Le Bizzarre Avventure di JoJo: Mighty Long Fall

di Recchan8
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** What's the problem? Not gonna make it right? ***
Capitolo 2: *** We'll fight fight 'till there's nothing left to say ***
Capitolo 3: *** Into the pain I go ***
Capitolo 4: *** I can't believe in you ***
Capitolo 5: *** We're an army of used up freaks ***
Capitolo 6: *** Why looking for answers, just leaves a question? ***
Capitolo 7: *** There is no one to try to stop it! Let it go! ***
Capitolo 8: *** Don't even think that you know me ***
Capitolo 9: *** I don't know what to do, I don't know ***
Capitolo 10: *** I see you smiling when I close my eyes 'cause I miss you ***
Capitolo 11: *** It's hard for me to say ***
Capitolo 12: *** What we finally found wasn't what we wanted ***
Capitolo 13: *** Creeping shadow right behind me ***
Capitolo 14: *** There's nothing I fear, I've got a ton of spears ***
Capitolo 15: *** They say it's all right, does that make it okay? ***
Capitolo 16: *** Don't call me crazy ***
Capitolo 17: *** Too many scars, too many fears ***



Capitolo 1
*** What's the problem? Not gonna make it right? ***


NOTE DELL'AUTRICE: Salve a tutti! Ho deciso di ritagliarmi uno spazio all'inizio e non alla fine del capitolo per farvi subito dei chiarimenti. L'opera che apprestate a leggere è al tempo stesso tre cose: 1) il seguito della mia fanfiction "Deep Memories"; 2) un prequel della fanfiction di AlsoSprachVelociraptor "Dangerous Heritage"; 3) un crossover tra "Deep Memories" e "Dangerous Heritage". Per evitare spoiler indesiderati vi invito a leggere prima le altre due opere citate. Non importa se "Dangerous Heritage" è ancora in corso perché i personaggi della sua fanfiction che inserirò sono quelli che AlsoSprachVelociraptor ha descritto fino a ora. "Mighty Long Fall" non è una fanfiction scritta a quattro mani, è tutta opera della mia testolina bacata. AlsoSprachVelociraptor si tira fuori da tutte le eventuali polemiche/diatribe (grazie, eh <3); nemmeno lei sa come andrà a finire >:)
Nella speranza che "Mighty Long Fall" vi possa piacere, auguro a tutti voi una buona lettura :)
   Recchan8

 






Ciro Starace esercitava la professione di psichiatra da quasi quindici anni. Il suo studio privato si trovava nel centro di Napoli; l'affitto del locale era parecchio alto, ma le entrate permettevano al dottore di sostenere senza problemi l'ingente spesa. Ciro aveva un gemello di nome Gaetano. I due fratelli avevano frequentato asilo, elementari, medie e superiori insieme, finché non avevano deciso di differenziare i loro percorsi di studi universitari e di intraprendere due carriere diverse: Ciro divenne uno psichiatra, Gaetano uno psicologo.
I gemelli Starace godevano di una certa fama regionale e per qualche strano motivo erano diventati i dottori di fiducia di una certa organizzazione mafiosa che agiva a livello nazionale. Tutti i membri di tale organizzazione, in caso di bisogno, si rivolgevano allo psicologo o allo psichiatra in base al loro tipo di problema. A volte capitava che a un paziente di Gaetano venisse consigliato da Gaetano stesso di rivolgersi al fratello per ricevere una cura più efficace e mirata.
Quella mattina Ciro non aveva visite in programma; la sua presenza nello studio era comunque richiesta nel caso in cui qualche nuovo paziente si presentasse senza appuntamento per una prima seduta o semplicemente per informarsi su questa. Ciro, seduto sulla sua poltrona dietro alla scrivania, si levò gli occhiali dalla spessa montatura rotonda e nera e se li infilò nel taschino della camicia rosa pallido. L'aria afosa di agosto entrava svogliata dalla finestra spalancata che dava sul mare. Ciro era orgoglioso di quella vista; era sicuro che da nessun'altra parte si potesse godere di uno spettacolo così bello. Fece vagare lo sguardo castano per lo studio, indugiando più volte sugli alti scaffali pieni zeppi di tomi dedicati al suo lavoro.
Avrebbe volentieri passato cinque ore in quell'atmosfera di innaturale calma se Gaetano non avesse fatto un ingresso in pompa magna nel suo studio. Il gemello minore raggiunse a grandi falcate la scrivania del fratello e ci schiaffò sopra un fascicolo contenente i dati di un paziente. Senza dire una parola ma sospirando, Ciro inforcò gli occhiali e aprì la cartellina sfogliando con calma i vari fogli.
-”Vuoi passarmelo?”- domandò senza alzare gli occhi dal documento.
Gaetano si grattò la testa ramata e annuì. Guardò Ciro continuare sfogliare il fascicolo e pregò San Gennaro di convincere il fratello ad accettare il passaggio.
-”Interessante...”- commentò Ciro dopo un po'. Restituì la cartellina a Gaetano e incrociò le braccia al petto. Lo psicologo annuì vigorosamente e iniziò il discorso che si era preparato e studiato il giorno prima. Non sempre Ciro accettava i pazienti che avevano subito un primo trattamento da Gaetano; sosteneva di preferire i “casi intatti”.
-”Come hai potuto leggere, è in cura da me da più di sei mesi. In questo lasso di tempo non ci sono stati miglioramenti, e...”-.
Ciro, mentre il fratello continuava la sua spiegazione, si abbandonò sullo schienale della poltrona e si massaggiò il mento ricoperto da una corta barba fulva. Sei mesi senza alcun miglioramento... Non poteva nascondere che il fatto fosse alquanto curioso e preoccupante. L'assenza di anche solo una minima ripresa poteva essere spiegata in due modi. Uno: lo psicologo era un incapace; due: il paziente non voleva abbandonare il suo disturbo. Ciro era più che certo che il caso non dipendesse da Gaetano; del resto il 110 e lode non l'aveva vinto coi punti dell'Esselunga.
-”Va bene, va bene... Accetto il paziente”-.
Gaetano, visibilmente sollevato, ringraziò San Gennaro con un'occhiata sognante rivolta al cielo. Il solo pensiero di essere riuscito a liberarsi di un caso così complicato lo fece sentire subito meglio. Gaetano odiava non riuscire ad aiutare le persone. Quando ciò accadeva la prendeva sul personale e tentava in tutti i modi di trovare una soluzione ai difficili problemi del paziente di turno, anche a costo di sacrificare la propria vita privata. Ma quel giovane uomo era un caso particolare. Il minore dei gemelli Starace non aveva mai incontrato una persona come lui.
-”Mandamelo pure in mattinata”- disse Ciro a Gaetano. Il sollievo di quest'ultimo non era passato inosservato agli occhi dello psichiatra.
Gaetano ringraziò il fratello e fece per eclissarsi quando all'improvviso si rese conto di non aver messo Ciro al corrente di un particolare di massima importanza. Tornò sui suoi passi e si chinò sul fratello, avvicinando le labbra al suo orecchio.
-”Fràte, trattalo coi guanti; è un membro di Passione”- sussurrò.

 

 

Un paio di ore dopo, il paziente si presentò.
Bussò lievemente alla porta dello studio e Ciro gli diede il permesso di entrare. Un giovane di ventiquattro anni aprì la porta e andò a stringere la mano al dottore, presentandosi. Ciro gli fece scivolare lo sguardo addosso, già iniziando la sua analisi. Apparentemente il giovane sembrava in perfetta salute, sia fisica che mentale. L'unico particolare che diede da pensare allo psichiatra furono gli occhi del ragazzo: verdissimi come due smeraldi ma torbidi e profondamente segnati. Un tempo dovevano essere due gemme brillanti, ma adesso non erano altro che due pietre grezze gettate tra i flutti di un fiume inquinato.
-”Si accomodi pure”- lo invitò Ciro indicandogli il divano di fronte alla scrivania con un cenno della mano. Mentre il giovane si sedeva, Ciro si spostò sull'altra poltrona vicino al divano. La prima regola del suo lavoro era far dimenticare al paziente di trovarsi sotto analisi. Accavallò le gambe e si sistemò gli occhiali rotondi sul naso. -”Posso darti del tu?”-.
Il giovane si strinse nelle spalle e annuì svogliato. Appoggiò la caviglia destra sul ginocchio sinistro e tirò fuori dalla tasca dei jeans attillati un pacchetto di Marlboro Gold. Ciro strinse le labbra. Doveva forse dirgli che nel suo studio era vietato fumare? Suo fratello gli aveva detto di trattarlo coi guanti, ma un divieto del genere valeva per tutti, senza eccezioni. Il giovane notò la strana espressione che stava passando sul volto dello psichiatra e, dopo averlo guardato per un po', si rimise in tasca il pacchetto di sigarette.
-”Ti ringrazio”- disse Ciro sorridendo e senza riuscire a nascondere una traccia di sollievo nella voce. -”Dunque, come mai ti trovi qui? Gaetano, lo psicologo da cui eri in cura, mi ha detto qualcosina sul tuo conto, ma io vorrei che fossi tu stesso a raccontarmi di te. Ti dispiace?”-.
-”Come ho già detto a suo fratello, io non sono pazzo”-.
Il sopracciglio sinistro di Ciro scattò verso l'alto.
-”Nessuno sostiene che tu lo sia”-.
-”Il Boss sì. E' stato lui a obbligarmi a rivolgermi a Gaetano”-.
Ciro si schiarì la voce e si mosse un poco a disagio sulla poltrona. Era da parecchio tempo che un membro di Passione non si presentava dai gemelli Starace. Per un po' i due fratelli avevano pensato di essere finalmente riusciti a uscire da quel giro pericoloso. Guardò il giovane: un'espressione corrucciata era dipinta sul suo volto più che gradevole, accentuando il taglio all'ingiù dei suoi occhi verdi; i capelli corvini, mossi e lunghi appena fin sopra le spalle, gli ricadevano in parte sul viso.
-”Parlamene”- disse alla fine.
-”Anche lei finirebbe per pensare che io sia pazzo”- borbottò senza guardarlo.
-”Stai quindi ammettendo che, in effetti, c'è qualcosa che non va?”- azzardò Ciro.
Il giovane si voltò di scatto verso di lui e Ciro poté giurare di aver visto per qualche secondo del fumo serpeggiare minacciosamente attorno al ragazzo. Sbatté più volte le palpebre ma del fumo non vi era alcuna traccia.
-”Stavo scherzando”- disse sorridendo. -”Sta a te decidere se sia il caso di trovare una soluzione o meno”-.
-”Glielo ripeterò: io non sono pazzo”- sibilò il giovane moro a denti stretti.
-”Allora... Perché il Boss sostiene che tu lo sia?”- azzardò a domandare Ciro, le dita intrecciate sotto al mento. Era consapevole di aver appena posto una domanda rischiosa, ma era l'unica che al momento potesse fare, visto l'atteggiamento del paziente.
Il giovane sospirò rumorosamente e incrociò le braccia al petto nudo. Per qualche motivo indossava solo una giacca nera; niente camicia, niente maglietta.
-”Faccio lo stesso sogno da sette mesi, precisamente dal 16 gennaio di questo anno”- si arrese alla fine. -”Tutte le notti”-.
Un lampo di curiosità e di vitalità rianimò gli occhi castani di Ciro. Lo psichiatra si alzò e andò a radunare qualche foglio e una penna, portandoli poi con sé sulla poltrona vicino al divano.
-”Raccontamelo”- lo esortò, interessato.
-”Per forza?”-.
-”No, per il tuo bene”-.
Il giovane fece schioccare la lingua e si passò una mano tra i capelli neri. Era stufo di dover raccontare a tutti quel sogno che lo tormentava da mesi. Sapeva benissimo che c'era qualcosa che non andava, non c'era bisogno che qualcun altro glielo dicesse.
-”...Mi trovo in una stanza bianca piena di fiamme”- iniziò esitante. -”Davanti a me c'è una ragazza. Ha dei lunghi capelli biondi e sta piangendo. Mi dice “Addio” e io le rispondo che la troverò. Non riesco a vederla bene perché le fiamme le nascondono il viso”-.
Ciro prese nota di tutto e terminò i suoi appunti con un punto di soddisfazione. Il giovane vide l'entusiasmo nei movimento dello psichiatra e gli lanciò di sottecchi un'occhiataccia. Ecco perché non voleva andare a farsi vedere: a tutti gli strizzacervelli non interessa un accidente della condizione dei pazienti, vogliono solo divertirsi con nuovi casi al limite della sanità mentale.
-”C'è dell'altro”- disse Ciro guardando il giovane da sopra la montatura degli occhiali. Non era una domanda, era un'affermazione.
Il ragazzo dagli occhi verdi scosse la testa. Se avesse detto tutta la verità allo psichiatra, per lui sarebbe stata la fine: lo avrebbero imbottito di psicofarmaci e chiuso in qualche clinica disonesta.
-”Facciamo così: torna tra un paio di giorni. Va bene?”- sospirò Ciro alzandosi dalla poltrona. Come se non stesse aspettando altro, il giovane scattò in piedi e, un'espressione lievemente più serena sul volto, strinse la mano che lo psichiatra gli aveva teso e annuì. Fissarono l'appuntamento, il giovane si infilò in tasca il biglietto da visita di Ciro Starace e si defilò rapidamente, chiudendo la porta dello studio con un sonoro tonfo.
Ciro appoggiò gli occhiali sulla scrivania e si strinse il setto nasale tra l'indice e il pollice. Sospirò. Il giovane gli aveva mentito, aveva volutamente omesso un particolare più che importante. Oltre al sogno ricorrente c'era qualcos'altro. Pensò che sicuramente il Boss di Passione ne fosse a conoscenza, altrimenti non lo avrebbe mandato dagli Starace. Fortunatamente la documentazione che Gaetano gli aveva fatto leggere qualche ora prima riportava tutto. Allungò una mano sul tavolo e scarabocchiò su un foglio un promemoria: “Allucinazioni visive. Prescrivere psicofarmaci a Mercuzio Zeppeli”.

 

 

Mercuzio era stufo di essere costretto a rivolgersi a degli stupidi dottori. Avrebbe fatto meglio a non dire a nessuno del suo maledetto sogno e di quella ragazza bionda che sembrava pedinarlo ovunque lui andasse.
Tutto era iniziato il 16 gennaio 2014 quando Mercuzio aveva fatto per la prima volta quello strano sogno. Si era svegliato nel cuore della notte con il fiato spezzato, la gola secca e un fortissimo senso di disperazione addosso. Da quel giorno in poi il giovane Zeppeli aveva continuato a sognare quella scena. Le cose erano peggiorate quando, da sveglio, aveva iniziato a intravedere la ragazza bionda.
Il problema era che nessuno a parte lui riusciva a vederla.
Giorno, preoccupato per la sanità mentale del suo sottoposto, lo aveva momentaneamente sospeso dal lavoro e spedito da uno specialista. Mercuzio si era visto costretto ad abbandonare la Squadra del Crepuscolo e a iniziare a frequentare lo studio di Gaetano Starace.
Io non sono pazzo” era la frase che Mercuzio era solito ripetere fino allo sfinimento. Più che per convincere gli altri, lo diceva per convincere se stesso.
Trovò Mista seduto sulla sua solita panchina del giardino di Giorno, quella rivolta verso la siepe di alloro. Si sedette pesantemente accanto a lui e rovesciò la testa all'indietro, godendosi il caldo del sole in pieno viso.
-”Com'è andata, Zep?”- gli domandò Mista tirandogli una gomitata amichevole.
Come doveva essere andata? Come tutte le volte. Un buco nell'acqua. Mercuzio sapeva che una risposta del genere avrebbe solamente fatto star male l'amico, così indossò una maschera e sorrise. Non gli raccontò di essere stato costretto a passare nelle mani di uno psichiatra; sapeva bene come avrebbe reagito Mista.
Allora sei davvero pazzo!”, gli avrebbe detto.
-”...Ma tu come ti senti?”- gli chiese Mista dopo aver ascoltato il resoconto del giovane. Mercuzio aggrottò le sopracciglia, sorpreso dall'insolita domanda. Guardò Mista, i capelli neri legati in una frettolosa crocchia sulla nuca. Dopo aver perso l'orecchio sinistro in una rissa tra ubriachi, Mista aveva deciso di dire addio al suo caratteristico berretto rosso e blu a losanghe e di farsi crescere i capelli per nascondere la brutta cicatrice. Nonostante tutto, Mercuzio non si era ancora abituato al nuovo look del collega.
-”Mi sento... bene!”- mentì il giovane Zeppeli allargando le braccia.
-”Van Gogh non è convinto di ciò”- disse la vocina di Numero 2 da dentro la revolver di Mista. Quest'ultimo, indispettito dal nomignolo affibbiatogli dallo Stand, aprì di scatto il tamburo e scosse la pistola, facendo cadere a terra i proiettili al suo interno e i Sex Pistols. Li fulminò con lo sguardo uno a uno, facendo ben intendere che se avessero continuato così li avrebbe spediti a lavoro senza pranzo. Già gli scocciava venir soprannominato “Leopardi” a causa della sua abitudine di sedersi a fissare la siepe di alloro per quasi un'ora buona, ci mancava solo che iniziassero a chiamarlo “Van Gogh” per via dell'orecchio mozzato!
Mercuzio osservò in silenzio Mista litigare coi Sex Pistols. Avrebbe pagato oro per avere anche solo una briciola della vitalità e della gioia di vivere di cui era provvisto il collega più anziano. No, Mercuzio non stava per niente bene. Aveva la sensazione fissa che gli mancasse qualcosa, qualcosa di davvero importante. Aveva un vuoto dentro di sé, e negli ultimi due anni niente e nessuno era riuscito a colmarlo.
Dietro al prugno, quell'albero esile piantato vicino alla panchina, la ragazza dai capelli color miele gli sorrise.

 

 

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Capitolo 2
*** We'll fight fight 'till there's nothing left to say ***


Hasegawa, appoggiato alla portiera del suo taxi con una sigaretta stretta tra le labbra, osservò la fiumana di persone riversarsi fuori dall'aeroporto della Città di S. Notò che di stranieri ce n'erano pochi. Ovviamente... Cosa si aspettava? Chi era così stupido da voler passare l'ultima settimana di agosto nella prefettura della Città di S? Sorrise tra sé e sé, pensando a quanta cattiveria avesse appena messo nel suo ultimo pensiero. E pensare che lui campava proprio grazie ai turisti...
Presa un'ultima boccata di fumo, gettò la sigaretta a terra e la spense con la punta della scarpa. Quando rialzò lo sguardo vide una giovane staccarsi dalla massa e corricchiare verso di lui.
-”Salve, il suo taxi è libero?”- gli domandò con uno splendido sorriso sulle labbra tinte di rosa scuro.
Hasegawa rimase incantato dalla bellezza della giovane e balbettò un confuso “Certo”. Corse ad aprire il bagagliaio della vettura e vi mise dentro il trolley azzurro della ragazza; andò poi ad aprirle la portiera e a richiuderla, proprio come un cavaliere degno di questo nome farebbe. Montò in macchina e prima di voltarsi verso il passeggero si schiarì la voce.
-”Buon pomeriggio, il mio nome è Hasegawa. Dove la porto, signorina?”-.
La ragazza gli consegnò un fogliettino piegato in quattro.
-”Mi dispiace, ma non sono ancora molto brava a leggere il giapponese”- si scusò, un poco imbarazzata.
Hasegawa sorrise, dicendole di non preoccuparsi e complimentandosi invece per la pronuncia.
-”Se non fosse stato per il suo aspetto avrei giurato che lei fosse proprio giapponese!”- esclamò aprendo il bigliettino. Hasegawa impallidì un poco quando lesse l'indirizzo scritto sul foglietto di carta. Dopo aver lanciato un'occhiata alla ragazza attraverso lo specchietto retrovisore del taxi, tornò a leggere i caratteri scritti. Sbagliava o quello era l'indirizzo della casa di quel famoso dottore di Morioh?
-”C'è qualche problema?”- domandò la giovane preoccupata.
Hasegawa, colto alla sprovvista dalla dolce voce del passeggero, sobbalzò.
-”N-n-no, va tutto bene!”- rispose frettolosamente. -”Allora partiamo!”-. Mise in moto il taxi e uscì dal parcheggio riservato per immettersi in strada.
Il viaggio dall'aeroporto della Città di S a Morioh durava in media una mezz'oretta. Durante il tragitto Hasegawa non riuscì a fare a meno di lanciare continue occhiate curiose alla ragazza.
Dio benedica gli specchietti retrovisori!”.
La giovane aveva dei lunghi capelli biondi portati legati in un dolce e morbido chignon sulla parte alta della testa e una frangetta obliqua dal taglio sfilacciato che le copriva la fronte. Il suo abito, un leggero vestitino bianco dalla scollatura a cuore, ondeggiava mosso dall'aria che entrava dal finestrino che la giovane aveva aperto. Gli occhi ambrati dal taglio allungato erano puntati sul panorama che sfrecciava attorno al taxi.
-”Posso farle una domanda... personale?”- disse a un tratto un Hasegawa imbarazzato.
La giovane parve destarsi dai suoi pensieri. Lo guardò tramite lo specchietto retrovisore e sorrise amabilmente, dandogli il permesso di porre la sua domanda.
-”Ecco... Lei da dove viene?”-.
-”Italia”-.
Pizza, mafia e mandolino”, pensò Hasegawa con una punta di scherno.
-”E cosa è venuta a fare in una cittadina provinciale come Morioh?”-.
La giovane bionda si strinse nelle spalle e tornò a guardare fuori dal finestrino. Hasegawa attese ma non ricevette alcuna risposta. Prese a tamburellare le dita sul volante, nervoso e imbarazzato al tempo stesso. Forse le aveva fatto una domanda troppo invadente...
Il resto del viaggio passò nel silenzio più assoluto. Hasegawa non sopportava quelle situazioni, era solito chiacchierare amabilmente coi passeggeri, ma quella turista italiana lo aveva messo in soggezione; si sentiva un inetto solo a guardarla, era come se brillasse di luce propria. La giovane, dopo la domanda inopportuna del tassista, non aveva più aperto bocca. La sua attenzione era stata completamente assorbita dal paesaggio in costante mutamento.
-”Siamo arrivati”- disse Hasegawa una volta giunti a destinazione. Cos'era quella traccia di sollievo nella sua voce? Persino Hasegawa stesso ne rimase perplesso. Mentre la ragazza scendeva dal taxi, l'uomo andò a recuperarle il bagaglio. La giovane italiana pagò il conto e attese che la macchina sparisse dietro la curva della strada prima di voltarsi verso l'enorme villa alle sue spalle.
Ci siamo”, pensò un poco agitata.

 

 

Erano trascorsi due anni da quando Celeste aveva scoperto di essere una dhampir portatrice di Stand.
Dopo aver modificato le memorie di tutte le persone che erano entrate in contatto con lei o che semplicemente erano a conoscenza della sua esistenza, Celeste, risparmiata solo la famiglia e la ristretta cerchia di amici in Toscana, era tornata a casa ben conscia di aver lasciato a Napoli una parte di sé. Lo shock subito l'aveva costretta ad abbandonare l'università. Seguendo i consigli di Deeper Deeper, aveva deciso di intraprendere un viaggio alla ricerca delle sue origini e della sua identità. Si era così recata a New York per conoscere l'ultranovantenne nipote Joseph e per fare visita alla tomba di Erina Pendleton, la prima vedova Joestar. Senza farsi tanti problemi aveva rivelato la sua identità al vecchio Joseph; tanto si sarebbe dimenticato tutto nel giro di un paio d'ore.
-”Perché non vai a trovare mio figlio?”- le aveva proposto l'americano in uno dei suoi rari momenti di lucidità. -”E' un dottore abbastanza famoso, sai? Abita a Morioh, in Giappone...”-.
Così Celeste era partita alla volta del Paese del Sol Levante per incontrare il figlio del suo nipote, ovvero il suo pronipote.
Ciò di cui Celeste non era a conoscenza, però, era la difficile situazione familiare del dottor Higashikata.

 

 

Okuyasu aveva appena finito di sgomberare la lavastoviglie quando sentì il campanello della porta suonare. Si asciugò le mani al grembiule rosa confetto e si sistemò gli occhiali sul naso, lanciando un'occhiata all'orologio appeso sopra al tavolo della cucina. Erano le cinque del pomeriggio. Possibile che Josuke avesse già finito il turno a lavoro? Be', anche se fosse stato, perché aveva suonato il campanello e non aveva usato le chiavi? Okuyasu, non riuscendo a trovare una risposta soddisfacente al proprio interrogativo, si strinse nelle grosse spalle e si diresse a grandi passi verso l'ingresso. Come suo solito si dimenticò di guardare nello spioncino e spalancò la porta accompagnando il gesto con un profondo “Chi è?”.
Celeste, in piedi dall'altra parte della porta, sobbalzò dallo spavento e si resse con una mano l'orlo della gonna del vestitino. L'omone aveva spalancato la porta talmente forte da creare una potente ventata d'aria. Celeste si spolverò l'abito bianco e si mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Okuyasu guardò sbalordito quella bellezza occidentale che era magicamente apparsa alla porta di casa sua. Certo che era davvero alta rispetto allo standard delle donne giapponesi!
-”Salve...”- iniziò Celeste esitante. -”Questa è casa Higashikata, vero?”-.
Okuyasu annuì con una faccia imbambolata. Celeste strinse le labbra e annuì, osservando il bizzarro abbigliamento dell'uomo: bermuda beige, cannottiera bianca, infradito rosse e grembiule rosa.
-”Lei è il signor Higashikata?”-.
-”Be', sì”-.
Il sopracciglio ben disegnato di Celeste scattò verso l'alto. Quell'uomo non somigliava per niente a un Joestar: portava i capelli sale e pepe legati in una coda bassa, aveva il viso attraversato da una cicatrice a X e gli occhi costantemente sgranati dalle pupille puntiformi. Celeste ritenne il signor Higashikata una persona poco sveglia.
Ma le apparenze spesso ingannano”, tentò di convincersi.
-”Lei è...?”- domandò Okuyasu chinandosi un poco in avanti.
-”Celeste Giosta”- rispose subito Celeste tendendo una mano. Okuyasu la strinse con esitazione, iniziando a chiedersi perché il cognome della ragazza gli sembrasse così tremendamente familiare. Gli occhi gli scivolarono sul trolley azzurro di Celeste e gli venne spontaneo domandarle quale fosse il motivo della sua visita.
-”Che ne dice di parlarne in casa, magari davanti a qualcosa di fresco da bere? Sa, vengo dall'Italia e il viaggio è stato piuttosto lungo e faticoso...”- propose Celeste sventolandosi il viso con una mano.
-”Oh, be', sì, certo”- accettò Okuyasu confuso. Si fece da parte e permise a Celeste di entrare nella villa, chiudendo poi la porta alle sue spalle e facendo accomodare la giovane italiana in salotto. La pregò di aspettare qualche minuto mentre lui avrebbe provveduto a portarle qualcosa. Okuyasu corse in cucina e aprì il frigorifero, iniziando a ispezionarlo con gli occhi. Era curiosissimo di sapere da dove fosse spuntata fuori quella bella ragazza e per quale motivo stesse cercando proprio lui. Il suo viso aveva un che di familiare, ma Okuyasu non vi diede molto peso. Tirò fuori una bottiglia di thè verde e la appoggiò sul ripiano di marmo del tavolo, spostandosi poi verso la credenza. Quella Celeste doveva essere alta più o meno un metro e settanta. Accidenti, poteva trattarsi di una modella!
-”Papà”- sussurrò una voce sotto di lui.
Okuyasu, preso alla sprovvista, cacciò un urlo e fece cadere uno dei due bicchieri che aveva appena preso in mano.
-”Signor Higashikata, va tutto bene?”- domandò Celeste dal salotto.
Okuyasu guardò spaesato i frammenti di vetro per terra e si guardò attorno in cerca della figlia.
-”S-sì!”- rispose alzando la voce. -”Mi scusi, arrivo subito!”-.
-”Papà”- ripeté seccata Shizuka, la figlia adottiva dei coniugi Higashikata, la bambina invisibile trovata casualmente da Josuke e Joseph quindici anni prima. -”Chi è quella ragazza?”-.
Okuyasu si chinò a raccogliere frettolosamente ciò che rimaneva del bicchiere di vetro e andò a buttare i resti nel cestino della spazzatura. Si guardò alle spalle ma Shizuka era ancora invisibile, non aveva disattivato i poteri del suo Stand.
-”Non lo so, tesoro”- ammise andando a prendere un altro bicchiere. -”Ma lo scoprirò presto”- concluse con un sorrisone sulle labbra.
Shizuka guardò il padre precipitarsi in salotto con un vassoio con sopra una bottiglia di thè verde e due bicchieri; lo vide servire da bere alla giovane bionda e intavolare con lei un'amabile conversazione. Shizuka ridusse gli occhi a due fessure. Quella situazione non le piaceva per niente. Quando mai far entrare dei completi sconosciuti in casa si era rivelata una buona idea? Quella ragazza poi, così graziosa e affascinante all'apparenza, sembrava avere un abisso pericoloso dentro di sé. Purtroppo suo padre Okuyasu era troppo stupido per accorgersi di queste piccole sottigliezze.
Shizuka guardò l'orologio della cucina. Anche se erano solo le cinque e un quarto del pomeriggio doveva assolutamente chiamarlo e avvertirlo della situazione. Restando invisibile, Shizuka si appropriò del cordless lasciato sul tavolino all'ingresso della villa e si affrettò a comporre il numero dell'ospedale. Una voce femminile le rispose svogliata.
-”Sono Higashikata Shizuka, vorrei parlare col dottor Higashikata”- disse rapidamente e a bassa voce.
-”Scusi, potrebbe ripetere?”-.
Shizuka alzò gli occhi al cielo e si spostò in una stanza un po' più lontana dal salotto. Ripeté la richiesta, questa volta a voce un po' più alta; l'infermiera assegnata alla portineria la mise in attesa e qualche secondo dopo la chiamata venne reindirizzata nello studio del traumatologo.
-”Dottor Higashikata”- alzò la cornetta una profonda voce maschile.
-”Papà, c'è un problema”- disse Shizuka premendo il telefono contro l'orecchio. -”Pa' ha fatto entrare un estraneo in casa”-.
Dall'altro capo del telefono, Josuke Higashikata si passò pesantemente una mano sul volto e sospirò rumorosamente, scuotendo poi la testa. Quante volte aveva detto a suo marito di non aprire agli sconosciuti? D'accordo, Okuyasu era un uomo grande, vaccinato e portatore di Stand, ma, come era solito ripetere un frigido biologo marino, il pericolo era sempre in agguato.
-”Come ti sembra? E' pericoloso?”- chiese Josuke fidandosi dell'opinione della figlia.
-”E' una ragazza, pa' “-.
Per qualche secondo la linea telefonica venne occupata da un pesantissimo silenzio; Shizuka finì per credere che la linea fosse caduta, ma dovette ricredersi quando sentì il padre fare un breve colpetto di tosse.
Una ragazza”. Benché fossero sposati da sette anni, a volte capitava che gli occhi di Okuyasu si soffermassero qualche secondo di troppo su una bella ragazza. Nei suoi sguardi non c'era il desiderio di tradire il marito, assolutamente; in realtà nemmeno Okuyasu stesso sapeva perché lo facesse, ma a volte sentiva il bisogno di farlo, come una specie di antico e irresistibile richiamo. Josuke era ben conscio di ciò, e, anche a causa del suo passato, aveva sviluppato un'insana gelosia possessiva nei confronti del marito. Non poteva tollerare che gli occhi di Okuyasu guardassero qualcuno o qualcuna che non fosse lui.
-”E' carina?”- domandò Josuke con una punta di rabbia repressa nella voce.
Shizuka non rispose subito. Pensò di mentire al padre per non farlo preoccupare, ma sapeva che sarebbe stato tutto inutile; tanto sarebbe accorso lo stesso.
-”Abbastanza”-.
Josuke batté un pugno sulla sua scrivania e si alzò in piedi di scatto, facendo rovesciare la sedia all'indietro.
-”Sto arrivando”- disse a denti stretti. Attaccò la cornetta del telefono con un moto di rabbia, si tolse il camicie e lo gettò per terra appallottolandolo. La t-shirt bianca a pois fucsia in bella vista, Josuke radunò in fretta e furia le sue cose e uscì di corsa dal proprio studio, percorrendo i corridoi dell'ospedale quasi di corsa. Un'infermiera appena passatogli accanto provò a fermarlo, ma Josuke, senza degnarla di uno sguardo, alzò un dito come a dire “Non una sola parola”. Passò davanti alla portineria come una furia, venendo richiamato dall'infermiera di turno.
-”Dottor Higashikata, il suo turno non è ancora finito!”-.
Josuke si voltò di scatto, fulminando l'infermiera con un'occhiata truce. La donna sussultò e alzò le mani in segno di resa. Distolse gli occhi dal volto bellicoso del traumatologo e si apprestò a comunicare alle corsie l'assenza del dottore. Josuke sbuffò dal naso, alzò il mento e, impettito, si diresse verso la sua Lamborghini bianca parcheggiata lì fuori. Balzò in macchina gettando le sue cose nei sedili posteriori e partì a tutta velocità alla volta della propria casa.
Io li ammazzo, li ammazzo tutti...”, pensava mentre premeva il piede sull'acceleratore.
Dopo aver parcheggiato la macchina nel garage posteriore, Josuke, con quelle grandi falcate che il suo metro e novantacinque di altezza gli permetteva di fare, raggiunse la porta di casa, infilò le chiavi nella serratura e fece un rumoroso ingresso.
-”Sono a casa!”- sbraitò. -”Tesoro, dove sei?!”-.
Celeste e Okuyasu, ancora seduti in salotto a parlare amabilmente, sobbalzarono. Shizuka, che in attesa dell'arrivo del padre si era rinchiusa in camera, attivò il potere del proprio Stand e scese al piano terra per assistere alla scena.
Josuke si appoggiò allo stipite della porta del salotto e, un sorriso tirato stampato sul volto, si presentò a Celeste. Shizuka aveva ragione: era proprio una bella ragazza. Chissà se avrebbe mantenuto quel suo charme anche dopo aver ricevuto un bel pugno da Crazy Diamond...
-”Salve, sono il dottor Higashikata, Higashikata Josuke, il marito dell'uomo con cui ha parlato fin'ora”-.
Celeste, lievemente confusa, guardò prima Okuyasu e poi Josuke. Soffermò lo sguardo sulla figura imponente appena comparsa e ridacchiò sommessamente. Come aveva potuto essere così stupida? Il figlio di Joseph non era Okuyasu, bensì Josuke.
-”Oh, mi perdoni, avevo scambiato suo marito per lei”- disse Celeste alzandosi in piedi e chinando il capo a mo' di scusa. -”In effetti, signor Higashikata, lei ha gli stessi occhi di Joseph”-.
Le parole della ragazza bionda caddero nel silenzio. Josuke, sorpreso nell'aver appena sentito nominare quella persona, cercò con lo sguardo il marito, spaesato quanto lui. Shizuka, seduta in corridoio, si portò le ginocchia al petto. Aveva sentito bene? Joseph? Intendeva proprio Joseph Joestar?
-”Chi sei?”- domandò Josuke burbero, andando sulla difensiva. Con un cenno del capo ordinò a Okuyasu di allontanarsi dalla giovane. Okuyasu obbedì subito.
Celeste si spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e abbassò per un momento gli occhi ambrati sul pavimento. Sotto gli occhi vigili di Josuke si voltò di spalle e indicò la voglia a forma di stella che aveva alla base del collo, sulla sinistra. Josuke non poté credere ai propri occhi. Istintivamente afferrò la ragazza per un polso e la trascinò per tutto il salotto, fino a condurla davanti alla porta di casa. Okuyasu fece per corrergli dietro ma la mano invisibile di Shizuka si aggrappò alla sua cannottiera.
-”Quella voglia...”- iniziò Josuke, il viso chino su quello di Celeste.
-”Signor Higashikata, è una lunga storia che vorrei raccontarle. Che ne dice se tornassimo in salotto e parlassimo come due persone civili?”-.
-”Mi stai dando dell'incivile?”- saltò su il dottore.
Nonostante l'imponente stazza e l'aura minacciosa che gravavano su Celeste, la ragazza sorrise amabilmente.
-”Oh, abbastanza”- rispose sfacciata.
Josuke rimase spiazzato dalla risposta della giovane. La guardò sgusciare via dalla sua presa e tornare a passi eleganti nel salotto. La rincorse, un moto di rabbia che gli pervadeva il corpo. Okuyasu intravide la figura di Crazy Diamond alle spalle del marito e, preoccupato, si precipitò ad affiancare Celeste, in un silenzioso gesto di protezione nei confronti dell'ospite inatteso.
-”Oku, allontanati da lei”- ringhiò Josuke, gli occhi in fiamme.
-”Lo faccio, ma tu non farle del male...”- rispose Okuyasu sistemandosi nervosamente gli occhiali sul naso.
Mentre la coppia si scambiava dei feroci sguardi in cagnesco, Celeste si sedette sul divano e accavallò le lunghe gambe, intrecciando le mani sul grembo. Joseph non le aveva accennato nulla riguardo la bizzarra situazione familiare del figlio. Si guardò attorno, chiedendosi dove fosse il membro mancante.
-”Posso sapere dov'è la piccola Shizuka?”- domandò a un tratto.
Josuke e Okuyasu interruppero la loro silenziosa diatriba e si voltarono verso Celeste. Josuke perse le staffe ed evocò Crazy Diamond. Il marito non fece in tempo a fermarlo.
-”Non osare provare a sfiorare mia figlia!”- gridò caricando un colpo.
-”E lei, messere, non osi sfiorare la mia di figlia”- proclamò una voce alla sua destra. Deeper Deeper, appena venuto in soccorso di Celeste, stava puntando la lama dell'alabarda alla gola di Josuke.
-”Papà!”- si lasciò sfuggire l'invisibile Shizuka.
-”Sei una portatrice di Stand...”- sibilò Josuke.
Celeste strinse le labbra e fece spallucce.
-”La situazione è più complicata di quanto possa immaginare, dottor Higashikata. Definire questo essere “Stand” è giusto e sbagliato al tempo stesso”-.
Okuyasu si avvicinò al marito e gli posò esitante una mano sulla spalla.
-”Va tutto bene, Shizu”- disse Josuke a denti stretti. Fece dei respiri profondi e tentò di mantenere il controllo di sé. Alzò le mani e fece sparire Crazy Diamond. Perché si era agitato tanto? Quella ragazza bionda aveva solamente fatto una semplice e innocua domanda. Se conosceva Joseph perché non doveva essere a conoscenza dell'esistenza di Shizuka? Deeper Deeper, come Crazy Diamond prima di lui, sparì nel nulla. -”Piccola, vieni qui. Credo che questa ragazza abbia molto da raccontarci”- si arrese alla fine.

 

 



NOTE DELL'AUTRICE
Ripeto: è fortemente consigliata la lettura di alcuni capitoli di "Dangerous Heritage", altrimenti vi risulterà difficile comprendere la complicata situazione familiare della famiglia Higashikata.
Il titolo della mia fanfiction, "Mighty Long Fall", è il titolo di un'omonima canzone del gruppo ONE OK ROCK. I titoli dei capitoli sono dei versi di varie loro canzoni :> 
Capitolo 1: "What's the problem? Not gonna make it right?" ---> Cry Out
Capitolo 2: "We'll fight fight 'till there's nothing left to say" ---> Fight the Night
Si vede che è la mia band preferita, vero? ;)
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 3
*** Into the pain I go ***


Mercuzio, sdraiato sulle tegole del tetto della villa del Boss, si rigirò nella mano la boccetta di psicofarmaci prescrittogli da Ciro qualche giorno prima. Lo psichiatra gli aveva detto senza troppi giri di parole che era a conoscenza delle sue allucinazioni visive e che quelle piccole pillole violacee lo avrebbero aiutato a smettere di vedere il fantasma che lo perseguitava.
Ma la verità era che Mercuzio non voleva separarsi dalla ragazza dai capelli color miele. La vedeva sempre nei momenti più difficili, era come un angelo custode che vegliava su di lui. Dirle addio avrebbe significato perdere una parte della propria anima.
Mercuzio non riceveva incarichi da ormai sei mesi. Giorno, non appena aveva visto i primi segni di squilibrio mentale, lo aveva spedito dallo psicologo Gaetano Starace, sperando in una rapida ripresa del sottoposto. Mercuzio non ne poteva più di passare le giornate nella nullafacenza; avvertiva il bisogno di tornare all'azione, di rendersi utile, di far vedere a chiunque che il brillante e talentuoso Mercuzio Zeppeli non se n'era andato. Del resto non era pazzo, erano gli altri che lo credevano tale.
Dopo aver lanciato in aria e ripreso la boccetta di vetro, Mercuzio se la infilò in tasca e si trasformò in fumo, serpeggiando fino alla terrazza appena lì sotto. Riacquistata la forma fisica, estrasse dalla tasca interna della giacca nera il cellulare e compose un numero.
-”Ci credi se ti dico che non ci credo?”- domandò divertita una voce maschile dall'altro capo del telefono. -”Perdona la ridondanza, non ho saputo evitarla”-.
-”Capo, vorrei tornare in azione”- andò dritto al punto Mercuzio.
-”Mercuzio, non penso sia una buona idea”- disse Lorenzo, il capo della Squadra del Crepuscolo, dopo un attimo di esitazione.
-”Sono in cura da sei mesi, ho smesso di fare quel maledetto sogno e non vedo più quella ragazza da settimane”- insistette il giovane moro. Mentire era l'unica possibilità che aveva per convincere Lorenzo.
-”Il Boss che ne pensa?”- sospirò.
Il capo della Squadra del Crepuscolo provava una forte soggezione nei confronti di Giorno, talmente forte da non permettergli di parlare col Boss senza balbettare e incespicare nelle parole; per questo Lorenzo usava Mercuzio come tramite e si fidava ciecamente di tutto ciò che il giovane Zeppeli sosteneva che il Boss avesse detto. Raggirare Lorenzo non sarebbe stato poi così difficile.
-”Ha lasciato a te la decisione”-.
-”...Ascolta, al momento sono in missione, facciamo che ne rip...”-.
-”Dove ti trovi?”- saltò su Mercuzio. Lo sentiva, gli mancava pochissimo per convincerlo. Sentì il capo borbottare qualcosa e rivolgere una preghiera a San Gennaro.
-”Va bene”- sospirò esasperato. -”Se il Boss non ha espresso esplicitamente il suo volere significa che le tue condizioni non sono poi così gravi... Siamo al solito bar, ti aspettiamo”-.
Mercuzio chiuse la chiamata con soddisfazione. Ce l'aveva fatta! Non riusciva ancora a crederci. Si ripromise di dire la verità a Lorenzo una volta portata a termine la missione; sotto sotto non era stato giusto mentire a una brava persona come lui. Prima di trasformarsi in fumo e di raggiungere i compagni, il giovane Zeppeli tirò fuori dalla tasca dei pantaloni gli psicofarmaci. Guardò con disgusto le pillole viola; davvero credevano che sarebbero servite a qualcosa?
Idioti”, pensò mentre rovesciava giù dalla terrazza il contenuto della boccetta e quest'ultima.
Guardò compiaciuto le sferette viola sparire nella vegetazione sottostante. Se qualcuno fosse riuscito a trovarle avrebbe detto che gli erano cadute per sbaglio. Più semplice di così si muore. Fatto ciò, si stiracchiò le braccia e si tramutò in fumo, sfrecciando in città verso il bar in cui la Squadra del Crepuscolo era solita ritrovarsi.
Quando vi entrò, Nicola e Gerardo si alzarono in piedi e iniziarono ad applaudire entusiasti. Lorenzo, seduto in mezzo a loro due, afferrò entrambi per i gomiti e li tirò giù, costringendoli a fare silenzio. Per un attimo negli occhi spenti di Mercuzio passò un lampo di vitalità. Gli erano mancate tantissimo le scorribande coi suoi compagni, e adesso rivederli al loro solito tavolo del loro solito bar gli procurò una fitta al cuore.
-”Cumpà, ti davamo per morto!”- esclamò Nicola, il secondo in comando. Portava i capelli castani cortissimi (con grande invidia di Mista) e sul mento aveva un pizzetto che era solito tingere di colore diverso ogni settimana. Quel giorno lo aveva colorato di arancione. -”Ti sei ripreso?”-.
Mercuzio prese una seggiola dal tavolo accanto e si sedette, abbandonandosi sullo schienale.
-”Ovviamente, altrimenti non sarei qui”- rispose con una strizzatina d'occhio.
-”Sei pronto a tornare in azione?”- domandò Gerardo sottovoce. Mercuzio guardò il compagno più piccolo e annuì, tirandogli poi uno scappellotto inaspettato. -”Cos'ho fatto?!”- esclamò il ragazzo dai riccioli biondo cenere.
-”Niente, era da tanto che non ti mettevo le mani addosso”- ridacchiò Mercuzio.
Lorenzo rimase qualche minuto in silenzio a osservare la sua Squadra battibeccare e divertirsi come ai vecchi tempi, ovvero prima della crisi di Mercuzio. Nicola aveva ventisei anni e, dopo Lorenzo, era il più responsabile del gruppo; Gerardo, invece, in quanto a responsabilità aveva parecchio da imparare: indisciplinato e scapestrato, l'appena ventenne biondino vedeva in Mercuzio un modello da imitare. Quando era venuto a sapere del suo congedo forzato non era uscito di casa per giorni interi.
Dal momento che Gerardo, nonostante fosse in grado di vedere gli Stand, non aveva ancora manifestato il proprio, spesso la Squadra del Crepuscolo si occupava di missioni “normali”, ovvero quelle in cui non era richiesta alcuna abilità Stand. La missione di quella sera era proprio una di quelle.
-”Avete finito?”- domandò Lorenzo con finto tono seccato. -”Vorrei parlarvi della festa di stasera”-.
Il trio si zittì di colpo e si fece attento. Nicola incrociò le braccia al petto, Mercuzio si sporse un poco in avanti e Gerardo ridusse gli occhi a due fessure.
-”Siamo stati invitati da Cammarota. Sarebbe cosa buona e giusta restituire il favore che ci ha fatto portando qualcosa da mangiare alla festa. Sono sicuro che basterà un panino a testa, anche se Cammarota ha il frigorifero vuoto. Ci troviamo in Piazza Quattro Giornate alle undici di stasera”-.
Mercuzio sorrise sommessamente. Lo divertì constatare che Lorenzo aveva ancora l'abitudine di spiegare l'organizzazione delle missioni facendo ricorso alle metafore più assurde. L'obiettivo da eliminare era Cammarota, capo di una ditta a cui il Boss aveva fatto un prestito ma da cui non si era più visto restituire l'ingente somma di denaro. Dal momento che gli informatori davano Cammarota disarmato, i membri della Squadra avrebbero dovuto portare con loro solamente una pistola a testa.
-”Benissimo”- annuì Nicola.
-”Sarà divertente!”- esclamò Gerardo.
Lorenzo guardò di sottecchi Mercuzio e ricevette da lui un cenno d'assenso.
-”Allora ci vediamo più tardi”- disse il capo alzandosi.
-”A più tardi”- si salutarono i membri della Squadra del Crepuscolo.

 

 

Mercuzio arrivò per primo nel luogo dell'appuntamento. Si sedette su di una panchina e si accese una sigaretta, in paziente attesa dei suoi compagni. Il secondo ad arrivare fu Nicola: una bottiglia di birra stretta nella mano sinistra, il rasato si appoggiò a un palo della luce poco distante da Mercuzio e prese a parlare animatamente al cellulare, alternando parole e bestemmie a sorsi di birra. Gerardo arrivò per terzo, il cellulare piazzato sotto gli occhi come i giovani della sua età erano soliti fare; si sedette dall'altra parte della piazza sul muretto di un'aiuola. Qualche minuto più tardi, per ultimo, giunse in loco Lorenzo: questo corse verso un albero, si sganciò la cintura dei pantaloni e urinò sulle radici della pianta.
Solita routine”, pensò Mercuzio espirando una boccata di fumo denso dalla bocca.
La Squadra del Crepuscolo era solita sparpagliarsi nel luogo in cui la missione si sarebbe dovuta compiere, accerchiare il bersaglio ed eliminarlo nel minor tempo possibile. Per Lorenzo, Mercuzio e Nicola non ricorrere ai propri Stand costituiva una sorta di sfida personale; si divertivano un sacco in quelle missioni.
Cammarota non tardò molto a fare la sua comparsa. L'uomo, i primi bottoni della camicia bianca sbottonati e la giacca portata su una spalla, attraversò la piazza col cellulare attaccato all'orecchio e un sigaro nella mano sinistra. Dal tono di voce e dall'uso spropositato di dialettismi la Squadra intuì che Cammarota dovesse essere particolarmente alterato. Nicola buttò giù la finta telefonata e si concentrò sulla birra; Lorenzo si sistemò i pantaloni e si pulì le mani con una salviettina profumata; Gerardo si affrettò a terminare la partita a Candy Crush; Mercuzio spense la sigaretta per terra. Dovevano solamente aspettare che Cammarota mettesse piede nel quadrato ideale di cui loro costituivano i vertici; a quel punto Gerardo si sarebbe avvicinato al bersaglio chiedendo indicazioni stradali, Lorenzo gli avrebbe chiuso le vie d'uscita alle spalle, Mercuzio avrebbe fatto da palo e Nicola lo avrebbe eliminato a distanza.
Cammarota, sempre al telefono, mise finalmente piede nel campo minato e la Squadra del Crepuscolo entrò in azione.
Sarebbe tutto filato liscio se la ragazza dai capelli color miele non avesse deciso di apparire proprio in quella circostanza.
Mentre Gerardo parlava con Cammarota e Nicola prendeva la mira, la ragazza si piazzò davanti all'uomo in camicia e non accennò a volersi spostare. Il panico si impadronì di Mercuzio. Se quella ragazza non si fosse subito tolta di mezzo la pallottola di Nicola l'avrebbe presa in pieno e uccisa.
No! Non può morire! Io devo trovarla!”.
Il corpo di Mercuzio si mosse da solo. Scattò in piedi e corse verso Nicola. Nell'esatto istante in cui il rasato premette il grilletto, il giovane Zeppeli gli si gettò addosso e lo fece cadere a terra.
-”Mercuzio, cosa cazzo...?!”- iniziò Nicola visibilmente confuso.
-”I-io n-non...”-.
Un grido maschile e un rumore di passi fecero scattare in piedi i due compagni.
Mercuzio si sentì mancare quando, riverso in un bagno di sangue e con una pallottola piantata in fronte, non vide Cammarota ma Gerardo.

 

 

Quando Ciro aprì gli occhi nel cuore della notte capì subito di non essere da solo nella sua camera da letto. Avvertiva una presenza impaurita, sconvolta e disperata. Per un attimo pensò di aver ricevuto la visita di un fantasma. Titubante, allungò una mano sul comodino e accese la luce. Bestemmiò dallo spavento quando vide, in piedi davanti alla porta della camera, Mercuzio Zeppeli. Ciro impiegò meno di un attimo a rendersi conto che il giovane paziente aveva appena subito un forte shock. Senza nemmeno domandarsi come avesse fatto a intrufolarsi nella sua dimora, Ciro si alzò dal letto e invitò Mercuzio a sedersi sul pouf sotto la finestra.
Mercuzio rifiutò. Nella sua mente scorrevano ancora come in un loop le immagini del corpo morto di Gerardo. Si guardò le mani tremanti. Era tutta colpa sua se Nicola aveva sbagliato bersaglio; sua e di nessun altro. Perché quella stupida ragazza era stata così incosciente da passare davanti alla traiettoria del tiro? Mercuzio si chinò per terra e si nascose il viso tra le mani, piangendo in silenzio la morte dell'amico.
Lo psichiatra inforcò gli occhiali che teneva sul comodino e osservò il comportamento del giovane moro. Doveva essergli accaduto qualcosa di molto grave per spingerlo a presentarsi da lui a notte fonda.
-”Mercuzio”- lo chiamò esitante. -”Puoi dirmi tutto, lo sai”-.
Il giovane Zeppeli in tutta risposta scosse la testa. Come poteva dire al proprio psichiatra di aver ucciso un compagno per colpa della ragazza dai capelli color miele?
-”Il silenzio non è mai una buona cosa”- insistette Ciro.
Gerardo era morto. Aveva ammazzato Gerardo. Come avrebbe potuto da lì in avanti guardare negli occhi Nicola e Lorenzo? Con che faccia tosta avrebbe raccontato la verità a Lorenzo? Era stato solo un egoista irresponsabile; avrebbe dovuto dare retta a chi lo aveva definito “pazzo”.
-”Mercuzio...”- lo richiamò Ciro.
Doveva fuggire. Ormai per lui non c'era più niente da fare, non esisteva alcuna speranza di salvezza. Una volta venuto a sapere della vicenda, Giorno lo avrebbe fatto fuori. Sicuramente! Doveva darsela immediatamente a gambe, scappare...!
Ma dove?
Quando finalmente il giovane moro si decise ad alzare il volto e a dare una risposta allo psichiatra, un ricordo confuso riaffiorò nella sua mente. “Ti troverò!”. Ma certo... Quella era la soluzione: risalire all'origine della sua pazzia. Il fatto che ogni notte sognasse quella ragazza e che quasi tutti i giorni la vedesse attorno a lui significava che da qualche parte lei esisteva; non poteva essere completamente frutto della sua immaginazione. La ragazza dai capelli color miele si trovava da qualche parte nel mondo, lo stava aspettando e lui l'avrebbe trovata.
Mercuzio, sotto lo sguardo stupito di Starace, scattò in piedi. La risolutezza nei suoi occhi di smeraldo colpì profondamente lo psichiatra.
-”Dottore, ho deciso che partirò alla ricerca della ragazza”- affermò con decisione.
Ciro aprì la bocca per dire qualcosa ma ci ripensò. Ormai Mercuzio Zeppeli era un caso perso. Se neppure suo fratello e gli psicofarmaci erano riusciti a fare qualcosa, come pretendeva lui di poter ripristinare la sanità mentale di quel povero ragazzo?
-”Buona fortuna, allora”- si limitò a dire con un finto sorriso.
Mercuzio ringraziò con un cenno del capo ma la sua espressione continuava a essere tirata e in tensione.
-”Le consiglio di sparire dalla circolazione per un po'. Se Passione venisse a sapere che stanotte sono passato da lei non so cosa potrebbe accaderle”-.
Ciro non fece in tempo a chiedere spiegazioni al giovane che questo venne avvolto da una nube di fumo e sparì, passando dalla stretta fessura sotto la porta e dal buco della serratura.

 

 

 


NOTE DELL'AUTRICE
"Into the pain I go" ---> Suddenly (E' il titolo della canzone degli ONE OK ROCK da cui viene il verso che fa da titolo del capitolo)
Io voglio tanto bene a Mercuzio, lo giuro, però alcune vicende sono inevitabili :( Se sia pazzo o meno starà a voi stabilirlo ;>
Nel prossimo capitolo vedremo Celeste alle prese con la famiglia Higashikata.
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 4
*** I can't believe in you ***


Nel salotto degli Higashikata aleggiava un'aria appesantita da una forte tensione. Celeste si era come appropriata dell'intero divano. Nonostante fosse seduta nell'angolo, le gambe accavallate e un gomito graziosamente appoggiato sul bracciolo, nessuno degli Higashikata aveva osato sedersi vicino a lei; Josuke per aperta inimicizia, Okuyasu per non far infuriare il marito. Shizuka aveva obbedito al padre ed era entrata nel salotto, andando a rannicchiarsi contro l'ampio petto del dottore. Normalmente sarebbe corsa tra le braccia di Okuyasu, ma la ragazzina mora aveva l'impressione che il genitore col grembiule rosa avesse intenzione di schierarsi dalla parte dell'intrusa, ovvero da quella sbagliata.
Celeste, il viso nascosto dal bicchiere, lanciò una rapida occhiata a Josuke, seduto sulla poltrona alla sua sinistra, e non poté fare a meno di corrugare la fronte. Davvero quel dottore andava a lavoro vestito in quel modo? I jeans chiari a vita alta erano accettabili, la maglietta attillatissima bianca a pois fucsia era un pugno in un occhio, e le scarpe...
Enzo, Carla, dove siete?!”, pensò con orrore.
Quelle Converse leopardate erano illegali in tutta Italia. Se il dottor Higashikata avesse anche solo provato a mettere piede in Piazza del Duomo a Milano, i tiratori scelti della Milan Fashion Week lo avrebbero freddato.
Guardò con compassione la piccola Shizuka, costretta a vivere con un tonto trasandato e un burbero aborto della moda. La ragazzina, i capelli nerissimi legati in due codini bassi e una frangetta tagliata pari sulla fronte, distolse subito lo sguardo dagli occhi ambrati di Celeste e storse un poco la bocca.
-”Fai pure con comodo”- sbottò a un tratto Josuke, visibilmente ironico.
Celeste posò il bicchiere di vetro sul vassoio adagiato sul tavolo posto al centro del triangolo formato dal divano e dalle due poltrone sulle quali erano seduti Josuke e Okuyasu e socchiuse gli occhi felini. Valeva davvero la pena rispondere a tono? Si sarebbe giocata tutto; non poteva permettersi di venir sbattuta fuori da quella casa, non dopo tutta la fatica che aveva fatto per raggiungerla.
-”Ha ragione, signor Higashikata, mi scusi”- disse sorridendo un poco. -”Ma abbia pazienza, il viaggio è stato lungo e faticoso...”-.
-”Non me ne frega un accidente del tuo viaggio. Voglio solo sapere chi sei, cosa ci fai qui e cosa vuoi dalla mia famiglia”- la interruppe brusco Josuke.
Okuyasu si mosse a disagio sulla poltrona e si schiarì la voce. Voleva intervenire e dire qualcosa in difesa della giovane bionda, ma dentro di lui sapeva che sarebbe stato tutto inutile e anzi, decisamente controproducente. Sapeva molto bene che il marito provava una sorta di repulsione e di disgusto per la voglia a forma di stella e tutto ciò che la riguardava, ma il modo in cui si stava approcciando a Celeste era al limite della civiltà. Dov'era finita la famosa ospitalità giapponese?
-”Sono pronta a spiegare tutto, ma lei e la sua famiglia dovrete essere disposti a donarmi parte del vostro tempo”- disse Celeste quantificando la parte in questione con un gesto delle mani.
-”Ho lasciato il lavoro per venire qua”- sbottò il dottore. -”Ne ho da vendere di tempo”-.
-”Signor Okuyasu, Shizuka, voi siete liberi?”-.
Okuyasu annuì con veemenza, Shizuka non rispose. Celeste, seguendo il proverbio, prese il silenzio della ragazzina come un assenso e si schiarì un poco la voce. Era davvero necessario raccontare tutta la storia? No, ovviamente no. Decise di limitarsi a rispondere alle tre domande poste da Josuke, sperando che il traumatologo non volesse approfondire la faccenda.
-”Dunque, il mio nome è Celeste Giosta”- si presentò la giovane. -”Come suggerisce la voglia, sono una sua parente da parte di padre”-.
Josuke si sistemò Shizuka sulle ginocchia e fece schioccare la lingua. Possibile che i parenti paterni fossero infiniti e tutti dotati di un tempismo del cavolo? Tra lui e la famiglia Joestar non scorreva buon sangue. Josuke si era sempre sentito di troppo, un membro indesiderato, un bastardino; come altro poteva definirsi il frutto di una scappatella extraconiugale? Okuyasu vide il viso del marito adombrarsi e strinse le labbra. La sua ferita era ancora aperta e sembrava che il fato si divertisse a buttarci sopra un'ingente quantità di sale.
-”Passando alla seconda domanda...”-.
-”Più precisamente”- la interruppe Josuke, gli occhi azzurri duri come due acquamarine.
Celeste alzò le sopracciglia e sbatté le palpebre un paio di volte, confusa.
-”Prego?”-.
-”Sei una mia parente da parte di padre. Che grado di parentela ci legherebbe?”-.
Fottiti”, pensò Celeste mentre sorrideva cortesemente al dottore. E ora? Lanciò una rapida occhiata in direzione di Okuyasu, l'unico che si era dimostrato gentile nei suoi confronti, ma anche lui sembrava curioso di sapere chi, più precisamente, lei fosse.
-”Sono sua... prozia”- disse mostrando i palmi delle mani e stringendosi nelle spalle.
Josuke serrò la mascella e si scambiò un'occhiata con Okuyasu. Prozia? Fece un rapido calcolo mentale: se era sua prozia significava che era la zia di suo padre, la figlia del nonno di suo padre, la...
-”...Sorella di Giorno Giovanna?”- domandò Okuyasu anticipando la conclusione del marito, il quale, sorpreso da quell'inaspettata prontezza mentale, lo guardò stupito.
-”Sorellastra”- puntualizzò Celeste. -”Abbiamo madri diverse. Rispondendo alla seconda domanda, sono venuta in Giappone per conoscere il mio pronipote e la sua famiglia”-.
La risposta non convinse né Josuke né Shizuka. La ragazzina guardò Celeste in cagnesco e sussurrò qualcosa all'orecchio del padre. Josuke annuì brevemente senza distogliere gli occhi da Celeste.
-”Perché non sapevamo niente della tua esistenza?”- domandò il dottore guardingo.
Bimbetta di merda”, pensò Celeste sorridendo educatamente. A forza di fare quei finti sorrisi le sarebbe venuta una paralisi facciale. Perché quei due non erano creduloni come Okuyasu? E pensare che le sarebbe bastato ricorrere ai poteri del proprio Stand per risolvere la faccenda. “Mi sono ripromessa di usarli solo in caso di necessità”, ricordò a se stessa.
-”Semplicemente perché ho scoperto solo due anni fa di essere una Joestar. Vedete, io sono stata cresciuta da mia zia senza sapere niente dei miei genitori biologici. E' stato il signor Kujo, durante una conferenza nella mia città, ad accorgersi della mia voglia e a raccontarmi della famiglia Joestar. Se non fosse stato per lui non sarei mai riuscita a scoprire le mie origini”- spiegò con un falso tono sognante. -”Gli devo molto”-.
Per quanto potesse suonare credibile la sua risposta, Shizuka non ne era del tutto convinta. Con una certa nota di stizza si rese conto di non poter contare su Okuyasu: l'uomo sembrava pendere dalle labbra della ragazza bionda e credere a ogni singola parola che fuoriusciva dalla sua bocca. Josuke aveva lo stesso presentimento della figlia. Era sicurissimo che Celeste, all'apparenza così dolce e tranquilla, celasse una parte oscura dentro di sé.
-”E come ti ha trattata Jotaro?”- le domandò.
-”Mi ha affidata a mio fratello. Purtroppo somiglio molto a mio padre e il signor Kujo non riusciva a guardarmi in viso senza fare facce strane...”-.
-”Tuo padre sarebbe Dio Brando, giusto?”-.
Mi hai rotto il cazzo, checca isterica”, pensò Celeste sorridendo garbatamente.
-”So che suona scortese, ma le sarei immensamente grata se sorvolasse momentaneamente su questo argomento”-.
Josuke borbottò qualcosa ma acconsentì. Gli scocciava ammetterlo ma sapeva benissimo come ci si sentiva quando si era costretti a parlare di una figura paterna tutto fuorché paterna.
-”Ricapitoliamo”- propose Okuyasu, più per se stesso che per gli altri. -”Sei la prozia di JoJo e sei venuta in Giappone a trovare i tuoi parenti. E' corretto?”-.
-”Esattamente”-.
-”E noi... cosa possiamo fare per te?”-.
Gli occhi di Shizuka scivolarono sul trolley azzurro sdraiato nell'angolo del salotto. La ragazzina sussultò. No, non poteva essere. Strattonò un poco la maglietta di Josuke e lo invitò a chinarsi. Gli sussurrò i suoi pensieri nell'orecchio e l'espressione del dottore si indurì ulteriormente.
-”Non pensarci nemmeno”- disse lapidario.
Celeste e Okuyasu lo guardarono con aria interrogativa. La giovane seguì lo sguardo di Shizuka e si rese conto che i due si erano accorti del suo trolley. Ecco, adesso cominciava la parte più difficile...
-”Credevi davvero che ti avremmo ospitata a casa nostra?”- domandò acidamente Josuke.
-”Oh, sì”- rispose Celeste sinceramente. -”Del resto siamo parenti, no?”-.
-”Io non ho niente in contrario”- si schierò Okuyasu.
-”Tu stai zitto”- lo freddò il marito puntandogli un dito contro. Okuyasu, offeso, incrociò le braccia al petto e distolse lo sguardo dagli occhi di Josuke. -”E tu”- tornò poi a rivolgersi a Celeste. -”La mia risposta è: tornatene al tuo albergo”-.
Celeste sospirò lievemente. Non si aspettava una resistenza così ostinata da parte di quello che, a quanto pareva, era il capofamiglia. Non pensava che la sua avversione per la famiglia paterna fosse a tali livelli. Joseph le aveva accennato qualcosa ma lei non ci aveva dato tanto peso, prendendo le parole del nipote come il racconto di un vecchio paranoico e rimbambito.
-”Il problema, signor Higashikata, è che non ho un albergo in cui fare ritorno”- disse Celeste mettendo su il broncio.
La famiglia spalancò gli occhi. Davvero quella ragazza aveva affrontato un viaggio di quasi un giorno dando per scontato che l'avrebbero ospitata a casa loro senza alcun preavviso?
-”Sono italiana, che volete farci?”- ridacchiò intuendo i loro pensieri.
Josuke si passò pesantemente una mano sul viso. Sbuffò rumorosamente e cacciò qualche bestemmia che Celeste, dato il suo livello di giapponese, non riuscì a comprendere. Passò rapidamente lo sguardo da Shizuka a Okuyasu: la prima lo stava implorando di buttare la ragazza bionda fuori di casa a calci nel didietro, il secondo gli stava dicendo di non aver problemi a ospitarla per qualche giorno. Prendere una decisione si sarebbe rivelato più difficile del previsto. D'accordo, Celeste era una Joestar, una parente paterna, e solo per questo meritava di morire soffocata con un cuscino, ma al tempo stesso era proprio come lui: una bastardina abbandonata dal padre. I suoi occhi azzurri si intrecciarono per un momento con quelli ambrati di Celeste. A Josuke tornò in mente lo strano Stand della ragazza, quell'essere con l'elmo rinascimentale che aveva definito Celeste “figlia”. Fece per chiederle spiegazioni ma le parole gli morirono in gola. Sarebbe stato inutile; era più che certo che la giovane bionda avrebbe trovato un modo per evitare di rispondere. Eppure quella faccenda lo incuriosiva non poco...
-”D'accordo”- si arrese a malincuore. -”Potrai stare da noi”-.
Mentre il viso di Celeste si illuminò di gratitudine, quello di Shizuka si rabbuiò.
-”La ringrazio tantissimo, dottor Higashikata!”-.
-”Ma solo per qualche giorno, poi dovrai andartene”- l'avvertì. -”Oku, mostrale la sua stanza”- ordinò svogliato al marito.
Shizuka e Josuke seguirono i due uscire dal salotto e parlottare allegramente. La ragazzina mora, dopo un po', alzò la testa verso il padre e lo fulminò con un'occhiataccia. Josuke in tutta risposta le scarruffò i capelli e fece un sorriso tirato. Per lui era stato molto difficile scegliere; sperò che la figlia potesse capirlo.
-”Vado in camera mia”- disse questa invece. -”Chiamatemi solo quando è ora di cena”- borbottò, e sparì nel nulla.

 

 

Quando Celeste scese le scale per andare a dare una mano a Okuyasu in cucina, si trovò la strada sbarrata da Shizuka. Le due si guardarono negli occhi per qualche minuto buono senza proferire parola.
-”Posso aiutarti?”- domandò infine Celeste.
Shizuka fece schioccare la lingua e storse le labbra. Non c'era proprio niente da fare: quella ragazza le stava antipatica a pelle. Come aveva osato mandare all'aria l'equilibrio della sua famiglia?
-”You should go away, bitch”- biascicò Shizuka pensando di non poter venir capita.
Celeste, sorpresa, spalancò gli occhi e scoppiò a ridere. Scese un paio di scalini e raggiunse Shizuka; le posò una mano sulla spalla e si chinò su di lei.
-”Ti ricordo che l'inglese è la lingua internazionale, tegame”- le bisbigliò all'orecchio. Le diede un'amichevole patta sulla spalla e si eclissò. -”Sono sicura che diventeremo ottime amiche!”- trillò prima di raggiungere Okuyasu.
Shizuka strinse i pugni lungo i fianchi, il viso paonazzo dalla rabbia. Non aveva capito la parola “tegame”, ma era sicura che Celeste le avesse appena restituito l'insulto. Girò i tacchi e tornò in camera sua, sbattendo la porta alle proprie spalle.
L'intrusa andava eliminata.

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE
"I can't believe in you" ---> Re:make
Sembra che Celeste non avrà vita facile in casa Higashikata; la piccola Shizuka è più pericolosa di quanto possa sembrare.
Che fine ha fatto Mercuzio? Come reagirà il Boss di Passione a quanto accaduto? Lo scoprirete nel prossimo capitolo :>
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 5
*** We're an army of used up freaks ***


Giorno gettò per terra il proprio cellulare e si trattenne dal tirargli un pestone. Come avevano fatto le circostanze a precipitare così rapidamente e così rovinosamente? Come aveva potuto permettere che accadesse tutto ciò? La voce sconvolta di Lorenzo riecheggiava ancora nelle sue orecchie; le urla strazianti di Nicola in sottofondo gli ricordarono le grida di Mista disperato per la morte di Narancia. In un modo o in un altro la storia tendeva sempre a ripetersi. Nietzsche non aveva tutti i torti.
Mercuzio, dopo aver provocato quel tremendo incidente, era sparito; si era trasformato in fumo e aveva lasciato che la brezza notturna lo disperdesse nell'aria. Dove si fosse cacciato era un mistero. Il suo cellulare non dava segni di vita; sicuramente l'aveva rotto per non farsi rintracciare.
Giorno si sedette sulla poltrona del proprio studio e appoggiò i gomiti sui braccioli, facendo dei respiri profondi per tentare di calmarsi.
Mercuzio, tornando in azione, aveva disubbidito agli ordini impartitogli: insubordinazione. Aveva riportato parole non vere per convincere Lorenzo a farlo partecipare alla missione: manipolazione. Aveva ucciso un proprio compagno e se l'era data a gambe: omicidio e fuga non autorizzata.
Per il Boss fu difficile, ma non c'erano altre alternative: da quel momento in avanti Mercuzio Zeppeli sarebbe stato da considerare un traditore di Passione a tutti gli effetti. Le accuse che gravavano sulle sue spalle erano pesanti; chiudere un occhio su di esse era impossibile.
Nonostante fossero le undici e mezza di sera, l'unica persona in grado di fare qualcosa bussò alla porta dello studio, come magicamente evocata dai pensieri del Boss. Entrò nella stanza, il viso serioso e gli occhi attenti. Indossava una maglietta azzurro pastello, una giacca nera aperta e una cravatta rosa a righe verdi legata frettolosamente attorno al collo. I capelli biondi fonati erano rasati ai lati della testa e sulla nuca, e un ciuffo, decisamente più lungo dei capelli acconciati, gli ricadeva sul volto in cui spiccavano due occhi color grano. La sua presenza era costantemente accompagnata da un fresco aroma di menta.
-”Ho saputo”- si limitò a dire questo.
Giorno si abbandonò sullo schienale della poltrona. Quella era davvero l'unica soluzione rimasta? Possibile che non ci fossero alternative? Guardò l'uomo ventinovenne in piedi di fronte alla scrivania e questo, come se avesse letto nel pensiero di Giorno, scosse lievemente la testa. Il Boss, in tutta risposta, si lasciò sfuggire un sorrisetto sarcastico.
-”Proprio tu lo dici?”- lo punzecchiò.
-”Non mi hai forse messo a capo della Squadra della Mezzanotte proprio per questo motivo?”- rispose a tono l'uomo biondo.
La Squadra della Mezzanotte era una Squadra speciale: godeva di particolari diritti e agevolazioni ed era caratterizzata dal non avere membri fissi, capo a parte; Giorno ricorreva a tale Squadra solo per missioni pericolosissime o in caso di emergenza. Rintracciare ed eliminare i traditori era una loro routine.
-”Fallo”- gli ordinò Giorno dopo qualche minuto di pensoso silenzio. -”Componi la Squadra della Mezzanotte per la cattura e l'eliminazione di Mercuzio Zeppeli. La voglio operativa entro due ore”-.
-”Sarà fatto”- disse Fugo Pannacotta eclissandosi.

 

 

Tredici anni prima Fugo aveva abbandonato i suoi compagni.
Quando Bucciarati aveva dichiarato la sua intenzione di tradire Passione e uccidere il Boss, Fugo era stato l'unico della gang a non seguire il capo in quel folle viaggio. Aveva fatto i suoi conti ed era giunto alla conclusione che voltare le spalle a Passione lo avrebbe condotto alla morte; così era stato per tre dei suoi compagni. Nonostante fosse rimasto fedele all'organizzazione, i membri di Passione avevano iniziato a chiamarlo “Fugo il Traditore”. Diavolo, il precedente Boss e padre di Trish Una, per verificare la sua lealtà, gli aveva affidato una missione omicida a Venezia in collaborazione col vecchio Seppia. Che altro poteva fare Fugo il Traditore se non obbedire? In realtà il giovane aveva calcolato tutto: sapeva benissimo che il virus di Purple Haze aveva un secondo punto debole oltre la luce, e questo era Giorno Giovanna, diventato immune al gas mortale dopo lo scontro con Illuso e il suo Stand, Man in the Mirror. Dopo la disfatta di Seppia, Fugo era scomparso nel nulla. Sei mesi dopo, Mista era riuscito a rintracciarlo. Messo alla prova da Giorno, divenuto il nuovo Boss di Passione, Fugo si era riguadagnato la fiducia dei suoi vecchi amici ed era rientrato a fare parte dell'organizzazione mafiosa col ruolo di capo della misteriosa Squadra della Mezzanotte. In quanto tale, Fugo era una delle poche persone che aveva accesso all'archivio contenente le informazioni di tutti i membri di Passione. Ogni volta che il Boss richiedeva l'intervento della Squadra della Mezzanotte, Fugo scendeva nei sotterranei della villa del Boss, oltrepassava la porta blindata ed entrava nell'archivio.
Fugo si sedette davanti al computer posto in un angolo del minuscolo e buio archivio, e iniziò a digitare i vari codici di sicurezza che il sistema gli richiedeva di immettere. In meno di un minuto davanti ai suoi occhi si aprirono i documenti top-secret di Passione. I vari membri di Passione erano ordinati secondo la Squadra di appartenenza. L'uomo biondo, taccuino alla mano, iniziò a spulciare i file alla ricerca dei membri più adatti per quella missione.
Mercuzio Zeppeli era uno squilibrato mentale. Chi meglio di un altro svitato poteva riuscire a mettersi nei panni del fuggitivo e avere qualche chance di anticipare le sue mosse? Il puntatore del mouse si soffermò sulla foto di un ragazzo appartenente alla Squadra della Sera: con i capelli bianchi rasati ai lati e una lunga treccina che gli ricadeva sulla sua spalla sinistra, il giovane ventunenne aveva una brutta cicatrice che partiva da sopra il suo sopracciglio destro per finire sulla guancia sinistra; l'orribile sfregio passava in mezzo ai suoi occhi eterocromatici: il sinistro era azzurrissimo mentre il destro marrone scuro; il suo sguardo lasciava intravedere i suoi disturbi mentali. Andronico (questo era il suo nome) era conosciuto all'interno dell'organizzazione con il titolo di “Il Pazzo”. Gestire quel ragazzo sarebbe stata un'impresa difficilissima, ma il suo aiuto era più che necessario. Fugo lesse il documento riguardante Andronico e sorrise tra sé e sé quando trovò la soluzione al problema: si chiamava Cressida e, a quanto pareva, era l'unica persona a cui quel matto di Andronico dava ascolto. L'uomo cambiò cartella e si spostò in quella dedicata alla Squadra della Mattina, cliccando sul nome della ragazza che lo interessava. All'apparenza sembrava una giovane normalissima e tranquilla: aveva i capelli mossi e castani legati in una coda alta, due piccole treccine che le incorniciavano il viso, un paio di grandi occhi color sherry e un timido sorriso. Quando Fugo lesse le informazioni del suo Stand capì davanti a chi si trovava: Passione la chiamava “La Principessa” a causa del suo carattere volubile, altezzoso e capriccioso. Fugo si annotò il nome e sospirò. La Squadra stava prendendo forma, ma i membri erano delle persone tutto fuorché facili da gestire. Gli serviva qualcuno che gli desse una mano, qualcuno che viaggiava più o meno sulla sua stessa lunghezza d'onda, qualcuno come... Il puntatore si spostò sulla cartella della Squadra del Pomeriggio e cliccò sul nome di colui che avrebbe ricevuto il ruolo di vice-capo. La foto che si impadronì dello schermo mostrava un giovane di ventiquattro anni dai capelli rossi completamente rasati da un lato e dagli stretti e costantemente contrariati occhi azzurro ghiaccio; aveva un neo vicino all'angolo destro della bocca, un paio di occhiali neri dalla montatura rettangolare e un orecchino a forma di croce latina sul lobo sinistro. Il suo nome era Amleto e il suo soprannome, “Il Pignolo”, parlava da sé. In quella banda di squilibrati casinisti mancava qualcuno che stemprasse l'atmosfera, calmando gli spiriti ardenti e tenendo i compagni coi piedi per terra. “L'Accidioso” era il più adatto a ricoprire tale ruolo. Il suo file si trovava dentro la cartella della Squadra del Mezzogiorno. L'Accidioso, il cui vero nome era Otello, era un ragazzo di diciott'anni dai capelli blu Tiffany, gli occhi color cioccolato e una cascata di lentiggini sul naso. Nella foto il suo viso era privo di espressione e il suo sguardo spento.
Fugo, dopo essersi annotato l'ultimo nome sul taccuino, spense il computer e lasciò l'archivio, dirigendosi a passo spedito verso il primo membro da reclutare.

 

 

Amleto odiava il fumo: odiava la tenacia con la quale il suo odore si attaccava ai vestiti, odiava la sua consistenza volubile, odiava il suo colore perennemente indeciso tra il grigio e l'azzurro; lo odiava, punto e basta. Era stato talmente selettivo che nessuna persona facente parte della sua cerchia di amici era un fumatore.
Oltre che dalla sua particolare insofferenza nei confronti del fumo, Amleto era caratterizzato da un'insana ossessione per la precisione. Se tutto non veniva precedentemente organizzato fin nei minimi particolari, Amleto dava di matto. Gli piaceva avere tutto sotto controllo; solo così si sentiva sicuro e tranquillo. Come se ciò non bastasse, il giovane aveva una brutta tendenza alla tirannia.
Amleto stava bevendo una birra coi suoi amici in Piazzetta Nilo quando il cellulare prese improvvisamente a vibrare nella tasca dei suoi pantaloni. Il display riportava la scritta “Sconosciuto”. Il giovane si scusò e si allontanò dal gruppetto, accettando la chiamata e portandosi il telefono all'orecchio.
-”Pronto?”-.
La persona dall'altro capo della linea buttò immediatamente giù. Amleto, perplesso, guardò il display diventare nero, come faceva ogni volta che una chiamata terminava.
I soliti scherzi telefonici del cazzo”, pensò stringendosi nelle spalle.
Fece per tornare dai suoi amici quando avvertì un'inquietante presenza alle sue spalle; un insolito odore di menta serpeggiò fino alle sue narici. Si voltò lentamente e si trovò faccia a faccia con una persona che non avrebbe mai pensato di incontrare dal vivo. Aveva sentito moltissimo parlare di Fugo Pannacotta, il capo della mitica Squadra della Mezzanotte, ma mai avrebbe pensato di trovarlo di sera a giro per Napoli.
-”Fugo”- lo salutò chinando il capo.
-”Ti ho chiamato semplicemente per verificare la tua identità. Non volevo sbagliare persona”- disse Fugo indicando il cellulare del giovane con un cenno del mento. -”Ho bisogno di te”-.
Le parole dell'uomo biondo riecheggiarono in loop nella testa di Amleto. Aveva capito bene? Fugo Pannacotta aveva bisogno del suo aiuto? Quella frase non poteva significare altro se non che...
-”Da stasera fino al compimento della missione farai parte della Squadra della Mezzanotte”- disse Fugo dando voce ai pensieri di Amleto.
Il giovane dai capelli rossi, dopo un breve istante di sorpresa, ridusse gli occhi di ghiaccio a due fessure e sorrise compiaciuto. Quella era l'occasione che stava aspettando da una vita, la possibilità di farsi notare dal Boss e di ottenere una promozione all'interno dell'organizzazione.
-”Rimani rintracciabile”- gli ordinò Fugo. -”Tra meno di un'ora dobbiamo essere operativi”- spiegò, e svanì nel buio della piazza.

 

 

Quando Otello, sdraiato su uno scoglio in riva al mare, perso nella contemplazione della luna, sentì odore di menta, sbuffò lievemente e chiuse gli occhi, pregando con tutto se stesso di essersi sbagliato. Non voleva seccature.
-”Dei capelli come i tuoi sono inconfondibili”- disse Fugo raggiungendolo.
Otello non rispose. Si rigirò su di un fianco, dando le spalle a Fugo, e si mise a fissare il mare del Golfo. Era una cosa che aveva sempre fatto e che era intenzionato a fare per sempre. Nessuno si doveva permettere di interrompere i suoi amati momenti di relax; nessuno, neppure il capo della Squadra della Mezzanotte. Quando quell'uomo si faceva vivo poteva significare una cosa sola, e a Otello quella cosa non piaceva per niente.
-”Sei stato scelto per far parte della Squadra della Mezzanotte”-.
Otello sospirò rumorosamente e appoggiò la fronte contro la superficie liscia e fredda dello scoglio. Quella era una delle ultime cose che voleva sentirsi dire. Far parte di quella Squadra significava dover lavorare il triplo rispetto a una Squadra normale. Al solo pensiero Otello si sentiva male.
-”Devo farlo per forza?”- biascicò.
-”Sì”-.
-”Che palle...”-.
Fugo non si scompose di fronte alla reazione del ragazzo; del resto sapeva benissimo che quello era il suo carattere e che ormai non ci si poteva più fare niente. Come precedentemente fatto con Amleto, si raccomandò con Otello di rimanere rintracciabile e si diresse a reclutare il terzo membro.

 

 

-”...Dico davvero! Quando l'ho scoperto ci sono rimasta di sasso!”- esclamò Cressida al telefono. Continuava a camminare su e giù sul terrazzo del suo trilocale, il telefono stretto tra la testa e la spalla e una tazza di tisana allo zenzero e cannella tra le mani. Nonostante la sera afosa di agosto la ragazza non era riuscita a resistere al richiamo della sua tanto amata brodaglia bollente.
Cressida era una giovane ventenne all'apparenza solare e disponibile con tutti. La situazione, però, cambiava non appena qualcosa prendeva una piega che alla ragazza non piaceva per niente; a quel punto Cressida dava libero sfogo alla propria personalità, diventando irritabile, acida e permalosa. Finché le cose andavano come voleva lei, nessuno era in pericolo.
-”...Uno di questi giorni dobbiamo tornare in quel negozietto che abbiamo visto ieri!”- disse all'amica con cui stava chiacchierando.
Presa dalla conversazione al telefono, Cressida, portandosi alle labbra la tazza, lanciò un'occhiata distratta giù dal terrazzo. I suoi occhi color sherry intravidero una figura avvolta dalla penombra e la giovane sputò il sorso che aveva appena preso quando si rese conto di chi fosse quella persona.
-”Scusami, ti richiamo domani, mi sta andando a fuoco la cucina!”- disse frettolosamente. Interruppe la chiamata, posò la tazza sul piccolo tavolino di plastica bianca e si sporse dalla ringhiera del terrazzo. La figura uscì dalla penombra ed entrò nel cono di luce prodotto da un lampione, rivelando la sua identità.
Oh cazzo!”, pensò Cressida spalancando la bocca.
Il suo corpo si mosse più veloce dei suoi pensieri. Quando la sua mente formulò quel nome, Cressida si trovava già fuori da casa sua, in piedi di fronte al famosissimo Fugo Pannacotta. Era emozionatissima, avrebbe voluto dire un sacco di cose, stringergli la mano, farsi un selfie con lui, ma il suo buonsenso le suggerì di non fare niente di tutto ciò e di aspettare che l'uomo biondo parlasse.
-”Cressida della Squadra della Mattina, suppongo”-.
-”Supponi bene”- annuì la ragazza, un sorrisetto ebete stampato sul volto.
-”Ti è stata affidata una missione come membro della Squadra della Mezzanotte. Rimani in zona. Tra meno di mezz'ora entreremo in azione”- disse Fugo, lasciando poi la ragazza a crogiolarsi nel suo brodo di giuggiole.

 

 

L'ultimo membro, Andronico, non fu per niente facile da rintracciare. Fugo si sarebbe aspettato di tutto, ma non di trovarlo seduto a cavalcioni sulla statua equestre di Ferdinando I in Piazza del Plebiscito. L'uomo dalla cravatta a righe alzò lo sguardo verso l'alto e fece un colpetto di tosse per richiamare l'attenzione del ragazzo, il quale era completamente assorto dai suoi pensieri.
-”Andronico”- lo chiamò quando si rese conto che il colpetto di tosse non aveva sortito l'effetto desiderato. -”Vorrei comunicarti una cosa importante. Scenderesti un attimo da lì?”-.
Andronico parve accorgersi della sua presenza solo allora. Strinse le gambe attorno al costato del cavallo e si lasciò scivolare, rimanendo appeso alla statua a testa ingiù, le braccia lasciate libere di ondeggiare.
-”Fugo Pannacotta...”- disse lentamente gustandosi l'importanza di quel nome. -”Qual buon vento ti porta? Di certo non il mio”- sghignazzò senza ritegno.
-”Ho bisogno del tuo aiuto per rintracciare un pazzo”-.
Andronico fece una pernacchia e scoppiò a ridere. Fece oscillare pericolosamente le braccia e per poco non colpì Fugo in pieno viso.
-”Cosa ti fa pensare che io sia la persona più adatta ad aiutarti? Guarda che non sono pazzo; semplicemente vedo il mondo in maniera diversa da come lo vedete voi”- spiegò spalancando gli occhi eterocromatici. -”La pazzia è relativa”- sussurrò picchiettandosi l'indice alla tempia.
Quel ragazzo stava iniziando a seccarlo. Fugo si ritrovò a pensare che forse non aveva fatto una scelta intelligente prendendo in considerazione Andronico, ma ormai era troppo tardi per cambiare idea.
-”Pensala come vuoi, ma sappi che da adesso in poi fai parte della Squadra della Mezzanotte”-.
Un'improvvisa folata di vento prese Andronico e lo fece volteggiare attorno al monumento. Fugo, visibilmente seccato, lo seguì con lo sguardo finché non posò i piedi per terra; in realtà il ragazzo ne posò uno solo perché, con un equilibrio fenomenale, effettuò un arabesque.
-”Andiamo”- lo esortò voltandogli le spalle. -”La mia pazienza ha un limite”- aggiunse in un sussurro.
-”Oh, la mia è infinita!”- esclamò Andronico svolazzando accanto a Fugo. -”Se vuoi te ne presto un po' “- disse scoppiando a ridere sguaiatamente.

 

 

I nuovi componenti della Squadra della Mezzanotte si trovarono in Piazza Trieste e Trento un quarto all'una. Tutti, tranne Andronico che si trovava con lui, avevano ricevuto da Fugo un SMS contenente le informazioni sul luogo e l'ora del ritrovo. Furono tutti puntuali, persino Otello; nessuno voleva inimicarsi il nuovo capo.
La prima cosa che Amleto fece fu annusare l'aria in cerca di tracce di fumo. Con sua enorme gioia apprese che nessuno dei presenti era un fumatore. I suoi nervi si rilassarono un poco e gli occhi azzurri persero un po' della loro inimicizia. Otello si sdraiò sul bordo della fontana e attese pazientemente di sentire cosa Fugo avesse da dire. Andronico, non appena vide Cressida, si separò da Fugo e le corse incontro, sollevandola da terra e stringendola tra le sue braccia. Tutti i presenti, persino Fugo, rimasero sconvolti dalla mossa del ragazzo dai capelli bianchi.
-”Ehi, topolino, ciao”- lo salutò dolcemente Cressida.
Andronico la rimise a terra ma non la liberò dall'abbraccio. Lanciò una rapida occhiata ai suoi nuovi compagni e sorrise mostrando i denti.
-”Se qualcuno prova a sfiorarla lo uccido”- disse imitando il tono di un bambino.
Otello roteò gli occhi. Come se lui si sarebbe preso la briga di provarci con una ragazza in missione. Ma per favore! Troppo faticoso.
Fugo e Amleto si scambiarono una rapida occhiata. L'uomo fu contento di constatare che il suo vice viaggiava davvero sulla sua stessa lunghezza d'onda. Era bastato loro uno sguardo per concordare sul fatto che fosse stata un'ottima idea portare con loro quella ragazza. Cressida sembrava davvero l'unica persona in grado di tenere a bada Andronico. Fugo si era domandato per quale motivo Giorno non li avesse messi in Squadra insieme, trovando poi la risposta al suo quesito nel file di Cressida: stando a quanto vi era scritto, la giovane aveva esplicitamente richiesto di essere assegnata a una Squadra differente rispetto a quella del Pazzo perché “Andronico deve imparare a vivere anche senza di me”.
-”Benvenuti nella Squadra della Mezzanotte”- iniziò Fugo accantonando le sue digressioni mentali. Tutti i presenti si fecero subito attenti, chi più, chi meno. -”Ci è stata affidata dal Boss una missione di vitale importanza: dobbiamo rintracciare ed eliminare un traditore”-.
Splendido... Ci sarà da lavorare parecchio”, pensò Otello serrando le labbra.
Fantastico! Uccidere!”, esultarono interiormente Cressida e Andronico, scambiandosi uno sguardo complice.
Il successo di questa missione mi frutterà parecchio”, annuì Amleto compiaciuto.
-”Chi è il bersaglio, capo?”- domandò Cressida.
-”Il suo nome è Mercuzio Zeppeli, il portatore di Chaosmyth”-.
-”Figlio della merda...”- si lasciò scappare Amleto. Per il giovane dai capelli rossi Mercuzio, in quanto personificazione del fumo, costituiva una sorta di Anticristo. Tutte le volte che gli era capitato di incrociarlo per strada si era dovuto trattenere dal mettergli le mani addosso. Sapere di essere autorizzato non solo a picchiarlo ma anche a ucciderlo fece sentire Amleto al settimo cielo.
Cressida fece schioccare la lingua. Conosceva Mercuzio a causa della sua fama, sia come ottimo membro di Passione che come Casanova incallito. A Cressida piaceva quel ragazzo, ma la Principessa aveva smesso di ammirarlo da sette mesi, ovvero da quando il carattere del giovane Zeppeli aveva subito un drastico cambiamento a causa dei suoi disturbi mentali. Nonostante tutto le dispiaceva un po' doverlo eliminare, ma è così che gira il mondo e lei non poteva farci niente.
-”Dobbiamo capire chi è stata l'ultima persona ad aver parlato con Mercuzio. Dubito fortemente che siano stati Lorenzo e Nicola. Andronico, vorrei che tu...”- iniziò Fugo rivolgendosi al Pazzo.
-”Le persone, quando soffrono, tendono a tornare a casa”- lo anticipò questo stringendosi nelle spalle. -”Se non hanno una casa, vanno in albergo”-.
-”Ti dispiacerebbe essere più preciso?”- gli domandò Amleto sistemandosi gli occhiali sul naso.
-”Credo voglia dire che Mercuzio abbia fatto visita allo psicologo da cui era in cura”- suggerì Cressida giocando con una ciocca di capelli. -”Gaetano Starace, giusto? Quasi sicuramente era l'unico a essere a conoscenza dei suoi drammi interiori”-.
Fugo alzò un sopracciglio biondo, colpito. La Squadra sembrava avere le basi per poter funzionare. Si augurò che fosse davvero così.
-”Seguendo questo filo logico, l'ultima persona, in realtà, dovrebbe essere il suo psichiatra, Ciro Starace”- commentò. -”Già, recentemente era passato dallo psicologo allo psichiatra”- aggiunse notando le occhiate perplesse dei suoi sottoposti.
-”Quindi? Che si fa?”- domandò Cressida entusiasta. Non vedeva l'ora di entrare in azione.
-”Direi di andare a trovare Ciro Starace...”- disse Fugo infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. -”...Come solo Passione sa fare”- aggiunse con un sorriso sghembo.

 

 



NOTE DELL'AUTRICE
"We're an army of used up freaks" ---> One By One
Ho deciso di considerare la storia di Fugo raccontata nelle due novel, "Golden Heart Golden Ring" e "Purple Haze Feedback"; spero che a nessuno dispiaccia :)
In questo capitolo sono stati introdotti i miei nuovi quattro OCs, i membri della Squadra della Mezzanotte :> Anche Lorenzo, Nicola e Gerardo erano OCs, ma tengo di più alla Squadra della Mezzanotte (e si vede >w<).
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 6
*** Why looking for answers, just leaves a question? ***


Il giorno dopo, sabato, Shizuka si svegliò un po' più presto del solito. Passò un quarto d'ora a rotolarsi nel letto, nessuna voglia di vedere il viso strafottente di Celeste già di prima mattina. Ancora non riusciva a credere che i suoi genitori le avessero concesso la loro ospitalità senza prima chiedere la sua opinione. Sapevano benissimo che lei mal sopportava gli estranei, per di più Joestar. Anche lei, come Josuke, non aveva avuto una bella esperienza con i membri di quella bizzarra famiglia. Certo, era stata adottata dal vecchio Joseph, ma Shizuka si era sempre sentita un peso per quell'anziano pimpante. Per Jotaro, invece, lei e i suoi due genitori erano come inesistenti, delle semplici protuberanze cresciute inaspettatamente sui rami dell'albero dei Joestar. Quella Celeste dava l'impressione di pensarla esattamente come Jotaro. Per quale motivo si era presa la briga di venirli a trovare? C'era qualcosa sotto, Shizuka ne era più che sicura.
La ragazzina scese al piano terra con indosso il suo pigiama estivo lilla e i capelli sciolti, e, un'espressione bellicosa stampata sul volto, si mise a sedere al tavolo rettangolare della sala da pranzo, attendendo che Okuyasu le portasse la colazione.
La cucina e la sala da pranzo costituivano un ampio open space, per cui Shizuka poté seguire con occhi vigili i movimenti delle due persone che stavano trafficando ai fornelli.
Celeste, i capelli raccolti nel suo chignon scarruffato, sentì un brivido correrle lungo la schiena. Avvertiva un'inquietante presenza che la stava fissando.
-”Seres, tutto bene?”- le domandò Okuyasu dall'altra parte del tavolo di marmo posizionato in mezzo alla cucina.
Celeste si riscosse e sorrise. Forse se l'era solo immaginato. Le piaceva il fatto che la sera prima, a cena, il signor Nijimura le avesse dato il permesso di dargli del tu e avesse preso a chiamarla “Seres”, l'abbreviazione del suo nome pronunciato in giapponese, “Serèsute”. Josuke, invece, pretendeva che la ragazza si rivolgesse a lui chiamandolo “Signor Higashikata” o “Dottor Higashikata”. Celeste non aveva potuto fare altro che acconsentire.
-”Ti dispiacerebbe preparare il caffè mentre porto la colazione a Shizu?”- le domandò Okuyasu con un piatto di traballanti pancakes in mano. L'uomo, con indosso il suo solito grembiule rosa, si avvicinò al tavolo della sala da pranzo e posò gli ancora fumanti pancakes sotto il naso di Shizuka.
-”Li ha fatti lei?”- borbottò la ragazzina senza alzare gli occhi dal piatto.
-”No tesoro, li ho fatti io”- rispose Okuyasu alzando entrambe le sopracciglia. Che domanda insolita.
-”Non portarmi niente che sia stato cucinato da lei”- ordinò in un sussurro.
Okuyasu, colpito dalle parole taglienti della figlia, si sistemò gli occhiali e si sedette pesantemente sulla sedia. Un minaccioso “crack” provenne dalle gambe di legno. Shizuka iniziò a mangiare la sua colazione sotto lo sguardo ancora più sgranato del solito del padre.
-”Shizu, che succede?”- le domandò sottovoce.
La ragazzina mora alzò gli occhi al cielo e serrò le labbra. “Che succede?” aveva detto. Perché doveva avere un genitore così stupido?
-”Niente”- si limitò a dire seccamente, e riprese a mangiare.
Celeste, rimasta in cucina a fissare la caffettiera (come se solo guardandola avesse potuto accelerare il processo), scosse lievemente la testa. Era riuscita a sentire il breve scambio di battute tra Shizuka e Okuyasu, e l'aperta ostilità della ragazzina la fece sorridere. Era sorprendente come una fanciulla all'apparenza tanto innocua e carina nascondesse un carattere così forte e dominante.
Spense il fornello sotto alla caffettiera e tirò giù dalla credenza due tazzine; Shizuka non lo beveva e Josuke era già a lavoro.
Povero Okuyasu”, pensò mentre versava il caffè nelle tazzine. “Marito tiranno e figlia schizofrenica...”.
Celeste entrò in sala coi due caffè in mano. Appena Shizuka la vide, la ragazzina gettò le posate nel piatto in cui troneggiavano ancora tre soffici pancakes e diventò invisibile. La sedia, come mossa da un fantasma, si scostò dal tavolo e Celeste si sentì scontrare all'altezza del braccio sinistro: Shizuka aveva appena lasciato la sala.
Okuyasu si accasciò sulla sedia e si massaggiò le tempie con le dita delle mani. Celeste si sedette al posto di Shizuka e allungò verso l'uomo una delle due tazzine.
-”Scusala, Seres...”- biascicò Okuyasu aggiungendo due cucchiaini di zucchero al caffè. -”Shizu non è abituata agli estranei”-.
-”Fa niente”- sorrise la giovane. -”Tanto non mi tratterrò per molto... Credo”-.
Okyasu notò un improvviso e inaspettato cambiamento nei lineamenti della ragazza: nonostante la bocca stesse ancora sorridendo, i suoi occhi dal taglio allungato sembravano stessero piangendo. Eppure sul suo viso non stava scorrendo alcuna lacrima. L'uomo, non volendo far rattristare l'ospite, iniziò a raccontarle qualcosa di sé e della sua famiglia, partendo da quando lui e Josuke si erano trasferiti in America fino al loro matrimonio e all'adozione di Shizuka.
-”E' una storia davvero interessante!”- commentò Celeste alla fine. -”Sai, in Italia voi non potete né sposarvi né adottare figli. Abbiamo il papa in casa...”-.
Okuyasu alzò le sopracciglia e si lasciò sfuggire un “Oh!” di sorpresa.
-”Davvero il papa sta a casa tua?!”-.
La mano di Celeste che reggeva la sua tazzina si fermò a mezz'aria. La giovane aprì la bocca per dire qualcosa ma non ci riuscì: la stupidità di Okuyasu l'aveva lasciata di stucco. Posò la tazzina sul tavolo e si schiarì la voce, cercando in tutti i modi di non scoppiare a ridergli in faccia.
-”O-Okuyasu, è s-solo un modo di d-dire... Significa che la Santa Sede si trova in Italia, non che il papa abita a casa della mia famiglia”-.
-”Ah...”- disse l'uomo visibilmente colpito. -”Ma allora cosa c'entra il papa con le unioni omosessuali?”-.
Non me lo sta chiedendo davvero...”, pensò Celeste con un sopracciglio alzato. Davvero non sapeva niente sui principi della Chiesa e sui suoi continui tentativi di metter bocca nelle questioni governative del Paese? La giovane bionda si strinse un poco nelle spalle. Era comprensibile; del resto Okuyasu, da giapponese, come poteva essere a conoscenza delle questioni italiane?
-”Bene, lascia allora che ti spieghi qualcosina”- iniziò Celeste accavallando le gambe.
Okuyasu, per la prima volta in tutta la sua vita, riuscì a seguire una spiegazione di mezz'ora senza distrarsi mai.

 

 

Sapeva che per lui la porta di quell'ufficio era sempre aperta, ma Josuke quella mattina bussò ugualmente e attese di ricevere il permesso prima di fare il suo ingresso nell'ufficio di Tomoe Kawaguchi, neurologa e vice-primario. La trovò seduta alla scrivania intenta a limarsi le unghie. Come al solito non aveva molto lavoro da fare. Beata lei.
Tomoe non dovette alzare lo sguardo per sapere chi fosse appena entrato; quell'odore di omosessualità era inconfondibile.
-”Dottor Gay, buongiorno”- lo salutò posando la lima sulla scrivania.
Josuke biascicò un “Buongiorno un cazzo” e si sedette malamente, lasciando capire alla donna dai capelli tinti di rosso scuro che c'era qualcosa che non andava.
-”Hai la coda storta, Tomoe”- le disse a un tratto indicandole i capelli.
La donna si portò subito le mani alla testa e si sciolse la coda per poi rifarla sotto lo sguardo vigile di Josuke, il quale alzò un pollice per approvare il lavoro appena svolto dalla neurologa.
-”Bene, capelli a parte, hai bisogno di qualcosa?”-.
Josuke alzò le mani e mimò un arcobaleno sopra la sua testa.
-”Ferie”- disse mentre muoveva le mani.
Tomoe arricciò le labbra e alzò le sopracciglia. Prese un fascicolo da un cassetto della scrivania e iniziò a sfogliarlo. Se non ricordava male, Josuke aveva già fissato le sue ferie per la seconda settimana di settembre...
-”Bimbo, non posso dartene altre”- disse senza alzare gli occhi dai fogli. -”E' difficile sostituirti, sai?”-.
-”Non ne voglio altre, vorrei solo anticiparle”-.
Tomoe abbassò di scatto il fascicolo e lanciò una strana occhiata a Josuke.
-”Che c'è? Non ti piace la mia maglietta?”- domandò quello guardandosi la t-shirt verde lime con la scritta “Fuck you all” in rosa shocking.
-”Josuke, che domande fai? Ovviamente mi fa schifo”-.
Tomoe Kawaguchi era una donna bella, magra e dall'altezza perfettamente rientrante nella media giapponese. Il suo sguardo non lasciava spesso trapelare i suoi pensieri, e ciò la rendeva una persona intrigante. Il suo stile sobrio ed elegante era in netto contrasto con quello pacchiano e appariscente del collega, ma questo non significava che i due non andassero d'accordo. Tomoe conosceva Josuke da anni, da quando, nel 1999, era stato ricoverato in seguito allo scontro con Yoshikage Kira. La donna si divertiva a stuzzicarlo e a prenderlo in giro e Josuke, sotto sotto, era contento di ciò.
-”Stai invecchiando, Tomoe”- disse Josuke in tutta risposta. Incrociò le braccia al largo petto e alzò il mento.
-”E tu stai perdendo la possibilità che le ferie ti vengano spostate”- rispose la donna sorridendo malignamente. Il suo sorriso si allargò quando vide Josuke boccheggiare. Ah, com'era facile metterlo con le spalle al muro!
-”Tomoe, ti prego, mi servono”- la supplicò improvvisamente serio. Si sistemò sulla sedia e si morse il labbro, a disagio. -”Sono anche disposto a fare straordinari a caso, ma ti supplico, anticipami le ferie. Mi bastano quattro giorni, davvero”-.
Tomoe, dopo aver fissato Josuke per un po', sospirò, prese una penna e si annotò qualcosa su di un foglio. Non aveva mai visto Josuke supplicare qualcuno in quel modo; evidentemente gli era successo qualcosa a casa. Non osò chiedere per paura di toccare un tasto dolente.
-”E quattro giorni siano”- si arrese. -”Da lunedì a giovedì, estremi compresi. Mi devi un favore, ragazzino diversamente eterosessuale”- aggiunse puntandogli la penna contro.
Josuke scattò in piedi e ringraziò più volte il vice-primario. Moriva dalla voglia di raccontarle di Celeste e di quello stupido di suo marito, ma sapeva che le questioni dei Joestar dovevano rimanere tra i Joestar, o almeno, tra quelli che conoscevano tutta la storia.
Uscì dall'ufficio di Tomoe e si richiuse dolcemente la porta alle spalle. Strinse i pugni lungo i fianchi, lo sguardo abbassato sui Dr. Martens fucsia. Un dubbio atroce lo stava consumando dalla sera precedente ed esisteva un'unica persona in grado di dargli un consiglio a riguardo. Josuke, il camice bianco svolazzante, percorse a grandi passi la lunga corsia finché non si imbatté in un'infermiera. Non ricordava il suo nome, ma a chi importava? Tanto aveva affibbiato a tutte dei nomignoli.
-”Vitino da Vespa, vado un momento dal dottor Hirose e torno”- la avvisò indicando la sua direzione con gli indici delle mani. -”Grazie a queste favolose gambe che mi ritrovo non ci metterò molto”- aggiunse facendo l'occhiolino.
Lasciata la sognante infermiera alle proprie spalle, Josuke si affrettò a raggiungere lo studio di Koichi Hirose, psicoterapeuta dell'ospedale e amico di lunga data del dottor Higashikata.
-”Koichi!”- proruppe Josuke nello studio spalancando la porta.
Koichi, seduto alla scrivania a ordinare dei documenti, sobbalzò per lo spavento. Alcuni fogli scivolarono a terra e il dottore mingherlino si affrettò a radunarli e a raccoglierli.
-”Josuke, quante volte ti ho detto di bussare prima di entrare?”- lo rimproverò con uno sguardo che tentava invano di essere minaccioso.
Josuke fece spallucce, chiuse la porta con un fianco e fece per sedersi sulla piccola sedia posta davanti alla scrivania del collega, ma ci ripensò. Tutte le sante volte che poggiava il sedere su quel mobile infernale non riusciva mai a rialzarsi; il suo fondoschiena ci rimaneva sempre incastrato.
Koichi notò le occhiate schifate che Josuke stava lanciando alla sedia e nascose dietro ai fogli un sorrisetto.
-”Nicki Minaj pagherebbe oro per avere il mio culo. Starò in piedi”- proclamò il dottor Higashikata scostando da parte la sedia.
-”Lo sospettavo”- rispose Koichi. -”Ad ogni modo, come mai sei qui? Hai traumatizzato di nuovo Matsumoto?”- domandò.
-”No, no, questa volta Matsumoto non c'entra niente”- si affrettò a dire Josuke. -”E' una questione... bizzarra. Koichi, quello che sto per dirti... Ecco... Non lo raccontare a nessuno, neppure a tua moglie, okay?”-.
Mica vorrà raccontarmi una delle sue assurde esperienze sessuali con Okuyasu, vero?!”, pensò Koichi allarmato.
-”V-va bene...”- rispose con un sorriso tirato.
-”Vediamo se riesco a essere sintetico...”- borbottò Josuke carezzandosi distrattamente quel filo di barba che portava sulle guance e sul mento. -”Ieri pomeriggio si è presentata a casa mia una donna che sostiene di essere la mia prozia e mi ha chiesto ospitalità per qualche giorno”-.
Koichi si portò una mano al petto e si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Il pericolo del racconto erotico era stato sventato.
-”E quindi? Quale sarebbe il problema?”- domandò iniziando a giocherellare con la penna che i suoi due figli gli avevano regalato per la festa del papà.
-”Koichi, dice di essere mia prozia”- disse Josuke protendendosi un poco in avanti. -”Mia prozia”- ripeté calcando le parole.
-”La... zia di tua madre?”-.
-”La zia di mio padre”-.
Koichi smise di scatto di giocare con la penna, la quale gli scivolò dalle dita e finì per terra ai piedi di Josuke. Il dottor Higashikata si chinò a raccoglierla e la restituì a un Koichi sconvolto e disorientato. Josuke strinse le labbra e annuì lievemente.
-”La sorella di Giorno Giovanna?”- domandò Koichi con esitazione, come se il solo pronunciare quel nome avrebbe potuto portargli anni e anni di sfortuna. -”Non sapevo avesse una sorella”-.
-”Nemmeno io, per questo la storia mi puzza. Sostiene di essere la sorellastra di quello gnocco e di averlo scoperto solo due anni fa. Ha la voglia, ha uno Stand, ma io non mi fido. C'è qualcosa in lei che non mi convince”-.
-”E' pur sempre figlia di Dio Brando, Josuke, è normale che non ti vada a genio a pelle”- gli fece notare Koichi. -”Voi Joestar siete i nemici naturali di Dio”-.
-”Koichi, c'è qualcosa che non va”- insistette Josuke chinandosi sulla scrivania e sovrastando Koichi. Il dottor Hirose premette la schiena contro lo schienale della sedia e guardò terrorizzato l'omone che lo fissava dall'alto. -”Quando la Fondazione Speedwagon scoprì la mia esistenza, Jotaro venne a cercarmi; quando saltò fuori l'esistenza di Giorno, Jotaro ti spedì in Italia. Perché nessuno ha mai saputo dell'esistenza di quella ragazza? Stando a quanto ha detto, Jotaro si è imbattuto in lei per puro caso. Ma la cosa che più mi disturba è il fatto che questa ragazza, Celeste, dimostri appena venti anni. Se fosse davvero figlia di Dio Brando dovrebbe averne minimo ventisei. Io... Dovrei forse telefonare a Jotaro?”-.
Koichi distolse lo sguardo dagli occhi chiari di Josuke e si schiarì la voce, a disagio. Stranamente non sapeva cosa consigliare all'amico. Era certo che contattare Jotaro sarebbe stata la soluzione migliore, ma era ben conscio che ciò avrebbe, in un modo o in un altro, condotto a una nuova faida familiare. Era normale che Josuke non si fidasse di questa Celeste, anche Koichi al suo posto sarebbe avanzato coi piedi di piombo. Lanciò una rapida occhiata all'amico in trepidante attesa di conoscere la sua risposta.
-”Credo...”- iniziò titubante. -”Ecco... Prima di risponderti potrei conoscerla?”-.
La frase di Koichi spiazzò Josuke, il quale tornò in posizione eretta e sbatté le palpebre un paio di volte, sorpreso. Koichi si strinse nelle spalle esili e mostrò i palmi, come a dire “Al momento non so cosa consigliarti”.
-”Non è possibile. Non puoi venire solo tu a casa mia, Yukako si insospettirebbe”- disse Josuke scuotendo la testa.
-”Vorrà dire che verrà anche lei”-.
-”Koichi, ti avevo detto che vorrei che Yu...”-.
-”Credi davvero che Okuyasu non abbia già telefonato a mia moglie?”- domandò Koichi mostrando il display del suo cellulare all'amico. Gli era appena arrivato un messaggio da Yukako in cui c'era scritto che il giorno dopo, su invito di Okuyasu, sarebbero andati a far visita agli Higashikata.
Josuke si passò una mano sul viso e ringhiò esasperato. Perché suo marito aveva deciso di sbandierare ai quattro venti l'esistenza di Celeste? Possibile che non avesse ancora capito che quella ragazza era un grande punto interrogativo personificato? Per non parlare poi del suo Stand, una figura imponente dallo smoking trinciato e un elmo rinascimentale col pennacchio che aveva definito la sua portatrice “figlia”. A volte Josuke si stupiva ancora della demenza di Okuyasu.
-”Facciamo che ne riparliamo dopo la visita di domani?”- propose Koichi.
Josuke annuì distrattamente e si apprestò a lasciare lo studio del collega. Salutò Koichi e contemporaneamente estrasse il cellulare dalla tasca del camicie, uscendo in corsia e dirigendosi verso la parte opposta dell'edificio ospedaliero.
-”Oku”- disse quando il marito rispose dopo qualche squillo. -”Sei una testa di cazzo!”-.

 

 



NOTE DELL'AUTRICE
"Why looking for answers, just leaves a question?" ---> Voice
Mentre Okuyasu va d'amore e d'accordo con Celeste, Shizuka e Josuke sono ancora sulla difensiva. Nel prossimo capitolo dedicato alla storia di Celeste verrà introdotta la famiglia Hirose (già descritta in "Dangerous Heritage"). Chissà se Koichi riuscirà a scoprire qualcosina...
Nel prossimo capitolo vedremo la Squadra della Mezzanotte in azione >:)
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 7
*** There is no one to try to stop it! Let it go! ***


Ciro Starace vuotò il sacco in meno di un paio di minuti. Fugo non dovette nemmeno ricorrere ai “gentili” metodi di Passione; lo psichiatra si era arreso al solo sentir pronunciare il nome del famoso capo della Squadra della Mezzanotte. Nonostante avesse ottenuto la collaborazione di Ciro, Fugo non ricevette molte informazioni, apprese solamente che il giovane Zeppeli aveva dichiarato l'intenzione di trovare la ragazza dai capelli color miele, ovvero il fantasma che lo perseguitava da mesi e che lo aveva condotto alla follia.
Fugo, dopo aver lasciato l'abitazione di Starace, raggiunse i suoi sottoposti nel parcheggio della Stazione Centrale. Aveva ordinato loro di prendere la sua macchina e di aspettare il suo ritorno.
Era l'una di notte passata quando i membri della Squadra della Mezzanotte si riunirono.
-”Sarà più difficile del previsto”- esordì Fugo incrociando le braccia al petto. -”Sappiamo solo che Mercuzio è alla ricerca del suo fantasma”-.
Andronico, seduto per terra con la schiena appoggiata contro la portiera posteriore della Panda nera, annuì lentamente.
-”Dovevamo aspettarcelo...”- commentò Amleto dopo aver fatto schioccare la lingua. Mercuzio, proprio come il suo adorato fumo, era riuscito a svanire nel nulla senza lasciare tracce. Era scappato col treno o con la macchina? Per andare dove, poi? Amleto cominciò a innervosirsi.
Cressida osservò in silenzio il capo e il vicecapo parlare tra di loro e tirare fuori le ipotesi più assurde; purtroppo non c'era altro che potessero fare. Andronico era ancora seduto per terra con lo sguardo fisso nel vuoto, mentre Otello era entrato in macchina e, assecondando la sua pigrizia, si era sdraiato sui sedili posteriori lasciando che fossero i compagni a organizzare il piano. Lasciando perdere quell'accidioso di Otello, Cressida inveì mentalmente contro Andronico. La faceva arrabbiare il fatto che il giovane dai capelli bianchi agisse quando non era opportuno farlo e quando ce n'era davvero bisogno non lo facesse. Lui era l'unico che avrebbe potuto risolvere il loro problema.
La ragazza dai capelli castani si portò una treccina dietro l'orecchio destro e posò delicatamente una mano sulla spalla di Andronico.
-”Nico, potresti usare Nothing Helps?”- gli chiese accucciandosi accanto a lui. Fugo e Andronico drizzarono le orecchie e smisero immediatamente di discutere. Andronico si voltò lentamente verso Cressida e la guardò con occhi assenti.
-”Forse che sì, forse che no. E' un romanzo di...?”-.
-”D'Annunzio”- rispose prontamente la ragazza.
Il viso di Andronico si illuminò e il giovane balzò in piedi, iniziando poi a saltellare a piedi uniti sul posto. Cressida si allontanò e andò ad affiancare Fugo, rimasto alquanto perplesso dallo scambio di battute tra i due sottoposti.
-”Se Nico non decide di usare il suo Stand di propria iniziativa, dovrete chiederglielo esplicitamente”- spiegò la ragazza mentre il Pazzo aveva preso a fare degli strani movimenti, come un'elegante e fluida arte marziale. -”A quel punto dovrete rispondere a una sua domanda. Tranquilli, riguardano principalmente la letteratura italiana ed estera”-.
Fugo si portò una mano al mento, annuendo lentamente. Fu felice di constatare che tra i suoi sottoposti c'era qualcuno che avesse un minimo di cultura. Amleto, basito, si sistemò gli occhiali sul naso.
-”E adesso... cosa starebbe facendo?”- domandò quest'ultimo strizzando gli occhi color ghiaccio. -”Si sta esercitando nel kung fu?”- disse trattenendo a stento una risata di scherno.
-”No, imbecille”- lo freddò Cressida. -”Sta richiamando il suo Stand”-.
Amleto, punto sul vivo, divenne rosso in viso e si sforzò di non rispondere a tono. Nessun uomo si era mai permesso di offenderlo, figuriamoci una ragazza!
Il trio, avvolto da un alone di curiosità, scetticismo e trepidante attesa, osservò Andronico danzare nell'aria, sferrando ogni tanto qualche pugno e qualche calcio contro un avversario immaginario, il tutto con un'affascinante grazia che nessuno si sarebbe mai aspettato di vedere in un malato mentale come lui. Fugo, le mani nelle tasche dei pantaloni neri, lanciò un'occhiata a Cressida: la ragazza, con indosso un top verde acido dalla scollatura a cuore, una giacca nera e una collana di perle nere e bianche, teneva gli occhi color sherry fissi su Andronico; si vedeva che aveva molta fiducia nelle capacità del compagno. Amleto, invece, era dubbioso.
A un tratto una forte folata di vento investì la Squadra della Mezzanotte. Cressida e Amleto persero l'equilibrio verso destra ma riuscirono a restare in piedi; la Panda nera barcollò un poco e un Otello disorientato aprì la portiera e uscì, raggiungendo i compagni.
-”Cosa sta succedendo?”- domandò con la voce impastata dal sonno.
-”Sembra che Nothing Helps sia arrivato”- constatò Cressida scansandosi una ciocca di capelli dal viso.
Andronico, caduto rovinosamente a terra in seguito alla folata di vento, si alzò in piedi e sferrò un pugno contro l'aria. Il suo viso era una maschera di rabbia.
-”Deficiente!”- sbraitò puntando un dito di fronte e sé. -”Mi hai fatto cadere!”-.
Amleto aggrottò le sopracciglia. Non capiva cosa stesse succedendo. Solo lui non era in grado di vedere lo Stand del Pazzo? Guardò i suoi compagni, aspettandosi di ricevere degli sguardi perplessi come il suo, ma nessuno sembrava sconvolto: le labbra fini di Cressida erano incurvate in un sorrisetto compiaciuto, Fugo sembrava completamente preso dalla performance di Andronico, e Otello...
-”Metti via quel cellulare!”- lo riprese Amleto sfilandogli il telefonino dalle mani. Il ragazzo dai capelli color Tiffany gli rivolse un'occhiata svogliata e fece un lieve sbuffo. Amleto gli restituì il cellulare e si raccomandò la massima attenzione per le azioni future.
-”Io volevo stare a casa...”- borbottò Otello abbassando lo sguardo a terra. Perché era dovuto venire anche lui? Da quando Fugo lo aveva reclutato qualche ora prima non aveva smesso di domandarselo nemmeno per un secondo.
Andronico iniziò una rissa con un avversario inesistente i cui colpi consistevano in raffiche di vento di diversa intensità. Fugo non impiegò molto a capire che lo Stand del ragazzo non aveva una forma fisica e che quelle folate di vento altro non erano che lo Stand stesso. Quando abbassò lo sguardo incrociò gli occhi vispi di Cressida e capì di aver fatto centro. La ragazza approfittò del fatto che Amleto fosse impegnato a bacchettare Otello per avvicinarsi al capo.
-”Lo Stand è la manifestazione fisica dell'energia spirituale di un individuo, no? Be', anche la psiche fa la sua parte... Nothing Helps, in quanto Stand di uno squilibrato mentale, ovvero di un individuo dalla psiche tormentata e costantemente volubile, non può avere una forma fisica”- spiegò Cressida con una punta di tristezza nella voce.
-”Capisco”- mormorò Fugo continuando a guardare il ragazzo lottare contro l'aria. -”Sai dirmi cosa sta facendo adesso?”- le chiese.
Cressida si strinse nelle spalle.
-”Facciamo che te lo spiego un'altra volta? Ormai dovrebbe aver finito...”-.
Andronico pestò con forza un piede a terra e sputò. Alzò un indice verso il cielo e lanciò un grido di vittoria. Amleto smise immediatamente di inveire contro Otello e guardò Fugo in cerca di spiegazioni. Il capo scosse lievemente la testa, facendogli capire che nemmeno lui sapeva molto a riguardo.
-”Ce l'ho fatta, Cassy!”- esclamò Andronico guardando Cressida con gli occhi eterocromatici spalancati. -”Lo faccio? Dammi le informazioni!”-.
-”Nothing Helps, essendo fondamentalmente vento, è in grado di riportare a Nico tutto ciò che si muove attraverso l'aria, ovvero suoni e odori”- spiegò Cressida ai compagni. -”Supponendo che Mercuzio sia scappato con la propria macchina, di quali informazioni uditive e olfattive disponiamo?”-.
-”La sua macchina è una Abarth 500 Tuning bianca”- disse Fugo.
-”Fuma le Marlboro Gold”- disse Amleto a denti stretti.
Otello si strinse nelle spalle. Lui non sapeva niente del loro bersaglio, nemmeno era a conoscenza della sua esistenza.
-”Io... conosco il suo profumo: Versace Eros. Dovrebbe bastare”- concluse Cressida. -”Nico, hai sentito?”-.
-”Forte e chiaro, Cassy!”- rispose Andronico facendo il saluto militare. Spalancò le braccia e ruotò su se stesso. -”Raggio della ricerca: duecento chilometri”- sussurrò al vento. Un'improvvisa raffica si innalzò da Andronico e si propagò circolarmente attorno a lui. Cressida invitò i compagni e il capo a portare pazienza dato che in pochi minuti avrebbero ottenuto la posizione approssimativa di Mercuzio.
-”C'è da fidarsi di un pazzo?”- andò a domandare Amleto a Fugo. Nella voce del Pignolo c'era fin troppo scetticismo, ma Fugo non poteva farci niente. Anche lui un tempo era esattamente come Amleto: facilmente irritabile, puntiglioso e mal propenso a credere a cose che non potevano essere spiegate con la logica. Per quei due era difficile fidarsi di un mentecatto, ma non vi erano alternative. L'unico che poteva fornire una pista alla Squadra della Mezzanotte era Andronico, e nessun altro.
-”Lo sento...”- disse il Pazzo dopo un po'. Chiuse gli occhi e si portò le mani alle orecchie. -”Questo è il motore di una Abarth 500 Tuning. Ah, ce n'è un'altra. Vanno in direzioni opposte...”-.
-”Fai una ricerca incrociata”- gli ordinò Fugo. -”Sigarette e profumo”-.
Andronico strinse le labbra e prese a sniffare l'aria. Mosse qualche passo verso destra, poi tornò indietro. Il vento gli stava portando un sacco di odori e di rumori, e stava a lui selezionare quelli che stavano cercando.
-”Marlboro Gold... Versace Eros...”-. A un tratto spalancò gli occhi e si esibì in una risata sguaiata che fece rabbrividire un poco Otello. -”L'ho trovato!”- esclamò tra una risata e l'altra. -”L'ho trovato! E' a meno di cento chilometri da Napoli, si sta dirigendo verso Roma!”-.
Non c'era un solo secondo da perdere. Fugo si fece lanciare le chiavi da Amleto e ordinò ai suoi sottoposti di entrare nella macchina. Otello si lanciò sui sedili posteriori assieme a Cressida e ad Andronico, mentre Amleto occupò il posto del passeggero anteriore. Fugo accese il motore e spinse il pedale sull'acceleratore. Il fastidioso rumore della sgommata appena effettuata riecheggiò nella notte e la Panda nera si lanciò all'inseguimento. Cressida, stretta tra Andronico a destra e Otello a sinistra, venne assalita da un dubbio atroce: la macchina del capo era omologata per cinque? Era regolare che su una Panda ci fossero cinque passeggeri? Non potevano permettersi di venir fermati dalla polizia stradale.
-”Capo, si può viaggiare in cinque in una Panda?”-.
Fugo, gli occhi color grano fissi sulla strada, aggrottò le sopracciglia. Stavano inseguendo un traditore di Passione, pazzo e portatore di Stand, e lei si stava preoccupando sulla regolarità del viaggio? Un multitasking strepitoso... Tipico delle giovani donne.
-”Normalmente no, ma questo modello prevede il quinto posto come un optional. Sì, l'ho preso”- la tranquillizzò.
Cressida sospirò di sollievo e appoggiò la testa contro la spalla di Andronico; il ragazzo le passò un braccio attorno al collo e la strinse a sé. Otello, dopo essersi mosso un po' e aver trovato una posizione comoda, chiuse gli occhi e sperò che nessuno lo svegliasse nel giro di un paio di ore.
-”Fugo, avrei due domande da farti”- disse Amleto dopo un po'. L'uomo biondo lanciò una rapida occhiata allo specchietto retrovisore per accertarsi che i tre ragazzi seduti sui sedili posteriori non fossero svegli. Il tono di Amleto non presagiva nulla di buono.
-”Dimmi”-.
-”La prima domanda è: credi che riusciremo a intercettare Mercuzio? Voglio dire... Lui è a bordo di una Abarth”-.
Fugo si lasciò sfuggire un breve sorriso, pensando a quanto fossero paranoici i suoi nuovi compagni. Già, compagni... Forse avrebbe dovuto smettere di pensare a loro come a dei sottoposti e iniziare a ritenerli al suo pari. Certo, tra lui e il più giovane, ovvero Otello, correvano undici anni, ma questo cosa significava? Fugo era il loro capo e in quanto tale avrebbe dovuto salvaguardare la loro vita e fare di tutto perché le cose all'interno della Squadra funzionassero e i membri si sentissero protetti e legati gli uni agli altri. Bucciarati era un modello da ammirare e imitare.
-”Possiamo farcela”- rispose Fugo con convinzione. -”Il Boss si fida di noi, e anche io”-.
Amleto non parve molto colpito dalle parole di incoraggiamento del capo, ma annuì e si strinse nelle spalle.
-”Per quanto riguarda la seconda... Perché mi hai ordinato di prendere la Panda? So che hai un'altra macchina dalle prestazioni più elevate”-.
-”Ho la sensazione che quando troveremo Mercuzio la mia macchina farà una brutta fine. Ho preferito risparmiare questo destino funesto alla mia Porsche”-.
E così il famoso capo della Squadra della Mezzanotte aveva deciso di penalizzare la Squadra per un capriccio personale? Amleto alzò gli occhi al cielo e si girò dall'altra parte. Attraverso il finestrino vide il guardrail dell'autostrada scorrere veloce parallelamente alla macchina. Sulle autostrade italiane vige il limite di centotrenta chilometri orari; guardò di sottecchi il contachilometri, compiacendosi quando constatò che Fugo non stesse viaggiando a una velocità superiore a quella consentita. Va bene che stavano inseguendo un fuggitivo, ma se la polizia li avesse fermati sarebbe stato un bel problema. Forse era questo a cui pensava Cressida quando aveva domandato dei posti...
Il ginocchio di Amleto urtò accidentalmente lo sportello del cruscotto: una serie di CD si riversò sulle sue gambe e il giovane, dopo essersi scusato, si affrettò a rimetterli a posto. Gli occhi del ragazzo dai capelli rossi si ridussero a due fessure curiose quando si rese conto che tutti i CD appartenevano alla stessa band.
-”Ti piacciono gli Aerosmith, Fugo?”- domandò dopo aver sistemato il danno.
Amleto giurò di aver visto i muscoli di Fugo irrigidirsi e le sue labbra socchiudersi per un momento. Forse, abbagliato dai fari delle altre macchine, si era sbagliato; eppure il capo impiegò un po' di tempo prima di rispondere.
-”Già”- si limitò a dire.

 

 

Quello che aveva appena fatto era decisamente un'azione da pazzo. Causare la morte di un compagno, fare visita allo psichiatra e partire alla ricerca di quella ragazza non erano cose che una persona sana di mente si sarebbe mai sognata di fare; ma lui non aveva alternative. Doveva trovare la ragazza dai capelli color miele per dimostrare a tutti che lui non era un folle.
Mercuzio tamburellò le dita sul volante al ritmo della canzone che stava passando in quel momento in radio.
I hear your voice in my sleep at night
Hard to resist temptation
'Cause all these strangers come over me
Now I can't get over you...”.
Il giovane Zeppeli la riconobbe subito: era “Maps” dei Maroon 5, una delle sue canzoni preferite di quell'estate. Alzò il volume della radio e sospirò, pensando a quanto le parole del testo fossero adatte alla situazione in cui si trovava. Sicuramente Giorno non gliela avrebbe fatta passare liscia. Mercuzio era sicuro che il Boss gli avesse sguinzagliato qualcuno al seguito. Pregò che non si trattasse della Squadra della Mezzanotte.
Si accese una sigaretta e gettò l'accendino celeste sul sedile accanto. L'abitacolo si riempì di fumo grigiastro e le parole della canzone si impadronirono della mente del giovane moro.
...So I'm following the map that leads to you
The map that leads to you
Ain't nothing I can do
The map that leads to you
Following, following, following to you...”.

 






NOTE DELL'AUTRICE
"There is no one to try to stop it! Let it go!" ---> Yap
Una Panda si è lanciata all'inseguimento di una Abarth 500: riuscirà la Squadra della Mezzanotte a guadagnare terreno e ad acciuffare Mercuzio, il quale, poveraccio, non sa che pesci prendere? 
Nel prossimo capitolo, come già anticipatovi, vedremo gli Hirose fare visita agli Higashikata e Celeste dovrà vedersela con un Koichi in cerca di informazioni e due piccole pesti >:)
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 8
*** Don't even think that you know me ***


I coniugi Higashikata avevano assegnato a Celeste la camera per gli ospiti situata al primo piano dell'enorme residenza insieme alle camere da letto degli abitanti. Era una grande stanza dalla pianta quadrata, dotata di un'ampia finestra che si affacciava sul giardino ben curato e di un bagno privato. Stando a quanto aveva detto Okuyasu, ogni camera da letto era dotata di un proprio bagno. Il letto a due piazze dallo spesso materasso si trovava nella parte destra della stanza, mentre nella sinistra troneggiavano un antico armadio di legno e una scrivania moderna che scozzava col design dell'armadio. Le tende della finestra erano zebrate. Celeste, dopo un iniziale senso di ribrezzo verso di esse, aveva deciso di ignorarle; non voleva far innervosire ancora di più Josuke.
Erano le otto e un quarto di sera. Celeste aveva appena trovato dei fogli e una matita nel cassettone della scrivania quando sentì Josuke sbraitare al piano di sotto. Incuriosita, si precipitò fuori dalla sua camera e scese di corsa le scale. Davanti alla porta di casa con una mano sulla maniglia c'era Shizuka con indosso una gonnellina blu notte a pieghe e una camicetta bianca a maniche corte; portava a tracolla una borsetta beige e i suoi occhioni neri stavano lanciando occhiate di fuoco verso il padre, in piedi di fronte a lei con le mani sui fianchi e una posa statuaria e imponente. Josuke era tornato da poco da lavoro e si era dovuto subito scontrare con la figlia. Okuyasu aveva deciso di non mettere bocca nella questione e si era chiuso in cucina a preparare la cena.
-”Undici”- disse Shizuka con un tono che sembrava non voler ammettere repliche.
-”Dieci e mezza”- ribatté Josuke.
-”Undici”- insistette la ragazzina.
-”Dieci e mezza”- ribadì il dottore.
Celeste, seminascosta dietro lo stipite della porta del salotto, dedusse che i due stessero discutendo sull'orario del coprifuoco. Socchiuse gli occhi, tentando di rievocare alla mente i ricordi di quando aveva la stessa età di Shizuka. Sua zia non era mai stata opprimente nei suoi confronti, le aveva sempre concesso tutta la libertà di cui aveva bisogno; la donna era convinta che troppi divieti e restrizioni avrebbero finito con l'avere una cattiva influenza sulla crescita dell'allora quindicenne Celeste.
Iniziano a spiegarsi tante cose...”, pensò la giovane mentre padre e figlia continuavano a discutere.
Doveva forse intervenire in difesa di una delle due parti? E quale, poi? Non poteva negare che la ragazzina le stesse profondamente antipatica, ma in quel momento Celeste avvertiva un'avversione maggiore nei confronti di Josuke, forse per il modo burbero e scontroso col quale l'aveva accolta.
-”Signor Higashikata”- esordì dopo aver preso una decisione ed essere uscita allo scoperto. -”Se posso dire la mia, non vedo cosa ci sia di sbagliato nel fare tornare Shizuka a casa alle undici”-.
Sia Josuke che Shizuka smisero immediatamente di battibeccare e si voltarono a scoccare occhiate fulminanti verso la giovane dagli occhi ambrati. Josuke, infastidito, concentrò tutta la sua mole su Celeste e la guardò dall'alto di quei venticinque centimetri che aveva in più di lei. Come si era permessa di immischiarsi in affari familiari che non la riguardavano per niente? Puntò gli occhi celesti in quelli della ragazza, ma questa, come il giorno prima, non parve per niente intimorita.
-”Le spiego”- disse Celeste con un tono di voce pacato e tranquillo. -”Imporre troppe restrizioni agli adolescenti è controproducente perché sviluppa in loro un forte sentimento di ribellione. Mi capisce?”- domandò alzando un sopracciglio.
Josuke odiava profondamente quando Celeste alzava un sopracciglio in maniera schernitrice; stando a quanto aveva sentito dire da Jotaro anni prima, era un gesto che Dio compiva spesso, così come l'alzare il mento (caratteristica ereditata invece da Giorno). Incrociò le braccia al petto e spostò il proprio possente peso su di una gamba. Shizuka, nascosta dietro la sua grande figura, era diventata diafana.
-”Non mi risulta che tu sia sua madre”- disse seccato.
-”Se è per questo...”- iniziò Celeste, ma dovette mordersi la lingua per non terminare la frase. Sapeva bene quanto la situazione di quella famiglia fosse perfettamente paragonabile a un'altalena in costante moto, e sapeva anche che cosa si provava ogni volta che qualcuno calcava la mano sulla questione “adozione”. -”Semplicemente, signor Higashikata, per una volta potrebbe concederle mezz'ora in più. Se non ha voglia di andare a riprenderla, lo posso fare io”-.
-”Non è per quello, ci pensano già i genitori di Hikari a riportarla a casa”-.
Celeste strinse le labbra e fece spallucce. Non riusciva a capire dove stesse il problema. Fu tentata di chiamare in causa Okuyasu, ma il fatto che si fosse isolato fin dall'inizio del litigio tra il marito e la figlia le fece capire che l'uomo non aveva alcuna intenzione di esprimere la propria opinione. Per un attimo Celeste si chiese per quale motivo non avesse seguito l'esempio del signor Nijimura.
-”Allora cos'è che la preoccupa? Morioh è una cittadina tranquillissima, cosa potrebbe mai...?”-.
Le parole di Celeste vennero interrotte dal rumore di un piatto che si riduceva in frantumi contro il pavimento. La giovane dagli occhi ambrati si voltò verso la cucina e sospese la discussione per dare una mano a Okuyasu. Si chinò per terra e iniziò a raccogliere i frammenti biancastri sparsi per il pavimento.
-”S-Seres, non d-dovevi, davvero...”- balbettò Okuyasu imbarazzato. Si sistemò gli occhiali sul naso e si fiondò a prendere una scopa dallo sgabuzzino. Celeste seguì con lo sguardo la larga schiena di Okuyasu sparire nei meandri della casa, e si domandò se quel lampo di terrore nei suoi occhi costantemente sgranati se lo fosse solo immaginato o l'avesse visto sul serio. Con la coda dell'occhio vide comparire Josuke e qualche secondo più tardi sentì la porta della villa aprirsi e chiudersi con un tonfo. Lasciò cadere le mani lungo i fianchi e fulminò Josuke con un'occhiataccia, ma l'espressione tetra del dottore la lasciò sorpresa.
-”C'è una storia che penso tu debba sapere”- le disse con la sua voce profonda. La raggiunse e con le sue grosse mani raccolse da terra gli ultimi resti del piatto. Non sapeva per quale motivo, ma era convinto che suo padre, prima di spedirla da lui, le avesse raccontato ciò che accadde nel lontano 1999.
Okuyasu si ripresentò in cucina con la scopa in mano e si adoperò a spazzare via le piccolissime schegge che non era riuscito a raccogliere con le mani. Dai suoi movimenti Celeste capì che c'era qualcosa che non andava: l'uomo dai capelli brizzolati sembrava molto teso. La giovane lanciò un'occhiata interrogativa verso Josuke, ma questo scosse la testa.
-”Ne parliamo a cena”- si limitò a dire, e si affrettò ad aiutare il marito a ripulire il pavimento.

 

 

Nonostante fosse mezzanotte passata, Celeste, con indosso un paio di shorts di jeans a vita alta, una cannottiera nera larga che lasciava intravedere il reggiseno color ciclamino a ogni minimo movimento, e un paio di infradito gialle ai piedi, scese lentamente e in silenzio al piano terra e uscì nel grande giardino sul retro della villa degli Higashikata, un appezzamento erboso di circa dieci metri quadrati dotato di un canestro da basket, due reti da pallavolo e varie aiuole piene di fiori di cui Okuyasu si prendeva cura; lungo il perimetro le aiuole erano alternate da grandi alberi e il centro del giardino era costituito da un ben curato prato di erba verde. Celeste si sedette proprio in mezzo a esso, con lo stridio dei grilli notturni come unica compagnia.
Aveva provato ad addormentarsi, ma non ci era riuscita. La storia del serial killer di Morioh l'aveva profondamente turbata. Adesso capiva perché Josuke era riluttante a lasciare che sua figlia stesse troppo tempo fuori di sera. Certo, Yoshikage Kira era morto e da anni a Morioh non accadeva niente, ma il pericolo è sempre in agguato e i portatori di Stand, sia amici che nemici, si attraggono tra di loro come calamite. Forse proprio per quel motivo Celeste e Jotaro si erano incontrati.
Forse proprio per quel motivo quel ragazzo...
Celeste si tastò la tasca anteriore degli shorts, seguendo con le dita il contorno di un oggetto dalla forma rettangolare. Erano passati due anni, ma non riusciva ancora a togliersi dalla mente quell'odore che inizialmente tanto odiava ma che poi aveva finito con l'amare. Dopo qualche attimo di esitazione tirò fuori il pacchetto di Marlboro Gold dai pantaloncini, lo aprì e si ficcò una sigaretta in mezzo alle labbra. Se la accese con l'accendino verde che teneva sempre dentro al pacchetto e prese una boccata di fumo. Espirò, chiudendo gli occhi e sforzandosi di trattenere le lacrime. “Il fumo uccide”, recitava la scritta a caratteri cubitali stampata sul retro delle Marlboro.
I ricordi uccidono”, pensò Celeste spegnendo con rabbia la sigaretta nel prato.

 

 

Josuke, seduto in maniera scomposta sul divano del salotto, tese il telecomando verso la televisione e cambiò canale un paio di volte. Quando c'era da aspettare l'arrivo di qualcuno, lo zapping si rivelava un'attività interessante.
La famiglia Hirose si sarebbe presentata a momenti, ma Josuke non aveva molta voglia di passare un paio di ore in compagnia di Yukako e delle sue piccole pesti, Manami e Tamotsu; non che provasse antipatia nei loro confronti, anzi, era solo che avrebbe preferito parlare solamente con Koichi e non con gli Hirose al completo. L'esistenza di Celeste non era una cosa che tutta Morioh doveva sapere.
Gettò il telecomando sulla poltrona alla sua sinistra e guardò l'ora sul suo Rolex da polso: erano passate da poco le dieci e mezza. Strano che gli Hirose fossero in ritardo anche solo di un minuto; Yukako era una donna per cui la precisione e la puntualità erano tutto.
-”Oku, ti serve una mano?”- domandò alzando la voce per farsi sentire dal marito in cucina. In realtà la sua era una semplice domanda di cortesia; sperava con tutto se stesso che ci fosse già Celeste ad aiutare il marito.
-”No tesoro, grazie! C'è Seres!”- rispose Okuyasu.
Josuke esultò silenziosamente. La sua preghiera era stata esaudita. Sprofondò sul divano, incrociando le dita sulla maglia a maniche corte con un vistoso motivo a galassia bluette e viola. Era una delle sue preferite, ne andava molto fiero.
-”Quella avvelenerà il thè, ne sono sicura”- sussurrò improvvisamente la voce di Shizuka all'orecchio di Josuke.
-”Nah...”- rispose Josuke, per nulla sorpreso dalla comparsa della figlia. Ormai si era abituato alle sue apparizioni misteriose e ai suoi commenti taglienti. -”Al massimo farà fuori Manami e Tamotsu”-.
Shizuka, appena visibile, si irrigidì. Se Celeste avesse anche solo provato a torcere un capello a uno dei due piccoli Hirose, si sarebbe ritrovata con le mani mozzate. Nessuno doveva osare provare a fare del male ai suoi giovanissimi scagnozzi e compagni di dispetti. Shizuka sbuffò pesantemente e diventò completamente invisibile, ma Josuke, prima che se ne andasse, la fermò prendendola per una mano.
-”Tesoro, non fare niente di azzardato; ricordati che abbiamo ospiti”- le disse sottovoce. -”Piuttosto, saresti così gentile da occuparti delle pesti?”-.
Suo padre non poté vederla, ma Shizuka alzò gli occhi al cielo e sorrise debolmente. Non c'era bisogno che Josuke le chiedesse di stare con Manami e Tamotsu; lo sparlare il privato su Celeste e organizzare qualche scherzo cattivo con loro faceva già parte dei suoi piani.
...Di nuovo”, pensò Celeste rabbrividendo un poco. Era già la seconda volta da quando aveva messo piede in quella casa che aveva come l'impressione che qualcuno la stesse fissando o la stesse citando in qualche tetro contesto. Si asciugò le mani al grembiule lilla che Okuyasu le aveva prestato e scosse la testa. Se lo doveva essere solo immaginato.
-”Bene, direi che abbiamo finito”- proclamò Okuyasu mettendosi le mani sui fianchi e guardando con orgoglio i tramezzini che lui e Celeste avevano preparato. Prese il vassoio e lo portò in salotto, rimproverando Josuke per la sua postura scomposta.
-”Tanto non sono ancora arrivati”- ribatté svogliato. Fece per allungare una mano per prendere un tramezzino quando il campanello della porta suonò. Josuke si tirò su a sedere immediatamente, Shizuka comparve seduta sulla poltrona con indosso una maglietta a righe blu e bianche e degli shorts scuri di jeans, e Okuyasu, dopo essersi tolto frettolosamente il grembiule e averlo lanciato a Celeste, si fiondò ad aprire la porta di casa.
-”Buongiorno a tutti!”- esclamò facendosi da parte e permettendo agli ospiti di entrare.
Due bambini si precipitarono in casa e corsero subito da Shizuka, facendole mille feste. Erano un maschio e una femmina, di rispettivamente cinque e sei anni. La bambina si chiamava Manami, aveva dei bei capelli lisci e biondi, ed era molto estroversa e solare. Il maschietto, Tamotsu, molto più tranquillo della sorella, aveva una fitta chioma nera e ondulata. Shizuka prese entrambi per mano e, chiacchierando animatamente con loro, uscì in giardino. Subito dopo i due piccoli tornado entrò una donna alta e dal fisico snello, dai movimenti ponderati e graziosi; i suoi lunghi capelli neri e mossi erano acconciati in una treccia che le ricadeva sulla spalla sinistra; con indosso una svolazzante gonna bianca lunga fino alle ginocchia e una camicia rosa pallido dalle maniche a tre quarti, la donna salutò calorosamente Okuyasu e si accomodò in salotto, dove venne accolta da Josuke. Per ultimo si presentò il marito della donna, il famoso signor Hirose. Celeste rimase spiazzata dall'aspetto dell'ometto; si aspettava una figura imponente come quella di Josuke, invece Koichi Hirose, che raggiungeva a malapena il metro e sessantacinque, era magrolino e dalle spalle esili. Salutò Okuyasu con un timido sorriso e seguì la moglie in salotto.
-”Koichi!”- lo salutò Josuke scattando in piedi. -”Vieni, siediti accanto a me!”- disse prendendolo per un braccio e trascinandolo giù. Il povero psicoterapeuta non poté opporsi alla forza del collega e, sotto lo sguardo vigile della moglie Yukako, si lasciò sprofondare sul divano.
-”Shizuka e i bambini sono in giardino a giocare”- li informò Okuyasu chiudendo la porta e raggiungendo gli amici.
Yukako, seduta sulla poltrone su cui prima si trovava Shizuka, accavallò le lunghe gambe. Si guardò un poco attorno per poi posare gli occhi blu scuro su Okuyasu.
-”Non manca qualcuno?”- domandò.
I tre uomini si irrigidirono: Josuke per paura che Yukako fosse a conoscenza dell'identità di Celeste, Koichi per la domanda spudorata della moglie, Okuyasu per essersi dimenticato di introdurre la sua ospite. Quest'ultimo si alzò dalla seconda poltrona e, borbottando qualche scusa, si diresse in cucina dove Celeste stava mettendo nella lavastoviglie gli utensili che aveva usato per preparare i tramezzini.
-”Seres, perdonami!”- sussurrò. -”Mi sono dimenticato di presentarti!”-.
Celeste, addolcita dalla goffaggine dell'uomo, sorrise e lo tranquillizzò. Okuyasu, rincuorato dalle parole della giovane, la prese per mano e la condusse nel salotto, dove tre paia di occhi si puntarono immediatamente su di lei. Yukako la squadrò da capo a piedi, ma la sua impenetrabile poker face non lasciò trapelare alcuna emozione. Koichi, invece, sbiancò. La giovane a fianco a Okuyasu era la copia di Dio Brando: aveva i suoi stessi capelli biondi, i suoi stessi occhi felini ambrati e il suo stesso modo spavaldo e superiore di porsi nei confronti degli altri. Certo, aveva anche un ché di suo fratello Giorno, ma quella ragazza era, senza ombra di dubbio, una Brando e non una Joestar. Josuke notò lo shock dipinto sul volto di Koichi e fece di tutto per nasconderlo alle occhiate sospettose di Yukako.
-”Eh, sì, lei è mia cugina Celeste, la figlia della cugina di mia madre!”- disse frettolosamente Josuke sporgendosi in avanti e coprendo col proprio corpo Koichi. -”Cugina di secondo grado, ecco... Suo padre è italiano, sapete?”-.
Celeste non si scompose di fronte alla bugia di Josuke; il suo sesto senso le suggerì che avrebbe fatto meglio ad assecondarlo. Dopo aver lanciato una strana occhiata a Josuke, chinò lievemente il capo e andò a stringere la mano a Yukako, presentandosi e complimentandosi per i bellissimi capelli neri. L'ombra di un sorriso compiaciuto sfrecciò sulle labbra della donna per poi svanire nel nulla.
-”Anche i tuoi capelli sono molto belli, Celeste”- disse. La giovane ringraziò e fece per dare le spalle a Yukako, quando Josuke si alzò in piedi e le si gettò praticamente addosso. La prese per le spalle e la fece voltare nuovamente verso la signora Hirose. Sia Celeste che Yukako lo guardarono stralunate.
-”Sono belli, vero?”- disse Josuke un poco nervoso. -”Cuginetta, perché non te li sciogli?”- la invitò. Sembrava più un ordine che un invito.
Dopo che 'sti qua se ne saranno andati dovrà darmi un sacco di spiegazioni”, pensò Celeste seccata. Si sciolse lo chignon scomposto e lasciò che i lunghi capelli color miele le ricadessero lungo le spalle, coprendole il collo e...
...E la voglia! Josuke non vuole che questa donna la veda!”.
-”Sì, sono davvero belli”- sorrise Yukako.
Josuke, tirato un leggerissimo sospiro di sollievo, tornò sul divano e seguì con lo sguardo Celeste mentre si presentava a Koichi. Avvertiva su di sé lo sguardo indagatore di Yukako, ma lo ignorò. Sperò che si buttasse in una delle sue solite chiacchierate con Okuyasu e che si dimenticasse di Celeste. Dovette ammettere che la sua mossa era stata particolarmente sospetta, ma non aveva avuto alternative: se Yukako avesse visto la voglia avrebbe capito subito che la storia della cugina di secondo grado era una balla colossale.
Le due coppie sposate e Celeste trascorsero un'oretta in salotto a parlare del più e del meno mentre Shizuka e i bambini giocavano insieme in giardino. Celeste apprese che Koichi era un collega di Josuke, lo psicoterapeuta dell'ospedale di Morioh, mentre Yukako lavorava come parrucchiera in un salone di bellezza; Josuke, Okuyasu, Koichi e Yukako si conoscevano dal liceo e avevano vissuto insieme la terribile esperienza del serial killer di Morioh.
-”E' finito il thè verde”- constatò Celeste a un tratto. Prese il vassoio con la teiera e le tazzine e si alzò in piedi. -”Vado a prepararne dell'altro”-.
Josuke, sfruttando il fatto che Yukako era distratta a parlare con Okuyasu, tirò una gomitata nelle costole a Koichi e gli indicò con un cenno del capo la schiena di Celeste che spariva in cucina.
-”V-vado a d-darle una mano...”- disse Koichi massaggiandosi il costato e rivolgendosi principalmente alla moglie.
Prima che Yukako potesse dire qualcosa, Koichi seguì Celeste in cucina. Si lanciò più volte delle occhiate sospette alle spalle, sperando che i coniugi Higashikata riuscissero a tenere occupata la gelosa e sospettosa Yukako il più a lungo possibile. Guardò Celeste mettere l'acqua a bollire e si domandò come potesse fare per estorcerle più informazioni possibili.
Celeste si scostò con irritazione i capelli dal collo. Con quel caldo avrebbe preferito di gran lunga tenerli legati nella sua solita acconciatura. Maledetto Josuke che organizzava complotti senza dirle niente! Per qualche strano motivo il signor Hirose l'aveva seguita. Si voltò verso di lui e gli sorrise educatamente. Doveva forse iniziare una conversazione sul clima? Quel silenzio era fin troppo imbarazzante...
A un tratto Koichi si schiarì la voce e puntò gli occhi in quelli di Celeste; la strana e insolita determinazione del suo sguardo fecero corrugare la fronte alla giovane.
-”Ciao Celeste, ti dispiacerebbe scambiare due parole con me?”- le domandò Koichi in italiano.
La giovane dai capelli color miele spalancò gli occhi per la sorpresa ma si ricompose subito. Non si aspettava che quell'ometto sapesse l'italiano, né tanto meno che volesse parlare proprio con lei. La situazione le puzzava parecchio.
-”Certo che no”- rispose Celeste, anche lei in italiano.
-”Preferirei evitare troppi giri di parole... Io so chi sei”-.
-”Prego?”- disse la giovane, il sopracciglio sinistro che era scattato verso l'alto.
-”So che sei la prozia di Josuke, la sorella di Giorno Giovanna e la figlia di...”-.
-”Io non sono figlia di nessuno”- sbottò Celeste con un tono di voce talmente duro da sorprendere Koichi. I lineamenti del viso della giovane si indurirono, così come la sua voce. Koichi, inizialmente pentito della sua mossa azzardata, decise comunque di insistere e di premere su quel tasto dolente.
-”Celeste, capisci che per Josuke è difficile accogliere in casa una persona potenzialmente pericolosa come te? Quando il signor Kujo scoprì l'esistenza di tuo fratello, mi mandò in Italia per verificare da che parte lui stesse...”-.
-”Giorno è una bravissima persona”- sorrise Celeste. Il cambio repentino di espressione fece rabbrividire Koichi. -”Lui mi ha accettata per quello che ero, senza fare domande e senza tentare di scavare in un passato che, ahimé, neppure io conosco”- aggiunse stringendosi nelle spalle e gettando lo sguardo a terra.
Le parole di Celeste non convinsero Koichi; lo psicoterapeuta era più che certo che il Boss di Passione non l'avesse mai incontrata e che non sapesse di avere una sorella. Non essendo bravo a giocare d'astuzia, Koichi non poteva far altro che andare dritto al punto e sperare che la giovane non eludesse le domande.
-”Se mi stai chiedendo di Jotaro, sì, l'ho già conosciuto. E' stato lui a mandarmi da mio fratello”- anticipò la domanda Celeste.
-”Come mai non ci ha avvertiti?”-.
Celeste spalancò un poco gli occhi e fece una breve risatina.
-”Vi ha per caso avvisati quando è nata Jolyne?”- lo spiazzò.
La giovane si godé l'espressione disorientata sul volto di Koichi e gli diede le spalle, fingendo di trafficare con la teiera. Lo sapeva, eccome se lo sapeva! Prima o poi Josuke avrebbe chiamato qualcuno per dargli una mano e verificare la sua identità. Sarebbe riuscita a non farsi scoprire prima che...?
-”Posso telefonare a Jotaro?”- le chiese Koichi a bruciapelo.
I muscoli di Celeste si irrigidirono e per qualche attimo la ragazza smise di respirare. Il suo peggiore incubo stava per realizzarsi. Non poteva permettere che ciò accadesse. Se Jotaro fosse stato messo al corrente della sua esistenza, tutte le azioni che aveva compiuto due anni prima si sarebbero rivelate futili e vane. Era forse giunto il momento di ricorrere ai poteri di Deeper Deeper? Sarebbe riuscita a estrarre lo Stand e ad attaccare prima di Koichi? Lo sentiva, tutta i membri della famiglia Hirose, così come gli Higashikata, erano portatori di Stand.
Koichi capì di essere arrivato al capolinea: la prossima mossa avrebbe stabilito chi tra lui e Celeste avrebbe prevalso sull'altro. Avvertiva una pesante tensione nell'aria; per un attimo gli parve di intravedere un lampo rosso negli occhi della ragazza. Doveva evocare Echoes?
Il bollitore iniziò a fischiare e Celeste, come se non si trovasse nel bel mezzo di una silenziosa guerra, spense il fornello e cercò nella credenza le bustine di thè verde.
-”Signor Hirose, suppongo che lei sia un portatore di Stand”- disse mettendo sei bustine nella teiera e versando l'acqua calda. -”Ovviamente lo sono anch'io”-.
Koichi deglutì e non rispose. Voleva vedere dove Celeste stesse cercando di andare a parare.
-”Deve sapere che il mio Stand possiede la capacità di manipolare i ricordi delle persone: modificarli, cancellarli, aggiungerli... Può farci di tutto”-.
Perché quella ragazza gli stava rivelando tutte quelle cose? Solitamente i portatori facevano di tutto per non far scoprire le capacità dei propri Stand. Koichi non capiva.
Celeste notò l'espressione confusa dell'uomo e sorrise di sottecchi.
-”Quello che sto cercando di dirle è che io potrei aver già fatto ricorso ai poteri del mio Stand e nessuno potrebbe averne ricordo”-. La rivelazione sconvolse Koichi. L'uomo, le cui gambe avevano iniziato a tremare leggermente, si resse allo stipite della porta. -”Sarò sincera con lei, signor Hirose: Jotaro non deve assolutamente venire a conoscenza della mia esistenza; ogni volta che lei proverà a parlare con qualcuno di questa nostra conversazione, modificherò i ricordi suoi e della persona coinvolta”-.
-”T-t-tu n-non...”- balbettò Koichi, gli occhi spalancati e un rivolo di sudore freddo che gli correva lungo la tempia.
Celeste rimise la teiera sul vassoio e attraversò la cucina, dirigendosi in salotto. Passò accanto a Koichi e si chinò su di lui.
-”La cosa divertente è che tutti i ricordi che lei possiede di questi ultimi giorni potrebbero essere opera mia”- gli sussurrò all'orecchio.
Koichi, il corpo scosso da tremiti, fissò Celeste superarlo e raggiungere il salotto, posando il vassoio sul tavolino e andando a sedersi accanto a Josuke sul divano. Si guardò i palmi delle mani tremanti e buttò giù il groppo che gli si era formato in gola. Se ciò che quella ragazza aveva detto era vero, non aveva più modo di sapere se i suoi ricordi fossero una menzogna o meno; tutti non potevano saperlo! Molto probabilmente Celeste aveva modificato i ricordi anche agli Higashikata.
E se si trattasse di un bluff?”, pensò.
Ripensò allo sguardo ambrato della giovane bionda e rabbrividì.
Lo aveva messo con le spalle al muro.
Teneva tutti in pugno.
La figlia di Dio Brando era pronta allo scacco matto.

 

 





NOTE DELL'AUTRICE
"Don't event think that you know me" ---> The Way Back
Stasera sono di poche parole perché la stesura del capitolo mi ha prosciugata di tutte le energie :O Scusatemi >w<
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 9
*** I don't know what to do, I don't know ***


Dopo circa quattro ore e mezza di viaggio sulla A1, Mercuzio, non sapendo che pesci prendere e avvertendo un certo languorino allo stomaco, si fermò alla prima area di servizio in cui incappò. Parcheggiò la macchina e aprì la portiera, ma non scese. La testa riversa sul poggiatesta, si accese una sigaretta e si diede più volte dello stupido. Come aveva potuto fuggire in quel modo? Aveva gettato al vento la sua vita per un maledetto scherzo che la sua mente malata si divertiva a fargli. La sua probabilità di sopravvivenza si avvicinava al 40%.
Spense la sigaretta per terra e uscì dalla macchina. Entrò nell'autogrill e si sorprese un poco nel constatare che nonostante non fossero nemmeno le sei del mattino la zona bar era stracolma di persone. Sospirò, preparandosi alla lunghissima coda che lo attendeva alla cassa. Istintivamente si guardò alle spalle. Avvertiva su di sé un grandissimo senso di tensione e di ansia causato dalla possibilità di avere dei sicari di Passione alle calcagna. Davanti a lui la fila sembrava non scorrere.
E vaffanculo”, pensò staccandosi dalla coda e andando a sedersi a uno dei pochi tavolini liberi della zona bar. Alzò un indice e un lievissimo filo di fumo si attorcigliò attorno al dito. Gli occhi di Mercuzio puntarono prima un croissont al cioccolato, poi una focaccia con prosciutto cotto e fontina, e infine una bottiglia d'acqua da un litro e mezzo; il filo scattò immediatamente verso gli oggetti indicati da Mercuzio e li avvolse nel suo fumo, portandoli poi al tavolino dove sedeva il giovane moro.
Ecco i vantaggi di essere un mafioso portatore di Stand”, pensò ridacchiando e buttandosi sul pezzo dolce.
Ormai che si era gettato in quell'avventura doveva viverla fino in fondo; trovare la ragazza dai capelli color miele era la sua priorità. Aveva viaggiato ininterrottamente verso nord senza una meta precisa ma con l'intento di allontanarsi da Napoli il più possibile. L'area di servizio in cui si era fermato era vicino alla prima uscita per Firenze; quanto ancora avrebbe dovuto salire lungo la penisola?
Sempre che la ragazza si trovi in Italia...”.
Mise da parte la focaccia farcita e appoggiò la fronte sul tavolino, sospirando. I suoi pensieri, in costante lotta tra loro, lo stavano sfinendo da giorni: da una parte era certo di aver compiuto la scelta giusta, ma dall'altra era sicuro di aver firmato la propria condanna a morte. Era talmente confuso da non essere riuscito a piangere la morte accidentale di Gerardo. E Mista? Mercuzio era sparito senza salutarlo, senza spiegargli niente. Chissà da che parte si sarebbe schierato. Ovviamente avrebbe dato ascolto a Giorno, il suo Boss e caro amico.
Che domanda idiota!”, si beffeggiò stringendosi nelle spalle.
Guardò l'ora sul display del cellulare e decise di riprendere il viaggio. Alzò lentamente il capo e...
Non ci credo...”.
Seduta di fronte a lui c'era la ragazza dai capelli color miele. I suoi occhi ambrati leggermente socchiusi sembravano divertiti; le labbra erano incurvate in quello che sembrava un sorrisetto di sfida. Sotto lo sguardo sbigottito di Mercuzio, la ragazza alzò un indice verso l'alto e svanì in un battito di ciglia. La visione durò una manciata di secondi, ma il messaggio della ragazza parve chiaro a Mercuzio: voleva che proseguisse verso nord.
Sapevo che non mi avresti abbandonato!”.
Il giovane, il cuore riempito di nuova speranza, si fiondò fuori dall'autogrill e corse in macchina, buttando sui sedili posteriori la bottiglia d'acqua e la focaccia ripiena chiusa dentro un sacchetto di carta. Mise in moto e partì immediatamente.
Più tardi si accorse di essere in riserva.

 

 

Fugo si pentì di aver scelto la Panda invece della sua cara Porsche. Amleto aveva ragione: raggiungere Mercuzio non sarebbe stato per niente facile. La loro unica speranza era che il traditore si fermasse da qualche parte, anche solo per andare in bagno o fare benzina. Ogni singolo minuto era prezioso.
-”Andronico, aggiornami sulla posizione di Mercuzio”- gli ordinò.
Il ragazzo, lo sguardo fisso fuori dal finestrino alla sua destra, lo ignorò. Cressida gli tirò una gomitata e gli indicò Fugo con un cenno del capo. Andronico sbatté le palpebre un paio di volte per poi tornare a guardare fuori dal finestrino. Cressida venne fulminata da un'occhiataccia lanciatale da Fugo attraverso lo specchietto retrovisore. La giovane si irrigidì; aveva capito che il capo della Squadra della Mezzanotte la considerava responsabile delle azioni del Pazzo, per cui era un suo dovere trovare il modo di farlo collaborare.
-”Non abbiamo tempo da perdere, perciò datti una mossa”- la riprese duramente Amleto.
Gli occhi color sherry di Cressida si indurirono e la sua espressione si inacidì di colpo. Otello, seduto alla sinistra della ragazza, prevedendo ciò che stava per accadere, si rannicchiò contro la portiera dell'auto e si coprì le orecchie con le mani. Perché non poteva dormire in santa pace? Cosa aveva fatto di male per meritarsi una missione così stressante e faticosa?
-”Ascoltami bene, emerita testa di cazzo: tu non sei nessuno per rivolgerti a me con quel tono da saccente! Nessuno! Solo il capo può darmi ordini e tu, guarda un po', non lo sei! Impara ad avere rispetto per i tuoi compagni, stronzo!”- urlò Cressida con voce stridula. -”Vai a fanculo!”-.
I passeggeri della Panda, Andronico compreso, si pietrificarono. Nessuno immaginava che una ragazza tanto carina come Cressida nascondesse dentro di sé uno scaricatore di porto. Evidentemente il soprannome “La Principessa” non era dovuto ai suoi modi eleganti ed educati ma al suo carattere altezzoso, borghese e snob: nessuno doveva azzardarsi a metterle i piedi in testa.
Andronico parve riprendersi solo allora dal suo stato di trance. Abbracciò Cressida, rossa dalla rabbia, e si guardò attorno lanciando occhiate minacciose a tutti, persino al povero Otello che non aveva detto (e nemmeno fatto) niente di male.
-”Ammazzo tutti, Cassy?”- le chiese.
Cressida espirò rumorosamente e scosse la testa, guardando in modo truce Amleto. Odiava il suo modo saccente e fastidiosamente autoritario di porsi nei confronti di tutti, e odiava ancora di più il fatto che Fugo non le avesse dato ragione. La ragazza era più che certa di essere stata scelta come componente della Squadra solo e unicamente per fare da balia ad Andronico. Quand'è che qualcuno si sarebbe accorto di lei e del suo potenziale?
Si divincolò dall'abbraccio di Andronico e, per quanto le era possibile, gli diede le spalle. Il Pazzo le afferrò violentemente il mento con una mano e la costrinse a voltarsi verso di lui. Il gesto improvviso e inaspettato fece alzare una palpebra a Otello.
-”Io ti voglio bene, lo sai”- le disse piano. -”Tanto, tanto, tanto”-.
-”Lo so”- bofonchiò Cressida alzando gli occhi al cielo.
Andornico sorrise e si chinò a baciarla lievemente sulle labbra, liberandola poi dalla sua burbera presa. Amleto si girò verso Fugo in cerca di sostegno, ma il capo era concentrato sulla strada, il piede premuto fino in fondo sull'acceleratore e la mascella contratta. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai più perso il controllo come era solito fare quando aveva sedici anni, ma quella banda di svitati stava mettendo i suoi nervi a dura prova. Amleto si accorse dello stato d'animo di Fugo e si affrettò a borbottare una veloce scusa a Cressida. La ragazza si strinse nelle spalle e annuì.
-”Adesso, per cortesia, ho bisogno di conoscere la posizione di Mercuzio”- disse Fugo a denti stretti.
-”Hai bisogno di me, dessert ambulante?”- chiese Andornico indicandosi.
Cressida gli tirò una patta mentre Amleto spalancava gli occhi e si voltava verso Fugo, temendo uno dei suoi caratteristici scatti d'ira. Il capo strinse le mani attorno al volante così forte da farsi sbiancare le nocche. La sua pazienza, come era solito dire, aveva un limite ben definito e facilmente visibile, e quel mentecatto riusciva a superarlo con fin troppa facilità.
-”Sì...”- ringhiò.
Non ci sono per nessuno, sto dormendo”, cantilenò Otello nella sua mente.
Andronico, ignorando le occhiate disperate di Cressida e sconvolte di Amleto, si attorcigliò la treccina attorno all'indice sinistro e strinse le labbra, pensoso.
-”Forse perché della fatal quiete...?”- iniziò.
-”...Tu sei l'imago a me sì cara vieni o Sera”- completò in fretta Fugo. -”Dimmi dove cazzo è Mercuzio!”- quasi gridò battendo una mano sul volante e facendo partire un colpo di clacson.
-”Agli ordini, capo!”- scoppiò a ridere il Pazzo. Abbassò il finestrino e tirò fuori l'avambraccio, muovendo la mano nel forte vento.
Fugo si passò la punta della lingua sulle labbra e sospirò rumorosamente. Non vedeva l'ora di scendere da quella maledetta macchina e di sfogarsi su qualcuno, possibilmente su Mercuzio Zeppeli.
-”Sta parlando”- disse Andronico aggrottando la fronte. -”Ha detto che deve fare benzina”-.
-”Finalmente!”- saltò su Amleto. -”Dove si trova?”-.
-”Ha appena superato Barberino di Mugello, direzione Bologna”-.
Fugo e Amleto guardarono il cartello che indicava la prossima uscita: Barberino di Mugello, nove chilometri.
-”Lo stiamo recuperando!”- esultò Cressida.
Fugo strinse le labbra. Già, lo stavano recuperando, ma non era ancora detta l'ultima parola. Il fatto che dovesse fermarsi, però, costituiva un punto a loro favore e una grandiosa opportunità.
-”Andronico, mantieni l'aggiornamento costante”- gli ordinò Fugo.
L'avrebbe preso, fosse stata l'ultima cosa che avrebbe fatto.

 

 

Per risparmiare benzina e resistere fino alla successiva area di servizio, Mercuzio fu costretto a moderare la velocità. Vide la lancetta del contachilometri abbassarsi e sentì una morsa attanagliargli lo stomaco. Non era sicuro di essere seguito, ma aveva una paura matta di ritrovarsi Fugo Pannacotta alle calcagna; eppure non aveva altra scelta se non voleva rischiare di fermarsi in mezzo all'autostrada.
Arrivato a Rioveggio, imboccò la corsia di decelerazione per l'area di servizio. Parcheggiò di fronte all'autogrill e, a malincuore, corse in bagno; forse quella sarebbe stata la sua ultima sosta, e scolarsi l'intera bottiglia d'acqua nel giro di venti minuti non era stata una buona idea.
Anche se perdo cinque minuti non penso cambi qualcosa”.

 

 

-”Si è fermato!”- esclamò Andronico spalancando gli occhi e sghignazzando. -”E' a Rioveggio!”-.
L'abbiamo in pugno”, pensò compiaciuto Fugo.
-”Dovremmo riuscire a raggiungere quell'area di servizio in cinque minuti”- proclamò Amleto dopo aver letto un paio di cartelli e fatto qualche calcolo.
-”Tenetevi pronti”- ordinò il capo.
I quattro ragazzi drizzarono la schiena sul sedile e si esibirono in un perfettamente coordinato “Sì, signore!”.

 

 

Mercuzio, dopo essere stato in bagno e aver rubato un'altra bottiglia d'acqua, rimontò in macchina e raggiunse il benzinaio lì vicino. Spense il motore e uscì dalla Cinquecento. Per qualche strano motivo non amava farsi servire e preferiva fare rifornimento da solo. Dopo aver pagato, inserì la bocchetta della pompa di carburante nel serbatoio e attese pazientemente; nel mentre il suo sguardo vagante venne catturato da una Panda nera che era appena entrata nel parcheggio dell'autogrill.

 

 

-”E' lui, è lui!”- strillò Cressida sporgendosi in avanti e indicando forsennatamente Mercuzio in piedi accanto alla sua auto intento a fare rifornimento.
Gli occhi color ghiaccio di Amleto, nel vedere il giovane, si ridussero a due fessure taglienti e le sue labbra iniziarono a borbottare ciò che alle orecchie di Fugo arrivò come un insieme sconnesso di pesanti insulti. Il capo fermò la Panda nel parcheggio e, lasciando la chiave inserita, si slacciò la cintura e si voltò verso i passeggeri dei sedili posteriori. Notò con piacere che erano tutti operativi, compreso quello scansafatiche di Otello.
-”Che si fa?”- domandò Cressida senza distogliere lo sguardo da Mercuzio.
-”Semplice: lo uccidiamo”- rispose Amleto sistemandosi gli occhiali sul naso, un ghigno sinistro stampato sulle labbra. -”Quel figlio della merda...”- aggiunse a denti stretti.
Fugo scosse la testa; il suo ciuffo biondo ondeggiò con essa. Abbattere il bersaglio nel bel mezzo di un'area di servizio sarebbe stata una mossa troppo vistosa e assolutamente fuori dai canoni di Passione; Giorno non gliela avrebbe fatta passare liscia. Dovevano trovare il modo di eliminare Mercuzio Zeppeli in una zona poco frequentata e, possibilmente, fuori dall'autostrada. Fugo guardò uno a uno i suoi compagni, pensando a come poter sfruttare al meglio i poteri dei loro Stand.
-”Riserva”- biascicò Otello interrompendo il flusso di pensieri di Fugo. Il ragazzo dai capelli color Tiffany rispose all'occhiata interrogativa di Fugo indicando il quadro dei comandi. Nessuno tranne lui si era accorto che la Panda, così come la Cinquecento del traditore, era in riserva.
-”Cazzo...!”- disse Fugo.
Dovevano assolutamente fare rifornimento, altrimenti non sarebbero riusciti a inseguire Mercuzio, ma se si fosse avvicinato al benzinaio alla guida della Panda, il giovane moro l'avrebbe riconosciuto immediatamente.
-”Chi di voi ha la patente?”- domandò rapido.
Cressida, Amleto e Andronico alzarono la mano.
-”Tu hai la patente?!”- domandò Amleto indicando Andronico.
-”La vera domanda è: tu hai la patente?”- ribatté.
-”Cressida, alla guida”- ordinò Fugo indicando il posto del guidatore. -”Muoviti!”- la intimò scendendo dall'auto e facendo il giro per prendere il suo posto nei sedili posteriori. La ragazza, spaesata, eseguì gli ordini e si affrettò a salire sul posto del guidatore. -”Parti, vai verso il benzinaio. Amleto, non provare a incrociare gli occhi di Mercuzio, hai capito?”-.
-”Sì, capo”-.
-”Bene. Non fatevi riconoscere finché non ve lo dirò io”-.

 

 

Gli mancava una ventina di litri di carburante per terminare il rifornimento quando la Panda nera che aveva visto arrivare pochi minuti prima affiancò la sua Cinquecento Abarth. Ne uscì una ragazza sui vent'anni dai capelli mossi castani raccolti in una coda alta e da due occhi da cerbiatta. Gli si avvicinò, titubante, e, scusandosi, gli chiese aiuto per fare benzina. Mercuzio, non potendo resistere al richiamo di una donzella in difficoltà, acconsentì. Aveva un ché di familiare, ma non ci dette troppo peso.
-”Grazie davvero!”- trillò la ragazza una volta riempito il serbatoio della Panda.
Mercuzio le sorrise, ma gli angoli della sua bocca si incurvarono lentamente all'ingiù quando un uomo seduto sui sedili posteriori disse qualcosa alla ragazza e prese il posto del guidatore.
Fugo Pannacotta, una mano sul volante, gli sorrise dall'interno della Panda nera.
Mercuzio si sentì morire. Il suo incubo peggiore si era avverato: Giorno aveva mandato la Squadra della Mezzanotte al suo inseguimento. Il Boss non aveva alcuna intenzione di perdonarlo, lo voleva morto. Il corpo del giovane Zeppeli, ignorando gli ordini del cervello, balzò in macchina e accese il motore, premendo il piede sul pedale dell'acceleratore. La Cinquecento rientrò in autostrada provocando una serie di contrariate suonate di clacson.
La Panda si lanciò al suo inseguimento senza esitazione.

 

 

La prima fase del piano elaborato da Fugo prevedeva l'utilizzo di un solo Stand, quello di Cressida: 20 Years Old. Riporre fiducia nelle mani dei suoi poteri era equivalente al consegnare il proprio destino alla Dea Bendata, ma in quei pochi minuti che Fugo aveva avuto a disposizione non era riuscito a elaborare una soluzione migliore. Nella peggiore delle ipotesi avrebbero dovuto attendere cinquantacinque minuti. Una volta ottenuto un potere in particolare, avrebbero spinto Mercuzio a lasciare l'autostrada e a raggiungere un posto isolato che sarebbe diventato la sua tomba.
-”Cressida, inizia”- disse Fugo, lo sguardo puntato sul lunotto posteriore della Cinquecento bianca di fronte a lui.
La ragazza evocò il proprio Stand, ordinandogli di assumere la forma oggetto: un orologio apparve sul polso sinistro di Cressida. Nel quadrante rotondo al posto dei numeri vi erano i simboli astrologici dei dodici segni zodiacali.
-”20 Years Old, sfido il destino”- sussurrò all'orologio.
L'unica lancetta presente sul quadrante prese a girare rapidamente per poi rallentare e fermarsi sul simbolo dello Scorpione.
-”Scorpione...”- comunicò delusa. -”Adesso devo aspettare cinque minuti prima di girare nuovamente la ruota”-.
-”Aspetteremo”- disse Fugo lapidario.

 

 

Mercuzio sentiva il cuore martellare all'impazzata nel petto. Un rivolo di sudore freddo scese lentamente lungo la sua tempia destra, e il giovane se la deterse col dorso della mano tremante. Tutto il suo corpo, in realtà, era scosso da più e meno forti tremiti. Sapeva benissimo di cosa era capace Fugo Pannacotta; se fosse riuscito a raggiungerlo, Mercuzio avrebbe dovuto considerarsi morto. Il muso stondato della Panda nera faceva capolino dallo specchietto retrovisore centrale. Per quanti sforzi avesse fatto non riusciva a seminarla.
Chi erano i componenti della Squadra della Mezzanotte? Era riuscito a vedere solamente la ragazza. Dopo averci pensato un po' su, si era ricordato di lei e del particolare legame che aveva con Andronico il Pazzo.
Ci deve essere per forza anche lui”, pensò percorrendo la corsia di sorpasso a centotrenta.
E gli altri due membri chi erano?

 

 

-”...E ti pareva che non doveva essere l'ultimo segno a uscire?”- sbottò Amleto dopo un breve gridolino di vittoria emesso da Cressida. -”E' quasi un'ora che inseguiamo quel figlio della merda!”-.
Fugo non disse niente, ma sotto sotto era pienamente d'accordo con Amleto. Evidentemente la fortuna non era completamente dalla loro parte.
-”Come se fosse colpa mia!”- rispose Cressida a tono.
-”Non perdiamo tempo”- disse Fugo. -”Cressida, agisci”-.
La Panda fece una brusca accelerazione e si portò il più vicino possibile alla Cinquecento Abarth bianca per entrare nel raggio d'azione di 20 Years Old.
-”Virgo, da mihi potestatem”- recitò Cressida stendendo un braccio di fronte a sé. Il simbolo del segno zodiacale della Vergine apparve sulla fronte della giovane, e una miriade di fili sottilissimi uscirono dalla sua mano, oltrepassarono i vetri delle macchine e avvolsero il corpo di Mercuzio. -”Preso”- sussurrò la Principessa. -”Posso controllarlo per cinque minuti, ricordatevelo”-.
-”Fagli prendere la prima uscita”- ordinò Fugo.
-”Sì, capo!”-.

 

 

Il suo corpo si muoveva da solo. Mercuzio non riuscì a capire cosa gli stesse succedendo finché un raggio di sole non colpì un filo attorcigliato attorno al suo gomito. Il suo intero corpo era avvolto da una miriade di sottilissimi fili come quello. Il giovane Zeppeli provò a strattonarli e a divincolarsi, ma la loro presa era fortissima e la loro consistenza simile all'acciaio. Le sue mani scivolarono sugli indicatori di direzione e la freccia destra venne azionata.
-”Cosa cazzo sta succedendo?!”-.
I fili fecero girare il volante e la macchina imboccò l'uscita dall'autostrada in direzione La Bassa; la Panda nera lo seguì.
-”A mali estremi, estremi rimedi”- ringhiò.

 

 

-”L'ho perso!”- esclamò Cressida incredula. -”Si è liberato dai fili della Vergine!”-.
-”Fumo”- borbottò Otello.
Fugo si morse il labbro. Otello aveva ragione: Mercuzio doveva essersi trasformato in fumo per una manciata di secondi in modo tale da far perdere la presa ai fili di Cressida. La Cinquecento ingranò la quarta e sfrecciò via. Non potevano permettergli di fuggire.
-”Ci penso io!”- proruppe Amleto. Si sganciò la cintura di sicurezza e tirò completamente giù il finestrino. -”Cressida, Andronico, reggetemi per le gambe”- disse mentre sporgeva tutto il busto fuori dalla macchina in corsa.
I due gli afferrarono gli stinchi e fecero il possibile per non perdere la presa. Fugo, messa la quarta, tentò di fare meno curve possibili per non sbilanciare il compagno.
-”Nico, rendi il vento favorevole a Leto!”- gridò Cressida per sovrastare il rumore che proveniva da fuori.
-”Non ce n'è bisogno!”- disse Amleto.
Nelle sue mani apparve il suo Stand, un grosso arco riflesso unno. Il giovane tese la corda e, improvvisamente, assicurata alla cocca, si materializzò una freccia composta di luce gialla brillante.
-”Ciao ciao, figlio della merda...”- mormorò Amleto prima di scoccare la freccia.

 

 

Mercuzio sentì un fortissimo scoppio provenire dalla ruota posteriore destra dell'automobile. La Cinquecento prese una curva stretta a sinistra e la macchina, non potendo contare sull'appoggio fornitole dalla ruota posteriore, si cappottò e finì fuori strada, rotolando nella campagna per una decina di metri. L'airbag si gonfiò immediatamente e impedì a Mercuzio di prendere una testata contro lo sterzo. L'auto si fermò nel mezzo di un campo, completamente ammaccata e coi vetri in frantumi. Uno strano fumo nerastro si innalzava in colonna dal cofano accartocciato. Le portiere, bloccate, non lasciavano alcuna via d'uscita.

 

 

Fugo inchiodò la Panda sul ciglio della strada, azionò le quattro frecce e si precipitò fuori assieme ai suoi compagni. Corsero verso l'Abarth, esultando e considerando la missione ormai conclusa. Andronico spalancò la portiera dell'automobile con una folata di vento e Amleto si precipitò al suo interno, pronto a tirare fuori e riempire di pugni Mercuzio.
-”Cosa succede?”- domandò Fugo vedendo la schiena di Amleto irrigidirsi.
Il giovane dai capelli rossi si voltò verso il capo e scosse la testa.
-”Non c'è...”-.
-”Porca puttana!”- urlò Fugo pestando un piede a terra.
Mercuzio Zeppeli era riuscito a fuggire.








NOTE DELL'AUTRICE
"I don't know what to do, I don't know" ---> Et Cetera
Date le mie schifosissime skills di geografia, ho dovuto studiarmi tutto il percorso compiuto da Mercuzio su Google Maps >w< Vabbe', lasciamo perdere... 
Attenzione, attenzione! La città di La Bassa è una città fittizia inventata da AlsoSprachVelociraptor, per cui no, non esiste; posso però dirvi che è idealmente collocata vicino a Mantova (credo...).
Be', alla prossima! ^^

 

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Capitolo 10
*** I see you smiling when I close my eyes 'cause I miss you ***


Gli Hirose si trattennero dagli Higashikata fino all'una. Okuyasu li invitò a restare per il pranzo, ma la brutta cera del viso di Koichi spinse Yukako a rifiutare. La pessima faccia da poker dello psicoterapeuta non era sfuggita agli occhi dell'attenta moglie e di Josuke, il quale capì subito che Koichi doveva aver scoperto qualcosa su Celeste, qualcosa di importante e pericoloso.
Non appena la famiglia ospite se ne andò, Josuke si diresse a passo spedito in cucina e richiamò su di sé l'attenzione di Celeste, intenta a sgomberare la lavastoviglie al posto di Okuyasu. La ragazza, sentendosi osservata, sospirò e si voltò verso l'omone, tre piatti bianchi impilati sulle mani. Il suo sopracciglio sinistro scattò verso l'alto a mo' di domanda. Le improvvise apparizioni del pronipote non preannunciavano mai niente di buono.
-”Cosa gli hai fatto?”- disse Josuke a bassa voce; temeva che Okuyasu e Shizuka, usciti in giardino a giocare, potessero sentirlo dalla finestra aperta.
Celeste posò i piatti sul ripiano di marmo e si legò i lunghi capelli biondi. Ora che Yukako se n'era andata non c'era più bisogno di tenerli sciolti. Si chinò, specchiandosi allo sportello del forno e sistemandosi lo chignon scomposto. Josuke chiuse lentamente e piano la porta. Si avvicinò a Celeste e la costrinse a volgere lo sguardo verso di lui. La giovane roteò gli occhi, lamentandosi mentalmente della mancanza di tatto del pronipote.
-”Non so di cosa stia parlando”- rispose stringendosi nelle spalle.
-”Bugiarda”- sibilò Josuke a denti stretti.
Nessuno poteva permettersi di fare del male ai suoi amici e di prenderlo per il culo, nessuno. L'imponente e minacciosa figura di Crazy Diamond apparve alle sue spalle. Gli occhi rossi e bianchi dello Stand si puntarono in quelli di Celeste.
-”Il viso di Koichi è un libro aperto; sono più che certo che tu gli abbia fatto qualcosa”-.
-”Trovo molto curiosa l'iride del suo Stand”- commentò la ragazza ignorandolo e portandosi una mano al mento, avvicinandosi a Crazy Diamond. Istintivamente Josuke retrocedette di un passo e serrò la mascella. -”Un'iride a cerchi concentrici rossi e bianchi... E' molto particolare”- annuì.
-”Celeste, non osare muovere un altro passo”- sussurrò Josuke. -”Questa volta non c'è nessuno a trattenermi dallo sfondarti di botte”- la minacciò.
Celeste, dopo aver squadrato più volte Josuke, alzò le mani e mostrò i palmi in segno di resa. Aveva capito che l'uomo era prossimo a una crisi di nervi. Era stata davvero una buona idea recarsi a Morioh? Stava iniziando a dubitarne fortemente. Forse non avrebbe nemmeno dovuto mostrarsi così ostile nei confronti del signor Hirose... Si era cacciata in una brutta situazione.
Josuke, guardando la giovane in cagnesco, ingoiò il groppo che gli si era formato in gola. Più la guardava e più non poteva fare a meno di vedere nel suo volto i lineamenti di Dio Brando. Come aveva fatto Okuyasu a non accorgersi della loro somiglianza? Gli stessi capelli biondi, gli stessi lineamenti eleganti e aristocratici, lo stesso sorriso spavaldo e arrogante, gli stessi occhi...
...Rossi?”.
Da quando gli occhi da gatto di Celeste erano rossi? Era convinto fossero color ambra, non scarlatti. C'era qualcosa che non andava...
A un tratto lo Stand della ragazza si materializzò al suo fianco, disarmato; il pennacchio dell'elmo ondeggiava come mosso da un vento inesistente. Celeste sobbalzò per l'improvvisa comparsa dello Stand, mentre Josuke assunse una posizione difensiva; il suo sguardo continuava a oscillare tra la giovane bionda e la finestra alle sue spalle dove, ogni tanto, faceva la sua comparsa una spensierata e divertita Shizuka.
-”Signor Higashikata, mi duole esprimermi in un modo così irrispettoso, ma noi non possiamo lasciare codesta cittadina e la vostra abitazione”- disse la voce ovattata di Deeper Deeper.
Sia Celeste che Josuke lanciarono un'occhiata interrogativa allo Stand. Celeste sapeva che Jonathan, così come Joseph, aveva premuto molto per andare in Giappone, ma non aveva mai compreso per quale motivo si fosse impuntato così tanto. Josuke ridusse gli occhi a due fessure: finalmente lo Stand dell'intrusa era riapparso... Da giorni attendeva che si materializzasse nuovamente per poterlo studiare; aveva capito che era uno Stand dotato di una forte volontà propria.
Deeper Deeper chinò la testa verso Celeste e le indicò gli occhi. La ragazza sussultò e distolse lo sguardo da Josuke, quasi imbarazzata.
-”Vi chiedo di pazientare ancora un poco”- proseguì spingendo la sua portatrice dietro di sé. Celeste, irritata dal comportamento protettivo di Deeper Deeper, lo scansò con una spallata e tornò in prima linea, le braccia incrociate al petto e un'espressione spavalda stampata sul viso. Josuke non poté fare a meno di sbuffare rumorosamente, infastidito dall'arroganza della ragazza.
I suoi occhi adesso sono ambrati... Allora mi sono immaginato tutto?”.
-”Deeper Deeper, stai al tuo posto”- ordinò seccamente Celeste. -”Non ti azzardare mai più a intrometterti in questioni che non ti riguardano. Sei il mio Stand, ergo...”-.
-”...Non potrai ignorare la verità per sempre”- la interruppe Deeper Deeper lapidario.
Josuke rimase spiazzato dal modo in cui una semplice frase riuscì a zittire immediatamente la figlia di Dio Brando. La vide mordersi il labbro e voltarsi dall'altra parte, quasi come se si fosse dimenticata dell'esistenza di Josuke stesso e di trovarsi a un passo da una guerra civile. Deeper Deeper le posò una mano sulla spalla, ma Celeste se la scrollò malamente di dosso e lo fulminò con un'occhiataccia, alla quale lo Stand dall'elmo rinascimentale rispose con una lieve risata sommessa.
Josuke guardò quei due battibeccare e non poté fare a meno di pensare che si stessero comportando proprio come lui e sua figlia Shizuka.
Come lui... e sua figlia...?
Per un attimo Josuke si sentì mancare. Si avvicinò al ripiano di marmo e vi si appoggiò con un gomito, portandosi poi una mano alla fronte. No, non poteva assolutamente essere vero, era impossibile. Si ricordò delle parole di Celeste, quando gli aveva detto che “definire questo essere Stand è giusto e sbagliato al tempo stesso”, e scosse la testa, cercando di convincersi dell'erroneità dei suoi pensieri. Improvvisamente la voglia a forma di stella prese a bruciargli e una lieve voce rimbombò nella sua testa.
Un giorno, Josuke, saprai la verità”.
La porta della cucina si spalancò di colpo e Okuyasu e Shizuka fecero il loro ingresso.
-”E' ora di pranzo!”- esclamò Okuyasu passando accanto a Celeste e a Josuke e non notando il loro turbamento; Deeper Deeper e Crazy Diamond erano svaniti.
-”Pa', oggi pomeriggio mi accompagni al centro commerciale?”- domandò Shizuka a Josuke.
-”S-sì...”- rispose distrattamente. Si passò pesantemente una mano sul volto e incrociò lo sguardo indecifrabile di Celeste. La giovane gli diede le spalle e si affrettò ad aiutare Okuyasu nella preparazione del pranzo.
Shizuka osservò attentamente Josuke e strinse le labbra. Celeste non stava facendo altro che portare disagio e tormento alla sua famiglia. Doveva trovare il modo di cancellarla dalle loro vite, ma finché Okuyasu era dalla sua parte, ciò non sarebbe stato possibile. Perché suo padre si fidava così tanto di lei? Dannazione, era la figlia di colui che aveva portato la sua famiglia alla rovina, la causa di tutti i suoi mali!
Vincerò io, bitch...”.

 

 

 

Ogni domenica pomeriggio Okuyasu si recava in un certo posto. La sua figura solitaria era ben nota a tutti i visitatori del luogo in questione. Le sue spalle, più ricurve di quanto solitamente non fossero, sembravano trasportare tutto il dolore che Okuyasu era solito tenersi dentro; solo di domenica l'uomo permetteva ai suoi sentimenti di fuoriuscire liberamente.
Okuyasu, seduto sulla poltrona in salotto, lanciò una rapida occhiata al suo orologio da polso. Deglutì e, titubante, guardò Celeste, sdraiata elegantemente sul divano, una mano a sorreggere la testa e gli occhi ambrati svogliatamente fissati sullo schermo della televisione.
-”A volte ho delle serie difficoltà a comprendere cosa stiano dicendo”- disse la giovane indicando col telecomando una coppia di comici in televisione. -”Fanno troppi giochi di parole...”-.
Okuyasu annuì e sorrise forzatamente. Si vergognava a chiedere alla sua ospite di accompagnarlo in quel posto, ma in cuor suo sentiva di doverlo fare. Il motivo non era chiaro neppure a lui, ma sapeva che finché non lo avrebbe fatto non sarebbe stato in pace con se stesso.
-”Qualcosa non va?”- gli domandò Celeste a bruciapelo. Spense la TV e si mise seduta, portandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro. Okuyasu spalancò gli occhi dalle pupille puntiformi e scosse con veemenza la testa, quasi come se stesse cercando di convincere più se stesso che Celeste.
-”Tutto bene!”- esclamò con finto entusiasmo.
Lo sguardo indagatore della ragazza lo fece rabbrividire. Celeste si passò la punta della lingua sulle labbra e il suo sopracciglio sinistro scattò verso l'alto. Per un attimo il cuore di Okuyasu venne stretto in una forte morsa; perché sorprendersi tanto? Dopotutto Celeste era la fotocopia vivente di quell'uomo.
-”Il tuo corpo parla, Okuyasu”- gli fece notare Celeste. -”E' fin troppo evidente che tu abbia qualcosa”-.
L'uomo, colto alla sprovvista, prese a boccheggiare e a guardarsi forsennatamente attorno, come alla ricerca di un oggetto o di una persona in grado di tirarlo fuori da una situazione talmente imbarazzante e scomoda.
Forza Okuyasu, devi chiederglielo!”, si spronò.
Celeste sorrise affettuosamente e attese pazientemente che Okuyasu trovasse il coraggio per sputare il rospo. I due rompicoglioni se n'erano andati da circa un'ora e, conoscendo Josuke, non sarebbero tornati a casa prima delle sette di sera. Celeste aveva a disposizione un sacco di tempo da dedicare a quel povero disagiato di Okuyasu.
-”Seres...”- iniziò titubante. Celeste, sempre sorridendo gentilmente, lo incitò a proseguire. -”Ecco... Vorrei che mi accompagnassi in un certo posto”-.
La giovane dagli occhi ambrati alzò le sopracciglia, sorpresa. Non ci pensò su due volte e acconsentì; dopo tutto quello che era accaduto quella mattina, un po' di aria fresca le avrebbe fatto più che bene.
Okuyasu, liberatosi dal suo peso emotivo, tirò un sospiro di sollievo per poi pentirsene immediatamente: la parte più difficile e stressante doveva ancora arrivare, ma lui ce l'avrebbe fatta.
Doveva.

 

 

In tutta la sua vita Celeste non era mai entrata in un cimitero.
Guardò Okuyasu, la fronte aggrottata e le labbra socchiuse, pronta a chiedere spiegazioni. L'uomo si sistemò gli occhiali sul naso, gonfiò il petto e annuì una volta. Afferrò con decisione la mano della ragazza e oltrepassò l'alto cancello che designava l'ingresso del cimitero di Morioh. Uno stretto sentiero centrale e principalmente rettilineo tagliava a metà la collina sulla quale era stato edificato il luogo. Piccoli sentieri più stretti si diramavano da quello centrale e, lungo essi, numerose lapidi dalla forma rettangolare si innalzavano dal suolo. Okuyasu giustificò a Celeste la scarsezza di alberi dicendole che, qualche anno prima, la prefettura si era trovata costretta ad abbatterli in seguito a un improvviso picco di decessi nella città.
Sebbene il cielo fosse azzurro brillante e il sole splendesse sulla città, Celeste, nel suo svolazzante vestitino floreale, si sentiva un poco fuori luogo. Le persone a cui passavano accanto, all'apparenza sorridenti, in realtà soffrivano.
Sarò anche sfrontata e spavalda, ma un minimo di rispetto per le persone ce l'ho!”, pensò la giovane infastidita e cercando, con la mano libera, di impedire alla gonna del suo vestito dai colori vivaci di alzarsi.
Nonostante si fidasse di Okuyasu e non lo reputasse un potenziale pericolo, si sentiva irrequieta. Perché il marito del suo pronipote aveva voluto portarla al cimitero? Aveva provato a domandarglielo, ma Okuyasu aveva scosso la testa e l'aveva pregata di attendere. La stretta dell'uomo attorno alla sua mano stava diventando sempre più forte. Man mano che si addentravano nel cuore del cimitero, Celeste vedeva il volto di Okuyasu rabbuiarsi sempre di più.
La giovane dai capelli color miele stava imprecando contro il suo abito quando Okuyasu si fermò di botto e Celeste gli finì addosso.
-”Ahi...”- mormorò massaggiandosi il naso. -”Okuyasu, cos...?”-.
L'uomo, lo sguardo fisso sulla lapide di fronte a sé, fece un respiro profondo e tentò di ricacciare indietro le lacrime che gli erano spuntate agli angoli degli occhi. Si inginocchiò e congiunse le mani.
-”Aniki...”- sussurrò.
Aniki?”, ripeté Celeste nella sua testa. Le sfuggiva il significato di quella parola. Provò a leggere i caratteri incisi sulla lapide ma ogni suo sforzo si rivelò vano; in due anni di studio del giapponese non era riuscita a padroneggiare la lingua scritta e le capitava spesso di non riuscire a leggere qualche carattere, soprattutto se scritto in kanji.
-”Nijimura Keicho”- disse dopo un po' la voce di Okuyasu. -”Questa è la tomba di Keicho, mio fratello maggiore”-.
-”...Oh”- fu tutto quello che Celeste riuscì a dire. Immediatamente si inginocchiò accanto a Okuyasu e si unì alla sua silenziosa preghiera.
-”Aveva solo diciotto anni...”- mormorò Okuyasu accarezzando dolcemente la lapide.
-”Come... Come è successo?”- gli chiese la ragazza titubante.
Okuyasu sorrise debolmente e si tolse gli occhiali, passandosi il dorso della mano sugli occhi.
-”E' accaduto il giorno in cui ho conosciuto Josuke. Tu... sai cosa sono l'Arco e la Freccia?”-.
Celeste, al solo sentir nominare la Freccia, si irrigidì. Istintivamente mentì e rispose di non averli mai sentiti nominare, né l'Arco né la Freccia. Okuyasu le spiegò che erano due antichi strumenti in grado di risvegliare negli eletti il potere degli Stand.
-”Mio fratello Keicho, nell'ormai lontano millenovecentonovantanove, si era servito di quelle due reliquie per trovare un portatore di Stand in grado di uccidere nostro padre. Quasi tutti i portatori di Stand presenti a Morioh sono nati grazie a mio fratello, i coniugi Hirose compresi. Inizialmente ci siamo scontrati con Josuke, ma proprio quando finalmente eravamo riusciti a chiarirci...”-. La voce di Okuyasu si incrinò. -”...Akira lo ha ucciso sotto i miei occhi”-.
Celeste non fece domande; passò un braccio attorno al collo di Okuyasu e appoggiò la testa contro la sua spalla. Non era molto brava nel consolare le persone: quello era tutto ciò che era in grado di fare. Okuyasu, nonostante l'impaccio di Celeste, avvertì i suoi buoni intenti e sorrise tra le lacrime che avevano preso a scendergli lungo le guance.
-”Seres”- disse poi discostandosi da lei. -”Voglio che tu conosca cosa è successo alla mia famiglia perché... perché...”-. Le parole gli morirono in gola e dovette ricorrere a tutte le sue forze e al suo orgoglio maschile per non scoppiare a piangere senza ritegno. -”Io e mio fratello volevamo uccidere nostro padre perché Dio lo aveva maledetto e condannato a un'esistenza fatta di dolore e sofferenza”- disse tutto d'un fiato.
Le mani di Celeste si staccarono immediatamente da Okuyasu e la ragazza si alzò in piedi, facendo un passo indietro e socchiudendo le labbra. Okuyasu scosse lievemente la testa e la invitò a tornare a sedersi accanto a lui.
-”Prima di fare o dire qualunque cosa, ascoltami”- la pregò.
Celeste era ben conscia di quanto male suo padre avesse causato, perciò odiava quando le persone lo nominavano o si rivolgevano a lei con l'appellativo “Figlia di Dio Brando”. Lo sguardo triste ma al tempo stesso sereno di Okuyasu la convinse a tornare sui suoi passi.
-”Non ti spiegherò il modo in cui Dio ha maledetto mio padre, è una storia lunga e complicata; voglio solo che tu sappia che, per me, tu e tuo padre siete due individui diversi. Solo perché Dio ha fatto ciò che ha fatto, non significa che anche tu sia destinata a farle o abbia intenzione di farle”-.
Le parole di Okuyasu colpirono in pieno il punto debole di Celeste, e la giovane si trovò a fare di tutto per non mostrare all'uomo dai capelli sale e pepe il suo momento di debolezza. Sorrise, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Era convinta che quella persona sarebbe stata l'unica disposta ad accettarla per quello che era e a considerarla un'esistenza diversa da Dio Brando.
Okuyasu le asciugò con un pollice la lacrima che le era scivolata dall'occhio destro e le sorrise goffamente di rimando.
-”Dobbiamo imparare a guardare oltre le apparenze”- disse lanciando un'occhiata alla lapide. -”Spesso dietro una facciata rude e spietata si nasconde un cuore ferito”-.
Okuyasu non riuscì più a trattenersi e scoppiò a piangere sulla tomba del fratello, abbracciando la lapide e gridando il suo nome. Celeste gli voltò le spalle e si allontanò di qualche passo, tirando fuori dalla borsetta bianca un fazzoletto. Si asciugò gli occhi e, col sorriso sulle labbra, si maledisse per essere diventata così buona; la se stessa di due anni fa non si sarebbe mai sognata di farsi commuovere in quel modo. Strinse il fazzoletto di carta tra le mani e serrò le labbra. Non si sarebbe mai aspettata un discorso così profondo da un sempliciotto come Okuyasu. Se tutti l'avessero pensata come lui, Celeste si sarebbe risparmiata un sacco di complicazioni. Perché nessuno voleva capire che lei non aveva nessuna colpa? Il suo sorriso beffardo si spezzò quando pensò alla risposta che Jotaro avrebbe dato alla sua domanda: “Tu sei colpevole di essere nata”.
Celeste guardò la schiena di Okuyasu pervasa da forti scossoni e si sentì in dovere di fare qualcosa, di donargli un po' di felicità e di ringraziarlo per averle concesso la sua fiducia. Gli posò una mano sulla spalla e lo chiamò. Okuyasu, il volto deformato dal dolore dei ricordi, tirò su col naso e la guardò con aria interrogativa.
-”Senti... Ti piacerebbe rivedere tuo fratello?”-.

 





NOTE DELL'AUTRICE
"I see you smiling when I close my eyes 'cause I miss you" ---> My Sweet Baby
Scuuuuuusate il clamoroso ritardo ma la sessione estiva d'esami si sta avvicinando ><
Okuyasu si trova di fronte a una scelta che potrebbe causare non pochi problemi alla sua famiglia (se non addirittura all'intera città). Celeste sembra sicura delle proprie capacità: ci sarà da fidarsi? Come risponderà Okuyasu alla domanda della ragazza? *musichetta drammatica*
Nel prossimo capitolo scopriremo che fine ha fatto Mercuzio >:)
Alla prossima! ^^

 

 

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Capitolo 11
*** It's hard for me to say ***


-”Ci voleva proprio una serata del genere!”- esclamò il ragazzo moro, un po' brillo.
La ragazza alla guida della Citroen C3 grigia metallizzata sorrise senza distogliere lo sguardo dalla strada. Continuava a domandarsi come accidenti avessero fatto a reggere fino alle sei del mattino; era la prima volta in tutta la sua vita che aveva fatto chiusura in discoteca.
-”Spero tu te la sia goduta”- gli disse curvando lievemente a sinistra. -”Lo sai che prima di poter tornare a ballare passeranno dei mesi, vero?”-.
Il ragazzo allentò un poco il nodo della cravatta e annuì più volte, le palpebre pesantemente abbassate. Ogni volta che chiudeva gli occhi, gli tornavano in mente le varie immagini confuse della serata appena trascorsa. Forse avrebbe fatto meglio a rinunciare a quel terzo Negroni. La testa gli girava e il suo stomaco era sottosopra. Sicuramente non avrebbe vomitato, ma la guida di Eriol stava iniziando a dargli fastidio.
-”Eriol...”- mugugnò, una mano posata sul volto dai bei lineamenti. -”Non è che mi faresti scendere?”-.
La ragazza dai capelli castani e gli occhi verdi gli lanciò una rapida occhiata piena di disappunto e fermò la macchina nel mezzo della carreggiata.
-”Io te l'avevo detto che un terzo Negroni non...!”-.
-”Lo reggo, lo reggo”- la rassicurò Ludovico. -”Voglio solo smaltire la sbronza prima di tornare a casa...”-.
Eriol fece schioccare la lingua e alzò gli occhi al cielo. Sbloccò le portiere dell'auto e permise a Ludovico di uscire. La ragazza sapeva bene che se il loro Boss avesse visto Ludovico ridotto in quello stato li avrebbe uccisi senza pensarci su due volte.
Il giovane moro, dopo essersi messo su una spalla la giacca nera, salutò con un cenno della mano la compagna rimasta a bordo della Citroen.
-”Ci vediamo a casa”- sospirò Eriol mettendo in moto. -”Chiamami se succede qualcosa”-.
Ludovico annuì e alzò un pollice. Eriol partì e il giovane elegantemente vestito, dopo aver fatto un paio di respiri profondi, prese a camminare sul ciglio della strada. Il sole mattutino illuminava pigramente la sua schiena e nel cielo azzurro pastello non vi era alcuna nuvola. Ludovico si arrotolò fino ai gomiti le maniche della camicia bianca e si sfilò la cravatta, avvolgendosela attorno alla mano destra. Nelle sue orecchie rimbombava ancora la musica che per tutta la notte aveva ascoltato sotto la console del DJ.
-”Quando si va a ballare è un dovere sfondarsi i timpani!”- aveva detto a Eriol trascinandola sotto cassa.
Un improvviso conato di vomito costrinse Ludovico ad abbandonare la banchina e a sedersi nel bel mezzo del campo di graminacee che si estendeva a destra della strada. Si afferrò la testa con entrambe le mani e attese pazientemente che gli passasse il senso di nausea. Sentì lo stomaco contorcersi e maledisse il famigerato terzo Negroni.
La prossima volta mi limito a due Sex On The Beach”, pensò sdraiandosi supino e sospirando rumorosamente.
Si passò una mano sui capelli; storse la bocca quando si accorse che la sua acconciatura era andata a farsi benedire. Si strinse nelle spalle; la probabilità di incontrare una ragazza a quell'ora del mattino e in quel punto della strada era vicinissima allo zero percento. Dopo essersi assicurato che il suo stomaco e la sua testa fossero relativamente a posto, si alzò in piedi, si spolverò gli abiti e si avviò verso il casale di campagna nel quale abitava coi suoi compagni.
Ludovico stava per tornare sulla banchina della strada quando inciampò in qualcosa che le graminacee, alte fino ai suoi fianchi, avevano nascosto. Il ragazzo imprecò e si voltò indietro, cercando di capire cosa fosse stato a farlo inciampare. Si chinò e tastò per terra. Quando le sue mani incontrarono quello che a Ludovico parve un braccio, il ragazzo cacciò un urlo e balzò all'indietro. Aveva sentito bene? Possibile che nascosto tra le graminacee ci fosse...?
Ludovico tornò sui suoi passi e scostò le piante, portando alla luce il corpo privo di sensi di un giovane moro ricoperto di tagli e abrasioni. Immediatamente Ludovico gli posò una mano sull'addome e sospirò di sollievo quando si accorse che il suo respiro, seppure lieve, era regolare.
-”Deve sicuramente essere opera di quelli...”- mormorò ispezionando il corpo del giovane e cercando le cicatrici che quelli erano soliti lasciare. Aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra: nessuna traccia di due piccoli fori posti a distanza ravvicinata. Se non erano stati quelli a ridurlo in quello stato disastroso... Chi lo aveva fatto e perché?
Sarà meglio chiamare un'ambulanza”, pensò Ludovico estraendo il cellulare dalla tasca interna della giacca.
Poco prima che Ludovico componesse “118” sulla tastiera del touchscreen, dalla tasca dei jeans stracciati del giovane svenuto cadde il portafoglio. Ludovico, incuriosito, lo prese e lo aprì. L'ingente quantità di denaro che quell'uomo si stava portando dietro lo sorprese non poco, ma ciò che lo fece rimanere di sasso fu il suo nome. Ludovico dovette rileggere più e più volte la sequenza di lettere stampata su quella carta d'identità. Non poteva credere ai propri occhi.
-”...Porca troia”- fu tutto quello che riuscì a dire dopo essersi guardato attorno, sconvolto e spaesato. -”Porca troia!”- esclamò nuovamente.
Che si trattasse di un'allucinazione da sbronza? No, assolutamente no: quel giovane era lì, sdraiato ai suoi piedi, e la sua carta d'identità non mentiva. Doveva tornare immediatamente a casa e parlare col Boss.
Dopo essersi caricato sulla schiena il peso morto, Ludovico sparì nella grossa ombra rotonda appena comparsa sotto di lui. Il cerchio si rimpicciolì un poco e un'ombra dalla forma ovale sfrecciò a notevole velocità attraverso il campo di graminacee.

 

 

La sveglia digitale appoggiata sul comodino vicino al letto segnava le 6:45. Dalle pesanti tende bordeaux, accuratamente tirate, non filtrava nemmeno un misero spiraglio di sole mattutino. Il suo occhio destro era particolarmente sensibile alla luce. Si tirò lentamente su a sedere e con una mano tastò la superficie del comodino in cerca dei suoi occhiali da sole dalle lenti gialle a specchio. Dopo averli trovati li inforcò e scese dal letto, andando poi ad aprire le tende e a spalancare la finestra.
Cielo limpido, sole splendente e nessun cadavere abbandonato in cortile come monito. Perfetto”, pensò, annuendo compiaciuta.
Davide e Regina, se si erano attenuti agli ordini, dovevano essere rientrati intorno alle 5:30. Uscì in corridoio e andò a bussare alla porta della stanza alla sua destra. Un'assonnata ragazza dai lisci capelli di un bel castano chiaro fece capolino e, stropicciandosi gli occhi azzurri, tentò di mettere a fuoco la figura del Boss.
-”Suppongo sia andato tutto bene”- disse il Boss sistemandosi gli occhiali da sole sul naso.
-”Alla grande...”- rispose Regina cercando di tirar fuori tutto il suo entusiasmo. Le dispiaceva farsi vedere così stanca. -”Ce n'erano pochi stanotte... Due o tre”-.
-”Eliminati tutti?”-.
-”Sì Boss”-.
-”Perfetto”-.
Regina annuì lentamente e indicò col pollice l'interno della propria camera, come a dire “Se non ci sono problemi io andrei a dormire”. Zarathustra annuì e attese che la compagna chiudesse la porta prima di scendere al piano terra della villa di campagna nella quale abitava assieme a tutti i membri del suo gruppo, la Banda delle Onde Concentriche.
Nonostante non fossero ancora le sette, Zarathustra si diresse in cucina per fare colazione, ma si bloccò quando, seduto al tavolo rettangolare, vide Piero. La folta chioma viola scuro china su di un quaderno, il ragazzo non si era accorto della presenza di Zarathustra. Il Boss si domandò per quale assurdo motivo il suo compagno si trovasse lì a quell'ora del mattino. La schiena del ragazzo, ricurva in avanti, seguiva i nevrotici e frettolosi movimenti della mano destra. Improvvisamente Piero alzò la testa e si voltò di scatto verso Zarathustra.
-”Boss”- disse, la fronte corrugata in un'espressione concentratissima. -”Non ci capisco un cazzo”-.
Zarathustra fece roteare gli occhi e gli passò accanto, borbottando un “Non è un mio problema”. Era per caso colpa sua se Piero si era fatto rimandare a Economia? Di certo, in quanto studentessa del liceo classico, non poteva aiutarlo.
-”Boss! Mi prepareresti una tazza di latte e cereali?”- domandò Piero seguendo Zarathustra con lo sguardo.
-”Fattela da solo”- ribatté lei aprendo il frigorifero e posando sul tavolo il cartone del latte. -”Non sono la tua cameriera”-.
Piero chiuse il quaderno e si accasciò sulla sedia, domandandosi quando (e se mai) sarebbe riuscito a convincere il Boss a preparargli la colazione. Da qualche mese gli era venuta in mente quella fissazione e nessuno era riuscito a fargliela passare, nemmeno le brusche maniere di Zarathustra. Osservò il Boss accendere il fornello sotto la caffettiera e mettere del latte in quello strano e inutile strumento che Noemi aveva comprato all'Ikea.
-”E' quel coso che serve a fare la schiuma?”- domandò Piero.
Zarathustra annuì. Possibile che non avesse ancora imparato come si chiamasse? Noemi glielo aveva nominato talmente tante volte che il ragazzo avrebbe dovuto ormai saperlo come il proprio nome.
Piero parve intuire i pensieri del Boss e fece schioccare la lingua, alzandosi dal tavolo e prendendo una scodella dalla credenza vicino al frigorifero.
-”Lo sai che il mio cervello non registra le informazioni inutili”-.
Il tuo cervello non registra niente”, lo corresse mentalmente Zarathustra. Prese uno sgabello e lo posizionò davanti ai fornelli, sedendovisi. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia scoperte e fissò la caffettiera, come se col suo solo sguardo intenso avesse potuto accelerare l'ebollizione dell'acqua.
Era da tempo che Zarathustra non si svegliava così presto. Non aveva dormito male, ma nemmeno bene. Al suo risveglio aveva avvertito una stranissima sensazione pervadere tutto il suo corpo. Non le era mai accaduta una cosa simile, solitamente dormiva benissimo. Era forse in ansia per Davide e Regina? Impossibile, quei due insieme erano formidabili. Allora per Eriol e Ludovico, andati a ballare nonostante avesse chiaramente espresso loro la sua contrarietà? Probabile...
-”Sono tornati”- bofonchiò Piero con la bocca piena di cereali. Alzò il cucchiaio e indicò fuori dalla finestra. Zarathustra abbandonò la postazione davanti ai fornelli e si affacciò alla finestrella della cucina. Vide Eriol scendere dalla Citroen C3... da sola.
-”Dov'è Ludovico?”- domandò subito.
La ragazza, gli occhi rossi dalla stanchezza e la schiena un poco piegata in avanti, entrò in casa e raggiunse i due compagni in cucina. Si sedette pesantemente sulla sedia che Piero le aveva avvicinato con una pedata e si passò una mano sul volto.
-”Arriva”- si limitò a dire.
-”Perché non è con te?”- le domandò Zarathustra.
-”Mh, il caffè”- mormorò Eriol annusando l'aria. -”Ottima idea, Boss”-.
-”Ah, a lei la colazione la prepari e a me no? Questa me la segno!”- esclamò Piero battendo un pugno sul tavolo.
-”Eriol, perché Ludovico non è con te?”- ringhiò Zarathustra ignorando il tentativo di depistaggio della ragazza e l'inutile lamentela di Piero.
Eriol sorrise debolmente e si schiarì la voce. Era indecisa se dire la verità o raccontare una balla. Sapeva benissimo che se il Boss fosse venuto a sapere della sbronza di Ludovico, per il ragazzo sarebbero stati guai grossi.
-”Arriva subito, davvero!”- insistette guardandosi nervosamente attorno.
Piero, prevedendo ciò che stava per accadere, prese con sé la tazza di latte e cereali e si eclissò, abbandonando Eriol al suo triste destino.
Prima regola della Banda delle Onde Concentriche: mai fare arrabbiare il Boss.
-”Zara, posso spiegarti”- iniziò Eriol frettolosamente. -”Davvero, non è successo niente! Va tutto bene! Nessuno ci ha attaccati, noi non abbiamo attaccato nessuno, nessuno ha bevuto, nessuno ha...!”-.
Zarathustra alzò una mano ed Eriol si zittì di colpo, schiacciandosi contro lo schienale della sedia.
-”Nessuno ha bevuto?”- ripeté scandendo bene le parole.
Eriol spalancò gli occhi e si tappò la bocca con entrambe le mani. Si era fregata da sola. Sospirò rassegnata e rovesciò la testa all'indietro. Ludovico gliel'avrebbe fatta pagare, ne era più che certa.
Zarathustra fece schioccare la lingua e diede le spalle alla compagna. Spense il fornello e tirò giù dalla credenza due tazzine, dentro le quali versò il caffè appena preparato.
-”Ti avevo detto di controllarlo”- disse passando una tazzina rossa a Eriol.
La ragazza si tolse gli occhiali steampunk che era solita portare in testa e li appoggiò sul tavolo. Si strinse nelle spalle e bevve un sorso di caffè, bruciandosi la punta della lingua. Come facevaZarathustra a berlo come se nulla fosse?
-”L'ho fatto! Comunque, se ti può rassicurare, non è ubriaco. Lo definirei brillo”-.
-”Brillo?”-.
-”Be', sì. E' ancora in grado di intendere e di volere, di ragionare come una persona sobria, di...”-.
La comparsa di un'ombra rotonda sul pavimento della cucina fece immediatamente zittire Eriol. La ragazza si alzò in piedi e il Boss fece rapidamente il giro del tavolo, la tazzina blu di caffè ancora in mano. La testa mora di Ludovico fece capolino dal cerchio scuro e cercò con gli occhi del capo.
-”Zara, ti devo parlare”- disse in tono grave. Il suo sguardo scivolò su Eriol. -”In privato”- aggiunse.
-”Mi sento offesa”- commentò la ragazza alzando il mento e bevendo un altro sorso di caffè.
-”Nella Sala dei Raduni”- ordinò Zarathustra indicando il locale con un cenno del capo. -”Eriol, non fare avvicinare nessuno fino a nuovo ordine”-.
-”Ricevuto”- rispose prontamente la ragazza castana.
Ludovico annuì e scomparve nella propria ombra. Il disco nero salì sulla parete e uscì dalla cucina seguito a ruota da Zarathustra. La situazione puzzava, e parecchio. Cosa poteva spingere Ludovico a chiederle una sorta di udienza privata? Sicuramente c'era da preoccuparsi, e tanto.
La Sala dei Raduni era il salone nel quale i membri della Banda erano soliti riunirsi convocati da Zarathustra. Un enorme tappeto costeggiato da un paio di divani antichi occupava il centro della sala; vari mobili vecchi e un televisore non troppo recente posizionato nell'angolo della stanza facevano intuire che gli abitanti del casale non avessero molta voglia di dare una sistemata alla loro grande abitazione. Quando Zarathustra entrò nella Sala, trovò Ludovico accucciato su un corpo esamine steso sul tappeto. Il Boss chiuse la porta alle proprie spalle e raggiunse a grandi passi l'amico d'infanzia.
-”Ludovico, spiegami immediatamente cosa sta succedendo”- ringhiò stringendo i pugni lungo i fianchi. Un estraneo dentro la sua casa? Innammissibile.
Ludovico si passò una mano tra i capelli un poco scarruffati e strinse le labbra, palesemente a disagio. Non sapeva da che parte cominciare.
-”Perché hai portato questo tizio a casa?”- domandò Zarathustra spazientita.
-”L'ho trovato in mezzo a un campo”- mormorò Ludovico.
-”Ti ho chiesto un'altra cosa”- gli fece notare duramente.
Ludovico lanciò un'occhiata al giovane svenuto, si tolse la giacca e la usò per coprire il suo torso nudo ricoperto di ferite. Zarathustra seguì le mosse del compagno con uno sguardo scettico e nascosto dalle lenti a specchio degli occhiali. Calò un pesante silenzio in cui l'impazienza e l'irritazione del Boss si facevano, secondo dopo secondo, sempre più palpabili e tangibili. Ludovico gettò lo sguardo a terra e deglutì. Dal momento che non riusciva a trovare le parole adatte per svelare al Boss l'identità del giovane moro, estrasse dalla tasca dei pantaloni il portafoglio del ragazzo e glielo lanciò. Zarathustra lo afferrò al volo e se lo rigirò tra le mani, le labbra arricciate in una smorfia di puro disappunto.
-”Adesso ti sei messo a borseggiare la gente?”- domandò rude.
-”Guarda la carta d'identità”- le disse Ludovico, la voce che gli tremava.
Zarathustra sospirò e cercò il documento. Senza leggere il nome stampatovi sopra, lo aprì e si trovò a intrecciare lo sguardo di un ragazzo di bell'aspetto dai capelli neri tirati all'indietro; le sue labbra erano incurvate in un malizioso sorriso sghembo e i suoi occhi verde smeraldo lasciavano trapelare una certa furbizia e coscienza di sé che non sfuggì allo sguardo indagatore di Zarathustra. La firma sotto la fotografia era praticamente illeggibile, così la ragazza si spostò sull'altra pagina della carta d'identità.
-”Mercuzio...”- lesse ad alta voce. Aggrottò le sopracciglia. -”Che nome di merda”- commentò poi. -”Mercuzio...”-.
Le sue mani si irrigidirono di colpo e le sue labbra si socchiusero un poco. Le si bloccò il respiro e per un attimo fu certa che il cuore avesse smesso di battere. Alzò lentamente lo sguardo dal documento e incontrò il volto sconvolto di Ludovico. Il ragazzo si strinse lievemente nelle spalle e scosse la testa.
-”A quanto pare neppure tu sai qualcosa...”-.
No, doveva aver letto male. Si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi. Lesse nuovamente il cognome del giovane e poi abbandonò le braccia lungo i fianchi.
-”Zara, avevi detto di essere l'ultima”- sussurrò Ludovico.
Zarathustra De Luna, bisnipote di Caesar Anthonio Zeppeli, non rispose. Attraversò la Sala e si sedette sul divano. La carta d'identità le scivolò dalle dita, finendo per terra. La ragazza si passò una mano tra i capelli corvini e lanciò un'occhiata spaesata a colui che, a quanto pareva, era un membro della sua famiglia: Mercuzio Zeppeli.








NOTE DELL'AUTRICE
"It's hard for me to say" ---> Pierce
Ed ecco finalmente che i membri della Banda delle Onde Concentriche fanno la loro apparizione! Ricordatevi che tutti i membri della Banda sono Ocs di AlsoSprachVelociraptor, già presenti nella sua fanfiction "Dangerous Heritage". Ho già fatto il discorso a inizio "Mighty Long Fall", per cui non lo rifarò >w< 
Nel prossimo capitolo sapremo quale risposta Okuyasu ha dato a Celeste >:)
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 12
*** What we finally found wasn't what we wanted ***


Sul momento Okuyasu non comprese ciò che le labbra della bella Celeste avevano pronunciato. Strinse gli occhi e inclinò la testa di lato. Si alzò in piedi, si passò il dorso della mano sulle guance e inclinò la testa dall'altra parte, come un cane.
-”Non ho capito”- disse sinceramente.
Celeste pensò di sfruttare quell'attimo di incomprensione per tornare sui suoi passi. Non era del tutto convinta che restaurare un altro quadro fosse una buona idea; l'ultima volta che l'aveva fatto era successo un casino, un grandissimo casino. Ma erano passati due anni, e lei adesso si sentiva pronta e sicura delle proprie capacità. Sarebbe riuscita a gestire la situazione, ne era certa.
Prese Okuyasu a braccetto e, lentamente, lo guidò verso l'uscita del cimitero di Morioh. L'uomo dai capelli brizzolati non oppose resistenza, e attese pazientemente che Celeste riprendesse la parola. Rivedere suo fratello? Aveva davvero detto questo?
Il duo attraversò la strada e si sedette all'ombra della fermata dell'autobus. Celeste aveva deciso di tornare a casa il più rapidamente possibile e Okuyasu, come in un tacito accordo, non aveva ribattuto.
Quando la vecchietta dal vestito viola, l'unica persona presente alla fermata oltre a Celeste e Okuyasu, salì sull'autobus diretto al centro commerciale, la ragazza dagli occhi ambrati accavallò le gambe. Si lanciò una rapida occhiata attorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno nelle vicinanze e si schiarì la voce.
-”Il mio Stand, Deeper Deeper, possiede l'abilità di... giocare con i ricordi”- iniziò a spiegare a bassa voce.
Okuyasu, capendo che si stava trattando di un discorso delicato, tentò di farsi piccolo piccolo e di avvicinarsi a Celeste il più possibile. Mentre le sue orecchie erano tese verso la ragazza, dietro la montatura blu i suoi occhi perlustravano la strada.
-”Tra le tante cose che può fare rientra il riportare in vita i morti per un lasso di tempo determinato”-.
-”Stai scherzando?!”- scattò in piedi Okuyasu.
Celeste spalancò gli occhi e lo invitò a tornare a sedere e ad abbassare la voce, ma... Come poteva calmarsi?! Quella ragazza gli aveva appena detto di possedere il potere di resuscitare le persone morte! Resuscitare le persone morte!
-”Signor Nijimura, per cortesia...!”- sibilò Celeste afferrando Okuyasu per i pantaloni e costringendolo a mettersi a sedere. Si guardò attorno, spaventata dall'eventualità che la vociona di Okuyasu avesse richiamato l'attenzione di qualcuno. Fortunatamente la strada era ancora deserta e il loro autobus stava per arrivare. -”Ce la fai a mantenere la calma finché non saremo arrivati a casa?”- gli domandò preoccupata.
Okuyasu boccheggiò e poi annuì, prima lentamente, poi con sempre più voga.
Il duo montò sull'autobus. Okuyasu si attaccò al finestrino, le mani spalmate sul vetro, e, con occhi sognanti, osservò il cimitero sparire dietro la curva. Avrebbe rivisto suo fratello maggiore; Celeste l'avrebbe fatto tornare in vita per lui. Si voltò di scatto a guardare la ragazza italiana, la quale rispose alla sua occhiata sorridendo debolmente e forzatamente; spesso i comportamenti del coniuge Higashikata la mettevano in imbarazzo.
-”Okuyasu”- gli disse una volta scesi dal mezzo pubblico e rientrati in casa. -”Sediamoci in salotto e permettimi di spiegarti come fun...”-.
Celeste non riuscì a terminare la frase perché Okuyasu si fiondò a sedere sulla poltrona, la schiena dritta come un manico di scopa e gli occhi sgranati più del solito. La giovane, intenerita, non riuscì a fare a meno di sorridere sinceramente. Si sedette sul divano e si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro. Okuyasu seguì attentamente tutti i suoi movimenti, anche il più insulso e minimo.
-”Deeper Deeper può riportare in vita una persona per un lasso di tempo pari a ventiquattro ore. Trascorso questo tempo, l'individuo resuscitato svanirà. Questa abilità si chiama “Restauro” e non può essere utilizzata più di una volta su una stessa persona”-.
-”P-Posso trascorrere un'intera giornata con mio fratello?”- domandò Okuyasu eccitato.
-”Ventiquattro ore”- ribadì Celeste. -”Se Keicho venisse resuscitato oggi alle, che so, cinque del pomeriggio, se ne andrebbe domani alle cinque del pomeriggio”-.
Silenzio.
Okuyasu scattò in piedi e si fiondò verso Celeste, la quale, d'istinto, si schiacciò contro lo schienale del divano. L'uomo le afferrò con forza le mani e se le portò al largo petto. Gli occhi velati di lacrime, Okuyasu tirò su col naso, le labbra che gli tremavano dall'emozione.
-”Fallo!”- quasi gridò. -”Ti supplico, fallo subito!”-.
Celeste sospirò lievemente e si liberò con gentilezza dalla presa disperata di Okuyasu. Ne era certa: il marito del suo pronipote non avrebbe esitato un secondo a chiederle di riportare in vita il suo amato fratello.
-”Lo farò, ti farò rincontrare Keicho, ma nessuno dovrà venire a conoscenza di ciò”-.
Okuyasu corrugò la fronte. I felini occhi ambrati di Celeste sembravano non ammettere repliche.
-”Durante le ventiquattro ore, a Keicho non sarà permesso uscire da questa casa, se non adeguatamente travestito; in più, tua figlia e tuo marito non dovranno mai venire a sapere di lui”-.
-”Stai... Stai scherzando?”- chiese Okuyasu, tutto il suo entusiasmo svanito nel nulla.
Celeste scosse la testa, seria e un poco dispiaciuta. Sapeva bene che Okuyasu non vedeva l'ora di girare per Morioh col fratello al seguito, ma era una quotidianità che il signor Nijimura non poteva permettersi: ne andava della sicurezza di Celeste.
-”Cosa credi che accadrebbe se qualcuno riconoscesse Keicho? Come pensi che reagirebbe Josuke se si trovasse davanti tuo fratello? L'avete visto morire coi vostri occhi, ricordi?”-.
Okuyasu si accasciò sulla poltrona e incurvò la schiena in avanti, appoggiandosi coi gomiti sulle ginocchia.
-”Io... Io volevo che Aniki conoscesse la mia famiglia, che vedesse come è cambiata Morioh, che sapesse che...”-. Si bloccò, il pensiero appena corso a suo padre. -”Seres, non posso”-.
Celeste si morse il labbro e gettò lo sguardo a terra, pensosa. Doveva trovare un compromesso, un modo per venire incontro alle richieste di Okuyasu senza però rischiare di far scoppiare un putiferio. Ovviamente l'unica soluzione era ricorrere alla “Modifica” o alla “Distruzione” di Deeper Deeper. Poteva però ridurre il numero di ricordi coinvolti? Certamente, sarebbe bastato convincere Okuyasu e suo fratello a uscire di casa travestiti. In quel modo le uniche persone su cui si sarebbe dovuta concentrare l'azione di Deeper Deeper sarebbero stati quel frocio di Josuke e la sua irritante figlia. Così le cose potevano funzionare...
-”D'accordo: riporterò in vita Keicho, Josuke e Shizuka potranno vederlo, potrete uscire di casa se e solo se io avrò approvato i vostri travestimenti, e... al termine delle ventiquattro ore modificherò i ricordi di Josuke e Shizuka. Nessuno deve venire a conoscenza di questa mia abilità”-.
-”Ma così non si ricorderanno di mio fratello!”- ribatté subito Okuyasu con un tono di voce lagnoso.
-”Hanno tentato di uccidermi per colpa dei poteri del mio Stand”-.
Okuyasu si zittì subito e, per la prima volta da quando l'aveva incontrata, di domandò chi in realtà fosse Celeste Giosta. Aveva detto loro di essere la prozia di Josuke, la sorellastra di Giorno, la figlia di Dio... Ma in tutto ciò c'era qualcosa che non quadrava. Pensandoci bene, il suo Stand era davvero pericoloso, e il fatto che Jotaro le avesse permesso di vivere tranquillamente come più le pareva e piaceva risultava alquanto strano. Anni prima il famoso biologo marino aveva condannato a morte Pucci e i tre figli di Dio, risparmiando solo Giorno; perché aveva risparmiato anche la vita di Celeste? Col suo Stand avrebbe potuto far resuscitare...
Lentamente, Okuyasu si alzò in piedi, gli occhi puntati in quelli di Celeste.
-”Seres, Jotaro non sa che tu esisti, vero?”-.
L'inaspettata domanda a bruciapelo fece vacillare la sicurezza della giovane dai capelli color miele.
-”Lo sa”- mentì.
-”Gli hai modificato i ricordi?”-.
-”No”-.
-”Lo giuri?”-.
-”Lo giuro. Se non mi credi puoi sempre telefonargli”- disse indicando con un cenno del capo il telefono di casa.
Okuyasu parve rincuorato dall'ostentata sicurezza di Celeste, e sospirò di sollievo. Dannazione, per un attimo aveva pensato di aver riposto la sua fiducia in una criminale. Che idiozia! Celeste non era una bugiarda.
Porca di quella puttana”, pensò la giovane mordendosi l'interno della guancia. Se persino quel sempliciotto di Okuyasu stava iniziando ad avere qualche dubbio, significava che nella sua copertura si stava creando qualche falla. Doveva forse dare inizio a un'operazione su larga scala di modifica dei ricordi?
Cazzo, Hirose!”.
Si era completamente dimenticata di Koichi! E se avesse già contattato Jotaro?
Merda, merda, merda, merda, merda!”, pensò alzandosi in piedi e facendo finta di controllare i messaggi sul cellulare.
-”Ho una piccolissima commissione da sbrigare. Mi assenterò per poco tempo. Nel mentre rifletti su cosa vuoi che io faccia”- disse a Okuyasu prendendo la sua borsetta e dirigendosi a passo spedito verso la porta di casa.
Okuyasu tentò di fermarla per dirle che aveva già deciso, che voleva rivedere Keicho a tutti i costi e che era pronto ad accettare i compromessi, ma Celeste se ne andò rapidamente in uno svolazzare di vesti floreali.

 

 

Il telefono di casa non era sicuro. Yukako avrebbe potuto origliare la telefonata e scoprire tutto. Josuke era stato categorico: meno persone sapevano di Celeste e meglio era. Persino sua moglie, in realtà, non avrebbe dovuto conoscere la ragazza.
Koichi raggiunse il telefono pubblico che si trovava in fondo alla via in cui abitava e inserì le monete nell'apparecchio. Compose il codice per abilitare le chiamate extra-continentali e attese che il centralino reindirizzasse la chiamata al numero da lui dettato. Volse le spalle al telefono verde scuro, guardando la strada con occhi pieni di tensione.
-”La sua chiamata è stata reindirizzata con successo”- disse una voce di donna registrata. -”La preghiamo di rimanere in attesa”-.
Koichi prese a saltellare nervosamente sul posto. Jotaro doveva sapere cosa stava succedendo a Morioh. La vita di tutti era in pericolo.
-”Pronto?”- disse la voce profonda e atona di Jotaro dall'altro capo del telefono.
-”S-Signor Jotaro!”- gridò Koichi spiaccicandosi la cornetta verde all'orecchio. -”E' successa una cosa terribile! La discendenza di Dio non è...!”-.
-”Chiamata terminata”- proclamò la solita voce registrata.
Koichi si sentì mancare. Stava avendo un terribile déja-vu. Si voltò lentamente e sbiancò quando vide il dito di Celeste premuto sul gancio della cornetta del telefono.
-”L'avevo avvertita, signor Hirose”- disse sorridendo malignamente.
Deeper Deeper allungò le mani e afferrò la testa di Koichi. Un quadro fluttuante apparve sopra l'uomo.
-”Fermo”- ordinò Celeste al proprio Stand. Guardò Koichi svenuto e socchiuse gli occhi. -”Non modifichiamogli la memoria. Voglio che si ricordi che il suo patetico tentativo è stato vanificato”-.
Deeper Deeper liberò Koichi dalla sua presa e lo adagiò a terra.
-”Mi serve il catalogo della mostra di Jotaro”- proclamò Celeste tendendo una mano verso il proprio Stand.
Deeper Deeper lo fece apparire e Celeste lo sfogliò rapidamente fino ad arrivare all'ultima pagina nella quale era raffigurato il ricordo della brevissima conversazione appena avuto col signor Hirose. Come aveva potuto dimenticare che quel piccolo uomo sapeva la verità?
-”Distruggilo”- ordinò indicando la foto del quadro.
Deeper Deeper prese dalle mani di Celeste il catalogo della mostra e tracciò con l'indice della mano destra una “x” sul dipinto. Il quadro si fece via via sempre più sbiadito, fino a scomparire. Celeste, che aveva assistito all'operazione sbirciando oltre il braccio dello Stand, tirò un sospiro di sollievo.
-”Dobbiamo riaccompagnare a casa il signor Hirose”- disse Deeper Deeper guardando Koichi steso a terra.
Celeste si sistemò la frangetta sfilacciata e si strinse nelle spalle.
-”Non ci penso nemmeno”- sbottò incamminandosi verso casa Higashikata. -”Ho cose più importanti a cui pensare. Quel piccoletto se l'è cercata”- aggiunse a denti stretti.
-”La signora Hirose sarà preoccupata”-.
-”E fa bene!”-.
-”I suoi figli ugualmente”- insistette Deeper Deeper fluttuando attorno alla ragazza.
Celeste, spazientita, piantò i piedi per terra e puntò un dito contro il petto di Deeper Deeper.
-”Tu sei il mio Stand”- ringhiò a bassa voce. -”Non hai il diritto di discutere le mie decisioni. E' chiaro?”-.
Deeper Deeper non rispose. Il pennacchio del suo elmo ondeggiava nell'aria immobile. Si portò una mano sul cuore, fece un breve inchino e svanì. Celeste pestò un piede per terra e, furibonda, si incamminò verso casa, dove in trepidante attesa la stava aspettando Okuyasu.

 

 

-”Seres!”- tuonò allegro Okuyasu non appena la giovane dai capelli color miele mise piede in casa. Le corse incontro e prese a contorcersi dal nervosismo le grosse mani. Non gli interessava sapere dove avesse trascorso l'ultima mezz'ora; voleva solo che lei mantenesse la promessa fattogli poco tempo prima.
Celeste appese la sua borsetta all'appendiabiti situato all'ingresso e sorrise. Fece una breve strizzatina d'occhio a Okuyasu e gli ordinò di seguirla in cucina. Faceva troppo caldo, aveva bisogno di qualche attimo per riprendersi.
-”Allora, sei sicuro e convinto della tua scelta?”- gli domandò aprendo la credenza e prendendo un bicchiere di vetro. Lo riempì quasi fino all'orlo di acqua ghiacciata e osservò attraverso di esso Okuyasu annuire con vigore; per poco gli occhiali non gli caddero per terra.
Celeste, bevendo lentamente e a piccoli sorsi, tentò di farsi forza. Aveva la situazione sotto controllo, sarebbe riuscita a far contento il signor Nijimura senza causare troppi danni. Negli ultimi due anni era riuscita a migliorare nel controllo del proprio Stand; aveva inoltre scoperto i suoi punti di forza e i suoi limiti.
Andrà tutto bene”, pensò posando il bicchiere sul ripiano di marmo.
-”Okuyasu, portami in una stanza che potrebbe mettere tuo fratello a suo agio”-.
L'uomo dai capelli brizzolati non se lo fece ripetere due volte. Con poco garbo afferrò Celeste per un braccio e la strascinò al piano di sopra, salendo gli scalini a due a due. Celeste non fiatò. Okuyasu spalancò una porta e introdusse la ragazza in un'ampia camera visibilmente da bambina, dalle pareti lilla tappezzate qua e là da piccoli fiorellini bianchi; i costosi mobili candidi facevano risaltare il motivo delle pareti e la luce soffusa che filtrava dalle leggere tende bianche dava all'ambiente un'aura gentile e innocente.
Tutto il contrario di quel tegame di Shizuka”, si ritrovò a pensare Celeste.
-”Questa è la camera da letto di mia figlia”- spiegò Okuyasu confermando i pensieri della giovane bionda. -”Anni e anni fa apparteneva a Keicho”-.
Celeste si guardò intorno e arricciò le labbra: era sicurissima che Keicho non sarebbe stato contento di vedere la sua stanza ridotta in quello stato. Si voltò e fece per esternare il proprio parere a Okuyasu, ma gli occhi sgranati e impazienti dell'uomo la zittirono immediatamente. Già, Okuyasu aveva ragione: non c'era altro tempo da perdere. Celeste si schioccò il collo e fece un respiro profondo.
Si comincia”.
-”Deeper Deeper”- disse con voce ferma.
Lo Stand apparve al suo fianco e si sistemò i guanti. La giovane invitò Okuyasu a farsi avanti. L'uomo obbedì docilmente e, curioso, osservò lo Stand dall'elmo rinascimentale posargli una mano sulla testa; poi, improvvisamente, tutto attorno a lui divenne buio.
Celeste guardò con un certo distacco il corpo massiccio di Okuyasu accasciarsi a terra. Lanciò una rapida occhiata a Deeper Deeper e lo Stand, senza che la sua portatrice proferisse parola, la fece accedere alla mostra privata di Okuyasu Nijimura. Era da parecchio tempo che Celeste non metteva piede dentro una pinacoteca. Quei muri bianchi e tappezzati di dipinti la misero profondamente a disagio. Deeper Deeper le posò una mano sulla spalla e gliela strinse lievemente.
-”Avanti... Prima troviamo il quadro e prima ce ne andiamo”- disse a bassa voce, più a se stessa che allo Stand.
Non fu per niente difficile: il quadro raffigurante Keicho Nijimura era lì, al centro della parete principale, appeso lievemente più in alto rispetto agli altri. Deeper Deeper lo staccò dal muro e vi ci immerse il braccio fino alla spalla.
-”Codesta volta andrà meravigliosamente”- disse la voce ovattata di Deeper Deeper prima che la pinacoteca scomparisse e Celeste si riprendesse nella camera di Shizuka.
La giovane si alzò immediatamente in piedi e corse a chiudere la porta. Delle due figure stese per terra, nessuna sembrava voler riprendere conoscenza. Colui che rispondeva al nome di Keicho Nijimura, stava sdraiato prono, le braccia abbandonate sopra la testa, la gamba sinistra lievemente piegata e il viso rivolto verso destra, verso la finestra. Celeste, dopo aver scrollato Okuyasu e tentato di svegliarlo, si avvicinò quatta quatta a Keicho. Si chinò su di lui e lo osservò da vicino, meravigliandosi del biondo dei suoi capelli, un colore alquanto insolito per un giapponese.
Le folte sopracciglia del ragazzo tremarono un poco e Celeste balzò all'indietro quando, improvvisamente, si ritrovò a fissare un paio di occhi verdissimi sbarrati.
-”O-Okuyasu...”- provò a chiamare l'uomo mentre Keicho si tirava lentamente su in piedi. -”Okuyasu, svegliati!”-.
-”Donna”- tuonò Keicho. Celeste si irrigidì e lentamente volse lo sguardo verso di lui. Il ragazzo, alto qualche centimetro più di Okuyasu, aveva un'aria tutto fuorché amichevole. -”Io... Io ti conosco...”- disse lentamente e socchiudendo gli occhi.
Celeste si schiarì la voce e tentò di apparire calma.
-”Keicho Nijimura... Ricordi cosa ti è successo?”- gli domandò.
Keicho ignorò la sua domanda. Pensoso, si portò una mano al mento e squadrò Celeste da capo a piedi più volte. Sembrava non essersi reso conto che l'uomo disteso per terra accanto alla giovane era suo fratello.
A un tratto Keicho spalancò le braccia e scoppiò a ridere. Una distesa di soldatini verde militare si materializzò ai propri piedi, accompagnati da sette carri armati e quattro elicotteri Apache in volo.
-”E così quel maledetto infame si è riprodotto...!”- disse.
Celeste, per la prima volta in tutta la sua vita, avvertì l'impulso di scappare. Non aveva mai sentito un impulso omicida così forte. Sentì le gambe diventare gelatina e fece di tutto per non crollare a terra. Cos'era che la terrorizzava così tanto?
Keicho le puntò un dito contro e la sua espressione si fece improvvisamente dura.
-”Preparati a essere crivellata di colpi, figlia di Dio!”- gridò.

 

 

 


NOTE DELL'AUTRICE
"What we finally found wasn't what we wanted" ---> Stuck in the Middle
Siccome mi mancava pochissimo per finire questo capitolo, mi sono imposta di mettermi a scrivere dopo cena; alla fine ce l'ho fatta :>
EH. Evidentemente il casino scoppiato con Bucciarati non le è bastato e Celeste ha deciso di fare un'altra cazzata riportando in vita Keicho. Speriamo che la villa degli Higashikata, ex residenza Nijimura, non faccia una brutta fine! *ride*
Nel prossimo capitolo vedremo Mercuzio alle prese con un gruppo di ragazzi che nascondono un "certo" segreto. La Squadra della Mezzanotte, nel mentre, cosa starà facendo?
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 13
*** Creeping shadow right behind me ***


Le fiamme stavano divorando l'enorme sala dalle pareti bianche e la ragazza dai capelli color miele, avvolta da un turbine di fuoco, stava piangendo.
Come sempre.
Mercuzio sapeva benissimo cosa sarebbe successo: la ragazza gli avrebbe detto addio, lui le avrebbe risposto che l'avrebbe trovata, e infine si sarebbe svegliato in un bagno di sudore e con le palpitazioni a mille. Era il suo dannato sogno ricorrente, lo conosceva a memoria.
Ma quella volta qualcosa cambiò.
Prima che la giovane senza nome potesse salutarlo, un ragazzo alto, muscoloso e dai capelli bluastri apparve alle spalle di lei; le fiamme si separarono per farlo passare.
-”La troverai”- disse a Mercuzio, gli occhi blu carichi di una profonda convinzione.

 

 

Mercuzio si svegliò di soprassalto. Spalancò gli occhi e si riempì i polmoni d'aria. Il suo sguardo, già turbato dal sogno appena interrotto, divenne ancora più sconvolto quando il giovane si rese conto di trovarsi sdraiato sul tappeto di un ambiente a lui sconosciuto. Qualcuno gli aveva coperto il torso con una giacca nera che non era la sua.
-”...Quindi cosa facciamo?”- disse una voce maschile terminando un discorso.
Mercuzio si pietrificò. Che la Squadra della Mezzanotte fosse riuscita a catturarlo e lo avesse trascinato in un posto sperduto e dimenticato da Dio? Stando alle condizione del soffitto, quella sala non sembrava aver ricevuto molte cure. Sentì il cuore scoppiargli nel petto e tentò di ricorrere ai poteri di Chaosmyth per tramutarsi in fumo e scappare, ma il suo fisico era troppo danneggiato; non aveva la forza nemmeno per muovere un dito.
-”Dobbiamo fornirgli assistenza medica. Sistemare le sue ferite, controllare che non abbia nulla di rotto... Portalo nella camera libera al piano di sopra, quella accanto alla stanza di Alex”- rispose dopo un po' una seconda voce, autoritaria ma dal sesso indefinibile.
Assistenza medica? Volevano aiutarlo? Allora quelle due persone non facevano parte della banda di Fugo. Chi diavolo erano? Il loro non era un accento napoletano, ma palesemente del nord. Dov'è che si trovava quando la Squadra era riuscita a raggiungerlo? Lombardia... La Bassa... No, i due individui che si trovavano nella sala con lui non erano membri della Squadra della Mezzanotte. Forse, però, erano membri esterni di Passione, subordinati inter-regionali! Allora perché volevano curarlo?
-”Non sarebbe più logico portarlo al pronto soccorso?”- domandò la prima voce, quella maschile.
-”No. Questo è un affare di famiglia”- tagliò corto l'altra. -”Ho bisogno di scambiare due parole con lui il prima possibile”-.
Un affare di famiglia?”, pensò il giovane Zeppeli accigliato. “Che cosa vorrà dire?”.
Mercuzio, dopo qualche ultimo attimo di esitazione e incertezza, si schiarì la voce.
-”Sono a vostra completa disposizione”- disse un po' a fatica.
Ludovico e Zarathustra, colti alla sprovvista, sobbalzarono, si lanciarono un'occhiata stupita e si voltarono verso il giovane moro ancora steso per terra. Mercuzio tentò di tirarsi su a sedere, ma i suoi addominali protestarono vigorosamente e lo costrinsero ad abbandonare l'impresa. Ludovico lo vide provare a rialzarsi e ricadere a terra con un'imprecazione in dialetto napoletano. Cosa diamine era venuto a fare un napoletano in una città sperduta e poco famosa come La Bassa?
Con un secco cenno del capo, Zarathustra ordinò a Ludovico di spostare il ferito sul divano. Il ragazzo si chinò su Mercuzio per aiutarlo ad alzarsi e a spostarsi, ma questo scosse la testa.
-”Orgoglio maschile”- si giustificò trattenendo a stento un gemito di dolore.
Forse si era stirato qualche muscolo. Gli arti erano ricoperti di tagli, abrasioni e grossi ematomi. Fortunatamente non si era rotto niente, ma il quasi mortale giro su quella giostra che fino a poco tempo prima era stata la sua macchina lo aveva ridotto piuttosto male.
Raggiunse il divano e ci si accasciò sopra, sospirando rumorosamente sotto lo sguardo vigile di Zarathustra. La ragazza si sistemò gli occhiali sul naso e incrociò le braccia al petto. Mercuzio la squadrò, non riuscendo a capirne il sesso. I lineamenti del viso erano gentili, ma i suoi vestiti non lasciavano intravedere nessuna curva. Dietro le lenti gialle a specchio, gli occhi di Zarathustra erano ridotti a due fessure.
-”Abbiamo trovato la tua carta d'identità”- iniziò il Boss. -”Il tuo nome è Mercuzio Zeppeli. Napoletano, nato il nove aprile del millenovecentonovanta, alto un metro e ottantatré... Cosa ti porta a La Bassa?”-.
Un timbro di voce ambiguo e un fisico altrettanto ambiguo. Possibile che non riuscisse a definire il sesso di quella persona? Ormai era diventata una questione di orgoglio.
Ludovico notò lo sguardo assente di Mercuzio.
-”Forse è ancora in stato confusionale”- sussurrò all'orecchio di Zarathustra. -”Non credo sia una buona idea iniziare adesso l'interrogatorio”-.
Zarathustra, in tutta risposta, fece schioccare la lingua.
-”Sono una femmina”- disse.
Ludovico spalancò gli occhi blu, mentre Mercuzio alzò le sopracciglia e scoppiò a ridere. La sua risata venne però subito spezzata da una fitta alla gabbia toracica.
-”N-Ne hai di strada da fare... segnurina”-.
La ragazza mora alzò un poco il mento.
-”Al momento ho altre priorità”-.
Mercuzio annuì e provò a sdraiarsi sul divano. Pessima idea. Strinse i denti e si rimise seduto, appoggiando la schiena dolorante allo schienale imbottito. Ludovico lanciò un'occhiata di sottecchi al Boss: era chiaro come il sole che non avrebbe lasciato in pace quel povero ragazzo finché non avrebbe avuto in mano più informazioni possibili su di lui. Zarathustra sentì lo sguardo contrariato di Ludovico sulle proprie spalle.
-”Esci”- si limitò a dire.
-”...Scusa?”- domandò il ragazzo incredulo.
-”Lasciami sola con... Mercuzio”-.
-”Zara, non penso sia una buona idea...”- iniziò Ludovico.
-”Vai”- sibilò il Boss.
Ludovico strinse i pugni lungo i fianchi. Si sentiva oltraggiato. Cos'era, Zara non si fidava di lui? Voleva parlare con quel belloccio di qualche argomento segreto che nessuno, neppure il suo amico d'infanzia, doveva venire a sapere? Si chinò a raccogliere la sua giacca e se la mise su una spalla. Col cavolo che l'avrebbe lasciata a quel tipo! Tanto sembrava a suo agio a petto nudo.
Mercuzio notò le occhiatacce di Ludovico e sorrise.
-”Immagino sia stato tu a trovarmi e a portarmi qui. Ti ringrazio”- disse con sincerità.
-”Vadar via 'l cül"- borbottò Ludovico uscendo dalla Sala dei Raduni sbattendo la porta.
Mercuzio osservò il ragazzo eclissarsi, poi spostò lo sguardo su Zarathustra, rimasta ferma, immobile e impassibile.
-"Ho detto qualcosa di sbagliato?"- le domandò corrugando la fronte. -"Credo mi abbia mandato a quel paese"-.
-"No"- tagliò corto il Boss.
Mercuzio notò la sbrigatività della ragazza. Gli angoli della sua bocca si incurvarono lievemente verso il basso; aveva capito che c'era qualcosa di cui Zarathustra voleva parlargli. Per un attimo pensò che una tale freddezza non fosse normale per una ragazza della sua età.
"Già, sicuramente non ha nemmeno diciotto anni".
Zarathustra, dopo aver fissato in silenzio Mercuzio per quasi un minuto, spostò il proprio peso sulla gamba sinistra.
-"Come si chiama tuo padre?"-.
L'inaspettata domanda a bruciapelo sorprese Mercuzio. Cosa poteva importarle del nome del suo genitore? Tentò di instaurare un contatto visivo diretto, ma le lenti a spesso degli occhiali da sole di Zarathustra glielo impedivano.
-"Tebaldo"-.
-"Suo padre?"-.
-"Augusto"-.
-"Suo padre?"-.
-"Non lo so"-.
-"Hai mai sentito parlare di un certo Caesar Anthonio?"-.
Mercuzio sigillò le labbra. Il volto della ragazzina era impassibile, il suo corpo immobile come una statua; decisamente troppo calma e misurata per essere una semplice ragazza. Mercuzio cominciò ad allarmarsi. Pochissime persone erano a conoscenza della storia della sua famiglia, e tutte erano componenti di quella organizzazione mafiosa. Che si fosse sbagliato? Che quei due piccoletti facessero davvero parte di Passione?
Zarathustra notò la preoccupazione che piano piano si stava impadronendo del giovane dagli occhi verdi. Sì, sapeva benissimo chi era Caesar; no, una reazione del genere non se la sarebbe mai aspettata. Per quale motivo si stava agitando così tanto? Forse ci aveva visto giusto... Forse, come aveva pensato, qualcuno gli stava dando la caccia, e gli unici che avrebbero potuto avere un motivo per inseguire uno Zeppeli erano...
-”E' stato un Joestar a ridurti in questo stato?”-.
Cazzo, sa tutto!”, gridò Mercuzio dentro di sé. Doveva andarsene da quel posto, doveva fuggire il più lontano possibile!
-”Non sono un Joestar”- disse Zarathustra lentamente. -”Non spaventarti”-.
Nonostante le ferite superficiali e le costole danneggiate, il petto di Mercuzio si alzava e si abbassava rapidamente. Zarathustra vide in Mercuzio i primi sintomi di un attacco di panico e provò a calmarlo.
Non sono mai stata brava in queste cose”, pensò scocciata. “A mali estremi, estremi rimedi”. Puntò l'indice della mano destra contro il collo di Mercuzio: un sottile ago nero avvolto da elettricità si conficcò nel collo del giovane, il quale si rilassò immediatamente. Mercuzio guardò il proprio corpo afflosciarsi e gli parve di avvertire la testa più pesante. Volse gli occhi verso Zarathustra, non sorprendendosi più di tanto: lo aveva capito già da tempo che anche quel maschiaccio era un portatore di Stand.
-”Non toccarti il collo, altrimenti l'effetto dell'agopuntura svanirebbe e torneresti a boccheggiare come un pesce fuor d'acqua”- lo ammonì.
Mercuzio alzò un braccio fortemente appesantito dal potere dello Stand di Zarathustra e provò a sfiorare con le dita il sottilissimo ago nero.
Sarà anche lui un portatore di Stand?”, si domandò il giovanissimo Boss osservando Mercuzio tentare di toccare l'ago di 42. Molto probabilmente sì. Evocò per una manciata di secondi il proprio Stand e vide lo sguardo di Mercuzio spostarsi per un attimo sul grande occhio rosso di 42 Reprise. Zarathustra sorrise impercettibilmente.
-”Mi chiamo Zarathustra De Luna; Caesar Anthonio Zeppeli era il mio bisnonno. La mia domanda è: Mercuzio Zeppeli, chi sei tu?”-.
Finalmente la mano tremante di Mercuzio trovò l'ago; non appena lo toccò, questo si dissolse e la mano del giovane si adagiò lentamente sul suo collo madido di sudore. Gli occhi color smeraldo di Mercuzio erano sgranati, le sue labbra socchiuse. Non riusciva a credere alle proprie orecchie: quella ragazzina era una sua parente? Una Zeppeli? Suo nonno Augusto non gli aveva mai parlato della sua famiglia.
-”Caesar era... era lo zio di mio nonno”- riuscì finalmente a dire. -”E' stato mio nonno a mettermi al corrente della maledizione degli Zeppeli”-.
-”I Joestar”-.
-”Esatto. I Joestar e l'alternanza generazionale”-.
Zarathustra aggrottò lievemente le sopracciglia nere. Di quale alternanza generazionale stava parlando? Il giovane moro notò la perplessità dipinta sul volto di Zarathustra e inclinò la testa di lato. Sussultò un poco; il collo gli faceva un po' male.
-”Non ne sapevi niente?”- le domandò. -”Forse si trasmette solo per discendenza maschile...”- mormorò pensoso.
-”Di cosa stai parlando?”-.
-”A generazioni alterne noi Zeppeli siamo destinati a morire per mano di un Joestar. Vedi, io e mio nonno apparteniamo alla generazione maledetta...”-.
Zarathustra strinse le labbra. Una maledizione? Che stupidaggine. Evidentemente quel belloccio ignorava la vera ragione per cui i Joestar avevano da sempre dato la caccia agli Zeppeli.
-”Eppure tuo nonno è ancora vivo”- gli fece notare con una punta di sarcasmo nella voce.
-”Davvero? Strano, pensavo fosse morto”- la prese in giro Mercuzio.
-”Che vuoi dire?”-.
Mercuzio fece spallucce e abbassò lo sguardo sul proprio torso nudo.
-”Mio nonno è morto”-.
-”Come?”- domandò subito Zarathustra. La ragazza strinse i pugni lungo i fianchi e si sorprese un poco della propria reazione.
-”L'ho ammazzato io”- rispose Mercuzio. Alzò un poco il capo; i capelli neri gli ricaddero sugli occhi ma fu comunque in grado di vedere la reazione della ragazza alle sue parole: uno Stand nero simile a un rettile antropomorfo era apparso alle sue spalle, lo stesso Stand su cui, qualche minuto prima, Mercuzio aveva soffermato lo sguardo.
-”Il tuo discorso è incoerente”- disse Zarathustra con un tono di voce piatto.
Mercuzio scoppiò brevemente a ridere. Si sistemò sul divano meglio che poté e si tastò le tasche dei pantaloni in cerca di ciò che rimaneva del suo pacchetto di sigarette; ce n'era rimasta una sola, le altre si erano spezzate. Sotto lo sguardo vigile e attento di Zarathustra, Mercuzio si accese la sigaretta e prese una boccata di fumo a pieni polmoni. Per un attimo gli parve di sentire un rumore secco provenire dalle sue costole.
Zarathustra, gli occhi neri nascosti dalle lenti gialle dei suoi occhiali da sole, valutò la situazione. Il giovane moro seduto di fronte a lei era sicuramente uno Zeppeli: il suo carattere e i lineamenti del suo volto non mentivano. L'unica cosa che non la convinceva era la storia della maledizione; e poi, si poteva sapere cosa diavolo avesse fatto per ridursi in quello stato? Cosa lo aveva portato lontano dalla sua città natale?
Mercuzio osservò lo Stand della ragazzina attraverso i riccioli di fumo grigio che fuoriuscivano dalla sigaretta. Aveva finalmente riacquistato un po' di autocontrollo. Dopo una decina di minuti di puro panico, aveva capito che quei due ragazzi non erano nemici e non facevano quindi parte di Passione. Si rigirò la sigaretta tra le dita, pensoso. Se la Squadra della Mezzanotte fosse venuta a sapere di dove si trovava, avrebbe fatto di tutto per acciuffarlo, persino uccidere dei ragazzini innocenti. Non c'era tempo da perdere, doveva mettere Zarathustra al corrente della situazione.
-”Zarathustra... Hai detto di chiamarti così, giusto? Sarei felice di raccontarti la storia della mia famiglia, ma c'è una questione più urgente di cui vorrei parlarti”-.
-”Io voglio sapere cosa...”- insistette la ragazza.
-”Hai mai sentito parlare di Passione?”- la interruppe.
Zarathustra ci pensò su un poco. Passione? L'organizzazione mafiosa avente come base Napoli ma talmente influente da avere contatti in tutta Italia? La ragazza si esibì in un grugnito d'assenso poco femminile.
-”Perfetto”- disse Mercuzio guardandosi attorno alla ricerca di un posacenere su cui smicciare. La ragazzina mora non gli venne in aiuto e il giovane Zeppeli si vide costretto a smicciare sul tappeto. Zarathustra non batté ciglio. -”Passione mi sta dando la caccia e sono più che sicuro che mi voglia morto. Il Boss ha messo sulle mie tracce una squadra specializzata nel lavoro sporco”-.
-”Perché sei ricercato dalla mafia?”-.
Gli occhi verdi del giovane si incupirono. Zarathustra capì di aver toccato un tasto dolente, ma non le importava niente: voleva avere più informazioni possibili su quell'uomo, anche a costo di vederlo spezzarsi di fronte a lei.
-”Segnurina”- disse Mercuzio dopo aver preso una boccata di fumo. -”Sto cercando di farti capire che me ne devo andare da questo posto il prima possibile. La mia sola presenza metterà in pericolo tu e il tuo amico”-.
-”Rispondi alle mie domande”- lo ignorò Zarathustra, 42 Reprise che si ergeva dietro le sue spalle. -”Chi sei e perché la mafia ti vuole morto”- ringhiò omettendo il punto interrogativo.
Mercuzio spense la sigaretta sul tappeto e sospirò.
-”Sono un mafioso pluriomicida traditore affetto da allucinazioni visive”-.
-”Tu fai parte di Passione”- sussurrò Zarathustra.
-”Facevo”- la corresse. -”In sostanza, sono una persona che non vuole mettere in pericolo la vita di due ragazzini. Verranno a prendermi, Zarathustra, e quando lo faranno io non sarò in grado di proteggervi”-.
Zarathustra serrò la mascella. Mercuzio non sapeva ancora che quel casale era abitato da otto portatori di Stand e guerrieri delle Onde Concentriche che, ogni sera, combattevano con degli esseri che si ergevano al di sopra dei comuni mortali: i vampiri.
Mercuzio strinse le labbra. Zarathustra non sapeva ancora che tutti i membri di Passione erano portatori di Stand, che la squadra mandata a eliminare il suo lontano parente, la Squadra della Mezzanotte, non avrebbe impiegato molto tempo a trovare il fuggitivo, e che il suo capo era un uomo con un terribile passato color rosso sangue e viola porpora.

 

 





NOTE DELL'AUTRICE
"Creeping shadow right behind me" ---> Reflection
So bene di aver scritto nel mio profilo che l'aggiornamento delle mie storie è sospeso a causa degli esami, ma stasera mi era venuta l'ispirazione e sono riuscita a finire il capitolo; ovviamente non potevo aspettare e ho dovuto caricarlo subito :> 
Dunque, dunque, dunque... I due Zeppeli si sono incontrati e Mercuzio sa bene che la Squadra della Mezzanotte non si darà pace finché non l'avrà trovato. La domanda è: quanto impiegherà a rintracciarlo? E poi, Zarathustra, dopo essersi resa conto di trovarsi di fronte a un "
mafioso pluriomicida traditore affetto da allucinazioni visive", cosa deciderà di fare? Lo proteggerà da Fugo e i suoi sottoposti o lo abbandonerà al suo destino?
Nel prossimo capitolo vedremo Celeste e Okuyasu alle prese con un Keicho che non sembra per niente contento di essere stato riportato in vita. Josuke e Shizuka riusciranno a tornare a casa prima che la villa venga distrutta da Bad Company? Saprete tutto a tempo debito ;)
Alla prossima! ^^

 

 

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Capitolo 14
*** There's nothing I fear, I've got a ton of spears ***


-”Compagnia! In posizione!”- gridò Keicho. I sessanta soldati che componevano il corpo di fanteria di Bad Company si schierarono in formazione d'attacco, pronti a ricevere l'ordine del portatore biondo.
-”Deeper Deeper!”-. Celeste si affrettò a evocare il proprio Stand e a compiere uno scatto laterale; era molto probabile che Keicho non avesse riconosciuto il fratello e che il suo imminente attacco fosse rivolto anche a lui. Si gettò sul suo corpo steso a terra esattamente nel momento in cui Keicho ordinò ai soldati in divisa patchwork verde militare di fare fuoco. Deeper Deeper si piazzò in difesa di Celeste e Okuyasu, facendo roteare velocemente l'alabarda e riuscendo così a costituire uno scudo provvisorio.
-”La tua è una difesa unilaterale!”- le fece notare Keicho indicando l'alabarda di Deeper Deeper. -”Cosa pensi di fare se venissi attaccata da più fronti? Vogliamo provare?”-. Un corpo di trenta soldati si separò dalla formazione e, tenendosi a debita distanza dallo Stand dallo smoking trinciato, lo raggirò e si posizionò specularmente al resto della milizia. Il fuoco era cessato, ma Celeste sapeva di essere in una brutta, bruttissima situazione. Keicho aveva perfettamente ragione, la sua era una difesa utilizzabile su di un fronte solo. In pochissimo tempo, il fratello di Okuyasu aveva capito che Deeper Deeper era uno Stand a corto raggio e non particolarmente portato per lo scontro diretto. La sua prontezza mentale era impressionante; sotto questo aspetto sembrava compensare la semplicità di Okuyasu.
Lo sguardo di Keicho, di un impressionante e pulito verde prato, era carico di sprezzante odio, derisione e... superbia. Suo malgrado, Celeste si ritrovò a sorridere. Keicho Nijimura era un peccatore, proprio come lei.
Sotto le sue mani, Celeste sentì la schiena di Okuyasu muoversi. Anche Keicho si accorse dei suoi movimenti, perché il suo biondo sopracciglio sinistro scattò verso l'alto.
-”Donna! Hai osato introdurti in casa mia con uno sporco complice? Inammissibile!”- sbraitò.
Okuyasu piantò i palmi delle mani per terra e, lentamente, si rialzò, prontamente sostenuto da Celeste. Si sistemò gli occhiali sul naso e si posò una mano sul petto ansimante. Come diavolo era finito per terra? Ah, sì, giusto, lo Stand di Celeste gli aveva posato una mano sulla testa e lui aveva perso i sensi; quindi il fatto che si fosse ripreso doveva significare una cosa sola...
La sua immagine, nitida e piena, si ergeva di fronte a lui. Non si trattava di un'illusione, né di un fantasma: Keicho si trovava davvero a pochi passi da lui, in carne e ossa. Gli occhi gli si offuscarono di lacrime e Okuyasu sentì il cuore scoppiargli nel petto dalla felicità. Lanciò una rapida occhiata a Celeste, talmente rapida da non accorgersi dello sguardo preoccupato di lei, e si lanciò verso il fratello.
Keicho sussultò un poco per l'improvviso scatto dell'uomo dai capelli brizzolati, ma non si scompose. Le mitragliatrici dei quattro elicotteri puntarono Okuyasu.
-”No!”- gridò Celeste gettandosi in avanti e tentando di placcare Okuyasu.
-”Fuoco!”- ordinò Keicho.
Celeste e Okuyasu rotolarono a terra e andarono a sbattere contro la parete della camera da letto di Shizuka. Il pavimento fu l'unica vittima dell'attacco.
-”Seres!”- esclamò allarmato l'uomo dai capelli brizzolati afferrando Celeste e scuotendola per le spalle. -”Seres, stai bene?!”-.
-”Tutto a posto...”- lo rassicurò la ragazza massaggiandosi la schiena e lanciando occhiate di fuoco verso il diciottenne biondo. -”Tu piuttosto, come...?”-. Non riuscì a terminare la frase che vide Okuyasu rialzarsi in piedi e avanzare cauto verso Keicho. Celeste provò a richiamarlo indietro, ma Okuyasu le ordinò con un cenno della mano di starsene in disparte.
Il duro sguardo di Keicho si posò su Okuyasu; lo squadrò da capo a piedi più volte, in silenzio e con un'indecifrabile espressione sul volto dai lineamenti spigolosi.
-”Tu mi sei così dannatamente familiare...”- disse dopo un po', gli Apache che gli ronzavano attorno al capo.
-”Perché ci conosciamo...”- disse lentamente Okuyasu. -”...Aniki”-.
Celeste, la schiena premuta contro il muro, vide i muscoli del collo di Keicho irrigidirsi e i suoi occhi spalancarsi un poco; una quindicina dei suoi soldati accusò un lieve malore e si accasciò al suolo.
Oku deve aver fatto breccia nel suo animo”, pensò la giovane.
-”Compagnia!”- proclamò a gran voce. -”Fuoco!”-.
-”The Hand!”-. Per la prima volta Celeste vide lo Stand di Okuyasu, un essere umanoide grigio e blu scuro dotato di una grande mano destra. Non appena la fanteria di Bad Company sparò, The Hand, la mano destra aperta, volteggiò velocemente attorno a Okuyasu. Delle centinaia di minuscoli proiettili sparati contro Okuyasu, solamente una decina andò a conficcarsi nell'avambraccio dell'uomo, alzato a schermo difensivo del viso. Cos'era successo agli altri proiettili? Cos'era quel rumore profondo e distorto che Celeste aveva sentito quando The Hand era entrato in azione?
-”Quello Stand...”- sussurrò Keicho indicando The Hand. Gli occhi verdi fissi in quelli puntiformi di Okuyasu, Keicho si portò una mano alla fronte e indietreggiò di un passo. -”Okuyasu...”- lo chiamò con un fil di voce. -”Okuyasu, sei... sei davvero tu?”-.
L'uomo dai capelli sale e pepe sorrise. Abbandonò il braccio ferito lungo il fianco e tese una mano verso il fratello.
-”Sì, sono io, Aniki”- mormorò tra le lacrime. -”Sono venuto a riprenderti”-.
Lo sguardo di Keicho vagò per la camera, posandosi più volte su Okuyasu. Il suo corpo era scosso da continui tremiti e, lentamente, Bad Company si dissolse nel nulla. Keicho cadde per terra in ginocchio e si portò le mani al torace, tastandoselo come in cerca di qualcosa.
-”Non c'è... Non c'è...”- continuava a sussurrare. -”Non c'è...”-.
Okuyasu si inginocchiò accanto a lui e gli prese dolcemente le mani. Abbondanti lacrime gli rigavano le guance e non riusciva a smettere di sorridere come un ebete.
-”Hai visto? Sei tornato, Aniki, sei tornato a Morioh, da me... Non sei contento?”-.
-”Come è... possibile? Io sono morto...”-.
Okuyasu scosse la testa e indicò Celeste con un cenno del capo.
-”E' stata Seres a riportarti in vita”- gli spiegò. -”Il suo Stand ha un potere formidabile”-.
-”E' stata... lei?”- ripeté seguendo lo sguardo del fratello. Celeste si spolverò il vestitino e mosse qualche passo in avanti, ma una freddissima occhiata lanciatale da Keicho la immobilizzò sul posto.
-”Aniki, non guardarla così”- lo riprese dolcemente Okuyasu. -”Non ha fatto niente di male”-.
Lo scambio di sguardi in cagnesco tra Celeste e Keicho andò avanti per interi minuti, finché alla fine Keicho, con un rumoroso sospiro, distolse gli occhi dalla ragazza per concentrarsi solo ed esclusivamente sul fratello “minore”. Celeste incrociò le braccia al petto e andò a sedersi sul davanzale della finestra.
-”Mai nessuno che mi ringrazi per essere stato resuscitato...”- borbottò a denti stretti.
Per quanto volesse apparire visibilmente offesa, Celeste non riuscì a tenere il muso per molto tempo; vedere i due fratelli Nijimura riunirsi dopo tanto tempo la faceva sentire... bene. Era convinta che ritrovare una persona cara perduta fosse una delle cose più belle di questo mondo. Sospirò lievemente e appoggiò la tempia al vetro della finestra, lo sguardo vitreo perso nei suoi pensieri.
Okuyasu, con una vitalità tipica dei ragazzini, aveva iniziato a spiegare a Keicho la situazione. Il giovane biondo, un'indecifrabile espressione stampata sul volto, ascoltava con attenzione.
-”Siamo nel duemilaquattordici”- borbottò Keicho dopo un po'. Pensoso, si passò una mano sul mento. -”Hai trent'anni”- constatò.
Okuyasu si batté un pugno sul petto e annuì compiaciuto. Si tirò su in piedi e tese una mano verso il fratello, invitandolo a fare altrettanto. Keicho afferrò la mano di Okuyasu e si alzò.
-”Guarda”- gli disse Okuyasu sistemandosi gli occhiali sul naso e indicando l'ambiente che li circondava. -”Questa era la tua stanza, ricordi?”-.
Keicho osservò le pareti lilla costellate di fiorellini bianchi e i moderni mobili candidi; arricciò le labbra in una smorfia di puro disappunto che fece sorridere Celeste.
-”Cosa è successo qui?”- domandò continuando a guardarsi attorno.
-”Be', è diventata la cameretta di mia figlia”- rispose Okuyasu stringendosi nelle spalle.
Keicho si voltò lentamente verso il fratello.
-”Tu... hai una figlia?”- chiese con un fil di voce.
-”Già”- sorrise Okuyasu. -”E' tua nipote. Sei diventato zio, Aniki”- disse commosso.
-”Come... Com'è?”- domandò subito il giovane biondo.

-”E' una ragazzina davvero in gamba. Certe volte il suo sguardo è tagliente come il tuo, sai?”- ridacchiò.
-”E' una portatrice di Stand?”- chiese Keicho visibilmente incuriosito dall'esistenza di una nipote.
-”Proprio come suo padre e suo zio, sì”- annuì Okuyasu.
-”Come si chiama?”-.
-”Shizuka”-.
Keicho socchiuse le labbra e alzò lo sguardo verso il soffitto.
-”Shizuka Nijimura”- sillabò gustandosi il suono di quel nome. -”Suona proprio bene...”-.
-”Oh, no”- disse subito Okuyasu. -”Shizuka Higashikata”- lo corresse.
In quel momento Celeste fu certa di aver sentito un chiaro e secco “crack” provenire da Keicho. Il giovane, girato di spalle, si voltò di scatto verso il fratello; i suoi occhi verdi, spalancati e dalle pupille ridotte a due spilli, non promettevano niente di buono.
-”Higashikata, hai detto?”- ripeté Keicho. -”Higashikata?!”- tuonò.
Okuyasu, sotto lo sguardo bellicoso del fratello, si fece piccolo piccolo e indietreggiò fino ad avere le spalle contro il muro. Keicho si erse in tutta la sua altezza e avanzò convinto fino ad avere il proprio viso a pochi centimetri da quello di Okuyasu.
-”Hai sposato la sorella di quel Josuke e le hai permesso di dare a vostra figlia il suo cognome?”- domandò puntandogli un indice contro il petto.
Okuyasu scosse la testa con veemenza e deglutì. Non ricordava che suo fratello sapesse essere così spaventoso.
-”No, Aniki, Josuke è figlio unico! Ho sposato lui!”-.
La mano di Keicho ricadde lungo il suo fianco. Il ragazzo fece un passo indietro e, sconvolto, guardò Okuyasu negli occhi. A un tratto, un'espressione di puro disgusto si dipinse sul suo volto.
-”Tu hai sposato Higashikata Josuke?!”- gridò.
-”B-Be', è c-c-così...”- balbettò Okuyasu distogliendo lo sguardo da Keicho e gettandolo a terra.
-”E' inammissibile!”- sbraitò con rabbia.
Celeste scese immediatamente dal davanzale e fece per correre in difesa di Okuyasu, ma un'occhiataccia di Keicho la fermò.
-”Tu, sporca Brando...”- ringhiò a denti stretti. -”Fuori da questa casa!”- urlò.
Bad Company si materializzò ai piedi di Keicho. I quattro elicotteri si librarono in volo e convergerono il loro attacco missilistico su Celeste. La giovane dagli occhi ambrati non fece in tempo a evocare Deeper Deeper che una potente esplosione la scaraventò contro la finestra. Il vetro, al forte impatto con la ragazza, andò in frantumi e Celeste precipitò giù.

 

 

Aveva avuto un bel coraggio a lasciare suo marito da solo con quella strana ragazza. D'accordo che The Hand era uno Stand potente e Okuyasu non era più un sedicenne in piena crisi esistenziale, ma spesso le sue iniziative rasentavano il limite della sanità mentale!
Josuke si fermò al semaforo e tamburellò le dita sul volante della Lamborghini. Lanciò una rapida occhiata a Shizuka, seduta accanto a lui sul sedile anteriore e intenta a sbirciare dentro le buste dei negozi i suoi nuovi vestiti. Sorrideva; certo, era un sorriso lieve e quasi impacciato, ma ogni volta che lo vedeva Josuke sentiva il proprio cuore sciogliersi. Sapeva che sua figlia era purtroppo dotata di un carattere particolare e che le continue prese in giro dei suoi compagni di scuola a causa dei suoi genitori l'avevano resa una ragazzina chiusa e diffidente, ma lui le voleva un mondo di bene. Era la sua unica figlia e avrebbe fatto di tutto pur di continuare a vedere quel tenerissimo sorriso fare capolino sulle sue labbra.
Shizuka si accorse dello sguardo imbambolato del padre. Lo guardò negli occhi azzurri, tentando di capire a cosa stesse pensando.
-”Pa', che stai facendo?”- gli chiese dopo un po'.
-”Oh, nulla”- si riprese Josuke. Si sporse in avanti per controllare la luce del semaforo e si strinse nelle grosse spalle. -”Stavo solo pensando a... a Celeste”-.
Shizuka schioccò la lingua e fece roteare gli occhioni neri. Si strinse le buste al petto e fulminò il padre con un'occhiataccia.
-”Mica ti piace, vero?”- gli domandò.
-”Ah!”- esclamò Josuke facendo una smorfia. Scattò il verde nel semaforo e la Lamborghini riprese la sua corsa. -”Certo che no”-.
Shizuka alzò le sopracciglia come a dire Vedo che ci capiamo”.
Nella famiglia Higashikata l'unico che sembrava provare simpatia per quella misteriosa ragazza era Okuyasu. Sia Josuke che Shizuka lo avevano più volte ripreso e messo in guardia: fidarsi degli estranei non porta mai niente di buono, soprattutto se sono portatori di Stand legati ai Joestar. I due si erano spesso domandati per quale motivo Okuyasu si fidasse così tanto di quella ragazza bionda.
-”Lo sapevi che fuma?”- disse Shizuka. -”Spesso mi è capitato di trovare dei mozziconi di sigaretta in giardino”-.
-”In giardino? Nell'erba?”-. Shizuka annuì. -”Che maleducata”- disse Josuke a denti stretti. -”Non ha nemmeno la decenza di gettarli nella spazzatura”-.
Shizuka sprofondò nel sedile dell'auto e strinse le labbra.
-”Però... E' strano, pa', sai? Tutti quelli che ho trovato erano appena iniziati”-.
-”Cosa vuoi dire?”-.
Shizuka si concesse qualche secondo per scegliere bene le parole. Avendo vissuto gran parte dell'infanzia in America, possedeva un forte accento americano e spesso trovava difficoltà nella scelta lessicale.
-”Tutte le sigarette che ho trovato erano state fumate pochissimo, meno della metà”-.
-”Evidentemente non è una fumatrice incallita”- commentò tranquillamente. -”Fatto sta che appena la vedo le farò una bella lavata di capo. Così impara a sporcare il giardino degli altri”-.
Josuke abbandonò la strada principale e girò a destra, immettendosi nella via di casa. Azionò l'indicatore di direzione sinistro e chiese a Shizuka di aprire il garage col telecomando che teneva nel cruscotto.
-”Posso esserci anch'io quando la sgriderai?”- domandò Shizuka al padre azionando la saracinesca del garage.
-”Certamente”- sogghignò Josuke.
I due si scambiarono un'occhiata di complicità e si misero a ridere. Josuke, in prima, entrò lentamente nel garage, spense il motore dell'automobile e si infilò la chiave in tasca. Scese dalla vettura, attendendo che la figlia facesse lo stesso, poi fece il giro della macchina e aprì il bagagliaio. Per un momento rimase fermo ad ammirare la quantità di nuovi vestiti che aveva acquistato per la sua famiglia. Per un attimo, al centro commerciale, era stato tentato di comprare qualcosa anche a Celeste, ma la vocina sentenziosa di sua figlia lo aveva fatto rinsavire. Perché spendere soldi per quell'intrusa? Shizuka aveva ragione.
-”Vuoi che prenda qualcosa?”- si propose la ragazzina mora.
Josuke scosse la testa. Amava aggirarsi per il centro commerciale e per Morioh con una quantità spaventosa di buste in mano e sulle braccia; la gente doveva sapere delle sue spese folli.
Padre e figlia uscirono dal garage e si diressero verso il portone di casa. Josuke inserì la chiave nella toppa ma non fece in tempo a girarla che sentì il suono di un'esplosione provenire dal primo piano. Immediatamente, reagendo prontamente, si liberò dalle buste e si gettò su Shizuka, avvolgendola tra le sue braccia.
-”Cos'è stato?!”- domandò la ragazzina allarmata, la testa premuta contro il petto del padre.
Josuke uscì dalla sua proprietà e volse lo sguardo verso la finestra che era andata in frantumi. Sul vialetto di ghiaia, ricoperta di sangue e ansimante, si trovava Celeste. Josuke non poté credere ai propri occhi. Cos'era successo durante la sua assenza? Adagiò Shizuka sul marciapiede; la afferrò per le spalle esili e la guardò negli occhi, preoccupato.
-”Shizu, stammi bene a sentire: non ti avvicinare. Rimani qui... Anzi, attraversa la strada. Stai lontana da casa finché non ti richiamerò. Hai il cellulare con te?”-. Shizuka annuì. Fece per ribattere e protestare, ma Josuke la batté sul tempo. -”Vai, non perdere tempo!”- la esortò con una lieve spinta. Shizuka abbandonò l'impresa e fece come il padre le aveva ordinato.
Josuke, dopo essersi assicurato che la figlia si fosse allontanata il giusto, raggiunse a grandi passi Celeste. Le passò una mano sotto la nuca e la sollevò un poco. Guardò il suo vestitino floreale bruciacchiato qua e là e lo strappo che aveva sul davanti. Il reggiseno le aveva in qualche modo protetto il petto, ma la zona addominale era ustionata e piena di fori da cui usciva il sangue.
-”Celeste!”- provò a chiamarla scuotendola. -”Celeste, cosa è successo?”-.
Quella non era il tipo di ferita che lo Stand di Okuyasu era in grado di fare. Qualcuno doveva essersi intrufolato in casa e doveva aver attaccato i due, ignari di tutto.
Celeste aprì un poco gli occhi e mise a fuoco l'immagine di Josuke chino su di lei. Si guardò il torso e sospirò a fatica. Quello era uno dei suoi vestiti preferiti...
-”Celeste!”- la chiamò nuovamente Josuke. -”Dov'è Okuyasu? Chi è stato ad attaccarvi?”-.
E stai zitto...”, pensò Celeste socchiudendo gli occhi. Tossì, si rigirò su un fianco e sputò sangue. Guardò la chiazza rossa scivolare sui sassolini del vialetto e serrò le labbra. Si tirò su a sedere sotto lo sguardo un poco preoccupato di Josuke. Lanciò un'occhiata alla finestra dalla quale era precipitata. Se la sarebbe cavata anche senza la sua resistenza da dhampir; del resto non aveva fatto un volo così pericoloso.
-”Aspetta, ti curo le ferite e poi...”- iniziò Josuke evocando Crazy Diamond.
-”Non importa”- lo freddò Celeste. Si alzò in piedi e sorrise malignamente. I suoi occhi felini si ridussero a due fessure, e quando Celeste li riaprì completamente Josuke notò che le iridi si erano tinte di un incredibile rosso scarlatto. La ragazza volse le sue pupille affilate verso Josuke.
-”Le sarei immensamente grata se si levasse di torno, signor Higashikata”-.
Josuke sussultò e piantò i piedi per terra.
-”Celeste...!”- iniziò.
La ragazza lo zittì con un gesto seccato della mano.
-”Vuole fronteggiare un Brando? Bene, lo accontento subito!”- esclamò guardando il primo piano della villa.
Josuke vide le unghie delle mani affusolate di Celeste crescere fino a diventare dei pericolosi artigli. I canini della ragazza si appuntirono e un'espressione di pura euforia si dipinse sul suo volto dai bei lineamenti. Cosa le stava accadendo? Cos'era quella trasformazione?
-”Deeper Deeper Requiem!”-.
Lo Stand della giovane apparve al suo fianco ma venne immediatamente avvolto da un'accecante luce bianca. Josuke si coprì il viso con un braccio e indietreggiò di qualche passo. Quando la luce si diradò, al posto dello Stand dallo smoking trinciato si presentò un alto e massiccio giovane, dai muscoli scolpiti e i capelli bluastri.
-”Andiamo a spaccare il culo a quel nevrotico del cazzo!”- esclamò Celeste. Con un'agilità tutta fuorché umana, la giovane dai capelli color miele balzò sulle tegole della tettoia che faceva ombra sull'ingresso, saltò sul ramo dell'albero lì a fianco e rientrò in casa attraverso la finestra rotta.
Prima di lanciarsi all'inseguimento di Celeste, il giovane salutò Josuke con un cenno del capo.
A Josuke bastò quella fugace visione del viso del giovane per riconoscerlo e rabbrividire incredulo. Lo aveva visto in alcune vecchissime fotografie che Jotaro si era procurato prima della battaglia contro Pucci; gli era stato presentato come un suo antenato, il nonno di suo padre.
L'aitante ragazzo che rispondeva al nome di Deeper Deeper Requiem era Jonathan Joestar.

 










NOTE DELL'AUTRICE
"There's nothing I fear, I've got a ton of spears" ---> Hitorigoto Lonely na
Deeper Deeper Requiem, oltre a poter modificare i ricordi di chiunque senza il vincolo del contatto fisico, possiede un potere particolare: sostanzialmente Deeper Deeper riacquista la sua forma originale, ovvero quella di Jonathan Joestar, per quindici minuti; in quel lasso di tempo Celeste può fare affidamento sul formidabile guerriero delle Onde Concentriche. EDDAJE! 
Nel prossimo capitolo verrà ripresa la vicenda di Mercuzio :>
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 15
*** They say it's all right, does that make it okay? ***


Verranno a prendermi, Zarathustra, e quando lo faranno io non sarò in grado di proteggervi”.
Zarathustra, cercando di fare meno rumore possibile, si chiuse la porta della Sala dei Raduni alle spalle e fissò il pavimento. Avrebbe mentito se avesse detto di non essere minimamente preoccupata. La Banda delle Onde Concentriche era specializzata nello scontro diretto con i vampiri, non con un'organizzazione mafiosa composta da portatori di Stand. Se ciò che Mercuzio le aveva detto era vero, presto una squadra di sicari si sarebbe messa sulle sue tracce. Non poteva permettere che i suoi compagni finissero nei guai a causa di uno sconosciuto. Zarathustra iniziò a pensare che Ludovico avrebbe fatto meglio a lasciare Mercuzio nel campo di graminacee in cui lo aveva trovato.
Ma è uno Zeppeli”.
Un semplice cognome e un debolissimo legame di sangue trattenevano la ragazza dallo sbarazzarsi dell'ex mafioso. Se non fosse stato per il suo nome, in quanto soggetto pericoloso Zarathustra non avrebbe esitato a cacciare Mercuzio fuori dal casale.
Proteggere i suoi compagni e il suo lontano parente da Passione: questa sarebbe stata la sua missione.
Urgeva una riunione con gli altri ragazzi. Immediatamente.
Si diresse a passo spedito verso la cucina dove, seduti al tavolo, trovò Piero con la testa viola china sul libro di Economia ed Eriol che dormiva scomposta sulla sedia.
-”Piero”- lo chiamò con autorità. Il ragazzo alzò di scatto la testa. -”Vai a svegliare gli altri”-.
Il viso del ragazzo si illuminò di colpo. Tirò una pacca sulla spalla di Eriol e prese a saltellare sul posto. Eriol socchiuse gli occhi e lo mandò a quel paese.
-”Ci sono novità, Boss?”- domandò elettrizzato.
-”Muoviti”- si limitò a rispondere Zarathustra. -”Ci riuniremo qua in cucina”-.
Piero alzò il pollice e si fiondò al piano di sopra, pronto a fare ciò che gli riusciva meglio: confusione. Eriol si stropicciò gli occhi e tentò di darsi una sistemata. Aveva capito che era successo qualcosa di grave non appena Ludovico aveva fatto capolino dall'ombra del suo Stand; vederlo poi uscire dalla Sala dei Raduni sbattendo la porta aveva dato ulteriori conferme al suo presentimento. Eriol avrebbe voluto chiedere delle spiegazioni a Zarathustra, ma sapeva che ogni suo tentativo si sarebbe rivelato vano: il Boss elargiva chiarimenti a tempo debito. In quell'imbarazzante e pesante silenzio che era calato tra le due ragazze, Eriol iniziò a preoccuparsi seriamente.
-”Vado a cercare Ludovico”- disse a un tratto Zarathustra.
-”E'... E' uscito”- le comunicò Eriol indicando la finestra. -”Penso sia rimasto in zona. Ti chiamo quando Piero e gli altri sono operativi?”- si offrì.
Zarathustra annuì silenziosamente, si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloncini e uscì dal casale. Seguendo il proprio istinto, girò attorno all'edificio di campagna e raggiunse il retro dove, come aveva pensato, trovò Ludovico seduto sul bordo della piscina coi piedi in ammollo.
-”Ho indetto una riunione. Dovresti rientrare e partecipare anche tu”-.
Ludovico si arrotolò le maniche della camicia sopra al gomito e sorrise, scuotendo la testa.
-”Non dirmi che ti sei offeso...”-.
-”Offeso?”- ripeté il ragazzo voltandosi a guardarla. -”Zara, neanche sapevi chi fosse! Avrebbe potuto ucciderti!”-.
Zarathustra alzò le sopracciglia e scoppiò a ridere, incredula di fronte alle parole dell'amico d'infanzia.
-”Nello stato in cui si trova non sarebbe in grado neppure di sferrare un pugno. Mi stai forse sottovalutando?”-.
-”Mi sto preoccupando”- ribatté prontamente Ludovico. -”Pensi forse che si tratti di una casualità? Zara, tutto ciò non è normale!”-.
Il Boss non rispose; incrociò le braccia al petto e strinse le labbra. Ludovico aveva ragione: risultava difficile credere che la comparsa di un erede della famiglia Zeppeli fosse dovuta al caso. Mercuzio era stato condotto a La Bassa dal disegno di qualcuno. C'era qualcuno, qualcosa, una sorta di presenza trascendentale i cui piani prevedevano che Mercuzio la incontrasse: era questa la conclusione a cui era giunta Zarathustra.
Quando ci sono di mezzo i Joestar e gli Zeppeli è impossibile parlare di semplici coincidenze”.
-”Non è qui per ucciderci. Per uccidermi. Non farà del male a nessuno”- continuò il Boss. -”Non avrebbe motivo di farlo”-.
Ludovico tolse i piedi dall'acqua e si alzò. Si passò una mano sul viso e alzò esasperato gli occhi al cielo. Com'era possibile che Zarathustra, la brillante, fredda e cinica Zarathustra non capisse una questione così semplice? Vietato fidarsi di uno sconosciuto. Il viso della ragazza, nascosto in parte dagli occhiali a specchio, era indecifrabile; gli angoli della sua bocca avevano assunto un'angolazione neutra. Per un attimo a Ludovico parve di trovarsi di fronte a un robot.
-”A cosa stai pensando?”- le domandò.
Zarathustra non rispose. Sapeva di essere arrivata al capolinea della discussione. Quella era la domanda che Ludovico era solito farle quando non sapeva più che pesci prendere: la domanda della disperazione.
-”Fidati e basta”- gli disse. -”Come hai sempre fatto”-.
L'arrivo di Eriol mise definitivamente fine al contrasto tra i due. Ludovico si rinfilò le scarpe ai piedi mentre le due ragazze iniziarono a parlottare tra di loro. L'ultima occhiata che lanciò a Zarathustra prima di entrare in cucina valse più di mille parole. La ragazza mora recepì perfettamente il tacito messaggio del compagno: “La vita di tutti noi è nelle tue mani”.
-”Ci siamo tutti”- constatò il Boss facendo il suo ingresso nella cucina del casale.
-”Hai visto?”- si sbracciò Piero dal suo sgabello. -”Sono riuscito a tirarli tutti giù dal letto, compresi Davide e Regina!”-.
-”Ti detesto per questo...”- sibilò Regina riducendo gli occhi azzurri a due fessure taglienti.
-”Tutto ciò non è un buon segno”- commentò Davide guardandosi attorno con gli occhi dorati spalancati. Regina, seduta accanto al fidanzato, gli scompigliò dolcemente i capelli neri e tentò di rassicurarlo. Avere a che fare con un ragazzo responsabile e impaurito era semplicissimo per una giovane premurosa e sensibile come lei.
Alex, in piedi vicino ai fornelli, alzò gli occhi al cielo e si infilò gli auricolari nelle orecchie. Mentre Regina iniziava a dare contro a Piero per le maniere poco garbate con cui era stata svegliata, Eriol si fiondò da Alex e lo fulminò con un'occhiataccia.
-”Ma io ho sonno!”- bofonchiò il più giovane della Banda.
-”Piantala Alex, lo sai che le riunioni sono importanti”- lo riprese Eriol.
-”D'accordo ragazzi!”- alzò la voce Ludovico. Batté le mani un paio di volte e tutti si zittirono immediatamente. -”Zara ha qualcosa di importante da comunicarci”-.
Poco prima che il Boss prendesse finalmente la parola, una mano scattò verso l'alto. Gli sguardi di tutti si puntarono su Noemi, una ragazza dai capelli rossi e ricci a dai bellissimi occhi viola. Zarathustra, prevedendo la domanda della compagna, rispose immediatamente senza farla parlare.
-”Il motivo per cui ho deciso di riunirvi in cucina combacia col motivo della riunione stessa. Per il momento lasciate perdere i vampiri; questa volta non c'entrano niente. Vi chiedo di prestare molta attenzione a ciò che sto per dirvi: si tratta di una questione importante che potrebbe portare a molte opinioni contrastanti...”-.
-”Le cose si fanno interessanti...”- commentò Piero sporgendosi verso l'orecchio di Noemi, la quale annuì compiaciuta.
-”Qualche ora fa Ludovico ha trovato un uomo svenuto e ferito in un campo. Ritengo giusto che voi tutti sappiate che si tratta di un mio lontano parente, uno Zeppeli, e che, con molta probabilità, è braccato dai Joestar”-. Un brusio di disapprovazione si elevò dal gruppo di ragazzi. Tutti i presenti erano a conoscenza della faida tra gli Zeppeli e i Joestar, e, ovviamente, il nemico del loro Boss era a sua volta nemico loro, così come gli alleati. -”E' mia intenzione proteggerlo”- proseguì Zarathustra. -”Ma la decisione ultima spetta a voi...”-.
-”Ovviamente lo aiuteremo!”- la interruppe Noemi. -”Non è vero?”- cercò conferma tra i suoi compagni. I ragazzi della Banda annuirono, chi con convinzione, chi con un poco di esitazione. Davide lanciò un'occhiata preoccupata a Zarathustra. Aveva l'impressione che le spiegazioni della ragazza mora non fossero terminate.
-”Apprezzo molto il vostro entusiasmo, ma sono curiosa di vedere se sarete ugualmente collaborativi una volta che vi avrò detto quando segue”- disse infatti. -”Questa persona è un, citando le sue stesse parole, mafioso pluriomicida traditore affetto da allucinazioni visive”-.
Il silenzio si impadronì di botto della cucina. Gli occhi azzurri di Regina si spalancarono come due limpidi specchi d'acqua; Davide impallidì e iniziò a mordicchiarsi le unghie; Noemi e Piero si scambiarono un'occhiata sconvolta; Alex spalancò la bocca; Eriol sentì il cuore smettere di battere per un momento; Ludovico si sentì mancare. Sotto lo sguardo sbalordito di tutti afferrò Zarathustra per la maglietta e avvicinò il viso a quello della ragazza.
-”Stai scherzando?!”- le sbraitò in faccia. -”Come cazzo ti è venuto in mente di offrire protezione a un soggetto così pericoloso?!”-.
Regina scattò in piedi, pronta a correre in difesa del Boss, ma Davide la trattenne per una mano. Eriol si separò da Alex e raggiunse i due litiganti. Posò una mano sulla spalla di Ludovico ed esercitò una piccola pressione, quanto bastava per fargli capire che doveva allontanarsi da Zarathustra. Ludovico la fulminò con un'occhiataccia.
-”D'accordo... Non penso sia una buona idea aiutarlo”- disse Noemi toccandosi nervosamente i capelli.
Ludovico liberò Zarathustra dalla sua presa rabbiosa e si sistemò le pieghe della camicia. Inspirò profondamente, tentando di calmarsi. Zarathustra, impassibile come sempre, non fece una piega di fronte all'improvvisa reazione di Ludovico; si voltò invece verso i compagni, decisa a riportare l'ordine.
-”L'organizzazione mafiosa nota come Passione gli sta dando la caccia. Sono tutti portatori di Stand. Dobbiamo prepararci al peggio”-.
-”Zara... Ti rendi conto di cosa ci stai chiedendo?”- le domandò Davide dando voce ai pensieri di tutti. -”Metterci contro la mafia...”-.
-”Io mi fido del Boss”- saltò su Regina, andando contro al fidanzato. -”Andiamo, ragazzi! Sono anni che combattiamo contro i vampiri! Cosa volete che siano un paio di portatori di Stand? E anche se fossero di più, pensate che la mafia manderebbe i suoi uomini migliori per una semplice missione di recupero? Saranno individui facilmente eliminabili!”-.
-”La Bassa è una città poco famosa, non credo sarà facile per Passione trovare il loro uomo in breve tempo”- commentò Eriol pensosa.
-”Io ho fiducia nella sorellona”- borbottò Alex.
Ludovico guardò sconvolto i suoi compagni prendere sul serio in considerazione l'idea di Zarathustra. Erano tutti impazziti di colpo? Credevano davvero di essere in grado di gestire contemporaneamente il problema dei vampiri e quello del mafioso spuntato dal nulla? Si avvicinò alla finestra aperta della cucina e guardò la campagna che si estendeva attorno al casale rustico; alle sue spalle i ragazzi della Banda stavano continuando a discutere. Era tutta colpa sua: se avesse lasciato Mercuzio Zeppeli in quel maledetto campo di graminacee tutto ciò non sarebbe successo.
Una mano gentile si posò sulla sua spalla e Ludovico sussultò un poco per la sorpresa.
-”Non è colpa tua”- mormorò Eriol. -”Hai fatto la cosa giusta aiutando qualcuno che si trovava nei guai”-.
Ludovico la guardò dritto negli occhi verdi e fece schioccare la lingua.
-”Saremo noi quelli che si troveranno nei guai”- rispose a denti stretti.
-”Dovresti avere più fiducia nelle capacità di tutti”-.
Ludovico espirò rumorosamente e fece per ribattere ma un odore sospetto si insinuò nelle sue narici. Sembrava che qualcosa stesse bruciando... Era odore di fumo. Si guardò attorno, convinto che qualcuno si fosse dimenticato qualcosa sui fornelli, ma erano tutti spenti.
-”Eriol, tu non senti odore di...?”-.
Una strana scia di fumo biancastro comparve all'ingresso della cucina. I primi a vederla furono Ludovico ed Eriol, che la indicarono agli altri. Il fumo si attorcigliò su se stesso e diventò compatto e tangibile, fino a formare una figura umana accasciata allo stipite della porta.
-”Tutti indietro!”- gridò Davide.
-”State calmi”- disse Zarathustra lapidaria andandosi a posizionare davanti a tutti i suoi compagni.
Il fumo iniziò a diradarsi e lasciò il posto a un Mercuzio visibilmente provato e allarmato. Senza dire una sola parola, alzò un dito e indicò la finestra alle spalle di Eriol e Ludovico.
-”Dovete... Dovete immediatamente chiudere... le finestre e... le finestre e le porte che danno su... sull'esterno”- disse a fatica. -”Tutte”-.
-”E questo chi è?”- domandò Piero confuso.
-”Eriol, chiudi la finestra!”- ordinò Zarathustra. -”Regina, Noemi e Alex: occupatevi della sala da pranzo, del corridoio al piano terra e della lavanderia! Davide, Piero e Ludovico: voi pensate al primo piano!”-.
Mentre i ragazzi si disperdevano nel casale secondo gli ordini del Boss, Zarathustra si avvicinò a Mercuzio, esigendo silenziosamente delle spiegazioni.
-”Temo sia troppo tardi”- mormorò il giovane moro. -”Il suo Stand potrebbe... averci già individuati”-.
Lentamente, i sensi di Mercuzio vennero meno. Scivolò a terra, le orecchie ovattate e la vista offuscata da una miriade di lucine scoppiettanti. L'ultima cosa che Mercuzio riuscì a vedere prima di svenire fu la ragazza dai capelli color miele che, alle spalle di Zarathustra, stava bevendo una tazzina di caffè.

 

 

-”Posso dire una cosa?”- domandò Cressida lanciando un'occhiata stizzita ad Amleto e a Fugo, entrambi appoggiati coi gomiti al bancone della reception dell'albergo. -”Questa città fa veramente schifo!”- disse mettendo molta enfasi sull'ultima parola.
Otello, in tutta risposta, sprofondò nella poltrona color cachi della hall e si strinse nelle spalle. A lui tutto faceva schifo: il movimento, l'azione, le relazioni sociali, le persone, la vita. Tutto. Se non fosse stato costretto a entrare a far parte di Passione, molto probabilmente si sarebbe tolto la vita, più per noia che per altro.
Cressida si perse nella contemplazione dei capelli color Tiffany di Otello e perse di vista Andronico, fino a un attimo prima seduto accanto a lei sul divano. Scattò in piedi e si guardò forsennatamente attorno. Andronico era sotto la sua responsabilità, non poteva permettersi di lasciare un pazzo come lui a piede libero. Otello alzò svogliatamente un dito e indicò il soffitto. Cressida seguì l'indicazione del ragazzo e vide Andronico volteggiare attorno al lampadario della hall. Si sentì mancare.
-”Andronico!”- lo richiamò a bassa voce, sperando che il ragazzo dai capelli bianchi riuscisse a sentirla. -”Scendi immediatamente!”- ordinò indicando il pavimento.
Andronico fece finta di non sentirla e prese a svolazzare per tutta la hall.
-”Tell, buttalo giù”- si rivolse a Otello.
Il ragazzo le riservò uno sguardo vuoto e privo di vitalità. Si rannicchiò sulla poltrona, portando le ginocchia al petto e si girò da un lato.
-”Non ne ho voglia”- mormorò.
Cressida si passò una mano sul viso e pestò un piede per terra. Non solo avevano perso le tracce di Mercuzio, a Fugo era anche venuta la brillante idea di perdere tempo cercando un alloggio in quella noiosissima città chiamata La Bassa! Cressida stentava ancora a crederci.
-”Non mi lasciate altra scelta...”- borbottò. -”20 Years Old”-.
Lo Stand della ragazza apparve sotto forma di orologio attorno al suo polso sinistro; Cressida gli faceva assumere le sue originali sembianze umanoidi solamente in rarissime occasioni.
-”Sfido il destino”- sussurrò.
La lancetta iniziò a girare velocemente. Si fermò pochi attimi dopo sul simbolo dei Gemelli. Cressida alzò lo sguardo dall'orologio e le sue labbra si incurvarono in un ghigno vittorioso.
-”Gemini, da mihi potestatem”-. Col simbolo astrologico dei Gemelli che brillava al centro della sua fronte, Cressida puntò l'indice della mano destra contro Andronico. -”Sei fottuto”- disse.
Otello assistette a tutta la scena ma solo in un secondo momento fu in grado di capire cosa fosse successo. Nello stesso tempo vide Andronico precipitare sul divano con un tonfo e Cressida abbassare il braccio e guardarsi le mani con gli occhi color sherry spalancati.
-”Questa è una mossa sleale!”- disse Cressida incrociando le braccia al petto.
-”Non mi hai lasciato altra scelta”- ribatté Andronico sedendosi in maniera composta sul divano.
-”Mi spoglio”- annunciò la ragazza togliendosi la giacca nera.
-”Non ci provare”- la ammonì Andronico alzandosi in piedi e avvicinandosi a lei con fare minaccioso.
-”Cosa sta succedendo?”- domandò Fugo facendo la sua comparsa, immediatamente seguito da Amleto. Guardò prima Cressida e Andronico, poi posò lo sguardo su Otello, il quale si strinse nelle spalle e distolse immediatamente lo sguardo.
-”Suppongo si siano scambiati i corpi”- bofonchiò.
-”...Prego?”- disse Amleto alzando un sopracciglio.
-”Cressida, ho bisogno dello Stand di Andronico”- disse Fugo guardando il ragazzo dai capelli bianchi. L'espressione di superiorità dipinta sul volto di Andronico svanì immediatamente. Il giovane prese per mano Cressida e la baciò, staccandosi da lei un secondo dopo.
-”E' tutto tuo, capo”- disse Cressida, tornata nel proprio corpo.
Andronico si guardò attorno spaesato ma venne subito afferrato per un braccio da Fugo. Il capo della Squadra della Mezzanotte, senza perdere tempo, comunicò gli ordini: Amleto, Cressida e Otello sarebbero rimasti in albergo a riposare o in città a fare un giro della zona; Andronico sarebbe invece andato con lui. Nessuno si sognò di fare domande: quelli erano gli ordini di Fugo Pannacotta, assoluti e indiscutibili. L'uomo dagli occhi color grano trascinò Andronico fuori dall'albergo e scese con lui nel garage sotterraneo riservato ai clienti.
-”Sai cosa fare”- si limitò a dire.
Andronico lo guardò impassibile, gli occhi eterocromatici un poco spalancati. Fugo lo chiamò, tentando di riportarlo alla realtà, ma non ottenne alcuna risposta. Mordendosi l'interno della guancia, Fugo prese a camminare avanti e indietro in attesa di un qualunque cenno vitale da parte di Andronico. A un tratto si sentì afferrare per una spalla e tirare all'indietro. Una mano gli sorresse prontamente la schiena mentre un'altra si strinse lievemente attorno al suo collo. Andronico si chinò su di lui fino ad avere il viso a pochi centimetri da quello di Fugo.
-”Sai come mi sono fatto questa cicatrice?”- gli domandò, alludendo allo sfregio che gli attraversava il volto.
-”No”- rispose Fugo con voce ferma e calma.
Le labbra di Andronico si incurvarono in un ampio sorriso.
-”Nemmeno io”- sussurrò scoprendo i denti. Liberò il collo di Fugo dalla sua stretta e lo spinse a terra. -”E cadde...”- disse guardandolo dall'alto.
-”...Come corpo morto cade”- terminò l'uomo biondo rialzandosi in piedi con nonchalance.
-”Nothing Helps!”- gridò Andronico spalancando le braccia. -”Trova Mercuzio Zeppeli!”-.
Una violenta raffica di vento si abbatté su Andronico. Il ragazzo venne sballottato con forza contro i pilastri che sorreggevano il soffitto del garage. Fugo esternamente restò impassibile davanti alla scena inquietante che gli si parava davanti, ma dentro non riuscì a evitare di pensare che un soggetto come Andronico, oltre a essere completamente pazzo, fosse pericoloso e spaventoso. Il suo corpo veniva sbattuto contro i pilastri di cemento armato, ma il ragazzo sembrava non provare dolore; anzi, era come se si stesse divertendo. L'ultima raffica lo schiacciò contro il pavimento, e Fugo poté giurare di aver sentito il rumore di una costola incrinarsi. Il vento si placò di colpo e Andronico, ridacchiando tra sé e sé, si alzò lentamente in piedi. Col viso tumefatto e la camicia celeste sporca di sangue, alzò un pollice e fece intendere a Fugo di aver individuato la posizione del loro obiettivo.
-”Torna su dagli altri”- gli ordinò Fugo dopo aver memorizzato le indicazioni di Andronico. -”E... fai qualcosa per quella faccia”-.
Il Pazzo sputò per terra e sorrise, scoprendo una dentatura storta e piena di sangue. -”Ci penserà Cassy con Libra”- fu quello che Fugo riuscì a capire.

 

 

Noemi si appoggiò allo stipite della porta e osservò Mercuzio addormentato sul letto. Eriol la raggiunse e le due ragazze si scambiarono un'occhiata compiaciuta.
-”E' gnocco”- commentò Noemi.
-”E' gnocco”- confermò l'altra.
-”E' pazzo”- le corresse Regina, appena arrivata alle loro spalle.
Noemi roteò gli occhi e sbuffò.
-”Ciò non toglie che sia un bel ragazzo”- ribatté.
Regina fu tentata di rispondere, ma alla fine si arrese. Sapeva che discutere con la ragazza dai capelli rossi non l'avrebbe portata da nessuna parte. Affiancò le amiche e guardò il loro misterioso ospite, il lontano parente del loro Boss.
Dopo aver fatto il giro del casale per chiudere tutte le finestre, Davide, Piero e Alex avevano sollevato Mercuzio da terra e lo avevano portato al primo piano, nella stanza libera accanto alla camera di Alex.
-”Puzza di fumo”- era stato il commento di Piero.
Regina vide Eriol e Noemi scambiarsi un cenno d'intesa e, quatte quatte, mettere piede nella stanza.
-”Cosa state facendo?”- domandò loro allarmata.
Le due si girarono verso di lei e si portarono entrambe l'indice alle labbra. Noemi ridacchiò sottovoce ed Eriol le diede un colpetto sulla spalla.
-”Vogliamo vederlo più da vicino”- spiegò la ragazza castana.
-”Non fate idiozie! Tornate subito...!”-.
Il campanello del casale suonò. Noemi ed Eriol si immobilizzarono di colpo mentre Regina si voltò lentamente verso il corridoio. Davide fece capolino dalla propria stanza e lanciò alla fidanzata un'occhiata interrogativa. Senza tanti complimenti, Piero spalancò la porta della sua camera e marciò lungo il corridoio.
-”Questo è il corriere, me lo sento”- disse fiducioso. -”Sono settimane che aspetto un pacco da Amazon!”-.
Davide gli corse dietro e tentò di fermarlo.
-”Piero, non mi sembra una buona idea aprire la porta in un momento come questo. Non possiamo aprire le finestre per sbirciare dall'alto e la porta del casale è talmente vecchia da non avere lo spioncino”- gli fece notare.
-”Chi vuoi che sia a quest'ora del mattino?”- disse Piero esasperato. -”Di sicuro non un vampiro”- aggiunse scoppiando a ridere.
Davide lanciò un'occhiata disperata alla schiena di Piero che scendeva al piano terra. Si voltò verso le tre ragazze, gli occhi dorati spalancati per l'ansia e il timore di ciò che sarebbe potuto succedere.
-”Andate a cercare il Boss”- le supplicò prima di lanciarsi all'inseguimento del giovane dai capelli viola. Le ragazze annuirono e si separarono.
Piero arrivò davanti alla porta del casale, si schioccò le dita e, un sorrisone stampato sulle labbra, si preparò ad accogliere il suo tanto agognato pacco. La persona che si trovò di fronte, però, non aveva per niente l'aspetto di un corriere. Un fortissimo aroma di menta fresca lo colpì in pieno e Piero si ritrovò faccia a faccia con un uomo biondo da degli insoliti e pacchiani orecchini a forma di fragola. Lo sguardo del ragazzo squadrò per bene l'uomo. Piero arricciò il naso, sia per l'odore pungente della menta, sia per l'accozzaglia di colori che l'uomo biondo aveva addosso: azzurro, rosa, verde e nero.
-”E' un agente immobiliare?”- gli domandò.
L'uomo sorrise debolmente.
-”Non direi. Potrei parlare coi tuoi genitori?”-.
Piero andò sulla difensiva e il suo sguardo si indurì. Tutti a La Bassa sapevano che quel casale in campagna era abitato solo ed esclusivamente da otto ragazzi. Il fatto che quell'uomo non lo sapesse poteva significare una cosa sola: quell'individuo non era di La Bassa.
-”Al momento non sono in casa” mentì.
L'uomo ridusse gli occhi color grano a due fessure e si massaggiò il mento con una mano.
-”Non sono in casa, eh? Alquanto insolito. Voglio dire... E' fine agosto, è mattina presto... Sono per caso medici?”-.
-”Sì”- rispose subito Piero, pensando che una risposta rapida e decisa sarebbe bastata a farlo andare via. Ma si sbagliava.
-”E abitano così lontani dalla città? La vostra macchina è qui”- aggiunse poi indicando la C3 di Eriol alle sue spalle. -”I tuoi genitori sono andati a lavoro con una macchina sola? Allora, se ne guidano una sola, perché averne due? Forse una è per te? No, non credo... Tu al massimo avrai quattordici, quindici anni. Certo, potrebbe essere di tuo fratello maggiore... A giudicare dall'interno, però, oserei dire sorella maggiore”-.
L'uomo fece un passo in avanti e posò una mano sulla porta. Piero, preso dal panico, provò a chiuderla, ma non ci riuscì. L'individuo misterioso si chinò in avanti e con la mano libera afferrò Piero per la canottiera.
-”Fammi parlare coi tuoi genitori”- gli disse all'orecchio.
-”Dovrai accontentarti di me”- disse la voce di Zarathustra.
L'uomo lasciò la presa sul vestito di Piero e guardò incuriosito la ragazzina mora appena comparsa alle spalle del compagno. Dietro di lei, come delle marmotte, erano apparsi altri sei ragazzi.
Fugo fece un breve inchino a mo' di saluto ed entrò nel casale, chiudendosi la porta alle spalle.
-”Bene!”- esclamò sfregandosi le mani e guardandosi intorno. -”Che ne dite di scambiare qualche parola?”-.

 








NOTE DELL'AUTRICE
"They say it's all right, does that make it okay?" ---> Decision
In questo capitolo hanno finalmente fatto la loro comparsa tutti i membri della Banda delle Onde Concentriche (per informazioni, leggete "Dangerous Heritage" di AlsoSprachVelociraptor - Anche se ormai penso abbiate capito tutti che "Mighty Long Fall" è anche un crossover).
Mercuzio ha tentato di proteggere se stesso e i ragazzi dalle abilità di ricerca dello Stand di Andronico, Nothing Helps, ma ormai era troppo tardi >:)
Un'altra delle abilità dello Stand i Cressida è stava rivelata, quella legata al segno zodiacale dei Gemelli, mentre un'altra è stata appena accennata, quella della Bilancia. Di cosa si tratterà?  
Nel prossimo capitolo, dedicato alla storia di Celeste, assisteremo al combattimento tra Celeste e Keicho Nijimura (io nel mentre mi dispero perché non so descrivere gli scontri, e vbb).
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 16
*** Don't call me crazy ***


-”Sei lento”- sbottò Celeste quando Jonathan la raggiunse.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli bluastri e sorrise, elargendo un'infinità di scuse in un tono talmente aulico e ricercato da far venire la nausea a Celeste. La sua propensione per l'eleganza e le buone maniere era uno dei motivi per cui la giovane dagli occhi ambrati parlava malvolentieri con Jonathan. Ma cosa poteva farci? Era nato nel 1868.
La cameretta di Shizuka era vuota. Dalle tracce di sangue lasciate per terra, era evidente che Keicho aveva ferito il fratello minore e lo aveva portato via. Come trovarli? Seguire la scia cremisi sarebbe stata la soluzione più rapida, ma non la più sicura: Keicho aveva sicuramente piazzato delle trappole lungo il percorso. Celeste, pensierosa, si passò delicatamente l'unghia dell'indice sinistro sulle labbra. Purtroppo non poteva permettersi di perdere troppo tempo: Deeper Deeper Requiem aveva una durabilità di massimo quindici minuti. Scaduto questo lasso di tempo, a causa dell'ingente quantità di forza richiesta, Celeste si sarebbe ritrovata senza Stand, e quindi con le spalle completamente scoperte.
-”Propongo un blitz frontale”- disse Jonathan intuendo i pensieri della dhampir.
Celeste storse le labbra e sospirò.
-”Proposta accolta”- rispose schioccandosi collo e dita.
Corse verso la porta e si precipitò nel corridoio. Non appena mise piede fuori dalla camera una scarica di proiettili proveniente dal soffitto la colpì sul fianco sinistro.
-”E ti pareva?”- sbottò lanciano un'occhiata feroce verso l'alto. I dieci fanti si ritirarono nell'ombra. Jonathan prese un profondo respiro e colpì la parete con un pugno intriso di onde concentriche.
-”Sunlight Yellow Overdrive!”-. Il muro vibrò e, uno a uno, i fanti caddero al suolo. Celeste li osservò per qualche secondo contorcersi e tentare di recuperare le piccole armi, confusi e spaesati dall'onda concentrica.
-”Chissà se urlano...”- disse più a se stessa che a Jonathan. Con la punta del piede li radunò tutti in un unico punto. -”A te l'onore”- disse poi a Deeper Deeper Requiem. Jonathan, un poco riluttante, obbedì: li pestò tutti e dieci con lo stivale. Il “crack” delle loro piccole ossicina provocò un brivido di piacere a Celeste.
-”Mandamene quanti ne vuoi! Li massacrerò tutti!”- gridò rivolta a Keicho. -”Bene, proseguiamo!”- trillò poi entusiasta.
La scia si snodava per tutto il corridoio, per poi girare in fondo a destra e salire lungo le scale che portavano alla vecchia soffitta. Celeste si fermò di botto e alzò un braccio; Jonathan, dietro di lei, si bloccò.
-”Che accade?”- domandò quest'ultimo con un fil di voce.
Celeste tese le orecchie e arricciò la punta del naso. Quella checca del suo pronipote era appena entrato in casa. Digrignò i denti e si affondò le unghie nel palmo della mano. Possibile che Josuke non sapesse starsene buono al suo posto per una sola volta? I minuscoli proiettili di Bad Company conficcati nella carne della ragazza vennero espulsi, e le ferite si rimarginarono immediatamente. Con un lieve ticchettio metallico i proiettili rotondi caddero a terra e rotolarono in tutte le direzioni.
-”Il frocio ci sta seguendo”- ringhiò Celeste rispondendo finalmente a Jonathan.
-”Milady! Non è questo il modo di esprimersi!”- saltò su il ragazzone.
Celeste fece roteare gli occhi e borbottò un “Tu ma' maiala”. Ignorò le lamentele di Deeper Deeper Requiem e si precipitò verso le scale. Sul primo gradino, piccola e nascosta nell'ombra, c'era una mina. Il piede destro di Celeste la prese in pieno, e l'esplosione scaraventò all'indietro la ragazza, che andò a sbattere contro la parete opposta, reggendosi il piede ferito tra le mani.

-”Ma porca puttana!”- sbraitò, mettendo in bella mostra i canini. Stava cominciando a perdere la pazienza. -”Deeper Deeper! Verde!”- ordinò.
Jonathan fece un cenno d'assenso. Si sistemò i guanti, prese un respiro profondo e posò entrambi i palmi sul pavimento.

-”Evergreen Overdrive!”-.
Dalle travi del curatissimo parquet spuntarono delle sottili piante rampicanti che serpeggiarono lungo la scalinata e si attorcigliarono attorno a tutte le mine nascoste, rendendole così inoffensive.
Grazie alle abilità rigenerative vampiresche il piede di Celeste guarì istantaneamente. La strana coppia si lanciò su per le scale e quando si trovò di fronte a una porta spalancata si immobilizzò: al centro della soffitta, sdraiato e avvolto da una pozza di sangue, c'era Okuyasu. Aveva i lunghi capelli sciolti e imbrattati di sangue, gli occhiali rotti e gettati poco lontano dal corpo. Jonathan e Celeste si guardarono attorno, ma di Keicho non c'era neppure l'ombra.
-”Restano dieci minuti scarsi...”- sussurrò Jonathan senza abbassare la guardia.
-”Lo so”- rispose Celeste stizzita.
Che fare? Era chiaro come il sole che si trattava di una trappola. Chi avrebbe abbandonato la preda in una posizione così vantaggiosa per il nemico? Keicho voleva che Celeste si esponesse, che avesse le spalle completamente scoperte... E si aspettava che ci sarebbe cascata in pieno? Era così che appariva ai suoi occhi? Una stupida oca bionda?
Lo sapevo che avrei fatto meglio a tingermi i capelli di nero...”.
L'eco di una voce profonda e adirata si propagò dal primo piano dell'abitazione. Celeste si voltò di scatto e spalancò gli occhi scarlatti. Josuke stava avanzando. Con un cenno del capo indicò a Jonathan il corridoio.
-”Trova un modo per tenerlo a bada. Non lo voglio tra i piedi”-.

 

 

Josuke non ci stava capendo più niente. Cosa era successo durante la sua assenza? Chi si era introdotto in casa sua, aveva rapito Okuyasu e aveva scaraventato Celeste fuori dalla finestra? Come aveva fatto quest'ultima a resistere a una caduta del genere? Per non parlare dell'orribile ferita che aveva all'altezza dello stomaco! La situazione era davvero bizzarra, al limite della realtà.
Il piano terra sembrava integro. I mobili del soggiorno, della sala e della cucina erano ognuno al proprio posto, perfettamente ordinati e puliti. Si guardò attorno guardingo. Sentì un rumore di passi provenire dal piano superiore. Alzò la testa e serrò la mascella. Doveva trattarsi di Celeste e del misterioso ragazzo, la copia sputata di Jonathan Joestar.
O forse non erano loro...
Josuke si fiondò al primo piano e si precipitò verso la cameretta di Shizuka; ricordava che Celeste era caduta dalla finestra di quella stanza. Sull'uscio trovò una scia di sangue che percorreva tutto il corridoio e saliva al secondo piano. Nel mezzo del corridoio, per terra, c'erano dei minuscoli proiettili ricoperti di sangue. Josuke spalancò la bocca e si appoggiò al muro per non scivolare a terra. Era sicurissimo di aver già vissuto un momento del genere, con un sentiero scarlatto disegnato al suolo, e quelle munizioni... Quelle munizioni. Dove le aveva già viste?
Un ricordo violento tentò di riaffiorare nella sua mente. Josuke boccheggiò, con la testa che gli girava e gli occhi cristallini spalancati. Aveva un orribile presentimento. Col respiro corto, si tirò uno schiaffo in pieno volto e fece un urlo liberatorio. Pestò un piede per terra e si maledisse per aver preferito un pomeriggio di shopping alla compagnia del marito e della arrogante prozia. Pregando che non fosse accaduto niente a Okuyasu, iniziò a salire le scale, facendo due scalini alla volta. A un certo punto apparve un'imponente figura in cima alla rampa. Josuke si fermò, una mano sul corrimano e l'altra stretta a pugno.
-”Cosa sta succedendo?”- domandò a Jonathan.
Il ragazzone inglese tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una bottiglietta d'acqua. Svitò il tappo e sorrise debolmente.
-”Chiedo venia”- disse prima di versare l'intero contenuto della bottiglietta per terra.
Josuke aggrottò le sopracciglia, confuso. Vide il pugno destro di Jonathan venire avvolto da scintillanti scariche elettriche, e solo allora capì: onde concentriche. Prima che potesse reagire ed evocare Crazy Diamond, Jonathan colpì il pavimento bagnato.
-”Blue Marine Overdrive!”-.
Il mezzo litro di acqua naturale si condensò in centinaia di piccolissime gocce che si sollevarono da terra e rimasero sospese a mezz'aria, avvolgendo lo spazio attorno a Josuke.
-”Le sconsiglio di evocare lo Stand, messere”- disse Jonathan gettando la bottiglietta alle proprie spalle. -”Dal suo sguardo posso affermare con sicurezza che sta sottovalutando quelle gocce”-.
-”Non le sto sottovalutando”- ribatté Josuke. -”Sto solo cercando di capire quanto possano far male. E perché tu mi stia impedendo di proseguire”-.
Le goccioline sospese a mezz'aria, intrise di onde concentriche, crepitavano e lanciavano bagliori giallastri. Josuke allungò un dito verso una di queste. La toccò e il dolore lancinante che avvertì sulla punta dell'indice si propagò in tutto il suo corpo. Era come trovarsi in un campo minato. Certo, avrebbe potuto prenderle a pugni e farle scoppiare con Crazy Diamond, ma chi gli garantiva che una volta eliminate tutte avrebbe ancora avuto la forza per reggersi in piedi? Guardò Jonathan negli occhi azzurri e lo supplicò con lo sguardo.
-”Mio marito è in grave pericolo. Perché mi impedite di proseguire? Quali sono le intenzioni di Celeste?”-.
Jonathan serrò le labbra e non rispose; si mise anzi in posizione difensiva, pronto a un'eventuale attacco del dottore giapponese. Josuke, dal canto suo, stava iniziando a perdere la pazienza.
Una pesante imprecazione in italiano interruppe bruscamente il silenzioso duello tra i due uomini. Jonathan si voltò verso la porta aperta della soffitta un secondo prima che un raid aereo attaccò Celeste. La giovane bionda finì contro Jonathan e il duo rotolò giù per le scale, investendo anche Josuke e cogliendo in pieno lo sciame di gocce d'acqua. I due uomini strinsero i denti al contatto con le particelle ustionanti, mentre la ragazza, essendo per metà vampiro, cacciò uno straziante urlo di dolore.
-”Celeste!”- gridò Jonathan precipitandosi sulla figlia e stringendola tra le braccia.
Josuke si guardò le braccia muscolose piene di piccole bruciature rotonde. Sì, faceva male, ma si aspettava di peggio. Guardò Celeste e si sorprese di quanto lei, invece, fosse ridotta male. Perché su di lei le onde concentriche avevano avuto un effetto completamente diverso, più devastante e violento? Vide Jonathan chino sulla ragazza, disperato e impacciato.
-”Resisti, piccola mia, resisti!”- mormorava.
Celeste socchiuse gli occhi e tentò di mettere a fuoco l'immagine sbiadita del volto di Jonathan. E così era quello l'effetto che le onde concentriche avevano sul suo corpo... Terribile. Non riusciva ad alzare neppure un dito. Sentiva le membra bollenti e come se si stessero sciogliendo. I suoi occhi cambiavano continuamente colore, come una luce a intermittenza: ambra, rosso, ambra, rosso, ambra, rosso.
-”No, non tornare umana adesso, non lo fare!”- disse Jonathan disperato. -”No!”-.
-”Cosa le sta succedendo?”- chiese Josuke affiancando il ragazzo.
-”Sta per tornare umana!”-.
Josuke corrugò la fronte.
-”Non è... umana?”- domandò titubante.
-”Mia figlia è un dhampir!”- rispose Jonathan come se fosse una cosa ovvia.
Un dhampir? Cosa diamine era un dhampir? Josuke lanciò un'occhiata interrogativa a Jonathan, ma gli occhi di quest'ultimo, lucidi e intrisi di disperazione, non gli risposero. Nell'incomprensione più totale, il dottore giapponese si soffermò sulle ultime parole pronunciate dal ragazzone dai capelli bluastri: “Mia figlia è un dhampir”.
“Mia figlia”.
Celeste, sorellastra di Giorno Giovanna, figlia di Dio Brando, era la figlia del proprio Stand. Tutto ciò non aveva alcun senso. Eppure la scena che si stagliava di fronte ai suoi occhi era proprio quella di un padre piangente sulla figlia moribonda. Josuke si immedesimò nei panni di Jonathan e una forte e inaspettata morsa gli attanagliò lo stomaco. Cosa avrebbe fatto se al loro posto si fossero trovati Shizuka e lui stesso?
-”Spostati”- borbottò posando una mano sulla spalla di Jonathan e spingendolo dolcemente da parte. -”Ci penso io”-.
In un bagliore roseo apparve Crazy Diamond. Lo Stand passò le mani sul corpo di Celeste e subito le ferite mortali scomparvero. La ragazza spalancò gli occhi di botto e si tirò su in piedi, guardandosi attorno con uno sguardo feroce. Jonathan, la bocca spalancata, la abbracciò forte, affondando la testa nei suoi capelli biondi.
-”E mollami!”- bofonchiò Celeste infastidita, il viso nascosto nell'ampio petto di Deeper Deeper Requiem. -”Quel nazista di merda pensa di avermi fatta fuori, ma non è così!”-. Spinse via Jonathan e riservò un'occhiata truce a Josuke. -”Sei stato tu a guarirmi, eh? Ti ringrazio, checca”- borbottò.
Josuke si grattò la nuca, gli occhi abbassati a terra e un lieve rossore sul viso. Per qualche assurdo motivo quella giovane furia bionda lo aveva per un attimo messo in soggezione. Celeste volse lo sguardo alla cima delle scale e strinse le labbra. Le rimanevano solamente cinque minuti...
-”D'accordo Dottor Gay, la situazione è questa: tuo marito è stato preso in ostaggio da un nazista portatore di Stand. Al momento Okuyasu si trova ferito in mezzo alla soffitta. Ho provato a raggiungerlo ma dei cazzo di elicotteri hanno incrociato il fuoco su di me, facendomi finire sulle meravigliose gocce di merda elettrica di questo damerino”-.
Josuke non sapeva per cosa essere più shockato: per il fatto che suo marito fosse stato rapito, per il fatto che il nazista in questione gli era tremendamente familiare, o per l'inspiegabile cambio di registro di Celeste. La miscela di questi tre elementi mandò lo stressato Josuke in tilt.
-”Io, maremma puttana, propongo uno sfondamento”- continuò. -”Saliamo, gli spacchiamo il culo, e ci riprendiamo Okuyasu”-.
-”Non così in fretta”- disse una voce profonda dalla cima delle scale.
Come a rallentatore, Josuke si voltò, le braccia ingessate e i pugni stretti, talmente stretti da fargli sbiancare le nocche. Per un attimo si sentì mancare. Lo sguardo che incrociò era tagliente, di un intenso verde prato, e inquietamente ostile. Lo aveva visto morire sotto i suoi occhi, tramutato in corrente elettrica e, praticamente, fritto vivo; nonostante fossero passati anni e anni, non era mai riuscito a cancellare dalla memoria l'immagine del suo corpo completamente ustionato e fumante appeso ai fili di un traliccio della corrente elettrica. Certe notti l'urlo straziante di Okuyasu risuonava ancora nelle sue orecchie; il grido disperato di chi aveva assistito alla morte dell'amato fratello.
-”...Nijimura Keicho”- disse Josuke in un soffio sofferto.
-”Higashikata Josuke!”- tuonò il ragazzo dagli orecchini a forma di freccia. -”Sei molto cambiato rispetto a... quindici anni fa! Ovviamente in peggio”- disse con un ghigno di derisione stampato sul volto.
-”Celeste... P-Perché l-lui...?”- iniziò Josuke con voce tremante.
-”Tre minuti”- disse Deeper Deeper Requiem.
-”Poi dicono che uno non deve bestemmiare!”- gridò Celeste esasperata. Con una forza sovrumana spinse via Josuke, più alto di lei di venti e passa centimetri e pesante minimo quaranta chili in più. -”Indaco!”- ordinò.
Jonathan congiunse le mani e chiuse gli occhi. Un secondo dopo li riaprì e, tendendo le braccia di fronte a sé, formò con gli indici e i pollici un rettangolo, al centro del quale posizionò Keicho.
-”Holy Indigo Overdrive!”-.
Una nube color indaco avvolse Keicho. Celeste approfittò del diversivo per balzare in cima alle scale con gli artigli sguainati.
-”Illusi”- disse la ferma voce di Keicho.
Le pale degli Apache diradarono in un attimo la nube creata da Jonathan. Un plotone di fanti si inginocchiò e prese la mira su Celeste, la quale, poco prima che i piccoli soldati facessero fuoco, posò un piede sul soffitto e si diede la spinta per cambiare direzione e tornare indietro. Si accucciò tra i due uomini e mostrò i canini, come fa una leonessa davanti al nemico.
-”Dunque...”- disse il giovane biondo incrociando le braccia al petto. -”Tu meriti ovviamente di morire perché sei la figlia di Dio Brando; tu perché la stai servendo come uno schiavo nero; e tu, Higashikata Josuke, tu meriti di morire perché sei uno sporco tentatore sodomita!”-.
Un inquietante suono sordo, una sorta di pesante “stonk” seguì immediatamente le parole di Keicho. Il giovane biondo, gli occhi rovesciati all'indietro, si accasciò e rotolò giù dalle scale fino a finire ai piedi di Josuke. Il trio si scambiò una serie di occhiate piene di incomprensione, finché Jonathan non vide un'esile figura farsi sempre più nitida in cima alle scale, dove pochi attimi prima si ergeva statuaria la silhouette di Keicho.
-”...L'ho visto fare in Rapunzel”- borbottò Shizuka nascondendo la padella dietro la schiena.

 

 

 

 


NOTE DELL'AUTRICE
"Don't call me crazy" ---> Koubou
Ragazzi, davvero, credevo che non sarei mai riuscita a scrivere questo capitolo D: Invece ce l'ho fatta, e, se devo essere sincera, non mi è venuto così male come mi aspettavo *ride* Ovviamente non è perfetto, ma davvero, me lo aspettavo peggiore >w<
Vi anticipo subito che nel prossimo capitolo (che riprenderà la storia di Mercuzio) assisteremo al dialogo tra Zarathustra e Fugo >:)
Ciao a tutti e alla prossima! ^^
 

 

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Capitolo 17
*** Too many scars, too many fears ***


Zarathustra non aveva mai avvertito un'aura così ambigua. Più guardava quell'uomo biondo e più sentiva nascere in lei una strana sensazione, un misto tra panico e insana curiosità. Gli occhi color grano dell'uomo dall'insolita cravatta a righe vagavano svogliatamente per la casa, soffermandosi nei punti più assurdi, come gli angoli delle porte, le maniglie dei mobili e le persiane delle finestre. I suoi passi erano leggerissimi, quasi inudibili. La sua presenza, inquietante e misteriosa al tempo stesso, era accompagnata da un aroma di menta. L'uomo non si guardava mai alle spalle; il suo volto e il suo sorrisetto tradivano una fastidiosa nota di sicurezza e di spavalderia che non passò inosservata agli attenti occhi del Boss.
Zarathustra, seguita come un'ombra da Alex e Ludovico, accompagnò l'inatteso ospite nella Sala dei Raduni. Senza proferire parola, lo invitò ad accomodarsi sullo stesso divano dove qualche ora prima si era seduto Mercuzio. La silenziosa lotta di sguardi tra Zarathustra e Fugo stava mettendo Alex a disagio. Nessuno dei due sembrava intenzionato ad aprire bocca.
Fugo si guardò attorno e arricciò il naso: troppa polvere, decisamente troppa polvere. E cos'era quell'odore che sentiva, in grado di sovrastare persino il suo profumo di menta?
Come volevasi dimostrare”, pensò sorridendo appena. Nothing Helps non sbaglia mai”.
-”Dal vostro bellissimo teatrino posso supporre che stavate aspettando la visita di qualcuno”- ruppe il silenzio Fugo. Partì alla carica, sperando di far cedere la fermezza di quei ragazzini il prima possibile; non aveva certo tempo da perdere. Frugò nella tasca interna della giacca nera e ne estrasse una fotografia che passò a Ludovico. Il ragazzo la prese, la guardò e, con una discreta poker face, la passò a Zarathustra.
-”Ad ogni modo, sto cercando quest'uomo. Si chiama Mercuzio Zeppeli: napoletano, altezza un metro e ottantatré... E' un mafioso pluriomicida in fuga dalle autorità. Lo avete visto?”-.
Zarathustra passò la fotografia ad Alex. Ovviamente avrebbe mentito, che altro avrebbe potuto fare? Doveva guadagnare tempo ed escogitare un modo per mettere in salvo Mercuzio. Sapeva che l'uomo biondo di fronte a lei era un pericoloso mafioso; doveva procedere coi piedi di piombo.
-”E' difficile che in questa zona passi qualcuno”- disse Alex. La tensione lo stava uccidendo, aveva sentito il bisogno di dire qualcosa. Zarathustra gli lanciò un'occhiataccia da dietro le lenti gialle a specchio.
-”Lo posso ben immaginare”- concordò Fugo. -”Ma proprio perché si tratta di una zona poco frequentata ci sono più probabilità che un latitante vi si rifugi. Non siete d'accordo con me?”-.
Alex annuì vigorosamente, gli occhi sbarrati e la mascella serrata. Fugo vide che le mani del ragazzetto tremavano. Accavallò le gambe e si massaggiò il mento, facendo scivolare lo sguardo da Alex a Zarathustra.
-”Nessuno di voi tre ha raggiunto la maggiore età, vero?”-.
-”Corretto”- rispose piatta Zarathustra.
-”Mentre per quanto riguarda i vostri compagni...?”-.
-”I nostri genitori sono al corrente della situazione. Non siamo orfani e nessuno di noi è scappato di casa”- tagliò corto la ragazza. -”Lei chi è?”-.
-”Renato Trezza, Antimafia”- rispose Fugo mostrando come se niente fosse dei documenti falsi. -”Io e la mia squadra stiamo perlustrando la zona. Come ho precedentemente detto, la vostra accoglienza mi ha sorpreso. Stavate aspettando qualcuno?”-.
Alex sussultò e serrò le labbra, sbiancate dall'ansia; Ludovico alzò un sopracciglio e boccheggiò; Zarathustra, come se niente fosse, sospirò e posò entrambe le mani sulle spalle dei compagni.
-”Le chiedo scusa, signor Trezza, ma Alex soffre di pressione bassa ed è un ragazzo facilmente impressionabile. Vai a farti un bicchiere di acqua e zucchero”- gli ordinò con una dolcezza che spiazzò sia lo stesso Alex che Ludovico. Il ragazzo dai capelli biondo platino annuì vigorosamente e lasciò la Sala dei Raduni con la coda tra le gambe.
Fugo si portò due dita al mento e puntò gli occhi color grano in quelli blu di Ludovico. Il ragazzo sostenne lo sguardo per qualche secondo, poi lo gettò a terra. C'era qualcosa in quell'uomo che lo turbava profondamente. Per qualche motivo era più che sicuro che Renato avesse mentito sulla sua identità, che non fosse un membro dell'Antimafia ma che fosse proprio un membro di quell'organizzazione mafiosa che stava dando la caccia a Mercuzio. Guardò Zarathustra e si accorse che anche lei la pensava allo stesso modo.
Improvvisamente una musica si levò dalla tasca dei pantaloni di Fugo.

Purple haze, all in my brain
Lately things they don't seem the same
Actin' funny, but I don't know why...”.

-”...Excuse me while I kiss the sky”- canticchiò rifiutando la chiamata. Si alzò, stirandosi le pieghe dei pantaloni, e si schiarì la voce. -”Ho ordinato ai miei sottoposti di chiamarmi nel caso in cui fossero riusciti a trovare una pista”- spiegò indicando il cellulare. -”Fate attenzione. Quell'uomo è un soggetto davvero pericoloso. E' un instabile mentale che non ha il timore di sporcarsi le mani”- li mise in guardia con serietà. -”Adesso devo proprio lasciarvi. Questo è il mio numero”- aggiunse passando a Ludovico un biglietto da visita. -”Grazie per l'ospitalità...?”-.
-”Zarathustra”- lo aiutò il Boss.
Fugo spalancò gli occhi e corrugò la fronte.
-”I tuoi genitori sapevano che Zarathustra era un uomo?”-.
-”Non credo sia affar suo”- lo freddò.
Fugo scoppiò a ridere e si incamminò verso la porta del Salone. Prima di aprirla si fermò e si voltò lentamente di tre quarti. Ludovico mosse un passo in avanti e Zara strinse i pugni lungo i fianchi. Tutto a un tratto l'aria attorno a loro si era appesantita.
-”Qualcuno di voi fuma?”- domandò Fugo a bruciapelo.
-”Sì”- risposero i due all'unisono, mentendo. In realtà, in quanto Guerrieri delle Onde Concentriche, nessuno di loro poteva fumare; ne andava del loro potenziale.
-”Strano che non ci sia nemmeno un solo posacenere in questa casa...”- commentò.
-”Il casolare è grande”- giustificò Ludovico stringendosi nelle spalle. -”Ne possediamo solo uno e di norma lo teniamo in giardino”-.
-”Già...”- mormorò Fugo stringendo le labbra.
Una figura viola apparve alle sue spalle e si lanciò con una velocità impressionante contro Zarathustra e Ludovico. 42 Reprise si materializzò davanti ai due ragazzi e assunse una posizione difensiva. L'alto Purple Haze Distortion, la schiena ricurva in avanti, ringhiò. La vischiosa bava che gli colava dalla bocca finì ai piedi di 42 Reprise. Ludovico, immobile come una statua, evocò Black Or White: la sua ombra si allungò e andò a piazzarsi sulla porta della Sala, esattamente dietro a Fugo.
-”Avete settantadue ore per consegnarmi Mercuzio Zeppeli”- disse Fugo infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. -”Ci tengo che sappiate fin da subito che sono una persona poco paziente”-. Ritirò lo Stand e diede ai ragazzi le spalle. Ludovico, dopo qualche attimo di esitazione, fece lo stesso e lasciò che Fugo uscisse dalla Sala. Senza attendere gli ordini del Boss, seguì a ruota il capo della Squadra della Mezzanotte e lo scortò fino all'uscita del casolare, più per timore che facesse del male ai suoi compagni che per educazione.
Zarathustra, rimasta da sola nella Sala dei Raduni, strinse con forza il pugno destro; lo caricò di Onde Concentriche e colpì con un moto di rabbia il divano.

 

 

Lentamente riprese conoscenza. Socchiuse gli occhi, mugugnò parole incomprensibili persino a se stesso, e infine sospirò. Qualcuno lo aveva trasportato dalla cucina a una camera da letto; sicuramente era stato qualcuno di quegli strani otto ragazzi. Chissà se il loro capo, Zarathustra, aveva preso sul serio le sue parole. Mercuzio sperò con tutto se stesso che l'avesse fatto; causare una precoce morte violenta a degli innocenti ragazzini era una delle ultime cose che avrebbe desiderato.
La ragazza dai capelli color miele era seduta ai piedi del letto con le gambe incrociate sulle lenzuola: lo stava fissando coi suoi occhi ambrati da gatto.
-”Ti sei finalmente decisa a parlarmi?”- le domandò tristemente. -”Perché hai voluto che salissi al Nord?”-.
La ragazza sbatté le palpebre un paio di volte e Mercuzio, rassegnato, si rigirò su di un fianco e si tirò su le lenzuola fino al naso. Davvero sperava che quel bel fantasma gli rivolgesse la parola? Non lo aveva mai fatto, ed era quasi certo che non lo avrebbe mai fatto. Come può parlare un'allucinazione visiva?
Ignorò la sua silenziosa compagna finché questa non svanì nel nulla.
Chiuse gli occhi, richiamando alla mente le immagini del suo sogno ricorrente: le fiamme, la ragazza, il giovane... Doveva per forza esserci un messaggio dietro, un significato; aveva compiuto pazzie per quella ragazza bionda, aveva...
Il ricordo lo colpì all'improvviso e gli fece male quanto una bastonata sulla schiena.
...Aveva ammazzato Gerardo, il giovane, scapestrato e indisciplinato Gerardo; aveva troncato la sua vita con una semplice pallottola piantata nel suo cranio.
Si portò le mani tremanti alla testa e strinse i denti, costringendosi a non gridare. Gli occhi gli si riempirono di lacrime mentre dalle labbra serrate uscivano dei singhiozzi strozzati.
Se non avesse ucciso Gerardo, molto probabilmente a quell'ora non si sarebbe ritrovato in quell'orribile situazione, ricercato dalla Squadra della Mezzanotte e aiutato da un gruppo di ragazzetti allo sbaraglio. Quante possibilità avevano, lui e i ragazzi di Zarathustra, di uscirne sani e salvi? Qualcuno sicuramente ci avrebbe rimesso la pelle, e quel qualcuno sarebbe stato proprio lui.
Mercuzio si asciugò gli occhi con il dorso della mano e si tirò su a sedere. Aveva ancora addosso i suoi jeans, ma, dopo una rapida perlustrata della camera, si accorse che non c'era alcuna traccia né della sua giacca, né del portafoglio. Si tolse le lenzuola di dosso e mise i piedi a terra. Provò ad alzarsi: le gambe gli facevano ancora male e la sua andatura era incerta, ma aveva già fatto dei miglioramenti rispetto a qualche ora prima. Mista glielo diceva sempre: Hai una pellaccia particolarmente dura”.
Qualcuno bussò alla porta e non attese il permesso per entrare. Zarathustra fece la sua comparsa, seguita da una ragazza castana alta una decina di centimetri più di lei. Quest'ultima portava sulla testa un diadema da principessa e teneva strette nella mano destra due bacchette di metallo.
-”Noto che ti sei ripreso”- commentò Zarathustra con poco entusiasmo. -”Dove stavi andando?”-.
-”Via”- rispose il giovane moro indicando la finestra alle sue spalle.
Zarathustra e Regina si scambiarono una rapida occhiata. Che si fosse accorto dell'arrivo di Renato? Zarathustra si sistemò gli occhiali sul naso e scosse la testa, come a dire Lascia perdere”.
-”Quando ti sei svegliato?”- gli domandò.
-”Poco fa”-.
-”Zara, dobbiamo dirglielo”- le sussurrò all'orecchio Regina.
Mercuzio, indispettito dal fitto bisbigliare della ragazza dagli occhi azzurri, fece schioccare la lingua. Gettò lo sguardo sul comodino del letto, in cerca dell'ultimo pacchetto di sigarette che gli era rimasto. Si ricordò di aver fumato l'ultima durante l'interrogatorio di Zarathustra e bestemmiò in silenzio.
-”Ecco... Non è che qualcuno potrebbe andare a comprarmi un pacchetto di Marlboro Gold?”- domandò speranzoso alle due ragazze.
-”Non è permesso fumare in questa casa”- disse Zarathustra lapidaria.
-”Vorrà dire che fumerò in giardino”- rispose Mercuzio con un'alzata di spalle. -”Sono dipendente dalla nicotina. Tanto. L'ultima volta che non ho fumato una sigaretta nel giro di tre ore ho...”-.
-”Renato Trezza ti ha trovato”- lo interruppe la ragazza mora. -”Un uomo biondo dagli occhi color grano e uno Stand viola”-.
Mercuzio sentì le parole morirgli in bocca. Sbarrò gli occhi e sbiancò. Fugo Pannacotta era riuscito a individuarlo. Lo aveva trovato e lo stava braccando, ed era riuscito a farlo con una rapidità sconcertante.
-”Nothing Helps...”- mormorò coi denti stretti. -”Sapevo che ormai era troppo tardi!”- ringhiò portandosi le mani alla testa e stringendosi i capelli tra le dita.
-”Merry”- lo chiamò dolcemente Regina. -”Abbiamo bisogno che tu ci dica tutto quello che sai sulle persone che ti stanno alle calcagna, altrimenti non potremo aiutarti”-.
Era proprio questo il problema: Mercuzio non voleva l'aiuto di quei ragazzi. Non aveva alcuna intenzione di assistere alla morte di altre persone innocenti.
-”Ho... Ho bisogno di fumare”- la ignorò guardandosi forsennatamente attorno.
-”Non abbiamo tempo per stupidaggini del genere”- lo rimproverò Zarathustra. -”Renato Trezza ci ha dato settantadue ore; io ho intenzione di sfruttare anche l'ultimo secondo disponibile per permetterti di scappare”-.
Mercuzio alzò un sopracciglio e strinse le labbra. Chi era quella ragazzina per credere di avere il diritto di parlargli in quel modo? Nonostante il braccio dolorante, alzò un dito e glielo puntò contro.
-”Voglio che sia chiaro fin da subito che non...!”- iniziò.
La chiara e delicata mano della ragazza dai capelli color miele si posò sul suo braccio. Mercuzio incrociò i suoi occhi ambrati carichi di risolutezza e di preoccupazione; la giovane scosse la testa e si mise l'altra mano sul cuore.
Zarathustra e Regina videro Mercuzio interrompere di botto la sua arringa e fissare a bocca aperta qualcosa di non ben definito. Regina si schiarì la voce e fece per richiamarlo, ma Zarathustra la fermò.
-”Stai avendo una delle tue allucinazioni visive?”- gli domandò calma.
Mercuzio spostò lo sguardo dalla ragazza misteriosa a Zarathustra, e annuì lentamente.
-”Cosa vedi?”-.
-”E' complicato da spiegare...”- sussurrò. -”Non... Non mi credereste... Voi non potreste in alcun modo...”-.
-”...Capire?”- lo anticipò. -”E' ovvio: come posso capire qualcosa se non mi viene prima spiegata? Come ha precedentemente detto Regina, noi vogliamo aiutarti, ma per farlo dobbiamo sapere tutto su di te, su Renato Trezza e sui suoi compagni”-.
La ragazza dai capelli color miele gli sorrise e svanì. Gli occhi di Mercuzio misero a fuoco la figura di Zarathustra e il giovane uomo boccheggiò. Forse il suo fantasma voleva che rimanesse con quei ragazzi; forse voleva che accettasse il loro aiuto. Guardò Regina, la ragazza dai grandi occhi azzurri; per qualche strano motivo i suoi occhi lo tranquillizzavano. Le labbra di Regina si incurvarono in un sincero sorriso di incoraggiamento.
-”C'è il grosso rischio che qualcuno di voi ci rimetta la pelle”- disse con gravità.
Regina si mise una mano sul fianco e agitò per aria le bacchette.
-”Non preoccuparti: siamo più in gamba di quanto tu possa pensare”-.
-”Siamo riuscite a convincerti?”-.
Mercuzio si passò una mano tra i capelli e sospirò.
-”Credo di sì”- disse titubante.
-”Perfetto”- commentò subito Zarathustra. -”Regina, possiamo procedere”-.
-”Agli ordini!”- trillò la ragazza castana.
-”Fatemi fumare prima, vi supplico!”-.
Zarathustra alzò gli occhi al cielo e storse la bocca.
-”Dirò a Eriol di uscire a comprare un pacchetto di sigarette”- si arrese. -”Potrai fumare solo in giardino. E' chiaro?”-.
-”Trasparente”- rispose Mercuzio con un sorrisone.
Regina avanzò verso di lui, seguita a distanza di pochi passi dal Boss.
-”Merry, per cortesia, stenditi sul letto. Dobbiamo curarti le ferite e farti tornare come nuovo”-.
Mercuzio corrugò la fronte e guardò Regina volteggiargli intorno. Fece come gli aveva detto e si mise sul materasso. Zarathustra si posizionò ai piedi del letto e incrociò le braccia al petto.
-”Mentre Regina ti curerà, tu e io faremo una bella chiacchierata. Ti prego di rispondere con sincerità a tutte le mie domande”-.
Il giovane Zeppeli, gli occhi fissi sul soffitto, annuì. Regina entrò nel suo campo visivo. Si chinò un poco su di lui e gli mostro le sue bacchette.
-”Vedi queste? Canalizzano le onde concentriche e mi permettono di aumentare la precisione del raggio d'azione”-.
-”Onde concentriche?”- ripeté il ragazzo moro con sguardo accigliato. -”Cosa sarebbero?”-.
Zarathustra alzò un sopracciglio. Com'era possibile che uno Zeppeli non conoscesse l'antica arte delle onde concentriche?
-”Tuo nonno non te ne ha mai parlato?”-.
-”No, credo di no. E' la prima volta che sento questo nome”-.
Il Boss sbuffò.
-”Ne riparleremo più tardi, allora”- borbottò. -”Non badare a quel che fa Regina, concentrati su di me, okay?”-.
-”Tutto chiaro, segnurina”-.
Regina strinse nelle mani le sue bacchette di metallo. Sotto forma di scoppiettanti scariche elettriche, le onde concentriche si propagarono lungo le asticelle e conversero nelle punte. La ragazza castana avvicinò le punte al corpo di Mercuzio, il quale iniziò a sentire un piacevole calore pervadergli il torace.
-”Dunque, Mercuzio, cosa ti è successo? Per quale motivo ti trovi a La Bassa?”- iniziò Zarathustra. -”Vorrei che tu mi parafrasassi ciò che mi hai detto: sono un mafioso pluriomicida traditore affetto da allucinazioni visive. Cominciamo dall'inizio? Sono un mafioso”-.
Mercuzio fece un respiro profondo e si forzò a parlare.
-”Sono un membro dell'organizzazione mafiosa chiamata Passione e avente sede a Napoli. Siamo tutti portatori di Stand perché è questa la peculiarità dell'organizzazione. Ciò che fa Passione è riassumibile in una semplice frase: governa e regge l'Italia nell'ombra impedendo che la corruzione e il cattivo governo la portino alla rovina”-.
Un'organizzazione mafiosa che operava per una sorta di bene comune? Zarathustra non era tanto convinta della descrizione fattale da Mercuzio, ma decise di non soffermarcisi su; del resto non le era mai importato qualcosa della politica interna.
-”Pluriomicida”-.
-”Be', credo sia ovvio, no?”- disse Mercuzio facendosi scappare una breve risata amara. -”Nel corso della mia carriera mi è capitato di dover eliminare qualcuno”- rispose con semplicità.
-”La tua sincerità è disarmante”- commentò Regina sistemandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Mercuzio fece spallucce. Si sorprese nel constatare che poco a poco il dolore al corpo stava svanendo grazie alle misteriose onde concentriche di Regina.
-”Traditore”-.
-”A causa della mia allucinazione ho ucciso un mio compagno. Immediatamente dopo me la sono data a gambe senza tentare di risolvere in qualche modo la situazione. Voglio dire... Come si può risolvere la morte di qualcuno? Ho mollato tutto e sono scappato, senza dare spiegazioni a nessuno. Forse... Forse solo al mio psichiatra”-.
-”Parlami delle tue allucinazioni visive”- proseguì impassibile il Boss.
Regina staccò le punte delle bacchette dalle costole di Mercuzio e passò alle braccia.
-”Vanno avanti da un anno e riguardano sempre la stessa persona, ovvero una ragazza dai capelli color miele e dagli occhi ambrati. La vedo ovunque e in qualunque momento. Non parla mai, comunica solo a gesti. Oltre alle allucinazioni ho anche un sogno ricorrente in cui mi trovo in una camera bianca invasa dalle fiamme; la stessa ragazza delle mie allucinazioni è lì e piange. Io le grido contro, le dico che riuscirò a trovarla, e poi... E poi mi sveglio. E' stata lei a dirmi di salire al Nord. E' merito della Squadra della Mezzanotte se mi sono ritrovato a La Bassa: mi hanno attaccato e distrutto la macchina nelle vostre campagne”-.
-”Dunque, permettimi di fare un punto della situazione”- disse Zarathustra sistemandosi gli occhiali sul naso. -”Da un anno a questa parte hai improvvisamente preso ad avere un sogno ricorrente e allucinazioni visive. A causa di una allucinazione hai accidentalmente ucciso un tuo compagno. Sei fuggito e adesso Passione ti ritiene un traditore perché hai inspiegabilmente ammazzato un altro membro”-.
-”Esatto”-.
Zarathustra si portò due dita al mento.
-”C'è un modo per tornare indietro, per placare l'ira del boss di Passione?”- gli chiese.
Mercuzio fece forza sui gomiti per tirarsi un poco su. Guardò Zarathustra, il viso serio e una luce di fermezza negli occhi color smeraldo.
-”Io devo trovare quella ragazza”- disse.
Zarathustra si ritrovò a sorridere e ad ammirare il coraggio e la decisione del suo lontano parente.
-”Lo prendo come un no”- commentò. -”Quindi”- riprese. -”Hai la Squadra della Mezzanotte alle calcagna. Parlami di loro, dimmi tutto ciò che sai”-.
-”Stando a quanto mi hai detto, hai già avuto modo di conoscere il capo. Renato Trezza è un'identità falsa. Il suo vero nome è Fugo Pannacotta, il suo Stand è Purple Haze Distortion, uno Stand dal raggio fondamentalmente illimitato e dalla potenza distruttiva; genera un virus che distrugge gli organi vitali in poco tempo. La sua debolezza è la luce del sole: alla luce il virus muore”-.
Regina si irrigidì e perse la presa su una delle due bacchette. La recuperò immediatamente e guardò preoccupata Zarathustra, la quale, nonostante l'aspetto calmo e pacato, aveva sentito risuonare nella sua testa un campanello d'allarme.
-”Per questo motivo è solito attaccare solo dopo il tramonto. Hai fatto caso al suo profumo di menta? Si dice che sia così forte perché deve coprire l'odore di morte che Fugo non può più togliersi di dosso”-.
-”Zara, io credo...”- iniziò Regina seriamente spaventata.
-”Vai avanti, Mercuzio”- la ignorò. -”Chi sono gli altri membri della Squadra?”-. Guardò Regina e le ordinò con un cenno del capo di continuare il suo lavoro.
-”I membri della Squadra della Mezzanotte cambiano da missione a missione, capo escluso. Non so dirti chi siano tutti, perché ne ho visto uno solo; il secondo l'ho dedotto seguendo un ragionamento logico, mentre per quanto riguarda il terzo e il quarto non sono in grado di dirti veramente niente”-.
-”Illuminami”-.
-”Cressida la Principessa”- iniziò Mercuzio alzando l'indice. -”Una ragazza veramente carina dai capelli castani mossi e gli occhi da cerbiatta. Il suo Stand si chiama 20 Years Old ed è una sorta di ruota zodiacale: possiede dodici abilità diverse che vengono scelte casualmente e hanno ognuna la durata di cinque minuti. Il raggio di azione mi è sconosciuto; probabilmente varia da un segno zodiacale all'altro. Andronico il Pazzo”- proclamò, e alzò il dito medio della stessa mano. -”Capelli bianchi, un occhio marrone scuro e l'altro azzurro chiaro, ha una brutta cicatrice che gli attraversa il volto: sicuramente non passa inosservato. E'... pazzo. E' completamente pazzo. Non dà retta a nessuno, solo a Cressida. E' una forza della natura indomita e pericolosa. Il suo Stand, Nothing Helps, non ha forma fisica; è, fondamentalmente, il vento stesso. Rintraccia e porta al portatore suoni e odori. Credo che Andronico sia persino in grado di usare il vento come un'arma. Ricordi quando vi ho ordinato di chiudere tutte le finestre? Ecco, era per cercare di impedire a Nothing Helps di riportargli il mio odore e le vostre voci”-.
Uno Stand paragonabile a un'arma chimica, uno dotato di ben dodici abilità, e una sorta di stregone in grado di dominare il vento: nonostante mancassero all'appello due membri, già così la Squadra della Mezzanotte costituiva una grandissima minaccia. Chissà se Fugo Pannacotta avrebbe mantenuto la parola... Chissà se aveva davvero intenzione di concedere loro settantadue ore... Come agire? Forse aveva sottovalutato la gravità della situazione. Sarebbe riuscita a gestire tutto? Mercuzio, la Squadra, i vampiri...
Zarathustra socchiuse le labbra e aggrottò un poco le sopracciglia. Aveva dimenticato che a La Bassa, oltre alla Banda delle Onde Concentriche, c'era un altro gruppo.
-”Regina, quando hai terminato le cure sei libera di fare ciò che vuoi”- disse alla compagna. -”Grazie delle informazioni, Mercuzio”- si rivolse poi all'altro. -”Tornerò da te più tardi. Riposati”-.
-”Aspetta, Zarathustra!”- la richiamò il giovane moro steso sul letto. -”Che cosa hai intenzione di fare? Ti ripeto, quegli individui sono mafiosi, giocano con la morte tutti i giorni. Hai un piano?”-.
Zarathustra si voltò verso il parente e incrociò nuovamente le braccia al petto.
-”Forse non ce ne sarà bisogno”- disse, sorprendendolo. -”Diciamo che non è detto che riescano a sopravvivere a una notte a La Bassa, a meno che io non lo voglia; e io non lo voglio di certo”-.








NOTE DELL'AUTRICE:
"Too many scars, too many fears" ---> Right by Your Side
Eeeeeeeeh. C'ho messo una vita ad aggiornare (e pure a scrivere, soprattutto a scrivere); purtroppo, dal punto di vista "poetico", non è un bel periodo. Non ho la stessa ispirazione e voglia di scrivere che avevo un tempo. Sinceramente? Credo sia colpa delle pressioni dell'università. Eeeww. E vabbe', con calma si fa tutto :>
Nel prossimo capitolo, dedicato al "Celeste side", vedremo la situazione in casa Higashikata dopo la miracolosa resurrezione di Keicho >:)
Ciao a tutti e alla prossima ^^

 

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