Into the sea

di Damnatio_memoriae
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il richiamo del mare ***
Capitolo 2: *** Oltreoceano ***



Capitolo 1
*** Il richiamo del mare ***


Into the Sea
 
I

Il richiamo del mare

1623, Lansbury
 
Non era un fatto insolito che le navi mercantili attraccarsero al molo del piccolo villaggio di Lansbury in pieno inverno, tanto più che nelle contee settentrionali dell’Inghilterra di Sua Maestà Giacomo I l’inverno imperversava per buona parte dell’anno. Tuttavia gli abitanti di Lansbury – o almeno i pochi che erano rimasti – sapevano che solo uno era il galeone che riforniva i loro commercianti e sostentava i loro commerci e quel vascello aveva un nome, che ora era sulla bocca di tutti. La O’Flaherty era finalmente tornata a casa.
Margaret apprese la notizia per ultima, solo quando il galeone si era ormai ormeggiato e le famiglie avevano occupato il porto per poter riabbracciare i propri cari. Si tirò su le gonne per non sporcare ulteriormente il vestito e senza curarsi di evitare le pozzanghere corse verso il molo, urtando i passanti, colpendo carrette, rischiando di scivolare nel fango. L’aria fredda le sferzava il viso accaldato, ma anche con il respiro corto e il cuore in subbuglio Margaret non rallentò. Si catapultò giù per la strada principale e poi lungo la banchina, dove i barili erano stati disposti accuratamente in fila per la conta della merce. Prima che la pioggia iniziasse a cadere dalla spessa coltre di nubi che aveva coperto il cielo quel mattino, la ragazza spalancò la porta dell’unica locanda di Lansbury, già piena di marinai assetati e affamati. Alcuni di loro affondavano i denti nel cibo scadente, altri ingurgitavano rum da bottiglie lerce e impolverate; qualcuno si era messo in un tavolino isolato per giocarsi ai dadi i soldi appena guadagnati dall’attraversata, molti si erano seduti attorno ad un tavolo di legno traballante per ricevere il loro compenso. Fra tutti troneggiava il capitano della O’Flaherty, Wileilm il Rosso, un manigoldo ricattatore, erede di nulla se non della propria nomea, che con la sua nave inseguiva e affondava tutti i convogli dello Stretto per rivenderne le merci.  Lansbury del suo rifornimento poteva senza dubbio dirsi grata, ma lo sarebbe stata di meno una volta messa sotto accusa dai giudici della Corona.
Margaret si guardò attorno rapidamente, ma nella sala principale non trovò chi stava cercando così disperatamente. A lunghe falcate si diresse al bancone, dove l’oste era intento a pulire i boccali. L’uomo la squadrò da capo a piedi, ma sul suo volto si sarebbe potuta leggere solo indifferenza. Piegò la testa da un lato per indicarle le scale che conducevano al piano superiore.
«Seconda a destra» la informò, tenendo sott’occhio gli uomini nella sala.
«Vi ringrazio» sussurrò Margaret, scostandosi i capelli dalla fronte. Frugò nelle tasche del suo vestito e ne estrasse quattro monete, ma l’uomo la fermò.
«Non serve» disse «La camera è già stata pagata».
«Fino a quando?» domandò la ragazza, corrucciandosi.
L’oste rispose spazientito «Fino a quando non leveranno l’ancora».
Margaret non aggiunse altro e dopo aver ritirato le monete che aveva messo sul bancone salì le scale due a due e quasi non inciampò sull’ultimo gradino. Svoltò nello stretto corridoio e senza bisogno di ricordarsi l’indicazione dell’oste, a colpo sicuro aprì la porta quel tanto che bastava per sgusciare all’interno della stanza. Girò due volte la chiave nella serratura, forzando la toppa arrugginita che faceva resistenza.
«Non lo sai che è buona educazione bussare?» domandò una voce alle sue spalle con tono indispettito.
Margaret tirò un profondo respiro e dopo essersi voltata alzò lo sguardo, incontrando gli occhi blu della donna seduta di fronte a lei. La mascella squadrata era serrata, l’espressione era severa, tutto il suo corpo tradiva spossatezza e nulla in lei sembrava lasciar intendere sorpresa. Armeggiò con il nodo della cintola e con poca grazia lasciò cadere la sciabola a terra; si distese, sollevando le gambe e sbattendo i piedi – fasciati da stivali logori e imbrattati di fango – sulla tavola rotonda alla quale si era seduta. Se i lineamenti non fossero stati così fini, la statura così modesta e la vita così sottile, molti avrebbero dubitato di aver davanti una ragazza.
Il viso di Margaret si adombrò. Sollevò una mano e con le nocche battè il legno della porta. «Toc-toc» scandì.
«Non è divertente» ribattè l’altra con voce stanca.
«Non voleva esserlo».
Sulla stanza scese il silenzio.
«Ti prenderai un malanno» disse infine a Margaret, guardandola intensamente, i vestiti bagnati che gocciolavano sulle assi logore del pavimento. Si stupiva di trovarla sempre un po’ cambiata, o forse era il tempo passato per mare a far dimenticare i volti delle persone care. Si domandò distrattamente quanto tempo le sarebbe occorso per scordare del tutto i suoi lineamenti.
La donna, non avendo avuto risposta alcuna, se non un’occhiata torva, si passò le mani sulla testa, lasciando cadere il cappello a terra. Con gesti rapidi si legò sulla nuca i capelli neri. «Pensavo non saresti venuta» ammise, senza avere il coraggio di guardarla.
«Pensavi male».
«Forse speravo non l’avresti fatto» sussurrò.
A quelle parole le mani di Margaret si chiusero in due pugni e un nodo le serrò la gola. Sentì la rabbia montarle da dentro e il rancore inghiottire tutti i suoi propositi di perdono e comprensione.
«Dopo tutto questo tempo» sibilò «È questa l’unica cosa che riesci a dirmi?».
«Cos’altro ti aspetti che dica?».
Strinse i denti. «Te ne sei andata».
«Sapevi che sarei partita di nuovo, non te ne ho mai fatto mistero».
«Non hai trovato neanche il coraggio di salutarmi» la accusò «Mi sono svegliata in un letto vuoto perché tu eri già sgusciata via come il peggiore dei ladri».
«Non sarebbe cambiato nulla».
«Sarebbe cambiato per me!» scoppiò, battendosi la mano sul petto «Sono passati otto mesi, Elisabeth! Otto lunghi e logoranti mesi, senza avere tue notizie, senza sapere dove fossi diretta, senza sapere se fossi ancora viva» sull’ultima parola la voce le venne meno «E se così non fosse stato, cosa pensi che mi sarebbe rimasto di te? Il pensiero di non essere riuscita nemmeno a dirti addio».
«Ecco!» la indicò «Era esattamente quello sguardo che volevo evitare».
«Sei stata una vigliacca e un’egoista» affermò duramente «Come riesci ad essere così vile?».
«E tu come fai ad essere così ingenua?» replicò Elisabeth, scaldandosi, e il collo e le guance, anche se bruciate dal sole, si colorarono di rosso.
«Preferisco essere ingenua piuttosto che diventare come te».
La donna aggrottò la fronte. «E questa sarà la tua rovina».
«Sei tu la mia rovina».
«E allora perché diavolo sei venuta?» le rinfacciò, alzandosi di scatto.
«Io non lo so» proruppe dopo un attimo di esitazione.
«Non volevo che venissi qui, non ti ho chiesto io di farlo».
Margaret fece per replicare, ma quelle parole la spiazzarono. Incurvò le spalle come a volersi proteggere dal più brutale dei colpi. «No, infatti, sei troppo codarda anche per questo. Eppure volevi che ti trovassi, come sempre, altrimenti non saresti venuta proprio qui, in questa stanza».
«Le altre erano occupate» sbuffò.
«Vorrei davvero che tu sapessi mentire meglio di così: renderesti tutto molto più semplice».
Elisabeth abbassò lo sguardo «Non possiamo andare avanti così Margaret. Non possiamo. È insostenibile questa situazione».
«Sono anni che ti sento ripetere sempre le stesse parole, eppure niente è cambiato».
«Proprio non riesci a capire, vero? Neghi qualsiasi evidenza. Guarda quello che stiamo diventando! Non facciamo altro che discutere! Sono mesi, ormai, che ho smesso di contare i giorni di viaggio e non abbiamo passato nemmeno un’ora insieme che già rimpiango di non essere per mare».
«La cosa non mi stupisce di certo» ribattè aspramente «Sei sempre stata più brava a fuggire che a restare».
«Sei davvero più sciocca di quanto non credessi possibile». Lasciò cadere il discorso, dandole le spalle e affacciandosi alla piccola finestra della camera. Sul vetro sporco e appannato le gocce di pioggia si rincorrevano senza mai riuscire a raggiungersi. Come loro due, del resto.
«Hai ragione» la assecondò Margaret in un sussurro «Sono così sciocca, così dannatamente stupida, da aspettarti ancora, ogni volta, come se fosse la prima, e a temere sempre che sia l’ultima. E dopo tutto il tempo buttato nel desiderare il tuo ritorno, questa è l’unica cosa che sai fare: darmi le spalle».
L’altra scosse la testa. «Tu proprio non riesci a comprendere».
Margaret allargò le braccia. «Cos’altro c’è da comprendere?».
«Io non posso cambiare la mia vita per te».
«Non ti ho mai chiesto di farlo».
«No, infatti, tu lo hai preteso».
«Questo è ingiusto. Lo sai che non è vero ed è ancora più tragico vedere quanto tu mi conosca poco» girò su se stessa, allungando una mano per girare la chiave nella toppa e andarsene.
«Vuoi dirmi che sbaglio?» la incalzò l’altra, voltandosi. «Non è forse vero che continui a chiedermi di restare? Che fai di tutto per impedirmi di ripartire, come se io potessi scegliere?».
«Lo faccio per salvarti la vita!».
«Anche io! Pensi che Wileilm mi risparmierebbe se non riuscissi a saldare i debiti di mio padre?».
«I corsari del Re solcano le acque a centinaia. Vi troveranno Elisabeth, non potrete continuare a nascondervi in eterno. Presto non ci sarà più un solo porto sguarnito».
«Preferisco che la gola mi venga tagliata da un cane inglese, piuttosto che da un bastardo irlandese. Almeno sarebbe una morte onorevole».
«Tu mi stai chiedendo di accoglierti quando torni e di lasciarti andare a morire ogni volta che riparti. Tu non lo sai quello che mi stai facendo, non te ne rendi conto. Che cosa faresti al mio posto?».
Elisabeth serrò la mascella e la bocca si trasformò in una sottile linea severa. «Io non posso stare lontana dal mare» spiegò semplicemente, abbassando lo sguardo.
«Ma riesci a stare lontana da me».
«No, non è così. È proprio questo il problema. Tu mi hai divisa ed io te l’ho lasciato fare e ora non possiamo tornare indietro, né andare avanti».
Margaret si prese le mani nelle mani, stropicciandosi le dita, indecisa se rimanere in quella stanza oppure lasciarla. «Ormai è difficile riuscire a crederti» bisbigliò infine, aprendo la porta, ricordando tutte le notti passate a desiderare il suo ritorno. Nulla di tutto quello che aveva immaginato sarebbe accaduto.
Elisabeth mosse qualche passo nella sua direzione e le suole dei suoi stivali imbrattati di fango lasciarono la loro impronta sul pavimento. «Io tengo a te» le disse scandendo bene ogni parola e lo ripetè quando l’altra titubò «Io tengo a te».
Margaret si strinse nelle spalle, la mano ancora stretta intorno alla maniglia. Nonostante la sua voglia di correre il più lontano possibile da lei, le sue gambe non sembravano avere nessuna intenzione di muoversi.
Elisabeth si impegnò in un profondo sospiro e Margaret riuscì a percepirne il soffio caldo sul collo. Lasciò la presa quando la mano dell’altra si posò sulla sua, il palmo ruvido e graffiato per le giornate passate sulla nave.
«Non riesco a dirti addio, Meg. Provo ogni volta ad allontanarmi da te, ma riesci a rendermelo tremendamente difficile».
«Allora perché ci provi ancora? Perché continui a respingermi? Non ho più nulla da dirti, non ho più niente da dimostrarti. Ti ho dato tutto, anche quello che non potevo permettermi di perdere. E ancora non sembra bastarti…Cos’altro vuoi da me?».
«Voglio che tu sia felice».
«Io non voglio essere felice senza di te!» sbottò.
Elisabeth scosse la testa prima a destra, poi a sinistra. Alzò una mano, appoggiandola contro il legno della porta e la spinse, chiudendola con un colpo sordo. «Non avremmo dovuto spingerci così oltre. Non c’è possibilità di tornare indietro, adesso».
«Perché, se potessi farlo mi cancelleresti davvero così facilmente dalla tua vita?».
«Sarebbe la cosa più giusta da fare, per entrambe. Dimenticarti per sempre».
Il cuore di Margaret saltò un battito. Aprì la bocca per mentire, per dirle di essere d’accordo, che in fondo non le sarebbe costata troppa fatica dimenticarsi di una come lei, che anzi aveva già smesso di amarla, ma dalla sua gola non uscì nemmeno un suono.
«Ma…» continuò Elisabeth «Io non sono mai stata brava a fare la cosa giusta e tu sei troppo testarda per pensare di permettermelo proprio ora. Anche se questo non cambierà le cose. Guardami» ordinò in un tono che non ammetteva repliche, ma l’altra non si voltò.
«Non voglio guardarti».
«Perché?».
«Perché no».
«Non è una risposta e lo sai» disse duramente, costringendola a girarsi, stringendole le mani intorno alle braccia. Le cercò gli occhi, ma Margaret continuò ad eludere il suo sguardo.
«Meg» la chiamò.
La ragazza si strinse le braccia intorno al petto. «Perché non riuscirei più ad andare via» spiegò in un soffio.
«Allora resta».
Lei sussultò a quelle parole, ma si sforzò di rimanere inamovibile. «Per quanto? Due, forse tre giorni prima di lasciarmi senza guardarti indietro?».
«Non è una mia scelta».
«Possiamo trovare un’altra soluzione».
«Non c’è un’altra soluzione».
«Non l’hai neanche cercata! Posso darti una mano».
«Non è un problema tuo».
«Sono solo soldi, Elisabeth».
«Non voglio i tuoi soldi, so badare a me stessa».
«Permettimi di aiutarti!».
«Ho detto di no».
«Riesci a non essere così dannatamente orgogliosa?!».
«Maledizione Margaret, smettila!» sbottò, urlandole contro – proprio lei che aveva sempre detestato alzare la voce -, colpendo con un pugno la porta che aveva davanti. Margaret ammutolì all’istante, indietreggiando istintivamente, e subito Elisabeth si pentì di non essere riuscita a controllarsi. Odiava quando si comportava come suo padre. Si passò una mano sul viso, massaggiandosi la fronte con le dita e facendo un profondo respiro.
«Perché vuoi farmi vivere nella paura di perderti?» le domandò infine la piccola e, quando la voce le venne meno, gli occhi le si riempirono di lacrime.
Elisabeth abbassò lo sguardo, colpevole. «Tu non mi perderai mai» ribattè poi, ma visto che l’altra non sembrava crederle continuò incerta, spostando il peso da un piede all’altro «Sai…quando cala la notte e la nave taglia le onde, alzo gli occhi al cielo ed è come se riuscissi a vederti. Io ti porto sempre con me, anche quando le giornate sono lunghe e sento di essere troppo lontana da casa. Io ti tengo qui» le prese una mano e se la portò sul petto e sopra al cuore sentì le dita fredde di Margaret «come il mare tiene me. E sì, molte, troppe volte penso che sarebbe stato meglio non averti mai incontrata, ma ogni nave ha bisogno di un porto e tu sei…tu sei il mio riparo. Anche se io non riesco ad essere il tuo. E mi posso scusare per la mia inaffidabilità e per essere andata via prima che tu ti potessi svegliare, ma non puoi chiedermi di restare, perché non so ancora per quante volte riuscirò a dirti di “no” se tu continuerai a insistere. Perché anche a me manchi quando sei lontana, anche a me! E non vedo l’ora di abbracciarti quando torno, di stringerti e ricordarmi il tuo profumo, anche se ora sei qui, davanti a me, e non riusciamo a fare altro che litigare. E…» storse il naso e indietreggiò di un passo. La mano gelida di Margaret le scivolò di dosso ed Elisabeth, senza quell’ancora, sentì ancora più freddo. Dopo essersi schiarita la gola con un colpo di tosse aggiunse «Penso di essere diventata troppo sentimentale. È quello che succede quando passi tutto il tuo tempo senza poggiare i piedi per terra».
Margaret tirò sul col naso e le labbra le tremarono. Si lanciò verso Elisabeth, gettandole le braccia al collo e abbracciandola così forte da poterle togliere il respiro, ma l’altra non se ne preoccupò, ricambiando la sua stretta con più intensità, tenendole una mano sulla schiena e l’altra sulla testa. Margaret si aggrappò con ogni energia che possedeva alle spalle della ragazza, piangendo tutte le lacrime che non aveva versato in quegli ultimi otto mesi, consumando il suo dolore su quel corpo che tanto amava, e tutto il dispiacere per averla persa non valse la gioia di averla ritrovata.
«Mi sei mancata così tanto» singhiozzò ed Elisabeth la sentì tremare fra le sue braccia al punto da domandarsi come facesse una creatura così piccola a scuotersi per tutti quei sussulti senza mai spezzarsi.
«Sei proprio una bambina» la prese in giro, accarezzandole i capelli chiari. «Non piangere. Non sei poi così bella quando piangi».
«Non è vero!».
«Hai ragione, non lo è. Non lo è affatto» le prese le braccia e dolcemente si staccò da lei. Quando le posò le mani sulle guance, Margaret girò appena il viso per poterne baciare il palmo e si sollevò sulle punte dei piedi. Avvicinò le labbra alle sue, schiudendole appena, percependone il calore, ma Elisabeth si ritirò.
«Non vuoi?» le chiese Meg, corrucciandosi, e sulla sua fronte si formò una piccola ruga.
«Non andrà a finire bene».
«Dopo tutto questo tempo passato senza di te…» iniziò la ragazza, stringendole tra le mani i lembi della camicia candida «Ha davvero importanza?».
Elisabeth fece per rispondere, ma Margaret la prevenne, tirandola a se e baciandole la bocca con urgenza, quasi irruentemente, riscoprendola piccola e vorace, lontana da qualsivoglia resistenza. Le circondò la vita e sotto il suo tocco la sentì fremere e arrendersi. La mora le cercò le labbra ancora e ancora, perdendosi nel loro tepore e nelle sensazioni che la facevano sentire così viva. Le cercò la lingua, saggiandone il sapore, ricordandosi la prima volta in cui l’aveva scoperta, così inesperta e curiosa.
Meg lasciò correre le dita sul suo collo e sul suo petto, insinuandosi sotto il cotone, ed Elisabeth si lasciò sfuggire un suono gutturale, quasi un ringhio, che la portò a premere con più prepotenza il corpo contro il suo, bloccandola contro la porta.
«Lo prendo come un “no”?» domandò Margaret in un bisbiglio, la bocca piegata in un mezzo sorriso.
«Oh, stai zitta!» le ordinò l’altra, prendendola di peso e sdraiandosi sopra di lei sul letto di paglia.
La liberò freneticamente dagli indumenti, senza sfilarglieli per la smania che la pervadeva e nonostante il desiderio di sentire la sua pelle contro la propria. Le alzò le gonne bagnate e le abbassò il corpetto ancora umido, mordendole il collo, la clavicola, il seno, afferrandole le cosce.
Margaret le slacciò il gilet, le sfilò il camiciotto logoro e quando sfiorò le pezze di tela che le costringevano il petto, Elisabeth si bloccò e lei fece altrettanto. Si sollevò a sedere e la donna si posizionò sui suoi fianchi. Si guardarono per un lungo istante prima che Margaret si decidesse a cercare il nodo e a disfarlo, mentre l’altra le sfiorava la fronte con il naso, insinuandole le mani fra i capelli lunghi. Le sfilò piano le bende, scoprendo i seni millimetro dopo millimetro ed ebbe l’impressione che Elisabeth tornasse finalmente a respirare a pieni polmoni. Un sussultò la scosse quando Meg seguì le cicatrici che le marchiavano la pelle con la lingua e allora la strinse a sé più forte, sentendo la pelle fredda contro la sua, i cuori vicini, l’odore dei loro corpi che si mescolavano.
«Prendimi!» le soffiò Elisabeth sulla tempia, muovendo il bacino contro il suo in un invito esplicito.
Margaret insinuò la mano dentro i suoi pantaloni, toccandola a fondo, e sulle sue dita la mora si mosse, inarcando la schiena, reclinando la testa.
«Più forte, più forte…» la implorò con il fiato corto quando Margaret fece scivolare la mano su di lei ed era così pronta che ogni gesto la faceva gemere.
Elisabeth si aggrappò alle sue spalle quando il piacere la pervase, infiammandola, e venendo chiamò il suo nome, perché sulle labbra non poteva avere nessun altro se non lei.
«E tu…» iniziò Margaret, sorridendo maliziosa e leccandosi le dita «…tu come vorresti allontanarti da me, esattamente?».
Una lacrima invisibile solcò la guancia di Elisabeth, sfuggendole dagli occhi blu. Il mare l’avrebbe reclamata presto.
 
≈ ≈ ≈

Quella notte la pioggia cadde più forte, trasformandosi in grandine che spaccava i vetri, scalfiva i tetti e disturbava il sonno degli abitanti di Lansbury.
Elisabeth rimboccò le coperte del loro letto, coprendo Margaret fin sopra le spalle e abbracciandola quando la vide rabbrividire per il freddo. Contro il suo seno e il suo addome, la schiena della ragazza sembrava liscia e morbida.
Poggiò la fronte sulle sue scapole, ascoltando il suono del suo respiro, regolare come quello di un bambino, molto lontano dal russare dei marinai che le aveva perforato le orecchie per tutta l’attraversata.
Le donne. Le donne erano una cosa diversa. Aveva quasi dimenticato quale fosse la sensazione di averne una fra le braccia o fra le gambe e aveva quasi dimenticato il suono della voce di Margaret, la sua pelle, il suo colore, la sua sfacciataggine, anche. Per quanto riguardava la sua testardaggine, quella no, quella era impossibile da dimenticare. Ma le era mancata anche quella.
«Sei la mia piccola stella…» le sussurrò piano all’orecchio, prima di chiudere anche lei gli occhi «E nessun marinaio si è mai perso seguendo le stelle».
Il sonno che aveva tanto desiderato, però, non sopraggiunse e un dolore sordo le offuscò la mente, la paura le attanagliò le viscere e fu come se un pesante sacco le si avvolgesse intorno al cuore. Iniziò a sudare freddo. Si mise a sedere, facendo attenzione a non svegliare la ragazza che le sonnecchiava di fianco, e si prese la testa tra le mani. Una serie di immagini confuse si susseguì nella sua testa: divise blu, moschetti puntati, una platea di sconosciuti, una corda, il palco che si apriva sotto i suoi piedi.
«Come faccio…» sussurrò dando una voce alle sue paure, la bocca coperta da entrambe le mani «Come faccio a lasciarla?».
Quando le prime luci del mattino erano ancora lontane e sulla stanza era ancora buio e silenzio, Margaret si riscosse. Socchiuse gli occhi, calda sotto le coperte che mantenevano quel tepore che le piaceva tanto, poi subito un’idea le balenò nella mente, scuotendola, e allungò una mano oltre la sua parte di letto. Tirò un sospiro di sollievo quando le sue dita incontrarono il corpo di Elisabeth e il cuore di Margaret cessò di martellarle la cassa toracica.
«Non vado da nessuna parte» le lesse nel pensiero la donna, tranquillizzandola con la sua voce calda e roca, un tono che Margaret sarebbe stata in grado di riconoscere tra milioni. Loro no, non erano fatte per essere divise. E avrebbero dovuto smetterla di farsi così male nel cercare di dimostrare il contrario.
Meg si puntellò su un gomito e osservò il profilo di Elisabeth che, gli occhi sgranati, guardava il soffitto, le braccia dietro la testa. Le depose un bacio sullo zigomo e si accoccolò accanto a lei, la guancia fredda posata sul suo seno, il braccio a circondarle lo stomaco. Sospirò e l’altra si tese come la corda di un liuto.
«Che cosa c’è?».
«Nulla» rispose con rassegnazione, ma non fu sufficiente a convincerla.
Margaret allungò una mano e con il palmo aperto le accarezzò la fronte. Il sole e l’aria le avevano indurito la pelle, ma lei avrebbe saputo riconoscere i suoi lineamenti ad occhi chiusi. Le sopracciglia erano incurvate, aggrottate, le tempie tirate, le guance rigide, la mascella serrata.
«Cosa ti turba tanto?» titubò e il silenzio che seguì la sua domanda le insinuò il dubbio sotto pelle. «…stai andando via?» gracchiò.
«No» Elisabeth le prese la mano e se la premette contro le labbra, baciandone le nocche e il polso. Le strinse le dita, le incrociò alle sue, le accarezzò, ci giocò. «Ma presto dovrò farlo».
«Quanto presto?».
«Ascoltami, Margaret» si fece seria.
«Quanto presto?» domandò ancora, più decisa, ma con tono piatto.
Rimase imperscrutabile. «Domani».
Trattenne il fiato. «No…».
«Mi dispiace. Non sai quanto mi dispiace».
«Ti prego, no».
«Margaret, non abbiamo tempo. Io…» deglutì a fatica «Io voglio che tu faccia una cosa, per me».
La ragazza rimase a fissare il vuoto in silenzio, ma Elisabeth sapeva che la stava ascoltando. «Thomas» disse solamente e Margaret si riscosse.
«Cosa c’entra Thomas adesso?» si scaldò.
«Stammi a sentire. Lo conosco da quando era un ragazzino. E’ gentile e di buona famiglia, è un ottimo partito e…».
«No» la interruppe Margaret con veemenza «Non lo stai per dire davvero». Fece per allontanarsi da lei. Elisabeth le afferrò il polso e la tenne stretta a sé. Non aveva davvero più tempo.
«Margaret».
«No! Non ci posso credere!».
«Non ti aspetterà in eterno».
«Aspetterà fino a quando l’inferno non gelerà!».
«Allora fai in modo che ghiacci molto, molto velocemente».
«Non puoi fare sul serio».
«Non sono mai stata più seria». Le prese il mento fra l’indice e il pollice, girandole il viso per costringerla a guardarla.
«Non sposerò Thomas» ringhiò a denti stretti.
«E io non voglio che tu aspetti in eterno una nave che potrebbe anche non tornare».
Margaret si liberò il braccio e quasi non si avventò su di lei. «Smettila Elisabeth!».
«Lo sai che ho ragione».
«Basta, non voglio ascoltarti».
«Fermati. Dovrai darmi retta invece».
Le lacrime di Margaret le scivolarono lungo le guance e giù per il mento, cadendo sulle spalle della mora. «Perché vuoi rovinare anche il poco tempo che possiamo passare assieme?».
«Perché voglio che tu sia pronta».
«…a cosa?» boccheggiò.
«A tutto».
Meg si asciugò gli occhi con un gesto veloce del braccio. Decisa, le prese il viso tra le mani, la punta del naso che sfiorava la sua. «Tu tornerai da me. Sempre».
«Margaret…».
«Mi hai sentita?! Tu tornerai da me, tu devi tornare, devi!» ordinò con voce rotta.
Fu come se Elisabeth si fosse svuotata, privata di tutto il suo coraggio, tutta la sua schiettezza, tutta la sua durezza e l’unico sentimento che pesava nel suo cuore, trascinandolo a fondo, impendendogli di salvarsi, era il dolore. Fece per stringerla a se, cullarla sul suo petto, abbracciarla fino a inglobarla, a racchiuderla nel suo sterno per non doverla lasciare indietro, ma Margaret si mostrò più risoluta di lei e la tenne lontana.
«No, me lo devi promettere! Devi rimanere in vita a qualsiasi costo, promettilo! Vendi l’anima al diavolo se serve!».
Le corde vocali di Elisabeth sembravano essersi spente.
«Promettimelo, maledizione!» la incalzò piangendo.
«Lo farò. Se tu sposerai Thomas».
«Non scenderò a patti con te».
«Allora non tornerò».
Margaret alzò i pugni, colpendola ripetutamente sulle braccia, sul petto, sulle spalle. Elisabeth le bloccò le mani a mezz’aria.
«Non puoi farlo!» la accusò la ragazza, provando a liberarsi.
«L’ho già fatto. Io ti prometto che farò tutto il possibile per tornare da te, se tu mi prometti che sposerai quel…» si trattenne dall’utilizzare qualche aggettivo non troppo carino «pescatore».
«Io non posso farlo!».
«E invece lo farai. Se mi ami, lo farai».
«E’ proprio perché ti amo che non posso farlo!».
Elisabeth non sentì ragioni. «Aspetterai due anni, se sarà necessario. E se non mi vedrai tornare, manterrai il tuo impegno».
«Tu non avrai mantenuto il tuo».
«Almeno ci avrò provato, come ci dovrai provare anche tu. Dammi la tua parola, Margaret».
L’altra scosse la testa, abbassando lo sguardo e soffocando il pianto.
La chiamò di nuovo, spronandola.
La ragazza si accasciò infine contro il suo seno, bagnandolo di lacrime, sconquassandole il cuore, la volontà, lo spirito, tutto il suo essere. I singhiozzi risuonarono fra le pareti come una macabra melodia che Elisabeth sperò di non dover ascoltare mai più. Le accarezzò i capelli, le baciò la fronte, ma non fu soddisfatta fino a quando Margaret non disse le parole che aveva bisogno di sentire: «Lo prometto, lo prometto», ripetute come un mantra, una volta, due volte, tre volte, quattro volte, cinque volte, sovrastato dai sussulti e dai gemiti.
«Ti amo» le confessò all’orecchio Elisabeth, quando tutto cadde nel silenzio. Il solo segno che le permetteva di capire se Margaret fosse ancora sveglia era il suo tremore.
«Io di più…».
«No» rispose in una smorfia «Non credo».
Meg la reclamò, toccandole il corpo come se dovesse essere l’ultima volta e la loro consapevolezza rese tutto più sofferto, più necessario, più malinconico. Elisabeth le baciò la fronte, il naso, le labbra, il mento, il sesso, le bisbigliò all’orecchio quanto tremendamente e disperatamente l’avesse cercata, voluta, sentita, sognata, amata dal primo momento in cui l’aveva vista al molo, le gambe a mollo nell’acqua, e anche dopo, quando l’aveva spinta in una viuzza senza uscita per darle il suo primo bacio e prima di confessarle che Wileilm il Rosso l’aveva ricettata nella sua banda di manigoldi nemmeno troppo svegli; Margaret le aveva gettato le braccia al collo facendola quasi cadere. Quella volta non le aveva chiesto di restare, ma le aveva detto: «Vengo con te». Elisabeth, inutile dirlo, non avrebbe mai potuto permetterglielo.
Fino a quando il canto del gallo non annunciò l’arrivo del nuovo giorno, rimasero l’una stretta nelle braccia dell’altra.
 
≈ ≈ ≈ 
 
Elisabeth baciò la sua Margaret sulla guancia prima di abbandonare quella camera per sempre. Non la svegliò, perché il loro addio era già stato sancito e non l’avrebbe obbligata a guardarla mentre la portavano via. Chiuse piano la porta, estraendo la chiave dalla toppa, e dopo aver sceso i gradini di quella bettola, lasciò sul bancone quattro monete di rame. L’oste alzò un sopracciglio e iniziò dicendole che lo aveva già pagato, ma la donna gli intimò silenzio, alzando la mano. «Voglio che la mia camera sia chiusa a chiave e sorvegliata. Nessuno deve uscire fino a quando non saremo salpati, sono stata sufficientemente chiara?».
L’uomo annuì con un unico cenno del capo, netto e conciso.
«Sarò meglio, perché ho già pagato qualcun altro per controllarti».
Il Capitano della O’Flaherty radunò i suoi uomini e sulle facce di ognuno era incisa a lettere infuocate la sconfitta. Riservò uno sguardo particolare all’unica femmina della ciurma, lanciandole un’occhiata d’assenso. «Ora siamo tutti sulla stessa barca» disse con il suo marcato accento irlandese ed Elisabeth annuì.
«Lo siamo» concordò.
«Andiamocene con dignità. Nessuno dovrà ricordarsi di noi, nella nostra casa, come un branco di codardi reietti e impauriti. Non sprecate il mio ultimo desiderio. Le ultime volontà di un uomo sono la cosa più importante che possiede».
Uscirono acclamati. Gonfiarono le vele dell’imponente galera, la caricarono di viveri, prelevarono le casse dai commercianti e stabilirono un piano di navigazione. Salparono, levando l’ancora, senza fretta, e le mogli e i figli di quegli sfortunati contrabbandieri li salutarono agitando mani e fazzoletti.
Elisabeth guardò la stanza che aveva abbandonato e alla finestra sporca le sembrò di vedere la sua stella, o forse furono solo il dolore, il rimorso e l’amore a farglielo credere. Poco importava. Nel dubbio, prima di rimuovere il ponte, si portò due dita alle labbra e fece volare il suo bacio.
I contorni del porto di Lansbury divennero piccoli, sempre più piccoli, e dallo scafo, dalle scialuppe, dalla cabina di comando, le guardie del commodoro emersero con i moschetti caricati, accerchiandoli, e nessuno della ciurma oppose resistenza. Il secondo ufficiale della Corona dette l’ordine di legarli all’albero maestro poi, rivolgendosi a Wileilm il Rosso, disse: «Non ho potuto concedervi più di una notte».
L’irlandese tossì il tabacco dell’ultima pipa che si era fumato. «Hai fatto tutto quello che mi sarei aspettato da un vecchio compagno: hai rispettato il patto».
«Temevo saresti fuggito» ammise compostamente.
«Gli irlandesi sanno ammettere la sconfitta meglio degli inglesi, ma peggio degli scozzesi».
«Non saresti comunque potuto andare lontano. Vi avevamo accerchiati».
Il Capitano ghignò. «Lo so bene. Te l’ho insegnato io, piccolo moccioso. Come ti ho insegnato a portar rispetto per i condannati a morte e hai imparato bene anche questa lezione. Ciò fa di me un buon maestro» guardò il suo equipaggio «No. Siamo pronti».
Elisabeth salì a fatica i gradini di legno del patibolo. I suoi pensieri non erano per la folla, che urlava e chiedeva morte e giustizia, come se le due cose si equivalessero, né per chi faceva le veci della Corona e neanche per il boia. I suoi compagni penzolavano davanti a lei e la guardavano con i loro occhi vitrei e privi di vita. Accusati di pirateria e condannati a morire, come Wileilm il Rosso, primo fra tutti.
Elisabeth, anche se la paura le aveva ravvolto ogni muscolo, ogni nervo, ogni organo, riusciva solo a pensare che non avrebbe più affrancato la nave al vecchio pontile di Lansbury, che non avrebbe più percorso l’intero porto per cercare Margaret e, una volta scorta, non sarebbe più corsa nella sua direzione per abbracciarla e vedere il suo viso.
Le misero il cappio intorno al collo e la folla esultò.  
Il suo ultimo saluto, prima che le travi le mancassero da sotto i piedi, lo rivolse alla sua stella e il suo ultimo battito, prima che il cuore cedesse, fu per la promessa che non sarebbe mai stata in grado di mantenere.
Ma forse l’anima la vendette davvero al diavolo, oppure un angelo ascoltò le sue preghiere silenziose – nonostante tutte le bestemmie che aveva urlato per mare -, perché in un modo o nell’altro Elisabeth riuscì a tener fede alla parola data e a tornare dalla sola persona che non avrebbe smesso mai di aspettarla.

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Capitolo 2
*** Oltreoceano ***


Into the Sea
 
II

Oltreoceano

1909, Liverpool
 
Sulla RMS Mauretania tutto era sfarzo e opulenza, dai tavoli in legno massello della seconda classe alle tappezzerie della prima, scolpite e curate nei più piccoli dettagli. I lampadari in stile francese, rifiniti con filamenti dorati e gocce di cristallo, illuminarono delicatamente ogni ambiente per tutta la traversata dal freddo Mare d’Irlanda fino all’Oceano e ritorno, conferendo ai salotti e ai saloni un tocco di raffinato fascino. Una grande cupola di vetro si apriva sulla sala da pranzo, permettendo agli ospiti di cenare osservando le stelle, qualora non avessero avuto piacere di guardarsi reciprocamente, e dalle finestre del secondo piano si poteva ammirare il mare e gli schizzi dell’acqua che arrivavano fino al pontile, mentre la nave si immergeva tra le onde, tagliandole come se fossero di burro, senza neanche un minimo scossone.
Era l’era dei transatlantici e il potere dell’uomo sugli oceani sembrava sconfinato. Ma a Maryanne tutta quella ricchezza pareva sterile, semplicemente fine a sé stessa, come anonimi e vuoti erano per lei i volti dei passeggeri, del personale di servizio ed ora anche quelli della sua famiglia, la quale sembrava scomparire in mezzo a tutto quel lusso privo di scopo. Suo fratello Robert si rifugiava nel tabacco e nella sala da poker ogni qualvolta gli fosse possibile, vincendo o più spesso perdendo anche ingenti somme di denaro con i rampolli delle famiglie dabbene dell’èlite londinese; suo padre Ermann discuteva animosamente di politica estera con l’ambasciatore francese e i diplomatici italiani e forse le sue chiacchiere erano anche preferibili a quelle della moglie, che pur di ingraziarsi le ladies dei salotti inglesi malignava su ogni donna che, secondo il suo alto parere, non si comportava come ci si sarebbe aspettato da una signora della loro classe.
Maryanne, dal canto suo, non pensava certo che tutto quello sfarzo fosse un male, e non rinnegava di aver avuto una vita agiata grazie ai sacrifici paterni, ma avrebbe preferito scoprire un minimo di sostanza oltre tutta quell’apparenza e dubitava che sarebbe riuscita a trovare qualcun altro come lei con cui condividere i propri pensieri. Nessuno sulla Mauretania badava a lei, o ai suoi interi pomeriggi passati a guardare l’oceano – aspettandosi di scorgere il profilo della costa americana in lontananza -o alle mattinate spese a leggere e rileggere i libri di Hardy, Stevenson, Kipling. Erano tutti così presi a viversi la loro traversata discutendo dell’ultimo giacimento petrolifero o delle insurrezioni nelle colonie, da non rendersi conto di star facendo, durante un viaggio che Maryanne riteneva a dir poco spettacolare, le stesse cose che avrebbero potuto fare seduti nei loro terrazzi nello Yorkshire.
Poi, come se avesse udito il suo richiamo, arrivò lei, o forse c’era sempre stata, e all’improvviso tornò ad avere un nome, un volto, un’identità ben definita, una voce che pronunciava parole che sarebbe valsa la pena di ascoltare. Semplicemente, tornò a farla respirare e a farle credere che ci fossero altre emozioni nella vita da scoprire, ben più intense e colorate di un incontro pomeridiano con il circolo del Guanto Bianco.
Maryanne non conosceva ancora il suo nome, ma avrebbe imparato presto ad intercettare gli sguardi di quella donna, a riconoscerne le espressioni sul volto e il suono dei tacchi sul ponte, a seguirne i gesti, a copiarne i modi, a sorridere alle sue battute taglienti e crude pensate appositamente per scandalizzare le signore dell’alta società. E i suoi occhi, di un blu intenso come il mare che si trovavano spesso a contemplare, riuscirono a metterla in soggezione fin dal primo istante.
La terza sera, dopo essersi lasciati Liverpool alle spalle, l’orchestra della Mauretania decise di allietare i propri commensali suonando sinfonie e valzer. Seguendo le indicazioni del direttore si mossero i flautisti, i violinisti e il pianista, gli ottoni, l’arpa e la grancassa. Nella sala l’atmosfera si fece improvvisamente più allegra e cordiale e quando i camerieri servirono agli ospiti i primi antipasti, l’appetito era stato stuzzicato a sufficienza.
«La signora Thompson vorrebbe che tu conoscessi sua figlia, Robert» disse Cathrine al figlio, facendo segno al cameriere di riempire di vino il calice del marito «Sarebbe un ottimo partito».
«Lo sarebbe senz’altro, madre» ribattè pacatamente il ragazzo, pulendosi la bocca dalle briciole «Se aspirassi a diventare un lustratore di scarpe».
«Il padre è maresciallo della marina, caro».
«Congedato» precisò Robert.
«Ma con onore».
«Solo i soldi devono avergli consentito di aver salvo il nome, se non la carriera. Si dice fosse in combutta con i russi».
Maryanne tirò un profondo sospiro, le mani posate sul tovagliolo che si era poggiata in grembo. «Sono noiosi questi discorsi, Robert, oltre che privi di qualsiasi discrezione».
«Ma sono necessari» la riprese lui, trattandola come una bambina e allungando la mano per darle un buffetto sulla guancia «Ma se proprio ci tieni a conoscere la signorina Thompson perché non ti presenti tu al mio posto?». Abbozzò un sorriso che divenne subito risata: «Potrebbe anche piacerti un suo corteggiamento, chi lo sa!».
«Robert!» lo riprese immediatamente la madre, guardando a destra e a sinistra per accertarsi che nessuno avesse udito quella battuta troppo sconveniente.
Ermann assestò una sonora pacca sulla spalla del giovane «Che Dio ce ne scampi» rise con lui «Acconsentirei piuttosto ad un matrimonio con un americano!».
Maryanne alzò gli occhi al cielo, sperando che quella serata si concludesse il più in fretta possibile. «Che cosa vi avranno mai fatto gli americani?» chiese sovrappensiero, senza prestare troppa attenzione alla risposta.
Quando in tavola venne servito il secondo piatto l’orchestra aveva completato la sua esibizione – secondo alcuni senza infamia e senza lode, il commento peggiore per un artista – ed il maestro si preparava al suo gran finale. Nella sala il chiacchiericcio si era fatto agitato, complici il buon vino, la politica e le signore, ma appena un suono lungo, vibrato ed energico, giunse alle orecchie dei presenti catturando la loro attenzione, le voci scemarono, lasciando il posto ad un silenzio trepidante di attesa. Anche Robert ed Ermann smisero di discutere delle banche d’affari tedesche e Maryanne alzò insieme a loro lo sguardo verso i musicisti. Solo una donna si apprestava a suonare un assolo, guidata dalla bacchetta del direttore d’orchestra - a cui tuttavia non prestava particolare attenzione. Un lungo vestito blu le avvolgeva morbidamente il corpo e lo strascico si posava come un’onda sulle assi del pavimento. Tra le gambe teneva uno strumento molto ingombrante, quasi più grande di lei, sicuramente più pesante. Pizzicò le corde del suo violoncello con le dita sottili e curate, nessuna imperfezione sulla pelle. L’espressione era talmente concentrata da far credere a Maryanne che quella ragazza si fosse addirittura scordata di star suonando dinnanzi ad un centinaio di persone e fra le più esigenti del paese.
Mosse l’archetto lentamente e le note uscirono dal suo strumento, diventando concrete nelle orecchie degli ascoltatori che, come incantati, si erano voltati ad osservarla.
Era un valzer incisivo, tecnico, una musica piena di intenzione, agitata e passionale, decisa, come sicura e decisa sembrava lei: il viso teso, la bocca serrata, il collo rigido, le palpebre abbassate per potersi concentrare esclusivamente sul suono del violoncello. Un ciuffo di capelli neri sfuggì alla sua stretta ed elaborata acconciatura, ricadendole sulle spalle quando le note si fecero più concitate.
Cathrine si lasciò scappare un cenno di assenso, un grande gesto per una persona impostata come lei. Maryanne, invece, la guardò estasiata, gli occhi spalancati, le emozioni sospese fino alla fine dell’esibizione.
La musicista mosse ancora l’archetto sulle corde e aprì gli occhi sulla sala, le iridi che indagavano tutti i commensali.
Una stretta colse Maryanne alla bocca dello stomaco quando il viso della donna si fermò su di lei per un secondo infinito.
Fu un cambiamento quasi impercettibile: le sopracciglia si corrucciarono, le labbra si schiusero, sul suo volto si susseguirono velocemente stupore, dubbio, incertezza, curiosità e la musica improvvisamente si arrestò, lasciando la melodia incompiuta, tranciandola a metà senza preoccuparsi del maestro che continuava a muovere la sua bacchetta.
Le note svanirono nel nulla, le corde smisero di vibrare, l’archetto quasi non le scivolò dalle dita e in quel momento rimasero solo loro due. Solo Maryanne e quella sconosciuta che la fissava come nessuno aveva mai fatto prima di allora.
«Oh…che peccato» sussurrò Cathrine, contrariata da quella dimenticanza, e i presenti applaudirono, battendo le mani con poca convinzione per quel finale incompiuto, sancendo di fatto la fine della sua esibizione. La donna si prese i suoi applausi senza gioirne, indossando anzi un’espressione neutra e impenetrabile.
Per quella sera Maryanne non incrociò più quegli occhi blu, ma avrebbe dovuto capirlo che qualcosa era già irrimediabilmente cambiato.
«Scusate…». Fu questa la prima parola che le rivolse Maryanne, ferma sulla prua della Mauretania, la notte successiva a quell’incontro così particolare che aveva però lasciato nel suo animo un certo disagio.
Le luci che provenivano dall’immenso salone e dalle cabine nei piani soprastanti illuminavano a sufficienza il ponte, ma tutto intorno a loro era nero, sia l’oceano che il cielo promettevano burrasca. L’aveva vista seduta lì, su uno sgabello arrangiato, intenta a suonare una melodia nuova, solo il brusio lontano degli ospiti ad accompagnarla. La donna aveva continuato a suonare, anche se era evidente che si fosse accorta della sua presenza, nonostante Maryanne avesse finto di trovarsi lì per pura coincidenza, passando le dita sulla ringhiera metallica, avvicinandosi a piccoli passi, quasi di soppiatto.
«Scusate…» le si era affiancata titubante quando la donna aveva smesso di suonare, coprendosi le spalle con il foulard. «Forse vi sembrerà una domanda sciocca, ma ci siamo già incontrate?».
L’altra incatenò gli occhi ai suoi, due pozze blu nelle quali chiunque si sarebbe potuto perdere facilmente. Per un momento sembrò pronta a darle una risposta seria, poi il suo sguardo si fece malizioso, la bocca sottile si stese in un sorriso sardonico. «Magari nei vostri sogni».
Maryanne, presa in contropiede, si sentì improvvisamente avvampare. «Siete insolente» constatò senza riuscire a reggerne lo sguardo, battendo nervosamente il piede a terra, ma quando si rese conto del rumore che faceva il suo tacco – un suono quasi assordante in mezzo a tutto quel silenzio – si costrinse alla rigidità.
«E voi facile da scandalizzare» ribattè, sondando la sua espressione da sotto le lunghe ciglia.
«É quello che avviene quando si ascoltano parole inopportune».
«Se non è tutta questa gente dabbene ad importunarvi, non lo saranno di certo le mie parole».
Maryanne deglutì per togliersi il nodo che sentiva stringerle la gola. «Voi non siete forse una ragazza dabbene?».
«Vi sembra così?». Alzò lo sguardo fieramente, con la chiara intenzione di metterla a disagio, perché nessuna risposta a quella domanda sarebbe stata conveniente: un diniego avrebbe potuto offenderla, ma dato il tono che aveva utilizzato neanche darle ragione sembrava la scelta più saggia.
«Suppongo di sì» rispose dubbiosa.
La donna si scostò i capelli neri dal collo. Si passò la lingua sulle labbra e disse: «Un vero peccato…».
«Cosa?».
«Mi sembravate più attenta» sollevò un sopracciglio «Forse dovrei lasciarmi guardare ancora un po’».
«Io non vi stavo guardando!» si mise subito sulla difensiva Maryanne, spalancando gli occhi.
«Ah, no?».
«No».
«Perché vergognarsene? Non avete fatto nulla di male».
«Ma io, io…». Si arrestò. Prese un profondo respiro. «Io posso assicurarvi che state fraintendendo».
«Come volete» alzò le spalle, tornando a concentrarsi sul suo strumento, ma prima che potesse posare nuovamente l’archetto sulle corde Maryanne la incalzò.
«Voi mi avete fissata».
«Se vi siete accorta che vi stavo guardando allora significa che i vostri occhi erano già su di me, non credete?».
Lei provò a ribattere. Aprì la bocca, ma non riuscendo a trovare nessuna obiezione e sentendosi tremendamente stupida, la richiuse. Le diede le spalle, pronta a rientrare.
«Aspettate» la fermò l’altra «Vorreste ascoltare una melodia? Avere tutto questo pubblico può far piacere» disse, scrutando il cielo «Ma le stelle non possono parlare. E di certo non sono buffe quanto voi» rise.
«Io non credo vi abbiano insegnato la buona educazione» ribattè risoluta Maryanne, il mento alto proprio come le aveva insegnato sua madre, eppure qualcosa la spinse a rimanere. Si passò le mani sulla gonna e sollevando appena l’orlo fece per inginocchiarsi.
«Fermatevi…» la scura le porse la mano e per un attimo sembrò anche lei imbarazzata, non sapendo come chiamarla. «Non serve vi sediate per terra, posso cedervi il posto».
Maryanne non la ascoltò e si accucciò sul legno freddo, mantenendo una discreta e decorosa distanza da quella sconosciuta. «Io ed il pavimento siamo ottimi conoscenti» precisò, pensando a tutti i pomeriggi passati sul tappeto a leggere libri «Essere una ragazza dabbene non significa certo sedersi esclusivamente su poltrone di velluto».
«E cosa significa essere una ragazza dabbene, allora?».
Maryanne ci pensò su. Era convinta di conoscere la risposta, ma in quel momento, con quegli occhi puntati addosso, non le sovvenì nulla. Quando la nera le sorrise, mostrandole i denti bianchi, lei chiarì altezzosamente: «Forse significa avere l’accortezza di non far attendere una spettatrice». Con la mano indicò il violoncello, invitandola ad iniziare.
«Non ho mai detto di essere una ragazza perbene, ricordate?».
Quando suonò per lei, la musica era più dolce e sofferta del valzer della sera precedente, e non aveva nulla di gioioso o incalzante. Prima un La, poi un Sol, un Mi e di nuovo un Sol. Le note erano chiare ma malinconiche, basse e vibrate. Sembrava volessero descrivere una mancanza, un vuoto incolmabile, un’inquietudine senza fine. Maryanne si strinse nelle spalle, incrociò le mani e continuò ad ascoltare con attenzione. Si sentiva come trasportata in un tempo lontano, troppo lontano, e addosso le cadde la sensazione di essersi dimenticata qualcosa di importante, di aver perso qualcosa di unico. Già, ma che cosa? Cos’era ad un tratto tutta quella sofferenza che le stringeva il cuore, quel freddo che le gelava le ossa? Cos’è che andava cercando da tutto quel tempo?
Si sentì esposta quando la donna la guardò di sottecchi, forse per sondarne le emozioni. Mosse l’archetto, pizzicò la seconda e la terza corda. Una ruga nuova intorno alla bocca tradì un certo coinvolgimento.
La sinfonia scemò lentamente, nota dopo nota, fino a quando rimasero solo il rumore del mare e le voci attutite dei passeggeri a circondarle.
Fu la musicista a rompere il silenzio per prima, riponendo lo strumento nella sua custodia. «Perché state piangendo?» le chiese in un sussurro, neanche l’ombra di ironia.
«Io?» domandò confusa Maryanne, sfiorandosi una guancia con le dita e quando la sentì bagnata riuscì solo a bisbigliare «Oh…io non…non me ne ero resa conto». Imbarazzata, si alzò da terra il più velocemente possibile, non senza qualche impaccio.
«Tenete» le disse la sconosciuta, mettendosi in piedi a sua volta e allungandole un fazzoletto pulito.
«Oh, no, davvero, non ce n’è bisogno».
«Insisto» continuò, ma temendo di essere stata troppo burbera aggiunse: «Per favore».
Maryanne guardò prima la donna, poi il fazzoletto, indecisa sul da farsi. Infine, tirando su col naso – e se solo lo avesse saputo la sua governante quante ramanzine avrebbe dovuto sopportare – la accontentò. Il tessuto era morbido e profumato, ricamato ai bordi con il suo nome.
«Ellen…» sussurrò leggendolo, prima di tamponarsi la guancia.
«Già».
«È un nome particolare. Non siete inglese?».
«Americana» guardò il mare e per una frazione di secondo il suo viso si rasserenò «Sto tornando a casa». Si dondolò sui piedi, il vento che si alzava e le prime gocce di pioggia che iniziavano a cadere.
Maryanne ne osservò il profilo regolare, la bocca sottile, l’occhio attento. Quell’immagine le sembrò familiare al punto che il suo cuore saltò un battito e dovette scuotere con veemenza la testa per scrollarsi di dosso quel déjà-vu
«Io non conosco ancora il vostro nome» si voltò Ellen «Sarebbe scortese continuare ad ignorarlo, non siete d’accordo con me?».
«Mhm? Ignorare cosa?» boccheggiò Maryanne.
«Il vostro nome».
«Il nome? Oh, sì, certo, il nome…».
«Non vi distraete in questo modo. Potrei male interpretare».
«Si vede che è una cosa che vi riesce bene» ribattè «E ora, se volete scusarmi…» allungò una mano per stringere quella dell’altra «É stato un piacere Ellen, un vero piacere, ma non credo si ripeterà l’occasione, pertanto vi auguro un buon viaggio e un buon ritorno a casa».
Si allontanò a passi pesanti, poi, ricordandosi di stringere ancora tra le mani il suo fazzoletto, si arrestò. Tornò indietro, rossa in viso.
Ellen la guardò di sbieco «Quasi pensavo voleste dormirci insieme stanotte…» la prese in giro.
Lei finse di non aver colto l’allusione e si limitò a porgerle la pezzuola. Si fermò. Ci ripensò. Ritirò veloce la mano. «Ve l’ho sporcato di cipria, sono mortificata» battè i tacchi «Lo farò lavare e ve lo restituirò il prima possibile».
«Non occorre. Noi poveri americani non ci scandalizziamo per così poco» le fece l’occhiolino.
«Insisto».
«Come volete» alzò le spalle. I suoi occhi si riempirono di strafottenza «Siete certa che non sia una scusa per assicurarvi di potermi rivedere?».

 
​≈​ ≈​ 
 
Ferma sul pianerottolo del secondo piano, la pancia premuta contro la ringhiera delle scale, Ellen si sporse quanto più possibile per osservare il via vai di camerieri e domestiche che in tutta fretta salivano e scendevano gli scalini trasportando cloches di vetro, biancheria pulita e argenteria. Storse il naso pensando a quanto fossero simili a dei topi che abbandonano la nave che affonda.
Dietro di lei il sole tramontava placido, quasi annoiato, e dalle vetrate filtrava una luce calda che colorava l’ambiente di un tenue rosso.
La notte precedente Ellen non era riuscita a prendere sonno, nonostante la stanchezza che aveva sentito gravarle sulle spalle e sulle palpebre. Quando era tornata nella sua cabina, appena dopo la mezzanotte, si era seduta al suo scrittoio e aveva composto, composto, composto. Nota dopo nota, accordo dopo accordo, aveva continuato quella melodia che ormai da diversi anni tentava di completare. Era la più riuscita del suo repertorio, di certo la più complicata, e anche la sola che davvero sentiva sua, l’unica che parlava di lei come nemmeno Ellen era riuscita a fare a parole. Eppure, anche quando la creatività la pervadeva, quando improvvisamente le balenava nella mente un nuovo passaggio, qualcosa le sfuggiva. Era estremamente mortificante.
E poi quella ragazza. Quella ragazza ancora senza nome, come senza nome era la sua sinfonia.
Ne aveva incrociato gli occhi per caso e quella coincidenza era bastata per perdere il ritmo, saltare il re diesis e sbagliare uno spartito che sarebbe stata in grado di recitare a memoria. E nonostante la pessima figura, il rimprovero del direttore d’orchestra e le burle dei colleghi, non riusciva proprio ad essere arrabbiata. Era certa – lo era? – di non averla mai incontrata prima, e senza voler malignare si poteva benissimo dire che fosse una persona abbastanza mediocre: capelli chiari, pelle chiara, abiti chiari. Poco più di una bambola mai usata.
E allora perché si era fermata? Cos’era scattato nella sua mente? Perché la pelle d’oca, il tremito, l’esigenza di volerla guardare e, allo stesso tempo, di voler sfuggire alla sua vista?
Poi aveva pianto, ma non era solo quello, non erano solo le lacrime che aveva visto uscirle dagli occhi, ma il fatto che si fosse commossa per lei, che avesse pianto per la sua canzone senza nemmeno accorgersene, quasi tralasciando il decoro –che sicuramente doveva tenere in gran considerazione, visto il suo portamento. Una piccola, chiara, sensibile bambolina dell’alta società che si sarebbe scandalizzata per un capello fuori posto.
Giocò con l’anello d’oro che portava all’anulare, l’ultimo regalo di sua madre, seconda violinista del Teatro Bol’jov, prima che un brutto male gliela portasse via. Alzò le braccia e si stiracchiò la schiena, incurante del fatto che gli inservienti potessero reputarla poco aggraziata. Evidentemente, pensò divertita, le donne d’alto borgo preferivano rimanere indolenzite.
Un colpo di tosse alle sue spalle non fu sufficiente a richiamarne l’attenzione, ma quando si sentì chiamare per nome non ebbe nessun dubbio su chi fosse a cercarla.
«Ellen…».
«Eccovi, dunque». La guardò di sghembo, accennando un sorriso.
Maryanne si irrigidì all’istante, contrariata da quel tono divertito. Serrò la mascella e si sforzò di sembrare garbata. «Vi ho riportato il vostro fazzoletto».
«Sì, lo vedo» sorrise, squadrandola da capo a piedi e compiacendosi nel vederla arrossire. Era tutto fin troppo facile, ma per una volta Ellen non ne rimase annoiata. «Quello che non so, a dire il vero, è il vostro nome. Mi sembra una mancanza alquanto irrispettosa da parte vostra, siete d’accordo con me? Tanto più che è la seconda volta che ve lo domando».
La bionda si scurì in viso, ma non fu sufficiente per renderla minacciosa. «Maryanne» disse velocemente, allungando una mano per invitare l’altra a riprendersi ciò che era suo.
«Maryanne, eh?» sussurrò Ellen, saggiandone ogni lettera. «Sì, vi si addice» schioccò la lingua sul palato «È molto dolce».
Colta alla sprovvista, l’altra non rispose.
«Per fortuna che il vostro nome non arrossisce quanto voi» ne approfittò Ellen, riprendendosi il suo fazzoletto. Era più morbido e più bianco e portava con sé un odore nuovo.
«In America non insegnano la moderazione?».
«No. In America insegnano a dire quello che si pensa».
«Avete una mente davvero molto rumorosa, allora».
«E’ lo scotto da pagare per un’intelligenza brillante, Mary».
«Maryanne. Il mio nome è Maryanne».
«Per me sarete solo Mary».
«Non voglio essere solo Mary» ribattè stizzita.
«Ah, no? E che cosa vorreste essere?».
«Rispettata, signorina Ellen. Rispettata».
«Il rispetto bisogna guadagnarselo».
«No, il rispetto va preteso».
«Preteso?» arcuò un sopracciglio. «Vi svelerò un segreto, Mary» le disse avvicinandosi al suo viso e quando si trovarono guancia contro guancia le sussurrò all’orecchio: «Da me non potete pretendere nulla. E ora, col vostro permesso…» imitò una finta riverenza e la sorpassò, urtandole la spalla.
«Aspettate» la fermò perentoria l’altra, negli occhi tutta l’intenzione di farsi valere. Eppure, quando Ellen la guardò, vide piano piano scivolarle di dosso tutta la convinzione e l’arrabbiatura, come se in quel momento non avesse più molta voglia di confrontarsi con il suo caratteraccio. La trovò carina, a suo modo.
Maryanne intrecciò le mani, premendosi i polpastrelli sulle nocche come a voler trovare la spinta.
«Dovete dirmi qualcosa?».
«Ecco, io…».
«Abbiate coraggio, Mary. Non mordo» le sorrise, recuperando la sua inesauribile leggerezza «A meno che la cosa non vi dispiaccia, s’intende».
L’altra non colse l’allusione, o forse la trovò così fuori luogo da non volersene preoccupare, e rispose: «Siete proprio sicura che non ci siamo già incontrate prima?».
Ellen serrò la mascella, ma si costrinse a non mostrare alcun tipo di sorpresa. Possibile che anche quella ragazza avesse avuto la sua stessa sensazione?
«Io» continuò la bionda «Ho l’impressione di conoscervi. Sembra folle, lo so, ma…».
Lei la interruppe. «No. Io non penso affatto sia folle» soppesò le sue parole e il tono si fece austero «Credo solo che per alcune persone funzioni così».
«Ma non è razionale» scosse la testa.
«Dovrebbe esserlo?».
«Si» disse piena di tutta la semplicità di questo mondo.
«In Inghilterra non insegnano ad usare la fantasia?».
Maryanne provò a trattenere un sorriso, portandosi una mano alla bocca per non sembrare maleducata. «Proprio no» confessò divertita «Non da dove vengo io, quantomeno».
Ellen non poteva ancora immaginarlo, ma non sarebbero state sufficienti due vita per dimenticarsi quella risata.
Si portò le mani alla vita e Mary la trovò buffa nella posa da istitutrice bontempona. «Che ne direste se facessimo due passi?» la invitò, porgendole la mano, ma la ragazza non la afferrò.
«Mio fratello mi aspetta».
«Coraggio» insistette «Le donne devono farsi attendere, non lo sapete?». Poi, quando la vide ancora reticente, aggiunse scherzosamente: «Giuro di non avere buone intenzioni».
Quel giorno, e per quelli a venire, Robert si ritrovò ad aspettare la sorella inutilmente.
 
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«Non me l’aspettavo davvero così spaziosa» ammise Ellen, guardandosi intorno. Il disimpegno delle cabine di prima classe era stato ricoperto da una boiserie in legno di noce e il soffitto a cassettoni, in verità non molto alto, donava alla camera un’eleganza raffinata e calda, ma allo stesso tempo severa. Ovunque posasse lo sguardo, Ellen riusciva a scorgere solo mobili e vetrine, vasi e fiori freschi, servizi di porcellana e tempere appese al muro. Con la coda dell’occhio intravide, dalla porta lasciata socchiusa, la camera da letto: sul tappeto verde muschio giacevano quattro o cinque libri, alcuni aperti, altri impilati.
«Mi avevate detto che amavate leggere» disse a Maryanne «Ma non avevo capito fino a questo punto».
La ragazza, imbarazzata dal disordine, raccolse in fretta i volumi da terra, disponendoli alla bell’e meglio sulla cassapanca. «Ecco, io…» iniziò a dire con aria colpevole «Ho molto tempo libero e poche persone con cui passarlo».
Ellen incrociò le braccia al petto «Sembra una vita solitaria, la vostra».
Mary si strinse nelle spalle, abbassando il viso per fissare la punta degli stivaletti. «Sono stata fortunata» sussurrò poco convinta e senza la presunzione di poter convincere Ellen, che aveva ormai imparato a leggerla troppo bene «Ho i miei libri. Le storie mi tengono compagnia». Tossì un paio di volte e, dandole le spalle, si sforzò di cambiare discorso. «Questa è la francesina di cui vi parlavo» si avvicinò allo scrittorio per aprirlo, girando la chiave nella serratura «Come vedete, non ho avuto modo di usarla quanto avrei voluto. E qui...» si spostò vicino al letto «C’è abbastanza spazio per il vostro violoncello e per il leggio».
«A quanto pare…».
«Se cercate un posto tranquillo per esercitarvi» continuò la bionda, sistemandosi il fiocco dell’abito «Credo che questo potrebbe fare a caso nostro. Vostro!» si corresse in fretta, mettendo le mani avanti.
«Mi sembrate agitata» la stuzzicò Ellen.
«Perché dovrei?» si difese.
«Non lo so, perché dovreste?».
Maryanne eluse la domanda. «Non si sentono rumori e il corridoio di giorno è praticamente deserto. Anche di notte, in verità. Insomma, è sempre molto silenzioso. E gli inservienti sono discreti, si premurano di bussare prima di entrare, quindi non vi infastidiranno e quando non sarete impegnata con l’orchestra penso potreste venire qui. Io suppongo. Se volete. È…» prese un profondo respiro «…una stanza troppo grande per una persona sola». La guardò da sotto le ciglia, aspettando trepidante un cenno di assenso.
La musicista storse il naso. «Di norma non mi esercito davanti a terzi. Sapere che qualcuno è in ascolto uccide la mia ispirazione e questo mi distoglie dal pezzo».
L’altra si rigirò la chiave di bronzo fra le dita. Si sforzò di sembrare indifferente «Allora fate come se non vi avessi detto nulla» sussurrò, avvicinandosi alla porta, la schiena incurvata.
«Mary» la chiamò Ellen prima di vederla superare la soglia. Le labbra sottili si incurvarono, scoprendo gli incisivi pronunciati. «Credo che per voi farò un’eccezione. Non mi lascerei mai scappare l’occasione di burlarmi del vostro impaccio quando mi avete vicina. E non fate quella faccia» la guardò di sbieco, senza più remore «Le signorine perbene dovrebbero celare meglio l’entusiasmo».
«Io non sono entusiasta» mentì, lanciandole un’occhiataccia «Inoltre “Non ho mai detto di essere una ragazza perbene”» la imitò, ingrossando la voce.
«Non so se siate peggiore come attrice o come mimo. Vediamo…» le girò intorno, squadrandola «Vi piace atteggiarvi da prima donna, eppure non sembrate soddisfatta della vita che conducete. Vi mostrate garbata, prudente, educata, altolocata, ma in realtà vi diverte trasgredire le regole».
«E questo chi ve lo avrebbe detto?».
«Nessuno. Ma non vi ho mai vista ridere così tanto come quando abbiamo cambiato rotta al timone nella sala di comando. O come quando abbiamo importunato la signora Petill scambiandole il vino con l’aceto».
«O quando avete vinto contro Robert nella sala da poker» sorrise, portandosi una mano alla bocca.
«Vi curate molto delle apparenze, forse persino troppo, eppure state con me. Inizio a chiedermi se la maschera che avete indossato con così tanta cura non si stia sfaldando».
«E questo che cosa vorrebbe dire?».
«Lo sapete benissimo cosa vuol dire Mary, non fingete con me. Si mormora su questa nave, si mormora di continuo. E i pettegolezzi corrono più veloci dei transatlantici».
«Non riesco a seguirvi» confessò, incrociando le braccia al petto.
«Davvero? Allora lasciate che vi schiarisca le idee». Le scivolò alle spalle, sul volto nemmeno l’accenno di un sorriso, priva di tutta quella malizia che aveva sempre contraddistinto i suoi atteggiamenti.
«Che cosa volet…?» iniziò Mary ma il sonoro «Sssh!» che Ellen le soffiò dentro l’orecchio la zittì, seppur in malo modo.
Un nodo la colse alla bocca dello stomaco quando la ragazza le sfiorò il collo con le dita lunghe e si stupì nel sentirle calde sulla pelle nonostante il freddo che percepiva. Ellen le circondò la vita con un braccio, stringendola a sé, premendo il petto sulla sua schiena, i fianchi contro i suoi, e anche se Mary provò ad allentare la stretta, forzandole debolmente il polso, non la allontanò. Si sentiva improvvisamente accaldata, impacciata, confusa, annebbiata, sensazioni che aveva già avuto il dispiacere di provare in compagnia di quella donna ma che, in qualche modo, era sempre riuscita a nascondere. Eppure in quel momento, in mezzo a tutto quel contatto, lontana da sguardi indiscreti, con il profumo inconfondibile di Ellen che la inebriava, si sentiva sopraffatta dalla marea che le stava montando dentro. Contro ogni aspettativa, al di là di ogni buon senso, la voleva.
Ellen le scostò i capelli dalle spalle per baciarle il collo e quando Mary rabbrividì sotto il suo tocco non si curò di trattenere un sorriso di compiacimento. Un troppo debole «No» fu l’unica resistenza che la bionda le oppose, decisamente insufficiente per indurla a fermarsi. Le baciò la tempia e la guancia, seguì il contorno del suo viso alla ricerca della bocca, senza però soffermarsi sulle sue labbra. Si compiacque del respiro affannoso della ragazza, dei brividi, dell’imbarazzo che le leggeva in viso e del desiderio che invece le suggerivano i suoi occhi. Le posò una mano sulla gola, scese sulla clavicola, lungo il seno, le slacciò il fiocco che ne chiudeva il corpetto e subito Mary si riscosse.
«No, no, aspetta!». La realtà la colpì come un sonoro schiaffo. Si divincolò e a malincuore sgusciò via da quella calda stretta. «Che cosa stiamo facendo?».
«Non lo so» rispose duramente Ellen, ergendosi in tutta la sua altezza «Tu a quale gioco stai giocando?».
«Giocando?» ripetè confusa «Ma io non sto…».
«Lo sai quello che si dice su di me Mary, lo sai quello che sono. Non abbiamo esattamente gli stessi gusti in fatto di uomini, mi sembra più che evidente» la guardò di sbieco «anche se, se così fosse, mi risparmierei davvero molte, molte fatiche. Eppure ti sei avvicinata a me, perché?».
La ragazza boccheggiò alla ricerca di una risposta sensata. «Non lo so» riuscì solo a dire.
«Perché mi hai portata nella tua camera?».
«Non lo so».
«E allora che cosa vuoi?».
«Non lo so».
«C’è qualcosa che sai?!».
«C’è qualcosa che vorresti sentirti dire?».
«Che ne diresti di iniziare con la verità?».
«Sono sempre stata sincera con te» iniziò ad indispettirsi.
«Allora prova ad esserlo anche adesso».
Maryanne si torturò le mani. «A me non importa quello che dicono su di te» sussurrò e quando vide l’altra aprire la bocca per ribattere la precedette «E non mi chiedere il perché! Non c’è un perché, è così e basta!».
«Risulteresti più credibile se lo dicessi guardandomi» si indurì.
«Mi metti a disagio».
«E’ solo questo quindi: vergona. Ti vergogni di me».
«No, non è quello che ho detto».
«Allora spiegati» le ordinò.
«Non c’è nulla da spiegare!» rispose, infastidita da quel tono così perentorio «C’è da sentire! Tu non…non…».
«Io non-non cosa?».
«Tu non senti nulla per me? Non hai la sensazione che ci sia qualcosa che…Non lo so, che ci tiene unite? Non lo senti così ovvio? È come se mi fossi mancata per tutto questo tempo…Dio, mi sei mancata fino a questo punto» la voce le si ruppe e prima che altre stupide lacrime la facessero sembrare ancora più patetica, le diede le spalle, asciugandosi in fretta le guance con un fazzoletto. 
Dietro di lei Ellen tirò un profondo sospiro e quando parlò la voce si era fatta più dolce e rassicurante. «Perché stai piangendo, ora? Non mi piace quando piangi».
«E’ perché non ha alcun senso, ti conosco appena! Ma con te sembra sempre così diverso. È come se fosse…».
«Necessario?».
Annuì. «E giusto. Anche se in realtà è tutto così sbagliato, così tremendamente sbagliato».
«Perché sono una donna o perché sono americana?».
«Oh! Sarebbe una combinazione fatale per mio padre!» si sforzò di sorridere «Anche tu provi quello che provo io?» le domandò poi, voltando appena il viso per poterne sondare l’espressione, ma Ellen era indecifrabile.
Quando non ottenne alcuna risposta scosse con veemenza la testa «Dio, ho frainteso tutto» si passò una mano sugli occhi «Era tutto nella mia testa…quanto sono stupida!».
La scura alzò un sopracciglio, confusa «Ma io non ho ancora detto nulla».
«L’assenza di risposta è già una risposta».
«Non per me, vi stavo solo ascoltando».
«Siete una donna, non riuscite a fare più cose contemporaneamente?».
«Oh, certo…» bisbigliò maliziosa «Ne volete una dimostrazione forse?».
«Siete pessima!».
«E voi tremendamente ansiosa. Mary…» la chiamò, avvicinandosi a lei lentamente «Quello che accadrà tra di noi su questa nave rimarrà su questa nave».
«Potrebbe andare diversamente?» domandò cinica, conscia di un futuro già segnato con qualche ragazzo dell’alta borghesia «So solo che adesso sono qui, con te, in mezzo all’oceano e non ho idea di quanti nodi ci separino dal fondale, ma non vorrei uscire da questa cabina per il resto del viaggio e…» si zittì di colpo «Non ti basta questo?».
«Oh, Mary, Mary…» le tese una mano, invitandola ad afferrarla, e la avvolse tra le sue braccia «Ma non l’hai ancora capito? A me bastava già dalla prima sera».
Si piegò su di lei, alzandole il mento per catturarne la bocca, ma la bionda la fermò con impaccio.
«Non so come si fa» confessò, rossa fino alla punta delle orecchie.
«Non lo sai?».
«No».
«Sei davvero una bambola. Non si fa. Lo hai detto anche tu: si sente. Questo non c’era scritto nei tuoi libri, dico bene?».
«Ad essere onesta, nei miei libri c’è scritto molto, molto di più. Mai sentito parlare di Anna Karenina?».
«D’accordo, d’accordo piccola stella. Procediamo per gradi, che cosa ne dici?».
Mary si alzò in punta di piedi, vincendo la sua ritrosia, sfiorandole le labbra con le proprie. «Io dico che imparo in fretta».
Ellen scosse la testa con fare divertito, sorridendo contro la sua bocca prima di schiuderla e perdersi in quella dolcezza tanto familiare. Non si era mai davvero sentita a casa fino a quel momento.

 
≈​ ≈​ 
 
Si trascinò dietro il suo piccolo bagaglio e il suo strumento. Mai come in quel momento si era sentita il cuore così affaticato o l’animo così pesante. Ancora quattro, tre, due passi oltre il ponte e avrebbe potuto dire di essere finalmente tornata in patria, dopo tutto quel tempo passato oltreoceano.
La Mauretania aveva attraccato al molo, sul pontile uomini, donne e bambini si sbracciavano, allungavano i colli, aguzzavano la vista, abbracciavano i loro cari. In lontananza, Ellen scorse suo padre, ritto vicino alla finestra della panetteria appena aperta.
Sulla schiena sentiva ancora lo sguardo di Maryanne che, ferma a poppa, la osservava allontanarsi per sempre da lei. Avrebbe continuato a seguirla con gli occhi fino a quando non si fosse persa tra la folla o fino a quando il dolore non fosse diventato così insopportabile da costringerla a fuggire via.
Ellen si diresse lentamente verso suo padre, strisciando i piedi. Non riusciva ad arrestare il pensiero di quello che sarebbe potuto accadere se avesse gettato all’aria i suoi bagagli e avesse corso per tornare sulla Mauretania prima che salpasse. Più si allontanava da Mary, più l’aria sembrava diventarle un macigno nei polmoni.
Si voltò un’infinità di volte verso di lei, scolpendosi ogni suo lineamento nella mente, così come quella notte si era impressa il suo profumo. Sperava sempre di non vederla, sperava sempre che avesse deciso di renderle quel distacco più semplice rientrando in cabina, ma non poteva trattenere il sollievo di vederla ancora lì, per lei.   
La guardò un’ultima volta. Mollò la sua borsa, lasciò cadere a terra la custodia del violoncello e cercando di sovrastare il chiacchiericcio dei presenti la chiamò. «Ho trovato un titolo alla melodia!».
«Come?» urlò di rimando la bionda, sforzandosi di sentire.
«Ho detto» continuò Ellen, portandosi le mani vicino alla bocca per amplificare il suono «Che ho trovato un titolo alla sinfonia!».
«Quale?».
Lei fece spallucce. «Lo vedrai!». Sorrise nel mandarle il suo ultimo saluto.
Appoggiato sullo scrittoio della cabina, uno spartito ricolmo di note portava a lettere chiare e rimarcate il nome “Maryanne” e un biglietto recitava:
 
Buona fortuna, piccola stella. Avrai sempre un posto speciale nel mio cuore.
Con grande, grande affetto,
tua
Ellen

 

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