Oltre il tempo e lo spazio

di sil_c
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


~~Capitolo 1

Era l’alba. Nel deserto, l’alba, aveva un suo fascino, del tutto diverso da qualunque altro luogo.
Ne aveva viste tante di albe, nei suoi viaggi di lavoro, tante da pensare che ormai avrebbe dovuto esserne abituata. Ma qui, nel Sahara, ogni giorno era diverso dal precedente e sarebbe stato diverso da tutti quelli a venire.
Uscì dalla tenda che i berberi, con i quali stava viaggiando, le avevano messo a disposizione. Non ricordava esattamente da quanti giorni era in viaggio in quel mare di sabbia, ma dovevano essere abbastanza da aver permesso al suo fisico di abituarsi alle escursioni termiche della zona.
Era in piedi sulla soglia della tenda e si portò la mano sinistra alla fronte per ripararsi gli occhi, in un gesto che le era diventato familiare, e guardò ad Est, nell’esatta direzione in cui il sole, a breve, avrebbe fatto la sua comparsa. Il cielo iniziò a tingersi di arancione e poi di rosa, mentre i primi raggi irradiavano le dune all’orizzonte. Pian piano il cielo divenne sempre più chiaro, fino a sembrare quasi bianco e la luce solare divenne così intensa da costringerla a distogliere lo sguardo.
Non c’era una nuvola. La giornata si preannunciava calda e soffocante. L’ennesima.
Una bambina di circa 10 anni, avvolta nel suo burnus, la tirò per un braccio e la ricondusse nella tenda dove sua madre aveva preparato il pasto del mattino.
“Jedjiga” invitò la donna nella tenda, facendole segno di entrare e indicandole il piatto col cibo.
I berberi avevano chiamato così questa donna occidentale, trovata nel deserto e viva per miracolo. Jedjiga, fiore, era un nome che le si addiceva. I suoi lunghi capelli biondi erano qualcosa di inconsueto e di eccezionale tra la gente del deserto, così come lo erano i fiori, e col passare dei giorni avevano preso delle sfumature dorate ancora più accentuate grazie al sole.
Il suo incarnato si era fatto più vivo grazie alla vita all’aria aperta. Ma quello che più colpiva chi la guardava, erano i suoi occhi: grandi occhi castani che osservavano ogni cosa con vivo interesse e che avevano la capacità di trasmettere i suoi pensieri a chiunque la guardasse. Era bella. Bella e sola.
Jedjiga non ricordava come fosse finita in questa tribù Tuareg. Sapeva solo che, da quando l’avevano trovata, era passato almeno un mese durante il quale aveva trascorso la prima settimana febbricitante e ferita.
Khennuj e Ghumer, la coppia di sposi che era stata incaricata di occuparsi di lei, e la loro figlia Lila avevano cercato di spiegarle le circostanze del suo ritrovamento, cosa non facile, per altro, anche se Jedjiga parlava il persiano e il turco e alcune parole assomigliavano abbastanza al dialetto berbero della tribù.
Così era riuscita a capire che l’avevano trovata in fin di vita lungo la via Carovaniera Del Sale che collega Timbuctù  con Taoudenni, nel Mali. Le jeep e i mezzi che costituivano la carovana con la quale viaggiava, avevano subito un’imboscata ed erano state fatte saltare. In pochi erano sopravvissuti e, quei pochi, erano stati accolti nella tribù nomade e portati nel più vicino centro di Medici Senza Frontiere (MSF) a Timbuctù.
Ripercorrendo a ritroso la strada, Abu-Mokhammed e la sua gente si erano fermati sul luogo dell’attentato per depredare il convoglio di quello che poteva loro servire. Mentre cercavano merce utile tra i rottami, Lila si era accorta che, sotto una delle jeep, c’era una signora bionda "bella come un fiore”. Ghumer e Khennuj la estrassero dalle lamiere, la medicarono velocemente e la misero delicatamente su uno dei cammelli della carovana.
Abu-Mokhammed decise di portarla con loro poiché tornare indietro per portarla all’accampamento di MSF significava perdere almeno altri due giorni di viaggio. Così l’affidò alla coppia dei suoi imrad, vassalli, che l’avevano trovata perché se ne prendessero cura.
I dottori avevano dato loro medicinali di vario genere, per cui erano in grado di curarla senza dover tornare in città.
La comunicazione fra loro non era tra le cose più semplici. Jedjiga aveva imparato qualche parola berbera ma non abbastanza da poter sostenere una conversazione.
Trascorreva molto tempo da sola, quando la tribù si accampava per la notte, seguita silenziosamente da Lila, che divenne la sua ombra.
Jedjiga non ricordava quasi nulla del proprio passato, a parte alcuni flash di luoghi in cui era stata, che, assieme al fatto che sapeva diverse lingue, le facevano presupporre di aver viaggiato molto.
Quella mattina, dopo aver mangiato il suo bonchiar, una sorta di wafer ricoperto di burro e miele, usci dalla tenda indossando un burnus azzurro e un velo bianco.
Gli uomini della tribù berbera erano tutti molto indaffarati a smontare l’accampamento per riprendere il viaggio il prima possibile.
Erano rimasti fermi per un paio di giorni a causa di una tempesta di sabbia che aveva modificato completamente il paesaggio circostante, spostando le dune con una velocità impressionante.
Jedjiga s’incantò ad osservare come, nel volgere di una mezz’ora, il cielo fosse diventato più chiaro e allo stesso tempo più vivo. Poi, per pochi secondi, fissò il sole e chiuse improvvisamente gli occhi abbagliata.
“Potrei essere cieca ora, adesso. Come lui.” pensò.
Riaprì gli occhi sorpresa. Come lui. Lui, chi?

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


~~Capitolo 2

“Mi hai fatto chiamare, Calder?”
“Sì, entra Joan.” Calder Michaels si alzò dal suo posto e le andò incontro, poi rivolto ai suoi collaboratori disse: “Signori, questa è Joan Campbell, ex capo del DPD e ora dirigente di una Task Force di massima sicurezza.”
Spostò l’unica poltroncina libera, quella accanto al suo posto, e la fece accomodare.
Joan ricordava molto bene quella stanza. Quasi nulla era cambiato: lo stesso tavolo e le stesse sedie, nella stessa identica disposizione. Quante riunioni aveva tenuto lì dentro con tutto il suo staff. Si guardò attorno e sorrise a due ragazzi che ben conosceva poiché avevano fatto parte del DPD già da quando lo dirigeva lei, Eric Barber e Andrew Hollman. Mancavano Anderson e Walker, ovviamente, poiché la CIA non era più parte della loro vita ma, senza di loro, quella stanza sembrava più vuota, quasi incompleta.
“Joan, stiamo analizzando alcune trasmissioni dati in codice, intercettate dal satellite nelle ultime tre settimane da una zona del Mali prossima a Timbuctù.” la voce di Calder la riportò al presente. “Dal 2013 ad oggi, come sai, benché i notiziari non ne parlino, la guerriglia continua. La trasmissione dati che ha colpito il nostro interesse è quella relativa ad un’imboscata sulla Via Carovaniera del Sale, tra Timbuctù e le miniere di Taoudenni. Pare che abbiano fatto saltare un intero convoglio di 6 mezzi pesanti e 3 jeep. Da quello che possiamo capire, sembra che siano coinvolti anche degli americani.”
Mentre Calder parlava, il viso di Joan si fece più serio e cupo. “Superstiti?” chiese.
“Non ne siamo certi.” rispose Calder. Poi si voltò verso uno dei suoi collaboratori “Barber?” invitò
“Sì capo.” rispose Eric, estraendo dalla sua cartelletta una marea di fogli con codici decifrati
“Dunque… dalle intercettazioni che siamo riusciti a decodificare, sappiamo che una tribù Tuareg ha tratto in salvo alcune persone facenti parte della carovana portandole poi al più vicino centro di MSF di Timbuctù.”
“Sappiamo chi sono, Eric?”
“No Joan, mi dispiace. Sappiamo solo che dei sei salvati quattro sono deceduti negli ospedali da campo in seguito alle ferite riportate e gli altri due sono ancora in coma”
“Dai rottami ritrovati da una task forse di nostri alleati” intervenne un giovane operatore tecnico “siamo riusciti ad identificare il convoglio.”
Joan lo guardò con fare interrogativo
“Ecco…” continuò il ragazzo “Sembra che fosse un convoglio umanitario diretto a Taoudenni”
“Sembra?” Joan guardò intensamente prima il ragazzo, poi Barber e infine Calder, alzando un sopracciglio con fare inquisitorio “Sembra?” ripetè.
“IL convoglio era scortato dalla McQuaid Security.” intervenne Hollman.
A Joan si gelò il sangue nelle vene. Questo poteva significare due sole cose: in primo luogo che il “convoglio umanitario” poteva benissimo essere una copertura per un dislocamento di milizie in zone di guerriglia. In secondo luogo, se davvero si trattava di una copertura, Ryan McQuaid in persona avrebbe scortato la carovana. E se c’era Ryan…
“A… Annie?” balbettò Joan
“Non sappiamo nulla Joan.” rispose Calder “Nelle intercettazioni che abbiamo decifrato, non si fa cenno a nessuna donna, né morta, né sopravvissuta.” Calder fissò Joan. “Mi spiace Joan, non sappiamo altro.”
“Bene.” rispose la donna cercando di mascherare il tremore della voce “ Assumo io con la mia Task Force l’incarico di indagare.”
“Sapevo che l’avresti detto, Joan. È per questo che sei qui. Di qualunque cosa tu possa avere bisogno, non hai che da chiedere. Io e l’intero DPD siamo a tua completa disposizione.”
“Grazie Calder. Lo apprezzo molto.” Poi si voltò verso Barber “Eric, da questo preciso istante appartieni a me e alla mio reparto. Raccogli tutto quello che può servirti e seguimi nel mio ufficio. Ti aspetto agli ascensori: hai 5 minuti.”
Barber annuì. In cuor suo era felice che Joan lo ritenesse necessario per questa missione. E poi si trattava di Annie.
I due si alzarono e uscirono. Eric si fermò nel suo ufficio, quello che una volta era stato di Auggie e che ora condivideva con Andrew, impacchettò velocemente tutte le sue cose e raggiunse Joan.
Nessuno dei due parlò finchè non giunsero nell’ufficio della TF. Joan mostrò a Barber quella che sarebbe stata la sua scrivania, all’interno di una stanza arredata in modo davvero sobrio ma con tutto quello che la più moderna tecnologia potesse offrire.
“Lavorerai da qui. Ci sono strumentazioni tecnologiche molto sofisticate e all’avanguardia, ma se pensi di aver bisogno i altro, non hai che da chiedere.”
“Qualcosa ci sarebbe.” disse Barber, guardandosi attorno con molta attenzione “In realtà, qualcuno.”
“Chi Eric?” chiese Joan
“La persona per cui è stato allestito questo ufficio. Dovremmo chiamarlo, Joan.”
Lei sollevò lo sguardo dal fascicolo che stava esaminando e lentamente le sue labbra si incresparono in un lieve sorriso.
“Sì. Forse dovremmo.”

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


~~Capitolo 3

Pioveva a dirotto ormai da cinque giorni.
Erano rinchiusi nel loro cottage da cinque lunghi, lunghissimi giorni.
“Hey.”
“Hey.” lo scimmiottò lei “Sai dire solo questo, Hey?”
Egli si girò nella sua direzione cercando di intuire il motivo del suo nervosismo.
“Non ne posso più! Cinque giorni! Cinque dannatissimi, interminabili giorni di pioggia!” Cominciò a camminare avanti e indietro impazientemente. “Voglio uscire da qui! Voglio andarmene.”
Si fermò davanti a lui, lo afferrò per le spalle quasi urlando “È come essere in prigione!”
Egli sorrise lievemente, le prese le mani e le tenne giunte tra le sue. Fece un profondo respiro e se le portò alle labbra ma non fece in tempo a baciarle perché lei si divincolò.
“Non ci provare Auggie! Non voglio! Non voglio che mi tratti come una bambina a cui hanno rotto il giocattolo nuovo! Voglio… HO BISOGNO di uscire, di camminare, di correre, di saltare, di bere.”
“Tash…”
“Smettila!” urlò lei “Non sopporto che mi tratti così!”
Auggie si alzò dalla poltrona e si diresse alla porta del cottage, uscendo nel patio. Meglio lasciarla sola, in momenti come questi.
L’aria era fresca e umida. Si concentrò sul rumore che la pioggia faceva battendo sul selciato. Respirò profondamente, godendo dell’intenso profumo di terra bagnata. Cinque giorni di pioggia provvidenziali, in quel periodo dell’anno, quando in Indonesia il clima era piuttosto secco. Per lui, finalmente, cinque giorni di riposo.
Si appoggiò alla parete, chiuse gli occhi e ripercorse mentalmente gli ultimi due anni della sua vita. Due anni. Infondo cos’erano cinque giorni se paragonati a due anni?
Non capiva la smania di vivere di Natasha. Da quando lui aveva lasciato la CIA, Auggie e Natasha avevano girato il mondo in lungo e in largo, dando fondo ai loro risparmi.
Non erano mai stati fermi in un posto per più di un mese o due. Giusto il tempo di riprendersi dal jet-lag. Quando erano a corto di soldi, lavoravano part-time o come stagionali, quel tanto che bastava per racimolare un po’ di denaro e ripartivano.
Auggie cominciava a desiderare di fermarsi, di mettere radici. Magari tornando in America.
La vita quasi da spericolati randagi che stavano facendo lo stava disorientando oltre misura, ma Natasha sembrava non averne mai abbastanza.
Era indubbio che l’esplosione dell’edificio di Grozny, dove avevano quasi perso la vita, li avesse segnati entrambi profondamente, anche se, ora se ne rendeva conto, in modo profondamente diverso.
I primi mesi si era divertito a conoscere gente nuova, ad assaporare cibi così diversi. Avevano visitato musei d’ogni sorta e pinacoteche dove vi erano riproduzioni tridimensionali dei quadri più famosi così che anche una persona cieca potesse vederli. Natasha voleva fare le cose più impensabili e pericolose: aveva iniziato con il freeclimbing, bungee jumping, base-jumping, base-climbing… senza contare le lunghe notti passate a girovagare tra i locali più rinomati bevendo e ubriacandosi fino a star male.
 “Voglio sentirmi viva, Auggie.” gli aveva risposto un giorno.
“Ma tu SEI viva, Tash.”
“No, Auggie. Passare le giornate al sole o a visitare musei mi sta uccidendo. Tanto valeva morire in quell’esplosione. Voglio sentire il brivido dell’adrenalina che mi scorre nelle vene.”
In questi tour cittadini, inizialmente Auggie l’aveva seguita. Ma poi aveva cominciato ad annoiarsi. In fondo c’era ben poco che un cieco potesse fare in una pista da ballo superaffollata e, certo, non poteva seguire Tash nel praticare sport estremi senza mettere a repentaglio la sua sicurezza e quella di chi lo accompagnava. La confusione di gente e di musica lo disorientavano talmente tanto da farlo star male fisicamente. Quando lo disse a Tash lei gli rispose seccata “Stattene pure in albergo. Ci vado da sola.” Auggie rimase in silenzio e, come in un flash, un pensiero salì alla sua mente “Annie non l’avrebbe fatto” ma lo scacciò scuotendo la testa.
Quando tornava dalle sue pericolose escursioni e gli raccontava cosa aveva fatto, Natasha aveva la voce carica di eccitazione.
“Dovresti provare anche tu.” gli disse un giorno “Così capiresti cosa vuol dire essere vivi.”
“Tash, io SONO vivo. Ho te e questo mi fa sentire più vivo che mai.”
“Tu non vuoi capire Auggie. Non ci provi nemmeno, a capire.” e con questo chiuse la conversazione.
Ogni giorno Tash aveva qualcosa da fare, doveva aver qualcosa da fare. L’adrenalina che si scatenava nel suo corpo ogni volta, era diventata la sua droga.
Lui, invece, dall’esplosione, aveva imparato a godere della tranquillità di giornate di pioggia, della lettura di un buon libro, del vento, di una camminata sulla spiaggia.
Sì, l’esplosione li aveva irrimediabilmente segnati. In modo completamente diverso l’uno dall’altra.
Dopo qualche mese, Auggie cominciò a sentirsi un po’ messo da parte, sentiva che la sua cecità stava diventando un peso per la sua compagna. Ma non le disse mai come lo faceva sentire. Lui l’amava e per lei avrebbe sopportato tutto questo. In fondo lo aveva già fatto per Annie, tempo addietro. L’aveva sempre aiutata e coperta in ogni sua missione, in ogni sua mancanza. Era il suo gestore, doveva farlo. Voleva farlo.
Annie.
Era ancora appoggiato alla parete del patio, con gli occhi chiusi ad assaporare l’odore della pioggia. La sua mente ancora vagava nei ricordi di questi mesi trascorsi con Natasha quando si rese conto senza volerlo che sempre più spesso paragonava lei, Annie, a Tash. C’era un abisso.
Forse Annie non l’avrebbe mai lasciato volutamente solo per fare sport estremi o per ballare e ubriacarsi.
In quello che sembrava un tempo lunghissimo, Auggie rivide i cinque anni trascorsi lavorando con Annie fianco a fianco. Rivide mentalmente ogni sua singola missione, quando, come suo gestore, era costantemente in contatto con lei. Ripensò al sorriso che sentiva nella sua voce, al suo passo. Si sorprese a pensare a quanto, in fondo, gli mancasse la vita all’Agenzia.
Riaprì lentamente gli occhi, continuando a pensare ad Annie. Non l’aveva più sentita da allora, da quando, quasi due anni prima, si recò da lei per dirle della sua decisione di lasciare la CIA.
Cosa starai facendo ora, Annie?” pensò sporgendosi in avanti e appoggiandosi alla ringhiera “Dove sarai?”
La voce di Tash alle sue spalle lo sorprese, quasi facendolo sentire colpevole di pensare ad un’altra donna.
“Sei sordo oltre che cieco?” disse seccatamente lei “Il tuo telefono squilla da un po’ ormai.”
“Grazie Tash.” rispose Auggie, ma lei era già rientrata nel cottage.
Auggie toccò il display e una voce metallica comunicò “numero sconosciuto”
Chi poteva cercarlo a quell’ora del mattino? Rispose alla chiamata.
“Pronto?”
“Buonasera Auggie, o forse dovrei dire Buongiorno? Non so che ore siano dove ti trovi. Né so dove ti trovi in effetti.”
“Joan?” chiese sorpreso.
“Già. È bello sentirti dopo tanto tempo.”

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


~~Capitolo 4

“Joan…” ripetè Auggie.
“Avrei voluto chiamarti prima, Auggie. Ma sapevo che avevi bisogno dei tuoi spazi e dei tuoi tempi dopo quell’esperienza. Non volevo farti pensare che intendessi in qualche modo costringerti a tornare all’Agenzia.” fece una pausa assicurandosi di non far trapelare alcuna emozione dalla sua voce.
“Come stai Auggie?”
“Abbastanza bene, Joan. E tu?”
“Bene, anche se un po’ stanca. Conosci il nostro lavoro. E poi con un bambino piccolo…”
“Mackenzie…” sospirò Auggie “Sarà piuttosto vivace, immagino.”
“Oh, sì.” sorrise Joan “Vivace e precoce.” Fece un profondo respiro e poi riprese: “Perdonami Auggie se non ti ho chiamato prima, anche solo per farti un saluto.”
“Non preoccuparti Joan, va bene.”
“Auggie…”
L’uomo colse la preoccupazione nella voce della donna, preoccupazione che non era riuscita a celare questa volta.
“State tutti bene, vero? Tu, Arthur…”
“Sì, Auggie, tutti bene, ma…”
“Annie?” chiese con ansia Auggie
“Non ho sue notizie da circa un anno.” rispose “Sai lavora con Ryan McQuaid, ora. Comunque, in effetti qualche notizia recente della McQuaid Security l’abbiamo, risale a tre settimane fa. Ma dobbiamo verificare l’esattezza delle informazioni e…”
“Joan” l’interruppe Auggie “Dimmi chiaramente cosa..”
“Non per telefono. Dove sei?”
“Indonesia.”
“Bene. Organizzo il volo e sarò da te appena possibile.”
“Lascio il GPS attivo, Joan. Fai rilevare le coordinate del mio cellulare da Eric.”
“Grazie Auggie.”
“Ci vediamo presto.”
Rimase in silenzio e con gli occhi chiusi per minuti che parevano interminabili. Nella sua mente e nel suo cuore le emozioni sembrava che facessero a pugni.
Rabbia, preoccupazione, disperazione.
Rientrò nel cottage velocemente e si diresse all’armadio. Prese la sua borsa e ne estrasse il portatile. Lo accese, indossò le cuffie e cominciò a digitare alla ricerca di notizie su qualunque cosa riguardasse la McQuaid Security. Il brutto tempo, su quest’isoletta indonesiana, non aiutava la connessione internet.
Il sito statico dell’agenzia di Ryan era costantemente aggiornato sui vari tipi di servizi che venivano offerti. Investigazioni private, scorte armate, guardie del corpo e molto altro.
Ma Auggie sapeva leggere anche tra le righe, a lui serviva sapere qualcosa riguardante le attività di spionaggio.
Natasha lo osservò silenziosamente per qualche minuto. Da quando era rientrato dopo la telefonata, lei aveva capito che era cambiato qualcosa. Il suo viso era molto serio e preoccupato, la tensione che lo attraversava faceva risaltare le leggere rughe sulla sua fronte.
Lo raggiunse alla scrivania e gli posò una mano sulla spalla. Auggie tolse le cuffie.
“Chi era al telefono?”
“Joan.”
“Joan? Joan Campbell della CIA?”
Auggie annuì. Tash sospirò sarcasticamente.
“Sì certo. Basta che la padrona schiocchi la lingua e cagnolino Auggie è lì pronto al suo servizio.”
“Tash.” l’ammonì Auggie.
Tash che?” urlò lei “Se sono io a chiederti di fare qualcosa per me non sposti una paglia, ma basta che sua maestà Joan Campbell ti faccia un fischio e corri ai suoi piedi.”
“Questo è ingiusto da parte tua.”
“Ah, davvero? Quando mai tu hai fatto qualcosa per me? Non sia mai che il povero cieco August Anderson faccia qualcosa con o per la sua ragazza.”
“Ho lasciato la CIA per te, Tash.”
“Un notevole sforzo, direi! E poi? Che altro?” lo canzonò lei.
“Ci ho provato, Tash, lo sai. La calca e la musica mi fanno star male. Ho provato anche a seguirti nelle tue folli imprese con gli sport estremi ma…”
“Folli??” lo interruppe lei “Non sono folli, Auggie. Sono vive. IO sono viva. DEVO sentirmi viva, ne ho bisogno.”
“Se te lo fossi scordata, sono cieco.” la rimproverò lui.
“Ah, davvero??” urlò sarcasticamente “ E come pensi che me lo possa dimenticare? Non fai che ripetermelo, caro mio. Puttanate Auggie, la tua ciecità ti fa comodo per mettermi i bastoni tra le ruote. Tu NON vuoi che io mi senta viva. Tu vuoi chiudermi in una casa magari a sfornare figli. I tuoi figli.” aggiunse queste parole quasi con disprezzo.
Ora erano in piedi uno di fronte all’altra. Le parole della donna ebbero l’effetto di una doccia fredda. Stavano litigando. Finalmente, dopo mesi di silenzi carichi di tensione, stavano tirando fuori tutto quel che avevano dentro.
“Tash…”
“Taci Auggie. Io non reggo più questo tuo modo di fare, di mettermi sempre da parte. Mi lasci sempre sola. Sei un bastardo, August Anderson”
“IO ti lascio sola??” Auggie alzò la voce sorpreso ma lei ignorò la sua domanda.
“E che voleva la signora CIA? Bhè, che importa, torna pure da loro.”
“Natasha, non mi hanno chiesto niente. O per lo meno non ancora.” Cercò di spiegarle Auggie “Joan sarà in Indonesia il prima possibile. Vuole parlare di alcune intercettazioni relative a certi avvenimenti in Mali che coinvolgono la McQuaid Security e…”
“Eccola la padroncina che richiama il suo cane! Vai, vai Auggie. Torna da lei se questo ti fa sentire meglio. Torna a lavorare con loro.”
“Tash non ho detto che l’avrei fatto.” Auggie cercò di mantenere la calma.
“No, non l’hai detto ma non serve. Ti si legge in faccia.”
In quel momento il cellulare di Auggie squillò brevemente: era arrivato un messaggio. Aprì il testo e l’applicazione vocale lesse “Sarò all’aeroporto di Bali alle 7:00 di domani mattina, ora locale, con aereo privato dell’Agenzia.”
“Bene, sarai contento ora! La tua padroncina sta per arrivare!”
“Ora basta Tash!”
“Basta? E perché? Mi sto divertendo a vedere come scodinzoli!”
Auggie strinse i pugni e si appoggiò alla scrivania.
“Che hai, cagnolino Auggie? La verità ti fa male, vero?” Ora stava esagerando e lo sapeva. Ma ferirlo era proprio quello che lei voleva.
“Quindi preparerai i tuoi bagagli e tornerai a casa al guinzaglio.”
Auggie strinse le labbra per non risponderle, ma la rabbia stava aumentando. “Come può non capire?” pensò “Se non fosse stato per l’Agenzia non sarebbe viva, né avrebbe avuto il passaporto americano che le permette di andare ovunque nel mondo.”
Si girò verso l’armadio e cominciò a preparare le sue cose. Calcolò mentalmente quanto tempo gli occorreva per arrivare a Bali dall’isola dove si trovavano. Considerò ogni possibile contrattempo e capì che doveva fare le cose velocemente. Dopo il tramonto non c’erano collegamenti di nessun tipo con Bali e la mattina seguente il primo viaggio utile sarebbe stato comunque non prima delle 8.
Mentre preparava la sua borsa, Tash lo fissava in silenzio. Dopo una lunga pausa si decise a parlare.
“Allora hai deciso.” chiese nervosamente.
“Sì Tash. Glielo devo.”
“Tu non devi proprio niente a tutta quella gente! E comunque vai, posso cavarmela benissimo da sola.”
“L’hai sempre fatto Tash.” sottolineò Auggie.
“Sì certo! Torna pure dalla tua Joan. Magari all’aeroporto ci sarà pure la puttanella bionda che ti sei sbattuto per un po’ e…” Non riuscì a completare la frase nel suo tono sarcastico e provocatorio perché Auggie la schiaffeggiò.
Lei lo fissò incredula. E anche lui non riusciva a credere al suo gesto.
“Tash… “ cominciò “ Ti prego, perdonami. Non volevo. Io…”
“Bene, grand’uomo. Questo spiega molte cose.”
“Cosa intendi dire?”
“Sono due anni che vivi con me, ma il tuo cuore e la tua mente sono sempre stati legati alla CIA.”
“No, non è vero. Ho provato a seguirti. Ti ho seguito ovunque tu abbia voluto andare e non è sempre stato facile per me, lo sai.”
“Diciamo allora che ho torto in parte, forse per quanto riguarda la tua mente, ma il tuo cuore…” Tash sorrise e sospirò “Il tuo cuore, Auggie, è sempre rimasto a Langley, lo sai. Non puoi negarlo.”
No, non poteva. Ora vedeva più chiaramente dentro di sé. Lo schiaffo dato a Tash, benché si vergognasse enormemente di aver compiuto un gesto così meschino, aveva aperto finalmente quella gabbia che si era costruito intorno al cuore.
“Auggie, tu non puoi fare a meno della CIA. E a quanto pare la CIA non può fare a meno di te.”
“Già. Tash mi dispiace per lo schiaffo, non volevo, davvero. Mi vergogno tremendamente e …”
“Non ti preoccupare. Ne avevo bisogno in fondo. Ora lo so per certo Auggie.”
“Cosa sai?”
“Tu l’ami. Non hai mai smesso di amarla. Lei ti è entrata dentro, fino all’anima. È talmente parte di te che non so nemmeno come tu abbia fatto senza di lei in questi due anni.”
Lui rimase in silenzio. Avrebbe voluto dirle che non era vero, ma sarebbe stata una menzogna. Ora lo sapeva con certezza.
Sentì i passi di Tash dirigersi alla porta, aprirla e uscire sotto la pioggia.
Si sedette pesantemente alla scrivania e rispose al messaggio di Joan “Ci sarò.” poi appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa tra le mani.
Tash aveva ragione. La sua mente aveva spesso viaggiato verso Langley, immaginando cosa sarebbe stata la sua vita con la Task Force di Joan. Forse se lui fosse rimasto alla CIA, Annie sarebbe tornata e avrebbero potuto lavorare ancora insieme.
Annie. Sì, lei era ancora lì, nel suo cuore, reclusa in un angolo ingabbiato per due lunghi anni. Ma ora che aveva aperto la gabbia, gli sembrava di poter respirare meglio, di cominciare nuovamente a sentire il sangue pulsare nelle vene. Stava vivendo. Si sentiva vivo, estremamente vivo.
Finì velocemente di fare i bagagli e lasciò un biglietto a Tash “La verità è complicata. Perdonami
Quando l’ebbe scritto e riletto mentalmente, si mise a ridere, ricordando quello che Annie gli aveva mostrato un giorno di qualche anno prima.
“Solo persone complicate nella tua vita, Walker.” disse piano ridendo.
Prese la sua borsa col portatile, il suo bastone, la valigia e uscì dal cottage.
Aveva smesso di piovere. Sorrise, col cuore finalmente leggero, e si diresse incontro alla sua vita.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


~~Capitolo 5

Era l’alba di un nuovo giorno, nel deserto.
La tribù berbera di Aku-Mokhammed era ferma da alcuni giorni in una delle oasi della via Carovaniera, nei pressi di Taoudenni.
Jedjiga aveva approfittato della calma e della tranquillità dell’oasi per avere tempo per se stessa. Lila non l’abbandonava mai anche se capiva il bisogno di solitudine della donna e, quindi, se ne teneva a debita distanza.
Jedjiga, seduta su un basso sgabello davanti alla sua tenda, ripensò al colloquio avuto nei giorni scorsi col capo berbero che parlava un po’ di francese. Era riuscita così a sapere cos’era successo al suo convoglio. Aveva provato a chiedere perché non avevano portato anche lei al centro di MSF ma, come le aveva detto Abu-Mokhammed, significava perdere quasi quattro giorni di cammino e per la sua gente, che viveva di commercio, ogni giorno era prezioso.
“Non sai mai cosa può aspettarti nel deserto. Una tempesta di sabbia può arrivare all’improvviso e se non siamo più che pronti…” il berbero lasciò il discorso in sospeso in modo che la donna potesse trarre le sue conclusioni.
Era riuscita a sapere che a parte alcuni feriti, sei in tutto, lasciati all’accampamento medico, non c’erano altri sopravvissuti. Eccetto lei. Non le avevano trovato documenti addosso quando l’avevano rinvenuta sotto la jeep, per cui non poteva sapere chi fosse. E la sua mente era ancora avvolta in una fitta nebbia.
Si era stupita di conoscere il francese, il persiano e il turco. Si era stupita anche di ricordare che aveva visto l’alba in altri luoghi.
Quindi, potrei conoscere altre lingue.“ pensò “Potrei anche fare un lavoro che mi porta in giro per il mondo. Magari sono una hostess o una guida turistica. In questo caso si spiegherebbe perché ero in quel convoglio.”
I pensieri, nella mente di Jedjiga, si susseguivano aggrovigliati e senza un’apparente logica.
“Jedjiga!” Dassin, moglie di Abu-Mokhammed la stava chiamando. Jedjiga si alzò e andò verso la donna che la fece entrare nella propria tenda. All’interno c’erano Lila e Khennuj che le sorrisero rassicuranti.
“Accomodati Jedj.” La donna si sedette accanto alla bambina.
“Il colore dei tuoi capelli ti tradisce, è troppo appariscente per una donna berbera. Dobbiamo tingerli. È per la tua sicurezza. Ci sono tribù che potrebbero desiderare donare al loro capo una donna occidentale.” Dassin fece una pausa e guardò Jedjiga.
“Se tu fossi rapita, noi non potremmo far niente per aiutarti, lo capisci?”
Jedjiga annuì.
“Bene. Se tu cadessi nelle mani di predoni del deserto non oso pensare a cosa potrebbe accaderti, ma chérie.”
Lila e Khennuj l’aiutarono a sciogliere i capelli e le prepararono la tintura.
Quando ebbero finito, le fecero indossare il boubou, una veste ampia e scura con maniche larghe e fluttuanti, e le avvolsero i fianchi con una pagne, un tessuto stampato con disegni dai colori vivaci.
Le insegnarono come truccarsi per assomigliare il più possibile ad una donna Tuareg e poi le mostrarono come fissare il velo sulla testa.
Le fecero indossare sobri monili d’argento e poi le diedero dei comodi sandali nuovi.
Le donne berbere erano decisamente soddisfatte del loro lavoro.
“Non resta che imparare la nostra lingua.” osservò Lila.
“Oh, mon Dieu!” esclamò Jedjiga “Parlo molte lingue, ma la vostra… è piuttosto complicata.”
“Signora.” disse Khennuj rivolgendosi a Dassin “potremmo fingere che Jedjiga sia muta.”
“Oh, mâma! Questa è una buona idea!” esclamò Lila “Basterà inventare alcuni segni per le cose più importanti come dormire, mangiare, bere… “
“Sì, Lila. È una buona idea.” convenne Dassin, poi si rivolse alla straniera “Jedjiga dovrai anche tenere il volto un po’ coperto quando siamo in presenza di altre tribù.”
Jedjiga annuì.
Quando finalmente poté nuovamente uscire all’aperto, Jedjiga si diresse in una zona dell’oasi dove numerose palme creavano un invitante angolo fresco.
La donna si sedette su un tappeto steso sotto una palma e si appoggiò al tronco. Lila, poco distante da lei, la osservava attentamente, cercando però di non farsene accorgere. Le piaceva la bionda signora. Era gentile e buona. Ed era anche molto bella.
Jedjiga guardò la bambina e le sorrise, poi lasciò nuovamente vagare la sua mente finchè si assopì.
Il suo sonno non fu proprio tranquillo. I sogni si susseguivano in un apparente disordine.
C’erano due bambine con lei, su un’auto che sfrecciava sulla strada, in piena notte. Poi si era ritrovata in una cucina e le due bambine si rincorrevano mentre una donna le si avvicinava esclamando “Dolci!”
Poi ci fu uno sparo, in quella cucina. Jedjiga sentì il cuore fermarsi nel mezzo del petto mentre, nel suo sogno, sognava un’auto azzurra.
Poi ci fu il nulla nella sua mente che, pian piano, si riempiva di una voce avvolgente e profonda “Non ho mai bisogno di nessuno. Ma di te ho bisogno.” Una mano grande, forte e calda stringeva la sua. E quel calore l’avvolgeva e la tranquillizzava, penetrando in lei attraverso tutti i sensi.
Si svegliò con una forte sensazione di pace nell’animo. Lila era in ginocchio davanti a lei con sguardo interrogativo.
Tesednan… signora chi sono Katya e Chloe?”
“Non saprei, Lila. Perché me lo chiedi?”
“Li hai chiamati nel sonno.”
Jedjiga non rispose. In effetti non sapeva cosa rispondere.
Fissò il cielo tra le fronde delle palme. Era di un azzurro intenso ed avvolgente. E lasciò ancora la mente rincorrere disordinatamente i suoi pensieri che, forse, potevano essere ricordi. Ma lo erano davvero?
Intanto ricordò che doveva inventare dei segni per poter far credere di essere muta.
Muta. Devo essere muta.” pensò “Certo che saremmo proprio una bella coppia: io muta e lui cieco.”. Sorrise a questo pensiero. Ma chi era lui?

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


~Capitolo 6

Era all’aeroporto di Bali dalla sera prima, non avrebbe potuto far diversamente se voleva essere presente all’arrivo di Joan.
Seduto al bar vicino alle uscite, Auggie toccò il suo Eone e lesse l’ora: le 6:15 (a.m.) Bene. Aveva tempo per organizzarsi.
Era sicuro che Joan non sarebbe stata sola sull’aereo privato dell’Agenzia. Mandò un messaggio a Barber per averne conferma, poi si diresse ai gate d’imbarco.
Quando il jet della CIA atterrò, un SUV si avvicinò al velivolo.
Joan scese dall’aereo seguita da Barber e si diressero verso la macchina, ma prima che potessero raggiungerla, ne scese Auggie.
“Auggie.” disse Joan abbracciandolo “È così bello vederti!”
“Anche per me Joan.” e contraccambiò calorosamente l’abbraccio.
“Hey, Barber.”
“Hey, amico.” rispose Barber un po’ imbarazzato, stringendo vigorosamente la mano che Auggie gli porgeva. Poi lo tirò a sé in un abbraccio fraterno “Mi sei mancato, capo.”
Auggie sorrise socchiudendo gli occhi “Anche tu Barber.”
Mentre i tre si salutavano, l’uomo alla guida del SUV scaricò i bagagli di Auggie.
Joan lo guardò sorpresa.
“Auggie?” chiese “I bagagli? Ma…”
“Torniamo a casa Joan. Torniamo a Washington.”
“Ci penso io alle tue borse, capo.” disse Barber con un sorriso. Auggie annuì; Joan automaticamente gli toccò la mano e lui le prese il gomito, in quel modo così consueto e familiare di camminare fianco a fianco.
Una volta sull’aereo vennero sbrigate le pratiche di volo. Ci volle circa un’ora prima che ottenessero il permesso per il decollo. Si erano sistemati in modo che Auggie e Barber, uno di fianco all’altro, potessero usare lo stesso portatile al quale era stata collegata la tastiera Braille.
“Non c’è bisogno di cominciare subito Auggie.” disse Joan “Ci aspettano più di 18 ore di volo. Abbiamo tutto il tempo. Immagino che per essere in aeroporto in orario per il nostro atterraggio, tu non abbia dormito molto.”
“No, infatti. Ma suppongo che nemmeno voi abbiate dormito molto.”
“Bhè, in effetti…” convenne Barber “Ma ci sono le cuccette là dietro, lo sai. Per cui siamo riusciti a riposare.” Auggie annuì sorridendo in direzione dell’amico.
Si sistemarono comodamente sui loro sedili e si predisposero al lungo viaggio che li attendeva.
Auggie chiuse gli occhi in silenzio. Sentì l’aereo prendere velocità sulla pista, sentì i flaps ritrarsi gradualmente e percepì il decollo. Sentì gli occhi di Joan su di sé, ma rimase in silenzio, con gli occhi chiusi. Non era pronto ad affrontarla né a rispondere alle sue domande. Joan lo intuì e distolse lo sguardo, ben intenzionata a non forzare le cose.
Sta tornando a casa, con NOI” pensò la donna “e questo è già molto. Ci sarà tempo per parlare più avanti.”
In breve tempo sia Auggie che Barber si addormentarono e Joan si sorprese a fissare il suo geek, fidato compagno di tante missioni. Nel sonno, le parve che il suo viso si stesse distendendo. La pelle era piuttosto abbronzata, segno che probabilmente aveva passato molto tempo all’aria aperta. Indossava una leggera camicia grigia di lino, con le maniche rimboccate, e un paio di jeans neri di tessuto leggero. L’abbigliamento metteva in risalto il suo corpo asciutto e ben tornito. Era esattamente come lo ricordava.
Il suo viso era incorniciato da una massa di riccioli scuri e lunghi fino alle spalle che gli davano quasi un’aria trasandata ma decisamente affascinante. Una barba incolta induriva leggermente i suoi lineamenti
Gli servirebbe una visitina da un barbiere.” pensò Joan, poi chiuse gli occhi e, cullata dal rumore del motore dell’aereo, si addormentò.
Si svegliarono tutti e tre di soprassalto quando l’aereo sobbalzò violentemente perdendo quota per un vuoto d’aria.
“State tutti bene?” chiese Joan. Gli uomini annuirono. Auggie guardò l’orologio, le 11:30 (a.m.). Non avevano dormito molto, ma era stato sufficiente.
“Che ne dite se cominciamo?” domandò. Barber estrasse dalla sua borsa il fascicolo interamente in Braille e lo porse a Auggie
“Qui trovi tutte le trascrizioni delle intercettazioni decodificate. Le prime non sono recenti purtroppo. Siamo riusciti a capire che erano trasmissioni dati con parecchi giorni di ritardo. Fortunatamente ci siamo ricordati del caso risolto da te e Annie sette anni fa, riguardo quelle trasmissioni radio a onde corte da stazioni numeriche apparentemente dismesse.” Barber fece una pausa.
Sì, Auggie si ricordava perfettamente quel caso.
“In Mali, nel 2012” proseguì Barber “c’è stato un colpo di stato in seguito al quale il paese si è trovato ad affrontare situazioni di continua guerriglia. Nel gennaio del 2013 gli Stati Uniti, come altri paesi europei, hanno deciso di inviare uomini e mezzi, per fornire supporto logistico e addestrare le milizie maliane. Da allora ufficialmente il paese ha risolto i conflitti interni, ma in realtà continuano gli attacchi dei guerriglieri islamisti.”
Mentre Barber parlava, Auggie leggeva con attenzione il suo dossier.
“Come sai Auggie” intervenne Joan “la zona SubSahariana è ancora piuttosto calda. Ci sono stati vari periodi di guerra tra i diversi paesi, con genocidi anche di notevole portata. Gruppi di volontari e i MSF sono ormai dislocati in molti di questi paesi per portare aiuti umanitari. Il convoglio attaccato dai guerriglieri era diretto a Taoudenni. Pare che i sei mezzi pesanti trasportassero aiuti umanitari di vario genere.”
“Pare?” fece eco Auggie
Joan annuì. “Diciamo che il governo americano non ha più alcun interesse laggiù ma le milizie statunitensi vengono ancora utilizzate per cercare di sedare le rivolte. Il convoglio era scortato da un corpo armato della McQuaid Security che viaggiava su tre Jeeps. Abbiamo contattato gli uffici dell’Agenzia di Ryan” Joan fece una pausa e Auggie strinse leggermente gli occhi, in attesa. “Ryan era in Mali, Auggie. Era a capo della scorta armata. Ma non sappiamo altro per ora.”
“Anche se non è del tutto esatto, in effetti.” intervenne Barber “La segretaria con cui ho parlato alla McQuaid Security mi ha detto che Annie era in Sud Africa con una task force di supporto alle forze dell’ordine locali per scortare i capi di stato presenti nella capitale in occasione del Mandela-Day. Sembra che avrebbe poi dovuto raggiungere Ryan in Mali con il suo gruppo di guardie, ma le notizie che sono riuscito ad ottenere dicono che Annie e la sua squadra sono stati visti per l’ultima volta a Lagos, in Nigeria circa due mesi fa. Da allora hanno fatto perdere le loro tracce.”
“Calder pensa che sia Annie che la sua task force abbiano raggiunto il Mali separatamente, da turisti, per poi riunirsi alla scorta armata di McQuaid.” concluse Joan
Auggie aveva ascoltato tutto con estrema attenzione e, al contempo, aveva letto il suo fascicolo per essere certo di non aver perso nessuna informazione utile.
Fra i tre calò il silenzio per qualche minuto
“Da dove cominciamo, capo?”
“Tu, Eric, da dove cominceresti?”
“Bhè, ecco… forse dovremmo aspettare le notizie di Calder Michaels e della sua squadra. Mentre noi venivamo a Bali, loro sono partiti per la Nigeria.”
“Calder in persona è andato sul campo?” esclamò Auggie “Non mi sorprende. Quando l’abbiamo conosciuto a Medellin non ci era proprio sembrato tipo che potesse star seduto dietro una scrivania.”
Auggie si appoggiò allo schienale del suo sedile, si infilò le sue Grados e chiuse gli occhi. Né Joan né Barber lo disturbarono.
Le note di Girl of my Dreams di Charles Mingus gli fecero compagnia mentre seguiva i suoi ricordi.
Medellin, Colombia.
Aveva sentito la sorpresa nella voce di Annie quando se l’era trovato davanti in albergo, aveva sentito il suo abbraccio, le sue mani morbide sul viso, le sue labbra calde sulle sue. Stranamente il fatto che gli avessero sparato e l’incontro con Teo Braga che gli ha estratto il proiettile erano ricordi un po’ sfocati mentre ogni momento passato con Annie era vivido più che mai nella sua mente.
Appena arrivati a Washington, un’auto era pronta per loro sulla pista d’atterraggio.
Quando arrivarono a Langley, molti ex-colleghi di Auggie gli si avvicinarono e gli strinsero la mano. Era un susseguirsi di “Hey Anderson!” “Bentornato Auggie.” “È bello rivederti Auggie” finché non giunsero all’ultimo piano, nell’ala occupata dalla Task Force di Joan.
“Questo è il tuo ufficio Auggie. Lo abbiamo attrezzato con tutto quello che può servirti. Sentiti a casa.”
“Il mio ufficio, Joan?” chiese Auggie, mentre si muoveva tra le pareti memorizzando la disposizione dei mobili e toccando tutte le attrezzature che vi si trovavano. La loro disposizione era praticamente la stessa dell’ufficio che aveva al DPD.
“Wow! Il meglio della tecnologia che può offrire il mercato.” disse “Come sapevi che sarei tornato Joan?”
“Non lo sapevo, Auggie. Ma ci speravo.”

Se state leggendo mi piacerebbe sapere cosa ne pensate. Sia in negativo che in positivo. Grazie ^_^

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


~~Capitolo 7

“Chiamata da Calder Michaels sulla linea privata, signora.”
“Bene, grazie Cynthia.” rispose Joan. Come la sua segretaria uscì dall’ufficio, la donna alzò il ricevitore, fece un profondo respiro e prese la chiamata
“Calder.” salutò Joan.
“Joan.”
“Novità?”
“Non molto. In questi due giorni abbiamo seguito le tracce di Annie e dei suoi uomini. Hanno lavorato sotto copertura per circa 10 giorni, reclutando mercenari. Sembravano un gruppo di amici in viaggio turistico. I nostri informatori sono riusciti a sapere che poi, per vie diverse e in tempi diversi, si sono diretti prima in Marocco e da lì in Mali. Annie è stata l’ultima a lasciare Lagos assieme ad altre due donne. Hanno viaggiato in treno lungo la costa Atlantica. Ora ci divideremo in due squadre e raggiungeremo il Mali separatamente. Se dovesse esserci qualcosa di più serio sotto che non un reclutamento di uomini per scortare dei convogli umanitari, dobbiamo essere cauti.”
“Bene Calder. C’è altro?”
“No Joan, non al momento. Ti ho inviato un rapporto completo, dovresti averlo già ricevuto” mentre Calder diceva queste parole, Auggie si affacciò nell’ufficio di Joan col rapporto in questione
“Joan, abbiamo ricevuto un cablogramma dalla Nigeria, è di Calder.”
“Lo so, Auggie, entra.”
“Auggie?” chiese sorpreso Calder. Joan inserì il vivavoce.
“Hey, Auggie.”salutò Calder
“Hey, Michaels, felice di sentirti.”
“Bentornato, Anderson. Fa piacere anche a me sentirti.”
Joan riattaccò il ricevitore “Ebbene?” chiese al suo tecnico. Auggie diede il rapporto alla donna, si sedette di fronte a lei alla scrivania e rimase in silenzio, aspettando che lei potesse leggere l’intero file.
“Calder e la sua squadra stanno per lasciare Lagos. Seguiranno le tracce di Annie e dei suoi uomini.”
“Non sarà facile, Joan. Annie è brava nel far perdere le sue tracce.” Auggie ripensò a quando Annie scomparve nel tragitto tra Hong Kong e Washington e di lei non si seppe più nulla per quattro lunghi mesi.
“So a cosa stai pensando, Auggie e so anche che Annie è brava. Ma che motivo avrebbe avuto per sparire, questa volta?”
“Joan, stavano reclutando mercenari, se te ne fossi dimenticata.”
“È vero ma questo può significare tante cose.”
“Ad esempio?”
“Ad esempio che Ryan cercava gente locale come scorta per dar meno nell’occhio, visto che i locali conoscono meglio di noi usi e costumi di quei paesi e anche la logistica, nonché la situazione politica che, come sai, è piuttosto incandescente.”
“Nemmeno tu credi a quello che stai dicendo.” rispose Auggie. Era tornato alla CIA da qualche giorno, ma era come se non se ne fosse mai andato.
Egli si alzò e si diresse alla finestra, appoggiando una mano sul vetro.
Era una bella giornata di fine settembre. Il sole batteva sui vetri della finestra trasmettendo il suo calore all’interno dell’ufficio. Chiuse gli occhi e cercò di ricordarsi l’autunno, con le sue tinte calde, con l’odore della terra bagnata dalla rugiada del mattino, con le prime nebbie.
Joan lo raggiunse, gli appoggiò una mano sulla spalla e lo rassicurò: “La troveremo, Auggie.”
Lui si voltò verso di lei, annuì lentamente ed uscì dal suo ufficio per entrare nel proprio. Si chiuse la porta alle spalle e questo era un chiaro segno che non voleva essere disturbato almeno per un po’.
La parete che separava l’ufficio di Auggie da resto del reparto della Task Force aveva una grande vetrata che ricordava molto il suo ufficio al DPD.
Dalla sua postazione Eric poteva vedere il suo amico, nonché mentore, e gli lesse sul volto tutta la preoccupazione per la sorte di Annie.
Barber non riusciva a capire come avessero potuto separarsi. Cinque anni fianco a fianco, lavorando insieme quasi giorno e notte, non era poca cosa. Osservandoli giorno dopo giorno, aveva visto nascere poco a poco tra loro un sentimento di amicizia così profonda che non poteva fare altro che diventare amore. Avevano un’intesa perfetta, si capivano al volo anche senza parlare, erano quelle che si definiscono anime gemelle.
Certo, la decisione di Annie di andare nell’ombra era stata pesante da accettare per Auggie, ma Eric la capiva. Annie era preoccupata che Henry potesse far del male alle persone che amava ma, se lei moriva, lui non l’avrebbe più cercata e lei avrebbe potuto agire indisturbata e sconfiggerlo. E l’aveva fatto. Annie aveva ucciso Henry, aveva liberato il mondo da un pericoloso e subdolo criminale.
Come se potesse sentire i pensieri di Barber, Auggie alzò la testa dalla scrivania alla quale stava lavorando, uscì dall’ufficio e lo chiamò: “Ehi, amico mio, che ne dici di un caffè?”
“Ci sto. Prendo la giacca e…”
“No Eric, non voglio uscire. Non mi oriento ancora bene in questi uffici.” ammise Auggie “me lo porteresti tu per favore?”
“Oh, sì certo.” rispose Eric un po’ deluso. Avrebbe voluto passare del tempo col suo amico, parlare un po’ con lui, cercare di distrarlo un po’. In fondo l’intero DPD e tutta la Task Force di Joan erano sul caso e loro potevano permettersi il tempo di un caffè. Ad Auggie non sfuggì il tono di voce di Eric e ne fu dispiaciuto.
“Magari usciamo per il pranzo, che ne dici?” gli disse.
“Vada per il pranzo.” rispose Eric.
Tornò alla scrivania, si infilò le cuffie e si rimise al lavoro. La sua mente però sembrava voler rincorrere i ricordi.
Come siamo arrivati a questo punto, Annie?” pensò.
Annie aveva deciso di lavorare nell’ombra, cosa pesante da gestire. Doveva fingere che fosse morta mentre non desiderava altro che abbracciarla, stringerla, baciarla.
Poi era ricomparsa Helen. Auggie si maledisse per aver passato la notte con lei anche se era stata solo quella notte. Come aveva potuto? Gli mancava il contatto umano tra uomo e donna, sentire il fremito lungo la schiena nel momento in cui due persone condividono l’intimità di un letto. Sapeva di aver fatto l’amore con Helen, ma la sua mente voleva che fosse Annie.
Si chiese se Annie avesse saputo di quello che era successo. Sì, certo che sapeva. Avevano ripulito l’appartamento di Helen, Annie aveva visto.
Quando era tornata dopo Hong Kong, Annie non era più la stessa. Quando uccidi qualcuno non puoi più essere la stessa persona. Qualcosa si rompe dentro. Lei era diventata diffidente, non gli aveva raccontato del suo cuore. Non si fidava più di lui? Eppure egli avrebbe dato la sua vita per lei. Lo aveva ferito.
Si erano feriti a vicenda, in realtà. Andare a letto con Tash a Parigi era stato un altro errore. Certo, la missione… ma sapeva benissimo che erano bugie. Far soffrire Annie, facendola ingelosire, era diventato un suo bisogno. Ma questo era solo servito ad allontanarli ulteriormente aumentando le incomprensioni.
Poi era arrivato McQuaid. Auggie colpì con un pugno la scrivania.
Non posso dare la colpa a Ryan dei nostri errori.” pensò. In fondo Ryan gli piaceva. Era un uomo in gamba e bravo nel suo lavoro, maledettamente bravo. Aveva seguito Annie senza troppe domande quando lei era partita per salvare lui, il suo migliore amico, e si era preso cura di lei.
Essi avevano salvato la sua vita e quella di Tash.
“Hey, Auggie.” la voce di Barber lo riportò al presente “il tuo caffè. A ore 10.”
“Grazie Barber.”
“Tutto bene Auggie?”
“Diciamo di sì. Ho avuto giorni migliori.”
“Per qualunque cosa… “
Auggie sorrise nella sua direzione, annuendo in segno di ringraziamento. Si rimise le cuffie e riprese il lavoro, sorseggiando piano il suo caffè.
Annie e Ryan potevano essere in pericolo. O peggio, potevano essere morti. Scacciò quest’ultimo pensiero dalla sua mente.
Aveva un debito enorme con entrambi. Essi avevano salvato la sua vita, quella di Natasha e di James Deckard.
Vi troveremo ragazzi, e vi riporteremo a casa.” pensò.
Le sue dita scorrevano veloci sulla tastiera; il software di lettura gli permetteva di seguire l’invio e la ricezione di alcuni file decriptati più rapidamente che non semplicemente digitando.
Auggie continuava a leggere file su file delle trascrizioni delle intercettazioni delle ultime quattro settimane ormai da più di tre ore. Niente. Non trovava niente. Non riusciva a trovare nulla che potesse anche solo dargli il più piccolo indizio per cominciare a stendere un piano d’azione da sottoporre a Joan.
“Auggie, è ora di pranzo.” disse Barber entrando nell’ufficio dell’amico, Auggie toccò il suo orologio: 1:50 (p.m.)
“Barber, mi spiace, non mi sono reso conto che fosse così tardi.”
“Non c’è problema, amico. Insalata Green Goddess senza noccioline a ore 9. Acqua a ore 12, posate e tovagliolo a destra dell’acqua.”
“Eric…” Auggie era sorpreso e commosso allo stesso tempo.
“Sapevo che non sarei riuscito a staccarti da questa scrivania, amico mio. E se non ricordo male, questa era la tua insalata preferita.”
“Non mia, di Annie. Ma è bello che tu te lo sia ricordato.”
“Oh, ok… scusa…” balbettò Barber.
“No, è tutto ok. Piace anche a me.” Auggie gli sorrise riconoscente, di quel suo sorriso gentile che riscaldava il cuore.
Barber uscì. Auggie rimise le cuffie e ricominciò ad ascoltare le intercettazioni mentre consumava il suo pasto. Le ascoltò e riascoltò più volte. Una frase non gli era perfettamente chiara. Doveva capirne prima il senso generale e poi sarebbe andato più a fondo. Doveva riuscirci, proprio come era riuscito a fare quella volta che Annie era stata accusata di tradimento da Lena Smith. Doveva salvarla, la sua Annie.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


~~Capitolo 8

Calder Michaels e la sua squadra erano arrivati a Timbuktu da un paio di giorni. Avevano già contattato la polizia locale e alcuni informatori per cercare di mettere insieme qualche altro tassello del puzzle.
Dovevano muoversi con prudenza. Le milizie jihadiste avevano occhi e orecchi ovunque e l’ultima cosa che Calder voleva, era creare un caso diplomatico con il governo locale e le forze alleate, proprio perché si avevano notizie che a breve, ad Algeri, sarebbero ripresi i negoziati di pace per la terza volta tra i gruppi indipendentisti di Tuareg e Arabi e il governo centrale maliano. Non era una situazione delle più semplici: bisognava usare tutta la cautela possibile e giocare bene le proprie carte.
Negli uffici del DPD, gli operativi tecnici stavano collaborando con quelli della Task Force di Joan Campbell per decifrare e interpretare tutte le intercettazioni rilevate, mentre venivano allertate squadre d’estrazione in caso di necessità.
“Signore, una chiamata da Washington tra cinque minuti. Linea secretata.” disse uno degli uomini di Calder. Egli uscì dalla stanza nella quale avevano istituito il loro quartier generale e si diresse sul tetto dell’edificio, dove c’era un grande terrazzo soleggiato.
Il suo cellulare squillò. Sul display comparve il nome “Mingus
“Hey, Auggie. Novità?”
“Ryan scortava un convoglio con armi e truppe.”
“Ne sei sicuro?”
“Sì. Il mese scorso la Francia ha regionalizzato la propria presenza militare, sembra tra Libia, Mali e Niger. Proprio nel Niger, due giorni fa, le forze speciale francesi hanno reperito e distrutto un convoglio che trasportava armi pesanti, tra cui sistemi antiaerei SA-7. Ora sembra che vogliano aprire una nuova base militare a Madama, nel nord-est del Niger.”
Calder rimase in silenzio. Queste informazioni spiegavano molte cose e, al contempo, le complicavano.
“Ok Anderson, grazie.”
“Cosa pensi di fare, ora?”
“Intanto controlleremo l’accampamento di MSF e vediamo cosa troviamo.”
“Bene, tienimi aggiornato Calder.”
“Lo farò.”
Calder tornò nella stanza dove i suoi uomini lo stavano aspettando e li informò di quanto aveva appena saputo.
“Dobbiamo muoverci velocemente ma con discrezione. Saremo turisti, visiteremo la città fino all’accampamento di MSF a Nord.”
“Il resto della squadra, signore?”
“Ci raggiungerà nei prossimi giorni ad Agadèz, in Niger. Attualmente fanno parte di un convoglio turistico su alcune vie carovaniere. Al momento non siamo in contatto radio diretto, ma dal DPD stanno mantenendo i collegamenti sia con noi che con loro. Questi sono i vostri protocolli ragazzi.” e consegnò ai suoi uomini delle cartellette contenenti tutte le informazioni e le coperture del caso.
Nel primo pomeriggio, con una guida turistica fornita da una agenzia locale, cominciarono il tour della città.
La prima cosa che visitarono fu la Moschea Djinguereber, edificata nel 1327, un’imponente costruzione fatta interamente di terra, paglia e legno. La guida spiegò che aveva tre grandi cortili interni e due minareti, nonché uno spazio di preghiera in grado di ospitare fino a 2000 persone.
“Questa moschea è una delle tre madrase, cioè scuole, che costituiscono l’Università di Timbuktu e dal 1988 è divenuta Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.” concluse la guida.
I turisti scattarono alcune foto, mostrandosi interessati a vari particolari architettonici nonché, da buone spie, ad alcuni assembramenti umani attorno alle mura della moschea.
Nel tragitto per raggiungere la seconda madrasa, la Moschea Sidi Yahya, Calder e i suoi uomini riguardarono le foto scattate, commentando lo stile architettonico e descrivendo l’abbigliamento di alcune persone, fotografate casualmente. Questo loro dialogo servì a distrarre la guida turistica, mentre Calder inviava alcune foto a Langley, dove un uccellino, un piccolo colibrì, avrebbe identificato eventuali spie o terroristi internazionali.
Visitarono poi la Moschea Sankoré, posta più a Nord, la più antica delle tre.
“In questa moschea si trovava la più vasta collezione di libri dell’Africa. Vantava qualcosa come 700 000 manoscritti.” spiegò la guida.
“So che poco lontano da qui c’è un centro di Medici Senza Frontiere.” chiese Calder alla guida.
“Sì, in effetti…” rispose la guida sospettosa “È a circa 15 minuti di strada da qui.”
“Ci piacerebbe visitarlo se non è un problema.” disse nuovamente Calder.
“Vede, io sono un medico” disse uno degli uomini della squadra “e mi piacerebbe visitare il centro. Mi sarebbe di grande aiuto nel mio lavoro.” la voce dell’uomo si fece più melliflua e suadente nel tentativo di convincere la guida.
“Sì, certo. Capisco perfettamente. Voi medici non andate mai in vacanza, vero?”
Raggiunsero la zona in cui si trovava la base medica in circa mezz’ora. Si trattava di una sorta di piccolo villaggio nella città: c’erano alcune tende di varie dimensioni, sotto le quali si trovavano alcuni bambini che giocavano o leggevano, e adulti che chiacchieravano tra loro seduti a dei tavolini.
Una donna si fece loro incontro. Non era molto alta e i suoi lunghi capelli neri erano raccolti grossolanamente in un chignon. Aveva lo sguardo attento ed indagatore di chi era abituato ad avere a che fare con la diffidenza e la malafede della gente. Si asciugò velocemente le mani in una salvietta che teneva nella tasca del camice e si avvicinò sorridendo gentilmente.
“Buongiorno. Posso esservi utile? Sono Diana Reeves, una delle volontarie del centro.”
“Buongiorno Diana. Sono Calder Quinn e questi sono dei miei amici” disse Calder. Aveva mantenuto il suo nome anche sotto copertura poiché pensava che così sarebbe stato più facile non sbagliarsi durante i colloqui. Poi uno alla volta presentò i suoi compagni “Fred Smith, Bryan Gordon e Justin Muller”
L’uomo presentato come Justin Muller le strinse vigorosamente la mano “Buongiorno Diana.” le disse “Ci perdoni se siamo capitati qui. Siamo in vacanza e stavamo visitando la città, ma io sono un medico e mi farebbe davvero piacere visitare la vostra base medica.”
“È proprio vero che i medici non smettono mai di pensare al lavoro!” esclamò Diana sorridendo “Venite. Potete accomodarvi sotto una di quelle tende mentre io vado ad avvisare il dottor Thompson. Vi farò portare qualcosa da bere.”
Non dovettero aspettare molto. Diana stava tornando con un uomo piuttosto alto, coi capelli brizzolati e spettinati, un paio d’occhiali dalla montatura sottile e scura e la barba incolta.
Calder guardò Justin facendogli un gesto impercettibile con gli occhi. Ora toccava a lui. Justin si alzò e andò incontro alla coppia.
“Dottore, questo è un suo collega.” disse Diana.
“Sono Jordan Thompson, medico di questa piccola base di MSF.”
“Io sono Justin Muller. Lavoro in un piccolo ospedale di Helena, nel Montana.”
“Bei posti quelli.” rispose il dottor Thompson “Almeno così mi dicono. Non sono mai stato da quelle parti.”
“Un vero peccato, mi creda. Se mai vorrà visitare il Montana, sarà mio gradito ospite.” rispose Justin che, ovviamente sapeva tutto del dottor Thompson. Tutta la sua copertura era stata costruita attorno alla figura e alla storia del medico: età, famiglia, studi, viaggi, lavoro.
“Bene dottor Muller. In cosa posso esservi utile?”
“Mi chiami Justin, per favore. Siamo colleghi, no?” sorrise l’uomo “Se possibile vorrei visitare il vostro centro. Chiamiamola deformazione professionale.”
“Bene dottor Muller.”
“Justin.” sottolineò di nuovo l’operativo di Calder
“Justin.” convenne il dottor Thompson.”Andiamo, ti mostrerò come lavoriamo in questo avamposto dimenticato dal mondo.”
“Grazie Jordan, lo apprezzo molto.”
“I tuoi amici? Pensi che vogliano venire con noi?”
“Chi? Oh, no non loro! Fred e Bryan sono facilmente impressionabili. Forse Calder. Posso invitarlo?”
“Sì certo.”
Justin si voltò e lo chiamò con un cenno del capo. Cominciarono il loro giro entrando in piccoli edifici.
Gli studi e la laurea in medicina, aiutarono Justin ad essere totalmente credibile nella sua copertura.
Stanza dopo stanza, mentre Justin e Jordan discutevano di terapie e medicine, Calder osservava attentamente ogni dettaglio che potesse aiutarlo a svolgere la sua missione. Con la scaltrezza e l’abilità che gli venivano dall’essere una spia, scattava foto e le inviava a Langley.
“In questo reparto abbiamo le stanze di degenza.”
C’erano persone di razze diverse in condizioni più o meno serie. “La guerriglia in queste zone è una sfida continua.” disse Thompson.
“Immagino. Il vostro lavoro in queste zone è fondamentale dottore.” intervenne Calder.
Giunsero ad una stanza più piccola, all’interno della quale vi erano due letti vuoti. Gli altri due erano occupati da due uomini bianchi che attirarono l’attenzione di Calder. Uno sguardo a Justin e l’uomo capì: doveva distrarre Thompson quel tanto che bastava perché Calder potesse entrare nella stanza, fotografare gli uomini e uscirne.
L’invio a Langley delle foto, fu preceduto da un brevissimo messaggio diretto a Auggie. Una sola parola: RYAN.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


~~Capitolo 9

Dunque Ryan è vivo.” pensò Auggie. Finalmente una buona notizia. Ora bisognava trovare il modo di farlo tornare in America. Barber fu incaricato di contattare la McQuaid Security e di coordinare con loro il rientro di Ryan a Washington.
Il passo successivo era scoprire se vi erano altri sopravvissuti, ma soprattutto ricostruire le dinamiche dell’attentato subìto dal convoglio e perché. Inoltre c’era la questione della scomparsa di Annie.
Auggie non dormiva molto, troppi pensieri gli attraversavano la mente. E, tra tutti le sue preoccupazioni, c’era anche Natasha. Si erano lasciati davvero male e nessuno dei due aveva ancora fatto il primo passo per chiamare l’altro. Ma Auggie sapeva che difficilmente si sarebbero risentiti.
“Buongiorno Joan.” Auggie salutò la donna che stava entrando nel suo ufficio.
“Buongiorno Auggie. Avevo quasi dimenticato la tua capacità di sapere sempre che hai attorno.”
“Ricordi? Le tue collane…” le sorrise Auggie.
“Sì, ma ricordo anche di averti detto di lasciare questi giochetti per qualcun altro.” gli rispose. Il suo tono di voce fece capire ad Auggie che stava sorridendo. Ma lo sguardo di Joan era preoccupato. Erano tornati da Bali da una decina di giorni ma non aveva ancora visto Auggie lasciare Langley. Il suo viso era tirato e stanco.
“Auggie da quanto tempo non fai una bella dormita?”
“Sto bene, Joan.”
“Vai a casa, dormi, fatti una doccia e raditi la barba.”
“Sto bene, Joan, davvero.”
“Ti voglio sul caso al 100% da domani. Oggi sei fuori servizio. È un ordine Auggie.” il tono di Joan non ammetteva repliche.
A malincuore, Auggie raccolse nervosamente le sue cose e uscì dall’ufficio. Una volta arrivato a casa, appoggiò la sua borsa, le chiavi e il bastone nel mobile di fianco all’ingresso, si chiuse la porta alle spalle e trasse un profondo respiro. Joan aveva ragione. Le preoccupazioni, le poche ore di sonno e la tensione nervosa lo stavano stremando: aveva bisogno di riposo.
Conosceva l’appartamento come le sue tasche, era il suo vecchio appartamento. Non aveva mai disdetto il contratto d’affitto, non ne aveva avuto l’occasione. O meglio, non l’aveva mai cercata. In fondo aveva sempre sperato di poterci tornare un giorno. Si diresse alla camera da letto, si sdraiò senza neanche spogliarsi e nel giro di pochi minuti si addormentò. Il suo sonno però non fu tranquillo. La sua mente era affollata di sogni: rivedeva Tash, poi Annie, poi Helen, poi nuovamente Annie. Dopo circa un’ora si alzò, si fece una doccia e la barba, si preparò un caffè e si sedette sul divano ascoltando un po’ di musica. Anche il suo soggiorno, come la sua mente, era affollato di ricordi: la valigia di Parker nella quale aveva inciampato il giorno che lei lo aveva lasciato; il vestito che Annie aveva indossato al Teatro di Vienna e che aveva indossato nuovamente solo per lui; Annie che gli confessava di aver preso la sua maglietta preferita; Barber e Hollman che cercavano di decriptare i file che avrebbero incastrato Henry Wilcox; ogni ricordo ruotava inevitabilmente attorno ad Annie. Nel giro di qualche minuto tornò a letto e questa volta si addormentò profondamente, di un sonno senza sogni.
Il suono del suo telefono lo svegliò. Guardò l’orologio, le 5,45 del pomeriggio, poi rispose.
“Hey, Barber.”
“Scusa se ti disturbo, capo, ma so che avresti voluto leggere subito la trascrizione dell’intercettazione decifrata poco fa. Hai mangiato qualcosa oggi?”
“No, veramente no.”
“Ok, arrivo tra 15 minuti. Pizza?”
“Pizza” confermò Auggie.
Aveva giusto il tempo di farsi una doccia e sistemare quel po’ di disordine che aveva lasciato in mattinata. Sistemò l’isola della cucina con tovaglioli di carta e un paio di birre fresche appena in tempo, che Barber bussò.
“Hey, Auggie. Come ti senti?”
“Meglio. Avevo davvero bisogno di dormire.”
“Già. Ho la pizza e le intercettazioni di oggi. Da cosa cominciamo?”
“Da tutte e due, direi.”
Si accomodarono intorno all’isola della cucina e cominciarono a lavorare coi laptop e i file delle intercettazioni. Mentre mangiavano, Auggie ascoltò più e più volte l’ultima intercettazione decodificata; c’era qualcosa che gli suonava familiare, ma non riusciva a capire cosa fosse. Riprese tutte le trascrizioni dell’ultima settimana, si infilò le cuffie e cominciò a riascoltarle. Ogni intercettazione conteneva notizie riguardanti gli spostamenti di tribù berbere lungo le vie carovaniere verso l’Egitto. Che nesso potevano avere queste notizie col resto del testo? Ascoltò e riascoltò quelle intercettazioni mentre Eric restava collegato con la CIA e scaricava sul suo portatile ogni comunicazione che intercorreva tra Calder Michaels e il DPD, tra il DPD e la Task Force di Joan. In particolare era riuscito ad intercettare alcune comunicazioni tra la McQuaid Security e un indirizzo IP ben mascherato nel web. Eric aveva provato a rintracciarlo ma aveva cominciato a trovare vari segnali che rimbalzavano tra diversi server dislocati tra Europa e Medio Oriente: correva il rischio di essere scoperto e di mettere a repentaglio l’intera operazione.
“Che ne dici di una pausa Barber? Una birra?”
“Sì grazie. Trovato niente in quelle intercettazioni?”
“Forse. In quasi tutte si fa riferimento a delle tribù berbere in viaggio sulle vie carovaniere sahariane e sto cercando di trovare il collegamento con il resto del contenuto: si parla di attacchi di guerriglieri o degli incontri per i trattati di pace, o addirittura delle previsioni del tempo. Devono essere dei diversivi, credo.” Auggie fece una pausa, porse la birra all’amico e poi chiese: “E tu, hai trovato niente?”
“Forse sì, Auggie.” bevve un sorso di birra e poi riprese: “ Ho seguito un indirizzo IP ma il segnale rimbalza tra vari server dislocati tra Europa e Medio Oriente. Inoltre i nostri software hanno rilevato dei codici binari ben criptati che potrebbero funzionare come spyware. Non vorrei che venissero rilevati i nostri sistemi di schermatura, quindi al momento mi sono fermato. Ho però inviato una mail a Hollman per avvisarlo. Forse se lavoriamo da diversi IP queste sorte di Troll potrebbero non accorgersi che li stiamo sorvegliando.”
Auggie annuì. “Potrebbe funzionare. Sei in rete con Hollman?”
“Sì. Andrew lavora dalla rete secretata del DPD. Abbiamo creato una rete parallela per proteggere da eventuali intrusioni quella dell’Agenzia. Ci muoviamo lentamente per evitare di essere intercettati.”
“Uhm… una sorta di Second Life della CIA, eh?” sorrise Auggie soddisfatto “potremmo aggiungere una nuova postazione fittizia a questa rete, in modo da creare collegamenti virtuali più numerosi e quindi più difficili da rintracciare.”
“Si può fare, capo. Vuoi entrare nella rete da casa tua?”
“Sì, qui ho dei software di schermatura piuttosto buoni. Regalo di Ryan, di un paio di anni fa. Li ho sempre tenuti aggiornati.”
Mentre parlavano stavano già creando e amplificando le stazioni-fantasma dalle quali trasmettere i segnali che potessero depistare eventuali tentativi di rilevamento. Auggie toccò il suo orologio.
“Dannazione Eric. Sono le 3 del mattino.”
“Sì, lo so. Ma abbiamo un lavoro da fare e…”
“Basta così, per ora. Tra poche ore dovremo essere in ufficio e tu non hai chiuso occhio. Va’ a casa Eric, riposati. Ne hai certamente bisogno. Joan ci vorrà in piena forma domani.”
“Già.” rispose Barber mentre raccoglieva tutte le sue cose. Auggie lo accompagnò alla porta “Grazie della pizza, Eric. E non solo.”
“Di nulla amico. È stato un piacere.”
Quando fu solo, Auggie si diresse alla sua camera, si spogliò e si mise a letto. Si addormentò profondamente, ma di un sonno inquieto. Tutte le intercettazioni ascoltate fino allo sfinimento riecheggiavano nella sua mente. E quella frase, che già una volta lo aveva colpito, tornava prepotente nei suoi pensieri.
Si svegliò alle 7 quando il suo telefono squillò per un messaggio: era di Barber. La voce metallica dell’applicazione lesse : “Rete da pesca pronta. Ci vediamo in ufficio.”
Auggie sorrise, sapeva di avere in Eric un prezioso alleato. Si fece velocemente la doccia, si vestì e uscì di casa diretto a Langley, la mente sempre occupata dallo stesso pensiero: cosa stonava in quelle intercettazioni? Una passaggio, in particolare, aveva colpito la sua attenzione: perché dei berberi, se erano coinvolti nella guerriglia maliana, parlavano di condizioni atmosferiche e della bellezza di certi fiori?

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


~~Capitolo 10

Erano nell’oasi di Taoudenni da ormai una settimana ma nessuno accennava alla partenza, segno che non doveva essere così imminente.
Jedjiga era grata di questo tempo. Non dover viaggiare nel deserto la tranquillizzava. Certo, il deserto aveva il suo fascino, ma era comunque un posto insidioso. La tribù di Abu-Mokhammed era solita viaggiare nelle prime ore del giorno poi si accampavano e ripartivano nel tardo pomeriggio, secondo l’usanza di molte tribù berbere, perché viaggiare nelle ore più calde del giorno poteva essere pericoloso.
Da quando erano arrivati all’oasi, Jedjiga aveva preso l’abitudine di fare lunghe passeggiate, sempre accompagnata da Lila.
Negli ultimi giorni, nell’oasi erano arrivate anche altre tribù nomadi e spesso la sera gli uomini si trovavano tutti insieme per parlare dei loro viaggi, dei loro commerci o anche solo per scambiarsi saluti, essendo magari lontani parenti. Poi ognuno tornava nella zona all’interno dell’oasi dove la propria tribù aveva il suo accampamento. I capi tribù si trovavano spesso insieme per parlare anche della situazione politica del paese. Jedjiga a volte coglieva alcune frasi dei loro discorsi e aveva cominciato a farsi un’idea dei problemi che il Mali stava attraversando. Durante una delle sue passeggiate, era giunta dietro la tenda di Abu-Mokhammed e sentì delle voci all’interno, voci che non conosceva; parlavano in francese così si fermò ad ascoltare, anche se non riusciva a sentire tutto quello che dicevano perché parlavano a voce bassa. Già questo l’aveva insospettita. Quello che poi aveva sentito la mise in allerta. Cercò di allontanarsi dalla tenda senza fare rumore; da quel giorno, durante le sue passeggiate con Lila, iniziò a sentirsi osservata. Continuò a comportarsi come se nulla fosse, ma i suoi sensi diventarono molto recettivi: coglieva sguardi furtivi, cenni di capo, mani che si muovevano in modi particolari quasi fosse un linguaggio segreto. Come se ciò non bastasse, aveva notato che nella tenda di Abu-Mokhammed, quando egli non c’era, andavano e venivano diverse persone.
Una sera, mentre cenava con Lila e la sua famiglia, si avvicinò Dassin con due uomini piuttosto giovani.
“Ghumer, Khennuj.” salutò la donna “Scusate se disturbo la vostra serata, ma i figli di Abu-Mokhammed hanno insistito per conoscere Jedjiga.”
Tesednan, mia signora.” rispose Ghumer alzandosi in segno di rispetto “la mia tenda è casa tua. Accomodatevi. Il the è già pronto.”
Lila era andata a prendere delle tazze per gli ospiti. Era usanza dei popoli del deserto essere estremamente ospitali e condividere il the era un gesto di rispetto verso chi veniva a farti visita.
“Jedjiga” cominciò Dassin “questi sono Mebruk e Yebraim, figli di Abu-Mokhammed e della sua prima moglie defunta, Fatma.”
Jedjiga si alzò in piedi e notò che Dassin sembrava piuttosto nervosa ed imbarazzata. Non guardò direttamente i due uomini finché loro non le rivolsero direttamente la parola.
“Il nome che hai ti si addice.” le disse Yebraim. Jedjiga fece un cenno con la testa, in segno di ringraziamento, ma non disse una parola. Dassin la guardò poi abbassò lo sguardo e tirò un impercettibile sospiro di sollievo. Jedjiga capì: doveva fingere anche con loro di essere muta.
“In realtà sappiamo che non è il tuo vero nome.” disse Mebruk “Nostro padre ci ha raccontato di come ti hanno trovata, che sei straniera e che hai perso la memoria.”
Jedjiga annuì nuovamente. Le stavano parlando in francese cosicché lei potesse capirli. Si erano seduti con la famiglia e avevano bevuto il the che era stato loro offerto. Chiacchierarono con Ghumer per qualche minuto poi Dassin accennò ad alzarsi.
“Bene, vi lasciamo al vostro pasto.” disse la donna cercando di allontanare i due giovani dalla tenda di Ghumer.
“Sì, certo. Spero di poter parlare ancora con te, Jedjiga.” aggiunse Mebruk sorridendole. Lei annuì ancora e colse il sorriso del giovane che le sembrò molto forzato.
Quando si furono allontanati, nella testa di Jedjiga cominciarono a turbinare un infinità di pensieri. Le voci di quei due ragazzi, per cominciare, erano le stesse voci che aveva già sentito nella tenda di Abu-Mokhammed quando lui era assente; mancava, però, una persona: forse un loro amico. Il fatto, poi, che volessero conoscerla l’aveva un po’ turbata “Chissà perché hanno voluto conoscermi.” si chiese Jedjiga.
Nei giorni che seguirono, durante le sue passeggiate, cercò di tenersi lontana da Mebruk e Yebraim, anche se si sentiva i loro occhi addosso. Era contenta che Lila fosse sempre con lei, almeno poteva rispondere al suo posto e, comunque, qualunque cosa i due avessero in mente, non avrebbero fatto nulla davanti alla bambina.
Durante uno dei pomeriggi seguenti, Ghumer e altri uomini della tribù avevano ucciso alcune pecore e le donne stavano lavorando la lana e le pelli. Jedjiga e Lila avevano il compito di andare al pozzo a prendere l’acqua e avevano fatto il viaggio già parecchie volte. In uno di quegli andirivieni dalla tenda al pozzo, Jedjiga scoprì chi era la persona che aveva sentito più volte parlare con Mebruk e Yebraim. Ne riconobbe la voce quasi istantaneamente, ma fece finta di nulla per non dare nell’occhio. Voleva capire chi fosse e perché parlavano sempre in assenza di Abu-Mokhammed. Si trattenne più del dovuto al pozzo con Lila, cercando di inventare altri segni per rendere più credibile il suo mutismo, ma la sua attenzione era tutta per i tre uomini che parlavano poco lontano.
“Il carico richiesto sarà pronto a giorni.” disse l’uomo.
“Bene, avrai i tuoi soldi quando avremo controllato la merce.” rispose Yebraim.
“Manderò un messaggio al mio fornitore per essere certi del giorno e dell’ora della consegna.”
“È un piacere fare affari con te monsieur Garrett.” I tre si salutarono e si separarono.
Dunque” pensò Jedjiga “parla francese, ma ha un nome inglese. Forse americano. E di che merce si tratta?” Si ripromise di scoprire qualcosa di più. Cercò di seguirli con lo sguardo: Yebraim e Mebruk si fermarono ad una delle bancarelle dell’oasi, mentre lo straniero proseguì fino alla carovana turistica arrivata da un paio di giorni. Il signor Garrett si mescolò alla folla di turisti e per qualche giorno non lo avrebbe più visto. Fra i turisti, però, altri tre uomini attirarono l’attenzione della giovane donna. Parlavano inglese, più probabilmente americano, scattavano fotografie a persone e oggetti d’ogni genere e facevano un sacco di domande. Troppe, in effetti, per essere semplici turisti. Jedjiga decise che era meglio non dare nell’occhio, così si coprì il viso col suo velo e girò al largo dalla carovana di turisti.
Il mattino seguente si diresse al pozzo, seguita da Lila. Stava riempiendo il secchio quando una mano robusta afferrò la corda che stava tirando.
“Lasci che l’aiuti.” era uno dei tre turisti che aveva notato il giorno prima. Jedjiga abbassò lo sguardo e annuì in segno di ringraziamento
“Posso chiederle come si chiama?”
“Non parla, è muta.” rispose Lila
Jedjiga non rispose e continuò a tenere lo sguardo abbassato.
“oh, mi dispiace.” rispose l’uomo. Nel frattempo arrivò Khennuj che lo guardò severamente.
“Non volevo mettervi in imbarazzo, vi chiedo scusa. Posso chiedere i vostri nomi?”
“Posso chiederle perché vuole saperlo?” domandò a sua volta Khennuj
“Sono un giornalista. Ho scattato molte foto e sto preparando un articolo per il mio giornale. Vorrei poter abbinare dei nomi ai volti che ho fotografato.”
Lo sguardo sospettoso della donna berbera non sfuggì all’uomo “Non siete obbligate, naturalmente.” disse
“Bene” rispose Khennuj. Poi si girò verso Lila e Jedjiga: “Andiamo, figlie mie.”
In un modo o nell’altro saprò i vostri nomi.” pensò l’uomo mentre le donne e la bambina si allontanavano.
L’occasione si presentò l’indomani quando vide un gruppo di bambini giocare e, tra loro, riconobbe la bambina che accompagnava la donna al pozzo.
Si avvicinò e cominciò a parlare con loro. Non era facile perché essi non capivano molto il francese.
Je suis Jack.” disse battendosi una mano sul petto. I bambini lo guardavano divertiti. Nel giro di un paio d’ore sapeva i loro nomi e aveva imparato alcuni dei loro giochi. Si ritrovò con loro per un paio di giorni, durante i quali aveva imparato almeno il nome della donna muta.
“Ora non mi resta che farle una foto.” comunicò ad uno dei suoi compagni di viaggio
“Jack, pensi che sia lei?”
“Non saprei Ethan. Comunque se riusciamo ad inviare una foto a Langley, sicuramente ci sapranno dire chi è. Di certo non appartiene a questa gente, anche se si veste e si comporta come loro.”
Ethan annuì “In due o tre giorni la nostra carovana riparte per Agadez. Lì incontreremo il resto della nostra squadra. Magari Calder Michaels ha altre notizie a riguardo.”
“Il silenzio radio e davvero un problema. Bene, avvisiamo Mike. Chissà che uno di noi tre non riesca a fotografare la straniera.”

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


~~Capitolo 11

Il sole era alto nel cielo e il caldo, nel deserto, poteva essere davvero difficile da sopportare. Jack, Ethan e Mike erano seduti davanti alla loro tenda; mentre parlavano notarono due tuareg avvicinarsi ad una tenda poco lontana, entrarci ed uscirne dopo circa dieci minuti accompagnati da un terzo uomo, un occidentale.
“Non hanno più la sacca che avevano quando sono entrati.” notò Ethan. Per delle spie allenate quali loro erano, questo poteva significare tutto e niente, ma l’istinto disse loro di controllare.
“Vado a fare due passi.” disse Mike alzandosi “Ho bisogno di sgranchirmi le gambe. Vieni con me Jack?”
“Perché no? Con tutto quello che ho mangiato, un po’ di movimento è quello che ci vuole.”
“A dopo.” disse Ethan “Io andrò sotto quelle palme a leggere un po’.” Una volta giunto presso le palme vicino al pozzo, aprì il suo libro, prese dalla tasca il suo iPod, si mise gli auricolari e cominciò a leggere. L’iPod, in realtà, era un sofisticato sistema di microfoni che poteva captare suoni fino ad un centinaio di metri di distanza.
I due berberi e l’occidentale passarono vicino a lui, ma Ethan li ignorò volutamente cercando, però, di prestare la massima attenzione a quello che dicevano. I due Tuareg erano i figli del capo tribù Abu-Mokhammed, col quale Ethan aveva parlato qualche giorno prima a proposito della situazione politica del Mali, facendosi passare per giornalista. Il berbero era una persona ben informata dei fatti ma non interessato ad intervenire nella guerriglia che da anni si protraeva nel paese. Era un uomo pacifico e sperava che con l’incontro di Pace che si stava tenendo ad Algeri in quei giorni la situazione si potesse risolvere.
“Hai avuto il denaro, ora vogliamo la merce.” disse Mebruk.
Ethan non voleva dare nell’occhio, doveva poter ascoltare senza farsi scoprire. Finse di essersi addormentato.
“Sta arrivando. Il furgone ci aspetta pochi chilometri fuori dall’oasi, verso Nord.” disse l’occidentale.
“Bene, monsieur Garrett.” rispose Yebraim “Andiamo a vedere.” I tre si allontanarono velocemente e Ethan, velocemente, mandò un messaggio ai suoi colleghi. Non era sicuro di cosa potesse essere la merce di cui si parlava, ma riuscire a fare un controllo non sarebbe stato male. Nello stesso momento il telefono di Mike squillò: era un numero secretato del DPD.
“Mike Donovan. Chi parla?”
“Salve Mike. Sono Andrew Hollman. Siete ancora a Taoudenni?”
“Sì. Dovremmo partire in un paio di giorni.”
“Domani dovrebbe arrivare il convoglio di Calder Michaels. Vi riunirete lì a Taoudenni.”
“Bene, il loro arrivo è provvidenziale.”
“Ci sono novità?” chiese Andrew incuriosito.
“Forse. Stiamo verificando alcune voci che abbiamo sentito. Comunque non appena avremo notizie certe, ti faccio sapere.”
“Avete con voi l’attrezzatura informatica?”
“Non tutto in realtà. Molte cose le abbiamo lasciate a Michaels prima di dividerci in due squadre.”
“Ok, allora ci aggiorniamo domani. Abbiamo creato una rete mascherata di controllo per alcune intercettazioni e abbiamo bisogno di una stazione mobile che nasconda ulteriormente il segnale o che funzioni da civetta in caso venissero rilevate le nostre comunicazioni.” Mentre Mike parlava Jack gli mostrò una foto che aveva appena scattato: era riuscito a cogliere Jedjiga senza il velo anche se l’inquadratura era piuttosto lontana.
“Andrew.” disse Mike “Abbiamo bisogno di mandarti una foto per un riconoscimento facciale. Dovrai lavorarci un po’ non abbiamo potuto avvicinarci troppo, per cui potrebbe risultare un po’ sfocata.”
“Ok, Mike. Vedrò cosa posso fare. Io e Barber ci lavoreremo nella pausa pranzo poi passeremo l’immagine ad Anderson per…”
“Anderson?” lo interruppe Mike “Auggie Anderson?”
“Sì, proprio lui.”
“Dunque è tornato. Bene.” affermò Mike soddisfatto.
“Bene Mike, è tutto per ora. Se non ci sono urgenze ci sentiamo domani.”
Mike chiuse la telefonata e guardò Jack sorridendo “Mi devi 100 dollari amico mio. Auggie Anderson è tornato alla base.”
“Ma sono passati due anni.” protestò Jack.
“Non importa, non avevamo stabilito un tempo. Mi devi 100 dollari.”
“Spilorcio” ribattè Jack sorridendo.
“Non sai perdere, amico mio.” rise Mike.
Avevano raggiunto Ethan e, insieme, si erano diretti a Nord dell’oasi. Fuori dell’oasi, a Taoudenni non c’era molto da vedere: le miniere di salgemma, i ruderi di una prigione abbandonata e poco altro. Cercarono di non farsi vedere mentre seguivano Mebruk e i suoi compagni.
Nel giro di pochi minuti arrivò un furgone scortato da due SUV. Mebruk e Yebraim aprirono subito il retro del furgone e controllarono le casse una ad una; contenevano armi.
“Mi sembra che ci sia tutto monsieur Garrett.” disse Yebraim.
“Sono un uomo di parola.” sorrise Garrett.
“Così sembra. Devo ancora capire, però, perché ci ha messo tanto a farci avere la merce. Avevi detto venti giorni, quando ci siamo incontrati a Timbuctu, ma ne sono passati il doppio. Questo non è essere di parola, mon amì.”
“Far saltare una carovana per rubargli le armi non è cosa che passa inosservata signori miei. Sono morte delle persone in quell’agguato, alcune delle quali americane. Sono ancora ricercato, dovevo muovermi con estrema cautela.”
I due fratelli annuirono. Fecero una breve telefonata e in pochi minuti arrivò un secondo furgone guidato da un giovane tuareg. Trasbordarono le armi, poi Mebruk e Yebraim salutarono Garrett e tornarono all’accampamento.
Ethan, Jack e Mike avevano sentito abbastanza. Ora i vari tasselli del puzzle si stavano incastrando. Erano riusciti anche a scattare delle foto a Garrett e ai due fratelli che inviarono immediatamente a Langley.
Era ormai il tramonto quando Mike ricevette una telefonata da Hollman. Si alzò, cominciò a camminare e prese la telefonata.
“Hey, Mike.”
“Andrew. Ci sono novità?”
“Sì, dunque… le foto che ci hai mandato… siamo riusciti ad identificare i tre uomini: i due giovani sono degli attivisti tuareg; sono già segnalati alle forze dell’ordine maliane per il traffico d’armi e il sostegno ai guerriglieri jihadisti. Il terzo uomo è Dimitri Diachkov, alias Samuel Garrett, alias Lewis Ashton, alia Vincent Deveraux, ex attivista e spia del KGB”
“Dunque, conosciuto in mezzo mondo.” disse Mike.
“Abbiamo già avvisato Calder Michaels della sua presenza a Taoudenni.”
“Informazioni sulla donna?”
“Non ancora. Barber sta lavorando sull’immagine per renderla nitida e ripulirla dello sfondo. Ci aggiorniamo più tardi.”
Mike si fermò e cominciò ad osservare il cielo. All’orizzonte, il sole era una sfera perlescente che tingeva le dune e l’aria di un rosso acceso. Il cielo via via sfumava nelle calde tinte del giallo-arancione fino ad arrivare al blu violaceo della notte. Le prime stelle cominciavano timidamente a brillare e diventavano sempre più luminose man mano che il sole scendeva oltre l’orizzonte e le tenebre prendevano il sopravvento.
Mentre a Taoudenni si faceva notte, a Washington era pieno giorno. Benché fosse ottobre inoltrato, era una giornata tiepida e soleggiata.
La mattina negli uffici di Langley era trascorsa piuttosto velocemente per Andrew Hollman ed Eric Barber che stavano lavorando alle intercettazioni provenienti dal Mali. Avevano ricevuto anche delle foto di persone da identificare. La squadra Bravo di Calder Michaels stava raccogliendo diverse informazioni utili, tra le quali aveva ricevuto tutta l’attenzione di Joan quella della vendita di armi da parte di Samuel Garrett a dei guerriglieri berberi. Per la pausa pranzo avevano un lavoro particolare: rendere una fotografia il più nitida possibile affinché si potesse fare l’identificazione attraverso il riconoscimento facciale. Mike Donovan aveva confessato ad Hollman che pensava fosse Annie Walker. Ora però, prima di parlarne ad Auggie, dovevano averne la certezza.
Eric aveva cominciato, pixel dopo pixel, a lavorare sulla foto, ripulendo il viso dallo sfondo e ridefinendone i contorni.
“Ehi, Barber! Non si pranza oggi?” domandò Auggie affacciandosi dal suo ufficio.
“Sì, tempo 10 minuti che sistemo due cose e andiamo.”
“Sono ormai le 2,30.” sottolineò Auggie.
“Già. Andiamo, il programma può lavorare da solo.” Barber tolse l’audio al PC, prese la felpa, diede il braccio ad Auggie e uscirono. Eric non disse nulla all’amico, non voleva dargli delle false speranze.
Si sedettero ad un tavolo un po’ isolato alla mensa dell’Agenzia, ordinarono e cercarono di parlare del più e del meno.
“Posso farti una domanda, capo?”
Auggie annuì.
“Hai più sentito Natasha?”
“No. Lei non chiama e io non chiamo. Non ci siamo lasciati in modo amichevole, forse abbiamo bisogno di tempo. Entrambi.”
“Già…”
Il cellulare di Auggie squillò e lui rispose “Anderson.”
“Sono Hollman. Barber è con te?”
“Sì, perché?”
“Abbiamo appena ricevuto un cablogramma con informazioni importanti. È meglio se rientrate in ufficio, Joan ha indetto una riunione.”
Pagarono velocemente e velocemente tornarono ai piani superiori di Langley. Come entrarono negli uffici del DPD videro che Joan era già arrivata.
“In sala riunioni tra cinque minuti.” disse la donna.
Barber si avvicinò a Hollman “Ho lasciato il mio PC acceso per pulire la foto.” disse “Vado a vedere a che punto è e torno. Occupati di Auggie.” Hollman annuì.
Auggie sentì Barber allontanarsi “Hollman, dove va Barber?” chiese.
“Va a prendere il suo portatile. Aveva lasciato il traduttore attivato e vuole controllare se ci sono novità.” mentì Andrew.
Auggie annuì, prese il gomito dell’amico e si diressero all’area monitor.
“Bene, vedo che ci siamo tutti.” cominciò Joan. “Stamattina abbiamo ricevuto alcune fotografie dalla squadra Bravo di Calder Michaels. Le foto che vedete sono di due fratelli berberi, Medruk e Yebraim Abu-Mokhammed. Sono due attivisti che trafficano armi a sostegno della guerriglia jihadista in Mali. Al momento si trovano a Taoudenni e hanno rilevato un carico di armi.” Joan fece una pausa e guardò tutti gli uomini che aveva davanti. “Il terzo uomo è Dimitri Diachkov, ex attivista e spia del KGB, ora terrorista ricercato in Europa, Stati Uniti e Asia. Dimitri Diachkov, alias Samuel Garrett, alias Lewis Ashton, alias Vincent Deveraux, è stato visto oggi con Mebruk e Yebraim mentre forniva loro un carico di armi delle quali non sappiamo con certezza la provenienza. Gli uomini di Calder che sono a Taoudenni non possono muoversi troppo velocemente per non far saltare la loro copertura, ma sono riusciti a sapere che Diachkov ha rubato le armi ad una carovana tendendole un agguato. Domani Calder Michaels raggiungerà i suoi uomini e poi potremo pianificare il da farsi. Nel frattempo Hollman e Barber hanno lavorato con la McQuaid Security per riportare Ryan negli Stati Uniti. Le sue condizioni sono piuttosto critiche ma il dottor Justin Muller, un nostro operativo, è rimasto al campo di MSF per coordinare il suo rientro con l’ambasciata statunitense e per garantirgli tutta l’assistenza medica necessaria.”
“Quando arriverà, Joan?” chiese Auggie.
“Tra un paio di giorni al massimo. Sarà trasportato d’urgenza al Memorial Hospital.”
“Signora.” la interruppe Hollman con voce sorpresa.
“Sì, Hollman?”
“La carta di credito di Annie Walker è appena stata usata a Rabat, in Marocco. Il circuito bancario ci ha avvisato ora.”
“Rabat?” chiese Joan stupita “ Cosa ci fa Annie in Marocco?”
“Abbiamo le riprese video del luogo dove ha usato la carta?” Chiese Auggie.
“Negativo. È un piccolo negozio di souvenir senza circuito di videosorveglianza.”
“Nemmeno dalle telecamere di strada?”
“No Auggie, al momento niente.”
Barber era entrato giusto in tempo per sentire le parole di Hollman.
“È impossibile.” disse Eric “Annie è a Taoudenni. La foto di Mike parla chiaro.”
“Barber ne sei sicuro?” chiese Joan. Eric non fece in tempo a rispondere che Auggie era già davanti al suo portatile.
“Dammi il file Eric.” ordinò. Inserì la flash drive, aprì il software Colibrì e il responso fu inequivocabile: la voce metallica scandì “Anne Catherine Walker”
Ad Auggie cominciarono a tremare le mani e le lacrime gli salirono agli occhi.
Era lei, era Annie. Ed era viva. Null’altro importava in quel momento.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


~~Capitolo 12

Joan guardò Auggie con affetto. Sapeva cosa stesse provando in quel momento: le emozioni così forti e contrastanti che hai nel cuore, quando sai che la persona che ami è ancora viva, possono sopraffarti. Sì, Joan sapeva, perché aveva provato le stesse paure e lo stesso sollievo quando Arthur era stato preso di mira dagli scagnozzi di Henry Wilcox ed era sopravvissuto. Gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla.
“È viva, Joan. Annie è viva.” disse Auggie con la voce carica d’emozione.
“Sì, Auggie. Ed è già molto, non credi?”
Egli annuì. In quel momento un pensiero gli attraversò la mente.
“Non ci pensare nemmeno, Auggie.” gli disse Joan abbassando il tono di voce, come se avesse potuto leggere quel pensiero.
“Joan…”
“Assolutamente no. So cosa stai pensando. Toglitelo dalla testa, non ti mando in Africa. Soprattutto ora che non abbiamo ancora notizie certe.”
“Joan, io DEVO sapere.” disse Auggie con la voce rotta.
“So come ti senti, credimi. Ho provato la stessa ansia, la stessa paura e lo stesso sollievo quando Arthur era in pericolo ed è sopravvissuto. Ma non posso permetterti di mettere in pericolo la tua vita.”
Joan si voltò verso gli agenti del DPD e della sua Task Force che erano ancora nella sala in attesa di ordini “Questo è tutto per il momento, signori. Ci aggiorniamo domattina.”
Uscirono tutti, tranne Barber al quale Joan aveva fatto cenno di aspettare.
“È perché sono cieco, vero?”
“August Anderson, sai benissimo che ho la massima stima di te e piena fiducia nelle tue capacità.” disse Joan in tono perentorio, poi abbassò ulteriormente la voce in modo che solo lui potesse sentirla “E sì, la tua cecità nel deserto può esserti fatale. È uno spazio infinito Auggie, non avresti alcun punto di riferimento sonoro che possa aiutarti. In spazi aperti così grandi non troveresti nulla per orientarti. Voglio saperti al sicuro, Auggie, non sopporterei di saperti in pericolo per una mia leggerezza. Non puoi chiedermi di mettere a rischio la vita di altri operativi per un tuo desiderio. E poi ho ordini precisi a riguardo.”
Auggie annuì, in fondo capiva la sua preoccupazione.
“E ora, Auggie, se vuoi scusarmi, devo coordinare gli uomini per dare tutto l’aiuto a Calder affinchè riporti a casa Annie sana e salva.”
“Joan… non tagliarmi fuori.” la implorò
“Sai, conosco un eccellente operativo tecnico che potrebbe aiutarmi tenendo i contatti con la squadra di Calder. Credi che accetterà?” gli chiese. Auggie colse il suo sorriso nella voce e le sorrise a sua volta.
“Sì, credo di sì Joan. Accetterà di sicuro.”
“Bene signor Anderson. Mettiamoci al lavoro.”
Joan, Auggie ed Eric tornarono nei loro uffici: ora avevano notizie certe sulle quali lavorare.
Era passata poco più di un’ ora dall’incontro al DPD quando Hollman girò a Barber una mail ricevuta da Mike Donavan.

Jack Drummond ha avuto alcune notizie sulla donna berbera, oggi pomeriggio.
Sembra accertato che non appartenga alla tribù berbera con la quale viaggia. È stata trovata in fini di vita da una bambina della tribù in una carovana attaccata dai guerriglieri, ma non sappiamo dove. I berberi la chiamano Jedjiga.
Al momento non c’è altro.
    M.D.

Quando Eric lesse la mail, il suo sguardo si fermò sul nome della donna. Era qualcosa di familiare, ma non ricordava dove poteva aver già visto quella parola.
Nel frattempo Auggie ricevette via mail da Hollman una nuova trascrizione di un’intercettazione. Aprì il file ma era in Tamazight, la lingua parlata dai Berberi. Chiamò uno degli interpreti dell’Agenzia perché traducesse la trascrizione e aspettò pazientemente con Eric davanti al distributore del caffè.
“Signor Anderson?”
“Sì.”
“Buongiorno, sono Maya Foster, l’interprete che ha richiesto.”
“Ben arrivata.” rispose Auggie “Venga le faccio strada.”
Auggie prese il suo caffè e accompagnò la ragazza verso il suo ufficio; passarono davanti alla scrivania di Eric dove sul monitor del suo PC era ancora aperto il testo dell’email.
“Oh, che bel nome.” esclamò Maya. La ragazza si accorse che i due uomini, ognuno a modo loro, la stavano osservando e arrossì leggermente.
“Chiedo scusa, involontariamente ho letto il nome scritto in quella mail.” disse indicando il monitor del PC di Barber. “Sono talmente abituata a leggere in Tamazight e Tamashek che ne riconosco subito le parole. Il Tamazight è la lingua berbera” spiegò Maya vedendo la sguardo interrogativo di Barber “mentre il Tamashek è la lingua Tuareg. In realtà potremmo quasi definirlo un dialetto del Tamazight”
“Hai detto che è un bel nome, posso chiederti perché?” domandò Barber.
“In lingua berbera Jedjiga significa fiore. È una cosa comune in molte lingue dare il nome dei fiori alle persone.”
Un pensiero attraversò la mente di Auggie.
“Barber, mi leggi la mail per favore?”
Eric la lesse.
“A che donna si riferisce?” chiese Auggie
“Penso proprio che parli di Annie. Si riferisce alla donna della foto che ci hanno inviato stamattina.”
Nella testa di Auggie cominciarono a prendere forma alcune ipotesi.
“Se Annie si fa chiamare Jedjiga e se jedjiga significa fiore…” Auggie afferrò il braccio dell’amico “Ricordi le intercettazioni? In molte di esse si parla di fiori. Credo che si riferiscano ad un fiore in particolare…”
“Annie.” concluse Eric.
“Sì, Annie.” Auggie aveva uno strano presentimento. “Venga Maya, ho assolutamente bisogno che mi traduca l’ultima intercettazione che ho ricevuto. Potrebbe contenere informazioni importanti.”
Entrarono nell’ufficio di Auggie e la ragazza si sedette al computer, ascoltò un paio di volte il file audio e poi tradusse.
“Il tempo è propizio alle escursioni. Il sole accompagnerà il nostro viaggio. Abbiamo già i bagagli pronti. Il carico è stato spedito. Porteremo un fiore in dono ai nostri ospiti.”
“Non c’è altro?” chiese Auggie
“No, è tutto qui.” rispose Maya.
“Cosa può voler dire, Auggie?”
“Non lo so. Sicuramente niente di buono, almeno per Annie.”
“Potrei sentire le altre intercettazioni?” chiese Maya “A volte una parola può avere più significati e se tradotta nel modo meno appropriato, può cambiare il senso a tutto un discorso.”
“Conosci così bene il berbero?” chiese Eric incuriosito.
“Sì, la mia bisnonna materna apparteneva ad una tribù berbera nigeriana. Sposò un americano durante la seconda guerra mondiale e si trasferì qui negli Stati Uniti. Molte tribù berbere sono matriarcali quindi sono le donne a trasmettere oralmente le tradizioni e la cultura della tribù, nonché la lingua. Così la bisnonna la insegnò alla nonna che a sua volta la insegnò a mia madre e a me. Io e la mamma parliamo il Tamashek in casa, soprattutto da quando è morto mio padre.”
“Mi spiace.” disse Eric. Maya gli sorrise.
“Se è possibile vorrei le intercettazioni in originale.” Auggie annuì, aprì i files dall’archivio del suo hard drive e li fece ascoltare alla ragazza.
“Sono parecchi file.” osservò Maya “Mi ci vorrà un po’ di tempo. Avete una scrivania libera?”
“Puoi usare la mia.” offrì Barber.
Auggie si voltò verso l’amico e gli sorrise compiaciuto: evidentemente Maya era una bella ragazza.
“Mentre voi lavorate sulle intercettazioni, io parlerò con Joan. Dobbiamo informarla di quello che abbiamo saputo.”
Lasciò i due al lavoro e si diresse all’ufficio di Joan
“Auggie, stavo per venire da te.”
“Ci sono novità?”
“Credo di sì. Ma se sei qui, ne hai anche tu.”
“Ho chiesto un’interprete per l’ultima intercettazione rilevata. Credo che Annie potrebbe essere usata come merce di scambio per qualcosa.”
“Ne sei sicuro?”
“No è solo una sensazione. Maya ha voluto riascoltare tutte le registrazioni; conosce molto bene il berbero e forse potrebbe migliorare le traduzioni che abbiamo.”
“Non appena Calder si riunirà ai suoi uomini, si metterà in contatto con noi. Abbiamo ricevuto un Intel dal DGSE, i servizi segreti Francesi, in cui dicono che le loro forze armate si stanno organizzando per condurre un’operazione militare su vasta scala nel Nord del Mali entro la fine del mese.” Joan guardò Auggie e vide sul suo volto tutta l’ansia che egli stava provando “Dobbiamo muoverci in fretta ma con cautela, Auggie. Ci sono in gioco cose più grandi di noi. Non possiamo intervenire in un paese straniero senza l’appoggio del governo locale né del nostro.”
“Già.” aggiunse Auggie “E questa è un’operazione fantasma, vero?”
“Non completamente.” confessò Joan
“Cosa intendi?”
“Prima che ti chiamassi in Indonesia, Calder era stato incaricato dai piani alti di indagare sull’attentato al convoglio di McQuaid poiché erano coinvolti dei cittadini americani. Quando ha saputo che la scorta era organizzata da Ryan ha voluto coinvolgermi nell’operazione, bypassando gli ordini ricevuti. I capi di Langley non l’hanno presa bene.”
“Immagino.” rise Auggie
“Mi hanno affidato il DPD su suggerimento di Calder, purché non mandassi nessuno dei miei uomini sul campo. Però posso sfruttarne le capacità per portare a termine l’operazione con successo.”
“Già.” Auggie toccò il suo orologio, erano le 6:30 di sera, questo significava che in Mali erano le 10:30.
Anche Joan guardò l’ora “Vai a casa Auggie, riposati. Se non ci sono intoppi Calder raggiungerà i suoi uomini a Taoudenni alle 12 ora locale. Questo significa che prima delle 8 di domani mattina non avremo alcun contatto con lui.”
“Dovresti riposare anche tu, hai la voce stanca.”
“Sì.” confermò Joan “Andrò a casa anch’io. Arthur ha portato McKenzie dai nonni e torneranno per le 8. Andiamo, ti do un passaggio.”
Uscirono dall’ufficio e si diressero agli ascensori. Sentivano le voci di Eric e Maya: stavano ancora lavorando alle intercettazioni. Joan guardò i due ragazzi: erano talmente presi dal lavoro che non si accorsero di loro
“Eric.” chiamò Joan “Noi andiamo a casa. Se avete bisogno non esitate a chiamarmi.”
“A chiamarci.” corresse Auggie.
Aggie e Joan si diressero al parcheggio, salirono in auto e lasciarono Langley. Il viaggio fu piuttosto silenzioso. Joan guardò il suo amico: sembrava dimagrito in queste ultime settimane e sul suo volto poteva vedere tutta la tensione accumulata.
“Auggie…”
“Sto bene Joan, smettila di preoccuparti.”
“Non posso farne a meno. Sei dimagrito e hai gli occhi lividi, segno che mangi poco e che dormi male.”
“Starò bene, tra un po’. Riportiamola a casa e starò bene.” egli sospirò e si appoggiò allo schienale del sedile.
“Non sappiamo niente di lei, di questi due anni.”
“Sì, ci ho pensato, ma non m’importa ora. Ciò che voglio è saperla a casa, al sicuro. Poi ogni cosa potrà essere sistemata.”
Joan fermò l’auto vicino al condominio di Auggie.
“Lei potrebbe non amarti come la ami tu. Lo sai, vero?” disse Joan improvvisamente.
Auggie sospirò profondamente, annuì e scese dall’auto “Grazie del passaggio.”
In quel momento i loro cellulari squillarono. Auggie risalì in auto e tornarono a Langley.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


~~Non possiedo i personaggi di CA, tranne alcuni di carattere secondario che mi sono serviti per scrivere la mia storia. Spero che vi divertiate a leggerla; lasciatemi i vostri commenti, sono uno stimolo per continuare a scrivere. Grazie

Capitolo 13

Lila si svegliò di soprassalto. Jedjiga dormiva, ma si lamentava molto, evidentemente stava sognando qualcosa che la turbava. La bambina la osservò preoccupata.
Mi spiace
Non è colpa tua, torna a casa”
“Non posso”

Nel suo sogno, Jedjiga era la telefono con qualcuno, mentre si trovava in un ascensore. Poi l’ascensore si fermò, le porte si aprirono, lei estrasse la pistola e sparò. Nello stesso momento sparò anche l’uomo che lei si trovò di fronte. Lei cadde a terra.
“È morta. L’operativo Walker è morta.”
Jedjiga si svegliò di colpo portandosi le mani al petto. Stava sognando, ma tutto le era sembrato così reale. E se fosse successo veramente? Sotto le dita, attraverso il sottile tessuto della veste che indossava per la notte, sentì la cicatrice che aveva sul petto. Forse… poteva essere la cicatrice dovuta ad uno sparo. Forse era stato proprio quell’uomo del sogno a spararle. Ma perché l’avrebbe fatto?
“L’operativo Walker è morta
Quelle parole le rimbalzavano nella testa… operativo Walker… le sembravano importanti, molto importanti, ma ancora non aveva chiaro il perché.
Lila era seduta di fianco a lei che la guardava con aria preoccupata.
Tesednan… Ti senti bene?”
“Sì Lila, sto bene. È stato solo un brutto sogno.”
Jedjiga si concentrò su quelle parole: operativo Walker. Perché le sembravano familiari?
Lila la osservò a lungo e Jedjiga se ne accorse: l’abbracciò per tranquillizzarla e le accarezzò i capelli.
“Torna a dormire, Lila. Non ti preoccupare.”
Si sdraiarono una a fianco all’altra e si riaddormentarono.
L’indomani mattina, nell’oasi c’era fermento: un’altra carovana di turisti era in arrivo.
Ogni tribù nell’oasi di Taoudenni era piuttosto indaffarata: la presenza di turisti significava incrementare le vendite di piccoli manufatti artigianali e, per le popolazioni nomadi, questa era una più che discreta fonte di sostentamento.
La carovana arrivò verso mezzogiorno. I bambini circondarono le auto e i dromedari, curiosi di vedere i nuovi arrivati che, spesso, portavano piccoli oggetti da distribuire loro.
Jedjiga sorrideva osservando la scena dalla tenda di Ghumer e Khennuj.
“I bambini sembrano molto curiosi.” osservò Jedjiga.
“I turisti portano sempre qualche piccolo regalo per loro: delle penne, piccoli giocattoli, dei colori.” disse Khennuj.
Marito e moglie rientrarono nella tenda e Jedjiga li seguì pronta ad aiutare Khennuj nell’allestimento di una semplice bancarella per poter vendere i propri oggetti. Khennuj era un’abile conciatrice: col cuoio produceva borse, portafogli, collane e braccialetti. A questi aggiungeva spesso dei ciondoli d’argento o alluminio che suo marito e suo cognato cesellavano abilmente. Jedjiga si era spesso soffermata nelle settimane scorse ad osservare come le mani di questi artigiani si muovevano con maestria creando oggetti con rapidità e precisione.
La folla dei turisti si stava sparpagliando in tutta l’oasi, osservando tutto quello che le tribù nomadi mettevano in vendita. Jedjiga osservava con curiosità e stupore: sembrava un vero e proprio suq, nel quale si mescolavano vivacemente i colori e i profumi delle merci, nonché le voci confuse di venditori e compratori che trattavano sui prezzi. Le sembrava di aver già vissuto momenti simili e, in un flash, si rivide a Marrakech.
Forse posso cominciare a ricordare.” pensò, ma temeva che i sogni potessero essere solo sogni e non frammenti del suo passato.
Appena i turisti della nuova carovana furono arrivati, le guide mostrarono loro come e dove sistemare le proprie cose per i prossimi quattro o cinque giorni. Poi furono lasciati liberi di curiosare tra le bancarelle.
Dalla sua tenda, Mike osservò con calma i nuovi arrivati finché non incontrò casualmente lo sguardo di uno di essi: ora la squadra era al completo, avevano solo bisogno di potersi riunire quanto prima per scambiarsi le informazioni raccolte.
Si incontrarono casualmente alcune volte: vicino ad una bancarella che vendeva collane e bracciali, poi di nuovo alle miniere di sale, poi di nuovo la sera durante la cena.
Fu proprio durante la cena organizzata per i turisti che Mike, Ethan e Jack poterono parlare finalmente con il loro capo, Calder Michaels. Calder informò Mike e il resto della squadra di quanto avevano scoperto a Timbuctu.
“Dunque Ryan è vivo.” concluse Ethan.
“Sì, ma è ancora tenuto in coma farmacologico. Justin tornerà con lui negli Stati Uniti, per assicurargli tutta l’assistenza medica.” disse Calder “Se non ci sono intoppi, in un paio di giorni dovrebbero poter raggiungere il Memorial Hospital, a Washington.”
Ethan annuì pensieroso.
“Voi avete novità?” chiese Calder.
“Sì, ne abbiamo” rispose Mike guardandosi attorno con noncuranza ma osservando attentamente ogni persona attorno a lui. A Calder non sfuggì lo sguardo di Mike sui vari turisti presenti, intuendo che non fosse il momento adatto per continuare la conversazione. Così si concentrarono sul cibo che veniva servito loro, sugli ultimi avvenimenti politici in Mali e sull’economia statunitense.
Mike si alzò e si diresse verso uno dei banchi dove servivano il mechoui, un piatto a base di carne di pecora cotta in un apposito forno. Prese anche del cous-cous con verdure e scambiò alcune parole con uno dei turisti presenti. Calder e il resto del gruppo osservarono il loro compagno.
“L’uomo con cui parla Mike è un trafficante d’armi ed ex spia del KGB.” disse sottovoce Ethan a Calder.
Servendogli del vino, Jack indicò a Calder una zona dove si trovavano le tende di una tribù berbera.
“Due berberi di quella tribù ieri hanno avuto contatti con l’uomo con Mike per un carico d’armi.”
“Sappiamo chi sono?”
Jack annuì “Abbiamo ricevuto da Langley tutti i file che hanno a riguardo.”
“Calder, dovresti parlare col capo di quella tribù.” intervenne Ethan “I due berberi sono i suoi figli, ma non credo che lui sia a conoscenza di quello che fanno. Inoltre potresti trovare interessante conoscere una loro ospite.”
Calder guardò Ethan con aria interrogativa ed Ethan indicò una donna che in quel momento si stava avvicinando ai banchi alimentari con una bambina. Il viso della donna era seminascosto da un velo, ma i suoi occhi… Calder Michaels la riconobbe immediatamente. Dunque era viva: Annie Walker era viva.
Calder cominciò a fissarla e a seguirla con lo sguardo. Gesticolava molto con la bambina, come se stessero usando una sorta di codice segreto.
“È muta” intervenne Ethan, intuendo il pensiero di Calder “O per lo meno così dicono i berberi che la ospitano. Si è salvata nell’attentato alla carovana, forse perché la credevano morta. La bambina l’ha trovata sotto le lamiere di una Jeep del convoglio.”
“Avete stabilito un contatto con lei?”
“Negativo, capo. Jack ha provato ad avvicinarla ma la sua famiglia ospite fa cerchio attorno a lei.”
“Dovremo trovare un modo. Forse parlando col capo tribù… Comunque dopo cena mi metterò in contatto con Langley per stabilire un protocollo d’azione. Ci troveremo nei miei alloggi tra un paio d’ore”
Quando la squadra si riunì nel piccolo alloggio a disposizione di Calder, gli uomini cominciarono a sistemare tutte le loro attrezzature e in poco tempo il salottino divenne una base operativa.
Erano passate da poco le 10 a Taoudenni, quindi a Langley gli uffici erano ancora in piena attività.
“Signore, siamo in grado di effettuare una videochiamata, al momento la ricezione satellitare è buona”
“Bene” disse Calder “Jack e Mike, voi terrete d’occhio la situazione all’esterno. Conoscete l’oasi e ormai i berberi vi conoscono. Darete sicuramente meno nell’occhio.” I due uomini uscirono.
“Ethan, voglio i dettagli di quanto avete saputo in questi giorni. Bryan, mettimi in comunicazione con Langley il più presto possibile.”
A Bryan bastarono pochi minuti per attivare la connessione, il tempo che a Ethan bastò per ragguagliarlo sulle Intel ricevute dal DPD.
“Calder, Joan Campbell è in linea.” disse Bryan.
“Buona sera Joan.”
“Calder. Ci sono novità?”
“Non molto al momento. I ragazzi mi hanno passato tutte le informazioni che avete dato loro riguardo Garrett e i due attivisti berberi. Domani mattina parlerò con il capo della loro tribù per cercare di capire quanto sa di questo traffico d’armi. Notizie di McQuaid?”
“Justin ha contattato il proprio gestore al DPD. Il loro volo di rientro partirà domani mattina alle 8,00 ora locale con un jet privato dell’Agenzia. Il viaggio sarà abbastanza lungo poiché le rotte aeree prevedono uno scalo a Parigi.”
“Bene, quindi se non ci sono intoppi dovrebbero arrivare a Washington in giornata.”
“Calder…” Joan non completò la domanda ma Calder la intuì
“Sì, Joan. L’ho vista ma non le ho parlato. Sta bene. Se riusciamo, domani cercheremo di stabilire un contatto per capire cosa sta succedendo. I berberi che la ospitano dicono che è muta.”
“Muta?” chiese Joan sorpresa
“Già, dovrò verificare. Ad ogni modo, Joan, aspetta che io abbia informazioni certe prima di parlare con Anderson. È inutile preoccuparlo inutilmente.”
“Certo, Calder. Sarà comunque contento di sapere che sta bene. Lo siamo tutti.”
“Ci aggiorniamo domani.” così dicendo Calder chiuse la comunicazione.
Pochi minuti dopo rientrarono dal loro giro Jack e Mike.
"Calder, credo che aspettare domattina potrebbe essere troppo tardi.” disse Jack
“Crediamo che Garrett sospetti qualcosa.”continuò Mike “Sembra sparito dall’oasi insieme ai suoi due compagni berberi. C’è uno strano movimento attorno alle tende della loro tribù.”
“Ok ragazzi, allora ci muoviamo. Io e Ethan andiamo a parlare col capo tribù. Raccogliete le nostre cose e mettetevi in contatto con il DPD perché organizzino una squadra per la nostra estrazione se le cose dovessero mettersi male.”

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


~~Capitolo 14

Quando Calder chiuse la comunicazione, nell'ufficio di Joan calò il silenzio. Annie era viva e stava bene, ma poteva essere muta. Forse era una conseguenza dell'agguato subìto dal convoglio con il quale viaggiava. Oppure era semplicemente una copertura? Joan era talmente assorta dai suoi pensieri che non sentì bussare.
"Joan, stai bene?" La voce di Auggie la riportò al presente.
"Auggie. Sì, tutto bene. Ho appena parlato con Calder. La sua task force si è riunita solo qualche ora fa. Gli operativi che erano già a Taoudenni lo hanno aggiornato riguardo le intel che abbiamo passato loro stamattina. Stanno organizzando per domani mattina un incontro col capo della tribù berbera a cui appartengono i due giovani attivisti"
"Joan…" la interruppe Auggie
"Sì, Calder ha visto Annie ma non le ha potuto parlare. Lei sta bene."
Auggie annuì sorridendo, di un sorriso talmente caldo e vivo che a Joan si scaldò il cuore. Uscì dall'ufficio di Joan, si diresse alla sua scrivania e prese le sue cose. Barber lo guardò e, per la prima volta da quando Auggie era tornato a Washington, lo vide sereno.
"Tutto bene, amico?"
"Sì Eric. È tutto a posto. Ho bisogno di uscire e di camminare un po'. Credo che me ne andrò a casa."
"Ci vediamo domani."
Camminando nel parco attorno a Langley, ad Auggie sembrava di respirare meglio. L'autunno stava spogliando gli alberi, cadeva una leggera pioviggine e l'aria era carica di umidità. Era piuttosto freddo poiché ormai ottobre volgeva al termine. Ma Auggie non faceva caso al freddo e alla pioggia. Sentiva il cuore carico di emozioni ma allo stesso tempo leggero. Annie stava bene e presto, in un modo o nell'altro, sarebbe tornata a Washington. E questo pensiero lo accompagnò fino a casa, scaldandogli l'animo. Non era molto, ma al momento gli bastava.
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Calder organizzò l'incontro col capo tribù pianificando tutto nel migliore dei modi perché nulla andasse storto. Non conosceva l'uomo, né sapeva se era o meno coinvolto nei traffici dei sui figli, doveva perciò tenersi pronto ad ogni possibilità. Ethan si era già diretto all'accampamento berbero per chiedere di parlare con Abu-Mokhammed; fu fatto entrare in una stanza all'interno di una bassa costruzione di mattoni intonacati. Il pavimento era coperto di tappeti, sui quali erano sistemati cuscini e bassi sgabelli. Subito dopo Ethan, entrarono nella stanza il capo tribù e alcuni uomini.
"Was-salam'alaykum" disse Ethan, rivolgendosi ad Abu-Mokhammed
"Wa Alykum As-slam" rispose Abu-Mokhammed "Hai chiesto di parlarmi. Come posso esserti utile?"
"Qualche giorno fa hai parlato con un mio compagno di viaggio."
"Sì, il giornalista americano."
"C'è un altro mio compagno di viaggio che vorrebbe parlarti, se lo concedi."
"Eravate solo in tre fino a ieri. Questa sera ho visto che eravate di più."
"Sì, Abu-Mokhammed. Le altre persone con cui ci hai visto sono dei colleghi che ci hanno raggiunto oggi." Ethan notò che il capo berbero non usava troppi giri di parole e decise di fare lo stesso. Se voleva ottenere informazioni doveva essere sincero.
"Quindi siete tutti giornalisti americani?"
"Non tutti, in realtà."
"Si tratta di politica?"
"Non esattamente. Uno degli uomini che ci ha raggiunto è il nostro capo." Ethan si guardò attorno. Abu-Mokhammed fece un cenno agli uomini che lo accompagnavano ed essi uscirono.
"Ora puoi parlare liberamente, americano." disse il berbero
"Siamo giornalisti che lavorano per un'Agenzia governativa statunitense. Abbiamo bisogno di darti e chiederti informazioni sull'attentato di Timbuctu di due mesi fa."
"Agenzia governativa?"chiese il capo berbero.
"Sì. Nell'attentato sono morti degli americani. Il nostro governo ci ha mandato ad indagare."
"Ora capisco tutte le vostre domande e il vostro modo di agire. Ho anch'io i miei informatori." Abu-Mokhammed sorrise a Ethan "Riceverò il tuo comandante."
Ethan annuì, uscì dalla stanza e andò a chiamare Calder.
"Was-salam'alaykum" disse Calder, entrando nel salottino di Abu-Mokhammed
"Wa Alykum As-slam" rispose il capo berbero.
"Grazie per avermi ricevuto con così poco preavviso."
"La mia dimora è la tua. Come posso aiutarti?"
"Due mesi fa un convoglio americano è stato attaccato dai guerriglieri jiadisti a Timbuctu. Era un convoglio di aiuti umanitari."
"Non è quello che mi risulta, amico mio. Alcune nostre fonti ci hanno detto che il vostro convoglio trasportava armi."
Anche Calder notò che il capo berbero era diretto e parlava senza tanti giri di parole. "Bene" pensò "sarà più facile se potrò fare domande dirette"
In quel momento entrarono Dassin e Khennuj che portavano del tè e dei semplici dolci per gli ospiti.
"Posso parlare apertamente e sinceramente, Abu-Mokhammed?" chiese Calder.
"Te ne prego. Puoi chiedere direttamente ciò che vuoi sapere e, se posso, ti dirò tutto quello che so."
"Dunque sai che il convoglio trasportava armi. Sai anche per chi?"
"I miei uomini mi hanno detto che erano armi dirette alle milizie francesi."
"Che fine hanno fatto quelle armi?"
"Questo non lo so. Quando la mia tribù è arrivata sul luogo dell'attentato, non c'erano armi tra i rottami del convoglio. Le persone sopravvissute le abbiamo portate al centro ospedaliero di Medici Senza Frontiere d'istanza a Timbuctu."
"Sì, lo abbiamo saputo e ti ringrazio. Sono sopravvissuti solo due dei sei feriti che avete portato all'ospedale da campo. Uno di loro è americano. Tornerà negli Stati Uniti domani."
"Mi spiace per gli altri." disse il berbero. La sua voce era davvero dispiaciuta.
"C'erano altri sopravvissuti?"
"Perché lo chiedi?" intervenne Dassin.
"So che avete con voi una donna occidentale." le disse Calder gentilmente "Potrebbe essere americana. Il nostro governo ci ha mandato a recuperare tutti i nostri connazionali." Dassin e Khennuj si scambiarono un'occhiata e uscirono. Gli uomini, rimasti soli, presero il tè poi ripresero a parlare.
"Abbiamo ricevuto delle informazioni riguardo un uomo che traffica armi." disse Ethan al capo berbero "È un ex agente del KGB. Si fa chiamare Samuel Garrett, ma il suo vero nome è Dimitri Diachkov."
"Le nostre fonti ci hanno mandato delle foto mentre tratta con uomini berberi, forse appartenenti alla tua tribù." Aggiunse Calder.
"Non ne sono a conoscenza" disse Abu-Mokhammed "Voi sapete chi sono? Posso vedere queste fotografie?"
Ethan gli porse una busta. Abu-Mokhammed ne estrasse le foto e fu molto sorpreso di vedere che ritraevano i suoi figli.
"Non sono fotomontaggi, vero?" chiese rivolto a Calder con voce preoccupata.
"No. So che conosci questi due ragazzi."
"Sì. Sono i miei figli."
"Mi spiace che tu sia venuto a sapere in modo così diretto del loro coinvolgimento in questa guerriglia."
"Quindi voi siete qui per conto del governo americano." disse il capo berbero. Calder e Ethan annuirono. "FBI? CIA? Qualche altra agenzia governativa?"
"CIA" confermò Calder
"E la donna della quale mi avete chiesto?"
"Cosa mi puoi dire di lei?" Chiese Calder
"Rispondi ad una domanda con un'altra domanda, americano" osservò il capo tribù "Non posso dirti molto, in verità. È stata trovata dalla figlia di Khennuj e Ghumer, una coppia di brave persone. Era in fin di vita e non ha memoria del suo passato. Khennuj si è presa cura di lei e, con mia moglie Dassin, l'hanno aiutata a sembrare una donna berbera. Tra alcune tribù della nostra gente ci sono ancora forme di schiavitù e una donna occidentale è merce rara da queste parti." concluse Abu-Mokhammed, lasciando intendere quale sorte sarebbe toccata alla donna se fosse stata rapita.
"Mi hanno detto che è muta." disse Ethan
"Così può sembrare. In realtà parla diverse lingue." disse sorridendo il berbero "Ora, volete dirmi perché chiedete di lei?"
"Dobbiamo riportarla negli Stati Uniti." disse Calder
"Eludi ancora la mia domanda. Io sono stato sincero con te…"
"Il fatto è che non siamo sicuri del perché sia qui in Africa. È stata per alcuni anni un'agente della CIA, ora sappiamo che lavora per un'Agenzia che forniva servizi di protezione e scorte armate internazionali. Il suo capo è l'americano che è sopravvissuto tra quelli che hai portato all'ospedale di MSF."
In quel momento entrarono nuovamente Dassin e Khennuj seguite da una terza donna: era Jedjiga. Cominciarono a raccogliere i vassoi con le tazze vuote quando Jedjiga si trovò di fronte a Calder Michaels.
La donna restò pietrificata e il vassoio le cadde dalle mani. Era lui, l'uomo del suo sogno, colui che le aveva sparato in quell'ascensore. Quindi era reale. Non era solo un sogno, frutto della sua fantasia. Quell'uomo esisteva veramente. Un urlo strozzato le uscì dalla gola, prima di svenire.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


~~Capitolo 15

Aveva preso un taxi per tornare a casa. Si era fatto lasciare ad un paio di isolati dal suo appartamento, sentiva ancora la necessità di camminare. La tensione nervosa dei giorni scorsi non l’aveva del tutto abbandonato.
Anche se sapeva che Annie era viva, Auggie era ancora molto preoccupato per la sua incolumità. E anche per quella della squadra di Calder Michaels, poiché si trovavano in una zona in cui l’allerta per la guerriglia jihadista era sempre molto alta. A complicare le cose c’era poi la notizia che le milizie francesi a breve avrebbero potuto sferrare un attacco proprio nelle zone in cui essi si trovavano.
Entrò in casa. Era bagnato dalla pioggia: una doccia calda sicuramente l’avrebbe aiutato a riscaldarsi e a distendere i nervi.
Quando uscì dal bagno, ordinò una pizza, indossò una tuta e cominciò a controllare la rete fantasma che Barber e Hollman avevano creato qualche giorno prima.
Grazie all’aiuto di Maya che aveva migliorato le traduzioni delle intercettazioni, erano riusciti a sapere che le milizie jihadiste si stavano organizzando per un attacco ai gruppi armati del nord del Mali i quali, sotto la guida di un unico capo militare tuareg, si erano alleati contro i guerriglieri. Questa situazione politica preoccupava sia Auggie che Joan. Se ci fossero stati problemi di qualunque genere per i loro amici, dovevano aver pronte più di una squadra e più di un piano per l’estrazione. Sapere poi, come gli era stato riferito a suo tempo da Barber, che qualcuno alla McQuaid Security potesse avere contatti con i gruppi di guerriglieri, non lo tranquillizzava affatto, anzi. Non riusciva a credere che Ryan potesse essere in combutta con i jihadisti, ma le intel avute il mese prima riguardo i suoi movimenti e quelli di Annie, alla ricerca di mercenari, lo lasciavano sconcertato. Poteva pensare tutto di Ryan ed Annie, ma non che fossero dei rivoltosi o, peggio, dei traditori. O per lo meno, non Annie; Ryan, in fondo non lo conosceva poi così bene. Perché avevano deciso di intervenire nella politica di un paese estero? Doveva esserci qualcosa di più alla base di tutto questo ed egli era ben intenzionato a scoprirlo.
Mentre lavorava alle intercettazioni sulla rete-fantasma, ricevette una mail da Hollman, in cui gli comunicava che lui e Barber erano riusciti ad accedere ad alcuni file criptati partiti dalla McQuaid Security alla volta del Nord Africa, Marocco per la precisione.
La mente di Auggie cominciò ad elaborare velocemente tutte le informazioni che aveva, assemblando pezzo per pezzo l’intricato puzzle al quale stava lavorando da poco più di un mese: prima di tutto le intel dalla DGSE, i servizi segreti francesi, nelle quali si diceva che probabilmente entro la fine del mese le milizie francesi avrebbero condotto una vasta operazione armata nel nord del Mali, e “probabilmente” significava “certamente”; come se questo non bastasse, nei giorni scorsi si aveva avuto notizia della conferma del primo caso di ebola a Bamako, una cittadina nel Sud-Ovest del Mali, dove era intervenuta anche l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
In secondo luogo, le intercettazioni delle comunicazioni dei guerriglieri jihadisti lasciavano chiaramente intendere che, tra il governo di Bamako e i gruppi armati berberi e tuareg, con l’obiettivo di riportare la pace nel nord del Mali.
C’era poi da tenere in considerazione che, secondo le informazioni raccolte da Calder in Nigeria, Annie e i suoi uomini reclutavano mercenari. Restava da capire il perché. Probabilmente, come aveva ipotizzato Joan, erano solo uomini assunti per scortare gli aiuti umanitari, poiché conoscevano bene i luoghi desertici e le vie carovaniere lungo le quali muoversi. Ma il convoglio di Ryan trasportava armi, non aiuti umanitari, o per lo meno non solo quelli.
Auggie si ricordò che la carta di credito di Annie era stata usata a Rabat, in Marocco, e ora Hollman gli aveva fatto sapere che dalla McQuaid Security c’erano comunicazioni criptate proprio col Marocco: coincidenza? Auggie credeva poco alle coincidenze, era più propenso a credere che ci fosse un collegamento tra tutti questi avvenimenti. Doveva trovare il collegamento. Doveva agire velocemente ma con cautela. Forse, mettendosi in contatto con Barber e Hollman e lavorando in tre sulle stesse informazioni avrebbero potuto elaborare delle ipotesi più plausibili.

***********

Jedjiga era stata soccorsa da tutti i presenti. Dassin e Khennuj avevano sistemato dei cuscini mentre Calder ed Ethan l’avevano sdraiata dolcemente sui tappeti. Pian piano la giovane donna si riprese. Davanti a lei vide i volti amici delle due donne berbere. Cos’era successo? Ricordava di essere svenuta… Aveva visto un uomo parlare con Abu-Mokhammed, un uomo che aveva riconosciuto essere presente in un suo incubo. Dunque, non era solo un incubo. Era qualcosa accaduto realmente.
Si guardò attorno finché il suo sguardo incontrò quello dell’uomo.
“Come ti senti?” Le chiese Calder
“Non saprei” rispose Jedjiga “Noi ci conosciamo, vero?”
“Sì, è vero”
“Sei stato tu a spararmi?” chiese Jedjiga, toccandosi il petto, proprio dove aveva le cicatrici
“Non esattamente.”
“Cosa significa non esattamente?”
“Una volta mi hai detto che la verità è complicata, e in effetti lo è. Le cicatrici che hai sul petto non dipendono da me.”
“Ma TU mi ha sparato…”
Calder annuì. “Avremo tempo di parlarne.”
“Quindi tu mi conosci?”
Calder annuì nuovamente.
Jedjiga non sapeva cosa pensare. Guardò l’uomo dritto negli occhi: il suo sguardo era preoccupato e sollevato allo stesso tempo, come se davvero tenesse alla sua incolumità. Ma se era veramente così, perché le aveva sparato?
“Cerca di riposare, Annie. Domattina avremo tutto il tempo di parlare con calma del tuo passato”
“Annie…” ripetè Jedjiga “È questo il mio nome?”
“Sì. Siamo stati colleghi per un po’”
“Annie Walker…” disse Jedjiga “È questo il mio nome, allora”
Ethan guardò la giovane con compassione, doveva essere devastante non ricordare nulla di sé e del proprio passato.
“Qual è il tuo nome?” gli chiese
“Michaels. Calder Michaels”
Jedjiga scosse la testa, quel nome non le diceva nulla. Poi guardò Ethan.
“Conosco anche te?”
“No, signorina Walker. Sono entrato alla CIA l’anno dopo che lei ha lasciato il suo posto da operativo”
Ora il suo incubo cominciava ad avere un senso: era stata un’agente operativo della CIA ed era stata uccisa da Calder Michaels. Ma sicuramente era una copertura, essendo che era ancora viva. Quindi probabilmente aveva avuto un incarico da portare a termine e, facendosi passare per morta, avrebbe potuto completare la missione senza intoppi.
Erano troppe le emozioni tutte insieme. Nella sua mente riaffiorarono poco alla volta i sogni di queste ultime settimane: due bambine, dei colpi di pistola in una cucina, un’auto rossa…
“Devo sapere” disse implorando Calder “Non ne posso più di questo velo che avvolge la mia mente. Io DEVO sapere chi sono”
“Domani, Annie. Per oggi hai già avuto troppe emozioni. Devi riposarti, ora. Avremo tutto il tempo di parlare”
“No, non riuscirei comunque a dormire sapendo che qualcuno potrebbe aiutarmi a ricordare e si rifiuta di farlo” lo rimproverò
“Jedjiga, il signor Michaels ha ragione” disse Dassin “Riposati, mia cara. Domani avrete tutto il tempo di parlare e ricordare”
Dassin e Khennuj avevano gli occhi lucidi per l’emozione. Il fatto che qualcuno conoscesse Jedjiga significava che ella presto se ne sarebbe andata, tornando alla sua vita. Le fecero bere un infuso rilassante e Jedjiga presto si addormentò.
Calder ed Ethan tornarono ai loro alloggi.
La mente di Calder ora cominciava ad allentare la tensione. Annie stava bene, aveva solo perso la memoria a causa dell’attacco al convoglio col quale viaggiava, ma era viva. L’indomani Ryan sarebbe tornato negli States dove sarebbe stato sottoposto a tutte le cure possibili. Restava solo da scoprire se e in che modo Ryan fosse coinvolto in un traffico d’armi a favore dei guerriglieri jihadisti.
Quando arrivarono dagli altri uomini della squadra, Calder li mandò a riposare. Il giorno seguente avrebbero dovuto preparare il rientro in patria di Annie e studiare un piano per scoprire se effettivamente Ryan era coinvolto nel traffico d’armi o che altro.
Calder mandò un messaggio a Joan.
“Annie sta bene, ha solo perso la memoria in seguito all’attentato al convoglio in cui viaggiava. Avvisa Mingus”

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


~~Capitolo 16

Annie sta bene, ha solo perso la memoria in seguito all’attentato al convoglio in cui viaggiava. Avvisa Mingus”

Aveva ricevuto questo messaggio da Joan da quasi 20 minuti, ma lo stava ascoltando per l’ennesima volta.

“Annie sta bene, ha solo perso la memoria in seguito all’attentato al convoglio in cui viaggiava. Avvisa Mingus”

Era viva. E stava bene. Joan gli aveva girato il messaggio così come lo aveva ricevuto da Calder, senza cambiare una parola.

“Annie sta bene, ha solo perso la memoria in seguito all’attentato al convoglio in cui viaggiava. Avvisa Mingus

Il lettore vocale del suo cellulare ripeteva ancora, con voce metallica, il contenuto del messaggio.
Sembrava quasi che dovesse convincersi del suo contenuto. Si decise a chiudere il messaggio e si rimise al lavoro sulla rete fittizia creata dai suoi colleghi, Barber e Hollman. Mandò loro una mail chiedendo alcune informazioni tecniche sulla gestione della rete e avvisandoli che Calder aveva trovato Annie. Nella mail copiò testualmente le parole di Calder inviate a Joan “Annie sta bene, ha solo perso la memoria in seguito all’attentato al convoglio in cui viaggiava. Avvisa Mingus”.
Auggie non riusciva a staccarsi da questo messaggio. Si costrinse mentalmente a riprendere il suo lavoro sulla rete fittizia quando ricevette una notifica. Qualcuno dalla McQuaid Security era entrato in contatto con una cellula in Marocco. Con pochi passaggi Auggie riuscì ad entrare nella rete di comunicazione che stavano usando e a leggere i loro messaggi. Una nuova notifica lo avvisò che Barber gli aveva appena inoltrato una mail, sapeva anche lui di queste comunicazioni. Auggie gli rispose con un breve SMS dicendogli di raggiungerlo quanto prima con Andrew e di portarsi tutta la strumentazione necessaria per continuare la sorveglianza dal suo appartamento.
Le cose cominciavano a diventare più chiare.
I contatti tra la McQuaid Security e il Marocco erano diventati più frequenti negli ultimi giorni, lo aveva intuito dal contenuto delle intercettazioni, quindi dovevano organizzarsi in modo tale da tenere un canale sempre aperto su queste comunicazioni.
Il fatto che Ryan fosse in coma farmacologico da diverso tempo ma che le comunicazioni secretate continuavano, gli faceva presupporre che l’uomo non fosse coinvolto in questi avvenimenti, o per lo meno non direttamente. Questo era anche avvalorato dal fatto che nelle intercettazioni in suo possesso non si faceva mai il nome di Ryan McQuaid. Veniva però menzionato un fantomatico “capitano” e non era chiaro a chi ci si riferisse.
Il suo salotto, con l’arrivo di Barber e Hollman, si trasformò ben presto in una vera e propria centrale operativa. Ognuno di loro teneva aperto uno specifico canale di controllo. Eric si stava occupando anche di coordinare il rientro negli Stati Uniti Di Ryan, Andrew teneva i contatti con Langley e Auggie stava preparando un protocollo per le operazioni di estrazione di Annie e della squadra di Calder, se ce ne fosse stato bisogno. Era piuttosto tardi quando decisero di aggiornarsi l’indomani mattina così si salutarono e si diedero appuntamento in ufficio. Il lavoro, benché a piccoli passi, stava procedendo nella giusta direzione e sembrava che tutti i tasselli cominciassero veramente a trovare una precisa collocazione.
Era notte inoltrata, a Washington, una notte umida e fresca di fine ottobre. In Mali probabilmente cominciava ad albeggiare.
Chissà se Annie è già sveglia” pensò Auggie, ricordando che le era sempre piaciuto dormire. Forse, in questi due anni passati lontani l’uno dall’altra, aveva cambiato abitudini. O comunque, vivendo per due mesi nel deserto, era stata costretta dalle condizioni climatiche e ambientali a cambiare stile di vita. Sicuramente nelle tende berbere non aveva le comodità di una casa vera e propria: un letto con delle lenzuola, un bagno, la possibilità di farsi la doccia o di stendersi in una vasca… Auggie sapeva bene quanto Annie amasse stendersi in una vasca piena d’acqua calda e restare a rilassarsi fino a quando l’acqua non cominciava ad intiepidire. Sorrise di questi suoi pensieri. Cercò di immaginare come poteva essere l’alba nel deserto: forse poteva assomigliare a quelle che lui aveva visto a Tikrit, prima di perdere la vista. Ma dopo sette anni, Auggie cominciava a non ricordare molte cose che aveva visto o che aveva potuto vedere. I profumi e i sapori, però, erano ciò che lo aiutavano  a “vedere” i propri ricordi.
Jo Malone Grapefruit… Era il profumo di Annie.
Green Goddess…Era l’insalata della mensa, preferita da Annie. Rigorosamente senza nocciole.
Si rese conto che Annie era in ogni angolo della sua mente, in ogni suo pensiero. Ogni fibra del suo corpo era tesa verso di lei.
Dovevano riportarla a casa, il prima possibile. Egli aveva bisogno di parlare con lei, di sapere, di capire. Non voleva illudersi, anche Joan glielo avevo detto. Lei potrebbe non amarti come tu la ami. Sì, ne era consapevole. Ma non poteva fare a meno di nutrire una speranza.
Forse se Ryan morisse…” si sconvolse di aver avuto questo pensiero.
Tempo. Ogni cosa a suo tempo. Il tempo avrebbe aiutato tutti. Ora, la cosa più importante, era che TUTTI tornassero a casa sani e salvi.
Controllò l’ora: erano le 4 del mattino e non aveva dormito, sopraffatto dai pensieri e dai ricordi.
Tra poche ore avrebbe dovuto essere in ufficio; si sdraiò sul divano e cercò di dormire un po’. Non voleva andare a letto, aveva paura di addormentarsi così profondamente da non sentire la sveglia e, quindi, di far tardi in ufficio.
Fu svegliato di soprassalto dal suo telefono, era un messaggio di Joan: “Ho mandato un taxi a prenderti. Ti aspetto in ufficio tra mezz’ora.”
Gli sembrava di essersi appena addormentato. Controllò l’orologio, erano le 4:30.
Cosa poteva essere successo perché Joan lo convocasse al lavoro così presto?
Un solo pensiero prese forma nella sua mente, un solo nome: si preparò velocemente, si infilò un giaccone caldo, prese la sua borsa, il suo bastone e si diresse al portone dello stabile ad aspettare il taxi.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Contrariamente ai fatti narrati negli altri capitoli, dove i riferimenti storico-politici sono realmente accaduti, gli avvenimenti di questo capitolo sono frutto della mia fantasia.
Capitolo 17

Da quando viveva nel deserto, ogni mattina Jedjiga si alzava poco prima dell’alba e osservava rapita il sorgere del sole.
Era uno spettacolo che, dopo due mesi, ancora l’affascinava. Quella immensa sfera di fuoco, che pian piano si levava da dietro le dune tingendo gradualmente il cielo di viola, rosso, arancione e poi rosa, per lasciare infine spazio all’azzurro terso, era come uno specchietto per le allodole, per lei. Ogni volta che osservava l’alba era come se il tempo si fermasse per poi riprendere a scorrere più velocemente. Era un momento in cui lei ritrovava se stessa, anche se era senza memoria, ma si sentiva in pace con se stessa. Quella mattina, poi, la consapevolezza di poter parlare con chi la conosceva e poteva raccontarle il suo passato, la rendeva elettrizzata e ansiosa allo stesso tempo.
Aveva aiutato Dassin a preparare il tè con tutto il cerimoniale per accogliere gli ospiti e non vedeva l’ora che giungessero. Si stava facendo mille domande. Aveva mille domande da fare a quegli uomini. Aveva tanti perché che le riempivano la mente, ma soprattutto voleva chiedere “CHI”: chi era quel ragazzo cieco che ogni tanto affiorava nella sua mente? Perché le sembrava di ricordarne così chiaramente la voce, mentre non ricordava affatto com’era?
Cercando di pensare a lui, le sembrava di ricordare che l’aveva assistita in ospedale,dopo che le avevano sparato, perché qualcuno le avevano sparato, la cicatrice nel petto ne era la conferma. Nei suoi sogni, di tanto in tanto, le sembrava di sentire la voce di lui dirle “ho bisogno di te. Non ho mai bisogno di nessuno, ma di te ho bisogno”; le sembrava di sentire la sua mano calda e forte afferrare la propria e questa sensazione le dava un senso di pace e forza interiore. Se questo ragazzo esisteva davvero e aveva il potere di tranquillizzarla e darle coraggio, dovevano avere un rapporto speciale. Dovevano essere amici. Forse erano migliori amici, o forse erano più che amici. Questo pensiero la fece arrossire e le fece sentire i brividi lungo la schiena. Si accorse che il suo cuore aveva accelerato i battiti.
“O mio Dio… forse… forse lui e io… e se è così… sarà così preoccupato…” pensò Jedjiga.
Era talmente assorta nei suoi pensieri che non si accorse che qualcuno si stava avvicinando a lei. Sentì solo un urlo e poi provò una dolorosissima fitta alla tempia. E il buio l’avvolse.

       ***************************************** 

Calder, Ethan e Mike arrivarono alla dimora di Abu-Mokhammed poco dopo l’alba.
Dassin li fece entrare e li condusse nella saletta dove, la sera prima, avevano parlato col marito e con Jedjiga.
“Accomodatevi, signori. La mia dimora è la vostra dimora” disse Dassin “Mio marito ci raggiungerà subito.”
Dassin servì il tè ai suoi ospiti, poi, come Abu-Mokhammed arrivò, lei uscì dal salottino.
“Vado a chiamare Jedjiga” disse Dassin, poi si corresse “…Annie, giusto?”
Calder annuì “Grazie, tesednan della sua gentilezza e ospitalità” disse.
Dassin annuì, uscì e si diresse sul retro dell’edificio. Arrivò nel piccolo cortile giusto in tempo per vedere un uomo avvicinarsi a Jedjiga, colpirla violentemente con un pugno e caricarsela sulle spalle. Dassin urlò con tutto il fiato che aveva in gola. La scena l’aveva terrorizzata. Udendo l’urlo della donna, dall’interno gli uomini uscirono di corsa e trovarono Dassin a terra che ancora urlava disperatamente.
Abu-Mokhammed l’aiutò ad alzarsi e la strinse a sé, cercando di tranquillizzarla.
“L’hanno presa. Hanno preso Jedjiga.” riuscì a dire la donna tra i singhiozzi.
“Chi l’ha presa?” chiese Mike
Dassin scosse la testa, cercando di calmarsi. “Non lo so. Un uomo. Un uomo l’ha colpita e l’ha portata via.”
Dannazione! Questa non ci voleva!” pensò Ethan.
All’improvviso una serie di esplosioni rimbombarono in tutta l’oasi. Calder, i suoi uomini e la coppia di Berberi si ritrovarono a terra ricoperti di polvere. Dopo qualche minuto, quando finalmente riuscirono a rialzarsi, realizzarono che qualcuno aveva minato parte dell’oasi e aveva fatto saltare diverse tende e alcuni edifici.
C’erano nuvole di polvere che, pian piano, si stavano dissipando, lasciando intravedere le conseguenze di quelle esplosioni. Lo scenario davanti agli occhi di Calder era terrificante: c’erano macerie ovunque. Almeno la metà delle tende dislocate nell’oasi erano andate distrutte. I corpi martoriati di molti berberi e di molti turisti presenti a Taoudenni erano disseminati sul terreno.
Pian piano, lo sconforto lasciò il posto alla rabbia. Calder, Ethan e Mike cercarono i loro compagni. La zona dove erano alloggiati era rasa al suolo. La rabbia lasciò momentaneamente il posto alla preoccupazione: Jack e Bryan non si trovavano. Questo poteva significare che erano usciti dagli alloggi e forse erano ancora vivi.
Le tribù berbere erano davvero ben organizzate: Calder notò che, in poco tempo, i sopravvissuti si diedero da fare per allestire delle zone dove ricoverare i feriti e dove radunare i corpi dei defunti. Calder e i suoi uomini cominciarono ad aiutare la gente come potevano. Nel frattempo cercavano di capire cosa fosse successo, ma soprattutto il perché.
Dopo quasi un’ora un SUV si avvicinò velocemente all’oasi; si fermò poco lontano dal luogo dell’esplosione e ne scesero Jack e Bryan. Quando Ethan li vide andò loro incontro.
“Credo di sì, dammi qualche minuto.” rispose Bryan.
Nel frattempo Calder si rivolse a Jack “Racconta.”
“Quando vi siete diretti all’alloggio del capo Berbero, io e Bryan eravamo fuori a fare due passi. Abbiamo notato che i due jihadisti berberi stavano parlando con Garrett. Siamo riusciti ad ascoltare parte della loro conversazione. Ci avevano scoperti, Garrett sapeva che siamo della CIA. Hanno parlato di circoscrivere l’oasi e uno dei due berberi ha riferito a Garrett che aveva appena raccolto un bel fiore. A momento non avevamo capito a cosa si riferisse, poi ci è venuta in mente una delle intercettazioni che Anderson ti aveva girato nei giorni scorsi.”
Jedjiga…” disse Calder.
“Già. Jedjiga significa fiore, quindi…”
“Hanno rapito Annie. Sapete dove si sono diretti?”
“Li abbiamo seguiti per un po’ verso Nord, ma poi li abbiamo persi.”
“Calder” chiamò Bryan “Langley in linea.”
“Sono Calder Michaels, capo del DPD.” si qualificò.
“Signor Michaels, sono Andrew Hollman.”
“Hollman, contatta il prima possibile Joan Campbell. Abbiamo bisogno di immediato supporto tecnico. Ci sentiamo tra venti minuti.”
Poi si rivolse ai suoi uomini “Ora dobbiamo stabilire un protocollo d’azione per ritrovare Annie Walker il prima possibile e per organizzare con Langley una squadra d’estrazione.”
“Calder, una chiamata da Langley.” comunicò Bryan.
“Bene, passamela.”
“Signor Michaels, sono Hollman. Joan sarà in ufficio tra quindici minuti. Nel frattempo, c’è qualcosa che posso fare per voi?”
“Chi c’è con te, Hollman?”
“Eric Barber, signore. E alcuni altri operativi tecnici.”
“Avete avuto nuove intercettazioni?"
“No, signore. L’ultima intercettazione maliana risale a due giorni fa. Però…”
“Però?” Chiese Calder.
“Ecco, da qualche giorno stiamo tenendo sotto controllo alcune linee secretate tra la McQuaid Security e il Marocco. L’ultima comunicazione inviata dagli uffici della McQuaid Security è di poche ore fa. Parlava di un’oasi da circoscrivere, ma non siamo in grado di dire a cosa si riferisse.”
“Credo che a questo possiamo rispondere noi. Qualcuno ha fatto saltare più della metà delle tende e buona parte degli edifici presenti qui all’oasi di Taoudenni.”
“State tutti bene, signore?” domandò Andrew con la voce che tradiva la preoccupazione.
“Sì, Hollman. Noi stiamo tutti bene. Con qualche graffio ma vivi.”
“Quindi circoscrivere… significa far esplodere” disse Hollman un po’ assorto. Calder sentiva che il ragazzo, nel frattempo, stava digitando sulla tastiera del computer “Credo che potrei avere alcune novità per il prossimo contatto, signore, quando Joan sarà in ufficio.”
“Bene, a più tardi, allora.”

**************************************************************************************

Nell’ufficio di Langley, Hollman e Barber cominciarono a rileggere le trascrizioni delle comunicazioni intercettate tra l’agenzia di Ryan MCQuaid e il Marocco.
“Eric, dovremmo avvisare Auggie?”
“Credo che arriverà con Joan tra qualche minuto.”
In quel momento Auggie e Joan entrarono negli uffici del DPD.
“Bene, Hollman. Che succede?” chiese Joan..
“Signora, c’è stato un attentato all’oasi di Taoudenni. Calder e i suoi sono incolumi, ma molti berberi e turisti presenti nell’oasi sono morti.”
Auggie non disse una parola, ma il suo viso si fece scuro e tirato.
“Siamo d’accordo con Calder che avremmo richiamato appena foste arrivati. Sto già cercando di mettermi in contatto con loro.” disse Barber.
“Siamo in grado di avere un videochiamata?” chiese Joan.
“Ci possiamo provare, ma non so quanto delle loro attrezzature sia ancora utilizzabile.”
In pochi minuti Joan era in contatto con Calder.
“Buongiorno Calder.”
“Buongiorno a te, Joan.”
“Cosa è successo?”
“L’oasi di Taoudenni è quasi rasa al suolo. Questa mattina, poco dopo l’alba, mi sono recato negli alloggi del capo tribù berbero che ospitava Annie. Dovevamo parlare con lei, per cercare di capire quanto ricordi e per organizzare il suo rientro negli Stati Uniti. Poco dopo ci sono state diverse esplosioni.”
“Calder…”cominciò Joan
“Non ho parlato con Annie, Joan. La moglie del capo berbero ha visto che qualcuno l’ha colpita e rapita. Due dei miei uomini, prima dell’esplosione, sono riusciti a seguire i rapitori per un po’ ma poi li hanno persi. Erano diretti a Nord”
“In Marocco” puntualizzò Auggie. Fece una breve pausa, come a voler raccogliere i pensieri, poi si rivolse a Calder “Calder, abbiamo rilevato alcune comunicazioni criptate tra l’agenzia di Ryan e il Marocco. Credo che ci siano delle cellule jihadiste a Rabat. Quando i tuoi uomini hanno trovato Annie a Taoudenni e ci hanno inviato le sue foto per identificarla, la sua carta di credito è stata usata a Rabat.”
“Evidentemente, quando il convoglio di Ryan è stato attaccato a Timbuktu, i guerriglieri l’hanno creduta morta e le hanno rubato i documenti” disse Barber.
“Ora però non possiamo più pensare che fosse solo un caso, ci sono troppe coincidenze: Ryan e i suoi scortavano un convoglio che trasportava armi; Annie e la sua squadra reclutavano mercenari in Nigeria e parte della sua squadra si era diretta prima in Marocco per poi riunirsi al gruppo di Ryan in Mali.” disse Joan.
“Sì, deve esserci qualcosa sotto” convenne Calder.
“Io non posso credere che Annie sia coinvolta in tutto questo” disse Auggie con trasporto “Non posso e non voglio crederlo. Che motivo poteva avere per interferire con la politica di un paese estero?”

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


~~Capitolo 18

“Dobbiamo essere realisti, Auggie.” disse Joan con voce preoccupata
“Sì, certo… realisti.” rispose Auggie con tono seccato “Joan, io non credo che…”
“Forse ho qualcosa.” li interruppe Hollman.
“Qualunque cosa tu abbia trovato Hollman, fatecela avere il prima possibile.” intervenne Calder “devo interrompere la chiamata, per ora. Abbiamo le batterie dei laptop quasi scariche. Ci sentiamo più tardi.” e chiuse la comunicazione.
“Signora…” chiamò Barber, la sua voce era davvero preoccupata. Tutti i presenti nella sala si girarono verso i monitor.
“È appena arrivata la notizia che l’esercito francese di istanza in Mali ha attaccato i gruppi guerriglieri nel Nord del paese.” disse Barber.
“Signora, una chiamata per lei sulla linea privata.” intervenne una delle segretarie presenti nel DPD.
“Bene, passamela nel mio ufficio. Voi venite con me.” ordinò rivolta a Auggie, Eric e Andrew.
La situazione cominciava a diventare incandescente. Le informazioni della DGSE, i servizi segreti esteri francesi, si erano rivelate esatte. Dunque l’offensiva francese era partita.
Una volta giunti nel suo ufficio, Joan prese la telefonata.
“Joan Campbell.” disse. A poco a poco, il suo volto si fece più serio di quanto già non lo fosse. Barber e Hollman si ammutolirono.
“Che succede?” Auggie chiese sottovoce a Eric.
“Non saprei. Joan è silenziosa e il suo viso non lascia presagire nulla di buono.”
“Bene, signore. Sarà fatto.” Joan concluse la telefonata.
I tre uomini la guardarono aspettando che parlasse.
“Era il capo della Divisione delle Attività Speciali. Dobbiamo coordinare Calder Michaels e la sua squadra dando loro tutto il supporto tecnico e logistico di cui disponiamo. Avremo bisogno di contattare le nostre risorse in Africa. La missione di Calder è catturare Samuel Garrett e ha la priorità assoluta su tutto il resto.”
“Questo significa che dovremo collaborare coi servizi segreti esteri, giusto?” chiese Barber.
“Esattamente, Barber. I nostri superiori hanno garantito alla DGSE la nostra totale collaborazione per la cattura di questo terrorista. Di quali informazioni disponiamo, al momento?”
“Samuel Garrett al momento è non rintracciabile. Secondo le informazioni che ci ha dato Calder durante l’ultimo contatto, era diretto a Nord del Mali, probabilmente verso il Marocco.” disse Hollman “Ma credo che potremmo trovarlo facilmente. Tra le intercettazioni che abbiamo registrato tra la McQuaid Security e i loro contatti in Marocco, ci sono alcuni passaggi che potrebbero aiutarci. Devo solo controllarne alcuni.”
“Bene, Hollman.” disse Joan “Mettiamoci al lavoro.”
Non erano ancora le 5 del mattino e già la giornata si preannunciava intensa e caotica. Intensa, caotica e piuttosto lunga.
Uscito dall’ufficio di Joan, Hollman iniziò a controllare le trascrizioni delle intercettazioni tra l’agenzia di Ryan McQuaid e il Marocco mentre Barber e Auggie cominciarono ad organizzare le squadre d’estrazione per i loro connazionali in varie zone del Nord Africa. Tutto dipendeva da dove e quando avrebbero catturato Samuel Garrett. Auggie si mise a contattare alcune risorse presenti nel territorio del Nord-Africa, soprattutto in Marocco, perché cominciassero a indagare su Dimitri Diachkov, alias Samuel Garrett. Auggie fece in modo che una di queste risorse, in particolare, seguisse i movimenti della carta di credito di Annie, che nell’ultima settimana era stata usata nuovamente in un piccolo negozio anche questo casualmente sprovvisto di videosorveglianza. C’erano troppe cose che sembravano casuali, ormai.
Hollman entrò nell’ufficio di Auggie: “Credo di avere qualche informazione importante.” disse “Parlando con Calder prima che arrivaste tu e Joan, ho capito che nelle nostre intercettazioni circoscrivere significa far esplodere. Se non ci sono errori nelle trascrizioni, i guerriglieri jihadisti erano a conoscenza dell’attacco odierno delle milizie francesi. Aspettavano solo che si muovessero per sferrare l’offensiva in Niger, in zone prossime al Mali.”
“Quindi, i guerriglieri conoscono le mosse dell’esercito francese.” sentenziò Barber.
“Sì, i capi dei guerriglieri hanno dato ordine di circoscrivere alcune zone nigeriane in prossimità del confine col Mali: uno dei loro obiettivi sensibili è il campo dei rifugiati maliani a Mangaize.”
Auggie rimase in silenzio. Stava ripensando a tutte le informazioni che avevano, cercando di fare il punto della situazione; Ryan doveva già essere in viaggio per Washington DC da almeno un paio d’ore, se non c’erano intoppi l’aereo dell’agenzia sarebbe arrivato nel tardo pomeriggio, per le 6,00 ora di Washington.
Le milizie francesi avevano attaccato i guerriglieri jihadisti nel Nord Est del Mali, quindi perché Dimitri Diachkov si era diretto a Nord con Annie? Significava dirigersi nel bel mezzo dei combattimenti. E se egli era veramente il mediatore del traffico d’armi in atto in Mali, dirigersi verso Nord era davvero da sconsiderati. Qualcosa non tornava.
“Abbiamo modo di rintracciare i due berberi che lavorano con Diachkov?” chiese Auggie a Hollman.
“Possiamo provarci.” rispose Andrew “Cos’hai in mente?”
“Non capisco perché Diachkov si sia diretto a Nord, significa gettarsi tra le braccia del nemico. Se riusciamo ad intercettare i movimenti dei due jihadisti berberi, forse riusciamo a ricostruire i loro spostamenti e a prevedere le loro mosse.”
“Questa è l’ultima comunicazione tra la McQuaid Security e il Marocco.” Andrew disse a Auggie, porgendogli i file in Braille.
“Dobbiamo scoprire chi c’è dietro queste comunicazioni alla McQuaid Security.” disse Auggie “Forse Arthur può aiutarci.”
“Non lavora quasi più negli uffici dell’agenzia di Ryan.” gli fece notare Barber “Ora si occupa di politica.”
“Bene, può tornarci utile. Arthur è un uomo scaltro, qualità necessaria per entrare in politica.”
“Tu hai in mente qualcosa, Anderson” gli disse Hollman “qualcosa di grosso. E non sono sicuro che la cosa mi piacerà.”
“Non deve piacerti, Hollman. Abbiamo una missione da compiere: catturare un pericoloso trafficante di armi e riportare a casa sani e salvi i nostri operativi. TUTTI”
Hollman sapeva che nella mente di Auggie un piano stava prendendo forma; passo dopo passo, un pezzetto alla volta, la mente di Auggie stava valutando tutti i pro e i contro prima di passare all’azione.
Hollman uscì dall’ufficio di Auggie seguito da Barber e cominciarono a cercare le tracce dei due jihadisti berberi.

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Capitolo 19
*** capitolo 19 ***


~~Capitolo 19

Si risvegliò legata e imbavagliata nel retro di un furgone. La tempia, dove era stata colpita, le pulsava. Si accorse di avere un cappuccio sulla testa, quindi non poteva vedere né dove fossero diretti né chi l’avesse rapita. Ripensò alle parole che Dassin le disse qualche tempo prima “Se tu cadessi nelle mani di predoni del deserto non oso pensare a cosa potrebbe accaderti…”
Devo ragionare con calma e seguire l’istinto.” pensò tra sé e sé.
Cominciò a pensare agli uomini coi quali avrebbe dovuto parlare nell’oasi di Taoudenni. Loro le avevano detto che era stata un’agente operativo della CIA, quindi una spia. E le spie erano addestrate a risolvere situazioni anche piuttosto complicate. Ed era indubbio che lei si trovava davvero in una situazione complicata. Riuscì a distinguere due voci che le parvero familiari.
Yebraim e Mebruk” si disse “quindi sono stati loro a rapirmi. Ma perché?”
La risposta le arrivò nel giro di pochi minuti. I due berberi erano in contatto radio con altri uomini, forse altri guerriglieri, e parlavano in francese.
“Abbiamo l’americana” disse Yebraim
“Come sta?” chiese qualcuno dall’altro capo della radio
“Bene, è solo svenuta. Forse avrà qualche livido” scherzò Mebruk.
“Siete riusciti a sapere chi è?”
“No, non ancora. Ma Monsieur Garrett pensa che sia un’agente della CIA o di qualche agenzia governativa americana”
“Non nominate MAI il nome del Capitano!” li rimproverò l’uomo col quale stavano parlando via radio “E cosa glielo fa credere, che sia un’agente governativa?” aggiunse
“Ieri sera nostro padre ha parlato con degli uomini che il Capitano ha riconosciuto come agenti della CIA. Si fanno passare per turisti, ma sicuramente è una copertura”
“Bene. Se è così, potrebbe essere pericolosa”
“L’abbiamo legata per bene. E poi crediamo che abbia perso la memoria”
“Tenetela d’occhio comunque. Avete avuto problemi?”
“No. Qualcuno deve averci seguito per un po’, ma nel deserto è facile far perdere le proprie tracce”
“Bene, ci aggiorniamo più tardi” e la comunicazione fu chiusa.
Dunque sanno chi sono” pensò la ragazza “Devo stare molto attenta.
Dopo pochi minuti il furgone si fermò. Con ancora indosso il cappuccio, non poteva vedere dove fossero. Yebraim scese dal veicolo, aprì il portellone posteriore e la fece scendere strattonandola. Sotto i piedi sentì la terra battuta e la sabbia calda del deserto. Quindi potevano essere in qualche oasi o in qualche villaggio, dedusse Jedjiga. “Dovrei cominciare a pensare a me stessa come Annie Walker e non più come Jedjiga.” si disse.
Pensare al nome Jedjiga la fece sorridere. Aveva vissuto con quel nome per due mesi e ad esso erano legati quasi tutti i ricordi che aveva. Come Annie Walker aveva solo dei flash della sua vita. Ricordava due bambine, un’auto rossa e una Corvette azzurra, ricordava vagamente l’uomo che aveva incontrato all’oasi, Calder Michaels, e ricordava una voce, calda e profonda, che apparteneva ad un ragazzo cieco. Cercò di trovare nella sua mente un ricordo di lui. Niente. Solo la voce e le mani. Ma pensare a lui la tranquillizzava.
Non riesco a ricordarti, amico mio” pensò Annie “ma ho la sensazione che tu mi conosca bene. Ho il ricordo della tua voce nella mia mente, la tua voce calda e rassicurante. Forse mi hai guidato nelle mie missioni per la CIA?” A quest’ultimo pensiero Annie sorrise. Come poteva un cieco lavorare per la CIA? Se fosse stato così doveva avere delle ottime competenze in qualche campo specifico. Ma in cosa poteva essere così competente un cieco, da lavorare per la CIA?
Annie era così concentrata su questi pensieri che le sembrò quasi di vedere nella sua mente un gruppo di persone in un grande stanza dove c’erano diversi computer e monitor accesi. Ebbe la sensazione di entrare in quella stanza accompagnata da una donna. Ad una scrivania davanti ad un computer,era seduto un ragazzo, che lei vide di spalle. I folti capelli castano scuro, ricadevano appena sopra la nuca; indossava una giacca grigio scuro e, dal bavero, si intravedeva il colletto di una camicia blu. Gli si avvicinò e notò che aveva una tastiera particolare, sulla quale egli faceva scorrere velocemente le dita affusolate. Il ragazzo si voltò verso le donne: le sue labbra piene e regolari si distesero in un sorriso che incantò Annie.
Le voci degli uomini attorno a lei la riportarono alla realtà. Qualcuno la strattonò per farla camminare. La trascinarono per un centinaio di passi, poi si fermarono. Qualcuno aprì una porta, la fece entrare, fecero ancora qualche passo, si aprì una seconda porta ed entrarono in una stanza dove le venne tolto il cappuccio.
Annie strizzò gli occhi per abituarsi alla luce della stanza. Guardò l’uomo che era con lei. Aveva il volto coperto, cosicché Annie non potesse riconoscerlo.
“Capisci la mia lingua?” le chiese in francese. Annie annuì. Forse continuare a fare la parte della ragazza muta poteva esserle utile. In fondo, né Yebraim né Mebruk l’avevano sentita parlare. L’uomo le tolse il fazzoletto dalla bocca.
“Come ti chiami?” Le chiese ancora. Annie scosse la testa.
“Non vuoi parlare?” le domandò seccato. Annie aprì la bocca come per parlare ma articolò solo qualche suono indistinto. L’uomo la fissò con sguardo interrogativo.
“Cos’è, sei muta?” chiese con aria derisoria. Annie annuì. L’uomo la fissò nuovamente, incerto se crederle o meno. Annie comprese la sua titubanza. Ora doveva giocare d’astuzia e stare molto attenta a non emettere alcun suono per nessuna ragione, nemmeno se l’avessero torturata. Ne valeva della sua credibilità. E questo poteva tornare a suo vantaggio.
Improvvisamente una conversazione riecheggiò nella sua testa “Le bugie ti confonderanno, la verità è più facile da ricordare”. Quella voce, la sua voce, era ancora lì, nei suoi pensieri, che la guidava.
In quel momento entrò un altro uomo. I due cominciarono a parlare in berbero. Annie non capiva quello che stavano dicendo, ma da come la fissavano capì che parlavano di lei.
“Così sei muta, eh?” le chiese il secondo uomo in francese. Annie riconobbe la voce di Mebruk. Lo guardò annuendo.
“Non ne sono molto convinto, sai? Troveremo il modo di farti parlare” poi fece un cenno al compagno e uscirono.
Annie si guardò intorno: la stanza era piuttosto piccola, c’erano dei cuscini scoloriti a ridosso di una parete, un tappeto nel mezzo della stanza e una finestra non molto grande e con le inferriate nella parete di fronte alla porta. Il pavimento era di pietre, le pareti spoglie avevano il ricordo di quello che doveva essere stato dell’intonaco bianco. Un paio di sedie e un tavolino sgangherati completavano l’arredamento del locale.
Devo studiare una possibile via di fuga.” pensò Annie “E dovrei anche trovare il modo di mettermi in contatto con Calder Michaels.” Sorrise fra sé a quest’ultimo pensiero: più facile a dirsi che a farsi.
Poco dopo i due uomini tornarono. La fecero sedere e le diedero qualcosa da mangiare.
“Mi spiace tesednan, ma qui ti dovrai accontentare” la derise quello che poteva essere Mebruk. Annie annuì in segno di ringraziamento.
I due uomini erano ancora a volto coperto. Le slegarono i polsi da dietro la schiena e aspettarono che finisse di mangiare per poi legarla nuovamente. Non lo aveva notato prima, ma nella parete dove c’erano i cuscini, c’era un anello conficcato nel muro al quale i due berberi fissarono le corde che la legavano, lasciandogliele abbastanza lunghe perché potesse sedersi.
Si accomodò sui cuscini e si appoggiò al muro mentre i due uomini uscirono chiudendosi la porta alle spalle. Da dove era seduta, Annie poteva sentirli parlare. Non capiva quello che dicevano anche se intuiva che stessero parlando dell’oasi dove erano accampati poiché avevano nominato Tauodenni almeno un paio di volte. Poi li sentì nuovamente parlare in francese durante un’altra conversazione via radio.
“Abbiamo fatto saltare buona parte dell’oasi di Taoudenni. Vostro padre e sua moglie sono vivi, ma molti berberi e molti turisti…” disse la persona alla radio, lasciando il discorso in sospeso. Annie provò una tremenda stretta al cuore.
O mio Dio!” pensò “cosa sarà successo a Lila e alla sua famiglia? E Calder?”
I due berberi non risposero subito, poi salutarono in berbero i loro interlocutori e chiusero la comunicazione radio. Nella stanza adiacente entrò un terzo uomo, sicuramente un francese, poiché parlava perfettamente la lingua senza inflessioni né storpiature. Annie ascoltò con molta attenzione i loro dialoghi, anche se non riuscì a sentire completamente quello che dicevano. Venne così a conoscenza che le truppe francesi avevano attaccato la zona montuosa del Tigharghar, dove molti guerriglieri jihadisti avevano il loro rifugio. I tre uomini stavano inoltre parlando del piano dei loro comandanti per contrattaccare in alcune zone del Niger prossime al Mali.
La situazione politica è molto delicata” pensò Annie. Nella sua mente cominciò a prender forma un piano per liberarsi.
Aveva contato tre uomini e sperava che non ce ne fossero altri nei paraggi. Il mezzo sul quale erano arrivati era stato posteggiato a circa 70-100 metri, sperava che avessero lasciato le chiavi nel cruscotto. Le corde con le quali era stata legata erano lunghe quel tanto che bastava per farla sedere a terra, non molto in verità. Non sapeva con certezza se gli uomini fossero armati, ma lo erano sicuramente: doveva solo capire che tipo di armi avessero. Il problema più grande, una volta che fosse riuscita a liberarsi, era capire dove fosse e in che direzione andare per tornare all’oasi di Taoudenni.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


~~Capitolo 20

Annie pensava velocemente, analizzando con cura tutte le possibilità.
Prima di tutto doveva riuscire a sapere quanti uomini erano e che tipo di armi avessero. Poi doveva riuscire a liberarsi, ma questo le parve molto più facile da farsi di tutto il resto. Se ci fosse riuscita, avrebbe poi pensato al resto.
Una cosa alla volta.” si disse. Osservò con attenzione le corde e le catene con le quali era legata. La spilla che aveva sotto la tunica probabilmente avrebbe potuto servirle. Khennuj le aveva insegnato come nascondere tra le pieghe della tunica spille e forcine perché “non si sa mai, potrebbero sempre servire.”
Cara Khennuj, quanto avevi ragione.” pensò Annie. Doveva solo aspettare il momento propizio per liberarsi. Le corde le sarebbero poi servite per legare eventualmente gli uomini che l’avevano rapita.
Ora doveva pensare a come sapere quanti uomini fossero presenti nell’edificio. Poco dopo entrò uno di loro portando un piatto con del cibo; la fece alzare, avvicinò una sedia e il tavolino e appoggiò il piatto perché la ragazza potesse mangiare.
“Mangia e accontentati, perché fino a domani non vedrai altro.” le disse.
Annie mangiò con calma, cercando di osservare l’uomo senza farsi notare. Camminava nervosamente avanti e indietro nella stanza, controllava continuamente l’orologio e si era affacciato alla finestra almeno tre volte.
È nervoso, forse aspettano qualcuno. Questo potrebbe complicare le cose.” pensò Annie. Doveva agire in fretta. Guardò l’uomo con insistenza.
“Che hai da guardare?” le chiese. Annie gli fece intendere che aveva sete e che aveva bisogno del bagno. L’uomo uscì e pochi minuti dopo rientrò con uno dei suoi compagni, questa volta erano entrambi armati. La slegarono e la portarono fuori dall’edificio. Annie tenne la testa bassa, per cercare di non dare nell’occhio: non le avevano messo il cappuccio e questo le avrebbe permesso di osservare attentamente la situazione circostante, ma se si fossero accorti di questa mancanza…
L’edificio nel quale l’avevano rinchiusa era fatto di mattoni d’argilla e pietre. Attorno ad esso vi erano almeno altre quattro costruzioni, dietro una delle quali vide il furgone. Era l’unico mezzo, quindi dovevano essere arrivati con quello. Poco lontano dagli edifici c’era una torre nel mezzo di una piazza e tutto era circondato da mura. Cercando di tenere la testa più bassa possibile, Annie memorizzò tutto quello che vedeva. Poi il suo sguardo fu attirato da una costruzione abbastanza imponente, che le ricordava una fortezza. Entrarono in un altro edificio, nel quale le permisero di soddisfare i suoi bisogni corporali, poi le diedero da bere e la riportarono nella stanza che era la sua cella.
Nel breve tragitto non aveva notato altri uomini oltre ai tre che già aveva visto. Avevano dei kalashnikov a tracolla e il volto coperto da un velo avvolto attorno alla testa come un tagelmust, il tipico velo dei berberi.
Dunque, due di loro sono Yebraim e Medruk.” pensò. Il terzo uomo era quasi certa che fosse un francese poiché parlava perfettamente la lingua. Ma parlava anche molto bene il berbero. A lui ci avrebbe pensato con calma. Ora doveva concentrarsi sui due fratelli. Yebraim le sembrava più fragile e vulnerabile, doveva lavorare su di lui. Forse se l’avesse convinto a liberarla… Questo però significava rivelargli che non era muta. E se si fosse sbagliata sul suo conto? No, non poteva essersi sbagliata: i suoi occhi più di una volta avevano rivelato il suo stato d’animo davanti a lei. Le era sembrato di percepire il suo disaccordo col fratello in più di un’occasione all’oasi di Taoudenni. Doveva verificare che fosse davvero così.
Entrambi i fratelli entrarono nella stanza dov’era tenuta legata. Mebruk entrò per primo, Yebraim era alle sue spalle. Lo sguardo di Mebruk era beffardo, quello di Yebraim preoccupato e allo stesso tempo torvo.
“Bene, ragazza mia.” le disse Mebruk “Vediamo se sei veramente muta”. Si tolse il velo dal viso, si diresse verso di lei, la slegò dal muro e la buttò con forza sui cuscini. Annie lo guardò molto spaventata. Mebruk si tolse la tunica rimanendo a torso nudo. Nei suoi occhi Annie vide crudeltà e lussuria. E ne ebbe paura.
“Preparati, fiorellino. Ora conoscerai un vero uomo.” sentenziò Mebruk, lasciandole chiaramente capire quali fossero le sue intenzioni. Le strappò la tunica, poi la bloccò a terra salendole cavalcioni sulle cosce. Con una mano le bloccò i polsi legati sopra la testa e con l’altra finì di strapparle di dosso gli abiti. Poi si allentò la cintura dei pantaloni e se li calò fino a mezza coscia. Le aprì le gambe e con le dita cominciò a toccarla e penetrarla intimamente. Annie cercò di divincolarsi, ma il peso dell’uomo sul suo corpo le rendeva difficile ogni movimento. Annie non emise un gemito.
“Fiorellino, vedrai che ti farò parlare… urlerai di piacere.” sogghignò Mebruk affondando il suo viso tra i lunghi capelli di lei.
Annie guardò Yebraim con gli occhi colmi di lacrime. Era rimasto nei pressi della porta, immobile, con lo sguardo carico di disgusto e di odio per il fratello.
Mebruk alzò leggermente i lombi, preparandosi ad entrare dentro di lei. Annie aspettò l’inevitabile, continuando a divincolarsi come poteva. Stava per chiudere gli occhi quando si accorse di un movimento fulmineo nella stanza. Improvvisamente si sentì inondare il viso e il torace da un liquido caldo e appiccicoso. Spalancò gli occhi e ciò che vide la inorridì. Yebraim aveva tagliato la gola al fratello e il suo sangue si riversò su di lei copiosamente.
Yebraim spostò il corpo del fratello da Annie, le tese la mano per aiutarla a rialzarsi, le porse la sua tunica perché si coprisse e le fece segno di seguirla. Annie capì che aveva avuto ragione, poteva fidarsi di lui.
Uscirono velocemente dall’edificio e si diressero in quello accanto, dove l’avevano già portata in precedenza.
“Qui potrai lavarti. C’è una vasca con dell’acqua. Non è molto, mi spiace.” Yebraim abbassò lo sguardo. “Ti lascio sola, se hai bisogno sono qua fuori.”
“Grazie” sussurrò Annie. Yebraim la fissò a bocca aperta per la sorpresa, poi le sorrise.
“Allora Mebruk aveva ragione, puoi parlare.”
“Sì.”
“Mi dispiace per quello che ti ha fatto. Non ho mai approvato i suoi modi.”
Annie annuì. “Lo hai ucciso per salvarmi. Perché?”
“Se lo avessi semplicemente allontanato da te, mi avrebbe ucciso lui. Tu non sai di cosa può essere capace quando è in quello stato.” La sua voce era profonda e triste. Aveva visto altre volte il fratello violentare delle ragazze, in quei momenti era davvero una furia. Aveva provato anche a fermarlo, ma si era reso conto che poteva essere più dannoso che lasciarlo fare. Quando provava quell’impulso irrefrenabile, non si riusciva a farlo ragionare, era come se fosse sotto l’effetto di qualche droga o fosse posseduto da chissà quale demone.
Annie annuì in segno di ringraziamento, poi si diresse alla vasca, si lavò e le parve di rinascere. Yebraim tornò, le porse un telo per asciugarsi e le diede i vestiti che era andato a prendere dove Mebruk glieli aveva strappati.
“Riesci a sistemarteli?” le chiese con tono gentile.
“Sì. Khennuj mi ha insegnato come usare spille e forcine.”
“Bene. Dovremo andarcene da qui il più presto possibile, domani mattina.”
Uscirono dall’edificio e si diressero al furgone. Il tramonto tingeva di tonalità accese il cielo, con sfumature dall’arancione al viola sempre più intenso. In pochi minuti sarebbe stato buio.
“Dormiremo nel furgone.” disse Yebraim.
“Dove siamo?” chiese Annie.
“Nella miniera di sale di Taghaza, circa 95 miglia a nord-ovest di Taoudenni. Ora è un’oasi. È stata abbandonata da moltissimi anni, ma i turisti a volte vengono in visita qui, non in questo periodo però.”
“Dove andremo?”
“Noi avremmo dovuto raggiungere i nostri compagni a Sigilmassa, in Marocco, nei prossimi giorni. Ora dovremo valutare bene la strada da prendere. Dovrò riportarti a Taoudenni, dai tuoi connazionali.”
“Ho sentito che l’hanno fatta esplodere.”
“Sì. I miei genitori sono ancora vivi, spero lo siano anche i tuoi amici americani. E spero siano ancora vivi anche Ghumer e la sua famiglia. Sono sempre stati molto buoni con me, fin da quand’ero bambino.”
“Perché mi hai salvato?”
“Cosa intendi?” Yebraim la fissò.
“Potevi semplicemente uscire dalla stanza e andartene, potevi ignorare quello che stava facendo tuo fratello, ma non l’hai fatto. Perché?”
“Non potevo solo far finta di niente. Mio padre, forse, non mi perdonerà mai.”
“Non hai risposto alla mia domanda.” disse Annie. Si guardarono per un lungo momento negli occhi, poi Yebraim distolse lo sguardo.
“Nel retro del furgone ci sono delle coperte e un paio di cuscini. Puoi dormire lì. Io resterò qui, così appena farà giorno partiremo. Se dormi, non ti sveglierò”
Annie lo ringraziò nuovamente, poi andò nel retro del furgone e si preparò per la notte. Nella sua mente aveva ancora lo sguardo di Yebraim, uno sguardo che le aveva detto più di molte parole. Capì che poteva fidarsi di lui, poteva farsi aiutare. E capì anche che lui l’avrebbe difesa, se fosse stato necessario. Ma più di ogni altra cosa capì il motivo per cui lui l’avrebbe aiutata. Yebraim si era innamorato di lei e, se da una parte questo la lusingò, dall’altra, ne fu dispiaciuta. Non avrebbe mai potuto ricambiare questo sentimento se non con della gratitudine, ma nulla di più.
Annie si sdraiò tra le coperte cercando di dormire, ma le immagini di Mebruk su di lei erano ancora così vivide nella sua testa che le impedirono di prendere sonno. Chiuse gli occhi e cercò di pensare a qualcosa che potesse tranquillizzarla. Tra i suoi pensieri si fece spazio quello che poteva essere un ricordo.
Stava camminando, fianco a fianco, con qualcuno; c’erano molte biciclette attorno a loro mentre attraversavano un ponte su un canale. Poi riconobbe la voce della persona che era con lei, quella voce calda e profonda. Dovevano essere in missione.
Voglio che funzioni.”
“Funzionerà. C’era un sergente al campo di addestramento, ci insegnò una cosa che non ho mai dimenticato. Andare in battaglia è come spegnere le candeline di una torta”
“Non capisco quello che significa.”
“Significa non pensarci troppo. Fai tacere i tuoi pensieri, fai silenzio nella testa. Chiudi gli occhi e pensa intensamente a una cosa positiva che vuoi. Oppure a una cosa che ami.”

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