. Se avesse dovuto scegliere un possibile spasimante per lei, di sicuro non avrebbe considerato gli Stilinski. Jude era il figlio di Stiles e Malia e per quanto entrambi fossero suoi amici, quel bambino era la copia esatta di Stiles: ogni volta che lo vedeva era come ricordare il padre da ragazzino, con i suoi commenti sarcastici, le sue battutine impertinenti, la pelle pallida, i nei, la timidezza, la goffaggine ed il sorriso sempre stampato sul volto. Scosse la testa, tornando alla realtà: ripulì la ferita, applicandovi un cerotto bello grande e spostò di nuovo il suo sguardo su Talia, intenta ad infilarsi in bocca il ciuccio.
«Questo, però, non ti autorizza a picchiare gli altri, bambolina» la rimproverò, senza sforzarsi più di tanto «Non farlo più, va bene? La prossima volta non la passerai tanto liscia»
La prese in braccio, rimettendola a terra ed in quel preciso momento, Emma ed Oliver entrarono in casa. La bambina corse immediatamente dal fratello, per salutarlo. Il suo modo di dimostrare affetto era insolito e bizzarro – cominciava a saltellargli intorno e ad intonare una canzoncina di cui soltanto lei sapeva le parole – ma ad Oliver sembrava far sempre piacere, per cui la lasciava fare. Stranamente e diversamente dalla normalità, tra i due c’erano sempre stati buoni rapporti: la differenza d’età non era poi così tanta ed i loro genitori li avevano sempre abituati a passare il più tempo possibile insieme. Emma, però, era convinta che, crescendo, le loro differenze – sotto vari punti di vista – sarebbero diventate naturalmente più forti e visibili e li avrebbero portati ad allontanarsi.
Derek si avvicinò alla ragazza, prendendole il viso tra le mani e baciandola dolcemente.
«Sono distrutta» mormorò Emma, mentre le loro labbra ancora si sfioravano. Il ragazzo superò la sua bocca, per poi muoversi verso il basso lasciandole qualche bacio veloce sul collo. Chiuse gli occhi per qualche secondo, dimenticandosi persino dei bambini, e si godé le labbra morbide e calde di Derek muoversi sulla sua pelle sensibile.
«Che ne dici se-» s’interruppe per baciarla di nuovo «Portassimo i bambini in piscina e poi tornassimo qui per starcene da soli per un po’?»
«Potremmo fare un bagno» disse Emma, con la mente già completamente da un’altra parte. Con il lavoro ed i bambini, era praticamente impossibile avere un minuto per sé.
«Oppure anche qualcos’altro» la interruppe Derek, malizioso.
«Anche entrambi, volendo»
Il ragazzo rise e la baciò di nuovo «Mhmh, perché no»
 
***
 
«Papà» lo chiamarono, sussurrando i bambini.
Era una notte fonda di luna piena. Il ragazzo non aveva più bisogno, ormai da tempo, di rimanere sveglio e controllare il proprio istinto lupino, ma l’influenza di quella palla bianca che spiccava nel cielo nero gli dava comunque fastidio. Quelle erano notti che lo facevano dormire male, oppure persino troppo e la mattina finiva per sentirsi più confuso del solito, che lo rendevano più facilmente irritabile e scontroso.
«Papà» la piccola voce di Talia risuonò nella stanza. Derek, convinto di star sognando, si mosse sotto le coperte, rigirandosi un paio di volte. Circondò il cuscino con entrambe le braccia e biascicò un incomprensibile «Tornate a letto»
Gli sembrò di sentire Oliver sbuffare: lo ignorò e si voltò dalla parte opposta. Era sicuro che Emma stesse dormendo e visto il silenzio di nuovo caduto nella stanza, pensò che anche i bambini fossero tornati in camera loro.
«Papà, c’è qualcuno in camera nostra»
A queste parole, sbarrò gli occhi, tirandosi su di colpo. Per via di quel movimento improvviso, anche la ragazza si svegliò e sebbene fosse più lenta nei movimenti, si mise seduta sul letto.
«Che succede?» chiese, poi guardò i bambini «Che ci fate svegli a quest’ora?»
«Abbiamo sentito dei rumori» spiegò Oliver «C’è qualcosa che si muove in camera nostra. Fa rumore e… Paura»
Emma aggrottò la fronte e guardò Derek, il quale stava cercando di capire se quella fosse l’ennesima scusa per non dormire nella loro stanza e trovare un modo per convincerli a dormire tutti insieme. Ma Oliver, con il linguaggio fin troppo forbito per un bambino di sei anni, stava dicendo la verità.
Ricambiò lo sguardo preoccupato di Emma: non voleva credere alle parole dei bambini. Sicuramente si stavano sbagliando, avevano decisamente sognato tutto, ma per ristabilire la quiete famigliare, decise comunque di alzarsi per controllare.
«Restate qui con la mamma» disse, rassicurando con un’occhiata la ragazza. Non c’era niente di cui preoccuparsi, non doveva esserci niente di cui preoccuparsi «E non muovetevi»
Uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Da quando si erano trasferiti nella casa nel bosco – quella in cui aveva vissuto fino alla morte dei suoi genitori – quell’edificio era stato come un labirinto per lui. Aveva lasciato il loft a malincuore, ma capiva che avessero avuto bisogno di più spazio e, per quanto quella casa facesse riaffiorare ricordi dolorosi, era il posto giusto per crescere una famiglia. Nonostante questo – e non l’aveva mai detto a nessuno, nemmeno ad Emma – talvolta, specialmente di notte ed in silenzio, camminare tra quelle stanze lo spaventava a morte. Era come se si stesse muovendo in un labirinto senza via d’uscita; gli sembrava di sentire la voce di sua madre seguirlo come un’ombra e di vederla dietro a qualche porta, intenta ad osservare la vita che si stava costruendo. Da una parte, era un bel pensiero quello di credere che sua madre lo stesse, in un modo o in un altro, proteggendo da lassù, senza farsi mai sentire, ma dall’altro lo inquietava. Sapeva che non avrebbe mai superato la sua morte, che quella non era semplicemente una persona, ma sua madre, però aveva comunque imparato a conviverci.
Senza far cigolare troppo il parquet del pavimento, entrò in punta di piedi nella camera dei bambini. Era convinto avessero sognato tutto, ma Oliver non stava mentendo e lui si fidava ciecamente del suo giudizio.
I suoi occhi si accesero di rosso in modo da scrutare meglio la stanza: preferì non accendere la luce in modo da non spaventare chiunque o qualunque cosa fosse lì. Tirò fuori gli artigli e si mise ad aspettare.
Dopo un paio di minuti di silenzio, udì qualcosa muoversi. Era un rumore fastidioso, ma quasi piccolo, lontano, innocuo. Si interrompeva di tanto in tanto, per poi riprendere. Era graffiante, acuto talvolta e sembrava provenire dal basso.
Scosse la testa, cercando di capire cosa fosse ma non ci riuscì: così accese la luce e decise di affrontare il problema una volta per tutte.
A prima vista, non notò niente di strano: la stanza dei bambini era esattamente in ordine come quando l’aveva lasciata qualche ora prima, quando era andato lì per dar loro la buonanotte.
Poi quel rumore si fece di nuovo sentire: durò più del normale, così Derek cercò di seguirlo, in modo da capire da dove provenisse. Giunse fino al letto di Oliver: alzò il cuscino, le lenzuola, la coperta, ma niente. Così, per esserne sicuri, si piegò in avanti, infilando letteralmente la testa sotto il letto, capendo finalmente che cosa avesse creato tutto quel baccano.
Dalla parte opposta – quella adiacente al muro – incastrato tra una zampa del letto e la parete bianca, c’era un gattino piccolo e spaventato, dal manto color caramello che tremava come una foglia. Con le sue zampe, aveva rovinato tutto l’intonaco del muro, alla ricerca di qualcuno che si accorgesse di lui: chissà come era entrato lì dentro.
Si lasciò scappare un sorriso ed un sospiro rilassato ed allungò un braccio per prenderlo e portarlo con sé in camera. Si erano spaventati per un semplice gatto: da una parte, pensò fosse una cosa fin troppo ridicola, dall’altra ringraziò il Cielo che fosse un semplice cucciolo smarrito e non l’ennesima creatura mostruosa e omicida.
Non appena Talia lo vide rientrare in camera con quel gatto tra le dita, non dette al padre nemmeno il tempo di dire qualcosa e, dal letto su cui era seduta, allungò le braccia con la tacita, ma esaltata, richiesta di farsi passare quel cucciolo per stringerlo tra le sue mani.
Derek glielo passò, adagiandolo dolcemente sul letto «Fa piano, tesoro, è spaventato» e si infilò di nuovo sotto le coperte, vicino ad Emma, che sorrideva, finalmente tranquilla, di fronte a quella scena.
Oliver, diversamente da sua sorella, si avvicinò a quella piccola palla di pelo con scetticismo: non gli erano mai piaciuti più di tanto gli animali, però guardando quel gatto, da lontano, non gli sembrò così pericoloso. Allungò una mano per accarezzarlo e sorrise compiaciuto quando quel cucciolo si rilassò, si sentì al sicuro, sotto al suo tocco.
«Papà, possiamo tenerlo?» chiese Talia, pregandolo.
I due ragazzi si guardarono: la risposta sarebbe stata che no, non potevano tenerlo perché lavorare e star dietro a due bambini non era proprio una passeggiata. Non avevano bisogno di qualcun altro da tenere sotto controllo e di cui prendersi cura in ogni momento della giornata.
«Talia, potrebbe appartenere a qualcuno» le spiegò Emma, cercando di non darle immediatamente una risposta negativa: voleva che capisse «Non è nostro ed è giusto che stia con il suo padrone»
«Ma a me piace» si lamentò la bambina, mettendo il broncio.
«Non possiamo tenerlo fino a quando non troviamo il suo padrone?» domandò allora Oliver.
Derek ed Emma si guardarono, inizialmente contrariati – il ragazzo specialmente, visto che non gli piacevano per nulla i gatti – per poi cambiare espressione ed accettare quel compromesso.
«Va bene» sospirò Derek «Lo teniamo, ma quando verranno a riprenderselo, glielo restituiremo senza tante storie, intesi?»
«Adesso, però, a letto» intervenne Emma.
«Ma mamma!» si lamentò Oliver. Ormai Talia aveva completamente perso la testa per quel cucciolo e non si sarebbe accorta di niente. Si era completamente innamorata, aveva trovato il suo nuovo passatempo «Dobbiamo trovargli un nome!»
«Lo faremo domattina» replicò la ragazza «A letto!»
Oliver scosse la testa, alzandosi dal materasso e tirando per la manica del pigiama Talia, che stava continuando a cullare il gatto. Si chiusero la porta alle spalle e qualche secondo dopo, Derek li sentì entrare sotto le coperte e spegnere la luce.
«Adesso che abbiamo anche il gatto, cosa ci manca?» domandò il ragazzo, ironicamente.
Emma si accoccolò contro il suo petto e lo sentì accarezzarle i capelli «Una bella dormita, direi»
 
Nei giorni successivi, Sebastian – così Talia ed Oliver avevano deciso di chiamarlo, visto il loro grande amore per La Sirenetta, e il suo color rossastro che richiamava alla mente quello del granchio omonimo – fu il protagonista indiscusso dei divertimenti dei due bambini. Nessuno venne a riprenderselo: Derek chiese persino in giro e fece attaccare in centrale qualche volantino, ma nessuno altro bambino o nessun anziano – mancante della compagnia di una animale – si presentò per riappropriarsi di ciò che aveva perso. Visto ciò, lentamente quella piccola palla di pelo divenne, senza e senza no decisivi, parte della famiglia: Sebastian dormiva con i bambini, perché altrimenti non riusciva ad addormentarsi; lui e Talia bevevano il latte insieme al mattino e con Oliver si divertivano a tirare e recuperare una piccola palla di stoffa che Sebastian finiva per mordicchiare fino a strappare del tutto. Ed ogni volta, la madre di Emma era costretta a lavarla e cucirla come nuova. Alla fine, i ragazzi avevano deciso di tenerlo perché non se la sentivano di abbandonarlo a sé stesso, a destinarlo a qualcuno che probabilmente non gli avrebbe voluto abbastanza bene e non si sarebbe preso cura di lui.
Con questo pensiero ben preciso in mente, Derek entrò nella clinica di Deaton, seguito dai suoi piccoli cuccioli – Sebastian compreso. Erano lì per la sua prima visita: visto che avevano preso la decisione di tenerlo con loro permanentemente, aveva bisogno di un bel controllo.
Quando fu all’interno, vi trovò con grande sorpresa Isaac, intento a leggere qualche giornale nella sala d’attesa.
«Hey» lo salutò Derek, tenendo d’occhio Talia, affinchè non entrasse nello studio del dottore senza bussare «Che ci fai qui?»
Isaac prese la bambina in braccio e la stritolò in un abbraccio ricco di baci e solletico «Come stai, bambolina
Suo padre non era l’unico a chiamarla così: lo facevano tutti nel branco, perché era l’unica femmina della famiglia. Scott, Stiles e Lydia avevano avuto dei figli maschi, mentre Isaac era ancora ben lontano dal pensare ad avere bambini.
La bambina cominciò a ridere a crepapelle ed il ragazzo si rivolse a Derek «Ho portato Nelson a togliere la fasciatura alla zampa: grazie a Dio, abbiamo superato anche questa»
L’amico stava per replicare, quando la porta dello studio si aprì di scatto ed un cane alto, grosso e, purtroppo, vecchio, se ne uscì, trascinandosi lentamente, seguito subito dopo da Deaton.
«Ecco fatto!» esclamò, salutando Derek con un sorriso. Poi tornò a guardare Isaac, consegnandogli il guinzaglio del cane «Niente movimenti bruschi o troppo veloci, intesi?»
Il ragazzo annuì, ringraziandolo ed uscendo seguito dal suo fedele compagno. Il dottore si rivolse, poi, ai suoi nuovi ospiti. Guardò Talia, Oliver, poi il suo sguardo cadde sul piccolo batuffolo color caramello che il bambino teneva con cura tra le braccia.
«Cosa posso fare per voi?» chiese loro, accucciandosi, in modo da essere alla loro altezza e poterli guardare negli occhi: a loro faceva sempre piacere.
«Devi curarlo» parlò la bambina, quasi preoccupata.
«Talia» la riprese suo padre.
Sbuffò, facendo muovere i codini «Puoi curarlo, per favore?»
«Non deve esser curato» intervenne Oliver, con aria di superiorità «Abbiamo solo bisogno di sapere se sta bene»
Deaton rise e si alzò, dicendo loro di seguirli all’interno dello studio: una volta dentro, prese Sebastian, che si arrampicò tra le sue dita, impaurito, mentre Talia volle a tutti i costi esser presa in braccio dal padre, in modo da avere tutta la situazione sotto controllo, ma soprattutto ancorarsi alle spalle del ragazzo, in quanto quel posto non le stava molto simpatico. Deaton le piaceva, perché le dava sempre una caramella, ma quella stanza era a dir poco spaventosa.
L’uomo controllò molto velocemente il piccolo gatto, confermando poi a Derek che non avesse alcun problema, alcuna malattia e che avrebbero potuto ospitarlo in casa senza preoccupazioni.
A quelle parole, Talia ed Oliver esultarono dalla gioia e si fecero restituire immediatamente Sebastian per poterlo stritolare più del normale: era sano come un pesce, per cui adesso era all’altezza di qualsiasi tipo di gioia e di divertimento. Il dottore scoppiò in una fragorosa risata di fronte a quella reazione e fu molto soddisfatto di averli fatti felici: guardò Derek e notò che avesse la stessa espressione, stampata sul volto. Un’espressione serena, tranquilla, di pura e semplice adorazione per i propri bambini: se c’era qualcuno che avesse mai desiderato la felicità di quel ragazzo, era stato lui. L’avevo visto perdere i suoi genitori in una situazione che superava la normale tragicità della vita, l’aveva visto crescere solo, senza amore, amicizia, senza cura, senza un punto di riferimento; l’aveva visto non fidarsi di nessuno, tanto meno di se stesso, l’aveva visto arrabbiarsi, perdere la pazienza, odiarsi; l’aveva visto soffocare i propri demoni, fino ad annegare completamente, fino a lasciarsi andare. Eppure un giorno, era arrivata Emma e la vita aveva ripreso a scorrere, il sole aveva ricominciato a splendere nel cielo. Glielo leggeva negli occhi verdi che brillavano come lo smeraldo, nel modo di fare, nei sorrisi e nell’atteggiamento rilassato che aveva ormai da anni. Deaton pensava che Derek si meritasse tutto quello che aveva ottenuto e molto di più: meritava Oliver, Talia ed Emma; meritava di vivere felice, di sentirsi amato e di avere la forza per combattere per coloro che lo amavano e si erano impegnati così tanto per curare tutte le ferite che aveva riportato; meritava di essere padre e di imparare a farlo, sbagliando; meritava di sentirsi a sicuro, di vedere crescere i propri figli e di sperare per loro il futuro che non aveva avuto lui.
«Grazie, Deaton» la voce del bambino lo riportò alla realtà.
Gli sorrise compiaciuto «E’ sempre un piacere, Oliver»
Guardò Derek dire ad entrambi di avviarsi in macchina, li avrebbe raggiunti a momenti. Quando fu sicuro che fossero fuori, si rivolse al dottore.
«Quanto ti devo?» chiese.
«Niente, l’ho fatto con piacere» rispose l’uomo «E poi, non è stato nulla di che»
«Bhè, allora… Grazie»
Gli strinse una mano, perché quando mai Derek Hale aveva mostrato affetto verso qualcuno, ad eccezione di Emma, e si avviò alla porta.
Quando fu sul punto di uscire, Deaton lo richiamò: il ragazzo si voltò verso di lui, senza capire cosa volesse «Sei felice»
Derek corrugò la fronte, poi sorrise «Sì»
L’uomo annuì soddisfatto, come se già conoscesse la risposta. Anzi, lui già ne era a conoscenza da tempo e non aveva bisogno di conferme «La mia non era una domanda»
 
***
 
Non c’era notte in cui non si presentasse qualche problema; non c’era notte in cui almeno uno dei due bambini non si presentasse in camera dei propri genitori, pronti a reclamare qualcosa o a lamentarsi semplicemente di non riuscire a dormire. Quella notte toccò ad Oliver.
Per fortuna, non era una notte di luna piena e si potrebbe dire che il bambino avesse scelto la serata giusta per svegliare, per l’ennesima volta, i propri genitori: Derek, per esempio, tendeva ad essere molto più tranquillo ed accondiscendente in momenti come quelli.
Il bambino scese dal letto, inciampando quasi nel pantalone troppo lungo del pigiama; sgattaiolò fuori dalla camera, cercando di non far cigolare la porta, per non svegliare Talia, e si inoltrò nel corridoio buio. Nonostante la totale assenza di luce, riusciva comunque a vedere qualcosa: si era sempre chiesto come riuscisse a fare una cosa del genere, ma non aveva mai ottenuto risposta. Sapeva che suo padre avesse qualcosa di speciale e sapeva anche che un giorno sarebbe stato esattamente come lui, quindi tendeva a ricollegare tutte le sue stranezze fisiche e psicologiche a questo: forse un giorno, avrebbe capito meglio.
Una volta arrivato di fronte alla camera dei genitori, entrò dentro in punta di piedi e fece il giro del letto, fin a ritrovarsi davanti al viso profondamente addormentato di Derek. Allungò una mano, appoggiandola sulla spalla del padre, per svegliarlo.
«Papà» piagnucolò «Svegliati»
Il ragazzo si mosse lievemente, per poi aprire lentamente gli occhi e guardare il bambino.
Quando intravide i suoi occhi lucidi e velati di lacrime, si sedette di scatto sul letto, prendendolo in braccio e facendolo sedere sulle sue gambe.
«Che succede?» sussurrò per non svegliare Emma «Stai male?»
Oliver annuì «Mi fa male qui» si lamentò, indicando un punto confuso, all’interno della sua bocca. Derek non riuscì a scorgere niente, così lo prese di nuovo in braccio e si recò in bagno dove, dopo aver acceso la luce, lo posizionò in piedi sul bancone vicino al lavandino e davanti allo specchio.
«Apri bocca» gli disse.
Osservò per un secondo la dentatura, ancora da latte, del bambino e sorrise quando individuò il problema: uno dei denti stava dondolando, ma avendo ancora la radice ancorata alla gengiva, non riusciva a staccarsi e gli provocava dolore.
«Amore, hai un dentino che dondola» lo informò Derek, sorridendo intenerito di fronte allo sguardo sconvolto e assonnato del bambino «Dobbiamo toglierlo»
Oliver scosse la testa deciso «No, non voglio»
Non si fermò nemmeno ad ascoltare le parole del figlio: non avrebbe sentito dolore e probabilmente – anche se la sua parte lupina rimaneva ancora nascosta – sarebbe guarito in fretta, per cui lo fece sedere, gli fece aprir bocca e tra una lamentela, una lacrima e qualche calcio nell’addome da parte di Oliver che non riusciva più a resistere al dolore, riuscì a staccare il piccolo dente.
Quando tornò a guardare il bambino, notò immediatamente gli occhi arrossati da qualche lacrima e il labbro inferiore macchiato da qualche goccia di sangue.
Afferrò immediatamente un fazzoletto e lo pulì «Sei stato bravissimo» affermò fiero «Una vera scimmietta»
Oliver annuì, senza replicare e per un po’ rimasero in silenzio, ad aspettare che la piccola ferita sulla gengiva smettesse di sanguinare.
In quel momento, un’Emma assonnata fece capolino dalla porta, appoggiandosi alla parete bianca e fredda del bagno.
«Che è successo?» mormorò, stropicciandosi gli occhi.
Derek le sorrise, per poi guardare Oliver che lo pregò silenziosamente di non dirle di aver pianto per una stupidaggine del genere: era uno dei bambini più orgogliosi al mondo, uno dei più silenziosi, uno di quelli che, se aveva qualche problema, preferiva tenersi tutto dentro pur di non gravare sugli altri. Derek lo amava anche per questo, perché riusciva a vedere se stesso da piccolo in suo figlio, e non poteva che esserne felice.
Lo prese in braccio e si rivolse alla ragazza «Niente di che, cose da uomini»
Fece per tornare in camera, quando anche Talia apparve all’improvviso sulla soglia della porta, con il suo orsacchiotto di pezza tra le mani «Che fate?»
«Niente, bambolina» la riprese Emma «E’ l’ora di dormire, questa»
Talia sbuffò, uscendo dalla stanza e correndo verso il letto dei genitori. Vi salì sopra e s’intrufolò come un cucciolo sotto le coperte «Possiamo dormire qui?»
Emma stava quasi per dire di no, quando anche Oliver si mostrò d’accordo con la sorella. Derek, vista la situazione ed il bambino quasi addormentato sulla spalla, decise di fare un’eccezione. Lo mise giù e gli disse di infilarsi sotto le lenzuola.
Si rivolse, poi, alla ragazza rimasta in silenzio dietro di lui. Si avvicinò a lei, spingendola indietro, fino a toccare la parete con le spalle.
«Puoi dirmi cosa è successo con Oliver?» domandò di nuovo lei. Incrociò le braccia al petto ed il ragazzo sorrise, perché quel gesto gli ricordò tutte le volte che aveva voluto sapere qualcosa, ma lui, per qualche motivo, non aveva potuto dirglielo.
«E’ un segreto, però» sussurrò Derek «Gli è caduto il primo dente»
Emma scosse la testa divertita e, prima ancora che potesse replicare, sentì le labbra del ragazzo premere dolcemente sulle sue: si ancorò alla sua maglietta, stringendola tra le mani, e sentì le gambe tremare quando le mani di Derek si chiusero salde intorno al suo viso, tirandola più vicina a sé.
«Mmmh, dovremmo svegliarci più spesso nel bel mezzo della notte, se è questo quello che mi aspetta» mormorò la ragazza, con la bocca che sfiorava ancora quella dell’altro.
«Ti potrebbe aspettare anche qualcosa di meglio» replicò lui, spostando le labbra in modo da lasciarle dei baci caldi lungo tutto il collo. Emma riversò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi, e ricercò un contatto più forte con il corpo di Derek, tanto che lui fu costretto a fermarsi per non esser costretto a fare qualcosa di troppo azzardato.
«Non possiamo, amore» sussurrò «Ci sono i bambini, di là»
«Ho un’idea, allora» propose la ragazza «Uno di questi weekend, potremmo lasciarli ai miei genitori e passare un paio di giorni tranquilli al loft, oppure da qualche altra parte… Così, tanto per recuperare un po’»
«Direi che è un’ottima idea» rispose Derek.
Emma stava per rispondere, quando sentirono le voci dei bambini provenire dalla loro camera «Mamma, ho sete!» gridò Oliver.
La ragazza sbuffò, guardando Derek, che sorrideva divertito, e fece per incamminarsi, ma lui la fermò «Torna a letto, vado io»
La superò, uscendo dalla stanza, per poi scendere quasi di corsa le scale. Il piano di sotto era completamente buio e silenzioso, ma si risparmiò di accendere la luce: sarebbe riuscito comunque a vedere, ma soprattutto a non andare a sbattere contro qualcosa. Arrivò in cucina, accese finalmente la luce sopra il lavandino e, dopo aver afferrato un bicchiere, lo riempì d’acqua. Fece per uscire, quando si ricordò che, una volta arrivato di sopra, anche a Talia sarebbe venuta sicuramente sete. Per cui, fece marcia indietro e riempì un secondo bicchiere.
Spense la luce e tornò di sopra: quando entrò in camera, però, li trovò tutti malamente addormentati tra le lenzuola. Oliver prendeva tutta la sua parte e abbracciava il cuscino, Talia accoccolata contro il petto della madre con una gamba sotto le coperte ed una no ed Emma che dormiva sul bordo del letto, per lasciare più spazio ai bambini. Si chiese come avessero fatto a riaddormentarsi così velocemente, ma il sonno pesava talmente tanto sui suoi occhi, che nel momento in cui se lo chiese, decise anche che la risposta sarebbe stata superflua.
Per un momento, si fermò a guardare la sua famiglia e per un momento, un piccolissimo momento, pensò a quanto ne fosse fiero. Nella sua vita, non aveva mai ricevuto niente, nessuno gli aveva mai regalato alcuna cosa e aveva sempre dovuto combattere fin quasi alla morte, anche solo per ottenere qualche sciocchezza. Ma quelle tre persone che adesso dormivano nel suo letto… Quelle erano state un dono che qualcuno – se mai fosse esistito – aveva deciso di fargli, e lui non l’avrebbe mai ringraziato abbastanza. Emma era stata l’unico modo per tornare a respirare dopo anni d’apnea, era stata la sua rinascita, l’unico mezzo per capire sé stesso, per apprezzarsi e accettarsi per quello che fosse. Emma era l’unica persona che avesse mai amato in vita sua, l’unica (oltre ai suoi figli, ovviamente) per cui sarebbe morto, senza dubbi, senza incertezze, senza batter ciglio. Oliver e Talia avevano coronato il sogno di formare quella famiglia normale, quotidiana che lui non aveva mai avuto o, meglio, che gli era stata portata via troppo presto. Si ricordava ancora la prima volta che Emma era rimasta incinta e per quanto fosse stata forte la paura della ragazza, lui, per la prima volta, si era sentito al sicuro, si era sentito all’altezza della situazione. Quei due bambini erano stati la sua salvezza e non avrebbe lasciato che nessuno facesse loro del male.
Si rese conto che tutta la sua vita e la sua felicità fossero racchiuse in quella stanza, dentro quel letto e sotto quelle coperte, che fossero fatte di pelle, ossa, sentimenti, sorrisi, pianti, litigi, baci, scherzi; che niente e nessuno le avrebbe mai sostituite; che avrebbe combattuto con le unghie e con i denti per proteggerle.
Gli tornarono alla mente le parole di Deaton, il tono con cui le aveva pronunciate. Lui sapeva, aveva capito, anzi lo aveva sempre saputo. Sin dalla notte della morte dei loro genitori, quell’uomo aveva capito che lui ed Emma sarebbero stati destinati a vivere insieme felici, a condividere dolori e gioie, a combattere pur di non perdere l’altro.
Quella frase così semplice, eppure forte continuava a rimbombargli in testa: «Sei felice». Riusciva sentire la cadenza ed il suono della voce di Deaton, il sorriso soddisfatto che aleggiava sul suo volto.
Scosse la testa e si intrufolò sotto le coperte, spostando Oliver, senza svegliarlo. Si sdraiò e abbracciò il bambino; poi rivolse lo sguardo all’oscurità, senza preoccuparsi di far brillare gli occhi rossi per poter vedere il soffitto, attraverso tutto quel buio.
Inspirò lentamente e quando l’odore dei suoi bambini fu la prima cosa che lo colpì come un pugno in faccia, finalmente capì.
Erano felici, lui era felice.

 

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