Gajevy Crossover Tales

di MaxB
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Trono di Spade ***
Capitolo 2: *** Mulan ***
Capitolo 3: *** Uncharted ***
Capitolo 4: *** Titanic ***



Capitolo 1
*** Il Trono di Spade ***


Note pre-lettura: la storia è tratta dal libro, non dalla serie TV, che non ho intenzione di guardare. Perciò, per chi non ha letto il libro e ha visto la serie, non so che differenze possano esserci. Anche per chi legge il libro ci saranno alcune cose diverse, dato che non ho copiato pari pari dal libro ma ho reinterpretato (non troppo) il loro rapporto in base alla storia, cambiando alcuni dettagli (dimenticandone altri, sicuramente ahahah (ops)) e omettendone alcuni non fondamentali per questo capitolo. Vi auguro una lettura piacevole^^


Il Trono di Spade

Personaggi sostituiti
Khal Drogo: Gajeel Redfox (Khal Gajeel)
Daenerys (Dany) Targaryen: Laeverys (Levy) McGarden
Il cavallo di Khal Gajeel: Pantherlily (non sapevo dove metterlo, scusate ahaha)
Irri, Jiqui e Doreah, ancelle di Levy: Lucy, Erza e Mirajane



Disagio. Ansia. Confusione. Terrore.
Queste erano le emozioni viscide e pressanti che albergavano nella mente, e peggio ancora, nel cuore, di Laeverys Gardyen, costringendola in uno stato di catatonica apatia e cieca obbedienza nei confronti degli ordini secchi e bruschi di suo fratello maggiore.
Non che di solito non gli obbedisse, certo. La sua vita, la sua esistenza, il suo scopo erano quelli di servirlo e seguire i suoi ordini in modo che lui potesse detronizzare chi sedeva sul Trono di Spade al posto suo, che governava sui Sette Regni macchiati di sangue per via dell’usurpazione.
Laeverys Gardyen, Levy per suo fratello e per il magistro che aveva dato asilo a entrambi, principi umiliati e scacciati dalla propria casa, tornò alla realtà dei fatti solo quando l’ancella le strinse il corpetto con forza, strappandole un rantolo.
- Zitta – le intimò suo fratello, laconico, studiandola come si studia una mucca da macello, un animale dal valore nullo da cui bisogna cercare di trarre il massimo profitto. – Non una parola, capito? E sorridi, che non vogliamo che il Khal ti rifiuti per colpa della tua brutta faccia.
Eccola, un’altra stoccata al suo già inesistente orgoglio femminile.
L’ancella strinse ancora i lacci del corpetto, un’ultima volta, e Levy si morse la lingua per non obiettare.
Un’altra serva le fece passare la veste di seta azzurra come i suoi capelli sopra la testa, lisciandolo poi fino ai piedi e sistemando le curve del vestito in corrispondenza delle forme del corpo ancora acerbo di Levy.
Aveva sedici anni e stava per andare in sposa a un re selvaggio, barbaro, delle terre al di là del mare. Il re dei dothraki, un popolo legato alla terra e a tradizioni e culture violente e prive di umanità come solo quelle primitivi potevano essere. Gente poco civilizzata e brutale, guerrieri che non conoscevano il significato della pietà e misuravano la loro forza e il loro onore solo in termini di numeri. Numeri degli assassinii perpetrati.
L’unico loro pregio era la lealtà, la fedeltà incrollabile di tutto il khalasar nei confronti del proprio Khal, del proprio re.
Ecco di quali tipi di persone Laeverys Gardyen, discendente dei draghi, stava per diventare la regina.
Non sapeva nemmeno se suo marito conoscesse la sua lingua. Non sapeva chi fosse, non l’aveva mai visto, anche se stava per incontrarlo.
Solo il nome le era noto: Gajeel, Khal Gajeel dei dothraki, il più sanguinario e impassibile dei re. Nella cultura dothraki, pareva che più il re fosse imperturbabile e inflessibile, più fosse osannato.
In quel momento prevalse il terrore nell’animo di Levy.
- Mettile in mostra le tette, sono lì da qualche parte. Non si vedono, ma ci sono – la schernì suo fratello, rivolto all’ancella, per nulla divertito. – Sedici anni e hai le tette di una neonata. Speriamo che il Khal preferisca il tuo abbondante didietro a quelle ciliegie imbarazzanti.
Levy incassò l’umiliazione senza battere ciglio. Era abituata a stoccate del genere da parte di suo fratello, l’unica persona che amasse al mondo, l’unico parente che aveva conosciuto dal momento della sua nascita, che si fosse preso cura di lei, anche se a modo suo e in maniera discutibile.
Ma lei era viva grazie a lui, e qualsiasi cosa lui avesse comandato, lei avrebbe obbedito.
Lealtà a lui? Alla propria dinastia reale?
Lei cercava di convincersi di sì, nelle lunghe chiacchierate che faceva mentalmente con se stessa per illudersi di poter parlare amichevolmente con qualcuno. Ma la verità era che obbediva solo per paura, timore della rabbia incontrollata del fratello e orrore all’idea di scappare.
Scappare dove, poi? Per andare da chi? Dalla sua gente, a casa sua? Le casate fedeli ai Gardyen erano ormai piegate sotto il volere del nuovo sovrano, i suoi famigliari morti, casa sua occupata. Le rimaneva solo suo fratello. E, se la serata fosse andata come previsto, avrebbe avuto suo marito, che li avrebbe aiutati a riconquistare senza difficoltà tutti e sette i regni.
- I capelli non sono abbastanza lucenti, devono essere azzurri come l’acqua pura in cui i draghi lavano le loro onorevoli scagli, luride schiave. Sistemateglieli, o vi farò conoscere quanto può bruciare il fuoco di quegli stessi draghi – comandò il fratello di Levy, girandole attorno.
Tette piccole. Sedere grosso. Troppo magra. Sproporzionata. Occhi troppo grandi. Capelli opachi.
Quelle e molte altre lodi le erano state rese dal fratello nell’arco del pomeriggio di preparazione cui era stata sottoposta per essere presentabile alla vista del Khal.
Levy si sentiva sempre più prossima alle lacrime, per la sua incapacità di soddisfare il giudizio del fratello e per il destino che l’attendeva. Nemmeno la promessa di riportare ai fasti di un tempo la sua casata l’aiutava a mascherare l’orrore che provava.
Suo fratello si allontanò un attimo per andare a prepararsi, minacciando le ancelle di legarle e tenerle a digiuno se sua sorella non fosse stata pronta entro il suo ritorno.
Appena fu lontano, un’ancella si fermò di fronte a Levy e le osservò il volto. – Siete bellissima, principessa. Non temete, il Khal non vi rifiuterà.
Levy desiderò con tutte le forze crederci, e mentre l’altra ancella le metteva uno specchio davanti al viso, si chiese cosa fosse in realtà la bellezza.
Aveva lunghi capelli azzurri e ondulati, lasciati ricadere morbidamente lungo la schiena e adornati qua e là da trecce e fili di perle, che creavano uno splendido contrasto con il puro turchino delle sue ciocche. Si diceva che tutti i Gardyen avessero capelli dai colori sgargianti e naturali, non colorati con le tinte importate dalle città libere. Era un retaggio che derivava dalle scaglie dei draghi e dalla lunga permanenza a contatto con essi.
Gli occhi erano del colore del miele prodotto da api selvatiche, quel miele che poteva costare anche un cervo d’argento tanto era pericoloso recuperarlo. Una puntura, una sola, e la morte ti trovava nel giro di un’ora. Erano occhi grandi e sinceri, dolci nonostante le angherie subite e le difficoltà della vita. Dagli occhi di Levy traspariva la vera età della sua anima: non sedici anni, semmai sessantuno, forse. O di più. La sua era un’anima antica che aspettava di cominciare a vivere, per smettere di sopravvivere.
Il resto del volto era morbido e armonioso: eleganti zigomi alti, una dolce curva del naso, pelle di seta senza difetti o cicatrici.
Non aveva molto seno, aveva gambe magre e affusolate nonostante la lunghezza non eccessiva, fianchi larghi adatti a mettere al mondo dei bambini senza troppa difficoltà, e un fondoschiena che compensava la mancanza di dotazione pettorale. Il vestito di seta azzurra serviva proprio a cercare di valorizzare il suo piccolo seno e le altre curve del suo corpo, rendendola invitante quanto una cena succulenta.
Forse proprio quello era lei, in fondo. Un pasto da consumare nel momento in cui la fame mordeva, e da abbandonare quando quello stesso bisogno veniva placato, un avanzo da gettare ai cani.
Suo fratello però non l’aveva mai picchiata… per lo meno, non troppo violentemente. Non poteva certo rovinare la mercanzia.
Quando tornò, la squadrò con diffidenza mentre le ancelle si affrettavano ad uscire dalla stanza.
- Bene, andiamo a concludere l’accordo – approvò, dandole le spalle e uscendo.
Nei suoi occhi non aveva visto il minimo segno di compiacenza.
 
Levy scese dalla carrozza per seconda, subito dietro a suo fratello.
L’unica volta in cui si era azzardata, dimentica della sua posizione, a scendere per prima, suo fratello le aveva strappato una ciocca di capelli tanto folta da lasciarle una chiazza calva sulla nuca.
La prima cosa che Levy notò era che il khalasar del re, la sua corte e la sua guardia, tutti raggruppati in quell’immenso palazzo grezzo e rustico come il popolo dothraki, era composto da soli uomini. Uomini massicci, uomini che la superavano in altezza e larghezza di misure non trascurabili. Il più basso guerriero probabilmente era più alto di lei di una testa abbondante.
La seconda cosa di cui prese atto fu che tutti si zittirono e la fissarono come si fissa un pezzo di carne grondante grasso alla fine di una giornata di digiuno, quando alzò la gonna alle caviglie per salire le scale.
La terza cosa che capì, e che le strinse le viscere in una morsa tale da costringerla a non mangiare nemmeno un pezzo di pane per non vomitare, fu che molti di quegli uomini enormi facevano parte della guardia reale del re. Almeno dieci di loro di sicuro. Il Khal condivideva tutto con i suoi cavalieri di sangue, pensieri, pasti, guerre, rabbia. Mai un uomo della guardia aveva tradito il proprio Khal.
E il Khal condivideva anche la propria moglie.
Levy deglutì a vuoto, cercando di buttare giù il grumo di disperazione che le occludeva la laringe e rischiava di farla soffocare. Dover condividere il letto con il Khal forse sarebbe diventata un’abitudine, una cosa che avrebbe imparato a fare meccanicamente, magari senza nemmeno provare più dolore. Lei ci sperava. Ma essere posseduta a turno da dieci di quegli uomini possenti e privi d’affetto, agli occhi dei quali lei era solo uno strumento di piacere, l’avrebbe dilaniata dentro, nel profondo, oltre che nel corpo.
Ad un tratto sentì voglia di piangere.
- Quello è il Khal, Khal Gajeel – la informò suo fratello abbassandosi per farle udire il suo sussurro.
Stava indicando un individuo che svettava sugli altri di una buona spanna. Khal Gajeel era massiccio, alto quanto un gigante e muscoloso quanto un toro, ma nel momento in cui si voltò verso di loro e si avvicinò, Levy notò che aveva anche una certa grazia. In qualche modo le ricordò una pantera, nera quanto i capelli che portava raccolti in una treccia fino alla base della schiena.
Indossava un gilè di cuoio impreziosito con gingilli dorati, sotto cui erano visibili i muscoli guizzanti dell’addome e del petto. In vita portava una cintura di cuoio bardata con anelli d’oro che lo identificavano come Khal, che sosteneva dei pantaloni di pelle larghi e morbidi, neri come i suoi capelli.
Aveva i piedi nudi, ma Levy si rese conto che l’unico rumore che lui produceva in quel silenzio innaturale era dovuto ai campanellini d’oro incastrati nella sua treccia folta come la criniera di un cavallo.
A quanto pareva, non era consuetudine solo femminile quella di acconciarsi la capigliatura, nel popolo dothraki.
Quando Khal Gajeel le fu davanti, lontano da lei solo due passi, Levy fu costretta ad alzare del tutto la testa per osservarlo in volto: i suoi occhi gli arrivavano al petto, tanto era alto. Da lontano sembrava mastodontico, ma da vicino era un vero gigante.
Levy studiò velocemente il suo viso: aveva il mento, i lati del naso e la pelle occupata dalle sopracciglia tempestati di piccole placche di metallo. Non era raro che i dothraki si bucassero la carne con gioielli o appendici metalliche, e quando la ragazza notò un baluginio anche sulle orecchie e sugli avambracci del Khal, il destro dei quali era anche ricoperto di cicatrici chiare e frastagliate, si chiese quante placche metalliche si fosse fatto impiantare nel corpo. Aveva il volto squadrato, la linea del naso decisa e la curva della mascella retta e ben definita, austera anche se nascosta sotto una curata barbetta corta che partiva dalle basette e gli circondava le labbra, lasciando libera solo un po’ di pelle sotto al mento. Quello la sorprese, dal momento che le barbe dei dothraki erano solite essere selvagge e incolte, spesso legate con qualche laccio grezzo. Mai corte e ben curate.
Ciò che però la ipnotizzò e la bloccò, fermandole il sangue nelle vene, il battito cardiaco, il respiro e i pensieri, furono gli occhi: scintillanti come rubini e freddi allo stesso modo, impassibili, una pozza di sangue nella quale era facile annegare e difficile da attraversare restando incolumi. Persino per i dothraki, che avevano tutti occhi color fango o rosso-marrone, era insolita una tonalità così sgargiante.
La posa fiera, i tratti del viso, la corporatura, il vestiario e gli orpelli, i capelli e la barba: tutto in lui suggeriva fermezza e autorità.
Levy sentì i muscoli del ventre contrarsi. Le ci volle tutto il suo autocontrollo per non piegarsi e gemere di dolore: un preludio a ciò che sarebbero state le notti con quel guerriero barbaro e violento.
Sarebbe sopravvissuta? Ce l’avrebbe fatta?
Lanciò al fratello un’occhiata supplice, pregandolo di rispondere a quella muta domanda, ma l’unica cosa che lui le trasmise fu odio.
D’istinto, cercò di sorridere, ma forse non le riuscì troppo bene la cosa dal momento che Khal Gajeel sollevò un sopracciglio.
Quel movimento era stato l’unico cambiamento che la sua espressione impassibile aveva subito da quando lo aveva visto.
Suo fratello fece per parlare, ma Khal Gajeel lo precedette e alzò una mano per bloccarlo, studiando con interesse la ragazza di fronte a lui. Be’, Levy sperava che fosse interesse, dato che i suoi occhi rossi come le fiamme che ardevano nei bracieri sparsi per la sala enorme non avevano tradito emozioni.
Alla fine, dopo un esame che a Levy parve interminabile, Khal Gajeel annuì seccamente e si allontanò, facendo ghignare suo fratello. I guerrieri tornarono alle loro chiacchiere e alcuni alle loro baruffe, e non la degnarono più di attenzione.
- Bene, è fatta, sorellina – concluse suo fratello, squadrandola dall’alto.
Levy si illuse di vedere orgoglio dipinto nei suoi occhi, ma poi tornò alla realtà e capì che era solo un guizzo di autocompiacimento. Non rivolto a lei.
- Sai, Levy, si dice che un dothraki si tagli i capelli solo quando perde una battaglia, sia essa una guerra o un duello corpo a corpo. Khal Gajeel ha la treccia più lunga di tutto il khalasar. Sono convinto che a letto ci sarà da combattere, quindi vedi di soddisfarlo. Mi sono spiegato?
Lei annuì titubante, e soppresse una smorfia quando suo fratello allungò la mano per torcerle la pelle del polso in un pizzicotto che avrebbe lasciato il segno.
Il sorriso che gli rivolse era sincero quanto la dichiarazione di pace di un uomo con in mano una spada insanguinata.
In qualche modo riuscì a spacciare le lacrime che le sfuggirono dagli occhi per gioia, pura gioia.
In risposta, suo fratello le accarezzò i capelli.
 
Si sposarono una settimana dopo, di pomeriggio, in una radura erbosa punteggiata da fiorellini bianchi e violetti che venivano brutalmente calpestati dai piedi pesanti dei dothraki.
Come da tradizione, Khal Gajeel studiò il cielo terso che iniziava a rabbuiarsi, alla ricerca della luna. Quando la individuò e fu certo che luna e sole, in quel momento, coesistessero nello stesso cielo per benedirli, si avvicinò al centro della radura su cui calò il silenzio. Levy, pizzicata al fianco dal fratello, deglutì e lo seguì alzando la gonna lunga e leggera nella tiepida aria serale.
Indossava un vestito chiaro piuttosto semplice: suo fratello aveva lesinato pesantemente sul suo vestito da sposa quando aveva scoperto che ai dothraki non fregava un fico secco dell’abbigliamento e delle cerimonie. Così Levy portava un vestito leggero che aveva già precedentemente indossato, dalle maniche lunghe e larghe che quasi toccavano terra. Aveva uno scollo profondo e longilineo che terminava alla base del seno, dove partiva una fasciatura che metteva in risalto la vita stretta. Dall’addome fino ai piedi si dipanava la lunga gonna morbida e velata che le metteva in mostra le gambe in controluce. Portava pochi gioielli, ai dothraki non interessavano simili gingilli estetici e futili. Solo il Khal e i suoi guerrieri ne portavano, e quel giorno Khal Gajeel non si era risparmiato sugli accessori.
Indossava un gilè semplice, come gli altri che Levy gli aveva visto indossare, ma questo era fatto di pelliccia di piccoli topi. Era considerato un portafortuna nella cultura dothraki. L’addome muscoloso era esposto dal petto fino all’ombelico, sotto al quale era legata strettamente una cintura di cuoio pesante che poteva essere considerata un’armatura, borchiata con catenine e anelli d’oro che Levy, principessa deposta di tutti i sette regni, non aveva mai visto nonostante il suo alto lignaggio. Bastava la quantità d’oro appesa alla vita del Khal per rendere ricco un poveraccio per tre intere generazioni. Le gambe erano coperte da pantaloni chiari, color bianco sporco, che sembravano essere morbidi e lisci al tatto. Probabilmente era la versione dothraki del velluto e della seta.
I piedi di entrambi erano nudi, e Levy cercò di concentrarsi su quelli per non far caso alle placche metalliche incastonate nel viso e negli avambracci di Khal Gajeel, per non soffermarsi sulla forza che i suoi muscoli esposti emanavano, sulle braccia possenti o sull’altezza vertiginosa.
Tutto faceva presagire che quella notte, e tutte le altre a venire, sarebbero state per lei un vero tormento.
Quando sentì un’ombra e una presenza massiccia incombere su di lei, si bloccò, sapendo di essere arrivata al cospetto del Khal. Lui le alzò il mento con mano delicata ma allo stesso decisa, un gesto perentorio ma non brusco, e Levy seppe che avrebbe dovuto guardare le fiamme ardere nei suoi occhi per tutta la durata della cerimonia.
Non seppe dire, in seguito, cosa fosse accaduto durante quella specie di funzione. Una vecchia, probabilmente una saggia o una donna assimilabile ad una sacerdotessa negli usi dothraki, mormorò alcune parole incomprensibili, ne urlò altre, inneggiò al cielo e poi tacque, gli occhi chiusi e il respiro bloccato.
Khal Gajeel replicò all’invocazione della vecchia recitando poche parole, continuando a tenere la mano sotto il mento di Levy e senza mai lasciare il suo sguardo.
Alla fine tutto il khalasar esplose e iniziarono i festeggiamenti mentre Khal Gajeel si allontanava verso la sua postazione. Dal suo cenno della testa, Levy capì di doverlo seguire, e così fece. Nel momento in cui sedette per terra, sulle stuoie e i cuscini, pregò che i festeggiamenti durassero quanto più possibile, per evitarle di stare con il Khal, da sola, ed essere così costretta a consumare il matrimonio.
Le ci vollero poche ore per cambiare idea e pregare che quell’orgia inferocita, quello scempio selvaggio finisse.
Laeverys non sapeva più dove posare gli occhi. Non aveva nessuno con cui parlare: il Khal non la degnava di uno sguardo e suo fratello era di pessimo umore. Nel momento in cui Levy si mise il cuore in pace e provò a dare un’occhiata alla festa in suo onore, per passare il tempo, l’orrore attraversò il suo viso in un muto grido, represso e custodito nel suo cuore.
Ballerine dothraki mezze nude si esibivano in danze sensuali e sfrenate, ottenendo come risultato quello di essere prese dal guerriero di turno, casuale quanto un passante incontrato per strada, ed essere possedute lì a terra, senza pudore né sentimento, come due animali. Come due cavalli, l’animale prediletto dei dothraki. Ovunque guardasse, Levy vedeva corpi uniti in danze ancestrali e animalesche che avevano come unico scopo l’appagamento di impulsi primordiali dettati dall’ebbrezza e dall’euforia del momento. Levy si chiese quanti bambini dothraki conoscessero con certezza l’identità del proprio padre, quanti fossero figli legittimi.
Poi si rese conto che in un khalasar, la corte del re, dove tutto era di tutti, forse non importava nemmeno conoscere i propri genitori. I bambini venivano curati e allevati da tutti, erano figli di chiunque e di nessuno. Se persino i rapporti sessuali venivano messi in mostra senza vergogna e gelosia, forse non c’era nulla di privato nelle loro vite. Una volta aveva sentito dire che tutte le cose importanti per i dothraki dovevano essere fatte al cospetto del cielo, e che il Khal condividesse tutto, tutto con le sue guardie di sangue. Persino la moglie. Levy aveva evitato di pensarci per non rischiare l’iperventilazione da panico.
Chi non copulava come un animale beveva fino al vomito, e chi non faceva nemmeno quello si ingozzava di carne di cavallo arrostita, che scorreva a fiumi come le bevande inebrianti e la libido.
Quando Levy pensò che l’unico posto sicuro da guardare fosse la punta dei suoi piedi, iniziò il giro di regali, che durò per la maggior parte della notte.
In quel momento, salutata dalle voci per una volta pacate dai dothraki, che la omaggiavano con i loro doni e chinavano la testa chiamandola “khaleesi”, Levy si rese conto di essere davvero una regina. Per la prima se lo sentiva dentro, non le era detto a voce e basta.
Levy era la regina dei dothraki, e la legittima regina del Trono di Spade, governatrice dei Sette Regni.
Tecnicamente era suo fratello il sovrano legittimo, ma nei Gardyen era abitudine sposarsi tra fratelli e sorelle, per preservare la purezza di sangue, pertanto Levy sarebbe comunque diventata regina, sposa di suo fratello. L’essersi salvata da quel supplizio non le rendeva più dolce il futuro, accanto ad un re sconosciuto che governava un popolo di barbari nomadi e selvaggi.
Tre furono i regali che apprezzò di più: tre ancelle donatele da suo fratello, due di origine dothraki per insegnarle la lingua e l’arte del cavalcare, di nome Lushi ed Erza, una delle sua cultura per insegnarle le regole dell’amore fisico, chiamata Mirajane; tre uova di drago tramutatesi in roccia, dono di un ricco commerciante che li aveva presi sotto la sua ala protettiva; e tre grossi manoscritti che narravano le leggende delle sue terre, dai miti sui draghi alle gesta della dinastia Gardyen, fino ad arrivare a prima che gli uomini tenessero memoria scritta delle proprie azioni, l’era dei primi uomini e degli elfi ormai scomparsi.
Quell’ultimo regalo, donatole dalla sua guardia personale assoldata sempre dal mercante loro protettore, le fece venire le lacrime agli occhi. Le uova erano un regalo prezioso, le ancelle un dono utile, le avrebbero anche tenuto compagnia, ma quei manoscritti… erano l’unico raggio di sole che squarciava le fitte tenebre del suo incerto futuro.
Laeverys Gardyen diede tutti i suoi regali al marito, dando voce ad una formula dothraki che Lushi, l’ancella che doveva insegnarle la lingua, le suggerì seduta stante. Khal Gajeel la guardò per la prima volta in tutta la serata, e fece un secco cenno con la testa. Poi si allontanò, mentre tutto il khalasar, uomini, donne e bambini riuniti per i festeggiamenti, gli aprivano un lungo corridoio umano per farlo passare. Lushi spinse gentilmente Levy, che si affrettò a seguire il marito.
Khal Gajeel si fermò davanti a due stalloni purosangue, un gigantesco cavallo nero come la notte con un occhio solcato da una cicatrice a mezzaluna, potente e maestoso come il proprio padrone, e una delicatissima ma poderosa giovenca dello stesso colore dei suoi capelli, azzurra con la criniera bianca.
Levy trattenne il fiato di fronte a tanta pura, magnifica bellezza e perfezione. Non ebbe dubbi riguardo a cosa fare: superando il re stesso, correndo, si diresse dalla cavalla e le accarezzò dolcemente il muso, guardandola negli occhi. L’animale sbuffò con il naso e si lasciò coccolare, facendole chiaramente intendere di essere sua amica.
- Il regalo del Khal per te, mia khaleesi – le confermò pacatamente Lushi, alle sue spalle.
Levy sorrise e si voltò per osservare suo marito, gli occhi pieni di gioia e luce per la prima volta da quando lo aveva incontrato.
Gli sorrise e chinò la testa con deferenza. – Meravigliosa, è semplicemente sublime. Grazie.
Khal Gajeel incurvò leggermente l’angolo della bocca in quello che Levy pensò, o volle pensare, fosse un sorriso. Il Khal le rispose, e Levy poté cogliere una nota dolce in quella voce così aspra e brusca che di solito impartiva ordini secchi o commenti stentorei, privi di emozione e morbidezza.
- Khal Gajeel dice che è cavallo degno di khaleesi, del colore di tuoi capelli – tradusse Lushi, sorridendole incoraggiante.
Levy dimenticò per un attimo la paura e l’angoscia vicino a quella cavalcatura degna di un sovrano, ma si irrigidì non appena suo marito le si avvicino e la sovrastò con la sua massa imponente.
Che volesse prenderla lì, in mezzo ai cavalli, di fronte a tutto il khalasar?
Levy trattenne un gemito di paura e la sua voglia di spingerlo via quando Gajeel le mise le mani sui fianchi. Due secondi dopo si trovò in sella alla cavalla, a guardare il Khal dall’alto.
La sua presa era stata forte ma gentile, e Levy aveva avuto l’impressione di volare per un attimo.
- Devi inaugurare cavallo, mia khaleesi – le spiegò Lushi.
Levy osservò suo marito, in attesa di fianco a lei, e poi vide gli occhi di tutto il khalasar puntati su di lei.
- Devo… cavalcarla? E fino a dove?
- Dove vuoi, khaleesi. Prima cavalcata molto importante per dothraki.
Levy respirò a fondo e prese le redini, sistemandosi sulla sella dura e liscia. Non aveva mai cavalcato, ma cercò di darsi un tono e di scacciare la paura mentre osservava il punto verso cui voleva andare. Qualcosa le diceva che non avrebbe potuto fare una cavalcatina trotterellante. Doveva far correre la puledra, lo voleva il suo re, lo voleva il khalasar, lo voleva la puledra e… lo voleva pure lei.
Urlando, lanciò la cavalla al galoppo e la stallona nitrì di gioia, rispondendo come solo un carro da guerra può fare. Levy pensò di volare mentre i dothraki le aprivano la strada, e non si preoccupò minimamente della possibilità di investirli. Lei e la cavalla erano una cosa sola e si ritrovò a ridere, sciogliendosi le trecce e la capigliatura acconciata mentre il vento le accarezzava il viso e le faceva danzare il vestito. La cavalla, sentendosi sicura e intuendo l’incertezza della propria cavallerizza, corse stabilmente, concedendosi di saltare uno dei grandi falò dove i dothraki arrostivano la carne dei suoi simili.
Levy non ebbe paura nemmeno per un secondo, e quando la cavalla atterrò lei la diresse di nuovo dove il Khal l’attendeva, accarezzandole il fianco e sorridendo.
La cavalla si fermò ad un palmo di naso da Gajeel, che aveva uno sguardo divertito negli occhi e non arretrò di mezzo passo di fronte alla maestosa creatura. Sembrava fresca e riposata come se non avesse corso affatto, ma era Levy quella con il fiatone, scarmigliata e accesa d’adrenalina.
- Mi hai fatto dono del vento, Khal Gajeel – disse lei, guardando Lushi perché traducesse.
In risposta, Gajeel montò sul suo stallone, le fece cenno di seguirla, e galoppò via.
Ridendo, Levy lo seguì, dimentica di ciò che l’aspettava, dello sguardo deluso di suo fratello o del proprio aspetto. Vedeva solo la radura, la notte, la vita scorrere a velocità spettacolare di fianco a sé, lo stallone di suo marito macinare metro dopo metro, e udiva solo il vento, il calpestio degli zoccoli leggeri della sua cavalla e le urla di giubilo del suo popolo.
Mentre correva incontro alla notte, con la luna di fronte a sé, Levy pensò di correre fino a raggiungerla, fino a toccarla. Superò suo marito e si sentì felice per la prima volta nella sua vita.
Si sentì libera. Padrona di sé.
Con la sua nuova amica, avrebbe potuto conquistare il mondo.
 
Il Khal si fermò parecchio tempo dopo, in riva ad un ruscello ampio ma relativamente tranquillo sulle cui acque si riflettevano le luci della luna e delle stelle.
Gajeel scese, legò il suo cavallo ad un albero e gli accarezzò rudemente il muso prima di voltarsi verso Levy, che faceva trottare la sua puledra allegramente.
Il Khal le si avvicinò e allungò le braccia per farla scendere. Titubante, sentendo per la prima volta dall’inizio della cavalcata la morsa della paura attanagliarle il corpo, Levy si sporse verso di lui e si lasciò mettere a terra. Suo marito prese la sua cavalla e la legò accanto al proprio, per poi dirigersi verso il fiumiciattolo e lavarsi le mani.
Levy osservò, tesa, ogni suo movimento, temendo che ad ogni secondo si girasse e la puntasse come un lupo famelico. O uno stallone in calore.
Invece il Khal le lanciò solo qualche occhiata di sfuggita mentre toglieva le selle ai cavalli e prendeva stuoie e coperte che sistemò vicino ad un basso masso perfetto per sedersi. Fu solo a quel punto che si accomodò per terra, sul letto improvvisato, e fece cenno alla moglie di avvicinarsi.
Levy deglutì e costrinse i piedi ad avanzare, fino a sovrastare il marito. Poi si sedette sul masso di fronte a lui, ritrovandosi alla sua stessa altezza. Prima di rendersene conto, sentì le lacrime bagnarle il viso e vide un lampo di confusione attraversare gli occhi rossi del marito.
- No… - mormorò lui pacatamene, asciugandole le gote con le mani callose e ruvide, eppure gentili sul suo viso.
Le lacrime smisero di scendere subito, come obbedendo al comando del suo nuovo padrone.
- Tu parli la mia lingua? – gli chiese con la voce incrinata, sentendo una piccola speranza mettere radice nel suo cuore.
Gajeel la fissò con la stessa espressione di sempre, e Levy si chiese se fosse l’unica che conosceva. Stoica, impassibile, imperturbabile.
Apatica.
- No – le rispose con la sua voce graffiante e profonda.
– Sai solo la parola “no”?
- No – ribadì lui, portandosi la grossa treccia sulla spalla e iniziando a togliere le palline d’oro che vi erano incastonate.
- Penso che saper dire “no” sia già qualcosa… - mormorò Levy, allungando con titubanza una mano per aiutarlo.
Lui la osservò brevemente e poi tornò al suo lavoro. La giovane e inesperta moglie pensò che, forse, era un buon inizio il fatto che lui ancora non l’avesse fatta mettere a quattro zampe per prendersi la sua virtù e non solo. Forse non sarebbe stato così male…
Gajeel interruppe dopo poco la sua attività, lasciando a Levy il compito di sciogliergli la treccia e rimuovere i gioielli dorati. Lei se ne occupò lentamente e delicatamente, ma lui non diede mai segno di essere stanco o impaziente. La studiò come si studia una cosa nuova, a suo modo bella. Un tesoro. E Levy si sentì avvampare sotto al suo sguardo indagatore e pressante.
Quando i suoi capelli furono liberi, lei glieli accarezzò e glieli aprì con le dita, lisciandoli. Erano morbidi grazie all’olio, lucidi e neri come la pece. Si aprirono come un mantello quando lui se li gettò alle spalle. Il mantello di un re.
Levy si rese conto che, a modo suo, Khal Gajeel era bello. Una bellezza selvatica e naturale, come può essere bello un cavallo, un albero in fiore o un giardino. Era giovane, per sua grande fortuna, aveva sicuramente meno di trent’anni. La giovane età però lo rendeva più impulsivo, più aggressivo e fisicamente forte. Decise di non pensarci.
Gajeel la studiò in silenzio ancora un istante, e Levy abbassò gli occhi, pregando di non piangere ancora. Cosa sarebbe successo se lui l’avesse rifiutata? Suo fratello le avrebbe fatto passare esperienze peggiori della morte, ne era certa.
Gajeel le alzò il mento con due dita, costringendola a guardarlo negli occhi, e poi allungò le mani per spogliarla, senza mai lasciare che i suoi occhi si separassero.
Quando la mano delicata del marito le lasciò il mento per slacciarle la veste, Levy sentì la pelle entrare a contatto con la sua e rabbrividire. Gajeel le accarezzò le spalle e le braccia mentre le faceva scorrere la veste verso il basso, fino a scoprirle tutta la parte superiore del corpo. Continuò a guardarla negli occhi mentre le accarezzava il ventre e tracciava il profilo del suo seno, delicato come non avrebbe mai creduto fosse possibile.
Gajeel, il gigante rude e burbero, privo di emozioni, la stava trattando con più gentilezza di quella che si riserva ad un neonato. Le sue mani, audaci e decise, non erano mai invadenti o brusche, e lentamente la scaldarono dentro, mentre i suoi occhi le davano tranquillità.
Gajeel si spogliò da solo, togliendosi il gilè e la pesante cintura borchiata d’oro prima di levarsi anche le brache e rimanere nudo di fronte a lei, che sentì tornare l’ansia.
Se la trascinò addosso, facendola sedere sulle sue gambe incrociate, e avvicinò il viso al suo fino a far sfiorare le loro labbra. Gajeel inspirò il suo profumo a pieni polmoni mentre lei li metteva fuori uso, i polmoni. Le mise le mani sui fianchi e le sfilò lentamente il resto del vestito dalla testa, trovandosela nuda addosso.
Solo quando fu completamente esposta e l’incantesimo delle sue mani fu rotto, Levy avvampò di vergogna e cercò di coprirsi. Ma lui fu deciso nel rimuoverle le mani dal corpo. Non doveva coprirsi davanti a lui: lei gli apparteneva, era sua, e lui poteva fare ciò che voleva di lei.
Ingoiando la paura, Levy lo assecondò e allontanò le proprie braccia da se stessa, stupendosi ancora di quanto potesse essere delicata la sua presa stritolatrice.
Ad un soffio dalla sua bocca, con la sua barba corta che le solleticava la pelle, Gajeel le chiese: - No?
Levy sapeva che la sua era una domanda. Un permesso. E le venne da piangere ancora, ma questa volta di commozione. Pensava che l’avrebbe posseduta appena si fossero allontanati, con la furia di un toro e la delicatezza di un bue. Invece, era stato quasi romantico con lei, dolce e paziente. Mai avrebbe pensato che le avrebbe addirittura chiesto il permesso di prendersi ciò che di diritto gli spettava. Perché il suo corpo era suo, poteva farne quello che voleva.
Chiudendo gli occhi, implorando il sangue di drago che le scorreva nelle vene di darle la forza di essere coraggiosa, Levy rispose: - Sì.
Poi lo baciò con trasporto e gli accarezzò il viso e i capelli mentre guidava le sue mani lì dove lui attendeva di andare.
Non fu facile, e nemmeno piacevole, ma Levy non si sentì dilaniare in due, non ebbe voglia di gridare il suo dolore o piangere la sua infelicità. Si avvinghiò a lui come ad un’ancora di salvezza, e si meravigliò quando sentì il suo corpo abituarsi pian piano alla sua presenza, quasi prendendo confidenza con lui. Gajeel la tenne stretta a sé, accarezzandole la schiena e cercando in qualche modo di rasserenarla, cosa di cui Levy fu grata.
Quando ebbe finito, Gajeel continuò a stringerla e accarezzarla, baciandola con calma e dolcezza, per poi sdraiarsi insieme a lei e coprire entrambi con una spessa pelliccia.
Si addormentò subito, lui, con un braccio sul suo ventre e la testa accanto alla sua spalla, mentre lei osservava il cielo terso e la luna che splendeva tranquilla.
Quando si addormentò, l’ultima cosa che pensò fu che, finché la luna avesse brillato così fulgidamente nella sua vita, le cose non sarebbero potute andare male.



MaxB
Salve... so di avere ancora due storie da continuare (LNVI da finire, Fairy Tales... be', una fine non ce l'avrà finché sarò viva), ma questa nuova idea mi ha dato una grande carica e non potevo semplicemente accantonarla.
Principalmente penso che Gajeel e Levy verranno sostituiti a film Disney, tipo Mulan e Shang nel prossimo capitolo, ma rifletterò anche su come sostituirli a personaggi di libri  e altri film che non siano cartoni, o videogiochi come in Uncharted (amo ç.ç).
Comunque, sono aperta anche alle vostre proposte, se anche voi a volte avete pensato: "Mi ricordando un po' Gajeel e Levy...".
Non vi garantisco che seguirò i vostri suggerimenti (scusate, se una cosa non mi convince faccio una schifezza, non volontariamente), ma tentar non nuoce.
Vi ringrazio per essere arrivati fin qui e, be', spero che vi piacciano le storie^^
A presto!
MaxB

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Capitolo 2
*** Mulan ***


Note pre-lettura: adattamento del celebre cartone della Disney per un pubblico di lettori leggermente più maturo. La storia viene abbastanza stravolta, ma spero che questo cambiamento venga capito e apprezzato, e che vi aiuti ad amare ancora di più l'originale, che io adoro. Buona lettura^^


Mulan

Personaggi sostituiti
Li Shang: comandante Gajeel Redfox
Fa Mulan: Levy McGarden
Chi Fu (consigliere dell'imperatore, il tipo antipatico per intenderci): primo ufficiale Pantherlily
Chien Po, Ling e Yao: Droy, Jet e Ichiya


 
Levy si diresse verso la sua tenda storta sforzandosi di non zoppicare. L’allenamento di quel giorno era stato più duro del previsto e come al solito lei non aveva concluso nulla. L’unica cosa che aveva ottenuto erano botte e stiramenti di muscoli di cui non conosceva nemmeno l’esistenza.
Si trascinò all’interno della sua dimora di lusso e solo quando fu lontana da sguardi indiscreti si permise di crollare a terra, sull’erba soffice coperta da stuoie e dal sacco a pelo. Si raggomitolò su se stessa tenendosi con le mani la caviglia offesa e mormorando lamenti d’agonia.
Era piccola. Magra. Debole. Ed era una donna. Come poteva sperare di sopravvivere alla guerra se non era nemmeno in grado di portare a termine l’addestramento?
- Ev? – chiamò una voce profonda e baritonale, facendola sobbalzare.
Levy si affrettò a mettersi seduta e asciugarsi gli occhi, ringraziando i suoi antenati e gli dei per non essersi ancora sciolta i capelli. Uscì dalla tenda più in fretta che poté e sbatté contro il primo ufficiale, Pantherlily, un mastodontico guerriero dalla pelle scura e i modi spicci. Aveva una cicatrice all’occhio destro e persino i suoi peli dovevano essere muscolosi, a detta di Levy, ma non era cattivo. Massiccio, sì, più del comandante, ma non cattivo. Anzi, forse era la persona a cui si era affezionata di più, l’unico che le avesse mostrato un po’ di riguardo. O pietà.
Levy si affrettò a togliersi da lui, allontanandosi e mettendosi sull’attenti. Il primo ufficiale le lanciò un’occhiata stranita e poi le allungò una sacca di ghiaccio.
- Non sei passato in infermeria quindi ti abbiamo portato questo, per la caviglia – le spiegò, mentre lei annuiva mascolinamente e si rigirava il ghiaccio tra le mani.
Alle sue spalle notò il comandante, Gajeel, forte e agguerrito che metà bastava, incluso nell’”abbiamo” di Lily. Gajeel parlava solo per impartire ordini secchi o sbraitare rimproveri, ordinare allenamenti extra o insultare con ferocia.
Non era soddisfatto dei suoi guerrieri e non perdeva occasione di farlo sapere a tutti. A dire il vero, Levy era meravigliata che avesse deciso di andare fino alla sua tenda per lei, la più debole del gruppo, separata da tutte le altre tende per ovvi motivi noti solo a lei.
- Grazie – borbottò con la voce grossa che faceva quando impersonava Ev, il ragazzo che aveva preso il posto del padre nella recluta.
- Questa sera la cena è anticipata di un’ora – la informò Lily. – La mensa, quindi, apre tra cinque minuti.
- Grazie, primo ufficiale, ma non ho appetito questa s…
- Tra cinque minuti tu verrai in mensa, Ev, e mangerai una porzione abbondante di quella roba proteica che speriamo ti aiuti a mettere su massa. Sei uno stuzzicadenti e, a meno che tu non voglia essere usato come arma al posto di una spada, in guerra, faresti meglio a incrementare il tuo peso – la redarguì il comandante, perentorio e asciutto come solo un capo in grado di farsi rispettare sa essere.
Dopo tutte le botte prese quel giorno e l’allenamento ininterrotto, Levy sentì lo stomaco rimescolarsi all’idea della cena. Ma si costrinse ad annuire. – Sissignore – rispose, osservando il comandante che sfilava via senza degnarla di una seconda occhiata.
Lily la osservò un po’ più a lungo con una leggera aria di compatimento che la fece sentire ancora più piccola e debole.
Quando rientrò nella tenda e si mise il ghiaccio sulla caviglia, Levy se ne fregò delle lacrime che le inondavano il viso e, sdraiandosi nel suo letto scarno e improvvisato, si addormentò in un minuto.
 
Si svegliò sobbalzando quando la luna era già alta nel cielo. Il ghiaccio che aveva ancora premuto contro la caviglia aveva perso il suo gelo e al tatto era quasi tiepido.
La parte lesa stava decisamente meglio, però, anche se il corpo era indolenzito e appiccicoso per la stanchezza e il sudore. Levy decise che la cosa migliore da fare era un bel bagno, per pulirsi e rigenerarsi prima di tornare a dormire per ricaricarsi e prepararsi ad un’altra umiliante giornata di addestramento. Silenziosamente prese un asciugamano e della biancheria pulita e si diresse al placido lago poco lontano dalla sua tenda. Dopo essersi assicurata che nessuno fosse nei paraggi, si spogliò ed entrò in acqua lentamente, sospirando di freddo e di piacere.
Nuotò in silenzio per un po’, immergendosi fin quasi a toccare il fondale roccioso del laghetto, cercando di osservare i pesci che nuotavano pigramente attraverso la scarsa luce lunare che filtrava nell’acqua. Quando riemerse per la quarta volta, ridacchiando cristallinamente per l’espressione di un pesce spaurito, seppe che qualcosa non andava.
- Ah, sei tu – sentì dire a qualcuno alle sue spalle.
Dimenticandosi per un momento di pinneggiare per restare a galla, Levy bevve l’acqua, che le andò di traverso, e cominciò a tossire.
- Ohi, tutto bene? – chiese ancora la voce, avvicinandosi.
Levy sapeva benissimo chi era la persona che parlava alle sue spalle, e pregò che in quel momento una lampreda o qualsiasi altro strano animale d’acqua dolce la rapisse e la trascinasse in fondo al lago.
- Sto bene, sto bene – tossì, cercando di riprendere fiato, allungando una mano per bloccare l’avvicinamento del comandante.
Proprio lui, tra tutti, doveva farsi il bagno.
Non poteva rimanere sporco e puzzolente?
- Sei venuto a pescare qualcosa da mangiare? – lo derise il comandante Gajeel quando Levy si fu calmata ed ebbe ripreso fiato. – Potevi venire in mensa come tutti gli altri, come ti avevo ordinato, oltretutto.
Levy roteò gli occhi e si voltò a fronteggiarlo, cercando di sembrare il più mascolina possibile. E allontanandosi per coprire la curva inconfondibile del seno, che non era esageratamente visibile, cosa che l’aiutava con il travestimento, ma c’era. C’era eccome. – Ho lasciato riposare la caviglia e mi sono addormentato – borbottò con voce grossa, quasi scocciata.
- Va meglio adesso?
Levy annuì seccamente e restò in silenzio, cercando di non guardarlo. Si stava rendendo conto molto lentamente del fatto che erano entrambi nudi a distanza ravvicinata. La cosa non andava bene per nulla.
- Non sei un tipo di molte parole, vero? – lo incalzò il comandante, sdraiandosi sull’acqua e aprendo gambe e braccia, simulando la posizione del morto.
Levy distolse lo sguardo e cercò di non arrossire. Fece per slegarsi i capelli, ma si rese conto che sciogliere l’austero chignon sarebbe stato un suicidio e ringraziò mentalmente i suoi antenati e quelli di tutti gli altri per non essersi sciolta la capigliatura. Di nuovo.
- No.
- E non sei nemmeno forte o particolarmente sveglio. Sembri un bambino – lo schernì il comandante, senza traccia di crudeltà nel tono di voce.
- Lo so.
Abbattuta, Levy dimenticò per un attimo il ruolo che impersonava, e si sentì fragile e donna come mai si era sentita prima.
Gajeel sospirò e tornò in posizione eretta. – Stai nelle retrovie durante la guerra. Voglio evitare massacri inutili e tu sei l’anello debole di tutto l’esercito. L’esercito nazionale, intendo.
A colpire pesantemente non era il suo tono di voce, ma la dura verità delle sue parole.
Una verità scomoda è più tagliente di parole false e cariche di odio.
Levy voleva piangere per quello schifo di situazione, però non poteva farlo davanti al comandante. Non poteva proprio.
Così trattenne il respiro, immerse la testa in acqua e deglutì per mandare giù il magone.
Gajeel le passò accanto e le diede una pacca sulla schiena nel momento in cui riaffiorò, una cosa amichevole e maschile.
- Un altro po’ di duro lavoro e sono certo che sopravvivrai – la incoraggiò uscendo dall’acqua, dandole le spalle.
Levy lo guardò allontanarsi in silenzio e non provò vergona nell’osservare senza realmente vedere i suoi glutei scolpiti e sodi. Era troppo impegnata a sorridere e cercare di contenere l’ondata di calore che le partiva dal cuore per notare alcunché. Non era stato malvagio, solo sincero, le sue parole erano innegabili. Ma quelle stesse frasi di condanna le avevano dimostrato che un minimo a lei ci teneva.
Certo, ci teneva a lui in quanto membro del suo esercito. Ovvio.
- Levy, non è proprio il momento di innamorarsi, né il luogo né l’uomo – intimò a se stessa, finendo di lavarsi per poi uscire in fretta dall’acqua e tornare alla tenda.
Ma era troppo intelligente per non sapere che la guerra è un campo di battaglia meno temibile dell’amore.
 
Ev, l’alter ego di Levy, il ragazzo esile e debole che faceva ridere tutti per la sua imbranataggine e poca virilità, si diede da fare come nessun altro.
Si svegliava prima della tromba del raduno mattutino per correre e allenare il fiato, mangiava di più per cercare di mantenere il suo peso, che veniva prosciugato dagli allenamenti, e nel tardo pomeriggio, prima della cena, continuava ad allenarsi con esercizi muscolari per sviluppare la forza e il controllo del corpo.
La prima volta che il comandante Gajeel l’aveva sorpresa a fare quegli allenamenti un po’ bizzarri ma efficaci, aveva alzato un sopracciglio, perplesso, e si era allontanato in silenzio mormorando che tra un ubriaco rumoroso e uno alternativo era sempre meglio quello che faceva meno casino.
Levy gli dimostrò di non essere ubriaca nei giorni successivi, continuando ad allenarsi, vivendo per temprare il corpo, e migliorando ad una velocità doppia rispetto agli altri.
Nel giro di qualche giorno riuscì persino a farsi amici tre ragazzi con i quali aveva avuto qualche screzio il primo giorno al campo, per un’incomprensione e una sua incapacità di relazionarsi con il sesso opposto. Ora andava d’accordo con Jet, il ragazzo più veloce del campo, alto e magro come un fuso con esplosivi capelli rossi, Droy, il ciccione che mangiava ogni giorno di più per colpa dello stress, ma ti atterrava senza quasi muovere un dito, e Ichiya, che…
Be’, Ichiya non poteva essere descritto. Era un giovane adulto con la mania del profumo, modi da seduttore che applicava anche con le pietre e un’altezza che nemmeno le nutrie invidiavano. Ichiya non rientrava nei parametri di categorizzazione di nessun altro essere umano e molti si chiedevano cosa diavolo ci facesse lì, nel campo per militari. Certo, la leva era obbligatoria, ma chiunque avrebbe escluso lui.
Insomma, stava andando tutto per il meglio, quando accadde il peggio.
Levy si stava allenando al chiaro di luna insieme al primo ufficiale, Panther Lily. Il braccio destro del comandante, più loquace e disponibile rispetto a quest’ultimo, simile ad un orso, si era affezionato a Levy, o meglio, ad Ev, dopo aver visto l’impegno che profondeva in ciò che faceva. Così si era proposto di aiutarla negli allenamenti con le katane, dove era più carente.
Levy aveva insistito tanto affinché potessero usare quelle vere, non quelle di legno, che alla fine Lily aveva ceduto.
E anche Levy aveva rischiato di cedere.
Il fatto era che Lily giocava la parte del poliziotto buono tanto bene quanto Gajeel giocava quella del poliziotto cattivo. Si sentiva a suo agio con quel mastodontico guerriero che a volte aveva l’animo tenero e magnanimo di un gattino, sebbene fosse aggressivo come una pantera, in battaglia.
- Vuoi una pausa, pivello? – la punzecchiò Lily dopo un’incessante ora di stoccate e colpi tattici. Il respiro non era meno affannato di quello di Levy.
- Io? Non sono stanco la metà di quanto lo sei tu. Rimpiangi la tua stazza goffa e giganteggiante, ora? – ribatté lei, partendo all’attacco rapida come un furetto. E feroce alla stessa maniera.
Lily sbuffò una risata. – Vacci piano, nanerottolo.
Caricò, chinandosi per parare un fendente e per essere più vicino al corpo di Levy, che gli sgattaiolava attorno come uno scoiattolo, e non misurò bene la forza. La ragazza, stremata, non vide arrivare il colpo.
- Ahi! – esclamò, dimenticando per un attimo di mantenere la voce grossa.
Lily si bloccò, sgranando gli occhi nel momento in cui il sangue filtrò lentamente dal taglio sulla casacca. Lui era a petto nudo, sul quale svettavano tagli recenti e antiche cicatrici, ma per qualche motivo il ragazzo di fronte a sé si era rifiutato di spogliarsi. Il primo ufficiale aveva attribuito quel comportamento ad una sorta di pudore dovuto al fatto che la differenza muscolare tra loro era notevole, e magari Ev si vergognava del suo fisico tonico ma asciutto.
Lily si avvicinò, preoccupato, ma Levy arretrò di un passo, spaventata.
- Tutto a posto, tranquillo – disse, cercando di darsi un tono. Raddrizzò le spalle e represse una smorfia al movimento, stringendo la mano sul taglio. – Non è profondo, però brucia. Con il tuo permesso, per questa sera concluderei qui l’incontro. Complimenti per la vittoria.
- Ti accompagno alla tenda, ti do una mano con la medicazione – si offrì Lily, provando ad approcciare in un altro modo il ragazzo che aveva davanti.
Levy si asciugò il sudore dalla fronte e gli girò le spalle. – Nessun problema, davvero. Ci vediamo domani, buonanotte – lo salutò, affrettandosi verso la sua postazione.
Lily la guardò allontanarsi con un sopracciglio inarcato, sempre più confuso di fronte a quello strano atteggiamento. Ma decise di lasciar correre.
 
Levy imprecava a mezza voce mentre si spogliava. Aveva impiegato quasi venti minuti prima di mettersi seduta sul suo letto improvvisato, nella sua tenda, e prendere i medicamenti. Aveva dovuto prima racimolare dell’acqua pura dal laghetto ai piedi dell’accampamento, insieme a delle erbe curative che avrebbero favorito la guarigione naturale e non avrebbero lasciato cicatrici.
Si sciolse i capelli, stizzita, e si tolse la casacca da allenamento, larga e sformata per nascondere le sue curve, fortunatamente non abbondanti, e la lanciò in un angolo della tenda. Avrebbe dovuto prima di tutto lavarla, poi forse ricucirla. Il magazzino del campo era pieno di abiti da allenamento, ma tutti di taglie… maschili, anche le più piccole. Levy era quasi certa che quella indossata da lei fosse stata fatta per un bambino, l’unica piccola che aveva trovato, pertanto non poteva permettersi fare la schizzinosa nei confronti di una casacca rammendata.
Il taglio al costato le bruciava ancora e liquido plasmatico misto a sangue continuava a bagnare la ferita rendendola appiccicosa e attraente per le infezioni. Come aveva detto a Lily, non era molto profonda. Lunga, sì. In una posizione scomoda, decisamente sì.
Gran parte delle fasce bianche di lino che usava per schiacciarsi il seno in modo che non si vedesse erano state tagliate dalla spada e si erano impregnate di sangue, rendendole sporche e inservibili. Levy fece per sciogliersele di dosso quando sentì l’aria fresca della notte frustarle la schiena, e una presenza incombere alle sue spalle.
- Ehi, Ev, Lily mi ha detto che…
La voce graffiante e cavernosa del comandante si interruppe di botto quando i suoi occhi si soffermarono sulla schiena di Ev, sui suoi capelli lunghi fino alle spalle, ondulati e morbidi… e sulla curva della vita e dei fianchi, del candore della pelle liscia e della totale assenza di qualsiasi pelo.
Levy, immobile dalla paura, si girò meccanicamente verso di lui facendo fare una mezza torsione al busto, mettendo così in mostra i suoi occhi color caramello contornati da ciglia lunghe e folte, l’arco elegante del collo, la curva del seno e il ventre decisamente non maschile.
Il comandante boccheggiò in cerca d’aria prima di darsi un tono, contenere lo shock e chiudere la bocca con un clangore quasi metallico, increspando le sopracciglia.
Chiuse l’entrata della tenda dietro di sé e si accovacciò per non stare chinato con la schiena, in maniera scomoda che metteva soggezione.
Levy arretrò con uno squittio, prima di riuscire a trattenersi. Il movimento le fece sgorgare altro sangue dalla ferita, facendola dolere.
- Che è successo? – chiese ruvidamente il comandante, dando voce alla prima domanda che gli vorticava nel cervello, non per ordine di importanza, ma per chiarezza.
- Mi sono ferito ad un allenamento con il primo ufficiale, comandante. Nulla di grave – rispose Levy, dandogli le spalle e cercando di salvare l’insalvabile.
Poteva dire di avere una specie di disfunzione fisica che la portava ad avere un accumulo di adipe nella zona pettorale. No? Era una buona scusa…
- Mh-mh – concordò lui, adocchiando le erbe curative, l’acqua pulita e le garze sterili che la ragazza stava per usare.
Il silenzio piombò su di loro come un temporale, e Levy poté sentire un fastidioso fischio all’orecchio causato dalla tensione nervosa.
- Posso aiutarti? – chiese il comandante quando capì che la ragazza, perché questo era, una ragazza, non accingeva a muoversi.
- Ah, ehm… no, grazie, comandante. Posso cavarmela da solo.
Gajeel quasi scoppiò a ridere a quelle parole. Davvero cercava ancora di far credere di essere un maschio?
- Perché non posso aiutarti? Se non sbaglio, alcune tecniche di pronto soccorso ve le ho insegnate io, cadetto – la incalzò.
- Perché, ehm… io…
- …tu? Tu cosa?
- Io ho una disfunzione fisica che mi causa un accumulo di ciccia nella zona pettorale – sputò fuori Levy, parlando talmente velocemente da rendere le sue parole quasi indistinguibili. – Mi vergogno un po’ per questo, ecco. Non potrò mai avere i pettorali scolpiti come lei, comandante.
Gajeel la guardò con tanto d’occhi, e quando Levy si voltò per sondare la sua reazione seppe di essere spacciata.
- Tu hai… un accumulo di ciccia nella zona pettorale? – ripeté Gajeel, incredulo.
Levy annuì con poca convinzione, l’espressione confusa.
- Cioè hai le tette – concluse lui, ghignando sadicamente.
Levy avvampò e gli diede di nuovo le spalle, a disagio come non mai. – Non è molto carino dire a un ragazzo che ha le tette come una donna, comandante. È… poco virile? – gli fece notare, ma la sua asserzione suonò più come una domanda di conferma.
Questa volta, Gajeel scoppiò a ridere. – Ma tu sei una donna.
Levy scosse la testa vigorosamente. – No, comandante, io…
- Tu stai zitta e ti sdrai, ora – le intimò lui, la voce talmente glaciale che l’aria nella tenda divenne improvvisamente invernale.
Levy poté quasi percepire la mancanza di battiti del suo cuore, il sangue che si coagulava, immobile, nelle vene. La pena per un crimine come il suo era quella capitale. Dunque sarebbe finita così quel suo atto eroico per salvare suo padre? Sarebbe morta nella sua tenda, nel suo campo, per mano di quel comandante che l’aveva smascherata per un’inezia?
Ma che differenza faceva morire sul campo di battaglia o lì, in quel momento? Non aveva speranze di sopravvivere, tanto valeva farla finita subito invece di rischiare di agonizzare per ore in guerra prima di abbandonarsi al sonno eterno della morte.
- Ev – la incalzò lui, mettendole una mano fredda e gigantesca sul fianco, spingendola verso il materasso.
Lei rabbrividì e si sbrigò ad obbedire, sdraiandosi prona e osservandolo con la coda dell’occhio.
Sembrava a disagio, il comandante, e si grattò la testa nervosamente prima di aprire la bocca nuovamente. – A pancia in su, Ev.
Un terrore gelido e viscido le strinse il cuore in una morsa mentre, ancora, lei obbediva ai suoi ordini, chiedendosi se l’avrebbe stuprata prima di ucciderla.
Qualcosa in lui, però, nel suo sguardo sfuggente, quasi timido e imbarazzato, nel suo nervosismo e nel suo tentativo di non guardare il suo corpo, le fece capire che se avesse voluto farle qualcosa l’avrebbe già fatto. Senza chiederle nulla, oltretutto.
Levy, ora sdraiata supina, lo osservò mentre iniziava a mescolare le erbe e preparare lo stesso unguento cicatrizzante che lei voleva applicare alla sua ferita.
Dopo alcuni minuti passati in completo silenzio il comandante Gajeel le mise una mano bagnata sullo stomaco, facendola sussultare e sopprimere un urlo di sorpresa.
- Scusa, scusa… - si affrettò a dire lui, dimentico per un attimo della situazione e del fatto che non stava curando un cadetto come al solito.
Levy si schiarì la voce. – Non fa nulla… - mormorò, muovendosi un poco per mettersi più comoda.
Gajeel respirò profondamente prima di voltarsi verso di lei, trovando i suoi occhi fissi su di lui, lucidi e profondi. Era da mesi che non vedeva una ragazza, era facile prendere una sbandata per via degli ormoni. Ma astinenza o no, era certo di non aver mai visto degli occhi così grandi ed espressivi.
Per fortuna Levy li chiuse poco dopo, facendogli intendere che si fidava di lui, liberandolo dal suo incantesimo.
- Forse ti brucerà un po’ – la avvertì lui, avvicinando la lampada ad olio per far luce nella notte.
- Lo so…
- Cerca di non urlare.
Levy aprì gli occhi di scatto e lo fulminò. – Non urlerò, comandante. Non sono mica una ragazzin… ah!
Levy si tappò la bocca con la mano per soffocare il gemito di dolore, facendo ridacchiare Gajeel. Le stava togliendo il sangue secco dalla ferita con un panno disinfettato e imbevuto d’acqua. Lo sfregamento della stoffa sulla carne viva non era esattamente un massaggio rilassante.
La ragazza trattenne il respiro, strinse gli occhi per impedire alle lacrime causate dal bruciore di uscire e tolse la mano dalla bocca, irrigidendosi come un bastoncino.
- Se fai resistenza è peggio – mormorò Gajeel posandole la mano libera sul fianco.
Obbediente, si rilassò poco a poco in balìa di quelle mani capaci di uccidere e di essere delicate allo stesso tempo.
Gajeel la curò con delicatezza e premura, pulendole bene la ferita e applicandole il cataplasma che avrebbe favorito la guarigione. Prima di fasciarle il busto si umettò le labbra, prendendo coraggio, e avvicinò le dita al suo seno. Alzò al limite del possibile le bende che le stringevano il seno, sporche di sangue. Non gliele avrebbe tolte lui, non si sarebbe permesso, ma le spostò per poter applicare la fasciatura prima che l’unguento appena applicato si bagnasse con il suo sangue.
Levy non aprì mai gli occhi, non mosse un muscolo nemmeno quando le dita del comandante indugiarono sulla pelle sensibile dell’addome, facendolo sorridere per quella dimostrazione di fiducia.
Oppure si era addormentata, stremata dall’allenamento.
Gajeel però capì che non dormiva quando le passò le mani sotto la schiena per fargliela inarcare, in modo da applicare la fasciatura. Levy rispose ai suoi comandi e piegò la schiena come un gatto senza mai aprire gli occhi. Le sfuggì anche un sospiro che fece perdere un battito al cuore di Gajeel.
Quando ebbe finito, Levy riappoggiò la schiena a terra e posò una mano sulla sua ferita bendata, premendo piano. Gajeel mise via erbe, acqua, creme e garze e si concesse di studiare la ragazza sdraiata accanto a lui.
Indossava i pantaloni larghi da allenamento, con il cavallo basso per nascondere ciò che non aveva. I fianchi erano morbidi e nudi e la fasciatura stretta attorno al petto non poteva nascondere totalmente le curve femminili nascoste sotto ad essa. Gajeel si ritrovò a deglutire mentre con gli occhi correva su, lungo le clavicole e le spalle decisamente non maschili, al di sopra del collo bianco. Si soffermò sulla mascella elegante, sul naso morbido e sulle labbra piene e rosate, sulle ciglia lunghe e sui capelli che si aprivano come una nuvola attorno al suo volto.
Quando Gajeel tornò a soffermarsi sui suoi occhi, li trovò aperti e vigili mentre lo esaminavano con il suo stesso interesse.
- Grazie – sussurrò Levy, mettendosi a sedere lentamente senza smettere di tenersi l’addome.
D’un tratto si vergognò ad essere quasi nuda di fronte a lui, così si strinse su se stessa in un tentativo di coprirsi.
Gajeel capì la situazione, adocchiò la sua casacca sporca nell’angolo della tenda e distolse gli occhi, togliendosi la sua e allungandogliela. – Metti questa – le disse.
Levy sorrise e l’accettò coprendosi. – Grazie, di nuovo.
Rimasero in silenzio per un tempo che parve protrarsi all’infinito, che venne interrotto da Gajeel.
- Domani sei esonerat…o, esonerato dall’addestramento, Ev.
- No, io…
- Tu niente, Ev. Un cavallo zoppo è carne da macello, tu domani ti rimetti e non si discute.
Levy annuì riconoscente. – Mi chiamo Levy, comunque.
- Levy… - ripeté lui. – E dimmi, Levy, cosa ti spinge qui? Ti sei persa e, vergognandoti di chiedere indicazioni, ti sei mimetizzata nell’ambiente?
Il tono del comandante era sarcastico, sferzante, e Levy si rese conto per la prima volta delle sue assurde azioni. – No, io… ho preso il posto di mio padre, di proposito. Ma lui non sapeva che l’avrei fatto. È molto malato, comandante, andando in guerra sarebbe sicuramente morto, è certo come il sole che sorge. Volevo dargli una possibilità, volevo che vivesse, volevo salvarlo.
- Devi amare molto tuo padre – riconobbe lui, segretamente ammirato.
- Più di quanto possa esprimere a parole – confermò lei, sorridendo malinconicamente. – Non avrei potuto vivere con il pensiero di lui morto in battaglia solo a causa mia.
- Tua?
- Sì mia. I miei genitori hanno avuto solo un figlio, me. Una femmina. Se fossi nata maschio sarebbe stato meglio per tutti. Come donna sono negata – rivelò, appoggiando il mento sulle gambe piegate.
- Andiamo, non puoi essere così male! – esclamò lui, poco avvezzo agli incoraggiamenti.
Levy rise senza gioia. – Sì, fidati. Ho fallito l’esame con la septa, che mi ha detto che non porterò mai onore alla mia famiglia e che nessun uomo di buona famiglia sarà mai attratto dai miei modi. Il pomeriggio dell’esame è arrivata anche la notizia dell’arruolamento. Ho pensato che, visto che tanto non avrei potuto recare onore alla mia famiglia, almeno avrei potuto provare a fare qualcosa di buono che recasse onore a me personalmente.
Liberatasi da quel fardello che portava dentro da settimane, Levy si sentì rinascere ed ebbe voglia di piangere. Avvertì gli occhi del comandante su di sé e alzò timidamente lo sguardo, non riuscendo però a sondare quello sguardo rosso imperscrutabile. Si sentì stupida.
- Scusi, comandante, non avrei dovuto… cioè, non dovevo farlo, spacciarmi per chi non sono e sfogarmi con lei. Scusi, davvero. Se lo desidera posso andarmene, anche subito, ora. Comandi e io obbedirò.
Gajeel non batté ciglio. – E dove andresti ora, ferita, stanca, sola e donna? No, rimarrai qui all’accampamento, Ev. Sei un membro del mio squadrone e sei capace.
Levy rischiò di far cadere la casacca del comandante al suono di quelle parole. – Sta dicendo che non mi caccerà o ucciderà?
Gajeel scosse la testa. – Che senso avrebbe ucciderti dopo averti curata? O cacciarti? Hai dimostrato di essere valorosa e determinata, qualità fondamentali non solo in guerra, ma anche all’interno di un plotone. E io proteggo i miei cadetti, tutti.
Levy annuì, grata, e in un moto di sollievo e riconoscenza scattò per abbracciare il comandante, stupito dalla reazione.
Dopo poco storse la bocca per il dolore e si scostò tornando a premersi la mano sull’addome. – Scusi comandante, non so cosa mi abbia preso. Temo sia la stanchezza.
Un sorriso quasi invisibile aleggiava sul volto divertito del ragazzo, che la guardava come se fosse una buffa novità. – Chiamami Gajeel, non siamo mica sul campo in questo momento. Ora riposa e non scappare, puoi star certa che ti troverò e ti riporterò indietro se tenterai la fuga.
Levy sorrise. – Non dirai a nessuno di me, vero? – lo supplicò.
Gajeel non era pronto a condividerla. Uno slancio di possessività lo travolse, e si ritrovò a digrignare i denti all’idea che qualcuno potesse scoprire la verità e girarle attorno come un’ape su un fiore. – Certo che no, non penso che saranno indulgenti quanto me – commentò, alzandosi per andarsene.
- Grazie, Gajeel – disse Levy, spostandosi per lasciarlo uscire.
Il comandante se ne andò senza aggiungere altro, senza nemmeno percepire il freddo della notte sulla pelle. Non quando aveva il fuoco nelle vene.
Quando entrò nella tenda che condivideva con il suo primo ufficiale trovò Lily sveglio a sbrigare la corrispondenza. Il suo amico alzò lo sguardo al suo arrivo, e lo fissò come se fosse diventato blu. – Dove sei stato? Dov’è la casacca, e cosa ci fai mezzo nudo nel cuore della notte?
Gajeel scosse le spalle e si buttò sul suo giaciglio. – Perlustrazione. Camminare mi ha fatto venire caldo e devo aver lasciato la maglia da qualche parte.
Lily grugnì. – Ed Ev?
Gajeel fece saettare gli occhi verso di lui al suono di quel nome, ma ovviamente Lily non sapeva nulla. – Tutto a posto, l’ho aiutata a…
- Aiutata? – lo interruppe Lily, confuso.
Gajeel non mutò espressione. – Sì, la ferita. Ho aiutato la sua ferita, dovresti andarci più piano con gli allenamenti. L’ho curata. Ora il ragazzo sta dormendo, ma domani è sospeso dall’addestramento.
- Buona idea – ammise Lily, tornando alle sue carte.
Gajeel gli diede le spalle e lo lasciò alle sue faccende amministrative.
Prese sonno riscaldandosi al ricordo delle sue mani a contatto con la pelle di Levy.
 
La mattina successiva Levy seppe di essere sola. Non c’era un singolo rumore in tutto l’accampamento, sebbene il sole fosse alto e la giornata splendente. Probabilmente Lily e Gajeel avevano portato il gruppo a fare una specie di esercitazione escursionistica, una maratona o un allenamento acquatico.
La ragazza ne approfittò per rassettare la sua tenda, raggruppando gli abiti da lavare e rammendare e cambiandosi la fasciatura al seno. Si sentì libera quando la tolse, scusandosi con il suo corpo per quella fastidiosa costrizione. Dato che in giro non c’era nessuno, decise di non usare le bende per quel giorno, tanto non avrebbe rischiato di essere scoperta in ogni caso.
La ferita le pulsava decisamente meno e la garza sapientemente applicata da Gajeel non era nemmeno sporca.
Solo quando fece per uscire dalla tenda Levy si accorse della colazione che il comandante le aveva posato nell’angolo, coperta e ancora tiepida.
La ragazza sorrise mentre mangiava, perdendosi nel ricordo di quella serata fuori dagli schemi. Non era mai stata così vicina ad un uomo. O meglio, non era mai stata così vicina ad un uomo che sapeva che lei era una donna, che la osservava con gli occhi curiosi e attratti che aveva sfoggiato Gajeel.
Il romanticismo non era una cosa da guerra, da maschi e men che meno da accampamento militare, però Levy non poté non rammentare il modo in cui le sue mani l’avevano calmata e rilassata, letteralmente curata. Chi se lo sarebbe mai aspettato, poi, che il comandante avrebbe reagito così bene di fronte alla verità?
Confessare era stata per Levy una liberazione, non una catastrofe come aveva preventivato.
La ragazza si fece un giretto per il campo deserto, camminando a piedi nudi sull’erba morbida. Provò ad allenarsi con i bastoni, ma rinunciò quando la ferita protestò minacciosamente. Alla fine decise di fare il bucato e sbirciare all’interno della tenda del comandante. Mera curiosità, ovviamente.
Levy entrò di soppiatto nella tenda gigantesca, riconoscibile in qualsiasi punto dell’accampamento. La bandiera del loro squadrone svettava sopra essa, ondeggiando lentamente, ballando insieme al vento.
L’interno, decisamente più grande rispetto a quello dove dormiva lei, in cui non riusciva nemmeno a stare in piedi, era occupato da due materassi che fungevano da letto, posti ai lati opposti della tenda. Al centro c’era una specie di bassa scrivania contornata da cuscini, piena di carte, mappe, penne e lettere, iniziate, ricevute o da spedire. Levy non le lesse per rispettare la privacy dei due ufficiali e la segretezza di quelle informazioni, ma non poté fare a meno di dare un’occhiata al mobiletto che conteneva diversi libri, di fronte all’entrata.
Erano per lo più manuali di combattimento o guide all’insegnamento, ma Levy trovò anche un volume di storia, due atlanti e un registro di lettere e date.
Amava leggere, a casa non faceva altro che divorare libri uno dietro l’altro, però in guerra non c’era tempo per la letteratura, e nella sua concitata fuga da casa non aveva nemmeno pensato di prendere uno o due dei suoi libri preferiti. Non ce n’era stato il tempo.
Prendendo in prestito il volume di storia, Levy si sedette su una roccia in riva al laghetto e lesse per ciò che restava del pomeriggio, finché sentì il proprio corpo diventare rigido e stanco come il masso su cui era seduta. Allora si stiracchiò ammirando il tramonto, godendosi le ultime carezze dei raggi di sole sul viso, e si spogliò per lavarsi. Entrò in acqua completamente nuda, eccezion fatta per la fasciatura sulla ferita, e si immerse fino all’addome, fermandosi prima che l’acqua arrivasse a lambirle le bende. Si lavò le braccia strofinando con forza, rimpiangendo il sapone profumato che sua nonna creava personalmente e che fin da bambina le spalmava addosso durante il bagno. Sciolse i capelli e li lasciò liberi, desiderando sentirsi un po’ donna, anche se per poco tempo. Era meglio che si abituasse ad essere uomo, e prima lo avesse fatto, meglio sarebbe stato per lei.
- Ehi, Ev… oh.
Levy voltò la testa di scatto mentre le braccia correvano a coprirle il seno, e ringraziò la provvidenza che aveva fatto arrivare lo sconosciuto quando lei gli era di spalle.
La sua fortuna però finì lì, dato che il visitatore si scoprì essere il comandante.
- Gajeel…
- Ehm… - borbottò lui, a disagio. – Siamo tornati e tra poco si mangia, ero venuto a vedere come stavi.
Levy si morse il labbro e tornò a fissare l’orizzonte di fronte a sé. – Tutto bene, grazie, Gajeel. Spero che l’allenamento sia proceduto per il meglio.
Il ragazzo grugnì un assenso e rimase fermo lì, con lo sguardo calamitato dalla schiena lattea della ragazza, incapace di distoglierlo.
- Dovrei uscire dall’acqua, Gajeel – borbottò Levy poco dopo, sempre senza guardarlo in volto.
- Oh, sì, scusa Ev… cioè Levy… ehm…
La ragazza ridacchiò nonostante l’imbarazzo, facendolo ammutolire.
- Io… vado, allora. A dopo. O domani.
Levy sentì i suoi balbettii confusi mentre si allontanava, e rise sciogliendo le braccia dal suo corpo. Si assicurò di essere sola, al riparo da occhi indiscreti, e corse verso la roccia con i suoi indumenti. Si coprì con l’asciugamano gigantesco e corse verso la tenda facendo attenzione a non incrociare i soldati che andavano a lavarsi o si spostavano di tenda in tenda.
Si vestì in fretta e si legò i capelli. Quando fu pronta uscì e si diresse verso il tendone della mensa, da cui provenivano già i rumori che solo un branco di maschi affamati può produrre. Al suo arrivo, Jet, Droy e Ichiya gridarono di gioia e le fecero segno di accomodarsi accanto a loro.
La ragazza sorrise genuinamente e, quando se ne accorse, cercò di fare una smorfia per dissimulare la dolcezza della sua espressione. Prese una ciotola di riso bianco e del pollo prima di accomodarsi accanto a loro.
- Ciao, ragazzi – esclamò, mascherando la voce femminile. – Allora com’è andata oggi?
- Niente di che, una noia mortale – asserì Jet.
- Una tortura mortale! – piagnucolò invece Droy, mangiando come se non vedesse cibo da giorni. – Abbiamo saltato il pranzo, pensavo di morire.
Levy represse una risata.
- Tu invece? – le chiese Jet. – Come mai non sei venuto oggi?
- Oh, ieri mi sono allenato con il primo ufficiale, una specie di combattimento amichevole, e mi sono ferito al torace. Nulla che un vero uomo non possa sopportare, ma il comandante mi ha ordinato di restare a riposo oggi. Dice che è meglio una giornata di riposo per una buona guarigione piuttosto che l’esasperazione della ferita solo per un allenamento fiacco e inutile.
Jet la guardò con gli occhi spalancati, il riso che gli cadeva dalle bacchette e tornava a tuffarsi nella ciotola da cui era stato prelevato. – Il comandante dice questo?
Levy cercò di non arrossire. – Be’, un po’ parafrasato, ma il succo era questo.
Droy continuò a mangiare imperterrito mentre Ichiya si annusava le ascelle, alzando gli occhi al cielo in estasi.
Poi Levy sentì una presenza incombente alle sue spalle. – Ev, ti attendo nella mia tenda per dare un’occhiata alla ferita e discutere il da farsi.
Silenzioso com’era arrivato, Gajeel se ne andò senza che Levy avesse il tempo di vederlo. La ragazza avrebbe persino dubitato di averlo sentito parlare se Jet, Droy e Ichiya non avessero seguito con la testa il percorso dell’uomo alle sue spalle.
- Non è che gay ed è interessato a te, Ev? – bisbigliò Jet di punto in bianco.
Levy rimase paralizzata. Voleva scoppiare a ridere. – Gay? Non penso proprio. Ieri mi ha aiutato con la ferita e non aveva atteggiamenti ambigui.
Jet la guardò con poca convinzione mentre Droy tornava a mangiare, fissando loro invece del piatto, però.
- Penso che a questo punto dell’addestramento gli scoccerebbe perdere un uomo, seppur piccolo e inutile quanto me – fece notare, piluccando un po’ il pollo.
- Sarai anche piccolo, Ev, ma sei quello che ha fatto più progressi. I comandanti e gli ufficiali le notano queste cose – commentò Jet.
- È come il miglior profumo – disse Ichiya, sovrappensiero.
Levy e gli altri mangiarono in silenzio, persi nelle loro elucubrazioni, finché lei si alzò in piedi.
- Droy, finisci il mio riso se vuoi. Non ho molto appetito, oggi non ho fatto granché. Ci vediamo domani, ragazzi.
Conscia di avere i loro occhi puntati come laser sulla schiena, cercò di placare il suo cuore mentre si dirigeva verso la tenda del comandante.
- Vuole solo controllare che io stia bene, assicurarsi di avere un altro uomo per la guerra, nient’altro – cercò di convincersi. – Ma lui sa che non sono un uomo, forse vuole… punirmi. Che altro potrebbe volere?
Una piccola parte di lei sperava che volesse vederla, in quanto ragazza, ma concedersi quel lusso era come sparare ai propri alleati in battaglia: un suicido, fisico ed emotivo.
 
I lembi della tenda che fungevano da porta nel tendone del comandante erano aperti, lasciando intravedere il cupo interno.
- Comandante, primo ufficiale – salutò Levy mentre entrava.
Lily alzò gli occhi da una lettera che stava scrivendo e le sorrise. – Ehi, Ev! – la salutò. Per un attimo la ragazza pensò che Gajeel gli avesse detto il suo segreto, dubbio che venne subito fugato dall’atteggiamento rilassato e consueto di Lily. – Tutto bene? La ferita come va?
- Molto meglio Lily, grazie. Non era niente di che, alla fine. Sono certo di poter tornare ad allenarmi domani.
- E invece no – la contraddisse Gajeel, togliendosi la maglia e rimanendo a petto nudo di fronte a lei.
Levy trattenne il respiro e, notandolo, il comandante ghignò maliziosamente.
- Domani a riposo, potrai riprendere dopodomani gli allenamenti. Guai a te se affatichi la ferita, mi occuperò personalmente di procurartene una molto più dolorosa se così non fosse.
Lily grugnì e si alzò. – A presto Ev, vado a spedire le lettere – si congedò.
Gajeel attese qualche istante prima di avvicinarsi all’entrata della tenda, assicurarsi che fossero tutti in mensa e chiudere le porte.
- Scusa per prima, non ho visto nulla e non avevo intenzione di violare la tua privacy – esordì attraversando lo spazio per prendere una casacca pulita, che infilò senza chiuderla.
Levy distolse lo sguardo e si mostrò per ciò che realmente era, smettendo di tenere le spalle rigide nel tentativo di farle sembrare più grosse, incurvandosi leggermente e addolcendo i tratti del volto. – Non fa niente, so che non era voluto quel… cioè, va bene, non importa – mugugnò, mettendosi dietro alle orecchie un ciuffo ribelle sfuggito all’austera acconciatura.
Gajeel le si parò davanti. – Vuoi che dia un’occhiata alla ferita?
Levy arrossì e scosse la testa. – Temo che togliendo la fasciatura si possa disturbare il processo di cicatrizzazione. La toglierò domani per controllare.
Il comandante annuì seccamente. – Allora, d’accordo. Domani sei esonerata e… be’, rimettiti.
Levy gli sorrise calorosamente e annuì. – Certo, grazie.
Gajeel ondeggiò di fronte a lei, indeciso sul da farsi. – Riguardo al problema del… sì, di te, insomma. Dovrei ucciderti pubblicamente, lo sai vero?
Levy annuì senza mostrarsi intimorita. – Lo so e accetto le conseguenze.
Gajeel buttò la testa indietro e si massaggiò il viso, stanco. – In guerra abbiamo bisogno di ogni spada a disposizione, non importa il sesso di chi la impugna, purché sia abbastanza preparato da non rappresentare una minaccia per sé e per i propri compagni. Quindi vedi di rigare dritto, migliorare e non farti scoprire, perché non tutti sarebbero indulgenti quanto me.
- Sicuramente, comandante. La ringrazio, non la deluderò – rispose formalmente lei, per far capire la serietà del suo impegno.
Levy si congedò senza aggiungere altro e Gajeel fissò il punto da cui era uscita per molto tempo dopo la sua dipartita.
- Non ne dubito, Levy. Non ne dubito.
 
La ferita guarì perfettamente e dopo tre giorni dall’incidente solo una lieve crosticina ormai cicatrizzata aveva preso il posto del taglio sanguinante. Il comandante alla fine non le aveva più chiesto di fargliela controllare, non quando lei lo aveva prevenuto ringraziandolo per il suo cataplasma formidabile che l’aveva fatta guarire meglio di un’arte magica.
Jet, Droy e Ichiya l’avevano accolta con sonore pacche sulle spalle al suo ritorno agli allenamenti, cosa a cui lei si era disabituata nel giro di soli tre giorni. Perciò fu grata quando, dopo aver ricevuto un’amichevole botta frontale sulla spalla da Droy, Gajeel le passò dietro e le diede una spintarella in avanti per evitare che cadesse all’indietro come un sacco di patate. Le lanciò una breve occhiata ammonitrice prima di ordinare la formazione delle righe e cominciare l’addestramento.
Se per gli altri membri dello squadrone nulla era cambiato, però, per Levy e Gajeel era tutto sottosopra. Il comandante non riusciva ad ignorarla, non poteva fare a meno di pensare a lei, a come avrebbe reagito agli allenamenti o a come avrebbe affrontato una determinata situazione quando impartiva gli ordini relativi alle nuove disposizioni.
Perciò le gravitava attorno, come un satellite del pianeta Levy, consigliandola a bassa voce e aggiustandole le posizioni quando osservava l’operato del commando, aiutandola ad alzarsi quando i cadetti si trovavano per terra o spronandola silenziosamente. Certe volte la esonerava dagli esercizi mandandola a sbrigare alcune faccende burocratiche, cosa di cui Levy non era affatto contenta. Così rischiavano solo di far saltare la puzza sotto il naso di qualcuno.
Qualcuno come Lily.
Il primo ufficiale si era interessato molto ad Ev, un po’ per scusarsi per la ferita inflitta e un po’ per ammirazione nei confronti di quel ragazzo mingherlino che profondeva negli addestramenti più impegno di tutti gli altri messi insieme. Lo osservò, contento di vederlo tornare ad allenarsi senza difficoltà, notando come quel ragazzo non si lasciasse mettere al tappeto da nulla.
E notando anche lo strano atteggiamento del comandante nei suoi confronti.
Così strano da indurlo a preoccuparsi.
Gajeel lo… toccava. Quando faceva la ronda per correggere l’operato dei suoi sottoposti sbraitava correzioni mantenendosi a debita distanza, ma con Ev si avvicinava e gli mostrava la giusta posizione da tenere, usando le mani per aiutarlo ad imitarla. Lo usava come segretario addirittura, risparmiandogli gli esercizi più duri, e… lo osservava. Lo osservava in modo del tutto diverso da come studiava gli altri, cioè in modo del tutto apatico e disinteressato.
Il colmo arrivò quando Gajeel insegnò le basi del pronto soccorso militare.
- Bene, marmaglia, oggi imparerete come trasportare un compagno ferito lontano dalla zona di fuoco. Lily?
Il primo ufficiale lasciò cadere le braccia che aveva incrociato sul petto, si tolse la maglia, restando a petto nudo, e si mise di fronte a Gajeel.
- Ora – esordì il comandante da dietro il primo ufficiale, parzialmente occultato da quel gigante che era più alto e largo di lui, paradossalmente. – Quando siete colpiti dal nemico e tutto attorno piovono frecce e sembra che katane e scimitarre abbiano una volontà propria e colpiscano ogni cosa che incontrano nell’arco di dieci metri, ragionare è molto difficile. La cosa migliore da fare per salvare un compagno sarebbe salvarne uno leggermente più piccolo e leggero di voi. Ad esempio, vedo molta dura che Ichiya possa salvare Droy usando questa presa che sto per mostrarvi.
I ragazzi del gruppo sorrisero e alcuni ridacchiarono, ma Levy sentì del gelido sudore correrle giù per la schiena, facendole venire i brividi. Quella lezione non le piaceva. Per niente.
- Questo però non significa che se Ichiya trova Droy accanto lui, ferito e incapace di combattere, debba lasciarlo lì e andare a chiamare qualcuno di più grosso, tipo Lily, per andare a salvarlo. Siamo in guerra, non all’asilo. Le vite dei nostri alleati sono le nostre, dobbiamo perdere il minor numero possibile di vite, salvare i feriti e tornare a combattere.
Fece una pausa ad effetto per assicurarsi di avere l’attenzione di tutti i cadetti, che pendevano dalle sue labbra.
Lanciò un’occhiata più accurata ad Ev, notando la sua preoccupazione ma ritrovandosi a pensare a quanto fossero luminosi e grandi i suoi occhi rispetto agli altri. Come facevano a non vedere la verità dietro quello chignon austero e quella postura rigida?
- Quando un vostro compagno è ferito, come lo prendete per portarlo lontano dal casino? Lo prendete come se fosse la vostra mogliettina? – li schernì.
- Nossignore – gridarono tutti in coro.
- Bene. Lo tirate in piedi e vi mettete un suo braccio attorno al collo mentre camminate insieme?
- Nossignore – urlarono ancora, ma leggermente meno convinti.
- Mh, alcuni di voi a quanto pare lo farebbero. Fantastico, è la cosa migliore da fare, in effetti, far camminare qualcuno con una gamba mutilata. Comunque non siamo qua per giocare agli indovinelli. Dovete prendere il cadetto in questo modo – annunciò, sdraiandosi a terra.
Lily si chinò e si inginocchiò davanti a lui, ruotando il torso per aiutarlo. Gajeel allungò un braccio e lo passò attorno al collo del primo ufficiale, sollevandosi da terra senza l’uso delle gambe, mentre Lily gli passava un braccio tra le gambe e se ne caricava una attorno alla spalla. Alla fine della manovra, rapida e quasi elegante, Gajeel si ritrovò sdraiato sulle spalle del gigante dalla pelle scura, con quest’ultimo che lo reggeva per le gambe e dietro alla schiena, sotto al collo.
- Vedete? In questo modo, sebbene sia difficile prendere una persona così nel mezzo della guerra, avete le braccia che non si appesantiscono, perché il peso è caricato sulle spalle del sostenitore -. Mentre parlava, Lily girava su se stesso per mostrare da varie angolazioni la presa corretta. – Il ferito è pressoché comodo e sistemato in posizione di sicurezza. Il salvatore deve solo pregare che non vomiti perché davanti alla sua bocca ci siete voi, ecco.
I cadetti risero e Gajeel scese agilmente dalle spalle dell’amico.
- Ora mettetevi a coppie. Vi ho detto che in guerra non c’è tempo per capire il peso e la stazza di un ferito, se ne trovate uno ve lo caricate addosso e basta, ma siccome è la prima volta che proviamo questa presa vi permetterò di scegliere un partner che vi sia facile prendere in spalla.
Mentre le coppie si formavano, Levy rimase bloccata al suo posto, terrorizzata come un cervo. Solo che i cervi poi scappano e nessuno li prende più.
Con orrore si rese conto che erano tutti più grandi e grossi di lei, e che uno dei pochi che rimanevano fuori era Ichiya. Ichiya poteva riuscire a prenderlo su, questo era certo, ma… il problema sarebbe stato tirare su lei e le sue curve. Per quanto le nascondesse con casacche e fasciature, c’erano cose che al tatto erano impossibili da occultare.
Levy vide l’amico puntarla e avvicinarsi, e pregò di farsi male nel caricarsi lui sulle spalle, in modo da evitare di farsi prendere a sua volta. Quando Ichiya fece per aprire bocca, però, un braccio olivastro e solcato da cicatrici si frappose tra loro in modo quasi possessivo.
- Ichiya, vai da Lily che ti assegnerà ad un altro cadetto. Ev, tu vieni con me.
Il soldato chinò rispettosamente la testa e si allontanò mentre Lily lanciava un’occhiata perplessa a Gajeel ed Ev. Voleva forse costringere il ragazzino a prendersi quell’ammasso di muscoli sulle spalle?
- Che stai facendo? – sibilò Levy quando gli altri cominciarono a provare le prese. – Ti pare che possa riuscire a prendere te sulle spalle?
Gajeel ghignò e le diede la schiena. – Dimostrazione. Tu non sei in grado di prendere qualcuno sulla schiena, e non è il caso che qualcuno prenda te, no? A meno che questo qualcuno non voglia appoggiare la testa su un cuscino naturale che un maschio non dovrebbe avere.
Levy arrossì e roteò gli occhi, buttando il petto in fuori per confermare le sue parole con rabbia. La ragazza lanciò uno sguardo al di là del comandante, che la fissava divertito, e beccò Lily che li osservava con le sopracciglia aggrottate.
- Il primo ufficiale ti sta guardando – gli fece notare, a disagio.
Gajeel ridacchiò e, mentre si sedeva per terra, fece un gestaccio a Lily, che lasciò cadere le braccia e alzò la testa al cielo, esasperato.
- Ora non ci guarda più – la tranquillizzò. – Dài Ev, sali, muoviti. Poi passiamo tra quei pappamolle e gli mostriamo la presa corretta. Guarda, solo Jet è riuscito a prendere sulle spalle qualcuno, ma se sposta un po’ il braccio lo castra.
Gajeel scoppiò a ridere da solo mentre Levy guardava l’amico, che effettivamente teneva letteralmente per i testicoli il suo partner. Fece una smorfia di dolore e mosse i piedi alla ricerca del modo migliore per salire sulle spalle del comandante.
- Inginocchiati – le suggerì lui, aiutandola.
Levy obbedì e si chinò alle spalle del comandante, che le sembrava ancora più solido e imponente visto da dietro.
- Passami un braccio attorno al collo – la istruì. Levy obbedì e successivamente alzò una gamba e la allungò sulla spalla di Gajeel senza che lui dovesse dirle nulla. – Perfetto. Ora, non allarmarti.
Le passò un braccio in mezzo alle gambe e le afferrò la parte superiore della coscia mentre lei, messa in posizione orizzontale, faceva del suo meglio per non urlare come una ragazzina.
Levy gli passò il braccio libero attorno al collo, per davanti, congiungendo le mani e aggrappandosi a lui. Cercò di non pensare al modo in cui la testa del comandante si stava appoggiando sul suo seno fasciato, e pregò che lui non ci facesse troppo caso.
- Sì va be’, dimmi come avresti fatto a cavarti da questo impiccio senza di me… - le chiese a bruciapelo alzandosi, facendole capire che, sì, stava facendo caso a quelle curve che lui non aveva.
- Stai zitto e fai il tuo dovere, Gajeel – sibilò, imbarazzata.
Gajeel passò il successivo quarto d’ora a correggere le posizioni altrui mostrando come modello quella in cui era Levy. La ragazza si limitò a pensare ad altro per non fare caso alla mano di Gajeel sulla sua coscia e alla sua vicinanza, ai suoi capelli che ogni tanto le solleticavano il viso.
Quando il ragazzo congedò i soldati per l’ora di pranzo, per far scendere Levy la sollevò sopra la sua testa e se la fece cadere addosso, prendendola in braccio e appoggiandola a terra alcuni istanti dopo.
Lei gli lanciò un’occhiata stupita e spaesata, assicurandosi che nessuno li avesse visti. Solo Lily li stava osservando, arcigno e confuso, e Levy si affrettò ad allontanarsi senza degnare di una parola il comandante.
Quando fu sparita nel tendone che fungeva da mensa, Lily gli si accostò. – Dì un po’, Gajeel, è per caso successo qualcosa ultimamente? Hai… cambiato orientamento, visioni, idee?
Preso in causa, Gajeel lo osservò inespressivo. – Eh?
Lily lo fissò in silenzio. – Ev…
- Ev cosa?
- Ti piace?
Per un attimo Gajeel aprì la bocca per parlare, ma la richiuse, incapace di dargli una risposta. Lily non sapeva la verità, dunque gli stava chiedendo se gli piaceva un maschio. Tecnicamente Ev non gli piaceva… però Levy sì. Troppo anche.
Mano a mano che passavano i giorni scopriva che quella che provava per lei non era una fugace attrazione dovuta all’astinenza e alla lontananza da donne, ma un vero e proprio interesse. Si era reso conto che Levy gli sarebbe piaciuta a prescindere dalla situazione, l’avrebbe scelta in mezzo ad una folla di donne.
- Non sono gay – disse laconico, facendo per allontanarsi.
Lily lo bloccò per un braccio, costringendolo ad arrestarsi. – Sicuro? Non ti giudicherò, comandante. Permettimi però di farti notare che il tuo atteggiamento nei confronti del ragazzo mingherlino è alquanto bizzarro e i soldati potrebbero iniziare a parlare.
- Che parlino pure – concesse lui con un’alzata di spalle. – Io non sono gay e non mi comporto in nessun modo con Lev… Ev. Con Ev.
Lily strinse gli occhi, provando a scavargli dentro, ma Gajeel, lo sapeva, nascondeva la sua anima dietro la fortezza inespugnabile della sua espressione impassibile. Infatti il comandante si allontanò senza batter ciglio, lasciando il primo ufficiale solo e confuso.
Qualcosa gli puzzava, e prima o poi avrebbe scoperto cosa.
 
I giorni passarono pigri e allo stesso tempo frenetici, tra allenamenti seri, insegnamenti teorici ed escursioni per temprare corpo, mente e muscoli che Levy non pensava nemmeno potessero esistere.
Gajeel iniziò ad interagire meno con lei, dopo la chiacchierata con Lily, ma alla ragazza non passavano inosservate le lunghe occhiate che il comandante le lanciava. All’inizio pensava di essere paranoica o, peggio, egocentrica. Insomma, perché il comandante avrebbe dovuto prestarle attenzione e interessarsi a lei? Certo, era l’unica donna del campo, ma era sicuramente al di sotto degli standard cui poteva aspirare un uomo della risma di Gajeel. Non era facile innamorarsi di lei, nessun uomo l’aveva mai fatto quando era stata se stessa, figuriamoci infatuarsi di lei quando era disordinata e vestita come un uomo. Probabilmente Gajeel la squadrava con… disgusto, confusione addirittura, di fronte alla sua decisione di travestirsi da maschio e arruolarsi. Probabilmente la guardava con curiosità, chiedendosi cosa frullasse nel cervello di quella strana creatura che era.
Fu solo dopo qualche settimana che si rese conto che, indubbiamente, Gajeel la osservava come donna. Diverse volte a pranzo o a cena, durante gli allenamenti o quando si incrociavano nell’accampamento, Levy lo beccava con gli occhi puntati su di lei come laser, e lui si affrettava subito a distoglierli, imbarazzato. Una volta l’aveva addirittura scoperto a squadrarla con la testa inclinata mentre lei si abbassava, cercando di guardare al di là della brutta casacca larga che indossava. Invece di arrabbiarsi o sentirsi a disagio per la malizia che c’era negli occhi del comandante, si era messa a ridere e si era allontanata divertita di fronte al suo rossore e al suo imbarazzo. Lily li aveva ovviamente visti e aveva scosso la testa, infastidito dal loro tenerlo all’oscuro di qualcosa di molto importante.
Un paio di mesi dopo era arrivata la lettera.
- Silenzio – intimò Gajeel una sera a cena, alzandosi sopra un tavolo, imitato da Lily che era in piedi al suo fianco.
Nel giro di qualche secondo fu come se qualcuno avesse spento la radio all’interno del capannone della mensa. Nemmeno le mosche facevano più rumore.
- Il comandante della truppa del fronte ci ha fatto pervenire una lettera, oggi. La linea nemica avanza inesorabilmente e loro sono allo stremo delle forze. Hanno bisogno di tutto l’aiuto disponibile per uscire vittoriosi dalla battaglia e hanno chiesto a noi questo aiuto. Partiremo domani all’alba e marceremo per una settimana per raggiungere la truppa principale. Allenamenti ed esercizi sono sospesi, non abbiamo più nulla da insegnarvi. Ci aspetta la guerra vera, adesso.
Senza attendere reazioni o domande, Gajeel scese dal tavolo e uscì dalla tenda.
Il cicaleccio allegro di pochi minuti prima venne sostituito da mormorii di paura, eccitazione e tristezza, ansia e aspettativa, che si spensero anch’essi dopo poco. Ognuno finì il proprio pasto in silenzio, riflettendo su ciò che li aspettava.
Levy osservò il suo piatto ancora pieno e cercò di afferrare dei pensieri coerenti che le vorticavano nel cervello, ma non ce n’era nemmeno uno. Non si possono dare una spiegazione e un senso a delle emozioni confuse.
Così si alzò e uscì senza dire una parola.
 
- Avevo la certezza che ti avrei trovata qui.
Levy sussultò al suono di quella voce roca e si voltò di scatto verso la sua provenienza.
Il comandante si stava avvicinando a lei con la casacca aperta e i capelli sciolti sulle spalle come raramente li portava. Sotto la luce della luna sembravano bianchi sulla sommità, lisci e lucidi come un mantello sulla sua schiena. Levy tornò a fissare il laghetto di fronte a sé quando incrociò i suoi ardenti occhi rossi.
- Indovinato – mormorò mentre Gajeel si sedeva accanto a lei sul masso in riva al lago dove era solita farsi il bagno, lontana dall’accampamento quel tanto che bastava ad avere una privacy sicura.
Gajeel le lanciò un’occhiata prima di raccogliere qualche sasso e lanciarne uno sull’acqua, facendogli fare quattro salti prima di vederlo affondare.
Levy rimase immobile, in attesa, e quando Gajeel restò in silenzio, senza intenzione di aprir bocca, si sciolse i capelli e iniziò a pettinarli come sua madre faceva prima di darle la buonanotte.
Non sarebbe più stata sola, lontana dagli altri soldati, nell’arco di quella settimana, e in guerra chi lo sapeva cosa sarebbe accaduto. Quella notte era l’ultima occasione che aveva per sentirsi donna. La fasciatura che era solita mettere a copertura del seno giaceva ai piedi del masso e per una volta aveva indossato una stretta casacca della sua taglia, che lasciava intravedere ciò che era.
Gajeel lanciò altri due sassi prima che Levy posasse la spazzola e allungasse una mano per rubargliene uno.
Oggetto della curiosità del comandante, lanciò il sassolino e gli fece fare ben sette salti, superando in lunghezza il salto di tutti quelli tirati dal suo avversario.
Gajeel fischiò e ghignò. – Tiri meglio di un maschio – le concesse. – E sotto certi versi, combatti anche meglio di un maschio.
Levy sorrise, leggermente triste, e ricominciò a sistemarsi i capelli ribelli che le formavano una nuvola attorno alla testa.
Il comandante finalmente alzò lo sguardo e la guardò in faccia, lanciando una fugace occhiata priva di cupidigia al modo in cui la casacca le fasciava il tronco e metteva in mostra il seno per una volta non schiacciato.
Levy era davvero bellissima nella sua semplicità.
- Se ti vede qualcuno sei nei guai, piccoletta – la mise in guardia Gajeel, accennando alle sue curve e ai suoi capelli.
La ragazza scrollò le spalle e lo osservò di sottecchi. – Non mi vedrà nessuno. A quest’ora dormono tutti.
- Ancora non capisco per quale motivo sei venuta qui. Ci sono modi più semplici per suicidarsi.
Levy sorrise leggermente e strinse le ginocchia al petto, appoggiandovi il mento. Guardò Gajeel in un modo che gli fece bloccare il cuore e perdere il filo dei pensieri.
- Per amore, comandante.
- Per un uomo?
- No – rise lei, scuotendo la testa. – Ci sono diversi tipi di amore. È stato quello per mio padre a spingermi fino a qui. Non potevo permettere che, alla sua età, con una gamba zoppa e per colpa mia venisse qui a morire. Non era giusto.
- Colpa tua?
Lei annuì. Gajeel le aveva già fatto quelle domande, nella sua tenda, quando aveva scoperto la verità mentre le fasciava il petto. Ma era comprensibile che si fosse scordato la conversazione. Del resto, la sua attenzione doveva essere ai minimi storici dopo aver appurato che in un accampamento maschile non tutti erano maschi. – I miei hanno avuto solo una figlia, me. E dopo tre aborti, per giunta. È un miracolo che io sia riuscita a nascere. Mio padre mi ama più della sua stessa vita, ma io non sono un maschio. Non posso essere selezionata al posto suo per la leva obbligatoria. È colpa mia che non sono ciò che lui voleva.
Gajeel scrutò la sua tristezza e le incastrò una ciocca di capelli dietro l’orecchio per guardarla negli occhi. Poi girò mezzo busto verso di lei, avvicinandosi senza nemmeno farci caso.
- Per amare una persona nel modo in cui tu ami tuo padre, bisogna ricevere a propria volta lo stesso amore.
Levy alzò il viso e lo osservò, in attesa.
- Se tu ami tuo padre così tanto, significa che lui ti ama allo stesso modo. Non credo, quindi, che lui sarebbe venuto qui a morire per colpa tua. Sarebbe venuto qui a proteggere te dai nemici. Sarebbe morto per te, consapevole di aver fatto tutto ciò che poteva per te.
Levy sentì le lacrime salirle agli occhi. – Ma io non voglio che lui muoia per me. Voglio che viva per me, che mi accompagni all’altare quando mi sposerò, se troverò un uomo che mi voglia, che insegni ai nipotini tutto quello che ha insegnato a me, che mi aiuti a crescere ancora.
Una lacrima sfuggì al suo controllo e cadde sopra la mano di Gajeel mentre lei abbassava lo sguardo.
- Non sono pentita di essere venuta qui, lo rifarei altre cento volte pur di salvarlo. Avrei solo voluto avere un po’ più di tempo al suo fianco, ecco. Avrei voluto dirgli addio come si deve, pregarlo di essere forte e… non lo so, di continuare a ricordarmi senza avere rimpianti. Io…
Gajeel l’abbracciò proprio nel momento in cui Levy perse il controllo, scoppiando in singhiozzi che le scossero il corpo e le impedirono di respirare. Il comandante la strinse a sé per la vita mentre con una mano le accarezzava la testa premuta contro il suo petto. Cullò dolcemente il suo corpo tremante e lasciò che si sfogasse, che si liberasse dal male che portava dentro, senza dire una parola. Tutto sarebbe stato superfluo in quel momento. Persino la consapevolezza di essere profondamente e indissolubilmente innamorato di quella donna che nel suo piccolo corpo nascondeva un coraggio infinito. E un amore ancora più grande.
Alla fine, dopo diversi minuti di disperazione, Levy allungò la mano e prese un panno alla base del masso su cui si soffiò il naso, placandosi pian piano al suono del battito del cuore di Gajeel contro il suo orecchio. Le parve di sentire una leggera resistenza delle sue braccia quando si scostò da lui, come se avesse voluto tenerla ancora premuta contro di sé.
- Sc-scusa, Gajeel – bisbigliò, il respiro ancora interrotto dai singhiozzi. – Non avrei dovuto… non volevo… non…
Il ragazzo, fulminato sul posto dai suoi lucidi occhi rossi così dolci e insieme sofferenti, sconnetté il cervello e si sporse per baciarla con un impeto che mai aveva adoperato, con una foga alimentata dalla sua stessa ansia e dalla consapevolezza di ciò che provava per lei e del poco tempo che avevano a disposizione.
Levy spalancò gli occhi quando sentì la bocca di Gajeel premere e muoversi contro la sua, ma l’iniziale sbigottimento lasciò il posto ad una sensazione che la scaldò dentro come un fuoco. Chiuse gli occhi quando lo fece anche lui e la timidezza e l’inesperienza l’abbandonarono come vecchi nemici ormai sconfitti.
Il suo corpo reagì da solo e lei gli infilò le mani nei capelli per avvicinare ancora di più la sua bocca, che si staccò per un solo secondo alla ricerca del fiato che gli mancava. Le mani di lui le accarezzarono il viso e i capelli prima di scendere lungo la sua schiena e afferrarla per i fianchi, tirandosela addosso fino a far aggrovigliare i loro corpi. Alla fine si posizionarono sotto la sua casacca, sulla schiena calda, dove percorsero con le dita l’intera spina dorsale, dall’alto al basso e viceversa. Levy gli accarezzò il collo e il petto prima di circondargli la vita e le spalle con le braccia.
Ben presto si ritrovò ad ansimare e, a dispetto di ciò che credeva, non provò alcuna vergogna. Gajeel la faceva sentire forte grazie alle sue reazioni positive, la faceva sentire donna mentre lei prendeva confidenza con le sue labbra e la sua bocca, mordendolo, leccandolo e giocando prima timidamente e poi audacemente con la sua lingua.
Alla fine sorrise mentre si sistemava meglio sul masso, in modo da sedersi in braccio a lui, e lo sentì incurvare le labbra a sua volta, felice.
- Ma che diavolo…?!
Levy si allontanò da Gajeel così in fretta da dimenticare di essere sopra un masso relativamente stretto, e se non fosse stato per i riflessi pronti del ragazzo che le artigliò un polso e la tirò nuovamente contro di sé sarebbe finita per terra in malo modo.
Alle loro spalle, Lily li stava fissando con gli occhi fuori dalle orbite, facendo passare lo sguardo dal viso di lui a quello di lei senza realmente vederli.
Alla fine alzò un dito e mosse le dita annichilite della mano in modo sconclusionato, dando prova pratica della confusione che aveva in testa.
- Lily – lo chiamò Gajeel, riprendendo fiato. – Posso spiegare.
- Mi hai detto di non essere gay! – lo accusò Lily urlando, ritrovando l’uso della voce.
- Sh! – gli intimò il comandante, guardandosi attorno alla ricerca di eventuali spie od origliatori casuali. – Ma che fai, scemo? Sveglia tutto il campo, già che ci sei – sibilò, circondando la vita di Levy come a proteggerla.
- Non parlare a denti stretti con me, sai?! Mi hai mentito, e non me ne frega niente se sei il comandante, chiaro?! Prima di essere il mio superiore sei mio amico e non posso credere che tu mi abbia nascosto il tuo orientamento sessuale per tutto questo tempo. Pensavi che ti avrei giudicato, eh?! Ma cosa ti passa per…
- Lily, Ev è una ragazza! – sbottò Gajeel, esasperato.
Il primo ufficiale, livido di rabbia, si zittì e fissò Levy con l’intenzione di scavarle un buco nell’anima. Per prima cosa notò i capelli voluminosi e ribelli nonostante la spazzolata, che le ricadevano sulle spalle e le circondavano il viso morbido. Troppo morbido per essere quello di un maschio. Poi i suoi occhi corsero giù lungo il collo del cadetto e si soffermarono su una sporgenza che un uomo non avrebbe dovuto avere. Infine risalì e la guardò in volto, arrossato per mille motivi, e vide i suoi occhi. Li vide davvero, per la prima volta.
- Ev è una… donna?
La ragazza annuì timidamente mentre con la mano si sistemava la casacca a copertura del seno già coperto, in un gesto istintivo. – Mi chiamo Levy – mormorò quando nessuno dei due uomini aggiunse altro. – Mi dispiace…
- Quando l’hai… come… ma lo sapevi? – borbottò Lily, avvicinandosi a loro, ancora sbalordito. – Ora mi spieghi tutto Gajeel, o giuro che in battaglia dovrai trovarti un altro disposto a guardarti le spalle!
- Calmati, Lily – disse perentoriamente il comandante, ordinandoglielo più che incoraggiandolo. – L’ho scoperto a causa tua.
- Mia?!
Levy annuì e sollevò la casacca per scoprire la rosea cicatrice che il primo ufficiale le aveva procurato. – Quando ci siamo allenati con le katane e tu mi hai ferita, Gajeel è venuto a vedere come stavo e… mi ha scoperta proprio mentre mi medicavo. Mi ha protetta non dicendo a nessuno della mia identità e ha mentito a te per lo stesso motivo.
Lily finalmente capì, quelle ultime, bizzarre settimane acquistarono un senso per lui. Il rifiuto di Ev… di Levy a volersi togliere la casacca, la sua agitazione quando lui le aveva proposto di aiutarla a curare la sua ferita, gli strani ordini di Gajeel per esonerarla da certi addestramenti compromettenti, il suo pronto aiuto dopo giornate particolarmente dure e le occhiate lunghe e incuriosite che lanciava sempre più spesso a quel soldato piccolo e particolare.
Sorrise quando i suoi ricordi acquisirono un nuovo significato. – Be’, questo spiega molte cose.
Levy annuì, sollevata ma non ancora del tutto tranquilla. – Io non volevo mentire o ingannarvi, spero che tu lo capisca Lily. Ti chiedo solo di non uccidermi o rivelare il mio segreto, perché non tutti sarebbero indulgenti come Gajeel – disse prendendo la mano del diretto interessato, che gliela strinse. – Non ho il diritto di chiederti alcunché, lo so, in fondo sono una bugiarda, ma…
- Non ho intenzione di fare la spia, Levy – la bloccò Lily, con un tono di voce più solenne di una promessa. – Sei uno dei miei uomini, sei una valida guerriera, sei sveglia e sei sopravvissuta per mesi in un campo militare maschile. Di fronte all’ammirazione che nutro nei tuoi confronti, la tua bugia è una macchia sbiadita su uno sfondo nero.
La ragazza rischiò di commuoversi alle parole del primo ufficiale e per evitare di piangere saltò giù dalla roccia e si fiondò ad abbracciare Lily, facendolo rotolare sull’erba. Il mastodontico soldato scoppiò a ridere dopo un momento di spaesamento, abbracciando la giovane e dandole lievi pacche sulla schiena.
- Non è molto virile questo, soldato Ev – le fece notare.
Ridacchiando, lei si tirò su e annuì prima di mettersi sull’attenti e gonfiare petto e spalle. – Signorsì, signore. Domando scusa per il mio gesto da ragazzina.
Gajeel e Lily risero ancora.
Una ragazza era proprio quello di cui avevano bisogno dopo mesi di contatti con soli uomini, e Lily sentì nascere nel suo cuore un profondo affetto per quella piccola creatura che aveva il coraggio di un leone. E lo sguardo famelico di Gajeel gli confermò che era off-limits per chiunque, marcata stretta dal primo scopritore del suo segreto.
Lily li vedeva bene insieme, tutto sommato. Chi, del resto, se non una donna-soldato, poteva tenere testa ad un testone come il suo comandante? Si sarebbero incornati come due caproni in calore, ne era certo, ma avrebbe trionfato l’amore tra di loro. L’amore, e quella calamita che sembrava unirli naturalmente, attrarli l’uno verso l’altra come due poli opposti.
- Vado a sorvegliare i ragazzi che sono di ronda, ci vediamo domani mattina all’alba, Levy – si congedò il primo ufficiale, scompigliando i capelli morbidi della ragazza.
Lei annuì e lo salutò con la mano ed un sorriso che lo contagiò, facendo rifulgere i suoi denti bianchi sulla pelle scura.
- Sarà meglio che vada anche io – la informò Gajeel, scendendo dalla roccia e affiancandola. – Non vorrei che qualcuno ci vedesse insieme e… be’, devo preparare la partenza e per colpa tua sono in ritardo.
- Colpa mia? – sbottò Levy, offesa. – Io non ho fatto proprio…
Le labbra del comandante la zittirono nuovamente, ma lei non riuscì ad arrabbiarsi per quel metodo poco ortodosso che Gajeel usava per farle cambiare discorso. O farglielo dimenticare.
Levy scoprì quanto dolce può essere un bacio grazie a quel lieve contatto. Se prima il loro bacio era puro fuoco, ora era un piccolo sole caldo e luminoso che le riempiva le vene di luce.
Le sue mani e le sue braccia forti la strinsero con delicatezza, non con la possessività di prima, i tocchi che le lasciava sulla pelle erano quasi timorosi. Le accarezzò il viso gentilmente e la baciò lentamente, piano, senza fretta.
Troppo presto interruppe il contatto per baciarla sulla fronte e allontanarsi con un ghigno furbesco sulle labbra.
Levy rimase impalata lì, guardandolo andare via anche quando ormai il comandante era fuori dalla sua portata visiva, a chiedersi in che modo una storia romantica poteva aiutare il loro squadrone, la sua patria, a vincere la guerra.
Mentre raccattava le sue cose per tornare alla tenda, però, pensò che non le interessava. L’importante era vincere quella battaglia, rimanere in vita.
Se era stato l’amore di suo padre a farla partire per arruolarsi nell’esercito, sarebbe stato l’amore per Gajeel a farla tornare a casa sana e salva, da suo padre e sua madre, vittoriosa, per renderli orgogliosi.
Con l’amore non si vince la guerra.
Si vince la vita.
 
Più tardi, quella sera, quando Lily finì il giro di ricognizione, tornò nella tenda principale che divideva con Gajeel, che se ne stava steso sul suo letto a fissare il soffitto arancione sbiadito.
Lily lo guardò a lungo mentre si spogliava per prepararsi a dormire, ma non riuscì a carpire nulla dall’espressione sul viso dell’amico. Solo quando spense le candele e si sdraiò a sua volta lo sentì trovare la forza per parlargli.
- Lily?
- Sì?
Il comandante tacque. E Lily aspettò.
- Grazie.
Fu il turno del primo ufficiale di tacere. Non aveva proprio nulla di cui ringraziarlo, Gajeel.
- Aiutami a tenerla in vita, ti prego – lo supplicò in un sussurro, troppo vergognoso per ripetere quelle parole così vere e importanti a voce alta.
Lily seppe per certo che Gajeel era perdutamente innamorato di quel minuscolo soldato che valeva per tre uomini robusti.
- Qualcosa mi dice che sarà lei a tenere in vita noi, Gajeel – lo rassicurò. – Te la porterai a casa, la vittoria. Ce la porteremo a casa.
- Non mi interessa della vittoria. Voglio solo portare lei da suo padre e chiedergli la sua mano.
Lily sorrise. Mai avrebbe pensato di udire quelle parole uscire dalla bocca del suo più vecchio e scontroso amico.
- Parlando di vittoria mi riferivo a lei, Gajeel. Vincerai tutte le battaglie legate a lei, ne sono certo. Ora dormi, però, o toccherà a lei salvarti le chiappe sul campo di battaglia.
Il ragazzo annuì nel buio, certo che Lily avrebbe capito, e si addormentò subito.
Avrebbe vinto.
Con Lily al fianco e Levy come trofeo, non poteva permettersi di perdere.
Avrebbe vinto tutto.



MaxB
Vi prego non odiatemi se ho stravolto la storia. Il fatto è che me ne innamoravo mano a mano che scrivevo e mi è successo davvero poche volte con le cose che scrivevo io, quindi...Cioè, si è scritta da sola, mettiamola così.
Volevo ringraziarvi tuttissimi perché non mi aspettavo un'accoglienza così calorosa per questa raccolta, davvero, sono rmasta piacevolmente sorpresa. E vi ringrazio di cuore anche per i suggerimenti. Molti di quelli che mi avete consigliato purtroppo non li conosco, ma se un giorno troverò un po' di tempo proverò a documentarmi per procedere con gli adattamenti^^
Grazie ancora,
MaxB

A porposito... non ho idea di quando uscirà il prossimo capitolo ahahahahah. Iniziamo con i ritardi, beneeeeee. Sorry^^"

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Capitolo 3
*** Uncharted ***


Note pre-lettura: poco da dire, Uncharted è uno dei miei videogiochi preferiti, sono ossessionata (ho pure la collana (poi capirete che collana) che indosso giorno e notte). Uncharted è una serie di 4 giochi e in base al successo di questo primo esperimento vedrò se spoilerarvi il seguito. OCCHIO AGLI SPOILER PER CHI VUOLE GIOCARE!


Uncharted

Personaggi sostituiti
Nathan "Nate" Drake: Gajeel Redfox
Elena Fisher: Levy McGarden
Victor Sullivan: Panther Lily...van
Navarro: Zeref


 
- Ne sei certo?
- Dimmi, Gajeel, quante altre isole sperdute nell’oceano e occultate alle carte vedi su questa mappa?
Il tono tagliente di Lily gli fece fare una smorfia.
Gajeel Redfox, promettente scopritore di tesori per vie illegali, aveva appena riesumato la tomba del suo antenato, ser Francis Redfox, dal fondo dell’oceano. Come si era aspettato, il sarcofago era vuoto: ser Francis non era morto lì. Non era morto lì proprio per niente. All’interno della tomba aveva trovato una vecchia mappa spiegazzata e un taccuino pieno di fitti appunti ormai sbiaditi per colpa del buio e dell’umidità, ma almeno Gajeel aveva avuto la conferma di ciò che gli interessava: El Dorado esisteva, ed era seppellito su un’isola segreta a cui era possibile arrivare solo grazie a quella mappa che lui e il suo compagno stavano consultando.
Panther Lilyvan, detto Lily, era il suo più vecchio e fidato amico. Aveva dieci anni e passa più di lui, ma non per questo lo considerava un pivello, anzi. Il nerboruto e inflessibile uomo dalla stazza di una montagna, con la pelle scura come la notte e l’aspetto che sibilava “guai in vista”, l’aveva pescato da piccolo mentre girovagava senza meta apparente per le strade affollate di una cittadina sudamericana.
“Senza meta apparente”… in realtà lo scopo di Gajeel era quello di rubare il portafoglio del più che ventenne Lily, che all’epoca aveva ben più del doppio dei suoi anni. C’era anche riuscito, a fregarlo, a dire il vero, salvo poi il trovarselo davanti in tutta la sua muscolosa grandezza.
Dopo essersi ripreso il portafoglio e averlo fulminato con quegli occhi scuri, uno dei quali abbellito da una frastagliata cicatrice a mezza luna che spronava a girare al largo, lo aveva costretto a raggiungerlo all’interno di una taverna logora e sovraffollata. Gajeel aveva avuto paura per la prima e unica volta nella sua breve vita da bambino di dieci anni, ma l’aveva seguito in silenzio per paura delle conseguenze.
Quello che non si era aspettato erano le congratulazioni di Lily, che gli aveva sorriso sardonicamente e gli aveva piazzato davanti al viso un piatto fumante di chili e altre pietanze digeribili non prima di tre anni, che Gajeel aveva spazzolato senza tanti complimenti. Sebbene fosse solo un bambino, aveva già le spalle larghe e il corpo tonico, asciutto, il fisico di chi non è certo di trovare anche solo un pasto al giorno ma non resta con le mani in mano ad attendere la manna dal cielo.
Lily gli aveva fatto alcune domande di prassi, aveva indagato sulla sua famiglia, sulla sua abitazione, su chi fosse, tutti quesiti a cui il ragazzo aveva risposto con delle sonore masticate e delle occhiate ostili.
- Senti, bimbo, non ho tempo da perdere – si era spazientito Lily dopo diversi minuti. – Mi torneresti utile per alcune missioncine, e in cambio potrei prendermi cura di te. Non ho intenzione di mantenerti, sia chiaro, pivello, ma non dubito del fatto che potrai guadagnarti l’aiuto che ti sto offrendo. Ho solo bisogno di sapere se qualcuno potrebbe denunciare la tua scomparsa o sentire la sua mancanza.
Gajeel aveva ghignato in modo del tutto non infantile e Lily aveva capito di aver appena trovato un compagno per la vita, da addestrare e poi usare come braccio destro, guarda spalle, amico. Per un attimo il suo cuore troppo tenero lo aveva definito addirittura figliolo, cosa possibile se si considerava la facilità con cui si potevano abbordare le prostitute in quei paesini del sud.
Avevano siglato il loro patto quello stesso pomeriggio e Lily lo aveva tolto da quelle strade gremite di povertà e puzza di futuro nero, portandolo in America, dandogli una nuova vita. Gajeel si era dimostrato il più fedele e curioso dei compagni e Lily non si era mai rimangiato la parola data.
Tranne su un fatto: lo aveva mantenuto eccome, quel bambino, e senza chiedergli mai nulla in cambio.
 
- Gajeel, porca miseria – lo richiamò Lily, battendo una mano gigantesca sul tavolo.
Suo malgrado, il giovane imberbe sussultò e poi sbuffò. Per un attimo invidiò i cortissimi capelli dell’amico, e prese un elastico dalla tasca dei bermuda per legare i suoi, lunghi fino a metà schiena, folti come la criniera di un leone e neri come il mare di notte. La pelle scura nascondeva i segni della vecchiaia, ma quando Lily si accigliava Gajeel poteva quasi vedere i suoi tratti farsi più rugosi. Aveva più di trentacinque anni ormai, il suo vecchio.
- Ho capito, Lily! Datti una calmata o quella lì ci sente.
I ragazzi si voltarono entrambi verso l’oblò alle spalle di Gajeel, una delle tante finestre di quella bagnarola che la ragazza alle loro spalle era riuscita a procurare per il viaggio, finanziata dalla compagnia televisiva per cui lavorava.
Levy McGarden, in canottiera rosso sbiadito e pantaloncini corti, camminava scalza sul molo di legno vecchio, e per un attimo Gajeel temette di vederla cadere in acqua a seguito della rottura di una tavola del camminamento. La ragazza stava parlando al telefono per riferire al suo capo le ultime scoperte fatte, ossia la tomba vuota e la presenza di pirati nelle acque oceaniche.
Già, pirati! Armati di pistole e AK-47. La ragazza si era eccitata più per l’attacco che per la riesumazione della tomba. Be’, almeno finché un proiettile le aveva sfiorato la spalla.
Finalmente, mentre la osservava parlare al telefono per farsi concedere qualche permesso in più per la ricerca, Gajeel la vide corrugare la fronte e assumere un’aria preoccupata mentre si collocava il cellulare tra spalla e orecchio per legarsi i capelli in una coda alta come aveva fatto lui stesso poco prima.
Stava bene con la coda, si ritrovò a notare lui.
Lily lo pungolò al braccio. – Non ci sente, quella lì. E a proposito di lei, cosa pensi di fare? C’è quasi rimasta secca durante la spedizione. Sapevi che potevano arrivare i pirati, ma hai voluto portarla lo stesso!
- Certo! – sbottò Gajeel, innervosito dal caldo, dalla situazione e dall’ansia. – Finché tu mi dai buca per startene al sicuro sul tuo aeroplanino, come faccio a lavorare da solo? Comunque se l’è cavata, no?
Lily grugnì e spostò il peso da un piede all’altro, agitato.
- Gajeel, non possiamo coinvolgerla. Le hai addirittura confessato che non abbiamo i permessi necessari a stare qui! Cosa pensi che succederà, ora? La compagnia per cui lavora, quella che guarda caso ci finanzia dal momento in cui tu hai detto che avresti permesso loro di documentare la scoperta del secolo, ci starà alle calcagna e ci lascerà in mutande. Ci mancavano loro oltre a Zeref!
Il ragazzo strinse con forza i bordi del tavolo. – Pensi che ci sia Zeref dietro?
- Il più temuto contrabbandiere del Sudamerica? Ovvio, chi pensi che abbia dato delle armi di quel calibro a dei pirati appestati e senza soldi per i vestiti?
Gajeel si prese il viso tra le mani. – Non va bene, non va bene, non va bene…
Lily dovette trattenersi dal ridacchiare. Spostò lo sguardo fuori dalla barca e vide con sollievo che Levy non badava a loro, stava ancora passeggiando sul pontile e parlando al telefono reggendo in mano la telecamera. Quella ragazza era in gamba nonostante la giovane età, doveva riconoscerglielo. Proprio per quello non se la sentiva di metterla ulteriormente in pericolo.

- Okay, okay – mormorò Gajeel raddrizzandosi e portandosi accanto a Lily, dall’altra parte del tavolo. Si toccò l’anello che portava al collo, la reliquia appartenuta a quel suo antenato di cui aveva appena fatto riaffiorare la tomba vuota, la chiave per arrivare ad El Dorado. – Ora, la mappa ce l’abbiamo. Dobbiamo solo stare attenti a non farci seguire e possiamo trovare l’esatta ubicazione della città, no?
Lily annuì con un secco cenno della testa.
- Le armi le abbiamo, la barca pure, partiamo e diamoci una mossa a recuperare l’oro. Come te la cavi con lo spagnolo del millecinquecento?
Lily fece una smorfia. – Non bene, penso che il più ferrato sia tu – rivelò, riluttante. Odiava dover ammettere che, in quanto a lingue, era perso senza Gajeel, che parlava latino, greco, cinque diversi idiomi di almeno cinquecento anni prima e diversi altri dialetti ormai dimenticati ma fondamentali per svolgere quel lavoro. E fortuna che il suo socio era un asino che non aveva nemmeno concluso la scuola!
Gajeel, infatti, si aprì in un ghigno di vittoria e scherno, facendo luccicare i denti bianchi dai canini affilati. – Cosa faresti senza di me? – lo derise, mentre Lily roteava gli occhi.
- Cosa avresti fatto tu in questi quindici anni senza di me? – lo rimbeccò lui, ritorcendogli contro la domanda.
Fu il turno di Gajeel di alzare gli occhi al cielo.
- La lasciamo qui, allora? – chiese Lily, facendo un cenno con il capo in direzione della ragazza.
Lei si voltò proprio in quel momento verso di loro e li osservò basita per alcuni secondi, prima di sorridere con titubanza e alzare una mano in cenno di saluto. Gajeel e Lily sorrisero a loro volta, dei sorrisi stiracchiati e leggermente incerti, agitando le mani e fissandosi tra di loro.
Alla fine Lily si avviò verso il pannello di controllo della barca e la mise in moto, mentre Gajeel rimase ad osservare la ragazza che stavano boicottando.
Levy sgranò gli occhi quando sentì il motore accendersi, ma era già troppo tardi quando iniziò a correre: la bagnarola partì e lei raggiunse la fine del molo imprecando, chiudendo la chiamata e osservando la scia bianca di schiuma lasciata dalla nave disperdersi.
Almeno erano stati gentili a salutarla, pensò acidamente.
 
Parecchie ore dopo, Gajeel e Lily si ritrovarono nelle profondità della terra, su un’isoletta dimenticata da Dio ma contenente ricchezze senza pari, stando alle mappe riportate sul diario del defunto Francis Redfox.
- Non ne posso più – si lamentò Lily per l’ennesima volta, quando si ritrovò a guadare un fiumiciattolo sporco e puzzolente nato spontaneamente dopo secoli di trasudazione della roccia in quella simpatica caverna sotterranea prossima a cadere. Era pure buio.
- Smettila di lamentarti, vecchiaccio.
- Vecchio, io?! Vorresti tu arrivare alla mia età in una forma così smagliante, ragazzino.
Gajeel ridacchiò e diede fuoco ad una torcia impolverata che aspettava da secoli di essere utilizzata, e poté finalmente osservare l’espressione compunta e stufa del suo compagno. Il colore della sua pelle si abbinava perfettamente a quello dell’acqua che guadavano.
- Guai a te se fai cadere quella roba, piromane, o saltiamo in aria tutti. Mi sa che c’è pure del gasolio in questa melma putrida. Vorrei tanto che i tesori si trovassero in bella mostra in paradisi terrestri di facile accesso.
- E poi dove sarebbe il divertimento? – domandò Gajeel, facendo strada. – Qualche altra cosa che vorresti, Lily? Mi piace così tanto sentire i tuoi lamenti.
Lily ignorò il sarcasmo e mugugnò, alla ricerca di altri desideri cui dare voce. – Una doccia. Un letto. Una bistecca. E, perché no, una donna?
Gajeel si bloccò, rischiando di fare sbattere l’amico contro di sé, e si voltò. – Una donna? Tu?
- Non sono mica gay – ribatté l’altro, quasi imbarazzato.
- Ma non eri tu quello che non voleva più al fianco una donna dopo essere stato tradito proprio da una di esse?
- Erano affari, ti ricordo. E non mi pare, infatti, di avere una donna al mio fianco. Sto solo dicendo che in momenti come questi non mi dispiacerebbe avere una mogliettina pronta ad attendermi a casa, al mio ritorno, con una bella cenetta, un bel letto rifatto e profumato magari da lei riscaldato.
- Come sei romantico – lo prese in giro Gajeel, conscio del lato dolce che quel suo burbero amico cercava di nascondere dietro le occhiate arcigne. Ma il vecchio Lilyvan aveva il cuore troppo morbido, lo sapevano entrambi.
- Io? Senti chi parla! Quello che si è preso una cotta per la giornalista, al punto da volersela portare in missione.
Gajeel assottigliò gli occhi. – Non dire fesserie, era carina, tutto qua. Non ho preso nessuna sbandata.
Lily sbuffò e il compagno di fronte a lui si sentì quasi un bambino, nonostante l’abbondante metro e ottanta, al cospetto di quell’armadio. – Ho qualche anno più di te, ragazzo. So come funzionano certe cose e ho l’occhio lungo, checché tu ne pensi. La giornalista ha fatto centro su di te – lo schernì, pungolandolo all’altezza del cuore. – Ho visto come la guardi.
Gajeel sbuffò e riprese a camminare, abbassando la testa per non sbattere contro una trave di roccia che pendeva minacciosamente dal soffitto umido. – Comunque sia, mi sono giocato tutto lasciandola sul molo, no? Quindi addio Levy, visto che cotta?
Lily sbuffò una risata. – Volevi portartela dietro.
- Ma non l’ho fatto.
- Perché te l’ho impedito.
Gajeel non ribatté, confermando la teoria del suo amico.
– Ah, ragazzo, sei in guai seri.
 
Gajeel corse a perdifiato per distanziare il più possibile i nemici, sperando che il sangue che il suo cuore pompava a velocità folle non raggiungesse più il suo cervello e gli regalasse la tanto agognata assenza di pensieri.
El Dorado non era una città, avevano scoperto da poco lui e Lily, giunti alla fine di quel labirinto di roccia.
“Il dorato”. Non la città d’oro, ma la divinità d’oro, una statua che era venerata dalle antiche tribù ormai dimenticate. Statua che, ovviamente, era stata trovata da qualcuno prima di loro.
Una volta che avevano raggiunto nuovamente la superficie, ad accoglierli Gajeel e Lily avevano trovato una bella inalata di aria fresca e niente popò di meno che Zeref l’Immortale, così chiamato per via di tutte le sparatorie da cui era uscito praticamente illeso, e il suo seguito di tirapiedi. Zeref aveva giocato con loro, raccontando storielle di atroci morti inflitte a sue precedenti vittime, spacciandole per barzellette comiche, mentre i suoi scagnozzi ridevano a comando. Chissà quanti compagni avevano visto morire per colpa di una risata o un commento fuori copione.
I due compagni si erano categoricamente rifiutati di parlare di fronte all’interrogatorio del boss genocida, fedeli l’uno all’altro e alla missione per cui da anni progettavano quel viaggio. Non avevano esitato nemmeno quando Zeref aveva tirato fuori la pistola e l’aveva puntata a turno prima su uno e poi sull’altro, sapendo che non avrebbe mai fatto fuoco: entrambi gli servivano vivi per portarlo al tesoro.
Ciò di cui non si erano resi conto, però, era il livello di follia che annebbiava la mente del criminale, affetto da malattie psicotiche così profonde da renderlo instabile su tutti i livelli umani. Zeref era una bomba ad orologeria, ed era esploso proprio contro Lily, premendo il grilletto e centrandolo al cuore.
Il cacciatore di tesori, grosso più di tutti gli uomini lì presenti, pieni di giubbotti antiproiettile e protezioni per le giunture, era caduto in avanti emettendo un singolo gemito, ricordando a Gajeel la caduta di un albero: inesorabile, terribile, pesante e solenne.
Lo sparo aveva colto di sorpresa tutti, Zeref compreso, che aveva imprecato e sbraitato ordini che i suoi sottoposti avevano fatto fatica a registrare e mettere subito in atto.
Lanciando un’occhiata disperata al suo mentore, compagno e amico, Gajeel era scappato via approfittando del momento. Lily era morto, quello era sicuro. Non si era mosso di una virgola dal momento in cui era caduto, e la sua grandezza non lo rendeva certo immune alle pallottole, specie se a distanza ravvicinata.
Così, mentre scappava dalle voci degli sgherri che si era mentalmente ripresi e lo stavano inseguendo facendo più casino di una mandria di bufali inferociti, Gajeel cercava di non pensare, cercava di soffocare il dolore che sentiva già crescergli dentro. Non era un tipo sentimentale, non lo era mai stato, una vita dura lo aveva temprato rendendogli la pellaccia e il cuore ancora più duri.
Ma Panther gli era entrato nell’animo a modo suo, e la sua perdita era un colpo basso.
Un rumore a destra attirò la sua attenzione e, merito dell’adrenalina in corpo, Gajeel decise che era meglio agire in anticipo che ritrovarsi accerchiato da davanti e da dietro: svoltò bruscamente a destra in quella fitta foresta di alberi, liane e rocce e caricò il destro, pronto a colpire.
Quello che non si aspettava minimamente di trovare era Levy, pugno a sua volta carico, nella sua stessa posizione d’attacco, all’erta.
Si avvicinarono per piazzare il colpo, ma nella frazione di secondo in cui si riconobbero abbassarono la guardia involontariamente.
- Sei tu! – esclamò Gajeel, lasciando cadere il braccio. – Ma che ci fai…
Levy lo colpì con forza alla mandibola con quello stesso montante che aveva preparato per i nemici, scrollando poi la mano come per scacciare il dolore dell’impatto.
Gajeel gemette e si portò la mano alla bocca, come per raddrizzarla. – Ehi, ma che fai?! – sbottò, infuriato.
- Che faccio?! Non azzardarti mai più a…
Non concluse la frase perché Gajeel la prese fulmineamente per il polso e la spinse contro il tronco dell’albero alle sue spalle, stringendosi contro di lei, le braccia ai lati del suo viso perplesso, il corpo pronto a farle da scudo.
In quel momento passarono i soldati al servizio di Zeref, continuando a correre in avanti, ignorando la loro deviazione e di conseguenza la loro posizione esposta.
Levy trattenne il respiro finché non si furono allontanati, le braccia piegate contro il suo petto, a contatto con quello di Gajeel, che le respirava all’orecchio e le solleticava il viso con i capelli sciolti. Quando calò il silenzio, passarono diversi istanti prima che Gajeel si decidesse a staccarsi dalla giovane, decisione presa solo dopo aver incatenato i suoi occhi a quelli di lei, confusi, intimoriti e allo stesso tempo divertiti.
- Ehm… scusa – farfugliò allontanandosi di qualche passo, grattandosi la nuca e chiudendo un occhio per la tensione.
Ora che la spinta adrenalinica era scemata, si sentiva stanco, vuoto e inutile.
- Lily è morto – esordì senza che lei pronunciasse alcuna domanda. – Zeref ci ha trovati e ci ha scaricato contro un’orda di scagnozzi. Figlio di…
- Zeref?! – lo interruppe lei, stupefatta. – Quello Zeref?!
- Quello, sì. Quel pezzo di sterco che ha una considerazione dei diritti umani e delle persone pari a quella che ha per le formiche. O per lo sfruttamento sostenibile e legale di risorse minerarie o forestali, dal momento che ha intenzione di essere eletto come “peggior nemico dell’umanità e della Terra per assenza di considerazione per la vita e le risorse che il nostro pianeta offre”.
Levy ridacchiò nonostante la situazione, attirandosi un’occhiata sorpresa da parte di Gajeel. Sentirla ridere era l’ultima cosa che si aspettava.
- Be’? – la incalzò, avvicinandosi a lei e sovrastandola. – Non fa molto ridere. Ti consiglio di tornare a casa, piccoletta.
La ragazza assottigliò gli occhi e raddrizzò le spalle, gonfiando le guance con ira. – Non azzardarti a dirmi cosa fare, razza di traditore infame e criminale. Mi hai mentito, mi hai abbandonata su un molo senza avermi dato lo scoop che mi avevi promesso, mi hai quasi fatta uccidere dai pirati che poi mi hai costretta ad uccidere piazzandomi un’arma da fuoco in mano! Sei disonesto e non accetto alcun ordine da te!
Gajeel ghignò e si voltò per cercare Lily e lanciargli un messaggio con gli occhi, certo che avrebbe capito. Ma nel momento in cui non lo vide, spaesato, si rese conto che non avrebbe più potuto lanciare occhiate eloquenti. Si rabbuiò immediatamente al ricordo dello sparo e della caduta del suo compagno, così chiuse gli occhi per scacciare l’immagine dalla sua testa.
L’ira di Levy si prosciugò come una vasca a cui viene tolto il tappo. – Mi dispiace per Lily – gli sussurrò posandogli una mano sul braccio.
Gajeel la guardò e annuì, senza bisogno di aggiungere alcunché. – Torniamo a casa.
Sbarrando gli occhi, la ragazza rimase immobile al suo posto mentre Gajeel si voltava per scrutare il piccolo sentiero in cui erano e cercare di capire dove andare.
Nel momento in cui s’incamminò e fece cenno a Levy di seguirlo, lei corse e lo bloccò per il braccio. – Torniamo a casa?! – ripeté, sbalordita.
Gajeel annuì seccamente.
- No! – sbottò lei. – Io non ho la mia storia, tu non hai il tuo tesoro, Zeref non ha una pallottola nel cuore e Lily è morto invano, allora!
Gajeel digrignò i denti e Levy per la prima volta ebbe leggermente timore di quel gigantesco uomo che sembrava uscito da un film e l’attraeva allo stesso modo in cui la tradiva e trattava come una bambina.
- Non parlare di cose che non…
- Oh, io parlo di quello che voglio, razza di cialtrone! – lo aggredì, pungolandogli il petto. – Ora, senza discutere, tu vieni con me, seguiamo quella cavolo di pista che tu e Lily avete trovato, perché so che l’avete trovata, altrimenti Zeref non gli avrebbe sparato per costringere te a parlare! Tu trovi il tesoro, gliela piazzi tra le chiappe a Zeref, eviti che la morte di Lily diventi stupida e vana e dai a me ciò che mi spetta, ossia lo scoop del secolo che finanzia questo schifo di viaggio.
Gajeel non batté ciglio mentre lei respirava pesantemente per la rabbia e gli trafiggeva il petto con lo sguardo zeppo di acidità e furia.
- Come facciamo, di grazia? Il posto in cui dobbiamo andare è dall’altra parte dell’isola e…
- Ho la macchina, genio. Almeno uno di noi ha il cervello!
Gajeel sbuffò e fissò il cielo in cerca di risposte circa il percorso da intraprendere.
Levy aveva ragione. Tornare a casa e lasciar perdere El Dorado, il tesoro che lui e Lily cercavano da anni, era come ucciderlo una seconda volta. Doveva andare fino in fondo a quella storia, per lo meno per il suo amico, e vendicarlo. Non sarebbe stato facile, specie con Levy alle calcagna e gli scagnozzi di Zeref in giro, ma la sua intera esistenza non era stata facile.
Agire lo calmava, pensare lo agitava. – Dov’è la macchina?
Levy sorrise, vittoriosa. – Se vuoi farmi il favore di seguirmi…
Gajeel la seguì, riluttante, osservando l’incedere sicuro di Levy nel bosco, apprezzando l’ondeggiamento della sua figura e la sua compagnia, suo malgrado. Per lo meno non era completamente solo.
- Guido io – lo informò quando il fuori strada senza tettuccio fece capolino dalla foresta.
- Perché?! Io guido meg…
- Perché me lo devi, dal momento che mi hai abbandonata sul molo, razza di voltafaccia.
Gajeel sbuffò. - Va bene, te lo concedo. Ma sappi che l’idea di lasciarti indietro è stata di Lily.
- Potevi fermarlo – fece notare lei, scrollando le spalle. – Probabilmente non volevi.
- Come hai fatto a trovarci? – chiese Gajeel, per cambiare discorso.
- Nel momento in cui hai trovato il diario di sir Francis, ti sei messo a studiarlo immediatamente, nel mezzo dell’oceano, prima che arrivassero i pirati. Hai farfugliato tremila pensieri e io ero alle tue spalle con la telecamera. Ho avuto abbastanza tempo, quando avete tagliato la corda, per studiare la registrazione e dare un senso ai tuoi borbottii.
Gajeel, ammirato, non rispose e salì in macchina, dalla parte del passeggero.
Levy sorrise con orgoglio mentre inseriva la marcia e faceva partire il fuori strada. – Ti farà comodo un cervello in questo viaggio, Gajeel.
Lui roteò gli occhi e restò in silenzio, pregando che Levy gli prestasse anche il sedere che aveva avuto fino a quel momento, oltre al cervello.
Ma anche avere accanto il suo sedere fisico non sarebbe stato male, si ritrovò a pensare.
Ghignò guardandola di sottecchi mentre lei guidava con determinazione. Gliel’aveva detto, a Lily, che gli sarebbe tornata utile quello scricciolo di ragazza.
Peccato non poterlo rinfacciare al suo amico.
 
- Ci siamo, via libera – la informò Gajeel entrando in quello che una volta era stato l’edificio per la direzione commerciale del porto, la dogana. Lì da qualche parte, in mezzo a quel mucchio di mobili vecchi e rotoli di pergamena ammuffiti, doveva esserci anche il registro delle navi autorizzate all’approdo, completo di nomi, date d’arrivo e partenza, e… carico minuziosamente annotato.
Se avevano fortuna, quel vecchio palazzo sbrecciato e rovinato da secoli di pioggia e vento era stato dismesso dopo l’arrivo della nave di sir Francis Redfox, che portava il carico di El Dorado, seppellito da qualche parte nel profondo della foresta al di là del porto.
Levy tirò un sospiro di sollievo e, asciugandosi l’acqua dalla fronte, si appoggiò ad una vecchia scrivania polverosa, ansimando per ritrovare il respiro.
Erano appena sfuggiti ad una sparatoria, l’ennesima, e lei aveva dovuto fare da cecchino mentre lui guidava la moto d’acqua che avevano gentilmente preso in prestito da un tirapiedi di Zeref per raggiungere l’edificio sperduto e cadente. Se due o tre pallottole avessero raggiunto i muri di quel posto, Levy era certa che si sarebbe trovata sommersa dai calcinacci dei muri crollati.
Gajeel la lanciò un’occhiata ammirata prima di cominciare a ravanare tra pile di vecchie carte nautiche, vettovaglie di natura indecifrabile e schegge di legno polverose. – Sei stata brava – si congratulò, dandole le spalle mentre lei si voltava a guardarlo. – Dal momento che è la tua prima missione, non avrei scommesso un dollaro su di te. Invece, se ora le mie chiappe sono salve, è solo merito tuo.
Levy sorrise, soddisfatta, e cominciò a cercare a sua volta. – Lo so – ammise, tronfia, facendolo sghignazzare. – Ma temo che sia in gran parte fortuna. È dura sbagliare mira quando hai in mano uno spara-granate. Se anche manchi il bersaglio di un metro, ci pensa l’esplosione a farli saltare in aria.
- Hai ragione, allora ritiro il complimento – ammise lui, ghignando quando la vide prepararsi a protestare.
Invece Levy lo chiamò con la mano. – Ho trovato qualcosa.
Gajeel si precipitò da lei, sovrastandola da dietro con la sua mole, e gli sembrò di vederla rimpicciolire tra le sue braccia, anche se non la stava realmente abbracciando. La vide arrossire, ma la tensione per la scoperta lo distrasse. – Il libro mastro… - mormorò, mentre la ragazza gli passava il registro incartapecorito e fragile quanto un castello di sabbia, per farglielo esaminare.
- In spagnolo del 1500 – aggiunse lei, come se la cosa non fosse ovvia. – Mi spieghi come facciamo a capire cosa fare se nessuno sa…
- Ecco la barca di sir Francis – la interruppe Gajeel, puntando il dito su un nome, che poi trascinò fino alle date d’arrivo e di partenza della barca che aveva ormeggiato in quel porto. – Trasportava oro, argento, pietre simili a… cosa vuol dire questa parola?... lapislazzuli, forse, chincaglieria varia e… eccola. Una statua, d’oro, del peso di due arrobas. Arrobas, sono più di due quintali se si fa il cambio.
- …leggere lo spagnolo del 1500? Tu sai leggere lo spagnolo del 1500?! – esclamò lei, stupefatta. Lei di lingue ne capiva una decina e ne parlava fluentemente sette, ma tra queste non rientrava lo spagnolo di cinque secoli prima.
Gajeel si concesse un ghigno di orgoglio, rispondendo alla sua domanda in una lingua simile allo spagnolo che Levy poté capire solo a grandi linee.
- Allora non sei un culturista ignorantone – farfugliò, tornando a concentrarsi sul vecchio registro portuale, invidiosa e offesa con se stessa per la sua mancanza di conoscenza di quella lingua morta.
- Un culturista? – sghignazzò lui. – Mi credi un culturista? Qui qualcuno è fisicamente attratto da me, o sbaglio?
Levy alzò la testa di scatto, rischiando di sbatterla contro il mento del ragazzo, e avvampò come una candela. – Ma che stai dicendo?! È solo che pensavo fossi uno di quei tipi tutto muscoli e niente cervello!
- La tua considerazione nei miei confronti mi commuove, Levy – soffiò lui, divertito.
Lei lo zittì muovendo una mano, accantonando la questione. – Dai, dimmi cosa capisci di queste lettere cadaveriche.
- Bel modo di descrivere una lingua morta.
- Grazie, avrei potuto fare la poetessa in un’altra vita.
Gajeel sbuffò una risata e le lanciò un’occhiata intensa e civettuola mentre si chinava di nuovo sul registro. – La nave di sir Francis è arrivata qua e non è più partita.
Girando la pagina, trovò un disegno della presunta statua di El Dorado, gigantesca e…
- Inquietante – commentò Levy, occhieggiando la faccia mostruosa e contorta incisa nel mezzo di quell’ammasso d’oro. - Io non la ruberei, se fossi in te.
Voltando le altre pagine, scoprirono che il disegno della statua era l’ultimo, e che quel libro mastro non era più stato toccato per secoli. Tutto si concludeva con l’arrivo di El Dorado alla dogana.
Gajeel iniziò a giocherellare con l’anello che portava al collo, legato ad un nastro di cuoio, come faceva sempre quando era agitato o nell’estremo bisogno di dare un filo logico a pensieri intricati.
- Qualcosa non va. La statua è qui, ne sono certo, ma non è più partita dopo essere approdata. Perché?
Levy distolse gli occhi dal disegno del monolite dorato, che pareva ipnotizzarla con i suoi occhi maligni, e si voltò verso Gajeel. Guardò incuriosita le sue dita che torturavano quell’anello di cui aveva appena notato la presenza, da brava osservatrice quale era, e si rabbuiò un po’.
- Appartiene a qualcuno che ti aspetta? – chiese, ringraziando che dalla sua voce non trasparisse alcuna tristezza, solo curiosità.
Gajeel la fissò senza capire, e Levy gli indicò l’anello per fargli comprendere a cosa alludeva.
- Oh, no… - negò. – Magari! – aggiunse poi, scherzando, per sondare la reazione della ragazza, che parve quasi sollevata e poi infastidita. – Penso che si possa definire la mia eredità. Era di sir Francis.
- Wow – sussurrò lei, avvicinandosi a lui per rubargli l’anello dalle dita.
Gajeel, non abituato ad averla così vicina, trattenne il respiro e osservò il suo viso accaldato ed eccitato per via degli avvenimenti di poco prima, e gli occhi che, a dispetto di tutto, erano innocenti e calmi come se in realtà stessero consumando un pic-nic in un parco soleggiato, non riesumando tombe. La fascetta con cui si era sistemata i capelli per tutta la durata del viaggio ora fungeva da elastico per tenere ferma la sua coda spettinata, mentre la frangia le ricadeva scompostamente sulla fronte.
Era adorabile.
- Sic parvis magna… - la sentì mormorare, leggendo l’iscrizione sull’anello.
Strappato ai suoi pensieri, Gajeel rispose meccanicamente: - Da umili origini verso grandi imprese. Era il motto di sir Francis.
Levy, gli occhi che luccicavano, gli lanciò un’occhiata veloce prima di puntare nuovamente il gioiello che teneva tra le dita. Si alzò sulla punta dei piedi e, se possibile, si appoggiò ancora di più al petto di Gajeel, che le mise una mano sul fianco.
- Cosa c’è scritto dentro? – chiese, ignara della posizione equivoca in cui si era cacciata.
- 29 gennaio 1596. Un giorno dopo la presunta morte di sir Francis.
Levy sembrava una bambina a cui avevano appena dato un lecca lecca multicolore. Gajeel deglutì a vuoto mentre lei, se possibile, faceva aderire ancora di più i loro corpi. Gli ci vollero due arrobas di buona volontà per non posare sul suo fianco libero anche l’altra mano, tirandosela addosso per far scordare ad entrambi il motivo della loro presenza lì.
- E questi numeri? Sono coordinate?
Gajeel annuì, cercando di apparire calmo quando i suoi grandi occhi nocciola tornarono a scrutarlo in viso. – Sì, le coordinate della sua tomba. Quella che abbiamo fatto riaffiorare dall’acqua e dentro la quale abbiamo rinvenuto il suo diario con la mappa dell’ubicazione di El Dorado.
Levy si morse il labbro cercando di contenere il sorriso. – Fighissimo – commentò, lasciando andare l’anello. Sbiancò quando si rese conto di quanto si fosse appiccicata al ragazzo.
Imbarazzata, si scostò e si sistemò la frangia, arruffandola ancora di più. – Allora, adesso che facciamo?
Gajeel tentennò, indeciso se darle una dimostrazione pratica di ciò che aveva voglia di fare o trascinarla verso il luogo dove pensava che sir Francis avesse nascosto la statua, obbedendo a ciò che il suo cervello gli diceva di dover fare.
- Di qua – la spronò, facendole un cenno con la testa.
La prese per mano e la guidò fuori dall’edificio della dogana, dopo essersi assicurato di avere via libera.
Levy sorrise quando, adocchiando le loro mani intrecciate, si ricordò che Gajeel le aveva detto che avere le mani occupate era da stupidi, quando eri un cacciatore di tesori. Dovevi sempre, sempre averle libere per poter impugnare la pistola o prendere il diario degli appunti o qualche oggetto importante.
Dal modo in cui le stringeva dolcemente la mano, si chiese quanto potesse reputare importante lei, dal momento che stava impegnando il suo preziosissimo arto da cacciatore di tesori.
Scuotendo la testa, si disse che non era certo il momento di innamorarsi. Si diede della sciocca.
Con lo stesso tempismo, Gajeel pensò esattamente la stessa cosa.
 
Le ore successive furono un vero inferno. Gajeel e Levy rischiarono di lasciarci la pelle in più di un’occasione, ma le diverse difficoltà che affrontarono fecero capire al ragazzo di potersi davvero fidare della reporter, piccolina e temeraria come poche.
Non ebbe mai un crollo emotivo, non si rifiutò mai di seguire Gajeel, nemmeno quando lui si divertiva a trovare e affrontare il più impervio dei sentieri, o si cimentava in scalate spezza-collo senza l’ombra di una protezione.
La stima per quella ragazza crebbe minuto dopo minuto, e persino quando faceva qualcosa di apparentemente stupido e incosciente non riusciva ad arrabbiarsi con lei.
Sembrava che gli scagnozzi di Zeref non si esaurissero mai, eppure Levy non si era mai ferita e l’aveva aiutato a sfoltire le file nemiche in modo eccellente, senza mai lamentarsi, restando illesa e aiutando lui stesso a non ferirsi, coprendogli le spalle. Aveva impiegato anni a raggiungere con Lily il feeling in combattimento ed esplorazione che con Levy aveva raggiunto in pochi giorni.
 E poi, se Levy non fosse stata al suo fianco, non avrebbe mai ripreso ogni singolo albero di ogni maledetta foresta, ogni stupido accampamento nemico o edificio lontano. E non avrebbe mai scoperto che Lily in realtà era vivo, filmando per puro caso ciò che accadeva all’interno di una finestra di una vecchia biblioteca del 1600.
L’avevano raggiunto e, sebbene Levy avesse dubitato per un attimo della fedeltà del ragazzo, che era stato colto sul fatto di aiutare i loro nemici, Gajeel l’aveva abbracciato e gli aveva stretto la mano a lungo, comunicandogli con gli occhi il suo sollievo.
Il diario di sir Francis, custodito nella tasca della camicia di Lily nel momento in cui Zeref gli aveva sparato, aveva beccato il proiettile al posto dell’uomo. Successivamente Lily, intuendo le mosse di Gajeel, aveva convinto Zeref di essere dalla sua parte e di essere l’unico in grado di trovare El Dorado, cosa pressoché vera. Peccato che avesse dato ai suoi mercenari informazioni fasulle, dirottandoli su una pista fallace proprio cinque minuti prima dell’arrivo di Gajeel e Levy.
Insieme avevano aperto l’accesso delle catacombe nascoste sapientemente nelle viscere della vecchia biblioteca, camminando per ore tra ragnatele, vecchie torce, poco rassicuranti resti scheletrici di umani vissuti imprecisati secoli prima e terrificanti disegni di morte che sembravano essere stati incisi con il sangue sui muri di quelle gallerie antichissime. Avevano persino trovato il vero cadavere di sir Francis, pugnalato all’ingresso di un sentiero che con ogni probabilità conduceva alla statua d’oro di El Dorado.
E così era stato, effettivamente.
Peccato che loro tre non raggiunsero mai quell’idolo luccicante.
Zeref e i suoi li avevano seguiti come delle ombre e, aggredendoli alle spalle, li avevano disarmati.
Poi avevano rivelato la vera natura di quella chimera ricercata per secoli: El Dorado non era una città, ma non era nemmeno una statua.
Era un sarcofago.
La tomba di una mummia il cui cadavere rilasciava delle spore che alteravano in modo virale il genoma di chi le inalava, trasformandole a loro volta in mummie zombieficate il cui unico obiettivo era quello di dilaniare e strappare. Possibilmente carne umana.
E Zeref voleva usare quella simpatica aria profumata per creare un esercito imbattile e rendere le spore un’arma biologica. Aveva trafugato El Dorado sotto agli occhi impotenti di Gajeel e Lily, che avevano osservato la statua spostarsi appesa ad una rete trainata da un elicottero mentre gli sgherri di Zeref tenevano la pistola puntata alla tempia di Levy.
Solo quando il sarcofago d’oro uscì dalla caverna, Gajeel si mosse.
Levy venne trascinata da Zeref a bordo dell’elicottero per intimare ai due ragazzi di non fare passi falsi, ma appena il veicolo aereo si allontanò Lily recuperò la pistola da uno dei nemici, dopo averlo steso con un unico colpo. Gajeel era uscito di lì prima ancora di dire all’amico di coprirgli le spalle. Intercettata la traiettoria della statua, il cui peso era così poderoso da complicare la stabilità del velivolo, Gajeel corse e si aggrappò alla rete che la tratteneva, iniziando a segarne i nodi col coltello.
- Sparategli! – gridò Zeref quando i suoi mercenari lo informarono dell’attacco del ragazzo.
I proiettili cominciarono a piovergli addosso dal lato scoperto, colpendo l’oro e rimbalzando via producendo un rumore simile al pop-corn quando esplode. Con la coda dell’occhio vide che l’elicottero era diretto verso la grossa nave che solcava placidamente le acque poco trafficate dell’isola, in attesa del carico d’oro per far partire i motori e salpare verso il continente.
Certo di avere le spalle coperte, Gajeel si spostò dietro alla statua, continuando a tagliare la rete, usando il sarcofago stesso come scudo.
Doveva finire in mare, quell’abominio, lì dove nessuno avrebbe potuto trovarlo, o recuperarlo, lì dove l’effetto venefico e corruttivo della mummia sarebbe stato innocuo.
Ma uno sparo ravvicinato gli fece perdere il coltello.
Una mira errata fece scoppiare una delle eliche del velivolo. Il pilota precipitò in mare e quell’ammasso di metallo volante stridette come un gabbiano ferito, iniziando a precipitare senza controllo.
L’aeroplano virò e, facendo scoppiare ovunque pezzi di lamiera e pale, planò verso il punto di atterraggio della nave, senza effettuare l’atterraggio sicuro che l’equipaggio si era aspettato.
Gli uomini investiti dalla traiettoria di quella bomba ad orologeria si buttarono in mare o corsero ai ripari, quando, fortunatamente, se ne accorsero. Poi un boato riempì le orecchie di Gajeel, la statua e l’elicottero si schiantarono e per un attimo tutto fu nero.
Fumo, calore, rosso ovunque e suoni attutiti furono le uniche cose che Gajeel percepì e vide. Quando le simpatiche lucciole scarlatte dello stordimento finirono di baluginargli davanti agli occhi come api impazzite, Gajeel riuscì a mettersi in piedi e fare il punto della situazione. Senza nemmeno riflettere infilò una piccola pistola Calibro 51 nel retro dei pantaloni, sottraendola ad un cadavere che era stato nel posto sbagliato al momento sbagliato, e scandagliò la barca deserta in procinto di diventare un relitto in via d’esplosione.
Levy era schiacciata dalle lamiere dall’aereo atterrato, le cui pale si muovevano lentamente, esalando gli ultimi respiri. In situazione precaria sul bordo della nave, il velivolo rischiava di finire in acqua da un momento all’altro. La ragazza non si muoveva, non gemeva, non imprecava, sembrava quasi addormentata. Gajeel ci sperava. Mosse un passo claudicante e doloroso verso di lei, ma il rumore inconfondibile del percussore di un’arma che veniva caricato lo fece bloccare sul posto, gli fece bloccare il cuore e il respiro nei polmoni. Tossì.
Zeref era in piedi in mezzo all’imbarcazione, un graffio sulla fronte gli sanguinava copiosamente sul volto, dando l’impressione che stesse piangendo fiumi di lacrime vermiglie.
Zeref puntò la pistola verso Gajeel, poi spostò lentamente la mira verso Levy. – Fermo o le sparo.
Gajeel alzò le mani in segno di resa, cercando di sfruttare l’adrenalina che gli scorreva in corpo per trovare una soluzione rapida, indolore e che non prevedesse un polmone bucato da una pallottola.
Alla fine agì d’istinto, come sempre. Lui ai piani pensava dopo aver agito, di solito.
E se era ancora vivo significava che l’improvvisazione funzionava.
Fulmineamente tirò fuori la Calibro 51 e sparò ai piedi di Zeref. Preso in contropiede, l’uomo arretrò di un passo. Bastò quella distrazione.
Gajeel gli si fiondò contro a testa bassa, come un toro in procinto di caricare un matador, e lo mandò a terra con un’unica testata. Afferrò in fretta la corda che legava la statua all’elicottero e la passò due volte attorno alla caviglia del nemico. Poi corse da Levy asciugandosi la fronte, sperando che il liquido che gli impregnò il dorso della mano fosse sudore e non sangue.
- Levy – la scosse, spostando lamiere e sedili divelti. – Levy, vieni fuori.
Riuscì a tirarla in piedi contando sulle sue uniche forze, e fu lieto di vedere che almeno la ragazza riusciva a stare in posizione eretta, anche se a fatica.
Il fatto che fosse viva era già tanto.
Gajeel le sorrise e le scostò i capelli dal viso, sollevato come non mai nel sapere che stava tutto sommato bene. Lei ricambiò il sorriso e alzò lentamente una mano, dirigendola verso il viso del ragazzo.
Uno sparo a distanza ravvicinata li fermò entrambi.
Gajeel si voltò verso Zeref, facendo da scudo a Levy con il suo corpo, stringendola alla sua schiena.
- Game over, Gajeel – mormorò Zeref, sorridendo vittoriosamente.
- Esatto – confermò lui, scostando Levy per dare una spallata al cadavere dell’aereo.
Successe tutto così in fretta che Zeref non ebbe nemmeno il tempo di reagire. L’elicottero precipitò in acqua, trascinando con sé la corda in tutta la sua lunghezza. Zeref, la cui caviglia era incastrata in quella catena di morte, venne strattonato fino al bordo della nave e oltre, giù in acqua, seguito a breve distanza da El Dorado.
- Adios – bofonchiò Gajeel, tirando un sospiro di sollievo.
Una manina delicata gli si posò sulla schiena e lui si voltò lentamente verso Levy. Le brillavano gli occhi, che esprimevano un misto di incredulità, gioia, qualche residuo di paura e un leggero divertimento.
- Grazie – esclamò con sarcasmo, facendo inarcare le sopracciglia al ragazzo. – Per avermi quasi fatta uccidere con questa storia!
- Uh… ehm… - mormorò lui, colpevole, grattandosi la nuca.
Levy scoppiò a ridere. – Ma grazie anche per avermi salvata – aggiunse annuendo, come per convincere se stessa.
Si alzò sulle punte dei piedi e lo baciò sulla guancia, lasciandolo impalato in mezzo alla nave deserta e libera dai nemici per dirigersi verso il parapetto, nel punto in cui ovviamente era ancora intatto.
Gajeel la raggiunse da dietro e le passò un braccio attorno alle spalle, ghignando. – Mi dispiace che tu abbia perso la videocamera dopo aver trovato Lily. Sarebbe stata una bella storia da raccontare.
Lei scrollò le spalle. – Inverosimile, ma interessante, senz’ombra di dubbio. Be’, me ne devi un’altra, non credi?
Lui, stupito, la osservò dall’alto, facendola ridere ancora. – Un’altra?! Saresti pronta a farti crivellare di pallottole di nuovo?
- Mi pare che non sia successo – osservò lei. – E non sono nemmeno diventata una mummia puzzolente e nevrotica, quindi, perché no?
Gajeel ghignò e si chinò per baciarla, notando la felicità e il sollievo nei suoi occhi.
Il clacson di una barca li interruppe, però, e voltandosi videro che Lily si stava avvicinando a bordo di una barchetta, sventolando la mano con aria divertita.
- Che tempismo! – urlò Gajeel, separandosi da Levy. Le labbra gli dolevano per la mancanza di quel contatto che aveva agognato per giorni.
- Avete una strana idea di romanticismo – commentò Lily, facendo ridacchiare entrambi. Levy intrecciò le dita a quelle del ragazzo. – Se vi date il primo bacio su una nave piena di cadaveri dovete andare in guerra in Africa, in una fossa comune, per la proposta di matrimonio?
Gajeel fece una smorfia. – Dacci un taglio Lily.
Il suo amico ridacchiò. – Niente tesoro?
- Niente tesoro – confermarono entrambi, leggermente sconsolati.
- Mh – meditò Lily, fermando la barca e avvicinandosi a dei teli esposti sul cassone posteriore. – Allora ci accontenteremo di questo.
Appena finì di parlare tolse i teli che coprivano tre casse di monete d’oro e una di reliquie del 1500, in terracotta, argento, oro e pietre preziose.
Gajeel imprecò e si mise le mani tra i capelli, mentre Levy urlava di gioia.
Lily rise. – Venite giù o vi lascio qui e parto col tesoro?
- Non provarci, vecchio – lo ammonì l’amico, scavalcando il parapetto per buttarsi in acqua. Lily allungò un braccio e lo aiutò a issarsi a bordo nel momento in cui riemerse. I due si diedero delle poderose pacche sulla schiena, un “sono contento che tu non sia morto” alla maschile.
Poi entrambi alzarono lo sguardo su Levy. – Non vieni, piccoletta?
- Credo di essermi storta una caviglia – ammise lei con aria colpevole.
Gajeel scosse la testa. – Quindi devo tornare su a prenderti e portarti giù? Non potevi dirmelo prima che mi buttassi?
Levy si imbronciò. – Scusa tanto se non so leggere nel pensiero e tu non mi hai avvisato che ti saresti buttato! Ma non preoccuparti, abbandonami pure qui, un’altra volta! Ciao!
Detto ciò si allontanò saltellando su una gamba sola, sotto lo sguardo divertito di Lily ed esterrefatto di Gajeel. Poco dopo si udì un tonfo e un’esclamazione di dolore.
Gajeel sbuffò: - Sarà meglio che vada a prenderla prima che si faccia ammazzare – brontolò, gettandosi in acqua per cercare una scaletta da cui salire.
Lily riavviò il motore della barchetta ridendo. – Ne hai trovata una tosta, Gajeel – commentò ad alta voce prima di fare il giro dell’imbarcazione.
Lily rise ancora quando lo sentì lanciare imprecazioni al genere femminile. La sua risata si perse in quella giornata di sole, con le acque tinte di sangue, infestate da una minaccia fortunatamente resa innocua e la consapevolezza che Gajeel e Levy fossero perfetti l’uno per l’altra.
- Gajeel datti una mossa! – urlò Levy subito dopo, infuriata.
- Ma secondo te mi sto facendo il bagno, Levy?! Mi sono buttato in acqua giusto per farmi una nuotata!
- Se non la smettete vi lascio qui soli e salpo col tesoro!
- Lily non provarci! – gli intimò Levy, da qualche parte sopra la nave.
- Non c’è nemmeno una scala! – si lamentò Gajeel. – Come faccio a salire se non c’è una scala?! Buttamene giù una!
- E secondo te come faccio?! La fabbrico?
- Gajeel – lo chiamò Lily.
Gli lanciò un’oggetto piccolo e brillante che il ragazzo afferrò al volo, da dentro l’acqua. Un cellulare.
- Cos…?
- Chiamatemi quando avete finito. Di sfogarvi, intendo. Sessualmente.
- Cosa?! – gridò Levy, facendo del baccano di dubbia provenienza.
Lily scoppiò a ridere e si allontanò verso la riva più lontana, mentre il vento e le onde soffocavano gli improperi di Gajeel e le urla di Levy.
Sarebbe tornato a prenderli, ovvio.
E Gajeel probabilmente lo avrebbe anche ringraziato.
 


MaxB
Scusate per il megaritardo. Ho poco da dire, sinceramente.
Amo Uncharted alla follia, ho riassunto un intero videogame in 12 pagine Word, se vi piace la storia potrei anche fare i seguiti. Per ora non credo siano in programma.
Per il prossimo capitolo dovrete... eheheh attendere non so quanto, sorry. Non sento i flussi giusti ultimamente (?) e anche solo finire questo cap è stato un calvario.
Perdonatemi vi prego.
Grazie mille a tutti, con le vostre recensioni mi date sempre la carica e la voglia di migliorare ancora.
A presto (davvero, spero a presto e mi impegnerò per questo),
MaxB

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Capitolo 4
*** Titanic ***


Note pre-lettura: non odiatemi, vi prego. Sappiate solo che è meno angst di Titanic (volevo addirittura evitare la parte della morte, cosa che ho... più o meno fatto, ecco). Scusate se ho toccato una pietra miliare nella storia del cinema e dei feels, ma... be', se volete sentire i miei deliri ci vediamo alla fine. Buona lettura!


Titanic

Personaggi sostituiti
Jack Dawson: Gajeel Redfox
Rose DeWitt Bukater: Levy McGarden
Fabrizio De Rossi: Panther Lilyvan
Caledon Hockley: Zeref


 
Che freddo.
Correre è… meraviglioso.
Basta, sono stanca.
Non respiro, è troppo stretto.
Fa tanto freddo.
Mi bruciano gli occhi.
Andate via, non guardatemi.
Sto urlando, qualcuno lo sente?
È tutto buio… sono già morta?
Il respiro è pesante, non voglio più sentirlo.
Che freddo, fa troppo freddo…
I pensieri confusi ed esagitati si bloccarono di colpo quando la ragazza colpì con forza il parapetto del più basso ponte della nave. Sotto, solo onde nere, schiuma bianca, gelo ed eliche mortali.
Vi prego, salvatemi.
L’implorazione della ragazza era rivolta a tutti e a nessuno, ma la giovane supplicò le stelle quando alzò lo sguardo ed osservò la magnificenza di quel cielo brillante di piccole luci.
Voglio diventare una stella.
Prendetemi con voi, sorelle.
La ragazza alzò il piccolo piede, calzato in una scarpa suicida che costava una follia per poi recare gioia solo agli occhi. Anzi, nemmeno a quelli, dal momento che la gonna del lungo vestito le copriva interamente.
Che senso ha spendere tanto per un paio di scarpe che mi fanno male e poi non si vedono nemmeno?
Forse io sono come loro. Costo tanto, sono un oggetto ornamentale, desiderato e richiesto, ma mai realmente visto.
Nessuno mi vede.
Nessuno mi sente.
La gonna le si impigliò nella punta della scarpa e lei diede uno strattone che la sbilanciò, bloccandole il respiro nei polmoni. Il suo cuore accelerò come le pale delle eliche sotto di lei.
Calmati, cuore, tra poco non batterai più.
Con fatica, sudando nonostante l’aria tremendamente fredda e l’impiccio di quella pesante stoffa che la fasciava come le bende di una mummia, la ragazza riuscì a scavalcare la ringhiera protettiva, protendendosi verso il mare.
Una raffica di vento le scompigliò i capelli sciolti, spettinandoglieli, e la giovane si sentì libera.
Non obbedirò più alle aspettative altrui.
Una lacrima le scese lungo la guancia morbida, pronta a gettarsi nell’oceano, libera anch’essa.
Basta.
- Fossi in lei non lo farei.
La ragazza rantolò quando una voce profonda, indubbiamente maschile e ruvida, priva di tatto, interruppe le sue elucubrazioni.
Voltando di scatto la testa scorse un ragazzo, pochi passi indietro rispetto a dove lei stava appesa tra la vita e l’annegamento. Era un giovane massiccio, dal fisico tonico eppure asciutto. Era davvero alto, con lunghi capelli argentati sotto la luce della luna, che gli scendevano sulla schiena legati in una coda. Aveva la faccia ricoperta da ornamenti metallici, sul naso, sulle sopracciglia, sul mento, persino sulle orecchie.
Lui sì che è libero.
Portava pantaloni vecchi, larghi e usurati, scarponi pesanti e laceri, un cappotto consunto e slavato ed era palese che non avesse un soldo valido per comprare anche solo un bordo del vestito che lei indossava.
Eppure lo invidiò, lo invidiò profondamente.
- No-non si avvicini – balbettò, terrorizzata, preoccupata, eccitata e confusa, quando il suo interlocutore mosse un piccolo passo verso di lei. – Non si avvicini o mi butto.
Il ragazzo, più vecchio di lei di qualche anno, aveva il volto segnato dalla fatica di una vita che non fa sconti, ma le rivolse il ghigno impertinente tipico di un bambino dispettoso.
Lentamente si portò una mano alla bocca e ne estrasse uno stuzzicadenti, che probabilmente si era rigirato tra i denti e lei non aveva notato. – Posso? – chiese, mimando il gesto di buttarlo in acqua.
La giovane lo fissò esterrefatta quando si avvicinò e buttò il piccolo pezzo di legno in acqua, osservandone il volo. C’erano solo pochi centimetri a separarli.
- Ho l’abitudine di gingillarmi infilando in bocca strani oggetti, dai chiodi ai fili d’erba seccati dal sole, ma il mio amico continua a ripetermi che prima o poi mi si rovineranno tutti i denti – commentò, voltandosi verso la giovane e sorridendole nuovamente, mettendo in mostra dei canini appuntiti e dei denti perfettamente dritti e bianchi che la stupirono.
Aveva gli occhi rossi, si rese conto, e non per l’alcol.
Il suo viso si fece immediatamente serio quando tornò a scrutare l’acqua.
- Ha davvero intenzione di buttarsi, signorina?
La ragazza sbatté più volte le palpebre, cercando di trovare un senso a tutto quello. Pochi attimi prima era pronta a buttarsi e ora stava conversando con un poveraccio che con ogni probabilità voleva stuprarla prima di aiutarla a suicidarsi.
- Non sono affari suoi – mormorò, smettendo di fissarlo e spostando lo sguardo davanti a sé.
Concentrati. Puoi ancora essere libera.
Un sospiro la distrasse e, voltandosi, notò che lo sconosciuto si stava slacciando gli scarponi. – Ma cosa fa?
- Mi preparo a seguirla – rispose lui laconicamente, lanciandole una breve occhiata. Ogni traccia di ilarità era sparita dal suo viso. – Non voglio averla sulla coscienza.
- Non mi avrà sulla coscienza signor…
- Redfox. Gajeel Redfox.
- Signor Gaj…
- No, solo Gajeel. Nessun signore, grazie.
Basita, la ragazza continuò. – Gajeel, non mi avrà assolutamente sulla coscienza. Questa decisione è mia e ne ho tutti i diritti, quindi mi faccia il favore e la smetta di giudicare…
- Io non sto giudicando nessuno – la interruppe lui, calciando via gli scarponi e iniziando a togliersi il giaccone, mostrando quanto freddo facesse. – Mi stavo solo chiedendo cosa potrebbe mai spingere una figlia di papà a volersi suicidare nel gelido abbraccio dell’oceano. Curiosità, non verdetto.
Le sembrava di avere il cervello congelato, si muoveva a rilento nel mare tumultuoso dei suoi pensieri, densi come una granita. Boccheggiò in cerca delle parole adatte, ma non ce n’erano.
- Senti, piccoletta…
- Mi chiamo Levy, Levy McGarden, e gradirei che la smettesse di trattarmi come una sua simile – sbottò Levy.
Gajeel ridacchiò, per nulla divertito. – Poi ero io quello che giudicava, no, signorina Levy?
La ragazza lo fissò in silenzio, unica cosa che poteva fare dal momento che il suo sistema nervoso sembrava aver smesso di funzionare.
- Chi crede di essere lei per venire qui e rallentare il naturale corso delle cose? Lei può fare ciò che vuole, tutti possono fare ciò che vogliono e, be’, ne ho il diritto anche io.
Gajeel scrollò le spalle e si affacciò di nuovo al parapetto. – Mi chiedevo solo come porre fine alla propria vita mediante un annegamento, sempre che non sopraggiunga prima l’assideramento, posso essere considerato naturale corso delle cose, Levy. E risparmiami i formalismi.
Levy deglutì. – Assideramento?
- Uh-uh. Quanti gradi pensi che abbia l’acqua, qui sotto? Il gelo ti paralizzerà le ossa e ti congelerà le membra, rendendoti doloroso persino respirare. Non potrai nuotare, ma il tuo corpo non affonderà. Ti trasformerai in una bambola di porcellana più fredda della neve e più dura del granito.
Il ruggito del vento e delle onde, che litigavano come due contendenti, fu l’unico suono udibile quando Gajeel tacque. Levy ringraziò il freddo che le bloccò le lacrime prima che scendessero.
- Perdonami, Levy, ma credo che siano davvero poche le vite così schifose e indegne di essere vissute da poter giustificare una fine come questa. E ci sono tante persone che muoiono senza motivo e senza la possibilità di vivere quella vita che tu ora vuoi buttare via come un rifiuto. Quindi fai pure come vuoi, non ti giudico, ma per rispetto nei confronti della vita stessa io ti seguirò. Io non ti avrò sulla coscienza, ma tu sarai disposta ad avere me sulla tua?
Le parole di Gajeel scesero in profondità dentro di lei, come una lama affilata che penetra fino al cuore infuocato di un iceberg, incrinando tutto il ghiaccio. Le lacrime tracimarono dagli occhi di Levy, che scosse il capo.
- Penso che anche i giorni più brutti abbiano in sé un po’ di bellezza. Bisogna vivere per quella. Forza, vieni di qua, al sicuro, ora.
Levy sospirò e annuì, stringendo forte le mani attorno alla ringhiera.
Fraintendendo il suo gesto, Gajeel le disse: - Quell’acqua è puro dolore. Così fredda da trafiggerti la pelle fino all’osso come migliaia di minuscoli aghi. Non è questo il modo in cui morirai.
Levy annuì ancora e staccò con lentezza una mano, assicurandosi di avere stabilità. Quando iniziò a ruotare il busto per affrontare Gajeel faccia a faccia, però, il piede le si impigliò nella lunga gonna e, con un urlo, Levy precipitò.
Riuscì ad afferrare per puro miracolo una delle ringhiere bianche e gelide del parapetto, così fredde da ustionarle la mano.
- Aiutami, aiutami Gajeel! Tirami su! – urlò, piangendo, mentre il freddo le colpiva impietosamente il viso e le agitava la veste.
- Resisti, Levy!
Senza esitazioni, Gajeel si sporse e allungò le braccia, afferrando le sue, stringendola forte. – Ci sono io, Levy, aggrappati!
L’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento e Levy si avvinghiò con le unghie alle sue braccia forti, incurante del dolore che poteva provocargli o della disperazione che sapeva stava trapelando dai suoi occhi.
Gajeel strinse i denti, puntò i piedi e tirò con tutte le sue forze. Riuscì ad issarla, la tirò fino all’orlo del parapetto e lei gli si gettò addosso, terrorizzata e singhiozzante.
Preso in contropiede, il ragazzo si sbilanciò a causa della stretta e perse l’equilibrio cadendo all’indietro. Trascinata giù con lui, Levy si ritrovò schiacciata sul ponte, con la mano di Gajeel che le proteggeva la nuca e il suo corpo a farle da scudo.
I due tacquero e si osservarono per un tempo interminabile, e Levy ringraziò il freddo e l’agitazione che camuffavano l’origine dell’erubescenza sulle sue gote. Gentilmente, nonostante lo sguardo severo e inflessibile, Gajeel le asciugò le lacrime e Levy capì da quel gesto dolce che il ragazzo era sollevato.
- Allontanati da lei, topo di fogna!
- Togliti o ti gettiamo in cambusa con i ratti per tutta la durata del viaggio!
Levy sentì mancare sopra di sé il peso caldo e morbido di Gajeel, e delle braccia decise ma gentili la aiutarono ad alzarsi. Una presa possessiva e troppo stretta la strattonò di lato subito dopo, e la ragazza riconobbe il profumo pungente e costoso del suo futuro marito, Zeref Dragneel.
Distrattamente si rese conto che, come nel caso delle sue scarpe e di quel profumo acre, le cose più care a volte sono le più sopravvalutate e le meno valenti.
- Rinchiudetelo – comandò seccamente Zeref, stringendo ancora di più Levy.
- No! Aspettate! Ahia, Zeref, mollami, mi fai male!
Dimenandosi, Levy riuscì a liberarsi dalla presa del fidanzato e rischiò di cadere nuovamente a terra a causa della spinta datasi.
- Fermi, lui mi ha salvata! Avete frainteso! Stavo… stavo cadendo in acqua perché volevo vedere le… le… - balbettò confusa, senza sapere come continuare. Presa dalla frenesia del momento, aveva rischiato di rivelare cosa fosse realmente accaduto, e ora non sapeva più come sbrogliarsi da quell’impiccio. Mosse le mani formando piccoli cerchi, sperando che il movimento potesse dare dei suggerimenti ai presenti per poi aiutarla a continuare.
- Le eliche, Levy – la incalzò Gajeel, con le braccia strettamente tirate dietro la schiena da due guardie, il busto piegato in avanti.
- Signorina Levy – la corresse Zeref, asciutto.
- Le eliche, sì. Penso di… soffocavo, faceva troppo caldo nella sala da pranzo e mi mancava il respiro. Sono venuta a prendere aria ma… la differenza di temperatura tra dentro e fuori era troppa e mi sono sentita mancare. Se non fosse stato per questo gentile signore, ora sarei dispersa nelle acque… gelide… dell’oceano.
Le parole si affievolirono verso la fine, quando si rese conto completamente della terribile sciocchezza che era stata sul punto di compiere.
Guardando Gajeel dritto negli occhi, aggiunse in un soffio: - Devo tutto a quest’uomo. Senza di lui, ora sei morta trafitta da migliaia di aghi di ghiaccio.
Le parve di vedere l’ombra di un ghigno sul viso adombrato del ragazzo tenuto prigioniero, ma fu solo un attimo fugace che si sciolse come un fiocco di neve.
Zeref ordinò ad uno dei suoi accompagnatori di coprire Levy perché non prendesse freddo, anche se lei in quel momento non sentiva nulla.
- Oh – lo udì dire, con la voce piena del disprezzo che riservava alle persone di rango inferiore, cioè tutte, a suo avviso. – Temo dunque che questo sia solo un terribile malinteso. Signor…
- Gajeel Redfox – rispose il diretto interessato, muovendo le braccia appena liberate dalle guardie.
- Signor Redfox, la ringrazio per la sua presenza su questo ponte, allora. Ecco, penso che un pezzo da venti basti a dimostrarle la mia gratitudine.
Levy parve svegliarsi da un incubo e balbettò qualche confuso vaneggiamento prima di fermare Zeref, che aveva già la mano sul portafoglio. – Tesoro, è questo il prezzo da pagare al salvatore della donna che ami?
Zeref la guardò, sorrise in quel modo sinistro che le faceva accapponare la pelle, dolce all’esterno ma che non raggiungeva gli occhi, facendo assumere loro una curiosa vena di pazzia, e disse: - Levy è scontenta questa sera. Allora la attendiamo domani sera a cena, signor Redfox.
Gajeel non lasciò trapelare nulla sul suo volto impassibile e severo, ma lo sconcerto fece ritardare di qualche attimo la risposta.
- Senz’altro – rispose, asciutto, dopo un’insistente occhiata del suo benefattore, che lo squadrò da capo a piedi con sarcasmo.
Gli occhi di Levy furono l’ultima cosa che vide prima di dirigersi alla sua cabina, l’unico premio che avesse mai voluto per quel salvataggio che non gli era costato nulla, ma gli aveva permesso di trovarsi faccia a faccia con una dea.
 
Levy rise e Gajeel sentì che il mondo era un posto migliore.
Il giorno successivo al salvataggio Levy l’aveva cercato in lungo e in largo lungo i ponti di quella mastodontica e labirintica nave, per ringraziarlo non tanto per il salvataggio quanto per la sua discrezione. Da quel momento e per le tre ore successive non aveva mai smesso di ridere e godere della compagnia di quel giovane ragazzo spiantato e senza radici che le aveva raccontato storie inverosimili e fantastiche sulla sua vita, spacciando favolette per esperienza vissuta.
- Non ci credo, questa se l’è proprio inventata! E non neghi, persino il più fantasioso e credulone dei bambini fiuterebbe la menzogna dietro le sue parole – lo accusò ridendo.
Gajeel era burbero, austero, aveva freddi occhi rossicci e tratti del viso affilati, lunghi capelli neri e lucenti che sembravano non sporcarsi mai, più sani e curati di quelli delle signore di nobile famiglia di mezzo Titanic. Gli amici e i conoscenti che incontrava camminando gli rivolgevano rispettosi e amichevoli saluti a cui lui rispondeva con un secco cenno del capo, scoraggiando ogni tentativo di approccio sociale. Sorrideva poco e non sembrava affabile, ma Levy non lo temeva, anzi.
Ne era quasi affascinata.
- La sua mancanza di fiducia nei confronti dei miei trascorsi mi reca biasimo, Levy – disse, cercando di sfoggiare quel gergo signorile che ogni tanto sentiva usare da qualche vecchio nobile convinto di essere al cospetto della regina.
Levy rise nuovamente scuotendo la testa.
- Che ragione avrei di mentire? – le chiese di punto in bianco, tornando al suo tono abituale. Si fermò e si appoggiò con la mano ad un cavo sospeso che sorreggeva una delle poche ed inutili scialuppe di salvataggio.
Levy si voltò verso di lui e lo guardò schermandosi il viso con la mano, per riuscire a vedere qualcosa nonostante il sole.
Gajeel si spostò un po’ e la protesse dalla luce, facendola sorridere leggermente, riconoscente.
Pantera Liliano, il suo amico italiano che si era imbarcato in quella folle impresa insieme a lui, lo aveva preso in giro per ciò che era accaduto la sera prima, insistendo nel dire che era stato uno stupido ad accettare l’invito a cena e ad innamorarsi di una donna più irraggiungibile di una stella.
Gajeel gli aveva detto di non esserne innamorato, ma di fronte al sorriso e agli occhi dolci e pieni di vita, nonostante tutto, di Levy, non poté mentire a se stesso. Era una forza della natura quella ragazza, così bella e luminosa, così gentile e incurante dei ranghi sociali, così… vogliosa di vivere.
Per l’ennesima volta si chiese cosa mai avesse potuto spingere una simile creatura ad anelare alla morte.
- Non lo so, magari vuole solo colpirmi e dimostrarmi che la sua vita è migliore della mia – disse lei, strappandolo alle sue disquisizioni mentali.
Gajeel sbuffò una piccola risata. – Il mondo è abbastanza pieno di gente finta, senza bisogno che io mi unisca alla coda. E poi, le mie storie sono così assurde che devono essere vere per forza, no? Perché deve ammettere, di grazia, che reggono, che bussando ad ogni singola parete delle vicende che le sto raccontando i muri si dimostrano di solida roccia. Un paradosso, ma è così.
Levy sorrise di nuovo e lo guardò di sottecchi, sorprendendosi nuovamente per la sua mole imponente. – Allora le credo, mi ha convinta – concesse, annuendo con vigore.
Dio se era bella. Il vestito giallo e bianco le stringeva la vita sottile e lo scollo poco generoso invogliava a scoprire quali morbide curve si celassero sotto di esso. I capelli cerulei erano legati in uno chignon poco curato che lasciava oscillare nella brezza ciocche arricciate. Eppure, quella pettinatura sembrava proprio fatta così, creata per essere ribelle e delicata, ricercata, tutto insieme.
Ancora, Gajeel si chiese cosa l’avesse spinta a pensare alla morte come unica via di fuga.
Di certo non era la ricerca di attenzioni. Si era recata in una parte della nave che sembrava quasi desolata, e in quelle ore di dialogo a senso unico non aveva mai colto l’occasione per parlare di sé. Aveva solo voluto sapere tutto di lui.
Allora perché?
- Perché?
Levy sbatté gli occhi e l’ombra del sorriso sereno che le incurvava le labbra si ritirò come le onde che battevano contro le paratie.
- Come, prego?
- Perché? Perché volevi farla finita, ieri sera? Ci penso e ci ripenso, ma non trovo una risposta sensata a questa domanda. Non trovo un motivo valido per cui una giovane ragazza avvenente a cui non è stato negato mai nulla debba voler rinunciare a tutto e morire. Credere senza ombra di dubbio che non ci sia nemmeno una piccola via d’uscita…
Le parole asciutte e severe del ragazzo di fronte a lei la colpirono come uno schiaffo in pieno volto, più profondamente di un qualsiasi sermone o implorazione. I suoi occhi rossi la fissavano senza lasciarle scampo, scavando nella sua anima alla ricerca della verità, della risposta.
Fu a causa di quegli occhi duri ma sinceri che la sentì montare, pronta ad esplodere, l’ondata di risentimento e disgusto che provava ogni giorno per la sua vita. La stanchezza nei confronti di un’esistenza inesorabilmente imposta e programmata, soffocante, che non lascia scampo.
Una tortura.
Chiunque sia sotto tortura perpetua implora la liberazione eterna.
Esistono carceri peggiori della morte.
A volte la morte stessa è una via d’uscita. L’unica.
Solo con la morte posso essere libera.
- Tutto! – sbottò di colpo, facendo voltare alcune signore che la guardarono con sorpresa a causa della sua uscita poco contenuta. Probabilmente Levy le conosceva, ma in quel momento aveva altre cose per la mente, più importanti dell’offesa arrecata a delle povere sciocche. – Ogni singolo minuto di questa vita mi induce a volerla fare finita. Sono in gabbia, Gajeel, sono un povero uccellino in gabbia a cui vengono mostrate le meraviglie del mondo mentre gli si strappano brutalmente le ali. È tutto ingiusto…
Gajeel riuscì appena in tempo a soffocare una risata di fronte all’immagine dipinta da Levy. Più che un uccellino in gabbia, lei era una vera e propria tigre.
- Fuggi, no? Ribellati?
- E come? Zeref mi ritroverebbe di sicuro! Ha abbastanza danaro da poter comprare i cittadini e chiunque altro, non c’è luogo in cui mi possa nascondere. No, io devo stare qui, recitare la parte della perfetta signorina di corte, essere affabile, fargli fare bella figura, dargli figli intelligenti senza possibilmente rovinarmi l’aspetto e attenderlo a letto! Io…
- Lo ami? – la interruppe lui, asciutto.
Levy boccheggiò, un po’ per lo stupore un po’ a causa delle tumultuose emozioni soppresse per anni che stavano ora uscendo come dopo aver sfondato una diga. Chissà, magari le emozioni non sono altro che onde nel mare del cuore, e una tempesta che le fa imbizzarrire produce solo un crollo, una breccia nell’anima. Forse è per questo che a volte le persone perdono il controllo.
Non si può fermare un fiume.
- Come? – fu solo in grado di ribattere.
Gajeel sbuffò con il naso, una specie di risata soffocata. – Lo ami? – ripeté lui, semplicemente.
Levy non fece nemmeno caso al fatto che non usava più il tono di velato riguardo nei suoi confronti. Le dava direttamente del tu, come ad un pari. - Che razza di… come si permette? Questa domanda è inopportuna.
- Come, scusa? – chiese lui, ridacchiando, appoggiato comodamente contro la nave.
- Lei è un gran maleducato. Certe domande non si fanno, Gajeel.
Il nervosismo la fece ridere angosciosamente. – Non posso credere che sia così impertinente!
Gajeel era alquanto divertito dalla situazione. – Basta dire sì o no.
Levy lo fulminò con un’occhiataccia così profonda che per un momento fece rimescolare le viscere al ragazzo. – Hai degli occhi meravigliosi, sai? – si lasciò sfuggire senza pensare.
Suo malgrado, lei arrossì e distolse lo sguardo, colpevole di essere così intenso e attraente. Le si posò direttamente su un piccolo quaderno che Gajeel portava con sé da tutta la mattina e, presa dalla foga del momento, glielo sottrasse in modo poco carino. – Cos’è questo stupido oggetto che si tiene appresso?
Gajeel represse un piccolo ghigno e attese una sua reazione, che non tardò ad arrivare. L’espressione di Levy si addolcì mano a mano che leggeva le parole scritte fittamente e ordinatamente in quelle pagine sporche di inchiostro e fumo, che recavano l’odore delle grandi città, dei bar e della musica in esse contenute.
- Le ha… scritte lei? – mormorò, sedendosi su una sdraio libera poco distante, ipnotizzata dalla pagina.
- Uh-uh – grugnì lui, assentendo.
- E le canta?
- Le canto e le suono. È così che mi guadagno da vivere. Un taccuino per l’ispirazione, matita e musica. Non mi serve altro.
Levy scorse la pagina e accarezzò con le dita un sonetto d’amore che sembrava più una poesia che una canzone.
Diverse pagine di magia dopo si rese conto che Gajeel era seduto accanto a lei, con il braccio premuto contro il suo, e la osservava in silenzio da chissà quanto tempo.
- Allora – esordì, incurvando le labbra in un ghigno quando la vide alzare gli occhi in cerca dei suoi. Brillavano d’emozione. – Non mi assumeresti come menestrello personale, Levy?
La ragazza dovette deglutire prima di parlare, per riuscire a inghiottire il grumo di cotone seccato che aveva in gola. – Sì…
Quella flebile ammissione lo fece gongolare, e in un accesso di confidenza Gajeel le diede una spintarella con il braccio. Inaspettatamente, lei contraccambiò, sorridendo timidamente.
- Sì, Gajeel, ti assumerei come menestrello personale, lo ammetto.
Al ragazzo non sfuggì il fatto che anche lei aveva cominciato ad usare un tono più intimo e familiare.
- Quando vuoi posso dedicartene una, se ti va. E dal momento che ti avrò come nuova musa ispiratrice, non ti farò pagare il prezzo della canzone.
Levy arrossì sentendosi rivolgere quelle parole. Gajeel sapeva incantare, quello era fuori discussione, ma il senso profondo della sua asserzione era innegabile e la giovane si sentì importante.
Sentì che, forse, la sua stessa esistenza era importante per qualcuno. Non solo come oggetto da rendere idoneo al matrimonio per salvare una situazione economica dal tracollo finanziario.
Forse Gajeel poteva aver bisogno di lei… lei. Di lei per com’era, per la sua anima.
- Un penny per i tuoi pensieri – le propose lui, dopo un inquantificabile lasso di tempo.
Levy sorrise e, notando che Gajeel le stava davvero allungando un penny, scosse la testa e gli allontanò la mano. Lui, però, contrariamente ad ogni buon senso, gliela trattenne e la strinse nella sua. Il contatto simultaneo con la fredda moneta e la calda e morbida mano di Gajeel, insieme al vento sferzante del ponte scoperto, fecero rabbrividire Levy.
- Promettimi che un giorno mi porterai a fare… tutto. Tutto quello che mi hai raccontato. Cavalcherò all’amazzone, una gamba per lato, scalerò una montagna, nuoterò nell’oceano nuda, da un punto in cui nessuno potrà vedermi. E poi…
- Questo sarebbe un invito, Levy? – la interruppe lui, guardandola con uno strano lampo di serietà negli occhi.
Qualsiasi fosse il tipo di invito cui Gajeel si stava riferendo, Levy capì che li avrebbe accettati tutti.
- Una promessa. Non una richiesta. Una promessa. E poi, devo accertarmi che tu abbia davvero fatto le cose che mi hai raccontato, non ti pare? Sarebbe scortese da parte tua non darmene una dimostrazione.
Gajeel ghignò e scosse le spalle con noncuranza, accettando con facilità quella proposta tanto solenne quanto inauditamente priva di logica. – Quello che vuoi. Faremo quello che vuoi.
Levy sorrise ancora, annuì, e strinse la mano del ragazzo, sapendo che non aveva nessun senso ciò che stava facendo. Però non le importava. La sua vita non aveva avuto proprio alcun senso fino a quel momento, per lo meno non per lei. Che male ci sarebbe stato a fare, per una volta nella sua vita, una cosa corretta per lei e illogica per altri? Era la sua vita, ne aveva a disposizione solo una.
Non aveva alcuna intenzione di buttarla alle ortiche. Nemmeno per sua madre.
- Ma guarda che ore sono! – esclamò quando uno chaperon di guardia sul ponte annunciò ai passeggeri di prima classe che era quasi giunta l’ora di cena. – Devo andare a prepararmi e… anche tu devi, Gajeel.
Levy gli restituì il blocco delle canzoni scritte dal cantautore e riacquistò l’aria da nobildonna che indossava come uno scomodo vestito.
– Sai già dove dirigerti per l’incontro di questa sera? – domandò alzandosi e rassettandosi la gonna.
Gajeel la guardò dal basso, perso per un attimo nei giochi di luce che il sole calante intesseva nella sua chioma cerulea scompigliata dal vento. Levy era una creatura selvaggia, ogni cosa, ogni piccolo dettaglio in lei lo urlava. Un orlo della gonna mal piegato, i capelli ribelli nonostante le elaborate acconciature, gli occhi guizzanti e dinamici, bramosi di fare, la cintura di gioielli cascante o il cordoncino della collana in bella vista sulla gola invece che dietro al collo.
- Lo so, Levy. Vai a prepararti, non vorrei mai che ti scambiassero per una passeggera di terza classe. Ne hai tutta l’aria.
Lei gli lanciò un’occhiataccia prima di aprirsi in una risata sincera e spensierata.
- Ci vediamo presto?
E sembrava una supplica.
Gajeel annuì, serio e impassibile, e si alzò sovrastandola.
- Ci vediamo presto.
Ed era una promessa.
 
- Gajeel fermati ti prego, mi duole la pancia dalle troppe risa – implorò Levy dopo l’ennesimo giro di ballo senza senso o ritmo in cui il ragazzo l’aveva trascinata.
- Mi duole la pancia – la scimmiottò il ragazzo, ridacchiando. – Ma sentila, Lily, questa nobiletta che vuole parlare forbito.
Gajeel e Lily, un armadio di uomo di carnagione scura che l’aveva paralizzata dalla paura a prima vista, scoppiarono a ridere, facendo infuriare Levy.
La ragazza smise di ridere e gonfiò le guance in un gesto indispettito. – E come dovrei dire, di grazia?
- Che ti stai sganasciando, scompisciando, pisciando addosso dal ridere – la corresse Gajeel passandole un braccio attorno alle spalle, facendo ridere anche gli altri compagni di camerata al loro fianco.
Levy si unì alla risata e inspirò a pieni polmoni quell’aria pregna di legno scadente, alcol e fumo che le dava alla testa. In modo del tutto positivo.
La cena si era trascinata tranquillamente e senza intoppi, almeno finché sua mamma non aveva deciso di umiliare Gajeel di fronte a tutto il tavolo di uomini e donne influenti.
Il ragazzo era riuscito a rimediare un completo elegante da un’amica di Levy, una signora imponente dell’alta borghesia che si era arricchita con il commercio del pesce e ora con i suoi soldi faceva invidia anche agli storici nobili che sedevano a tavola come se quel posto fosse loro dovuto dal retaggio del loro sangue da ereditieri. Una goccia del loro sangue non valeva proprio nulla in confronto alla bontà e alla schiettezza di quella buona donna. Zeref non aveva nemmeno riconosciuto Gajeel quando, vestito di tutto punto e atteggiato da riccone, l’aveva salutato con un cenno della testa.
Interdetto, Zeref aveva risposto stoicamente al saluto ed era passato avanti, sottobraccio con la suocera, la madre di Levy dall’espressione arcigna.
Poi era arrivata lei, il suo angelo dai capelli blu in un vestito rosso attillato, che la rendeva ancora più slanciata e attraente.
Gajeel sarebbe rimasto a guardarla per ore, perso in quegli occhi ambrati, se lei non avesse riso per poi trascinarlo via sottobraccio. Il ragazzo non aveva fatto altro che osservarla per tutta la serata, mentre lei lo aiutava a distanza a destreggiarsi tra tutte quelle posate inutili e quei piatti dalle porzioni ridicolmente minuscole che probabilmente valevano più di quanto avrebbe guadagnato in una vita intera.
Nessuno comunque si era scomposto o era sembrato schifato quando la Sig.ra McGarden aveva messo in evidenza la sua posizione sociale relativamente bassa. Gajeel incuteva timore e rispetto a causa del suo aspetto così rude e severo, ma al tempo stesso sembrava riuscire benissimo a passare per un affiliato al loro mondo grazie alla conoscenza accumulata come giramondo.
A fine serata si era congedato, non prima di aver fatto avere a Levy un invito ufficiale, vergato in una rapida e frugale calligrafia, ai bassifondi di quella nave da sogno.
- Le feste di terza classe sono decisamente più… briose di quelle di prima classe! – aveva dovuto ammettere quando Gajeel, presala sottobraccio, l’aveva scortata in gran segreto nel salone scarno e triviale.
La musica, suonata da un gruppetto sparuto di musicisti improvvisati, era incalzante e riempiva ogni angolo del piccolo locale. La birra da due soldi scorreva a fiumi, colava per terra e si mescolava al sudore degli uomini e delle donne che, spesso sporchi e vestiti con semplici canotte da lavoro, bevevano, ridevano, mangiavano e ballavano.
Gajeel non era sembrato a disagio quando Levy aveva strabuzzato gli occhi alla vista di quella baldoria senza ordine. L’aveva accolta come una di loro e l’aveva fatta sentire a suo agio quanto lei aveva fatto sentire lui al suo posto, durante la cena. Pantera Liliano, l’amico di viaggio di lunga data di Gajeel, di origini italiane, era stato la prima conoscenza che Levy aveva fatto.
- Se sorpassi indenne questa, il resto delle nostre avventure sarà una passeggiata – le aveva sussurrato Gajeel quando si erano avvicinati ad un muro umano.
Un uomo con cortissimi capelli neri come la notte e occhi dello stesso colore scuro, di cui il sinistro solcato da una chiara cicatrice a mezza luna, li aveva osservati con sguardo arcigno. Più di quello di Gajeel. Era un tipo abbronzato, muscoloso, rispettabile e… gentile.
- Così è lei la donzella di cui non fai altro che parlare. A causa sua mi sta assillando, signorina, glielo confesso. Ma sono lieto di poter fare la sua conoscenza – le aveva detto, sostituendo il cipiglio e la netta riga affilata della bocca con un sorriso caloroso e una poderosa stretta di mano.
La ragazza, vinta la paura, aveva riso notando un leggero rossore sulle gote di Gajeel, che aveva spintonato l’amico scherzosamente.
- Piantala di parlare come un fesso dell’alta società.
- Sto solo cercando di far sentire Miss McGarden a suo agio. Le sto mostrando che non tutti i passeggeri di terza classe sono maleducati e astiosi come te.
Levy era scoppiata a ridere e, afferrata una birra trasportata su un vassoio improvvisato da un passeggero, aveva bevuto più metà pinta in un sorso. Sotto allo sguardo esterrefatto dei due uomini, si era asciugata la bocca con il dorso della mano e poco ci era mancato che ruttasse sonoramente.
- Chiamami Levy, Liliano.
- Chiamami Lily, Levy.
La ragazza era poi stata seppellita in un abbraccio da orso da parte di quel gioviale e cordiale uomo che non faceva altro che far volontariamente ingelosire Gajeel, costringendolo a rapirla per allontanarla da lui.
Avevano ballato, riso, bevuto, e persino quando si erano stretti l’uno all’altra per via del ballo o della calca, Levy si era sentita a casa, non a disagio.
Nel giro di poche ore aveva capito come il calore umano stesso possa essere considerato una dimora, un luogo a cui tornare, e aveva realizzato che per lei Gajeel avrebbe sempre significato più di un passeggero che, in nave, le aveva salvato la vita. Avrebbe sempre significato libertà.
Libertà e amore. Libertà di amare e di vivere.
Libertà di essere se stessa.
Quando tornò al presente, Levy sentì il braccio di Gajeel sulle sue spalle in ogni contatto della loro pelle. Si perse la battuta di Lily, occupata com’era a congetturare su come sarebbe stato poterlo toccare ancora di più, ma rise lo stesso, imitata da Gajeel.
- Sarà meglio che ti riporti in cabina ora, Levy. Non vorrei che Zeref ti desse per dispersa e mandasse qualche guardia del corpo extrapagata a cercarti.
Il volto di Levy si adombrò all’istante sentendo nominare il suo fidanzato. Probabilmente Zeref la stava attendendo in camera per comportarsi con lei come avrebbe dovuto fare solo un uomo sposato con la propria moglie. Ma quelle pratiche prive d’amore rientravano integralmente nel pacchetto prematrimoniale per accaparrarsi i soldi del suo fidanzato.
No, non sarebbe andata in nessun’altra cabina ad eccezione della sua, quella notte. Era libera, seppur per poco.
- Non serve che mi accompagni, Gajeel. Potresti cacciarti nei guai. Ti ringrazio per la serata, non mi sono mai divertita così tanto, te lo assicuro. E grazie per tutto, Lily, ti assumerei come chaperon personale se non sapessi che uno spirito come il tuo non può essere incatenato.
- Per te farei un’eccezione con tutto il cuore, mia cara Levy. E, ti prego, sii meno amabile, o finirai per spezzare moltissimi altri cuori oltre a quello del mio amico qui presente.
Gajeel ringhiò e gli si avvicinò con tutta l’intenzione di scatenare una rissa, ma Levy rise e lo interruppe. – Non è colpa mia Lily, è Cupido che scocca le sue frecce in modo del tutto casuale e spesso bastardo.
- Ci vediamo domani? – le chiese al volo Gajeel, fermandola per il polso.
Levy tentennò, ma non ebbe alcun dubbio quando gli occhi del ragazzo si incatenarono ai suoi nel più dolce e desideroso dei modi.
- Certo. A domani. A domani…
La sua fuga si portò via l’eco di quelle parole in mezzo al marasma di corpi, musica e luci soffuse.
Aveva fatto troppe promesse quel giorno, e altrettante ne aveva pretese.
Sperava solo che quell’illusione non svanisse tanto presto da lasciarla inerte nel suo oscuro alito di esistenza.
 
 
- Gajeel, smettila, non è opportuno ciò che stiamo facendo.
- Stiamo parlando, Levy, solo parlando! – sibilò lui, irritato.
Approfittando di un momento di distrazione di Zeref, il giorno dopo, Gajeel aveva incantonato Levy in un angolo e la stava occultando alla vista con il suo corpo. La posizione era quanto di più equivoco potesse esserci, ma loro si stavano effettivamente solo sfiorando.
Era stato allora che Levy l’aveva spinto via, intimandogli di non farsi più vedere.
- Non possiamo parlare. Io sono fidanzata e tu sei un passeggero di terza classe. Capisco che quest’avventura con me possa dare una scintilla di eccitazione alla tua vita, ma…
Gajeel rise con cattiveria. – Alla mia vita? Levy, quella che ha vissuto per la prima volta, ieri sera, sei tu, non io. E quest’avventura, come la definisci tu, non dà un tocco d’eccitazione alla mia vita solo perché tu sei una riccona le cui scarpe più scadenti valgono più del mio patrimonio di trent’anni, ma perché tu sei tu.
Gajeel lasciò che le sue parole si sedimentassero nel suo cervello, in modo che non le scordasse mai.
In modo che non scordasse mai quanto lei, in quanto Levy, fosse speciale. Non per i suoi soldi.
Le prese la mano e intrecciò le dita alle sue, non come il giorno prima, quando le aveva chiuso la mano nella sua mentre lei studiava le sue canzoni. In modo disperato, facendole capire che ora che l’aveva vicina non l’avrebbe mai più lasciata andare.
- Se fossi stata più povera di me, la luce che hai negli occhi non sarebbe stata diversa. Ed è quella luce che mi calamita come una falena di notte. Non lasciare che loro te la spengano, che la soffochino, Levy. Non lasciarglielo fare, o la ragazza di cui mi sono innamorato morirà sul ponte di questa nave senza mai aver vissuto.
A Levy si bloccò il respiro. Non aveva nemmeno la forza per stringere i denti e dimostrare che si sbagliava, perché mentire richiede forza, una forza che lei in quel momento non aveva.
Sentiva ancora la mano rude di Zeref sul viso, da quella mattina. Le mani di sua madre che le stringevano con disgusto e delusione il corpetto, fin quasi a farle male.
Lei non apparteneva al mondo di Gajeel. Poteva fingere per una notte, ma nessuno gliene avrebbe perdonata una seconda. Doveva tornare alla realtà e recitare il ruolo per il quale era nata.
- Devo andare, lasciami – gli intimò in un soffio.
- Promettimi che starai bene – la implorò lui, afferrandole il polso quando lei riuscì a liberare la mano dalla sua stretta.
- Non sono affari che…
- Promettimi che starai bene! – ringhiò.
La disperazione con cui le scavava l’anima le impedì di avere paura. La sua era una rabbia diversa da quella di Zeref. La sua era una rabbia che nasce dall’amore, non dall’arroganza, e quel tipo livore non può mai far male.
- Non sono così sciocca da fare promesse che non posso mantenere – gli confidò con le lacrime agli occhi.
- Allora permettimi di mantenere le mie!
- Lo hai fatto. Ieri sera mi hai fatta vivere. Ora lasciami andare, Gajeel. Sopravvivrò.
Senza attendere una risposta, si liberò dalla sua stretta e si rifugiò in un salone a cui a lui era precluso l’accesso.
Ci vollero diversi minuti perché si rendesse conto che quella storia era realmente finita, o forse non era mai iniziata.
Scuotendo la testa, si incamminò dalla parte opposta, con l’impressione di avere un macigno di piombo al posto del cuore.
 
Il ruggito del vento lo aiutava a non pensare.
Quel tardo pomeriggio era per lui l’unico conforto di tutta la giornata. Era rimasto fermo per ore sul parapetto più distante della nave e gli sembrava che i suoi arti si fossero fossilizzati fino a diventare cavi d’acciaio appartenenti alla nave stessa. Ma poco gli importava.
Non poteva essersi innamorato di quella ragazza a tal punto. Non poteva aver perso la testa tanto da pensare che la sua vita sarebbe stata vuota da quel momento in poi. Doveva dimenticarla e andare avanti, basta. Il fatto che lei avrebbe fatto lo stesso, magari con un po’ di brio in più, era l’unica cosa che lo aiutava a concentrarsi sul suo futuro.
Levy aveva rimuginato sugli stessi pensieri tutto il giorno, sforzandosi di vivere mentre partecipava ai pettegolezzi in voga nella prima classe. Ma il tè era scialbo e lasciava un cattivo gusto in bocca, le chiacchiere delle signore del suo rango le parevano solo volgari parole pronunciate solo per insozzare l’aria con del fiato pesante e tutto quel lusso sembrava solo una pacchianeria umiliante.
Non avrebbe trascorso così la sua vita. Non poteva.
Ciò che aveva ricevuto era un dono e il semplice fatto che non avesse chiesto lei di nascere le dava il diritto di scegliersi la sua strada.
Impiegò quasi un’ora per trovarlo, e quando ci riuscì tirò un sospiro di sollievo, sorrise e si sentì di nuovo completa. Era come se una fiamma prima sopita si fosse di nuovo accesa grazie alla vicinanza di Gajeel.
- Ciao… - salutò sommessamente, parlandogli alle spalle.
Levy pensava che il vento impetuoso avrebbe portato via le sue parole come una manciata di foglie secche, ma il ragazzo che teneva in mano l’orizzonte sussultò e si voltò lentamente, in volto quell’espressione seria che Levy aveva imparato a conoscere in soli due giorni.
In mano reggeva il quadernino delle canzoni e una matita, ma incastrò entrambe nel retro dei pantaloni quando si accorse di chi fosse la sua interlocutrice.
- Scrivevi? Posso capire come mai questo posto ti dia l’ispirazione – azzardò Levy, avvicinandosi a lui e appoggiando gli avambracci sul parapetto.
Avrebbe dovuto sentirsi a disagio, per mille validi e disparati motivi, ma la vicinanza e la mole imponente di Gajeel, che la sovrastava anche troppo, le davano solo un familiare senso di sicurezza e serenità.
- Come mai qui? – esordì lui, ignorando i suoi commenti.
Il suo tono era piatto, ma Levy non riuscì a percepire alcuna traccia di rancore, irritazione o astio. Era solo il modo del ragazzo di esprimere curiosità.
- Mi sentivo soffocare e… avevo bisogno di un po’ d’aria.
- Oppure ti sentivi morire e avevi bisogno di uscire per vivere un po’.
Levy sorrise con tristezza a quell’asserzione, e annuì.
Restarono in silenzio per un po’, a scrutare l’orizzonte aranciato che si specchiava nelle acque limpide dell’oceano, persi nei pensieri che in silenzio condividevano, anche se in modi diversi.
Spalla contro spalla, non sentivano la benché minima traccia di freddo e per loro il tempo sembrava essersi cristallizzato in quell’attimo eterno.
- Vieni qua – la chiamò Gajeel ad un tratto, rompendo l’incantesimo. Dopo essersi assicurato che non ci fosse nessuno nei paraggi, cosa alquanto possibile visto la bassa temperatura, le prese la mano e, scostandosi dal parapetto che terminava in una punta orientata verso il sole al tramonto, fece mettere Levy davanti a sé.
- Chiudi gli occhi – le sussurrò, il corpo premuto contro la sua schiena e le labbra a sfiorarle l’orecchio.
Il brivido che percorse Levy da capo a piedi non aveva nulla a che fare con il freddo.
La ragazza obbedì e annuì per comunicargli che poteva procedere.
- Metti il piede sul primo piolo. Piano… così, brava. Non sbirciare.
Levy ridacchiò mentre eseguiva i comandi, salendo lentamente sul parapetto, fino ad avere i piedi totalmente staccati da terra, sul secondo piolo. La mano di Gajeel sopra la sua le infondeva stabilità e la solidità del suo corpo contro il suo le dava coraggio.
- Ora dammi le mani…
Lentamente, dopo essersi accertata di avere Gajeel immobile dietro di sé, Levy staccò le mani dal parapetto, sentendosi ondeggiare a causa del vento. Ma subito le mani forti del ragazzo furono sulle sue, le dita intrecciate come corde strette con il nodo più duraturo.
Levy sentì che Gajeel si sistemava alle sue spalle, prima di salire anche lui sul parapetto. Erano entrambi staccati dal pavimento del ponte.
- Okay, ora… apri gli occhi… - le sussurrò gentilmente lui, direttamente all’orecchio.
La ragazza sbatté le palpebre alcune volte, per riuscire a focalizzare la vista e rendersi conto di ciò cui Gajeel la stava facendo assistere.
Levy stava fluttuando sull’orizzonte, senza catene né vincoli, libera e leggera con solo il corpo di Gajeel a ricordarle dove fosse. Da così in alto, esposta al vento ruggente che le faceva lacrimare gli occhi, Levy si sentiva invincibile, senza tempo, senza limiti. Davanti a lei, solo l’orizzonte. Ai suoi lati, solo l’orizzonte.
E dietro di lei, solo Gajeel, che le aveva dato la libertà dell’anima.
- Sto volando! – disse con voce estasiata ma fioca. – Sto volando, Gajeel! Sto volando! – esclamò poi, ridendo e sentendo che le lacrime di gioia si mescolavano a quelle causate dal freddo.
Gajeel ridacchiò e, a conferma della sua esclamazione, si mise ad ululare la sua gioia.
Alla fine risero entrambi, l’uno stretta all’altra, finché Levy, con le braccia allargate come ali pronte a spiccare il volo, sospirò. Abbassò gli arti, portando con sé quelli di Gajeel, le cui mani erano ancora incatenate alle sue, e li intrecciò sul suo grembo in una specie di doppio abbraccio: il suo nei confronti di se stessa, e quello di Gajeel.
Voltando il viso, Levy non scorse più l’acqua che veniva placidamente trafitta dai rotori di quella titanica nave, ma gli occhi rossi di Gajeel che la squarciavano dentro allo stesso modo, sbriciolando in frammenti simili a polvere quella corazza di nobiltà che aveva indossato come un corpetto, per poi resuscitare quelle briciole in una nuova vita.
Una fenice. Ecco in cosa l’aveva trasformata Gajeel.
Senza pensare, Levy fece l’unica cosa che sentiva giusta in quel momento. L’unica cosa giusta della sua vita: si sporse e baciò Gajeel come se fosse la cosa più naturale del mondo, come due amanti che si trovano dopo lungo tempo, come due amici intimi che, a distanza di anni, quando si rivedono riprendono esattamente da dove avevano interrotto la loro relazione, senza vergogna o imbarazzo, ma con semplicità e naturalezza.
Gajeel lasciò le sue mani per stringerle la vita, in un tentativo di stabilizzare entrambi in quella posizione precaria e di spingere ancora di più la giovane contro di sé. Levy alzò un braccio e afferrò dolcemente la chioma del ragazzo, affondando le mani nei suoi capelli per cercare un contatto maggiore, più profondo, più intimo.
Si baciarono per attimi interminabili, sentendosi come un neonato che respira per la prima volta, come un affamato a cui viene offerto cibo, un assetato di fronte ad acqua fresca o come un peccatore cui viene assicurata la redenzione.
Erano vivi, resi tali grazie all’amore.
Levy pianse, ringraziando il cielo per quell’immensa fortuna, l’unica della sua vita, e ringraziando Gajeel per non aver rinunciato a lei. Ringraziandolo per averle offerto una possibilità, una vita.
Sorrise contro le sue labbra, sentendolo sorridere a sua volta, capendo che, se fosse crollato il mondo in quel secondo, se fosse morta in quel preciso istante, la sua vita avrebbe avuto senso solo per quel momento.
Quell’istante fugace che, mediante il contatto di due anime sole, aveva ridato il colore alla sua nera esistenza.
 
- Di qua, di qua! – la incitò Gajeel, trascinandosi dietro una ridente anche se spaventata Levy.
La ragazza l’aveva portato nella sua cabina nel tentativo di farsi dedicare una canzone d’amore senza tempo, senza confini e senza limiti subito dopo il bacio. Da quel momento, non si erano mai lasciati la mano.
Levy non si era mai divertita tanto, e mai emozionata tanto. Disturbare Gajeel mentre componeva un “pezzo d’arte udibile”, come lui aveva definito la sua nuova poesia in musica, era un vero spasso. Vederlo irritarsi e perdere la pazienza, per poi riguadagnarla e ridacchiare quando i suoi occhi incontravano il volto spensierato e acceso di Levy, era una cosa esilarante.
Alla fine, per riuscire a lavorare, l’aveva presa per il polso, se l’era tirata addosso e l’aveva baciata con un trasporto da far invidia ai motori nuovi di zecca del Titanic, che non avrebbero avuto la foga e la forza di Gajeel nemmeno se spinti al loro massimo, tutti insieme. Leggermente stupita, quando Levy aveva iniziato a rispondere al bacio Gajeel si era scostato, si era asciugato le labbra e le aveva ammiccato con sguardo serio.
- Non ne avrai altri finché non sarà finita la canzone – l’aveva informata, tornando a lavorare.
Levy, basita e offesa, si era allontana leggermente alla ricerca del suo battito cardiaco e del suo respiro, realizzando lentamente le sue parole.
- E… quanto ti manca…? – aveva chiesto con nonchalance, terrorizzata all’idea di dover restare troppo tempo lontano da quella dipendenza che erano le labbra calde e avvolgenti di Gajeel.
Il ragazzo l’aveva ignorata per alcuni secondi che alla ragazza erano parsi un’eternità, poi aveva ghignato con soddisfazione e, gettando via il libretto con le sue canzoni, si era ripreso Levy e aveva continuato da dove aveva bruscamente interrotto il bacio.
Diverso tempo dopo Gajeel aveva iniziato a mettere in musica la canzone, uno spettacolo unico al mondo cui Levy non avrebbe mai pensato di poter assistere. Il modo in cui corrugava la fronte quando un accordo saltava, arricciava le labbra quando non era soddisfatto o annuiva con convinzione mentre prendeva appunti direttamente di fianco e sotto al foglio della canzone le fecero capire quanto fosse illogico definirsi innamorata di un uomo dopo a mala pena due giorni di conoscenza.
E le confermarono quanto profondamente lo fosse.
Levy non sentì mai quella canzone, però, perché un vociare infastidito li aveva avvertiti dell’arrivo di ospiti indesiderati. Veloce come il vento, Gajeel aveva rimesso a posto lo strumento musicale allungatogli da Levy, aveva nascosto nelle pieghe dei pantaloni il suo quadernino e aveva trascinato via la ragazza.
Gli scagnozzi di Zeref però non erano facili da fregare, così come Zeref stesso. Senza nemmeno rendersene conto avevano finito per giocare al gatto e al topo per tutta la nave, i due piccioncini e le guardie del corpo decisamente troppo pagate.
- Corri Levy, corri! – la supplicò di nuovo Gajeel, ridendo per allentare la tensione.
Arrivati all’ennesimo svincolo, il ragazzo si fermò, facendo sbattere Levy contro di sé. I loro inseguitori continuavano a guadagnare terreno a causa della gonna della ragazza, ampia ma decisamente non adatta alle corse. Rallentata da quel fastidio, la giovane faceva fatica a correre, e il suo fiatone ne era la prova.
- Gajeel cosa… così ci prenderanno – gli disse, in affanno.
In risposta, il ragazzo le diede la schiena e si abbassò un poco, allungando le braccia dietro di sé, verso di lei. – Sali – comandò.
Di nuovo, Levy obbedì senza fiatare, mossa dal suo corpo più che dalla sua volontà, dall’istinto più che dalla logica, proprio com’era accaduto sul ponte della nave.
Appena Gajeel le ebbe afferrato saldamente le gambe, corse via a velocità doppia rispetto a prima, senza sentire la fatica e senza quasi rendersi conto del peso di Levy contro di sé.
La ragazza, prima impaurita e poi stupefatta, iniziò a ridere per quella situazione assurda e gli indicò una porta che si stava chiudendo in quel momento e che conduceva alla sala macchine. Gajeel ci si fiondò come se Levy avesse dato il comando direttamente ai suoi muscoli.
Diversi minuti dopo, esausti e accaldati, i due scoppiarono a ridere e si infilarono nella stiva della nave, diversi gradi più fredda della sala macchine.
- Dici che qui ci troveranno? – indagò Levy osservando quell’ambiente bianco dove bagagli e vetture sembravano accatastati alla rinfusa.
Gajeel grugnì e scosse la testa. – Dubito, non ci hanno visto svoltare.
Levy annuì in silenzio e mollò la sua mano, dirigendosi verso una piccola macchina nuova, una di quelle che l’avevano portata fino all’imbarco.
Sorridendo felice, ne aprì la portiera e salì sul retro mentre Gajeel, in silenzio, si immedesimava nel ruolo di accompagnatore e saliva davanti.
- Dove la porto, signorina? – le chiese con voce ruvida, non proprio tipica dei tassisti di professione.
Levy abbassò il vetro che isolava la carrozza posteriore e si sporse verso Gajeel, appoggiando il mento sulla sua spalla. Finse di riflettere sulla risposta, e poi gli sussurrò: - Su una stella.
Ridendo, gli infilò le braccia sotto le ascelle e cercò di tirarlo indietro, dentro la carrozza con sé, fallendo miseramente a causa della differenza di peso.
Gajeel non ridacchiò come lei si era aspettata, ma si liberò dal suo abbraccio e si voltò autonomamente per raggiungerla, scavalcando il vetro che poi chiuse alle sue spalle.
L’ambiente era diventato improvvisamente stretto a causa della mole del ragazzo, rendendo difficile compiere anche i più semplici movimenti. A nessuno dei due però risultò difficile abbracciarsi e perdersi in un bacio dai mille sentimenti, lasciandosi affondare nei morbidi sedili della piccola vettura.
Levy chiuse gli occhi e desiderò che quell’attimo durasse per sempre. Dal momento che non era possibile, si ripromise di ricordarlo in eterno, secondo per secondo, come in un video scandito fotogramma dopo fotogramma.
- Non posso portarti su una stella, Levy – le rivelò Gajeel di punto in bianco, scendendo a baciarle il collo e stringendola fin quasi a farle male, come un salvagente in mezzo all’oceano.
Levy si scostò e, lentamente, iniziò a sciogliere i complicati nodi e intrecci di fiocchi che legavano il suo vestito. Si interruppe solo per togliersi le scarpe e poi, con gli occhi umidi, si liberò di ogni piccolo pezzo di stoffa che le copriva il corpo, insensibile al freddo, immune al tempo e inconsapevole dello spazio.
Gajeel bevve ogni suo movimento con il respiro bloccato, le palpebre severamente alzate e il cuore che sembrava volesse uscire il petto. Quando lei rimase nuda di fronte a lui, mostrandosi anima e corpo per ciò che era, lui continuò a scrutare i suoi occhi per paura di rompere quell’incantesimo.
Levy arrossì leggermente a causa del suo sguardo penetrante, ma non provò la benché minima vergogna quando salì su di lui e lo abbracciò, nascondendo il viso nel suo collo.
- Sei tu la mia stella, Gajeel. E ora, portami da te.
Fecero l’amore in silenzio, lentamente, mentre disperazione, amore, urgenza, desiderio, dolcezza, irruenza ed estasi si mescolavano insieme in un connubio che avrebbe fatto perdere i sensi e la cognizione della realtà a chiunque. Ma Levy assaporò ogni istante, senza perdere il minimo contatto dei loro corpi uniti, senza mai rimpiangere un gesto.
In quel momento, mentre amava Gajeel, amò se stessa, la sua insignificante vita e la sua esistenza. Amò quei diciassette anni di costrizioni e tormenti, perché l’avevano condotta a lui, l’uomo che le aveva dato la vita.
L’uomo che aveva dato un senso al suo passato. Al suo presente. E che le aveva offerto un futuro.
 
A distanza di ottant’anni, Levy ricordava ancora ogni particolare, ogni dettaglio di quelle brevi e intense giornate passate sul Titanic.
Con l’età i ricordi sbiadiscono, e le cose che giuriamo di non scordare mai sono in realtà quelle che, amaramente, ci abbandonano per prime.
Ma i ricordi di Gajeel, quei pochi che aveva, erano intatti, serbati nel suo cuore invece che nella sua memoria, e Levy attingeva ogni giorno a quella fonte d’amore che le aveva dato la forza giorno dopo giorno.
Gajeel era morto poche ore dopo la loro unione. Poche ore dopo essersi promessi che sarebbero fuggiti insieme, che avrebbero avuto una vita insieme e che sarebbero stati felici, in povertà e in malattia, ma insieme.
Gajeel non aveva potuto tener fede a quella promessa, ma Levy lo aveva fatto per entrambi, ricordandosi di lui in ogni gesto, ogni mattina al risveglio e ogni sera prima di dormire, ogni volta che qualcuno la chiamava Sig.ra Redfox invece che Sig.ra McGarden.
Aveva vissuto per entrambi, nel miglior modo possibile, attraverso gioie e difficoltà, tristezza e libertà.
Ora, con il vento che le sferzava i capelli bianchi e sottili, sotto il chiaro di luna che a distanza di ottant’anni era esattamente come quello di quella notte di molti anni prima, Levy capì che era finalmente giunto il momento di riunirsi a lui.
In silenzio, come un fantasma che dice addio al mondo, tornò nella cuccetta della nave che l’aveva imbarcata, alla veneranda età di novantasette anni, per raccogliere informazioni sul Titanic. Aveva condiviso per la prima volta in vita sua le memorie di ciò che era successo, le memorie dell’uomo che aveva amato e che le aveva insegnato ad amare, le aveva rivissute, ed aveva capito che era giunto il momento.
Sistemandosi sotto le coltri gelide come la stiva della nave, quella volta in cui si era offerta a Gajeel, Levy chiuse gli occhi per l’ultima volta. Morì sorridendo, in silenzio, senza dolore, con il pieno appagamento che deriva dal vivere una vita senza rimpianti. Una vita dura che tempra l’animo e insegna a godere delle cose belle.
Il suo ultimo pensiero andò a Gajeel, e il suo volto si materializzò nella sua vecchia mente come in una foto. I suoi occhi rossi le fermarono il cuore come avevano fatto in passato, e nel suo ultimo respiro Levy lo vide allungare una mano verso di lei.
E lei la strinse senza indugio.
 
- Sei arrivata, finalmente.
- Scusa se ci ho messo tanto.
Il ragazzo scosse la testa. – Ci hai messo il giusto. Ne è valsa la pena?
Levy sorrise e le lacrime le bagnarono le labbra, un riflesso di quelle che solcavano le guance di Gajeel.
- Sì. Ne è valsa la pena.




MaxB
Come per Mulan, vi prego di non uccidermi. Ho tantissime cose da dire e spero di essere breve.
Questo capitolo è uno di quei progetti che mi sorprendono. Mi era stato suggerito in una recensione da Pink Sweet (ciao cara :3) e l'idea mi ha subito colpita al cu0re.
Per confermarmi che era proprio un buon esperimento, nel giro di una settimana mi sono beccata due volte Titanic su Sky, per pure caso, ed ecco perché i dialoghi solo pressoché identici.
Era un capitolo che mi prendeva, che sentivo, ma che non decollava, testimoni le due settimane di assoluta distanza dal PC per mancanza di tempo o paura di questo piccolo mostriciattolo. Perché le storie mordono. E infine, più di metà capitolo scritto in due sere, tra ieri e domenica, complici i feels per la fine di FT, l'amore di Gajeel e Levy, una buona stella e il desiderio ardente di tornare a condividere.
Non mi piace dirlo e non ne vado fiera, ma io sono orgogliosa di questo capitolo. E' l'unica mia creazione ad avermi commossa mentre la scrivevo.
Per questo motivo ho dovuto includere lo strazio finale, di Levy che muore che in qualche modo torna da Gajeel, perché far finire la storia dopo la loro unione non mi bastava. E ho pianto ancora prima di scrivere le ultime righe.
Avevo anche pensato di farlo finire bene, di dare un futuro a questi due, ma non sarebbe stato rispettoso nei confronti di questo splendido film, che ho imparato ad apprezzare sul serio solo da poco.
Concludo dicendo che spero che vi sia piaciuto questo piccolo lavoro. A me è piaciuto scriverlo.
FT è finito e non sono ancora pronta per parlarne, ma di una cosa sono certa: è finito il manga, ma non le storie che esso reca con sé.
Alla prossima (vicinissima) avventura, nakama,
MaxB

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