Saboteur

di Lechatvert
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** parte prima – gli scomparsi ***
Capitolo 2: *** parte seconda – controllo ***
Capitolo 3: *** parte terza – sei solo? ***
Capitolo 4: *** parte quarta – blu ***
Capitolo 5: *** parte quinta – pesi ***
Capitolo 6: *** parte sesta – silver car crash ***
Capitolo 7: *** parte settima – cambio ***
Capitolo 8: *** parte ottava – childhood's end ***
Capitolo 9: *** parte nona – savage ***
Capitolo 10: *** parte decima – paradiso ***
Capitolo 11: *** parte undicesima – game show ***
Capitolo 12: *** parte dodicesima – bugs ***
Capitolo 13: *** parte tredicesima – semplicità ***
Capitolo 14: *** parte quattordicesima – downtown ***
Capitolo 15: *** parte quindicesima – se sei solo ***
Capitolo 16: *** posludio ***



Capitolo 1
*** parte prima – gli scomparsi ***


saboteur



«Mariceli, sei qui?»
«Sei ancora sveglio?»
«Non riesco a dormire».
«A cosa pensi?»
«A te. Alle storie che racconti di notte. Perché ti siedi con noi e inventi qualcosa per non farci avere paura».
«Le storie sono come le luci nel cielo, Cassian. Servono per far passare la paura».
«Vorrei che mi spiegassi come fai».
«A raccontare storie?»
«A far passare la paura».
«E perché lo vorresti sapere?»
«Perché prima il Capitano Halos mi ha detto una cosa a cui non avevo mai pensato».
«Che ti ha detto?»
«Che non ci sarete per sempre».









PARTE PRIMA – GLI SCOMPARSI


Il giorno in cui Travia Chan creò il Gruppo Resistente di Atrivis, unendo per sempre le forze ribelli di Fest con quelle liberatrici del Sistema di Mantooine, noi dell’FRG ci sentimmo inevitabilmente traditi. I miei due compagni di stanza (troppo taciturni perché io ne ricordi il nome a così tanti anni di distanza), lasciarono quella che con solennità chiamavamo “la Resistenza” per passare beceramente all’Impero. «Meglio inculati la con divisa che inculati con le palle al freddo e coi mantooiani intorno», mi disse uno di loro poco prima di sbattere la porta e, passata la sorpresa di sentirgli dire più di tre parole nella stessa frase, mi sedetti sulla mia branda a contemplare la stanza nella sua vuota solitudine.
Quel giorno compivo sedici anni.
Ricordo che fuori nevicava, ma che stranamente non avevo freddo. Rivivendo oggi quei momenti di completo abbandono, penso che involontariamente mi stessi preparando ad affrontare l’inverno con le mie sole forze. “Un uomo sopravvive anche se la neve lo seppellisce”, mi aveva detto anni prima Travia Chan, mettendomi in mano un fucile il giorno stesso in cui mio padre era stato portato via dagli imperiali. “Giovane Harkor, hai molte battaglie da vincere prima di diventare un soldato”.
Siccome a sedici anni mi reputavo molto più uomo di quanto non mi reputi ora, mi imposi di non lasciarmi abbattere e approfittai del ritorno in patria della Squadriglia Anima per farmi vezzeggiare un poco da Terras Cunha, unico amico di mio padre ancora interessato a me che faceva pilota per conto di Travia Chan. Ufficialmente le tratte erano commerciali; in realtà, allora come oggi, la Squadriglia Anima di commerciale aveva ben poco.
Quella sera, Terras Cunha mi accolse con il suo solito umore (cioè pessimo).
Ci incontrammo al tavolo dell’unica bettola di Fest in cui non si congelava per via dell’orripilante clima del mio pianeta natale, ma finimmo con l'aver freddo lo stesso poiché qualcuno aveva ben pensato di sfondare le finestre venti minuti dopo l'inizio della bufera.
Trovai Cunha incredibilmente invecchiato: aveva completamente perso i capelli, e sotto agli occhi gli erano spuntati due pesanti aloni violacei, oltre che un fiume di rughe sulla fronte. Mi fece un cenno del capo quando mi vide avvicinarmi (il suo modo per farmi intendere che era contento di vedermi in forma) e io gli sorrisi di risposta, ben lieto di ritrovarlo, se non pimpante, almeno vivo.
«Mi hanno detto che ti sei dato una regolata» esordì, portandosi alle labbra un bicchiere di liquore. «Ti vedo bene, Cassian Harkor».
Mi sedetti al tavolo, ben attento a sfoggiare il blaster E-5 che ero riuscito a rubare da un vecchio deposito di Travia Chan e che ora portavo attaccato alla cintura. «Lo stesso per te, Terras Cunha».
«Guardalo un po’, il figlio di Krasin. Smilzo come lui, avete anche lo stesso brutto naso. Che cosa combini, in questo posto di merda?»
Alzai le spalle, dandomi le solite arie che un ragazzino pieno di sé si dà quando si trova davanti a un adulto. «Sopravvivo» dichiarai, orgoglioso.
Cunha alzò entrambe le sopracciglia, deciso a non scomporsi, poi si fece subito serio. «Sta' a sentire» mi disse a bassa voce, scoccandomi un'occhiata circospetta. «C’è una cosa per te. Krasin non ti avrebbe mai fatto crescere qui, io lo so bene. Perciò, consideralo il mio regalo di compleanno per te che adesso stai diventando un uomo».
Non mi lasciai vedere entusiasta. «Spara» brontolai. In realtà, fremevo dalla curiosità.
«Lascio la Squadriglia Anima per un po’ di tempo, e vorrei che venissi con me».
Mi accigliai. Chi mai avrebbe potuto lasciare un gruppo così ammirato e benvoluto in tempi così poco incoraggianti? La Guerra dei Cloni era finita da un pezzo, ma Fest faticava ancora a ingranare un’economia che andasse oltre la mera sussistenza.
«A chi ti vuoi unire?» domandai, facendomi sospettoso. Forse la domanda giusta non era perché, ma per cosa.
Vidi Cunha sghignazzare.
«Un mio vecchio amico mi ha chiesto un favore» rispose, vago. Posò il bicchiere vuoto sul tavolo, facendo cenno al cameriere di allungargliene subito un altro. «Non ti voglio mandare su di giri, Cassian, ma … hai mai sentito parlare del Capitano Halos?»


*


Ai tempi della guerra civile, Tylan Halos era stato il salvatore di tutti quei festiani che non credevano più nell’Impero e che erano pronti a imbracciare un’arma per andare a riconquistare le proprie terre innevate. Aveva allevato orfani, scacciato imperiali, riparato impianti di riscaldamento e combattuto battaglie che sembravano invincibili. E, in tutto questo, era anche riuscito a coltivare una profonda e sincera amicizia nei confronti di Terras Cunha, notoriamente simpatico tanto quanto un calcio negli stinchi quando per terra c’è ghiaia.
Mio padre ammirava Tylan Halos. Prima della sua cattura, mi faceva il suo nome quasi ogni giorno. Era stato il mio eroe per osmosi, perché su di lui avevo sentito talmente tante storie che mi era praticamente impossibile non adorarlo, anche se in realtà sul suo conto non conoscevo che leggende.
Quel giorno appresi il primo dato di fatto su di lui: con la nascita del Gruppo Resistente di Atrivis, Tylan Halos era stato fatto capitano. La sua squadra, di conseguenza, si era completamente rimessa agli ordini di Travia Chan. Come l’Anima, in un certo senso, solo molto più conosciuta.
Cominciavo a capire come mai Terras Cunha avesse tanta fretta di mollare i suoi compagni, ma all’epoca non ero che all’inizio della serie di scoperte che mi convinsero in seguito a lasciare Fest per sempre, e mi sentivo soddisfatto anche della più piccola deduzione.
Incontrammo il Capitano Halos nell’unico hangar di cui disponeva la piccola base dove risiedevo. L’Andor (il mercantile Ghtroc 720 che Halos si scarrozzava dietro da anni e che si rifiutò sempre di cambiare) era atterrato lì poco prima e ci osservava in silenzio, elegante quanto un rottame in mezzo ad altri rottami, in attesa di essere rimesso in moto per ricevere un agognato colpo di grazia con conseguente demolizione. Chiunque potrebbe valutare quanto crudele sia stata la vita con quel povero mercantile il cui unico, vero sogno era quello di farsi fare a pezzi ma a cui invece toccò una vita lunga e piena di ruggine.
Non appena ci scorse sulla soglia, Tylan Halos ci riservò il più caloroso dei saluti.
«Cunha, vecchio mio!» gridò dal fondo dell’hangar, facendo sobbalzare quasi tutti i piloti intenti a badare ai loro veicoli. La sua voce era profonda tanto quella di uno Wookie. «Ti sono caduti i capelli, alla fine!»
Cunha non raccolse. «Tylan, buonasera» lo salutò, minimalista come al solito. «Ti ho portato quello che cercavi».
Improvvisamente, ebbi l’impressione di essere la merce di scambio di una compravendita non del tutto legittima. Guardai Cunha, ma sul suo viso c’era il vuoto. Su quello del Capitano Halos, invece, brillava un sorriso cordiale.
«Tanto piacere!» esclamò, allungando nella mia direzione una grossa mano grondante olio. Io la guardai con sospetto ma mi costrinsi a rispondere per educazione.
«Cassian Harkor».
«Lo so, lo so. Il figlio di Krasin, no?»
Mi illuminai. «Lo conoscevi?»
«Per niente, ma sono contento che tu sia qui. Cunha ti ha già parlato del lavoretto che abbiamo da fare, no?»
Provai a rispondere che no, Cunha non mi aveva detto un bel niente, ma il Capitano era già partito a spiegare al suo vecchio amico come aveva fatto a bruciare metà della fiancata destra del suo mercantile, pregandolo di trovare un meccanico buono abbastanza da sostituirla in tempi brevi, anzi, brevissimi.
«Ma cosa vuoi che ti dica?» rispondeva scocciato Cunha, scuotendo il capo. «Questa nave fa schifo anche ai meccanici. Compratene una nuova, pidocchio».
Mi rassegnai a guardarli in silenzio.
Tylan Halos era un uomo grande e grosso, un gigante sulla quarantina dai capelli rossi e dalla barba poco curata. Certe sue smorfie mi ricordavano i mantooiani, ma non scoprii mai quale fosse la sua effettiva origine. Tylan era Tylan, non c’era altro da sapere.
Mi avvicinai all’Andor assieme a loro, osservando l’enorme bruciatura sulla fiancata con lo stesso sgomento con cui fissano i resti di un incidente particolarmente facile da evitare. Che razza di pilota poteva aver manovrato quel mercantile in maniera così goffa da strisciarlo contro la fusoliera di un’altra astronave?
«Se Mari la trova messa così mi ammazza ed è la buona volta che me ne vado sul serio» si lamentava intanto il Capitano Halos, distrutto. «Ti giuro che di TIE ne ho visti volare parecchi, ma questi nuovi modelli sono tutta un’altra storia».
Cunha annuì. «Un dito in culo con l’unghia» ne convenne.
Tylan Halos fece spallucce. «Allora, in quanto pensi che me la ripareranno?»
«Vola ancora?»
«Perfettamente».
«La useremo così. Ammesso che troviamo un meccanico a cui fare abbastanza pena – e su Fest non ce ne sono – andrebbe via comunque una settimana. Abbiamo una settimana?»
«No».
«E allora partiamo così».
Ormai al limite della sopportazione della mia stessa curiosità, mi rifeci presente con un colpo di tosse. «Scusate» dissi, incrociando le braccia sul petto per darmi un tono come per anni avevo visto fare ai miei compagni nell’FRG. «Ma che avete intenzione di fare con questo rottame?»
Il Capitano Halos fulminò Cunha con lo sguardo, ma il pilota rispose alzando le spalle. «Lo ha detto lui che è un rottame, mica io» si difese. La cosa venne messa da parte e mi venne rinfacciata più tardi, mentre buttavo la mia roba in quella che da lì in poi sarebbe stata la mia cabina.
«La missione è complicata» mi disse il Capitano Halos, mettendosi nella mia stessa posa. «Ragazzo, ne sai qualcosa degli Scomparsi?»
Scossi il capo.
«Nemmeno io. Però so che da un giorno all’altro evitano di tornare a casa e svaniscono nel nulla. Da quel momento, nessuno ne sa più niente. La famiglia li cerca, ma non c’è più traccia di loro. Come se non fossero mai esistiti».
«Militari?»
«Affatto. Tutta gente normalissima».
Ripensai a mio padre, al giorno in cui era stato fatto prigioniero durante le guerre che avevano impestato Fest quando ero bambino. Mi chiesi se fosse stato meglio saperlo scomparso, piuttosto che prigioniero dell’Impero. Forse era un bene che quelle persone non sapessero che fine avessero fatto i loro cari, che continuassero a sperare in un loro impossibile ritorno.
Tylan Halos, intanto, andava avanti imperterrito. «L’anno scorso, grazie a una nostra intercettazione, siamo venuti a conoscenza del centro di detenzione di Rasp. Essendo così vicino all’Orlo Esterno, abbiamo pensato che potesse essere il luogo giusto dove iniziare a cercare gli Scomparsi, e abbiamo inviato un agente sotto copertura per sondare il terreno. Adesso bisogna recuperarlo».
Strappato alle mie elucubrazioni mentali, mi voltai di scatto verso il capitano. «Il vostro agente sotto copertura è laggiù da un anno?» chiesi, sconvolto. Non potevo concepire un solo giorno tra gli imperiali; un anno mi sembrava una condanna a morte.
Tylan Halos mi rassicurò subito. «Conoscerai Mari, è un talento naturale» rispose. «L’appuntamento è sulla Luna 4 di Rasp, tra tre giorni. Arriverà con un piccolo plotone imperiale per verificare il funzionamento di alcuni specchi di trasmissione. Li attaccheremo, caricheremo Mari e ripartiremo prima che da Rasp possano anche solo pensare di rispondere al fuoco».
Annuii. «Vi servo per coprirvi le spalle, quindi».
«Suo padre era un tiratore brillante» fece presente Cunha.
Gonfiai il petto. «Non sono da meno» assicurai, battendo la mano sul mio blaster rubato.
Tylan Halos mi guardò e sorrise. «D’accordo» concesse, stringendomi di nuovo la mano, stavolta con più trasporto di quando ci eravamo incontrati qualche minuto prima. «Benvenuto a bordo, allora. Vi battezzo ufficialmente, ragazzi: Andor Quattro e Andor Cinque».
«E gli altri Andor chi sono?» chiesi. A sedici anni non si può fare a meno di fare domande.
Per fortuna, Tylan Halos fu sempre paziente. «Capo Andor ce l’hai davanti» rispose. «Andor Due lo stiamo andando a prendere e Andor Tre, lui …»
Sentii Cunha sospirare. «Non dirmi che non lo hai ancora detonato!»
Da uno degli altoparlanti dell’Andor, una voce mi fece sobbalzare.
“Vi sento tutti e tre da quando siete venuti a constatare i danni. Fossi in voi, non mi permetterei di fare ironia su chi dovrà calcolare le rotte di volo per garantire il successo dell'operazione”.
Il Capitano Halos scoppiò a ridere, Cunha roteò gli occhi.
Poi, con il gracchiante rumore degli ammortizzatori che si abbassavano per aprire il portellone del mercantile, una figura apparve proprio davanti a noi.
Incuriosito, mi feci avanti e superai Cunha.
Fu la prima volta che mi trovai faccia a faccia con Kappa.







note

Non so con esattezza da dove sia uscita questa storia.
Prima ero al cinema, poi in lacrime, poi al cinema di nuovo, poi in profonda pausa di riflessione con la vita ... e poi è comparsa Saboteur.
L'idea di base è quella di scavare nel passato di Cassian, di smascherare un po' di quelle "prigioni che si porta dentro" (Chirrut too cool for school) con una storia sulla sua adolescenza prima dell'Alleanza Ribelle.
Mi sono largamente ispirata al Rebel Alliance Sourcebook, prime dieci pagine o giù di lì. Atrvis, Fest, FRG e Travia Chan vengono tutti da qualcosa che non mi sono inventata ma che qualcuno prima di me ha provveduto a scrivere.
Fondamentalmente, di mio ci ho messo mezza missione e tre personaggi.

Lo so, lo so, lo so che ci sono un sacco di cose che non tornano (tipo il cognome di Cassian trallallà o il fatto che sia vagamente un po' troppo presto per Kappabello) ma non agitatevi: ogni cosa, a tempo debito, sarà spiegata. O almeno l'idea è quella.

Altro da aggiungere? Saranno in tutto dodici capitoli, uno per ogni canzone contenuta in un album che ho scoperto pochi giorni prima di andare al cinema a vedere Rogue One grazie a The OA, una serie bellissima che consiglio a tutti anche se con Star Wars non c'entra 'na ciospa. Lancio ufficialmente la gara per scoprire di che album si tratta (?). Perché non c'è il link nel titolo del capitolo. Assolutamente no.

Va bene, mi fermo.
Ringrazio chiunque abbia letto il capitolo, doppiamente chi ha letto anche i deliri le note senza cedere alla voglia di farmi del male fisico.
I commenti e le pedate virtuali (D:) sono ben accetti anche se vengono assieme, magari per ripagare lo screzio vi offrirei un caffé virtuale con biscotti virtuali (la vita è troppo agra per caffé e biscotti veri).

L'ho finita, stavolta davvero.

Bacini bacini
Lechatvert



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Capitolo 2
*** parte seconda – controllo ***


saboteur



«Allora, da dove si comincia?»
«A fare cosa?»
«A raccontare una storia».
«Bé, direi che su per giù il trucco sta nell’avere il controllo».
«Della storia?»
«No, quello è impossibile. Alla fine, è sempre la storia a controllare te».
«E allora di chi devo avere il controllo?»
«Di chi ti ascolta. Devi intrufolarti nelle loro menti con discrezione, accarezzare i loro pensieri per invitarli a seguirti. Raccontare è come spiare: sbirci nella testa di chi hai davanti per farlo venire con te».
«E come si fa?»
«Si impara col tempo, Cassian».










PARTE SECONDA – CONTROLLO


Generalmente, quando si incontra un compagno di vita, lo si considera di primo acchito una gran bella seccatura.
K-2SO, allora conosciuto dal gruppo di Tylan Halos con lo sgraziato appellativo di Kappa-e-basta, era un droide di sicurezza dei tempi delle Guerre dei Cloni, un vecchio modello che qualcuno era stato in grado di recuperare e riprogrammare a dovere. In altre parole: una gran bella seccatura che cigolava sinistramente ogni qual volta pensava di spostarsi per degnarci della sua indesiderata presenza.
Ricordo che passai i primi giorni sull’Andor a chiedermi quale fosse, a conti fatti, l’effettiva utilità di un droide di sicurezza per una banda di ribelli, senza mai riuscire a giungere a vera una conclusione. Dopo tanti anni con Kappa, sono convinto che la risposta sia la più semplice: la compagnia. Senza Mariceli, Tylan Halos si sentiva solo. Kappa gli serviva per non perdersi, anche se la cosa comportava la stretta vicinanza a un soggetto scorbutico e pedante come quell’unico droide che la squadra era riuscita a rimettere insieme.
Posso assicurare, però, che la sua presenza è tutto fuorché sostituibile: una volta lavorato al fianco di quel droide, è impossibile tornare a farne senza. Dopo i viaggi con Halos, non l’ho visto per due anni o giù di lì e mi è sembrata un’eternità.
Quella notte, la prima che passai a bordo dell’Andor, Tylan Halos mi lasciò solo con lui. Mi dovetti sorbire un giro guidato del mercantile, che all’epoca mi pareva la nave più grande della galassia, con tanto di commenti seccati su quanto fosse sminuente per un droide di sicurezza del suo altissimo e pregiatissimo livello doversi occupare di un ragazzino.
«Sai, a me i ragazzini non piacciono per niente» continuava a ripetere. Poi, di colpo, si fermava davanti a una porta, la spalancava e mi invitava a osservare la stanza dalla soglia. «Questa è la sala motori», diceva, oppure: «Qui è dove teniamo il cibo. Non rubarlo», o ancora: «Gradirei che non toccassi quel pannello di controllo vocale, ci sono alte probabilità che tu lo rompa» (e infatti la settimana dopo lo distrussi senza posibilità di recupero versandoci sopra dell’acqua bollente).
Ero a dir poco indignato del trattamento che stavo ricevendo, ma la mia eccitazione mascherava fin troppo bene ogni sentimento negativo.
Non ero mai stato su una nave così grande.
Seppur vecchia, l’Andor disponeva di due enormi sale motori, una stazione di controllo computerizzato, tre camerate per l’equipaggio, due hangar di carico e due porti di fuga equipaggiati con navicelle armate. Era un po’ traballante (e sono convinto che questo fosse uno dei motivi per cui Halos la amava così tanto), ma fu per anni la nave migliore su cui mi capitò di imbarcarmi. Più o meno.
A seguito della nottata di esplorazione, lasciammo l’hangar su Fest di prima mattina, dopo che Cunha mi ebbe tirato giù dalla branda a calci per mandarmi a scrostare il ghiaccio dal vetro della plancia.
«Ma non potevate tenere il riscaldamento acceso?» mi lagnai, tremante e con in mano nient’altro che un raschietto elettrico.
“Tuo padre non si lamentava mai” mi fece presente Cunha dall’altoparlante, e questo bastò a zittirmi definitivamente. Vivevo ancora nel suo ricordo lontano e sbiadito dell'eroe che non mi aveva visto crescere.
Al mio rientro, venni spedito a fare da assistente di volo nella sala comandi, dove il Capitano Halos mi mise una coperta sulle spalle e mi porse una tazza fumante. «Scaldati e fa’ colazione» mi disse, ma l’occhiata devastata che gli rivolsi dovette divertirlo parecchio, poiché scoppiò a ridere facendo tremare persino Kappa. «Non guardarmi così che mi sembri un fesso!» esclamò, portandosi una mano alla fronte. «Sei un pezzo di ghiaccio, per la miseria! Bevi!»
E così, equipaggiato con coperta e bevanda calda, col naso ghiacciato e le guance che bruciavano dal freddo, lasciai Fest per la prima volta in tutta la mia brevissima esistenza.
Ricordo che Cunha e Kappa litigarono per tutto il viaggio sulle rotte, sull’iperguida, sulla nave, sulle tempistiche … a voler essere oggettivi, non riesco a pensare a un argomento su cui non litigarono. Il Capitano Halos, chiuso in un guscio di ottimismo e spiccata voglia di farsi gli affari suoi, continuò a ridere con bonarietà, mitigando di tanto in tanto l’astio con una pacca sulla spalla o una battuta di dubbio gusto morale. Alla fine si alzò, sospirando, e si ritirò nella sua cabina.
Tornò poco dopo con un fucile tra le mani.
«Ehi, ragazzo» mi chiamò, facendomi cenno di raggiungerlo sul retro della plancia, alle spalle di Cunha e di Kappa. Mi porse il fucile con solennità, accompagnando quel gesto con un sorriso gentile. «Cunha mi ha detto che ieri era il tuo compleanno» disse.
Incredulo, presi in consegna l’arma, un fucile E-11 caricato al plasma.
Di primo acchito, pensai che il freddo mi avesse fatto venire le allucinazioni.
Mai, mai avrei pensato di poter mettere le mani su un tesoro simile. Al confronto, l’E-5 che avevo alla cintura era un temperamatite.
«Ma …» cominciai, incredulo. «Posso tenerlo?»
Il Capitano Halos annuì. «Non avrai pensato che ti avrei lasciato fare scendere da questa nave con quel cosino che ti porti appresso, no? Mica ti mando a morire!»
Dovetti dargliene atto.
Nei due giorni seguenti, chiuso con Kappa in uno degli hangar di carico appositamente svuotato, mi esercitai a sparare con il mio fucile nuovo di zecca.



*


Tre giorni dopo la partenza e con non poche difficoltà a far procedere una precaria pace tra pilota e droide, approcciammo con soddisfazione il Sistema di Rasp.
Ancora oggi, ad anni dalla sua completa bonifica, la Luna 4 è un luogo fin troppo caldo per chi è nato su Fest. Di natura sono freddoloso, amante delle giornate calde come quelle di cui godiamo su Yavin 4, eppure mi è difficile pensare a qualcosa di più soffocante e insopportabile del clima di quel satellite percorso nel sottosuolo da canali di gas rovente. Fortunatamente, la nostra sosta non durò a lungo.
Scendemmo dall’Andor con le armi pronte a far fuoco su almeno un plotone di imperiali, ma ci trovammo soli con la sabbia alta fino alle caviglie, sudati e senza un briciolo di gloria.
«Siamo nel posto giusto?» chiesi immediatamente, preparandomi a fare fuoco su un nemico che immaginavo uscire da un momento all’altro da dietro una delle dune di ferro che ci circondavano su ogni fronte.
Kappa mi superò sferragliando nel deserto. «Questo posto è abbandonato» spiegò, pratico. «Serviva per inviare le trasmissioni dal Sistema di Rasp all’esterno, ma adesso hanno costruito le stazioni direttamente sul pianeta, e gli specchi sono diventati inutili. Se glieli rubassi, non se ne accorgerebbero nemmeno».
Ero esasperato. «Perché devi sempre sottintendere che sono qui per rubare?» sbottai.
«Perché dubito che quel blaster E-5 ti sia finito in mano da solo, ad esempio».
«Kappa, chiudi la bocca» intervenne il Capitano Halos, portandosi in avanscoperta con circospezione. «Questo luogo non è di alcun interesse per l’Impero, perciò giochiamo con il vantaggio che non si aspettano di trovarci qui. Sono comunque imperiali, ragazzi. Non facciamoci distrarre».
Cunha sospirò. «Io non capisco una cosa» fece presente. «Mariceli ti ha fatto sapere che arriverà qui con un controllo tecnico. Se questo posto non serve a niente, cosa vengono a controllare?»
Il capitano alzò le spalle. «Non ne ho idea, Cunha. I nostri contatti non sono mai stati così stabili da potermi spiegare tutto nel dettaglio. Dobbiamo soltanto avere fiducia».
Mi voltai verso il nostro pilota e lo osservai a lungo. Il suo viso, corrucciato in un’espressione strana, pareva ancora più scontroso del solito. Però c’era dell’altro. Lo capii guardandolo caricare il fucile: il suo dubbio era che fosse un’imboscata, che Mariceli, chiunque fosse, avesse tradito il suo gruppo. E che, per qualche strano motivo, questi pensieri non potessero essere espressi ad alta voce in presenza di Halos.
Setacciammo l’area, valutando dove piazzare la vedetta (Kappa) e dove invece posizionare i cecchini, che per l’occasione saremo stati io e Cunha. Halos, a detta sua, si sarebbe occupato di aprire la via.
Le dune di ferro che si ergevano a coprire l’Andor erano roventi, calde abbastanza da cuocervi sopra il pranzo senza bisogno di ricorrere alla cucina della nave. Con somma tristezza, constatai che da quelle piccole alture si godeva della visuale migliore sui vecchi pannelli di controllo degli specchi. Se c’era un posto in cui valeva la pena appostarsi, doveva essere quel forno. Sopraffatto dall’afa, decisi di farmene una ragione.
«Andor 5 a squadra» dissi, parlando nella trasmittente che mi era stata data in dotazione prima di scendere a terra. «Ho trovato la mia postazione. Attendo il segnale».
Passai un istante in silenzio accovacciato sulla duna rovente, angosciato e sfatto dalle temperature estreme, attendendo una risposta nel calore del mio fiato che si infrangeva sul bavero della giacca.
“Capo Andor ad Andor 5” trillò poco dopo la voce del Capitano Halos. “Ti vedo bene, sta’ più indietro. Il segnale lo darà Andor 3, per cui attenzione tutti. Siamo nelle tue mani, Kappa”.
Obbedii. Abbracciando il mio fucile, rotolai su me stesso, buttando il capo indietro e sollevando il viso verso il cielo scuro che ci sovrastava. Non c’erano luci ad illuminarlo. Tutto sembrava in attesa.
«Ragazzo, non ti addormentare che tra tre ore entriamo in azione!» disse improvvisamente la voce del Capitano Halos. Vivacemente, l’uomo sbucò da sotto il profilo della collina con un vecchio fucile caricato in spalla e un altro legato a tracolla. «Cunha lo sa già, perciò lo dico anche a te». Mi fece cenno di raggiungerlo, dopodiché mi indicò lo spiazzo di attracco attorno al quale ci eravamo disposti. «La nave sarà là» mi spiegò, serio. «Scenderanno Mariceli, ossia il nostro agente, un ingegnere, un caposquadra e un piccolo plotone di cinque guardie armate. Io punterò all’ingegnere e al caposquadra, tu e Cunha dovrete stendere il plotone. Il segnale lo darà Kappa, non ci devono essere colpi di testa. Chiaro?»
Annuii. «È come nell’FRG» dissi, memore dei tempi in cui i miei due compagni facevano tutto e io dovevo semplicemente starmene da parte a fare da palo.
Il Capitano Halos sorrise. «Cunha mi ha detto che nell’FRG facevi quel che ti passava per la testa» rispose, risoluto. «Non azzardarti neanche per idea. Se uno di voi muore, moriamo tutti. Hai la responsabilità della tua vita quanto della mia, non dimenticarlo. Ora, c’è un’altra cosa che mi devi promettere».
Lo guardai. «Che cosa, Capitano?»
«Io e Cunha non siamo bravi tiratori, quindi non potremmo farlo comunque. Questo sarà il tuo compito speciale, il nostro segreto. Intesi?»
«Intesi».
Halos mi appoggiò una mano sulla spalla e assottigliò gli occhi grigiastri. «Se le cose andassero male e gli imperiali dovessero riportare Mariceli sulla nave, voglio che tu provveda a non dargliela vinta».
Faticavo a seguire il discorso. «Dovrei sparare a un amico?» domandai. Non ero certo di quello che mi volesse dire.
Il Capitano Halos annuì. «Sarebbe fargli un favore, ragazzo» rispose. «Quando quelli là capiscono che li hai presi per i fondelli per così tanto tempo è meglio morirgli davanti che tornare alla base con loro». Dall’aria contrita che assunse, capii che il suo problema non stava tanto nel prendere la mira, quanto nel premere il grilletto.








note

Secondo capitolo che in realtà doveva comprendere anche un incontro vero e proprio ma che altrimenti sarebbe diventato troppo lungo e che quindi ho deciso di spezzare incasinando tutto come al solito ma bene così, il lato è oscuro (cit.)!

Dunque, dunque, dunque.
Dunque.
Io volevo ringraziare tutti per l'entusiasmo con cui avete accolto la mia idea mentecatta ... sul serio, solitamente non mi si fila mai nessuno quindi siete tanto tanto carini ❤
Per il resto, grazie per essere arrivati (di nuovo) fin qua. Dal prossimo capitolo (cioé quello che doveva essere la seconda parte di questo ma vabbé), prometto che ci sarà molta più azione in più, con l'entrata in campo di uno dei personaggi più importanti della storia. Quindi dita incrociate, che magari ce la fo.

Cricetini,
Lechatvert



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Capitolo 3
*** parte terza – sei solo? ***


saboteur



«Buongiorno».
«Buongiorno a lei!»
«Orin Halos?»
«In persona. Con chi ho il piacere?»
«Generale Davits Draven».
«Generale Draven? Ma pensa. Posso esserle utile in qualche modo?»
«In effetti sì. Ha mai sentito parlare del Capitano Cassian Andor?»
«Con rispetto, Generale, chiunque ne ha sentito parlare».
«Ha lasciato una cosa per lei».
«Per me, Generale?»
«Tredici anni fa, sì. Gliel’avremmo consegnata prima, ma non siamo mai stati in grado di rintracciarla».
«È che mi piace farmi i fatti miei».
«Immagino abbia senso. Bé, ora è qui, quindi …»
«Posso dare un’occhiata?»
«Prego. È il backup di una scheda madre».
«Tutto qui?»
«Ora che me lo chiede, ricordo una certa conversazione a riguardo».
«La ascolto».
«Quando mi venne affidata, chiesi al Capitano Andor cosa contenesse».
«E cosa le disse?»
«Disse che conteneva la verità».











PARTE TERZA – SEI SOLO?


Andò tutto a rotoli quando la nave imperiale capì in anticipo di non essere sola sulla Luna 4 e decise di fare il giro lungo per raccattare truppe sul satellite adiacente.
Noi, che naturalmente non avevamo idea del pandemonio scatenatosi sul fronte nemico, cademmo inesorabilmente in trappola come bambini attirati da un pugno di dolciumi.
Fu la prima volta in cui mi trovai vicino abbastanza ad un clone da vedere attraverso le piccole fessure della visiera, stretto a lui in un abbraccio di lotta così duro da incrociare i suoi occhi spaventati tanto quanto i miei.
Fu il giorno in cui mi trovai davanti alla verità di stare lottando contro un essere vivente e non contro un bieco ideale.
Queste sono comunque considerazioni che vennero a posteriori, anni dopo quel rovinoso salvataggio nel deserto. Quel giorno, provai soltanto compiacimento.
Ma andiamo con ordine.
Un esasperante quantitativo di tempo dopo l’ora stabilita per l’incontro, me ne stavo lì sulla cima della mia duna con addosso l’impressione di stare rosolando a cottura lenta, pericolosamente vicino a provare quello che deve provare un arrosto in forno, quando la trasmittente fece passare la metallica voce di Kappa che, credemmo tutti, portava il messaggio della salvezza.
“Vedo navi in avvicinamento, Tylan”.
Rotolai sulla pancia, pronto a fare fuoco non appena avessi ricevuto l’ordine.
La voce del Capitano Halos portò il panico.
“Navi? Kappa, cosa vuol dire navi? Ce ne doveva essere solo una!”
Non feci in tempo a realizzare di essere caduto in trappola. Come alzai il capo per guardare attraverso il mirino del fucile, sentii un improvviso peso all’altezza del polpaccio e, prima che potessi anche solo pensare di voltarmi per scrollarmi di dosso qualsiasi cosa si stesse accanendo contro il mio stivale, venni trascinato all’indietro, costretto ad abbandonare la mia nuovissima arma lassù dove rimase per sempre.
Realizzai di essere stato attaccato soltanto dopo un paio di capriole e, incapace di ribellarmi e preda inesorabile del panico, rotolai giù dalla duna.
Il clone che mi aveva trascinato via dalla mia postazione era ancora saldamente attaccato alla mia gamba, ostinato nel volermi trascinare quanto più lontano possibile dalla cima della duna.
Iniziai a dimenarmi, scalciando e graffiando l’aria con tutta la foga che riuscii a trovarmi dentro. “Prima missione fuori da Fest e muoio” continuavo a pensare, ossessivo mentre mi aggrappavo alla vita. “No, no, no!” E, rinunciando anche all’ultimo grammo d’aria che avevo nei polmoni, mi misi a gridare come uno squilibrato.
Forse grazie alla sorpresa di quell'urlo, svincolai alla presa del mio nemico e gli rotolai letteralmente sopra, schiacciandolo con l’esiguo peso del mio corpo. Dimenticai di avere un blaster appeso alla cintura e iniziai a prenderlo a pugni. Sull’elmo, sul petto coperto di ferro, ovunque mi capitasse di arrivare a colpire prima che lui iniziasse a rispondere. Mi ferii le nocche, ma sul momento non me ne accorsi nemmeno.
La gloria durò poco.
Come l’uomo sotto di me capì di avere a che fare con un ragazzino smilzo alto meno di un metro e settanta, non si risparmiò di colpirmi.
Mi arrivò una gomitata in piena faccia che mi riempì la bocca del sapore ferroso del sangue, seguita immediatamente da un pugno in pieno stomaco.
Caddi all’indietro, ruzzolando di nuovo tra la sabbia, e, nella disperazione, sentii chiaramente il rumore del blaster al plasma in carica.
Adesso muoio” pensai, spalancando gli occhi in un gesto che allora mi parve di ardito coraggio. Perché le persone morivano con gli occhi chiusi, credevo, e tenerli aperti era come sfidare la vita.
Guardai il mio nemico dritto in faccia, aspettando il colpo che mi avrebbe ucciso. Non provai alcun rimorso. L’unico rimpianto che sentii bruciarmi nel petto fu quello di non essere a casa.
Eppure mi salvai.
Un colpo di blaster seccò il clone nell’esatto istante in cui stava per premere il grilletto, attraversandolo da parte a parte con il lieve sibilare del plasma.
Incapace di fare altro se non guardare un uomo morire, restai immobile dov’ero, inginocchiato tra la sabbia come una cartaccia sgualcita.
Alla mia sinistra, malfermo sui suoi stessi passi, comparve un ingegnere imperiale. «Sei solo?» mi chiese, abbassando il fucile che mi aveva appena salvato la vita. Mi raggiunse e mi porse la mano inguantata per aiutarmi a rimettermi in piedi.
Io lo guardai a lungo, prima di accettare e appoggiarmi a lui per ricompormi. Attraverso il suo casco integrale, sentivo il suo respiro lento e calmo infrangersi sul metallo della visiera.
«Sono solo» mentii. «I miei compagni mi hanno lasciato qui tre giorni fa». Nella mia ingenuità di ragazzino, non mi stranì il fatto che un ingegnere avesse appena sparato a un soldato per salvare la vita di un perfetto sconosciuto. “Mi avrà visto indifeso” pensai, e tanto mi bastò per cercare di non far finire nei guai anche il Capitano Halos e gli altri.
Apparentemente convinto dalla mia risposta, l'ingegnere annuì, facendomi cenno di seguirlo. Aveva abbassato l’arma, il che mi lasciò fantasticare su un possibile tentativo di rubargliela e ribaltare la situazione a mio favore. 
«Sono affamato» presi a lamentarmi, provando in tutti i modi di apparire quanto più abbandonato mi fosse possibile. Considerate le condizioni in cui mi trovavo, sudato e coi calzoni pieni di sabbia, dovetti apparire piuttosto convincente. «E ho sete. Hai dell’acqua?»
L’ingegnere ignorò i miei tentativi di impietosirlo. «Hai detto che sei solo?» mi chiese, sottovoce. Il suo tono era rauco, secco, come se gli dolesse la gola.
Io annuii cautamente. «Ci eravamo fermati qui per …»
“Andor 3 ad Andor 5. Nessuno ti vede più alla tua postazione. Tylan ha detto che poteva esserti successo qualcosa, ma mi sembra più probabile che tu te la sia data a gambe portandoti dietro anche il nostro fucile. Comunque, chiedo conferma della tua effettiva incolumità. Se sei vivo, rispondi. Grazie!”
Sgranai gli occhi e, per qualche motivo, capii che sotto al suo casco l’ingegnere stava facendo lo stesso.
Improvvisamente, mi ricordai del mio blaster E-5. Lo sganciai dalla cintura e lo puntai contro l’uomo, pronto a fare fuoco. «Sono un tiratore!» lo avvertii, tremante come una foglia al vento. «Non posso sbagliare!»
Senza neanche degnarsi di commentare la mia infelice uscita, l’ingegnere scosse il capo. «Aspetta, parliamone» rispose. Alzò le mani in segno di resa, sospirando rumorosamente attraverso il casco. «Ho sentito Andor 3? Quello era Kappa?»
Sgranai di nuovo gli occhi. «Mariceli Solpea!» gridai, sollevato e incredulo al tempo stesso. Parlai come se conoscessi quel nome da tutta la vita. «Sei tu!»
Annuendo, l’ingegnere si levò il casco.
Scoprii in quel modo che Mariceli Solpea, l’agente che il Capitano Halos aveva mandato sotto copertura per più di un anno tra le fila dell’Impero nel centro di detenzione di Rasp, il commemorato genio che “aveva un talento naturale per quel genere di affari” era, di fatto, una ragazza più vecchia di me di al massimo cinque anni (quasi nove, in realtà, ma la divisa dell’Impero la ringiovaniva).
La fissai, inerme e con il blaster ancora alzato su di lei, incapace per l’ennesima volta in quella giornata di esprimere un pensiero sensato.
Di contro, la sua testa pareva funzionare molto più velocemente della mia.
«Quel coso lo sai usare o lo tieni al collo e basta?» mi chiese.
Scossi il capo per destarmi dai miei stessi pensieri. «Come?»
«La trasmittente. Tylan ti ha spiegato come si usa?»
«Io non …»
Poco diplomaticamente, mi strappò la trasmittente dal collo e mi fece anche cadere il blaster.
«Andor 2 ad Andor 3, rispondi. Tutta la squadra è in pericolo. Evacuazione immediata. Ripeto: evacuazione immediata».
Kappa non si fece attendere. “Metto in moto la nave, Mariceli. Anche se pare proprio che tu sia l’unica buona notizia della giornata. Hai già incontrato Cassian? È un ladro che Tylan ha avuto la brillante idea di portarsi dietro”.
Ci capivo sempre meno. Stufo di avere la stessa utilità della sabbia in cui stavo affondando, mi feci avanti e mi ripresi la trasmittente con un gesto secco.
«È mia» dichiarai, offeso.
Mariceli Solpea mi guardò con l'insofferenza con cui si guarda un bambino irriverente, ma non ribatté. Si infilò la mano in tasca, invece, e la estrasse per consegnarmi un disco dati. «Come ti chiami?» mi chiese, porgendomelo.
Io non mi mossi. «Cassian» risposi. «Cassian Harkor».
«Bene, Harkor. Adesso tu prendi questo e corri come se ti stessero per spellare vivo, va bene? Ho rubato un guscio di salvataggio e rapito quel clone per arrivare fin qui e ti assicuro che lassù saranno tutti parecchio arrabbiati. Tu datti da fare; io ti sto alle spalle e vedo di non farci morire». Recuperò il fucile sulla sua spalla e si mise a trafficare con l’otturatore.
«Ferma!» gridai, inorridito quando la vidi aprire senza alcuna cura la culatta per liberarla dalla sabbia. «Non si fa così!»
Lei mi gettò addosso un’occhiata colma d’ira. «Vuoi correre o no?!» gridò. «Forza! Andate a far partire quella maledetta nave!»
Non sapevo neanche da cosa dovessi correre, ma me ne feci un’idea abbastanza precisa poco dopo, quando uno stormo di caccia TIE mi superò velocemente mancandomi di qualche abbondante metro per pura bontà del destino.
Terrorizzato, aumentai il passo.
Ero già a metà della duna quando il Capitano Halos mi venne incontro, superandomi dalla parte opposta con il fucile sotto l’ascella. «All’Andor!» gridò, dandomi una manata sulla spalla che mi fece scalare il resto della salita con la sola forza della spinta. «Forza! Io penso a Mariceli!»
Non trovai il tempo di protestare.
Raggiunsi la nave che i motori erano già messi in moto, il portellone quasi del tutto alzato e le ancore di gravità ritirate da un pezzo.
«Benvenuto a bordo» mi salutò Kappa quando mi vide spuntare sulla plancia. «Terras, comincia pure con la salita».
«Ma sono ancora là sotto!» gridai.
Terras premette un paio di bottoni sul tavolo di guida e mi rispose senza neanche degnarsi di voltarsi: «Calmo, Cassian, adesso vediamo che fare».
Sentii l’Andor alzarsi in volo. Disperato, mi appiattii contro il vetro, cercando con lo sguardo i nostri due compagni rimasti indietro. «Laggiù!», gridai, indicandoli mentre goffamente arrancavano tra la sabbia nel tentativo di tornare da noi. «Cunha, valli a prendere!»
«Ci proviamo, Cassian. Ma, per la miseria nera e ladra, sta’ zitto».
«Non mi sembra una manovra sicura da fare» commentò Kappa.
«Vale anche per te» rispose con diplomazia Cunha. Si voltò finalmente verso di me e mi fece cenno di abbandonare la plancia. «Va’ alla rampa e aiutali a salire» mi ordinò. «In fretta, su!»
Quando l’Andor atterrò su di loro, il Capitano Halos e Mariceli Solpea mi trovarono proprio sull’apertura della rampa con il braccio teso verso di loro per recuperarli tra la sabbia della Luna 4.
Mariceli si allungò su di me e io la tirai su, portandola definitivamente in salvo sulla nave con un gesto che mi fece cadere seduto sul pavimento. Il Capitano Halos, facilitato dalla sua colossale statura, ci raggiunse con un balzo agile e lesto.
«Ci stanno dietro!» gridò, fiondandosi sulla scala della plancia con la stessa foga di una tempesta. «Fuoco ai motori, Cunha! Siamo di troppo!»
Con il corpo in preda ai deliri dell’adrenalina che faceva pulsare ogni mia singola vena con un entusiasmo che non sapevo di poter provare, mi voltai a guardare Mariceli, ancora raggomitolata accanto a me con la mano destra artigliata attorno al mio braccio.
Mi parve improvvisamente più adulta di quanto non avessi notato tra la sabbia, contrita in un’espressione di dolore sul viso pallido e dai lineamenti duri. Aveva una faccia come tante altre, cerchiata da una chioma di capelli color ruggine che le cadevano disordinati sul viso incavato di occhiaie.
«Stai bene?» le chiesi.
Lei annuì. «È la solita gran scocciatura» sbuffò, mollando finalmente la presa sul mio braccio per andarsi ad asciugare le piccole lacrime di dolore che le rigavano il volto.
Abbassando lo sguardo, capii al volo sia il motivo per cui poco prima mi aveva affidato il disco facendomi da copertura, sia quello per cui il Capitano Halos era tornato indietro a prenderla.
Il suo piede destro, seppur ben stretto nello stivale, era completamente torto verso l’interno.







note

Per chi come me non si ricordasse di quel maledetto farabutto gentile e dolce signore: il Generale Davits Draven è codesto individuo, amato da tutti e per niente da biasimare. *rancore mode: ON*
Capitemi, è ancora una ferita aperta. Uno non può ordinare di sparare a Mads Mikkelsen così.  Insomma.

Ordunque, finalmente un po' di scazzottoni. Come dicevo, questa doveva essere la seconda parte del secondo capitolo, dilungatasi a tal punto da meritare tutto questo spazio per sé.
E niente ... ora la squadra è al completo! Andor-da-capo-a-cinque, per ora sani e salvi. Il mood del momento è molto Mushu commosso, ma mi darò un contegno.
Ecco finalmente i miei personalissimi ribelli! Spero che piacciano a voi quanto sono piaciuti a me assieme a Cassian e a Kappa.

Come sempre, voglio ringraziare chi ha commentato, chi ha seguicizzato, preferizzato, e anche chi ha letto questi primi tre capitoli. Siete meravigliosi e questo fandom è davvero carino e coccoloso ♡

Tartarughini,
Lechatvert



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Capitolo 4
*** parte quarta – blu ***


saboteur



«Oggi mi sembri più sulle tue del solito».
«È un giorno come un altro, Kappa».
«Invece c’è un’alta probabilità che tu ti stia logorando con i sensi di colpa. Senza offesa».
«…»
«…»
«Kappa?»
«Sì?»
«Ti avevano programmato per dire sempre quello che pensi».
«È corretto».
«Bene. Allora pensi che sia colpa mia se non ci sono più?»
«Penso che le loro vite avessero una probabilità molto alta di finire in quel modo. Li avevo avvisati della cosa, ma ne erano già consapevoli».
«Volevano vivere».
«Ma lo volevi anche tu».












PARTE QUARTA – BLU


«Non c’è una ragione; è fatta così». Cunha alzò le spalle, servendosi del pane fritto nel piatto appoggiato sopra al pannello dei comandi vocali e spalmandoci sopra una salsa scura dall’aria poco gratificante. «Non è che qualcuno le abbia mai fatto del male, ci è nata e basta. Da piccola era amica di mio fratello; gli aveva fatto credere che se l’avesse toccato anche il suo piede sarebbe finito così. Era terrorizzato».
Affondando il viso nei palmi delle mani, mi ritrovai a sospirare.
Mariceli Solpea e il Capitano Halos erano spariti nella stazione informatica non appena Cunha aveva impostato l’iperguida seminando i TIE con il solo sfregio di un paio di colpi a destabilizzare lo scudo, e da allora non si erano sentiti che lievi sussurri. Parlavano di quel disco dati che mi avevano costretto a consegnare loro non appena ci eravamo trovati fuori dai sistemi, non avevo dubbi. E, ancora una volta, la curiosità mi stava a dir poco consumando.
«Quanto ci metteranno ancora?» sbuffai, infastidito da quel continuo tagliarmi fuori da tutto.
Cunha fece spallucce e passò direttamente a ripulire il vasetto della salsa con il dito. «Fatti gli affari tuoi, Cassian!» mi ammonì. «Sei tale e quale a tuo padre, perciò ti dirò la stessa cosa che dicevo sempre a lui: ficca quel tuo grosso naso da qualche altra parte. Torna a giocare col tuo fucile».
Volsi lo sguardo altrove. Mi bruciava il petto ammetterlo, ma il fucile era ancora un tasto dolente. Non riuscivo a credere di essere stato così stupido da averlo lasciato tra le dune della Luna 4 di Rasp. In compenso, mi era rimasto il mio vecchio e ormai disdegnato blaster.
«Non capisco che abbiano tanto da discutere» sbottai di nuovo, incrociando le braccia sul petto. «Dovrebbero renderci partecipi, non trovi? Mi hanno quasi sparato!»
Cunha si sporse per battermi una mano sulla spalla. «Cassian» disse. «Ora ti dirò una cosa che probabilmente Tylan si vergogna troppo a dire».
Ero tutto orecchi. «Dimmi».
«Mariceli Solpea».
«Sì».
«È sua moglie».
Alzai un sopracciglio, scettico. Era veramente difficile capire quando Cunha stava scherzando, anche perché in genere non lo faceva mai. «Sua moglie» ripetei, quindi, circospetto. Mi aspettavo di essere sorpreso da un momento all’altro dalla profonda risata del Capitano Halos.
Cunha annuì. «Sì» confermò, serio. «E non la vede da un anno. Quindi sta’ buono e non li disturbare, eh? Trovati qualcosa da fare».
Roteai gli occhi. «Almeno mi fai pilotare?»
«Scordatelo».
«E Kappa?»
«Per la miseria, l’ho spento».
«E la nave si guida da sola?»
Con rassegnazione, Cunha scosse il capo. «Tu non ce la fai proprio».
«A fare cosa?»
«A farti gli affari tuoi, maledizione».
Aveva ragione.
Dopo che lo lasciai da solo sulla plancia a godersi il suo pranzo della vittoria per una fuga coi fiocchi giostrata tra gli asteroidi in orbita, approfittai della temporanea assenza di Kappa per ficcanasare laddove non mi era stato permesso ficcanasare la prima volta. Esplorai completamente i porti di fuga per poi passare a una delle sale motori, osservando attentamente tutte le interfacce attivate senza osare neanche sfiorarle. Non riuscivo ancora a capacitarmi di trovarmi su un mercantile di quelle dimensioni.
Passai una considerevole quantità di tempo a fissare gli iniettori intenti a lavorare sopra ai compressori, ascoltando il loro ronzio meccanico coperto di tanto in tanto da quello più macchinoso delle ventole per l’energia al plasma. All’epoca non capivo quasi nulla di motori, né tantomeno di mercantili, ma mi era comunque impossibile non restarne completamente affascinato, così attratto da quel suono sottile da voler a tutti i costi avvicinarmi quanto più possibile per studiarlo.
Mi protesi verso un quadro di controllo, perso nei miei stessi pensieri.
«Fossi in te non lo toccherei».
Allarmato, ritrassi la mano e mi voltai verso la porta chiusa della sala motori.
Mariceli Solpea mi fissava accanto all’interfaccia principale, il viso pallido privo di espressione, il piede storto appoggiato a un bastone da passeggio. Al suo fianco, Kappa muoveva la testa a destra e a sinistra con il solito, fastidioso rumore che emetteva quando i suoi circuiti stavano calcolando un pensiero.
«È sicuramente venuto qui a rubare» commentò, rivolto a Mariceli. «Ho espresso più volte il mio disappunto a Tylan per questo reclutamento, ma non ha voluto sentire ragioni. Il blaster che porta al fianco: ha rubato anche quello».
Lei alzò il capo verso Kappa, mostrandomi il lato sinistro del cranio completamente rasato. Dall’altra parte, invece, i capelli erano lunghi fin sotto alle spalle. «Va tutto bene» disse, voltandosi poi verso di me. «Sono sicura che Willix non intendesse rubare niente».
Sospirai. «È Cassian».
«Cassian, scusa». Mariceli Solpea ondeggiò un poco, tremolante sul suo bastone. «Kappa, ti occupi tu di quelle diagnostiche che eravamo venuti a fare? Ho bisogno di stendermi un poco».
«Come vuoi, Mariceli. Posso farle da solo».
«Cassian, mi accompagni?»
Colsi al volo l’occasione per non restare chiuso da solo nella stessa stanza con Kappa.
Educatamente, offrii il braccio a Mariceli per permetterle di appoggiarsi a qualcosa di meno rigido di un bastone di ferro e varcammo assieme l’uscio, ritrovandoci, porta chiusa alle spalle, davanti al corridoio su cui si affacciava la cabina che io e Cunha dividevamo.
«Tylan mi ha detto che ti sei offerto da tiratore per recuperarmi» esordì poco dopo Mariceli, scoccandomi un sorriso gentile. «Devo ringraziarti, allora».
Alzai le spalle. «Tu hai salvato me con quel tizio. Facciamo che siamo pari».
La osservai.
Portava un cappotto blu dal colletto alto, una specie di divisa militare di un esercito che non avevo mai visto, stretto in vita da un cinturone senza armi appese. Doveva essere molto più alta di me, ma il piede storto la abbassava di almeno una spanna e, nonostante la differenza di età, non mi superava che di un paio di dita. Le gambe, magre e lunghe, restavano leggermente piegate per permetterle di camminare nonostante il difetto fisico.
«È sempre stato lì» mi spiegò, probabilmente intercettando il mio sguardo caduto senza intenzione sui suoi stivali. Con i mesi, imparai che a Mariceli non sfuggiva mai nulla. «Mio padre ce l’aveva uguale. Hanno provato a rimetterlo a posto, ma non c’è modo. Tylan dice che lo potrei sostituire con una protesi, ma a me piace così. Non trovi che sia affascinante?»
Alzai le spalle. «Se lo dici tu».
«Non ti sbilanci, eh?»
Mi fermai. «Cosa?»
«Tu, intendo. Non ti sbilanci. Però ficcanasi, dice Kappa. Sei una spia?»
«Una spia? No, io …»
Mariceli scoppiò a ridere. «Tranquillo, scherzo» mi disse. «Non farfugliare, sembri uno scemo. Siamo pari, no? Non mi devi mica una spiegazione. Lo sapevo che prima o poi Tylan avrebbe trovato qualcun altro. Dev’essere stata dura, da solo per così tanto tempo. Tu e Terras gli avete fatto compagnia?»
Aprii la bocca per rispondere, ma non lo feci.
Tylan Halos era rimasto da solo per un anno intero prima che lei tornasse da lui, e non sarei stato io a rovinargli la copertura. Pensai che, in fondo, era solo questione di tempo prima che Mariceli lo venisse a sapere.
E infatti avevo ragione.



*


Dormire sull’Andor era impossibile.
Di per sé, la nave traballava continuamente, alternando gli scossoni al ciclico e insopportabile brontolio delle sale motori costruite adiacenti alla cabina dove dormivo. Il colpo di grazia, però, lo dava Cunha. Incapace com’era di entrare e uscire dalla stanza senza annunciare a tutto il mercantile i suoi bruschi movimenti, si dava cambio con il Capitano Halos due volte a notte per pilotare, il che frammentava il mio sonno in tanti, fastidiosi incubi che mi vedevano o solo o morto di fame tra la neve di Fest.
Quella notte, vittima dell’adrenalina della fuga ancora in circolo, mi rifiutai di sopportare il rumore che mi circondava e mi obbligai a restare sveglio.
Vagai per l’Andor in cerca di un luogo in cui poter stare solo con me stesso, in cui valutare con lucidità ciò che mi era successo negli ultimi quattro giorni. Avere gente intorno mi straniva ogni secondo di più; cominciavo a sentirmi in gabbia.
Pensai di andare a rifugiarmi in una delle due navette di fuga, speranzoso di non imbattermi in Kappa per non dovermi sorbire un’altra predica sul rubare, e mi affacciai così con circospezione allo stanzone centrale dove si apriva la rampa di accesso in quel momento sigillata.
Tutto taceva.
In punta di piedi, mi accinsi a superare la stazione informatica.
Mi bloccai, colpevole quanto un ladro, quando sentii alla mia destra quello che pensai essere uno scricchiolio di passi, ma mi tranquillizzai quasi subito.
Dalla porta spalancata della stazione proveniva un lieve suono molto più aggradante dei rumori meccanici che solitamente popolavano l’Andor, un suono che anche su Fest era alquanto raro e che con dei passi non aveva nulla a che fare: musica.
Non riuscii a trattenermi dall’affacciarmi.
Mariceli era seduta davanti al computer centrale, una testa minuscola dinanzi a uno schermo enorme, intenta a muovere le spalle avanti e indietro a ritmo della musica ad alto volume che risuonava attraverso le cuffie che portava calcate sul capo. Nel mentre, le sue dita digitavano freneticamente sulla tastiera che avevano davanti.
Senza osare disturbarla, mi portai alle sue spalle, il naso alzato sullo schermo che sovrastava entrambi.
Non mi illusi neanche per un istante che lei non avesse percepito la mia presenza ma, a pensarci ad anni di distanza, credo che la porta fosse stata lasciata aperta per me, quella notte. Come dicevo, Mariceli non si lasciava sfuggire mai niente. Neanche le occasioni.
«Lo so che sei lì» mi disse, togliendosi le cuffie e voltandosi con un sorriso divertito sul viso. «Ti piace la musica?»
Per una volta, la presi con semplicità. «Non particolarmente» risposi. Non chiesi il permesso, ma mi avvicinai e presi posto accanto a lei sulla sedia libera alla sua destra. «Che fai?»
Lei alzò le spalle. «Lavoro. Tylan russa e … credo sia difficile riabituarsi dopo aver dormito da sola per un anno». (Scoprii più tardi che il problema era il sonno in sé, visto che Mariceli non dormiva mai).
Sfoderai un sorriso volutamente impertinente. «Cos’è? Gli imperiali ti mettono ai lavori forzati se russi?»
Mariceli si finse seria, puntandomi addosso quei suoi occhi scuri sottili come spilli. «Peggio» sussurrò, alzando entrambe le sopracciglia.
Non demorsi. «La morte?»
«Non ci sei nemmeno vicino».
«Un pianeta abbandonato con Cunha e le schifezze che si mangia?»
«Che razza di sfacciato, Harkor».
Ci scambiammo una risatina divertita, poi lei si voltò di scatto a controllare che nessuno stesse origliando sull’uscio ancora aperto.
«Vuoi vedere cosa c’era su quel disco che ti ho dato?» mi chiese, poi.
Annuii, incapace di tenermi dentro la soddisfazione di essere finalmente coinvolto in qualsiasi cosa stesse succedendo sull’Andor. Attraverso le cuffie, la musica continuava a coprire i nostri sussurri.
Mariceli tornò a premere tasti. «Dopo sei mesi su Rasp avevo raccolto abbastanza informazioni su come funzionasse questa cosa degli Scomparsi, anche se non riuscivo a capire cosa avessero di tanto speciale» mi spiegò. «I miei colleghi ne sapevano meno di me, e fare domande stava diventando inutile, oltre che rischioso. Così, mi sono ingegnata».
Sullo schermo apparve una lista di nomi.
«Questi sono tutti i detenuti del centro di Rasp dalla sua apertura quindici anni fa fino al mese scorso».
Aprii la bocca, stupefatto. «Come …?»
«Li ho chiesti. Kappa non è mica il primo droide che mi faccio amico, cosa credi. Quelli di sicurezza li fanno tutti uguali. Una volta che capisci come modificarne uno, gli altri vengono da soli. Anche se poi li devi distruggere».
Ero incredulo. «Cosa te ne fai di tutti questi nomi?»
Lei alzò le spalle e digitò ancora. «Niente, nella maggior parte dei casi. La metà di questa gente è morta molto tempo fa. Però, se applichi il filtro giusto, puoi selezionare soltanto quelli che ti interessano. Quelli che sono stati arrestati senza accusa apparente, per esempio».
«Gli Scomparsi».
«Esatto».
Piegai il capo di lato, impegnato a leggere i nomi che mi scivolavano davanti. Chissà quanti di loro avevo incontrato almeno una volta. Di gente che l’Impero si era portato via ce n’era a bizzeffe, su Fest.
«Aspetta» dissi d’un tratto. «Ma se questa gente era nel centro di detenzione … non potevi semplicemente incontrarla?»
«Un aiuto ingegnere tra i carcerati?» Mariceli rise sottovoce. «Per favore. Non ho visto il blocco di detenzione che da lontano. E poi, non sono più su Rasp».
Mi sfuggiva l’utilità di tutta la cosa, al che storsi il naso con disappunto.
Mariceli se ne accorse. «Ho scoperto dove li portano» chiarì. «Alcuni di quelli che non hanno un capo d’accusa che figuri nel file, dico». Si fece un po’ più seria, liberandosi improvvisamente della leggerezza con cui mi aveva accolto nella stazione informatica. I suoi occhi slittarono per l’ennesima volta da me al computer, le sue labbra si schiusero in un sospiro che sapeva di rabbia. Il suo viso, però, rimase atono. «Cassian, ti farò una domanda che forse ti sembrerà poco delicata. Qualcuno dei tuoi parenti è stato arrestato negli ultimi anni?»
Esitai. Erano ricordi che bruciavano ancora. Ferite aperte, fuochi accesi.
Con uno sforzo immane, mi costrinsi ad avere fiducia.
«Sì. Lui è … stato portato via» risposi in un sussurro. «Protestava contro la militarizzazione di Fest».
Mariceli mi rivolse uno sguardo preoccupato. «Il tuo cognome … mi aveva fatto pensare a qualcosa, ieri. Ma non ricordavo a cosa. Ecco, guarda».
Sullo schermo apparve la copia di uno schedario imperiale.
KRASIN HARKOR; fotografia assente”.
Sentii lo stomaco contorcersi nell’angoscia.
«Conosci questa persona?» insistette Mariceli.
Io annuii, ma non le risposi.
«Passò dal centro di detenzione quasi dieci anni fa. Non è uno degli Scomparsi, ma è stato trasferito nello stesso posto dove sono stati trasferiti sette di loro, quindi pensavo che potesse interessarti. Per il recupero».
Ero incapace di articolare una frase di senso compiuto. Temevo che, se avessi aperto la bocca, avrei vomitato sulla tastiera del computer. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era: Krasin Harkor; fotografia assente. Krasin Harkor; fotografia assente. Nella mia mente, lo ripetei finché non mi riuscii più nemmeno pensarlo.
Cominciai a tremare e, non appena lo notò, Mariceli si scostò dalla scrivania per venire in mio soccorso. «Ehi» sussurrò, chinando il capo per abbassarsi e guardarmi negli occhi. «Cuore, stai bene?»
Mi accorsi di non riuscire quasi a respirare. Improvvisamente, ero diventato un pezzo di ghiaccio.
Mariceli mise la sua mano sulla mia e io gliela strinsi più forte che potei.
«Non è un mio parente» sussurrai.
«Come?»
«Krasin Harkor. Non è un mio parente». Deglutii. «È mio padre».








note

Va bene, tralasciando il fatto che sono al quarto capitolo su dodici e ho già finito le idee per il titolo (:D). Tralasciando quello.

Cosine su questo capitolo. Il nome con cui Mariceli chiama Cassian, Willix, è uno degli pseudonimi che Cassian utilizza sotto copertura. Non credo venga detto nel film, ma ho voluto comunque inserirlo perché devo ancora capacitarmi del fatto che il vero nome di Cassian sia Cassian Jeron. Ma chi sano di mente chiama un figlio Cassian Jeron e si aspetta anche di vederlo crescere felice?

Comunque.
Sono curiosa di vedere se qualcuno ha annusato (?) quale sarà la prossima missione. Che poi è ovvio, ma le mie capacità di dialogo al momento sono decedute assieme a ciò che restava della mia voce ◕‿◕ ☆ Le gioie della nnneve (inesistente).

Chiudo e mi do ai mandarini.
Come sempre, grazie a chi legge, chi commenta, chi legge e commenta, chi leggecommentaesegue e tutto il resto. Sono un po' ipocrita perché parlo sempre di fare statue ma a costruire le cose ho sempre fatto pena, ma vi prometto che mi adopererò per mandare a ciascuno di voi un biscotto (spoiler alert: faccio pena anche a cucinare).

Siccome nei saluti metto sempre cose carine, questo giro metto Bodhi perché è la cosa più carina di Rogue One e si merita davvero tutto l'amore che possiamo dargli,
Lechatvert



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Capitolo 5
*** parte quinta – pesi ***


saboteur



«Non ti affezionare mai».
«Capitano?»
«Mi hai sentito, Cassian».
«Tu sei sposato».
«Per questo te lo sto dicendo».
«Dev’essere orribile pensare di poter perdere qualcun altro. Se dovesse morire …»
«Non è questo».
«…»
«La morte non toglie niente».
«Non capisco».
«Sei giovane».
«Spiegami».
«Non è quando muori, che perdi una persona. È quando una persona capisce di essere forte abbastanza senza che ci sia tu a difenderla. Una volta arrivati lì, è andata per sempre».












PARTE QUINTA – PESI


Quando gridava, Mariceli assomigliava in maniera quasi raccapricciante all’allarme difettoso della nostra base su Fest.
Lo realizzai la mattina seguente, seduto al tavolo della colazione assieme a Cunha, mentre lui si preparava una fetta di pane tostato e io facevo i conti con una notte intera passata in bianco, chiuso nella nostra cabina, a fissare il vuoto nel tentativo di non cedere alla disperazione.
Sulla plancia, intanto, il Capitano Halos e sua moglie litigavano così forte da attraversare tutto il ponte fino all’angusta sala pasti. Un risveglio degno di un rientro in patria glorioso, considerai. Più quella missione si avvicinava al termine, più si allontanava da tutto quello che avevo sempre immaginato succedere a bordo delle navi di Travia Chan.
Ma, al momento, me ne importava davvero poco.
«Credi che sia a causa mia?» chiesi a Cunha, preoccupato. Il Capitano Halos aveva fatto intendere con rigida chiarezza che non mi voleva coinvolto negli affari dell’Andor, eppure ero riuscito comunque a metterci il naso.
Il pilota alzò le spalle con aria fin troppo poco interessata. «Io Tylan lo conosco bene» rispose, sospirando pesantemente. «Se fosse colpa tua, saresti di sopra a prenderti le sberle che ti meriti». Mugugnò qualcos’altro circa la poca voglia che aveva di tornare su Fest («ma guarda te se devo tornare a congelarmi il culo. Era meglio se mi sparavano su Rasp»), ma la mia attenzione si era già rivolta altrove e finii per non sentirlo nemmeno.
Senza neanche la necessità di impegnarmi a sgattaiolare via dalla colazione (pasto ironicamente molto sentito a bordo dell’Andor), decisi di tornare alla cabina per dare una sistemata alle mie cose e buttarle nella borsa preparata sul letto in vista del nostro rientro. Feci il giro lungo, passando volutamente sopra alla rampa d’accesso ancora sigillata, e rallentai il passo quando fui in prossimità della scala che portava sulla plancia.
Per origliare, non ebbi neanche bisogno di salire i pioli.
«Erano informazioni riservate, Mari. Non avevi il diritto di sbandierarle a degli sconosciuti».
«Sconosciuti? Tylan, sei ubriaco? È il figlio!»
«Così dice lui».
«Terras lo ha visto crescere!»
Mi appoggiai al muro, in ascolto. Dunque avevo ragione: si trattava di me. La cosa mi fece sentire importante, ma fu un pensiero di cui mi pentii subito.
Dalla voce, il Capitano Halos sembrava furioso.
«Non ti saresti comunque dovuta prendere la libertà di informarlo di tutto. Ha sedici anni, maledizione!» lo sentii sbraitare.
Mariceli non era da meno. «E sta con quelli dell’FRG da quando ne ha sei perché suo padre è su quella lista!»
Mi balenò in mente l’idea di palesarmi per chiarire una volta per tutte il mio misero ruolo a bordo di quel mercantile, ma i toni mi spaventavano, costringendomi ad appiattirmi ancora di più al muro nella speranza di non essere visto.
«È per quelli come lui che sono stata laggiù un anno, Tylan» sbottò Mariceli, muovendosi sulla plancia e alternando i passi al toc sordo del suo bastone da passeggio. «Un intero anno del cazzo a sperare di non svegliarmi morta, e l’ho fatto per loro. Domani potrebbe essere tuo, il figlio di sedici anni con un fucile in mano in mezzo alle dune ad aspettare una zoppa. Ci hai pensato?»
«Non possiamo comunque fare niente senza l’approvazione di Travia Chan».
«Perché, adesso che ha riunito la flotta siamo alle sue dipendenze? L’Andor non è l’Anima. Quelle persone hanno bisogno di noi. So dove sono».
«No, tu starai qui. Con noi. Con me. Agli Scomparsi penserà qualcun altro. Cunha pilota ancora l’Anima, posso mettere una buona parola per lui. Mi ha detto che anche loro a bordo hanno un sabotatore».
Ricalcolai quanto più rapidamente le mie possibilità. Se l’Andor avesse proseguito con la missione, non avrei dovuto far altro che restare attaccato quanto più possibile a Mariceli; se invece fosse passato tutto nelle mani dell’Anima, allora mi sarei dovuto prodigare per entrare nelle rare grazie di Cunha. Per una volta, mi sentivo a buon punto con entrambe le opzioni.
Udii in quell’istante il rumore del comunicatore, segno che avevamo abbandonato l’iperguida  e che, in due ore o poco più, saremmo atterrati su Fest.
“Base a Capo Andor, rispondi”.
Mi irrigidii; conoscevo bene quella voce. Travia Chan.
Tentennante, salii qualche piolo della scala, affacciandomi alla plancia con metà viso e incontrando immediatamente lo sguardo di Mariceli. Dall’espressione che le lessi sul viso, capii che non ero il benvenuto. Rimasi comunque in ascolto, nascosto sotto alla botola.
Il Capitano Halos esitava a rispondere alla chiamata, appoggiato con entrambi i palmi al tavolo centrale e con lo sguardo perso nel vuoto. Alla fine, ordinò a Kappa di stabilire il collegamento. «Qui Capo Andor» sospirò. «Torniamo vittoriosi e senza feriti».
“Non ne dubitavo, Capo Andor” rispose la voce di Travia Chan. “Avete ciò che cercavate?”
Scorsi l’ologramma della donna che guidava il nostro gruppo poco lontano da Mariceli e istintivamente mi ritrassi, spaventato dall’idea che potesse vedermi attraverso il sensore. Non era una persona buona con cui parlare, Travia Chan, anche se combatteva dalla parte giusta. Ancora oggi, ne conservo ricordi contrastanti.
«Abbiamo la lista dei prigionieri» rispose Mariceli, portandosi avanti. «E ho scoperto dove sono stati trasferiti».
“In un anno, Solpea?”
«È venuto fuori che i sistemi informatici imperiali non erano così permeabili quanto mi aspettavo».
“Ci accontenteremo. Tornate a casa, Andor. Da qui in poi procederà l’Anima”.
Il Capitano Halos annuì. «Ricevuto. Provvediamo al rientro».
Mariceli sbottò e batté il bastone a terra. «Con tutto il rispetto, non sono d’accordo» si lamentò. «Sono stata io ad occuparmi di questa operazione fin dall’inizio, senza nulla togliere ai miei compagni. Desidero seguirla fino alla fine».
Vi fu un istante di silenzio, rotto di tanto in tanto dal ronzio della connessione.
“Apprezzo lo spirito di sacrificio, Solpea” rispose Travia Chan. “Ma ti sei già esposta abbastanza. Se qualcuno ti riconoscesse sarebbe vanificato quest’anno che abbiamo appena passato, e tu non sei una persona che passa inosservata, direi. Quanti zoppi si accollerebbe l’Impero? Te ne renderai conto da sola”.
«Insisto, Travia Chan».
“La mia risposta non cambierà per un tuo capriccio; non ho altro da aggiungere. Riportateci Terras Cunha il prima possibile. È tutto”.
Cadde il silenzio.
Dal mio nascondiglio, vidi il Capitano Halos avvicinarsi a sua moglie nell’esitante tentativo di abbracciarla. Lei interruppe ogni proposito alzando la mano e allontanandosi.
«Non te la perdono, Tylan» la sentii sibilare, gelida quanto il vento su Fest. «Se questa è l’Andor, io me ne tiro fuori».




*


Due ore dopo, eravamo tutti e cinque sulla plancia dell’Andor, immersi in un silenzio talmente greve da pesarmi sulle spalle come uno zaino riempito di sassi.
Mariceli e il Capitano Halos si fissavano da una parte all’altra della stanza, astiosi nello sguardo come fuochi accesi, entrambi con le braccia incrociate sul petto e la bocca storta in una smorfia che sapeva di una sfida che entrambi erano intenzionati vincere.
Io, seduto al fianco del capitano, valutavo i danni che avrei potuto accusare in caso di lotta fisica. In realtà, di risse ne sapevo veramente poco, eppure sembravano tutti e due così vicini all’arrivare alle mani che non potei fare a meno di chiedermi quanto velocemente avrei potuto raggiungere la botola di accesso senza prendermi almeno un pugno sul naso.
Ma siccome se c’è una cosa che ricordo bene dell’Andor è che tutti erano talenti naturali nel dire le cose sbagliate al momento sbagliato, quel silenzio che poi mi ritrovai a rimpiangere venne rotto dall’individuo meno indicato presente sulla plancia.
«Comunque, io penso che abbia ragione Mariceli».
Se gli occhi del Capitano Halos fossero stati in grado di sparare tanto quanto lo era il suo fucile, a quest’ora di Kappa non mi sarebbe rimasto che un ricordo sgradevole.
«Visto?» ghignò Mariceli, cogliendo la palla al balzo per gettare altra benzina sul fuoco. «Un droide, un’intelligenza artificiale creata per compensare alle mancanze di quella umana, pensa che io abbia ragione».
Il capitano si piegò in avanti, emettendo un suono roco e poco rassicurante.
Nello stesso momento, io mi guardai intorno alla ricerca di una via di fuga più prossima della botola.
«Questo è troppo». Halos strinse le mani in pugni grossi quanto la mia guancia. «Un’altra parola e giuro che ti rinchiudo da qualche parte».
«Non c’è porta su questa nave che io non sia in grado di buttare giù nel giro di venti minuti, Tylan».
«Lo confermo. Tecnicamente, è stata lei a programmare l’impianto di sicurezza».
«Kappa!»
«Lascialo in pace, sta dicendo le cose come stanno».
Il capitano scattò in piedi emettendo un ringhio di rabbia.
Temendo uno schiaffo volante, mi appiattii contro il sedile.
Mariceli sospirò. «Se Travia Chan mette le mani sui miei file, manderà a morire sia l’Anima che gli Scomparsi. Non sa come funzionano i centri di detenzione imperiali» ci spiegò. «Dobbiamo entrare senza essere visti, cercare quello che ci serve dall’interno. L’Anima può farci da copertura per scappare, ma dobbiamo essere lì prima».
«E come pensi di fare?» le chiese ironicamente il Capitano Halos. «Vuoi infiltrarti di nuovo? Magari stavolta ti porti dietro anche il ragazzino?»
«Cassian è un ladro» fece presente Kappa. «I ladri tornano sempre utili, alla fine».
«Non sono un ladro» protestai magramente, troppo intimorito dai toni per farmi valere come avrei voluto.
Kappa colse la palla al balzo. «Ecco qualcosa che un ladro direbbe».
Mariceli batté il bastone sul pavimento della plancia, richiamando l’attenzione su di sé. «Quando sono andata su Rasp non c’era nessuna Travia Chan o Gruppo Atrivis che tenesse» puntualizzò, serissima. «Chi è stato a sabotare i sistemi di trivellamento su Devon?» chiese. «O a mandare all’aria gli interventi di bonifica su Iridium? Salvasti dei bambini dal reclutamento forzato proprio su Fest, Tylan. Terras era con noi quando abbiamo fatto saltare in aria la caserma di Fodro, e abbiamo Kappa da quando rubammo armi dai magazzini di Gibbela, permettendo a tutti i soldati della base di difendersi durante le missioni. L’Andor non ha bisogno di Travia Chan».
«Le cose sono cambiate molto da quando tu andasti su Rasp, Mari».
«Oh, lo vedo bene. Un anno fa non avrei nemmeno fatto in tempo a fomentarti, che saremmo già stati a destinazione con un fucile in mano».
«Non sai di che parli».
«Lo so molto bene, invece. E tu lo sai quanta gente come noi è passata per Rasp senza che potessi muovere un dito per aiutarla? Per non espormi, per non far saltare la missione. Porca miseria, Tylan, ti è mai passato per la testa che magari non siamo i soli, noi di Fest? La galassia è piena di gente che vuole far saltare in aria l’Impero!»
Ascoltavo con attenzione, facendo saettare lo sguardo dal Capitano Halos a Mariceli come un caccia impazzito.
«Ti ho già detto di no, Mari, e te lo ha detto anche Travia Chan. Per quanto tu ti possa dar pena, accetta che adesso siamo sotto la sua guida. E che il capitano sono io».
Con tutta la grazia che camminare con un bastone le permetteva, Mariceli si alzò dal suo sedile, raggiungendo il centro della stanza per appoggiarsi al tavolo. «Sai che ti dico?» riprese, spazientita. «Fa’ quello che ti pare, Tylan. Con te, senza di te, io vado».
«Giuro, Mariceli, sto per perdere la pazienza».
Kappa si voltò e mi diede una lieve scossa con il braccio proteso verso di me. «Perde la pazienza, dice» commentò, sarcastico. «Io penso che l’abbia già persa».
Sul più bello, quando pensavo che ormai si sarebbero presi per i capelli da un momento all’altro, Cunha ci degnò della sua attenzione con un sospiro quanto mai seccato.
«Tylan, stupido vecchio!» gridò, voltandosi con aria piccata. «La tua donna ha ragione! Ascoltala, una volta tanto. Se li attacchiamo con l’Anima, quelli indovina in che modo fanno sparire i prigionieri se c’è qualcosa che possiamo scoprire da loro!»
Ancora oggi, Cunha apre bocca raramente. Quando lo fa, però, riesce a far rigare dritto chiunque. Con Halos, poi, dava sempre il meglio di sé.
Così, in un paio di frasi convincenti abbastanza da metterlo con le spalle al muro, il nostro capitano si ritrovò improvvisamente con le mani legate.
«Sia chiaro che io non ero d’accordo fin dall’inizio» sbottò. Poi puntò il dito contro Mariceli. «Ma è fuori discussione che tu vada laggiù di nuovo».
Lei alzò le spalle. «Mi pare alquanto palese che è quello che farò, invece» rispose. «O con me o contro di me, Tyaln. Non scenderò a compromessi. Puoi farmi da copertura, oppure puoi stare a casa ad aspettarmi di nuovo. Questa è la mia pista».
«Almeno possiamo sapere cos’hai in mente?»
Mariceli annuì. «Scenderò laggiù, ovviamente. Con Cassian».
Nel silenzio generale e nel vuoto in cui cadde la mia mente dopo quell’affermazione, sentii chiaramente la mano di Kappa raggiungermi di nuovo per chiamarmi. Mi voltai verso di lui di nuovo, allora, fissandolo senza essere in grado di vederlo davvero.
«Prendi nota, Cassian» mi disse, annuendo a scatti. «Questo è come si ammutina Tylan sull’Andor. Con una zoppa e un ladro ragazzino. È quello che facciamo sempre».









note

Il lavoro si sta allungando, le idee pure. Le previsioni salgono da dodici a quattordici capitoli (la buona notizia è che quattordici dovrebbe essere il numero defintivo, se non mi prendo la licenza poetica di fare numero tondo e raggiungere il quindici. In ogni caso, non di più).

Dunque, questo capitolo è stato un po' improvvisato, nel senso che nella versione originale che avevo scritto Mariceli e Cassian dovevano partire con tanti saluti senza convincere nessuno e ciaone. Poi mi sono accorta che avrebbe incasinato soltanto il finale, quindi sono ritornata sui miei passi e ho optato per una comune seppur poco condivisa decisione. In barba al gruppo Atrivis, comunque. (Tipo così).
I prossimi due capitoli, lo anticipo mettendo già le mani avanti, saranno piuttosto tranquilli. Un po' perché una buona missione ha bisogno di una buona vacanza preventiva, un po' perché anche a me piace la pace e la sopravvivenza. Prima della distruzione. (Luna, questa è per te!)

Vi saluto ringraziando e promettendo favori di natura non specificata (?) a chiunque si fermerà a leggere, a commentare, a insultarmi mentalmente e/o verbalmente, a chi mipiacizzerà e via dicendo. Siete tutti space-fantastic!

Continuerò a mettere cose carine nei saluti finché non finirò le cose carine,
Lechatvert



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Capitolo 6
*** parte sesta – silver car crash ***


saboteur



«Non pensi che le somigli, Cassian?»
«Eh?»
«Lo so che lo pensi. Altrimenti non le avresti lasciato tenere il blaster».
«Forse. Non lo so. Non ci avevo fatto caso».
«Io penso che le somigli. E anche tanto».
«…»
«È come se somigliasse a tutti quanti, non solo a lei. Non ti sembra?»
«Un po’, sì».
«Bene».
«Tu credi che …»   
«Mi sento in dovere di avvertirti che questo ha alte probabilità di essere un pensiero pericoloso, Cassian».
«Perché?»
«Perché con l’Andor non è finita bene».












PARTE SESTA –  SILVER CAR CRASH


L’ultima giornata di viaggio passò velocemente, coinvolgendoci tutti attorno al tavolo centrale della plancia per un sentito quanto agguerrito torneo di carte. Cunha mi insegnò a giocare d’azzardo sufficientemente bene da vincere la fondina della pistola di Mariceli, anche se cederla le spezzò il cuore, credo, perché la mano dopo il Capitano Halos non solo se la riprese, ma pensò anche di farmela pagare prosciugando completamente le mie finanze. Alla fine, ero così disperato che pur di restare al tavolo mi giocai anche la faccia. Letteralmente. («Ultimo giro, Cassian. Se vinco questa, ti fai crescere i baffi e te li tieni finché non ti do il permesso di rasarli!» «Ma ha sedici anni! I baffi mica gli crescono!» «Fatti suoi.» «Tylan! Che cattiveria! Che penserà di noi?» «Le regole del gioco sono uguali per tutti!»)
Di buonumore e con le tazze piene del brandy cassandraniano che il Capitano Halos si era portato dietro per festeggiare, superammo il grande ghiacciaio di Fest e atterrammo poco più avanti tra le nevi dell’altopiano sotto il quale si snodava la grande base dell’FRG dove risiedevo.
«Sosta breve!» annunciò con pomposità Cunha, ebbro dell’alcol che si era tracannato ma non abbastanza ubriaco da non sentire il freddo. «Sganciamo la navetta e proseguiamo!»
Prima di lasciare l’Andor, fummo convocati per un briefing sul ponte di salvataggio.
«Ultime cose prima della partenza» esordì il Capitano Halos, serio come non mai in un cappotto che lo rendeva ancora più massiccio di quanto già non fosse. «Primo: so che stiamo andando in una prigione, ma voglio cautela da parte di tutti voi. Non è comunque un gioco; non voglio perdere nessuno». Mi scoccò un’occhiata severa, sospirando con rammarico. «Cercate di non strafare, voi due» si raccomandò. «E soprattutto: basso profilo finché non vengo a prendervi. Mari, ti affido anche Kappa».
Dopo la riunione, lui e Mariceli parlarono a lungo. Lo vidi renderle la fondina che avevo vinto e poi perso, pretendendo scherzosamente un bacio per il favore che le aveva fatto. Si tolse la sciarpa rossa che portava attorno al collo, poi, e gliela avvolse sulle spalle con cura. Lei lo abbracciò in silenzio, stringendolo finché il nostro droide non si intromise per annunciare il bisogno impellente di mettere in moto la navetta.
Fui l’ultimo a ricevere i saluti.
«Tieni gli occhi aperti, ragazzo» mi disse il Capitano Halos, poggiandomi una mano sulla spalla. «In alto il nome dell’Andor».
«E non farti sparare» aggiunse Cunha. «Il mondo a buchi non è bello».
Io annuii. Improvvisamente, mi sentivo carico. «Riporteremo a casa mio padre, Cunha» gli dissi.
Lui non cambiò espressione. «Va’ a fargli vedere come sei venuto su».
Poco dopo, io, Mariceli e Kappa ci sganciammo definitivamente dall’Andor e virammo verso sud a bordo di una delle due navette di salvataggio.
Il piano era stato studiato per essere il più semplice possibile. Il capitano e Cunha avrebbero fatto ritorno alla base per consegnare i rapporti e temporeggiare sulla partenza dell’Anima, mentre il resto della squadra sarebbe atterrato oltre le montagne, prendendosi una settimana per stabilire i contatti giusti e prepararsi alla missione. L’appuntamento era a destinazione, dove io, Mariceli e Kappa saremmo arrivati con due giorni di anticipo per guadagnare le informazioni che ci servivano. Con l’attacco dell’Anima, poi, il Capitano Halos ci avrebbe recuperati e riportati a bordo.
Impossibile sbagliare, stando a come la metteva giù Mariceli. Io passavo da momenti di pura euforia bellica a vuoti di buio e disperazione che mi facevano tremare le gambe. Complessivamente, però, potevo dirmi ottimista.
Quella mattina, quando mi accostai all’unico finestrino della navetta, vidi il sole sorgere sulle grandi vallate che il ghiaccio aveva scavato. C’erano piccole cittadine raggruppate sui verdi pendii delle montagne, e neve sui picchi più alti che non sembrava intenzionata a sciogliersi. Mi resi conto che per tutta la vita avevo agognato di poter partire verso lo spazio profondo senza realizzare che il mio pianeta non era soltanto il ghiacciaio che ero abituato a vedere. C’erano fiumi, campi, fuochi accesi sulle colline che si ergevano tra un passo montano e l’altro.
«È Fest?» mi lasciai sfuggire, affascinato.
Mariceli annuì. «Non lo sapevi?»
Io scossi il capo. «Lo sapevo, ma … non lo immaginavo, credo. È da qui che vieni?»
«No, ma figurati» Mi sorrise, facendomi cenno di sedermi accanto a lei davanti all'interfaccia di comando. Non capii mai quali fossero le sue origini. «Cunha ti ha insegnato a pilotare?»
«Mi hanno fatto provare qualcosa nell’FRG. Ma sempre con i droidi guida».
«Con i droidi, eh?» Si voltò, cercando Kappa con lo sguardo. «Kappa, ti va di insegnare a Cassian come si fa atterrare una navetta?»
Dal fondo dell’abitacolo, il nostro droide emise un suono meccanico del tutto simile a un sospiro rassegnato. «Se posso permettermi, non trovo che sia una buona idea» commentò, avvicinandosi. «Affatto. Tylan vi ha mandati qui per organizzare un attacco, non per schiantarvi su una montagna».
Mariceli rise. «Quanta poca fiducia! A me Cassian sembra proprio un ragazzo sveglio, invece». Si alzò dal sedile, raggiungendo con la punta delle dita inguantate un paio di bottoni sopra alla sua testa. «Ci darà grandi soddisfazioni, vedrai».
Mi fu permesso per la prima volta di mettere mano in completa libertà ai comandi di una navetta. Mariceli mi osservò per tutto il tempo, ma non prese mai il controllo. Lasciò che imparassi a virare, a perdere e riguadagnare quota senza che la manovra appesantisse i nostri stabilizzatori. Alle mie spalle, Kappa commentava di tanto in tanto il mio talento. Dovette per forza dirsene sorpreso.
Sorvolavamo un nodo di vallate prive di neve quando Mariceli riprese i comandi, poggiandomi una mano sulla spalla come a congratularsi del mio lavoro. «Per oggi basta così» mi disse, mite. «Dirò a Cunha di farti da insegnante» aggiunse, dopodiché si appropriò delle cuffie appese sopra alla postazione di guida. «Navetta Andor a base Halos» disse, sospirando. «Ehilà, ehilà. Qualcuno mi riceve? Chiedo permesso di atterrare». Restò in attesa, gli occhi scuri puntati sul soffitto dell’abitacolo. «Va bene, ti ricevo. Ci vediamo sulla pista, allora. Se sto bene? Sì, certo, ma … aspetta, aspetta. Inizio l’atterraggio. A tra poco». Sbuffò, liberandosi dalle cuffie. Poi mi fece l’occhiolino. «Pronto a conoscere un vero centro di detenzione?»
Diffidente, alzai un sopracciglio. «Sarebbe?»
«Casa di Tylan».
Dal rumore che Kappa emise, capii che si trovava perfettamente d’accordo con lei.



*


Mariceli fu la prima a scendere, aprendo la via in quella che scoprii essere la più addestrata e micidiale resistenza in fatto di blocco aereonavale specializzata in placcaggio: i parenti del Capitano Halos.
Di mio, non provengo da una famiglia numerosa. Fin da che riesco a ricordare, sono sempre stato solo con mio padre. Nessun altro. Tuttavia, ora come all’epoca, ho sempre creduto di avere un’idea vagamente verosimile di cosa significhi vivere circondati da molti parenti.
Quel giorno, ogni mia convinzione venne smontata.
Il Capitano Tylan Halos (o, come mi obbligarono a chiamarlo laggiù, Tylan) conviveva in un gruppo di tre casolari di campagna con: madre, padre, tre figli, cinque fratelli e una sorella, quattro cognati, undici nipoti, tre nonni e tre droidi di sicurezza che, per puro gusto del buonsenso, non rassomigliavano a Kappa che nell’aspetto.
All’apertura della rampa della navetta, davanti a noi c’erano tutti e trentadue (anche i droidi).
Fu come andare al patibolo.
Ventinove persone che Mariceli non vedeva da un anno si strinsero attorno a lei e cominciarono a chiamare il suo nome in almeno venti toni diversi, chi con rimprovero, chi con apprensione, chi con semplice e scontata felicità.
I tre droidi, invece, si occuparono di noi. Presero in consegna i pochi bagagli che ci portavamo dietro, ci diedero il benvenuto e provarono a essere cordiali con Kappa, ricevendo da lui soltanto frasi sarcastiche sulle loro scarse abilità organizzative.
«Gente sulla pista d’atterraggio in piena mattinata» lo sentii dire, sconfortato. «Come spezzare le gambe a dei soldati, iniziare a bastonarli e guardarli mentre cercano di scappare».
Non mi sentii mai coraggioso abbastanza da indagare su quell’affermazione.
In compenso, venimmo trattati con ogni riguardo. Eravamo gli eroi che tornavano dalla battaglia: congratulazioni da ogni dove anche se nessuno aveva la più pallida idea di chi fossi, bambini che mi saltellavano intorno in completa ovazione e un paio di pacche sulle spalle che non seppi mai da parte di chi arrivarono. La madre del Capitano Halos mi trovò un letto nello stanzone dove dormivano gli altri ragazzi della mia età, e si applicò personalmente per riempirmi le mani di cibo ogni qual volta riuscivo a capitarle a tiro. («Sei secco come un bastone» mi ripeteva all’infinito, scuotendo il capo e obbligandomi a buttare giù un cucchiaio di minestra dopo l’altro. «Come un bastone!»).
Per le prime tre ore che trascorremmo in quel complesso, Mariceli fu monopolizzata dai figli del Capitano Halos. Non erano bambini suoi, mi spiegò quella notte quando uscimmo per prendere una boccata d’aria e di solitudine, ma di fatto era come se lo fossero. Orin, il più grande, stava imparando a programmare soltanto perché lei gli faceva da insegnante. Aveva undici anni, un’età di tutto rispetto per provare a cavarsela da solo, e, a quanto diceva, in quell’anno aveva imparato anche a sistemare i tre droidi di cui disponeva. Mariceli mi confidò che rivedeva in lui più se stessa che suo padre, ma che non aveva mai trovato il modo giusto di dirglielo. O forse non ne aveva mai sentito il bisogno, non ne era sicura.
Cenammo tutti assieme all’aperto, davanti a un fuoco che i fratelli del Capitano Halos accesero per tenerci al caldo. Le temperature erano più miti che sul ghiacciaio, ma si trattava pur sempre di Fest e, nonostante il brodo di carne, nel giro di un paio d’ore mi sentivo a dir poco congelare.
Battevo i denti quando Mariceli mi raggiunse con una tazza di liquore bollente tra le mani e mi fece cenno di prendere la coperta che portava sulle spalle.
«Non fare complimenti» disse, sedendosi accanto a me. «Mi sa che ne hai più bisogno tu».
Rifiutare una coperta calda non mi era neanche vagamente passato per la testa. Accettai senza nemmeno rispondere, troppo infreddolito per aprire la bocca, e mi avvolsi nel tepore della lana cotta. «Grazie» farfugliai poco dopo, guardando il mio fiato diventare una nuvola nell’aria gelida.
Lei si portò la tazza alle labbra. «Mi dispiace» disse, puntando gli occhi nel fuoco che bruciava a pochi passi da noi. «Mi rendo conto è un po’ affollato. Dovremo sopportare qualche giorno».
Io annuii. «Sai già tra quanto partirà l’Anima?»
«Una settimana e mezzo al massimo, ma devono ancora deciderlo con esattezza. Noi intanto dobbiamo essere pronti a partire».
«Esiste un piano per entrare?»
«Esistono degli amici, più che un piano. Kappa può aiutarci a metterci in contatto con una mia vecchia conoscenza, però …»
Sbuffai. «Però?»
«Non so se ci possiamo fidare».
Calò il silenzio.
«Cassian».
«Sì?»
«Ce la farò, te lo giuro. Ti porterò da tuo padre».
La settimana dopo, imparai che se Mariceli giurava qualcosa, allora tanto valeva mettersi l’anima in pace e aspettare che se la prendesse. Sul momento, nutrivo soltanto la vana speranza di aver messo la mia determinazione nelle mani giuste.
Feci per risponderle, ma la voce di Orin mi bloccò.
«Mari!» gridò, avvicinandosi e portando con sé una squadriglia intera di bambini. «Ce l’hai, una storia da raccontare?»
«Una storia da raccontare?» rispose lei, sgranando gli occhi. Si fece pensierosa per un istante, poi annuì. «Ce l’ho! Vi interessa sapere come ho piantato gli imperiali?»
Senza che me ne rendessi conto, una folla di persone si radunò attorno a noi. Iniziò dai bambini, dai figli del Capitano Halos e dai suoi nipoti, dopodiché richiamò anche gli adulti, gli anziani. Da qualche parte, tra chi ascoltava, captai anche il ronzio degli ingranaggi di Kappa e dei suoi simili.
«Eravamo sulla Luna 4 di Rasp. Bé, intorno alla Luna 4» cominciò Mariceli, facendo cenno a Orin di sedersi davanti a lei. Pazientemente, iniziò a pettinargli i capelli, passandogli lentamente le dita tra le lunghe ciocche rossastre. «Dovevo trovarmi lì con Tylan e gli altri, ma non c’era verso che mi facessero scendere. Allora ci ho mandato dei vecchi droidi di sicurezza con la scusa di un controllo della radioattività». Orin sbuffò, al che lei si mise ad accarezzarlo con più dolcezza. «Come speravo, i loro spettri erano sballati, quindi i computer hanno registrato delle variazioni fuori scala».
«Che significa?» chiese una ragazza poco più grande di me. Quando avvertì il mio sguardo su di lei, mi sorrise con timidezza.
Mariceli si prese del tempo per rispondere, producendo un suono basso come a far intendere di stare pensando a una maniera semplice con cui spiegarsi. «Diciamo che ci sono dei valori che ogni satellite deve rispettare. Se qualcosa sfora, tocca agli ingegneri risolvere il problema. Insomma, dovevo scendere sulla Luna 4 con pochi soldati, quel giorno, ma l’incrociatore su cui mi trovavo era riuscito in qualche modo a captare l’Andor. Gli stavamo letteralmente facendo il giro intorno!» Fece una pausa per prendere un altro sorso di liquore. «E allora pensavo, cosa potevo fare?»
«Che hai fatto?» le chiese Orin, alzando il capo e mostrandomi una nuvola di lentiggini a sporcargli il viso pallido da far paura.
«Ho preso a bastonate un clone e me la sono data a gambe con un guscio di salvataggio».
«No!»
«Già. Solo che nel panico ho anche dovuto rapirlo, il clone. Alla fine, se sono viva è solo grazie a Cassian».
Improvvisamente, mi ritrovai addosso trenta paia di occhi, più sguardi di quanti ne avessi mai ricevuti in tutta la mia vita.
Deglutii, visibilmente a disagio, e di colpo sentii le guance in fiamme. «Veramente credo che sia successo piuttosto il contrario» borbottai, arricciando il naso. «Sei stata tu a sparare al clone, ricordi?»
«Ha sparato a un clone!»
Mariceli rise di cuore. «E quello avrebbe sparato a me se non fosse stato distratto dal cecchino!»
«È un cecchino!»
Di nuovo, ero diventato l’eroe.
Mi strinsi nella mia coperta, ritraendomi mentre chiunque si avvicinava per riempirmi ancora una volta di pacche sulle spalle. Mi arrivarono complimenti da tutte le bocche, più vari gorgoglii ammirati di chi mi invidiava l’abilità di saper sparare con un fucile vero (non ebbi mai l’umiltà di confessare di aver perso la mia prima arma vera e propria su una stupida duna).
Alla fine, quando la folla si fu diradata, la madre del Capitano Halos mi mise in mano una tazza di liquore fumante. «Grazie per quello che hai fatto» mi disse, accarezzandomi il viso e sorridendomi piena di dolcezza. «È anche grazie a te se è a casa».
Mi voltai verso Mariceli, ancora indaffarata a fare treccine dei disordinati capelli di Orin. Quando i nostri sguardi si incrociarono, sollevò entrambe le sopracciglia in un’espressione raggiante. Lasciò andare il figlio di Halos, recuperò la tazza e la alzò sopra al capo. Io feci lo stesso.
Davanti a uno dei cento fuochi di Fest, brindammo segretamente alla riuscita del nostro vacillante piano.










note

Ecco il primo dei due capitoli introspettivi che fanno un po' da stacco tra la "calma" dell'inizio e il disastro della fine. Che non ho ancora programmato nel dettaglio, ma prendiamo per buona l'idea che sarà un disastro. Conoscendomi.
Dunque, ci saranno ancora un po' di gioie. Un po' di quel sentimento che fa sentire le persone a casa anche se sono dall'altra parte del mondo e sono sole come i cani. Un po' di musica, di alcol, un po' di giovinezza. Perché una delle cose che mi ha sempre colpito dei ribelli è che sono quasi tutti giovanissimi, dei ragazzi praticamente (insomma, che mentre io sto qua a fare l'università alla mia età questi già pilotano un caccia!) e allora mi sono detta ... ma dei ragazzi, anche se costretti a vivere in un contesto adulto, non sono alla fin fine sempre ragazzi? E ai ragazzi non piaceva oziare, girare per i prati cantando, sfuggire alle responsabilità? Più o meno, questo è quello di cui tratterà il prossimo capitolo.

Per quanto riguarda questo ... la separazione. Per una squadra, immagino sia fonte di un'inquietudine a dir poco singolare. Vedremo, soprattutto perché non sono ancora arrivata a scrivere il momento in cui si ritroveranno, e ciò mi preoccupa.
Ma intanto godiamoci dei festeggiamenti.

Come sempre ma mai abbastanza, ringrazio chi ha letto, chi leggerà in futuro (perché no?), chi si fermerà a commentare e chi invece dedicherà a questa storia anche solo un pensiero. Tante caramelline per voi <3

Gufetto feliceH,
Lechatvert



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Capitolo 7
*** parte settima – cambio ***


saboteur



«Orin Halos! Ancora qui?»
«Generale Draven, sì. Il mio mercantile fatica a partire. Ancora un po’ e sparisco, giuro».
«Non vedo dove sia il problema. Anzi, mi chiedevo se fosse poi riuscito a controllare quella scheda madre che le avevo lasciato».
«Sono stato parecchio impegnato, in realtà».
«Comprensibile. Mi permette di disturbarla ancora per un po’? Mi è sorta una curiosità».
«Ma si figuri».
«Mi stavo chiedendo … lei lo sa perché il Capitano Andor è così famoso?»
«Bé, per la faccenda della Morte Nera, penso. Non so, non è che glielo si possa chiedere».   
«Intendevo prima di quello».
«Allora non ne ho idea».
«Lei lo conosceva, giusto?»
«Conoscere è una parola grossa. Eravamo ragazzini. Litigammo perché gli rubai un paio di calzini
».
«Interessante».
«Ci prendemmo per i capelli, fu alquanto spiacevole. Comunque; diceva del Capitano Andor?»
«Ah, già. Quando era molto giovane, prima che lo conoscessi, salvò delle persone. Molte persone, a voler essere esatti».
«Non è quello che facevano tutti i ribelli? Salvare persone e tutto il resto?»
«No, ho sbagliato termine. Lui non le salvò. Lui … le
ritrovò».
«Dal nulla?»
«Qualcosa del genere, sì. Le chiamava gli Scomparsi».













PARTE SETTIMA –  CAMBIO


Su Fest, facemmo lunghe camminate.
Lentamente, senza allontanarci troppo dalla fattoria, seguivamo i sentieri sterrati sui colli e ci perdevamo tra l’erba alta, sedendoci quando Mariceli faticava a proseguire e passando ore al freddo a raccontarci storie. Ricordo che congelavo, ma soffrivo di buon grado.
Prima che ce ne potessimo accorgere, i bambini presero a seguirci. Prendevano per mano me o Mariceli, giocavano a catturare gli insetti che uscivano dalle tane nelle ore più calde per godere del sole.
Scoprii che i figli di Halos ammiravano la loro matrigna tanto quanto ammiravano lui. Si strattonavano l’un l’altro per avere l’onore di appendersi ai baveri più lunghi del suo cappotto, lamentandosi quando la sera lei li allontanava per poter raccontare storie che, diceva, soltanto i grandi avevano il permesso di sentire. Allora, davanti al fuoco e circondata soltanto da adulti, si sfogava con timori che erano fatti di speranza, parlava dei morti come se questi la stessero aspettando al piano di sopra per fare una festa, ci confidava il buio ma non dimenticava mai di dipingerlo luminoso quanto una giornata di sole.
Ogni notte, la fattoria era visitata da gente nuova. Vicini di campo, membri del gruppo Atrivis che conoscevano gli Halos prima dell’unificazione, ma anche amici di amici che avevano soltanto voglia di ascoltare una storia.
Mariceli raccontava, non smetteva mai. Certe volte, sembrava aver vissuto più avventure di un libro. E c'erano uomini, c'erano bambini, donne, vecchi. C'erano persino i morti, attorno ai fuochi di Fest, e tutti ascoltavano i racconti di un viaggio che era durato un anno ma che non era ancora finito.
A chi era coraggioso, servivano a prendere sonno.
A chi combatteva da tutta la vita, servivano a far passare la paura.
E Mariceli lo sapeva.
Passarono tredici giorni e ancora non avevamo ricevuto alcuna informazione dall’Andor. Nel bene o nel male, non sapevamo che fine avesse fatto il Capitano Halos.
«Sta bene» mi disse una sera Mariceli, mentre in solitaria esploravamo il crinale di una collina erbosa più lontana delle altre. «Se fosse successo qualcosa avremmo avuto gli imperiali qui da un pezzo».
Io stavo tirando sassolini all’aria, seguendoli con lo sguardo mentre spiccavano il volo per poi venire inghiottici dal verde della prateria che ricopriva il panorama. Avrei voluto provare a colpirli con il blaster, ma l’idea di fare una figuraccia davanti a lei mi imbarazzava soltanto sfiorandomi. «Ma non ti ha detto che avrebbe tardato, no?» considerai. «E se tutta la base fosse stata attaccata?»
«Sei troppo pessimista. Non sono bambini; se la base fosse stata attaccata, ne avremmo comunque ricevuto notizia. Abbi pazienza. E poi, se avessero fatto prigioniero Terras, ce lo avrebbero sicuramente rispedito!»
Eppure, nonostante la risata leggera con cui accompagnò quell’affermazione, le leggevo la mia stessa preoccupazione negli occhi, sottile quanto le sue iridi scure ma non meno profonda, fatta di quel silenzio in cui viveva e di tutto quel sonno a cui, piccata, si ostinava a non concedersi.
Ci sedemmo tra l’erba, gli sguardi puntati al cielo che si stava sporcando di notte. Abbandonati nel verde, sembravamo fantasmi.
«Quando torno qui, finisce sempre che mi manca casa» sussurrò Mariceli, i capelli tinti di rosso dal fuoco che brucia in cielo nelle sere d’inverno. Si sdraiò, e io feci lo stesso. Per un istante, ci perdemmo a guardare la notte calare. «Lo sai?» riprese in un soffio. «Non ci sono i tramonti, da dove vengo io. È come su Rasp. Il sole si ferma sopra al mare, non sparisce mai del tutto. Ogni volta che lo vedo spegnersi, non posso fare a meno a chiedermi se la mattina dopo sarò lì a vederlo sorgere».
Le scoccai un’occhiata divertita. «Hai paura di non vedere l’alba?» ironizzai, troppo acerbo per capire a cosa si stesse riferendo davvero. «Sei stata un anno nell'Impero, e hai paura del sole!»
Lei rise piano, quasi a non voler disturbare la mia ingenuità, ma non aggiunse altro.
D’un tratto, fummo investiti dal rumore graffiante del cinguettare di uno stormo di uccelli invisibili. Voci lontane presero improvvisamente a rincorrersi attorno a noi, risate strozzate assieme a un opprimente fischiare di navi immaginarie che ci sfrecciavano tra i capelli. C’era il suono della pioggia, tra l’erba, eppure il cielo era sereno.
Ancora oggi, lontano dal mio pianeta natale, sento di tanto in tanto la mancanza di quell’orchestra di suoni che dipinge Fest dei disarmanti colori dell'aurora boreale.
Quando fu abbastanza buio da non vedere al di là del nostro naso, il cielo si tinse di verde.
Mariceli e io ammutolimmo.
Restammo a guardare le luci nel cielo danzare lentamente sotto quel suono che era tutto loro, incapaci di pensare, di esprimerci. La volta divenne bianca, rosa, scarlatta; l’aria talmente densa da far credere di poterla afferrare con il pugno chiuso della mano.
Fummo toccati dalle voci di centinaia di spettri, accarezzati dai pensieri che quei colori cantavano attraverso il cielo. Senza provare ad afferrarli, li seguimmo nella loro marcia notturna, la bocca socchiusa nello stupore e il fiato mozzato nello sgomento. Infine, ci rendemmo conto che anche respirare era divenuto di troppo.
Durò quasi un'ora, poi tornò la notte.
L’ultimo ricordo che rimase di quel passaggio furono le linee biancastre che chiudevano la parata con i suoni lontani di una musica che andava svanendo.
Le luci nei cieli di Fest, inarrivabili e di una bellezza quasi spietata, ci si erano appena spente dinanzi.
«Mio padre mi diceva sempre che porta male» sussurrai, una volta che fummo circondati di nuovo dall’oscurità. «Vedere le luci spegnersi, dico».
Mariceli non rispose.



*


Due giorni dopo, ricevemmo un breve messaggio da parte del Capitano Halos.
Tutto bene, diceva, anche se alla base erano finiti con l’impantanarsi in una riunione non proprio pacifica tra festiani e rappresentanti di Mantooine, sfociata tristemente in una rissa vera e propria quando si era cominciato a parlare di risorse belliche. Lui stesso ne era uscito con un fiero occhio nero. Cunha, a detta sua, aveva invece avuto la brillante idea di restarne fuori e farsi pagare da bere dai compagni dell’Anima.
Non riuscii a stupirmene.
“Io e Cunha partiamo con l’Andor tra cinque giorni” si concludeva il messaggio, mostrandolo sorridente con un livido sullo zigomo grosso tanto quanto un grosso pugno. Anche dall’ologramma, l’ematoma faceva il suo effetto. Notai che, quantomeno, fare a botte sembrava avergli fatto ritrovare il buonumore. “Ci hanno anche rifatto la fiancata!”
«La fiancata?» Mariceli alzò il capo dal quadro circuiti spalancato di Kappa, scoccandomi un’occhiata dubbiosa attraverso uno spesso paio di occhiali da vista. «Che è successo alla fiancata?»
Alzai le spalle, facendo il vago. «E io che ne so?» risposi, e tornai a guardare la plancia di comando della nostra navetta, affrettandomi per amor di quiete a spegnere il messaggio registrato prima che il Capitano Halos potesse peggiorare ulteriormente la sua già precaria posizione di comando.
Era notte fonda e io e Mariceli stavamo per partire.
Sentivo le dita implorarmi di mettere in modo e decollare immediatamente, senza attendere il permesso di nessuno. Mi frenava soltanto la consapevolezza che la mia compagna di avventure condivideva la mia stessa impazienza; stava lavorando molto più velocemente di quanto le sue stesse mani riuscissero a fare, sbuffando di tanto in tanto quando qualcosa non le riusciva come doveva.
«Ancora un po’, Kappa» disse, voltando lo sguardo verso lo schermo del computer di bordo. Afferrò le cuffie e si rimise all'opera con la sua adorata musica nelle orecchie.
Piegai il capo. «Che stai facendo?» chiesi.
Lei non diede segno di avermi sentito.
«Backup su disco esterno» mi rispose Kappa, piatto. «E cancellazione dei dati sensibili dalla memoria rigida».
Mariceli gli tamburellò le dita sul cranio metallico. «Hai detto qualcosa?» chiese, togliendosi le cuffie.
«Ho detto: backup su disco eserno e cancellazione dei dati sensibili dalla memoria rigida».
«Ah, già. Così se ti prendono, scoprono poco. E se ti fai del male, abbiamo il disco per ripararti come si deve. Vecchio scavezzacollo, sei in una botte di ferro!» E gli colpì scherzosamente la spalla con il cacciavite che aveva in mano.
Io annuii, appoggiandomi con aria svogliata alla parete. Con poca convinzione, soffocai uno sbadiglio.
«Penso che dovreste dormire entrambi» ci fece presente Kappa, strappando malamente il cacciavite dalle mani di Mariceli e riponendolo con serietà nella cassetta ai suoi piedi. «Con quelle occhiaie che vi ritrovate, al massimo li spaventate, gli imperiali».
Mi passai una mano sulla faccia e sospirai. «Non lo puoi far stare zitto, già che ci sei?» mi lamentai.
Mariceli rise, abbandonando la sua postazione e togliendosi gli occhiali. «Sentiresti la sua mancanza. Vero, Kappa?»
«Non ho intenzione di esprimermi mentre maneggi la mia scheda madre, grazie».
Lavorammo fino alle prime luci del mattino, aiutati di tanto in tanto da uno dei fratelli del capitano e da sua madre che, incapace quasi quanto noi di chiudere occhio, continuò a portarci cibo e liquore per tenerci al caldo.
Io mi occupai controllare l’unica mitraglia di cui la navetta disponeva, constatando come, a conti fatti, era come se partissimo senza neanche un coltello da carne. Ci servivano armi, blaster, fucili. Mariceli disse che ce n’erano due nella sua stanza da letto.
Leggero e a piedi scalzi per evitare di svegliare l’orda di ragazzini costretti a letto di malavoglia, mi intrufolai in casa come un ladro, scivolando al piano superiore con lo stesso rumore di un respiro nella notte.
Nel doppiofondo dell’unico armadio della stanza in cui mi addentrai, come da istruzioni, trovai due fucili e lo stesso blaster di tipo A280-CFE che conservo ancora oggi. Con somma gioia, abbandonai il mio ormai odiato E-5. Quella fu l’ultima volta in cui lo vidi.
Mi riaffacciai al corridoio carico di armi e speranzoso di non aver svegliato nessuno, camminando speditamente verso le scale con il cuore in gola. A ogni passo che compivo verso l’uscita e verso la navetta, mi sentivo sempre più più vicino alla partenza.
Era arrivato il momento, non riuscivo più a contenere la gioia, l’agitazione, l’aspettativa, il terrore. Mi sentivo come se avessi vissuto la mia vita soltanto per arrivare a quel culmine, per accarezzare quello stato d’animo confuso.
Ai piedi della scale incontrai Orin Halos e quasi non lo vidi, tanto ero concentrato sulla mia missione.
«Ehi» mi chiamò, atono. Da sotto al cespuglio di capelli rossi che gli ricadeva sugli occhi, mi scoccò un’occhiata seccata. «Pensavo foste già partiti».
Non mi scomposi. «A Mariceli serviva un fucile» risposi, risoluto.
«Uno? Sembra che stiate andando ad attaccare una flotta intera».
«La vedo dura con due fucili e un blaster».
«Mio padre lo sa?»
Alzai le spalle. «Può darsi» risposi. «Ma non sono affari tuoi».
Orin Halos piegò il capo di lato. «Lo state facendo di nascosto» mi fece notare. «Tutti voi. Anche mio padre».
Suonò come un ricatto.
«Per favore» sospirai, stringendo i denti. «Non dirlo a nessuno e va’ a dormire. È importante. Si tratta di mio padre».
Orin Halos non parve molto convinto. «Se ti prometto di non dire nulla, tu prometti una cosa a me?»
«Sentiamo».
«Non farla andare via. Mia madre se n’è andata nello stesso modo. Quindi riportala, per favore».
In un'altra occasione, mi sarei premurato di ficcanasare in quello spiraglio di verità che mi era appena stato offerto. Avrei indagato con attenzione, cercando di scoprire di più sul passato di quella famiglia. Quella notte, invece, la mia mente era già in volo. «Contaci» dissi quindi, alzando le spalle, e non diedi poi tanta importanza alla faccenda.
Ci salutammo e tornai a bordo della navetta, mostrando con aria vittoriosa il mio bottino.
Mariceli ne fu entusiasta. «Meglio di quanto ricordassi!» trillò. Prese in consegna i fucili e mi allungò l’A280. «Questo è tuo» dichiarò, leggera.
Kappa allungò le braccia per ricevere uno dei fucili, ma venne ignorato.
Soddisfatto di aver ricevuto l'arma che avevo adocchiato, la presi in consegna e me la legai alla cintura. Poi raggiunsi il mio posto alla plancia, stretto tra Mariceli e Kappa che intanto si era accapparrato il ruolo da copilota e ancora si lagnava di non aver ricevuto un blaster per difendersi («Sei un droide imperiale! A che ti serve un fucile?» «E tu sei un ingegnere imperiale, ma trovo riduttivo sperare che tutti si concentrino sul ragazzino di quindici anni in memoria dei nostri trascorsi tra le loro fila»).
Sotto ai miei piedi, sentii chiaramente i motori iniziare a scaldarsi per il decollo.
Ormai, cominciava ad albeggiare.
«Tutti pronti?» chiese Mariceli, indossando le cuffie. Noi facemmo lo stesso. «Va bene, il piano è semplice: arriveremo sul posto due giorni prima dell’Anima, utilizzando lo scarto per raccogliere le informazioni che ci servono prima che vadano perdute. Ricordatevi che, se riescono a sgombrare il campo prima che l’Anima metta le mani sugli Scomparsi, sarà come se non fossero mai esistiti. Non ci saranno altre possibilità dal momento in cui l’Impero capirà che ci siamo accorti di loro. Useremo l’assalto per dileguarci. Tutto chiaro?» Ci guardò entrambi, tirando fuori da chissà dove un sorriso furbo. «Se vi avanza tempo, chiamatemi Capitano Solpea!»
«Capitano Solpea» ripeté Kappa, scuotendo il capo. «Scordatelo». 
Io usai la scusa di mettermi comodo sul sedile ed evitare di venire coinvolto nella lite che pensavo sarebbe scoppiata di lì a qualche minuto.
Non successe niente del genere.
Senza nessun preavviso, sentii la pesante mano di Kappa sulla mia spalla. «Troveremo tuo padre, Cassian» mi disse, annuendo in un frinire di ingranaggi che suonò quasi sinistro. «Lo ha detto Mariceli».
«Capitano Solpea» lo corresse lei, ma lui le ricambiò la cortesia dei fucili, ignorandola.
Anche se un po’ stentatamente, sorrisi. «Grazie» risposi. «Se anche tu sei ottimista, Kappa, non può che andare bene».
«No, ho già fornito a Mariceli ogni probabilità calcolata sulla riuscita del suo piano. Ottimista è una parola enorme. Se proprio lo vuoi sapere, le statistiche che ho stilato dicono che ...»
Decollammo.
In quel momento non lo sapevo ancora, né potevo minimamente immaginarlo, ma quella fu l’ultima volta che vidi Fest.
Osservai il mio pianeta natale allontanarsi sempre di più da me, mentre la navetta prendeva quota dondolando sinistramente nello strato più sottile di atmosfera, per poi librarsi nello spazio scuro in cui ci eravamo appena immersi.
Una volta stabilizzati, Mariceli mollò le cuffie e si rivolse a Kappa. «Iperguida» ordinò, seria. «Traccia la rotta».
Kappa dondolò la testa a destra e a sinistra, rassegnato. «Non hai ancora detto per dove» le ricordò.
«Sistema di Wobani» rispose lei, risoluta. Nei suoi occhi, notai, sembrava essere sorto il sole. «Al Campo di Lavoro Imperiale».











note

Campo di Lavoro Imperiale di Wobani. Vi dice qualcosa? Esatto! Wobani è proprio il pianeta da cui Jyn viene fatta scappare in Rogue One. Non ve l'aspettavate, eh? *wink wink*

Visto che per una volta in queste note ho qualcosa di concreto da dire, ne approfitto. La prima parte è largamente autobiografica. Nel senso che la prima volta che mi sono trovata seduta in un prato con un freddo ladro ed è arrivata l'aurora boreale, mi sono quasi messa a piangere (ma è una cosa che è successa anche la seconda e la terza volta, e la quarta ...). E' veramente difficile descrivere questi colori, perché una volta che si mettono a illuminare il cielo la mente si svuota completamente e si è incapaci quasi di respirare. E' qualcosa di unico, completamente diverso da quello che si vede nelle foto o nei video, qualcosa di talmente totalizzante che sul momento non si sente bisogno di niente. Mi auguro vivamente che qualcuno tra chi mi legge abbia provato questa esperienza, perché mi ci sono ritrovata in mezzo decine e decine di volte e ne rimango sconvolta anche solo a ricordarla.

Ecco, se d'ora in avanti dovessi consigliarvi una canzone da ascoltare a ripetizione per quello che sta per accadere ... sarebbe questa. "Non guardaaaare, non guardaaaare. Nient'altro che disagio ed orrore incontrerai."
Ovviamente scherzo. O forse no.

Comunque! Per concludere e non sproloquiare come al solito, volevo ringraziare tutti voi piccole e meravigliose palline di pelo bianco (?) che leggete, commentate, seguite, scuotete il capo con aria rassegnata (sì, vi vedo). Siete piccoli piccoli e belli belli ❤

Cagnolini,
Lechatvert

ps: che poi è veramente ironico mandare gif di cani quando di nickname faccio gatto.



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Capitolo 8
*** parte ottava – childhood's end ***


saboteur



«Capitano Andor!»
«Generale Draven».
«Bel lavoro, su Kafrene».
«La ringrazio».
«Ho sentito dell’informatore».
«È stato necessario».
«Comprendo. Ora, per quanto riguarda il prossimo passo, temo ci sarà ancora bisogno di te».
«Per cosa?»
«Una missione di recupero. Jyn Erso. Mai sentita?»
«Mai, Generale».
«Preparati, si parte tra tre giorni. Stavolta scendo in campo con voi».
«Con tutto il rispetto, Generale, mi è permessa una domanda?»
«Certo».
«Perché io?»
«Perché andiamo su Wobani, Capitano Andor. Ho letto che lo conosci bene, no?»













PARTE OTTAVA –  CHILDHOOD'S END


Cambiammo rotta a metà viaggio, quando ricevemmo un messaggio dal famigerato amico che Mariceli si era vantata di avere nella regione di Wobani. Saltò fuori che non solo il tale si trovava su Ebra, un pianeta di estrazione mineraria nel vicinissimo Sistema di Dousc, ma che si diceva addirittura ben contento di aiutarla in nome dei vecchi tempi. Io e Kappa cominciammo a sentire puzza di bruciato fin dal primo momento.
«Va tutto bene, Ebra è un posto sicuro» ci rassicurò invece Mariceli, sorridendomi mentre con risolutezza si agganciava alla cintura un coltello lungo quanto il suo avambraccio. «Che c’è?» mi chiese poi, intercettando il mio sguardo sbigottito su di lei. «Nelle taverne di Ebra i blaster sono vietati».
Potevo forse ribattere?
Sospirando, mi infilai la giacca e alzai il cappuccio sul capo. Non eravamo più su Fest, certo, ma dal finestrino avevo comunque spiato un sottile strato di neve.
«Quanto ci fermeremo?» domandai.
«Devo incontrare un vecchio amico e bere qualcosa» rispose Mariceli. «Facciamo il prima possibile, su Ebra non vanno pazzi per i viaggiatori».
Kappa ci fece atterrare in quell’esatto momento.
«Non vi aspettate che io vi segua» annunciò in un tono che non ammetteva repliche. «Le bettole di Ebra? No, grazie».
Mariceli annuì e si avvolse nella sciarpa rossa di suo marito. «In gamba, Kappa» si raccomandò. «Quando ti chiamo, vienici a prendere in fretta». E partì, senza neanche aspettarmi, scivolando dalla bocca d’imbarco con una tale agilità che il bastone da passeggio nella sua mano parve del tutto superfluo.
Riluttante, mi costrinsi a seguirla. «Temi guai?» le chiesi, una volta uscito nel fresco clima di Ebra al calar della sera.
Lei alzò le spalle. «Sennò perché il coltello?»
Ammiravo e odiavo al tempo stesso la logica con cui vedeva il mondo. “Ma sì”, mi dissi, roteando gli occhi. “Sennò perché il coltello?
Potrei parlare per ore dell’uomo che incontrammo quel giorno, ma sarebbe aprire una parentesi del tutto inutile. D’altro canto, su Tivik e la sua rete di informazioni esiste un rapporto completo che io stesso ho redatto dopo la missione sull’Anello di Kafrene, dove per cause di forza maggiore ho dovuto sparargli. Lo ricorderò come un brav’uomo, credo, anche se già all’epoca aveva le mani invischiate in affari non troppo nobili. Affari che, però, gli permisero di fornire a Mariceli i documenti completamente fasulli che ci garantirono l’accesso al Campo di Lavoro di Wobani.
Dopo i primi convenevoli con cui si congratulò con Mariceli per l’ottimo aspetto che si portava dietro nonostante la vita su Fest, ci offrì un bicchiere di liquore in due e ci scortò fino a un tavolo sufficientemente lontano dalla folla per poter parlare liberamente. Ricordo che, se nel locale l’aria era tutt’altro che fresca, intorno alla finestra sotto la quale ci accomodammo era del tutto irrespirabile.
«Allora» esordì Tivik, riservandoci un sorriso cordiale del tutto fittizio. «Posso sapere cosa vi spinge a voler andare su Wobani?» Non ero un granché nel leggere la verità sul viso degli altri, specialmente se si trattava di estranei, eppure la delusione di vedere Mariceli viva e vegeta era impressa sulle sue smorfie in maniera quasi cristallina.
Ovviamente, lei non se l’era lasciato sfuggire. «Avevo voglia di fare un giretto dall’altra parte della barricata» spiegò, alzando le spalle. «Il ragazzo, qui, il giovane Willix, è il mio figliastro. Suo padre è stato mandato su Wobani qualche anno fa e glielo voglio far incontrare».
«Il tuo figliastro?» Perplesso, Tivik alzò un sopracciglio. «Mi avevano detto che ti eri sposata con un contadino di Fest!»
«Qualcuno doveva pur dar da mangiare al giovane Willix, non trovi?»
Il giovane Willix roteò gli occhi. Cominciavo a capire perché Mariceli mi aveva voluto con sé, e l’istinto mi diceva che mio padre c’entrava davvero poco.
Tivik sfoderò un sorriso che mi fece intendere di non essersi bevuto la storia neanche per scherzo, ma stette comunque al gioco. «Sei sempre stata una pura di cuore, Mariceli Solpea» le disse. «È anche per questo che mi piace aiutarti».
Lei alzò gli angoli della bocca in una smorfia insoddisfatta. «Aiutarmi» ripeté, alludendo a chissà quale ricordo. Non scoprii mai quali fossero i loro trascorsi.
Tivik non fece cadere la contrattazione. «Posso farvi passare per dei tecnici» incalzò, annuendo con convinzione. «So che al campo hanno sempre bisogno di personale per controllare i droidi da lavoro. Per i documenti non è un problema, li faccio falsificare entro sera».
Mariceli incrociò le braccia sul petto. «Quanto vuoi?»
«Il giovane Willix ha bisogno di un impiego? Nell’Anello di Kafrene …»
«Il giovane Willix sta bene con me, grazie comunque».
«Va bene, ho comunque in mente qualcos’altro».
«Sentiamo».
Tivik si piegò in avanti, allontanando il suo bicchiere di liquore. «Ho visto che lo hai già notato, ma all’entrata ci sono tre soldati che mi stanno cercando. Se mi fai uscire di qui e mi garantisci un passaggio sicuro fino al porto entro notte, sono disposto a fornirti i documenti senza bisogno di pagamento. A buon rendere, diciamo».
Istintivamente, voltai il capo alla mia sinistra. Sulla soglia, tre soldati imperiali si stavano facendo largo tra la folla ciascuno con un blaster in mano.
«Alla faccia dei blaster vietati su Ebra» sbottai.
«Non guardarli» sospirò Mariceli, sorseggiando liquore dal suo bicchiere. Lo posò, poi, e con calma si alzò dal tavolo. «Tieni d’occhio il nostro amico, Willix» si raccomandò. «Io vado e torno». E si incamminò con quel suo passo tutto saltellante, con il piede sano che si alternava al bastone per sorreggere quello che invece non riusciva a tenere dritto nello stivale che un tempo aveva fatto parte della sua divisa da ingegnere.
Ora. Come è risaputo da chi come me proviene dal Sistema di Fest, ci sono pochi altri popoli nella galassia capaci di fare a botte come un festiano e un mantooiano. Si fiutano da lontano, mi raccontò una volta Cunha, e per qualche strano motivo trovano immediatamente qualcosa su cui bisticciare per poi passare alle mani. Mariceli non era festiana, ma viveva sul mio pianeta da almeno dieci anni e l’odore doveva esserle proprio rimasto addosso, poiché trovò da ridire dopo appena tre passi, quando un uomo le diede volontariamente una spallata con la scusa di dover passare.
Non so esattamente da cosa nacque la litigata, cosa fece degenerare lo sfregio di una spallata in una vera e propria rissa da taverna, ma assistetti con una visuale ridicolamente chiara al momento preciso in cui Mariceli smise di bisticciare con l’uomo e, approfittando di un momento di distrazione, iniziò a colpirlo con il suo bastone da passeggio talmente forte da far risuonare nel locale il rumore sordo del ferro sulla sua schiena.
Da lì in poi, ci ritrovammo in un campo di battaglia.
Tutti i mantooiani presenti iniziarono ad accalcarsi su Mariceli, che di contro venne difesa più che egregiamente da chi non voleva vedere una zoppa fatta a pezzi da un branco di ubriachi. Volarono dei bicchieri, a un certo punto, ma non capii quale fu la coalizione che li tirò né chi venne colpito.
In pochi attimi, l’intera taverna era diventata un fronte di guerra.
Schivando per pura fortuna due ubriachi che finirono sul nostro tavolo nella foga della lotta, saltai via dalla sedia e afferrai Tivik per un braccio.
«Dici che la dobbiamo aiutare?» mi chiese lui, vago. Dubito avesse davvero intenzione di buttarsi nella mischia ma, dopotutto, nemmeno io fremevo dalla voglia di fronteggiare un intero squadrone di uomini a suon di pugni.
Scossi il capo. «Credo che se la caverà da sola» mi ritrovai a dire, anche abbastanza convinto, e assieme ce la filammo passando dal retro.
Quando, fuori dalla taverna, la vidi venirmi incontro barcollante e con il mento vagamente nerastro, mollai il nostro amico e le corsi incontro con preoccupazione.
«Tutto bene» rispose, alzando bonariamente una mano. «Direi che ci siamo guadagnati i documenti».
Per puro caso, lo sguardo mi cadde sulla cintura che le stringeva in vita il cappotto blu. «Mariceli» chiesi, titubante. «Dov’è il coltello?»
Togliendosi la sciarpa, lei fece spallucce. «Non so» rispose, vaga. «Mi sa che mi è caduto».
Per una volta tanto, decisi di non ficcanasare.




*


Per non destare sospetti con la navetta, patteggiammo con Tivik affinché ci rimediasse un landspeeder per raggiungere il campo. Ci costò buona parte dei crediti di cui Mariceli disponeva, ma alla fine fummo in grado di partire in tempo con la tabella di marcia.
Non ero mai stato a bordo di uno speeder prima (su Fest fa troppo freddo per poterli utilizzare), ma stranamente non ne serbo alcun ricordo. Immagino di essere stato troppo terrorizzato dal rapido avvicinarsi del posto di blocco per godermi il panorama roccioso di Wobani: l’idea di stare per entrare in un centro imperiale con un droide rubato, due fucili e due blaster nel bagagliaio e un computer intero smontato e avvolto nei vestiti della nostra borsa mi stava letteralmente uccidendo. Ingenuamente, pensavo che quello fosse il massimo della faccia tosta con cui ci si poteva presentare sulla linea nemica.
«Hora e Joreth Sward?»
Senza aria nei polmoni, sorrisi timidamente al soldato che stava esaminando i nostri documenti, sperando non notasse il fatto che io e Mariceli avevamo tante probabilità di essere fratelli quanto uno wookie e un ebranito. A lei, invece, l’essere quanto di più fisicamente lontano potesse essere concepibile per due esseri umani pareva non disturbare affatto.
«Vi abbiamo riparato il droide» insistette, entusiasta, mentre guardava il mondo attraverso un paio di lenti scure montate su degli occhiali tondi. Si appoggiò al volante dello landspeeder, protendendosi verso l’esterno con le labbra piegate in un sorriso costernato. «Stamattina ci hanno chiamati per eseguire la diagnostica a quelli che avete in magazzino».
Impassibile, la guardia alzò un sopracciglio. «E il droide sarebbe …?»
Alle mie spalle, sentii il guizzare dei circuiti di Kappa. Rabbrividii.
«Non parla» mi affrettai a dire, scuotendo il capo. «Al reparto lo volevano così».
«Infastidiva tutti» mi diede manforte Mariceli. Si strinse nella tuta verde della divisa del reparto tecnico e schioccò la lingua sul palato. «Difetto di fabbrica che non siamo riusciti a togliere. Numero di serie KX-2132390».
«D’accordo. Piazzola cinque».
Fu così che entrai per la prima volta nel Campo di Lavoro di Wobani. O almeno, nella parte del capo che era riservata al mantenimento di detenuti. Di per sé, valutai attraversando i grandi cancelli all’ingresso, si trattava di una normalissima, enorme prigione.
Parcheggiamo il nostro speeder dove ci era stato indicato, occupandoci di scaricare i bagagli prima che qualcuno venisse a farci da scorta.
«Lascia i fucili» mi ordinò Mariceli, stringendosi in vita la stessa sciarpa rossa che le avevo visto prendere in consegna dal Capitano Halos. Si legò i capelli sopra al capo, arricciando il naso quando sollevò la sua borsa. «Riesci mica a nascondere quel blaster che ti ho dato? Giusto per evenienza».
Annuii e chiusi il mio zaino. «Non aiutare, tu!» esclamai a Kappa, scoccandogli un’occhiata seccata mentre lui se ne stava in piedi a osservare il panorama (a proposito: Kappa ama i panorami, un po’ meno chi lo interrompe mentre li sta guardando).
«Improvvisamente, ho un buon presentimento» considerò lui, ignorandomi. «KX-2132390, che assurdità. Se sono tutti stupidi come quello là, abbiamo già finito di lavorare».
Mi voltai verso Mariceli, sgranando gli occhi, e lei fece spallucce. «Che vuoi che ti dica, Joreth?» esclamò, caricandosi lo zaino in spalla. Dal nulla, talentuosa quanto un’attrice, tirò fuori la parlata morbida e sinuosa degli abitanti di Coruscant. «Lo sapevamo già che era così!»
Ci raggiunse un piccolo gruppo di imperiali, quattro assaltatori armati più un sottufficiale in divisa ad aprire loro la strada. Il primo pensiero che mi attraversò la mente quando li vidi avvicinarsi a Mariceli, fu che le stavano per aprire il cranio a colpi di blaster.
«Hora Sward?»
Il sottufficiale allungò una mano verso di lei con gelida eleganza, scrutandola da sotto la visiera del berretto che gli copriva il capo.
Mariceli gli rivolse un sorriso raggiante. «Ah, sì!» trillò, ravvivandosi con un saltello la coda in cui aveva legato i capelli.
«Sottoufficiale Kardal» si presentò l’uomo in divisa, atono. «Siete in anticipo.»
Il panico mi suggerì che eravamo già fin troppo sospetti, ma mi costrinsi a pensare che anche i tecnici hanno il diritto di arrivare in anticipo, specie il primo giorno di lavoro. O almeno, questo è quello che penso. Non l’ho mai scoperto; di mio, non sono il tipo di persona che arriva in anticipo. Neanche quando si tratta di una missione.
Mariceli, comunque, non si scompose. «Siamo arrivati ieri in città e pensavamo di sbagliare strada» si giustificò. Si tolse il occhiali dal viso, infilandoli tra i capelli appena sopra la fronte. «Allora» incalzò. «Da questa parte?» Alzò il bastone da passeggio verso l’ingresso, facendo cenno al sottufficiale di farci strada. Mentre l’uomo la superava, mi scoccò un’occhiata incoraggiante. «Mi chiedevo se prima fosse possibile avere qualcosa di caldo da bere» aggiunse poi. «Mio fratello sta congelando. Non siamo abituati a questi climi».
Ingoiando a fatica un grosso nodo di saliva, strinsi le mani attorno alle cinghie dello zaino e provai a imitare la sua disinvoltura starnutendo e tirando su col naso quanto più infreddolito mi riuscisse.
Il Sottufficiale Kardal non ne parve particolarmente toccato. «Ah» si limitò a commentare, piegando le labbra in una smorfia infastidita. «Sì, qualcosa si potrà arrangiare».
Procedemmo.
Non appena fummo all’interno della struttura, parve chiaro sia a me che a Mariceli che Wobani era un centro all’avanguardia. Altissimi ascensori di vetro salivano e scendevano lungo delle colonne costruite per dare decoro all’entrata, mentre i pavimenti marmorei, affollati di ufficiali e soldati, riflettevano con nitidezza le nostre figure. Ero talmente affascinato da ciò che vedevo che, per un istante, dimenticai persino la paura.
«È la prima volta che venite qui?» incalzò Kardal, offrendosi con un po’ di impaccio di prendere in consegna la borsa che Mariceli si tirava dietro.
Lei ignorò ogni tentativo di galanteria. «La prima» confermò. «Il droide ce lo hanno consegnato via posta».
«Mi è stato detto che sarete qui intorno per tre giorni».
«Se posso essere onesta, spero di finire prima».
Il Sottoufficiale Kardal si lanciò in una risata sprezzante. «Non è superbia, questa?»
Mariceli alzò il mento in un’espressione furba. «Guasta?» chiese, affabile. L’accento di Coruscant la faceva sembrare ancora più sottile del solito.
«Personalmente, cerco di farne a meno».
Ascoltavo con perplessità quel dialogo, valutando con ammirazione le capacità di Mariceli di cui all’epoca ero totalmente sprovvisto, quando udii chiaramente il raccapricciante rumore degli ingranaggi di Kappa che iniziavano a girare. Di nuovo.
Stavolta, non feci nemmeno in tempo a voltarmi.
«Ecco perché a quell’età è ancora sottoufficiale».
Sgranai gli occhi, e così fece Mariceli. E il sottoufficiale.
Al mio fianco, sentii chiaramente uno degli assaltatori reprimere con scarsi risultati una risatina.
«È difettoso» provai a dire, poco convinto.
Kardal arricciò il naso. «È così che riparate i droidi, voialtri?» commentò.
Mariceli lo fulminò con lo sguardo, ma non rispose.
Per l’ora successiva, nessuno tranne il Sottoufficiale Kardal si sentì coraggioso abbastanza da dire niente.










note

Ciao palline di pelo invernali! Come state?

Lo so, tecnicamente Cassian non era su Wobani con Kappa per recuperare Jyn, però io non riesco a immaginarli separati. Mi rendo conto di avere un grosso limite mentale, ma proprio non riesco proprio a concepire come uno possa stare a casa mentre l'altro va in missione. Quindi, nel mio immaginario, su Kafrene Kappa stava aspettando Cassian alla navetta, mentre su Wobani Cassian si era un attimo fermato a leggere un cartello stradale probabilmente faceva parte dell'intelligence che guidava le squadre d'azione dalla stazione in orbita. Passatemi la licenza poetica, per me quei due sono più sposati di Chirrut e Baze (Ah, tra l'altro: qualcuno si ricorda di Tivik?)

Okay, ordunque. Da qui in poi non si torna indietro, anche perché ho ufficialmente passato la metà della fanfiction, che si concluderà quasi al 100% con il quindicesimo capitolo.
Con tanto orgoglio da parte mia, stanno per cominciare quel genere di guai che portano ai disastri finali. Presente? Quelli che ti fanno finire su una spiaggia con la schiena spazzata in due a guardare un tramonto mentre il pianeta sta esplodendo e tutti i tuoi amici sono morti.  Cosucce da niente, facilmente risolvibili. *cuore in frantumi*

Cerbiattini,
Lechatvert




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Capitolo 9
*** parte nona – savage ***


saboteur



«Pronta a partire?»
«Più o meno. Anche se sento di non averti ancora ringraziato abbastanza. Per la fiducia e tutto il resto».
«Se su Scarif mi copri le spalle, siamo pari».
«Mi sembra un buon compromesso».
«…»
«…»
«Jyn».
«Cassian».   
«Andiamo per vincere».
«Lo so».
«Io no. Non del tutto».
«È paura,
Capitano
«Paura? E di cosa?»
«Non so. Di morire, forse».
«Jyn, la morte non toglie niente».
«E questa da dove salta fuori?»
«Un vecchia storia mia e di Kappa».
«Allora tienila per il viaggio di ritorno».
«Senz’altro».









PARTE NONA –  SAVAGE


Scoprimmo assieme che inimicarsi un sottoufficiale nell’arco della prima ora di copertura poteva avere una gran quantità di lati positivi, specialmente se la causa del conflitto proveniva da Kappa.
Piccato per il poco cordiale trattamento ricevuto, il Sottoufficiale Kardal perse gran parte della giornata a star dietro al nostro droide, dimenticandosi, nel tentativo di dimostrare chissà cosa, del lavoro che nel frattempo svolgevamo io e Mariceli.
Ovviamente, da parte nostra non venne sollevato alcun tipo di lamentela.
«Allora» incalzò lei, mollando a terra lo zaino che mi aveva fatto portare per tutta la mattina e che si era ripresa da qualche minuto. Dalla tasca della divisa, tirò fuori un pezzo di carta su cui lei stessa aveva scarabocchiato una piantina seguendo le spiegazioni del Sottoufficiale Kardal. «Questo è il magazzino dei droidi». Puntò il dito sulla mappa, trascinandolo lungo tutto il foglio fino a se stessa. «Alla fine di questo corridoio, ho visto una stazione informatica. Per entrare nel sistema centrale mi serviranno più o meno quattro ore, giusto quello che serve per effettuare la diagnostica a tutti questi droidi. Se mi fai da palo, riusciamo a fare tutto assieme dopo pranzo. Hai mai messo le mani su un droide?»
Ben lontano dal condividere anche lontanamente il suo entusiasmo, mi ritrovai ad annuire con il viso contorto in un sorriso di circostanza. «Qualche volta su Fest» risposi, sincero. «Ma non erano come questi, per la maggior parte erano astrodroidi».
Mariceli alzò le spalle. «Fa niente. Questi non sono complicati, come modelli di protocollari. In realtà, mi aspettavo qualcosa di più avanzato. Dico, li hai visti quegli ascensori all’entrata? Questo posto mi pare tutto fumo».
Mi ritrovai ad appoggiarla, non perché fossi mai entrato in altri centri imperiali e la sapessi lunga sulle tecnologie impiegate, ma perché fino a quel momento mi era sembrato tutto fin troppo facile. «Già, anche a me» ne convenni, quindi, guardandomi attorno. «Da quali cominciamo?»
Puntavo il naso in alto, scrutando le centinaia di crani disposte sui ganci che ci sovrastavano. Quanti occhi spenti ci stavano osservando? Con un po’ di paranoia, mi domandai se non fosse un trucco per spiarci.
La verità è che tremavo ancora per l’uscita di Kappa con il Sottoufficiale Kardal, e non avevo il coraggio di chiedermi cosa esattamente succedesse a chi veniva scoperto infiltrato all’interno di una base imperiale. Mariceli lo sapeva bene, ma non ebbi mai il coraggio di domandarglielo.
D’altro canto, lei ebbe l’accortezza di non dirmelo, lasciandomi il tempo e la responsabilità di scoprirlo io stesso con l'esperienza.
Quando mi guardo alle spalle, provo sempre un vago senso di smarrimento nel rendermi conto della dolcezza che mettesse in ogni suo gesto nei miei confronti, nel riguardo che mi riservava nonostante fossimo quasi del tutto due sconosciuti. Non so se chiamarla nostalgia o affetto; di certo, la sua è una mancanza che si fa sentire. In questi giorni continuo a pensare che, se l’Andor fosse ancora in piedi, le cose sarebbero molto diverse. Se quel giorno Mariceli fosse rimasta tra gli ingegneri di Rasp, oggi ci sarebbe davvero la necessità di combattere per dei piani di cui lei stessa avrebbe sentito l’irrefutabile richiamo?
«Cominciamo dalla stazione» Sorridendomi con dolcezza, mi mise una mano sulla spalla e mi scosse appena. «Ti faccio vedere come si frega un sistema informatico, così poi lo fai da solo».
Era un ottimismo da cui non sapevo difendermi.
Con finta disinvoltura, abbandonammo il magazzino e attraversammo il corridoio. Superammo un plotone di assaltatori e le ginocchia presero a tremarmi, la testa cominciò vagamente a girare, mentre l’aria nel petto si fece improvvisamente rovente.
Con la stessa semplicità con cui si sbattono le ciglia, Mariceli mi batté il bastone da passeggio sullo stinco. «Calma» sussurrò, fermandosi davanti alla porta della stazione informatica con la scusa di mettersi a posto il giubbotto della divisa. «Un po’ di sfacciataggine, forza. Guarda che lo so che quando vuoi ne hai da vendere».
Gli assaltatori ci passarono a fianco senza degnarci di uno sguardo, sparendo dietro l’angolo con il meccanico marciare della loro andatura.
«A me viene sempre da ridere» mi confidò, aprendo lo zaino e cominciando a frugarci dentro. «Quando passano dritti e non sanno a chi sono vicini».
Commentai con un sorriso tirato. «Mah» borbottai. All’epoca, non riuscivo a capacitarmi di come potesse non essere terrorizzata, ma ne ero a dir poco ammirato. Oggi, credo che Mariceli avesse molta più paura di quanto non desse a vedere. Semplicemente, era molto brava a reprimerla, a fingere che non esistesse, a cullarsi nell’essenza della stessa illusione che finì per portarsela via.
Lasciò che fossi io ad occuparmi della porta, appoggiandosi al muro e restando in allerta, pronta a dare l’allarme.
Di mio, feci l’unica cosa che mio padre era stato in grado di insegnarmi a fare decentemente: forzai la serratura. Mi tolsi due grimaldelli dallo stivale e li infilai nel quadro elettrico, trafficandoci attorno in silenzio mentre mi prodigavo per far saltare il cavo giusto.
Fu talmente facile che, una volta spalancato l’uscio, mi voltai verso Mariceli con la faccia sgomenta di chi ha appena avuto una fortuna sfacciata. «Davvero?» chiesi. Avevo faticato molto di più quando uno dei miei compagni dell'FRG si era fatto catturare e i miei compagni avevano mandato me a forzare il luchetto della sua prigione improvvisata sul retro di una taverna.
Mariceli alzò le spalle. «Partono dal presupposto che da una prigione la gente prova a uscire, di solito» mi spiegò, precedendomi. Prima di superarmi, però, si fermò a farmi l’occhiolino. «Bel lavoro, Andor Cinque».
Ispirato dalla paura di farmi beccare dove non dovevo essere, montai da solo uno degli apparecchi che ci eravamo portati dietro, una piccola scatola di plastica dotata di schermo che collegai al computer attraverso un cavo di ferro (ne scoprii più tardi il nome esatto, poiché sul momento mi parve del tutto simile a un normalissimo apparecchio di trasmissione).
«Sai a che serve?» mi chiese Mariceli, sedendosi davanti alla tastiera e dondolando appena sulla sedia.
Io scossi il capo. «A farci entrare nel sistema, per caso?» buttai lì.
«Genera codici d’accesso e li applica all’username che inserisco. In questi centri, le chiavi non sono mai personali, di solito le decide il computer stesso al primo accesso. Se imposto questa sull’algoritmo di Wobani e inserisco un nome, è in grado di garantirmi l’accesso entro quattro ore». 
Ero perplesso. All’epoca, di informatica sapevo veramente poco. «Conosciamo l’algoritmo di Wobani?» indagai, dubbioso.
«È registrato nei droidi a cui dobbiamo fare la diagnostica, ci serve solo che Kappa lo estragga. Finiamo con questo e lo andiamo a recuperare, povero cuore» trillò lei, trafficando felicemente con l’interfaccia del computer. Alla fine, si ributtò lo zaino in spalla e mi fece cenno di precederla sul corridoio. «Facciamo veloci; quel tizio con cui abbiamo lasciato Kappa mi mette i brividi».
“Quel tizio” avrebbe dovuto spaventarla molto di più di quanto non riuscì mai a fare, ma Mariceli non era tipo da dare certe soddisfazioni tanto facilmente, soprattutto quando si trattava dei soldati con cui aveva passato un anno della sua vita e che per questo pensava di conoscere come le sue tasche.
Penso che fu per questo motivo che, quando aprimmo la porta del magazzino e ci ritrovammo due fucili puntati contro, per un momento fu come se fosse tutto nella norma.
Fu una sensazione del tutto simile a quella che si prova quando di notte si salgono le scale contando un gradino in più; un senso di vuoto che parte da dentro quando il piede affonda nell'aria e sfocia nella realizzazione, del disappunto, nella caduta.
Quando notammo gli assaltatori e la mano del Sottufficiale Kardal sollevata per ordinare di aprire il fuoco, sentimmo chiaramente il tempo fermarsi.
D’istinto, come su Rasp, provai l’impulso di chiudere gli occhi e morire. Però non lo feci, perché Mariceli non me lo permise.
Gridando, si portò davanti a me con le mani alzate e mi coprì completamente con il suo corpo. «Fermi, fermi!» supplicò. Il mio naso sbatté contro la stoffa ruvida dello zaino, scuotendomi come uno schiaffo e strappandomi alla paura. «Il ragazzo non c’entra niente. È un orfano di Coruscant che ho usato per entrare. Non sa nemmeno tenere in mano un blaster».
Nella confusione, quella parola risuonò nella mia mente come un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi.
«Lo so che non siete di Coruscant» le fece eco Kardal, sospirando. «Ma davvero pensavate che una zoppa passasse inosservata? Dopo Rasp?»
Coperto da Mariceli, feci scivolare la mano nella tasca dello zaino, tenendo l’altra sempre ben alzata per dare la parvenza di essere immobile. Alle sue spalle, nessuno poteva vedermi.
Afferrai il mio blaster e sentii di nuovo l’aria passare nei polmoni. Improvvisamente, mi sentii un po’ meno morto di prima.
Mariceli continuava a temporeggiare. «Ho già inviato alla base le informazioni che cercavamo» mentì, la voce tagliente tanto quanto la lama di un coltello. L’accento, però, era rimasto quello di Coruscant. «Se ci uccidi ora, non saprai nemmeno cosa stavamo cercando».
«Credo che siate voi quelli che non sanno in cosa stanno mettendo le mani. Siete i ribelli di Fest, no? L’Impero sa ogni cosa di Travia Chan e dei suoi ridicoli piani». Kardal fece una pausa, sospirando. «Abbiamo una rete di informatori molto più vasta di quanto possiate prevedere».
Mi sporsi in avanti, sbirciando il campo. Gli assaltatori attendevano ordini, uno a destra e uno a sinistra. Kardal stava nel mezzo. Dietro di loro, un droide di sicurezza che poteva essere Kappa come un qualsiasi altro pezzo della stessa serie mi impediva di scorgere al di là delle sue altissime spalle.
Non avevo la più pallida idea di come colpire tre uomini contemporaneamente, né avevo modo di disarmarli per permetterci di prendere tempo.
Feci l’unica cosa che credevo avrebbe fermato me se le parti fossero state invertite: scivolai di lato e, buttandomi sulle ginocchia, puntai il blaster su Kardal usando vergognosamente Mariceli come scudo con i due soldati. «Un passo e lo ammazzo» dichiarai, trovando non so dove la sfacciataggine di non tremare. «Abbassate le armi».
Mariceli mi colpì la schiena con un calcio appena accennato. «Il casco» suggerì.
«E toglietevi il casco» aggiunsi, usando molta più autorità di quella che possedevo. «Niente comunicazioni».
Credo sia stato il tentativo più magro della mia intera esistenza di provare a dare ordini a degli assaltatori, e infatti non venni ascoltato neanche per un istante, ritrovandomi con un blaster davanti al naso prima ancora di riuscire a finire la frase.
Quel giorno, di fronte a un uomo pronto ad abbattermi, capii perché chiunque nell’Andor pensava che Kappa fosse insostituibile.
Mentre sentivo il degradante ronzio delle risate dei nostri nemici filtrato dal microfono dei caschi, mentre anche il corpo di Mariceli attaccato al mio si irrigidiva talmente tanto da parere morto, assistetti alla scena che più sovente associo alle mie memorie di quel magazzino.
Il droide alle spalle di Kardal si rivelò essere davvero Kappa, mostrandoci la salvezza con un unico, semplice e insolitamente morbido gesto: alzò la mano a mezz’aria e, prima che chiunque potesse anche solo pensare di fermarlo, afferrò il cranio del sottufficiale e lo scagliò contro la parete con una forza tale da romperlo di netto.
Sono convinto che Kardal non si accorse nemmeno di morire. In compenso, io sentii per mesi il rumore secco delle ossa spezzate sul cemento.
«Ora lo abbiamo ammazzato» sentii dire, mentre raccapricciato guardavo quel corpo distrutto cadere a terra.
Poi Kappa si voltò verso l’assaltatore davanti a me e, mentre io mi ritrovavo per puro istinto a centrare quello che teneva sotto tiro Mariceli, lui pensò bene di strappargli il blaster di mano e sparargli dritto in faccia.
Nel giro di qualche secondo ci ritrovammo in tre, da soli in mezzo a centinaia di droidi spenti, con due soldati morti da far sparire e un cadavere che, anche se fosse stato ritrovato, nessuno avrebbe saputo identificare.
A stento riuscivo a distogliere lo sguardo.
Le cervella, sparse sul pavimento fin quasi ai miei piedi, fuoriuscivano lentamente dalla fronte completamente sfondata assieme alla più grande quantità di sangue che avessi mai visto.
Ricordo come cercai di sentirmi inorridito senza riuscirci veramente: anche allora, una piccola parte di me aveva già realizzato di aver corso il rischio di finire nella stessa maniera. O lui o te, mi sussurra da allora una voce che sento ogni qual volta mi ritrovo davanti a un morto. Non posso fare a meno di ascoltarla, e sono sicuro che, segretamente, Mariceli sentisse una voce molto simile alla mia.
Silenziosa e senza battere ciglio, si chinò su Kardal e frugò nella sua giacca con la stessa naturalezza con cui avrebbe messo mano in quella di suo marito. «Almeno diamo un senso a questo casino» sospirò, attenta a non sporcarsi. «Sui documenti scrivono l’username».
Intanto io continuavo a imparare quanto cervello c’è nel cranio di un uomo e qual è la sua esatta consistenza con cui esso viene spremuto fuori dalla testa quando questa viene appiattita contro un muro di cemento.
«È successo perché ti sei sopravvalutata» valutava nel frattempo Kappa, muovendosi per il magazzino accompagnato dal suono ronzante dei suoi ingranaggi. Con la coda dell’occhio, notai che la sua mano grondava sangue. «Perché lo stai facendo, Mariceli. Ti stai sopravvalutando. E non finirà bene, se continui così».
Sentii un paio di mani prendermi per le spalle, e in un attimo fui costretto a voltarmi.
«Va tutto bene, Kappa. Nessuno si è accorto di niente». Con delicatezza, Mariceli mi sospinse dall’altra parte rispetto alla pozza di sangue e si mise in tasca i documenti che aveva raccolto dal cadavere. «Adesso vedi di sbarazzarti dei corpi».
Contrariato, il nostro droide scosse il capo. «Ricordare a me di sbarazzarmi dei corpi è come ricordare a Cassian di respirare». Mi scoccò un’occhiata vuota, emettendo un sibilo del tutto simile a un sospiro. «Cassian, ricordati di respirare».
Ancora perso nelle mie considerazioni, finii per non cogliere il sarcasmo e annuii. «Grazie, Kappa».
«Figurati».
Mariceli ci richiamò subito all’ordine. «Va bene, ragazzi. Ora coraggio» sbuffò, portando entrambe le mani sui fianchi. «Riordiniamo questo posto prima che a qualcuno salti in mente di venirci a controllare. Abbiamo ancora un sacco di lavoro da fare». Mi indicò i droidi, annuendo piano, poi si chinò sul cadavere di uno degli assaltatori e rimosse il casco con un sospiro. «Cassian, va’ a fare le diagnostiche. Qui ci arrangiamo io e Kappa».
«Posso aiutare», mi offrii.
Lei alzò un sopracciglio. «Sai come si ripulisce un corpo?» fece, perplessa.
Feci spallucce. «Perché, tu sì?»
Dallo sguardo vuoto che mi lanciò compresi che quello non era il primo cadavere che si ritrovava tra le mani.
Non fu nemmeno l’ultimo.









note

Questo capitolo doveva essere tipo completamente diverso e decisamente meno violento, ma ho cambiato idea all'ultimo e ehilà. Doveva essere tutto molto più tranquillo, ma la vita non si può controllare come io non posso controllare quello che scrivo, quindi evviva!

Uhm, come commentare ancora? Passaggio delicato, inizio dei guai, violenze varie ed eventuali, SPOILER il prossimo capitolo sarà una cosa veramente tristissima e vi veranno forniti fucili per spararmi, fatene pure richiesta, sono gratis e lo apprezzo moltissimo (?).

Già che ci sono e non so cosa dire, avete sentito del titolo dell'Episodio VIII? Vi piace? A me personalmente tantissimo *-* Anche se temo per i personaggi e le loro sorti sventurate D:

Dinosaurini,
Lechatvert




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Capitolo 10
*** parte decima – paradiso ***


saboteur



«È un suicidio».
«Scarif?»
«Siamo in venti».
«Ventuno».
«Cosa vuol dire
ventuno?»
«Te lo continui a dimenticare, ragazzo. Solpea viene con noi».
«…»
«Accidenti a te, Cassian! Ma non ti hanno ficcato proprio niente, in quella zucca?»
«Sono serio».
«Anche io, razza di stupido. Adesso usa la testa e non mandarci a morire. Ce lo devi. A tutti».
«…»
«E non guardarmi così, che pari ancora un fesso dopo dieci cazzo di anni».
«Se ci fosse il Capitano Halos, tutta questa missione non avrebbe neanche senso di esistere».
«Eh, davvero. Se gli avessero ordinato di muovere il culo fino a Scarif, si sarebbe messo a ridere e avrebbe tirato fuori quella faccia tronfia che faceva quando lo mettevano al comando. Me lo immagino proprio:“La Morte Nera? E che sarà mai! Non possiamo ficcarci un sasso nei propulsori e via?”».
«E ci sarebbe pure riuscito, a farla saltare con un sasso nei propulsori».
«Poi avrebbe tirato fuori una bottiglia di vino e si sarebbe ubriacato, alla faccia dell’Impero».
«Già. Era un brav’uomo».
«Consolati, Cassian: lo sei anche tu».









PARTE DECIMA – PARADISO


«E poi gli dico: “Non ci posso fare niente se i tuoi droidi sono lenti! Prendono dal padrone!” Lui mi guarda e si fa così rosso che pare sul punto di esplodere, alza la mano e dice: “Signorina Sward, lei è licenziata!»
«Ma come!»
«Te lo immagini? Licenziata da un chagrian!»
Se la ridevano tutti, approfittando della pausa di metà pomeriggio davanti a una tazza di caffè bollente servito assieme a della frutta secca.
In disparte, io rimuginavo sul fatto che a Mariceli erano bastate sì e no quattro ore e tre omicidi per farsi amico metà del reparto tecnico.
Seduta sul tavolo della stanza di ricreazione, agitava in aria le braccia mentre raccontava con entusiasmo le nostre presunte avventure, così brava nel narrarle che, per brevissimi istanti, persino io mi ero ritrovato a chiedermi quando esattamente fossimo fuggiti da Foerost dopo che nostro padre mi aveva preso per i capelli e buttato fuori di casa perché ero intenzionato a sposarmi di nascosto. In compenso, praticamente chiunque mi guardava con ammirazione. Mia moglie era morta, comunque, il che tra le tante cose mi rendeva anche ufficialmente vedovo.
Cominciavo a chiedermi se Mariceli non stesse cercando di svendermi a qualcuna delle nostre colleghe del reparto tecnico, piuttosto che puntare al trovare informazioni sui nostri obiettivi. Ma, appresi col tempo, anche concedersi a degli apprezzamenti fa parte della sottile arte dell’infiltrarsi nel campo nemico.
«Hora, dov’è che siete alloggiati?» chiese d’un tratto uno dell’impianto di monitoraggio, riempiendosi la tazza con fare divertito.
Lei bevve un sorso di caffè, poi gliela sbatté sotto il naso con l’intenzione di farsela riempire. «A Leda, ospiti di amici. L’Impero ci manda di qua e di là. Che bisogna fare, per lavorare!»
«Ghart dell’avanzamento macchine si è fidanzato e dà una festa, stasera. Dovreste venire».
«Perché no?»
«Ti do l’indirizzo. Ce l’hai da scrivere?»
«Segna pure sul braccio!»
Lo spionaggio non è altro che arte, mi disse una sera Mariceli, e all’epoca ne dissentii completamente. Ho imparato molto, negli anni che ho passato senza di lei e le sue maniere accomodanti di insegnarmi, e alla fine mi sono costretto a darle ragione: entrare nell’esistenza di qualcuno e accarezzarla, stuzzicarla affinché sia pronta ad aprirsi a uno sconosciuto, è tutta una delicata questione di arte. E, come tutte le arti, spesso viene dalla sofferenza.
Benché Mariceli all’epoca ne fosse già ampiamente consapevole, io non ne avevo neanche lontanamente idea, e continuavo beatamente ad ignorare il muro contro il quale, di lì a poco, sarei andato a sbattere con la stessa violenza che quella mattina aveva ucciso il Sottufficiale Kardal.
Successe quando tornammo alla stazione informatica dove avevamo lasciato a Kappa il compito di fare la guardia.
«Oh, siete qui» ci disse, voltandosi dallo schermo per osservarci mentre ci barricavamo all’interno della stanza. «Il computer ha finito con i dati. Siamo dentro».
Nella foga di raggiungere la tastiera, Mariceli mi spinse così forte da accantonarmi al muro. «Siamo dentro» sussurrò, gli occhi scuri improvvisamente ardenti di un fuoco che faceva quasi paura. «Ne sei sicuro, Kappa?»
«Pensi che l’avrei detto, se non ne fossi stato sicuro?»
«Collegati e filtra gli schedari; ti ho caricato i filtri in memoria».
Passarono minuti interminabili.
Lo schermo dell’archivio centrale cominciò a trasmettere freneticamente immagini diverse, mentre file su file si aprivano dinanzi a noi e si accavallavano gli uni sugli altri, brillando e vibrando per richiamare la nostra attenzione.
I miei occhi scorrevano freneticamente su ognuno di loro, cercando con disperazione l’unico che mi interessava davvero trovare.
Darsten, Corrino, Wortin, Sprax, Amavia.
Uno a uno, gli Scomparsi ci mostravano il loro volto emaciato e spento.
Mariceli li osservava in silenzio, una madre davanti ai suoi figli, un’artista davanti alla sua ispirazione. Credo che, se non ci fossimo stati io e Kappa, avrebbe addirittura pianto di commozione.
«Salva quei file, Kappa» comandò, gli occhi sgranati ancora puntati sulle informazioni degli uomini che aveva di fronte. Si piegò in avanti, appoggiandosi al bastone, poi tornò dritta. «Li abbiamo trovati».
Corrugai la fronte. «Mariceli» dissi, stranito. «Ma … non ce ne dovevano essere solo cinque?» Capii da solo il mio errore. Non era solo dal Sistema di Rasp, che venivano gli Scomparsi. L’Impero li stava mandando da tutta la galassia.
«La maggior parte è stata archiviata come deceduta» ci informò Kappa, scuotendo il capo meccanico. «Mi dispiace».
Mariceli non batté ciglio. «Quanti ne restano?»
«Qui? Nessuno».
Mi accigliai. «Come nessuno?»
«Sono stati inviati tutti presso la base di …»
«Kessel». Mariceli si passò entrambe le mani sul viso, emettendo un sospiro soffuso che sapeva di dolore. Sul momento, non ne compresi il motivo.
Oggi so che esiste un intero rapporto recuperato tra i file di Travia Chan circa i metodi di interrogatorio e detenzione applicati su Kessel e sulle sue miniere di Glitterstim. L’autore si firma come MS.
«Maledizione. Chi li recupera ora, su Kessel?»
Io non ero affatto convinto. «Ma perché li hanno sposati di nuovo?»
Mariceli scosse il capo. «Non ne ho idea» rispose. «Ma sarà il caso di scoprirlo, visto che l’Anima sta venendo qui per niente. Kappa, salva tutto. Anche le schede dei deceduti».
«Me lo hai già detto».
Io mi protesi verso lo schermo.
«Cerca Krasin Harkor» sussurrai, quasi arrampicandomi sull’alta schiena di Kappa per avere una visuale più completa.
Mariceli annuì. «Proviamo».
Restammo in attesa.
Furono i dieci secondi più lunghi della mia intera esistenza. Sono passati dieci anni da allora, ma mi è difficile pensare a una manciata di istanti che sia pesata sulle mie spalle più di quel momento. Fu come se l’aria fosse divenuta improvvisamente impossibile da respirare, come se stessi annegando nelle mie stesse aspettative.
Poi, il viso scuro di mio padre comparve sullo schermo.
«Krasin Harkor» lessi ad alta voce, il cuore che batteva così forte da togliermi il fiato.
Lessi il suo file e fu come leggere lui stesso, come averlo così vicino da poter sentire il suo odore.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime e, di primo acchito, non riuscii nemmeno a spiegarmi il perché.
Sentii la mano calda di Mariceli accarezzare la mia, il suo respiro infrangersi improvvisamente contro la pelle del mio viso mentre mi stringeva a sé. «Mi dispiace» la sentii sussurrare, prima di sentire sul capo il peso della gelida mano di Kappa.
Non capii, non finché non rialzai lo sguardo sullo schermo per ritrovarmi davanti al viso di mio padre.
Krasin Harkor”, lessi di nuovo, e improvvisamente sentii lo stomaco contorcersi in una sensazione di vuoto. “Deceduto”.



*


Quella sera, non andammo a nessuna festa.
Mariceli mi caricò sul nostro speeder quasi di peso, salutando Kappa per la notte con un cenno del capo, e guidò in silenzio fino alla navetta nascosta fuori città. Ricordo che ascoltammo della musica.
Quella notte, si prese cura di me in una maniera che mi fece quasi male.
In silenzio, senza osare pronunciare parola, mi preparò qualcosa da mangiare nonostante non avessi voglia nemmeno di respirare, insistendo a gesti affinché sbocconcellassi un po’ di carne e facendomi compagnia con del pane scaldato sui circuiti roventi del computer di bordo. Arrangiò un giaciglio di coperte sul pavimento del ponte e mi guardò infilarmi sotto tutti gli strati che fui in grado di accumulare, passandomi le mani tra i capelli come giorni prima aveva fatto con Orin nello scarno tentativo di rasserenarmi.
Di mio, non riuscivo a sopportare quell’apprensione. Le avrei volentieri gridato in faccia che volevo soltanto stare solo, ma mi sentivo vuoto, completamente perso, incapace persino di respirare, figurarsi di respingere delle attenzioni non volute. Così sopportai.
Solo un anno dopo, mi ritrovai a desiderare quelle carezze come se da loro dipendesse la mia stessa esistenza.
Restammo zitti a lungo, interrotti soltanto dal ronzio del riscaldamento della navetta. Poi squillò il comunicatore, e Mariceli si alzò per andare a rispondere.
Io feci finta di mettermi a dormire.
«Tylan, stai bene?» la sentii dire.
“Perfettamente!” trillò la voce del Capitano Halos, talmente allegra da angosciarmi ancora più di quanto quella giornata non fosse già riuscita a fare da sola. “Siamo in pausa rifornimenti proprio ora, non vogliamo arrivare impreparati. Ancora un giorno e vi veniamo a prendere!” Fece una pausa, concedendosi una risata. “Là come vanno le cose?”
«È complicato. Li hanno mandati tutti su Kessel, ma stiamo ancora cercando informazioni. Direi che l’Anima può darsi alla pazza gioia a buttare giù questo posto, quando arriva».
“Splendido, splendido. Cunha sta origliando e l’ho visto sorridere, quindi prepariamoci a un cataclisma. Ah, ora mi offende perché ho di nuovo sbagliato l’atterraggio con l’Andor. Cunha, levati di mezzo! Sto parlando con … per la miseria, ancora una parola e ti strappo quei tre capelli che ti sono rimasti in testa, chiaro? Ma tu guarda. Dicevo? Ah, giusto. Il ragazzo?”
Rabbrividii.
«Forse è meglio parlarne un’altra volta, Tylan. Non ha avuto una bella giornata».
“Sta bene?”
«Sì, è solo … lascia stare. Si è messo a letto, non lo voglio svegliare. Domani facciamo il punto della situazione e ne parliamo».
 “Come vuoi, Mari. Allora buonanotte. Da lì sembri un sole”.
«Ti aspetto».
Quando la comunicazione si scollegò, udii il fruscio delle coperte che venivano spostate. Senza che potessi in alcun modo lamentarmene, Mariceli si coricò accanto a me, distante abbastanza da non sfiorarmi nemmeno per errore, eppure vicina tanto da permettermi di percepire chiaramente il suo respiro nell’aria.
Attese a lungo prima di parlare.
«Pensavo che magari domani puoi restare qui» mi disse. «Al centro dirò che sei stato male durante la notte».
Non risposi.
Lei fu paziente.
«D’accordo, adesso ho qualcosa da dirti» mi confidò, sospirando. «Ma deve restare un segreto tra me e te. Non lo sa nemmeno Tylan, perciò ascoltami bene. Te la senti?»
Non mi lasciò neanche il tempo di annuire, né di prepararmi in alcun modo a quello che stavo per apprendere. Borbottò qualche parola che non riuscii a comprendere, poi sputò tutto con una sola frase che fu come una secchiata d’acqua sulla schiena.
«Su Rasp c’è la mia famiglia».
Sentii il sangue raggelarsi nelle vene.
Quasi all’unisono, entrambi bisognosi di guardarci in faccia, riemergemmo dalle coperte e ci scambiammo un’occhiata vuota. Con il capo libero e le guance arrossate dal caldo che saliva dal pavimento, ci guardammo a lungo in silenzio, i visi atoni, gli occhi che facevano rimbalzare tra di noi il senso di smarrimento che ci accumunava.
«La tua famiglia è su Rasp» dissi, cauto. «Prigioniera».
Mariceli scosse lentamente il capo, ma parlò senza vergogna. «Oh, no. Stanno tutti benissimo. Mio fratello è militare». Fece una pausa in cui si lasciò sfuggire un sorriso intenerito. «Ha avuto una figlia, la quinta, e l’ha chiamata come me».
«È un sabotatore?»
«No, Cassian. Lui è … solo un uomo. Si arruolò che ero una bambina, non lo vedevo da tanto tempo».
Continuavo a non capire. Quella storia. La tranquillità con la quale la raccontava. Il perché me la stesse raccontando.
Mariceli colse il mio smarrimento e mi venne incontro. «Mio padre fu giustiziato come sovversivo» spiegò, paziente. «Mio fratello aveva una moglie, un figlio in arrivo. Si arruolò per non avere ulteriori problemi con gli imperiali».
«Come mai non andasti con loro?»
«Perché per me c’erano sempre stati altri progetti. Mio padre voleva che imparassi a riparare i sistemi di sicurezza come lui, e io volevo lo stesso. Quando mio fratello mi annunciò che ci saremmo arruolati assieme, gli risi in faccia. “Io faccio quello che voglio”, gli dissi, e mi rifiutai anche solo di uscire di casa. Mio padre era un radicale, sai. Aveva fatto un buon lavoro per farmi venir su in maniera simile. Ah, ero una bella testa calda». A lei scappò una risatina, io fui quasi tentato di cederle un sorriso. «Ad ogni modo. Ero furiosa, e me ne andai da casa poco dopo, imbarcandomi per Fest perché era il passaggio che costava di meno. Ero così offesa per le decisioni di Molan che non pensai nemmeno a dirgli addio».
«Quanti anni avevi?»
«Quando andai su Fest a fare la fame? Quattordici».
Mariceli era sempre stata una persona difficile; buona al comando, quasi impossibile da comandare. Lo realizzai in quel momento. A volte, mi chiedo se in altre circostanze saremmo mai stati in grado di andare d’accordo.
«Perché tuo fratello non torna?» le chiesi, scuotendo appena il capo. «Se fossi tu a spiegarglielo, il Capitano Halos …»
«Mah, credo che tutto sommato Rasp gli piaccia. Ha degli amici, un’altra moglie. Quel posto somiglia a casa nostra, come potrei chiedergli di cambiare?»
«Bé, tu lo hai fatto. E anche io».
Mariceli sospirò. «Cambiare è molto più facile quando si ha la tua età» mi disse. «Quando si arriva ad avere una famiglia, ci si ferma e non si va più avanti. Guarda Tylan: potevamo fare grandi cose, invece sono dovuta andare su Rasp da sola. Fest lo ha ingabbiato».
Trasalii, improvvisamente colto da un dubbio. «Mariceli» feci, titubante. «Perché me lo stai dicendo?»
«Cosa?»
«Tutta questa cosa di Rasp».
Lei alzò gli angoli delle labbra in un sorriso colmo di tristezza.
«Per metterti in guardia».
«Da cosa?»
«Io avevo una scelta: potevo restare su Rasp e vivere per sempre con il nome falso che mi avevano dato, con i miei nipoti, ma sono tornata. E vuoi sapere perché?» Alzò le spalle, poi si tirò la coperta fino al mento. «Perché l’Andor non ti lascia mai andare via, non del tutto. E te lo sto dicendo perché ora tocca a te scegliere. Tylan non ti caccerà di certo, ma la galassia è grande».
Allora non colsi appieno ciò che stava cercando di dirmi. Nella mia ottica, anche se non ci avevo ancora pensato, mi consideravo a tutti gli effetti un membro dell’Andor, un nuovo compagno un po’ acerbo, forse, ma pur sempre uno di loro. Non avevo neanche preso in considerazione il fatto che avevo una galassia in cui trovare un posto dove stare, perché inconsciamente davo per scontato che fosse l’Andor, il mio posto.
Seppur con la buona intenzione di spingermi a cercare ciò a cui veramente ambivo, invece, Mariceli aveva appena rimescolato le carte, lasciandomi davanti a un tavolo bianco, una pagina immacolata su cui più tardi avrei tracciato la nostra rotta.
«Vorrei che non fosse morto» mi sfuggì dalle labbra, mentre rabbuiandomi mi raggomitolavo su me stesso.
Mariceli annuì. «Anche io vorrei che mio padre non fosse morto» sussurrò, assumendo la mia stessa posa.
«Quanti ce ne sono, là fuori?»
«Di uomini?»
«Di padri, e di figli».
«Centinaia, credo. Forse migliaia addirittura».
Chiusi gli occhi e li sentii bagnarsi di lacrime, ma mi sforzai di non cedere alla tristezza. Centinaia di padri, di figli lasciati soli a fare i soldati a sei anni per crescere nell’angoscia dell’incertezza, nel gelo di un ghiacciaio, nella solitudine di essere sempre l’ombra di qualcun altro. E io, improvvisamente, non ero più uno di loro.
«Andiamo su Kessel» sussurrai, rialzandomi improvvisamente e passandomi le mani sul viso per ricompormi.
Mariceli si voltò a guardarmi, appoggiando una guancia contro il muro. «Su Kessel è impossibile infiltrarsi, cuore» sospirò. «Questo è un paradiso, rispetto a quel posto».
Io non me la sentii di demordere. «Stai scegliendo di nuovo l’Andor?»
Mi arrivò un soffio di fiato caldo sulla fronte, un sommesso ruggito che sapeva di rabbia. Pensai che mi avrebbe rimproverato, invece soffocò una risatina.
«Sfacciato, Harkor».
Calò il silenzio.
Io mi rimisi sotto le coperte e tentai di chiudere gli occhi senza ricordare di nuovo quelle tre parole messe in fila. Krasin Harkor, deceduto.
La voce di Mariceli mi raggiunse morbida quanto una carezza.
«Bel lavoro, con il blaster» mi disse.
Sospirai. «Non lo so ancora usare bene».
«Sulla Luna 4 mi hai gridato che non so smontare i fucili».
«Bé, è vero».
«Mi insegni?»
Mi voltai a guardarla, lanciandole un’occhiata stranamente serena. Dentro quella navetta, mi sentii improvvisamente al sicuro.
«D’accordo» acconsentii, annuendo cautamente. «Ora?»
Lei si allungò sul pavimento, recuperando il blaster che di solito portava legato alla sua cintura e che non avevo ancora avuto occasione di esaminare da vicino, dopodiché mi fece segno di uscire dalle coperte e recuperare il mio.
«Il primo che devi togliere è il mirino» le spiegai, mostrandole il procedimento sul mio stesso CFE. Il procedimento di base mi era stato spiegato dai miei compagni su Fest, ma avevo imparato da tempo a fare le cose a modo mio per accorciare i tempi. «Molti staccano prima l’accoppiatore rotante per togliere peso, ma fossi in te non lo farei». Le indicai la parte centrale del blaster. Lei mi seguiva con attenzione. «Vedi quello? È l’alimentatore al plasma, di solito è il primo che butto, perché la maggior parte delle volte è quello che muore per primo. Te ne tieni uno nella giacca e lo cambi al volo, così. Il tuo blaster è da distanza breve, quindi lascerei perdere il mirino, carica solo la mano. Oh, e quando lo rimonti, ricordati della sicura».
Mariceli eseguiva i miei ordini in attento silenzio, muovendo piano le mani sulla sua arma e maneggiandola con estrema cautela.
Impiegò minuti interi per un’operazione che io svolgevo con la stessa naturalezza di un respiro, ma non mi azzardai a correggerla. Dopotutto, con me lei era stata sempre paziente e accomodante.
Quando ebbe finito, rimase a osservare la sua opera con aria indecisa.
«Va bene, ci sto» sussurrò, alzando gli occhi su di me e porgendomi il blaster goffamente rimontato. «Domani finiamo con questo posto, poi avvertiamo Tylan e facciamo rotta su Kessel».
È difficile ricordarla senza lo sguardo deciso con cui mi osservò quella notte. La determinazione di cui ardeva la illuminava.








note

Lo so, lo so, lo so. Ci ho messo un sacco. Potete uccidermi, avete il permesso. Quello che è successo è che mi hanno riempita di lavoro fino alle punte dei capelli ho deciso di punto in bianco di cambiare un paio di cose e insomma, mi sono persa per strada. Però si tratta di una parentesi che si apre e chiude qui, con qualche ripercussione nel capitolo finale che a questo punto dovrò modificare *sob sob*
E nulla, si chiudono porte, si aprono portoni. Problemi si risolvono, problemi sorgono.
Ormai ne sono certa, per cui lo annuncio: i prossimi cinque capitoli saranno gli ultimi, la storia è stata già scritta per cui ... non so, tra poco sarete liberi (?). Intanto potete subirvi godervi un po' di salti nel passato, un po' di rivelazioni, un po' di tutto insomma, anche se questo giro non ci sono state crani spezzati. Recupererò.

AH! Prima di eclissarmi e tornare nell'antro oscuro ... ho fatto delle ricerche e ho scoperto che non solo il caffè esiste ed è ampiamente diffuso nell'universo di Star Wars (ma non avevo dubbi, chi è che tira su una ribellione senza il caffè?), ma addirittura l'Imperatore Palpatine ne possiede una piantagione privata! Insomma, mille motivi per appoggiare l'Impero e le sue piantagioni di caffeina. *wink*

Ho finito davvero.
Come sempre, ringrazio i lettori (silenziosi e non), gli affezionati e quelli che invece passano di qui per caso. Mi dispiace per voi.

Polli che guidano,
Lechatvert




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Capitolo 11
*** parte undicesima – game show ***


saboteur



«Generale Draven».
«Orin Halos».
«Ho guardato nella scheda che mi ha dato. Credo la dovrebbe riavere».
«Ma il Capitano Andor la lasciò a lei».
«Sì, per raccontarmi come andarono le cose con mio padre e mia madre».
«Sono confuso».
«Bé, non la mia madre-madre, la seconda moglie di mio padre. Si prendeva cura di noi. Quando scomparve ero un ragazzino, mi dissero che quel genere di cose capitavano spesso a chi ficcava il naso nelle faccende imperiali».
«E che motivo aveva il Capitano Andor di raccontarle qualcosa sulla sua matrigna? Erano passati dieci anni da quando vi eravate visti l’ultima volta, no?»
«Sì, bé, non credo serva una buona ragione per ricordare qualcuno. Mi hanno detto che era diventato un uomo abbastanza tormentato; avrà voluto liberarsi di qualche peso per ricominciare da capo».
«Questo non spiega ancora perché vuole che sia io ad avere la scheda madre».
«Perché Cassian Andor non ha messo queste informazioni su una memoria a caso. A modo suo, ha saputo far sopravvivere la sua squadra».
«Vuole dire …?»
«La scheda, sì. L’avevo montata su un droide protocollare a caso, ma ha iniziato subito a mettere le cose in chiaro».
«E allora?»
«Dopo che mi ha raccontato la verità, sono stato io a dovergli dire come sono andate le cose dal momento in cui il Capitano Andor fece il backup della scheda».
«Gli mancava il pezzo finale. Scarif. Quando morirono tutti».
«Già, e quando gli ho riferito come sono andate le cose lo sa che cosa mi ha chiesto?»
«Cosa le ha chiesto?»
«Di rimuoverlo e non attivarlo mai più. Senza Andor, non aveva più senso restare».










PARTE UNICESIMA – GAME SHOW


Quella mattina, mi svegliai con in bocca il sapore asciutto della carne che avevo mangiato la sera prima.
Mariceli era rannicchiata sul sedile di pilotaggio, gli occhi stanchi proiettati verso il nulla che albeggiava, le labbra sottili schiuse in un’espressione vuota. Sorseggiava del vino bollente avvolta in una coperta per tenersi al caldo. Aveva le cuffie calcate sulle orecchie, la musica alta che ascoltava quando pensava, e quando la vidi non potei fare a meno di chiedermi se non fosse a me, che stesse pensando con così tanta intensità da corrugare la fronte dinanzi al niente.
Non lo seppi mai.
Come mi sedetti accanto a lei, si sfilò le cuffie dal capo e mi scoccò un’occhiata incerta.
«Va tutto bene?» le chiesi, sprofondando nel sedile del copilota.
Annuì. «Aspettavo l’alba» rispose. Abbassò il capo e tutti i capelli la seguirono in un movimento fluido che le coprì il viso. «Ma mi sa che oggi ci conviene andare prima; siamo indietro con le diagnostiche».
Per l’ultima volta, nel cortile della sede centrale del Campo di Lavoro di Wobani, Mariceli e io diventammo rispettivamente Hora e Joreth Sward.
Già di prima mattina, fummo raggiunti al magazzino da un paio dei colleghi con cui ci eravamo intrattenuti il primo giorno di lavoro e, tra un rimprovero e l’altro per non esserci fatti vedere la sera prima, ricevemmo alcune informazioni che spazzarono via quel vago senso d’inquietudine che le mattinate gelide come quella mettono addosso.
«Hanno scoperto che c’era una talpa tra gli ufficiali» ci confidò uno dei tecnici informatici, scuotendo il capo con desolazione. «Ieri è sparito un sottufficiale. Kardal, non so se l’avete mai sentito nominare. Mentre mi facevano indagare sul suo conto, ho scoperto che ha passato tutto il pomeriggio a ficcanasare tra i file dei detenuti. Ve lo dico io: quello là era una spia di chissà chi che adesso se l’è data a gambe dopo aver trovato quello che gli serviva. La sicurezza qui fa schifo».
Seppur continuando a lavorare, io e Mariceli ci scambiammo un’occhiata d’intesa.
«In effetti era parecchio strano, quel Kardal» buttai lì, sbirciando all’interno del corpo aperto dell’astrodroide di cui ci stavamo occupando. «Te lo ricordi, Hora? Continuava a blaterare di quei tali … come si chiamavano? Darsten, Corrino, Worti … una cosa del genere».
Darsten, Corrino, Wortin, Sprax, Amavia. Sognai quei nomi per anni e ancora oggi non fatico di certo a ricordarli. Ironicamente, di Wobani mi sono rimasti impressi nella testa più i morti dei vivi.
Mariceli mi resse il gioco con una maestria che le ho invidiato per tutta la vita. «Ah, già» rispose, facendo spallucce. Portava ancora gli occhiali dalle lenti scure sul capo, e se li abbassò sul viso per ammiccare un poco e strappare una risatina al nostro collega mentre si apprestava a recuperare un paio di cavi da saldare. «Tra una lamentela e l’altra al reparto informatico, diceva anche qualcosa del genere».
«Stronzate» sbottò il nostro amico, a dir poco indignato. «Siamo stati noi del tecnico a mettere a posto quei file. Era tutto caricato in rete, e proprio Kardal ci fece togliere praticamente qualsiasi dettaglio dai file informatici per archiviare tutto con gli effetti personali nel vecchio magazzino del Settore 2. Ordini dall’alto, ci disse. Sicuro lo avrà fatto per approfittarsene».
Mariceli smise di lavorare per un istante, arricciando il naso in una smorfia compiaciuta che però non andò più in là della sciarpa rossa che portava stretta al collo.
«È sempre la stessa storia» riprese il nostro amico, e stavolta voltò i tacchi per lasciarci lavorare in pace. «Quaggiù si infiltra qualcuno, e sono costretti a muovere tutte quelle persone da qualche altra parte prima che qualcuno le trovi».
Improvvisamente, senza che dovessimo neanche faticare a comprenderlo, ci fu chiaro perché gli Scomparsi erano stati trasferiti da Rasp a Wobani e poi da Wobani a Kessel.
Qualcuno li stava cercando, e quel qualcuno non eravamo soltanto noi.



*


«Sei sicura?»
«A-ah».
«Davvero?»
«Sì».
«Azzardarsi a fare una mossa simile – solo perché te lo ha detto Cassian, tra l’altro – abbassa di molto le nostre possibilità di riuscita, spero tu te ne renda conto. Tylan non sarebbe d’accordo».
«Kappa, dacci un taglio».
«Aspetta, io credo che Kappa abbia ragione».
«Ti ci metti pure tu?»
«Ho un pessimo presentimento».
«Kappa!»
Mariceli aveva un blaster appeso alla cintura e la sciarpa rossa del Capitano Halos legata intorno al braccio. Pur mantenendo una certa eleganza nei movimenti, senza il suo bastone trascinava un po’ la gamba malata, costringendoci a procedere con un’andatura più lenta di quella che io e Kappa avremmo sostenuto.
Aveva sospirato di dolore per un’ora intera, chiusa nel magazzino, ma era riuscita a stringere talmente tanto lo stivale attorno al piede da farlo sembrare quasi del tutto dritto. Dentro ci aveva messo anche un cacciavite per tenerlo in posa e almeno cinque fascette da cavi per fissarlo alla caviglia, ma era un dettaglio di cui soltanto io ero a conoscenza. Dall’esterno, la differenza con la gamba sana era impercettibile.
Su Rasp non ero riuscito ad accorgermene per via del trambusto; ora che la vedevo sotto le luci elettriche del corridoio, però, non potevo sfuggirle: Mariceli Solpea in uniforme imperiale incuteva molto più timore di un assaltatore. Con i capelli raccolti sotto al berretto e il viso pulito dalla polvere del magazzino, pareva sì incredibilmente più giovane, ma l’espressione che aveva da quando si era messa quella divisa era dura, risentita.
Era diventata un’altra persona.
«Ingegnere informatico Lethro Duine, numero identificativo quarantadue-quarantaquattro-sedicizeronove» esordì, fermandosi dinanzi all’uomo di guardia alla porta d’accesso al Settore 2.
Io, che tecnicamente ero ancora Joreth Sward, mi misi ben composto accanto a lei senza osare respirare. Alla mia sinistra, Kappa ronzava calcolando chissà quali pensieri.
L’uomo alla guardiola assottigliò lo sguardo sul gruppo che gli si era appena presentato davanti. Un ingegnere, un tecnico informatico e un droide di sicurezza. Chissà cosa pensava di noi. «4244 non era il prefisso di Rasp?» chiese, battendo le dita sulla tastiera del suo computer.
Mariceli annuì. «Sono stata su Rasp fino alla settimana scorsa. L’identificativo nuovo deve ancora arrivare».
«Infatti non è nei sistemi».
«Ovvio che non è nei sistemi» sbottò Kappa, muovendosi lentamente. «Ti ha detto che non ha ancora l’identificativo nuovo».
Mariceli alzò le spalle. «Lo hai sentito» rispose, sospirando rumorosamente così da far sentire bene la sua esasperazione. «Me lo hanno rifilato perché dicono che quelli di Rasp lavorano poco. Per favore, fammi passare così la smette di rompere. Il ragazzo, qui, lavora con me nel Settore 5. I suoi documenti dovrebbero essere in regola».
Riuscimmo a convincerlo.
Come previsto dal nostro precario piano – prodotto all’ultimo minuto tra un droide in diagnostica e l’altro – il Settore 2 del Centro di Detenzione di Wobani non era altro che un unico, enorme archivio fisico. È probabile che, dalla nostra prima visita, tutto sia stato rivoluzionato: all’epoca si trattava di scaffali e scaffali di contenitori recanti ciascuno il numero identificativo di un prigioniero, colonne intere di ricordi catalogati con minuzia che si perdevano negli altissimi soffitti di tre enormi saloni. Angosciante.
Ricordo che, mentre io procedevo nel vuoto delle mie considerazioni, Mariceli osservava quelle scatole con lo stesso sguardo che aveva rivolto a suo marito durante la loro litigata a bordo dell’Andor. Per un istante, fu come se le volesse prendere a pedate una per una, decisa a scoprire cosa contenesse ciascuna di loro per farsi raccontare ogni più piccolo segreto.
«Kappa, al computer» ordinò, tenendo il naso puntato verso l’alto come se avesse già trovato il suo obiettivo tra le migliaia di contenitori che ci osservavano in silenzio. «Darsten, Corrino, Wortin, Sprax, Amavia. Per cominciare». Buttò a terra lo zaino che si era portata dietro e si mise con tranquillità a montare il fucile nella maniera che le avevo insegnato la notte prima.
«Che fai?!» esclamai, strabuzzando gli occhi. Mi guardai intorno, spaventatissimo, incapace di tranquillizzarmi anche quando realizzai che eravamo soli.
Lei si tolse il berretto, lo lanciò via con fare sprezzante, e nel mentre mi scoccò un’occhiata severa. «Cosa pensi che succederà quando quel tizio chiamerà l’ufficio e scoprirà che Lethro Duine ha dirottato un guscio di salvataggio e ucciso un assaltatore?» chiese, retorica. «Il Sottufficiale ci ha messo mezza giornata per smascherarci. Direi che questo giro abbiamo un quarto d’ora al massimo».
«Lo sai» fece Kappa, obbediente come sempre anche se non meno polemico. «Sono davvero curioso di sapere come progetti di uscire da qui».
«Ci inventeremo qualcosa».
«Detesto ripetermi, ma trovo che …»
Mi intromisi con uno sbuffo. «Lasciala stare, Kappa» commentai, alzando le spalle. Mollai il mio zaino a terra mi agganciai il blaster alla cintura. «Pensiamo a fare veloci e a trovare un’uscita prima che quegli altri trovino noi».
Mariceli annuì. «Mi sembra un buon piano».
C’era un gancio automatico che si occupava di andare a recuperare i contenitori più distanti, mentre per quelli ad altezza uomo era stato costruito un corrimano al quale ci si poteva appoggiare. Decisi di cominciare a sfogliare qualche documento accessibile senza bisogno di Kappa, tanto per tenermi lontano dagli altri miei due compagni che intanto avevano ricominciato a battibeccare.
Ebbi una fortuna quasi sfacciata: dopo soltanto una ventina di nominativi, capitai davanti al contenitore di un certo Eboi Sprax.
«Darsten, Corrino, Wortin, Sprax, Amavia» ripetei, quasi ipnotizzato, mentre estraevo la scatola dalla sua colonna. «Ho trovato Sprax!»
Accanto a Kappa, Mariceli stava agitando in aria un fascicolo. «Io ho Corrino. Vediamo cosa ci hanno lasciato».
La scatola era piena delle cose che un uomo ha addosso quando l’Impero lo cattura. Indumenti sporchi di terra, un berretto di lana, il mazzo di chiavi della casa a cui non aveva mai fatto ritorno … mi chiesi se anche nella scatola di mio padre ci fossero oggetti simili. Per quanto mi sforzavo, non riuscivo a ricordare cos’aveva con sé il giorno in cui scomparve.
A fatica ingoiai un nodo di lacrime e mi costrinsi ad andare avanti.
Sotto alla camicia logora di Sprax, trovai un taccuino.
«Strano» mormorai, sfogliandolo. «Mariceli, guarda: c’è lo stesso numero ripetuto su ogni pagina». Era una sequenza a sei cifre seguita dalla lettera A rovesciata, una specie di intestazione lasciata sul margine. «Dici che può voler dire qualcosa?»
Lei corrugò la fronte. «Aspetta, aspetta» rispose, aprendo il fascicolo che aveva appena richiuso. «Guarda qui». Mi allungò l’immagine di un cadavere disteso su quello che pareva essere un tavolo autoptico.
Istintivamente, mi ritrassi. In mente mi era tornata la faccia distrutta di Kardal; nelle narici, invece, era tornato l’odore ferroso del sangue che insudiciava il muro e le mani di Kappa. Ancora oggi trovo strano come la vista di quell’uomo appena ucciso non mi scosse mai così tanto come il suo stesso ricordo.
«La clavicola» sbottò Mariceli. «Guarda la clavicola».
Dovetti costringermi, ma il ribrezzo lasciò immediatamente il posto allo stupore. Lungo la spalla, allineati verso l'interno del petto, erano stati tatuati dei numeri seguiti dallo stesso simbolo del taccuino.
«Sei cifre» sussurrai, illuminandomi. «L’identificativo di un corpo?»
«No, direi che questo qui Corrino se l’è fatto da solo. Guarda come è incerto il tratto».
Ci voltammo verso Kappa e recuperammo la terza scatola appena posata a pochi passi da noi dal braccio meccanico.
«Amavia» annunciò Mariceli. Dalla foga, per poco non strappò il coperchio.
Stavolta, le cifre erano state incise sulla protesi meccanica di un anulare. Sei piccoli numeri sempre diversi e quel segno alla fine.
«È un codice» dissi, affascinato. «Ma come hanno fatto gli imperiali a non accorgersene?»
Mariceli ripose la protesi nel suo contenitore. «Oh, se ne sono accorti eccome» rispose. «Ma non è un codice. È un messaggio». Si portò entrambe le mani al viso, stringendolo piano mentre dondolava leggermente negli stivali alti della divisa. «Che stupida» sussurrò. «Non sono ribelli, sono messaggeri. E qualcuno li sta cercando. Ma per cosa?»
Già, per cosa? Quello era il pezzo mancante, la chiave senza la quale ci era impossibile leggere l’intera opera.
Mi sforzai di pensare.
Persone diverse, provenienti da pianeti diversi e che con tutta probabilità non avevano mai avuto alcun contatto tra loro, portavano addosso un messaggio in codice. Codici diversi, in realtà, il che lasciava presumere che si trattasse di messaggi diversi. Potevamo tradurli? Il fatto che l’Impero si fosse preso la briga di trasferire dei semplici uomini su Kessel mi faceva credere che nemmeno i crittografi di Wobani fossero riusciti a dare un senso a quei numeri. Però, se si davano tanta pena, dovevano per forza avere un’idea abbastanza precisa di chi fosse il mandante.
Mi accorsi che mancava la parte più importante. C’era il messaggio, il mittente, il messaggero … ma dov’era il destinatario?
«Se fossi un imperiale e intercettassi un messaggio importante» dissi, cercando l’attenzione di Mariceli. «Andrei a chiedere spiegazioni direttamente a chi questo messaggio lo deve ricevere, no?»
Lei annuì. «Ha senso» rispose. «Ma forse non conoscono la sua posizione».
«In quel caso sarebbe bastato seguire chi portava questo codice addosso, no? Ne hanno trovati a decine» Avevo in mente un’idea ben precisa di quello che avevamo trovato, anche se non ero del tutto certo fosse un’intuizione legittima. «E se non esistesse, un destinatario? O meglio, se non ne esistesse uno nello specifico?»
«Che intendi?»
«Propaganda. Su Fest ce n’è ovunque per convincere la gente a seguire l’Impero. Pensaci: è evidente che abbiano un’idea più o meno precisa di chi è il mittente, c’è il messaggero … ma nessuno ad aspettarlo, perché non è un messaggio per una sola persona. È un messaggio per chiunque sia disposto a leggerlo. È per questo che li vogliono fermare. Perché portano propaganda contro di loro in tutta la galassia».
Mariceli sgranò gli occhi scuri. «Oh, Cassian» sussurrò. Poi mi posò una mano sulla spalla. «Questa propaganda deve dire qualcosa di veramente pericoloso se si impegnano così tanto per distruggerla».
Dallo sguardo che ci scambiammo, capii che entrambi non vedevamo l’ora di scoprire cosa avevamo tra le mani, il che poteva avvenire soltanto in un caso: Kessel.
Presi la fotografia del cadavere e la misi nel taccuino. Quello sarebbe stato il nostro unico bottino. «Andiamo?» chiesi, e Mariceli annuì.
Riprese il fucile e iniziò a smontarlo con fare leggero, avvicinandosi alla porta a piccoli passi. «Hai visto, Kappa?» disse, sospirando. «Facciamo in tempo ad andarcene via tutti interi».
Come si dice? La fortuna aiuta gli audaci. Già al tempo stentavo a crederci, ma il bello di essere ragazzi è quello di riuscire ad avere fiducia in un disegno più grande anche quando si sta con l’acqua alla gola.
In un certo senso, Mariceli mi insegnò che la fortuna aiuta chi le pare e piace, indipendentemente dal coraggio che qualcuno può mettere in ciò che fa. Lei, per esempio, di coraggio ne ebbe sempre da vendere.
Coraggio solo secondo alcuni, certo. Kappa la chiama ancora presunzione. Io credo che un sangue freddo del genere dovesse per forza di cose venire da una qualche consapevolezza alla quale nessuno osa aspirare. Era come se sapesse cosa c’è oltre al buio, come se l’idea di morire non fosse in fin dei conti peggiore di tante altre. Forse aveva semplicemente imparato ad accettare che ogni cosa ha una fine.
In quel momento, però, credo fosse troppo impegnata ad autocelebrarsi per tenerne conto.
Con l’ultimo pezzo del suo fucile ancora in mano e con un sorriso a dir poco compiaciuto stampato sul viso, premette il tasto d’apertura della porta. Non credo si aspettasse davvero di tornare fino allo speeder senza problemi, tuttavia ritrovarsi di colpo senza i comandi dell’uscio dovette coglierla parecchio di sorpresa, poiché prima di attaccarsi all’interfono la vidi arretrare con un balzo spaventato. La porta non si apriva.
«Problemi nel Settore 2» sospirò, scoccandomi un’occhiata nervosa mentre parlava a chiunque fosse in ascolto dall’altra parte. «Siamo rimasti chiusi dentro, l’interfaccia non risponde ai comandi».
La voce che ci rispose fu quella dello stesso uomo in divisa che ci aveva garantito l’accesso. Nel momento in cui lo realizzai, capii di essere finito in trappola.
«Ho controllato» blaterava intanto la guardia. «Pare che Lethro Duine abbia fatto un po’ di danni al centro di Rasp, prima di andarsene. Ho avvertito la sicurezza».
Scoccai a Kappa un’occhiata preoccupata, lui rispose scuotendo il capo. “Io lo avevo detto” mi disse il suo sguardo, e per la seconda volta da quando eravamo arrivati là quella mattina mi ritrovai ad appoggiarlo.
Mariceli sospirò rumorosamente.
 «Ti sei fatta beccare due giorni su due» le fece prontamente presente Kappa. «Le possibilità che tutta questa storia vada …»
Lei lo interruppe con un gesto secco della mano. «Ventinove percento» sibilò.
«Non sarei così drastico, questo posto ha degli ottimi condotti di aerazione che sono troppo diramati per essere tenuti sotto controllo».
Io e Mariceli ci guardammo con fare titubante. Nessuno di noi pareva molto attratto dall’idea, ma contro la morte c’è poco da fare gli schizzinosi.
A convincerci del tutto, fu il vociare dei soldati dall’altra parte della porta.
«Fossi in voi me ne andrei» ci avvertì Kappa.
Staccai il blaster dalla cintura e lo portai all’altezza del viso, pronto a prendere la mira. Mariceli si infilò la canna del fucile nella cintura e impugnò l’arma che portava legata in vita.
«Kappa, copertura. Cassian, tu apri la strada, io ti faccio da spalla. Al mio tre».
Sentii con una chiarezza fin troppo lucida il guizzare dei circuiti della porta, la quale si aprì poco dopo quasi a rallentatore, permettendomi di studiare le dieci figure bianche che si riversarono all’interno degli archivi.
«Kappa, quando hai tempo!» sbottò Mariceli, ordinandomi nello stesso momento di retrocedere con un secco gesto del braccio. Si buttò dietro il tavolo dei comandi del braccio meccanico e iniziò a sparare con talmente tanta foga che dubito avesse un obiettivo preciso. «Forza!»
Trovarmi nel bel mezzo di una sparatoria mi ricordò le luci di Fest. Il fischiante rumore dei colpi al plasma mi saettava intorno come tante urla soffuse nell’aria, mentre quanto più velocemente possibile retrocedevo rispondendo ai colpi tra un passo e l’altro.
In fondo alla stanza c’era la grata dei condotti di aerazione, un angusto passaggio rettangolare che affogava nel buio. La feci saltare con un colpo di blaster e mi ci infilai dentro quasi di peso, utilizzando il muro stesso come protezione. Poi liberai Mariceli dell’impiccio di due assaltatori che le stavano rendendo impossibile la fuga.
«Via libera!» gridai, preparandomi a farle posto. Con le mani tastai il ferro gelido che mi circondava. I condotti andavano avanti per un paio di braccia al massimo; dall’aria fredda che mi investì, immaginai che da qualche parte davanti a me ci fosse una voragine.
Mariceli mi spostò con una manata in faccia, buttandomi in avanti a prendendo la mia stessa posizione sul bordo. «Kappa!» gridò, sparando a un bersaglio che non vidi. Poi si voltò verso di me e mi strappò il blaster di mano. «Dammi questo coso!»
Mi riaffacciai al buco, controllando quello che ormai era diventato un vero e proprio campo di battaglia.
Erano rimasti soltanto tre assaltatori, ma quanto sarebbe passato prima della seconda ondata? Magari sarebbe stata ancora più numerosa.
Intanto, Kappa teneva duro mentre i colpi di blaster che riceveva rendevano i suoi movimenti sempre più scattanti.
Guardai Mariceli e le vidi il fuoco negli occhi.
«Posso prenderli» mi offrii, protendendomi sfacciatamente verso di lei con la mano aperta a reclamare il mio blaster.
«No, ormai è andato. Non potrebbe comunque scendere quaggiù, è troppo grosso. Maledetto Tylan che deve sempre esagerare anche con i droidi».
«Ma … conosce la rotta!» protestai. «Se lo prendono, Fest …» Istintivamente, il mio pensiero andò alla famiglia del Capitano Halos. «Mariceli, ridammi il blaster!» urlai.
Lei mi scoccò un’occhiata impregnata di una calma che mi fece raggelare il sangue nelle vene. «Lo so» rispose, abbassando di colpo la voce. Mi allontanò con uno spintone che mi fece cadere di schiena sul ferro, poi si appoggiò all’apertura per prendere la mira.
Non provai più nemmeno a oppormi.
«In gamba, Andor Tre».
Aprì il fuoco.
Attraverso le grate che mi ritrovai di fronte, vidi Kappa morire per la prima volta.








note

Buongiorno a tutti! Come va?
Credo che questo sia uno dei capitoli più lunghi che ho fatto fino ad ora ... *piena fase di negazione per quello che ha scritto poco sopra*.
Insomma niente ho trovato queste immagini davvero carinissimeh uno due :D
Nulla, non so davvero come scusarmi. Non lo so e basta.
Fruste e schiaffi gratis sono disponibili sulla destra, veramente mi rimetto a voi per la mia punizione.
Uhm, nel prossimo capitolo torna una vecchia conoscenza :D *ci mette le pezze*

Paperelle (le avevo già messe? Sono così dolci<3),
Lechatvert




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Capitolo 12
*** parte dodicesima – bugs ***


saboteur



«Ehi, muso lungo. Ripensamenti? Ormai siamo quasi fuori dall’iperguida, è un po’ tardi per farsi prendere dal panico».
«…»
«Cassian?»
«Jyn. Scusa, mi ero distratto».
«Che stai guardando?»
«Quel tizio laggiù con la stampella. Vicino a Calfor».
«Ci ho parlato prima, pare uno a posto. Quindi?»
«No, niente. È solo che ha un che di familiare».
«Probabilmente perché avete avuto degli screzi».
«Come?»
«Parole sue».
«Ti ha detto il nome?»
«Uhm, ha detto di chiamarsi Sward».
«…»
«Cassian?»
«…»
«Cassian, stiamo uscendo dall’iperguida. È ora».
«Sì … arrivo».













PARTE DODICESIMA – BUGS


Calò una notte in cui morirono molte persone.
Hora e Joreth Sward per primi, dimenticati da chiunque dopo che si scoprirono essere identità fittizie. Morì anche l’Ingegnere Lethro Duine. Morì Willix. Morì Kappa. In qualche strana maniera, morimmo anche io e Mariceli.
Fu come se tutta la sicurezza che avevo guadagnato in quei giorni fosse stata gettata alle fiamme. Mi sentivo di nuovo solo, infreddolito. Abbandonato.
Mariceli era talmente presa a salvare la pelle a entrambi che di colpo era come se non esistessi.
Mai come in quel momento sarei voluto tornare su Fest, sopportare di buon grado il gelo e fingere che niente di tutto quello fosse mai accaduto. Continuare a credere che mio padre fosse vivo da qualche parte, un prigioniero che un giorno potevo sperare di liberare.
Invece non avevo più niente.
Trascorremmo la sera nascosti come bestie, strisciando quanto più silenziosi possibile da un condotto di aerazione all’altro, l’orecchio sempre teso per cercare di capire quale fosse la situazione sul fronte nemico.
Kappa aveva ragione: la rete dei condotti era troppo estesa per essere controllata, e d’altronde tracciare un nostro papabile percorso era a dir poco impossibile. Così, anche se impiegammo un po’ ad accorgercene, decisero di eliminarci alla stessa maniera dei parassiti.
Cominciò tutto dalla paura.
Realizzai all’improvviso, mentre a carponi procedevo nell’oscurità, che non avevo alcuna garanzia di uscirne vivo. Nessuno mi aveva mai assicurato la salvezza ed ero stato io stesso a liquidare ogni dubbio con l’enorme fiducia che nutrivo nei confronti nell’Andor, per altro infondata visto che a stento ne conoscevo l’equipaggio. Era stato un salto nel vuoto, e stavo per cadere.
Di colpo, la prospettiva di morire mi martellò nel petto assieme al mio cuore impazzito, obbligandomi a fermarmi nel mezzo di un condotto con la testa che girava e i polmoni che non riuscivano più a darmi abbastanza aria per permettermi di restare lucido.
Cominciai a iperventilare e, nella foga di cercare aria, mi portai istintivamente le mani al collo affondando le dita nella pelle tesa.
Mariceli fu tempestiva. Raggiungendomi, mi circondò il capo con il braccio, quasi obbligandomi a restare fermo. «Che succede?» sussurrò, stringendosi piano a me. Era fredda come il ghiaccio; istintivamente pensai che fosse già morta.
«È un attacco di panico» mi sforzai di rispondere, deglutendo a fatica mentre sentivo il torace contrarsi con forza ai tentativi del fiato di fuoriuscire e costringermi a tossire. Improvvisamente, mi appiattii al suolo con addosso la sensazione di stare precipitando. «A volte ne ho. Sto bene. Non fermiamoci».
Non era un attacco di panico, lo sapevo fin dall’inizio. Gli attacchi di panico non mi avevano mai portato le vertigini, ma sul momento diedi la colpa alla situazione ben più tragica di quelle che mi ero ritrovato ad affrontare prima di allora.
Non avevo ancora idea della freddezza che l’Impero mette nell’eliminare i problemi.
Mariceli cominciò ad accusare i primi sintomi non appena sbucammo in un canale verticale simile a quello che avevamo usato per lasciare il Settore 2, una specie di colonna di ferro che saliva fino al tetto per permettere al reparto tecnico di occuparsi dei guasti.
Eravamo aggrappati alla scaletta per la manutenzione, entrambi così deboli che guardandomi indietro mi chiedo come facemmo a non renderci immediatamente conto di ciò che ci stava succedendo.
Già da una manciata di minuti sentivo la voce di mio padre, continuamente sovrapposta a quella del Sottufficiale Kardal, di Kappa, di Tivik. Come se tutta quella storia fosse diventata un’unica, grande pena da sopportare.
«Non ce la faccio» sussurrai, a un passo dal mollare la presa sulla scaletta e lasciarmi cadere nel vuoto. Non riuscivo più quasi a distinguere dove finissero le mie mani e dove cominciasse il ferro.
Abbassando lo sguardo più per stanchezza che per preoccupazione, notai che anche Mariceli procedeva alla cieca. Pallida come un morto e madida di sudore, sembrava sul punto di mollare quasi più di me.
Ci fermammo su una piattaforma fatta di quadri elettrici, lasciando andare la scala con così tanta spinta che per poco non cademmo entrambi di sotto.
«Saliamo in alto» sussurrò Mariceli, tirandosi in piedi fino all’unica interfaccia digitale sopra ai cavi a vista. Provò a digitare qualche cifra sullo schermo, ma il tentativo non sembrò dare risultati. «Cassian» sussurrò allora, chinandosi in avanti e sputando un grumo di sangue. «Va’ in alto; ci stanno avvelenando».
Formonitrile. Lo scoprii anni dopo, quando con Kappa feci saltare i magazzini di un centro agricolo imperiale. Su Wobani, combattevano gli infiltrati facendo passare nelle condutture del gas antiparassitario. Inodore, poco costoso, basato sulla stessa formula delle pillole che oggigiorno l’Alleanza Ribelle fornisce ai suoi agenti sotto copertura per prevenire le torture con il suicidio. Immagino che se in quell’occasione riuscimmo a farla franca fu meramente per la mia prontezza di spirito.
Con la mente annebbiata dal veleno, mi chiesi se saremmo morti lì, ingabbiati in un tubo di ferro pieno di gas, senza che nessuno si preoccupasse di venire a recuperare i nostri corpi. L’idea del mio cadavere marcio e sciolto dal tempo mi provocò un conato di vomito che soffocai a fatica.
“Dobbiamo uscire da qui” pensai, trovando nella mia sola ostinazione l’energia per non lasciarmi andare.
Imparai in quel momento che non è immaginare di morire, a motivare gli uomini. È immaginarsi morti.
Con intraprendenza, strappai una manica della divisa e me la arrotolai intorno al viso, stretta abbastanza da rendermi difficile persino parlare. Mariceli fece lo stesso con la sua sciarpa.
«Vedi di starmi dietro» mi raccomandai. L’idea di lasciarla là non mi sfiorò nemmeno per errore.
Talvolta mi chiedo cosa sia cambiato da allora, cosa mi abbia portato dall’idealismo dell’eroe alla freddezza di un soldato. Si cresce, si cambia, si vedono gli amici morire nella stessa maniera dei nemici. Mentirei se negassi di aver passato momenti in cui vita e morte si sono sovrapposti così sinuosamente da sembrarmi indistinguibili. Ciò che vedevo a sedici anni è molto diverso da ciò che vedo a ventisei.
Ad ogni modo.
Ritrovando quell’ultimo barlume di energia che ancora possedevamo, riuscimmo in qualche modo a trascinarsi fino al livello superiore.
Sfondai una botola appena fummo nel Settore 8 e sbucai con Mariceli all’interno di uno spogliatoio. Assieme bloccammo la grata con degli asciugamani, dopodiché la fissammo di nuovo, piazzandoci davanti un armadio pesante abbastanza da premerla contro la parete. Pregammo affinché quella riparazione improvvisata bastasse per non intossicare tutto il corridoio; non avevamo veramente la forza di fare di più.
Passammo un tempo indefinito a crogiolarci nella frescura di un’aria che ci sembrava finalmente pulita e fresca, tossendo e sputando di tanto in tanto nodi di saliva insanguinata. Difficilmente mi sono trovato ad apprezzare una superficie orizzontale come feci in quel momento ma, nonostante tutto, sapevo che quella sensazione improvvisa di pace non sarebbe durata che il tempo di riprenderci.
Imploravo il mio stesso corpo di alzarsi, quando Mariceli trovò non so dove la forza di alzare il braccio e stringermi la mano.
«Non è tutti i giorni così» mi assicurò. Anche con la bocca sporca di sangue sapeva sempre trovare qualcosa di incoraggiante da dire.
Di mio, non riuscii a fare altro che ad annuire. «Sì, lo immaginavo».
Dopodiché, credo, perdemmo i sensi entrambi e ci concedemmo finalmente un po’ di riposo.
Non so se fu il gas, la congestione, la paura, oppure un tentativo disperato della mia mente di tirarmi fuori dai guai, ma sognai di avere dei figli. Sei, tutti diversi, alcuni persino più vecchi di me. Mi correvano incontro, tirandomi per le maniche della giacca, ricombinandosi sempre in linee diverse, in disegni fatti di persone in cui anche io ero coinvolto. Solo che ogni volta i miei figli cambiavano e io restavo lo stesso.
Di colpo, seppur sognando, realizzai di aver afferrato la soluzione.
Aprii gli occhi lentamente, destato dall’improvvisa realizzazione di essere rimasto in bella vista in uno spogliatoio imperiale quando probabilmente mezzo pianeta ci stava dando la caccia.
A pochi passi da me, seduta per terra con una bottiglia in mano, Mariceli mi rivolse un sorriso caldo. «Vuoi acqua?» mi chiese. Aveva un panno avvolto attorno al capo che gocciolava sul pavimento. «Di là c’è un lavandino».
Il fatto che avesse trovato da bere mi sembrò la notizia migliore degli ultimi due giorni.
Mi avvicinai cautamente, ben lontano dal provare ad alzarmi in piedi, e appoggiai la schiena al muro. Mi girava ancora la testa.
Mariceli versò dell’acqua su un asciugamano e me lo avvolse attorno al capo per far passare lo stordimento del gas.
«Ho capito» sussurrai, tirandola per la manica della divisa e costringendola a guardarmi mentre tiravo fuori il taccuino. «I messaggi. Sono coordinate radio» spiegai. «Guarda questi numeri, pensali come delle persone in fila che si muovono. Ogni volta che cambiano posizione la sequenza cambia, ma il contenuto rimane sempre lo stesso».
Lei corrugò la fronte. Lentamente, si passò la lingua sulle labbra. Poi affondò il viso nella manica della giacca e sputò del sangue. «Sono i risultati di un algoritmo» mormorò, affaticata. «Per calcolare delle coordinate che cambiano in base al luogo da cui ci si vuole connettere. Il messaggio è uno solo».
«Esatto, ed ecco perché l’Impero non lo riesce a decifrare: non c’è proprio niente da decifrare. Basta connettersi alle coordinate giuste e il messaggio è accessibile a chiunque».
«Allora perché tutta questa segretezza?»
«Deve esserci qualcosa che non capiscono sull’unica cosa che non cambia mai: la A rovesciata».
Mariceli mi osservò tutto il tempo, attenta alla mia spiegazione quasi pendesse dalle mie labbra. Alla fine, alzò la mano e me la poggiò sul capo, scompigliandomi giocosamente i capelli in un gesto debole ma colmo d’affetto.
«Lo vedi che avevo ragione?» sbuffò, e mi sorrise. «Sei proprio un ragazzo sveglio. Dovrebbero metterti nell’intelligence. Ci sai fare».
Alzai le spalle. La verità era che esprimere due soli concetti mi aveva fatto tornare le vertigini, se mai se n’erano andate.
Ci riappisolammo entrambi dopo aver collocato una fila di armadietti di ferro lontani abbastanza al muro per farci un po’ di spazio dietro di essi. Se qualcuno fosse entrato per un’occhiata veloce, pensavamo, non avrebbe notato la differenza.
Non avevamo idea se fosse notte o giorno, se qualcuno là fuori ci stesse ancora cercando, se l’allarme fuggitivi fosse cessato. Continuavamo a svegliarci e a riaddormentarci mentre, tutto intorno a noi e vestito di una semplicità disarmante, c’era soltanto il silenzio.
Imparai ad avere pazienza, e Mariceli mi insegnò a far passare il tempo senza che il tempo si prendesse gioco della mia mente più di quanto l’essere quasi morto soffocato da un insetticida non avesse già fatto.
Pochi ci credono, ma il lavoro di una spia consiste principalmente nello stare seduti in una stanza vuota ad aspettare l’occasione giusta (o che il corpo si purifichi da solo da un tentato avvelenamento). In quei casi, è essenziale trovare qualcosa che tenga i pensieri lontani, perché perdersi nel vuoto è questione di pochissime distrazioni.
Ogni spia ha il suo metodo. Di mio, ho notato che quando mi ritrovo in attesa smonto e rimonto il mio blaster, assicurandomi con una minuzia quasi esasperante che ogni cosa sia al posto giusto.
Mariceli inventava storie.
Mi raccontò della nostra salvezza in almeno cinque modi diversi, accarezzandomi piano il capo come su Fest faceva con Orin e guardando il vuoto che ci circondava. Di tanto in tanto beveva dell’acqua e si portava le mani sul viso, asciugandosi un rivolo di sangue che le scendeva dal naso. Il mio corpo, molto meno delicato del suo, pareva deciso a sbarazzarsi delle tossine costringendomi a vomitare fino alla bile.
Non so quanto passò prima che entrambi ci sentissimo vagamente liberi dai danni che quella fuga ci aveva causato. Io fui abbastanza rapido a riprendermi; Mariceli, anche dopo ore, continuò a faticare a respirare.
«Sull’Andor decifreremo l’algoritmo» mi stava promettendo in quel momento, arricciando attorno all’indice una ciocca dei miei capelli mentre io smontavo il mio blaster. «Ti insegnerò a usare il computer della stazione. Vedrai, è così facile …»
Io continuavo a crederci. Anche dopo, quando ci ritrovammo a correre coperti di sangue dai piedi fino al capo; anche quando scomparve, anche quando mi ritrovai da solo. Ci credetti per anni. Mi piacerebbe poter confessare di non aver mai smesso di aspettarla, ma sarebbe una bugia; accantonarla divenne vitale nell’esatto momento in cui mi nominarono capitano. Perché Mariceli Solpea era un fantasma, e i capitani non vivono di fantasmi.
«Sai» mi disse, prendendo una delle mie ciocche più lunghe e tirandola lievemente per intrecciarla ad un’altra. «Quando andremo su Kessel, potremmo anche fare il giro lungo per tornare. Conosci Ulmatra? Sleheyron?»
Scossi il capo.
«Pianeti pullulanti di Hutt. Molto pericolosi, non ne hai neanche idea».
«Più pericolosi di provare a farsi uccidere qui sotto?».
Mariceli rise. «Facciamo così» sussurrò, passando a tormentare un’altra ciocca. «Ti porto su Sleheyron e ti sfido a toccare un Hutt».
«E se lo faccio?»
«Non lo farai».
«Me se lo faccio?»
«Se lo fai, ti ridò la mia fondina e …»
Il segnale acustico delle comunicazioni interne la interruppe.
Tendemmo l’orecchio, improvvisamente ammutoliti.
Da qualche parte sul corridoio, risuonò la voce metallica di un altoparlante.
Comunicazione interna: richiesta assistenza sul mercantile Freighter numero 720 per ispezione del carico confiscato. La squadra tecnica è pregata di radunarsi immediatamente al ponte 25. Ripeto: la squadra tecnica è pregata di radunarsi immediatamente al ponte 25”.
Io e Mariceli ci guardammo negli occhi.
Sentire una voce amica in un momento buio è una ventata d’aria fresca nei polmoni, uno schiaffo in pieno viso quando ormai si è convinti di non provare più niente.
«È …» feci io, sgomento.
Marceli annuì, incapace di trattenere un sorriso colmo di gioia.
Non potevano poi esserci troppi mercantili Freighter numero 720, specialmente su Wobani.
«… Tylan».




*


La via più sicura per riuscire a raggiungere il ponte 25 senza imprevisti erano i condotti, ma fu un’opzione che entrambi decidemmo di scartare senza neanche la pena di consultarci. Passarono anni prima che qualcuno riuscisse a farmi infilare di nuovo volontariamente e con cognizione di causa all’interno di quei tubi, e non ne serbo affatto un bel ricordo.
Respinti i condotti, quindi, l’unica cosa che ci restò fu la rassegnazione di dover uscire dal nostro nascondiglio e tornare a respirare come due impiegati imperiali qualunque. Rubammo delle divise da inservienti dallo spogliatoio, quindi, e ci caricammo fucile e blaster sotto alle giacche.
Piccoli quanto pugni, strisciammo letteralmente tra i corridoi deserti dell’area dove eravamo capitati, procedendo con lentezza e tenendo lo sguardo sempre ben fisso sui nostri stivali quelle poche volte che incrociavamo qualcuno.
Mariceli faticava a starmi dietro. Quando aveva provato a farsi passare da ingegnere per accedere ai dati, aveva dovuto lasciare il bastone da passeggio tra le nostre cose al magazzino dei droidi e, evidentemente, camminare per ore su quel piede storto stava cominciando a dolerle parecchio. Tutta la faccenda della fuga e del gas, poi, non doveva averle giovato affatto.
Ci fermammo un paio di volte a farle prendere fiato, ma lei per prima era ansiosa di raggiungere il Capitano Halos e finì per procedere spedita e zoppicante mentre a fatica tratteneva i piccoli versi di dolore che ogni tanto le sfuggivano dalle labbra serrate.
Ci unimmo sfacciatamente a un piccolo gruppo di inservienti diretto chissà dove, sfruttando i loro lasciapassare per superare le guardie che controllavano le circolazioni tra un settore e l’altro. Quando, alla fine, arrivammo fino all’agognato ponte 25, entrambi avevamo l’impressione di esserci fatti praticamente più o meno tutto il centro di detenzione a piedi.
Improvvisammo l’ordine di pulire gli scafi di alcuni caccia TIE posteggiati sul lato destro dell’hangar, spostandoci in religioso silenzio tra la folla di assaltatori in partenza e qualche ufficiale che controllava il traffico dall’alto.
Era la prima volta che vedevo un TIE da così vicino, e fu più o meno l’unica in cui riuscii a toccarlo senza farmi sparare addosso.
«Rubiamone uno» sussurrai a Mariceli, mentre con uno straccio fingevo di impegnarmi nel ripulire i residui della polvere di un meteorite. «Possiamo scappare».
Lei mi scoccò un’occhiata severa. «Non essere stupido» mi rispose, scuotendo il capo. «Non hanno né lo scudo né l’iperguida, dove vuoi andarci?»
Restammo in attesa, anche se non avevamo idea di cosa.
L’Andor era posteggiato in fondo al ponte, un barlume di salvezza nell’ansia che mi coglieva ogni volta che mi fermavo abbastanza a lungo da realizzare che ci trovavamo nel bel mezzo di un porto imperiale con la misera difesa di due blaster e un fucile a coprirci le spalle. Mariceli lavorava in silenzio, senza darmi speranze né brutte notizie. Di tanto in tanto, la sorprendevo a sbirciare l’Andor, ma non c’erano movimenti degni di nota, perciò si costringeva sempre a scuotere il capo e tornare al lavoro.
«Che stanno facendo?» trovai il coraggio di chiederle a un certo punto mentre, TIE dopo TIE, ci avvicinavamo sempre più al nostro mercantile.
Lei alzò le spalle. «L’Andor è autorizzato al trasporto di ortaggi» rispose, sbuffando. «Immagino l’abbiano beccato a contrabbandare qualcos’altro. Lo aveva già fatto su Rasp per venirmi a trovare. Poi si è ricordato che i contrabbandieri non si fanno attraccare allo stesso porto degli ingegneri». Sospirò a fondo, buttando lo straccio a terra. «Razza di stupido, Tylan».
Io ero dubbioso. «Ma così non si fa arrestare?»
«Non si fa trovare a bordo. Atterra su qualche luna, poi fa una soffiata agli imperiali. Intanto si chiude in stiva e aspetta di essere requisito».
Pensai che non suonava come un gran piano, ma dopotutto noi eravamo stati in grado di farci scoprire da Kardal dopo neanche dieci ore di lavoro, per non parlare della nostra fuga disastrosa che per poco non ci aveva uccisi, quindi forse non avevo il diritto di lamentarmi. Fintanto che il Capitano Halos fosse stato in grado di portarci via da lì, ero ben pronto ad accettare qualunque condizione.
Mi ero appena arrampicato fino alla cima dell’ala destra di uno dei caccia TIE per tenere controllata la situazione dall’alto, quando un ufficiale si avvicinò con le braccia incrociate dietro alla schiena. Stavo ancora dando prova delle mie limitate capacità di pulizia, il che mi teneva impegnato abbastanza da non parlare, ma fiutai comunque guai.
«Ne arriva uno» dissi, una volta che mi fui calato a terra con la scusa di cambiarmi i guanti.
Mariceli mi fece cenno di essersene accorta. «Faccio io» rispose. «Tu nasconditi e preparati a correre».
Io annuii e mi voltai a guardare il porto. Tra noi e l’Andor c’erano sì e no trecento metri. Con un po’ di fortuna e un po’ di confusione, sarei potuto arrivare alla rampa d’accesso senza essere visto da nessuno anche se, me ne rendevo conto, questo avrebbe voluto dire abbandonare Mariceli. Se poi a bordo avessi trovato degli assaltatori, le possibilità di riuscita si sarebbero praticamente azzerate. No, “correre” era decisamente un piano da mettere da parte.
Fortuna che ci bastò vedere l’ufficiale avvicinarsi per perdere ogni timore.
«Mariceli» dissi, quando l’uomo che ci stava raggiungendo fu abbastanza vicino da poter distinguere con chiarezza la sua chioma rossastra. «Il Capitano Halos si è tagliato la barba?»
«Così pare». Lei alzò le spalle con indifferenza, ma glielo si leggeva negli occhi che faticava a reprimere l’impulso di corrergli incontro.
In divisa da ufficiale imperiale, il Capitano Halos ci si accostò con un sospiro, curandosi di tenere il tono quanto più basso gli fosse possibile per non destare sospetti. «Siete interi tutti e due, che sollievo» commentò, rivolgendoci un sorrisetto contento. «Sbaglio o sembrate un po’ strapazzati?»
Per non farlo andare di matto lì sul ponte, evitammo di dirgli che avevamo rischiato di morire praticamente dal momento in cui avevamo messo piede al centro.
«Ci siamo dati da fare» sospirò Mariceli, tenendosi sul vago.
«Ah, lo immagino bene; parlano di voi persino nei cessi. Coraggio; vi riporto a casa».
“Casa” non suonò come Fest, suonò come l’Andor. Improvvisamente, ricordai il discorso sulla navetta, e mi ritrovai a sbuffare. Avevo fatto la mia scelta senza neanche rendermene conto.
Rivolgendomi un sorriso gentile, Mariceli mi passò un braccio attorno alle spalle. «L’avevo detto a Kappa» disse, improvvisamente allegra. «Che questo qua è un ragazzo sveglio. È stato una meraviglia di compagno».
«A proposito di Kappa». Il Capitano Halos si guardò intorno, dubbioso. «Dove l’avete mollato? Mi aspettavo di vederlo sbucare da qualche parte per lamentarsi di voi due, invece non si è ancora fatto vivo».
«Abbiamo avuto dei problemi» feci io, dispiaciuto, anticipando Mariceli nelle scuse.
Lei parve molo meno mortificata di me, anche se non penso fosse del tutto indifferente. «Abbiamo dovuto abbatterlo».
«Accidenti a voi, Mari. Povero Kappa!»
«Tylan, non c’era altra maniera!»
Il capitano le rivolse un sorriso che sapeva di comprensione. «D’accordo, l’importante è che voi due stiate bene». Mi poggiò una mano sul capo e me lo piegò scherzosamente in avanti, impiegando un po’ troppa forza per il mio corpo che ancora combatteva le tossine del gas. Per poco non gli vomitai sui piedi. «All’Andor, allora. Già che siete conciati così, gli date una bella pulita in vista della partenza. L’Anima dovrebbe essere qui a momenti».
Malessere a parte, mi vedevo già al sicuro a bordo della nostra nave e, ingenuamente, non vedevo l’ora di tornare a dormire con il rumore di Cunha che dava costante prova della sua incapacità a muoversi silenziosamente. Quei pochi giorni di lontananza dall’Andor mi avevano fatto sentire la mancanza di quello che fino all’ultimo mi aveva fatto soffocare, eppure non c’era niente che agognassi di più, niente che oggi non scambierei con la scelta di poter continuare a sentirmi oppresso a bordo di quel vecchio mercantile.
Se potessi tornare indietro, non esiterei un istante e li metterei tutti in guardia: inutile tentare su Wobani, inutile darsi tanta pena. Credo sopporterei un’esistenza intera a sentirmi strozzato se questo potrebbe cancellare quello che seguì l’arrivo del Capitano Halos al centro.
Erano le ultime ore di vita dell’Andor, e cominciarono nell’esatto momento in cui Mariceli si scostò da me per raggiungere suo marito e prenderlo per la manica della giacca. «Aspetta, Tylan! Non possiamo ancora tornare a casa!»
Il Capitan Halos la guardò, circospetto, arricciando appena il naso. «Che succede, Mari?»
«Gli Scomparsi. Sono stati uccisi … ma erano messaggeri, avevano un codice, e ce ne sono altri là fuori. Avevo salvato i dati su Kappa per sperare di tirarne fuori qualcosa. Sappiamo che ce ne sono ancora e che sono su Kessel. Se non prendiamo quelle informazioni, non c’è speranza di recuperarli».
Sul momento, appoggiarla mi parve la scelta più giusta. «Il Sottufficiale Kardal diceva che ce ne sono in tutta la galassia» confermai quindi, annuendo. «Su Kessel potrebbero essercene a centinaia».
Il Capitano Halos ci ascoltò con attenzione. «Non se ne parla» sospirò alla fine, scuotendo il capo. «Siete pallidi come cadaveri, avete bisogno di riposo».
Peccato che né io né Mariceli fossimo arrivati fin lì per prendere ordini.
Mentre lei si impuntò sostenendo di sapere esattamente i mezzi di tortura adoperati su Kessel, io decisi di vuotare il sacco su quello che ci era successo fino a quel momento.
«Abbiamo rotto la testa a un ufficiale» sbottai, sforzandomi di non far tremare la voce. «Ci siamo dovuti togliere il suo cervello dai vestiti, letteralmente. Poi ci hanno avvelenato con del gas, lei ha sputato sangue fino a un’ora fa e io ho passato la notte a vomitare. In tutto questo abbiamo anche sparato a Kappa». Fui obbligato a fermarmi, poiché avevo parlato senza neanche respirare e mi sentivo vagamente sul punto di soffocare. «Mariceli ha ragione: se adesso andiamo via e basta, sarà stato tutto per niente».
Mi ritrovai una mano sulla spalla, mentre il Capitano Halos mi guardava con l’espressione più esasperata che ebbi mai occasione di vedere addosso a un festiano. Difficile dire dove finisse la preoccupazione per noi e dove iniziasse la rabbia.
Mariceli, ovviamente, scelse di rincarare la dose. «Tylan» la sentii dire. «Senza quei nomi, io non vengo a casa».
Ci volle una bella faccia tosta per aggiungere un: «neanche io», soprattutto contando che la mano del Capitano Halos era ancora chiusa sulla mia spalla con una presa tanto forte che gli sarebbe bastato ritrarla per staccarmela di netto.
Non ci fu violenza.
Ricevemmo soltanto un’occhiata esausta, dopodiché venni lasciato libero.
Da come il capitano mi guardò, credo di avergli ricordato qualcuno in particolare, anche se non seppi mai chi. Si rivolse a sua moglie con una scrollata di spalle, ma gettò definitivamente la spugna. «Ricordati che era un ragazzo ubbidiente, prima di incontrare te» le disse.
Mariceli tirò fuori un sorrisetto che seppe di soddisfazione. «Quindi è un sì?»
«C’è una stazione informatica, qua sopra. Da dove vi ho mandato il messaggio. Se vi ci porto, avete un’ora scarsa per recuperare quello che vi serve, poi si parte. Ci state?»
Io e Mariceli ci scambiammo un’occhiata carica di entusiasmo.
«Ci stiamo» rispose lei. «E poi torniamo a casa».
Dopo tutta quella fuga continua, eravamo convinti di essere indistruttibili.









note

Prima di tutto, due giorni fa ho avuto la grande fortuna di tenere in mano una blatta gigante ed è stata la cosa più emozionante che mi sia mai capitata negli ultimi mesi (non ho una vita molto movimentata), quindi parlare di insetticida per tutto il capitolo mi ha fatta sentire molto vicina a quella meraviglia. Seriamente, era grande come la mia mano. Adoro.
Poi, mi piacerebbe aprire anche una piccola parentesi sul formonitrile, meglio conosciuto come acido prussico, meglio conosciuto come acido cianidrico (non il cianurico, che invece crea un po' più di problemi). Oltre che essere un acido naturalmente presente nello spazio, è alla base della produzione di numerosi insetticidi e materiali plastici. Benché l'esposizione prolungata sia fatale (con l'uso di prussico puro bastano 15 minuti), l'intossicazione da formonitrile è una  delle poche che il corpo può gestire da solo (aiuta la caffeina, dicono). Segni distintivi (così se ne rimanete vittima sapete cosa vi sta succedendo): ansia, mal di testa, vertigini, vista annebbiata, sangue dal naso e in bocca. Più vicini alla morte si arriva, più frequenti saranno le convulsioni e le difficoltà respiratorie.
In realtà, ha effetti molto meno devastanti da quelli decantati in questo capitolo: il prussico è molto più leggero dell'aria, infatti, e riesce a fare danni seri soltanto in ambienti chiusi ermeticamente (insomma, già un condotto sufficientemente alto dotato di grate potrebbe fare miracoli). Mi sono concessa la licenza che, agli occhi delle vittime, qualsiasi incidente tende a parere più grave di quanto non sia in realtà.
Basta, ho finito con la mia lezione di chimica improvvisata. Si ringraziano i colleghi di chimica dei quali sto imparando ad avere paura per la lucidità con cui rispondono a certe domande (in particolare il fatto che sappiano dove recuperare dell'acido potenzialmente letale mi fa riflettere a fondo sul valore delle mie amicizie).

E niente, è tornato Halos. Siete contentiiii?
Io sì. Perché è la metafora della mia vita: tante buone idee che nessuno ascolta.
Uh, e tra poco arriverà anche l'Anima! E manca sempre meno. Niente, lo sapevo che avrei detto che sarebbero stati sicuramente 15 capitoli, ma alla fine saranno 15 più un epilogo. Così, perché ho voluto allungare il brodo e prendermela con calma. Spero di aver veramente finito di aggiungere cose, anche perché ero partita dall'idea di dodici parti e ... vabbé.
Mi eclisso; è meglio.

Ornitorico (sto finendo le idee),
Lechatvert




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Capitolo 13
*** parte tredicesima – semplicità ***


saboteur



«“Quel coso lo sai usare o lo tieni al collo e basta?”, ma davvero? Disse sul serio così?»
«Oh, sì. E poi mi strappò la trasmittente di mano e mi guardò come se fossi completamente stupido».
«Ah, quello sguardo me lo ricordo bene. Con il sopracciglio alzato e il capo piegato in avanti, eh?»
«Che memoria».
«E chi se lo scorda. Quando le dicevo che doveva decidersi a fare dei figli mi guardava nella stessa maniera».
«Non so perché non ne avessero; il Capitano Halos era davvero un brav’uomo».
«Una volta glielo chiesi».
«E …?»
«Mi rispose che non era la guerra giusta per mettere al mondo dei bambini, che aveva cose più importanti da fare. In realtà, credo ne volesse. Amava stare in mezzo ai ragazzini. Solo che aveva paura».
«Non la abbiamo tutti?»
«Sei saggio per avere l’età che hai, te l’hanno mai detto?»
«Saggio? No, mai. Però mi hanno dato del ficcanaso. Credo che per entrambe le cose il merito sia anche un po’ suo».
«No, non direi».
«Come no?»
«Ficcanaso, può darsi. Ma Mariceli non è mai stata una ragazza saggia».
«Forse ho imparato dai suoi errori».








PARTE TREDICESIMA – SEMPLICITÀ


Mi sono reso conto di non essere in grado di contare le persone che ho visto morire. Nemici, amici, in un certo senso fratelli; uomini e donne del tutto scomparsi per uno sparo, per uno scontro. Molte volte, dopo che io stesso avevo premuto il grilletto.
Mariceli diceva che ogni morte rimane sulle spalle di chi vi assiste, ma non è del tutto vero. Ogni morte che ho visto è stata diversa, peculiare nel modo in cui è rimasta a volteggiarmi attorno, eppure sempre fatta di una semplicità disarmante. Il cranio distrutto del Sottufficiale Kardal rimase nei miei sogni finché non recuperai un corpo fatto più a pezzi del suo, mentre le decine e decine di assaltatori a cui sparai non mi sono rimaste addosso che con il freddo ricordo del bianco delle loro armature. Muoiono loro, moriamo noi. A un certo punto diventa difficile affezionarsi alla vita, ed è una cosa che a Mariceli ho sempre invidiato: dove io ho costruito barriere, lei aveva aperto orizzonti. Ci amava tutti e lo faceva con tutta se stessa, senza paura di perderci ma anzi traendo da quell’affetto l’ardore con cui combatteva.
Per anni ho pensato che fosse qualcosa che sarebbe arrivato con l’esperienza. Sbagliavo.
Se c’è una cosa che con assoluta sicurezza posso affermare, è che quel giorno a salvarci fu l’assoluta complicità che legava Mariceli al Capitano Halos, una linea sottile fatta di fiducia, di comprensione, in un certo senso anche di guerra.
Parevano un unico corpo; uno le braccia, l’altra la mente. Fino a quel momento, non avuto modo di notarlo: quando Mariceli sentiva uno scricchiolio fuori posto, subito scattava anche suo marito. Quando era lui, a sussultare, senza battere ciglio lei portava una mano sotto alla giacca per afferrare il fucile. Quante dovevano averne passate, per riuscire a condividere tutti e cinque i loro sensi? Non ho mai trovato nessuno in grado di rispondere a questa domanda.
Raggiungere la stazione informatica fu una vera e propria passeggiata: procedere alle spalle di un ufficiale imperiale imponente come il Capitano Halos ci teneva lontani anche dalle occhiate dubbiose di chi si rendeva conto di non averci mai visti nei dintorni. Dopotutto, chi mai si sarebbe messo contro a un uomo che per grazia e statura ricordava in tutto e per tutto uno Wookie?
Ancora una volta, godemmo di una fortuna quasi sfacciata: all’interno della stazione trovammo al lavoro un solo tecnico informatico, piccolo e sperduto di fronte allo schermo principale quasi fosse lui stesso nel bel mezzo di un’azione di spionaggio.
Fummo quasi dispiaciuti di puntargli contro i nostri blaster, ma nessuno di noi era in vena di patteggiamenti. Dopotutto, avevamo i minuti contati.
«Va bene, facciamo che tu non avverti la sicurezza e noi non ti facciamo saltare la testa» sospirò il Capitano Halos, tecnico sotto tiro, mentre con un frettoloso cenno del capo mi incaricava di bloccare le entrate. «Per la miseria, speravo di trovare un droide di sicurezza qua intorno e invece niente!»
Mariceli gli passò accanto e gli posò un fugace bacio all’altezza della scapola. «Ne troveremo un altro anche più bello, vedrai» lo rassicurò, mettendogli in mano il suo fucile. «Intanto non impigrirti. Le credenziali di accesso che ho sono sicuramente state bloccate; me ne servono di nuove».
Certo, non avere Kappa ad aiutare con i computer rischiava di rallentarci più del previsto. Username e password del Sottufficiale Kardal erano stati disattivati dopo la sua scomparsa e, visto che eravamo sprovvisti dello zaino in cui Mariceli teneva i suoi strumenti, fummo costretti a ripiegare sull'unica persona in grado di fornirci dei dati d’accesso puliti.
Il tecnico.
Cadendo completamente dalle nuvole, scoprii che il Capitano Halos possedeva un’altra nobile caratteristica in comune con gli Wookie: anche se molto meno manesco degli abitanti di Kashyyyk, non era però più diplomatico di nessuno di loro.
Dalla porta lo vidi invitare il nostro prigioniero a sedersi, mentre lui faceva lo stesso con un sospiro colmo di rammarico. Si tolse il berretto della divisa, dopodiché si passò lentamente una mano sul viso sbarbato.
«Come ti chiami?» chiese, morbido, una mano ad accarezzare il fucile come se fosse un animale da compagnia.
L’altro per poco non gli svenne davanti; era pallido come uno spettro. «De … Desh Leandar, Signore.»
«Va bene, va bene. Lasciamo stare le formalità, niente Signore: io sono Tylan. Hai dei figli, Dessh
«Tre».
«Tre? Ma pensa. Quanti anni?»
«Il maggiore ne ha dodici».
Annuendo, il Capitano Halos passò un dito sulla canna del suo blaster. «Anche io ne ho tre, su per giù direi che sono anche della stessa età» rispose, sorridendo più a se stesso che all’uomo che aveva davanti. «Immagino siano adorabili; i miei lo sono davvero molto». Fece una pausa, utilizzandola per trarre un sospiro colmo di nostalgia. «Dessh, devi sapere che sto passando tutta questa nostra conversazione alla nostra base in orbita. A quest’ora probabilmente avranno già trovato l’esatta ubicazione dei tuoi figli. Ora, puoi aiutarci con il computer e goderti a posteriori la nostra protezione – molto accorata, devo dire. Nessuno se ne è mai lamentato – oppure continuare a stare zitto e morire assieme a me. Nel secondo caso, sono convinto che i miei figli adoreranno affogare i tuoi per vendetta.» Sorrise appena, allargando le labbra in una smorfia che mi gelò letteralmente il sangue nelle vene. «Orin in particolare è un nuotatore davvero molto in gamba».
Lasciai la mia postazione alla porta e raggiunsi titubante Mariceli. «Fa sempre così?» sussurrai, atterrito.
Lei incrociò le braccia all’altezza del petto e si appoggiò all’interfaccia dei comandi. «Io l’ho detto, che su Fest è un uomo sprecato».
Per quello che vale: lo era davvero.
Impiegammo poco più di quelle minacce per convincere Dessh Leandar a darci ciò di cui avevamo bisogno e, nel giro dei diciassette minuti che gli imperiali si presero per rendersi conto che una delle loro preziosissime basi computerizzate era stata presa d’assalto, Mariceli e io ci adoperammo su più fronti: io mi occupavo di copiare i file dei detenuti inviati su Kessel, lei di calcolare l’algoritmo del messaggio.
«Quanto tempo abbiamo?» chiesi, armeggiando con la scheda di memoria di un droide protocollare che avevamo recuperato lungo la via.
Mariceli non staccò neanche gli occhi dallo schermo. «Prima che notino un accesso non autorizzato ai dati sensibili dei prigionieri? Se ne sono già accorti di certo». Attese che finissi di collegare la memoria al computer, dopodiché riprese a sfogliare le varie schermate che aveva aperto davanti a sé. «Vediamo che si può fare da qui, intanto» mormorò. «Tylan, siamo in contatto con l’Anima?»
Il Capitano Halos si staccò la trasmittente dal collo e gliela lanciò. «Di’ loro di darsi una mossa».
«Andor Due ad Anima. C’è qualcuno là fuori?»
Ricordo pochi uomini entusiasti di bombardare una prigione come quelli che ci risposero quel giorno.
“Anima Sette ad Andor Due, ti ricevo forte e chiaro e a volume anche alto. Ci siamo persi Anima Diciannove, credo si sia addormentato da qualche parte”.
“Anima Sette, non mi sono addormentato proprio da nessuna parte!”
“Qui Anima Dodici. Io e Otto siamo pronti a scendere da est, aspettiamo il vostro via”.
Mollando momentaneamente il computer ai suoi calcoli, raggiunsi un vecchio tavolo e lo spinsi contro la porta assieme alle sedie. Nell’FRG ci avevano insegnato a fare delle gran belle barricate. «Ma quanti sono nell’Anima?» chiesi.
Mariceli scosse il capo. «Troppi, credimi. Anima Sette, Otto, Dodici e Diciannove: vi invio una piantina del centro. Siamo sul ponte venticinque, adesso faccio anche in modo di abbassare gli scudi. Mentre fate a pezzi questo posto, qualcuno di voi ci viene a fare da copertura? Se l’Andor fa i capricci, restiamo tutti qui».
“Andor Quattro ad Andor Due, vengo a salvarti io”.
Sentire la voce di Cunha fu anche più bello di sentire quella del Capitano Halos, e mi strappò un sorriso soddisfatto. Per qualche strana ragione (strana davvero, visto il suo pessimo carattere), mise tutti di buonumore. Mariceli per prima.
«Se lo dici con quel tono, Andor Quattro, non so davvero cosa aspettarmi» lo prese in giro, scoccandomi un’occhiata divertita. «Occhio che c’è qui anche mio marito».
Il Capitano Halos alzò le spalle con fare leggero. «Andiamo Mari, ti pare il momento?» brontolò, scuotendo il capo. «Non davanti a Dessh!»
Per un brevissimo, inafferrabile istante fu come se ci trovassimo su Fest e stessimo cenando attorno al fuoco con la famiglia del Capitano Halos a riempirci i piatti di minestra. Credo che quella fu l’unica risata che mi concessi per molto tempo, se non addirittura l’ultima che riuscii a tirare fuori senza l’oppressione della paura.
Durò poco, comunque; Mariceli ci interruppe con un lesto movimento della mano e portò l’attenzione di tutti sullo schermo del computer.
«Ho l’algoritmo» ci disse, gli occhi sbarrati sullo schermo che ci sovrastava. «Se inserisco le coordinate, posso farlo partire».
Il Capitano Halos alzò le spalle. «Avanti, Sole» la incoraggiò. «A parte Cunha, non stiamo aspettando altro».
Trepidante d’attesa, scoccai a Mariceli un’occhiata divertita. «Sole
Lei si soffiò una ciocca di capelli lontana dal viso. «Finirai col diventare come lui» mi avvertì, puntandomi il dito contro. «Sta’ molto attento, ragazzino».
Non ricordo con esattezza le parole dell’ologramma che venne proiettato subito dopo quella velata minaccia, ma ho la prima frase fissata nella mia testa come se da essa fosse dipeso ciò che sono diventato.
Ho esatta memoria della slanciata figura del Generale Draven così com’era dieci anni fa, avvolto in un lungo mantello di lana e con il cappello calcato sul viso, mentre dice: “A chiunque in ascolto: benvenuti in Quantificatore”; quella fu la prima volta che lo vidi, anche se per incontrarlo di persona impiegai qualche altro anno.
Quantificatore. Ci lasciò tutti di stucco.
Più o meno, il messaggio procedeva così: “Sono il Maggiore Davits Draven, capo della Squadriglia Prime. L’anno corrente è il 3266 secondo il Calendario Lothaliano, e i confini dell’Impero si sono attualmente allargati fino a Jelucan. A fronte di ciò, si consideri questo messaggio una chiamata alle armi”.
Interrompendo per un istante il mio lavoro, scambiai con Mariceli un’occhiata interdetta. «Sono ribelli» sussurrai.
«Questi sono ribelli per davvero» s’intromise il Capitano Halos. «La Squadriglia Prime ha dalla sua i pezzi grossi del Senato Galattico».
Mariceli annuì. «Ecco perché non vogliono che il messaggio si sparga. Se non li possono distruggere, almeno sperano di farli stare zitti».
Draven non aveva ancora finito.
“L’appello non è rivolto a chi è disposto a dare la vita, ma a chi vuole dedicare il proprio onore a una causa più grande. A chiunque ponga la libertà come fine ultimo della sua stessa esistenza, noi tendiamo la mano. La Squadriglia Prima non è la sola a resistere, ma è ad oggi la più grande: chiamiamo a raduno tutti gli squadroni armati e i singoli combattenti che ricordano ancora la gloria della vecchia galassia, che vogliono ancora ristabilire l’ordine e la giustizia. Per combattere e opporsi agli usurpatori, con qualsiasi mezzo a nostra disposizione”.
Seguì un minuto di silenzio, dopodiché l’ologramma ripartì da capo.
«Non siamo soli, te l’avevo detto» sussurrò Mariceli, voltandosi lentamente verso suo marito. «Sono tanti, vogliono riunirsi. Potremmo …»
Dall’occhiata che lui le lanciò, capimmo entrambi che quello non era il momento di parlarne.
«Prima dobbiamo pensare a Fest» lo sentimmo dire, severo. «I prigionieri che cercavi sono morti; abbiamo fatto anche troppo».
Vidi Mariceli sul chiaro punto di scoppiare, e provai nei suoi confronti l’empatia più grande che riuscii mai a provare per un altro essere umano. Perché ero arrivato fino a quel punto assieme a lei, perché eravamo quasi morti entrambi per quelle persone e ora eravamo lì, avevamo risolto tutto quello che c’era da risolvere (o almeno, questo era quello che credevo). Non poteva finire così.
Eppure, in qualche strana maniera, compresi anche il Capitano Halos e il suo bisogno di riportarci tutti a casa. Come se salvarci ne andasse della sua stessa sanità mentale.
Decisi di rimandare ogni decisione al momento in cui saremmo stati tutti e tre sani e salvi a bordo del nostro mercantile, preferibilmente molto lontani da Wobani.
«Mi serve un’altra scheda di memoria» buttai lì allora, estraendo quella su cui il computer aveva appena finito di copiare buona parte dei dati e infilandomela in tasca. «Qualcuno ne ha una?»
Con un cenno del capo come apprezzamento del mio sforzo di mantenere la pace, il Capitano Halos annuì. «Ho una copia di Kappa in tasca; vienila a prendere».
Kappa. L’immagine del suo corpo metallico che si accasciava a terra sotto ai colpi dei blaster provenienti dai due fronti diversi della stessa battaglia mi fece esitare.
«Coraggio».
Titubante, lasciai la mia postazione ed obbedii. Non avevo idea di quante copie di quel droide ci fossero in giro per l’Andor, ma credo che questa sia una delle tante stranezze a cui avevo in un certo modo imparato a sottostare, poiché era più probabile vedere il Capitano Halos senza un’arma che senza il suo amato droide in tasca. Dopotutto, portarmi dietro una scheda madre di Kappa è un’abitudine che ha finito col tornarmi utile in svariate occasioni.
Andai dal Capitano Halos e lui si abbassò appena per permettermi di raggiungere la tasca interna della giacca. «Non ti azzardare a formattarla» mi avvertì comunque, serissimo.
Io annuii. «Ci provo».
Mi diressi verso Mariceli, dando le spalle al Capitano e allontanandomi di qualche passo. In una mano stringevo la scheda, nell’altra il mio blaster.
Con l’esplosione che seguì, mi caddero entrambi.
Tremò tutto di colpo, per un istante la stanza sembrò piegarsi all’urto della detonazione e, prima che potessi anche solo accorgermi di cosa mi stesse succedendo intorno, mi ritrovai rannicchiato sotto a un tavolo a tenermi la testa tra le mani.
Sentii Mariceli urlare, udii con chiarezza il rumore di uno sparo nell’aria, poi per un istante tutto fu buio.
Quando tornò la corrente, il Capitano Halos era accanto a me.
«Stai bene?» mi chiese, passandosi la mano su un taglio che gli apriva la guancia sbarbata.
Io annuii, abbassando lo sguardo per constatare i danni. La scheda di memoria era accanto a me; il blaster, invece, era nel bel mezzo della stanza, distante tre metri da dove mi trovavo e irraggiungibile senza uscire dal mio precario nascondiglio.
«Che succede?» pigolai, sperduto.
«Mi sa che ci hanno trovati».
Alzando il capo per mettere a fuoco la stanza da quella nuova prospettiva, mi resi il conto del fatto che avere gli imperiali sul corridoio intenti a provare a far saltare in aria una porta di ferro non era la cosa peggiore che stava per accadere.
Accanto alla parete, il nostro prigioniero procedeva spedito verso il pannello di controllo con in mano lo stesso fucile che fino a poco prima l’aveva tenuto inchiodato al muro. Aveva Mariceli sotto tiro.
«Imperiali, tipico» sbottò il Capitano Halos, impassibile. «La porta resisterà ancora un po’. Solo che non ho idea di come uscirne». Siccome non risposi, seguì il mio sguardo fino a Dessh.
Udii chiaramente il suo cuore fermarsi.
«D’accordo» sussurrò, la voce stozzata e il fiato corto. «Adesso apri bene le orecchie e fai quello che ti dico io, d’accordo?»
Io fissavo Mariceli, rannicchiata sotto una scrivania alla nostra destra, mentre il tecnico la raggiungeva con il fucile puntato sulla sua faccia. Parlava, credo. Non riuscivo a sentire altro che il fischio della detonazione e la voce profonda del Capitano Halos.
«Ragazzo, forza. Sveglia».
Mi costrinsi a rimanere ancorato alla realtà. «Ci sono» sussurrai.
Halos indicò il mio blaster con un cenno del capo. «Hai un colpo» mi avvertì.
Io annuii. «Me lo farò bastare».
Successe tutto tanto velocemente che è quasi impossibile ricordarlo.
Agile come un caccia in volo, il Capitano Halos sgusciò fuori dal nostro nascondiglio e saltò addosso a Dessh con la stessa furia di una battaglia intera.
Io feci lo stesso, ma scivolai fino al blaster e me lo premetti sul petto con tutta la forza che sentivo attraversarmi il corpo. Mi buttai sulle ginocchia, smettendo persino di respirare, e mi morsi le labbra con così tanta disperazione che in bocca sentii il sapore del sangue.
Partirono due colpi nello stesso istante.
Dessh cadde in avanti e il capitano sotto di lui, ma non ebbi il tempo di constatare i danni.
Ci fu un’altra esplosione.
«Buttano giù la porta!» gridai, balzando in avanti con il blaster pronto a sparare di nuovo. Dal nulla, sentivo talmente tanta adrenalina scorrermi nel sangue da farmi girare la testa. Quella porta sarebbe stata la nostra salvezza, decisi, e in quel momento ero più deciso che mai a farmi strada con qualsiasi arma mi sarebbe capitata tra le mani.
Poi Mariceli urlò.
Continuo a risentire quel grido, ogni giorno, ogni volta che ripenso a Wobani. Sono passati dieci anni, eppure è ancora nella mia testa, il lamento di morte più straziante che abbia mai sentito. Fu talmente forte da coprire la raffica di laser che colpì l’uscio ormai precario dietro al quale ci nascondevamo.
Quando mi voltai con l’orrore negli occhi, la trovai inginocchiata a terra, in lacrime, la bocca sporca di sangue, piegata sul pavimento con le mani aperte davanti a sé.
Pensai di averla colpita per errore, ma poi mi ricordai del corpo di Dessh che si accasciava a terra.
Turbato, abbandonai la difensiva e saltai oltre il tavolo che mi copriva la vista.
Al fianco di Mariceli, attaccato alle sue cosce, c’era il cadavere di Dessh.
Davanti a lei, dove le sue mani affondavano nella morbida stoffa di una divisa sgualcita, c’era quello del Capitano Halos.







note

Tutto ciò è sofferenza e credetemi che mi dispiace davvero tanto.
Al punto di aver messo qualche scenetta un pelo più carina e rassicurante all'inizio, anche se ora mi rendo conto di aver soltanto peggiorato le cose.
Quando ho immaginato questa scena la prima volta, Tylan Halos doveva essere un personaggio del tutto diverso. Spiacevole, prima di tutto. Invece è venuta fuori anche una bella persona e onestamente non so più dove nascondermi.
Ad ogni modo, ormai manca solo uno scatto per concludere anche la storia del messaggio. Si è scoperto che cos'è, cosa dice ... però, anche se nessuno nella storia se n'è ancora comprensibilmente reso conto, manca forse il pezzo più importante. Arriverà anche quello.
Ormai siamo agli sgoccioli.
E, uhm, arrivata a questo punto penso di poter dichiarare con tutta la sincerità l'amore per il gruppo di lettori e scrittori di questo fandom ☆ Spero vi rendiate conto di essere una perla rara, perché lo siete e anche tanto. Insomma, e adesso chi vi lascia più se mi permetterete di sopravvivere a questo colpo basso?

Procioni Panda minori (grazie HopeToSave ;D),
Lechatvert




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Capitolo 14
*** parte quattordicesima – downtown ***


saboteur



«E la fine?»
«La fine è una brutta faccenda».
«Ma è quella che tutti aspettano».
«Per questo è la più difficile. Evitala finché puoi, Cassian».
«Ma perché?»
«Perché dopo una storia ce n’è un’altra; morto un narratore, se ne fa subito uno nuovo. Non c’è mai fine, né pace. Anche dopo un eroe, ne viene sempre un altro».
«E allora quando finisce?»
«Cassian».
«Mariceli. Dimmi quando finisce».
«Va’ a dormire, dai».
«Avanti!»
«Con se stessi, Cassian. Finisce tutto con quello. Dopo se stessi, c’è solo il buio».








PARTE QUATTORDICESIMA – DOWNTOWN


Ci trovarono così. Un ragazzino con un blaster in mano e gli occhi gonfi di lacrime e una zoppa che teneva tra le braccia il cadavere di suo marito gridando talmente forte da coprire persino il rumore dei fucili che sparavano per farsi strada attraverso l’uscio bloccato.
Non ebbero il cuore di ucciderci.
Sei assaltatori e un ufficiale rimasero impietriti in un silenzio quasi religioso ad osservarci, incapaci di farsi avanti mentre Mariceli ripuliva il viso del Capitano Halos con le mani sporche dello stesso sangue che si ostinava a tossire, disegnando sulla sua pelle macchie scure che gli facevano da barba.
Non so dire per quanto tempo tutto rimase immobile. Io che guardavo il vuoto, i nostri nemici che osservavano la scena con addosso lo strazio della morte … l’unica a muoversi fu sempre e solo Mariceli. Piangeva, gridava, chiamava suo marito.
Lui non le rispondeva.
Ogni giorno ringrazio di non essere mai stato protagonista di un momento del genere. Ci sono state tante persone, nella mia vita, tante presenze, tante occasioni … ogni volta che si avvicinavano a essere anche solo vagamente quello che il Capitano Halos rappresentava per Mariceli, non sono mai riuscito ad andare avanti. Contrappongo continuamente me stesso a quelle grida, il bisogno di calore al sangue sul viso, la brezza dell’affetto allo sparo, alla morte.
Il giorno in cui compresi quanto forte può essere il legame tra due persone, fu anche quello in cui lo vidi spezzarsi, ed è qualcosa che non sono mai stato in grado di dimenticare. Certo non fu una lezione che Mariceli volle darmi, ma fu una di quelle che imparai con più dedizione.
Ne appresi un’altra altrettanto importante di lì a qualche minuto, ma non potevo ancora sapere a che cosa stavo andando incontro. Continuavo a chiedermi: “è così che muore un eroe?”, senza riuscire veramente a immaginarmi cosa ci sarebbe toccato ora che eravamo praticamente con le spalle al muro.
Feci la cosa che mi sembrò più giusta, e ricambiai un favore.
Lentamente, posando il mio blaster a terra con una naturalezza quasi disarmante, raggiunsi Mariceli e mi inginocchiai accanto a lei. Non dissi niente, ma scambiai con l’ufficiale imperiale un’occhiata eloquente che implorava del tempo. Quando la richiesta fu accordata da un cenno del capo, alzai le braccia e le usai per circondare le spalle di Mariceli.
«Va tutto bene» sussurrai, accarezzandole i capelli mentre la sentivo tremare contro la mia spalla. «Dobbiamo ancora andare su Kessel».
Quel giorno, ero pronto a morire con lei.
Per tutto il tempo tenni gli occhi ben aperti, deciso a guardare in faccia l’uomo che mi avrebbe sparato. Un ultimo, strozzato gesto di coraggio. Sentivo di aver fatto abbastanza; non avevo idea di cosa ancora mi aspettasse fuori da Wobani.
Per fortuna, l’Anima me ne diede un assaggio con un raffica di colpi che fece tremare le pareti e il pavimento.
“Andor Quattro a chiunque sia in ascolto” si palesò la cupa voce di Cunha, riprodotta a scatti dalla trasmittente nella tasca di Mariceli. “Ragazzi, non vi sento più. Datemi una mano a tirarvi fuori”.
All’improvviso, un allarme cominciò a risuonare attraverso gli altoparlanti. Wobani era ufficialmente sotto attacco e, assieme ai caccia della Squadriglia Anima, per noi arrivò anche la speranza.
Mariceli fu la prima ad accoglierla dentro di sé, ritrovando in fondo al baratro della morte un barlume a cui aggrapparsi con tutte le sue forze. Mentre mi abbracciava, fece scivolare la mano lungo il mio fianco, superando la mia coscia per arrivare a sfiorare il fucile che il cadavere di Dessh stringeva ancora tra le mani. «Ce la fai a prendere il blaster?» sussurrò, poi un’altra raffica di colpi fece tremare l’edificio.
Io annuii contro la sua pelle. «Quando vuoi».
Non dovemmo neanche guardarci in faccia per metterci d’accordo.
Approfittando di una scossa data dai colpi dei caccia, Mariceli scivolò a terra e recuperò lo stesso fucile che aveva ucciso suo marito. Sdraiata e tirandosi addosso Dessh per usarlo come scudo, sparò a raffica sopra le nostre teste.
L’intera stazione si spense nel buio dei neon distrutti, e io ne approfittai per recuperare il mio blaster e per ripararmi dietro a un tavolo.
Piovve vetro.
«Qui Andor Due. Andor Quattro, rispondi» sentii da lontano, e lo presi come un invito a darmi da fare. Mi misi comodo dietro la mia copertura e iniziai a sparare seguendo l’istinto. L’FRG insegnava molto bene ai suoi cecchini a sparare al buio; dopotutto, Fest è sempre stato un pianeta tutt’altro che soleggiato.
“Andor Quattro a rapporto”.
«Ti confermo la nostra posizione, ho abbassato gli scudi. Io e Andor Cinque saremo in posizione il prima possibile».
“Ricevuto, Andor Due. Ci vediamo là. Chiudo”.
Uccisi cinque uomini con molta più facilità di quanto, due giorni prima, non ne avessi ucciso uno soltanto. La disperazione gioca brutti scherzi all’istinto.
Alla penombra del computer ancora acceso, spiai Mariceli sparare all’ultimo assaltatore rimasto in piedi. All’ufficiale, invece, toccarono così tanti colpi di fucile che avvicinandomi a stento riuscii a comprendere di stare guardando un essere umano.
Mariceli non batté ciglio. Per l’ennesima volta guardò un uomo morire, dopodiché abbassò l’arma e si rimise a digitare sulla tastiera.
«Che fai?!» le gridai, sconcertato. Volevo soltanto andarmene.
«Vieni qui, svelto» mi sentii rispondere, invece, secco. «Sto cercando di bloccare le porte per isolare il ponte. Passami la scheda di Kappa».
Anche se titubante, obbedii. «Salvi l’algoritmo?» chiesi.
Mariceli annuì.
Investiti da una strana sensazione di onnipotenza (o di disperazione, ma a quel punto chi poteva essere in grado di distinguere dove finisse una e cominciasse l’altra?), ci bardammo a vicenda dentro i busti delle armature nemiche, sistemandoci spallaci e avambracci prima di affacciarci al corridoio. Mariceli con il suo fucile, io con il mio blaster. Rubammo anche le chiavi di accesso da ciò che restava dell’ufficiale nel caso ne avessimo bisogno più avanti.
Prima di lasciare la stazione, rivolgemmo l’ultimo saluto al Capitano Halos.
Mentre io restavo in disparte a fissare quel corpo che fino all’ultimo aveva combattuto, Mariceli gli si inginocchiò accanto, guardandolo come se insistere l’avrebbe riportato indietro. Si chinò su di lui e gli baciò piano la fronte, sussurrandogli parole che non fui in grado di cogliere. Lentamente gli prese le mani, se le portò al petto. Pregò persino, credo.
Ciò che la ferì di più fu la fretta con cui dovette fare ogni cosa. Come si fa a dire addio al compagno di una vita in una manciata di secondi, consapevole di poter essere scoperti da un momento all’altro? Mariceli fu costretta ad abbandonare il cadavere di suo marito laddove lui stesso era morto, e non ebbe nemmeno la grazia di lasciarlo andare con il tempo di cui aveva bisogno.
Ma era proprio quello, il problema. Non avevamo tempo.
Distoglierla dalla sua veglia mi fece sentire un mostro.
«Mariceli» sussurrai, coprendomi il viso con il casco per impedirle di vedere quanto disperso fossi. «Dobbiamo andare».
Lei annuì e fece lo stesso. Invece che raccontarci cosa stavamo attraversando, decidemmo di nascondercelo a vicenda sotto il ferro duro di un’armatura. Credevamo che, non parlandone, alla fine sarebbe sparito.
Scendendo verso l’hangar, ci imbattemmo soltanto in un ridotto plotone di giovani cadetti. Eravamo pronti a fare fuoco e a vendere cara la pelle, ma non dovemmo accopparne che uno poiché tutti gli altri si facessero da parte in preda al panico. Passando loro accanto, incrociai gli occhi dell’unico che si tolse il casco per soccorrere il compagno caduto. Era persino più giovane di me.
Arrivammo alle porte dell’hangar con il cuore in gola. Mariceli a stento camminava, poggiandosi quando poteva alle pareti. Non smetteva di tossire e, se possibile, era diventata ancora più pallida di quanto già non fosse.
Formonitrile. Se il corpo non è in grado di espellerlo da solo, resta in circolo per ore, per giorni. La morte sopraggiunge improvvisamente e, nella maggior parte dei casi, senza possibilità di recupero. Ma di questo non avevo idea.
«Saranno tutti di là ad aspettarci» soffiò Mariceli, togliendosi il casco soltanto per scoccarmi un’occhiata così dannatamente seria che ancora oggi mi impartisce disciplina. Mi guardò con occhi scuri da animale notturno, due piccoli spettri tondi decisi a non perdersi nella paura.
Portai la canna del blaster al viso, battendola piano sulla superficie del casco. «Prendo la destra» le dissi, voltandomi.
«Io la sinistra».
Sentii la sua schiena contro la mia, un peso inaspettatamente caldo che in qualche maniera mi rassicurò.
Coraggiosi come soldati, aprimmo le porte.
Chi mai sarebbe sopravvissuto? Per tutto il tempo in cui sparai a raffica sulla fila di assaltatori che ci presentò dinanzi, non feci che immaginare i nostri corpi a terra. Gridavo per sfogare la rabbia di morire a sedici anni dopo averne vissuti dieci in solitudine, per la frustrazione di aver visto i miei compagni cadermi davanti, per la paura di avere davanti un futuro che era soltanto polvere. A quell’età, bisogna fare rumore per tutto.
Facemmo il possibile, poi ci riparammo dietro le ali di un grosso TIE.
«Ho il fucile surriscaldato» annunciò Mariceli, sospirando. «Coprimi le spalle; cambio l’accoppiatore».
«Lo sai fare?»
«Sì, se me lo hai insegnato bene».
Le diedi fiducia.
Mi arrampicai a metà ala, sporgendomi quello che mi bastava per avere una visuale sufficientemente buona da mostrarmi la nostra fine ormai imminente: eravamo circondati da una decina di assaltatori almeno, tutti quanti armati e ben decisi a conquistare terreno. Alla mia destra, oltre l’imbocco dell’hangar, sorgeva il sole più luminoso che avessi mai visto nascere.
Impiegai un istante a rendermi conto che non poteva essere l’alba e che quel cerchio luminoso che ci stava venendo incontro non era una stella. Affatto.
«Vai via! Via, via!» gridai, saltando a terra con gli occhi sgranati.
Mariceli mi guardò, allarmata, ma non le diedi il tempo di aprire bocca. La afferrai per la divisa che aveva addosso e la trascinai letteralmente a ridosso della parete, correndo a perdifiato con quel poco di forza che mi era rimasta in corpo.
Voltandomi, scoccai un’ultima occhiata al caccia che ci aveva fatto da riparo, uno dei TIE nuovi che Cunha e il Capitano Halos tanto detestavano. Ce n’era una fila intera.
Dovevano detestarli davvero, quei caccia, poiché quando l’ala-Y recante i colori della Squadriglia Anima fece breccia sul ponte per andare a schiantarsi in fondo all’hangar, il suo pilota si assicurò di centrare tutti i TIE posteggiati, distruggendoli uno dopo l’altro con una minuzia che ebbe dell’iconico.
L’esplosione che ne seguì investì completamente la fila di assaltatori pronta a fare fuoco su di noi, ma non mancò di colpire anche me e Mariceli, sollevandoci da terra e buttandoci del tutto contro la parete alle nostre spalle.
Per qualche istante, feci fatica a distinguere le ombre degli oggetti davanti a me. Vidi fiamme e fumo finché Cunha non mi tirò su da terra con la stessa facilità con cui avrebbe raccolto un tozzo di pane, strappandomi il casco probabilmente per assicurarsi di non avermi spaccato la testa.
«Dannati ala-Y, bagnarole da mentecatti» lo sentii brontolare, guardandolo con aria smarrita mentre si occupava anche di Mariceli. «Tu!» le gridò, scuotendola. Lei fissava il vuoto con un rivolo di sangue che dall’attaccatura dei capelli le scendeva fino alla guancia. «Non avevi detto di aver abbassato gli scudi?»
Lei si ridestò appena. «Ci sono gli scudi alzati?» chiese, boccheggiante. «Hai attraversato degli scudi alzati?»
«E non è stato affatto divertente».
Notai in quel momento che la divisa di Cunha era praticamente sul punto di prendere fuoco, bruciacchiata dalla cinta in giù e con il fumo che si levava dalle spalle per via del calore accumulato durante l’accelerazione. Aveva un taglio che gli apriva letteralmente la guancia, lasciando un piccolo lembo di pelle a penzolargli fin quasi al mento. Eppure non batteva ciglio.
Sospirando, portò la mano sul casco, collegandosi alla trasmittente. «Anima Tre a gruppo, il mio caccia è a terra; io sto bene. Ho ritrovato l’Andor. Ora li carico sulla prima navetta che trovo e li riporto a casa. Ci rivediamo direttamente là, chiudo». Ci scoccò un’occhiata spenta, annuendo. «Tutti interi, pulcini?»
“Interi” era veramente un azzardo.
Scossi il capo. «Il Capitano Halos è …»
Mariceli sollevò di scatto il mento. «Tylan non ce l’ha fatta» tagliò corto, ridestandosi. «Ci ha salvato la vita».
Lentamente, Cunha si passò una mano sulla barba lasciata scoperta dal casco da pilota. «Capisco» sussurrò, senza distogliere lo sguardo. Sono piuttosto convinto che quel giorno gli si spezzò il cuore. «Bé, allora forza. Troviamo un passaggio e buttiamolo giù, questo posto di merda».
«C’è l’Andor» dissi io, convinto. «Lo abbiamo visto prima».
Cunha arricciò il naso. «L’Andor non va bene» rispose. «A stento ce l’ha fatta l’Ala-Y, a passare gli scudi. Un mercantile senza accelerazione? Sarebbe un suicidio».
Mariceli era silenziosa. Ricordo che le misi una mano sulla spalla perché ero preoccupato che l’esplosione l’avesse ferita più di quanto il suo corpo già debole potesse sopportare, ma non avevo capito niente. Aveva semplicemente iniziato a pensare a una via di fuga alternativa dal momento esatto in cui Cunha le aveva fatto notare che gli scudi non erano stati abbassati, e non parlò fino a che non riuscì a trovare una spiegazione sensata a quella sua mancanza. Non se ne capacitava, credo. Dopotutto, è qualcosa in cui abbiamo finito col somigliarci molto: non amiamo sbagliare.
«È uno scudo magnetico anti-evasione» annunciò, il corpo improvvisamente rigido come se si trovasse nel bel mezzo di una qualche rivelazione. «È per questo che sei riuscito a entrare, Terras. Perché serve a tenere la gente dentro».
Cunha alzò le spalle. «Lo sai togliere?»
«Ho le credenziali, posso farlo. Però …»
Mi ritrovai a digrignare i denti. «Non sono automatici» sussurrai. Non so neanche come facevo a saperlo; credo glielo lessi semplicemente negli occhi.
«Serve che qualcuno li tenga disattivati manualmente, sì».
Alcuni anni dopo, quando mi trovavo nel Settore di Carvandir per un reclutamento, fui avvicinato da una ragazza che aveva gli stessi occhi di Mariceli. Piccoli, scuri, arrabbiati. In un certo senso soli. «Anche io volevo fare la ribelle» mi disse, la mano stretta attorno a un coltello da cucina mentre io la guardavo con il blaster pronto a sparare. «Ma non lo sopporto». «Che cosa?» le chiesi io. Lei fece spallucce. «Quel momento in cui capisci che qualcuno sta per morire».
E come biasimarla? È il momento peggiore della vita di ogni uomo e solitamente, per disgrazia o per benvolere della sorte, arriva per tutti nello stesso momento.
Ci si accorge assieme di stare per morire, ci si accorge assieme di quando è tempo di dare gli addii. Solo, non si è mai veramente pronti ad accettarlo.
Quel giorno, sul ponte venticinque del Centro di Detenzione di Wobani, per istanti interminabili sentii il vuoto scoppiarmi nel petto.
Lo sentii io, lo sentì Cunha, lo sentì soprattutto Mariceli. E, assieme al vuoto, tutti trovammo la stessa consapevolezza a bruciarci la carne: serviva qualcuno che tenesse disattivati gli scudi e quel qualcuno doveva essere lei. Perché Mariceli era zoppa, rotta, strappata, perché Cunha pilotava caccia con la furia di una tempesta e io avevo sedici anni, e le persone sono convinte che a sedici anni i ragazzini non debbano morire.
Lo sapevamo tutti, eppure tentai di ribellarmi.
«Lo faccio io» mi offrii, quasi incapace di respirare. «Di corsa. Sono veloce. Spiegami come si fa».
Mariceli mi guardò, silenziosa, e mi consegnò la scheda di memoria. «Conservala con le altre» mi ordinò. «Ricordati che c’è gente viva, lì sopra. E che ha bisogno di aiuto».
Non demorsi. «Dobbiamo andare su Kessel».
«Tu andrai su Kessel. Ti guarderò da qui».
Cunha si sporse a prenderla per una spalla. «Mariceli» le disse, obbligato dal momento che per vera volontà di rassicurarla in qualche modo. «Tuo marito ne sarebbe stato orgoglioso».
Lei rise appena. «Vorrai dire furibondo». Si tolse il fucile dalla spalla e glielo mise in mano con un sospiro rassegnato. «Rivedetele, queste armi. Si surriscaldano troppo facilmente».
Lui annuì con un cenno del capo. «Lo farò presente».
«Terras. Falli saltare in aria per me e per Tylan».
«Ci puoi contare».
«E salutami tuo fratello».
Fu la prima volta in cui vidi Cunha sorridere di cuore. «Sarà fatto».
In quel preciso istante, quando realizzai che anche il nostro pilota aveva accettato la realtà dei fatti con una semplicità spiazzante, entrai in piena fase di negazione. Guardandomi indietro, mi rendo conto che non fu facile per nessuno di noi. Cunha era determinato a portare l’Andor fuori di lì, in qualche modo, Mariceli a salvare il salvabile. Capii molti anni dopo quanta paura avesse in quel momento, quanto le tremassero la mani mentre mi stringeva. Sul momento, vedevo soltanto la mia disperazione.
Ero sul punto di mettermi a gridare, talmente pieno di frustrazione da sentirmi scoppiare, quando mi abbracciò.
«Andiamo, sii ragionevole» sussurrò, accarezzandomi i capelli come aveva fatto quella sera in cui avevo detto addio a mio padre. «Non arriverei comunque all’Andor in tempo, con questo piede».
A fatica, ingoiai un nodo di lacrime. «Non so cosa fare» confessai, stringendomi a lei nella speranza di non lasciarla andare.
«Cerca quelle persone, finisci di decifrare il messaggio. Ci sono giorni migliori che devono arrivare, in qualche modo li guarderemo assieme. Se adesso io resto qui, questo me lo devi» Aveva gli occhi che brillavano di fiducia.
Io annuii, e per un attimo ci illudemmo assieme. «Ci rivedremo» sussurrai. Forse lo stavo dicendo a me stesso.
«Passerò a trovarti. Ti ricordi quello che ti ha detto Tylan?»
Me lo ricordavo benissimo. Come dimenticarlo? Era il nostro segreto.
Sarebbe fargli un favore”.
Non so dove trovai la forza di risponderle. «Me lo ricordo».
«Ma certo. Sei un ragazzino sveglio, te l’ho già detto ».
L’ultima volta che la vidi in faccia fu con il bacio che mi posò sulla fronte.
Zoppicante, si avviò debolmente verso la stazione di comando dell’ingresso, una piccola piattaforma rialzata accessibile dall’hangar o dall’ingresso principale, in quel momento sbarrato completamente dai resti dell’ala-Y che Cunha ci aveva buttato addosso. Però lo sapevamo tutti che era questione di minuti prima che i padroni di casa trovassero il modo di accedere all’hangar. Da una parte o dall’altra, avrebbero trovato una parete da buttare giù a forza di detonazioni.
«Sta’ pronto» mi disse Cunha, tirandomi per una spalla mentre ci incamminavamo speditamente verso l’Andor. «Abbiamo mezzo minuto da quando abbassa lo scudo».
Voltarmi e seguirlo fu un gesto che mi gettò sulle spalle più fantasmi di una guerra intera.
A bordo, tutto era esattamente come l’avevo lasciato quando ero partito alla volta di quella parte di Fest che mi era allora sconosciuta. Per un solo secondo, fu come tornare al giorno in cui vi ero salito per la prima volta, alla fiancata bruciata, a Kappa che mi dava del ladro. Solo che stavolta facevo da secondo pilota.
“Andor Due ai restanti” ci chiamò la voce Mariceli, bassa e tremante attraverso le cuffie della plancia. “Preparate i motori, tra poco saremo pronti”.
Strinsi la scheda di Kappa come fosse luce nella disperazione della notte. In quel momento, decisi che, se quel dolore che mi bruciava nel petto fosse rimasto con me tutta la vita, allora l’avrei portato con la consapevolezza di esserne l’artefice.
«Aspetta» dissi, deglutendo a fatica. «Devo fare ancora una cosa. Apri il portellone».
Cunha mi scoccò la stessa occhiata che avrebbe scoccato ad un pazzo. «Tu sei sotto shock» considerò, senza neanche degnarsi di rispondermi. «Sta’ seduto buono e fermo».
Ostinato, balzai in piedi. «Apri quel maledetto portellone!» gridai, furioso.
“Andor Quattro e Cinque, pronti al decollo. Scudi abbassati in venti secondi”.
Cunha lasciò che il suo sguardo cadesse nel vuoto. «Vedi di non farti del male» sussurrò.
Abbandonai la plancia e scesi di sotto asciugandomi le lacrime contro la manica della divisa. Non so dire quando avessi iniziato a piangere, non ne ho ricordo.
Il conto alla rovescia partì dagli altoparlanti del ponte, rimbombando in tutto l’hangar nella voce metallica di un uomo.
Tremante, mi inginocchiai a terra, strisciando piano sul portellone finché non raggiunsi una vista abbastanza chiara dello spazio sottostante. Ormai l’Andor doveva trovarsi a otto o nove dieci metri d’altezza. Davanti a me, Mariceli non era che una sagoma in lontananza.
Non troppo distante, comunque.
«È farle un favore» mi ripetei, ed è ciò che continuo a ripetermi ogni giorno, ogni notte, ogni volta che incrocio il mio stesso sguardo allo specchio.
… Dieci, nove …
Sotto di me, sentii chiaramente i motori dell’Andor prepararsi a partire alla massima potenza. Pregai con tutto me stesso di non venire scaraventato di sotto, poi mi costrinsi a prendere la mira.
Un favore.
Un favore. Anche se muoio, sarà stato un favore.
… Quattro, tre …
«È un favore».
Si era legata la sciarpa rossa del Capitano Halos in fronte, un punto colorato in mezzo al grigio dell’hangar. Un segnale, un invito, un bersaglio.
Scelse anche come morire.








note

L'irreparabile.
Alla fine, in un modo o nell'altro, doveva succedere.
Mi sento un po' in colpa perché, visto quello che è successo nel capitolo precedente, è veramente una sofferenza dietro l'altra, ma non c'era davvero niente da raccontare nel mezzo, quindi ... mi dispiace.
Più o meno, la storia è finita.
Ci saranno altri due capitoli, o meglio: un capitolo conclusivo, il prossimo, in cui ci sarnano sia nuove conoscenze che ritorni, e un epilogo, un modo diverso di vedere la storia, un cambio di prospettiva (insomma: uno sfizio che mi sono voluta togliere).
Non c'è molto altro da aggiungere; le morti dei personaggi mi lasciano sempre addosso un certo senso di vuoto e di mancanza che impiego sempre un po' a processare. Anche se questo non mi salva dal scriverle.

Barbagianni,
Lechatvert




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Capitolo 15
*** parte quindicesima – se sei solo ***


saboteur



«Non ci vorrà molto».
«Lo so, Cassian. Non è la prima volta che mi viene fatto un backup».
«Va bene, allora … registra questo messaggio, per favore».
«Per chi?»
«Non l’ho ancora deciso. Tu fallo».
«Va bene».
«Dunque … ah, sì. Ci sei, Kappa?»
«Quando vuoi».
«Il giorno in cui Travia Chan creò il Gruppo Resistente di Atrivis, unendo per sempre le forze ribelli di Fest con quelle liberatrici del Sistema di Mantooine, noi dell’FRG ci sentimmo inevitabilmente traditi. I miei due compagni di stanza (troppo taciturni perché io ne ricordi il nome a così tanti anni di distanza), lasciarono quella che con solennità chiamavamo “la Resistenza” per passare beceramente all’Impero. «Meglio inculati la divisa che inculati con le palle al freddo e coi mantooiani intorno», mi disse uno di loro poco prima di sbattere la porta e, passata la sorpresa di sentirgli dire più di tre parole nella stessa frase, mi sedetti sulla mia branda a contemplare la stanza nella sua vuota solitudine.
Quel giorno compivo sedici anni».









PARTE QUINDICESIMA – SE SEI SOLO


Come finire una storia che di per sé è già finita? Successero così tante cose, dopo quel giorno, e non ne ricordo nessuna con piacere.
La Squadriglia Anima e il Mercantile Andor atterrarono due giorni dopo su Fedje, un pianeta del Sistema di Atrivis su cui Travia Chan non era ancora arrivata a spadroneggiare dopo aver allargato gli orizzonti del suo gruppo di ribelli. La incontrammo non appena arrivati e riuscì con una buona dose di talento a deludere le aspettative di tutti: era più interessata ai miei resoconti che a quelli dell’Anima, ma sospetto ancora oggi che l’unico motivo del suo entusiasmo nel vedermi vivo e vegeto fosse la possibilità di spiattellarmi in faccia quanto ingenua fosse stata Mariceli a credere di poter giocare con l’Impero una seconda volta dopo essere stata graziata dalla sorte la prima.
Non risposi che a poche domande, poi mi chiusi in un silenzio che durò anni.
«È sconvolto» mi difese Cunha, seppur poco convinto lui stesso. «È un ragazzo».
«Un ragazzo che spara e va in guerra come tutti noi» lo riprese Travia Chan, impassibile. «Non vedo alcuna differenza tra te e lui, Anima Tre, se non nel fatto che a differenza sua tu segui i miei ordini».
Fu l’ultima volta in cui ebbi a che fare con il Gruppo di Atrivis, Travia Chan e tutti gli ex membri dell’FRG.
L’Andor atterrò su Fedje danneggiato dalla fuga e dalla missione e, così come me, da lì non si mosse per molto tempo.
Con il nome di Aach Zanedi e dei documenti falsi che mi procurai con alcuni dei crediti che trovai nascosti sulla nave, riuscii ad accaparrarmi un lavoro come assemblatore presso le Industrie Arakyd, dove imparai a montare e smontare droidi con la stessa velocità con cui al mattino mi alzavo dalla branda per sfuggire agli incubi.
Ricordo che passai mesi dormendo a stento cinque ore a notte. Se non erano gli incubi, a svegliarmi, era il rumore del bastone di Mariceli che batteva contro i pavimenti metallici della navetta. Se non era il bastone, era la risata del Capitano Halos. A volte credevo di vederli, di sentire le loro mani sulle mie spalle, le loro dita tra i capelli. La cosa che faceva più male era il mutismo con cui si dileguavano quando mi chiedevo se fossero reali.
Alternando le allucinazioni al lavoro, tiravo avanti. Di tanto in tanto, Cunha passava a trovarmi e mi portava notizie da Fest. A casa del Capitano Halos insistevano affinché andassi a stare da loro, ma sentivo di non avere nemmeno il coraggio di guardarli in faccia. Ancora oggi, continuo a fuggire.
Avrei potuto andare avanti così fino al giorno in cui avrei delirato completamente, diventando incapace di distinguere dove cominciava l’allucinazione e dove invece finiva la realtà, ma ci si mise di mezzo l’Impero. O meglio, ci si mise di mezzo l’unico imperiale che all’epoca avesse una vaga idea della mia esistenza.
«Aach Zanedi?»
Ricorderò sempre l’ultima volta in cui ebbi la grazia di sentirmi chiamare in quel modo senza sussultare in preda al terrore di essere stato scoperto. Immagino che non avessi davvero niente di cui avere paura, quel giorno, perché ero un ragazzo come tanti altri che tentava con scarso successo di riparare il motore del vecchio rottame su cui abitava.
Prima di voltarmi posai la saldatrice, togliendomi il casco e balzando giù dall’ala sinistra dell’Andor.
«Sì?» chiesi.
L’ufficiale che mi ritrovai a due spanne dal naso piegò gli angoli della bocca in un sorriso cordiale, di cui diffidai immediatamente. «Finalmente, maledizione, eccoti qui» commentò, sospirando. Poi alzò di colpo gli occhi sulla nave. «Non parte più?»
«È vecchia; qualcuno l’ha mollata qui perché fa più danni che altro». Sbottonai la giacca che avevo addosso, l’unica tra quelle del Capitano Halos che riuscissi a indossare senza dovermi perdere nelle spalle ampissime. «Posso esserle utile?» chiesi. Forzai un sorriso, obbligandomi ad apparire cordiale. Avevo smesso da un po’ di andare a cercare problemi, anche se in qualche modo mi ci ritrovavo sempre in mezzo.
«Molto utile, in effetti, ma non qui». Con un cenno del capo, l’ufficiale mi indicò i soldati che componevano la sua scorta, tre assaltatori armati intenti a controllare la nave. «Troviamo un posto tranquillo dove parlare con calma».
Corrugai la fronte, portando istintivamente la mano alla cintura. Oltre il tessuto della giacca aperta sul petto, sentii chiaramente l’impugnatura del mio blaster.
L’ufficiale se ne accorse e soffocò ogni mio intento con un severo cenno del capo. “Non devi per forza morire oggi” mi dissero i suoi occhi neri, colmi di una freddezza che sul momento non mi sembrò del tutto estranea.
Deglutii. «Possiamo andare dentro» proposi.
«Mi sembra un’ottima idea».
Stavo pianificando di scappare non appena la situazione avrebbe preso una brutta piega (ed ero certo che l’avrebbe presa presto, ammesso che non l’avesse già fatto), ma dovetti abbandonare ogni speranza di fuga. Come salimmo sul portellone dell’Andor, il droide di sicurezza che accompagnava gli assaltatori si staccò dal gruppo e ci raggiunse, obbligandomi a constatare con rammarico che la sua stazza era più che sufficiente a mozzarmi un braccio.
«Questo è K-2SO» mi disse l’ufficiale, precedendomi. «Ignoralo e ti ignorerà».
Dubbioso, rimasi a guardare il droide. «Ciao, K-2SO» tentai.
Lui si chinò appena. «Buongiorno, Aach Zanedi».
Si riconosce subito un compagno di vita, quando lo si incontra, anche se all’inizio lo si scambia quasi sicuramente per una gran seccatura.
Passai tutto il tragitto dal portellone alla stazione informatica ad escogitare una maniera sufficientemente efficace di saltargli addosso e strappargli la scheda madre prima che lui potesse strappare un qualsiasi arto a me. Non mi venne in mente niente di buono, perciò mi costrinsi a comportarmi bene e a sperare, visto che la speranza era tutto ciò che mi era rimasto.
Quando varcai la soglia della stazione e mi ritrovai davanti a quell’uomo seduto al computer con le mani già impegnate a tentare l’accesso ai dati della nave, per un brevissimo istante ebbi la netta sensazione di aver perso anche quella.
«Magari posso aiutare a trovare quello che sta cercando» buttai lì, imponendomi risolutezza.
L’uomo si voltò e mi guardò con sufficienza, alzando con noncuranza un sopracciglio come a voler sottolineare il suo scetticismo. «Non c’è nessun Zanedi» disse, con una semplicità che mi colpì forte quanto uno schiaffo. Dopodiché, tornò ad occuparsi del computer. «Ma questo lo sapevo già, perché stavo cercando Willix».
Restai immobile, completamente congelato.
Lui piegò il capo, mostrandomi una piccola cicatrice all’altezza delle labbra. «No?» chiese, in un tono lieve che però non riuscii a percepire come rassicurante. «Allora Joreth Sward».
Seppur nel panico, finsi indifferenza. «Il mio nome è Aach Zanedi».
L’ufficiale alzò le spalle e si voltò nuovamente. «K-2SO, resta di guardia fuori dalla stazione, facci parlare da soli» sospirò, togliendosi il berretto.
Con un ronzio d’assenso, il droide obbedì e andò a piantarsi sul ponte.
Io mi ostinavo a non muovere un muscolo.
«Va bene, ricominciamo» mi concesse con un sospiro l’ufficiale, invitandomi ad avvicinarmi. «Dando per assodato che Aach Zanedi non esisteva fino a un anno fa, sto cercando un tale di nome Willix che si faceva chiamare Joreth Sward».
Avevo la faccia ancora sporca di grasso da macchine per cui, credo, riuscii a nascondere sufficientemente bene la paura che mi fece impallidire. «Io mi chiamo Aach Zanedi» dissi e, in quel momento, implorai me stesso di dimenticare la verità. Aach Zanedi, continuavo a pensare. Come se ripetermi quel nome potesse in qualche modo cancellare quello vero. Aach Zanedi, ti chiami Aach Zanedi, sei orfano e questo mercantile lo hai trovato abbandonato.
Non potevo prevedere ciò che seguì.
L’uomo evitò di rispondere, togliendo le mani dalla tastiera del computer e poggiandosele in grembo. Poi, sbuffando, si piegò su se stesso e batté le nocche sulla gamba destra, all’altezza della tibia.
Nella stazione risuonò il rumore metallico di una protesi.
«È nuova» mi spiegò, alzando le spalle. «Faccio fatica ad abituarmi e me la devono cambiare minimo due volte l’anno. Giuro, è l’ultima volta che ci metto mano». Allungò un braccio nella mia direzione, poi mi sorrise di nuovo. «Presumo che tu abbia già sentito qualche storia su di me. Tenente Molan Solpea, molto piacere».
Sentire quel cognome pronunciato per la prima volta dopo mesi non dalla mia stessa voce ma da quella di qualcun altro, rese tutto quello avevo passato un po’ più reale e vicino di quanto non lo fosse stato nella mia solitudine.
Ebbi la chiara sensazione di sentire i miei organi collassare uno dopo l’altro, ma fu un malessere che non durò che un istante, subito sostituito dallo sgomento, dalla sorpresa, da una paura ancora più grande di quella che avevo avuto addosso fino a quel momento.
Sprofondai sull’unica sedia che trovai, respirando a fondo un paio di volte prima di riuscire a mettere assieme una domanda sensata, una tra le migliaia che la mia testa gridava: «Come mi hai trovato?»
Molan Solpea mi osservò con quella che credo fosse curiosità, una luce sinistra nel nero dei suoi occhi piccoli e tondi. «Ho tirato a indovinare che fossi uno senza un posto dove andare» rispose. «E che saresti rimasto sulla nave».
Sbuffai. «Come hai trovato la nave, allora».
Lui quasi si offese. «Per favore. Mia sorella non ha mai mosso un dito senza che io lo venissi a sapere. Ho seguito questo mercantile ovunque. Su Devon, su Iridium, su Fodro, Gibbela … persino su Wobani, in un certo senso ero con voi».
Mi rabbuiai, e lui lo notò immediatamente.
Provò a rimediare.
«Siamo una famiglia di sabotatori, noi Solpea. Spie, ladri, informatici … brutta gente, dico davvero» raccontò, forzando un sorriso che gli appiattì le labbra in un’espressione innaturale. «Ma oggi sono venuto a porgerti le mie scuse. L’ho tenuta d’occhio, ma non è bastato. Sarei dovuto essere lì con voi».
Sentii i polmoni smettere di dare aria al resto del corpo, e mi costrinsi a scuotere il capo. «No, non è vero» mi ritrovai a rispondere. Quella su Wobani era una questione di Mariceli e Mariceli soltanto; io stesso non ero stato che un ospite, un testimone, anche se alla fine ero diventato un carnefice.
Mi sentii pervadere dallo stesso senso di vuoto che mi prende ancora oggi quando ripenso alle mie dita che premono un grilletto. Su ogni uomo trovo una giustificazione, un appiglio a cui ancorarmi per non cadere vittima dei sensi di colpa. Con Mariceli continuavo a ripetermi di averle fatto un favore, ma era una scusa che aveva smesso di funzionare da tempo.
Seppur nel mio malessere o forse proprio per quello, fu l’unica volta in cui mi trovai accanto a un ufficiale in divisa imperiale senza la sensazione di essere a un passo dalla fine. Era un uomo che aveva seguito in silenzio sua sorella per tutta la vita, che a modo suo l’aveva protetta, che aveva avuto tutti i mezzi per sventare decine di colpi ribelli ma non l’aveva mai fatto. Forse, mi dissi, era un uomo buono.
«Vorrei che mi parlassi di lei».
Molan Solpea si accigliò. «Di mia sorella?» Sono convinto che nemmeno lui riuscisse ancora a pronunciare il suo nome.
«Sì, per favore».
Vorrei poter dire molte cose del Tenente Molan Solpea. Di come mi aiutò a combattere i miei fantasmi, ad esempio. O ancora di come lasciò l’Impero e si unì a me, di come assieme rimettemmo assieme l’Andor che ormai aveva smesso di volare e ci unimmo all’Alleanza Ribelle. Immagino fossi ancora troppo ingenuo per comprendere il vero motivo della sua comparsa; mentre lo ascoltavo parlare di Mariceli con la voce incrinata dalla nostalgia, a stento faticavo a considerarlo un nemico.
Fu così che raggirò ogni mia barriera, con la stessa tecnica che Mariceli mi aveva insegnato su Wobani: provò a diventare mio amico.
«Non ci parlammo per due anni» mi raccontò, perso in una malinconia che credo non facesse fatica a provare. «Quando scoprii che era finita su Fest … avrei voluto radere al suolo il pianeta intero, credo. Mi importava solo di averla a casa».
«Non volle venire?»
«La trovai in una cucina a preparare da mangiare con dei bambini. Piangevano tutti. Una donna li radunò nell’angolo, contro l’armadio, e ordinò loro di guardare il muro. Credeva fossi venuto per ucciderle entrambe. Mia sorella invece non batté ciglio. Raccolse il coltello da carne e me lo puntò contro senza neanche degnarsi di scomporsi. Sul momento, pensai che fosse uguale a nostra madre. “Vattene e non azzardarti mai più a farti vedere da queste parti” mi disse, e intanto continuava a farmi indietreggiare con in mano uno stupido coltello sporco di grasso. “Qui comando io, e se non te ne vai questo te lo pianto in mezzo agli occhi”. E all’epoca avrei anche potuto dimostrare facilmente che quel casale era un covo di ribelli festiani, ma come fai a covare rancore quando la stessa bambina a cui hai insegnato a camminare ti minaccia senza neanche dare segni di rimorso? Cos’eravamo diventati, pensai. Sembravamo davvero una ribelle e un imperiale».
Non mi mossi dalla sedia, completamente rapito. C’era così tanto che volevo sapere.
«Ma lei non mi ha mai parlato di te come un pericolo» sottolineai, stranito.
Molan Solpea accennò un sorriso. «Non lo sono» rispose. «Non per mia volontà, almeno. Ho sempre saputo di mia sorella e non l’ho mai denunciata, nonostante quel giorno. Ma era arrabbiata con me, lo comprendo. È uno screzio che nessuno dei due ha mai dimenticato: per tutto questo tempo, non abbiamo fatto altro che lasciarci soli a vicenda. Però ci volevamo bene».
«Non credo lei si sentisse abbandonata da te».
«Forse quando è morta lo ha pensato».
Forse lo pensò davvero. Chi può dirlo? Kappa una volta ha calcolato che l’ultimo pensiero più comune tra gli uomini morenti ha alte probabilità di essere riservato alla famiglia, ma non mi sono mai trovato d’accordo. Se dovessi essere io, a morire, a chi penserei?
Inoltre, dubito che Molan Solpea potrebbe mai ritrovarsi nella situazione di dover scegliere a chi rivolgere il suo ultimo saluto. In tutte le occasioni in cui ci incontrammo negli anni successivi, sembrò più intenzionato a tenersi cara la vita che a pregare i suoi morti. Ma che a differenza di Mariceli non fosse un uomo dedito a un ideale lo avevo capito dalla prima storia che lei mi raccontò di lui; quelle che ebbi a seguire non furono che conferme. In fin dei conti, non ebbi mai difficoltà a convincermi del fatto che con Mariceli avesse poco o niente a che fare.
Se da una parte la solitudine rende ingenui, dall’altra insegna anche a fiutare il pericolo. Non mi fidavo del Tenente Solpea, non del tutto almeno, anche se sentivo di non essere dinanzi a un nemico. Lo guardavo raccontare di sua sorella in un modo goffo che non c’entrava niente con la maniera suadente che aveva lei di confidare i suoi segreti a chi era disposto ad ascoltarli, e intanto sentivo nella mente le sue parole: “Si arruolò per non avere ulteriori problemi con gli imperiali”.
Non so esattamente quando iniziai a sentirmi in trappola. Molan Solpea non disse niente di particolare, non si mosse quasi dalla sua sedia. Eppure all’improvviso qualcosa in lui mi mise in guardia.
Lo pensai con una calma che a posteriori mi sconvolse: “se non voleva problemi con gli imperiali quando lasciò che sua sorella crescesse da sola su Fest, perché ora è qui e non mi ha semplicemente arrestato?
Non ho mai creduto nella redenzione; non in quella di un vile, ad ogni modo.
Lentamente, allungai il braccio verso il pannello di controllo informatico e sganciai la sicura del sistema di sicurezza.
Molan Solpea mi lasciò fare, e così sigillai ogni uscita. Il portellone della navetta, la botola della plancia, la porta della stazione informatica. K-2SO rimase fuori.
«Il sistema lo ha progettato lei» spiegai, teso. «È a prova di droide».
Molan mi sorrise. «Io li so risolvere in fretta, i sistemi di sicurezza di mia sorella» rispose. «E, nel caso ti fosse venuta in mente qualche idea sconsiderata: ho un blaster».
«Anche io ho un blaster».
«Bisognerebbe vedere chi è più veloce».
Nella paura, soffocai una risata. «No, non serve. Non avresti i riflessi abbastanza pronti». Presi una pausa, imponendomi la calma. Incredibilmente, non lo trovai affatto difficile. «Non sei in veste ufficiale, altrimenti avresti più uomini e non saremmo qui da soli. Però di fatto dei soldati ci sono, non sei venuto su Fedje per delle scuse, quindi … cos’è che vuoi?» chiesi, serio.
Molan Solpea non batté ciglio, ma glielo lessi in faccia che non si aspettava tanta schiettezza. Segretamente, me ne rallegrai.
Giocò al mio stesso gioco, e per una volta fu diretto.
«Voglio che tu ti costituisca» mi disse, schioccando piano la lingua sul palato. «L’Impero ha riconosciuto mia sorella, e adesso sta indagando su di me. Mio padre sovversivo, lei una ribelle che è rimasta su Rasp per un anno fingendosi un ingegnere … ci hanno messo poco fare due più due».
Non gli permisi di riprendere il controllo.
«Non mi posso costituire» sussurrai, stringendo i denti. «Non ho fatto niente».
Lo vidi sospirare, afflitto.
«Senti» disse. «Com’è che ti devo chiamare? Willix? Joreth?»
«Aach andrà benissimo».
«D’accordo, Aach sia. La situazione è questa, Aach: non hai nessuno. Vivi su un vecchio mercantile che non vola più, alla fabbrica mi hanno detto che non hai famiglia, in più mia sorella non mi ha mai parlato di te, quindi la butto lì: probabilmente ti avrà raccolto per strada». Rimasi in silenzio, il che dovette farlo sentire in diritto di continuare. «Io ho cinque figlie, la più piccola ha appena compiuto un anno. Per tenerle al sicuro, ho davvero bisogno che l’Impero chiuda l’indagine su mia sorella, e lo può fare soltanto se ritroverà il ragazzo che si era portata dietro su Wobani».
Non riuscii a trovare la forza di ribattere, non subito. Ero spiazzato: come poteva un tale codardo avere a che fare con la stessa donna che aveva sfidato un impero intero senza mai concedersi il lusso di tremare?
Molan Solpea sospirò pesantemente. «Non è facile, lo so» concluse. «Ma sono cinque bambine che cresceranno senza nessuno. Tu lo dovresti capire meglio di chiunque altro, Aach».
Lo capivo benissimo, per questo per un istante mi convinse a pensare di costituirmi sul serio. Pensai che, in fin dei conti, Mariceli amava suo fratello e le sue nipoti, che per loro avrebbe voluto il meglio. Ora che non c’era lei, a proteggerle, ora che il loro padre si era dimostrato così codardo, forse dovevo esserci io.
Non so bene cosa mi fece esitare. Egoismo, paura, forse la repulsione che provai per quel fratello che non era affatto come me l’ero immaginato. Però non riuscii a dire di sì. Avevo ancora delle cose da fare, anche se fino a quel momento mi ero scavato uno spazio che mi scusasse a non farle.
Mi resi conto che, attraversato il punto che stavo per attraversare, non mi sarei mai più potuto guardare indietro.
«Mariceli» risposi, scoprendo quanto doloroso fosse pronunciare quel nome. «Ha lasciato delle cose». Era una bugia bella e buona, ma sperai che il grasso coprisse la mia incapacità di mascherare la tristezza. «Se mi devo costituire, vorrei che le avessi tu».
Molan Solpea sollevò un sopracciglio. «Delle cose?»
Annuii. «Ci teneva che restassero in famiglia».
«D’accordo, voglio crederti».
Non mi credette neanche per un istante, ne sono convinto. Io stesso non avrei mai creduto a una scusa simile. Eppure sono questi, i compromessi a cui si scende quando si perde qualcuno: si abbassa ogni difesa nella speranza di ritrovarlo. Io l’avevo fatto fidandomi di lui, lui lo stava facendo fidandosi di me. In quel momento, eravamo spaventosamente simili.
Per questo fu un po’ più facile colpirlo.
Mi voltai con la scusa di fargli strada, respirando a fondo mentre gli occhi vagavano nella stanza alla ricerca di qualcosa di sufficientemente pesante. La protesi gli dava fastidio, perciò non poteva avere dei riflessi più pronti dei miei.
Avevamo quasi raggiunto la porta quando notai l’estintore appeso al muro. Sicuramente non avrebbe mai più spento incendi, valutai, e con tutta la forza che avevo nelle braccia lo strappai dal suo supporto e lo gettai sulla gamba di Molan Solpea con l’intenzione di sfondarla.
Piegato su se stesso in un goffo tentativo di ammortizzare il colpo, lui provò a raggiungere il blaster che portava legato alla cintura, ma fu troppo lento.
Fargli del male fu come punire me stesso per qualcosa di cui mi sentivo colpevole.
Mirai volutamente al ginocchio. Avrei potuto colpirlo alla protesi, lo avrebbe ugualmente tenuto a terra. Però con il tempo capii che non avevo altro modo di liberarmi: io avevo sofferto, Mariceli aveva sofferto, il Capitano Halos aveva sofferto. Ora toccava a lui.
Come sparai, si contorse con un grugnito di dolore, il suo blaster ormai abbandonato accanto al fianco. «K-2SO!» gridò, mentre le sue mani annaspavano cercando l’arma che mi premurai di allontanare con un calcio. «Dà l’allarme! Butta giù questa porta!»
Alle mie spalle, sentii il tonfo di un corpo contro l’uscio sbarrato.
Puntai il blaster contro il viso di Molan Solpea e lo guardai dall’alto, senza nemmeno permettermi di respirare.
«Di’ al droide di fermarsi» gli intimai. «O ti uccido qui».
Lui mi fulminò con l’odio acceso dei suoi occhi neri, rantolante al suolo mentre il droide provava a sfondare la porta. «Se muoio io, muori anche tu» mi ricordò.
Ne ero consapevole; non volevo neanche sapere cosa mi avrebbero fatto gli assaltatori che in quel momento probabilmente stavano facendo saltare il portellone. Tuttavia, non mi importava. «Io non ho nessuno» risposi, lucido. «Tu hai cinque figlie. Hai detto che l’Impero sospetta di te, no? Immagina cosa farebbe loro se non dovessi tornare».
Non so se sarei mai riuscito a ucciderlo davvero. Di certo, dovetti sembrare molto convincente.
«Di’ al droide di andare nella navetta di sicurezza e mettersi in ibernazione» dissi di nuovo, affilato, freddo.
Molan Solpea emise l’ennesimo grugnito dolorante, ma alla fine cedette. «K-2SO» sospirò, sconfitto. «Stand-by e navetta d’emergenza. Ora».
Sentimmo gli ingranaggi del droide ronzare, dopodiché l’unico rumore fu quello dei suoi pesanti passi allontanarsi sul ponte della nave.
Trassi un sospiro di sollievo.
«E adesso dove te ne vuoi andare?» mi chiese il Tenente, interrompendo il muto compiacimento della mia vittoria con una risatina che sapeva di sarcasmo. «Su Fest a fare il ribelle?»
Per una volta, non riuscì a spiazzarmi con una domanda messa lì apposta per cogliermi di sorpresa.
«Sono affari miei» ribattei, poi scoccai un’occhiata la computer che ci sovrastava. Quanti dati pericolosi c’erano, lì sopra? Sicuramente c’erano tracciate le rotte di Fest. Dubitavo che Malon Solpea le avrebbe utilizzarle per un attacco, ma c’era pur sempre l’Impero di mezzo … dopotutto, come avrebbe giustificato l’essersi lasciato mettere i piedi in testa da un ragazzo? Senza contare che avrebbe dovuto fornire spiegazioni del perché fosse andato a ficcanasare su Fedje, e che denunciare l’Andor sarebbe stata la scelta più ovvia da parte sua per non incorrere in un richiamo.
Nel dubbio, raccolsi il suo stesso blaster da terra e feci scattare la modalità stordimento.
«Mi dispiace» dissi, guardandolo mentre prendevo la mira. Altra menzogna: non mi dispiaceva per niente.
Lui, intanto, si teneva ancora la gamba. «Mi hai già fatto del male abbastanza per farlo sembrare un attacco» sbottò. «Mi toglieranno comunque dalla lista dei sospetti anche senza lo stordimento, grazie tante».
«Sì, io intanto li avrò dietro per giorni» risposi, sospirando. «Grazie tante a te».
Mentre sparavo, nelle orecchie sentii chiaramente la risata del Capitano Halos. Immaginai che, se fosse stata lì, Mariceli ne sarebbe stata un po’ meno soddisfatta.
Lasciai Fedje così, a bordo di una navetta di salvataggio dopo aver formattato il computer di bordo e con un droide spento in un angolo ponte. Alle mie spalle rimase il mercantile e il Tenente Solpea con una gamba da far operare. Fu fedele a ciò che mi disse, però: non vi mise più mano e, tutte le volte che mi capitò di rivederlo, fu in compagnia di una stampella.
È strano quanto poco riesca a ricondurlo a Mariceli: i figli del Capitano Halos si assomigliavano tutti, in un modo o nell’altro; Mariceli e Malon, invece, non avevano che gli occhi dello stesso colore.


*


Per far perdere le mie tracce, utilizzai tutta l’energia immagazzinata nei motori e mi allontanai quanto più possibile da Fedje. In solitudine, atterrai su Codia, uno dei tanti pianeti sabbiosi attorno alla zona di Jedha, e la prima cosa che feci fu quella di trovare la maniera più scaltra di liberarmi della navetta senza rimanere abbandonato in mezzo al deserto. Certo, non era qualcosa che potessi fare da solo.
Smontare il modello KX di Malon Solpea per infilarci dentro la scheda madre del Capitano Halos e fare in modo che funzionasse fu una gran lunga seccatura, ma a conti fatti ne valse la pena. Non ricordo gioia più grande di vedere quei due occhi biancastri illuminarsi e scrutarmi con diffidenza, né un senso di sollievo più forte di quello che provai guardando quel corpo meccanico muoversi lentamente sul pavimento della navetta.
«C’è del lavoro da fare» fu la prima cosa che mi disse Kappa. Poi mi raccolse letteralmente da terra assieme agli attrezzi che avevo in mano e si sedette al sedile di pilotaggio con la schiena ancora aperta in un continuo guizzare di cavi e ingranaggi. «Andiamo, Cassian. Tylan ci starà aspettando. Sei sempre in ritardo».
Impiegai quasi tutta la sera a spiegargli come fossero andate le cose. Ogni volta che glielo ripetevo, lui entrava in negazione. Mi ricordò più un essere umano che un droide, e forse fu per questo che mi affezionai così tanto a lui da non gettare la spugna e insistere sul mio racconto.
Alla fine, dopo molta pazienza, parve comprendere.
«Dunque hai abbandonato l’Andor» considerò, atono. Stringeva ancora le mani attorno al volante.
Annuii. «Non avevo altro modo, e poi erano anni che Molan Solpea l’aveva tracciato. Mi dispiace».
Lo sentii emettere un suono del tutto simile a un sospiro. «Va bene così, me lo aspettavo che avresti fatto qualcosa di stupido, prima o poi. Ora non abbiamo più un posto dove tornare».
Deglutii. «Non è vero».
«Non penso che l’ottimismo possa aiutare».
«No, dico … abbiamo trovato qualcosa, su Wobani».
«Ah sì?» Gli ingranaggi di Kappa guizzarono di nuovo. «E cosa avreste trovato, su Wobani?»
Mi strinsi nelle spalle. «Un’offerta di aiuto, vedila così». Avevo un’idea molto precisa di cosa avessimo tra le mani, anche se non immaginavo minimamente che cosa poi saremmo diventati.
«Sei un tipo davvero imprevedibile per la tua età, Cassian. Spero tu te ne renda conto».
Contando che Kappa non è un tipo da fare complimenti se non in caso di stretta necessità, a ripensarci mi sento alquanto onorato.
Assieme, risolvemmo Quantificatore, il codice che mi portavo dietro da mesi e che aveva messo radici tanto profonde nella mia mente da prendersi anche i miei sogni. Mi ero chiesto per notti intere: “se non ci sono riusciti i crittografi imperiali, a comprenderlo, come posso riuscirci io?”, e in un certo senso fu quella stessa riflessione a farmi capire. Non c’era niente da decifrare, niente da sognare di notte.
«Il simbolo alla fine dei numeri quantifica la funzione» spiegai a Kappa, al quale avevo affidato il compito di occuparsi dei calcoli. «Si leggono le cifre partendo da destra, e si inseriscono nell’algoritmo originale come risultato. Poi si ricalcola al contrario».
«Io penso …» Gli ingranaggi di Kappa guizzarono in suono del tutto simile alla stizza di chi ha sempre avuto la soluzione sotto al naso ma non è mai stato in grado di coglierla. «… Penso che sia una maniera esageratamente semplice di risolvere la cosa, Cassian. Se fosse come dici tu, l’Impero avrebbe il 100% delle possibilità di rintracciare il segnale».
Strano a dirsi: mi era mancato.
«Infatti l’Impero lo ha rintracciato» risposi. «Ma deve esserci qualche sistema dall’altra parte che filtra i collegamenti e rifiuta quelli provenienti da indirizzi ufficiali».
«E il codice da decifrare sarebbe solo una falsa pista per far passare inosservati i filtri?»
«Si può fare?»
«Nella tua testa pare di sì».
Avevo ragione, anche se non mi è consentito rivelarne i particolari. In generale, tutto Quantificatore ha lavorato per anni grazie al fatto che le forze imperiali sottovalutavano quelle ribelli. Se solo fossero stati più cauti, su Wobani, l’Alleanza stessa forse non sarebbe mai riuscita a nascere.
“Qui Quantificatore”.
La voce che si diffuse quella notte nella navetta non era quella del Generale Draven, ma le somigliava moltissimo.
Trattenni il fiato, stringendo le mani attorno al microfono dell’interfono come se il metallo fosse la mia salvezza. Lo era, in un certo senso, perché il precario equilibrio che mi ero costruito di Fedje era stato distrutto del tutto. «Parla la navetta Andor» risposi, boccheggiante. Per un attimo, dimenticai ogni cosa. «Cassian, sono Cassian».
Il segnale era debole, continuamente interrotto dai fischi di un’altra trasmissione che tendeva a sovrapporsi alla nostra.
La voce esitò un poco, fischiando nell’interfono. “Andor … Cassian?” chiese.
Mi voltai a guardare K-2SO, in piedi al mio fianco con le braccia molli in attesa di ordini. Io e un droide di sicurezza, tutto quello che era rimasto della stessa Squadriglia Andor che un tempo aveva combattuto per Fest. Mi feci un po’ più vicino al comunicatore della plancia. Moriva un eroe, ne nasceva uno nuovo. «Cassian Andor, confermo. Ho sentito il vostro messaggio, e so dove sono i vostri compagni che me lo hanno portato».
“Comunica la tua posizione, Cassian Andor. Ti veniamo a prendere”.
«Potrei avere qualche imperiale alle calcagna, probabilmente ci hanno tracciati».
“Mantieni un basso profilo e il collegamento radio; al resto pensiamo noi. Per ora chiudo”.
Io e Kappa ci scambiammo un’occhiata riluttante.
«Dobbiamo disfarci di questa navetta» dissi.
Lui annuì. «Lo avevo capito da solo, ma grazie della precisazione».
Entrambi restii, abbandonammo l’Andor e ci affacciammo al freddo deserto di Codia. Era notte fonda, una di quelle ventose e gelide in cui il cielo parla.
Mi vestii con tutto quello che riuscii mettermi addosso, compreso quell’enorme giaccone che aveva addosso il pungente odore del Capitano Halos e che avevo usato fino a quel momento su Fedje. Con lo zaino in spalla e Kappa al mio fianco, mi arrampicai sulla cima di una duna. Da lì, guardammo l’Andor bruciare nell’esplosione causata dal tubo del riscaldamento che avevamo spezzato prima di metterci in cammino.
Seppur da lontano, quell’ultimo fuoco di Fest mi tenne al caldo.
Ero di nuovo in fuga, di nuovo braccato, di nuovo all’erta. Solo che stavolta avevo Kappa, e la sola consapevolezza di non stare combattendo una guerra da solo aveva spazzato via ogni angoscia.
«Sembri una brava persona, Cassian» mi disse lui, una volta che entrambi ci fummo ritrovati con la sabbia fin dentro l’anima.
Mi accigliai. «Grazie, Kappa» dissi di rimando. «Anche tu sembri un bravo droide».
Per un istante, ci limitammo a guardare l’immensità del cielo che ci sovrastava. Vidi una stella cadente, credo. Forse fu solo un’impressione, eppure sperai che qualcuno, da là sopra, ci stesse osservando in silenzio.
«Sarai anche un buon amico, Kappa» sussurrai, senza pensarci, rapito dal vuoto che circondava entrambi.
«Oh, grazie.» Nonostante il vento, sentii i suoi ingranaggi ronzare. «Anche tu sarai un buon amico, Cassian».
E poi facemmo grandi cose, Kappa ed io, e molte furono per la Ribellione, altre per Fest, pochissime per noi stessi. Ma non ci separammo mai più.
In fin dei conti, Mariceli aveva ragione: non sono mai riuscito a liberarmi dell’Andor, anche se forse la mia fu una scelta più che una condanna.
La verità è che quel giorno, quando compii sedici anni e Cunha mi reclutò per andare su Rasp, credetti di aver trovato una famiglia. Lo credetti quando passammo la serata a bere e a giocare a carte, quando Mariceli mi permise di pilotare, quando spendemmo notti intere a raccontarci storie, quando guardammo assieme le luci nel cielo spegnersi. Quando su Wobani divenni Willix, poi Joreth, e poi improvvisamente mi ritrovai ad essere Aach.
Erano la mia famiglia, e Kappa era stato il primo ad andarsene. Però fu anche il primo a tornare.








note

Lo so, lo so, lo so, lo so ci ho messo tipo tantissimo e mi scuso veramente tanto. Però ho una buona scusante: ieri ho discusso la tesi e fino a stamattina ho avuto la testa su un altro pianeta. Ho davvero rischiato di inserire pezzi del discorso finale nella fanfiction, ero a tanto così perché ormai me la stavo sognando, quella benedetta tesi. Ma sono viva, quindi yey :D

E ora che dire? Ho finito di raccontare, stavolta sul serio. La storia è finita. Insomma, finita finita proprio no, perché la vita è andata avanti per chi scrive e anche per chi è scritto. Malon Solpea è lì proprio per questo: concludere un arco di vita per aprirne un altro, quello della Ribellione vera e propria.
Penso di aver finito, da aggiungere resta davvero poco.
Al prossimo e ultimo capitolo, vi abbraccerò e coccolerò tutti come si deve. Quindi preparate la tenerezza.

BB8 in mezzo ai pulcini INSOMMA,
Lechatvert

PS: mi sono dimenticata di scriverlo, ma la parte finale di questo capitolo si rifà a questa bellissima fanart che ho trovato tempo fa su Tumblr e per cui ancora piango. E niente, piangete con me!




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Capitolo 16
*** posludio ***


saboteur



«Generale Draven, si è già occupato del fascicolo?»
«Sarà pronto entro sera».
«Si assicuri di non dimenticarne nemmeno uno. Sono i nostri salvatori; la storia non li dovrà dimenticare».
«Tutti segnati, ho già avvisato i familiari. Lo sa che la maggior parte dei loro cari era sollevata?»
«Sollevata?»
«Sostengono che morendo abbiano saldato il loro debito con il Capitano Andor».
«Non sono sicura di seguire il discorso».
«Yosh Calfor, Farsin Kappehl, Jav Mefran e Serchill Rostok: erano tutti nostri messaggeri con Quantificatore. Quelli che il Capitano Andor salvò da Kessel quando entrò nell’Alleanza. C’è anche qualche membro della vecchia Squadriglia Anima».
«Lo hanno seguito tutti?»
«Sì, più qualche altro pazzo che hanno recuperato su Jedha».
«Altri membri noti?»
«Bé, Jyn Erso, ovviamente e … ora che me lo fa notare, qualcosa non torna».
«Cosa?»
«Prima di decollare, hanno fatto testamento e ce lo hanno fatto trovare archiviato nel database. È firmato da tutti loro, è così che li abbiamo rintracciati».
«E quindi?»
«La nave era per venti persone al massimo, invece sono stati registrati ventuno nominativi».
«Chi manca all’appello, Generale Draven?»
«Qualcuno che si firma MS».





La morte era blu e sapeva di lana.
Quando il Capitano Andor aprì gli occhi, convinto di essersi rotto l’osso del collo dopo essere precipitato per almeno cinque metri nello strapiombo dell’archivio informatico, si stupì di sentirsi dolorante e confuso, ma non da solo.
Qualcuno, non ricordava chi, un giorno gli aveva detto che quando si moriva toccava farlo da soli. Invece c’era un respiro, accanto al suo, caldo tanto quanto un fuoco e rassicurante come quello di una madre.
Dolorante, si scostò piano da quel blu, portandosi in ginocchio sulla gelida grata di ferro mentre a poco a poco i sensi tornavano a funzionare.
«Avevo paura che non ti saresti svegliato in tempo».
Scarif era pieno di voci che non ci dovevano essere; spettri, in un certo senso, ricordi, considerazioni lontane, uomini e donne che erano rimasti indietro.
Realizzandolo, Cassian si passò la mano sul viso, pulendosi la guancia da un rivolo di sangue fresco che colava dalla tempia. Aveva battuto la testa? Nonostante fosse molto probabile, non riusciva a ricordarlo.
Però vedeva i fantasmi.
«Cassian, andiamo!»
Mariceli aveva i capelli lunghi color della ruggine, il cappotto blu con il colletto alto, il bastone di ferro poggiato in grembo. Cos’altro? Cassian pensò che fosse invecchiata parecchio, ma non riuscì ad esprimerlo a parole. Non riuscì a fare altro se non osservarla alzarsi in piedi e protendersi verso il niente che la sovrastava, pallida quanto un cadavere e con la sciarpa rossa di suo marito stretta attorno al collo come un cappio.
«Una bella caduta» constatò, piegando il capo di lato. Sul suo viso apparve un sorriso tagliente quanto una lama. «Qualcosa di rotto, Andor Cinque?»
Gli scoccò un’occhiata delle sue, una di quelle colme di furbizia che facevano tornare la speranza anche ai disperati, poi gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi.
«Coraggio. Per una volta, non sei da solo».
Per Cassian fu come precipitare di nuovo.
«Jyn» sussurrò, sgranando gli occhi e mancando un respiro.
Mariceli annuì. «Oh, sì» sussurrò. «Che meraviglia di ragazza». Batté il bastone a terra, generando un toc che risuonò dal fondo dello stanzone fino in cima al soffitto appena visibile nell’oscurità. «Sai, ti ho osservato» fece, guardandolo rialzarsi a fatica. Lo aiutò, poi, appoggiandosi piano alla sua schiena e affondando appena le dita nella stoffa della giacca in un abbraccio goffo che sapeva di rassegnazione. «Tutto questo tempo, da quando sei atterrato su Scarif».
Cassian non rispose, ma la raccolse da terra con la facilità con cui avrebbe raccolto della polvere. In un certo senso lo era, pensò. Polvere.
Se la caricò sulle spalle in un movimento così lieve che per un momento credette di immaginarlo.
«Andiamo» le disse, sbuffando. «Non ho tempo».
Mariceli era leggera, più leggera di quella volta in cui si era appoggiata a lui mentre piangeva sul cadavere di suo marito. Però era anche più fredda, più irreale.
Scalando quella torre infinita che si ritrovava a fissare dal basso, Cassian pensò di aver raccolto l’ennesimo fantasma.
In equilibrio con i piedi piantati tra i dischi rigidi dell’archivio, si stirò per raggiungere un appiglio lontano abbastanza da farlo procedere, e digrignò i denti in un’improvvisa fitta di dolore.
Senza accennare nemmeno un respiro, Mariceli gli accarezzò il capo. «Te lo avevo detto che l’Andor non ti avrebbe mai lasciato andare» rispose, poi sbuffò. «Lassù, Cassian, andiamo. A fare queste cose eri più bravo di me».
Per un istante si annullò, divenendo così leggera sulle sue spalle da sembrare svanita nel buio, poi tornò a tirargli scherzosamente i capelli. Svanì soltanto il tempo di lasciarlo muoversi con libertà.
«Lo sapevo che ce l’avresti fatta, lo sai? Lo dicevo tutto il tempo» commentò. «Tylan era scettico, credo ce l’abbia con te perché mi hai sparato, ma io insistevo: “sta’ a guardare, adesso ce la fa. Quello gliel’ho insegnato io, stupido vecchio!” Sono contenta di vederti qui».
Cassian non le rispose, deciso a proseguire. Pensava, ponderava nella sua mente che quella che aveva sulle spalle non era altro che un’allucinazione. Era lui stesso, in un certo senso, che aspettava di sentirsi dire qualcosa. Ma cos’aveva da confessare a se stesso, adesso che era sfuggito alla morte?
Sulla cima, il portellone della ventola sopra le loro teste si aprì e la luce illuminò di vita il viso di Mariceli. Sotto alle rughe leggere che le piegavano le labbra, si accesero di colpo tutti i fuochi di Fest a cui lei aveva raccontato una storia.
Forse non voleva sentirsi dire nulla, forse era lì per il magro compiacimento di qualcuno che provasse orgoglio per lui. Nell’Alleanza, di ammirazione Cassian ne aveva ricevuta parecchia; però la fiducia disinteressata di un’amica gliel’aveva data soltanto Mariceli.
Sempre più debole, si issò lentamente sopra quell’ultimo ostacolo, alzando il naso sulla botola per poi voltare il capo quel poco che il dolore gli permetteva. «Li ho fatti morire tutti» sibilò, la voce improvvisamente roca, colma di rabbia.
Mariceli lo guardò con gli occhi colmi di pazienza. «Lo so» rispose, assottigliando su di lui il suo sguardo scuro che brillava sempre come una battaglia. «Ma non è quello che hai sempre fatto? Io e Tylan siamo morti con te, e non siamo neanche stati i primi». Si addolcì di colpo, sorridendogli con semplicità. «E invece, lo sai? Potrei morire ancora cento volte per vederti fare quello che hai fatto» disse, sul viso neanche un’ombra di rimorso. «Lo hai visto come combattono gli uomini che ti hanno seguito, Cassian».
«Cunha è tra loro».
«Cunha ha dato retta a un solo capitano, nella sua vita. Ma per la miseria, non è mai stato Tylan. Va’ avanti, non hai tutto il giorno».
Assieme si tirarono oltre la botola, piegandosi sul metallo gelido della grata che la teneva ferma per riprendere fiato.
Se mai Cassian aveva dubitato di poter raggiungere la cima, ora ne era quasi del tutto certo che avrebbe riperso i sensi prima di vedere il cielo. Ammesso che li avesse mai riacquistati, naturalmente. Gli sembrava tutto così vago, attorno a lui, da sembrare quasi un sogno. Forse era ancora sul fondo in preda ai deliri dell’agonia.
«Ascolta, c’è una cosa» boccheggiò, portandosi una mano al petto. Sentiva lo sterno premere contro i polmoni, un senso di oppressione che gli rendeva difficile persino respirare. «C’era anche uno Sward, sulla navetta. Uno Sward zoppo».
Rannicchiata sul ferro, Mariceli sussultò. «Molan?» chiese, schiudendo le labbra in un’espressione atterrita.
«Doveva essere lui».
«Azzardato».
«Una volta mi disse di averti sempre seguita».
«Sì, potrebbe anche essere una cosa da Molan. E forse ha seguito anche te ed è per questo che è qui. Per rimediare».
«Avrei preferito vederlo su Wobani».
«Accontentati, io avrei preferito che non gli avessi sfondato una gamba con un estintore».
Si scambiarono un’occhiata fatta di parole, e in un istante Cassian si sentì coinvolto di nuovo in quella complicità che avevano costruito assieme dieci anni prima, quella maniera un po’ sfacciata che avevano di guardarsi e con cui decidevano la prossima mossa senza nemmeno aver bisogno di aprir bocca.
Salirono lentamente quel che mancava per raggiungere il cielo, lui sputando nodi di sangue man mano che sentiva le forze abbandonarlo, Mariceli standogli appresso, paziente, lieve come la brezza estiva su Fest. Un paio di volte lo sfiorò, e di nuovo fu come toccarla davvero, come avere addosso il suo corpo piccolo e leggero, fatto di tutti gli odori e i rumori delle sue storie. Gli tendeva la mano e lo tirava su quella scala a pioli che era l’ultimo passo per arrivare alla vetta, l’ultima fatica per rivedere la fine.
Infine, uscirono alla luce del giorno.
«C’è qualcosa di oscuro che si avvicina» gli disse lei, prendendolo per mano quando furono in piedi sulla cima della stazione. «Devi sbrigarti».
«Se fossi stata viva, a quest’ora non ci sarebbe niente».
Quasi si offese. «Se fossi stata viva, senti un po’, a quest’ora saresti morto tu» sbuffò, battendo a terra il bastone. «Guarda che hai del lavoro da fare!»
Sulla piattaforma stava bruciando anche il cielo. C’erano caccia ribelli che inseguivano bombardieri imperiali che a loro volta attaccavano altri ribelli, un girotondo fatto di spari che da terra non era mai sembrato così bello.
Era l’ennesima battaglia, quella, anzi: era l’ennesima guerra. E Cassian realizzò di essere in piedi nel cuore di una rivoluzione, una bandiera in mezzo a tante altre bandiere. Forse la sua era quella più sgualcita, ma era anche quella che si ergeva più in alto. Era la chiave, la soluzione, la risposta. Dipendevano tutti da lui e da Jyn.
«Devo andare da solo» considerò, lasciando andare la mano di Mariceli per la prima volta senza che gli venisse strappata via a forza. «È la mia guerra».
Lei gli porse il suo blaster e annuì. «Va’ a far vedere come si comporta un capitano» rispose, indicando l’aria aperta che li circondava.
«Ci rivedremo. Quando sarà finita, saremo di nuovo assieme».
Mariceli scosse il capo. «Cuore, io e Tylan abbiamo avuto gente intorno per tutta la vita. Lasciaci da soli, adesso che abbiamo l’eternità. So che sarai in buona compagnia». Gli sorrise con la stessa grazia dei raggi del sole sulla sua pelle, puntando il bastone per terra in un gesto che lasciava trapelare un po’ di imbarazzo. «Guarda che io lo dicevo, che mi avresti dato grandi soddisfazioni».
Cassian scosse il capo e chiuse gli occhi. Si sentiva spezzato. «Dicesti che avremo guardato assieme giorni migliori», sussurrò.
«Lo stiamo facendo, proprio ora» gli rispose Mariceli. «E siete stati voi a portarli».
«Ci rivedremo».
«Passerò a trovarti».
«Porta il Capitano Halos».
Mariceli lo guardò, per un istante i suoi occhi si bagnarono di lacrime, ma non pianse. Dopotutto, pensò Cassian, aveva avuto anni interi per farlo. Quello era il momento degli addii, non delle debolezze. Si drizzò semplicemente sul suo bastone da passeggio, allora, esile nel suo cappotto blu e con i capelli color ruggine rasati da un lato.
«Siamo tutti fieri di te» sussurrò, annuendo piano.
«Lo spero».
Si abbracciarono un’ultima volta, silenziosi.
«Forza, vai» gli sussurrò poi lei, sospirando contro la sua pelle. «E tagliati i baffi. Tylan dice di no, ma il permesso te lo do io».
Lui la strinse un po’ più forte, muovendo il braccio che le circondava le spalle. «Avrei voluto dirti addio».
La sentì sussultare, tremare forse.
«In gamba, Andor Cinque. Io addio non l’ho detto nemmeno a mio marito».
E di colpo non fu che fumo negli occhi e consapevolezza di aver fatto pace con i fantasmi. Sembrava polvere e lo divenne davvero, sabbia scura fatta di ricordi che ormai sbiadivano mentre il vento se li portava via assieme alla guerra.
Era sparita, stavolta per sempre.
Non gli era rimasto che il blaster tra le mani.






Poco dopo, quando lui e Jyn si sedettero sulla spiaggia ad aspettare la fine, realizzò che la morte gli faceva molta meno paura di quanto non avesse mai pensato. Stretto nell’ultimo, umano calore di un abbraccio, ricordò di quando non era nient’altro che un ragazzino che si ostinava a tenere gli occhi aperti quando si trovava davanti a un blaster.
Pensò d’un tratto a Kappa, a Bodhi, a Chirrut e a Baze, e all’improvviso non ebbe più paura.
Quella volta soltanto, allora, si concesse di morire con gli occhi chiusi.
   





note

Fine, stavolta per davvero.
Ieri sono stata proclamata dottoressa, oggi concludo anche la fanfiction (a proposito: se qualcuno di voi ieri pomeriggio a Bologna è stato fermato da un pilota ribelle ubriaco che implorava di aiutarlo a distruggere la Morte Nera, con tutta probabilità quel pilota ero io, seguita da un gruppo di amici più o meno benvolenti nei miei confronti. Scusate).

Comunque. Qui siamo tutti scrittori, perciò credo sia superfluo dire quanto una storia - per quanto breve - possa lasciare dentro, quante soddisfazioni possa dare, quante insicurezze, quanti dubbi, quante serate davanti allo schermo di un computer a buttare giù frasi che nella maggior parte dei casi finiscono cancellate dieci ore dopo. Eppure si è sempre pronti a lavorare a questi piccoli progetti con un entusiasmo che forse andrebbe applicato altrove.
Insomma, tutto questo giro di parole per dire che sebbene Saboteur sia stato un lavoro breve, un lampo, starci dietro è stato un piacere reso ancora più bello da tutte le persone che se ne sono interessate. Oltre alle recensioni, le chiacchierate via messaggio, le fanfiction che ho letto in questa sezione mentre pubblicavo che sono state delle scoperte preziosissime, le meravigliose parole di tutti voi. Insomma, sono stati due (tre?) mesi davvero piacevoli, ed è tutto merito vostro ♡
Per cui: grazie a tutti, anche a chi arriverà a lavoro concluso. Sappiate che questo fandom è sempre qualcosa di sublime in cui sbirciare.

Lemurelli,
Lechatvert




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