L'amore ai tempi di tequila

di MZakhar
(/viewuser.php?uid=82275)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Highway to hell ***
Capitolo 2: *** Mobumaso ***
Capitolo 3: *** Alice in Wonderland ***
Capitolo 4: *** Non avere paura del buio ***
Capitolo 5: *** Come montare un castello di carte (istruzioni per principianti) ***
Capitolo 6: *** Come demolire un castello di carte (guida pratica di un cuore infranto) ***
Capitolo 7: *** Lo scoppio di una bomba ***
Capitolo 8: *** I love shopping folle ***
Capitolo 9: *** Vi, per vendetta! ***
Capitolo 10: *** How I met your mother... ***
Capitolo 11: *** Vecchiette, filantropi e ragazze ribelli ***
Capitolo 12: *** Coin ***
Capitolo 13: *** Una serie di sfortunati eventi ***
Capitolo 14: *** Gatti curiosi e caramelle dagli sconosciuti ***
Capitolo 15: *** Il triangolo no, non l'avevo considerato... (Figuriamoci il quadrato!) ***
Capitolo 16: *** La fine di un'Era ***
Capitolo 17: *** Bond Girl ***
Capitolo 18: *** Le luci di San Lombardo ***



Capitolo 1
*** Highway to hell ***


Image and video hosting by TinyPic



1
H I G H W A Y   T O   H E L L



Pioveva.
Guardai fuori dalla porta-finestra e mi ammosciai sul tavolo; era possibile che per tutta la settimana ci fosse stato il sole e avesse deciso di diluviare nel weekend? Proprio stasera che avevo un appuntamento importante con Carlo... Che tristezza! Non pensavo che il tempo avrebbe potuto essere davvero un impedimento alla nostra serata, tuttavia ebbi paura che la sua compagna avrebbe cercato di tenerselo al calduccio a casa e gli avrebbe chiesto di non uscire.
Chiusi gli occhi per qualche istante e sospirai. Improvvisamente mi sentivo davvero patetica. Frequentavo un uomo già impegnato, lavoravo per lui fingendo che fosse solo il mio capo e guadagnavo una miseria, appena sufficiente per pagarmi le bollette. Come mi ero ridotta così? Probabilmente nella mia vita precedente avevo fatto qualcosa di terribile. O forse alla sfortuna piaceva il mio monolocale al sesto piano, pieno di spifferi e con la caldaia quasi arrugginita.
No. Mi stavo autocommiserando un’altra volta! Quante volte mi dovevo ancora ripetere di restare positiva? Carlo avrebbe lasciato la sua ragazza molto presto, dopodiché ci saremmo trasferiti in una casetta sulla spiaggia e lì avremmo aperto un gastro-pub che avrebbe fatto un sacco di successo.
Sì, era così che sarebbe andata!
Con questo spirito mi alzai e andai allo specchio del bagno, rivolgendomi un sorriso incoraggiante. Il mio riflesso lo ricambiò storcendo la bocca in una smorfia. Potevo sforzarmi di sorridere ancora a lungo, non avrebbe abbellito l’orribile cera che avevo: i capelli si erano appiccicati alla fronte come alghe rosse, la pelle aveva un colorito grigiastro e le sclere erano iniettate di sangue. Colpa della sbronza di ieri sera, senz’altro! Quante volte ancora mi sarei lasciata trascinare nelle bravate di Giorgia? Aprii un’anta dell’armadietto sotto il lavello e presi il collirio, mettendomene due gocce negli occhi. Cos’era che le avevo aiutato a sgraffignare stavolta? Uno di quei costosissimi accendini col tappo, e doveva essere successo mentre il tabaccaio – un ometto basso, panciuto e spelacchiato – era stato troppo impegnato a guardarmi dentro la scollatura. Adesso capivo perché Giorgia aveva preteso che mi sbottonassi la camicetta quasi fino allo stomaco. Quella ragazza aveva bisogno di un uomo che le mettesse la testa a posto! Io avevo provato a parlarle, davvero. Ma ogni volta era andata a finire che mi aveva riempito un bicchiere di tequila (sapendo che non avrei resistito) e avevo perso il filo del discorso. E naturalmente Giorgia ne aveva approfittato per non tornare più sull’argomento e riempirmi nuovamente il bicchiere. Dopodiché mi aveva trascinato in giro per la città a compiere atti di cui entrambe sapevamo mi sarei pentita il giorno successivo. Il rimorso era stata la sensazione che avevo provato anche stamattina. Se non altro – anche se di certo non era una scusa accettabile – stavolta si era trattato solo di un accendino, a differenza della scorsa settimana, quando si era portata via una borsetta di Chanel. Come ci fosse riuscita, non volevo ricordarmelo!
Aprii il rubinetto dentro la cabina della doccia e attesi il solito schiocco della caldaia al di là della finestrella. Miracolosamente ci mise solo cinque minuti per accendersi, forse perché prima avevo usato l’acqua calda per lavare i piatti. Non indugiai comunque troppo a mettermi sotto il getto, quella ferraglia avrebbe potuto spegnersi quando meno te lo aspettavi e lasciarti tutta insaponata, a tremare di freddo.
Mentre mi stendevo il bagnoschiuma sulla pelle, mi tornò in mente l’ultima volta che io e Carlo ci eravamo visti. Era successo a casa sua, durante il viaggio di lavoro della sua compagna. Quel giorno avevamo fatto l’amore in ogni angolo della loro casa e ci eravamo concessi un lungo bagno nella jacuzzi. Per l’occasione, Carlo mi aveva preso degli oli profumati, impegnandosi a stenderli ovunque potessero arrivare le sue mani. Inutile sottolineare che la cosa era piaciuta così tanto a tutti e due che eravamo finiti per fare l’amore anche dentro la vasca.
Al solo ricordo sentii le farfalle nello stomaco. Carlo mi mancava da morire. Avrei voluto baciarlo, accarezzarlo e lasciarmi andare a lui senza preoccuparmi che da un momento all’altro sarebbe stato costretto a correre da un’altra donna. Certo, mi rendevo contro che era sbagliato volere l’erba del vicino, ma non ero stata io a cercarmela.
Convinta delle mie ragioni, uscii dalla doccia coprendomi con un asciugamano. Poi andai all’armadio e controllai che il vestito rosso che mi aveva regalato mamma fosse ancora dentro la sua scatola, intatto e pulito. Lo tirai fuori ammirandolo, ringraziandomi mentalmente per non aver opposto resistenza quando mamma aveva deciso di comprarmelo. Sarebbe stato perfetto per una serata tanto speciale!
Era stata Francesca a innescare tutto, quando stamattina mi aveva chiamata per raccontarmi di aver visto Carlo uscire da una gioielleria con un pacchettino in mano. E si dava il caso che la gioielleria in questione fosse stata la stessa in cui avevo adocchiato un meraviglioso solitario due settimane prima, sbavando senza ritegno sulla vetrina. Dentro la mia testa avevo già immaginato ogni dettaglio: Carlo che mi dichiarava il suo amore eterno, l’anello che brillava timidamente sul mio dito e le mie colleghe che schiantavano d’invidia, domandandomi chi fosse il mio misterioso corteggiatore. E a quel punto io mi sarei scambiata una fugace occhiata con Carlo che avrebbe sorriso soddisfatto sotto i baffi. Non potevo sbagliarmi, l’anello sarebbe stato mio! Dopotutto Carlo mi aveva chiamato subito dopo Francesca e mi aveva dato appuntamento in un ristorante di quelli costosi, raccomandandosi di essere elegante.
Oh, sarei stata la donna più felice di questo mondo!
Feci una giravolta col vestito accostato al petto e per poco non finii per sbattere contro il comodino. L’asciugamano mi cadde e nello stesso istante uno spiffero d’aria fredda entrò dagli infissi, facendomi battere i denti. Allora corsi indietro nel bagno, al calduccio, pensando di iniziare con i preparativi per la cena. Mi impegnai per più di un’ora con il phon e la spazzola, mi truccai seguendo un complicato tutorial su YouTube e infine mi vestii, approfittando dell’occasione per sfoggiare non solo l’abito ma anche il mantello di Burberry che mi aveva regalato Carlo a Natale. Sarebbe stato perfetto. E aveva pure smesso di piovere!
Impaziente, ignorai il fatto di essere in anticipo e decisi di uscire.
Nell'ascensore incontrai la signora Petrelli, salutandola con un caloroso gesto della mano. In genere non accadeva mai perché non facevamo altro che litigare, per lo più per il fatto che mi rifiutavo di partecipare alle riunioni condominiali. Ma il mio coraggioso atto a quanto pare l’aveva confusa a tal punto che non riuscì a farmi la solita predica né si lamentò del fatto che i miei tacchi avrebbero disturbato il suo sonno quando sarei rientrata, e mi appuntai mentalmente di farlo più spesso.
Fuori non faceva tanto freddo quanto mi sarei aspettata, anche se i minacciosi nuvoloni neri erano sempre lì, in agguato. Nella fretta però non avevo pensato all’ombrello e non avevo voglia di tornare in casa a prenderlo. Quindi, augurandomi che non iniziasse a piovere un’altra volta, m’incamminai a passo lento lungo il viale che costeggiava il fiume fino a giungere al punto in cui sboccava nel mare, giusto a pochi metri dal ristorante in cui Carlo aveva prenotato a mio nome. Il posto si chiamava “L’orizzonte” ed era davvero uno spettacolo, con gente alla moda e macchine costose parcheggiate all’ingresso. All’inizio fui intimorita dal maître che sostava fuori in attesa dei clienti, ma quando lui si dimostrò disponibile tirai un sospiro di sollievo e mi lasciai accompagnare fino a un tavolino sulla terrazza da cui si poteva godere di una fantastica vista sul molo. Mi aveva pure scostato la sedia, tolto il mantello e domandato se desiderassi dare un’occhiata alla carta dei vini che io avevo rifiutato chiedendo solo dell’acqua. Dopo la serata con Giorgia mi sembrava la scelta più saggia. Il maître aveva annuito e un minuto dopo mi aveva mandato un cameriere con una bottiglia d’acqua delle alpi.
«Desidera altro?», domandò questo.
«Preferisco aspettare il mio amico», risposi, e lui se ne andò senza insistere.
Lo osservai sparire dentro la sala al coperto e controllai l’ora sul telefono: erano appena passate le sette e mezza e ciò significava che avevo ancora un sacco di tempo a mia disposizione. Così mi misi a giocare a una battaglia online, fingendo di fare qualcosa di importante. Una decina di minuti più tardi però me n’ero già stufata e avevo staccato, guardandomi attorno in cerca di una distrazione. La mia attenzione fu catturata dall’anziana coppia a pochi tavoli di distanza da me; quei due si stringevano le mani come se fossero ancora in luna di miele e li invidiai tantissimo. Anche io e Carlo saremmo invecchiati guardandoci negli occhi e amandoci come il primo giorno?
Il fatto che non fosse ancora arrivato mi spinse a controllare l’ora ancora una volta. I numeri digitali mi informarono che mancavano appena dieci minuti alle otto. Strano che non fosse già qui, era sempre stato lui quello in anticipo e io la ritardataria... ma chissà! Magari in questo preciso momento lui stava rompendo con la sua compagna, svelandole il nostro segreto perché voleva fare finalmente le cose nel modo giusto. Alle otto però mi ricordai che mi aveva parlato di un appuntamento di lavoro a Genova e questo mi indusse a pensare che forse aveva avuto un contrattempo e avrebbe tardato di qualche minuto. Tuttavia alle otto e dodici non si era ancora visto e cominciai a tamburellare con le dita sul tavolo e a mordicchiarmi il labbro inferiore, infischiandomi di averci messo un quarto d’ora per applicare il gloss.
Il cameriere passò per chiedermi se desiderassi un antipasto e il mio stomaco ruggì selvaggiamente. Sicura che l’avesse sentito anche lui, mi vergognai un sacco e ci tenni a puntualizzare che oggi mi ero accontentata solo della colazione – con una mela e del succo ACE per di più – e che avrei gradito qualche crostino con salmone che mi stava suggerendo. Me li portò quasi subito e io ne sgranocchiai un paio, finché non notai che erano ormai le otto e trenta e il mio stomaco si chiuse. Il buonumore iniziò a dissiparsi lasciando posto alla preoccupazione mista a irritazione. Di conseguenza presi il telefono e composi a memoria il numero di Carlo. Il telefono squillò a vuoto e al quarto tentativo mi diede addirittura la segreteria. Non riuscivo a crederci. Aveva spento il telefono?
«Tutto a posto signorina?», domandò avvicinandosi il maître.
Doveva aver notato la mia espressione sconvolta e si era preoccupato che ci fosse qualcosa che non andava con il cibo.
«Sì», gli assicurai.
«Il suo accompagnatore non si unirà a lei per cena?», s’interessò allora.
«Non penso», replicai tornando a guardare il cellulare.
«In tal caso desidera ordinare?».
«No».
«Nessun problema, provvederò immediatamente a farle avere il conto».
Il conto?
Alzai gli occhi dal telefono per guardare il maître, ma la sua figura da pinguino stava già svanendo dentro il salone. Allora la mia fronte si imperlò di sudore e mi domandai quanto potessero costare una bottiglia d’acqua e cinque crostini in un posto simile. La risposta mi lasciò a bocca aperta! Impossibile credere a quello che stavo leggendo sullo scontrino...
«Siete andati direttamente sulle alpi a prendere l’acqua e il salmone?!», mi lamentai, tirando il portafoglio fuori dalla borsetta.
Il maître, evidentemente non abituato a certe reazioni, abbandonò per un attimo la sua postura rigida e sbatté un paio di volte le palpebre. Poi mi studiò attentamente dalla testa ai piedi e fece una smorfia.
«Se non può permettersi di pagare...», insinuò.
Aveva alzato la voce un po’ troppo e la gente attorno a noi si voltò nella mia direzione, facendomi sentire malissimo.
«Sa una cosa?», replicai allora, sbattendo sul tavolo una banconota da cinquanta, «Si tenga pure il resto!».
E con questo mi alzai e abbandonai la terrazza per dirigermi verso il centro. Solo una volta che ebbi attraversato i prati di Piazza Grande mi venne in mente che mi ero scordata il mantello, ma di tornare indietro non se ne parlava neanche! Sarei passata a recuperarlo domani a pranzo o un altro giorno, in un posto del genere non correvo il rischio che qualcuno me lo potesse rubare. Adesso invece avevo bisogno di abbandonare tutti i miei buoni propositi e di bere della buona tequila. E l’unico posto in cui potevo trovarla a un prezzo irrisorio – dopo quello che avevo sborsato al ristorante non potevo permettermi grandi spese – era “La tana del lupo”, un vecchio pub su una stradina laterale a due passi dalla Coin.
Lì andai, facendo tintinnare il campanello sopra la porta d’ingresso quando l’ebbi spalancata. Tutti gli occhi si puntarono subito su di me e intuii che il problema stava nel mio abbigliamento: avrei potuto scommetterci una mano che nessuno dei presenti avesse mai visto una giovane donna in ghingheri qui dentro, nemmeno da sbronzo. E il fatto che il mio abito fosse pure di un rosso acceso mi garantì di non passare inosservata. Attraversando il salone infatti un tizio mi fischiò e un altro si alzò per gridare di unirmi al loro tavolo. Li ignorai entrambi, accomodandomi con la grazia di Godzilla sullo sgabello di fronte al bancone.
Il barman, che all’apparenza era un ragazzino appena maggiorenne, mi fece l’occhialino e si sporse verso di me in attesa dell’ordine.
«Vorrei della tequila, sale e limone», dissi con voce piatta, facendogli capire che non ero interessata ai bambini.
Leggermente deluso, il ragazzino andò a prendere la bottiglia e un piattino. E mentre lui tagliava due fette di limone io riprovai a comporre per ben due volte il numero di Carlo. Ma niente da fare, il bastardo continuava a essere irraggiungibile.
«Fanculo!», sputai allora buttando giù.
Non lo sopportavo quando mi abbandonava così, senza spiegazioni!
«Wow», sentii dire all'uomo accanto a me, «Qualcuno deve averti fatta incazzare sul serio».
Gli scoccai un’occhiataccia.
«Non penso che ti riguardi», risposi sinceramente.
Intanto il barman mi servì, perciò mi inumidii la pelle tra l’indice e il pollice e ci misi su il sale. In seguito lo leccai, buttai giù lo shottino e dopo aver morso una fetta di limone chiesi di riempirmi di nuovo il bicchiere.
«...è che non ho mai visto una ragazza tanto carina bere come se non ci fosse un domani», riprese lo sconosciuto dopo una breve pausa.
Io sospirai e mi voltai per fronteggiarlo.
«E la cosa ti crea qualche problema?», domandai già sul piede di guerra.
Lui alzò le mani in segno di resa e il barman mi versò altra tequila. Ripetei il rituale più veloce di prima e pretesi un altro giro. Mentre il ragazzino si apprestava ad accontentarmi, al bancone arrivò un omone pieno di tatuaggi, strizzato dentro una maglietta nera. Ordinò una doppio malto e mi mise una manona sulla spalla.
«Che ci fa una donna come te tutta sola?», chiese esibendo un sorriso che non mi piacque affatto.
M’irrigidii, sentendo la spalla andare giù sotto il suo peso. Avevo ancora lo spray al peperoncino dentro la borsa? Altrimenti non avrei esitato a infilargli un tacco nell’occhio...
Ma con mia enorme sorpresa e sollievo non ci fu bisogno di gesti estremi. Anche l’uomo accanto a me mi mise una mano addosso, più precisamente attorno alla vita, sottraendomi con un’abile mossa alla presa del gorilla.
«Chi l’ha detto che la mia ragazza è qui da sola?», chiese candidamente.
L’altro lo squadrò riducendo gli occhietti già piccoli in due fessure minuscole e capii che non gli credeva. Allora feci l’unica cosa che mi venne in mente: mi tirai indietro sullo sgabello e mi spalmai sopra lo sconosciuto, rivolgendo all’omone un sorriso raggiante.
«Sarà per un’altra volta», dissi.
Lui continuò a squadrarci. Il dubbio nel suo cranio lucido era palpabile: da una parte c’era una fanciulla che sembrava pronta per il “Red Carpet”, dall’altra un giovane uomo con la giacca in pelle e jeans strappati che sorseggiava una birra. Non ci avrei creduto manco io. Neanche se fossi stata davvero la ragazza del tizio alle mie spalle.
«Sai, la sua serata tra donne è saltata ed è un po’ infastidita stasera», intervenne quest’ultimo quasi a voler giustificare la differenza d’abbigliamento e mi diede un fugace bacio tra i capelli.
Frenai la voglia di scansarmi e mi strinsi nelle spalle.
L’omone ci studiò ancora per un secondo, poi prese la sua birra e se ne andò sbattendo la porta d’ingresso. Finalmente lasciai andare il fiato e il tizio accanto a me si mise a ridere. Mi tolse subito le mani di dosso.
«Lo trovi divertente?», gli domandai rimettendomi in sesto.
In tutta risposta lui afferrò il mio sgabello e se lo tirò più vicino.
«Nel caso tornasse», spiegò con nonchalance.
Io sbuffai e ripresi a bere. Ero arrivata al terzo giro e cominciai ad avere un po’ di caldo.
«Però su una cosa ha ragione», riprese il tizio, «Non dovresti girare da sola in certi posti».
Mi feci riempire un’altra volta il bicchiere di tequila e la buttai giù così, senza né sale né limone, accusando il terribile impatto con lo stomaco. Presi persino a tossire, spingendo il tizio a darmi qualche barbara pacca sulla schiena.
«Non-sarei-sola-se-qualche-porco-non-mi-avesse-dato-buca!», mi lamentai tra un colpo di tosse e l’altro.
Non avrei dovuto bere la tequila liscia, sapevo che non l’avrei retta. Eppure l’avevo fatto e avevo intenzione di rifarlo ancora.
«Oh!», esclamò il mio finto fidanzato, «Il problema è un uomo, quindi...».
«E non solo il mio», grugnii, chiedendo al barman un altro schottino.
Il ragazzino esitò ma non disse niente. Evidentemente cominciavo ad avere una brutta cera.
«Versane uno anche a me e metti tutto sul mio conto», chiese il tizio.
«Oh!», esclamai allo stesso modo, «Cerchi di comprarmi, quindi...».
Lui arricciò la bocca in un sorrisetto e mi guardò dritto negli occhi.
«Sta funzionando?».
Ricambiai l’occhiata, stringendo le palpebre per sembrare minacciosa e rimanemmo a fissarci a questo modo per un po’, finché il mondo non iniziò a perdere i contorni e non ressi più.
«Al diavolo...», borbottai allora, allungando una mano verso il bicchiere.
Ma il mio finto fidanzato fu più veloce e me lo sfilò da sotto il naso portandoselo alla bocca.
«Hei!», protestai, «Hai già il tuo!».
In quel momento mi squillò il telefono e dovetti rinunciare al mio bicchiere per tirarlo fuori dalla borsa. Mi si annodò lo stomaco quando lessi sullo schermo il nome di Carlo. Aprii il suo messaggio e m’incupii. Diceva solo:

SCS.
GROSSI PROBLEMI A CASA.
GIURO CHE MI FARO’ PERDONARE.


Problemi a casa? E di che genere? La sua compagna stava di nuovo cercando di tagliarsi le vene per sport? Avrebbe potuto anche avvertirmi!
Sentii l’urgente bisogno di annaffiare l’odio che mi stava salendo con altra tequila.
«Tutto bene?», domandò il tizio percependo il mio improvviso cambio d’umore.
Io però mi rivolsi direttamente al barman: «Voglio tutta la bottiglia», dichiarai.
Il ragazzino assunse uno sguardo attonito, spostando gli occhi da me all’uomo al mio fianco. Non potevo biasimarlo. Stavo mettendo a dura prova il mio limite di resistenza all’alcol. Un altro bicchiere sarebbe bastato a mettermi K.O., era evidente. Ma il problema era che era esattamente ciò che volevo. Lo capì anche il mio finto fidanzato e il suo sguardo si fece più attento, seppure non cercò di fermarmi. Al contrario, fece un cenno al ragazzino insinuando di portare la bottiglia. Quello si oppose spiegando che fosse contro le regole, il cinquantino però risolse ogni cosa e presto lo sconosciuto reggeva una bottiglia tra le mani. Okay. In realtà era solo una mezza bottiglia, ma non me ne serviva di più. Sorrisi al mio benefattore e i suoi occhi scuri presero a vorticare leggermente. Allora strinsi le palpebre per un secondo e lo rimisi a fuoco, allungando poi una mano verso la bottiglia.
«No», disse lui, «I soldi erano miei, perciò decido io come spartircela».
Feci una smorfia.
«Se vuoi che mi tolga la maglietta, scordatelo!», lo avvisai.
Lui inarcò un sopracciglio.
«Tu non porti la maglietta», osservò.
Mi guardai la scollatura a cuore del vestito: touché!
A questo punto ci fu una pausa e il barman ne approfittò per dileguarsi, in parte perché non voleva più assistere e in parte perché era arrivata l’ora di mettere la musica. Lo osservai trafficare davanti lo stereo con alcuni CD, riflettendo.
«Che cosa vuoi?», domandai infine.
Il tizio si alzò dallo sgabello e mi porse una mano. Non ero sicura di volerla accettare, ma lo feci lo stesso. Fortunatamente aveva una presa abbastanza salda perché non appena mi alzai il mondo mi traballò sotto i tacchi e lui dovette sorreggermi.
«Stai cercando di rapirmi?», gli domandai, affrettandomi a liberarmi dalle sue mani.
Lui mi lasciò andare e curvò la bocca in un ghigno.
«Naturalmente. E poi farò fuori tutti i testimoni».
Mi accigliai, lui sospirò.
«Cambiamo solo posto. O vuoi bere direttamente dalla bottiglia davanti a tutto il pub?».
«Possiamo sempre riempire i bicchieri», gli feci notare.
Lui sospirò di nuovo.
«Quel ragazzino ha fatto uno strappo alla regola solo per noi. Cosa pensi che accadrebbe se vedendoci anche gli altri pretendessero di prendersi una bottiglia?»
Di fronte a questo ragionamento non trovai nulla da obbiettare. Quindi lo seguii a un tavolino rotondo in un angolo appartato, dove nessuno avrebbe fatto caso a noi – nemmeno con il mio vestito rosso acceso – e lì cercai di nuovo un contatto con la bottiglia.
«Sembri un’alcolizzata in astinenza», osservò il tizio, spostandola pazientemente più lontano da me.
«Per quel che ne puoi sapere, potrei anche esserlo», ribattei piccata.
Lui sbuffò e si tolse la giacca; la vista del fisico atletico che si nascondeva sotto il maglioncino mi spiazzò.
Lo sentii rivolgermi un altro ghigno.
«Adesso chi è la maniaca?», domandò.
Colta in flagrante preferii non rispondere.
«Okay, ti propongo di fare un gioco», proseguì lui, posizionando la bottiglia sul dorso, in mezzo a noi.
«Che gioco?».
«Un gioco molto semplice che di sicuro conosci: obbligo o verità».
«Oh, andiamo...», sospirai.
Lui mi zittì con un gesto della mano.
«Ognuno gira la bottiglia. Se si ferma su di te, scegli se preferisci dire la verità o se preferisci un obbligo. Stessa cosa vale per me».
«Le conosco le regole», osservai.
Lui mi zittì di nuovo.
«Qui però entra in gioco la variabile dell’alcol... Per ogni verità che dici e per ogni azione che svolgi, puoi avere un sorso dalla bottiglia. Altrimenti a bere sarò io. E viceversa».
«Che ne sai che dirò la verità?».
«Diciamo che mi fido sulla parola», sorrise, poi aggiunse: «Allora, ci stai?», e mi allungò una mano.
«Ci sto», gliela strinsi.
Quindi il barman mise su un CD degli AC/DC e il gioco partì a ritmo di “Highway to hell”.
Il primo turno fu il tizio a girare la bottiglia che si fermò dritto davanti a me, neanche a farlo apposta. Scelsi la verità e lui mi domandò il mio colore preferito. Una domanda che trovai un po’ stupida a cui risposi sinceramente «lilla», guadagnandomi così il tanto agognato sorso. Poi toccò a me, ma non ebbi la stessa fortuna e la bottiglia si fermò nel vuoto, perciò il tizio dichiarò che sarebbe stato lui a bere, dopodiché la ripose sul tavolo e la fece girare di nuovo. La bottiglia puntò abbastanza vicino a me da permettergli di farmi un’altra domanda sciocca, perché avevo preferito di nuovo la verità all’obbligo. Stessa cosa accadde al turno successivo. Alla fine venne fuori che io adoravo i gigli, che la musica che preferivo era quella contemporanea, a prescindere dal genere, e che ogni tanto mi piaceva andare a guardare l’alba dal tetto del condominio in cui abitavo.
«Mmmh», ci pensò su quando toccò di nuovo a lui, «Perché eri così arrabbiata stasera?».
Dovetti prendere un bel respiro prima di rispondere a questa.
«Perché Carlo è con un’altra stasera, anche se mi aveva promesso una serata romantica. Mi sono persino illusa che mi avrebbe regalato un anello e che avrei finalmente potuto permettermi di pensare al nostro futuro. Non ho più desiderato altro da quando abbiamo iniziato a frequentarci. Sono così stupida, non trovi?».
A questo punto calò il silenzio. Nella mia mente riaffiorarono le immagini di me, seduta da sola a un tavolo mentre Carlo stava probabilmente accarezzando Lisa, sussurrandole che la amava, e non riuscii a fermare le lacrime che presero a scorrermi silenziosamente sulle guance. Il mio nuovo amico attese che proseguissi ma non lo feci.
«Obbligo o verità?», gli chiesi di punto in bianco, anche se la bottiglia era rimasta ferma sul tavolo.
Lui non rispose e il suo pomo d’Adamo si mosse nervosamente su e giù.
«Obbligo o verità?», insistetti.
«Obbligo...», concesse.
Era la prima volta che uno dei due non sceglieva la verità. Non gli dissi comunque niente, mi limitai ad avvicinarmi e a guardarlo negli occhi. Forse era colpa dell’alcol ma notai finalmente quanto fosse carino, studiai il suo viso da bravo ragazzo e inspirai a occhi chiusi l’odore di menta del suo dopobarba e quello del respiro che sapeva di alcol.
Mi girava la testa.
«Senti...», provò lui, ma gli proibii di continuare.
Se poteva farlo Carlo, potevo farlo anch’io.
Prima che potessi cambiare idea, mi sporsi in avanti e lo baciai. Così, semplicemente. Sulle prime lui non ricambiò, poi però le sue mani mi corsero freneticamente sulla schiena e mi bloccarono in una forte stretta. Le mie lacrime si mescolarono sulle nostre labbra mentre prendevano velocità. Stringendomi a lui ne volli di più. Volli qualcuno che mi facesse sentire desiderata e che fosse solo mio. Anche se fosse stato solo per una sera.
Così persi definitivamente la cognizione di ciò che mi circondava...

Mi svegliai solo nel tardo pomeriggio, starnutendo. Ero stesa sul divano-letto del mio appartamento, la leggerezza della sera prima era svanita e adesso la testa mi pesava quanto un macigno. Di nuovo. Quando avrei imparato a dire di no alla tequila? Come se non mi rimproverassi abbastanza...
Cercai di alzarmi, ma il mondo prese a ciondolare, così dovetti ristendermi domandandomi di chi fosse la giacca nera buttata per terra. Ebbi un breve flash di due occhi scuri che mi scrutavano. Uno sconosciuto? Certo, il tizio del pub che si era finto il mio ragazzo... Non mi ricordavo il suo nome, però. Perché non mi ricordavo il suo nome? Divertente. Non ci eravamo presentati. Eppure ero certa che la giacca fosse sua. E perché la sua giacca doveva trovarsi sul mio pavimento? Un altro breve flash di labbra che sfioravano il mio collo e mi nascosi il viso tra le mani. Che diavolo avevo combinato?! Mi obbligai ad alzarmi e andai dritto verso l’armadietto delle medicine, presi due pasticche di aspirina e le mandai giù con mezzo litro d’acqua. Mi sforzai di nuovo di ricordare: il pub, lui, il gioco della bottiglia... Il suo colore preferito era il verde, non era fidanzato, era appena tornato dall’America. D’accordo, e poi? Tutto si faceva più confuso. Gettai un’occhiata fuori dalla finestra dal lato della cucina come se potesse aiutarmi in qualche modo. Fuori pioveva anche oggi. Starnutii di nuovo e mi toccai il vestito, quasi a volermi accertare che non me lo stessi immaginando: era umido. Avevo dormito così? Non mi stupii più di sentire un leggero bruciore al petto. Lo tolsi immediatamente per non rischiare di prendermi una brutta influenza e corsi in bagno. Avevo intenzione di farmi una doccia calda, ma prima dovevo schiarirmi la nebbia che avevo in testa. Perciò accesi il rubinetto e senza attendere lo schiocco della caldaia entrai direttamente sotto il getto freddo. Dieci minuti dopo mi sentivo già parecchio meno sbronza e l’acqua cominciava a diventare tiepida, riscaldandomi la pelle d’oca. Continuavo a non ricordarmi nulla, però. Solo brevi frammenti di qualcosa che non aveva senso. Come le mie gambe avviluppate attorno alla sua vita o il modo in cui ridevamo mentre lui mi tirava su.
Accidenti!
Ebbi paura di aver tradito Carlo... Ma era possibile tradire qualcuno che nemmeno ti apparteneva? Chiusi il rubinetto dell’acqua e mi avvolsi nell’asciugamano. Fissai distrattamente le pantofole di pelo lilla e con gesta meccaniche andai a mettermi un pigiama.
Che cosa avrei dovuto fare ora?

Lunedì mattina ero ancora indecisa.
Avevo passato tutta la domenica a torturami sui miei ricordi (e a ignorare le chiamate di Carlo), ma alla fine non ne avevo ricavato nulla di buono. Dovevo confessare tutto? Non lo sapevo, non ne avevo semplicemente il coraggio. Allora, mentre scendevo nel garage per recuperare la macchina, avevo deciso che avrei agito sul momento. Ma quando arrivai in ufficio le ginocchia mi tremarono e fui sul punto di tornare a casa e telefonare per darmi malata, ma venni intercettata da una vocina squillante.
«Ah eccoti!», esclamò Valentina, materializzandosi davanti a me come un Dissennatore, «Sei di nuovo in ritardo! Per fortuna la riunione non è ancora iniziata. Carlo è decisamente troppo buono con te!», si lamentò.
Le diedi il buongiorno e finsi di non aver sentito il resto. Di tutti i miei colleghi, Valentina era sicuramente la più irritante. Nei suoi quarantasette anni non si era mai sposata né l’avevamo mai sentita parlare di un uomo da quando lavorava qui. Probabilmente non esisteva niente che potesse interessarle più del suo posto di Responsabile e pur di tenerselo sarebbe passata sui nostri cadaveri. Il che era abbastanza comico, considerando che nessuno di noi era interessato a far carriera dentro un call-center.
«È già arrivato?», le domandai quindi, riferendomi al nostro capo.
«Prima di te!», puntualizzò lei, gettandomi un’occhiata torva.
Mi limitai a ringraziarla e mi dileguai tra le scrivanie salutando qua e là con la mano. Valentina fortunatamente non mi seguì e rimase dov’era, ricordando un minaccioso folletto con le mani piene di scartoffie. Riuscivo quasi a sentire i suoi occhi puntati come spilli sulla mia schiena e rabbrividii, tirando dritto verso la macchinetta del caffè. Da qui non avrebbe più potuto osservarmi e avrei avuto ancora qualche secondo per decidere se andare da Carlo e parlargli o se lasciar perdere e dimenticare tutto. La seconda soluzione fu senza dubbio la più allettante, ma se le avessi dato corda i sensi di colpa mi avrebbero tormentata fino alla fine dei miei giorni. Per cui presi il mio caffelatte e con un profondo sospiro mi inoltrai nel corridoio che portava all’ufficio del mio capo. Camminai a passo svelto, voltandomi ogni tanto indietro per assicurarmi che non ci fosse nessuno. Il mio cuore batteva come un tamburo e quando arrivai alla porta pensai che sarebbe scoppiato. Mi servì qualche secondo prima di convincermi a bussare, dopodiché attesi trattenendo il respiro. Ma nessuno venne ad aprire. Allora riprovai ancora e ancora, senza alcun risultato. Non seppi che pensare, forse il destino non voleva che lo facessi, dopotutto.
Leggermente frastornata, girai sui tacchi per tornare indietro. Avevo lo sguardo fisso per terra, perciò non lo notai prima che fosse troppo tardi. Gli andai a sbattere contro e imprecai.
«Buongiorno...», disse freddamente Carlo.
Il suo tono mi spiazzò. Alzai gli occhi e incontrai i suoi che mi fissavano inespressivi.
«Ti stavo cercando», ammisi, cercando di capire da dove iniziare.
Lui inarcò un sopracciglio, gettò un’occhiata alle scale che portavano al piano superiore e incrociò le braccia al petto.
Questo atteggiamento mi irritò un sacco. Non ero solo uno dei suoi affari, Santo Cielo!
Insistetti: «Devo parlarti di una cosa importante, Carlo».
Lui controllò l’ora sul polso e gettò di nuovo un occhiata alle scale.
«Non può aspettare?».
A quel punto fui tentata di buttargli il caffelatte in faccia e scatenare l’inferno. Dio volle che il buon senso prevalesse. Cercai di ricordarmi che io non ero fuori di testa come la sua compagna, perciò non mi sarei gettata a terra e non mi sarei comportata da isterica. Presi solo un profondo respiro e chiusi gli occhi un momento per organizzare le idee.
Quando li riaprii, pronta a parlare, per poco non mi prese un colpo: dalle scale stava scendendo una persona che mi era famigliare, una persona di cui non conoscevo il nome ma lo sguardo e la morbidezza delle mani.
I nostri occhi si incrociarono e mi si paralizzò il sangue nelle vene.
Carlo seguì la direzione del mio sguardo e al contrario di me, sul suo viso apparve l’accenno di un sorriso.
«Mi stavo giusto chiedendo che fine avessi fatto», disse.
Da un momento all’altro avrei iniziato a iperventilare.
Il tizio del pub inclinò leggermente la testa – senza dubbio mi aveva riconosciuta – dopodiché i suoi occhi corsero da me a Carlo e da Carlo a me, e capii che lui sapeva. Mi prese il panico; gliel’avevo raccontato io? Avrei voluto non avere un dannato buco nero al posto dei ricordi!
Lui mi scrutò ancora qualche secondo, poi si rivolse a Carlo: «Vi ho interrotti?».
«No, figurati», rispose il mio capo, studiandomi quasi fossi capitata lì per caso, «Stavamo giusto discutendo della riunione», mentì.
Io non mi mossi. Tutto questo era surreale.
«Nicholas Gordon», disse allora il tizio allungandomi una mano.
«Vittoria Bianchi», farfugliai allungando la mia.
Non appena le nostri mani si toccarono fui investita da diversi flash: lui che mi stringeva per la vita, le mie dita tra i suoi capelli, l’odore di menta, la pioggia... Mi staccai d’un colpo. Carlo si accigliò e Nicholas parve trovarlo divertente. Mi domandai quanto di tutto ciò si ricordasse lui? A giudicare dalla sua espressione, decisamente più di me.
«Allora, andiamo?», intervenne Carlo, facendosi da parte per far passare il suo ospite.
Nicholas annuì e lo sorpassò, gettandomi un’ultima occhiata.
«Parleremo delle tue problematiche in un altro momento, Vittoria», mi disse Carlo prima di andarsene anche lui.
No, pensai, non ne avremmo più parlato...
Ma in che razza di guaio mi ero cacciata?



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Buonasera miei cari! Inizio dicendo che era una vita che non mi decidevo a scrivere una long... e ora che l’ho fatto, be’, mi ci vorrà qualche capitolo per riuscire a ingranare la marcia XD Detto ciò, sarei felice di ricevere critiche costruttive, perché questo capitolo l’ho riletto tante di quelle volte da saperlo ormai a memoria, perciò non mi accorgo neanche più degli eventuali sfondoni XD
Now... Passiamo alla storia: I guai per la cara Vittoria sono appena iniziati! Mi commuovo a pensare che sembra quasi una storia educativa, della serie “guarda che ti capita a bere troppo!”... Ma non lo è, perciò non aspettatevi personaggi carini e raffinati XD Per ora comunque non aggiungo altro :)) Aspettiamo e vediamo come si evolve tutto! Fatemi anche sapere se siete curiosi di vedere i volti dei personaggi, nel caso posto le immagini sui miei social :D In ogni caso, presto arriverà anche il “banner” ufficiale del titolo a cui sto ancora lavorando..
In conclusione, mi auguro di vedervi in tanti... Ci ho rimesso il cervello per questa storia e spero ne sia valsa la pena XD
Un saluto!

M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Mobumaso ***


Image and video hosting by TinyPic



2
M O B U M A S O



Mi stava guardando. Lo notai con la coda dell’occhio e feci una smorfia nella speranza di fargli capire che la doveva smettere. Non riuscivo a stare dietro alle spiegazioni di Carlo e presi seriamente in considerazione l’idea di alzarmi e cambiare posto. Ma sarebbe stato troppo infantile, perciò attesi che lui finisse di parlare e approfittando della pausa che ci concesse affrontai Nicholas con un’occhiata. Lui incrociò le braccia al petto e con un movimento quasi impercettibile della testa mi indicò il mio capo.
Che?”, gli mimai allora.
Lui? Davvero?”, disse la sua espressione.
Alzai gli occhi al cielo e andai a prendere un’altra tazza di caffè. Una sola stamani non sarebbe stata sufficiente!
Quando tornai, Nicholas aveva abbassato lo sguardo sopra una cartellina verde che teneva tra le mani. Era seduto vicino alla lavagna e stava analizzando qualcosa con aria concentrata. In quel momento Carlo gli si affiancò e diede un’occhiata anche lui, dopodiché si misero a discutere tra loro gesticolando in modo piuttosto meccanico. A un certo punto Carlo si accigliò, puntò un dito su una riga e parve chiedere spiegazioni. Nicholas rispose con aria impenetrabile e Carlo strinse la mascella.
Che diavolo stavano combinando quei due? Vederli così vicini mi fece uno strano effetto. E se Nicholas si fosse lasciato scappare qualcosa riguardo a sabato? Prima di parlare con Carlo avrei dovuto assolutamente chiarire le cose con lui!
«Hei là!», esclamò d’un tratto una voce alle mie spalle, facendomi trasalire.
«Che aria seria!», sbuffò Tiziana piazzandosi davanti a me.
Poi seguì la direzione in cui avevo guardato fino a pochi secondi prima e ammiccò maliziosamente.
«Oh! Un bel pezzo di...hm, uomo, non è vero?», domandò.
Immaginai che si riferisse a Nicholas perché non avevo ancora mai sentito nessuno qui dentro chiamare in tali termini Carlo e in verità, pensandoci bene, la cosa mi infastidì un pochino. Anche Carlo era un bel pezzo di...hm, uomo, per quanto mi riguardava.
Mi strinsi nelle spalle.
«Oh andiamo!», esclamò allora Tiziana, proseguendo con un tono da cospiratrice: «Gira voce che sia anche ricco...». Alzai un sopracciglio.
«Perché? Sai chi è?».
«Non ne ho idea», ammise, «Però ho sentito dire a Valentina che è tipo un banchiere. O qualcosa del genere. Forse ha a che fare con la banca per cui svolgeremo le indagini nei prossimi mesi».
Banca? Indagini? Le rivolsi un’occhiata interrogativa.
Tiziana mi studiò un secondo poi scosse la testa.
«Non hai ascoltato una sola parola di quello che si è detto prima, non è vero?», domandò sogghignando.
Abbozzai un sorriso da “cavolo, mi hai scoperta” e lei fu abbastanza disponibile da rispiegare d’accapo: «La “Working for Progress Bank” o la WPB se preferisci... Hanno aperto da poco qui, in Italia le loro filiali e vogliono che intervistiamo i loro clienti per sapere se sono soddisfatti dei servizi offerti o se hanno qualche lamentela. Dicono che è difficile gestire la cosa dall’America, perciò gli serviamo noi», concluse.
Non mi uscì altro che un: «Oh...».
Sovrappensiero tornai a guardare Nicholas, domandandomi se avesse davvero a che fare con la WPB. Se si fosse rivelato vero mi sarei ritrovata nei guai più seri di quanto avessi pensato. Che sarebbe successo se fossi andata a confessare a Carlo che il tizio che ci assicurava una busta paga (compresa la sua) era lo stesso tizio che mi aveva messo le mani addosso da sbronza? Di certo gli interessi in ballo sommati al carattere irragionevole di Carlo non potevano portare a niente di buono! Deglutii un masso; non ero più sicura che gli avrei detto qualcosa.
«Hei là-à!», mi passò una mano davanti agli occhi, Tiziana, «C’è nessuno-o?».
«Scusa!», mi riscossi, «Dicevi?».
«Oggi sei più assente del solito», osservò Tiziana corrucciando le labbra, «Ci sei alla cena di stasera?».
Dovevo essermi persa la prima volta che me l’aveva chiesto.
«Sì, sì. Ci sono», mi affrettai ad annuire.
«Okay. Abbiamo deciso di andare in un localino giapponese. Hanno aperto da poco e...».
«Ottima idea», annuii di nuovo, però non la stavo già più seguendo.
Accorgendosene Tiziana sospirò e decise di non insistere, lasciandomi da sola con i miei pensieri per raggiungere Marco Sgabelli che si stava sbracciando per attirare la sua attenzione.
Ma che mi stava succedendo? Mi sembrava di avere un criceto al posto del cervello, che si sforzava di correre dentro la sua ruotina nella speranza di riuscire a scappare.
Intanto, dall’altra parte della stanza Carlo stava annuendo a Nicholas; i due sembravano meno tesi ora. Nicholas sorrise persino e Carlo ricambiò, anche se con meno entusiasmo. Poi quest’ultimo prese la cartella che stavano controllando e si allontanò in direzione del suo ufficio mentre l’altro estrasse il Blackberry dalla tasca dei pantaloni, affondandoci dentro il naso.
Adesso o mai più!, pensai d’impulso.
Quindi finsi di passare casualmente di lì e mi soffermai davanti all’uomo, esclamando: «Ma figurati. Nessun problema!».
Nicholas mi guardò come se fossi pazza.
«Non ti sei ancora ripresa dalla sbronza, per caso?», domandò inarcando un sopracciglio.
Gli rivolsi un sorriso a trentadue denti e annuii.
Lui assunse un’aria ancora più perplessa.
«È solo una tattica», gli dissi a bassa voce non appena fui sicura che nessuno ci stesse prestando attenzione.
«Una tattica?», ripeté, ma suonò più come “sei fuori di testa”.
Non potevo pretendere che capisse. Del resto avevo messo a punto questa strategia con Carlo, quando non volevamo che le nostre chiacchiere apparissero sospette. Avevo scoperto che se fingevi che fosse stato il tuo capo a parlarti, iniziando il discorso con una frase banale, la gente tendeva a pensare che riguardasse il lavoro e non si metteva a origliare. Anche se c’era chi, come Valentina per esempio, non sapeva proprio farsi gli affari suoi e ti spiava anche mentre tu eri convinto di no. Ma fortunatamente non era questo il caso.
«Lascia stare», tagliai corto andando dritto al sodo: «Perché sei qui?».
«Come?».
«Hai capito! Perché-sei-qui?!».
Nicholas si raddrizzò sulla poltroncina e con aria saccente incrociò le braccia al petto, strizzando leggermente le palpebre.
«Aspetta... Com’era? “Non penso che ti riguardi”?», citò, rivolgendomi un sorrisone.
Ma faceva sul serio?
«Penso che mi riguardi eccome!», sibilai, «Soprattutto alla luce di quello che è successo tra noi».
Nicholas esitò un secondo, quasi fosse sul punto di fare un osservazione. Poi però ci ripensò e il suo sorriso si trasformò in un ghigno.
«Giusto! La nostra fantastica nottata insieme...», annuì, «È questo che ti turba tanto?».
Se mi turbava? Cielo! Avevo tradito l’uomo che amavo con qualcuno che malauguratamente non sarebbe uscito tanto in fretta dalla mia esistenza. Certo che mi turbava!
«Senti», cercai di essere ragionevole, «Sarò sincera con te: vorrei poterti dire che mi ricordo questa fantastica nottata insieme e, anche se mi riesce difficile crederlo – no, non fare quella faccia – magari è stato davvero così, ma il mio ultimo ricordo risale alla tua domanda sui miei fiori preferiti. Per cui perché non cavalchiamo quest’onda e facciamo finta che sia finita lì, per il bene di tutti?».
«Assolutamente d’accordo», accettò Nicholas accompagnando le sue parole con un cenno della testa, «Non vogliamo mica che Carlo lo venga a sapere...».
Il sottinteso ironico non mi sfuggì e non potei fare a meno di storcere la bocca. Tuttavia non ero lì per litigare. Non se volevo convincerlo a tenere il becco chiuso. Quindi presi un bel respiro e dopo aver contato fino a cinque, chiesi: «Allora siamo d’accordo?».
Nicholas annuì tornando a digitare sul Blackberry, quasi la cosa non lo riguardasse più.
«Fantastico...», osservai a voce alta.
E giusto mentre stavo per girarmi e andarmene, apparve Carlo, domandandosi, a giudicare dall’espressione accigliata, cosa avessero da dirsi una centralinista e un banchiere che fino a quel mattino non si conoscevano neanche. A vederlo così, in presenza di Nicholas, mi sentii terribilmente a disagio. E non era successo manco la prima volta che eravamo rimasti bloccati da soli in macchina, quel lontano giorno di quasi due anni prima.
«Vittoria...», esclamò, ma suonò più come una domanda.
Avrei dovuto rispondergli? Cosa? Colpevole, Vostro Onore! Colpevole fino al midollo!, suonava troppo melodrammatico persino alle mie orecchie...
Lui attese ancora qualche secondo poi rivolse lo sguardo a Nicholas, che era sempre impegnato a digitare. Quando questo avvertì che l’altro lo stava osservando, alzò la testa e con aria meravigliata disse: «Vittoria, il mio caffè?».
Non seppi se esserne grata o infastidita. Nel dubbio grugnii qualcosa di incomprensibile e andai a prenderglielo. Quando tornai lui mi ringraziò in tono del tutto atono e Carlo, altrettanto atono, mi chiese di accomodarmi alla mia scrivania. Poi annunciò a tutti che la pausa era finita e riprese la riunione da dove si era interrotta.
Questa era la parte peggiore, perché iniziava a mietere vittime a destra e a manca. A rimetterci più di tutti quel giorno fu Marco Sgabelli che a quanto sembrava non aveva raggiunto un numero di chiamate accettabile. Anch’io ebbi la mia buona dose di “non puoi continuare così”, ma dato che non riuscivo a restare concentrata accettai ogni parola con più remissività del solito. Probabilmente Carlo si era accorto del mio strano umore, ma non potendo dire nulla cambiò bersaglio. Non che me ne importasse. Al momento tutto ciò che mi premeva era concludere la riunione e iniziare il giro di chiamate per non pensare più né a lui né all’altro!
Fui accontentata una trentina di minuti più tardi, quando sia Carlo che Nicholas si furono rinchiusi nell’ufficio del primo. Con ciò la mia giornata aveva ripreso a scorrere in maniera tranquilla, per quanto potesse essere tranquilla la giornata di una centralinista che al telefono si beccava gli insulti di ogni genere. Col tempo però impari a farci l’abitudine e io avevo ormai un master in questo. Anche il resto era andato come al solito: avevo pranzato nel Parco della Chiesa con Tiziana e Maria Grazia, avevo evitato l’ennesima discussione con Valentina e per finire avevo raggiunto la soglia di chiamate che mi ero prefissata per la giornata.
Così era arrivata l’ora di staccare e come ogni secondo lunedì del mese io e alcuni colleghi avevamo programmato di cenare fuori. Ormai era una sorta di rituale, nato un anno prima quando Marco, per aiutare a integrarsi a un neo assunto (per cui, tra l’altro, avevo sospettato si fosse preso una bella sbandata) aveva proposto di fare una pizzata tutti insieme. In seguito il neo assunto in questione se n’era andato (senza aver mai ricambiato i sentimenti del povero Marco), ma i nostri raduni erano rimasti.
Per l’uscita di stasera avevo intenzione di sfoggiare la mia nuova maglia, quella nera con gli inserti in pizzo. Era ancora nella mia borsa, dentro la sua busta, dove tenevo sempre un ricambio per sicurezza. Non si sapeva mai! Poteva capitare che a Carlo venisse in mente di portarmi da qualche parte o che mi rovesciassi qualcosa addosso durante il turno. Oppure, con la mia fortuna, entrambe.
In ogni modo, andai in bagno per cambiarmi.
Ma non feci in tempo a sfilarmi il dolcevita che qualcuno spalancò la porta e se la richiuse velocemente dietro, a chiave.
Allarmata, gettai un’occhiata allo specchio sopra il lavello e lì vidi Carlo.
«Che ci fai nel bagno delle donne?!», esclamai, coprendomi il seno come una stupida.
Lui ridacchiò, mi studiò dalla testa ai piedi, poi si avvicinò e appoggiandomi le mani all’altezza della vita mi obbligò a voltarmi. Aveva le mani gelate e non potei evitare di rabbrividire.
«Mi sono perso...», disse con voce da marpione.
In quel momento non ce la feci proprio a guardarlo negli occhi, così mi concentrai sulle mie ballerine, trovandole improvvisamente molto affascianti.
«Che c’è?», domandò allora Carlo, facendo un passo indietro.
Il suo tono era cambiato drasticamente in un attimo.
«Niente, perché?», mentii.
Lui mi alzò il viso e replicò: «Non si direbbe. È per stamattina?».
Mi sforzai di rimanere tranquilla, ma non ero mai stata brava a dire bugie. Annuii comunque, sperando di sembrare convincente.
«D’accordo», sospirò Carlo appoggiandosi contro il lavello a braccia incrociate, «Cosa c’era di tanto urgente?».
Ed eccomi qui, con la mia occasione di fare le cose nel modo giusto! Eppure, mentre cercavo di riordinare le idee, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era quella maledetta banca per cui avremmo lavorato. Avevo davvero così paura che Carlo sarebbe stato capace di agire d’impulso e scagliarsi contro Nicholas, perdendo così un cliente importante? Poteva darsi di sì come di no. In ogni caso fui sicura di non volerlo scoprire adesso.
Quindi dichiarai nel tono più freddo possibile: «Mi hai lasciata da sola al ristorante, ricordi?».
E non stavo fingendo del tutto, perché una parte di me ce l’aveva ancora con lui per questo. Dopotutto, in un certo senso, era anche colpa sua se era successo quel che era successo.
Carlo abbassò le palpebre e si massaggiò le tempie.
«Vittoria, non volevo, dico davvero... Ma Lisa...».
«Lisa, cosa?».
«Possiamo non parlare di lei per una volta?», chiese stancamente.
Ma io avrei voluto parlarne eccome, e c’erano diverse ragioni per farlo. In primis: anche se Carlo sosteneva il contrario, in realtà non ne parlavamo praticamente mai, e in secondo luogo perché concentrare la mia frustrazione su qualcosa che non fosse il mio tradimento mi aiutava a sentirmi meno in colpa.
Ciò nonostante lasciai perdere come sempre. Mi limitai ad annuire una sola volta e mi voltai per infilarmi il maglioncino. Carlo però fu più veloce. Si avvicinò e mi strinse a sé posando le labbra sul mio collo. Trattenni il respiro; potevo sentire il suo cuore battere forte contro la schiena mentre lui iniziava a lasciare una delicata scia di baci che proseguì fino alla spalla. Qui Carlo si fermò, scostò la spallina del reggiseno e mi diede un leggero morso, strappandomi un languido sospiro. Nell’udirlo le sue dita mi affondarono nella pelle bramose di sentirmi e con un gesto brusco lui mi voltò e mi tirò su, catturando prepotentemente la mia bocca con la sua.
Ricambiai non riuscendo a fermarmi. Ma avrei dovuto?
Carlo mi sussurrò all’orecchio quanto gli fossi mancata e mi schiacciò contro la parete.
No. Non sarei riuscita a fermarmi neanche se l’avessi voluto.
Per fortuna, a porre fine ai miei tormenti mentali arrivò qualcuno che bussò forte alla porta. Carlo si fermò e entrambi ci girammo verso l’entrata.
«Vittoria, datti una mossa!», sentimmo urlare Maria Grazia, «Abbiamo prenotato per le otto e mezza!».
Tirai un sospiro: «Arrivo!», risposi poi.
«Tic-tac!», ribadì lei prima di andarsene.
La ascoltammo martellare via sui tacchi e ci guardammo.
«Credo che faresti meglio a sbrigarti», mi disse Carlo a bassa voce, allontanandosi controvoglia da me.
«Già», concordai, «Perché non vieni anche tu per una volta?».
Non so cosa mi spinse a chiederglielo, ma comunque Carlo non fece una piega.
«Non penso sia una buona idea», rispose semplicemente, sistemandosi i polsini della camicia.
Mi morsi le labbra e m’infilai finalmente il maglioncino.
«Perché?», gli domandai poi, «Lisa ti aspetta correndo da una finestra all’altra? Ha minacciato di buttarsi giù se non arrivi entro il coprifuoco?».
«Non fare così, non mi piace! Sai che ha dei problemi», mi rispose con una smorfia.
D’accordo, dovevo concederglielo: stavolta ero stata piuttosto maligna. Ma andiamo, mi stava esasperando!
«Okay. Okay. Mi dispiace...», mi sforzai di sembrare sincera, «Allora ci vediamo domani?», mi avvicinai per dargli un fugace bacio sulla guancia.
Al che lui abbozzò un sorriso e annuì.
Così ci separammo. Io uscii per prima e raggiunsi il gruppetto che si era formato all’uscita dell’edificio, pronta a scusarmi per averli fatti aspettare. Lì però mi paralizzai, osservando una scena piuttosto bizzarra: Valentina e Nicholas erano fermi da una parte a ridere e scherzare. Nicholas era tutto denti e per la prima volta in tre anni vidi Valentina arrossire.
Afferrai immediatamente Tiziana per un braccio.
«Che cavolo ci fanno loro due qui?», le domandai a denti stretti.
Tiziana seguì la direzione del mio sguardo e leggermente intimorita rispose: «Nicholas si è autoinvitato. Non potevamo dirgli di no. Allora lui ha chiesto a Valentina se voleva unirsi a noi».
«Come? Perché?!».
Tiziana si strinse nelle spalle.
La lasciai andare e cercai di ignorare l’occhiata che mi rivolse Nicholas in quel momento. Lui però si scusò con la sua nuova amica e si avvicinò a me. Il suo sguardò si puntò sulle mie labbra e fui sul punto di diventare bordeaux quando lui si indicò un angolo della bocca. Di riflesso mi passai una mano sullo stesso punto, scoprendo di avere tutto il rossetto sbaffato.
«Dovreste stare più attenti, la gente potrebbe insospettirsi», sorrise come niente.
Che faccia da schiaffi!
«Grazie...», mormorai tetramente in tutta risposta.
«Figurati», assicurò lui.
Prima che potessi aggredirlo (almeno verbalmente) Marco intervenne per capire se mancava ancora qualcuno e una volta certo che eravamo pronti per partire, ci accordammo sui posti in macchina. Lui e Tiziana, che venivano al lavoro con i mezzi pubblici, finirono come al solito nella mia panda. Maria Grazia invece aveva deciso di abbandonare la bicicletta al parcheggio pur di farsi scorrazzare da Fausto Belli, un tizio biondo che si occupava di scartoffie al secondo piano. Ormai era palese che avesse una cotta per lui. E mentre tutti ci apprestavamo in questo modo a occupare le nostre carrozze, l’occhio mi cadde sul fuoristrada blu che era fermo due posti più avanti. Lì, sotto il lampione, reggendo la portiera del passeggero, Nicholas stava aiutando Valentina a salire. I nostri occhi si incrociarono per un istante, ma li distolsi subito augurandomi che quei due finissero per perdersi lungo la strada.
Ovviamente non ebbi tanta fortuna e giungendo al ristorante una ventina di minuti più tardi li vidi sbucare di fronte all’ingresso del locale.
Dovevo essere morta e finita all’inferno, non c’era altra spiegazione!
«Si può sapere che problema hai con quel Nicholas?», mi chiese a un certo punto Tiziana, inarcando il suo sottile sopracciglio tatuato.
La sua domanda mi colse talmente alla sprovvista che per poco non lasciai cadere la chiave della macchina mentre cercavo di infilarla nella toppa.
«Nessunissimo», mentii, un po’ troppo velocemente.
Come c’era da aspettarselo, lei non se la bevve.
«Già. Ed è per questo che continui a fulminarlo con le tue occhiatacce?», insisté.
«Io non fulmino proprio nessuno!», dissi sulla difensiva, «Nemmeno lo conosco!».
«Eppure noi vi abbiamo visto parlare oggi in ufficio», proseguì lei strizzando gli occhi.
«Mi ha chiesto solo delle informazioni», protestai, «E poi chi sarebbero questi “noi”?!».
«Io e Marco», rispose lei indicando il ragazzo al suo fianco.
Sentendosi nominare Marco alzò spaesato gli occhi dal gioco di Candy Crush Soda sul cellulare e passò lo sguardo dall’una all’altra. Io sbuffai e scossi la testa, ignorandolo.
«Tu guardi troppi telefilm!», dissi rivolgendomi a Tiziana.
Lei si mise le mani sui fianchi e strinse ancora di più le palpebre. In quella posizione, illuminata dalla luce di una luna piena, mi ricordò la statua di un’amazzone, con i suoi rasta biondi tinti di verde e blu sulle punte e i vestiti di finta pelle marrone che le stavano un po’ stretti sui fianchi e sul seno. Le mancava solo una lancia e sarebbe stata pronta per un set cinematografico.
Forse ero io a vedermi troppi telefilm, dopotutto.
«Ragazzi!», ci richiamò improvvisamente Maria Grazia uscendo dalla Peugeot nera di Fausto, «Vogliamo darci una mossa stasera?».
Nessuno fiatò. Solo Marco colse quell’interruzione per sottrarsi alla conversazione e scappare con la scusa di aver prenotato a proprio nome. E in verità ne fui felice anch’io, perché Tiziana smise di scrutarmi con la sua aria da detective e aspettò che Maria Grazia ci raggiungesse per chiederle com’era andato il viaggio. Lei ci prese a braccetto e con aria pomposa ci trascinò verso il locale, cogliendo l’occasione per metterci al corrente di ogni particolare. A quanto pareva, lei e Fausto si erano dati appuntamento per un caffè domani all’ora di pranzo, perciò non sarebbe stata dei nostri. Tiziana le assicurò che non c’erano problemi, anzi, era emozionata per lei, e io annuii con altrettanta convinzione. Tuttavia il mostriciattolo dell’invidia tornò a morsicarmi. Quando avrei potuto sorridere anch’io in quel modo e raccontare trasognata di me e di Carlo? La vocina maligna dentro la mia testa mi sbeffeggiò: te lo puoi scordare!.
Guardai di nuovo Nicholas che stava parlando con Valentina e per poco non scoppiai a ridere. Se anche quei due avessero deciso di iniziare una relazione allora per me non ci sarebbero state più speranze! Essere battuta sul tempo da una come Valentina avrebbe significato che ero messa male sul serio. E improvvisamente questo pensiero mi infastidì: come poteva essere? Nicholas si era interessato a lei, di punto in bianco?
Per fortuna Marco ci disse che il tavolo era pronto e che potevamo entrare, staccandomi dai miei ragionamenti. Quindi mi sforzai di seguire i discorsi di Tiziana e Maria Grazia e con loro entrai.
Eravamo in tutto una dozzina di persone. Non ero in confidenza con il resto del gruppo, perciò scelsi di sedermi accanto a quelli che conoscevo meglio, reprimendo una smorfia quando Valentina si mise proprio di fronte a me, sorridendo come una ragazzina a Nicholas che prese (prevedibilmente) posto accanto a lei. Comunque cercai di non prestarli troppa attenzione, anche perché ero certa che Tiziana mi stesse tenendo d’occhio. Perciò afferrai il menù e mi ci nascosi dietro, studiando il regolamento dell’“All you can eat”. In verità sapevo già come funzionava, la regola del prezzo fisso non differiva molto dagli altri locali che la usavano, tuttavia leggere era una distrazione rilassante. O al meno, lo fu finché il proprietario del locale non annunciò, in un italiano stentato, che era iniziata l’ora del karaoke. Nell’udirlo ebbi una brutta sensazione allo stomaco, come se avessi già vissuto qualcosa di simile. Timori che si rafforzarono quando iniziai a prestare attenzione all’ambiente attorno a me: ai tavoli in legno scuro, ai dipinti in stile asiatico e all’insegna “Benvenuti all’ORIENT” che era stata appesa all’entrata... Ero già stata qui! Non avrei saputo dire né quando né perché, ma di sicuro non era la prima volta che mettevo piede qui dentro. Eppure era impossibile, Tiziana non aveva forse detto che era un locale nuovo? Avrei dovuto ascoltarla con più attenzione, accidenti!
E mentre io sforzavo la mia materia grigia, dall’altra parte del tavolo Nicholas iniziò a osservare qualcosa alle mie spalle.
Sembrava sul punto di scoppiare a ridere e capii il perché quando la stessa vocina dall’italiano stentato esclamò: «Signolina in losso!! L’ho liconosciuta! L’ho liconosciuta!».
Ebbi un momento di panico. I miei colleghi mi guardarono e piano piano cominciai a sbiancare. Ma mi costrinsi a voltarmi verso l’ometto, alto quanto un bambino e del tutto calvo, che mi sorrise e prese a inchinarsi, sparando a mitraglietta parole nella sua lingua di cui ignoravo il significato. Sembrava realmente felice di vedermi e mi domandai a cosa dovessi tanta popolarità. Gettai un’occhiata allarmata a Nicholas ed ebbi lo strano presentimento che lui si stesse divertendo. Me lo confermò sollevando un angolo della bocca.
Accanto a lui Valentina chiese con voce piatta: «Vittoria, perché non ci hai mai parlato del tuo ammiratore?!».
Oh! Se gli sguardi potessero uccidere!
La fulminai e mi rivolsi al giapponesino: «Mi dispiace, deve avermi scambiata con qualcun altro...», sorrisi imbarazzata.
Lui s’inchinò di nuovo e rispose: «Nessuno sbaglio! Lei signolina in losso. Lei cantale bellissimo. Lei è gentilissimo con me. Mobumaso le offle la cena, signolina in losso! Okei?».
Non ebbi neanche il tempo di replicare che lui già scomparve dietro la tenda che separava la cucina dalla sala. Allora affrontai gli undici paia di occhi puntati su di me e deglutii pesantemente.
Mobumaso mi avrebbe offerto la cena.
Okay.
Speravo solo che includesse tanto di quel sakè da potermi dimenticare anche di questo!


---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Ed eccoci al secondo capitolo! :) E la trama s’infittisce, muahahahaha! XD Chissà chi è Mobumaso?! E chissà perché Nicholas è tanto interessato a Valentina?! Beh, chi vivrà, vedrà! XD Per il resto, rispero di non aver fatto troppi errori, ma quando rileggi dieci mila volte la stessa cosa finisce che le parole iniziano a sfumarti davanti agli occhi e non ci capisci più niente XD A parte questo, ho finalmente fatto i banner. Sì, perché da non averne neanche uno sono passata ad averne più di uno. Tutto perché sono indecisa su quale mi piace di più XD Magari potreste aiutarmi a decidermi :)
Nel frattempo un saluto,
Spero di sentirvi presto :)


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Alice in Wonderland ***


Image and video hosting by TinyPic




3
A L I C E   I N   W O N D E R L A N D



Venerdì sera lasciai il Comune di San Lombardo per addentrarmi in quello di Pietrabianca. Per un po’ seguii la carreggiata centrale che attraversava il paese dividendolo a metà, dopodiché svoltai su una stradina laterale e mi immersi nell’oscurità verde dei prati e alberi. Già da qui si poteva distinguere la casa di Francesca – era una bella villetta dei primi del ‘900 che sembrava sorgere direttamente dal colle che sovrastava il paese. L’aveva acquistata con il suo compagno Giacomo due anni prima, lasciando San Lombardo per la loro nuova casa qui, a quaranta minuti di macchina di distanza.
Feci la salita in seconda e parcheggiai come al solito in uno spiazzo lungo la strada, scesi dall’auto e mi strinsi dentro il cappotto. L’aria quassù era più fredda e avrei tanto voluto avere il mio mantello di Burberry adesso. Peccato che mi stava ancora aspettando al ristorante e prima o poi dovevo decidermi a recuperarlo. Mentre mi incamminavo su per il pendio, tappandomi come meglio potevo, qualcuno aprì la portafinestra dalla parte della cucina e uscì sul terrazzino, ridendo. Allora mi sporsi leggermente di lato e vidi sbucare il profilo di Giorgia da dietro il pioppo che si diramava proprio a fianco del parapetto; non appena mi notò si sporse a sua volta e alzò una mano per salutarmi, gridando poi a Francesca che ero arrivata. Questa fece scattare la serratura del cancello automatico e insieme anche quello della porta e un minuto dopo entrai in casa, beandomi del calduccio che si diffondeva dai carboni ancora accesi nel camino. Poi salii le scale a chiocciola e sul pianerottolo svoltai a sinistra, ritrovandomi subito nel cucinotto che Francesca usava per le nostre serate tra donne. La padrona di casa era indaffarata a tagliare un pomodoro in fette perfettamente uguali ed era talmente concentrata da non essersi nemmeno accorta che ero già lì.
Ci pensò Giorgia a farglielo notare, esclamando non appena mi vide: «Buonasera, signora Mobumaso!».
Allora Francesca alzò gli occhi dal tagliere e sorrise. Posò via il coltello e stringendo le braccia lungo i fianchi mi fece un inchino.
«Un velo onole avella qui stasela!», rincarò.
«Molto divertente», osservai, togliendomi il cappotto.
Loro scoppiarono a ridere.
«Voi qui scherzate, ma è tutta la settimana che al lavoro continuano a chiamarmi così!», sbuffai appoggiando il mio soprabito sopra la sedia più vicina, «Al meno voi dovreste dimostrare un po’ di pietà».
Le ragazze si gettarono una strana occhiata cospiratoria, Francesca chinò leggermente il capo e insieme mi fecero un altro inchino, riprendendo a ridere.
«D’accordo, d’accordo! Non te la prendere», disse Francesca vedendo la mia espressione, «Non puoi negare che sia davvero divertente, però!».
Uno spasso. Certo.
«Per voi, forse», risposi scuotendo la testa.
Nemmeno avessero sei anni!
Giorgia prese una mela dal cestino della frutta e andò a buttarsi sulla sedia a dondolo nell’angolo, dandole un rumoroso morso.
«Devi assolutamente mandarci altre mail sulla tua vita amorosa!», stabilì masticando, «Perché se tu smettessi di farlo mi toccherebbe iniziare a guardare Beautiful per compensare la mancanza di certe storie!».
«Ah, ah! E voi dovreste essere mie amiche...», osservai incrociando le braccia al petto.
«E lo siamo!», annuì Giorgia, «Per questo adesso pretendiamo di sapere il resto!».
«Non c’è niente da aggiungere. Non è successo altro né durante la cena né dopo. Mi sono sforzata di ricordare qualcosa su quel posto, ma i miei vuoti sono ancora vuoti e non c’è stato modo di chiedere spiegazioni a Nicholas. È rimasto appiccicato tutta la sera a Valentina».
«Ewww!», esclamò Giorgia con una smorfia, «Quella specie di rospo troppo abbronzato?».
«Proprio lei...».
«Lo trovo un po’ strano», intervenne Francesca riprendendo a tagliare i pomodori, «Voglio dire, non può davvero interessarsi a quella donna, no?».
Mi strinsi nelle spalle.
«Per quel che ne possiamo sapere, potrebbe anche avere un debole per le signore mature e antipatiche».
«Se fosse stato davvero così a che scopo cercare di rimorchiarti al pub?», chiese Giorgia dando un altro morso alla mela.
«Non ricordarmelo, ti prego», la supplicai, «Sto ancora facendo i conti con i sensi di colpa!».
A sentirmi, Francesca storse leggermente la bocca.
«Sensi di colpa? Per quale ragione dovresti averne?», domandò smettendo di armeggiare col coltello per mettersi le mani sui fianchi, «Non mi pare che Carlo ne abbia mai provati nei tuoi confronti, no?».
«France, non ricominciare», sospirai.
«Non sto ricominciando nulla», disse semplicemente, «Sto solo sottolineando l’ovvio: non siete fidanzati, non state nemmeno insieme. Tecnicamente sei una donna libera di fare quello che vuoi».
Quello che volevo... Ma io non avevo voluto! Oppure sì? Non ricordare mi stava mandando fuori di testa! Così mi accigliai guardandola di sbieco.
Francesca scosse la testa e si arrese, tornando ai pomodori.
Giorgia finì la sua mela e facendo dondolare il torsolo per il rametto ci illustrò il suo pensiero: «Non credo che gli piaccia davvero il rospo», disse, «Voglio dire, a nessun uomo sano di mente verrebbe voglia di stare con una così. A proposito, gli hai più parlato?».
Mossi la testa in diniego.
«Non lo vedo dalla sera della cena. E comunque dubito di rivederlo tanto presto in ogni caso, da quel che ho capito era venuto solo per prendere gli ultimi accordi con Carlo. Suppongo abbia cose migliori da fare, come dirigere una banca o girare sul suo fuoristrada in cerca di altre fanciulle da far sbronzare!».
«O magari è davvero pieno di sorprese e in questo momento sono in un motel con Valentina-il-rospo, a fare acrobazie che nemmeno ci sogniamo...», ammiccò Giorgia, facendo canestro con il torsolo dentro il secchio della spazzatura che Francesca si era messa accanto al tavolo.
Quest’ultima trasalì per la sorpresa e le lanciò un’occhiataccia. Dopodiché mise via il coltello e prese la pirofila con il pollo e le patate dove iniziò a sistemare anche le fette di pomodoro. La guardavo armeggiare con la sapienza di un chirurgo (del resto stava per sposarne uno e lei stessa era l’assistente di un medico) ma intanto ripensavo alle parole di Giorgia. Nicholas poteva davvero essere da qualche parte con il ros... Valentina in quel momento? E anche se fosse? Perché mi doveva dar fastidio? Eppure me ne dava, se non altro perché mi sembrava assurdo che tra tutte le donne attraenti che c’erano al call-center lui fosse andato a pescare la peggiore.
«E con Carlo come siete rimasti?», domandò d’un tratto Francesca, infilando la pirofila dentro il forno.
«In nessun modo. Martedì sera è partito per Milano».
«Che c’è a Milano?», s’interessò Giorgia.
Mi ritrovai a stringermi di nuovo nelle spalle.
«Affari suppongo. Non voglio stargli troppo addosso come fa Lisa, perciò non ho indagato».
Francesca si trattenne dal commentare. La vidi stringere le labbra, ma non disse nulla. La sua insensata antipatia nei confronti di Carlo cominciava a infastidirmi. Lei non conosceva la nostra situazione, non la viveva davvero come la vivevo io, perciò non aveva il diritto di fare la sputasentenze. Eppure più di una volta mi aveva ribadito di non aspettarmi niente da Carlo perché, a sentire lei, lui mi stava manipolando e basta. Ma era assurdo! Perché avrebbe dovuto manipolare una ragazza a questo modo? Avevo appena ventitré anni, non ero ricca, non potevo offrirgli nulla oltre me stessa. Che ci guadagnava? In aggiunta, solo io sapevo quanto soffrisse per colpa della sua compagna che non voleva lasciarlo, e come si sentisse ogni volta che lei lo minacciava di farsi del male se ci avesse provato lui. Per non parlare del fatto che aveva avuto un’infanzia difficile, che era rimasto orfano ad appena dieci anni. Quindi era logico che il carattere di Carlo non poteva essere dei più teneri e a me stava bene così. Lo accettavo. Lo amavo. Francesca non sarebbe mai stata in grado di capirlo e io non avevo intenzione di litigarci per questo.
«Sai al meno quando tornerà?», mi domandò lei, mettendosi a resettare il tavolo.
Mi mossi per aiutarla, togliendo tutte le ciotole e il tagliere per metterli nella lavastoviglie.
«Dopo il weekend», risposi poi, e il discorso cadde qui.
Giorgia si stiracchiò e finalmente si alzò dalla sedia a dondolo per contribuire. Beh, se togliere una forchetta e spostare la bottiglia d’olio potesse definirsi “contribuire”. Poi aprì l’anta del mobiletto vicino alla porta e tirò fuori una bottiglia di tequila bianca che piazzò al centro della tovaglia che avevo appena steso.
«Qui c’è bisogno d’alcol!», dichiarò svitando già il tappo, «Tori, mi deludi. Non ci stai dando alcuna soddisfazione!».
Le lanciai uno sguardo eloquente: cosa si era aspettata? Aneddoti di un cuore infranto? Racconti di sfide a duello per la mia mano? O un omicidio a sfondo passionale? Ma lei mi ignorò e si spostò per prendere tre bicchierini da shottino.
«Stasera passo», la informò Francesca, «Domattina presto io e Patrizio abbiamo alcuni casi urgenti da visitare, devo essere lucida».
«Ah, il caro dottor Patrizio Zafferani!», sospirò allora Giorgia, «Avrei dovuto studiare medicina solo per candidarmi come sua assistente! Non riesco a capire come tu riesca a non distrarti con un adone simile? Fossi in te, gli sarei già saltata addosso due volte!».
Francesca alzò gli occhi al cielo.
«Allora diciamo che per fortuna non sei in me!», dichiarò, e tutte e tre scoppiammo a ridere.
«Okay», disse dopo Giorgia passandole una tazza d’acqua e un bicchierino di tequila a me, «Brindiamo a noi e ai nostri uomini!», propose.
Io e Francesca inarcammo entrambe le sopracciglia: da quando Giorgia aveva un uomo a cui brindare? Cogliendo la nostra evidente perplessità, lei sorrise.
«Va bene. A noi, ai vostri uomini e, si spera, a un uomo che arriverà anche per me!», si corresse e buttò giù la tequila tutta d’un fiato.
Io la imitai, accogliendo il brutale impatto con lo stomaco con una smorfia, mentre Francesca bevve un paio di lunghi sorsi prima di posare giù la tazza.
«E visto che siamo in tema, Tori, vogliamo vedere questo famoso Nicholas!», riprese Giorgia versandosi altra tequila.
La guardai più perplessa di prima.
«E come dovrei fare secondo te? Non l’ho mica nascosto dentro la tasca del cappotto», osservai.
Le sbuffò come se mi fosse sfuggito qualcosa di ovvio: «Non c’è l’hai una foto?», domandò poi.
«Perché diamine dovrei avere una sua foto?», domandai a mia volta.
«Non saprei. Perché magari obbiettivamente parlando è un figo da paura e tu volevi mostrarlo alla tua amica single?».
Guardai Francesca.
«Ma c’è ancora chi usa l’espressione “figo da paura”?», volli sapere.
In tutta risposta lei si strinse nelle spalle e scosse la testa come a dire: “e che ne so?”.
«Hei! Non eludere la domanda!», protestò Giorgia, schioccandomi le dita davanti alla faccia, «In questo momento potresti star influendo sul mio possibile futuro coniugale con un banchiere!».
Ah, di sicuro..., pensai e se avesse potuto, la mia vocina interiore avrebbe pure scosso la testa.
«Se non avessi capito, non ho una sua foto. O pretendevi che cominciassi a scattarmi selfie mente lui mi palpeggiava?».
Giorgia fece una smorfia.
«Non ci tengo a vederti mezzo svestita, tu e la tua disgustosa terza coppa “c” mi avete rovinato la piazza quest’estate al mare e ce l’ho ancora con voi per questo. Ma magari una foto di lui mezzo svestito non mi sarebbe dispiaciuta affatto, invece...».
«Forse io ho un’idea!», intervenne Francesca.
Ci guardò con occhi furbi e lasciò la cucina senza aggiungere altro. Quando tornò, aveva il suo portatile tra le mani che posò su un lato del tavolo avvicinandoci davanti tre sedie. Lei occupò quella in mezzo, facendoci cenno di sederci sulle altre due.
«Hai mai provato a cercarlo su internet?», mi domandò cliccando sull’icona di Google Chrome.
«No», risposi accomodandomi alla sua destra.
E a pensarci, perché non l’avevo fatto? Avrei potuto scoprire qualcosina in più sull’uomo che avevo lasciato avvicinare alla mia disgustosa terza coppa “c”. Ma poi compresi che il punto fosse proprio questo: io non volevo scoprire nulla su Nicholas, io volevo dimenticarlo e basta! O al meno fu ciò che credei finché Francesca non aprì la pagina di Google search.
«Dunque... sappiamo anche il cognome del nostro misterioso Nicholas?».
Annuii: «Nicholas Gordon», dissi.
«Uh! Ha un meraviglioso accento inglese quindi?», strepitò subito Giorgia.
«Affatto», risposi stroncando ogni sua fantasia, «Non ha alcun accento in verità».
«Ah no? Che peccato...», sospirò delusa.
Francesca intanto digitò il nome completo di Nicholas sulla tastiera e premette “invio”. La pagina si aggiornò e davanti ai nostri occhi apparvero decine e decine di titoli in blu che lo riguardavano. Cavolo! Sentii che le ragazze mi stavano osservando domandandosi probabilmente, come me, quanto poteva essere importante un uomo che avevo attratto in un pub di terz’ordine.
«Ha una pagina facebook!», esclamò Giorgia, puntando il dito smaltato di rosso sulla seconda riga.
Francesca ci cliccò sopra e aspettammo di vedere un sacco di post o di lunghi stati, e invece ricevemmo una grossa delusione, perché il suo profilo risultò privato. Non aveva nemmeno una propria foto nel quadratino a sinistra, al suo posto aveva caricato l’immagine di un spettacolare grattacielo di New York ripreso dal basso verso l’alto.
«Bella fregatura!», sbuffò Giorgia, «Se davvero non si deve vergognare della propria faccia, perché mettere come foto profilo un edificio?».
«Forse perché non tutti sentono il bisogno di esibirsi su una vetrina...», le lasciò intendere Francesca e tornò indietro, alla pagina di ricerca.
«Guardate, c’è il suo nome anche su Wikipedia!», scattai in avanti, impossessandomi del touchpad per cliccarci sopra.
Stavolta avemmo più fortuna e non appena la pagina si caricò, le mie amiche ammutolirono.
«No. Ti sbagli France. Questo dovrebbe proprio mettersi in vetrina», scandì lentamente Giorgia, sporgendosi addirittura verso lo schermo per poter vedere meglio la foto che era stata messa nello spazio a destra.
Francesca non ribatté, sembrava davvero sorpresa e osservandola non potei fare a meno di chiedermi se Nicholas fosse davvero tanto bello quanto sostenevano tutti. Ero forse l’unica al mondo a non rendermene conto? Lo guardai meglio anch’io: senza dubbio era lui, immortalato sullo sfondo di un cielo grigiastro e infiniti prati verde-muschio. Sulla foto era vestito di tutto punto, aveva i capelli abilmente pettinati da una parte con il gel e il suo viso aveva quell’aria da bravo ragazzo che assumeva sempre quando sorrideva, perché diventava leggermente più tondo e affabile. Allora per quale motivo continuavo a ritenere più bello Carlo? Anche perché, obbiettivamente parlando, mi rendevo conto che quest’ultimo era più basso, più robusto, aveva i lineamenti più rudi e una massa di capelli rossicci così ribelli che a volte gli ci voleva quasi un’ora per domarli... insomma, tutto il contrario di Nicholas! Eppure, se il mondo fosse stato sul punto di estinguersi e tutte le speranze fossero riposte in me, in lui e in Carlo, sapevo che avrei scelto Carlo senz’ombra di dubbio! Quindi cos’era quella strana sensazione alla bocca dello stomaco? Era solo la tequila?
«Nicholas Charles Gordon, Jr.», prese a leggere Francesca, interrompendo il filo dei miei pensieri, «Washington DC, 3 Aprile 1986. È un ex modello e imprenditore statunitense. Figlio maggiore del magnate finanziario americano Nicholas Charles Gordon, Sr. e della scrittrice e modella italiana Claudia Ferrari. Inizia la sua carriera seguendo le orme della madre, proponendosi come modello nelle maggiori agenzie di Los Angeles. Il suo successo è immediato e già dai primi anni Nicholas Jr. appare sulle riviste più famose del mondo, tra cui GQ e Daily Star. Successivamente fa brevi apparizioni in alcuni film e video musicali, ripiegando, tuttavia, ancora una volta sulla sua precedente carriera di modello. Nonostante questo, la sua fama dura solo pochi anni e attualmente Nicholas Gordon Jr. occupa il posto di vicepresidente nelle numerose imprese del padre Nicholas Sr., aiutato negli affari dal fratello minore Jermaine Anthony Gordon e dalla cugina Melanie Elizabeth Desantis. Laureato in Finanza alla Georgetown University, Nicholas Jr. vanta numerosi premi accademici e riconoscimenti filantropici. Nella vita privata è stato sentimentalmente legato alla cantante candese Michelle Blais, una relazione durata solo due mesi, e all’attrice Jeanine Beauchamp con cui doveva convolare a nozze nel maggio del 2010 a Nizza. Nelle recenti interviste, Nicholas Jr. ha dichiarato di essere felicemente sposato con il proprio lavoro e che le continue trasferte dagli Stati Uniti all’Italia non gli permettono di stabilire altre relazioni. Nonostante questo, Nicholas Jr. possiede un beagle di nome Blues con qui passa la maggior parte del suo tempo libero... Voci correlate, Collegamenti esterni, Note... è tutto».
Rimasi a fissare lo schermo non sapendo che dire. Modello, imprenditore, filantropo con fidanzate famose e genitori che lo erano ancora di più... Come accidenti ci ero finita insieme? No. La domanda giusta era: come accidenti gli era venuto in mente di andare in un posto come la Tana e degnare di considerazione una povera mortale come me? Era già ubriaco al mio arrivo? Si era fatto di qualcosa prima? Entrambe? Francesca dovette scuotermi per un braccio per riportarmi sulla terra.
«Non dici niente?», chiese cautamente.
«Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma», aggiunse Giorgia.
E doveva aver ragione, perché un tipo come Nicholas non poteva essere reale! Doveva essere stato tutto frutto della mia immaginazione; in verità io non l’avevo mai incontrato e lui non mi aveva mai rivolto la parola. Forse l’avevo visto su una di quelle riviste citate da Wikipedia o forse in un film o in un video musicale. In ogni caso, mi rifiutavo di credere il contrario!
«Fossi in te, starei già facendo i salti di gioia», mi confidò Giorgia con un sospiro, «Non è che possiamo fare a cambio?».
«Ci dev’essere un errore...», fu tutto ciò che riuscii a dire.
Francesca si appoggiò più comodamente contro lo schienale della sedia e incrociando le braccia al petto alzò le spalle una sola volta.
«Non saprei», disse attingendo al suo odioso tono da medico, «È vero che Wikipedia è un’enciclopedia libera, il che implica che chiunque di noi può andare a scriverci sopra e che le informazioni contenute in essa non sono sempre esatte, ma hanno comunque delle fondamenta. Perciò suppongo che un minimo di verità in tutto questo ci sia...».
«Rischio di ripetermi, ma io farei i salti di gioia!», ribadì Giorgia.
«È ridicolo!», affermai chiudendo la pagina, «E anche se fosse vero, non farò alcun salto di gioia! Io ho già Carlo e in aggiunta non ho alcuna intenzione di rivedere Nicholas! Né ora, né mai!».
Ma mentre lo dicevo il mio telefono prese a squillare dalla tasca del cappotto ed ebbi uno strano presentimento quando lessi un numero a me sconosciuto che lampeggiava sul display.
«...pronto?», tentennai.
All’altro capo della linea sentii la voce di Nicholas.
«Ti prego, dimmi che sei in casa!», esordì.
Mi paralizzai. Poi allontanai un secondo il telefono da me e mi assicurai che non mi stessi sognando anche questo; ma la chiamata c’era e i secondi stavano scorrendo mentre Nicholas mi chiamava ripetutamente per nome.
«Eccomi, scusa», gli dissi riportando il cellulare all’orecchio.
Lui esitò.
«Da quando mi chiedi scusa?», domandò, ma poi proseguì senza attendere una risposta, «Non importa. Sei a casa o no?».
Scossi la testa come se potesse vedermi e lui dovette richiamarmi di nuovo per nome.
«Per caso c’è poca linea lì?», s’interessò, non riuscendo a spiegarsi il mio improvviso silenzio.
E in effetti che mi prendeva? Perché tutto a un tratto non trovavo più le parole? Mi stavo comportando da stupida!
«Scusa», ripetei allora, e probabilmente ero davvero stupida, «Volevi qualcosa?».
«Vittoria, ti senti bene?», quasi riuscii a vederlo mentre si accigliava.
Cercai di piantarla: «Sì, sì! Benissimo! Non sono in casa comunque. Sono da un’amica. È successo qualcosa?».
«La mia giacca, quella che ti ho prestato, mi serve. È urgente, perciò se mi dai l’indirizzo vengo a prenderti».
La sua richiesta mi colse talmente alla sprovvista che mi servì qualche secondo per potergli rispondere. In tutta onestà, riuscì persino a irritarmi: ero a una serata tra amiche, a rilassarmi dopo una settimana di lavoro, e lui se ne usciva così, dal nulla, pretendendo che tornassi a casa per restituirgli la sua stupida giacca! Chissà, magari a questo mondo esistevano due Nicholas Gordon, che si somigliavano tantissimo ma che non avevano nulla a che fare l’uno con l’altro! Perché il Nicholas Gordon con cui stavo parlando ora non poteva essere lo stesso Nicholas Gordon di cui avevamo letto poco prima. O al meno, la parte filantropica mancava assolutamente!
«Non lascio la mia macchina qui», sbuffai.
«Bene. Non c’è problema, torni con la tua macchine e io ti aspetto».
«No», obbiettai, cogliendo con la coda dell’occhio le occhiate incuriosite delle ragazze, «Forse non ci siamo capiti, io non ho alcuna intenzione di tornare a casa, di sicuro non per te!».
Lui emise un sospiro rassegnato e armeggiò con qualcosa.
«Troppo tardi!», disse, «Ho appena parcheggiato sotto casa tua. Se non torni entro mezzora giuro che sfonderò la porta!».
A udirlo mi misi a fissare un punto indefinito davanti a me con espressione inorridita.
«Tu sei fuori di testa!», dichiarai, «E anche volendo, non potrei mai essere lì in mezzora!».
«Allora in quanto potrai essere qui?».
«Mai!», esclamai e buttai giù.
Subito però me ne pentii: e se fosse davvero andato a sfondarmi la porta? Non lo conoscevo abbastanza per poter affermare che non l’avrebbe fatto. E un’altra cosa: chi gli aveva dato il mio numero?! E l’indirizzo?! Era una di quelle cose di cui mi ero scordata dopo la sbronza? Se in futuro si fosse rivelato un psicopatico ricercato in due Nazioni mi sarei presa a calci nel sedere per avergli dato tutte queste informazioni!
«Chi era?», scattò su Giorgia, con gli occhi che già le brillavano.
«Era Nicholas, vero?», mi chiese con più autocontrollo Francesca.
Aprii la bocca ma non ebbi tempo di rispondere a nessuna delle due perché il telefono riprese a squillare e sul display apparve il numero di prima. Non so per quale ragione lo feci, tuttavia gli risposi anche stavolta.
«Senti, non ti pare un po’ sgarbato chiedermi di rinunciare ai miei impegni perché tu rivuoi la tua giacca?», gli domandai a bruciapelo.
Dall’altra parte Nicholas prese un profondo respiro e sforzandosi di restare calmo, replicò: «Hai ragione, è orribile da parte mia. E non l’avrei fatto in un’altra occasione, ma dentro quella giacca c’è una cosa importante, che mi serve. Adesso. Perciò ti prego, I’m begging you, potresti tornare e restituirmela? Giuro che me ne andrò immediatamente e potrai anche tornare lì dove sei, non ti ruberò altro tempo».
Alzai un sopracciglio. I’m beggign you? Cos’era quella novità? Un modo innovativo per enfatizzare il suo bisogno di farmi tornare? Beh, dovetti ammettere che funzionò, mi aveva convinta. Non per il suo impeccabile inglese, ma perché sembrava davvero disperato. Gettai una triste occhiata al forno e il mio stomaco brontolò; adoravo il pollo arrosto di Francesca...
«D’accordo. Dammi quaranta minuti al massimo», dissi e vidi le mie amiche scambiarsi un’occhiata.
«Fantastico! Non mi muoverò di un passo!».

E non scherzava. Non avrebbe potuto muoversi di un passo neanche per miracolo, perché non appena gli ebbi restituito la sua giacca e lui si fu seduto alla guida del suo fuoristrada, quello diede forfait!
«Vorrai scherzare?!», gli dissi allora, stentando a credere a quello che stava succedendo.
Sì, perché non stava succedendo a me. A meno che non fossi finita di nuovo all’inferno e Nicholas non fosse il mio aguzzino.
Lui girò un’altra volta la chiave ma il motore non si avviò.
«Non capisco, funzionava benissimo fino a un’ora fa!», borbottò tra sé e sé, dando un colpo allo sterzo.
Io osservai quella scena pietosa per altri due minuti, dopodiché mi stufai, presi il mio telefono e su internet cercai il numero di un meccanico.
«Tieni», glielo passai poi.
Già perché il signor “non ti rubo altro tempo” aveva lasciato il suo telefono in assistenza quella mattina, per cui ne stava usando uno di emergenza che aveva tutta l’aria di essere appena uscito dalla preistoria. Quante altre sorprese mi avrebbe riservato ancora?
La risposta mi giunse dopo cinque minuti di gesticolii e frasi lasciate a metà che Nicholas si era scambiato con un tizio di nome Barone... il carroattrezzi non sarebbe stato disponibile prima di domattina!
«Ci è stato un grosso incidente sull’uscita per San Lombardo e sono tutti impegnati lì», mi spiegò, restituendomi l’apparecchio.
«Quindi che cosa farai?», gli domandai, cogliendo nella sua espressione qualcosa che non mi piacque.
«Non ho abbastanza contanti con me per l’albergo, perciò...», iniziò infatti.
Ma lo interruppi prima che potesse finire di parlare: «Spero che i sedili del tuo furgone siano abbastanza comodi. Buona notte, Nicholas!», e con ciò girai sui tacchi.
«Vittoria...», quasi m’implorò.
Mi si ammosciarono le spalle e sospirando mi costrinsi a voltarmi indietro.
«Voi gente famosa non andate in giro con lingotti d’oro nascosti nei risvolti dei pantaloni? O per lo meno con un appartamento autogonfiabile?», domandai speranzosa.
Ma lui mi guardò come se avessi parlato in aramaico.
«Lascia perdere...», gli dissi allora, «Immagino che tu sia già stato nel mio appartamento, per cui saprai che ti toccherà dormire dentro il sacco a pelo».
«Non sono mai stato nel tuo appartamento. Fino a stasera non sapevo nemmeno dove tu abitassi», ribatté Nicholas, portandosi dietro la giacca che gli avevo restituito prima di chiudersi l’auto alle spalle, «Ammetto però che non sono un grande fan dei sacchi a pelo».
«E allora come hai fatto a trovarmi?», domandai, ignorando l’ultimo commento.
«Vittoria, lavori per la mia banca adesso! Non è così difficile ottenere i contatti dei propri dipendenti», mi spiegò, accigliandosi quasi fosse una cosa ovvia.
«Non sapevo di essere diventata una tua dipendente, mister Gordon!», sbuffai, precedendolo verso il portone.
E mentre io mi affaccendavo con la serratura (che tanto per cambiare si era inceppata), Nicholas mi raggiunse e mi si addossò delicatamente sulla schiena, posando una mano sopra la mia che tentava inutilmente di estrarre la chiave.
«A quanto pare ci sono tante cose che non sai... o che non ricordi...», disse volutamente allusivo.
Il suo respiro a contatto con il mio collo infreddolito mi fece venire la pelle d’oca e Nicholas sogghignò soddisfatto, facendo scattare la serratura come niente. Lo incenerii con lo sguardo mentre mi passava accanto per entrare e pregai di non avere degli impulsi omicidi!
Impossibile! Sarebbe stata senza dubbio la notte più lunga della mia vita.


---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Buonasera a tutti! Inizio con una confessione: ho ODIATO da matti questo capitolo! XD Sì, perché dopo aver posticipato la sua uscita ho finito per riscriverlo per ben quattro volte e l’ho ricontrollato al meno sei, tuttavia non sono soddisfatta. Beh, quando mai lo sono?, direte voi. E in effetti mai, ma stavolta (purtroppo) più del solito... Comunque sia, ormai è andata! Alla fine ho fatto proprio ciò che non volevo e l’ho postato nonostante avrei davvero desiderato di farvi leggere qualcosa di migliore. Ma pazienza, avevo promesso che giovedì ci sarebbe stato almeno un capitolo e così doveva essere, cascasse il mondo! Perciò spero non sarete troppo severi se non dovesse piacervi e che vi abbia incuriosito un minimo :))
Aurevoir, miei cari lettori!
Grazie a tutti quelli che mi seguono <3


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Non avere paura del buio ***


Image and video hosting by TinyPic




4
N O N   A V E R E   P A U R A   D E L   B U I O


«Mi dispiace France, non potevo immaginarmelo!», piagnucolai al telefono, chiedendo scusa per l’ennesima volta alla mia amica.
In realtà Francesca non era affatto infastidita dal fatto che non potessi tornare a casa sua per cena, al contrario, lei e Giorgia sembravano godersela un mondo e continuava a ripetermi che non c’erano problemi, che potevamo organizzare un picnic uno di questi giorni, che dovevo solo rilassarmi e prendere un bel respiro. E quest’ultimi erano sicuramente dei consigli da medico, eppure non ci riuscivo, sentendomi presa in giro dal Destino un’altra volta!
Perché più cercavo di allontanarmi da Nicholas, più me lo ritrovavo in torno? Era uno scherzo orribile!
«Scusa Vittoria, avrei bisogno della connessione a internet», disse proprio lui, intromettendosi nella mia conversazione telefonica.
E io di un po’ di corda e di uno sgabello, avrei voluto dirgli. Invece salutai la mia amica («Stavolta fagli la foto, Tori! La foto-o!», aveva gridato Giorgia prima che buttassi giù) e andai ad accendere il mio vecchio portatile che sostava da diversi giorni sul tavolino da caffè, davanti al divano-letto. A differenza mia, Nicholas non si sedette, rimase in piedi a braccia incrociate con la giacca stretta nel mezzo ad attendere silenziosamente che gli prestassi il mio computer. Mentre la schermata di Windows caricava gli gettai un’occhiata irritata; mi stava facendo venire l’ansia fermo lì! Ma poi mi venne in mente che forse Nicholas Charles Gordon Jr. non era abituato ai lussi degli appartamenti microscopici e alla mancanza di un divano in vera pelle di daino, e con questo non voleva farmi sentire troppo a disagio. Beh, in tal caso avrebbe fatto meglio ad abituarsi in fretta, perché stanotte gli sarebbe toccato un favoloso sacco a pelo dell’antiguerra! L’aveva usato ancora mia madre, quando d’estate andavamo in campeggio insieme ai suoi amici. Lo tenevo nell’armadio per occasioni come questa, anche se non avrei mai potuto immaginare che sarei finita per prestarlo a un ex modello multimilionario.
«Ecco, tieni», gli dissi alzandomi per lasciargli il mio posto.
Lui chinò il capo e finalmente posò le sue natiche ben allenate sopra il dozzinale copridivano marrone che avevo acquistato al mercato l’anno scorso. Non so cosa mi stessi aspettando mentre si sedeva – probabilmente una smorfia o un guizzo della bocca in segno di disgusto – fatto stava che mi misi a fissarlo e lui ovviamente se ne accorse, alzando un sopracciglio come a dire: “Che?”.
Scossi subito la testa – stavo esagerando come sempre!
«Vado a preparare del tè. Ne vuoi?», chiesi allontanandomi.
«Una tazza di tè nero, se ce l’hai», rispose lui senza guardarmi.
Stava digitando qualcosa sulla tastiera e mentre riempivo il bollitore d’acqua mi augurai di aver cancellato l’ultima cronologia. Cos’era che avevo cercato mercoledì? Come far impazzire un uomo con della panna e fragole? Sentii le guance andarmi immediatamente a fuoco – non era come sembrava! Giovedì prossimo ci sarebbe stato il compleanno di Carlo e lui adorava i dolci a base di frutta, volevo solo trovare una ricetta originale per fargli una sorpresa, tutto qui! Nicholas fece un verso strano, a metà tra l’indignato e il sorpreso, e lo guardai allarmata, vagliando ogni tipo di scusa possibile. La sua attenzione però era rivolta totalmente a quello che stava facendo e tirai un sospiro di sollievo mentre lui si apprestava a frugare nella sua preziosa giacca in cerca di qualcosa. Quel qualcosa si rivelò essere una pennina USB che Nicholas cacciò fuori da una tasca interna e inserì nel mio computer.
«Ci vuoi dello zucchero nel tè?», gli domandai posando le tazze sul tavolo da pranzo, un ripiano IKEA in finto legno appena sufficiente per ospitare due persone.
Lui non mi sentì, totalmente assorbito da quello che aveva iniziato a leggere sullo schermo, e chissà perché ritenei che fosse meglio non disturbarlo. Così riempii la sua tazza con dell’acqua bollente, ci misi dentro un filtro di tè nero e gliela portai insieme alla zuccheriera, nel caso alla fine lo volesse lo zucchero. Poi mi accomodai sull’unica sedia del tavolo da pranzo e mi preparai una tisana alla melissa e lavanda. Sorseggiandola, non potei fare a meno di scrutare Nicholas, sentendo l’eco della voce di Francesca che rileggeva la pagina di Wikipedia: “Inizia la sua carriera seguendo le orme della madre, proponendosi come modello nelle maggiori agenzie di Los Angeles... Successivamente fa brevi apparizioni in alcuni film e video musicali... Occupa il posto di vicepresidente nelle numerose imprese del padre Nicholas Sr. ... Vanta numerosi premi accademici e riconoscimenti filantropici... È stato sentimentalmente legato all’attrice Jeanine Beauchamp con cui doveva convolare a nozze a Nizza...”...e adesso era seduto nel mio salotto davanti al mio portatile, a bere una tazza di tè. Non era folle?!
«Hai intenzione di fissarmi per tutta la sera?», sentii domandarmi all’improvviso.
Mi disincantai tutto d’un colpo e sgranai gli occhi, accorgendomi solo in quell’istante che mi ero messa a fissarlo sul serio. Lui buttò giù lo schermo del portatile e si alzò per riportarmi la tazza.
«È evidente che c’è qualcosa che non va. Avanti, sputa il rospo!».
Che avrei dovuto dirgli? Sbattei le palpebre un paio di volte e presi la sua tazza, posandola nel lavandino prima di riempirla d’acqua. Nicholas però rimase dov’era, in attesa di un chiarimento che tardava ad arrivare. A un certo punto cercai di scappare con la scusa di dover spostare il computer da un’altra parte, ma lui si appoggiò con una spalla contro la colonna che divideva la cucina dal resto della casa e incrociò le braccia al petto, bloccandomi il passaggio. La sua spaventosissima faccia da schiaffi era tornata!
«Vittoria?», cantilenò.
«Che vuoi?», sbuffai.
«Assolutamente niente. Sono solo spaventato dal pensiero di dover affrontare la notte con qualcuno che cambia umore di continuo! Chi mi assicura che non tirerai fuori un coltellaccio e non ti verrà in mente di volermi affettare solo perché nella tua graziosissima testolina rossa c’è un macello?».
«Il coltellaccio lo tiro fuori se non la smetti di psicoanalizzarmi!», ribattei, lanciandogli uno sguardo di sfida.
Ma lui non ne rimase impressionato neanche un po’.
«È così difficile dirmi semplicemente qual è il problema?», chiese dopo un attimo di silenzio.
Il suo tono da persona matura e razionale mi irritò. Tuttavia, non potevo dargli torto. Insomma, era davvero un problema per me sapere chi era? E soprattutto, era davvero così importante cosa fosse successo tra me e questo illustre sconosciuto? Mi pareva che su quest’ultimo punto avessimo deciso di metterci una pietra sopra, ero stata io stessa a pregare di farlo e lui aveva acconsentito senza alcun problema. Quindi, cosa mi infastidiva in realtà?
«Non esiste un vero problema», dissi, dando voce alle mie conclusioni, «Sono solo confusa dalla tua presenza».
Nicholas aggrottò le sopracciglia, cercando di interpretare quella confessione.
«Dalla mia presenza?», mi fece eco, «Cosa, esattamente, ti confonde?».
«Ah, non lo so!», ammisi e sospirando mi buttai sulla solita sedia, «Tu! Tutto! Quello che è successo sabato scorso! Il fatto che tu avrai a che fare con me e Carlo ancora a lungo! Il fatto che sei una dannata celebrità! E persino il fatto che adesso sei qui!», elencai, senza fermarmi a riprendere fiato tra un’esclamazione e l’altra.
Nicholas incassò ogni colpo in silenzio, concentrandosi attentamente sulle mie parole. Ammetto che fui felice di scoprirlo così attento, perché per una volta qualcuno sembrava ascoltarmi sul serio, senza voler minimizzare o eludere la questione.
«Mi dispiace di crearti tanto disagio, non mi sono mai soffermato a vedere la cosa dal tuo punto di vista. Dev’essere difficile per te convivere col pensiero di aver commesso uno sbaglio con uno sconosciuto quando sei già innamorata di qualcun altro. La verità è che non ho dato lo stesso peso alla cosa, forse perché in fondo tutto questo mi sembrava divertente e perché sabato...».
«Fermo!», gli intimai immediatamente, «Non voglio più sentir parlare di sabato! Dico sul serio! Non riesco a gestirla questa cosa. E dato che a quanto pare dovremo vederci piuttosto spesso, spero che riusciremo a essere amici e ci lasceremo tutto questo alle spalle. Per quanto sia possibile, almeno...».
Nicholas parve rifletterci su. Era tentato di dirmi qualcosa e avrei scommesso che riguardasse ancora quel dannato sabato. Ma ero stata seria riguardo al tabù, per cui, se voleva far funzionare questa cosa della convivenza pacifica, avrebbe fatto meglio a tacere. E lui lo fece, quasi mi avesse letto nel pensiero. Annuì semplicemente e andò a recuperare la giacca dal divano, tirando nel frattempo fuori dai pantaloni quel mattone nero con l’antenna che era diventato il suo cellulare d’emergenza.
«Che vuoi fare?», gli domandai.
«Penso che chiamerò un mio amico e mi faccio venire a prendere. Passerò la notte da lui, è la cosa migliore», spiegò.
«Non serve!», esclamai e subito mi morsi la lingua: che diamine mi prendeva ora?
Anche Nicholas parve sorpreso da quella reazione e cercai di assumere un’espressione rilassata prima di parlare.
«Voglio dire, sono quasi le dieci e ormai sei qui. Mi sembra illogico scomodare un’altra persona a questo punto, domattina dovresti ritornare di nuovo sotto casa mia in ogni caso. Per non parlare del fatto che mi hai rovinato il venerdì sera e che per questo non ti permetterò di abbandonarmi per andartene a spasso», sorrisi, e con mio sollievo Nicholas ricambiò, anche se la mia spiegazione faceva acqua da tutti i buchi.
«Non ti creerà alcun problema?», mi domandò per sicurezza.
Mi voltai per non dovergli mentire (ed essere scoperta a farlo) dritto negli occhi e fingendo di occuparmi della mia tazza scossi la testa con leggerezza, come se non dessi davvero peso alla questione. In verità, però, strinsi le palpebre e deglutii pesantemente, percependo il cuore perdere un battito: perché l’avevo invitato a restare? Adesso andavo a cercare i guai anche da sobria? E se Carlo mi avesse telefonato?
«Okay, allora dovrei farmi una doccia», disse semplicemente Nicholas, ributtando la giacca sul divano.
Mi irrigidii.
«Cosa?».
«Dovrei farmi una doccia», ripeté lui.
Mi ci volle qualche secondo. Ero ancora in tempo per ritirare l’invito? Mi voltai a guardarlo, ma lui stava osservando una mia foto da piccola che era appesa sul muro, vicino all’ingresso. D’accordo, mi dissi allora, ragioniamo. Non mi aveva chiesto nulla di strano, in fondo. Non era nemmeno stato allusivo né aveva sogghignato. Probabilmente era semplicemente un’abitudine quotidiana, dopotutto anch’io mi facevo la doccia prima di andare a dormire. Non proferendo una sillaba, andai dunque nel bagno e tirai fuori dal mobile l’asciugamano per gli ospiti. Glielo porsi e lui lo guardò in malo modo.
«Posso sorpassare sul lilla», disse, «ma questo...?».
Guardai anch’io l’asciugamano. Beh? Che aveva che non andava? D’accordo, forse le uova con i fiorellini rosa e il coniglietto pasquale erano un pochino, troppo imbarazzanti, ma torno a ripetere che non avrei mai creduto di dover dare alloggio a un ospite di tale calibro!
Percependo il mio fastidio Nicholas decise saggiamente di lasciar perdere, accettando l’asciugamano senza altre proteste. Si chiuse in bagno e mi venne in mente che non l’avevo avvertito riguardo alla caldaia. Non mi affrettai comunque a farlo, ancora indignata per la storia del coniglietto, così, quando lo sentii imprecare, mi accostai alla porta e in tono sereno proferii: «Dimenticavo! Dovevi aspettare lo schiocco, altrimenti l’acqua resta ghiaccia!».
Non avrei sputo dire che cosa mi avesse risposto in cambio, ma supposi che non fosse niente di lusinghiero.
Soddisfatta, andai al computer per ordinare la cena.
L’avevo appena acceso che l’occhio mi cadde su una lucina lampeggiante di verde – la pennina di Nicholas. Era rimasta infilata nella porta USB e non appena il desktop finì di caricare mi uscì il solito pannello di richiesta d’azione. L’opzione preselezionata era quella di “visualizzazione dei file nella cartella” e spinta dalla curiosità premei “invio” senza pensarci due volte. Subito si aprì una nuova finestra, rivelando una ventina di cartelle gialle con dei documenti. Tra queste, una in particolare attirò la mia attenzione; era intitolata “Carlo Ranieri - ‘08/’15” e in qualche modo mi fece uno strano effetto. Perché Nicholas doveva avere una cartella con il nome di Carlo? E quei numeri per cosa stavano? Anni? In tal caso era impossibile che si trattasse di WPB, loro e il call-center avevano appena iniziato a collaborare... Che fosse stato un altro progetto? Selezionai la cartella e fui giusto sul punto di aprirla, quando Nicholas apparve davanti a me con il viso corrucciato per lo scherzo della doccia. Alla sua vista, buttai immediatamente la finestra giù e lo guardai trattenendo il respiro. Lui invece notò solo la pennina e senza troppe cerimonie la staccò e la ripose al suo posto, nella tasca della giacca.
Solo in quel momento mi accorsi che non indossava altro che l’asciugamano e mi salì un groppo in gola.
«Che stavi facendo?», mi domandò in tono accusatorio.
«Voglio ordinare la cena», mi strinsi nelle spalle, come se non fosse successo nulla.
Lui esitò, poi parve rilassarsi e abbozzò addirittura un sorriso. Cosa che avrei voluto fare anch’io, se solo non mi fosse sembrato che l’uomo davanti a me avesse qualcosa da nascondere.
«Ti va il cinese?», gli proposi per sviare dall’argomento.
Nicholas mugugnò un “sì” e andò ad appendere la giacca vicino alla porta d’ingresso. Lo osservai con la coda dell’occhio e intanto entrai su un sito di cibo a domicilio, feci il login e cercai di rimuovere dalla testa la cartella “Carlo Ranieri”. Magari mi stavo facendo di nuovo dei film mentali e alla fine quelle date non significavano nulla. Magari Nicholas si era solo preoccupato che avessi potuto cancellare per sbaglio qualcosa di importante. Eppure...
«Involtini!», esclamò d’un tratto Nicholas, «Stasera ne voglio al meno quattro!», dichiarò.
«Quindi per te due porzioni, capito», risposi, ma la mia testa era ancora da un’altra parte.
«E anche del maiale in agrodolce!», proseguì intanto lui.
«Hmh...», acconsentii.
«E riso alla cantonese!».
«Okay».
«E l’intestino crudo di vitello con due pannocchie di mais blu in salsa d’asino...».
«Certo».
«Vittoria, non mi stai ascoltando, vero?».
«Hm?».
Nicholas si piazzò davanti a me con le mani appoggiate sui fianchi e l’espressione di chi vorrebbe dirti “buongiorno”. Aprii la bocca per rispondergli, ma non ne fui in grado perché i miei occhi catturarono i dettagli del suo tatuaggio: due grosse ali nere. Ne aveva una sulla parte interna di ciascun braccio e questo mi riportò alla mente un nuovo ricordo: Nicholas si stava togliendo il maglioncino e mi fissava con uno sguardo intenso, magnetico. Spalancai gli occhi e avvampai.
«Tutto bene?», si preoccupò lui, non potendo sapere cosa mi passasse per la testa.
Ma non volevo rivangare quell’episodio, soprattutto dal momento che avevamo stabilito che non ne avremmo più parlato, per cui balzai in piedi prima che mi potesse sfiorare e m’inventai di essermi scordata di controllare una cosa. Nicholas non seppe che rispondere, mi lasciò andare e mi tenne d’occhio per tutto il tempo che restai davanti allo sportello aperto del frigorifero, in cerca di qualsiasi alimento che potesse risultare scaduto. Accidenti! Di solito ne trovavo a valanghe: formaggi, yogurt, latte, zucchine, prezzemolo... eccetto stavolta! Tutto perché non ero ancora riuscita a fare la spesa e non mi era rimasto altro oltre a tre uova e due sottilette che sarebbero scadute nel 2016.
Alle mie spalle Nicholas prese un profondo respiro.
«Ti stai comportando di nuovo in modo assurdo», osservò, e non trovai nulla da ribattere, «Vittoria, io...».
Salvata dal citofono!
Andai ad aprire prima che potesse proseguire e lì rimasi di sasso: l’ultima persona che avrei voluto vedere era ferma sulla soglia, gli occhietti azzurri ridotti a fessure e dieci grossi bigodini arrotolati tra le ciocche di capelli bianchi. In due parole: la signora Petrelli!
«Buonasera», mi sforzai di sorriderle, e in contemporanea cercai di socchiudere la porta in modo che non potesse vedere Nicholas per andare a spettegolare con le vecchie inquiline del terzo piano, «Le serve qualcosa?».
La megera tirò su col naso e mi scrutò in faccia.
«Hai mancato un’altra riunione condominiale, mia cara», disse in tono piatto, «E stasera avevamo questioni importanti da discutere».
Sì, me le immagino le sue questioni importanti...
«Mi dispiace. Cosa mi sono persa?».
«Abbiamo discusso sulla possibilità di abbattere gli alberi di Giacomina e a tutti i condomini è stato vietato tenere animali domestici. Io e mio marito siamo allergici, non vogliamo morire soffocati per colpa dei loro peli!».
Certo, perché sarebbe troppo bello per essere vero!, pensai.
«Capisco», fu ciò che dissi invece.
Lei tirò di nuovo su col naso e cercò di gettare un’occhiata oltre la mia spalla. Per sicurezza socchiusi dell’altro la porta, continuando a sorridere come se avessi una paralisi facciale.
«C’è altro?», domandai, impaziente di levarmela dai piedi.
Lei gettò un’altra occhiata alle mie spalle e sul suo viso pieno di crepe balenò un’espressione di cupa soddisfazione.
Dopodiché finalmente mi guardò e rispose: «La carta non verrà più ritirata di martedì ma di mercoledì», e con ciò si voltò e raggiunse le scale senza nemmeno salutare, attaccandosi alla ringhiera con gli artigli mentre iniziava a scendere uno scalino alla volta.
Si fosse trattato di un’altra condomina, mi sarei offerta di aiutarla a scendere. Ma quella donna si era sempre rifiutata, perciò chiusi la porta e tremai, scossa da uno strano presentimento.
«Tutto bene?», mi domandò Nicholas, alzando la testa dal computer, «Ho ordinato la cena», m’informò.
Non gli risposi, andai all’armadio e ne tirai fuori un vecchio pigiama verde-oliva che era appartenuto a mio zio, buttandoglielo addosso.
«Rivestiti o ti prenderai un accidente!», gli dissi e ne approfittai per andare in bagno e lasciargli un po’ di privacy.
Quando ne uscii, quasi gli scoppiai a ridere in faccia: quella roba gli stava più larga di almeno due taglie!
«Carino!», rigirai il coltello nella piaga, approfittando della sua disattenzione per prendere il cellulare e scattargli una foto.
Nicholas sbuffò e finì di abbottonarsi la camicia, sbagliando di un bottone l’intera fila. Notandolo per prima, gli scattai un’altra foto e mi rimisi a ridere.
«Se lo racconti a qualcuno negherò tutto!», mi avvertì, sganciando i bottoni per ricominciare d’accapo.
Lo osservai a braccia incrociate, trattenendomi a stento dal fargli notare che stesse sbagliando un’altra volta. Lui mi guardò di sbieco, poi si gettò un’occhiata allo specchio a figura intera che avevo appeso su un fianco dell’armadio e alzò leggermente le mani come a dire: “ma che diavolo?!”.
A quel punto ne ebbi pietà e mi avvicinai per dargli una mano, iniziando a sganciare tutti i bottoni mentre ridacchiavo sotto i baffi.
«È per colpa del bottone di riserva che sbagli», gli rivelai, trafficando velocemente con la camicia.
Lui abbassò lo sguardo sulle mie mani e s’irrigidì quando per sbaglio gli sfiorai la pelle all’altezza dello stomaco. Io stessa dovetti deglutire più volte perché all’improvviso mi resi conto della stupidità che stavo commettendo. Eppure nessuno dei due si mosse né disse niente. Procedetti semplicemente con le dita sulla stoffa, sforzandomi di non toccarlo più. Quando arrivai agli ultimi tre bottoni, esitai e lui intervenne al mio posto, sgravandomi da quel compito.
«Okey...Ehm», dovetti schiarirmi la voce.
Afferrai i lembi che mi stava passando e gli mostrai il bottone da saltare, aspettandomi che ci pensasse da solo. Ma lui non fece niente e percepii chiaramente che stesse cercando il mio sguardo. Non ebbi il coraggio di incrociarlo però, quindi ripresi a trafficare coi bottoni, sperando di non essere diventata rossa quanto i miei capelli. Una volta raggiunto il suo torace, tuttavia, fui costretta ad alzare gli occhi e lo colsi a fissarmi in un modo che non poteva essere frainteso. Se fossi stata meno stupida mi sarei allontanata immediatamente, ponendo fine a qualsiasi cosa stesse succedendo. Ma le mie gambe erano diventate di gelatina e non mi ubbidirono, lasciandomi piantata a un palmo di distanza dal viso di Nicholas. Cogliendo l’attimo, lui si sporse un altro po’ e attese la mia reazione, che arrivò immediatamente e fu sorprendente persino per me: la mia vista si appannò e a stento trattenei le lacrime.
Confuso, Nicholas fece un passo indietro e si agganciò in fretta gli ultimi bottoni, scrutando il pavimento con aria tetra. Probabilmente si stava rimproverando di qualcosa, e avrei tanto voluto dirgli di non farlo ma non sapevo nemmeno io cosa mi fosse preso.
Fui nuovamente salvata dal citofono e fui sollevata di scoprire che stavolta si trattava del corriere; un ragazzo cinese che si era confuso con i piani e si era fermato al terzo invece che al sesto, finendo per fare tre rampe di scale. Nonostante tutte le mie proteste pagò Nicholas, e se dovevo essere onesta, per fortuna non avevo insistito troppo perché il mio ospite aveva ordinato una quantità di cibo che sarebbe bastata per un esercito!
«Avevi detto di non avere abbastanza soldi con te!», gli feci notare, mentre tiravo fuori dalle buste contenitori su contenitori.
Lui alzò fugacemente su una spalla e rubò una nuvoletta di drago da una scatola che si era aperta.
«Non per gli alberghi che frequento di solito», rispose poi, praticamente pronto a immergersi dentro le buste.
Rimasi a bocca aperta; poteva anche accontentarsi del Black Star qui dietro l’angolo invece di autoinvitarsi a casa mia! Certo, non era il Four Seasons, ma per una notte non sarebbe morto nessuno!
Per ripicca, gli sfilai una porzione di involtini e una di anatra alla piastra da sotto il naso e andai a buttarmi sul divano, accendendo la TV. Lui si sedette dall’altra parte, puntando gelosamente la mia anatra. Era così surreale...! Come se cinque minuti prima lui non fosse stato sul punto di baciarmi e io non mi fossi spaventata, ferendo i suoi sentimenti.
«Ti prego, niente Sex and the City!», m’implorò Nicholas, allungandosi verso di me per rubarmi il telecomando.
Glielo lasciai fare e lui fece un po’ di zapping finché non decise di fermarsi su un film horror appena iniziato. Non gli dissi che in effetti adoravo questo genere e mi dedicai al mio cibo in silenzio, seguendo le disavventure dei protagonisti che erano rimasti bloccati con le macchine in mezzo al nulla.
Passammo così più di mezzora, alzandoci solo di tanto in tanto per prendere altro cibo o per riempirci un bicchiere d’acqua. E alla fine mi fui quasi abituata – convinta che nonostante tutto quella serata si potesse ancora salvare – quando fuori scoppiò un temporale di quelli improvvisi e aggressivi, facendo tremare la luce in tutto il palazzo.
«Sarà meglio che mi faccia la doccia prima che peggiori», osservai, non sopportando l’idea di andare a dormire altrimenti.
Nicholas non ribatté e si offrì addirittura di spostare il tavolino da caffè per aprirmi il divano-letto.
«Non ti preoccupare», risposi un po’ imbarazzata, «Lo faccio tutte le sere». «Beh, tutte le sere non hai me, però...», sorrise Nicholas e mi domandai se ci fosse qualche sottinteso che non avessi colto.
Decisi comunque che era meglio non indagare e ringraziandolo andai in bagno dove mi sistemai i capelli con una pinza (non volevo bagnarmeli), accesi l’acqua e aspettai lo schiocco della caldaia. Poi m’immersi sotto il getto caldo e cercai di essere più veloce del temporale. Ma non feci in tempo a togliermi tutto il bagnoschiuma di dosso che fuori esplose un lampo, subito seguito da un assordante boato, e la luce sparì.
A quel punto andai letteralmente nel panico! Sì, perché se c’era qualcosa che mi terrorizzava a morte quello era proprio il buio... Non il semplice buio – non mi preoccupavo mai quando dovevo spegnere le luci per la notte – ma il buio che non potevo controllare, quello che non dipendeva da me e che non avrei potuto sconfiggere accendendo semplicemente la televisione o le lampade. A fatica frenai la voglia di rannicchiarmi in un angolo della cabina e iniziare a iperventilare, trasalendo a ogni scoppio di fulmine e boato. Ma poi mi convinsi che sarebbe stato sufficiente uscire dal bagno per essere al sicuro, perché di là c’era Nicholas e non sarei stata sola. Per cui allungai una mano tremante verso il rubinetto, lo chiusi e strisciando fuori prima che esplodesse un altro fulmine afferrai il mio asciugamano, gettandomi letteralmente fuori dalla porta. Andai a finire dritto contro Nicholas, che per poco non lasciò cadere per terra la candela che aveva acceso, e lo guardai terrorizzata.
«Stai bene?», si preoccupò lui, allungandosi sopra la mia spalla per posare la candela indietro al suo posto, sopra la mensola.
In tutta risposta mi aggrappai a lui come a un salvagente e lui mi strinse a sé, accarezzandomi la nuca. Mi ci vollero due minuti buoni per riprendermi e non appena tornai a essere più razionale, lasciai la presa sulla sua manica e mi sentii avvampare.
«Oddio, mi dispiace!», mi affrettai a dirgli, pensando che probabilmente a ventitré anni non si potesse continuare ad avere paura di certe cose – Carlo lo trovava persino irritante!
Mi aspettai un espressione di scherno anche da parte di Nicholas, ma tutto ciò che fece lui fu rivolgermi un sorriso e scuotere la testa.
«Vittoria, continui a scusarti per ogni cosa...», mi fece notare, togliendomi dal viso una ciocca sfuggita alla crocchia.
Come potevo ribattere? Mi lasciai sfuggire un sorrisetto anch’io e più tranquilla di prima andai a prendere il suo sacco a pelo che stesi ai piedi del letto che lui aveva sistemato per me. Dopodiché gli chiesi di voltarsi, mi rivestii e infine ci infilammo entrambi sotto le coperte, lasciando calare il silenzio interrotto solo dal temporale. Ero sicura che mi sarei addormentata adesso, ma la candela non era tanto grossa e presto si fu consumata quasi tutta, affievolendo piano piano, mentre il temporale fuori non sembrava voler diminuire. E il fatto che da qui non potessi vedere Nicholas mi rese nuovamente nervosa, perché fu come ritrovarsi da sola un’altra volta. Allora chiusi gli occhi, mi dissi che me ne sarei sicuramente pentita, ma feci l’unica cosa che mi venne in mente sul momento: chiamai Nicholas.
«Stai già dormendo?», gli chiesi.
«Umh? Non ancora», rispose lui, ma dalla voce impastata fui certa che sarebbe crollato da un mento all’altro.
«Nick?», lo richiamai di nuovo, sperando che non gli dispiacesse essere chiamato così, «Ti sembrerà infantile forse, ma potresti stare con me?».
«Sono con te», mi assicurò lui.
«Non hai capito», quasi bisbigliai sforzandomi di concludere la frase, «Potresti venire qui con me?».
Lui non rispose e temetti che avesse finalmente ceduto al sonno, ma poi lo sentii trafficare con il sacco a pelo e intuii che si stesse per alzare. Un attimo dopo infatti era in piedi, a torso nudo, e non potei fare a meno di chiedermi quando avesse avuto il tempo di togliersi la camicia? Non ebbi il coraggio di domandarlo a voce alta però, decidendo che per una volta potevo anche tollerarlo. Lui esitò, forse perché temeva qualche altra reazione folle da parte mia, ma quando mi scansai per fargli posto non se lo fece ripetere due volte, stendendosi al mio fianco.
«Girati», mi invitò alzando un braccio a mezzaria.
«Per cosa?», domandai.
«Dai, girati», ripeté lui rivolgendomi un ghigno assonnato.
Lo guardai diffidente ma eseguii, irrigidendomi non appena lui mi avvolse con il braccio e mi strinse a sé, affondando il viso dentro i miei capelli.
Oh folle, folle, Vittoria! Avresti dovuto ribellarti, avresti dovuto pensare che avevi il tuo Carlo! E invece l’unica cosa a cui pensai fu la sensazione di sollievo che provai nel sentirmi protetta e le mie palpebre calarono, senza badare più al temporale né al fatto che avevo stretto la mia mano sopra la sua, sorridendo serena tra me e me.


---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


E rieccomi puntualmente con un nuovo capitolo :)
Scusate, ma oggi mi sono svegliata tardissimo perché sono andata a letto quasi all’alba, perciò non saprei che altro aggiungere oltre a questo XD Altro che Vittoria e la tequila! Caffè e integratori di fosforo non andrebbero mai presi insieme, parola mia! XD Ad ogni modo, spero abbiate passato una bella serata con la nostra protagonista e il bel Nicholas ;) Al prossimo capitolo, miei cari!! Grazie come sempre di seguirmi in questa avventura :D


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Come montare un castello di carte (istruzioni per principianti) ***


Image and video hosting by TinyPic




5.
C O M E     M O N T A R E     U N     C A S T E L L O     D I     C A R T E
( I S T R U Z I O N I     P E R     P R I N C I P I A N T I )


Mi svegliai alle dieci, da sola nel mio letto. Mi misi a sedere appoggiandomi contro lo schienale e mi guardai attorno ancora leggermente frastornata: fuori il tempo era tornato a sorridere ma Nicholas non c’era da nessuna parte. La porta del bagno era spalancata e sul tavolo della cucina c’era una busta di carta marrone con sopra attaccato un post-it. Mi alzai e andai a staccarlo stiracchiandomi il collo indolenzito. Il post-it diceva:

Il meccanico è arrivato prima del previsto e mi dispiaceva svegliarti.
Ho avuto tempo di comprarti solo questo nella pasticceria qui sotto,
è un piccolo ringraziamento per avermi ospitato stanotte.

Nick

(PS: Mi ha messo a dura prova sentirti ripetere il mio nome mentre dormivi...
Ho paura che la prossima volta potrei non rispondere delle mie azioni!)

Rilessi le ultime due righe e strabuzzai gli occhi. Oh, Cielo! Avevo parlato nel sonno?! E che avevo detto?! Mi nascosi il viso tra le mani e cercai di rievocare almeno un immagine di ciò che avevo sognato, ma proprio non me lo ricordavo. A quanto pareva con Nicholas sarebbe sempre andata a finire così: una serata insieme e poi buio totale! Misi via il biglietto e cercai di non dargli troppo peso, concentrandomi invece sul contenuto della busta di carta. La aprii e dentro ci trovai una brioche dall’aria invitante da cui era traboccata un po’ di crema. Tanto per cambiare era riuscito ad azzeccarci anche stavolta; le brioche mi piacevano esclusivamente alla crema. Mi domandai come ci riuscisse? La sua era solo fortuna o mi pedinava da giorni? Me lo immaginai che si nascondeva dietro gli angoli delle case, con il bavero del mantello rialzato e un cappello da investigatore calato sugli occhiali da sole, e scoppiai a ridere.
In quel momento dal salotto esplose la suoneria del mio cellulare e attaccando un morso alla brioche andai a rispondere, dando per scontato che a chiamare fosse proprio Nicholas.
«Grazie della colazione, ma non pensare che questo basti a convincermi di dormire di nuovo con te!», gli dissi, abbozzando un sorrisetto.
Ma all’altro capo mi rispose una voce totalmente diversa da quella di Nicholas e per poco non mi strozzai con un boccone.
«Con chi dovresti dormire di nuovo?», domandò candidamente mia madre, trafficando con qualcosa in sottofondo.
«Mamma!», esclamai, «Ciao! Siete già tornati?».
«Stiamo giusto rientrando in casa. Allora, con chi dovresti dormire?», non demorse lei.
«Ah, nessuno. Ho ospitato Giorgia stanotte...», mentii spudoratamente.
Ma evidentemente mi stavo dimenticando con chi avevo a che fare, perché a Donatella Falconi non sfuggiva mai nulla...
«Non ti vergogni di dire bugie a tua madre?!», chiese infatti, chiudendo una porta, «Ti potevi almeno inventare qualcosa di più credibile!», proseguì, e me la immaginai che alzava gli occhi al cielo e scuoteva la testa piena di riccioli, domandandosi perché avesse proprio me come figlia.
Come potevo ribattere? Lanciai uno sguardo colpevole al mio riflesso nello specchio sull’armadio e sospirai.
«Davvero mamma... Non era nessuno», cercai di eludere la questione, sperando che non cogliesse il disagio che stavo provando per quella conversazione.
«Ed è normale che un signor “nessuno” giri per casa tua mezzo nudo?», domandò lei con tono di autosufficienza.
A quel punto mi accigliai verso il vuoto.
«Eh?», mi uscì.
«Mi ha chiamato la signora Petrelli e mi ha raccontato che ieri sera c’era un giovanotto in asciugamano seduto sul tuo divano», mi spiegò.
Mi lasciai cadere sul letto ancora sfatto e chiusi gli occhi per un attimo. Maledetta signora Petrelli! Ma non poteva farsi gli affari suoi?! Avrei potuto scommetterci una mano che l’avesse fatto solo perché non mi ero presentata alla sua inutilissima riunione condominiale! E adesso mia madre pensava chissà cosa!
«Non è per niente come credi», protestai.
Mia madre però non mi stava ascoltando, stava impartendo ordini riguardo alla valigia a suo marito Giuseppe che a quanto pareva la stava mettendo nell’angolo sbagliato.
«Tesoro, sei diventata grande», riprese poi, tornando alla nostra discussione, «Non c’è nulla di male nell’avere una sana relazione con qualcuno. Vivi da sola da quasi tre anni ormai e immagino che tu abbia già fatto certi tipi di esperienze...».
«Mamma, ti prego!», cercai di interromperla.
Ma era come cercare di fermare un fiume in piena: inutile... per non dire impossibile!
«Era quel Carlo, non è vero?», proseguì lei, «Avete finalmente deciso di stare insieme? Oh, sarebbe così bello poterlo conoscere!»
Guardai il soffitto, quasi stessi cercando una risposta nelle crepe dell’intonaco. Naturalmente le avevo parlato e straparlato di Carlo, di quanto ne fossi innamorata, dei posti in cui mi aveva portata e delle nostre giornate insieme più in generale. Ma altrettanto ovviamente lei non aveva idea che lui stesse già con un’altra. Di confessarglielo non se ne parlava neanche, dal momento che papà l’aveva lasciata per una donna più giovane e si era trasferito con lei a Miami per seguirla nella sua carriera di fotografa – un tasto dolente su cui entrambe evitavamo di finire. Quindi che cosa mi restava adesso che lei si era convinta che io e il fantomatico Carlo avessimo passato una notte insieme? Dirle l’ennesima bugia, ecco cosa.
«D’accordo, lo ammetto: era Carlo... Ma mi sembra un po’ prematuro portarlo da te, non trovi?», osservai, pregando che mi desse ragione.
Lei però mi stupì come al solito, esclamando dopo un attimo di riflessione: «Ci mancherebbe! Certo che sarebbe troppo prematuro, ma sono pur sempre tua madre... Infatti ecco cosa faremo: sabato prossimo io e Giuseppe passeremo da te a San Lombardo e casualmente tu ti farai trovare insieme a lui a casa tua, che ne dici?».
«Dico di non pensarci nemmeno!», sbuffai indignata, rigirandomi sulla pancia, «E se lui non fosse pronto a conoscerti, eh?».
Anche lei sbuffò, ma come sempre mantenne fermamente la sua posizione: «Non dire sciocchezze! Se ti ama davvero non scapperà da nessuna parte!».
Ebbi un tuffo al cuore. E adesso? Come ne sarei uscita?! Non potevo presentarle davvero Carlo! Anche se ero certa che lui non avrebbe avuto problemi a incontrare mia madre, c’era quel piccolo dettaglio della signora Petrelli che non aveva visto lui, ma Nicholas. E di conseguenza come avrei potuto giustificare a Carlo il fatto che avrebbe dovuto fingere di essere stato a casa mia al posto suo? Avrebbe di sicuro preteso una spiegazione a riguardo. Che gran casino!
«Tesoro? Ci sei ancora?», mi richiamò mia madre.
Rimaneva una sola cosa da fare...
«D’accordo... cercherò di combinare questo incontro. Ma non ti prometto nulla, è un uomo molto impegnato!», risposi e sentii ogni viscera attorcigliarsi in protesta.
Fortunatamente lei non colse l’esitazione con cui avevo acconsentito a quella follia e strepitando per l’emozione promise che non avrebbe fatto niente che avrebbe potuto mettermi in imbarazzo. Ne dubitai fortemente, ma non me la sentii di dirglielo apertamente perché in quel momento ero troppo impegnata a non andare nel panico e lei non vedeva l’ora di iniziare a raccontare delle loro vacanze a Gran Canaria. E fu esattamente ciò che fece un secondo dopo, confidandomi che mio zio Maurizio si era lasciato con la sua nuova fiamma dopo una brutta discussione in albergo e narrandomi per filo e per segno di come lei e Giuseppe avessero cercato di tirarlo su di morale organizzando escursioni con una macchina a noleggio. Io annuii a tutto, fingendomi molto interessata. E in un’altra occasione lo sarei anche stata. Ma in quel momento, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era Nicholas e alla faccia che avrebbe fatto quando gli avrei esposto il mio piano.

Stavo battendo il piede per terra in attesa del suo arrivo.
Guardai l’orologio e sospirai irritata: era in ritardo! Ci eravamo accordati per le diciotto e trenta, al parco della vecchia chiesa di San Lombardo, lì dove di solito pranzavo con le mie colleghe. Perché avevo scelto di venire qui? Perché era più facile confondersi tra i fitti alberi che popolavano questo posto, dove nessuno ci avrebbe prestato attenzione, che in centro, in bella vista.
Era da stupidi ma mi sentivo come in uno di quei film sullo spionaggio, dove l’infiltrato di turno aveva il compito di incontrare uno della sua squadra per passargli informazioni di vitale importanza. Anche se nel mio caso non dovevo salvare la mia Patria, ero comunque agitata perché dovevo salvare me stessa e mi gettavo continuamente delle occhiate intorno, quasi mi aspettassi di veder sbucare Carlo da una delle siepi e puntarmi un dito contro con l’accusa di alto tradimento. Che assurdità! Carlo era a Milano e quasi nessuno dei miei colleghi abitava abbastanza vicino da decidere di venire a fare una passeggiata qui.
Nonostante questo, quando Nicholas mi arrivò alle spalle e mi chiamò per nome trasalii e gli gettai un’occhiata assassina. Un’occhiata che si trasformò in sorpresa quando vidi che era vestito di tutto punto e che emanava un tenue odore di dopobarba alla menta. Lui invece non fece una piega. Stava perfettamente ritto dentro la sua giacca grigia e mi domandai se si sentisse davvero così a suo agio dentro i panni del milionario come voleva sembrare.
«Beh, cos’è successo?», s’interessò incrociando le braccia.
Esitai. Lui aspettò pazientemente, anche se probabilmente sotto la sua chioma ben pettinata stavano passando brevi sprazzi della nostra insensata conversazione telefonica, quella a cui avevo dato vita dopo aver riagganciato con mia madre. Forse avrei dovuto dirglielo e basta, ma le parole mi si intrecciavano sulla punta della lingua mentre cercavo silenziosamente di darli un ordine.
Alla fine però dovevo decidermi a dire qualcosa, quindi lo feci... tutto d’un fiato: «Devi fingere di essere Carlo per mia madre!», buttai fuori.
Per un attimo Nicholas parve non capire, ma poi la sua espressione passò da “che cosa?” a “mi prendi in giro?” nel giro di cinque secondi e mi sentii sprofondare. Gli stavo seriamente chiedendo una cosa del genere? Aveva quasi trent’anni, Santo Cielo! Dubitavo avesse tempo di giocare a fingere di essere il mio fidanzatino.
«Potresti ripetere per favore?», si sporse leggermente in avanti Nicholas.
«Devi fingere di essere Carlo per mia madre», dissi di nuovo, sempre meno convinta, «Giuro che non te l’avrei chiesto se la signora Petrelli non ti avesse visto ieri sera a casa mia...».
«La signora Petrelli?».
Annuii: «L’inquilina del piano di sotto che era venuta a parlarmi della riunione condominiale».
«Okay... Quindi fammi capire... Mi stai chiedendo di fingere di essere Carlo perché quella donna mi ha visto ieri sera a casa tua? Cosa c’entra tua madre in tutto questo?».
«La signora Petrelli le ha telefonato stamattina per raccontarle di te e mia madre si è convinta che tu sia Carlo. Non posso dirle la verità, penserà che sua figlia si porta a casa chiunque...».
Nicholas mi fissò così a lungo che iniziai addirittura a sentirmi a disagio. Poi si passò una mano tra i capelli ben pettinati e sospirò.
«No, mi dispiace Vitoria», rispose scuotendo la testa, «Ma non mi presterò a una follia del genere».
Mi guardò ancora per qualche secondo, poi si voltò pronto ad andarsene. Ma io lo afferrai per un braccio prima che potesse farlo e gli rivolsi un’occhiata implorante.
«Nick, lo so che è una follia! Ma non ho scelta!».
«Perché non lo chiedi semplicemente a Carlo? Perché vuoi trascinare a fondo proprio me?», corrugò la fronte, perdendo per la prima volta la pazienza.
Mi sentii malissimo, ma non potei biasimarlo. Da quando ci eravamo incontrati non avevamo fatto altro che andare incontro ai guai.
«Perché dovrei spiegargli per quale ragione eri a casa mia. E ufficialmente noi non ci conosciamo, ricordi?».
La sua espressione non cambiò, ma i suoi muscoli si rilassarono un pochino e mollai la prese sul suo braccio, supplicandolo silenziosamente di farmi questo favore.
«È così importante per te?», mi chiese allora in tono arrendevole.
«Mia madre ha passato momenti molti difficili, non voglio che si debba preoccupare anche per me e soprattutto, non voglio deluderla...».
«D’accordo», decise lui ancora riluttante, «Ma mi sei debitrice!».
Non trovai nulla da ribattere e mi limitai a chinare la testa una sola volta. Dopodiché puntai la panchina a pochi passi da dove ci eravamo fermati e mi misi a sedere lì, sentendomi improvvisamente vecchia di cent’anni. Nicholas mi raggiunse in silenzio, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni impeccabilmente abbinati alla giacca.
«Mi dispiace di essere stato un po’ brusco», disse.
Mi strinsi nelle spalle e alzai in su un angolo della bocca.
«Probabilmente al tuo posto avrei fatto di peggio», risposi.
Lui sbuffò un sorrisetto: «È probabile», convenne.
«Posso chiederti una cosa?», corrugai la fronte d’un tratto, «In che razza di rapporti siete tu e Carlo?», domandai.
Era una cosa che avrei voluto sapere dalla prima volta che li avevo visti insieme e che mi aveva incuriosito ancora di più dopo la scoperta della cartella con il nome di Carlo che era contenuta nella sua pennina USB. Tuttavia Nicholas non parve così impaziente di parlarmene; vidi il suo pomo d’Adamo scendere e salire prima che si accomodasse accanto a me e iniziasse a fissare in lontananza le rovine della chiesa di San Lombardo, illuminate dalla luce dorata del tramonto. Anche il suo viso venne piano piano illuminato e per la prima volta (da che mi ricordavo almeno) il mio cuore ebbe un inspiegabile fremito e mi ritrovai a pensare che effettivamente fosse...
«Io e Carlo ci conosciamo da una vita», confessò Nicholas, riportandomi bruscamente con i piedi per terra, «Avevamo persino frequentato il liceo e un anno di università insieme, finché non decisi di tornare in America e di iscrivermi alla Georgetown».
Annuii ricordandomi della pagina su internet.
«Ho letto su Wikipedia che sei stato uno studente impeccabile!», sorrisi.
Anche lui sorrise, ma con meno allegria.
«Su Wikipedia però non c’è scritto che mi rifiutai di accettare i soldi di mio padre per pagarmi la retta e che per questo decisi di fare il modello part-time, dividendomi tra gli studi sui libri e gli studi fotografici».
«Ah, sono certa che fare il modello sia un lavoraccio!», lo presi in giro, battendo la mia spalla contro la sua.
Lui fece finta di essere serio e si voltò a guardarmi: «Non ne hai idea! Tutte quelle ragazze che ti si spalmano addosso mezzo svestite, foto sessioni sulle assolate spiagge di Miami...», ridacchiò.
A sentir nominare Miami cercai di sembrare altrettanto spensierata ma fui sicura che sul mio viso si fosse dipinto un sorriso un po’ strano – a casa mia Miami non faceva più parte della cartina geografica. Per fortuna Nicholas non se ne accorse e proseguì nel suo racconto.
«A ogni modo, Carlo era stato quasi come un fratello per me. Ma nella vita succede che certe volte le persone a noi più care prendono una strada diversa dalla nostra e finiamo per renderci conto che non abbiamo più niente in comune. È quello che è successo anche a me e a Carlo, ed ero sicuro che non ci saremmo più visti nonostante tutto, ma poi sono stato costretto a rincontrarlo...».
Lo osservai attentamente: c’era qualcosa di strano nel modo in cui aveva concluso il suo discorso, quasi ci fossero degli attriti o qualcosa di inespresso che lo stava erodendo da dentro. E avrei tanto voluto indagare più a fondo, ma Nicholas gettò un’occhiata all’orologio da polso e si alzò in piedi.
«E giusto adesso dovrei prendere un taxi per raggiungerlo al ristorante», m’informò, abbozzando un sorriso poco convinto.
D’un tratto mi sentii mancare.
«Carlo è tornato?», gli domandai alzandomi in piedi a mia volta.
Nicholas parve confuso dalla mia reazione. Tuttavia annuì.
«Ieri sera. Pensavo lo sapessi...», osservò, inclinando leggermente la testa.
No. Non ne avevo idea. E lui non mi aveva chiamata per avvertirmi... di nuovo. Ebbi bisogno di inspirare a fondo l’aria dal naso. Perché si stava comportando così? Cos’era successo da quella volta a casa sua? Ripercorsi velocemente quella giornata: Carlo che mi sorrideva dopo aver fatto l’amore con me nella jacuzzi, lui che si alzava per andare a rispondere al telefono, lo sguardo duro che aveva rivolto al vuoto mentre ascoltava chi li stava parlando dall’altra parte, la sua espressione impenetrabile mentre riagganciava e un minuto di silenzio in cui ero quasi riuscita a sentire le sue meningi lavorare freneticamente. E poi niente. Era tornato a sorridermi come prima e mi aveva invitata a cenare con lui in un bistrot francese lungo il mare. Era stato quello il punto di rottura? La telefonata?
Nicholas mi alzò il viso appoggiandomi una mano sotto il mento e la sua espressione mi domandò: “Tutto bene?”.
«Ti accompagno io. Dritto fino al tavolo!», risposi in tono che non ammetteva repliche, voltandomi per avviarmi verso la mia fidata Panda.
Evidentemente Nicholas fu colto di sorpresa da quella dichiarazione e non si mosse subito, provando sicuramente a indovinare cosa mi passasse per la testa anche stavolta.
Poi mi chiese: «Mi sto di nuovo perdendo qualcosa?», e mi si affiancò tagliando la distanza che si era creata in un paio di falcate.
«No», risposi, «Sono io che mi sto perdendo qualcosa».
Dall’espressione di Nicholas dedussi che stava sicuramente riflettendo su quanto fossi incoerente. Prima facevo di tutto per non farci beccare insieme, poi mi offrivo di accompagnarlo al ristorante, andando incontro a Carlo di mia spontanea volontà. E forse aveva ragione, ero davvero fuori di testa! Ma era come se qualcosa dentro di me si fosse spezzato e improvvisamente mi ero resa conto che la mia vita mi stava sfuggendo di mano e io non riuscivo a trattenerla. Amavo Carlo senza dubbio, ma non potevo lasciargli trattarmi così ogni volta che gli tornava comodo. Che cosa gli avrei detto una volta che l’avrei visto, tuttavia, non ne avevo idea. Al momento era l’istinto a guidarmi e confidai che mi avrebbe aiutata anche al ristorante.
A proposito: «Dov’è questo posto?», chiesi a Nicholas, salendo in auto.
Lui si accomodò al posto del passeggero, dandomi l’ennesimo colpo nello stomaco.
«Mi pare si chiami L’Orizzonte, o qualcosa di simile. Non è lontano da casa tua comunque».
«Sì, l’ho presente», ammisi a malincuore.
Inserii la chiave nel quadro di accensione ma non ebbi abbastanza coraggio da girarla subito. Prima dovetti buttare giù il masso che avevo in gola e chiudere gli occhi per un secondo, giusto il tempo di ripetermi che stavo facendo la cosa giusta. Dopodiché partii e premetti nervosamente sull’acceleratore.
Arrivammo al parcheggio del ristorante in meno tempo del necessario. In tutto il tragitto Nicholas non aveva proferito parola, limitandosi a gettarmi di tanto in tanto delle occhiate enigmatiche. Non sembrava così preoccupato di farsi vedere a fianco a me quanto lo ero io di farmi vedere accanto a lui. Addirittura mi appoggiò una mano sul braccio quando varcammo la soglia del ristorante e sorrise come niente fosse a quel pinguino di maître quando questo ci venne incontro dalla sala al coperto.
«I signori desiderano un tavolo?», ci domandò, chiaramente non riconoscendomi, anche se la sua occhiata sprezzante verso il modo in cui ero vestita non era sfuggita né a me né al mio accompagnatore.
«In realtà siamo qui per una prenotazione a nome del signor Ranieri», rispose tranquillamente Nicholas.
Mi domandai dove trovasse tanto autocontrollo. Fosse stato per me, avrei risposto in modo sgarbato e mi sarei precipitata dentro senza troppe cerimonie, scrutando sfacciatamente ogni tavolo finché non avessi trovato quello di Carlo. Ma per fortuna c’era Nicholas a ricoprire il ruolo del mio perduto buonsenso e la sua mano calda attraverso il cappotto sgualcito mi trasmetteva una certa sicurezza.
Per questo decisi di interrompere il pinguino prima che potesse aprire bocca.
«In realtà, prima dovrei recuperare una cosa», dissi, sorprendendo sia lui che Nicholas, «Una settimana fa ho lasciato qui il mio mantello. È lungo, color sabbia, con due file di bottoni».
In quell’istante il maître si ricordò improvvisamente di me e parve trattenere a stento una smorfia. In un certo senso avevo quasi sperato che mi avrebbe detto qualcosa, fomentandomi così a reagire, perché dovevo sfogare il mio nervosismo su qualcuno. Ma lui si limitò ad annuire e ci chiese di attenderlo un momento, sparendo da qualche parte verso le cucine.
«Quindi è qui che vi eravate dati appuntamento sabato?», si stupì Nicholas, alzando le sopracciglia.
Mi lasciò andare e io alzai fugacemente le spalle, leggermente delusa da quell’interruzione di contatto.
«Almeno avremo una scusa: ero qui per recuperare il mantello e tu mi hai incrociata all’entrata», riflettei, guardando il pinguino uscire da una doppia porta con il mio soprabito appeso sul braccio.
Quindi questo si avvicinò e con un moto di stizza mal repressa mi passò il capo. Dopodiché si girò verso la sala e in tono freddo ci chiese di seguirlo.
Ci siamo, pensai con il cuore che già iniziava a galoppare, gli chiederò di allontanarci un attimo e gli parlerò chiaramente... voglio sapere cosa sta succedendo tra noi.
Ma naturalmente sarebbe stato tutto troppo semplice.
Qualcuno lassù doveva proprio avercela con me.
Sì, perché nell’istante in cui Nicholas vide Carlo, io vidi la donna dai lunghi capelli neri al suo fianco. La riconobbi dalle foto che avevo visto nella loro casa – era Lisa e stava sorridendo ai suoi ospiti mentre Carlo li parlava di qualcosa, cingendola intimamente per le spalle e in un attimo fui pervasa da un milione di sensazioni differenti e non seppi che fare.
Anche Nicholas vide quella scena e si voltò con aria apprensiva verso di me. Un’occhiata che non ebbi tempo di ricambiare poiché qualcuno dal tavolo lo chiamò per nome, sfoggiando un pesante accento americano.
«Nick, finally! Stavamo aspettando solo te!», lo informò un ragazzo che gli somigliava in maniera quasi inquietante.
Al che Carlo si voltò e il suo sorriso gli morì sulle labbra. I nostri sguardi s’incrociarono e lo vidi irrigidirsi, rafforzando la presa sulle spalle della sua compagna. Pure lei si voltò e sul suo volto impeccabilmente truccato apparve un espressione stupita. Naturalmente non si era aspettata che Nicholas potesse portare qualcuno, così come Nicholas pareva ignaro del fatto che ci sarebbe stata tutta quella gente, soprattutto il ragazzo che aveva richiamato la sua attenzione. Perciò entrambi rimanemmo come inchiodati al posto, esitando a fare un altro passo.
«I signori desiderano che venga aggiunto un altro posto?», domandò il maître a Lisa.
Aprii la bocca per ribattere che me ne stavo già andando, ma Lisa fu più veloce e per qualche ragione decise per me che sarei rimasta per la cena, rivolgendomi poi un sorriso forzato. Ricambiai il suo sorriso con altrettanto entusiasmo e deglutendo pesantemente sperai che le mie gambe non mi avrebbero abbandonato proprio adesso. Nicholas mi sospinse delicatamente in avanti e lo sentii sussurrarmi all’orecchio, quando tutti smisero di guardarci:
«Se sentirai il bisogno di scappare, basta che me lo dici. Azionerò volentieri l’allarme antincendio!».
Lo guardai stralunata e lui sorrise. Tuttavia, sotto la sua scorza di pacatezza percepii un alone di inquietudine che si stava facendo strada verso il suo viso da bravo ragazzo. Forse avrei dovuto chiedergli di azionarlo subito, quell’invitante allarme antincendio.




---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Buon pomeriggio miei cari! Che dire? Le cose stanno iniziando a evolversi! :) Vittoria sta finalmente percependo il fascino emanato da Nicholas e presto li toccherà pure recitare la parte dei fidanzatini davanti alla mamma! Ma per adesso concentriamoci sugli avvenimenti che avranno luogo al famigerato ristorante “L’Orizzonte”! Riusciranno i nostri eroi a sopravvivere alla cena? Mah, chi lo sa! XD Ma soprattutto, chissà a quali decisioni porterà questa serata! Al solito, spero seguirete fino alla fine quest’avventura ;) Nel frattempo, un bacione a tutti i fan di questa storia! A risentirci alla prossima puntata XD

M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Come demolire un castello di carte (guida pratica di un cuore infranto) ***


Image and video hosting by TinyPic




6.
C O M E     D E M O L I R E     U N     C A S T E L L O     D I     C A R T E
( G U I D A     P R A T I C A     D I     U N     C U O R E     I N F R A N T O )


Mi misi a sedere, rigida come il manico di una scopa. Per un po’ tenni gli occhi fissi sul tovagliolo azzurro che un cameriere si era premurato di appoggiarmi accanto al piatto e frenai la voglia di scattare su e scappare. Era una situazione assurda e non avevo idea di come comportarmi.
Accanto a me, Nicholas simulò con maestria un sorriso pacato e si mise a sedere a sua volta, rivolgendo un saluto ad alcuni ospiti seduti attorno al tavolo. Poi il suo sguardo si fermò sul suo giovane clone e ne approfittai per fingermi interessata alla loro discussione.
«Non sapevo fossi in Italia, Jerry», gli disse Nicholas, facendo cenno al cameriere di versargli del vino rosso.
Io scrutai meglio questo Jerry e mi venne in mente che quell’appellativo poteva essere l’abbreviativo di Jermaine, il fratello minore di Nicholas, il che avrebbe spiegato benissimo la loro inquietante somiglianza.
Il ragazzo portò alle labbra il suo calice e bevve frettolosamente qualche sorso, fregandosene dell’etiquette che pretendeva il ristorante.
«Volevo farti una sorpresa. E non poteva esserci occasione migliore!», rispose con un sorrisone questo, posando il calice indietro sul tavolo.
Nicholas non disse niente, si voltò verso Carlo che faceva di tutto per ignorarci e si rivolse direttamente a lui:
«E quale sarebbe questa occasione?», gli domandò, alzando su un sopracciglio.
Carlo non poté fare altro che distogliere l’attenzione dalla sua compagna per rivolgere una lunga occhiata penetrante a lui e a me. Mi fece attorcigliare lo stomaco e istintivamente mi piantai le unghie nella gamba, intuendo che nulla di buono stesse per accadere.
E avevo ragione, perché Carlo si alzò ed evitando di nuovo il mio sguardo prese il suo bicchiere e una forchetta, facendo tintinnare quest’ultima sul cristallo per guadagnarsi l’attenzione dei presenti. Come se si fossero accordati prima – e probabilmente così era stato – due camerieri ci portarono immediatamente dei flûte pieni di champagne e rimasero in disparte con una bottiglia tra le mani, in attesa del discorso di Carlo.
«Signori e signore», esordì lui, abbozzando un sorriso, «Adesso che siamo tutti qui, voglio dirvi il motivo di questa cena. Ho invitati tutti voi questa sera – beh, quasi tutti», sottolineò, riferendosi a me, facendo ridacchiare alcuni dei presenti e mandando in bollore la mia espressione già pietosa, «perché io e la splendida donna con cui convivo da quasi sei anni abbiamo deciso di fare il Grande Passo e di suggellarlo simbolicamente qui, davanti a voi che siete le persone a noi più vicine!».
E con questo estrasse qualcosa dalla tasca e spostò la propria sedia, mettendosi in ginocchio.
Vedendolo, trattenni il respiro e desiderai poter sparire. Sotto il tavolo Nicholas mi strinse forte una mano ma quasi non lo sentii perché la mia mente era impegnata a rifiutarsi di credere ai miei occhi e nella testa l’idea di quello che stava per fare sembrava quasi impossibile. Eppure...
«Lisa, vuoi sposarmi?», domandò Carlo.
...l’aveva fatto.
Lisa non parve affatto sorpresa. Del resto, come aveva già detto Carlo, l’avevano deciso precedentemente. Nonostante questo gli rivolse un sorriso amorevole e annuendo piano allungò una mano verso di lui. Carlo aprì la scatolina e mi diede l’ennesimo colpo della serata, estraendone il meraviglioso solitario che avevamo visto insieme tempo addietro, quello su cui avevo fantasticato il famigerato sabato sera. Con un gesto deciso, lo infilò sull’anulare sinistro di Lisa e si allungò per darle un lungo bacio. I presenti (compresi i curiosi degli altri tavoli che si erano voltati per osservare la scena) scoppiarono in un applauso, io invece, non riuscii a trattenere una risata.
In quel momento il tempo parve fermarsi e i futuri sposi si staccarono per gettarmi un’occhiata al quanto perplessa.
«Scusate!», dissi allora, a stento trattenendomi, «È che adoro il lieto fine! Davvero! Siete spettacolari! Una coppia così bella! Sapete...», mi rivolsi agli invitati abbassando leggermente la voce, «...al lavoro il nostro Capo – sì, scusate, non ho avuto tempo di presentarmi, ma vi basta sapere che lavoro per questo grand’uomo... Beh, insomma, il nostro Capo è sempre così riservato, così misterioso. Nel suo ufficio non tiene neanche una foto della sua bellissima compagna ed è un vero peccato perché così illude tante povere fanciulle e li fa perdere la testa. Ce n’è una in particolare che addirittura se n’è innamorata. Poverina, sarà uno choc per lei scoprirlo così», ridacchiai, «A quanto pare il nostro Capo progettava di sposarsi in incognito! Incredibile! Che cosa davvero, davvero meravigliosa e inaspettata!», finii innalzando nervosamente il flûte in aria e intercettai lo sguardo incredulo di Carlo.
Non avevo idea di cosa mi avesse preso. Ero sboccata e non ero nemmeno ancora ubriaca per poter giustificare un comportamento simile. Ma non ero riuscita a trattenermi, e con la coda dell’occhio vidi Nicholas tenere lo sguardo fisso sul suo amico mentre perdeva ogni espressione. Poi lasciò la mia mano e in silenzio alzò anche lui il suo bicchiere. Gli altri ci imitarono quasi subito e tutti insieme brindammo alla salute dei futuri sposi, svuotando velocemente i flûte dallo champagne. Quando nella sala smisero di prestarci attenzione, Carlo chiamò uno dei due camerieri per farsi riempire di nuovo il bicchiere, accettando distrattamente le congratulazioni di quello che doveva essere il padre di Lisa: un omaccione robusto e dall’aria importante che aveva gli stessi grandi occhi castani e la carnagione ambrata della figlia. Mi domandai se avrebbe sorriso altrettanto spontaneamente se avesse saputo che a tavola con loro ci fosse anche l’amante del genero.
«Dunque lavori per Carlo?», mi chiese improvvisamente Lisa, staccandomi dai miei pensieri.
Le stavano servendo l’antipasto e il modo elegante con cui prese le posate mi fece sentire una zoticona fuori posto.
Annuii, togliendo rapidamente le braccia dal tavolo per lasciarmi mettere sul piatto una specie di voulevant ripieno di ricotta ed erbette.
«E vi paga così tanto da permettervi di venire a cena qui?», non c’era malizia in quella domanda, stava semplicemente sforzandosi di fare conversazione, anche se agli occhi di un estraneo distratto quella domanda poteva sembrare un po’ offensiva.
Tuttavia io non le diedi peso, staccai un morso dal mio voulevant e intanto ripassai mentalmente la scusa ufficiale su cui ci eravamo accordati con Nicholas. Solo che Nicholas fu più veloce di me e appoggiandomi una mano sulla schiena puntò lo sguardo sul suo vecchio amico e disse qualcosa che non mi sarei mai sognata di sentire:
«In verità è colpa mia. Siamo stati a cena qui lo scorso sabato e Vittoria si è dimenticata il mantello. E visto che sono rimasto momentaneamente senza l’auto ha deciso che mi avrebbe accompagnato per approfittarne e recuperarlo. Già che c’era voleva fare un saluto a Carlo, ma nessuno dei due si era immaginato cosa steste progettando perciò ci terrei a scusarmi da parte di entrambi se vi abbiamo scombinato un po’ i piani», mi accarezzò lungo la spina dorsale, rivolgendomi un sorrisone, «Allo stesso tempo sono contento, perché stasera possiamo brindare a ben due coppie felici a questo tavolo».
Sgranai gli occhi e per poco non mi strozzai. Era impazzito? Che diavolo stava facendo?
«Wow!», esclamò allegramente Jerry, «Dad will get mad!».
Lentamente, volsi lo sguardo verso Carlo. Il suo pugno si era stretto attorno al flûte fino a sbiancare e temetti che da un momento all’altro avrebbe rotto il sottile gambo di cristallo, trasformando quella serata in un epilogo sanguinoso. Poi però davanti ai miei occhi si ripresentò la scena di lui in ginocchio e come se non bastasse, il solitario brillò sul sottile dito di Lisa mentre lei si portava alla bocca la forchetta, ricordandomi che ero venuta qui per un motivo: non volevo più essere la seconda scelta di un uomo che mi trattava come se non contassi nulla. E visto che Carlo era appena diventato il promesso sposo di una donna che – a detta sua – gli stava rovinando l’esistenza, non vedevo per quale motivo dovessi continuare ad ostacolare la loro futura felicità coniugale. Quindi mi ricomposi, finsi un timido sorriso e appoggiando intimamente una mano sul braccio di Nicholas gli dissi:
«Nick, dai. Non rubare i riflettori ai futuri sposi, questa non è la nostra serata!».
Lui non ebbe tempo di aprire bocca perché dall’altra parte del tavolo si sentì un rumore secco e Carlo balzò in piedi imprecando. Quello che avevo temuto si era avverato, nemmeno fossi una veggente: aveva rotto il gambo del bicchiere e alcune schegge gli si erano conficcate nella mano, aprendo una ferita da cui gocciolò del sangue.
«Che razza di cristallo offrite ai vostri ospiti, qui?!», ruggì fuori di se ai due camerieri, affrettandosi a tamponare la ferita col tovagliolo.
Al che Lisa scattò in avanti e gli intimò di non fare niente, perché altrimenti le schegge rischiavano di entrargli ancora più a fondo nella carne e peggiorare le cose. Osservai quella scena all’apparenza del tutto impassibile, forse perché nella mia testa si era scatenato il pandemonio e il cuore mi martellava così forte nel petto che rischiava di esplodere se mi fossi mossa. Lisa intanto si fece da parte per lasciare che uno dei suoi invitati, un uomo grassoccio dai folti baffi sale e pepe, controllasse la ferita. Dalla professionalità con cui lo fece intuii che doveva essere un medico e non sbagliai: l’uomo fece chiamare il responsabile di sala e gli domandò se avessero un kit di pronto intervento. Cinque minuti dopo l’uomo inforcò un paio di occhiali e con l’aiuto di una pinzetta, sotto gli sguardi dei curiosi e del proprietario mortificato, estrasse tre sottili schegge dal palmo di Carlo che resistette a quella tortura con una smorfia.
«Per fortuna non sono entrate in profondità. Non c’è bisogno di andare all’ospedale per i punti», disse l’uomo, dandogli una leggera pacca su una spalla.
Carlo non disse niente e lasciò che gli disinfettasse e bendasse la mano. Lisa tirò un sospiro di sollievo e stampò al fidanzato un bacio sulla guancia, provocandomi uno spasmo all’angolo della bocca. Dopodiché si intromise il proprietario, un individuo secco ed eccessivamente abbronzato che chiese scusa per l’accaduto almeno cinque volte prima di annunciare che il dolce sarebbe stato offerto dal ristorante.
«È il minimo», sbuffò Carlo e il proprietario gli chiese ancora scusa, aggiungendo sul proprio conto anche lo champagne.
Guardai Carlo con improvvisa insofferenza: non era colpa di quell’uomo se lui si era fatto male e lo sapeva benissimo. Si era comportato da stupido e questo era il risultato. Lui ricambiò il mio sguardo con uno di sfida che sostenni magistralmente, stupendomene io stessa, finché nei suoi occhi non colsi una nota di angoscia che nulla aveva a che fare con il danno alla mano. Allora distolsi lo sguardo e abbassai gli occhi sul tavolo, iniziando a odiarmi, a odiare lui e persino Nicholas, per aver creato quell’assurda situazione. Ero così confusa che non sapevo più che fare. Ma di una cosa ero certa: non volevo più restare lì. Mi alzai in piedi e approfittando della situazione decisi di salutare.
«Non resti nemmeno per il primo?», domandò Lisa, alzando gli occhi da Carlo su di me.
A quel punto mi ritrovai a odiare anche lei. Ma cosa gliene importava?! Era la sua festa di fidanzamento, dannazione! E io non centravo niente né con lei né con la sua famiglia! E adesso, neanche con Carlo!
Non le risposi. Mi limitai a prendere la mia roba dalla sedia e scusandomi mi diressi verso l’uscita. Gli sguardi perplessi degli invitati mi accompagnarono fino alla porta.
«Hei, aspetta!», mi gridò dietro Nicholas, quasi correndo nella mia direzione.
Avevo appena messo la mano sulla maniglia della Panda quando la sua voce mi raggiunse, irritandomi fino alla punta dei capelli.
«C’è una comodissima fermata di autobus qui vicino se non hai soldi per un taxi», gli feci presente, aprendo con uno strattone la portiera.
«Vittoria...».
«Cosa?!», sbottai, «Cosa vuoi?! Mi psicoanalizzerai adesso?! Mi dirai che ti dispiace?! O vuoi propormi di sposarti anche tu, così non mi sentirò uno schifo totale?!».
Lui non disse niente. La sua figura atletica proiettava un’ombra sull’asfalto che si allungava verso di me, quasi a volermi raggiungere, confondendosi con quella dell’auto. Io salii a bordo e infilai la chiave nel quadro d’accensione. Poi mi asciugai gli occhi e alla fine partii, senza guardarmi più indietro.
Intanto sopra San Lombardo il cielo si ricoprì di nuvole e un fulmine esplose all’orizzonte, illuminando le acque scure del Mar Tirreno.

«Accidenti! Accidenti! Accidenti!», ripeté Vittoria, menando un colpo allo sterzo.
Si diede mentalmente della stupida e si pentì di essere rimasta al lavoro oltre l’orario per evitare di incappare in Dario, il suo noiosissimo vicino di casa che cercava in tutti i modi di strapparle un appuntamento. Per di più fuori stava per piovere, i fulmini si erano avvicinati abbastanza da illuminare il call-center che nell’oscurità della sera, con tutte quelle vetrate panoramiche e i mattoni grigi delle pareti, sembrava un enorme fantasma con bocche e occhi spalancati. Le fece venire i brividi e ancora una volta Vittoria si ritrovò a darsi della stupida e a menare lo sterzo.
Fu in quel momento che qualcuno le bussò sul finestrino facendola trasalire per lo spavento. Vittoria si voltò e vide il suo capo guardarla al di là del vetro, in attesa che lei abbassasse il finestrino. Lei lo fece, sentendosi subito in imbarazzo perché doveva aver assistito alla sua sfuriata di poco prima.
«Problemi con la macchina?», le chiese abbozzando un sorriso.
Vittoria si smarrì. Il sorriso dell’uomo l’aveva imbambolata e come al solito la ragazza si ritrovò a desiderare di poter sentire quella bocca sulla propria, immaginandosi che gusto avrebbe potuto avere. Così, senza accorgersene, si morse un labbro e Carlo si accigliò non sapendo come interpretare quel gesto. Poi l’uomo si gettò un’occhiata alle spalle, verso la sua BMW e constatò che nel parcheggio erano rimasti solo loro due. Anche Vittoria se ne accorse e questo pensiero la riportò finalmente con i piedi per terra.
«Mi sono dimenticata di fare benzina», finalmente gli rispose, tornando a darsi della stupida.
In verità, non era la prima volta che le succedeva una cosa del genere, ma fino ad allora non si era mai trattenuta così a lungo e c’era sempre stato qualcuno dei suoi colleghi disposto a darle un passaggio. Stasera, invece, ebbe paura che sarebbe stata costretta ad attraversare da sola il parco della vecchia chiesa (deserto a quest’ora) per raggiungere la fermata dell’autobus. E la stessa cosa passò per la testa anche a Carlo che percorse con una rapida occhiata il corpo della ragazza vestita quella sera in un semplice abitino estivo dalla generosa scollatura a cuore. Lei però non se ne accorse, impegnata a mordersi le labbra per il terrore di dover fare la camminata al buio. Poi tornò a guardarlo e lui le rivolse un altro dei suoi sorrisi.
«Posso darti un passaggio se vuoi», le propose, incapace di fare altrimenti.
Doveva essere onesto: aveva notato Vittoria dal primo giorno, quando aveva superato il suo colloquio sorridendogli affabilmente con quella graziosa bocca a cuore. Anche se a volte gli sembrava una bambina sui tacchi a spillo della mamma, quella bambina aveva un che di interessante. L’aveva vista spesso destreggiarsi tra le scrivanie durante le pause e parlare allegramente con i colleghi, dando una ventata d’aria fresca a quel posto. Inoltre, già dopo una settimana Vittoria era riuscita a totalizzare più chiamate utili di tutti, dimostrando così di essere pure una potenziale risorsa per il call-center. E ora era lì, tutta sola, dentro il suo vestitino a fiori e si mordeva le labbra scintillanti di rosso per il burro di cacao ai frutti di bosco. Guardandola, Carlo si sorprese di provare un intenso brivido di piacere e comprese che non poteva proprio lasciarsi sfuggire quell’occasione. Gli sarebbe piaciuto un mondo giocare al lupo cattivo e se solo ne avesse avuto l’opportunità, le avrebbe mordicchiato volentieri quel candido collo che odorava delicatamente di bagnoschiuma alle rose.
E mentre Carlo rifletteva su tutto questo, Vittoria si domandava se fosse il caso di accettare. Ma il sorriso mozzafiato era lì, tutto per lei e gli occhi dell’uomo parevano due carboni ardenti in attesa di un “sì”. Allora si morse di nuovo il labbro e si ricordò le parole di Tiziana: «Gira voce sia impegnato, ma non c’è nulla di certo, non ne parla mai». Poteva esserci una scusa migliore per indagare? Assolutamente no! Quindi Vittoria si decise e annuì, poi prese la borsa dal sedile del passeggero e uscì dalla Panda, sentendosi come una di quelle adolescenti in preda all’eccitazione prima di una gita di classe. Era sciocco da parte sua, lo sapeva, ma a ventun anni l’unica esperienza con il sesso opposto che aveva avuto risaliva a due anni prima e non era stata nemmeno tanto entusiasmante. Tutt’altro. Una squallida performance nella stanza degli ospiti della casa di Pietro Nardini con cui aveva passato ogni anno di liceo senza che si fosse mai accorto di lei. E poi una sera, dopo la festa che aveva dato per solennizzare il momento in cui avevano ricevuto i diplomi, lui si era improvvisamente fatto avanti, riempiendola di complimenti e di carezze a cui lei non aveva resistito. E tanto per cambiare, era stata la tequila a toglierle ogni freno inibitore e a spingerla a lasciarsi andare. Ma Carlo era sicuramente diverso. Era più grande di lei, era affascinante e di certo aveva molta più esperienza in
quel campo.
Diamine! Ma perché andava a pensare certe cose?! Le aveva offerto solo un passaggio, Santo Cielo!
Carlo le appoggiò dolcemente una mano sulla schiena e con un gesto galante le indicò la sua auto, come a dire “prego signorina”. Vittoria lo trovò buffo e ridacchiò, seguendolo verso la BMW.
Non appena i due salirono, un tuono rimbombò cupo nel cielo ed entrambi si ritrovarono a guardare le minacciose nuvole nere che si stavano addensando sopra le loro teste.
«Negli ultimi anni piove sempre più spesso», osservò Carlo, facendo partire il motore.
Vittoria si ritrovò d’accordo e si domandò con che coraggio potesse lasciare la sua fidata Panda lì, tutta sola, sotto un imminente temporale. Carlo glielo lesse in viso e pensò bene di rassicurarla, posandole come niente fosse una mano sulla coscia a un altezza che non sarebbe stata considerata eccessiva per un primo approccio.
Anche se il gesto non le sfuggì, Vittoria non gli diede troppo peso, credendo davvero nella sua buonafede.
«Non preoccuparti, il parcheggio è videosorvegliato e tra poco passerà anche la guardia notturna. Non te la porterà via nessuno, te lo prometto».
Il timbro basso e la confortante sicurezza con cui l’aveva detto sortirono il loro effetto e Vittoria si sentì subito più tranquilla, lasciando che partissero alla volta di casa sua. Lungo la strada Carlo le domandò l’indirizzo e lo digitò rapidamente sul navigatore, poi prese a parlare del più e del meno. Discussero tanto dei loro colleghi, della ditta di telefonia mobile per cui stavano lavorando e di cosa facessero nel tempo libero. A quel punto Vittoria si sentì abbastanza a suo agio da azzardare a chiedergli della sua vita privata e con sua enorme delusione Carlo le confessò quello di cui tutti spettegolavano quando non c’erano altri argomenti di cui parlare: la sua compagna.
«Io e Lisa stiamo insieme da circa quattro anni ormai», le spiegò con gli occhi fissi sulla strada, «Ci siamo conosciuti per puro caso, in un pub fuori città. Lei stava festeggiando la sua laurea con degli amici, io stavo staccando dal lavoro. La cameriera aveva confuso i nostri ordini e mi aveva portato un pezzo della sua torta mentre a lei aveva rifilato una porzione di zuppa inglese che avevo ordinato io. Effettivamente è stata una cosa divertente! Da allora, per ogni anniversario, dopo cena torniamo lì e ordiniamo sempre della zuppa inglese».
«Oh, è una cosa davvero carina», fu tutto ciò che riuscì a dire Vittoria.
Per quanto si sforzasse di sorridere fu evidente che ci era rimasta male e il suo sguardo si era spento, piantandosi sulla borsa che teneva in grembo. Carlo la trovò una cosa adorabile, decidendo che forse poteva giocarsi questa storia a suo favore.
Un istante dopo, infatti, aggiunse: «Già, peccato che certi sentimenti non durino per sempre per quanto ci si sforzi», disse assumendo un tono quasi malinconico.
In quel momento un fitto muro di pioggia si abbatté sopra la città e un lampo illuminò la stradina stretta tra i due campi di girasoli che i due stavano attraversando a cinquantacinque all’ora.
Vittoria tornò a guardare l’uomo con rinnovata curiosità.
«Che cosa vorrebbe dire questo?», gli domandò.
Carlo sospirò e accennò a un sorriso abbastanza triste, gettandole un’occhiata da cane bastonato.
«Io e Lisa abbiamo perso la scintilla», chiarì, sobbalzando sul sedile per una buca sull’asfalto, «Ci proviamo, davvero, ma lei e i suoi comportamenti rendono tutto molto più difficile».
«I suoi comportamenti?», gli fece eco Vittoria, improvvisamente avida di saperne di più.
Carlo annuì e sobbalzarono di nuovo.
«Non dovrei parlarne. Non sarebbe corretto», disse tanto per fare effetto.
Aveva capito ormai che Vittoria nutriva un interesse nei suoi confronti ed era certo che il discorso non sarebbe caduto così.
La ragazza infatti esitò, ma poi disse: «Non sei tenuto a parlarne se non vuoi. Sono una perfetta sconosciuta dopotutto. Però sfogarsi fa bene e a volte sono proprio gli sconosciuti a essere i migliori ascoltatori», sorrise.
Se avesse potuto Carlo avrebbe scosso la testa da quanto era stato facile. Non era sua abitudine abbordare così le ragazze. Non era sua abitudine abbordarle e basta. Ma questa ragazzina gli faceva venire voglia di azzardare sempre di più e sapeva che stava per fare una cazzata, ma qualcosa lo spinse a proseguire e Carlo le raccontò dei fantomatici attacchi di panico scaturiti dalla gelosia di Lisa e della volta in cui avrebbe cercato di tagliarsi le vene dentro la vasca. Vittoria gli rivolse uno sguardo orripilato e per un momento Carlo temette di aver esagerato, ma poi sentì la sua manina sulla propria spalla e dentro la sua testa esplose un boato di trionfo.
«Mi dispiace così tanto», disse Vittoria, stringendo leggermente la presa.
Lui si sforzò di non sorridere troppo e lei interpretò la sua smorfia come un tentativo per alleggerire l’atmosfera. Ci era cascata in pieno e non immaginava nemmeno quanto. Con le cose che aveva passato per colpa di suo padre, Vittoria aveva la tendenza a trasformarsi in una crocerossina non appena qualcuno le mostrava due lucciconi e Carlo era riuscito a centrare dritto nel segno con la sua storia drammatica.
Vittoria lo strinse ancora un po’, poi lasciò al presa e iniziò a osservare i tergicristalli che si spostavano in sincrono per togliere l’acqua dal parabrezza. Ecco, per lei una relazione doveva somigliare a qualcosa del genere: due persone che si muovevano in sintonia per spianarsi la strada in un mondo pieno di insidie. Carlo questa fortuna non l’aveva avuta e chi meglio di lei poteva comprendere la sua delusione? Adesso si spiegava tutto: perché non ne avesse mai parlato o perché non tenesse neanche una foto di Lisa dentro l’ufficio. Ma magari lei avrebbe potuto cambiare qualcosa, sostenerlo in qualche modo, parlargli dei suoi genitori.
Si preparò giusto a farlo quando la macchina ebbe uno scossone e sprofondando dentro qualcosa, si bloccò. Carlo si accigliò e provò a dare gas ma la BMW non si mosse.
«Che succede?», domandò allarmata Vittoria.
Lui non seppe risponderle. Le disse solo di non muoversi e scese in strada a controllare, riparandosi dalla pioggia con le mani come meglio poteva. Quando rientrò aveva un’aria tesa.
«La ruota anteriore è sprofondata in una buca piena d’acqua», la informò.
Allora Vittoria gli propose di provare a spingerla e Carlo ci rifletté su per un attimo.
«D’accordo», acconsentì aprendo la portiera, «Mettiti alla guida e premi sull’acceleratore quando te lo dico».
Vittoria annuì e scalò di posto non appena Carlo scese. Sentì i suoi passi risuonare veloci sotto la pioggia e qualche istante dopo lo sentì impartirle un secco «ora!» e quindi spinse sul pedale. La macchina sbuffò ma non si mosse.
«Riproviamo!», gridò Carlo attraverso la pioggia, «Uno... due... tre... Vai!».
Vittoria spinse di nuovo e finalmente la BMW parve obbedire. La macchina ondeggiò, uscì dalla buca e Vittoria frenò all’istante. Dalla strada Carlo esultò e corse indietro nel salone, bagnando tutto il sedile non appena ci si mise a sedere.
«Oddio, sei fradicio!», osservò Vittoria, guardando la camicia bianca dell’uomo, zuppa di pioggia.
Non avrebbe dovuto farlo perché attraverso la stoffa bagnata si vedeva un torace ben modellato che si alzava e si abbassava ad ogni respiro. Vittoria diventò bordeaux in un attimo ma cercò di dissimulare l’imbarazzo fingendo di cercare dei fazzoletti nella borsa.
«Ci dovrebbe essere un asciugamano da qualche parte dalla tua parte», le disse Carlo, ridacchiando compiaciuto sotto i baffi.
Vittoria guardò dappertutto ma non lo vide da nessuna parte.
«Ti porti sempre un asciugamano dietro per queste occasioni?», gli chiese, accigliandosi mentre ricontrollava la tasca della portiera.
«Me l’ha regalato la nipote di Lisa e vuole che lo porti ovunque. È piccolo e azzurro, sicura che non ci sia?», finì per domandarle, osservandola trafficare con la sua macchina in modo quasi impacciato.
Vittoria scosse la testa ma non ebbe il coraggio di guardarlo ancora. Allora Carlo si protese verso di lei ed allungò un braccio come a voler controllare lui stesso, ma invece di farlo si avvicinò alla passeggera e si ritrovò a guardarla dritto in viso.
Il cuore di Vittoria perse un battito. Le sue labbra si schiusero leggermente mentre i loro occhi si incontravano e Carlo le sorrise. Poteva sentire la stoffa bagnata della sua camicia sulla coscia scoperta dal vestito e il calore che sprigionava il corpo dell’uomo da sotto questa, provocandole la pelle d’oca. Il viso di Carlo era così vicino che le sarebbe bastato sporgersi leggermente in avanti per sentire finalmente che sapore avessero le sue labbra. Ma lei non si mosse, consapevole di trovarsi di fronte a un uomo già impegnato.
Carlo la fissò ancora per un po’, poi si concentrò inevitabilmente sulle sue labbra. Non avrebbe mai creduto di poter pensare di tradire Lisa, ma Vittoria stava esercitando uno strano potere su di lui; il suo profumo così semplice, il suo sguardo insicuro, tutto in lei urlava di liberarla dall’alone di ingenuità da cui sembrava circondata.
E così non se lo fece ripetere due volte: possessivo ai limiti del consentito la strinse a se e la baciò, insinuandosi prepotentemente nella sua bocca. Vittoria non riuscì a opporsi, percorsa immediatamente da un fremito di eccitazione e dalla voglia di sentire il suo calore addosso. I loro respiri accelerarono in un battito e i corpi si spinsero l’uno contro l’altro, in cerca di un contatto. Carlo le baciò le labbra, le percorse la mascella e arrivò al tanto agognato collo, mordicchiandolo finalmente e strappandole gemiti di approvazione. Le loro mani si intrecciarono e si lasciarono per iniziare ad accarezzarsi, in una frenetica danza di piacere che in un attimo aveva travolto entrambi.
Fuori intanto la pioggia si era scatenata in tutta la sua potenza, cancellando il mondo che circondava i due amanti. Il rumore della tempesta spazzò via le loro voci che si richiamavano e si desideravano, la strada rimase deserta per tutto il tempo che fecero l’amore. E quando alla fine iniziarono a rivestirsi, il tempo iniziò a calmarsi e solo una leggera pioggerellina continuò a battere sul tettuccio della macchina. Poi Carlo rimise in moto e nessuno dei due si guardò più fino alla fine del viaggio, entrambi presi dai propri dubbi e pensieri. Solo una volta che Vittoria si preparò a scendere dall’auto finalmente si scambiarono un’occhiata carica di significato e ancora una volta Carlo non riuscì a frenare il proprio istinto e le si avvicinò per darle un bacio. Sulle prime lei ricambiò, ma dopo qualcosa in lei gridò di non assecondarlo più e la ragazza si staccò (seppure a malincuore) dalle sue labbra, infine uscì e corse fino al portone chiudendoselo alle spalle senza voltarsi indietro.
Ritrovandosi improvvisamente solo, Carlo si domandò per la prima volta che cosa avesse combinato. Aveva tradito Lisa, ma ancora peggio, l’aveva fatto senza alcun rimorso di coscienza. Suo padre non sarebbe stato fiero di lui e persino lui non riusciva a essere fiero di se stesso. Perciò, mentre si allontanava da via Giannotti ignorando lo squillo ripetuto del telefono sul quale si illuminava la foto di una Lisa sorridente in mezzo al luna-park, si ripromise che ciò che era accaduto stasera non sarebbe più successo.
E buttandosi sul divano, Vittoria pensò giusto la stessa cosa.




---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Ed eccoci qua, al sesto appuntamento con i nostri protagonisti! XD Magari qualcuno si era aspettato qualcosa del genere, ma qualora così non fosse, sono contenta di avervi fatto imprecare! :D Now... vorrei che prestaste attenzione anche al più piccolo dei dettagli, perché come vedrete, ogni cosa ha un suo perché (ne è un esempio la storia della giacca di Nicholas, che nel primo capitolo era entrata in scena sul pavimento del monolocale di Vittoria e si era rivelata “importante” in seguito). Quindi occhi ben aperti! XD Adoro l’escamotage dei dettagli e mi diverto un sacco a piazzarli qua e là per poterli usare più avanti :) Perciò spero che li notiate in un modo o nell’altro XD
Detto ciò, vorrei dire alle persone che mi seguono: grazie, grazie, grazie e grazie ancora! Spero che l’esercito continuerà a crescere anche in futuro XD
Un abbraccio a tutti, carissimi!


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Lo scoppio di una bomba ***


Image and video hosting by TinyPic




7.
L O     S C O P P I O     D I     U N A     B O M B A


It was fun
Playing with knifes
Until a blade
Stock in the left side of my chest...
Surprise!

(Demi Lovato - Old ways)




Non ero andata a casa. Avevo vagato per un’ora lungo le strade appena fuori città per schiarirmi le idee. Ma invece di capire finalmente cosa dovessi farne della mia vita la mia mente era stata invasa dal ricordo di Carlo e della nostra prima sera insieme. E adesso ero ferma in un punto cieco di Via Giannotti, a osservare l’uomo che aveva giurato di amarmi camminare su e giù davanti al mio portone con le mani infilate nelle tasche del cappotto. Mi stava chiaramente aspettando, ma io non ero pronta a parlargli.
Sospirai e mi abbandonai con la testa contro il sedile della Panda, socchiudendo gli occhi per un attimo. Dove potevo andare? Dovevo chiedere asilo a Francesca? No, era escluso. Anche se avrebbe sicuramente trovato un posto per me, stasera non ero proprio dell’umore per i suoi onesti “te l’avevo detto”. E non potevo chiamare nemmeno Giorgia, poiché avrebbe cercato sicuramente di risolvere i miei problemi con una bottiglia d’alcol e come sempre avremmo finito per fare qualcosa di stupido. Il numero di Tiziana non ce l’avevo, e con lei finiva la mia lista di amici.
Sopra la tettoia rimbombò lo scoppio di un tuono e mi ricordò che avrebbe potuto iniziare a piovere da un momento all’altro.
Presi il telefono in mano e feci scorrere il dito sulla rubrica, lasciando che si fermasse su un nome a caso. Il nome risultò essere (nessuna sorpresa!) quello di Nicholas e fui tentata di chiudere l’applicazione con una smorfia ma poi ci ripensai e prima di cambiare idea cliccai sul tasto di chiamata. Non dovette squillare a lungo, mi rispose quasi subito cogliendomi completamente di sorpresa. Talmente di sorpresa che buttai giù senza dire una parola. E che avrei potuto dirgli, poi? Mi dispiace per averti trattato male, di nuovo? No. Era una pessima idea. Non dovevo chiamare Nicholas, non sapevo nemmeno come mi fosse venuto in mente!
Impostai il telefono sulla vibrazione e lo buttai sul sedile di fianco. Come c’era da aspettarselo Nick cercò di richiamarmi, ma io lo ignorai. Davanti a me intanto anche Carlo prese il telefono e digitò qualcosa – il mio telefono riprese a squillare ancora una volta, ma il nome sul display non era più quello di Nicholas. Beh, non avevo risposto a quest’ultimo, figuriamoci se l’avrei fatto adesso!
Osservai Carlo buttare giù e appoggiarsi contro la sua auto per poi guardare verso il mio appartamento. Mi salirono le lacrime agli occhi. Restare qui non era un’idea sana, dovevo trovare un posto per la notte. Riflettendoci, mi venne in mente il Black Star che avevo consigliato a Nicholas la sera prima. Dio... era successo solo la sera prima? Quante cose potevano cambiare in ventiquattro ore!
«Forza, andiamocene», dissi alla mia Panda mettendola in moto.
Svoltai l’angolo e mi lasciai Carlo e il monolocale alle spalle.

«Mi dispiace signorina, ma al momento i nostri terminali sono tutti bloccati per un guasto tecnico. Se può aspettare qualche minuto risolveremo questo problema e le troveremo subito una stanza», mi disse la receptionist, stringendosi per l’imbarazzo dentro la divisa color pesca, in netto contrasto con la sua carnagione scura e i capelli neri.
Adesso capivo il motivo per cui decine di turisti occupavano tutti i divanetti nella hall.
«D’accordo, mi sistemerò al bar», risposi, mettendo via il bancomat.
Avrei potuto cambiare hotel ma non volevo allontanarmi troppo da casa e il Black Star era davvero molto vicino. Per non parlare del fatto che conveniva alle mie tasche.
Io e Carlo eravamo già stati qui, più di una volta a dire il vero, e forse non era esattamente il miglior posto dove rifugiarmi dal suo ricordo, tuttavia non riuscii a fare altrimenti. In un certo senso avevo bisogno di ricordare, volevo sperare che la nostra storia non fosse stata tutta una farsa e che c’era stato qualcosa di autentico. Poi però mi misi a sedere al solito tavolino nella parte sopraelevata della sala, vicino al parapetto che dava sul resto dei tavoli, e mi si strinse il cuore. Qui era dove Carlo mi aveva detto per la prima volta di amarmi e dove io li avevo stretto forte la mano, fidandomi delle sue parole. Possibile che avesse mentito guardandomi dritto negli occhi?
Mi tolsi furtivamente una lacrima dalla guancia con il palmo di una mano e in quella una cameriera si fermò accanto a me.
«Cosa desidera?», domandò con un sorrisone.
Non volevo sembrare scortese, ma non riuscii a risponderle con altrettanto entusiasmo.
«Una tequila sunrise», dissi semplicemente, tornando a guardare al di là del parapetto.
Dalla finestra panoramica in fondo si poteva scorgere un pezzo di piscina e il parco che la circondava come un’aureola sempreverde.
«You and my brother are such bad liars!», disse improvvisamente una voce alle mie spalle, obbligandomi d’istinto a voltarmi.
Quando vidi che a guardarmi di rimando (con tanto di sorrisetto ironico) c’era Jermaine, mi venne da gettare un’occhiata alle sue spalle quasi in automatico, per controllare che non ci fosse anche il fratello.
«Nicholas non è qui», m’informò Jermaine con il suo pesante accento americano.
Dopodiché mi raggiunse, scostò la sedia di fronte e ci si mise a sedere senza troppe cerimonie.
«You’re not really a couple, right?», domandò, incrociando le dita sopra il tavolo con aria di chi la sapeva lunga.
«Come?», chiesi colta in contropiede.
«Non siete una vera coppia», tradusse lui, sporgendosi leggermente in avanti.
Ma il mio stupore non voleva dire questo, bensì volevo capire cosa sottintendesse il minore dei Gordon con quella domanda.
Quindi chiesi apertamente: «Perché pensi questo?».
Jermaine sporse in fuori le labbra quasi a farsi pensieroso e inarcò un sopracciglio.
«Nick ha detto che non ti sei sentita bene al ristorante e che non si fidava a lasciarti guidare. Ti voleva riportare a casa. But you’re here, alone, so you guys lied. E credo anche di sapere il perché...».
Lo fissai inespressiva mentre la cameriera mi posava davanti il bicchiere sopra un tovagliolo di carta. Prima che se ne potesse andare, Jermaine le domandò del Jim Beam, poi proseguì:
«Carlo ha praticamente anticipato la fine della cena. Ha detto che gli faceva male la ferita e che doveva andare al pronto soccorso. Alone. Curioso, non è vero?».
«Voi Gordon avete questa fastidiosissima abitudine di analizzare tutto e tutti», osservai, bevendo un paio di sorsi dal mio bicchiere, «Non vedo cosa ci sia di tanto strano nel fatto che Carlo voglia farsi visitare la ferita», conclusi con una smorfia.
«Hm!», sbuffò lui, accomodandosi meglio sulla sedia, «Del resto è normal che voglia andare da solo al pronto soccorso... without his fiancée... after you suddenly ran away».
Alla sua occhiata penetrante mi strinsi nelle spalle e mi nascosi di nuovo dietro al bicchiere.
Jermaine sospirò e schioccò la lingua.
«Oh, c’mon! Don’t say bullshit!», esclamò, tornando in posizione precedente, «Non eri venuta al ristorante per un saluto! Eri lì per Carlo!».
A questo punto sbattei giù il bicchiere e mi allungai sopra il tavolino anch’io.
«Se anche fosse così, non vedo come possa interessarti!», ribattei.
Pensai che Jermaine si sarebbe stizzito per il mio tono, ma invece sul suo volto apparve un sorriso, quasi fosse sollevato. Mi domandai che problema avesse.
«Then I’m right?», incalzò.
«None of your business!», replicai con un accento pessimo.
A interromperci arrivò la cameriera, con il Jim Beam del ragazzo davanti a me. Lui lo prese direttamente in mano, ringraziandola. Poi, con calma estenuante, lo sorseggiò scrutandomi in faccia da sopra il bicchiere. Ricambiai l’occhiata, meravigliandomi di quanto mi risultasse facile bisticciare con questi mezzo-americani.
«Se mi hai seguito solo per questo...», iniziai.
«Non ho seguito anyone!», mi stoppò lui, allontanando il liquore dalle labbra, «Alloggio qui», chiarì.
Mi venne da guardarmi attorno: qui? Un Gordon?
«Pensavo che quelli come voi preferissero le cinque stelle e il tappeto rosso all’ingresso», dissi senza sforzarmi di nascondere l’ironia.
Jermaine storse la bocca e bevve un altro sorso.
«You know? I think I’ll be happy if my brother say me that you’re not his girlfriend, after all», lo disse così velocemente che non colsi bene tutte le parole ma intuii soltanto il senso generale della frase: qualcosa sul fatto che non si sarebbe dispiaciuto se non stessi davvero con suo fratello.
Misi subito il broncio e finii di bere il mio cocktail in silenzio. Jermaine continuò a sorseggiare il suo Jim Beam, studiandomi attentamente. Purtroppo lui e Nicholas erano più simili di quanto mi sarebbe piaciuto ammettere. Per fortuna a salvarmi dall’imbarazzo arrivò l’annuncio agli altoparlanti che comunicava che il problema coi terminali era stato risolto. Colsi la palla al balzo e mi alzai, preparandomi a salutare il mio collocutore, ma prima che potessi andarmene lui disse qualcosa che mi spiazzò:
«Se mi sbagliassi, faresti meglio a lasciare Nicholas prima che la situazione sfugga di mano...».
Pensai che avrebbe aggiunto qualcosa, ma Jermaine non disse altro, rivolgendo uno sguardo sereno al resto della sala. Tutto questo era ridicolo, il suo avvertimento era privo di senso. Quindi non risposi e me ne andai, tornando dalla receptionist che era stata sommersa dai turisti tedeschi appena arrivati con un pullman.
Dovetti attendere quasi mezzora prima che fosse il mio turno e alla fine ottenni la chiave di una stanzetta singola nell’ala est dell’edificio. Non era una regia, era arredata in modo quasi spartano, ma non potevo lamentarmi; l’importante era che ci fosse una doccia e un letto pronto ad accogliermi!
Mi ero appena stesa sopra quest’ultimo quando qualcuno venne a disturbarmi, bussandomi alla porta. Sbuffando mi alzai e mi tamponai i capelli ancora umidi con l’asciugamano, dopodiché aprii e mi lasciai sfuggire un lamento.
«Non ci posso credere, sei riuscito a scovarmi pure qui...», dissi a Nicholas, lasciandolo entrare dato che ero certa non se ne sarebbe andato altrimenti, «Fammi indovinare: ti ha informato tuo fratello?», chiesi poi, soffermandomi nel bagno per appendere l’asciugamano al suo posto.
Nicholas non rispose. Si chiuse la porta alle spalle, mi raggiunse e con un gesto rapido, che non avrei mai potuto prevedere, mi prese per le braccia e mi voltò, bloccandomi stretto tra il suo corpo e il lavandino. I suoi occhi s’inchiodarono ai miei con tale forza da non lasciarmi altra scelta se non quella di ricambiare il suo sguardo con uno sbalordito. La mia mente si svuotò all’istante, lasciando posto a strane bolle d’aria.
«Sei disarmante, Vittoria!», ruggì d’un tratto lui, lasciandomi a bocca aperta, «Da quando ti ho incontrata in quel pub sei diventata una vera spina nel fianco!», aggiunse, rafforzando la presa.
Sbattei un paio di volte le palpebre e mi accigliai. Non sapevo cosa mi fossi aspettata, ma di certo non questo...
«Mi chiedo cosa ho fatto di male per avere questa disgrazia?!», continuò imperterrito Nicholas, «Dio! Dovevo solo tornare qui, fare ciò che mi era stato chiesto e andarmene! Invece non riesco più a concentrarmi sugli obbiettivi, perché tutte le volte che ci provo arrivi tu a rovinare ogni cosa! Perché devo preoccuparmi se scappi via in lacrime? Perché dovrebbe importarmene? Perché decido di fare cose stupide quando sono con te? Dovrei essere da un’altra parte adesso, dovrei fare chiamate importanti, invece di comporre numeri a caso nella speranza di rintracciarti! È frustrante, dannazione!».
Nicholas mi lasciò andare e si passò le mani nei capelli. Dopodiché andò verso il letto e si abbandonò a sedere, ritrovando un po’ del solito, imperturbabile contegno.
Io invece non riuscii a ricompormi; era forse impazzito? Uscii dal bagno e mi fermai in mezzo alla stanza a fissarlo.
Nicholas mi gettò una fugace occhiata e sospirò: «Sembro un pazzo, vero?».
Non risposi. Stavo ancora assimilando le sue accuse.
«È questo il problema: non riesco a mantenere il controllo con te, faccio e dico cose che di solito non faccio e non dico!», sbuffò costernato, «Credo che ho iniziato a preoccuparmi per te dal momento che sei scappata dalla mia auto in pieno mattino, senza dirmi una parola. Una ragazzina bellissima e incosciente, innamorata di un uomo impegnato, che aveva cercato di affogare i suoi problemi in una bottiglia di tequila per tutta la notte. Mi sono sentito inspiegabilmente responsabile nei tuoi confronti e quando ti ho ritrovata lunedì scorso in compagnia di Carlo, non riuscivo a credere che tra tutti gli uomini possibili il tuo problema avesse il suo volto e ho capito che non potevo lasciare che lo rifacesse...».
«Rifacesse cosa?», domandai accigliandomi.
Ma Nicholas non rispose. Sospirò ancora una volta, come se stesse decidendo qualcosa nella sua testa, poi alzò lo sguardo su di me e fu sul punto di spiegarmi quando iniziarono a bussare di nuovo. Non seppi che fare. Da una parte volevo sapere, dall’altra, chiunque fosse stava insistendo in maniera piuttosto accanita e se avesse continuato ero certa che avrebbe disturbato gli ospiti dei numeri accanto. Quindi, controvoglia, andai ad aprire restando di stucco per la seconda volta.
Carlo mi guardò con determinazione, le braccia tese contro gli stipiti della porta. Poi però notò che c’era qualcun altro con me e la sua espressione passò da sorpresa a incredula, per poi incrociare il mio sguardo in modo accusatorio.
«Che ci fai qui?», domandai nonostante avessi solo voglia di scoppiare a piangere e nascondermi nel suo cappotto in cerca di rassicurazioni.
«Carlo?», si sorprese Nicholas, apparendo alle mie spalle.
Non seppi chi guardare. Era una situazione surreale!
«È stato Jerry a chiamarti?», s’incupì Nicholas.
«Jerry?», gli fece eco Carlo, «Si unirà alla festa?», ci rivolse una risatina di scherno, poi entrò nella stanza senza chiedere il permesso e studiò lo spazio che lo circondava.
«Un po’ strettino per due persone», osservò, tornando a guardarci.
«Come hai fatto a trovarmi?», domandai in tutta risposta.
Cercai di sembrare distaccata ma una nota dolente nella voce tradì tutto il male che mi aveva fatto quella sera.
«Ti ho cercata a casa. Stavo andando via quando ho notato la tua auto parcheggiata qui accanto», spiegò Carlo senza particolare enfasi.
Che stupida! Avrei dovuto parcheggiare dietro l’edificio invece di lasciare la Panda lungo la strada.
«Quindi è questo il posto dove porti tutti i tuoi uomini?», mi domandò lui dopo un attimo di silenzio, facendo trasudare nella voce una buona dose di disprezzo e cattiveria.
Le sue parole colpirono a segno e desiderai potergli saltare addosso per riempirlo di pugni. Ma invece di perdere il controllo come sempre, sbattei la porta e incrociai le braccia al petto, sfidandolo a dire altro.
Nicholas, invece, non riuscì a trattenersi: «Non puoi paragonare tutti a te», disse, afferrandomi con prepotenza attorno alla vita.
Carlo si soffermò fugacemente su quel gesto e il suo viso fu percosso dal fastidio, ma fece finta di niente piantando gli occhi sul viso dell’uomo accanto a me.
«È questo ciò che vuoi, Vittoria?», mi chiese d’un tratto, senza guardarmi «Lui? Il patetico Nicky Gordon?», scoppiò in una risatina, «L’uomo dalle mille facce? L’affidabile amico che ti pianta ancora una volta un coltello tra le scapole quando meno te lo aspetti?».
Stava farneticando.
Improvvisamente, sentii di essere stufa di entrambi e avrei voluto che se ne andassero e non mi disturbassero mai più. Ma prima che riuscissi a dare voce ai miei pensieri, Carlo disse qualcosa che fece precipitare definitivamente la situazione:
«Stai godendo all’idea di farlo ancora, eh Nicky? Ma stavolta non ti darò la soddisfazione, puoi tenerti la puttanella, non sarà mai Jessica...».
E a quel punto ebbi solo il tempo di esclamare un strozzato “ah!” e di portarmi una mano alla bocca, mentre Nicholas si scagliava come una furia contro Carlo. Il primo diede un pugno in piena faccia al secondo e il secondo ricambiò con altrettanta forza dandogliene uno nello stomaco, usando la mano ferita che prese immediatamente a sanguinare. Dopodiché cominciò la lotta vera e propria, finché non ritrovai la voce per urlare ad entrambi:
«Fermi!».
Come per magia, i due si arrestarono e mi guardarono con occhi di fuoco.
Non avrebbe potuto importarmene di meno, perché in quel momento ero così arrabbiata che avrei potuto unirmi alla rissa pure io e fargli ritrovare la ragione a suon di calci. Ma invece di trasformarmi in una bestia, preferii prendere la cornetta del telefono dell’albergo e assumere un’aria minacciosa per fargli intendere che non stessi scherzando.
«Fuori, tutti e due», dissi gelidamente, «Adesso. O chiamo la sicurezza e vi faccio scortare dai due bestioni che pattugliano i corridoi».
Loro non si mossero e non lo feci manco io, stringendo talmente forte la cornetta che questa addirittura scricchiolò.
Nicholas fu il primo a ritrovare un po’ di lucidità, quel tanto che gli bastò per mollare la presa sul colletto di Carlo (che finì per sbattere a terra) e raddrizzarsi in piedi. Raggiunse la porta con la mascella che gli pulsava, ma non si voltò più a guardare l’avversario. Invece gettò un’occhiata a me, ma io non la ricambiai e così lui uscì senza dire una parola. A quel punto anche Carlo si rialzò e sistemandosi il cappotto con uno strattone secco raggiunse la porta a sua volta, soffermandosi solo un momento per darmi un ultimo schiaffo morale:
«Credo che non sia il caso che tu continui a lavorare per la nostra compagnia», disse, con la mano già sul pomello.
Non battei ciglio per non dargli il piacere di vedermi distrutta e convenni senza alcuna enfasi: «Sono felice che almeno su una cosa la pensiamo allo stesso modo».
Allora lui aprì la porta e sparì dalla mia vista.
Per sempre, mi augurai, e finalmente scoppiai a piangere.



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Ce l’ho fattaaaaaaaaa! Sento cori da stadio e lo scroscio di appalusi!! Grazie.. Grazie.. Non me li merito! XD
Scherzi a parte, mi dispiace di aver tardato COSÌ tanto, sono imperdonabile, lo so. Ma come ho già spiegato nell’avviso, tra impegni e vari impedimenti questo capitolo è stato un parto! Spero che almeno la vostra attesa sia stata ripagata. :)
Cogliendo l’attimo, già che parliamo del CP, finalmente sappiano una cosina in più sulla famigerata sera con Nicholas (in realtà una notte a cavallo tra il sabato e la domenica) dopo la quale Nicholas si è svegliato in macchina senza trovare Vittoria da nessuna parte. Purtroppo dovrete attendere ulteriormente per saperne di più, ma dato che ancora mi devo far perdonare, vi faccio un mini-spoiler: ci sarà un intero capitolo con il flashback. Quando non lo so e anche se lo sapessi, non ve lo direi mai! XD Alla fin fine una sorpresa è pur sempre una sorpresa!!
Detto ciò: grazie di continuare a seguirmi! Siete la spinta necessaria che mi ispira a continuare.. Vi adoro! ;)


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** I love shopping folle ***


Image and video hosting by TinyPic



8.
I     L O V E     S H O P P I N G     F O L L E


L’anziana coppia uscì dalla porta accanto mentre facevo girare la chiave nella toppa della mia. Per un attimo si fermarono dov’erano, gettandomi un’occhiata torva prima di mettersi a bisbigliare qualcosa tra loro. Li ignorai, lasciandomi sfuggire un lieve sospiro: ogni volta che ci incrociavamo era la stessa storia, ed era tutta colpa del baccano che avevano fatto quei due!
Quanti giorni erano passati da quando li avevo cacciati via dalla mia stanza? E quanti soldi avevo sperperato per permettermi di stare qui? Abbastanza, ma insufficienti per farmi sentire meglio. Ancora non mi ero decisa a tornare a casa, se non per prendere qualche vestito e la trousse.
La coppia di vecchietti s’incamminò a passo mortuario lungo il corridoio. Evitai di prendere l’ascensore con loro e feci il giro più lungo salendo per le scale.
Quando entrai nel ristorante, trovai Giorgia e Francesca già sedute a un tavolo vicino alla vetrata panoramica. Le raggiunsi e le salutai, accomodandomi all’ultimo posto libero.
«Per quanto tempo pensi di rintanarti ancora qui?», ricominciò con la solita storia Francesca non appena un cameriere finì di distribuirci i piatti freschi di lavastoviglie, «Di questo passo finirai tutti i tuoi risparmi... Ti rendi conto della follia?».
«Non di prima mattina, ti prego...», sbuffai, servendomi un toast dal cesto di vimini a cui aveva diritto ogni ospite dell’hotel.
Giorgia si alzò in silenzio e un attimo dopo tornò con un vassoio pieno di marmellate e cioccolate monoporzione e tre ciotole di frutta fresca.
Francesca prese un mandarino già sbucciato, ne staccò uno spicchiò, lo portò alla bocca ma all’ultimo rinunciò a mangiarlo, sbuffando come un cavallo imbizzarrito.
«Prima o poi dovrai pur tornare a casa!», esclamò, torturando il frutto.
Era evidente che questa storia non le andava giù. Come al solito si era messa i panni della madre apprensiva e mi stava facendo la ramanzina. Guardai Giorgia in cerca di aiuto, ma lei stava fissando con aria imbambolata il coltello con cui stava spalmando di marmellata il suo toast e non dava idea di seguire veramente il discorso.
«Tra poco più di quarantotto ore arriverà tua madre. Che cosa farai?», continuò intanto imperterrita Francesca.
Mi strinsi nelle spalle, aprendo una confezione di crema di nocciole per spalmarne un po’ sul mio pezzo di pane.
«Non sarebbe più semplice se le dicessi che vi siete lasciati? O tu e Nicholas volete veramente prestarvi alla farsa?».
«France», sospirai, «sembri il motore della vecchia Ape di mio zio!».
«È che mi preoccupo per te, dannazione!», disse lei con trasporto, quasi strizzando il povero spicchio maltrattato, «Ti conosco dal liceo, quando ancora portavi l’apparecchio ai denti e insieme a Giorgia vi intrufolavate nella mia classe per potervi scambiare gli occhi a cuoricino con i ragazzi più grandi... E adesso ti vedo soffrire per un bastardo e sperperare i tutti i tuoi risparmi, così!», schioccò le dita, «Dov’è finita quella ragazzina che dava del filo da torcere a quelli dell’ultimo anno?!».
«Nella spazzatura... insieme al costoso cappotto di Burberry e il mio cuore infranto!».
Francesca alzò gli occhi al cielo: «Non essere melodrammatica», sbuffò, «Insomma, dille qualcosa anche tu!», diede una leggera gomitata a Giorgia.
Quella parve rinvenirsi solo allora, alzando un sopracciglio biondo con aria spaesata.
«Ah? Sì-sì, dalle retta», disse poi, annuendo come se sapesse davvero di cosa stessimo parlando.
Francesca assottigliò immediatamente lo sguardo, sospettosa.
«Hai già bevuto?», le domandò in tono di rimprovero.
Giorgia scosse la testa con aria offesa, quasi una cosa del genere non fosse mai successa, e sia io che Francesca smettemmo di fare qualsiasi cosa per rivolgerle uno sguardo interrogativo.
«Beh? Che c’è?», sbottò lei, alzando la borsa da terra, «Nemmeno fossi un’alcolizzata!».
«Più o meno», ghignai, dando un generoso morso al mio toast.
Giorgia mi fulminò e poi tirò fuori uno specchietto e un rossetto rosso di Chanel con l’etichetta del prezzo ancora attaccata attorno al tappo.
Non appena Francesca lo notò, stese un palmo in sua direzione, in attesa: «Lo scontrino», disse imperativa.
Giorgia fece una smorfia e aprì lo specchietto per aggiustarsi il trucco: «È un regalo», rispose ammirando il proprio riflesso.
«Che regalo generoso...», osservò cinicamente l’altra, incrociando le braccia, «E di chi sarebbe?».
Giorgia le rivolse un sorrisetto misterioso prima di appoggiare lo stick sulle labbra e completare il lavoro, poi con uno scatto richiuse lo specchietto, lo rimise nella borsa e prendendo il telefono in mano si alzò in piedi.
«Mi dispiace signorine, ma devo temo di dovervi abbandonare!», disse ravvivandosi onde di capelli biondi sulle spalle, «O farò tardi a lezione».
«Hai ripreso l’università?!», esclamammo all’unisono io e Francesca.
In tutta risposta lei ci fece l’occhiolino e dopo un allegro “ci vediamo!” oscillò via sui tacchi alti tredici centimetri.
«Mi sono persa qualcosa?», domandai a Francesca non appena Giorgia sparì dalla nostra visuale.
Francesca dovette prendere diverse sorsate di caffè prima di parlare.
«È da giorni che è strana», rifletté a voce alta, appoggiando la tazzina sul tavolo, «Ma non riesco a estorcerle niente».
«Pensi che c’entri un uomo?».
«Certo che c’entra un uomo! Ma ho una strana sensazione a riguardo...».
Già. Forse era la mia recente brutta esperienza a farmi essere tanto prevenuta nei confronti degli uomini o forse conoscevo Giorgia da troppo tempo per non sapere che razza di spasimanti attirasse di solito. In ogni caso decisi che avrei indagato, se non altro per non dover più pensare a Carlo. Del resto, concentrarmi su qualcuno a cui ci tenevo non poteva che fare del bene un po’ a tutti, no?

Alle undici io e Francesca lasciammo l’albergo per raggiungere il Corso Dei Cavalieri, una delle mete preferite dai turisti che venivano a San Lombardo in qualsiasi stagione dell’anno. Qui era dove le scintillanti vetrine dei negozi di lusso si univano al fascino antico delle pareti rocciose da cui parevano sbucare con le loro luci e manichini sempre impeccabili. Il tutto severamente contornato dal verde del muschio e edera in fiore – tant’era che da piccola immaginavo fosse un posto magico, una specie di regno pieno di fatine alla moda e gnomi in giacca e cravatta. Crescendo però, mi ero accorta che le fatine non erano poi tanto magiche e che gli gnomi non fossero esserini gentili, e improvvisamente tutto questo era mutato in un mondo più che umano, dove potevi solo dire addio al portafoglio. E quel giorno era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Purtroppo, Francesca non si rivelò altrettanto entusiasta e non appena vide che mi fermavo di fronte all’ingresso di MaxMara le sue labbra si assottigliarono quasi fino a scomparire.
«Non vorrai mica entrare!», mi fermò sgranando i suoi occhi verdi.
«Ho bisogno di un abito nuovo», risposi.
«Oddio...», farfugliò lei, «E non preferiresti dare un’occhiata a negozi un po’ più discreti prima? Che so, Zara o Camaieu...?».
Ma la mia espressione doveva esserle sembrata abbastanza truce da desistere a continuare, perché la sua voce si affievolì e con un groppo alla gola lei alzò gli occhi verso l’insegna, rivolgendole un’occhiata preoccupata nemmeno questa le stesse per cadere in testa.
Soddisfatta di essere riuscita a spuntarla, tornai raggiante e finalmente spinsi la porta a vetri per entrare. Immediatamente fui circondata da un profumo fresco e delicato e, nonostante il tempo fuori fosse peggiorato e le temperature si erano abbassate di qualche grado da un giorno all’altro, dal tepore leggero del riscaldamento. Alle mie spalle anche Francesca si meravigliò di quella accoglienza, ma le nostre espressioni tonte furono spazzate via dall’arrivo della commessa – una ragazza giovane, forse dell’età della mia amica, vestita di tutto punto e con i capelli ben pettinati. Ci sorrise in automatico, evitando di studiare il mio cappotto stropicciato e la sciarpa presa da un venditore africano all’angolo di Borgo Largo alla modica cifra di tre euro.
«Buongiorno. Posso aiutarvi?», domandò, sfoggiando una dentatura praticamente perfetta.
Per un attimo fui colta dal panico: aveva ragione Francesca, che ci facevo qui? Cristo! Non avevo nulla in comune con questa gente! Non avevo imparato la lezione ancora quella volta al ristorante, quando il maître mi aveva accusato di non avere i soldi per pagare? Ma poi mi tornarono in mente le parole di Carlo – «non sarà mai Jessica...» – e la rabbia tornò a riempirmi l’animo più forte di prima. Chiunque fosse questa fantomatica Jessica di sicuro doveva somigliare a Lisa almeno in parte, o adesso non starebbe sposando quest’ultima, giusto? Quindi avevo bisogno di qualcosa di elegante, di strepitoso, qualcosa che avrebbe surclassato chiunque a mio confronto.
Perciò cercai di rilassarmi, sorrisi e risposi: «Sto cercando un vestito per un’occasione informale, non bado a spese».
Accanto a me sentii Francesca prendere un bel respiro e mordersi la lingua. Di sicuro una volta che saremmo uscite da qui mi avrebbe fatto una testa così riguardo all’importanza del denaro e via dicendo, ma sarebbe stato fiato sprecato perché ormai avevo deciso e dubitavo di poter cambiare idea.
Quindi seguii soddisfatta la commessa nelle viscere del negozio e mi feci mostrare i modelli nuovi: alcuni erano paurosamente scollati, sia davanti che dietro, alcuni troppo lunghi e dannatamente stretti e altri ancora dalle gonne a campana che mi sembrarono più adatti alla mia nonna che a me... Stavo quasi per perdere la speranza quando d’un tratto adocchiai un motivetto floreale che sbucava timidamente da uno degli espositori. Andai dritto in quella direzione e scoprii una meravigliosa gonna a tubino con ricami in pizzo che accarezzai delicatamente, quasi timorosa di vederli dissolversi. Non era un vestito, ma era perfetto lo stesso! Presi l’appendiabiti in mano e mi voltai verso la commessa.
«Questa!», dissi perentoria.
La ragazza parve improvvisamente sollevata. Annuì senza battere ciglio e precipitandosi verso un angolo della sala cominciò a elencare tutti i possibili abbinamenti, scarpe e accessori compresi. Evidentemente adesso era più a suo agio e alla fine abbinò la gonna a un top bianco a maniche lunghe, che mi arrivava appena sotto il seno.
«Ideale con una gonna a vita alta!», asserì, porgendomelo insieme a un paio di scarpe altissime.
In verità quest’ultime non erano esattamente il mio ideale, i tacchi erano troppo grossi e per niente eleganti, ma decisi comunque di darli una chance e mi nascosi in camerino per provare il tutto. Il risultato finale fu al di sopra di ogni mia aspettativa, non riuscii manco a crederci! Fin ora non avrei mai potuto immaginare che dei semplici vestiti potessero fare tanta differenza, eppure quella ragazza dai capelli rossi quasi non sembravo io. Mi voltai a destra e a sinistra di fronte allo specchio, sorridendo come se avessi appena vinto alla lotteria.
«Può uscire dal camerino se vuole», mi informò la commessa e non me lo feci ripetere due volte, cogliendo l’occasione per farmi ammirare anche da lei e da Francesca.
Quest’ultima non appena mi vide fece una faccia strana: da una parte sbalordita, dall’altra ancora ferma sulle sue convinzioni. Lo interpretai comunque come un buon segno e questo mi convinse definitivamente a comprare tutto. Cinque minuti dopo mi stavo rivestendo controvoglia, ma non potevo certo chiedere di indossare i capi nuovi subito. No. Avevo in mente qualcosa di più speciale per quell’outfit...
«Grazie a arrivederci», sorrise la commessa passandomi lo scontrino.
Avevo pagato il mio capriccio con un intero stipendio e i miei risparmi si erano praticamente dimezzati. Me lo fece presente anche Francesca, ma ormai ero inarrestabile e dopo aver acquistato anche un’enorme collana e un anello in pendant da Breil, puntai la locanda più in voga della zona: il Victorienne.
«Okay, adesso basta!», s’impuntò Francesca non appena ebbi pagato anche due caffè al caramello, guarniti di panna e scagliette di cioccolato, «Direi che ti sei sfogata a sufficienza, non trovi?».
«Ma che problema hai?!», sbuffai, cominciando a trovare la mia amica al quanto irritante.
«Pensi che sia io ad avere un problema? Sul serio?», si arrabbiò lei, soppesando in mano la busta di MaxMara, «Sei come una scheggia impazzita, Vi! È per Carlo? È per lui che stai facendo tutto questo?! Lui non merita tanto, Vittoria! ».
«Non dire cazzate, France!», quasi l’aggredii, «Non lo sto facendo per lui, lo sto facendo per me! E non vedo che male ci sia?!».
Francesca allora sgranò gli occhi, mi trascinò in un angolo del locale, frugò in tutte le buste e sbatté ogni scontrino sul tavolo, aggiungendo: «Per non parlare delle spese d’hotel!».
«Non sono soldi tuoi!», obiettai ormai su tutte le furie.
Una signora si voltò a guardarci e intimorita pensò bene di spostarsi a un altro tavolino, tirando via il suo chihuahua in tutù rosa per il guinzaglio.
«No, hai ragione! Sono della mia migliore amica», non demorse Francesca, «che sta perdendo il senno per un uomo che l’ha sempre illusa e che invece di piangere come farebbe qualsiasi altra ragazza, si diverte a dar fondo ai risparmi che le avrebbero permesso di andarsene dal suo schifoso appartamento e trasferirsi su una spiaggia lontana, come aveva sempre desiderato! Oddio, Vi! È da quando avevi dieci anni che non fai altro che mettere da parte e adesso vuoi mandare tutto a puttane per uno come Carlo?!».
«Tu non capisci...», all’improvviso la mia voce si spezzò e sentii che sarei scoppiata a piangere da un momento all’altro.
Certo, Francesca aveva ragione. Ma in quel momento non riuscivo proprio a ragionare in modo lucido e tutto quello che volevo era la vendetta. Lei parve leggermelo in faccia, perché l’espressione irritata del suo viso si distese leggermente e al suo sospiro esasperato seguì un gesto di puro affetto: Francesca mi abbracciò e mi strinse forte.
«Non so cosa tu abbia in mente, ma non spendere altro e fatti bastare quello che ti sei comprata fin ora!», mi ammonì.
Poi si staccò e stringendomi ancora per le spalle mi rivolse un sorriso.
«How cute! », esclamò qualcuno nella nostra direzione.
Io e Francesca ci voltammo in sincrono verso il bancone. Jerry, bello come il sole, innalzò un bicchierino di whiskey in nostro onore e lo buttò giù d’un fiato. Solo in quel momento mi domandai se fosse normale che tutti quelli che conoscevo (a esclusione della ragazza davanti a me) bevessero come se non ci fosse un domani.
«È lui Nicholas?», mi chiese in un sussurro Francesca, mentre Jerry rimetteva nella tasca dei pantaloni il portafoglio e si alzava per venirci incontro.
«No, è il fratello, Jermaine», le sussurrai in risposta, affrettandomi a tamponarmi gli occhi lucidi con la manica del cappotto.
«Cavolo, si somigliano davvero tanto allora!».
«So girls, what happened?», ci domandò lui in tono leggero, come se ci conoscessimo da una vita.
Se pensavo che Nicholas avesse una faccia tosta, mi sbagliavo. Jerry lo batteva a occhi chiusi!
«Allora è vero che mi pedini!», osservai, alzando un sopracciglio.
Lui ridacchiò e scosse la testa: «Wrong again! Apparently is fate that brings us together».
«Scusa», s’intromise Francesca, «Non è che potresti parlare nella nostra lingua? Non tutti sono delle cime in inglese...».
Bugiarda!, pensai. Francesca conosceva alla perfezione ben tre lingue, ma riteneva che fosse maleducato parlarle in presenza di persone che non le capissero altrettanto bene – in questo caso, io. Avrei dovuto sentirmi offesa considerando che avevamo frequentato entrambe il liceo linguistico, anche se non negli stessi anni e con risultati differenti, ma ero troppo concentrata sulla presenza del più piccolo dei Gordon per riuscire a farglielo notare.
Lui sogghignò e portandosi un pugno davanti alla bocca si schiarì la voce: «Hai ragione, colpa mia», disse e le tese una mano, «Jermaine Anthony Gordon», si presentò, «Ma preferisco se mi chiami Anthony, solo mio fratello si ostina ancora a chiamarmi Jerry e lo trovo al quanto irritante».
«Francesca...» rispose lei e ricambiò la stretta che si rivelò essere un elegante baciamano non appena Jerry – o Anthony, come preferiva – si portò la sua mano alle labbra. Di fronte all’improvvisa espressione inebetita della mia amica, soffocai una risatina.
Anche Jerry ridacchiò e lasciò bruscamente la presa, svaccandosi poi sulla sedia che aveva precedentemente occupato la signora col chihuahua.
Francesca sbuffò, meno impressionata, e Jerry tornò a guardare me.
«Dunque, perché bisticciavate, mie gallinele?», sì, pronunciò proprio gallinele, facendomi ridere di nuovo e strappando un sorrisetto anche alla mia amica.
«Al di là del fatto che non siamo in un pollaio», ci tenni a precisare in tono più serio, «non stavamo bisticciando», mentii, rifiutandomi di raccontargli le mie disavventure. Avevo già fatto l’errore di aprirmi con un perfetto estraneo ed ecco com’era andata a finire!
Ma Jerry – proprio non riuscivo a chiamarlo Anthony – a quanto pareva non era il tipo da farsi scoraggiare così facilmente, quindi si mise le mani dietro la nuca e allungandosi sulla sedia emise un pensieroso “hmm”.
«Let me guess... Oh, perdonatemi... Voglio indovinare: Carlo?».
Rimasi in silenzio, seppure la mia faccia doveva essere diventata rossa, e gustai il mio caffè con la panna ostinandomi a fissare la vetrinetta dall’altra parte della bottega, piena di torte e biscotti dall’aria invitante. Desiderai tanto poterne prendere qualcuno di quelli a forma di stella e pure un bicchierino di mousse ai lamponi, ma avevo appena promesso a Francesca che non avrei speso neanche un centesimo di più per i miei sfizi e me ne stavo già pentendo, soprattutto dal momento che avevano un’aria talmente invitante da farmi brontolare lo stomaco.
Anche Jerry se n’è accorse e allungò le labbra come l’altra sera che ci eravamo incontrati nell’aria bar del ristorante, per riflettere un momento.
«Sapete cosa possiamo fare?», ci domandò senza aspettarsi veramente una risposta «Vi propongo di pranzare con me all’Étoile per parlarne».
Io Francesca ci guardammo stupite, e non solo perché l’Étoile era un posto sciccoso che nessuna delle due si sarebbe potuta permettere (non senza finire definitivamente ogni risparmio) ma anche perché non c’era nulla di cui avremmo potuto discutere con lui.
O almeno così credevo, finché Francesca non espresse a voce alta il dubbio di entrambe: «Perché dovremmo accettare?», domandò.
Jerry sorrise enigmatico.
«Perché a, offro io. E b, potrei avere qualcosa che ti può interessare, Vi», rispose e si alzò, avviandosi verso l’uscita senza aspettarci.
Francesca mi fissò con aria diffidente ma io non la guardavo più, mordendomi il labbro dibattuta sul da farsi. Poi però Jerry si fermò e mi rivolse un’occhiata piena di significati da sopra la spalla e allora capii che forse aveva davvero qualcosa per me.
Quindi afferrai Francesca per un braccio e con aria di chi non ammetteva repliche la obbligai a seguirmi.



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Innanzitutto, miei cari, BUON NATALE A TUTTI! :) Vi auguro una bella abbuffata e un sacco di regali strepitosi! ;)
A dire il vero, avrei voluto farvi un regalo anch’io, ma purtroppo avevo la necessità di un capitolo di passaggio prima di far accadere qualcosa di più
sconvolgente. Quindi spero (e cercherò senz’altro di farlo!) di riuscire a postare il prossimo cp prima della fine dell’anno, per finirlo in bellezza per così dire.
In fine, prima di ritirarmi nelle mie stanze e riprendere la scrittura, vorrei precisare che tutti i nomi, fatti e luoghi sono opera di pura fantasia. Mi scordavo sempre di dirvelo (a una certa età la memoria comincia a far cilecca XD), però stavolta no, perché mi ero fatta un promemoria e finalmente sapete la verità! Ah-ah-ah!
Con ciò passo e chiudo, fantastiche persone che mi seguite!
Alla prossima!

PS: Se c’è qualche lettore rimasto in ombra, mi farebbe immensamente piacere vederlo! Quindi aggiungete e aggiungete e aggiungete questa storia tra seguite, preferite o ricordate! Sarebbe un meraviglioso regalo di Natale per me! :)


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Vi, per vendetta! ***


Image and video hosting by TinyPic



9.
V I ,       P E R      V E N D E T T A !


Le macchine scintillavano come modellini di plastica appena usciti dalle loro costose confezioni, si fermavano tutte a fianco dell’imponente scalinata che portava al Palazzo Blu dove un ragazzo in uniforme rossa si prendeva la briga di prenderle in custodia. Il giardino antistante il vialetto di ghiaia era illuminato da spesse candele bianche; le fiamme oscillavano dolcemente, smosse dalla brezza della sera, quasi danzassero a ritmo magnetico della canzone di Adele che arrivava attutita dal portone spalancato.
Guardai gli invitati che continuavano ad arrivare e mi salì un groppo in gola, dovetti chiudere gli occhi per un attimo e prendere un bel respiro per calmarmi. Ormai ero qui, non potevo tirarmi indietro.
Salii verso il buttafuori che controllava gli invitati in cima alla scalinata, era un omone grosso, dalla pelle scura, e con quel cipiglio corrucciato incuteva non poco timore. D’istinto strinsi più forte la pochette e fui colta dal panico: e se Jermaine se ne fosse dimenticato? O, peggio ancora, se non avesse parlato sul serio? Mi fermai di botto di fronte all’energumeno che mi superava in altezza nonostante avessi quindici centimetri di tacco, e lo guardai intimorita. Lui non si scompose, alzò a malapena gli occhi dalla tavoletta interattiva su cui controllava i nomi degli invitati per chiedermi il mio.
«Vittoria Bianchi», balbettai passandomi nervosamente la pochette nell’altra mano, «Sono il +1 del signor Jermaine Gordon», mi affrettai ad aggiungere poi e l’uomo scorse velocemente la lista con un ditone enorme per arrivare quasi in fondo all’interminabile pagina, dopodiché mi rivolse uno sguardo di sottecchi, quasi si volesse accertare che la mia faccia corrispondesse a un’immaginaria foto segnaletica. Mi sentii un’idiota: era ovvio che Jerry non avesse parlato sul serio! Probabilmente non ci aveva nemmeno pensato a farmi aggiungere a quella dannata lista. Fui quasi sul punto di scusarmi e correre giù per le scale in preda all’imbarazzo, quando il buttafuori cliccò sullo schermo e annuendo mi lasciò passare. Buttai fuori l’aria che non sapevo di aver trattenuto fino a quel momento e consegnai il giacchetto a una ragazza all’entrata, esibendo il completo che avevo acquistato il giorno prima.
Non ero mai stata nel Palazzo Blu sebbene ne avessi sentito parlare da Francesca e alcuni dei miei colleghi in diverse occasioni, ma nessuno dei loro racconti poteva paragonarsi nemmeno lontanamente a quello che mi ritrovai davanti: il corridoio era uno spettacolo! Aveva un’atmosfera intima nonostante le luci soffuse diffondessero un freddo alone azzurrognolo. Le pareti erano state riempite di gigantografie bianco-nere della felice coppia in diversi momenti della loro vita (un vero colpo basso per me, nonostante mi fossi aspettata qualcosa del genere) e qua e là erano stati appesi file di cristalli Swarovski che davano un tocco di eleganza. Studiai nauseata ed estasiata allo stesso tempo ogni singolo centimetro degli spazi che mi circondavano mentre avanzavo verso il salone dove si svolgeva il ricevimento. Qui la musica si fece più forte e non appena varcai la soglia la canzone cambiò e una melodia più ritmica prese il posto della voce di Adele.
Il salone non si rivelò tanto diverso dal corridoio, ma qui c’erano diversi tavoli con il buffet ed era più buio. Gli invitati erano sparsi un po’ dappertutto, anche sulla scala che portava sul ballatoio del piano superiore, lì sopra era stato installato uno schermo gigantesco su cui si stavano muovendo altre foto dei fidanzati – cozzava terribilmente con lo stile Impero del parapetto e dei corrimano, ma era pur sempre una festa e non sembrava che a qualcuno dispiacesse. A dire il vero la gente sorrideva e sembrava divertirsi mentre io continuavo a starmene impalata vicino all’entrata senza sapere che fare. Cosa mi aveva detto Giorgia oggi pomeriggio? Non toglierti assolutamente le rose dai capelli, ci ho messo un secolo a fissartele tra quei dannati ricci che ti sei fatta! – e poi qualcosa, come – Se proprio non saprai dove mettere le tue manine, trovati un bel riccone e metti le mani addosso a lui invece di rovinare il mio capolavoro... in alternativa una bottiglia d’alcol risolve sempre tutto!
Alcol. Giusto.
Mi guardai attorno e individuai il tavolo degli alcolici. Mi feci strada tra alcuni capannelli di persone e raggiunsi il cameriere che stava servendo il vino.
«Bianco o rosso?», mi domandò cortesemente lui, porgendomi una coppa.
«Rosso», risposi decisa.
Lui annuì e mi gettò una veloce occhiata d’apprezzamento che non mi sfuggì. Mi fece stranamente piacere e mi ritrovai a sorridergli di rimando quando finì di versarmi dell’ottimo Merlot. Era pure carino e considerando quante ragazze poco vestite gli stessero girando attorno in quel momento, era incredibile che sembrasse più interessato a me che a loro.
«Grazie», dissi portandomi la coppa alle labbra.
Lui sembrò sul punto di chiedermi qualcosa, ma una voce dannatamente famigliare ci interruppe, obbligandomi a voltarmi.
«Vittoria?», mi squadrò dalla testa ai piedi Nicholas, a braccetto di una bionda scheletrica che aveva l’aria di essere appena scappata da una passerella, «Che ci fai qui?».
Io lo squadrai a mia volta, sforzandomi di non fare smorfie di fronte al sorriso amichevole della sua accompagnatrice.
«Mi ha invitata tuo fratello», risposi prima di tracannare il vino dal bicchiere.
Lui alzò un sopracciglio e la ragazza al suo fianco lo fissò come a chiedere “che succede?”. Intuii che non capiva una sola parola di quello che ci stavamo dicendo. Fantastico, aveva invitato Miss America per non sfigurare di fronte a qualche vecchio amico che di sicuro era stato invitato all’evento.
«Tu sai che questa è la festa di fidanzamento di Carlo, non è vero?», mi domandò perplesso Nicholas, ignorando la ragazza.
«Non potrei dimenticarmelo nemmeno volendo», dissi a denti stretti, «Un’ottima idea quella di organizzarla il giorno del proprio compleanno, hanno tanta fretta di sposarsi?».
Nicholas mi fissò senza sapere come replicare. Probabilmente si stava scervellando per capire che intenzioni avessi, ma non avevo alcuna voglia di parlare con lui. Soprattutto dal momento che non mi ero dimenticata della zuffa che si era svolta nell’albergo. In realtà ero io che dovevo chiedergli che diavolo ci facesse qui dopo tutto quel casino, e non il contrario!
Miss America doveva aver intuito che ci fosse un’atmosfera tesa, perché si affrettò a dirgli qualcosa in inglese che non capii dato che parlava velocemente e la musica copriva buona parte delle parole. Nicholas però sentì ogni sillaba e dopo averle risposto con un cenno affermativo si rivolse frettolosamente a me:
«Torno subito. Per favore, non ti muovere e non metterti nei casini nel frattempo!».
Tsk!
«Non sei mica mio padre!», osservai, ma lui non mi sentì e sparì tra la folla insieme a Miss America.
Quanto era irritante! Me lo ritrovavo ovunque! Ma che male avevo fatto?!
Stizzita, chiesi altro vino al belloccio che me lo servì subito, tornando a sorridermi più raggiante di prima, ma non avevo più alcuna voglia di flirtare con lui. Quindi, ignorando l’esortazione di Nick a non muovermi, mi spostai verso il centro della sala iniziando a ballare a ritmo di una canzone ipnotica e ritmica allo stesso tempo. Il vino doveva essere più forte di quello che pensavo, perché già dopo il secondo bicchiere mi sentii un po’ più leggera, ridacchiando tra me e me come una stupida. Dopo il terzo bicchiere, offerto gentilmente da uno sconosciuto dai folti baffi neri, stavo quasi per dimenticarmi del motivo per cui ero venuta, lasciando che questo mi ballasse accanto. No, non ero ancora ubriaca, per cui cercai di tenerlo a distanza di sicurezza per tutta la durata della canzone, finché non riapparve Nicholas che gli picchiettò sulla spalla e con la sua solita faccia tosta lo invitò cortesemente a levarsi dai piedi.
«Possibile che debba salvarti di continuo?», mi domandò afferrandomi per un polso.
Mi trascinò da una parte e tirandomi davanti a sé mi afferrò per le spalle, guardandomi dritto negli occhi quasi fossi sotto inchiesta per omicidio.
«Allora? Che sei venuta a fare? Non penso che tu sia così masochista da venire a congratularti con il tuo ex...».
«E tu?», ribattei incrociando le braccia al petto e accusando la parola “ex” come un colpo nello stomaco, «Non penso che tu sia così magnanimo da venire a congratularti con l’uomo con cui hai fatto a botte appena qualche giorno fa...».
Nicholas mollò la presa e incrociò le braccia a sua volta.
«Non penso che ti riguardi», rispose.
«Potrei dire la stessa cosa», gli feci notare a tono.
Lui strinse appena la mascella, poi si abbandonò a un sospiro e scosse la testa rassegnato.
«Non so quale sia il vostro piano, ma qualsiasi cosa abbiate architettato, non penso sia una buona idea».
«Noi?», mi meravigliai.
Quale noi?
«Jerry ti ha aiutato a intrufolarti qui dentro, perciò sono sicuro che sappia per quale ragione tu sia venuta».
Mi strinsi nelle spalle, tutt’a un tratto soddisfatta che mister Gordon fosse così spaventato all’idea di una combutta tra me e suo fratello. Mi sarei goduta questo momento ancora a lungo, ma improvvisamente la musica si spense e un ometto attempato apparve in cima alle scale, in possesso di un microfono.
«Signori e signore, i futuri sposi sono finalmente arrivati! Diamoli il nostro caloroso benvenuto!», annunciò facendosi da parte.
Un riflettore si puntò su Carlo e Lisa che arrivarono da qualche parte a destra dello schermo, mano nella mano. Provai una dolorosa fitta al cuore a vedere il sorriso della futura sposa: vestiva un vaporoso vestito giallo e dei graziosi sandali dorati, e sembrava una dea greca con cui non avrei mai potuto reggere il confronto. Che cosa ci aveva trovato in me quel fedifrago del suo fidanzato? Lo guardai, era vestito di tutto punto, elegante come non mai, e fui pervasa da un incredibile tristezza. Era davvero stato tutto un bluff e niente di più? Lui alzò una mano in saluto, come fosse il Re del castello, e all’istante partì un’onda di applausi ammirati. Qualcuno gridò “auguri!” e scrutando i presenti notai Valentina, ferma ai piedi della scala. Si era messa un vestito verde muschio che la faceva somigliare a un folletto più che mai e fui felice di scoprire che la sua brutta faccia non mi fosse mancata per niente.
Carlo prese possesso del microfono.
«Grazie. Grazie a tutti», disse, «A nome mio e della mia bellissima fidanzata, vi ringrazio di cuore. Non avremmo mai creduto che sareste venuti così numerosi con un preavviso tanto breve, ma siamo felici di vedervi qui stasera!».
«Ma se conoscerai a malapena un quinto dei presenti!», borbottai a denti stretti, ignorando l’occhiata che mi lanciò Nicholas.
«È meraviglioso sapere di avere l’appoggio di tutti voi!», proseguì Carlo, «Cosa posso aggiungere? Non potevo chiedere un regalo più bello per il mio trentesimo compleanno! Il meraviglioso giorno in cui ho incontrato Lisa e il destino ha voluto che ci innamorassimo...».
Smisi di ascoltarlo, era disgustoso. E pensare che per tutto questo tempo avevo creduto che Lisa gli stesse rovinando la vita! Per come la vedevo adesso, era lui che la stava rovinando a lei. Ma non importava, perché presto tutti avrebbero capito che è Carlo Ranieri sotto la sua maschera, a costo di rimetterci la faccia io stessa.
Senza rendermene conto tastai la pennina USB dentro la pochette e, improvvisamente più lucida, tornai a concentrarmi sul motivo per cui ero venuta. Mi guardai attorno, era buio ma la vidi comunque: l’unica porta in metallo era a fianco alle scale... Rivangando i racconti di Francesca riguardo alla festa che aveva organizzato qui una sua parente in onore dei suoi cinquant’anni, mi ricordai che mi aveva parlato della “stanza piena di aggeggi elettronici” in cui era finita per sbaglio con un tizio, dopo essersi scolata da sola una bottiglia di Gin. Facendo due più due, era da lì che partivano i mielosi filmati dei piccioncini. M’incamminai in quella direzione quasi senza pensarci, seguita a ruota da Nicholas. Nemmeno mi accorsi che mi stesse seguendo finché non inchiodai e lui mi venne addosso.
«Che pensi di fare?», scattai, esitando con la mano sul pomello.
«Che pensi di fare tu?», ribatté lui, poi lesse il cartello al di sopra della mia spalla, «Sala controllo tecnico?», inarcò un sopracciglio.
Lessi anch’io, incapace di trattenere un sorrisetto trionfante: allora era proprio questa!
«Mi inquieti», osservò Nicholas.
«Non dovresti tornare da Miss America? A quest’ora ti avrà dato per disperso», sbuffai.
Se possibile, il suo sopracciglio guizzò ancora più in alto.
«Miss America?», domandò esibendo un sorrisetto, «Mia cugina ti adorerebbe!».
«Tua cugina?», gli feci eco, sbattendo stupidamente le ciglia.
«Mia cugina Melanie, sì».
«Oh...», dissi e ringraziai il cielo che fosse abbastanza buio perché Nicholas non notasse il rossore di cui mi ero ricoperta.
«Chi pensavi che fosse?», ghignò lui.
Mi voltai immediatamente verso la porta per evitare di guardarlo e mi strinsi nelle spalle con indifferenza. Poi tirai la maniglia ed entrai nella stanza.
Non avevo pensato che dentro ci potesse essere qualcuno, mi venne in mente quando ormai fu troppo tardi e sia io che il tecnico ci guardammo spaesati per un paio di secondi, finché lui non mise via il vassoio di antipasti per pulirsi le mani grassocce ai pantaloni.
«C’è qualche problema?», mi domandò, pronto ad alzarsi dalla sua postazione, poi i suoi occhi scivolarono sulla figura di Nick che si fermò dietro di me, e si rimise a sedere.
«Emh...», esitai.
Il mio compagno di sventure si abbassò quasi fino a sfiorarmi l’orecchio con le labbra.
«Si può sapere che intenzioni hai?», domandò più serio.
Già. Che intenzioni avevo? A questo punto non fui più tanto sicura di riuscire a mettere in atto il mio piano. Come avrei fatto a caricare il video adesso?
Poi però ebbi un illuminazione: ero stata fortunata a trovare un tecnico in verità, così non avrei sprecato un sacco di tempo a capire dove infilare la pennina USB e come farla partire al momento giusto. Forse, dopotutto qualcuno lassù desiderava almeno quanto me di veder soffrire quel porco!
Con un sorriso da Monna Lisa dei poveri mi allontanai da Nicholas e raggiunsi l’uomo, posandogli amichevolmente una mano sulla spalla. Lui mi guardò leggermente intimorito ma non disse niente, sbattendo ripetutamente le palpebre. Intanto sugli schermi più piccoli davanti a noi passavano le immagini di quello che stava succedendo là fuori – Carlo stava ancora tenendo il suo discorso – quello più grande invece mostrava le foto e i filmati che venivano trasmessi in sincrono sul megaschermo. Lo studiai per un istante per capire dove andare a parare, dopodiché dissi:
«Avrei una richiesta da farle: io e alcuni amici abbiamo preparato un video per lo sposo. Sa, una specie di regalo per la festa di fidanzamento con i nostri più sentiti auguri».
L’uomo annuì in silenzio e gettò una fugace occhiata a Nicholas che non si scompose né intervenne per fermarmi, anche se dall’aria truce che stava assumendo la sua faccia presunsi che non fosse d’accordo con quello che stavo facendo. Comunque non mi lasciai intimorire e quindi proseguii:
«Bè, se le do la chiavetta potrebbe farla partire sul megaschermo... diciamo subito prima del brindisi?».
«Naturalmente», gracchiò lui e si schiarì la voce, «Mi basterà copiare il filmato sul computer», spiegò, voltandosi per sbloccare lo schermo di un iMac a cui erano attaccati un milione di cavi.
«Perfetto. La ringrazio veramente tanto. Mi hanno affidato questo ingrato compito e senza il suo aiuto non avrei proprio saputo come fare», sorrisi mielosa mentre aprivo la pochette per prendere la pennina.
Il tecnico arrossì leggermente ma non rispose. Prese la chiavetta e la infilò da qualche parte dietro il monitor. Un paio di minuti dopo me la restituì e percepii il mio stomaco contorcersi: stavo per farlo davvero.
«Grazie ancora», dissi prima di uscire.
L’uomo grugnì un imbarazzato “si figuri” e tornò ai suoi antipasti. Io e Nick invece tornammo nella sala principale.
«Cosa c’è lì sopra?», mi domandò quest’ultimo afferrandomi per un braccio prima che potessi sgattaiolare verso gli alcolici.
In quella, un gruppetto di giovani coppie ci passò accanto, sballottandomi da una parte e spezzando il contatto. Ne approfittai per voltarmi e riprendere a camminare.
«Vi, dico sul serio! Cosa c’è in quel video?!», mi sentii gridare sopra la voce di Carlo e la musica di sottofondo – una canzone strappalacrime che parlava di amore eterno... puah!
«Vittoria!», ripeté Nicholas, facendo quasi a gomitate per raggiungermi.
Mi afferrò di nuovo e lo incenerii con lo sguardo.
«Si può sapere perché ti interessa tanto?!», sbottai, strattonandomi, «Non hai una vita a cui dedicarti?».
Lui ricambiò la mia occhiata di fuoco e strinse la mascella: «Credi che mi diverta?», domandò, «Mi sembrava che avessi già chiarito questo punto ancora in albergo».
«E quindi? Ti senti così responsabile per me solo perché siamo andati a letto una sera?! Sei fuori di testa o cosa?».
Mi aspettai di sentire una risposta degna di Nicholas; una frecciatina o qualche perla di saggezza, invece i suoi occhi si spensero, quasi qualcuno avesse premuto il tasto off, e finalmente mi lasciò andare, iniziando a fissare il pavimento.
«Hai ragione», disse spiazzandomi, «Non sono affari miei», e con questo se ne andò senza darmi tempo di replicare in alcun modo.
Lo guardai sparire tra la gente, sentendomi in colpa per l’ennesima volta. Ero io quella fuori di testa, quella che lo trattava male di continuo, e la parte peggiore era che non riuscivo proprio a spiegarmi il perché. Avrei voluto rincorrerlo per chiedergli scusa, ma d’un tratto Carlo smise di parlare e la musica si fece forte quanto all’inizio. Mi girai appena in tempo per constatare che i futuri sposi stavano finalmente scendendo le scale e i camerieri iniziarono subito a distribuire flûte di champagne a tutti i presenti. Il cameriere belloccio mi raggiunse con un vassoio e un sorriso a trentadue denti – ultimo tentativo di far colpo – ma il mio umore era ormai sotto le suole, per cui mi limitai a ringraziarlo e cogliendo l’attimo in cui fu assalito da due ragazze poco più grandi di me, mi avvicinai alle scale. Carlo e Lisa si erano fermati a pochi gradini più in alto, a parlare con il medico che aveva bendato la mano del primo al ristorante, mentre io rimasi buona ad osservarli dal mio angolo, sorseggiando lo champagne e fregandomene del fatto che portasse sfortuna. Tanto non sarebbero durati. Non dopo il video.
Purtroppo però la mia solitudine non durò a lungo...
«Vittoria?!», esclamò Valentina, bloccandosi davanti a me come uno stoccafisso, «Che ci fai qui? Non sei stata licenziata?».
«Anch’io sono felice di rivederti», ghignai sarcastica, dando un po’ di sfogo a tutti quei anni in cui avevo dovuto sopportarla in silenzio, «Che c’è? Non posso venire a congratularmi con il mio ex capo solo perché non lavoro più per lui?».
Valentina guardò verso Carlo e parve sbiancare. Dovette prendere qualche sorso dal suo bicchiere (dimenticandosi delle scaramanzie a cui in realtà era molto affezionata) prima di parlare di nuovo:
«Non dovresti essere qui», asserì, come se non l’avessi colto la prima volta che aveva cercato di farmelo capire.
Non ribattei comunque, distratta dai futuri sposi che ripresero a scendere. Ormai era questione di pochi secondi e mi avrebbero visto.
Nemmeno a farlo apposta, Carlo guardò distrattamente verso di me e per poco non fece cadere Lisa, frenando di colpo sull’ultimo gradino e facendola traballare sui tacchi a spillo. I nostri sguardi s’incrociarono e il suo sorriso morì all’istante. Lisa, al contrario, si ricompose con un contegno straordinario e mi salutò, tirandosi dietro il fidanzato per avvicinarsi.
«Vittoria, giusto?», domandò sorridendomi, «Grazie per essere venuta. È bello sapere che anche gli ex dipendenti, nonostante tutto, sono qui per farci le loro congratulazioni».
In tutta risposta alzai il flûte a mezz’aria e sorrisi di rimando, lasciandoli proseguire il loro giro. A quanto pareva le aveva detto che mi aveva licenziata. Chissà che storia si era inventato a riguardo...
Quasi avesse captato i miei pensieri, Carlo si voltò per scrutarmi un’altra volta. Aveva smesso di pavoneggiarsi e probabilmente aveva intuito che non ero qui per bontà d’animo. Tanto meglio, volevo che capisse che non avrei semplicemente dimenticato. Lo sfidai con un’occhiata, portandomi il bicchiere alle labbra e da sopra il cristallo lo vidi irrigidirsi. In quel momento gli si avvicinò il suo futuro genero e divenne evidente che Carlo non riusciva a stare dietro ai discorsi dell’uomo, nonostante lo sforzo.
«Spero che non ti tratterai a lungo», riprese Valentina, di cui mi stavo completamente dimenticando.
«Il tempo necessario...», la rassicurai con un sorrisetto enigmatico.
Lei strinse gli occhi in due fessure, intercettò un cameriere con la seconda mandata di flûte di champagne, ne prese uno e infine se ne andò senza aggiungere altro, puntando dritto verso Nicholas che stava intrattenendo sua cugina e il fratello. A quanto pareva la loro amicizia era ancora in corso. Che stupida! Non potevo davvero trovare simpatico un tizio che trovava gradevole la presenza della rospa! Buttai giù tutto d’un fiato il resto dello champagne e mi spostai di nuovo.
Mentre mi aggiravo per la sala in attesa dell’ora “x”, osservai meglio i presenti: vicino al tavolo con il finger food c’era l’inconfondibile chioma colorata di Tiziana – l’aveva arrotolata in un goffo chignon che le occupava quasi tutta la testa e da cui spuntavano ciocche di rasta troppo pesanti per essere tenute su con le forcine – vestiva un semplice abitino in ecopelle e reggeva a braccetto Marco che stasera sembrava l’eleganza in persona. Li guardai sorridere alle battute di un ometto dalla testa rasata e mi si strinse il cuore; non avevo il coraggio di raggiungerli considerato quello che stava per accadere e probabilmente non li avrei più rivisti. Magari non mi avrebbero nemmeno più voluto rivolgere la parola e potevo cancellare i loro numeri dalla rubrica appena uscita da qui.
A proposito dell’uscita, dovevo assicurarmi di essere abbastanza vicina al corridoio per potermela filare al momento giusto. Controllai l’ora sul cellulare e trovai un messaggio di Francesca:

RICORDATI CHE TI HO AVVERTITA:
STAI PER FARE UNA GRANDISSIMA CAZZATA...
NONOSTANTE QUESTO, IN BOCCA AL LUPO, SOLE MIO!

PS: I SOCCORSI STANNO GIÀ ARRIVANDO!


Grazie..., pensai storcendo leggermente la bocca. Poteva evitare di farmi la paternale almeno oggi. Riposi il telefono al suo posto nella pochette e mi scolai altro champagne. La musica si fermò nell’istante in cui finii il mio terzo bicchiere.
«Signori e signore», esordì di nuovo l’ometto attempato, «Ci è stato detto che alcuni amici del futuro sposo vogliono dedicargli un video in questo giorno così felice per lui. Per cui vi chiediamo un po’ di attenzione. Lisa, Carlo... potreste avvicinarvi?».
Il cuore mi salì dritto in gola, martellando furiosamente. Dal mio angolo vidi Carlo abbozzare un sorriso stupito e prendere per mano la sua fidanzata per raggiungere insieme il primo gradino della scala, dove i due si posizionarono, voltandosi a destra e a sinistra per capire chi fossero i misteriosi mittenti. Mi rendevo conto che i loro sguardi ignari e festosi sarebbero stati spazzati via molto presto e questo mi spinse quasi a fermare tutto. Ma poi Carlo la baciò e le spostò amorevolmente una ciocca di capelli dietro l’orecchio – esattamente come aveva fatto altre mille volte con me – e il desiderio di ferirlo tornò prepotente al suo posto. Era troppo tardi per cambiare qualcosa.
Le note iniziali della canzone di Ariana Grande partirono, seguite direttamente dalla voce della ragazza:

...what goes around, comes around.
And if it goes up, it comes down.
I know you’re mad ‘cause I found out.
Want you to feel what I feel right now.

Now that it’s over,
I just wanna break your heart right back...


L’avevo ritenuta più che opportuna vista l’occasione.
Poi la canzone scemò e lo schermo da bianco divenne nero. Un istante dopo sul megaschermo apparve l’inquadratura della camera da letto di Carlo e Lisa. La ripresa non era delle migliori, era stata fatta da un cellulare e oscillava leggermente mentre l’inquadratura si spostava dai mobili bianchi alla gigantesca portafinestra e infine si fermava sul letto matrimoniale dei due. In sala calò il silenzio. Carlo sbiancò sotto lo sguardo spaesato di Lisa che non riusciva a capire e io buttai giù (ormai potevo tranquillamente iscrivermi alla lista degli alcolizzati noti) il quarto bicchiere di champagne. Nel frattempo sul megaschermo si sentì una risatina soffocata e l’inquadratura si mosse di nuovo.
«Ssshh!», disse la me gigante del video, portandosi un indice sulle labbra, «Non bisogna mai svegliare l’orso che dorme, soprattutto se sono appena le sette del mattino ed è sabato!», scherzai, saltando sul letto nonostante questo.
Sulle prime il Carlo del video imprecò, poi però aprì gli occhi e ancora mezzo frastornato mi afferrò per la vita, iniziando a darmi leggeri morsi sul collo per vendicarsi. Vestivo la sua camicia bianca e non portavo altro sotto, se non un paio di mutandine dello stesso colore. Lui ne approfittò per scoprirmi le spalle e riprendere l’attacco. Le mie giocose grida di terrore risuonarono nella sala come una ventata d’aria gelida, la camera si mosse confusamente finché Carlo non me l’ebbe strappata di mano per fare una faccia buffa all’obbiettivo – uno dei rari momenti in cui abbandonava la sua perenne espressione imperturbabile per lasciarsi andare. Dopo tornò a riprendere me, stesa sotto il suo corpo con un sorriso ebete stampato sulle labbra, e decretò:
«Signorina Bianchi, si è appena messa in guai seri! Verrà punita in modo esemplare per la sua impertinenza! Si stenda comoda, perché alla fine di questa giornata mi chiederà pietà...».
«Scemo!», ridacchiai.
Lui ricambiò con un ghigno e abbandonò il telefonino sul cuscino per chinarsi a baciarmi. Con ciò il video si concluse e tutto attorno si alzò un fitto chiacchiericcio.
Improvvisamente lo sguardo di Carlo si trasformò in quello di un folle, i suoi occhi sgranati rotearono in giro fino a individuarmi; si inchiodarono sulla mia figura in penombra e parvero volermi soffocare. Io sostenni il suo sguardo cercando di non sembrare intimorita, presi un (quinto!) flûte e buttai giù anche questo.
Congratulazioni”, gli mimai con le labbra e mi voltai per fare la mia uscita di scena, oscillando pericolosamente sui tacchi. Avevo previsto che non sarei stata in grado di reggermi in piedi alla fine, un po’ per il terrore di quello che avevo fatto e un po’ (per la maggior parte a dire il vero) per l’alcol. Quindi quel pomeriggio mi ero accordata con Giorgia (il mio soccorso) che si era offerta di venirmi a riprendere dopo il suo misterioso appuntamento. E fortunatamente, quando abbandonai il Palazzo Blu con trenta minuti di anticipo rispetto all’orario stabilito, la trovai già sul vialetto con il motore acceso, pronta a partire.
Salii velocemente a bordo e lei diede gas.
«Allora, è andata?», mi domandò trattenendo il fiato.
«È andata», mormorai.
Poi guardai al di là del finestrino il cielo pieno di stelle e i paesaggi di campagna che sfrecciavano via, e finalmente realizzai quello che avevo fatto.
Ma stranamente non mi sentivo affatto meglio...



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Cari amici....... scrivere questo capitolo è stato un delirio! Tra feste e parenti, non sono riuscita a mantenere la promessa e a postare prima. Tuttavia, rieccomi qua! Ce l’ho fatta finalmente! E spero che le vostre attese siano state ripagate almeno un po’. Infatti mi piacerebbe tanto, tanto sapere che ne pensate, soprattutto sarei curiosa di avere qualche critica costruttiva, perché a volte mi sembra di non sapere dove finirò per sbattere con questa storia e se vale la pena di continuare X’D
Detto ciò, vi ringrazio come sempre e adesso passo e chiudo!

PS: BUON ANNO NUOVOOOOO!! (Con circa venti giorni di ritardo.. ahaha).


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** How I met your mother... ***


Image and video hosting by TinyPic




10
H O W     I     M E T     Y O U R     M O T H E R . . .


Il giorno tanto temuto era arrivato!
Mi guardai allo specchio e mi sforzai di sorridere: pessimo risultato, avevo dei lividoni sotto agli occhi che mi facevano somigliare a un panda stitico. Sospirai. Ah, al diavolo! Se nemmeno tre strati di correttore erano riusciti a fare un miracolo figuriamoci se ne sarebbe stato in grado un sorriso. M'infilai nel cappotto e cercai di non mettermi a piagnucolare al pensiero di dover abbandonare il mio nido sicuro.
Sì. Alla fine ero tornata a casa (non avrei potuto vivere in albergo in eterno, per quanto mi sarebbe piaciuto) ma non avevo avuto abbastanza coraggio da sfare la valigia, per cui per poco non ci inciampai mentre attraversavo il mio minuscolo appartamento a passo svelto. Imprecai ad alta voce aprendo la porta, del tutto ignara che dall'altra parte mi sarei ritrovata a faccia a faccia con l'ultima persona che avevo voglia di vedere oggi: la signora ti-spio-anche-mentre-dormo Petrelli. Trasalii involontariamente alla vista della sua faccia smunta e piena di rughe come una vecchia scarpa da tennis, ma cercai di darmi subito un contegno onde evitare inutili battibecchi. Battibecchi che in realtà non avrei potuto evitare nemmeno con un intervento divino...
«Buongiorno» assunsi di nuovo l'espressione del panda stitico.
«Che bella coincidenza» disse lei in tono tutto fuorché gioioso. «Hai un secondo, mia cara?».
«Ecco, in verità stavo...».
«Perfetto» mi interruppe lei entrando. Mi arresi all'idea di non poterla scampare. Se non altro, a confronto di quel che avevo combinato giovedì, questa calamità sarebbe stata di gran lunga più facile da affrontare.
La megera mi squadrò dalla testa ai piedi con occhio critico – probabilmente ai suoi tempi uscire con una gonna tanto corta era un vero scandalo. Poi tirò su col naso e annusò l'aria.
«Hai bruciato qualcosa?» domandò assottigliando gli occhietti acquosi.
In verità, sì, un paio di deliziose frittelle alla vaniglia, ma non l'avrei confessato manco sotto tortura.
«Non vedo come avrei potuto, sono tornata solo stamattina» mentii, indicandole la valigia aperta in mezzo alla stanza.
Lei tirò di nuovo su col naso e sbuffò un poco convinto ''mh''.
«Spero davvero che tu non sia tanto sbadata da bruciare qualcosa» aggiunse. «Le fiamme potrebbero arrivare al nostro appartamento e bruciarci vivi».
Certo... fiamme, morte, infermo. Torno a ripetere che sarebbe stato troppo bello essere vero.
«Signora Petrelli, è venuta qua per un motivo? Perché vede, dovrei proprio scappare» tagliai corto, rifiutandomi di ascoltare le solite farneticazioni.
Lei attese per un minuto interminabile, quasi si divertisse a farmi perdere tempo, poi tirò fuori dalla tasca dell'abito un pezzo di carta e me lo porse.
«Dovresti firmare. Se non avessi saltato anche la riunione di giovedì sapresti che gli altri l'hanno fatto già da un pezzo» disse, facendosi apparire magicamente una penna tra le mani nodose.
Cercai di trattenere il mio brutto carattere (che peggiorava esponenzialmente quando si trattava di lei) e presi il foglio, scarabocchiando una firma sulla riga in fondo, poi glielo restituii.
«È tutto?» domandai a braccia conserte.
Lei osservò la mia firma con un sorriso strano, avrei osato dire quasi sadico, e senza dire altro uscì dal mio appartamento, chiudendosi diligentemente la porta alle spalle. Brrr, mi vennero i brividi!
Ma non avevo tempo di farmi accapponare la pelle perché ero in ritardo ancora da prima che la vecchia megera mi trattenesse. Quindi mi gettai un'ultima occhiata allo specchio e uscii, precipitandomi giù per le scale. Una volta in strada controllai il messaggio che mia madre mi aveva spedito sul telefono venerdì. Diceva:

CAMBIO DI PROGRAMMA
CI VEDIAMO DOMENICA ALLE 11 IN PIAZZA DANTE,
COSÌ NON SEMBRERÀ CHE ABBIAMO DAVVERO COMBINATO L'INCONTRO

UN BACIO
MAMMA


Tipico di lei cambiare piano all'ultimo secondo. Rimisi indietro il telefono nella borsetta e cercai di assumere un'aria meno disperata – non perché avesse deciso che sarebbe stato meglio incontrare il mio finto Carlo un altro giorno e fuori da casa mia, ma per il fatto che adesso dovevo pure inventarmi una scusa plausibile per la sua assenza. Eh già, perché nonostante i dodici (ammettevo di averli contati) messaggi che li avevo mandato per comunicargli il nuovo programma, Nick non mi aveva mai risposto e di conseguenza ero sicura che non mi avrebbe più aiutato.
E come biasimarlo? Lo trattavo male ogni volta che ci provava.
Perciò, quando raggiunsi il parcheggio accanto alla piazza, fui stupita di vedere la sua auto scintillare a soli due posti di distanza da quella di mia madre (che spiccava come un arcobaleno in mezzo alle altre, con le sue finte farfalle blu attaccate al paraurti – era almeno legale?! – e i piccoli peluche sistemati sui sedili posteriori). Come facessi a sapere che fosse proprio quella di Nick? Semplice: il conducente era ancora dentro, chino sopra il suo Blackberry con aria concentrata. Mi domandai se fosse il caso di bussare al finestrino per palesarmi, ma non ce ne fu bisogno perché mi vide non appena tirò su la testa.
Restammo a fissarci così per qualche istante. Dopodiché lui scese e con un click si chiuse il fuoristrada alle spalle.
«Nick» dissi stentando a crederci mentre si avvicinava. «Sei venuto» e questa suonò più come una domanda.
In tutta risposta, però, ricevetti un'occhiataccia.
«Non mi piace venire a meno delle promesse» disse semplicemente, girandosi brevemente indietro. «L'incontro è al mercato?».
Guardai anch'io le bancarelle disposte in quattro lunghe file su tutta la piazza e annuii, intimorita dalla piega che stava prendendo la nostra... cosa? Amicizia? Collaborazione? Nick tornò a fissarmi serio e mi venne in mente la parola più adatta: conoscenza.
«Allora, andiamo?» domandò. «Prima la finiamo, meglio è».
Più che d'accordo, pensai e mi avviai silenziosamente dietro a lui.
Quando arrivammo alla prima bancarella però, di colpo Nick mi prese per mano, cominciando a sorridere e confondendomi ulteriormente. Alla mia occhiata interrogativa mi indicò con un cenno del mento una donna riccioluta più avanti e con orrore capii che la messinscena era già iniziata. Dovetti ricompormi in tutta fretta per non destare sospetti perché mia madre non ci mise nemmeno un secondo a individuarci. Come l'avesse riconosciuta Nicholas non fu un mistero: a parte i capelli e il colore degli occhi, io e mamma eravamo più simili di quanto si potesse immaginare. Stranamente però, non c'era traccia di Giuseppe, probabilmente perché anche lei era arrivata alla conclusione che portare suo marito al nostro appuntamento casuale sarebbe stato un po' troppo.
«Ma guarda chi si vede!» esordì mamma, illuminandosi.
Io invece avrei voluto sprofondare.
«Ma'!» la salutai, sforzandomi di evitare l'espressione da panda stitico.
Ma lei non mi guardò nemmeno, i suoi occhi grigi si incollarono direttamente sull'uomo che mi teneva per mano e pregai con tutta me stessa che non si ricordasse nessuno dei miei racconti riguardo al suo aspetto fisico.
«Credevo fossi più basso e con capelli ramati» si lasciò sfuggire. Come non detto.
Fortuna che Nick fosse un maestro in questo genere di cose, perché non esitò un secondo e le rispose: «Solo in estate, signora» e con questo le rivolse uno dei suoi immensi sorrisi da bravo ragazzo che spazzò tutti i dubbi in un soffio.
Avrei voluto applaudirgli, e invece mi ritrovai a fare le presentazioni.
«Mamma, lui è Ni...» – alt! – «Carlo. Tesoro, questa è mia madre, Donatella», dissi ed ebbi la netta sensazione che il panda stitico alla fine avesse avuto la meglio.
«Oh, ma che bel ragazzo!» esplose mia madre quando Nick, invece di limitarsi a un cenno del capo come qualunque altro giovane di buonsenso, le diede due baci sulla guancia. «Adesso capisco perché mia figlia non fa altro che parlare di te!».
Nicholas mi rivolse una strana occhiata che non sapevo se interpretare come derisoria, compassionevole o compiaciuta. Comunque finsi di non aver visto, girandomi verso una bancarella a caso. Vendevano mica articoli da giardinaggio da qualche parte? Perché una pala mi sarebbe tornata assai utile adesso!
«Vogliamo fare un giro tutti insieme?» propose intanto mia madre.
Nick accettò e mamma mi ammiccò mentre lui la prendeva sottobraccio. Ero certa che avrei avuto incubi per mesi dopo questa giornata!
''Vivrai nell'agonia di essere scoperta, Vi'', mi suggerì mellifluamente la vocina di Nick nella testa. ''Ti avevamo avvisata che era una pazzia''.
Lo so! Lo so!, sospirai greve.
Mia madre si voltò verso di me.
«Tutto bene tesoro?» domandò. «Hai un'aria davvero stanca, sai?».
Scossi la testa e ignorai i sensi di colpa, soffermandomi da una venditrice di gioielli artigianali. Finsi di essere interessata soprattutto a un braccialetto in argento, di quelli da assemblare con i pendoli, rigirandomelo tre ore tra le mani come una ladra, tant'era che la signora dietro al banco cominciò a fissarmi con aria sospettosa. Ma io quasi non me ne accorsi, concentrandomi invece sull'interrogatorio cui diede vita mamma.
«Quindi sei il capo della mia Vittoria?» iniziò con aria angelica.
Nicholas annuì con la stessa espressione affabile di prima. Forse perché non conosceva ancora Donatella Falconi come la conoscevo io.
«E questo non vi crea problemi sul lavoro?» continuò lei, aguzzando un po' la vista.
«Perché dovrebbe? Vittoria non lavora più con noi» la buttò lì Nicholas come niente.
Mi paralizzai.
«Come sarebbe a dire?» si sorprese mamma, abbandonando ogni proposito da detective. «Ti sei licenziata?» chiese rivolgendosi a me.
La commessa intanto si schiarì la voce in un chiaro ''o comprate o smammate''. E io preferii smammare, anche perché avevo già speso un patrimonio nei giorni precedenti.
Ma non fu certo sufficiente a fermare mia madre.
«Perchè?!» esclamò infatti mentre mi defilavo.
«Oh» intervenne con un filo drammatico Nick. «Mi dispiace. Forse Vittoria gliene voleva parlare un'altra volta».
No, Vittoria non ne voleva parlare affatto! – digrignai silenziosamente i denti. Nicholas si stava sicuramente vendicando di qualcosa, e la lista poteva essere davvero lunga.
«D'accordo, ormai siamo qui ed è giusto dirglielo. No amore?» proseguì imperturbato lui. «Vede, il mio socio diceva di essere innamorato di lei, una cosa molto losca in effetti. La tratteneva pure oltre l'orario nel proprio ufficio e le faceva le avance e la riempiva di messaggi. Davvero poco carino considerando che a...» – alzò il pollice per contare – «...è già impegnata con il sottoscritto e b...» – alzò l'indicativo – «...lui ha appena annunciato al mondo il suo imminente matrimonio».
Mia madre si portò una mano alla bocca, scioccata dalla faccia tosta del fantomatico socio. Che poi, fantomatico nemmeno tanto, visto che Nicholas stava chiaramente parlando del vero Carlo per indispettirmi. E gli riuscì proprio bene, perché ero appena diventata paonazza, supplicandolo con lo sguardo di smetterla.
«A persone del genere servirebbe proprio una lezione!» s'indignò mamma, atteggiandosi a paladina della giustizia. Sicuramente stava ripensando a papà.
Nick fu lì lì per risponderle qualcosa ma a quel punto decisi che era meglio intervenire, prima che potesse peggiorare la situazione: «Ha già avuto quel che si merita» dissi, sperando di tagliare corto e non guardando nessuno dei due.
Nicholas tossicchiò con aria losca, poi lui e mia madre si fermarono accanto a una bancarella piena di cianfrusaglie. Lei prese ad esaminare un mestolo, lui un binocolo da caccia.
«Senza dubbio» proseguì Nick dopo un po', rimettendo l'oggetto al suo posto. «Quella di giovedì è stata una scena terribile, dubito che qualcuno se la scorderà mai».
«Perché? Cos'è successo giovedì?» chiese mamma che era curiosa per natura, facendomi sudare freddo. Stavo seriamente contemplando l'idea di uccidere Nicholas. Perché mi stava facendo questo?
Ma lui non fece caso a me, prese un'altra cianfrusaglia dalla mischia e se la rigirò tra le mani. Non avrei saputo dire che cosa fosse né che scopo avesse. In quel momento non me ne sarebbe potuto importare di meno, in ogni caso. Stavo trattenendo il fiato in attesa che Nick pagasse il signore dietro il banco. Lui parve percepirlo dal mio sguardo, perché se la prese comoda, contò due volte le banconote nel portafoglio, le porse all'uomo e infine s'infilò l'oggetto misterioso nella tasca dopo averlo esaminato ancora una volta. In conclusione riprendemmo a camminare.
«Beh» disse finalmente «una delle amanti del mio socio ha mostrato un video compromettente alla sua festa di fidanzamento» riassunse in breve, scoccandomi un'occhiata in tralice.
A quel punto ero certa di aver assunto lo stesso colore dell'intonaco di casa mia: un bianco pallido tendente al cadaverico. Poi però frenai di botto, riavvolgendo mentalmente le parole di Nicholas.
«Una delle amanti?» ripetei, scandendo bene ogni singola sillaba. Allora lui e mamma si fermarono a loro volta e stranamente l’espressione di Nick sembrò un misto tra dispiaciuto e colpevole, mentre mia madre muoveva gli occhi dall'una all'altro come nel gioco di ping-pong.
Non tentai nemmeno di dissimulare la mia delusione. Ero sfinita! Non riuscivo più a capire chi fosse Carlo, ammesso che l'avessi mai saputo. Avrei voluto scoppiare a piangere ma Nicholas non me ne diede il tempo: si avvicinò a me e mi diede un bacio sulla fronte, passandomi un braccio attorno le spalle per incitarmi a riprendere a camminare. Era un chiaro avvertimento: non puoi crollare davanti a tua madre! E gliene fui grata... anche se era stato lui a innescare la bomba!
Mamma però non sembrò affatto preoccupata della mia reazione, il modo ammirato con cui fissava Nick diceva tutto: stava iniziando a stilare un'immaginaria lista nuziale! Questo mi aiutò a riavermi e a staccarmi con discrezione dal mio finto fidanzato.
«E comunque ben gli sta! » riprese in seguito lei, con aria minacciosa. «Certi uomini andrebbero castrati! Mi chiedo cosa si sposano a fare?!».
Già, gran bella domanda, mamma. Ma preferii voltarmi da un'altra parte invece di rispondere. Nemmeno Nick disse nulla. E con questo l'argomento fu definitivamente chiuso.
Per il resto della mattinata girammo tra i banchetti e io mi distrassi dai miei problemi di cuore provando alcune magliette con scritte assurde, mentre mamma si era appropriata di una parrucca di Halloween biondo platino spiegandoci che era perfetta per il costume da regina che avrebbe indossato per il ballo in maschera organizzato dal suo Circolo. Alla mia domanda se non fosse un po' troppo vecchia per questo genere di cose mi beccai un'occhiata risentita e una storia lunga due ore che finì con un invito ufficiale rivolto a me e Nick. Lui aveva provato a rifiutare, ma mia madre sapeva sempre come incastrarti. Così dovemmo prometterle che saremmo venuti e questo implicò che Nick sarebbe stato costretto nuovamente a fingersi Carlo. Non che la cosa sembrasse dispiacergli, si era calato nel suo ruolo alla perfezione, tant'era che chiese persino se volessimo prolungare la nostra conoscenza anche a pranzo. Un invito che, naturalmente, mia madre non ci pensò due volte ad accettare, proponendoci di fermarci al chiosco in fondo alla piazza dove, a detta sua, «fanno degli ottimi panini con il pecorino!». Una proposta che non trovai altrettanto esaltante, controllando di sottecchi l’espressione di Nick. Ero certa che un tipo come lui non fosse abituato ai tavolini di plastica e pezzi di focaccia unta avvolti in carta oleosa. Lui però riuscì a stupirmi, accettando allegramente e insistendo (tanto per cambiare) di pagare per noi. Quindi ci ritrovammo a chiacchierare di cose futili a un tavolino un po' sbilenco in mezzo alla confusione del mercato, e per la prima volta da quando conoscevo Nicholas mi sentii perfettamente a mio agio in sua compagnia. Riuscii persino a scherzarci mentre lui mi stampava un disinvolto bacio sulla guancia, provocando sospiri nostalgici in mia madre. Così, senza accorgermene, erano passate le due e ci ritrovammo ad accompagnare mamma al parcheggio, dove lei non si lasciò sfuggire l'occasione di sottolineare che: «oh! Ma abbiamo le macchine vicine! Se non è destino questo» facendoci l'occhiolino. Al che avrei voluto replicare che in verità avrei preferito che Nick non avesse mai visto la sua imbarazzante ''Mini rainbow'', ma mi ero trattenuta per il bene di tutti. Quindi mamma salì a bordo e salutandoci dal finestrino aperto, sgommò via.
«Un tipo davvero interessante, tua madre» sogghignò Nick una volta che lei fu sparita in mezzo al traffico.
«E non hai visto ancora niente» ammisi a malincuore.
Lui alzò di nuovo un angolo della bocca e si frugò nella tasca dei jeans in cerca delle chiavi del fuoristrada.
«Vuoi un passaggio?» domandò soffermandosi davanti all'auto. Io esitai. In realtà avrei voluto un passaggio solo per potergli finalmente chiedere come facesse a essere tanto sicuro che Carlo avesse un'altra, oltre a me e Lisa naturalmente. Ma non sapevo come farlo, non volevo correre il rischio che dissotterrasse l'ascia di guerra che aveva brandito stamattina. Il Nick rilassato mi piaceva molto più di quello che mi riempiva di occhiatacce e che spiattellava i miei segreti a destra e manca.
Lui parve leggermelo in faccia, perché sospirò e disse: «So che fremi dalla voglia di saperlo, ma credimi, anche se ti dicessi chi è non ti sentiresti affatto meglio».
No, certo che no. Abbassai lo sguardo sulle punte delle mie scarpe, sentendomi improvvisamente piccola e impotente. Allora Nicholas tornò indietro per avvolgermi le spalle con un braccio, proprio come aveva fatto qualche ora prima, e mi sospinse verso il suo fuoristrada. Salii a bordo senza dire una parola, cercando di tenere a freno i pensieri più dolorosi. Incredibile ma vero, in quel momento avrei voluto riavvolgere la giornata per tornare indietro, al momento in cui ero troppo impegnata a fingere una relazione con Nick-finto-Carlo per potermi preoccupare di quello vero.
Nicholas mise in moto e accese la radio a un volume basso per riempire il silenzio che era calato tra di noi. Passarono diversi minuti prima che mi decidessi finalmente a chiedere: «La conosco, vero?».
Lui non rispose, ma il modo in cui assottigliò le labbra disse tutto.
Calò un altro minuto di silenzio, poi Nick frenò a un semaforo e mi gettò un'occhiata combattuta.
«Ho esagerato stamattina, scusami. Non avrei dovuto lasciarmelo sfuggire» disse. «Non so cosa mi sia preso. Te l'ho già detto, quando si tratta di te faccio cose veramente stupide» aggiunse, abbassandosi leggermente in avanti per controllare il semaforo che divenne verde.
Io buttai la testa contro il sedile con un'aria tremendamente seria, osservando i vecchi palazzi gialli e le persone per strada al di là del finestrino. Non era colpa di Nicholas. Non era colpa di nessuno in realtà, stava semplicemente succedendo. Quante di quelle donne là fuori stavano vivendo un momento analogo? Quante altre qualcosa che le faceva stare anche peggio? E non si poteva sempre puntare il dito in cerca di un colpevole, d'altronde anch'io avevo avuto voce in capitolo e avevo scelto di intraprendere una relazione clandestina che mi aveva portata a dove ero adesso. Sono solo scelte. Scelte che spesso facciamo noi stessi, consapevolmente.
«Hei, mi stai spaventando» mi disse d'un tratto Nick, riscuotendomi dai miei pensieri. «Da quando ti conosco non ti ho mai visto tanto pensierosa».
Non gli risposi subito, prima mi stiracchiai, poi abbozzai un sorriso.
«Credo di aver appena avuto una specie di rivelazione» confessai, al che Nick increspò la fronte con aria interrogativa. «No, niente di miracoloso» lo anticipai mentre svoltava sulla mia via. «Ma credo che sia arrivato il momento di lasciar andare Carlo e pensare un po’ a me. È finita in ogni caso e forse è meglio così».
La fronte di Nick, se possibile, si corrugò ancora di più: «Wow! In quei panini c'era davvero qualcosa di strano» mi prese in giro lui, assumendo un espressione incredula.
Gli tirai un scherzoso pugno sul braccio e per vendicarsi lui inchiodò, facendomi sussultare. Ci scambiammo un sorriso stupido come due bambini che però si spense non appena misi piede fuori dalla vettura e vidi la signora Giacomina: era seduta su una sedia accanto al portone e mi si strinse il cuore quando notai che aveva gli occhi lucidi. Mi precipitai immediatamente da lei.
«Giacomina, tutto bene?» domandai posandole una mano sulla spalla.
Lei alzò appena la testa per guardare me e Nicholas, che si era piazzato dietro di me. «Voglio aspettare qui. Voglio vedere quando li porteranno via» disse con voce assente. Mi sentii malissimo.
«Giacomina, di che parla?» cercai di riscuoterla. Lei però non rispose subito, tornò a guardare un punto a caso della strada trafficando nervosamente con un lembo del grembiule.
«Hanno firmato» disse poi. «Tutti hanno firmato e adesso me li porteranno via. I miei piccoli ciliegi» concluse quasi in un sussurro. A quel punto fui come folgorata: Giacomina stava parlando dei suoi alberi! Dopo però ripensai a un altro punto. «Le firme?» le feci eco.
Giacomina annuì. «La Petrelli è riuscita a raccoglierle tutti. Hanno firmato. Me li porteranno via».
Le firme! Accidenti! Il pezzo di foglio che avevo firmato nella fretta stamattina! E il sorriso sadico di quella stronza! Mi battei da sola una mano sulla fronte. Non si firmano mai le cose senza leggerle prima! E adesso Giacomina avrebbe visto la fine dei suoi alberi, quelli stessi alberi di cui si era presa cura dopo la morte della figlia. Era per lei che li aveva piantati, non potevo credere di quanta perfidia fosse capace la vecchia Petrelli. Mi voltai disperata verso Nicholas.
«È colpa mia! Ho sottoscritto stamattina senza averne idea. Quella vecchia megera!» confessai in modo confuso e con la coda dell'occhio vidi Giacomina rivolgermi un'occhiata sgomenta. «Mi dispiace così tanto» le dissi allora, tornando a guardarla. Le strinsi le mani che teneva sul grembo e decisi: «Rimarrò qui con lei ad aspettare. Se solo avessi saputo...» mi salirono le lacrime agli occhi.
Giacomina però non disse niente, non fece nemmeno un cenno. I suoi occhi che un tempo dovevano essere stati verdi come il muschio si spostarono verso l'angolo della strada, da cui probabilmente avrebbe svoltato il camion-ammazza-alberi. Anche Nicholas si voltò da quella parte e prese un profondo respiro.
«Vado un attimo su» m’informò, allungando verso di me un palmo disteso. «Puoi darmi le chiavi?».
Io lo guardai interrogativa, ma gli aprii comunque il portone e gli diedi la chiave dell'appartamento senza fare domande. Lui fece in un baleno, scendendo appena tre minuti dopo con altre due sedie. Le piazzò ai fianchi di Giacomina e prendendo posto alla sua sinistra mi rivolse un sorriso incoraggiante.
Improvvisamente il cuore prese a tamburellarmi forte nel petto. Ricambiai il suo sorriso, non sapendo come altro esprimere l'immensa gratitudine che provai in quel momento.


---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Ho finalmente fatto la brava e ho finito il mio capitolo! Non tiratemi i pomodori, ricordatevi che viviamo in tempi di crisi e sprecare il cibo così sarebbe poco carino!
Seriamente parlando, però, mi dispiace averci messo mesi (stavolta letteralmente) per postare. Purtroppo la via dell’automiglioramento è lunga e piena di insidie! Se ci aggiungiamo pure la mancanza di tempo e i problemi della vita quotidiana, otteniamo una bella minestra di “devo darmi una mossa ma sono lenta quanto una lumaca!”. Detto ciò, mi auguro che almeno alcuni di voi, popolo del “seguito-preferito-ricordato”, siano ancora sintonizzati su questa storia :)

M.Z

PS: Chi sarà l’altra amante del nostro adorato Carlo? Si accettano scommesse!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Vecchiette, filantropi e ragazze ribelli ***


Image and video hosting by TinyPic




11.
V E C C H I E T T E ,   F I L A N T R O P I   E   R A G A Z Z E   R I B E L L I


Dovevamo offrire uno spettacolo bizzarro per i passanti – tre persone sedute a fianco di un portone sulle proprie sedie di casa, di cui una vecchietta in grembiule e un uomo dall'aria impeccabile.
Guardai i miei compagni di attesa indugiando sull'espressione attenta di Nick che stava ascoltando Giacomina. Le aveva chiesto di raccontargli la storia dei suoi ciliegi e all'inizio avevo creduto che l'avesse fatto solo per distrarla, ma adesso non ne ero più tanto sicura.
Proprio in quel momento Giacomina fece una pausa per lisciarsi il grembiule spiegazzato e Nicholas intercettò il mio sguardo, iniziando a fissarmi con i suoi caldi occhi scuri. Poi alzò su un angolo delle labbra e mi sentii una deficiente, rompendo immediatamente il contatto che in qualche modo mi era famigliare. Comunque ero sicura di essermi appena tinta di bordeaux, per fortuna Giacomina riprese a parlare, riconquistando l'attenzione di Nick.
«Perciò ci tiene molto» gli sentii dire a un certo punto.
Giacomina annuì e riprese a fissare qualcosa a terra, la sua aria mogia mi ricordò che se non fosse stato per la mia innata stupidità adesso la megera non avrebbe avuto tutte le firme necessarie per portarle via i suoi alberi. Mi pruderono le mani per l'irritazione; avrei voluto salire al quinto piano, bussare alla porta dei Petrelli e strappare alla padrona di casa il foglio per stracciarglielo davanti agli occhi. Ma quel che è fatto è fatto, avrei dovuto pensarci prima. Come per tante altre cose, del resto.
Giacomina sospirò e io la cinsi attorno le spalle con un braccio. E pensare che la signora Petrelli me ne aveva pure accennato, sapevo che volevano discutere dell'abbattimento degli alberi, ma ero stata così presa da me stessa da ignorare il mondo attorno a me.
«Milena non me lo perdonerà. Che cosa le dirò quando ci incontreremo nell'altro mondo?» singhiozzò all'improvviso Giacomina, asciugandosi col grembiule una lacrima solitaria.
Questo, se possibile, mi fece stare anche peggio.
«Non dica così» rispose Nicholas. «Sua figlia non gliene farebbe mai una colpa. Lei ha fatto quel che poteva. Si è presa cura dei suoi alberi finché ha potuto.»
Lì per lì Giacomina lo guardò con aria più sollevata, poi però arrivò il camion che stavamo aspettando e la sua espressione tornò di nuovo a essere disperata.
«Scusatemi un attimo» disse Nick, guardando gli operai che intanto scendevano dal mezzo. Si alzò dalla sedia e estrasse dalla tasca dei jeans il suo immancabile Blackberry per fare una chiamata. Lo fissai allibita: ma come?! Ci mollava proprio adesso?!
«Hei, signore!» ci richiamò uno degli operai, quello più corpulento. «Abitate qui?»
Controvoglia annuii. Ma non feci in tempo ad aprire bocca che il portone si spalancò e la megera in persona si palesò con uno stomachevole sorriso sulle labbra. Avrei tanto voluto sapere che cosa le avesse fatto questo mondo per avercela tanto con lui.
«Sono stata io a chiamarvi» disse compiaciuta.
Allora l'operaio più corpulento invitò l'altro a darsi una mossa e insieme alla megera ci passarono accanto, sparendo dentro l'edificio insieme alla pesante motosega. Giacomina mi lanciò un'occhiata spaventata e per rassicurarla le strinsi una mano, accompagnandola dietro a loro. Attraversammo il pianerottolo e sbucammo dritto nel cortile del condominio dall'uscita opposta. Là in mezzo, tra i giochi per bambini, c'erano i ciliegi. Nel vederli Giacomina emise un suono strozzato. La strinsi un po' più forte.
«Sono quelli in mezzo» disse la megera, indicando ai due uomini gli alberi.
«Mariella, ti prego...» la supplicò Giacomina, ma l'altra non si scompose di una virgola.
Gli operai intanto si piazzarono ai fianchi di uno dei ciliegi, pronti a colpire. Il più corpulento aveva appena alzato in aria la motosega quando Nicholas apparve alle nostre spalle, esclamando in tono che non ammetteva repliche: «fermi!»
L'operaio spense la motosega e ci voltammo tutti a guardarlo.
«Potrei vedere il foglio delle firme?» chiese Nick rivolto alla megera.
Lei gli scoccò un'occhiataccia. «E lei chi sarebbe?»
Ma come? Non se lo ricordava più?
«Un amico di Vittoria» rispose semplicemente Nick.
La vecchia scoccò un'occhiataccia anche a me.
«E perché dovrei darglielo? Non sono affari suoi, ma del condominio!» disse con una smorfia inacidita, passandosi involontariamente una mano sull'ampia tasca del vestito. La studiai qualche secondo, intravidi l'angolo del foglio e presi una decisione che sapevo avrei pagato a caro prezzo: con un'abile mossa scattai in avanti e glielo sfilai per passarlo a Nick che ne fu talmente sorpreso da esitare prima di accettarlo.
«Brutta maleducata! Come ti permetti!» s'infuriò la Petrelli. Ancora un attimo e le sarebbe uscito fumo dalle orecchie. «Tua madre non ti ha insegnato niente?! Frugare nelle tasche degli altri è un reato!»
«Allora mi denunci» la sfidai a braccia conserte.
Lei aprì letteralmente la bocca. Nick intanto esaminava rapidamente il documento e dopo quella che mi parve un'eternità, finalmente sorrise con aria soddisfatta.
«Signori» disse agli operai «vi pagherò il doppio se invece di abbattere quei alberi voi riusciste a sradicarli.»
Sradicarli? Giacomina e io ci scambiammo un'occhiata e i due uomini si voltarono verso la megera che sgranò gli occhi incredula.
«Che sciocchezze sta dicendo?!» esplose un secondo dopo. «Non possono sradicarli!»
«Non adesso e non con una motosega, certo» convenne tranquillamente Nicholas. «Ma per quello ci metteremo d'accordo.»
«Nick...» dissi piano, lui però non mi guardava.
I due operai parvero seriamente in difficoltà.
«Lei non può venire qui e comandare!» riprese la megera. «Io e la padrona del condominio abbiamo già stabilito che questi alberi devono sparire!» ruggì.
«E spariranno» le confermò Nicholas con un mezzo sorriso. «Ma non oggi. Ne ho appena discusso con la signora Angelini».
Fermi tutti! Nicholas aveva parlato con la proprietaria?
«Ma il foglio dice che...» tentò invano la Petrelli.
«Il foglio non stabilisce niente» la interruppe Nicholas. «Le firme che ha raccolto servono esclusivamente alla rimozione dei ciliegi dalla proprietà del condominio. Ma non avete stabilito una data né la modalità, pertanto mi sono preso la libertà di fare una chiamata e di rivedere alcuni punti».
Ero sbalordita. No, sul serio: ero senza parole! E a giudicare dalla faccia della megera, lo era anche lei.
A quel punto l'operaio più grosso mise giù la motosega e si gratto la nuca, spostando leggermente il suo casco protettivo in avanti. «Beh, allora noi togliamo il disturbo» disse, ma suono quasi come una domanda.
Ero sicura che alla Petrelli sarebbe piaciuto iniziare a sbraitare e dirgli di finire il lavoro, ma non poteva, perché Nicholas aveva preso accordi direttamente con la Angelini. Per cui... fu il mio turno di sorridere compiaciuta. Al mio fianco Giacomina singhiozzò riconoscente. Gli operai tornarono al furgone.
«Io...» borbottò la signora Petrelli. «Io... Giuro che...» scoccò l'ennesima occhiataccia a Nicholas e a me e se ne andò via indispettita.
Non appena la sua ombra tozza scomparve dalla nostra vista, strillai di gioia e senza pensare saltai in collo a Nick che mi afferrò appena in tempo, ricambiando il mio sorriso. Restammo a guardarci così finché Giacomina non esclamò: «grazie, figliolo! Grazie!»
A quel punto mi resi conto di ciò che avevo fatto e scesi immediatamente a terra, schiarendomi imbarazzata la voce prima di domandare: «allora, qual è il piano?»
Nick però mi stava ancora fissando.
«Nick?» lo richiamai.
«Hm?»
«Il piano.»
«Oh... giusto» scosse leggermente la testa e si voltò verso Giacomina. «Purtroppo gli alberi dovranno essere tolti da qui. Ma non si preoccupi, la mia idea è quella di ripiantarli da un'altra parte, dove potrà tornare a prendersene cura.»
Giacomina si rimise a piangere (stavolta dalla commozione) e io cercai per l'ennesima volta di calmarla.
«Non so proprio come ringraziarti» disse tra un singhiozzo e l'altro. «Sei un angelo!» si asciugò gli occhi e improvvisamente si illuminò. «Stasera vi preparerò qualcosa di buono, ragazzi! Oh sì. Sì, sì. Mi metterò subito all'opera! Vi piacciono i frutti di mare? Ma certo che vi piacciono! A chi non piacciono?!» ormai parlava a ruota libera e io e Nick non potemmo non scambiarci un risolino.
«Giacomina» le dissi affettuosamente «non ce n'è bisogno, davvero.»
«Certo che ce n'è bisogno!» annuì con fermezza lei. «È il minimo!» aggiunse e i suoi occhi si fecero di nuovo lucidi.
«In tal caso, accettiamo volentieri. A patto che lei lasci a noi il compito di pensare alla spesa» rispose Nick.
Giacomina ci pensò su un attimo e tornò a sorridere. «Allora nel frattempo inizio a preparare la torta. Vi piacciono i mirtilli?» chiese.
Io annuii per entrambi e Giacomina parve illuminarsi di nuovo. Mi dettò una breve lista di quello che le sarebbe servito per stasera e io me lo appuntai sul telefono. Poi la accompagnammo a casa, riportammo indietro le sedie e risalimmo nel fuoristrada di Nicholas per raggiungere il supermercato più vicino.
Mentre lui rimetteva in moto gli gettai un'occhiata maliziosa.
«Dunque è questo l'oscuro lato filantropico di Nicholas Charles Gordon, junior!» ammiccai.
Nicholas lasciò via Giannotti e senza staccare gli occhi dalla strada abbozzò un sorrisetto. «Non sono un supereroi mascherato, semplicemente mi dispiaceva per lei. Non dev'essere facile perdere una figlia. Quella Petrelli è davvero meschina» disse.
Non avrei potuto essere più d'accordo.
«Onestamente non capisco che problema abbia. Sembra godere delle disgrazie altrui!» sbuffai. «Certe persone andrebbero rinchiuse da qualche parte, lontano dalla civiltà.»
Nicholas rise e ci immergemmo nella strada più trafficata di San Lombardo. Il semaforo in cima doveva essersi rotto di nuovo, perché si era formata una fila chilometrica e alcuni dei conducenti più avanti parevano davvero spazientiti.
«Che mi dici di te?» chiese d'un tratto Nick.
«Di me?» lo guardai confusa.
Lui fece un cenno affermativo con la testa. «Mi sono accorto che non so assolutamente nulla della tua vita. Eppure non ci penso un attimo a buttarmi in una rissa per difenderti» sogghignò.
Oh...
Mi strinsi nelle spalle. «Non c'è molto da sapere» dissi.
Lui sbuffò dal naso. «Andiamo» disse «non è equo. Tu puoi sbirciare su Wikipedia, io no.»
Già, pensai, era difficile credere di essere in presenza di un milionario che aveva dei genitori famosi ed ex fidanzate che facevano impallidire persino Rosanna Lunardi, che di comune accordo era stata nominata ''Miss Call Center'' per tre anni di seguito, finché non si era candidata per una pubblicità di moda abbandonando il nostro ufficio. Ma in presenza di Nick era facile dimenticarsene, perché non aveva esattamente i modi di un uomo in camicia di Versace e Rolex al polso.
«Sei appena diventata paonazza» osservò Nick, sghignazzando sempre più di gusto.
Che cretina! Alzai su il mento e assunsi l'atteggiamento più indifferente possibile. «Niente affatto, è che qui dentro fa caldo» mentii.
Lui corrugò la fronte e gettò un'occhiata ai numeri sul cruscotto. «Sono appena venti gradi, Vi» m'informò.
D'accordo, ero una pessima bugiarda!
«Che volevi sapere?» mi arresi.
Lui si strinse nelle spalle e riprese a guidare, spostando la macchina di appena quattro metri prima di fermarsi di nuovo. «Avrò l'onore di conoscere anche tuo padre alla festa del Circolo?»
«No» dissi secca. «Dubito che lo conoscerai mai. I miei hanno divorziato tanto tempo fa e adesso lui vive a Miami con la donna responsabile del loro disastro matrimoniale.»
D'un tratto Nicholas smise di sorridere. La freddezza con cui avevo pronunciato ogni singola parola doveva averlo colpito. Non mi sarei potuta spiegare per quale ragione avessi spiattellato tutto in quel modo, oltre a Carlo e le mie amiche, non l'avevo mai confidato a nessuno. Nick aveva proprio uno strano ascendente su di me.
«Mi dispiace» disse lui sinceramente. «Avevo notato la fede al dito di Donatella e quindi...»
«Si è risposata con un altro. Si chiama Giuseppe. È un uomo fantastico, riesce a sopportare tutte le sue stranezze senza battere ciglio e mi tratta come una figlia. Senza dubbio lo incontreremo al Circolo, lo vedrai coi tuoi occhi» intervenni, rivolgendogli un sorriso.
Nick annuì e ci spostammo di altri cinque metri. «Se ti può far sentire meglio, anche i miei hanno divorziato... tanto tempo fa. Mia madre ha lasciato mio padre per una donna ed è tornata in Italia per vivere con lei» disse, evitando di guardarmi.
Lo fissai stralunata. «Sembri averla presa bene» osservai, e lui scosse la testa.
«Mia madre è felice e per me e mio fratello è l'importante» – fece una lunga pausa – «Mio padre non se la meritava comunque» aggiunse infine, più duro.
Io non seppi che dire se non un inutile: «ah.» Di sicuro questo su Wikipedia non c'era scritto.
Per fortuna il traffico riprese a scorrere e interruppe il momento delle nostre imbarazzanti confidenze. All'incrocio Nicholas svoltò a destra (non solo il semaforo si era rotto, ma c'era stato pure un lieve incidente che aveva bloccato il passaggio) e proseguì avanti per un chilometro, finché non apparve un manifesto con su scritto: ''Supermercato Esselunga – seconda uscita alla rotonda, a 100 metri dopo Via Piave'' che ci indirizzò sulla direzione da prendere. Quando fummo davanti al supermercato sul viso di Nicholas era definitivamente scomparsa ogni traccia di buon umore. Nella speranza di riuscire a tirarlo un po' su gli ricordai la sua buona azione:
«Allora, salvatore di ciliegi indifesi» dissi con un filo divertito nella voce «iniziamo dalla pasta?»
Lui inarcò un sopracciglio. «Salvatore di ciliegi indifesi?» mi fece eco. «Ma quanti anni hai?»
Mi finsi offesa. «Abbastanza da prenderti a calci nel sedere se continui a guardarmi a quel modo» risposi.
«Davvero molto maturo da parte tua» osservò lui, rivolgendomi un sorrisetto strafottente. Ne fui sollevata perché significava che aveva smesso di annegare nei propri pensieri. Poi Nick prese un carrello (nessuno avrebbe immaginato quanto fosse surreale vedere un uomo come lui spingere un carrello) e passammo attraverso il reparto ortofrutticolo per andare verso la corsia numero tre.
Stavo giusto ricontrollando la lista delle cose da prendere – mentre Nick mi prendeva in giro perché non riuscivo a ricordare cosa avessi segnato alla seconda voce della lista, dove il correttore automatico aveva cambiato la parola in ''scambi'' – quando una voce assai famigliare mi giunse attraverso lo scaffale alla mia destra, distraendomi dal mio proposito. Senza rendermene conto, lo abbassai giù e mi concentrai su quello che sentivo.
«Ti ho detto che non se ne parla!» disse a mezza voce la ragazza. «È pura follia!»
«Oh, andiamo piccola» insisté con una voce nasale l'uomo. «Pensa solo a tutta quella grana! Non sei per niente tentata?»
«Direi che non ho bisogno dei soldi, Coin. Inoltre, sto già mentendo a tutti solo per poterti vedere. Come credi che riuscirei a fare una cosa del genere?» ribatté lei e me la immaginai che incrociava le braccia sul petto.
Per un attimo calò il silenzio. Una bambina passò correndo attraverso il reparto chiamando a squarciagola la mamma, dopodiché lui riprese: «tsk! Pensavo fossi abbastanza tosta da essere la mia donna. Ricordo che un tempo non ti facevi tanti problemi. L'adrenalina ti piaceva.»
«E mi piace ancora! Ma un tempo mio padre non era l'avvocato più pagato d'Italia e il suo nome non compariva continuamente sui giornali» osservò la ragazza con una punta di asprezza. Mi si attorcigliò lo stomaco – era davvero lei!
«Cazzo, dovresti fare salti di gioia per questo!» perse la pazienza l'uomo. «Pensaci bene, piccola. Se qualcosa dovesse andare storto saremmo in una botte di ferro con uno come tuo padre!»
Lei si zittì per un attimo facendomi salire il cuore in gola, poi espirò dalla bocca e rispose: «Al massimo io sarei in una botte di ferro, Coin. Comunque ci penserò, d'accordo?»
Lui stava giusto per risponderle qualcosa ma Nicholas mi arrivò alle spalle proprio in quel momento, esclamando «non hai ancora fatto con quel telefono?!» spaventando così i due che si allontanarono immediatamente. Io mi precipitai verso la fine del corridoio, ignorando l'occhiata perplessa di Nick. Qui mi appostai dietro un espositore di patatine e sbirciai i due che camminavano veloci verso l'uscita. Lui reggeva una bottiglia di vino bianco in una mano, mentre con l'altra sospingeva la ragazza bionda per la vita. Si guardava attorno con aria circospetta e mi ricordò tanto uno di quei galeotti stereotipati che si rasano la testa a zero, si tatuano ogni centimetro del corpo e tirano continuamente su con il naso.
«Ma che ti è preso?» mi raggiunse Nick, gettando un'occhiata nella stessa direzione.
Io osservai i due superare il pannello di controllo degli scontrini e buttai giù un pesante groppo alla gola. Poi lo guardai e con voce tremante dissi: «Credo che la mia amica Giorgia stia per cacciarsi nei guai.»



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Ed eccolo, un fresco fresco capitolo tutto per voi! :D Mi sto lodando da sola per essere riuscita a fare in tempo, perciò non rovinatemi questo momento X’D
Anyway... mmmmh Giorgia! Chissà che ci combina?! Mah... Queste ragazze incorreggibili! Se volete scoprirlo anche voi, però, dovete restare sintonizzati :D Le cose si fanno interessanti e finalmente potrete scoprire qualcosa in più sui personaggi ;)
Purtroppo oggi non posso dilungarmi oltre (sono già tremendamente in ritardo, e potrei essere uccisa per questo, e voi non sapreste mai come finirà la storia, e a me piace pensare che siate abbastanza interessati da restare con me fino all’ultimo capitolo D:), per cui buon giovedì a tutti e alla prossima puntata!
Un bacione,


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Coin ***


Image and video hosting by TinyPic



12
C O I N



Ultimamente avevo la netta impressione che la mia vita stesse sfuggendo al mio controllo: avevo contribuito (sebbene non di proposito) al permesso per l’abbattimento degli alberi di Giacomina; ero finita per ingannare mia madre riguardo al mio fidanzato; ero stata insieme ad un uomo già impegnato che aveva giurato di voler passare il resto della sua vita con me (e probabilmente con almeno altre due donne); mi ero ubriacata in un impeto di rabbia con Nick, ritrovandomelo tra i piedi da quando era successo quel che non volevo sapere fosse successo, e, come se non bastasse, adesso c’era anche questo Coin che aveva intenzione di coinvolgere la mia migliore amica in qualcosa di losco senza che mi fossi mai accorta del problema. Eppure i segnali c’erano stati, ma io ero un disastro completo per riuscire ad accorgermene in tempo...
Questi pensieri mi tormentavano mentre parcheggiavo al solito posto lungo la salita che portava alla casa di Francesca, e per un secondo accarezzai l'idea di dare di matto e di ricominciare a menare lo sterzo come facevo una volta. Mi irrigidii, pronta a sferrare il primo colpo, quando Nicholas mi ricordò della sua presenza al posto del passeggero. Non avrebbe mai capito un comportamento tanto fuori di testa.
«Stai bene?» domandò infatti, notando la mia posa tesa. Io sbattei un paio di volte le palpebre e lasciai andare l'aria.
Se stavo bene? No, non stavo bene. Ma se c'era qualcosa che iniziavo a imparare dai miei continui sbagli era che non potevo rammollirmi, perché non avrebbe risolto i miei problemi. Perciò mi sforzai di risultare credibile quando annuii. Dopodiché scendemmo dall'auto e ci avviammo su per la strada.
Francesca ci stava aspettando, perché il cancello era già aperto, così come la porta d'ingresso. Quando entrammo in casa la trovammo seduta sulla poltrona in salotto, davanti al camino acceso. Reggeva un calice di vino rosso in mano e dal profilo sciupato del suo viso intuii che non aveva dormito molto né molto bene. Quasi potevo leggerglielo nella testa: non bastava che dovesse reggere turni esasperanti all'ospedale, adesso ci si metteva pure Giorgia.
«France» la richiamai. Lei si accorse della nostra presenza solo in quel momento, rivolgendoci un sorriso che non me la diede a bere. «Hai un'aria tremenda» dissi sincera. Lei fece una smorfia, come a dire ''grazie'', e si alzò per porgere una mano a Nick.
«Sono Francesca. Tu devi essere Nicholas. Abbiamo sentito parlare un sacco di te» si presentò, scoccandomi un'occhiata in tralice.
Nick le strinse la mano e si diedero due baci sulla guancia.
«Immagino quanto siano lusinghiere quelle storie» rispose poi lui, scoccandomi a sua volta un'occhiata in tralice.
In tutta risposta a entrambi alzai gli occhi al cielo e mi tolsi il cappotto. «Vi ricordo che non siamo qui per questo» sbuffai.
L'aria di Francesca si fece di nuovo tesa e quasi mi pentii di averglielo ricordato. «Dunque, raccontami di nuovo cos'hai sentito» mi chiese tornando a sedere.
Io mi accomodai sul divano accanto e buttai fuori un sospiro, cercando di ritornare a tre giorni prima, quando avevo sentito Giorgia discutere con il suo misterioso Coin al supermercato.
«Lui ha parlato di un colpo. Non so di che genere, non sono entrati nei particolari. Però ha detto, cito testualmente, ''pensa a tutta quella grana''.»
«Un colpo in banca?» corrugò la fronte Nick, riflettendo ad alta voce.
Francesca scosse con decisione la testa. «Non ci credo. Giorgia non andrebbe mai a rapinare una banca. Non di sua volontà» disse con convinzione.
Ma mi sentii in dovere di deluderla. «France» buttai giù un groppo alla gola, «ti ricordo che sono finita nei guai più volte perché lei mi coinvolgeva nei suoi furti.»
A Nick si inarcarono le sopracciglia. «Hai un passato da criminale?» si trattenne a stento dal ridere.
«Nemmeno tanto passato, a dire il vero» confessai con un sospiro.
Lui non seppe come reagire, se esserne divertito o esserne scioccato.
«Ma quelli erano stati solo piccoli furti» ci interruppe Francesca, mordendosi la pellicina dell'indice mentre fissava il centro del tappeto, bianco come il resto dei mobili. «Borse, accendini, sciarpe... Mentre qui parliamo di una banca, santo cielo!»
«Potrebbe anche non essere una banca in verità» meditai. «Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere benissimo una casa, un museo, un negozio... Cavolo, potrebbe essere qualsiasi cosa» le possibilità erano davvero infinite.
L'espressione di Francesca si fece più cupa e se non fosse stato per Nicholas, questo sarebbe stato il momento in cui ci saremmo rinchiuse ognuna nei propri dubbi senza venirne più a capo.
«Okay, non fatevi prendere dal panico» disse lui a braccia conserte. Si appoggiò con una spalla contro il camino e rifletté. «A che ora le avete detto di venire?» domandò, guardando la mia amica.
Lei si schiarì la voce: «per le otto.»
Nick controllò il suo orologio da polso. «Bene, abbiamo ancora un'ora circa. Perciò cerchiamo di decidere che cosa potreste fare a riguardo.»
Alzai gli occhi su di lui e per la prima volta lo studiai attentamente, soffermandomi sulla sua espressione seria. Dunque era questo il Nicholas Gordon-direttore di banca? Aveva un espressione così concentrata e... con la coda dell'occhio notai lo sguardo interrogativo di Francesca, quindi mi affrettai a sfilare un elastico dal polso per rigirarmelo tra le mani come niente fosse.
Nel mentre, dissi: «non credo che andare alla polizia sia la decisione giusta. Non abbiamo prove di alcun genere, e inoltre, personalmente, non riuscirei proprio a denunciare Giorgia.»
Francesca annuì per confermare e abbassò di nuovo gli occhi sul tappeto. «Forse dovremmo semplicemente parlarle apertamente» rifletté mogia.
«Non saprei» disse Nick in tono pratico. «Vi sta già mentendo, e mi pare di capire, già da un po’. Immaginatevi la reazione se l'accusaste apertamente.»
«Non capisco perché debba mentirci, però!» dissi con una nota irritata nella voce. «Ha avuto un sacco di uomini in questi anni e non l'abbiamo mai esclusa per le sue pessime scelte. Al massimo le abbiamo aperto gli occhi! Perché non parlarci anche di questo Coin allora?»
«Coin?!» Francesca alzò di scatto la testa e sbiancò. «Hai detto davvero Coin?» ripeté con voce strozzata.
Mi scambiai un'occhiata con Nicholas prima di annuire. Allora Francesca fece qualcosa che non era solita fare: svuotò il calice alla goccia e si alzò per versarsi altro vino dalla bottiglia che sostava sul tavolino da caffè, fregandosene che domattina avesse un turno alle sei. Un comportamento allarmante da parte sua.
«Quel bastardo!» esclamò lasciandoci di stucco. «Non posso credere che sia tornato! Lo dicevo che da sola non farebbe mai una cosa del genere!»
Nick e io fummo, se possibile, ancora più confusi.
«Tu lo conosci?» le domandai cauta.
«Personalmente!» esclamò, svuotando di nuovo il calice. «È successo l'estate che sei partita per il viaggio in Spagna con i tuoi» aggiunse.
Sì, ricordavo bene quell'anno; avevo appena preso il diploma e mamma e Giuseppe stavano per festeggiare dieci anni di matrimonio. Perciò avevano deciso che sarebbe stato carino partire tutti insieme per un viaggio estivo, stabilendo un itinerario che ci avrebbe portati via per poco più di un mese.
Lo confermai a Francesca con un cenno del capo e aspettai che parlasse. Lei si riempì il bicchiere per la terza volta, ma non bevve. Il suo viso si contrasse in un espressione di chi avrebbe fatto volentieri a meno di ricordare certe cose. Poi però si decise e iniziò a raccontare:
«Questo tipo allora non si faceva ancora chiamare “Coin”, ma con il suo vero nome, Daniele...»

Il giorno che Vittoria era partita, Giorgia non riusciva a trovarsi pace. Sembrava sul punto di esplodere; girava per casa come una trottola e continuava a ripetere quanto le mancasse la sua amica e quanto avrebbe pagato pur di riaverla lì e uscire insieme a lei. Francesca però non l'ascoltava. Stava ripassando per un importante esame universitario che la metteva parecchio sotto stress. Solo quell'esame la separava dalla laurea e i continui piagnistei di Giorgia non facevano che irritarla. Eppure era stata proprio Giorgia a invitarla a casa sua quel pomeriggio e sempre lei si era offerta di passarla a prendere alla facoltà di medicina, promettendole di darle un po' di tempo per studiare se in cambio le avesse fatto compagnia. Ma Francesca avrebbe dovuto immaginare che la ragazza era semplicemente inquieta senza Vittoria: erano sulle soglie di agosto e questo per Giorgia significava feste in spiaggia e discoteca, prospettive che non la allettavano così tanto senza l'altra combina guai. Quindi, all'ennesimo sospiro di Giorgia, Francesca non ce la fece più e scattò come una molla: «Senti, dacci un taglio, okay?!» le disse in tono brusco. «Il mondo non finirà se per una sera non vai a ballare o non ti sbronzi!»

Francesca ci rivolse un sorriso amaro e percepii l’enorme sforzo che stava facendo.

«Hei! Se sei tanto nervosa non rifartela con me!» rispose a tono Giorgia. «O magari sei un po' invidiosa?»
«E di cosa, di grazia?» domandò incredula Francesca, girandosi sulla sedia per guardare l'amica dritto in faccia. «Del fatto che non mi abbiate mai portato con voi a vomitare l'anima nei vicoletti bui?» abbozzò un sorrisetto cinico. «È nel vostro stile, non nel mio. Io devo studiare per diventare quella che vi raccatterà con la paletta dal marciapiedi quando non sarete in grado di farlo da sole!» aggiunse sprezzante, tornando ai suoi libri.
Giorgia diventò bordò. Non era certo la prima volta che litigavano, ma stavolta l'amica aveva superato ogni limite! Furente, la ragazza scagliò via la rivista che stava sfogliando distesa sopra il letto che precipitò in un angolo della stanza con un tonfo secco, facendo rabbrividire Francesca.
«Adesso dai pure i numeri?» l'apostrofò quest'ultima, tornando a guardarla male.
«No, ma se non esci da casa mia entro un minuto giuro che la prossima cosa che tirerò ti arriverà dritta in fronte!» minacciò Giorgia e si allungò verso il comodino per afferrare una sveglia.
Francesca sgranò gli occhi. «Tu sei fuori di testa!» esclamò alzandosi. «Tutto quell'alcol deve averti bruciato qualche neurone!» aggiunse, infilando le sue cose dentro una tracolla a trama etnica.
Giorgia la osservò truce prendere la borsa e uscire a passo furente fuori dalla stanza. Qualche secondo dopo la porta d'ingresso sbatté e a Giorgia salirono le lacrime agli occhi.
Francesca intanto camminò spedita dritto verso la fermata del pullman che si trovava sulla via parallela a quella su cui abitava Giorgia. Una volta lì controllò il cartello con gli orari non potendo fare a meno di sbuffare: il prossimo mezzo non sarebbe passato prima delle sette, il che significava che sarebbe stata costretta ad aspettare per ben due ore (sempre ammesso che non saltasse la corsa). Forse era il caso di tornare da Giorgia e di chiarire. Ma l'ego ferito di Francesca stava ancora pulsando come una ferita aperta e non glielo permise. Così rimase ad aspettare sulla panchina.

Francesca fece una pausa per prendere qualche sorso dal calice. I suoi occhi erano velati da una tristezza che non le avevo mai visto. Mi si strinse il cuore e fui quasi sul punto di chiederle di non proseguire, quando lei riprese:

Alle sei e quaranta Francesca alzò gli occhi da un libro di testo. Si era detta che se doveva stare lì tanto a lungo tanto valeva studiare un altro po', giusto per non sprecare il tempo in vano. In quel momento, però, con la coda dell'occhio notò una ragazza attraversare la strada e dirigersi in direzione opposta a dove si trovava lei. Francesca la riconobbe immediatamente, nonostante si fosse agghindata come un albero di Natale. Al contrario, Giorgia non la vide. Camminava con il naso incollato al telefono e le cuffiette nelle orecchie, oscillando da una parte all'altra sui trampoli dorati che si era messa ai piedi.
Sul momento Francesca non seppe che fare. Valutò l'idea di richiamare l'attenzione dell'amica, ma dubitava che quella l'avrebbe sentita, e se anche l'avesse sentita, dubitava che si fosse calmata abbastanza da volerle parlare. Quando si trattava di litigare, erano entrambe più testarde di un mulo. Quindi si affrettò a mettere via il suo libro e iniziò a seguirla. Non era sicura per quale ragione lo stesse facendo, le camminò semplicemente a distanza ripassando mentalmente quello che le avrebbe detto quando finalmente Giorgia si sarebbe accorta della sua presenza. Ma Giorgia non mollava il telefono per un attimo e così, prima che Francesca se ne potesse rendere conto, arrivarono in spiaggia. Più precisamente di fronte all'ingresso di un disco-pub dove si era radunata già una bella folla.
Finalmente Giorgia mise via il cellulare. Entrò dentro e superò l'angusto spazio del pub per dirigersi verso una grossa porta a vetri, a destra. Da lì si accedeva ai tavolini all'aperto, dove la ragazza si fermò e si guardò attorno. Ma il suo sguardo non arrivò abbastanza vicino a Francesca da notarla, si fermò prima, su un capannello di ragazzi più grandi che erano seduti attorno a un tavolo a bere birra e fumare. Giorgia li raggiunse esibendo un sorrisone mentre loro iniziavano a salutarla. Francesca rimase in disparte ad osservarli storcendo il naso; il più piccolo di quella combriccola doveva avere come minimo la sua età; era magrolino, pieno di tatuaggi e dal modo in cui squadrava Giorgia di certo era tutto fuorché benintenzionato. Le fece venire i brividi, cosa che non si sarebbe detta di Giorgia che lo salutò come il resto del gruppo, sedendosi in mezzo a quest'ultimo e un grosso tizio dalla barba rossa. Il tizio magrolino le passò la sua birra, accarezzandole intimamente un braccio mentre lei beveva. Francesca non riuscì a restare semplicemente a guardare, il suo istinto da sorella maggiore venne fuori con prepotenza, spingendola a raggiungere lo stesso tavolo e a piazzarsi lì davanti con le mani sui fianchi. Il gruppetto la guardò perplesso ma lei non si fece intimidire. O almeno cercò di non sembrare tale.
«Qualche problema, bella?» le domandò il gorilla dalla barba rossa.
In quel momento Giorgia posò il boccale sul tavolo e riconobbe l'amica. «
E tu che ci fai qui?» chiese inacidendosi.
Francesca sbuffò. «Mi sei passata accanto prima e non te ne sei nemmeno accorta» rispose.
«E allora?» alzò un sopracciglio Giorgia. «Hai deciso di seguirmi come una stalker?»
«Volevo parlarti» rispose Francesca, gettando una fugace occhiata al gorilla.
«Credo che tu abbia già detto abbastanza, non vedo cosa ci sia da aggiungere» disse Giorgia serrando le braccia al petto.
Francesca strinse le labbra per un secondo, riflettendo; non era certo davanti a quella gente che avrebbe voluto chiarire la questione. Ma se Giorgia voleva fare la difficile...
«Fammi passare, Tremo» disse quest'ultima al gorilla. Il tizio si spostò e guardò Francesca in tralice, mentre il più piccolo si passò la lingua su un labbro. Lei fece finta di niente, ma in cuor suo non si sentiva affatto tranquilla.
«Andiamo» disse Giorgia che non aveva notato niente di tutto questo, dirigendosi verso un angolo dello steccato. Francesca la seguì ricambiando la sua occhiata ostile e incrociò le braccia al petto a sua volta.
«Sono questi i vostri amici, quindi?!» sbottò non appena si fermarono l'una davanti all'altra.
«Ecco che ricomincia!» sbuffò irritata, Giorgia. «Questi sono amici
miei! Vittoria non li conosce nemmeno! Ma non vedo perché dobbiamo sempre renderti conto di chi frequentiamo o di cosa facciamo!» alzò di un tono la voce. «E questa cosa che mi hai seguito è raccapricciante! Ma che ti dice il cervello?»
«E a te?!» la rimbeccò Francesca. «Ma li hai visti
quelli?! Al riformatorio hanno un posto riservato a loro nome!»
Giorgia strabuzzò gli occhi, sinceramente perplessa: «Ma ti ascolti? Sei sempre lì, a dispensare consigli a chi non te li chiede! Sempre pronta a giudicare e a fare la maestrina! Ma né io né Vittoria siamo Linda e dovresti smetterla di farci da balie!» concluse in preda alla frustrazione, ma si pentì subito di aver tirato in ballo quel nome.
Il volto di Francesca si fece immediatamente più cupo. La ragazza guardò verso le onde del mare che si scontravano sulla riva e Giorgia la vide buttare giù un nodo alla gola. Stavano dando il peggio di loro e lei non voleva aggravare ulteriormente la situazione. Perciò si voltò per andarsene, quando le parole di Francesca la paralizzarono: «non penso che a tuo padre farebbe piacere sapere che razza di gente frequenti» disse la sua amica senza enfasi. «Che dici? Gli faccio una chiamata?»
Giorgia sbiancò. Si voltò lentamente indietro e studiò il profilo di Francesca. Ma lei non ricambiò il suo sguardo, continuando a scrutare l'orizzonte a palpebre socchiuse.
«Dunque è a questo che sei arrivata?» le domandò allora Giorgia. «Alle minacce? Sul serio?»
In tutta risposta Francesca le scoccò un’occhiata impassibile e inarcò le labbra per un secondo.
Giorgia non poteva crederci.
In quel momento, con un pessimo tempismo, alle sue spalle sbucò il tizio magrolino. Le passò una mano attorno alle spalle e rivolse un sorriso strafottente a Francesca che cercò di non scomporsi.
«Hei, che sono questi brutti musi?» domandò lui, passando in rassegna prima l'una poi l'altra. Tirò su col naso e si grattò dietro il collo. Dopodiché tornò a guardare Francesca. «Dai, Giò!» la strinse senza staccare gli occhi dall'altra. «Torniamo di là, abbiamo ordinato altra birra, paga il Delta e stasera non guido! Voglio sfruttarla questa notte, cazzo!» concluse, e Francesca fu percorsa dai brividi quando nei suoi occhi scorse un bagliore euforico.
Ma Giorgia non si mosse né rispose. Come il suo amico, anche lei stava fissando Francesca, le minacce della ragazza le risuonavano dentro come un eco ed era evidente che non sapesse cosa fare. Dal canto suo, Francesca avrebbe voluto tirarla via per un braccio e andarsene, ma il ragazzo la stringeva in una morsa ferrea, e lei non era così coraggiosa da fronteggiarlo apertamente.
Quindi rimasero in quella situazione di stallo finché il gorilla-barba-rossa non urlò in loro direzione: «Oh, Daniele! Se non vi muovete qui finisce tutto!»
«Sentito?» rivolse con un ghigno alle ragazze quest'ultimo. «Hanno iniziato la festa senza di noi! Forza, muovetevi!» ordinò e allungò una mano verso la spalla di Francesca, che però lo evitò avviandosi automaticamente verso il tavolo. Non voleva affatto restare lì, quei ceffi la inquietavano a dir poco, ma non sapeva come andarsene e inoltre non voleva che Giorgia rimanesse da sola con loro. Non importa se lei diceva che loro fossero i suoi amici, quella gente emanava energia pericolosa a quantità industriali.
Se ne sarebbe pentita di sicuro.
«Allora, ce la presenti la tua amica o dobbiamo tirare a indovinare?» domandò Daniele a Giorgia una volta che ebbero raggiunto gli altri e lui si fu accomodato al solito posto.
Lei però stava ancora digerendo il litigio, perciò il tono con cui scandì «Francesca» suonò quasi come un sibilo. Entrambe, comunque, rimasero in piedi.
«Che? Volete restare lì tutta la sera?» fece una smorfia Daniele.
Giorgia guardò Francesca che le scoccò un'occhiataccia, ma non disse niente. Quindi Giorgia fece spostare di nuovo il gorilla-barba-rossa e si rimise a sedere tra lui e il magrolino, nascondendosi la faccia dietro un boccale di birra. Francesca al contrario non si mosse e Daniele si alzò. La ragazza lo guardò allarmata scavalcare (letteralmente) il tavolo e mettersi al suo fianco con un sorriso inquietante sulle labbra sottili. Trattenne quasi il fiato mentre lui la studiava dalla testa ai piedi. Si aspettava un gesto losco, e non si sbagliò del tutto perché lui le mise una mano sulla schiena e iniziò a indicare gli altri ceffi della banda.
«Quello che sembra un maiale è Valerio» disse con un ghigno indicando il ragazzo all'altro estremo del tavolo, che alzò incurante la mano con cui stringeva una sigaretta come a salutare, «ma noi lo chiamiamo il ''Delta'', perché è il suo cognome e, dice lui, suona più poetico! Quello accanto a lui è il ''Marocco''.. abbastanza ovvio come soprannome in effetti. Poi c'è quel bel pezzo di gnocca della tua amica Giorgia» sogghignò di nuovo, come se avesse fatto una battuta spiritosissima. «Figa davvero.» Francesca la guardò e avrebbe potuto giurare che Giorgia fosse arrossita, ma non ebbe tempo di indagare perché Daniele proseguì, indicando il gorilla-barba-rossa: «Lui è ''Tremotino'', perché fa paura solo di stazza, ma in realtà non è altro che una pettegola e per giunta nemmeno tanto coraggiosa» spiegò e l'altro gli scoccò un'occhiata risentita che a Francesca parve piuttosto minacciosa, a dispetto di ciò che le aveva appena detto il magrolino. Lui comunque continuò imperturbato: «io sono Daniele, per ora senza soprannomi. Ma magari tu potresti trovarmene uno» ammiccò, studiandola di nuovo.
A quel punto Giorgia alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Non è il tuo tipo, Dani. E comunque sta già uscendo con qualcuno» lo informò, tornando a bere. Francesca avrebbe quasi pensato che fosse infastidita dalle attenzioni che le rivolgeva il suo amico, ma non era intenzionata ad assistere alle sue scenate di gelosia. In ogni modo era impensabile che le potesse piacere un tipo del genere. Certo, Giorgia non aveva mai brillato particolarmente per le sue scelte, ma questo era troppo anche per lei!
«Senti, dovremmo andare» le disse ignorando il suo commento.
«Rilassati, tesoro» intervenne Daniele prima che Giorgia potesse rispondere. «È appena arrivata! Perché non ti siedi anche tu e non bevi qualcosa?» e non fu una domanda. Daniele la spinse – all'apparenza – delicatamente verso il gorilla-barba-rossa e lo obbligò a farle spazio. Con una smorfia lui si scansò verso Giorgia, e Francesca dovette sedersi per forza. Daniele si piazzò accanto a lei, passandole un braccio attorno alle spalle, ma Francesca si scosse perché le togliesse le mani di dosso. Lui le alzò in segno di resa.
«Non credevo che le amiche di Giorgia potessero essere tanto nervosette» disse. E la citata spostò lo sguardo in loro direzione, ignorando ciò che le stava raccontando ''Marocco''. A quel punto Francesca fu certa che avesse una cotta per Daniele, lo sguardo dell'amica lo seguiva come un'ombra. Una ragione in più per portarla via. Ma come?
Francesca rifletté: forse, se fosse stata al gioco per un po', avrebbero potuto andarsene senza problemi. Non voleva davvero coinvolgere i genitori di Giorgia, l'aveva detto solo per spaventarla. Tra l'altro non era manco sicura che loro avrebbero preso sul serio la sua chiamata; il padre di Giorgia era un uomo impegnato e la madre era perennemente a qualche festa di beneficenza. Magari non sarebbero nemmeno riusciti a risponderle. No. Non doveva pigiare sull'acceleratore. Doveva solo restare calma e aspettare il momento giusto.


«Il momento giusto, però, non era mai arrivato» ci disse Francesca con un'aria malinconica, agitando il rimanente del vino nel calice. «Me ne pento tutt'ora, Vi. Giuro che non avrei mai creduto che le cose potessero prendere una piega del genere...»

Dopo cena la sua pazienza fu sul punto di esaurire. Francesca era stanca di stare su quella panca a osservare come il resto del branco si scolasse una birra dietro all'altra, tirandosi i salatini e vociando sopra le chiacchiere degli altri. Tra l'altro aveva la netta impressione che ogni tanto qualcuno li lanciasse delle occhiatacce per via di tutto il casino che facevano. La cosa più incredibile era che Giorgia si stava divertendo, non mancando di dare spago al suo adorato Daniele che però continuava a infastidire Francesca. Quindi, dopo l'ennesimo tentativo da parte del ragazzo di metterle le mani addosso, lei si alzò dicendo che doveva andare in bagno. Lasciò la sua tracolla con i libri lì con loro e rientrò nella sala interiore dirigendosi verso la porta del bagno dall'altra parte.
Per fortuna dentro non trovò nessuno. Accese il rubinetto dell'acqua fredda nel lavandino e si sciacquò il viso accaldato, guardandosi poi allo specchio soprastante: aveva un aspetto pietoso e non era ancora riuscita a portare via Giorgia da quella gente. Chissà... forse non avrebbe dovuto farlo davvero, forse si stava accanendo semplicemente perché quei tipi non le piacevano. Magari avrebbe fatto meglio ad andarsene da sola, anche se a quest'ora non c'erano più pullman che avrebbero potuto riportarla a casa. Beh, per quello poteva sempre chiamare Giacomo o una delle sue coinquiline e farsi venire a prendere. Eppure non ci riusciva, sentiva che altrimenti sarebbe potuto succedere qualcosa che... No, doveva convincere Giorgia a lasciarli perdere!
Così tornò fuori. Ma quando giunse al tavolo scoprì con orrore che ad aspettarla c'era rimasto solo il gorilla-barba-rossa-Tremotino. Non le prestava nemmeno attenzione in verità, beveva da una bottiglia con lo sguardo perso tra la folla che si stava accalcando nello spazio centrale, sgombro di tavoli. Poi il DJ fece partire un remix e le gente iniziò a dimenarsi.
«Dove sono tutti?» Francesca dovette gridare sopra la musica per farsi sentire e finalmente il gorilla la guardò. Si strinse pigramente nelle spalle e disse solo: «boh.» Era chiaro che non avrebbe ottenuto altro da lui, quindi Francesca afferrò la sua tracolla, improvvisamente molto più leggera, e guardò dentro: mancava un libro, lo stesso su cui aveva studiato alla fermata. Che diavolo ci dovevano fare con un libro?! Si agitò e corse sull'improvvisata pista per controllare se non fossero lì. Non voleva farsi prendere dal panico o dalla rabbia, doveva cercare di stare calma. Ma della chioma bionda di Giorgia non c'era traccia da nessuna parte e quando, dieci minuti più tardi, non era nemmeno tornata al tavolo, Francesca si sentì sul punto di cedere al panico.
Anche il gorilla-barba-rossa era sparito e lei non seppe che pensare; non potevano essersi volatilizzati nel nulla, no? Controllò il telefono e provò a chiamare l'amica per almeno cinque volte, senza ottenere mai risposta.
Adesso sì che si stava arrabbiando.
Stava quasi per mollare e andarsene, quando qualcuno le arrivò da dietro e le coprì gli occhi. Francesca trasalì a quel contatto, perché quelle mani erano troppo grosse per essere quelle di Giorgia e puzzavano di alcol e sigarette. Se le scollò immediatamente di dosso, voltandosi per ritrovarsi di fronte al ghigno strafottente di Daniele. Era troppo turbata però per cercare ancora di far finta di nulla. Quindi, in un ringhio, disse: «senti, non so quale sia il tuo problema e nemmeno m'interessa.
Tu non m'interessi! L'unica cosa che voglio sapere è dov'è Giorgia! Dobbiamo andare via. Dimmi dov'è!»
Non fece in tempo a terminare la frase, però, che il viso di Daniele si trasfigurò in una smorfia inquietante. I suoi occhi lampeggiarono di una luce strana e il ragazzo iniziò a fissarla intensamente, quasi fosse in trance. Francesca si sentì accapponare la pelle. Si voltò per andarsene ma lui la afferrò per un polso e nonostante il caldo asfissiante si sentì gelare il sangue nelle vene quando lui le si parò davanti e strinse il suo polso così forte che Francesca emise un gemito. Poi la lasciò andare, così, come niente fosse successo, e se ne andò lasciandola tremante in mezzo al pub. Le ci vollero diversi secondi per riprendersi. In quel momento non aveva dubbi che quei ragazzi fossero pericolosi e che doveva assolutamente ritrovare l'amica. Andò a chiedere persino al bar, ma nessuno l'aveva vista e nemmeno negli altri locali del posto le avevano saputo dire nulla. Così iniziò a cercarla sulla spiaggia.
Camminò a lungo, quasi fino a raggiungere lo scoglio a tre chilometri di distanza dal punto da cui era partita, ma non trovò nessuno. Perciò tornò indietro e riprese a camminare in direzione opposta, domandandosi se fosse il caso di chiamare qualcuno dopotutto. Erano passate due ore ormai e non aveva avuto da Giorgia neanche un messaggio o uno squillo. Pian, piano la preoccupazione stava prendendo il posto della frustrazione e Francesca decise di chiamare Giacomo quando d'un tratto la vide, illuminata dai carboni ancora accesi di un falò morente: Giorgia era stesa in mezzo alle rocce lisce e scivolose, sotto uno scoglio incavato, e i suoi piedi scalzi venivano lambiti dall'acqua del mare. Attorno a lei era disseminato il caos: bottiglie, resti di spinelli, la borsa e le scarpe dell'amica gettate alla rinfusa e brandelli del libro di Francesca che qualcuno aveva trovato utile per accendere il fuoco e ricavare delle strisce per le sigarette.
Francesca si portò una mano alla bocca facendosi di pietra – il corpo dell'amica giaceva inerme con le braccia spalancate. L'istinto di Francesca la spinse a correre da lei; le controllò il respiro e si accorse che era irregolare, aveva le labbra e le punta delle dita di un colore pericolosamente bluastro e le mani fredde. Francesca tentò di risvegliarla, ma non ebbe reazioni. Si ripeté che non poteva farsi prendere dal panico e chiamò d'urgenza un'ambulanza. Fino al suo arrivo fece del suo meglio per prendersi cura di Giorgia, come le avevano insegnato al corso di medicina. Una volta arrivati i soccorsi, Giorgia fu caricata sull'ambulanza e portata via sotto lo sguardo disperato di Francesca. Uno dei medici le aveva ordinato di chiamare i parenti della ragazza e lei aveva obbedito.
Un'ora più tardi erano tutti nella sala d'attesa dell'ospedale di San Lombardo: lei, Giacomo che era venuto a recuperarla e i coniugi Callisto. Da quando Francesca era arrivata, la signora Callisto non aveva fatto altro che singhiozzare e suo marito camminava su e giù davanti alla finestra.
«Che cos'è successo a mia figlia?! Come ci è finita in coma etilico?!» l'aveva aggredita la signora non appena Francesca aveva varcato la soglia. «Dov'eri?! Perché l'hai lasciata sola?!» aveva proseguito in preda al panico.
Ma Francesca non aveva saputo risponderle; nella sua mente era ancora vivido il ricordo di Giorgia, pietrificata dalla paura al pensiero che il padre potesse scoprire con che razza di gente usciva. E anche se sapeva che la cosa più giusta da fare era raccontarle tutto (
tutto), era rimasta lo stesso in silenzio, schiacciandosi contro Giacomo che la teneva stretta a sé per rassicurarla. Fortunatamente a quel punto a interromperli era arrivato il medico per comunicare ai signori Callisto che la figlia non era in pericolo. Francesca l'aveva trovata giusto in tempo e aveva reagito nel modo più corretto. Ne erano stati sollevati, ma erano rimasti comunque lì, ad aspettare il suo risveglio.
A un certo punto Francesca doveva essersi addormentata sulla spalla di Giacomo, perché quando riaprì gli occhi fuori c'era l'alba e il ragazzo le dormiva accanto con la testa a penzoloni. Anche i genitori di Giorgia dormivano e Francesca non voleva svegliare nessuno. Si alzò piano per sgranchirsi le gambe e prese qualcosa da mangiare alla macchinetta, oltre a un caffè senza zucchero. Lo bevve quasi in un solo sorso e finì gli snack con altrettanta rapidità, perché era dalla sera precedente che non mangiava, salatini a parte. Quando ebbe finito, si avvicinò al cestino della spazzatura che era ad appena un metro dalla porta di Giorgia. Ci sbirciò dentro senza rendersene conto e si sorprese di vedere Giorgia sveglia; la ragazza stava fissando la parete davanti a sé con aria inespressiva e non si era accorta dell’amica.
Senza farsi beccare, Francesca sgattaiolò nella stanza attirando l'attenzione di Giorgia. Le avevano tolto la mascherina d'ossigeno e l'amica riuscì a farle un sorriso. Era appena accennato ma fece stare meglio Francesca che si sedette sul bordo del letto e le strinse gentilmente una mano.
«Dovrei avvertire qualcuno che ti sei svegliata» le disse.
«Dammi solo un altro minuto» gracchiò Giorgia, «non voglio essere assillata dalle domande.»
Francesca annuì e abbassò lo sguardo sulla flebo. «Tua madre si è preoccupata un sacco. Mi ha chiesto cos'è successo...»
«E tu?» la guardò improvvisamente in ansia, Giorgia.
Francesca si scrollò nelle spalle. «Non le ho detto niente. In verità non so nemmeno cos'è successo dopo che sei sparita.»
Giorgia tornò a guardare davanti a sé. «Non dirle niente» disse in tono secco. «Non dire niente a nessuno. Per favore. Nemmeno a Vittoria! Non voglio che si precipiti qui per niente.»
Francesca cercò di dominarsi – quella richiesta non le andava giù, non era esattamente
niente quello che le era successo! Ma non era certo il momento di litigare. Perciò, invece di rispondere, chiese: «dimmi cos'è successo, Giò.»
Ma Giorgia rimase con un’aria impenetrabile.
«Giò» la pregò allora di nuovo Francesca.
L'amica sospirò, arrendendosi.
«È stata solo colpa mia. Ho chiesto ai ragazzi di scaricarti perché ero ancora arrabbiata con te e volevo svignarmela. Daniele non era d'accordo» e qui fece una smorfia, «ma gli altri sono riusciti a convincerlo. Così ce ne siamo andati, a parte “Tremo”, gli dispiaceva lasciare la tua roba incustodita sulla panca di un pub» spiegò, abbozzando un sorrisetto. Poi tornò a guardare Francesca. «Mi dispiace» aggiunse.
Francesca non disse niente, continuò semplicemente a guardarla in attesa di sentire la parte più importante, e cioè: com'era finita abbandonata sulla spiaggia, priva di sensi. Francesca parve leggerglielo in faccia.
«Ti abbiamo preso un libro e abbiamo pensato di fare un piccolo falò e fumarci un po' di roba che aveva portato il Delta» disse, deglutendo a fatica. «Ho proposto di rendere le cose più divertenti chiedendo a Daniele di andare a prendere un paio di bottiglie di tequila al pub. Conosce il barman e sapevo che gliele avrebbe passate sottobanco, e lui ci è andato. È tornato incazzato un quarto d'ora più tardi, dicendo che mi stavi cercando. E io...» deglutì di nuovo, «io ho detto che potevi andare al diavolo» concluse, abbassando colpevolmente lo sguardo.
A Francesca ci volle qualche secondo per digerirlo. «E cos'è successo poi?» domandò, lasciando tuttavia la presa sulla mano dell'amica.
Giorgia parve davvero dispiaciuta. «Non lo so. A un certo punto tutto è diventato più confuso. I ragazzi parlavano di andare in centro per fare qualcosa, ma io non capivo più nulla. Poi mi sono sentita male e infine...
blackout
Nella stanza cadde il silenzio. Dal corridoio iniziarono a provenire le prime voci. Qualcuno rise e Francesca si alzò per andarsene, non voleva rischiare di passare guai per essersi intrufolata nella stanza di una paziente senza il permesso del medico. Quindi uscì con la promessa di non raccontare niente a nessuno.
In quel momento i genitori di Giorgia si svegliarono e Francesca li disse che le era sembrato che loro figlia fosse vigile. Il signor Callisto andò subito a cercare un infermiere, ma Francesca non rimase ad aspettare che tornasse, salutò la perplessa signora Callisto e si fece riaccompagnare a casa.

Quello stesso pomeriggio Francesca si ritrovò da sola: le sue coinquiline erano uscite e Giacomo era tornato a casa per riposarsi dopo la scomoda notte passata sulla sedia di ferro della sala d'attesa. Quindi la ragazza mise via il libro di testo che si era fatta prestare da una delle sue coinquiline (dato che il suo era stato ridotto a pezzi) e decise di fare una pausa e prepararsi un tramezzino.
In cucina accese la televisione e aprì il frigo. Stava giusto tirando fuori un barattolo di maionese quando l'annunciatrice del telegiornale diede la notizia: la scorsa sera era avvenuta una rapina in Corso dei Cavalieri, a riportare i danni era stato il rinomato negozio... Coin. Tuttavia i colpevoli erano stati ripresi dalle videocamere della sorveglianza e il video stava per essere mostrato al pubblico per eventuali segnalazioni.
Lentamente, Francesca si voltò verso lo schermo e il barattolo le scivolò dalle mani e cadde per terra, rompendosi e schizzando un po' di salsa ovunque. Francesca si portò una mano alla bocca mentre in tivù passavano le immagini in bianco e nero di quattro figure maschili con i volti nascosti dalle bandane, ma lei li avrebbe riconosciuti ad occhi chiusi: il tizio magrolino tutto tatuato, il giovane grande e grosso dai capelli ramati, quello più basso accanto a lui e il ragazzo di colore che chiudeva la fila, mentre tutti insieme se la davano a gambe, esultando per il bottino. A Francesca parve che nella stanza mancasse l'aria e si dovette sedere un secondo per elaborare la notizia. Dopodiché corse a prendere il telefono e digitò a Giorgia un messaggio:

DEVI ASSOLUTAMENTE VEDERE IL TELEGIORNALE!


La risposta giunse appena un minuto dopo:

LO SO. L'HANNO VISTO TUTTI, QUI.
RICORDA CHE ME L'HAI PROMESSO...


Francesca stentò a credere a ciò che lesse. Giorgia aveva intenzione di proteggerli? Dopo tutto quello che era accaduto? Dovette rimettersi a sedere per non sentirsi di nuovo male. Si appoggiò con la fronte contro la mano e prese un profondo respiro: improvvisamente le tornò in mente di come l'aveva guardata Daniele, i suoi occhi vitrei e assenti e il modo in cui le aveva stretto il polso – se lo massaggiò istintivamente ed ebbe i brividi. Avrebbe cercato di farle di nuovo del male se avesse saputo che lei voleva denunciarlo? Ne avrebbe fatto a Giorgia? Francesca a stento non scoppiò in lacrime. A interromperla furono le sue coinquiline che rientrarono proprio in quel momento, facendo un sacco di chiasso. Le ragazze risero e scherzarono finché non entrarono in cucina, dov'era seduta Francesca, e di fronte alla sua espressione strana ammutolirono.
«Hei! Tutto bene?» domandò una di loro.
In tutta risposta Francesca annuì e prese uno stracco per ripulire il pavimento.

«Quindi...» esitò Nick, «non hai detto niente a nessuno?»
Francesca non gli rispose, si alzò in piedi per versarsi altro vino e mi domandai se fosse il caso di far sparire la bottiglia. Ma la mia amica aveva l'aria lucida e dannatamente triste nello stesso tempo, perciò non mi mossi, aspettando con ansia la risposta.
Francesca emise un breve sospiro: «No. Avevo avuto paura e Giorgia continuava a supplicarmi di non parlarne con nessuno. Inoltre dovevo pensare alla laurea e i miei stavano attraversando un periodo piuttosto turbolento. Ero confusa e nei giorni seguenti avevo evitato Giorgia come la peste, finché un pomeriggio fui costretta a chiamarla...»

Il telefono non squillò a lungo. Giorgia rispose dopo appena due squilli, ridacchiando in maniera sciocca.
«Sì-ì?» strascicò.
Francesca prese un bel respiro. «Tua madre mi ha chiamato in preda al panico. Dice che non le rispondi al telefono di casa e continui a buttare giù le sue chiamate al cellulare. Che sta succedendo?»
«Ah!» sbuffò scocciata Giorgia e in sottofondo tintinnò qualcosa. «Da quando mi hanno dimessa non fa altro che starmi addosso!»
«Giorgia.»
«Non ti ci mettere anche tu!» esclamò la ragazza, strascicando leggermente le parole. «Siete esasperanti!»
«Okay. Non importa» tagliò corto Francesca in tono esausto. «Le dirò che sei in giro per i negozi e hai il telefono in borsa. Però, per favore, rispondile. Devo studiare e non ho tempo per questo.»
«Come desidera, capo!» ridacchiò Giorgia. «Torni pure alle sue noiose tesi ed esami.»
Stava già per buttare giù, quando all'altro capo si sentirono rumori indistinti e un'altra voce prese posto a quella dell'amica: «Oh! La Santa Salvatrice!» esclamò lui. «L'altra sera ti sei persa tutto il divertimento.»
Francesca si paralizzò con il telefono schiacciato contro l'orecchio. Nella sua mente scorsero brevi immagini della sera in cui lei e Giorgia erano state al disco-pub e di quello che era successo subito dopo. Le sembrava ancora di poter sentire le sirene dell'ambulanza.
«Cosa fai lì con lei?» disse finalmente e le venne il mal di stomaco.
Daniele non rispose subito, si prese il tempo per scambiarsi una battuta con Giorgia che protestava per riavere indietro il suo cellulare. «Dai, bella» disse poi rivolto a Francesca. «Unisciti alla festa! Abbiamo tutta la dependance a nostra disposizione e...»
Francesca non finì nemmeno di ascoltarlo. Buttò giù la chiamata, prese le chiavi dalla mensola e si precipitò alla fermata del pullman.
Venti minuti più tardi era di fronte alla casa di Giorgia. Sul vialetto c'era parcheggiata una grossa moto nera che non apparteneva certo al signor Callisto. A Francesca tremarono le mani mentre faceva il giro attorno alla villetta per raggiungere il retro della casa. Si fermò accanto alla piscina e guardò verso la dependance con il cuore che le martellava in gola – la porta della dependance era socchiusa e dall'interno proveniva una musica psichedelica. Non rimase a riflettere a lungo, facendosi coraggio spinse la porta e sgranò gli occhi; era una scena a cui avrebbe preferito non assistere: Giorgia era stesa per terra con addosso solo una vestaglia azzurra che lasciava intravedere una buona parte del suo corpo, era intenta ad accendersi una sigaretta con aria stordita mentre Daniele, in piedi a torso nudo, si muoveva a ritmo del ritornello vicino allo stereo. Aveva una bottiglia di whisky quasi vuota in una mano e nell'altra uno spinello ancora acceso a cui diede una lunga boccata. L'aria era irrespirabile e attorno a loro c'erano diverse lattine vuote e un posacenere pieno di mozziconi che a Francesca ricordarono il disastro sulla spiaggia.
Istintivamente la ragazza deglutì.
«Ma guarda chi è arrivato!» esclamò Daniele che si accorse di lei solo in quel momento.
Giorgia girò pigramente la testa in direzione dell'amica e sbuffò: «non ci posso credere!»
Francesca avrebbe potuto dire lo stesso, invece guardò Daniele che spegneva lo spinello dentro il posacenere traboccante per avvicinarsi. Francesca fece automaticamente un passo indietro. Lui rise.
«Non mordo mica» le disse.
«Preferisco non correre rischi» rispose lei portandosi una mano dentro la tasca dei jeans, dove teneva il cellulare. «Faresti meglio ad andartene» aggiunse poi. Lui rise più forte.
«E da quando sei tu a deciderlo?» le domandò Giorgia. Le sue palpebre erano pericolosamente pesanti. In realtà non aveva una bella cera in generale e questo spinse Francesca a insistere.
«Da quando ti ho ritrovata mezza morta sulla spiaggia!» la apostrofò, stringendo più forte il telefono.
Daniele si voltò sopra la spalla tatuata verso Giorgia e tirò su col naso. «Avevi ragione, è proprio una rompipalle» le disse e Francesca strinse i denti.
«Una rompipalle che chiamerà la polizia se non te ne vai subito!» lo informò, dimostrando più coraggio di quanto non se ne sentisse in realtà. E con questo tirò fuori il cellulare e digitò il 113. «Mi basterà schiacciare un tasto» aggiunse, portando il pollice a mo' di ammonimento sopra l'icona con la cornetta.
Finalmente Giorgia si alzò da terra e rivolse un'occhiata preoccupata al ragazzo, che però era troppo occupato a fulminare Francesca per ricambiare. Dal canto suo, Francesca cercò di non farsi intimidire e avvicinò un po' di più il pollice allo schermo dello smartphone. A Daniele pulsò la mascella. Poi si voltò, andò a prendere la canottiera dal divanetto e raggiungendo la porta diede una forte spallata a Francesca, facendola vacillare. Mentre attraversava il cortile Giorgia provò a raggiungerlo, urlando: «
Coin! Fermati! Torna indietro!» ma Francesca la trattenne per un braccio prima che potesse uscire dalla dependance e Giorgia era più bassa, più gracile e decisamente molto meno lucida dell'amica per riuscire a strattonarsi.
«Che diavolo credi di fare?!» se la prese con Francesca non appena il rumore del motore della moto giunse fino a loro. «Perchè devi sempre impicciarti? Eh?!»
Francesca fu sul punto di risponderle per le rime, ma non fece in tempo ad aprire bocca che Giorgia assunse un preoccupante colorito verdastro. La lasciò andare immediatamente, appena un secondo prima che Giorgia si voltasse e si piegasse in avanti per dare di stomaco. Francesca si voltò da un'altra parte in attesa che finisse, prima di prenderla per le spalle e accompagnarla all'aria aperta. A fatica la aiutò a mettersi su una sdraio e rimase con lei per tutto il tempo. Nel frattempo Giorgia aveva iniziato a delirare tra le lacrime, sostenendo che ''Coin'' – «Sai, adesso ha un soprannome anche lui! I ragazzi dicono che se l'è guadagnato!» – fosse l'amore della sua vita e che odiava Francesca perché lui adesso sembrava più interessato a lei.
Quando Giorgia si fu finalmente calmata, Francesca le tolse delicatamente una ciocca di capelli dal viso e le batté dei colpetti sulla spalla. Nel giro di due minuti Giorgia si addormentò e Francesca guardò di nuovo il telefono dov’era ancora segnato il numero della polizia. Era di nuovo combattuta perché non sapeva davvero che fare. Poi gettò un'altra occhiata all'amica e capì: quel ragazzo non le avrebbe lasciate in pace e Giorgia non l'avrebbe mai allontanato, perché si era presa una bruttissima cotta per quel criminale! Perciò
doveva proteggerla, soprattutto dal momento che era la più grande.
Quindi racimolò tutto il coraggio di cui disponeva e fece l'unica cosa possibile...

«Che cosa? Cosa hai fatto?» la incalzai chinandomi in avanti.
Francesca agitò il vino nel calice: «Ho chiamato la polizia» rispose.
Io e Nick ci scambiammo un'altra occhiata, poi, a braccia ancora conserte, lui si staccò dal camino.
«Non avevi scelta» disse. «L'hai detto anche tu, non vi avrebbe lasciato in pace.»
«Già» ci rivolse un sorriso amaro, Francesca. «È esattamente quello che non sta facendo anche adesso, lasciarci in pace...»
«Credi che sia tornato per fartela pagare?» le domandai preoccupata. Lei si strinse nelle spalle con aria quasi indifferente. Ne rimasi colpita, perché non l'avevo mai vista in uno stato del genere.
In quel momento suonò il citofono e Francesca si raddrizzò nelle spalle e andò ad aprire, rimanendo sulla porta in attesa dell'arrivo di Giorgia. Nicholas mi si avvicinò e mi strinse una spalla, rivolgendomi un mezzo sorriso che non ricambiai. Quando Giorgia entrò, portandosi dietro due grosse buste bianche, non riuscii a fare a meno di ripensare al racconto di Francesca e alla sera del mio ritorno dal viaggio – loro due mi avevano accolta all'aeroporto con enormi sorrisi stampati in faccia... possibile che non mi fossi accorta di niente? Ma più di tutto, possibile che fossero state così brave a dissimulare?
Giorgia intercettò il mio sguardo e alzò su le buste come fossero un bottino di guerra. «Spero che non abbiate iniziato la festa senza di me!» disse tutta allegra e parve quasi che Coin non fosse mai tornato nella sua vita. O, più probabilmente, che la sua folle cotta non fosse mai stata superata dopotutto.



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Here I am a scusarmi per l’ennesima volta del ritardo. Purtroppo questo capitolo ha richiesto più tempo del previsto e mi sembrava giusto dargliene, soprattutto dal momento che desideravo dare spazio anche alle amiche di Vittoria perché fanno parte integrante della sua vita. Quindi eccoci qui, a scoprire qualcosa di nuovo su di loro! Un passato tutto da dimenticare per Francesca e un eccitante (dal suo punto di vista) ritorno di fiamma per Giorgia. Che cosa ne uscirà fuori? Un bel casino di sicuro, anche perché Vittoria e Nick si troveranno coinvolti in questa storia più di quanto si potrebbe immaginare. Ma niente spoiler, perciò vi lascio qui, miei cari, prima di lasciarmi sfuggire altro! ;)

Have a nice day e alla prossima!


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Una serie di sfortunati eventi ***


Image and video hosting by TinyPic



13
U N A   S E R I E   D I   S F O R T U N A T I   E V E N T I



Dopo una cena piuttosto silenziosa e a tratti imbarazzante, Francesca e Giorgia avevano occupato tutto il tavolo da pranzo al piano terra per ricoprirlo di riviste, campioni di stoffe e tante altre cose che la futura signora Bernardi stava esaminando con scrupolo. Guardandola, le invidiai il modo distaccato con cui riusciva a fare finta di niente. Insomma, prima sganciava la bomba e poi si metteva comoda a discutere della lista degli invitati e delle tonalità di blu più adatta alle amiche della sposa. Avrei voluto sorridere così pure io.
Anche Nicholas sembrava un maestro in questo campo: si era messo a suggerire location per il matrimonio di Francesca con la massima disinvoltura. Aveva addirittura aperto una mappa interattiva sul portatile della mia amica e tramite dei chiodini virtuali appuntava ora l'indirizzo di un castello in cima a un monte, ora una romantica spiaggia nelle vicinanze di San Lombardo. Il tutto condito da occhiate furtive verso Giorgia e da una spiccata empatia tra i due. Dovetti schiarirmi la voce per ricordargli che non eravamo qui perché lui potesse flirtare!
«Perché non vieni qui a dare un'occhiata?» mi chiese lui.
«No, grazie» risposi secca. «Ho appena sfogliato circa una quindicina di riviste da sposa. Ho bisogno di un caffè! Qualcuno ne vuole?»
Nessuno rispose; Francesca stava comparando con occhio da dottore due tessuti che a me sembravano identici e Nicholas si sporgeva verso Giorgia per indicarle qualcosa sugli appunti che lei stava prendendo. Poi loro due ridacchiarono e lei si affrettò a correggere. Mi voltai per prendere la tazzina e un piattino dalla credenza, ma nel posare il primo sul secondo ci misi troppa forza e la tazzina cozzò contro la superficie smaltata del piattino con un suono acuto. Francesca si voltò inarcando un sopracciglio, gli altri due non si lasciarono distrarre.
«Tutto bene?» mi domandò Francesca.
Annuii. Nicholas disse di nuovo qualcosa a Giorgia, prendendole la mano per guardarla più da vicino, e lei fece un versetto sciocco, un misto tra un'esclamazione stupita e un risolino. Francesca guardò loro, poi me e infine mimò un ''ah...''. La ignorai, tornando alla preparazione del caffè. Lei abbandonò le stoffe e mi raggiunse nell’angolo cucina.
«Sembrano proprio andare d'accordo, eh?» osservò, sorridendo maliziosamente in direzione di Nick e Giorgia.
Mi strinsi nelle spalle e versai il contenuto della bustina che avevo in mano sopra il filtro della caffettiera.
«Sole, quello è lo zucchero» mi fece notare Francesca e arcuò un sopracciglio.
Imprecai e mi affrettai a svuotare il filtro dentro il lavello per poi risciacquarlo e riempirlo di nuovo, ma stavolta assicurandomi che quella che avevo preso fosse la busta del caffè. Insomma, a chi era venuto in mente di scegliere il rosso sia per la confezione del caffè che per quella dello zucchero? Era logico che poi uno si confondeva!
«Beh, come vogliamo fare con Giorgia?» proseguì Francesca in tono meno frivolo, abbassando la voce.
«Non lo so» ammisi. «Magari dobbiamo chiederlo a Nick... L'hai detto anche tu, hanno una bella intesa» e prima che potessi frenarmi feci una smorfia.
Francesca mi rivolse subito uno dei suoi sorrisi da sapientona e incrociando le braccia sotto il seno iniziò a fissarmi con insistenza.
«Che?» domandai allora.
Lei si strinse nelle spalle con finta indifferenza. «Mah. Credevo non ti interessasse Mister-ti-rimorchio-alla-Tana-Gordon!»
«Non mi interessa infatti» risposi convinta delle mie parole. «Non so nemmeno come fai a pensarle certe cose! Ti ricordo che sono già...» stavo per dire ''impegnata'' ma all'ultimo secondo il mio cuore sussultò e mi tornò in mente che non lo ero (e che forse non lo ero mai stata davvero), quindi mi schiarii la voce e mettendo sul fuoco la caffettiera, mi corressi: «piena di problemi.»
«Hm-hm» convenne Francesca. «E i tuoi problemi includono la terribile confusione sentimentale attorno cui graviti?»
«Senti» risposi puntandole minacciosamente il cucchiaino contro, «non so che ti sei messa in quella testolina, ma ti assicuro che un tale donnaiolo non potrebbe MAI, e sottolineo MAI, interessarmi!» E tempismo volle che in quel momento Giorgia si fosse alzata per informarci che sarebbe uscita in terrazza per una sigaretta e naturalmente Nicholas si propose di farle compagnia. I due uscirono chiacchierando e io assunsi l'espressione da ''che ti ho detto?'' quando Francesca tornò a guardarmi.
«Okay! Okay!» si arrese riluttante. Ora che Giorgia non era più a portata d'orecchio preferiva sviare il discorso su di lei. «Ma allora? Che facciamo?»
Sospirai. «Davvero, non ne ho idea. Se solo avessimo avuto più tempo...»
«Ma non l'abbiamo avuto» tagliò corto la mia amica. «Comunque sia, non credo che il loro piano verrà messo in atto a breve. Certe cose sicuramente richiedono del tempo» aggiunse mordendosi l'interno di una guancia – stava diventando un brutto vizio. «Propongo di metterla alle strette e vedere come reagisce» suggerì infine.
Ci riflettei su per un attimo e convenni che fosse l'idea migliore che potessimo avere. Dal momento poi che Nick sembrava più interessato a flirtare e a cercare del contatto fisico con la sospettata piuttosto che aiutarci! Eppure era stato lui ad insistere tanto quando gli avevo confidato i miei timori.
«Va bene. Ma se non dovessimo scoprire niente in questi giorni glielo chiediamo punto e basta!» dissi, scrutando i due attraverso le vetrate della porta scorrevole.
Francesca chinò il capo in assenso, poi sogghignò e con un cenno del mento mi indicò la caffettiera che sputacchiava il caffè come impazzita.
 
Rimasero fuori per quasi quaranta minuti. Quaranta! Guardai i loro visi vicini, vicini e mi domandai cosa avessero da dirsi di così importante. In quel momento loro si voltarono e mentre rientravano Nicholas incrociò il mio sguardo, rivolgendomi un sorriso che non seppi come interpretare. Decisi che l'avrei ignorato e tornai a concentrarmi sulle ''dieci cose indispensabili che deve avere una sposa'' citato sul blog di una Wedding Planner. Giorgia si accomodò accanto a me.
«La ''cipria Hollywood neve cosmetics'' dovrebbe essere obbligatoria in un giorno come questo...» lesse lei sullo schermo del portatile, corrugando le sopracciglia. «Davvero un consiglio preziosissimo! Moriresti senza, di sicuro! Senza offesa, France.»
Francesca la fulminò con un'occhiataccia da sopra una rivista che parlava dei bouquet, ma non disse niente. Io invece non potei trattenermi: «se ci aveste messo un altro po' ti saresti persa anche la scelta degli abiti delle amiche della sposa. Certo che era davvero lunga questa sigaretta.»
Dal suo lato del tavolo Francesca trattenne un risolino e Nicholas le gettò un'occhiata interrogativa, mentre Giorgia voltò la sguardo da un'altra parte e si scrollò nelle spalle, prendendo una delle riviste che avevo già letto.
«Ci servi per decidere che giorno andare a provarli» insistei, appoggiandomi contro lo schienale della sedia a braccia conserte.
Francesca colse la palla al balzo: «Già! Entro fine mese vanno ordinati i modelli, altrimenti non faremo in tempo» disse, scoccandomi un'occhiata furtiva.
Giorgia si morse l'interno di una guancia (ricordandomi tanto Francesca) e parve dubbiosa. Poi ci rivolse un sorriso davvero poco convincente: «non è possibile farlo senza di me? Attualmente ho degli impegni... Sapete, con l'università e tutto il resto» disse vaga.
Università, certo, sbuffò la mia vocina interiore.
Inutile dire che Francesca assunse subito un'aria contrariata. «Assolutamente no!» rispose infatti. «Dobbiamo prendere le misure esatte, vanno fatte un sacco di prove e ho già il mio abito a cui pensare. Non posso stare anche dietro al tuo! E Vittoria si sta cercando un nuovo lavoro. Come vedi anche noi abbiamo i nostri impegni» concluse alquanto seria. Tuttavia la sua posa era troppo rigida persino per lei e mi lasciò pensare che stesse trattenendo il fiato in attesa della risposta. Una risposta su cui Giorgia dovette riflettere parecchio.
«D'accordo» cedette alla fine quest'ultima, «se sono proprio così indispensabile... Ma ti avverto che potrei diventare irreperibile per un paio di giorni, o anche di più. Ho degli esami da sostenere, non so bene quando, tra un paio di settimane probabilmente» concluse in tono evasivo, sfuggendo i nostri sguardi. Dopodiché prese le forbici e iniziò a ritagliare alcuni articoli che avevo cerchiato con l'evidenziatore.
Francesca non rispose, ci scambiammo solo un'occhiata che condividemmo anche con Nick, e infine ritornammo ai preparativi per le nozze.
Prima di andare via, comunque, Nicholas ci tenne a prendere da parte Giorgia per qualche altro minuto. Ero seduta al posto di guida, con Francesca che si era affacciata al finestrino per salutarmi, e iniziavo a diventare impaziente. Possibile che quei due si conoscessero da nemmeno qualche ora e avessero già così tante cose da dirsi in privato? Non perdeva certo tempo, il signor Gordon, eh!
Accanto a me Francesca si dipinse di nuovo quell'irritante sorrisetto sulle labbra. «Rilassati» disse. «Sicuramente non è come te la immagini.»
Le scoccai un'occhiataccia. «Perchè? Che dovrei immaginarmi?»
Lei si strinse fugacemente nelle spalle. «Conoscendoti? Scene di lussuose camere d'hotel dove si svolgono vigorose attività notturne» sogghignò. La ignorai – che stupidaggini le venivano in mente?! – e spinsi energicamente sul clacson. Francesca fece una smorfia perché l'avevo quasi assordata, Nick invece si voltò a malapena, giusto per farmi il segno di aspettarlo un altro secondo. Che faccia tosta! Non ero mica il suo tassista!
«Va meglio adesso?» domandò Francesca storcendo ancora la bocca.
«Domattina alle nove ho un colloquio a Marina e se non si danno una mossa rischio di mancare la sveglia!» mi lamentai, distogliendo finalmente lo sguardo dai complottisti. Accanto a me Francesca si illuminò.
«Hai trovato qualcosa? E non ci racconti niente?» chiese a raffica e a sentirla sembrò quasi che avessi vinto alla lotteria.
Agitai una mano. «Niente di emozionante, un altro call center. Quelli non mancano mai» risposi con una nota delusa.
Lei si morse il labbro inferiore, esitando: «e con il vecchio posto hai risolto?»
Feci un respiro: «sì e no. Ieri mi è arrivata la documentazione per posta, ma sarò costretta ad andare... lì... per l'ultima busta paga» dissi irrigidendomi.
«Ah» sospirò Francesca. «E... lui l'hai più sentito?» domandò cauta.
Abbassai lo sguardo sul cruscotto e scossi la testa. «Non che lui non ci abbia provato» aggiunsi. «Mi ha chiamato un sacco di volte ma non ho mai risposto. Alla fine ho bloccato il suo numero. Chissà quanti messaggi minatori mi ha mandato nel frattempo.»
«Allora come farai quando andrai a prendere la busta paga?» si agitò Francesca.
«Eviterò il suo ufficio come la peste» risposi, sentendo lo stomaco contorcersi al solo pensiero. «Immagino che dovrò avere a che fare con Valentina però.»
«Meglio la rospa di lui» osservò la mia amica e in quel momento Giorgia e Nicholas ci raggiunsero.
«Finalmente!» esclamai.
Giorgia rivolse un sorrisetto pieno di significato a Nick che annuì ed entrò nell'auto.
«Beh, ci sentiamo!» gli disse lei. «Ciao tesoro» salutò poi me, mandandomi un bacio a cui risposi con un sorriso tiratissimo. Dopodiché misi in moto e ci allontanammo.
Per un po' nell'abitacolo calò il silenzio. Accesi la radio per riempirlo in qualche modo e con la coda dell'occhio sbirciai Nick che fissava il paesaggio fuori dal finestrino con aria assente. Viaggiammo così quasi fino a San Lombardo, finché non ne potei più, spensi la radio e domandai: «beh? Cos'erano tutti quei segreti?»
A quel punto Nick fu costretto a guardarmi. Tornò sulla terra al cento per cento e inarcò un sopracciglio con aria interrogativa. «Come?»
«Tu e Giorgia» risposi.
Lui ci mise qualche secondo a elaborare. «Ah» disse poi. «Niente, ho cercato di darvi una mano. Ero con voi per quello, no?»
«In verità ti sei auto invitato. E dimmi, flirtare con lei rientrava nel piano?» m'interessai, non riuscendo proprio a mordermi la lingua e strinsi un po' più forte il volante senza staccare gli occhi dalla strada.
Nick parve più perplesso di prima. «Di che stiamo parlando?»
Sbuffai. «Mah. Tutte quelle occhiate, i sorrisi, tu che cercavi di prenderla per mano a tutti i costi...» elencai, ed era solo qualche esempio.
A Nick scappò un sorrisetto. «Hai un'immaginazione davvero fervida, te lo devo riconoscere» disse, poi incrociò le braccia e iniziò a fissarmi fino a irritarmi. «Non è che...» strinse leggermente le palpebre.
«Che?»
Lui si scosse nelle spalle con finta indifferenza. «In effetti è una ragazza davvero bella» convenne come niente.
Strinsi i denti. Era così irritante! «Ricordati che è mia amica, quindi se hai intenzione di iniziare uno dei tuoi giochetti...»
«Uno dei miei giochetti?» mi interruppe corrugando la fronte.
Chinai una volta il capo in assenso. «Uno dei tuoi giochetti da ''ora la rimorchio''. Sappi che Giorgia non diventerà la tua ennesima conquista, per quello dovrai tornare alla Tana, è il posto giusto» lo avvertii.
«E tu ne sai molto, non è vero?» domandò allora Nick.
D'un tratto inchiodai.
Eravamo arrivati al parcheggio dove il signor Gordon aveva lasciato la sua auto.
«Buona notte, Nicholas» cercai di salutarlo con freddezza. Lui però non diede segno di voler scendere. Contrasse la mascella e il suo pomo si mosse nervosamente su e giù.
«Mi dispiace. Non intendevo... Senti, so che abbiamo detto che non avremmo più parlato di quella sera, ma forse è il caso che tu sappia...»
«Qualsiasi cosa sia, non m'interessa» tagliai corto, continuando a guardare dritto davanti a me. «Non ha comunque più alcuna importanza, non ti pare? A meno che tu non voglia vantarti di aver fatto capitolare anche una ragazza impegnata, in qual caso hai sbagliato indirizzo, non voglio saperne niente! Ho già abbastanza pensieri per la testa senza che ti ci metta anche tu.»
Lui tentò evidentemente di non perdere la pazienza, prese un profondo respiro e cercò di usare un tono ragionevole: «non ti sembra di essere un po' infantile? E comunque, quel sabato noi...»
«Ho detto che non m'interessa!» scattai, ma mi pentii quasi subito della nota isterica che mi sfuggì. Non sapevo perché stessi reagendo in modo tanto esagerato, di cosa avevo paura? In fondo non stavo più con Carlo e lui si sarebbe meritato di scoprire un tradimento da parte mia, come minimo. Eppure non ci riuscivo, non riuscivo ad affrontare un altro casino in questo momento. Non volevo nemmeno pensare a me e Nick, stretti in qualche vicolo a fare Dio (e Nick) solo sa cosa. Anche perché da qualche tempo a questa parte, ogni volta che provavo a immaginarmelo non mi sentivo in colpa come avrei dovuto. Peggio, mi sentivo stranamente bene, quasi benissimo. Il che non aveva alcun senso!
Guardai Nick, lui mi stava ancora fissando con aria impassibile e non riuscii ad evitare di avere un fugace flashback: mi afferrava per il mento e mi scrutava attentamente con uno sguardo impenetrabile, sullo sfondo di una pioggia scrosciante. Istintivamente mi portai una mano sullo stesso punto e sgranai gli occhi.
«Che ti prende adesso?» domandò il Nick del presente.
Bella domanda! Mi sentii avvampare e abbassai velocemente il finestrino, lasciando che una lieve brezza notturna mi alitasse addosso. Tuttavia servì a poco, perché improvvisamente ebbi un altro flash, una scena che si palesò quasi al rallentatore: io stavo rabbrividendo per il freddo e ridacchiavo come una stupida. Allora Nicholas si toglieva la giacca e me la buttava sulle spalle, stringendomi per un attimo in un abbraccio.
«Okay, adesso cominci a preoccuparmi sul serio» disse Nick a fianco a me, scuotendomi una mano davanti agli occhi. Non ottenendo gradi reazioni, si allungò sopra il cambio con aria da mancato dottore e mi afferrò per il mento... proprio come quella sera.
Improvvisamente eravamo vicini. Dannatamente vicini! Riuscivo persino a distinguere ogni sfumatura dei suoi occhi scuri e di sicuro sentivo la leggera pressione delle sue dita sulla mia pelle. Il mio cuore perse stupidamente qualche battito, lui piegò leggermente la testa verso sinistra e con aria tremendamente seria mi posò il dorso di una mano sulla guancia.
«Non sembri avere la febbre» rifletté a voce alta.
La febbre? Che febbre? Non capivo più niente, perché ogni pensiero veniva zittito dal battito impazzito del mio cuore. Lui spostò la mano sulla mia fronte e si sporse ancora un po', abbastanza perché io riuscissi a sentire il suo fiato caldo sulla guancia. Mi surriscaldai come un bollitore e il mio cervello si liquefò. Non potevo farlo! Non poteva interessarmi! Non lui! NON ERA NEMMENO PENSABILE...
Eppure, prima che uno dei due potesse rendersene conto, le mie labbra si posarono sulle sue.
Ci paralizzammo in un momento che parve interminabile e non osai muovermi. Ma che dico?! Non osai nemmeno respirare!, fissandolo dritto negli occhi scuri. Poi scattai indietro, spaventata da me stessa. Non riuscivo a capire cosa mi avesse preso! Avrei voluto scappare dalla mia stessa auto per non morire di imbarazzo, ma Nick mi afferrò per un braccio prima che potessi farlo e tra di noi calò una pausa in cui ci guardammo, sospesi nel tempo. Poi, improvvisamente lui mi tirò bruscamente indietro e le sue labbra si rimpossessarono delle mie. A quel punto non provai nemmeno ad oppormi, afferrandogli il viso tra le mani. Lui mi trascinò immediatamente dalla sua parte e non smise di baciarmi nemmeno per un secondo mentre mi accomodavo a cavalcioni sulle sue gambe. Sembrava che d’un tratto non m'importasse più di nulla: click! e l'interruttore del buonsenso si era spento. Riuscivo solo a pensare al confortevole calore che emanava il suo corpo attraverso la stoffa della camicia e all'aroma di muschio bianco del suo dopobarba.
Nick mi strinse più forte, spostando i baci dalle mie labbra al mio collo. Tirai la testa indietro percorsa da un milione di brividi; mi sentivo stranamente leggera, euforica, sensazioni che avrei voluto non finissero più. Riuscivo a sentire i suoi muscoli che si contraevano ogni volta che si muoveva, le sue mani che vagavano per la mia schiena, sotto il maglioncino, e mi afferravano, mi stringevano e tornavano ad accarezzarmi. E io non riuscii a trattenere un sorriso.
Da quanto? Da quanto il mio subconscio mi tradiva e voleva che accadesse? Perché era evidente che non volevo interrompere quello che stava succedendo. Era stato così anche la prima volta? Gli infilai le dita tra i capelli, la mia fronte si appoggiò contro la sua e ci guardammo per un istante. Poi le nostre labbra tornarono a cercarsi e il bacio si approfondì. Adesso ero trepidante, e con questa sensazione che mi scorreva nelle vene come lava cercai i bottoni della sua camicia e iniziai a sfilarli. Lui però mi allontanò, abbozzò un sorrisetto (ma del bravo ragazzo non c’era più alcuna traccia) e posò le sue mani sulle mie per rallentare di proposito i miei movimenti. Il mio cuore sembrò sul punto di esplodere. Un bottone dietro all'altro il rilievo dei suoi muscoli compariva tra la stoffa nera, i nostri sguardi s'intrecciarono e il suo sorriso si fece più scaltro. Sembrava divertirsi a tenermi sulle spine in quel modo e io glielo lasciai fare.
Ero ormai a un solo bottone di distanza dall’agognata fine quando alle nostre spalle si accesero un paio di abbaglianti. D'un tratto ci ritrovammo illuminati a giorno dentro l'abitacolo e una macchina ci passò accanto a velocità sostenuta. Dentro scorgemmo due vecchie facce sconvolte che ci guardarono con tanto d'occhi. Sulle prime m'irrigidii, sentendomi come un coniglio nel mirino di un fucile, poi però li riconobbi: era l'anziana coppia che mi aveva tormentato all'hotel... Non potevo crederci! Mi si afflosciarono le spalle e mi buttai contro Nick, sotterrando la faccia nella sua spalla con uno sbuffo. Lui, invece, parve trovare la cosa divertente e scoppiò a ridere non appena ci superarono. Sentii il suo petto scuotersi ritmicamente sotto di me e non riuscii ad evitare di iniziare a ridere a mia volta.
Peccato solo che alla fine l'incantesimo era stato spezzato.
 
Mi ero rigirata nel letto come minimo fino alle quattro, e quando finalmente presi sonno mi ritrovai davanti a Carlo, seduto sopra una lucente moto nera con un ghigno spaventoso. Mi invitava a fare un giro in spiaggia, sventolandomi davanti il libro bruciacchiato di Francesca e io lo guardavo spaventata, cercando una via di fuga alle sue spalle. Per fortuna la sveglia pose fine a quell'incubo e mi costrinsi ad alzarmi dal letto nonostante mi si richiudessero gli occhi. Mi preparai una grossa tazza di caffè rigorosamente nero e mi appoggiai contro il mobile del lavello, tenendo la tazza fumante tra le mani per scaldarmele. Ultimamente fuori faceva sempre più freddo e nel mio monolocale iniziavano le prime avvisaglie di pinguini e orsi polari. Avrei dovuto dare retta a mia madre e comprarmi un bel pigiama di pail invece di spendere i soldi in completi firmati che non avrei comunque più avuto modo di indossare fino all'estate prossima. Sorseggiai il caffè e alla fine mi arresi all'idea di non riuscire a farne una giusta. E questo mi riportò inevitabilmente alla sera precedente, al modo in cui avevo agito d'impulso baciando Nick e a lui che mi afferrava per il braccio per poi ritirarmi a sé. Avvampai e per poco non mi strozzai con il caffè – forse, per una volta, avrei fatto meglio a concentrarmi su qualcosa che non riguardasse la mia vita sentimentale. Come il colloquio per esempio.
Quindi finii in due sorsate la mia bevanda e raggiunsi il bagno per una doccia veloce. Dopodiché accesi la piastra per i capelli, ma non avendo tempo per lisciarmeli come avrei voluto alla fine dovetti optare per una pratica crocchia disordinata. E incredibilmente, alle otto in punto fui di fronte alla mia auto, piuttosto sveglia e pronta per affrontare la giornata. Una giornata che, come ben presto avrei scoperto, si sarebbe rivelata davvero lunga...
I guai iniziarono dal momento in cui accesi il navigatore dello smartphone. Sfortunatamente la ragazza con cui avevo parlato al telefono per fissare l'incontro non era stata molto chiara e avevo dovuto cercare su Google Maps l'indirizzo esatto della sede. Perciò, quando arrivai a Marina, finii per sbagliare strada e fui costretta a ricalcolare il percorso per ben quattro volte prima di notare l'ora sul display del telefono e decidere di chiedere informazioni a una signora che stava attraversando la strada in quel momento. Lei fu piuttosto paziente e mi spiegò che il motivo per cui mi ero persa stava nel fatto che da una settimana una delle strade principali era stata chiusa e con ogni probabilità la mia mappa non era stata aggiornata. La ringraziai di cuore e gettando un'altra occhiata alle cifre sull'orologio digitale spinsi sull'acceleratore, giungendo al parcheggio di fronte a una modesta palazzina gialla, dove, naturalmente, non trovai un solo posto libero. Disperata battei un pugno sullo sterzo e svoltai sul vialone centrale che fiancheggiava il mare. Lì abbandonai l'auto e scesi in tutta fretta perché stavo per dichiararmi ufficialmente in ritardo! Mia madre mi avrebbe ammazzato se mi avesse visto correre in questo modo; era stata lei ad istruirmi riguardo ai colloqui, a quello che andava detto e al modo in cui ci si doveva comportare – esaminare i potenziale candidati faceva parte del suo mestiere presso l'azienda di cosmetici in cui era impegnata. Tuttavia, ero certa che arrivare in ritardo non era un buon modo di presentarsi.
Comunque fosse, riuscii a raggiungere gli uffici al terzo piano della palazzina gialla per il rotto della cuffia. Avevo appena varcato la soglia della sala d'attesa che una ragazza scheletrica, alta quasi quanto la porta da cui era sbucata sui suoi trampoli, mi chiamò per nome, leggendolo dall'agenda che teneva tra le mani. Poi guardò gli altri candidati seduti su una fila di sedie sotto le finestre e tentò di individuarmi tra loro. Alzai una mano per attirare la sua attenzione, ricordandomi troppo tardi che non ero a scuola e che lei non era la maestra. Fortunatamente la ragazza non diede peso al mio gesto (né al fatto che avessi il fiatone o che sotto il soprabito stessi sudando) e m'invitò a entrare. Cercai di darmi un contegno prima di seguirla e mi tolsi il cappotto.
Quando entrai, dentro l'ufficio trovai la ragazza e una donna su una sessantina dall'aria poco amichevole. Quest'ultima era seduta dietro la scrivania posta in mezzo alla stanza e stava controllando qualcosa sullo schermo del PC, non degnandomi di alcuna attenzione. Si rivolse invece alla ragazza che stava in piedi accanto a lei.
«Miriam, voglio che contatti quelli della Justphoneyou e gli chiedi spiegazioni» disse in tono inflessibile.
«Sì» rispose ubbidientemente la ragazza, appuntandoselo sull'agenda.
«E chiedi di parlare direttamente con il Pacelli, nessun altro» aggiunse, posando finalmente gli occhi su di me. Da dietro le lenti degli occhiali che riflettevano la luce del mattino le sue iridi parvero quasi color ghiaccio. «Si sieda, non stia lì in piedi» m'invitò in modo piuttosto freddo.
Le mie gambe si mossero in automatico e mi misi rigida sulla sedia davanti alla scrivania. Il lato positivo del nervosismo era che aveva spazzato via il fiatone. Il negativo era che avevo iniziato a battere un piede.
La donna cliccò un paio di volte col mouse e la stampante sul mobile in un angolo si accese e sputò fuori un paio di fogli. Miriam andò a prenderli e disse che sarebbe ripassata all'ora di pranzo. Con questo lasciò un foglio sul tavolo e se ne andò, abbandonandomi a tu per tu con la sua boss.
«Vittoria Bianchi?» domandò la donna, squadrandomi da dietro gli occhialini squadrati. Annuii. «Io mi chiamo Diana Angelini. Ha con sé una coppia del curriculum?» proseguì, allungando una mano in mia direzione. Deglutii mentre tiravo fuori i fogli dalla borsa. Lei li prese e li consultò con una rapida occhiata. «Mh… lei è la ragazza che ha lavorato al call center del dottor Ranieri» disse, apparentemente senza alcuna enfasi. Il sorriso (già piuttosto forzato) mi si paralizzò sulle labbra. «Perché avete interrotto i rapporti?» chiese poi, allungandosi verso di me.
Dovetti schiarirmi la voce per non rischiare di stridere; sebbene avessi previsto una domanda del genere, il tono investigativo con cui me l'aveva posta mi fece ripensare alla mia pessima relazione con Carlo. «Perché non mi garantiva alcuna opportunità di crescita. Inoltre desideravo cambiare il tipo di attività» dissi.
Lei assottigliò lo sguardo. «Facciamo lo stesso tipo di attività qui, mia cara» osservò, marcando lievemente sulle ultime parole. Mi domandai se fosse tanto infida di natura o se questo atteggiamento avesse a che fare con me in particolare.
«Quel che intendevo è che vorrei provarmi nella raccolta di dati statistici che svolgete nella vostra azienda» provai a spiegarmi meglio. Mi sembrava di parlare come uno di quei macchinari con la voce preregistrata e che il mio interlocutore non fosse esattamente soddisfatto di me. Di sicuro non lo sarebbe mia madre, ma non potevo farci niente: Diana incuteva più terrore di un serial killer in mezzo a una strada buia e deserta, le bastava un occhiata per metterti a disagio. Tuttavia, a pensarci bene, avrei preferito mille volte avere lei come mio capo piuttosto che ritrovarmi in balia di un altro, affascinante Carlo. Per cui cercai di assumere un espressione più rilassata e sostenei lo sguardo della donna con quanta calma mi riuscì di trovare. Lei sfogliò ancora una volta il mio curriculum e si soffermò qualche secondo su una riga, poi tornò a guardarmi da sopra i suoi occhiali e infine mi porse indietro i fogli.
«D'accordo» disse. «Spero che lei non abbia impegni per oggi, perché se vuole lavorare qui dovrà attendere che abbia finito con il resto dei candidati» detto questo controllò il foglio che le aveva lasciato Miriam, su cui erano appuntati dei nomi, e aggiunse nello stesso tono inespressivo dell'inizio: «Gentilmente, mi chiami Franco Landi.»
Il mio sorriso si allargò in modo spontaneo e senza perdermi in inutili chiacchiere la ringraziai e uscii dall'ufficio, rilasciando il respiro trattenuto fino a quel momento. Era stato più facile di quanto avessi sperato! Non riuscivo a crederci! Poi, a voce alta, dissi che il signor Landi era atteso nell’ufficio e quando l'ometto si alzò dalla sedia, io mi misi a sedere al suo posto.
A quel punto credevo sinceramente che la mia giornata stesse prendendo un'ottima piega. Ma quando, una trentina di minuti e atri tre candidati più tardi, mi alzai per raggiungere la macchinetta per prendermi un caffè (stavo iniziando a sviluppare una seria dipendenza da quell'intruglio), ci mancò poco che schiacciassi maldestramente il bicchierino: nella stanza infatti entrò un ragazzo che mi era terribilmente famigliare. Lui mi oltrepassò a tutta velocità e bussò alla porta di Diana, entrando dentro senza attendere una risposta. Mi ci volle qualche secondo per riconoscerlo, ma alla fine seppi esattamente dove l'avevo visto: alla festa di fidanzamento di Carlo e Lisa! Era il cameriere carino, quello che aveva versato il vino ai presenti, me compresa. E che cavolo ci faceva qui?!
Lui uscì dalla stanza con aria truce e mi voltai verso la macchinetta prima che potesse riconoscermi. Mi passò di nuovo accanto come un razzo, lasciandosi dietro una scia di profumo che aveva una nota speziata e persino quando scomparve nella tromba delle scale riuscii a sentire i suoi passi che battevano ritmicamente sui gradini. Non ebbi alcuna idea sulla ragione per cui fosse tanto di malumore, finché lui non tornò nella sala qualche minuto più tardi e non si guardò attentamente attorno. Quando i nostri sguardi s'incontrarono fui certa che stesse cercando proprio me. Per sicurezza comunque guardai la sedia alla mia destra. Era vuota e le ultime due persone rimaste ad attendere con me erano il signor Landi e una donna agghindata come un albero di Natale. Erano entrambi fermi ad ammirare il paesaggio del disegno appeso dall'altra parte della stanza.
Il cameriere (o quello che avevo ritenuto tale) mi si avvicinò e dopo essersi lanciato una nervosa occhiata alle spalle, verso gli altri due, disse: «potresti seguirmi fuori un attimo?» E che avrei dovuto fare? Emanava una tale aura d'urgenza che semplicemente non riuscii a negarglielo, nonostante il tremendo imbarazzo che provavo per quello che sapevo che lui sapeva essere avvenuto alla festa di fidanzamento. Presi in silenzio il soprabito e la borsa e lo seguii sul pianerottolo. Lui si assicurò di chiudersi dietro la porta della sala prima di tornare a parlarmi: «Sei Vittoria, non è vero? Ci siamo incontrati alla festa l'altra sera... Sei quella che ha rovinato il matrimonio a quel tale... Marco?» chiese tutto serio.
«Carlo» lo corressi automaticamente e assunsi un colorito scarlatto. Certo che non si poteva dire che non andasse dritto al punto, anche se non vedevo cosa potesse importargliene. Non erano mica affari suoi! Poi però fui colta da un altro, terribile pensiero: e se avesse intenzione di spiattellare tutto a Diana? Sarei stata costretta a ricominciare le ricerche di un impiego da capo... proprio ora che pensavo di avercela fatta!
Lui, tuttavia, non diede impressione di volermi ricattare o approfittarsene in qualche modo. Al contrario, avrei quasi detto che fosse preoccupato. Ma sarebbe assurdo, no?
«Senti...» s'inumidì un labbro, «Non accettare. Qualsiasi cosa ti possa proporre mia madre, non ne vale la pena. Sul serio, faresti meglio ad andartene!»
«Che?»
Chi?
Lui espirò brevemente dal naso e si tirò un paio di volte un lobo. «Mia madre... Diana... La mummia con cui hai parlato dentro quell'ufficio» spiegò, indicando con un pollice verso la sala alle sue spalle. «Credimi, non ne uscirebbe niente di buono!»
Io però continuavo a non capirlo e scossi la testa per sottolinearlo. «Frena un attimo! Cosa stai dicendo?» domandai.
Ma prima che potesse rispondermi, la porta si aprì e Diana Angelini in persona apparve sulla soglia con un'espressione che non prometteva niente di buono. Fulminò il ragazzo di fronte a me e sfidandolo silenziosamente ad aprire bocca, si rivolse a me: «mia cara, dovremmo definire alcune cose.»
«Mamma...» sospirò lui.
«Signorina Bianchi» disse Diana.
Spostai gli occhi dall'uno all'altra. Qualcuno mi voleva spiegare?
«Ultima chiamata» mi ammonì la donna, rivolgendomi uno sguardo penetrante.
Io mi voltai di nuovo verso il ragazzo, poi presi una decisione e lo oltrepassai, seguendo sua madre nell'ufficio. Lui sbuffò qualcosa sottovoce. Pazienza. Credeva che per un breve flirt rivoltomi ad una festa lo avrei eletto a mio eroe? Non eravamo mica in un romanzo criminale e lui non era certo James Bond, non ne aveva manco l'aspetto: alto, magrolino e con capelli spettinati di un nero intenso, non gli si avvicinava nemmeno lontanamente. E se non avesse avuto quei grossi occhi azzurri, probabilmente non sarebbe stato neppure così interessante.
Sua madre gli somigliava, però; era almeno altrettanto alta e magra e con gli stessi folti capelli neri che teneva raccolti in un elegante acconciatura dietro la testa. Si mise a sedere al suo solito posto e m'invitò a fare la stessa cosa con un gesto della mano. Ubbidii, sentendomi leggermente strana dopo quello che era appena successo. Lei invece fu imperturbabile.
«Dunque, Vittoria» attaccò, rivolgendomi un sorriso che sulle sue labbra assumeva un effetto alquanto innaturale. «Non so cosa ti abbia raccontato quell'ingrato ragazzino – possiamo darci del tu, non è vero? – comunque ti posso assicurare che le mie intenzioni non sono così ignobili» concluse.
Il problema però era che non sapevo affatto di cosa stesse parlando e mi mossi a disagio sulla sedia. «Emh... Mi dispiace ma suo... tuo figlio non ha avuto tempo di dirmi niente, in realtà» risposi.
Diana ne parve sinceramente sorpresa e contenta, anche se tentò di non mostrarlo. La sua fronte si mosse appena. «In tal caso, non tutto è perduto» alzò di nuovo gli angoli della bocca. Aprì un cassetto della scrivania chiuso a chiave e ne tirò fuori una busta bianca che fece scivolare verso di me. Io non mi mossi e le lanciai un'occhiata: che voleva che ci facessi?
«Aprila» m'incoraggiò lei, incrociando le dita sopra il tavolo.
Guardai esitando la busta: era così che iniziavano tutti quei film in cui la protagonista moriva perché accettava le caramelle dagli sconosciuti?
«Su, coraggio. Non morde mica» disse Diana. Ma iniziavo ad avere qualche dubbio a riguardo. Nonostante questo, presi la busta e la aprii, tirandone fuori una lunga striscia rettangolare di carta verdastra. La voltai e mi si bloccò il respiro in gola.
«Cos'è questo?» domandai con voce strozzata.
«Un piccolo anticipo se dovessi decidere di farmi un favore» spiegò Diana.
«Un favore?» le feci eco. «Che genere di favore?»
«Oh, niente di così importante» minimizzò lei. «Vedi, devo essere sincera con te: Diego – mio figlio – mi ha raccontato di quello che è successo alla festa di fidanzamento del dottor Ranieri. Mi dispiace, dev'essere stato orribile sentirsi tradite in quel modo» mi compatì inespressiva. Non dissi niente, lasciandola proseguire. «Devi sapere che ho conosciuto Carlo personalmente. E ti dirò di più, tutto quello che sa riguardo alla gestione della sua azienduccia l'ha imparato qui, da me» e a questo punto si lasciò sfuggire una smorfia che tuttavia represse quasi subito. «Per questo non potevo credere ai miei occhi quando ho letto il tuo nome tra decine di curriculum che mi sono arrivati.»
«Continuo a non seguirti» dissi, diffidando definitivamente del suo sorriso.
Diana si accomodò contro lo schienale della sedia e si prese qualche secondo. «A sentire Diego, pare che dopo la festa il tuo nome abbia percorso l'intera sala e lo scandalo che hai suscitato ha mandato al pronto soccorso la futura sposa, sempre ammesso che la si possa ancora chiamare così» raccontò la donna e non appena si zittì sentii che mi si formava un grosso groppo in gola. Non ne sapevo niente! Per questo Nick era stato così scontroso con me domenica? Perché non parlarmene allora? Diana continuò senza badare alla mia reazione: «In ogni modo, il punto è che il titolo dell'ex amante del dottor Ranieri fa di te una risorsa preziosa per me» disse, e quella scelta di parole mi ricordò in modo raccapricciante Carlo. «Hai lavorato presso la sua catapecchia abbastanza a lungo da conoscerne le strategie. Anche se forse non te ne rendi conto nemmeno tu...» abbozzò un sorrisetto ancora più inquietante. «Ogni informazione sui suoi sistemi operativi, sulle cose che hai visto o sentito nel suo ufficio durante... i vostri incontri personali, potrebbero essermi davvero utili.»
Non potevo crederci... La tarda età si era fatta sentire? «Non vorrei essere fraintesa, ma stiamo parlando di un call center... Ci sono milioni di aziende là fuori con cui potreste collaborare. Tutto questo non è un po'...» – come dire? – «...eccessivo
«Eccessivo!?» sibilò Diana e mi fece desistere dall'aggiungere altro; mi fulminò e assottigliò pericolosamente lo sguardo: «Ci sono cose che non devo certo spiegarti. Cose che non riguardano nessuno all'infuori di me e Carlo! Hai appena vent'anni...»
«Ventitré» la corressi, ma lei m'ignorò.
«...e solo perché hai avuto una relazione con un uomo più grande, non fa di te una donna esperta del mondo. Sebbene immagino che a voi, giovani d'oggi, vi piaccia pensarla così.»
Non obbiettai, più che altro perché era palese che discuterci non sarebbe servito a niente. Diana incrociò di nuovo le dita delle mani, puntando i gomiti sul tavolo e sul suo viso aguzzo tornò un mezzo sorriso. «In ogni caso» proseguì, «non è necessario che tu sappia ogni minimo dettaglio. Ti sto offrendo una minuscola fortuna per fare una cosa, tutto sommato, molto semplice. Tutto ciò che mi aspetto in cambio è qualche innocua informazione. Pensaci bene, nessuno potrà rincollare indietro i cocci del tuo cuore, ma puoi ottenere un po' di giustizia.»
«Grazie, ma credo di aver già fatto abbastanza alla sua festa di fidanzamento» le feci notare con una punta di avversione nella voce. Più la conversazione andava avanti, meno Diana mi stava simpatica e quasi speravo che in fondo non desiderasse più assumermi. «Perciò, se non ti dispiace, vorrei rifiutare la tua proposta. Non ti sarei di alcun aiuto in ogni caso, non so niente dei degli affari di Carlo, non me ne ha mai parlato e nemmeno me ne sono interessata durante i nostri incontri personali» dissi, calcando di proposito sulle ultime due parole, come aveva fatto lei.
Il viso di Diana si congestionò in un espressione poco felice e mi alzai per andarmene, quando lei sfoderò il suo ultimo asso nella manica: «capisco» disse enigmatica, obbligandomi a voltarmi con la mano ferma sul pomello.
«Che cosa?» chiesi.
«Il motivo per cui ti rifiuti.» Corrugai la fronte. Diana si alzò e prese l'assegno dal tavolo dove l'avevo lasciato, fingendo di studiarlo. «Ne sei ancora innamorata, non è vero?» domandò senza guardarmi.
Mi sentii centrare in pieno da un sonoro schiaffo morale. «Non puoi certo dimenticarti di una persona da un giorno all'altro» ammisi riluttante.
Diana annuì e finalmente si voltò verso di me. «Allora che ne dici di vederla da un altro punto di vista? Ti offro la possibilità di tornare a stargli vicino.»
«Non vedo come» risposi cauta.
«Tornando da lui per ottenere le informazioni di cui ho bisogno» spiegò lei con naturalezza.
Tirai la porta – era impossibile! E per diverse buone ragioni, tra cui: Carlo non avrebbe più voluto saperne di me dopo quello che avevo fatto e, inoltre, avevo appena reso la mia vita ancora più complicata lasciandomi andare in macchina con il suo vecchio amico, Nicholas. Diana però non era intenzionata a lasciarsi sconfiggere tanto facilmente, perciò si affrettò a dire, nel tono più sostenuto possibile: «Non sei neanche tentata? Davvero? Ti assicuro che posso fare in modo che tu abbia successo in questa nostra piccola avventura.»
Mi fermai dov'ero, fissando lo spiraglio che avevo aperto. Naturalmente una parte di me era tentata, per la precisione il cuore che scalpitava implorandomi di restare ad ascoltare. Ma il cervello mi suggeriva di andarmene e di non darle retta, perché non ne sarebbe venuto nulla di buono, proprio come aveva previsto Diego. La mia esitazione bastò affinché Diana scoccasse l'ultima freccia a sua disposizione: «Facciamo così, cancelliamo quel ''uno'' davanti a quel ''cinque'' e lo rimpiazziamo con un “due”» disse, riferendosi alla cifra sull'assegno, «e mi prometti che ci penserai.» Si avvicinò e mi allungò l'assegno che fui costretta a guardare. Deglutii: non era una cifra astronomica, ma avrebbe coperto benissimo le folli spese a cui mi ero abbandonata dopo aver saputo del fidanzamento di Carlo e avrebbe anche arricchito il mio ''fondo-scappo-sull-isola'', per non parlare dello sguardo insidioso con cui Diana pareva sussurrarmi: «posso avverare i tuoi desideri più profondi, mia cara...»
Ma che andavo a pensare?!
Scossi la testa e presi l'assegno, ancora privo della firma della titolare. «D'accordo, ci penserò» le promisi poi e infilai il pezzo di carta nella tasca della borsa, quasi scottasse. In verità non volevo affatto pensarci e probabilmente l'avrei strappato non appena sarei arrivata a casa, ma prometterglielo era il modo più veloce per uscire da questa asfissiante stanzetta e per non farci mai più ritorno. Quindi spalancai definitivamente la porta e percorsi la sala d'attesa sotto gli sguardi incuriositi del signor Landi e della sua nuova amica, senza voltarmi indietro. Quando varcai il portone al piano terra, mi sentii le ginocchia di gelatina: e pensare che avevo scambiato questo posto per un call center qualsiasi! Presi un profondo respiro e cercai di calmare il battito irregolare del mio cuore; l'idea di riuscire a tornare con Carlo (soprattutto adesso che era sicuramente single) era dannatamente allettante! Ma allora quello che era successo con Nick la sera prima non contava niente? Anche se magari ero stata l'unica ad aver percepito una piacevole fitta allo stomaco...
«Non starai riflettendo davvero sulla proposta di mia madre, vero?» mi domandò qualcuno alle spalle. Diego scese di due gradini la rampa di quattro e si mise davanti a me, guardandomi con espressione imbronciata.
L'oltrepassai scuotendo la testa. Mi stava lievemente sulle scatole adesso che sapevo che era stato lui a raccontare della disastrosa festa di fidanzamento alla madre.
Per qualche ragione lui decise di seguirmi, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. «Meglio così» disse, mentre io mi ostinavo a ignorarlo. «Mia madre è... È come fare un patto con il diavolo! Non se ne esce senza aver dato la propria anima in cambio, credimi!»
Non commentai in alcun modo, svoltando sullo stradone dove avevo lasciato la mia Panda. Attraversai la strada e vidi le onde del mare che si alzavano e si infrangevano in modo rabbioso sulla costa rocciosa. Gli schizzi d'acqua salmastra arrivavano quasi fino a sfiorare il basso muretto che delimitava il marciapiede.
«E comunque ragazze carine come te non dovrebbero perdere tempo dietro agli uomini che non le sanno apprezzare» proseguì Diego, abbozzando un sorrisetto e grattandosi il naso. «A perderci è stato solo quel Marco, non tu.»
«Carlo» lo corressi di nuovo e sbuffai frustrata per aver infranto il mio voto di silenzio. O forse ero più frustrata dal fatto che non riuscivo a trovare la mia auto che ero sicura di aver parcheggiata vicino alla gelateria, ma lì c'era un camioncino, quindi proseguii a diritto.
«Beh, non importa come si chiami» insistette Diego. «Il punto è lo stesso.» Poi si zittì, accorgendosi solo in quel momento che avevo l'aria spaesata oltre che irritata. «Non ricordi dove hai parcheggiato?» domandò perspicace.
Arrestai il passo e mi guardai attorno; non volevo ammettere di non ricordarmelo davvero, ma non potei fare altrimenti. Se avessi camminato un altro po' sarei finita in una piazza che non avevo mai visto e questo mi suggeriva di dover tornare indietro. Così feci, con Diego ancora alle calcagna.
«Non capisco!» sbuffai ad alta voce una volta che fui di nuovo vicino al camioncino vicino la gelateria. «Ero certa di averla lasciata qui!»
In quel momento un uomo corpulento, dall'aspetto di un pescatore con tanto di incerata, era uscito dalla gelateria sopracitata con una grossa vaschetta bianca sottobraccio. Attraversò la strada a passo svelto e si diresse nella nostra direzione. Doveva avermi sentito, perché domandò ancora prima di raggiungerci: «Sta parlando di una vecchia Panda verde?»
Io annuii con un brutto presentimento allo stomaco. Che me l'avessero rubata?
«L'hanno rimossa» spiegò l'uomo, aprendo lo sportello della sua vettura.
Strabuzzai gli occhi incredula. «Rimossa? Perché?»
Lui posò la vaschetta sul sedile del passeggero e con la portiera stretta in una mano, disse: «perché dovrebbe stare più attenta a dove parcheggia» e con ciò indicò l'asfalto sotto di lui e salì a bordo del camioncino. Un secondo dopo si stava già allontanando, mentre io fissavo incredula l'ultra sbiadita striscia gialla che indicava il posto riservato agli invalidi. Nella fretta non me n'ero accorta. Che razza di stupida!
Diego emise una sorta di sibilo, aspirando l'aria a denti stretti, poi si grattò di nuovo il naso. «Non è proprio la tua giornata, eh?» domandò. Che scocciatore! Come avevo fatto a trovarlo carino la sera della festa?
«Senti» gli dissi, «non ho alcuna voglia di farmi dei nuovi amici adesso. Perciò potresti smetterla di starmi attorno?»
Il sorriso di Diego gli morì sulle labbra e alzò le mani in segno di resa. Intuivo che stavo diventando insopportabile com'era il mio solito, ma era solo colpa sua se sua madre si era messa in testa di volermi sfruttare per i suoi assurdi piani. Se Diego non le avesse parlato di quello che era successo giovedì scorso, la mia candidatura sarebbe stata presa in considerazione come qualunque altra. E invece...
«Lo so» disse d'un tratto lui. «Probabilmente mi ritieni responsabile di questo casino. Non hai tutti i torti. A mia difesa posso dire che non avrei mai immaginato che il tuo curriculum potesse arrivare sulla scrivania di Diana.»
«Sei almeno un vero cameriere?» espirai, arrendendomi alla sua presenza.
Lui si mise una mano sul cuore, alzando l'altra a palmo aperto. «Cento per cento! Lavoro su chiamata per un catering locale e nel resto dei giorni vengo qui perché mia madre vuole che faccia esperienza prima di prendere le redini al posto suo» storse il naso. «E visto che mi sento uno stronzo, il minimo che ti posso offrire è di riportarti a casa» sorrise e io espirai di nuovo, più rassegnata di prima. Francamente era davvero il minimo, perciò non protestai e lo seguii indietro al parcheggio di fronte alla palazzina gialla, dove mi condusse fino ad una vecchia auto sportiva color topo. La guardai con diffidenza, Diego però non parve farci caso. Entrò dentro ed esclamò raggiante: «salta su!» Sperai di non dovermene pentire.
Fortunatamente la sua guida a tratti spericolata mi riportò a casa in meno tempo di quanto ce ne avessi messo io all'andata, così non fui costretta a cercare di sostenere una vera conversazione né ad ascoltare troppo a lungo la musica che aveva messo a palla, dimenandosi come fosse posseduto.
Tuttavia, non appena svoltammo al solito angolo di Via Giannotti, il mio sollievo si dissolse, perché di fronte al portone d'ingresso c'erano radunati alcuni dei miei vicini, c’erano anche un camion dei pompieri e un'auto dei carabinieri. Gli agenti stavano parlando con una signora Petrelli all'apparenza inconsolabile e accanto a loro c'era Nick, con le braccia serrate e un'espressione impenetrabile. Il mio cuore fece un sobbalzo, non solo perché rivederlo così presto fu una sorpresa ma anche perché ero certa che qualunque cosa fosse successa riguardasse me. Quindi ordinai a Diego di fermarsi all’istante e scesi come una furia dall'auto, incurante del fatto che anche lui avesse fatto altrettanto. Insieme raggiungemmo il capannello ed istintivamente cercai lo sguardo di Nicholas che si rilassò non appena mi vide, per poi tornare alla solita scorza dura quando alle mie spalle sbucò la figura di Diego.
«Che succede?» domandai direttamente agli agenti senza tanti preamboli.
«Lei è la signorina Bianchi?» chiese di rimando uno di loro. Io annuii. «Temo che dovrà recarsi alla centrale per una deposizione. Questa mattina nel suo appartamento è scoppiato un incendio.»
I miei occhi dovevano essere schizzati fuori dalle orbite, perché l'altro agente si affrettò ad aggiungere: «i pompieri sono riusciti a fermare il fuoco prima che potesse fare gravi danni, nonostante questo il suo appartamento non sarà agibile fino alla fine degli accertamenti necessari. È la prassi» concluse e quasi persi la concezione della terra sotto i piedi. Nick però ebbe la solita prontezza di riflessi e mi strinse le mani sulle spalle prima che potessi anche solo pensare di oscillare.
«Accidenti!» si lasciò sfuggire Diego. «Questa non è seriamente la tua giornata, Vi!» disse e mi lanciò uno sguardo greve a cui, però, rispose Nick, corrugando le sopracciglia. Probabilmente si stava domandando chi fosse il mio amico, ma non era certo il momento delle presentazioni, anche perché non stavo pensando a loro quanto ai due carabinieri.
Cosa accidenti era successo in mia assenza?
«Vieni» disse Nick, sospingendomi delicatamente. «Ti porto alla centrale.» Mi lasciai guidare fino al suo fuoristrada e salii al posto del passeggero. Ma mentre guardavo fuori dal finestrino, in attesa che Nick salisse a sua volta e mettesse in moto, i miei occhi s'incrociarono con quelli della signora Petrelli. Non ci avevo fatto caso, ma era rimasta stranamente in silenzio fin dal mio arrivo e adesso che mi guardava sul suo viso si stava dipingendo un inquietante sorrisetto. Deglutii e interruppi quel contatto, colpita da un pensiero sinistro: e se lei c'entrasse qualcosa?
«Ti chiamo io!» udii gridare a Diego. Dopodiché il fuoristrada si mosse e Nick mi strinse un ginocchio per farmi coraggio.


---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Buonasera dalla città del freddo artico, miei cari!! Oggi il tempo è brutto, fuori tira vento e piove, la grandine è riuscita a far saltare la corrente e io dovevo assolutamente uscire per sbrigare una commissione... Ma nonostante questo, vi avevo promesso il capitolino e sono riuscita a mantenere la mia promessa (*applausi scroscianti*). Bando alla (auto)lode, era l’ora di far accadere qualcosa tra i nostri cari Nick e Vittoria, perché (in tutta onestà) iniziavano a starmi sulle scatole da quanto se la tiravano! Naturalmente, però, non poteva essere tutto così facile, per cui, da brava masochista quale sono (e visto che ho il potere di rovinare le loro vite, ah-ah) non potevo semplicemente lasciarli sviluppare i loro contorti sentimenti in santa pace! Anche perché le cose semplici non necessariamente sono sempre le migliori... Quindi spero non mi odierete troppo, perché questo è solo l’inizio!
Adesso però è l’ora che evapori prima di lasciarmi sfuggire cose oscure! Quindi, come sempre, alla prossima e un bacione!


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Gatti curiosi e caramelle dagli sconosciuti ***


Image and video hosting by TinyPic




14
G A T T I   C U R I O S I   E
C A R A M E L L E   D A G L I   S C O N O S C I U T I



Ero seduta sulla panchina nel giardinetto di fronte al mio palazzo. Mi rigiravo il cellulare tra le mani osservando, senza vederli veramente, i movimenti delle mie mani. Stavo pensando a mia madre. Non avendo un posto dove andare adesso che il mio appartamento era inagibile, alla fine ero stata costretta a chiamarla e chiederle asilo. Lei però era riuscita a stupirmi come al solito, esclamando: «e Carlo?!» Naturale. Avrei dovuto prevederlo. Dopo tutto ero stata io a presentarle Nick come mio fidanzato e ora si aspettava che lui si comportasse come tale, ospitandomi per il tempo necessario. Ma la cosa più strana fu che Nick non aveva battuto ciglio quando gli avevo passato il telefono perché mia madre aveva preteso di parlargli, e allo stesso modo non si era scomposto quando lei gli aveva fatto la ramanzina riguardo alle sue presunte responsabilità nei miei confronti. Al contrario, a rimanerci di sasso ero stata io quando lui aveva annuito del tutto serio e le aveva assicurato che mi avrebbe accolto in casa sua. Dopodiché mia madre aveva buttato giù, così, senza nemmeno salutarmi.
Quindi eccomi qui, spaesata e del tutto incapace di stare dietro alla piega che avevano preso gli eventi. Dovevo riflettere seriamente sulla proposta di Diana e sull'idea di accettare i soldi che lei mi aveva offerto. In fondo quanti danni avrei potuto fare passando qualche innocua informazione? Carlo aveva la fama e l'affidabilità dalla sua parte, per cui non sarebbe certo rimasto senza clienti. E poi, sì, dovevo essere sincera: la possibilità di poter tornare da lui non mi era mai sembrata così allettante come in questo momento. Dio solo sapeva quanto avevo bisogno di stringermi a qualcuno di famigliare e di sentirmi dire che tutto sarebbe andato bene! E per questo non potevo che biasimarmi. Dopo tutto quello che mi aveva fatto non avrei dovuto fantasticare così tanto sulla nostra riconciliazione.
Improvvisamente Nick comparve accanto a me, ma lo notai solo quando mi allungò uno dei due bicchieri di caffè. «Nero con due bustine di zucchero» disse abbozzando un sorriso.
Trasalii al suono della sua voce e sfuggii accuratamente il suo sguardo mentre prendevo la bevanda ringraziandolo. Non avrei saputo dire perché mi sentissi tanto in colpa. Probabilmente perché stavo pensando a Carlo dopo quello che era successo tra noi nella mia macchina. Ma non ne avevo forse tutto il diritto? Io e Nick non stavamo davvero insieme e solo perché si era offerto di ospitarmi non significava che fossi costretta a considerarlo più di un semplice amico... Vero?
Accidenti! Perché tutto doveva essere così complicato?
«Sei preoccupata?» domandò Nick sedendosi accanto a me.
Mi scrollai nelle spalle ostinandomi a guardare da un'altra parte. «Sono confusa» ammisi. «Stanno succedendo troppe cose.»
Con la coda dell'occhio notai che Nick stringeva le labbra, poi le appoggiò sul bordo del bicchiere di carta e prese un sorso. «Non dovresti pensarci per oggi» disse dopo.
Io annuii e calò il silenzio.
Stavo pensando ancora alla proposta di Diana quando Nick si avvicinò ed esitando un attimo vicino al mio zigomo, mi spostò dietro l'orecchio una ciocca di capelli sfuggita alla crocchia. Il mio primo istinto fu quello di scansarmi, ma un secondo dopo il mio sguardo incrociò finalmente il suo e mi sorpresi a percepire un leggero brivido attraversarmi la schiena.
«Scusa» disse Nick e tornò al suo caffè con aria imperscrutabile.
Mi sforzai di sorridergli. «Non devi scusarti. Sono io che dovrei farlo.»
Lui scosse lievemente la testa e riportò il bicchiere alle labbra. In quel momento mi accorsi che non avevo ancora toccato il mio caffè ed ero in carenza di caffeina. Quindi bevvi il mio e un'altra volta tra noi cadde il silenzio, ma stavolta fui io a interromperlo.
«Perché non mi hai detto che Lisa era finita all'ospedale dopo che me n'ero andata dalla festa?» domandai d'un tratto.
Nick si irrigidì. «Perché non è successo nulla di grave. Si era agitata e suo padre aveva avuto una reazione spropositata e aveva fatto chiamare un'ambulanza. Chi te l'ha detto? È stato il tizio che era con te stamattina? Sapevo di averlo visto da qualche parte...»
«Non importa chi sia stato» risposi. «È per questo che domenica eri arrabbiato con me?»
Stavolta fu Nick a sfuggire la mia occhiata, fingendo di studiare la struttura del palazzo dall'altra parte della strada. «In parte» disse evasivo.
«E d'altra parte?» insistetti.
«E d'altra parte ce l'avevo con me.»
«Perché?»
Lui emise un profondo respiro prima di parlare. «Perché mi sono lasciato coinvolgere in cose che non mi riguardano. Sono tornato dall'America con l'intenzione di non trattenermi troppo. Ad essere del tutto onesto, dovevo sbrigare solo un paio di questioni e a quest'ora sarei già dovuto rientrare a casa e invece...»
«Invece?» incalzai.
«Invece ho chiesto il permesso di restare qui.»
«Per la banca?»
«Anche.»
«E...?»
«Affari.»
Sbuffai. «Ho capito, ti piace fare il misterioso.»
Sul viso di Nick comparve un sorrisetto. «No» disse. «E comunque non dovresti curiosare in questo modo. Ricordi che succede al gatto?»
«Vince un premio come detective dell'anno?» ironizzai.
Nick mi gettò un'occhiata di sufficienza e si allungò sopra la mia figura per buttare via il suo bicchiere di carta nel cestino che si trovava accanto al mio lato della panchina. Trattenni il respiro mentre l'odore di muschio bianco mi colpiva piacevolmente le narici e per un secondo fui tentata di posare una mano sulla schiena di Nick per capire se toccarlo mi avrebbe fatto lo stesso effetto di ieri sera, ma all'ultimo desistetti mordendomi un labbro. Nick si rimise composto e gettò un'occhiata al suo orologio da polso.
«È quasi ora di pranzo» osservò, poi mi squadrò dalla testa ai piedi e mi domandai se avessi qualcosa che non andava. «Forse è il caso di passare a comprarti un cambio» propose pensando ad alta voce.
Mi guardai a mia volta e storsi la bocca. Fantastico, quindi avrei dovuto spendere altri soldi! Il che mi ricordò che al sesto piano del palazzo davanti a me si trovava ancora il completo che avevo sfoggiato alla festa di fidanzamento di Carlo e Lisa e che c'era una concreta possibilità che fosse bruciato insieme agli altri vestiti. Mi si attorcigliò lo stomaco: centinaia di euro andati letteralmente in fumo! Doveva essere una qualche punizione divina.
«Vittoria?» mi richiamò Nick, abbassandosi leggermente per guardarmi.
Mi riscossi e finii il caffè in due sorsate; peccato che non avessi chiesto a Nick di farmelo correggere con un po' di sambuca!
 
Nick lasciò la macchina dietro ai grandi magazzini e insieme entrammo nell'ampio corridoio che curvava da entrambi i lati, come un'enorme ciambella piena di vetrine. Per fortuna a quest'ora non c'era mai nessuno, altrimenti avremmo dovuto sgomitare per farci spazio, come accadeva nei weekend.
«Beh? Da dove vuoi iniziare?» chiese Nick gettandosi un'occhiata attorno. Mi scrollai nelle spalle e indicai il primo posto che mi saltò all'occhio: un negozio dagli interni neri e bordò e luci soffuse. Nick annuì e fu sul punto di prendermi per mano, ma all'ultimo secondo si accorse di quello che stava per fare e ci rinunciò con un incredibile nonchalance, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans. Lo guardai perplessa e lui si avviò verso il negozio senza dire una parola. Provai una strana fitta allo stomaco, ma la ignorai affrettandomi a raggiungerlo.
Nick entrò e fece un cenno alla ragazza che stava ripiegando delle maglie su uno degli espositori vicini. Lei gli sorrise mettendo in mostra i denti perfettamente bianchi e si avvicinò immediatamente a noi.
«Ha bisogno d'aiuto?» domandò candidamente. La squadrai: non era ovvio? O forse sperava che Nick volesse il suo numero? Nel dubbio mi schiarii la voce e mi piazzai accanto a lui, abbastanza vicino da non lasciare dubbi che eravamo qui insieme. Il sorriso della ragazza sbiadì immediatamente.
«Potrebbe occuparsi della mia... emh...» Nick mi gettò una titubante occhiata, non sapendo evidentemente come definirmi, «amica?» azzardò infine.
«La sua amica...» la ragazza si illuminò di nuovo e per poco non mi lasciai sfuggire un grugnito. Se volevano un po' di privacy potevo anche lasciarli da soli, eh. «Certo! Cerchi qualcosa in particolare?» si rivolse a me e per la prima (e probabilmente anche ultima) volta nella mia vita non gradii affatto che mi si desse direttamente del ''tu''.
D'accordo, obbiettivamente parlando ero più giovane di lei...ma insomma!
Spostai gli occhi dal suo viso per non rischiare di rivolgerle una smorfia e il mio sguardo si fermò sul cartellino che aveva appeso al collo: era una stagista di nome Beatrice. Beatrice. Come Beatrice Belli, l'odiosa bambina con cui avevo condiviso il banco alle elementari. Per un anno intero avevo dovuto sopportare i suoi monologhi riguardo ai suoi parenti inglesi e sull'edizione speciale di Barbie Sirenetta che aveva ricevuto da loro per Natale, finché misteriosamente quella Barbie non era finita nel bagno dei maschi con i capelli rasati a zero. Era stata lei stessa a ritrovarla in uno dei gabinetti e tutt'ora riuscivo ancora a sentire gli strilli e le parolacce che aveva rivolto alla povera bidella che aveva cercato di sedarla.
«Vuoi che ti consigli qualcosa?» insistette la ragazza, lanciando un'occhiatina zuccherosa a Nick.
«Grazie, ma credo di potermela cavare anche da sola» borbottai e mi allontanai da loro due, fingendo di trovare interessante un orribile vestito arancione-sbiadito con due enormi pompon sulla scollatura.
«Oh...» le sentii esalare. Si voltò sbattendo le ciglia verso Nick, ma questo si scusò e mi raggiunse.
«Capisco che tu non sia dell'umore, ma potevi essere un po' più gentile» mi rimproverò con un tono fastidiosamente saccente.
Scoccai la lingua spostando qualche gruccia a caso. «Quello è compito tuo. Almeno adesso avrai un motivo per tornare da lei e tentare il solito approccio consolatorio» risposi con una nota annoiata.
Nick serrò le braccia al petto e assottigliò lo sguardo. «Te la rifai anche con me adesso?»
«No. Ti offro solo una possibilità con la tizia. Almeno, lei non sembra aspettare altro» risposi e subito desiderai di non averlo fatto. Che cosa me ne sarebbe fregato seppure avessero scoperto di amarsi?!
«Sai? Ogni tanto ho l'impressione che tu e la tua testolina non andiate molto d'accordo» osservò Nick e senza attendere una risposta mi lasciò da sola.
Sospirai. Mi scocciava ammetterlo, ma non aveva tutti i torti. Mi voltai verso Beatrice – alta, con un caschetto di capelli biondi e con la pancia scoperta nonostante fuori fossero appena venti gradi – e mi ritrovai ad alzare gli occhi al cielo. Poi però scossi la testa: sì, era decisamente carina, e allora?
Nick le si avvicinò per chiedere qualcosa e lei espose di nuovo la sua candida dentatura, invitandolo a seguirla. Magari stavano andando nel retrobottega... No, non potevo proprio restare ad osservare quanto fosse facilmente tentabile – com'era che mi aveva definito? Ah, già... – il mio amico. Quindi tornai a dedicarmi alla ricerca dei vestiti e ne pescai qualcuno a caso, volatilizzandomi dentro uno dei camerini in fondo al negozio con l'intenzione di provarmeli. Peccato che non sarebbe stato tanto facile: la maggior parte dei vestiti erano maglie dai colori fosforescenti ed erano in netto contrasto con i pantaloni dalle stampe improbabili – mi portai una mano alla fronte dandomi da sola della stupida.
«Santo cielo, Vi» mi borbottai sotto il naso, «concentrati!» Quanto si poteva essere stupidi? Nemmeno quando in prima liceo avevo portato l'apparecchio color arcobaleno e sfoggiandolo come la griglia di un rapper avevo cercato di sedurre un ragazzo di quinta mi ero sentita così.
Rovistai per la seconda volta tra i capi e pregai mentalmente di trovare qualcosa; forse si riusciva ancora a salvare la maglietta arancione e i pantaloni bianchi a pois viola scuro. Me li infilai e tirai un sospiro di sollievo: potevano andare, così come anche i pantaloni a stampa floreale con la camicetta rosa – evviva! Non sarei stata costretta ad uscire là fuori e ammettere che avevo effettivamente bisogno di Beatrice.
«Di solito voi donne non aspettate il fidanzato per obbligarlo a stare fuori dal camerino e darvi un parere?» d'un tratto la voce di Nick mi arrivò dall'altra parte della tendina con un inconfondibile filo di ironia e anche se non potevo vederlo, ero sicura che avesse sfoggiato un dei suoi sorrisetti più odiosi. In un altro momento questa cosa mi avrebbe irritato un sacco, ma oggi nell'aria ci doveva essere qualche sostanza nociva o una fuga di gas che mi stordiva, perché invece di prendermela mi sentii avvampare.
«Tu non sei il mio fidanzato!» mi affrettai a precisare.
«Non è quello che pensa tua madre però» ribatté mellifluo, Nick.
«Beh, mia madre non è qui, perciò puoi anche non preoccuparti!»
«Non saprei» insistette lui. «Forse, al contrario, dovrei prendere la questione più seriamente ed entrare lì dentro per darti una mano e...» ma non lo lasciai finire, spalancando la tendina con uno strattone secco. Gli piantai lo sguardo addosso, sfidandolo a finire la frase, ma lui lo ricambiò con un largo ghigno e scosse la gruccia che teneva in mano. Solo allora mi accorsi che stava reggendo un meraviglioso abito in pizzo bianco.
Inarcai un sopracciglio. «Non sapevo che ti volessi provare qualcosa.»
Nick emise una specie di sospiro esasperato. «Lo sai che non è per me» rispose.
Serrai le braccia al petto. «Peccato, il colore è proprio adatto alla tua carnagione. Allora è per Beatrice?» m'interessai, imitando lo stesso tono mellifluo che aveva usato lui poco prima.
La fronte di Nick s'increspò. «Chi?»
«Lascia perdere. Che dovrei farci con quello?» feci un cenno verso l'abito.
«Pulirci i pavimenti ovviamente» rispose serio Nick e si allungò per appendere la gruccia sul chiodo nel camerino. «Molto comodo anche per andare a fare jogging in montagna. Ti consiglio di provarci.»
«Ah-ah-ah» risposi alzando gli occhi al cielo. «Quando hai finito di sforzarti di sembrare simpatico magari m'illumini sulla ragione per cui mi stai chiedendo di provarlo.»
«Non te lo sto chiedendo» disse tranquillamente Nick. «Fallo e basta.»
Ah beh sì, certo! Era un ordine di Mr Gordon! Espirai uno sbuffo secco dal naso e afferrai un lembo della tenda per richiuderla, quando lui aggiunse: «ricordati però che quello non ci si abbina affatto» e sorridendo in modo sospetto mi indicò un punto sotto il mio mento.
Automaticamente abbassai lo sguardo e sgranai gli occhi: la camicetta rosa era rimasta sbottonata per metà, lasciando intravedere chiaramente il mio reggiseno color carne. Era esattamente il tipo di reggiseno che avrebbe messo mia nonna, lo ammetto. Ma come avrei potuto immaginare che qualcuno l'avrebbe visto?! Soprattutto Nick!
Con uno scatto tirai finalmente la tendina e con il cuore che mi martellava veloce nel petto mi appoggiai contro una parete del camerino, serrando gli occhi nella speranza che una volta riaperti mi sarei ritrovata nel mio letto, dopo uno di quei incubi in cui ti ritrovi nudo di fronte a un migliaio di persone che ti additano e ridono. Purtroppo però, quando li riaprii ero sempre qui e Nick era ancora là fuori che sghignazzava. Quindi mi misi una mano sul cuore e mi imposi di calmarmi: in fondo non era successo nulla... mi ero semplicemente resa ridicola davanti a un uomo che era abituato a frequentare modelle, stelle del canto e della recitazione. E sicuramente anche a loro era capitato di preferire indumenti comodi alla lingerie super sensuale e costosa. Sicuramente. L'importante era continuare a ripeterselo.
Poi però fui colta da un altro, inquietante pensiero: da quando mi importava di cosa potesse pensare Nick della mia biancheria? Voglio dire, okay, abbiamo avuto una sorta di incontro del terzo tipo ieri sera. Ma se era per questo, ne avevamo avuto uno anche il famigerato sabato sera e non mi ero preoccupata più di tanto di cosa avesse potuto pensare di me o di quello che avevo avuto addosso. E inoltre c'era una netta possibilità che presto mi sarei rivista con Carlo e che ci saremmo riappacificati – anche se sinceramente continuavo a non vedere come. Per cui, in teoria, non avrei dovuto preoccuparmi di nessun altro se non di quest'ultimo, e invece la mia mente mi giocava brutti scherzi e continuava a sussurrarmi malignamente: «Nick ha visto il reggiseno-antistupro... reggiseno-antistupro... antistupro...»
No, no e no! – scossi forte la testa – Nick aveva semplicemente intaccato la mia vanità femminile, nient'altro! E allora perché ogni volta che una bella ragazza gli sorrideva avevo voglia di prenderlo a schiaffi?
Un'altra volta, mi imposi di calmarmi; era stata una giornata stressante – anzi, no, era l'intero periodo a essere stressante – e forse ero un po' disorientata dai milioni di cambiamenti. Era successo anche a mia madre dopo il divorzio; in quel periodo si era messa in testa di voler fare la ragazza immagine nelle discoteche, finché una sera non aveva incontrato Giuseppe che aveva ridato la giusta piega alle cose. Perciò doveva essere questa lo soluzione, no? Dovevo solo tornare da Carlo, sbarazzarmi della concorrenza e tutto sarebbe tornato come prima.
Giusto. Doveva essere così.
Presi l'ennesimo profondo respiro e sorrisi alla mia immagine nello specchio che ricambiò. Ecco, andava molto meglio!
Finalmente più rilassata, mi sfilai i vestiti che avevo provato e tolsi dalla gruccia l'abito che mi aveva portato Nick, accostandomelo addosso per un secondo. Certo che era proprio un trionfo di pizzo, con lunghe maniche ricamate, una larga scollatura ovale e la gonna asimmetrica che terminava in uno strascico. Sembrava quasi un abito principesco e l'idea di indossarlo mi elettrizzò, anche se dovetti riconoscere che Nick aveva ragione: il reggiseno rovinava ogni cosa. Perciò me ne sbarazzai e mi infilai nel vestito, dimenandomi per riuscire a chiudere la lampo sulla schiena. Dovevo fare un sacco di casino, perché improvvisamente Nick domandò: «stai avendo una lotta di wrestling lì dentro?»
«È la lampo» mi lamentai tra uno sbuffo e l'altro, «non riesco a chiuderla!»
Senza avvertire, Nicholas scostò la tendina e mi paralizzai in una posizione stupida, mezzo piegata verso sinistra e con le mani rigirate all'indietro in un goffo tentativo di trattenere i lembi della cerniera. La sua immagine nello specchio si accigliò e il mio imbarazzato riflesso non poté fare a meno di scoccargli un'occhiataccia.
«Dai qua» mi disse lui, e controvoglia lasciai andare la presa. Nick posò lo sguardo sulla mia schiena nuda, fece un passo in avanti e schiarendosi la gola afferrò il tiretto. Poi lo fece scivolare lentamente verso l'alto, in modo da non rischiare di incastrare la stoffa nel cursore, e d'un tratto sentii la sua mano destra appoggiarsi delicatamente sul mio fianco. Era stato un gesto spontaneo, nessuna intenzione di attentare per l'ennesima volta alla mia virtù. Non stava nemmeno guardando me ma il vestito. Eppure trattenni il respiro, percependo il suo calore attraverso il pizzo e la sottile sottoveste, e il mio cuore si fermò per un istante. Nick aveva finito e compiaciuto mi rivolse un'occhiata da sopra la mia spalla, nello specchio. I nostri occhi si incrociarono e colsi nei suoi uno strano bagliore che mi fece rabbrividire: mi stava ammirando? Perché mi stava guardando in quel modo? E io perché non riuscivo a distogliere lo sguardo? Il mio stupido cuore accelerò tutto d'un colpo.
E così passò un secondo.
Poi un altro.
E poi un altro ancora.
Finché...
«Allora? La taglia andava bene?» trillò la stagista dal corridoio e sia io che Nick trasalimmo nell'udirla. Finalmente il suo sguardo mi abbandonò e lui si voltò verso destra indossando la solita espressione controllata, gli angoli della bocca appena sollevati.
Annuì. «Perfetta» disse, e per qualche ragione fui certa che non si stesse riferendo alla taglia. «Lo prendo.»
Probabilmente la ragazza aveva risposto con un cenno perché ci fu una piccola pausa dopo la quale, con un tono esageratamente mieloso, ci informò: «se avete bisogno di altro sarò felice di aiutarvi», parole che mi fecero tornare alla mente l'immagine dei suoi denti perlati e del generoso lembo di pelle che si intravedeva tra il top e la gonna a tubino.
Mi girai e spingendo fuori Nick richiusi la tendina.
 
Come ogni cosa di cui non parlavamo io e Nicholas, anche l'episodio del negozio fu presto accantonato nel cesto del dimenticatoio. Dopo l'estenuante giornata di shopping – che in teoria avrebbe dovuto risollevarmi il morale ma che in pratica me l'aveva solo peggiorato perché aveva alleggerito dell'altro il mio conto in banca – l'unica cosa che agognavo davvero era una bella doccia calda e un letto morbido su cui addormentarmi fino alla prossima Era Glaciale. Desideri che probabilmente non erano poi così lontani dall'essere esauditi, dal momento che la casa di Nick sembrava appena uscita da una di quelle riviste patinate sugli immobili della nuova generazione. Avevo letteralmente spalancato la bocca, con una mano ancora aggrappata alla portiera del suo fuoristrada. Nick si piazzò accanto a me a braccia conserte, poi si inclinò leggermente per guardarmi in faccia e con le sopracciglia aggrottate mi mise una mano sotto il mento e spinse su. Sentii sbattere i denti.
«Tu vivi qui?» domandai, staccando finalmente lo sguardo dalla struttura cubica, tutta vetri e grossi pannelli color ebano.
Lui si scrollò nelle spalle scrutando la casa a sua volta. «Solo quando vengo a San Lombardo» rispose come fosse una cosa normalissima. Strinsi ancora una volta le palpebre per assicurarmi di non vederci male.
«Cavolo! Roba del genere l'ho vista solo nei film» confessai.
Nick sogghignò ma non disse niente. Dopodiché mi oltrepassò per andare ad aprire il portabagagli del fuoristrada dove c'erano diverse buste dei vari negozi in cui eravamo stati. Riuscì a prenderle quasi tutte mentre io ammiravo ancora il panorama.
«Pensi di darmi una mano?» volle sapere, richiamandomi da dietro l'auto. Avrei tanto voluto chiedergli il permesso di scattare una foto alla casa per poterla mostrare a Francesca e Giorgia, ma la sua espressione mi fece desistere e controvoglia mi costrinsi a raggiungerlo per prendere il resto delle buste. Dopodiché ci avviammo lungo il sentiero acciottolato e solo allora notai la piscina che era lì vicino. Dato che eravamo su un'altura il terreno su cui camminavamo era leggermente in pendenza e il buio della tarda sera aveva reso difficile scorgere la vasca nonostante il bagliore dei lampioni. Tuttavia doveva essere piuttosto lunga e non potei fare a meno di immaginarmi Nick galleggiare lì dentro sopra un materassino gonfiabile con in mano un drink e gli occhiali da sole inforcati sul naso. Scoppiai quasi a ridere e scossi lievemente la testa. No, lui non era un tipo da materassini e drink. Era più probabile che avrebbe galleggiato sulla schiena nuda, fissando il cielo azzurro con aria meditabonda. Ecco, questo sarebbe stato più da Nick! E il fatto che cominciassi a fare certe distinzioni mi sconvolse; stavo imparando a conoscerlo più di quanto avrei potuto immaginare.
Nick si fermò e destreggiandosi abilmente tra le buste infilò una chiave nella toppa dell'enorme porta nera davanti a lui. Poi entrò e accese la luce, rivelando grandi spazi comunicanti e una moderna scala a chiocciola nell'angolo opposto. Per un attimo mi scordai delle mie riflessioni e aprii di nuovo la bocca, studiando i soffitti bassi che rendevano l'ambiente alquanto intimo. C'era anche un mega schermo appeso tra le due finestre sul lato est della casa e un angolo bar con una vasta scelta di liquori. Sorrisi a trentadue denti, ignorando che Nick mi stesse fissando con un sopracciglio inarcato. Aveva mollato le buste sul divano e non si capacitava della mia espressione inebetita. Ovvio, per lui non era niente di eccezionale! Mi domandai cosa avrebbe detto se gli avessi raccontato che ai tempi delle medie ero stata costretta a condividere non solo la mia stanza, ma anche il mio letto a una piazza e mezza con mia cugina di cinque anni. E a proposito di condivisione di spazi ristretti, Nick doveva essersi sentito tremendamente a disagio a restare nel mio monolocale per un'intera notte! Stavo quasi per chiedergli scusa quando nella stanza esplose una melodia che non conoscevo. Nick tirò fuori dalla tasca dei jeans il suo Blackberry e rispose facendosi tutto serio, poi alzò un indice per chiedermi di aspettarlo un secondo. Io annuii e lui uscì velocemente fuori da una portafinestra vicino la scala a chiocciola. Gli gettai un'occhiata attraverso i vetri ma mi stava dando le spalle per cui non avrei saputo dire quanto fosse urgente la questione. Comunque non avevo intenzione di restare impalata qui.
Misi giù le buste e andai dritto verso l'impianto stereo che aveva appena catturato la mia attenzione. Ai fianchi delle casse c'erano due mobiletti a vetri pieni zeppi di CD. Ne aprii uno e passai in rassegna i titoli: per lo più era roba di un paio d'anni prima, anche se un paio di dischi avevano ancora la pellicola protettiva, altri erano letteralmente dello scorso secolo. E poi c'era un unico cofanetto masterizzato. Gettai di nuovo un'occhiata a Nick che era impegnato nella conversazione e tirai fuori dalla fila quel CD, mordendomi un labbro nell'indecisione. Era sbagliato curiosare così (a differenza di quel che avevo detto questa mattina il gatto non avrebbe vinto il premio per il detective dell'anno ma avrebbe tirato le cuoia) tuttavia non riuscii proprio a trattenermi e rigirai il cofanetto tra le mani per poter leggere la dedica che era sul dorso. Era scritta con diversi colori indelebili, un po' sbiaditi, e diceva: ''A Nicky, dalla tua libraia preferita. Spero che penserai a me e al nostro viaggio a Firenze ogni volta che lo ascolterai!'', firmato ''J. ♥''
J.? Chi era J.? Mi accigliai e rilessi per la seconda volta il messaggio. Ero certa che quella ''J'' dovesse ricordarmi qualcosa, ma proprio non mi veniva in mente cosa. O meglio, chi. Anche perché, Carlo a parte, io e Nick non avevamo amici in comune. Allora perché avevo l'impressione di sapere chi potesse essere questa ''J''? Mi morsi più forte il labbro e aprii con cautela il cofanetto per estrarre il CD, sopra c'era disegnato un grosso smiley che ammiccava mentre faceva la linguaccia. Sempre più curiosa, armeggiai con l'impianto stereo e inserii il disco, abbassando immediatamente il volume in modo da non attirare l'attenzione di Nick. Quella che partì fu una vecchia canzone di Jennifer Lopez, più precisamente era di otto anni prima, e mi domandai se anche il CD fosse altrettanto vecchio.
«I thought you got over it» disse d'un tratto qualcuno.
Trasalii e mi girai di scatto in direzione della voce, sbiancando non appena riconobbi la figura girata di Jerry che frugava nel frigo. Ma non fu tanto per il fatto che mi avesse beccata a curiosare nelle cose di suo fratello quanto per il fatto che fosse...beh, nudo! E intendo completamente! Le sue natiche ben allenate spiccavano sopra il livello del piano dell'isola che separava il salotto dall'area cucina. Per poco non mi strozzai.
«Ma che cavolo!» strillai. Jerry rovesciò qualcosa nel frigo, poi il suo viso spuntò da sopra la sua spalla e per un secondo cadde il silenzio (Jennifer Lopez a parte). Mi aspettai di vederlo scappare a disagio o che almeno si prendesse la briga di trovare un panno per coprirsi, e invece lui tornò a dedicarsi al frigo da dove tirò fuori una carota. La esaminò per un secondo, poi l'addentò, richiuse l'anta e si voltò come niente fosse verso di me. Ebbe persino la sfacciataggine di appoggiarsi contro l'elettrodomestico a gambe incrociate, osservandomi mentre masticava. Serrai immediatamente gli occhi per non dover vedere altro.
«Che succede?» irruppe la voce di Nick. Io puntai alla cieca un dito contro Jerry e alzai le palpebre di appena uno spiraglio per vedere che quest'ultimo si stava stringendo nelle spalle.
«I thought it was you» si giustificò tranquillamente suo fratello.
«Beh, come vedi ti sei sbagliato!» osservai con una punta di stizza. «In casa tua gira sempre gente nuda?» mi rivolsi poi a Nick.
Lui sospirò e prese un grembiule che gettò al fratello. «Per piacere, mettiti qualcosa addosso.»
«Sorry, I didn't know you'd take someone home» rispose Jerry, staccando serenamente un altro pezzo di carota. «See you later, galinella» disse poi a me e lo sentii attraversare la stanza con tutta calma, poi salire le scale.
Potevo finalmente riaprire gli occhi e rivolgere un'occhiataccia al padrone di casa. «Accoglie sempre gli ospiti in questo modo?» domandai, quasi temendo la risposta.
«Per fortuna, no» rispose Nick e corrugando la fronte si voltò verso lo stereo. «Chi l'ha acceso?» s'interessò.
La mia insofferenza verso suo fratello svanì all'istante, rimpiazzata dal senso di colpa. Alzai lentamente un indice in aria, affrettandomi a spiegare: «stavo dando un'occhiata alla tua collezione e ho notato che era l'unico CD masterizzato. Volevo solo sentire cosa c'era sopra. Scusa.»
Nick non disse niente, il che fu peggio di un pugno nello stomaco. Raggiunse semplicemente l'impianto ed estrasse il disco, allungando un palmo verso di me. Gli consegnai la custodia senza obiezioni e non osai chiedergli chi fosse questa ''J''. Maledetta curiosità!
Nick rimise a posto il cofanetto e con aria neutra disse: «puoi prendere la stanza in fondo al corridoio, di sopra, ma dovrai condividere il bagno con mio fratello. Anche lui si è trasferito temporaneamente qui. Ma non preoccuparti, niente più sfilate total nude» e detto questo abbozzò un sorrisetto che non mi convinse affatto. Non perché fossi sicura che non sarebbe stato l'ultimo total nude di Jerry, ma perché gli occhi di Nick riflettevano uno stato d'animo diverso dalle sue labbra. Comunque fosse, era sicuramente colpa mia, quindi evitai di lamentarmi e feci un cenno col capo. Poi raccolsi i miei pacchi e mi arrampicai su per la scala a chiocciola, pregando mentalmente affinché Jerry non fosse nei paraggi a sventolare parti del corpo che preferivo non vedere.
Fortunatamente le mie preghiere vennero esaudite e il corridoio era vuoto. Quindi individuai la porta giusta ed entrai nella stanza, esultando come una bambina che aveva appena vinto il primo premio – avrei avuto un letto enorme tutto per me! E una finestra larga tutta una parete che si affacciava sul retro casa! Peccato che fuori fosse buio pesto perché avrei tanto voluto vedere che panorama ci fosse là fuori. Beh, pazienza, voleva dire che avrei avuto un risveglio con tanto di vista.
Mi buttai sul letto (lo sapevo! era morbidissimo!) e sorrisi. Tutto sommato stare qui per un tempo indeterminato non mi dispiaceva così tanto, anche se questo significava che sarei stata costretta a condividere il bagno con il minore dei Gordon. Poi però mi misi dritta e sospirai: dovevo tenere a mente che questa non era una vacanza e la realtà mi aspettava appena dietro le mura. E all'improvviso tutto mi parve più triste: ero persa in un mondo che mi pareva estraneo e ogni cosa stava accadendo talmente in fretta da non lasciarmi la possibilità di venirne fuori. Ero come una mosca avvolta in una ragnatela. E per di più rischiavo di essere incolpata di un incendio e pertanto di dover sborsare cifre con chissà quanti zeri... Ecco, adesso sì che ero tornata con i piedi per terra!
Mi alzai e decisi che avrei fatto meglio a sistemare le mie nuove cose da qualche parte. C'era una porta scorrevole a tre ante di fianco al letto che identificai come l'armadio a muro e un'altra sulla parete opposta che doveva condurre al bagno adiacente. Andai verso la prima e la spalancai: dentro c'erano solo grucce e cassetti vuoti di diverse dimensioni. I miei pochi acquisti non furono sufficienti per riempirli tutti, anzi, nemmeno la metà, ma almeno adesso l'armadio non aveva più un'aria desolata. Guardai soddisfatta il mio lavoro e mi ritrovai a ripensare all'abito di pizzo. Non avrei saputo dire perché l'avessi lasciato per ultimo, fatto stava che la busta che lo conteneva era ancora lì, vicino all'ingresso, intatta. Mi ci avvicinai con cautela (nemmeno fossi un topo che adocchiava il formaggio di una trappola) e lentamente strappai l'adesivo con il logo del negozio con cui era sigillata. Ed eccolo lì, l'abito più bello che mi fosse mai capitato di provare, accuratamente ripiegato sul fondo. Lo tirai fuori e lo disfai tenendolo per le spalline e mi tornò in mente...«Perfetta.» Fui scossa dai brividi. Nick non poteva parlare di me, no, la stagista gli aveva chiesto della taglia e io mi stavo facendo troppi film mentali! Sicuramente. Ma perché aveva deciso di comprarmelo?
Appoggiai accuratamente l'abito sul letto e lo stirai con le mani, studiandolo ancora una volta. Ad essere onesti, Nick si era offerto di pagare anche il resto delle mie cose, ma io avevo rifiutato perché non mi piaceva avere debiti, nemmeno se lui li considerava tutti dei regali. E inoltre, per quale ragione doveva prendersi la briga di spendere centinaia di euro per me? Era già stato fin troppo gentile offrendomi un posto dove stare. Perché sforzarsi tanto?
«Nice dress» disse Jerry, facendomi trasalire. Alzai gli occhi verso la porta spalancata del bagno, dove lui era fermo con indosso solo un asciugamano, e non seppi se esserne più irritata o spazientita.
«Grazie» sbuffai. «Non ti hanno insegnato a bussare comunque?»
«Why you want to be so formal?» fece finta di essere scandalizzato, lui. «You already saw me naked and I helped you to get at your boyfriend's party to ruin it. Plus, we're roommates now!»
«Ex boyfriend» lo corressi. «E potremmo evitare tutto questo inglese? Mi fai venire il mal di testa.»
Jerry tirò fugacemente su una spalla e s'infilò in bocca lo spazzolino che teneva in una mano. «'ome vui» rispose, e se già in condizioni normali era faticoso capirlo per via del suo pesante accento americano, adesso la missione diventava pressoché impossibile. «'avo di-en-o he è uh' be' e-ti-ho» proseguì comunque lui, strusciandosi energicamente le setole contro i denti.
Lo fissai per diversi secondi: ''stavo dicendo che è un bel vestito?'', così dovevo interpretare quel mugolio indistinto?
«Lo so» risposi tirando a indovinare. «Ti ho ringraziato, no?».
«'ì. Te 'ha 'e-ga-ato miu fra-teo, veoh?»
«Jerry, non ti offendere, ma non capisco una parola di quel che stai dicendo.»
Lui alzò un dito in aria e scomparve nel bagno, riemergendone un secondo dopo con la bocca finalmente pulita. Si appoggiò contro lo stipite della porta a braccia e gambe incrociate e ripeté la sua domanda: «Te l'ha regalato mio fratello quel vestito, non è vero?»
Mi scrollai nelle spalle. «Anche se non so per quale occasione» ammisi.
Jerry annuì e sul suo viso si dipinse uno strano sorrisetto. «Forse I know» disse. «Ha deciso di portarti con sé domani.»
«Domani?» mi accigliai. «Che cosa c'è domani?»
«Una festa di beneficenza vicino a Firenze. Parteciperà anche nostro padre. Credo che Nick stia per dichiarargli guerra» spiegò, controllandosi le unghie di una mano. Non avevo assolutamente idea di cosa stesse dicendo. Perché la gente attorno a me doveva parlare per forza per enigmi?!
«E che cosa c'entro io?» incrociai le braccia con aria diffidente.
Jerry lasciò stare le sue unghie e alzò lo sguardo insieme alle sopracciglia. «It's very simple, actually» disse come se mi stesse sfuggendo qualcosa di ovvio. «Tu gli piaci. Sul serio, I'm afraid. Ma papà darebbe di matto se lo venisse a sapere» abbozzò un sorrisetto. «Te l'avevo detto che avreste fatto meglio a lasciar perdere» e detto questo i suoi occhi scattarono verso l'orologio appeso alle mie spalle e lui esclamò: «Shit! The plane just landed! She'll kill me!» ma queste parole le aveva rivolte a sé stesso e non a me, perciò non reagii in alcun modo quando Jerry scappò, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo. In verità, la mia mente era rimasta bloccata alla frase di prima: «Tu gli piaci. Sul serio, I'm afraid. Ma papà darebbe di matto se lo venisse a sapere» e chissà perché sentii una strana oppressione al petto.
No, si sbagliava! A me e Nick era capitato di scontrarci in un momento sbagliato e di ingarbugliarci le vite a vicenda con un po' di attrazione fisica, ma era stata una mera questione di ormoni, una cosa scientificamente provata da esperti. Allora perché il mio cuore sembrava sul punto di schizzare fuori? No. Era colpa dello stress, perché io avevo una vita a cui tornare! Un piano che prevedeva un uomo innamorato di me, un bellissimo solitario e un'isola a centinaia di chilometri da qui su cui scappare. E non dovevo dimenticarmene o il mio treno avrebbe deragliato definitivamente dal binario giusto e alla fine mi sarei ritrovata a scavare tra i detriti! Sì, perché Nick era la mia catastrofe personale.
Lasciai perdere il vestito e afferrai la borsetta in cerca del telefono. Scorsi la lista di chiamate ricevute con due tocchi e mi fermai su uno dei numeri in lista. Ci cliccai e feci partire la chiamata. Non squillò a lungo.
«Pronto? Come posso aiutarla?» parlò una limpida voce femminile.
«Mi chiamo Vittoria Bianchi. Sto cercando la signora Angelini» risposi.
«Un momento per favore» disse la ragazza e mi mise in attesa. Partì una di quelle melodie che si ripetevano all'infinito e stavo quasi per cambiare idea e buttare giù, quando Diana finalmente prese la cornetta: «Pronto, Vittoria?» domandò. Sembrò discretamente sorpresa e non mi stupì considerando la reazione indignata che avevo avuto nel suo ufficio.
Perciò cercai di ricordarmi perché lo stessi facendo e di mettere da parte l'orgoglio prima di risponderle: «sì, sono io. Chiamo per dirti che accetto.»
Diana esitò. «Ne sei sicura?»
«Al cento per cento» deglutii.
D'un tratto l'orologio alle mie spalle batté le dieci, fuori gracchiò un uccellino spaventato da un animale più grande e all'altro capo della linea (avrei potuto giurarlo) Diana stava sorridendo – era esattamente come nei film in cui la protagonista muore perché accetta le caramelle dagli sconosciuti. E se io ero la protagonista, me ne stavo già pentendo.



 

---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Ragazzi, per stavolta devo saltare l’angolo autrice! Vi lascio con la speranza che il capitolo vi sia piaciuto e che magari qualcuno di voi abbia voglia di commentarlo! ^x^
Alla prossima!

PS: Vi ricordo che potete trovarmi anche su Instagram, Twitter e Facebook! ;)


M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Il triangolo no, non l'avevo considerato... (Figuriamoci il quadrato!) ***


Image and video hosting by TinyPic



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Stavolta inizio il capitolo con il mio angolo.. So che vi ho di nuovo fatto aspettare una vita, ma per l’ennesima volta la mia vita è stata rivoluzionata e ha preteso che restassi lontana dalla scrittura per tutto questo tempo. Non sto a entrare nei particolari, perché voglio solo dire GRAZIE a tutti di cuore per non aver abbandonato la storia e per aver atteso pazientemente questo capitolo. Voi, ragazzi, siete la ragione per cui vado avanti a dispetto di tutto! E spero che la vostra attesa non sia stata vana.. Quindi, ancora GRAZIE,

M.Z.





15
I L   T R I A N G O L O   N O ,    N O N   L ’ A V E V O   C O N S I D E R A T O . . .
( F I G U R I A M O C I   I L   Q U A D R A T O ! )



«Ma che cos'hai che non va?» mi domandò in tono arrendevole Francesca all'altro capo della linea. «Sembra quasi che tu e Giorgia abbiate cospirato per mandarmi al manicomio!» esclamò e dovetti allontanare il telefono dall'orecchio perché aveva praticamente gridato l'ultima parte della frase.
«Shhh!» le intimai, gettandomi una furtiva occhiata alle spalle, verso la porta – avevo l'irrazionale timore che ci potessero udire anche al piano di sotto, dove al momento una vera e propria fashion-squad stava lavorando su Nick. Erano riusciti a mettere le loro manine anche su di me, imponendomi trattamenti di bellezza che rasentavano la tortura, ma prima che avessero potuto finire il lavoro mi ero allontanata con la scusa di dover andare urgentemente in bagno e furono costretti a lasciarmi i miei dieci minuti di libertà. Ero sicura che persino in carcere fossero meno severi.
«Shhh un bel niente!» ribatté stizzita la mia amica. «No, non riesco proprio a capirvi! Una si dà alla criminalità per poter stare con un criminale e l'altra si dà alla criminalità per poter stare con un bastardo di prima categoria! Ma che vi frulla in quei cervelli?! Credevo che tu avessi deciso di cambiare rotta! Che non gli avresti più permesso di manipolarti! E per di più ora viene fuori che c'è un altro uomo, un uomo vero, che è attratto da te, e tu? Tu decidi di gettare tutto nel cesso!»
«Non c'è nulla da gettare nel cesso» osservai sforzandomi di non suonare troppo irritata. «Ti ricordo che Nick non ha mai detto di essere attratto da me, è stato suo fratello.»
«Ha importanza?» m'interruppe Francesca. «Il punto è che ti stai nuovamente cacciando nei guai! E per chi? Per uno che non ha mai avuto intenzione di lasciare la propria fidanzata! Al contrario, voleva sposarla e magari darti il ben servito! A te e a chissà quante altre come te!»
«Questo non puoi saperlo!» ribattei. «In verità non posso ancora crederci... Nick si sarà inventato tutto per ripicca. Carlo non ha mai dato idea di avere qualcun altra al di fuori di me e Lisa.»
«E questo dovrebbe allarmarti a maggior ragione!» osservò Francesca in tono di chi cercava di spiegare un concetto semplice a un bambino particolarmente ottuso. «Se non riesci nemmeno a capire quando mente riguardo alle sue relazioni, come puoi essere certa che non ti nasconda altro?»
Ecco. Questa era una di quelle cose che avrei preferito non sentire poiché mi ricordò la cartella con il nome di Carlo nascosta sulla pennina di Nick. L'avevo vista la sera in cui quest'ultimo era stato a casa mia e dubitavo che contenesse semplici foto ricordo della loro ormai appassita amicizia. Sopratutto dal momento che Nick era sembrato impaziente di mettere via la chiavetta dopo averla brutalmente disconnessa dal mio portatile.
«Ci sei ancora?» mi domandò Francesca, ma prima che potessi risponderle qualcuno bussò alla porta e la voce di Nick si fece strada attraverso il legno.
«Hei, tutto bene?» gli sentii chiedermi.
«Scusa, devo riattaccare!» sussurrai alla mia amica e senza aspettare una risposta buttai giù. Poi, a voce più alta, risposi: «Sì, tutto a posto!» e con ciò credevo che se ne sarebbe andato via, e invece Nick spalancò la porta e si piazzò con un sopracciglio alzato contro lo stipite. Lo guardai e involontariamente trattenni il respiro: quei stilisti sapevano davvero il fatto loro!
«Devo essere irresistibile» disse lui con un espressione da schiaffi. Mi costrinsi a sbattere le palpebre e a voltarmi verso il lavandino. Aprii il rubinetto dell'acqua fredda e mi lavai le mani, tanto per non destare sospetti sul reale motivo per il quale mi ero allontanata dalla squadra di torturatori.
«Affatto» sbuffai evitando di pensare agli enormi bigodini che dovevano far sembrare la mia testa un ammasso di bitorzoli. «È che è semplicemente stupefacente...»
Nick assottigliò improvvisamente lo sguardo. «Cos'è stupefacente?» domandò con diffidenza.
Mi strinsi nelle spalle e attraverso il riflesso nello specchio gli rivolsi un sorrisetto beffardo. «I miracoli che si possono compiere su un modello anche se quest'ultimo non è niente di speciale» risposi.
A Nick passò subito la voglia di sorridere; incrociò le braccia al petto e il suo riflesso mi regalò uno sguardo di sufficienza. Ma del resto era ciò che volevo, perché bisticciare con lui era più facile che affrontare quello che avevo in testa. E non mi riferivo ai bigodini.
Per fortuna Nick non era il tipo da lasciarsi ferire facilmente, si limitò a reclinare la testa e sospirò nel modo più teatrale possibile. «Però hai proprio ragione. Ed è per questo che sono così preoccupato» disse, scuotendo con amarezza il capo. Fu il mio turno di assottigliare lo sguardo e anche se non lo chiesi, lui intuì lo stesso che volevo sapere a cosa stesse alludendo. Quindi, raggiante, aggiunse: «Ho paura che nel tuo caso neanche degli esperti come i miei riusciranno a fare molto» e qui, compiaciuto, alzò di nuovo un angolino della bocca.
Non ci arrivai subito ma non appena capii l'insinuazione afferrai uno dei due asciugamani a mia disposizione e lo tirai con tutte le forze a lui. Con mio grande rammarico Nick riuscì a schivarlo piegandosi a sinistra e alzando le mani in segno di resa esclamò: «Calma, soldato! Ero passato solo per dirti che Viola ti aspetta per rimuovere quelle protuberanze» concluse divertito indicando con un cenno i miei bigodini. Offesa, stavo per tirargli anche l'altro asciugamano, ma lui intuì le mie intenzioni e scuotendo un indice sparì richiudendo la porta. Rimisi l'asciugamano a posto e storsi la bocca: che tipo!
«E comunque è da maleducati irrompere in un bagno occupato!» gli gridai dietro nella speranza che potesse ancora sentirmi. Non arrivandomi tuttavia una risposta tornai a guardarmi allo specchio: Medusa a confronto era una reginetta di bellezza! Ma perché Nick doveva cogliermi ogni volta in uno stato tanto imbarazzante? Prima in reggiseno della nonna, adesso con le escrescenze... Non potevo, che so, svegliarmi già fin dal mattino come una di quelle ragazze delle pubblicità perfettamente truccante, pettinate e sorridenti? Evidentemente no. E così conclusi che non avrei mai dovuto fermare Francesca quando, a diciannove anni, si era messa in testa di voler andare a protestare contro l'industria del fashion e la loro ingannevole visione di bellezza femminile.
«Ma chére!» mi sentii chiamare da Viola dalle scale. «Vogliamo darci una mossa?»
«Arrivo!» risposi, e sospirando abbandonai il mio rifugio.
 
«Oh, sono senza parole! Abbiamo tirato fuori un bel diamante!» batté energicamente le mani Viola, facendo qualche passo indietro per ammirarmi.
Avrei voluto condividere il suo entusiasmo se solo avessi avuto uno specchio a mia disposizione, e invece niente. Ero ferma in mezzo alla stanza, impacciata e con un sorriso tiratissimo mentre sette paia di occhi mi osservavano da tutte le angolazioni. Il tizio allampanato dall'alta cresta viola, che era il parrucchiere, esclamò: «Non vedo l'ora che Nicholas ti veda!» e il mio sorriso, se possibile, si fece ancora più tirato.
«Cos'è che dovrei vedere?» domandò proprio Mr Faccia-Tosta comparendo sulla porta d'ingresso. Il suo naso era di nuovo incollato allo schermo del Blackberry, non appena ero scesa lui era uscito per una delle sue misteriose chiamate e non aveva più dato segni di vita. Ma adesso era di nuovo qui e volevo dimostrargli che nel mio caso, degli esperti come i suoi erano riusciti a fare molto, eccome! Anche se non avevo alcuna certezza a riguardo. In ogni caso, alzai fiera il mento e mi schiarii la voce per attirare la sua attenzione. Nick mise via il telefono e alzò distrattamente gli occhi su di me... e d'un tratto si bloccò e il suo pomo d'Adamo si mosse nervosamente su e giù. Finalmente abbozzai un sorrisetto e con un tono compiaciuto, simile a quello che aveva usato lui con me, ripetei: «devo essere irresistibile
Nick si sforzò di ricomporsi e con magistrale noncuranza si girò per prendere le chiavi dell'auto dal portaoggetti. «Avevi ragione, la mia squadra sa compiere davvero i miracoli» disse con un ghigno. «Andiamo, non possiamo arrivare tardi alla nostra festa» aggiunse poi.
Sulle prime alzai gli occhi al cielo e sbuffai, ma mentre salivo sull'auto mi resi conto che Nick aveva definito il ricevimento ''la nostra festa'' e involontariamente le mie guance si tinsero di rosso. Magari non aveva voluto sottintendere niente con questo, tuttavia non potei fare a meno di ripensare alla conversazione avuta con Jerry la sera prima.
E a proposito di Jerry, non l'avevo più visto. Nick aveva detto che sarebbe venuto direttamente alla festa e io non avevo indagato oltre. In realtà non avevo più tanta voglia di parlargli perché ero certa che avrebbe nuovamente criticato il fatto che fossi in compagnia di suo fratello nonostante i suoi molteplici avvertimenti. Il mio stomaco fece persino una capriola nel momento in cui Nick svoltò su una lunga strada che si estendeva attraverso i campi, dal momento che là in fondo già si intravedeva il maestoso casale a cui eravamo diretti. Sì, Jerry aveva fatto proprio un ottimo lavoro cercando di spaventarmi, ero terrorizzata dalla sola idea di incontrare Gordon senior e di mettermi in qualche modo – sebbene contro la mia volontà – in mezzo a lui e suo figlio maggiore. Nick dal canto suo pareva del tutto imperturbabile, come al solito del resto; raggiunse l'enorme cancello in ferro battuto e rallentò l'andatura mentre vi entrava, immergendosi tra file e file di lussuose auto che mi fecero salire i battiti al minuto. Mi domandai immediatamente in cosa mi stessi immischiando, con che razza di gente avrei dovuto conversare? La lezione al ristorante non mi era servita a niente? Ero masochista? Decisamente, se mi ero lasciata trascinare in questo posto.
«Non preoccuparti» disse d'un tratto Nick, parcheggiando, perfettamente a suo agio, tra una Lamborghini e una Maserati. «Nessuno avrà niente da ridire. Sei davvero... umh» si schiarì la voce e guardò fuori dal finestrino, «...Viola e i ragazzi hanno fatto un ottimo lavoro, non devi sentirti a disagio. Anzi, non dovresti mai sentirti a disagio perché sei...» lasciò anche questa fase in sospeso e scese dall'auto. Venne ad aprirmi la portiera e mi porse un braccio che accettai – che cosa ''ero davvero'' potevo solo supporlo.
«Vorrei poterti credere, ma non mi avete lasciato il tempo di specchiarmi» dissi, lisciandomi la gonna con la mano libera. Nick parve sinceramente sorpreso, inarcò le sopracciglia e mi guardò interrogativo, poi si girò a destra e a sinistra e mi rivolse un sorriso.
«Vieni» disse tirandomi per il braccio. Avrei voluto protestare ma non ne ebbi il tempo perché lui partì a razzo verso il casale e dovetti concentrarmi sul restare in piedi mentre cercavo di tenere il suo passo sui vertiginosi tacchi che mi aveva scelto Viola. Per fortuna, quando arrivammo alla stretta porticina in legno grezzo non mi ero rotta niente. Quindi Nick la aprì e mi spinse dentro. Mi guardai attorno, studiando i soffitti bassi tinti dello stesso color crema delle pareti e gli innumerevoli oggetti che erano stipati dentro quella stanzetta.
«Vuoi rinchiudermi qui per non essere costretto a vergognarti di me o il tuo intento è quello di uccidermi e seppellire il mio corpo da qualche parte tra le cianfrusaglie?» domandai in un misto tra ironia e nervosismo.
In tutta risposta il mio ex capo mi superò e andò dritto verso un oggetto alto e rettangolare, coperto da un vecchio panno ingiallito. Lo strattonò via e davanti a noi comparve un bellissimo specchio dalla cornice riccamente decorata. Non avevo idea dell'epoca a cui appartenesse ma aveva l'aria di essere davvero costoso. Come facesse Nick a sapere di questa stanza o a conoscere il suo contenuto, era pure un mistero. Comunque non feci domande, guardai invece il mio riflesso e rimasi come impietrita: la ragazza davanti a me somigliava a una creatura ultraterrena, con una bella treccia fissata sulla testa a mo' di corona e l'abito in pizzo bianco abbinato ai gioielli pieni di pietrine che la stilista mi aveva scelto con tanto scrupolo. E pensare che l'avevo pure guardata storto quando mi aveva accostato la collana per vedere che effetto facesse.
Nick mi sorrise di nuovo, socchiuse leggermente le labbra per dirmi qualcosa ma le parole non uscirono mai perché dietro di me apparve qualcuno. La lunga ombra maschile si allungò sul pavimento come una macchia d'inchiostro e gli occhi di Nick si spostarono al di là della mia spalla. In un attimo perse ogni traccia di buonumore e al suo posto apparve un espressione dura e impenetrabile.
«Dad...» disse senza alcuna enfasi. Provai un brivido lungo la spina dorsale.
«Here you are. With your... friend» gli rispose l'uomo sottolineando la parola ''amica'' in un modo che non mi piacque. Mi voltai e incontrai gli occhi azzurri e freddi di un uomo piuttosto alto, robusto, con un accenno di barba sale e pepe, che mi guardò come se fossi un oggetto da arredamento di poco conto. Si aspettò che gli rispondessi qualcosa, ma la voce mi si strozzò in fondo alla gola e mi ritrovai a fissare la punta delle sue scarpe perfettamente lucidate, odiandomi per non essere in grado di pensare a un modo intelligente di ribattere.
In ogni modo, lui non mi ritenne degna della sua attenzione, quindi la spostò sul figlio e, in un italiano pessimo almeno quanto quello di Jerry, gli disse: «Dobbiamo parlare.» Nick batté appena le palpebre, la sua mascella però aveva pulsato in modo minaccioso e mi ricordai della nostra conversazione di poco tempo fa, quella riguardo a sua madre e al suo divorzio dal marito; «mio padre non se la meritava comunque» aveva detto, e cominciavo anche a immaginare il perché. «Adesso» aggiunse Gordon senior, e fui certa che stavolta Nick avrebbe obbedito.
Lui infatti mi affiancò e, con una strana energia sinistra che gli vibrava addosso, mi passò il dorso delle dita di una mano su una guancia, accennando a un sorriso. «Faccio presto, aspettami sotto il tendone» disse in un soffio troppo intimo per i miei gusti. Rimasi inebetita a fissarlo – che cavolo gli era preso? – mentre lui, come niente fosse, mi diede le spalle e seguì fuori dal ripostiglio suo padre che improvvisamente aveva l'aria di volermi sbranare.
Non appena le loro figure scomparvero mi sentii abbastanza coraggiosa da riemergere a mia volta alla luce del sole. In un'altra occasione li avrei seguiti, tuttavia l'idea di venir scoperta e di suscitare ancora più astio nel signor Gordon mi fece desistere e feci come mi aveva chiesto Nick: andai a cercare il tendone.
Per fortuna non fu difficile individuarlo; appena svoltato l'angolo del casale mi ritrovai su un ampio prato affollato di persone eleganti. Nel mezzo del prato c'era una bella struttura triangolare che riconobbi come la mia meta e lì andai, approfittando dell'angolo bar che era stato allestito davanti a una distesa di sedie esattamente uguali. Dato che non conoscevo nessuno e non avevo idea di come si facesse amicizia con gente ricca, mi sembrò un ottimo modo per mimetizzarmi fino all'arrivo di Nick. Quindi mi misi a sedere su uno degli sgabelli e ordinai una Mimosa con l'intenzione di non esagerare, almeno per stasera, con gli alcolici. La barman che aveva preso la mia ordinazione me la preparò in un attimo e mi ritrovai a sorseggiare un eccellente drink con l'aria di chi sapeva di non c'entrare niente con l'ambiente e che faceva fatica a nasconderlo.
Così passarono cinque minuti, poi dieci. Dopo venti iniziai a supporre che Gordon senior avesse dato una botta in testa al figlio e una volta legato lo avesse caricato su un jet privato per riportarlo in America, lontano dall'Italia e dalla sua ''friend''. Mi venne quasi da ridere, quando qualcuno si piazzò sullo sgabello accanto a me e iniziò a fissarmi. Somigliava a un déjà vu: il bancone del bar, la mia presenza fuori posto, lui che cercava di attirare la mia attenzione... Solo che la persona accanto a me non era Nicholas ma qualcuno che non mi sarei mai aspettata di trovare qui: Diego. Riconoscendolo a stento, per poco non mi strozzai con la Mimosa; aveva l'aspetto di una rock star e a giudicare dal ghigno, aveva raggiunto il suo scopo: impressionarmi.
«Fammi indovinare, stasera non sei qui per servirmi dello champagne?» gli domandai a mo' di saluto dopo aver finito di tossire.
Lui si sfilò gli occhiali da sole in stile Aviator dal naso e con gesta intenzionalmente pompose li appese allo scollo a V della maglietta che portava sotto il gilè in pelle. Dopodiché ordinò un cocktail dal nome complicato e incrociando le dita sopra il bancone mi ammiccò.
«Scommetto che non te lo aspettavi!» disse tutto orgoglioso. E in effetti aveva ragione, quindi scossi il capo. «Beh, sono ancora un cameriere» proseguì lui, soffermandosi per ringraziare la barman che gli mise davanti il bicchiere pieno di un liquido color topazio. «Solo non oggi. Sono qui con mia madre. Nel tempo libero le piace fare la collezionista d'arte» alzò fugacemente un angolo della bocca, «e io divento la sua guardia del corpo, perché lei si ostina a voler pagare in contanti e non mi piace quando gira da sola con tutti quei soldi» concluse e bevve un sorso della sua ordinazione.
«Tua madre è qui?» mi guardai attorno allarmata; si aspettava che facessi qualcosa? Mi avrebbe voluto mandare un messaggio? O avrebbe preferito che lo facessi io?
Notando la mia espressione scombussolata Diego sospirò e si mise più comodo sullo sgabello. «Rilassati» disse poi. «So che hai accettato la sua folle proposta. Non posso mentirti e dire che ne sia felice, ma non sono tuo padre o il tuo fidanzato, perciò non spetta a me metterti i bastoni fra le ruote. A proposito, lui sa che cosa stai facendo?» domandò in tono più cupo.
«Chi?» chiesi di rimando.
«Il tuo fidanzato» corrucciò la fronte Diego.
«Non ho un fidanzato» risposi e mi guardai di nuovo intorno in cerca di Diana. Ma smisi di farlo non appena notai, con la coda dell'occhio, l'espressione sollevata di suo figlio. «Che c'è?» gli domandai allora.
«Quindi quel tipo famoso, quello che era sotto casa tua ieri mattina, non sta con te?»
Diffidente, scossi la testa. Diego si raddrizzò sulla sedia con rinnovato vigore.
«Bene» disse semplicemente, dopodiché bevve qualche sorso del suo drink mentre in me cominciò a nascere uno strano sospetto: aveva una cotta per me? Assurdo, non mi conosceva nemmeno! Soffocai la vocina nella mia testa e bevvi anch'io, cercando di non dare troppo peso alla cosa. Un compito che si rivelò alquanto difficile dal momento che Diego iniziò a lanciarmi delle occhiatine. Per l'ennesima volta sperai che Nick tornasse presto. E mentre io pregavo, Diego si fece improvvisamente pensieroso.
«Se non state insieme che ci fai a casa di sua madre?» mi domandò assottigliando lo sguardo.
Mi ci volle qualche secondo per decodificare quell'informazione. Dunque eravamo a casa di Claudia Ferrari. Ed ecco spiegato il motivo per cui Nick conosceva così bene questo posto. Mi aveva portata qui, ma con quale scopo? Era solo per dichiarare guerra a suo padre, come mi aveva suggerito Jerry? O tra noi c'era qualcos'altro? In tal caso, come si poteva classificare? In quel frangente mi tornarono in mente i nostri baci nella mia auto e le mie guance si tinsero pericolosamente di rosso. Mi portai il bicchiere alle labbra per dissimulare l'imbarazzo... solo che era vuoto, e invece di insospettirsi e riempirmi di altre domande, Diego decise di approfittarne.
«Un'altra Mimosa?» si offrì, alzando la mano per richiamare la barman.
«Vuoi farla ubriacare, mio caro?» intervenne improvvisamente una voce femminile e Diana comparve tra noi come dal nulla, tutta vestita di nero. Mi posò una mano sulla spalla e mi rivolse uno dei suoi sorrisi più innaturali. «Sono piacevolmente sorpresa di incontrare una delle mie dipendenti a un simile evento» disse senza particolare enfasi. «Questo vestito ti dona molto» aggiunse e il suo sorriso si stiracchiò dell'altro.
«Grazie» risposi seppure dubitavo fosse un vero complimento.
Lei però non era interessata tanto a me quanto al bicchiere di vino bianco che ordinò. Lo prese accuratamente in una mano guantata di finissimo pizzo e si rivolse al figlio: «ho già trovato un quadro interessante. Penso che lo acquisterò insieme a quella deliziosa statua di cui ti avevo parlato. L'asta inizia tra mezz'ora, ho già prenotato i posti» al che lui storse il naso e lei, del tutto indifferente alla cosa, se ne andò. Niente frasi in codice, nessun biglietto criptato passato di soppiatto. Forse nel mondo reale lo spionaggio funzionava in maniera diversa da quello dei libri o film e questo mi sollevò, perché significava che non avrei dovuto fare niente di pericoloso a differenza di ciò che sosteneva Francesca.
«Mi dispiace» disse Diego osservando la schiena di sua madre sparire tra la folla.
«E di cosa?» la guardai anch'io.
«Se non le avessi raccontato di quello che era successo alla festa di quel Marco...» – «Carlo», lo corressi a vuoto – «...non saresti stata trascinata in questa storia e non dovresti tornare da lui» spiegò e mi parve del tutto sincero. Poi però mi guardò con un espressione più determinata e capii che non aveva ancora finito. Un secondo di esitazione dopo, infatti, proseguì: «Tuttavia, se lei non ti avesse coinvolto, adesso non saresti qui con me e io non avrei la possibilità di conoscerti» e con questo allungò una mano per posarla sulla mia. Purtroppo non ebbi la prontezza di toglierla, per tanto, quando finalmente Nick arrivò, ci trovò in quell'assurda situazione. Non appena lo vidi per qualche assurda ragione mi sentii colpevole e mi liberai dal gesto amorevole di Diego per incontrare gli occhi scuri di Nick.
Lui reclinò appena il capo e la sua espressione fu di pietra quando mi disse: «Mi preoccupavo di averti lasciata sola troppo a lungo, ma a quanto pare non ce n'era bisogno.» Dopodiché guardò Diego e altrettanto freddamente si rivolse a lui: «Di nuovo tu. È bello sapere che sei sempre nei paraggi quando ce n'è bisogno.»
Io spostai gli occhi dall'uno all'altro e fui sul punto di dire qualcosa – qualsiasi cosa – quando Diego si alzò e con espressione rilassata s'infilò le mani nelle tasche dei jeans.
«Forse è destino che le stia sempre attorno, amico» rispose e guardò me: «ci vediamo più tardi» disse a saluto e pensai che a quel punto se ne sarebbe andato, ma lui si abbassò e cogliendomi di sorpresa per la terza volta mi stampò un bacio sulla guancia. Rimasi come paralizzata mentre lui finalmente si allontanava, soddisfatto di averla spuntata con Nick. Quest'ultimo nel frattempo aveva serrato la mascella e non appena Diego sparì, decise di voltarsi e andarsene anche lui. Scattai immediatamente in piedi e gli corsi dietro per raggiungerlo, irritata da quel comportamento.
«Sei infantile!» gridai, fregandomene delle ''signore per bene'' che si voltarono con espressioni scandalizzate al mio passaggio. Nick invece non si fermò né rallentò l'andatura. Ma per sua sfortuna sapevo essere davvero testarda e continuai a tallonarlo nonostante le scarpe scomode. «Non è giusto rifarsela con una persona solo perché hai discusso con tuo padre!» proseguii, alzando di più la voce.
A quel punto Nick inchiodò e per poco non gli finii addosso. Lui si voltò e mi regalò uno sguardo di puro gelo. «Tu non sai di cosa parli!» esclamò e per un attimo nei suoi occhi scorsi un sentimento misto: rabbia e disperazione. Mi disarmò. «Tu sei solo una ragazzina che non ha idea delle cose in cui si immischia! Non sai distinguere le persone! Non riesci a dominare le tue stesse emozioni! E vorresti farmi la morale? Sul serio, Vittoria?» proseguì, iniziando a gesticolare. Sembrava furioso e qualcosa mi suggerì che stavolta non l'avremmo risolta tanto facilmente. Mi salì un groppo in gola, ma non avevo intenzione di mollare la presa. Ero stata ferita nell'orgoglio e al diavolo tutti quelli che ci stavano osservando!
«Io sarei una ragazzina?» rimbeccai imperterrita. «Detto da uno squilibrato suona quasi come un complimento! Prima sembri normale e un secondo dopo ti richiudi in te stesso, ti arrabbi o ti comporti da presuntuoso! Ti fai mai un esamino di coscienza? O magari è più facile dare la colpa a chi ti circonda?!» gridai.
«Tu...!» a malapena si trattenne Nicholas e il suo sguardo mi trapassò come un coltello. Ero sicura che mi avrebbe voltato le spalle, che se ne sarebbe andato lasciandomi lì da sola, com'era successo tante volte con Carlo dopo i nostri litigi in pubblico, ma probabilmente Nick aveva ragione riguardo alla mia scarsa capacità nel riconoscere le persone per quel che erano. E per questo, l'ultima cosa che mi sarei aspettata era di sentirmi afferrare per le braccia e di sentirmi scuotere con disperazione, come se Nick avesse nutrito il bisogno disperato di dirmi qualcosa. Ma Diego non gliene lasciò il tempo, spuntò da qualche parte e sferrò un pugno a Nick che accusò il colpo, mi lasciò andare e barcollò massaggiandosi la mascella.
«Santo Cielo, Diego!» sentimmo esclamare Diana. Corse immediatamente dal figlio e mi lanciò una lunga occhiata sgomenta. Io però non mi mossi, l'unica cosa a cui pensai fu che stava succedendo ancora: Nick stava di nuovo per fare a botte. E tutto per colpa mia. «Vittoria, fermalo immediatamente!» mi gridò Diana riscuotendomi dalla trance. Nick infatti stava per rispondere all'attacco e la mia futura boss si sarebbe trovata sulla sua traiettoria perché stava cercando di difendere il figlio che si strattonava alla sua presa. Era una scena surreale, a cui assistevano un centinaio di occhi sdegnati, e io dovevo fare qualcosa prima che le cose degenerassero definitivamente. Quindi scattai in avanti e prima che Nick potesse fare un solo passo mi frapposi tra lui e Diego, posando le mani sul petto del primo. Lo sguardo di Nick si staccò subito dal viso del suo obbiettivo e si posò sconvolto su di me. Io spostai le mani dal suo petto al suo viso, stringendolo leggermente per obbligarlo a concentrarsi solo su di me.
«Nick» dissi in tono fermo ma pacato. «Nick, no.»
Lui esitò, ma piano piano il pugno che aveva alzato iniziò a calare e io lo strinsi più forte, puntando risoluta lo sguardo nel suo. Poi il risentimento nei suoi tratti si spense e dal sospiro di Diana alle mie spalle intuii che anche Diego doveva essersi dato una calmata. Finalmente lasciai il viso di Nick, i nostri occhi però rimasero a scrutarsi. Non volevo allontanarmi senza avere la certezza che quei due non avrebbero ripreso ad azzuffarsi un secondo dopo.
«Che sta succedendo qui?!» s'accese una voce maschile. Nicholas Gordon senior si fece strada tra gli spettatori e studiò a uno a uno le nostre quattro figure, ferme in mezzo allo spazio che si era creato attorno a noi. Per un attimo i suoi occhi azzurri indugiarono sul viso di Diana che ricambiò con fredda indifferenza. Dopodiché l'uomo notò me e la smorfia inacidita che assunse la sua bocca non mi lasciò dubbi riguardo all'antipatia che ormai nutriva a tutti gli effetti nei miei confronti. Tuttavia, stavolta non mi lasciai intimidire e, anche se trattenni il respiro, non distolsi lo sguardo da lui. «Che cosa è successo al viso di mio figlio?» mi ringhiò.
«È stata solo colpa mia!» s'intromise immediatamente Diego. «E non me ne pento nemmeno un po'!» aggiunse a mo' di sfida. Davanti a me Nick gli scoccò un'occhiataccia ma per evitare che accettasse la sua provocazione gli afferrai un polso e scossi lievemente la testa. Lui non si mosse.
«Tu?!» sputò Gordon senior rivolgendosi a Diego. «Avevo avvertito mia moglie che tu e tua madre non siete una compagnia raccomandabile! Ma la prossima volta non le lascerò commettere lo stesso errore!» dichiarò e non potei fare a meno di voltarmi verso gli accusati. Quindi si conoscevano? Mi fu impossibile capirlo, poiché nessuno dei due lasciò trasparire alcuna emozione. Lo trovai piuttosto strano, ciononostante era Nick a preoccuparmi di più al momento. Perciò tornai a guardare suo padre che a stento tratteneva la rabbia e il disgusto nei confronti degli ospiti indesiderati e pensai sinceramente che non potesse andare peggio.
Naturalmente mi sbagliavo, perché nello stesso istante, entrando a tutta velocità dal cancello, apparve una modesta utilitaria grigia. Il conducente si fermò a caso all'inizio del parcheggio e scese immediatamente dal veicolo. Anche dal lato del passeggero si aprì la portiera e persino da quella distanza riconobbi la figura atletica di Jerry. Era accompagnato da una ragazza dall'aspetto esile e corti capelli castani che le scendevano dritti appena sopra le spalle, il suo viso era coperto da grossi occhiali da vista per cui non avrei saputo dire se fosse qualcuno che avrei potuto conoscere o meno. I due si presero per mano e si affrettarono nella nostra direzione. La ragazza dovette alzare la gonna del vestito con la mano libera per non rischiare di pestarla e cadere, sotto portava un paio di scarpe da ginnastica. Questo dettaglio mi lasciò perplessa; dava l'impressione di essere stata interrotta a metà dei preparativi e che fosse stata costretta ad uscire direttamente così. Cosa che, in effetti, si sarebbe potuta dire anche di Jerry che sfoggiava una maglietta con una stampa volgare sopra un paio di pantaloni ben stirati. Nessuno disse niente quando si avvicinarono, dato che nessuno si aspettava qualcosa del genere, perciò Jerry iniziò subito a parlare e la persona a cui si rivolse fu suo fratello Nick: «Dovresti portarla via» era allarmato e le parole gli uscirono di getto in un italiano migliore del solito. «Sono passato a casa tua e ho trovato Carlo che cercava di forzare la serratura! Quando mi ha visto ha praticamente dato di matto, accusandoti di avergli rovinato la vita. He knows Vittoria is with you e che non ha intenzione di lasciarti her too. Era ubriaco e ho paura che potrebbe fare qualcosa di stupido se...» il suo monologo venne interrotto dal rombo di un motore e una BMW fece il suo ingresso nella proprietà, sbandando leggermente. Carlo superò il parcheggio senza accennare a voler rallentare e per un secondo temetti che fosse impazzito e che fosse intenzionato a fare una strage. Fortunatamente però lui inchiodò, anche se ad appena due metri dalla folla, e barcollando scese giù. Aveva un aspetto terribile e la puzza di alcol m'investì come un'ondata non appena mi raggiunse. Ma a farmi più impressione furono i suoi occhi: rossi, lucidi e iniettati di sangue. Non riuscii a scansarmi quando mi si addossò e automaticamente lasciai la presa sul polso di Nick per afferrare quello che una volta era stato il mio amante. Al mio fianco Nick scattò senza sapere cosa fare, quindi rimase ad osservare Carlo che nel frattempo prese a singhiozzare. Da qualche parte esplose un forte flash e tutti quanti, escluso Carlo, ci voltammo verso il fotografo. Questo sorrise e si dileguò. Capii troppo tardi che si trattava di un giornalista, ma al momento avevo altre priorità. Al contrario di Gordon senior che diventò paonazzo ed esclamò: «la nostra famiglia non è mai stata umiliata in questo modo! E tutto per colpa di una stupida ragazzina!» inveì incenerendomi con lo sguardo, dopodiché corse dietro al paparazzo, forse per convincerlo a non pubblicare lo scatto.
«Vittoria» biascicò Carlo contro la mia spalla. «Perché mi hai fatto questo? Perché sei passata dalla sua parte? Dovevi solo aspettare...» disse delirante. «Dovevi solo aspettare» ripeté e non seppi come rispondergli, perciò feci l'unica cosa che mi venne in mente: gli battei piano sulla spalla sperando che si calmasse. Al mio fianco Nick si agitò di nuovo, non osando tuttavia intromettersi. La rabbia verso Diego era stata accantonata, mentre quest'ultimo fremeva ancora dalle narici.
«Lasciami!» ordinò a sua madre, strattonandosi alla sua presa. Lei non obbiettò, a stento trattenendo dietro la maschera di ferro l'agitazione che doveva provare. «Mi dispiace Vittoria, non volevo che le cose andassero così» disse lui a me e io scossi la testa, sebbene mi era impossibile girarmi per via del peso di Carlo. Dunque lo sentii andare via e in seguito lo seguì anche Diana.
«Dovremmo portarlo via» mi suggerì a bassa voce Nick, riferendosi a Carlo. Ma lui non fu d'accordo e alzò di scatto il capo per fulminarlo.
«Tu non mi tocchi!» ringhiò e strinse la presa attorno al mio corpo tanto forte che emisi un gemito. «Sei un maledetto bugiardo, ipocrita! Credevo che tu fossi mio amico, avevo sinceramente accettato le tue scuse quel giorno all'aeroporto, e invece sei venuto solo per rovinare tutto!»
«Calmati» intervenni per limitare i danni, stringendolo a mia volta. «Andiamo via solo io e te, d'accordo?» proposi poi e finalmente Carlo si rilassò un pochino.
«Non esiste» mi sussurrò tra i denti Nick. «Non ti lascio andare da sola con lui!»
«Sono ancora qui, sai?!» esplose Carlo prima che potessi aprire bocca. «Lei non è mai stata tua! Non ci credo neanche per un secondo a tutte quelle cazzate che ci hai raccontato al ristorante! Quel sabato sera era venuta per me! Aveva un appuntamento con me! Perché lei ama me!» quasi urlò rimettendosi dritto e così dicendo mi afferrò per un braccio, trascinandomi, furioso, all'auto.
Nick fu sul punto di scattare in avanti quando mi voltai e gli mimai un ''no'', bloccandolo incredulo sul posto. Dopodiché mi rivolsi a Carlo che frugava selvaggiamente nelle tasche in cerca delle chiavi e gli posai gentilmente una mano sul braccio.
«Sono ancora nel quadro di accensione» gli feci notare con un cenno l'interno della BMW. «Ricordi che mi avevi promesso che me l'avresti fatta guidare almeno una volta?» domandai, sforzandomi di non suonare troppo nervosa. Carlo mi guardò spaesato, la fronte corrugata e imperlata di sudore. Poi, lentamente annuì. «Posso?» tentai allora. Lui annuì di nuovo e rivolgendogli un sorriso poco credibile agli occhi di una persona sobria, salii al posto del guidatore. Attesi che Carlo si sedesse a fianco a me e attraverso il parabrezza guardai Nick. Lui sostenne il mio sguardo senza tradire più emozioni e mi augurai di avere ancora un amico una volta che questa storia sarebbe finita.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** La fine di un'Era ***


Image and video hosting by TinyPic




16
L A   F I N E   D I   U N ' E R A



A volte è difficile ammettere che sbagliamo, finché i nostri sbagli non diventano talmente evidenti da metterci in imbarazzo. Ma non con gli altri, piuttosto con noi stessi.
Fu per questo che, quando accostai lungo una delle innumerevoli stradine sterrate in mezzo ai campi e osservai Carlo precipitarsi fuori per rigurgitare una buona parte di alcol che il suo corpo non era in grado di contenere, mi sentii una completa idiota. Mentre lo ascoltavo dare di stomaco (non avevo trovato abbastanza forza di volontà per uscire a sostenerlo) nella mia testa, per la prima volta, si formò una domanda: era davvero questo l'uomo per cui credevo valesse la pena di mettersi nei guai? Ma più di tutto, era davvero ciò che volevo? Dopotutto non mi ero disperata così tanto per la nostra rottura. Certo, ci ero rimasta innegabilmente male, mi ero affezionata alle cose che avevamo fatto insieme, al pensiero di avere una spalla su cui piangere, qualcuno che poteva ricambiare i miei baci, ma diciamoci la verità: una donna innamorata per davvero non si sarebbe mai chiesta se combattere per il proprio uomo fosse la cosa migliore. Inoltre, se Carlo mi avesse davvero amato a sua volta, adesso non saremmo in questa situazione. Giusto?
Sbirciai nello specchietto retrovisore con questa nuova, inaspettata consapevolezza e scorsi la schiena inarcata di Carlo scuotersi a ogni ondata di nausea. Forse non era il caso di lasciarlo da solo dopotutto. Quindi scesi dall'auto e stringendomi in un abbraccio – il sole stava calando e con esso anche la temperatura – raggiunsi lo straccio che era diventato l'uomo che un tempo mi sembrava di conoscere alla perfezione.
«Stai bene?» m'interessai, consapevole del fatto che fosse una domanda piuttosto sciocca e con una risposta altrettanto ovvia. Tuttavia Carlo non diede segno di esserne scocciato; cercò invece di rimettersi dritto e pulendosi la bocca con la manica della giacca si appoggiò contro il bagagliaio dell'auto. Poi scosse la testa, fissando il terreno sotto i nostri piedi.
«Ti serve qualcosa?» insistei e finalmente lui mi guardò e abbozzando un sorriso rispose: «No. Mi basta sapere che non mi hai abbandonato.»
Poi cadde il silenzio. Un filo d'aria mosse l'orlo del mio vestito; questa frase era esattamente una di quelle cose che solo qualche settimana prima mi avrebbero spinto tra le sue braccia, incondizionatamente. Gli avrei perdonato ogni cosa, giurandogli che gli sarei rimasta accanto finché l'avesse voluto. Stavolta, però, non sentii questa necessità; solo una lieve pressione al torace che terminò in un battito di ciglia. Distolsi lo sguardo da lui e mi voltai per ammirare il tramonto.
«Bello, vero?» domandai come se avesse importanza per la nostra conversazione. Lui rimase in silenzio e avrei potuto scommettere qualunque cosa che, adesso che era tornato un pizzico più lucido, si fosse stretto nelle spalle con indifferenza. Non riuscii a trattenere un sorriso: Carlo non era mai stato un tipo molto romantico, solo qualche sporadico episodio che aveva concesso a me, a Lisa e magari anche alla misteriosa terza donna. Ma se ci fosse stato Nick qui con me... bloccai quel pensiero sul nascere: che cosa poteva importarmene?
«Io e Lisa ci siamo lasciati» d'un tratto Carlo interruppe le mie elucubrazioni, strascicando le parole. «Definitivamente.»
«Ah.»
«Ah...e nient'altro?» si sorprese.
«Mi dispiace. È stata colpa mia» mi sentii in dovere di precisare. Adesso che cominciavo a vedere le cose da una nuova prospettiva, ero sinceramente pentita ma non sapevo che altro aggiungere. Tutto questa storia sembrava in qualche modo sbagliata. E anche Carlo doveva averlo notato perché improvvisamente si irritò ed emise uno sbuffo.
«Una reazione piuttosto strana da parte di qualcuno che non vedeva l'ora che accadesse» osservò pungente.
A quel punto fui ancora più in difficoltà, perché sapevo che aveva ragione. Il problema era che non me ne importava come prima e non riuscivo proprio ad obbligarmi a sentire il contrario. Che cos'era accaduto in quei giorni da stravolgere ogni mio sentimento? Non ne avevo idea. Ciononostante tornai a guardare Carlo dritto negli occhi (arrossati) che, complice l'alcol, ricambiò con un espressione frustrata.
«È per colpa sua, non è vero?» esclamò d'un tratto. «L'ha fatto di nuovo. Prima Jessica, adesso tu...» continuò con aria più tormentata, passandosi una mano tra i folti ricci che al tramonto avevano assunto un luminoso color rame. «Come diavolo ci riesce?!» si rivolse poi a me, accigliandosi quasi si aspettasse davvero una risposta. Increspai la fronte tentando di districarmi nel groviglio di quelle accuse ma non riuscii a venirne a capo.
Finché...
D'un tratto mi si accese una lampadina.
«Jessica?» domandai mentre davanti agli occhi mi appariva chiaro il CD e la dedica scarabocchiata sopra: ''A Nicky, dalla tua libraia preferita. Spero che penserai a me e al nostro viaggio a Firenze ogni volta che lo ascolterai!'', firmato ''J. '', e pensai che forse quella J. era proprio lei, Jessica. Il mio stomaco si chiuse. Quindi era stata così importante, e chissà, magari lo era ancora. Per entrambi. Beh, avrei dovuto collegare le cose molto prima, ancora dopo quello che aveva detto Carlo in albergo: «non sarà mai Jessica...».
Ma anche Nick la pensava così? Per l'ennesima volta mi ricordai che non c'era motivo per cui me ne dovessi preoccupare. Io e Nick non eravamo altro che amici, o al massimo due complici colpevoli delle innumerevoli bugie raccontate in giro. Allora perché all'improvviso mi sentivo tanto inquieta?
«Oh» disse inespressivo Carlo. «Credevo che ormai te l'avesse raccontato.»
Non risposi, non scossi nemmeno la testa consapevole del fatto che stesse solo cercando di provocarmi. Tuttavia un dubbio malevolo si insinuò lo stesso: e se Nick mi ritenesse poco più di un cane da compagnia? Un passatempo nei giorni meno buoni? D'altronde da queste parti non c'erano molti divertimenti. No, non potevo credere una cosa del genere. Non di lui.
Finalmente sul viso di Carlo apparve un bagliore di buonumore. «Dunque non siete poi così in confidenza» osservò, ma sembrò più un'affermazione che una domanda.
«Carlo» sospirai esausta, «Almeno per stavolta possiamo evitare certi giochetti?»
«La verità rende liberi» citò lui biascicando. «Ma non a tutti piace.»
«Carlo...»
«E va bene» Carlo alzò appena le mani in segno di resa. «Come ti pare. Continua pure ad aspettare che il tuo principe azzurro si decida, ma nel frattempo spera di non fare la stessa fine di Jessica» concluse e sul suo viso guizzò chiaramente una smorfia. Con chi ce l'avesse di preciso però, non l'avrei saputo dire. Una cosa però era certa: era consapevole di aver stuzzicato la mia curiosità. Anzi, probabilmente ne era pure contento, ma preferii non dargli corda, in fin dei conti non era lucido.
«Ti riporto a casa» gli dissi e senza attendere di sentire le sue proteste tornai in auto e aspettai che si facesse passare le bizze da bambino indispettito e facesse altrettanto.
Gli ci vollero dieci minuti buoni, ma alla fine salì e riuscì persino a mettersi la cintura.
 
Ci volle quasi un'ora per tornare a San Lombardo e per tutto il tragitto Carlo era rimasto in silenzio, lasciandomi da sola con i miei pensieri. Gliene fui grata, anche se dubitavo che l'avesse fatto per me. Il suo volto era slavato e leggermente verdognolo quando mi fermai al parcheggio di un Motel che mi aveva indicato, e sperai che non dovesse dare nuovamente di stomaco.
«Casa dolce casa!» esordì sardonico Carlo sbattendo la portiera alle sue spalle. Squadrai la topaia davanti a me – con le sue finestre piccole e lunghe e le tende color fumo – e non potei far a meno di domandarmi se adesso fosse davvero questa la sua nuova casa. «Lisa è stata spietata, mi ha sbattuto fuori non appena siamo tornati dal nostro ricevimento» ridacchiò istupidito lui, incamminandosi verso l'edificio.
«Carlo, io...» cercai di dire qualcosa, ma subito strinsi le labbra e studiai di nuovo la bassa struttura rettangolare a cui ci stavamo dirigendo, non sapendo come proseguire. Avevo preteso la vendetta senza soffermarmi, neanche per un attimo, sulle conseguenze delle mie azioni. Era tipico di me, e adesso mi toccava fare i conti con quello che avevo seminato.
Carlo si strinse svogliatamente nelle spalle e afferrò il corrimano della scala che portava al corridoio di porte. Nella fretta però barcollò pericolosamente all'indietro e mi toccò afferrarlo per le spalle prima che potesse cadere. In ringraziamento ottenni un brontolio indistinto che ignorai, spingendolo a salire i gradini. In quel momento sembrava un pupazzo privo di volontà: si trascinò fino al numero sette e si frugò nelle tasche per estrarne una schedina magnetica. Con non poca fatica lo aiutai a infilarla nell'apposita apertura e lui spalancò la porta. Poi mosse pochi passi in avanti e si gettò sul letto matrimoniale ancora disfatto, lamentandosi dei capogiri. Rimasi incerta sulla soglia, studiando l'ambiente spartano e all'apparenza scomodo della stanza.
«Stai aspettando un invito?» ghignò Carlo mettendosi, traballante, su un fianco. «Non ricordavo che te ne servisse uno per gettarti su un letto accanto a me.»
Feci di nuovo finta di non sentirlo e mi morsi le labbra.
«Andiamo» sbuffò allora lui. «Possiamo finalmente smettere di nasconderci! Non era ciò che volevi? Posso essere tuo... anche per tutta la notte se lo vorrai» sorrise lascivo e il mio cuore sussultò.
Sì, era quello che avevo sognato praticamente ogni giorno da due anni a questa parte. L'avevo anelato con tutta me stessa, finché questo momento non era finalmente arrivato e io... io non riuscivo a godermelo perché non mi attraeva più come prima. Provai un senso di smarrimento misto a un pizzico di avversione.
Carlo sbuffò per la seconda volta e si alzò. «Ho bisogno di una doccia fredda» annunciò e non potei essere più d'accordo, anche se una parte di me metteva in dubbio la sua capacità di riuscire a restare dritto in piedi.
«Pensi di farcela e non scivolare?» domandai seria.
«Perché, altrimenti verresti a darmi una mano?» sbuffò un sorrisetto lui e senza attendere la risposta raggiunse una porta attigua e ci si chiuse dentro. Un istante dopo iniziò a scrosciare l'acqua. Mi augurai che si ricordasse di togliersi i vestiti prima di entrare nella cabina e finalmente mi decisi a superare la soglia della porta. Più per necessità di assicurarmi che non si sarebbe ammazzato accidentalmente una volta che me ne sarei andata che per curiosità.
La stanza si rivelò proprio spoglia; accanto al letto, sventrate, c'erano due valigie con le cose di Carlo, su un comodino c'era una sua foto mentre stringeva la mano a un tizio dai folti baffi neri. La sollevai per osservare meglio la bandiera colorata che spiccava alle loro spalle e qualcosa scivolò da dietro la cornice, precipitando sulla superficie sfregiata del mobile. Era un pezzo di foglio bianco, piegato in più parti. Me lo rigirai tra le dita e mordendomi il labbro inferiore, lo dispiegai. Dentro c'era stampato un breve scambio di SMS datati a qualche giorno prima e uno dei numeri mi sembrò famigliare, anche se sul momento non mi veniva in mente a chi potesse appartenere. I messaggi dicevano:
 
+39347******9
[15.44]
Come avevi previsto, si sono incontrati. Non so chi sia il ragazzo. Ho provato a parlargli ma non è stato collaborativo.
 
+39388******0
[16.32]
Grazie, ti restituirò il favore alla prima occasione.
Sei riuscito a vedere lo stemma?
 
+39347******9
[16.39]
No, non aveva anelli. Ma penso che non sia così stupido da andare in giro a sfoggiare una cosa del genere.
 
+39388******0
[16.48]
La mia opinione è che non ce l'abbia più. Sospetto che qualcuno gli abbia suggerito di sbarazzarsene, almeno per il momento. Ma sono sicuro che sia il nostro uomo.
 
+39347******9
[17.00]
Non puoi permetterti un altro sbaglio, Nick. Tuo padre sta perdendo la pazienza. Ha bisogno di risposte, ha bisogno di capire perch...
 
Improvvisamente la doccia cessò di scrosciare e mi resi conto che Carlo stava per uscire. Non avrei saputo dire cosa mi spinse a farlo (forse il nome di Nick stampato nero su bianco o il fatto stesso che questo foglio sembrasse importante per Carlo oppure anche solo perché desideravo finire di leggere la misteriosa conversazione) fatto stava che prima che lui potesse aprire la porta e tornare in salotto cacciai fuori dalla scollatura il mio smartphone e scattai delle foto al foglio. Dopodiché lo ripiegai e cercando di non agitarmi troppo lo infilai indietro sotto la cornice della foto. La rimisi sul comodino appena in tempo per sentire Carlo che apriva la porta del bagno.
«Allora non ti serve un invito!» esclamò vedendomi. Trasalii, e mi accorsi solo in quel momento che mi ero seduta sul ciglio del letto. Scattai immediatamente in piedi perché non volevo che si facesse idee sbagliate. E questo che fu strano: io, Vittoria Bianchi, non desideravo che Carlo mi si avvicinasse, e se non era ulteriore motivo per mettere in dubbio quello che provavo per lui, non avrei saputo cos'altro avrebbe potuto esserlo.
«Devo andare» dissi in fretta, cercando di non lasciarmi distrarre dal suo torso nudo su cui scintillavano minuscole gocce d'acqua. Stava decisamente meglio adesso, per cui non ebbi rimorsi a precipitarmi fuori dalla porta d'ingresso lasciandolo sbalordito in mezzo alla stanza.
 
Non avevo idea di dove sarei andata. Guardai alla mia destra, poi alla mia sinistra e infine mi lasciai sfuggire un sospiro: alle mie spalle c'era il Motel a cui non avevo intenzione di tornare, davanti c'erano solo file e file di villette nuove sotto un cielo aperto, perfettamente terso, e una lunga superstrada a separarci. Feci velocemente mente locale e guardai di nuovo a destra; se seguivo la stradina che affiancava la superstrada, una volta attraversato il ponte mi sarei trovata a pochi metri dall'appartamento di Giorgia. Da quando aveva lasciato la casa dei suoi non c'era più il pericolo di incappare in sua madre, per quanto mi fossi sforzata, quella donna non mi aveva mai preso in simpatia. Inoltre sembrava passata una vita dall'ultima volta che io e Giorgia avevamo passato una serata da sole. Quindi, raccogliendo lo strascico del vestito in una mano, m'incamminai in quella direzione.
Arrivata al semaforo un cretino prese a strombazzare e a urlare qualcosa sfrecciandomi accanto. Non dissi niente, ma alzai gli occhi al cielo un po' indispettita: possibile che fossi continuamente vestita e pettinata in modo inappropriato per la situazione? Ma poi un'altra auto mi sfrecciò davanti e ripeté il gesto del primo e stavolta mi trattenni a stento dall'alzargli il dito medio in risposta. E quando finalmente il semaforo diventò verde per me e fui a metà delle strisce pedonali, una moto mi passò a razzo a un centimetro di distanza, obbligandomi così a bloccarmi dov'ero. Il mio cuore si fermò per un secondo; l'uomo che la cavalcava non indossava il casco e, nonostante la velocità, non ebbi alcun dubbio su chi egli fosse: Coin. Il suo viso spigoloso era impresso nella mia memoria in modo nitido e avrei potuto scommettere qualsiasi cosa che fosse appena stato da Giorgia.
Ecco che un terzo clacson mi risuonò nei timpani, ma stavolta fu una signora a schiacciarlo perché mi ero imbambolata in mezzo alla strada e il semaforo era già tornato rosso. Scusandomi, mi affrettai a raggiungere l'altra sponda del marciapiede e nonostante il dolore ai piedi per colpa delle scarpe scomode, non mi fermai finché non fui davanti al palazzo in cui abitava Giorgia. Trovai in un attimo il suo campanello e lo premetti a lungo, finché la voce della mia amica non uscì dalla cassa sottostante.
«Coin?» domandò lasciando trasparire un sorriso nella voce.
«Apri» risposi. Forse nel mio tono ci fu la giusta dose di urgenza perché Giorgia obbedì subito, senza fare domande, e mentre raggiungevo l'ascensore sentii una porta aprirsi al quarto piano.
Salii nella trappola mortale – come la chiamavano i condomini perché l'ascensore aveva la brutta abitudine di guastarsi circa una volta a settimana – e mentre le porte della cabina si chiudevano il mio cellulare vibrò nella mia scollatura. Lo tirai fuori e mi accorsi che sullo schermo lampeggiavano due chiamate perse e la notifica di un messaggio non letto. Aprii quest'ultimo e buttai giù un groppo in gola; era Nick. ''Dove sei? Devo parlarti'' diceva, il problema era che io non ero pronta a farlo. Ero così confusa da quello che avevo provato per Carlo e imbarazzata da quello che era successo al ricevimento da non sentire alcun bisogno di ascoltare i suoi rimproveri o qualsiasi altra questione seria avesse urgenza di discutere con me. Perciò buttai giù un messaggio piuttosto breve e sostenuto, in cui lo informavo che stavo bene e che avremmo parlato quando sarei tornata, dopodiché spensi l'apparecchio.
In quella le porte dell'ascensore si aprirono.
«Vi! Come sei elegante!» mi salutò Giorgia dalla soglia della porta, forzando un sorriso. Era avvolta in un accappatoio con i capelli bagnati sparsi sulle spalle e a giudicare dall'odore di sigarette e alcol che proveniva dall'interno dell'appartamento non ebbi bisogno di altre prove per essere certa che Coin fosse stato davvero lì.
E a proposito di quest'ultimo: «chi è Coin?» la buttai lì, fingendo di non saperne niente.
Giorgia assunse lo stesso colore dei miei capelli e sfuggendo accuratamente il mio sguardo mi lasciò entrare. «Coin?» mi fece eco. «Chi?»
«Al citofono, credevi che fossi Coin» chiarii, gettando un'occhiata alle tende tirate sulle grandi finestre.
Giorgia si affrettò a riaprirle e ad aprire anche le ante, per far circolare l'aria. Io attesi in silenzio, piazzandomi sulla poltrona a gambe accavallate. Ma poi il mio sguardo catturò una maglietta buttata lì accanto, di un colore nero ormai sbiadito, e tornando a guardare Giorgia inarcai interrogativa le sopracciglia. Naturalmente lei si affrettò a farla sparire; la gettò nel cesto dei panni sporchi e mi liquidò con una spiegazione piuttosto banale (almeno quanto poco credibile): «è roba che porto in casa» disse e forzò un altro sorriso. «Non mi aspettavo visite, altrimenti avrei dato una pulita. Beh? Dove sei stata? Stai una favola!» aggiunse e fu chiaro che cercava di sviare il discorso. Per un attimo presi in considerazione l'idea di insistere, ma mi morsi la lingua; avevo paura che così facendo l'avrei obbligata solo a rintanarsi ancora di più nel suo guscio e di cavolate ne avevo già fatte abbastanza. Per questo presi un profondo respiro e sforzandomi per riuscire a fare finta di nulla le raccontai della festa di beneficenza, della fashion squad di Nick e della sorpresa che ci aveva fatto Carlo, irrompendo ubriaco nel giardino.
Giorgia ascoltò senza interrompere, spalancando sempre di più la bocca a mano a mano che proseguivo nella storia e quando ebbi finito, lei emise un verso incredulo. «Che faccia tosta!» esclamò. «E l'hai pure riaccompagnato a casa?!»
«Al Motel» la corressi, ma lei mi ignorò.
«Nick non può avercela con te!» protestò incrociando le braccia al petto. «Non potevi sapere che quel verme avrebbe annegato gli ultimi neuroni in una bottiglia!»
Da che pulpito. Ma ancora una volta mi trattenni e preferii liquidare la cosa con una stretta di spalle. «Non puoi negare che sia in parte colpa mia. Mi sono comportata in modo infantile ed ecco i risultati.»
«Infantile un accidente!» sbuffò Giorgia. «Se lo meritava! Cielo, sono così contenta che tu non debba più lavorare per lui!»
«Non è del tutto esatto.» dissi, spostando lo sguardo sul vestito.
«Come sarebbe a dire?» si accigliò Giorgia.
«Beh» esitai. «Il colloquio che ho fatto... in realtà si è rivelato un invito a spiare Carlo da vicino.»
«Cosa?!» Giorgia si raddrizzò e mi guardò allucinata. «E tu hai accettato?!»
Annuii con un movimento rigido del capo.
«Perchè?! Stavo già tifando per Nick! Perché vuoi rovinarti la vita?!» gesticolò disperata la mia amica, lasciandosi cadere sul divano.
La guardai di traverso: il bue che dava del cornuto all'asino! Quanto avrei voluto scandirlo ad alta voce... E invece abbandonai la testa contro lo schienale e grugnii. «La mia vita è ufficialmente un inferno! Non a caso il monolocale è bruciato...» mi autocommiserai.
Giorgia sospirò e assunse un'espressione sinceramente dispiaciuta: «Stai da Nick quindi?»
Annuii.
«Sapevi che potevi chiamarmi, vero?»
Annuii di nuovo.
Giorgia volse lo sguardo al soffitto e per qualche secondo si perse nei motivi floreali che aveva fatto dipingere lì sopra con i pastelli. Poi scattò improvvisamente in piedi e decretò: «qui c'è bisogno della tequila!» e con ciò sparì nei meandri della cucina, riemergendone fuori con una grossa bottiglia in una mano e due bicchierini nell'altra. Appoggiò quest'ultimi sul tavolino da caffè e stappò la bottiglia. Io la guardai armeggiare con il tappo storcendo il naso; non ero per niente sicura che fosse una buona idea, i casini che combinavamo dopo aver bevuto non erano un mistero per nessuno. Ma quando il liquido ambrato scivolò nel pregiato cristallo ogni esitazione iniziò a svanire. Al diavolo tutto! Ne avevo bisogno!
«Uno» contò Giorgia, passandomi uno dei bicchierini. «Due» si portò il suo alle labbra. «Tre!» ed entrambe buttammo giù la Tequila alla goccia.
La gola mi bruciò immediatamente, feci una smorfia e corsi in cucina in cerca del sale e delle fettine di limone. Non avrei retto il liquore liscio di nuovo. O meglio, il mio stomaco vuoto non l'avrebbe retto. Quindi tornai con l'occorrente in salotto e ripetemmo il rituale ancora, ancora e ancora una volta, finché il mondo non cominciò a sembrarmi un posto migliore. Presto tutto si fece più sfocato e la testa iniziò a girarmi. Avrei fatto meglio a fermarmi, ma la sensazione di leggerezza era così inebriante e confortevole che semplicemente non ci riuscii.
Due ore dopo, mentre il resto della città si apprestava a sedersi normalmente a tavola per l'ora di cena, io e Giorgia ci strafogavamo di popcorn fatti in casa, unti e salati, e piangevamo, senza ritegno, per il finale di Titanic.
«Quella culona di Rose!» tirò su col naso Giorgia. «Dovrebbero rigirare il finale! Jack non si meritava una fine del genere. Che cosa pensavano di insegnare alle donne con questo film? Che l'amore finisce sempre da schifo?» protestò infervorandosi.
Io mi soffiai il naso e sbattei un paio di volte le palpebre per scacciare via le lacrime – del trucco che mi avevano fatto con tanta cura rimaneva ormai solo un vago ricordo. «No, penso che con questo intendevano che non potrai mai stare con la persona destinata a te. O se proprio ci tenete, dovreste prima crepare entrambi!» esclamai contrariata, al che Giorgia annuì – o forse era più preciso dire che fece ciondolare la testa – ed entrambe prendemmo dei fiocchi di pop-corn e iniziammo a tirarli contro lo schermo della TV. Ci divertimmo così per quasi tre minuti, finché non cominciò a girarmi la testa. Fui costretta a smettere e a portarmi una mano alla bocca. Osservandomi anche a Giorgia passò la voglia di agitarsi ancora e improvvisamente lei scattò in piedi e corse in bagno a vomitare. Come una cretina scoppiai a ridere: in quel momento non differivo affatto da Carlo né dalla mia versione infantile, mi comportavo ancora una volta da ragazzina stupida, patetica e meritevole di quello che le stava accadendo e questo cambiò drasticamente il mio umore in peggio; in un attimo scoppiai a piangere e mi accasciai sul divano, singhiozzando come una bambina. Non avrei saputo dire quanto tempo avessi passato in quella posizione, fatto stava che a un certo punto le mie palpebre mi erano sembrate troppo pesanti per restare aperte e con il mondo che ancora mi girava attorno, mi ero addormentata.
Quando mi svegliai mi ritrovai coperta da un plaid, con le scarpe ordinatamente appoggiate da una parte. Dovevano essere appena passate le sei a giudicare dalla luce che filtrava attraverso le fessure ai lati delle tende tirate e mi sentivo come se un elefante mi avesse ballato la salsa sullo stomaco per tutta la notte. Ma peggio di tutto fu la sensazione di disidratazione che mi portò a mettermi seduta, ignorando i forti capogiri, e a guardarmi lentamente attorno in cerca dell'acqua. Purtroppo in salotto non ce n'era, quindi mi alzai e, scalza, mi trascinai in cucina, odiandomi, come accadeva dopo ogni sbronza, per essermi lasciata tentare dal richiamo della tequila.
Quando entrai nella stanza storsi il naso per il forte odore di bacon e strizzai gli occhi per l'improvvisa ondata di luce che mi investì. Lo stupore più grande fu però trovare Giorgia ai fornelli, fresca come una rosa e persino vivace, mentre si destreggiava tra il frigo e le padelle.
«Buongiorno, raggio di sole!» mi prese in giro, afferrando un piatto dove buttò delle uova strapazzate e le fettine di carne croccanti. «Questo è per me» precisò notando la mia smorfia disgustata. «Per te invece abbiamo questo» proseguì e batté sul tavolino da pranzo, in sequenza, una tazza piena di caffè, una bottiglietta d'acqua da un litro e un bicchiere che conteneva un liquido torbido, non meglio identificato. «È salamoia» mi spiegò allora. «Chiamali pure vecchi rimedi della nonna!»
In tutta risposta storsi il naso, ma non protestai; mi lasciai cadere sulla sedia e stappai la bottiglia dell'acqua, tracannandola quasi fino in fondo. Giorgia rimase ad osservarmi pensierosa, giocando con la collanina, finché il ciondolo a forma di ruota non si staccò e rotolò fino ai miei piedi.
«Maledizione!» imprecò lei «È già la terza volta che si stacca!»
«Non preoccuparti, ci penso io» le dissi con voce incredibilmente roca. Me la schiarii e lentamente mi chinai giù per raccogliere il gingillo. Non appena lo raccolsi, mi cadde dalla scollatura il telefono che si aprì in due. Quindi fu il mio turno di imprecare e Giorgia fu comunque costretta ad avvicinarsi per darmi una mano; lei prese il suo ciondolo e le due metà del mio cellulare e appoggiò quest'ultime sul tavolo.
«Grazie» le dissi, lei scosse il capo con un sorrisetto, come a dire ''figurati, imbranata'', poi mi avvertì, riferendosi alla collana: «vado a riagganciare questo affare» e si allontanò fuori dalla stanza. Io presi distrattamente il caffè e rimisi insieme il telefono, accendendolo per assicurarmi che funzionasse ancora. Per fortuna si accese normalmente e stavo giusto per tirare un sospiro di sollievo quando lo schermo si illuminò avvertendomi che c'erano state diverse chiamate perse e almeno una decina di sms in arrivo, tutti da parte di Nick. Preoccupata che fosse successo qualcosa aprii immediatamente la casella dei messaggi e cliccai sul suo nome. Ma quando lessi quello che aveva da dirmi mi si strinse lo stomaco e distratta rovesciai un po' di caffè sulla tovaglia.
 
AVREI VOLUTO DIRTELO PERSONALMENTE, MA CONTINUI A RISULTARE NON RAGGIUNGIBILE...
DOMATTINA PRENDERÒ IL PRIMO VOLO PER L'AMERICA.
SPERO CHE TU STIA DAVVERO BENE.
 
NICK



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Salve a tutti! Lo so, ho dovuto mettere in pausa questa storia per quella che è sembrata un’eternità.. Purtroppo non sono riuscita a fare prima neanche stavolta e mi dispiace ammetterlo, ma penso che neanche in futuro riuscirò a essere veloce nell’aggiornare. Comunque sia, ho intenzione di portarla alla fine e sto già scrivendo il prossimo capitolo. Grazie a tutti quelli che sono rimasti ancora con le vicende di Vittoria e Nick ♥, non avete idea di quanto apprezzi! E naturalmente, un grazie anche ai nuovi lettori!!

M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Bond Girl ***


Image and video hosting by TinyPic



17
B O N D   G I R L



Mi sedetti sulla panca sotto la finestra e osservai lo spiazzo vuoto in cui si era trovata la macchina di Nick solo due settimane prima e che adesso ospitava la mia vecchia Panda. Sì, perché era da ben quattordici giorni che non avevo più sue notizie e l'unica compagnia che mi rimaneva in questa grande casa era quella di Jerry. Mi spalmai con la guancia contro il vetro ed emisi un suono strozzato, simile al sospiro di un morente.
Il mattino che mi ero precipitata qui, nella speranza che non fosse ancora troppo tardi o che Nick, come in uno di quei vecchi film in bianco e nero avesse cambiato idea e fosse rimasto ad aspettarmi, ovviamente ero arrivata troppo tardi. Sulle prime mi sembrò di sprofondare, ma poi mi ricordai che non c'era motivo per cui Nick sarebbe dovuto restare per me, e così dovetti fare i conti con la realtà e accontentarmi dello stupido bigliettino che lui mi aveva lasciato in cucina. Non aveva scritto molto, solo che potevo restare qui fino al suo ritorno, ma quando sarebbe avvenuto questo ritorno non ne avevo idea. E a quanto sembrava nemmeno suo fratello lo sapeva, nonostante l'avessi bombardato di domande nello stesso istante in cui aveva varcato la soglia di questa casa un'ora più tardi. Lui però era rimasto sul vago, a un certo punto mi ero persino sembrato scontroso e alla fine aveva smesso di rispondermi cavandosela con un'alzata di spalle e uno dei suoi sorrisi maliziosi che non mi lasciò dubbi sul fatto che la questione per lui fosse chiusa.
Perciò eccomi qui, a vivere da sola e nella più totale confusione sentimentale, con il telefono sempre a portata di mano nel caso il fuggitivo decidesse di dare segni di vita. Finora si era rivelata un'attesa inutile, ma si sa, la speranza è l'ultima a morire.
«Ancora a fissare il suo posto auto?» domandò Francesca facendomi trasalire. Mi voltai e la vidi entrare nella stanza con due tazze di cioccolata bollente. Evitai di risponderle scansandomi per farle posto. «Ero convinta che non te ne importasse niente di lui» proseguì maliziosa lei, adducendo a quella fastidiosa espressione da medico soddisfatto di sé. Stavo per assicurarle che era proprio così, che non vedevo come potesse essere il contrario, quando una vocina nella testa mi supplicò di smetterla di mentire: da quando era partito, il pensiero di Nick era rimasto come bloccato nella mia testa. E cominciavo a sospettare di provare davvero qualcosa per lui. Qualcosa che andava al di là della semplice attrazione fisica.
«Sai, avresti fatto meglio a frequentare psicologia» schioccai la lingua prendendo una delle tazze.
Francesca sbuffò un sorrisetto e si accomodò accanto a me. «Non hai tutti i torti, ma frugare nella testa della gente non è divertente quanto frugargli dentro... letteralmente
«Eww, Fance!» esclamai disgustata. «Non voglio sentire altro!»
Lei rise e si portò la propria tazza alle labbra. Dopodiché calò il silenzio e per un minuto ci immergemmo ognuna nei propri pensieri.
«Come pensi che ne usciremo?» domandò d'un tratto Francesca.
«Da cosa?»
«Da tutto questo... Voglio dire, non capisco più che cosa ci stia succedendo. Fino a ieri la mia massima preoccupazione era quella di stare dietro ai preparativi delle nozze. E poi, da un giorno all'altro, tutto è cambiato.»
Per un attimo riflettei sulle sue parole. In effetti non mi ero mai soffermata a vederla da un punto di vista che non fosse stato il mio e mi sentii un'egoista per non averlo fatto. Non ero la sola a vivere dei cambiamenti dopo tutto: Francesca per esempio stava per sposarsi e nel frattempo si caricava dei problemi miei e di quelli di Giorgia, alternando il tutto agli stressanti turni all'ospedale. Mi domandai dove trovasse il tempo, la pazienza e, sopratutto, la forza per poter affrontare tutto questo. Ma France era fatta così: non si sarebbe lamentata nemmeno sotto tortura.
Improvvisamente mi venne voglia di abbracciarla: era un'amica eccezionale e una persona stupenda sotto tanti punti di vista. Non se lo immaginava nemmeno! Stava bevendo la cioccolata, del tutto ignara, e i suoi occhi castani si spalancarono interrogativi da sopra il bordo della tazza. Stavo per dirle quanto apprezzasi averla sempre al mio fianco, quando lo squillo del telefono si intromise tra i miei pensieri obbligandomi a tirarlo fuori dalla tasca della felpa. Sul display apparve un numero sconosciuto. Risposi.
«Pronto?»
«Signorina Bianchi? Non so se mi riconosce, sono Carolina Gherardi.»
Carolina Gherardi. Mi si formò un groppo in gola; se la padrona del condominio mi stava chiamando non poteva essere che per una ragione sola: potevo finalmente conoscere il destino del mio appartamento. O almeno in parte.
«Certo, mi dica» la invitai con voce strozzata. Accanto a me Francesca si fece curiosa.
«Mhh. Preferirei parlare con lei faccia a faccia. Abbiamo un paio di cose di cui discutere. I danni scaturiti dall'incendio fortunatamente sono stati lievi, comunque sia, ci sono altre questioni che mi premerebbe sistemare. Sarebbe libera, mhh, diciamo tra un'ora? La aspetterò al caffè di fronte al palazzo.»
«Certo, nessun problema. Posso essere lì anche tra mezzora.»
«Sarebbe perfetto. Allora la aspetto» concluse e riattaccò.
Mi morsi le labbra e guardai Francesca. «Ho come il presentimento che non abbia niente di buono da dirmi.»
«Chi era?» si accigliò lei.
«La Gherardi. Vuole parlarmi faccia a faccia, tra mezzora al Sunset Caffè
«Vuoi un passaggio? Avrei comunque delle commissioni da sbrigare da quelle parti» si offrì immediatamente Francesca. Le risposi con un'occhiata piena di gratitudine.
Sì, dovevo assolutamente dirle quanto le volevo bene!
 
Entrando nel locale non fu difficile notare la signora Gherardi: era vestita in modo impeccabile, in un tailleur grigio-azzurro, e portava i capelli neri raccolti con cura sulla nuca. Le invidiai subito il modo elegante con cui si portò la tazzina di caffè alle labbra, ma non era il momento né il luogo per ammirarla, quindi mi raddrizzai nelle spalle, nella speranza di non apparirle come un animaletto spaurito, e la raggiunsi.
«Buongiorno» la salutai.
Lei ricambiò con un gesto garbato della testa e mi invitò a sedermi sulla sedia di fronte.
«Bene. Sono contenta che ce l'abbia fatta» mi sorrise, ma quasi subito il sorriso sparì e i suoi occhi dalla forma allungata si fecero molto più seri. «Dunque Vittoria, posso permettermi di darti del tu
«Naturalmente» di nuovo feci del mio meglio per non sembrarle disperata, dal momento che dentro di me avrei voluto gridare dal panico.
«Mhh. Non voglio girare troppo attorno alla questione, non è il mio modo preferito di affrontare certe cose» fece una pausa e io annuii. «Perciò chiedo perdono in anticipo per la brutalità. Il fatto è che pare che l'incendio sia stato causato da un apparecchio elettronico per i capelli, lasciato acceso accanto a un asciugamano che ha dato inizio all'incendio. Fortunatamente, come ti avevo già accennato, i danni sono stati irrisori. Inoltre non ho mai avuto problemi con te né ho mai dato peso alle lamentele della signora Petrelli nei tuoi confronti. Tuttavia, dati i recenti avvenimenti, sono costretta a chiederti di lasciare il tuo appartamento una volta per tutte. Vedi, mhh» la signora Gherardi prese un altro sorso di caffè mentre il mio cuore si fermava e ripartiva dopo aver assimilato le sue parole, «è tutta una questione di affari» riprese lei. «Mhh, mi spiego meglio: se dovessi lasciarti vivere nel mio palazzo, alcuni degli inquilini potrebbero non gradirlo perché non si sentirebbero al sicuro e questo nuocerebbe alla buona reputazione che mi sono costruiti negli anni. Capisci cosa intendo?»
Mi guardò dritto negli occhi e, anche se non ne ero del tutto sicura, chinai leggermente il capo, stringendo la tovaglia nei pugni sotto il tavolo.
Mi stava sfrattando. Mi stava sfrattando perché l'incendio era stato causato da una mia distrazione. Ricordai: quella mattina avevo avuto fretta di presentarmi al colloquio, talmente tanta fretta che, sì, avevo dimenticato la piastra accesa. E mi si chiuse lo stomaco.
La signora Gherardi mise giù la tazzina e abbozzò un sorriso pieno di comprensione. Allungò una mano verso di me da sopra il tavolo e mi strinse delicatamente un braccio. «A questo punto dovremmo parlare del risarcimento danni, ma credo che per oggi tu abbia abbastanza preoccupazioni, per cui propongo di riparlarne per e-mail, con calma.»
«Certo» risposi inespressiva.
«Non preoccuparti» proseguì Carolina Gherardi, «sarò ragionevole. Conosco voi giovani, ho una figlia di circa la tua età e so che certe volte non combinate disastri di proposito» a quel punto si fermò e guardò verso l'entrata del bar. Alzò con un movimento fluido la mano per fare un cenno a qualcuno. Mi voltai e capii che stava gesticolando al gigante che era appena entrato. «È un ispettore della sicurezza» mi spiegò lei. «Ha visitato l'appartamento questa mattina.»
L'omone si avvicinò e ci salutò. «L'appartamento è perfettamente agibile» ci informò subito. «Ma sarebbe meglio evitare di entrare nel bagno per il momento, se non si ha una mascherina protettiva. Sa, per i residui.»
«La ringrazio» sorrise la Gherardi, dopodiché si rivolse di nuovo a me. «In tal caso, mhh, fissiamo un giorno perché tu possa prendere la tua roba?» domandò.
Improvvisamente mi sentii come un topo messo all'angolo. Non m'importava che il suo tono suonasse cordiale e che avesse una figlia della mia età, dietro la maschera comprensiva c'era solo una donna che non vedeva l'ora di liberarsi di me e di chiudere la questione una volta per tutte. Da una parte non potevo biasimarla, dall'altra avrei voluto saltare in piedi e lasciarmi andare a una sceneggiata. Alla fine cercai di mantenere i nervi saldi.
«D'accordo. Facciamo per sabato mattina» dissi e mi sforzai di apparire più sicura di quanto non mi sentissi in realtà.
«Cercheremo di far ripulire il bagno per quel giorno» mi rassicurò il gigante.
«Molto bene» rispose al mio posto la mia ex padrona di casa. «In tal caso lo appunterò nella mia agenda. Adesso, se mi potete scusare, mhh, devo tornare in ufficio.»
Sia io che l'omone annuimmo.
«Posso già salire a prendere alcune cose?» domandai a quest'ultimo.
«Solo se non devi entrare nel bagno» mi ripeté lui.
Annuii e tutti e tre uscimmo fuori dal locale.
Salutai la signora Gherardi con un sorriso piuttosto tirato e insieme al gigante, che si presentò con il nome di Michele, ci dirigemmo verso il palazzo.
Mentre attraversavamo la strada, dall'angolo sbucò una bella auto color notte che svoltò e parcheggiò di fronte al portone. Dalla parte del guidatore uscì Diana e mi bloccai dov'ero, domandandomi cosa ci facesse lei qui.
La donna non mi notò; mi diede le spalle e si tirò su gli occhiali da sole, alzando la testa in direzione del sesto piano. Immaginai che stesse cercando me, quindi lasciai che l'ispettore della sicurezza proseguisse verso il portone d'entrata chiedendogli un secondo, poi m'incamminai verso quella che in teoria avrebbe dovuto essere la mia nuova datrice di lavoro ma che in pratica – dopo la disastrosa serata di beneficenza dove suo figlio aveva fatto a botte per me – non si era più fatta sentire.
«Diana» la chiamai camminando. Lei si voltò e parve sorpresa quanto me. Ma ovviamente si ricompose quasi subito, barricandosi dietro un espressione di circostanza.
«Ero venuta qui proprio per cercarti» ammise.
«Non abito più qui» risposi. «Ma ho lo stesso numero di cellulare» osservai e notai una fugace smorfia comparire sulle sue labbra. Probabilmente non le era piaciuto il mio tono, ma in quel momento compiacerla era l'ultimo dei miei pensieri.
«Beh, speravo che potessimo parlare a quattr'occhi» spiegò lei.
«Pare che oggi tutti vogliano parlarmi» sbuffai e subito cercai di ridimensionare il mio malumore. Mi fermai davanti a lei e incrociai le braccia al petto. «Credevo che i nostri progetti fossero saltati ormai.»
«Ammetto che in effetti non volevo più avere niente a che fare con te» annuì lei come a sottolineare le proprie parole, «hai una strana influenza su mio figlio e non mi piace.»
Alzai le sopracciglia, cinica.
«Ma poi sono successe delle cose e credo di non avere altra scelta» proseguì, lasciando trasparire nella voce quanto fosse contrariata.
«Beh, non importa, perché in queste due settimane ho avuto modo di pensarci anch'io e ho deciso di restituirti i soldi. Non mi interessa più riavere Carlo né mettermi ancora nei guai» affermai e d'un tratto realizzai quanto fossero vere quelle parole.
«Non puoi» disse tagliente Diana. «Credo che tu non te lo possa permettere ora come ora» e inclinò il capo in direzione di Michele che mi stava aspettando. Come fosse riuscita a fare due più due anche stavolta non mi parve un grande mistero: Diego le aveva raccontato tutto anche stavolta. Qualcuno avrebbe proprio dovuto tagliare il loro cordone ombelicale! Comunque non risposi niente.
«D'accordo. Vuoi che raddoppi la cifra? Lo farò» riprese allora Diana, aprendo la borsa per cercare il libretto degli assegni. Sospirai e scossi il capo. Esisteva davvero gente che credeva di potersi comprare ogni cosa? Non ero uno dei suoi pezzi da collezione, io.
«Senti Diana, l'affare non mi interesserebbe nemmeno se tu triplicassi la cifra» dissi, preparandomi a vederla risalire in auto indignata. Ma lei mi stupì e con aria impenetrabile richiuse la borsetta e mi guardò, a lungo. Improvvisamente era seria. Troppo seria.
«Non ti interesserebbe dici? Neanche se ti dicessi che conosco la gente con cui passa le sue giornate la tua amica... com'è che si chiama? Giorgia
Ebbi un tuffo al cuore; e di questo chi gliene aveva parlato? Che cosa ne sapeva lei di Giorgia?! Mi si mozzò il respiro, quella donna sapeva troppo di me. Troppo! Diana percepì la mia paura come uno squalo che sente l'odore del sangue nell'acqua e abbozzò un sorrisetto maligno.
«Come immaginavo» disse e riaprì la borsetta. Tirò fuori il benedetto libretto, una penna e ci scarabocchiò sopra qualcosa. Poi me lo allungò.
Lo presi in automatico ma non guardai la nuova cifra, era scontato che sarebbe stata alta e dannatamente allettante.
«So per certo che stasera Carlo sarà in ufficio. Da solo» riprese Diana nel suo tono autoritario. «Ho bisogno che tu prenda questa» aggiunse, tirando fuori qualcosa di piccolo dalla tasca del cappotto per porgermelo. «E che tu segua le mie istruzioni.»
 
Guardai verso la finestra illuminata al piano terra, l'ultima nella fila di occhi vuoti dell'edificio. Strinsi più forte la borsetta e buttai giù un groppo in gola. Cosa diavolo stavo facendo? Scossi la testa rassegnata e per un attimo strinsi le palpebre e presi un profondo respiro. Poi le riaprii e m'incamminai verso la porta d'entrata.
Mentre percorrevo la sala ingombra di scrivanie, deserta a quest'ora, il mio cuore iniziò a martellare più veloce dei tacchi che mi ero messa per l'occasione.
Avevo recuperato due valigie di vestiti dal mio vecchio appartamento quel pomeriggio e preparandomi avevo deciso di indossare l'abito che Carlo stesso mi aveva regalato: un aderente tubino viola e oro, diviso alla vita da un elegante cinturino color rame e con una profonda scollatura sulla schiena. Quando me l'ero accostato addosso, studiando il mio riflesso nell'ampio specchio che Nick aveva fatto installare di fronte al suo letto a baldacchino, mi erano tremate le ginocchia: improvvisamente mi ero accorta che stavo pensando al padrone di casa, immaginandomi cosa sarebbe successo se in quel momento lui fosse stato lì con me, ad osservarmi dal ciglio del letto con i suoi profondi occhi scuri e l'espressione compiaciuta. O di come si sarebbe avvicinato alle mie spalle e mi avrebbe scostato la spallina del reggiseno per baciarmi la pelle nuda. Mi immaginai di sentire il suo respiro caldo posarsi sul mio collo, poi il telefono aveva squillato notificando un messaggio ed ero tornata bruscamente con i piedi per terra.
Nick, lo devo fare per Giorgia, pensai imboccando il corridoio che mi avrebbe portato alla porta d'ufficio di Carlo. Di fronte a quest'ultima mi fermai e alzai in aria il pugno, pronta a bussare.
Ebbi solo un attimo di esitazione. Poi: toc, toc, toc.
Carlo venne ad aprire con espressione accigliata che si fece di sorpresa non appena mi riconobbe. Mi sforzai di sorridere e di apparire naturale.
«Hei» lo salutai.
Le sue sopracciglia balzarono. «Vittoria?» domandò quasi fossi un fantasma.
«Disturbo?»
«No» rispose in fretta lui. «No. Assolutamente no!» sorrise. «Non...non ti aspettavo.»
Abbassai gli occhi con aria imbarazzata e mi morsi il labbro inferiore. «Già. Mi dispiace piombare così. Probabilmente hai da fare... Forse non è stata una buona idea» conclusi rigirandomi, ma lui mi afferrò per un braccio prima che potessi fare un solo passo e il cuore mi salì in gola.
«Non andartene» disse. «L'ultima volta che ci siamo visti è stato un disastro. Ed è solo colpa mia. Ti devo delle scuse.» La sua voce si fece calda e vellutata e mi morsi di nuovo il labbro, stavolta più forte. Che lo amassi o no sapeva ancora come approcciarmi e mi ricordai che non dovevo cascare nei suoi soliti tranelli. Ma fare finta sì.
Quindi mi voltai e sorrisi di nuovo. Dopodiché entrammo nella stanza e Carlo chiuse la porta a chiave come ai vecchi tempi. Fui sul punto di farglielo notare quando mi ricordai la voce di Diana e le sue istruzioni, perciò mi morsi la lingua e lasciai la borsa sulla scrivania di Carlo, appoggiandomi contro quest'ultima a braccia incrociate.
Carlo si mise le mani in tasca e alzò amichevolmente un angolo della bocca.
«Non sei l'unico a dovere delle scuse in realtà» parlai per prima abbassando la testa. «Ho combinato un vero casino. Quello che ho fatto alla tua festa di fidanzamento... non ne avevo il diritto. Ma ero arrabbiata. Tanto arrabbiata» conclusi e fui sincera. Erano cose che gli avrei voluto dire ancora due settimane prima, se non fosse stato tanto ubriaco.
In tutta risposta Carlo abbassò lo sguardo sul parquet, pensieroso, e nello spazio tra noi calò il silenzio. Credetti che non avrebbe più detto niente quando lui rialzò la testa e si strinse nelle spalle, così, come se per lui il mio discorso non fosse stato nulla di importante.
«Fa niente. Quello che è successo è successo, non possiamo cambiarlo» parlò avvicinandosi a me. «Ci ho pensato a lungo» spiegò, «e all'inizio ti ho odiato e ho davvero desiderato che tu non fossi mai entrata nella mia vita. Ma poi ho capito. Ho capito perché l'hai fatto» abbassò la voce, «e ho capito anche un'altra cosa. Puoi indovinare qual è?» chiese, ormai era proprio di fronte a me. Scossi la testa con le narici che si riempivano del profumo che gli avevo regalato per l'ultimo San Valentino e lui alzò una mano. Con il dorso delle dita mi accarezzò delicatamente uno zigomo, accompagnando il movimento con gli occhi che avevano assunto una sfumatura sinistra, famelica. Una parte di me si sentì scossa dai brividi come un tempo, l'altra ne ebbe paura. «Ho capito che sei l'unica donna che voglio nella mia vita. Me ne frego di cosa perderò rinunciando a Lisa» rispose ormai sussurrando e si avvicinò ancora; il suo viso si fece pericolosamente vicino al mio e mi irrigidii. «Non importa se adesso sei confusa sui tuoi sentimenti, mi sono comportato male con te e posso solo immaginare quanto sia stato difficile per te sopportare tutto questo» proseguì e il suo respiro mi solleticò le labbra. «Ma ti posso assicurare che non accadrà mai più, nessuno riuscirà a mettersi di nuovo tra noi. Nemmeno Nicholas» un sorriso scaltro, e infine lo fece: mi baciò.
Per un attimo il mondo parve fermarsi. Il mio corpo tremò di risentimento ma le labbra risposero al bacio. All'inizio solo per proseguire la recita che avevo messo in piedi, dopo perché iniziai a pensare di meritarmi quella rivincita. Per una volta non ero stata io a supplicarlo per un po' di attenzioni! Infine i pensieri si spensero, le dita delle mani andarono a cercare i suoi capelli e il respiro accelerò vertiginosamente. Avevo bisogno di sentirlo al tatto. Avevo bisogno di dimostrare a me stessa di aver vinto.
Immediatamente le mani di Carlo corsero ovunque sul mio corpo e si fermarono solo una volta che ebbero trovato la lampo del vestito. La tirò giù di prepotenza senza lasciarmi andare e d'istinto mi strinsi a lui. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che l'avevo sentito tanto vicino? Una parte di me si ribellava a quel contatto, lo odiava persino, ma l'altra mi urlava a gran voce di non fermarmi. E sfortunatamente la prima fu inglobata dalla seconda non appena le labbra di Carlo scesero sul mio collo strappandomi sospiri di approvazione.
Non dovevo.
Ma lo stavo facendo.
Non volevo.
Ma lo volevo.
C'era Carlo.
E immaginai Nick...
Sobbalzai sgranando gli occhi e sbattei velocemente le palpebre. Quello non era Nick! Allora per quale motivo mi era parso di sentire lui?! Avvampai per l'imbarazzo e cercai di non far cadere il vestito sorreggendolo con una mano sul petto. Carlo fu palesemente confuso. Ci guardammo negli occhi per qualche secondo, finché il telefono di Carlo non iniziò a squillare e lui si costrinse a riprendersi. Tirò l'apparecchio fuori dalla tasca dei pantaloni e abbozzando un sorriso amaro mi fece segno di scusarlo. Non obbiettai.
Non appena lui uscì dalla stanza mi sbrigai a richiudere la lampo e strinsi forte la mascella. Sono proprio una cretina! Stupida! Stupida! Stupida! Solo perché Diana mi aveva chiesto di riavvicinarmi a lui non significava che dovevo farlo letteralmente! Eppure l'avevo fatto e avevo provato un vergognoso senso di trionfo; in quel momento mi resi conto che non potevo cancellarlo semplicemente dalla mia vita, nonostante lo desiderassi.
Però l'hai sentito! Si è pentito..., mi suggerì prontamente una voce nella testa, se solo tu riuscissi a mettere da parte l'orgoglio. Se solo tu riuscissi a perdonarlo, potreste riprovare. Tutto da capo, da una pagina bianca. Le sensazioni di un tempo potrebbero tornare. Del resto non puoi scordarti anche delle cose belle che ha fatto per te...
Guardai la porta chiusa e mi grattai nervosamente un avambraccio; per quale motivo stavo esitando? Forse avrei fatto meglio a smettere di giocare alla Bond Girl e uscire in corridoio e andare da Carlo per chiarire ogni cosa, da persone adulte. Tutta questa storia aveva raggiunto l'apice dell'assurdità e non ne potevo più!
Buttando giù un groppo alla gola mi resettai il vestito e attraversai l'ufficio, pronta a fare la cosa giusta. Posai una mano sul pomello e aprii la porta quel poco che bastò per far entrare la voce di Carlo dentro la stanza. Lo sbirciai dalla mia postazione – mi dava le spalle – e abbozzai mentalmente il discorso che gli stavo per fare. Ecco, ero pronta, quando...
«Calmati. Te l'ho già detto che non hai nulla di cui preoccuparti, piccola» disse Carlo e mi si gelò il sangue nelle vene. «Sì, me ne rendo conto» proseguì dopo una breve pausa. «Sì. Sì, lo so!» a stento trattenne l'irritazione tra i denti. «Potremmo riparlarne dopo?» Ma chiunque fosse all'altro capo della linea non sembrava voler rimandare il loro discorso e Carlo rimase in ascolto con le mascelle che gli pulsavano.
Facendo attenzione a non fare rumore, richiusi la porta e mi ci appoggiai contro risentendo l'eco delle parole di Carlo: «Ma ti posso assicurare che non accadrà mai più, nessuno riuscirà a mettersi di nuovo tra di noi.» No, adesso era proprio ufficiale: ero davvero una cretina! Mi venne da ridere, una risata isterica, ma soffocai quell'impulso; ero qui per una ragione e adesso più che mai volevo portare il tutto a termine.
Mentre giravo il portatile di Carlo verso di me e aprivo le cartelle che mi aveva indicato nel suo messaggio Diana, mi meravigliai di me stessa: ero tesa, ero arrabbiata, ero stata umiliata per ben due volte, ma riuscivo a tenere tutte queste sensazioni perfettamente sotto controllo. Era come se non fossi più io, come se tutto questo non riguardasse me: frugai attentamente nella borsetta e ne tirai fuori la pennina che mi aveva passato Diana. Mi fermai solo per un istante, il tempo di tendere l'orecchio e di assicurarmi che Carlo non stesse per entrare, dopodiché copiai tutti i file sul dispositivo e richiusi tutte le finestre, rimettendo il portatile al suo posto. Dopo nascosi la chiavetta indietro nella borsa, strinsi i denti e mi sistemai a sedere sulla scrivania a gambe incrociate con aria volutamente civettuola.
Finalmente Carlo entrò. Avevo proprio voglia di sentire cosa avesse da dirmi.
«Scusa» disse lui abbozzando un sorriso rammaricato. «Era per lavoro» indicò il telefono in mano.
Stavolta non riuscii a trattenermi e sbuffai un sorrisetto. «Figurati. Capisco» risposi, calcando sull'ultima parola.
A Carlo guizzò un sopracciglio in modo appena percettibile ma decise di non indagare, mi raggiunse e mi mise le mani sulla vita. Era evidente che volesse riprendere da dove eravamo rimasti. Non mi scomposi.
«Tutto bene?» s'interessò allora lui. Allargai il sorriso con aria condiscendente e mi strinsi fugacemente nelle spalle.
«Non potrebbe andare meglio» gli assicurai. E non era del tutto una bugia; certo, mi bruciava il fatto che qualche minuto prima stavo per abbandonarmi tra le sue braccia o più in generale per aver sprecato tanto tempo con un verme del genere. Tuttavia, adesso che avevo avuto la riprova di come stavano le cose tra di noi, del fatto che Nick non mi avesse mentito riguardo a un'altra amante, mi sentivo stranamente sollevata. Come se mi fossi tolta un peso. Niente più bugie, niente più sotterfugi né sensi di colpa verso Lisa o qualunque altra donna presente nella vita di Carlo. A pensarci meglio, non aveva mai meritato tanto.
«Quindi...» disse allusivo Carlo accarezzandomi un fianco.
«Devo andare» lo allontanai con una mano.
«Non ce l'avrai ancora con me!» esplose Carlo, e tanti saluti ai suoi buoni propositi!
Scossi la testa. «È tardi» chiarii, e non mi riferivo solo all'ora. Era tardi anche per salvare noi, ammesso che un noi fosse mai esistito.
Carlo si fece da parte e scesi dalla scrivania. Presi la borsetta e gli sorrisi un'ultima volta prima di lasciare l'ufficio.
Adesso dovevo incontrare Diana e dopo... dopo dovevo dire a Nick quello che provavo per lui.



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Buonasera miei cari! Ebbene, stamattina mi sono svegliata con la consapevolezza di aver chiamato due personaggi (uno dei quali è solo un personaggio minore) allo stesso modo! Viva me! Per chi dovesse notarlo e accorgersi che uno dei due ha cambiato misteriosamente cognome, non preoccupatevi, mi sono resa conto dell’errore e ho corretto in extremis XD (e ora ci starebbe un: che figura di mmmerda!) Per chi, invece, non dovesse accorgersene e in questo momento non abbia idea di cosa io stia parlando, tanto meglio XD Non vi siete persi niente di importante in fondo.. Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che resterete sintonizzati ;)

M.Z.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Le luci di San Lombardo ***


Image and video hosting by TinyPic




18
L E     L U C I     D I     S A N     L O M B A R D O



Mentre la voce preregistrata del servizio telefonico mi ripeteva che ''il cliente da me chiamato non era al momento raggiungibile'' i fari dell'auto di Diana mi illuminarono a giorno dentro l'abitacolo della Panda e poi si spensero. Scendemmo entrambe dai nostri veicoli sbattendo le portiere, circondate dal silenzio della notte, e ci incontrammo sotto il cono di luce del lampione, come in uno di quei vecchi film sullo spionaggio. Lei non mi salutò nemmeno (era di pessimo umore) e allungò semplicemente una mano ossuta in attesa della chiavetta che dovevo restituirle.
«Chi mi assicura che non hai mentito riguardo alle amicizie di Giorgia?» le domandai assottigliando lo sguardo.
Diana sbuffò e si frugò nella tasca. Poi mi allungò un pezzettino di carta: «sono sicura che ti sarà molto utile» disse senza particolare enfasi.
Esitai per un attimo riflettendo su quanto potesse davvero essermi utile una paginetta strappata dalla sua agenda. Ma poi decisi che comunque fosse desideravo lasciarmi alle spalle questa storia, quindi cercai la pennina e gliela passai, prendendo in cambio il foglietto. Diana strinse le informazioni che le stavo passando come fossero una reliquia e sul suo viso saettò un lampo di cupa soddisfazione. Involontariamente deglutii e mi sentii in colpa: e se avessi commesso qualcosa di spaventoso? Ma quasi subito scacciai questo pensiero e diedi un'occhiata al bigliettino: sopra, in un elegante grafia, c'era segnato l'indirizzo di una via non molto distante da qui. Lo ripiegai e me lo infilai nel portafoglio ripromettendomi di controllarlo più tardi dal PC.
«Spero che sia tutto» dissi a Diana.
Lei alzò a malapena gli occhi dal suo bottino. «Lo spero anch'io» confessò. «Aggiungerei che mi piacerebbe che mio figlio non ti rivedesse mai più, ma ho paura che non abbia più cinque anni e non mi ascolterebbe» sbuffò, poi girò sui tacchi e risalì in auto. La guardai allontanarsi nel buio, un tantino indispettita dal suo commento. Poi qualcosa frusciò tra gli alberi e spaventata mi sbrigai a ritornare anch'io dentro la Panda.
 
Le previsioni di Diana si avverarono il sabato mattina seguente.
Stavo giusto uscendo di casa – se così potevo definire la dimora di Nick – quando una moto risalì il vialetto e frenò con un impennata proprio di fronte a me. Diego si tolse il casco integrale dalla testa e mi guardò soddisfatto. Era riuscito a spaventarmi un'altra volta.
«Non finisco mai di stupirti, eh?» domandò ammiccando.
Mi portai una mano al cuore e lo guardai di traverso. «Se il tuo intento è quello di provocarmi un infarto, allora sì, sei sulla giusta strada» risposi e mi sistemai meglio il gommino sui capelli.
Lui mi ammirò (facendomi pure sentire a disagio), poi rise. «Sei pronta?» domandò battendo sul sellino posteriore.
Lo guardai interrogativa.
«Ti porto ovunque tu stia andando» chiarì lui sprizzando gioia.
«Non credo che là dove sto andando mi basterà una moto» osservai e lo aggirai andando ad aprire l'auto. Abbassai il seggiolino dal lato del guidatore e mi grattai pensierosa la fronte. Diego scese dalla moto per piazzarsi accanto a me.
«Cosa devi fare?» s'incuriosì.
«Trasloco» risposi semplicemente e con la coda dell'occhio notai che Diego si rabbuiò.
«Qui?» domandò riferendosi alla casa di Nick, quasi gli facesse schifo.
Sospirai paziente e feci un cenno col capo in assenso. «Qui.»
Lui si zittì per qualche secondo mentre io continuavo a prendere mentalmente le misure dello spazio a mia disposizione. Non avevo proprio tempo per questi discorsi e per fortuna Diego non volle insistere.
«Be', non so quanta roba dovrai spostare, ma non credo che questa scatoletta sarà sufficiente» disse dopo un po', affondando la testa all'interno della Panda.
Sbuffai offesa e lisciai il tettuccio della mia auto come una mamma premurosa: «non ascoltare l'uomo cattivo» dissi, «lui non ci conosce.»
Diego mi guardò perplesso. «Parli con la tua ferraglia?»
«Ehi!» esclamai allora più indignata di prima. «Esigiamo un po' di rispetto, qui.»
«Okay, okay» lui alzò le mani in segno di resa. «Chiedo scusa alla scat... volevo dire alla signora...»
«Signorina!» lo corressi di slancio.
«D'accordo, alla signorina Panda qui presente! Ma comunque sai che ho ragione.»
Squadrai di nuovo lo spazio sui sedili posteriori e sospirai. Sì, purtroppo aveva ragione, ma non vedevo come avrei potuto risolvere la cosa. Di sicuro avrei dovuto fare più viaggi per riuscire a trasportare tutto. Mi vennero i brividi al solo pensiero di tutta la benzina che sarebbe andata sprecata. Di toccare i soldi di Diana non ci pensavo nemmeno, erano andati dritti nel mio fondo ''isola'' e non volevo commettere nuovamente lo stesso errore. In altre parole, non avevo scelta. Almeno finché...
«Ho un'idea!» esclamò Diego e si strofinò le mani come una mosca prima di un banchetto. «Aspetta solo un secondo!»
Lo guardai interrogativa allontanarsi indietro alla moto e armeggiare con il telefonino. Fece una chiamata piuttosto rapida e dopo aver riagganciato tornò da me sprizzando nuova gioia.
«Che succede?» domandai diffidente.
«Puoi chiamarmi Superman» mi propose raggiante posandomi, in modo piuttosto rude, una mano su una spalla. «Scusa» si affrettò a dire quindi, togliendola.
Mi massaggiai il punto indolenzito in cui mi aveva colpito. «Non importa. Insomma, che cerchi di nascondermi?»
Diego mi rivolse un sorrisetto furbo. «Considerati tanto fortunata, un amico mi deve un favore» spiegò. «Avrai un vero camion da trasporti!»
Sgranai le palpebre. «Ah» esitai prima di assimilare quella notizia. «Grazie!» aggiunsi rapida.
«Non c'è di che» agitò una mano in aria, lui. «Naturalmente non c'entreremo mai tutti e cinque sui sedili del camion. Dovrò accompagnarti io» e con questo la sua espressione diventò più sorniona.
«Come sarebbe a dire tutti e cinque?» mi accigliai.
«Non penserai che caricheremo da soli tutta la tua roba?» obbiettò.
Ah, no?
«A che servono gli scaricatori allora?»
Aprii la bocca come un pesce lesso in cerca di una risposta, ma poi decisi che sarebbe stato poco carino controbattere. Inoltre era stato davvero gentile da parte sua smuovere un amico per me, perciò la richiusi e annuii, rivolgendogli un sorriso sinceramente grato.
«Okay, se abbiamo sistemato questa parte, vorrei chiederti un'altra cosa.» Diego esitò e si schiarì nervosamente la voce.
«Be', direi che dopo un favore del genere potresti chiedermi qualunque cosa» scherzai e subito mi resi conto di cosa potesse implicare una frase del genere. Sul viso di Diego infatti apparve una nuova luce; stava quasi esultando quando mi corressi: «qualunque cosa che un'altra amica che ti deve un favore possa fare.»
Il suo sorriso s'increspò. «Beh, che ne diresti di passare una serata in mia compagnia?» propose in tono apparentemente disinvolto e finse di trovare molto interessante l'orizzonte oltre le cime della boscaglia, alle mie spalle, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans. Mi aveva colto del tutto impreparata e sperai davvero che con ciò non intendesse che avremmo avuto un appuntamento romantico o qualcosa del genere.
«Senti Diego, sei molto carino e un bravo ragazzo...» esitai, non sapendo bene come proseguire senza rischiare di offenderlo.
«Iniziamo bene» sbuffò ironicamente lui, più a sé stesso che a me.
«Dico sul serio!» insistei. «Perciò posso accettare il tuo invito solo se mi prometti che sarà una semplice uscita tra amici. Non vorrei che tu pensassi che sia la solita scusa, ma ultimamente la mia vita è davvero, davvero incasinata. Quindi non potrei... mmh... no, non vorrei mai illuderti» dissi in tutta sincerità. Ero un po' stanca dei giochetti e fui sollevata di vedere che Diego la stesse prendendo abbastanza bene – anche se il suo pomo d'Adamo si mosse un paio di volte su e giù e i suoi occhi si piantarono come paletti nei miei per un secondo di troppo. Poi però sorrise scuotendo la testa e i lineamenti del suo viso si rilassarono. «Frena, ragazza!» disse fingendosi turbato. «Credi di essere tanto attraente da far capitolare ogni uomo che incontri?» mi rivolse un'occhiata scandalizzata e scoppiammo entrambi a ridere. Mi arruffò i capelli.
Forse, e solo forse, avrei potuto provare a dargli una possibilità. Che ci perdevo in fondo? Dopo tutto Nick era sparito, il suo telefono risultava staccato da diversi giorni e Jerry non era più tornato a trovarmi, per cui non potevo nemmeno sperare di carpirgli qualche informazione. E ieri sera ero arrivata a sentirmi talmente frustrata riguardo a tutta questa storia da aver giurato di fronte all'Universo (e una costosissima bottiglia di Gin rubata dalle riserve dell'angolo bar) che avrei sposato il primo uomo che sarebbe apparso sul vialetto. E oggi eccolo qui. Per cui magari era destino. Ridacchiai tra me e me e mi posai una mano sulla bocca, suscitando evidenti interrogativi da parte di Diego. No, non potevo ingannarmi di nuovo e non volevo ingannare lui, proprio come gli avevo detto. Quindi scossi la testa come a dire ''non far caso a me'' e scacciai a forza dalla testa il ricordo della voce preregistrata della tizia del centralino telefonico.
«Allora passo alle sette?» domandò Diego.
«Facciamo alle sette e mezzo e l'affare è fatto!» sorrisi.
Lui annuì e in quel momento sentimmo l'arrivo di un veicolo pesante che risaliva la strada.
«Dev'essere il mio amico» disse e quando il camion (che per correttezza era più simile al camioncino dei hot dog che a un vero veicolo di trasporto merci) si fermò e ne uscì un ometto basso e stempiato, i due si salutarono.
«Oh bimbo!» gli gridò l'ometto. «E se ci davi l'indirizzo un era meglio?!»
«Ah» fece Diego. «Non ci avevo pensato» si schiarì di nuovo imbarazzato la voce ed evitò di guardarmi. Scossi la testa sghignazzando; Mr. Superman-penso-a-tutto-io!
«Via Giannotti, 23» risposi al posto suo. «Vi facciamo strada.»
L'ometto mi fece l'OK con le dita in modo buffo e risalì a bordo del camioncino. Diego si mise in sella alla moto.
«Che fai?» gli chiesi allora.
«Non penserai che viaggerò a bordo di quel trabiccolo?» domandò lui riferendosi alla mia auto e fece apparire magicamente un secondo casco.
Lo fissai per niente convinta. «Scherzi, vero?»
«Neanche un po'!» rispose fermamente Diego e dal camioncino risuonò il clacson per incitarci a darci una mossa. Allora gettai un'ultima occhiata alla mia Panda e con una pacca desolata sul tettuccio richiusi la portiera.
Diego voleva davvero farmi venire un infarto!
 
Ci avevamo messo meno tempo del previsto a svuotare il mio vecchio appartamento, e sicuramente la maggior parte del merito era stata degli uomini che erano arrivati in mio soccorso su richiesta di Diego. Fui felice di aver avuto quell'aiuto, poiché da sola non sarei mai riuscita a trasportare alcuni dei mobili – un particolare a cui non avevo certo pensato mentre stavo valutando la mia Panda.
Anche Diego mi era sembrato raggiante nonostante la fatica: si era offerto di trascinare la mia vecchia scrivania da solo. Per sei piani di scale. Come ci fosse riuscito senza stroncarsi l'osso del collo rimaneva un mistero per me, ma lui non si era mai lamentato. Al contrario, ci era sembrato addirittura che volesse fare tutto il lavoro da solo, persino dopo tutti i discorsi sull'importanza di avere degli scaricatori. La sua buona volontà mi aveva fatto sorridere e mi stavo persino dimenticando del fatto che da quel momento non avrei più avuto una casa, quando a rovinare tutto era arrivata la signora Petrelli.
Non aveva proferito parola, si era semplicemente piazzata all'uscita del palazzo con aria soddisfatta e ogni tanto, mentre passavo con gli scatoloni, mi gettava un'occhiata trionfante come a voler dire: «alla fine ho vinto io.» Per un secondo mi era balenata l'idea di risponderle qualcosa di cattivo, di esprimere il dispiacere per il fatto che l'incendio non fosse riuscito a intaccare il suo appartamento. Ma poi avevo incontrato Giacomina che era di ritorno dal mercato e il suo caldo abbraccio mi aveva persuaso a lasciar perdere. Avevo tante persone che mi volevano bene e preferivo pensare a loro.
«Prendi le mele» insistette Giacomina mentre uno degli uomini stava richiudendo le ante del furgone. «Fanno bene!»
«Lo so, lo so» le sorrisi. «Ma non vorrei togliertele.»
«Macché!» agitò una mano in aria con noncuranza, lei. «Non mi piacciono nemmeno. Le ho prese per fare una crostata, ma posso farla anche con le pere» e così dicendo mi spinse il sacchetto delle mele tra le mani e i suoi occhi si fecero lucidi.
«Grazie Giacomina.» Le stampai un bacio sulla guancia e infine salii sulla moto.
Ma prima che potessi abbassare la visiera, Giacomina aggiunse: «E salutami tanto quel bravo ragazzo di Nicholas! Hanno portato via i miei alberi l'altro giorno, mi ha chiamato per dirmi che potevo andare a trovarli. Così l'ho fatto e mi sono commossa tantissimo. Li hanno ripiantati in un bel giardino davanti alla nuova banca e li trattano come se fossero speciali. In mezzo hanno anche piazzato una bella targa d'oro in memoria di mia figlia, sai?» tirò su col naso e si tamponò gli occhi con un fazzoletto di stoffa.
Io invece m'impietrii. Il mio cuore si fermò per un attimo perché quello che aveva detto poteva significare una cosa sola: Nick mi stava evitando. L'ha chiamata solo qualche giorno prima, mentre a me continuava a risultare non raggiungibile. Non si era nemmeno degnato di farmi sapere che stava bene. Niente. Neanche una parola. Che cosa gli avevo fatto?! A quel punto anche i miei occhi si appannarono, ma non potevo farmi vedere così da Giacomina, per lei Nick era una specie di eroi.
«Certo» le promisi quindi sforzandomi di sorridere. «Glielo dirò.»
 
Tornati alla villetta gli scaricatori mi aiutarono a mettere via i mobili nel garage annesso al retro casa. Sperai che a Nick non sarebbe dispiaciuto che avessi preso quella decisione senza consultarlo, ma poi mi tornò in mente la voce preregistrata della sua segreteria e le parole di Giacomina e decisi che si meritava decisamente di trovare il garage ingombro della mia roba.
Quando gli uomini se ne furono andati, Diego rimase sul vialetto a rigirarsi il casco tra le mani, indeciso su qualcosa. Lo guardai in attesa, ma lui non alzò lo sguardo su di me, per cui parlai per prima.
«C'è qualcosa che devi dirmi?» domandai.
Lui arricciò le labbra e alzò fugacemente una spalla. «Probabilmente non sono affari miei...» iniziò e mi misi subito sulla difensiva, incrociando le braccia sul petto. «Mia madre è andata a festeggiare l'altra sera.»
«E...?»
Diego mi guardò. «Ha ricevuto delle informazioni...» disse e attese che avessi una qualche reazione. In effetti mi mossi a disagio sul posto e involontariamente distolsi gli occhi da lui per osservare la luce che avevo lasciato acceso al piano di sopra. No, non gli avrei confessato nulla, anche se ero certa che sapesse chi gliele avesse passate.
Diego strinse le labbra e riprese a rigirarsi il casco tra le mani. «In ogni caso, non giudicherei mai chiunque sia stato. Mia madre sa essere persuasiva» disse, insinuando chiaramente che fossi stata io. Dopodiché mi sorrise di nuovo, s'infilò il casco e salì sulla moto. «Be', ci vediamo tra un paio d'ore! Ho delle cose da sistemare» esclamò facendomi l'occhiolino e con questo se ne andò senza voltarsi più indietro.
Lo osservai sparire e sospirai; avrei dovuto spiegargli come stavano le cose, ma mi sentivo al pari di una ladra – cosa che in verità ero.
Ci riflettei su sentendo i brividi scorrermi sulla pelle come cubetti di ghiaccio. Quindi rientrai in casa e andai dritto nel bagno padronale dove aprii il rubinetto dell'acqua calda. Mentre la vasca si riempiva, mi tornò in mente il foglio che avevo trovato nella stanza del motel dove adesso abitava Carlo. Non l'avevo più considerato con tutto quello che mi era successo, quindi presi il telefono, tornai in bagno, mi sedetti sul bordo della vasca e ritrovai le foto scattate. Mi fermai all'ultimo messaggio, quello che non avevo finito di leggere perché ero stata interrotta da Carlo, e lo rilessi da capo, per intero:
 
+39347******9
[17.00]
Non puoi permetterti un altro sbaglio, Nick. Tuo padre sta perdendo la pazienza. Ha bisogno di risposte, ha bisogno di capire perché i suoi soldi continuano a sparire. Non sei tornato qui per perdere tempo andando dietro a una ragazzina.
 
Mi si formò un groppo in gola, perché ero certa che quel tizio (ammesso che fosse un uomo) stesse parlando di me e di certo non in un tono esultante. Ma lo scambio di messaggi non finiva lì.
 
+39388******0
[17.08]
Quello che faccio nel mio tempo libero non riguarda nessuno.
Cerca lo stemma, il resto è un mio problema.
 
+39347******9
[17.19]
Volevo solo avvertirti che il tuo vecchio non è contento dei tempi lenti con cui procedono le cose, inoltre potresti immischiarla in situazioni spiacevoli.
Comunque farò come mi hai chiesto.
Intanto so per certo che...
 
Il messaggio si interrompeva bruscamente. Strisciai inutilmente sullo schermo per cercare di ingrandirlo, ma nella fretta di scattare la foto dovevo aver tagliato un pezzo della frase. Frustrata, strinsi troppo la presa e il telefono mi sgusciò dalle mani come una saponetta finendo dritto nella vasca piena d'acqua. Purtroppo non feci in tempo ad acchiapparlo e lo osservai con occhi pieni di terrore inabissarsi come un relitto. Si era spento immediatamente ed era morto.
«No!» esclamai ripescandolo. Mi bagnai la manica della felpa fino al gomito e feci traboccare dell'acqua per terra su cui per poco non scivolai mentre mi raddrizzavo. Il mio solito, cattivo karma stava colpendo di nuovo e mi sentii in diritto di imprecare a voce alta mentre scalcavo via le scarpe per non rischiare di scivolare un altra volta. Poi mi tolsi anche la felpa e i jeans, scossi il cellulare come se questo potesse servire a riportarlo in vita e alla fine lo buttai sopra il mucchio di vestiti.
«Al diavolo!» sbuffai finendo di spogliarmi per entrare nella vasca. Avevo l'impressione che il telefono non sarebbe risorto in alcun modo.
Un'ora e mezza più tardi stavo finendo di truccarmi e stranamente ero in perfetto orario. Avrei voluto avere ancora il mio cellulare per sapere se Diego fosse già partito, ma grazie alle mie mani di burro ero rimasta tagliata fuori dal mondo. Per fortuna Nick era provvisto di un cordless, perciò avevo già avvertito i miei e anche le ragazze. Tuttavia non poterli tenere aggiornati in tempo reale mi rendeva nervosa. Incredibile che solo qualche decennio prima la gente non li aveva nemmeno, i telefonini.
Queste elucubrazioni occuparono una buona parte dei minuti seguenti, perlomeno finché non sentii una macchina parcheggiare nel vialetto. Gettai un'occhiata fuori dalla finestra del bagno e vidi che Diego scendeva da una bella BMW lustrata a nuovo. Era dannatamente elegante e mi sentii quasi sciatta con i capelli raccolti in una disordinata crocchia e il mio vestito ''per tutte le occasioni''.
Quando bussò presi un bel respiro e andai ad aprire. Dalla soglia, Diego mi guardò come se mi vedesse per la prima volta e sul suo viso si dipinse un espressione assorta. Se stava pensando che fossi carina conciata così, doveva avere qualche problema serio.
«Sei pronta?» mi domandò porgendomi un braccio. Annuii e prima di uscire presi la borsetta e un soprabito, sperando che si ricordasse che il nostro non fosse uno di quei appuntamenti. Lui comunque sembrava sereno, per cui mi rilassai anch'io ed entrai nell'auto ringraziandolo per avermi tenuto aperta la portiera. Non era male sentirsi trattare da principessa di tanto in tanto.
«Qual è la destinazione?» gli domandai non appena ci spingemmo oltre i confini della città. Lui mi rivolse un sorriso enigmatico, ma non rispose. «Eddai!» lo pregai con lo sguardo.
«Non se ne parla» rispose allora Diego. «Voglio che sia una sorpresa!» e con questo accese la radio su una canzone rap un po' stupida e si mise a canticchiarla mimando facce buffe per farmi ridere. Funzionò e il tempo trascorse veloce, tanto che non mi accorsi nemmeno che eravamo arrivati.
«Wow!» esclamai con un sorrisetto beffardo, osservando il buio. «Siamo nel bel mezzo del nulla.»
Al che Diego mi rivolse uno sorriso enigmatico e scese dall'auto per venire ad aprirmi. Mi porse la mano per aiutarmi a scendere dall'auto – dire che il buio e i tacchi a spillo non siano amici è riduttivo – e guidandomi pazientemente affinché non inciampassi, mi condusse verso la fine del sentiero boschivo che si apriva in una specie di arco naturale. Non appena sbucammo in un ampio spazio delimitato da un antico muretto, mi si mozzò il fiato. Lasciai la presa di Diego e corsi avanti.
«Oh mio Dio!» esclamai come una bambina il giorno di Natale. «Da qui sopra si vede tutta la città!» osservai ammirata e mi girai esultante verso Diego che ricambiò la mia espressione con un sorriso più moderato. Mi raggiunse al muretto e prese una profonda boccata d'aria, fissando le luci di fronte a noi che si dissipavano come una distesa di stelle colorate.
«Ho scoperto questo posto per caso qualche anno fa» mi confidò, appoggiandosi con le mani contro le antiche pietre. Osservai il suo profilo stagliarsi contro il cielo limpido e sorrisi, grata ancora una volta di poter avere persone come Diego al mio fianco. Poi tornai ad osservare la città sotto di noi e respirai a pieni polmoni l'aria pulita del monte.
«È incredibile» sorrisi e tra noi calò un breve silenzio solenne in cui i miei pensieri tornarono inevitabilmente a Nick. Ero sinceramente grata a Diego per avermi fatto scoprire un luogo così speciale, ma la verità era che avrei voluto essere qui con un'altra persona. Questa consapevolezza smorzò un po' del mio entusiasmo e il mio stomaco brontolò a peggiorare la situazione. Purtroppo Diego se ne accorse e mentre gli rivolgevo una faccia imbarazzata lui sogghignò.
«Hai ragione. Ti avevo promesso una cena» disse e prendendomi per le spalle, mi voltò verso sinistra. Ero stata così presa dal paesaggio che non mi ero nemmeno resa conto che ad appena tre metri da me c'era un tavolo imbandito a festa. I vari piatti coperti dalle campane fecero brontolare il mio stomaco ancora più forte e mi domandai se si potesse sembrare più disagiate di così.
«Andiamo!» mi sospinse delicatamente Diego. «Sto morendo di fame» aggiunse e fui certa che l'avesse detto solo per tirarmi fuori dall'impiccio.
In ogni modo non me lo feci ripetere due volte e lasciando che mi scostasse la sedia, mi accomodai a un capo del tavolo. Diego invece non si mise a sedere subito, prima si frugò in una tasca dei pantaloni e ne cacciò fuori un accendino con cui accese le due candele al centro. Incredibilmente, quella luce fu sufficiente per rischiarare la tavola e attesi pazientemente che anche lui si mettesse a sedere per iniziare a scoprire i piatti. Dentro il più grosso si nascondeva la pasta ai frutti di mare, in quelle accanto gamberetti e polpo conditi di rucola e limone. Dovetti trattenermi per non assalire tutto quel ben di Dio.
«Prendi pure un po' di tutto» mi invitò Diego, forse perché aveva notato la mia espressione avida. Gli rivolsi un mezzo sorriso impacciato e tentai di darmi un contegno mentre seguivo il suo consiglio. Non appena ci fummo serviti, presi una forchettata di spaghetti e guardai di nuovo il panorama. Era una serata surreale e non potei fare a meno di mordermi un labbro pensierosa con la forchetta ancora sospesa a mezz'aria.
Diego si tamponò la bocca con un tovagliolo e inarcò un sopracciglio. «Credevo che avessi fame» osservò. «Non ti piace qualcosa?» s'incupì e mi affrettai a scuotere la testa.
«È tutto perfetto» gli assicurai, poi spostai gli occhi sulle candele. «Ma è proprio questo il problema» aggiunsi e deglutii.
Diego si accigliò.
«Diego» dissi tornando a guardarlo negli occhi. «Tutto questo è davvero fantastico. Dico sul serio. Nessuno ha mai fatto niente del genere per me e te ne sono riconoscente. Ma come ti ho già detto, non voglio illuderti. Questo posto...» mi guardai attorno, «questo posto merita di essere visto da una persona che possa apprezzarlo davvero. Non fraintendermi, sono felice che tu l'abbia condiviso con me, tuttavia credo che non dovrei essere io quella persona ma qualcuno che non pensi costantemente a un altro uomo mentre è qui con te» conclusi con delicatezza e abbozzai un sorriso.
Lui non disse niente. Abbassò gli occhi sul suo piatto e si sforzò di sembrare tranquillo mentre si portava la forchetta alla bocca, quasi allegro. Tuttavia il suo sguardo non era affatto felice e mi sentii stringere il cuore. Non avrei mai dovuto accettare il suo invito, sapevo fin troppo bene cosa voleva dire ''nutrire vane speranze'' e non l'avrei mai augurato a nessuno. Tanto meno a Diego.
D'un tratto non ebbi più fame.
«Non è come pensi, sai?» disse dopo un po' lui e si scrollò nelle spalle prima di guardarmi. «Ammetto che mi piacerebbe che la smettessi di pensare a quel Gordon e ti accorgessi che né lui né Marco... Okay, Carlo» si corresse controvoglia alla mia occhiata, «Insomma» riprese, «che nessuno dei due ti meriti davvero, ma so che non è possibile. Non posso obbligarti e so che riuscirò a farmene una ragione prima o poi. Ma nonostante questo ci tenevo sul serio a portarti qui, non perché nutra qualche speranza, non sono così masochista» sogghignò, «ma perché mi hai davvero conquistato e non so nemmeno io come o perché. Hai qualcosa, Vittoria Bianchi, e quando ho deciso di condividere con te il mio nascondiglio segreto è stato perché ci tengo ad avere un buon ricordo di noi due» concluse e mi sorrise in modo più aperto.
Ebbi un fremito e i miei occhi si riempirono di lacrime. Mi stavo comportando da idiota, ma le sue parole mi avevano commossa. In qualche modo potevo capirlo e mentre riprendevamo a mangiare, augurai a Diego con tutto il cuore che un giorno potesse incontrare una donna straordinaria che si sarebbe innamorata follemente di lui. Se lo meritava.
Dopodiché la conversazione si spostò su cose più frivole e passammo il resto della cena a ridere e scherzare. Così scoprii che Diego aveva sempre desiderato diventare uno chef e che sua madre non era sempre stata così fredda e distaccata. E per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii del tutto in pace con me stessa, perché potevo aprirmi con lui senza sentirmi nervosa o a disagio, il che era meraviglioso.
Peccato che era destinato a non durare...
Verso le undici Diego mi riportò indietro. Ma quando entrò nel vialetto mi accorsi subito che c'era qualcosa di completamente fuori posto lì.
«C'è qualcuno alla porta» osservò Diego indicando con un cenno la figura seduta all'ombra dell'entrata. Il mio amico spense il motore e il mio cuore prese a battere furiosamente.
«Nick!» esclamai fiondandomi fuori dall'auto. Ma non appena lo riconobbi mi bloccai dov'ero, spalancando la bocca per la sorpresa e lo spavento. Quello non era Nick, era Jerry. E aveva l'aria di chi era stato appena investito da un tir.





---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Salve mondo! Sono viva e sono tornata. Non starò qui ad annoiarvi con le rocambolesche avventure che ho avuto con internet in questi mesi, ma sappiate che vi ho pensato tanto e che non vedevo l’ora di tornare a postare! Spero che il cp vi sia piaciuto e attendo come sempre un qualunque tipo di commento, perché mi farebbe davvero piacere :)
Detto questo, vi auguro una BUONA PASQUA e tonnellate di uova di cioccolato ;)
xoxoxo


M.Z.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3276010