Dream On

di SinnerCerberus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


1 Aprii gli occhi.
Un soffitto bianco era sopra di me, proprio dove doveva essere.
Spostai lo sguardo. Ero in una stanza.. a giudicare dai mobili, era una camera da letto.
Però qualcosa non andava.. la televisione non aveva lo schermo, potevo vedere i circuiti al suo interno. La finestra era sbarrata da una pesante placca di metallo.
E dal letto partivano mille e mille cavi, collegati ad un semplice computer. Il letto non era stato fatto per la comodità, ero tutto un dolore.
Scesi dal letto e continuai a guardarmi in torno..
Perchè tutto ciò non mi sorprende? Perchè per me è tutto dannatamente normale?
Io non abitavo qui.. io ieri non sono andato a dormire qui.. credo. Dov'ero andato a dormire ieri?
Ieri.. non ricordo niente. Sedetti sul letto, il corpo intero era dolorante.. forse non era perchè ho dormito male.
C'era qualcun altro in quella casa, ammesso fosse una casa? Cosa dovrei dire?
Dovrei presentarmi, magari può essere d'aiuto essere gentili.
Purtroppo quest'idea non poteva funzionare. Perchè non so qual'è il mio nome.
Mi strinsi la testa tra le mani. Mannò.. mannò.. come posso dimenticare il mio nome? Come mi chiamo.. come mi chiamo.. chi diamine sono io?
Strinsi la testa e m'arruffai i capelli -ah, ho dei capelli! - dopodichè m'alzai. Solo una cosa ricordavo.. una parola.
“Interessante.” Perchè è così viva e forte, nella mia mente? Probabilmente è legato al mio vero io, dovrò ricordarmene. -Interessante- dissi a bassa voce.
E' legata a me quella parola.. è l'unica cosa che so. -Interessante- dissi a voce più forte. -Interessante.-
M'alzai ed uscii; la casa era vuota. C'era un salone, un bagno, delle camere vuote ed una cucina.
Avrebbe potuto essere una semplice casa di una semplice famiglia.
Ma della famiglia non c'era traccia. Andai nel bagno e mi guardai nello specchio. Non fui sorpreso di ciò che vidi; un semplice ragazzo dagli occhi scuri e con lunghi capelli castani raccolti.
Mi lavai e mi preparai. Sapevo cosa dovevo fare, stranamente lo sapevo. Dovevo andare a scuola.

Sceso dal treno, mi diressi a scuola. Sapevo che treno prendere, e mi ricordavo di un po' di fermate, nonché a che stazione dover scendere.
Riflettiamo.. ricordo ciò che c'è attorno a me, ricordo come funzionano le cose attorno a me, ma non ricordo nulla di me. Amnesia localizzata, o roba del genere.
Interessante.
Decisi di smettere di riflettere, mi faceva male la testa e le ossa. Mi facevano male da stamattina.
Le cose cominciarono a non quadrarmi soprattutto quando arrivai a scuola.
Il cancello era deforme, tubi di ferro e marmo si univano per comporre immagini grottesche ed inquietanti, dando l'idea di un cancello per l'inferno.
Osservando meglio, all'estremità di ogni porta c'era metà simbolo, probabilmente ha qualche significato se si uniscono entrambi i pezzi.
Quando il cancello verrà chiuso, tornerò ad osservare, mi ripromisi.
La cosa che però era sconcertante, è che nessuno faceva caso al cancello.
Sembrava che nessuno lo vedesse. Anche su questo, bisognerà indagare.
Ad inizio lezione, il professore non fece l'appello. E sembrava che nessuno ci facesse caso. Tranne me. Ancora.

Mentre il professore spiegava, poggiai la testa sul banco per cercare di assumere informazioni, ed allo stesso tempo riposarmi.
Quel dolore alle ossa non accennava a sparire.

-Bene, cominciamo con qualche domanda casuale nella nostra materia..- Cominciò il professore -Tu, tipo dai capelli rossi, sai dirmi dove ci troviamo?-.

Il ragazzo era seduto proprio alla mia destra. E la domanda colpì un po' tutti.
-Uhm.. a scuola?- Rispose basito il ragazzo. - Bravo il mio piccolo genio, certo che siamo a scuola. Intendevo la città, il paese, il luogo in generale.-
-Ma professore, non si era spiegato-
-Limitati a rispondere alla mia domanda, piccolo imbecille. Non vuoi mica un voto basso?-
Il prof sembrava un po'.. fuori dall'ordinario, e questo non me lo ricordavo.

Il ragazzo, un po' confuso ed impaurito, decise di non provocare il professore, che aveva l'aria di uno che poteva impazzire da un momento all'altro, e rispose – Siamo a Neapolis, professore.-
La risposta era corretta, ed imbarazzantemente facile, ed l'insegnante non sembrava soddisfatto.
Complimenti, genio. Sai come mai si chiama così?- Chiese. Ed il silenzio che ottenne era più che eloquente. -Bravo, bravo il mio genietto rosso.- Disse con un ghigno, il professore.
Ecco. Capirono tutti. Era una trappola, il professore non voleva altro che insultare il povero studente.

-Possibile che esista gente così ignorante? Avanti, quanti anni hai? Cinque? Stiamo parlando della tua città, impara! -
Il professore inveì contro il ragazzo per diversi minuti. Devo fare qualcosa.. qualcosa. Non si può lasciar maltrattare un ragazzo da uno psicopatico. Che diamine sta succedendo?
-Professore- sentii dietro di me. Tutti si girarono verso il ragazzo che aveva interrotto l'insegnante instabile.
Mi girai anche io, e lo vidi. Un ragazzo alto, con una camicia ed una cravatta ed una lunga frangia davanti all'occhio sinistro tinta di rosso.
Uno sguardo leggermente assente era percepibile dall'unico occhio.- Io sono nuovo di qui, potrebbe spiegare per me? Può farlo anche per rinfrescare la memoria degli altri-. Il professore lo guardò infastidito, ma non poteva evitare di lavorare.
- Va bene, va bene, e sia. Ma se trovo qualcuno distratto lo decapito.-
Nessuno voleva sapere se era di parola, quindi la classe intera s'apprestò a seguire la lezione.
Il buonuomo disegnò un cerchio storto e poi indicò. -Questa è la nostra isola, Neapolis.
E' un'isola artificiale costruita sotto ordine di mafiosi, camorristi e Yakuza, da ogni parte del mondo, per poter avere un luogo di ritrovo, una città a cui appartenere, per cui la città segue la politica, la struttura e l'ambiente Napoletano.
Ovviamente l'isola era piena di infiltrati, c'erano più poliziotti che camorristi, ed al primo passo falso furono presi tutti e sbattuti in galera.
L'operazione venne chiamata “operazione Partenope II”, tenetelo a mente. Prima che possiate formulare qualche stupida domanda, vi illuminerò io: nel 1998, ci fu la prima operazione Partenope per estirpare la camorra dall'italia, ma come potete aver dedotto, miei stupidi studenti, non andò a buon fine. Difatti, quell'anno..-
Mentre il professore blaterava e c'insultava, decisi di dare uno sguardo al ragazzo con la frangia, rischiando una possibile decapitazione da parte dell'insegnante.
Come immaginavo, era distratto e non seguiva per niente la lezione. Si limitava a guardare dritto, con quello strano sguardo vuoto. Però c'è da dire che il suo tentativo di salvare lo studente rosso era riuscito perfettamente.
Lasciai perdere la lezione e mi concentrai su cose un pò più rilevanti. Per esempio perchè diamine mi sembra tutto così normale. Siccome pensare troppo fa male, dopo cinque minuti lasciai perdere.
Ci sono cose molto più rilevanti. Per esempio il sedere di quella ragazza. Mi persi nella contemplazione di quell'opera d'arte e mi svegliai diverse ore più tardi. Sembra proprio che mi sia addormentato.
E nessuno se n'è accorto. Chiesi al rosso
– Ehi, quand'è che si va a casa? -. Controllò pigramente l'orologio e rispose
– Tra un'ora. -
-Bene.. e perchè non c'è nessun professore? -
-Ah boh, sono ore che non c'è più nessuno.-
Lo ringraziai e mi guardai intorno, gli studenti si rilassavamo e perdevano tempo.
La ragazza dal bel sedere era intenta a far finta di ascoltare le chiacchere delle compagne di classe.
Le sorrisi stupidamente.
In ogni caso, non potevo bighellonare. Del resto, ho solo dimenticato chi sono.
- Scusa se ti chiamo ancora, non mi sto divertendo a disturbarti. Sai chi sono?- chiesi al rosso.
- No.- fu la sua risposta pronta.
Mi alzai e chiesi in giro, ignorando il fatto che dovrebbe essere strano. Però nessuno ci faceva caso, ed ormai ciò che è strano, sfuggiva dalle percezioni, lasciando solo una sensazione di normalità.
Con me non funziona del tutto, per cui potrei anche reputarmi ad un livello più alto degli altri, pensai sogghignando tra me e me. Ma non c'era tempo per I miei superbi vaneggiamenti.
Nessuno seppe darmi una risposta, nessuno mi riconosceva. Evitai di chiederlo al ragazzo con la frangia, che m'intimidava un pò. Ed esitai parecchio prima di parlare con la ragazza bionda.
Ma facendo parte di un gruppo, bastò chiedere ad alta voce 'sapete come mi chiamo?'. Le risposte non mi stupirono. Nessuno mi conosceva, non c'era un registro di classe e non ho carte d'identità o altro.
Grattandomi il capo, aspettai la fine della lezione. La campanella suonò, più stridula che mai, e tutti si affrettarono ad uscire, affollando le porte. Io però aspettai che uscissero tutti, osservando ogni studente.
La bionda attirava la mia attenzione, catturando l'attenzione con I suoi occhioni blu, o con altri attributi. Non era un'attrazione strettamente fisica la mia, ma neanche sentimentale.
Era quasi come se sapessi che potevo fidarmi di lei. Anche se è abbastanza scontato che le persone di bell'aspetto riescano a conquistare l'attenzione e la fiducia più facilmente di una persona di media carisma e bellezza. Ma qui si sta superando la razionalità, e raggiungendo l'impossibile.
E quindi al diavolo la bellezza, sono certo di essere compatibile con quella bionda. Anche il rosso uscì dalla classe, e notai che era piuttosto alto, ed aveva una bella corporatura. Finalmente un'espressione estranea alla mortificazione si poteva leggere sul suo volto.
E, con mia enorme sorpresa, era spavalderia. Sarà una di quelle persone che riescono ad affrontare senza problema un suo coetaneo, ma non un adulto. Uscì chiaccherando con qualche studente a casaccio, ed ovviamente non si accorse che lo stavo guardando. Presto l'aula fu vuota; l'ultima persona che abbandonò la stanza era una pigra ragazzina con gli occhiali.
Feci per andarmene, ma quasi presi un colpo. Qualcuno era rimasto. Ed era proprio quel qualcuno che non volevo incontrare.
Il ragazzo con la frangia era lì, e probabilmente mi aveva aspettato.
No, macchè probabilmente. Mi stava trattenendo, poggiandomi la mano sulla spalla. Poggiare era un eufenismo, ovviamente. Scommetto che se non mi fossi accorto di lui, non sarei neanche riuscito ad alzarmi.
- Non ricordi il tuo nome. - Disse.
- Non è strano? -
- Tu sei strano. - Risposi in una patetica difensiva.
- Idiota. Neanche io ricordo il mio nome, e finalmente trovo qualcuno che ha lo stesso problema. Ascoltami, è inutile chiedere in giro. Non avrai nessuna risposta. -
-Mi lasci andare perlomeno?-
-Mi stai ascoltando?- Rispose seccato. Ero uno stupido pesce tra I tentacoli di una piovra affamata. Che potevo fare per liberarmi, se non rispondergli? Non mi sembrava tanto malvagio.
Non fosse per la mia povera spalla, potrei anche dire che un pò mi ispira fiducia.
- Dove ti sei svegliato oggi? - Mi chiese il tipo. Che diamine dovrei dirgli. Sono così confuso, la mia mente è piena di stupidaggini, di immagini, della bionda, dell'insegnante, non lo so. Non lo so. Che dovrei dirgli?
Va bene, va bene- Cominciai. -Non lo so dove mi sono svegliato, mi sono svegliato in un posto strano, non so che dirti, cioè. Prima di tutto c'era questo televisore che non funzionava. Cioè, non è che non funzionava.
Non aveva proprio lo schermo. Non ho acceso, quindi non saprei dirti niente nel particolare. Però io non mi fiderei. Potrebbe succedere qualcosa di brutto, tipo qualche scintilla fuori posto fa esplodere tutto. A proposito, stai attento alle scintille che-
-Basta!- Mi interruppe.
Ho più o meno una teoria, su ciò che c'è successo. Dobbiamo solo aver pazienza, qualcosa accadrà-
-Che cosa?- Chiesi, cercando di mettere da parte l'immagine del televisisore. Il ragazzo con la frangia tirò il fiato. ti spiego. In pratica..-
Cominciò ad abozzare, ma venne interrotto da un bidello di passaggio. L'operatore scolastico, alto e grasso, tuonò a voce alta con imprecazioni e bestemmie, invitandoci gentilmente a sparire il più lontano possibile. Il mio interlocutore si vide costretto a sparire, molto più velocemente di me.
-Aspetta- Lo fermai.
- Si può sapere come ti chiami?-
Si girò solo una volta, mi rispose e se ne andò.
Ne so quanto te. -

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***



La casa dove mi ero svegliato non aveva serrature. Potevo entrare ed uscire tranquillamente.
Ladri e malintenzionati non avrebbero trovato nulla di interessante, quindi non me ne feci un problema.
Come immaginavo, quando tornai non c'era nessuno. Decisi di poter chiamare casa quel luogo. Non avevo fame, di conseguenza non mi preoccupai di cercare viveri.
Che diamine potevo fare? Avrei voluto un attimo per riflettere, curiosare ed indagare, ma mi mancavano le energie. Ero totalmente demotivato e pieno di pensieri.
Lasciai perdere tutto e mi stesi su quel letto di ferro, in quella stanza piena di cavi. Era adattato alla mia forma in un modo così perfetto che non sentivo fastidio.
Mi addormentai immediatamente, mandando al diavolo tutta la logica ed il buonsenso.
Il giorno dopo tornai a scuola, nonostante la lezione fosse l'unica cosa che non mi interessava. Guardavo quella ragazza, la biondina, mentre il professore parlava.
A proposito, anche oggi c'era solo lui, ed ogni tanto se ne andava per fatti suoi. Non mi persi nella contemplazione del sedere della ragazza, come l'ultima volta, bens“ osservai i suoi lineamenti, il suo volto, il suo sorriso. Sebbene, credo, non fosse nulla di speciale, non riuscivo a smettere di guardarla.
Era una calamita, di quelle potenti, ed io non ero altro che un insulso pezzo di metallo, in balia del suo potere. Non potevo far altro che esserne attratto.
Era come se il mio sguardo fosse stato solo un piccolo chiodo fissato a lei, ogni suo movimento una vampa di calore; non m'importava di esser notato.
A fine lezione perse tempo nel raccogliere alcuni quaderni. Come volevo salutarla, aiutarla, non lo so, volevo rendermi utile. Purtroppo, il tempo bastardo, e lei se ne and˜ senza che potessi fare nulla. Il ragazzo con la frangia attese pazientemente che finissi di sbavare sulla bionda, dopodichŽ part“ col chiedermi
-Vuoi venire a casa mia?-
Accettai, e uscimmo da scuola insieme.
Parlammo delle cose che avevamo in comune. Anche lui si era svegliato in un posto singolare; una stanza al quinto appartamento del quinto piano di un palazzo, il quinto della quinta via. Non ricordava nulla di nulla, come me. Solo che io non avevo la casa in un posto così figo. Camminavamo sul marciapiede mentre macchine e motorini creavano il traffico.
-Non credi che dovremmo avere un nome? Insomma, come possiamo chiamarci? - Mi chiese.
Non lo so.- Risposti, in tutta sinceritˆ
-Abbiamo perso tutto della nostra identitˆ, se ci inventiamo anche dei nomi, perderemo ogni possibilitˆ di riscoprire qualcosa. Non vorrei riempirmi d'informazioni.-
-Vuoi dire che non t'importa di avere un nome?-
-Preferisco rimandare.-
Cadde il silenzio. Il ragazzo sembrava immerso nei suoi pensieri, ed anche un pò deluso. Continuammo a camminare, in silenzio. La cittˆ, per quanto colorata fosse, mi risultava fin troppo grigia.
Finalmente arrivammo, dopo venti minuti di silenzio.
Il portiere salut˜ con aria insolitamente vivace, mentre chiaccherava con qualche vicina. L'ascensore un po' sporco e malconcio ronzava in modo inquietante,
e si potevano sentire I cani dei vicini abbaiare ad ogni minimo rumore. Ci˜ che vidi a casa sua non mi piacque per niente. Non perchŽ fosse brutta, o strana.
Se quel palazzo sembrava malconcio, quella casa era una discarica. Sembrava la classica casa abbandonata, piena di stracci, polvere, calcinacci e cos“ via. Eppure mi sembrava così dannatamente familiare.
Interessante.
Attraversai la casa a grandi passi. Il corridoio decrepito, le stanze rovinate, l'odore deprimente di una casa in malora, con la carta da parati bagnata e puzzolente,
la muffa stantia facevano parte del particolare arredamento. La delusione mi avvolgeva; stavo guardando qualcosa a cui ero affezionato, sicuramente. Ma la stavo guardando decine di anni dopo,
non c'era nessun'altra spiegazione.
Ci sedemmo su una poltrona rotta e parlammo del pi e del meno per un po' di tempo. Molte stanze avevano mobili, ma erano ricoperte da teli bianchi, e non riuscivamo a rimuoverli.
Sembrava dovesse restare vecchia ed abbandonata. Se ci si faceva attenzione, si poteva sentire un flebile suono di carrillion da una stanza situata al centro del corridoio.
Tuttavia la porta non voleva saperne di aprirsi, e la melodia, inafferrabile, sfuggiva ai sensi appena stavi per catturarla.
Mi trattenni fino a tarda notte, ed alla fine decidemmo che sarebbe stato meglio se fossi rimasto l“ a dormire, ma non fu una notte piacevole. Non riuscivo ad addormentarmi, prima di tutto.
Neanche una goccia di sonno scorreva sui miei occhi, e per quanto potesse essere comodo un divano pieno di buchi, non mi sentivo a mio agio.
Passai la notte sveglio, a cercare di comprendere la melodia che aleggiava nella casa. Non era un carillion, questo era sicuro. Era una musica indistinta, che cambiava e si trasformava dolcemente, e quasi non ci facevi caso.
Restammo a casa anche il giorno dopo, e chiaccherammo tutto il tempo. Al diavolo la scuola. L'unica mia preoccupazione era non poter pi vedere la ragazza bionda,
ma di questo non mi preocucpai. Non poteva mica sparire.
In ogni caso notai che il ragazzo con la frangia aveva fame, ed and˜ a procurarsi del cibo. Tutto ci˜ non mi toccava: non avevo fame. Non l'avevo da quando mi ero ricordato di esistere.
Misi da parte questo particolare preoccupante, e tornai alla contemplazione delle mattonelle del pavimento. Non mangiare non era un problema, se mi fossi ricordato di qualcosa del mio vero io, avrei detto che non mi piaceva mangiare. Che pacchia, allora.
La seconda giornata pass˜ senza risvolti interessanti, e tornai casa verso il pomeriggio. Passando per il corridoio vuoto, nella casa vuota, con le stanze vuote, entrai nell'unica camera con qualcosa dentro.
Feci un rapido collegamento con la poltrona e mi stesi.
I miei muscoli si rilassarono, la mia mente si dilatò in qualche modo, perchè fu questa la sensazione che ebbi prima di addormentarmi.

Mi svegliai nove ore dopo, ne ero certo sebbene non avessi un orologio. Era piuttosto presto, contando il fatto che mi ero appisolato appena tornato a casa, ieri, di pomeriggio.
Sei e due minuti, trentatre secondi.. trentaquattro.. trentacinque..
Intuivo l'orario in modo spaventosamente preciso, come se avessi un orologio preciso da qualche parte, dentro di me. Interessante.
Sorpreso di questo particolare, decisi di fare un resoconto veloce.
Mi sono svegliato in una stanza vuota, in un letto duro, e solo qui posso dormire. Non ho mai fame. Quando cerco di ricordarmi qualcosa di importante,
automaticamente metto da parte particolari preoccupanti. Nessuno si ricorda di me. Non ho mai fame. Non ho mai fame.. dormo nel mio letto, e mi sento bene.
E non ho mai fame.
Guardai il letto. Pieno di cavi, collegati ad un computer, si concentravano specialmente sull'estremità, dove io poggiavo la testa.
Funzionavano come dei cuscini, ma poteva essere altro.
Mi avvicinai e misi a fuoco; attrezzi metallici fuoriuscivano in modo ordinato. Erano punte metalliche, come quelle delle prese per telefoni- ed ignoravo come al solito il fatto che non avendo visto un cellulare da quando avevo coscienza, sapevo perfettamente come funzionava.
Un dubbio mi assal“.
Un dubbio idiota, che solitamente a nessuno verrebbe in mente.
Tastai la mia nuca, in cerca di qualcosa oltre i capelli lunghi. E la trovai.
Ad essere corretti, li trovai. Una serie di forellini, proprio dietro la mia testa.
Che diamine erano?
Ero umano? La consapevolezza era diversa, e per quanto potesse essere preoccupante, la mia mente non mi distraeva.
Dovevo saperlo.
Ma come facevo a capire che diamine erano?
Infilai le unghie nella carne del braccio e tirai. Strinsi pi forte, tirai pi ferocemente.
Le mie unghie non si spezzavano, ignoravo il dolore e tiravo, stringevo e mi ferivo.
FinchŽ finalmente non strappai della carne, per vedere il sangue che avevo dentro.
Il sangue che indicava che ero umano, che ero un essere vivente, che ero una creatura di Dio.
Il sangue che non c'era.
Mentre il mio braccio si ricomponeva a vista d'occhio, coprendo I fili metallici dentro di me, tristemente capii.
Non ero umano.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


3


Dopo questa brillante scoperta, rimasi immobile a guardare il letto per una giornata intera. Non per lo shock, ma semplicemente perché avevo bisogno di riflettere sull'accaduto.
In realtà non pensai a niente, nella mia testa avrebbero potuto esserci delle mosche, tanto era vuota. Avevo la forte sensazione, però, di non essere completamente meccanico.
Se avessi dovuto classificarmi in qualche modo, non mi sarei chiamato androide, né cyborg, né macchina. Mi sentivo ancora, in qualche modo.. umano. Ragion per cui, ero un androide umano.
Decisi di testare la mia resistenza, e provai a non dormire finché non avessi sentito in qualche modo che dovevo smetterla.
Tre giorni e tre notti dopo, sentivo decisamente il bisogno di dormire. Avevo la mente offuscata e non riuscivo a svolgere I lavori più semplici. Potevo dire che la mia autonomia durava settanta ore.
Andai a scuola in quei giorni, ma nulla cambiò davvero; il tizio con la frangia non aveva novità. Scoprii che la scuola era sempre aperta: di pomeriggio, la notte ed anche di domenica.
Trovandomi a bazzicare da quelle parti, osservai meglio il cancello. Era di ferro scuro, c'erano fronzoli e decorazioni dappertutto, e due esseri deformi erano scolpiti in modo da dare la sensazione di aprire le porte. Le mani dei due mostri si congiungevano, delineando la forma di una serratura. Ma solo quando il cancello era chiuso. Da aperto, erano solo due mani separate.
Interessante.
Ero abituato al fatto che nessuno facesse caso a roba stramba, ormai, ma non riuscivo a capacitarmene del tutto. La situazione era un pò delirante, sembrava che un velo di caos fosse stato steso sulla città.
Anche l'atmosfera si stava facendo più pesante, in quel periodo. Il tramonto durava di più, e quando si respirava, sembrava di inalare il gemello cattivo dell'aria.
Il giorno dopo, entrando a scuola, notai che i bordi del cornicione del terrazzo erano piuttosto sfocati.
Anche altre persone lo notarono. Non furono molte, ma vidi almeno una decina di ragazzi che guardavano in alto.
La lezione di quel giorno non fu particolarmente entusiasmante, il professore spiegò il perché la frequenza del verso di un gabbiano potesse risultare sgradevole (“mi svegliano, ed ho il sonno leggero”) e quante mutande possedesse sua sorella (veramente poche, posso dire).
Il giorno dopo, invece, la lezione fu tenuta da un nuovo professore, ma alla fine si scoprì che era un maniaco e non aveva niente a che fare con quella scuola. Quel giorno, qualche ragazzo notò il cancello. Era ora.
Il ragazzo con la frangia era spesso assente. Le poche volte che lo vedevo mi raccontava di un gruppo di persone che ogni giorno si incontravano per picchiarsi a sangue.
Lui vi partecipava per "temprare il suo spirito e rafforzarsi”, ma io lo vedevo sempre e comunque malconcio, e ciò non mi piaceva. “La lotta nobilita l'uomo” diceva.
Lui lottava per soddisfazione personale, diceva che amava sopraffare l'avversario. Io non ero d'accordo. E' il lavoro a nobilitare l'uomo. Per la lotta, non avrei saputo dire. Non ho avevo mai lottato, a quanto ricordavo.
La bionda era una di quelle persone che notarono il cancello. Sapevo che in qualche modo era speciale.
Mi perdevo spesso ad osservarla, e tanto non se ne accorgeva mai. Ero come invisibile. Una capra che guarda una montagna, tanto per citare il maniaco. Era sempre in qualche modo distaccata dal suo gruppetto.
Guardava spesso fuori dalla finestra, ma non ero mai riuscito a distogliere abbastanza lo sguardo per capire quale fosse l'oggetto del suo interesse. A volte mi rivolgeva la parola il ragazzo dai capelli rossi.
Mi chiedeva spesso “Tutto bene?”, “come va, tutto bene?”, “Tutto bene?”.
Sembrava quasi fosse la sua parola preferita. Non capivo se anche lui riuscisse a vedere il cancello o i bordi sfumati del cornicione, perché spesso fissava delle cose normalissime.
Se guardava il cornicione con lo stesso intento con cui guardava un astuccio, proprio non sapevo dirlo.
Era passato un mese, ormai. Il tempo era volato, ed ogni giorno accadevano cose curiose. Il tetto, le finestre, I vasi dei fiori, la lavagna: avevano tutti dei bordi seghettati.
Mancavano alcuni pezzi in posti strani, come la cattedra che non aveva più la gamba o i gabinetti sprovvisti di sciacquone.
Il giorno in cui avevo preso conoscenza non era stato altro che l'inizio delle stranezze. Altre persone, come il ragazzo con la frangia, si erano risvegliate senza ricordarsi più nulla.
E sicuramente sarebbe successo ad altre persone.
Ragazzi normali, però, notavano il cancello. Ciò mi faceva riflettere. Era possibile che le persone potessero acquisire questa specie di coscenza gradualmente?
Se c'era una cosa di cui potevo essere sicuro, era che non tutti sarebbero diventati androidi, o ciò che ero io. Il ragazzo con la frangia si era svegliato in un posto totalmente diverso dal mio, con più particolari e soprattutto senza aggeggi che permettessero di ricaricarlo.
Lui mangiava, beveva e dormiva. E sicuramente, dentro di lui scorreva del sangue, non dei dannatissimi tubi di ferro.
Da quando avevo preso consapevolezza di ciò che ero, avevo meno problemi con la forzatura del pensiero, ma avevo anche notato che tralasciavo spesso dettagli insignificanti. Ma essendo insignificanti, forse era bene tralasciarli. Interessante.
Un lunedì, vidi un gruppo di ragazzi che esaminavano da vicino una delle mani del cancello. Idioti.
Avrebbero dovuto riprovarci quando il cancello si fosse chiuso. A tal proposito, non capivo mai quando ciò avveniva. Non sembrava avere orari precisi, ogni tanto era chiuso persino quando uscivamo, e dovevamo aspettare che riaprisse per andarcene.
Quello stesso giorno, notai che mancava un pezzo di gamba del mio tavolo, e dovetti cambiarlo. Non era uno scherzo. Qualcosa mi diceva che il cambio d'atmosfera era legato a questi avvenimenti.
Anche se un pò tutta la città era strana, tutto sembrava concentrarsi nella scuola.
Un venerdì, mentre io ed il ragazzo con la frangia giocavamo a scacchi immaginari, una ragazza dai capelli castani e lo sguardo assonnato ci invitò alla festa del suo compleanno. Avrei rifiutato, ma c'era un fattore determinante: vicino alla festeggiata c'era la bellissima fanciulla bionda. Era lì per me, ne ero sicuro. Diedi un'occhiata speranzosa al mio compagno, se così potevo chiamarlo. Non volevo andarci da solo, ma lui non sembrava interessato. Risposi che ci saremmo andati senz'altro, sottolineando il plurale, e lei se ne andò soddisfatta, seguita a ruota dalla trottorellante ragazza bionda.
- Avanti, amico, vieni con me a quella festa! Non te ne pentirai. - dissi speranzoso.
- Ma non so nemmeno chi sia. E nemmeno lei sa chi sono. E se è per questo non sa nemmeno chi sei tu. - Rispose di rimando.
-Sì che lo sa. Sai chi altro lo sa? Quella ragazza bionda. Non vedi com'è fantastica? Devo andarci, sarà il momento giusto per conoscerla! Non posso andarci da solo, ti prego, ti prego, ti prego. - e sicuramente il mio fascino da tenerone fece colpo, perchè rispose
– Vedrò cosa posso fare. -
Mancavano pochi giorni alla festa, ed io ero preoccupato.
Principalmente per via del vestiario: io ed il ragazzo con la frangia vestivamo sempre allo stesso modo. Io per questione di praticità: non avevo altri vestiti.
Decisi quindi di andare a fare compere con il mio compagno, non badando al fatto che non avevamo il becco di un quattrino. Proprio come avevo previsto, i negozianti non badarono alle nostre spese e ce ne andammo portando via gli indumenti gratuitamente. O almeno è questo ciò che dissi al ragazzo con la frangia; in realtà non avevo idea di che potesse succedere.
Ma se mi credeva intelligente, perchè non dire qualche piccola bugia?
Al mio amico, però, questo non piacque. Disse che per lui era come rubare, ed anche se non aveva alternativa, preferiva prendere il minimo indispensabile. Mi fece promettere che non avrei mai approfittato di questa falla del sistema, dopodiché acconsentì nello scegliere qualche vestito. Non mi preoccupai della promessa; non potevo mangiare e non avevo interesse nel prendere nulla in particolare.
Il mio compagno era un patito delle camicie e dei vestiti scuri; uscì dal negozio con una cravatta scintillante, una camicia, un pantalone nero ed uno sguardo afflitto. Non apprezzava per nulla il gesto; sembrava proprio che in lui la morale esistesse, al contrario di me.
Quando scelsi io i vestiti, gli altri aquirenti risero a voce alta. Il ragazzo con la frangia si offrì di sceglierne per me, ma ciò che mi mostrò era davvero indicibile.
Infine, una commessa dallo sguardo dolce ci aiutò mostrandoci dei vestiti adatti ad una festa per ragazzi. Le credetti e me ne andai. Personalmente, avrei trovato davvero figo un cappotto di pelle lungo, ma non riuscii a trovarlo in nessun negozio ed il ragazzo con la frangia disse che non sarebbe stato idoneo per una festa. Sebbene riluttante, credetti anche a lui.
Per la strada di casa, fui incuriosito dai suoi sensi di colpa, e gli chiesi come faceva, quindi, a procurarsi da mangiare.
Lui mi rispose che era troppo imbarazzante, che non mi avrebbe risposto e che sperava non toccassi più tale argomento, o si sarebbe offeso sul serio.
Decisi di lasciar correre e non pensarci più. La cosa mi inquietava.
Passai quella notte a casa del mio compagno, sperando di restare alzato tutto il tempo a parlare della festa, ma alle ventiquattro e trentatré minuti decise di ignorarmi e si infilò nel letto.
Rimasi tutta la notte seccato sul divano ad ascoltare la melodia ed a lasciarmi avvolgere dalla tristezza.
Dopo una notte di malinconia, andammo a scuola.
In classe non si faceva che parlare del compleanno della ragazza castana. Scoprii che era immensamente ricca, e che aveva invitato chiunque gli fosse capitato a tiro. Furono invitati pure il maniaco che tentò di insegnare a scuola con un costume osceno, vari controllori della stazione ed il bidello grasso della scuola. Accettarono tutti, tra l'altro.
Il professore discuteva animatamente con il ragazzo dai capelli rossi su cosa indossare quel giorno, e su quale ragazza abbordare. L'insegnante mirava alla conquista della sua futura quarta moglie, e cercava come minimo una tredicenne. Il rosso era di pretese più modeste, ma andavano comunque molto d'accordo in fatto di ragazze.
Il mio amico con la frangia ignorava tutti, fissando il vuoto con sguardo assente; il suo solito sguardo.
Io strepitavo, volevo vedere la bella bionda e conoscerla.
Volevo sapere il suo nome. Era l'unico nome di cui mi importasse. Ragazzo con la frangia, ragazzo rosso, il professore, il bidello, il maniaco, la drogata, la commessa. Tutti questi nominativi mi bastavano.
Ma per la bionda era diverso, volevo davvero avvicinarmi a lei. Volevo sentirmi davvero vicino ad una persona. Una persona con stupendi occhi azzurri.
Al fatidico giorno mi ricordai che non sapevo dove si sarebbe tenuta la festa, e cercai come un disperato qualche indizio.
Me lo disse un delinquente che aveva tentato di stuprare la sorella, così si presentò, e che era diretto, come me, al compleanno. Si offrì di accompagnarmi, ma rifiutai: dovevo prima vestirmi decentemente.
Chiesi al ragazzo con la frangia di presentarsi ad un orario accettabile alla festa, e sottolineai a modo mio il fatto che l'avrei aspettato.
Presi tre autobus per arrivare all'enorme villa della ragazza, sebbene conoscessi la strada per arrivarci a piedi, ed il tempo che ci avrei impiegato fosse minore. La casa era maestosa, lo capii dal cancello.
Ma capii anche qualcos'altro: qualcosa non andava in quel posto.
Le mani che al centro del cancello chiuso formavano una serratura indicavano che anche in quell'edificio c'era il velo della pazzia, la distorsione della normalità che era tanto presente a scuola.
Il giardino era maestoso. Decine di luci abbaglianti si stagliavano verso il cielo notturno, pavoni cantavano e fontane zampillavano dappertutto.
Il portone era di legno, e mancava la serratura. Sembrava scomparsa di netto, come lo sciacquone del gabinetto della scuola. L'atmosfera era calda, ma non accogliente.
Era uno di quei posti che, sebbene non avessero nulla di male, risultavano fastidiosi. Pareva quasi che ci fosse un pericolo dietro ogni poltrona o sotto il tavolo del bouffet.
Notai anche una cosa bizzarra: un fiore enorme al posto del lampadario. Un'orchidea viola scuro che irradiava luce del medesimo colore, e che dava un aspetto quasi perverso alla casa.
Serviva forse aggiungere che per me non era un vero lampadario, quel fiore? Puzzava, ma solo metaforicamente.
Persone eleganti entravano ed uscivano, si adagiavano, chiaccheravano amabilmente, mangiavano, dormivano, vomitavano, cercavano di tirar su il compagno svenuto.
Gente di ogni dove era alla festa, ma era gente di ogni dove d'alto livello. Mi parse di scorgere addirittura qualcuno in pigiama.
Dal momento che altre persone necessitavano di entrare, mi feci cortesemente da parte andandomene in qualche altra stanza. Un vecchio baffuto suonava il pianoforte.
Una composizione che mi ricordava molto il carillon della casa del mio amico con la frangia. Appena tentavi di seguire la melodia, subito te ne dimenticavi.
Il musicista portava degli occhiali scuri, mi chiesi se ci vedesse. Gli chiesi se in un tempo remoto della sua vita avesse collaborato alla costruzione di un carillon, ma non mi rispose. Che fosse anche sordo?
Ogni tanto un cameriere con un sacco sulla testa distribuiva aperitivi vuoti o stuzzichini composti da volantini e matite. Avrei rifiutato anche se avessi potuto mangiare.
Mi appoggiai ad una poltrona a forma di camelia, o meglio una camelia gigante usata come poltrona, per aspettare il mio amico con la frangia.
Erano passati almeno sedici minuti, ma di lui non c'era neanche l'ombra. Tanto sapevo che non sarebbe venuto. L'avevo sempre sospettato, da quando me l'aveva promesso.
Qualcosa mi diceva che non sarebbe mai venuto.
Ad un tratto, l'aria cambiò. Il profumo che aleggiava nell'aria si fece più denso, la luce soffusa prese una decisa colorazione viola ed al piano si aggiunse un violino.
La musicista era vestita di nero, anche lei con degli occhiali scuri ed era in piedi, vicino al pianista. Si stavano avvicinando altre persone, chiedendosi se stessero assistendo alla nascita di un nuovo improbabile gruppo musicale.
Arrivò il punto in cui non riuscivo più a sopportare di star seduto così, senza vedere la bionda. Decisi di andare a cercarla.
Vagai senza meta nell'enorme casa, ma trovai solo tipi strambi. In una stanza c'era un uomo che portava a spasso un cane, mentre in un corridoio della gente mi impediva il passaggio, e l'unico modo per passare era ammettere di far parte della confraternita del buco nero. Una confraternita di cui non avevo mai sentito parlare prima.
Trovai qualche traccia da un maniaco che raccoglieva ciocche di capelli. In cambio di una ciocca extra, mi indicò dove aveva visto l'ultima volta la splendida chioma dorata. Era andata in bagno.
Beh perchè no, andiamoci ed ignoriamo il fatto che apparentemente sono un maschio e non potrei raggiungerla definitivamente, pensai. Forse non avrei avuto il tempo di spiegare che non essendo efettivamente una forma di vita totalmente umana, avrei potuto non essere considerato maschio allo stesso modo in cui lo si faceva con un ragazzo qualunque.
Scostai delle lunghe liane e foglie di palme viola che fungevano da tendine per l'ingresso dei bagni, ed entrai.
Nel bagno delle femmine c'era solo la festeggiata, che si divertiva ad aprire e chiudere la porta di un bagno con i piedi, stesa a terra. Si girò lentamente e mi salutò in silenzio, con un sorriso. Un sorriso dolce e pacato, che le rimase sul volto finchè non morì.
Per avere ancora quell'espressione doveva esser stata una morte a dir poco veloce ed indolore. Mentre la ragazza mi salutava, qualcosa si materializzò nel bagno. Qualcosa di viola e viscido.
L'essere, appena arrivato, si dimenò come in preda ad un dolore sufficentemente spiacevole da spingerlo ad uccidere chi capitava. Dal momento che fu quello che fece.
Potevo classificarlo come un rettile monoculare con begli artigli affilati ed una splendida corolla. In termini pratici, un mostro che aveva appena ucciso una ragazza.
Si diresse fuori dal bagno a salti incerti, ignorandomi completamente.
Non ebbi il tempo di dispiacermi che un'altra creatura si materializzò nel bagno. Riuscii ad assistere al fenomeno con più attenzione.
Piccoli pezzetti del bagno si staccarono e si unirono, fino a formare un corpo sensato, cambiando addirittura materiale.
Quadrati di mattonelle mancavano nel bagno, ma in cambio ne uscì un mostro più brutto dell'altro.
Tecnicamente poteva esser definito un esemplare terrestre di octopus vulgaris che si portava una conchiglia come riparo. Conchiglia che precedentemente era stata un gabinetto. Per definirlo con parole profane, comunque, era un mostro polpo.
Mentre constatavo quale fosse la loro specie, i miei nuovi conoscenti erano andati fuori a far baldoria. Sentii urla, schiamazzi, piatti caduti. Uscii fuori e vidi.
Altre persone stavano morendo, o venendo ferite.
Alla musica di sottofondo si aggiunse una cantante lirica.
Alla tappezzeria si aggiunse un morbido tocco di sangue.
Un'occhiata più attenta alla stanza mi convinse ad agire.
C'era la ragazza bionda, e non potevo permettere che si facesse male. Mi parai davanti a lei
– Fuori dai piedi, scappa immediatamente. - le intimai. Ma immaginai che lo shock fosse stato troppo forte, dato che non si mosse.
Sarebbe stato un massacro, me lo sentivo. Non potevo fare nulla, non ci sarebbe stato nessuno ad aiutarci, nessuno si muoveva. Quei mostri avevano carta bianca, potevano fare ciò che volevano.
Il rettile con un occhio solo scelse di esprimere la sua violenza su di noi, ed io non potevo muovere un dito per impedirglielo.
Strinsi a me la bionda, la strinsi forte. Dovevo proteggerla, dovevo impedire che si facesse del male. Ero un androide, diamine, non un umano. Avrei dovuto essere capace di risultare utile, di impedire che qualcuno si facesse male. Ma l'unica cosa che potevo fare era stringerla a me, affinchè non si ferisse.
Inutile, sottovalutai la forza di quegli artigli.
Bastò solo un attacco, una zampata e mi stordì. Rumori secchi di elettricità che si disperdeva accompagnarono dei tonfi. Mi staccò il braccio, con solo un colpo, ma il mio arto non fu l'unico a cadere.
Il suo sangue zampillava, il suo braccio era a terra, le sue urla mi fracassavano il recettore audio.
Anche lei perse un arto. La mia bionda.
Non potevo permettere che la ragazza subisse ulteriori danni.
Qualcun altro era d'accordo con me, perché percepii una persona scagliarsi contro i mostri.
Era il ragazzo con la frangia.
Con un solo pugno uccise il rettile. Lo scagliò contro il muro e morì all'impatto.
Il mio salvatore schivò, in seguito, i tentacoli del secondo mostro e si gettò con tutta la forza contro di lui.
Si accanì sul guscio, riempendolo di pugni. Il terreno tremava ad ogni colpo che infliggeva, mentre il suo volto serio ed inespressivo lo faceva sembrare semplicemente un eroe.
Quando il guscio si ruppe, bastò un pugno per distruggere i soffici organi del mostro.
Era finita.
Finalmente.
Dodici morti per due mostri, e tutto era cominciato proprio come era finito.
Il ragazzo con la frangia mi si avvicinò.
- Sei venuto, alla fine..- commentai sbalordito.
- Già. Alzati e porta quella donna in ospedale. - mi disse.
Io non avevo più bisogno di cure, il mio braccio mi si era riattaccato mentre ero distratto.
Mi alzai e sollevai la ragazza svenuta dal dolore, lasciando il suo avambraccio a terra. Prima di cercare un telefono, notai il ragazzo con la frangia andarsene.
-Dove vai?- chiesi.
-In bagno. Devo vomitare.-

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


4

Contavo I lampioni.
Contavo lampioni, perché non avevo nulla da fare.
Non avevo nulla da fare perché non c'era nulla che rientrasse nella mia possibilità d'azione.
Quindi contavo I lampioni. Uno, due, tre, quattro..
L'ambulanza venne, prese la bionda e se ne andò con me.
- Come si è tagliata il braccio? - Mi chiesero.
- E' caduta dalle scale. - risposi. Sentii un brusio d'approvazione. Stupide pedine, stupide
macchine. Se ti svegli senza sapere chi sei e nessuno ci fa caso, ti viene naturale
sospettare che siano tutti stupidi. In realtà è di più, nessuno ne ha colpa.
Sembrava che nessuno avesse consapevolezza, erano tutti ignoranti. Ignoranti che non vedevano cose strane e
credevano a scuse stupide.
Undici, dodici, tredici, quattordici..
Fermarono subito l'emorraggia della bionda, non so dire come. E cercarono di
tranquillizzarmi.
- Andrà tutto bene, se la caverà. -
- Non ditelo a me. Ditelo a lei, è cosciente da un po'. - Risposi io. Cercavano tutti di non
guardarle il moncherino, di sorriderle, di rassicurarla.
Ma la verità era che non aveva più un braccio. Anzi, non solo quello.
La verità era che un paio di mostri erano usciti dal cesso della sua amica ed avevano fatto a
pezzi un pò di gente.
Ventitré, vetiquattro, venticinque, ventisei..
- Dov'è il suo braccio? - Mi chiesero.
- Se l'è mangiato la scala. - Risposi io. Ed ottenni una corale approvazione. Stupide
bambole, pupazzetti, coni gelato.
Lei invece era tranquilla, senza nessuna preoccupazione ad occuparle la mente. Supposi
fosse perché non si era ancora resa conto della perdita. Buon per lei, pensai.
- Tu chi sei? Un suo amico? - Mi chiesero.
- Io sono le scale. - Risposi io.
Qualcuno mi strinse la mano.
Stupide scimmie, babbuini, gorilla, primati.
L'ospedale era pieno di malati vivaci. Una luce turchina irradiava le stanze, facendo sentire
chiunque vi passasse davanti quasi disinfettato.
C'era odore di medicine, di ammoniaca, di ferite, bugie e tanta sofferenza nascosta.
Mentre la bionda dormiva, io le fissavo il moncherino fasciato. Era un angelo sfigurato. Una
statua di venere illuminata da un neon a forma di orchidea.
Le accarezzai i capelli, in quel covo di disperazione. Odiavo gli ospedali. Li odiavo da
morire.
Il che era bizzarro, dal momento che da quando avevo coscienza non avevo mai visitato un
ospedale.
Era qualcosa che veniva dal profondo, qualcosa nell'oscurità che non ero riuscito a
nascondere del tutto.
Delle mani mi afferrarono le spalle e dissero:
- E' il momento, bello. Chiudi gli occhi, respira profondamente e dimenticati di me. E' il
momento, e lo sai anche tu. -
Mi resi conto, dunque, che c'era qualcun altro nella stanza. Ma misi subito da parte questo
pensiero. Il tizio aveva ragione, per la prima volta c'era un posto che stimolasse
pesantemente i miei ricordi e non potevo permettermi di dimenticare nulla.
Chiusi gli occhi. E buio fu.
- Non esiste nessuna bionda. Nessun mostro. Esisti solo tu- disse.
E' vero, non esiste più nessuno.
- Non esiste la scuola impazzita, non esistono professori strani. Esisti solo tu. -
Ed aveva ragione, esistevo solo io.
-Torna indietro, quando questi problemi non ti assillavano. Focalizza I tuoi sentimenti. Cosa
provi, bello, cosa provi?-
Dolore. Provavo dolore, peso della responsabilità, preoccupazione.
- Focalizza, bello, focalizza. -
Mi abituai alla luce del buio della mia mente, gli oggetti e le persone erano visibili, ma I loro
contorni sfocati, illuminati solo dalla fiebile luce del ricordo.
Il letto era occupato da una figura oblunga. Se ne stava andando, ed io non volevo.
Non potevo piangere per la figura oblunga, avrei peggiorato la situazione. Qualcuno vicino a
me non capiva. La figura oblunga mi tese la mano, ma non potevo prenderla.
- Prendila.-
No.
-Avanti, prendila.-
Ed io la presi.
Presi la mano di mia madre. La mia voce disse “ti voglio bene, mamma”, ed illuminò la
stanza.
Riuscivo a vedere la donna, riuscivo a vedere delle sedie a rotelle, riuscivo a vedere la
flebo, ma non riuscivo a vedere il cancro.
Allora il ricordo mi rifiutò, e mi costrinse ad aprire gli occhi.
Mia madre stava morendo di cancro.
Avevo una madre. Avevo una famiglia.
Strinsi la mano alla bionda, sentendomi in colpa per il mio improvviso desiderio di tornare ai
vecchi dolori.
Strinsi la mano al mio nuovo mondo.
Dalla scarsa quantità di luce che arrivava dalla finestra dedussi che doveva ormai essere
notte. Quella specie di meditazione aveva richiesto almeno una decina di ore, nonostante io
avessi percepito solamente il passare di pochi secondi. Decisi di non pensare a nulla per
altri dieci minuti. I clakson delle macchine mi tenevano compagnia, qualche malato
camminava furibondo per il corridoio.
Non avevo nemmeno voglia di pensare alla vita attuale, da quando si erano addirittura
accavallati ricordi passati.
Inspirai profondamente, e l'odore di disinfettante e sandali mi aiutò a comprendere meglio il
sentimento di falsità che provavo. Dovevo nascondere la sofferenza, per non peggiorare
l'atmosfera.
Lanciai uno sguardo all'altro capo della stanza e, appollaiato sul letto, vidi una figura
scodinzolante.
L'unica cosa che vedevo, in quella falsa luce dai lampioni, era un personaggio scuro con
una coda e due occhi brillanti.
Fissai per un attimo quelle due lune gialle.
- Buon giorno, bello.- Dissero gli occhi. Non risposi.
- Sembra che io ti sia stato d'aiuto per ritrovare le tue vecchie memorie. Se solo i soldi
valessero qualcosa, in questo mondo, ti avrei chiesto una bella somma in denaro.-
Gli chiesi come faceva a sapere dei soldi e soprattutto delle mie memorie.
- Ho un bell'istinto su queste cose. So quando qualcuno ha la coscienza della nuova vita. E
so quando una persona si trova in un luogo pieno di ricordi. Certe volte sono così intensi
che mi sembra quasi di poterli toccare.. -
Cercai di chiedergli qualcosa. Qualsiasi cosa.
- Ti piacerebbe ritrovare tutti i tuoi ricordi? -
Non lo so.
- Sai, a mio parere un essere perfetto ha sia la coscienza che i ricordi. Se non hai l'uno non
potrai mai sfruttare pienamente l'altro. Sei solo un essere a metà. Un nuovo essere a metà.
E' solo una fase di una più grande metamorfosi. La fase larvale, la fase pupale e la fase
ottimale, in poche parole. Guarda quella lì, per esempio. Non poteva accaderle cosa
migliore, tra non molto potrà essere una splendida farfalla!-
Gli chiesi se era d'obbligo perdere un arto per essere degli insetti.
- Ti va di divenire perfetto, bello?-
Nulla è perfetto.
- Io sono perfetto, bello. -
Ebbene, rendi perfetto anche me.
- In cambio voglio un favore. Se vuoi essere perfetto, dovrai unirti al mio branco. Un branco
di esseri perfetti e coscienti. -
Gli chiesi di che diamine stesse parlando.
- Accetti o no?
Accetto.
- Fantastico, bello! Te ne parlerò un altro giorno, però, ora devo dormire.-
Non mi hai nemmeno detto come ti chiami..
- Perchè, tu sai come ti chiami?-
Avanti.. sono nel branco di?
- Sei nel branco del Lupo. Chiamami pure il Lupo.-
I fari dorati si chiusero.
Sembrava una di quelle persone con cui non si può discutere minimamente. Ogni sua
decisione era un'ordine.
Ed era decisamente l'essere più mostruoso che avessi visto fin'ora, la persona più vicina ai
mostri di chiunque avrei mai potuto immaginare.
Nell'oscurità illuminata solo da lampioni esterni, dove ogni figura restava nascosta e sfocata,
riuscivo a vederlo scodinzolare. Mi ricordava più un gatto che un lupo.
Nella mia oscurità, illuminata dalla mia luce inesistente, c'era solo il cupo russare.
Non potevo cercare di dimenticare ciò che era successo, non potevo lasciar scivolare su di
me tutti i ricordi spiacevoli.
Avevo fatto un passo fuori dal mio eden senza ricordi, ed ora mi sentivo in dovere di

proseguire il mio cammino, obbligato a portare man mano tutti i fardelli che occupavano il
mio passato, oltre a quelli attuali.
Dovevo procedere lungo un sentiero per il quale, più fossi andato avanti, più sarebbe
divenuto pesante il mio zaino.
Il lupo aveva detto che ciò ci avrebbe resi perfetti. Sperai fosse così per me.
Mi appallottolai sulla sedia e chiusi gli occhi. Finsi di dormire, e pensai tutta la notte. Pensai
alla bionda senza braccio, pensai ai mostri, pensai al lupo, pensai ai miei ricordi, pensai a
mia madre ed alla sedia a rotelle. E la notte sembrava non finire mai.

Appena sorse il sole, sia il Lupo che la bionda diedero segni di vita. Lui mi diede le spalle
affacciandosi alla finestra. Sbadigliando esclamò – Dio quanto amo l'alba! - e restò lì a
godersi l'aria mattutina.
Lei, bellissima, si limitò a guardarmi. Decisi di dare attenzioni a chi ne voleva, e mi avvicinai,
accarezzandole i capelli. - Buon giorno, bionda – dissi dolcemente, dimenticando tutte le
inibizioni iniziali. Aveva perso un braccio, al diavolo la mia timidezza. Mormorò qualcosa in
modo stanco, credo ricambiò il saluto.
Si schiarì la voce e disse sommessa – Sei l'unico che è venuto a trovarmi.. -
- Non preoccuparti- Le dissi. - Sicuramente qualcun altro verrà, è ancora presto.- e le sorrisi.
- Nessuno verrà a trovarmi. Sinceramente – sbadigliò – non m'importa. -
- La sai un'altra cosa buffa allora? Sono l'unico che è venuto a trovarti ma non conosco ancora il tuo nome. -
- Che t'importa. Non conosci nemmeno il tuo, di nome.-
Era un ragionamento impeccabile, pensai. Restammo a parlare per tutta la mattina. Ogni
tanto il Lupo commentava, ma restò perlopiù a guardare fuori dalla finestra. Evitammo con
accuratezza il discorso 'arto mangiato da mostri famelici', e ci abbandonammo a
conversazioni su argomenti più piacevoli, come i fiori e le lucertole.
Lei mi sembrava così tranquilla. Forse un pò pallida, ma principalmente tranquilla.
Qualche infermiera venne a controllare la ragazza, e se ne andò sdegnata dopo aver
ricevuto qualche fischio dal lupo.
La bionda non sembrava infastidita dall'altro malato, anche se mi pareva decisamente in
forma, ed accettava con una risata ogni commento che faceva.
Arrivò il momento in cui dovetti parlare del suo braccio, ma appena affrontai l'argomento, lei
mi sorrise, come fa una madre quando parla col figlio che vede mostri dietro l'armadio.
- Non è niente, stai tranquillo.- mi disse.
Fu lì che rimasi davvero sconcertato. Era pomeriggio, c'era silenzio, si sentivano diversi
passi e macchine che sfrecciavano.
Il sole prendeva in faccia il Lupo, e lui se la godeva.
-Secondo me stai sottovalutando la situazione, sai.. perdere un braccio non è cosa da nulla.
Non hai più una mano, potrai fare la metà delle cose rispetto a prima! Non potrai lavare i
piatti, usare una motosega, andare sull'acquascivolo, perché diamine la prendi così alla
leggera? Io fossi in te mi dispererei, sai, sarei il ritratto della disperazione.- Annaspai, ma il suo
sguardo divertito non cambiò. Ero davvero un bambino che vedeva mostri che non
esistevano?
Lei mi sorrise nuovamente e disse
- Non ho perso davvero il braccio. Sei tu che ti limiti a considerare il braccio carnale come
l'unico da poter possedere. Devi capire che se ti imponi sempre questi limiti non potrai mai
andare avanti. Io un braccio ce l'ho ancora.-
Restai ancora più sbalordito. Potevo capire i negozi, persino gli insegnanti, ma questo non
poteva accadere. Sebbene paresse impossibile riuscire ad avere una concezione
dell'impossibile in quei tempi, era possibile. Le dissi che era colpa del suo trauma, che in seguito
avrebbe capito quanto aveva perso ed avrebbe pianto come una femminuccia. Le dissi che
io ci sarei sempre stato per lei come spalla su cui piangere, ma che ciò non cambiava la sua
asimmetria. Avrei potuto aggiungere altro, con un po' di fantasia, ma lui mi interruppe.
Finalmente si girò verso di me. Finalmente mi guardò, ma io non riuscii comunque a guardarlo in
faccia.
Gli occhi felini mi presero, e lui disse: - Non hai capito, bello? Lei è più pronta di te per
affrontare la perfezione, non recepisci quanto sia fortunata? Dovresti chiudere il becco e pensare
alla tua memoria, invece.
La bionda rise. - Lupo, perchè ti fai chiamare così? -
- Chiediti piuttosto perchè lui non ha nome. - rispose lui.
Non ho avuto la fortuna di qualcuno che mi trovasse un nome, dissi invece io.
- Biondina, battezzalo tu. Scommetto che sei l'unica persona da cui accetterebbe un
nominativo. Scommettiamo? -
Ecco, non solo mi ero reso conto da poco che avevo una vita di cui non ricordavo nulla, ma
mi sarebbe anche toccato un nome da una sconosciuta. Mi chiesi tra me e me quanto fosse
degenerata la situazione
- Mi piace come idea! Voglio pensarci su! -
Il Lupo scodinzolò. Brutto bastardo.
- Dammi solo un po' di tempo, e troverò un nome perfetto per te! - Aggiunse lei. Lasciai
correre.
Lupo si alzò ed uscì dalla porta. Dopo qualche secondo, mi resi conto che non sarebbe
tornato in quella stanza, e che non era un paziente.
C'erano un sacco di cose che non mi aveva spiegato; come faceva a sapere tante cose di
me, cos'era questo branco e quando l'avrei rivisto.
Gli corsi dietro e quando lo raggiunsi, gli urlai tutti i miei interrogativi. Lui mi guardò seccato
e si avvicinò pericolosamente. Si sporse verso il mio volto, avvicinandosi ancor più
pericolosamente. Vidi il suo volto chiaramente. Assolutamente bello, con occhi grandi e gialli e denti affilati. A due centimetri dal mio naso, riprese a parlare
– Non ho intenzione di far morire altra gente, per quei mostri. Il branco sarà la polizia del
nuovo mondo, saranno i nuovi padroni.- mi diede due schiaffetti simpatici e se ne andò. - Ci
vediamo a scuola, bello.-
Se ne andò sul serio, e l'avessi cercato non sarei riuscito a trovarlo. Prima si aspettava di
trovarmi.
Tornai dalla bionda, ed appena aprii la porta mi urlò:
- Felix! E' perfetto. Lupo non è da te, e non c'è nessun altro animale che si adatti alla tua
faccia. E poi chiamarti gatto sarebbe poco originale, tu sarai Felix!-
Ma io non sono un gatto.
- Comincia a miagolare.-

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***



Lasciai riposare la bionda, ed andai a dormire. Decisi che per una bella
settimana avrei dovuto abbandonarmi alla routine anonima e tranquilla
della scuola. Scoprii allora che il Lupo la frequentava. Nella scuola si
parlava spesso dei mostri apparsi alla grande festa. Era stato proprio
lui a parlarne, a far scatenare opinioni. Disse che serviva a tener
d'occhio i personaggi più interessanti. Poi non sia mai che potesse
apparire qualche ragazzo insolito da potersi accaparrare. Il ragazzo con
la frangia non fece altro che parlare di quanto era stato eroico e forte,
ma stranamente a nessuno importava. Erano tutti concentrati sui
mostri.
Qualcuno la chiamava apocalisse. Interessante.
Ricevetti, dopo non molti giorni dall'incidente, un biglietto. Era il Lupo
che chiedeva un appuntamento di fronte una chiesa, alle 15.15 di
Martedì 15.
Non lo delusi, e sebbene fossi arrivato relativamente in anticipio, notai
che c'erano altri invitati.
C'era il ragazzo con la frangia, il ragazzo dai capelli rossi, un ragazzino
che aveva l'aria di essere decisamente arrabbiato ed un'albina.
Erano tutti della mia scuola.
Accennai un saluto ed aspettammo tutti il Lupo.
Cercammo di presentarci, ma nessuno ricordava il proprio nome.
Seduti di fronte alla chiesa, in tondo, parlammo di noi. Ognuno aveva
una vita normale, tranne me ed il ragazzo con la frangia. E tutti quanti,
gradualmente, avevano dimenticato la propria identità. Quando si
erano accorti di non sapere più come si chiamavano, era troppo tardi.
Fissai il tipo rosso. Quindi anche lui non sapeva più chi era.
Tuttavia aveva un aspetto diverso. Portava dei guanti, decisamente
fuori dal suo stile, con dei simboli appariscenti. Mi chiesi se si fosse
appassionato a qualche gruppo heavy metal.
Notai invece che il ragazzino arrabbiato aveva qualche problema, forse
mentale, e continuava a muoversi in modo irrequieto. Parlava
esaltando ogni parola, accompagnandola con un passo da qualche
parte. Quando doveva dire una frase particolarmente lunga sembrava
quasi che ballasse. Gli consigliai di camminare in tondo, così sarebbe
sembrato meno strano, ma mi guardò male.
Dopo qualche secondo di osservazione, mi disse – Tu non mi piaci,
ragazzo, tu non mi piaci proprio. -
L'albina invece era più che loquace, decisamente egocentrica, amava
parlare di sé. Indossava un abito nero con una gonna a balze
dall'aspetto poco pratico, decorata con molti pizzi e fiocchi bianchi.
Guardandola mi veniva in mente una bambola dall'aspetto tetro, che,
se non ero in errore, rappresentava una moda che circolava negli ultimi
tempi. Portava con sé un ombrello e sarebbe saltata all'occhio anche ad
un cieco. Guardai i suoi occhi azzurri, con assurdi riflessi rossi, e notai
con stupore le pupille a forma di stella.
Fu lì che l'interrogativo mi colpì.
Io ero un cyborg. Il Lupo era una specie di animale. Questa albina qui
aveva gli occhi strani.
Eravamo tutti speciali. Ognuno aveva qualcosa che poteva essere
considerato utile. Fissai il ragazzo con la frangia.
Anche lui aveva qualcosa di speciale, e non me ne aveva mai parlato.
Non potevo biasimarlo, nemmeno io gli avevo detto di essere una
qualche sorta di androide.
Non ebbi la possibilità di sviluppare quest'idea, perché venimmo tutti
interrotti dal Lupo, che ci accolse calorosamente.
Il ragazzo arrabbiato lo salutò estasiato, chiamandolo “amico mio”,
mentre l'albina gli saltò addosso.
Notai il suo fisico quasi palestrato. Con i muscoli ben accennati, un
sorriso smagliante ed affilato, la canottiera nera, varie borchie ed i
capelli neri disordinati, era decisamente un figo.
-Amici miei, d'oggi in poi sarete nel branco! Preparatevi, perché non ne
uscirete più. Ma non allarmatevi, adesso facciamo ufficialmente parte di
una famiglia!- E sorrise. Con i suoi denti smaglianti, con i suoi occhi
gialli.
- Tutti voi possedete delle abilità particolari. Avrete notato che tutta la
città è cambiata, è diventata strana. Questa lenta metamorfosi colpirà
fisicamente paesaggi e persone. Avete notato i cancelli della scuola? Le
strade, i semafori, la campana di questa chiesa?-
Lasciò un po' di tempo per farci osservare il paesaggio. Sulla cima della
torre della chiesa si dondolava una grottesca testa di cervo in ferro. Mi
chiesi che rumore facesse.
- Questa, amici miei, possiamo chiamarla una lenta apocalisse. Noi
abbiamo il potere di difendere i deboli. Ma, prima di tutto, ci tocca
rendere forti voi. -
Cominciò a camminarci intorno. - C'è chi ha perso fin dall'inizio la
memoria. Queste persone sono sfortunate, ma anche le più forti.
Hanno bisogno di conoscere bene sia chi sono adesso, che chi erano nel
passato.
Coloro che hanno avuto un cambio graduale dovranno percorrere un
cammino, ma non è nel mio ruolo tenervi per mano. Sappiate che però,
per qualsiasi cosa, posso aiutarvi. - Fece una pausa e riattaccò – Oggi
devo aiutare il qui presente belloccio – mi indicò – perché gliel'ho
promesso, ed io mantengo sempre una promessa. - Sorrise.
Bello come il diavolo, sorrise.
- Ehm. Ho un nome io. Mi chiamo Felix. – protestai. Tutti mi
guardarono, e provai il forte desiderio di sigillarmi la bocca con della
colla a caldo.
- Hai un nome? - chiese il ragazzo con la frangia.
- Come fai ad avere un nome?-
Mi sentii male, mi sembrava quasi di averlo tradito. Spiegai la
situazione, come avevo acquisito il nome, e tutti mi guardarono delusi.
Dovevo chiudere il becco. Decisamente dovevo chiudere il becco. Il
Lupo, ignorando il tutto, ordinò di entrare nella chiesa.

Il lupo disse che la cappella era un concentrato di metamorfosi, pochi
altri edifici avevano subito un cambiamento di questi livelli. Citò la
stazione principale e la villa della ragazza morta.
Non era cambiata l'architettura, però. Solo le decorazioni avevano
subìto evidenti mutazioni.
Le statue avevano teste di tori, cervi, alci, buoi e stambecchi.
Minerali colorati apparivano qua e là rischiarando l'ambiente con la loro
luce opaca, proprio come i fiori nella villa e nell'ospedale. Sembrava
l'interno di una grotta cristallina, luci azzurre e rosa creavano figure
grottesche con le ombre.

Il Lupo mi portò su una panca. - Stai qui e rifletti. Vedrai che qualche
ricordo ti tornerà. -
Gli chiesi come faceva a saperlo.
- Tutto grazie al mio naso, bello! - fece lui.
Obbedii, e rimasi a riflettere seduto, ad occhi chiusi.
- Qualsiasi cosa succeda, non perdere la concentrazione! Se alla fine
non recuperi neanche un ricordo, ti mangerò!- lo sentii esclamare.
Con gli occhi chiusi, mi concentrai. Non c'era molto da riflettere, non
avevo scelta. Nell'ombra del dimenticatoio, i sussurri dei miei compagni
furono la luce. Il disegno fu rischiarato da una luce disperata e
supplichevole.
Respirai, c'ero quasi.
Tutte le immagini erano sfocate, mancava solo quel piccolo particolare
per completare il quadro e accendere la miccia. Avevo bisogno
dell'ultimo pezzo per arrivare all'esplosione dei ricordi.
Vedevo le statue, le colonne, le vetrate, i mosaici.
Non vedevo le mie azioni, il mio ego, il mio obiettivo.
Qualcuno tossì. Rumore di monetine.
Sì, finalmente, qualche disgraziato aveva casualmente innescato la
scintilla giusta.
In un lampo le immagini andarono a fuoco.
Non c'erano figure oblunghe, c'ero solo io. In ginocchio, capo chino,
pregavo. Pregavo che le cose tornassero al loro posto. Pregavo per mia
madre. Pregavo per la mia famiglia. Pregavo per me.
Una mano sulla spalla, ed una parola confusa di conforto. Mi girai a
guardare il propretario della mano, ma non vidi nulla. Tutto fuori fuoco,
tutti i ricordi mi abbandonarono.
Finì tutto lì.
Che cosa buffa. Ero religioso.
Pregavo per la salvezza, credevo nei sacramenti. Ed ora ero diventato
proprio ciò che la chiesa condannava: una vita artificiale. Una creazione
che andava contro i progetti di Dio.
Chiunque mi avesse ridotto così, doveva essere un sadico bastardo.
Però fu un dettaglio fondamentale per conoscere il mio passato. Ero
una persona in crisi che si rifugiava nella fede, ed ora ero un robot.
Aprii gli occhi, in quel tempio di cornuti e rocce.
Mentre stavo accumulando i ricordi, il tempo era passato fin troppo
velocemente. Erano tutti seduti o distesi. Tutti stanchi, pieni di graffi e
sangue. Con aria interrogativa lanciai qualche sguardo, e solo il rosso ed il
Lupo mi notarono.
- Buon giorno, bello! - mi salutò.
- Che diavolo è successo, mentre non c'ero? - chiesi, in una giustificata
ricerca di informazioni.
- Sono usciti altri due mostri, bello. Il secondo ballo. - ed il Lupo
sorrise. -
- Uno era tipo una lumaca puzzolente con un sacco di denti, l'altro era
una specie di cane - Aggiunse il rosso.
- Era un lupo. - rispose lui.
Ignorandolo, il rosso continuò:
- Ahh, dovresti vedere il Lupo combattere, è una vera bestia! E' una
specie di leone, no, tipo più una pantera, o, noo, qualcosa di più regale. -
Per esempio un lupo, ipotizzai. Sai, forse è per quello che si fa
chiamare Lupo.
- No, non è per quello. - disse lui.
- Forse non avrai notato quell'enorme pelliccia che porta attorno, Felix.
Almeno un'ora fa stava combattendo contro di noi, ora è un pellicciotto,
non è assurdo? Poi poi poi avresti dovuto vedere quel tipo lì con la
frangia. Assolutamente uno spettacolo. Spettacolo, dico io! E poi che
diamine all'occhio. Spettacolo puro, davvero. Spettacolo.- Abbiamo
capito, dissi io. Che diamine aveva il ragazzo con la frangia? Da come
commentava il rosso, sembrava una specie di mostro.
- Tu, bello, non sai fare qualcosa di particolare? Tipo sparare raggi laser
dagli occhi? - mi chiese il capo.
- Di cosa diamine stai parlando, Lupo? -
- E' un robot. Oppure usa metallo liquido come acqua di colonia -
Il rosso non parve sorpreso. Se non era sorpreso di un robot, che
diamine aveva visto prima?
- Non sono un tipo particolarmente affine alla violenza, e non ho
assolutamente nessun'idea di come potervi essere d'aiuto. Non credo di
avere abilità oltre al poter non mangiare e dormire - feci io.
- Beh ti consiglio di inventarti qualcosa, perché presto potrebbe
capitare di nuovo un'emergenza del genere. E tu cosa farai? Ti metterai a
"non dormire", bello? -
Non posso mettermi a "non dormire". Non è un'azione concreta.
- Seriamente. Pensa a qualcosa. La prossima volta toccherà al
capellone ricordare qualcosa. Quindi tu dovrai essere d'aiuto in qualche
modo. Portati un'arma nel caso. -
Fu più che chiaro.
Si alzò, svegliò tutti e li invitò ad uscire e tornare a casa.
Aspettai fino alla fine. Quando restammo solo noi due, gli chiesi quando
aveva intenzione di spiegarci chiaramente che diamine stava
succedendo al mondo.
- Cosa credi che sappia, io? – disse lui, avvicinandosi.
- Ho solo un buon naso. Mi chiederai informazioni filosofiche quando
sarò un Dio. Ed ora vattene subito da qui. Fai qualcos'altro. Che so,
ricaricarti la batteria o vai giocare alle costruzioni, ma adesso per me è
ora di non avere più nessuno tra i piedi. Su, su, via. - e mi spinse verso
l'uscita.
Per la strada di casa mi divertii a fantasticare su quale arma usare per
sgonfiare la sfacciataggine del Lupo.

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