Makohon Saga - Amore a Versailles - Volume 10

di KiarettaScrittrice92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'incontro ***
Capitolo 2: *** La nebbia ***
Capitolo 3: *** La nobildonna ***
Capitolo 4: *** Lo sbaglio ***
Capitolo 5: *** Il teatro ***
Capitolo 6: *** Il ringraziamento ***
Capitolo 7: *** La voluttà ***
Capitolo 8: *** Il maggiore ***
Capitolo 9: *** Il consiglio ***
Capitolo 10: *** La delusione ***
Capitolo 11: *** Lo spavento ***
Capitolo 12: *** Il segreto ***
Capitolo 13: *** Il violinista ***
Capitolo 14: *** La passione ***
Capitolo 15: *** La rivolta ***
Capitolo 16: *** La disperazione ***
Capitolo 17: *** Il pane ***
Capitolo 18: *** La ricerca ***
Capitolo 19: *** L'apprensione ***
Capitolo 20: *** La Bastiglia ***
Capitolo 21: *** La resa ***
Capitolo 22: *** La responsabilità ***
Capitolo 23: *** La tensione ***
Capitolo 24: *** L'abbandono ***
Capitolo 25: *** La proposta ***
Capitolo 26: *** Il matrimonio ***
Capitolo 27: *** L'imprevisto ***
Capitolo 28: *** La notte ***
Capitolo 29: *** Il risveglio ***
Capitolo 30: *** La villa ***
Capitolo 31: *** La confusione ***
Capitolo 32: *** La gentilezza ***
Capitolo 33: *** La partenza ***
Capitolo 34: *** La camminata ***
Capitolo 35: *** L'ansia ***
Capitolo 36: *** L'arresto ***
Capitolo 37: *** Il rientro ***
Capitolo 38: *** La decisione ***
Capitolo 39: *** La vasca ***
Capitolo 40: *** Il rito ***
Capitolo 41: *** I genitori ***
Capitolo 42: *** Il trio ***
Capitolo 43: *** La fine ***
Capitolo 44: *** L'addio ***
Capitolo 45: *** L'epilogo ***



Capitolo 1
*** L'incontro ***


L'incontro

4 Maggio 1789

Juliette si trovava sulla carrozza che l'avrebbe portata al ricevimento, anche se non aveva assolutamente nessuna voglia di recarsi a Versailles.
Aveva sempre trovato quelle feste di una noia mortale, senza considerare le altre nobildonne che spettegolavano tutta la serata e facevano le civette col primo belloccio di turno che passava di là, loro se possibile erano ancora più insopportabili della noia.
Suo padre però l'aveva quasi costretta ad andare.
«Ormai sei in età da marito! Non puoi startene rinchiusa qui dentro a leggere quintali di libri e aspettare che l'uomo giusto cada dal cielo.»
Lui non sapeva, non poteva sapere che lei aveva già trovato l'uomo giusto, che una notte sì e l'altra no usciva dalla finestra dei suoi appartamenti con le sembianze di Coccinelle, l'eroina di Parigi, e salvava la città dai complotti di Comt Ténèbre al fianco di quel ragazzo magnifico di cui, ovviamente, non conosceva l'identità e lei chiamava solamente Chat Noir.
Si era invaghita del giovane eroe nero pian piano, conoscendolo: non sapeva se il suo charme, la sua eleganza e la sua spigliatezza fossero veri o fosse solo una copertura, ma lei si era follemente innamorata di quel suo lato.
La carrozza si fermò e Juliette fu riscossa dai suoi pensieri, qualche secondo dopo il valletto venne ad aprirle e lei, prendendo i lembi della sua ingombrante gonna, scese la piccola scaletta che terminava proprio a due passi dal maestoso ingresso di Château de Versailles. L'immenso cancello in oro era spalancato di fronte a lei e frotte di dame e cavalieri si riversavano nell'enorme cortile che precedeva l'ingresso vero e proprio.
Nonostante fosse lì controvoglia, indossò il suo miglior sorriso e con un portamento elegante, degno della nobildonna che era, attraversò il cortile, salutando coloro che le rivolgevano la parola.
Arrivata di fronte all'immenso edificio si fermò qualche secondo ad ammirarlo, non era attratta dalla sua maestosità o dalla sua regalità, non che non fosse bello, ma ormai era abituata a tutto quello sfarzo e iniziava a trovarlo anche troppo esagerato, ma in fondo era uno dei castelli più importanti del re Luigi XVI. No, lei non era attratta dalle vetrate, dagli intarsi in oro e dall'architettura del monumento in sé, ma da quei tetti blu che caratterizzavano il palazzo, quegli stessi tetti che più di una volta aveva solcato in compagnia del suo collega a protezione di Parigi.
Dopo quei pochi secondi di ammirazione, mise mano alla sua borsetta e tirò fuori il suo invito mostrandolo al valletto che si trovava proprio di fronte alla porta di vetro centrale. Questi glielo sfilò di mano, scrutandolo per qualche secondo, per poi restituirlo e permetterle di entrare.
La ragazza attraversò l'ingresso con disinvoltura e classe, ritrovandosi nel bellissimo e lussuosissimo corridoio, strapieno di gente.
Per l'ennesima volta si chiese cosa ci facesse lì, certo la musica che l'aveva accolta appena entrata era molto piacevole, colui che suonava il violino in particolare era parecchio bravo, ma non era un motivo abbastanza valido per rimanere lì ed annoiarsi.
Di fianco a lei passò un trio di giovani nobildonne, più o meno della sua età, che ridacchiavano con quella risata trattenuta e davvero poco naturale. Di sicuro avevano visto un qualche giovane uomo, magari un conte oppure un duca, non passò molto che ne ebbe la conferma, riuscendo a percepire uno stralcio dei loro discorsi.
«... e poi quegli occhi, credo di non aver mai visto degli occhi così belli!»
«Vogliamo parlare del fisico?»
«Già, però non dimenticate il suo titolo. Lui non è nobile, è un semplice soldato, nonostante la sua fama.»
«E allora? Che importa se è nobile o no? Anzi, meglio... È ancora più eccitante!»
«Josephine a te basta che respiri.» dopo quella battuta scoppiarono nuovamente a ridere con quell'odiosa risata forzata.
Esasperata si allontanò da lì andando più vicina all'angolo della grande sala in cui vi erano i musici, se doveva rimanere a quella festa almeno voleva godersi quel poco che le piaceva di essa.
Nella sala già vi erano alcune coppie che danzavano, guidate dalla soave musica. Juliette osservava quelle figure riccamente vestite che volteggiavano nella sala con estrema grazia. Anche lei sapeva danzare abbastanza bene, ovviamente da giovane nobildonna che era doveva necessariamente conoscere quell'arte, ma era convinta di avere più grazia quando si trovava nei panni di Coccinelle e saltava da un tetto all'altro di Parigi.
L'ennesima composizione dei musici si concluse, permettendo ai danzatori di sciogliersi dalle loro prese sul partner e regalare un applauso agli artisti, un applauso a cui si unì anche lei.
«Una musica alquanto gradevole, vero?»
Juliette si voltò: colui che aveva parlato era un giovane uomo alto qualche spanna in più di lei, aveva due magnetici occhi azzurro ghiaccio e i capelli color della notte legati in un morbido codino dietro la nuca, indossava l'uniforme rossa e blu tipica dei soldati.
«Sì, direi di sì...» rispose lei un po' imbarazzata, per qualche strano motivo quegli occhi la mettevano a disagio.
«Che sciocco, non credo di essermi presentato, Arno Dumas Pierre capitano della guardia scelta del re, al suo servizio.» si presentò con un ampio inchino.
«Juliette Isabeu Ponthieu.» si presentò anche lei, quando il giovane ritornò in posizione eretta.
«È un enorme piacere fare la sua conoscenza mademoiselle Ponthieu.» disse lui con un tono molto riverente, chinando il capo.
Lei rispose a quei suoi ultimi ossequi con un cenno della testa e un dolce sorriso, che lo colpì dritto al cuore.
Che sciocco, con che coraggio pensava anche solo di guardare in quel modo una nobildonna, non gli bastava già la fama che aveva? In fondo lui rimaneva soltanto un soldato. Eppure fin da quando l'aveva vista poco prima, in un angolo della sala a guardare con aria seria e austera i presenti, l'aveva colpito: non per il suo adrienne di un bel rosso pastello o per il suo portamento elegante da donna a modo, piuttosto era stato attirato dai suoi capelli castani raccolti elegantemente nella tipica acconciatura che portavano comunemente tutte le nobildonne e da quei suoi occhi color del miele che sembrava potessero trasmettere tutta la grazia e la dolcezza che quel corpicino esile, intrappolato in quell'ingombrante vestito, riusciva a contenere.
I musici cominciarono a suonare una nuova composizione e lui decise che era il momento di approfittare della situazione.
«Mademoiselle Ponthieu, se non sono indisponente, potrei chiederle di concedermi un ballo?» domandò, porgendole la mano e facendo un profondo inchino, rimanendo rispettosamente in quella posizione.
«Volentieri, capitano.» sentì di risposta, suscitando in lui un'improvvisa euforia.
Poggiò la mano sulla sua e percepii la delicatezza del suo tocco, strinse leggermente le dita attorno alle sue e sentii la morbidezza della sua pelle. Qualcosa in quel contatto gli provocò una sensazione nuova, qualcosa che nonostante la sua esperienza non aveva mai provato.
Si diressero entrambi verso il centro della sala e, dopo aver preso posizione l'uno di fronte all'altra, cominciarono a danzare sulle note della nuova musica suonata dal piccolo complesso, volteggiando molto elegantemente, proprio come altre coppie intorno a loro.
Nonostante, però, non fossero gli unici a danzare, gli sguardi di coloro che non lo facevano erano tutti rivolti verso di loro e lui sapeva bene il perché, anche lei sembrava aver notato quegli sguardi invadenti e carichi di pregiudizio.
«Forse non è stata una buona idea...» commentò lui, ma lei rispose con un verso stizzito, mantenendo comunque la sua eleganza.
«Non m''nteressano i pettegolezzi, se vogliono giudicarmi perché ho deciso di ballare con un semplice soldato, che lo facciano.»
Gli scappò un sorriso divertito, la ragazza aveva un bel caratterino e sicuramente sapeva farsi rispettare pur mantenendo la grazia e la classe di una nobildonna quale era. Lei però non poteva sapere che quegli sguardi non dipendevano dal fatto che lui fosse un semplice soldato, ma per via della sua fama che aveva lì a Versailles, fama che per fortuna lei sembrava non conoscere.
La musica andò pian piano a sfumare fino a concludersi e di nuovo i musici, scelti apposta per quella festa, ricevettero il loro meritato e breve applauso.
«È stato davvero un onore, per me, danzare con lei mademoiselle.» la ringraziò lui con un altro inchino rispettoso.
«Grazie per avermelo chiesto, monsieur.» rispose lei con un leggero sorriso, sempre molto posato ed elegante.
«Spero di rincontrarla un giorno...» si azzardò a provare a dire lui, accennando anche un'occhiolino.
Lei lo guardò stranita, alzando leggermente il sopracciglio destro e squadrandolo con i suoi occhi color del miele, poi fece una leggera e contenuta risata. A quel suono melodioso e argentino il giovane soldato percepì un brivido lungo la schiena.
«Au revoir, capitano Pierre.» lo salutò educatamente per poi allontanarsi da lui.
Lasciato il suo compagno, uscì dalla sala, senza voltarsi, entrando in uno dei tanti salottini dell'immenso castello. In quello si trovava un elegante divano in velluto rosso su cui era seduta Chantal, quella che considerava la sua unica vera amica.
Chantal era molto più bella di lei: i suoi capelli biondi ed i suoi occhi azzurri facevano sì che ogni uomo cadesse ai suoi piedi. Quel giorno indossava un bellissimo adrienne celeste che s'intonava perfettamente ai suoi occhi color del cielo, occhi che la stavano scrutando sin da quando era entrata nella piccola stanza, come se la stesse aspettando.
«Ti ho vista sai?» disse all'improvviso, mentre lei le si stava sedendo accanto.
«A cosa ti riferisci?» le chiese.
«Hai danzato con il capitano...»
«E allora? Qual è il problema?»
Quella conversazione stava iniziando a diventare strana, Chantal era l'unica, o quanto meno una delle poche, della sua classe sociale che la pensava come lei, quindi perché la rimproverava per quel ballo?
«Juliette, lui è Arno Dumas Pierre, capitano della guardia speciale del re, conosciuto in tutta Parigi come il donnaiolo di Versailles.»

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Capitolo 2
*** La nebbia ***


La nebbia
4 Maggio 1789

Arno era sdraiato sul letto dei suoi appartamenti, in una palazzina a Sèvres in cui vi era la residenza delle guardie scelte del re. Era costruita lì in modo che fosse a metà strada tra Versailles e Parigi.
I suoi pensieri vagavano imperterriti agli eventi di quel pomeriggio, davanti ai suoi occhi aveva quella splendida ragazza che non riusciva a dimenticare.
«Oh Plagg, dovevi vederla... Credo di non aver mai visto una donna più bella.» disse continuando a fissare il soffitto.
Seduto sulla spalliera del letto il piccolo kwami nero della sfortuna stava mangiucchiando un triangolino di camembert.
«Lo dici con tutte Arno...» commento annoiato.
«No Plagg, dico sul serio, c'era qualcosa in lei che non avevo mai visto in nessun'altra.»
Il gatto nero sospirò, per poi buttare giù in un sol boccone il pezzo di formaggio che poco prima stava assaporando.
«Non vorrei interrompere le tue fantasie, ma credo che stanotte abbiamo da lavorare.» disse.
A quel suo avviso il giovane, con un movimento veloce, si tirò su mettendosi seduto sul letto e voltando lo sguardo verso la finestra, che dava sulla capitale francese. Sopra Parigi, la tipica nuvola di fumo violetto che appariva quando Comt Ténèbre entrava in azione si stava estendendo.
«Immagino che ci tocca... Plagg, trasformami!» disse e subito il kwami fu risucchiato dal suo anello.
Si ritrovò nella sua divisa nera, sia nei pantaloni che nel panciotto, essa comprendeva anche una giacca, sopra la camicia a mezze maniche di un grigio scuro. Al collo portava un foulard con un campanellino da gatto sul nodo. A tenergli i pantaloni, invece, ha una cintura anch'essa grigio molto scuro, che proseguiva in una specie di coda. Ai piedi portava lunghi stivali da moschettiere e alle mani dei guanti che arrivavano fino alla metà avambraccio e si concludevano alle dita con degli artigli. Infine anche la maschera sul viso e le orecchie, che a malapena si intravedevano nella sciolta capigliatura corvina, erano rigorosamente nere. Le uniche note di colore, oltre alla pelle chiara del viso erano: l'arma che aveva al fianco e i suoi occhi color del ghiaccio, che grazie ai suoi poteri avevano assunto un'aria più felina.
Il ragazzo con un balzo si lanciò giù dalla finestra, atterrando sul suo cavallo dal manto scuro come quello del cioccolato fondente. Doveva raggiungere la capitale il più fretta possibile e l'unica soluzione che aveva era quella, anche perché poi sarebbe dovuto tornare indietro.

 

Gli ci volle una buona mezz'ora, forse qualcosa in più, per raggiungere le porte di Parigi, ma appena arrivato, notò subito la sua meta. Qualche palazzo più in là rispetto a dov'era lui, la sua compagna in rosso, se ne stava dritta e impettita sul tetto, osservando con attenzione la nebbia violetta che ormai lambiva il cielo.
Smontò da cavallo e con un paio di balzi, appendendosi a qualche balcone e a qualche cornicione, per poi saltare da un tetto all'altro, la raggiunse.
«Bonsoir Coccinelle.» a quelle parole la giovane eroina nel suo comodo, ma allo stesso tempo elegante, completo rosso a pois neri, si voltò verso di lui con quello sguardo luminoso e carico di ammirazione.
Negli ultimi due mesi si era accorto di come lei lo guardasse, riuscendo a comprendere i suoi sentimenti. Non le aveva però fatto mai notare che fosse consapevole di tutto ciò, non tanto per cattiveria, anzi piuttosto perché si rendeva conto che lui, con il suo carattere da donnaiolo non era adatto a lei: così fiera, sicura, combattiva, aggraziata, ma soprattutto leale. In fondo lei si era innamorata del carattere elegante e spigliato di Chat Noir, non che lui non avesse quelle caratteristiche, ma di certo il vero Arno era più diretto e meno servile, in particolar modo con le donne che conosceva da un po' di tempo.
Quella sera però, qualcosa in quello sguardo lo colpì dritto al cuore, quegli occhi ambrati che ormai conosceva bene l'avevano fatto tremare. Tanto che dovette voltare lo sguardo sulla città di fronte a loro per riuscire a tornare lucido.
«Allora mon amì, chi è lo sfortunato questa volta?» chiese, scrutando con la sua vista felina le strade buie di Parigi.
«Non lo so ancora... Appena ho visto la nebbia sono uscita di casa, ma ho pensato che sarebbe stato meglio aspettarti.» a quella confessione gli scappò un sorriso: non agiva mai da sola, non perché non ne fosse capace, ma perché probabilmente voleva dimostrare in qualche modo il suo affetto per lui, diventando una vera propria squadra che combatteva sempre unita.
«Allora direi di andare.» suggerì, e lei rispose con un cenno di testa, per poi saltare elegantemente sul tetto di fronte.
Vagarono per almeno dieci minuti sui tetti della capitale, fino a quando finalmente non trovarono il loro nemico.
Comt Ténèbre non era una vera e propria persona, era uno spirito, un'entità che s'impossessava delle persone, rendendole più forti e più intelligenti. Non avevano ancora compreso come sconfiggerlo definitivamente, si limitavano a liberare il povero posseduto dall'aura maligna. Tutto questo sempre solo di notte, all'insaputa dell'intera città che probabilmente non sapeva nemmeno della loro esistenza visto che neanche i posseduti ricordavano nulla.
Impiegarono meno tempo a sconfiggere il nemico rispetto quanto ne avevano impiegato per trovarlo. Si erano ritrovati davanti a un fornaio munito di pala da forno che non appena li vide si lanciò verso la ragazza con furia.
Coccinnelle evitò il colpo, abbassandosi velocemente, per poi fare un balzo indietro, mentre Chat Noir prendeva il suo posto, facendo scontrare il suo bastone di metallo contro la pala del nemico. Subito dopo fu il fornaio a spostarsi indietro in modo da allontanarsi dalla portata dell'eroe in nero e poter comunque raggiungerlo con la sua arma improvvisata, la scagliò con il lato largo verso Chat Noir, talmente velocemente che lui non riuscì ad evitarlo e si ritrovò catapultato per terra, con il fianco dolorante. L'uomo gli stava per assestare un altro corpo, che fu, però, bloccato da Coccinelle che con la corda di nailon del suo yo-yo gli strappò la pala dalle mani. Dopodiché facendo roteare velocemente la sua arma la lanciò verso il fornaio.
«Ti libero dal male!» disse e subito dopo, la stessa nebbia che incombeva sulla città, fuoriuscì dall'uomo.
Quando fu tutto finito, il fornaio si accasciò a terra svenuto, come fosse stato prosciugato di tutte le energie, mentre la nebbia si disperdeva.
«E anche per questa notte abbiamo fatto il nostro dovere.» commentò l'eroe in nero pulendosi un po' i pantaloni con le mani guantate.
«Non ancora Chat, dobbiamo riportare il fornaio a casa prima che si risvegli.» puntualizzò invece la ragazza sistemandosi l'arma di nuovo attorno alla vita.
«Agli ordini, mademoiselle.» rispose lui, afferrando per la vita il fornaio e mettendoselo in spalla, come fosse un sacco, mentre Coccinelle faceva strada.
«Ci siamo sbrigati in fretta oggi.» disse lei cercando di cominciare una conversazione.
«Già, questa volta il conte non si è dato molto da fare, non abbiamo nemmeno dovuto usare i nostri poteri.» commentò lui, sistemandosi meglio l'uomo sulla spalla.
«Stanotte niente fughe al limite del tempo.» disse con un tono divertito, voltandosi verso di lui, per poi arrossire e scostare nuovamente lo sguardo.
Lui però era stato di nuovo colpito da quegli occhi. Possibile che non li avesse mai notati prima? Inoltre, perché gli facevano quell'effetto solo ora? Poi un'idea assurda, un pensiero prepotente inspiegabile lo travolse, per un paio di secondi associò quella figura snella ed agile in quell'elegante vestito a pois, alla giovane nobildonna che aveva incontrato quel pomeriggio al ricevimento a Versailles.
Non ebbe molto tempo per pensarci ancora, perché arrivati al forno l'eroina in rosso si fermò e fece segno al compagno di lasciare l'uomo lì. Rimasero per qualche secondo in silenzio, mentre lui sentiva lo sguardo intenso di lei addosso.
«Conviene andare, prima che si svegli.» suggerì, dopodiché con un paio di salti raggiunse il tetto dell'edificio più vicino e poco dopo anche lei gli fu accanto.
«Ascolta... – lui si voltò verso di lei a quel suo richiamo e, come al solito, fu folgorata dai suoi intensi occhi felini – Visto che stanotte non abbiamo fretta, potremmo...»
«Devo andare a Sèvres, mon amì.» la blocco subito lui, cercando di dare un tono dispiaciuto alla voce.
Vero, l'unica cosa che sapeva della sua reale identità era che viveva a Sèvres, la stessa cittadella in cui si trovavano gli alloggi della guardia scelta del re. A quel pensiero le tornò in mente l'incontro con il capitano di quel pomeriggio.
«Chat, tu hai mai incontrato qualche soldato lì a Sèvres?» chiese, quasi d'impulso.
«Ovviamente. Insomma è un po' difficile non incrociarli, inoltre dubito che tu qui a Parigi non ne abbia mai visto uno.» rispose tranquillamente lui, per poi fare un lungo e prolungato fischio con le dita.
«No certo, è solo che... Mi chiedevo se... – scosse la testa – Non importa.»
Subito dopo il suono ritmato degli zoccoli del cavallo del suo compagno iniziò a farsi sentire e poco dopo apparve da una via secondaria, posizionandosi proprio sotto l'edificio su cui si trovavano.
«Alla prossima, mon amì.» le sorrise lui, facendola arrossire nuovamente.
«Alla prossima, Chat Noir.» rispose, mentre lui già scendeva verso il suo destriero.
Lo vide allontanarsi e, come al solito, sperò con tutto il cuore di poterlo rivedere presto.

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Capitolo 3
*** La nobildonna ***


La nobildonna
6 Maggio 1789

Juliette era ancora nel suo letto, coccolata dalle candide lenzuola che l’avvolgevano e dal morbido cuscino su cui adagiava la testa, mentre la luce del mattino iniziava a farsi strada, attraverso le tende bianche del suo letto a baldacchino.
Era sveglia già da una decina di minuti, ma ancora non si voleva alzare, voleva godersi quella tranquillità ancora un po'. Sul cuscino proprio di fianco a lei Tikki, la creaturina rossa che le aveva donato i poteri di Coccinelle, stava ancora dormendo. Allungò una mano verso di lei sfiorando la macchia nera, che aveva sul capino, con il dito: a quel gesto la kwami si svegliò mostrando i suoi grandi e stupendi occhi azzurri.
«Bonjour Tikki.» la salutò lei sorridente.
«Bonjour Juliette. – le rispose la piccola creatura, fluttuando davanti al suo viso – Pronta per una nuova giornata?»
«Se mio padre mi spedisce ad un'altra festa credo impazzirò.» si lamentò la ragazza, rigirandosi sul letto e mettendosi supina.
«Eppure mi era sembrato che il ballo di ieri sera, con quel giovane capitano, non ti fosse affatto dispiaciuto.»
«Cosa?! – chiese sconvolta la ragazza, sentendo le guance diventare incandescenti – Per niente, insomma è stato un ballo come gli altri.»
«Sicuramente non come sarebbe stato un ballo con Chat Noir, vero?» la ragazza divenne ancora più rossa e il calore sul suo viso ancora più insistente, mentre la risata argentina di Tikki le dava la conferma che il suo imbarazzo era evidente.
«Forse è ora di alzarsi...» commentò, tirandosi su e cercando di assumere nuovamente un'aria il più possibile austera.
Tirò le tende del baldacchino, aprendole, mentre Tikki si nascondeva nelle pieghe della sua camicia da notte, infine allungò la mano verso la campanella che era sul comodino e la scosse con un gesto delicato, facendola trillare.
Subito entrò nei suoi appartamenti una domestica con un vassoio in metallo fornito di qualsivoglia leccornia per la colazione, o meglio ciò che di solito preferiva lei.
«Bonjour mademoiselle Ponthieu.» salutò educatamente la domestica, poggiando il vassoio sul comodino e facendo una leggera riverenza.
«Buongiorno Marie.» ricambio a lei, mantenendo il suo solito tono autoritario.
«Mademoiselle, stamattina un messo ha consegnato questa per lei, viene da Sevrès.» disse porgendole una lettera.
Nell'udire quel nome sentì il cuore balzargli in petto: Sevrès era la città in cui viveva Chat Noir, e se fosse stato proprio lui a scriverle? Che sciocca, era impossibile, Chat Noir non sapeva nemmeno la sua vera identità, figurarsi dove abitava.
Prese la lettera dalle mani della domestica per poi congedarla. Appena la donna uscì dalla camera, chiudendosi la porta alle spalle, la ragazza osservò la busta rigirandosela tra le mani e notando così il mittente.
«Quando parli del lupo...» commentò con un sorriso divertito, leggendo quel nome.
Aprì la busta staccando il sigillo di ceralacca con il simbolo della guardia scelta del re e tirando fuori il foglio di pergamena, mentre il Tikki usciva dal suo nascondiglio per affiancarla e poter così leggere anche lei.

Mademoiselle Ponthieu,
Vorrei davvero rivederla, se accetta incontriamoci all'ingresso dei giardini di Versailles durante la festa di questa sera.
Spero di trovarla lì,
Arno.

«Juliette, gli piaci.» Commentò Tikki euforica.
«Tikki, è un soldato, un semplice soldato, non posso...»
«Andiamo Juliette, ti conosco bene, non ti è mai importato nulla della classe sociale. Tutti i romanzi che leggi e rileggi e che riguardano storie d'amore impossibili ne sono la prova.» la rimproverò la creaturina rossa, cercando di incoraggiarla.
«Sì, ma c'è già Chat Noir, e poi... Hai sentito quello che ha detto Chantal, probabilmente sono l'ennesima nobildonna da conquistare e poi abbandonare. Sinceramente non m'interessa frequentare un uomo così.» disse alzandosi finalmente dal letto e avvicinandosi alla toilette dei suoi appartamenti.
«Fai come vuoi! Sappi però che ogni lasciata è persa, amica mia, e visto che non sai nulla di Chat Noir e non riesci nemmeno a rivelargli quello che provi, con il capitano potrebbe essere la tua occasione. Inoltre, sappiamo tutte e due che ti piace.»
La ragazza sbuffò, mentre si guardava allo specchio, persino in quel verso di stizza riuscì a mantenere quella classe ed eleganza che caratterizzava il suo essere, tanto da farlo sembrare semplicemente un sospiro.
«Ho ancora una giornata davanti, e non intendo sprecarla a decidere se devo andare o no a quella festa.» concluse tornando verso il suo letto e afferrando il bicchiere di latte che stava nel vassoio sul suo comodino.
Consumò con calma la sua colazione, mentre la kwami rossa sgranocchiava dei biscotti con gocce di cioccolato, anch'essi portati poco prima, sullo stesso vassoio.
Quando ebbe finito chiamò nuovamente le domestiche, suonando la campanella e Tikki si nascose nel cassetto del comodino, passandoci semplicemente attraverso, senza aver bisogno di aprirlo.
Questa volta nella stanza entrarono tre domestiche: una, la stessa che le aveva portato la colazione, si diresse direttamente al comodino per prendere il vassoio e riuscire di nuovo, mentre le altre due si avvicinarono a lei.
«Cosa desidera indossare questa mattina, mademoiselle?» chiese cortesemente una delle due accennando un inchino.
«Il polonaise celeste, inoltre vorrei prendere anche l'adrienne verde acqua per questa sera.» ordinò lei con naturalezza.
Le due donne fecero un altro inchino e oltrepassarono la porta che conduceva al suo guardaroba, per poi tornare poco dopo con i due corredi tra le braccia. Intanto Marie era tornata con una serie di nuove lenzuola candide e si era subito messa a rifare il letto.
La ragazza, con l'aiuto delle due domestiche, si vestì, complimentandosi tra sé e sé e per la sua scelta. Quel polonaise le stava davvero bene, molto elegante e comodo allo stesso tempo, perfettamente adatto per stare in casa e presentarsi alle sue lezioni mattutine.
«No, i capelli lasciateli pure così!» disse fermando le donne che stavano già per mettere mano all'occorrente che serviva per l'acconciatura.
Quando fu del tutto pronta, e le domestiche furono fuori dalla camera, Tikki senza un fiato si tuffò tra le pieghe del suo vestito e anche lei uscì dai suoi appartamenti.
La giornata passò in fretta: con le lezioni di piano e di poesia il mattino e il suo solito rintanarsi in biblioteca, tra i libri e i romanzi, nel pomeriggio.

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Capitolo 4
*** Lo sbaglio ***


Lo sbaglio
6 Maggio 1789

Arno oltrepassò il cancello che conduceva ai giardini.
Era nervoso, sentiva il cuore martellargli nel petto furioso, non si era mai sentito così e questo lo spaventava e eccitava allo stesso tempo.
Iniziò a percorrere il largo viale che portava al centro dei giardini. C'era comunque qualche nobile o qualche semplice invitato che, annoiato dalla festa, si era recato lì per respirare un po' d'aria fresca e poter chiacchierare in tranquillità, ma nessuno si era spinto oltre il viale, per scendere i due scalini che portavano ai veri e propri giardini.
Solo una persona si trovava vicino alla grossa fontana circolare, poco più in là: era di spalle, ma nonostante ciò il ragazzo riconosceva in quei capelli castani perfettamente acconciati e in quella figura posata ed elegante nel suo adrienne verde acqua, la donna che stava cercando.
Aumentò il passo, raggiungendola. Era talmente assorta nei suoi pensieri, mentre scrutava l'acqua cristallina della fontana, che non si accorse del suo arrivo.
«Che ci fa una così bella fanciulla tutta sola?» chiese alle sue spalle.
La vide fremere un attimo, probabilmente perché l'aveva presa alla sprovvista, ma sicuramente aveva riconosciuto la sua voce, perché si voltò lentamente con un bellissimo sorriso stampato sul viso.
All'improvviso il cuore ricominciò a battergli forte, gli era bastato incrociare quegli occhi limpidi e ambrati per riuscire a percepire nuovamente l'agitazione e l'ansia; inoltre il sorriso che gli rivolse era talmente dolce e incantevole da lasciarlo senza fiato.
«Attendo un certo capitano che ha detto voleva vedermi.» rispose con voce tranquilla e aggraziata.
«Non avete idea di quanto lo volessi, mademoiselle.» rispose lui, avvicinandosi a lei e avvolgendola con il braccio, per fare in modo di spingerla ancora di più verso di sé, lei però a quel gesto si stizzì e frapponendo entrambe le mani tra i loro corpi lo allontanò con una leggera spinta.
«Sta iniziando a prendersi un po' troppe libertà, capitano. – disse con un tono di rimprovero, molto più autoritario del solito – Conosco la sua fama e ho capito le sue intenzioni, quindi...» non poté finire la frase, perché lui le bloccò il resto delle parole, posandole bocca sulla sua e zittendola.
A quel gesto Juliette spalancò gli occhi stupita. Come si permetteva quell'uomo di baciarla, con quale pudore e coraggio osava oltraggiarla in quel modo, senza nessuna richiesta, senza nessuna intenzione verso un minimo di corteggiamento. Si allontanò quasi immediatamente e, dopo qualche attimo di stupore e sconcerto, senza nemmeno pensarci alzò la mano e la scagliò sul suo volto.
Lo schiaffo arrivò forte, quasi quanto il suono che aveva emesso, mentre la guancia iniziò a pulsargli dolorosamente.
«Con quale diritto ha osato baciarmi? – inveì lei, non era un grido acuto e sgradevole, anzi anche mentre urlava la trovava sempre molto posata e affascinante, ma quella nota di delusione nella sua voce fu abbastanza da farlo sentire un verme – Pensa forse che io sia come una delle sue sgualdrine che può zittire non appena parlano troppo?» quelle parole sembrarono spilli nel suo cuore, l'avevano ferito. Fosse stata un'altra donna avrebbe ignorato quelle ingiurie e si sarebbe arreso nel suo tentativo di conquista, ma lei era lei e non poteva ignorarla.
«Juliette io…»
«Dimenticatemi capitano!» disse quasi in un sussurro per poi allontanarsi.
«Mademoiselle Ponthieu, la prego... – disse tentando di fermarla, afferrandola per il polso – Mi lasci spiegare...»
Lei si voltò e quegli spilli diedero nuove fitte al suo cuore nel vedere quel viso delicato e gentile solcato da una lacrima, sul lato destro.
«Spiegare cosa capitano Pierre? I suoi gesti sono stati abbastanza espliciti.» disse, cercando di liberarsi dalla presa.
«Non volevo... Lei non è assolutamente come le altre donne... Io...» non sapeva cosa dire, le parole sembravano bloccarglisi in gola e non voler uscire per nessun motivo.
Si sentiva male, si rendeva conto di averla delusa e forse aveva sprecato la sua unica occasione per riuscire a conquistarla. Non le aveva chiesto di vedersi lì per quello, non le aveva mandato quella lettera per poi sprecare quell'occasione in quel modo, eppure l'aveva fatto. In realtà non era assolutamente nelle sue intenzioni baciarla, non a quel modo, non al loro solo secondo incontro, ma il suo istinto aveva deciso per lui. Aveva visto le sue labbra, rosee e corpose, probabilmente per merito di qualche cosmetico, e non aveva capito più niente: improvvisamente aveva sentito l'impulso di assaporarle, assaggiarle, sentirle sulle sue e l'aveva fatto. Ed ora era rimasto scottato dalla sua stessa impulsività.
«Glielo ripeto capitano, dovete dimenticarmi...» a quel nuovo avviso le lasciò il polso, sconfitto dalla realtà, deluso da se stesso e forse anche consapevole che se avesse insistito avrebbe solo peggiorato le cose.
Appena fu libera gli diede nuovamente le spalle e se ne andò via, percorrendo lo stesso viale che aveva attraversato lui pochi minuti prima.
«Mai!» sussurrò seguendola con lo sguardo.
No, non avrebbe potuto dimenticarla, neanche se avesse voluto: quella nobildonna dai movimenti aggraziati, dalla voce calma e autorevole e dal caratterino irrequieto era entrata nella sua vita come un uragano, occupando ogni singolo angolo della sua mente senza nessuna possibilità di pensare ad altro.
Purtroppo però era impossibile per lui avere un momento libero per lasciarsi andare allo sconforto. Sapeva bene che quel giorno non si era recato a Versailles per incontrare lei, o meglio aveva approfittato dell'occasione, ma quel giorno il suo compito era un'altro.
Fece un grosso respiro e uscì dai giardini reali, per poi dirigersi alle stalle e recuperare il suo cavallo. Ci avrebbe messo non più di cinque minuti ad arrivare all'Hôtel des Menus-Plaisirs, perfettamente in tempo per radunare i suoi uomini e gestirli in modo che l'assemblea degli Stati Generali, indetta dal re due giorni prima, e che si sarebbe svolta l'indomani, potesse procedere senza interruzioni di alcun genere. Non sapeva esattamente in cosa consisteva l'assemblea e d'altronde non era nemmeno suo diritto saperlo, lui aveva solo il compito di presidiare la struttura con i suoi uomini.
Quando arrivò lo accolsero due suoi sottoposti che, appena smontò dalla sella, presero le briglie del cavallo salutandolo rispettosamente e dicendogli che il resto degli uomini lo stavano attendendo nel cortile interno dell'edificio.
A quell'informazione lasciò il cavallo alla custodia dei due soldati, che lo avrebbero scortato fino alle stalle e oltrepassò il cancello in ferro battuto, di cui era aperta solo un anta, che dava proprio sul cortile. Al fondo vi erano una decina di uomini nella loro divisa rossa e blu, che appena lo videro si misero in fila sull'attenti, con il moschetto, l'arma che una volta attribuiva il loro nome, sul lato destro. Si fermò a pochi passi da loro e, prima di parlare, li squadrò uno per uno.
«Bene soldati, – cominciò con quel tono autoritario che usava solamente quando doveva parlare ai suoi uomini – domani, qui, alla Sala dei tre Ordini, si raduneranno la nobiltà, il clero e i deputati e ci saranno sia il re che madame Maria Antonietta. Ora sicuramente non sarà un compito difficile, ma ho bisogno che siate impeccabili nel vostro lavoro di presidio, sono stato chiaro?»
«Sì, capitano!» risposero all'unisono i suoi uomini, rimanendo perfettamente sull'attenti.
«Bene, allora ci vediamo qui domani mattina alle nove.» disse, e non appena ebbe avuto nuovamente la conferma dei suoi commilitoni, diede loro il permesso di rompere le righe.
A quel punto lui si diresse lentamente verso l'interno dell'edificio, raggiungendo velocemente la camera che l'Hôtel des Menus-Plaisirs aveva riservato esclusivamente a lui per quella notte, dopo aver chiesto la sua locazione ad un domestico.
Non appena raggiunse l'elegante stanza e si chiuse la porta alle spalle, il piccolo kwami nero poté uscire dal suo nascondiglio nella giacca blu del suo padrone.
«Arno dov'è il mio camembert?» furono le sue prime parole.
Il ragazzo allora sollevò la cloche che stava sul tavolino a lato della stanza, scoprendo un vassoio fornito di un'intera forma di quel formaggio maleodorante, già tagliata in piccoli pezzi. Lui stesso, non appena saputo del ruolo assegnatoli dal re, aveva fatto in modo di mandare una missiva in modo da far trovare il cibo per Plagg già in camera.
Senza nemmeno un fiato si buttò sul letto, con tutti gli stivali, gli occhi rivolti al soffitto, ma lo sguardo perso nel vuoto.
«Arno, tutto a posto?» chiese preoccupato lo spirito della sfortuna, avvicinandosi a lui con un triangolino di camembert tra le zampette.
Lui però non rispose, i pensieri e i ricordi di cosa era accaduto nemmeno un ora prima continuavano a tormentarlo fastidiosi: continuava a vedere il suo viso deluso solcato da quella singola lacrima, a sentire quelle parole cariche di risentimento, a percepire disgusto verso se stesso per ciò che aveva fatto e tutto quello faceva male, un male indescrivibile, anche peggiore di una lama che trafigge la carne.
Plagg non gli chiese più nulla e lui rimase per quelle che gli sembravano ore con quella sgradevole sensazione, finché Morfeo non lo prese tra le sue braccia.

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Capitolo 5
*** Il teatro ***


Il teatro
13 Maggio 1789

Juliette rivolse un sorriso radioso alla sua migliore amica.
Era passata ormai una settimana da quando il capitano Arno Dumas Pierre l'aveva baciata e lei, grazie alle sue due più grandi amiche era riuscita a superare quel momento di sconforto che l'aveva sorpresa durante il suo rientro a Parigi.
Tikki rimase accanto al lei tutte le notti, ma in particolare quella prima notte in cui fu quasi impossibile prendere sonno, per i troppi pensieri. Il giorno dopo invece fu Chantal a presentarsi all'ingresso di villa Ponthieu, non appena seppe della notizia. In realtà non sapeva molto, per fortuna: le voci che erano girate infatti erano quelle che lei, mademoiselle Ponthieu, si era presentata alla festa a Versailles della sera prima, per poi non parteciparvi.
Così quella mattina Juliette dovette spiegare tutto all'amica rivivendo nuovamente quel breve incontro con il capitano.
Si stupì però, di scoprire, dopo averlo raccontato, di quanto quel bacio l'avesse emozionata, nonostante il giovane soldato se lo fosse preso senza nessun diritto o permesso. Forse Tikki aveva ragione, forse quel giovane aitante non le era indifferente, anche se i suoi sentimenti più forti erano ancora verso Chat Noir, nonostante non ne conoscesse il motivo, forse per i mesi passati assieme. Eppure quel bacio al solo pensiero le faceva battere il cuore e in fondo non era sicura che quelle voci riguardanti il donnaiolo di Versailles fossero vere e anche se lo fossero state lei non si era mai preoccupata delle dicerie. La cosa che la preoccupava era piuttosto il fatto che se quelle dicerie fossero state vere era anche possibile che lei fosse solo ennesima conquista per il capitano e se lei si fosse innamorata davvero di lui, avrebbe rischiato di soffrire.
Ora però non doveva pensare a tutto quello, aveva in programma una bellissima serata a teatro con la sua migliore amica: sarebbero andate al Théâtre de la Porte Sainte-Martin, a vedere l'opera che l'aveva inaugurato, quasi otto anni prima, ossia Adèle de Ponthieu di Piccinni. Era molto legata a quell'opera, probabilmente perché la protagonista possedeva il suo stesso cognome, ma in realtà era attratta dall'opera in sé e dalla coinvolgente storia drammatica che toccava Adèle e la sua famiglia.
Arrivarono a teatro in perfetto orario e furono scortate da una maschera fino al loro balconcino sul loggione alla destra del palco. Si sistemarono comodamente sulle poltrone in attesa che lo spettacolo incominciasse. Pochi minuti dopo, infatti, le luci che illuminavano il teatro diminuirono di intensità e un leggero ed elegante applauso, che coinvolse anche le due nobildonne, si propagò per tutta la sala.
La bravura degli attori, che con voci melodiose e incredibili cantavano sulle note dell'opera di Piccinni, le facevano tenere gli occhi incollati sul palco, tanto che non si era nemmeno accorta della fine del primo atto, almeno fino a che non calò il sipario e le luci delle infinite lampade ad olio che costellavano l'intera sala si fecero più intense.
«Che faccia tosta...!» disse Chantal, dopo un verso stizzito.
«Chi?» chiese lei, voltandosi nella stessa direzione verso cui stava guardando l'amica, ossia il palco di fronte a loro, esattamente dall'altra parte del teatro.
Al balconcino, in una postura rigida e impettita, c'era lui. Chiunque avesse accompagnato a teatro se ne stava nell'ombra, nascosto da sguardi indiscreti, ma lui rimaneva sull'attenti perché sicuramente quel qualcuno lo stava osservando.
Nonostante mantenesse quella posizione seria e austera, i suoi occhi trasmettevano tutt'altro: il suo sguardo era rivolto a lei e nei suoi occhi azzurro ghiaccio riusciva a percepire ogni sua singola emozione come potesse leggergli la mente. Vedeva la gioia nel rivederla, l'ammirazione e la meraviglia come se non avesse mai visto niente di più bello, ma vedeva anche il rimpianto di ciò che era accaduto tra di loro la settimana prima e la paura di averla delusa al punto che lei non l'avrebbe perdonato.
Chissà, forse doveva davvero dargli una seconda possibilità, in fin dei conti sembrava seriamente pentito di ciò che aveva fatto. A quel pensiero e sotto quello sguardo penetrante che riusciva a malapena a reggere, iniziò a sentire il cuore accelerare il battito come a farle capire che forse stava iniziando a provare qualcosa per il giovane e aitante capitano.
A quel suo ultimo pensiero lo spettacolo riprese e la sua attenzione tornò alle vicende che si svolgevano sul palco, anche se avrebbe giurato che, da quel momento in poi, sentiva chiaramente i suoi occhi puntati addosso. Decise che alla fine del secondo atto, nella seconda ed ultima pausa, sarebbe andata a parlargli.
Quando però le luci si riaccesero si voltò semplicemente verso di lui, senza avere il coraggio di alzarsi, mentre questi, invece, le rivolse un ultimo sguardo per poi dare le spalle al teatro e inchinarsi davanti alla persona nascosta nell'ombra chiedendole probabilmente il permesso di allontanarsi, visto che poco dopo sparì dal loggione.
Forse era semplicemente andato ai servizi, poi, all'improvviso, sentì la sua voce alle sue spalle.
«Buonasera signorine.» disse con tono elegante, facendo voltare sia lei che l'amica.
«Ha un bel coraggio a presentarsi qui!» inveì subito contro di lui la bionda.
Arno la scrutò un attimo: era una bella donna, probabilmente una delle più belle che avesse mai visto, eppure era ormai da più di una settimana che non riusciva più a vedere una qualsiasi figura del gentil sesso allo stesso modo di come le vedeva prima.
Conosceva bene la bionda con gli occhi azzurri che lo stava fissando con rimprovero, Chantal Marie Blanchard, era la tipica nobildonna sempre presente ad ogni singola festa, pronta a giudicare ascoltare tutto e tutti, non era quel genere di donna pettegola e civetta, no, lei era quella che se ne stava in disparte e ascoltava attentamente tutto quanto, sicuramente era stata lei a dire a Juliette tutte quelle dicerie che giravano attorno a lui.
«Le dispiace lasciarci soli?» chiese educatamente.
«Così che si possa ripetere ciò che successo l'ultima volta? – chiese lei, ancora con quel tono scontroso – Mi spiace, ma...»
«Chantal, – la interruppe lei – per favore...» concluse, lasciando intendere il resto.
«Sei sicura? – chiese preoccupata la bionda, rivolgendosi all'amica che rispose solo con un cenno di testa – Bene allora andrò ad incipriarmi il naso. Occhio a quello che fa capitano.» lo minacciò per poi dirigersi alle scale che portavano al piano inferiore del loggione.
«Io devo porgerle le mie scuse, mademoiselle Ponthieu.» disse chinandosi davanti a lei.
Mossa da un senso di tenerezza verso quelle scuse sentite si alzò dalla sedia e si avvicinò a lui, posando delicatamente una mano sulla sua spalla e facendogli rialzare leggermente lo sguardo.
«Scuse accettate capitano. – gli disse, sorridendo dolcemente, mentre lui si rimise in posizione eretta e per qualche secondo regnò il silenzio, poi fu di nuovo lei a parlare – Perché l'ha fatto?» chiese, facendo quella domanda che da ormai una settimana la tormentava.
«Non lo so... Non credo di aver mai provato tutto questo prima d'ora... Non mi era mai successo di sentirmi...» non sapeva come continuare: era la prima volta che si sentiva disagio davanti a una donna.
L'unica persona con cui si era sempre sentito in quel modo era suo padre. Perché ora, davanti a lei si sentiva allo stesso modo? Perché non riusciva a trovare le parole adatte?
«Non le era mai successo, cosa?» chiese con quel tono nuovamente gentile.
Il ragazzo fece un lungo sospiro, riuscendo così a calmarsi, nonostante sentisse ancora il suo cuore battere furioso nel petto.
«Sa perché ho accettato di accompagnare sua maestà Maria Antonietta e la figlia a vedere questo spettacolo, quando potevo tranquillamente mandare uno dei miei uomini? – lei rimase in silenzio, osservandolo appoggiare una mano sul suo abito color lavanda – perché non riesco a pensare ad altro che non siate voi... Da quando ci siamo conosciuti non ho più pensato ad altro... È vero, tutte quelle dicerie e quei pettegolezzi sul mio conto, sono tutti veri, ma da quando la conosco mi sembra di non riuscire più a riconoscere me...»
Ci fu ancora qualche secondo di silenzio, in cui Juliette lo guardò con un'aria stupita e commossa allo stesso tempo, fino a che non tornò di nuovo la bionda che, con un leggero colpo di tosse, fece notare la sua presenza.
«Con permesso.» salutò educatamente Arno, per poi andare via.
Lo spettacolo ricominciò poco dopo con il terzo atto, ma Juliette non riuscì a seguirlo, la sua mente vagava inesorabilmente, cercando di sondare il suo cuore per comprendere i nuovi sentimenti che la confondevano.

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Capitolo 6
*** Il ringraziamento ***


Il ringraziamento
13 Maggio 1789

Arno uscì dalla porta sul retro del teatro, scortando la regina e sua figlia alla carrozza. Ebbe appena il tempo di dare i suoi ossequi alla moglie del sovrano e chiudere la portiera della vettura, quando una nume viola cominciò ad addensarsi nel cielo. Il giovane capitano si guardò intorno, assicurandosi che non ci fosse nessuno, dopodiché scostò un po’ la giacca della sua divisa, per far uscire il piccolo gatto nero.
«Ci tocca fare gli straordinari anche oggi. Plagg trasformami!»
Non appena ebbe assunto le sembianze feline dell’eroe in nero, balzò con un salto su una delle colonne portanti del teatro, cominciando poi a scalare l’edificio.
Arrivato sul tetto si guardò intorno, cercando non solo il posseduto da Comt Ténèbre, ma anche la sua compagna, che sicuramente si era accorta della nube malvagia. Trovò prima il nemico, era a una ventina di metri più in là rispetto a dove si trovava lui, verso nord-ovest, più precisamente in via Faubourg Saint-Martin. Era un gendarme, un soldato addestrato per gestire il normale svolgimento della vita cittadina di Parigi, che in quel momento però era lui stesso una minaccia al tranquillo scorrere della quotidianità della capitale.
Avrebbe volentieri aspettato la sua compagna, ma da dove si trovava riusciva a malapena a vedere l’uomo e una carrozza ferma in mezzo alla strada, e doveva assicurarsi che nessuno fosse in pericolo. Premette il simbolo verde a forma di zampa sul suo bastone, facendolo allungare per tutta la larghezza del viale in modo che potesse fare da ponte per collegare un tetto all’altro, ci passo sopra e non appena fu dal lato opposto iniziò a balzare sui tetti degli altri palazzi per raggiungere il suo obbiettivo.
Non appena arrivò esattamente sopra la carrozza il cuore gli sembrò si fosse fermato. Il gendarme aveva appena ferito il cocchiere con la sua spada, facendolo accasciare al suolo, mentre proprio di fianco al veicolo la bionda urlava sconvolta e lei, lei guardava l’uomo con aria severa e mostruosamente combattiva, senza nessuna paura. Era stupenda, anche davanti a una minaccia del genere riusciva a non perdere il controllo. Quella grinta però non poteva avere una svolta positiva, il gendarme si stava avvicinando alle due giovani nobildonne e lei era disarmata, nonostante il suo sguardo di fuoco.
Con un balzo atterrò nel viale proprio tra loro, bloccando con il suo bastone la spada della guardia cittadina.
«Andate via, mettetevi al riparo.» disse, intraprendendo uno scontro col nuovo nemico.
«G-grazie Chat.» la sentì sussurrare, prima di prendere per il braccio l’amica e portarla via.
Era talmente concentrato nello scontro che si rese conto solo qualche secondo dopo, quando le due ragazze avevano svoltato l’angolo, che lei l’aveva chiamato usando il suo nome da eroe. Com’era possibile che lo conoscesse, in quei mesi lui e Coccinelle erano stati attenti a combattere sempre nel più totale anonimato, nel tentativo di non allarmare la capitale: perciò com’era possibile che lei sapesse il suo nome? Forse era stata una delle tante persone controllate da Comt Ténèbre, in fondo non si erano mai accertati che le vittime del loro nemico ricordassero qualcosa di ciò che accadeva loro. No, anche se quell’ultima teoria fosse stata possibile, non si sarebbe potuto dimenticare così facilmente di lei.
Dovette distogliere la mente da quei pensieri quando vide arrivare un fendente di spada da parte del suo nemico che puntava dritto al suo viso e che riuscì a fermare all’ultimo momento.
«Serve una mano, Chat Noir?» chiese qualcuno.
Si voltò vedendola calarsi dolcemente di fianco a lui, aggrappata al filo di nylon che costituiva la sua arma, per poi ritirarlo.
«Benritrovata Coccinelle!» disse rivolgendole un sorriso, per poi dare un colpo deciso con il bastone, facendo indietreggiare il gendarme di qualche passo, dandogli così il tempo di riprendere fiato. Lei ricambiò il suo sorriso per poi invocare il suo potere.
«Lucky Charm!» urlò, lanciando nuovamente verso l’alto il suo yo-yo, e subito dopo tra le sue mani cadde quello che sembrava a tutti gli effetti un magnete.
«Qualche idea, mademoiselle?» chiese vedendola guardarsi intorno.
«Disarmalo!» disse decisa e lui fece come richiesto.
Mettendo in atto tutta la sua esperienza da capitano delle guardie speciali del re, fece come ordinato dalla sua compagna. Incrociò il bastone con l’arma nemica, usandolo come fosse una spada, dopodiché roteando il polso in una cavazione, fece passare il bastone sotto la lama del gendarme e con un colpo secco gli fece perdere la presa dall’elsa della spada, che volò via. Nello stesso istante in cui l’arma schizzò via dalle mani del nemico, questa fu attirata dal magnete che Coccinelle stava usando, subito dopo l’eroina in rosso mise mano al suo yo-yo e lanciandolo verso il nemico, iniziò a purificarlo.
Ci mise molto più del solito, i suoi orecchini stavano man mano avvisando dell’inesorabile tempo che passava e decretavano lo scadere della sua trasformazione. Chat Noir riusciva a notare la stanchezza nel suo respiro e la fatica nel sudore che imperlava il suo viso.
Non appena finì, tirò un sospiro di sollievo e mentre il suo orecchino segnalava l’ultimo minuto, lanciò il magnete in aria.
«Miraculous Coccinelle!» urlò e con quel potere tornò tutto com’era prima della battaglia, anche la ferita del cocchiere, che rimase però svenuto di fianco alla carrozza, sembrava essere svanita.
«Qui ci penso io. Vai, prima che di ritrasformarti.» disse l’eroe in nero.
«Grazie...» rispose lei.
Rimase qualche secondo ancora ferma guardandolo intensamente negli occhi e, in quel breve lasso di tempo, gli sembrò di guardare la giovane Ponthieu. Ebbe appena il tempo di fare quel pensiero che l’eroina in rosso si avvicinò a lui con due passi e, poggiando le labbra sulle sue, gli rubò un bacio fugace, prima di voltarsi e allontanarsi, sparendo dietro l’angolo.
Si portò la mano guantata alla bocca stupito, conosceva bene i sentimenti che Coccinelle provava per lui, ma mai si sarebbe aspettato che fosse così intraprendente da baciarlo. La cosa che lo stupiva di più, però, era ciò che aveva provato a quel dolce e lieve bacio a stampo. Forse era stato per colpa di quegli occhi così simili a quelli di Juliette, forse perché lei era riuscita, con il suo amore, a trasmettergli tutta la sua passione, oppure era semplicemente perché ormai a forza di combattere al suo fianco aveva anche lui cominciato a provare dei sentimenti nei suoi confronti che fino ad allora non aveva riconosciuto. 
Una cosa però era certa, quel bacio aveva risvegliato in lui la stessa sensazione travolgente che aveva provato baciando la giovane Ponthieu.

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Capitolo 7
*** La voluttà ***


La voluttà
13 Maggio 1789

Juliette era nei suoi appartamenti, aveva appena indossato degli abiti più comodi e si era messa a leggere.
«Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre. Beato vive quel cornuto il quale, conscio della sua sorte, non ama la donna che lo tradisce: ma oh, come conta i minuti della sua dannazione chi ama e sospetta; sospetta e si strugge d’amore!»
Aveva preso l’abitudine di leggere ad alta voce, in modo che potesse ascoltare anche Tikki, che solitamente si sedeva comodamente sulla sua spalla. Andava matta per i romanzi di Shakespeare e quello era uno dei suoi preferiti in assoluto.
All’improvviso qualcuno bussò alla porta dei suoi appartamenti: la piccola kwami rossa si tuffò nelle pieghe del suo abito color blu notte e lei si mise più composta sulla poltrona su cui era seduta, prima di invitare ad entrare la giovane cameriera che subito dopo fece il suo ingresso nella stanza. Aveva dipinta in volto un’espressione tra il dubbioso e il preoccupato.
«Cosa succede, Marie?» chiese, leggermente stupita.
«C’è un ospite per voi, mademoiselle.» rispose la domestica educatamente.
«Un ospite? A quest’ora?» domandò di nuovo lei, più a se stessa che alla sua interlocutrice, chiudendo il romanzo e poggiandolo sulla poltrona da cui si era alzata.
La giovane domestica dai capelli color biondo cenere, raccolti in una stretta crocchia, fece un cenno con la testa per poi spiegarsi meglio.
«Dice di conoscervi e che sarebbe potuto venire solo questa sera.»
«Bene, allora fallo entrare.» comandò la giovane.
«Come vuole lei.» disse, sparendo dalla visuale oltre la porta, dando la possibilità a Tikki di cambiare nascondiglio e andare nel solito cassetto.
Poco dopo la giovane domestica tornò scortando l’ospite e non appena lo vide apparire rimase impietrita, riuscendo a malapena a pronunciare il suo nome.
«Chat... Chat Noir?»
«Bonsoir, mademoiselle Ponthieu.» salutò con un inchino molto educato l’eroe in nero.
«Cosa… Come mai si trova qui?» chiese, sentendo le sue guance diventare incandescenti.
«Potremmo rimanere da soli?»
«Certo… Marie, puoi andare.» ordinò alla domestica tentando di apparire il più autoritaria e rassicurante possibile.
La cameriera con un inchino si congedò, chiudendo la porta, subito dopo l’eroe gatto mise la sua mano guantata sulla chiave, inserita nella serratura, ruotandola e chiudendola completamente, per poi rivolgere nuovamente tutte le attenzioni a lei. 
Non l’aveva mai visto così: suoi occhi felini, sotto la maschera nera, la guardavano in un modo che le metteva i brividi, quasi voglioso, come volessero riuscire a vedere attraverso il suo polonaise e la cosa la imbarazzava ed eccitava allo stesso tempo.
«Credo proprio che mi dovete qualche spiegazione, mademoiselle.» disse tranquillamente, avvicinandosi pericolosamente a lei.
«Spiegazione?» chiese dubbiosa.
«Qualche ora fa, quando sono accorso a salvare voi e mademoiselle Blanchard, mi avete chiamato per nome, allo stesso modo di come avete fatto poco fa...» a quella spiegazione la ragazza rimase zitta, anche perché non aveva molte scusanti. Quando aveva pronunciato il suo nome, entrambe le volte, l’aveva fatto istintivamente, senza pensare alle conseguenze, inoltre come poteva immaginare che lui sarebbe subito venuto a cercarla.
«Eppure noi non ci siamo mai incontrati, – proseguì lui avvicinandosi ancora, tanto che lei iniziò a indietreggiare – o forse, invece, ci conosciamo bene... Coccinelle.» a sentir pronunciare il suo nome da eroina, la ragazza impallidì, sgranando gli occhi. Tikki, quando gli era apparsa per la prima volta, l’aveva avvisata: nessuno doveva sapere del suo segreto o conoscere la sua doppia identità. Non sapeva se quell’avvertimento valeva anche tra loro due, ma in fondo, quando mesi prima avevano combattuto per la prima volta insieme, di tacito accordo avevano deciso di non rivelarsele nemmeno a vicenda.
Ancora scioccata da quella scoperta del compagno, cercò di smentire tutto, con scarsi risultati.
«Cosa…? No io…»
«Non dirmi bugie. Solo tu puoi conoscere il mio nome da eroe, lo sai solo tu. Inoltre… – la ragazza sbatté inesorabilmente contro la toilette, quando ormai lui era a pochi centimetri da lei, tanto da poter percepire quasi suo respiro – non potrei scordarmi dei tuoi occhi neanche se volessi.»
Juliette sentiva il cuore accelerare il battito, mentre lui, così vicino da poter sentire il calore del suo corpo, teneva gli occhi incollati su di lei. Aveva lo sguardo serio ammaliato di chi stesse guardando l’essere più bello al mondo. Era possibile che finalmente il suo amore per Chat Noir fosse corrisposto?
«Io non capisco… Cosa…? Insomma io non dovrei rivelare…» non riuscì a finire la frase.
In un attimo si buttò sulle sue labbra in modo da zittire i suoi balbettii confusi, proprio come aveva fatto una settimana prima, consapevole però che questa volta lei non si sarebbe sottratta. Le trovò nuovamente morbide e incantevoli, proprio come la prima volta che le aveva assaporate, ma invece che staccarsi com’era accaduto con Arno, la sentì solamente sussurrare a fior di labbra il suo nome, con voce tremante.
A quella sua leggera e inutile supplica lui posò una mano nell’incavo della sua schiena, intensificando il bacio. Percepì le sue labbra seguire confuse i suoi movimenti e adattarsi alle sue. Era completamente abbandonata a lui, come se non riuscisse più a controllare i suoi sentimenti. Percepiva il suo corpo perfetto diventare incandescente al suo tocco e si rese conto che nemmeno lui avrebbe resistito un momento di più.
Con una destrezza inaudita, frutto anche della sua esperienza in quell’ambito, slegò i lacci che sorreggevano quel semplice ed elegante polonaise blu notte, che per carità le stava d’incanto, ma in quel momento copriva l’unica cosa che voleva vedere davvero.
L’abito scivolò ai suoi piedi, lasciandola in sottoveste, mentre lei, con mani tremanti e inesperte cercava di togliergli la giacca e la camicia nera che componevano il suo abito da eroe parigino. Decise di darle una mano, togliendosi uno dei guanti, l’unico che poteva senza sfilarsi anche l’anello che manteneva la trasformazione, assime agli altri indumenti che lei stava tentando di eliminare.
Juliette rimase per un attimo incantata da quei pettorali perfetti, fino a che Chat Noir non la catturò di nuovo con le sue labbra. Poi, con le sue dita agili, iniziò velocemente a sbottonare la sua sottoveste, fino a che anche quella non cadde inesorabilmente a terra, lasciandola completamente nuda. La ragazza, presa da un moto di pudore sì coprì le nudità, rossa in viso e imbarazzata. Lui la guardò con una nota di tenerezza e con gesti delicati, ma lo stesso tempo autoritari, le prese polsi portandoli al suo collo, per poi riprendere a baciarla.
Con una facilità e un’eleganza inaudita, la sollevò e la fece sdraiare sul letto, prima di raggiungerla eliminò il resto degli abiti che aveva ancora addosso, ad eccezione fatta ovviamente della maschera e del guanto con l’anello.
Non appena fu con lei la sua mano cercò subito la sua coscia, percorrendola in tutta la sua lunghezza, salendo fino al fianco. Sentiva il corpo della giovane ormai febbricitante sotto il suo tocco. Deciso ad assaporare ancora di più quella sensazione, aggiunse anche le labbra. Iniziò così a baciarle la pelle candida, senza risparmiare nemmeno un millimetro del suo corpo.
Preso dalla passione, tra un bacio e l’altro, con voce roca e profonda, Chat Noir ripeteva il suo nome, mentre lei rimaneva inerme, in completa estasi. In realtà il problema era che non sapeva cosa doveva fare, come doveva comportarsi. Era la sua prima volta e tutto quello che riusciva a percepire era una voglia sfrenata che tutto quello non finisse mai. Lui, invece, sapeva esattamente come muoversi, la sua esperienza era evidente e più lei si accaldava, più lui sembrava accorgersene e intensificava i baci e le carezze.
Juliette gli strinse più saldamente le braccia al collo, dandogli l’incentivo per agire: con una mossa rapida e inaspettata portò la ragazza completamente sotto di sé. Quel pudore, tornò prepotente e chiuse d’istinto le gambe: ci vollero parecchie carezze e sussurri, prima che lei, ancora tremante, permise alle sue ginocchia di seguire le mani di lui poggiate su di esse e fare così in modo che le gambe si riaprissero.
In un attimo percepì una sensazione di dolore, che le fece scivolare una lacrima, una singola lacrima, sulla guancia. Lui la raccolse, quasi come fosse un dono prezioso, dopodiché il dolore sparì lasciando solamente una grande sensazione di pienezza. Come se fosse sicura al cento per cento che quell’uomo sopra di lei, o dentro di lei, che si muoveva con esperienza e quella che sembrava quasi soddisfazione, la potesse completare, chiunque egli fosse.

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Capitolo 8
*** Il maggiore ***


Il maggiore
 
14 Maggio 1789

Arno aprì gli occhi ancora insonnoliti, dovette sbattere un paio di volte le palpebre prima di riuscire a mettere a fuoco la stupenda ragazza di fianco a lui. I suoi capelli castani e fluenti, che la sera prima aveva sciolto lui stesso, erano sparsi sul cuscino bianco e, ora che il sole mattutino entrava dalle finestre e illuminava in modo particolare la stanza, notava dei riflessi rossicci in essi. Riusciva a vedere distintamente le sagome piene e sinuose del suo corpo nudo sotto le lenzuola candide e dovette trattenersi con tutte le sue forze dal desiderio di svegliarla ricoprendola di baci, per poi riprendere ciò che aveva fatto la sera prima e rifarla così sua, ma non poteva. 
Non poteva rimanere lì, nonostante il suo cuore lo volesse disperatamente. Sentiva il peso e il fastidio della maschera di Chat Noir che, sorretta dal potere di Plagg, gli copriva ancora il viso e che aveva tenuto praticamente tutta la notte. Doveva assolutamente tornare al più presto a Sèvres, non solo perché doveva presentarsi alla sede per avere gli ordini della giornata, come ogni mattina, ma anche per Plagg, aveva bisogno di riposarsi e recuperare le energie, perché pur non avendo usato il suo potere speciale, sapeva che tenere attiva la trasformazione per tutta la notte era stancante comunque per il piccolo kwami.
Si diresse verso la piccola zona lettura e studio, ancora privo di vestiti e cercò un pezzo di pergamena sul tavolo che si trovava quasi di fronte alla libreria degli ampi appartamenti della giovane donna. Dopo averlo trovato afferrò una piuma d’oca, la intinse nella boccetta d'’nchiostro e con mano sicura e veloce, scrisse un paio di righe firmandosi.
Quando ebbe finito poggiò il foglietto sul comodino della ragazza e recuperò i suoi vestiti scuri, indossandoli velocemente. Non appena fu di nuovo completamente vestito di tutto punto le dedicò un ultimo sguardo, mentre lei, probabilmente in preda a qualche dolce sogno si muoveva un po’ sotto le lenzuola. A quei movimenti innocenti l’eroe del gatto nero sorrise, quasi soddisfatto, come se fosse sicuro che stesse sognando proprio lui. Dopodiché si diresse verso il balconcino, aprì le ante e con un balzo, tipico dei felini, si appollaiò sulla ringhiera.
La sera prima aveva legato il suo cavallo proprio sotto quel balcone in modo che se ne sarebbe potuto andare in qualsiasi momento. Saltò giù finendo perfettamente in sella al destriero, poi slegò velocemente la fune che lo teneva ancora legato al palo e con due colpi decisi di tacco gli ordinò di partire. 
Arrivò a Sèvres in perfetto orario e, dopo aver lasciato il cavallo ad abbeverarsi e riposarsi nelle stalle, entrò nell’edificio, non prima di rilasciare la trasformazione di Chat Noir e tornare ad essere solamente il capitano dei moschettieri del re.
«Questo si chiama sfruttamento di kwami...» brontolò il piccolo gatto nero, rifugiandosi nella sua giacca rossa.
«Perdonami Plagg, – chiese scusa lui – ti prometto che più tardi ti farò avere una razione doppia di camembert.»
«È il minimo.» lo sentì rispondere all’altezza del suo petto, facendogli scappare un sorriso divertito.
Forse aveva offeso il piccolo spirito della sfortuna che lo accompagnava da ormai tre mesi, ma sapeva esattamente come imbonirlo, inoltre era troppo contento di quello che era accaduto quella notte per potersi infastidire o preoccupare di qualsiasi altra cosa. Era più che sicuro che quel giorno nulla e nessuno gli avrebbe tolto quel sorriso soddisfatto dalle labbra.
Si accorse ben presto, però, di quanto si sbagliava: non ebbe nemmeno il tempo di dirigersi nel suo alloggio e lasciare Plagg libero di riposarsi e rifocillarsi, che vide uno dei suoi sottoposti correre verso di lui trafelato. Gli si fermò davanti, porgendogli rispettosamente il saluto militare.
«Capitano.»
«Qual è il problema Johan?» chiese.
«Il maggiore Pierre è rientrato ieri sera e vuole vederla.» disse tutto d’un fiato il soldato.
A quella notizia Arno impallidì, quasi sapesse già quale sonora ramanzina lo aspettava nel presentarsi davanti al maggiore. Fosse stato un qualsiasi suo superiore non avrebbe avuto problemi: perché, in fin dei conti, nessun membro della guardia era obbligato a rivelare i suoi fatti privati, come d’altro canto nessun membro aveva il diritto di saperli, ma lui era suo padre.
Arno fece un grosso respiro, riprese una postura il più seria e autoritaria possibile e, superando il soldato che l’aveva avvisato, si diresse nella stanza in cui era sicuro l’avrebbe trovato.
Bussò educatamente alla porta, per poi aprirla.
«Voleva vedermi, maggiore?»
Era di spalle, le mani dietro la schiena , intento ad osservare la mappa che rappresentava tutta la loro giurisdizione, cioè da Versailles fino a Parigi.
«Chiudi la porta.» disse perentorio e il ragazzo ubbidì all’istante.
Ci fu ancora qualche secondo di silenzio, poi l’uomo riprese a parlare.
«Dove sei stato questa notte?» chiese con quel suo irritante tono autoritario.
«Ieri, dopo che ho lasciato sua maestà, è sorta un emergenza a Parigi e...»
«Non dire idiozie! Vuoi dirmi che questa emergenza è durata tutta la notte?» chiese voltandosi e Arno fu trafitto da quello sguardo: gli occhi del padre erano molto simili ai suoi, ma più freddi e severi.
«Io...»
«Arno, sono stanco delle tue bravate. Sei un capitano ormai, da più di un anno, eppure ti comporti ancora come se fossi un semplice soldato, ignorando le tue responsabilità.»
«Non è affatto vero, – cercò di replicare lui – io ero...»
«Ti rendi conto che in tutta la Francia ti è stato dato il soprannome del donnaiolo di Versialles?»
«Ma padre... – iniziò, ricevendo uno sguardo furioso e se possibile ancora più autoritario – maggiore... Sono solo voci.»
«No, non è vero. Lo sai bene e lo sanno anche i tuoi sottoposti. Con quale criterio pensi che ti prenderanno seriamente quando sono a conoscenza del fatto che ogni festa a Versailles, invece di fare il tuo lavoro o comportarti a modo, ti scopi una donna diversa?»
Per un attimo gli sembrò che il cuore avesse smesso di battere: sentirsi dire quelle cose da suo padre, nonostante non l’avesse mai sopportato, lo feriva profondamente.
«Ha altro da dirmi, maggiore?» chiese cercando di controllare un minimo la voce.
«No... puoi andare.» lo congedò lui, tornando ad osservare la mappa.
Dopo quella discussione con il padre il giovane capitano andò direttamente nel suo alloggio senza rivolgere nemmeno uno sguardo a chiunque lo incrociasse. Non appena fu dentro si chiuse la porta alle spalle e Plagg uscì dal suo nascondiglio, sotto la giacca rossa, per poi tuffarsi verso il solito vassoio sulla cassapanca, sempre ben fornito del suo adorato formaggio maleodorante.
«Tuo padre non è cambiato di una virgola, – disse prendendo un triangolino di camembert e ficcandoselo tutto in bocca – un mese e mezzo che non lo vedo e mi sta sulle scatole come allora.»
Il ragazzo sospirò, buttandosi sul letto.
«Già... Poi da quando non c’è più mia madre che lo riesce a calmare, sembra sempre più irascibile.»
Il piccolo spirito nero mangiò un altro pezzo di formaggio, prima di riprendere a parlare.
«Ma è possibile che nessuno di voi due è mai andato a trovarla? Insomma, fa la domestica a Parigi, non è mica morta.»
«Già peccato che solo mio padre sa per quale famiglia lavora e dove, e si dà il caso che non me l’ha mai voluto dire.»
«Perché?» chiese curioso il kwami, guardandolo con i suoi occhi verdi e felini.
«Dice che il mio rapporto con lei m’intenerisce troppo...» rispose lui, andando con la mente a sua madre: la vide quasi distintamente davanti a lui, con i suoi fluenti capelli corvini e gli occhi color del cioccolato.

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Capitolo 9
*** Il consiglio ***


Il consiglio
 
14-16 Maggio 1789

Juliette aveva appena indossato la sua vestaglia di seta rosa e aveva già chiamato le domestiche con il campanello che teneva sempre sul comodino, quando notò qualcos’altro sul mobile. Allungò la mano, afferrando quel pezzetto di pergamena che, era sicura, veniva dal suo tavolo da studio: sopra vi erano scritte poche righe, ma le parevano talmente intense da farle battere il cuore.
Sapevo che prima o poi sarei riuscito a svelare la vera te, ma mai avrei pensato sarebbe stato così indimenticabile.
Spero riusciremo a rivederci, anzi ti aspetto tra due giorni all’evento che ci sarà a Versailles.
Spero ci sarai,
Chat Noir.
Aveva appena finito di leggere quando sentì bussare alla porta, ancora assorta da quelle poche semplici righe, invitò ad entrare chiunque fosse tenendo sempre lo sguardo puntato su quel foglietto.
Si riscosse da quei dolci pensieri solo quando sentì la voce sconvolta di Marie che tratteneva il respiro. Per un attimo ebbe paura che avesse visto Tikki, ma voltandosi si accorse che la piccola kwami rossa non era da nessuna parte.
«L’ha ferita, mademoiselle?» chiese, ancora con quel tono scosso.
«Ferita?» domandò confusa Juliette.
In quel momento la giovane donna si accorse della macchia vermiglia, fin troppo evidente, sulle lenzuola candide.
«Oh cielo!» esclamò l’altra domestica che, arrivata assieme a quella bionda, la scostò ed entrò nella stanza.
«Io…» la giovane nobildonna non sapeva come spiegarsi o che scusa inventarsi.
«Marie, qui ci penso io e guai a te se ne fai parola con il padrone.» ordinò la domestica più matura.
«Sì madame.» rispose lei facendo un leggero inchino e chiudendosi la porta alle spalle, lasciandole da sole.
«Dovrebbe stare più attenta a certe cose, mademoiselle.» disse con tono divertito, ma sempre molto referenziale, la domestica.
«Francine, ti prego, non dirlo a nessuno…» chiese la ragazza imbarazzata, come se dovesse chiedere qualcosa a una domestica e non le bastasse semplicemente ordinarglielo.
Il fatto era che Francine per lei era quasi come una madre, da quando la sua vera genitrice se n’era andata, quando aveva si è no quindici anni, lei ne aveva preso il suo posto. Le era sempre stata vicina in qualsiasi situazione, anche e soprattutto quando suo padre non poteva.
Aveva dei bellissimi e lucidi capelli corvini, sempre stretti nella crocchia, tipica delle domestiche, e un paio di occhi castano scuro.
«A chi dovrei dirlo, mademoiselle… – chiese, quasi fosse una domanda retorica, mentre toglieva le lenzuola macchiate dal letto – Spero almeno che sia stata un’esperienza piacevole.» continuò.
«La notte più bella e indimenticabile della mia vita.» rispose lei, tornando con il pensiero al giovane eroe parigino.
La domestica sorrise, addolcita dalle parole sincere e innocenti della ragazza, come se si fosse resa conto di quanto fosse cresciuta e di quanto fosse diventata donna, mentre lei se la ricordava ancora alquanto giovane e indifesa, ma soprattutto ingenua e sognatrice per quanto riguardava l’amore. Mentre ora sembrava aver trovato la sua anima gemella.
«Immagino lo rivedrete.» disse, quasi stesse pensando ad alta voce, mentre con dei colpi decisi stendeva le nuove lenzuola sul materasso.
«Sì, mi ha dato appuntamento alla prossima festa di Versailles.» rispose sempre con quel tono entusiasta.
«Beh, allora si dovrà preparare al meglio. E le consiglio di non portarsi dietro mademoiselle Blanchard, perché finirebbe per voler farle da balia, mentre immagino voi vorrete stare soli.» disse tutto d’un fiato voltandosi finalmente verso di lei.
«Francine, secondo te ho fatto bene? Insomma, mi posso fidare?» chiese poi Juliette, non sembrava aver perso l’euforia del momento, ma in qualche modo voleva essere sicura che quella sua prima volta non fosse stato uno sbaglio.
«Mademoiselle, non posso certo dirglielo io. A giudicare da quello che ho visto, questo giovanotto era molto elegante e a modo, nonostante la maschera che gli copriva il volto e che onestamente credo dia un fascino in più all’intera vicenda. Però, nonostante quello che penso io, è lei a conoscerlo e ad essersene invaghita, quindi sta a lei decidere se ha fatto la cosa giusta o no. Inoltre, mi permetta di dirle che non è assolutamente una sciocca, se ha accettato le avances di questo ragazzo e perché è innamorata e dell’amore ci si può sempre fidare.»
Le disse tutto con il sorriso sulle labbra, facendola rassicurare completamente dai pochi dubbi che aveva. Tanto che i due giorni di attesa per rivederlo, passarono molto lentamente, anzi forse anche troppo. Non aveva nemmeno avuto la possibilità di vedere l’eroe gatto durante le loro solite missioni in difesa di Parigi, perché fortunatamente Comt Ténèbre sembrava non avere nessuna intenzione di attaccare in quei giorni. Perciò, quando arrivò il giorno del ricevimento a Versailles, era talmente euforica che persino suo padre si accorse di quell’improvviso e inaspettato entusiasmo.
«Come mai ultimamente vai volentieri agli eventi organizzati dal re?» le chiese, mentre lei, già pronta, era andata a dargli i suoi saluti e a dirgli che avrebbe fatto tardi quella sera.
«Sto cercando di godermi un po’ di più la vita mondana.» gli rispose semplicemente.
Persino il tragitto in carrozza le sembrò lungo, nonostante la compagnia di Tikki che, da dentro la sua borsetta, facendo capolino con la testolina rossa, chiacchierò con lei tutto il tempo.
Non sapeva nemmeno dove si sarebbero visti esattamente: forse si sarebbe avvicinato a lei senza maschera, presentandosi per la prima volta a lei.
Entrò decisa nella reggia, ignorando completamente la gente che la circondava, o meglio, si guardava attentamente attorno nel tentativo e nella speranza di trovare o incrociare il suo sguardo, mentre la sua testa escludeva disinteressata tutte le discussioni e i pettegolezzi che non le importavano.
Si diresse tranquillamente vicino ai musici, in modo che lui la potesse trovare. In fondo quale posizione migliore se non quella su cui gli occhi di tutti erano puntati.

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Capitolo 10
*** La delusione ***


La delusione
 
16 Maggio 1789

Arno la stava osservando da ormai una buona mezz’ora, forse anche di più: la vedeva lì, nello stesso punto dove l’aveva incontrata la prima volta, come se, inconsciamente, pur non sapendo che la persona che avrebbe dovuto incontrare era lui, si fosse piazzata vicino al piccolo complesso apposta.
Eppure al contrario dell’ultima volta, in cui si guardava intorno con aria superiore e forse anche un po’ annoiata, questa volta era arrivata con un’espressione quasi meravigliata, come fosse carica di aspettative. Aveva visto nei suoi occhi la speranza di vederlo e la gioia di immaginare come sarebbe stato.
Ora però, man mano che il tempo passava iniziava a veder sparire tutto quanto. La sua espressione di trepidante attesa stava mutando in sconsolata delusione, il suo sguardo acceso e speranzoso era diventato triste e dispiaciuto, il suo stupendo sorriso era completamente sparito.
Tutto questo solamente per colpa sua. Lei aspettava lui, o meglio il suo alter ego, lo stava cercando con gli occhi per tutta la sala, quasi disperatamente e lui invece se ne stava lì immobile, guardandola, con al fianco suo padre che, impettito e con quell’aria costantemente severa, scrutava l’intera sala.
Il giovane capitano aveva pregato il padre di lasciarlo andare da solo, come d’altronde aveva sempre fatto, promettendogli di fare bene il suo dovere, ma il maggiore Pierre non aveva voluto sentir ragione: non avrebbe permesso al figlio d’infangare il buon nome della loro famiglia. Aveva deciso quindi di seguirlo, per tenerlo d’occhio e, molto probabilmente, impedirgli di fare ciò per cui era conosciuto in tutta Parigi e dintorni. Questo perciò gli impediva assolutamente di avvicinarsi a Juliette o a qualsiasi altra nobildonna si trovasse nella sala, facendolo sentire sempre più a disagio.
Non era da lui rimanere tranquillo e in disparte in un angolino, anzi era sicuro che quel suo comportamento avrebbe fatto più scalpore rispetto a ciò che faceva normalmente. Già immaginava i pettegolezzi e le voci che sarebbero girate sull’aitante e giovane capitano, conosciuto come il donnaiolo di Versailles, nonché un uomo di mondo sempre pronto a intavolare una conversazione con chiunque, e che per quella festa era stato fermo come un ameba, come un bravo soldatino ubbidiente di fianco al superiore.
Nonostante tutto però, lui non era preoccupato di tutto quello che ne sarebbe scaturito, in fondo non gli era mai importato prima, figurarsi adesso. Quello che gli faceva più male era vederla sempre più triste e delusa: era qualcosa che davvero non riusciva a sopportare. Non ne sapeva il motivo, insomma si era trovato parecchie volte a deludere una donna e non si era mai fatto nessun problema, al massimo si sentiva in colpa per un paio di giorni, dopodiché già se ne dimenticava. Ora però gli era come impossibile. Conosceva Juliette solamente da un paio di settimane, anzi no, da di più, lo sapeva bene ormai, la conosceva da più di tre mesi sotto i panni della sua compagna Coccinelle e in quel, comunque breve, lasso di tempo si era affezionato a lei più di quanto pensasse. Non sapeva nemmeno come descrivere il dolore che provava nel vederla in quello stato, consapevole che la colpa era soltanto sua.
Al diavolo. Che cos’era che lo teneva ancora lì? Con i piedi incollati al pavimento, incapaci di muoversi e portarlo da lei; cosa lo fermava dal raggiungerla e consolarla, rassicurarla, dirle che lui era lì, che era sempre stato lì. Cosa? Chi? Suo padre? Di cosa aveva paura? Di deluderlo? L’aveva già fatto fin troppe volte, una in più non avrebbe fatto la differenza. Del provvedimento che avrebbe preso alla fine della serata? Sarebbe stato capace di sospenderlo dal suo ruolo di capitano se solo avesse voluto, ma già sapeva che in un modo o nell’altro, con l’aiuto dei suoi soldati, sarebbe riuscito a non rispettare gli ordini. Seriamente, per quale motivo era ancora lì? Forse aveva paura di qualcos’altro, forse la sua paura era quella di mostrare a suo padre l’ennesimo punto debole, rischiando così che anche Juliette, come sua madre, sparisse per mano sua, per fare in modo che lui rimanesse solo e soltanto il valoroso capitano della guardia scelta del re, senza distrazioni di alcun genere.
Non appena la vide fare l’ennesimo sospiro prese la sua decisione: non poteva stare lì, non più, non gli importava delle conseguenze, lei e la sua felicità erano più importanti.
Iniziò a muovere i primi passi e sentì la voce di suo padre tuonargli alle spalle, come se nel pronunciare il suo nome avesse sovrastato il vociare e la musica, anche se sapeva benissimo che non era stato così.
Si voltò di nuovo verso di lui, assumendo un’aria il più tranquilla e disinvolta possibile, ma anche rassicurante e ubbidiente, come se gli stesse promettendo che non avrebbe fatto nulla di sconveniente.
«Mi congedo un attimo maggiore, è una faccenda importante.» disse, dopodiché gli diede nuovamente le spalle e, facendosi largo tra i vari partecipanti al ricevimento, la raggiunse.
«Bonsoir mademoiselle Ponthieu.» lei si voltò verso di lui, ancora con quell’aria afflitta, tanto che ebbe l’impressione che stesse per piangere da un momento all’altro.
«Ah... Siete voi capitano.» il tono che aveva usato per dire quelle parole era come le parole stesse, freddo, deluso, distaccato, tanto che gli fecero quasi male: lei non era lì per lui, non era lui che sperava di vedere, lei aspettava Chat Noir.
Ingoiò il sapore amaro di quella realtà e tirò fuori il suo miglior sorriso.
«Aspettavate qualcuno?» chiese, facendo il finto tonto.
«Ha detto bene, aspettavo... Ormai credo proprio non verrà.» rispose lei, sempre con quel tono afflitto che non dava affatto merito al suo carattere forte e determinato.
«Juliette non...» iniziò, osando chiamarla per nome.
«Mi perdoni capitano, non sono affatto in vena di fare conversazione.» detto questo si allontanò di nuovo da lui, che la seguì con lo sguardo fino a che non la vide sparire oltre una porta che conduceva nei salottini e negli studi adiacenti, probabilmente per cercare un posto più appartato per stare da sola e, magari, piangere. Il solo pensiero di saperla in lacrime gli stringeva il cuore.
Glielo doveva assolutamente dire. O adesso o mai più.

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Capitolo 11
*** Lo spavento ***


Lo spavento
 
16 Maggio 1789

Juliette si era allontanata dalla sala principale della reggia, in cui imperversavano ancora le danze. Dovette attraversare parecchie stanze e salottini, in cui si erano appartate a chiacchierare altrettante persone, prima di trovare una saletta in cui poter stare da sola e, solo a quel punto si sedette sul divanetto blu con un sospiro. 
Non poteva crederci, ci era cascata come una stupida. Cosa si aspettava? Che Chat Noir fosse venuto al ricevimento con il suo completo nero e la maschera? Se già Marie a casa sua l’aveva subito scambiato per un poco di buono al solo osservarlo cosa avrebbe pensato la corte radunata a quella festa, niente di meno che alla reggia del re. D’altro canto non poteva nemmeno pretendere che si presentasse da lei in borghese, rivelandole così la sua vera identità. In fondo era stata lei la sciocca che aveva fatto quell’errore, rivelandogli inconsciamente che era Coccinelle.
Fece l’ennesimo sospiro, appoggiando la schiena contro la spalliera del divanetto e abbassando le palpebre.
«Come mai tutta sola mademoiselle? – sentì all’improvviso, aprì gli occhi e si voltò verso la porta, su cui alla soglia stava colui che aveva parlato – Perdonatemi se vi ho seguita fino a qui, ma mi era sembrata parecchio triste durante la festa.»
La ragazza lo guardò senza parole: il corpo slanciato e robusto sotto il completo elegante di seta blu, conosceva bene quel giovane uomo.
«Bonsoir monsier Grandprè.» lo salutò educatamente lei, mettendosi in piedi e facendo una leggera riverenza in segno di rispetto.
«Passano i giorni e voi diventate sempre più bella!» disse avvicinandosi a lei.
«La ringrazio...» rispose ancora dubbiosa.
Il giovane conte Grandprè era un uomo parecchio borioso e pieno di se, sempre pronto a mettersi in mostra e più di una volta, nei pochi ricevimenti di gala in cui l’aveva incrociato, questi l’aveva sempre avvicinata con fare molto insistente e lascivo.
«Gira voce che avete finalmente ceduto alla vita mondana.» continuò lui, avvicinandosi ancora e facendola indietreggiare di un paio di passi.
«Monsieur Grandprè, con esattezza, cosa volete?» chiese riprendendo quel tono superiore e autoritario che la caratterizza.
«Semplice mademoiselle Ponthieu. Ormai è diventata una donna, una donna attraente e stupenda ed io voglio la sua mano.» disse raggiungendola e prendendole i fianchi.
La ragazza si scostò di nuovo irritata.
«Se lo può scordare… Credo di averle detto più di una volta che non accadrà mai.» disse usando lo stesso tono stizzito dei suoi gesti.
«State facendo un torto a vostro padre mademoiselle. Sono sicuro che lui la vorrebbe vedere sistemata e quale miglior consorte di un conte che ha anche il favore del re?» insisté lui.
«Credo di conoscere abbastanza bene mio padre e sono più che sicura che non mi vorrebbe vedere tra le sue braccia.»
Il conte però sembrò non preoccuparsi nemmeno di quella risposta. Juliette vide nel suo sguardo la determinazione di chi non avrebbe mai accettato un no come risposta e la perversione di chi aveva puntato gli occhi su qualcosa che voleva assolutamente. Dopodiché, con un movimento improvvisamente veloce, la afferrò di nuovo per la vita voltandola, in modo che la sua schiena aderisse al suo petto possente.
«Voglio proprio vedere come potrete rifiutarvi di prendermi in sposo dopo che mi sarò preso la vostra illibatezza.» disse con voce orribilmente roca e lasciva, per poi leccarle voracemente il collo, lasciandole una scia umida sulla pelle.
«Co-conte voi...» non riusciva a parlare: il suo coraggio e la sua tenacia erano stati completamente annullati da quel forte e morboso abbraccio. Rimaneva inerme e tremante, completamente terrorizzata da quello che sarebbe successo, perché sapeva bene cosa sarebbe successo.
«Siete ancora più bella quando siete spaventata...» continuava lui con quel tono eccitato che le faceva venire i brividi.
«Conte mi lasci andare...» cercò di protestare lei, dimenandosi, ma l’uomo non voleva sentire ragioni.
«Che ne dite di farmi un po’ vedere cosa c’è sotto questo bell’abito color ocra?» a quelle parole l'uomo prese il coltello dalla cintura e lo infilò tra i cordoncini del corsetto che componeva il suo adrienne.
Sentiva già le lacrime pungergli gli occhi nel tentativo di uscire, quando all’improvviso un’altra voce attirò l’attenzione di entrambi.
«La lasci andare, conte!»
L’uomo si voltò tenendola ancora stretta e, nonostante tutto: nonostante la paura, nonostante l’amarezza per non aver incontrato Chat Noir, nonostante il modo scortese con cui l’aveva trattato poco prima, era contenta di vedere lui alla soglia di quella porta.
«Oh guardate chi c’è mademoiselle, il puttaniere di Versailles. – disse mettendole il coltello proprio sotto il mento e premendoglielo sul collo – Come mai qui capitano, le altre donne non sono più di vostro gusto? Mi spiace questa dolcezza e soltanto mia...»
Juliette lo sentì intensificare la presa su di lei e percepì la sua mano sudicia infilarsi tra i lacci che poco prima aveva lacerato, per poi toccarle il seno, mentre l’altra mano le teneva ancora il coltello premuto in gola.
«Capitano, aiutatemi...» tentò di dire, con una voce che non sembrava nemmeno più la sua e gli occhi colmi di lacrime che ancora tentava di trattenere.
L’uomo però la zittì con un verso, giocando con la lama sul suo collo, facendoglielo sentire sulla pelle, senza però ferirla.
«Fai la brava bimba, qui stanno parlando gli uomini...» la minacciò, quasi come se stesse seriamente rimproverando una bambina disubbidiente.
Arno, a quell’ennesimo insulto alla ragazza, digrignò i denti dalla rabbia.
Ovviamente, rendendosi immediatamente conto della situazione aveva estratto la spada molto prima d’intervenire, ma sapeva bene che in quella situazione non poteva muoversi senza mettere in pericolo la sua amata: gli bastava un passo falso e l’avrebbe persa per sempre.
All’improvviso però vide la soluzione e, mai come allora, fu grato d’incrociare quegli occhi di ghiaccio che lui aveva ereditato. Ora però aveva ancora una cosa da fare, distrarre l’uomo in modo che suo padre lo potesse prendere alle spalle senza essere scoperto.
Chiuse un attimo gli occhi, giusto un secondo, per riprendere la concentrazione, poi rivolse un sorriso a Juliette come per rassicurarla che presto sarebbe finito tutto.
«Quindi è vostra? Immagino perciò che voi l’abbiate già provata...»
«Non ancora. – rispose il conte – La signorina è parecchio agguerrita, ma sono sicuro che non appena riuscirò a metterla in riga mi farà divertire par...» non riuscì a finire la frase perché all’improvviso sentì l’estremità della lama di una spada puntargli la schiena.
«La lasci andare, immediatamente...» gli disse una voce talmente autoritaria e glaciale da far venire i brividi.
Non appena lasciò la presa su di lei, Juliette corse tra le braccia del capitano Pierre che subito la strinse in segno di protezione e le sussurrò dolcemente all’orecchio.
«Tranquilla Juliette... È tutto finito... Va tutto bene.» le diceva, mentre percepiva il suo corpo tremare per la tensione che aveva accumulato fino a poco prima e che ora pian piano stava svanendo.
«Conte Jean Grandpré, lei è in stato di arresto per tentato stupro nei confronti di mademoiselle Ponthieu, sarà messo sotto giudizio della corte e del re.» disse il maggiore Pierre, prendendo i polsi dell’uomo e tenendoglieli saldamente dietro la schiena. Lui però non si scompose più di tanto, continuando a fissare, con quei suoi freddi occhi scuri, Arno.
«Avete spezzato il cuore a mia cugina, come l’avete spezzato ad altre centinaia di donne, con lei non sarà differente.» lo insultò, riattaccandogli addosso quell’etichetta che tanto odiava, ma che sapeva essere vera.
Sentì lo sguardo penetrante della giovane tra le sue braccia addosso e, preso da un moto di coraggio, rispose a tono.
«Lei non mi conosce per niente conte.»
«Forse, – rispose lui con il sorriso – ma ormai il giorno è vicino e voi dell’esercito non sarete mai pronti all’inferno che si scatenerà, sarà finalmente la fine del vostro sentirvi costantemente superiori solo perché siete al servizio del re...»
«Ora basta! – gli intimò il maggiore – Ho sentito abbastanza idiozie per oggi.» lo scortò fuori dal salottino, lanciando un’ultima occhiata di sospetto e rimprovero al figlio, come se prevedesse cosa aveva intenzione di fare.
Non appena furono soli, la giovane nobildonna si staccò dal suo abbraccio.
«Per fortuna che siete arrivato voi, capitano... Non so cos’avrei fatto altrimenti...» disse tirando un sospiro di sollievo.
«Se avesse fatto un altro movimento con quella sua manaccia lurida, toccandoti a quel modo, probabilmente gli avrei tagliato la testa seduta stante.» disse, ancora furioso.
«Noto che non si fa problemi a darmi del tu, capitano Pierre, eppure, nonostante i nostri trascorsi, non mi sembra ci sia una così tanta confidenza tra noi, da permetterle di farlo.» disse lei con un tono più divertito che di rimprovero.
«Sì... beh... C’è una cosa che devo dirt... dirle, mademoiselle Ponthieu...»

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Capitolo 12
*** Il segreto ***


Il segreto
 
16 Maggio 1789

Arno aveva fatto sedere Juliette sul divanetto blu stanzetta in cui si trovavano, dopodiché strappò uno dei cordoncini dorati che costituivano la frangia decorativa di quella stessa seduta.
«Usate questo per risistemarvi il corsetto.» disse porgendoglielo.
Lei lo prese, quasi stupita da quell’offerta, dopodiché si voltò, dandogli le spalle e iniziò a trafficare con i lacci.
«È molto preparato su queste cose, non è vero capitano?» gli chiese continuando a mostragli solo la sua schiena.
«Beh... – cercò di dire, mentre quell’imbarazzo, accompagnato dal disagio, tornavano prepotenti – Diciamo che non è la prima volta che mi succede.»
«Preferisco non conoscere i particolari, soprattutto se si tratta delle sue precedenti fiamme.» disse usando quasi un tono di rimprovero e assumendo un aria stizzita.
Arno scoppiò a ridere, divertito da quella reazione, e quando notò che lei lo stava guardando ancora storto, cercò di ricomporsi ed assumere un aria quanto meno seria.
«Non era mia intenzione, mademoiselle.» disse rivolgendole un sorriso.
Poi il suo sguardo cadde sulla sua scollatura, come a volersi assicurare che tutto fosse di nuovo ben legato e stretto, o almeno cercò di dare quell’impressione. Il fatto era che non appena la furia del momento verso il conte era passata, lui si era pian piano reso conto di come la ragazza era effettivamente ridotta e i ricordi della notta passata insieme a lei erano riaffiorati prepotentemente.
Fu proprio lei che con un verso stizzito attirò nuovamente la sua attenzione, facendogli alzare lo sguardo sul suo viso.
«Allora capitano... Cos’è che mi dovrebbe dire?» chiese tentando di nascondere la curiosità che ormai aveva preso possesso di lei già da qualche minuto.
«Io... Le devo le mie scuse, mademoiselle Ponthieu.» disse chinando il capo, puntando lo sguardo sulle sue stesse mani, che teneva poggiate sulle ginocchia.
«Ma capitano, me le ha già chieste tre giorni fa, non ricorda?»
«Non mi riferivo alle scuse per il bacio, io parlavo del non essermi presentato subito da lei oggi, forse se l’avessi fatto, tutto questo non sarebbe successo.» disse con tono affranto continuando a tenere gli occhi puntati sui ginocchi e buttando, solo ogni tanto, uno sguardo alla giovane donna.
«Non vi dovete assolutamente scusare di nulla, voi non potevate sapere… Non potevate sapere quello che sarebbe successo.» disse poggiando la mano sulla sua e facendogli finalmente alzare lo sguardo.
«Voi non capite…» disse allora lui, guardandola con quegli occhi di ghiaccio.
Fu un attimo, ma in quell’attimo, nello scrutare quegli occhi chiari come il cielo invernale, Juliette ebbe sensazione di essere già stata guardata in quel modo, così deciso e innamorato, ma da qualcun altro.
Si riscosse da quei pensieri e si rivolse nuovamente a lui, cercando di fargli continuare il discorso per capire cosa lo turbava.
«Si spieghi allora.» disse per spronarlo a parlare.
Lui per tutta risposta, fece un lungo respiro, dopodiché si alzò dal divanetto e si diresse all’ingresso della stanza, quello da cui era entrato poco prima. Non appena ebbe raggiunto la porta la chiuse, girando poi la chiave nella serratura. Senza degnare di uno sguardo Juliette che lo osservava perplessa, attraversò la stanza e andò all’altro ingresso a fare la stessa identica cosa, chiedendo anche scusa a una nobildonna che voleva passare di lì per andare al salottino successivo, chiudendole praticamente la porta in faccia.
«Si può sapere cosa sta facendo?» chiese sempre più confusa la ragazza.
Lui fece un altro sospiro e poi si voltò nuovamente verso di lei.
«Io ti ho chiesto scusa perché due giorni fa ti ho dato appuntamento a questa festa e quando poi, oggi, ti ho vista lì non ho avuto il coraggio di raggiungerti subito.» disse tutto d’un fiato, come se si fosse liberato di un peso, nonostante però tenesse ancora il suo sguardo serio e preoccupato puntato su di lei, che lo guardava ancora più confusa.
«Appuntamento? Quale appun… ta…» gli occhi ambrati della ragazza sgranarono stupidi, man mano che quell’idea assurda le affiorava nella mente.
Prima ancora che potesse chiedere spiegazioni, lui parlo. Non si rivolse a lei, ma a qualcun altro e solamente a sentir pronunciare quelle due parole, prima ancora che la creaturina nera schizzasse fuori dalla giacca blu dell’uniforme del capitano e venisse risucchiata dall’anello che portava al dito, lei comprese.
In pochi secondi, davanti a lei, non c’era più Arno Dumas Pierre, capitano dei moschettieri del re, come si era presentato a lei il giorno che si erano conosciuti. No, davanti a lei adesso c’era Chat Noir, vestito di tutto punto nel suo completo nero. Colui che combatteva Comt Ténèbre assieme a lei, colui di cui si era invaghita col passare dei mesi al suo fianco, colui che fino a poco prima stava aspettando con trepidazione, ma soprattutto colui a cui soltanto tre sere prima si era conceduta completamente.
A quel pensiero abbassò lo sguardo imbarazzata, mentre si domandava il motivo di quella sua improvvisa timidezza, in fondo era da quando aveva aperto gli occhi, quella stessa mattina, che aspettava quel momento, che sperava di conoscere anche lei la vera identità dell’eroe gatto, proprio come lui conosceva la sua.
Lo sentì avvicinarsi percependo gli stivali neri battere contro il parquet che costituiva il pavimento del salottino e dirigersi verso di lei.
«Juliette, ti prego… Puoi perdonarmi?»
Lei accennò un sorriso divertito, dopodiché alzo lo sguardo su di lui, capendo finalmente il significato di quell’assurda confusione che aveva iniziato a provare dopo aver conosciuto il giovane capitano. Stava per rispondergli quando un grido riecheggiò da qualche stanza più in là, o forse dalla sala principale.
Entrambi si girarono verso la porta in legno bianca, domandandosi cosa poteva essere successo, ma in pochi secondi ebbero la risposta. Il kwami rosso della sua compagna, che lui ancora non aveva mai visto, fece capolino dalla borsetta, avvisando la sua portatrice.
«Juliette è Comt Ténèbre! Devi trasformarti!»
La ragazza annuì decisa e dopo pochi secondi si ritrovò nel suo comodo vestito da supereroina, composto da un semplice corpetto, che le lasciava le spalle completamente nude, di sopra e un collant nero aderente, coprendo così ciò che non riusciva a coprire la morbida gonna di tulle che le arrivava fino a poco sopra le ginocchia, mentre ai piedi un paio di comode scarpe con un leggero tacco. Ovviamente il tutto rigorosamente rosso a pois neri come la maschera che portava sul viso.

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Capitolo 13
*** Il violinista ***


Il violinista
16 Maggio 1789

Juliette stava sul palchetto della sala principale, dove prima c’era il complesso di musicisti e stava guardando il capitano Pierre, o meglio Chat Noir dare ordini e direttive ai suoi uomini. Nonostante avesse il travestimento da eroe e il suo volto fosse coperto dalla maschera, era riuscito a convincere tutti della loro affidabilità.
Lei, era ancora dubbiosa sul fatto che fosse stata una buona idea rivelarsi in quel modo pubblicamente. Per ben tre mesi e mezzo avevano combattuto nel più assoluto anonimato, in modo che la capitale francese e i suoi abitanti non comprendessero e non si rendessero conto del pericolo. D’altro canto però, era la prima volta che Comt Ténèbre usciva allo scoperto in questo modo e come se non bastasse, questa volta, non aveva posseduto una persona sola, ma tutto il complesso che prima stava dove si trovavano loro due e che ora stava scatenando il panico nella sala principale.
Dopo vari minuti di caos generale e ordini impartiti, finalmente i soldati erano riusciti a calmare e scortare tutti all’esterno della reggia. Nella sala principale erano rimasti solo loro, loro e il maggiore Pierre che non accennava minimamente a muoversi e guardava entrambi con sospetto.
«Può andare monsier, qui ci pensiamo noi.» disse educatamente lei, rivolgendosi all’uomo.
«Siete voi due che dovreste andare: la quiete pubblica è sotto la responsabilità dell’esercito, soprattutto se minacciano il re.» rispose con aria seria e impassibile questi.
«Lei non capisce, questo è...» cercò di rispondere nuovamente l’eroina in rosso, ma fu interrotta bruscamente dal maggiore.
«No io capisco... Capisco il fatto che non so chi siate, né m’interessa più di tanto... Capisco comunque che siete due ragazzi, troppo giovani per atteggiarsi a eroi ed io non lascerò fare a gente di cui non so se fidarmi un lavoro che spetta a me!»
«Ma...»
«Inoltre, – interruppe di nuovo – da quando in qua le donne combattono? Dovrebbe uscire insieme alle altre signorine.»
«Ora basta!» disse perentorio e con una certa nota di rabbia Chat Noir, dopo aver sentito quelle pesanti critiche. Avrebbe permesso tutto a suo padre, anche di criticarlo ogni qualvolta ne avesse avuto l’occasione, ma attaccare verbalmente lei, no: quello era fuori dai suoi permessi, nonostante fosse lui il figlio e il sottoposto tra i due. Non aveva nessun diritto di risponderle in quel modo.
«Come scusi?!» chiese stupito di come si fosse rivolto a una persona comunque più adulta di lui.
Effettivamente si era stupito anche lui del suo stesso moto di coraggio: non si era mai rivolto così a suo padre in tutta la sua vita. Forse era perché il suo istinto di difendere quella che considerava ormai la sua donna era più forte della sua paura nei confronti del genitore, o forse era semplicemente la maschera che gli dava abbastanza sicurezza da concedersi quel tono autoritario, che altrimenti non avrebbe affatto usato.
«Le sto dicendo di smetterla e uscire! – disse, mentre Coccinelle ingaggiava uno scontro contro il violinista, che stava usando il suo archetto come un’arma – Noi affrontiamo questo genere di nemici da molto più di lei e sappiamo gestire la situazione perfettamente, mentre lei dovrebbe fare quello per cui è qui, ossia fare la guardia al re.» dopo quel severo rimprovero il suo sguardo gelido lo trafisse in modo talmente austero e furioso da farlo quasi pentire di ciò che aveva detto.
Tirò un sospiro di sollievo solo quando gli diede le spalle e uscì dalla sala. A quel punto si affiancò immediatamente alla sua compagna, che stava per essere attaccata alle spalle dal suonatore di liuto. Lo colpì alla schiena con il suo bastone attirando la sua attenzione su di lui.
«Qualche idea, mademoiselle?» chiese mentre anche lui iniziava a combattere seriamente.
«Nessuna! Non ci è mai successo di affrontare cinque nemici contemporaneamente.» rispose lei, mentre anche il trombettista iniziò ad attaccarli.
«Il nostro caro conte si è dato da fare...» commentò l’eroe gatto evitando un attacco con un balzo.
«Lucky Charm!» urlò Coccinelle, non appena ebbe un momento libero, lanciando la sua arma verso l’alto. Subito dopo tra le sue braccia cadde un violino con archetto, rigorosamente rosso a pois neri, perfettamente in pendant con i suoi vestiti.
«Dobbiamo forse combattere la musica con la musica?» chiese Chat Noir atterrando uno dei nemici contro cui stava combattendo.
«Credo proprio di sì... – rispose lei vedendo il suo potere suggerirle come fare, indicandole prima lo strumento tra le sue mani e poi le orecchie dei musicisti – Il problema è che io so suonare il pianoforte, non ho mai toccato un violino.» concluse, continuando a guardare dubbiosa l’oggetto in questione.
«Dammi qua!» disse lui prendendoglielo dalle mani e sistemandoselo sulla spalla sinistra.
Non appena l’archetto toccò le corde del violino Juliette si sentì in pace col mondo: quella melodia colpiva dritto al cuore e colmava l’anima, non aveva mai sentito nessuno suonare così.
Ci mise qualche minuto ad uscire da quella sensazione di perfezione. In realtà fu proprio lui a riportarla in sé con un finto colpo di tosse, si riscosse e gli rivolse una breve occhiata: lui stava continuando a suonare e con un cenno della testa le indicò i loro avversari.
Si voltò verso di loro e li vide doloranti, con le mani alle orecchie, come se quella musica fosse davvero insopportabile per loro. Capì che era il momento giusto per purificare quelle persone. Lanciò il suo yo-yo verso di loro facendo in modo che si aprisse e in un attimo vide l’aura maligna di Comt Ténèbre uscire dai loro corpi, mentre la sua arma s’illuminava di energia rossa.
Uno ad uno i cinque componenti del complesso di musicisti cadevano a terra svenuti e liberi. Non appena tutto finì, però, sentì le gambe cedergli e percepì il mondo vorticare per un attimo. Si sarebbe schiantata contro il pavimento se non fosse stato per Chat Noir che con pochi velocissimi passi fu al suo fianco, prendendola al volo.
«Tutto bene?» chiese con un tono quasi preoccupato.
«Sì, credo di sì... É stato solo più faticoso del previsto. – rispose lei rimettendosi in piedi con il suo aiuto, a quel punto lui le porse il violino e lei lo lanciò in aria – Miraculous Coccinelle!» esclamò e lo strumento sparì in una miriade di luci rosse che riportarono tutto alla normalità.
«Ottimo lavoro come sempre mon amì!» si complimentò lui, facendola scoppiare a ridere, con quella sua voce argentina.
«Dopo tutto quello che è successo tra noi, dubito possiamo definirci ancora amici... O mi sbaglio, capitano?» chiese.
«Forza dell’abitudine mia cara... Immagino che allora dovrò creare un nuovo appellativo per lei mademoiselle.» le rispose lui, mentre il potere della fortuna abbandonava il suo corpo facendola tornare semplicemente Juliette.

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Capitolo 14
*** La passione ***


La passione
 
10 Luglio 1789

Arno l’afferrò dai fianchi e la baciò con passione.
Era ormai da quasi due mesi che tutto quello accadeva: due mesi da quando entrambi avevano scoperto le reciproche identità, due mesi da quando avevano appurato di non poter star separati più di una settimana o poco più, due mesi da quando si erano resi conto di non poter stare nello stesso luogo senza essere travolti da una passione quasi morbosa. A meno che gli incontri non riguardavano il loro dovere da eroi protettori di Parigi, allora in quel caso trattenevano i bollenti spiriti, concentrandosi sul loro obbiettivo, anche se i loro incontri con Comt Ténèbre si erano decisamente ridotti in quei mesi, come se il loro sconosciuto nemico si stesse preparando a qualcosa di più grande.
A lui in quel momento però non importava:non gli importava dei complotti del loro nemico, di cosa avrebbe pensato suo padre che era nuovamente partito per contattare alcuni reggimenti stranieri sempre al servizio del re, non gli importava nemmeno delle proteste sommesse e insicure di Juliette che insisteva sul fatto che quello non fosse affatto il posto adatto per fare una cosa del genere.
«Arno...»
Lui sorrise contro le sue labbra, mentre con mano esperta le slacciava i fili dorati dell’adrienne blu notte che indossava quel giorno.
«Arno seriamente... Questi sono gli appartamenti riservati alle dame reali, non credo possiamo...»
«Madame Adelaïde è in viaggio a Marsiglia per andare a trovare un conoscente, non tornerà prima di domani.» la zittì lui facendo finalmente scivolare l’intero e ingombrante vestito ai suoi piedi.
Si arrese a lui, come aveva fatto negli ultimi mesi tutte le volte che si erano ritrovati in una situazione simile: d’altronde per quale motivo doveva resistere se il suo cuore, i suoi istinti, la sua stessa essenza la spingevano a lasciarsi andare.
Allungò le dita verso la giacca della divisa pronta a sfilare ogni singolo bottone dalla propria asola.
«Mi piace quando cambi idea in fretta.» disse lui con un sorriso compiaciuto.
Gli sfilò velocemente giacca e camicia e rimase per qualche secondo ad ammirare il suo fisico perfetto e definito. Allungò nuovamente le mani e cominciò ad accarezzarlo, proprio come lui stava facendo con lei già da qualche minuto.
Le tolse la sottoveste con la sua solita destrezza e non appena iniziò a percepire le sue mani calde sfiorarle il corpo ebbe un brivido.
Proprio come aveva fatto la loro prima volta, la prese di peso e la adagiò sul letto a baldacchino che si trovava proprio al centro dell’enorme camera che avevano clandestinamente occupato.
Il capitano si sistemò al suo fianco e riprese ad accarezzarla, adorava sentirla fremere sotto il suo tocco, sentire il suo corpo reagire ad ogni sua mossa e adattarsi a lui. Inoltre i suoi movimenti non erano più incerti e timidi come le prime volte e spesso non solo si abbandonava più facilmente a lui, ma prendeva anche l’iniziativa. Non ci volle molto prima che accadesse anche quella volta, la vide allungare le mani verso la cinta, che ancora gli teneva i pantaloni stretti in vita, e con un paio di movimenti veloci fu anche lui privo di ogni indumento.
Si posizionò sopra di lui e riprese a baciarlo, con una passione che ormai conosceva e che sapeva aveva mostrato solo a lui e a nessun altro.
Quando si unirono, fu come farlo per la prima volta talmente era travolto e coinvolto dalle emozioni. La afferrò per i fianchi e dopo un paio di spinte la ribaltò sul materasso, invertendo le posizioni.
«Non le permetto di prendere il comando mademoiselle, – disse ironicamente lui – si ricordi che sono io il capitano.»
«Ai suoi ordini capitano.» rispose lei, sorridendo divertita.

 

Poco dopo erano nuovamente uno di fianco all’altra, abbracciati.
«Non dovremmo andare?» chiese la ragazza, giocando con una ciocca di capelli corvini di lui che sciolti gli cadevano lungo il viso sfiorandogli appena le spalle.
«E perché? La festa è ancora nel pieno là fuori, fidati nessuno verrà a cercarci.» rispose lui divertito.
«Quante volte?» chiese nuovamente lei, il suo tono ora pareva quasi scocciato.
«Quante volte, cosa?»
«Quante volte sei venuto in uno degli appartamenti delle dame di corte con una donna?» il suo tono ora era veramente irritato, come se le costasse una fatica immensa chiederlo, perché già immaginava la risposta.
«Non credo tu voglia saperlo...» rispose lui, accarezzandole la guancia, come nel tentativo di scusarsi in qualche modo.
Lei sbuffò: le pesava davvero quella cosa, nonostante sapesse che ormai c’era solo lei e che non poteva cambiare il passato. Lui probabilmente notò il suo disagio, perché la accarezzò di nuovo regalandole un bellissimo sorriso.
«Non mi sono mai sentito così bene con nessun’altra Juliette, tu mi completi e questa è una cosa che non mi è mai successa con nessun’altra...»
Juliette sentì il cuore colmarsi di gioia e stava per rispondergli, quando una vocetta dall’angolo della stanza la precedette.
«Oddio sto per vomitare...»
Arno alzò gli occhi al cielo per poi lanciare uno sguardo di fuoco al nuovo interlocutore, decisamente indesiderato, mentre qualcun altro già lo rimproverava.
«Plagg, smettila!» disse la kwami della coccinella.

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Capitolo 15
*** La rivolta ***


La rivolta
 
12 Luglio 1789

Juliette si affacciò sul balconcino di camera sua, attirata dalla confusione che proveniva dalla strada. Era appena rientrata dalla lezione di piano e, visto che la sala musica era nella zona più interna dell’edificio, non se n’era accorta fino a che non era arrivata nei suoi appartamenti: sulla strada principale, poco più in là rispetto a dove si affacciava lei, un corteo di persone marciava e protestava contro qualcuno o qualcosa.
D’un tratto Tikki le fu subito accanto, svolazzandole proprio vicino alla guancia.
«Credo tu debba trasformarti... – commentò, osservando anche lei il corteo – Non so perché, ma ho una strana sensazione.»
La ragazza si rivolse stranita verso il suo kwami, come se avesse detto una cosa assurda.
«Eppure non c’è nemmeno la nube di Comt Ténèbre...» disse come a voler spiegare il suo stupore.
«Non so spiegarti il motivo Juliette, ma sono sicura di quello che dico.»
La ragazza fece un sospiro, poi si volse verso la porta ben chiusa dei suoi appartamenti per assicurarsi che non arrivasse nessuno, dopodiché tornò con lo sguardo di fronte a lei.
«Tikki, trasformami!» disse, facendo in modo che la creatura rossa venisse risucchiata dai suoi orecchini e che il potere dello stesso colore la avvolgesse facendola diventare Coccinelle.
Non appena fu nei suoi abiti scarlatti lanciò il suo yo-yo in direzione del comignolo di fronte e dopo essersi assicurata che fosse legato bene si lanciò, facendo in modo di raggiungerlo. Continuò così, finché non raggiunse il corteo, decidendo di non farsi vedere almeno non fino a quando non avrebbe capito come e perché doveva intervenire.
Quando du proprio in prossimità della folla di gente, comprese il motivo della protesta. Non avevano preso molto bene la destituzione di Necker avvenuta il giorno prima. Necker era un bancario, che dopo aver trovato una soluzione alla grave crisi finanziaria, che l’anno precedente, stava mandando in rovina il paese, divenne ministro. Ora però, che la crisi economica e la paura di un’incombente carestia era evidente, il fatto di averlo destituito non era stato affatto apprezzato dalla popolazione.
Ad un certo punto il corteo si fermò, proprio di fronte al Palazzo Reale. L?esercito del re, composto dalle guardie scelte del sovrano, avevano fermato la folla nei giardini reali intimando di interrompere quell’inutile protesta.
Lo sguardo di Coccinelle, che si trovava sull’elegante tetto del palazzo, ben nascosta, nonostante lo sgargiante costume, si posò quasi subito sul giovane e aitante capitano che, in prima linea, scrutava la folla con quel suo sguardo fiero e sicuro. Era stato più forte di lei, come se la sua sola presenza riuscisse a calamitare ogni volta i suoi occhi su di lui.
Quel momento di ammirazione però durò veramente poco, perché, subito dopo, qualcun altro attirò la sua attenzione: era un uomo sulla quarantina e lo si notava più dal portamento e dalla voce sicura, seppur balbettante, piuttosto che dai lineamenti che dimostravano almeno una decina di anni in meno.
Si era messo in piedi su uno dei tavoli che si trovavano lì e, sollevando la pistola in un gesto di protesta, aizzò la folla con un discorso deciso, nonostante la sua balbuzie.

«Cittadini, non c’è t...tempo da p...perdere; la dimissione d...di Necker è l’avvisaglia di un Sa...san Bartolomeo per i patrioti! Pro...propio questa notte i ba...battaglioni svizzeri e te...tedeschi la...lasceranno Champs de... de Mars per ma...massacrarci tutti; u...una sola cosa ci rimane, p...prendere le armi!»
Ci mise un po’ a riconoscerlo, ma mentre aizzava la folla si ricordò del suo viso, Camille Desmoulins, nominato soltanto due mesi prima deputato del terzo stato; e il suo riferirsi al massacro di San Bartolomeo, ordinato da Carlo IX era un’avvenimento che bene o male conoscevano tutti.
Alla fine del suo discorso la folla urlò, inveendo contro l’esercito e imbracciando le armi. Poco dopo, fu il caos.
La ragazza ebbe appena il tempo di vedere Arno e altri generali o capitani dare l’ordine di caricare la folla, dopodiché i giardini diventarono un inferno.
I soldati cercavano d’intimidire i cittadini, i manifestanti più convinti e intraprendenti si facevano avanti a spinte continuando a protestare e inveire. Alcuni battaglioni, probabilmente quelli tedeschi, visti i capelli biondi e la pelle chiara dei soldati, distrussero le statue di Necker, facendo infuriare ancora di più la folla.
Solamente in quel momento la nube viola tipica del loro nemico si addensò sopra il palazzo reale, oscurando il cielo e Coccinelle, non avendo più motivo di nascondersi si affiancò al capitano Pierre che la accolse con un sorriso.
«Felice di vederti mon amour.»
«Ho paura che questa volta non sarà così facile.» disse lei, senza quasi nemmeno salutarlo.
Arno sorrise di nuovo: adorava quel suo carattere determinato e un po’ autoritario della sua compagna, ai suoi occhi la rendeva ancora più affascinante.
«Lo credo anch’io...» rispose, sempre con quel sorriso stampato sulle labbra, vedendo la nebbia viola iniziare a possedere una decina di persone.
«Immagino tu non possa trasformarti.» commentò lei, continuando a tenere lo sguardo fisso sui giardini.
«Temo di no, ma questo non mi vieta di darti una mano.» rispose lui, estraendo lo stocco dal fodero che portava alla cintura.
«Semplicemente coprimi. Non appena inizierò a purificare i posseduti da Comt Ténèbre, questi verranno nella nostra direzione e non posso usare il Lucky Charm e rischiare di non avere abbastanza energia per purificarli tutti.»
«Ai suoi ordini mademoiselle.» rispose lui.
Come aveva detto l’eroina in rosso, non appena il suo yo-yo cominciò ad illuminarsi e l’aura, che da poco era entrata nei malcapitati, fuoriusciva di nuovo, questi si diressero verso dove si trovavano loro, facendosi largo tra la folla e i soldati che ancora si stavano scontrando.
Ci vollero una ventina di minuti buoni, prima che anche l’ultimo posseduto cadesse a terra privo di sensi.
Arno era stravolto, nonostante alcuni suoi commilitoni fossero andati a dargli man forte. Il caldo di quel luglio torrido era ormai al suo apice e la fatica non aiutava: era madido di sudore e alcuni ciuffi fradici dei capelli si erano attaccati alle tempie.
Non ebbe tempo, però, di pensare a se stesso, perché non appena finito il lavoro, com’era accaduto due mesi prima, Coccinelle crollò stravolta. La prese al volo e, dopo aver dato alcuni ordini ai soldati che c’erano di fianco a lui, si congedò da loro, portandola dietro una delle siepi del giardino, appena in tempo prima che riprendesse il suo normale aspetto.

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Capitolo 16
*** La disperazione ***


La disperazione

13 Luglio 1789

Arno era a comando del suo reggimento, davanti a una delle poche porte di Parigi che non erano andate in fiamme.
L’aria di rivolta si respirava già da qualche mese ormai, ma da quando il giorno precedente c’era stata quella prima manifestazione al Palazzo Reale le cose erano degenerate: la popolazione ormai era completamente fuori controllo e assolutamente ingestibile.
Quella notte aveva dormito davvero poco, all’alba era stato svegliato dall’allarme, con la notizia che alcuni rivoltosi avevano appiccato incendi in molte porte delle mura della capitale.
Comprendeva perfettamente il motivo di tutte quelle persone in piazza che protestavano. In fin dei conti anche lui sentiva il peso della crisi economica gravare sulle loro teste come la lama di quella strana macchina inventata da poco dagli ingegneri francesi. Ciononostante gli ordini erano ordini e non poteva certo tirarsi indietro davanti ad una disposizione del re, inoltre comprendeva che protestare in quel modo così incivile e vandalico non avrebbe portato a niente se non a dare la possibilità a Comt Ténèbre di poter impossessarsi dell’anima di molte più persone alla volta, rendendo così il lavoro suo e di Coccinelle più complicato di quanto già era.
Quella mattina era stata estenuante e ormai da ore erano lì a cercare di respingere i rivoltosi che non ne volevano sapere di ritirarsi o arrendersi, nonostante fosse grato di non essere stato assegnato a una delle porte distrutte dalle fiamme era stanco: fermare la folla impazzita, o meglio furiosa, senza fare vittime era davvero difficile. Senza considerare che lui non era come gli altri capitani, che davano ordini dalle retrovie, lasciando che i loro commilitoni facessero tutto il lavoro: no, lui era in prima linea, di fianco al suo secondo René Bourgeois e a tutto il suo reggimento.
Una donna si avvicinò a lui, spintonando e facendosi spazio tra la folla, urlando e brandendo furiosa un mattarello.
«Infami! Stiamo morendo di fame! Infami!» urlava a gran voce. Era magra, troppo, sciupata dalla fame e dalla fatica; i vestiti ed i capelli sfatti e in disordine, tutto in lei mostrava l’indecenza e l’ingiustizia che quella crisi stava scatenando nel popolo.
Ingoiò quel boccone amaro e, mantenendo il suo sguardo serio e apparentemente impassibile, la spinse indietro come tutte le altre persone che, prima di lei, avevano tentato di superare la barriera che avevano formato lui e i suoi soldati.
Mai gli era sembrato così duro il suo lavoro, nemmeno quando era ancora una recluta e prendeva ordini dai suoi superiori, mai. Quella giornata, a malapena iniziata, si stava rivelando una delle più faticose in assoluto.
Ciò che gli pesava non era lo stare lì o il respingere persone cercando inutilmente di placare i loro animi furiosi, ma era il fare tutto ciò senza di lei: che ormai era diventata la sua roccia, il suo punto di riferimento, l’unica che riuscisse costantemente a ricordargli per quale motivo stavano facendo tutto quello.
Eppure prima non era così, fino a qualche mese prima avrebbe semplicemente pensato che lo faceva perché doveva farlo e basta e se poi la cosa si dimostrava più difficile o più fastidiosa del previsto si sarebbe sfogato appartandosi con qualche bella nobildonna. Ora però le cose erano cambiate: forse perché aveva conosciuto lei, o forse per l’arrivo di Plagg e della minaccia di Comt Ténèbre, oppure, semplicemente perché era cresciuto. 
Il fatto era che vedere tutte quelle persone furiose, proprio come la donna di poco prima, lo innervosiva. Non perché fossero irritanti, ma perché vedeva nei loro visi e nei loro occhi la disperazione e la difficoltà nell’andare avanti in quel modo.
Per quanto lui non vivesse negli agi più assoluti, sapeva comunque di poter sempre contare sul fatto di avere un tetto sulla testa e un pasto caldo tre volte al giorno: tutte cose che, quasi sicuramente, quella folla urlante non aveva, per questo motivo protestava.
Perciò, più passava il tempo, in quell’infinita mattinata di luglio, più si sentiva stanco e a disagio nel respingere quella gente che in fin dei conti aveva soltanto bisogno di essere ascoltata.
Capì però di non aver ancora toccato il fondo di quella pessima giornata, quando tra la folla riconobbe un volto, tra i tanti, furioso e iracondo proprio come tutti quelli che lo circondavano.
«Vigliacchi! – gridava a squarciagola, sovrastato però dalle altre urla – Abbassate i prezzi del pane! Non ne possiamo più! Vogliamo uguaglianza!»
Avrebbe sopportato tutto, ma vedere suo zio, il fratello di sua madre, in quelle condizioni era troppo. Era sporco di terra e sudato, i suoi vestiti erano sudici e sgualciti, il suo viso scavato ed evidentemente stanco.
A quella vista iniziò seriamente a chiedersi per quale motivo fosse lì, a fermare quella che in realtà era una protesta giusta. Stava facendo la cosa migliore?
La folla come presa da un moto di coalizzazione iniziò a gridare un motto: centinaia di voci che all’unisono gridavano e ripetevano le stesse tre parole.
«Liberté, Égalité, Fraternité! Liberté, Égalité, Fraternité! Liberté, Égalité, Fraternité!»
Perché lo stava facendo? Perché era lì ad impedire alle persone di protestare se non avevano più nulla da mangiare?
Poi la risposta arrivò, una nube densa e viola, che ormai il cielo di Parigi conosceva bene si addensò sulle loro teste, o meglio su tutto il cielo della capitale.
Era per quello che lo faceva: per uno scopo più grande, per impedire, o almeno tentare di farlo, a quel misterioso e astratto nemico, di approfittarsi della gente disperata per i suoi scopi. Ecco perché.

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Capitolo 17
*** Il pane ***


Il pane
 
13 Luglio 1789

Juliette si trovava a Rue Monge. Dopo l’intenso pomeriggio del giorno prima aveva davvero bisogno di distrarsi, per questo si era offerta per andare a comprare il pane al posto di una delle domestiche.
Ricordava poco di cosa era accaduto alla fine della battaglia il giorno prima. Marie le aveva raccontato che l’uomo mascherato l’aveva riportata alla villa priva di sensi, rassicurandola però che si sarebbe ripresa presto. Sicuramente era di nuovo svenuta a causa dell’eccessivo uso dell’energia di purificazione del suo Miracoulus.
Per questo motivo era andata lei a comprare il pane, aveva bisogno di prendere una boccata d’aria fresca, prima di chiudersi di nuovo in casa per le lezioni pomeridiane.
Si era recata lì perché sapeva esserci la miglior panetteria del centro di Parigi, ossia la Boulangerie La Parisienne. Da bambina ci andava spesso con sua madre che finiva col comprarle sempre qualche dolce di cui lei era molto golosa e anche quando questa lasciò lei e suo padre soli, a causa della malattia, non aveva perso l’abitudine di recarsi lì, tanto che il proprietario la salutava ancora cordialmente, quasi come una figlia adottiva.
Quando però arrivò di fronte alla boulangerie, rimase paralizzata da ciò che vide: una decina di persone, furiose, stavano assalendo in negozio. Avevano già frantumato la vetrina e stavano saccheggiando la bottega sotto lo sguardo disperato del proprietario che, nonostante la sua stazza massiccia, non riusciva a fermarli. Rimase a guardare la situazione per qualche secondo, poi fece dietrofront e si nascose in un vicolo lì vicino, per poi aprire la sua borsetta e fare in modo che la piccola kwami fosse libera di uscire da essa.
«Dobbiamo aiutare monsieur Thedór.» disse subito la ragazza alla creaturina rossa.
«Non possiamo Juliette, ho paura che non ne abbiamo il tempo…» gli rispose subito Tikki.
«Perché?» chiese lei tra lo stupito e il dispiaciuto, ma la kwami della fortuna non ebbe il tempo di risponderle che la solita foschia viola si iniziò ad addensare nel cielo, oscurandolo.
Senza più chiedere nulla alla sua compagna di avventure, anche perché non ne aveva più bisogno, pronunciò il solito ordine, facendo così in modo che i suoi orecchini risucchiassero la piccola creatura, permettendole di trasformarsi. Non appena fu nelle vesti di Coccinelle tornò sui suoi passi, aveva avuto un’idea brillante per risolvere entrambi i problemi.
Tornata nuovamente a Rue Monge alzò la sua arma al cielo.
«Lucky Charm!» urlò, accompagnando il gesto.
Qualche istante dopo tra le sue braccia cadde un grosso sacchetto di carta rossa a pois neri contenente almeno una ventina di baguette. A quella vista sorrise, quella era la soluzione perfetta.
Tenendo le braccia serrate attorno al sacchetto, si avvicinò al manipolo di gente davanti alla panetteria, che stava ormai per irrompere nel negozio.
«Le pain est servi!» disse, attirando la loro attenzione e mostrando il contenuto del suo oggetto fortunato.
Come si aspettava il gruppetto si gettò su di lei, manco fossero animali, e in poco tempo si ritrovò con in mano solo il sacchetto vuoto e mezzo strappato che, con un gesto veloce, accartocciò, per poi lanciarlo in aria.
«Miraculous Coccinelle!» disse, e subito dopo il suo potere rimise tutto l’interno esposto del panificio in ordine riparando anche il vetro, sotto lo sguardo sbigottito del proprietario.
Non appena l’energia riparatoria del Lucky Charm si dissolse, facendo il suo dovere, l’eroina si avvicinò all’uomo.
«Tutto bene, monsieur?» chiese, poggiandogli una mano sulla spalla.
«Non... non posso crederci... Questo... questo è un miracolo... – lei gli sorrise dolcemente di rimando e lo accompagnò all’interno del locale – Come posso ringraziarla, mademoiselle...?»
«Mi chiami semplicemente Coccinelle. – gli rispose di rimando – Le chiedo solo un paio di quei biscotti.» disse indicando un barattolo pieno di fragranti biscotti con piccole gocce di cioccolato, tipici dell’isola britannica.
Il fornaio non se lo fece ripetere due volte e, prendendo un sacchettino di carta, vi infilò dentro cinque di quei dolcetti e lo porse alla ragazza coccinella. Proprio in
quell’istante il suo orecchino segnalò il passare del suo primo minuto dei cinque che le erano concessi prima di tornare se stessa.

Ringraziò gentilmente ed uscì dal negozio, per poi lanciare il suo yo-yo su un balcone lì vicino e rilanciarlo su un comignolo subito dopo. Quando fu in cima al palazzo, proseguì la sua corsa sui tetti di Parigi, seguendo la nube viola di Comt Ténèbre che si stava addensando pian piano dal lato opposto della città. Il sacchettino di carta nella mano sinistra, le sarebbe servito molto presto, perché i suoi orecchini emisero l’ennesimo suono.
Arrivò appena al limite della Senna, proprio qualche palazzo prima di Pont de la Concorde, non appena scese dal tetto il potere si esaurì del tutto. Tikki schizzò via dai suoi orecchini e lei la prese al volo ritrovandosi nuovamente nei suoi panni.
«Entra nella borsa, così che mentre recuperi le energie io attraverso il ponte.»
Lei ubbidì e poco dopo fu raggiunta anche dal sacchettino di biscotti che la ragazza mise proprio dentro la piccola sacca di stoffa in modo che potesse rifocillarsi e fare in modo che la sua portatrice potesse ritrasformarsi.

Arrivata al convento di Saint-Lazar capì cosa aveva attirato l’attenzione di Comt Ténèbre e l’aveva spinto a mandare la sua solita nebbia: una folla inferocita di gente stava assaltando il luogo e la supereroina ci mise un po’ a comprendere i motivi di quella protesta.
La popolazione urlava e saccheggiava letteralmente l’edificio, che in quel periodo veniva usato anche come magazzino per il grano.
Coccinelle, dalla cima del palazzo in cui si era appostata, riconobbe subito coloro che erano stati posseduti dall’aura viola, ma per qualche secondo rimase paralizzata dal terrore, perché percepiva distintamente ben quindici anime sotto il controllo del suo nemico. Li vedeva lì, in mezzo alla folla urlante, mente portavano fuori dei grossi carri carichi di grano.
Fece un grosso respiro e prese in mano il suo yo-yo, sperando che anche da quella distanza l’energia di purificazione dell’arma potesse arrivare a fare il suo effetto.
Non appena sia il filo in nylon che la parte in legno s’illuminarono della loro solita energia rossa, la giovane eroina coccinella iniziò a farlo roteare e in men che non si dica la nube iniziò a venire assorbita, ma pian piano si rese anche conto che molto probabilmente questa volta non ci sarebbe riuscita: quindici erano davvero troppi, più il tempo passava, più sentiva la stanchezza impossessarsi di lei.
«Resisti Juliette... Non puoi dargliela vinta... Sei una portatrice, è tuo dovere mantenere la pace a Parigi...» si continuava a ripetere, ma il suo fisico non ne voleva assolutamente sapere dei suoi incoraggiamenti: iniziava a sentire le gambe tremare sotto il suo peso. Poi, con un’ultimo capogiro, crollò a terra, perdendo completamente i sensi, mentre sotto nella strada ancora quattro uomini, portavano fuori carri di grano.
Il potere l’abbandonò completamente e Tikki si ritrovò buttata fuori dagli orecchini.
«Juliette... – cercò di chiamare, avvicinandosi alla compagna – Juliette, non possiamo stare qui... Juliette, ti devi svegliare... Juliette...»

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Capitolo 18
*** La ricerca ***


La ricerca
14 Luglio 1789

Arno era stravolto, il giorno prima aveva passato tutto il tempo alla porta e aveva riposato solo quattro ore in una delle brande che erano state allestite nell’accampamento provvisorio all’interno di Parigi.
Fu svegliato dal vociare concitato dei suoi sottoposti che cercavano di decidere se era il caso di spostarsi di nuovo oppure no. Il fatto era che la protesta sembrava essersi spostata nuovamente, o meglio, era ormai talmente estesa che l’esercito si era dovuto suddividere in vari plotoni, nel tentativo di sedarle tutte.
La cosa che però preoccupava di più il giovane capitano era il cielo, che ormai da più di diciotto ore era di quell’inquietante colore violaceo. Tanto che persino i suoi commilitoni avevano iniziato a notarlo, ma, non sapendo decifrare quel messaggio, l’avevano attribuito al fumo dei vari incendi e dell’uso prolungato delle armi.
Ciò che invece impensieriva lui, era la durata così prolungata della presenza di Comt Ténèbre. Era impossibile che Juliette non si fosse accorta di niente, perciò le alternative erano due: o qualcosa di davvero urgente le impediva di intervenire, o le era successo qualcosa; e l’incombente peso di quella seconda possibilità lo inquietava come non mai.
Per questo motivo aveva dato un paio di ordini ai suoi sottoposti su come muoversi, rassicurandoli che li avrebbe raggiunti presto, per poi dirigersi a Villa Ponthieu, per assicurarsi che stesse bene.
Nonostante la stanchezza perciò, arrivò di fronte all’enorme cancello, sempre aperto, bussando poi al portone. 
Fu la domestica bionda ad aprirgli la porta e, non appena la vide, il terrore che fosse successo qualcosa s’insinuò in lui come un veleno mortale. La donna aveva gli occhi rossi e gonfi dal pianto e il respiro affannato, tanto che non appena parlò, prima ancora che lui chiedesse qualcosa, percepì il suo tentativo di trattenere i singhiozzi che ancora la tormentavano.
«Capitano… Per fortuna è qui…» disse.
«Cosa è successo?» chiese il giovane, cercando di mantenere un tono autoritario e il più tranquillo possibile, nonostante sentisse il suo cuore martellare frenetico.
«Si tratta di mademoiselle Ponthieu… È sparita… Ieri pomeriggio è andata a comprare il pane e non è più tornata… Io glielo avevo detto di stare tranquilla a casa, che sarei andata io… Ma lei ha insistito…»
«Si calmi…» disse Arno, cercando di placare la parlantina nervosa della domestica.
«Cosa le sarà successo…? E se qualcuno dei civili che protestano le avesse fatto del male…?» continuò a lei imperterrita.
«Sono sicuro che starà bene…» rispose nuovamente lui, ma si rendeva conto che ormai il suo tono di voce era tutt’altro che tranquillo.
«La prego capitano… La trovi…» lo supplicò lei, aggrappandosi alla sua giacca.
«Non si preoccupi. – disse cercando di riprendere un po’ di contegno, in modo che la donna potesse calmarsi – Ora ci penso io. Lei torni in casa e stia tranquilla.» e subito, la bionda rispose con un cenno di testa, singhiozzando un grazie.
Non appena fu di nuovo libero e solo il giovane scostò la giacca dal petto e si rivolse il suo compagno.
«Plagg, dobbiamo trovarla…»
«Sì sì… Lo so già… Dobbiamo salvare la tua bella…» lo prese in giro e piccolo kwami con tono annoiato.
«Non è il momento di scherzare… Plagg, trasformami!»
Quando si ritrovò nei panni di Chat Noir non ci pensò due volte e con un balzo si aggrappò al balcone della villa, per poi salire sul tetto. Non aveva la minima idea di dove fosse, ma di una cosa era certo, l'avrebbe trovata a qualsiasi costo, gli bastava calmarsi e concentrarsi.
La nebbia di Comt Ténèbre era apparsa il giorno precedente nel primo pomeriggio. Questo voleva dire che il loro nemico aveva approfittato di una qualche rivolta avvenuta in quel momento e, visto che Juliette era sparita più o meno nello stesso lasso di tempo, sicuramente era andata a cercare da sola il posseduto o i posseduti. Sicuramente non era alle porte visto che le rivolte e gli incendi agli ingressi di Parigi erano iniziati di mattina.
Ripensò a tutte le missive che gli erano arrivate nell’arco della serata del giorno prima, con i rapporti dei vari plotoni sparsi per tutta la città, cercando di ricordarsi se c’era stato qualcuno che aveva comunicato una protesta nel primo pomeriggio. Poi finalmente arrivò, come fulmine: il convento Saint-Lazar.
Prese in mano il suo bastone in metallo e dopo averlo allungato, cominciò a saltare da un tetto all’altro.
Arrivò sul posto talmente velocemente che quasi era rimasto senza fiato per la corsa.
«Arno! Per fortuna sei qui!» esclamò la kwami coccinella volandogli di fronte.
«Plagg… detrasformami…» chiese semplicemente lui, facendo uscire anche la creatura nera.
Tutti e tre si avvicinarono al corpo esanime della portatrice del Miraculous della fortuna.
«Juliette… Apri gli occhi… Ti prego… Sono qui…» sentiva le lacrime pungergli gli occhi, era da ormai dieci anni che non piangeva, ma il terrore di non rivedere più quegli occhi color del miele aveva fatto tornare in lui quell’orribile sensazione.
«Ha tentato di purificarli?» chiese Plagg, rivolgendosi alla sua simile.
«Sì, ma erano quindici... Credo sia arrivata al limite...» rispose lei.
Era parecchio scossa, era evidente: d’altronde se lei era sparita seriamente dal pomeriggio prima, avevano passato tutta la notte su quel tetto. Nonostante tutto continuava a discutere con il kwami nero, sotto lo sguardo attento di Arno che ancora teneva la ragazza tra le braccia.
Poi, dopo un paio di minuti, si avvicinarono di più al corpo privo di sensi e allungarono le loro strane zampette verso di lei, poggiandole sulla sua fronte. Non appena lo fecero, entrambi s’illuminarono del loro rispettivo colore.
Il tutto durò un tempo che al giovane capitano parve tantissimo, nonostante fossero non più di dieci minuti.
Il suo cuore sembrò riprendere a battere solo quando la vide riaprire gli occhi.
«Mon coeur, non sai quanto mi hai fatto preoccupare.» disse in un soffio, percependo una lacrima rigargli la guancia.
Una sola, sfuggita al suo autocontrollo, ma che non sfuggì a lei che, con un dolcissimo sorriso, come se non fosse successo niente, allungò le dita verso il suo viso, catturandola.

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Capitolo 19
*** L'apprensione ***


L' apprensione
 
14 Luglio 1789

Juliette si sistemò meglio sotto le coperte. Era irrequieta, in quel momento avrebbe voluto trasformarsi e raggiungere Arno, dovunque egli fosse. Era stato proprio lui a riportarla a casa, ancora debilitata e febbricitante, più o meno per mezzogiorno, dopodiché se n’era andato via, raccomandandole di stare a letto.
Sbuffò per l’ennesima volta.
«Tutto bene Juliette?» chiese la piccola kwami rossa, avvicinandosi a lei.
«Come può andare tutto bene, Tikki? – chiese lei sospirando – Parigi è nel bel mezzo di una rivoluzione di dimensioni mastodontiche ed io invece di aiutare sono costretta a letto.»
«Guarirai amica mia, non è nulla di grave. Qualche giorno seguendo le indicazioni del medico e tornerai come nuova.» rispose la creatura guardandola con quei grandi e dolci occhi azzurri.
«Ma Parigi ha bisogno di me adesso, Chat Noir ha bisogno di me adesso.»
«È un capitano Juliette, è il suo mestiere. Questa rivoluzione è pane per i suoi denti, vedrai.» la rassicurò di nuovo lei.
Emise un altro sospiro, voltandosi verso la finestra a balconcino dei suoi appartamenti.
«Quella nube viola m’inquieta: è come se stesse ridendo di me e della mia debolezza. Chissà quante altre persone avrà corrotto.» la kwami rossa non ebbe il tempo di rispondere perché qualcuno bussò alla porta bianca della stanza.
A quel suono Tikki si tuffò sotto le lenzuola, mentre lei si girò sul fianco chiudendo gli occhi. Non aveva nessuna voglia di sentire raccomandazioni e preoccupazioni da parte di chiunque fosse, perciò avrebbe finto di dormire.
«È permesso? – chiese una voce, che riconobbe come quella di Marie – Credo stia dormendo.»
«Non conviene tornare più tardi allora? Magari la disturbiamo.» suggerì un’altra voce, fece più fatica a riconoscerla, ma era sicura fosse una collega della bionda.
«No tranquilla, è già successo altre volte.»
«Va bene...»
Le sentì iniziare a trafficare. Si era completamente dimenticata delle pulizie pomeridiane di cui si occupavano solitamente le domestiche mentre lei aveva le varie lezioni della giornata. D’altronde era comprensibile che stando tutta la notte fuori avesse perso la cognizione del tempo.
«Povera mademoiselle Ponthieu, passare tutta la notte fuori, chissà cosa le sarebbe potuto succedere.» riprese Marie, dando il via a una chiacchierata.
«Già... Sopratutto con queste continue proteste e con i brutti ceffi che si aggirano per Parigi di notte.»
«A dirla tutta, conosco dei brutti ceffi che vanno ancora in giro alla luce del sole, mascherandosi da nobiluomini.»
«A chi ti riferisci? Non sarà ancora quell’uomo vestito di nero...?»
«No, non lui... Effettivamente non mi fido di lui, nonostante mademoiselle sia ben disposta nei suoi confronti.»
«Meglio il capitano Pierre...»
«Sicuramente, anche se credo che quando si deciderà a dire del loro fidanzamento a suo padre, lui non la prenderà molto bene.»
«Beh, credo sia normale, in fin dei conti è sua figlia. Ti ricordi come si è adirato il giorno di quella festa a Versailles in cui arrestarono il conte Grandpré?»
«Ecco era proprio a certi elementi che mi riferivo prima, a certi viscidi vigliacchi che nascondendosi sotto la bella facciata di uomini nobili si comportano in modo vile e rivoltante.»
«Forse per mademoiselle Ponthieu quell’esperienza è stata anche peggiore di quella di stanotte.»
«Vorrei ben vedere. – ci fu qualche minuto si silenzio tra le due, poi – Qui abbiamo finito, direi che possiamo andare.»
Non appena sentirono la porta chiudersi entrambe smisero la loro messa in scena.
«Visto? Anche Marie e Jeneviev si preoccupano per te.» le disse Tikki.
«Lo so... – rispose lei con un sorriso, accarezzandole dolcemente il capino – Anche se sono un po’ troppo pettegole per i miei gusti.»
Il silenzio calò di nuovo nella stanza per vari minuti, fino a che lei non parlò di nuovo.
«Pensi che Arno starà bene?» chiese, con un’aria quasi malinconica nella voce.
«È un ragazzo capace Juliette, se la caverà. Inoltre c’è Plagg con lui e per quanto sembri uno sciocco è leale come non mai. Puoi stare sicura che anche succedesse qualcosa, se la caveranno.»
Lei sbuffò, non riusciva a farne a meno, nonostante le rassicurazioni della sua amica si sentiva comunque irrequieta e nervosa.
«Io mi fido di loro... Però vorrei essere comunque lì. Restare ferma non è da me.»
«L’ho sempre detto che sei una nobildonna con l’animo di una guerriera. Il maestro ha fatto una scelta impeccabile consegnandoti gli orecchini.» le sorrise orgogliosa la kwami, distogliendola finalmente per qualche minuto dalle sue preoccupazioni.
«Mi sarebbe piaciuto conoscerlo, insomma conoscerlo davvero.»
«Era piuttosto vecchio purtroppo, credo che tu e Arno siate stati le sue ultime scelte.» rispose di nuovo Tikki, accomodandosi sulla spalla della sua portatrice.
«Credo di non avertelo mai chiesto. Cosa succede se un guardiano muore?» chiese Juliette.
«Un guardiano dei Miraculous ha due compiti durante la sua vita: consegnare i gioielli se e quando il mondo avrà bisogno di eroi e cercare, trovare e istruire un giovane ragazzo in modo che un futuro prenda il suo posto.»
«Quindi l’attuale guardiano è un ragazzo?»
«Probabilmente anche più piccolo di te: solitamente i neo guardiani non hanno più di sedici anni.»
«Così giovane e con così tante responsabilità...» commentò a mezza voce la ragazza.
«Puoi stare tranquilla che il maestro Noél gli avrà sicuramente insegnato tutto quello che avrebbe dovuto sapere.»
«Mentre quando un portatore muore?» chiese con tono grave Juliette.
«Non lo permetterò mai, amica mia. Hai la mia parola che vivrete entrambi e che quando sarà tutto finito avrete una vita felice insieme. Te lo prometto.»

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Capitolo 20
*** La Bastiglia ***


La Bastiglia
14 Luglio 1789

Arno stava cercando di capire come doveva comportarsi. Molti dei rivoltosi, questa volta, erano realmente armati: per esserlo avevano saccheggiato l’Hotel de Invalides, procurandosi in quel modo parecchi fucili e spade. L’unica cosa che non erano riusciti a procurarsi era stata la polvere da sparo, per questo motivo si erano diretti verso la Bastiglia.
Per il giovane capitano era la prima volta che si trovava in quella situazione. Già da quella mattina, mentre lui era intento a riaccompagnare Juliette a casa, l’esercito del re aveva ricevuto l’ordine di uccidere chiunque creasse intralcio alla quiete, come se a Parigi ormai ci potesse essere quiete.
Il governatore della prigione da ormai qualche ora aveva mandato alcuni messi sia ai soldati all’esterno che ai rivoltosi, dicendo di voler trovare un’accordo pacifico: aveva perciò invitato alcuni rappresentanti degli insorti all’interno, per pranzare e negoziare.
La folla davanti alla Bastiglia, però, continuava ad aumentare e a urlare. Probabilmente per loro era passato anche troppo tempo da quando il governatore aveva deciso di riceverli, o meglio ricevere solo alcuni di loro.
Arno non osava nemmeno immaginare cosa ormai pensassero: forse credevano che saziati e assuefatti dal pranzo e da qualche strana promessa, si fossero dimenticati di coloro che erano rimasti fuori; oppure immaginavano cose più orrende, magari che il governatore li avesse imprigionati insieme agli altri sette detenuti che già erano dentro, o peggio ancora che li avessi uccisi.
Sinceramente, nemmeno lui aveva ben compreso le intenzioni di monsier Launay, non lo conosceva abbastanza bene per sapere cosa stesse escogitando, ma di una cosa ero certo, continuando così la folla avrebbe perso completamente il controllo.
Ebbe appena il tempo di alzare il volto verso il cielo costantemente violaceo, da ormai quasi un giorno, che lui sapeva non faceva altro che alimentare la rabbia e la furia dei parigini, quando all’improvviso un fragore assordante attirò nuovamente la sua attenzione sulla folla accalcata in piazza. I rivoltosi erano riusciti a tagliare le catene del ponte levatoio, facendolo sbattere violentemente sull’altro lato del fossato, dando così loro la possibilità di entrare. 
Nella calca che si riversò all’interno della Bastiglia, molti uomini cadevano, inciampando o venendo spinti, per poi essere ignorati o addirittura calpestati da altri. Non appena entrati però si scontrarono con la Guardia svizzera, che era a custodia della prigione.
Fu un massacro sin da subito, da entrambi i lati cadevano uomini. Non riuscendo più a vedere quello scempio senza poter far nulla, Arno sfoderò la spada pronto a intervenire, ma una mano forte poggiata sulla spalla lo fermò.
Si voltò, incrociando lo sguardo severo e impassibile di suo padre.
«Abbiamo l’ordine del re di non intervenire.» rispose il maggiore alla sua muta domanda.
«Cosa? Ma è una follia!» esclamò il ragazzo sconvolto.
«Non si discutono gli ordini.»
«Ma…»
«Arno!»
Si zittì. Suo padre aveva nuovamente usato quel tono severo e freddo che rivolgeva ormai solo a lui a dimostrare il suo sdegno per la sua disubbidienza. Con il peso sullo stomaco di tutto ciò che stava accadendo attorno a lui e il dolore, ormai conosciuto, della freddezza del genitore, rinfoderò la spada con un sospiro.
«Ed ora torna a Champs de Mars assieme agli altri uomini.» concluse l’uomo con un tono che non ammetteva repliche.
«Sì maggiore.» rispose ubbidiente lui, per poi montare a cavallo e allontanarsi da quel luogo.
«Sai credo di poter dire di conoscerti meglio di quanto ti conosca tuo padre.» disse la vocina di Plagg, mentre faceva sbucare il muso nero dalla giacca del suo portatore.
«Perché?»
«Perché ho come l’impressione che non andrai a Champs de Mars...» a quelle sue parole un sorriso divertito si formò sul volto del giovane capitano.
«Sì mi conosci parecchio bene.» confermò.
«Promettimi che mi darai il camembert questa sera...» richiese, quasi come minacciandolo.
«Il miglior camembert che tu abbia mai mangiato.» rispose lui, tirando le redini e facendo in modo che il cavallo si fermasse.
«Andiamo a fare un po’ di pulizia!» disse il kwami nero, uscendo completamente dal suo nascondiglio.
«No… Andiamo a impedire un massacro.» rispose, scendendo dalla cavalcatura e legandola al paletto più vicino, dopodiché ordinò a Plagg di trasformarlo.
Non ci mise molto ad arrivare nuovamente alla Bastiglia e qualcosa sembrò colpirlo al cuore quando notò come in pochi minuti la situazione era degenerata. Il fumo ormai si levava alto da tutto l’edificio, confondendosi con la nube viola che sovrastava la città, e nel vedere quella scena Arno capì che da quel momento sarebbe cambiato tutto. Come se sapesse, per qualche oscura ragione, che quella presa della Bastiglia avrebbe decretato la fine di Parigi.
Prese un grosso respiro, accumulando aria nei polmoni. Non sapeva se era perché ormai l’aria intorno a lui era inquinata dal fumo o semplicemente per l’ansia che ormai gli provocava quella situazione, ma persino quel semplice e naturale gesto gli parve difficile da compiere.
Dopodiché con alcuni agili movimenti si avvicinò al luogo dello scontro, dove rivoltosi e Guardia Svizzera si stavano ancora fronteggiando. Piombò in mezzo a loro, proprio come un gatto, scontrandosi con la prima persona che si trovò davanti.
«Ci mancava il tizio mascherato!» esclamò quest’ultima, incrociando la sua spada con il bastone dell’eroe gatto.
«Ascoltatemi… È insensato combattere. Vi farete solo ammazzare…» cercò di dire all’uomo contro cui si stava battendo.
«Voi nobili la dovete smettere di fingervi comprensivi con noi per poi pugnalarci alle spalle.»
«Non sono nobile, per tua informazione… E credo di poter dire sinceramente di stare dalla vostra parte. – ribatté Chat Noir – Ciononostante sono più che sicuro che queste proteste siano insensate.»
«Se dici ciò, vuol dire che non sei dalla nostra parte!» replicò subito l’altro, tentando un nuovo affondo, che lui parò prontamente.
All’improvviso un soldato della guardia si accostò a loro e senza la minima piega trafisse il rivoltoso, uccidendolo all’istante. Chat Noir guardò il corpo afflosciarsi e piombare a terra, sapeva che quella scena l’avrebbe tormentato per giorni.
Poi però, qualcosa lo distrasse da quell’orribile visione: la vide sfrecciare sul camminamento della Bastiglia, tanto che per un attimo gli sembrò di esserselo immaginato, fino a che non atterrò un po’ malamente di fianco a lui. Nonostante l'’ncarnato più pallido del solito, rimaneva comunque fiera e stupenda, nel suo completo rosso.

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Capitolo 21
*** La resa ***


La resa
 
14 Luglio 1789

«Juliette... – sussurrò lui, in modo che lo sentisse solo lei – Cosa ci fai qui? Dovresti essere a...»
«Non è la prima volta che combatto in certe condizioni, – intervenì la ragazza prima di fargli finire la frase – e non sarà certo l’ultima. Inoltre ero preoccupata.»
Un’altro rivoltoso si avvicinò a loro attaccandoli, ma Chat Noir intercettò nuovamente il colpo con il suo bastone, volgendosi poi verso la sua compagna.
«Preoccupata? E perché mai, mon petit? Io me la cavo benissimo!» disse con la sua tipica smorfia maliziosa e sicura.
«Preoccupata per Parigi, Chat... E non ti azzardare a chiamarmi più piccola.» lo rimproverò lei guardandolo male, per poi aiutarlo nel combattimento. Lanciò il suo yo-yo verso l’arma dell’uomo, avvolgendo così il filo attorno ad essa e strattonando, in modo da togliergliela dalle mani.
«Eppure quando siamo a letto ti piace essere chiamata in quel modo...» la provocò lui, approfittando del brevissimo momento libero, afferrandola per il fianco.
«Potresti fermare i tuoi bollenti spiriti per una volta?» si lamentò lei, prima che l’arma di un soldato della Guardia Svizzera non li costrinse a separarsi.
«Ehi!» protestò scocciato lui.
«Non c'è tempo per amoreggiare. – disse l’uomo – Inoltre non ci serve l’aiuto di due vestiti in maschera.» concluse con tono superiore.
«Ma noi infatti non stiamo aiutando voi!» rispose a tono l’eroe nero, bloccando un affondo del suo interlocutore, diretto a un rivoltoso.
«Come scusa?» chiese il soldato con un tono quasi adirato.
«Noi stiamo impedendo un massacro, monsier.» specificò Coccinelle, disarmando quell’uomo a cui il membro della Guardia Svizzera aveva puntato.
«Perciò se non le dispiace, lasci fare a noi ed eviti di uccidere persone innocenti.» gli suggerì il giovane.
A quella richiesta il soldato si allontanò, spostandosi solamente più in là. Chat Noir sapeva che, molto probabilmente, dopo essersi allontanato da loro avrebbe ripreso a comportarsi e combattere come aveva fatto fino a poco prima, ma purtroppo più di quello non potevano fare.
Continuarono così per parecchio tempo, quasi una buona mezz’ora, a disarmare sia i rivoltosi che i soldati che si trovavano davanti, ma più passava il tempo più diventava complicato: non solo perché aumentava la calca e la stanchezza, ma anche perché entrambi si stavano rendendo conto che sempre più cittadini di Parigi, infuriati e vogliosi di occupare, quasi distruggere, la Bastiglia, erano controllati dal loro nemico. Se ne rendevano conto dal modo in cui combattevano, così esperto, così potente, così incuranti di ciò che li circondava.
All’improvviso da uno dei cancelli che portavano al vero e proprio interno della struttura, uscì tutto trafelato un uomo. Non faceva parte della Guardia Svizzera, ma dalla sua uniforme era evidente che facesse parte di qualche corpo militare.
«Cessate il fuoco, cessate tutto!» urlò, ma in quel caos poca gente lo sentì, tra questi però vi era anche Chat Noir. La sua compagna vide le sue orecchiette nere, che a malapena si notavano sbucare dalla chioma scura, muoversi attente.
«Qualche problema?» chiese.
Non ebbe bisogno della sua risposta, perché all’improvviso il tamburo del segnale di resa rimbombò ovunque, richiamando tutta la piazza alla calma.
Per un attimo cadde un silenzio e una quiete quasi surreale. L’uomo che aveva urlato si avvicinò a loro, per poi consegnare qualcosa agli assedianti che lo stavano guardando stupiti, proprio come i soldati.
«Questa è una lettera per voi del governatore Launay in cui vi sono riportate le condizioni di resa.»
L’uomo, a cui il soldato aveva porto la lettera, la prese in mano ancora incerto di cosa stava accadendo. Guardò con dubbio la busta, laccata con lo stemma del governatore, poi il suo sguardo si caricò d’astio e preso il pezzo di carta con indice e pollice di entrambe le mani, strappò la lettera.
«Noi non accettiamo alcuna condizione e alcuna resa! D’ora in poi il popolo di Parigi si prenderà ciò che vuole!» urlò e subito dopo lo seguirono grida di assenso, colme della stessa rabbia e della stessa furia.
L’uomo che aveva strappato la lettera, senza pensarci un attimo, trafisse il soldato, uccidendolo sul colpo, non dando a nessuno il tempo d’intervenire per quanto fosse stato improvviso quel gesto.
Subito, la battaglia riprese come prima, se non anche peggio. Molti soldati della Guardia Svizzera non sapevano più se reagire o no, vista la resa del governatore, altri invece continuavano inesorabili ad affrontare i rivoltosi, anzi, parecchi di questi, ormai privi di ordini e di limiti, cominciarono a fare fuoco senza nessuna pietà.
Il caos e il pericolo diventò talmente tanto che Coccinelle dovette afferrare il compagno e issarsi di nuovo sul camminamento della Bastiglia per essere al sicuro dai vari proiettili vaganti.
«Dobbiamo fare qualcosa.» disse guardando in basso preoccupata.
«Sì, ma cosa? L’hai visto, sono completamente fuori controllo.» commentò l’eroe gatto.
«È colpa sua... – commentò lei alzando lo sguardo verso il cielo viola – È lui che li sta controllando. Per colpa sua la gente non ha più cognizione del pericolo. Si stanno distruggendo perché lui lo vuole.»
Chat noir sospirò esasperato, sapeva bene che la sua amata aveva ragione, ma sapeva anche dove quel discorso sarebbe andato a finire.
«Non puoi farlo...» disse semplicemente.
«Cosa?» chiese un po’ stupita lei incrociando il suo sguardo.
«So bene cosa vuoi fare e non puoi!» le disse deciso, talmente seriamente che vide i suoi occhi ambrati tremare, come se avesse avvertito il suo ordine.
«Chat, se non lo faccio loro...» tentò di dire lei.
«Ho detto di no, Juliette! – enfatizzò lui, usando il suo vero nome, nel tentativo di farle capire che non ammetteva repliche – Sei ancora debilitata, inoltre non riusciresti nemmeno volendo e al massimo delle tue forze a purificare tutti quanti.»
«Cosa dovremmo fare allora? Lasciare che si uccidano?» chiese, irritata anche lei.
«Dà fastidio anche a me mon amour, ma finché non troviamo un’altra soluzione non possiamo fare niente.» le rispose lui dolcemente, cingendole le spalle con le braccia.
«Non è giusto...» sussurrò lei, ricambiando l’abbraccio.
«Lo so Juliette, lo so...»

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Capitolo 22
*** La responsabilità ***


La responsabilità
15 Luglio 1789

«Arno, lo sai vero che prendere a pugni il muro non cambierà le cose.» disse con tono parecchio ironico il piccolo gatto nero mangiucchiando come al solito il suo triangolino di camembert.
«Come puoi stare così tranquillo dopo quello che è successo ieri?» chiese ad alta voce il giovane, voltandosi verso di lui e incrociando i suoi occhi verdi e felini.
«Ragazzo io esisto da millenni, ho visto anche di peggio.» gli rispose tranquillamente, ingoiando in un sol boccone il formaggio rimasto.
Lui sospirò, sedendosi sul letto, o meglio buttandocisi sopra, come se le sue gambe non riuscissero più a reggerlo.
«Cosa può esserci di peggio? Comt Ténèbre sta tenendo in pugno Parigi e la sta manipolando a suo piacimento...» sbottò lui, con un aria esausta come se non trovasse più una motivazione valida per lottare.
«Senti un po’ – cominciò con voce perentoria il piccolo kwami, che nonostante avesse un timbro adeguato alle sue dimensioni, pareva comunque minaccioso – Noèl non ti ha consegnato quell’anello perché tu ti piangessi addosso. Sei un capitano per la miseria, abbi un po’ di spina dorsale!»
Arno rimase interdetto per qualche secondo, poi sul volto tornò quello sguardo deciso e sicuro che lo caratterizzava e un sorrisino divertito che dedicò completamente al suo compagno di avventure.
«Hai ragione! Non me ne starò con le mani in mano, mentre Parigi soccombe sotto i miei occhi, farò tutto ciò che è in mio potere per impedire che la situazione degeneri di nuovo in quel modo.» a quelle parole il kwami sorrise di ricambio e si poggiò comodamente sulla sua spalla.
«Questo è l’Arno Dumas Pierre che conosco!»
Il giovane allora gli accarezzò il capino nero con un dito facendogli emettere involontariamente qualche fusa. Non appena se ne accorse Plagg si allontanò stizzito, mentre lui scoppiò a ridere divertito.
«Non c'è nulla da ridere!» brontolò il gattino, a quel rimprovero trattenne le ultime risate e cercò di ricomporsi.
«Non so davvero come farei senza di te Plagg...» disse alzandosi dal letto.
«Probabilmente come hai fatto quando ancora non mi conoscevi.» rispose tranquillamente lui, afferrando un’altro pezzetto di camembert e ingurgitandolo in un solo boccone.
«Avanti, piccolo ingordo, – disse aprendo la giacca della divisa – dobbiamo andare.»
Non appena il kwami si tuffò all’interno dei suoi abiti il ragazzo uscì dal suo alloggio, per poi dirigersi nella sala dove sapeva si trovava il padre.
Bussò alla porta, con più sicurezza del solito, come se fosse sicuro che qualsiasi notizia, ordine o rimprovero avesse sentito pronunciare dopo averla attraversata non l’avrebbe sfiorato.
Fu invitato ad entrare e con un gesto veloce abbassò la maniglia e fece il suo ingresso nella stanza.
«Ci sono nuovi ordini?» chiese tranquillamente, mettendosi sull’attenti.
«Nulla. Ci sono ancora tumulti in città, ma sono facilmente gestibili.» rispose il maggiore, continuando ad osservare la mappa, come faceva di solito.
«Facilmente gestibili? Dopo quello che è successo ieri?» chiese confuso Arno. Era possibile che Parigi si fosse quietata tutta d’un botto, o quasi?
A quel commento il maggiore si voltò: come si aspettava il suo sguardo era severo e rigido, come a rimproverarlo di quella domanda non richiesta.
«È stata una semplice protesta, il re non vuole mettere nel panico la Francia per una sciocchezza simile.»
«Una semplice protesta? Vogliamo parlare delle teste della Guardia Svizzera o di quella del governatore Launay che ieri hanno fatto il giro di tutta Parigi su delle picche e che ora, probabilmente, svettano sulle macerie della Bastiglia? E questa sarebbe una sciocchezza?» sbottò il giovane capitano, non riuscendo più a controllare la rabbia scaturitagli dai ricordi del giorno prima.
«Arno!» tuonò il padre, con il suo solito tono che non ammetteva repliche, ma questa volta il giovane non era disposto ad arrendersi, ubbidendo e facendo il bravo soldatino.
«Mi spiace padre, – iniziò, non preoccupandosi dello sguardo di fuoco che l’uomo gli aveva rivolto per quell’appellativo – ma questa non è più solo l’ennesima ribellione. Questa è una vera rivoluzione e se il re non fa qualcosa, se noi non facciamo qualcosa, Parigi e l’intera Francia crolleranno proprio come la Bastiglia.»
L’uomo di fronte a lui rimase in assoluto silenzio, osservandolo con quei suoi freddi occhi che tanto somigliavano ai suoi.
«Mi avete chiesto di prendere più seriamente il mio ruolo di capitano ed è quello che voglio fare: non permetterò che questo regno crolli.» concluse, uscendo poi dalla porta, senza nemmeno fare i dovuti ossequi.

 


Stava andando tutto esattamente come voleva lui. La nebbia era ormai talmente densa che la portatrice della coccinella non sarebbe riuscita mai e poi mai a purificarla, mentre percepiva il suo potere aumentare a dismisura.
Sì, presto Parigi sarebbe caduta e i suoi gioielli sarebbero ritornati nelle sue mani.

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Capitolo 23
*** La tensione ***


La tensione
 
21 Luglio 1789

Juliette fece un lungo respiro, lanciando un’ultima occhiata al cielo ormai costantemente violaceo, per poi entrare nell’edificio.
Si sentiva particolarmente a disagio, più del solito: insomma, una volta quegli eventi non le piacevano perché semplicemente li trovava superficiali, frivoli e noiosi oltre ogni dire e, nonostante le cose non fossero cambiate e il suo pensiero su tutto ciò che riguardava quelle stupide feste non fosse cambiato, il suo fastidio questa volta dipendeva da altro. La innervosiva il fatto che mentre Parigi era in preda alle rivolte in molte piazze e quartieri, il re, dopo aver fatto giusto il minimo indispensabile, continuava a indire quelle maledette feste, come niente fosse.
Se era lì era solamente per un motivo: perché per colpa di quelle rivolte, del suo periodo di convalescenza e dei vari impegni di entrambi, era dal giorno della presa della Bastiglia che non vedeva Arno. Aveva bisogno di parlare con lui, di vederlo, di chiedergli cosa stava realmente accadendo, di decidere assieme come agire, ma sopratutto sentiva il bisogno impellente del suo conforto.
Si erano dati appuntamento a quella festa a Versailles, proprio come facevano una volta, il problema era solo uno, che non avevano deciso il luogo preciso e in quell’immensa reggia sarebbe stata un’impresa ritrovarsi.
La ragazza si fermò subito appena entrata, guardandosi intorno, il corridoio era gremito di gente, ma del capitano nessuna traccia. Decise perciò di cercarlo altrove: non aveva nessuna intenzione di inoltrarsi nella sala principale dove sicuramente avrebbe trovato solamente balli e frivolezze inutili, non era affatto in vena di festeggiare in quel momento. Svoltò quindi a destra percorrendo l’infinito corridoio che correva lungo il perimetro interno della reggia.
Stava camminando ormai da svariati minuti, quando all’improvviso qualcuno la afferrò per il polso voltandola di forza verso quel lato. Non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stava succedendo che si ritrovò le labbra premute contro quelle della persona che l’aveva fermata. 
Presa da quell’irrefrenabile voglia di lui, alzò la mano ancora libera verso i suoi capelli neri legati nella solita leggera coda, mentre percepiva la sua mano scorrere sul suo vestito, fermandosi poco sopra il suo fondoschiena per poi sospingerla meglio verso di lui. In sottofondo a quei loro gesti pregni di passione, i commenti indignati degli avventori del ricevimento che denunciavano l’indecenza di fare certe cose in pubblico.
Dopo un tempo che a Juliette parve ancora troppo corto si separarono, rimanendo comunque avvinghiati l’uno all’altra. I suoi occhi color del ghiaccio la scrutavano, ancora vogliosi di lei, tanto da farla quasi sentire in imbarazzo. Comprendeva perfettamente da quello sguardo quanto anche lei gli fosse mancata.
«Dobbiamo parlare.» le disse in un sussurro, gli rispose con un cenno e lui con un semplice movimento si accostò a lei mantenendo la mano sulla schiena e scortandola lontano da occhi indiscreti.
Si fermarono solamente quando trovarono una stanza libera. Al contrario del solito salottino questa volta era uno studio e sembrava quasi che qualcuno avesse preparato tutto appositamente per loro due, molto probabilmente era stato proprio lui, per questo motivo prima non l’aveva trovato.
«Dobbiamo trovare una soluzione.» disse quando lui chiuse a chiave la porta che li separava dal resto della reggia.
«Lo so...»
«Se continuano così l’intera Francia cadrà nell’oblio.» continuò.
«Lo so...»
«Come possono festeggiare in un momento simile?! Quando ogni giorno a Parigi c’è un massacro?!»
«Se non di più. – la corresse lui – Ascolta, so bene cosa provi e ti assicuro che ho fatto di tutto per trovare una soluzione, ma come capitano ho le mani legate. Credo che l’unica soluzione sia lasciar fare ai nostri alter ego: sicuramente Coccinelle e Chat Noir sono più utili di Juliette e Arno.»
«Ah sì? Tu dici? – chiese lei ironica, aprendo la sua borsetta e tirandone fuori il Journal de Paris di qualche giorno prima – Guarda allora!» concluse porgendoglielo.
In prima pagina, in bella vista, il titolo svettava perentorio.
Presa della Bastiglia intralciata da un uomo e una donna mascherati. Servi della corona o alleati del popolo?
L’articolo poi proseguiva con alcuni dettagli di quella terribile giornata, dettagli a volte assolutamente falsi.
Con un sospiro Arno poggiò il giornale sul tavolo di fianco a lui.
«Juliette so che è difficile, me ne sto rendendo conto te lo assicuro: in questi giorni ogni volta che esco dalla residenza a Sèvres ho il terrore che possa essere l’ultima e ogni volta che rientro tiro un sospiro di sollievo al pensiero che sono ancora vivo.» disse e vedeva la difficoltà nel dirle quelle parole, mentre lei sentiva già le lacrime pungerle gli occhi.
«Che cosa possiamo fare, allora?» chiese disperata.
«Avere fiducia nei vostri poteri, no?» disse la vocetta del kwami nero, che subito dopo uscì dalla tasca interna della giacca del ragazzo.
«Plagg ha ragione! – intervenne anche l’altra, facendo capolino dalla borsa, per poi svolazzarle davanti al viso – I vostri poteri se usati al meglio sono incommensurabili. Ricordate cosa vi ha lasciato detto Noél?» chiese poi.
«Ricordo che ci ha detto che i nostri Miraculous sono i più forti in assoluto, ma i nostri poteri rimangono quelli no? Cos’altro potremmo fare?» chiese quasi irritata Juliette.
«Ragazza, avete il potere della creazione e della distruzione, cos’altro pretendi di più?» la rimproverò nuovamente il gatto.
«Ciò che devi capire Juliette, – disse più dolcemente Tikki – è che voi avete usato solo una piccola percentuale dell’energia che i Miraculous racchiudono. È vero, le capacità dei gioielli e del loro potere si manifesta solo attraverso il Lucky Charm e il Cataclisma, ma l’energia che sprigionano queste due abilità ancora non è stata sfruttata appieno.» le spiegò con un sorriso.
«Andrà tutto bene Juliette, vedrai.» disse porgendole uno dei due calici di vino rosso che aveva preparato prima di portarla lì.
«E come faremo con il popolo che sembra odiarci?» chiese prendendo dubbiosa il bicchiere.
«Che ci odino, noi continueremo comunque a proteggerli e forse un giorno comprenderanno. – le disse con un sorriso – Ora però vorrei godermi queste poche ore di svago con la mia donna se non ti dispiace.» concluse, alzando in alto il calice.
La ragazza ebbe appena il tempo di farlo tintinnare contro il suo, che lui se lo avvicinò alla bocca e con un sorso solo buttò in gola tutto il suo contenuto. Lei fece lo stesso, sorseggiando con più calma e quando finì lui era già comodamente svaccato sul divanetto a lato dello studio, con la giacca poggiata in un angolo.

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Capitolo 24
*** L'abbandono ***


L' abbandono
21 Luglio 1789

Arno la osservava concludere il suo bicchiere di vino, comodamente seduto sul divano, riusciva a vedere ancora l’imbarazzo sulle sue guance, nonostante negli ultimi mesi avesse posato spesso quello sguardo su di lei. Vide una goccia porpora sfuggire ai suoi sorsi e scivolare lungo il mento: la seguì con gli occhi finché non sparì nella scollatura del suo corsetto, facendogli pulsare violentemente il desiderio. 
Lei posò il calice sul tavolo guardandolo ancora nervosamente, come se la timidezza le impedisse di avvicinarsi e questo lo fece sorridere.
«È incredibile come la tua grinta sparisca non appena capisci che voglio fare ses...»
«Arno!» lo fermò lei, esclamando il suo disappunto.
A quel suo sguardo irritato, lui scoppiò a ridere divertito, per poi alzarsi e raggiungerla, assumendo all’improvviso un’aria serissima: sembrava quasi che i suoi occhi la vedessero per la prima volta.
«Non cambiare mai Juliette, sei meravigliosa come sei!» le disse spostandole un boccolo dalla tempia, per poi metterle quella stessa mano dietro il collo e spingerla contro le sue labbra, mentre l’altra la prendeva per la vita.
Presa da quell’impeto di passione che li avvolgeva sempre, non appena incrociava le sue labbra, quello stesso impeto che l’aveva presa prima nel corridoio, gli avvolse le braccia attorno al collo, avvinghiandosi a lui ancora di più.
In qualche modo che lei nemmeno comprese, troppo presa dai suoi baci, lui la spinse corto il divanetto e la buttò sui cuscini, con una frenesia quasi animalesca, mettendosi poi a cavalcioni su di lei, senza però mai staccarsi dalle sue labbra. Persino quando iniziò a muovere le dita verso il suo corsetto, sciogliendole i lacci che le imprigionavano il seno, le sue labbra e la sua lingua non volevano lasciarla.
La giovane donna però non voleva essere da meno, iniziando sbottonare freneticamente la giacca e la camicia del suo amante. Non appena il suo torace fu libero dalla stoffa pregiata della divisa, posò i palmi su di esso, sfiorando finalmente i suoi addominali e i suoi pettorali scolpiti.
Il contatto con le sue mani leggermente fredde, gli diede un brivido che lo costrinse a fermarsi qualche secondo emettendo un sospiro eccitato, poi finalmente anche lui liberò la sua compagna dalla morsa del corsetto, lasciando che le sue forme si esponessero a lui. Ben presto anche le sue mani furono occupate e riempite da quel seno sodo e perfetto.
Non passò molto che Juliette, tra un sospiro e l’altro, tra un bacio e l’altro, si ritrovò completamente nuda, sdraiata sul divanetto e con il capitano sopra di lei, anch’egli privo di ogni tipo di indumento.
Non appena accadde emise un sospiro eccitato. Forse era la tensione di quei giorni o il periodo di convalescenza appena superato, o ancora il fatto che non avevano avuto un rapporto di quel genere da parecchio tempo, ma le sembrò quasi come la prima volta.
Per Arno la cosa non era tanto diversa, ritrovarla accogliente e pronta come la ricordava lo fece sentire coccolato e al sicuro. In quel momento non gli importava di nulla: mon gli importava della rivoluzione, del re, né di Parigi o tanto meno del popolo che li odiava. Sì forse era egoistico, forse passato quell’attimo di folle amore passionale tutta l’ansia, l’angoscia e il dovere sarebbero tornati ad assillarlo, ma adesso c’era solo lei. Lei e la sua pelle nivea, lei e le sue curve perfette, lei e le sue guance rosse come le fragole mature, lei e i suoi capelli castani, lei e i suoi occhi color del miele.
Quando arrivarono al culmine, lo fecero insieme e subito dopo rimasero lì, fermi, l’uno sull’altra, ancora abbracciati, ancora congiunti.
«Vorrei stare così, qui con te, per sempre.» disse il giovane con un tono quasi malinconico, affondando il viso sul suo petto nudo, lei allora allungò le braccia e iniziò a passare le dita sui suoi lunghi e morbidi capelli corvini.
«Anche io Arno. Vorrei poterti stare sempre vicino, vorrei presentarti ufficialmente a mio padre, potergli dire che finalmente ho trovato qualcuno che mi completa. Eppure...»
Il ragazzo si issò, puntellandosi sulle mani e guardandola dall’alto.
«Eppure questo caos ci ha scombussolato l’esistenza. – completò la frase, vedendola confermare con un semplice cenno di testa – Ora siamo ufficialmente due eroi, due figure misteriose che tenteranno in tutti i modi di riportare tutto alla normalità.»
«Due guerrieri che dovranno anche lottare fino alla morte pur di vincere.» disse lei guardandolo tristemente.
«Non permetterò mai questo. Tu non morirai, fosse l’ultima cosa che faccio. Sopravvivremo entrambi, te lo prometto Juliette.» lei a quella promessa sorrise, scendendo la mano dalla sua nuca alla sua guancia e accarezzandola dolcemente. A quel suo gesto lo vide chiudere gli occhi, come a volersi godere appieno quel contatto, percependo le sue dita sfiorargli il viso.
«Insieme affronteremo qualsiasi cosa.» confermò.
«Insieme!» le sorrise di rimando lui, riaprendo gli occhi.
La guardò per qualche secondo, come se stesse meditando su qualcosa e allo stesso tempo si stesse godendo la sua bellezza. Dopodiché con un sospiro si tirò su, rimettendosi in piedi e lasciando lei sdraiata sul divano.
«Avanti vestiti! Abbiamo ancora un po’ di tempo e voglio fare una cosa con te.»
Lei si mise seduta, osservandolo curiosa.
«Basta che non mi porti a ballare: di festeggiare con questi qui non ho nessuna voglia.» a quel commento sorrise divertito, mentre s’infilava i pantaloni.
«No, tranquilla. Andiamo a Parigi.»
«Come a Parigi? Adesso? Ma è a più di un’ora di cavallo da qui. Non possiamo andarci tu hai detto che...»
«So cosa ho detto. – la interruppe il giovane capitano – Ma non importa. Non ho grossi impegni oggi, e anche se tra poco meno di un’ora dovrò essere a Sèvre, voglio fare una cosa prima che sia troppo tardi.» di nuovo quello sguardo curioso si posò su di lui, che ora si stava abbottonando la camicia.
«Pensi di vestirti o no? Perché sono capace di saltarti addosso un’altra volta.» a quella provocazione lei arrossì, per poi afferrare la sua sottoveste e infilarsela.
Poco dopo erano di nuovo entrambi pronti e vestiti a modo, almeno il più possibile. La bella acconciatura curata di Juliette era come al solito andata a farsi benedire e adesso la ragazza teneva semplicemente i capelli raccolti in una morbida crocchia.
Uscirono dalla sala e si diressero verso le stalle di Versailles dove solitamente tutti gli ospiti a cavallo e non in carrozza, che erano relativamente pochi, lasciavano la loro cavalcatura. Si rivolsero allo stalliere che c’era lì, che poco dopo portò loro un bellissimo cavallo sellato dal color del cioccolato.
«Bonjour François. – sorrise lei accarezzando il muso del cavallo e facendo sorridere anche lui – Sai se avessi visto prima il tuo cavallo avrei scoperto che eri Chat Noir molto prima.» gli disse mentre si allontanavano dalle stalle.
«François non è un cavallo così raro, la maggior parte delle cavalcature dell’esercito hanno il suo stesso manto.» puntualizzò Arno, ma lei scosse la testa.
«No, no. Lui è diverso. Il suo manto è molto più scuro e ha le punte di coda e crine dorate, non avrei potuto confonderlo con nessun altro cavallo.»
«Senza considerare che era talmente ossessionata da te che conosceva ogni singolo dettaglio di Chat Noir.» aggiunse Tikki sbucando dalla borsetta e sussurrando quella cosa.
Si sentì un ridacchiare divertito provenire dalla giacca di Arno, mentre Juliette rimproverò la sua kwami.
«Forza, o non ci sbrighiamo più.»
Entrambi si issarono sulla cavalcatura. Il primo fu Arno, che non appena si fu sistemato porse la mano alla compagna aiutandola a fare altrettanto. Per fortuna quel giorno aveva deciso di indossare un adrienne poco pomposo, in modo che potesse tranquillamente mettersi in sella, all’amazzone, ossia con entrambe le gambe rivolte dallo stesso lato. Dopodiché si avvinghiò a lui, avvolgendo le braccia intorno alla sua vita e sentendolo incitare il cavallo con un colpo di tacchi.
Come aveva previsto arrivarono a Parigi in più di un’ora, ma non fu un viaggio silenzioso o noioso, anzi passarono molto tempo a parlare tutti e quattro, loro e i kwami.
Entrati nella capitale furono però nuovamente avvolti da quella sensazione di disagio e angoscia: le urla delle rivolte ormai erano una costante a Parigi, come lo era quel maledettissimo cielo violaceo che sopra di essa sembrava essere più intenso.
«Allora? Vuoi dirmi o no dove mi porti?» chiese Juliette sdrammatizzando la tensione.
«Lo scoprirai a tempo debito, mon amour.» rispose semplicemente lui, dirigendo François nelle varie strade di Parigi.

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Capitolo 25
*** La proposta ***


La proposta
 
21 Luglio 1789

Juliette guardava stupita quel palazzo, davanti a cui si erano fermati, quel palazzo di cui conosceva sia l’esterno che l’interno, come le sue tasche.
Si stava domandando per quale motivo Arno l’aveva portata lì, che cosa avesse in mente e quali erano le sue intenzioni. Tutte queste domande premevano in modo talmente prepotente nella sua testa, che non riuscì a sottrarsi dal porle al diretto interessato.
«Arno ma cosa...?» cercò di dire mentre lui scendeva da cavallo, ma fu subito interrotta.
«Avevamo detto che è stata tutta questa situazione a impedirci di fare ciò che volevamo fare, giusto? – lei lo guardò titubante, mentre l’aiutava a scendere, cercando ancora di capire cosa intendeva – Beh, non ho nessuna intenzione di ritrovarmi un giorno pentendomi di quello che non ho fatto.»
Legò il cavallo al cancello ed insieme entrarono fino ad arrivare al portone, a quel punto il giovane capitano afferrò il battente e bussò.
Poco dopo una delle domestiche aprì la porta: era Francine. Juliette sentì la mano del compagno irrigidirsi nella sua: effettivamente Arno non aveva mai incontrato la domestica, ma quella reazione le parve esagerata, dall’altro lato però, anche la bruna aveva sgranato gli occhi scuri stupita.
«Arno?» chiese la donna.
«Un momento... Vi conoscete?» domandò Juliette, prima ancora che il compagno potesse rispondere, fu lui infatti a spiegarle, continuando però a fissare la domestica.
«Lei è... mia madre.»
«Tua... Cosa?!»
Juliette era rimasta completamente sconvolta a quella notizia; la domestica invece, passato il momento di stupore, sorrise dolcemente.
«Perciò sei tu il giovane aitante che ha rubato il cuore alla mia bambina?» la giovane nobildonna arrossì, imbarazzata, a quell’appellativo.
«La tua bambina?»
«Si può dire che sono stata io a crescere mademoiselle Ponthieu. – rispose tranquillamente – Piuttosto come mai siete qui?»
All’improvviso Arno si ricordò per quale motivo aveva portato Juliette a casa sua e riprendendo il suo contegno, quasi militare, si rivolse alla madre.
«Avrei bisogno di parlare con monsieur Ponthieu.»
«Ora è nel suo studio, ma vado subito a chiamarlo... – rispose la domestica con un sorriso compiaciuto, come se avesse capito esattamente le intenzioni del figlio – Mademoiselle, fa lei gli onori di casa?» Juliette rispose con un leggero cenno di testa e, lasciando la mano di Arno, lo invitò poi ad entrare e a seguirla in un elegante salottino della villa.
Attesero in quell’elegante sala in assoluto silenzio. Juliette non osava più chiedere ad Arno quali erano le sue intenzioni, già il solo scoprire che Francine, la donna che aveva considerato quasi come una madre, era davvero la madre del suo amante, l’aveva sconvolta non poco. Dopo l’articolo contro Coccinelle e Chat Noir, l’ora di passione con lui ed infine quella notizia, continuava a pensare che un’altra emozione forte come quelle l’avrebbe uccisa di crepacuore.
Lui d’altro canto non sembrava volerle rivelare nulla, rimaneva anch’egli in assoluto silenzio, tamburellando solamente con le dita contro il bracciolo della poltroncina su cui era seduto.
Dopo vari minuti, finalmente, il padrone di casa si fece vedere.
Il signor Ponthieu era un uomo alto dagli occhi scuri e profondi, sul capo portava la parrucca bianca tipica dei nobili di quel periodo, perfettamente pettinata in un’acconciatura che somigliava molto a quella del giovane, non fosse stato per i boccoli ai lati, proprio sopra le orecchie.
L’uomo lo scrutò con aria seria, mentre lui, non appena lo vide entrare, era scattato in piedi, per poi fare un leggero inchino.
«Monsieur Ponthieu.» disse, facendo i dovuti ossequi.
«Capitano Pierre, a cosa devo la sua visita?» chiese l’uomo rimanendo fermo e continuando a guardarlo senza la minima espressività.
Nonostante il suo sguardo freddo e distaccato Arno sembrava sicuro di sé, forse perché in fin dei conti quegli occhi scuri non erano niente al confronto di quelli di ghiaccio di suo padre. Il signor Ponthieu lo guardava semplicemente con aria decisa di un’uomo sicuro e nobile, mentre lo sguardo di suo padre era sempre stato quello di disprezzo e delusione.
«Io vorrei chiedere la mano di sua figlia!» disse tutto d’un fiato.
A quella frase Juliette si portò sconvolta le mani alla bocca, sgranando gli occhi, che iniziavano a pizzicare per via delle lacrime che pretendevano di uscire. L’uomo invece era rimasto impassibile, spostando solo lo sguardo un paio di volte dalla figlia al capitano.
«Juliette…» la chiamò il padre, continuando però a scrutare il giovane Arno, che era rimasto serio e impettito davanti a lui.
«Sì, padre?» chiese lei cercando di darsi un contegno.
«Tu ami il capitano Pierre?» chiese, volgendosi finalmente a lei e porgendole la mano.
Lei si allungò per prenderla, alzandosi così dalla poltrona. Non appena posò il palmo della mano su quello del padre rispose a quella domanda.
«Più di quanto avrei mai pensato d’amare.» gli sorrise, mentre una lacrima di gioia, sfuggita al suo autocontrollo le rigava il viso.
«Allora… – disse afferrando il polso di Arno e sollevandone la mano, per poi poggiarvici sopra quella della figlia – avete la mia benedizione. Non vedo perché dovrei impedire questo vostro futuro insieme.»
Arno a quel punto strinse la mano della sua amata, vedendola sorridergli, nonostante gli occhi carichi di lacrime.
«Grazie infinite, monsieur.» concluse con un’inchino, tornando a rivolgersi al padrone di casa.
«Sia ben chiaro però, – lo avvertì l’uomo – a me non importa nulla del titolo nobiliare o delle conoscenze che il mio futuro genero può avere, ma fate soffrire mia figlia in qualsiasi modo e…»
«Non accadrà! Ha la mia parola. – lo interruppe lui, poi si volse di nuovo verso di lei, incrociando quegli occhi ambrati e lucidi – Non potrei mai farla soffrire, perché soffrirei anche io.»
«Volevo solo esserne sicuro. – sorrise l’uomo – Ora se volete scusarmi, dovrei tornare urgentemente ai miei affari e credo che Juliette tra poco debba recarsi a lezione di piano.» disse uscendo dalla stanza.
«Sì, padre!» rispose la ragazza asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.
«Anche io devo andare, altrimenti mio padre mi fa fuori prima ancora che possa metterti la fede al dito.» sussurrò il giovane, afferrando anche l’altra mano della sua amata.
«Voi siete completamente pazzo Arno Dumas Pierre…» sorrise lei, ancora completamente sconvolta.
«Di voi, cara Juliette…» le rispose, per poi rubarle un fugace bacio ed uscire anche lui dalla stanza, stava per superare la soglia quando la ragazza lo fermò.
«Arno aspetta! – si voltò di nuovo verso di lei – Questa sera, davanti a Notre Dame.» gli disse semplicemente, sapendo che avrebbe capito.
«Sarà fatto mon amour.» dopodiché se ne andò sul serio, lasciandola sola.
Sì decisamente quella giornata era stata una di quelle impossibili da dimenticare: sentiva ancora il cuore martellarle furioso nel petto. Arno, le aveva praticamente chiesto di sposarla.
Per tutto il tempo delle lezioni pomeridiane, era talmente in estasi per quella notizia che le sembrò di essere su una qualche nuvola, al di sopra persino della nube viola di Comt Ténèbre. Solo quando fu a letto, sotto le coperte del suo baldacchino era riuscita davvero a realizzare quella notizia.
«Tikki, ti rendi conto? Sposerò Arno!» disse entusiasta.
«Sono felice per te Juliette. – le sorrise la piccola kwami rossa – Non sai quanti matrimoni e celebrazioni tra il portatore del Gatto e la mia portatrice ho visto, ed ogni volta è speciale.»
«Davvero?» sbadigliò lei.
«Sì! Vedi quando i portatori del Gatto e della Coccinella si uniscono, in qualche modo c’è una cerimonia particolare che vede i due amanti…» la piccola kwami si ammutolì.
Juliette si era addormentata, cullata da quel bellissimo sentimento chiamato amore. Tikki sorrise divertita, poi si avvicinò al suo viso regalandole un bacino sulla guancia.
«Buonanotte Juliette.» disse per poi accoccolarsi alla sua guancia, proprio sul cuscino e mettersi anche lei a dormire.

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Capitolo 26
*** Il matrimonio ***


Il matrimonio
20 Novembre 1790

Arno si affacciò alla finestra del suo appartamento, quell'appartamento nel centro della capitale, che gli era stato assegnato un anno prima per poter supervisionare le rivolte ormai giornaliere.
Il cielo quel giorno su Parigi era a malapena lilla. Da quando il tredici luglio dell’anno precedente Comt Ténèbre aveva dato il via al suo vero e proprio complotto, controllando la mente dei rivoltosi a Parigi, le cose sembravano essere migliorate. Lui e Juliette avevano deciso come agire il giorno in cui lui aveva chiesto al padre di lei la sua mano. Quella sera s’incontrarono a Notre Dame e parlarono a lungo: di loro, del loro futuro, di ciò che stava accadendo e poi presero la loro decisione. Non aveva senso correre e portare ogni volta allo stremo delle forze Juliette, rischiando di farla star male come l’ultima volta; avrebbero agito una o due volte a settimana, purificando non più di dieci persone alla volta. Secondo Tikki e Plagg, una volta purificati dal potere di Coccinelle le persone non potevano più essere contaminate, a meno che non fossero persone davvero impure, cosa che di certo non erano i poveri disperati che si ribellavano perché morivano di fame, il resto delle volte in cui si sarebbero trasformati sarebbe stato solo per quietare gli animi e controllare le rivolte. Spesso, quando toccava al plotone di Arno sedare le varie insurrezioni, era solo Juliette a trasformarsi in Coccinelle e a dar man forte al compagno. Lui d’altro canto, aumentando la distanza e l’astio con suo padre, era riuscito a convincere il suo plotone a non fare assolutamente alcuna vittima tra i ribelli, cercando di calmare i tumulti il più pacificamente possibile.
Per questo motivo, nonostante la rivoluzione non sembrava minimante accennare a diminuire loro si sentivano più sicuri e riuscivano a notare la differenza dai primi tempi, soprattutto perché finalmente il popolo di Parigi li aveva riconosciuti come loro alleati e il sovrano era troppo impegnato con le varie assemblee nel tentativo di smorzare tutto quel caos per accorgersi di loro.
Forse era per quel motivo, che finalmente avevano trovato il giorno adatto per quell’evento.
Si allontanò dalla finestra per poi guardarsi allo specchio e sistemarsi meglio la divisa scura, che gli avevano fatto cucire apposta per quel giorno.
«Nervoso?» chiese Plagg svolazzando di fronte a lui mangiucchiando un triangolino del suo adorato camembert.
«Parecchio…» sospirò lui.
«Sinceramente non capisco tutta questa agitazione: insomma ci sei andato a letto così tante volte, cosa sarà mai un matrimonio?» lo prese in giro la creaturina nera, ricevendo in cambio un’occhiataccia dal giovane soldato.
«Certo, per te è facile, tu e Tikki non vi siete mai sposati.»
«Ah certo… Pensi che ciò che ti ho fatto imparare a memoria in questa settimana fosse tanto per divertirmi?»
«Scusami… Ma sono davvero nervoso…» sospirò nuovamente, sedendosi sulla sedia.
«Beh signor nervoso, è arrivato il momento, quindi evita di sederti e usciamo.»
Arno chiuse gli occhi per un paio di secondi, cercando di ritrovare il suo autocontrollo, per poi alzarsi dalla sedia ed uscire.


Qualche ora dopo era a villa Ponthieu, nella sala che era stata adibita per la cerimonia: fermo e impettito. La vide entrare, bellissima come non mai. 
Il suo elegantissimo adrienne per quell’evento era un bell’abito color crema di broccato. Le cuciture dorate sull’orlo della gonna, delle corte maniche a palloncino e della scollatura rettangolare riprendevano una fantasia di foglie, la stessa fantasia che con dei diamanti le decorava la parte del petto. Al collo portava la collana di perle che gli era stata donata come cimelio dalla sua domestica, ossia dalla madre di lui. I capelli erano acconciati in modo perfetto, mostrando quegli stupendi boccoli castani che le incorniciavano il viso: quel viso delicato di cui si era innamorato.
Come richiedeva la tradizione lei non gli volse nemmeno uno sguardo e, accompagnata dal celebrante, si recò di fronte a suo padre, inginocchiandosi sul cuscino di velluto rosso. Il duca Ponthieu le diede la benedizione, sorridendole orgoglioso: dal suo sguardo si capiva che pure lui era commosso. Dopodiché il cerimoniere la aiutò a rialzarsi e finalmente la scortò davanti a lui. 
Avevano con molta fatica convinto il sacerdote a permettergli di fare una loro promessa: una promessa che a detta di Tikki e Plagg si erano fatti sempre tutti i portatori della coccinella e del gatto, compresi i due kwami, quando avevano deciso di unirsi per sempre.
Quando finalmente fu di fronte a lui le sorrise. Posò la mano sinistra sulla sua spalla destra e vide lei fare lo stesso nei suoi confronti, ma dall’altro lato; mentre le altre due mani, sinistra per lui e destra per lei, combaciavano perfettamente incontrandosi a metà strada tra loro.
Prese un lungo respiro e poi recitò quella parte che Plagg gli aveva insegnato meticolosamente, mentre si perdeva in quegli occhi color miele.
«Nell’oscurità, nel dolore, nella sfortuna e nella morte, finché avrò questo potere non ti tradirò mai, ti starò sempre vicino e ti guiderò in modo che tu possa fidarti di me.»
A quel punto fu lei a rispondergli, con qualcosa che probabilmente gli aveva insegnato Tikki, ma che Plagg non gli aveva riferito dicendogli che lui assolutamente non avrebbe dovuto sapere fino a quel momento.
«Nella luce, nella gioia, nella fortuna e nella vita, finché avrò questo potere non ti abbandonerò mai, ti starò sempre vicino e ti accompagnerò in modo che tu possa sognare con me.» nel sentire quelle parole, il cuore iniziò a martellargli nel petto furioso e dovette metterci tutto il suo impegno per ritornare lucido e concludere quella promessa.
«Per sempre.» disse.
«Per sempre.» rispose lei, sorridendogli. A quelle ultime parole il cerimoniere diede finalmente la sua benedizione e alla conclusione di quella i due si poterono baciare.
Arno allungò le braccia verso di lei, una verso la sua vita e l’altra verso il suo viso, per poi incontrare le sue labbra: nonostante non fosse il loro primo bacio, nonostante era ormai più di un anno che amava quella bellissima nobildonna davanti a lui, quel bacio fu come la prima volta che la sua bocca si posava su quelle delicate labbra rosee.
Intorno a loro i parenti e gli amici applaudivano festosi e anche quando si staccarono da quel bacio casto ma carico di amore e passione, quei battiti di mani impetuosi non si fermarono.
Dopo quel bacio, l’orchestra, posizionata all’angolo della stanza cominciò a suonare un minuetto e con un inchino Arno si scostò, allontanandosi dal centro della stanza e lasciando Juliette ballare quella danza da sola, come voleva la tradizione.
Rimasero tutti a guardarla ammaliati, lui più di tutti, distolse lo sguardo dalla sua amata moglie, solo quando qualcuno gli batte sulla spalla compiaciuto.
«Allora capitano, alla fine ha ceduto anche lei all’amore.» disse il suo secondo, che era diventato anche il suo migliore amico, negli anni fianco a fianco.
«Queste sarebbero le tue congratulazioni René?» chiese divertito lui.
«Congratulazioni, capitano Pierre!» gli sorrise lui, stringendogli la mano.
«Grazie Bourgeois.»
Quando il minuetto finì, finalmente altre persone si unirono alle danze, posizionandosi al centro della sala e iniziando a muoversi a ritmo della nuova musica e pure Arno poté raggiungere la sua dama.
«Mi concede questo ballo, mademoiselle Pierre?» chiese, porgendole la mano con un gesto elegante.
Lei con un dolce sorriso e senza nessuna risposta, poggiò la mano sulla sua e si avvicinò di più a lui. Dopodiché anche loro incominciarono a volteggiare nell’enorme sala.

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Capitolo 27
*** L'imprevisto ***


L' imprevisto
 
20 Novembre 1790

Juliette non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, era strana la sensazione che provava in quel momento: si sentiva come se finalmente fosse libera, l’idea di essere legata a lui per sempre l’aveva mandata sulle nuvole, ancora più sopra di quell’odiosa nube viola che ancora incombeva su Parigi; ora quell’uomo era suo a tutti gli effetti e non si doveva vergognare più di nulla.
Sì, perché per quanto tra le giovani nobildonne che volevano l’avventura e la trasgressione fosse quasi un gioco concedersi al primo belloccio che incontravano, lei invece, educata dal padre, era cresciuta con dei principi, dei principi che, nonostante l’amore e l’attrazione incondizionati che provava per Arno, l’avevano messa più di una volta a disagio per aver perso la sua voluttà prima del matrimonio.
Ora però nessuno avrebbe più potuto dire nulla, ora lei aveva tutto il diritto di passare le sue mani tra quei lunghi capelli corvini, aveva tutto il diritto di perdersi in quegli occhi liquidi del colore della Senna d’inverno, aveva tutto il diritto di sfiorare i suoi muscoli scolpiti. Ora erano legati per sempre.
Tutto questo pensava, mentre danzava con lui, continuando a guardarlo, come d’altronde lui faceva con lei. 
Attorno a loro altre coppie danzavano e continuavano i festeggiamenti, ma a loro sembrava di essere in un altro mondo, un mondo dove c’erano solo loro, dove non dovevano combattere contro Comt Ténèbre, dove la rivoluzione era lontana, dove potevano godersi almeno quei momenti senza essere disturbati.
Persino quando le danze finirono e proseguì il ricevimento, o quando l’enorme e sontuosa torta nunziale, ricoperta di panna e glassa perlacea, preparata dai pasticcieri assunti dalla nobile famiglia Ponthieu, entrò nella sala portata da ben quattro camerieri e fu servita a tutti, loro continuavano a rimanere in quel mondo tutto loro, assuefatti dalla sensazione di appartenersi, di essere finalmente uniti anche nello spirito, oltre che nella passione e nel corpo.
Quando finalmente si ritirarono nelle stanze adibite per la loro prima notte di nozze, in casa della sposa, proprio come voleva la tradizione, finalmente sembrarono uscire da quel limbo di beatitudine: la realtà gli piombò addosso, travolgendoli come un tornado. Fu Tikki a dar loro la cattiva notizia, schizzando fuori dalle pieghe candide del vestito da sposa di Juliette.
«Odio rovinarvi questo momento, soprattutto ora, ma non possiamo più attendere: avverto chiaramente la forza di Comt Ténèbre accumularsi di fronte al municipio.» disse, con la sua vocina e lo sguardo azzurro addolorato nel dare quella notizia.
«Un’altra protesta?» chiese Arno, tornando sull’attenti. Nonostante sentiva il bisogno quasi impellente di unirsi nuovamente a quella che ora era sua moglie, il dovere chiamava e il suo lato da soldato e da capitano gli impediva di cedere ai suoi istinti.
«Non ne sono sicura, ma credo di sì.» rispose la kwami rossa.
«È assurdo. Il comune e la municipalità entra finalmente in funzione e quelli già tentano di farla crollare!» protestò il giovane, passandosi una mano sul viso, in un gesto esasperato.
«Avanti, non abbiamo tempo da perdere. – lo incitò la compagna – Tikki trasformami!» disse.
Arno rimase per un attimo incantato nel vedere quel suo elegante e sontuoso vestito trasformarsi nel costume completo di gonna e corpetto a pois di Coccinelle. Dopodiché, quando quegli occhi color del miele, dietro la maschera, lo guardarono severi e in attesa, si riscosse da quel momento d’incanto e anche lui ordinò al suo kwami di trasformarlo.
Uscirono dalla finestra della camera, sperando di tornare in tempo in modo che nessuno si accorgesse della loro assenza. Uscire dalla camera designata agli sposi la prima notte di nozze, non solo si diceva portava male, ma era anche molto sconveniente, perché stava a significare che i due novelli sposi avessero qualcosa da nascondere.
Saltando da un tetto all’altro con l’agilità che li caratterizzava quando erano trasformati, arrivarono velocemente al municipio. Effettivamente, anche a quell’ora tarda, c’era gente che urlava e protestava furiosa: le fiaccole accese illuminavano la piazza oscura.
«Bene, ne vedo solo quattro controllati dal conte, quelli davanti che incitano la folla.» disse la ragazza scrutando il folto gruppo di gente dall’alto.
«Qual è il piano?» chiese l’eroe felino.
«Penso di metterci non più di una decina di minuti a purificarli, loro però sono parecchi, riesci a tenerli a bada tutti?» chiese scrutando la ventina, se non di più, di persone che c’erano.
«A patto che la mia ricompensa dopo sia soddisfacente...» le rispose lui ammiccando divertito.
«Chat, non mi sembra proprio il momento!» protestò irritata la ragazza, mentre le sue guance assumevano lo stesso colore della sua maschera.
«Ti ricordo che è la nostra prima notte di nozze, quindi è il momento eccome.» ribatté di nuovo lui.
Lei invece non rispose più e con un balzo atterrò sulla piazza e si mise a debita distanza in modo da non essere notata subito dai rivoltosi e avere comunque la possibilità di purificare tranquillamente le quattro vittime del loro nemico, senza sprecare troppe energie.
Il suo yo-yo s’illuminò di rosso, ma rimase chiuso, solo quando vide il suo compagno pararsi davanti al gruppo di gente: frapponendosi tra loro e il municipio, lo attivò.
Aveva già purificato due nemici, quando qualcosa che non si aspettava la distrasse: i suoi occhi, inquieti e sempre posati sulla battaglia che Chat Noir stava fronteggiando, videro qualcosa, qualcosa che però non riuscì a riferire in tempo al suo compagno.
«Chat, dietro di te!» urlò.
L’eroe gatto a quell’urlo riuscì a girarsi in tempo per vedere il suo aggressore, ma non abbastanza per schivare del tutto l’attacco: l’arma dell’uomo lo ferì al braccio sinistro. Sentì la lama sfiorarlo e provocargli quell’insopportabile bruciore, subito dopo riuscì ad atterrare l’uomo con un colpo del suo bastone nello stomaco.
«Lucky Charm!» sentì urlare e, alzando lo sguardo, vide Coccinelle che riceveva dal suo potere l’oggetto fortunato. Da quella distanza non riusciva a comprendere cosa fosse, ma quando lei, correndo, lo raggiunse finalmente riconobbe una cintura rossa a pois neri. 
«Ce la possiamo fare! Metti questa poco sopra la ferita, così bloccherai il sangue, a loro ci penso io!» gli ordinò la ragazza, porgendogli la cintura.
Lui fece come richiesto e con l'aiuto della bocca e dei denti si strinse la cinghia poco sopra il bicipite.
La sua compagna combatteva egregiamente: aveva sottratto una spada ad uno degli uomini e, nonostante non fosse certamente brava quanto lui, a battersi con la spada riusciva a tenere testa a tutti, grazie alla lama appena acquisita e alla sua consueta arma. 
«Avanti, purifica gli ultimi due!» la incoraggiò, riprendendo il suo posto.
Il resto della battaglia andò meglio. Dopo aver liberato anche le ultime persone dal controllo di Comt Ténèbre, fu facile convincere il resto della gente che si era radunata in piazza a tornare ognuno a casa propria. Finché non rimasero solo loro due, davanti al municipio.
Gli orecchini di Coccinelle emisero il solito suono, le mancava poco, prima di tornare Juliette. Chat Noir si tolse dal braccio la cinghia rossa, che stonava incredibilmente con il suo completo nero e la porse alla compagna.
«Miraculous Coccinelle!» urlò poi lei, lanciando la cintura in alto.
Come al solito tutto tornò normale, ma qualcosa colpì entrambi i giovani amanti, proprio mentre l’orecchino esauriva la sua energia, gettando fuori la kwami rossa: la ferita sul braccio dell’eroe gatto era ancora lì, evidente e dolorosa.
«Tikki, perché il Lucky Charm non ha funzionato?» chiese preoccupata la nobildonna, di nuovo nel suo vestito bianco.
«Purtroppo le ferite su di voi non possono essere guarite Juliette.» disse dispiaciuta la creaturina. A quel punto fu lui a tranquillizzarla, perché la sua agitazione era già evidente. 
«Non ti preoccupare Juliette... È solo un graffio. Vorrà dire che d’ora in poi staremo più attenti.» le disse, mettendole una mano sulla spalla con un sorriso dolcissimo e rassicurante.
«Sì ma...»
«Shhh... – la interruppe lui poggiandole le punte delle dita sulle labbra – Ora voglio solo tornare a casa tua e godermi l’idea di averti come moglie.» disse.
Lei a quella confessione non disse nulla, semplicemente si perse per un attimo in quegli occhi felini che per tanto tempo le avevano fatto battere il cuore, anche prima che conoscesse il capitano. A quel punto Chat la sollevò, mettendo un braccio sotto la piega delle sue ginocchia e l’altro sotto le spalle. Lei si aggrappò al suo collo e in questo modo la portò via da quella piazza, in direzione di villa Ponthieu.

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Capitolo 28
*** La notte ***


La notte
21 Novembre 1790

Arno la stava osservando insistentemente, percepiva il suo sguardo rovente, nonostante i suoi occhi dal colore del ghiaccio, che le sfiorava ogni centimetro di pelle scoperta e forse anche non visibile, sotto il suo abito da sposa. Le sue mani, intente a medicare al meglio la ferita che aveva al braccio sinistro, stavano iniziando a muoversi in modo meno deciso e rapido. Sentiva il suo cuore martellare furioso nel petto e le cose peggiorarono quando per fasciargli la ferita si sedette sul letto di fianco a lui per mettersi più comoda.
Se già il suo autocontrollo era al limite, solamente guardando il petto nudo del suo neo marito, che si era dovuto togliere la camicia per rendere accessibile la ferita, figurarsi quando la sua mano destra, con movimenti lenti e allo stesso tempo decisi, le tolse una delle eleganti scarpe color crema, che ancora indossava e iniziò a percorrere tutta la sua gamba. Le sue dita le sfiorarono la pelle della caviglia, del polpaccio, per poi sollevare l’ingombrante gonna dell’adrienne bianco e arrivare fino alla coscia.
«A-Arno... Devo...» cercò di dire non riuscendo a trattenere un gemito sommesso, quando la sua mano si strinse attorno alla carne che stava sfiorando poco prima.
Con le mani ormai tremanti concluse la fasciatura con un piccolo nodo e non appena ebbe finito, l’uomo le fu addosso. Continuando a tenere la mano destra nel suo interno coscia, si tuffò sulle sue labbra quasi come se non la baciasse da giorni, vorace e irrequieto come non mai.
La portò al limite del piacere in meno di un paio di minuti. Semplicemente così, completamente vestita. Non appena ebbe finito, si staccò da lei, lasciandola ansimante è ancora vogliosa di attenzioni, che lui sembrava non volerle più dare.
La guardava ammaliato e malizioso allo stesso tempo, come volesse assaporarsi la soddisfazione di averla eccitata.
«Spogliati!» le ordinò, la sua voce perentoria e roca le diede un brivido che le percorse tutta la schiena.
«Cosa?!» chiese ancora scossa da tutto quello che era accaduto fino a quel momento.
«Alzati in piedi e spogliati per me...» specificò, il suo tono questa volta si era addolcito un poco, nonostante sentiva ancora il suo sguardo penetrante che la intimidiva.
Con movimenti lenti e indecisi si alzò dal letto e, zoppicando per la mancanza di una scarpa, si posizionò davanti a lui. Iniziò portandosi la mano destra sul lato sinistro, scoprendo così la spalla, dopodiché fece la stessa cosa con la spallina destra. Con davvero poco sforzo il vestito bianco scivolò via lungo il suo corpo, cadendo ai suoi piedi. A quel punto si sfilò elegantemente la scarpa e uscì da quel cerchio di stoffa bianca che si era creato attorno a lei.
Era rimasta solamente con il busto e la sottogonna, aveva già portato le mani al petto, pronta a sbottonarsi lo stretto corsetto che le premeva sull’addome, ma incrociò di nuovo quel suo sguardo focoso e penetrante e i suoi movimenti si bloccarono all’improvviso.
«Arno... Davvero non possiamo fare come sempre?» chiese abbassando lo sguardo e guardandosi i piedi nudi.
«No... Non questa volta...» le rispose lui.
Ancora un po’ titubante si tolse gli ultimi indumenti, mostrando il suo corpo completamente nudo all’uomo. I suoi occhi erano ancora puntati verso il pavimento, ma percepì chiaramente lo scricchiolio del letto che veniva abbandonato dal suo occupante e poi sentì le mani di Arno sfiorarle le braccia, che lei aveva lasciato inermi lungo i fianchi.
Alzò lo sguardo incrociandolo di nuovo con il suo, nonostante riuscisse a percepire ancora quella sua irrefrenabile voglia di lei, nel suo sguardo c'era anche dolcezza.
«Non ti lascerò andare mai più Juliette Pierre.» disse, enfatizzando il suo cognome.
La vide tremare, un solo brivido che gli fece capire quanto quelle semplici parole l’avevano toccata. La baciò, abbracciandola e spingendola contro il suo corpo: riusciva a percepire distintamente il seno di lei, aderire e premersi poco sotto i suoi pettorali. Continuò a baciarla, sentendola gemere ad ogni suo tocco un po’ più deciso, fino a che non la portò nuovamente nel letto.
Solo a quel punto la lasciò, ancora sospirante e trepidante: vedeva il suo sguardo color del miele guardarlo supplichevole, come se non vedesse l’ora di riunirsi a lui, come se quei pochi passi di distanza tra loro fossero già troppi per lei.
Si tolse gli indumenti restanti aggiungendoli all’abito bianco, della sua amata, per terra, mostrandole la sua nudità, ma soprattutto la sua virilità.
Qualcosa però nel suo comportamento lo stupì: per la prima volta non voltò lo sguardo arrossendo come al solito, com’era accaduto poco prima anzi, posò lo sguardo proprio su quel punto, passandosi la lingua sulle labbra, come fosse pronta ad assaporare di nuovo la sensazione di essere posseduta da lui.
Questo suo breve e semplice gesto lo fece eccitare a dismisura e non potendo resistere un minuto di più le fu addosso. La stese sul letto e riprendendo possesso delle sue labbra rosee e carnose si posizionò sopra di lei.
Questa volta non aveva nessuna intenzione di affrettare le cose, voleva dedicarsi ad ogni parte del suo corpo, ad ogni centimetro della sua pelle, prima di avere il piacere assoluto dell’amore vero.
Juliette dal suo canto era ormai completamente immersa nella libidine: la sensazione eccitante e allo stesso tempo rassicurante delle mani del suo amante che la accarezzavano in ogni centimetro di pelle, che la palpavano nei punti più sensibili, che l’avvolgevano cariche di amore, la facevano sentire bene. Avrebbe quasi voluto che quella notte non finisse mai.
Il batticuore aumentò a dismisura quando, dopo varie e lunghe coccole da parte sua, prese finalmente possesso del suo corpo.
Qualcosa dentro di lei esplose: la consapevolezza che non stava più semplicemente facendo l’amore con il capitano Pierre, che amava da impazzire, e nemmeno con Chat Noir, di cui si era invaghita molto prima. No, ora lei stava facendo l’amore con suo marito.

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Capitolo 29
*** Il risveglio ***


Il risveglio
 
21 Novembre 1790

Juliette aprì gli occhi, sbattendo le palpebre più di una volta nel tentativo di mettere a fuoco l’ambiente intorno a lei. Quando finalmente riuscì a vedere distintamente la camera, un leggero sorriso le si dipinse sul volto, un sorriso che si estese a dismisura quando notò l’altra persona che stava sdraiata sul letto, proprio al suo fianco.
In quell’anno che lo conosceva non gli era mai capitata l’occasione di vederlo dormire, mentre sicuramente da quel giorno in poi sarebbe accaduto più volte. I suoi capelli corvini erano sparsi sul cuscino, come a macchiarlo d’inchiostro e il suo corpo nudo, semi coperto dalle lenzuola era scolpito come sempre, nonostante tutti i muscoli fossero rilassati. La cosa però che attirò più di tutte la sua attenzione fu il suo viso: difficilmente aveva visto quel volto così rilassato e tranquillo, sembrava quasi che il giovane e aitante capitano si fosse trasformato in un bambino che dormiva quieto, sognando chissà quale giocattolo.
Si portò una mano al viso, scostando una ciocca di capelli e fermandola dietro l’orecchio, per poi chinarsi verso di lui e poggiare lievemente le labbra sulla sua guancia.
Lui mugugnò qualcosa, un brontolio sommesso che la fece ridere e non appena sentì la sua voce cristallina che rideva, tentò con fatica di aprire gli occhi.
«Buongiorno monsieur Pierre.» le disse lei sorridente, se ne stava seduta sul letto, con la mano destra che teneva ben ferme le lenzuola sul petto.
«Buongiorno madame Pierre. – sorrise lui, mettendosi anch’egli seduto e schioccandole poi un bacio sulle labbra, rimanendo però a pochi millimetri da lei – Sai avresti dovuto svegliarmi dopo esserti messa qualcosa addosso.» le sussurrò a fior di labbra.
«Perché?» chiese lei, anche se il suo corpo aveva già percepito la malizia nella sua voce e l’aveva già fatta arrossire prima che potesse rendersene conto.
Lui per tutta risposta con alcuni movimenti veloci, la fece ricadere di nuovo sdraiata sul letto, bloccandole i polsi sopra la testa con una sola mano. Dopodiché, le liberò il petto dalle lenzuola, permettendogli di dedicarcisi, strappandole brevi gemiti.
Si dovettero fermare però, non appena qualcuno bussò alla porta della stanza.
«Monsieur, Madame... Siete svegli?» disse la voce di una delle domestiche di villa Ponthieu. I due si separarono e Juliette si coprì nuovamente il petto con il lenzuolo.
«Sì, sì siamo svegli...» disse la giovane nobildonna con voce roca, ancora troppo presa da ciò avevano interrotto.
Quel timbro di voce, smorzato dall’eccitazione e dall’imbarazzo che ancora provava, divertì il capitano, che trattenne una risata, proprio mentre la domestica apriva la porta, tanto che beccò in flagrante Juliette, colpirlo con un gesto delicato e offeso, al braccio, mentre lui ancora sogghignava divertito.
«La vostra colazione è pronta nella sala da pranzo.» disse la donna facendo un’inchino.
«Grazie, verremo non appena saremo presentabili.» le rispose con un sorriso lei, congedandola.
Quando la porta si richiuse, Arno si avvicinò nuovamente a lei.
«Dov’eravamo rimasti?» disse passando le dita lungo la sua schiena, nel sentire quel tocco ebbe dei brividi, ma riuscì a mantenere la lucidità per staccarsi da lui ed alzarsi dal letto con un movimento veloce.
«Eravamo rimasti che ora ci vestiamo e andiamo a fare colazione.» disse con un tono, quasi, di rimprovero.
«Vorrai scherzare spero.» commentò lui osservandola.
«Affatto!» rispose lei mettendo le mani sui fianchi.
«Fammi capire... Tu esci dal letto, completamente nuda, ed io dovrei stare fermo?» chiese ancora indispettito lui.
«Hai capito benissimo, caro mio.» rispose lei avvicinandosi all’armadio in cui erano stati messi solamente gli indumenti e gli abiti di entrambi per quella mattina.
«Juliette tu mi uccidi...» sospirò, puntando gli occhi sul suo fondoschiena, sodo e un po’ sporgente, com’era sempre stato.
«Tranquillo capitano... Non ho nessuna intenzione di rimanere vedova prima del dovuto.» lo rimbeccò lei voltandosi con un sorriso dolcissimo, a quel punto l’uomo sospirò e decise anche lui di alzarsi dal letto.
Una ventina di minuti dopo, erano entrambi pronti e presentabili, lei nel suo polonaise rosa pallido e lui in un completo bordeaux.
«Più che ucciderti, – disse lei, aggiustando il colletto al marito – credo di aver ufficialmente rovinato la tua reputazione.» lui la guardò dubbioso, per poi osservare allo specchio se fosse tutto a posto.
«Ora che sei sposato, il tuo nome di donnaiolo di Versialles è ufficialmente andato in fumo.» precisò lei, spiegandosi meglio.
«Mia cara, questo è successo più di un anno fa, quando decisi di non sfiorare nessuna donna che non fossi tu.» rispose lui abbracciandola nuovamente.
«Sentite voi due... Avete un po’ rotto... Volete scendere a fare colazione e portare qualcosa da mangiare anche a noi, oppure continuate ad amoreggiare?» sbottò Plagg all’improvviso, ricordando ad entrambi che in camera vi erano anche i due kwami.
«Lo sai che sei esasperante, quando vuoi?» protestò Arno.
«E tu perennemente in calore.» ribatté il piccolo gatto dagli occhi verdi.
Arno stava per controbattere di nuovo, ma Juliette lo precedette.
«Conviene che veniate con noi, anche perché non credo che torneremo qui. In giornata ci sarà il trasferimento nell’altra villa.»
A quel punto anche Tikki si alzò in volo e, dopo aver dato un piccolo bacio sulla guancia della sua portatrice, si tuffò tra le pieghe del suo vestito.
«Cosa c’è? Vuoi darmi un bacino anche tu?» chiese il portatore del Miraculous del Gatto, al suo compagno, che era rimasto fermo immobile a guardare la scena. 
A quella frase i due occhi felini si piantarono su di lui, furiosi, per qualche secondo, dopodiché anche lui si nascose all'interno della giacca del capitano.

 


La vendetta è un piatto che va servito freddo e lui lo sapeva bene.
Per questo motivo stava attendendo, per questo motivo stava alimentando le rivolte continuando però a far credere ai due portatori di poter riuscire a controllare la situazione. Loro però non avevano idea di cosa potesse fare, non avevano idea che quella ancora era una lieve brezza in confronto alla bufera che si sarebbe scatenata ben presto.
Ancora poco, ancora poco e finalmente i due Miraculous più potenti sarebbero stati nelle sue mani e a quel punto ottenere gli altri sarebbe stato un gioco da ragazzi.

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Capitolo 30
*** La villa ***


La villa
21 Novembre 1790

Arno infilò le chiavi nella serratura del cancello, la moglie al suo fianco. Quello per loro era un grande passo, ma lo era sopratutto per lui: nonostante suo padre non si era presentato al matrimonio, ben presto gli avrebbe sbattuto in faccia il fatto che si era sposato con una nobildonna parigina.
Attraversarono il piccolo cortile che portava dalla cancellata al portone della villa e lì si fermarono, in attesa che i domestici, assunti appositamente da monsieur Ponthieu per portare i loro ultimi bagagli, compiessero il loro dovere, raggiungendoli.
«Attraversata questa porta, inizierà la nostra nuova vita insieme.» disse lei, sorridendogli. Lui, con un sorriso altrettanto grande e altrettanto radioso, le prese la mano con la sinistra e con la destra infilò un’altra chiave al portone.
L’interno non era affatto come lo ricordavano: già solamente l’ingresso, completamente ristrutturato e arredato pareva decisamente un’altra cosa rispetto a quando l’avevano visto il giorno che il padre di Juliette l’aveva comprata loro. Il marmo bianco per terra dava l’impressione di camminare sulle nuvole e la donna rimase incantata dal bellissimo lampadario di cristallo che era appeso al soffitto.
I tre facchini, con un leggero colpo di tosse attirarono l’attenzione di entrambi.
«Dove portiamo questi, madame?» chiesero a Juliette.
«Portateli pure nei nostri appartamenti e sistemateli nel guardaroba.» disse con quel suo tono dolce, ma autoritario, che la caratterizzava sempre quando si rivolgeva a qualcuno che lavorava per lei.
I due giovani novelli sposi visitarono l’intera magione, assicurandosi che tutto fosse esattamente come avevano immaginato e voluto. Quello da quel momento in poi sarebbe stato il loro nido, il loro rifugio, ma non solo il loro, anche quello di Tikki e Plagg, nonché di Coccinelle e Chat Noir. Sì, perché avevano richiesto al padre di Juliette solamente due domestiche per la loro villa, tanto che dovettero insistere parecchio per convincerlo: perché questi non riusciva a immaginare cosa potessero fare due domestiche soltanto e queste erano Francine, ossia la madre di Arno, e Marie, che nonostante la sua giovane età e la sua inesperienza si era affezionata ai due. Poi avevano un cuoco in cucina e nessun altro.
Nel loro piccolo avevano deciso che, a tempo debito, a quelle tre persone avrebbero rivelato la verità, perché erano persone di cui si fidavano, in modo che in quella casa regnasse la pace e la tranquillità, senza nessun segreto.
«Lo sai che saranno perennemente in apprensione per noi quando usciremo, vero?» le aveva ricordato Arno, quando Juliette propose quella sua idea.
«Lo so, ma non voglio più aver paura di essere scoperta e poi i nostri poveri kwami devono sempre rimanere nascosti.»
Alla fine Arno cedette, dicendole che la sera stessa in cui si sarebbero trasferiti nella nuova casa avrebbero fatto quella rivelazione al personale.
I due facchini si congedarono con un inchino dai coniugi Pierre, dicendo loro che le domestiche e il cuoco sarebbero arrivati di lì a un ora, con le prime provviste e le ultime cose che mancavano. I due ringraziarono e continuarono la loro visita per la casa.


La sera, per cena, ebbero ospite il padre di Juliette, come da tradizione: in realtà la tradizione prevedeva che ci fossero entrambi i genitori di entrambi gli sposi e, visto che la madre di lei non c’era più e il padre di lui non si era presentato nemmeno il giorno prima, l’unico invitato aveva insistito che Francine per quella sera rimanesse a tavola con loro, rendendo disponibile una domestica di villa Ponthieu per aiutare Marie a servire.
Nonostante l’iniziale imbarazzo della donna, ben presto si sciolse e la cena andò liscia come l’olio: tra chiacchiere, promesse e tranquillità. A fine serata, monsieur Ponthieu fu accompagnato alla porta dalla figlia e suo marito.
«Arrivederci padre, ci vediamo nel fine settimana.» lo salutò dolcemente la figlia con un sorriso.
Non appena chiusero la porta alle spalle dell’uomo i due coniugi si guardarono con aria grave e seria.
«Credo sia il momento...» disse Arno.
In quello stesso istante Tikki uscì dal suo solito nascondiglio tra le pieghe dell’abito della sua portatrice.
«Juliette non lo fare! Non ricordi che cosa ha detto Noél? Nessuno deve conoscere le vostre identità!» disse con tono preoccupato.
«Sì ricordo bene cos’ha detto il maestro Noél, ma visti i recenti avvenimenti e visto l’aumento delle rivoluzioni abbiamo bisogno di qualcuno a casa che se torniamo feriti ci medichi e ci dia una mano.» le rispose la giovane nobildonna mettendo le mani a conca sotto di lei e permettendole di sedercisi sopra.
«Forse la ragazza ha ragione. – commento l’altro, uscendo anche lui allo scoperto e poggiandosi sulla spalla di Arno – Insomma sappiamo bene che molte volte il guardiano ha fornito tutti e sette i Miraculous e questa volta ci sono solo loro due ad affrontare una rivoluzione come questa, direi che avere un paio di alleati a casa che li attendono non è una cosa così terribile.» a quelle parole la kwami rossa sospirò, rassegnata.
«Stai tranquilla. Ci fidiamo di loro, vedrai che non diranno nulla.» la rassicurò Juliette.
«Insomma... – commentò Arno, che fino a quel momento era rimasto in silenzio – Non è che mi fidi molto di Marie.» alla moglie scappò una dolce risata.
«Marie è pettegola, in effetti, ma la conosco bene. Sono sicura che per una cosa così seria terrà la bocca cucita, almeno con chi non deve sapere.»
«Allora andiamo?» chiese lui, mentre i due kwami tornavano nascosti.
Lei rispose con un cenno di testa e si diressero nelle cucine della villa dove avevano detto alla scarsa servitù di ritrovarsi dopo la cena in loro attesa.

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Capitolo 31
*** La confusione ***


La confusione
 
19 Giugno 1791

Juliette si fece avvolgere dal potere di Tikki e del suo Miraculous. Era ormai da più di due mesi che la nube viola di Comt Ténèbre sembrava essere completamente sparita, eppure le proteste e le manifestazioni parevano aumentare e i due eroi non erano più sicuro di capire cos’avesse in mente il loro nemico, perché certamente non l’avevano sconfitto.
«Sei pronta?» le chiese Chat Noir, quando fu nei suoi abiti da super eroina, lei rispose con un cenno di testa ed entrambi uscirono dalla finestra dei loro appartamenti.
«Fate attenzione!» urlò loro, come faceva di solito, Francine, sperando con tutto il cuore che non tornassero feriti.
Alla domestica quella situazione non piaceva per niente: già quando, sette mesi prima, avevano rivelato a tutto il personale la loro doppia vita la cosa le era piaciuta davvero poco, ma per qualche strano motivo, in quell’ultimo periodo quella sensazione d’inquietudine era tornata. Non avrebbe assolutamente sopportato una perdita, soprattutto se si trattava di uno di loro due: di un figlio finalmente ritrovato e di quella che poteva considerare una figlia adottiva.

 

Coccinelle e Chat Noir atterrarono nella piazza, una delle tante che come al solito era assediata. La loro fama ormai aveva fatto il giro di tutta la Francia e non solo della capitale: i parigini però, come anni prima, quando si erano ufficialmente manifestati durante la presa della Bastiglia, non sapevano esattamente se fidarsi o meno di loro; sia i soldati che i cittadini non avevano ancora compreso da quale parte stessero e, a dirla tutta, non lo sapevano nemmeno loro. Tutto ciò che facevano era evitare che ci fossero troppe vittime durante le rivolte, ormai sempre più furiose e aggressive.
La capitale francese ormai era stremata e sfinita da quelle continue proteste e i due eroi speravano che prima o poi qualcuno se ne accorgesse e facesse qualcosa, ma forse nemmeno quello ormai sarebbe bastato. L’anno precedente, ad esempio, il 14 Luglio, era stato il primo anniversario della presa della Bastiglia e a Campo Marte, il sovrano, assieme alla moglie, scortati ovviamente dalla sua guardia personale, e quindi anche da Arno, avevano prestato giuramento al Paese e alla Costituzione: in quel preciso istante il popolo credette che il re avesse accettato i cambiamenti sociali e politici appena instaurati, ma le cose non andarono così e ben presto era tornata la rabbia.
Tutto portava a ciò che si trovavano davanti: soldati che avevano abbandonato il loro ruolo perché avevano compreso di essere dal lato sbagliato, cittadini furiosi che protestavano e quelle poche guardie rimaste a proteggere il re e lo stato generale che non sapevano più come gestire la situazione.
«Finalmente siete qui!» disse uno di quest’ultimi.
«Scusate il ritardo.» rispose l’eroe gatto, tirando fuori il suo bastone.
Come al solito i rivoltosi erano tanti e talmente carichi di rancore che ormai non se la prendevano più con le persone, comprendendo che sarebbe stato inutile, piuttosto si accanivano sulle strutture pubbliche che c’erano in piazza.
«Qualche idea, mon amor?» chiese Chat Noir, mentre lei rimaneva per qualche secondo ad osservare quel caos, dopodiché lanciò la sua arma in aria.
«Lucky Charm!» gridò e tra le sue mani cadde una semplice chiave, caratterizzata dal solito colore sgargiante che assumevano tutti gli oggetti fortunati.
«Credo di non aver capito…» commentò Arno, allontanando un rivoltoso dalla statua al centro della piazza, che aveva preso già abbastanza colpi.
«Nemmeno io, ma ci penseremo più tardi.» rispose lei mettendosela alla cintura e affiancandolo per evitare che qualche altro cittadino menomasse di un’altro dito la povera statua.
Se Chat Noir li respingeva con il bastone, lei con il suo yo-yo faceva altrettanto, visto che dovevano retrocedere per evitare che la rotella li compisse. Li fecero indietreggiare sempre di più, quando finalmente la ragazza comprese a cosa servisse quella chiave.
«Chat Noir, dobbiamo spingerli verso le cancellate!» disse indicando la via alle spalle della folla.
«Agli ordini!» rispose lui.
Con un po’ di fatica e con l’aiuto degli altri soldati, spinsero tutti i rivoltosi verso quella viuzza che si affacciava alla piazza, non appena anche l’ultimo cittadino arrabbiato fu sospinto via, Coccinelle tirò la leva che chiudeva gli ingressi alla via, attivandola con il suo Lucky Charm. Subito, una serie di sbarre bloccarono i rivoltosi, separandoli da chi era rimasto nella piazza.
«Meritiamo giustizia! Il re è un bugiardo! Non potrete difenderlo per sempre!» urlavano con furia, anche da oltre le cancellate.
La giovane eroina li guardava con sguardo triste non sapendo cosa fare, fu Chat Noir a distoglierla dalla loro disperazione, mettendole una mano sulla spalla e avvicinandosi a lei.
«Andiamo mon amor… Non possiamo fare nient’altro per loro.» le sussurrò con tono mesto, subito dopo anche il suo orecchino le ricordò che dovevano assolutamente andarsene.
Con un sospirò lanciò lo yo-yo verso uno dei tetti della piazza, dirigendosi nuovamente verso casa, seguita dall’eroe nero.

 

«Arno dobbiamo fare qualcosa…» disse in un sospiro la donna, tagliando un pezzo di carne.
Dopo essere rientrati alla villa, si erano preparati per il pasto ed ora erano nella sala da pranzo.
«E cosa vorresti fare, amore mio? Non dovrebbe nemmeno più essere nostro compito occuparci di loro. – disse, notando che lei gli aveva lanciato un’occhiata di fuoco, come a rimproverarlo – Non mi fraintendere, non sto dicendo che non voglio intervenire. Il fatto è che il maestro Noél ci ha dato i Miraculous dicendoci che a Parigi si sarebbe presentata una forza oscura e che era nostro compito debellarla e sconfiggerla, non ha mai parlato d’altro.»
«E non hai mai pensato che questa forza oscura non fosse solamente Comt Ténèbre? Insomma è stato lui a dare il via a tutto questo. Lui ha infiammato gli animi dei cittadini fino a farli diventare talmente arrabbiati e furiosi da non aver bisogno della sua influenza. Il male oscuro che dobbiamo combattere è questo. Quello che sta divorando Parigi fino alle ossa.»
Il giovane rimase in silenzio, continuando a consumare il suo pasto. Solo dopo vari minuti si rivolse di nuovo alla sua amata.
«Hai qualche idea in mente?» chiese.
«Hai detto che tra due giorni il re e la sua famiglia fuggiranno a Varennes, giusto?» chiese risoluta lei.
L’uomo rispose prima con un cenno di testa, poi spiegò più nel dettaglio.
«È una cosa che sanno in pochi, una decina di persone non di più. Sua maestà pensa che con questa fuga la Rivoluzione avrà una moderata svolta. Insomma sparendo dalla circolazione non avranno più nessuno con cui prendersela.»
La ragazza scosse la testa nervosa.
«Si scatenerà solamente il caos, senza nessuno che li comanda ognuno farà a modo suo. Parigi ha bisogno di qualcuno che li guidi, ora che anche Mirabeau è morto non daranno retta a nessuno, lui era l’oratore del popolo.»
«Potrebbero dar retta noi. Insomma è vero che molti ci reputano nemici, ma se non avessimo più il re da difendere forse potremmo far comprendere loro che siamo totalmente dalla loro parte.» questa volta fu Juliette a rimanere in un pensieroso silenzio, fino a che non accettò la proposta del marito.
«Sarai insieme alla scorta della famiglia reale, vero?» aggiunse poi.
«Sì. È un incarico a cui non mi posso sottrarre se voglio che mio padre non mi rimandi a fare il soldato semplice.» rispose mesto lui.
Ogni volta che parlava di suo padre la sua voce s’incupiva e il suo sguardo s’intristiva. Juliette allungò la mano sul tavolo, raggiungendo il lato opposto, dov’era seduto lui, e sfiorandogli appena le dita. Arno a quel gesto sollevò lo sguardo su di lei: nuovamente sorridente, decisa e solare, come l’aveva conosciuta. Sorrise anche lui, afferrando completamente la mano che l’aveva raggiunto, per poi stringerla.
«Il dolce!» esclamò Marie entrando nella sala da pranzo e i due si lasciarono la mano, tornando composti e posati, come dei veri nobili.

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Capitolo 32
*** La gentilezza ***


La gentilezza
20 Giugno 1791

Arno era sdraiato sull’enorme letto con la testa appoggiata sul cuscino e le braccia, comodamente, sotto di esso. Teneva gli occhi chiusi, ma era perfettamente sveglio: attento a ciò che la sua amata, seduta di fianco a lui, stava leggendo.
«Per tema, io resto qui con te, in eterno; e più non lascerò questa dimora della notte, qui, qui, voglio restare insieme ai vermi, tue fedeli ancelle, qui fisserò l’eterno mio riposo, qui scrollerò dalla mia carne stanca il tristo giogo delle avverse stelle. – la percepì sospirare, come se l’emozione per ciò che stava leggendo l’avesse bloccata, poi, quando stava per riprendere – Oc...»
«Occhi, miratela un’ultima volta! – continuò lui aprendo gli occhi e puntandoli su quelli stupiti di lei – Braccia, carpitele l’estremo amplesso! E voi, mie labbra, porte del respiro, suggellate con un pudico bacio un contratto d’acquisto senza termine con l’eterna grossista ch’è la Morte!» quando concluse continuò a guardarla con aria seria e decisa, come se volesse farle capire che nonostante quelle non fossero parole sue ci credeva davvero.
All’improvviso, però, lei chiuse il libro e il suo sguardo diventò improvvisamente triste, nell’osservarlo. Quello sguardo, era da tanto tempo che non vedeva quello sguardo. Certo l’aveva vista parecchie volte un po’ più preoccupata per le circostanze che spesso si trovavano ad affrontare, ma quegli occhi spaventati a quel modo, li ricordava solo in un occasione: quando anni prima il conte Grandprè aveva tentato di violentarla. Solo che questa volta non era in pericolo, non c’era nulla che la minacciasse e quello sguardo impaurito e quasi sul punto di piangere, gli spezzava il cuore.
«Juliette, che succede?» domandò preoccupato di quell’improvvisa tristezza.
«Tu lo faresti, vero?» rispose lei con un’altra domanda.
«Lo farei? Di cosa stai parlando, mon amour?» chiese, sempre più preoccupato, mettendosi anche lui seduto e prendendole la mano, che ancora teneva il libro della più famosa tragedia di Shakespeare.
«Tu rischieresti la tua vita per me... Pur... pur di non vedermi morire...» disse quando finalmente le lacrime sgorgarono dai suoi occhi.
Arno percepì nuovamente il suo cuore andare in mille pezzi, come un vetro che si frantuma.
«Juliette, cosa...»
«Non farlo... Non... non potrei sopportarlo... Io...» d’improvviso l’abbracciò, nel tentativo di farla smettere di singhiozzare.
«Juliette, mon amour, calmati. Andrà tutto bene. È soltanto un libro.» le sussurrò, senza però riuscire davvero a comprendere il motivo di quella crisi. Lei scosse la testa, sfregandola contro la sua camicia e bagnandola delle sue lacrime.
«Non è per quello...» disse, la voce ovattata dal tessuto su cui premeva il volto.
Lui, allora, allungò una mano, fino a portare l’indice sotto al suo mento e alzarle in quel modo il viso, in modo che i loro sguardi s’incrociassero.
«E allora cosa, amor mio?»
«Ho paura... Per domani... per ciò che sta accadendo... Questa calma prima della tempesta mi sta facendo impazzire...» disse con gli occhi ancora arrossati.
Lui non rispose, rimase in silenzio e fermo solo per qualche secondo: il tempo di osservare quegli occhi che tanto amava arrossati dalle lacrime appena versate e imprimerseli a fuoco nella mente, come monito a far sì che non accadesse mai più. Dopodiché le prese il viso tra le mani e avvicinò le labbra alle sue, in un bacio affettuoso e dolce. Non appena si separò da lei con un dolce sorriso parlò.
«Andrà tutto bene Juliette… Ricordi cosa ti dissi il giorno in cui chiesi la tua mano a tuo padre? – domandò poi e, notando la sua aria confusa proseguì – Ti avevo promesso che saremmo sopravvissuti entrambi. Nessuno, nemmeno Comt Ténèbre, potrà separarci.» dette quelle parole, voltò la mano destra e le accarezzò la guancia con il dorso.
Subito dopo quel gesto, come rassicurata da esso e dalle parole che l’avevano preceduto, la giovane nobildonna si accoccolò a lui, non più singhiozzante, ma comunque ancora turbata.
Passarono svariati minuti così: lei tra le sue braccia e lui che le accarezzava dolcemente la schiena e i capelli castani, sciolti sulle spalle.
«Arno…» sussurrò il suo nome talmente dolcemente e lievemente che quasi gli sembrò un rantolo di vento.
«Dimmi, mon amour.» rispose lui, continuando a stringerla.
«Prendimi.» rispose semplicemente lei, alzando lo sguardo sul suo viso e incrociando gli occhi con i suoi.
Sul suo volto si dipinse un sorriso, ma non un sorriso malizioso, come accadeva ogni volta che tra di loro si toccava quell’argomento. No, questa volta era un sorriso dolce e rassicurante, quasi accondiscendente: come se fosse semplicemente contento di esaudire quella sua richiesta.
Si riavvicinò a lei, baciandola nuovamente, sempre in quel modo gentile e affettuoso che non era proprio da lui, o per lo meno non in quei momenti in cui di solito la passione prendeva il sopravvento. Anche quando la fece sdraiare nuovamente sul materasso e la privò dei pochi indumenti da notte che indossava, lo fece con una gentilezza e una cura che Juliette non aveva mai visto in lui. Era come se in quel momento, ai suoi occhi, lei apparisse come una bambola di porcellana: bellissima, ma anche fragile, che al minimo tocco troppo deciso, sarebbe andata in mille pezzi.
Le baciò con dolcezza la pelle nivea, facendole percepire appena la morbidezza delle sue labbra e l’umido della punta della sua lingua. Si dedicò con particolare cura al suo seno, senza però essere vorace come suo solito, ma invece, con una certa cautela, come se stesse assaporando un dolce prelibato.
Persino quando lei si fu completamente abbandonata a lui, finalmente rilassata e priva di qualsiasi odioso pensiero o terribile presentimento sul futuro, e lui decise di esaudire finalmente la sua richiesta e farla sua, lo fece piano: quasi come fosse la loro prima volta e avesse paura di farle di nuovo del male.
Ciò che provò lei però fu solamente piacere e una gioia incommensurabile di avere un marito così premuroso e affettuoso nei suoi confronti.
Arno premette il suo corpo contro quello dell’amata, poggiandosi completamente su di lei, e sentendo la carezza delle sue braccia che dolcemente gli avvolgevano le spalle e si muovevano a ritmo dei suoi movimenti lenti e gentili.
Ormai erano un tutt’uno, nulla li avrebbe potuti separare, nemmeno la morte: di questo Arno ne era sicuro.

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Capitolo 33
*** La partenza ***


La partenza
20 - 21 Giugno 1791

Juliette si era finalmente addormentata: il suo viso era tornato sereno e rilassato, come se nei suoi sogni avesse finalmente trovato la tranquillità.
Il giovane capitano si alzò e si rivestì, il più silenziosamente possibile. Aveva una cinquantina di minuti per raggiungere Tuileries in tempo, il che voleva dire che aveva ancora un po’ di tempo per non fare le cose di corsa. 
Quando fu vestito di tutto punto, con la sua divisa rossa e blu, si voltò di nuovo verso di lei: era messa su un fianco, rivolta verso dove, in teoria, ci doveva essere lui; le onde dei suoi capelli castani erano sparse sul cuscino e le sue rosee labbra chiuse, lo attiravano in una maniera incredibile, come un’ape attratta dal dolce miele dei suoi occhi.
Non le aveva detto che sarebbe partito quella sera stessa, era già abbastanza preoccupata di suo per darle anche l’angoscia di un arrivederci che, lui sapeva, lei aveva paura fosse un addio.
Il suo cuore perse un battito quando quelle sue labbra perfette si mossero nel sonno, sussurrando il suo nome. Prese un lungo respiro e si chinò su di lei.
«Tornerò Juliette, te lo giuro!» disse con voce flebile, appena percettibile, per poi darle un leggero bacio sulla guancia.
Per qualche assurdo motivo, uscire da quella camera fu più difficile di quanto avrebbe creduto: sentiva le viscere contorcersi nel suo stomaco al pensiero di abbandonarla lì, senza nessuna spiegazione, ma sapeva che doveva farlo.
Prima di uscire completamente dalla villa, si recò nell’ala della servitù, con l’intenzione di salutare sua madre. Come immaginava, la trovò ancora sveglia, a ricamare uno degli abiti di sua moglie che lui, nella foga di un loro qualche rapporto, aveva strappato.
Appena aprì la porta, la donna alzò lo sguardo color del cioccolato su di lui.
«Arno, cosa…?!» tentò di domandare, con voce bassa per non svegliare il resto della servitù nelle piccole camere adiacenti.
«Devo andare, entro la mezzanotte la carrozza del re partirà da Tuileries.» disse risoluto lui, avvicinandosi di qualche passo alla donna. Fu lei, però, a scostare l’abito blu cielo dal suo grembo e alzarsi, per poi stringerlo forte tra le braccia.
A quel gesto improvviso sentì il cuore martellargli furioso in petto: era da quasi dieci anni, se non di più, che non riceveva un abbraccio così affettuoso e carico di apprensione da parte di sua madre. L’ultimo che si ricordava era quello di quando lui e il padre si erano dovuti trasferire a Sèvres.
«Fai attenzione…» gli disse e lui finalmente ricambiò l’abbraccio, rassicurandola.
«Non durerà più di una settimana, forse anche meno. Il tempo di portare la famiglia al sicuro a Varennes e tornerò qui in men che non si dica.» si staccarono e, con un ultimo saluto, il giovane uscì nuovamente dalla stanza, per poi recarsi fino al portone della villa e prendere il piccolo vialetto per le stalle.
Sellò velocemente il cavallo e montò con altrettanta velocità.
«Avanti François, prima ci sbrighiamo, prima torneremo a casa.» disse, per poi dare un colpo secco di talloni sui fianchi dell’animale.
Ci mise relativamente poco ad arrivare a destinazione: quando fu a Tuileries erano già presenti il Delfino, la sorella Maria Teresa, la loro governante e l’accompagnatore, mentre la famiglia reale ancora non si era vista.
Era scattata da poco la mezzanotte quando, arrivò Élisabeth, la figlia del re; qualche minuto dopo in lontananza videro avvicinarsi il sovrano:per camuffarsi e non essere notato, si era travestito da valletto.
Arno e Axel de Fersen, l’altro accompagnatore, si rizzarono sull’attenti, facendo i dovuti ossequi, per poi aprire la portiera della carrozza posteggiata lì, a Rue de l’Échelle, che avrebbe trasportato tutti i nobili, che avevano aderito a quella fuga, lontano dalla capitale.
«Maestà, vostra moglie?» domandò il giovane capitano, chiudendo nuovamente l’anta della citadine e affacciandosi verso il suo interno.
«Siamo partiti in momenti diversi in modo da non destare sospetti, sarà nell’arrivare.» rispose il sovrano.
«Maledizione… – commentò irritato Axel, mentre lui si scostava dalla vettura che ospitava il re – Siamo in ritardo. Più tempo passiamo qui più rischiamo di farci scoprire.» Arno invece rimaneva zitto e serio, sondando l’orizzonte nella speranza di vedere ben presto la regina, in modo da poter finalmente partire. Gli unici che li raggiunsero, però, furono gli altri nobili che sarebbero dovuti fuggire assieme alla famiglia reale, nella carrozza.
Con un sospiro osservò per l’ennesima volta l’orologio da taschino, tirandolo fuori dalla giacca, esattamente dal lato opposto in cui percepiva il suo piccolo compagno nero dormire beato. 
«Mezzanotte e venti…» sospirò, mentre l’altro, vicino a lui, continuava a borbottare lamentele. Non sapeva davvero se fosse più nervoso lui che stava in silenzio solamente per l’ansia della situazione oppure l’altro soldato che cercava quasi di sfogarsi nelle sue continue proteste per quel ritardo.
D’improvviso la voce acuta e adirata della marchesa de Croÿ de Tourzel echeggiò per la strada.
«Stiamo scherzando spero?!»
I due rappresentati dell’esercito del re, si voltarono preoccupati: la giovane donna se ne stava in piedi davanti alla carrozza aperta, guardando all’interno inorridita, quasi come avesse visto un topo.
«Madame, la prego non faccia tutto questo baccano.» chiese quasi esasperato Axel.
«Non capisco perché non possa partire anche io. – protestò lei, abbassando nuovamente la voce, per poi rivolgersi al sovrano, che si trovava già all’interno della carrozza assieme agli altri – Vostra altezza, non avete giurato di non abbandonare nessun figlio di Francia? Se non mi aiutate voi, quei folli mi taglieranno la testa.»
«Qual è il problema?» domandò Arno avvicinandosi anche lui alla carrozza.
«Il duca di Choisel ha fatto occupare un posto da uno dei suoi uomini, negandolo in questo modo a me!» esclamò ancora irritata la donna.
«Non fuggirò da Parigi senza di lui! È esperto in colpi di mano e non sappiamo cosa o chi troveremo durante il tragitto.» ribatté il diretto interessato.
«Nonostante ciò, madame de Croÿ ha ragione, monsieur Choisel. – intervenne il re – Non lasceremo nessuno dei figli di Francia a Parigi, soprattutto durante questa rivoluzione che sta creando continui disagi a chiunque sia un po’ più ricco.»
«Ma…» tentò di protestare nuovamente il nobiluomo.
«Le posso assicurare che il capitano Pierre saprà difendere la carrozza se succederà qualcosa.» lo rassicurò il sovrano. A quella citazione, il giovane fece un leggero inchino, sia per ringraziare la fiducia del re in lui, sia per confermare all’altro ciò che era stato detto della sua persona.
Il duca con un sospiro rassegnato, fece un gesto con la mano all’uomo che era seduto di fronte a lui sulla carrozza, cacciandolo. Questi, senza discutere si alzò e scese dalla vettura, per poi fare un leggero inchino e congedarsi da loro, allontanandosi, mentre la marchesa finalmente prendeva il suo posto.
Quando finalmente anche Maria Antonietta arrivò, era ormai mezzanotte e trentacinque.
«Vostra altezza, cosa vi è successo?» domandò cercando di mantenere un tono il più possibile educato Axel, da cui però si notava comunque l’agitazione.
«Perdonatemi tutti, mi sono persa nelle viuzze che circondano il Louvre.» rispose lei con il fiato grosso, salendo a bordo.
«Bene, direi che possiamo partire!» constatò Arno, chiudendo la portiera della carrozza alle spalle della regina e issandosi nuovamente sulla sua cavalcatura.
Fece un cenno al cocchiere e i quattro cavalli, due che conducevano la carrozza e due quelli degli accompagnatori, partirono.
Prima tappa la Barrière de la Villette, in cui avrebbero cambiato carrozza.

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Capitolo 34
*** La camminata ***


La camminata
 
21 Giugno 1791

Arno controllò il suo orologio da taschino. Erano arrivati alla Barrière de la Villette con quasi un’ora e mezza di ritardo. 
Prese un lungo respiro e invitò tutti i viaggiatori a scendere dalla carrozza.
«Il cambio di cavalli e carrozza è a mezz’ora da qui, a Bondy.» avvisò l’altro ufficiale.
«Purtroppo dovremmo camminare. – proseguì Arno – Io e monsieur de Fersen possiamo far salire solo una persona sui nostri cavalli.»
«Allora fate salire mia moglie e mia figlia!» ordinò il sovrano.
I due fecero un leggero inchino, dopodiché aiutarono le due dame reali ad issarsi sugli animali. La regina a cavallo dello stallone di Axel de Fersen, mentre la giovane principessa su François.
Camminarono per più di mezz’ora, almeno quaranta minuti e, a parte qualche lamentela o sbuffo di chi era già stanco di quella fuga, quel tragitto passò quasi in assoluto silenzio. Il giovane capitano, dal canto suo, non aveva nessuna voglia di parlare.
Continuava a volgere lo sguardo al cielo cupo e quasi completamente nero di quella notte, mentre teneva e tirava le redini del suo cavallo, pensando alla sua amata. Tra quattro o cinque ore si sarebbe svegliata, si sarebbe svegliata e non l’avrebbe trovato di fianco a lei, rendendosi conto di essere rimasta da sola.
All’ennesima lamentela di qualcuno si riscosse. Non doveva pensarci: tempo tre giorni, ormai due, e sarebbe ritornato da lei.
Arrivarono a Bondy stanchi e sfatti: persino le due donne, che erano state a cavallo per tutto il tragitto sembravano essere parecchio provate. Arrivati nella piazza principale della cittadella, notarono finalmente la carrozza, con due cavalli scuri pronti a trainarla.
Appoggiato al mezzo, un uomo, probabilmente il proprietario, attendeva tranquillamente che il gruppo lo raggiungesse. Come tutti gli altri era stato pagato profumatamente in modo che non parlasse, nonostante questo però i due ufficiali andarono da soli a colloquiare con lui: esattamente come avevano prestabilito. Lasciarono perciò la famiglia reale e i loro nobili accompagnatori in un angolo buio della via che sboccava sulla piazza, dopo aver, ovviamente, aiutato la regina e sua figlia a scendere da cavallo.
Quando furono davanti all’uomo questi li squadrò per qualche secondo, dopodiché parlò.
«Questa è una delle berline reali. – disse battendo la mano contro la parte in legno della carrozza; i cavalli, però sono miei e li rivoglio.» disse con tono duro, quasi fosse un ammonimento.
«Li riporterò io nel tragitto di ritorno.» lo rassicurò Arno.
«Bene, allora io vado.»
Solamente quando il proprietario dei cavalli fu abbastanza lontano i due ufficiali fecero segno al resto del gruppo di avvicinarsi.
«Ah, finalmente seduti!» sospirò madame de Croÿ, accomodandosi nella carrozza.
Non appena tutti furono nuovamente comodi e seduti, Axel si avvicinò alla carrozza, affacciandosi al suo interno.
«Il mio lavoro qui è finito. Tornerò a Parigi, nel tentativo di coprire la fuga.» disse e il sovrano rispose con un cenno di testa, per poi aggiungere delle parole di congedo.
«Può andare, monsieur de Fersen, ha già fatto tanto accompagnandoci fin qui. Il capitano Pierre ci scorterà fino a Varennes.» dopo quelle parole, l'uomo fece un inchino e si allontanò nuovamente, accostandosi ad Arno.
«Più avanti a Claye-Souilly dovreste incrociare la carrozza con due domestiche della famiglia reale, accompagnate da un’altro ufficiale.» disse issandosi sul suo cavallo e afferrando le redini, mentre il giovane capitano faceva lo stesso.
«Spero solo che entro due giorni sia tutto finito.» commentò.
L’altro fece una risata roca, come se avesse appena sentito una battuta improvvisata.
«Capitano, questa rivoluzione non finirà mai: anche tornando a Parigi, troverete sempre il caos più totale. Anzi con la scoperta della fuga del re, le cose si complicheranno.»
«Lo so bene... – rispose Arno con un sospiro, passandosi una mano tra i capelli, ormai quasi tutti sfatti dal viaggio – Il mio commento era solo dovuto al voler tornare a Parigi da mia moglie.»
«Una donna eh? – fece Axel – Beh allora le auguro di rientrare presto alla capitale, capitano. Au revoir.»
Non appena ricambiò il saluto, questi spronò il cavallo e si allontanò, riprendendo la strada che portava a Parigi.
«Bene, possiamo andare!» ordinò il capitano al cocchiere. A quell’ordine, l’uomo fece schioccare le redini sui due cavalli della carrozza e ripresero il viaggio.
Tutto proseguì tranquillo e, nonostante il forte ritardo, non vi furono altre complicazioni.
Verso le quattro di notte arrivarono nei pressi di Claye-Souilly e, com’era stato detto da Axel, furono affiancanti da una carrozza che trasportava due cameriere e un soldato.
Le due donne scesero dalla loro vettura salendo su quella del sovrano, salutando la famiglia reale con un inchino, ma senza fiatare. L’ufficiale, invece, rimanendo a cavallo si accostò ad Arno e con un cenno del capo gli diede il via per ripartire.

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Capitolo 35
*** L'ansia ***


L' ansia
21 Giugno 1791

Juliette si allungò verso il lato opposto del letto a baldacchino, ancora mezza addormentata, non trovando ciò che si aspettava di trovare. 
Sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di mettere a fuoco la stanza e imponendo al suo cervello di riprendersi dal torpore del sonno. Quando ci riuscì, biascicò il nome del suo amato, voltandosi verso il punto del letto in cui doveva esserci, ma questi non c’era. Si guardò intorno, ma di Arno non vi era traccia.
Il panico prese possesso di lei, possibile che fosse partito prima senza nemmeno salutarla? Sospirò, passandosi una mano tra i capelli. Sì, era possibile, anzi possibilissimo.
Si alzò dal letto e, prima di avvicinarsi all’armadio per scegliere cosa indossare, allungò la mano verso il comodino, strofinando la punta dell’indice sulla macchia nera che la sua piccola kwami aveva sopra la testa, svegliandola.
«Buongiorno, Juliette...» disse con una vocina un po’ assonnata la piccola creatura, strofinando le zampette sugli occhi.
La ragazza non rispose: si vestì in silenzio, senza un fiato, con il peso sul cuore del fatto che ora, per almeno due giorni, sarebbe rimasta da sola.
«Juliette, va tutto bene?» domandò Tikki, avvicinandosi a lei e aiutandola ad allacciare bene il corsetto del suo adrienne, dietro la schiena.
«Mi sento come il giorno della Bastiglia... Ho paura... Ho il terrore di non rivederlo più...» le rispose lei.
«Amica mia, devi stare tranquilla. Non deve far altro che accompagnare la famiglia reale a Varennes, dopodiché tornerà qui.» la rassicurò, l’altra, parandosi davanti a lei con un dolce sorriso stampato sul musetto rosso.
La ragazza ricambiò sinceramente il sorriso: vedere la fiducia che Tikki aveva nei confronti di Arno in qualche modo la tranquillizzava. Doveva essere forte, doveva essere sicura anche lei che Arno e Plagg sarebbero tornati a casa sani e salvi tra qualche giorno. Solo un paio di giorni e sarebbe tornato tutto alla normalità.
Uscì dai suoi appartamenti, mentre Tikki si metteva comoda sulla sua spalla, reggendosi a una ciocca di capelli, per non cadere quando la ragazza cominciò a camminare.
«Potrei chiedere a Chantal se ha voglia di fare qualcosa questo pomeriggio.» mormorò la ragazza, quasi come se stesse parlando tra sé e sé.
«Perché no... – le rispose Tikki – È da quasi due mesi che non la vedi. Inoltre un pomeriggio tra amiche è il modo migliore per distrarsi.»
Arrivarono nella sala da pranzo che la tavola era già imbandita per la colazione, compresa di biscotti per lo spirito della fortuna. Dopo essersi seduta, la giovane nobildonna, si versò del latte in una tazza, servendosi anche di un pezzo di torta di mele.
Aveva iniziato a sorseggiare il contenuto della tazza, quando la domestica bionda entrò nella sala, dandole il buongiorno.
«Buongiorno Marie.» rispose Juliette, dopo aver poggiato nuovamente il recipiente sul suo piattino ed essersi pulita la bocca con il tovagliolo.
«Ha dormito bene stanotte?» domandò nuovamente la domestica.
«Sicuramente meglio del risveglio. – commentò la donna, storcendo la bocca – A tal proposito, potresti andare a comprarmi il giornale di questa mattina, per favore?» domandò, o meglio ordinò, ponendola in modo che sembrasse una domanda.
«Certamente, madame Ponthieu.» rispose la bionda, chinando il capo e uscendo dalla stanza, lasciando nuovamente sole Tikki e Juliette.
Non appena finirono la loro colazione entrambe si recarono in uno dei due salottini della villa e si accomodarono sul divano, nel tentativo di rilassarsi un po’, prima della lezione di piano, che era oramai l’unica lezione che Juliette continuava a seguire da quando si era sposata.
Non sapeva con esattezza quanto tempo fosse passato, mentre stava comodamente seduta sul divano accarezzando il capino di Tikki con due dita, un gesto che rilassava parecchio entrambe, stava di fatto che Francine bussò alla porta, per poi entrare solo quando fu invitata dalla padrona di casa.
«Il maestro di piano ha annunciato che arriverà con un’ora di ritardo, ha mandato il suo giovane apprendista ad avvisarci; qui invece ho il giornale del giorno.» disse porgendole una copia del Journal de Paris.
Lei lo afferrò con un sospiro, per poi incrociare lo sguardo con quello scuro della domestica.
«L’hai visto andar via?» domandò.
All’inizio la donna rispose con solamente un cenno di testa, ma quando si accorse che la sua padrona stava continuando a fissarla, come se si aspettasse qualcos’altro, spiegò meglio cos’era accaduto quella notte.
«È venuto a salutarmi poco prima della mezzanotte, prima di andarsene, sembrava parecchio nervoso: credo più per il fatto di abbandonarla qui che per la missione in se.»
La nobildonna fece un cenno di testa, dopodiché chinò il capo, spostando lo sguardo verso il giornale e sgranando gli occhi, proprio mentre la domestica usciva dalla stanza. 
I grossi caratteri sulla testata del giornale la lasciarono completamente basita: già si parlava della scomparsa del re. Era mai possibile che la voce si fosse sparsa per tutta Parigi in così poco tempo? A detta del giornale, il sovrano era sparito lasciando un biglietto nelle sue camere, che aveva ritrovato uno uomo della servitù e che, nonostante l’Assemblea Costituente attribuisse quella sparizione ad un rapimento più che a una fuga, il comandante della Guardia Nazionale, La Fayette, era già intenzionato ad intervenire e mandare alcuni suoi uomini a cercare la famiglia reale per decretarne una volta per tutte l’arresto.
Nel leggere quelle parole, Juliette sentì il cuore balzarle in gola. Se il convoglio che avrebbe dovuto portare il re e la sua famiglia a Varennes fosse stato trovato, avrebbe rischiato l’arresto o peggio ancora la morte, Arno compreso, per tradimento nei confronti del popolo.
Lanciò il giornale lontano da lei, cercando di togliersi quell’orribile pensiero dalla testa, ma meno tentava di pensarci, più il suo cervello lavorava di fantasia: una fantasia che in quel momento avrebbe voluto proprio non avere.

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Capitolo 36
*** L'arresto ***


L' arresto
 
22 Giugno 1791

Arno si massaggiò le tempie, innervosito: la testa gli sembrava esplodere. Era due giorni che dormiva giusto il tempo del riposo dei cavalli e quella notte a Varennes, con l’inconveniente dell’assenza dei soldati che avrebbero dovuto assistere e sorvegliare il re e la sua famiglia al posto suo, non era potuto tornare a Parigi.
C’era qualcosa che non andava e lo sapeva bene: nonostante il loro ritardo di cinque ore, non era possibile che non ci fosse nessuno pronto ad accoglierli. Era successo qualcosa, su questo ne era sicuro e ci aveva rimuginato tutta la notte, mentre sorvegliava la barricata che aveva protetto la berlina su cui si trovavano la famiglia reale e gli altri fuggitivi.
Era stanco, stravolto e nervoso; in quel momento avrebbe solo voluto prendere François, che probabilmente era stanco quanto lui, e tornare a Parigi da Juliette: sentiva l’impellente bisogno di rivederla; gli mancava la sua voce dolce, il suo sorriso, i suoi occhi color del miele, i suoi boccoli castani, il profumo della sua pelle.
Gli scappò un sorriso: l’Arno di soli due anni prima non avrebbe mai fatto quei pensieri, anzi quella stessa mattina, dopo aver trovato una collocazione alla famiglia reale, si sarebbe probabilmente cercato una bella donna di Varennes per portarsela, così, in qualche luogo appartato e divertirsi con lei.
Controllò l’orologio, quasi le cinque e mezza: di nuovo aveva dormito quattro ore, se non di meno. 
D’un tratto qualcosa, o meglio qualcuno, attirò la sua attenzione. Un uomo si era avvicinato a lui, quasi correndo; quando gli fu di fronte scoprii che non era un uomo, ma un ragazzino, probabilmente un paggetto o un messaggero. Si bloccò, poggiando le mani sulle ginocchia nel tentativo di riprendere fiato, dopodiché si rimise diritto e parlò.
«Il capo squadrone Deslon desidera parlare con il re. A Parigi si è scoperta la vostra partenza e la voce si sta espandendo in tutta Francia. Il capitano vorrebbe aiutarlo per il resto del viaggio, rimanere qui non è sicuro.» disse tutto d’un fiato.
Lui chiuse gli occhi color del ghiaccio per qualche secondo, per poi riaprirli e rispondergli.
«Non posso scortare sua maestà fuori dal paese, soprattutto se ciò che hai detto è vero.»
«Il fatto è che il paese è in allerta e non fanno passare lo squadrone di ussari.» obbiettò il giovanotto.
Arno fece un sospiro, cercando di trovare una soluzione possibile.
«Scorta solo lui all’interno della città, se le guardie ti dicono qualcosa, dì loro che te l’ho detto io.» a quel suo ordine il ragazzo fece un leggero cenno di testa, dopodiché scappò nuovamente via.
Passarono non più di una decina di minuti che questi ritornò, accompagnato da un uomo in uniforme. Nel mentre che i due si avvicinavano, il capitano si affacciò all’interno della carrozza per parlare con gli occupanti.
«Vostra altezza, non vorrei disturbarla a quest’ora della mattina, – sussurrò – ma monsieur Deslon vorrebbe conferire con lei.»
Re Luigi, allora, molto educatamente si congedo dai suoi compagni di viaggio, scendendo poi dalla vettura.
«Maestà.» s’inchinò subito il capo Deslon, seguito a ruota dal suo valletto, che li avevano appena raggiunti.
«Capitano, si può sapere cosa succede? Abbiamo passato la notte a dormire in una carrozza protetti da una barricata. Capisco la segretezza, ma questo è troppo.» disse il re, con un tono autoritario che non ammetteva repliche.
«Comprendo la sua delusione vostra altezza, ma sono propenso a credere che qualcuno, prima del vostro arrivo, abbia detto al cavaliere di Bouillé che voi non sareste arrivati prima di domani, perciò non arriverà per scortarvi via.» rispose l’ufficiale.
«Chi è stato?» chiese, con un’accenno di astio nel tono della voce.
«Non ne abbiamo idea, ma restare qui è rischioso. Ho assoldato uno squadrone di ussari di Lauzun ancora fedeli e una parte della popolazione che è pronta a coprire la sua partenza e scortarla lontano dalla Francia. Non può più stare qui: tutta Parigi e tutta Versailles la stanno cercando.» spiegò dettagliatamente l’altro.
Arno e il ragazzino rimanevano ad ascoltare, in assoluto silenzio.
«Mi spiace monsieur Deslon, ma non ho nessuna intenzione di cambiare i programmi di questa già troppo complicata fuga. Anche dovessi aspettare un giorno intero qui, non me ne andrò senza i rinforzi del marchese di Bouillé.»
L’uomo tentò d’insistere, ma il sovrano sembrava irremovibile. Durante quella discussione, che, nonostante i toni calmi, diventava sempre più nervosa e insistente, Arno iniziò a notare il paese svegliarsi.
«Maestà, mi scusi se m’intrometto, – intervenne, volgendosi di nuovo al sovrano – ma ho paura che Varennes non sia più un luogo sicuro: i cittadini si stanno incuriosendo troppo e ho come il sospetto che anche nei dintorni sia così.»
Il sovrano fece un sospiro, guardandosi attorno e accorgendosi che il capitano non stava affatto scherzando.
«Bene, attenderemo fino alle otto: se per quell’ora Bouillé non si farà vedere, partirò comunque con voi. – disse rivolgendosi all’ufficiale, per poi prestare attenzione ad Arno – A quel punto capitano Pierre, sia che arrivi il marchese, sia che io parta con il capo Deslon, lei potrà tornare a Parigi. Sarà congedato da tutti i suoi incarichi di guardia scelta, almeno finché le acque non si saranno calmate.» Arno non rispose, fece solo un inchino, accettando mestamente la decisione del sovrano; mentre l’altro ufficiale faceva altrettanto e, congedandosi, si allontanò, promettendo di tornare tra due ore.
Due ore, solo due ore e sarebbe stato libero, solo due ore e sarebbe potuto tornare a Parigi. Mai, mai avrebbe pensato che in due ore, anzi in molto meno, le cose sarebbero andate a finire nel modo in cui accadde.
Intorno alle sette, due uomini a cavallo si presentarono davanti alla barricata, dicendo di essere gli inviati dell’Assemblea Legislativa, presentandosi come il “patriota” Bayon e l’aiutante di campo di La Fayette, Jean Louis Romeuf. Nel sentire quei nomi Arno impallidì: possibile che in così poco tempo li avessero trovati?
«Veniamo da Parigi con un decreto dell’Assemblea.» disse Bayon.
«Un decreto per cosa?» domandò, nonostante sia lui che i passeggeri nella carrozza, che sicuramente stavano sentendo la conversazione, sapessero già la risposta. 
«È un ordine di arresto per la famiglia reale.» fece Louis Romeuf, con aria decisa, come se fosse il generale La Fayette in persona. 
Arno, senza pensarci nemmeno un secondo, estrasse la spada, ma fu bloccato dalla voce perentoria del re dietro di lui.
«Fermo! – disse, scendendo nuovamente dalla vettura e sospirando – Fermo capitano, è inutile tentare la fuga adesso. Lei può andare, però.» aggiunse, congedandolo.
«Ma, maestà…» non ebbe il tempo di dire altro, ma non fu re Luigi a intervenire e interromperlo.
«Mi spiace dirlo, ma deve venire anche lei. – fece l’assistente di La Fayette – Il generale ha ordinato di arrestare sia la famiglia reale che la sua scorta.»
«È inaccettabile! Il capitano Pierre è al di fuori di tutto questo, inoltre non conosceva nemmeno la mia ultima destinazione.» tuonò il re.
«Ha comunque aiutato lei e la sua famiglia in questa fuga. Sarà il generale, poi, a decidere il da… farsi.» cominciò Bayon, che però fu intimorito dallo sguardo gelido del giovane che stava riponendo la spada nel fodero.
Montò a cavallo, mentre il sovrano risaliva sulla berlina, annunciando al resto delle persone all’interno, il loro imminente ritorno nella capitale.
Mentre uscivano da Varennes una massa enorme di gente, proveniente anche dai paesi adiacenti, si assiepò ai bordi della strada percorsa dal convoglio di quelli che ormai erano diventati veri e propri prigionieri. 
«A Parigi! A Parigi!» urlava la folla furiosa, mentre la Guardia Nazionale li tratteneva dal linciarli, prima dell’arrivo alla capitale.
«Arno… Arno… – sussurrò appena una vocina dall’interno della sua giacca – Non puoi farti arrestare, se ti sottraggono l’anello tu…»
«Non ti preoccupare Plagg. Andrà tutto bene.» disse tentando di rassicurare il piccolo kwami.
Non credeva davvero a quelle parole, era terrorizzato: non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe accaduto da quel momento in avanti, non sapeva nemmeno se avrebbe rivisto Juliette. Eppure solo il pensiero della sua amata, in quel momento, riusciva a calmarlo.

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Capitolo 37
*** Il rientro ***


Il rientro
29 Giugno 1791

Juliette concluse il pranzo quasi di fretta. In realtà non aveva assolutamente fame, se aveva mangiato l’aveva fatto solo per fare la un favore a Francine e Marie che avevano insistito tanto, preoccupate per la salute della padrona.  
Era ormai più di una settimana che si sentiva a quel modo e più i giorni passavano più quell’orribile sensazione di aver sbagliato, a lasciar andare Arno da solo in quella missione, l’angosciava. Era vero, non era certo una missione di sua competenza scortare il re nella sua fuga fino a Varennes, ma allo stesso tempo mandandolo da solo aveva decretato la loro separazione.
Non sarebbe più stata con le mani in mano, soprattutto quel giorno che lui e la famiglia reale sarebbero rientrati a Parigi, soprattutto ora che la nube oscura e violacea di Comt Ténèbre era riapparsa dopo mesi di assoluta stasi, o quasi.
«Madame, è sicura di quello che fa?» domandò Marie preoccupata, osservando la donna alzarsi di colpo dal tavolo della sala da pranzo.
«Marie, sai bene che è il mio compito. Parigi ha bisogno di me… Mio marito a bisogno di me…»
«Lo so, ma ogni volta che uscite in quei panni… – cercò di protestare, la domestica, per poi sospirare – State attenta…» disse solamente alla fine. La donna rispose con un lieve cenno di testa, dopodiché si rivolse al suo kwami.
«Andiamo a salvare Arno… Tikki, trasformami!» esclamò e l’esserino rosso, come al solito, fu risucchiato dagli orecchini, trasformando in un batter d’occhi l’elegante polonaise giallo canarino che indossava, negli abiti comodi e allo stesso tempo eleganti di Coccinelle.
La giovane eroina si guardò un attimo, osservando quei panni che tanto sentiva come suoi, ma allo stesso tempo la mettevano a disagio: perché sapeva che quando li indossava voleva dire soltanto guai. Emise un sospiro, dopodiché, senza una parola, si diresse di corsa verso la vetrata dell’enorme sala, aprì la finestra e uscì dalla villa.
Parigi era in tumulto: stavano tutti attendendo il rientro della famiglia reale e nessuno, nemmeno una persona di tutta quella folla aveva buone intenzioni. Mettersi contro i parigini in quel momento significava decretare definitivamente la condanna dei due eroi di Parigi, come traditori del popolo. D’altro canto però, cosa poteva fare? Non avrebbe di certo lasciato Arno, il suo Arno, alla mercé di quegli uomini, affamati di vendetta e desiderosi del sangue dei reali e di ogni persona che li aiutasse. Sì, perché lo sapeva bene: ormai la maggior parte del popolo, alla scoperta della fuga del re e dei suoi parenti più stretti, aveva iniziato a parlare di pena di morte, di giustizia, di ghigliottina. Un brivido le percorse la schiena nel ripensare a quelle cose. No, non sarebbe successo ad Arno, non l’avrebbe permesso.
L’eroina arrivò agli Champs-Élysées, dove sapeva che per ordine del municipio, sarebbe passato il convoglio reale, per fare in modo che tutti i parigini lo vedessero e nessuno potesse protestare.
Non sapeva a che altezza era il convoglio, se fosse già rientrato a Parigi o se era ancora nella strada che portava alla capitale da Meaux, stava di fatto che quella zona, come altre della capitale era strapiena di gente, ma una persona più di tutte attirò la sua attenzione.
Sopra un piccolo podio approssimativo, creato in legno e abbastanza alto da superare di un paio di piedi un’uomo adulto, c’era Gilbert du Motier de La Fayette, nella sua parrucca incipriata e nel suo completo bianco, sotto la giacca blu. Egli stava gridando alla folla che, nel vociare concitato e furioso, sembrava comunque ascoltarlo. Anche Coccinelle si accostò meglio al luogo dove si trovava il palchetto, rimanendo nascosta dietro un comignolo, in modo da riuscire a sentire ciò che l’uomo stava dicendo.
«Comprendo la vostra rabbia. Comprendo il vostro astio. Questa fuga ci ha dimostrato una volta per tutte che il re e tutti i nobili di Parigi, non sono mai stati dalla nostra parte. Ci hanno tradito, hanno tradito la nostra fiducia. Quel briciolo di fiducia che puntava a risvegliare il buonsenso in tutti loro, attraverso le vostre, le nostre, proteste. Vi dò la mia parola che questo atto non resterà impunito. I fuggitivi verranno giustiziati come meritano.»
Fece una lunga pausa, in cui la folla gli gridò entusiasta, applaudendo e incoraggiandolo in quel discorso che sembrava fare male al cuore e dare fastidio solo a lei, o per lo meno a lei e a pochissima altra gente. Solo dopo una buona decina di minuti, l’uomo riprese a parlare.
«Non ammetterò però, nessun tipo di approccio con il convoglio. Sfogatevi ora, perché il primo che farà qualcosa, qualsiasi cosa quando passerà la carrozza, verrà punito dai miei uomini. Chiunque applaudirà il re sarà bastonato, chiunque lo insulterà sarà impiccato. Spetta alla giustizia decidere le sorti di quegli uomini e, nonostante la giustizia sia dalla vostra parte, nessuno di voi ha diritto di sovrastarla.» quest’ultima parte del discorso fece salire non poche proteste, ma fece tirare un sospiro di sollievo alla giovane eroina: con una regola simile non c’era possibilità che qualcuno linciasse o lapidasse sia la famiglia reale, che coloro che la scortavano.
 

Passò parecchio tempo, probabilmente cinque o sei ore. In quel lasso di tempo La Fayette era sparito, probabilmente recandosi alla porta di Parigi in cui avrebbe fatto il suo ingresso il convoglio, mentre la giovane eroina tentava di purificare i cuori adirati della popolazione. La rabbia, però, era ormai talmente forte che ogni qualvolta qualcuno crollava a terra privo di energie, Comt Ténèbre riusciva ad infettarne altri. Inoltre, non poteva assolutamente permettersi di sprecare completamente tutte l’energie come aveva fatto nei primi periodi: non solo perché avrebbe rischiato di perdere la vita, ma anche e soprattutto, perché non avrebbe potuto aiutare Arno a fuggire da quell’enorme pasticcio.
Dovevano essere all’incirca le sette della sera, quando finalmente il convoglio sbucò dalla via principale che si gettava negli Champs-Élysées. Coccinelle se ne accorse perché, improvvisamente, la folla si zittì, come se ogni singola persona, in quell’enorme piazza, avesse completamente perso la voce.
Si rizzò in piedi sul tetto, tentando di vedere meglio il corteo che si stava avvicinando. All’inizio erano solo figure indistinte e, nonostante ciò, sentiva comunque l’ansia torturarle lo stomaco e la gola, poi, man mano che si avvicinavano, sentiva il cuore martellarle sempre più frenetico nel petto. 
La Fayette guidava il convoglio, impettito e fiero sul suo cavallo. Sul lato destro e sinistro, a separare il corteo dalla folla, vi erano le guardie nazionali, anch’esse a cavallo e con i calci dei fucili puntati verso il cielo, come quando vi sono i riconoscimenti per un funerale. A bordo della carrozza, scoperchiata, esattamente come una berlina reale deve essere, vi erano nove persone in tutto, tra cui la famiglia reale, alcuni nobili che avevano aderito alla fuga e le domestiche.
Lo sguardo della giovane eroina in rosso, però, fu calamitato dalle tre guardie nazionali che non erano a cavallo e che stavano scortando, proprio dietro il convoglio, altrettanti ufficiali, o meglio le tre guardie del corpo del re, con le mani legate dietro la schiena. I tre uomini, nonostante la vergogna e il disonore, camminavano spediti e impettiti, con lo sguardo puntato in un punto indefinito davanti a loro.
Poi però accadde qualcosa: non sapeva se era perché si era esposta troppo, o perché il suo vestito in fin dei conti era troppo appariscente, o ancora perché lui sapeva che l’avrebbe trovata lì ad aspettarlo, ma l’ufficiale sulla destra si voltò verso il tetto su cui stava, rallentando un po’ l’andatura. Incrociò i suoi occhi, azzurri come il ghiaccio, e sia il suo respiro che il suo cuore sembrarono fermarsi. Sul suo volto si vedeva la stanchezza, la disperazione, la paura; leggeva chiaramente queste emozioni, ma riusciva a farlo solo perché lo conosceva bene. Lui invece, le stava mostrando solamente un mesto sorriso e due occhi colmi d’amore e di promessa.
Fu un attimo, quel rallentamento e quel voltare lo sguardo attirò l’attenzione della guardia che lo stava scortando e di un gruppo di persone lì vicino, che subito si voltarono nella sua direzione.
«È Coccinelle!» gridò qualcuno, indicandola.
A quell’avvistamento La Fayette si fermò, voltandosi anch’egli verso il punto indicato e mentre lei, senza esitare nemmeno un secondo, tirò fuori lo yo-yo, la voce del generale sovrastò il vociare concitato della folla.
«Una volta per tutte madmoiselle, da che parte stanno gli eroi di Parigi?» domandò, rivolgendosi proprio a lei.
D’improvviso le parole le si bloccarono in gola: lei era già pronta a rispondere a una minaccia, a un’intimidazione, ma quella domanda non se l’aspettava. Voltò nuovamente lo sguardo verso di lui, ora i suoi occhi erano chiaramente preoccupati, entrambi sapevano che qualsiasi cosa avrebbe detto, avrebbe decretato il loro destino.
Fece un profondo respiro, chiudendo gli occhi e tentando di riprendere la lucidità di cui aveva bisogno per andare avanti; dopodiché, aiutandosi con la sua arma, si calò dal tetto, mettendosi esattamente tra la folla e il convoglio che trasportava il re, sentendo gli occhi di tutti puntati addosso.
«Una volta per tutte… – rispose poi, rivolgendosi all’uomo – Coccinelle e Chat Noir non stanno dalla parte di nessuno, solamente della giustizia.» per un attimo la giovane donna ebbe l’impressione che il generale avesse ghignato divertito a quella sua frase, ma solo per un attimo.
«Tanto potere… sprecato… – disse quasi in un sibilo, tanto che probabilmente solo la gente più prossima a loro aveva potuto sentire, dopodiché tornò a parlare con voce normale – Siamo noi la giustizia, signorina coccinella e non mi pare che in questo momento lei sia dalla nostra parte.» concluse, prendendole divertito il mento con la mano destra e inchiodandola coi suoi occhi verde oliva.
«Nessuno, tantomeno voi, può definirsi giudice di qualcun altro. – rispose lei, scostando la mano del generale e rivolgendosi poi alla folla – Per tutti questi due anni non avete fatto altro che pretendere giustizia. Avete chiesto libertà, avete chiesto uguaglianza, avete chiesto fraternità. Ma questi ideali dove sono ora che l’uomo che ha mantenuto questo paese è stato arrestato?» domandò.
«Se lo merita!» gli rispose qualcuno.
«È per colpa sua se moriamo di fame!» fece qualcun altro.
«Non capite? Non è così che risolverete la situazione…» cercò d’insistere lei, ma qualcuno la fermò nuovamente.
«Ora basta! – ordinò La Fayette – Arrestatela!»
«Noooo!» urlò Arno, facendo voltare tutti quanti, subito dopo atterrò con una spallata una delle guardie nazionali, raggiungendo l’eroina.
«Capitano Pierre…!» disse indignato il generale, rivolgendogli uno sguardo tagliente.
«Arrestare chiunque sia contrario alle vostre idee non è una soluzione. – rispose con tono freddo il giovane dai capelli corvini – Generale, ragioni, Coccinelle ha ragione: tutto questo non porterà a nulla. Ucciso il re, Parigi rimarrà esattamente come prima, povera e con altre vite sulla coscienza.»
La piazza sembrava essersi paralizzata, ogni sguardo era rivolto in direzione di quella discussione, ogni fiato rimaneva sospeso in attesa dell’ennesima risposta.
Lo sguardo del generale tornò serio e autoritario.
«Non vi ho detto forse di arrestarla?» domandò alla guardia nazionale.
Due uomini si avvicinarono a loro, ma con un gesto veloce Juliette circondò la vita di Arno e lanciò lo yo-yo verso un comignolo, portando entrambi fuori dalla portata di chiunque. Dopodiché si dileguarono lontano da quel luogo.



Sorrise. Finalmente tutto era chiaro, finalmente sapeva chi quel custode da strapazzo avesse scelto come portatore.
Entrambi i due portatori si stavano allontanando un’altra volta da lui, ma questa volta sapeva esattamente chi erano e come trovarli: non avevano via di scampo. Presto i Miraculous del Gatto Nero e della Coccinella sarebbero stati di nuovo in mano sua.

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Capitolo 38
*** La decisione ***


La decisione
 
29 Giugno 1791

Arno si sedette sul suo letto, con un sospiro. In un momento diverso avrebbe pensato a quanto gli era mancato quel materasso e avrebbe cercato di sfruttare quella mancanza, magari possedendo la sua amata, proprio su quelle candide lenzuola. Quello però, purtroppo, non era proprio il momento e, per quanto gli fosse mancata l’adorata moglie e l’istinto gli dicesse di fregarsene di tutto e appropriarsi del suo corpo con passione, Arno cercò di concentrarsi su come risolvere quella situazione.
Nello stesso istante in cui Coccinelle rilasciò la trasformazione, tornando ad essere Juliette, qualcuno spalancò la porta dei loro appartamenti.
«Oh, Arno! Stai bene!» esclamò, con un tono più che preoccupato, sua madre, per poi stringerlo forte.
«Sì… sì sto bene…» rispose lui strofinando la mano sulla schiena della donna, nel tentativo di tranquillizzarla e rassicurarla.
Poco dopo si staccarono e gli occhi di Arno tornarono seri e calcolatori.
«Dobbiamo andarcene da qui! Tutti e cinque!» disse con tono duro.
«Andarcene?» domandò stupita Francine, gli occhi castano scuro strabuzzanti e confusi.
«Arno è inutile… Mi sono esposta troppo, ormai tutta Parigi, Comt Ténèbre compreso, avrà capito che siamo noi due. Inoltre abbiamo un compito e non possiamo lasciare Parigi in balia del male più assoluto.»
«Lo so… – sospirò l’uomo – Loro pensano sia solo una stupida rivoluzione, ma la verità è che ci sono forze più oscure, forze che per loro fortuna non riescono a percepire.»
«E allora capisci che scappare non è la soluzione.»
«Non sto dicendo che Coccinelle e Chat Noir devono andarsene. – disse incrociando lo sguardo di ghiaccio con quello dell’amata – Sto dicendo che noi due dobbiamo andarcene.»
«Ma… Dove dovremmo andare?» questa volta fu la domestica bionda a intervenire: che, per tutto il tempo della conversazione, era rimasta alla soglia della porta ed ora era entrata facendo un breve inchino.
L’uomo si portò una mano al mento, pensieroso, strofinando le due dita su di esso e percependo la sensazione ruvida della barba che stava crescendo.
«Andare a sud è fuori discussione. È verso dove siamo fuggiti col re e sarà il primo posto in cui ci verranno a cercare.» disse, cercando di pensare a un’altro luogo.
«Potremmo andare a Senlis, ho dei parenti lì ed è abbastanza lontano.» propose Juliette.
«E allo stesso tempo sarebbe vicino per noi due, in modo da tornare a Parigi quando ce ne sarà bisogno.» confermò il marito, annuendo con la testa.
«Immagino quindi che vi dobbiamo preparare i bagagli…» fece Marie, osservando l’uomo.
«Il prima possibile. – rispose Arno – Partiremo stanotte stessa. Conoscendo La Fayette fino a domani sarà troppo impegnato a condannare il sovrano per occuparsi di noi.» a quelle parole entrambe le due domestiche fecero un’inchino e subito dopo schizzarono fuori dagli appartamenti per fare i bagagli.
Non appena furono finalmente soli, fu Juliette a gettarsi, finalmente tra le braccia del marito: sentire nuovamente la presa salda delle sue braccia, attorno alle sue spalle, in qualche modo la rassicurò, nonostante ciò che li attendeva.
«Mi sei mancato…» disse, tenendo il viso premuto contro la sua camicia, rendendo così la voce ovattata.
«Anche tu, mon amour…» rispose lui, ma ebbe tempo di dire solo quello, perché subito dopo lei si allontanò, con una smorfia quasi di disgusto sul volto.
«Però prima di partire ti fai un bagno, perché caro mio, puzzi quanto una forma di camembert di Plagg.» disse puntandogli il dito contro al petto.
«Come…?!» tentò di chiedere lui, quasi sconvolto.
«Questa è un’offesa per il camembert. – intervenne il piccolo kwami nero, che era schizzato fuori dagli abiti del padrone non appena erano arrivati in casa – Fidati sono rimasto lì nascosto per tutto il tempo e aveva un’odore rivoltante pure per me.» a quell’affermazione la giovane nobildonna scoppiò a ridere, una risata argentina che ad Arno era mancata da matti. Cercò di trattare anche lui il riso: nel vederla comunque spensierata, almeno ogni tanto, nonostante tutto, e mise su il broncio continuando quel gioco.
«Ma bene… Fate pure comunella voi due…» disse offeso per poi dirigersi verso l’armadio e cercare un’altra camicia e un’altro paio di pantaloni da indossare per la nuova partenza.
Juliette rimase solo qualche minuto ad osservare divertita la porta da cui era uscito il marito.
Erano di nuovo in fuga e in pericolo, eppure erano insieme e questo, in qualche modo, la rassicurava: sapeva che al suo fianco sarebbe andato tutto per il meglio. In fin dei conti erano una squadra e avevano imparato a combattere fianco a fianco, coprendosi le spalle, molto più che da soli. Avrebbero affrontato quell’ultima difficile sfida, allo stesso modo di come avevano affrontato la presa della Bastiglia due anni prima, con la speranza di sconfiggere il misterioso Comt Ténèbre una volta per tutte e potersi godere il resto della loro vita assieme in pace.
La domestica bionda entrò nuovamente nei loro appartamenti, tutta trafelata, con un grosso baule in mano che sembrava pesare parecchio.
«Madame, forse le conviene andarsi a lavare anche lei.» propose, poggiando il bagaglio sul letto e asciugandosi il sudore dalla fronte.
«Sì, prima partiamo e meglio è… Avete avvisato il cuoco?» domandò, mentre andava anche lei verso l’armadio e sceglieva una veste comoda e poco ingombrante per partire.
«Certamente, sta cercando di racimolare un po’ di provviste dalla cucina, per ogni evenienza, credo anche per il viaggio.» rispose la domestica affiancandosi a lei e prendendo alcuni dei suoi vestiti più belli, per poi piegarli per bene e metterli dentro il baule.
La nobildonna, senza più nessuna parola uscì dalla camera, diretta al secondo bagno della villa. Solo quando si fu allontanata e i suoi passi non si sentirono più nemmeno in lontananza, Marie sospirò.
«Spero solo che tutto questo finisca in fretta…» disse.
«Stai tranquilla Marie, vedrai che in un modo o nell’altro si risolverà tutto.» la giovane domestica trasalì.
«Maledizione Tikki, mi hai spaventato!» esclamò, portandosi una mano al cuore, che ora sentiva martellare furioso nel petto.
«Perdono…» rispose il piccolo esserino rosso.
«No, no… Tranquilla… È che ancora non mi sono abituata alla vostra presenza.» cercò di spiegarsi la bionda, riprendendo a riempire il baule di vestiti.

 

Juliette si stava davvero dirigendo verso il bagno di servizio, quello un po’ più piccolo della villa, ma ciò la portò comunque a passare proprio davanti alla porta bianca di quello principale.
Si fermò davanti ad essa, indecisa sul da farsi, poi però l’istinto ebbe la meglio: prima ancora che se ne potesse rendere conto, la sua mano si poggiò sulla maniglia, spingendola verso il basso e aprendo così la porta.
Arno era lì, sdraiato dentro la vasca, con gli occhi chiusi e l’aria rilassata. A Juliette sembrò che un sorriso gli si stesse dipingendo in volto proprio in quel momento e qualche millesimo di secondo dopo ebbe la conferma di quella sensazione.
«Sapevo che saresti venuta…» disse, aprendo finalmente gli occhi e guardandola.

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Capitolo 39
*** La vasca ***


La vasca
29 Giugno 1791

Juliette rimase ferma alla soglia del bagno per diversi secondi, troppo incantata dagli occhi color del ghiaccio del suo amato.
«Pensi di chiudere la porta e avvicinarti, oppure devo venire a prenderti io?» domandò, alzando le sopracciglia scure in segno di presa in giro.
«No… io… Ero venuta solo a sapere come stavi…» cercò di dire lei confusa, sentiva il cuore martellarle nel petto furioso, com’era possibile che era così imbarazzata? Le sembrava quasi di essere tornata ai primi periodi, in cui ancora arrossiva nei momenti intimi con lui. Forse semplicemente era stata la distanza, quella lunga settimana senza vederlo, a renderla così sensibile alle sue attenzioni.
«Bene… Allora vengo io!» disse lui, riportandola con i piedi per terra. Dopo aver detto quelle poche parole si tirò su, ergendosi dentro la vasca in tutta la sua nudità.
«Arno!» lo rimproverò lei serrando poi gli occhi, per non vedere quello spettacolo che, sapevano benissimo entrambi, l’avrebbe eccitata a dismisura.
«Juliette, siamo sposati da quasi un’anno, possibile che ancora t’imbarazza vedermi nudo?»
Sentì lo sciabordare dell’acqua e il suono dei suoi piedi nudi che toccavano il pavimento, lasciando sicuramente delle orme umide sulle mattonelle; poi percepì il suo fiato caldo proprio vicino al viso e subito dopo il suono della porta che si chiudeva alle sue spalle.
Fu un attimo, lui con un gesto veloce la prese in braccio mettendosela su una spalla, mentre lei cacciava un grido riaprendo gli occhi e perdendo la presa sul suo vestito di ricambio che scivolò a terra.
«Arno, mettimi giù!» protestò.
«No.» rispose lui perentorio, ma con tono tranquillo e ironico, dirigendosi nuovamente verso la vasca.
«Arno, seriamente… Lasciami!» cominciò a battere dei leggeri pugni sulla sua schiena bagnata, che in fin dei conti era l’unica cosa che riusciva a vedere.
«Come vuoi te…» rispose finalmente lui e per un’attimo la donna tirò un sospiro di sollievo.
Subito dopo, però, si accorse che non era assolutamente quello che avrebbe voluto lei. Il marito la fece scivolare velocemente nella vasca da bagno, con ancora tutti i vestiti addosso.
«Arno!» gridò di nuovo, ritrovandosi letteralmente zuppa e con la gonna del vestito che indossava che si gonfiava per via dell’acqua.
«Sì?» domandò lui, con tono tranquillo, quasi come se si fosse accorto solo ora della sua rabbia.
«Sei impossibile!» protestò lei.
Lui storse la bocca, come stesse pensando a cosa rispondere oppure semplicemente perché non gli era piaciuta quell’affermazione.
«Sei stata tu a chiedermi di lasciarti andare…»
La ragazza sbuffò, ma non ebbe il tempo di fare o dire nient’altro, perché in un’attimo Arno, che era ancora fuori dalla grossa tinozza, si gettò famelico sulle sue labbra, bloccandole qualsiasi protesta avesse in mente. Non appena s’impossessò della sua bocca, tutta la rabbia, l’imbarazzo e qualsiasi altra sensazione sgradevole, sparì, lasciando solo il posto al piacevole tocco del suo bacio. Le erano davvero mancate le sue attenzioni.
Con i suoi soliti movimenti svelti ed esperti, che ormai lei conosceva bene, le tolse completamente, ogni tipo d’indumento che stesse indossando, gettandoli tutti quanti fuori dalla vasca, completamente fradici. Solo quando fu completamente nuda anche lei, mentre le loro labbra continuavano ad assaggiarsi e assaporarsi senza remore e i loro occhi chiusi, immaginavano già cosa sarebbe successo di lì a poco, Arno si rimise dentro la vasca, sovrastando la sua amata.
La sensazione dell’acqua, ormai tiepida e non più troppo calda, lo fece rabbrividire comunque per un attimo, ma durò pochi secondi, non di più, perché poi fu completamente preso dalla sensazione dei loro due corpi nell’acqua, almeno per la parte inferiore. La schiuma era ormai sparita quasi del tutto, lasciando intravedere le loro nudità: i seni di lei erano proprio sul pelo dell’acqua, metà sotto e metà sopra.
Si staccò finalmente dalle sue labbra, mentre lei allungava un po’ il collo, nel tentativo di baciarlo ancora, come se fosse rimasta delusa dal fatto che l’avesse abbandonata sul più bello. Lui però non se ne curò e, scendendo pian piano col la bocca, si dedicò al suo petto, strappandole brevi gemiti di piacere.
Rimase lì, col la bocca, per svariati minuti, stuzzicandola anche nelle sue parti intime, con le dita, mentre percepiva distintamente, le sue unghie, prese dalla foga, che gli graffiavano leggermente la schiena. Quando arrivò all’apice si staccò nuovamente da lei, ammirandola ansate e meravigliosa come sempre. 
Le punte bagnate dei capelli gocciolavano sul petto niveo e perfetto, a cui si era dedicato fino a poco prima e che ora si alzava e si abbassava frenetico, i suoi occhi ambrati lo guardavano completamente persi e quasi supplicanti di continuare.
«Dio, quanto mi sei mancata!» disse con voce roca e sensuale, per poi prendere di nuovo possesso delle sue labbra e del suo corpo.
La sensazione di essere posseduta in acqua era qualcosa che non aveva mai provato e che la mandò completamente in estasi: lo percepiva scivolare dentro di lei con molta più semplicità, donandole comunque una sensibilità incredibile.
Man mano che il tempo passava Arno cominciò ad aumentare il ritmo, le sue spinte diventavano sempre più veloci e profonde, strappando alla donna, che ogni tanto si staccava dalla sua bocca per prendere respiro, gemiti e gridolini di assoluto piacere.
Quando conclusero, questa volta, erano entrambi ansimanti e stanchi r l’acqua della vasca era ormai completamente limpida e ghiacciata.
«Ti amo…» sussurrò, tra un sospiro e l’altro, Juliette.
«Anche io, mon amour.» rispose lui, avvicinandosi nuovamente a lei con il viso e lasciandole un leggero bacio sulla fronte.

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Capitolo 40
*** Il rito ***


Il rito
 
15 Luglio 1791

Arno abbassò il numero del Journal de Paris, quelle notizie non erano affatto rassicuranti: attuare la legge marziale e vietare al popolo di fare qualsiasi tipo di manifestazione, anche pacifica, era un’idea azzardata e rischiosa, soprattutto in un momento simile in cui la figura del sovrano barcollava e perdeva sempre più fiducia.
Forse era il caso d’intervenire, forse doveva tornare a Parigi come Chat Noir e cercare di dare la parola fine a quella storia. Il problema però era che non bastava solo Chat Noir, ci voleva anche e soprattutto il potere di purificazione del Miraculous della Coccinella, ci voleva Coccinelle, ci voleva lei, ma lei…
«Ci sono novità?» alzò lo sguardo di ghiaccio sulla proprietaria di quella voce, ripiegando il quotidiano.
«Niente d’importate.» cercò di minimizzare, ma lei alzò il sopracciglio destro, poco convinta, per poi avvicinarsi e strappargli di mano ciò che stava tentando di nascondere.
Il silenzio regnò sovrano per vari minuti, mentre la donna leggeva l’articolo che parlava della tensione ormai palpabile nella capitale.
«Dobbiamo intervenire!» disse subito, esattamente come si aspettava, lasciando cadere il braccio che teneva l’insieme di pagine, lungo il fianco.
«Assolutamente no! Tu non ti muovi di qui!» disse perentorio il capitano riprendendosi il giornale e posandolo sul divano di fianco a lui.
«Arno non ti…» cercò di dire lei, ma la interruppe di nuovo.
«Non discutere Juliette, ti prego.» disse, la sua voce era dura e decisa, ma il suo sguardo la stava davvero supplicando di fare ciò che le stava chiedendo.
«Arno, – insistette lei – non puoi pretendere che non si faccia niente per altri cinque mesi, te ne rendi conto?– pose quella domanda con un tono quasi  di rimprovero, per poi sedersi al suo fianco, spostando poco più in là il giornale e, vedendo che lo sguardo del marito non era cambiato, proseguì – So benissimo che sei preoccupato, lo comprendo. Però non possiamo lasciare Parigi nelle mani di Comt Ténèbre: dobbiamo scoprire dov’è, dobbiamo scoprire chi è. Il nostro dovere è difendere il popolo di Parigi.»
«Senti un po’ ragazzo mio. – intervenne il kwami nero, avvicinandosi dall’angolo del salotto in cui si trovavano, con un pezzo di camembert tra le zampette e gli occhi felini che lo guardavano severi – Ti conosco abbastanza bene per sapere cos’hai in mente e ti fermo subito. Non puoi andarci senza di lei.» fece, sputacchiando qualche pezzetto di formaggio che ancora aveva in bocca.
«Ma lei non può andarci in queste condizioni.» ribatté l’uomo.
«E non lo farà…» intervenne una voce maschile, che attirò l’attenzione di tutti.
Un ragazzo era appena entrato nel salotto: aveva sicuramente meno di vent’anni, gli occhi di un blu intenso e i capelli biondo cenere. Alle sue spalle Marie, affannata lo stava seguendo.
«Perdonate, non sono riuscita a fermarlo, dice che deve assolutamente parlarvi.» si scusò la domestica.
«Con chi abbiamo l’onore di parlare?» domandò Juliette, osservando quasi con dolcezza quel giovane.
«Mi chiamo Michelle e sono l’erede di Noèl.» si presentò questo.
«Sei il nuovo guardiano dei Miraculous?» domandò stupito il capitano.
«Esattamente.» rispose il ragazzo, avvicinandosi ai due, mentre i loro kwami si sedevano comodamente sulle rispettive spalle dei propri portatori.
«Marie, puoi andare. Se abbiamo bisogno di voi vi chiameremo.» la rassicurò la padrona di casa.
Subito dopo che domestica uscì, Juliette fece accomodare il ragazzo nel divano proprio di fronte al loro.
«Cosa intendevi quando hai detto che non lo farò? Io credevo che noi…» tentò di chiedere la donna, ma fu interrotta di nuovo: il ragazzo aveva alzato la mano, mostrandole il palmo, fermando così ogni altra parola.
«Il capitano Pierre ha ragione, non… non potete andare di certo a combattere in queste condizioni. Ciononostante Parigi ha bisogno di voi e se non fermiamo lo spirito di Makohon adesso, non ci saranno più altre possibilità.» disse tutto d’un fiato, fermandosi solo qualche secondo nel momento in cui era stato indeciso se dar loro del tu o del voi.
«Makohon? Chi sarebbe?» domandò confuso Arno.
«Voi lo chiamate Comt Ténèbre, ma il suo nome è Makohon, egli è il creatore dei Miraculous e ora, sopraffatto dall’oscurità e dalla follia, li rivuole indietro.» rispose con tono pragmatico e risoluto il ragazzo.
«Perciò come facciamo?»
Il ragazzo chiuse gli occhi azzurri e fece un lungo sospiro, per poi riaprirli, più seri e sicuri di prima.
«Esiste un rito antico che usufruisce del potere del Miraculous della creazione, per velocizzare il periodo di gestazione. Entro stasera sareste libera dal peso che vi portate addosso e potreste tranquillamente partire per Parigi, come se nulla fosse successo.» spiegò lui.
«Da… Davvero è possibile una cosa simile?» fece Arno, sempre più stupito e forse anche un po’ confuso.
«L’abbiamo già fatto in passato, con un’altra portatrice che non poteva permettersi di restare incinta.» confermò il kwami rosso.
«E tu saresti in grado di compiere questo rito?» domandò Juliette.
«Sono venuto qui apposta per proporvelo. So di essere giovane e sicuramente più inesperto di Noèl, ma questa è la nostra unica possibilità.»
«Ci sono dei rischi?» a quella domanda il ragazzo si passò una mano tra i capelli, nervoso.
«Nulla che riguarda il bambino, o la madre… O meglio è così quando questa è una persona diversa dalla portatrice del Miraculous della Coccinella, ma in questo caso… – ci fu un attimo di silenzio, carico di tensione – La portatrice e il suo kwami consumano molta energia, assieme a colui che compie il rito, ma al contrario di Tikki che è comunque uno spirito e non può morire, ma al massimo spegnersi per un po’ e rintanarsi negli orecchini per qualche ora, noi due potremmo consumare ogni nostra linfa vitale.»
«Facciamolo!» disse la donna, dopo un breve sospiro.
«Ma, Juliette…»
«Non abbiamo alternativa Arno: dobbiamo agire, ne va anche del futuro di nostro figlio.» l’uomo chiuse gli occhi, rassegnato, afferrando la mano della moglie e stringendola, la sentì ricambiare la stretta in modo rassicurante e alzò lentamente lo sguardo, incrociando il suo addolcito da un meraviglioso sorriso.
«Cosa dobbiamo fare?» domandò, rivolgendosi di nuovo al guardiano.
«Il rito durerà dalle tre alle quattro ore, dopodiché Juliette dovrà partorire. Per allora bisognerà preparare acqua calda, asciugamani e tutto ciò di cui normalmente c’è bisogno: le domestiche sapranno che fare.» disse il ragazzo, alzandosi dal divano.
«Bene, allora io avviso Marie e mia madre, voi andate in camera.» fece, alzandosi anche lui e aiutando Juliette a fare altrettanto.

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Capitolo 41
*** I genitori ***


genitori
15 - 16 Luglio 1791

Juliette respirava affannosamente da ormai parecchio tempo, sentiva il suo cuore martellarle nel petto e il sudore che ormai le appiccicava la vestaglia bianca al corpo; e infine c’era il dolore: anzi più che un vero proprio dolore era una fastidiosa sensazione alla pancia, pancia che adesso dimostrava già nove mesi di gravidanza.
«Abbiamo finito Juliette. – le disse con voce affannata, ma allo stesso tempo tranquilla e rassicurante il ragazzo – Ora riposati qualche minuto, prima dell’ultimo sforzo, va bene?» lei gli rispose con un semplice cenno di testa, tentando di controllare il respiro e trovare un ritmo più regolare.
Come aveva preannunciato Michelle, quelle tre ore erano state veramente faticose. Non aveva perso i sensi, per fortuna, ma più di una volta aveva chiesto di fermarsi per qualche secondo perché le vertigini e i giramenti di testa l’avevano sorpresa all’improvviso.
Il giovane custode uscì dalla stanza matrimoniale, incrociando subito Arno che, nervoso e agitato, faceva avanti e indietro davanti alla porta.
«Allora?» domandò, i suoi occhi chiari, iniettati di ansia.
«Sta bene, è solo un po’ stanca. Puoi andare da lei se vuoi, tra dieci minuti riprendiamo.» gli rispose subito lui con un sorriso.
Poco prima del rito i due coniugi Pierre l’avevano praticamente costretto a dar loro del tu, dicendo che alla fine dei conti, nonostante la differenza di età e, forse, di ceto sociale, stavano tutti e tre combattendo lo stesso nemico ed ed erano alleati.
«Grazie mille, Michelle.» rispose l’uomo tirando un sospiro di sollievo.
«Di nulla... – rispose nuovamente lui e quando il suo interlocutore si apprestò ad aprire la porta egli continuò, bloccandolo su quel gesto – Ah, Arno... Sapresti indicarmi la camera da bagno?»
«Certo, alla fine di questo corridoio, sulla destra.» gli rispose lui, dopodiché entrò nella camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Appena entrato la vide lì: sdraiata su quello che da ormai una quindicina di giorni era diventato il loro letto matrimoniale, in quella residenza a Senlis. Era molto diversa rispetto a qualche ora prima, quando lei e il ragazzo si erano rintanati lì dentro; nonostante il suo respiro ormai regolare e il suo dolce sorriso nel vederlo, la stanchezza si leggeva chiaramente in lei: nella carnagione pallida, nel sudore che le bagnava alcune ciocche di capelli che le si erano appiccicate in fronte, ma la cosa che più attirò l’attenzione del capitano, era quel pancione pronunciato che faceva intendere che loro figlio, grazie al rito, era cresciuto in poche ore ed era pronto per venire al mondo.
«Credo di non avere un bell’aspetto...» scherzò la donna, rimanendo nella sua posizione mezza distesa. Lui si avvicinò, per poi sedersi sul letto, proprio al suo fianco.
«Tu sei sempre meravigliosa, mon amour.» le sorrise, spostandole una ciocca castana dalla fronte e baciandole il punto che aveva appena scoperto, dopodiché allungò una mano e accarezzò con estrema dolcezza il pancione della donna.
«Sai dovremmo dargli un nome… Insomma avevamo detto che ci avremmo pensato, ma visto che i tempi si sono velocizzati… Non possiamo di certo far nascere nostro figlio senza un nome.»
L’uomo storse la bocca pensieroso, continuando ad accarezzare il grembo della moglie.
«Voglio un nome semplice e allo stesso tempo importante, un nome che, pure nelle generazioni future, verrà ricordato e usato.» disse ad alta voce.
«Che ne dici di Lucille se sarà femmina?» propose la donna.
«Perfetto…» sussurrò con un sorriso.
«Ora tocca a te scegliere quello da maschio.» lo incoraggiò lei.
Lui rimase qualche secondo a pensare, scrutando con attenzione la pancia della moglie, mentre la sua mano, ormai quasi in un movimento automatico e involontario, continuava a dargli altrettante attenzioni.
«Che ne dici di Rafael?» domandò poi, alzando di nuovo lo sguardo sul viso della moglie e incrociando i suoi occhi castani, lei sorrise di rimando facendo un cenno con la testa.
Proprio in quell’istante entrò Michelle, seguito dalle due domestiche.
«Forza Juliette, abbiamo l’ultimo sforzo!» la incoraggiò il ragazzo.
«Sarebbe l’ultimo sforzo se poi, oggi stesso non dovessimo ripartire per Parigi e combattere Comt Ténèbre, lasciando nostro figlio qui.» disse Arno, quasi con tono ironico e allo stesso tempo nervoso, alzandosi dal letto. A quel punto la madre si accostò a lui, con un mesto sorriso, ma completamente sincero.
«Andrà tutto bene Arno, vedrai. – lo rassicurò – E ora esci, non puoi stare qui!» continuò, cambiando tono di voce e prendendolo un po’ in giro, mentre lo spintonava verso la porta che era rimasta aperta.
«Ho capito, ho capito, esco…» disse quasi scocciato l’uomo, per poi farlo davvero e chiudersi la porta alle spalle.
Fu quasi un’altra buona mezz’ora: Arno guardava ogni cinque minuti l’orologio che aveva nel taschino, nella speranza che tutto andasse per il meglio. Ogni tanto sentiva un urlo più forte della moglie, nell’atto del travaglio.
Poi all’improvviso, finalmente, sentì una voce diversa: un vagito leggero e subito dopo un pianto disperato, di una vocetta stridula. Senza nemmeno chiedere il permesso, spalancò la porta, trovandosi davanti la scena.
Juliette ansimava affannata, ma con il sorriso stampato in volto e finalmente serena, incrociando subito il suo sguardo, mentre Michelle e Marie tentavano di risistemare la stanza.
Spostò lo sguardo su sua madre, aveva in braccio uno scricciolo, completamente nudo e paonazzo, avvolto in un’asciugamano bianca, con cui la donna cercava di togliergli il liquido amniotico. 
Iniziò a sentire il cuore martellargli in petto furioso, mentre si avvicinava, notando subito il sesso del suo piccolo erede.
«Vuoi tenerlo in braccio tu?» domandò Francine porgendogli l’asciugamano con il bambino. Lui allora allungò le braccia e quando quella piccola creatura fu finalmente tra di esse, se la portò al petto, facendola improvvisamente smettere di piangere.
«Gli piaci…» disse divertita Juliette, guardando la scena. Lui sorrise, intenerito da quelle parole e dal bambino che teneva tra le braccia.
Plagg uscì dalla tasca interna della sua giacca, cominciando a svolazzare di fronte al viso del piccolo, attirandone la sua completa attenzione.
«Ha i tuoi occhi, Arno! – esclamò il piccolo gatto nero e l’uomo sorrise – Come sta Tikki?» domandò subito dopo, rivolgendosi al custode.
«Come avevo previsto, dopo lo sforzo è stata risucchiata dagli orecchini senza trasformare Juliette, ma credo che per quando saremo a Parigi sarà pronta.» lo rassicurò il ragazzo.
«Quando partiamo?» chiese a quel punto la donna.
«Visto che è già mezzanotte passata, direi che potete riposarvi tranquillamente fino alle cinque o sei di questa mattina, partiremo per le sette.» a quell’ultima affermazione uscirono tutti dalla camera, lasciando coniugi e figlio da soli.
«Benvenuto al mondo, Rafael.» disse finalmente Arno, avvicinandosi al piccolo e lasciandogli un bacio sulla fronte.

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Capitolo 42
*** Il trio ***


Il trio
 
17 Luglio 1791

Arno puntò lo sguardo in basso, osservando la folla che si stava aggregando a Champs de Mars. Si trovavano in un edificio sulla destra dell’enorme giardino, il primo vicino all’Ecole militaire, che era il punto in cui si era radunata più gente.
«Io davvero non capisco... Stanno chiedendo ancora la morte del re. – disse Arno, ascoltando quelle grida di protesta – Perché dovremmo aiutarli? Dopo che fino a un mese fa abbiamo combattuto perché non accadesse.» concluse, voltando lo sguardo felino, reso così dal costume di Chat Noir verso il loro nuovo compagno.
«Le vostre azioni sono sempre stata votate alla giustizia e alla lealtà ed è giusto così, ma l’obbiettivo dei Miraculous di mantenere l’equilibrio è sempre stato secondario, almeno da quando Makohon ha perso il lume della ragione e ha deciso di voler riavere le sue creazioni.» rispose il ragazzo.
Anche lui aveva indossato un Miraculous, un pendente con una coda di volpe da cui era uscita una piccola kwami arancione dai bellissimi occhi viola e l’animo gentile. Adesso indossava un costume molto diverso da quello di Arno: era completamente arancione e molto aderente al suo corpo minuto e asciutto, il pantalone era separato dalla parte di sopra da una cintura con la fibbia nera, che riprendeva il colore dei guanti e degli stivali. Sulle spalle indossava un giacchetto più largo con un colletto che ricordava molto la pelliccia di una volpe, cosa che veniva ripresa anche nella folta coda che si ritrovava dietro la schiena. Infine sul capo biondo portava un paio di orecchie da volpe e davanti al viso una maschera arancione a coprirgli la parte attorno i suoi occhi blu.
Juliette di fianco a lui sospirò per poi parlare.
«Ma almeno sappiamo chi è il conte? Insomma Makohon di chi ha preso il controllo?» domandò.
«Purtroppo credo di non saperlo con sicurezza, conoscendo le sue manie di protagonismo, non s’impossesserebbe mai di uno qualsiasi tra la folla, per questo ora dobbiamo stare dalla loro parte.» spiegò.
«Senza considerare il fatto che viste le minacce di La Fayette, c’è il rischio dell’ennesimo genocidio.» a quel commento di Coccinelle, gli altri due incrociarono li sguardi, quasi all’improvviso, come avessero capito qualcosa che a lei era sfuggito.
«È... È possibile che sia La Fayette?» domandò Chat Noir, a quel pensiero lei sgranò gli occhi, ricordando il giorno in cui Arno era tornato da Varennes ed erano fuggiti da Parigi.
«Tanto potere sprecato... – disse, quasi in un sussurro, ripetendo le parole che aveva sentito dire dal generale quel giorno e i due si voltarono interrogativi verso di lei, che invece stava osservando il vuoto, quasi come fosse immersa nei suoi pensieri – L’ha detto il generale quel giorno, non credo l’abbiamo sentito in molti... Era come un commento, come se sapesse con cosa avesse a che fare.»
«E noi ci siamo esposti in modo praticamente plateale a lui.» disse Arno di rimando.
All’improvviso il ragazzo li fece zittire, indicando il lato opposto dell’enorme piazza, rispetto all’Ecole militaire. Da quel lato si stava avvicinando la Guardia nazionale, con la bandiera rossa, a rappresentare la legge marziale, tenuta alta dal primo dei soldati. Davanti a loro il generale La Fayette è il suo secondo, Bailly, conducevano il plotone.
«Ricordatevi il piano…» disse il ragazzo, nervoso.
Coccinelle fece un cenno di testa, per poi fare il resoconto di ciò che si erano detti durante il viaggio da Senlis a Parigi, dopodiché attesero che l’ignaro avversario desse loro il segnale giusto per essere attaccato.
«Voi sentite qualcosa?» domando l’eroina. Il suo compagno gli fece cenno di fare silenzio, mettendosi il dito guantato di nero davanti alla bocca.
«Sta intimando alla folla di tornare a casa e disperdersi, altrimenti aprirà il fuoco.» sussurrò poi, continuando a tendere le sue orecchie feline, che gli permettevano di avere un udito più sviluppato degli altri due.
A quell’intimidazione però, la folla sembrò urlare ancora più forte e più contrariata di prima, tanto che persino Coccinelle e l’altro li sentirono.
«Traditori!» «Vogliamo la Repubblica!» «Uccidete il re!» dopodiché iniziarono a lanciare qualcosa contro i soldati.
«Direi che è ora d’intervenire.» disse Coccinelle, vedendo la Guardia nazionale, lapidata, tirare fuori i fucili.
Il segnale però arrivò quando si sentì chiaro e prorompente un unico, primo, colpo di pistola. Non si sapeva da chi fosse partito, se dai soldati o dai manifestanti, ma in quel momento il cielo di Parigi si fece nuovamente violetto e urla di terrore e di rabbia si levarono ancora più forti.
«Ci siamo!»
I tre con alcuni balzi scesero in piazza e raggiunsero il luogo in cui si stava già scatenando lo scontro e in cui i soldati avevano iniziato a sparare e la stessa cosa stavano facendo alcuni manifestanti armati. Il primo a buttarsi nella mischia fu Chat Noir, facendo roteare velocemente il suo bastone e impedendo ad alcuni proiettili di colpire un civile.
«Maledizione, mi sembra di essere tornato a due anni fa.» si lamentò.
«Invece no. Ci sono molte cose diverse rispetto a due anni fa… E una ci aspetta a casa… Quindi vedi di non morire.» gli disse divertita Coccinelle, regalandogli un sorriso e attorcigliando con il suo yo-yo il fucile di un soldato, per poi strapparglielo dalle mani.
«Queue Rouge, tutto a posto?» domandò l’uomo gatto, rivolgendosi al compagno con il suo nome da eroe, che aveva scelto velocemente giusto per quel giorno, visto che poi avrebbe riposto il Miraculous della Volpe nello scrigno.
«Tutto a posto, tranquillo. – lo rassicurò il ragazzo, facendo schioccare la sua frusta, contro un soldato e facendogli perdere il fucile – Dovremmo avvicinarci a La Fayette, prima di perderlo di vista!» suggerì poi, evitando un colpo di spada dallo stesso soldato.
Non ci misero molto a farlo: dopo qualche minuto di attacchi, schivate, disarmi e simili arrivarono davanti alla loro vera nemesi. Non sembrò affatto stupito di vederli, anzi ghignò divertito, mentre Bailly e i suoi soldati sembravano non capire.
«Alla fine vi siete decisi a tornare?» domandò, con quella voce fredda e calcolatrice.
«Basta scherzi, sappiamo chi sei davvero!» lo minacciò Coccinelle, tenendo ben saldo il suo yo-yo e facendolo roteare velocemente davanti a se.
«Ma davvero? – domandò lui, ancora più divertito, sondando con i suoi occhi verde oliva gli sguardi di tutti e tre gli eroi – Allora sarà più divertente uccidervi e prendermi ciò che mi appartiene!»

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Capitolo 43
*** La fine ***


La fine
17 Luglio 1791

Juliette aveva sentito il generale sibilare quell’ultima frase, allo stesso modo in cui aveva pronunciato il commento un mese prima, in modo che lo sentisse solo lei; questa volta però l’avevano udito distintamente tutti e tre gli eroi. Lo sguardo ambrato della giovane si assottigliò, mentre dentro di lei la rabbia e la voglia di giustizia cominciava a ribollire come non mai. 
Forse avrebbe dovuto ringraziare quell’uomo, senza il suo attacco e il suo potere lei non sarebbe mai diventata l’eroina che era in quel momento, non sarebbe mai diventata Coccinelle e non avrebbe mai conosciuto Chat Noir; allo stesso tempo però non poteva perdonare ciò che aveva fatto alla sua amata Parigi. Era colpa sua se quell’insulsa rivoluzione aveva preso una piega così drastica e irrecuperabile, lui aveva animato di rabbia e odio gli animi delle persone, giorno dopo giorno, facendo cadere la capitale francese sempre più in basso nel baratro della rivolta. Come se non bastasse, non poteva perdonare che, per colpa sua, nel secondo giorno più bello della sua vita, si era dovuta allontanare da suo figlio, appena messo al mondo.
«Queue Rouge, occupati dei soldati attorno e stai attento. Chat, io e te penseremo a La Fayette.» disse decisa, con una voce abbastanza alta da far capire al generale che non stava affatto scherzando. Nemmeno l’uomo però  sembrava intimorito e anzi, sguainò tranquillamente la spada con un ampio sorriso.
Fu Chat Noir il primo ad attaccare: con un grido di rabbia, probabilmente la stessa che muoveva Coccinelle, si lanciò su di lui, incrociando il suo bastone contro la lama del nemico. L’eroina gli fu subito dietro e lanciò il suo yo-yo nella loro direzione, ma il generale lo evitò facilmente.
«Non potete comprendere quanto mi irriti e allo stesso tempo mi renda soddisfatto, vedere i miei amati Miraculous, utilizzati in questo modo.» fece l’uomo con un ghigno, parando un altro colpo di Chat Noir e contrattaccando con un fendente che l’eroe gatto evitò velocemente senza, quindi, essere colpito.
«Makohon esci dal corpo di La Fayette, hai già fatto abbastanza danno così.» lo minacciò Coccinelle, tentando di bloccarlo con la sua arma, ma anche quell’attaccò si rivelò inutile perché il resistente cavo dello yo-yo si attorcigliò attorno alla persona sbagliata, ossia un soldato alle spella del generale, che liberò subito dopo.
«Guardatevi... Avete un potere immenso nelle vostre mani, un energia unica nel suo genere e non siete capaci di usarla.» li prese nuovamente in giro.
«Ti prego Coccinelle, dimmi che lo possiamo uccidere!» sibilò tra i denti l’eroe felino.
«Chat Noir, concentrati! Sai bene, cosa dobbiamo fare. – lo rimproverò l’altra, per poi evocare il suo potere – Lucky Charm!» tra le mani le cadde un fioretto, molto simile a quello che Arno usava quando non aveva l’aspetto da eroe di Parigi.
Alzò lo sguardo verso di lui che, dopo aver preso un grosso respiro, come nel tentativo di ricaricarsi di calma, si era di nuovo lanciato verso il generale, questa volta riuscendolo a colpire all’addome con il suo bastone. La Fayette sicuramente sentì il colpo, perché indietreggiò di qualche passo, portandosi la mano sinistra, quella che non teneva la spada, sul punto colpito, massaggiandosi la parte indolenzita.
L’eroe in nero però non si fermò solo a quel colpo e, subito dopo, tentò un nuovo fendente con la sua arma, cercando di prenderlo alla spalla destra. Il suo avversario, questa volta, riuscì a parare il colpo, alzando il braccio e intercettando il bastone con la sua spada.
«Chat Noir!» gridò a quel punto, lanciandogli l’oggetto fortunato, lui lo afferrò per poi rivolgersi proprio a lei.
«Ce la fai a purificarlo?» domandò, mentre continuava a intrattenersi in quel duello mortale con il generale.
«Credo di sì, non ti preoccupare.» lo rassicurò lei, per poi chiudere gli occhi.
Non era una mossa saggia non osservare ciò che la circondava, soprattutto in un momento critico come quello, ma sapeva che qualsiasi cosa sarebbe successa Chat Noir e Queue Rouge l’avrebbero protetta. Lei in quel momento doveva solo trovare la concentrazione necessaria per espellere completamente lo spirito di Makohon dal corpo del generale La Fayette: cosa affatto facile, soprattutto nel momento in cui lei si sentiva ancora mostruosamente debilitata dal rito e dal parto, avvenuti solo un giorno prima.
Trovò la forza e la volontà di farlo per tutto ciò che, qualche minuto prima, le aveva scatenato la rabbia e la grinta, tirando fuori il suo lato da guerriera, quello che Tikki elogiava tanto. Lo doveva fare per Parigi, per rivederla finalmente bella e prospera come quando era bambina, lo doveva fare per Arno e Rafael, per il futuro che avrebbe costruito insieme a loro.
Riaprì gli occhi, pronta a fare quell’ultimo sforzo e decretare finalmente la fine di quell’assurda battaglia durata ormai tre anni. Il suo yo-yo si illuminò di una luce rossa, intensa e vivida; a quel punto fece i passi che le mancavano per accorciare le distanze tra lei e i due che si stavano ancora scontrando. 
La sua arma si aprì, come quando faceva sempre per purificare una vittima di quello stesso spirito maligno che ora stavano combattendo nel pieno delle sue forze, emanando una luce quasi abbagliante, che per un attimo attirò coloro che circondavano quella zona dello scontro di Champs de Mars.
Compresero subito che, questa volta, stavano facendo la cosa giusta. Dal corpo del generale La Fayette fuoriuscì un fumo nero, diverso dalla solita aura viola che caratterizzava i soldatini di Comt Ténèbre e la nebbia che ricopriva solitamente il cielo e che in quel momento, pian piano, si stava diradando.
Il generale, sopraffatto da quel potere cadde in ginocchio, domandandosi quante altre volte avrebbe dovuto subire una sconfitta del genere prima di poter riottenere ciò che era suo. Possibile che quei maledetti portatori non avessero compreso che lui era una spirito e che era immortale?
Sentiva la rabbia ribollirgli in corpo: non avrebbe permesso loro di vincere in quel modo, non così facilmente. Strinse convulsamente l’elsa della sua spada nel pugno destro e tentò di rialzarsi, o meglio, di rialzare quel corpo che ormai era quasi del tutto fuori dal suo controllo, mentre il suo spirito stava uscendo.
«Non morirò così!» gridò, dopodiché allungò la mano che impugnava l’arma e affondò il suo ultimo colpo.
Prima di abbandonare completamente quel corpo riuscì a mostrare un ghigno soddisfatto nell’osservare la spada che affondava facilmente la carne, mentre la sua vittima faceva una smorfia tra lo stupore e il dolore.

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Capitolo 44
*** L'addio ***


L' addio
 

17 Luglio 1791

Arno ebbe l’impressione di vedere quella scena a rallentatore, ma non abbastanza da impedire in qualche modo che accadesse. La spada del generale La Fayette, poco prima che fosse completamente purificato e libero dal controllo dell’entità maligna, affondò nel ventre di Coccinelle, strappando a lui un urlo disperato.
Si lanciò verso di lei, proprio nel momento in cui l’uomo che l’aveva colpita cadeva a terra, completamente privo di energie. La prese al volo, evitandole di scontrarsi contro il suolo, cercando di mantenere una certa lucidità che, improvvisamente, sembrava non riuscire assolutamente a trovare in sé.
«Mi spiace Arno... Io non...» tentò di dire lei, con voce sommessa, lui la zittì, ponendole il dito guantato di nero sulle labbra e impedendole così di dire altro.
«Andrà tutto bene, mon amour, te lo prometto...»
«Generale!» gridò a quel punto Bailly, accorgendosi in quel momento di cosa era successo.
«Fox Fog!» urlò subito dopo la voce ancora un po’ immatura di Michelle. 
Improvvisamente una nume arancione si propagò per gran parte di Champs de Mars impendendo la visuale a meno che non si fosse a pochi centimetri gli uni dagli altri.
«Ma cosa...?» domandò Arno, ancora nelle sue vesti da eroe gatto.
«È il potere del Miraculous della Volpe. – gli rispose il ragazzo nella sua divisa arancione, avvicinandosi a loro – Andiamo via di qui, prima che scada il tempo.»
«Mon amour, riesci a reggerti a me?» domandò Chat Noir, sistemando meglio le braccia sotto il corpo della sua compagna. Lei rispose con un cenno di testa e con una smorfia di dolore allungò le braccia verso il suo collo, aggrappandosi a lui.
Quando fu ben salda al suo corpo, si alzò, portandola in braccio lontano dalla piazza, verso Rue Jean Carriès, dove avevano lasciato la carrozza che li aveva condotti fino a Parigi.
Salirono, e Arno sistemò meglio la moglie sulle sue gambe, mentre il ragazzo si metteva nella zona del cocchiere e ordinava alla sua piccola kwami di detrasformarlo e farlo tornare normale.
«Michelle...» gli si rivolse la volpina, poggiandosi sulla sua spalla.
«Parigi dovrà cavarsela da sola, d’ora in poi.» commentò il ragazzo, mordendosi le labbra e trattenendo le lacrime.
«Ma Michelle sei un custode, il tuo compito è...» tentò di ribattere lei, mentre lui schioccava le redini, facendo partire la carrozza.
«Non permetterò che accada loro qualcos’altro, Holly. Forse sbaglio, non lo so, sono custode da appena due anni, maledizione! Ma Makohon è stato sconfitto e non metterò la loro vita ancora più a rischio per questa stupida rivolta. Non lascerò crescere loro figlio senza entrambi i genitori. – ormai i suoi occhi blu erano pieni di lacrime, a dimostrare finalmente la sua vera età – Forse, semplicemente, la storia deve andare così...»
«Forse hai ragione, ma... Credo ci sia ancora un’ultima cosa da fare...» disse Holly, con il suo tono dolce, come a rassicurare con la sua sola voce che sarebbe andato tutto bene.
Il ragazzo tirò su col naso, staccando una mano dalle briglie e portandosela al viso nel tentativo di asciugarsi le lacrime con il dorso.
«Arno! – disse a voce più alta in modo che il diretto interessato sentisse da dentro la carrozza – Il Lucky Charm!»
Arno all’interno della vettura fece un sospiro, per poi rivolgersi alla donna che aveva tra le braccia.
«Juliette, amore mio, devo chiederti un ultimo sforzo...» le sussurrò amorevolmente, mettendole tra le mani il fioretto che nemmeno dieci minuti prima gli aveva dato lei per affrontare il generale.
Lei serrò le dita attorno all’elsa, senza esitare e dopo aver preso un grosso respiro, facendo una smorfia di dolore nel percepire la fitta allo stomaco che la stava torturando, disse quelle due parole a mezza voce.
«Miraculous Coccinelle…» a quelle parole il fioretto fu avvolto da una luce rossa, che ben presto lo fece scomparire sostituendolo completamente, per poi trasformarsi in fasci di luce che schizzarono fuori dai finestrini della carrozza.
Alla fine di quel gesto il potere di Coccinelle finì del tutto e gli orecchini decretarono la fine, che misteriosamente erano durati più del previsto, facendo schizzare fuori Tikki.
«Juliette...» disse con voce tremante la kwami guardano la sua compagna di avventure, la donna tirò un sorriso un po’ forzato, sempre per via del dolore.
«Va tutto bene Tikki… Grazie per aver resistito tutto questo tempo…»
La creatura scosse il capino rosso.
«È merito tuo se sei rimasta Coccinelle cinque minuti in più dopo il Lucky Charm. Ricordi quella volta che ti dissi che voi usavate solo una piccola percentuale dei vostri Muraculous, l’energia di essi dipende anche dai loro portatori. Tu hai fatto tantissimo oggi, sei tu che hai dato a me la forza di resistere più tempo: quei dieci minuti li abbiamo affrontati assieme.» lei rispose con un cenno di testa, sempre con quel sorriso in volto che non voleva spegnersi nemmeno in una situazione come quella.
I suoi occhi color dell’ambra si rivolsero verso l’eroe gatto: colui per cui, per i primi mesi di quella strana avventura, aveva sentito il cuore battere furioso. Eppure ora lo sapeva, sapeva che a quel tempo si era innamorata solo di un’illusione, di una maschera, di un’alone di mistero che aleggiava attorno all’eroe in nero. Solo dopo aveva imparato ad apprezzare davvero la persona dietro la maschera.
Allungò la sua mano tremante verso quella destra di lui, sfilandogli l’anello nero dal dito. Un’aura nera e verde lo avvolse per qualche secondo, mentre Plagg usciva dal gioiello. Solo in quel momento vide l’uomo che amava per davvero, l’uomo dietro la maschera: quello che l’aveva conquistata, che aveva lottato per lei, che l’aveva protetta e amata, che l’aveva sposata e con cui aveva condiviso, solo un giorno prima, la gioia più grande.
«Arno…» nel sentire pronunciato il suo nome, con quella voce flebile e debole l’uomo ebbe un brivido. Allungò la mano, scostando i capelli castani e ormai sfatti dal suo zigomo.
«Ti prego, mon amor, resisti…» disse, mentre la carrozza usciva finalmente da Parigi.
Anche lei, tese una mano verso di lui, poggiando il palmo sulla sua guancia. Lui allora prese quella mano con la sua: era gelida. La sua pelle era gelida e il suo viso pallido come il latte.
Con quello che sembrò, per lei, uno sforzo immane, si sollevò, avvicinando il viso al suo e lasciandogli un leggero bacio sulle labbra, per poi ricadere sulle sue gambe, come esausta.
«Prenditi cura… di Rafael…» quelle furono le sue ultime parole, poi, pian piano, la sua vita si spense.
«Juliette… Non puoi… Non puoi morire ora Juliette… Ti prego…» il tono di voce dell’uomo era sempre più disperato, mentre i due kwami guardavano in silenzio, anche loro sconvolti dall’esito di quell’ultima battaglia.
Una lacrima, sfuggita al suo solito autocontrollo, rigò la sua guancia. Non poteva crederci: non c’era più, come non ci sarebbe stato più un “noi”, quel “noi” che avevano tanto agognato per la loro vita insieme. Tutto sparito. Tra le sue braccia un corpo inerme, privo di vita.
Juliette, la sua Juliette, non c’era più.

 

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Capitolo 45
*** L'epilogo ***


L' epilogo
 

4 maggio 1811

I suoi occhi azzurro ghiaccio si stavano guardando intorno, in quell’enorme sala da ballo. 
Versailles, anche dopo la rivoluzione che aveva portato alla morte il monarca e la sua famiglia, non era cambiata per nulla e i conti più ricchi, usavano quella maestosa reggia per organizzare balli e cerimonie, come a cercare di dare un’apparenza di pace e tranquillità.
Finalmente la vide: bellissima, nel suo elegante adrienne rosso fuoco, quasi come volesse distinguersi dagli altri; i capelli castano chiaro acconciati perfettamente e quel suo portamento regale. Un sorriso gli si estese sul volto, mentre le si avvicinava.
«Bonjour, mon cher.» disse, facendola voltare.
«Monsieur Pierre!» esclamò lei, come fosse stupita di vederlo.
«Oggi è più bella che mai, mademoiselle Laurent.» si complimentò lui, estendendo il suo sorriso e vedendo la donna arrossire, quasi ad assumere il colore del suo abito.
«Vuole danzare?» domandò poi lei, sentendo il piccolo complesso cominciare una nuova musica.
Lui la prese per i fianchi e la avvicinò il più possibile al suo petto, per poi chinare il viso verso il suo e accostare la bocca al suo orecchio destro.
«Io avevo in mente altro…» disse con un sussurro roco e sensuale, facendo sussultare di eccitazione la donna, che si scostò con un’evidente finta indignazione.
«Monsieur Rafael Ponthieu Pierre, come si permette?» a quelle sue parole, lui alzò il sopracciglio, come a domandarle se voleva davvero giocare a quel gioco, pur sapendo che avrebbe vinto lui.
La nobildonna a quel punto fece un sospiro e gli sorrise, prendendogli la mano.
«Portami dove vuoi…» disse dandogli improvvisamente del tu. Rafael sorrise, soddisfatto dell’ennesima facile conquista, dopodiché si allontanò mano nella mano con la ragazza.

 

«È identico a te da giovane.» disse un’uomo dai capelli biondo cenere, con un accenno di barba sulle guance e sul mento.
«Si placherà anche lui… Non appena troverà quella giusta.»
«Era da anni che non venivi qui, Arno, come mai proprio oggi?» gli domandò l’uomo, osservandolo con i suoi intensi occhi blu.
«Perché vent’anni fa… in questa sala… Ci siamo conosciuti per davvero…» disse, con un tono malinconico.
In quello stesso momento, davanti ai suoi occhi comparve lei, come fosse una visione. Nel suo bellissimo abito rosso slavato che indossava quel giorno. Proprio come se fosse la prima volta che la vedeva.
Quel suo unico, grande, vero amore, nato proprio lì, alla reggia di Versailles.



Angolo dell'autrice:
Ok... Prima che mi insultiate o cerchiate il mio indirizzo per venire ad uccidermi, sappiate che io nello scrivere questo finale ho sofferto quanto voi se non di più.
Arno e Juliette sono davvero stati i miei primissimi character originali e ci sono affezionata come non mai. Separarli, soprattutto in questo modo, è stato un qualcosa di terribile e di terribilmente difficile.
Nonostante tutto però, era necessario, perché non sempre le cose vanno per il verso giusto, soprattutto quando si è degli eroi (tanto per avvisarvi già da ora questa non sarà l'unica con un finale angst, nonostante non mi piacciano). 
Con questo epilogo perciò, si conclude "Amore a Versailles", di cui troverete tantissimi riferimenti nelle prossime storie della saga.
Concludo come al solito ringraziando tutti quanti. Tutti voi lettori che mi avete seguito, sostenuto e incoraggiato. Tutti coloro che hanno recensito, che hanno messo semplicemente un mi piace nel post di Facebook dopo aver letto il capitolo o che addirittura hanno aggiunto questa storia tra le preferite.
Grazie davvero e ci vediamo alla prossima storia.

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