Niederhagen - Il Segreto Perduto

di pierjc
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 39 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 40 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 41 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 42 ***
Capitolo 44: *** Capitolo 43 ***
Capitolo 45: *** Capitolo 44 ***
Capitolo 46: *** Capitolo 45 ***
Capitolo 47: *** Capitolo 46 ***
Capitolo 48: *** Capitolo 47 ***
Capitolo 49: *** Capitolo 48 ***
Capitolo 50: *** Capitolo 49 ***
Capitolo 51: *** Capitolo 50 ***
Capitolo 52: *** Capitolo 51 ***
Capitolo 53: *** Capitolo 52 ***
Capitolo 54: *** Capitolo 53 ***
Capitolo 55: *** Capitolo 54 ***
Capitolo 56: *** Capitolo 55 ***
Capitolo 57: *** Capitolo 56 ***
Capitolo 58: *** Capitolo 57 ***
Capitolo 59: *** Capitolo 58 ***
Capitolo 60: *** Capitolo 59 ***
Capitolo 61: *** Capitolo 60 ***
Capitolo 62: *** Capitolo 61 ***
Capitolo 63: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




PROLOGO

Italia, 1947.

La macchia di sangue che si intravedeva dalla giacca ormai non era più cosi piccola. Quella che poteva sembrare a primo impatto una ferita non letale era stata ben assestata. A colpirlo era stato un cecchino che, se avesse avuto la mira migliore, lo avrebbe di certo spedito all’altro mondo.
O forse era quello il suo scopo? Prenderlo vivo?
Ormai doveva essere ben lontano dai suoi inseguitori. Il segreto che aveva scoperto lo aveva spinto a fuggire in Italia, ma non gli era bastato per restarne incolume.
In lontananza vide una vecchia casa abbandonata. Gli abitanti erano, probabilmente, fuggiti a causa dei continui bombardamenti durante la guerra. Quel che ne era rimasto erano solo cumuli di mattoni ricoperti di vegetazione. Gran parte delle pareti erano crollate e il tetto, diroccato, avrebbe seguito lo stesso destino nel giro di qualche settimana.
Si avvicinò e, dopo essersi assicurato che non ci fosse davvero nessuno, vi entrò. In quelle condizioni non sarebbe resistito a lungo. La continua perdita di forze lo stava indebolendo sempre di più, offuscandogli parzialmente la mente.
Si accasciò a terra, vicino a un barile pieno di acqua stagna. Finalmente in quel momento poté ridare vita ai propri pensieri. Si guardò la ferita che grondava sangue e tentò di estrarre la pallottola. Sentì, però, una forte fitta e capì così che non gli sarebbe stato possibile farlo in alcun modo.
Da un’apertura del soffitto guardò il cielo e vide le stelle. Quelle stesse stelle che guardava sempre sdraiandosi sul prato quando era solo un bambino, incurante delle urla incessanti di sua madre che lo esortava ad entrare in casa e mettersi a letto data l’ora tarda. “Chissà perché le stelle stanno lì ferme, immobili. Se io fossi una stella andrei tutto il tempo in giro per lo spazio!” pensava.
Hubert amava viaggiare, esplorare posti sconosciuti e scoprire cose nuove. Era una delle passioni che gli aveva lasciato suo padre, prima di partire per la guerra e non farne più ritorno. “Sono sicuro che tornerà. Sta solo scoprendo il mondo!” si rassicurava tra sé e sé.
«Hubert! Entra dentro o ti beccherai un brutto raffreddore!» gridò sua madre uscendo di casa.
Si andò a sdraiare accanto a lui. Conosceva il suo sguardo quando pensava al padre. Vide alcune lacrime scendere dai suoi piccoli occhi azzurri e, voltandosi verso di lei, chiederle: «Lui tornerà, non è vero mamma?».
Inevitabilmente i pensieri di Hubert andarono anche a sua madre. Dov’era adesso? Era al sicuro? O i suoi inseguitori sarebbero andati anche da lei?
Con le ultime forze che gli rimasero accese la torcia e aprì il suo diario. Prese la sua stilografica insanguinata dal suo taschino destro e, dopo averne pulito l’impugnatura, la intrise nella ferita e iniziò a scrivere le sue ultime righe.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1
 
Italia, ai giorni nostri.
 
«Cambi CD, per favore?» disse stizzita Elena.
«Non ci penso nemmeno!» rispose altrettante irritato Leonardo.
Ma, incurante della risposta, la ragazza tolse il disco. Non le piacevano molto i gusti del suo fidanzato. Antiquati e passati di moda. Preferiva di gran lunga le hit del momento, quelle che passavano incessantemente le radio.
Così aprì il portaoggetti e cominciò a sfogliare tra gli album.
«Ovviamente i miei preferiti non ci sono!» sentenziò.
«Mi sa che inavvertitamente li ho lasciati a casa» commentò lui.
«Certo, come no. Tanto meglio, ascolteremo un po’ di radio».
Cercò di trovare una stazione di quelle che ascoltava spesso, ma in aperta campagna era impossibile dato lo scarso segnale. L’unica frequenza raggiungibile stava passando un pezzo di un noto cantante paesano.
«Ah, adesso hai anche cambiato stile?».
«Sempre meglio di quella spazzatura che stavamo ascoltando prima!» puntualizzò Elena.
Il sole caldo batteva sul parabrezza mentre i finestrini abbassati facevano passare folate di vento caldo che andavano ad attenuare parzialmente l’afa.
«Sempre belle le tue idee! Venire in campagna con questo caldo!» rimproverò la ragazza.
«Sta tranquilla! Tra un po’ ci sarà il tramonto e mi ringrazierai di averti portata qui!»
Era da qualche settimana che l’amore che Leonardo provava per Elena era iniziato ad affievolirsi. Così stava tentando di riaccendere la fiamma portando la sua ragazza in un posto romantico dove le avrebbe comunicato questo suo malessere.
Mentre le note di fisarmonica provenienti dallo stereo stavano per concludere la canzone la macchina si arrestò. “Il posto deve essere questo!”. Il giovane c’era stato solo una volta, parecchi anni prima, quando vi si era recato insieme a suo nonno per cacciare la selvaggina.
 
«Cosa sono quelli, nonno?» disse il piccolo indicando dei panni messi alla rinfusa su di un albero.
«Quelli servono per spaventare gli uccelli. Come una specie di spaventapasseri» gli spiegò.
«Ma gli spaventapasseri non stavano in mezzo ai campi?».
«Possono stare in mezzo ai campi così come sugli alberi, ragazzo. L’importante è che non facciano avvicinare gli uccelli».
«E allora, se non fanno avvicinare gli uccelli, perché siamo venuti a cacciarli proprio qui?».
«Perché si sono abituati a quello spaventapasseri e ormai non ne hanno più paura. Guarda lì! Un gruppetto di merli su quell’albero!».
Con abili colpi ne prese due. Sarebbero stati parte della cena.
 
«Che ore sono?» chiese Elena, distogliendolo da quei ricordi.
«Credo che ci voglia ancora un bel po’ al tramonto».
«Che facciamo?».
«Aspettiamo! Andiamo lì, in quella casa, almeno staremo al fresco!».
Così si diressero ed entrarono in quel rudere dove le molteplici piante avevano formato un luogo perfetto per stare all’ombra.
«Chissà quanti anni ha questa vecchia casa!» domandò incuriosito Leonardo.
«Abbastanza per crollarci addosso» rispose con distaccata impassibilità Elena. «Io qui in terra non mi ci siedo. Chissà che animali ci sono!».
Tutto l’interesse per quella antica casa sparì immediatamente dopo quelle parole. “Vorrei non essere qui con te” pensò lui. Era sempre più deciso a rivelarle i suoi nuovi sentimenti. Non poteva credere che la sua ragazza avesse avuto quel profondo cambiamento nel corso degli anni. “Qualche anno fa ci saremmo divertiti tanto in questo posto”.
Sbadatamente Elena, nel cercare di crearsi un appoggio pulito sul quale sedersi, inciampò e urtò qualcosa facendola cadere.
«Attenta!» urlò Leonardo andandole incontro e aiutandola ad alzarsi.
«Dannazione! Voglio andarmene di qui! Io odio la campagna!» strillò Elena sempre più a disagio in quel posto.
Dopo aver pronunciato quelle parole il suo sguardo andò a ciò che aveva fatto cadere poco prima. Aveva la consistenza di qualcosa di duro, ma non sembrava né una pietra né un mattone. Si avvicinò per capire meglio cosa fosse e, dopo aver identificato l’oggetto, gettò un urlo agghiacciante che risuonò per tutto il campo, facendo scappare via gli animali vicini.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2
 
Leonardo si precipitò, spaventato. “Serpente? Ragno stratosferico?”. Si era distratto impostando la sveglia sul cellulare per non perdere il tramonto. Così, a quell’urlo, si era girato di scatto e soccorso Elena.
«Cosa c’è?» chiese preoccupato.
«Lì. In terra. Oddio!». La ragazza non riusciva neanche più a parlare per via del ribrezzo per quello che aveva visto. «Toglilo ti prego!».
Il giovane si avvicinò e scoprì cos’era che aveva fatto raggelare il sangue ad Elena. Un teschio. “Che ci fa qui?”.
Guardandosi intorno vide qualcosa che lo sconcertò ancora di più. Si girò a guardare la propria ragazza che, nauseata, chiedeva con ancor più insistenza di abbandonare quel luogo. Non aveva ancora notato cos’altro ci fosse in quel rudere. Poi girò lo sguardo per guardare ciò che stava osservando Leonardo. E così si abbandonò ad un altro urlo.
 
“Al solito. Catalogare, catalogare e catalogare!”. A Francesca piaceva il proprio lavoro ma, a volte, lo trovava davvero noioso.
Avevano appena riportato in biblioteca un libro di archeologia. Lo guardò con un po’ di rammarico. “Vorrei tanto scoprire qualcosa di storico, un fossile o un corpo di qualcuno vissuto qualche secolo fa. Così da poter dare finalmente un po’ di brio alla mia vita!”.
Si incamminò verso lo scaffale interessato e mise quel volume al suo posto. Poi si guardò intorno. Non c’era nessuno. Era sempre più raro vedere delle persone in quel luogo. Ormai tutti usavano internet. Il gusto della ricerca si era limitato a scrivere qualche frase su di un motore di ricerca per trovare tutto ciò che si desiderava. Chiuse per un attimo i suoi occhi. Il silenzio l’avvolgeva. I suoi pensieri la riportarono ai rumori assordanti che la circondavano ogni giorno nei suoi anni passati all’università. Era incredibile che in così poco tempo l’ambiente in cui passava la maggior parte delle proprie giornate si fosse capovolto così drasticamente. Sicuramente nel suo periodo di studi aveva immaginato una vita diversa.
Il suo amore per la storia l’avrebbe portata in Egitto? In Messico? In Grecia? Avrebbe voluto girare il mondo. Ma come spesso succede, la realtà è completamente diversa dai sogni.
Guardò l’orologio. Era quasi l’ora di chiudere. Si rattristò. Riteneva giusto cominciare da lì per iniziare la sua carriera, ma era davvero quello il luogo in cui avrebbe trascorso tutta la sua vita?
Neanche immaginava in cosa stava per imbattersi.
 
Entrambi i ragazzi osservavano sbigottiti ciò che si presentava dinnanzi ai loro occhi. Uno scheletro umano. Quasi si confondeva con la natura essendo ricoperto da erbacce.
«Ti prego, ce ne andiamo?» chiese con voce tremante Elena.
«Aspetta» rispose Leonardo, che era sempre più interessato a quel ritrovamento.
Giaceva immobile in terra. Senza testa. “Spero di non beccarmi una maledizione!” pensò lui.
Strappò qualche arbusto rivelando il corpo e notò una stilografica in ciò che restava della mano sinistra.
“Era mancino. Ma su cosa stava scrivendo?”.
Una delle passioni di Leonardo era la Seconda Guerra Mondiale e avrebbe riconosciuto senza troppe difficoltà qualunque simbolo inerente a quel conflitto. “Non c’è nulla sui vestiti”.
Si sforzava di trovare un logo datato. Se quel cadavere fosse stato recente avrebbe di certo smorzato la sua curiosità.
«Cosa stai facendo? Andiamocene di qui!» insistette Elena.
Leonardo non la stava neanche più a sentire, preso com’era da quello scheletro. Analizzò per filo e per segno i vestiti che aveva indosso. Vedendo la marca della giacca fu quasi certo che fosse abbigliamento tedesco. “Un tedesco? Qui? A fare cosa?”.
Scorrendo in basso vide diversi fori nel maglione. Di sicuro erano stati opera di qualche animale interessato alla carne della sua carcassa.
«Dobbiamo dargli degna sepoltura» disse girandosi. Elena non c’era più. Era sicuramente tornata in auto. Non poteva biasimarla. Quella situazione sarebbe stata pesante per chiunque.
Cercò un albero vicino e ne spezzò un ramo, cominciando a scavare una buca improvvisata poco distante da quella vecchia casa abbandonata, nel punto in cui il terreno sembrava più tenero.
“Non so chi sei, ma qualcosa mi dice che questa non era la tua vera dimora”. Cercò di farla più profonda possibile.
Dopodiché cominciò a trasportare i resti in quello scavo e a disporli nella maniera corretta. Si meravigliò di sé stesso per l’incoscienza dimostrata nell’aver toccato quello scheletro a mani nude. All’improvviso notò qualcosa, tra le ossa delle gambe. Era un lucchetto. “Cosa diavolo ci fa un lucchetto mezzo sotterrato qui?”. Pensò quasi subito ad un tesoro nascosto. “Mi sento come un pirata del settecento!”.
Leonardo si sbrigò ad adagiare le restanti ossa nel luogo ove avrebbero riposato in eterno e, dopo averle ricoperte di terra, vi appose una croce improvvisata.
 “Non so se tu eri cristiano o meno, ma una degna sepoltura non la si nega a nessuno”. 
Si precipitò, così, a scavare sotto il lucchetto rinvenuto nel rudere. Non era ciò che si aspettava di trovare. Non era un forziere pieno di chissà quale tesoro.
Era semplicemente un libro. O un diario. Chiuso con un lucchetto che presentava quattro cifre. “Probabilmente ci vorrà la combinazione per aprirlo” pensò.
Mentre era impegnato ad esaminare quel reperto storico il suo cellulare cominciò a squillare. Era la sveglia che aveva impostato per non perdere il tramonto. “Ormai il tramonto è andato. Non credo che Elena abbia ancora molta voglia di vederlo”.
Uscendo fuori da quella casa abbandonata per recarsi verso l’automobile guardò ancora quel vecchio diario. Pulendolo dalla terra vide un simbolo. “Wehrmacht!”. Il suo cuore iniziò a palpitare più velocemente. “Ho in mano un diario tedesco della Seconda Guerra Mondiale. Non posso crederci!”.  Notò anche una scritta. Niederhagen. “Che sia la chiave per la combinazione?”. Poi ci rifletté. “Impossibile. Non avrebbe senso mettere l’indizio di come aprire un diario segreto sulla copertina!”. Entrò in macchina e si accertò che Elena stesse meglio, dopo quelle visioni.
«Sto bene, voglio solo tornare a casa ora» gli rispose.
Lo sguardo della ragazza era dalla parte opposta rispetto a quel tramonto che Leonardo avrebbe voluto tanto gustare con lei. Avrebbe dovuto rivelarle i suoi timori riguardo alla loro relazione. Ma dopo quello che era successo non era il caso.
Così gettò un ultimo sguardo all’orizzonte e lasciò quel luogo che gli avrebbe segnato per sempre la vita.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3
 
«Dove hai preso quello?» chiese Elena guardando il vecchio diario.
«Era insieme al corpo» rispose Leonardo accendendo i fari dell’auto. «E dato che lo reputo un reperto interessante ho pensato bene di prenderlo e portarlo via».
«Quell’orribile cosa è ancora lì?».
«No». Ebbe quasi paura di raccontare ciò che aveva fatto. «L’ho sotterrato».
«Tu cosa?» disse sbigottita la ragazza girandosi verso di lui. «Hai toccato quelle ossa? Chissà che malattie potresti beccare!».
«Fino a prova contraria l’hai toccato anche tu facendogli cadere la testa».
Leonardo voleva portare la discussione su un binario comico per alleviare la tensione. Ma Elena non era dello stesso umore. Guardava con diffidenza quel vecchio oggetto. Detestava avere a che fare con lo sporco. Sua madre l’aveva educata al pulito assoluto.
«Vuoi sapere cosa ho scoperto?», il giovane tentò di spezzare il silenzio che si era creato. La ragazza sembrò borbottare un sì.
«Il simbolo che c’è sulla copertina è della Wehrmacht, il nome dell’esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale» cominciò a raccontare, svoltando per la stradina che portava in città. «Quindi, secondo me, i resti in quella casa appartengono a qualche fuggiasco tedesco dopo il crollo del terzo reich».
Non ebbe risposta. Continuò.
«Sai, già quando i tedeschi erano a diversi chilometri da Berlino alcuni ufficiali cominciarono a disertare e a scappare. Quelli che venivano beccato potevano subire due trattamenti: o venivano fucilati all’istante o venivano resi prigionieri. Questa seconda ipotesi ritardava la fucilazione solo di qualche settimana».
Rimase a pensare per qualche momento.
«Quello che mi domando è: perché rifugiarsi qui in Italia? In quel periodo la nostra penisola pullulava di americani! Non avrebbe mai potuto arrivare fin qui senza essere scoperto!».
«La smetti di parlare? Non ti sopporto più» esclamò stizzita all’improvviso Elena.
Era da qualche tempo che, anche lei, aveva cominciato a sentire una distanza tra loro. Ma ancora non era stato affrontato l’argomento. Aspettava che a pronunciarsi su ciò fosse Leonardo, dato che era stato proprio il ragazzo ad iniziare ad essere meno affettuoso e meno interessato al loro rapporto.
«Ascoltami, mi dispiace per quello che è successo oggi, ma vedrò di rimediare» disse cercando di uscire dall’impasse.
«Non è solo oggi Leo» cominciò ad urlare lei. «È da più di un mese che ti comporti così. Io non ce la faccio più».
«Ecco, era proprio di questo che volevo parlare oggi» rispose quasi sottovoce. «Ma dati gli avvenimenti ho preferito non affrontare più l’argomento».
«Adesso possiamo parlarne. Mi è passato lo spavento per quello che è successo. Sono pronta ad ascoltarti» disse in tono arrogante.
Leonardo iniziò a parlare col cuore in mano: «Io ho notato un cambiamento in te. Non so perché, ma non sei più quella che eri quando ti ho conosciuta».
«Si chiama crescere, e dovresti farlo anche tu». L’atmosfera iniziò a farsi pesante. «Oggi, invece di metterti a giocare con quel corpo, avresti dovuto portarmi subito via, come ti avevo chiesto. Ma evidentemente per te non significo più niente».
Con quelle parole il ragazzo si sentì colpito, come trafitto da una lancia in pieno petto.  
«Cosa? Tu per me significhi tutto. Solo che non mi sento più a mio agio a stare con te. Vorrei scherzare più spesso. Divertirmi di più con te».
Ormai l’auto era entrata in città e, imboccando piccole strade secondarie per evitare il traffico, era quasi giunta a destinazione.
«Se vuoi lasciarmi non perdere tempo a dirmelo» disse Elena, iniziando a piangere.
Leonardo, parcheggiò nei pressi dell’abitazione della propria ragazza e si protrasse verso di lei dandole quell’abbraccio che le aveva negato per tutta la giornata. E del quale lei aveva un vitale bisogno.
«Non voglio lasciarti» disse stringendola sempre più forte. «Ma vorrei vivere al meglio questo rapporto».
Si guardarono a lungo. Per un attimo gli sembrò di vedere nei suoi occhi quella scintilla che lo aveva fulminato facendolo innamorare. Ma durò solo un attimo, poi svanì.
Elena scese dall’auto, andandosene senza dir nulla sbattendo prepotentemente la portiera dell’auto.
Quel rumore sembrò quasi riportare la mente di Leonardo a qualche anno prima, quando i due ragazzi si trovavano ad osservare dei pirotecnici fuochi d’artificio.
 
«Vuoi dell’altro zucchero filato?» chiese il giovane.
Elena, leccandosi le labbra, accennò un gradito sì seguito da uno splendido sorriso.
Era incredibile come, nonostante quei sbalorditivi fuochi d’artificio, trovasse molto più incantevole quella visione.
Non riuscendo a rimanere impassibile dinnanzi a lei ed incurante della folla intorno, prese il suo volto tra le mani e le diede un lungo bacio appassionato. Elena rimase piacevolmente colpita. Leonardo non era solito fare certe cose in pubblico.
«Oh no! Adesso ho anche io le labbra appiccicose!» esclamò il ragazzo.
«Così impari!» rispose Elena con un sorriso ancora più splendente.
Dopo aver effettuato gli ultimi acquisti, si appartarono poco distante dalle bancarelle e commentarono la sbalorditiva grandezza della luna che c’era quella notte. Sembrava essersi avvicinata per poter godere da più vicino il loro amore. Era un sentimento genuino, sebbene ancora giovane. Nulla avrebbe scalfito quei due innamorati.
 
Quello era stato sicuramente uno dei più bei periodi vissuti insieme. La gioia di quei pensieri svanì con la stessa velocità con la quale Elena si fece chiudere il portone alle proprie spalle.
Il ragazzo rimase lì, per un po’, a pensare. “Qual è il modo giusto per affrontare questa situazione?”. Avrebbe dovuto chiedere consigli a qualcuno? O agire d’istinto e lasciare che il destino facesse il suo corso?
Osservava il palazzo della fidanzata, come per cercare una risposta. Ma non arrivò. Poi, dando uno sguardo all’orario, ripartì.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
Era stata una giornata completamente imprevedibile. “Invece di mettere a posto le cose, le ho peggiorate”. Chissà se stava per finire il suo rapporto con Elena. Durava da quasi sette anni ed era difficile per lui credere che potesse concludersi in quel modo.
Stringeva tra le mani il vecchio diario ritrovato mentre la sua mente era affollata da molti pensieri.
Avrebbe dovuto richiamarla subito? O aspettare che fosse lei a richiamarlo?
Per scrollarsi di dosso tutti quei pensieri, si tuffò nella sua poltrona e si versò un bicchiere di vino rosso. Era solito farlo dopo alcune giornate particolarmente pensati che lo avevano provato. Era il metodo più efficace che conosceva ed era una delle abitudini ereditate da suo nonno. Si concentrò, così, sulle parole incise sulla copertina del reperto storico.
Niederhagen.
“Se solo sapessi qualcosa di tedesco”. Prese il suo portatile e lo accese, cercando un traduttore online che potesse venirgli in soccorso. “Per fortuna esiste papà internet”.
Trascrisse quella parola e attese il responso.
“Nieder significa giù. Hagen non significa niente”.
Rimase  un po’ a pensarci. “Dannazione!”.
Resistette alla tentazione di forzare il lucchetto e aprire finalmente quel diario. Il suo amore per la storia gli impediva di compromettere quell’oggetto. “Chi potrebbe conoscere il tedesco?”.
Passò in rassegna tutti i suoi amici sperando di ricordarsi qualcuno che conoscesse quella lingua.
Nessuno.
Poi ebbe un’illuminazione.
Rammentò di un discorso fattogli di sfuggita del suo migliore amico, Alessandro. Gli aveva parlato di una ragazza alla quale era interessato. Una tale Francesca, bibliotecaria.
Gli aveva anche accennato che parlava perfettamente il tedesco. Era un discorso che avevano affrontato da molto tempo.
“E se non hanno più rapporti?”.
Poi il suo sguardo ricadde sul diario. “Al diavolo! Dove ho messo il telefono?”.
 
«Elena, tutto bene?» chiese una voce femminile proveniente dall’esterno della sua camera.
La ragazza cercò invano di rispondere in modo tale da non far capire che era in lacrime.
«Ma stai piangendo?» insistette la voce.
Non ci fu risposta, così la donna decise di entrare.
Elena era distesa sul suo letto, a piangere abbracciando un cuscino.
«Tesoro, cosa è successo? Hai litigato con Leonardo?». A quella affermazione Elena scoppiò in un pianto ancora più profondo.
Si alzò, la guardò negli occhi e disse: «Mamma, Leo vuole lasciarmi!».
Così dicendo si gettò ad abbracciare la madre, stringendola forte.
«Macché, vedrai che tutto andrà per il meglio» cercò di rassicurarla accarezzandole i lunghi capelli.
«No. È da un mese che non mi tratta più come se fossi la sua ragazza».
Continuò alzando i suoi occhi gonfi di lacrime: «E se il motivo è che c’è qualcun’altra?».
«Elena, state insieme da sette anni. Un periodo di crisi c’è per tutte le coppie. Anche io e tuo padre ne abbiamo passati tanti. E li abbiamo sempre superati».
A quelle parole la ragazza si sentì parzialmente sollevata. Tra lei e Leonardo c’erano già stati altri litigi, in passato.
«Tu dici che è solo un periodo? Che passerà?» chiese alla madre.
«Sì, tesoro. Un rapporto non è fatto solo di cose belle. Sono questi i momenti che vi faranno essere sempre più uniti e che rafforzeranno il vostro amore».
Il conforto di sua madre le aveva sollevato il morale. Ma in cuor suo sapeva che questa volta sarebbe stato diverso. Che questo non era un litigio come gli altri. L’indifferenza che Leonardo aveva nei suoi confronti la preoccupava, perché non le aveva mandato neanche un messaggio. Nulla. “Starà festeggiando con qualche sua amichetta”. Poi lasciò perdere questi pensieri e raccontò alla madre ciò che le era accaduto quel giorno. Del teschio e del diario.
«Probabilmente starà cercando di capire come aprirlo, per questo non ancora ti ha chiamato» commentò sua madre.
«Non significa nulla! Dovrei essere più importante di un vecchio diario rotto!» la investì Elena.
«Ti ho già detto di non preoccuparti! Adesso dormiteci su e vedrete che domani risolverete tutto».
Con quelle parole le asciugò le lacrime e la invitò a lavarsi e ad unirsi a loro per la cena.
 
Scorse la rubrica fino ad arrivare alla P. “Pinto”. Schiacciò un tasto e partì la chiamata.
Lo chiamava così per via del suo cognome. Alessandro Pintori. Lo aveva ideato ai tempi del liceo. Erano amici per la pelle.
Quando rispose gli raccontò della vicenda, del corpo e del vecchio diario.
«Wow! Non ci credo. Mandami un foto!» chiese la voce scettica dall’altro capo del telefono.
Leonardo fotografò quell’oggetto e lo inviò subito al suo amico, che rimase fortemente stupito.
«Ti ricordi di Francesca, la bibliotecaria? Me ne parlasti …»
«No amico, ci ho già provato e non ci sta. Perché ti interessa? Vuoi una scappatella di nascosto alla tua fidanzatina?» chiese in tono ironico.
«Hai ancora il suo numero? Mi serve qualcuno che sappia il tedesco per decifrare una parola scritta su questo diario».
«Dovrei averlo ancora da qualche parte. Adesso provo a contattarla di nuovo. Ti farò sapere il prima possibile».
Chiusa quella chiamata ripose il diario sul comodino e spense la luce mettendosi a letto. Guardò il cellulare e non trovò messaggi o chiamate da parte di Elena. Ma non ne sembrava turbato. Stava capendo ciò che era sadicamente successo. Non la amava più. Aveva cercato in ogni modo di soffocare quel pensiero. Ma, inevitabilmente, non poteva continuare quel rapporto.
Solo qualche mese prima, a San Valentino, le aveva promesso un viaggio romantico a Venezia. E adesso si ritrovava a doverle rivelare la cruda realtà. Con le immagini degli avvenimenti della giornata che si avvicendavano nella sua mente spense il cellulare, chiuse gli occhi e si addormentò.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5
 
«Non è fantastico?» chiesero delle labbra femminili.
«Stupendo. E non vorrei essere in nessun altro posto se non qui con te» rispose Leonardo.
Il suo sguardo, intrecciato con quello della ragazza, si stagliava su quel tramonto mozzafiato.
«Firenze vista da qui è favolosa» affermò il ragazzo.
«Ringraziami. Se non fosse stato per me non avresti mai visto questo posto e quel tramonto!».
«Tutto ciò che vorrei vedere per sempre sono i tuoi occhi».
Detto ciò scattò un bacio romantico tra i due. Con la città di Dante come sfondo quel bacio era degno di qualunque film d’amore che si rispetti.
Leonardo sentiva che i forti sentimenti che provava per quella ragazza non sarebbero mai svaniti. Era tutto ciò che aveva sempre desiderato. E anche lei dal canto suo provava lo stesso.
Così rimasero a fissare l’orizzonte, mano nella mano, abbracciati e l’uno nel respiro dell’altra.
 
All’improvviso vide una nube scura cadere su di loro. Rimase al buio per qualche minuto. Era incapace di parlare e di muoversi. Ma non ne era spaventato.
Davanti a lui si materializzò l’immagine di Elena. “Cavolo, non gliel’ho ancora detto”. Sembrava frastornato di non aver rivelato qualcosa di importante alla sua ragazza. La vide urlare, senza però sentirla. Lo fissava e piangeva.
Poi l’oscurità iniziò a dissolversi e intorno a lui cominciò a prendere forma una stanza. Sembrava antica. Le pareti color verde militare facevano eco ai suoi occhi. Era immobile, su di un divano. E accanto a lui, seduta, c’era la ragazza. “Elena, ancora tu?”.
«Non sono arrabbiata, Leo» lo rassicurava. «Neanche io ti ho mai amato».
Non si sentiva scosso da quelle parole. Era come se le sue emozioni non potessero prendere vita in quella stanza.
«Il nostro rapporto non ha futuro. Quello che abbiamo vissuto è stato tutto finto. Abbiamo indossato delle maschere».
«Non è vero! No!» si sforzava ad urlare lui, ma non uscivano suoni dalla sua bocca.
«Sono sicuro che anche tu pensi la stessa cosa» concluse Elena, alzandosi e uscendo da una porta.
Sentì una sensazione strana. I suoi occhi cominciarono a riempirsi e iniziarono a scendere delle gocce umide  sulle sue guance. Lacrime. Piangeva ma non ne sentiva la necessità. “Perché piango se non provo tristezza?”.
Si accorse che si stava guardando dall’esterno. Si osservava. Ma era diverso da come appariva di solito. “Perché indosso quell’uniforme?”.
Capì che, in realtà, non era lui quello sul divano, in lacrime.
Cominciò a rendersi conto di come tutto quello che stava accadendo fosse irreale quando la porta si aprì di soppiatto. Un ufficiale entrò urlando.
La lingua che parlava era il tedesco. “Finden sie die wahrheit heraus!”. Sebbene le parole pronunciate fossero in una lingua a lui sconosciuta riusciva a comprenderne perfettamente il significato. “Scopri la verità!”. Poi una pallottola trapassò il fianco di quel soldato. Cominciò a perdere sangue e si accasciò a terra.
Leonardo si voltò verso il divano. Non c’era più nessuno. Guardò in alto dove vide delle nuvole. La casa non c’era più. Si era dissolta nel nulla. Il corpo del militare ora non era più composto di carne e vestiti ma si era ridotto ad un mucchio di ossa.
Venne urtato da qualcuno. Si voltò e vide che qualche migliaio di persone stavano correndo verso di lui. Chiuse gli occhi, come per smaterializzarsi e non essere travolto da quella folla.
Li riaprì rimanendo nuovamente paralizzato nel comprendere dove si trovava. Era in un campo di sterminio. I fili spinati tutt’intorno non lasciavano trasparire neanche lontanamente l’idea di libertà. Eppure tutti quei fuggiaschi l’avevano appena ottenuta. Tutti quegli ebrei, salvi. Notò che anch’egli era vestito da prigioniero, come gli altri. Sarebbe dovuto scappare?
Guardando quelle ossa ebbe come la volontà di volersi sdebitare. Inginocchiandosi per pregare sentì improvvisamente un brivido percorrergli la schiena. Aveva una pistola puntata alla tempia. E così partì un colpo.
 
Leonardo gettò un urlo e aprì gli occhi. La sua fronte era zuppa di sudore e aveva il respiro affannato. “Un incubo!”.
Quello era stato senza dubbio il sogno più strano e più vivido che avesse mai fatto. Si voltò verso il diario ricordandosi di essere in attesa della chiamata di Alessandro. Rimase ancora un po’ di tempo sdraiato per riprendersi, poi guardò il cellulare sul comodino di canto al letto.
“Bingo!”.
Il suo amico lo aveva chiamato diverse volte.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6
 
Quasi istantaneamente lo aveva richiamato. Era ansioso di avere il responso.
«Mi ha risposto. Abbiamo parlato per un po’. Evidentemente le interesso ancora» scherzò Alessandro al telefono.
«Quindi? Le hai parlato di me?» Leonardo non aveva tempo da perdere. «Posso incontrarla?».
Il suo amico con un’estrema calma gli chiese semplicemente: «Hai fatto colazione? Bene. Allora ci vediamo al bar!». Con questa frase chiuse la conversazione, senza aspettare una conferma.
Era in queste occasioni che avrebbe voluto ucciderlo. “Dannazione! È una questione importantissima e lui ci scherza sopra!”.
Dopo essersi lavato di fretta, senza badare troppo a quello che prese, indossò una camicia e un jeans. Si precipitò giù per le scale con le scarpe ancora sciolte e, giunto finalmente alla sua auto, la mise in moto e partì velocemente.
 
Alessandro, una volta chiusa la chiamata, era rimasto a godersi la comodità della sua nuova sedia girevole. “Ho fatto un affare”, pensava tra sé compiaciuto. “Con questa non mi spaccherò più la schiena a giocare online a Heroes of Rome”.
Era maledettamente dipendente da quel gioco di ruolo. Riusciva a rimanere sveglio fino all’alba pur di portare a termine delle missioni. Perfino in quel momento stava osservando il suo personaggio fare a pezzi dei nemici. “Mi manca poco per salire di livello, poi gliela farò vedere io a quelli della fazione di FOB!”.
Riuscire a primeggiare in quel videogame era momentaneamente lo scopo più importante della sua vita.
Senza troppa voglia, spense il computer, si alzò e prese le chiavi del suo motorino.
Uscendo di casa un solo pensiero aleggiava nella sua testa. “Sono proprio curioso di sapere che intenzioni ha Leo”.
 
Giunto a destinazione constatò, come prevedibile, che Alessandro ancora non era arrivato. “Il solito ritardatario”.
Scelse un tavolino appartato e si sedette. Guardò l’ora sul cellulare. Ancora nessuna notizia da parte di Elena. L’unica cosa che gli premeva era di dirle tutto al più presto. Quella ragazza non meritava di soffrire così. “Le chiederò di vederci oggi, così le spiegherò tutto”. Poi, inevitabilmente, i suoi pensieri andarono allo strano sogno della notte precedente. “Il mio subconscio dev’essere rimasto davvero molto scosso da quello scheletro!”.
All’improvviso qualcuno posò sul tavolo un vassoio con due cornetti e due cappuccini.
«Per oggi offro io, ma le prossime dieci volte toccherà a te».
Finalmente Pinto era arrivato.
«A me l’hai preso con la crema?» chiese Leonardo.
«Ti conosco da più di dieci anni» rispose l’amico. «Ovvio che te l’ho preso alla marmellata!».
«Avanti, dimmi di quella Francesca».
«Hai da fare oggi, caro il mio Leo?».
Leonardo ripensò ad Elena. Avrebbe voluto parlarle quel pomeriggio.
«Me la presenti oggi?» domandò a Pinto.
«In biblioteca. Andiamo a trovarla a lavoro. Non è eccitante tutto questo?» disse euforico Alessandro.
«Pinto, devi metterti in testa una sola cosa», gli rispose scandendo le parole: «Non te la da!».
«Questo è quello che credi tu! Secondo te perché aveva ancora il mio numero?».
«Forse perché sei un maniaco ossessivo e stalker?».
«Devi sempre esagerare. Solo perché mando un messaggio al giorno alle ragazze senza che loro mi rispondano non significa che io sia uno stalker!».
Addentando quel cornetto Leonardo scoprì che era al suo gusto preferito: crema.
«Meglio che non ti dica che sogno ho fatto stanotte» disse iniziando a raccontare quell’aneddoto ad Alessandro.
«Leo, dimmi la verità, hai iniziato a drogarti?» chiese l’amico, commentando ciò che aveva sentito.
«Ancora no» rispose continuando a raccontare. «Poi mi ricordo di un tramonto in una bella città. Credo fosse Firenze. Con una ragazza».
Ci pensò per un po’. «Una ragazza che non era Elena».
«Finalmente!» scoppiò euforico Alessandro. «Non hai sognato altre ragazze da quanto? Sette anni?».
Così lo aggiornò della situazione con la sua fidanzata. Che ormai da qualche settimana litigavano spesso. E che aveva smesso di amarla.
Alessandro disse la sua: «Se non la ami più faresti meglio a lasciarla. Non ancora gliel’hai detto?».
«Le ho accennato qualcosa. Ma ho intenzione di incontrarla al più presto per dirglielo».
Stettero ancora un po’ a parlare, poi, si salutarono e si diedero appuntamento nel pomeriggio.
 
Quella mattina era stato un risveglio amaro per Elena. Guardando il cellulare non vide chiamate o messaggi da parte del suo fidanzato. Sempre ammesso che lo fosse ancora.
“E se quello di ieri era un addio? Non mi sembrava qualcosa di definitivo. Devo resistere? O devo cedere e chiamarlo?”.
Se avesse voluto intraprendere quella guerra con Leonardo sapeva che l’avrebbe persa e che, senza più resistere, prima o poi lo avrebbe contattato.
Aveva bisogno di qualcuno a cui confidare tutto. Qualcuno che non fosse sua madre. Qualcuno che conosceva da tanto tempo. Che conosceva bene Leonardo così da poterle dire se c’era veramente qualcun’altra a rovinare il loro rapporto.
E quel qualcuno di chiamava “Pinto”.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7
 
Poteva quel diario rappresentare la chiave per il suo futuro? Ci sperava tanto.
La facoltà che frequentava non lo soddisfaceva appieno. Scienze aziendali. L’aveva scelta sotto la pressione dei suoi genitori. Questo perché con quella laurea, grazie alle loro conoscenze, avrebbero potuto collocarlo agevolmente nel campo del lavoro.
“Se questo diario è appartenuto davvero ad un nazista e contiene informazioni interessanti farò una fortuna!”.
La sua indole lo avrebbe portato a scegliere una facoltà umanitaria. Amava la storia e tutto ciò ad essa annesso. Quando aveva visto quello scheletro in quel rudere si era risvegliata in lui la sua vera natura. Tale diario poteva contenere dei retroscena sulla guerra non ancora rivelati al mondo. Sarebbe diventato famoso facendo ciò che più gli piaceva.
Coccolando quei dolci pensieri rileggeva continuamente l’incisione: “Niederhagen”. Magari la bibliotecaria avrebbe finalmente risolto il mistero nascosto dietro quel termine rivelando cosa significasse.
Impaziente, riaccese il suo computer portatile e aprì nuovamente un motore di ricerca.
“Perché non ci ho pensato prima?”.
Invece di limitarsi a cercare di tradurlo avrebbe potuto cercare direttamente quella parola e, magari, scoprire che c’era già una traduzione. Digitò quelle lettere e, col cuore in gola, avviò la ricerca.
Il primo risultato che si materializzò davanti ai suoi occhi fu una carta geografica. “Che sia una città?”. Analizzò la mappa e constatò che era semplicemente il nome di una strada.
La sua fantasia iniziò a prendere il sopravvento: “E se su quella strada c’è un indizio su come ottenere la combinazione per aprire questo diario?”.
Poi vide anche gli altri risultati e scoprì una cosa molto interessante. Aveva finalmente ottenuto l’informazione che cercava.
 
Esattamente cinque anni prima, Alessandro, gli aveva presentato un’altra ragazza. Erano amici fin dalle elementari e, sebbene fosse bellissima, ‘Pinto’ la riusciva a vedere solo come una sorella.
Già alle scuole medie, Leonardo, l’aveva notata però era sempre vinto dalla timidezza per riuscire a chiedere al suo amico di presentargliela. Fino a quando strinsero ulteriormente la loro amicizia al liceo.
“Ti presento la donna della tua vita!” disse scherzosamente Alessandro presentandogliela.
Quello che stava per nascere era un amore acerbo, un amore tra due ragazzini che si erano piaciuti fin dall’inizio. Essendo adolescenti era inevitabile che entrambi fossero cambiati nel corso degli anni.
Mentre ripensava a queste vecchie vicende, Elena, sentì bussare alla porta.
«Vieni e dimmi solo la verità» disse facendo entrare Alessandro.
«Ci siamo visti questa mattina» cominciò a raccontare, in evidente difficoltà. «Mi ha detto della vostra disavventura di ieri, del corpo e del diario».
«E di me cosa ti ha detto?». La ragazza non voleva andare per le lunghe.
«Che avete litigato e che questo è un momento difficile per voi» risposte, cercando di non pronunciare parole sbagliate.
Sapeva che Elena pesava ogni minima sillaba quando si trattava dei suoi sentimenti.
«E basta?».
Alessandro accennò un poco convinto.
«Smettila di prendermi in giro, Ale, dimmi: c’è un’altra?»
«Ele, non c’è nessuna. È solo che lui è fatto così» cercò di difendere il suo amico.
Poi, guardando la ragazza negli occhi, non riuscì a continuare quel discorso. Doveva occuparsene Leonardo, non lui. Non riusciva a mentirle dicendole che tutto sarebbe andato per il meglio. Le voleva un gran bene e tra i due c’era una grande fiducia reciproca. Da bambini si erano promessi di non dividersi mai, qualunque cosa fosse accaduta. Ma questa volta si trovava in mezzo a due fuochi.
«Parlane con lui, Ele» disse prendendole la mano. «Lo sai che per me sei la mia amica pazza del cuore. Però questa volta non posso aiutarti se prima non ne parli con lui».
Elena, vedendo venir meno anche il sostegno da parte del suo miglior amico capì che, se voleva salvare quel rapporto, avrebbe dovuto scavare nel suo cuore e sacrificarsi per l’amore che provava per Leonardo.
 
«Un campo di concentramento!» esclamò compiaciuto.
Niederhagen, attivo dalla fine del 1941, si trovava alla periferia di Wewelsburg, villaggio famoso per il castello che prendeva il medesimo nome. I prigionieri  del campo venivano impiegati proprio per lo sviluppo di quella roccaforte. Esso era, relativamente,  un piccolo campo satellite di quello più grande di Sachsenhausen e internava circa 4'000 persone.
Oltre agli ebrei vi erano anche omosessuali, prigionieri di guerra e prigionieri politici, provenienti dalla Francia, dalla Polonia, dal Belgio, dall’Unione Sovietica e da qualunque altro stato avesse visto il passaggio delle truppe naziste. Secondo i documenti ufficiali in quel campo morirono circa 1'285 internati.
Leggendo quelle informazioni, Leonardo ebbe una folgorazione. “Forse il possessore di quel diario era una SS in fuga dagli americani durante la liberazione! Ma perché scappare in Italia se era piena zeppa di truppe alleate?”.
Poi la sua mente ritornò al sogno che aveva fatto la notte prima. “Scopri la verità”. Quale verità? Quali segreti potevano mai celarsi in quel vecchio diario?
Guardando l’ora si decise che era giunto il momento di pranzare. E il suo stomaco era pienamente d’accordo.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8
 
Alle 16 in punto Leonardo era già pronto per andare all’incontro con Francesca. Ma non sapeva a che ora aveva intenzione di accompagnarlo Alessandro.
“Per come lo conosco mi farà aspettare almeno un altro paio di ore!”.
Quel diario era diventata una vera e propria ossessione, lo girava e rigirava tra le mani, sperando di riuscire a trovare qualche altro indizio. Provò a ruotare i quattro numeri e constatò che, nonostante gli anni, girassero ancora agevolmente.
“Se dovessi provare tutte le combinazioni disponibili con quattro cifre riuscirei ad aprirlo fra dieci anni!”. Provò qualche data improvvisata come 1920, anno in cui venne fondato il partito nazista, o come 1933, anno in cui prese il potere Hitler. Nessuna funzionò.
“Forse è il suo anno di nascita!”. Questa seconda supposizione era più logica. Ma non avrebbe mai potuto scoprirla senza sapere il nome del possessore di quel diario. Niederhagen. “Sarà stato un ufficiale di quel campo”. Aveva troppe domande senza risposte e sapeva che, inevitabilmente, avrebbe dovuto consultare qualche testo di autenticità storica e non affidarsi esclusivamente alle informazioni ottenute dal web.
Sempre più impaziente, uscì di casa e cominciò ad avviarsi verso l’abitazione dell’amico, essendo cosciente che avrebbe dovuto attenderlo nel caldo della sua auto. L’aria condizionata funzionava a scatti. D’altronde era una vecchia macchina comprata per pochi spiccioli da un suo conoscente.
Giunto a destinazione cominciò ad ingannare il tempo sfogliando la sua raccolta musicale. Inaspettatamente si imbatté in un album che egli aveva fatto per Elena. Per i nostri 2 anni insieme.
Così, si arrese e mandò un messaggio sul cellulare di quella che sarebbe stata, ancora per poco, la sua ragazza. Lei rispose quasi istantaneamente. Segno che lo stava aspettando ansiosamente.
Prese vita uno scambio di messaggi, in attesa dell’arrivo di Alessandro.
 
Elena si trovava sdraiata sul divano, quando sentì lo squillo del suo cellulare. “Fa che sia Leo, fa che sia Leo” sperava tra sé. E così fu.
Spense il televisore, incurante di quella che era la sua soap opera preferita, e rispose.
Il ragazzo si scusava per la sua reazione e per non averla contattata prima di quel momento. Poi, distrattamente, le aveva accennato che quel pomeriggio sarebbe andato a conoscere una ragazza che si era offerta di aiutarlo con l’analisi del diario ritrovato.
“Ale non mi aveva detto nulla di tutto ciò”.
Questo la insospettiva. E la ingelosiva. Soprattutto quando il giovane smise di risponderle.
 
Come risvegliato da un sonno profondo, Leonardo trasalì quando sentì aprire la portiera della sua auto.
«Sono io, non preoccuparti!» disse rassicurante Alessandro.
«Sì, lo so. Stavo massaggiando con Elena ed ero distratto».
«Le hai detto quello che le dovevi dire?».
«Non ancora. Non voglio fare questo discorso tramite un cellulare».
Posando il telefono in tasca girò la chiave e mise in moto. Dopo poco tempo arrivarono alla biblioteca dove lavorava Francesca. Leonardo era emozionato, non incontrava una nuova ragazza da molto tempo. Si sentiva quasi in imbarazzo. Negli ultimi anni le uniche che aveva conosciuto erano state le amiche di Elena.
«Sta tranquillo, ti aiuterà» affermò Alessandro. «Sotto sotto è pazza di me».
«Ne sono più che convinto» rispose scetticamente Leonardo.
Giunti dinnanzi all’edificio, Leonardo parcheggiò in uno dei pochi posti liberi che trovò. Era stata una fortuna. Trovare un parcheggio in quella zona della città era praticamente impossibile.
Citofonarono e, quando gli venne aperto il portone, entrarono. Una volta dentro quella struttura, nessuno dei due aveva avuto l’impressione di trovarsi in una biblioteca. Era un ambiente scuro e senza neanche uno scaffale.
«Siete Leonardo e Alessandro?» chiese una voce soave proveniente dall’alto di una scalinata.
Il ragazzo alzò lo sguardo e rimase folgorato.
Sebbene la scarsa illuminazione non metteva in mostra perfettamente il viso di Francesca, egli ne notò subito l’eccitazione. In fondo una scoperta come quella di Leonardo avrebbe potuto cambiare anche il suo di futuro.
«In persona!» cominciò a parlare Alessandro. «So che accettare di aiutarci è stata una semplice scusa per incontrarmi di nuovo, ma devi sapere che io sono un uomo molto impegnato e che…».
Francesca non lo stava neanche a sentire e dirigendosi verso Leonardo chiese: «Sei tu quello che ha trovato il diario?».
«Ale ti ha raccontato proprio tutto, eh?» rispose il ragazzo in modo un po’ impacciato.
«Mi ha solo detto che avete trovato un vecchio diario nazista, chiuso con un lucchetto. E che avete bisogno di qualcuno che conosca il tedesco per aiutarvi ad aprirlo. Giusto?».
Leonardo rimase stupito in quanto la ragazza era perfettamente a conoscenza di tutto ciò che serviva sapere.
«Esatto» si limitò a rispondere.
«Posso vederlo?» domandò Francesca impaziente.
Aprendo la borsa a tracolla che aveva portato con sé, Leonardo estrasse con delicatezza quel reperto, alla vista del quale la ragazza rimase esterrefatta. Lo prese e iniziò a studiarlo, guardando e analizzando ogni singola sfaccettatura.
«Te ne intendi di Seconda Guerra Mondiale?» chiese il ragazzo.
«Eccome! Me ne intendo di storia in generale! Potrei raccontarti qualunque aneddoto tu mi chiedessi!» rispose Francesca, senza modestia.
«Quello che ho scoperto è che è appartenuto ad un ufficiale che prestava servizio in un campo di concentramento. È la scritta in tedesco che si trova sulla copertina».
La ragazza, ascoltando quelle parole, guardò la copertina e scorse quella scritta, quasi invisibile, sul lato sinistro del diario.
«Si chiama ‘Niederhagen’» continuò. «Si trova nei pressi di un villaggio chiamato Wewelsburg. Ho evitato di manomettere il lucchetto per non danneggiarlo come reperto storico».
«Hai fatto più che bene. Altrimenti non avremmo più nulla da scoprire» disse guardando Leonardo negli occhi.
«Questo speciale lucchetto era in uso presso gli ufficiali tedeschi durante la guerra per contenere informazioni segrete. Nel caso in cui fosse stato forzato sarebbe stata rilasciata una sostanza che avrebbe in pochi secondi fatto letteralmente sciogliere le pagine al suo interno». Ascoltando tutto ciò il ragazzo si sentì sollevato di aver resistito alla voglia di romperlo e scoprire ciò che si celava all’interno.
«Inoltre sapevano che i servizi segreti britannici, nel caso in cui fossero venuti in possesso di uno di questi diari, ci avrebbero messo relativamente poco a provare tutte le combinazioni e riuscire ad aprirlo» continuò a raccontare la ragazza sentendosi come una guida in un importante museo. «Così escogitarono un ulteriore metodo di sicurezza. Se la combinazione fosse stata sbagliata per più di quattro volte, il meccanismo si sarebbe inceppato e, quindi, avrebbe costretto a forzare il lucchetto e far azionare il metodo che vi ho accennato prima».
Leonardo si sentì gelare il sangue. Disse con preoccupazione di aver provato a inserire un paio di combinazioni.
Francesca lo guardò folgorandolo con gli occhi, come per sgridarlo di aver fatto quell’azione avventata. Poi, con estrema delicatezza, provò a girare uno dei quattro numeri.
«Fortunatamente abbiamo ancora un’altra possibilità» disse sollevata.
«Hai detto che questa scritta indica un campo di concentramento?» chiese a Leonardo. «Dobbiamo cercare di trovare informazioni sugli ufficiali che si trovavano in quel campo. Sarà difficile ma dobbiamo riuscire ad aprire questo diario ad ogni costo».
Francesca era molto più che determinata a portare a termine quella missione. Sarebbe potuto essere il biglietto per fuggire da quella biblioteca e da quella città. E intraprendere il suo più grande sogno.
«Potremmo cercare qualche informazione qui?» chiese il ragazzo.
«Conosco questi libri a memoria e non c’è nulla che possa servirci» rispose la bibliotecaria senza distogliere lo sguardo dal lucchetto. «Ci serve una biblioteca più fornita di questa».
Guardandosi negli occhi ebbero come l’impressione di avere avuto la stessa idea.
«È l’unica soluzione».

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9
 
Quel pomeriggio Elena andò su tutte le furie.
“E così preferisce andare a conoscere altre ragazze piuttosto che venire a risolvere i nostri problemi?”.
Andava nervosamente avanti e indietro in quella che era la sua camera da letto. Continuava a inviare messaggi e a chiamare Leonardo, ma senza ottenere risposta.
“Questa volta non gliela farò passare liscia”.
La sua rabbia andava ad incrementarsi sempre di più. Così decise di chiamare anche Alessandro.
 
Lo squillo del suo cellulare echeggiava in quella sala, come fosse uno spirito vagante.
«Scusate ragazzi, rispondo un attimo al cellulare» si congedò Alessandro.
«Seguimi» disse Francesca incamminandosi su per le scale.
«Cosa c’è su?» domandò incuriosito Leonardo.
«La biblioteca, ovviamente» rispose. «Credevi che esercitassimo la nostro professione al buio di questa sala?»
«Non saprei, non ci sono mai stato qui!».
«Non mi sorprende. Non viene mai nessuno. Comunque, il piano inferiore lo utilizziamo solo per le presentazioni di libri di scrittori emergenti o per ospitare qualche conferenza».
Entrati nella stanza superiore, Leonardo rimase impressionato. Per essere stata definita una piccola biblioteca era molto ben fornita. Tutt’intorno c’erano scaffali pieni zeppi di libri classificati per genere. Attualità, Gialli, Fantascienza, ecc.
«Complimenti! È proprio un bel posto. Chi si occupa della catalogazione dei libri?»
«Io!» si girò Francesca esclamando compiaciuta. «Conosco l’ubicazione di ogni singolo titolo. Ti interessa qualcosa?».
A quella domanda Leonardo si sentì in difficoltà. Non amava molto leggere. Ma non voleva fare brutta figura, specialmente con quella che sarebbe potuta diventare la sua ‘socia’ in affari, qualora avessero scoperto qualcosa di più su quel diario.
«No» rispose. «Sono già impegnato con diversi libri».
«Tipo?» domandò ulteriormente sedendosi dietro una scrivania.
Il ragazzo cercò velocemente di pensare ad un libro che conoscesse.
«Ulisse!». Dopo aver pronunciato quel titolo se ne pentì subito. “Se mi chiede qualsiasi cosa sono fritto!”.
«Bello! L’ho letto due volte, in italiano e in greco antico» commentò accendendo il computer della biblioteca. «Eppure scommetterei che il titolo fosse L’Odissea».
Leonardo si sentì uno stupido. “Ulisse è il nome del protagonista, non il titolo del libro!”.
«Ma il mio non è la versione originale. È una rivisitazione in chiave moderna!». Stava andando ad infilarsi in un vicolo cieco.
«Davvero? Non ne ho sentito mai parlare» disse Francesca aprendo il browser di internet. «Ad ogni modo, adesso cerchiamo qualche biblioteca più fornita di questa».
Leonardo ringraziò il cielo di essersi riuscito a salvare da quella conversazione. Ma ben presto si sarebbe trovato di fronte ad un problema ben più grande.
 
«Ti ripeto che non sta facendo niente di male! Stanno solo parlando del diario!» rispondeva in modo insistito Alessandro.
«E allora perché non ha nemmeno il tempo di mandarmi un messaggio per dirmi che è occupato?» chiese Elena, sempre più indispettita.
«Appena finiscono di parlare vedrai che ti richiamerà subito!».
«Smettila di difenderlo, Ale. Adesso stai con loro?».
«No» disse guardando al piano superiore. «Sono saliti sopra, li raggiungo non appena chiudiamo la telefonata».
Elena si sentì ribollire il sangue. “Perfetto, adesso stanno anche da soli!”.
«E perché stanno da soli? La tua presenza li infastidisce? Vogliono un po’ di intimità?».
«Ele, smettila di fare la gelosa. Stanno solo parlando. Come me e te in questo momento».
Accecata dalla rabbia si limitò a chiedere semplicemente dove si trovassero.
«Non vorrai mica venire a fare una scenata qui?» chiese il ragazzo preoccupato.
«No, no. Voglio solo sapere dove siete».
Alessandro si domandava come avesse fatto a trovarsi in quel guaio.
«Mi prometti che non mi crei problemi?»
«Sì» affermò Elena. «Adesso puoi dirmi gentilmente dove siete?».
 
Al piano superiore le ricerche sulla biblioteca filavano lisce come l’olio. Leonardo non riusciva neanche a leggere quel nome. Deutsche Nationalbibliothek.
«Qui troveremo sicuramente quello che cerchiamo» disse Francesca guardando il ragazzo. «Cioè quanti più riferimenti possibili al campo di concentramento di Niederhagen. Sempre ammesso che sia la pista giusta».
«Dobbiamo andare fino in Germania?» chiese un po’ perplesso il giovane.
«Prendila come una gita d’istruzione».
«Io non so neanche mezza parola di tedesco!».
«Non preoccuparti, parlerò io» lo rassicurò la bibliotecaria. «Tu ti limiterai a portare le valigie!».
Al ragazzo scappò un sorriso. Senza perdere neanche un minuto Francesca iniziò a cercare i voli disponibili per Berlino. Leonardo era sempre più preso da lei. La guardava come se stesse ammirando un’opera d’arte di valore inestimabile. La giovane si distrasse un attimo dallo schermo e guardò anch’ella il ragazzo che la stava fissando.
«Problemi?» domandò visibilmente imbarazzata.
«No» rispose Leonardo. «Mi chiedevo semplicemente di dove fossi. Il tuo accento sembra toscano».
«Infatti sono di Firenze».
«Mi piace molto il tuo modo di parlare» disse, senza rendersi conto di averle fatto un complimento.
Per un istante si guardarono. Il tempo si fermò.
 
«Dove diavolo è?» urlò una voce femminile dal piano inferiore.
Entrambi i ragazzi si destarono e si interrogarono su chi potesse essere quella pazza che urlava in quel modo.
«Chi le ha aperto?» si domandò Francesca.
«Sono sopra?» gridò ulteriormente quella voce, che si avvicinava sempre di più.
Leonardo non aveva riconosciuto la voce e rimase impietrito quando vide Elena entrare dalla porta. Era come se un demone dell’inferno si fosse materializzato. Dai suoi occhi traspariva tutta la rabbia che aveva in corpo.
«Quindi te la fai con questa sgualdrina?» cominciò a domandare ironicamente.
«Elena, ma sei impazzita?» disse Leonardo ritrovatosi in quella situazione surreale.
«Leo, scusami, ma non sono riuscito a farla ragionare» cercò di giustificarsi Alessandro, entrato anch’egli in quella stanza.
«Perché non mi rispondi al cellulare? Ti ho mandato un’infinità di messaggi».
Leonardo sapeva bene che, qualunque cosa avesse risposto, non avrebbe fatto la minima differenza.
«Sono qui a cercare di trovare una soluzione per aprire il diario che abbiamo trovato!».
«Cazzate! Perché proprio da una donna? Gli uomini non lo conoscono il tedesco?».
«Perché lei è amica di Pinto ed è l’unica che parla tedesco tra quelli che conosco».
Elena si girò guardando Alessandro, che le aveva omesso quel particolare fondamentale.
«Quella gliel’hai presentata tu?» chiese indicando la ragazza.
Francesca si sentiva a disagio. Aveva conosciuto Leonardo da poco meno di mezz’ora e già si trovava immersa nei suoi guai più di quanto si sarebbe aspettata. “Credevo di finirci per questo diario, non per la sua fidanzata!”.
Senza dire più nulla, Elena, si girò e si avviò giù per le scale. Si sentiva pugnalata alle spalle anche dal suo amico d’infanzia. Cominciò a piangere e, man mano che scendeva, si sentiva sempre più abbattuta.
Anche Leonardo uscì di corsa per bloccare la ragazza e spiegarle tutto. Ma lei non voleva sentire ragioni.
Rimasti soli, Alessandro e Francesca, si guardarono. Leonardo, per la fretta di correre da Elena, aveva dimenticato il diario sulla scrivania.
«Glielo riporterò io» disse Pinto.
«Non volevo causare problemi» cercò di scusarsi la ragazza.
«Non è colpa tua. Stanno attraversando un momento difficile. E lei è molto gelosa».
«Capisco» rispose sconfortata.
Quel ragazzo, per un istante, le aveva acceso il cuore. Era come se tra loro si fosse creato un momento magico. Ma evidentemente aveva frainteso.
«Dì a Leonardo che gli farò sapere le novità sulla partenza per Berlino, dagli pure il mio numero» disse immergendosi di nuovo nello schermo del suo computer.
Alessandro la salutò mestamente e uscì. Poi ripensò a quanto detto e, voltandosi verso di lei, chiese: «Berlino?».

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10
 
I giorni che seguirono furono molto impegnativi per Francesca, che si prodigò ad organizzare la loro permanenza in Germania.
Non aveva ricevuto molte notizie da parte di Leonardo, ma sapeva che quel viaggio lo avrebbe fatto a tutti i costi. Sebbene avesse problemi di cuore non avrebbe rinunciato ad una probabile carriera da storico e, una volta scoperto il contenuto del diario, anche da scrittore. Alessandro le aveva portato i soldi per prenotare i biglietti e la stanza d’albergo.
Non voleva ammetterlo, ma Francesca avrebbe voluto avere novità anche sulla faccenda dei due innamorati. Così, prendendolo alla larga, cercò di ottenere informazioni in modo indiretto dallo stesso Pinto.
«Sicuro che Leonardo non avrà problemi a venire con me a Berlino?» esordì la bibliotecaria.
«Non rinuncerebbe a questo viaggio per nulla al mondo» rispose il giovane sedendosi di fronte alla ragazza. «Aspettava un evento del genere da troppo tempo. È il trampolino di lancio per la carriera che avrebbe sempre voluto fare».
Con quelle parole, Francesca, si sentiva molto vicina a Leonardo. Anche lei, con quella scoperta, avrebbe potuto intraprendere la carriera che aveva sempre sognato: l’archeologa.
Il destino di entrambi i ragazzi giaceva nella pagine di quell’antico diario.
«Ma non ti devi preoccupare di Elena», Alessandro sembrava aver intuito che la ragazza si sentiva attratta da Leonardo. « Ho parlato con entrambi. Purtroppo quando una storia d’amore sta per finire risulta chiaro un po’ a tutti. Non credo che quella relazione possa durare ancora molto».
 
«Non credo che questa relazione possa durare ancora molto». Le parole amare di Leonardo ormai non potevano peggiorare lo stato emotivo di Elena.
«Lo credo anche io» rispose sconsolata la ragazza.
«Però voglio dare un’altra possibilità a noi. Non possiamo buttare via tutti questi anni con un semplice arrivederci».
In quell’istante la giovane ebbe un accenno di gioia: «Quindi non mi stai lasciando?».
«Non definitivamente».
«Che vuoi dire?», quell’accenno di gioia venne subito rimpiazzato nuovamente dallo sconforto.
«Voglio dire che è il caso di prenderci una pausa».
«Va bene. Ma non so se quando ti verrà la voglia di interrompere questo ‘periodo di pausa’ io sarò ancora lì ad aspettarti».
Elena, però, sapeva perfettamente che non era così. Lo amava troppo. E lo avrebbe aspettato anche per un anno intero, se fosse stato necessario.
«Continuare adesso sarebbe inutile» proseguì Leonardo. «Finiremmo per litigare tutti i giorni. Dopo questa pausa capirò davvero quello che provo per te. Se è ancora forte come quando ti ho incontrata o se invece è cambiato».
Alla ragazza non sembrava vero quel momento. Non riusciva a crederci. Quella relazione era diventata parte integrante della sua vita. Non riusciva ad immaginare la sua vita senza Leonardo. Eppure così sarebbe stata d’ora in poi. Dopo essersi salutati, la ragazza sentì un senso di vuoto ampliarsi sempre di più. Aveva bisogno di cioccolata. Molta cioccolata.
 
Il giorno della partenza si avvicinava sempre di più e Leonardo dovette inventarsi una scusa con i genitori per poter andare in Germania. “C’è un mio amico che vive lì e vado a trovarlo”. Avrebbe potuto pensare a qualcosa di migliore, ma l’importate era che aveva funzionato. Gli esami dell’università potevano aspettare. Non erano certo la sua priorità.
Decise di portare con sé anche un vocabolario di tedesco. “Non si sa mai, potrei trovarmi a dover parlare con qualcuno”.
Francesca, invece, dovette chiedere le ferie anticipate a lavoro. Non che ci fosse molto da fare in quella biblioteca, così non ci furono problemi ad ottenerle. Il suo datore di lavoro non le avrebbe mai vietato di scoprire di seguire le sue passioni. E sapeva anche che era certamente una ragazza molto colta. Non sarebbe stato per nulla facile provare a sostituirla.
 
Francesca. Gli era scappato un mezzo sorriso guardando il cellulare. Era la seconda volta che avrebbero parlato, dopo quella in biblioteca.
Le ultime comunicazione tra i due erano state mediate da Alessandro. Ma la ragazza si era fatta coraggio a chiamarlo. “Che diavolo, domani dobbiamo partire e non abbiamo ancora deciso come e quando andare all’aeroporto!”.
«Pronto?», rispose Leonardo entusiasta di quella chiamata.
«Ciao, sono Francesca. La bibliotecaria. L’amica di Ale. Domani dobbiamo partire» disse, sentendosi un po’ impacciata. «Che ne diresti di incontrarci oggi per organizzarci? Se non ti va possiamo sempre parlarne per cellulare».
Era da molto tempo che non parlava a telefono con un ragazzo. Tranne quelli che chiamavano in biblioteca per avvertire che avrebbero ritardato sulla restituzione di alcuni libri. Si sentiva diversa. Era felice. Le piaceva molto Leonardo ma, purtroppo per lei, era già fidanzato e sapeva che non ci sarebbe mai potuto essere nulla di più di una semplice amicizia.
«Certo, facciamo tra un’ora?» confermò il giovane.
Il cuore di Francesca batteva all’impazzata quando rispose di .
Si preparò come se stesse andando ad una cena di gala, improfumandosi e scegliendo i vestiti adatti. Voleva fare bella figura con Leonardo. Come se stesse cercando di farsi accorgere da lui. Probabilmente era proprio quello che voleva.
Quei giorni in Germania sarebbero stati indimenticabili. Si sarebbero conosciuti meglio e avrebbe capito se quella era solo una semplice cotta o se era davvero innamorata. Questa seconda ipotesi la spaventava un po’.
 
Anche Leonardo era impaziente di quell’incontro. Non aveva ritenuto saggio chiamare la ragazza. L’insicurezza in amore era sempre stato un suo difetto. Se ci fossero stati fraintendimenti il rapporto di collaborazione tra i due sarebbe stato diverso e, sicuramente, più difficile da gestire. Ma con quella chiamata aveva acquistato un po’ di coraggio. Sapeva che non avrebbe dovuto fare mosse avventate, perlomeno finché non avrebbe risolto le cose con Elena.
 
Quel pomeriggio i due si incontrarono e si sentirono come due liceali che uscivano per la prima volta con un’esponente dell’altro sesso. Si salutarono ed iniziarono a camminare per Roma, tra migliaia di turisti che la affollavano.
«Hai preparato le valigie?» chiese Francesca iniziando la conversazione.
«Oh, sì. È tutto pronto. E tu? Hai preparato tutto?» rispose Leonardo facendo a sua volta una domanda.
«Sì, è tutto pronto per la partenza».
Quello che seguì fu un imbarazzante silenzio che venne spezzato dal ragazzo: «Come andiamo all’aeroporto? Ci facciamo accompagnare da Alessandro con la mia macchina?».
«Sarebbe l’ideale, l’hai già contattato?».
«Ancora no» disse prendendo il cellulare per chiamare il suo amico. «Ma non credo abbia molti impegni in programma».
Digitò il suo numero e fece partire la chiamata.
Francesca si rimproverava di sentirsi così in imbarazzo. Era adulta e vaccinata, ne aveva passate tante, eppure di fronte a quel ragazzo si sentiva inerme. Era come se un fuoco magico le avesse avvolto il cuore da quando i due si erano guardati intensamente in biblioteca.
Mentre Leonardo parlava al cellulare con “Pinto” la giovane aveva iniziato ad immaginare i giorni che avrebbero trascorso a Berlino. Sapeva che quella non sarebbe stata una vacanza romantica ma che avrebbero soggiornato solo il tempo necessario per trovare informazioni su come aprire il vecchio diario ritrovato da Leonardo.
«9?» chiese il ragazzo.
«Come scusa?».
«A che ora dobbiamo andare all’aeroporto? Alle 9?».
«Sì, abbiamo il volo alle 11:30» rispose Francesca che si era destata dai suoi pensieri.
«Perfetto allora passiamo alle 8:30 da casa tua a prenderti».
«Ottimo».
Gli argomenti erano finiti e i due continuarono a camminare senza parlare.
Anche Leonardo non capiva come riuscire a riprendersi da quella situazione. Di solito era uno che parlava molto, ma in quel momento non gli veniva in mente neanche un pretesto per iniziare un discorso.
Quando, quasi senza accorgersene, d’impulso, vedendo una gelateria aveva esclamato: «Ti va un gelato?».
Notando che la ragazza, sorridendo, accettò la richiesta continuò: «Offro io, per ringraziarti dell’aiuto che mi stai dando».
«Lo faccio con piacere. Questa storia mi è interessata molto sin dal primo momento in cui l’ho sentita. Un diario antico, uno scheletro nazista, misteri da svelare. Di solito queste cose accadono solo nei film!».
Finalmente la tensione tra i due si era affievolita e iniziarono a parlare piacevolmente. Dopo il gelato continuarono a passeggiare per la capitale fino al tramonto come due ragazzini innamorati. E in fondo chi dice che non lo fossero?

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11
 
Facendo quasi rimanere di stucco il suo amico, Alessandro era arrivato a casa sua in perfetto orario quella mattina. Quando si trattava di eventi importanti si precipitava sul posto con precisione allarmante, come un orologio svizzero.
«Allora? Sei pronto? Andiamo?» chiese Pinto al citofono, eccitato sicuramente più del suo amico.
«Dammi ancora un momento» rispose Leonardo, ancora intontito dal sonno.
La sera prima non era riuscito ad addormentarsi così aveva messo su un bel CD del suo artista preferito, prendendo sonno tardi. Era una buona tecnica che lo aiutava quando Morfeo non voleva saperne di arrivare.
«Dobbiamo andare a prendere Francesca, non facciamola aspettare troppo!» insistette Alessandro, senza sapere che Leonardo aveva già chiuso la cornetta.
Così si sedette sulle scale davanti al portone di quella casa ad attenderlo.
Guardava tutte le persone che, nonostante l’ora, fossero già arzille nelle loro tute da corsa per smaltire un po’ di calorie. “Che follia! Io non lo farei mai!”.
Poi si guardò la pancia. “Anche se dovrei”. Stare tutto il giorno davanti ai videogame produceva un notevole accumulo di chili.
«Eccomi!» disse una voce alle sue spalle.
«Finalmente!».
Caricarono una piccola valigia in auto e si avviarono verso la casa di Francesca.
«Le piaci, lo sai?» gli confidò il ragazzo alla guida.
«Cosa? A chi?» domandò Leonardo, sebbene avesse capito di chi stava parlando il suo amico.
«Non fare il finto tonto. Fossi in te mi ributterei subito nella mischia».
«Pinto, ma che diavolo blateri?».
«So che la relazione con Elena è stata difficile in questo ultimo periodo, ma non tutte le ragazze sono così!».
Poi proseguì rivelando il suo vero interesse: «Poi con le amiche della tua, ehm, diciamo ex ci ho già provato con tutte. Invece le amiche di Francesca…».
«Lo sapevo che volevi finire su quel punto».
Si scambiarono un sorriso.
«Stai attento. Vedi di non finire nei guai» disse Alessandro.
«Lo farò. D’altronde, che guai può mai portare un diario di ottant’anni?».
 
Giunti sotto l’abitazione della ragazza, Leonardo scese dall’auto e andò a bussare al citofono. Guardò l’orologio e si rese conto che era in netto anticipo.
«Leo?» rispose una voce femminile.
Il ragazzo, sentendosi chiamare con quel nome, provò un senso di piacere. “Adesso siamo entrati in intimità”.
Così giocò al suo stesso gioco: «Sì Fra, sono io. Stiamo giù, quando hai fatto chiamami che ti aiuto con la valigia».
Anche la ragazza, sentendosi chiamare in quel modo, si sciolse ulteriormente. Si sentiva sempre più innamorata. Era un po’ presto per ammetterlo, ma sapeva che ormai era entrata nel tunnel dell’amore.
«Non preoccuparti, ce la faccio a portarla. Scendo subito!».
Con un sorriso stampato sulle labbra Leonardo rientrò in macchina e guardò il suo amico.
«Che c’è?» chiese.
«Ottimo. Davvero ottimo», Alessandro aveva già capito l’antifona.
«E così anche tu sei già invaghito di lei, eh? Scommetto che quando tornerete da Berlino vi sarete già baciati».
«Pinto, smettila! Ti ricordo che sto ancora con Elena».
«Ma non vi eravate presi un periodo di pausa?».
«Sì, ma finché non metterò le cose a posto con lei non penserò ad altre ragazze».
In quel momento si aprì il portone ed uscì, come un raggio di sole, Francesca. Entrambi i ragazzi la guardarono estasiati e Alessandro, sottovoce, gli sussurrò: «Se te la fai scappare ti uccido».

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12
 
Dopo alcune ore di volo arrivarono a destinazione. “Berlino Schoenefeld”.
Il viaggio era stato molto tranquillo, non c’erano state particolari turbolenze. Il tempo era splendido e il sole batteva forte.
Leonardo si tolse quasi subito la giacca di jeans che aveva indosso all’uscita dall’aereo. Era scettico sulla temperatura. Pensava di trovare molti gradi in meno rispetto all’Italia. Chiaramente si sbagliava.
Francesca, invece, sapeva perfettamente che tempo avrebbero trovato, così si era vestita in maniera più consona alla temperatura.
«Bene siamo arrivati» disse il ragazzo. «Ora inizia la parte difficile».
«Prendi una cartina della città e cerchiamo di raggiungere l’albergo» lo spronò la giovane.
Leonardo si guardò intorno all’interno dell’aeroporto e vide un infopoint in cui si trovavano le varie cartine della città, in diverse lingue.
Si avvicinò e cercò quella italiana. Dopo averla sfogliata, la prese e l’aprì, cercando di individuare il punto in cui si trovavano.
«Bene, l’aeroporto si trova qui» disse puntando il dito sulla scritta ‘Berlino Schoenefeld’. «L’albero dov’è? Come si chiama?».
«Il nostro hotel si trova sulla Hannah-Arendt-Straße. Non aspettarti un cinque stelle, era uno dei più economici».
«Beh, è certo che non siamo qui in vacanza».
Francesca osservò attentamente la cartina per trovare la strada interessata.
«Non la trovo» disse, poi, sconfortata.
«Inizia proprio bene quest’avventura!» rispose ironicamente Leonardo.
«Va bene, allora cercala tu!».
Anche il giovane si prodigò nel cercare la strada in cui si trovava il loro albergo, ma non ebbe miglior sorte.
«Cerchiamo di capire come raggiungere il centro, poi chiederemo a qualcuno» suggerì Francesca.
Si misero, così, in fila davanti a quell’infopoint e aspettarono il loro turno.
«Ho un po’ di fame» si lamentò Leonardo.
La ragazza, guardando l’orologio, si era resa conto che avrebbero di certo pranzato più tardi del solito.
Dopo aver ottenuto le informazioni necessarie si diressero alla fermata del bus. Avrebbero preso quello che recitava come sigla RB19.
«I biglietti?».
«Li compriamo a bordo».
«E qual è la nostra fermata?».
«Potsdamer platz, poi da lì ci vorrà poco ad arrivare all’albergo».
Leonardo, si era reso conto solo in quel momento di essere in Germania. Preso com’era dalla necessità di trovare il modo di raggiungere l’albergo aveva dimenticato di trovarsi nella patria di uno dei più grandi e sanguinari dittatori di tutti i tempi.
Usciti dall’aeroporto si sedettero su di una panchina a pochi passi dalla fermata.
Mentre aspettavano l’arrivo dell’autobus, il ragazzo si soffermò a guardare tutti gli altri turisti che erano seduti con loro. Tentò di indovinare le loro nazionalità.
Era facile distinguere i turisti orientali da quelli occidentali. Ed era altrettante facile scovare quelli americani, col cappellino che raffigurava la bandiera del loro paese.
«Eccolo!» lo avvertì Francesca prendendolo per un braccio.
Il mezzo che li avrebbe condotti in città era arrivato.
«Molto efficienti questi tedeschi!».
Dopo aver pagato i biglietti si sedettero e cercarono di placare la loro fame. “Avessi almeno un pacco di salatini!”.
Leonardo sapeva che avrebbe dovuto acquistare qualcosa al bar dell’aeroporto per resistere fino a che non avrebbero finalmente pranzato, ma ormai era troppo tardi.
«Non preoccuparti, una volta trovato l’albergo andremo subito a mangiare!» lo rassicurò la ragazza.
Ma il suo stomaco continuava a lamentarsi.
 
Quando il bus partì videro l’aeroporto allontanarsi sempre di più. E continuarono a sperare di riuscire a trovare quello per cui erano venuti.
Non riuscivano a credere di trovarsi davvero in quella situazione. “Un diario nazista, chi l’avrebbe mai detto?”.
Quell’antico reperto doveva contenere assolutamente delle informazioni importanti. Volevano essere quanto più ottimisti possibile. Qualora si fosse rivelato un buco nell’acqua tutti i loro sogni sarebbero svaniti nel nulla.
 
Guardando il pullman ripartire, i ragazzi furono investiti da un improvviso senso di confusione nel vedere una moltitudine di persone venirgli incontro.
«Caspita quanta gente!».
«Dove andranno tutti?».
Quella folla era diretta verso un grande palazzo dall’altra parte della strada. Sul tetto era ben visibile il logo della compagnia: Ateags.
I due non potevano credere ai loro occhi. Si trovavano di fronte all’edificio della più importante società d’informatica europea.
«Se Pinto fosse stato qui con noi si sarebbe precipitato insieme a questa folla!» affermò Leonardo.
Ci pensò per un po’ e continuò: «Dev’essere proprio oggi che presentano il nuovo processore. Stando a quanto ho letto sarà il più potente in commercio!».
«Sai, vero, che di computer non capisco niente?» smorzò il suo entusiasmo la ragazza. «Per me sono solo un mucchio di pecore che vanno a buttare i loro soldi».
Guardando da tutt’altra parte, Francesca, puntando il dito, constatò di dover proseguire in quella direzione. Le informazioni che aveva ricevuto all’aeroporto erano chiare.
«Una volta scesi dal pullman, proseguite dritti, poi, quando vi troverete un parco sulla destra con una grande statua al centro, dovrete girare a sinistra» disse la ragazza citando quanto le era stato comunicato.
«Beh, allora non ci resta che camminare!».
Dopo aver percorso qualche centinaia di metri si trovarono nei pressi del parco annunciato.
Leonardo osservò bene il monumento collocato al centro. Raffigurava un sovrano, forse un re o qualcosa del genere. Sulla sua testa si ergeva quella che poteva sembrare una corona. Nella mano destra reggeva un modello in scala di una cattedrale mentre, invece, in quella di sinistra stringeva un qualche tipo di scettro.
Cercò di capire chi fosse, ma senza esito.
«Ludwig der Fromme» affermò Francesca. «Ludovico il Pio».
Guardando sempre più attentamente, il ragazzo cercò di sforzarsi a ricordare quel personaggio storico, ma non gli venne in mente nulla.
«Fu imperatore dell’impero carolingio e re dei Franchi» cominciò a narrare la giovane, imboccando la traversa che avrebbe portato al loro albergo. «Era uno dei tanti figli di Carlo Magno. Una volta giunto al trono e dopo la morte del padre fece rinchiudere tutti i suoi fratelli illegittimi nei monasteri e fece diventare suore tutte le sorelle nubili. Questo perché, come spesso accadeva, aveva paura di perdere il potere per via di un attentato da parte di qualche usurpatore del trono».
«Evviva la famiglia!» esclamò ironicamente Leonardo.
«La strada è questa» disse Francesca. «Non ci resta che trovare l’albergo. Sempre ammesso che abbia un’insegna».
«Come si chiama?».
«Hotel Bescheiden».
Cercarono una tabella o un segnale che li indirizzasse. Quello che videro fu, però, solo una vecchia struttura che presentava sulla porta un semplice stemma con le lettere ‘HB’.
«Potrebbe essere questo» affermò la ragazza bussando.
Leonardo sperò con tutte le sue forze che l’albergo non fosse quello. Aveva l’aspetto di un edificio che sarebbe crollato di lì a poco.
“Sembra strano, eppure qui dovrebbero esserci solo fabbricazioni in perfetto stato”. A quanto pare anche questo secondo stereotipo del giovane non era esatto.
La porta si aprì e si trovarono di fronte una signora anziana, più bassa dei due ragazzi, e con un paio di occhiali al collo.
«Prego?» chiese in tedesco.
«Siamo i ragazzi che hanno prenotato qualche giorno fa. Francesca Chezzi e Leonardo Bonanni» rispose la giovane, senza mostrare difficoltà nel parlare quella lingua.
«Ah, sì. Entrate pure. Mio marito vi aiuterà a portare su i bagagli, se ne avete».
Una volta entrati capirono come mai gli era costato così poco. Si trattava di una comune casa, in cui abitavano anche i due albergatori e in cui avevano adibito alcune stanze ad uso clientelare.
Ma il tutto era gestito in maniera maniacale, come un hotel di alta fascia.
«Favorite le vostre carte d’identità, grazie».
La signora trascrisse i nomi su di un registro e consegnò loro la chiave della stanza.
«Quanti giorni constatate di restare?».
«In realtà non lo sappiamo. Dobbiamo fare una ricerca per l’università e non abbiamo idea di quanto potrà volerci» rispose Francesca.
Leonardo guardava le due donne parlare senza riuscire a cogliere il senso di alcuna parola.
Voltandosi dall’altra parte si trovò il marito della signora ad un palmo dal naso che esclamò: «Herzlich willkommen!».
Non sapendo cosa gli avesse detto, il ragazzo abbozzò un sorriso annuendo con la testa.
Il cappello di paglia, le guance rosse e il sorriso smagliante coperto in parte dai grossi baffi gli conferivano un caratteristico aspetto da contadino, sebbene vivesse e lavorasse in città da più di trent’anni.
«Ti ha dato il benvenuto» arrivò in suo aiuto Francesca.
«Danke!» disse Leonardo, rivolgendosi a quell’uomo.
Era una delle poche parole che conosceva in tedesco. Probabilmente l’unica.
Dopo essersi fatti accompagnare alla camera, in cima alle scale, lo ringraziarono e, stremati dalla fatica, si gettarono sul letto.
«È un matrimoniale» constatò il ragazzo.
«Ti senti in imbarazzo a dormire con me?».
Si voltò guardandola negli occhi. Fu preso da una irrefrenabile voglia di baciarla. Ma aveva fatto di tutto pur di resistere a quell’istinto e si limitò a dire: «Come facciamo a raggiungere la biblioteca?».
«Dovremo prendere qualche pullman, ma non sarà difficile raggiungerla».
Seguì un minuto di silenzio che venne interrotto dalla parola che Leonardo avrebbe voluto sentire più di tutte.
«Pranziamo?».

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13
 
Girarono alla ricerca di un posto carino e non eccessivamente costoso. Ma dato l’orario e la gran fame decisero presto di accontentarsi di qualche semplice panino.
«Venendo qui ho visto una mappa che raffigura le tratte dei pullman» lo informò Francesca. «Così, dopo, vedremo quale prendere per arrivare alla biblioteca».
Leonardo si limitò ad annuire con la testa, avendo la bocca piena.
«Il diario? L’hai lasciato in albergo?» chiese la ragazza.
Indicando la tracolla, il giovane, le fece segno di averlo lì con sé.
«Stai attento a non perderlo o fartelo rubare, vale più delle nostre stesse vite».
Non sapeva che, ben presto, le loro vite sarebbero state davvero in pericolo per via di quel diario.
 
Di fronte a quel grosso cartellone Leonardo si sentiva sempre più confuso.
«Questa linea blu dove porta?» chiese.
«Questo è il pullman che porta alle periferie della città, non è quello che interessa a noi» rispose la ragazza, cercando di capire quale fosse quello che serviva loro.
Seguì con lo sguardo tutte le traiettorie finché individuò quella che portava anche alla Deutsche Nationalbibliothek.
«Eccolo!» esclamò entusiasta.
Ma quell’entusiasmo cessò quando vide che c’erano solo due corse per l’andata e due per il ritorno.
«Dobbiamo andare domattina» consigliò. «Il pullman del ritorno c’è fra poco più di tre ore e non credo che riusciremo a scoprire molto in così poco tempo».
Leonardo acconsentì e propose di impiegare quel pomeriggio per scoprire le meraviglie della città.
«Sarebbe un peccato sprecare questo pomeriggio chiusi in albergo».
Così, guardando la cartina, cerchiarono i monumenti raggiungibili a piedi dal loro hotel.
«Però andremo a letto presto, domani dovremo essere in piedi prima delle 8. Colazione e di corsa alla fermata dell’autobus» sentenziò Francesca.
 
Passeggiare per Berlino era una sensazione indescrivibile per Leonardo. Era come se tutta la città intorno a lui gli parlasse.
Ripensò al periodo del conflitto, a quando Hitler emanò il Decreto Nerone, con il quale ordinò a tutti i suoi luogotenenti di distruggere letteralmente la Germania. Tutte le strutture, tutte le linee di comunicazione, gli impianti elettrici e idrici, le strade, i complessi industriali. Tutto doveva essere raso al suolo pur di non farlo finire in mani nemiche.
“È incredibile vedere come questa gente abbia avuto la forza di ricostruire un’intera nazione”.
Osservava alcuni edifici che presentavano fori di proiettile sulle mura. Si avvicinò per toccarli. Stava tastando il pezzo di storia più tangibile della Seconda Guerra Mondiale dopo quel vecchio taccuino trovato in Italia. Alcuni fori erano ancora ben visibili mentre altri erano stati riempiti con lo stucco.
«Allora? Che ne pensi?» gli chiese Francesca, vedendo che si era distratto.
«Che è favoloso poter girare per questa città».
Non concluse neanche la frase quando, guardando in lontananza, vide il monumento più rappresentativo della capitale tedesca. Brandenburger Tor. La porta di Brandeburgo. Non poteva credere ai propri occhi. Si trovava proprio dinnanzi a quell’opera.
«Wow!» è tutto ciò che riuscì a dire.
Francesca, vedendo che ne era rimasto abbagliato, iniziò a raccontargli un po’ di storia: «Se mi sembra di ricordare bene venne costruita alla fine del XVIII secolo, prendendo spunto dai Propilei di Atene. Per questo presenta lo stile neoclassico. Dopo il secondo conflitto mondiale, insieme al muro, rappresentava il simbolo di divisione della nazione in quanto venne chiusa e, quindi, raffigurava il confine. Allo stesso modo, dopo gli eventi del 1989, divenne il simbolo della riunificazione e della fine della guerra fredda».
Leonardo pendeva dalle labbra della ragazza, mentre si avvicinavano sempre di più a quel pezzo importante di storia.
«La scultura sulla sommità è la dea della pace, Irene, sulla sua quadriga. Venne aggiunta solo qualche anno più tardi e il suo autore, per rendere i cavalli quanto più reali fosse possibile, ne studiò per diverse settimane l’anatomia».
La bibliotecaria riordinò un po’ le idee e continuò a narrare: «Ma agli inizi del 1800 Napoleone, dopo aver sconfitto l’esercito prussiano, la rimosse, la fece a pezzi e la portò a Parigi».
«A pezzi?» chiese Leonardo, basito.
«Sì, la ridusse in blocchi più piccoli per facilitarne il trasporto. Ma solo qualche anno più tardi, dopo la sua sconfitta, venne riportata in patria e furono aggiunti la croce di ferro all’interno della corona e l’aquila prussiana».
Francesca alzò la testa per osservare al meglio la statua che stava descrivendo, così da non omettere nessuna informazione: «Durante la guerra venne gravemente danneggiata e, quando la città fu divisa tra gli alleati, nel 1945, essa si ritrovò nel settore sovietico che rimosse quanto rimaneva della scultura. Nel 1958 i due governi, quella della Germania dell’Est e quello della Germania dell’Ovest, collaborarono alla sua ricostruzione. Fortunatamente gli stampi originali della quadriga erano ancora reperibili. Ed eccola lì, in tutto il suo splendore!».
Era come se affianco a lui ci fosse un libro di storia aperto che gli narrava tutto ciò che c’era da sapere.
Quel pomeriggio fu molto interessante per Leonardo che visitò una delle sue città preferite.
Si dimenticò completamente del vero motivo per cui fosse lì e si lasciò cullare dai racconti di Francesca su ogni opera che incontrarono. Per ogni parola che usciva dalle sue labbra si sentiva sempre più innamorato. E poi era fantastico poterla guardare, poterla ascoltare, respirare la sua essenza.
«Vieni con me, ti porto in un posto speciale» gli sussurrò Francesca, mentre il sole era ormai calato.
Non sapeva se la ragazza fosse già stata in quella città, ma si muoveva come se ci fosse vissuta da sempre.
Lo portò nel posto più romantico di Berlino. Sul ponte Treptower.
Si sedettero su una panchina ed osservarono le luci della città che si riflettevano nel fiume Dahme che scorreva sotto di loro.
«È stupendo. Ma come fai a conoscere questi posti?» chiese incuriosito il giovane.
«Ho letto molti libri d’amore che accennavano a questo luogo e avevo voglia di venire a vedere quanto fosse davvero romantico stare qui».
Se stava aspettando il momento giusto per baciare Francesca, era quello. Da soli, su una panchina, ad osservare il fiume, la città, la luna grande più che mai. Qualunque ragazza avrebbe ceduto in quel momento.
Si girò e la guardò. Sebbene tutto ciò che avrebbe voluto al mondo sarebbe stato baciarla, ancora una volta represse il suo istinto e disse: «Non sono più innamorato della mia ragazza».
Si cominciò a confidare. Parlarono a lungo e tornarono in albergo. Non ci fu un bacio, né un abbraccio, né altro. Ma si addormentarono mano nella mano.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14
 
L’aria quella mattina era alquanto fredda. Si erano alzati presto, fatto colazione e si erano recati alla fermata dell’autobus, come previsto.
Nell’attesa, Leonardo, aveva approfittato per scattare delle foto con il suo cellulare.
Quando il pullman arrivò salirono e si fecero dire dal conducente dopo quante fermate sarebbero dovuti scendere.
«Conosci già la catalogazione della biblioteca? Dove cercare ciò che potrebbe servirci?» chiese il ragazzo.
«Dovrebbero essere divisi per genere e ogni genere presentare una catalogazione alfabetica».
«Come faccio ad aiutarti non conoscendo neanche una parola di tedesco?».
«Mi sembra che tu abbia portato un vocabolario, userai quello su di un libro mentre io ne controllerò altri dieci!» rispose ironicamente Francesca. «La parole chiave è ‘Konzentrationslager’, che significa ‘campo di concentramento’. Dobbiamo trovare informazioni su Niederhagen».
 
Giunti sul posto Leonardo rimase deluso dall’aspetto dell’edificio. La biblioteca che si aspettava era sulla falsa riga della Libreria del congresso americana.
Invece quello che si trovò davanti era una struttura moderna, composta da pareti di vetro e scale a chiocciola che portavano ai piani superiori. Ma, per chi preferiva non consumare troppe energie, al centro vi era anche un grande ascensore. Terzo cliché non rispettato in poco meno di ventiquattro ore. Leonardo cominciava a pensare che l’idea che avesse della Germania fosse assolutamente sbagliata. A quel punto aveva persino il timore di andare ad assistere all’Oktoberfest, per evitare di sfatare l’ennesimo stereotipo.
Attraversarono una serie di archi costituiti da mattoni rossi ed entrarono.
«La prima cosa da fare è registrarci, cosicché potremo stare anche tutto il giorno a sfogliare libri» disse Francesca.
Leonardo estrasse la sua carta d’identità, stando ben attento a non svelare il contenuto della sua tracolla.
«Cosa fai?» gli chiese la ragazza.
«Hai detto che c’è il bisogno di registrarsi, così ho preso i miei documenti personali».
«Non ce n’è bisogno. Basterà dare il nome e il cognome. Infine ci faranno firmare qualcosa che ci allerterà di non danneggiare nessun oggetto qui dentro. Tutto qui!».
Una volta aver completato tutte le formalità iniziarono la loro ricerca.
Geschichte. XX Jahrhundert. Weltkrieg II.
«Storia. XX Secolo. Seconda Guerra Mondiale» tradusse Francesca. «Ora iniziamo a cercare, appena uno dei due trova la parola ‘Niederhagen’ avverte l’altro, intesi?».
«Intesi!».
Mentre la ragazza, preso un libro, aveva iniziato subito a sfogliarlo cercando informazioni utili, Leonardo guardava il suo vocabolario. Era tutt’altro che contento di dover fare tutto quel lavoro. Avrebbe impiegato un quarto d’ora solo per tradurre un titolo.
Francesca lo guardò e disse sorridendo: «Guarda che stavo scherzando, in basso ci sono quelli scritti in inglese» e li indicò. «O ti serve un traduttore anche per quello?».
«No, dovrei conoscerlo abbastanza bene».
In effetti quella era la sua seconda lingua. Fino all’età di dodici anni aveva trascorso un mese all’anno dai suoi nonni materni, nelle vicine campagne di Moneyreagh. A volte credeva di conoscere meglio l’inglese dell’italiano. Tutt’ora aveva ancora contatti con gli amici che aveva conosciuto in Irlanda.
 
Consultò decine di libri alla ricerca della parola chiave. Ma non trovò nulla. Si era cominciato a rassegnare. Quel diario doveva restare chiuso. E il mistero che conteneva giacere per sempre con esso.
«Non c’è nulla di nulla» disse costernato Leonardo.
«Ho un’idea, andiamo a chiederlo al bibliotecario».
I ragazzi si avvicinarono all’anziano e Francesca iniziò a parlargli: «Mi scusi, stiamo cercando delle informazioni che non riusciamo a trovare, potrebbe darci una mano?».
L’uomo distolse lo sguardo dal computer e rimase estasiato dalla celestiale visione di quella giovane.
“Accidenti, le mamme tedesche si stanno impegnando proprio tanto nel fare delle figliole sempre più gradevoli!”.
«Ma certo, cara, di cosa necessiti?».
Alzandosi dalla sua comoda sedia girevole notò che dietro di lei c’era anche un ragazzo.
«State insieme?» chiese leggermente indispettito.
«Sì, veniamo dall’Italia» rispose Francesca.
Il bibliotecario, visibilmente deluso anche nello scoprire la nazione della loro provenienza, non poté più trarsi indietro e li accompagnò allo scaffale sulla Seconda Guerra Mondiale.
«Cos’è che state cercando, dunque?» domandò.
«Volevamo avere informazioni su Niederhagen, il campo di concentramento attivo durante la guerra».
«E a cosa può servirvi un’informazione così specifica, di grazia?».
«Stiamo stilando la nostra tesi di laurea e ci servono informazioni più approfondite».
Leonardo, che si sentiva escluso non riuscendo a capire nulla, li guardava parlare un po’ come si guarda miagolare un gatto, cercando di intuire cosa voglia comunicare.
Aveva buttato l’occhio sull’orologio. Le undici e trenta.
L’anziano aveva estratto un libro che conteneva una trascrizione di tutti i campi di sterminio del terzo reich in inglese, con tutte le informazioni disponibili, e glielo porse.
«Questo fu trascritto dagli alleati dopo aver recuperato diverse documentazioni dei nazisti. Mi raccomando siate prudenti, è un pezzo unico. Dovrete usare dei guanti per evitare di danneggiarlo».
Si avvicinò al tavolo poco distante, ne aprì un cassetto e li estrasse.
«Ecco qui. Vi ricordo che qualsiasi danno arrecato a libri o mobili sarà addebitato sulle vostre carte di credito».
Detto questo, si congedò.
Francesca tradusse quanto successo e, senza perdere tempo, aprì quel volume, e, dopo aver capito la catalogazione, trovò quello che stavano cercando.
«Bingo!» esclamò.
«Trovato?».
Lesse qualche riga, poi, la tradusse ad alta voce: «‘Campo di Niederhagen. Poteva contenere circa 4.000 prigionieri. Venne costruito nel 1941, ma ebbe vita breve in quanto venne distrutto nel 1943 da cause ignote’».
Continuò a leggere: «Poi ci sono i nomi degli ufficiali di quel campo». Continuò la lettura ed esclamò: «E questo cos’è?».
L’espressione di Francesca si fece ancora più seria nel notare che uno dei nomi presentava una piccola nota tra parentesi, oltre che un piccolo asterisco.
«Qui c’è scritto ‘È credenza diffusa che il suddetto ufficiale abbia collaborato alla liberazione di un numero imprecisato di prigionieri detenuti nel presente campo. Si richiede la necessità di raccogliere informazioni concrete’».
Alzò lo sguardo verso Leonardo: «Forse è colui che stiamo cercando».
«Qual è il suo nome?».
«Hubert Schreiber». Rimase a pensare per un po’: «È l’unico militare che abbia avuto un ruolo rilevante in questo campo».
«Ma, se così fosse, vorrà dire che non si era rifugiato in Italia per sfuggire agli alleati» disse il ragazzo.
«Forse era una spia alleata. E allora da chi stava cercando di scappare?»
Rimase a pensarci per qualche istante, poi continuò: «Questa storia si sta facendo sempre più complicata. Quale potrebbe essere la combinazione?».
«Forse la sua data di nascita» ipotizzò Leonardo.
«Sarebbe stato stupido da parte sua. I tedeschi avevano qualsiasi tipo di informazione nei suoi confronti, l’avrebbero aperto il secondo dopo averlo ottenuto».
Pensarono a lungo a come riuscire a risolvere quel dilemma.
«Se fosse stato un numero creato casualmente non avremmo possibilità di aprire quel diario».
Ma l’attenzione di Francesca venne catturata da quell’asterisco accanto al nome. Sfogliò il libro alla ricerca di qualche nota che potesse ricondurre a quel segno.
«Cosa stai cercando?» chiese il giovane.
«Lo vedi questo?» rispose indicando il simbolo. «Significa che c’è qualcos’altro da sapere su questo tizio. Ma non riesco a trovare nulla».
Diede il libro a Leonardo: «Vado di nuovo dal bibliotecario a chiedergli se c’è qualche altro libro annesso a questo, un seguito, un approfondimento».
Mentre la ragazza si allontanava, Leonardo guardò quel segno. Cominciò a sfogliare le pagine, quando ne trovò una diversa dalle altre.
Non era una classificazione di ufficiali e caratteristiche dei vari campi. Presentava un titolo in stampatello che recitava ‘Evidences’, testimonianze.
Lesse quanto c’era scritto e constatò che erano tutte riferite all’ufficiale del campo di Niederhagen che aveva fatto fuggire i prigionieri.
C’erano diverse interviste, sembrava che colui che avesse scritto quel libro volesse andare fino in fondo a quella storia.
Ma perché? Per insignirlo di una medaglia al valore? O forse c’era qualche altro motivo?
I suoi pensieri andarono subito al diario che custodiva all’interno della tracolla. Erano sulla pista giusta.
Quelle dichiarazioni lì trascritte miravano a ricostruire gli avvenimenti successivi alla fuga dal lager. Ma la gran parte erano inconcludenti.
C’erano persone che erano a conoscenza del piano, ma nulla di più. Nessuno sapeva che fine avesse fatto quell’uomo. Se avesse cambiato nome, se fosse scappato da qualche parte in America.
Ma il suo sguardo fu come magnetizzato da una semplice scritta. La più importante.
In quel momento ritornò Francesca: «Purtroppo questo è il solo libro a contenere le informazioni che cerchiamo e non ci sono seguiti o libri ad esso annessi».
Ma capì subito che Leonardo aveva scoperto qualcosa. Lo aveva capito dal suo sorriso.
«Hai scoperto qualcosa?» gli chiese.
«C’è una pagina diversa dalle altre, che tratta di ‘testimonianze’».
«Hai trovato l’asterisco?».
«No, no. Non c’è nessun asterisco. Ma è come se ad un tratto questo Hubert Schreiber fosse diventato una star per gli alleati».
«Per aver fatto fuggire qualche prigioniero?».
«Beh, io non direi ‘qualche’. Quel campo ne poteva contenere circa 4.000».
Guardò negli occhi Francesca e continuò: «E il nostro amico qui ne ha liberati la bellezza di 3.887».

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


CAPITOLO 15
 
Germania, Febbraio 1941.
 
I suoi stivali erano di un numero più grande rispetto a quelli che indossava di solito. Ma non si lamentava. Hubert sapeva che parecchi altri soldati indossavano scarponi più piccoli delle proprie misure e che erano afflitti da calli sempre più dolorosi.
Guardando il quotidiano appoggiato sul tavolo di legno affianco a lui ebbe una geniale idea. Avrebbe utilizzato un po’ di carta per crearsi una soletta.
«Dunque ti mandano in Africa?» chiese un uomo avvolto dal fumo.
«Partiamo fra qualche minuto» rispose Schreiber.
Liebwin Kohn diede un'altra boccata alla sua sigaretta. Entrambi i capitani si ritrovavano tutte le mattine per scambiare quattro chiacchiere prima di essere chiamati al loro dovere. Ma quella sarebbe stata l’ultima volta. L’hauptmann era stato assegnato agli ‘Interventi in aiuto dell’Italia’ in Nord Africa.
«Vorrei tanto sapere l’utilità di questa campagna. Quell’incapace di Mussolini si mette sempre nei guai e dobbiamo essere sempre noi tedeschi ad andare a levargli le castagne dal fuoco» sbuffò Hubert.
«Pensa a non farti ammazzare e ti rispediranno subito qui. Scommetto che fra un anno al massimo saremo di nuovo in questa stanza a discutere di qualche altro seccante ordine».
«Capitano Schreiber, siamo in partenza!» disse sul ciglio dell’ingresso un soldato.
«Arrivo» rispose alzandosi controvoglia. Quello che avrebbe trovato una volta giunto sul posto sarebbero stati solo sabbia, polvere, calore e chissà quali malattie contagiose.
Prese il giornale sottobraccio e salutò il capitano Kohn.
«Dubito che quel giornale possa renderti la vita migliore» affermò Liebwin.
Hubert sorrise, lasciò la stanza, indossò il cappello e si diresse all’aereo.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


CAPITOLO 16
 
Non era la prima volta che si trovava su un aereo, ma l’ansia del volo non gli era mai passata. Evitava di guardare in basso dal finestrino e cercava di svagare con la mente, di pensare ad altro.
«Paura di volare, capitano?» gli chiese un alto ufficiale.
«No, ho solo il timore che qualche aereo nemico possa colpirci da un momento all’altro» rispose rendendo la sua fobia più virile.
«Prima o poi tutti saremo destinati a morire. Se il fato vuole che il nostro aereo venga abbattuto, così inevitabilmente sarà».
Hubert stava per essere nuovamente sommerso dall’ansia che era riuscito a scacciare con tanta fatica.
«Come è destino che il nostro führer ci porterà alla vittoria finale» proseguì quell’uomo.
«Non ho avuto il piacere di presentarmi, sono il capitano Hubert Schreiber, assegnato alla 21° compagnia di armate inviato in Libia in supporto dell’Italia» lo interruppe.
Sebbene fosse al servizio di Hitler, non aveva mai condiviso alcuni aspetti della sua politica. Non aveva avuto il coraggio di disertare in quanto sapeva che avrebbero arrestato e condannato a morte ogni suo vicino parente. E l’ultima cosa che voleva era mettere in pericolo la vita di sua madre.
«Piacere di conoscerla, io sono il tenente colonnello Johannes Düring, e con molta probabilità sarò al capo del battaglione di cui anche lei fa parte».
«Sono molto onorato di ciò. Lei è favorevole a questo supporto militare?».
«Naturalmente!» esclamò l’oberstleutnant. «Oltre il fatto che eseguire gli ordini del nostro führer è un privilegio, ma lavorare fianco a fianco col feldmaresciallo Rommel sarà un’esperienza irripetibile» rispose euforico.
Hubert aveva già inquadrato il suo nuovo amico. Nazista fino al midollo. Il genere di persona che odiava di più al mondo.
Ogni giorno che passava a servire il terzo reich si convinceva sempre di più di voler cercare un dialogo con gli alleati per poter porre fine a quel conflitto assurdo. Avrebbe voluto agire dall’interno, come altri ufficiali che operavano come spie.
«E lei? Non è forse favorevole a quest’azione militare?».
«Indubbiamente, solo che ritengo un oltraggio dover impiegare le nostre truppe per risolvere i problemi di un’altra nazione».
«Alleati!» lo interruppe bruscamente Düring. «Non possiamo permettere che un nostro alleato venga sconfitto dagli inglesi. Ciò indebolirebbe, seppur in più che minima parte, l’autorità del reich».
«Quindi dovremo soccorrere i nostri alleati anche quando scapperanno con la coda tra le gambe in Jugoslavia?».
«Cerchi di moderare i termini, capitano, le truppe italiane non sono così sprovvedute! L’inconveniente accaduto in Africa non si ripeterà. Vedrà che ci daranno un grande sostegno nella campagna dei Balcani».
Hubert lo conosceva da pochi minuti e già aveva una gran voglia di sparargli un colpo di pistola dritto in testa.
«E degli ebrei cosa mi dice? È a conoscenza delle voci che circolano?» ribatté Schreiber.
«Dei ghetti?».
«Dei campi!» urlò Hubert, accorgendosi troppo tardi di aver osato troppo. Ricomponendosi chiese scusa al suo superiore.
«Beh, è il giusto modo di trattare quella razza inferiore. Lei nutre per caso simpatia anti-naziste?» iniziò ad insospettirsi il tenente colonnello.
«Assolutamente no. Dico solo che si potrebbero trovare  soluzioni diverse. Quindi lei mi conferma quanto sta succedendo? Milioni di ebrei costretti a vivere in condizioni disumane? E tutto questo nella totale indifferenza?».
«Capitano Schreiber, farò finta di non aver mai ascoltato queste parole dalla sua persona. Sa, vero, che c’è chi è stato fucilato per molto meno?».
«Chiedo ulteriormente scusa per il mio atteggiamento. Deve essere il volo ad avermi fatto perdere la ragione».
Ma i suoi pensieri furono subito sommersi dai ricordi di un suo caro amico conosciuto ai tempi dell’addestramento militare.
 
«Yuval, amico mio, come stai oggi?» chiese sorridente.
«Hubert! Io sto bene, molto meglio di ieri. Com’è andata la mattinata?» rispose Yuval.
Inaspettatamente il cuoco ebreo del campo d’addestramento non si era presentato il giorno prima per via di un improvviso malanno. Dato che erano diventati molto amici negli ultimi mesi, Schreiber si era subito prodigato ad andare nella sua tenda per scoprire cosa avesse.
«Faticosa come al solito. Tu quando ti rimetterai? Sai, vero, che non mi piace come cucina il tuo assistente?» disse Hubert sedendosi ai piedi del suo letto.
«Il medico dice che già domani potrò essere di nuovo in cucina a lavorare».
Sebbene Schreiber avesse fatto diverse amicizie con i suoi compagni d’armi, quello che gli stava più a cuore era proprio Yuval. Questo perché i loro due caratteri si completavano. Il cuoco era sempre presente a sollevargli il morale quando il soldato aveva nostalgia di casa. Hubert gli passava di nascosto qualche sigaretta di tanto in tanto. Agli ebrei del campo non era permesso averne. Si incontravano a pranzo e a cena per qualche ora e si erano promessi che sarebbero rimasti in contatto anche quando sarebbe finito il periodo di addestramento.
 «Mi hanno detto che sono state promulgate altre leggi contro gli ebrei» cominciò a raccontare Yuval.
«Non capisco il perché di questa stupida oppressione nei vostri confronti» commentò Schreiber.
«Il motivo è molto semplice. Soldi» lo illuminò il cuoco. «L’alibi della razza inferiore è solo una scusa per poter commettere questo abominio facendolo sembrare una causa onorevole».
«E in che consistono queste nuove leggi?» chiese il militare.
«Vietano il matrimonio tra ebrei e tedeschi e impediscono a quelli del mio popolo di ottenere la cittadinanza germanica». Continuò sospirando: «Oltre a quelle che ci impediscono di entrare nei negozi tedeschi, di far parte dell’esercito tedesco, di guardare le bandiere tedesche e di avere qualsiasi rapporto con tutto ciò che sia tedesco. Chissà per quale miracolo sono ancora qui a lavorare».
Hubert avrebbe fatto qualunque cosa per evitare quella sofferenza al suo amico. Ma sapeva che, purtroppo, era una faccenda più grande di quanto potesse immaginare.
«E andrà sempre peggio. Il governo non si fermerà qui finché non avrà ottenuto fino all’ultimo centesimo da ogni ebreo».
«Yuval, farò di tutto per proteggerti. Te e la tua famiglia» garantì Schreiber.
«Hubert, apprezzo le tue parole, ma a meno che non diventerai il nuovo führer non potrai fare niente. Se arriverà l’ordine di arrestarmi e sottrarmi ogni avere, le SS porteranno a termine il loro dovere ad ogni costo».
 
Chissà dove si trovava ora Yuval. Era riuscito a spedirgli qualche lettera, ma, da più di anno, non aveva avuto più risposte. Promise a se stesso che una volta tornato in Germania avrebbe cercato di rintracciarlo e assicurarsi che stesse bene.
«Stiamo per atterrare, allacciate le cinture!» ordinò il copilota.
Hubert non vedeva l’ora di abbandonare quell’abitacolo. Avrebbe preferito di gran lunga trovarsi faccia a faccia con un pugno di nemici piuttosto che restare un altro minuto su quell’apparecchio.
Sceso dall’aereo venne accecato dall’abbagliante luce del sole africano di mezzogiorno.
Prima di riuscire ad infilarsi un paio di occhiali da sole sentì una voce dinnanzi a lui: «Salve capitano, benvenuto all’inferno».

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


CAPITOLO 17
 
«Spero non le dispiaccia montare a cammello».
Una volta indossati i suoi occhiali, Hubert, riconobbe l’ufficiale dinnanzi a lui. Vestiva insegne dell’esercito italiano.
«Voi italiani avete perso anche i veicoli a motore?» esordì ironico l’hauptmann.
«Non badate al capitano Schreiber, ha avuto problemi con il volo» lo interruppe secco Johannes. «Io sono il tenente colonnello Düring».
«Benvenuto anche a lei, herr obertstleutnant! Io sono il generale Italo Gariboldi » continuò l’autorità italiana.
«Mi dia il punto della situazione».
«Le forze britanniche ci hanno sbaragliati e hanno conquistato l’intera Cirenaica» cominciò a raccontare l’italiano. «Sebbene fossero meno numerose delle nostre truppe ci hanno sopraffatto per via della loro mobilità». Ci fu un attimo di pausa. «E per l’avanguardia delle loro armi».
Estrasse un foglio dalla giacca e lesse ad alta voce: «Contano solo due divisioni con un totale di circa 36.000 uomini. Con il vostro supporto dovremo riuscire a sconfiggerli agevolmente. Con permesso, ora vado a dare il benvenuto anche al feldmaresciallo Rommel».
Così li salutò nuovamente e si avviò verso l’aereo che stava per atterrare dietro di loro.
«Generale, spero che il suo atteggiamento cambi, altrimenti sarò costretto a farle rapporto» sentenziò Düring, rivolgendosi a Hubert.
«Mi scuso ulteriormente. Non so oggi cosa mi sia preso».
«Ora salga su quel dannato cammello e si diriga al centro di comando, ci riuniremo tutti lì».
Schreiber non aveva mai cavalcato uno di quegli animali. Stava varando l’idea di marciare fino al luogo dell’incontro insieme alle sue truppe quando, il beduino che gli porse le redini, gli mostrò come montare.
Dopo esservi salito tramite ponteggio, in modo molto precario, si rese conto che era molto più scomodo di quanto credesse. “Dannati italiani e i loro mezzi antiquati!”. Dopodiché, seguendo gli altri, si avviò.
 
Qualche mese prima, il maresciallo Balbo, aveva organizzato un’azione aviatoria per cercare di catturare delle autoblindo nemiche.
Avrebbe dovuto raggiungere prima il campo d’aviazione di Tobruch per poi procedere all’incursione. Quel campo, però, era stato attaccato nello stesso giorno da bombardieri britannici, così, quando l’aereo di Balbo tentò di atterrare, venne scambiato per un apparecchio nemico e la contraerea di terra lo colpì facendolo precipitare in fiamme.
Le leggende sulla disorganizzazione dell’esercito italiano ebbero conferma quando arrivarono a Tripoli. Sembravano essere rimasti alla tecnologia della Grande Guerra.
Hubert, guardando quei poveri uomini mandati a morire per delle battaglie inutili, non si stupì delle sconfitte che avevano ottenuto. Scarseggiavano di munizioni, di armi, di mezzi pesanti. Guardando con attenzione vide che era stato anche eretto un cimitero, con sepolture approssimative. Quella visione lo colpì molto.
La sua rabbia nei confronti degli italiani, rei di essere sempre stati fonte di problemi, si trasformò in compassione. Capì che, se fossero stati equipaggiati adeguatamente, quel cimitero non avrebbe avuto così tanti corpi. Scese da cammello e diede la sua borraccia ad un soldato assetato.
Gli porse la mano in segno di gratitudine e disse: «Vi ringraziamo per essere venuti in nostro aiuto. Per quello che può valere vi prometto che combatteremo al meglio delle nostre possibilità».
Hubert ebbe un colpo al cuore. Nonostante indossasse la divisa dello spietato esercito tedesco la sua indole era caratterizzata da una grande sensibilità.
Si chiedeva spesso se bastasse uccidere Hitler per porre fine a quella sanguinaria guerra.
Guardò negli occhi quel soldato, gli diede una pacca sulla spalla e continuò a camminare.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


CAPITOLO 18
 
Germania, ai giorni nostri.
 
«Rommel?» chiese incredula Francesca.
«Proprio lui, Erwin Rommel. A quanto pare questo Hubert conosceva uno dei più brillanti generali tedeschi» rispose Leonardo.
La ragazza era sempre più entusiasta: «Ti rendi conto che hai sepolto un generale che ha lavorato a stretto contatto con Rommel?».
«Non riesco ancora crederci».
«Che altro c’è scritto?».
Il ragazzo continuò a leggere: «Fece parte, quindi, degli Afrikakorps, nella campagna del nord africa in aiuto dell’esercito italiano, che era stato ripetutamente sconfitto dalle forze alleate».
 
A pochi metri di distanza, il bibliotecario osservava con circospezione i due ragazzi parlare tra di loro. “Come diavolo gli sarà venuto in mente di fare una ricerca proprio sul campo di Niederhagen? E perché si sono concentrati proprio su Hubert Schreiber?”.
Sapeva che quelle erano informazioni delicate. All’inizio del suo lavoro, molti anni prima, aveva ricevuto la visita di alcuni uomini in smoking che indossavano una spilla, la quale raffigurava un simbolo molto simile alla svastica nazista.
Gli avevano ordinato di essere avvertiti nel caso in cui qualcuno avesse ricercato delle informazioni che dovevano rimanere segrete. Gli consegnarono una lista di parole. Chiunque si fosse recato in quella biblioteca e avesse ricercato anche solo uno di quei termini, sarebbe dovuto essere stato segnalato.
Non aveva avuto il coraggio di chiedere la motivazione di quell’interesse. Ciò che gli interessava era di non rischiare la propria incolumità e di vedersi accreditare mensilmente sul proprio conto una cospicua cifra di denaro.
Così prese il telefono e digitò il numero della Fenster Geschlossen. Era un numero riservato a pochi.
«Salve, deve segnalare qualche sospetto?» rispose la voce al telefono.
Ogni chiamata che ricevevano aveva una specifica mansione.
«Sì, signore. Due ragazzi italiani. Hanno ricercato due delle parole che sono in cima alla lista. Immagino siano le più importanti».
«Bene. Mi detta i loro nomi?».
«Leonardo Bonanni e Francesca Chezzi».
«Italiani?».
«Sì».
«Perfetto. Come sempre, per lei questa conversazione non ha mai avuto luogo».
L’anziano chiuse la telefonata, guardò l’orologio e si diresse verso i due ragazzi.
 
In quello stesso momento, l’uomo che aveva ricevuto la telefonata ripose la cornetta al suo posto. Strappò il foglio sul quale aveva scritto i due nomi interessati e si diresse verso l’ufficio di Kurt Losener.
Attraversò un corridoio buio, dal quale non filtrava neanche un filo d’aria. L’unica fonte di illuminazione erano i neon sul soffitto che emettevano una fievole luce ad intermittenza. Sulle pareti erano raffigurati molteplici ritratti di Adolf Hitler e tutto ciò che potesse essere ricondotto al nazismo. Svastiche, aquile, croci.
Giunto dinnanzi alla porta, bussò, e, una volta ottenuto il permesso, si identificò con le proprie impronte digitali e vi entrò.
«Novità?» chiese Kurt dalla sua poltrona.
«Sì. A quanto pare ci sono due turisti italiani che hanno cercato informazioni su Schreiber e sul campo di Niederhagen».
«Nessuno le aveva mai richieste» pensò ad alta voce Losener. «E per venirle a cercare dall’Italia vuol dire che hanno scoperto qualcosa di importante».
Alzò lo sguardo verso il suo collaboratore e gli diede dei precisi ordini: «Fa tenere sotto controllo i loro cellulari, i loro telefoni di casa, i loro computer e tutto ciò che potrebbe farci capire cosa hanno scoperto».
Facendo un cenno di assenso con la testa, il collaboratore di Kurt, si girò e uscì dalla stanza, lasciando il suo capo a rimuginare su quella faccenda.
 
«Non posso crederci!». Francesca aveva ascoltato tutta la storia letta da Leonardo su Hubert.
«Gli americani hanno trascritto tutto con estrema precisione».
Quello che avevano appena appreso era un’importante testimonianza storica. Forse una delle poche descritta con tanta attenzione per i particolari.
Per gli alleati anche la più irrilevante informazione su Schreiber sembrava essere fondamentale. Dovevano trovarlo a tutti i costi. Ma perché?
Il motivo era ancora sconosciuto ai due ragazzi. Forse avrebbero trovato tutte le risposte che cercavano all’interno di quel diario. O forse no? Era solo questione di tempo. E di fortuna. La combinazione avrebbe funzionato? Oppure quel reperto sarebbe stato compromesso per sempre?

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


CAPITOLO 19
 
Nord Africa, 1941.
 
«È chiamata operazione Sonnenblume» cominciò ad esporre Rommel. «Le direttive dell’alto comando ci ordinano di difendere la Tripolitania. Ma mi permetto di dissentire».
I propositi del feldmaresciallo erano molto più ambiziosi, non si sarebbe limitato a difendere solo un territorio come un comandante qualunque.
«Noi avanzeremo e, do la mia parola, riconquisteremo la Cirenaica in men che non si dica».
Hubert ascoltava le sue parole con attenzione. Aveva capito che Erwin sarebbe voluto diventare una leggenda del Terzo Reich. Sbalordendo Hitler avrebbe guadagnato di sicuro uno splendente avvenire. Quando nei libri di storia si sarebbe accennato al nome di Rommel tutti avrebbero ricordato le sue gesta eroiche, di come ebbe risolto la questione in Africa.
Ma tutto questo doveva ancora consolidarsi. Era vero che fino ad allora le truppe del feldmaresciallo non avevano mai subito una sconfitta, ma nel continente nero tutto sarebbe stato più ostico. La temperatura, le insidie del deserto e chissà quanti altri fattori.
Circa un mese dopo il loro arrivo era già stato deciso un primo attacco.
 
La mattina del 24 Marzo i cannoni tuonavano forte., intenti a colpire la cittadina di El Agheila.
Hubert sapeva che sarebbe stata una conquista irrisoria. Sarebbero bastati, assieme alle bocche da fuoco, alcune decine di carri armati per neutralizzare le truppe nemiche.
«È la sua prima volta in Africa, capitano?».
«Si nota?».
«Imparerà presto a non far caso alla sabbia che entra negli stivali».
Quel soldato sembrava saperla lunga: «Se non ci pensa, il caldo alla fine non è poi così insopportabile. C’è chi sta peggio».
«Qual è il tuo nome?» chiese Schreiber incuriosito da quell’uomo.
«Soldato scelto Italo Buonarroti, al suo servizio capitano».
«Da quanto tempo sei qui?».
«Da più di un anno, signore».
«Non preoccuparti, puoi darmi del tu. Non sono come gli altri ufficiali tedeschi, sono altre le cose che mi interessano».
«Tipo?».
«Intelligenza sul campo, senso del dovere e coraggio».
«Le è andata bene capitano. Queste doti mi appartengono tutte».
«Immagino che tu sia anche un tipo modesto».
«Sono pronto a dimostrarglielo».
«Da quanto tempo non senti la tua famiglia?»
«Ho avuto loro notizie prima delle sconfitte che abbiamo subito contro gli inglesi. Purtroppo la punizione per aver perso la Cirenaica è non poter più avere contatti con i nostri cari».
“Come se fosse stata colpa dei soldati quella perdita”. Hubert non poteva credere che avessero davvero approvato quell’assurda pena.
«Quindi, prima ci appresteremo a riconquistare i territori che ci spettano e prima potrò risentire mia moglie e i miei figli».
«Non preoccuparti. Potrai risentirli presto» lo assicurò Hubert.
 
E così fu.
Grazie all’intervento dei tedeschi, furono riconquistati gran parte dei territori che le truppe italiane avevano perso a causa dei britannici. E, ritenendo le truppe inglesi demoralizzate e sfinite, avrebbero proseguito la loro avanzata.
Dall’alto comando erano tutti soddisfatti delle operazioni di Rommel. Era stato soprannominato ‘Wüstenfuchs’, volpe del deserto. I suoi sogni di gloria si erano avverati. Aveva ottenuto il posto che desiderava e che gli spettava di diritto nella memoria dei posteri.
Ma non essendo ancora sazio delle vittorie che aveva ottenuto era determinato ad ottenerne sempre di più e di maggiore prestigio.
Schreiber aveva mutato molto il suo modo di pensare. Gli italiani da palla al piede erano diventati un valido alleato per lui. In battaglia si erano dimostrati valorosi e di grande carisma. Non avevano nulla da invidiare ai più addestrati soldati tedeschi.
Aveva stretto una forte amicizia con una compagnia tricolore. E proprio con Buonarroti era nata un’amicizia forte e sincera. Entrambi odiavano Mussolini. Entrambi odiavano Hitler. Entrambi, però, non volevano compromettere i loro familiari compiendo azioni avventate. Ma entrambi erano disposti a collaborare con i nemici del reich.
Hubert, quella sera riposava nella sua tenda ed era particolarmente felice. Il suo amico italiano aveva finalmente potuto avere notizie dalla sua terra. Ma non solo. L’hauptmann aveva avuto la possibilità di contattare degli ufficiali inglesi e, con estrema prudenza, aveva comunicato loro i particolari dell’operazione militare che avrebbero intrapreso le truppe di Rommel nei giorni successivi.
Sarebbe stato fiero di sé nel sapere che quell’iniziativa avrebbe cominciato ad incrinare quella macchina perfetta che era la Wehrmacht.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


CAPITOLO 20
 
Sebbene la maggior parte dei suoi colleghi continuasse a ritenere le truppe italiane inferiori, Hubert le considerava di pari dignità di quelle tedesche. Si era offerto persino di supervisionare la consegna dei rifornimenti alla 12° e 14° divisione stanziate a pochi chilometri da El Mechili. Queste sarebbero subentrate in aiuto di Rommel qualora l’operazione Crusader sarebbe andata storta.
Schreiber cercava di non pensare alle informazioni che aveva consegnato agli inglesi. Avrebbe avuto sulla coscienza molte vite. Ma sapeva che quelle dei nazisti, dati gli orrori di cui si erano macchiati, non contavano niente.
 
Nonostante i disagi del deserto, la loro auto-tinozza proseguiva spedita e senza problemi. Questo grazie alla Tropenfest, ovvero quella che era stata la modifica apportata alle ruote di quel mezzo per non farle sprofondare nella sabbia.
«Capitano, crede che per quest’estate ce ne andremo da qui?» esordì uno dei suoi soldati. «Non sopporto il caldo primaverile. Non oso immaginare quanto possa essere afoso quello estivo».
«Soldato, l’unico modo per andarcene da qui è con una pallottola piantata in corpo». Si asciugò la fronte con un fazzoletto e continuò: «Dopo aver conquistato i territori designati dovremo rimanere qui per difenderli. Quindi dovrai trovare un metodo per sopportare il caldo» rispose Schreiber.
«E il suo qual è?».
Hubert in quel momento si era accorto maggiormente della calura. La sua soluzione era semplicemente non pensarci. Ma anch’egli condivideva le preoccupazioni della sua recluta. Non aveva mai sperimentato un caldo estivo africano sulla propria pelle.
«Cercare di rimanere vivo» lo illuminò l’hauptmann.
 
Era molto facile perdersi in mezzo a quella distesa di sabbia. Il nulla tutt’intorno si estendeva a vista d’occhio. Bisognava seguire le indicazioni dei beduini. Ed ogni volta era un azzardo. Avrebbero potuto tranquillamente portare le truppe tedesche nelle trappole degli inglesi.
Ad Hubert era sembrato che quella fosse proprio l’intenzione della loro guida. Avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo. Dopo le informazioni che avevano ottenuto proprio da lui, le truppe britanniche avrebbero impedito i rifornimenti ai plotoni di riserva cosicché, una volta sconfitto Rommel, avrebbero potuto consolidare le loro posizioni.
Quell’auto sembrava proseguire sempre di più oltre le linee di confine dei tedeschi.
«Sei sicuro che la strada sia questa?» chiese Schreiber alla guida.
Essa accennò un con la testa e gesticolò di continuare sempre dritto.
«State in guardia, ragazzi» avvertì i suoi uomini. «Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Potrebbero spuntare truppe nemiche da un momento all’altro».
Da lontano si intravide un cartello.
Il loro accompagnatore li stava conducendo al posto giusto. Sebbene fossero in Africa, quel cartello presentava scritte tedesche e italiane.
Il timore di essere vittime di un agguato stava diminuendo. E proprio in quel momento accadde.
 
Senza rendersi conto di quello che stava succedendo, i passeggeri della vettura furono invasi da un improvviso lampo di luce che li scaraventò in aria.
Subito dopo le loro orecchie furono investite da un enorme boato che li rese momentaneamente sordi.
Una mina.
Era stata accuratamente posta sulla strada per El Mechili. Nascosta al di sotto della sabbia.
L’auto, dopo l’esplosione, innescò un’altra mina che la ridusse in mille pezzi. Hubert, come tutti gli altri, aveva perso conoscenza. Nonostante fosse alla guida dell’autoveicolo ne uscì quasi illeso.
La guida era morta sul colpo, investito dalla pioggia di detriti e pezzi di parabrezza. I soldati che si trovavano sui sedili posteriori avevano subito differenti fratture.
Rimasero a terra, svenuti, per qualche ora.
 
La scena che si ritrovarono dinnanzi fu raccapricciante. Le truppe stanziate nella città poco distante avevano sentito l’esplosione.
Dopo essersi assicurati che quello non era un attacco e che non c’erano nemici in vista, mandarono alcune milizie in avanscoperta. Queste erano state molto attente a disinnescare le mine ancora nascoste.
Dopo alcune ore, finalmente poterono avvicinarsi al luogo dell’agguato. L’auto era un cumulo di macerie e la merce che trasportava era stata completamente distrutta.
La guida era rimasta incastrata nel veicolo e, del suo corpo, non rimaneva che una salma carbonizzata cosparsa di detriti conficcati nella carne. I tedeschi, nonostante l’esplosione e la caduta, erano ancora tutti vivi. Così vennero recuperati e medicati.
 
Il giorno dopo, Hubert, si risvegliò in un modesto ambulatorio.  Era spaesato. Non ricordava nulla di quello che era successo. Le ultime immagini che aveva visto prima di perdere coscienza era quella forte luce che lo aveva invaso.
Cercò di alzarsi, ma non sentiva le gambe. Il sangue gli si gelò. Capì che era stato vittima di un’imboscata. Non ebbe il coraggio di guardare sotto le coperte. Non voleva credere di aver perso i suoi arti inferiori.
Si guardò intorno e vide un solo uomo accanto a lui. La sete lo attanagliava.
«C’è qualcuno?» iniziò ad urlare. «Infermiera? Dottore?».
Ma nessuno sembrava arrivare. “Dannazione”. Gettò un urlo di dolore. Non riusciva neanche ad alzare il busto.
In quel momento entrò un ragazzo nella stanza. Vide la smorfia di dolore di Hubert e corse subito a chiamare il medico.
«Capitano, si è svegliato?» chiese l’infermiere correndo vicino al letto.
«Cosa mi è successo alle gambe? Perché non le sento più? Me le avete amputate?» urlava sempre più forte Schreiber contorcendosi dal dolore.
«Si calmi, si calmi capitano. Non le abbiamo amputato nulla» cercava di calmarlo.
Il volto di Hubert in lacrime sembrava incredulo.
«E allora come mai non le sento più?» chiese quasi sussurrando stavolta.
«Aveva diverse fratture e abbiamo dovuto anestetizzare i suoi arti inferiori per lenirle il dolore. Fra poche ore verrà un elicottero a prelevarla, la porterà al campo di aviazione e da lì verrà portato di nuovo in Germania per essere curato nel migliore dei modi».
«Ma potrò camminare, dottore?» era sempre più preoccupato. «Mi dica che potrò camminare».
«Questo si saprà dopo le operazioni. Noi abbiamo fatto tutto il possibile».
«E i miei uomini?».
«Purtroppo siamo riusciti a salvarne uno solo. Gli altri sono morti a causa di emorragie interne. Avevano costole rotte, polmoni perforati. Lei è stato molto fortunato, capitano».
La mente di Hubert era affollata di pensieri. Si sentiva confuso.
Gli stessi soldati a cui aveva fornito le informazioni segrete delle operazioni militari tedesche avevano architettato un agguato in cui era stato quasi ucciso. Gli era stato assicurato che lui e la sua compagnia non sarebbero stati coinvolti nelle azioni sovversive contro Rommel. Ma erano state solo parole al vento.
Allora di chi fidarsi? Come poter combattere un nemico senza potersi alleare con nessuno? Mai come in quel momento si sentì solo.
Bevve alcuni sorsi d’acqua e sprofondò di nuovo in un sonno profondo.
Sognò una missione che aveva affrontato qualche mese prima.
 
La ricognizione era finita. Il capitano Schreiber e si suoi uomini si erano seduti in riva ad un fiume per riposarsi un po’, dopo la dura giornata.
Aveva piovuto tutto il giorno ed erano fradici. La leggera brezza che gli asciugava i vestiti rendeva ancora più piacevole quel momento.
Uno di loro cacciò dallo zaino una bottiglia di vino: «Credo sia arrivato il momento di festeggiare!».
«Festeggiare? Che cosa?» domandò il capitano.
«Oggi è il mio compleanno, Herr Hauptmann!».
Dopo aver stappato quella bottiglia, iniziarono a bere e a dimenticare per qualche minuto ciò che li circondava.
Tutti tranne uno. Il più giovane del gruppo: Thomas.
Gli stivali impregnati di acqua lo avevano torturato tutto il giorno e quella sosta era stata la cosa migliore di quel giorno infernale. Il dolore delle piaghe ai piedi gli offuscava quasi la vista.
Non aveva mai bevuto alcool in vita sua, per cui, quando il giro di bottiglia toccò a lui, la passò al compagno al suo fianco e si girò a guardare dove si erano fermati.
Era un fiumiciattolo lento e scuro, come ce ne erano anche al suo paese.
Improvvisamente vide due soldati camminare in lontananza.
Si alzò e carponi si avvicinò alla collinetta che dava sulla strada. Erano inglesi. Si apprestò ad avvertire gli altri e nel giro di una dozzina di secondi furono tutti pronti al fuoco. Il vino non era ancora entrato in circolazione, per cui l’attenzione di quegli uomini era ancora massima.
Uno dei due inglesi fece appena in tempo ad accorgersi di loro quando ricevette una scarica di pallottole che lo colpì.
Thomas, che si era avvicinato di soppiatto, strangolò l’altro britannico che si era riparato dietro una serie di tronchi. Era stato essenziale fare poco rumore. La sua costituzione leggera lo aiutava molto in questo.
Dopodiché provvide ad ispezionare il corpo, allo scopo di prelevarne l’equipaggiamento. Trovò un binocolo e lo passò ad uno dei suoi compagni. Poteva sempre tornare utile averne uno di scorta.
Poi, nello zaino di quello sventurato ragazzo, vide qualcosa che lo colpì dritto al cuore.
Erano ritagli di giornale. Ma non di donne, baseball o quanto fosse di moda presso le truppe nemiche. Erano ciclisti. Tra quelli più importanti di quegli anni. Bartali, Speicher, i Maes e tanti altri.
Il suo volto cominciò ad inumidirsi. Erano lacrime. Lo girò per poterlo guardare in faccia. Lo aveva ammazzato a sangue freddo, senza neanche scorgerne l’espressione.
Era un ragazzo, esattamente come lui. E aveva la sua stessa grande passione: il ciclismo.
In quel momento ebbe un crollo psicologico. Era come se avesse ucciso suo fratello. Il dolore lo invase e le lacrime si moltiplicarono. Cominciò ad inveire contro la dannata guerra, contro il dannato mondo che lo avevano portato a fare quel gesto.
Il capitano Schreiber, sentendolo piangere, ebbe il timore di trovarsi di fronte ad un uomo che aveva perso un arto o qualche altra parte del corpo. Invece quello che vide fu struggente.
«Capitano» esordì Thomas. «Perché facciamo questo? Perché uccidiamo i nostri fratelli in nome di un folle dittatore?».
Hubert avrebbe voluto dargli la risposta che meritava, ma la sua bocca rimase impietrita. Lo abbracciò, come un padre abbraccia un figlio, nonostante la differenza di età fosse minima.
Dopo averlo aiutato a sotterrare i due corpi, tornarono in riva al fiume.
Thomas guardò la bottiglia di vino rimasta per terra, la raccolse e iniziò a bere. Schreiber, preoccupato, lo ammonì.
«Che diavolo fai? Hai detto di non aver mai toccato alcool in vita tua!».
«Sì» rispose, con lo sguardo perso nel vuoto. «Ma oggi ho capito che qui, la nostra vita, non conta un cazzo». 

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


CAPITOLO 21
 
Quelle che giungevano alle sue orecchie erano voci indistinte. Era come se avesse la testa avvolta in una campana di vetro in cui i suoni rimbombavano. Pian piano i suoi sensi ritornarono a funzionare nel migliore dei modi e, finalmente, aprì gli occhi.
 
Hubert si sentiva uno straccio. Aveva i muscoli intorpiditi e diverse flebo attaccate alle braccia.
Diede un’occhiata al luogo dove si trovava. Era sicuramente un ospedale. C’erano molteplici letti e altrettanti malati.
Era una grande stanza con un soffitto altissimo. La luce che entrava attraverso le grandi finestre ne conferiva un aspetto quasi celestiale. Ma quel luogo era tutt’altro che paradisiaco.
Cominciò a ricordare tutto, dell’incidente e del suo trasferimento in Germania per ottenere cure migliori. Colmo di timore provò ad alzare una gamba. Non ci riuscì. Fece scivolare la sua mano sotto il lenzuolo e cominciò a tastare. Con estrema lentezza avanzò poco a poco verso le ginocchia. Poi, facendosi coraggio, alzò le coperte e guardò. Tutte e due le sue gambe erano lì. Ma, stranamente, non riusciva a muoverle. Era come se fossero paralizzate.
Si lasciò cadere all’indietro, sul cuscino e iniziò a piangere. In silenzio, per non disturbare gli altri pazienti che sicuramente avevano subito menomazioni anche peggiori. Da lontano un’infermiera lo vide piangere e si avvicinò.
«Signor Schreiber, si è risvegliato» esordì con voce rassicurante. «È rimasto addormentato per tre giorni di fila».
«Io» disse con voce tremante. «Io non camminerò mai più, non è così?».
«Si sbaglia, capitano. Dovrà solo seguire una lunga fisioterapia» rispose rimboccandogli le coperte. «Poi potrà tornare a camminare, correre, nuotare. Tutto quello che faceva prima dell’incidente che ha avuto in Africa».
Senza controllarsi, Hubert, fu assalito dalla gioia. Con la sola forza degli addominali si tirò su e abbracciò l’infermiera, stampandole un bacio pieno di gratitudine. Il suo volto adesso era sorridente. Ma durò poco.
«E quell’uomo che è stato vittima del mio stesso agguato? Due dei miei uomini sono morti, ma uno era rimasto ancora vivo».
«Se si riferisce al soldato Ralf Pülke, è stato curato ed è già tornato in servizio. Le sue fratture erano meno gravi delle sue, capitano».
Schreiber ringraziò ancora una volta l’infermiera e si stese nuovamente sul cuscino.
Era frenetico di poter tornare anch’egli in azione. C’era ancora una carta da poter giocare. Dopo quello che gli era successo era restio a voler operare nuovamente per gli alleati. Ma non c’era altra scelta.
 
Il giorno dopo si ritrovò, sulla sedia a rotelle, a parlare con un altro ufficiale che era stato ricoverato per via di una febbre fulminea.
«Che sia maledetto il giorno in cui ho acconsentito ad andare a lavorare in un campo di concentramento!» borbottava.
Hubert, che avrebbe voluto scoprire qualche informazione in riguardo. iniziò ad attaccar bottone.
«Così hai lavorato in uno di quei campi che stanno aprendo in questo periodo?» chiese.
«Già. Ed è proprio uno di quei sporchi cani ebrei che mi ha contagiato questa dannata febbre».
Era sempre più irritato: «Fosse per me non gli concederei neanche un tozzo di pane al giorno. Non sono nient’altro che bestie. Una razza inferiore come la loro non merita neanche di baciarmi gli stivali».
Schreiber rimase sconcertato. Era incredibile vedere che il regime aveva trasformato la maggior parte dei tedeschi in belve senza cuore. Non riusciva a credere che esistesse davvero tutto quell’odio nei confronti di un popolo.
Cercando di resistere al ribrezzo che aveva verso quell’uomo, domandò ciò che realmente gli interessava sapere.
«Ma cos’è che fanno fare, esattamente, agli ebrei nei campi?».
«Si cerca di dare un senso alle loro misere vite. Di farli contribuire alla crescita del nostro glorioso reich. Ma per quanto mi riguarda non sono degni neanche di essere schiavi».
Hubert pensò per un momento alla condizione disumana nella quale si trovavano quelle povere persone. Certo, quello che avrebbe visto di lì a poco con i suoi occhi non lo avrebbe potuto mai immaginare. Quello che stava succedendo agli ebrei superava qualsiasi malefica supposizione.
Si fece raccontare tutti i particolari del campo di prigionia. Alcuni erano davvero raccapriccianti. I corpi dei detenuti uccisi non venivano sepolti, ma ammassati,  l’uno sopra l’altro, tutti come fossero dei vecchi vestiti, e, infine, bruciati.
Se un inferno, nella vita dopo la morte, esisteva davvero, Schreiber avrebbe giurato che sarebbe stato meno atroce di quello che Himmler e i suoi avevano progettato per gli ebrei.
Doveva darsi una mossa. Non era ammissibile un genocidio di quelle dimensioni. A costo della propria vita doveva fare qualcosa.
Una volta dimesso dall’ospedale si mise subito all’opera.
 
Hubert era a conoscenza che in Germania, fin dall’istituzione della dittatura nazista, erano presenti diversi movimenti di resistenza. La Widerstand.
Ma sapeva anche che costoro preferivano rimanere nell’ombra ed era quasi impossibile riuscire a scoprire i loro covi e i nomi di chi ne faceva parte. Questo perché tutti quelli che venivano arrestati e accusati di farne parte venivano condannati a morte senza un processo o, qualora fosse concesso, presieduto da giudici prettamente nazisti.
Sebbene all’alba del reich la resistenza era composta da comunisti, sindacalisti e nemici politici, dopo l’invasione della Polonia e l’inizio della guerra, entrarono a farne parte anche nobili, uomini di chiesa, borghesi e ufficiali tedeschi. Ed era proprio su questo che sperava Schreiber. Di diventare uno di loro.
Sarebbe stato difficile contattarli. Le SS e le SA controllavano qualsiasi luogo pubblico, bar e birrerie. Gli unici posti in cui avrebbe potuto cercare limitando i pericoli di essere scoperto erano le chiese.
 
Decise di iniziare le ricerche nella vicina città di Büren. Le chiese non scarseggiavano di certo. Ma i preti erano più sospettosi che mai e non riuscì ad ottenere nulla. Poche settimane prima alcune decine di uomini di chiesa erano stati trasferiti in campi di prigionia lontani per essere stati accusati di tradimento alla nazione.
Il momento era tutt’altro che propizio. Come convincere i membri della resistenza di non essere una spia incaricata di scoprire altri nemici della dittatura?
Proprio quando le sue speranze stavano pian piano affievolendosi tentò per l’ultima volta la sorte. Si diresse nella piccola chiesa di Santa Maria.
Entrando in quell’edificio quasi fece fatica a riconoscere l’altare.
«Desidera qualcosa?» chiese un uomo in penombra.
«Sì. Sono il capitano Hubert Schreiber e cerco il prete di questa chiesa» rispose.
«Ce l’ha davanti. Sono padre Ernst. È venuto forse per confessare i suoi ultimi cento omicidi?».
«Cielo, no! Sono qui per un altro motivo».
L’ecclesiastico si fece avanti scoprendo finalmente il suo volto.
«Allora mi dica. Apra pure il suo cuore al Signore».
Dalla corporatura era facilmente intuibile che uno dei suoi hobby fosse il nuoto. Spalle ampie e fisico olimpionico. Anche se aveva l’aspetto trascurato. La guerra aveva messo a dura prova la sua costituzione.
«Sa, in questi tempi di buio è difficile riuscire a scorgere la luce» disse l’hauptmann, quasi enigmatico. «Eppure di tanto in tanto qualche raggio di speranza si riesce ad intravedere nella notte».
Padre Ernst aveva perfettamente intuito di cosa stesse parlando l’ufficiale. Ma mantenne le distanze. Non poteva permettersi di essere denunciato e arrestato. Era forse l’ultimo rimasto in città a combattere sotto traccia contro i nazisti.
«Capitano, le sue parole, per quanto criptiche, sono pericolosamente ricollegabili a qualcosa che la nazione non tollera in maniera alcuna».
«Padre, io ho bisogno di qualcuno di cui potermi fidare. E che a sua volta si fidi di me. Per favore, mi dica che è lei questa persona» ribattè Schreiber prendendo le mani del prete.
«Mi dispiace» sussurrò Padre Ernst allontanando Hubert. «Ma in questi tempi non ci si può fidare di nessuno. Tranne che del nostro Signore Gesù Cristo».
Guardò a lungo negli occhi dell’ufficiale. Cercò di scrutare nella sua anima per scorgere la verità.
Poteva fidarsi di quel nazista? O sarebbe finito come gli altri preti del paese? Era una decisione fondamentale. Un infiltrato all’interno della Wehrmacht sarebbe stato più che utile. Ma se fosse stato arrestato avrebbe lasciato senza guida tutti coloro che dipendevano direttamente da lui. Di tutti i sovversivi del paese, era sempre stato quello più prudente. Qual’era la decisione giusta da prendere? Era una situazione da dentro o fuori.
Così si fece coraggio e riprese: «Lei crede in Dio, capitano?».
«Sarebbe stupido mentirle». Fece un profondo respiro e rispose in tutta sincerità: «No, Padre. Non credo» . «Quello che cerco non è una fede, non è un’entità divina, ma qualcuno in cui credere. Mi sento abbandonato. Vorrei poter fare qualcosa, ma da solo non concluderei nulla di utile».
Schreiber aveva scoperto le carte sul tavolo. Non gli interessava essere denunciato. Quella era la sua ultima chance. Se il prete fosse stato filo-nazista, nel giro di poche ore sarebbe stato rinchiuso, nella più rosea delle ipotesi, in qualche prigione con gli altri prigionieri di guerra.
“Che Dio mi assista”. Padre Ernst era determinato a rischiare tutto.
«Capitano, i suoi occhi non mentono. Ciò che dice è frutto della sincerità. Ma non posso compromettere il nostro gruppo. Siamo l’ultima resistenza rimasta in città. Spero che lei creda davvero in quello che dice e che non ci tradirà».
La guerra è qualcosa che spinge gli uomini a prendere decisioni avventate. Spesso sbagliate. Ma quella che aveva preso Padre Ernst era una delle poche giuste. Però il timore albergava in lui. Aveva fatto bene a fidarsi di quell’ufficiale? Solo il tempo lo avrebbe detto.
Per non rischiare inutilmente aveva deciso di non far comunicare direttamente Schreiber con i suoi uomini.
«Padre, la ringrazio» disse Hubert scoppiando in lacrime.
Quelli erano stati momenti di elevata tensione. E l’aveva sfogata tutta in quel pianto di gioia.
«Mi dica cosa devo fare» chiese al prete.
«Gli uomini scarseggiano sempre più di armi e munizioni. Se vuole cominciare a darci una mano, ci porti quante più scorte è possibile».
 
Nelle settimane che seguirono, Schreiber riuscì a sottrarre quante più armi possibile dalle caserme in città. Approfittò del suo momentaneo handicap, in quanto le guardie non controllavano la sua sedia a rotelle.
Si recava quotidianamente in tutte le zone militari della città. Ma fu incuriosito da un nuovo complesso in costruzione. Aveva ampi spazi e grandissimi magazzini.
«Di che si tratta?» aveva chiesto un po’ in giro.
E aveva ottenuto da tutti la medesima risposta. Una risatina sarcastica seguita dalla stessa tediosa frase.
“Te ne renderai conto appena saranno ultimati i lavori”.
Tutto ciò lo intimoriva molto. Ne aveva parlato con Padre Ernst. E aveva ottenuto una agghiacciante rivelazione. Non era sicuro di ciò che era trapelato. E in cuor suo sperava che lo non fosse.
Quello che stavano costruendo nei pressi del castello di Wewelaburg era un campo di concentramento. L’inferno stava per essere portato al suo cospetto.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


CAPITOLO 22
 
Ciò che provocava parecchi pensieri ad Hubert era il problema che Padre Ernst e i suoi uomini non si fidavano di lui. Erano ancora scettici.
Eppure aveva consegnato tutte le armi che era riuscito a sottrarre alla Wehrmacht. Era timoroso.
“E se finissi vittima di un altro agguato?”. In Africa era stato fortunato, sarebbe potuto morire sul colpo o in seguito alle ferite subite, come alcuni dei suoi commilitoni.
Ormai non si trovava più al sicuro. Neanche egli era certo del proprio schieramento. Da una parte, i membri della resistenza avrebbero potuto ucciderlo non appena ottenuto tutto ciò di cui avevano bisogno, dall’altra poteva essere scoperto da un momento all’altro dalle SS ed essere fucilato per aver collaborato con i nemici del reich. Si trovava in un pericoloso limbo.
 
I mesi passarono e, pian piano, grazie alla sua grande forza di volontà, riprese a camminare. Un uomo in grado di correre sarebbe stato di certo più utile di un uomo su una sedia a rotelle.
Fino ad allora era stato assegnato a svolgere pratiche pressoché burocratiche, data la sua situazione. Ma adesso, che aveva ripreso l’uso delle gambe, non voleva rischiare di essere allontanato da Buren. E, quindi, di dover ricominciare una nuova ricerca col fine di trovare altri membri della resistenza nella città in cui sarebbe stato inviato. Sempre ammesso che ne avesse trovati.
Tutti i suoi dubbi vennero scacciati via il giorno in cui venne convocato da Peter Uhse, il comandante del campo di Niederhagen, appena ultimato.
Hubert sapeva che quella chiamata poteva significare una sola cosa: che sarebbe stato impiegato come guardia all’interno del gulag.
Durante tutto il tragitto per raggiungere l’ufficio del lagerführer meditò sulla decisione da prendere. Se avesse rifiutato quel compito avrebbe fatto nascere dei sospetti sulla sua fedeltà al regime. Ma d’altra parte, se avesse accettato si sarebbe macchiato di quei crimini che proprio lui condannava e disprezzava.
Scortato da un giovane soldato salì le scale dell’edificio centrale del campo. Quel luogo era ancora spoglio, non dava l’impressione di essere il posto in cui migliaia di ebrei avrebbero perso la vita.
«Non si stupisca, capitano» esordì il giovane ufficiale, che aveva intuito i pensieri di Schreiber. «I lavori sono terminati da una poco meno di una settimana e dobbiamo ancora allestire i locali».
“Come se stesse parlando di un caffè o di un negozio d’abbigliamento”.
Giunti alla sommità della scala gli mostrò la porta del comandante, dopodiché si congedò e si allontanò.
Hubert si fece coraggio e, dopo aver fatto un respiro profondo, entrò.
Vide un uomo su una sedia, posta dietro una scrivania, intento a parlare con qualcuno al telefono. Quell’individuo  gli fece segno di sedersi su una delle sedie poste di fronte al tavolo.
L’hauptmann ne prese una e si accomodò. Cercò di carpire il motivo della discussione.
Uhse era su di giri per un semplice motivo. Quel campo era stato costruito per ospitare solo 3'000 prigionieri, ma egli ne pretendeva almeno 1'000 in più.
Il problema non gravava sulla possibilità di averne di più, ma su una eventuale difficoltà nel gestirne così tanti. Avere più prigionieri significava avere anche più guardie. E quelle guardie erano più utili sul fronte di guerra che lì, a detta del Führer.
Ma a Peter non importava, il suo vero interesse era fare bella figura con i suoi superiori. Così da poter ottenere cariche ben più prestigiose.
 
Finita la conversazione al telefono, si girò verso Hubert e iniziò a parlare.
«Dunque, lei è il capitano Schreiber».
Intento a leggere proprio un rapporto sull’hauptmann, proseguì: «Come sta? Come vanno le gambe?».
«Molto meglio, grazie».
«Ho saputo del suo incidente in Africa. Sembra che qualche spia interna abbia agevolato i nostri nemici».
In quel momento Hubert sbiancò. “Mi hanno scoperto!”. Ma cercò di mantenere la calma e incalzò: «Si sa qualcosa sull’identità di questa spia?».
«Stia calmo, capitano» disse Uhse con estrema tranquillità. «Comprendo che stia covando la voglia di volerlo fucilare con le sue stesse mani, ma non credo che ciò sia possibile».
Detto questo lo guardò negli occhi. Schreiber aveva il cuore in gola. Nella sua mente cercò di improvvisare un piano per fuggire da quella stanza nel caso in cui lo avesse dichiarato in arresto. Alle spalle del lagerführer c’era una finestra che avrebbe utilizzato per scappare qualora fosse riuscito a stordirlo. E poi?
«La spia è morta» affermò con tono glaciale Peter, interrompendo il flusso di pensieri di Schreiber.
«Morta?» chiese incredulo Hubert. Quale gioco stava facendo Uhse con lui? Il suo rapporto con gli inglesi era rimasto segreto?
«Già. Era sulla sua stessa vettura, capitano. E fato volle che fosse ucciso sul colpo».
La mente di Schreiber era un susseguirsi di pensieri. Non era stato scoperto. Avevano accusato uno dei suoi uomini.
«Come vede non siamo i soli a difendere il nostro amato reich» proseguì il comandante. «Anche le forze divine sono dalla nostra parte. Ha avuto quello che si meritava. Ma veniamo a noi».
Estrasse un foglio da una cartellina con le informazioni del campo.
Hubert stava cercando di riprendersi dalla paura che lo aveva attanagliato pochi istanti prima. Fece dei lunghi respiri e cercò di non apparire teso agli occhi di Peter. Una minima mossa sbagliata avrebbe compromesso tutto.
«Capitano Schreiber, l’ho convocata qui oggi perché necessito dei suoi preziosi servigi nel nostro nuovo campo. Si trasferirà qui e inizierà la sua mansione non appena riceveremo il carico».
«Per carico lei intende…».
«Ebrei! Per cosa crede che sia stata costruita questa struttura?».
«E, precisamente, di cosa dovrei occuparmi?».
«Ordinaria amministrazione. Controllare che gli schiavi lavorino ininterrottamente, che non scappino e cose di questo genere. Non si preoccupi, avrà un suo piccolo ufficio dal quale potrà coordinare le ronde.».
Ma agli occhi di Uhse non sfuggiva lo sguardo perplesso di Hubert.
«Ha qualche problema, capitano? Non mi dica che preferisce tornare al fronte!».
«Certo che no, comandante. Dov’è che alloggerò?» rispose Schreiber, cercando di nascondere la propria insicurezza.
«Bene! Chiamo subito il mio assistente che le mostrerà la sua stanza».
 
Era stata una scelta saggia, la sua? Avrebbe giurato su quanto di più caro aveva che se gli avessero chiesto di uccidere anche un solo ebreo, non sarebbe stato in grado di adempire a quell’ordine.
Dopo aver sistemato tutte le sue cose all’interno del campo si precipitò da Padre Ernst.
 
«Lei è venuto a dirmi che lavorerà al campo di Niederhagen?» domandò il prete, incredulo.
«Già. Non ho potuto fare a meno di accettare l’incarico, altrimenti mi avrebbero trasferito altrove».
«Santo cielo, lei predica il bene ma si sottomette al male! Non è certo questo che mi aspettavo da lei, capitano».
«Lei può anche non fidarsi di me, come anche i suoi uomini. Ma io so come sfruttare questa opportunità».
«Ossia?»
«Escogiterò un piano per far fuggire gli ebrei da quel dannato campo. E quanto prima sarà possibile. Ora la mano passa a lei. Che cosa decide di fare? Mi aiuterà, padre?».
Hubert si sarebbe aspettato una sola risposta da quell’uomo. E sperava che con quell’azione si sarebbe assicurato, finalmente, la fiducia incondizionata della resistenza. Quello che stava architettando gli avrebbe segnato la vita per sempre.

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


CAPITOLO 23
 
«Ma è pazzo?».
Padre Ernst si sentiva al cospetto di un uomo che aveva perso completamente la ragione. “Far fuggire più di 3'000 ebrei da un campo di concentramento pieno zeppo di SS? È una follia!”. E non aveva tutti i torti. Le possibilità di fallimento erano altissime.
Hubert sapeva che avrebbe dovuto costruire il suo piano su quanti più punti deboli fosse stato possibile.
«Si rende conto dell’insensatezza delle parole che sta pronunciando?» continuò il prete.
«Si sta tirando indietro, padre? Ho bisogno di lei, ora più che mai».
«Le avevo detto che l’avrei aiutata, questo è vero. Ma non ho mai affermato che avrei mandato a morte i miei uomini!».
«Nessuno dei suoi verrà ucciso. Questo piano dovrà essere escogitato fin nei minimi particolari».
«Ha già delle idee?».
«Ancora no. Dovrò entrare nel meccanismo del campo per poter individuarne tutti gli ingranaggi. Lei avverta i suoi uomini e li convinca a collaborare. Se ci riusciamo, saremo degli eroi».
“Oppure dei martiri”.
 
Uscendo dalla chiesa, Hubert, non aveva visto in Padre Ernst quella sicurezza che si sarebbe aspettato. Sperava di trovare in lui un valido alleato, quando invece non era stato così. Comprese che avrebbe ottenuto l’aiuto dell’ecclesiastico solo se avesse escogitato un piano su basi concrete, con un’altissima probabilità di successo. E avrebbe dovuto escogitarlo da solo. Non avrebbe rischiato di attirare l’attenzione su di sé provando a reclutare altri nazisti.
Il suo animo lo spronava a portare a termine questa missione a tutti i costi.
E si convinse sempre di più appena arrivarono gli ebrei al campo.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


CAPITOLO 24
 
Febbraio 1943.
 
Era passato più di un anno da quando Hubert aveva iniziato a prestare servizio al campo di Niederhagen. Quello a cui aveva assistito era quanto di più macabro esistesse. E sapeva che gli avvenimenti di quel lager erano insignificanti se confrontati con campi ben più rinomati.
Si tormentava in silenzio, ma sapeva che presto tutte quelle persone avrebbero smesso di soffrire.
Il piano era stato studiato per più di un anno e non ammetteva pecche. Nessun membro della resistenza si sarebbe dovuto tirare indietro e, se fossero stati scoperti, si sarebbe dovuta mantenere segreta anche l’esistenza del gruppo di sovversivi in città.
Sebbene nei suoi primi mesi di vita il campo vide ‘solo’ 3'000 schiavi, successivamente Uhse convinse i suoi superiori a spedirgliene altri. Così ne arrivarono ulteriori 1'000.
Schreiber aveva cercato di resistere diverse volte alla tentazione di donare delle coperte a quelle povere persone durante l’inverno, che era particolarmente rigido. Sfruttando la sua influenza sul lagerführer era riuscito ad ottenere delle stufe che aveva fatto distribuire nelle 14 baracche dove dormivano i prigionieri. ‘Se muoiono per il freddo di certo sarai segnalato come un comandante che non sa gestire i suoi internati’ aveva stuzzicato ad Uhse. ‘Devono morire per colpa di madre natura o nell’intento di servire il reich?’. Fortunatamente quelle parole avevano funzionato.
L’estate invece era stata più sopportabile, grazie anche alla presenza di un fiume nelle vicinanze, che aveva reso abbondante l’acqua all’interno del campo.
Ma, purtroppo, i soprusi e i maltrattamenti erano all’ordine del giorno. Per quanto si sforzasse di pensare che ben presto tutta quella sofferenza avrebbe avuto fine, ogni giorno che passava era sempre più difficile sopportare quella situazione.
Quello che riusciva a tollerare di più era la condizione di alcune donne. Queste erano sfruttate come vere e proprie prostitute all’interno del campo. Ma venivano trattate anche diversamente dalle altre.
Le era permesso di pernottare negli alloggi del comandante e di avere una vita relativamente più agiata delle altre prigioniere. Dover soddisfare qualche soldato era sempre meglio che doversi spezzare la schiena tutto il giorno e ritrovarsi con un solo tozzo di pane per cena, lottando ogni giorno con le malattie.
Hubert, ovviamente, non si sarebbe mai degnato di approfittare di quella situazione e, quando la ‘consolazione’ toccava a lui, si limitava a parlare con loro e a metterle a proprio agio. Spesso ne pretendeva più di una volta al giorno, col fine di sottrarle agli abusi degli altri soldati. Proprio per questo nel lager si era diffuso il soprannome ‘Toro Scatenato’. Ma a Schreiber tutto ciò non lo infastidiva, quello che gli importava era sapere che erano state sottratte per qualche ora ai maltrattamenti degli altri ufficiali.
 
Schreiber aveva stretto amicizia con tutte le guardie del campo e aveva intensificato i rapporti con Uhse. Si vedevano quasi tutti i venerdì sera per giocarsi qualche mano di poker. Si era assicurato la fiducia di tutti.
Ma sorgeva un altro problema.
Gli ebrei si sarebbero convinti a scappare con lui? Spesso le SS ricorrevano a degli stratagemmi per convincerli ad entrare nelle camere a gas, spacciandole per docce, per poi ucciderli. Chi avrebbe garantito loro che quello non sarebbe stato un altro espediente per decimarli?
Si recò da Padre Ernst per ultimare i preparativi in vista del piano, che sarebbe stato attuato il giorno dopo.
Incredibilmente, per la prima volta dopo tutto quel tempo, il prete consentì il contatto diretto tra Hubert e la resistenza.
«È il caso che ascoltino le ultime indicazioni direttamente da te» gli disse l’ecclesiastico.
 
Una volta al cospetto di tutti quegli uomini iniziò a parlare e descrivere quanto sarebbe successo.
«Ascoltatemi tutti. Padre Ernst vi avrà già comunicato i dettagli del progetto. Ma è il caso che vi faccia un breve riassunto».
Raccolse tutte le informazioni che aveva immagazzinato negli ultimi 13 mesi e continuò.
«Il campo è costituito da 14 baracche dove sono costretti a vivere circa 4'000 ebrei. E io li voglio tutti fuori di lì, nessuno escluso».
Tutti intorno a lui avevano gli stessi pensieri. “È una missione suicida”. Non sarebbero mai riusciti a far fuggire tutti quei prigionieri facendola franca. Ma Hubert sapeva che, essendo un campo minore, se si fosse venuta a costituire la situazione idonea, i controlli sarebbero stati meno ferrei o, addirittura, completamente assenti.
«La zona in cui non dobbiamo assolutamente farci notare è quella composta dagli uffici amministrativi e dagli alloggi dei soldati, tra cui anche quello del comandante».
«Lei ha detto che avrebbe tenuto occupati tutti i soldati in una sola stanza, ma non ci ha detto come» ribatté uno degli uomini.
«Ho passato l’ultimo anno a parlare con ognuno di loro, a sforzarmi di apparire come meglio potessi agli occhi di ciascuno affinché si fidino ciecamente di me. Organizzerò una festa in occasione del compleanno del lagerführer e mi assicurerò che siano tutti nella stessa stanza».
Si girò guardando il prete e chiese: «Padre, lei invece ha fatto la sua parte?».
Sentendosi chiamato in causa si schiarì la voce e si alzò.
«Ma certo. È tutto pronto. Dei treni ci aspetteranno poco distanti dal campo, pronti a dirigersi in Francia. Dovremo essere quanto più rapidi possibile, perché l’esplosione attirerà di sicuro l’attenzione della città».
«Bene».
Il piano era folle e anche estremamente complicato. Alla festa ci sarebbero state anche delle serve e sarebbe stato impossibile farle sgusciare via senza che nessuno se ne fosse accorto.
 
Così, il giorno fissato finalmente arrivò.
Schreiber doveva farsi notare il meno possibile. E doveva anche nascondere la crescente ansia che aveva. Come se fosse un giorno come gli altri si recò da Uhse e gli fece gli auguri. “Mille di questi giorni!”. Peccato che non avrebbe superato le 24 ore successive.
«Come procedono i preparativi per la festa, Peter?» chiese Hubert.
«Bene, bene. Stasera faremo un piccolo strappo alla regola. Ci saranno dei cambi della guardia ogni mezz’ora cosicché tutti i soldati del campo possano godersi questo evento speciale. In fondo 50 anni si compiono una sola volta nella vita!».
«Quant’è vero. E a che ora inizieranno i festeggiamenti?».
«Non appena avremo mandato a nanna tutti quegli animali».
 
Quella giornata passò in modo incredibilmente lento. Schreiber guardava la lancetta del suo orologio ed era impaziente che segnasse le 18:00, ora in cui i lavori nel campo avrebbero avuto fine.
Si era anche assicurato che tutte le guardie fossero andate all’evento. Anche se soltanto una li avesse scoperti il piano sarebbe fallito.
Si era persino occupato di avvisare alcuni ebrei del lager, in modo tale che diffondessero la voce.
Lo avrebbero seguito?
Dopo un anno in quel posto era sicuro che avrebbero seguito anche il demonio, qualora gli avesse offerto una via di fuga.
 
Una volta alla festa aveva incitato più volte al brindisi, utilizzando qualunque pretesto, in modo tale da far ubriacare quanti più ufficiali fosse possibile.
Uhse aveva ordinato il cambio della guardia ogni mezz’ora, e ciò aveva ridotto sensibilmente il tempo a disposizione per attuare il piano.
 
Appena giunto il momento propizio si allontanò dalla festa senza farsi notare.
Si recò da ognuna delle 8 guardie addette alla sorveglianza e sfruttò il medesimo trucco con ognuna di esse.
«Senti, ho bisogno di prendere un po’ d’aria. Devo avere alzato un po’ troppo il gomito. Non preoccuparti, ti do io il cambio, ci si vede tra mezz’ora».
In questo modo aveva liberato la zona est del campo, che era sgombra.
Padre Ernst e gli altri, dopo essersi intrufolati, si erano subito attivati a spronare i prigionieri di quel campo a fuggire più in fretta possibile.
Anche le serve della festa, in perfetta sincronia, avevano abbandonato le stanze. Tutto stava andando per il verso giusto. “Che Dio ce la mandi buona”.
In men che non si dica aveva anche piazzato tutti gli esplosivi intorno agli edifici centrali e nei pressi delle altre sentinelle. Non sarebbe dovuto rimanere neanche un testimone, altrimenti non sarebbero arrivati vivi in Portogallo.
 
«Chiamatemi una delle sguattere! Dove sono finite? Voglio un’altra bottiglia di vino» si lamentava August Lichtenfer, uno degli ufficiali di campo.
«Calmati, te la vado a chiamare subito!» lo aveva tranquillizzato Bernard Elser, suo assistente.
Abbandonato quella stanza si era recato in cucina, alla ricerca di una delle ragazze addette a servire. Ma non trovò nessuna.
Nonostante avesse bevuto già diversi bicchieri di champagne e vino la sua mente era rimasta abbastanza lucida da capire che qualcosa non andava.
Così urlò il nome di una delle ragazze, ma non ebbe nessuna risposta.
“Com’è possibile che non ci sia più nessuna sporca ebrea?”.
Barcollando leggermente scese giù, nel ripostiglio, dove era ubicata la cantina. Scelse una bottiglia e risalì continuando a urlare il nome delle ragazze.
August, non vedendo il proprio assistente tornare si era precipitato anch’egli fuori dalla stanza.
«Bernard! Dannato ragazzo, quanto ci vuoi per farmi portare una bottiglia di vino? Ho un brindisi da fare, prima che mi dimentichi il motivo».
Elser sbucò dalle scale e gli consegnò la bottiglia.
«Signor Lichtenfer, la situazione qui mi puzza di marcio. Non riesco a trovare neanche una serva in giro».
«Beh, di questo dobbiamo lamentarci col padrone di casa!».
Così entrambi rientrarono nella sala in cui tutti i nazisti del campo stavano festeggiando e manifestarono questo malumore.
«Cosa? Neanche una?» rimase sbigottito Uhse. «E dove diavolo si sono cacciate? Maledizione, questa volta l’hanno fatta grossa, prenderò seri provvedimenti».
Corse fuori alla finestra e, in lontananza, nel buio, intravide tutti i prigionieri scappare via.
Si voltò verso Elser e chiese: «Sono io che sono completamente ubriaco o quelli sono degli ebrei che fuggono via dal campo?».
«Accidenti, dove diavolo sono le guardie?» urlò Bernard, forse uno dei pochi ancora in grado di capire cosa  stesse succedendo.
Entrò di nuovo e guardò tutti. Erano nettamente di più di quanti dovessero essere. Ma quello che ancor più lo aveva insospettito era non vedere il capitano Schreiber.
«E Schreiber dove diavolo è?».
Alcune guardie, che avevano sentito la domanda, risposero quasi in coro che era andato a sostituirli.
«Che cosa? Sostituire tutti voi? Ma che diavoleria è mai questa?».
Elser era sempre più confuso e preoccupato. Uscì ancora una volta all’esterno e chiamò le guardie vicine.
Queste non fecero in tempo ad avvicinarsi che tutta la struttura subì un urto che fece crollare parte di essa.
«Siamo stati attaccati! Siamo stati attaccati!» urlavano tutti gli ufficiali, non sapendo che fare e annebbiati dall’alcool.
Le esplosioni si susseguirono senza che nessuno potesse salvarsi abbandonando l’edificio.
Bernard guardò intorno e non vide altro che buio e fiamme. Non poteva essere un attacco diretto, altrimenti si sarebbero intravisti i carri armati o gli aerei fare fuoco. Erano delle cariche esplosive poste in punti strategici col fine di far crollare tutto.
Prima di essere travolto dall’esplosione dell’ordigno posto proprio sotto di lui, Elser diede di nuovo un’occhiata all’interno della stanza e pronunciò una sola parola.
«Schreiber!».

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


CAPITOLO 25
 
Germania, ai giorni nostri.
 
I due ragazzi erano ancora intenti a riflettere su quanto avevano appena scoperto, quando il bibliotecario si avvicinò loro.
«Mi duole disturbarvi, ma purtroppo dobbiamo chiudere e devo pregarvi di uscire».
Francesca, titubante, guardò l’orologio e ribatté: «Ma la biblioteca non rimane aperta ad orario continuato?».
«Quest’oggi, purtroppo, non possiamo rimanere aperti in quanto stiamo avendo dei lavori di manutenzione. Voi capirete quanto è importante mantenere al sicuro, oltre che i nostri libri storici, anche i nostri lettori. Sarebbe un evento indicibile qualora un pezzo di intonaco cadesse su uno di loro».
«D’accordo, ce ne andiamo subito».
“Tanto non abbiamo nient’altro da leggere qui”.
Tradusse la richiesta dell’anziano a Leonardo e si avviarono all’uscita.
«Ein moment!» urlò loro il vecchio custode. «Prima di andare dovete lasciare altre generalità».
“E questa da dove è uscita? Non bastava lasciare solo nome e cognome?”.
Con qualche sospetto la ragazza si avvicinò e acconsentì a quanto le era stato richiesto.
«È solo una prassi, non preoccupatevi. Mi servono i vostri indirizzi e-mai e i vostri numeri di cellulare».
“Accidenti! Neanche fossimo alla CIA!”.
«Che cosa vuole?» chiese Leonardo.
«I nostri indirizzi e-mail e i nostri numeri di cellulare».
«Come mai? Non basta lasciare nome e cognome?».
«A quanto pare in Germania le biblioteche sono diverse dal resto del mondo».
«Mi sembra molto strano. Abbiamo rotto qualcosa, forse?».
«Non ne ho idea. Ma muoviamoci a dirgli quello che vuole sapere e andiamocene da qui!».
Il bibliotecario, dal canto suo, stava adempiendo al suo dovere.
Dopo aver trascritto correttamente tutte quelle informazioni, le avrebbe immediatamente inviate alla Fenster Geschlossen.
«Vi ringrazio per la vostra pazienza e tornate a trovarci presto» concluse l’anziano.
“Contaci”.
Dopo aver abbandonato l’edificio, i due ragazzi si apprestarono a cercare un posto in cui poter pranzare.
«Il pullman per il ritorno ci sarà fra qualche ora, adesso ci conviene mangiare e decidere a che ora prendere l’aereo per il ritorno, domani» consigliò Francesca.
«Siamo sicuri che quel numero possa funzionare?» chiese Leonardo, preoccupato.
«È tutto ciò che abbiamo trovato. E se non siamo riusciti a trovare di più nella biblioteca più grande della Germania, non saprei dove cercare».
Una volta trovato un ristorante idoneo si sedettero e vararono l’idea di provare la combinazione.
«Quanto è prudente provare ad aprirlo qui?» domandò il ragazzo, sempre più pensieroso.
«Dici che dovremmo farlo a casa?».
Anche Francesca aveva le stesse preoccupazioni.
Gli eventi accaduti poco prima e l’atteggiamento tutt’altro che naturale dell’anziano custode della biblioteca avevano allarmato anche lei.
«Quell’uomo era interessato un po’ troppo a noi, per i miei gusti» continuò il giovane. «Questo significa che siamo sulla pista giusta. E che quel diario nasconde molto di più che delle semplici memorie di un soldato nazista in vena di confidenze».
«Forse stiamo diventando troppo paranoici» disse scettica la ragazza.
«Paranoici? Non mi è sembrato di vedere il bibliotecario chiedere le stesse informazioni alle altre persone presenti».
«E cosa diavolo potrebbe esserci scritto lì dentro?».
«Non ne ho idea. Dobbiamo solo pensare a tornare a casa, ora. A che ora c’è l’aereo domani?».
«Cercherò di prenotare il primo volo disponibile. Prima ce ne andiamo da qui, prima mi sentirò più tranquilla».
 
«Hai fatto molto bene, adesso ce ne occupiamo noi» rispose compiaciuto Losener dall’altro capo del telefono.
Il bibliotecario aveva comunicato quanto appreso ed aveva ottenuto anche una lauta ricompensa. “Con questi soldi extra mi farò proprio una bella vacanza”.
Dopo aver chiuso tutte le porte ritornò agli scaffali dove i due ragazzi avevano trascorso la mattinata, prese il libro che avevano lasciato sul tavolino e lo portò con sé. Quel volume sarebbe stato ricontrollato completamente, nell’intento di capire cosa avessero davvero scoperto.
 
«Adesso che abbiamo i loro numeri di cellulare possiamo spiare le loro conversazioni e i loro messaggi» disse soddisfatto Kurt ai suoi collaboratori.
«Ci servono altre informazioni, capo» ribatterono.
«Non preoccupatevi, per tornare nella loro misera nazione dovranno prendere un aereo. E ad aspettarli ci saranno dei nostri uomini, che otterranno quanto ci servirà sapere» li rassicurò.
«Se ci saranno d’intralcio saranno eliminati».

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 ***


CAPITOLO 26
 
Il suono della sveglia, quella mattina, risultò più piacevole che mai. Leonardo tastò il suo cellulare e la spense. Nonostante fosse l’alba la voglia di ritornare a casa superava di gran lunga la voglia di dormire. Si girò e vide accanto a sé Francesca. Sebbene fosse spettinata e insonnolita, ai suoi occhi appariva bellissima. Si incantò per qualche istante a guardarla, poi, la svegliò delicatamente.
Nel giro di una mezz’ora furono pronti a partire.
«Non fate colazione?» domandò il padrone dell’albergo.
«Prendiamo qualcosa da portar via, andiamo di fretta, abbiamo l’aereo che ci parte tra qualche ora» rispose Francesca.
Dopo aver ultimato i pagamenti si avviarono.
«Lo vedi quell’uomo laggiù?» chiese Leonardo, alludendo ad uno strano individuo in lontananza. «Ho come l’impressione che ci stia osservando».
«Leo, quello che ci è successo ieri non ci deve condizionare. Sarà una persona qualunque incuriosita dai nostri bagagli. Starà provando ad indovinare se siamo turisti o meno».
«Spero che tu abbia ragione».
Una volta saliti sull’autobus si sentirono più tranquilli. Francesca non voleva allarmare il suo amico ma quel brutto ceffo in occhiali da sole aveva intimorito anche lei.
Aprirono la bustina che avevano preso alla locanda e si divisero un paio di cornetti.
«Non hai sentito la sveglia, stamattina?» domandò Leonardo, nell’intento di stemperare il clima.
«Certo! Però mi sono addormentata l’istante successivo in cui l’hai spenta».
«Quindi se non ci fossi stato io saresti rimasta qui».
«Non dire sciocchezze. Mi avrebbero svegliato i padroni dell’albergo per farmi liberare la camera entro le dieci».
Adesso il volto della ragazza era più sereno. Presto sarebbero ritornati in patria e, Leonardo, era più deciso che mai a voler risolvere la sua situazione con Elena. Sentiva che quello che si stava creando tra lui e Francesca era qualcosa di vero e profondo.
 
«Sono partiti. Dite agli uomini di mettersi in posizione».
All’aeroporto di Berlino, alcuni membri della Fenster Geschlossen, travestiti da poliziotti, si erano posti in alcuni punti strategici, dove, al momento giusto, avrebbero fermato i due ragazzi italiani per estorcere le informazioni di cui avevano bisogno.
Avrebbero dovuto far sembrare tutto naturale, una normale ispezione di routine.
Sapevano anche di non dover dare troppo nell’occhio, altrimenti dei veri poliziotti si sarebbero insospettiti. Ma avevano tutto sotto controllo. Sarebbe bastata una telefonata di Kurt Losener per far licenziare in tronco chiunque avrebbe ostacolato quella operazione. Assicurarsi che quei ragazzi non erano venuti in possesso di informazioni pericolose era di vitale importanza.
 
Leonardo guardò il suo orologio, una volta giunti all’aeroporto. Erano in perfetto orario, se non addirittura in anticipo.
«E poi dicono che noi italiani siamo sempre in ritardo!».
«Meglio così», rispose Francesca. «Almeno avremo il tempo di fare tutto con calma».
Si avviarono verso l’ingresso, dove, notarono subito degli individui in divisa.
«Ora che vedo la polizia mi sento più sicuro» affermò il ragazzo.
Peccato che quella non fosse la sicurezza che si aspettava. Non ebbe neanche il tempo di concludere la frase che uno di essi si avvicinò e cominciò a parlargli. Non capendo il tedesco, si girò per guardare Francesca e attendere la traduzione.
«Credo che i nostri guai inizino ora» borbottò la giovane.
«Perché? Che ha detto la guardia?».
«Che dobbiamo seguirlo in quanto devono controllarci».
«Succede sempre così, con tutti quei delinquenti che ci sono in giro la polizia deve fermare sempre le persone per bene!».
«Sta tranquillo, speriamo di impiegarci poco».
I due ragazzi seguirono i finti agenti, che li scortarono fino ad un furgone parcheggiato poco distante.
«È tutto molto strano, non dovrebbero avere un ufficio all’interno dell’aeroporto? Perché ci hanno portato qui?» disse preoccupato Leonardo.
«Non sono convinto neanche che questi siano dei veri poliziotti».
Fatti sedere i due ragazzi, una delle guardie iniziò l’interrogatorio. Chiese dove fossero diretti, il motivo della loro visita in Germania, quale fosse il loro domicilio in Italia, il numero della loro carta d’identità e altre informazioni personali.
Trascrissero ogni minimo dettaglio.
Infine li lasciarono andare, instaurando in Leonardo ancora più sospetti di quanti non ne avesse già prima di quell’incontro.
 
Soddisfatti, gli uomini di Losener avvertirono subito la base del successo della loro missione. Tenere sotto controllo i loro cellulari e le loro caselle di posta elettronica avrebbe di certo avuto i suoi frutti. Non appena uno dei due avrebbe rivelato cosa avessero scoperto alla nathiolabibliothek, sarebbero intervenuti all’istante.
I segreti che nascondeva Hubert Schreiber erano di tale pericolosità che, se fosse stato necessario, Kurt si sarebbe recato in prima persona a risolvere la situazione in Italia.
 
«Sono preoccupato. Non è normale un episodio del genere. Lo sapevo che quel diario ci avrebbe messo nei guai» disse sempre più preoccupato Leonardo.
«Anche io ho il timore che ci abbiano davvero preso di mira. Ma forse sarà stata solo un semplice controllo casuale».
Si apprestarono quanto prima ad imbarcarsi sul volo del ritorno. Fino al momento in cui l’aeroplano non si staccò da terra ebbero l’inquietudine di non poter più ritornare a casa. Ma quando videro sotto di loro la terra tedesca allontanarsi sempre di più, tirarono un sospiro di sollievo.
Ma sarebbero ritornati molto presto.
Dopo essersi tranquillizzati ripensarono alle vicende di Hubert. Ai 3'887 ebrei liberati. E un’altra perplessità assalì Leonardo.
«C’è qualcosa che ancora non riesco a capire».
«Cioè?» chiese Francesca, aprendosi la giacca per il caldo.
«Come avrà fatto Hubert a portare tutti quegli ebrei in Portogallo, incolumi superando tutti i controlli di sicurezza?».

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 ***


CAPITOLO 27
 
Germania, 1943.
 
Lo sguardo di Patrick Wohlfahrt si perdeva tra le macerie del campo di Niederhagen. Era incredibile vedere come, nel giro di una sola notte, tutta la struttura fosse svanita. Era stata opera degli inglesi? O degli americani? E se invece fosse stato un colpo dall’interno?
La sua mente era tormentata. Era stato chiamato per fare chiarezza su questo mistero. Un caso del genere non poteva passare inosservato. E neanche Hitler stesso era stato ancora avvertito. Volevano il responsabile. Il führer non avrebbe ammesso un colpo di tale portata, con l’artefice che girava ancora libero per la nazione.
Wohlfahrt era il migliore nel campo delle indagini. Aveva sventato diversi attentati e arrestato migliaia di sovversivi. Oltre al fatto che aveva scovato anche parecchi nascondigli ebrei.
Ma questa volta era diverso. Il colpevole non aveva lasciato traccia. E a quanto pare non aveva lasciato neanche corpi.
Infatti, nel lager, oltre ai cadaveri carbonizzati degli ufficiali di campo non c’era traccia di quelli ebrei. Era come se fossero svaniti. O, per meglio dire, era come se fossero scappati.
Ma come potevano passare inosservati alle guardie? E non era stato sparato neanche un colpo. Non c’erano pallottole per terra.
E allora come avevano fatto a piazzare le cariche esplosive?
La risposta non poteva che essere una: avevano una talpa all’interno.
Uno degli ebrei? Impossibile. Non potevano avere alcun tipo di contatti con l’esterno. A meno che non avessero organizzato qualcosa quando si dirigevano al fiume per riempire i secchi d’acqua per il campo. Ma anche questa ipotesi era inverosimile. Erano stati sempre accompagnati almeno da una guardia.
Respirando l’odore di bruciato chiamò il suo assistente, Theodor Puckle.
«Controlla tutti i corpi. Se manca anche solo un ufficiale avremo una pista da seguire».
Quel giorno c’erano molti civili sul posto, attirati dalla curiosità di scoprire cosa fosse successo. Senza dare nell’occhio, Patrick, li aveva squadrati tutti, uno ad uno. Non sarebbe stata una novità vedere il colpevole tornare sul luogo del delitto. Ma si trattava perlopiù di anziani e di donne.
«Unterscharführer!» lo chiamò uno dei suoi sottufficiali. «Alcuni testimoni giurano di aver visto migliaia di ebrei fuggire questa notte».
«Con che mezzi?».
«Dei treni».
Questa informazione lo avvicinò sempre di più alla soluzione. L’utilizzo dei treni era esclusivo degli ufficiali del reich. Quindi, appena le ricerche del corpo mancante si sarebbero concluse, avrebbero avuto il nome che stavano cercando.
«Voglio avere ogni minima informazione su tutti i treni partiti da qui nelle scorse 18 ore. Avverti i posti di blocco di fermare qualunque mezzo trasporti ebrei. Chiunque sia stato ad architettare tutto questo non ha ancora fatto i conti con me».
Wohlfahrt era più determinato che mai. Non aveva mai rinunciato a nessun caso. La sua carriera era stata costernata di successi e, ne era sicuro, presto ce ne sarebbe stato ancora un altro.
 
Dopo circa sette ore di viaggio, Schreiber e i suoi 3'887 ebrei erano riusciti a superare i posti di blocco della Germania e ad entrare nella Francia libera.
La motivazione che aveva usato era talmente semplice che la loro copertura sarebbe potuta cadere da un momento all’altro.
«Dove sta portando tutti questi ebrei, capitano?» era la domanda ricorrente.
«In Portogallo. È un rapporto segreto del quale sono a conoscenza solo una dozzina di persone, tra le quali il führer. Verranno scambiati per delle informazioni sulle tattiche dei nemici del reich».
Ogni volta che Hubert raccontava questa storia, temeva di essere scoperto e fucilato sul posto.
Invece, fino ad allora aveva funzionato.
La loro destinazione era Roanne. Ad aspettarli ci sarebbe stato Padre Carl Coppi che avrebbe provveduto a smistare tutte quelle persone attraverso la Spagna. Una volta giunte in Portogallo, avrebbero preso la prima nave per l’America.
Almeno loro sarebbero riusciti a scappare da quell’inferno.
Non avevano potuto fermarsi neanche un minuto. Stavano lottando contro il tempo. Probabilmente erano già stati scoperti e qualcuno era già sulle loro tracce. La fame e la sete torturavano i passeggeri di quei treni, ma a farla da padrone era soprattutto la paura. Nonostante si trovassero in territorio neutrale sapevano che, appena sarebbe partito l’ordine di arresto da parte delle SS, nessuno li avrebbe protetti.
 
I lavori per demolire quanto ancora restava del campo erano iniziati. Una macchia del genere non aveva più motivo di esistere nell’immacolata perfezione del reich. Se la notizia fosse trapelata negli altri campi non avrebbe fatto altro che alimentare le speranze dei prigionieri.
«Abbiamo analizzato tutti i corpi» riferì Puckle. «E a quanto pare abbiamo trovato chi manca».
«Dimmi il suo nome».
Patrick si sentì rabbrividire quando sentì quel nome. “Hubert?”. Stentava a credere che un ufficiale decorato come il capitano Schreiber potesse essere coinvolto in una vicenda del genere. Ed esserne addirittura l’artefice.
La rivelazione di traditori del reich nei settori alti della wehrmacht non era una novità, ma l’effetto che aveva era sempre devastante.
«Basta una mela marcia per rovinare l’intero cesto».
L’operazione che avrebbe avuto luogo di lì in poi sarebbe stata una delle più epiche. Tutti coloro che avevano avuto, anche più lontanamente, rapporti con l’hauptmann sarebbero stati arrestati o, addirittura, condannati a morte. Sarebbe stato necessario estirpare la piaga.
«E c’è dell’altro, Patrick».
«Dimmi» disse Wohlfahrt, che non si era ancora ripreso dalla scioccante rivelazione.
«Abbiamo chiamato tutti i posti di blocco e, alcuni, ci hanno confermato che l’ufficiale Schreiber era a bordo di alcuni treni che trasportavano ebrei, diretti in Francia».
«In Francia?».
«Nella parte sud, quella libera».
«Cosa diavolo è saltato in mente a quei dannati soldati? Lasciano passare dei treni con 4'000 prigionieri a bordo come se nulla fosse?».
«Il capitano ha usato con tutti la stessa motivazione».
«Ossia?».
«Ebrei in cambio di informazioni sul nemico».
 
«Lei è Padre Carl?» domandò Hubert, giunto a destinazione.
«Sono io. Adesso avverto subito i miei uomini che provvederanno ad abbeverare e sfamare tutte quelle povere persone».
«Padre, non abbiamo tempo. Sono già sulle nostre tracce. Capirà che, essendo un numero notevole di fuggitivi, ciò avrà provocato un forte scossone all’interno delle SS»
«Lo so. Ma non possiamo far morire di fame tutti. Mi dia un’ora, dopodiché saremo pronti a partire per la Spagna».
«Non so come fare a ringraziarla».
«Figliolo, tutto ciò è a buon rendere. In questi tempi difficili dobbiamo supportarci l’un altro. Tutto ciò che mi serve è che mi diate una mano a diffondere questi pezzi di pane».
Tale vicenda aveva movimentato anche i membri della resistenza spagnola. Tutti stavano mettendo in ballo le proprie vite per salvare quegli ebrei. Erano sicuri che, una volta finita la guerra, questo sarebbe stato ricordato come uno dei più audaci gesti di coraggio.
Erano pronti i più disparati mezzi di locomozione. Carri, automobili, cavalli, carrozze. Tutto ciò fosse disponibile e adatto alla fuga.
Non sarebbe stato facile, ora che i controlli sarebbero stati più ferrei. Ma dovevano riuscirci.
 
Quella situazione era inverosimile. Un traditore del reich era scappato con migliaia di ebrei ed era riuscito a farla franca.
“Non è finita qui”.
«Theodor, prepariamoci a partire. E porta qualcuno che parli francese. Non mi sono mai fatto sfuggire uno sporco traditore e questa non sarà di certo la prima volta».
La caccia all’uomo era iniziata.

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 ***


CAPITOLO 28
 
Italia, ai giorni nostri.
 
«Finalmente a casa!» disse, sollevato, Leonardo.
«Già. Non vedo l’ora di farmi un bel bagno rilassante» rispose Francesca.
Usciti dall’aeroporto si sentirono afferrare da dietro le spalle, venendo agguantati.
I primi pensieri di Leonardo furono per i poliziotti incontrati poco prima del volo. “Ecco, lo sapevo! Ora ci arrestano e ci mettono dentro!”.
«Allora? Com’è stato il viaggio? Avete scoperto la combinazione?».
Quello che li aveva accolti non era altro che il loro amico Alessandro che li aveva stretti in un grande abbraccio.
«Pinto, ci hai fatto spaventare a morte! Piombarci addosso così all’improvviso» disse Leonardo, girandosi.
«Scusatemi! Non volevo farvi paura, sono solo contento di rivedervi».
Prese la valigia di Francesca e continuò: «Allora? La combinazione?».
«Abbiamo trovato un numero, ma non siamo sicuri sia quello giusto» rispose Francesca.
Nel tragitto del ritorno a casa, i due, raccontarono tutta la storia ad Alessandro. Del bibliotecario particolarmente curioso e dei poliziotti di Berlino Schoenefeld.
Giunti a casa di Francesca i tre salirono e provarono subito ad aprire il lucchetto.
«Se non dovesse funzionare?» chiese, preoccupato, Leonardo.
«Dobbiamo rischiare. Non c’è altro modo di aprire questo diario».
«Scusate, che succede se sbagliate combinazione?» domandò Pinto, che ignorava ancora quella motivazione.
«Che si attiva un meccanismo per il quale il diario si autodistrugge» spiegò Francesca.
«Wow. Quindi è un dentro o fuori. Se funziona diventate ricchi. Se non funziona avrete buttato via l’opportunità della vostra vita».
«Sì, Pinto, è esattamente così. Adesso, per favore, puoi stare un momento in silenzio?» ribatté, stizzito, Leonardo.
Le mani di Francesca tremavano quando prese il diario.
«Vuoi che lo faccia io?» domandò il ragazzo.
«No, non preoccuparti. Va tutto bene. Sono solo ansiosa».
Con estrema attenzione iniziò a ruotare i numeri. Partì dal 3, poi continuò con la coppia degli 8 e, infine, col 7. Guardò un’ultima volta i due amici e provò ad aprire il lucchetto.
 
Erano passati diversi giorni da quando avevano parlato l’ultima volta. “Pausa di riflessione”. Un modo elegante per dire ti lascio.
Elena sperava con tutto il suo cuore che Leonardo potesse avere un ripensamento e decidere di ritornare con lei.
Nonostante nelle ultime settimane si fosse arrabbiata quasi tutti i giorni, sapeva che quel ragazzo era tutta la sua vita.
Aveva chiesto a Pinto di avvertirla appena sarebbe ritornato dalla Germania. E quel giorno aveva ricevuto il tanto atteso messaggio.
Così, si era fatta coraggio e gli aveva mandato un sms, in cui gli aveva chiesto di poterlo incontrare per parlare della loro relazione. Gli avrebbe parlato col cuore in mano. Gli avrebbe detto quello che provava e gli avrebbe promesso che sarebbe cambiata.
Forse aveva ragione, non era più la ragazza di una volta. Ma l’amore è anche questo. Sacrificarsi per il partner.
E lei, per Leo, avrebbe fatto qualsiasi cosa.
 
Leonardo aveva chiuso gli occhi, per non guardare quello che stava succedendo. All’improvviso sentì un click.
«Ha funzionato?» domandò.
«Apri gli occhi!» gli rispose Francesca.
Lentamente, facendosi coraggio, spalancò le palpebre e vide il lucchetto appoggiato sul tavolo.
«Non posso crederci!» gridò, entusiasta.
I tre ragazzi si abbracciarono e urlarono di gioia. Era incredibile come fossero riusciti a scoprire una combinazione vecchia di 80 anni.
«Lo apriamo insieme?» chiese la ragazza a Leonardo.
«D’accordo».
Con delicatezza aprirono quel vecchio diario e, iniziarono a sfogliarlo. Alessandro assisteva a quella scena con aria attonita. Era come trovarsi in un film.
Ma questa non era finzione, era vita vera!
«Immagino che questo sia tedesco» commentò il ragazzo, provando a leggere qualche riga.
«Già. Mi ci vorrà qualche giorno per tradurlo» rispose Francesca.
Le pagine erano evidentemente consumate dal tempo. I fogli apparivano ingialliti e sporchi di terra. D’altronde aveva passato gli ultimi 8 decenni sotterrato.
Di sicuro, Hubert, non aveva scritto in modo tale da renderlo pubblico dopo la sua morte. Infatti erano presenti molteplici cancellature e piccole note sparse un po’ ovunque.
Il lavoro di traduzione non sarebbe stato facile, ma era necessario. Chissà quale segreto si nascondeva tra quelle pagine.
 
Ritornato a casa, Leonardo, notò il messaggio che gli aveva lasciato Elena. Dopo averle risposto con un altro sms, decise di chiamarla. “Devo risolvere questa situazione al più presto”.
«Leo, dobbiamo vederci. Ho bisogno di parlarti» era stata la prima cosa che aveva detto la ragazza al telefono.
«Che ne dici di domani? Io sono appena tornato da Berlino».
«Com’è andata?».
«Abbiamo trovato la combinazione e siamo riusciti ad aprire quel vecchio diario!».
 
«Verdammt!» esclamò Bastian.
Era uno dei collaboratori di Losener che capiva e parlava perfettamente l’italiano.
“E così avevano un vecchio diario da aprire, eh?”. Sapeva che quella storia sarebbe entrata nel vivo dopo quelle rivelazioni. Se c’era anche solo una minima possibilità di compromettere la loro setta segreta, Kurt avrebbe fatto di tutto al fine di assicurarne l’incolumità.
 
Dopo aver organizzato l’incontro per il giorno seguente con la sua ex-fidanzata, Leonardo chiuse la chiamata.
E Bastian si diresse nell’ufficio del suo capo.

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 ***


CAPITOLO 29
 
Seduto sulla sua comoda poltrona in pelle, Kurt fissava il quadro di fronte a lui. Rappresentava un cielo grigio stagliato su un mare in tempesta.
“Sono tempi bui, ma presto torneremo ad affermarci. Come mio padre ha sempre desiderato”.
Quella organizzazione era stata fondata da Raymond Losener nel 1945, in concomitanza con la fine della Seconda Guerra Mondiale, in cui il nazismo venne estirpato definitivamente dalla Germania. Però la Fenster Geschlossen si prodigava di conservarne le istituzioni, con l’intento di voler creare un nuovo popolo la cui bibbia sarebbe stato il Mein Kampf.
Ma questo privilegio sarebbe spettato a suo figlio. La setta sarebbe dovuta crescere e così, anche la maturazione della nazione con essa. Riproporre un neonazismo a pochi anni dallo smantellamento di quello precedente sarebbe stato un gesto avventato e da folli.
Ma adesso, tutto era pronto al loro glorioso ritorno.
«Signor Losener» esordì Bastian, entrando.
Kurt, distolto da quei piacevoli pensieri, lo guardò e subito intravide il documento che aveva tra le mani.
«Molto bene, c’è voluto meno tempo di quanto credessi».
Prese quel foglio e iniziò a leggere quanto c’era scritto. La sua serenità venne subito intaccata. “Diario?”.
Suo padre gliene aveva parlato, sebbene non con l’importanza dovuta. “Se il diario di un certo Hubert Schreiber dovesse essere mai ritrovato, la nostra organizzazione rischierebbe di essere compromessa”.
Nel corso di tutti quegli anni erano stati inviati molteplici uomini in Italia, in Francia, in Spagna e in molti altri paesi europei allo scopo di ritrovare quel taccuino. Ma tutte le ricerche avevano avuto esiti negativi. Così aveva varato l’idea che quel diario fosse andato perduto, se non, addirittura, distrutto.
La sua inquietudine si trasformò in rabbia. “Com’è possibile che persone altamente qualificate e con quel preciso dovere non siano riuscite a trovarlo e un ragazzino qualunque ce l’ha tra le mani in questo momento?”.
Non dovette neanche proferire l’ordine a Bastian. Una squadra era già pronta a prendere il primo treno per Roma.
Quel diario era di vitale importanza. Non potevano rischiare di mandare tutto all’aria proprio ora che erano pronti a reclamare il potere che gli spettava, essendo la razza superiore che avrebbe dominato dapprima l’Europa e poi il mondo intero.
 
Continuava a tamburellare nervosamente con le dita sul tavolo. Aveva messo i migliori vestiti che aveva. Era come se fosse andata ad un appuntamento di lavoro importantissimo.
Invece, Elena, era semplicemente seduta ad un tavolino di un bar, in attesa di Leonardo. Non aveva ancora ordinato nulla. L’impazienza la stava divorando e guardava continuamente l’orologio.
Poi ebbe un tuffo al cuore. Lo vide in lontananza e il suo respiro si bloccò per qualche istante. Provò a riprendersi in fretta, in modo tale da non dare l’impressione di essere ancora disperatamente innamorata di lui.
In fondo sapeva che il destino di quella relazione dipendeva esclusivamente da quell’incontro.
«Ciao» esordì Leonardo.
«Ciao» rispose Elena, abbassando lo sguardo.
«Credo di doverti delle scuse».
In quel momento il ragazzo si sentiva impotente di fronte a lei. Non voleva spezzarle il cuore, era evidente che si trovava davanti ad una persona colma d’amore per lui.
Ma quella situazione doveva essere affrontata. Fece un bel respiro e continuò: «Avrei dovuto parlartene prima e non aspettare tutto questo tempo».
Elena sembrava aver capito su che binario si era indirizzato Leonardo. E non era quello che si sarebbe aspettato. Non era quello che voleva.
Così lo interruppe e cercò, in extremis, di salvare ciò che era, ormai, irrecuperabile.
«Prima che tu continui voglio dirti che ho capito i miei errori. Hai ragione, forse sono cambiata in questi anni, ma so che una sola cosa è rimasta la stessa, se non addirittura più forte e potente. Il mio amore per te. Ho capito che non riesco a convivere con la tua assenza».
Lo prese per mano e lo guardò intensamente negli occhi: «Io ho bisogno di te. Non voglio perderti».
Leonardo si sentiva uno straccio a doverle dire la verità. Non avrebbe potuto far finta di niente e dirle che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi.
Lasciò le mani di Elena e disse la frase che avrebbe messo fine ad ogni sua speranza: «Io non ti amo più».
La ragazza si sentì invadere da una rabbia sempre più grande.
«Sei uno stronzo!», urlò.
Dopodiché, con tutte le sue forze, trattenne le lacrime.
«Ascoltami» proseguì Leonardo. «È normale nella vita crescere e cambiare. Noi stiamo insieme da quando non eravamo altro che ragazzini. Purtroppo la vita vera non è come nelle favole, non si vive per sempre felici e contenti. Io non volevo che andasse a finire così, ma avevo la necessità di essere il più sincero possibile con te».
Elena si lasciò prendere dallo sconforto. Prese dalla borsa il suo pacchetto di fazzoletti e iniziò a piangere. Si sentiva persa, abbandonata. Che cosa avrebbe fatto ora? La persona a cui teneva più di tutti al mondo l’aveva lasciata. Non riusciva a sopportare tutto quel dolore. Avrebbe voluto morire proprio in quell’istante.
Leonardo si sentiva a disagio. Non sapeva che comportamento assumere. Avrebbe dovuto abbracciarla? Ci provò, ma venne subito respinto da lei.
Si guardò intorno e notò che le poche persone sedute nel bar li stavano osservando.
«Mi dispiace» fu tutto ciò che riuscì a dire in quel momento.
All’improvviso il suo cellulare iniziò a squillare. Forse non era il momento ideale per rispondere ma, dato che la chiamata era di Francesca, probabilmente era qualcosa di importante.
«Dimmi, Fra. Novità sul diario?».
«Assolutamente» rispose la voce dall’altro capo del telefono. «È il caso che tu venga qui quanto prima».
Elena, sentendo quel nome, venne sopraffatta dall’ira. Appena Leo ebbe chiuso la chiamata, si asciugò le ultime lacrime e disse stizzita: «Cos’è successo? La tua piccola Fra ha bisogno di te?».
«Sì, ha degli aggiornamenti sulla traduzione del diario» rispose il ragazzo, rimettendo il cellulare in tasca. Poi, ripensando alle parole della sua ex-fidanzata, continuò: «Hai detto piccola?».
«Lo sapevo che era colpa di quella troia se adesso mi stai lasciando».
«Non è colpa di nessuno! Ti sto lasciando per i motivi che ti ho elencato. Francesca non c’entra nulla. Come ti ho già ampiamente spiegato, lei mi sta solo aiutando con quel diario».
«Lascia perdere Leo, vattene. Non voglio più vederti».
Quell’attimo fu il più brutto in assoluto, per Leonardo. Capiva la reazione di Elena. Non seppe cosa fare, se salutarla o meno. Era un pezzo importantissimo della sua vita che stava per abbandonare per sempre.
Così cercò di essere il più sincero possibile: «Spero che tu possa trovare un uomo che ti ami quanto tu hai amato me. Perché te lo meriti. Mi dispiace averti fatto questo ma, credimi, è meglio così».
Detto ciò, si girò e uscì dal bar.
Elena rimase a guardarlo allontanarsi. Era come se qualcuno le avesse trafitto il cuore con una dozzina di coltellate.
E finalmente si concesse di piangere.

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Capitolo 31
*** Capitolo 30 ***


CAPITOLO 30
 
Portogallo, 1943.
 
Incredibilmente la maggior parte degli ebrei erano in salvo. Gli altri sarebbero arrivati nel giro di qualche settimana e, anch’essi, poi partiti per l’America.
«Padre, non so come esprimerle tutta la mia riconoscenza. Grazie al suo aiuto siamo riusciti a fare qualcosa di impensabile» esordì Hubert, col cuore traboccante di gratitudine.
«Figliolo, il nostro è stato solo un ruolo marginale. Tutte queste persone devono la loro vita a te» rispose il prete, indicando la nave.
Schreiber si voltò e vide tutta quella folla ringraziarlo e benedirlo. Solo in quel momento si rese conto della sua epica impresa.
Si emozionò profondamente. Sapeva che si sarebbero ricordati di lui per tutta la vita.
Le nuvole minacciavano pioggia e i loro vestiti stracciati bastavano appena a proteggerli dal freddo, ma ciò che li scaldava era sapere che si stavano dirigendo verso un futuro fatto di speranze, sogni e, soprattutto, vita.
Hubert si rimboccò nel suo cappotto, che presentava ancora le insegne della Wehrmacht, e salì in macchina con Padre Coppi.
«Sai, vero, che adesso ti staranno cercando?» disse l’ecclesiastico.
 «Sì, e so anche che tutto quello che riusciranno a trovare sarà un cadavere».
 
«Morto?» esclamò, sorpreso Wohlfahrt.
Non poteva aver fatto tutta quella strada per scoprire che colui che stava inseguendo era ormai passato a miglior vita.
«Sì, signore. È arrivato un telegramma da Büren che conferma la morte del capitano Schreiber» rispose Werner Freiherr, responsabile della dogana.
«Stupidaggini! È proprio da quella città che è scappato! Le uniche notizie certe sono che ha disertato e che è scappato attraverso la Francia con un treno ricolmo di ebrei».
Patrick e il suo assistente si trovavano a discutere presso il centro amministrativo della Wehrmacht di Bordeaux. Avevano avuto la speranza di ottenere informazioni preziose per la loro ricerca, ma non era stato così.
Dopo aver girovagato per l’intero territorio francese e aver interrogato tutti i possibili testimoni si trovavano ora ad un punto morto.
«Dobbiamo procedere sul campo, percorrere la stessa strada di quel maledetto Schreiber» disse a Puckle.
Theodor conosceva bene il suo capo. Sapeva che non avrebbe avuto pace finché non avrebbe trovato Hubert. Vivo o morto. Era quasi ora di pranzo e aveva molta fame. Ma le intenzioni del suo superiore erano molto diverse dalle sue.
«Gambe in spalla, dobbiamo scoprire chi ha emanato quel telegramma» concluse con decisione Wohlfahrt.
Così, si alzarono ed uscirono.
 
Rimasto solo, Werner, si apprestò a prendere una penna e a scrivere una missiva.
Era uno dei sovversivi e, cosa ancor più importante, aveva avuto anch’egli un ruolo fondamentale nella fuga da Niederhagen.
Qualche mese prima era stato contattato da altri membri di quella che era, a tutti gli effetti, una società segreta. Le informazioni circolavano in maniera assolutamente anonima, in modo tale che se fossero stati scoperti si sarebbe garantita l’incolumità di quelli che ne facevano parte.
Ciò che gli era stato chiesto era di far passare un treno che aveva a bordo alcune migliaia di prigionieri e di spacciarlo per un treno merci.
Qualcun altro si sarebbe preoccupato di far arrivare la notizia della morte del capitano Schreiber.
Dopo aver ultimato la sua lettera, procedette a farla spedire, stando sempre ben attento a non destare troppi sospetti.
 
“Caro H., sono W.F.
Devo comunicarle che, sebbene tutto sia andato secondo i piani, la notizia della sua morte non ha convinto appieno l’investigatore Wohlfahrt.
Se posso permettermi di darle un consiglio fraterno, provveda a salpare per l’America insieme ai suoi fuggiaschi. Se dovessero trovarla finirebbe nei guai grossi. Con stima, W.F.”.
Dopo aver letto il messaggio, Schreiber fu tutt’altro che scoraggiato dal tornare in Germania.
La sua missione non era finita. Poteva fare ancora molto. Le sue conoscenze presso gli ufficiali tedeschi potevano permettergli un rapido reinserimento a Berlino, così da poter continuare a fronteggiare il nemico dall’interno.
«Come hai intenzione di agire questa volta?» chiese Padre Carl.
«Non posso, certo, ritornare così come sono. Mi riconoscerebbero subito. Dovrò tingermi i capelli, farmi crescere i baffi e, magari, cambiare anche qualche fattezza facciale».
I due vivevano su una piccola montagna portoghese insieme a tutti quelli che avevano collaborato alla fuga dal campo di concentramento, al sicuro da sguardi indiscreti. Ma ben presto sarebbero ritornati in Francia e in Germania a continuare la loro missione.
 
Così, Hubert cambiò il suo aspetto, grazie anche ad una protesi per fingere un naso più grosso del suo.
In fondo si sentiva anch’egli un po’ preoccupato. Se l’avessero scoperto? Sarebbe stato fucilato all’istante, senza dargli neanche il tempo di esalare l’ultimo respiro.
Era diretto a Berlino con un nuovo nome: Karl Visser. Tramite le sue conoscenze era riuscito a spacciarsi come il nuovo autista di Adolf Stucke, nominato qualche giorno prima dell’incidente al campo di Niederhagen e, quindi, senza essere stato ancora ufficializzato.
Grazie all’opera di mistificazione di tutte le prove che avrebbero ricondotto a lui, l’investigatore Wohlfahrt aveva ottenuto per la prima volta nella sua carriera un insuccesso.
Non si era dato per vinto ma, di Schreiber, non vi era più traccia.
 
Hubert si trovava seduto di fronte a colui che avrebbe deciso il suo destino, Mark Liauer.
Sfogliando alcuni documenti, cercava di scoprire quanto più potesse sull’uomo che aveva di fronte: Karl Visser.
Aveva ricevuto la sua richiesta di essere impiegato come autista e, dato il clima di sospetto che si era creato in Germania presso le alte cariche militari, non ne era pienamente convinto.
«Lei ha detto di essere stato nominato da Adolf Stucke, dico bene?» esordì Liauer.
«Esatto. Avrei dovuto iniziare qualche giorno dopo il tragico incidente del lager».
Schreiber misurava con attenzione le sue parole. Sarebbe bastata una singola incongruenza e la sua copertura sarebbe saltata.
Alle sue spalle c’erano due guardie a vigilare sull’ingresso. I controlli erano aumentati e non ci si fidava più di nessuno.
«E come mai non ci sono documenti che attestano ciò?».
«Avevo ricevuto una telefonata per via informale dallo stesso Stucke, il quale avrebbe dovuto provvedere a divulgare la documentazione necessaria nel giro di qualche giorno».
Mark non aveva trovato alcuna corrispondenza di quanto affermato da Karl. Chi aveva avuto contatti con Adolf prima della sua morte sapeva che non avrebbe ingaggiato altri autisti in quanto ne aveva già uno da lunga data. Hubert, che ne era a conoscenza, giocò questa carta a suo favore.
«Sapeva che il suo autista era un po’ avanti con gli anni», continuò Schreiber. «Per questo aveva intenzione di assumermi, al fine di farmi prendere il suo posto nel caso in cui ci sarebbe stata la necessità di attraversare grandi distanze».
Liauer era sempre più titubante. Ma avevano la necessità di arruolare quanti più uomini fosse possibile. La guerra stava prendendo una piega inaspettata e l’afflusso di soldati sui vari fronti di guerra era aumentato.
Dal lato orientale i tedeschi avevano subìto continue e pesanti sconfitte per mano dei sovietici, con un grave danneggiamento dell’imbattibile esercito nazista che ora si presentava inferiore sia di numero che di munizioni rispetto a quello russo.
Sulla zona di combattimento meridionale, invece, erano impegnati a dover consolidare la Linea Gustav, che divideva la penisola italiana in due. I tedeschi a nord e gli anglo-americani a sud.
Hubert era favorevolmente colpito da questa piega. Sapeva che, se avesse agito nel migliore dei modi, il suo aiuto sarebbe stato di fondamentale importanza per decidere le sorti di quel conflitto.
Liauer ripose i fogli all’interno dello schedario e allungò la mano a Visser.
«Congratulazioni, lei è il nostro nuovo autista».
Schreiber non poteva credere a quelle parole. Era riuscito a raggirare quegli ufficiali e ad ottenere quel posto.
Da questo momento in poi sarebbe iniziata la seconda fase del suo piano.

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Capitolo 32
*** Capitolo 31 ***


CAPITOLO 31
 
«Resta in macchina, sarà una cosa breve» gli ordinò Dietmar Luchte, il suo superiore.
Hubert, che ora aveva adottato un altro nome, aveva vissuto per un anno al servizio della Wehrmacht.
Era stato sempre ben attento a nascondere la ricostruzione del suo naso, che gli veniva risistemato settimanalmente dal suo stretto collaboratore Clemens Grummel.
Anch’egli ricopriva un’importante posizione nella gerarchia del reich.
Ormai, gli uomini cecamente fedeli al führer si potevano contare sulle dita di una mano.
Per come si era messa la guerra, ognuno mirava a salvarsi la pelle. Così, Hubert e Clemens, in quel clima di confusione e insicurezza che si era creato, poterono agire indisturbati.
Avevano escogitato alcuni modi particolarmente efficaci per scambiare informazioni con gli alleati inglesi e americani. Dei russi, Schreiber, non si fidava affatto. Avrebbero potuto firmare un accordo segreto con Hitler in qualunque momento e smascherare tutta la rete di spionaggio che era stata creata.  
In quel momento si trovava dinnanzi al bunker del führer. Era stato un autista particolarmente efficiente e, per questo, si era conquistato il merito di poter guidare le auto della cerchia ristretta di Hitler. Per questo gli era stato possibile ascoltare alcune conversazioni segrete, visionare documenti importanti e, perfino, distruggere alcuni rapporti dell’agenzia di controspionaggio del reich. Quelli erano stati comportamenti avventati, ma, di rilevante importanza perché quei fascicoli contenevano informazioni sia sugli spostamenti che sulle tattiche militari degli anglo-americani.
Ma la sua opera di depistaggio non si era limitata a quello.
Gli era capitato più di una volta di far giungere notizie errate al quartier generale dell’intelligence militare tedesca, in modo tale da salvaguardare le incursioni dei paracadutisti alleati, facendo dirigere i soldati nazisti nei posti sbagliati.
Così, tutte le informazioni che venivano ottenute dagli ufficiali della Wehrmacht e dalle SS, venivano immediatamente comunicate all’MI5, l’agenzia di spionaggio britannica. Il tutto, ovviamente, senza destare il minimo sospetto.
Era riuscito, invece, ad instaurare il sentimento contrario nei militari che serviva, facendo di lui uno dei pochi uomini di cui essi potevano fidarsi. Non avrebbe mai immaginato, però, che nel giro di qualche settimana sarebbe stato testimone di uno degli avvenimenti più sconvolgenti di quel periodo.
Ma ciò che contava in quel momento era di essere riuscito nel suo intento.
Oltre ad aver fatto fuggire migliaia di ebrei, adesso si trovava a fronteggiare nuovamente il nemico dall’interno.
 
Quella mattina, guidando per raggiungere il rifugio di Hitler, aveva visto in che modo la guerra stava riducendo Berlino. Non era più la città fiorente di qualche mese prima.
Goebbels, il ministro della propaganda, continuava a rassicurare gli abitanti mandando messaggi radiofonici in cui asseriva che la capitale tedesca era la città più sicura della Germania e che avrebbe resistito a qualunque assalto. Ma, Hubert, guardandosi intorno, aveva l’impressione opposta.
Macerie ovunque. I palazzi erano stati mutilati dalle continue raffiche di bombe, che avevano spianato più di 2600 ettari.
Gli era anche capitata una situazione particolarmente bizzarra e allo stesso tempo sconvolgente. Si era imbattuto in un canguro che vagava senza meta tra le rovine degli edifici. Questo perché, inevitabilmente, anche lo zoo di Berlino aveva subito dei gravi danni, facendo fuggire alcuni animali.
Ogni istante che passava ad assistere a quello scempio desiderava sempre di più che la guerra finisse. A farne le spese, ora, erano migliaia di innocenti, che senza più una casa erano costretti a vivere in alloggiamenti di fortuna.
Eppure, riusciva ad intravedere nei berlinesi una voglia di vivere che andava oltre tutto quello strazio. Le fabbriche continuavano a produrre, i postini continuavano a recapitare le lettere, i giornali continuavano a uscire quotidianamente, alcuni teatri e cinema erano ancora in attività.
Forse la soluzione di tutto era semplicemente evitare di pensare al peggio, sperando che tutto sarebbe presto andato per il meglio.
Ma Schreiber, avendo ascoltato gli ordini che Hitler smistava ai suoi ufficiali, sapeva che non sarebbe stato così. Ormai, per il führer, il popolo non contava più nulla. La Germania doveva essere rasa al suolo, al fine di non far cadere nulla nelle mani del nemico. Secondo la sua mente logorata, era preferibile che la nazione venisse annientata piuttosto che consegnare tutte le sue risorse ai rivali.
Anche per questo c’era stata la disposizione di nascondere nei posti più impensabili tutte le ricchezze del reich, comprese le opere d’arte che avevano requisito in giro per l’Europa.
Fu destato dai suoi pensieri quando Luchte aprì la portiera dell’auto. Gli sembrava particolarmente preoccupato. Avrebbe voluto sapere cosa fosse successo, ma sapeva di non poter ottenere quelle informazioni. A meno che, Dietmar, non gliele avesse confessate spontaneamente.

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Capitolo 33
*** Capitolo 32 ***


CAPITOLO 32
 
L’inquietudine di Luchte era tangibile. Aveva ricevuto, con tutta probabilità, l’incarico più importante di tutta la guerra. Se qualcosa fosse andata storta, non solo avrebbe pagato con la vita, ma avrebbe mandato all’aria il progetto. Un progetto che aveva impiegato parecchi anni, parecchio denaro e parecchie menti geniali provenienti da tutta la Germania e dal resto dell’Europa per essere realizzato.
La cartellina che aveva tra le mani gli sembrava più pesante di un macigno, così la pose sui sedili posteriori. Diede un’occhiata al suo autista e, poi, gli ordinò di fermarsi.
«Fermati fra 400 metri. Ho bisogno di riprendermi».
«C’è qualche problema?» domandò Hubert, provando ad aprire una conversazione.
«No, ho solo voglia di rilassarmi un po’».
Dietmar sapeva benissimo di non dover parlare di quello che gli era stato commissionato. Gli era severamente vietato discutere di quell’argomento al di fuori delle sedi appropriate. Specialmente con un semplice autista.
«Parcheggia e aspettami qui. Puoi prenderti qualcosa da bere nel frattempo» disse Luchte scendendo dalla vettura ed entrando nel bordello.
Schreiber riusciva a leggere perfettamente i comportamenti delle persone, e, quello, non era certo un uomo che voleva semplicemente distrarsi. Non era riuscito neanche ad intavolare un discorso al fine di scoprire qualcosa in più. Forse era preoccupato per la propria vita, data la piega che il conflitto aveva preso. Forse stava organizzando una fuga per non finire nelle mani degli alleati. Oppure c’era sotto qualcos’altro?
Doveva capire di cosa si trattasse al più presto. Entrò nel parcheggio posto di fianco al’edificio. “A quanto pare non è il solo a voler godere della compagnia di qualche prostituta”.
Lo spazio era stato completamente occupato dalle auto già parcheggiate e trovare un posto per la sua sarebbe stato impossibile. E questo era inquietante, dato che era tarda mattina e che ogni mezzo aveva trasportato almeno 4 uomini.
Si allontanò, parcheggiando la vettura nel primo posto libero che aveva trovato, poco distante. Prima di scendere e recarsi anch’egli in quel palazzo, aveva notato la cartellina lasciata da Luchte.
Si diede un’occhiata intorno e l’agguantò.
“Con questa riuscirò a scoprire cosa sta nascondendo”.
In quei fogli non venivano menzionati né gli anglo-americani, né tantomeno i russi. Non era né un piano per contrattare l’armistizio né per scatenare un contrattacco al nemico. Si alludeva semplicemente ad una segretissima operazione, chiamata ‘Fenster Geschlossen’. Questa era stata letta ed approvata da Hitler.
Cercò qualcosa che esponesse qualche informazione in più, ma non ne ebbe il tempo. Fortunatamente, alzò lo sguardo proprio nel momento in cui Dietmar era uscito dal bordello. Si stava guardando intorno alla ricerca del suo autista. “Dove diavolo si sarà cacciato Visser? Dannazione! Gli avevo detto di parcheggiare qui”.
In tutta fretta, Schreiber, richiuse la cartellina, stando attento all’ordine dei fogli, e la riposizionò nei sedili posteriori. Riaccese l’auto e si diresse verso Luchte.
«Scusi signore, non avevo trovato parcheggio qui così sono andato a cercarlo da un’altra parte» si scusò.
«Ve bene, non mi interessa. Ho lasciato i miei documenti in macchina. Sai che mi fido di te, ma sono di vitale importanza».
«Non ci avevo fatto caso».
«Meglio così».
«Ha già fatto?».
«No, le ragazze sono tutte occupate».
Schreiber non si stupì a quelle parole. Era semplice intuirlo. Il parcheggio era sempre stracolmo. Gli uomini erano sempre più stressati dall’avversa piega della guerra e avevano sempre più bisogno del piacevole calore di una donna.
«Accompagnami a casa, qui ci verrò dopo».
 
Nei giorni che seguirono, Luchte era sempre più angosciato. “Ma perché proprio io?”. Era in attesa di una chiamata che avrebbe sancito l’inizio del suo operato. Essendo un’operazione riservata a pochi, non avrebbe potuto contare neanche su Karl.
E se lo avesse coinvolto? Dopotutto lo aveva servito per un anno alla perfezione. Era sempre stato puntuale quando veniva a prenderlo a casa e la sua guida era sempre stata impeccabile. Ma era semplicemente un autista. E se si fosse fatto sfuggire anche solo una parola avrebbe rischiato di essere fatto fuori.
Non aveva più compiti militari o civili. Doveva solo aspettare che gli venisse comunicato l’inizio della missione. Questo lo snervava. Era una persona determinata, ma, estremamente ansiosa.
Continuava ad andare avanti e indietro nel suo alloggio, ogni giorno, dalla mattina alla sera. Era più pensieroso del solito. Rifletteva sulle conseguenze di ciò che stava per fare. Eppure ci si era ficcato da solo in quella situazione. Si era maledetto diverse volte per questo.
Ma l’offerta di una vita lussuosa e agiata lo aveva spinto ad accettare.
 
Hubert era stato chiamato da Dietmar solo per essere accompagnato al bordello e per essere riportato a casa. Accadeva quasi tutti i giorni, da quando aveva ricevuto quella cartellina. “Se solo fossi riuscito a capire di cosa si trattava”. Più volte aveva provato a far parlare il suo superiore, ma non era mai riuscito a farsi confidare nulla. Aveva persino interrogato le prostitute con cui andava, al fine di estorcere anche la minima informazione. Ma non era riuscito a cavare un ragno dal buco.
 
Finché arrivò il giorno più importante di tutti. Quello in cui sarebbe iniziata ufficialmente l’operazione.
Schreiber sapeva che Luchte avrebbe dovuto fare qualcosa di fondamentale importanza, in quanto gli aveva ordinato di mantenere la disponibilità a qualsiasi ora. Venne svegliato alle sei del mattino. Si vestì e si diresse all’abitazione di Dietmar. Si era rammaricato per non essere riuscito a smascherare ciò che stava per prendere vita. Ma non poteva rischiare di compromettere la sua copertura. Era ancora utile all’interno del reich. Si stava avvicinando sempre di più al führer. Un giorno o l’altro sarebbe potuto entrare nel bunker dove era rinchiuso. E sapeva che appena ne avrebbe avuto l’opportunità, lo avrebbe ucciso. Molti, prima di lui, aveva attentato alla vita di Hitler e, tutti, avevano fallito. La fortuna lo aveva assistito.
Ma questa volta era diverso, avrebbe fatto di tutto pur di eliminare l’obiettivo. Anche perdere la propria vita. Anche se, a questo punto della guerra, il führer era più utile vivo che morto agli alleati. I suoi ordini stavano facendo colare a picco ogni resistenza che si opponeva ai russi e agli americani. Le sue abilità di stratega era si completamente esaurite. Le direttive che dava ai suoi ufficiali erano assurde, tanto che alcuni si rifiutavano di attuarle.
Ma Hubert era certo che, se si fosse trovato faccia a faccia con Hitler, lo avrebbe ucciso a sangue freddo, senza pensarci due volte.
Luchte scese bianco in volto ed entrò in auto.
Il luogo dove voleva essere accompagnato era nel bel mezzo di un bosco. Non venne proferita neanche una parola durante il tragitto. Ma Schreiber poteva sentire perfettamente il respiro affannato di Dietmar.
Nonostante vestisse con un pesante cappotto e un paio di guanti, lo vide tremare dal freddo. Ma sapeva bene che quello non era un tremito legato alla temperatura. Giunti a destinazione vide un’altra vettura, con i fari spenti, ad aspettarli.
«Per oggi considerati in congedo, Karl» disse Luchte prima di andarsene.
Hubert non parlò. Lo vide entrare nell’altra auto e allontanarsi nell’oscurità.
Ma, un’impercettibile particolare non gli era sfuggito. Non era sicuro di quello che avesse visto. Probabilmente il sonno e la non perfetta visibilità gli avevano giocato un brutto scherzo. Ma, dato il comportamento tutt’altro che naturale del suo superiore, si convinse che ciò che aveva scorto non era stata un’allucinazione. E così ne era rimasto intimorito.
Quella vettura trasportava una strana bara di vetro.

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Capitolo 34
*** Capitolo 33 ***


CAPITOLO 33
 
Italia, ai giorni nostri.
 
“Il peggio è passato” pensò Leonardo. “Gliel’ho detto e sono stato sincero, questa relazione è ufficialmente finita”.
Dopo essersi chiarito con Elena, si sentiva libero di potersi abbandonare completamente a Francesca. “Farò bene a dichiararmi adesso?”. Forse avrebbe dovuto aspettare qualche giorno. Altrimenti la ragazza si sarebbe sentita in colpa, come se la causa della rottura di quel fidanzamento fosse stata lei.
“Sarebbe meglio parlarne prima con Pinto”.
La sua auto sfrecciava per le strade di Roma, imboccando scorciatoie al fine di non beccare traffico.
Era doppiamente agitato. Si stava recando dalla ragazza di cui si era innamorato e che gli avrebbe dato aggiornamenti su quanto scoperto dal diario.
Solo qualche settimana prima non avrebbe mai immaginato che la sua vita si sarebbe capovolta in questo modo.
‘Sei felice della tua vita?’ aveva letto su un cartellone pubblicitario. Non si sentiva ancora in grado di dare una risposta a quell’interrogativo. Tutto dipendeva da Francesca. La sua vita si era trovata ad un bivio, e, aveva deciso di imboccare la strada del cambiamento, la strada dell’avventura. La strada dell’amore.
 
«Allora? Dove sono in questo momento?» chiese, preoccupato, Kurt.
«Hanno appena oltrepassato la Svizzera, entro sera saranno nella capitale italiana» rispose uno dei suoi collaboratori.
«Faranno meglio a sbrigarsi, voglio quel diario sulla mia scrivania entro 24 ore».
«Sono i nostri migliori uomini, faranno un lavoro accurato e veloce».
«Lo spero per loro».
Se gli fosse stato possibile, anche Losener sarebbe andato a Roma con le due squadre inviate. La situazione che si era creata era troppo delicata.
Avevano deciso di viaggiare in treno in quanto era il mezzo più veloce che potevano permettersi. Su di un aereo non sarebbero mai riusciti a superare i controlli di sicurezza e a portare con loro le armi. E lo stesso sarebbe stato per l’auto.
Ma tutte quelle ore di attesa erano troppe. E non c’era nulla che il leader del Fenster Geschlossen potesse fare per ingannare il tempo. Se non quello di rimuginare su quanto stesse succedendo.
 
“Appena saprà quello che ho scoperto” pensava Francesca, “rimarrà sicuramente più esterrefatto di me!”. Era stato un lavoro lungo e faticoso, ma la metà del diario era stata tradotta. Rimanevano ancora diverse pagine. Non si era data tregua, la curiosità era troppa per concedersi delle pause. Era stata sveglia tutta la notte e man mano che traduceva quelle pagine la sua eccitazione aumentava sempre di più.
Ma ora era giunto il momento di condividere quanto scoperto, con Leonardo.
Nell’attesa si era distesa sul suo divano, a ripensare ai giorni trascorsi insieme a Berlino. Erano stati brevi ma intensi. Quel ragazzo le aveva stregato il cuore. Ma sapeva che non poteva fare passi falsi. Dopotutto era ancora fidanzato, nonostante la sua relazione procedesse con diverse problematiche. “Se anche lui potesse innamorarsi di me, sarebbe fantastico”. Ma quei pensieri erano, appunto, fantastici. Appartenenti ad un mondo immaginario. Doveva accontentarsi di una semplice amicizia. E poi, chissà, un giorno avrebbe incontrato qualcuno che sarebbe stato in grado di farla innamorare di nuovo. Era una situazione complicata, sapeva che sarebbe stato difficile continuare a lavorare fianco a fianco. Ma allora, cosa doveva fare? Sentì a poco a poco le palpebre diventare sempre più pesanti.
Proprio in quel momento il citofono tuonò. Il suo cuore si fermò per qualche istante. Dopo aver ripreso fiato per lo spavento, si alzò ed andò ad aprire.
Preparò un vassoio con dei biscotti e mise a bollire dell’acqua calda per un the. Quando Leonardo bussò alla porta, Francesca aprì quasi istantaneamente.
«Cosa ti è successo? Mi sembri spaventata» esordì il ragazzo.
«Mi ero solo appisolata, sono stata tutta la notte a tradurre».
Aprì uno sportello estraendo una piccola scatola con delle bustine aromatiche all’interno e continuò: «Poi tu hai bussato facendomi svegliare».
«Scusami, ma tu mi hai chiamato poco fa dicendomi di poter venire!».
«Si infatti. Ma non fa niente! Vuoi un po’ di the?».
Leo aveva notato che la giovane aveva preparato tutto il necessario per fare colazione insieme.
«Visto che insisti, non posso che accettare» rispose.
«Ho una bella e una brutta notizia, quale vuoi sentire per prima?».
«La buona» rispose preoccupato.
«Dunque, la bella notizia è che sono riuscita a tradurre metà delle pagine del diario». Spense il fuoco e versò l’acqua bollente in due tazze. Poi proseguì: «La cattiva è che ci sono alcuni termini di cui non ho mai sentito parlare».
«Questo significa che non sei riuscita a ricavare nessuna informazione?».
«Al contrario, ho scoperto delle cose agghiaccianti».
Francesca lo invitò a sedersi per consumare insieme la colazione, poi prese i suoi appunti e iniziò a leggerli.
«Si tratta di un vero e proprio diario. Nonostante abbia saltato alcune parole, il senso di quello che vi è raccontato è abbastanza chiaro».
«Dai, non farmi stare sulle spine, cosa c’è scritto?».
«C’è la data del 2 Aprile 1945 e il nostro amico inizia scrivendo: “Il mio nome è Hubert Schreiber e lascio questo diario ai posteri, con la speranza che quanto stia scoprendo in questi giorni non si sia concretizzato nel futuro”».
«Oh mio Dio, allora abbiamo tra le mani qualcosa di davvero importante!» saltò dalla gioia Leonardo.
«Per questo sono stata tutta la notte a tradurre!».
«Non perdiamo tempo, va avanti».
La ragazza bevve un sorso di the e intraprese la lettura di ciò che era rimasto nascosto al mondo per circa ottant’anni.

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Capitolo 35
*** Capitolo 34 ***


CAPITOLO 34
 
2 Aprile 1945.
 
Il mio nome è Hubert Schreiber e lascio questo diario ai posteri, con la speranza che quanto stia scoprendo in questi giorni non si sia concretizzato nel futuro. La natura è capace di dare vita al male in forma umana e, questa,in quanto tale,  è in grado di realizzare progetti disumani e inquietanti.
Sono stato al servizio del Terzo Reich per diversi anni, per poi rendermi conto che quello fosse il versante sbagliato sul quale combattere la guerra. Questa spietata guerra. Non ho mai condiviso in pieno gli ideali di quel folle che si fa chiamare ‘führer’. Tutti lo seguono, come una mandria di pecore senza senno e senza coscienza. Ma io ho avuto la forza di reagire.
Ho cercato di sfruttare al meglio la mia posizione all’interno della Wehrmacht per provare ad attutire, in parte, quanto si sta verificando in questa terribile nazione, e in altre. Non so se quello a cui sto assistendo avrà avuto fine o persisterà ancora per molti anni. Ma, da quello che sono riuscito a carpire da alcuni ufficiali, gli alleati sono più vicini che mai. Non posso sperare che arrivino quanto prima.
 Questo che ho, e che avete, tra le mani è un diario sottratto alle SS. Si tratta di una innovazione in campo spionistico, sfruttato per racchiudere informazioni segrete senza che nessuno, eccetto chi è in possesso della giusta combinazione, possa aprirlo e venirne a conoscenza. Ho fiducia in chi sia riuscito a ritrovarlo e ad aprirlo. So che il mio futuro è in pericolo. Sto rischiando sempre di più per avvicinarmi a scoprire quale sconvolgente e ignota follia stiano architettando i nazisti.
Per quanto io sia fiero di essere tedesco, non posso fare altro che disprezzare con tutto me stesso chi, incurante della preziosità della vita altrui, si macchia di efferati crimini senza batter ciglio.
Ho assistito all’assassinio di molteplici ebrei quando ho prestato servizio presso il campo di Niederhagen, senza poter fare nulla per evitarlo. Ma ho covato, in segreto, una vendetta. Però, sia chiaro, la mia, di vendetta, non contemplava spargimento di sangue. Mi sarebbe bastato portare in salvo tutti gli ebrei di quel lager. E per farlo, era necessario spargerlo, il sangue. Avrei voluto assistere di persona, all’esplosione. Per poter vedere tutte le espressioni di quei bastardi assassini.
Forse non ne siete a conoscenza ma, il campo, quello di Niederhagen, l’ho fatto saltare io, insieme all’aiuto di preziosi alleati. Non farò i loro nomi, non sia mai che questo diario finisse in mani sbagliate, comprometterei la loro vita. Ed è l’ultima cosa che voglio. Mi sono stati vicini, sono stati essenziali per l’attuazione del mio piano.
Ora, spero che voi stiate leggendo queste righe quando tutta questa follia avrà avuto fine. Il mio colpo di fortuna, di potermi impossessare di questo utile diario, è stato un regalo che il buon Dio ha voluto farmi. Ma a quale scopo? Forse il mio ruolo è ancora da definire. Forse, io, non sarò ricordato per aver fatto fuggire migliaia di ebrei incolumi da un campo di concentramento, forse il mio ruolo sarà quello di informare i posteri di quanto stia scoprendo. Forse sono solo un messaggero.
In ogni caso, l’unica cosa che mi sta a cuore è che questa follia non abbia seguito. Spero di essere in errore. Spero che tutto ciò che sto scoprendo in questi giorni siano solo dei piani inattuabili.
Ma prima di rivelarvelo preferirei approfondire questa storia. Magari è solo una messa in scena per confondere gli alleati. O confondere noi, che siamo rimasti qui a Berlino, con il führer. Forse è tutta una recita ordinata da quel folle. E folle è proprio quello che io non voglio apparire. Per questo, prima di sbilanciarmi su ciò che sta accadendo, preferirei indagare.
Ma, devo ammetterlo. Ho avuto l’occasione di dimostrare coraggio. E, invece, ho dimostrato codardia. Molti ci hanno provato, ad assassinare il führer, e tutti hanno fallito. Ma io ho avuto l’occasione migliore di tutte. Ce l’avevo a portata di pistola. Mi sarebbe bastato un solo istante per porre fine a tutto. Ma, quel folle, in questo momento, è più utile alla guerra da vivo, che da morto.
Sono mesi, ormai, che i suoi ordini diventano sempre più assurdi. Sposta su tutti i fronti truppe inesistenti. La difesa di Berlino è organizzata deplorevolmente. Non ci metteranno molto i russi ad entrarci.
Tra le persone è pensiero comune sperare che siano gli anglo-americani ad arrivare per primi qui, e a liberarli. Corre voce che i russi non facciano prigionieri. Ma che uccidano tutti, che stuprino le donne.
Forse è giusto che sia così.
Nessun bastardo nazista merita di rimanere in vita. Soprattutto colui che ha dato origine a tutto.
Hitler!
Ma, di lui, se ne occuperanno gli alleati. Spero gli facciano assaporare quanto più possibile le sofferenze che ha provocato e che sta provocando.
Di certo, se la mia scelta di lasciarlo in vita e di non ucciderlo si rivelerà cruciale nelle sorti della guerra, non me lo potrei mai perdonare. Ormai non è altro che un relitto umano che si regge in piedi per chissà quale artificio. Se non saranno gli alleati ad ucciderlo sarà di sicuro il tempo. E la malattia. Perché è evidente che non gli resta molto da vivere.
Ma, come ho già scritto, in questo momento è più utile da vivo che da morto.
La realtà, in questo momento, almeno per me, traballa. Sto sforzandomi con tutto me stesso per non credere a quanto sto scoprendo. Le ricerche che gli scienziati hanno fatto sono andate ben oltre la decenza. Sperimentano qualunque situazione sugli ebrei. La resistenza al freddo polare o al caldo infernale.
E, se un inferno esiste davvero, sono sicuro che sia meno atroce di quanto si stia verificando qui.
Che si sbrighino, gli alleati. Qui non è più in ballo solo il presente. Qui è in ballo anche il futuro.
I nazisti credono ancora che sia dalla loro parte. Cercherò di giocare al meglio le mie carte. Ma, quella di cui sto parlando, è una cerchia ristretta. Sarà difficile entrarne a far parte.
Però, difficile non significa impossibile. E se dovessi essere scoperto, almeno morirò sapendo di averci provato. Morirò con la coscienza a posto. Morirò sapendo di essermi distinto da tutti questi schifosi assassini. E per me, questo, vale molto più che essere rimasto in vita da pusillanime.

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Capitolo 36
*** Capitolo 35 ***


CAPITOLO 35
 
«Scusami Leo, ma ho bisogno di una pausa» si era bruscamente fermata Francesca.
«Non ti senti bene? Che cos’hai?».
«Sono stata così tanto tempo con la faccia su questo diario che non riesco più a leggere».
«Vuoi uscire? Andare a fare un giro?».
«Sarebbe l’ideale» rispose, sollevata, la ragazza. «Grazie».
Richiuse tutti i suoi appunti e si preparò ad uscire.
Leonardo, nell’attesa, ripensava a quanto aveva appena sentito. “Cosa aveva scoperto di così sconvolgente?”. Non voleva insistere chiedendolo a Francesca. Si rendeva conto che quella poverina era stata tutta la notte a lavorare. Era giusto concederle una pausa. Dopotutto non c’era alcuna fretta.
 
Losener, seduto dietro alla sua scrivania, osservava impaziente l’orologio. Le lancette si susseguivano con estrema lentezza. Sapeva che dagli ultimi aggiornamenti delle sue squadre erano passati solo quaranta minuti. Ma una delle cose che più odiava al mondo era dover aspettare.
Aveva tirato fuori una foto che lo ritraeva insieme a suo padre, Raymond. Anch’egli sapeva che Kurt voleva tutto e subito. Non a caso, da piccolo, quando era il suo compleanno, scartava il regalo dei suoi genitori allo scoccar della mezzanotte. E quella foto era stata scattata proprio in occasione del suo sedicesimo anno di età. Non avrebbe mai potuto dimenticare quel giorno, in cui, per la prima volta, gli venne accennato della Fenster Geschlossen. Era stato un ragazzo molto precoce, a differenza di tutti gli altri giovani della sua età. Così suo padre aveva deciso di parlargli del suo grande progetto ambizioso. Ricreare l’impero nazista. Un quarto reich.
Il suo cuore batteva all’impazzata ripensando a ciò che gli era stato mostrato quel giorno, qualcosa che per chiunque altro sarebbe sembrato assurdo. Ma non per lui e per suo padre. Il più grande segreto che la loro setta, fino a quel momento, era riuscita a mantenere nascosto.
 
Dopo aver trascorso un po’ di tempo al parco, Francesca sembrava essersi ripresa. L’aria fresca e tutto quel verde che ora la circondava l’aveva rimessa al mondo. Guardò l’orologio e notò che il suo stomaco aveva ragione a lamentarsi.
«Come ti senti ora?» chiese Leonardo.
«Molto meglio, grazie» rispose la ragazza. «Per fortuna oggi è una bella giornata».
«Già, altrimenti ti saresti dovuta accontentare di una passeggiata sotto la pioggia».
Fecero ancora qualche passo, finché arrivarono ad un laghetto con delle papere, caratteristica di quel parco.
«Guarda come sono carine!» esclamò la giovane.
Leonardo la osservava. Aveva notato che adesso si era ripresa in pieno. Era solare. Ed era felice come una bambina. Quegli animali le ricordavano la sua infanzia, quando, insieme a sua madre e suo padre, si recavano mensilmente nel loro agriturismo preferito, dove le papere circolavano libere tra i tavoli dei clienti.
«Che ne diresti di andare a pranzare insieme? Io ho un po’ fame» chiese il ragazzo.
«Con immenso piacere, anch’io sono affamata!» rispose Francesca. «Non preoccuparti, dopo torneremo a casa e ti leggerò il resto del diario».
«Non preoccuparti, non c’è alcuna fretta. La mia curiosità può aspettare».
Si incamminarono verso l’uscita attraversando un grande prato, tenuto impeccabilmente.
«E tu?» domandò la ragazza. «Tu come stai?».
«Sto bene, a differenza tua ho fatto una lunga dormita ristoratrice».
«E con Elena». Esitò. «Con lei come va?».
«Ci siamo lasciati questa mattina, poco prima che tu mi chiamassi».
«Mi dispiace. Come ti senti adesso?».
«Sto bene. Era una relazione che non poteva continuare. Eravamo diventati troppo distanti. Non mi sentivo più preso da lei».
«Dev’essere stato difficile dirglielo».
«Già, non è stato per niente facile. Ma dovevo farlo. Adesso sono in pace con me stesso».
In quel momento un bambino urtò contro Leonardo. Era troppo attento a guardare la palla lanciatagli da suo padre per accorgersi di avere i due ragazzi alle loro spalle.
«Mi dispiace signore» si scusò.
«Non preoccuparti» lo rassicurò il giovane. «Tu come ti chiami? Ti sei fatto male?».
«Io sto bene, non mi sono fatto niente» rispose il piccolo, abbassandosi per prendere la palla. «Mi chiamo Celestino. Tu come ti chiami?».
«Io sono Leonardo, e lei è Francesca».
«Piacere!» si presentò la ragazza.
«Ti sei fatto male, Ce?» accorse preoccupato il padre.
«No papà, l’ho detto pure a questi due signori, sto bene!».
«Mi dispiace, non volevo lanciare la palla così alta».
«Non si preoccupi» commentò Leonardo. «È tutto a posto».
Quella vicenda gli aveva dato un argomento su cui discutere.
«È un bel nome Celestino, non trovi?» disse Francesca.
«No, a me non piace molto» obiettò il ragazzo.
«Come chiameresti un figlio?».
«Beh, se avessimo un figlio, mi piacerebbe chiamarlo Michael».
«Avessimo?» sottolineò, imbarazzata, la bibliotecaria.
Leonardo, che si era accorto di aver fatto una gaffe, cercò di riprendere in mano la situazione.
«Stavo solo scherzando! Volevo vedere la tua reazione!».
Quell’attimo era stato fondamentale per Francesca. Aveva capito che il ragazzo provava qualcosa per lei. Lo aveva notato dal rossore che aveva invaso il suo volto dopo essersi accorto di quell’affermazione. Il suo cuore si riempì di gioia. La felicità che provava in quel momento non era minimamente paragonabile a quella provata nel momento in cui avevano trovato la giusta combinazione del diario.
Ma entrambi decisero di non ritornare su quell’argomento. Almeno per il momento.

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Capitolo 37
*** Capitolo 36 ***


CAPITOLO 36
 
I due ragazzi, dopo aver pranzato ed essersi rilassati, dimenticandosi per qualche ora di quel diario, ritornarono a casa di Francesca, a finire di leggere quanto tradotto.
«Mi restano da tradurre le pagine più importanti perché, secondo me, sono quelle in cui Hubert rivela cosa aveva scoperto» commentò la ragazza.
«Allora quest’oggi occupiamoci di finire la traduzione, poi penserò a rileggermi tutto con calma» propose Leonardo. «Se in quelle che hai tradotto finora non è ancora svelato cosa aveva scoperto, è il caso che tu continui».
Gli si illuminarono gli occhi: «Sono troppo curioso».
«Ve bene, devo ammettere che la curiosità sta divorando anche me».
«Faremo come alla biblioteca di Berlino, in cui tu traduci venti pagine mentre io traduco una sola parola?».
«Non preoccuparti, è inutile che tu rimanga qui. Ti avvertirò non appena avrò finito».
«Sei sicura? Non voglio che tu faccia tutto il lavoro da sola».
«Il diario è uno solo e tu non conosci una sola parola di tedesco, ci metteresti una vita a tradurre una sola frase».
«D’accordo, allora aspetterò tue notizie».
La prese per mano: «Non stancarti troppo, è vero che quel diario è importante, ma la tua salute lo è di più».
 
Mancavano poche centinaia di chilometri all’arrivo a Roma. Sebbene fossero addestrati, le ore di viaggio pesavano anche per loro.
Le due squadre della Fenster Geschlossen stavano studiando la cartina della capitale italiana per raggiungere quanto prima l’abitazione in cui era ubicato l’oggetto agognato da Losener. Sapevano che non erano ammessi sbagli o fallimenti. Il loro capo era molto esigente e questa volta, trattandosi di qualcosa che avrebbe potuto compromettere la setta per sempre, lo era ancor di più. “Ah, l’Italia” pensava uno di loro, l’ultimo ad essere stato ammesso nel loro gruppo in ordine cronologico. “Mi piacerebbe venire a trascorrere le vacanze qui”. Peccato che il suo ruolo non gli permetteva di avere giorni liberi. Quei desideri erano destinati a rimanere sogni nel cassetto. Sapeva fin troppo bene che, una volta entrato a far parte di quel gruppo, non ne sarebbe mai più uscito. Almeno non da vivo.
 
Allontanandosi dall’abitazione di Francesca, Leonardo sentiva sempre di più la necessità di parlare con qualcuno di quella situazione.
Sarebbe voluto rimanere con lei, anche restando semplicemente a guardarla lavorare. E se quella fosse stata solo una semplice cotta? Se quello che provava, in realtà, non era vero amore?
Estrasse dalla tasca interna del suo giacchetto il cellulare e compose il numero di Pinto. Dopo essersi accertato che era disponibile a scambiare quattro chiacchiere, si diresse da lui.
Guardò, distrattamente, lo sfondo che aveva sullo smartphone e si accorse che aveva ancora la sua foto con Elena scattata due anni prima in Egitto in groppa ad un cammello. Era stata la vacanza più bella di sempre in cui erano ancora molto innamorati. Si apprestò a cambiarla in fretta.
Ogni metro che percorreva la sua mente era sempre più confusa. Era da tempo che non si sentiva così. Per questo era difficile riuscire a comprendere i propri sentimenti. Aveva bisogno proprio del suo migliore amico per potersi schiarire un po’ le idee. Però, appena il volto di Francesca si materializzava nei suoi pensieri, il suo cuore accelerava il battito. Si sentiva appagato solo quando si trovava con lei.
Parcheggiò la sua auto nel viale antecedente alla casa di Pinto e salì.
Saltava i gradini tre alla volta pur di arrivare in fretta al piano di Ale.
«Immagino già cosa vuoi dirmi» esordì Pinto, aprendogli la porta.
«In queste cose sei sempre stato molto perspicace».
«Puoi dirlo forte».
«Quando non si tratta della tua di vita sentimentale».
«È un pregio che non molti hanno» rispose scherzosamente.
Poi, si fece più serio: «Sei innamorato di Francesca, questo è chiaro».
«Ma non sono certo di volermi dichiarare».
«Come mai?».
«Non vorrei che questa sia solo una semplice cotta».
«In effetti è da poco che vi conoscete, dovresti approfondire il rapporto con lei e capire se ti piace davvero e se quello che provi è davvero amore».
«Io so che sto bene solo quando sto con lei, che i miei pensieri sono solo per lei e che mi piace davvero tanto».
«Direi che questo enigma è molto più difficile della combinazione del diario nazista».
«Quant’è vero» rispose, Leonardo, sospirando. «Poi è da poco che io ed Elena ci siamo lasciati, sono ancora scosso da questo».
«Allora dai tempo al tempo, lascia che le cose vadano avanti da sole» consigliò Pinto, appoggiando una mano sulla spalla dell’amico. «Se il destino vorrà, il momento giusto per dichiararti arriverà».
 
Il caos che regnava nella stazione di Roma Termini era pazzesco. Le due squadre di Losener si erano trovate leggermente in difficoltà, una volta catapultate in quella realtà. Senzatetto stesi sulle panchine, venditori ambulanti e migliaia di persone prese dalla fretta.
«Signori questa è l’Italia» sbuffò uno di loro.
Provarono ad attivare il GPS sui loro dispositivi, ma all’interno della struttura non c’era verso di farli funzionare.
«Probabilmente il segnale non arriva qui dentro».
Continuarono a camminare, cercando di individuare l’uscita.
«Qualcuno chiami il capo e lo avverta del nostro arrivo».
Di sicuro, dalla Germania, erano ansiosi di avere loro notizie.
Dopo qualche metro si ritrovarono all’esterno. Dinnanzi a loro si presentò il tipico traffico della capitale italiana, con taxi, auto e pullman a dare vita ad un concerto di clacson assordante.
Aspettarono qualche secondo, poi, una volta aver individuato la loro posizione sulla cartina, chiamarono a loro volta un taxi e si diressero verso una delle case dei loro obiettivi.
 
«Finalmente!» esultò Kurt, dalla sua scrivania, non appena ricevette la lieta notizia. «Non perdete altro tempo e dirigetevi a recuperare quel maledetto diario, lo voglio tra le mie mani il prima possibile!».
Non sapeva che quel diario avrebbe avuto un triste destino quella notte.

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Capitolo 38
*** Capitolo 37 ***


CAPITOLO 37
 
La giornata stava ormai giungendo al termine e Leonardo non aveva ancora ricevuto la tanto attesa chiamata. “Probabilmente starà ancora traducendo”. Poi ci pensò ancora un po’ su. “O forse si sarà addormentata”. D’altronde era stata tutta la notte precedente alle prese con quel diario, c’era da aspettarselo che il sonno l’avrebbe soprafatta.
Allungò la mano sul tavolino e prese il telecomando del televisore. Lo accese e cercò qualche programma interessante o, magari, un bel film da vedere.
Ma nulla suscitò il suo interesse. Voleva avere quanto prima notizie dalla sua amica. Semplicemente per avere una scusa con la quale andare a casa sua e stare con lei. Facendo zapping si fermò su di una scena romantica. Una pellicola degli inizi del ‘900, con il classico bacio tra i due protagonisti. Così, fantasticando, si addormentò.
A ridestarlo dal sonno fu proprio Francesca, che, a quanto pare, era più sveglia di quanto potesse immaginare. Rispose al cellulare e riuscì a capire una sola frase: “Vieni subito qui, stanotte dormi da me!”. Non ebbe neanche il tempo di replicare che la chiamata fu riattaccata.
Preso in controtempo, cercò di riacquistare la lucidità giusta per guidare e corse nella sua automobile.
Ripensò a quella frase. “Si è svegliata con un improvviso desiderio di me?”. Un sorrisino prese vita sul suo volto. Sapeva fin troppo bene che tutta quella fretta voleva significare solo che ciò che era stato scoperto in quel diario non poteva aspettare fino all’indomani mattina. Cosa poteva esserci scritto? L’autore del diario aveva rivelato la sua scoperta? E quale poteva mai essere?
Ponendosi queste domande, Leonardo, si era nuovamente concentrato su quel reperto storico, dimenticandosi, almeno per il momento, dei suoi sentimenti.
A quell’ora non c’erano molte auto in giro, trovando la strada stranamente desolata. Si accorse di non aver guardato affatto l’orologio e, soprattutto, di non aver spento il televisore. Ma ormai era per la via e non si sarebbe preoccupato di tornare indietro. L’avrebbero spento i suoi genitori il giorno dopo, quando si sarebbero svegliati per andare a lavoro. Avrebbe avuto una piccola ramanzina, ma sapeva che non c’era tempo da perdere.
Era passata la mezzanotte. Non si riusciva a capacitare come, la povera Francesca, era ancora sveglia dopo più di ventiquattro ore di traduzione.
Giunto a casa della ragazza non ebbe neanche la necessità di bussare alla porta. Era già aperta.
«Vieni, entra e siediti qui accanto a me» disse la giovane.
«Hai finito di tradurre?».
«Non ancora, ma quello che ho scoperto credo basti e avanzi per rendere questo diario o un falso o una epocale svolta storica».
«Epocale svolta storica?» domandò sbigottito Leonardo.
«Vieni qui, ho scritto la traduzione in modo affrettato, ma spero tu riesca a capirla».
Dopo essersi accomodato accanto a lei, sul divano, il ragazzo prese gli appunti di Francesca e iniziò a leggerli.
Più andava avanti, più era incredulo. Credeva fosse uno scherzo, che bibliotecaria lo stesse prendendo in giro. Ma capì presto che non era così.

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Capitolo 39
*** Capitolo 38 ***


CAPITOLO 38
 
30 Aprile 1945.
 
Non posso ancora credere a quanto ho assistito.
Ma forse è il caso che vi racconti tutto secondo un ordine cronologico. Già sarà difficile, per voi, credere a quanto starò per scrivere. Instaurare ulteriore confusione sarebbe stupido. Perché perlomeno intorno a me, in questo momento, di confusione ce n’è fin troppa.
I sovietici sono arrivati alle porte della nostra città, Berlino, dieci giorni fa. E sono già cinque giorni che le lotte sono sanguinarie e sempre più aspre. Già, perché i cittadini e gli ultimi soldati rimasti vogliono vendere cara la pelle. Si arrenderanno solo quando vedranno un vessillo americano. Non si chineranno mai al cospetto dei russi. Dio solo sa di cosa sono capaci. Stupri, uccisioni a sangue freddo e chissà che altro.
Io, sono destinato a morte certa, dato che ai loro occhi sono ancora nel cerchio più ristretto del nazismo.
Questa mattina, il führer, ha messo fine alla propria vita. Ma lo ha fatto dolcemente. Io ero lì. Ho visto tutto. E non è stato uno spettacolo al quale avrei voluto assistere.
Si trovava insieme alla sua donna, Eva, con la quale si era sposato da meno di ventiquattro ore. Le stava esponendo il piano per la fuga. Quello che avrebbero fatto: scappare in sud America. Avrebbero cambiato nome e fisionomia. Avrebbero intrapreso una vita ‘normale’. Come se fosse ‘normale’ continuare a vivere senza rimorsi sulla coscienza, dopo aver ucciso e fatto uccidere milioni di uomini.
Lo vedo che ci fa segno di uscire dalla stanza, di voler rimanere da solo con sua moglie.
Io, in qualità di autista, mi dirigo all’esterno a controllare se l’auto è ancora in buone condizioni. Le bombe esplodevano ogni trenta secondi e, c’era da aspettarselo se quell’automobile fosse saltata in aria da un momento all’altro.
Uscire da quel bunker era un sollievo. L’aria che si respirava in quel posto era nauseabonda. Nonostante fosse stato installato un adeguato condotto di areazione, in quel bunker era impossibile respirare. Sebbene ci fossero fumi ovunque, l’aria esterna era di gran lunga preferibile a quella interna. Non potrei dirvi con precisione se quest’oggi sia stata una giornata soleggiata o meno. Sono settimane, ormai, che Berlino è grigia.
Palazzi distrutti, morte ovunque, rumori di spari in lontananza. E proprio quei rumori si avvicinavano sempre di più.
Ragazzini poco più che bambini, con delle armi in mano, intenti a correre chissà dove. Ma cosa è successo a questo mondo? Se bisogna far combattere perfino dei bambini.
In quel momento vengo richiamato e costretto a rientrare nel sottosuolo. ‘Il nostro momento è arrivato’ mi dicono. Ma quale momento?
Dirigendomi verso la stanza del führer mi ritrovo dinnanzi ad una scena raccapricciante. Due uomini che portano fuori Eva. Morta. Senza vita. Cosa diamine era successo?
Ed è qui che anch’io vengo a conoscenza di tutto quel malefico piano. Quella donna sarebbe stata portata all’esterno e il suo corpo sarebbe stato bruciato accanto a quello di un altro uomo. Una volta resi irriconoscibili i due corpi, si sarebbe fatto in modo di far credere ai russi, o agli americani, a seconda di chi riesca ad arrivare per primo fin qui, che quel corpo carbonizzato appartenga al führer. Proprio lui, seduto in lacrime, era ancora vivo. Aveva avvelenato la sua donna. Ma lo aveva fatto per il suo bene?
Io era senza parole, non riuscivo a credere a tutta quella situazione. Mi spronarono ad accendere il motore dell’automobile, per scortare in führer  e a caricare nel portabagagli quanto mi era stato consegnato.
Posso affermare con estrema certezza che fu proprio in quel viaggio che il führer morì. Infatti aveva preso una dose di veleno minore rispetto ad Eva e aveva avuto un effetto molto più lieve, portandolo alla morte senza fargli patire alcun dolore. Ma quello che mi aveva fatto rimanere ancora più esterrefatto era il fatto che nessuno dei presenti ne fosse sconvolto. ‘Tornerà a vivere’ dissero. Ebbene sì. Era questo che avevo il timore di scoprire. È questo che, adesso, rappresenta una triste e cupa realtà.
Hanno creato una società segreta, dal nome ‘Fenster Geschlossen’. È stato lo stesso führer a dare animo a questo progetto. La sua sede si trova all’esterno di Berlino, in un posto segreto e mimetizzato con la natura. Io, in quanto autista, sono stato informato del luogo. E, proprio per questo, sono nel loro mirino. Mi uccideranno perché sono l’unico ad essere esterno a quella setta e ad esserne a conoscenza.
Sono fuggito. Dopo aver visto quella macabra visione, sono fuggito. Adesso sono sulle mie tracce. Mi stanno cercando e mi troveranno presto. Cercherò di fuggire in Italia, dove, spero di avere ancora qualche amico disposto ad aiutarmi. Cercherò di nascondere questo diario in un posto sicuro.
Ora non prendetemi per pazzo. So perfettamente quello che ho visto. Tutti i tesori più preziosi del terzo reich sono stati portati lì. Questo perché, quei folli, sono intenzionati a ricostituire nuovamente questo impero quando le acque si saranno calmate. Quando i russi e gli americani avranno finito di liberare la Germania, il piano avrà inizio. E per quanto riguarda il führer, la sua minaccia non è svanita. Quella bara. Quella maledetta bara. Si tratta di una bara da ibernazione. Hitler è stato ibernato, cosicché il suo cervello possa essere impiantato in un nuovo corpo, appena la scienza lo permetterà. È stata una visione agghiacciante. Non riesco ancora a crederci. Ho sempre pensato che il diavolo avesse una predilezione per le temperature incandescenti. E, invece, a quanto pare, predilige le temperature glaciali.
Devo muovermi. Non posso lasciare che tutto questo resti nascosto agli occhi del mondo. Adesso capisco qual è il mio scopo.

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Capitolo 40
*** Capitolo 39 ***


CAPITOLO 39
 
Leonardo aveva lo sguardo nel vuoto, ripensando, esterrefatto, a quanto gli era stato letto. Per un attimo ebbe un brivido che gli salì lungo la schiena. “Uno dei più sanguinari dittatori della storia potrebbe tornare di nuovo in vita?”. Nonostante ciò rasentasse l’assurdo, si rese conto che, con tutta probabilità, quello potesse essere un pericolo da non sottovalutare.
Cosa avrebbero dovuto fare? Avvertire la polizia? Li avrebbero presi per pazzi. E allora a chi si sarebbero dovuti rivolgere? Nessuno li avrebbe mai presi sul serio. “Hitler che torna in vita”. Sembrava più un’idea per un film piuttosto che un monito per il futuro.
La ragazza lo osservava.
«Credi sia tutto uno scherzo?» gli chiese.
«Non so davvero cosa pensare».
Richiuse il suo quaderno e posò anche il diario sul comodino accanto al divano. Entrambi avrebbero voluto che quello fosse uno scherzo ben architettato da qualcuno. Ma, purtroppo, il tutto sembrava fin troppo autentico.
«E se fossero semplicemente le visioni di un povero pazzo?» disse Leonardo. «Magari la guerra gli aveva dato alla testa e ciò gli provocava allucinazioni».
Doveva essere per forza così. Non era possibile che due eserciti come quello americano e quello russo si fossero fatti scappare, da sotto il naso, il ricercato numero uno della seconda guerra mondiale.
«Fatto sta che il vero corpo di Hitler non è mai stato ritrovato» rispose Francesca.
«Io non posso crederci» insistette il ragazzo. «In quel particolare periodo storico la città era completamente circondata, c’erano posti di blocco ovunque, come avrebbe fatto a lasciare la capitale e raggiungere questo fantomatico nascondiglio?».
«Ricordati che stai parlando di un piano architettato anni prima della fine della guerra».
Si sbottonò la camicetta per il caldo e continuò: «Magari c’era un passaggio segreto o qualcosa di simile».
Leonardo si alzò e prese il diario, nell’intento di trovare anche un solo particolare che facesse capire che fosse tutta una burla. Lo sfogliò, lo annusò, guardò ogni singola pagina. Ma non trovò niente. Era un autentico diario nazista. Avrebbero potuto portarlo in qualche laboratorio e farlo analizzare, così da accertarne la data. Continuava ad andare avanti e indietro, in quel salotto.
Gli tornarono in mente anche tutte le stranezze che erano capitate ai due ragazzi in Germania. Frutto solo di casualità?
Si trovava su di un leggero confine. Non sapeva se credere a quella storia o meno. Avrebbe dovuto avere un’altra piccola garanzia, dopodiché si sarebbe gettato anima e corpo in quella faccenda.
La notte era ormai fonda, e, sebbene fosse totalmente preso da quella storia, sentì che le sue forze avevano iniziato ad abbandonarlo. Guardò l’ora. Era troppo tardi per tornare a casa in macchina. Avrebbe potuto chiedere a Francesca se quella notte sarebbe potuto rimanere a dormire lì. Vinto l’imbarazzo, si girò verso la ragazza e iniziò a parlarle. Ma si accorse presto che si era addormentata. Dormiva come un ghiro. D’altronde era comprensibile. Aveva fatto un lavoro disumano.
Richiuse il diario con il suo lucchetto e lo appoggiò sul tavolo al centro della stanza. Così, senza fare rumore, si distese accanto a lei. Si era talmente concentrato su quella folle storia da non accorgersi che in quel momento la ragazza aveva il reggiseno in bella vista. In quel momento avrebbe poluto fare uno scherzo a Pinto, mandargli una foto per fargli credere che erano appena stati a letto insieme. Ma si astenne dal farlo. Fu completamente preso dal suo respiro lento e regolare. La guardava. E più la guardava, più se ne innamorava. Era la cosa più bella che avesse mai visto. Ed era lì, accanto a lui. Dovette resistere alla tentazione di abbracciarla e addormentarsi stretto a lei. Doveva seguire i consigli del suo amico. Non buttarsi subito a capofitto in una nuova storia d’amore, ma cercare di capire se quella ragazza era davvero quella giusta per lui.
Poco a poco il sonno vinse anche lui.
 
Fuori da quell’abitazione si era riunito un piccolo gruppo di uomini vestiti di nero e armati. Si erano preoccupati di non farsi vedere dal vicinato, muovendosi nella penombra.
«È questa la casa?» chiese un uomo dal volto coperto.
«Sì».
«Siete tutti pronti?».
Si guardò l’orologio. Sapevano di non poter sbagliare niente. E, dopotutto, erano dei professionisti. Tutto sarebbe filato liscio come l’olio.
Cominciò ad avvicinarsi alle finestre. Cercò di capire la disposizione delle stanze, in modo tale da scegliere accuratamente attraverso quale procedere all’irruzione. Dopo averla individuata si impegnò a trovare un eventuale dispositivo di allarme. Sarebbe stato un gioco da ragazzi metterlo fuori combattimento. Lui e la sua squadra conoscevano alla perfezione ogni apparecchio di allarme, e ne studiavano sempre di nuovi, ogni volta che ne veniva rilasciato uno. Non ne esisteva in commercio uno solo del quale non avessero il modo di renderlo innocuo.
Una volta aver controllato tutti questi minuziosi particolari, furono pronti ad entrare in quella casa e procedere all’operazione più importante della loro vita.

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Capitolo 41
*** Capitolo 40 ***


CAPITOLO 40
 
In un batter d’occhio i ladri furono dentro. Videro la luce del salotto acceso, facendogli capire che almeno un ospite di quella casa era ancora sveglio. Per evitare colluttazioni inutili si mossero con estrema silenziosità. Avrebbero immobilizzato la vittima senza dargli neanche il tempo di accorgersi cosa stesse succedendo.
Uno di loro buttò un occhio nella stanza. Videro due ragazzi, stesi sul divano, immersi nel sonno.
«Via libera» informò gli altri, sottovoce.
Il gruppo di uomini si dispose su tutti i lati, in modo tale da non concedere neanche una via di fuga.
Il capo si avvicinò di soppiatto a Francesca e, mettendole una mano sulla bocca per evitarle di urlare, la fece alzare.
La ragazza, aprendo gli occhi, si ritrovò di fronte a tutti quegli uomini senza poter dire neanche una parola. Il suo battito cardiaco aumentò a dismisura. “Mi uccideranno!”. Guardò l’amico, ancora disteso sul divano a dormire. “Uccideranno anche lui!”. Tenendola stretta, il misterioso uomo le sussurrò alcune parole all’orecchio.
«Non vogliamo far del male a te e al tuo amico».
Ascoltandolo, aveva avuto l’impressione che quell’individuo avesse un forte accento tedesco.
«Vogliamo solo sapere dove nascondete un oggetto a noi molto caro» continuò l’uomo.
 «Si tratta di un vecchio diario, risalente alla seconda guerra mondiale».
Francesca sgranò gli occhi. Quegli uomini erano lì per quel diario. I suoi sospetti erano fondati.
«Sappiamo che ne siete in possesso, quindi, non fate strani giochetti con noi».
La sua presa sulla ragazza si fece sempre più debole.
«Adesso io voglio sentire solo due parole da te».
Le tolse la mano dalla bocca e concluse: «Voglio sapere dove si trova il diario!».
Appena ebbe la bocca libera, la bibliotecaria non aspettò neanche un istante a chiamare Leonardo.
Il giovane, sentendo le grida, si svegliò impaurito. Non ebbe il tempo di focalizzare quanto stesse succedendo. Vedendo Francesca nelle grinfie di un uomo dal volto coperto si precipitò per salvarla. Ma sentì qualcuno afferrarlo. Guardandosi intorno si rese conto di essere accerchiato da una moltitudine di uomini, tutti armati.
«Cosa volete da noi?» urlò Leonardo, preoccupato.
Il capo di quel gruppo estrasse un coltello e lo puntò alla gola della ragazza.
«Hai fatto molto male. Nessuno si sarebbe dovuto ferire questa notte, ma a quanto pare non sarà così».
«Fermati! Volete soldi? Ho il portafogli in tasca!» disse d’istinto il giovane.
«Vuoi forse prendermi in giro? Cosa vuoi che me ne importi del tuo portafogli? Siamo qui per ben altro».
«E cioè? Cosa volete?».
«Capo, forse è questo» disse uno degli uomini, prendendo il diario dal tavolo al centro della stanza.
«Bene, bene».
«Siete venuti per quel diario?» chiese ulteriormente Leonardo.
«Sì. E se ci tenete alla vostra vita fareste meglio a fare finta che non sia successo niente. Se vi azzarderete a chiamare la polizia o a denunciare quanto successo a qualcuno, torneremo e vi taglieremo la gola».
Dopo aver sentenziato questa minaccia, il gruppo di uomini abbandonò la casa, lasciando un cumulo di vetri rotti in cucina.
I due ragazzi si abbracciarono forte, colmi di paura. Francesca tremava ed era comprensibile. Era stata minacciata di morte con un coltello al collo.
«Allora è tutto vero» sussurrò.
«Ho paura di sì».
«Dimmi che questo, in realtà, è solo un brutto sogno».
«Lo vorrei tanto».
Leonardo prese la sua giacca e la coprì. Era visibilmente provata.
«E ora? Che facciamo? Avevamo tra le mani un documento unico».
«Lo so, ma il valore delle nostre vite non è paragonabile a quanto contenuto in quel diario» rispose il giovane. «E poi io l’ho richiuso. Credi che sappiano la combinazione?».
«Secondo te? Per arrivare a questo punto vuol dire che ne conoscono ogni minimo particolare».
«Spero sia così».
Entrambi ebbero lo stesso agghiacciante presentimento. “E se invece non dovessero averla?”. Sarebbero ritornati. Non restava loro molto tempo per decidere.
«Dobbiamo scappare» disse Francesca.
«Ma dove? Monitorano ogni nostro spostamento! Scommetto che prima di venire qui siano stati anche a casa mia».
«Ed è per questo che lasceremo i nostri cellulari qui. Senza quelli non avranno modo di localizzarci. Andremo dai miei, a Firenze».
«Firenze?» chiese, stupito, Leonardo.
«Sì. Per un po’ di tempo ci nasconderemo lì. Poi decideremo il da farsi».
«Ma io…».
Non ebbe il tempo di obiettare che la ragazza lo prese per il braccio e lo trascinò giù per le scale.
«Non c’è tempo per fare nulla. Dobbiamo fargli perdere le nostre tracce».
«Dovrei avvertire i miei» disse il giovane.
«Li chiamerai da un telefono pubblico. Ma senza dirgli la nostra meta. Ti inventerai qualcosa strada facendo».
Dopo essere saliti in macchina, Francesca accese il motore e partì a razzo.
La strada era deserta, così non ebbe particolari problemi ad allontanarsi il prima possibile da quel posto.
Leonardo si era ritrovato in quell’incredibile successione di eventi senza essersene neanche reso conto. Era ancora parzialmente stordito dal sonno. Ma una cosa era chiara. La determinazione di Francesca. Non si voleva di certo dar per vinta. E non voleva lasciar perdere quel diario. La paura per quanto era successo le era già passata.
«Una volta arrivati», continuò la bibliotecaria: «Andremo dalla polizia a denunciare quanto ci è accaduto».
“E che Dio ce la mandi buona”.

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Capitolo 42
*** Capitolo 41 ***


CAPITOLO 41
 
«Molto bene».
Kurt, dalla sua scrivania, aveva l’aspetto visibilmente soddisfatto. Sebbene l’aria all’interno di quella stanza fosse pessima inspirò a pieni polmoni.
«Lo avete aperto?» continuò.
«Non ancora, capo» rispose la voce dall’altro capo del telefono.
«Dovete aprirlo e capire quali informazioni contiene». Fece un attimo di pausa e proseguì: «Se ci sono riferimenti a noi e alla nostra società segreta allora dovrete attuare il piano Schwert».
Quel piano era stato uno dei pilastri della Fenster Geschlossen. Il primo obiettivo dei suoi fondatori era quello di mantenerne la segretezza. E se qualcuno esterno ad essa avesse scoperto troppo sarebbe stato vittima di quella procedura. E avrebbe pagato con la propria vita.
I due ragazzi, inconsapevoli, stavano rischiando di finire proprio al centro di quel piano.
 «Allora? Cosa state aspettando? Apritelo!».
Quegli uomini avevano notato lo strano lucchetto che chiudeva il diario. Ma non si erano posti troppi problemi nel forzarlo. Usarono il calcio di una pistola per romperlo. Non appena riuscirono a romperlo sentirono uno strano rumore. Si preoccuparono, allertandosi di essere stati scoperti dalla polizia. Si guardarono intorno ma non scorsero nulla di strano.
«Cosa sta succedendo?».
«Lo sentite anche voi questo rumore?».
I loro occhi caddero inesorabilmente sul diario che emanava fumo.
«Ma che diavolo avete fatto?».
Il capo del gruppo abbandonò per qualche istante il cellulare che lo teneva in contatto con Losener e prese il diario fumante.
Lo aprì e gli si fermò il respiro.
 
«Che dici, possiamo fermarci qui per qualche ora?» chiese Francesca.
«Perché vuoi fermarti? Abbiamo degli assassini alle calcagna!» rispose, preoccupato, Leonardo.
«Guarda l’ora».
Il ragazzo diede uno sguardo veloce all’orologio dell’auto. Erano passati alcuni minuti dopo le sei del mattino.
«Non capisco il problema».
La bibliotecaria entrò in una stazione di servizio e parcheggiò accanto a dei camion.
«Non possiamo dire ai miei che siamo in fuga da spietati criminali».
Spense la macchina e reclinò leggermente il suo sediolino.
«Metteremmo in pericolo anche loro».
«E cosa hai intenzione di fare?» domandò il ragazzo.
«Rimarremo qui un paio d’ore, poi proseguiremo».
«D’accordo. Tu riesci a dormire?».
«No».
La paura che li attanagliava era troppa per potersi concedere qualche ora di sonno. Inoltre dovevano rimanere vigili per evitare di essere presi nuovamente di sorpresa.
Avevano perso il diario. E avevano perso una delle testimonianze storiche più importanti di sempre. Chi li avrebbe creduti adesso? Senza una prova tangibile quella storia sembrava solo un’invenzione  di un vecchio pazzo.
«Ascoltami, tu resta qui in macchina. Io vado in bagno» disse Francesca.
«Stai attenta. Se noti anche un minimo particolare sospetto corri via».
«Stai attento anche tu».
Detto questo si avviò verso i servizi igienici dell’autogrill.
In quel momento Leonardo ripensò ai tragici attimi che avevano vissuto quella notte. Se ne avesse avuto la possibilità avrebbe messo al tappeto tutti quei brutti ceffi. E avrebbe evitato loro di portare via il diario.
Era preoccupato. Si guardava intorno con la paura che uno di quegli uomini potesse uscire dal nulla da un momento all’altro. Cercò qualcosa con cui difendersi. Aprì il vano portaoggetti e ci trovò dentro degli occhiali da sole all’interno di una custodia. Estrasse gli occhiali e prese quella custodia. Provò a rendersi conto di quanto sarebbe stata utile in caso di colluttazione. Così la posò nuovamente. Si riguardò intorno e non vide nient’altro di utile.
Così, velocemente, uscì dall’abitacolo e ispezionò il portabagagli, trovando l’oggetto che avrebbe sperato di trovare. Il crick. Lo prese e ritornò al suo posto.
 
Distrutto. Completamente distrutto. Le pagine erano inesorabilmente evaporate. Qualunque cosa avesse contenuto quel diario adesso era perduta per sempre.
«Assicurati che il responsabile subisca l’adeguata conseguenza» ordinò Losener.
L’uomo che aveva causato quella distruzione si trovava a terra, mantenuto da altri due individui.
«Ho solo eseguito gli ordini!» continuava ad affermare.
«Anche io sto solo eseguendo gli ordini».
«Ho dato tutto per la FG».
«Direi fin troppo».
Estrasse la pistola dalla fondina e gliela puntò alla testa.
«In questi casi, di solito, si chiede al condannato un ultimo desiderio».
«Già, ad Hollywood funziona così. Ma questo non è il set di un film».
Partì il colpo e il corpo dell’uomo reo di aver innescato il meccanismo di distruzione del diario cadde a terra esanime. Gli vennero assestati altri due colpi alla testa per assicurarsi che fosse morto.
«Ordini eseguiti con successo» proferì al telefono.
«Molto bene. Che sia d’esempio per tutti».
Kurt cercò di trovare una soluzione a quell’inconveniente.
«Le pagine sono completamente distrutte?» domandò.
«L’unica cosa rimasta è la copertina».
«Dannazione».
Capì che c’era una sola cosa da fare: «Tornate da quei due bastardi e cercate di estrapolare quante più informazioni potete».
«E se non ci diranno nulla?».
«Nel dubbio, sai cosa fare».

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Capitolo 43
*** Capitolo 42 ***


CAPITOLO 42
 
«E così tu sei il fidanzato della nostra Chicca? Come mai non sapevamo nulla di te?».
Leonardo, visibilmente a disagio, cercò di trovare le parole giuste: «Perché ci tenevo a presentarmi di persona».
«Sei molto carino! Da quanto state insieme?».
Con lo sguardo cercò di chiedere aiuto a Francesca, che rispose al posto suo: «Da qualche mese, per questo non te ne ho parlato».
«Lavorate insieme?».
«No, lui va all’università».
«Ah, bene! Che facoltà?».
«Scienze aziendali».
«Ma che bravo! Vuoi che ti faccia una tazza di caffè?».
«Sì, grazie!».
Lo scompiglio che quell’arrivo aveva portato a casa di Francesca era pazzesco. Leonardo non sapeva cosa fare o cosa dire. I suoi genitori sembravano visibilmente entusiasti di lui.
“Magari fossi davvero il fidanzato di vostra figlia!”. Cercò di calarsi maggiormente nella parte stringendo la ragazza a sé. Lo sguardo che la bibliotecaria gli aveva lanciato lasciava intendere che non le dispiaceva affatto.
«Come mai questa visita inaspettata? Potevate avvertirci».
«È stato tutto improvvisato, stavamo nei pressi di Firenze e abbiamo pensato di passare».
«Ci fa molto piacere, vuoi che prepari un letto per lui?».
«Non lo so se rimarremo per la notte o meno, come vi ho detto non abbiamo organizzato nulla».
I due ragazzi erano sempre più decisi ad arrivare in fondo alla storia del diario nazista e avevano concordato di ritornare in Germania.
Prima, però, sarebbero passati dalla polizia e avrebbero avvertito loro di quanto gli stesse accadendo. Sperando che gli avrebbero creduto.
 
«Mi raccomando, fate attenzione, non deve vederci nessuno».
Uno alla volta gli uomini di Kurt si avvicinarono senza destare sospetto presso la casa di Francesca.
«Entreremo dalla stessa finestra che abbiamo usato stanotte, non credo abbiano avuto il tempo per aggiustarla» ordinò il capo.
Si guardò intorno e vide un anziano signore passeggiare con il proprio cane. Fece un segno agli altri di bloccarsi e rimanere perfettamente immobili, nascosti dalla flora nella quale erano immersi. Quando il cane guardò nella loro direzione, mise la mano sulla fondina.
«Su, andiamo Charlie, il parco è ancora lontano!» esclamò il padrone dell’animale.
Così si allontanarono, senza accorgersi di nulla.
Dopo qualche minuto, erano tutti entrati.
Si apprestarono e cercare i due ragazzi. Ma di loro, all’interno dell’abitazione, nessuna traccia.
«Cosa facciamo?».
«Maledizione, dove saranno andati?».
Con estrema angoscia fu chiamato Losener, al fine di avvertirlo di quanto stesse accadendo.
Il responsabile della Fenster Geschlossen sapeva che quella chiamata poteva significare solo due cose.
O che i due ragazzi avevano parlato e, di conseguenza, le informazioni necessarie erano state ottenute o che, invece, non avevano spiccicato una sola parola e spettava a lui decidere del loro destino.
Rimase colpito quando nessuna delle sue due previsioni si verificò giusta.
 
Pinto, seduto sulla sua poltrona, aveva dato un ultimo morso al panino che aveva preparato accuratamente pochi minuti prima.
Stava guardando la sua serie preferita alla TV. Quei quarantacinque minuti lo isolavano dal resto del mondo. Silenziava la suoneria del cellulare e alzava al massimo il volume del televisore. “Chissà se al prossimo Comicon verrà qualche ospite speciale”.
Avrebbe tanto voluto che fosse venuto qualche suo idolo. Ma, purtroppo, sapeva che in Italia le possibilità di vedere qualche divo americano amato dai nerd erano molto basse. “Chissà Leo che starà facendo, non mi ha fatto sapere più nulla da ieri sera”.
 
«Siete un branco di buoni a nulla!» urlava Losener dall’altro capo del telefono. «Non siete degni di far parte di questa gloriosa setta. Dovrei venire lì di persona e sparare un colpo di pistola in testa ad ognuno di voi».
La sua rabbia era talmente intensa che, per un attimo, neanche Kurt stesso si riconobbe. Non era mai stato così infuriato. Aveva sempre avuto un grande autocontrollo.
 
Qualche anno prima, Losener, si trovava dinnanzi al tendone che veniva allestito semestralmente nella periferia di Berlino.
Era lì ed osservava i ragazzi entrare, ignari di quale fosse il vero scopo di quella serata.
Al fine di reclutare nuovi membri per la loro associazione, i membri fondatori avevano deciso di attirare i giovani studenti delle principali scuole berlinesi promettendo loro qualunque cosa. “Sarà una serata indimenticabile per chiunque. Musica, aperitivi, gadget. Venite all’FG Party  e potrete vantarvi di aver partecipato all’evento dell’anno!” recitavano i volantini che erano stati distribuiti.
Il motivo per il quale quei teenagers si erano convinti a parteciparvi era dovuto alle voci che circolavano in tutte le scuole. Ovvero che quello fosse una sorta di festival dell’amore e della cannabis, dove a fine serata chiunque si sarebbe appartato con un partner a consumare l’atto sessuale.
“Com’è facile imbambolare i giovani d’oggi” pensava Kurt, accogliendo i sempre più numerosi partecipanti. La corruzione di alcune pattuglie di polizia aveva fatto sì che quella serata non sarebbe stata disturbata da nessun pubblico ufficiale.
Una volta riempitosi il tendone, la serata poté cominciare. Vennero suonati alcuni brani da discoteca e vennero allestiti dei buffet. Inoltre si erano cominciate a diffondere alcune spille, sulle quali era stampato il logo della Fenster Geschlossen. Ma nessuno dei ragazzi si era preoccupato di quegli oggetti. L’unica cosa che aspettavano era di potersi scatenare.
All’improvviso Losener salì su di un piccolo palco, prendendo la parola. Conosceva perfettamente la psiche umana e sapeva come assicurarsi l’attenzione dell’intero pubblico.
«Ragazzi, questa sera non voglio vedere nessuno andare in bianco».
A quest’affermazione la folla lanciò un urlo di approvazione unanime.
«Voglio che vi divertiate come non avete mai fatto in vita vostra».
Abbassò il capo, fece qualche passo e continuò: «Alla vostra età dovreste essere senza regole, fare una vita spregiudicata e godervi ogni giorno al massimo. Ma tutto questo non è possibile perché siamo oppressi da questa società che ci riempie di leggi da dover seguire. Ma non qui. Non stasera».
Con queste parole tutti i ragazzi pendevano dalle sue labbra.
«Sbizzarritevi come se non ci fosse un domani. Tutto ciò è un regalo che noi della FG vogliamo fare a tutti quanti voi. Quello che vi chiediamo in cambio è di prendere le spillette che vi abbiamo distribuito e, se vorrete, di venirci a trovare nella nostra sede. Noi potremo regalarvi molto più di questo. Ma basta con le parole! Voglio vedere questo posto ridotto ad un cumulo di macerie. Via con la festa!».
Kurt sapeva fin troppo bene che dopo quella serata, nelle settimane che sarebbero seguite, avrebbe avuto molteplici visite.
Chiaramente la sede alla quale aveva accennato era un edificio fittizio. Serviva esclusivamente ad ingaggiare giovani adepti per la setta. Ma la strada per essere ammessi sarebbe stata lunga e tortuosa. Non tutti avrebbero potuto farne parte. Solo chi sentiva davvero sulla pelle i principi che condivideva Losener ne avrebbe avuto la possibilità.
Nei giorni successivi, però, l’affluenza era stata notevolmente affievolita da un vecchio parroco, il quale, essendo venuto a conoscenza di quella diabolica festa, aveva incitato i giovani a non instaurare rapporti con la FG, definita la Setta del demonio.
«Chi regala tutto e in cambio non vuole niente?» chiedeva Padre Lukas ai ragazzi. «Non una persona generosa, ma il demonio nelle vesti più inconsuete».
Solo una piccola parte di loro non veniva colpita da quelle parole.
«Voi lo fareste? Se io vi chiedessi un favore, voi non vorreste qualcosa in cambio? E se quella setta non vuole denaro, che è la peggiore delle perversioni umane, cosa potrà mai volere? La risposta è semplice, figlioli».
Si portò la mano al petto, sfiorando il crocifisso che indossava e proseguì: «Vuole la vostra vita. Non vendete la vostra anima in cambio di beni effimeri, riflettete su quanto vi sto dicendo. Dimenticate di quell’invito!».
Kurt, alla notizia di quel parroco, si era infuriato come non mai. Si diresse nella sua chiesa, con l’intento di assicurarsi che quell’uomo non si sarebbe più immischiato nei suoi affari.
«Che cosa vuole da me? Ha già fatto peccare quelle povere giovani anime, che il buon Dio possa perdonare tutti loro!».
«Caro il mio prete da strapazzo, per quale folle motivo hai deciso di mettermi i bastoni tra le ruote?» esordì il capo della FG.
«Sto soltanto facendo ragionare quegli stolti ragazzi. Dio solo sa a quali sciagure potrebbero andare incontro se decidessero di entrare a far parte della sua setta».
«La cosidetta Setta del demonio?».
«Sì, proprio quella».
Dopo aver dato sfogo ad una risatina ironica, in un istante Losener prese per il collo l’ecclesiastico e continuò: «Ti assicuro che persino il demonio ci teme».
Quelle parole scossero profondamente Padre Lukas, che tentò di liberarsi dalla presa.
«Che il cielo mi aiuti, che cosa vuol dire?».
«Se te lo dicessi dovrei ucciderti, non credi?».
«Quali mostruosità nasconde?».
«Dovresti fare meglio a non immischiarti mai più. Se dovesse accadere di nuovo, ti farò incontrare il tuo amato Dio quanto prima» lo minacciò.
«Non crede che io possa cedere a delle minacce campate all’aria».
Kurt estrasse la pistola e la puntò alla gola del sacerdote, il quale iniziò a tremare e a pregare.
«Credi forse che sia tutto uno scherzo? Che faccio tutto questo per divertimento? Non avrò scrupoli ad ucciderti, prete. Ora spetta a te scegliere. Vuoi vivere un giorno da leone o tutta la vita da pecora?».
Avvicinò la sua bocca all’orecchio di Padre Lukas e concluse: «Scegli bene, perché quel giorno da leone potrebbe essere il tuo ultimo giorno sulla terra».
Da quel momento in poi non ebbe più problemi.
 
Ma questa volta la sua rabbia era almeno cento volte maggiore. E le conseguenze sarebbero state tragiche per quegli uomini, se non avessero trovato una soluzione.
«Cercheremo di far parlare i loro cari» disse il capo della squadra, colto da un’illuminazione. «Loro ci diranno dove sono finiti quei due dannati ragazzi».
«Spero vivamente per voi che funzioni».
Senza dire più nulla chiuse la telefonata. E riempì il suo caricatore.

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Capitolo 44
*** Capitolo 43 ***


CAPITOLO 43
 
Gli scagnozzi di Losener si erano diretti verso casa di Pinto, con la speranza di riuscire a scoprire dove si fossero cacciati Francesca e Leonardo, spariti tutto d’un tratto. Avevano lasciato anche i loro telefoni cellulari al fine di non farsi individuare mediante il GPS.
“Abbiamo agito male, non mi stupisce che il boss sia così infuriato”.
Rick Photer, colui che aveva guidato quella spedizione, sapeva che essere a capo di una così grande organizzazione non era per niente facile. In particolar modo dovendo agire sotto traccia.
Il suo incontro con Losener era stato quasi dettato dal destino.
 
Rick era poco di più che un ragazzino ed era sempre stato vittima dei bulli della sua scuola. Non aveva potuto dirlo a nessuno. I suoi genitori erano i classici individui attaccati al lavoro e ai soldi.
Così, ogni giorno si ripeteva la stessa storia: pestaggio, sottrazione del denaro della merenda e umiliazione in pubblico. In fondo al suo cuore covava una folle vendetta. Ma non avrebbe potuto fare nulla. Quei ragazzi erano più grandi e più forti di lui. E uno di loro era ebreo. “Me la pagherai” sussurrava ogni volta. Immaginava quel magico giorno in cui avrebbe potuto vendicarsi e potersi trovare dall’altra parte. Si chiedeva se avrebbe trovato spazio per la compassione. Ma più passava il tempo e più si amplificava la sua rabbia repressa.
Quando, finalmente avvenne l’incontro che cambiò per sempre la sua vita. Stava ritornando dalla festa cittadina dove, insieme a sua nonna, si era recato qualche ora prima. Sulla strada del ritorno si era imbattuto proprio nel gruppo di bulli che lo opprimeva a scuola.
«E così stai con la tua bella nonnina?».
«Sono tuoi amici, Rick?» chiese l’anziana signora.
«No, nonna. Andiamo via, non parliamo con loro».
«Ma come? Non ce la vuoi presentare?».
Il piccolo Photer cercò di allungare il passo, tirando a sé la nonna.
«Non così di fretta» gli si parò davanti uno.
Estrasse un coltello e lo puntò alla gola della donna.
«Ci dispiace presentarci in questo modo, quanti soldi hai nella borsetta?».
«Oh mio Dio! Prendete tutto quello che volete ma non fateci del male» urlò impaurita.
Mentre i quattro ragazzi erano impegnati nell’estrarre il denaro, alle loro spalle si presentò Losener, il quale, con smisurata calma, spezzò la gamba di uno di loro e sottrasse il coltello ad un altro, puntandoglielo alla gola.
«Bravi, bravi, bravi» esordì.
«E tu chi sei? Cosa hai fatto al nostro amico?».
«Ah, lui starà bene, se la caverà. Ma voialtri, se non ve ne andate subito lasciando andare la borsa di quella signora, non credo che vedrete la giornata di domani».
«D’accordo, d’accordo ce ne andiamo».
«Un’altra cosa» disse, sfregiando la faccia del ragazzo che aveva in ostaggio. «Mi auguro che lasciate in pace Rick, altrimenti dovrò tornare a farvi visita».
Una volta lasciati andare, scapparono portandosi in spalla il teenager con la gamba rotta.
«Grazie signore» disse Rick. «Ma come fa a sapere il mio nome?».
«Non è importante che io sappia il tuo nome, ragazzo».
Gli accarezzò la testa e continuò: «Vorresti poter difendere i tuoi cari da soggetti del genere? Se non ci fossi stato io qui chissà cosa avrebbero potuto fare alla tua povera nonna».
«La ringrazio» interloquì l’anziana donna.
«Sì signore, vorrei poter picchiare tutti quelli che fanno del male alla mia famiglia».
«Bene. Allora che ne dici di venirmi a trovare di tanto in tanto?».
 
«Rick? Rick! Riprenditi!» lo distrasse dai suoi pensieri uno della sua squadra.
«Sì, scusami, stavo pensando alla missione».
«Allora, siamo pronti ad irrompere in questo appartamento. Dobbiamo cercare di non attirare l’attenzione sugli altri condomini. Dacci tu il via».
Photer si avvicinò alla porta e, mediante un’abile scassinamento, l’aprì senza emettere il minimo suono.
Una volta dentro videro un ragazzo sdraiato su di un divano, talmente preso dalla trasmissione che stava guardando da non accorgersi che il portone di casa era stato spalancato.
«Di lui che ne facciamo?».
Rick lo guardò ed emanò l’ordine.
 
«È qui che sei cresciuta?» chiese Leonardo, attraversando la maestosa città di Firenze.
«Già. Sono stata molto fortunata» rispose Francesca.
«E perché mai? Adesso vivi a Roma, la città più bella del mondo».
«Ma non credo proprio!».
«Vorresti dire che non lo è?» domandò il ragazzo, con un sorrisino di sfida.
«Non ho detto questo».
L’intesa tra i due ragazzi sembrava essere sempre maggiore.
Allargando le braccia la bibliotecaria continuò: «Dico semplicemente che non è la città più bella del mondo».
«D’accordo, allora dimmene una più bella della nostra capitale».
«Non c’è bisogno che te lo dica… ci sei già».
«Non ho nulla da ridire su Firenze, ma Roma è di gran lunga più bella».
«Di gran lunga? Ma ti senti quando parli?».
Sembrava quasi che entrambi avessero completamente dimenticato di essere inseguiti da chissà quale setta segreta. Si sentivano al sicuro.
Avrebbero denunciato quegli uomini e il tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi. Quel giorno la città si prestava ad una bellissima giornata. Appariva in tutta la sua magnificenza. Era quasi un peccato non poterla sfruttare appieno.
Ma, quando i loro occhi vennero attratti da un furgoncino, tutta la loro tranquillità svanì.
«Stammi vicina» le disse Leonardo.
Era lo stesso furgoncino sul quale erano stati fatti salire in Germania, prima di prendere il volo per ritornare in Italia.
«Credi siano gli stessi uomini? Che ci abbiamo già trovati?» chiese Francesca, intimorita.
«Non lo so. Muoviamoci. Quanto dista ancora la polizia?».
«Siamo quasi arrivati».
Cercando di confondersi con gli altri passanti, continuarono sulla stessa strada. Guardarono attraverso il parabrezza del furgone e intravidero un uomo grassoccio intento a sgranocchiare delle ciambelle.
“Non mi fido lo stesso” pensò il ragazzo. “Potrebbe cacciare una pistola da un momento all’altro e puntarcela contro, per quanto ne so io”.
Da quel momento in poi la città sembrò ad entrambi meno bella di quanto lo fosse qualche minuto prima. Neanche la vista di un bambino felice a farsi le foto con una mascotte riuscì a fargli tornare il sorriso.
Francesca, con le sue scarpe sportive, fu la prima a varcare l’uscio della porta della stazione di polizia, bloccandosi di fronte al primo ufficiale che vide. Fu seguita a ruota dal suo amico.
«Buongiorno, come posso aiutarvi?» domandò il poliziotto.
Sembrava molto giovane. Non dimostrava più di venticinque anni.
«Dobbiamo denunciare degli uomini che vogliono catturarci» esordì la bibliotecaria.
«Accomodatevi in fondo sulla destra» gli indicò con la mano sinistra. «Appena il commissario sarà disponibile vi starà ad ascoltare».
Dopo averlo ringraziato, i due ragazzi andarono nel punto che gli era stato segnalato.
«Secondo te fra quanto ci chiamerà?».
«Guardando l’orologio, a occhio e croce, direi che salteremo abbondantemente il pranzo».
Le lancette mostravano qualche minuto prima delle undici.
«Davvero ci vorrà così tanto?».
«Avranno talmente tante cose da svolgere qui che il loro ultimo pensiero siamo noi che vogliamo denunciare dei delinquenti».
«Io non li definirei semplicemente dei delinquenti. Hanno tentato di ucciderci. Direi che il termine più adatto sia assassini».
«Hai ragione. Se usiamo dei termini più forti forse sembreremo più convincenti».
«Non dobbiamo essere più convincenti, dobbiamo semplicemente raccontare quello che ci è successo e chiedere il loro aiuto».
L’attesa, inaspettatamente, si rivelò più breve delle loro aspettative. Difatti, circa un’ora dopo, ottennero l’attenzione del commissario.
«Salve, sono il commissario Lucio Destri».
Fece una pausa: «Siete venuti qui per denunciare un caso di stalking?» domandò.
 
Gli occhi di Pinto in quel momento vedevano tutto rosso. Non era ancora riuscito a capire del tutto quello che gli stava accadendo. Guardò il divano sul quale era sdraiato qualche minuto prima e constatò che, ammesso che quello fosse stato solo un sogno, il rosso era molto più adatto in quel salotto.
Ricevette un altro cazzotto in pieno viso che gli fece capire definitivamente che quel dolore era effettivamente troppo acuto per poter essere semplicemente un incubo.
«Te lo chiederò una volta ancora, poi passeremo a mezzi più convincenti».
La voce che sentiva aveva un forte accento tedesco. Gli occhi erano talmente impregnati di sangue che, ormai, non riusciva neanche più a tenerli aperti.
«Dove sono Leonardo Bonanni e Francesca Chezzi?» continuò. «Sappiamo che sono tuoi amici, quindi è inutile che ti ostini a sostenere il contrario».
“Leonardo? Francesca?” pensò. “È per colpa loro se mi trovo in questa situazione?”.
«Chi lo vuole sapere?» chiese Pinto.
Prima di concludere la domanda ricevette un altro colpo al volto.
«Sono io qui che faccio le domande» rispose Photer.
Prese un cubetto di ghiaccio e cominciò a passarlo sulla gamba del povero ragazzo immobilizzato.
«Dimmi, cosa senti?».
«Freddo» rispose, intontito.
«E adesso cosa senti?».
Detto questo gli conficcò un coltello per intero proprio in quella gamba. Pinto emanò un urlo disumano. Non aveva mai provato tutte quelle sofferenze.
Qualunque cosa avesse saputo l’avrebbe spifferata.
«Dannazione!» gridò. «Non ho idea di dove siano andati quei due».
«Risposta sbagliata».
Mise mano al coltello e iniziò a girarlo, con una lentezza tale da far assaporare ogni minimo fitta al povero giovane.
Dagli occhi, oltre al sangue, iniziarono a sgorgare anche delle lacrime. Era impossibilitato a vedere e a muoversi.
«Non lo so dove sono! Lo giuro sulla mia vita!».
«Bene, allora se lo giuri sulla tua vita non avrai problemi a lasciare questo mondo».
«Vi prego! Non so nulla!».
Il coltello aveva completato un giro di novanta gradi quando venne estratto.
In quel momento Rick ricevette una chiamata da parte di Losener. Pinto non avrebbe mai immaginato che sarebbe stato proprio lui a salvargli la vita.
«Abbiamo scoperto dove potrebbero essersi diretti i due ragazzi» proferì Kurt al telefono.
«Ovvero?».
«A Firenze, dai genitori di lei».
«Bene, allora ci metteremo in marcia fin da subito».
«Voglio che risolviate questa situazione al più presto».
«Sarà fatto, signore».
Riposto il telefono in tasca, Rick guardò la sua vittima grondante di sangue.
«Oggi è la tua giornata fortunata».
Ordinò ai suoi uomini di lasciare subito l’appartamento. Ale fu lasciato in quello stato, legato alla sedia, sanguinante.
“Vediamo quanto sei davvero fortunato” pensò chiudendo la porta dietro di sé. “Se verrai trovato prima di morire dissanguato ti sarai meritato l’opportunità di rimanere in vita”.
Impostarono il luogo che gli era stato indicato da Losener e si avviarono verso Firenze. Questa volta nulla avrebbe più salvato i due ragazzi.
 
Lucio Destri, il maresciallo che si trovava di fronte a Leonardo e Francesca, scoppiò un’epica risata.
«E così volete farmi credere che Hitler sia ancora vivo e che i suoi scagnozzi vi sono alle calcagna?».
«Così sembra molto più stupido di quanto non lo sia in realtà» commentò la bibliotecaria.
«Non abbiamo detto che è Hitler a comandare quegli uomini adesso» cercò di far capire meglio Leonardo. «Ma che potrebbe comandarli qualora fosse scongelato dalla sua ibernazione».
«Ragazzi» disse il maresciallo, con l’intento di congedarli quanto prima. «Io non ho tempo da perdere, andate a raccontare questa storia a Cinecittà, magari qualcuno vi comprerà i diritti per girarci qualche film. Ma io qui ho cose ben più serie di cui occuparmi, quindi accomodatevi fuori».
«Ma maresciallo, lei non capisce!» obiettò Francesca.
«Se insistete sarà costretto a farvi dichiarare incapaci di intendere e di volere. Voglio credere che tutto questo sia solo un simpatico scherzo organizzato da mio figlio. Ora andate via».
«Lascia perdere» disse Leonardo alla sua amica. «Andiamo via, troveremo un altro modo».
« ‘Al servizio del cittadino’ un par di palle» commentò, stizzita, la ragazza.
Così raccolsero le loro cose e si avviarono all’uscita. Senza avere un’idea di cosa fare, a chi rivolgersi. Tutta la loro positività si era convertita in angoscia. Sarebbero stati trovati e sarebbero stati uccisi. Tutto per il semplice motivo che quella storia era inverosimile.
«Spero che il maresciallo si senta in colpa quando sentirà la notizia della nostra morte».
«Qui non morirà nessuno. Troveremo il modo di uscire indenni da questa situazione. Non arrendiamoci».
La determinazione di Leonardo era commovente. Ma quello che anch’egli sapeva, in cuor suo, era che Francesca aveva ragione.
Non c’era alcuna via d’uscita.

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Capitolo 45
*** Capitolo 44 ***


CAPITOLO 44
 
«Ragazzi! Aspettate!».
I due si sentirono chiamare. Così si voltarono e gli si parò davanti un possente uomo in uniforme. Sembrava un giocatore di rugby per via del suo fisico statuario. Leonardo pensò di non volerselo mai trovare contro, data la sua stazza. La sua altezza lo intimoriva.
«Cosa c’è?» disse Francesca.
«Dovete scusare il maresciallo. Purtroppo ha una certa età e non vuole rischiare di rovinarsi la carriera andando dietro ad ogni denuncia che gli viene fatta» spiegò.
«Beh, per quanto ci riguarda la nostra non è una denuncia qualsiasi, perché, differentemente da quanto pensa il tuo superiore, questa storia è vera» rispose la ragazza.
«Sarò felice di ascoltarla se mi permettete di offrirvi il pranzo».
I due ragazzi si guardarono e fecero un cenno di approvazione tra di loro.
«Va bene».
«Che sbadato, non mi sono presentato». Fece un respiro profondo: «Sono Roberto Sio, al vostro servizio».
«Piacere di conoscerti, io sono Francesca e lui è Leonardo».
«Dovete sapere che quasi quotidianamente arrivano chiamate in centrale in cui vengono denunciati degli attacchi terroristici o chissà che altro», fece strada e si avviò verso il viale.
«E la stragrande maggioranza delle volte», continuò: «Si tratta solo di scherzi o di avvistamenti sbagliati».
«D’accordo, ma dimmi, come fa il maresciallo ad affermare che siano tutte frottole senza averlo provato? Abbiamo forse la faccia di persone che scherzano?» intervenne Leonardo.
«Dovete ammettere che la vostra storia è inusuale».
«Questo lo abbiamo già constatato» commentò la bibliotecaria. «Sei qui per sbeffeggiarci o per aiutarci? Siamo stati svegli tutta la notte per sfuggire da uomini che volevano ucciderci».
«Voglio aiutarvi».
Roberto era completamente preso dallo sguardo di Francesca. Lei era stato l’unico motivo per il quale si era prodigato nel voler ascoltare la loro storia. Non si innamorava tanto facilmente, specialmente della prima sconosciuta che incontra. Ma quegli occhi. Lo avevano rapito. “Da dove sei arrivata?” aveva pensato. “Dal paradiso?”. Non poteva farsela sfuggire. Era così difficile trovare delle brave ragazze in giro che, questa, poteva essere la volta buona per incontrare la sua anima gemella. Non lo dava a vedere ma era emozionato. L’unico nodo da sciogliere era capire quale fosse il ruolo di tale Leonardo. “Che sia un amico? Il fratello?”. Non aveva notato atteggiamenti d’amore tra i due, per cui aveva dato ascolto al suo cuore ed era corso da lei.
«Dove vi va di pranzare?» chiese.
«Un posto dove poter parlare in tranquillità» rispose la ragazza.
«Allora conosco il luogo che fa al caso nostro».
Li invitò a salire sulla sua auto, una bellissima vettura tedesca tenuta in ottimo stato.
«Vedo che la paga dello Stato è alquanto buona» commentò Leonardo, che non vedeva di buon occhio quel poliziotto. Le sue attenzioni per Francesca erano subito apparse evidenti.
«Non mi posso lamentare», rispose. «Ma quando rischi la vita per la sicurezza delle persone credo che questa sia una giusta ricompensa».
«Ah, quindi stare in caserma a compilare moduli tutto il giorno tu lo definisci rischiare la vita?».
«Leo, per favore, mi dici che problema hai?» intervenne Francesca.
«Lascialo parlare» disse Roberto. «Non sono permaloso».
«Sto solo dicendo che questo paese potrebbe essere più sicuro, io non vedo tutta questa attività da parte dei poliziotti».
«Allora arruolati, fai carriera, arriva al mio posto e poi mi dici se la pensi ancora allo stesso modo».
«Non te la prendere» si intromise nuovamente la bibliotecaria. «Come ti abbiamo detto, abbiamo avuto una notte difficile e adesso abbiamo i nervi a fior di pelle».
«Lo so, vi capisco» rispose l’agente di polizia.
Mise in moto la macchina e si avviò tra le strade della città. Quasi subito accese il condizionatore per rinfrescarsi. Nonostante l’avesse parcheggiata al fresco, all’interno dell’auto c’era un calore insopportabile. Leonardo guardava quella tecnologia e ripensava alla sua automobile. L’aria condizionata non funzionava in modo eccelso e, quando aveva caldo, doveva sempre procedere ad abbassare i finestrini per un po’ di sollievo.
«Guidi molto bene» si complimentò Francesca.
«Faccio del mio meglio» rispose con falsa modestia Roberto. «Il mio sogno nel cassetto era quello di diventare un pilota di Formula 1».
Leonardo, seduto sui sedili posteriori, sogghignò.
«Ma purtroppo mio padre non era convinto della mia passione», continuò. «E mi spronò ad arruolarmi».
«Con una macchina del genere tutti sarebbero capaci di guidare così bene» commentò Leo. 
Roberto aveva capito che quel ragazzo era ai limiti della gelosia. Ma, avendo dalla sua parte un gran fascino, aveva deciso di combattere quella battaglia sul piano della diplomazia.
«Dopo mangiato ti darò le chiavi e guiderai tu per il ritorno in centrale, che dici?» propose il poliziotto.
Entrando in una stradina di campagna, si diresse verso l’agriturismo che aveva promesso. Le ruote dell’auto alzavano un gran polverone passando sullo sterrato.
«Stiamo andando alla vecchia fattoria?» domandò Leonardo.
Non ricevette risposta. Probabilmente si era accorto anch’egli che il suo comportamento stava diventando troppo infantile. Così decise di cambiare atteggiamento. In quel modo stava sia rischiando di perdere Francesca che di beccarsi un pestaggio gratuito da parte di un pubblico ufficiale.
Arrivati al ristorante, notarono che era vuoto. Non c’era l’ombra di un cliente.
«Come mai non c’è nessuno?» chiese Francesca.
«Questo posto ha cambiato da poco proprietà e ancora non si è fatto un nome, quindi potremo parlare in tranquillità senza ricevere alcun disturbo» rispose Roberto.
Salutò il padrone della struttura che li fece accomodare.
«Qui è tutto cibo sano, di nostra produzione» disse.
«Siamo venuti qui apposta!» commentò il poliziotto.
«Oggi siete i nostri primi clienti, quindi permettetemi di offrirvi l’antipasto della casa».
«Lei è molto gentile, grazie».
«Vi lascio i menù così, nel frattempo, decidete cosa ordinare».
«La ringrazio».
Leonardo prese subito uno dei menù, intento a scegliere cosa ordinare. Roberto, che già conosceva il menù e sapeva perfettamente cosa scegliere, si concesse di consigliare qualche piatto a Francesca.
«Io ti consiglierei la Panzanella. Sarebbe l’ideale con questo caldo».
Leo alzò lo sguardo verso di loro. Vide che, la ragazza, con un sorriso accolse piacevolmente il consiglio.
Il cameriere gli lasciò un cestino del pane, un’acqua naturale e prese le ordinazioni.
«Io direi che, in attesa dei piatti, possiamo iniziare a parlare di quello che vi è successo» propose l’agente di polizia.
«D’accordo» rispose Francesca, versandosi un bicchiere d’acqua.
Leonardo, ascoltando il racconto della bibliotecaria, prese un pezzo di pane e iniziò a mangiarlo. Ma sentiva qualcosa di strano. Non aveva il solito sapore che un pezzo di pane dovrebbe avere.
«Scusami» si rivolse a Roberto. «Ma questo posto quant’è sicuro?».
La ragazza smise di raccontare la loro storia e si voltò verso l’amico.
«Qualche mese fa ti avrei detto che era un covo della malavita» spiegò Roberto.
«Ma ora dovrebbe essere gestito da persone per bene. Perché?».
«Ho paura che non sia così».
Pronunciata quella frase si precipitò in bagno per vomitare.
«Oddio, che ti sta succedendo?» urlò Francesca, preoccupata.
Leonardo cercò di provocarsi un rigurgito, per espellere il pane che aveva appena mangiato. Ma non ci riusciva.
«Ho bisogno di qualcuno che mi ficchi due dita in gola!» urlò, dalla toilette.
«Ma perché? Che cosa è successo?».
Francesca non riusciva a capacitarsi. Li avevano già raggiunti? Avevano avuto il tempo di drogare il loro cibo?
“Oh cielo!” pensò. “Come hanno fatto a sapere così in fretta dove eravamo diretti?”.
«Resta qui, entro io» la rassicurò Roberto.
La bibliotecaria crollò su una sedia vicina e pregò che Leonardo riuscisse a vomitare, per espellere il veleno prima che potesse entrare in azione.

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Capitolo 46
*** Capitolo 45 ***


CAPITOLO 45
 
Il sole batteva sugli occhiali da sole di Photer. Si sentiva allo stesso tempo indistruttibile ma con la propria vita a rischio. “Non deluderò mai il signor Losener”.
Fece qualche passo ed entrò in un furgone. “Non me lo potrei mai perdonare”.
La loro efficienza era stata maniacale. In men che non si dica erano giunti a Firenze.
«Mi conferma la destinazione, capo?».
Rick diede un’occhiata al proprio orologio e rispose: «Non abbiamo tempo per queste ridicole domande, metti in moto e parti».
L’autista spinse sull’acceleratore e schizzò via a razzo.
“Li prenderemo”. Photer era più determinato che mai. “Li prenderemo e poi gli faremo capire che quello di stanotte era solo un piccolo assaggio”.
Guardava il navigatore.
«Premi quel cazzo di acceleratore, non voglio perderli di nuovo!» disse Rick.
«Sto andando il più veloce possibile, ma purtroppo il traffico italiano è uno dei peggiori».
Il furgone rallentò nei pressi di un semaforo, al quale era appena scattato il rosso. Photer, stizzito, spinse la gamba del guidatore sul pedale per far sì che non si fermasse. Solo per questione di secondi non si scontrarono con un’auto che aveva passato l’incrocio dalla destra, prima di loro. Rick rimase impassibile. Non gli interessava della sua incolumità o quella della sua squadra. Il suo unico obiettivo era raggiungere la casa in questione e catturare i due ragazzi. Ad ogni costo.
«Quale parte della frase ‘abbiamo fretta’  non ti è chiara?».
«Ma signore, non vorremmo ritrovarci con la polizia addosso!».
«La polizia è l’ultimo dei nostri problemi adesso».
Il navigatore segnalava alcuni chilometri all’arrivo. Photer estrasse dalla giacca una fiaschetta e bevve dei sorsi del suo whiskey preferito. Veniva prodotto da secoli in Germania da una famiglia che si occupava esclusivamente di liquori. Nel corso degli anni avevano sviluppato dei segreti per rendere ancora più buoni i loro prodotti. Lo stesso Rick non era riuscito a farsi spiegare quali fossero. La risposta che aveva ricevuto era sempre la stessa: «La passione, è questo il nostro segreto!».Ma la passione non può essere distillata e messa in bottiglia. Però non gli importava. Gli bastava fare il suo mensile rifornimento. Non beveva altro. Per lui era diventata una vera e propria droga.
In quel momento sentì una voce femminile proferire la frase che aspettava da quando quel furgone era partito: «Destinazione raggiunta!».
«Bene» esclamò.
Scese dalla vettura e cominciò a cercare sui citofoni delle case di quella strada il cognome che gli risuonava nella testa da diverse ore: Chezzi.
 
«Pane senza sale? Ma che assurdità è mai questa?» domandò Leonardo, incredulo.
«È una tradizione fiorentina da svariati secoli» disse Francesca, prendendone un pezzo dal cestino. «Si chiama pane sciocco, come te, proprio perché è privo di sale».
«Non ne avevo mai sentito parlare» cercò di scusarsi Leo.
«Questo non era un motivo valido per scorazzare per tutto il ristorante urlando di essere stato avvelenato» ribatté Roberto.
«Come facevi a non saperlo? Lo sanno tutti!» continuò la bibliotecaria, che si stava riprendendo dopo lo spavento preso.
«Nel 1100 Pisa, che era una rilevante Repubblica marinara, aveva bloccato le navi che trasportavano  il sale destinato a Firenze. Siccome in quell’epoca non era di facile reperimento come oggi, si dovettero adattare alla mancanza cominciando a produrre pane senza sale».
«Sei sicura che la storia fosse così?» intervenne il poliziotto.
«Abbastanza sicura».
«Io sapevo che in realtà Firenze in quegli anni non disponeva di molto denaro e, conseguentemente, di molto sale. Così decisero di eliminarlo laddove non fosse indispensabile, come appunto il pane».
«Conosco anch’io quest’altra versione, ma è meno coinvolgente».
«La storia non dev’essere coinvolgente, ma attendibile!».
«Il punto qui sta nel fatto che Leonardo non è stato avvelenato e che ci ha fatto solo prendere un brutto spavento».
«Mi dispiace, cercherò di non fare altri gesti stupidi come questo» si scusò il ragazzo.
Sapeva che con quell’azione aveva definitivamente detto addio all’amore di Francesca. L’insicurezza si era attestata in lui. Era sicuro che entro fine giornata lei e Roberto si fossero baciati.
“Che stupido!” continuava a ripetersi, mentre assaporava con ancora qualche dubbio quel pane.
«L’importante è che sta bene e che non sia successo niente» disse l’agente di polizia dando una pacca sulla spalla di Leonardo.
«Ma torniamo a noi, mi stavi raccontando quello che vi è accaduto».
Francesca riprese il racconto. Le parole uscivano a fiumi dalla sua bocca. Era capace di raccontare ogni minimo particolare. Parlò della loro breve visita in Germania, dell’atteggiamento sospetto del vecchio bibliotecario, dei poliziotti che li avevano fermati all’aeroporto.
Nel bel mezzo della narrazione arrivarono i piatti che avevano ordinato.
«Si sente bene signore? Vuole che le porti qualcos’altro?» chiese il cameriere a Leonardo.
«No, grazie. Mi scusi ancora per lo spavento che le ho fatto prendere».
«Nulla. Spero vi godiate il pranzo, buon appetito!».
Detto questo si allontanò, andandosi a sedere su una panchina posta vicino ad un ruscello. Non c’erano altri tavoli a cui servire, gli sembrava di rubare lo stipendio. In qualunque altro ristorante a quell’ora del giorno c’erano centinaia di clienti da tenere a bada. Ma non lì. Perlomeno non ancora. Sapeva che era difficile farsi un nome, ma credeva in quel progetto. Era più che sicuro che entro Natale avrebbero avuto il tutto esaurito per ogni weekend.
Francesca, tra un boccone e l’altro, continuava il racconto. Voleva renderlo il meno assurdo possibile. Arrivò a rivelare il contenuto del diario gradualmente.
Partire con una frase come “Hitler è ancora vivo ed è ibernato” non avrebbe di certo favorito la loro credibilità dei confronti del poliziotto.
“Perfetto, ora dobbiamo dividere il bottino per tre” pensava Leonardo, ascoltando il racconto. Aveva ordinato degli gnocchi ed era molto felice della sua scelta. Erano talmente buoni che in pochi minuti aveva quasi svuotato il piatto.
Roberto, quando finì di ascoltare il racconto, rimase impassibile. Non disse nulla. Sembrava pensieroso. Probabilmente le tre parole che gli rimbalzavano in testa erano “Questi sono matti!”.
«Bene, in questo caso avrete bisogno sicuramente di un bodyguard» disse l’agente di polizia, interrompendo il silenzio.
«Ci credi?» rispose Francesca, basita.
«Perché non dovrei? Se mi assicurate che non è una candid camera sono dei vostri».
«E come farai col maresciallo?».
«Gli chiederò di affidarmi il caso. E, dato che conosco i suoi punti deboli, acconsentirà sicuramente».
«Ti ringraziamo! Ora ci sentiamo più sicuri con te a proteggerci».
Con quella frase il cuore di Roberto si era sciolto. “Per te farei di tutto” pensava.
«Chiediamo il conto?» domandò Leonardo.
«Ci penso io, non preoccupatevi» replicò il poliziotto.
Dopo una serie di inutili trattative, l’uomo li convinse a offrirgli il pranzo.
«Ora torniamo in centrale e cerchiamo di organizzarci. Se, come avete detto, sono individui pericolosi dovrete munirvi degli appositi dispositivi di sicurezza».
«Stai alludendo a…».
«Esatto»,
 
Gli occhi della donna erano colmi di paura. Cosa volevano quegli uomini entrati in casa sua?
Non erano ladri, non avevano alcun interesse per i loro soldi. E allora perché erano piombati nella loro abitazione e avevano legato lei e il marito?
«I signori Chezzi, immagino» esordì Rick.
La madre di Francesca, imbavagliata, emetteva dei mormorii indistinti. Photer aveva ben compreso cosa stessero pensando i coniugi.
«Facciamo un patto» disse, piegandosi verso la donna. «Prima lei mi da le risposte che voglio, prima io sarò felice di spiegarle questa spiacevole situazione».
Estrasse un pugnale dalla giacca e continuò: «E se collaborerete senza fare storie, sono sicuro che nessuno si farà male».
Si girò nuovamente a guardare la madre di Francesca negli occhi che, con uno sguardo di sottomissione, acconsentì alle richieste di Rick.
Le tolse delicatamente lo scotch dalla bocca e le porse la prima domanda.
«La sua bella figlioletta, Francesca. Da quanto tempo non la vede?».
«Che cosa vuole da mia figlia?».
Innervosito da quella risposta, con un taglio netto tranciò un orecchio al marito che si contorse dal dolore.
«Risposta sbagliata!».
«Oh mio Dio!».
«Eppure mi sembrava di averle spiegato come volessi che si svolgessero le cose. Prima lei risponde alle mie domande e poi io risponderò alle sue».
Pulì il pugnale sulla maglia dell’uomo legato alla sedia, che ormai grondava sangue dalla faccia, e rifece la stessa domanda.
«Riproviamo. Da quanto tempo non vede sua figlia, signora Chezzi?».
«È tornata questa mattina senza avvisarmi. Mi ha detto di essere solo di passaggio. Non so altro».
«Quindi lei mi conferma che sua figlia è qui a Firenze».
«Credo di sì, le ho chiesto se lei e il suo fidanzato volessero dormire qui, ma mi hanno detto di essere solo di passaggio».
«Il suo fidanzato? Sta alludendo a Leonardo Bonanni?».
«Sì, ma vi prego, non fate soffrire ancora mio marito! Ha bisogno di cure mediche».
«Non si preoccupi, suo marito è un uomo forte e in salute. Ma mi dica, dove posso trovare sua figlia?».
La donna era spinta dal voler sapere a tutti i costi cosa volessero da Francesca ma, per la paura che potessero fare ancora del male a suo marito, si trattenne dal chiederglielo.
«Non so dove sia andata. Ve lo giuro, non mi ha detto altro».
Uno degli scagnozzi di Photer si avvicinò a lui e gli sussurrò alcune parole all’orecchio. Rick sorrise e rimise dello scotch sulla bocca della donna.
«A quanto pare la dolce Francesca dovrà tornare qui. È da maleducati non venire a salutare i propri genitori, non crede?».
Si girò, rimise a posto il suo pugnale e si andò a sedere sul comodo divano color panna che spiccava in quella stanza.
«Ah. Per quanto riguarda il nostro accordo in cui io poi le avrei dato le risposte che lei voleva. Beh, se proprio ci tiene a sapere di più su questa storia io posso anche rivelarle tutto. Solo che poi dovrei ucciderla. A lei la decisione. Vuole farmi qualche domanda?».
La signora fece di non con la testa, tremante.
Suo marito guardava tristemente il suo orecchio caduto per terra. Era quello buono. Infatti da quello sinistro era da qualche anno che ci sentiva sempre meno. Diede un’occhiata ai brutti ceffi che lo circondavano e si lasciò andare ad un breve pianto. Durante la sua vita era sempre stata una persona onesta e lavoratrice. Che cosa aveva fatto per meritarsi questo?

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Capitolo 47
*** Capitolo 46 ***


CAPITOLO 46
 
Leonardo fissava quell’oggetto con timore. La sua mano accarezzava il freddo metallo di quell’arma, chiedendosi se avesse mai trovato il coraggio di utilizzarla contro un altro uomo.
«Qualcuno di voi due ha già sparato prima d’ora?» domandò Roberto.
Entrambi i ragazzi accennarono un no  con la testa.
«Bene» continuò. «Non dovete fare altro che togliere la sicura, puntarla contro colui che vi minaccia e premere il grilletto».
Li guardò per capire se avevano recepito il messaggio e continuò: «Chiaramente dovrete cercare di fare centro. Non funziona se sparate da tutt’altra parte rispetto al bersaglio».
«Io non credo di essere in grado di uccidere qualcuno» disse Francesca.
«Neanch’io» si accodò Leonardo.
«Nemmeno se quell’uomo sta per uccidere voi?».
I due ragazzi rimasero in silenzio.
«Allora vi darò un diverso tipo di pistole» propose l’agente di polizia.
«Cioè?».
Si allontanò per qualche minuto lasciandoli da soli. Si guardarono un po’ intorno.
La loro attenzione venne catturata da una foto appesa al muro, in cui c’era un gruppo di uomini in uniforme militare. La bibliotecaria si alzò e andò a dare un’occhiata più da vicino. Le sembrò di scorgere un viso familiare.
«Quello sono io in accademia» disse Roberto, entrando. «Sono rimasto legato a molti di loro, per questo conservo quella foto».
Aprì una valigetta ed estrasse altre due armi, porgendole ai due ragazzi. Leonardo guardò la sua pistola e notò che era identica in tutto e per tutto a quella di prima.
«Queste cos’hanno di diverso?».
«Semplice: queste non sarebbero in grado di uccidere un uomo. Ovviamente se usate con moderazione!» spiegò il poliziotto.
«E in che modo potrebbero esserci utili?».
«Hanno proiettili soporiferi. Addormenteranno il vostro nemico da un minimo di tre ore ad un massimo di sei. In tutto questo tempo avrete modo di chiamare qualche autorità per soccorrervi».
«Se non uccidono mi sento più a mio agio a usarle contro i cattivi!» disse Leonardo, puntando l’arma nel vuoto.
Roberto prese altri due oggetti e li consegnò loro. Al tatto erano duri come dei parastinchi.
«Non c’è bisogno che vi spieghi cosa siano questi».
«Giubbotti antiproiettile?» chiese Francesca.
«Esatto».
«Cercate di mimetizzarli con i vestiti che indossate. Se qualcuno dovesse scoprire che quelli sono giubbotti antiproiettile potrebbe mirare alla testa e uccidervi» consigliò Roberto.
«Grazie di tutto».
«Dovere».
«Adesso cosa avete intenzione di fare?».
«Vogliamo recarci nuovamente in Germania e cercare di trovare questo covo segreto».
«D’accordo. Io cerco di sistemare le mie cose e vi raggiungerò all’aeroporto domattina. Se questa storia dovesse andare a buon fine otterrei una bella medaglia al valore».
 
I due giovani lasciarono la centrale e si diressero verso casa di Francesca. L’opinione di Leonardo nei confronti del poliziotto era cambiata. Anzi, si sentiva quasi sollevato dalla sua presenza. Non era facile riuscire a convincere qualcuno a seguirli nel loro viaggio, ma quell’uomo aveva accettato di buon grado.
«Questa sera, allora, dormiremo a casa dei miei» disse la ragazza.
«Già. Credo di avergli fatto una buona impressione» rispose Leo con un sorrisino.
«Non vantarti. Non ci vuole molto per piacere ai miei. Basta che non fumi e che tifi Italia ai mondiali».
Giunti a destinazione, salirono lentamente le scale ridendo e scherzando tra loro. Era incredibile come, finalmente, pensavano di essere al sicuro.
Bussarono. E aspettarono. Ma nessuno rispose. “Che siano usciti?” pensava Francesca.
Pian piano la maniglia della porta rumoreggiò e venne aperta da sua madre. Il volto della donna era profondamente provato, con alcune lacrime che uscirono non appena i loro occhi si incrociarono.
«Mamma! Cos’è successo?».
Superando l’uscio vide una scia di sangue a terra. Le si fermò il respiro. “Non può essere”. Non ebbe neanche il tempo di girarsi e rendersi conto di quello che stesse succedendo.
«Cucù!» esordì Rick, colpendola alla testa e facendole perdere i sensi.
Stesso destino era toccato anche a Leonardo, che ora giaceva disteso accanto alla sua amica.
 
Roberto stava mettendo in ordine le carte sparpagliate per l’ufficio. “Ma quanto si può essere disordinati in questa centrale?”.
Era in attesa del ritorno del maresciallo Destri per avvertirlo della sua decisione di accettare il caso dei due ragazzi. Guardò l’orologio e capì che avrebbe dovuto aspettare ancora per poco.
Infatti il suo superiore era solito andare a scambiare quattro chiacchiere con i suoi amici d’infanzia al bar, quando il lavoro era poco.
Il suo sguardo si stagliò inevitabilmente sulla sua foto appesa al muro, dove Roberto era immortalato con tutti i suoi compagni di accademia. Avrebbe tanto voluto chiamare il suo migliore amico per parlargli della ragazza che aveva conosciuto quel giorno.
Tutt’a un tratto squillò il telefono. Il poliziotto che aveva risposto, come al solito, in modo svogliato, si raddrizzò quando sentì la denuncia dall’altro capo della cornetta.
«Rapiti? Come si chiama sua figlia?» chiese.
Prese un foglio e trascrisse lentamente il nominativo.
«Francesca Chezzi. E poi chi è il ragazzo rapito insieme a lei?».
Non ebbe il tempo di completare questa seconda domanda che gli venne sfilato il telefono da mano. Roberto, allarmato, chiese cosa fosse successo. La mamma di Francesca, con voce tremante, gli raccontò brevemente quello che era successo.
«Le mando subito un’ambulanza per suo marito» disse l’agente di polizia.
«La ringrazio. La prego, gli dica di fare subito, non voglio che soffra ulteriormente» supplicò la signora.
«Non si preoccupi, saranno istantanei».
Messo giù il telefono Roberto capì che non c’era assolutamente tempo da perdere. Quella storia a quanto pare era vera e, purtroppo, anche molto pericolosa.

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Capitolo 48
*** Capitolo 47 ***


CAPITOLO 47
 
«Voglio un gruppo di uomini fidati per questa storia» disse Roberto.
«In poche parole mi sta chiedendo di buttare la mia carriera nel fuoco?» rispose titubante Lucio.
«Se vuole può riascoltare la telefonata, questa non è una frottola!».
«Lei lo sa che non siamo in America, qui non ci sono rapimenti ad opera di strani individui».
«Ce n’è appena stato uno, cazzo!».
«Moderi le parole o sarò costretto a farle un bel rapporto per indisciplina».
«Glielo ripeto, mi conceda di poter lavorare su questo caso, non se ne pentirà».
«Certo, e come per magia il corpo di Hitler uscirà da qualche strana grotta tedesca».
«Lo so che sembra impossibile da credere, ma io sono sicuro che ci sia qualcosa sotto. Nessuno si spingerebbe a tanto pur di essere sicuri che questa storia non esca allo scoperto!».
«Io non manderò a puttane la mia carriera per un semplice rapimento! Appena vorranno gli aggressori chiameranno la famiglia dei ragazzi e concorderanno un prezzo per la liberazione. Non ho alcuna intenzione di mettere a rischio la vita di cinque agenti per questa storia».
Si alzò in piedi sbuffando e continuò: «La maggior parte di queste vicende si risolve da sola. I rapitori commettono un minimo errore e li staniamo senza creare nessun problema».
«Ma come glielo devo dire che questi non sono dei semplici rapitori?».
Anche Roberto aveva iniziato ad alzare i toni: «Se non ci sbrighiamo quei due ragazzi potrebbero morire!».
Il maresciallo Destri rimase a mugugnare, pensieroso.
«Cristo, hanno tagliato un orecchio ad un uomo senza batter ciglio!» urlò l’agente di polizia.
«La chiami pazzia o come vuole, ma le concedo solo quarantotto ore. Dopodiché voglio il caso risolto senza nessuna conseguenza negativa per me, nessuno degli uomini che le affiderò ferito e soprattutto uno straccio di prova che quanto lei crede sia vero».
«La ringrazio maresciallo».
«Le serve altro?».
«Sì».
«Speravo tanto che rispondesse di no».
«Quegli uomini, stando a quanto mi hanno raccontato i ragazzi, lavorano per una setta locata in Germania. Quindi ricevono gli ordini direttamente da lì. Perciò dobbiamo tenere sotto controllo tutte le telefonate in entrata e in uscita per la Germania. Se i miei calcoli sono giusti, adesso dovrebbero chiamare il loro capo per avvertirlo di aver finalmente preso i ragazzi. Ed è così che li beccheremo. Individueremo in un sol colpo sia il luogo dove sono tenuti prigionieri che la giusta ubicazione di questa fantomatica setta».
«Tutta questa storia mi sembra un maledetto film. Se sto dormendo voglio svegliarmi, dannazione!».
«Non è un film signore. È la vita reale. E non c’è altro tempo da perdere! Non possiamo rischiare che mutino qualche pezzo del corpo anche a uno dei due ragazzi!».
«Sembra davvero molto preoccupato per loro. Spero per lei che ne valga la pena. Qui non c’è solo la mia carriera in gioco, ma anche la sua».
«Non mi interessa. Correrò il rischio».
Destri sollevò la cornetta e fece qualche numero.
Dopo qualche minuto e qualche telefonata, guardò Roberto dritto negli occhi e disse delle parole dal tono esasperato: «Le ho dato tutto quello che voleva. Ora la prego di non disturbarmi oltre».
L’agente di polizia, visibilmente soddisfatto, si alzò per iniziare quanto prima l’organizzazione di un piano. Prima che ebbe lasciato la stanza, però, ricevette un ultimo monito dal maresciallo.
«Sio, la prego. Non faccia cazzate».
 
Con un sacco in testa era difficile riuscire a capire dove si trovasse. Leonardo aveva un gran mal di testa. Frutto della forte botta presa prima. Attese qualche istante prima di iniziare a muoversi.
«Bene, bene, bene!» sentì dirsi.
«Ben tornato tra i vivi, signor Bonanni! Spero tu voglia rimanerci ancora a lungo».
Il sacco che aveva sulla testa gli venne tolto. Non ebbe l’abbaglio di luce che si sarebbe aspettato di trovare. Ma quello che vide fu piuttosto tetro. Una piccola lampadina che emetteva una debole luce fioca. I volti dei suoi rapitori si vedevano appena.
Provò a guardarsi intorno, ma non vide Francesca. Aprì la bocca e quello che ne uscì furono alcune parole sconnesse. La botta in testa si faceva sentire ancora di più. D’un tratto si sentì investire da un potente getto d’acqua.
«Mi scuserai per i miei modi burberi, ma abbiamo bisogno della tua completa lucidità in questo momento» continuò la voce.
Leonardo gemette per un momento, chiuse gli occhi per il bruciore dovuto all’acqua, poi li riaprì.
«Dov’è?» furono le sue prime parole.
«La signorina Chezzi? Non preoccuparti, è al sicuro. Come te, d’altronde».
Francesca era semplicemente alle sue spalle, legata e senza sensi. Non potendosi girare, il giovane non si era accorto che fosse dietro di lui.
«Non fatele del male!».
«Ecco che iniziano le pretese. Bonanni, dovresti sapere che per ottenere qualcosa bisogna anche dare qualcosa».
«Come facevate a sapere che saremmo tornati a casa dei suoi genitori?».
«Sfortunatamente la vostra macchina era parcheggiata sotto casa. È piuttosto difficile viaggiare per il mondo senza un mezzo di locomozione».
Rick si avvicinò a Leonardo e gli prese la faccia tra le mani: «Ecco un’informazione gratuita, Signor Bonanni. Spero tu voglia ricambiare la mia generosità rispondendo ad alcune domandine».
Prese una sedia e si sedette di fronte a lui.
«Vorrei cominciare dal principio ma, purtroppo, non abbiamo molto tempo».
«Ci stanno cercando, eh?» ridacchiò Leonardo.
«Non sei nelle condizioni di sfottere, amico» rispose Photer, estraendo il suo pugnale e puntandoglielo alla gola.
«Non abbiamo molto tempo per il semplice fatto che il mio capo è molto esigente. E potrei perdere tutta la mia magnanimità se dovesse diventare impaziente» continuò.
«Innanzitutto dimmi tutto quello che avete scoperto dal diario».
«Lo avete preso, dovreste saperlo cosa c’era scritto».
«Già, ma voglio saperlo da te».
Rick non voleva far capire al ragazzo che il diario in loro possesso era completamente distrutto. Se lo avesse saputo, probabilmente, avrebbe avuto un motivo in più per non rispondere alle loro domande.
«Abbiamo letto qualche pagina, qui e lì, ma senza capire molto il senso» rispose Leonardo.
«Senti bello, sono stanco dei tuoi giochetti, dimmi subito cosa avete letto in quel diario, altrimenti dovrò passare a metodi più convincenti».
«Cioè? Mi riempirete di nuovo di botte? Tanto, anche se ve lo dicessi, mi picchiereste lo stesso».
«Oh, no» disse Photer, scoppiando in una risata isterica. «Quello che vi abbiamo fatto stanotte non erano metodi di convincimento. Stavamo solo parlando. Noi siamo artisti della tortura. Saremmo in grado di far confessare ad un adolescente ogni minima sega fatta in bagno. E se ti stai chiedendo il perché, avrai ben presto la tua risposta».
Rick si alzò e scomparve nella penombra.
In quel momento Leonardo ebbe il tempo di notare che quello in cui si trovava non era altro che un furgone. Ma non sentiva il rumore della strada, delle ruote, delle altre auto. Ciò significava che erano fermi da qualche parte. E se la fortuna era con lui, erano ancora nei pressi di Firenze.
Ormai a quell’ora la polizia era stata avvertita del loro rapimento. Già, ma che ora era? Per quanto tempo era rimasto senza sensi? Cercò con lo sguardo qualunque indizio che gli facesse capire l’orario. Ma non ne trovò.
«Sai cos’è questo, Bonanni?» domandò Photer, ritornando davanti al ragazzo con uno strano congegno tra le mani.
Leonardo lo fissava, inorridito. Sulla superficie di quell’oggetto poteva ancora notare dei lembi di pelle bruciati.
«Già. Questa è pelle. Non ricordo se l’ultima persona sulla quale abbiamo usato questo aggeggio fosse affetta da HIV o da AIDS».
Sembrò pensarci su, poi guardò il suo prigioniero e continuò: «Ma cosa importa? Lo scoprirai tra qualche giorno, se avrai la fortuna di rimanere vivo oggi».
Il battito cardiaco di Leonardo aumentò sempre di più man mano che Rick avvicinò quello strumento sul suo petto. Provò una fitta tremenda su uno dei pettorali. Il suo respiro si fece più forte.
Sentì l’odore di carne bruciata.
La sua.
«Bene, funziona!» scherzò Photer. «Possiamo iniziare la nostra conversazione».
Gli bruciò un altro pezzo di pelle, provocando una serie di urla disumane.
«Urla pure, Bonanni, urla quanto vuoi! Sfogati pure! Tanto qui non può sentirti nessuno!».
Continuò ancora per una manciata di volte. Poi strappò letteralmente un lembo di pelle dal suo corpo e glielo mostrò.
«Guarda, questo sei tu!» disse, col sorriso sulle labbra. In un istante si fece terribilmente serio e proseguì: «Posso scuoiarti vivo fino a che non rimpiangerai il fatto di non avermi detto quello che sai».
«Oh mio Dio, Leo!» strillò una voce alle sue spalle.
«Francesca!» urlò Leonardo, sollevato.
«Perfetto, anche la principessina si è svegliata».
«Cosa sta succedendo? Cos’è questa puzza?».
«Sto semplicemente parlando col tuo fidanzato qui presente».
Si guardò la mano, stupito, e continuò: «Ah, dimenticavo di dirti che lo sto abbrustolendo per bene».
«Non gli ho detto niente!» disse il ragazzo, rendendosi conto solo dopo aver pronunciato quelle parole di aver fatto un colossale errore.
«Quindi ammetti di sapere cosa c’era scritto in quel diario!».
«Non è vero, non sappiamo niente!» incalzò Francesca.
«Allora non c’è tempo per continuare a giocare. Ti do un’ultima possibilità. Dimmi cosa c’era scritto e non continuerai a soffrire».
I loro sguardi si intrecciarono. Rick attese per qualche secondo. Ma non ebbe risposta.
«Capirai che tutta questa sfrontataggine non ti sarà servita a niente».
Con la sua mano sinistra, Photer, afferrò la testa di Leonardo. Gli teneva aperta la palpebra del suo occhio destro mentre, con l’altra mano, quella in cui aveva il congegno di tortura, si avvicinò minacciosamente.
«Cosa vuoi fare?» domandò il ragazzo, preoccupato.
«Tranquillo cuor di leone, voglio solo bruciarti l’occhio. Tanto ne hai due, puoi tranquillamente fare a meno di uno».
Proprio in quel momento, però, venne interrotto da un evento inaspettato. Aveva ricevuto una chiamata da Losener, direttamente dalla Germania, impaziente di sapere gli sviluppi di quella vicenda.
 
Roberto era nervoso. Guardava lo schermo del computer del suo collega in attesa di notare una chiamata sospetta.
«Niente» commentò il suo amico.
«Com’è possibile che ci mettano tanto?».
«Era un bel piano, ma purtroppo si è rivelato un buco nell’acqua».
«No. Sono sicuro che avremo presto quello che cerchiamo».
Il poliziotto non voleva arrendersi. L’unico modo per rintracciare i ragazzi era avere quel colpo di fortuna. Altrimenti sarebbe stato impossibile dato che non erano in possesso di nessun mezzo di localizzazione.
Fece qualche passo e si appoggiò alla finestra che dava sul parco sottostante. La sua preoccupazione salì. Francesca era una ragazza d’oro. Per quel poco tempo passato insieme aveva avuto l’impressione che potesse essere quella giusta. Dopo tutto questo tempo. Non aveva mai superato la sua ultima storia. “Basta con le donne” si era sempre detto. Il suo era un rifiuto dettato dalla grande delusione che aveva avuto. Ma questa volta era il cuore a parlargli. Avrebbe fatto di tutto pur di rivederla.
«Rob, vieni qui. Forse abbiamo qualcosa».
L’agente di polizia si precipitò al monitor.
«C’è una chiamata sospetta?» chiese, impaziente.
«È in corso una chiamata verso la Germania. La stiamo localizzando. Avremo bisogno di qualche secondo».
Roberto sperò con tutto sé stesso che quella telefonata durasse il tempo necessario per individuarla. Vide il suo collega digitare degli strani codici sulla tastiera. Non volle importunarlo con inutili domande. Ogni secondo era prezioso.
Aprì una mappa della Toscana e la convertì nel programma che stava utilizzando per tracciare la chiamata.
«Ancora qualche secondo e ci siamo» affermò.
A Roberto quel computer sembrava dannatamente lento. “Quanto ci vuoi ancora?” pensava insistentemente. All’improvviso vide un puntino lampeggiare sulla cartina.
«Bingo! L’abbiamo trovato!».
Non se lo fece ripetere due volte. Chiamò la sua squadra e partirono come dei treni a bordo delle loro due autovetture.
“Continua a tenere d’occhio le telefonate con la Germania” aveva ordinato al suo collega. Se fossero arrivati in ritardo sul luogo individuato non avrebbero avuto una seconda possibilità di trovare i due ragazzi.
Le ruote sfrecciavano sull’asfalto, quasi alzandosi da terra per la forte velocità. La sirena accesa faceva sì che le auto davanti a loro si accostassero ai bordi della strada per lasciarli passare. “La migliore invenzione del secolo” pensò tra sé e sé. Gli sguardi stupiti delle persone che li vedevano passare lo faceva sentire come il protagonista di un film d’azione americano. Ma la sua mente lo riportò subito alla realtà.
In gioco c’erano le vite di due persone vere, e non di personaggi di finzione. Conosceva le strade della città alla perfezione, a causa delle sue continue ronde notturne di qualche anno prima. Non aveva fatto carriera così per caso, ma quel posto se lo era meritato in pieno. E non gli importava se con quella vicenda avrebbe messo a rischio tutto ciò.
Giunti a destinazione tirò il freno a mano, senza rallentare, facendo slittare l’auto di 180 gradi. Le ruote lasciarono sull’asfalto una striscia nera molto marcata e la puzza degli pneumatici bruciati fu la prima cosa che sentì quando scese dalla vettura.
Si guardò intorno alla ricerca di qualche furgone o qualcosa di simile. “Dove potrebbero nascondersi?”. Chiamò in centrale.
«La chiamata è ancora in corso?»
«Sì. Sei arrivato?».
«Sono qui ma non vedo nulla di sospetto».
«Dove ti trovi?».
«All’imbocco di Via delle Rose».
«Ti mando l’ubicazione precisa col cellulare. Potrebbero essere anche dentro qualche edificio».
Roberto chiuse il telefono senza dire neanche una parola. Attese qualche istante l’e-mail del suo collega che arrivò celermente. Guardò la mappa e si diresse verso il punto preciso.
Non vide nulla. Solo una serie di panchine, senza nulla di particolare. Né un a baracca, né una tenda improvvisata. Niente.
Quando, inavvertitamente, alcune parole pronunciate in tedesco arrivarono alle sue orecchie. Si voltò e vide un uomo, elegante, parlare al telefono seduto proprio su una di quelle panchine. Gli si avvicinò e lo tirò su. Lo guardò per bene.
«Che cosa stai facendo qui?» gli domandò minaccioso.
«Mi scusi, agente. Sto facendo una telefonata di lavoro. Non sapevo fosse un problema farla qui, non sto facendo nulla di male!».
A quelle parole lo lasciò andare. Quell’individuo raccolse la sua valigetta e si allontanò più in fretta possibile.
Roberto prese nuovamente il suo cellulare e richiamò in centrale.
«Abbiamo preso l’uomo sbagliato, dannazione!».

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Capitolo 49
*** Capitolo 48 ***


CAPITOLO 48
 
«Stiamo ancora interrogando queste due canaglie signore, l’avrei chiamata io appena avremmo estorto le informazioni che cerchiamo» proferì Rick al telefono.
«Sono stanco di aspettare. Cosa vi hanno detto finora?».
«Ancora nulla. Probabilmente sanno qualcosa ma non sono stati sufficientemente incentivati a dircelo».
«Scopri quello che ci serve e poi falli fuori. Vi voglio qui al più presto possibile. Questa storia sta durando più del necessario».
«Sarà fatto signore».
Photer chiuse il cellulare e tornò dai ragazzi.
«So perfettamente che la signorina mi ha capito».
La conversazione tra lui e il suo capo era avvenuta in tedesco. Leonardo non aveva capito una sola parola. Ma Francesca aveva intuito il senso del discorso.
«Imbavagliatela prima che possa compromettere questo interrogatorio».
La bibliotecaria non ebbe neanche il tempo di avvisare il suo amico che venne bloccata.
«Proviamo un altro gioco, caro il mio Bonanni».
La sedia del ragazzo fu girata completamente, in modo tale che potesse vedere Francesca. Era imbavagliata e dagli occhi cercava di fargli intuire qualcosa.
«Non preoccuparti, non gli dirò nulla. Possono torturarmi quanto vogliono» la rassicurò.
«Infatti il gioco consiste proprio in questo. Adesso non tortureremo più te, ma la tua bella fidanzata».
«No!».
«Oh sì invece».
Leonardo cercò di resistere. Chiuse gli occhi per non guardare, ma gli vennero tenuto aperti con la forza.
«Guardala. Parla prima che passi al suo bel faccino» minacciò Rick, che fino a quel momento le aveva procurato delle piccole bruciature sulle braccia e sulle gambe.
«Fermatevi! Vi dirò tutto!».
Non riuscì a resistere quando vide le lacrime di Francesca andarsi ad infrangere contro la stoffa che le era stata legata sulla bocca per non farla parlare. I suoi occhi erano gonfi di dolore.
«È inutile continuare a resistere. Tanto prima o poi dovremo confessarlo comunque. Basta con questa tortura. Lasciatela stare» ordinò Leonardo.
«Finalmente. Se avessi saputo che sarebbe stato così facile avrei iniziato così questa chiacchierata».
Photer rigirò la sedia del ragazzo e posò l’oggetto con il quale li aveva torturati fino a quel momento su uno sgabello poco distante.
«Sono tutto orecchi».
«Ho trovato quel diario per caso, in un vecchio rudere abbandonato».
«Possiamo tralasciare tutti questi inutili dettagli» intervenne Rick, pulendosi le mani sporche di sangue.
«Voglio sapere semplicemente cosa c’era scritto su quelle dannate pagine. Non mi sembra di averti fatto una domanda assurda».
«Hubert Schreiber».
Nel momento in cui vennero pronunciate quelle parole si sentirono degli spari dall’esterno del furgone.
«E ora cosa diavolo sta succedendo?».
Photer aprì le portiere della vettura, precipitandosi all’esterno.
Con un grido chiamò gli altri uomini seduti intorno a loro, spronandoli a cacciare le pistole.
“Sono arrivati a salvarci!” pensò Leonardo.
«Come stai? Li senti? Sono venuti a salvarci!» disse a Francesca, che era ancora dolente per le ferite.
Il furgone venne messo improvvisamente in moto e partì come una scheggia. Le sedie sulle quali erano legati i due ragazzi iniziarono a spostarsi pericolosamente verso l’apertura delle portiere, dalla quale potevano vedere le auto della polizia inseguirli.
Improvvisamente la vettura sulla quale si trovavano sterzò bruscamente, facendoli sbattere contro una delle pareti.
«Scendi con le mani alzate» sentirono dire.
Nel giro di alcuni secondi videro finalmente una faccia amica. Roberto.
«Oh mio Dio, come state ragazzi? Cosa vi hanno fatto?» domandò il poliziotto.
«Ci hanno bruciato la pelle per farci parlare» gli spiegò Leonardo.
«Avete bisogno urgentemente di un’ambulanza».
Li slegò velocemente e ordinò a uno dei suoi uomini di chiamare l’ospedale.
«Non preoccupatevi, adesso siete al sicuro».
 
L’auto di Rick sfrecciava il più velocemente possibile tra le strade districate della campagna toscana. La maggior parte della sua squadra era andata.
Com’era stato possibile? Come li avevano individuati? Cacciò la mano fuori dal finestrino e sparò qualche colpo all’indietro. Uno dei proiettili, per sua fortuna, andò a segno su una delle ruote. Così la vettura alle sue spalle sbandò e rallentò.
Capendo di averli seminati, Photer si accostò e penetrò in un bosco, dove si sarebbe nascosto nell’intento di fare chiarezza su quella vicenda.
«Che diavolo è successo? Come ci hanno trovati?» disse uno dei due uomini che era ancora con lui.
«Non lo so, dannazione! Eravamo così vicini a concludere questa vicenda» urlò Rick, spengendo l’autovettura.
Si allontanò nervosamente dalla macchina. Si guardava intorno al fine di trovare qualche illuminazione per riuscire a capire come fosse stato possibile. Si trattenne dal lanciare un potente urlo, per non rischiare di essere nuovamente individuato. Ritornò indietro e si appoggiò al cofano anteriore dell’auto. Si portò la mano al mento e cercò di spremersi le meningi il più possibile.
«Voi avete qualche idea?» chiese.
«Abbiamo usato tutta la discrezione richiesta. Eravamo fuori dalla città. Non abbiamo lasciato tracce da nessuna parte».
«E allora come hanno fatto? Ci troviamo di fronte a dei medium?».
Continuò a pensare a quale potesse essere la causa. L’unica cosa che sapeva era che la sua vita ora era in pericolo più che mai. Se Losener avesse saputo lo sviluppo di quella storia, lo avrebbe fatto ammazzare senza batter ciglio.
«Cosa facciamo ora?» si sentì dire.
Era la prima volta in cui non aveva nessuna idea. Non sapeva che fare. Guardò i suoi due uomini e poi lasciò cadere la sua mano, delicatamente, sulla sua pistola.

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Capitolo 50
*** Capitolo 49 ***


CAPITOLO 49
 
Quel lungo abbraccio tra Roberto e Francesca lo metteva a disagio. Nonostante fosse eternamente in debito con lui, lo considerava un avvoltoio. “Io mi becco le torture e lui si prende gli abbracci”.
Si guardò le bende che gli tappezzavano il corpo e pensò che se fosse stato il periodo di Halloween avrebbe fatto un’ottima figura come mummia. Avrebbe vinto il primo premio ad un’ipotetica gara. Pinto sarebbe stato fiero di lui.
Il poliziotto si girò verso Leonardo e, vedendolo pensieroso, esordì dicendo: «Vuoi anche tu un abbraccio?».
«Spiritoso».
«Almeno un grazie per avervi salvato la vita me lo merito, no?».
«Grazie» rispose il ragazzo, con sincerità.
«Non sarei resistito un secondo in più. Stavo per rivelare tutto. Siete arrivati al momento giusto».
«Era mio dovere» lo rassicurò l’agente di polizia. «D’altronde avevamo fatto un patto».
«Peccato che giubbotti e pistole siano andati».
«Non direi. Abbiamo recuperato anche quelli dal furgone dei vostri rapitori».
Estrasse dal suo piccolo zaino anche un paio di cellulari e li porse ai due ragazzi.
«La vostra idea di non avere un dispositivo che permettesse il vostro rintracciamento era buona. Ma come avete constatato ha anche i suoi lati negativi. Questi sono della polizia. Possono essere rintracciati solo da noi. Quindi non correte pericoli e, nello sfortunato caso in cui vi rapiscano di nuovo, vi riusciremo a trovare più in fretta».
«Ti ringrazio davvero con tutto il cuore» disse Francesca. «Non sappiamo davvero come sdebitarci».
«Torno a ripeterti che questo è il mio dovere» rispose Roberto, andandosi a sedere nuovamente accanto a lei.
«E poi poter vedere che stai bene e che non ti sia successo nulla di grave mi ripaga in pieno di tutti i miei sforzi».
I loro occhi si incrociarono. La bibliotecaria non sapeva cosa rispondere. Aveva ormai capito che il poliziotto era interessato a lei.
Leonardo, capendo di essere stato tagliato fuori dalla conversazione, si alzò con delicatezza e lasciò la stanza d’ospedale nella quale avevano passato la notte.
«Vado a prendere una boccata d’aria» disse, uscendo.
I due rimasero, così, da soli e Roberto, che sperava tanto che quel momento potesse arrivare, poté dare sfogo ad alcune domande intime.
«Tra voi c’è qualcosa?» chiese, senza girarci alla larga.
«Tra me e Leonardo?».
«Sì».
Francesca cercò di non pensare troppo alla risposta.
«No, siamo solo amici» disse, guardandosi le mani. «Due amici che si sono cacciati in un grosso guaio».
«Eppure dal suo atteggiamento sembra quasi che sia un fidanzato geloso. Oppure un fratello diffidente».
«Lo so. L’ho notato anch’io. Ma non abbiamo affrontato questo argomento».
«Quanto ci tieni a lui?».
La ragazza rimase momentaneamente spiazzata da quella domanda.
«Molto».
Pensò bene a cosa dire e continuò: «Insomma è un mio amico, non sopporterei che gli facessero del male, come è successo oggi».
«Scusami se ti ho appesantito con queste domande. Ma è la mia natura di poliziotto. Non me ne rendo neanche conto a volte».
Detto questo si alzò, tese la mano alla ragazza e la spronò: «Andiamo? Abbiamo un aereo da prendere!».
 
Appoggiato al muretto dell’ingresso, Leonardo guardava le altre persone intorno a lui. Alcune di loro fumavano, probabilmente per smorzare l’ansia. Per un attimo pensò che forse anch’egli avrebbe dovuto cominciare a fumare. Certo, questo avrebbe compromesso la sua immagine agli occhi dei genitori di Francesca. Ma, dopotutto, la loro era solo una finzione. Non stavano insieme. E chissà se la sua scelta di aspettare a dichiararsi sia stata sbagliata. Roberto non aveva perso tempo. Aveva ben chiaro in testa cosa voleva. Di certo era evidente che con le donne sapeva farci più di lui. Adesso era diventato il terzo incomodo.
Improvvisamente si sentì toccare sulla spalla.
«Sei pronto? Partiamo per la Germania!».
Era il poliziotto, pieno di vita, entusiasta di affrontare quell’avventura. Con tutto quello che era successo nelle ultime 36 ore, Leonardo aveva un po’ perso tutta quella euforia che aveva.
Francesca gli si avvicinò e gli sorrise. Solo con quel gesto il ragazzo si sentì riempire di una nuova linfa vitale.
Ricambiò il sorriso e s’incamminò con lei verso l’auto dell’agente di polizia.
“Lotterò per te fino alla fine” pensava, guardandola. “Non ho le grandi qualità che ha Roberto, ma son sicuro che ti amerei davvero tanto se me ne concedessi la possibilità”.
 
Era incredibile come, rinchiuso in quel bunker sotterraneo, Kurt non avesse voglia di farsi una boccata d’aria all’aperto. Erano ormai due giorni che non lasciava il suo ufficio. I pasti gli erano portati dai suoi uomini. Ma non aveva dimostrato una gran fame.
La sua mente era completamente concentrata sulla missione di Photer in Italia. Probabilmente aveva perso anche qualche chilo. La barba incolta risultava insolita per lui che aveva sempre il viso glabro. Andava in pieno contrasto con l’immagine stilizzata che aveva del perfetto ariano. Ma in questo momento ciò che contava non erano le apparenze. Si sarebbe dato una pulita non appena avrebbe ricevuto notizie.
Era già passato parecchio tempo dall’ultima volta che aveva sentito Rick. Quanto poteva mai durare quell’interrogatorio? E se invece la situazione gli fosse sfuggita di mano? Se, per caso, li avesse uccisi senza estorcere le informazioni necessarie?
A quei pensieri si alzò in piedi e si diresse all’esterno della stanza. Chiamò uno degli uomini di guardia e gli chiese di andargli a prendere qualcosa da bere. Così rientrò e si concentrò a guardare il bellissimo quadro che adornava la parete alla destra della porta d’ingresso. Lo aveva commissionato egli stesso. Lo avrebbe usato come immagine simbolo del nuovo reich non appena sarebbero risorti. Raffigurava il globo terrestre avvolto da una bandiera nazista.
“Conquistare il mondo” pensava, distraendosi momentaneamente dalla sua principale preoccupazione. “Al nostro caro führer non è riuscita questa impresa. Perlomeno, non ancora”. Un sorriso gli nacque sul volto. “Una sola lingua mondiale. Una sola moneta. Un solo impero. Un solo Dio”. Ma l’entità alla quale pensava era proprio Hitler. Un Dio in carne ed ossa da adorare. Sarebbe vissuto in eterno.
Sentì bussare alla porta. Il suo uomo entrò con una vodka. Kurt lo ringraziò e se ne versò un bicchiere.
“Che diavolo starà facendo Photer?”.
 
In quel momento Rick Photer aveva varcato i confini tedeschi, intento a ritornare alla base con la coda tra le gambe. Non aveva più il diario, che era andato distrutto. Non era riuscito ad ottenere le informazioni che voleva. E per di più aveva perso alcuni uomini. Quella delusione sarebbe stata mal digerita da Losener. Non poteva certo aggiornarlo sugli eventi accaduti con un semplice messaggio. Preferiva affrontarlo faccia a faccia.

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Capitolo 51
*** Capitolo 50 ***


CAPITOLO 50
 
«Abbiamo idea di dove cercare?» domandò Roberto.
«Io direi di sì».
Francesca estrasse dalla sua borsa un foglio di carta sul quale era raffigurata una mappa.
«Quei brutti ceffi non sanno che noi siamo in possesso di questa» disse la bibliotecaria.
«Come fai ad averla? Credevo che ci avessero portato via tutto due notti fa!» intervenne Leonardo, incredulo.
«Non avrei pensato di portare il diario con noi in Germania. Ho fotocopiato solo questa mappa, in modo tale da non rischiare di danneggiarlo in qualche maniera. E a quanto pare la mia intuizione è stata azzeccata».
La ragazza stringeva tra le mani quell’importante pezzo di carta, cercando di riportarlo su una mappa aggiornata, al fine di trovare la corretta ubicazione.
«Essendo il diario andato distrutto», continuò: «L’unico modo per poter dare un nostro importante contributo alla storia è ritracciare la misteriosa caverna nella quale si trova il corpo di Hitler».
Roberto, che rimaneva sempre un po’ perplesso a quelle parole, la interruppe: «Cosa ci assicura che dopo tutto questo tempo non abbiano cambiato il luogo? Forse, sapendo che qualcuno li aveva scoperti, avranno spostato il corpo da un’altra parte».
«Non ci resta che tentare la sorte. Ma non credo che abbiano avuto la possibilità di trasferirlo».
«Cosa te lo fa credere?».
«Quella grotta è stata costruita con i soldi del Reich. Al suo interno dev’esserci un impianto che assicura un rifornimento continuo di corrente elettrica, più un generatore di emergenza nel caso in cui dovesse saltare».
I suoi due amici la guardavano straniti.
«Ragazzi? Come credete che possa rimanere ibernato il corpo di Hitler senza corrente? Qualcosa dovrebbe per forza mantenere il ghiaccio ad una temperatura costante».
«È vero, non ci avevo pensato» commentò il poliziotto. «Questo aumenta di gran lunga le probabilità che questa mappa ci indichi il punto giusto in cui cercare».
“Sarà come trovare un ago in un pagliaio” pensava Leonardo. “Come facciamo a trovare un punto indistinto in un fitto bosco?”. Non voleva proferire quel pensiero per non spegnere il loro entusiasmo.
Guardò l’orologio e si rese conto che il volo era quasi terminato. Avevano iniziato la manovra di atterraggio e l’aereo percorreva una sorta di ovale sull’aeroporto. Questo era stato il suo terzo volo nel giro di un mese. E, era sicuro, che ne avrebbe fatto anche un quarto. Quello che lo avrebbe riportato in Italia.
«Mi sono dimenticato di trovare qualche albergo dove pernottare» disse Roberto, al quale era completamente passato di mente.
«Non preoccuparti» commentò Leonardo. «Noi conosciamo un posto perfetto».
 
La pistola puntata contro la sua testa non lo metteva per nulla a disagio. Rick sapeva che quella era la giusta conseguenza delle sue azioni. Aveva fallito nella sua missione.
«Dammi un motivo per il quale io, ora, non debba spararti» disse Losener.
Quella era una domanda che non veniva fatta a nessuno. Mai. Ma, essendo Photer un figlio per lui, stava varando la possibilità di dargli una seconda chance.
«Non ce ne sono. Ho affrontato male questo compito. Ero a un passo dallo scoprire ciò che volevamo sapere e ho deluso le aspettative. Una pallottola nel cervello è quello che mi spetta».
Che grande esempio era quell’uomo. Dinnanzi alla morte non perorava la sua causa ma continuava, stoicamente, a rimanere fedele alle regole della Fenster Geschlossen. Ciò provocava nella mente di Kurt un turbinio di emozioni. Era il suo miglior collaboratore. Era la prima volta che falliva. Una volta ucciso, chi avrebbe preso il suo posto?
Non c’era tempo per affidare questo incarico a qualcuno meno esperto. Ritrasse la pistola e gli posò una mano su una spalla.
«Rick».
Aspettò che Photer alzasse lo sguardo e lo guardasse dritto nelle pupille.
«Lo sai che ti sto dando una possibilità in più rispetto a quelle che do a qualsiasi altro».
«Lei lo sa che non glielo sto chiedendo. Se pensa che non me la meriti, non esiti a porre fine alla mia vita».
Gli occhi di Kurt si illuminarono. Lo aveva allevato in modo perfetto. Era un esempio eccezionale di fedeltà.
«Non sarò così clemente con te se non finirai la tua missione al più presto. Ti affido un’altra squadra. Questa volta non fallire».
Si andò a sedere nuovamente dietro la sua scrivania. Nonostante lo apprezzasse così tanto, non avrebbe aspettato un solo secondo a sparargli se lo avesse deluso di nuovo.
«La ringrazio signore, questa volta non la deluderò» disse Rick, alzandosi e lasciando la stanza.
“Quei due me la pagheranno” pensava, mentre percorreva nervosamente il corridoio del bunker.
Preferiva la morte alla delusione data al suo capo. Non lo sopportava. Era una macchia indelebile nella sua carriera immacolata. Ma sapeva di poterla cancellare. Col sangue dei due ragazzi. Appena li avrebbe avuti nuovamente tra le mani, non sarebbe stato paziente come l’ultima volta. Era stato un errore. Che non avrebbe mai più commesso.

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Capitolo 52
*** Capitolo 51 ***


CAPITOLO 51
 
«Stando a quanto raffigura questa mappa, il luogo che stiamo cercando è fuori città» commentò Roberto.
«Questo era prevedibile. Negli ultimi giorni della guerra in Europa questa città era sotto assedio e controllata in ogni suo spiraglio» rispose Francesca.
«Io non riesco ancora a spiegarmi come abbia fatto la persona più ricercata del mondo a fuggire come se nulla fosse e a nascondersi a pochi chilometri da Berlino!» intervenne Leonardo.
«Non devi sottovalutare gli astuti trucchi dei nazisti. Non avevano scrupoli, usavano persino le ambulanze per spostarsi indisturbati. Sapevano che gli alleati non avrebbero mai controllato gli autocarri della Croce Rossa».
«Concentriamoci su questa mappa. Non abbiamo molto tempo. Gli uomini che vi hanno catturato saranno sicuramente già sulle nostre tracce» esortò il poliziotto.
«Il posto che stiamo cercando dista circa 60 chilometri da qui. Dobbiamo noleggiare un’auto, non credo ci siano mezzi pubblici che si dirigano nel bel mezzo del nulla».
Guardandosi intorno, Roberto, cercò di individuare a prima vista un noleggio di auto. Ma senza successo.
«Io direi che la miglior cosa da fare sarebbe chiedere ai padroni dell’albergo dove trovare qualcuno che affitta automobili».
Entrarono nell’hotel nel quale avevano già soggiornato qualche settimana prima. Francesca chiese alla donna dietro il bancone quello che cercava, mentre Leonardo si era ritrovato per l’ennesima volta faccia a faccia con il marito. Il volto madido di sudore faceva capire che per lui quella giornata era molto afosa. Per il ragazzo italiano, invece, il clima si presentava alquanto agevole. Gli fece un sorriso e lo salutò quando uscì. Trovarsi di fronte a quell’uomo lo metteva sempre a disagio in quanto non poteva comunicare con lui in alcun modo se non con gesti e sorrisi. “Forse è il caso che inizi a studiare il tedesco” pensò.
«Ti ha detto dove trovare un noleggio?» chiese Roberto.
«Sì, non è lontano da qui. Dobbiamo dirigerci verso Rosa-Luxemburg-Straße» rispose Francesca.
«Andiamo allora».
 
Giunti a destinazione, si frugarono nelle tasche per vedere quale fosse la loro disponibilità economica.
«Quanto costerà affittare un’automobile?» domandò Leonardo.
«Lo scopriremo subito».
Una volta entrati, Francesca intavolò subito la trattativa per accaparrarsi un’auto al minor prezzo possibile.
«Per quanto tempo vi serve l’auto?».
«Tutta la giornata di oggi».
Il noleggiatore guardò stranito la ragazza e i suoi compagni. Di solito il tempo minimo che gli veniva richiesto erano tre giorni. Ma gli affari erano affari, così continuò.
«Avete tutti e tre la patente?».
La bibliotecaria si girò, chiese conferma agli altri e poi rispose con un’affermazione.
«Abbiamo diverse tipologie di automobili per venire incontro alle sue richiesta signorina…?».
«Chezzi. Francesca Chezzi».
«Signorina Chezzi. Mi dica, desidera qualcosa di economico, qualcosa di lussuoso, qualcosa di sportivo».
«Noi pensavamo a qualcosa di economico».
“Non avevo dubbi” pensò il noleggiatore. Lo aveva capito dal loro vestiario. E dal fatto che erano italiani.
«Bene. Allora vi propongo una splendida Netzcar tre porte. Ottima per viaggi brevi e per circolare liberamente in città».
«Prezzo?».
«Ve la offro con il serbatoio pieno, GPS e stereo incorporato per 60€».
«Facciamo 30€, senza GPS, serbatoio vuoto e senza stereo».
Si guardarono per un attimo negli occhi. Entrambi volevano concludere quell’affare in poco tempo. Quindi senza girarci intorno, il noleggiatore abbozzò un contratto di 40€ e glielo porse. La ragazza gli fornì i documenti e, dopo aver ultimato le pratiche di routine, le vennero porse le chiavi.
«Vi accompagno alla vostra auto. Mi raccomando, il serbatoio è vuoto, quindi dovrete mettere benzina al più presto».
«Sarà fatto».
 
I tre ragazzi stavano circolando con la loro auto da un’ora ormai. Il luogo segnato sulla mappa fotocopiata da Francesca sembrava irraggiungibile.
«Dovremo lasciare la macchina qui e proseguire a piedi» commentò Roberto. «Non vedo altro modo di penetrare questo bosco».
«Dimentichi che il nostro amico Hubert lo ha raggiunto tranquillamente in auto, trasportando una bara di ibernazione!» rispose Leonardo.
«Magari disponevano di un fuoristrada. Guarda quest’auto. Se ci bloccassimo in qualche punto non riusciremmo più a tirarla fuori. E poi ci toccherà pagare i danni all’agenzia di noleggio».
Si tolse la cintura di sicurezza e infilò il suo berretto.
«Quindi poche storie, prendete tutto l’occorrente e andiamo».
I tre scesero dalla vettura e s’incamminarono tra gli alberi. Nonostante fosse una giornata molto luminosa, dopo alcuni metri si ritrovarono al di sotto di rami talmente fitti da non far passare neanche uno spiraglio di luce.
«Hanno scelto il posto adatto per nascondere un bunker» pensò Francesca a voce alta.
«Alberi fitti da non permettere la visione dall’alto, bosco labirintico per chi non fosse in possesso delle giuste cartine e terreno ricoperto da foglie, arbusti ed erba. Hitler avrebbe potuto nascondersi anche su uno qualunque di questi alberi e non sarebbe mai stato trovato».
«Quindi smettiamo di guardare giù e iniziamo a guardare in alto eventuali scheletri attaccati ai tronchi?» rispose ironicamente Leonardo.
«Sono sicuro che gli alleati non avessero la benché minima idea che i nazisti potessero nascondere un bunker proprio qui».
«Le notizie che giunsero presso gli alti comandi degli americani e degli inglesi erano le più disparate. Chiaramente spettava loro riuscire a distinguere quali fossero quelle attendibili da quelle fittizie diramate proprio dai nazisti per confondergli le idee» proseguì la bibliotecaria.
«La convinzione comune era che il terzo reich avrebbe allestito la resistenza presso le montagne bavaresi. Era l’ipotesi più verosimile. Ma, a quanto pare, si sbagliavano. La resistenza è stata istituita proprio qui».
Il poliziotto, sentendoli parlare, si sentiva completamente escluso dalla discussione. Per lui la storia era sempre stata una materia ostica. Sebbene ora ci si trovasse dentro.
«Ci sono le prove della morte effettiva di Hitler?» chiese.
«C’era un corpo. C’erano delle testimonianze giurate. Tutto il necessario per far credere al mondo che lo fosse. Ma il comandante del reich aveva architettato tutto nei minimi dettagli».
Il gruppo era giunto in punto sconosciuto del bosco. Francesca diede un altro sguardo alla sua cartina e proseguì.
«Sarà una scoperta storica quella che potremmo fare. Non solo riveleremo la verità, ma riscriveremo completamente le ultime pagine storiche di quella guerra».
 
“A quanto pare sono qui in Germania” pensava Rick, guardando i fogli che aveva tra le mani.
«Quando sono state registrate queste informazioni?» domandò a uno dei suoi.
«Pochi minuti fa, signore».
«Che diavolo ci fanno qui? Dovrebbero essere in fuga da qualche parte in Italia».
«Forse…».
L’uomo non fece in tempo neanche a finire la frase quando venne fulminato dallo sguardo di Photer. La sua agitazione aumentò visibilmente. Era sicuro che il diario fosse andato distrutto per mano loro. Che fosse stato solo un diversivo? Quegli stolti avevano osato prenderlo in giro dandogli l’oggetto sbagliato. Ciò non faceva altro che ampliare la rabbia che provava nei confronti di quei ragazzi, la quale era già immensa.
Senza dire più nulla si voltò e si diresse verso l’ufficio di Kurt. Non immaginava quale fosse stata la sua reazione a quella notizia. Sapere che il bunker segreto della FG fosse in pericolo dopo tutti questi anni lo avrebbe irritato non poco. Avrebbe pensato di non essere l’uomo giusto per guidare la rinascita del nazismo.
Con cautela aprì la porta dinnanzi a sé e entrò, senza bussare. Non c’era nessuno. “Dov’è il capo?”. Non doveva assentarsi in un momento come questo.
Ma le cose erano chiare. Senza Losener il comando spettava a lui. Dopo qualche istante di smarrimento alzò il telefono posto sulla scrivania e chiamò uno dei collaboratori.
«Dov’è il signor Losener?» chiese.
«Non ha lasciato detto nulla».
«Bene. Ascoltami. Fammi preparare un’auto con i miei uomini all’uscita. All’istante. Il bunker potrebbe essere compromesso. Appena il capo torna, avvertilo della notizia. Andrò a controllare e lo chiamerò non appena ne avrò constatato la sicurezza».
Richiuse il telefono e si alzò. Maledisse ancora una volta i ragazzi italiani e uscì sbattendo la porta.
Procedeva a grandi passi lungo il corridoio. Persino le immagini del führer appese lungo le pareti sembravano guardarlo con aria insoddisfatta. “Me ne occuperò personalmente, li toglierò dalla faccia della terra. Si pentiranno di essere nati”.
 
«Ora spiegami, stiamo cercando qualcosa di completamente invisibile in mezzo al nulla?» chiese Leonardo.
«Se eviti di distrarmi, vedrai che riuscirò a seguire la mappa alla lettera e a finire esattamente sul punto che stiamo cercando» rispose Francesca.
I battibecchi ai quali assisteva Roberto gli faceva credere che era difficile non pensare che quei due fossero una coppia.
«Allora dimmi, stiamo individuando un albero particolare in un luogo dove ci sono una dozzina di alberi ad ogni metro?».
«Esatto, Sherlock».
«E quale peculiarità, di grazia, avrebbe questo albero?».
«C’è una bella freccia rossa gigante che lo indica!».
A quell’affermazione il poliziotto scoppiò a ridere.
«Allora lo troveremo in un battibaleno» disse.
«A parte gli scherzi, Hübert ha segnato degli alberi. Ha rimosso un pezzo di corteccia e ha inciso una grossa X».
Leonardo e Roberto si guardarono per un attimo intorno. Erano completamente circondati da tronchi. Lo sconforto li avvolse inevitabilmete.
«Dovremo chiamare l’agenzia di noleggio e prolungare il contratto. Ci metteremo una vita a controllare tutti gli alberi».
«La zona dev’essere questa. Sulla mappa le misure sono estremamente precise».
«Dovremo dividerci allora» propose l’agente di polizia.
«Cosa?» esclamò Leonardo.
«La cartina è una sola. Se uno di noi dovesse perdersi poi come farebbe a contattare gli altri? Qui i cellulari che ci hai dato non hanno campo».
Il ragazzo si riferiva a sé stesso. Sapeva che Francesca era troppo in gamba per perdersi e Roberto era addestrato e aveva un ottimo senso dell’orientamento. In quel momento si sentiva l’anello debole del gruppo.
«Sta tranquillo cuor di leone, ognuno di noi avrà un walkie talkie in modo tale da poter contattare chiunque in qualunque momento».
Cacciò i tre oggetti e distribuì gli altri due ai ragazzi. Li provarono e dopo essersi accertati del loro funzionamento furono pronti a dividersi.
«Io continuo a credere che sia un’idea pessima» brontolava Leonardo.
«È l’unico modo» cercò di rassicurarlo Francesca. «Vuoi davvero passare un’eternità in questo bosco? Ricordati che siamo ricercati. Prima troviamo questo bunker, prima smascheriamo questa setta segreta e prima saremo al sicuro».
La bibliotecaria prese la mano del giovane e la strinse tra le sue. Lo guardò e sorrise. Leonardo accennò un’affermazione con la testa e gli sorrise di rimando.
«Allora siamo d’accordo» intervenne Roberto.
«Appena qualcuno di noi nota qualcosa di strano avverte subito gli altri. Questi walkie talkie sono ad ampio raggio e copriranno tutta la superficie della foresta. Tra un’ora ci aggiorneremo e tra due ore, se non avremo ancora trovato nulla, ci rincontreremo davanti all’auto».
«Bene».
Il poliziotto si girò e intraprese la sua ricerca sul lato nord rispetto alla loro posizione.
«Io andrò da questa parte» disse Francesca. «Mi raccomando, sta attento».
«Anche tu».
Dopo qualche istante rimase da solo, riuscendo a sentire solo il rumore delle foglie calpestate dai suoi due amici.
Dopo qualche minuto, invece, non sentì più neanche quelle. Si guardò intorno. Era da solo. Senza avere la minima idea di dove andare.
Armandosi di coraggio iniziò a camminare, guardando attentamente i tronchi che gli si paravano davanti. Nulla. Erano tutti uguali.
“Dopo tutto questo tempo come sarà possibile trovare ancora quei segni vicino agli alberi?” pensava.
Solo ora cominciava a pensare in maniera razionale a quella storia. “Cosa diavolo stiamo facendo? Non scopriremo mai un bunker tenuto segreto da una società così pericolosa. Avranno cosparso questo territorio di presidi di sicurezza!”.
A quel pensiero si fermò, guardando ai suoi piedi. Si inginocchiò e tastò il terreno. Smosse qualche foglia e guardò con ancora più attenzione. Non c’era nulla. Era forse paranoia? Decise di prendere il proprio walkie talkie e di avvertire gli altri.
«State attenti a dove mettete i piedi, potrebbero esserci delle trappole».

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Capitolo 53
*** Capitolo 52 ***


CAPITOLO 52
 
“Che assurdità, delle trappole” pensava Roberto, proseguendo per la sua strada. Poi, riflettendoci un po’ meglio, capì che probabilmente il ragazzo poteva avere ragione. In fondo si trattava di un luogo che doveva essere tenuto al sicuro a tutti i costi. Non sarebbe stata un’assurdità trovarsi di fronte a qualcosa per tenere lontani gli intrusi.
La sua vista si infranse contro un tronco particolare. La corteccia non sembrava lineare. Si avvicinò per analizzarla meglio. Notò che ne era stato staccato un pezzo. “Forse ho trovato uno degli alberi che stiamo cercando”. L’unico elemento mancante era la X incisa. Non c’era nulla.
Improvvisamente sentì un rumore di foglie mosse alle sue spalle. Si girò quasi istantaneamente. Ma non vide nessuno. Sentì ancora un rumore. Così mise mano sulla sua pistola.
 
“Normale”. Fece un passo. “Normale”. Fece un altro passo. “Normale anche questo”. Gli alberi che stava controllando erano tutti normali.
Francesca aveva sperato di trovarlo subito. Ma non era stato così. Guardò nuovamente la mappa. La zona era quella giusta. Continuò a camminare scrutando gli alberi.
Poi si fermò per un attimo a pensare. “In tutto questo tempo la X incisa potrebbe essere stata ricoperta dalle intemperie. La pioggia, la terra, il muschio. Dovrei avvertire gli altri”.
Prese il suo walkie talkie e lo comunicò. Leonardo rispose quasi subito. Probabilmente era attaccato alla sua ricetrasmittente in attesa di ricevere la comunicazione dell’individuazione del bunker. Attese per qualche minuto un’eventuale risposta di Roberto, che non arrivò. “Perché non risponde?”.
 
L’auto era giunta sul posto, alzando un gran polverone. Senza neanche aspettare che fosse del tutto ferma, i passeggeri della vettura scesero velocemente. Anche l’autista spense immediatamente la macchina e senza neanche alzare il freno a mano si precipitò fuori.  
«Statemi a sentire, se avvistate anche uno solo di quei figli di puttana sparategli un colpo dritto in testa, li voglio tutti morti, capito?» tuonò Rick.
«Sarà fatto».
Si stavano dirigendo di gran carriera verso l’ingresso della grotta che celava il bunker della Fenster Geschlossen. Photer conosceva alla perfezione il posto, mentre invece i suoi tre uomini si trovavano in un luogo a loro sconosciuto. Per questo cercavano di tenere il passo del loro capo. Se lo avessero perso di vista si sarebbero ritrovati senza punti di riferimento.
«Dobbiamo risolvere questa situazione oggi stesso. Per fine giornata voglio gli scalpi di quei dannati italiani».
 
Roberto stava per sparare ad un povero cinghiale. Avendo sentito delle foglie muoversi alle sue spalle si era insospettito, estraendo la pistola dalla sua fondina. Ma si tranquillizzò non appena vide l’animale. “Oggi è il tuo giorno fortunato, amico”. Rimase a guardarlo. Gli ricordava la sua infanzia, quando andava nella fattoria dei suoi nonni a giocare con gli animali. Certo, tra un maiale e un cinghiale la differenza è palese, ma per lui era estremamente sottile.
Aveva sentito la ricetrasmittente. Avrebbe dovuto controllare meglio il tronco alle sue spalle alla luce di ciò che gli era stato comunicato. Ma preferì restare a guardare l’animale dalla pelliccia folta e ruvida. D’un tratto alzò lo sguardo verso di lui e lo fissò, poi si girò e scappò in una grotta quasi invisibile. “Dove diavolo si è andato a cacciare?”.
«Vieni fuori di lì! Non voglio farti del male!».
Non sentì più alcun rumore provenire da quell’antro. “Quanto sarà profonda?”.
Si avvicinò per analizzare meglio l’ingresso e notò che era molto largo, abbastanza da lasciare passare un’auto. Insospettendosi si girò e corse ad esaminare meglio l’albero con il pezzo di corteccia staccato. Rimuovendo il muschio che ricopriva quell’incavo scoprì che c’era una vera e propria X incisa su di esso. Il suo volto sbiancò. Aveva trovato l’albero che stavano cercando e, per di più, aveva anche trovato la grotta nella quale era ubicato il corpo ibernato di Hitler.
“Cazzo!”. Non perse altro tempo. Prese il walkie talkie e comunicò agli altri quanto aveva appena scoperto. Segnalò la sua posizione e, prima di addentrarsi nella grotta, prese una bandana rossa e la legò all’albero più vicino.
Gli arbusti che ricoprivano l’entrata la rendevano del tutto invisibile. Se non fosse stato per quel cinghiale non l’avrebbe mai notata. Neanche un occhio allenato come il suo.
Prima di procedere guardò con attenzione il terreno intorno all’ingresso. Il monito di Leonardo era sì assurdo ma verosimile. Dopo essersi accertato che tutto fosse sicuro, estrasse una piccola torcia ed entrò.
 
“L’ha trovata! Incredibile!”.
«Leo, hai sentito? Rob ha trovato la grotta che stiamo cercando!» disse Francesca tramite il walkie talkie che le era stato dato.
«Sì. Non c’era da stupirselo, è un poliziotto, è abituato a setacciare i posti alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Avrà usato un trucco dei suoi!» rispose Leonardo dal suo.
«Presto, raggiungiamolo in fretta, dove ti trovi?».
«Ad occhio e croce direi di trovarmi in una foresta».
«Smettila di fare l’idiota, dobbiamo fare in fretta».
«Non ho idea di dove mi trovi. Avrò percorso qualche centinaio di metri verso est rispetto a dove ci trovavamo prima».
«Allora girati e torna indietro, come sto facendo io!».
«Ti sembra facile? Per me qui è tutto uguale, non ho idea di dove mi stia dirigendo!».
«Non hai lasciato degli indizi dietro di te al fine di capire che strada hai percorso?».
«No, per chi mi hai preso? Per Pollicino?».
«Accidenti Leo, non abbiamo tempo! Dobbiamo raggiungere Roberto!».
«Tutto quello che posso dirti è che mi trovo vicino ad una grande roccia. Anzi direi che sembra più la parete di una montagna. E se proseguo ho dinnanzi a me una grande discesa».
«D’accordo. Non muoverti, proverò ad individuarti tramite la mappa».
 
All’interno di quella grotta Roberto riusciva a sentire ancora i discorsi tra i suoi due amici tramite ricetrasmittente. Ma, proseguendo sempre più in fondo, il segnale cominciò a venir meno, fino a scomparire del tutto. “Perfetto. Vuol dire che questo tunnel è stato scavato molto in profondità”.
Sulle pareti c’erano dei piccoli buchi, scavati, molto probabilmente, proprio dai cinghiali. Alla fine della grotta, dopo alcune centinaia di metri, si ritrovò dinnanzi ad una porta, senza maniglie. L’unica caratteristica che aveva era di avere una serie di leve. Le studiò per un attimo. Di buttarla giù non se ne parlava, era molto spessa e il materiale che la componeva era estremamente resistente.
Era chiaro come il sole che per riuscire ad aprirla ci sarebbe voluta la combinazione giusta. Si guardò intorno in cerca d’ispirazione, ma l’unica cosa che vide, posto in disparte, era un carrello da miniera abbandonato. Andò vicino ad esso, sperando di trovarci qualcosa che potesse aiutarlo nell’individuazione della combinazione. Ma non c’era nulla. Solo polvere e terra.
A questo punto non gli rimaneva altro che aspettare l’arrivo dei due ragazzi.

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Capitolo 54
*** Capitolo 53 ***


CAPITOLO 53
 
Tutto sembrava tranquillo. Rick e i suoi uomini erano stati ben attenti a notare ogni minimo indizio che rivelasse loro la presenza di qualche estraneo.
“Anche se dovessero arrivare fin qui non troverebbero mai l’ingresso della grotta” pensò. Ma qualcosa colpì subito la sua attenzione.
«Dannati bastardi!» gridò.
«Cos’è successo, capo?».
Photer, senza dire nulla, accelerò il passo. Prese in mano l’oggetto che aveva scrutato e lo gettò nella direzione dei suoi tre uomini.
«Una bandana rossa?» domandò, stranito, uno di loro.
«Devo spiegartelo con un disegnino? È stata messo lì per segnalare la posizione» disse seccato Rick.
Mise mano sulla pistola e si accinse ad entrare nell’ingresso del bunker.
«Potrebbero esserci tutti come ce ne potrebbe essere uno solo».
Fissò i suoi scagnozzi e ne indicò uno, ordinandogli di restare di guardia.
«Resta qui. Se vedi anche una sola foglia muoversi, non esitare a sparare. Nessuno deve uscire vivo da questa foresta, sono stato chiaro?».
L’uomo fece un cenno di approvazione, estrasse la sua arma e si andò a mettere in posizione. Gli altri entrarono seguendo Photer.
 
“Dove diavolo è? Gli avevo detto di non muoversi!” pensava Francesca, recatasi sul luogo in cui credeva fosse Leonardo. Prese il walkie talkie e provò a chiamarlo. Ma non ci fu risposta. Guardò intorno, nell’intento di capire se fosse davvero passato di lì. Ma in quel bosco era praticamente impossibile riuscire ad individuare delle orme per chi non fosse esperto.
Estrasse la cartina e le diede un’altra occhiata. Era nel punto segnalatole dal suo amico. Forse c’era qualche altra zona simile a quella? Si trovava nel posto sbagliato? E allora perché non rispondeva più al walkie talkie? Nella sua mente si affollarono sempre più pensieri quando finalmente ebbe risposta.
«Fra? Sei arrivata?» disse una voce dalla ricetrasmittente.
La bibliotecaria si precipitò a prendere l’oggetto e a rispondergli, preoccupata.
«Dove sei? E perché non rispondevi? Sono nel punto che mi hai segnalato!».
«Scusami ma stavo un attimo…ehm…».
«Un attimo a fare cosa?».
«La pipì».
La ragazza non rispose. Sul suo volto si disegnò lentamente un sorriso e scoppiò in una risata.
«Scusami, credevo che ti fossi perso o che qualche animale feroce ti avesse attaccato».
«Animale feroce? Qui? Al massimo posso incontrare uno scoiattolo!».
Francesca si sentiva meglio adesso. Risentire la voce di Leonardo la rassicurava. Ma subito la preoccupazione la riconquistò. Era da un bel pezzo che Roberto non si faceva più sentire. Non li aveva più aggiornati sulla grotta che aveva scoperto.
«Ascoltami, dove ti trovi? Io sono vicino alla parete della montagna».
«La parete è molto lunga. Sei vicina anche alla discesa?».
«Sì».
«Anch’io. Accidenti, non riusciremo mai ad individuarci!».
«Ora provo ad urlare, se mi senti, vieni nella direzione della mia voce».
Francesca spense il walkie talkie e cacciò un portentoso urlo. Leonardo riuscì a sentirla e cercò di orientarsi e di dirigersi verso la fonte del suono.
L’idea aveva funzionato, i due ragazzi erano riusciti finalmente a ritrovarsi.
«Dovremmo farlo più spesso» scherzò il giovane.
«Non perdiamo tempo, andiamo da Roberto».
 
Il poliziotto era ancora in attesa dei suoi due amici quando sentì delle strane voci avvicinarsi. Inizialmente pensò che era proprio loro e che fossero stati molto rapidi ad individuare la posizione, ma poi, facendo più attenzione, sentì che la lingua che parlavano era il tedesco. Così gli si gelò il sangue nelle vece e il respiro si intensificò.
“Sono quelli che ci stanno dando la caccia”. Cercò di pensare la miglior maniera di affrontare quella situazione. Avrebbe dovuto dargli il benvenuto ad armi spianate e riempirli di piombo? E se fossero stati in gran numero? Questo pensiero venne subito abolito. Ormai non c’era più molto tempo per riflettere sul da farsi.
“Rimani calmo. Sei un poliziotto, diamine!”. D’istinto vide il carrello alle sue spalle e ci si tuffò dentro. Cercò di stringersi al fine di riuscirci ad entrare e risultare invisibile.
Le voci si avvicinavano sempre di più. Quei quarantasette centimetri di lunghezza che lo contenevano sarebbero stati la sua dimora per l’eternità? Si concentrò sul respiro e lo ridusse al minimo, tenendo la pistola nella sua mano destra, pronta all’uso.
 
Giunto dinnanzi alla porta Rick notò che c’erano delle impronte. Ma era chiusa. Erano riusciti ad aprirla ed erano entrati richiudendola? O forse non ci erano riusciti ed erano andati via? Faticò a credere a questa seconda ipotesi data la tenacia che gli italiani avevano dimostrato ultimamente.
«Cosa facciamo capo? Qui non c’è nessuno».
«Sta’ zitto! Controlleremo anche all’interno».
Rimettendo la pistola nella sua fondina, Photer iniziò a girare le leve in un ordine apparentemente casuale, ma che nascondeva un lungo lavoro di memorizzazione. Infatti aveva dovuto imparare quella combinazione senza averla davanti, seguendo semplicemente le parole di Losener.
Una volta aver disposto i perni nella loro giusta collocazione girò una leva quasi identica alle altre e aprì l’enorme portone.
Dall’aria che ne uscì sembrava che quella porta fosse rimasta chiusa per diversi decenni, come lo era in realtà, a differenza di quanto pensava Rick.
Prese la sua torcia, estrasse di nuovo la pistola e, insieme ai suoi uomini, entrò nel bunker.
 
Il portale era stato completamente spalancato. I passi dei tre uomini si perdevano nell’eco della vastità di quella grotta.
Quando fu sicuro di poter uscire da quel vagone, Roberto si rialzò e sentì una forte fitta alla schiena. Quello spazio era decisamente troppo piccolo per lui ma, fortunatamente, aveva svolto il suo ruolo alla perfezione: salvargli la vita.
Nel buio riaccese la sua pila e vide che quei tre ceffi avevano svolto tutto il lavoro per lui. Quanto ci sarebbe voluto per arrivare alla combinazione? Sempre ammesso che ci sarebbero riusciti? Quell’incursione era stata allo stesso tempo sia positiva che negativa. Adesso non rimaneva altro che sbarazzarsi di loro e avvertire le unità competenti. Ma prima avrebbe voluto controllare con i propri occhi. In fondo non aveva visto ancora nulla di tutto quello che i due ragazzi gli avevano raccontato.
Fece un bel respiro e si incamminò anch’egli nel bunker. L’aria non era certo delle migliori, ma nel corso della sua carriera aveva affrontato situazioni ben peggiori.

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Capitolo 55
*** Capitolo 54 ***


CAPITOLO 54
 
«Non posso crederci di aver davvero trovato il bunker che nasconde il corpo di Hitler!» disse incredulo Leonardo.
«Non cantiamo vittoria, potrebbe essere una svista».
«Ha detto di aver trovato anche l’albero con la X segnata sul tronco!».
Francesca voleva trattenere il suo entusiasmo. Ormai erano vicini alle coordinate che Roberto aveva comunicato loro. “Una bandana rossa”.
«Guarda bene, questa è la zona segnalata».
«Non vedo nessuna bandana da nessuna parte».
«Neanch’io».
Forse il vento l’aveva fatta cadere? O qualche animale particolarmente curioso l’aveva portata via? Quest’inconveniente sarebbe stato molto spiacevole. Non l’avrebbero mai trovato.
«Bene, faremo così. Cercheremo sia la bandana che l’albero con la X».
Richiuse la mappa e la ripose nella sua tracolla.
«Almeno uno dei due riusciremo a trovarlo».
Fecero qualche passo ancora e Leonardo si sentì frenare dalla mano di Francesca. Stava per pronunciare qualcosa quando anche il suo sguardo si stagliò su ciò che stava guardando la bibliotecaria.
Un uomo. Armato. Di guardia di fronte ad un cumulo di arbusti.
«Credi che siano anche loro alla ricerca del bunker?» domandò il ragazzo, sottovoce.
«Non credo che lo stiano cercando. Probabilmente Rob deve aver fatto scattare qualche meccanismo di allarme che ha fatto precipitare qui una squadra di controllo».
«E adesso come facciamo? È in pericolo e non risponde più al walkie talkie».
«Ragiona. Non risponde più perché il segnale non arriva nel bunker, le pareti devono essere davvero molto spesse. D’altronde dovevano evitare di essere scoperti da metal detector o di subire danni a causa di bombe».
«Hai qualche idea? Chiamiamo la polizia?».
«Ci metterebbero una vita ad arrivare e ad individuarci, sempre ammesso che vogliano crederci».
L’uomo di guardia sembrò guardare nella loro direzione. Entrambi i ragazzi si genuflessero e rimasero nascosti. Non erano stati visti.
«C’è mancato poco».
«Ho un piano!» affermò la bibliotecaria.
 
“Eppure mi era sembrato di vedere qualcuno” pensò l’uomo di guardia alla grotta. “Questa foresta mi riempie di paranoie”. Si tirò su i pantaloni e si girò verso l’interno dell’antro. Tutto era tranquillo. D’altronde aveva sulle spalle un efficace addestramento militare. Neanche un branco di leoni inferociti lo avrebbe spaventato. Questa era una caratteristica fondamentale per entrare a far parte della Fenster Geschlossen.
Sentì un rumore di foglie a poca distanza dalla sua spalla sinistra. Diede una rapida occhiata e non vide nulla. “L’aspetto negativo dei boschi è che ci sono troppi rumori fuorvianti”. Si toccò la barba e fece un lungo respiro. All’improvviso sentì qualcosa conficcarsi nel suo braccio.
«Ma che diavolo?».
Se lo tastò alla ricerca di qualcosa. Che lo avesse punto una vespa? Un’ape? “Dannati insetti!”.
Ma ciò che trovò fu tutt’altro che aspettato. Un piccolo dardo soporifero conficcato poco più su del suo gomito. Con due dita lo estrasse e lo guardò insospettito.
Poi i suoi occhi misero a fuoco l’individuo che emergeva oltre quel dardo.
Un ragazzo con una pistola in mano. Lo guardava preoccupato. Non disse nulla, gli si avvicinò minacciosamente. Non avrebbe usato un’arma da fuoco. Gli avrebbe rotto le ossa una ad una, c’era più gusto in questo modo.
Il giovane sparò altri due colpi, ma non andarono a segno a causa della mira non proprio perfetta. Tremava e ciò la comprometteva . Lui lo sapeva bene, era stato uno dei primi insegnamenti all’addestramento militare. “Mai farsi sopraffare dalle emozioni, che sia impazienza o paura”.
Ma d’un tratto la sua vista si offuscò e si accasciò al suolo. Ma non era stata colpa del proiettile soporifero. Era conscio del fatto che una sola piccola dose non avrebbe fatto alcun effetto.
Ma prima di perdere conoscenza vide un’altra figura alle sue spalle. E così gli tornò in mente un altro insegnamento. “Guardarsi sempre le spalle”. Troppo tardi.
 
«Quante volte ti ho ripetuto di colpire al collo?» imprecò Francesca.
«Ci ho provato, ma non ci sono riuscito! È la prima volta che sparo!» rispose con voce ancora tremate Leonardo.
Il piano della bibliotecaria era molto semplice. I due erano stati dotati delle pistole soporifere e tutto ciò che avrebbero dovuto fare era far addormentare la guardia. Ma a quanto pare la ragazza aveva dovuto cambiare i programmi in corso d’opera. Vedendo il mastodontico uomo dirigersi verso il suo amico aveva agito d’istinto, sollevando un enorme masso e colpendolo in testa.
«Come hai fatto ad alzarlo? Peserà un quintale!».
«Devi sapere che noi donne abbiamo molta più forza di quanto crediate voi uomini».
Dopo essersi ripresi scorsero l’ingresso della grotta.
«Incredibile. L’entrata si vede appena».
«Risponde perfettamente al concetto di bunker segreto».
«Presto, prendi la torcia, entriamo».
Una volta aver percorso tutto il lungo tunnel si trovarono di fronte ad un grande portone, composto da una serie di leve.
«Per fortuna che è già aperto» disse Leonardo, con un sorrisino.
«Vado dentro a cercare Roberto, tu resta qui e cerca di mantenere la porta aperta. Se dovesse chiudersi rimarremo imprigionati nel bunker».
«Ma io…».
Il giovane non ebbe neanche il tempo di pronunciare la frase che Francesca era già scomparsa nel buio. Si voltò e non vide altro che oscurità intorno a lui. Non si sentiva affatto sicuro ad avere solo una semplice pistola soporifera.

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Capitolo 56
*** Capitolo 55 ***


CAPITOLO 55
 
Roberto aveva sfoggiato le sue qualità da segugio alla perfezione, seguendo quegli uomini a debita distanza e stando attento a non farsi individuare. L’unico suo punto di riferimento era la piccola fiaccola che uno di loro aveva con sé. Non poteva permettersi di accendere la sua torcia, altrimenti si sarebbero immediatamente accorti di lui.
Avanzava a fatica, nella paura di finire in qualche dislivello del pavimento. Procedeva mantenendosi attaccato alle mura del bunker. Man mano che i suoi occhi si abituavano al buio riusciva a riconoscere la struttura dell’ambiente circostante. Una galleria perfettamente scavata nel terreno. Ringraziò il cielo di non soffrire di claustrofobia perché quel luogo ne avrebbe messa a chiunque. L’aria era stantia.
Per un attimo vide gli individui che stava seguendo fermarsi. Rimase immobile, respirando il meno possibile. Che l’avessero scoperto? Impossibile, era stato impeccabile nel pedinamento.
I suoi occhi poi vennero attratti da una strana striscia scura posta poco al di sotto del soffitto che correva lungo tutta la parete. Proprio nel momento in cui stava riflettendo su cosa potesse essere vide un improvviso abbaglio di luce.
 
Nella testa di Rick balenarono molteplici pensieri. “E se non fossero riusciti ad aprire la porta? Forse quella bandana serviva solo a segnalare il posto per poi ritornarci con qualche idea su come aprirla”.
Non riuscendo ad individuare nessuno all’interno aveva ordinato al suo uomo di attivare il sistema di illuminazione. Ma, differentemente da quanto si potesse immaginare, non era un circuito elettrico. Difatti tutta l’energia che era stata collegata con quel luogo doveva servire ad un altro scopo.
Roberto era stato colpito dal vedere tutta quella luce sommergere l’ambiente circostante. Adesso si trovava in bella mostra e riusciva a vedere perfettamente i due uomini che aveva seguito fin lì.
Senza pensarci due volte si andò a nascondere dietro ad una pila di scatoloni.
Il sistema consisteva in un percorso che abbracciava tutto il perimetro del bunker con un impianto che consisteva in una lunghissima striscia di tela impregnata di grasso vegetale, in modo tale che potesse bruciare molto a lungo. L’odore che ne derivava era nauseabondo e alimentava in Photer la voglia di uscirne subito. Era incredibile come, nonostante il reich fosse in possesso di tutti i mezzi per costruirne uno più moderno, si fosse affidato ad un meccanismo così datato. D’altronde funzionava ed assolveva perfettamente al suo scopo, per cui Rick non si diede ulteriore pena su quei pensieri. Adesso la sua principale preoccupazione era un’altra. Venne completamente preso di sorpresa alle spalle sentendosi gridare qualcosa in italiano.
«Fermo dove sei o ammazzo il tuo uomo!».
Si voltò e notò con piacere che la sua intuizione era stata giusta. Gli ospiti indesiderati erano riusciti davvero ad individuare la combinazione giusta per entrare.
«Getta a terra la tua arma e nessuno si farà del male!» continuò ad intimare Roberto.
Photer non volle neanche domandarsi il perché o cercare di scoprirlo dal poliziotto che aveva di fronte. Voleva chiudere quella faccenda a tutti i costi. Così estrasse la sua pistola e fece partire un colpo che andò perfettamente a segno.
 
Francesca aveva sentito quel colpo di pistola. Era rimasta pietrificata. Dal rimbombo provocato non riusciva a capire se proveniva dall’interno o dall’esterno. Rimase ferma a pensare. Sarebbe dovuta ritornare indietro? Andare a controllare se Leonardo stesse bene? O forse andare avanti e andare da Roberto?
Non poteva più aspettare. Ogni secondo che perdeva poteva essere fatale per uno dei suoi due amici. Così decise: tornò indietro. Giunse di nuovo al grande portale e non vi trovò più Leonardo.
“Oh mio Dio!”. Non poteva crederci. Avevano sparato a Leonardo e lo avevano trascinato chissà dove. Accecata dalla rabbia estrasse la sua pistola a colpi soporiferi e si diresse all’esterno. Chiunque si fosse trovata davanti lo avrebbe steso con tutti i colpi che aveva. Gli avrebbe provocato uno shock che sicuramente lo avrebbe portato alla morte. Pian piano il piccolo cerchio di luce che vedeva in lontananza cominciò ad ingrandirsi. In men che non si dica si ritrovò fuori.
L’uomo che avevano colpito poco prima era ancora accasciato a terra. Ma notò un particolare che prima non c’era. Aveva le mani legate. Chi poteva essere stato? A quale scopo legare quell’uomo? Forse Roberto aveva chiamato qualche rinforzo prima di entrare nel bunker? Troppe domande la affliggevano. Ma ciò che più la preoccupava era di non vedere in giro nessun segno che le facesse capire cosa fosse successo.
Sentì qualcuno alla sua destra e si voltò, pronta a sparare una raffica di colpi. Ma si fermò giusto in tempo per capire che era proprio Leonardo. Lasciò cadere la pistola a terra e lo abbracciò con tutta la forza che aveva in corpo. Alcune lacrime cominciarono a scendere la suoi occhi e improvvisamente si rese conto di essere invasa da un’immensa gioia.
 
Il ragazzo era senza parole.
«Cosa diavolo è successo lì dentro?» chiese.
Francesca lasciò la presa e lo guardò intensamente.
«Ti hanno colpito? Stai bene?» incalzò lei.
«Io sto bene! Non è successo niente».
«Ma allora quel colpo di pistola? Che ci fai qui?».
«Pistola? Colpo? Quale colpo? Io sono semplicemente uscito a prendere una boccata d’aria e a legare questo tizio. Se si fosse svegliato saremmo stati davvero nei guai. O perlomeno io sarei stato nei guai dato che ero il primo che avrebbe incontrato entrando!».
«Oh Dio, Rob!» urlò la ragazza entrando nuovamente nella grotta.
Leonardo provò a seguirla, ma lei gli incitò di rimanere fuori. Così il ragazzo si fermò.
“Cosa sarà mai successo? Non ho sentito nessun colpo di pistola”. Era nervoso. Non poteva pensare che lì dentro stesse succedendo il finimondo e lui era rimasto confinato all’esterno. Lo trovava ingiusto. D’altronde il diario lo aveva trovato lui. Poi qualcosa lo distrasse da questi suoi pensieri.
Il respiro gli si fermò.
 
Roberto aveva il volto ricoperto di sangue. Nonostante fosse un poliziotto addestrato, la paura lo rapì. Rick, dalla parte opposta aveva ancora la canna della propria pistola fumante. Un sorriso si disegnò sul suo volto.
«Crede che mi faccia scrupoli a sparare a un mio uomo?» disse.
L’agente di polizia lasciò cadere il corpo a terra. Il suo avversario lo aveva colpito con una precisione impeccabile giusto al centro degli occhi. Il sangue gli era schizzato su tutto il volto e su parte della manica della mano destra, con la quale teneva la pistola puntata alla testa di quell’uomo.
«Per proteggere un segreto rimasto nascosto per più di settant’anni sparerei anche a mia madre» continuò.
Roberto cercò di riacquistare la calma. Si trovava dinnanzi ad un killer a sangue freddo. Sapeva che ormai aveva i minuti contati.
«Ha qualche ultimo desiderio, mio caro amico?» disse caricando un altro colpo con la sua pistola.
Così, con un movimento impercettibile, il poliziotto accese un registratore che aveva astutamente collegato alla sua cintura.
«Sì» rispose.
Rick estrasse un pacchetto di sigarette dal taschino e glielo porse.
«Sigaretta?».
«No grazie, il mio desiderio è un altro».
Photer ripose a posto le sigarette e continuò: «Sapevo che questa era solo una trovata cinematografica. Nessuno di tutti quelli a cui ho concesso un ultimo desiderio prima di sparargli ha voluto farsi un tiro».
«Voglio sapere del corpo».
«Prego?».
Photer era rimasto basito. “Allora sanno tutto”.
«Il corpo che nascondete qui dentro».
In quel momento Rick fece una risatina agghiacciante e si avvicinò lentamente a Roberto, tenendo sempre la pistola ben puntata.
«Beh, è un bell’ultimo desiderio. Mi congratulo!».
Ci pensò qualche istante. Glielo avrebbe detto. In fondo la sua morte era questione di minuti.
«Terrò fede alla mia promessa».

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Capitolo 57
*** Capitolo 56 ***


CAPITOLO 56
 
Nessuna risposta. Il telefono continuava ad emettere ad intervalli regolari il classico suono monotono. Aveva provato già a chiamare tutti gli altri. Questo era stato l’unico raggiungibile.
Kurt stava perdendo la pazienza. “Che siano maledetti”. Non riusciva a stare con le mani in mano senza ricevere neanche un aggiornamento. Erano arrivati? Era tutto a posto? Il bunker era stato compromesso? Diamine, lui era al comando di tutto e doveva essere il primo a sapere le cose.
Si versò un bicchiere di whisky e cercò di calmarsi. Avrebbe riprovato nell’arco dei cinque minuti successivi. Se non avesse ricevuto ancora nessuna risposta avrebbe deciso di prendere egli stesso in mano la situazione. “Questa storia sta durando troppo per i miei gusti”. Le sue labbra si bagnarono nel bicchiere e per un istante svuotò la mente.
 
Quel trillo era agghiacciante. Forse ce n’erano altri? Leonardo guardava il corpo legato steso per terra. Dalla sua giacca proveniva il suono di un telefono cellulare che squillava. Col timore che quel frastuono potesse svegliare il brutto ceffo, si avvicinò con estrema attenzione ed estrasse l’oggetto. Dopo una lunga serie di trilli aveva finito di suonare, segno che colui che aveva effettuato la chiamata si fosse arreso.
Il ragazzo, vedendo il vecchio cellulare, rimase quasi colpito. “Sono in grado di riportare in vita Hitler ma non di comprarsi un telefonino più moderno?”. Aveva tra le mani un piccolo mattoncino elettronico, con uno schermo minuscolo illuminato da una luce arancione di sfondo con le scritte in primo piano grigie. Purtroppo per lui il menu era completamente in tedesco. “Dove saranno le impostazioni?”.
Cercò di scoprire qualcosa, ma non trovò nulla di interessante. All’improvviso ritornò a squillare. Sullo schermo compariva un nome: Leiter.
Non si sarebbe mai permesso di rispondere. Avrebbe messo in pericolo la sua vita e quella dei suoi due amici. Ma allo stesso tempo non poteva continuare a farlo squillare. Colui che stava chiamando avrebbe potuto insospettirsi oltremodo e mandare una squadra per controllare quanto stesse accadendo. Si voltò per vedere se l’uomo svenuto accanto a lui fosse sveglio. Non lo era. E anche qualora lo fosse stato non sarebbe mai potuta essere una buona idea minacciarlo di rispondere e di tranquillizzare i suoi soci.
Cosa avrebbe dovuto fare? “Se solo sapessi il tedesco!”, continuava a ripetersi.
D’un tratto, così come aveva iniziato a squillare, il cellulare cessò il suo trillo. Per evitare ulteriori problemi Leonardo spense quel telefonino e lo gettò lontano.
Si alzò e cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro. “Entro? Non entro?”. Avrebbe tanto voluto avere con sé una monetina, in modo tale da tentare la sorte e farle decidere il da farsi.
La sua attenzione venne catturata dall’ingresso della grotta. Rimase a pensare per qualche istante. Francesca e Roberto potevano essere in pericolo, magari erano stati catturati e lui era la loro ultima speranza.
Fece un profondo respiro, estrasse la sua pistola caricata con proiettili soporiferi ed entrò. Dopo il lungo tunnel si ritrovò dinnanzi al grande portale spalancato. Per evitare di farlo richiudere spostò il carrello da miniera poco distante proprio dinnanzi ad esso. “Così non rischiamo di rimanere chiusi dentro!”.
Proseguì ed entrò nel bunker. Non c’era bisogno di accendere la torcia in quanto era tutto illuminato alla perfezione. Ebbe un piccolo giramento di testa quando l’odore nauseabondo giunse al suo naso. “Ma che diavolo sta bruciando?”. Si tirò su la maglietta in modo tale da limitare la puzza e proseguì.
 
«Dannazione!» urlò Losener.
Si era alzato prepotentemente dalla sua poltrona e aveva chiamato uno dei suoi assistenti.
«Quanto ci vuole per prepararmi una squadra?».
«Li stiamo avvisando, presto saranno qui» rispose una voce dall’altro capo dell’interfono.
«Non ho tutto questo tempo, andrò da solo».
«Crede sia prudente, capo?».
«Decido io cosa è prudente e cosa non lo è».
Si diresse verso un armadietto, lo aprì ed estrasse alcune armi. Fece una rapida selezione e si cacciò una pistola nella fondina.
A grandi falcate attraversò tutto il corridoio adornato di quadri che raffiguravano il führer ed entrò in un ascensore. Premette un bottone e l’abitacolo incominciò a salire.
Uscito da quell’edificio, mise in moto la sua auto e partì a tutta velocità, con una sola meta: il bosco dove era ubicato il bunker.

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Capitolo 58
*** Capitolo 57 ***


CAPITOLO 57
 
«Vuoi che parta dal principio?» chiese Photer, con la pistola sempre ben puntata.
«Magari potresti dirmi qualche particolare di cui non sono a conoscenza» rispose Roberto.
«Vorrei poterlo fare, mio caro amico, ma non abbiamo tutto il giorno. Il mio capo è una persona molto esigente e di sicuro non starà apprezzando tutta questa perdita di tempo».
«Quindi tutto spetterà alle tue qualità di sintesi».
I due si fissarono per qualche secondo, in silenzio.
«È un peccato non potertela raccontare come si deve, questa storia. Mi ha sempre appassionato da ragazzo ascoltarla».
Detto ciò Rick si girò, vide una cassa alle sue spalle e ci si sedette sopra.
«Prima che gli anglo-americani rovinassero tutto, i nostri scienziati erano i più competenti di tutto il mondo. Erano all’avanguardia, non avevano limiti. Potevano stravolgere le leggi stesse della natura. Se il nostro reich fosse vissuto fino ai giorni nostri, adesso la medicina sarebbe milioni di anni luce più avanti».
«A costo, però, di altri milioni di vite umane innocenti» interruppe il poliziotto.
«Sacrificarne uno per salvarne cento. Quindi, lascio a lei tutti i calcoli».
«Sono fiero dei progressi che la scienza ha fatto fino ad oggi. Almeno le loro mani non sono macchiate di sangue come quelle di voi nazisti».
A quelle parole Rick si sentì ferito nell’animo. Di scatto si alzò e prese al collo Roberto, che si sentì senz’aria.
«Le vite di quegli sporchi ebrei non valgono più di quanto ne possa mai valere una di un misero moscerino. Essere oggetto di esperimenti era un onore per la loro infima razza. Poter essere al centro di un grande progetto, quale era e sarà il nostro. Poter capire di essere finalmente utili a qualcosa».
«Dovresti saperlo che la cazzata della razza inferiore era solo una trovata propagandista di Hitler per togliere di mezzo i banchieri ebrei» disse il poliziotto con un filo di voce.
Photer, accecato dalla rabbia lo colpì con tutta la forza che aveva in corpo alla tempia. Roberto cadde a terra, dolorante e con difficoltà nel respirare. Era caduto su una scultura coperta da un velo, la quale si era conficcata nel suo torace, spezzandogli ulteriormente il fiato.  
«Vuole provocarmi, signor Sio? Vuole che la uccida prima di esaudire il suo ultimo desiderio? Ora stia zitto e mi ascolti».
Rick si girò e si rimise a sedere sulla stessa cassa.
«Dato che mi ha dato prova di essere così informato, sa benissimo che il nostro führer negli ultimi anni del conflitto era cagionevole. E, chiaramente, i nostri medici e i nostri scienziati si erano messi all’opera per trovare una soluzione. Non potevamo perdere la mente più brillante del secolo per colpa di qualche malattia».
«Tu parli di noi nazisti. Quanti ne siete? Credevo che vi avessero tolti di mezzo tutti. O magari siete una di quelle sette di naziskin che si vedono in giro di tanto in tanto?» disse Roberto, rialzandosi in piedi a fatica.
«Non abbiamo assolutamente nulla a che fare con quelle sette. Loro seguono giusti ideali, ma i diretti discendenti di quel movimento siamo noi. E quando il nostro führer tornerà tra noi anche loro saranno annessi al nostro futuro grande impero, se ne saranno davvero degni».
«Il quarto reich?».
«Sì, signor Sio» rispose Photer, visibilmente stizzito dalle affermazioni che il suo interlocutore stava dando.
«I nostri geniali scienziati hanno messo a punto un macchinario che permettesse al corpo del nostro führer di rimanere intatto esattamente come era nel momento in cui è stato ibernato, nel 1945».
«Come mai nessuno sa di questa storia? Insomma, Hitler nel 1945 era il ricercato numero uno di tutto il mondo».
«Ma lei crede che noi eravamo un gruppo di barboni a zonzo? Abbiamo organizzato tutto nei minimi particolari al fine di far credere alla storia che il führer si fosse suicidato e che il suo corpo fosse stato incendiato. In questo modo tutti si sarebbero convinti della sua morte e noi avremmo potuto nascondere il suo corpo, così come è stato. Purtroppo la scienza, complice tutta l’incompetenza che vige in questo mondo fatto di caos, ancora non ci ha fornito i mezzi per poter trapiantare il suo prezioso cervello in un corpo giovane, in grado di riportarlo ai vecchi fasti riattivando le sue funzioni vitali».
«Com’è stato possibile ibernarlo?».
«Lei è molto curioso, caro amico mio. L’ibernazione, come forse lei non sa, non è un processo che impedisce la morte, ma le impedisce semplicemente di produrre i suoi effetti».
«La decomposizione?».
«Molto perspicace. Quando viene dichiarata la morte clinica in realtà non si è ancora realmente morti. Essa non avviene istantaneamente, ma gradualmente. Ogni funzione corporea si arresta con una sua determinata velocità, fino al sopraggiungere della morte cerebrale».
Photer, guardando soddisfatto la sua pistola, proseguì: «Al nostro führer è stato somministrato, per endovena, un cocktail di farmaci per rallentare il metabolismo, affinché le cellule non si deteriorassero. Il corpo, così, è stato raffreddato con del ghiaccio tritato e, per via polmonare, gli è stato somministrato un altro composto chimico per produrre un raffreddamento rapido del sangue. Poi, attraverso una pompa, è stato fatto defluire dal corpo e sostituito con liquido criogenico a base di glicerina».
«Perché?» chiese Roberto, che stentava a credere alle proprie orecchie.
«Per evitarne il congelamento ed evitare la formazione di cristalli di ghiaccio. Il sangue è stato conservato per tutto questo tempo in un’ampolla vicino alla bara d’ibernazione».
«Come fai a conoscere tutto questo nei minimi dettagli?».
«È uno dei motivi per il quale ricopro la mia carica. La temperatura in cui si trova adesso il corpo è di circa 196°C sotto lo zero, per questo c’è bisogno di un grande dispendio di energia elettrica per mantenerlo». 
«Posso vedere il corpo ibernato?».
Rick si lasciò andare ad un’altra risata agghiacciante che risuonò in tutto il bunker.
«Le avevo concesso un solo ultimo desiderio. E mi sembra di averlo esaudito».
Si rialzò, tese il braccio con la pistola e si apprestò a fare fuoco.
 
«Resta fermo dove sei e butta la pistola» si sentì intimare alle spalle Rick.
«Se osi voltarti senza buttare la tua arma giuro che ti scarico tutto il mio caricatore addosso. Non avrai neanche il tempo di capire cosa starà succedendo».
Photer rimase immobile a fissare Roberto. Un sorriso si disegnò sul suo volto.
«Mi sembra di riconoscere questa voce».
«Butta la pistola o sparo!» continuò.
«Lei è la signorina Chezzi, nevvero?».
Francesca, sempre alle sua spalle, era sempre più intenta a spararlo. Dopotutto i suoi erano proiettili soporiferi, non l’avrebbe ucciso. Ma voleva che buttasse prima la sua pistola. Semmai avesse sbagliato mira o se i colpi non avessero avuto effetto, come era successo poco prima fuori dal bunker a Lenoardo, quell’individuo avrebbe avuto il tempo di sparare a lei e al poliziotto.
«Complimenti, hai indovinato chi sono! Adesso butta quella dannata pistola».
«Va bene».
Photer in quell’istante fece partire un colpo ai danni di Roberto, il quale gemette con un urlo di dolore accasciandosi a terra.
La ragazza, turbata e accecata dalla rabbia, fece partire tre colpi verso Rick, il quale si girò, puntò la sua pistola verso di lei e le augurò buon viaggio. Francesca chiuse gli occhi e qualche lacrima si materializzò di nuovo sul suo viso. Trasalì quando sentì un rumore.
Sempre con le palpebre abbassate cercò di concentrarsi sul suo corpo, al fine di capire dove l’avesse colpita quel farabutto. Si sforzò, poi aprì gli occhi e si guardò. Non aveva nessuna ferita. “Avrà sbagliato mira?”.
Alzò lo sguardo e vide qualcosa che fece aumentare il numero di lacrime sul suo volto, ma questa volta non erano di dolore, ma di gioia.
Photer era steso a terra, con la bocca aperta, addormentato e con i tre dardi soporiferi conficcati tra le spalle e il collo. Ma ciò che l’aveva resa davvero felice era la vista di Roberto che si era rialzato, incolume.
Corse subito da lui e si assicurò che stesse davvero bene. Aveva una brutta ferita sulla testa, a causa del colpo che gli aveva inflitto Rick.
«Stai bene?» gli chiese.
«Sì. Per fortuna ho il giubbotto antiproiettili. Il nostro amico ha pensato bene di mirare al cuore quando mi ha sparato».
«Stai sanguinando» continuò, preoccupata.
«Non è niente, ho avuto ferite peggiori».
«Cosa facciamo con lui ora?».
Il poliziotto guardò il corpo di Photer steso per terra. Si genuflesse, gli tolse la cintura e gli legò in un solo nodo mani e piedi.
«In questo modo non riuscirà a liberarsi tanto facilmente» disse soddisfatto.
«Sei riuscito a scoprire dove è nascosto il corpo?».
«Purtroppo no. Leonardo come sta?».
«Sta bene, è fuori di guardia. Abbiamo steso uno degli scagnozzi di questo tizio».
«Bene, adesso è il caso di scoprire dov’è la bara».
Si guardarono intorno. C’erano un’infinità di casse di legno, di sculture ricoperte da teli, di lingotti d’oro sparsi qua e là.
«Questo è il tesoro del terzo reich?» domandò Francesca.
«Non lo so, sei tu la storica!».
«Abbiamo trovato il tesoro del terzo reich! Ti rendi conto di cosa significa? Lo hanno cercato per settant’anni e nessuno ci è mai riuscito a trovarlo!».
«Non mi stupisce. Noi stessi abbiamo trovato questo bunker per sola fortuna».
Poco lontano videro una strano passaggio. Si avvicinarono sospettosi.
«Secondo te lì dietro è celato il corpo di Hitler?».
«Credo proprio di sì».
Ogni passo era un macigno. Sembrava una situazione da fantascienza. Francesca non riusciva ancora a crederci. Tutto quello che la storia aveva sempre raccontato era stata solo una bufala.
Con estrema delicatezza Roberto mise mano alla serrature e spalancò l’ingresso, rimanendo di stucco.
«C’è il corpo?» insistette la ragazza, che alle sue spalle non riusciva ancora a vedere l’interno.
L’agente di polizia aprì ulteriormente per permettere la visione anche alla sua amica.
Entrambi rimasero impietriti. Chiusero e riaprirono gli occhi diverse volte, per accertarsi che la loro non fosse solo una visione causata dall’aria maleodorante che si respirava in quel posto.
Nessuno dei due era in grado di proferire parola.

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Capitolo 59
*** Capitolo 58 ***


CAPITOLO 58
 
“Oh mio Dio”. Leonardo non riusciva a credere a tutto ciò che si parava dinnanzi ai suoi occhi. Era completamente circondato da tesori. Migliaia di casse ricolme di lingotti d’oro posizionate una sull’altra. Era come trovarsi in un labirinto.
Improvvisamente non sentì più il disgusto per l’aria pessima che si respirava. Era stato completamente preso da tutto quell’oro. “Credevo che tutto il tesoro dei nazisti fosse andato a finire in fondo al lago Toplitz”. Lentamente estrasse un lingotto e lo analizzò. Aveva in mano un oggetto originale dell’epoca hitleriana, con tanto di incisione del simbolo nazista per antonomasia, la svastica, e la scritta Reichsbank. “Se solo penso a quante sofferenze hanno provocato per realizzarlo”. La maggior parte di quell’oro proveniva dalla bocca degli ebrei. Chiaramente si trattava delle loro otturazioni o altri manufatti protesici. Ma non solo, anche tutti i loro oggetti preziosi erano stati fusi insieme al fine di realizzare quei lingotti.
Quasi impressionato da quell’oggetto, lo lasciò cadere a terra. Il rumore riecheggiò in tutta la sala. Con un calcio lo spinse lontano e proseguì, inoltrandosi ancora di più nel bunker.
Sarebbe stato facile perdersi in mezzo a tutte quelle casse che, ammucchiate, raggiungevano i due metri e mezzo d’altezza formando dei veri e propri muri.
La sua attenzione fu catturata nuovamente dal sistema di illuminazione, che man mano stava affievolendosi sempre di più. Non era in grado di stabilire quanto tempo ancora sarebbe stato in grado di bruciare. Ma ciò non lo preoccupava, aveva con sé la sua torcia.
D’un tratto si ritrovò davanti un tipo diverso di bauli. Questi non raffiguravano un’iscrizione della banca del reich. Gli sembrava di scorgere dell’altro oro, ma sbucava di qualche centimetro al di fuori della cassa. Capì quasi subito di cosa si trattasse. Erano quadri.
Durante e dopo la guerra gli americani avevano inviato degli uomini in Europa al fine di recuperare tutte le opere d’arte trafugate dai nazisti. Questi individui erano conosciuti con nome di “Monuments men”. Ma non erano stati in grado di trovarle tutte, in quanto i tedeschi le avevano nascoste nei posti più impensabili. E questo era uno di quelli.
Leonardo rimase sbigottito nell’estrarre un quadro. Si trattava di una fatica dell’artista Caravaggio. Alla base della cornice c’era il titolo: Ritratto di giovane donna. Il battito cardiaco del ragazzo accelerò. Non poteva credere di avere tra le mani una tra le opere d’arte più ricercate e preziose al mondo. La ripose con tutta la delicatezza di cui fosse capace. Dopo tutto quel tempo e tutta quell’umidità la tela era sicuramente molto più soggetta a corrosioni.
Non poté resistere dall’estrarne un altro. Qualsiasi milionario avrebbe fatto follie pur di accaparrarsene. Lo guardò bene e lesse l’insegna in basso. Van Gogh. Il quadro raffigurava il pittore stesso che si era ritratto per intero insieme alla sua attrezzatura da lavoro in un’assolata campagna. Con molta attenzione rimise a posto anche questo. Non riusciva ancora a credere ai suoi occhi. “Un Van Gogh! Se riuscissi a fargli anche solo una foto sarebbe sensazionale!”. Estrasse il suo cellulare ma si rese conto che era troppo antiquato per essere munito di fotocamera. Si trattava del telefono che gli aveva assegnato Roberto. Era munito dello stretto necessario e, chiaramente, l’obiettivo per le fotografie non rientrava in quel range.
Leonardo si mangiò le mani e proseguì, tenendo sempre gli occhi bene aperti. Attraversò tutta la zona colma di quadri ed entrò in quella delle sculture. Non riuscendo a contenersi, tolse diversi teli, scoprendo le opere che si celavano al di sotto di essi. Una, in particolare, lo colpì. Si trattava della celebre Lancia di Longino, conosciuta meglio come Lancia del destino.
“Credevo che questa fosse stata trovata!”.
La storia di quest’oggetto era molto contraddittoria. Difatti il ragazzo aveva sempre avuto qualche dubbio su di essa. Questa lancia, secondo la leggenda, sarebbe stata proprio quella che trafisse il costato di Gesù dopo essere stato crocefisso. La storia racconta che venne trovata a Gerusalemme e portata a Costantinopoli, dove, nel 1244, l’imperatore Baldovino II la donò al re di Francia Luigi IX. La sua ultima apparizione avvenne durante la Rivoluzione Francese, quando venne portata alla Bibliothèque nationale de France. Dopodiché andò persa.
Probabilmente gli scagnozzi di Hitler devono averla trovata e aggiunta al grande tesoro del reich.
La osservò per qualche minuto e la ripose minuziosamente a posto. La sua mente iniziò a vagare. In quel bunker avrebbe potuto trovare qualsiasi cosa!
 
Nessuno dei due ragazzi riusciva a parlare. Roberto di cose strane, durante la sua carriera, ne aveva viste. Ma quella le batteva tutte.
Francesca, invece, non era riuscita neanche ad immaginarsi una scena del genere.
Mentre si trovavano lì, immobili e increduli, alle loro spalle sentirono una voce. “Che si tratti di Leonardo? Gli avevo detto di stare di guardia fuori!” pensò la ragazza. 
Ancora presi da quello spettacolo, si voltarono convinti di avere alle spalle il loro amico. Ma ciò che gli si parò davanti fu molto diverso dalle loro aspettative.
«Bene, bene, bene. Finalmente ci incontriamo» disse l’uomo dinnanzi a loro, con la pistola puntata.
«Chi sei tu?» chiese uno di loro.
«Il vostro peggior incubo».

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Capitolo 60
*** Capitolo 59 ***


CAPITOLO 59
 
Leonardo aveva sentito delle parole provenire da poco lontano. Estraendo la sua pistola, cercò di muoversi silenziosamente e di individuare chi le avesse pronunciate. Si era distratto troppo alle prese con tutti i tesori del bunker, dimenticandosi di cosa fosse davvero importante: la sicurezza dei suoi due amici.
La voce continuò a parlare, favorendogli l’individuazione. Ebbe quasi un colpo al cuore quando vide Roberto e Francesca con una pistola puntata contro. “Dannazione! E adesso che faccio?”.
Provò a prendere la mira al fine di sparare qualche colpo. Ma era fin troppo cosciente delle sua scarse qualità di cecchino. Se avesse destato sospetti in quell’uomo armato, egli non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a sparare e ad uccidere tutti. Si abbassò e cercò di pensare in fretta sul da farsi.
 
«Mi avete causato solo problemi, da quando siete entrati in possesso di quel maledetto diario» disse Kurt.
«A quanto pare la vostra organizzazione non è poi così importante se non riesce a tenere a bada tre ragazzi curiosi» rispose Roberto.
Francesca, a quelle parole, lo fulminò con lo sguardo. “Ma che diavolo sta facendo? Così non farà altro che fargli saltare i nervi quanto prima!”.
«Siete stati più abili di quanto potessi mai aspettarmi. Anche se, lo ammetto, anche io ho le mie colpe. Avrei dovuto farvi uccidere quando ne ho avuto la possibilità. Ma, come dice il proverbio, chi fa da sé fa per tre, ed eccomi qui, a risolvere questa faccenda di persona».
«Ci permetta di conoscere il nostro assassino, prima di morire» stuzzicò il poliziotto.
Nei suoi anni di servizio aveva sviluppato tutti i trucchi del mestiere necessari a guadagnare quanto più tempo fosse possibile. Ma evidentemente, in quella situazione, era inutile. La loro unica speranza era Leonardo che, però, era rimasto fuori di guardia.
Nessun altro era a conoscenza della loro presenza lì. Ma doveva pensare in fretta a qualcosa. Ormai non gli importava più della sua vita. Doveva salvare a tutti i costi quella di Francesca. Avrebbe continuato a far parlare quel brutto ceffo, cercandolo di portarlo ad un livello minimo di attenzione per poi coglierlo di sorpresa e metterlo fuori gioco. Nonostante ciò Losener non accennava ad abbassare la sua pistola e Roberto stava per terminare le frasi di circostanza.
 
“Non devo farmi vedere. Non devo farmi vedere”, continuava a pensare Leonardo. Anche un piccolo passo falso avrebbe rivelato la sua posizione e avrebbe potuto dire addio all’effetto sorpresa.
Stava cercando di aggirare il piccolo gruppo. Doveva trovare qualcosa da usare come diversivo o come arma contro l’assassino. Il suo sguardo era costantemente sui suoi due amici. Il tempo scorreva inesorabilmente ed era più che conscio che ogni secondo che passava senza trovare una soluzione sarebbe potuto essere fatale per loro.
D’improvviso cominciò a sentire freddo. “Chi ha acceso l’aria condizionata?”. Distolse lo sguardo per qualche istante con l’intento di capire che cosa emanasse quell’aria gelida. Quando si voltò, la sua bocca rimase spalancata. La sua mente si svuotò, il suo battito accelerò e le sua gambe lo reggevano appena.
“Oh, cazzo!”.
Hitler. Adolf Hitler in persona. Era lì. Con volto deciso, come se dovesse ancora dimostrare carisma al suo popolo, adagiato in una bara di vetro. Vestito di tutto punto con la divisa del reich. Sul braccio sinistro la fascia con la svastica e, su uno dei due taschini, una decorazione con la classica aquila del fascismo. Leonardo sapeva bene che quel simbolo proveniva dagli antichi romani. Così come anche il saluto fascista. “Un po’ di originalità non gli avrebbe fatto male, tutti questi simboli e segni sono stati messi in cattiva luce” pensò. Al suo fianco c’era una piccola urna, congelata anch’essa. Si avvicinò ulteriormente al corpo, per vederne ogni singola sfaccettatura. Dopotutto, quante persone al mondo possono dire di aver visto Hitler da così vicino?
Ne esplorò i lineamenti. Seguì tutte le rughe del suo volto segnato dall’età, per arrivare a quei perfetti baffi tenuti in ottimo stato. Sembravano quasi finti. Le sue mani erano l’una sull’altra, all’altezza dello stomaco e gli stivali perfettamente lucidi. “Non posso crederci”.
Il ragazzo rimase per qualche secondo disorientato. Sulla bara c’era un piccolo schermo che segnava la temperatura. Seguì un cavo che era attaccato ad un enorme generatore. “Come diavolo fa ad essere ancora in funzione dopo tutti questi anni?”.
 
«La risposta è molto semplice» proseguì Kurt. «La nostra società segreta si occupa periodicamente della manutenzione di quel generatore che avete visto. Il nostro fuhrer potrà restare ibernato anche per secoli, se ce ne fosse la necessità. Ma tutti noi sappiamo che, nel giro di pochi anni, troveremo la soluzione e lo riporteremo alla vita».
«Non offenderti, ma sembrano le parole di uno scienziato pazzo. Cosa vi garantisce che il suo cervello, una volta scongelato, possa tornare alla sua corretta funzione?».
«La vostra curiosità non ha limiti. E io mi domando: ma perché sprecare tutto questo tempo a raccontare qualcosa a qualcuno che tra pochi istanti sarà morto?».
«Lo sappiamo entrambi che raccontare della vostra grandezza in campo scientifico non fa altro che alimentare il tuo grande ego. Vorresti poter decantare queste storie in una grande piazza, al popolo. Far sì che sappiano quanto è grande il potere dei nazisti. Ma non puoi farlo. Quindi, ti do un consiglio. Goditi questi pochi attimi in cui puoi crogiolarti nell’esplicarci la vostra magnificenza».
«Lo sa? Lei è molto bravo con le parole. Sarebbe un membro perfetto per la nostra società».

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Capitolo 61
*** Capitolo 60 ***


CAPITOLO 60
 
“Basta, devo pensare a salvare Roberto e Francesca!”. Leonardo si era distratto fin troppo con quel corpo. Ci sarebbe tornato più tardi, quando i loro problemi con quell’individuo armato sarebbero finiti.
Uscendo dalla sala della bara si accorse di essere in bella vista e si gettò subito dietro un gruppo di scatoloni contenenti dei fascicoli. Di cosa si trattava? Informazioni segrete del reich? Per essere state nascoste in quel bunker questo era quasi certo. Dovevano essere preziose almeno quanto i migliaia di lingotti d’oro che riempivano quel posto.
Il ragazzo si sporse di qualche centimetro, per poter vedere cosa stesse succedendo. Fortunatamente non era ancora stato individuato. Vide l’uomo con la pistola ridere e continuare a parlare. “Perfetto, Roberto sta prendendo tempo”. Ma quanto ancora potevano resistere? Proseguì a girare intorno al gruppo alla ricerca di qualunque cosa potesse stuzzicargli la mente. Nulla. L’unica soluzione era usare la sua pistola soporifera. Ma doveva essere veloce e preciso. Tutte qualità che non possedeva.
Si immaginò per qualche istante l’attimo successivo al salvataggio. Per questa volta sarebbe stato lui l’eroe e non il poliziotto. Sarebbe stato lui a togliere i suoi amici dai guai. Ma rinvenne quasi subito. La situazione era ancora pericolosa.
Trovò una posizione adatta ed estrasse la sua arma. La puntò ai danni del bersaglio e, con mano tremante, fece fuoco.
In quel momento gli passarono per la mente tutti gli avvenimenti delle ultime settimane. Di come la sua vita fosse stata sconvolta dal ritrovamento di un semplice diario in un posto in cui nessuno si sarebbe mai preoccupato di cercare. Della sua relazione con Elena. Di come fosse finita dopo tutto quel tempo insieme. E infine di Francesca. Così si fece una promessa. Se fossero usciti vivi da quella situazione avrebbe rivelato alla ragazza i suoi veri sentimenti. Ormai non poteva più nascondere il suo amore per lei. I segnali erano chiari. Stava bene solo quando si trovava in sua compagnia, si ingelosiva ogni qual volta Roberto la abbracciava o le stava particolarmente vicino e quei giorni passati insieme erano stati indimenticabili. Forse aveva perso la situazione perfetta per dichiararsi. Ne aveva avute parecchie, ma non le aveva sfruttate. Probabilmente era stato meglio così. Stava uscendo da una relazione che aveva preso una brutta piega e tuffarsi a capofitto in un’altra non era certo la cosa migliore da fare. Aveva voluto pensarci bene e capire se i suoi sentimenti fossero veri. E a quanto pare lo erano. Adesso che si era trovato a vederla in pericolo non si era posto il minimo problema nel cercare di salvarla. E lo avrebbe fatto a tutti i costi. Piuttosto avrebbe preferito morire con lei.
 
Dopo aver premuto il grilletto, Leonardo, rimase esterrefatto. Non era successo nulla. Riprovò ancora e ancora. Nulla. La pistola non funzionava. “Ma che diavolo?”. La scosse leggermente e riprovò. “Accidenti!”. Provò ad aprire il caricatore e si accorse che non c’erano più proiettili. “Com’è possibile?”.
Li aveva finiti tutti. Doveva quanto prima trovare una soluzione alternativa. Non c’era più tempo ormai. Si diede un’altra occhiata intorno ed ebbe l’illuminazione. Avrebbe dovuto agire subito. Non era sicuro di farcela, ma doveva tentare.
Ciò che aveva attirato la sua attenzione era stata una libreria posta a pochi passi da Losener. “La farò cadere su di lui”. Forse aveva visto troppi film d’azione, ma quello era l’unico modo per poter uscire da quella situazione. Lentamente si mosse e si avvicinò allo scaffale. Era pieno zeppo di libri e scartoffie. “Spero solo di riuscire a farlo cadere”. Cominciò a spingerlo e si rese conto che era molto più pesante di quanto si aspettasse. Fece forza con tutto il corpo e per poco non si lasciò sfuggire un grido di fatica. Ma si trattenne. L’effetto sorpresa era ancora dalla sua parte.
 
Francesca, girando lo sguardo, vide Leonardo e cercò di contenere l’entusiasmo. Li avrebbe salvati. Non tutto era perduto. Avevano ancora una piccola speranza di uscire vivi da quella vicenda. Accorgendosi che, ormai, Roberto non aveva null’altro da dire, intervenne nel discorso, prolungando una conversazione ormai in dirittura di arrivo.
«Io, però, vorrei sapere una cosa che forse lei non saprà dirmi» disse.
«Non siamo mica in un talk show! Ho prolungato la vostra vita per troppo tempo. Perlomeno voi sarete i fortunati ad essere morti nel luogo in cui risorgerà il nazismo. Forse ci sarà un piccolo capitolo nei libri di storia: “Gli unici ad essere riusciti a scoprire il nostro segreto”».
Dopo quelle parole Kurt scoppiò una grassa risata.
«Basta stupidaggini. Addio».
In quel momento si sentì tramortire. Cadde a terra spinto da una forza alle sue spalle. “Che diavolo sta succedendo?”. La sua pistola sparò, ma il colpo fu infruttuoso. Senza avere il tempo di accorgersi di nulla, si ritrovò per terra, incastrato sotto svariati chili di libri e cartacce.
«Dannazione!» urlò. «Vi ucciderò! Vi ucciderò tutti!».
 
«Oh Dio! Leo!» gridò Francesca, in preda alla gioia.
«Qualcuno ha chiamato un eroe?» chiese Leonardo, in modo ironico.
«Sei arrivato al momento giusto, amico» disse Roberto.
Nessuno di loro, però, si era accorto che quello scaffale aveva urtato una delle travi che reggevano quel posto. Il colpo aveva piegato il legno che, poco a poco, stava sempre di più cedendo.
L’attenzione del gruppo si focalizzò su Losener, che da terra, sembrava fosse in grado di liberarsi e tornare ad essere un pericolo per tutti loro.
«Leo, vieni qui, aiutami a far cadere quest’altro scaffale» propose il poliziotto.
«Vuoi ucciderlo?».
«No, solo renderlo immune per qualche ora. Il tempo di chiamare la polizia locale e salvare il mondo».
«Ma ti senti? Salvare il mondo? Non siamo mica i Fantastici 4?».
«È vero, ce ne manca uno. Dai aiutami».
Entrambi esercitarono un’enorme quantità di forza per far cadere lo scaffale preso di mira. Conteneva sicuramente altri lingotti d’oro.
Da sotto la libreria, Kurt, continuava a borbottare e, quando si sentì cascare addosso altri chili, perse conoscenza per l’eccessivo peso.
Quella caduta aveva ulteriormente debilitato lo stato della trave che, cadendo, aveva iniziato a rendere instabile il soffitto. Lentamente anche le altre travi cominciarono a soffrire il carico sopra di loro. Era evidente che ormai il peso non era più equamente distribuito.
«Dobbiamo uscire subito di qui» gridò Francesca. «Svelti!».
La luce era ormai del tutto svanita, il grasso animale che fungeva da alimentazione era quasi tutto bruciato e quel labirinto di oggetti ammassati non rendeva facile l’individuazione dell’uscita.
«Dove diavolo è la porta?».
Correndo per la propria salvezza, Leonardo riuscì a dare un’ultima occhiata alla bara di Hitler, prima di vedere le travi collassare una dietro l’altra.
«Di qua! Svelti!».
Roberto guidava i suoi amici attraverso i cunicoli di quel bunker. Non ebbero neanche il tempo di richiudere l’enorme portone dell’ingresso. Era una corsa contro il tempo. Rimanere un secondo in più in quel posto sarebbe significato una morte certa.

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Capitolo 62
*** Capitolo 61 ***


CAPITOLO 61
 
La luce. L’aria pulita. Leonardo non credeva che respirare a pieni polmoni potesse essere così rinvigorente. Era steso a terra, sull’erba. Il flusso d’aria entrava ed usciva dai suoi polmoni con un ritmo accelerato. Non aveva mai corso così tanto in tutta la sua vita. D’altronde, aveva dovuto farlo. Altrimenti una vita non l’avrebbe avuta più.
«È tutto andato distrutto» pronunciò, col poco fiato che aveva.
Francesca, stremata, era stesa di fianco al ragazzo. Anche lei respirava con un’accelerata frequenza. Era come se i suoi polmoni bramassero tutta l’aria di quella foresta.
«Siamo vivi. È questo ciò che conta» rispose.
«Dobbiamo chiamare la polizia» disse Roberto.
Egli non sembrava molto provato da quella corsa. Dopotutto era molto allenato. I quattordici chilometri che copriva ogni mattina erano serviti a qualcosa, alla fine.
«E cosa gli raccontiamo? Non abbiamo prove» rispose Leonardo.
«Forse ti dimentichi di quel tizio sdraiato e legato laggiù» ribatté la ragazza.
«Con un po’ di fortuna racconterà tutto agli ufficiali e scopriremo dov’è la base di questi fanatici nazisti».
«Secondo voi, se scavassimo qui sotto, riusciremmo a recuperare qualche oggetto?».
«Il bunker era stato costruito a diversi chilometri di profondità sotto terra, proprio per essere irrintracciabile. Per arrivare a quella profondità ci avranno impiegato diversi anni e lavoro coatto. Puoi scordarti di rivedere anche un solo granello di ciò che c’era lì dentro».
«Addio fama».
 
I rintocchi dell’orologio dell’albergo si susseguivano inesorabili. Finalmente erano fuori dai guai. Leonardo era rimasto da solo in camera. I suoi due amici erano andati a restituire l’auto e a prenotare i biglietti per il ritorno. “Perché li ho fatti andare da soli?” si continuava a rimproverare. Non aveva dimenticato la promessa che si era fatto poche ore prima. Avrebbe rivelato i suoi veri sentimenti a Francesca quanto prima. Doveva solo trovare il momento più adatto. Ovvero quando Roberto non era tra i piedi. Questo sarebbe potuto succedere soltanto una volta tornati in Italia.
Cercò di svuotare la mente. Di seguire i rintocchi delle lancette per assecondare un sonno che faceva fatica ad arrivare. Ma più cercava di non pensare a nulla e più gli tornava in mente l’immagina della ragazza. “Se dovessi perderla non me lo perdonerei mai”. Si girò di lato, abbracciò un cuscino e iniziò ad elaborare le frasi da dirle. “Fra, sono innamorato di te!”. Sorrise per qualche istante e poi tornò serio. “Così sarei troppo diretto. Devo cercare di farglielo intendere con delle parole mirate”. Si girò dall’altra parte e continuò a pensare. “Perché dev’essere così difficile?”.
Si alzò e si mise a sedere. “E se le scrivessi un biglietto?”. Andò alla ricerca di carta e penna per la stanza ma non trovò né l’una né l’altra. “Accidenti!”. Non sapendo cosa fare si affacciò alla finestra, alla ricerca di qualche ispirazione. Ma ciò che vide lo fu più di ogni altra cosa.
Roberto e Francesca si stavano baciando. Appena la sua mente fotografò quell’immagine si ritrasse subito e si allontanò dalla tapparella.
“Che bastardo!”. Non poteva crederci. Certo, se lo sarebbe aspettato ma, in cuor suo, sperava che potesse essere lui l’anima gemella della giovane bibliotecaria. Invece non era così. A quanto pare il fascino della divisa aveva prevalso. “Che cretino che sono!”.
Cercò di nascondere la delusione e la tristezza. Presto sarebbero saliti in camera da lui. Avrebbe dovuto fingere per tutto il viaggio di ritorno. E soprattutto avrebbe dovuto trattenersi dal tirare un gancio destro al poliziotto. Se non altro, perché poi oltre alla ragazza avrebbe perso anche qualche dente. Roberto era ben allenato e molto più muscoloso di lui.
Proprio il quel momento i due ragazzi rientrarono in camera. Sembravano cupi. Forse volevano dire a Leonardo della loro relazione? Tutto ciò che uscì dalla loro bocca però fu: «Andiamo, c’è un aereo che ci aspetta».

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Capitolo 63
*** Epilogo ***


EPILOGO
 
«Che cosa? Col poliziotto? Non posso crederci!» esclamò Ale.
«Già» rispose Leonardo, visibilmente deluso.
I due si trovavano al solito bar in cui si incontravano per fare colazione insieme.
«In un colpo solo ho perso la scoperta del secolo e l’amore della mia vita» proseguì.
«Quando li ho visti baciarsi. Mi è caduto il mondo addosso. Come devo fare? Sono innamorato di lei».
«Leo, purtroppo queste cose vanno così. Bisogna battere il ferro finché è caldo. Tu hai aspettato troppo e quel bestione te l’ha fatta sotto il naso».
«Accidenti a me! Non sono riuscito a prendere neanche un souvenir da quel bunker. È come se tutta questa storia non fosse mai esistita!».
«Non fartene una colpa. La ruota gira, magari la prossima volta riuscirai a scoprire l’isola dove si nascondono le star dichiarate morte!» commentò Pinto.
Quella frase era riuscita a far tornare, seppur per pochi istanti, il sorriso sul volto di Leonardo. Inzuppò il suo cornetto nel cappuccino e gli diede un morso. Era uno dei pochi piaceri ai quali non avrebbe mai saputo rinunciare. Non aveva vizi particolari. Non era un maniaco dei videogiochi come il suo amico.
«Consolati col fatto che un giorno potrai raccontare questa storia ai tuoi nipotini» aggiunse Ale.
«Avrei tanto voluto che potesse esserci un lieto fine però» rispose Leonardo.
«E cosa ti dice che è troppo tardi per averne uno?».
Il giovane era rimasto leggermente confuso da quelle parole. “Che cosa vorrà dire?”.
Senza aggiungere altro, Pinto si alzò e lasciò il suo amico.
«Pinto? Che succede? Dove vai?» gli domandò.
Ma, voltandosi, capì il perché di quelle parole.
Era Francesca. Si trovava lì, a pochi passi da lui. Lo guardò e sorrise. Leonardo le sorrise di ricambio.
«Posso sedermi?» chiese la bibliotecaria.
«Certo».
Il ragazzo non sapeva che dire. Non le aveva scritto nulla nei giorni successivi al loro ritorno. Ma quella era stata una piacevole sorpresa.
«Aspettavo una tua chiamata o qualcosa di simile» disse Francesca.
«Già. Ho avuto da fare, rimettere a posto alcune cose, riprendermi un po’ da quello che è successo».
«Sai, ero qui da un po’ e ho sentito la vostra conversazione».
Leonardo sbiancò in volto. “Ha sentito tutto?”. Che figura aveva fatto. Si sentiva infinitamente stupido. Se ne avesse avuto la possibilità sarebbe diventato invisibile e se la sarebbe squagliata.
«Ho una cosa da dirti» continuò la ragazza.
«Cosa?».
Lei gli si avvicinò e lo baciò. Fu il bacio più bello della loro vita. Fu liberatorio. Non c’era bisogno di parole. Quel gesto aveva chiarito tutti gli equivoci che c’erano stati. Avrebbero dovuto farlo molto tempo prima. Ma tutta quell’attesa aveva reso quel momento ancora più dolce.
Leonardo la guardò negli occhi e commentò: «Wow!».
Lei sorrise. Lui si fece più cupo: «E quel bacio con Roberto?».
«Mi ha baciata lui. Pensava che io corrispondessi i suoi sentimenti. Sono stata chiara con lui. Io amo te».
Dopo quell’affermazione si baciarono di nuovo. Pinto aveva avuto ragione. Non è mai troppo tardi per un finale a lieto fine.

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