Rosa nata ieri

di Lady A
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Addii ***
Capitolo 2: *** Nastro blu ***
Capitolo 3: *** Il ritorno di Oscar ***
Capitolo 4: *** Tensioni ***
Capitolo 5: *** Segreti ***
Capitolo 6: *** Rancore ***
Capitolo 7: *** Esplosione ***



Capitolo 1
*** Addii ***


Rosa nata ieri




 
«Credo che tornerò in Svezia senza l’onore di aver incontrato Sua Maestà. Sette anni fa sono partito senza neanche salutarla Oscar, come un codardo… l’ho fatto per soffocare i sentimenti che allora nutrivo per lei, sono sicuro di esservi riuscito. Mi sono fermato in Francia per due motivi. Per dare l’ennesima dimostrazione a me stesso che il mio cuore adesso non prova più amore per lei e… per voi. Sì per voi. Vi confesso che in questi sette lunghi anni mi è capitato sempre più spesso di pensarvi Madamigella Oscar, il ricordo della vostra immensa grazia, dei vostri bellissimi lineamenti e dei vostri meravigliosi occhi azzurri sono stati in grado di placare come nient’altro le profonde sofferenze di questi lunghi anni. E sempre pensando a voi, ho capito quanto davvero ho sbagliato con la Regina. Lei resterà sempre nel mio cuore, ma ora posso dirvi con certezza che riesco a pensarla in maniera diversa… mentre per voi… per voi mi sono accorto di provare qualcosa di profondo, di molto profondo Oscar… non voglio sconvolgervi ma credetemi, ci tenevo a dirvi che nell’eventualità che ricambiaste i miei sentimenti, desidererei come niente al mondo sposarvi…»

«Fersen io…»

«Non dite niente, non dite niente Oscar… solo ora mi chiedo come ho fatto a non capire al nostro primo incontro che eravate una donna, una bellissima donna… sono certo che mi rendereste l’uomo più felice del mondo, vi prego di rifletterci, prendete tutto il tempo che vi serve…».

 
Non ero altro che uomo imperfetto; una donna che non sapeva o che forse, non voleva più comportarsi come la natura aveva disposto per lei.
L’alba era imminente. La sua luce macchiava di un timido sole, il cielo ancora spento. In Svezia gli inverni erano sempre molto lunghi e nevosi. Il sole aveva spesso il retrogusto del miraggio.
Scostai le tende e con rammarico osservai l’orizzonte seduta alla toilette dei miei appartamenti, stringendo tra le mani un calice di vino; gennaio era giunto al termine, silenzioso, piatto e impalpabile dinanzi le spoglie di quella vita che io stessa, avevo scelto quasi un anno prima. Con tristezza infinita, mi rifugiai in un mondo fatto di ricordi che allora, avevo ripudiato senza esitazioni, con distacco, completamente persa in un amore in cui credevo profondamente, alla quale ero arrivata a sottomettermi con un’infinita gioia nel cuore, perché amavo ogni singola cosa che lo riguardasse. Dal suo modo di parlare, ai suoi modi gentili e raffinati. Mio padre aveva fatto di me un soldato ma Fersen aveva risvegliato la donna che sopita da una vita, viveva esitante in me.
Senza voltarmi indietro, avevo riposto l’uniforme, costringendomi in mise tipicamente femminili.
Vestita d’azzurro cielo, ornata da chiffon e fiori variopinti, il primo marzo 1788 nella chiesa di Riddarholmen, situata su un’isola di Stoccolma, divenni la sua sposa. Ma bastarono pochi mesi perché ineluttabilmente, sprofondassi nei drappi mio stesso sogno.
Chi era quella donna con il viso intinto di biacca che indignata osservavo ogni giorno allo specchio e che mai riconoscevo? Dalle guancia velate di rosa, le labbra infiammate di carminio, perennemente avvolta in un corsetto talmente rigido da impedirle di respirare? Impossibilitata dal panier perfino nell’oltrepassare la soglia di una porta e nel compiere le azioni più naturali e quotidiane?!

«Questi abiti vi donano molto più di quelli maschili. Siete bellissima Oscar… anche se sarebbe più opportuno d’ora in avanti chiamarvi Françoise. Françoise Von Fersen!».

C’era stato un tempo in cui avevo fortemente creduto che la felicità e il desiderio che attraversava lo sguardo di mio marito fosse anche il mio, questo prima di scoprire che l’amore che nutrivo per lui, mi stesse gradualmente cambiando in qualcuno che non ero e che mai avrei voluto né potuto essere. La natura mi aveva reso donna ma ero stata forgiata come un uomo fin dalla nascita e quel spiraglio del mio passato, tornava ogni giorno a farmi visita, a rammentarmi un’altra realtà, a posarsi su di me, violento come una fiera selvatica, annullando ogni respiro e sentimento. Non era quella la mia vita che di sfide, scontri e duelli era stata generosamente nutrita!
Da quando avevo sposato Fersen, giacevo in un limbo di inadeguatezza e indignazione.
I merletti, le sfarzosità delle feste e le superficialità delle donne che lui era solito frequentare, non facevano parte del mio essere. Lui ne era spesso rammaricato.
In pochi mesi di matrimonio, finii per allontanarmi sempre di più da lui. Sia fisicamente che mentalmente. Ben presto, divenni incapace di assecondare ogni suo volere ma lui da uomo meraviglioso qual era, non diede mai colpe a queste mie mancanze, forse troppo occupato a giacere in letti altrui.

Sospirai, bevendo l’ennesimo sorso di vino.
Slacciai alcuni bottoni del panciotto damascato, che eccessivamente decorato per i miei gusti, ricadeva lungo le culottes. Irritata, avevo riposto da mesi ogni vezzo femminile. Volevo ritornare ad essere me stessa.
Ma chi ero realmente?
Ero sfuggita al mio destino di soldato ma vigliaccamente non volevo più accettare il richiamo della mia vera natura. Non riuscivo ad essere una donna. Non per Fersen, almeno.
Continuai a bere, fissando per lungo tempo le ardite fiamme del camino.
Quando avvertii dei passi alle mie spalle il pendolo batté otto rintocchi.
Distinsi un profumo. Inconfondibile. Terribilmente dolce da risultare nauseante.
Lo stesso che alcune settimane prima avevo respirato incontrando la giovane e avvenente baronessa Inga-Britt.
Mio marito doveva aver passato l’intera notte con lei.
Non provai gelosia, talmente ero avvezza ai suoi tradimenti. Alcuni consumati anche le prime settimane di nozze.
Fersen mi salutò con calore, baciando la mia mano, ma io rimasi impassibile. I suoi lunghi capelli biondi erano leggermente scomposti nel fiocco di raso che li raccoglieva.
Doveva aver passato una notte movimentata.

«Vi vedo in ottima forma. Avete passato una bella serata immagino…».
Mi rivolsi a lui con tono neutrale, sorridendogli appena, ironica, pungente.
Posai il calice di vino su un mobile al mio fianco.
Fersen sembrò colpito dalle mie parole, vidi il suo sguardo velarsi di malinconia. Mi sentii quasi in colpa.

«Ascoltate Françoise… Oscar, sto cercando di essere un buon marito per voi… ma ormai ci comportiamo quasi fossimo due estranei...».
Si chinò su di me, posando le sue mani sulle mie spalle.
Un tempo avrei tremato e gioito a quella vicinanza. Ma quel tempo era ormai trascorso, svanito. 

«Avete ragione Fersen, da tempo ho capito che la mia vita non è qui con voi… ».
Parlai con un’inaspettata serenità nel cuore, reggendo il suo sguardo penetrante, che tanto avevo amato.

«Ma cosa state dicendo? Io vi desidero! Sono mesi che sogno di poter rifare l’amore con voi… ma voi rifiutate ogni minimo contatto con me, eppure all’inizio non era così, io non credo di avervi mai mancato di rispetto…». 
Con tenerezza, posò una carezza sul mio viso ma senza scompormi allontanai la sua mano.

«Certo anche se non appena ve ne capita l’occasione non esitate ad intrattenevi con donne diverse…». Continuai con una certa amarezza, evitando di guardarlo.

«Oscar voi dovete capirmi… io sono un uomo e se voi non volete compiacermi, mi vedo costretto a cercare calore altrove… anche se ogni volta mi sento in colpa… io nutro un sentimento molto profondo per voi, sono vostro marito…».

Peccato che quando tutto andasse ancora bene tra di noi, vi abbia sorpreso più volte appartato con altre donne. Non sono mai stata all’altezza delle vostre amanti, vero marito mio?

«E’ inutile girarci attorno… il nostro matrimonio è finito…».
Mi alzai di scatto e dandogli le spalle, mi incamminai, avvicinandomi ad una finestra.

«Domani mi imbarcherò per la Francia. Vi auguro buona fortuna e ora per favore, lasciate questa stanza…».
Malgrado tutto, non ebbi il coraggio di guardarlo in viso.

«Questo è forse un ordine?».
La sua voce risuonò amara.
Ripensai con tristezza ai momenti d’amore vissuti insieme.

«Sì, lo è!».
Risposi duramente, d’istinto. Attesi trepidante di sentirlo uscire dai miei appartamenti, solo allora mi sforzai di sorridere tra le lacrime.

Quello fu un addio.  

 

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Capitolo 2
*** Nastro blu ***


Rosa nata ieri


 
Aprii gli occhi nel silenzio di un nuovo inizio. Il sole venne al mondo fiero, rintagliando un proprio spazio tra le nubi che velavano il cielo.
Il giorno che più temevo era arrivato così com’era passato, colmo di tristezza per me, ma inesorabilmente frenetico e pieno di gioia per quelli che mi circondavano.
Oscar aveva lasciato tutto il mondo dietro di sé per l’uomo che amava, l’unico ed inimitabile conte Hans Axel di Fersen! Insieme avevano abbandonato la Francia, diretti in Svezia per l’imminente matrimonio.
Il Generale Jarjayes da sempre fedele alla Corona, aveva sagacemente caldeggiato quest’unione che avrebbe allontanato definitivamente il conte svedese dall’ormai impopolare Regina Maria Antonietta.
Sforzandomi di concentrare i miei pensieri altrove, mi alzai dal letto con stanchezza, spento come un fuoco impavido che aveva bruciato per l’intera notte. Inciampai su alcune bottiglie che avevano accompagnato la mia infelice serata. Le raccolsi e con un sospiro le poggiai sul tavolo della mia stanza. Appena vestito, mi occupai di farle sparire dagli occhi vigili di mia nonna, che solo la sera prima mi ero ritrovato a dover confortare per la partenza di Oscar. Avvertivo anch’io terribilmente la sua mancanza. Molti erano stati gli avvenimenti che avevo visto sfuggire come sabbia dalla mani, senza poter far nulla per trattenerli.
Non ne avevo diritto.
In un soffio di vento, avevo visto Oscar cambiare a tal punto da non capire più chi lei fosse.
Vederla felice e raggiante in quegli abiti femminili per Fersen, aveva confuso e distrutto il mio cuore.
Dov’era finita la Oscar caparbia, orgogliosa e spavalda che amavo e ammiravo? La mia compagna di giochi, studi, lotte, cavalcate e duelli instancabili?
La salutai con un doloroso contegno.
Con rispetto e dovuto riguardo, diedi addio alla donna che era diventata. Felicemente sottomessa ad un amore che dopo lunghi anni d’attesa aveva scoperto ricambiato.
Era felice con lui. Me lo ripetevo di continuo senza trarne un reale sollievo.
Non ero nessuno per impedirle di vivere una simile gioia. Fin da bambino, avevo sempre anteposto la sua felicità alla mia.
Mi guardai allo specchio, sistemandomi i capelli, la giacca di fustagno e il fazzoletto di seta attorno al collo. Con amarezza mi sforzai di sorride. Chiusi gli occhi per un breve istante, lasciandomi carezzare dal tiepido assalto di luce del giorno nascente. Afferrai una brocca d’acqua, riempendo un bicchiere. Quando mi apprestai a bere, il vetro si sgretolò penosamente tra le mani. Sinistro, il sangue imbrattò ogni cosa. Mi irrigidii, stringendo le labbra. Disperato gettai a terra ogni cosa. Sedie, tavolo, bicchieri, brocca e catino. Temetti di impazzire. Privo di fiato caddi in ginocchio. Solo allora capii di star piangendo fragile come un bambino venuto al mondo.


Trascorsero molte settimane. Arrivò la primavera a schiudere con i suoi delicati ciliegi in fiore, le lunghe giornate. Quel nauseante senso di dolorosa perdizione, continuò inesorabilmente ad accompagnarmi nei giorni a seguire. Ne fui quasi contento. In quei momenti, era solo la sofferenza a ricordarmi di essere ancora vivo. La sua mancanza chiuse ogni mio senso.
Smisi perfino di ubriacarmi. Bere avrebbe ridestato antichi ricordi di lei; di noi, un tempo uniti come fratelli.
Una sera di luna piena, libero dalle solite mansioni, reggendo le redini del mio cavallo, mi inoltrai nelle viscere più misere di Parigi. Un groviglio di strade strette e affollate, infangate da un disgustoso odore proveniente dalle numerose concerie, ma non solo. Numerosi erano i cadaveri ormai in decomposizioni di bambini, mendicanti, vagabondi e prostitute che erano stati abbandonati a loro stessi, riversi senza alcuna pietà e rispetto, in vincoli bui e umidi. Mi si strinse il cuore a quella visione.
Accanto a me, la Senna scorreva serena ma erano molti i parigini che spesso colpiti da vaiolo, tubercolosi o sifilidi, venivano gettati nelle sue acque. Ogni giorno le morti erano sempre più numerose e i cimiteri avevano sempre meno spazio per seppellire i loro corpi.  
Il Signore ha creato tutti gli uomini uguali. Avevo ascoltato per la prima volta quelle parole da Padre René, sacerdote di una piccola chiesa nella periferia di Parigi. Avevo cominciato a frequentarla poco dopo il rientro di Fersen dall’America. Ci riunivamo lì due o tre volte alla settimana. Contadini e nobili parlavano insieme di una nuova Era. Discutevamo della presente situazione della Francia e anche di quella futura, la speranza di tutti era quella di vivere una vita migliore, liberi dalle disuguaglianze.
In quel momento, mi resi conto di quanto quei bei discorsi servissero a poco.
Bisognava agire e al più presto.

«Inseguitelo! E’ il Cavaliere Nero!».

Uno sparo gelò l’aria.
Mi voltai nell’abbraccio della luce soffusa della luna.
Vidi alcune guardie in sella ai loro fieri destrieri. Impeccabili nelle loro divise, mi oltrepassarono senza degnarmi di uno sguardo, inseguendo la pista del ladro. Sembravano diretti nei pressi di Place de la Concorde. Pregai che non la catturassero. In quei mesi, il Cavaliere Nero si era prodigato molto nell’aiutare i poveri, mettendo ogni qualvolta a repentaglio la sua stessa vita.
Ammiravo molto la sua figura e la sua dedizione.
Bottoni d’oro, d’argento, monete, anelli, gioielli, orologi e pietre preziose; con agilità e astuzia spogliava ogni notte i nobili della loro frivolezza. In breve tempo la sua fama aveva raggiunto tutta la regione, il popolo parigino lo acclamava con fervore, era il germoglio della speranza.
Nel silenzio cupo della notte un gemito mi indusse a voltarmi. Da lontano, reggendo con una mano la sua spalla ferita, avvolto da un mantello, un’oscura figura cercò di alzarsi in piedi. Poco distante da lui, un cavallo nero.
Mi avvicinai esitante. La maschera nera ricadde dal suo volto, svelando ai miei occhi la sua identità.
Lo riconobbi con stupore.
Bernard Chatelet, giornalista di “Le Vieux Cordelier”!
Era lui il fantomatico Cavaliere Nero!
Conoscevo già Bernard, anche se superficialmente. La prima volta che lo vidi fu una sera lontana, alla Bonne Table,  in compagnia del giovane Robespierre. Oscar era ancora con me. Successivamente lo avevo visto più volte parlare nella piccola chiesa che ero solito frequentare. Era un ottimo oratore, forse uno dei migliori. Condividevo molte delle sue idee e ideali e le condivido tutt’ora.
Velocemente, reggendolo, lo aiutai a rialzarsi. La ferita al braccio si presentava molto profonda, muoversi per lui, divenne ben presto fonte di dolore, tuttavia non lo diede a dimostrare. Stringendo i denti, si lasciò guidare in una strada più isolata. Bisognava estrarre il proiettile e procedere con le medicazioni al più presto.

«Ti prego… porta questi gioielli alla famiglia Marillac… abitano dall’altra parte del quartiere, di fianco alla bottega di un fabbro, non puoi sbagliarti! Il marito è gravemente malato, se non intervengono in tempo con le cure… per lui sarà troppo tardi…».

Il suo piglio determinato, i suoi pugni stretti, la sua voce colma di sincera disperazione mi colpirono profondamente. Vidi il fuoco brillare nel suo sguardo. Malgrado il dolore, Bernard strinse le mie spalle.
Attendeva una risposta.
Non mi sarei mai tirato indietro.

«Farò come avete detto, ma voi restate qui. Tornerò il prima possibile ad aiutarvi…».

Mi consegnò la refurtiva. Una collana d’oro, alcuni orecchini e anelli, incastonati da smeraldi e rubini. Mi guardai attorno circospetto. Raggiunsi la casa da lui indicata. Un’abitazione poco illuminata, costituita da una sola stanza, priva di riscaldamento e acqua. In mancanza di camini, molti parigini usavano pericolosi bracieri o fornelletti in terracotta sui quali si ritrovavano spesso a cucinare. L'acqua invece, veniva procurata presso fontane pubbliche o da pozzi il più delle volte inquinati, scavati nei cortili di alcune dimore.
L’unica finestra posta molto in alto, era priva di vetri.
Mi arrampicai, confondendomi nelle tenebre della notte.
Disponevano di un unico letto. La moglie e i figli, alcuni molto piccoli, erano sistemati intorno al capezzale dell’uomo. Provai tanta pena per loro. Insieme ai preziosi, depositai alcune mie monete d’oro. Disponendo il tutto in un sacco, lo gettai nella finestra, allontanandomi nel silenzio dell’ombra.
Dopo quell’accaduto, una fiamma di vita mi crebbe nel cuore.

Il Palais-Royal, dimora del Duca D’Orléans, era frequentato da moltissimi giovani.
Aspiranti avvocati, artisti, giornalisti. Erano in molti a frequentare assiduamente il suo salotto.
Accompagnai Bernard lì, dove venne curato. Entrambi eravamo perfettamente coscienti di quali fossero i reali intenti che spingevano il Duca ad accogliere e celare negli interni del suo palazzo un nemico della nobiltà.
Parlammo a lungo quella sera, dove ebbe inizio per me, un’altra vita.
Parigi si arricchì di un nuovo Cavaliere Nero.

Trascorse un mese esatto da quel giorno.
Ogni notte io e Bernard ci dividevamo e prodigavamo in piccoli furti nella abitazioni più nobili della capitale.
Scoprii di avere una vocazione segreta per quel lavoro.
Quella sera di primavera, dove il cielo era ricoperto di stelle e la luna vegliava limpida dall’alto, venni inseguito da alcune guardie, ma mi fu abbastanza facile depistarle.
L’ombra era mia amica.
Fui convinto di averle del tutto seminate quando avvertii dei passi alle mie spalle. Sussultai. Coperta in parte da una chiaro mantello, una figura femminile si offrì al mio sguardo. Avanzò lentamente verso di me, muovendosi con distinta grazia nel suo abito di seta.
Ebbi la sensazione che mi sorridesse.

«Ho sentito molto parlare di voi… io non ho bisogno di tutto questo…».

La sua voce risuonò calda e vellutata. Mi porse uno scrigno colmo di monete e pietre preziose.

«Conto molto su di voi… Cavaliere Nero!».

Le nostre mani si sfiorarono appena. La guardai esitante.
Ebbi l’impressione di conoscerla. Non mi sbagliai.

«Io… vi ringrazio…».

Sorrisi riconoscente, inchinandomi per poi confondermi nella notte.

Solo la mattina successiva capii chi realmente fosse.
Contessa Astrée De Flamel, nipote di Madame Jarjayes, giovane pittrice dal carattere libero e solitario, originaria della Provenza, vissuta per un lungo periodo in Inghilterra. Dopo la partenza di Oscar, soggiornò alcuni mesi da noi, aveva venticinque anni allora. Lunghi capelli neri, il più delle volte raccolti in uno chignon, occhi azzurri e un colorito fresco, delizioso.

«Credo che questo sia vostro…».

Al mio rientro quella mattina, Astrée mi raggiunse nelle cucine. Ci trovammo uno di fronte l’altro. Riconobbi il suo sorriso. Tra le mani stringeva il nastro blu che credevo di aver perso nella fuga.

«Siamo dalla stessa parte André, ma mi raccomando, fate sempre molto attenzione…».

Con dolcezza si voltò, scivolando nella mia vita. 

 

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Capitolo 3
*** Il ritorno di Oscar ***


Rosa nata ieri



[Oscar]

Giunsi in Francia nel primo pomeriggio del cinque febbraio, viaggiando all’interno di una carrozza recante lo stemma nobiliare della famiglia Von Fersen.
Le nuvole serravano d’ombre il sole, oscurando nel loro giogo di potere ogni angolo di cielo e terra. Una fitta pioggia accompagnò il mio rientro verso un mondo smussato da radici antiche. Nessuno era al corrente del mio arrivo, e fu un bene in realtà. Consapevole di andare incontro all’indignazione di mio padre, ero pronta ad affrontarlo e a subire se necessario, la sua implacabile condanna.
Portai con me pochi bagagli, contenenti prevalentemente libri e indumenti maschili.
Pregai Dio di darmi il coraggio per tutte le spiegazioni che avrei dovuto dare e per quelle che vigliaccamente, avrei dovuto celare.
Il cocchiere incontrò innumerevoli difficoltà durante il tragitto; fu costretto più volte a rallentare. Inoltrandosi nelle zone circostanti le campagne francesi, i cavalli si ritrovarono spesso in strade strette e inondante.
Quello del 1789 si rivelò un inverno estremamente rigido e piovoso da mettere in ginocchio un intero paese. Il gelo eccessivo di quell’anno ghiacciò le acque della Senna, rendendo impossibili per molto tempo, le navigazioni per il trasporto dei rifornimenti destinati ad una capitale che aveva perso il suo antico splendore. Il popolo oppresso e distrutto dalla fame si avviava ad un’imminente ribellione. Cosa ne era stato della mia Regina? Della speranza e della cieca fiducia che io stessa avevo sempre riposto in lei? Perché ai nobili erano permessi ancora tanti privilegi e diritti mentre la povera gente continuava a morire di stenti per la strada? Scostai le tendine della carrozza, muovendomi tra i cuscini che attutivano i violenti scossoni del veicolo. Con profondo rammarico costatai quanto disperata fosse la situazione. Molti parigini non avevano case dove ripararsi e sempre più orfani vivevano come animali, abbandonati sui cigli sudici delle strade. A quella visione provai indignazione per me stessa, per la fame che mai avevo patito e per la ricchezza della quale Dio mi aveva reso figlia. Ripensai al mio primo incontro con Rosalie, alla disperazione che la spinse una notte lontana a voler vendere la purezza del proprio corpo per salvare la vita di sua madre, gravemente malata. Forse, già da allora avrei dovuto aprire gli occhi, occupata com’ero a confidare tutto il mio cuore e appoggio alla Regina. Pregavo continuamente per lei, affinché il popolo l’amasse.
Siete nata Regina e sarete una grande Regina.
Sperai in questo fino alla fine.
Fin quando una fredda lama calò crudelmente su di lei.

Procedendo verso Place Vendôme, si schiusero ai miei occhi i profili di numerose persone. Incuranti dell’acqua che picchiava dal cielo, uomini, donne, giovani e anziani, marciavano senza alcuna distinzione, fieri e uniti in un corteo crescente come una fiamma.

«Il Cavaliere Nero! Viva il Cavaliere Nero!».

Quel nome non mi era nuovo. Tuttavia, allora sapevo poco o niente su di lui. Sapevo solo che era un ladro che agiva nel cuore della notte per derubare nei palazzi più nobili della capitale. La sua oscura figura aveva cominciato ad incombere fastidiosa come una corona di spine poco prima che lasciassi il paese.

Dopo estenuanti ore di pioggia, un pallido tramonto accarezzò il cielo. La via di casa era ormai prossima, in lontananza intravidi un viale alberato. Mi sporsi dal finestrino, stringendomi nel mantello di velluto; tutto attorno profumava di ricordi e di terra bagnata. Il passato dalla quale mi ero sottratta, si offrì al presente. Rividi ceneri di me stessa, dell’uomo che ero stato per mano di un padre che come Dio, aveva saputo forgiarmi a sua immagine e somiglianza. Rividi l’ombra silenziosa di un amico, il cui sguardo mi sfiorava come un appiglio sicuro. Rividi due bambini che distesi sull’erba d’estate, studiavano le stelle. Le loro mani era unite così come le loro vite.

Quando finalmente giunsi a palazzo, la pioggia ritornò caparbia sul mondo, al di là delle nubi, il sole morì spento all’orizzonte. Afferrando i bagagli, scesi agilmente dalla carrozza senza l’ausilio del cocchiere; completamente libera dalla soffocanti catene dell’abbigliamento femminile.

Fu la mia governante ad aprirmi.

«Oscar?! Oh, la mia Oscar è tornata!».
Mi accolse profondamente commossa, indugiando per un attimo se stringermi o meno tra le sue braccia. Mi avvicinai a lei, confortandola con un sorriso. La guardai, il suo esile corpo tremò di una materna emozione.

«Perdonatemi Madame Fersen… è  che sono così felice di rivedervi! Ma è successo qualcosa? Perché siete qui? E perché non siete più vestita come si addice ad una bella donna come voi?».
Tentò di ricomporsi imbarazzata, asciugandosi le lacrime e rivolgendosi a me con tono formale. Sapevo mi avrebbe
ricoperto di domande, amorevolmente preoccupata com’era sempre stata nei miei riguardi.

«Preferisco indossare abiti più comodi quando sono in viaggio, ma ora che sono a casa, credo che continuerò ad indossarli…».
Fu la mia tranquilla risposta, ma non ebbi il coraggio di guardarla in viso. Entrammo nel salone principale, le cui pareti erano decorate con stucchi e arazzi. Numerosi erano i cesti di fiori posti agli angoli dei mobili che intingevano l’ambiente d’eterna primavera.

«Dov’è mio padre? Devo parlare con lui».
Mi guardai intorno, i camini accuratamente accesi in ogni stanza, diramavano ovunque un confortevole calore. Abbassai lo sguardo ritornando con la mente alle condizioni estreme in cui riversava il popolo francese.

«In questi giorni il Generale è ai confini del paese con il suo esercito. Ritornerà tra due settimane circa. Madame Oscar… è successo per caso qualcosa? Dov’è vostro marito? Non avrete viaggiato da sola dalla Svezia fin qui?».
Indugiò su di me preoccupata.

«So ancora badare bene a me stessa».
Mi sforzai di sorridere fiera. Vidi alcuni membri della servitù dirigersi nelle stanze ai piani superiori.

«Perché non avete avvisato nessuno del vostro rientro?».
Sospirò al mio fianco.

Ritornai a guardarla.
«E’ stata un’idea improvvisa…».

La rassicurai e lei non mi fece più domande.
Forse, intuii tutto già da allora.

«Vi preparo subito un bel bagno caldo, immagino siate molto stanca dopo tante ore di viaggio… André sarà molto contento di rivedervi!».

Mi guardai nuovamente attorno, aspettando forse, di vederlo comparire da un momento all’altro. Ma ciò non avvenne, stranamente.

«Lui dov’è? Non l’ho ancora visto in giro».
Domandai seguendola nei miei appartamenti. La vidi sorridere leggermente.  

«Sono mesi ormai che esce tutte le sere per tornare a notte inoltrata… per niente ubriaco, anzi completamente sobrio e sorridente! Penso abbia trovato finalmente una donna, anche se trovo sconveniente che passi l’intera notte con lei!».

Aiutata da alcune cameriere, dispose una vasca dinanzi al camino, riempendola accuratamente d’acqua calda. Mi apprestai a spogliarmi in silenzio dal mantello, il giustacuore, le culottes e le calze. Sfilai gli stivali. Mi accomodai nella vasca con solo la camicia a celare le mie nudità.

«C’è una novità della quale non vi ho ancora messa al corrente, Madame. Vostra cugina, la giovane contessa Astrée De Flamel, da alcuni mesi soggiorna da noi…».

Lasciò le mie stanze con un inchino. Un freddo chiaro di luna si aprì sul mondo. Benché fossi curiosa di conoscere più approfonditamente mia cugina, vinta dalla stanchezza, rimasi nei miei appartamenti. C'eravamo incontrate poche volte prima di allora. Dall’atteggiamento inizialmente ostile nei miei riguardi, Astrée si rivelò il mio filo di Arianna.
 


 
[André]


Con incredibile precisione, con toni morbidi e soavi nel dipingere su tela volti e paesaggi, Astrée sembrava donar loro attimi di vita, come un Dio onnipotente.
Silenziosamente in piedi, presso la finestra, restavo ore ad osservarla, abbracciato dalla sua arte e compagnia. A lavoro ultimato, si voltò nella mia direzione, sorridendomi intensamente.
Una reticella intrecciata da perle tratteneva i suoi lunghi capelli scuri, mentre un abito di broccato, dal bustino alto e attillato da cui partiva una gonna increspata in morbide pieghe, fasciava il suo corpo esile ma incredibilmente agile. Come Oscar, Astrée si rivelò incredibilmente abile nell’utilizzo delle armi e non solo. Apparentemente impeccabile nella sua anima di donna, la sua indole altruista celava indistinti retroscena. Aveva presenziato più volte in mia compagnia alle riunioni nella piccola chiesa di periferia, arrivando con fervore, ad aiutare me e Bernard nei furti nei palazzi aristocratici. La sua natura nobile viveva oltre le convinzioni sociali e formali. Aveva voluto che la chiamassi per nome fin da subito. Proprio come Oscar.
Mi perdevo ancora nel suo ricordo.
Come un folle continuavo ad amarla in silenzio, nutrendomi delle ombre passate.

«André, questa sera ci sarà un ballo dalla Contessa De Foucher, vi presenzieranno molti nobili e i loro palazzi saranno incustoditi, prepariamoci ad agire. Questo pomeriggio farò credere a tua nonna di andare a cavalcare con Madame Candice. Raggiugerò invece la casa di Bernard e Rosalie, mi cambierò e ti aspetterò lì…».

Si avvicinò lentamente a me. La guardai, stringendo i pugni contrariato.
«Stavolta ti farai da parte Astrée! Potrebbe essere pericoloso, qualcuno potrebbe riconoscerti!».

Lo sguardo che mi rivolse fu tagliente come una lama per poi placarsi mite come un cielo d’estate. 

«Non devi preoccuparti per me. So a cosa vado incontro, morirei per una giusta causa…».

«Non dirlo neanche per scherzo!».

 
Il pallido sole non era ancora calato quando la pioggia riprese suadente, a bagnare la terra madre. Astrée aveva lasciato palazzo Jarjayes da alcune ore.
Accertandomi di non essere visto da nessuno, entrai nelle scuderie dove velocemente, indossai le vesti del Cavaliere Nero. Da mesi ormai, avevo tagliato i miei capelli per accostare maggiormente il mio aspetto a quello di Bernard.
Quella notte agimmo indisturbati, accarezzati dalla luna e dalla furia gelida del vento d’inverno. Custoditi dal silenzio delle tenebre, dividemmo le refurtive tra le persone e le famiglie più povere di Parigi, tra gli orfani e tra i vagabondi che invisibili agli occhi del mondo, si spegnevano ogni giorno nell’indifferenza comune. Erano in tanti che dall’alto della loro ricchezza continuavano a discutere della precaria situazione della Francia, ma nessuno di loro muoveva un dito. Provvedere a tutta la povertà francese era per noi impossibile.

A breve l’alba avrebbe colorato il cielo di luce. Ritornammo a palazzo. Congedai Astrée con un inchino, conducendo i nostri cavalli nelle scuderie. Indossavo ancora gli abiti del Cavaliere Nero. Prima di cambiarmi, li rifocillai accuratamente, carezzandoli e complimentandomi scherzosamente con loro. Riservai lo stesso trattamento anche a Cesar, occuparmi amorevolmente di lui, osservare il mio nome e quello di Oscar incisi da bambini sulle pareti per misurare le nostre altezze, era come sfiorare una clessidra di ricordi che pian piano si disperdevano nel vento. Ogni volta ne raccoglievo i granelli tra le mani per accostarli disperatamente al petto.

Improvvise, le note di un pianoforte mi giunsero al cuore come scrosci di pioggia.
Una melodia inquieta danzò nel risveglio antico del mondo.
Trattenni il respiro.
Mi mossi esitante nel cortile. Il silenzio ne faceva da padrone. Smarrito, guardai verso la finestra di Oscar.
Per un attimo, ebbi l’illusione di scorgervi tracce di vita. Sorrisi amaramente della mia stessa follia. Incauto, vagai per alcuni minuti nei giardini, tra le fontane e le siepi che in primavera sarebbero sbocciate in rose. L’oscurità profonda tingeva ancora il cielo, quando ormai vicino alle scuderie, una voce arrestò ogni mio battito.

«Non vi muovete…».
Mi ultimò gelida.
Imponente, la sua spada calò contro la mia schiena.
 



[Oscar ]


Un intrepido eroe o un volgare ladro, chi si celava dietro la maschera del Cavaliere Nero? Ancora non lo sapevo con certezza. Silenzioso come un’ombra attirò la mia attenzione in una fredda notte che si tingeva di mattino. Le mie dita carezzavano nervosamente i tasti del pianoforte, quando guardando verso la finestra, vidi la sua figura agile, muoversi indisturbata nel cortile del palazzo.
Era venuto dunque a farci visita?
Era già stato qui altre volte?
Ebbi l’impressione che conoscesse bene il luogo.
Raccolsi il suo arrivo come una sfida. Rinacqui dalla ceneri del mio passato. Sentii il mio cuore ridestarsi vivo dinanzi la prospettiva di un’imminente scontro.
Impugnai la mia spada e lo seguii nei pressi delle scuderie. In silenzio, giunsi alle sue spalle. Gli intimai di non muoversi, spingendo appena la lama contro di lui. Volevo osservare i suoi occhi, il suo volto, capire chi fosse e i fini per i quali agiva.

Trattenne il respiro.
Lentamente si voltò verso di me. Accostai la spada contro la sua giugulare. La maschera gli ricopriva il viso e l’oscurità si rese sua complice. Ci fissammo a lungo, tesi come corde nel silenzio. Nessuno di noi proferì parola, fin quando un sorriso comparve sulle sue labbra, incautamente vicine alle mie.
Era una provocazione la sua? Tuttavia, rimase immobile.
Dov’erano finite le sue qualità che tutti decantavano? 

Le scoprii subito.
Con un gesto agile e inaspettato, estrasse la sua spada, gettando la mia con un colpo netto e preciso sul terreno. Lo guardai fremente di rabbia. In quel momento mi odiai. Tuttavia, lui fu solo molto fortunato. In Svezia non avevo avuto la possibilità di riprendere gli allenamenti. Riafferrai la spada decisa. Non lo avrei lasciato sfuggire senza avergli dato prima una lezione.
Schivò e parò più volte i miei affondi.
Fu quando tentò di sfuggirmi che di striscio, lo colpì sul petto, come a marchiarlo. Lo sentì gemere appena. Solo allora soddisfatta, lo lascai andare.  

«Ci rincontreremo Cavaliere Nero!».

La mia fu una promessa.
 

 
 

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Capitolo 4
*** Tensioni ***


Rosa nata ieri


 
[André]

Il sole giunse come un’illusione quel giorno. Al primo sorgere dell’alba, la neve abbracciò nel suo silenzio l’intera Île-de-France. Minuscoli cristalli foggiati in fiocchi leggiadri, si adagiavano al suolo, colmando con la loro inviolata purezza ogni singolo dettaglio umano e naturale. Sotto il loro candore, il mondo vibrava d’uguaglianza. Ciò nonostante, la rigidità di quell’inverno distrusse interi raccolti e numerosi alberi da frutto. La crisi economica accrebbe violentemente, originando continui scontri tra le strade di Parigi. Ogni anno, gran parte del bilancio
 statale era riservato a garantire il lusso del clero e della nobiltà, sfavorendo l’accrescimento dell’economia del paese. A discapito del terzo stato, essi godevano di svariati privilegi sulle imposte. Quando sarebbero terminati quei soprusi? Quei gioghi di potere assolutisti? Il popolo sarebbe insorto prima o poi, rovesciando con violenza l’intero sistema politico.

Sospirai amaramente, alimentando le fiamme del camino; la stanza si animò in breve, di un vellutato tepore. Mi concessi un bicchiere di vino, sedendomi sul letto. Abbassai lo sguardo, là dove una macchia scarlatta s’offriva al candore della stoffa. Mi liberai della giacca, aprendo lentamente la camicia. Trasversale, la leggera ferita riprese bruscamente a sanguinarmi lungo il petto. Sorrisi appena nel guardarla. La tamponai con un panno, lievemente. In un soffio di vento, rividi i suoi occhi fermi nei miei. Orgogliosi, caparbi, determinati come un tempo che sembrava ormai lontano. Ritrovarla così reale seppur inafferrabile, risvegliò il mio cuore di gioia.
Avevo forse sognato?
Lo temetti a lungo, malgrado il sangue sulla pelle.
Mi ero davvero scontrato con lei nelle vesti del Cavaliere Nero?
Cosa ne era stato di quella donna che avvolta da fili d’oro e organza, mi aveva salutato un anno prima, per sposare l’uomo che amava?
Strinsi i denti e trattenni il respiro nel ricordo di quel giorno. Il panno mi scivolò dalle mani, finendo sul pavimento. Una macchia accesa ne graffiò la lucentezza del marmo. Portai le mani agli occhi, brancolando confuso nelle ombre di quelle domande senza risposte.
«Per amore del cielo André! Che cosa ti è successo?».
Stringendo tra le mani gli abiti appena lavati, mia nonna entrò nella stanza. Con un leggero sforzo, richiuse la porta alle sue spalle. Alzai il viso, andando incontro ai suoi occhi. Mi guardò allarmata, quasi incredula.
«Non è niente nonna… è soltanto un graffio, non preoccuparti!». La rassicurai con un sorriso, riprendendo a tamponare la ferita.
«Disinfettala bene prima che prenda infezione! Si può sapere come te la sei fatta? Tu e Madame Fersen mi farete morire di crepa cuore un giorno!».
Sospirando, depose la biancheria e i vestiti in una cassettiera di legno, adagiata nell’angolo più freddo della camera. A quell’accenno, il mio cuore tremò d’angoscia e di vita.
«Oscar…». Sussurrai appena, per poi correggermi con un penoso sorriso. «Madame Fersen… è qui…?». Chiesi, posando il panno sul mobile accanto.
Cercai i suoi occhi angosciati. Ebbi l’impressione che mi nascondesse qualcosa. Sfuggì infatti dal mio sguardo, prendendo a sistemare con cura, le sedie intorno al tavolo.
«Sì, è tornata ieri pomeriggio. Accettare il suo matrimonio con il conte svedese è stata la scelta più sensata che potesse fare il Generale. Quando la vedrai André, mi raccomando, salutala con dovuto riguardo e mantieni le distanze!».
Continuò a darmi le spalle.
«Senz’altro nonna…».
Annuii con il capo, indossando una camicia e un gilet puliti.
Conoscevo ormai bene tutte le sue apprensioni sulle formalità da adottare.
Avrei dovuto ascoltarle fin da bambino, pensai per un attimo, socchiudendo gli occhi con infinita amarezza e frustrazione. Ripensai al nostro antico legame. Ai sogni, le sfide, le gioie e i dolori che insieme, avevamo condiviso. Al suo affetto e alla sua fiducia nei miei confronti. Alla generosità che la spinse un giorno lontano ad offrire la sua stessa vita in cambio della la mia, sfidando l’ira del Re; al suo amore per Fersen che mi aveva reso impercettibile ai suoi occhi e al suo cuore, e all’indifferenza con la quale mi aveva lasciato.
«Dovresti fare lo stesso con Astrée. E’ sconveniente che tu trascorra tante ore nella sua camera…».
Brontolò rivolgendomi finalmente lo sguardo. Mi scrutò a lungo accigliata. Sorrisi divertito, sistemandomi la giacca. Quando si avvicinò a me, i suoi occhi si ravvivarono di un’insolita emozione.
«A parte questo, ho la certezza che tu mi nasconda qualcosa André… quando me la presenterai? Sono tanto impaziente di conoscerla…». 
Rimasi senza parole.
«Nonna io…».
Indugiai imbarazzato.
Mi alzai in piedi, avvicinandomi alla finestra. Mi seguì con lo sguardo. Solo in quel momento, mi resi conto di come quel folle pensiero la rendesse insolitamente discreta nei miei riguardi, permettendomi di agire indisturbato nell’ombra della notte. Sospirai.
«Quando… sarà il momento…».
Mi voltai, simulando un sorriso. Lei mi venne vicino e mi strinse amorevolmente le mani.
«Sono tanto felice per te, André!». I suoi piccoli occhi azzurri si velarono di una profonda commozione. «Mi raccomando, sii responsabile e bada a non farla restare incinta prima del matrimonio!». Aggiunse tornando seria e minacciosa, lasciando infine la stanza.
Sorrisi di cuore e poi risi amaramente di me stesso. Risi delle mia totale devozione per una donna che mai mi avrebbe amato.
Crudele Amore, a che cosa non forzi i cuori degli uomini!*

Risi di quella pietosa menzogna che rese incredibilmente felice mia nonna. Risi di me stesso al ricordo di colei che all’alba dei miei diciotto anni, mise a tacere per la prima volta il mio desiderio fisico, allora così intenso e immaturo. Bérénice, questo il suo nome.
Bionda, sensuale, dalla pelle infinitamente vellutata e pallida, dallo sguardo limpido e malizioso.
Sentendomi un vile traditore, smisi ben presto di cercarla. La ritrovai molti anni dopo, poco prima della partenza di Oscar per la Svezia. Ubriaco e sperduto, cedetti impunito al suo fascino nella squallida stanza di una bettola di Parigi. Il piacere carnale soffocò nuovamente nei sensi di colpa. Non avrei mai amato né avuto nessun’altra donna nella mia vita se non Oscar; ero quiete nella mia condanna.

La pioggia si sostituì violenta in cielo. Rimasi ad osservarla, sorseggiando un altro calice di vino.
Alla salute del Conte e della Contessa di Fersen!  
Ero rimasto stupito nel trovarla nuovamente in abiti maschili. Allora, non mi interrogai troppo sul perché del suo improvviso ritorno. Mia nonna si rivelò insolitamente spiccia al riguardo, omettendo alcuni particolari. Così, con frustrazione ripensai al momento in cui l’avrei rivista nuovamente accanto a suo marito. L’unico che avesse il diritto di sfiorarla, baciarla, far suo quel corpo.
Avrebbero avuto dei figli un giorno. Quasi sorrisi a quell’ultimo pensiero.
Abbassai lo sguardo, toccando attraverso la stoffa, la lieve ferita che mi aveva provocato. Perché tanto interesse e ostilità nei confronti del Cavaliere Nero? Lei così sensibile alle ingiustizie del mondo, lei che aveva pianto lacrime amare per l’uccisone di un bambino per mano del duca De Germain, mettendo a rischio la sua stessa carriera per vendicarlo; lei che con la sua generosità aveva soccorso il piccolo Gilbert Sugane e accolto sotto la sua ala protettiva Rosalie. Lei, figlia della nobiltà. Io, figlio del popolo. Ci saremmo davvero trovati un giorno, a scontrarci su linee opposte?

 


[Oscar]  

Dopo la neve, una fitta pioggia bagnò il lento sorgere del giorno. Ero ancora nei miei appartamenti, abbandonata su una poltrona di broccato, al cospetto del fuoco vivo del camino. Bevendo del cognac, osservai l’eterno vibrare di quella fiamme protese in uno scontro senza fine. Avvertii l’ardore di quella lotta sulla pelle. La feci mia con il cuore. Socchiudendo gli occhi, indugi nel ricordo del Cavaliere Nero, sull’insolita familiarità del suo impunito sorriso. Fissai la mia spada calata a terra. Con orgoglio la impugnai. Sulla punta, inequivocabili tracce di sangue. Il suo.
Chi era realmente? Intendevo scoprirlo. 
Volevo far luce sull’ombra dei suoi segreti, per allontanarmi egoisticamente dai miei. In quell’allettante sfida, credetti di ritrovare l’impronta di me stessa. 
Quel mattino, raggiunsi il salone principale per la colazione.
Seduta attorno al tavolo, persa nei meandri della lettura, vestita d’elegante velluto, incontrai la contessa De Flamel, mia cugina. I suoi capelli d’ebano raccolti in una morbida treccia, ne risaltavano il petto impeccabilmente composto nel rigido bustino.
«Buongiorno». Mi salutò, alzando lo sguardo dal libro. Lo richiuse subito dopo con un gesto rapido, quasi brusco. Incontrai il suo viso, i suoi lineamenti delicati, i suoi occhi azzurri simili ai miei, taglianti come lame.
«Buongiorno Astrée, sono felice di rivedervi». Sorrisi, sedendomi accanto a lei. Alcune cameriere ci servirono del pane fresco, dolci alle mele, latte, cioccolato e spremuta d’arancia. Adagiarono il tutto sul ripiano del tavolo, decorato con un mosaico di vari colori.
«Ho saputo del vostro rientro solo questa mattina. Mi sorprende trovarvi nuovamente in abiti maschili. Mi era stato detto che avevate lasciato il palazzo come una vera dama…».
Mi guardò intensamente, avvicinando alle labbra una tazza di latte.

«Quegli abiti sono solo un’inutile costrizione». Replicai senza scompormi, bevendo del cioccolato fumante. Continuò ad osservarmi.
«Ho sentito molto parlare di vostro marito, mi sorprende che non abbiate ancora messo al mondo un erede, nei salotti se ne parla spesso e credo che la cosa renderebbe felice anche vostro padre…». Mi guardò seria in volto. Scorsi una inspiegabile provocazione nelle sue parole. L’inquietudine mi si affacciò improvvisa sul cuore.  
«Non è nelle mie aspettative diventare madre…». Affermai pacata, evitando il suo sguardo.
Non avrei mai avuto figli, pensai. Quell’ipotesi era assurda per una come me. Non la presi mai realmente in considerazione se non pallidamente all’inizio del matrimonio. Me ne scoprii profondamente smarrita e inadatta anche solo a concepirne l’idea. Ma fu Hans a rassicurarmi. Affinché non sarei stata pronta, sarebbe stato previdente, mi disse. Lo era anche con le sue amanti? Probabilmente.
Spiai l’espressione esterrefatta di Astrée. Senza aggiungere altro, mi alzai, quando qualcuno giunse silenziosamente alle mie spalle.
Solo allora mi voltai.
«Buongiorno Madame Fersen».
Incontrai il viso di André. I suoi capelli inaspettatamente corti, non erano più raccolti nel nastro nella quale era solito legarli da che ne avessi memoria. Mi salutò con un lieve inchino intinto di compostezza. Cercai il suo sguardo, considerando l’assurdità di quelle formalità calate tra noi. Formalità che io stessa, avevo accettato passivamente al momento di abbandonare la mia vecchia vita.
«Mi vogliate scusare cugina, dato il maltempo mi ritirerò a dipingere nei miei appartamenti in compagnia di André».
Astrée gli si pose davanti. Una nota di complicità corse nei loro sguardi taciti. Si capirono senza l’ausilio di parole, come impeccabilmente in sintonia tra loro. Coperti dal silenzio, si inoltrarono nella stessa direzione.
Mi scoprii un’estranea al loro cospetto.

Trascorsi il pomeriggio nei miei appartamenti, immersa nella letteratura antica, dinanzi al tepore cordiale del camino. La pioggia continuò a battere dal cielo come le lacrime incessanti di un gigante o di un Dio.
Era forse l’eco del popolo ridotto allo stremo delle forze?
Raggiunsi la nonna nella cucine. Non mi vide, affaccendata com’era nel svolgere con alacrità le sue mansioni. Quasi la spaventai.
«Oh Madame siete voi!». Sussultò appena, portando una mano al petto, per poi sorridermi dolcemente. «Il vostro tè è quasi pronto!».
«Posso aspettare. Ascolta, quando vedrai André, digli di raggiungermi nei miei appartamenti!».
«Ma…».
Decisa, frenai ogni sua protesta sul nascere.
«Devo parlare con lui di una questione importante».
Intimai.
 
Attesi André, in piedi, presso la finestra. Osservai l’oscurità calare assoluta sul mondo. Non c’era la luna quella notte, né le sue stelle. La pioggia continuò a picchiare a lungo, contro le vetrate. Udii un lieve colpo alla porta. Senza voltarmi, diedi il permesso di entrare.
«Madame Fersen!».
Avanzò di qualche passo verso di me.
«E’ inutile che tu usa certe formalità con me, André…». Sorrisi appena, continuando a dargli le spalle. «Cosa sai del Cavaliere Nero? Ieri notte è venuto qui, non sono riuscita a togliergli la maschera, ma l’ho ferito di striscio…». Tagliai corto.
 
 

[André]

«So poco di lui Oscar, ma so che sta facendo molto. Ogni notte dona la sua refurtiva ai poveri di Parigi…».
Parlai lentamente, osservando le sue spalle esili, i suoi lunghi capelli d’oro. Silenziosamente, contemplai ciò che offrì al mio sguardo. Mi scoprii preparato a quella domanda, così come alla sua bieca indignazione.
Un ladro resta sempre un ladro. Era quello il suo pensiero.
«Dona ricchezze che appartengono ad altre persone!».
Ringhiò nel silenzio, stringendo appena i pugni. Non si mosse, né si voltò. Non incontrai mai i suoi occhi.
«I nobili si arricchiscono con i soldi che lo Stato sottrae alla povera gente, quelle ricchezze non appartengono loro di diritto!». Il fervore mi crebbe nel cuore. Quelle parole nacquero dure come rocce. Mi sentii come un fiume in piena. Nel parlarle, alzai inaspettatamente la voce, ma subito dopo mi placai. Non volevo scontrarmi nuovamente con lei.
«Buona notte Oscar, se non hai bisogno di altro, Astrée mi attende in salotto…».
La congedai o forse semplicemente, scappai.


 
[Oscar]  

Mi voltai di scatto, per un attimo a corto di parole. I nostri sguardi non si incontrarono né si cercarono. Fu nell’istante in cui vidi André voltarsi per lasciare i miei appartamenti che qualcosa attirò la mia attenzione. Come a marchiarlo, una striscia di sangue spiccò viva sul suo petto, all’altezza del cuore.
 
André cosa…?
 
 
 


 

*Frase di Publio Virgilio Marone.
 
 
 

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Capitolo 5
*** Segreti ***


Rosa nata ieri

 
 
 
[André]


Lasciai dietro di me gli appartamenti di Oscar. Il cielo era un campo di guerra; quella notte s’offrì impavido, ad un teatro d’ira e di bagliori fugaci. La pioggia veniva giù fitta, irruenta, riversandosi come lame, sui tetti, sull’asfalto e sull’erba, accompagnando i miei passi nei lunghi corridoi di Palazzo Jarjayes. Mi mossi in silenzio, guidato dai riverberi dorati delle candele. Nei miei occhi ancora il suo riflesso; le sue parole sferzanti, distanti dal mio mondo. Immaginai il suo sguardo orgoglioso, traboccare d’ira, i lineamenti del suo viso, contratti, il fremito delle sue labbra sottili e il calore dei suoi pugni chiusi. Immaginai con la mente e con il cuore tutto ciò che precluse al mio sguardo. Sorrisi appena, nella mia cieca disperazione. Ripensai al mio inaspettato livore nei suoi confronti, al peso dei miei e dei suoi ideali in grado di strapparci a piccoli morsi, l’uno dall’altro. Nuove mura si elevarono solide tra noi, cinte da rovi di spine. Provai un senso di profonda desolazione al pensiero.
Quel giorno non mi accorsi di un particolare: l’assenza di Fersen. Perché suo marito non era con lei?
Raggiunsi Astrée nel salone principale. Sedeva su un poltrona di damasco, accanto al camino. Come una carezza, il riflesso del fuoco sfiorava il suo profilo; dal viso, al candore del collo e del petto, fino alle pieghe di velluto del suo abito amaranto.
Mi avvicinai a lei, in silenzio. Tra le mani un’immancabile lettura.
«Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra di nessuno, siete perduti!». Lesse ad alta voce alcune parole di Rousseau. Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini. Si volse a guardarmi seria. Improvvisa, una nota d’apprensione brillò nel suo sguardo.
«André, lei ti ha visto? Oscar ti ha visto?». Richiuse bruscamente il libro, alzandosi verso di me, allarmata. Ci ritrovammo uno di fronte l’altro.
«Sono appena stato nella sua camera…». Dissi, non capendo il perché dei suoi timori. 
«La tua ferita André!». L’inquietudine le crebbe nella voce. Lasciai il suo viso e osservai il mio petto. Del sangue intaccava vivo, parte della camicia e l’orlo della mia giacca. Con le dita, sfiorai leggermente la superficie della macchia; era ancora fresca.
«Non me ne ero accorto…». Sospirai, rialzando il capo. «Comunque sia… i nostri sguardi non si sono minimamente incrociati…». La rassicurai, non senza una punta d’amarezza nel cuore.
«La cosa sembra rammaricarti!».
La guardai in silenzio. Incontrai il suo disappunto, la sua espressione contrariata. Scossi il capo, amareggiato.
«Sarà meglio che vada a cambiarmi». Sussurrai, dandole le spalle. Fu il suo tocco gentile a fermarmi. Strinse il mio braccio, trattenendomi a sé.
«Resta sempre in allerta André! Non abbassare mai la guardia… soprattutto ora che Oscar è qui, lei potrebbe capire…». Parlò piano, sottovoce, affiancandomi. Percepii il suo respiro lieve, contro il mio viso. Spiai la sua espressione.
«Anche tu non dovrai esporti più del dovuto, Astrée!». Dissi brusco, voltandomi verso di lei.
«Oscar non arriverebbe mai a denunciarmi. Sono sua cugina, arrecherebbe una danno alla sua stessa famiglia! Tu invece André, verresti condannato al patibolo e io… non voglio!».
Lasciò la presa, continuando a guardarmi seria.
«Oscar non arriverebbe mai a tanto, te lo assicuro!». Sorrisi appena, carezzato nel cuore da quella solida certezza.
«A volte, sono le persone che più abbiamo a cuore a distruggerci…».
Una profonda tristezza tremò nelle sue parole.
Senza aggiungere altro, ritornò a sedersi composta, presso il tepore del camino. Le mani unite, abbandonate lungo il grembo.
Conoscevo i suoi silenzi. In essi, si annidavano le radici di una personalità forte, profonda, caparbia, dotata di un’ampia conoscenza e voglia di donare. Doti che accomunavo spesso a quelle di Oscar. Ammiravo molto la sua persona ed ero grato della sua sincera amicizia.
Il dolore era stato suo compagno di vita. Astrée si svelò a me poco a poco.
Quali oscuri ragioni spingevano una ragazza nobile, a voler derubare ogni sera gente del suo stesso rango, per sfamare un brandello di mondo così lontano dal proprio? Non era solo questione di semplice generosità la sua, sia io che Bernard lo intuimmo presto. La sua determinazione, quasi ossessiva nel garantire ogni notte ai più bassi strati della popolazione, quel poco che bastava loro per vivere, la sua apprensione per gli orfani, i vagabondi, erano un solido appiglio per sopravvivere ai spiragli intimi della sofferenza. Raccolsi le sue confidenze come acqua in un giorno di pioggia.
Sua madre, sorella minore di Madame Jarjayes, morì nel metterla al mondo. Astrée crebbe serena, trasferendosi ancora bambina nella quiete della campagna inglese, presso le premure di uno zio. Fu grazie a lui, che oltre alla cultura e all’amore per l’arte, ne apprese l’uso delle armi. Ritornò in Provenza, solo dopo la sua morte. Era poco più di una ragazzina. Con un malinconico sorriso, mi raccontò di come un giorno, un giovane di nobili origini, entrò nella sua vita. Dell’attrazione che inarrestabile corse tra loro, all’inevitabile conseguenza. Fu una passione breve la loro, ma colma d’amore, almeno da parte di Astrée. Dopo poche settimane, il ragazzo lasciò la regione senza più darle notizie.
Non mi rivelò il suo nome, né osai chiedere. Lo scoprii solo il seguito. Fu un bene, forse. Il frutto di quel legame fiorì in Vita. Celò la gravidanza a lungo, per mesi, fin quando un malore non la tradì al cospetto di suo padre. Il conte Victor Damien De Flamel; un uomo austero, temuto, privo di scrupoli. Il parto giunse con largo anticipo. La neonata venne al mondo fragile e minuta. Fu allontanata quel giorno stesso. Dalla Provenza, venne affidata alle cure di una donna di Parigi, Madame De La Vallière. Una contessa nota a Corte per la sua indole instabile, amante del conte De Flamel. Irritata dai continui pianti della neonata, la donna finii per abbandonarla in strada dopo pochi giorni, incurante del gelo, in uno dei quartieri più lerci e isolati della capitale. La neve fu la sua culla letale. L’unico abbraccio che il Signore le concesse in vita, perché figlia del peccato e del disonore. Le sue spoglie bambine divennero nutrimento per i topi e i randagi della zona. Solo alcuni anni dopo, giunta a Parigi, Astrée ne apprese la notizia. Madame De La Vallière pentita dal suo folle gesto, non esitò a raccontarle il tutto con cruda precisione. Era dunque, l’accortezza nell’impedire morti simili ad arginare in parte, le fiamme del suo dolore?
Sospirai forte. L’amarezza mi giunse al cuore ancora una volta. Mi ritirai nei miei alloggi per cambiarmi. Medicai nuovamente la ferita e mi vestii con abiti puliti. Mi accostai ai vetri, nella fragile penombra di una candela. Come piombo, la pioggia continuò a cadere dal cielo.  Socchiusi gli occhi per un attimo, quel suono soffocò ogni mio pensiero. Maledissi l’ira del cielo. Maledissi le sue lacrime che resero impraticabili strade e sentieri, ed eccessivamente scivolosi tetti e asfalti.
Agire quella notte, avrebbe comportato ampi rischi per noi.

«André…».
Mia nonna giunse lieve, come in punta di piedi. La ritrovai alle mie spalle, piccole ed esile come una bambina. Avanzò verso di me esitante. Che fine aveva fatto il suo piglio severo?
«André, potresti aiutarmi a spostare dei mobili in cucina?».  
Sorrisi lievemente. Un lampo illuminò le mie spalle, raggiunse il suo viso.  
«Certo nonna! Dammi qualche minuto e ti raggiungo!».
Lasciai la mia stanza, per raggiungere Astrée. Parlai con lei. Inquieto, mi scontrai contro il rimorso di non poter far nulla per la mia gente, almeno per quella notte. Ascoltò la mia voce in silenzio, ad occhi chiusi come persa in un quiete riposo; m’illusi.



 
[Oscar]


Le sue parole giunsero inaspettate, come piccole gocce di fiele. André era dalla parte del Cavaliere Nero, dunque? Scostante, lasciò i miei appartamenti. Voltandosi, non si accorse del mio sguardo fermo e pungente come una spada, su di lui. Notai la sua ferita. Tacqui. Lo lasciai andare senza esitare in spiegazioni, ma la preoccupazione giunse inevitabile sulla mia coscienza.
Cos’era accaduto?
L’impronta di un ricordo graffiò i miei pensieri.
Il mio recente scontro con il Cavaliere Nero, il suo sorriso familiare, il colpo che io stessa gli avevo sferrato al petto.
La mia mente si fece rifugio di un terribile sospetto; lo ripudiai con forza.
Affogai i miei dubbi nell’alcool. Fu tutto vano. Ero stata io stessa a ferire André? In lui si celava davvero un’ombra nemica?
Il calice tremò nella mia mano. Lo riposi sul tavolo, con rancore. Chinai il capo, stringendo i pugni. Fremetti al pensiero. “… Ogni notte dona la sua refurtiva ai poveri di Parigi…”,  “I nobili si arricchiscono con i soldi che lo Stato sottrae alla povera gente, quelle ricchezze non appartengono loro di diritto!”.
Mi sentii punta sul vivo. Fui profondamente egoista, allora. Provavo indignazione e tristezza per la povertà del paese. Dopo il mio primo incontro con Rosalie molti anni prima, i tarli della miseria giunsero ai miei occhi nei terreni di Arras. Ripensai ai Sugane, alle prime insofferenze nei confronti della mia Regina, alle parole insinuanti di Robespierre e a quelle di Monsieur Alaste; furono un primo campanello d’allarme, tuttavia, una volta giunta a Versailles, mi scontrai con l’ira di mio padre e finii per chiudere gli occhi. In quel momento dunque, mi fermai alla superficie; alla delusione nel sospettare di André, senza pensare al vero significato di quella sua presunta posizione.
Anelavo la mia vecchia vita, le sue glorie, le sue sfide e i suoi duelli.
André si sarebbe rivelato un avversario da combattere e sconfiggere? Sperai di no con tutto il cuore.
Un fulmine, illuminò fugacemente la stanza, come un bacio di Sole; subito dopo, un tuono scosse il cielo. Pregai in silenzio. Lasciai i miei appartamenti. Mi feci strada nella calda penombra delle candele disposte nel candelabro. Vagai nel silenzio. Giunsi dinanzi la sua camera; bussai più volte, ma non ottenni risposta. Entrai con cautela, richiudendo la porta alle mie spalle.
Lui non c’era.
Rischiarai la stanza, mi guardai attorno inquieta.
Dov’era?
Allungai il candelabro in avanti, muovendomi lentamente. Indugiai sul letto, sul tavolo, sulla macchia di sangue dei suoi vestiti, abbandonati su una sedia. D’improvviso, un’ombra scivolò nella notte, la intravidi dietro i vetri delle finestre. Mi avvicinai incredula, aprii di scatto le imposte. La pioggia, spense l’unica fonte di luce. Sprofondai nelle tenebre. Mi ritrovai al cospetto di quella figura. Entrò nella stanza, avanzando verso di me.
«Chi siete? Parlate!». Gridai, stringendo i denti. Temetti di conoscere la risposta. Di nuovo non distinsi i suoi lineamenti; pregai di sbagliarmi. Estrasse la sua spada. In tempo, schivai un suo rapido affondo. Mi trovai con le spalle al muro. Avanzò nel buio, sferrando un altro attacco, lo evitai opponendo il candelabro contro la sua arma.
Che intenzioni aveva?
La nostra lotta venne placata all’improvviso dal suono di alcuni passi.
La porta della stanza venne aperta. La collera del cielo mi svelò il suo volto.

 
 
[André]


Incosciente, incurante dei rischi, Astrée vestì ugualmente i panni del Cavaliere Nero. Al mio ingresso sfuggì agile, dalla finestra. Non potei fermarla, né inseguirla. La vista di Oscar strattonò il mio cuore. Rapido, posai alcune candele sul tavolo. Con apprensione, sfiorai il suo sguardo. Lo evitò. Mi avvicinai a lei.
«Oscar stai bene?». Chiesi preoccupato.
«A quanto pare il Cavaliere Nero ci ha degnato di una nuova visita stanotte…».
Con freddezza, ignorò le mie parole. Mi diede le spalle, allontanandosi in silenzio verso la porta.
«Oscar, perché eri nella mia camera?».
Azzardai, mosso dal dubbio.


 
[Oscar]

 
«E tu André, come ti sei procurato quella ferita al petto?».
Il silenzio, fu la nostra unica risposta.

 
 

 
 
 


 

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Capitolo 6
*** Rancore ***


Rosa nata ieri
 
[Oscar]


Nacque il sole, bagnò l’alba di una pallida luce; ebbe vita breve. Mutò in fredda pioggia, ricoprendo come una pesante armatura, la vastità del cielo. Ogni cosa svanì sotto il suo assalto. Il suo canto bagnato, inghiottì l’antico silenzio della nascita.
Sospirai, scostando le coltri del letto. Mi alzai, rivestendomi senza alcuna fretta, dinanzi il crepitare del camino. Per un istante, m’illusi di ritornare ai sapori della mia vecchia vita, al comando della Guardia Reale, coperta dal fardello di una rigida uniforme. Con struggente nostalgia, rivangai gli ardori del passato; il mio ruolo di uomo fiero e solido come roccia. Ero stata acqua, invece: allo stesso modo, ero evaporata al primo rovente anelito d’amore. Amore che avevo reso Re e Padrone, elevandolo al disopra di tutto e tutti. Ero stata cieca e sorda al suo cospetto; un’altra persona, non più me stessa. 
Cercai di ritrovarmi, di colmare il vuoto, attingendo all’uomo che ero stata per grazia di mio padre. Sapevo l’avrei deluso. In quei giorni, attesi il suo ritorno con la stessa ansia di chi attende una condanna.
Mi accostai al pianoforte, sfiorando alcuni tasti. Il ricordo del Cavaliere Nero divorò ogni mio respiro, mi strappò da ogni certezza, come fossi un filo d’erba.
Sapevo si celava André dietro la sua ombra, lo avevo ormai intuito; tuttavia, nel buio della sua stanza mi ero scontrata con un altro. Un complice? 
Ebbi l’impressione che quella figura, non attendesse altro che me, così come non mi era sfuggito lo sguardo apprensivo che André gli aveva rivolto al momento della fuga. 
Si conoscevano. Quel pensiero rubò ogni frammento di fiducia. Mi sentii furiosa verso di lui, tradita nel profondo. Strinsi i denti contrariata, suonando alcune note del pianoforte. Smisi subito. Mi concentrai sulla pioggia. Scostai i veli delle tende, avvicinandomi ai vetri. Rimasi lì per delle ore, immersa in un limbo d’ombre e pensieri. Lasciai infine i miei appartamenti per raggiungerlo. Mi rivestii di collera e d’infinita urgenza. Accelerai il passo; giunsi in salone. 

«Buongiorno cugina. Spero abbiate riposato bene…»
Mi fermai di colpo. Come una catena, lo sguardo di Astrée si depose sferzante su di me. Mi voltai, scostante; non le risposi. Continuò a parlarmi, seduta placidamente attorno al tavolo per la colazione. Sulle sue labbra un sorriso allusivo, che non mi piacque.
«Dovete avvertire davvero molto la mancanza del vostro consorte... già, da colmarla facendo visita nel cuore della notte nella camera del vostro ex attendente…»
Sgranai gli occhi incredula. Mi irrigidii bruscamente.
«Ma come vi permettete?!» Fremetti di rabbia, serrando i pugni.
Abbassò lo sguardo, rise freddamente. La sua voce divenne velluto, ma aggredì come fuoco.
«Ho forse frainteso? Perdonatemi allora, non era mia intenzione provocarvi, né scandalizzarvi… anche se stento a credere che non abbiate mai avuto pensieri simili verso di lui… è un uomo molto attraente…»
Rimasi per un attimo a corto di parole, indignata. Gli occhi sbarrati, le labbra dischiuse, alle soglie povere del disagio.
«Basta Astrée! Non aggiungete altro! Non gradisco le vostre insinuazione né tantomeno questi discorsi licenziosi!»
La guardai con profonda amarezza.
«Per quali motivi lo avete raggiunto, allora? Non potete di certo negarlo, vi ho visto con i miei stessi occhi dirigervi da lui…»
Rincarò ancora, determinata.
«Non devo di certo dare spiegazioni a voi!»
Scattai verso di lei come una fiera. Rise con gli occhi, come a schernirmi, poi, guardò oltre le mie spalle. 
Riconobbi i suoi passi; mi voltai.
«Buongiorno Astrée, buongiorno Oscar.»
Sorrise gentilmente verso di noi; un rinnovato rancore mi rintoccò vivo nel petto.
«André, Oscar mi parlava della sua visita di ieri sera nei tuoi alloggi…»
Astrée tornò a fissarmi, composta, risoluta.
Ignorai il suo sguardo, cercai quello di André. Sfuggì come vento, posandolo su di lei.
«Perdonatemi contessa De Flamel, Madame De Masson chiede di voi...»
Una giovane cameriera giunse alle nostre spalle; spezzò i miei pensieri.
«E' già arrivata?! Devo… lasciarvi, dunque.»
Astrée mi guardò seria, alzandosi. Vestiva del medesimo azzurro dei suoi occhi. 
«Sarà impaziente di vedere i tuoi splendidi dipinti!»
André le sorrise caldamente. Si guardarono in silenzio. 
Dinanzi quella complicità, mi scoprii inspiegabilmente fuori luogo.


 
[André]


Ci ritrovammo uno di fronte l’altro, come in un duello. Mi avvicinai di un passo verso di lei; rimase immobile, inafferrabile come una cometa. Le labbra serrate, le mani abbandonate lungo i fianchi, la posa austera. Ricambiai il suo sguardo fatto di durezza, tentai di ammorbidirlo con il miele delle parole.
«Posso fare qualcosa per te, Oscar?»
Rimasi nei suoi occhi.
«Ti cercavo. Non devi dirmi niente, André?»
La sua voce calò come un colpo di frusta. Colpì sul cuore, inesorabilmente; ne tranciò battito e respiro.
«No, non ho nulla da dirti, Oscar...» Risposi sereno, accennando un piccolo sorriso. Sapevo cosa voleva dirmi. Attesi le sue parole con fedele agonia.
«Dobbiamo parlare...»
Mi invitò a seguirla nel salotto privato, dandomi le spalle. 
Chiusi la porta. Osservai per un attimo, le ampie vetrate disposte ai lati della stanza con ordine e regolarità. Dal cielo, giunse ancora il suono della lotta.
«Sei tu il Cavaliere Nero, non è così? E' con te che mi sono scontrata la notte del mio rientro a palazzo! Esigo una risposta, André!»
Presi un profondo respiro, mi voltai. Trovai l’ardore del suo viso accanto al mio. Seguii con gli occhi ogni più piccolo, prezioso particolare. Bevvi i suoi lineamenti perfetti; osai come Icaro.
«Quello di ieri era un tuo complice, non è vero André? Non sei diventato altro che…»
La interruppi.
«Un volgare ladro... hai ragione, Oscar.» Ammisi, chiudendo gli occhi.
«E' la verità, dunque! Ti rendi conto di cosa significa questo?»
La sua voce graffiò. Si mosse ancora, vicina al mio corpo. Strinse i pugni. Sfiorò con uno scatto violento le mie spalle, mi sottrassi.
«E tu te ne rendi conto Oscar? Per quanto tempo continuerai ancora ad ignorare la situazione nella quale riversa il nostro paese per colpa della tua amata Regina? Nessuno…» strinsi i denti amareggiato, la guardai con lo stesso livore. Fummo fuoco contro fuoco. «... nessuno, fa niente per il popolo! Ogni giorno bambini, padri e madri di famiglia muoiono nell'indifferenza! Ti sembra giusto tutto questo? Possibile che non ti importi…» La colsi di sorpresa, come veleno. Rimase in silenzio. 
«Non è questa la Oscar che conoscevo, quella con la quale sono cresciuto, che ammiravo con tutto me stesso…» Fui duro con lei, e a quel punto, non seppi più frenare le parole. «Denunciami pure se lo ritieni giusto... ed ora, con il vostro permesso Madame Fersen, ho delle mansioni da svolgere. Mi attendono molti palazzi, stanotte...».
Da primavera, mutai in inverno, mi smarrii nel pianto della sua luce incerta. 
Ripresi fiato, fissai il suo volto un’ultima volta. Scoprii il gelo. Chinai il capo, lascai Oscar alle mie spalle; da allora, diventammo estranei e divisi.                            
 


[Oscar]


«Madamigella Oscar, voi non vi sentite mai sola? Avete davvero intenzione di passare tutta la vita indossando un’uniforme militare, siete una bella donna, non vi sentite a disagio?». 
«Io non mi sono mai sentita sola né a disagio, anche se ho ricevuto un’educazione maschile fin dalla nascita, e questo per occupare un giorno il posto di mio padre, il Generale Jarjayes!». 

Avevo dimenticato quelle parole, quanto orgoglio e certezza quel giorno lontano! Fu tutta un’illusione, una smentita netta e amara come un colpo di spada nemico. 
Ero innamorata di Fersen già d’allora? Come avrebbe reagito mio padre nello scoprire la fine del mio matrimonio? In grazia sua, sarei mai ritornata quella di un tempo? 
Non feci che chiedermelo di continuo.
Fu in quei giorni a seguire, che conobbi le spoglie della solitudine. Crebbero e mi avvolsero come una seconda inespugnabile pelle, le scoprii profonde come radici nella terra. Il troncarsi del mio legame con André, fu acqua a loro negata. Mi chiusi nel mio intimo tormento e rancore, evitai sia lui che mia cugina Astrée; non intralciai il suo segreto agire, né gli andai incontro. Lo ignorai, seppur considerassi il Cavaliere Nero mio nemico. Ripensai spesso alle sue parole, dure, disilluse e alla situazione critica della capitale e di tutto il paese sulla quale gravava ormai, anche il fardello di una carestia, dovuta al pessimo raccolto dell'anno precedente. Il gelo che colpì la Senna arrestando la flottazione sulle acque del fiume, impedì tra l'altro, il rifornimento di legna proveniente da Clamecy e da Morvan, così come il pescato di acqua dolce. Allora, continuavo tuttavia, a confidare in un provvidenziale intervento dei sovrani. Credevo ancora profondamente nel mio Re e nella mia Regina, fu questo forse, il mio primo errore. 

Un’intensa pioggia accompagnò l’arrivo di mio padre, due settimane dopo il mio rientro; spense il tramonto e il cielo. Mi chiamò nel suo studio quel pomeriggio stesso. Con lui, il conte di Fersen. Guardai mio marito per un istante, carica di sorpresa. Il cuore gonfio d’amarezza, non più d’amore. 
Mio padre mi fissò serio, strinse un pungo, avanzò inesorabilmente verso di me. Rimasi ferma; non temetti la sua ira.
«E’ stata una follia!»
Trattenni le parole. Lo schiaffo che aspettavo, non giunse, tuttavia.
«Conte Fersen, ho risposto tutta la mia stima e fiducia in voi. Ho allevato mio figlio per farne il mio erede, ma nonostante questo vi ho concesso la sua mano!» 
Parlò graffiante di rabbia, prossimo al mio viso. 
Fu Fersen a frapporsi gentilmente tra noi.
«Mi scuso profondamente con voi Françoise… Oscar, per non essere stato un buon marito» Ci guardammo per un lungo istante. Non mi concessi alcuna emozione. «… e anche con voi Signor Generale...» continuò, sicuro delle sue parole.
«Perché siete tornato in Francia?».
La mia attenzione ritornò su mio padre. Sulla sua figura fiera e maestosa.
«Perché il mio cuore è qui, per quanto mi sia illuso di cercarlo e vederlo altrove, è qui!».
Fersen si sciolse in un amaro sorriso. Avrei trovato anch’io un giorno, ristoro in quelle parole.
«Non perdonerò mai un affronto simile!»
Di nuovo l’ira di mio padre, così simile a quella del cielo.
«Ho conoscenze molto influenti in Svezia, per loro non sarà un gran problema annullare questo infruttuoso matrimonio…»
«Lo spero. Fin quando non sarà annullato, non una sola parola uscirà da questa stanza!»
Sospirò profondamente. Qualcuno bussò alla porta. Con un’espressione trafelata, l’attendente di mio padre si fece avanti, esitò per alcuni attimi, poi parlò.
«Generale, sono stati rubati duecento fucili! Hanno assaltato i vostri uomini e rubato le armi! Pare sia opera del Cavaliere Nero… ma c’è di più, sembra che ad agire sia più di una persona...»
Il mio cuore s’accese di rancore.
«Ne ho sentito parlare, Generale. Lasciate che mi occupi io di lui, prenderò con le mie mani quella carogna e i suoi complici!»
Esitai sul piglio risoluto di Fersen. Tremai intimamente.
«Oscar, ti occuperai anche tu di questo. Dopo la tua sciocchezza, catturando il Cavaliere Nero, riguadagneresti l’ammirazione e la stima dell’aristocrazia.»
Strinsi i denti, annuii ma non ebbi il coraggio di guardarlo in viso.
«Certo padre, non vi deluderò…»
«Lo spero Oscar, lo spero di cuore…»


 
***


Lasciammo in silenzio lo studio di mio padre. Lungo lo scalone principale, incrociammo mia cugina.
«Buonasera Hans, ne è passato di tempo dall’ultima volta che ci siamo visti…».
«Ma voi siete… Astrée?».
Ebbi l’impressione che si conoscessero bene.
 

 

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Capitolo 7
*** Esplosione ***


Rosa nata ieri
 

[Oscar]


Giunse la notte, come una madre placò e avvolse lentamente il pianto del cielo; spense ogni rumore. Mi versai da bere, scaldata dal respiro del fuoco. Fiero e inarrestabile, aggredì il vigore della legna.
Uno sguardo al passato, il crepitare della lotta, l’emozione viva e mendace della sfida. Tutto sembrava ricondurmi inevitabilmente a quell’esistenza. Il mio spirito battagliero giaceva ancora nudo e tremante, come un bambino nel grembo materno, e il suo cuore gridava forte, accanto al mio: era ormai pronto a squarciare le mie carni terrene, per attingere alla vita.
Mi sedetti e indugiai a lungo in quei pensieri. Fersen sedeva accanto a me, sull’altra poltrona; dimenticai presto la sua presenza. Ripensai al duro colloquio avuto nello studio con mio padre, alla sua avversione per la fine del mio matrimonio e alle sue parole recanti un ordine preciso. Rigirai il bicchiere a tulipe tra le mani, colsi l’immediato aroma del liquore e lo portai alle labbra. Mandai giù il primo assaggio, ad occhi chiusi.
Avrei dovuto adempiere onorevolmente al suo volere, fermare e consegnare il Cavaliere Nero e i suoi complici alle autorità, risanando l’ordine tra un’aristocrazia sempre più licenziosa.
Aprii gli occhi di colpo, sfiorata dall’amarezza. Mi scoprii vittima e carnefice di me stessa. Era interiore la lotta per cui l’animo mio divampava da tempo, allora tuttavia, preferii concentrarmi solo sul suo riflesso cangiante. Volevo ritornare ad essere un uomo e per questo, con fiducia, affidai la mia vita e ogni suo segreto, inseguendo l’onda di quello scontro nascente. Credetti di ritrovare così, l’equilibrio sperato. Non volevo deludere mio padre, mi ripetevo, ma non assecondai mai davvero la sua volontà e non furono soltanto l’istinto e la passione di sfida a guidarmi, a schiudere in me, la lenta consapevolezza per degli ideali che avrei abbracciato con ardore di corpo e spirito.
Continuai ad evitare André a lungo. In quei giorni, il mio rancore verso di lui crebbe profondo e feroce, m’invase il petto e la ragione. Si vestì di spine; mutò poi, in rogo e s’addolcì in piccola fiamma, quando capii di temere per la sua vita. Ero ancora fortemente legata a lui, benché non volessi ammetterlo per orgoglio o per un indefinibile pudore.
La realtà da lui abbracciata, giungeva dunque, oscura e preclusa ai miei occhi. Volli conoscerla a fondo, intimamente. Confrontarmi e guardare senza più chinare il capo, quell’ombra di mondo così lontana e discorde dal mio.

«Quando la storia del Cavaliere Nero sarà finita, tornerò dalla Regina».
La voce di Fersen, frenò i miei pensieri. Mi voltai ad osservarlo; la malinconia del suo viso, s’offrì al mio sguardo.
«Ho impiegato anni per capire che il mio amore per lei era irrealizzabile nella sua pienezza e che avrebbe rovinato la sua persona, ciononostante ho commesso molteplici errori, e così d’ora in poi, io non posso fare altro che tenere questi… questi miei sentimenti soffocati nel profondo del cuore. Metterò la mia persona e la mia vita al suo servizio». 
I suoi lineamenti gentili, s’accesero sfiorati dalle ombre del camino.
Rimasi in silenzio, ferma nella gravità dei suoi occhi ardenti e chiarissimi. Chinai il capo e mi concessi dell’altro cognac. Era fortunata la mia Regina, pensai. Fersen non aveva mai smesso d’amarla, così come io, mai avevo smesso di venerarla nel suo ruolo di sovrana. Ancora una volta, mi affidai al mio affetto per lei e soffocai la desolazione che provai per me stessa.
Cos’ero stata per mio marito, se non una figura irreale, fatta d’acqua e deserto? Era lei che pensava e nell’intimo desiderava, quando s’intratteneva con me o con le sue amanti?
La gelosia non accompagnò quei pensieri, diversamente dall'insofferenza.
Cos’era stato lui per me, se non un sorso d’acqua irrimediabilmente salata? Impossibile da bere senza sfiorare la lenta agonia del corpo. Ne ero stata innamorata nel profondo, ma quella vita di donna e moglie, molto simile per passività e fattezze a quella di bambola, era per me estranea e intollerabile.
Non ero figlia di quell’esistenza: essa non mi apparteneva, come non mi apparteneva il cuore del mio sposo. Avevo provato dolore e risentimento per le sue impunite infedeltà; al cospetto dell’amore avevo piegato più volte il mio orgoglio fino a rinnegare con sdegno, la mia vera natura.
Fregiata da ali di cera, mi ero lanciata contro il Sole. 

«Ho saputo della malattia del Delfino. Se solo il popolo sapesse dell’amore che è in grado di donare, della sua generosità. Perché il popolo non la ama, Oscar? Perché tante dicerie e malevolenze su di lei?».                    
Il tormento gli infranse la voce. Si mosse verso di me. Calò le mani sulle mie spalle, mi scosse, e fu potente come il vento. Divenni roccia allora, e lo placai con la durezza di uno sguardo.
Socchiuse gli occhi mortificato. Bevve del vino e tornò a sedersi sulla poltrona, sospirando.
Commettemmo lo stesso errore io e la Regina, seppur in contesti distinti. Entrambe volgemmo lo sguardo altrove, ignorando e sottovalutando spesso, ragioni e sentimenti. Non riuscì mai a comprendere il suo popolo, ad ascoltarne il grido; mancò di assolvere il suo ruolo di Sovrana e il Re non fu da meno, purtroppo.
Realizzai questo, solo dopo molto tempo, quando la crudeltà della sua morte, divenne inevitabile. Allora, quando tutto era ancora lontano, mi imposi di parlarle, di chiederle un’udienza privata; l’avrei supplicata ad aprire gli occhi e il cuore sulle condizioni grevi dell’intero paese.
Esitai troppo.
Il tempo scivolò via dalle dita e non fui più in grado di fermarlo. Notte e giorno vestirono d’improvviso lo stesso colore. Non distinsi più il sole, né la luna, né il cielo.

Mi alzai.
«Spero che il matrimonio venga annullato presto, in modo che possiate tornare ad essere un uomo libero e felice» parlai senza guardarlo, allentando appena, il nodo dello jabot attorno al collo. Mi allontanai dalla stanza.
«No Oscar, vi sbagliate!» la sua voce s’alzò duramente. Mi venne vicino, lo avvertii alle mie spalle.
«Non sarò mai un uomo felice. Per quanto la ami, lei non sarà mai mia…» scandì con lenta amarezza ogni singola parola. Mi voltai ad osservarlo. Mi scoprii in pena per lui e per la mia Regina. Rividi il suo dolore di madre per la morte della piccola Marie Sophie. Immaginai la sua angoscia per la vita del principino Joseph, la cui salute andava ad aggravarsi di giorno in giorno. Pregai il Signore di evitarle un altro lutto.
«Bene. Vi auguro la buona notte» pronunciai solo e mi congedai. Raggiunsi lo scalone principale. Fersen inseguì i miei passi.
«Oscar, aspettate. Avete qualche pista che possa condurci al Cavaliere Nero?».                            
Mi fermai. Strinsi il freddo corrimano.
«No. Desidererei comunque, occuparmene personalmente, senza il vostro aiuto. Per quanto mi riguarda, nessuno vi trattiene dal potervi recare domani stesso dalla Regina» dissi con distacco, e salii i primi gradini, senza voltarmi.                                                                                                   
«Ho dato la mia parola a vostro padre. Catturerò lui e i suoi complici e li condurrò all’impiccagione!».                    
L’inquietudine mi punse il cuore.                                                     
«Avremo modo di parlarne» risposi irritata.
Seguì un lungo silenzio, quando avvertii dei passi in lontananza, dall’ala est del palazzo.
André?! 
Cercai d’istinto i suoi occhi e il suo viso. Rianimai così, il mio rancore verso di lui. Allora, quasi non tolleravo la sua presenza. Rimase per un poco nel mio sguardo, per poi rivolgersi con gentilezza a mio marito.
«Buonasera Conte di Fersen… Madame».                                                                            
Mi guardò ancora. Lo lasciai alle mie spalle, salendo velocemente le scale.
«Buonasera a voi. Vi trovo molto bene André».         
«Trovo molto bene anche voi, Conte».          
«Una di questa sere potreste aiutare me e mia moglie a pedinare il Cavaliere Nero. So che lei nutre una grande stima per voi, immagino siate a conoscenza di tutti i furti…».                         
Sorrisi d’amarezza nell’ascoltare quelle parole. Mi fermai all’improvviso, in cima alle scalinate. 
«Credo dobbiate rinunciare alla sua compagnia. André ha altro di cui occuparsi la sera…» fu una provocazione la mia. Strinsi i denti. Fremevo di risentimento e delusione per lui. Sostenne il mio sguardo senza esitazioni, privo di timore; solo orgoglio e fermezza.
«Capisco».        
Ignorai le parole di Fersen. Lo ritrovai accanto a me, lungo le scale. Salutò André e circondò la mia schiena con un braccio. Contenni a stento, il disappunto per quel gesto. Tuttavia, m’imposi di assecondare il volere di mio padre e continuare a celare la fine della nostra unione. Prima di voltarmi, André lasciò palazzo Jarjayes: evitò di guardarmi.


 
[André]


Il tormento mi crebbe in petto, lo scoprii ostile come un fiore d’oleandro. Sciolse l’audacia, al cospetto di quell’intimo contatto tra loro, scivolai in un’irrimediabile gelosia.
Avevo appena saputo da mia nonna del ritorno di Fersen. Soffocai così, l’amarezza di vederlo nuovamente assieme ad Oscar, lasciando entrambi alle mie spalle, senza più guardarmi indietro.
Sarebbero tornati presto in Svezia, considerai, trattenendo il respiro
Non avrei mai più rivisto Oscar. A quel pensiero, il dolore si infittì nel cuore, fu fuoco e freccia, ferro e spada.
Da tempo, le nostre vite scorrevano distanti e silenziose, come acque di lago e mare. Ero stato quiete nell’accogliere la sua volontà d’evitarmi. Fermo nei miei ideali, l’avevo assecondata e affrontata, strappando ogni rapporto d’amicizia, nutrendomi dei suoi silenzi e delle sue piccole provocazioni, amandola perdutamente, in quel freddo groviglio di follia. Quella notte di metà febbraio, Astrée mi precedette a casa di Bernard e Rosalie, un’abitazione poco lontana dal Pont Neuf della Senna. Mi affrettai a raggiungerla, recuperando velocemente le mie vesti di Cavaliere Nero nelle scuderie. Evitai di cambiarmi lì, infilando gli indumenti nella bisaccia che sistemai al fianco del mio cavallo.
Lo spronai verso la desolazione di Parigi.
Il forte desiderio della popolazione di porre fine ai soprusi e ai privilegi delle classi agiate, aveva incalzato il Re a convocare gli Stati Generali.
Allora, mancavano meno di tre di mesi all’inaugurazione ufficiale. Erano molte le aspettative.
Cercai il volto della luna nel piombo del cielo. Trovai il mio cuore nella sua nobile, intoccabile freddezza, così simile a quella di Oscar. Sorrisi di me stesso a quel pensiero.
Sapere lei e Fersen sulle nostre tracce non mi stupì più di tanto, solo, mi sentii in dovere di avvisare Astrée e Bernard. Erano in molti in quel periodo a darci la caccia, tra nobili e autorità. Agivamo con cautela, ma sornioni, ci accostammo spesso al fuoco del pericolo. Scoprii di amare il rischio, il suo odore e la sua consistenza di cristallo lucente. Mi scoprii vivo e orgoglioso in quel ruolo: nel suo involucro annegai le mie ombre, inseguendo così, la sorte di Icaro.

L'aurora avrebbe presto ridestato il cielo pallido, il canto di un campanile giunse lontano, quasi sperduto.
Pioveva lievemente, un pianto intimo e silenzioso. Mi scostai dai vetri e passai le mani sugli occhi, accantonando dopo una lunga notte, le mie vesti di ladro assieme ad Astrée.
Salutammo Bernard e Rosalie, abbandonando la loro abitazione.
Recuperati i nostri cavalli, le vie di Parigi si schiusero lente e familiari ai nostri occhi, nude e sfiorite come alberi nel cuore feroce dell’inverno. La fame dilagante, strappava via, vite come fossero fili d’erba. Malgrado l’impegno costante, eravamo spesso impotenti dinanzi a simili scenari.
Ci separammo a metà strada.
Assecondai la mia sete di solitudine nel vino di una locanda. Bevvi un’intera bottiglia, seduto ad un tavolino della Bonne Table. A parte l’oste, pensai a lungo d’essere solo. Con irruenza, il pensiero di Oscar rivendicò il mio petto. La pioggia mutò d’intensità. Accolsi quel suono ad occhi chiusi, bevendo fiele dal mio bicchiere.
Come poteva proprio lei restare in disparte, coltivare nel profumo del proprio seno, il seme dell’avversione? Sospirai con profonda amarezza. Quando riaprii gli occhi, trovai la malizia di uno sguardo. Lo riconobbi senza indugi. Lei rise con dolcezza, con gli occhi di zaffiro e lunghe ciglia scure. Accostò il suo viso al mio. Morbidi ricci biondi, sfioravano la linea generosa del suo seno, sfacciatamente in vista nella rigidità di un corsetto color uva spina.  
«Bérénice!» esclamai sorpreso. Sorrisi, feci per alzami quando lei mi bloccò.             
«Adesso lavoro qui. Sai, diventi sempre più bello, Grandier…» sussurrò pianissimo, chinandosi su di me, carezzandomi il petto.
Cercai Oscar nei suoi occhi, vi trovai un cielo che non riconobbi.
Guidò la mia mano, la poggiò sulla collina in fiore del suo seno. Ne scostò appena l’orlo, strinse le mie dita, le insinuò all’interno della scollatura. Profanai la sua pelle nuda e calda, con il solo palmo. A quel punto, liberò la presa. Ferma nel mio sguardo, sfiorò il confine del mio ventre.
La fermai.
Quante volte in passato, avevo placato il mio desiderio, tra il velluto vivo delle sue gambe, cercando Oscar in ogni suo più piccolo sospiro?
L'allontanai gentilmente e mi alzai. Estrassi delle monete e la guardai, stringendole la mano.
«E’ stato un piacere rivederti. Ora devo andare, grazie della compagnia».                    
«André…». 
Trattenne il mio polso. La ritrovai ad un soffio dal mio viso, con i suoi capelli di grano scomposto.
Seguii i suoi occhi, le sue mani e il suo respiro minuto. Toccò le mie spalle, lentamente. Baciò la mia bocca, con un’inaspettata esigenza. Fu una guerra silenziosa. Sorrisi divertito dal suo atteggiamento. Lei rise con gli occhi. La salutai.
Un timido sole bagnò l’alba del ritorno. Giunto nella mia stanza, cedetti all’abbraccio della stanchezza. Fu un riposo breve e inquieto. Sognai un’ombra scura come il manto di un corvo: spense irrimediabilmente il sole.
 


[Oscar]


Accadde allo schiudersi della primavera.
Per quasi un mese, pattugliammo Parigi a ridosso della notte. Feci il possibile affinché quell’incontro non avvenisse. Il più delle volte, fui io stessa ad orientare Fersen su tracce sbagliate. Con disagio, osservai l’indifferenza estrema nei confronti della povertà, di chi come me, era figlio della ricchezza. Come una crisalide, debellai lentamente il bozzolo delle mie convinzioni. Venni al mondo con nuovi occhi e pensieri. Il popolo francese arrancava da anni, orfano e abbandonato a se stesso. Gli Stati Generali avrebbero mai alleviato simili vessazioni e sofferenze? Vi credetti con tutto il cuore. Allora, compresi solo una piccola parte delle ragioni che spinsero André a ricoprire quel ruolo.
Priva della sua amicizia, mi avvicinai al suo sentire in punta di piedi. Vegliai su di lui in silenzio, nel segreto del mio orgoglio e cuore.
Quella notte, accostati nei pressi di Place Vendôme, ci imbattemmo in tre figure a cavallo, avvolte in mantelli scuri.
Non si accorsero di noi. Non potei far nulla per impedire a Fersen di inseguirli. Giunsero nei pressi di un palazzo nobiliare, a ridosso della Senna. Dimora del Duca Picard.
Ci fermammo poco lontano da loro, celati dall’alto arbusto di un biancospino in boccio. C’erano le stelle quella notte. Vidi Fersen scendere da cavallo e impugnare la sua pistola.                                                                   
«Restate di guardia, mi occuperò io di tutto» intimai con durezza, affiancandolo.   
«Abbiamo già perso troppo tempo, Oscar. E’ ora di porre fine a questo gioco».   
Trattenni il fiato.
«Aspettate!».
Fermai rapidamente il suo braccio, intralciando ogni suo movimento avventato.
In quell’istante due figure calarono all’interno di una delle arcate superiori di palazzo Picard.
Ci avvicinammo in silenzio. 
«Li aspetteremo qui, non dobbiamo farli fuggire» sussurrò contro la mia spalla, sferzante come il vento. Era pronto a far fuoco. In cuor mio, pregai a lungo che ciò non avvenisse.
In quel momento, dall’alto, un suono catturò la nostra attenzione.
Fu un istante, breve come un battito di ciglia. Lo sparo di Fersen andò a segno.
La figura avvolta di nero ricadde nell’oscurità del fiume.
Non riuscii a distinguere la sua fisionomia. Sperai solo non fosse…       
«Perché lo avete fatto?» Gridai.
Il panico mi strattonò il cuore, smorzò il respiro e ogni altro pensiero.
Con un calcio, gettai la sua pistola sul manto d’erba.                                              
«Ma cosa fate?».
Ignorai ogni sua parola e sconcerto. Rincorsi come una furia la sponda della Senna.
Mi scoprii incapace di respirare.
«Fate attenzione Oscar!».  
Distinsi dei passi alle mie spalle.
Istintivamente, toccai l’elsa della mia spada. Quando mi voltai, una figura dalla corporatura esile, lanciò qualcosa contro i miei piedi. Una granata. 
L’afferrai tra le mani. Corsi velocemente, scostandomi da quel punto di fiume. Quando fui abbastanza lontana, la gettai nelle sue acque. Fu un attimo e un’esplosione improvvisa e violenta, stordì i miei sensi.
Conobbi la notte.

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