Il Rischio dell'Assenza

di PrettySnowflake
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non Abbastanza ***
Capitolo 2: *** La Pecora e il Pastore ***
Capitolo 3: *** La Nostra Partenza ***
Capitolo 4: *** Bella Come il Biondo Grano ***



Capitolo 1
*** Non Abbastanza ***


Capitolo Primo : Non Abbastanza
Prologo: (Cap1-3)
"Questo è come tutto ebbe inizio
Muovi i tuoi passi
Senti quanto è dolce
Continua a sognare piccolo sognatore [...] "
Above & Beyond

«Sono abbastanza grande per restare!» affermò Jack con riluttanza, dopo essergli stato chiesto di lasciare la stanza.
«Grande sì, ma non abbastanza.» rispose sua madre «Io e tuo padre abbiamo molto da discutere, perciò lasciaci soli.»
«Fa' come dice tua madre.» aggiunse suo padre Markus mentre sedeva sulla poltrona color petrolio, con sguardo serio ma paziente.
Quella stanza non era tanto spaziosa ma, del resto, una più grande non sarebbe potuta stare in una casa cotanto minuscola: a malapena vi erano tre camere, la cui una doveva essere prontamente condivisa da Jack e dalla sorellina Peppa, senza però fare a meno di litigare per ogni minima bazzecola. Un'altra era dei genitori mentre la più grande delle tre, che stava all'entrata principale, dava spazio ad una piccola dispensa con un tavolo di legno e una stufa con accanto la poltrona dove, in quel momento, sedeva Markus.
Di certo non potevano lamentarsi, anche se d'inverno pativano un po' il freddo, perché nel complesso ci si poteva vivere.
Quella casa trasmetteva un'aria così calorosa; anche quando la coltre bianca scivolava sul tetto Jack riusciva a percepirla. Praticamente era nato lì, in una notte di novembre inoltrato: di quel giorno non ricordava molto, ovviamente, ma quando il nonno gli raccontava dettaglio per dettaglio quell'avvenimento tanto speciale non poteva fare a meno di immaginare la mamma con, dipinto in volto, espressioni di dolore e sgomento mentre cercava di farlo uscire e di come papà si agitasse per l'emozione; quelle immagini erano reali per il ragazzino semplicemente perché aveva assistito alla nascita di sua sorella, dove la mamma urlava per il dolore e il papà faticava a respirare per l'agitazione. Per questo era cosciente di come fosse l'atmosfera.
«Va bene.» si arrese infine Jack, aprendo lentamente la porta e facendola scricchiolare. 
Uscito cominciò a trascinarsi lungo la distesa di neve che quel dì ricopriva la boscaglia, sempre più incuriosito di quello che la mamma e il papà, di lì a poco, si sarebbero detti. Forse stavano preparando una sorpresa per lui: magari l'altro giorno, quando aveva parlato di una nuova slitta con il luccichio agli occhi, i suoi genitori lo avevano preso sul serio e adesso stavano discutendo su come procurargliela. 
Speriamo sia così, pensò.
Jack aveva tredici anni di vita: si sentiva un uomo o, almeno, un piccolo uomo; aveva cominciato ad aiutare suo padre con le faccende da uomini, come trasportare la legna o accompagnarlo durante battute di caccia. 
Papà non lo considerava più un bambino, ne era certo, ma si domandò nuovamente perché non fosse abbastanza grande per assistere alla 'famosa' conversazione. Quel pensiero lo martellava prepotentemente.
Improvvisamente avvertì l'odore di legna bruciata che divampava nell'aria e le sonore risate provenienti dal piccolo villaggio che distava a pochi passi da casa sua. 
Tra quelle case il ragazzino poté giurare di conoscere tutti: c'era il maniscalco Toby, il quale non era mai stato sorpreso a cincischiare in bottega; Jack pensava che quell'uomo laborioso non si fermasse neanche per dormire. 
C'era la famiglia Hodds dove era cresciuto Malcom, un bambino della sua età ma con cui, però, non era mai riuscito a far amicizia. 
«Avanti Jack, Malcom non è niente male! Potreste fare molta amicizia» aveva detto un giorno sua madre e Jack per educazione aveva annuito, senza sottolineare il fatto che Malcom Hodds fosse una piccola peste senza cervello; gli sembrava incredibile come nessuno se ne accorgesse, perché tutti lo adoravano e lo reputavano un ragazzo in gamba, ma a lui dava sui nervi.
C'era la signora Lucy Hawkings, un'anziana rimasta vedova che trattava tutti i bambini del villaggio come nipoti suoi, forse per il senso del dovere. A Jack piaceva molto perché, nonostante avesse i capelli bianchi e malconci, gli occhi scavati e le mani rugose, Lucy aveva il sorriso più bello che avesse mai visto (era perfino più bello di quello di sua mamma Martha!); l'apprezzava molto anche perché, fin da quando era piccolo, era stato premurosamente ospitato e curato da quella donna, tanto che involontariamente l'aveva chiamata mamma in diverse occasioni. Ma ora aveva tredici anni ed era diventato troppo grande per trattarla in quel modo, perciò si rivolgeva a lei semplicemente con "signora Hawkings" o "signorina Hawkings", dandole del lei.
Fu lei la prima che Jack incontrò quando, dopo aver sentito i rumori, raggiunse il villaggio; Lucy stava vicino all'entrata della sua modesta casa a braccia conserte e, quando intravide il ragazzo, sfoggiò il volto sorridente ma tirato:
«Ciao Jackson» lo salutò «che ci fai qui?»
«Solita storia, signora Hawkings» gli rispose Jack, agitando la mano «Mamma e papà hanno da discutere e non mi vogliono nei dintorni.»
Era abitudine che i suoi genitori lo cacciassero dalla stanza per stare da soli, ed era abitudine per lui chiedere di restare semplicemente perché era abbastanza grande per farlo.
«Oh, certo» annuì la donna, in tono canzonatorio. «In questo caso hai fatto bene a venire qui.»
Jack sorrise: «Ha visto mia sorella Peppa?»
Ah, Peppa. 
Quella bimba era davvero una peste; aveva solo otto anni ed era un concentrato di pura energia e buonumore. A volte Jack la detestava ed altre volte l'amava da morire. Ma in quel momento avrebbe voluto strozzarla.
«Non la vedo da stamattina! Sicuramente è qui.» riprese il discorso il ragazzo. 
Peppa trovava sempre l'occasione di svignarsela e andare al villaggio per stare con le sue tre amiche Daisy, Mary e Veronica; per questa ragione Jack dedusse che la sorellina si trovasse da quelle parti. Infatti ebbe ragione. 
«Peppa!» la chiamò quando la intravide infondo alla via principale, mentre sghignazzava all'unisono con le sue compagne. La bambina si voltò verso di lui e sbuffò:
«Ecco dov'eri finita!» fece lui.
«Perché sei al villaggio?» domandò lei, come se venire al villaggio per Jack fosse come andare in Antartide.
«Papà e mamma devono parlare, perciò mi hanno chiesto ... »
« ... Di lasciare la stanza.» completò la frase la bambina, come d'abitudine.
«Non ti sfugge proprio niente, sorellina. »
Nel frattempo le tre ragazzine accanto a Peppa guardavano Jack come Cenerentola guardava il suo principe; erano stregate dalla presenza di un ragazzo così grande, tanto che prendere una cotta per lui fu inevitabile.
«Ora sparisci.» mormorò Peppa con quella confidenza che si poté definire fraterna.
Al suon di quelle parole, Daisy spalancò gli occhi chiari: «Perché non può giocare insieme a noi?» il suo tono parve quasi supplichevole.
«Potremmo giocare a nascondino, lasciando a Jack il compito di contare» continuò Veronica.
Mary, la più piccola del quartetto, cercò di convincere la bambina a includere il fratello maggiore: «Oh, per favore Peppa.»
Jack si sentì lusingato e intenerito dalle proposte di quelle tre bimbe, tanto che sorrise alla sorella per convincerla a farlo restare.
Di fronte a quegli sguardi imploranti Peppa non poté certo dire di no, così la giovane squadra si diresse verso il bosco per cominciare a divertirsi a nascondino.
Jack sembrava altissimo in mezzo a quelle bambine anche se misurava un metro e sessantacinque centimetri: era un'altezza modesta ma tutta la sua famiglia era certa che si sarebbe alzato ancora.
Jackson era l'esatta fotocopia del padre: era di carnagione chiara, aveva i lineamenti abbastanza sottili e il viso squadrato, incorniciato dai capelli corti e castani; gli occhi, dello stesso colore, trasmettevano sincerità e spensieratezza tanto da essere capaci di rapirti fin dal primo istante. Era davvero un bel ragazzo: non era solo il principe azzurro di Veronica, Daisy e Mary, ma di tutte le bambine del villaggio; forse fu per quella ragione che Malcom Hodds si atteggiava da 'peste senza cervello' con lui.
Jack poggiò la fronte contro il busto di un albero e iniziò a contare, socchiudendo gli occhi. Uno, due, tre.
Sentì i mormorii delle bambine. Quattro, cinque, sei.
Poi il suono sordo dei loro passi nella neve. Sette, otto, nove.
Dieci. Trenta. Sessanta.
«Sto arrivando!» esclamò, balzando in piedi e guardandosi attorno.
Silenzio.
Si sono nascoste proprio bene, osservò. Ma non abbastanza da sfuggirmi.
Iniziò a girovagar con sguardo ben attento e pronto a captare il minimo movimento, ma senza accorgersi che si stava allontanando troppo dal punto in cui lui e le ragazze si divisero. Ben presto si rese conto di essersi perso.
«C'è nessuno?» fece a gran voce nella speranza di trovare qualcuno. «Peppa? Ragazze?»
Nessuna risposta gli fu data, se non dalla brezza gelata che in quell'attimo gli sfiorò le guance rosse.

~ ~ ~

Berk era un piccolo villaggio vichingo che vantava di avere "quel tipo di clima balsamico tutto sole e spasso da farti venire il congelamento della milza".
I suoi abitanti sembravano fatti con lo stampino: erano perlopiù uomini e donne barbuti dall'accento buffo che girovagavano con asce in mano, pronti a difendersi dagli attacchi a sorpresa dei loro più acerrimi nemici ...
I draghi.
Quei mangiatori di yak si stavano facendo sempre più ostinati, soprattutto in quel periodo dove il cibo stava scarseggiando.
Era ormai da prassi che l'allarme venisse dato ogni notte, poiché quei mostri non preferivano momento migliore per invadere Berk se non quando le tenebre erano già inoltrate.
I berkiani difendevano il loro bestiame anche a costo di essere inghiottiti da quelle fauci infernali, per questa ragione avevano la fama di essere molto coraggiosi.
Tutti tranne uno.

Hiccup avrebbe dormito ancora per fuggire dalla realtà, se non fosse stato colpito dai raggi del sole che in quel momento penetrarono la stanza da letto. Emise un noioso lamento e si separò dalle coperte.
Dopo giorni di bufera nevosa quella giornata di sole ci voleva proprio: qualche settimana prima Mulch aveva esplicitamente detto che il secchio che Bucket portava in testa si era ristretto e ciò stava ad indicare che una perturbazione avrebbe di lì a poco colpito il villaggio.
I berkiani si erano preparati al meglio per affrontare quella tempesta, rifugiandosi nella Sala Meade per qualche giorno, per poi ritornare nelle loro case fortunatamente sopravvissute e godersi le giornate assolate, anche se freddissime, proprio perché i draghi si erano allontanati da Berk in cerca di luoghi più caldi.
I vichinghi sapevano che quei mostri avrebbero fatto ritorno da un momento all'altro, ma almeno si sarebbero goduti quella quiete per un po' e si sarebbero ulteriormente preparati a combatterli.
Sceso le scale che portavano alla sua camera Hiccup trovò il padre, Stoick L'Immenso, mentre gustava con piacere una coscia di pollo davanti al focolare cui, poco prima, aveva dato vita.
«Buongiorno figliolo. Per un attimo ho pensato che non ti saresti più alzato.» osservò il vichingo massiccio con una nota d'ironia, ma il ragazzo non sembrava dello stesso spirito.
«'Giorno papà.» rispose, sedendosi accanto a lui.
Stoick lo guardò di traverso ma non gli domandò che cosa avesse, del resto non lo faceva mai. Tentò di rompere il silenzio:
«Hai fame?»
Hiccup fece no con la testa. In difficoltà per la risposta ricevuta l'uomo decise di tacere.
Era imbarazzante come quei due non riuscissero a crear dialogo.
Stoick era il capo di Berk, l'autorità suprema: non c'era vichingo o drago che non lo temesse; aveva solcato tutti mari del Nord, aveva perfino ucciso un Gronkio a mani nude! Era possente, coraggioso, stoico, saggio. Era semplicemente Stoick L'Immenso.
Ma in quel momento avrebbe preferito combattere contro un branco di Incubi Orrendi tutto solo e disarmato, piuttosto che capire cosa passasse per la testa del figlio.
Hiccup era esattamente l'opposto: era mingherlino e più debole rispetto ai suoi coetanei, preferiva il cervello alla forza e mancava di tutti i requisiti per essere un vero vichingo. Praticamente era un disastro.
Il ragazzino aveva quindici anni e mancava poco al passaggio verso l'età adulta. Non aveva ancora sconfitto un drago, per questo suo padre era disperato e desiderava cambiarlo. Hiccup, dal canto suo, voleva solamente essere capito, accettato per quello che era. Consapevole di essere diverso, si sentiva fuori luogo in ogni momento.
«Sono in ritardo.» fece dopo un breve silenzio il ragazzo «Devo andare in armeria ad aiutare Skaracchio.»
Erano due anni che Hiccup lavorava in armeria: la sua mansione consisteva nel fabbricare strumenti da guerra e utensili di vario genere.
Il suo collega si chiamava Skaracchio, vichingo con braccio e gamba mancanti e amico di vecchia data di Stoick. Quest'uomo aveva visto lo stesso Hicc nascere e crescere, per questo lo aveva preso a cuore e il ragazzo doveva ammettere che l'unico con cui poteva sfogarsi ogni tanto era proprio lui.
«Oh, va bene.» mormorò Stoick, arrossendo. Aveva ancora i baffi unti dalla carne.
Hiccup si sollevò per incamminarsi.
«Hiccup, aspetta.» lo chiamò il padre improvvisamente.
Meravigliato, Hicc si fermò. Il pavimento scricchiolava sotto il peso dei suoi passi.
«Ricordati di dire a Skaracchio che deve finire la mia ascia entro il tramonto.»
In quel momento il ragazzo si chiese per quale motivo ci fosse rimasto così male. Si era illuso forse? Era normale che il padre fosse un muro impenetrabile nei suoi confronti, eppure perché gli sembrò, per un attimo, che Stoick volesse tentar un approccio? O, almeno, volesse dirgli una di quelle cose che padre e figlio solitamente si dicono, come ci vediamo stasera o stai attento, o semplicemente ti voglio bene? Vero, non lo faceva mai.
Hiccup sospirò.
«Certo.» si limitò a rispondere, uscendo.
Anche Stoick sospirò.

La neve che ricopriva Berk era scintillante per via del sole splendente. Uscito di casa, Hiccup la osservò per un istante, in cerca di un attimo di tranquillità, per poi rimboccarsi le maniche e dirigersi verso l'armeria.
A mattina inoltrata il villaggio era fluente di vichinghi lavoratori, di pecore e di galline. A discapito dei giorni passati Berk sembrava un piccolo angolo di paradiso e per un attimo Hicc fu grato di questo, tutto finché non sentì la voce di Moccicoso suo cugino che stava dietro di lui:
«Ciao Hicc-branato! Come mai in giro? Non dovresti essere in armeria?»
Come con Stoick poco prima, Hiccup non mostrò di essere divertito, piuttosto si limitò a voltarsi verso il coetaneo per constatare che era in compagnia dei gemelli Testabruta e Testaditufo, di Gambedipesce e... Astrid.
Gli unici attimi in cui Hiccup stabiliva un approccio con Astrid Hofferson era quando quest'ultima lo schiaffeggiava (del resto i vichinghi non comunicavano in altro modo) ma a lui, però, bastava anche solo essere fissato in cagnesco dalla giovane per essere felice, in quanto ne era tremendamente infatuato da tempi immemori.
In quel momento, quando la vide, sentì il cuore galoppante per via della sua presenza, nonostante lei non lo stesse neanche considerando.
«Moccicoso, dovresti sapere che Hiccup non è mai dove dovrebbe essere!» affermò Tufo, cominciando a ridere con la sorella. Quei due insieme erano una bomba ad orologeria, letteralmente. Una notte, infatti, avevano mandato a fuoco il deposito di pesce in occasione del Loki Day, arrostendo completamente le provviste di un mese. In un altro episodio avevano tagliato, a sua insaputa, la barba di Stizzabifolco e in un altro ancora avevano rubato l'ascia, quella della famiglia Jorgeson, che fungeva da Unione matrimoniale.
Insomma, quando a Berk c'era un guaio non era difficile tirar le somme, perché i responsabili dovevano essere per forza loro, altrimenti lo erano i draghi.
Gambedipesce, il più taciturno del gruppo, assisteva alla scena quasi distrattamente, forse perché stava pensando ad altro.
«Ragazzi, oggi non è giornata.» rispose schiettamente Hiccup che educatamente si congedò per riprendere il suo cammino.
«Oh Hiccup, non andartene» sghignazzò Testabruta «Non abbiamo ancora finito, ridere di te è troppo divertente!»
«Lasciatelo andare» disse Moccicoso ai suoi compari «Del resto l'unica cosa che sa fare è battere ferraglia vecchia.»
Quelle taglienti parole balzarono all'orecchio del giovane con una tale violenza da immobilizzarlo. Probabilmente il Hiccup del giorno precedente avrebbe lasciato perdere e avrebbe continuato a camminare, ma questo non ne voleva sapere di ignorare ciò che il cugino aveva proferito, soprattutto in presenza di Astrid.
Si voltò e controbatté: «Sminuirmi non ti servirà a nulla Moccicoso.»
A tal proposito Astrid iniziò a prestare lo sguardo alla vicenda, distogliendo l'attenzione dall'ascia che poco prima stava levigando con una pietra sferica.
«Invece sì, perché sto dicendo la verità.» cercò di riprendere in mano la situazione Moccicoso, senza aspettarsi una tale ripresa da Hicc. «Non saresti neanche capace di sopravvivere un giorno senza le ali protettive del tuo paparino.»
I gemelli smisero di ridere, poiché in quella battuta non c'era nulla di divertente.
In quel momento a Hiccup Horrendous Haddock III balenò nella mente l'immagine del padre e della faccia che avrebbe fatto se egli avesse dimostrato di valere qualcosa. Quella visione era davvero forte in lui.
«Ah, sì? Mettimi alla prova.»
Il suo rivale accettò la proposta, massaggiandosi il mento:
«Con piacere, cocco di papà. Scommetto che non saresti in grado di sopravvivere tre giorni nei boschi da solo.»
«Mi sottovaluti.»
«Ora basta!» intervenne Astrid «Sono stufa di sentirvi mentre fate questi discorsi da immaturi. Moccicoso, smettila di stuzzicare Hiccup.»
La ragazza stava cercando, in un modo tutto suo, di proteggere il giovane a cui aveva l'abitudine di dare calci e pugni. Era sicura che Hiccup fosse troppo imbranato per fare una cosa del genere.
«Non immischiarti, tesorino» fece Moccicoso rivolgendosi alla giovane, per poi riprendere il discorso con Il suo sfidante: «Allora mettiamola così: se riuscirai a rimanere fuori da Berk, nei boschi per essere precisi, per tre giorni, giuro sulla barba di Thor che smetterò di darti del cocco di papà.»
Hiccup acconsentì, stringendo la mano dell'altro ragazzo.
Il pubblico composto da Tufo, Bruta, Gambedipesce e Astrid osservava la scena davvero stupita. Cosa diavolo era saltato loro per la testa?
Fu una ragazza o l'orgoglio del padre a convincere Hiccup ad accettare? Praticamente entrambi. Voleva, per una volta, dimostrare di essere abbastanza in gamba per rispondere a tutti i requisiti del vichingo modello. Voleva essere grande abbastanza.

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Capitolo 2
*** La Pecora e il Pastore ***


Capitolo Secondo : la Pecora e il Pastore
"Anche la persona più piccola può cambiare il corso del futuro." 
J.R.R. Tolkien

«Mi stai dicendo che dovrei coprirti le spalle per tre giorni mentre vai a fare l'esploratore? Sei uscito di senno, per caso?» rispose Skaracchio all'insolita richiesta di Hiccup che, poco prima, gli aveva raccontato tutto l'accaduto.
«Per favore Skaracchio, devo dar prova di essere abbastanza in gamba. Devo anche dimostrare che Moccicoso è una testa vuota!» si giustificò il giovane vichingo, gesticolando alla rinfusa.
«Non se ne parla nemmeno, ragazzino» asserì l'uomo, puntandogli contro l'uncino che aveva al posto della mano «E comunque non c'è bisogno di trovare una prova schiacciante per Moccicoso, lo sappiamo tutti che ha dell'aria fritta al posto del cervello.»
«Non è solo per questo che voglio farlo...» mormorò il ragazzo che distolse lo sguardo da Skaracchio, con l'obbiettivo di riporre dei pezzi di ferro che si trovavano sul grande tavolo da lavoro, quello all'interno dell'armeria. 
Il barbuto berkiano che gli stava di fronte cominciò a meditare, finché gli si illuminarono gli occhi: «Lasciami indovinare, Astrid era presente alla vicenda?»
Hiccup deglutì e, dopo qualche secondo, annuì per rispondere affermativamente. Skaracchio, conscio dei sentimenti che il ragazzino provava nei confronti della giovane Hofferson, abbozzò un'espressione intenerita e divertita, ma poi si ricompose:
«Hiccup, quello che mi stai chiedendo è veramente stupido. Là fuori puoi incrociare il pericolo in ogni angolo: ci sono le piante velenose, gli animali feroci... E se incontrassi un drago? Sapresti come comportarti?»
Il giovane rabbrividì al pensiero di incontrare una di quelle bestie feroci e dalle fauci fumanti. Rimase in silenzio.
«Te lo dico io. No, non sapresti come comportarti. Per questo motivo devi rimanere qui, al sicuro.» proseguì Skaracchio «A tuo padre verrebbe un infarto se sapesse che ti trovi solo e lontano da Berk.»
Il vichingo non aveva tutti i torti, Hiccup ne era consapevole. Ma dentro di sé sentiva che era arrivato il momento di fare qualcosa che andasse fuori dagli schemi, nonostante le piante velenose e gli animali feroci che continuavano a spaventarlo. Desiderava prepotentemente mettersi in gioco, testare le sue abilità e comprovare a se stesso di essere intelligente e coraggioso. Voleva appurarlo al padre, ai gemelli, al cugino, a Gambedipesce, ad Astrid e, in generale, a tutta Berk che non faceva altro che sottovalutarlo. Iniziava a reputarlo un bisogno fisiologico.
Hiccup assentì a capo chino, rendendosi conto che non avrebbe potuto contare su Skaracchio.
«Adesso devo riprendere a lavorare sull'ascia di Stoick» ruppe il silenzio il biondo vichingo «Anche tu hai del lavoro da fare, se non sbaglio.»
«Sì è così.» affermò il ragazzo che, in poco tempo, cominciò a darsi da fare, maneggiando gli utensili bisognosi di manodopera, ma senza abbandonare quell'espressione pensierosa e meditativa. Doveva trovare un modo per lasciare il villaggio senza farsi scoprire dal padre e dallo stesso Skaracchio. Ma come?
«Non farti venire in mente strane idee.» gli suggerì l'uomo, come se gli avesse letto nella mente ma, allo stesso tempo, non volesse costringerlo a restare.
Dopo qualche ora di dura fatica arrivò quel momento della giornata dove si aveva l'abitudine di consegnare a domicilio gli arnesi riparati e rammendati ai legittimi proprietari. 
Qualche giorno addietro a Skaracchio gli si spezzò il bastone di legno che utilizzava come protesi, quando rimase incastrato in una buca ed alcuni vichinghi cercarono di tirarlo fuori, provocando l'incidente. Per questo fu costretto a dare a Hiccup il compito di recapitare tutte le armi ai padroni, nonostante fosse comunque in grado di camminare, proprio perché non riuscì a trovare un buon sostituto e la saggia Gothi aveva precisato che, per poter riprendersi, aveva bisogno di non fare troppi passi.
Il giovane, uscito dall'armeria con gli oggetti affidatigli, si rese conto che quello fosse il momento ideale per darsela a gambe. Nascose la carriola con al suo interno la ferraglia in un vecchio deposito. Fece una breve sosta a casa sua, dove caricò con sé quello che reputava essenziale per la sopravvivenza e, infine, si incamminò in direzione della pallida boscaglia.
Il suo cuore e le sue tempie battevano all'impazzata. Non avvertiva altro, in quello spazio pervaso dal silenzio e dalla quiete, se non il ritmo e il rumore frastornante del suo respiro che si affannava. I suoi occhi verdi si dissipavano nel bianco della neve glaciale.
L'aria congelata che respirava gli diede l'opportunità di rimembrare un momento felice della sua infanzia, quando suo padre lo accompagnava fuori da Berk e gli mostrava quanto fosse bella la natura nordica. Dilatò le narici per afferrare quel ricordo, annusando il dolce odore dei pini, ma poi ricordò di ritrovarsi solo ed indifeso, e di avere un terribile freddo.
I minuti passarono, poi le ore: Hiccup sembrava l'unico essere vivente presente in quel posto.
«Cavolo, tutto qui?» osservò stupito a voce alta, mirando i dintorni deserti. «E io che pensavo d'incontrare bestie feroci e piante velenose. Ah! Appena Moccicoso e gli altri verranno a sapere di come sia riuscito a resistere per tre lunghi ed estenuanti giorni qui fuori e tutto solo, cominceranno a portarmi un po' di rispetto!»
Improvvisamente un rumore sembrò provenire da dietro una coppia di arbusti che stava alla destra di Hiccup.
Il giovane drizzò la schiena, spalancando i grandi occhi. Afferrò il primo oggetto che trovò a terra, un ramoscello, e lo strinse come arma difensiva.
«Chi va là?» provò a chiedere. Le mani gli tremavano.
Sentì la voce di un ragazzino che chiamava qualcuno, ma l'immagine di quest'ultimo non era ancora visibile.
Almeno non si tratta di un drago, pensò il giovane vichingo.
I richiami del personaggio misterioso continuavano a rimbombare nella testa del ragazzo che non riusciva a trovarlo, nonostante scrutasse ogni angolo circostante.
Dalla voce sembrava un bambino che, presumibilmente, si era perso e stava cercando i genitori.
Una volta anche Hiccup perdette la strada, aveva sette anni quando accadde. Era una notte talmente buia che il piccolo non riusciva neanche a vedersi la punta del naso e la temperatura era così bassa che ogni parte di lui si era quasi assiderata. 
In quel periodo dell'anno Berk era incredibilmente fredda a causa dell'elevata latitudine che la esponeva ai venti gelidi del polo ed era molto raro vedere la luce del giorno, poiché il villaggio era, per la maggior parte del tempo, inghiottito dalle nuvole e dalle tenebre. Era severamente vietato uscire di casa, soprattutto per un bambino come lui, perché la morte per ipotermia era più che certa. 
Hiccup dal canto suo uscì comunque, ignaro di quello che gli sarebbe potuto accadere. 
Era alla ricerca dei Troll, creature leggendarie provenienti dai boschi; Skaracchio parlava ogni giorno di loro, sostenendo che quelle entità potessero guarire i malati ed esaudire qualsiasi desiderio, ma che fossero anche difficili da scovare. Il bambino, in questo modo, finì per appassionarsi a quel mito, così tanto che iniziò a reputare i Troll degli esseri reali e bisognosi di essere trovati. 
Ma il gelo, pungente quanto lame taglienti, aveva risucchiato tutto il calore corporeo del bambino e con tanta avidità lo aveva lasciato a terra e senza forze. Fortunatamente venne soccorso dal padre che, dopo un po' di tempo passato a cercarlo, era riuscito a trovare il figlio privo di sensi in mezzo alla neve. 
Hiccup, dopo quell'episodio, si rifiutò di uscire durante i successivi mesi invernali, ma la cosa non durò molto.
Finalmente Hiccup ebbe occasione di guardare il bambino in faccia, dopo che quest'ultimo sbucò da dietro un albero. Era più alto di come il giovane se lo era immaginato tempestivamente qualche secondo addietro. Lo guardò, un po' disorientato e confuso.
Anche il ragazzino misterioso pareva spaesato quanto lui. 
«Scusami, hai per caso visto quattro bambine passare di qui?» domandò educatamente il giovane, ma Hicc non lo stava neanche ascoltando.
Non sembra di Berk, osservò il vichingo. D'altronde indossa un abbigliamento inusuale per i suoi costumi. 
Hiccup poté giurare di non aver mai avuto occasione di vedere un mantello tanto strano quanto quello che il fanciullo portava intorno al collo.
Da dove saltava fuori?

~ ~ ~

Erano passate due abbondanti ore da quando Jack aveva perso di vista le quattro bambine. Trovare qualcuno in quei boschi deserti gli diede un gran sospiro di sollievo, almeno finché non si accorse che questa persona, probabilmente suo coetanea, lo stesse squadrando dalla testa ai piedi con stupore e confusione. 
Jackson cominciò a sentirsi a disagio ma non aveva paura, forse perché il ragazzo di fronte a lui non sembrava pericoloso. Di fatto era leggermente più basso di lui ed era abbastanza minuto, ma aveva un'espressione notevolmente arguta. 
Immaginò di essersi allontanato considerevolmente da casa, poiché non aveva mai visto quel giovane prima di allora.
Dopo qualche secondo di silenzio il ragazzino si decise a rispondere alla domanda che poco prima Jack formulò:
«No, non ho visto nessuno. Mi dispiace.» 
Aveva le guance tempestate di lentiggini, e una piccola cicatrice alla sinistra del mento,  appena sotto le labbra sottili. Gli occhi, grandi e verdi, erano luminosi a motivo dei raggi solari che soffocavano la nebbia. 
«Oh» sospirò il ragazzo, deluso da quelle parole «Non fa niente.»
«Ti sei perso?» fece improvvisamente l'altro.
«Immagino di sì.» Jack fu sorpreso dall'interessamento del ragazzo che gli stava difronte. Il piccolo imbarazzo provato svanì del tutto, e anche la timidezza.
«Anche tu?» chiese Jackson al suo nuovo conoscente.
«No, direi di no.»
«Allora perché sei qui solo nei boschi?»
Il giovane parve infastidito: «Ma perché tutte queste domande?»
«Quando due persone fanno amicizia è inevitabile farsi domande!»
«Amicizia? Ascolta, ragazzino: io non ho tempo da perdere. C'è una ragione per cui sono qui e non sei di certo tenuto a saperla. Ora ti suggerisco di riprendere la tua ricerca. Quelle bambine non devono essere andate molto lontano.»
Che caratterino.
«Mi chiamo Jackson.» lo corresse. Non era più di buonumore.
«Va bene, Jackson. Adesso, se vuoi scusarmi...» si congedò l'altro, incamminandosi chissà dove.
«Ma per gli amici Jack.» 
Il ragazzo si voltò, scrutando Jack appena, probabilmente per afferrare maggiormente quelle parole alquanto spavalde. Rimase qualche secondo immobile, ma non ci volle molto per fargli riprendere il passo, e lasciare il bambino in balia di se stesso.
Jackson continuò a girovagare, speranzoso di trovare Peppa o, perlomeno, qualcuno di socievole e desideroso di aiutarlo. Il senso di smarrimento lo stava logorando e per un attimo confutò l'idea di essersi perso per sempre. Il freddo gli aveva congelato le mani, facendole gonfiare e arrossare. I denti sbattevano involontariamente.
Perfino una ventata di aria gelida sul viso era diventata una tortura insopportabile.
Improvvisamente cedette alle lacrime, accasciandosi accanto al tronco di un albero. Tutto quel silenzio lo stava facendo impazzire. 
Dove sono finiti tutti? Mamma, papà? Peppa?
Voglio andare a casa.
Trascorsero altre due lunghe ore. 
Il sole aveva cominciato a calare per far posto alla luna e Jack era ancora da solo, in mezzo al nulla.
Tentò di accendere un focolare, affidandosi agli insegnamenti di suo padre che una volta gli mostrò come dar vita alle fiamme con l'aiuto di due pietre focaie. Purtroppo non ottenne altro che un debolissimo accenno di fumo.
Rimase seduto sul ceppo abbattuto, raggomitolandosi su se stesso per ricevere un po' di calore. Aveva fame.
In quel momento gli venne in mente un pomeriggio in particolare, quando suo nonno aveva l'abitudine di osservare fuori dalla finestra appannata mentre era seduto sulla poltrona color petrolio. Lo stesso Jack, di qualche anno più giovane, gli stava sulle ginocchia. Ricordò, in particolare, di non aver potuto fare a meno di osservarlo con molta cura, notando come le sue guance si fossero fatte ancora più scavate e come avessero dato spazio alla barba incolta e bianca quasi quanto la coltre che quel dì adagiava di fuori.
«Questo inverno sarà uno dei più freddi di sempre, ne sono certo.» aveva detto il nonno.
«Io amo il freddo» era intervenuto lui «Posso dormire con le coperte pesanti e giocare con la neve!»
Ma il vecchio aveva sospirato, senza distogliere l'attenzione da quella finestra. Come se, tramite essa, avesse potuto rammentare il passato con più chiarezza.
«Il freddo non è sempre bello, Jack: a volte diventa così pungente da farti smettere di respirare. È capace di martellarti nella testa come un rullo di tamburi e non uscirvi più. Credimi, lo so.»
Mi manchi nonno. E solo adesso capisco quanto tu abbia ragione. Ho freddo. Dove sei?
Le speranze scomparvero insieme al sole. 
Il freddo, proprio come disse il nonno, gli stava martellando nella testa. Il respiro stava venendo meno.
Socchiuse gli occhi. Uno, due, tre.
Gli parve di sentire il suono sordo di passi nella neve. Sette, otto, nove.
Dieci. Trenta. Sessanta.
Sto arrivando...
Silenzio.

Aprì gli occhi e il giovane lentigginoso a cui aveva fatto domande spavalde gli comparve di fronte. Stava in piedi, a qualche passo lontano da lui, e lo guardava. Ma Jack era troppo stordito per reagire, cosicché chiuse nuovamente gli occhi.
E come la pecora perdutasi dal gregge viene stretta tra le braccia del suo Pastore, così il ragazzo circondò Jack con una grande coperta, la quale fu estratta dalla sacca di pelliccia che portava con sé. 
Animò un focolare ed accostò il piccolo in prossimità di esso. 
In tutto quel viavai Jack era cosciente ma debole, e mormorò un flebile grazie. Il suo salvatore rimase in silenzio, continuando ad alimentare il fuoco.
«Come ti chiami?» gli chiese improvvisamente il giovane, che provò grande sollievo nell'avvertire il calore di quelle fiamme.
«Hiccup.» rispose l'altro che, nel frattempo, si era procurato un'altra coperta per proteggersi dal gelo.
«Niente male.»
Hiccup sorrise, a sguardo chino.
«Non scoraggiarti, troveremo un modo per farti tornare a casa.»
Intanto Jack osservava il legname che lentamente veniva carbonizzato e ne ascoltava il rumore.
«Non mi hai ancora detto perché ti trovi qui nei boschi.» lo interruppe.
Hiccup sospirò e, in poco tempo, gli raccontò di quel villaggio chiamato Berk e del suo continuo ed implacabile stato di inadeguatezza, nonché del padre, di Astrid e tutti i personaggi che gli vennero in mente. Fece accenno anche alla scommessa.
Dall'altra parte Jack lo accorava con grande interesse e curiosità: aveva sentito parlare dei vichinghi. Conoscerne uno in carne ed ossa fu davvero emozionante per lui.
«E tu, cosa mi dici? Chi sono le quattro bambine che stai cercando?»
E così parlarono della loro storia, riconoscendo di essere straordinariamente simili benché venissero da contesti diversi. 
Mentre il fuoco moriva i due giovani vivevano grazie alla reciproca compagnia, nonostante il freddo che purtroppo non si era dissolto del tutto.
Il cielo scuro diede il benvenuto alle stelle nitide e lucenti. I due non poterono che ammirarle in tutto il loro splendore, in silenzio.
Inaspettatamente archi e brillanti raggi di luce dipinsero il firmamento: era l'aurora boreale che, in tutta la sua delizia, sprigionò i colori del blu e del verde fulgente.
Non proferirono parola, poiché le bande luminose parlarono al posto loro, rendendo quel momento ancora più indimenticabile. 
La luce del falò si era eclissata e Jack non poté fare a meno di tremare. I suoi spasmi furono notati da Hiccup, il quale era assorto dalla contemplazione di quell'idilliaco fenomeno; ma poi prontamente si separò dalla coperta che portava sulle spalle per circondare il ragazzo che gratamente gli sorrise.
Com'è piccolo, pensò Hiccup mentre osservava i cieli. So cosa si prova ad avere freddo. Non posso privarti del calore.
Rivolsero nuovamente lo sguardo all'aurora boreale, avvertendone il sibilo inusuale, finché Jackson non si addormentò. 
Non temere quando avrai freddo, giovane vichingo.
Perché io sarò lì, ti coprirò e ti salverò dall'inverno eterno.

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Capitolo 3
*** La Nostra Partenza ***


Capitolo Terzo : La nostra Partenza
"Ricordi cosa disse nostro padre una volta? Un sogno. 
Un sogno spaventoso: la vita.
[...] Era un sogno, poteva solo essere sussurrato, 
perché qualunque cosa più forte di un sussurro l'avrebbe fatto svanire."
Il Gladiatore (Film 2000)

Cinque anni dopo
Jackson Overland riempì una vecchia sacca, deglutendo per l'emozione. 
I raggi del sole irruppero con avidità dentro camera sua, soffocandone l'oscurità e mostrando i due letti, uno suo e l'altro della sorellina, e un decrepito armadio.
In un primo momento quella fresca mattinata d'estate poteva sembrare una come tante, ma Jack era conscio che quella giornata stesse per dar inizio ad un nuovo capitolo della sua vita. Di lì a poco sarebbe partito, titubante e volenteroso allo stesso tempo.
La sera precedente il giovane aveva discusso della cosa con Martha, la madre, la quale non sembrava molto d'accordo, nonostante avesse precedentemente accettato la proposta del figlio:
«Che cosa farai lontano da qui? Dove vivrai, come ti procurerai il necessario? Cosa pensi, che tutto ti sia dovuto!?» aveva esclamato la donna, seduta a tavola. Le rughe gli tiravano il viso, facendola sembrare ancora più esausta ed esaurita di quella che già era. I capelli erano spettinati ed ingrigiti dal tempo, e gli occhi erano accesi di disperazione per l'imminente partenza del ragazzo.
Jackson le stava di fronte a braccia conserte. A differenza della mamma pareva calmo, ma infastidito da quel interrogatorio:
«Se non mi lasci andare via non lo saprò mai.»
Martha aveva serrato i pugni, adagiandoli sul tavolo. Poi aveva sospirato, in segno di resa.
«Mamma...» aveva mormorato dolcemente Jack, dopo un po' di silenzio «Capisco quello che provi e non ti biasimo. Ma ho diciott'anni adesso e non posso restare qui per sempre, rinchiuso in questa gabbia d'oro. Ho bisogno di conoscere posti e gente nuova. Ti prego, non impedirmelo.»
Sedendosi sulla sedia accanto a quella di Martha, il figlio aveva afferrato la mano della madre e gliel'aveva stretta; voleva confortarla, senza però rinunciare al desiderio di lasciare casa.
«Oh, tesoro» aveva iniziato a singhiozzare lei «Tu e Peppa siete l'unica cosa che mi è rimasta. Perché mi devi abbandonare così?»
«Non ricattarmi in questo modo.» l'aveva imitata lui e così si erano abbracciati, entrambi sommersi dalle lacrime amare.

Martha adagiò il fianco contro lo stipite della porta, osservando Jack mentre finiva i bagagli. Non proferì parola, perché il dolore che aveva dentro straripava senza difficoltà dagli occhi gonfi e sinceri.
La donna era certa che il ragazzo sarebbe andato fino in fondo al suo intento, ma sapeva anche che se una persona la ami la devi pur lasciare andare. Come aveva lasciato andare suo padre e suo marito prima, così la vedova doveva lasciare andare Jackson, il suo primogenito. Suo figlio.
«Mamma.» sussurrò il giovane, una volta girato e scrutato la madre.
Lei si asciugò frettolosamente le gocce di pianto, per poi accennare un sorriso contratto: «Sei pronto?»
«Credo di sì.»
Si diressero in direzione dell'entrata principale, dove trovarono Hiccup Haddock che stava aspettando il suo amico per partire. Appena li vide, chinò il capo per salutarli.
«Ciao Hiccup.» disse Martha, avvicinandosi all'ospite. 
«Salve signora Overland.» rispose il giovane. 
«Mi devi fare una promessa, Hiccup.»
«Tutto per lei.»
C'era una cosa che Hiccup provava per Martha, ed era immensa gratitudine. La donna aveva fatto per lui un'infinità di cortesie, tra cui ospitarlo a casa propria, insegnargli a lavarsi bene dietro le orecchie e dimostrarsi la perfetta consigliera al momento giusto. Riassumendo Martha era stata la madre che Hiccup non aveva mai avuto e questo non poteva dimenticarlo.
La donna carezzò affettuosamente la guancia del ragazzo: «Promettimi che proteggerai mio figlio, qualsiasi cosa accada.»
Hiccup aveva vent'anni ed era per questo che Martha riponeva completa fiducia in lui, specialmente perché lo conosceva bene e sapeva che il giovane avrebbe fatto di tutto per tutelare il suo bambino, un po' come avrebbe fatto un fratello maggiore. Inoltre lui e il figlio erano migliori amici, perciò si sarebbero coperti uno le spalle dell'altro e quel pensiero la rincuorava, in qualche modo.
«Glielo prometto.» fece il vichingo, abbracciandola. Prendersi cura dell'amico era un dovere per lui e di certo non si sarebbe tirato indietro.
Nel frattempo Jack scrutò la stanza: vi era ancora la piccola dispensa, il tavolo di legno e la stufa che avevano sempre fatto parte del modesto arredamento - ma la poltrona, quella color petrolio, era vuota. 
Jackson non si capacitava che il padre fosse morto; piuttosto preferiva pensare che Markus si fosse solo assentato da casa per un periodo sabbatico, concedendosi una specie di vacanza, e che sarebbe tornato - un po' come stava facendo lui stesso. Ma quelle illusioni si stavano lentamente dissolvendo, man mano che il tempo passava. 
Papà non tornerà più, si ripeteva. Papà non c'è più ed è ora di smetterla con questo castello di bugie. Cresci un po'.
Come avrebbe reagito suo padre se fosse venuto a conoscenza della sua incombente partenza? In effetti non lo sapeva, avrebbe potuto reagire in un'infinità di modi. Markus non era sentimentale come Martha, anzi non lo era affatto: era severo e cinico, ma perfettamente in grado di trattar il figlio alla pari. E qualsiasi cosa avesse potuto dire in merito alla sua trasferta, Markus sarebbe stato certamente onesto e saggio, nonché desideroso di aiutare il ragazzo a fare la cosa giusta.
In quell'attimo Jack anelò la presenza protettiva del padre, consapevole che quel desiderio non si sarebbe mai potuto avverare.
D'un tratto Hiccup notò lo sguardo pensieroso di Jack: «Va tutto bene?»
«Sì, certo.» fece spallucce il ragazzo, susseguito dall'altro che gli sorrise, dandogli una pacca sulla schiena.

«Questo dovrebbe bastare per un po'.» disse Martha, una volta consegnate due sacche di cibo ai due ragazzi che la ringraziarono dovutamente. Risultava incredibilmente piccola in mezzo a quei due giovani uomini.
«Aspetta, ma dov'è Peppa?» chiese Jack, appena si accorse che la sorella non c'era.
Ah, Peppa.
La madre lo guardò, scuotendo il capo: «Ho provato a convincerla a venirti a salutare, ma non ne ha voluto sapere.»
«Dov'è adesso?»
«Fuori, immagino.»
Jack non aspettò altro secondo di più; uscì immediatamente di casa, alla sua ricerca. Come poteva lasciarlo andare senza neanche dirgli addio? Che sprovveduta!
La trovò poco dopo, in compagnia di Daisy, Mary e Veronica. Le tre ragazzine le stavano intorno, carezzandole le spalle all'unisono. Appena lo videro trasalirono.
«Perché ti comporti così?» la interpellò Jack.
«Così come?» fece Peppa con una nota d'ironia, ma senza nascondere le lacrime versate prima.
«Così! Da immatura, da egoista. Io sto partendo e tu non mi saluti nemmeno?»
«Avrebbe qualche importanza? Partiresti comunque.»
«Ed è per questo che dovresti sforzarti di fare la brava sorella e porgermi i tuoi saluti.»
«Jack, non essere duro con lei.» mormorò flebilmente Veronica, in difesa dell'amica.
«Voi tre andate via, ho bisogno di stare solo con mia sorella.» ordinò il giovane alle tre ragazzine che, impressionate da quel tono, si dileguarono silenziosamente.
Una volta rimasti soli, Peppa perse tutto il coraggio manifestato prima: incurvò le spalle, abbassò il capo e tacque.
Il sole era alto ed illuminava le teste brune dei due; Jack guardava la sorella, mentre Peppa fissava il terriccio pur di evitare il suo sguardo.
Tutto ad un tratto lei esplose in un piagnucolio isterico: «Se ne stanno andando tutti da questa famiglia!» 
La bambina serrò i pugni sul petto, chiudendo gli occhi. Sentì il fratello farfugliare qualcosa, poi avvertì le sue braccia che in breve tempo la circondarono. Non poté fare altro che abbandonarsi a quella stretta, sfogando il pianto.
«Non ti libererai così facilmente di me.» mormorò Jack, poco dopo «Tornerò.»
Lei lo ascoltava attentamente - aveva smesso di piangere.
«Ti racconterò tutto quando tornerò, stanne pur certa. Vedrai, ci divertiremo un sacco!» continuò lui.
«Come con nascondino?»
«Esatto! È una specie di nascondino, Peppa: dovrai contare per un po' e molto lentamente, ma poi io arriverò e ...»
«... dirai: 'tana libera a tutti!'» completò la frase lei, come d'abitudine.
Risero con gusto.
«Promettimelo, Jack. Promettimi che tornerai, perché io non conterò all'infinito.»
«Te lo prometto. Però assicurami che quando riapparirò tu sarai qui ad aspettarmi.»
«Lo prometto, Jack.»

Jack e Hiccup partirono, lo fecero per davvero. 
Le aspettative dei ragazzi crebbero in concomitanza con casa che si fece sempre più piccola man mano che i due si allontanavano.
«Vedrai, Jack: Sdentato ha un ottima memoria. Ritorneremo appena lo vorrai.» lo rassicurò Hiccup dopo aver notato la perplessità dell'amico.
Jack gli rispose abbozzando un sorriso.
«Inoltre» proseguì l'altro, tirando fuori una mappa di carta ingiallita «Annoterò ogni nostro spostamento qui, così saremo in grado di orientarci.»
«Hai pensato proprio a tutto, eh?»
«Ogni dettaglio.» 
Jackson si schiarì la voce: «Credi che troveremo delle belle ragazze là fuori?»
«Lo spero per te.» ridacchiò il giovane vichingo mentre osservava Sdentato nei suoi spostamenti.
«Non vedo l'ora di fare stragi di cuori.» sospirò l'altro. Hiccup si limitò a rispondergli aggrottando un sopracciglio, poi cambiò argomento:
«Ancora non riesco a credere che lo stiamo facendo.»
Jack si fece d'un tratto serio, scrutando il compagno negli occhi: 
«Neanche io.»
In verità i due desideravano crederci, e non aspettavano altro se non scappare dai loro demoni.
L'emozione della novità compensò il salto verso quel ignoto che Hiccup non immaginò fosse così scuro e misterioso; di fatto si domandò più volte se la sua fosse stata la scelta giusta da intraprendere. 
«Credo in questa piccola follia.» mormorò Jack, invece, con spirito ottimista.
Piccola follia? Amico, dici sul serio?
Osservarono il cielo sfavillante contornato dalle soffici nuvole, poi il terriccio di fronte ai loro tre piedi - sì, perché Hiccup ebbe la sfortuna di perderne uno quando sfidò un 'grosso' drago all'interno di un vulcano di fuoco. Ma questa è un'altra storia.
«Tua madre sembrava distrutta.» ricambiò argomento il vichingo - era molto bravo in questo.
«Si deve mettere il cuore in pace...» spiegò Jack, riferendosi alla mamma «Sapeva che non sarei rimasto con lei tutta la vita: si stava già preparando per la mia partenza.»
«Nessuno è capace di controllare i propri sentimenti, e nemmeno lei è in grado.»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che oggi lo sguardo di Martha era contrito, anche se tentava disperatamente di nascondere il suo rammarico. Non voleva mostrarsi afflitta ai tuoi occhi, il tutto per evitare di scivolare nel rimorso.»
«Credi che non me ne sia accorto? Mi è bastato avvertire il ritmo dei suoi sospiri per capire che la sua anima era in pena. E poi la conosco, la conosco come le mie tasche. So che non voleva questo per me.»
«Perché ti ama; è logico che si comporti così: vuole averti accanto il più possibile.»
«Lo so bene ma talvolta, nella vita, non sempre ciò che si desidera è ciò che è giusto.»
«Mi sarebbe piaciuto ricevere un 'arrivederci' simile da parte di mio padre...» rivelò improvvisamente Hiccup, interrompendo l'amico.
«Non lo hai ricevuto?» chiese l'altro, perplesso.
Il giovane fece no con la testa. Rispondeva sempre così quando non aveva il coraggio di ascoltare la propria voce mentre evocava i sentimenti, quelli annidati nel suo cuore.
Jack lo guardò con compassione: «L'arrivo di Sdentato ha provocato degli squarci profondi nel vostro rapporto. Forse Stoick non ha avuto occasione per dirti addio.»
«Gli squarci ci sono sempre stati, e tu lo sai.» 
Hiccup non aveva più la forza di tacere. Riprese il filo del discorso, dopo aver esitato per un istante:
«Sdentato è stato il pretesto per buttarmi fuori.»
Nel frattempo il povero Furia Buia osservò il padrone, abbassando le orecchie. Hiccup, notando il dispiacere dell'amato drago, gli carezzò affettuosamente la testa. Ma era comunque deciso a denudare ciò che sentiva:
«Jack, guardami: sono un fantasma senza nome. Che orgoglio può avere un grande capo nel chiamarmi figlio?»
«Stai dicendo delle stronzate, come al tuo solito.» disse ironicamente Jack con l'obbiettivo di ravvivare l'atmosfera; ma il suo intento fu inutile.
«Delle stronzate che sanno di verità. Tu non ti rendi nemmeno conto della fortuna che hai.»
«Quale fortuna?»
«Quella di essere sempre stato circondato da persone che ti approvavano.»
I due interruppero bruscamente il passo, senza guardarsi in faccia. In quell'attimo Jack si voltò in direzione del socio, per poi afferrargli le braccia e scuotergliele:
«Amico, ma ti stai ascoltando?! Come guarderai in faccia il vento burrascoso del tuo futuro con questo atteggiamento? Parli come un uomo di desolazione e sventura.»
Hiccup lo osservava ad occhi lucidi, lasciandosi scrollare come un fantoccio.
«Mio padre è morto, Hiccup. Non ci hai mai riflettuto?»
«Più del necessario.»
«Abbiamo avuto l'audacia di desiderare qualcosa di diverso per noi. Ed ora, tutto il necessario lo abbiamo qui - dobbiamo solo lasciar andare il passato alle spalle.»
Il vichingo annuì, mostrando un caldo e grato sorriso.
«Allora, sei con me?» domandò Jack, allungando la mano destra.
«Ci puoi scommettere.» rispose Hiccup, stringendogliela.
Sdentato gorgogliò qualcosa, in segno di approvazione.
«Jack, avresti mai immaginato di viaggiare con me?»
«Non saprei, avrei preferito essere con una bella ragazza.»
Hiccup e Jack sogghignarono beatamente mentre ripresero il cammino del loro destino.

~ ~ ~

Due anni dopo
Freya era la dea dell'amore e della bellezza secondo i miti nordici. 
Questa era chiamata anche 'dea dell'Aurora' poiché, quando si librava nei cieli al fianco delle Valchirie, il riverbero della luce sulla sua corazza dava luogo al favoloso fenomeno delle bande luminose.
Per questa ragione una modesta cittadina portava questo nome: Freya, terra dell'amore e dell'Aurora; essa si affacciava sul mare, ed era famosa per il suo piccolo porto che provvedeva abbastanza viveri ai suoi cittadini, salvandoli dalla carestia glaciale. I suoi abitanti erano persone alla mano e molto amichevoli, ma più delle volte senza spina dorsale in quanto troppo influenzati dalle superstizioni del luogo.

Freya era diventata la nuova casa di Jack, ma non era stata la sua prima destinazione, difatti l'obbiettivo principale del suo commiato era quello di viaggiare a fianco di Hiccup.
In quell'impresa il ragazzo e il suo migliore amico non erano stati soli grazie ad una nuova comparsa, un drago che lo stesso vichingo aveva chiamato Sdentato, in quanto la creatura possedesse il dono dei 'denti retrattili' ; lo aveva trovato nei boschi, dopo averlo intenzionalmente colpito con una catapulta, finendo per stabilire con esso un rapporto tanto solido da mettere i suoi ideali pacifisti al di sopra di quelli del padre e di tutta Berk. Non c'era posto per Hiccup e l'animale in quella terra di cacciatori, sommersa da tradizioni ormai troppo antiche per essere sradicate.

Jack era stato l'unico ad accettare l'insolita amicizia che l'amico aveva con la bestia e, a questo proposito, i due giovani stabilirono una relazione molto forte, così che la decisione di lasciare le proprie case per cominciare un'avventura insieme venisse come di conseguenza. 
Dopo un anno speso di terra in terra volando in groppa della Furia Buia i due trovarono Freya, o forse fu lei a farlo. La motivazione che convinse i ragazzi a persistere in quella città fu il fatto che i suoi residenti fossero tolleranti nei confronti di Sdentato, cosa che stupì notevolmente Hiccup. Jack, dal canto suo, si meravigliò di come i suoi abitanti non avessero nomi buffi come quelli dei berkiani.

Trovarono subito due case e, nel giro di due anni, le trasformarono in modesti abitacoli, dove anche Sdentato aveva il suo angolo per riposare e mangiare. 
Il vichingo trovò lavoro in una piccola bottega, che sembrava più un negozio di ferramenta. Il suo collega non era Skaracchio, ma Jørgen, un ragazzo biondo e dalla corporatura massiccia: aveva ventidue anni, proprio come Hiccup, e viveva in una famiglia composta da più di nove persone, riscontrando di essere il più giovane della cerchia. Era un ragazzo impacciato ma sincero e lavorava bene con il suo nuovo amico, specialmente perché provò da subito simpatia per lui e il drago. 
La bottega era stata proprietà del defunto padre di Jørgen, per poi passare sotto il suo controllo, nonostante la presenza di cinque fratelli maggiori. Fu un sollievo trovare un abile esperto nella manodopera come Hiccup, dal momento in cui maneggiare utensili non faceva proprio al caso suo.

Jack, invece, ottenne una mansione al molo: il suo compito era quello di rilegare reti che poi erano date ai pescatori. I suoi collaboratori erano Jakob e Adrian, una coppia stravagante di gioviali fratelli che, pur di far passare il tempo, si raccontavano battute stupide e molte volte senza senso. In un primo momento Jackson non riuscì a sopportarli, ma con lo scorrere degli anni si accinse alla rassegnazione. 
Jackson aveva occasione di vedere Hiccup ogni giorno perché passava in bottega a comprare la materia prima, anche se i due trovavano comunque modo di stare insieme per narrare della loro nuova vita tra le strade di Freya. Ogni sera, infatti, si trovavano in riva al mare o bevevano qualcosa con i loro tre nuovi compari nel loro locale di fiducia.
In fondo Jack era la famiglia di Hiccup, e viceversa. Non riuscivano a concludere le ventiquattr'ore senza parlarsi. E, grazie al loro amico alato, avevano occasione di allontanarsi da Freya per esplorare i misteriosi dintorni quando se ne aveva la necessità.
Hiccup amava scoprire cose nuove per uscire dalla routine quotidiana. Il tempo libero passato in bottega gli aveva permesso di ideare e progettare invenzioni ingegnose; l'ultima sua creazione era stata una tuta che gli permetteva di sopportare l'elevata altitudine in cui s'imbatteva quando cavalcava Sdentato - e che stava opportunamente aggiornando man mano che il tempo passasse.

Ma, benché tutte quelle entusiasmanti novità, tante cose rimasero in sospeso per Hiccup Haddock che, nonostante fosse felice di essere insieme ai suoi più cari amici, si sentiva in stato confusionale. Pensava spesso al padre e a quello che gli aveva detto una delle ultime volte in cui si videro, quando Sdentato era intervenuto per salvare il ragazzino intento nel dimostrare ai suoi compaesani vichinghi che i draghi non dovevano essere uccisi, ma compresi e lasciati in pace.
«Sei in combutta con loro.» aveva sibilato Stoick, dopo aver spinto il ragazzo a terra.
«Tu non sei un vichingo. Tu non sei mio figlio.»
Quelle parole rimbombavano nella testa di Hicc, facendogli contorcere le budella. 
Tu non sei mio figlio. 
Era convinto che se se ne fosse andato via da Berk avrebbe trovato un po' di pace; ma le taglienti espressioni di suo padre, in verità, lo seguivano come un'ombra insidiosa che gli rimembrava ogni giorno di essere stato un fallimento. Di fatto si sentiva questo: un uomo insulso, senza un domani, senza una patria.
Una delusione. 
Avvertiva un inarrestabile malessere ogni volta che l'immagine di Stoick lo incendiava di risentimento; ma poi gli bastavano i grandi occhi verdi di Sdentato, che lo guardavano con sincerità e spontaneità, e le parole incoraggianti di Jack, il bambino che aveva trovato nei boschi, per tirare un sospiro di sollievo. Quei due gli avevano dato una chance per ricominciare da capo e lui l'aveva afferrata al volo, ma era certo che non sarebbe passata giornata senza aver anche solo sfiorato la memoria del genitore, nonostante la fulgida aurora boreale che lo illuminava della sua bellezza, promettendogli l'alba di un nuovo domani. 
Cosa resta di me ora?

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Capitolo 4
*** Bella Come il Biondo Grano ***


Capitolo Quarto : Bella come il biondo grano
"Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare."
Dante Alighieri

Rapunzel sfogliava i racconti dell'innocenza. 
Distesa sulle morbide lenzuola leggeva di belle principesse salvate dall'audacia di valorosi cavalieri, ma anche di uomini e di bambini e delle loro avventure spettacolari. Con la mente raggiungeva luoghi incantati, riuscendo così a fondersi con lo stato d'animo dei personaggi astratti, buoni o cattivi che fossero. Era inevitabile per lei non emozionarsi; quando dissetava la sua sconfinata curiosità riusciva a toccare il cielo con un dito, rendendo così le sue giornate ancora più belle e colorate.
Quella mattina d'estate la fanciulla avrebbe letto per tutto il giorno se non fosse stata interrotta da un irritante mormorio:
«Rapunzel, ne hai ancora per molto?» era Liselotte, la sua compagna di stanza, sua sorella. Una delle persone che probabilmente la ragazza amava di più ma che, in quel momento, detestava alla follia.
«Ancora cinque minuti.» rispose Rapunzel mentre cercava di leggere un libro riguardante il presunto movimento delle stelle in cielo, determinata a non smettere.
L'altra sbuffò sommessamente, per poi giocherellare con i lunghi capelli della sorella. Si sedette accanto a lei. 
«Oggi è mercoledì e che cosa facciamo io e te ogni mercoledì?» domandò Liselotte, sarcastica. In risposta Rapunzel liberò un sospiro annoiato, così l'altra riprese il filo del discorso: «Dobbiamo recarci in città per il baratto.» 
Il padre di Liselotte e di Rapunzel si chiamava Sivert ed era un modesto falegname che vantava di avere rapporti commerciali a Freya: ogni mercoledì le due figlie dovevano recarsi in città con il legname che papà era riuscito ad accumulare durante la settimana per barattarlo con uova, latte e pane. Per Rapunzel era un piacere visitare Freya, ma quella mattina avrebbe di certo preferito continuare a leggere il suo bel libro.
«Non lo ripeterò un'altra volta: alzati da questo letto!» esclamò d'un tratto Liselotte quando capì di essere ignorata, cominciando a solleticare i fianchi della biondina. 
Disperata Rapunzel tentò di divincolarsi senza smettere di ridere. Aveva i capelli tutti spettinati e le lentiggini le facevano brillare gli occhi verdi mentre i denti, in quel momento messi ben in vista, erano bianchi e diritti. La sua risata era contagiosa e spensierata. Il libro che poco prima stava leggendo cadde a terra.
«Perché non puoi andarci da sola?» obbiettò Rapunzel con un sorriso. Era riuscita a liberarsi dalla morsa della sorella.
«Non puoi restare tutto il giorno a leggere quello stupido libro!»
Non sottovalutarmi, pensò Rapunzel. Di fatto una volta era riuscita a leggere per quasi una notte intera, per poi essere interrotta dal padre sprezzante di rimprovero che le ordinò di rimettersi a dormire. Allora aveva dieci anni e le cose non potevano di certo cambiare a diciotto.
«Prima di tutto non è uno stupido libro. E secondo, non ho alcuna intenzione di andare in città in compagnia di una sciocca come te.» disse Rapunzel, ridacchiando. Amava giocare con Lise e per questo la prendeva molto spesso in giro.
«Ah io sarei sciocca? Ma ti sei vista?» ribatté l'altra, sorridente. «Probabilmente sarai l'unica in tutta Freya e dintorni a nutrire una passione così sfegatata per la lettura. Guarda che bella giornata.» indicò l'ampia e luminosa finestra «Di certo non la si dovrebbe sprecare rimanendo chiusi qui dentro.»
Rapunzel rifletté per un attimo: in effetti erano giorni che un sole così non illuminava la campagna verde in cui viveva. Oltretutto aveva una gran voglia di respirare la fresca aria estiva, contornata dal profumo degli abeti e dei fiori. Avrebbe potuto raccogliere le candide margherite che ricoprivano l'entrata di casa sua, la quale era circondata da un muretto di pietra e un cancello di legno. 
Liselotte balzò in piedi e, dopo aver aperto la finestra, si voltò in direzione della sorella. 
«Ti do dieci minuti per prepararti.» proferì, per poi dileguarsi.

Dopo essersi lavata a dovere, Rapunzel decise di indossare uno dei suoi vestiti più comodi: si trattava di un lungo abito di stoffa marrone a mezze maniche con delle piccole decorazioni floreali di merletto. Quel vestito era un regalo ricevuto dalla zia, la quale raccontò di aver fatto molta fatica a trovare un capo della sua misura, a causa della piccola corporatura e statura della nipotina.
Liselotte al contrario era slanciata e formosa; il suo abito era molto simile a quello della sorella, ma era di color viola scuro e mostrava delle graziose decorazioni dorate sulla gonna. Rapunzel avrebbe pagato oro per indossarlo, ma la gelosia di Liselotte giocava a suo sfavore.
«Te lo puoi sognare!» aveva esclamato la ragazza quando, un pomeriggio, Rapunzel le aveva chiesto il permesso di provarlo. «È la cosa più bella che ho, l'unica che mi faccia sentire davvero speciale; e poi ti va troppo largo.»

Liselotte afferrò una tonda spazzola, offrendosi di pettinare la lunghissima chioma di Rapunzel per poi intrecciarla in una consistente treccia; si trattava di un lavoro meticoloso e perditempo, ma comunque necessario perché in questo modo i lunghi capelli non avrebbero intralciato il cammino delle persone.
Liselotte non aveva mai avuto il coraggio di chiedere degli strani capelli alla sorella: quando Rapunzel arrivò a casa Jensen aveva solo otto anni e sembrava traumatizzata da tutto quell'ambiente estraneo. Liselotte ricordava molto bene quando, sotto la pioggia battente, aveva osservato il padre percorrere lo stradino che conduceva casa tenendo per mano una bambina dai capelli incredibilmente lunghi e biondi. Quella stessa sera Sivert raccontò a tutta la famiglia di averla trovata nei boschi limitrofi al Regno di Corona, mentre piagnucolava e chiamava la mamma. 
«Non hai trovato la madre?» domandò Hege, la moglie.
«Sua madre è morta.» rispose l'uomo «La bambina non ha nessuno.»
In poco tempo i Jensen scelsero di adottare la piccola orfana, ignari del misterioso passato che Rapunzel aveva deciso di non rivelare per la paura di ricordare. 
Nonostante l'amore provato Lise continuava a chiedersi da dove venisse la sorella adottiva. 
Sivert, al contrario, insisteva che non fosse fatta alcuna domanda alla ragazzina. Ma era veramente così che si doveva affrontare il problema? Virandolo?
«Grazie!» esclamò Rapunzel, mirando la grande treccia riflessa sullo specchio.
«Non c'è di che.» disse Liselotte, un po' pensierosa.
La sorella le sorrise, poi fece una leggiadra piroetta.

Poco dopo le due giovani scesero le scale di legno, raggiungendo la piccola sala da pranzo che in quel momento ospitava i genitori e la nonna, i quali avevano appena finito di fare colazione.
«Buongiorno ragazze.» le salutò mamma Hege «Oggi è mercoledì, giusto?»
Le due annuirono, dandosi un'occhiata complice.
«Ho già preparato il carretto.» le informò il padre. «Sapete già quello che dovete fare.» 
Quando si trattava di lavoro Sivert era sempre diplomatico e deciso; solamente quando non c'era niente da barattare o disboscare si dimostrava loquace e scherzoso.
«Come ogni mercoledì.» sospirò Liselotte, annoiata da quella monotona abitudine.
Rapunzel si avvicinò a nonna Ingrid e le baciò la fronte rugosa: «Buongiorno.» sussurrò.
«Buongiorno mio piccolo fiore dorato.» disse la vecchia che ricambiò lo sguardo affettuoso. Rapunzel amava molto quella donna e l'avrebbe ascoltata per ore mentre raccontava del suo remoto passato. A volte cercava di immedesimarsi in lei e fingere di essere un'altra ragazza di un'altra epoca - con un'altro destino. 
Le due sorelle si sedettero a tavola per gustare la colazione con una certa foga. Hege diceva che tutto ciò era causato dall'età giovane delle due ma che ben presto il loro metabolismo sarebbe rallentato e che sarebbero, di conseguenza, ingrassate. State attente, era solita dir loro. Ma le due sorelle continuavano comunque a mangiare, senza pensarci. 
«Cosa penserebbe Jørgen della tua maleducazione?» la rimproverò la mamma quando notò la figlia Liselotte abbuffarsi senza contegno.
«Penserà che sono pazza.» rispose lei. «E non credo che la cosa gli spiaccia.»
Jørgen era il fidanzato ufficiale di Liselotte e i due erano prossimi al matrimonio. Il ragazzo aveva fatto di ogni per convincere i genitori dell'amata ad acconsentire alla loro unione; ma quando i due riuscirono finalmente a mettersi insieme, Sivert e Hege cominciarono a pretendere la trasformazione della figlia in perfetta moglie e madre di casa, così divennero sempre più severi e saccenti. A loro differenza Liselotte era coscienziosa che Jørgen non fosse pretenzioso ma che la volesse così com'era. 
«Lise, se desideri veramente stare con questo ragazzo allora ben venga. Ma non tollero che tu faccia fare brutta figura alla nostra famiglia.» disse Sivert, in tono autorevole. Si comportava a quel modo perché voleva, giustamente, dare una buona impressione all'umile famiglia di Jørgen. Anche se a volte era davvero snervante la figlia si rendeva conto che quello del padre non fosse altro chel premuroso affetto, perciò non ci dava molto peso.
«Ormai hai ventun anni, non sei più una bambina.» riprese Hege «E sai molto bene che l'anno prossimo la tua vita cambierà per sempre.»
«Lo so, lo so...» mormorò Liselotte, mentre i suoi riccioli castani ondeggiavano sulle spalle abbronzate. «Avete ragione.»
«Noi abbiamo sempre ragione, tesoro.» mormorò dolcemente la madre che si chinò per baciarle la guancia, mentre Sivert le guardava sorridendo.
Nel frattempo Rapunzel non stava più prestando orecchio a quella ordinaria conversazione: pensava a tutt'altro. Ad un colore, ad una sensazione, ad una fantasia. Smise di mangiare, guardando il vuoto.
L'unica a notarla fu la cara nonna, la quale osservava la bionda fanciulla con un sorriso divertito dipinto sulle labbra screpolate: «A cosa pensi, fiorellino?»
«A nulla, nonna.»
Ingrid alzò un sopracciglio con espressione intimidatoria.  Rapunzel la guardò divertita: «Dico sul serio.»
«E sia.» si arrese la vecchia per poi cambiare argomento «Sai, mi ricordi tanto una mia cara amica che non vedo da molti anni.»
«Davvero?» mormorò Rapunzel sorpresa «Come si chiamava?»
«Katherine. Si chiamava Katherine.» Ingrid aggrottò le spesse sopracciglia, sforzandosi di ricordare «Aveva una grande voglia di amare, proprio come te.»
La nonna aveva ragione perché Rapunzel aveva davvero voglia di amare, come Katherine. Non aveva il coraggio di avere a che fare con il romanticismo ma ne era ingenuamente incuriosita perché notava l'estasi e la felicità che pervadevano l'anima della sorella, la quale aveva finalmente trovato l'uomo della sua vita. Dalla lettura aveva inoltre riscontrato come alcuni scrittori si sentissero in stato di beatitudine al cospetto delle loro amate, per poi elogiarle con parole e gesta d'amore. Cos'era che spingeva un uomo a sentirsi così al cospetto di una donna? Come poteva una persona provare una cosa simile per lei e chiamarla sua musa o diletta
Benché Rapunzel non sapesse minimamente il significato di quelle parole, dal profondo avvertiva un'irrefrenabile impulso per buttarsi a capofitto in quel mondo roseo e leggero che era l'amore.
«Alla fine lo trovò?» domandò impaziente la ragazza, riferendosi a Katherine e alla sua disperata ricerca dell'amore. Era davvero curiosa di conoscere la storia di quella sconosciuta.
Ingrid ridacchiò: «Frena, tigre. Ho appena iniziato a raccontare.»
La giovane arrossì, guardando il basso.
«Ora basta, Ingrid» disse improvvisamente Hege, interrompendo la suocera «Liselotte e Rapunzel sono in ritardo, è ora che si incamminino.»
Notando l'espressione delusa sul volto della nipotina, la nonna le prese la mano:
«Non preoccuparti, fiorellino: avremo sicuramente tempo per parlarne in separata sede.» 
Rapunzel sorrise, poi Ingrid le fece l'occhiolino:
«Ora va'.»

Il sole era ormai alto e i suoi raggi illuminavano il tetto di casa Jensen. Liselotte e Rapunzel, giovani e radiose, raggiunsero il carretto che trasportava la legna, il quale era trainato dal vecchio cavallo di famiglia Joy.
Dopo averlo salutato con una carezza, le due sorelle salirono sul carretto e fecero cenno all'animale di partire.
Durante il viaggio Rapunzel osservava il brillante fiume, lasciando che il vento leggero sfiorasse il suo viso tondo e che il sole illuminasse la sua treccia dorata. Fece un bel respiro, chiudendo gli occhi. Dopo otto anni passati in una torre, era impossibile per la fanciulla non apprezzare quella natura afrodisiaca con morbosa gratitudine.
Liselotte la guardò, mentre teneva in mano le redini: «Prima dovremmo passare alla bottega di Jørgen. Devo parlare con lui urgentemente.»
«Che cos'è successo stavolta?»
«Informazioni riservate, spiacente.»
«Cosa? Da quando mi nascondi quello che tu e Jørgen vi dite?»
Liselotte le diede una pacca sulla spalla: «Quando t'innamorerai capirai, Rapunzel.»
«Piantala.» disse Punzie che invece le diede una gomitata.
Poco dopo le due arrivarono a Freya che, a dire il vero, non distava molto da casa Jensen.
Quel giorno la cittadina era florida di persone: c'erano uomini e donne impegnati nel proprio lavoro e bambini che scorrazzavano e giocavano all'aria aperta; si poteva con facilità avvertire l'incantevole serenità che traspariva da tutta quella gente. La giornata solare rendeva il tutto ancora più bello e prospero di tranquillità.
Prima di andare in bottega le due sorelle raggiunsero il centro città per incontrarsi con Helene, la cugina, la quale era solita accompagnarle mentre sbrigavano le faccende del mercoledì. 
Dopo essere salita sul carretto con uno slancio energico, Helene si sedette accanto alle due sorelle:
«Buongiorno mie belle fanciulle!» le salutò, baciandole entrambe. Era leggermente più robusta delle sue amiche e i capelli erano più corti e scuri. Aveva due grandi occhi neri con folte ciglia e labbra sottili.
«State andando da Boris?» domandò, poi. Boris era il signore con cui, solitamente, le due Jensen barattavano e commerciavano.
«Sì.» affermò Lise «Ma prima dovremmo andare in un posto.»
«Andate in bottega, vero?» trasalì l'altra, spalancando le sopracciglia. Rapunzel le osservava in silenzio.
Liselotte confermò: «Devo parlare con Jørgen.»
«Oh ragazze, non potete capire.» disse Helene, visibilmente emozionata. «Credo di essermi innamorata.»
Rapunzel la guardò di traverso: «Di chi si tratta stavolta?» 
Non era una novità che Helene si innamorasse di qualcuno. 
«Oh smettila, Rapunzel.» si difese Helene «Sei ancora troppo piccola per capire certe cose.»
Ho solo due anni in meno di te, pensò Rapunzel con uno sbuffo.
«Lavora in bottega?» chiese Liselotte.
Helene fece sì con il capo, sogghignando.
«Hiccup?» domandò Rapunzel, incredula.
«Il ragazzo con il drago?» continuò Lise.
«Proprio lui!» rispose Helene in definitiva.
Qualche anno prima arrivò a Freya un certo Hiccup Haddock, il quale acquistò subito notorietà a causa del suo animale domestico Sdentato il Furia Buia. Il ragazzo era un vichingo e in città si vociferava che questi provenisse da una terra remota e terribilmente fredda, dove i draghi erano nemici dei vichinghi e i conflitti tra di loro erano all'ordine del giorno. Era impossibile non sapere chi fosse perché si parlava solo di lui e del suo carattere chiuso e riservato, in quanto era raro che spiccicasse parola a qualcuno.
Rapunzel conosceva Hiccup di vista perché era collega di suo cognato alla bottega, ma i due non avevano mai animato una conversazione vera e propria; la ragazza non capiva se quella di Hiccup fosse timidezza o menefreghismo perché, quando lei e la sorella andavano a trovare Jørgen, non le rivolgeva mai la parola.
«Jørgen è un suo amico.» disse Lise, riferendosi a Hiccup «Dice che è un bravo ragazzo.»
«Non solo. Avete visto quanto è bello?» sospirò scioccamente Helene, mentre le due sorelle si guardavano confuse. Poi si fece seria:
«Il problema è che non parla molto. Sebbene io ci provi, è come se Hiccup si chiudesse a riccio: mi risponde a monosillabi e molte volte non so come continuare la conversazione.» 
«Forse dovresti cercare di metterlo più a suo agio.» cercò di consigliarla Liselotte.
«Ci ho provato, ma non è affatto semplice.»
«Tu vieni con noi in bottega.» la invitò Lise «Mentre io parlo con Jørgen tu attacchi bottone con Hiccup. Vedrai che questa volta riuscirai a conversare con lui come si deve.» 
«Lo credi davvero?»
«Certo, non potrà starsene zitto per sempre!»
«E io cosa dovrei fare?» chiese la povera Rapunzel.
«Tu resterai con me per supporto morale.» le rispose Helene.
«Supporto morale?»

Appena arrivate le tre fanciulle entrarono in bottega senza neanche bussare. Il locale era buio, illuminato solo dal fuoco del camino accesso e dalle finestre semi coperte. Le tre notarono che c'era solo Sdentato, il quale era sdraiato accanto alla fornace con espressione annoiata.
«È enorme...» mormorò Helene riferendosi al drago mentre Rapunzel lo osservava in silenzio, estasiata dalla sua visione. 
Lise chiamò il suo ragazzo a voce alta ma nessuno rispose. Si fece più insistente: «Jørgen, tesoro?»
Nel frattempo Rapunzel scrutò le pareti del locale: vi erano appesi svariati pezzi di carta illuminata dal riflesso delle fiamme, che raffiguravano i progetti ideati, probabilmente, dallo stesso Hiccup. Uno in particolare illustrava la struttura di una protesi destinata al drago, che avrebbe sostituito la sua mancata ala. 
Improvvisamente, dalla penombra, sbucò Hiccup tutto sporco e con in mano due arnesi da lavoro. Aveva l'aria stanca ma concentrata.
Rapunzel notò per la prima volta che il ragazzo non aveva una gamba e che quest'ultimo si sosteneva attraverso una specie di arto artificiale metallico.
«Ciao ragazze.» disse il giovane, notandole «Vi posso aiutare?»
«Ciao, Hiccup.» fece Lise «Devo parlare con Jørgen. Sai dov'è?»
«È di là.» le rispose Hiccup, indicando la stanza dietro di lui.
Liselotte lo ringraziò con un sorriso, poi si voltò verso Rapunzel: «Torno subito.» 
Una volta che Liselotte ebbe lasciato la stanza uno strano imbarazzo pervase l'atmosfera, generando un silenzio insopportabile tra l'artigiano e le due ragazze. La cugina fissava il ragazzo imbarazzato; Rapunzel invece osservava il bel drago che, a sua volta, le accennò un'occhiata.
Helene tentò subito di rompere il ghiaccio: 
«Allora Hiccup, hai già conosciuto mia cugina Rapunzel?» gli domandò, afferrando il braccio della ragazza per attirare la sua attenzione.
Hiccup guardò per un istante Rapunzel; sembrava essere a disagio. Non era una novità perché, ogni volta che i due si vedevano, si guardavano di sfuggita per poi scansarsi a vicenda.
«Sì, ci conosciamo già.» rispose al suo posto la biondina, liberandosi dalla stretta di Helene. Il ragazzo annuì, distogliendo gli occhi da lei. 
Di nuovo silenzio.
«Come ben sai è solo una ragazzina. Ha diciotto anni.» riprese il discorso l'altra, usando la cugina come oggetto di conversazione «Hege e Sivert insistono che io la tenga d'occhio.»
Rapunzel le diede un'occhiata gelida. 
«Scusatemi.» cambiò bruscamente argomento Hiccup «Sono proprio un maleducato. Accomodatevi pure.» indicò delle vecchie sedie poste accanto all'ampia scrivania.
Prima che Rapunzel potesse ringraziare ed accomodarsi Helene l'afferò di nuovo, questa volta servita da un falso sorrisetto con occhi dolci per contorno:
«Rapunzel, perché non vai fuori a controllare il carretto? Ho sentito dei rumori, forse dovresti andare a vedere.» 
«Buona idea.» rispose leggermente innervosita Rapunzel che non vedeva l'ora di andarsene. Era chiaro che Helene la volesse fuori dai piedi.

Rapunzel aspettò per quasi un quarto d'ora fuori dalla bottega accanto a Joy. Mentre carezzava la bianca criniera del cavallo la giovane continuava a borbottare. 
Perché Helene la doveva sempre trattare a quel modo davanti ai ragazzi che le interessavano? Ogni volta si sentiva così fuori luogo ed immatura; non lo sopportava. Non era la prima volta che Helene la cacciasse via per restare sola con un ragazzoeppure si sentiva comunque furiosa con l'amica non tanto perché l'avesse mandata via, quanto perché la considerasse ancora una bambina incapace ed innocente e lo avesse rivelato a Hiccup.
In balìa di quei pensieri Rapunzel fu interrotta dai quattro piccioncini che uscirono dalla bottega. 
«Ciao piccolina!» la salutò Jørgen con gesto affettuoso, una volta che lui e Lise la raggiunsero. La ragazza ricambiò dandogli un colpetto sullo spesso braccio. 
«Scusa se ci abbiamo messo tanto.» le disse Liselotte.
«Non ti preoccupare.» rispose Rapunzel.
Poco dopo notò Helene e Hiccup, i quali si trovavano a qualche passo di distanza, accanto al portone della bottega: l'amica parlava al ragazzo con insistenza, ma questo sembrava assente, come in trans. Perché era sempre così silenzioso? 
Quando Hiccup capì di essere osservato, Rapunzel distolse immediatamente lo sguardo.
«Dobbiamo sbrigarci. Boris non ci aspetterà per sempre.» annunciò sua sorella che diede a Jørgen un bacio a stampo per l'arrivederci, poi invitò le amiche ad incamminarsi.
Prima di salire di nuovo sul carretto, però, Rapunzel si voltò di nuovo in direzione della bottega.

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