La Fortezza

di Damnatio_memoriae
(/viewuser.php?uid=994253)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La prima Torre ***
Capitolo 3: *** La Raccontastorie ***
Capitolo 4: *** Il ballo dei folletti ***
Capitolo 5: *** Pietre di fiume ***
Capitolo 6: *** Allo scoperto ***
Capitolo 7: *** Un brutto carattere ***
Capitolo 8: *** Memorie d'Oltretomba ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
 
«Ti sei fatto male?» gli chiese la bambina, avvicinandosi in tutta fretta.
Lui si rimise in piedi con fare sgraziato, battendosi i piccoli palmi sui pantaloni sporchi, e indispettito della brutta figura rispose controvoglia: «Si. Non ero mai caduto». Le lanciò un’occhiataccia come a volergliene attribuire tutta la colpa.
La bambina arricciò le piccole labbra e due profonde fossette presero forma agli angoli della bocca. «Papà raccomanda sempre di non arrampicarsi sugli alberi» spiegò con tono altezzoso, agitando l’indice «Non è sicuro».
Il piccolo di fronte a lei gonfiò il petto e orgogliosamente ribattè: «A me non è stato vietato. Sono bravo ad arrampicarmi sulle querce e l’ho insegnato a tutti i miei amici. È colpa tua se sono scivolato: mi hai colto di sorpresa».
«Allora, se sei così bravo come affermi di essere, perché non insegni anche a me come si fa?» alzò gli occhi al cielo e tra le foglie novelle scorse i raggi del sole e rimase affascinata dall’idea di poter arrivare così in alto.
«Va bene» la assecondò lui dopo una lunga pausa «Ma dovrai fare tutto quello che ti dirò, senza discutere. Tu sì che potresti cadere e spezzarti l’osso del collo» sorrise nel vedere la bambina trasalire a quelle parole.
«Non è divertente…» borbottò sommessamente. «Come ti chiami?».
«Derek. Tu?».
«Cathleen. Ma papà mi chiama sempre Cath, quindi anche tu puoi chiamarmi così, se vuoi».
Derek si asciugò il naso gocciolante con un colpo di manica. «Sta bene, Cath. Solo una marmocchia spocchiosa come te poteva avere un nome così lungo».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La prima Torre ***


La prima Torre
 
 
L’estate volgeva al termine e presto avrebbe lasciato il passo all'autunno, che quell’anno si preannunciava particolarmente rigido. La Torre di pietra che sorgeva al centro del piccolo villaggio si levava maestosa verso il cielo plumbeo, dove il sole allungava i suoi raggi, ormai troppo deboli, a sfiorare le colline circostanti. L’edera rampicante avvolgeva la solida struttura, attorcigliandosi su sé stessa, e formava un fitto groviglio verdeggiante che, dal terreno, si diramava senza sosta fino alla sommità. Da quell’imponente torrione, circondato da piccole abitazioni di legno e difeso dalle Guardie Ausiliarie, si estendevano le mura di pietra ad abbracciare l’intero paese.
La cima della Torre era un segnale sicuro per i mercanti, che in quel periodo si affrettavano a tornare dai loro viaggi, ma anche per pellegrini e carovane, che così sapevano di poter trovare rifugio per la notte. Sottoterra, fino al perimetro dell’abitato e, chissà, forse anche oltre, labirintiche gallerie permettevano di accedere alle prigioni. Era proprio in quel luogo, pensò Rose, che il capitano delle Guardie stava conducendo le sue nuove vittime.
Simeon era noto per la sua indole meschina e capricciosa. Sebbene avesse superato da poco la trentina, aveva nelle mani il pieno controllo del torrione e purtroppo – anche se nessun trattato lo aveva sancito – degli abitanti. Con il suo atteggiamento aggressivo e sprezzante era riuscito ad ottenere la cieca obbedienza della popolazione e nessun uomo avrebbe mai osato fare qualcosa senza il suo consenso o, cosa ancora più impensabile, contro il suo volere. Le grosse chiavi di bronzo che gli pendevano dal fianco, poi, ricordavano costantemente ai paesani chi fosse in realtà a decidere della loro sorte. Decisione che sarebbe stata di gran lunga più ponderata se giocata a tavolino, che non, in realtà, dovuta all’ispirazione del capitano.
Anche quel giorno Simeon non si era risparmiato la ronda e ora trascinava con sé uomini e donne, fin oltre i cancelli della Torre, con il chiaro intento di rinchiuderli nelle carceri per un tempo sufficiente a far scemare in loro qualsiasi desiderio di ribellione.
Jeremiah strattonò le gonne di Rose con insistenza, reclamando attenzione.
«Rose» la chiamò imbronciato.
«Solo un momento, Jeremy» gli passò la mano sulla testa in una carezza veloce, nel tentativo di placarlo.
La folla arretrò davanti all’incedere deciso di Simeon, come sempre seguito dai suoi uomini come un lupo dal suo branco, i pesanti mantelli svolazzanti, ricamati con il simbolo degli Ausiliari: balestre e lance incrociate su un campo blu. Avanzavano con passo cadenzato, militaresco, puntando le armi contro i paesani, che le vedevano brillare minacciose.
«Fate largo!» sbraitava senza sosta Simeon, dimenandosi per fare più spazio «Inutili cani rabbiosi!».
Al fondo del rumoroso corteo, con i polsi legati da corde troppo strette e ruvide, si trascinavano sei o sette uomini dai volti tirati e dalle guance infossate, arrancando dietro i loro aguzzini.
«Levatevi, levatevi di torno!» continuava Simeon imperterrito, alzando i pugni, sferrando calci «Via da me! Continuate a fare il vostro dovere o sarò costretto a rinchiudervi tutti nei sotterranei! Tutti!».
La folla arretrò lentamente, in un confuso e spaventato brusio.
Quando il braccio destro del capitano fece notare al suo superiore che la bottega del fabbro, in fondo alla strada acciottolata, era vuota, Simeon sputò per terra e fra le risa dei suoi e il timore degli altri, urlò: «Dov’è? Dov’è quel cialtrone di un vecchio? Stupido e insulso mendicante. Aspettiamo ancora le ultime consegne e lui cosa fa? Anziché lavorare bighellona per il paese, credendo di farmela sotto il naso? Si crede più furbo di me, non è così? Non è così?» ripetè ad un ragazzo che intralciava il suo passaggio.
«Il fabbro è malato, capitano» disse il giovane, alzando entrambe le mani in un gesto di resa «Il morbo lo ha infettato».
«Non interessano a nessuno le vostre scuse, mi potete credere. La plebaglia forse non sa cosa significhi lavorare o se lo è semplicemente dimenticato? E ora largo, largo ho detto! Ho fretta! Ho di meglio da fare che mettere in riga voi zotici».
Jeremhiah chiamò di nuovo: «Rose, Rose. Ho fame».
La ragazza attese il passaggio degli Ausiliari, facendo arretrare il bambino il più possibile e proteggendolo con il braccio. Poi, quando la folla si disperse per la piazza, gli si accucciò davanti, frugando nella sua cesta di vimini. «Ecco, prendi. Non fartelo rubare» disse, porgendogli un tozzo di fame raffermo. Jeremiah spalancò i suoi grandi occhi verdi e addentò il cibo con i piccoli dentiti, ingoiando il boccone quasi senza masticarlo.
Una mano calda si posò sulla spalla di Rose. «Hai visto?» le bisbigliò all’orecchio Thomas, attento a non farsi sentire da chi aveva la lingua troppo lunga «Di questo passo non resterà più nessuno in paese».
La ragazza si scostò un ricciolo dorato dalla spalla, fermandolo dietro l’orecchio. «Hai ragione» rispose, guardandosi intorno con circospezione «Ma ora come ora l’unica cosa che possiamo fare è restare a guardare. E non fare nulla di stupido o avventato. Non aspettano altro».
«Se la fame e la malattia non ci uccidono prima, intendi?».
Rose storse il naso. «Non è una bella prospettiva, questa. Ma è l’unica che abbiamo. E ce la faremo piacere» guardò Thomas più attentamente «E te la farai piacere anche tu».
«Certe volte avrei proprio voglia di…di…» le mani si chiusero in due pugni e Rose gli lesse negli occhi tutta la collera e la frustrazione per una condizione così miserabile e pietosa.
«Non farti sentire, Thomas» gli disse solo, dandogli le spalle e procedendo verso la Torre «La gente ha troppa fame. E la fame rende l’udito sensibile. Nessuno si farà scrupoli a venderti alle Guardie, se non presterai attenzione».
Il ragazzo brontolò. «E a te? A te sta bene così?».
«Io sopravvivo. E fino a quando non mi troverò sepolta sotto tre metri di terra, farò tutto il necessario per rimanere in vita».
«Questa non è vita».
«È meglio che essere morti» ribattè lei per l’ultima volta, ponendo fine alla discussione e prendendo per mano Jeremiah.
All’interno della Torre, che in quei giorni raccoglieva le provviste per l’inverno, era stipato tutto ciò che contadini e allevatori erano riusciti ad ottenere dal terreno ormai freddo o dalle mucche troppo vecchie. La raccolta delle provviste sarebbe continuata fino all’ultimo giorno di autunno, ma il cibo si era rivelato più scarso del previsto e non sarebbe stato di certo sufficiente per sfamare l’intera popolazione.
Giunti davanti alle porte di legno massiccio, lasciate spalancate prima del tramonto, Rose e Thomas posarono a terra i loro cesti, ammucchiati poi insieme agli altri. L’entrata della Torre era piccola e fredda, di forma circolare, illuminata solo da una torcia. Una scala a chiocciola conduceva nei sotterranei e dalle viscere del forte salivano grida e rumori sinistri. I lamenti dei torturati riempirono l’ambiente e a tutti i presenti venne la pelle d’oca. Poi, d’un tratto, solo un lugubre silenzio.
«Forza ragazzina, muoviti» la strattonò in malo modo la Guardia, ferma sull’uscio «Non faremo notte per colpa tua».
Rose spinse Jeremiah verso l’uscita e il bambino, con le sue gambe agili e scattanti, sgattaiolò tra la gente, perdendosi in mezzo alla calca.
«Thomas, vieni?» chiese al ragazzo dietro di lei e lui la seguì, lo sguardo basso e le mani in tasca.
«Jeremy!» chiamò poi e subito il piccolo corse trafelato verso di loro, arrancando tra le gonne delle contadine e i carretti dei mercanti. Quando si fu avvicinato, Thomas vide che il fratello teneva qualcosa fra le mani.
«Cos’è?».
«Niente» rispose in fretta, nascondendo le mani dietro la schiena.
«A me non la dai a bere marmocchio, non sono papà» lo prese dalla giacchetta di pelle come se fosse un gatto randagio.
«Lasciami, lasciami!» piagnucolò dimenandosi e quando il fratello maggiore allentò la presa, andò a nascondersi dietro Rose, mostrandogli la lingua.
«Jeremy» lo riprese lei con tono severo.
«Non mi ha visto nessuno…» disse a mo’ di scusa, mostrando la pagnotta che aveva rubato «E il signor Ario non ha certo bisogno di mangiare ancora, grasso com’è».
«Piccolo furfante» si indispettì Thomas «Restituiscilo subito. Non è roba nostra».
«Non è per me, è per la mamma!» disse, arricciando le labbra e aggrottando la fronte.
«E sei anche bugiardo!».
«No, no, non è vero, non sono bugiardo, io non dico bugie! Io non dico bugie» ripetè ancora battendo i piedi per terra, sollevando gli occhi per incrociare lo sguardo di Rose «Diglielo. Diglielo che io non mento».
Non sentendosela di lasciarlo a mani vuote, Rose si chinò su di lui ed estrasse dalla tasca una moneta di rame. «No, non dici bugie» lo tranquillizzò «Prendi questa e vai dal signor Ario a pagare quello che gli hai preso. Sono certa che capirà. O, almeno, lo spero per te». Gli scoccò un baciò sulla guancia prima di vederlo correre via.
«Gliele dai sempre tutte vinte» disse Thomas.
«È proprio questo il bello di essere piccoli».
«Sai che mia madre non vedrà neanche le briciole di quella pagnotta, vero?» la canzonò.
«Oh, certo» rise lei «Ma almeno il pensiero è stato gentile».
Thomas scosse la testa e le si avvicinò, cingendole la vita con un braccio. Rose si lasciò stringere e subito un odore di paglia ed erba tagliata le invase le narici, facendola sentire a casa.
«Tra poco ci sarà l’equinozio» sussurrò il ragazzo al suo orecchio.
«Si, lo so».
«Forse ti andava di venire con me alla festa».
«Come ogni anno, intendi?».
Lui fece per rispondere, ma prima che potesse dire qualcosa Jeremiah, già di ritorno, li interruppe.
«Fratellone?» domandò incuriosito, osservandoli entrambi «Che cosa stai facendo?».
«Niente» rispose lui e controvoglia fece un passo indietro, staccandosi da Rose, ma il piccolo non sembrò convinto.
«È meglio che torniate a casa» disse Rose, togliendosi dall’impaccio «Fra non molto farà buio».
Thomas annuì e dopo averla salutata prese per mano Jeremiah, allontanandosi sulla strada alta. «Cosa stavate facendo?» insistette ancora suo fratello.
«Niente» ribadì.
«Quando papà dice così, di solito arriva un fratellino…».
«Brutto impertinente che non sei altro!» sbuffò, dandogli uno scappellotto.
«Mi hai fatto male!».
«Non abbastanza!».
Poi le loro voci si fecero sempre più lontane, inghiottite dal rumore della piazza.
 
►►►►►
 
Quando Rose bussò delicatamente alla porta dell’ultima casupola, sfiorando appena il legno con le nocche, il sole stava già calando oltre l’orizzonte, immergendo la valle nell’oscurità. Una donna massiccia, con un grosso sorriso ad illuminarle il volto, venne ad aprirle.
«Bambina mia!» esordì, avvolgendola in un abbraccio caloroso ed invitandola ad entrare.
La dimora era accogliente e un camino, che forse faceva troppo fumo, riscaldava la stanza. L’unica finestra, priva di tende e con i vetri appannati, si affacciava su uno dei viottoli laterali del villaggio.
Bessie, un cordiale donnone sulla cinquantina, abitava a ridosso dell’uscita meridionale, nell’angolo più estremo del paese e anche quello meno trafficato. Era l’unica commerciante nel giro di molte miglia ed era ormai risaputo che, sebbene fosse stato il marito a gestire il lavoro, in realtà era stata proprio Bessie a farlo fiorire, ancora prima della morte del consorte. Aveva dovuto faticare molto per essere accettata dalla congregazione dei mercanti, ma infine con il suo carattere autoritario era riuscita a farsi rispettare.
Rose si accomodò sulla panca di legno, vicino al camino: quel tepore sembrava un toccasana per le sue ossa infreddolite. Andava spesso a fare visita a Bessie e la conosceva fin da piccola, quando era solo una delle tante ragazzine incline ai furti e alle bricconerie. Se all’inizio aveva fatto visita alla prosperosa commerciante solo per riscaldarsi le membra e riempirsi la pancia, col tempo aveva iniziato ad apprezzarne la compagnia e ad affezionarsi a quella donna dai modi gentili e dalla faccia paffuta. E Bessie era diventata col tempo la sua seconda famiglia, anche se sarebbe più opportuno definirla l’unica, visto che i genitori di Rose erano sempre stati più inclini ad usare il bastone, piuttosto che a muovere qualche carezza.
«Il raccolto è stato misero quest’anno. Non abbiamo avuto fortuna» riflettè Rose quando Bessie, ritornata da poco dal suo ultimo viaggio ad Ovest, le chiese notizie.
La donna si sedette di fronte a lei e unendo le mani in grembo disse: «Purtroppo non solo qui. Anche negli altri villaggi la situazione si è fatta critica, per non dire drammatica».
«Di questo passo solo la metà di noi vedrà il nuovo anno. Quale senso potrà mai avere privarsi ora del cibo se si rischia di non arrivare all’inverno?» sorseggiò l’infuso e il liquido caldo le riscaldò lo stomaco.
Bessie arricciò il naso. «Per quello che può valere, penso sia stato l’unico provvedimento furbo preso da quella massa di caproni» disse riferendosi agli Ausiliari e, in particolar modo, a Simeon «Quasi mi stupisco che sia stata una loro idea. Comunque non ti devi angustiare, cara. Non siamo molto numerosi e ce la faremo, come ogni anno. Ne abbiamo passate di peggiori. Estremamente peggiori» sussurrò.
Rose le sorrise. «Come ricostruire un villaggio dalle macerie?» domandò maliziosa, ripensando alle storie che la donna le aveva raccontato quando era piccola.
«Bhe, certamente non la considererei una cosa da poco!».
Risero insieme, ma l’allegria abbandonò il viso di Rose al pensiero degli uomini che, anche quel giorno, erano stati condotti nei sotterranei.
«Sai» disse titubante, muovendo il dito sul bordo della tazza «Oggi Simeon ha condotto altri prigionieri nelle celle».
Anche il sorriso di Bessie svanì. Cercando di non turbare la sua giovane ospite, disse nel tono più calmo che le riuscì di trovare: «Sì. Sì, mi è stato riferito». Guardò fuori dalla finestra, scrutando il cielo senza stelle.
«Si avvicina anche il novilunio». Rose seguì lo sguardo della donna.
Bessie allungò una mano per sfiorare quello della ragazza. «Coraggio, Roselyn» la chiamò con il suo nome di battesimo «Coraggio. È solo questo che conta. Non è la speranza l’ultima a morire. È il coraggio che ci permette di andare avanti anche quando la fede viene meno. E tu sei molto, molto coraggiosa» si schiarì la voce «E poi non è il caso di abbattersi proprio adesso. Ormai si avvicina l’equinozio e il ballo dei folletti è alle porte». La bocca di Rose si stese appena in un sorriso. Riusciva a ricordare quando la donna le parlava del banchetto, definendolo come il ballo dei folletti solo perché i gufi, appollaiati sui rami, riempivano la sera con i loro bubbolii. «Sono i folletti che cantano», le aveva raccontato «In questo modo salutano l’inverno».
Quando divenne impossibile ignorare l’ora tarda, Rose ringraziò Bessie e dopo averla stretta, per quanto le era possibile, in un caldo abbraccio, si diresse verso la porta. Prima di aprirla, però, disse guardandosi indietro «Potrei portare qui Jeremy, domani? Ho provato a raccontargli le tue storie, ma temo di essere terribilmente negata. Preferisce ascoltarle da te».
L’altra ravvivò il fuoco gettando tra le fiamme qualche tocco di legno. «Certamente. Quel piccolino è un grande ascoltatore. Andrò anche a comprare qualche dolcetto, così forse metterà un po’ di ciccia su quelle gambe!».
«Prometto che questa volta non ti ruberà nulla» la rassicurò con imbarazzo.
«Oh, per carità!» rispose, agitando una mano «Questa casa è piena di cianfrusaglie. Piuttosto, perché non inviti anche Thomas?» domandò maliziosamente.
Rose arrossì prima di uscire e l’aria fredda le sferzò il viso. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** La Raccontastorie ***


La Raccontastorie
 

 
Stesa sul pagliericcio della sua camera, Rose osservava l’immagine riflessa nello specchio. L’oggetto era piccolo e dalla forma ovale, con i bordi intarsiati in legno scuro e la superficie liscia e levigata, sebbene un po’ sporca. L’alba era lontana e dalla finestra neanche un debole raggio di sole entrava a salutare il nuovo giorno. Tuttavia, a Rose non serviva la luce per potersi guardare e ormai conosceva il suo riflesso a memoria, un privilegio che nel suo villaggio non era concesso a tutti. Quello specchio era un cimelio prezioso e particolare, di certo costoso, di cui molti non potevano beneficiare. Bessie lo aveva acquistato per lei in uno dei suoi primi viaggi a Nord, oltre le steppe e le brughiere, e una volta mostratolo a Rose, quest’ultima ne era rimasta semplicemente affascinata. Era come specchiarsi in una piccola polla d’acqua molto limpida, ma il riflesso era di gran lunga più definito e in quell’oggetto Rose si era forse vista davvero per la prima volta: un viso tondo e macchiato di fuliggine, occhi grandi e scuri, un piccolo naso all’insù per cui spesso era stata presa in giro e folti capelli castani.
Rose passò le dita fredde sulla superficie e pensò che non dovesse essere cambiata poi molto negli ultimi anni. Il viso era sempre pieno, anche se con le guance non più sporche, i capelli dello stesso colore, solo più ordinati e lunghi, il naso era rimasto lo stesso di un tempo. Il suo corpo però era maturato, costringendola ad abbandonare la banda di mascalzoni di cui era entrata a far parte: non era più in grado di intrufolarsi in ogni pertugio, di nascondersi in ogni tana, di scavalcare qualsiasi ostacolo, perché la gonna la intralciava e i fianchi troppo pronunciati non le permettevano di muoversi agilmente tra le viuzzole acciottolate di paese, spesso piene di casse, cassette e carretti. In effetti, non riusciva nemmeno più a ricordare l’ultima volta che si era lasciata rotolare giù per la collina, tra l’erba alta, insieme ai suoi compagni di avventure.
Quando i suoi vecchi indumenti avevano iniziato ad andarle stretti, un senso di forte imbarazzo l’aveva colta. Sua madre aveva subito rammendato uno dei vestiti della sorella e, anche se all’inizio Rose lo aveva trovato tremendamente d’impiccio, aveva presto finito per farci l’abitudine. Ma i suoi amici – tutti maschi e, lei pensava, anche un po’ tonti – non erano stati dello stesso avviso e non era passato neanche un giorno senza che la prendessero in giro per il suo abbigliamento, per il suo aspetto, per il suo portamento.
Thomas era stato uno dei primi, nella piccola compagnia, a guardarla con occhi diversi. Quando la sua famiglia aveva deciso di trasferirsi ad Ovest, forse sperando in una vita migliore, Rose non se l’era sentita neanche di andare a salutarlo, ancora arrabbiata per tutti gli epiteti che le aveva rivolto. Al loro ritorno, tre anni dopo, anche il ragazzo era cambiato: un viso più appuntito, una costituzione più forte, braccia e gambe più lunghe, ma sempre il portamento un po’ goffo che lo aveva caratterizzato fin da bambino.
«Sei diventato un uomo ormai» gli aveva detto Rose una sera d’estate.
«E tu una donna» le aveva sorriso di rimando e lei non era riuscita subito a cogliere lo sguardo che le aveva rivolto, ma da quel giorno erano diventati inseparabili.
Alle prime luci, poco prima del canto del gallo, Rose era già pronta per uscire.
 
►►►►►
 
Ferma sotto un albero rosso ai margini del campo, la ragazza ammirava il cielo limpido. Era una bella giornata soleggiata, probabilmente l’ultima della stagione, e i contadini erano intenti a zappare il terreno arido. I bambini correvano e si nascondevano fra i cespugli, mentre le loro madri, le sorelle o le nonne aiutavano i giovani a sradicare le erbacce.
Jeremiah corse a salutarla, stringendole le gonne come aveva preso l’abitudine di fare.
«Davvero posso venire a sentire le storie della signora grassa?» le chiese euforico, gli occhi verdi pieni di felicità.
«Solo se non la chiami “signora grassa”» precisò lei.
«E ci saranno i dolci?».
«Dipende da come ti comporterai» lo avvisò, anche se il suo tono non risultò severo come avrebbe voluto.
Il bambino mise subito il broncio, poi, già dimentico, corse su per la collina seguendo gli amici che tentavano di catturare una lepre.
Thomas, in mezzo al campo, era intento ad aiutare suo padre con l’ultima raccolta. I muscoli delle braccia guizzavano leggeri sotto la pelle abbronzata e l’espressione concentrata risaltava i tratti spigolosi del viso. Quando il ragazzo si accorse che Rose lo stava fissando non potè trattenere un sorriso malizioso. Si pulì le mani sporche di terra e fieno sui pantaloni sgualciti e avvicinandosi le chiese: «Da quanto mi spii?».
«Perché sei così sicuro che stessi guardando proprio te?» ribattè divertita.
Lui si guardò alle spalle e scherzosamente disse «Osservavi il vecchio Tobias? È un buon partito, anche se lo è più da morto che da vivo. O forse guardavi Sigmund-alito-fetente?».
«Smettila! Sei impossibile» Rose lo colpì alla spalla con un pugno.
«Sei proprio un maschiaccio. Ma in fondo non mi dispiace poi così tanto» le voltò il viso, provando a baciarla, ma prima che la sua bocca potesse sfiorare quella di lei, la ragazza gli posò due dita sulle labbra.
«Facciamo un patto».
Thomas aggrottò la fronte. «Un patto o un ricatto?».
Lei fece finta di non averlo sentito. «Io verrò alla festa dei Fondatori con te se tu questa sera raggiungerai me e Jeremy da Bessie» sorrise.
«Non avevi già accettato il mio invito?».
Rose ci pensò su. «Hai ragione. Un motivo in più per sdebitarti, allora».
Il ragazzo si passò le dita fra i capelli ricci. «Non saprei, Rose…» rispose poi con una nota di rammarico «È un periodo difficile. Mia madre è peggiorata ancora e Buster non riesce a curarla. Papà si sta spaccando la schiena per riuscire a tirare avanti, nel caso in cui lei non…» si interruppe, deglutendo a fatica. «Non me la sento di lasciarla sola, ma sono contento che Jeremy si allontani da quella casa: non gli può far certo bene vedere la sua mamma ridotta in quelle condizioni».
Rose annuì «Lo capisco» sollevò una mano per accarezzargli la guancia «Resta con lei, è la cosa più importante. Andremo da Bessie un’altra volta. L’inverno è lungo e lei ha sempre tante storie da raccontare».
Thomas contraccambiò il sorriso. «Ringraziala da parte mia per l’invito. E assicurati che Jeremy tenga le mani dove dovrebbero stare. Quel piccolo ladruncolo…».
«Sarà fatto».
Il ragazzo le scoccò un bacio veloce sulla fronte prima di tornare a lavoro e rimanervi fin dopo il tramonto.
 
►►►►►
 
«Quando ci attaccarono era notte fonda e tutto il villaggio era avvolto dal silenzio. Esseri abominevoli, forti come tori e veloci come cervi, iniziarono ad incendiare le case. Gli uomini più coraggiosi tentarono di fermarli, ma invano. Così, mentre gli Spettri rapivano una parte degli abitanti, l’altra guadò il fiume, mettendosi in salvo e osservando le proprie case soggiacere alle fiamme. Quando la mattina seguente fecero ritorno al villaggio, solo macerie e cenere li accolsero. Seppellimmo i morti e ricostruimmo tutto ciò che di nostro era andato distrutto, continuando a vivere, senza dimenticare. Questa è la storia del nostro villaggio, che ogni anno celebra la festa dei Fondatori, per ricordare la tenacia di quegli uomini che non si sono arresi e per commemorare le morti dei nostri cari. Il solstizio d’autunno non è solo…».
«Bessie» la interruppe Rose in un sussurro «Credo si sia addormentato». Jeremiah teneva la testa appoggiata al petto della ragazza, respirando piano, l’espressione beata. Dopo essersi riempito la pancia di mele glassate, aveva insistito per farsi raccontare la storia dei Fondatori, ma le sue palpebre si erano fatte subito pesanti e il piccolo si era lasciato sprofondare in un sonno lieto e tranquillo.
«Ringraziando tutti gli dei della foresta!» rispose la donna, sedendosi più comodamente sulla panca di legno «Temevo mi costringesse a raccontargli tutte le storie degli ultimi cinquant’anni!».
Rose strinse a sé Jeremy, attenta a non svegliarlo, e con un fazzoletto gli pulì la bocca piena di briciole.
«Ti sei proprio affezionata, vero bambina?» le sorrise gentilmente Bessie.
«Mi ricorda Owen» annuì «Se fosse ancora vivo, credo avrebbe all’incirca la sua età».
«Tuo fratello era un bravo giovanotto, Rose. Ma è passato tanto tempo…».
«Si, lo so» sussurrò malinconica e accarezzò delicatamente la testa di Jeremiah, come se quel gesto potesse allontanare la tristezza.
Quando il fratello minore di Roselyn era stato portato via dagli Spettri, ormai troppi anni prima, lei non era riuscita a ritrovare la pace per molto tempo. Era sempre stato l’unico della famiglia a cui si fosse legata sinceramente e la sua scomparsa l’aveva gettata in un cupo e tremendo baratro da cui solo Bessie e Thomas erano riusciti a sottrarla. Se chiudeva gli occhi riusciva ancora a fingere che Owen si trovasse accanto a lei, con il suo profumo inconfondibile di fieno, le mani paffute, i solchi ai lati degli occhi che si mostravano quando rideva, e lui riusciva a ridere sempre, anche quando i più grandi non trovavano un valido motivo per farlo. Il sorriso non l’aveva abbandonato neanche quando Buster aveva detto ai suoi genitori che la zoppia che aveva preso Owen alla gamba non sarebbe guarita, che non era più adatto alla vita contadina, che tutti gli sforzi e le pene avrebbero minato a fondo la sua salute.
Quando la sua mancanza si faceva troppo rumorosa per essere ignorata, Rose usciva ancora per andarlo a cercare nei boschi, sperando di trovarlo, solo e impaurito, ma inutilmente. Così quando Jeremiah era cresciuto, vispo e vivace, Roselyn non aveva potuto non affezionarglisi, tanto forte era la somiglianza con suo fratello: viso tondo, occhi grandi, capelli sempre arruffati.
«Come mai il tuo amico non è venuto?» le domandò Bessie, cambiando repentinamente discorso.
La ragazza si strinse nelle spalle «Sua madre è ancora molto malata».
«Sì, le febbri si stanno diffondendo in fretta e ancora non abbiamo capito la causa del contagio. Per Sigmund potrebbe essere l’acqua, per Buster l’aria. Io dico che, per quello che ne sappiamo, potrebbe essere qualsiasi cosa» girò il viso per guardare il cielo «Ma ogni male non giunge solo e presto una nuova luna mostrerà il suo volto».
«Credi che verranno?».
«Puntuali come i malanni d’inverno» sbuffò il donnone, alzandosi a fatica dalla panca per affacciarsi alla finestra «Lo hanno sempre fatto. Non vedo perché questa volta dovrebbe andare diversamente».
«Se solo si portassero via Simeon...» Rose picchiettò le dita sul tavolo «Almeno potremmo dire che per una volta la fortuna ci ha assistiti».
«Oh, mia cara, la fortuna è una vecchia storpia e bisbetica che non aspetta altro che tenderci tranelli. La nostra sorte ce la costruiamo da soli».
«E invece la sfortuna non ci nega mai la sua presenza. Si portassero via un Ausiliare, piuttosto».
«Forse la Torre è troppo ben sorvegliata per pensare di penetrarvi. Almeno si sono presi Romata» disse, facendo riferimento al vecchio sovrintendente delle Guardie. Rose lo rammentava come un uomo imponente, dallo sguardo truce, se possibile ancora più severo di Simeon, che da un giorno all’altro era stato incaricato di sostituirlo.
«Sai che affare! Se solo riuscissimo a capire quello che vogliono da noi».
Bessie agitò la mano avanti e indietro «Sciocchezze! Non siamo neanche mai riusciti a vederli in volto, figurarsi capire cosa passi per le loro teste» arricciò le labbra «Bhe, sempre che ce l’abbiano, delle teste. In ogni caso possiamo anche ritenerci graziati: quarant’anni fa non mostravano la cortesia di essere così regolari. Arrivavano quando ne avevano voglia e ci sgozzavano come animali da macello, nei nostri letti!».
«Abbassa la voce!» la ammonì Rose, portandosi un dito alla bocca «Non voglio che Jeremy si svegli».
L’altra borbottò qualcosa.
«Magari questa volta rapiranno me» sospirò dopo qualche minuto Rose e un sorrisino amaro le incurvò le labbra «Chi lo sa, forse riuscirei a ritrovare Owen».
Bessie la fissò in silenzio, lo sguardo severo e intenso. «Non dirlo neanche per scherzo» la rimproverò infine e avvicinando una candela al focolare, riuscì ad accenderla. Spostò la piccola credenza a muro e il legno stridette sul pavimento, ma Jeremy ancora non si svegliò.
«Che cosa stai facendo?» Roselyn si incuriosì.
«Cerco una cosa per te, mia cara».
«Per me?».
La commerciante annuì distrattamente mentre scopriva un pertugio scavato nella parete, riempito con libri, carte stracciate, mappe di terre lontane e cianfrusaglie che Rose, pur allungando il collo, non seppe riconoscere. Fece sdraiare il bambino che teneva in braccio accanto al focolare, improvvisando un giaciglio con una coperta sgualcita e un fazzoletto ripiegato come cuscino.
«Ti serve una mano, Bessie?» domandò, avvicinandosi.
«No, no. Mio marito nascondeva qui gli oggetti che trafugava dai suoi lunghi viaggi. Mi diceva sempre che li aveva comprati, ma io non gli ho mai creduto. Ha sempre avuto le mani troppo lunghe e una bocca troppo bugiarda! Ma era un brav’uomo, tutto sommato». La donna spostò un pesante quaderno foderato di pelle, con le pagine ingiallite e sgualcite, e una copertina schizzata con motivi floreali. Probabilmente niente più che il libro di un guaritore. Dietro il grosso volume, una piccola custodia di legno incisa. La chiusura in ferro si era arrugginita ed ossidata e Bessie ne dovette forzare l’apertura.
«Questa ti proteggerà» disse a Rose, estraendo dalla piccola scatola una catenina di rame a fili intrecciati. Il ciondolo, di forma romboidale, portava incastonata una pietra nera come la pece, in alcuni punti scheggiata, che non rifletteva alcuna luce.
«No, no Bessie, non posso accettarla» scosse la testa la ragazza.
«Non dire sciocchezze cara!» la rimbrottò l’altra, costringendola a girarsi per legarle la collana al collo «Consideralo un…» ci pensò sopra «Un cimelio di famiglia. Ed io e Jaeger non abbiamo avuto figli, quindi è più che legittimo che vada a te. Anzi, è più che giusto che vada a chi voglio io».
«Se qualcuno lo vedesse, sarei nei guai» obiettò ancora Rose, sicura che nessuno in paese avesse mai visto o toccato un gioiello simile.
«E tu nascondilo, bambina! Ma alla festa dei Fondatori voglio che lo indossi, mi sono spiegata? Per farmi contenta» la spinse affettuosamente verso il camino e trascinò nuovamente la credenza al suo posto, sigillando la fessura. Jeremiah si agitò nel sonno.
«Ma Bessie, ne sei sicura?».
«Ssh! Oh, insomma, quante storie per un semplice regalo!» le posò le mani sulle spalle «Le belle persone si devono far riconoscere. Così diceva mia madre».
Quando venne l’ora di riportare Jeremiah a casa, Rose lo prese in braccio e Bessie baciò entrambi sulle guance.
Sulla soglia della casupola, Rose chiese: «Dove hai preso quel libro di ricette?».
La donna parve perplessa. «Quale libro di ricette, cara?».
«Quello con la copertina in pelle» indicò con uno sguardo la credenza «Non è il libro di un guaritore?».
Bessie spalancò gli occhi. «Ah, quello! Sì, il libro. Nulla di importante bambina» si affrettò a rispondere «Solo una chicca comprata ad occidente, da un druido mezzo ammattito. Devo ammettere, però, che sapeva il fatto suo: come credi sia riuscita a curarti ogni volta che venivi da me ricoperta di graffi, sbucciature o scottature? Sono segnati tutti i rimedi per ogni tipo di malanno. Eh, la sanno lunga quelli dell’Ovest!».
Roselyn camminò per le vie del paese pensando che anche Bessie, come suo marito, non fosse brava a mentire.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il ballo dei folletti ***


Il ballo dei folletti
 
 
«Derek?».
Immobile sotto l’ombra della quercia, si sentì chiamare per nome, ma non si mosse, godendosi ancora un po’ il lieve venticello che gli scompigliava i capelli.
«Derek? Stai dormendo?».
Un fruscio di gonne lo raggiunse e lui si impose di rimanere fermo, serrando la mascella per non ridere. Socchiuse però leggermente le palpebre, quel tanto che bastava per riconoscere il viso della ragazza che, con le mani sui fianchi, lo stava fissando con aria dubbiosa.
«Derek» lo chiamò ancora, a voce più bassa. Si chinò su di lui e una cascata di capelli gli sfiorò il naso. Passarono secondi pieni di silenzio prima che lei si decidesse ad allungare le dita per toccargli la guancia e la fronte.
Derek la udì sospirare piano e il suo profumo gli invase le narici. Sarebbe stato capace di riconoscere quell’odore fra centinaia, così inconfondibile, così suo. La mano fredda gli carezzò il viso, leggera come il battito di una falena. Riuscì a scorgere gli occhi chiari di lei scrutare il suo volto con malcelato desiderio e le labbra, pallide come la sua pelle, si schiusero. La bocca della ragazza si fece sempre più vicina, fino a sfiorargli la tempia.
«Derek…» bisbigliò ancora una volta, dolcemente, e lui ne percepì il respiro caldo sulla faccia. «Derek…lo so che non stai dormendo».
Il ragazzo aprì immediatamente gli occhi e con una spinta la fece cadere sull’erba alta, ancora umida di rugiada, che ricopriva la collina come un mantello. Flettendo le gambe si spinse sopra di lei, le cosce intorno ai suoi fianchi, le mani ai lati del suo viso.
«Come hai fatto a capirlo?» esordì perplesso, tenendola inchiodata a terra.
Lei sembrò riscuotersi all’improvviso e tentò di cacciarlo via, premendogli con forza i palmi sopra il petto. «Spostati, stupido!».
«Rispondi alla domanda».
«Oh, insomma!» sbuffò esasperata «Eri più rigido di un morto».
Lui storse il naso, lo sguardo che indagava il corpo della ragazza sotto il suo. Il seno le si alzava e le si abbassava velocemente. «Non l’avresti notato» bisbigliò beffardo sul suo collo «se non ti fossi avvicinata tanto». Si alzò con un movimento fluido e le tese la mano, ma Cathleen la rifiutò. Si mise a sedere, le guance arrossate, lisciandosi nervosamente le pieghe della gonna.
«Perché sei venuta qui?» domandò divertito Derek, sdraiandosi accanto a lei, un filo d’erba in bocca.
«Mi annoiavo».
«Quindi io sarei un buon diversivo?» domandò malizioso, osservandola di sottecchi «Sapevo di essere interessante, ma non sospettavo fino a questo punto».
«Non dire sciocchezze!» sbottò stizzita.
Una risata bassa gli vibrò nel petto «Come vuoi» si girò su un lato, dandole le spalle.
Cathleen si scostò una ciocca di capelli biondi dalla guancia, portandosela dietro l’orecchio. «Ascolta Derek…» iniziò a dire, ma non completò la frase.
«Dimmi» la incoraggiò.
«Tu…» abbassò il capo «verrai alla festa d’Autunno?».
Il sorriso del ragazzo lasciò il posto ad un’espressione dura, quella che Cathleen temeva e che le metteva tanta soggezione. «Mia sorella lo chiama il ballo dei folletti, perchè crede siano stati i guardiani della foresta ad organizzarlo» sbuffò «Se così fosse, almeno avrebbe qualcosa di intrigante. Invece è solo un’inutile e dispendiosa celebrazione, in qualsiasi modo la si voglia chiamare».
«Ma ci saranno tutti» obiettò Cath «Anche tuo padre. Penso gli farebbe piacere vederti lì» passò nervosamente le dita fra i fili d’erba.
«Io non sono “tutti” e mio padre può trovare un altro modo di sollazzarsi» e il suo tono rude pose fine alla discussione.
La ragazza inspirò profondamente, prima di alzarsi. «Almeno ci ho provato» bisbigliò.
Derek la vide allontanarsi e imboccare la via che l’avrebbe riportata al paese e in quel momento maledisse il suo pessimo carattere.
 
►►►►►

Era certo di non aver mai visto la piazza così affollata. Ovunque cadesse il suo sguardo c’erano addobbi e lanterne, cesti di mele mature e ghirlande di fiori secchi, boccali pieni e botti vuote, candele accese per illuminare la notte a giorno. In un angolo, sopra un palco improvvisato di legno e paglia, i musicisti intonavano canzoni e canzonacce popolari: chi suonava la tromba, chi il piffero, chi i campanelli. E la gente seguiva il ritmo, ballava e cantava con entusiasmo, prendendosi sotto braccio e muovendo a tempo i piedi, battendo le mani. Gli uomini trincavano birra, vino e sidro dai loro bicchieri, riempiti puntualmente da giovani ragazze che sembravano tutt’altro che orgogliose delle occhiate che quei poveri ubriaconi da quattro soldi riservavano loro. I vecchi del paese, seduti sulle loro panche ai margini della piazza, ricordavano i vecchi tempo e tenevano sott’occhio i bambini e le bambine che correvano intorno al palco come se fosse la cosa più divertente del mondo. E forse per loro lo era davvero.
Derek si domandò ancora una volta – e non sarebbe di certo stata l’ultima – cosa lo avesse convinto a scendere a patti con i suoi principi per recarsi a quella sagra dello schiamazzo e dello spreco. Represse a stento una smorfia al pensiero che, a quell’ora, avrebbe potuto trovarsi in camera sua a leggere un buon libro. Eppure l’ultimo incontro con Cathleen gli aveva lasciato l’amaro in bocca. Dopotutto, si trovò a pensare, non poteva essere nulla di così terribile. L’incontro con suo padre quasi lo fece ricredere.
Quando raggiunse il centro dello spiazzo, un gruppo di ragazze chiacchierone gli andò incontro, salutandolo calorosamente.
«Dorota, Ava, Tulla, Gwen…» le accolse lui, tentando di nascondere la noia. Di tutte quelle che gli chiesero di ballare, neanche una sembrava in grado di mostrare un minimo di femminilità o almeno di contegno. «Signore, mi state togliendo il respiro. Ballerò con tutte voi. Sì, sì, ve lo prometto» mentì spudoratamente «Ma prima permettetemi di godermi la festa: sono appena arrivato» sorrise cordiale e si allontanò da loro a passi rapidi, dirigendosi verso un barile di birra dietro il quale una donna prosperosa si dimenava per cercare di dare da bere a tutti. I capelli erano raccolti in un’alta crocchia e il vestito pulito le si era già macchiato.
«Rancy!» la salutò quando fu il suo turno, accompagnando le parole con un segno del capo «Sei un incanto stasera».
La donna scosse la testa divertita «Non ci provare, Derek. Lo sai che non posso darti nulla».
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli. «Facciamo uno strappo alla regola, vuoi?» le fece l‘occhiolino.
Lei arricciò le labbra. «Solo se tieni d’occhio quell’ubriacone di tuo padre» cedette e il viso di Derek si oscurò «Se continua così innaffierà tutti gli alberi con quello che gli rimane nello stomaco».
«Consideralo fatto» rispose Derek a denti stretti e quando Rancy gli sporse il suo boccale di birra gliene fu profondamente grato.
«Questo lo offro io, ragazzo» gli disse complice, tornando a servire gli uomini dopo di lui.
Si guardò intorno per qualche secondo, ma non fu difficile trovare chi stava cercando. Lontano dalla folla, barcollante per il troppo bere, suo padre si trascinava avanti e indietro sulla strada meridionale, quella che conduceva al vecchio molo. Agitava la mano come un forsennato, biascicando parole senza senso. La donna che lo accompagnava non poteva fare altro che limitarsi a sorreggerlo per evitare di vederlo stramazzare al suolo come un cavallo azzoppato.
«Se solo ti vedesse mia madre» sibilò Derek quando gli fu abbastanza vicino. L’uomo guardò suo figlio senza riconoscerlo. «Ringrazio il cielo che sia morta. Almeno le hai risparmiato questo spettacolo pietoso». Gli strappò il bicchiere dalla mano e lo scaraventò a terra. Alzò la gamba e lo calpestò con lo stivale, una, due, tre volte, fino a quando non lo ridusse ad una accozzaglia di cocci.  
«Caro, ci penso io» gli disse la donna, cercando di tranquillizzarlo. Era giovane, anche se qualche ruga aveva già iniziato a scavarle il viso, e Derek sapeva di potersi fidare di lei.
«Anne, tienilo lontano da questo posto» le ordinò, pur cercando di sembrare meno burbero possibile «Non abbiamo più i soldi per ripagare quello che lui continua a rompere. Dov’è mia sorella?».
«Non preoccuparti, Buster la controlla».
«Bene. Non fatela avvicinare. Che almeno lei non sia costretta a vedere suo padre ridotto in questo stato».
I musici avevano iniziato a suonare una canzone scollacciata quando Derek si decise a tornare alla festa, combattendo contro il desiderio che gli montava dentro di tornare sui suoi passi e chiudersi in casa. Tra danzatori e attori improvvisati, scorse Cathleen, intenta a discutere con alcune donne del paese, e quella serata, anche se orrenda, non gli sembrò completamente da dimenticare.
Indossava un pesante abito bianco che non mascherava la sua carnagione chiara, rendendola anzi eterea, come gli angeli di cui parlavano alcuni forestieri. I lisci capelli biondi erano stati raccolti e legati con innumerevoli nastri, lasciandole scoperto il collo sottile. Una mantella si chiudeva appena sopra il petto e Derek fu costretto a distogliere lo sguardo, suo malgrado, per non mostrarsi troppo sfacciato.
Quando anche Cathleen si accorse della sua presenza, lo raggiunse muovendosi tra le tavolate allestite, leggiadra come una piuma.
«Che cosa ci fai qui?» gli domandò, più entusiasta che sorpresa. «Avevi detto che non saresti venuto».
«Bhe» scrollò le spalle con noncuranza, sorseggiando la sua birra «Ho cambiato idea. Dispiaciuta?».
Le guance della ragazza si colorarono di rosso, come sempre quando lui la guardava in quel modo, e Derek pensò a quanto fosse facile capire il suo stato d’animo.
«Come se non lo sapessi» ribattè infatti, sedendosi accanto a lui su una panca.
«Per quello che vale la considero ancora una festa insulsa» ci tenne a precisare, distendendo le gambe.
«Allora fingerò tu non abbia fatto questo per me».
Derek borbottò qualcosa tra sé e Cath trattenne un sorriso.
«Vuoi?» le domandò poi, porgendole il boccale.
«E’ sidro?».
«Ovviamente no».
«Tu non potresti bere» lo rimproverò.
«Ed è esattamente per questo motivo che bevo» rise «E poi Rency me l’ha offerta così di buon grado che sarebbe stato scortese rifiutare. Le donne non sanno resistermi».
Cath alzò un sopracciglio. «Ma davvero?» domandò scettica.
«Davvero» la guardò «E’ solo questione di tempo prima che ceda anche tu».
Lei non rispose a quell’insinuazione e sottraendogli la birra ne mandò giù un piccolo sorso. Appena ne sentì il sapore la sua bocca si contrasse in una smorfia e repentinamente gli restituì il boccale.
Derek schioccò le labbra. «Grande bellezza, pessimi gusti».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Pietre di fiume ***


Pietre di fiume
 
 
La notte era illuminata da una moltitudine di stelle e la luna splendeva fiera sopra le loro teste. Sulle stradine acciottolate che solcavano le collinette circostanti erano state puntate nel terreno delle torce che affiancavano i bordi delle vie per tutto il loro tragitto, creando un’atmosfera calda e rassicurante. Le fiamme piroettavano, danzando su loro stesse, e un forte odore di legna e cenere penetrava nelle narici. L’odore delle loro feste.
In lontananza spiccavano i capannoni di paglia, eretti in tutta fretta uno accanto all’altro, ed il ritmo allegro dei musicisti, intenti a suonare i tamburi, i campanelli, i flauti, la fisarmonica, invogliava i paesani a ballare e a battere le mani, muovendo i piedi al tempo delle canzoni di paese.
Lunghi tavoli di legno scuro erano stati preparati con tovaglie di canapa e frutta secca, fiori essiccati e foglie d’acero colorate. Le portate, anche se non stracolme di cibo come un tempo, avevano un aspetto delizioso e dai barilotti gocciolanti d’idromele gli uomini si servivano senza alcuna parsimonia, qualcuno anche senza procurarsi il boccale.
Tutto era condito da una rara allegria che univa il più povero dei contadini al più ricco dei commercianti, facendo dimenticare le beghe su quel tal terreno, su quel tal albero o su quella tal vacca. Le donne, vestite dei loro abiti migliori, si muovevano aggraziate – o almeno qualcuna ci provava – fra gli uomini, lanciando occhiate, regalando sorrisi o semplicemente spintonando per trovare un posto dove sedersi comodamente.
Un insieme di applausi esplose alla fine dell’ultima ballata e i giovani, sudati ma non ancora stanchi, rimasero al centro dello spiazzo in attesa della melodia successiva, mentre i vecchi si lasciarono scivolare sulle panche.
Rose pensò che quella fosse una serata perfetta, forse la serata perfetta, per la festa di fine Autunno. Non una nuvola minacciava di rovinare il convitto e l’aria era fredda, sì, ma tutti i fuochi che erano stati accesi permettevano anche ai freddolosi come lei di sentirsi bene. La collana che le aveva regalato Bessie, come promesso, spiccava sopra l’abito color vinaccia che aveva indossato, lungo di maniche e morbido di tessuto, sufficientemente caldo per non farla rabbrividire quando il vento si alzava. Più volte alcune tra le donne più pettegole si erano fermate a domandarle - con la scusa di volerla salutare - di quel gioiello così particolare. Per fortuna tutta la loro curiosità era venuta meno quando Rose aveva spiegato che si trattava solamente di una pietra di fiume, nulla di speciale insomma, e ringraziò per l’ingenuità di quelle donne che aveva reso la sua bugia quantomeno credibile.
Gli Ausiliari si erano radunati ai margini del campo in gran numero e, così in disparte, non sembrava si stessero divertendo. Sui copri-spalle di cuoio imbottito portavano ancora i loro scuri mantelli e la divisa azzurra, che non era stata cambiata per l’occasione, si riconosceva da lontano. La postura delle guardie era rigida, la schiena retta, le braccia serrate sul petto. Alcuni di loro erano visibilmente annoiati, altri interagivano con i paesani solo attraverso occhiate malevoli, ma ancora nessuno di loro si era lasciato andare a commenti inopportuni sulle donne più giovani del villaggio, forse memori delle pesanti accuse che negli anni passati gli erano state mosse. Le lunghe lance conficcate a terra a ridosso dei capannoni fornivano a tutti i presenti un muto ma molto chiaro avvertimento.
Simeon troneggiava spavaldo sul trono di legno che si era fatto preparare in tutta fretta da Luke il falegname, prima di rinchiuderlo nelle celle del torrione per disubbidienza. Con sguardo truce seguiva i festeggiamenti senza celare la ripugnanza ed il disgusto per quel popolo che lui aveva da sempre ritenuto inferiore. Bevve un altro sorso dal boccale che teneva stretto nella mano destra e del liquore che aveva ordinato la maggior parte gli cadde sui vestiti, macchiandogli la divisa. Rosso in viso per l’ubriachezza, alzò una mano verso la folla e Rose si sentì stringere lo stomaco, spaventata che potesse averla sorpresa a fissarlo o che si fosse meravigliato del regalo di Bessie.
Il capitano degli Ausiliari le fece segno di raggiungerla, ma lei rimase immobile, dubbiosa. Poi, temendo ripercussioni peggiori se lo avesse deliberatamente ignorato in mezzo a tutti quei testimoni, imbrigliò abbastanza coraggio da muovere qualche passo nella sua direzione.
Non fece neanche in tempo a posare il piede a terra che una Guardia la superò, rispondendo alla chiamata di Simeon e liberandola dalla sua indecisione. L’Ausiliare, un giovane uomo meno robusto dei suoi compagni ma dallo sguardo altrettanto minaccioso, la sorpassò urtandole la spalla con la propria, voltandosi a guardarla con espressione severa, ma se anche avesse deciso di rimproverarla a Rose non sarebbe importato tanto era il sollievo che provava.
«Fai attenzione» le disse burbero e lei ubbidì, scostandosi per lasciarlo passare, ma rimase interdetta quando il giovane non accennò a proseguire. Rimase invece fermo davanti a lei e per un attimo l’espressione impassibile, fredda e distaccata, lasciò spazio allo stupore: le sopracciglia folte si arcuarono, gli occhi neri si spalancarono sorpresi, le labbra si corrucciarono in un leggero broncio. Aprì la bocca per dire qualcosa, passando lo sguardo da lei alla sua collana, poi di nuovo a lei, quasi non volesse credere a ciò che vedeva. Anche se solo per un istante, i suoi occhi si velarono di un’amara tristezza e i lineamenti s’inasprirono, oscurandogli il volto.
«C’è qualche problema?» gli domandò Rose, deglutendo a fatica. Non era certa di averlo mai visto prima.
«Non lo so» ribattè lui, riappropriandosi di tutta la sua impassibilità «C’è?».
Lei balbettò un timido: «No».
«No?».
«Non credo».
«Non c’è o non credi che ci sia?».
«Non capisco questa domanda».
«Sei forse stupida?» chiese scocciato.
«Almeno non sono maleducata».
«Essere ubbidienti non è un pregio».
«Essere scortesi nemmeno» rispose, iniziando a scaldarsi.
Il ragazzo storse il naso. «Dovresti imparare a morderti la lingua, ragazzina». Le scivolò alle spalle e procedette spedito per non far attendere ulteriormente Simeon. «Fai attenzione» sussurrò.
«Ma…».
«Fai attenzione e basta».
Rose lo osservò sgusciare tra la folla e raggiungere il suo Capitano che, un po’ barcollante, si sporse per suggerirgli qualcosa all’orecchio, forse un ordine.
«Allora sei qui» si sentì strattonare per un braccio e quando si voltò incrociò gli occhi gioviali di Bessie.
«Emh, sì» titubò.
«Non sei venuta a salutarmi!» la rimproverò allegramente, posando le mani sui fianchi larghi.
«Stavo cercando Thomas, ma…» lasciò la frase a metà, sbirciando un’ultima volta dietro di sé con la strana sensazione che quell’Ausiliare la stesse ancora osservando.
«Cara, tutto bene?».
«Lo conosci?» le chiese sottovoce, avvicinandosi a lei per non farsi sentire da altri «L’uomo al fianco del Capitano, lo hai mai visto?».
«Chi?».
«La Guardia» ripetè, indicandoglielo con un cenno del capo, ma Simeon aveva già raccolto attorno a sé due sottoposti per farsi riempire un altro bicchiere e del giovane non c’era più traccia. «Era qui…».
«Bambina» la chiamò con tono di rimprovero «Io spero davvero che tu non abbia bevuto, perché in tal caso io…».
«No, no» la fermò subito, spiegandole l’accaduto. «Mi stava guardando e…».
«Oh, bhe, certo che ti guardava: tutti gli uomini sono uguali cara, non fartene un cruccio».
«No, non intendevo questo. Guardava la tua collana. Non credo sia stata una buona idea indossarla, se mi facessero delle domande io non…».
«Dì che è una pietra di fiume» fece per chiudere il discorso la donna, muovendo la mano com’era solita fare quando si trovava a parlare di fatti di poco conto «Qui fanno un sacco di domande ma sono così stupidi da credere a tutte le risposte».
«Non mi ha chiesto cosa fosse, solo…».
«Allora ne hai trovato uno ancora più stupido degli altri» la interruppe nuovamente «E ora via» la sollecitò, spingendola dolcemente per le spalle «Vai a divertirti. La notte è ancora lunga e la festa è appena cominciata. Non vorrai davvero rimanere ferma qui come un somaro: non sono le vecchie come me a dover spiegare a voi giovani come ci si diverte!».
Raggiunse Thomas quando lo scorse tra la folla, vestito d’un comodo gilet di pelle chiara e con al collo un fazzoletto di stoffa verde, legato secondo una moda bizzarra che aveva imparato ad apprezzare durante il suo soggiorno ad Ovest. Le chiese un ballo e lei lo seguì nei suoi movimenti impacciati, fino a quando la musica non si arrestò bruscamente appena dopo il primo ritornello.
Quando Simeon si alzò dal suo scranno, attirando l’attenzione dei paesani, i ballerini conclusero la danza con una piccola riverenza, i bambini cessarono di rincorrersi per raggiungere i genitori, gli uomini rinunciarono ai loro boccali di birra, rompendo le righe davanti ai barili.
«Benvenuti!» esordì il capitano delle Guardie con la voce impastata ma ancora imperiosa «È d’obbligo, per me, come successore del Comandante Romata, spendermi in un breve discorso. Siamo tutti qui riuniti per dare il nostro benvenuto all’Autunno e sperare in raccolti più prosperi, ma ancora di più ci riuniamo per non dimenticare la tragedia che colpì le nostre terre ormai quarant’anni orsono. Oggi ricordiamo il giorno in cui i nostri padri e i padri dei loro padri hanno ricostruito il villaggio dalle macerie, strappando noi e i nostri figli ad un futuro altrimenti grigio. La Torre che da quel giorno ci difende, vi difende, è il ricordo del sacrificio di quanti, purtroppo, non sono riusciti quel giorno a tornare a casa. Qui, adesso, io mi impegno in una promessa solenne. Gli attacchi nella marca Occidentale si sono perpetrati, intere città sono andate distrutte. Noi siamo e resteremo l’ultimo baluardo di speranza del confine, noi non ci lasceremo sopraffare dal male che ci attanaglia, noi combatteremo contro di loro così come hanno fatto i nostri padri e se dovessimo perdere sopravvivremo per essere a nostra volta i Fondatori di una nuova generazione! Al prossimo novilunio gli Ausiliari pattuglieranno le strade, le campagne, le piazze, le mura, non un singolo anfratto verrà lasciato scoperto» sentenziò pieno d’orgoglio. Le Guardie che circondavano la folla si scambiarono una rapida occhiata, alcuni sghignazzando, altri fremendo. Vicino a loro, seminascosto dietro uno dei padiglioni, il soldato con cui Rose aveva discusso si passò una mano tra i capelli biondi, soffocando un’imprecazione.
Simeon, risentito e amareggiato del poco entusiasmo che la folla gli stava riservando, concluse: «Ogni uomo e ogni donna in grado di impugnare un’arma sono reclutati. Chiunque si opporrà verrà messo alla gogna».
Il malcontento che subito esplose tra i paesani venne ridotto a silenzio.
 
►►

«Morta?» domandò Rose con voce soffocata.
Seduto sulla staccionata che delimitava il giardino della casa, Thomas si strinse forte le mani nelle mani, tremando come un ramo al vento. «L’abbiamo trovata svenuta» sussurrò impercettibilmente «Si è svegliata un’unica volta, ma non è riuscita a salutarci. Buster non ha potuto fare altro per lei».
«Tomhas…» lo chiamò, accarezzandogli le spalle e quando il ragazzo cominciò a singhiozzare lo abbracciò «Thomas, mi dispiace tanto».
«Nostro padre le è rimasto accanto fino all’ultimo istante, ma non è stato sufficiente».
«E Jeremy? Come sta Jeremy?».
«Non lo sa ancora. Come…? Come posso dire ad un bambino che sua madre lo ha lasciato per sempre?».
La notizia si era sparsa in fretta quella mattina e il primo gruppo di curiosi si era in tutta fretta avvicinato al vedevo per chiedere informazioni. Rose dubitava fortemente che si fossero riuniti per informarsi della salute della famiglia o per piangere la morta, impegnati com’erano a temere il contagio.
La madre di Thomas era stata solo l’ultima vittima di quella malattia che colpiva indistintamente uomini, donne e bambini e contro cui i rimedi dei guaritori non sembravano sortire alcun effetto. Prima la febbre debilitava il malato, i continui attacchi di tosse lo costringevano a letto, poi il morbo prosciugava ogni forza e a quel punto era solo questione di tempo prima che i polmoni si riempissero di sangue.
«Rose…» bisbigliò Thomas in maniera che solo lei potesse udirlo «Credo che anche mio padre si stia ammalando».
«Devi andare via da questa casa, Tom».
Lui la allontanò bruscamente. «Non capisci! Non posso, non posso lasciare mio padre da solo».
«Devi pensare a te, devi pensare a Jeremhia».
«Io so badare a mio fratello! Tu, tu puoi dire lo stesso del tuo?!».
«Nessuno guarirà mai se continueremo a non prendere precauzioni».
La bocca si storse in una smorfia. «Parli come Simeon».
«Simeon lo verrà scoprire e non sarà clemente con nessuno di noi. È solo questione di tempo Thomas e qualcuno farà la spia. Quando le persone hanno paura non badano alla lealtà».
«Neanche tu?».
«Nessuno saprà nulla da me» rispose risentita «Ma da qualcuno lo saprà e quando accadrà vi butteranno a marcire nella Torre fino a quando non morirete o fino a quando Buster non troverà una cura. Che, più o meno, è la stessa cosa».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Allo scoperto ***


Allo scoperto
 

 
All’alba i contadini e gli allevatori del paese e delle campagne circostanti si riunirono davanti alle porte della Torre per consegnare alle Guardie Ausiliarie un terzo del loro raccolto, così come stabilito dallo statuto.
La piazza centrale del villaggio e le stradicciole che la costeggiavano iniziarono a riempirsi di persone ben prima che i raggi del sole potessero riscaldare le loro teste, ma nello sguardo di quei convenuti Roselyn non riuscì a scorgere altro che spossatezza e rassegnazione. I cesti di vimini che tenevano sotto braccio erano quasi vuoti e anche i carretti, trainati da somari troppo vecchi e affaticati, trasportavano provviste che sarebbero durate per un mese appena.
In quella moltitudine, Rose riuscì a scorgere anche il piccolo Jeremiah. La mano stretta in quella del padre e lo sguardo basso, sembrava essere solo il riflesso opaco del bambino allegro e vivace che era sempre stato. Ora gli occhi erano gonfi e arrossati, si mordeva la bocca per non piangere, ma quando una lacrima sfuggiva alle sue intenzioni da bambino grande, lui subito la faceva scomparire strofinandosi la faccia con la manica. A passi lenti procedeva accanto al padre, anche lui mogio e taciturno, le spalle ingobbite, non osando allontanarsi.
Intorno ai due si era creato il vuoto e tutti quelli che prima erano stati amici, vicini o conoscenti ora si tenevano a debita distanza, perché dopo la notizia della morte della moglie di Sebastian, nessuno sembrava più intenzionato a rivolgere a lui o ai membri della sua famiglia la parola.
«Mi si spezza il cuore vederli ridotti in queste condizioni» bisbigliò Rose.
Bessie, in piedi di fianco a lei, annuì mestamente. Le circondò le spalle con le braccia massicce nel tentativo di consolarla. «Lo so, cara, lo so. Non ti angustiare. Tutto andrà per il meglio».
«Li evitano come se fossero degli animali».
«Non è cattiveria, Rose» la riprese blandamente «La natura umana è debole e teme la morte, la malattia e la fame. Nessuno vorrebbe allontanarsi dalle persone che ama prima del tempo».
«Però…».
«E Simeon ha destinato all’esilio chiunque mostri i sintomi del contagio e ha incarcerato chi non ha prestato ascolto al suo ordine. Non essere così severa» si rigirò tra le dita paffute una mela fin troppo matura «Non è sempre saggio aiutare gli altri. Anzi, il più delle volte essere altruisti è una condanna a morte molto ben mascherata».
«Ma loro non hanno colpe» ribattè sconsolata e, posando il suo cestino ai piedi della donna, raggiunse Jeremiah e Sebastian sotto lo sguardo contrariato di tutti i presenti.
Salutò educatamente l’uomo, posandogli fraternamente la mano sul braccio e lui rispose con un cenno del capo e un sorriso tirato.
«Ciao, Jeremy» si inginocchiò poi davanti al bambino in modo da essere alla sua altezza.
«Ciao» ricambiò, stropicciandosi gli occhi con le mani sporche di terra.
«Che cosa fai sveglio così presto?».
Intorno a lei alcuni bisbigliavano e la indicavano. I più non vi prestavano granchè attenzione.
«Aiuto papà a portare il grano dentro la Torre» spiegò semplicemente, dondolandosi sui piedi «Thomas è andato a raccogliere la legna. Tu…tu lo sapevi che la mamma non c’è più?».
Annuì. «Sì piccolo, me l’hanno detto».
«Thomas dice che potrei rivederla, un giorno. Però ha detto anche che dovrò aspettare molto tempo» alzò gli occhi al cielo con fare pensieroso «Non lo so…tu pensi che il prossimo inverno potrebbe già accadere?» domandò ingenuamente.
Suo padre si schiarì la voce. «Tuo fratello intendeva dire più tempo».
«Ah…» sussurrò mortificato, guardando Sebastian «Fra due inverni, allora?».
I portoni del torrione si aprirono sulla piazza e due Ausiliari, sicuri nella loro livrea azzurra, fecero segno alla folla di procedere in ordine per la consegna delle loro gabelle. Una famiglia, poi un’altra e un’altra ancora si susseguirono all’entrata della Torre di pietra e tutti sapevano che quel raccolto, che il Capitano Romata aveva un tempo disposto fosse diviso equamente tra villici e Ausiliari, avrebbe sfamato appena una parte della popolazione e, di certo, non quella più affamata.
Dalla strada che conduceva alla porta meridionale del paese, sotto il cui arco i mercanti sostavano il tempo sufficiente per farsi comprare dalla Guardie o per corromperle a loro volta, giunsero Simeon e la sua scorta.
«Fatemi passare!» strepitò come d’uso il capitano, ormai abituato a recitare la parte del duro ed intransigente condottiero «Fatemi passare ho detto!». Simeon stringeva in una mano le chiavi dei sotterranei che, sbattendo l’una con l’altra, sembravano provocargli un gran piacere con il loro rumore sinistro; con la mano destra, invece, strattonava di tanto in tanto una corda di canapa ruvida e spessa, trascinandosi dietro i prigionieri della giornata, rei di chissà quali colpe. I suoi scagnozzi gli aprivano la strada, spintonando e punzecchiando con le lance la schiena dei malcapitati e di quanti non avessero fatto in tempo a scansarsi.
«Devo condurre questa feccia nelle prigioni, state alla larga se non volete far loro compagnia» continuò a sgomitare e indicando due sentinelle disse: «Voi restate qui. Non voglio resse, baruffe o disordini. Sforzatevi, almeno una volta, di farmi credere di vivere in una società civile». Varcò l’entrata della Torre e, non appena la sagoma della sua schiena fu scomparsa dalla vista dei convenuti, gli Ausiliari si disposero con rigoroso ordine lungo il perimetro dello spiazzo, gli sguardi attenti e la postura retta.
«Non si diverte se non gioca a fare il carnefice» brontolò Bessie con il suo vocione, avvicinandosi a Rose e riportandole il suo cesto di vimini.
Quando la tensione per la venuta del capitano scemò, i paesani tornarono al loro ingrato compito, bisbigliando di tanto in tanto sull’accaduto ed informandosi concitati su chi conoscesse o meno qualcuno dei prigionieri.
«Forse erano ammorbati» ipotizzava qualcuno.
«Forse hanno alzato la voce al momento sbagliato, con la persona sbagliata» suggeriva qualcun altro.
«Perché? Con gli Ausiliari esiste forse un momento buono per alzare la voce?».
Rose fece un’ultima carezza a Jeremiah e tornò a rivolgersi a Sebastian. «Come state?».
L’uomo sospirò, affranto. «Sono stati momenti duri…molto duri. Domani seppelliremo mia moglie. A dire la verità non credo verranno in molti a darle l’ultimo saluto, ma saremmo felici se voleste venire. Thomas ne sarebbe felice…». La voce gli si incrinò, rotta da un sordo rantolo, e subito un attacco di tosse iniziò a scuotergli le membra già fortemente debilitate.
«Papà?» domandò Jeremy, la mano stretta ancora in quella grande e callosa del padre.
«Tutto bene» provò invano a rassicurarlo Sebastian, senza però riuscire a controllare gli attacchi di tosse e il forte dolore che sembrava gli stesse lacerando il petto. Le gambe gli tremarono, cedettero, e in un attimo si ritrovò inginocchiato a terra, incapace di rialzarsi, il palmo premuto forte sulla bocca come a voler in qualche modo contenere gli attacchi.
Nulla poteva bastare per passare inosservati. Volti cinerei e spaventati si fissarono su di loro, i sussurri si trasformarono in chiasso, il chiasso in paura e un gruppo di Guardie si fece strada per raggiungerli.
«Papà! Papà!» chiamò Jeremiah, scuotendo le spalle dell’uomo, ma Rose lo strattonò e lo allontanò da lui.
«Aspetta» lo strinse forte «Non stargli vicino».
«Lasciami andare!».
«Rose, tieni lontano il bambino» le ordinò Bessie, chinandosi sul malato e sorreggendolo per aiutarlo a respirare meglio, ma Sebastian continuava a boccheggiare. Quando, ormai prostrato sul terreno impolverato, iniziò a sputare sangue, anche la donna dovette rassegnarsi all’evidenza.
«Cosa succede qui?» urlò una sentinella «Cos’è tutto questo trambusto?».
«Quest’uomo sta molto male» spiegò Bessie senza degnarlo di uno sguardo.
La sicurezza dell’Ausiliare vacillò soltanto per un attimo e riappropriandosi della sua impassibilità fece segno ad alcuni suoi compagni di procedere. «Adesso ce ne occupiamo noi. Spostatevi» ordinò e Bessie dovette ubbidire, facendosi da parte mentre due uomini sollevavano Sebastian da terra e lo trascinavano via con poca delicatezza.
«Aspettate! Dove volete portarlo?». Domandò Rose, passando gli occhi da una all’altra guardia «Ha bisogno di cure, subito! Andate a chiamare Buster!».
«Non può stare qui» tagliò corto il più massiccio tra di loro e i presenti riconobbero nella sua figura quella di Luxor, l’esattore di Simeon «Avrebbe dovuto allontanarsi quando ne aveva la possibilità. Gli ordini del capitano sono stati chiari: il ghetto è fuori le mura. Ma nei sotterranei non contagerà nessuno, a parte i ratti. Forza, andiamo».
«Rialzati, inetto!» sbottò uno di loro quando Sebastian, incapace di reggersi in piedi a causa degli incontenibili spasmi, cadde rovinosamente a terra.
«Non possiamo portarti in braccio!» accusò il suo compagno e, senza osare toccarlo, lo punzecchiò con la punta della lancia.
«Lasciate stare il mio papà!». Jeremiah urlava e scalpitava tra le braccia di Rose, il viso rigato di lacrime.
Temendo il peggio, la ragazza gli intimò di rimaner fermo.
«Lasciami, lasciami!» continuò a strattonare e scalciare il bambino «Ti odio!».
«Non muoverti!».
Jeremiah digrignò la bocca, la aprì e liberò un lungo urlo.
«Smettila!» lo strattonò Rose «Vuoi forse farti uccidere?».
«Sì!» piagnucolò. La morse, conficcando a fondo i suoi piccoli denti nel braccio della ragazza che allentò immediatamente la presa su di lui, il tempo necessario per vederlo sgusciare via.
«No!» gli gridò, vedendolo correre verso suo padre, schivando la folla e gli Ausiliari, passando agilmente fra le loro gambe, assestando calci e pugni a chi tentava di bloccarlo. Prima di raggiungere Sebastian, però, Luxor lo sollevò da terra, afferrandolo per il colletto della tunica sporca.
«Dove credi di andare tu, piccolo mascalzone?» gli domandò. Le folte sopracciglia scure erano corrugate, ma la bocca era storta in un ghigno ironico che non lasciava presagire nulla di buono.
«Lasciami, mostro!» piagnucolò Jeremy, tentando di scivolargli via dalle mani, ma quando provò a graffiarlo, la Guardia, ridendo di gusto, lo scaraventò a terra facendolo rotolare nella polvere.
Roselyn corse verso di lui, sollevando l’orlo della gonna troppo lunga. «Jeremy!» lo chiamò preoccupata quando lo vide sporco di terra e graffiato in viso. Gli tamponò la fronte, dove un piccolo taglio iniziava a sanguinare, ma a Jeremiah non importava e instancabile continuò ad urlare e a chiamare suo padre.
«Che scena patetica» brontolò Luxor, tirando su col naso e avvicinandosi a loro «Il moccioso viene con noi. Se ci tiene così tanto a stare con suo padre, lo accontenteremo».
«No, no» scosse la testa Rose, proteggendo il bambino quando la Guardia allungò la sua grossa mano per portarlo via. «Non potete, è troppo piccolo!».
«E’ grande abbastanza da imparare la lezione. E adesso spostati. Togliti di mezzo!».
«Non toccarlo!».
L’uomo scoprì i denti e rivolgendosi ai due compagni dietro di lui disse: «Guardate un po’. Abbiamo una contadina disobbediente. È proprio vero che non sapete stare al vostro posto».
«Nemmeno voi al vostro».
«Non osare rispondermi!».
«E tu non ti azzardare a toccarci».
«Tu, sudicia ragazzina…» sibilò, digrignando i denti «Dammi il bambino!». La afferrò saldamente per un braccio e la strattonò, provando a dividerli, ma Rose non lasciò la presa su Jeremiah.
Prima che l’uomo potesse far loro del male, Bessie si frappose e, alzando la mano, la calò decisa sulla guancia dell’Ausiliare, assestandogli un sonoro ceffone.
Fu una frazione di secondo. Lo sguardo di Luxor si fece di fuoco, l’indignazione gli si dipinse sul viso e, umiliato di fronte a una folla di testimoni, si avventò su di lei. «Giuro che questa me la paghi, anche a costo di ucciderti adesso con queste mani!».
«Tornatene da dove sei venuto, essere schifoso».
«Come osi?».
«Lo sai meglio di me: l’oltretomba vi reclama da un bel pezzo, ormai. Questo non è più il posto per voi e tu non mi fai paura. Io so cosa nascondi».
«Ti farò passare la voglia di intrometterti in cose che non ti riguardano» sputò, stringendole la gola tra le mani «A te e a tutta la tua piccola congrega di impiccioni. Il Capitano sarà davvero felice di scambiare quattro chiacchiere con una spia e io sarò lieto di assistere alla tua…».
«Luxor» lo interruppe con fermezza una voce «Basta così». L’ordine arrivò chiaro e deciso e l’uomo, anche se controvoglia, dovette allentare la presa.
Una Guardia emerse dalla calca, tra lo sbigottimento collettivo dei paesani. L’espressione era severa, i lineamenti rigidi, come tutta la sua figura, e sebbene non fosse alto o corpulento quanto l’Ausiliare al quale si stava avvicinando, qualcosa nel suo sguardo trasmetteva ai presenti lo stesso viscerale timore.
Sorpassò Rose, lanciandole un’occhiata indecifrabile, e la ragazza si sorprese nel riconoscere in lui la stessa sentinella che l’aveva trattenuta alla festa d’Autunno.
«E tu cosa diamine vuoi?» gli domandò burbero Luxor, senza nascondere il fastidio che provava in sua presenza.
«Ho detto...» scandì lui, stringendogli il polso e obbligandolo a lasciare la presa su Bessie che, boccheggiando, indietreggiò di qualche passo «Basta così».
«Io non prendo ordini da te».
«Da adesso sì e te lo farai piacere» gli intimò sottovoce, in maniera tale che altri non lo potessero udire «A meno che tu non voglia scoprire quanto possa costare cara l’insubordinazione».
«Mi stai forse minacciando?».
«Ti sto avvertendo» tagliò corto, in un tono che non ammetteva repliche e Luxor dovette costringersi a mordersi la lingua e ad abbassare lo sguardo, sconfitto.
«E adesso andiamocene. Avete dato abbastanza spettacolo per oggi» rimproverò i suoi sottoposti e, aspettandosi di essere seguito, iniziò ad incamminarsi verso la Torre, ma gli fu presto chiaro che le tre Guardie non si sarebbero schiodate dalle loro posizioni.
«Esattamente in quale momento della vostra inutile vita siete diventati sordi?» li squadrò uno ad uno.
«La donna viene con noi» provò ad obiettare uno di loro, con voce malferma.
«Non è una decisione che spetta a voi».
Luxor rise. «Non ti sarai mica rammollito, vero Derek?».
«Non metterti contro di me, non ti conviene avermi come nemico».
«Allora non cadere nei tuoi soliti sentimentalismi» ringhiò, sganciandosi dalla cintura una corda e mettendogliela tra le mani «O andrò a riferire personalmente al comandante il tuo atteggiamento da vitello indifeso».
«Dopo tutto questo tempo non hai ancora imparato a sceglierti con più cura gli avversari».
«Guardati le spalle. Nemmeno Romata potrà proteggerti in eterno».
«Oh, in eterno no. Solo fino a quando non sarai morto. E te lo posso garantire…» serrò i pugni e gli occhi scuri si fecero se possibile ancora più minacciosi «Non sarai un problema ancora per molto».
I due Ausiliari si guardarono per un lungo istante, poi, messo alle strette, Derek si rassegnò a legare i polsi di Bessie e a scortarla nella Torre. Dietro di lui anche Luxor si caricò sulle spalle il povero Sebastian.
«No!» pianse Roselyn, allungandosi per stringerle un lembo del vestito.
«Non ti preoccupare piccola, starò bene…» la rincuorò la donna, seguendo gli Ausiliari «Non mi succederà nulla».
«Ma Bessie…».
«Cura quel bambino cara, ha una brutta ferita. E non fare niente di stupido».
Derek, visibilmente adirato, sparì all’interno della Torre e quando, oltre le porte, scomparirono anche Sebastian e Bessie, Rose dovette reprimere l’impulso di inseguirli.
I paesani le furono subito addosso, accalcati fino a toglierle il respiro.
«Cosa vi è saltato in testa?».
«Non pagheremo anche noi per le vostre bravate!».
«Volete farci uccidere tutti?!».
«State zitti!» urlò allora lei, allontanandoli «Non siete altro che dei codardi!». Pianse lacrime amare, senza riuscire a contenerle, e con lei singhiozzò spaurito Jeremiah, chiamando inutilmente il padre che non avrebbe più rivisto, né quell’inverno, né i prossimi.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Un brutto carattere ***



Un brutto carattere
 

Nonostante la loro fosse la casa più grande, più accogliente e più calda di quel piccolo centro abitato, Derek la sentiva tremendamente piccola, soffocante e decisamente troppo fredda. Dal tetto in legno non gocciolava l’acqua quando pioveva, dalla finestra non entravano spifferi in inverno e la cesta vicino al camino era sempre piena di legna da ardere, ma per lui nulla di tutto questo sembrava essere sufficiente, non dopo la morte di sua madre.
La voleva ricordare così, Aleena. Come una donna forte, retta, a cui era stato insegnato che la bontà paga sempre più della furbizia e che un amore, se non è leale fino in fondo, non è amore affatto. Una donna che aveva sempre messo al primo posto i suoi figli e suo marito, nonostante la malattia, nonostante la stanchezza, nonostante tutte quelle difficoltà che sarebbero state in grado di piegare chiunque, ma non lei. Derek non era sicuro che suo padre avesse amato allo stesso modo la sua famiglia, ma non aveva mai nutrito alcun dubbio su sua madre, sebbene non fosse mai riuscito a capire come Aleena avesse potuto amare così tanto un uomo che non era mai presente.
Afferrò la saccoccia di tela che aveva posato sulla panca, vi infilò dentro qualche cianfrusaglia e se la mise in spalla, pronto ad uscire. Aprì una scatoletta in legno rozzamente lavorata – probabilmente pagata più di quanto non fosse necessario - e ne tirò fuori la collana che aveva scelto appositamente per Cathleen: un intreccio di fili di rame e un ciondolo intagliato di pura onice, una pietra pressoché sconosciuta al di qua delle montagne, ma venduta a basso prezzo dai mercanti del golfo.
Derek nascose il suo pegno nella tasca del panciotto e, tutto orgoglioso per la scelta di un regalo così ricercato, si preparò per il suo appuntamento. Prima di poter aprire l’uscio di casa, delle piccole dita paffute lo trattennero, afferrandolo per i pantaloni e strattonandolo con veemenza.
«Perché non stai più insieme a me?» lo accusò risentita sua sorella, gonfiando le guance e battendo i piedi a terra per mostrargli tutto il suo risentimento.
«Perché ho da fare, Bessie» si ritrovò a sospirare esasperato «Torno presto, promesso». Incrociò le dita, passandosele sul cuore in un finto giuramento.
«Non è vero. Papà dice che…».
«Non mi interessa quello che dice papà» la interruppe con tono severo «E non dovrebbe interessare nemmeno a te».
«Ma…» la bambina sgranò gli occhi come davanti alla più crudele delle malignità «Ma è papà!».
«Lascia stare» si rassegnò lui «Fai come se non ti avessi detto nulla».
«Tu non mi vuoi più bene».
«Non essere stupida Bessie, certo che ti voglio bene».
«E a papà ne vuoi?».
«Sei troppo piccola per queste cose» si accucciò davanti a lei e le posò una mano sulla testa, ma subito sua sorella se la levò di dosso, scompigliandosi i capelli folti.
«Io non sono piccola! E tu sei cattivo, sei cattivo con tutti, anche con me, anche con papà».
«Se lo merita» bofonchiò appena il ragazzo, senza avere davvero l’intenzione di farsi sentire. In fondo lo sapeva da sé che sua sorella, così piccola, non avrebbe mai compreso fino in fondo l’astio che lui nutriva per quell’uomo.
«Avevi promesso alla mamma che saremmo rimasti uniti» alzò l’indice con fare accusatorio «Hai detto una bugia».
«Io non dico mai bugie».
«A lei gliel’hai detta».
Derek fremette. «No, non è vero».
«Sì che è vero!».
«Smettila di fare storie».
«Devi dare una mano a papà».
«Io non devo fare nulla».
«Ma ha bisogno di noi. Papà dice che deve insegnarti delle cose».
«Quali cose?».
A quel punto sua sorella sembrò in difficoltà e, dopo un attimo di esitazione, provò a rispondergli accompagnando il suo elenco con le dita: «A vendere, a comprare, a far di conto…».
«E sentiamo Bessie, perché non impari tu al posto mio?».
Lei, credendo di essere stata presa in giro, ribattè. «Non posso!».
«E questo chi te l’ha detto?».
«Sono una femmina!» sbuffò esasperata come davanti alla più banale delle ovvietà.
Derek accennò un sorriso. Allungò le mani verso sua sorella, stringendole le spalle e obbligandola ad avvicinarglisi. Rimanendo in equilibrio la fece sedere sulla sua gamba e all’orecchio le bisbigliò in gran segreto: «Lo sai chi aiutava papà a sbrigare tutte le sue faccende?».
«Tu?» tirò ad indovinare.
«No. La mamma» le confidò e, come se avesse udito una parola magica, la bambina lo fissò estasiata.
«Davvero?».
«Già. Perciò non farti dire da nessuno quello che puoi o non puoi fare. E ora su, vai ad esercitarti con il mio abaco» la incoraggiò «Al mio ritorno ti prometto che ti insegnerò qualche trucchetto».

 
►►
 
Con tutti i pensieri che gli affollavano la mente, a Derek bastava una inezia per trasformare una giornata qualunque in una giornata nera. E quando, più improvvisi di un baleno, i ricordi di quel giorno infausto tornavano a galla, il suo malumore diventava incontenibile e il suo cuore inconsolabile.
Leena aveva celato i sintomi del malessere fin quando le forze glielo avevano consentito, ma ad un occhio attento come quello di Derek, la sua sofferenza non era passata inosservata. Lui avrebbe tanto desiderato che anche il padre si fosse accorto per tempo del pericolo a cui stava andando incontro la sua famiglia, ma la sua cronica avidità lo aveva portato a trascurare il problema e, al ritorno dall’ultimo viaggio verso est, i soldi che era riuscito a guadagnare non bastarono a compensare la morte di sua moglie.
«Mi sembri nervoso» azzardò a bassa voce Cathleen, guardando Derek di sottecchi.
«Sto bene» rispose controvoglia lui, passandosi una mano tra i capelli biondi, in un gesto che gli veniva spontaneo quando si sentiva a disagio.
Sdraiati all’ombra della quercia intorno alla quale si erano sempre divertiti a giocare da piccoli, erano rimasti immobili e in silenzio a guardare da quella collinetta il sole che lentamente calava sulle case del loro villaggio, chiazzando il cielo dei colori più caldi.
La ragazza sorrise appena, drizzandosi a sedere e sistemandosi al meglio le pieghe della gonna intorno alle caviglie. «Se lo dici con quel tono non sei poi molto credibile, non credi?».
Derek non colse la leggerezza di quella domanda e, ignorandola deliberatamente, continuò a fissare il vuoto di fronte a sé. La mascella serrata e le sopracciglia aggrottate facevano sembrare il suo viso ancora più cupo e severo del solito.
Cathleen, instancabile, tentò di continuare il discorso, ma lui la interruppe bruscamente, riservandole un’occhiata stizzita: «Non ne voglio parlare».
«È di nuovo per tuo padre?».
«Non tutto quello che mi succede ha a che fare con mio padre» ringhiò «E non vedo come potrebbe essere altrimenti, dato che non è mai a casa. E forse, per una volta nella nostra vita, questo sarà un bene».
La ragazza, abituata al carattere spigoloso del suo amico, non si fece infastidire dal tono risentito delle sue parole e, incrociando le braccia sulle ginocchia, continuò con più calma: «Non deve essere facile».
«E’ solo un debole».
«Il dolore sa cambiare le persone, Derek. E il più delle volte, temo, non per il meglio. Se io dovessi perdere te…ecco» sussurrò, distogliendo imbarazzata lo sguardo «Non so come reagirei».
«Oh, risparmiamelo Cath!» sbottò, alzandosi in piedi con uno scatto «Cosa ne potrà mai sapere una come te del dolore?».
Lo guardò allibita. «Una come me?».
«Hai tutto quello che si potrebbe desiderare, hai tutto quello che io ho sempre voluto e che non mi è stato concesso. Tu hai un padre che ha la forza, no…» si corresse «Che ha la decenza di rimanere lucido per due notti di fila, una madre che è ancora in grado di accudire i suoi figli e dei fratelli che non hanno altre preoccupazioni se non quella di decidere quando è il momento di mangiare e quando di dormire».
«Non ci credo che tu me ne stia facendo una colpa».
«Non è così. Ma almeno non parlarmi come se fossi in grado di comprendermi, perché mentiresti a te stessa. E anche a me».
Udite quelle parole la ragazza si adirò, ma sforzandosi di mantenere il controllo di cui tanto andava orgogliosa disse: «Sei ingiusto». Si tirò su, pulendosi le mani bagnate dall’erba sulle vesti. «Tutti abbiamo i nostri demoni».
«Pagherei il mio peso in oro per fare a cambio con la tua vita».
«Non è una stupida gara!» sbottò irritata, dandogli le spalle «Non ho bisogno di perdere qualcuno per capire quello che provi. Si chiama empatia ed è una qualità che hai perso, insieme all’educazione e alla gentilezza, aggiungerei. Io…» aggiunse mortificata «Volevo solo esserti d’aiuto».
«Nessuno può aiutarmi, men che meno tu».
«Faccio fatica a riconoscerti quando ti comporti in questo modo».
«Forse perché non mi conosci affatto» le rinfacciò.
«Perchè» tremò «Perché devi essere sempre così…così arrogante? Che cosa vorresti dimostrare allontanando tutti quelli che ti stanno intorno?».
«Io non ti devo dimostrare nulla, Cathleen» obiettò gelido «E non ho di certo chiesto il tuo aiuto. Io non ho bisogno dell’aiuto di nessuno. Sei tu che devi imparare a restare al tuo posto».
«Io pensavo di averlo trovato, il mio posto» disse a bassa voce lei, voltandosi un ultimo istante per incrociarne lo sguardo, ma Derek aveva già distolto il suo. Lacrime di rabbia le rigarono le guance e con la voce più ferma che riuscì a trovare concluse: «Ma sembra che vicino a te non ci sia più spazio per nessuno. Sei talmente distratto dalla tua rabbia, talmente offuscato dal tuo risentimento, che nemmeno ti sei accorto di me. Così, bhe…non sei poi molto diverso dall’uomo che critichi tanto».

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Memorie d'Oltretomba ***


Memorie d'Oltretomba
 
 
«Stai fermo» ordinò Rose con voce spenta, mentre con un panno bagnato tamponava la ferita di Jeremiah.
Appena placato il trambusto della folla, Rose aveva aiutato il bambino a rialzarsi e, con lui sottobraccio, si era fatta largo tra la calca ancora attonita fino alla casa di Bessie, senza trovare la forza di proferir parola. Come le era stato detto, aveva spostato la grossa credenza che celava la nicchia segreta della commerciante e lì aveva afferrato il piccolo ricettario che aveva scorto l’ultima volta, nella speranza che potesse davvero contenere qualche informazione utile per curare Jeremiah. Ma una volta apertolo non aveva potuto far altro che constatare la sua inutilità. Su quelle pagine ingiallite e logorate dal tempo e dall’umidità non era stata scritta una sola parola e a nulla le era valso controllare e ricontrollare, sfogliare il taccuino in un verso e nell’altro, passare le dita sulla carta rovinata in cerca di qualche cancellatura o aguzzare la vista nl tentativo di scorgere un inchiostro magari sbiadito. Rassegnata, Rose aveva infine posato senza troppa attenzione il libro sulla panca vicino al focolare e aveva preso il bambino tra le braccia, sollevandolo per farlo sedere sul bordo del tavolo, sperando che la ferita alla tempia non fosse così grave da dover necessitare di cure che lei non sarebbe stata in grado di fornirgli.
Pulì al meglio delle sue capacità il taglio, tirando un sospiro di sollievo nel trovarlo meno profondo di quanto avesse temuto, consolandosi nell’idea che tutto si sarebbe risolto con una brutta cicatrice.
«Mi fai male» si lamentò il bambino quando la ragazza gli fasciò stretta la testa, annodandogli una stoffa dietro la nuca.
«Lo so. Dovrai fare attenzione adesso» gli rispose cupa «Potresti avere dei giramenti o soffrire di vertigini».
Lui annuì mesto, lo sguardo basso, e dopo un attimo di esitazione disse: «Mi dispiace. Il mio papà…e Bessie...Io non volevo».
«Non è stata colpa tua, Jeremy» cercò di tranquillizzarlo, accarezzandogli una guancia. Si sedette sulla sedia, le braccia incrociate sul tavolo per appoggiarvi la fronte, e quando le lacrime iniziarono a pungerle gli occhi vi nascose il viso. Non aveva mai visto nessuno osare tanto con una Guardia come Bessie aveva fatto quel giorno. Forse avevano azzardato troppo, forse se non si fossero intromesse sarebbe potuta andare diversamente.
«Non piangere…» singhiozzò il bambino, posando entrambe le mani sulla sua spalla e scuotendola, quasi a volerla risvegliare da un brutto sogno.
«Oh, no, non piango» mentì lei, asciugandosi in fretta gli occhi «E’ solo…solo stanchezza».
«Dobbiamo dire a mio fratello di andare a riprendere papà. Non possiamo lasciarlo da solo se sta così male».
La ragazza scosse la testa. Soppesò le parole da dire con attenzione, ma questa volta non trovò né il modo né le forze per addolcire la verità. «Non potremo più rivedere il tuo papà, Jeremy. E neanche Bessie» la voce le venne meno, ma ostentò comunque contegno.
«Perché?».
«Perché li hanno portati in un posto che non è possibile raggiungere, per noi. E’ come per la tua mamma».
«Ma la mia mamma è solo morta…» tentò di ribattere «Papà è vivo. Sta bene» fissò il pavimento «Forse è proprio sotto di noi, adesso…».
Rose non gli diede ragione e non gli diede torto. Lo invitò invece a riposare, facendolo distendere sul tavolo e proteggendolo dal freddo con una coperta. Si addormentò quasi subito, ormai esausto, ripetendo il nome del padre nel sonno.
Quando il sole calò e il cielo si fece così scuro da zittire anche tutti gli uccelli, dei sonori e prepotenti colpi alla porta posero fine agli ultimi atti di quiete di quella casa. Rose trasalì e il suo pensiero corse agli Ausiliari e alle voci che li dipingevano così vendicativi e rabbiosi. Non fece in tempo ad accostarsi all’entrata per sbirciare fuori che una voce maschile la chiamò.
«Rose!» battè un altro colpo «Rose, sono Thomas! Aprimi!» urlò, ma non fece in tempo a concludere la frase che già la ragazza aveva spalancato l’uscio e gli si era gettata fra le braccia, dando sfogo alle sue paure.
«Thomas!» lo chiamò, come se non credesse di averlo vicino.
«Cosa diavolo è successo?» domandò agitato, il respiro pesante per aver corso senza sosta dai campi sino alla casa della commerciante, dietro invito del nuovo fabbro che aveva assistito alla scena – ma quale scena non aveva avuto il coraggio di dirglielo. «Dov’è Jeremy? Sta bene?» la incalzò e quando vide che lei titubava nel rispondergli, temette il peggio. «Ti prego!» la implorò, stringendola per le spalle.
Rose voltò il viso in direzione della panca riscaldata dal fuoco, dove il bambino stava ancora sonnecchiando, incurante del trambusto, e subito lo sguardo di Thomas si addolcì, sollevato dalla paura che lo aveva attanagliato.
«Sono venuti a prendere tuo padre, insieme a Bessie…» la voce le si incrinò «Jeremiah è stato colpito, ma la ferita non sembra essere grave».
«E’ colpa mia, solo colpa mia» si coprì gli occhi con la mano, sedendosi sulla panca vicino al fratello. Allungò le dita per toccargli la testa, poi sembrò ripensarci e rimase per qualche secondo con la mano ferma a mezz’aria. «Io non c’ero» continuò infuriato, stringendo i pugni.
Rose rimase in piedi di fronte a lui, tremante. «Thomas, ho avuto così tanta paura…gli Ausiliari hanno portato Bessie e Sebastian nella Torre, non so per quale…».
«Andrò a riprenderli» la interruppe prontamente lui.
«No! Non peggiorare le cose».
«Potrebbero essere peggiori di così?».
«Non lasciare che l’avventatezza te lo faccia scoprire».
«Risolverò la faccenda a modo mio» continuò e sul viso gli si dipinse l’espressione di chi la sa lunga, di chi ha già avuto modo di prepararsi un piano. «Vedrai, io…» si arrestò, indeciso se renderla sua complice o meno.
«Ti farai ammazzare».
«No, non accadrà».
«Jeremiah ha solo te! Non ho nessuna intenzione di dire a tuo fratello che l’unica persona che gli era rimasta al mondo lo ha abbandonato per inseguire chissà quale strana rappresaglia».
«Sono un uomo, Rose» gonfiò fieramente il petto «Non sono fatto per chinare la testa, obbediente come una bestia, di fronte a qualsiasi angheria».
«Continua così e sarai un uomo morto e le prepotenze le dovrai combattere da sottoterra».
Quando i due ragazzi si incamminarono verso casa, lasciando da sola Rose in quelle quattro mura ormai vuote, era notte inoltrata e le strade non più sicure.
Rose sfiorò con le dita il ciondolo che nascondeva sotto al corpetto, ma che non la abbandonava mai, e la nostalgia la sopraffece nuovamente, ma non aveva più lacrime da versare per quel giorno.
Spense il camino e, per aiutarsi, lasciò acceso solo un piccolo lume. Ripose i medicamenti e le coperte con cura, poi prese il quaderno con la copertina di cuoio riscaldata dalle fiamme e fece per rimetterlo al suo posto, ma qualcosa in quel taccuino la incuriosì. Il rivestimento in pelle, di manifattura certamente scarsa, presentava un rigonfiamento innaturale e in alcuni punti le cuciture ben visibili sembravano essere saltate diverse volte e imbastite da capo. All’interno del libro, i lembi della copertina iniziavano a staccarsi dallo scheletro, mostrando la sua imbottitura: biglietti e frammenti di pergamena scarabocchiati, pagine piegate e fogli sparsi troppo costosi per essere adoperati per uno scopo così mediocre.
Rose li estrasse il più delicatamente possibile, aprendo uno ad uno i cartoncini i cui margini erano stati piegati e ripiegati, fino a ridurli in quadrati dalla grandezza irrilevante. La ragazza si stupì di vederli tutti scritti con una calligrafia ariosa e spaziosa ma talmente irregolare da risultare ostica alla lettura.
Sforzandosi di mettere in pratica i rudimenti che Bessie si era impegnata ad inculcarle, Rose iniziò a decifrare, non senza una certa dose di fatica, le lettere e dalle lettere passò alle sillabe e da queste, infine, riuscì a decifrare parole intere. Gli occhi si spalancarono, pieni di stupore, le mani iniziarono a tremarle.
«Non ci possono credere…» riuscì soltanto a mormorare.
 
►►►
 
Oggi ho continuato il mio viaggio verso est, ma l’unica strada che sapevo essere ancora praticabile si è rivelata troppo dissestata per poter proseguire. Mi sono diretta al porto, pensando stupidamente di poter procedere diversamente, ma non ho trovato nessuno ad attendermi. Le case sono ridotte in miseria, i pontili sono crollati, nessuna nave, peschereccio o barca salpa e attracca. La paura ha reso le persone diffidenti: i forestieri non sono più i benvenuti qui. Sono obbligata a dirigermi altrove. Questo non fa affatto piacere né a me né alle mie ossa. Sto diventando decisamente troppo vecchia.
 
 
Gli Spettri sono passati anche di qua. Che qualche dio mi sia testimone, non ho mai visto così tanta miseria in vita mia. Perché tutta questa distruzione? A quale scopo una simile carneficina? Nemmeno da noi riescono ad essere spietati, ignobili e corrotti sino a questo punto. Nessuno del luogo li ha mai visti, il solo sentirli nominare li rende aggressivi. Eppure, non riesco a smettere di domandarmi che cosa li spinga ad attaccarci. Ho sempre creduto che nessun male nascesse dal nulla e per nulla…non credevo che sarei stata costretta a cambiare idea alla mia età.
 
 
Quelli del baronato mi hanno detto che siamo fortunati, noi dell’Ovest. “Noi”. Ho capito solo adesso quanto siamo stati stolti a pensare che tutte queste disgrazie, prima o poi, non avrebbero messo fratello contro fratello. Ci accusano addirittura di essere in combutta con gli Spettri. È stato difficile – se non inutile – provare a dissuaderli da questa folle convinzione, specie perché inizio a temere che abbiano ragione. Non saprei spiegarmi altrimenti questa ondata di distruzione e odio che sembra essersi abbattuta qui.
 
Passato il confine, sembra quasi di trovarsi in un altro mondo. Un mondo distrutto, lacerato, sull’orlo del collasso. Anche le città possono morire, non solo gli uomini.
 
 
Sono tornata al villaggio. Sembra talmente triste e povero e desolato. Ho sottovalutato questa pestilenza. Non so più a chi dare la colpa per queste morti: se agli Spettri, alla fame, alla malattia o agli Ausiliari. Dovrà pur esserci un limite al dolore che gli uomini possono sopportare.
Nessuno rimpiangerà il comandante Romata, tanto meno io. Ogni uomo andrà incontro alla fine che gli spetta. Ma se mi fossi sbagliata? Se, come una emorragia, il pericolo che tanto temiamo non arrivasse dall’esterno, ma dall’interno di queste mura traballanti che pensiamo ci proteggano?
 
 
Ieri notte gli Spettri hanno portato via Tomson e i suoi figli. Vorrei tanto poter dare a questi esseri una forma, un volto. Se non ci avessero fatto il favore di liberarci anche di Romata, inizierei a domandarmi perché nessuna delle Guardie sia mai stata prelevata. Purtroppo le mie supposizioni si sono rivelate errate, ma sento che qualcosa continua a sfuggirmi…
 
 
Non credevo che il fato potesse giocare simili, subdoli scherzi. Pensavo di averlo perso per sempre, eppure oggi era lì, esattamente come lo ricordavo da bambina. Il tempo sembra averlo appena toccato, non è folle? Non so ancora se fidarmi di lui. Elude tutte le mie domande, non sono riuscita a strappargli nessun indizio. Dice che il suo silenzio è necessario per tenermi al sicuro, ma al sicuro da cosa? È tempo che io agisca diversamente, ma non potrò fare molto da sola.
 
 
Conto talmente tanti prigionieri che i sotterranei, ormai, dovrebbero straripare, ma non sembrano riempirsi mai. Come ho potuto essere così cieca? La verità era evidente, ma forse siamo stati codardi al punto da non volerla vedere, talmente stanchi da accettare qualsiasi fandonia. Spero che nessuna delle Guardie scopra quello che so, ma se così non fosse devo fare in modo che il mio segreto non muoia con me. Detesto dover mettere a rischio la vita delle persone che mi stanno più a cuore, ma sarebbe impensabile continuare a vivere in questo modo.
 
 
Non ho ragione di pensare che voglia farci del male. È più duro, più freddo e più distaccato di come lo ricordassi, ma sento di conoscerlo. Nemmeno il suo dolore riesce a essere forte quanto i legami di sangue. E mi rifiuto di pensare che siano riusciti a farlo diventare crudele come gli altri. Qualcosa, del ragazzo che ricordo io, deve essersi salvato.
 
 
Sta giocando a un gioco molto pericoloso, rischia di fare la fine del topo. Spero di non doverlo perdere una seconda volta. Ho un brutto presentimento. Gli ho chiesto un ultimo favore, non credo che me lo negherà. Mi auguro davvero che capisca che un amore come il suo, ormai, non ha più ragione di esistere e che i suoi disperati tentativi di salvarla non faranno altro che portare alla tomba entrambi. Ti prego fratello, cerca di rinsavire…



 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3650712