Guiding Light - La vera Afire Love

di Sea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** XIII ***
Capitolo 15: *** XIV ***
Capitolo 16: *** XV ***
Capitolo 17: *** XVI ***
Capitolo 18: *** XVII ***
Capitolo 19: *** XVIII ***
Capitolo 20: *** XIX ***
Capitolo 21: *** XX ***
Capitolo 22: *** XXI ***
Capitolo 23: *** XXII ***
Capitolo 24: *** XXIII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Guiding Light
La vera Afire Love



Dedicata a FaithBoss e Nirai1235







Prologo
 





Piano.
Piano.
Così si era svegliata.
Nessun torpore la avvolgeva, nessun malessere.
Riuscì a distinguere il primo raggio di luce che le attraversava gli occhi e poi – piano – il soffitto della stanza.
Forse la sera prima avevano bevuto un po’ troppo, forse la passione era stata troppo travolgente durante la notte.
  • Eccola, si sveglia.
Non credeva che avessero ospiti. Stuart doveva disturbarli anche durante il loro anniversario?
Mentre riprendeva coscienza il battito accelerò, aiutando il sangue a riattivare i suoi muscoli e distinse il cuore premere contro il petto in modo piacevole. Diamine, dovevano averci dato proprio dentro se si sentiva così dolorante.
Un momento. Edward era sveglio? Di già?
Inspirò, sentendo nell’aria un profumo poco familiare, quasi fastidioso. Le ricordava qualcosa di spiacevole. Per capire cosa fosse, decise di sbrigarsi ad aprire gli occhi.
Mise a fuoco il soffitto, ma non lo riconobbe. Batté le palpebre ripetutamente, cercando di scacciare le lacrime che le bagnavano gli occhi ad ogni risveglio, ma non riuscì a capire. Il soffitto della loro camera d’albergo non era di quel colore così spento.
La luce dei neon che la sovrastavano non era quella soffusa delle lampade dalla luce giallastra che dovevano circondare la stanza.
  • Il battito è regolare.
Avete presente le presse? Quelle che schiacciano le cose fin quando è possibile? La sensazione che le prese il petto era così: ne uscì tutta l’aria in un istante, come se stesse precipitando e un conato di vomito la fece del tutto ridestare.
Sbarrò gli occhi, guardando gli angoli del soffitto. Dove si trovava?
Il respiro che accelerava faceva rumore, mentre tastava le lenzuola sotto le dita, sentendole ispide.
  • Edward? – cercò di dire, ma il suono rauco e lieve della sua voce la fece definitivamente atterrire.
Cercò di alzare la testa per guardarsi intorno, ma non ci riuscì e un forte dolore al collo la fece arrendere immediatamente. Cosa stava succedendo? Dov’era Edward? La paura le faceva mancare l’aria e i suoi occhi correvano impazziti, ma non riuscivano a vedere altro che il soffitto.
  • Sta tranquilla, va tutto bene. – la voce di un uomo che non conosceva.
Il cuore sembrava volerle uscire dal petto, rendendosi conto di non essere nella stanza dove la sera prima era andata a dormire con suo marito. Dov’era Edward?
  • Tesoro, la mamma è qui. – la voce tremula di sua madre? Perché? Come faceva ad essere dall’altra parte del mondo in così poco tempo?
  • Sara, fa un bel respiro. – Chi erano le persone di cui sentiva le voci?
I pensieri cominciavano a confondersi e quasi la vista le si annebbiò, perché non riusciva a vedere altro che quel maledetto soffitto. Dov’era Edward?
  • Edward! – cercò di alzare la voce, ma nessuno le rispose.
  • Dottore…perché fa così?
E allora, per un momento, smise di essere cosciente. Il panico aveva del tutto messo fine alla sua razionalità, impedendole di pensare ad nient’altro che quella parola.
Dottore.
Dottore.
Era in ospedale? Come? Perché? Dov’era Edward?!
D’un tratto quell’odore divenne fin troppo pungente: disinfettante.
Le lacrime le riempirono gli occhi e cercò con tutte le sue forze di alzarsi, sentendo l’aria sibilarle in gola. Quando riuscì ad alzare il collo, il viso di sua madre le sembrò diverso. I suoi capelli erano lunghi, le rughe meno marcate.
  • Sta tranquilla, tesoro, uhm…Edward sta bene. – la sua voce era incerta. Come se le stesse raccontando una bugia del tutto improvvisata. Ma le credette.
Se Ed stava bene poteva stare tranquilla, ma continuava a non capire cosa fosse accaduto. La sera prima erano rientrati dalla cena e lui l’aveva presa in braccio per entrare in casa. Ricordava il sapore del vino che avevano bevuto e il momento in cui lui le sbottonava il corpetto dell’abito, accanto al letto. Ricordava il sesso.
Come avevano fatto a finire in ospedale?
  • Mamma! – la chiamò, disperata per la difficoltà nel riuscire a ricordare. Sua madre le prese la mano. – Cosa è successo?
  • Sta tranquilla, va tutto bene. È normale che tu sia agitata, ti sei appena svegliata.
  • Ma cosa…? – la guardò meglio, cercando di capire perché le sembrasse così giovane. – Dov’è Edward?
Sua madre, come improvvisamente consapevole della sua domanda, lasciò cadere l’espressione, appianando le poche rughe, trasmettendole qualcosa che di certo non la rassicurava. Cos’erano, impazziti? Se era successo qualcosa ad Edward dovevano dirglielo! Perché erano in ospedale?
Le lacrime cominciarono a strabordare dai suoi occhi, incontrollate.
  • Mamma… - la pregò ancora. – Ti prego, rispondimi.
  • Sara, - si intromise il medico – sei appena uscita da un coma, è normale che tu sia confusa.
Quella voce fredda e atona quasi prese vita e le strinse le mani alla gola. L’aria non entrava più nei suoi polmoni, i muscoli tesi si bloccarono, come ghiacciati. La testa le vorticò e le formicolavano le mani. Cercava di capire come fosse possibile che fosse uscita da un altro coma. Dov’era Edward?
  • Sta tranquilla, tesoro. – riprese sua madre. – Cerca di rilassarti. Guarda, c’è anche Dario.
Seguì il suo dito con gli occhi, puntandoli poi sulla porta della stanza. Appoggiato allo stipite c’era un ragazzo. Lì per lì non lo riconobbe, ma lui le sorrideva in un modo che non poteva aver davvero dimenticato. L’uomo che la guardava a distanza, alto, gli occhi castano-verdi, prese il posto di tutte le spiegazioni di cui aveva bisogno, sostituì tutte le parole che voleva sentir uscire dalla bocca di sua madre. Quella presenza la spinse a guardarsi la mano sinistra, alla ricerca della sua fede, ma il suo anulare era nudo. Eppure ricordava la sensazione dell’anello. Quando tornò con gli occhi a lui e poi a sua madre che le sorrideva, capì.
E la consapevolezza fece più male di qualsiasi cosa l’avesse ferita in tutta la sua vita. La lama della realtà squarciava la tela di quelle che ora capiva essere illusioni. Com’era possibile? Non poteva essere vero. Non poteva.
La consapevolezza dell’assenza di Edward fu ancora più dolorosa quando Sara capì che l’uomo che la fissava spaventato dallo stipite della porta, era il suo fidanzato.













Note dell'autrice:



Bentornati...

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Capitolo 2
*** I ***




Capitolo I



 

A Nirai1235.

Ai nuovi inizi.









Il cuore le martellava nelle orecchie e non sentiva che quello, le voci ormai soffuse e lontane. Sentiva, ma non ascoltava. La mente era sospesa nel vuoto.
Gli occhi del suo fidanzato, svuotati dalla sua stessa consapevolezza, le mettevano un’angoscia senza limiti ed avevano un unico e solo significato: aveva sognato.
La sua vita era tutto d’un tratto un’enorme bugia. Non ricordava come fosse finita in ospedale, ma di lui si ricordava eccome. E se era Dario la sua realtà, se era lui l’ultimo con cui aveva fatto l’amore, l’ultimo che aveva baciato, l’ultimo a cui aveva promesso il suo cuore, allora tutto ciò che credeva fosse vero era soltanto una menzogna. Edward, il loro incontro, la loro storia, il loro matrimonio. Il sesso. Tutto quello non era mai accaduto? Tutto l’amore e la sofferenza e le gioie e i viaggi non erano mai esistiti. Lei, la persona che sapeva di essere, non esisteva. Edward, suo marito, il dolce e tenero Edward non era mai entrato nella sua vita.
Il peso di quella verità fu troppo difficile da sostenere e dentro, nella sua anima, le impalcature cominciarono a crollare. Dario sembrò leggere nei suoi occhi, aprendo la bocca in segno di sconvolgimento, ma non disse una parola.
Lui era il suo vero fidanzato. Quella era la realtà.
Si portò una mano alla bocca, bagnandosi le dita con le lacrime. Non potevano sapere cosa stesse accadendo nella sua testa, il suo dolore non faceva rumore, ma nel profondo della sua anima si era formata una crepa così profonda che tutte le sue lacrime non sarebbero mai bastate a riempirla. In un momento aveva perso la sua vita, la sua felicità, la sua identità. Chi era lei, a quel punto? Perché doveva accaderle questo? Perché l’amore della sua vita, l’unico uomo che avrebbe mai amato, doveva essere solo un sogno? Un sogno! Durante il coma!
Anna accarezzava la mano di sua figlia con sguardo impietosito e Sara la guardò, ritirando improvvisamente la mano, in un tentativo disperato di credere che tutto quello fosse un’illusione. Il calore delle mani di sua madre era così reale da bruciarle la pelle.
Sentiva l’aria che respirava come una cosa ripugnante e la forza di gravità come un pugno nello stomaco.
Sua madre la guardò, turbata dal suo comportamento, ma non vedeva che stava piangendo? Non capiva cosa stesse accadendo?
  • Tesoro, non-
  • NO! – urlò, risvegliando la sua voce – Lasciatemi stare!
  • Sara, calmati. – Dario si avvicinava al suo letto. – Siamo tutti qui, stai bene.
  • No… - sussurrò, più a se stessa che a loro, mentre si ritraeva sul letto, muovendosi nonostante i muscoli doloranti per la prolungata immobilità. - …andate via.
La guardarono come se fosse pazza. Non capivano che dal momento in cui aveva aperto gli occhi la sua vita era finita, non contava più nulla. Era inutile vivere senza Edward. Era inutile.
  • Signora, forse è meglio se ci lasciate soli. – disse il medico, il primo di cui aveva ascoltato la voce. Lo guardò, pregandolo con lo sguardo.
  • Ma dottore, abbiamo aspettato per mesi. – tentò Dario, ormai davanti a lei. – Posso restare almeno io?
  • NO! – urlò ancora, senza più avere il controllo di sé.
Tremava, seduta su quel letto scomodo, mentre delle mani cercavano di afferrarla. Non voleva nessuno, nessuno. Tutto quello era solo un incubo, Dario non esisteva.
  • Lasciate la stanza, per favore. – il dottore li invitò di nuovo ad uscire, prendendo il braccio di Anna e guidandola fuori, avendo fretta di tranquillizzare la paziente.
Non appena fecero il primo passo verso la porta si tranquillizzò, quasi quelle persone – che poi erano sua madre e il suo fidanzato – volessero portarla via per sempre. Dario continuò a cercare i suoi occhi, ma Sara era troppo distratta dal cercare la fede intorno al suo dito. Quando lasciarono la stanza e rimase sola con un secondo medico, quello le fece delle domande che non ascoltò. Riusciva soltanto a guardare il suo anulare, cercando con le dita qualcosa che non c’era. Poteva un’anima disintegrarsi? Lei credeva di sì, perché la sua si era distrutta in un attimo. Le lacrime bagnavano le lenzuola e si seccavano sulle sue guancie.
Non appena gli intrusi furono fuori, il medico le mise una mano sulla schiena e cominciò a massaggiarla. Finalmente lo guardò: un uomo giovane, capelli scuri e barba, lo sguardo luminoso e tranquillo di un trentenne. La mano calda le carezzava la schiena in modo circolare, eppure non riusciva a smettere di tremare. Tantomeno di avere paura.
  • So che sei spaventata, ma se provi a tranquillizzarti vedrai che le cose saranno più chiare.
Voleva rispondere e dirgli che non era pazza, che suo marito non esisteva più, che la sua vita era finita. Come se fosse morta e fosse in un'altra dimensione.
La paura che provava non era insensata e ancora doveva pensare a cosa avrebbe fatto da quel momento in poi, poiché l’unica sua preoccupazione, in quell’istante, era Edward. Che non c’era più. Si chiese se il medico o chiunque altro riuscisse a immaginare cosa stesse provando, se qualcuno avrebbe mai provato a comprendere il suo dolore fino in fondo. Lo sguardo dell’infermiera che le metteva la mascherina per aiutarla a respirare, le diede la risposta che cercava. I suoi occhi erano pieni di pietà e spavento. La paziente pazza credeva di essere sposata con un uomo splendido, peccato che non esistesse.
Per un attimo guardò in quegli occhi e non vi trovò alcuna comprensione, solo diffidenza e ribrezzo. La mano del medico continuava a sfregare sulla sua schiena e Sara cominciò a guardarsi meglio intorno, perché il dubbio che stesse ancora dormendo le sussurrava qualcosa all’orecchio, come se quello potesse essere solo un incubo. Le pareti della stanza quadrata erano bianche e sporche, il suo era l’unico letto e accanto al materasso c’erano diversi sgabelli, ora vuoti. Su uno di quelli, riconobbe la borsa di sua madre e il cappotto di Dario. Un altro conato.
Il filo della flebo era vecchio e ingiallito e il neon acceso sfarfallava di tanto in tanto. L’ossigeno puro che le entrava in gola le seccava le labbra, ma non riusciva a farla stare meglio. Per forza. Tutto quello non era vero, stava sicuramente sognando, per quello non smetteva di tremare mentre iniettavano il tranquillante nella sacca.
Il rumore di un clacson, proveniente dalla finestra socchiusa, la fece scattare e il medico sembrò spaventarsi al suo movimento improvviso. Fece intendere all’infermiera di chiudere la finestra.
  • Ti senti meglio? – le chiese.
Lo guardò e nei suoi occhi vide il suo riflesso. Finalmente lasciò stare il suo anulare e si portò entrambe le mani alla testa. Al suo matrimonio aveva i capelli lunghi, ma quando le dita toccarono le spalle, non trovarono altro se non il camice dell’ospedale. Abbassò lo sguardo su di sé e sentì la gola stringersi, mentre faceva salire le mani lungo il collo. Si fermò soltanto quando sentì i capelli all’altezza della mascella. Gli stessi capelli di quando aveva conosciuto Edward, quel giorno in città.
Forse glieli avevano tagliati, per facilitare le cose.
Un singhiozzo lasciò le sue labbra, troppo ferita dalla realtà.
Mentre si guardava le gambe, alla ricerca di un indizio, fece scivolare le mani fino alla fronte, ma aveva paura. Se la sua cicatrice non fosse stata lì, sarebbe potuta morire sul colpo. Mentre la mascherina si appannava ai suoi sospiri, strinse gli occhi e i denti, pregando Dio che quel dolore non la uccidesse, che quella non fosse la sua vita. Sentì le sopracciglia sotto le dita, poi la fronte e alla fine l’attaccatura dei capelli. Lì, dove quella ragazza l’aveva colpita con quella mazza, non c’era alcun segno.
Si pietrificò, sospendendo il respiro. Con la bocca aperta, l’aria la lasciava lentamente, fino a restare sospesa tra le sue labbra. Lo sguardo fisso nel vuoto, puntato nel nulla. Le mani che formicolavano.
Il dolore.
Le faceva male il cuore.
Aiuto. – pensò – Aiutatemi.
Non pensava a sua madre. Non pensava a Dario. Non pensava alla sua vita o a cosa stesse accadendo. Non sentiva la voce del medico o il rumore delle auto. Non sentiva l’ossigeno freddo uscire dalla bombola.
Vedeva soltanto la parete, bianca davanti a sé. Quello che vi vedeva sopra era tutto ciò che sapeva.
Qualcuno avrebbe potuto dire che quello fosse il giorno in cui la sua vita ricominciava, ma chi se ne importava. Quella non era la sua vita, non sapeva niente della ragazza che conoscevano.
Quello era il giorno in cui la sua vita finiva.

 
***
 
 
Il sedativo doveva essere davvero potente poiché, quando riaprì gli occhi e la luce non glieli ferì, si rese conto che fosse sera inoltrata. Per un attimo, mentre la coscienza tornava a funzionarle, aveva creduto di aver sognato e che Edward fosse steso accanto a lei, ma il colore smorto del soffitto le ricordò ogni cosa. Il dolore che sentiva al petto non tardò ad acuirsi, sempre più intenso di secondo in secondo.
Guardandosi intorno, riaprendo del tutto gli occhi, notò prima la sua cena – sicuramente fredda – posata sul mobile di fianco al letto e subito dopo, inaspettatamente, la figura silenziosa di Dario, che se ne stava col fiato sospeso sullo sgabello dall’altro lato del suo letto. Inalò rumorosamente l’aria, cercando di mantenere il controllo, ma la sua espressione doveva essere troppo eloquente. Sentì gli occhi divenire immediatamente lucidi, mentre lui faceva una smorfia di delusione. Aveva i capelli arruffati, contrariamente al solito. Il ciuffo che portava a destra, normalmente curato e della giusta lunghezza, era riportato verso l’alto, forse per qualche tic dovuto all’agitazione. Sotto ai suoi occhi scuri, due macchie violacee segnalavano la mancanza di sonno e sulle sue guancie, due lievi rientranze indicavano la scarsità di nutrimento. Nonostante ciò, nonostante le spalle curve, indossava una delle sue 40 camicie. Ricordare quel dettaglio e notare la familiarità della cosa, le fece voltare il viso dall’altra parte. Sara strinse le lenzuola tra le dita. Voleva restare sola.
  • Ciao, amore. – la cadenza napoletana fu un pugno nello stomaco.
Non rispose e perseverò nella sua osservazione dello spigolo del vassoio che sporgeva dal mobile, ancora distesa. Una lacrima scivolò sul cuscino.
  • Non ti ricordi di me? – chiese lui quasi in un sussurro, colpendola ancora, come se non fosse già abbastanza ferita.
Avrebbe voluto rispondere di no, mentre cercava di controllare il respiro. Calò il silenzio e pregò che andasse via presto. Non riusciva nemmeno a sentirsi in colpa per quel comportamento, nemmeno un piccolo rimorso, perché come si permetteva lui di piombare nella sua vita e pretendere il posto di Edward?
E fu allora che la realtà la investì definitivamente e strinse gli occhi, pregando che qualcosa cambiasse. Pregando che Edward esistesse.
  • Lei non può stare qui. – la voce ferma di una donna rimbombò nel silenzio della stanza. – La sta turbando. Esca, per favore.
Aprì gli occhi e una donna in camicie bianco, gli occhi velati da un paio di occhiali dalla montatura sottile e i capelli raccolti con una matita, superava l’ingresso e si avvicinava a lei, guardando Dario con sguardo severo e intransigente. I capelli color caramello le ricordavano una certa tonalità delle foglie di Central Park in pieno autunno.
  • Volevo solo parlare con lei. – rispose lui, quasi scocciato che i medici lo tenessero lontano, ma era troppo cieco per rendersi conto che lei voleva lo stesso.
  • Esca. – ribadì la donna.
Di scatto, Dario si alzò facendo stridere lo sgabello contro il pavimento. Sara continuava a non guardarlo, ma avrebbe scommesso la sua salute mentale che lui la stesse fissando. Riprese a respirare solo quando i suoi passi furono troppo lontani per essere sentiti. Allentando la stretta sulle lenzuola, il sangue riprese a circolare.
Durante quegli istanti di silenzio si sentì quasi desolata, la sua parte razionale si sentiva in dovere di giustificare quel suo infantilismo, poiché era sicura che agli occhi degli altri quel suo atteggiamento sembrasse solo un capriccio. Lo leggeva nelle iridi di sua madre, nell’indifferenza delle infermiere. E questo, proprio questo, la feriva. Proprio questo le faceva desiderare di richiudere gli occhi e far finta di non essersi mai svegliata, dimenticare che esiste una realtà oltre gli occhi di Edward.
Quel nome continuava ad echeggiare in quella stanza, mentre un flusso infinito di ricordi – di fantasie – si ripresentava ai suoi occhi. Riusciva a sentire la sua voce nella mente.
  • Non sei pazza. – un lieve tono di comprensione la riportò indietro. – So cosa significa.
Voltandosi, riuscì a vederla accomodarsi su uno sgabello, di fianco a lei. Le braccia poggiate sulle gambe stanche, un sospiro.
  • Anche a me è capitato, anni fa. – la guardava, ma senza fissarla. Anche i suoi occhi castani, dietro alle lenti, vagavano nella stanza spoglia alla ricerca di un appiglio. – Dopo un incidente, sono stata in coma per quasi due anni. Quando mi sono svegliata, la mia famiglia non era più la mia famiglia. Quindi capisco.
Si era girata lentamente sul fianco, senza quasi accorgersene, incantata dalle parole della persona che aveva davanti, unico anestetico al suo dolore, unica certezza che non fosse pazza. La prova che non fosse l’unica della sua specie. Si strinse di più nel lenzuolo, senza riuscire a non paragonarlo a quelli morbidi degli hotel in cui aveva alloggiato con Edward. O almeno, credeva di averlo fatto.
La sensazione dell’anulare nudo le punse il cuore.
  • C-com’è possibile? – blaterò, quasi involontariamente. Quella non cambiò espressione.
  • Vuoi che ti spieghi cosa è accaduto? – chiese lei, lasciandole intendere che avesse capito la sua esigenza di non incontrare i familiari. Quando Sara annuì debolmente, lei continuò. – Sei svenuta improvvisamente durante un esame, all’università, circa 9 mesi fa. Hai battuto la testa e non ti sei più svegliata. Il trauma che ti ha provocato il coma fortunatamente non era troppo grave, per questo ti sei svegliata.
Immobilizzando lo sguardo su di lei, Sara mise il cervello in stand-by, cercando di ricordare qualsiasi dettaglio di quell’evento, ma nel suo archivio non c’era assolutamente nulla. Proprio come alla conferenza stampa con Ed, anche di quella volta non ricordava niente. Sempre che fosse accaduto. Non ne era più certa. Tremava, sperando che lei non se ne accorgesse.
  • Non te ne ricordi, immagino.
  • Che giorno è? – improvvisamente realizzò di non essere sicura della propria età. – Chi è lei?
  • Io sono Olga, la psicologa di questo reparto e oggi è il 3 Ottobre 2014.
Aveva sognato 4 anni della sua vita.
Ripercorse i suoi finti 26 anni, i suoi compleanni con gli amici, con la famiglia di Edward. Ricordava l’odore del fumo che rilasciano le candeline subito dopo averle spente, il sapore della torta alla nocciola. Edward sapeva che adorava la nocciola.
Eppure, il viso di quella donna era così disteso, nitido, certo che quella fosse la data giusta. La psicologa del reparto.
  • Lei non vuole convincermi che mio marito non esista. – le disse, guardandola dritto negli occhi, lasciando trasparire tutta la sua paura. Era una persona rassicurante.
  • No. Il mio unico ruolo qui, è quello di supporto. Non voglio convincerti di niente.
Guardò le sue mani che si intrecciavano, mentre si rendeva conto di avere ancora 22 anni. Era ancora una bambina. E non era nessuno.
Non era niente di ciò che credeva di essere.
  • Un giorno, capirai.
 
***

 
4 Ottobre 2014


Anche quella mattina, quando si era svegliata, aveva dimenticato cosa fosse accaduto, come se la sua memoria cercasse di non immagazzinare le ultime informazioni. Il suo inconscio stava cercando di proteggerla da quell’incubo che le portava via l’aria. Con gli occhi ancora chiusi aveva cercato di ascoltare l’ambiente, di cercare un indizio che le desse la sicurezza che fosse nel luogo in cui voleva essere: a letto con Edward, pronta per un nuovo giorno insieme. Nessun Dio poteva essere tanto crudele da privarla di quella gioia, eppure…
Quando aprì gli occhi, il soffitto smorto la fissava ancora e il vociare lontano dei medici e degli infermieri la atterrì di nuovo e con la stessa intensità del giorno precedente. Realizzò che solo 24 ore prima si era risvegliata da un coma e che quella era stata la sua prima notte senza sogni. Si chiese, guardando la flebo, quanto tranquillante le stessero dando, perché era impossibile che fosse riuscita a dormire così serenamente se al solo risveglio si sentiva così male.
L’orologio segnava un orario che non riusciva a distinguere. Eppure avrebbe dovuto sapere che non poteva leggere l’orologio, gliel’avevano detto i medici dopo il suo primo coma a New York. Ed ecco un altro schiaffo in pieno viso. Ogni cosa che la circondasse le ricordava Edward, la sua vita e tutto ciò che aveva perso risvegliandosi. Quella mattina affermò a chiare lettere, a se stessa, che non voleva vivere. Che quella vita fosse inutile. Che non voleva famiglia o medicine, desiderava solo chiudere gli occhi e ritrovare la pace che aveva perduto.
  • Buongiorno. – la voce di un uomo, probabilmente il medico, la fece voltare. – Come ti senti stamattina? – Le sue mani finirono sulla cartellina attaccata ai piedi del letto. – Sembra che le analisi siano perfette. Molto presto potrai uscire e tornare a casa.
  • Dov’è la dottoressa…quella con gli occhiali?
Quello la guardò, probabilmente non aspettandosi di sentire la sua voce così ferma. Per un attimo aggrottò lo sguardo, non capendo a chi si stesse riferendo.
  • La donna che ieri sera è entrata nella mia stanza.
  • Oh! – sembrava che avesse compreso. – La dottoressa Olga. Credo che la vedrai dopo pranzo.
  • Voglio vederla ora.
  • In questo momento è impegnata con un altro paziente, non appena si sarà disimpegnata la farò venire da te.
  • Quando?
Non sapeva come riuscisse a rivolgersi a lui in quel modo. Il giorno prima era stato gentile con lei, ma non riusciva più a ricordare cosa fosse la gratitudine.
  • Non appena potrà. Non posso darti un orario preciso.
E poi, tanto, non poteva leggere l’orologio. Non aveva alcuna cognizione del tempo che passava ed ogni cosa sembrava confusa. Era ancora stordita da quella roba. Quando il giovane dottore si congedò, l’infermiera la informò con freddezza che fosse l’orario delle visite e che a breve i suoi genitori sarebbero entrati.
  • Non voglio vederli. – disse di scatto, prima che anche lei andasse via. – Gli dica che sto male, si inventi qualcosa. Non voglio vedere nessuno.
La donna di mezza età la guardò con espressione atona, non si curò di risponderle e richiuse la porta. Certo che le infermiere erano molto più gentili a New York.
Il primo conato di vomito della giornata.
Non dovevano essere passati molti minuti che qualcuno bussò alla porta e senza aspettare di ricevere il permesso, i suoi genitori fecero il loro ingresso.
  • Ciao, tesoro.
La voce di sua madre la fece rabbrividire fino a farle stringere i pugni intorno alle lenzuola. Non aveva detto a quella stronza che non voleva vedere nessuno?
Subito dietro di lei, suo padre – gli occhi azzurri di sempre – avanzava molto più cauto e prudente. Forse lui era l’unico che si curasse davvero dei suoi sentimenti, lo capiva dal modo in cui restava accanto alla porta, attendendo che il suo sguardo gli desse l’ok per avvicinarsi. Il ricordo del loro rapporto le fece inondare gli occhi di lacrime.
Mentre cercava con tutta se stessa di ripudiare quel barlume di dolcezza, sua madre era già seduta accanto a lei, tesa come la corda di un violino e impaziente di toccarla. Le sue mani a momenti si avvicinavano al suo braccio, per poi tornare subito indietro.
  • Come ti senti? Hai dormito bene?
Si vedeva che non aveva dormito e che l’esasperazione la stesse divorando, ma non si sentì in colpa a guardarla in modo truce. Quel suo istinto di differenziarsi da lei, dopo il coma si era solo rinforzato. Sentiva repulsione. Ai suoi tentativi di essere dolce, Sara non sapeva rispondere se non con il silenzio. Era una buona madre, ma non riusciva ad accettarla più. Lei era l’emblema di quella realtà che non voleva vivere.
Continuò a guardarla e non parlò, mantenendo la stretta sulle lenzuola. Non urlava soltanto perché non voleva far spaventare suo padre.
  • Dario – e a quel nome la sua pazienza arrivò ad un limite. – vorrebbe venire a trovarti, ma non glielo permettono.
Ancora, non rispose. Suo padre la osservò per tutto il tempo in cui sua madre cercò di rivolgerle la parola e ad ogni suo silenzio guardava l’orologio. La stava studiando. E lo stava facendo per un motivo preciso.
  • Vedo che hai ricevuto visite. – il suo medico rientrò d’improvviso nella stanza, l’espressione serena e quasi indifferente al suo stato d’animo. – Bene, signori, Sara è in ottima forma. Sta così bene che potrebbe uscire oggi stesso. Sono clinicamente due settimane che non presenta alcuna alterazione, è pronta per andare.
Sara non sentì la voce di sua madre farsi allegra, perché un fastidioso fischio le riempiva le orecchie mentre ascoltava le parole di quel traditore. Lui, l’infermiera, i suoi genitori, tutti traditori. Non poteva accettarlo. Non poteva tornare a casa. Non era pronta nemmeno a lasciare il suo letto, figuriamoci lasciare l’ospedale. Non si accorse che il medico le stava mettendo la mascherina per l’ossigeno, lo capì soltanto quando sentì le sue dita fredde che le sentivano il battito sul collo. Sentì il rumore del suo respiro strozzato e comprese che doveva aver avuto una reazione fisica alla notizia, ma era come se ogni parte del suo corpo fosse anestetizzata. Anche la sua anima.
Il disperato tentativo di immunizzarsi alla verità.
Quando una voce decretò che l’indomani avrebbe lasciato l’ospedale, la reazione del suo corpo la colpì in pieno. Mentre sua madre la guardava, la vista le si appannò, si sentì soffocare e un conato di vomito la costrinse a sporgersi dal letto.
Lo stridere delle sedie e il rumore della porta giunsero così ovattati che non sapeva nemmeno se fossero reali. Quando riuscì a riprendere fiato, ebbe qualche secondo di lucidità, poi più nulla.
Molte ore dopo si svegliò di soprassalto, come quando hai la sensazione di precipitare, ma non era quello il motivo che l’aveva fatta scattare al centro del letto, nonostante il torpore che avvolgeva ogni suo muscolo.
Aveva sentito la voce di Edward cantare.
Quando la stanza fu a fuoco, vide una luce gialla e soffusa illuminare le pareti, colorandole, e voltandosi verso la fonte del suono trovò soltanto uno stereo e la dottoressa Olga che tendeva una mano verso di lei. Crudele illuderla in quel modo.
Alternò lo sguardo tra lei e lo stereo per convincersi che non fosse un sogno, finché lei non parlò.
  • Avevano paura che rientrassi in coma, così sono corsa subito qui. – il suo sguardo era dolce. – Non volevi svegliarti, così…
Interruppe Thinking Out Loud schiacciando un tasto.
  • No! – il suo respiro era tormentato, la sua voce troppo flebile. – Ti prego, non-
Non ebbe bisogno di continuare che lei aveva già schiacciato il tasto play e la voce di Edward si diffuse nella stanza, dolce come la ricordava. Il ricordo di lui in ginocchio davanti a lei funse quasi da anestetico. Olga la spinse gradualmente a ridistendersi e a tornare a respirare regolarmente.
Prendevano insieme lunghi respiri e poi lasciavano andare l’aria lentamente. Durante quell’esercizio, per la prima volta Sara sentì il petto alleggerirsi, come se fino a quel momento non avesse mai smesso di correre. Ad un certo punto cominciò a cantare, seguendo la canzone, la sua voce ancora roca e distorta dopo i lunghi mesi di silenzio. Olga le porse la custodia del cd e glielo lasciò tenere tra le mani.
  • Devo dire che ha davvero una bella voce, non stento a credere che ti sia innamorata di lui. – commentò lei, con una tranquillità disarmante.
  • Trovi anche tu? – e…sorrise.
  • Posso fare in modo da lasciarti lo stereo, se vuoi. Il dottore mi ha detto che prima non ti sei sentita bene.
  • Io… - Sara aggrottò le sopracciglia, poi vide la sua postura rilassata e si tranquillizzò. Si sentiva quasi una bambina in balia di tutto ciò che percepiva. - …non voglio tornare a casa.
  • Lo avevo immaginato. Anche per me è stato così, è stato difficile tornare alla normalità.
  • Non è possibile rimandare? – si portava in posizione fetale e schiacciava il viso nel cuscino, con la speranza di sentirsi confortata.
  • Purtroppo no, la lista d’attesa per i ricoveri è troppo lunga per tenerti qui. Lo so che non sei pronta…
Olga, che non vedeva altro che una ragazza spaventata, passò la mano sul suo capo, sentendo i capelli stopposi sotto il palmo, rovinati dalla lunga permanenza a letto. Era vero che ci era passata anche lei, ma non era stato così difficile come le raccontava, perché i suoi sogni non erano stati così nitidi come sembravano essere stati quelli di Sara. Aveva fatto presto a imparare ad amare di nuovo i suoi cari, mentre invece lei sembrava essere stata più felice durante il coma che nella realtà. Era ovvio che prima o poi avrebbe dovuto affrontare quel momento, purtroppo per lei era arrivato molto presto. C’erano persone che necessitavano di quel letto.
  • …ma devi farlo. Potrai venire qui tutti i giorni, se avrai voglia di parlare, ma devi andare. – Comunque, non stava fingendo. Era sincera, proprio come cercava di essere con tutti i pazienti…quando poteva.
  • Non voglio… - Sara si portò una mano al viso, per nascondere le lacrime. One cominciava a risuonare.
  • Perché non troviamo insieme un modo di affrontare la cosa? – accavallò la gamba, cercando di infonderle un po’ di coraggio.
  • Come? – la voce soffocata dal cuscino.
  • C’è qualcosa che ti fa stare bene?
  • Se crede che possa smettere di pensarci, può anche andarsene.
  • Non ho detto che devi smettere di pensarci, ma deve pur esserci qualcosa che ti aiuti ad evitare una crisi come quella di stamattina. – lentamente gli occhi della sua paziente, già gonfi per le lacrime, facevano capolino tra le sue dita. La custodia del cd ancora stretta al petto.
  • Qu…quell’esercizio era utile. – borbottò, mentre cercava di regolarizzare il respiro. Non voleva vomitare di nuovo.
  • Bene, quindi posso insegnarti come farlo. Qualche altra cosa? – intanto appuntava qualcosa sulla sua cartellina. – Ti dispiace se tolgo il camicie? È veramente insopportabile.
Sara annuì, trovando che la sua strategia d’azione – per quanto chiaramente calcolata – fosse estremamente rilassante. Non le faceva dimenticare il nodo alla gola che impediva alla sua disperazione di sgorgare incontrollata, ma almeno riusciva a non sentirsi una pazza. Comprensione, era tutto ciò di cui avesse bisogno e Olga riusciva a fornirgliela nella giusta dose, come una droga.
  • L-la sua voce. – le rispose allora, riferendosi chiaramente a quella di Edward. – E parlare con lei.
  • Oh. – disse sedendosi di nuovo. – Non ti da fastidio che io sia una psicologa?
La guardò intensamente negli occhi castani, riflettendo sulla sua domanda. Avrebbe dovuto provare astio verso qualcuno che si trovava lì perché altri la ritenevano pazza, ma per sua fortuna non era così. Si sentiva altamente instabile, pronta ad esplodere da un momento all’altro, ma lei sembrava essere dei buoni.
  • Mi sembra innanzitutto una persona. – sussurrò allora, sperando che lei capisse cosa volesse dire.
Tuttavia, Olga si limitò a sorriderle e a proseguire la conversazione. Non poteva farsi coinvolgere troppo dai problemi dei pazienti, non poteva essere loro amica, anche se loro credevano che lo fosse. Avrebbe tenuto Sara in cura fino a che non avrebbe potuto cavarsela da sola, dopodiché l’avrebbe lasciata per dare il posto a qualcun altro che ne avesse bisogno. Esattamente come per il suo posto in ospedale. Cercò di interessarsi dei suoi gusti, delle sue passioni, di capire se fosse pronta a raccontarle i suoi sogni, per poi prenderli e gettarli nel dimenticatoio.
Parlarono senza sosta delle canzoni che stavano ascoltando e del giorno in cui Sara aveva ascoltato per la prima volta una canzone di quel cantante. Olga riuscì a vedere la spiaggia su cui, tre anni prima, Sara era stesa con una delle cuffie della sua amica all’orecchio. Aveva sentito l’umidità della sabbia e visto la luce delle stelle. La sua descrizione fu così dettagliata che si chiese se un’attività ricreativa come la scrittura o la pittura non facesse per lei.
Durante la cena, Olga rimase ad ascoltarla, aiutandola ad ignorare quel purè di patate che proprio non le scendeva. Un’infermiera era rimasta nella stanza, dato che quella era la prima volta che mangiava dopo nove mesi e non poteva essere lasciata sola. Abbastanza presa dal suo racconto, riuscì a mandarne giù tre cucchiai. Non dovette nemmeno alzarsi per andare al bagno, dato che aveva ancora il catetere, così lasciò che migliaia di parole uscissero dalle sue labbra, finché il suo cellulare – lasciato sul comodino da sua madre – non prese a squillare. La parola “Papà” si stagliava su una foto di suo padre, facendola troppo bruscamente tornare con i piedi per terra.
  • Puoi rispondere tu? – pregò Olga con lo sguardo.
  • Non posso, mi dispiace. Devi farcela da sola. Affronta la paura. Io resto qui. – lei stessa le porse il telefono tra le mani.
La vibrazione sembrava decine di volte più forte di quanto ricordasse e la nausea le faceva salire la cena alla gola. Il sapore acido già le disturbava la bocca, ma rispose. Respirò a fondo, fissando gli occhi in quelli di Olga, e portò il telefono all’orecchio. Per un solo istante, sperò di sentire la voce di Edward.
  • U-uhm… - non ci riusciva.
  • Ciao, amore di papà. Stavi dormendo?
Era sicura di aver parlato con suo padre giusto l’altro ieri e invece non sentiva la sua voce da 9 mesi. Quell’improvvisa consapevolezza infranse il muro che aveva alzato anche con lui e non riuscì a frenare il pianto. Singhiozzò, con la mano sugli occhi, per nascondersi.
  • Tranquilla, domani vengo a prenderti. Ci guardiamo un bel film sul divano.
Annuì, sicura che lui non avesse bisogno di vederla per sapere che lo stesse facendo.
  • Va bene se porto anche mamma?
  • No. – riuscì a dirlo in un sospiro.
  • Va bene. Allora vengo da solo. – la sua voce era tranquilla. – Riposati. A domani.
Attese che chiudesse la telefonata. Le sembrò di aver parlato per ore.
Rimise da sola il telefono sul tavolo vicino, con ancora qualche difficoltà dovuta alla lunga immobilità, poi si voltò ancora verso Olga, sentendola alzarsi.
Doveva tornare a casa anche lei, il suo turno era finito, ma le assicurò che si sarebbero viste l’indomani mattina, per affrontare insieme le dimissioni.
Prima di andarsene, le posò una mano sul braccio e le lasciò lo stereo e la lampada accesi.
Quando rimase sola, fissò il soffitto ascoltando l’intero cd, finché non la costrinsero a spegnere lo stereo e da quel momento tornò ad avere di nuovo paura. Il silenzio quasi la divorava e l’ansia persisteva nel suo petto, quasi facendole male. Si rese conto che non aveva altra scelta. Non c’era un’alternativa a quella vita.
Quasi non importava cosa avrebbe dovuto affrontare fuori di lì, il fatto che avesse una famiglia e un fidanzato non avevano alcun peso, perché la peggiore delle sorti – quella che aveva sempre temuto – si era già realizzata. Doveva convivere con la perenne assenza di Edward e non aveva alcun modo di contrastare quella verità.
Lui
non
esisteva.











Note dell'autrice:

Pubblico il primo capitolo di questa lunga e complicata storia - che ancora devo scrivere - perchè ho perso una scommessa. Infondo ne sono felice (di aver perso la scommessa o di aver pubblicato il capitolo, non lo saprete mai).
La trama di questo sequel è già del tutto delineata e la amo in modo particolare, deve solo essere messa nero su bianco. Spero che tra lavoro e studio riesca a riprendere a scrivere come un annetto fa. :)
Intanto, spero che qualche vecchio lettore di Afire Love mi faccia sapere cosa pensa di questo inizio e cosa si aspetta dalla storia.
Grazie mille per le visite, non pensavo fossero tante.
All the love.

S.

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Capitolo 3
*** II ***


Capitolo II







5 Ottobre 2014

Tum.
Rimbombava incessantemente nel petto e nella stanza.
Tum. Tum.
Instabile, proprio come tutto il resto.
Tum.
Come tutto ciò che le era rimasto.
Tu-tum.
Per quanti lunghi respiri facesse, sembrava che l’aria non volesse entrare.
Olga era seduta accanto a lei, mentre l’infermiera cercava di vestirla. Suo padre le aveva portato una vecchia tuta nera da casa. Ricordava di averla usata spesso per andare a correre al porto, ma il profumo del mare che le risaliva le narici proveniva da un lontano ricordo in cui Edward le sedeva di fianco. Ricordava alla perfezione il contrasto che quel giorno le sue ciglia chiare facevano col cielo. Il sapore di quella birra le scendeva ancora in gola.
Espirò, i muscoli doloranti, la sedia a rotelle la aspettava a pochi passi. Non voleva salirci. Non voleva essere portata via come se…
Infilare la maglia fu la parte più dolorosa, il torace le doleva in modo indicibile. Qualche lacrima le aveva già rigato il viso, ma nessuno – per quella volta – glielo aveva fatto pesare. Stava per lasciare l’ultimo appiglio che le era rimasto per continuare a sperare e non era pronta. Aveva la vaga sensazione che non appena avrebbe messo un piede fuori, si sarebbe dissolta nell’aria. Non c’entrava niente con quel mondo.
  • Tuo padre sta per entrare. – Olga abbassò lievemente il volume dello stereo che aveva riacceso appena aveva aperto gli occhi. – Gli infermieri ti aiuteranno ad alzarti e dovrai stare ferma, altrimenti vi farete male.
Annuiva, respirava e piangeva. La porta si aprì.
Suo padre e il medico entrarono con cautela, sotto lo sguardo vigile di Olga.
  • Allora, signorina. Siamo pronti. – disse il giovane, dando un ultimo sguardo alla cartella. – Hai il mio numero, quello di Olga e il pass per venire allo sportello di ascolto del reparto. Quando ne hai bisogno, vieni pure.
  • La ringrazio, dottore. – suo padre strinse la mano all’uomo, simulando una serenità che chiaramente non provava.
Sara si chiese quali avvertimenti gli avessero dato riguardo la sua salute psichica, per fargli assumere quell’espressione. D’un tratto la musica si interruppe e immediatamente il panico la prese. Dilatò gli occhi e si voltò verso lo stereo, Olga aveva staccato la spina, ma subito si curò di prenderle la mano e dirle che suo padre le aveva portato delle cuffie per il cellulare.
  • Eccole tesoro, così puoi ascoltare la musica quanto vuoi.
Lo seguì con lo sguardo passo dopo passo e osservò attentamente ogni movimento che fece per inserire il jack nella presa, quasi avesse paura che la stessero prendendo in giro, come se volessero privarla anche di quello. Un momento dopo allungava la mano al telefono, ignorando gli sguardi di tutti; inserì il codice che conosceva sono lei e sbloccò il cellulare. Non notò le migliaia di notifiche sulle icone dei social, ignorò del tutto la foto di sfondo con Sabrina. Portò il dito sul simbolo della nota musicale, selezionò la playlist di Ed e impostò la riproduzione casuale. Non riusciva a mettere le cuffie, perché le tremavano le mani. Suo padre, con una fermezza che solo Olga aveva avuto fino a quel momento, la aiutò. Tenerife Sea, la sua canzone preferita, placò in pochi istanti la crisi che stava per coglierla. Aveva già vomitato la colazione. Nella stanza si sentì il suo profondo sospiro.
La mano che Olga le poneva sulla spalla, le fece capire che fosse ora. Senza guardarla, annuì e si fece prendere in braccio da due infermieri. Continuò a guardare dritto davanti a sé anche quando lasciò la stanza.
Olga la accompagnò fino all’uscita e prima di lasciarla andare le tolse una cuffia.
  • Ci vediamo domani. Se dovessi averne estremo bisogno, chiamami.
Le fece un sorriso che non poté ricambiare.
Una volta che suo padre le ebbe stretto la mano quella si allontanò, poi lui si chinò alla sua altezza e la guardò negli occhi.
  • Sto per avvicinarmi alla porta. Te la senti? – i suoi occhi chiari erano sempre stati rassicuranti, ma quella volta non bastavano a non farla cadere nel panico. Un altro conato di vomito. Un altro capogiro. – Prendimi la mano.
Senza aspettare, lui le prese la mano libera e riprese a spingere la carrozzina. Un metro dopo, la porta automatica si aprì e il sole la accecò. Strinse gli occhi, quasi consapevolmente. Non voleva guardare fuori e non vedere Londra.
Il tranquillante che le avevano dato era utile, ma Sara continuava a sentirsi come se la stessero torturando. Fu caricata in macchina, la cintura allacciata. Solo allora aprì gli occhi e guardò l’esterno. Delle vivaci strade di Londra non era rimasto nulla.
Quando suo padre montò in macchina, accanto a lei, le tirò via le cuffie. La musica era già partita dall’autoradio e Photograph la colpì dritta al cuore.
Si portò una mano al petto, sperando di contenere il dolore, ma non servì.
Scoppiò in lacrime non appena Edward cominciò a cantare: Loving can hurt
Suo padre non pronunciò una sola parola durante tutto il tragitto. Non accellerò troppo in autostrada, contrariamente al solito. Non aveva messo i Kool & the Gang a tutto spiano, come quando erano solo loro due. Ma Sara non rifletté su quelle piccolezze, badando solo al paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, pensando a quanto veloce Edward andasse ogni volta che percorrevano quel tragitto.
All’uscita di Torre del Greco, i suoi occhi non avevano esaurito le lacrime, ma il suo pianto divenne silenzioso.
La rotonda dell’autostrada.
La piazza.
Il mare il lontananza.
Tutti posti che aveva visto l’ultima volta con lui.
Si concentrò sui ricordi, rifiutandosi ancora di credere che fosse stata un’illusione. Non sapeva spiegare quanto fosse assurdo il pensiero che le sensazioni che aveva sentito fossero fittizie. Lei aveva camminato, respirato, toccato, provato, assaggiato. Con lui. In quella città.
E nessuno le avrebbe mai fatto cambiare idea.
Una volta, passando per quelle strade, la gente si sarebbe fermata a guardarla, la fidanzata del famoso Ed Sheeran che tornava a casa e invece nessuno la degnò di uno sguardo mentre faceva il suo ingresso nel parco privato. Sperò di vedere la moto di Edward parcheggiata al solito posto e invece…
Il cancello automatico giallo, quello che l’aveva vista montare dietro di lui per un’intera settimana, si muoveva con difficoltà, ma poi li lasciò passare.
Conosceva i fossi a memoria e istintivamente si preparò alle scosse che avrebbero provocato. Poco dopo, erano davanti al suo vecchio portone.
Non sarebbe sopravvissuta. Non se ogni luogo le ricordava lui.
Il vecchio ascensore traballò durante la salita fino al quinto piano. Nella sua testa era un’eternità che mancava da casa. I nove mesi di quel coma corrispondevano ad un anno prima del suo matrimonio, quando lei ed Edward erano tornati per dare la notizia alla famiglia, anche se i giornali avevano tappezzato la loro foto ovunque.
I giornali.
Doveva ritrovare quei giornali.
Mentre Don’t era sparata al massimo nelle sue orecchie, cominciò a riflettere su quante prove avesse che quegli eventi erano stati reali. Ma certo. Forse Edward era morto e volevano farle credere di aver sognato tutto.
  • Bentornata!
Massimo, il marito di Anna, comunicò a sua moglie che Sara non la sentiva, poi lentamente le carezzò una guancia col dorso delle dita per attirare la sua attenzione e poi le sfilò una cuffia.
  • Mamma ti sta salutando.
Glielo aveva detto con dolcezza, ma non bastò. L’espressione persa di sua figlia diventava sempre più scura, mentre tirava la sedia a rotelle fuori dall’ascensore e la faceva entrare in casa. Non degnò la madre di uno sguardo, ma sembrò prestare molta attenzione alla casa.
Quando Sara varcò la soglia, sospinta da suo padre, un sentore misto tra paura e meraviglia le stropicciava l’anima. Il colore caldo del parquet avvolgeva tutto l’open space dell’ingresso e del salotto alla sua sinistra. Il divano-penisola in copertura marrone dove avevano guardato Dragon Trainer era ancora disposto di fronte all’enorme libreria, nel mezzo un tavolino di vetro. Le tende arancioni incorniciavano il balcone. Alla sua destra il pavimento grigio della cucina, sul frigo incastonato nell’angolo c’erano decine di calamite. Il forno lucido le restituiva il suo riflesso attraverso una doppia porta scorrevole che restava sempre aperta. Davanti a lei, il corridoio.
Il momento in cui Edward aveva cercato di baciarla la prima volta, era ancora impresso in quella stanza. Il vociare dei pranzi e delle cene a cui lo aveva portato faceva ancora eco.
Se non fosse stato per la cuffia che aveva ancora nell’orecchio, avrebbe ceduto.
  • Vuoi qualcosa da mangiare o da bere? – le chiese sua madre, portandosi davanti a lei.
Senza guardarla, scosse la testa. La rassegnazione la stava costringendo ad accettare l’idea di essere a casa, poiché timidamente faceva capolino la speranza di ritrovare qualcosa che la riportasse a lui. Strinse di più il cellulare.
Senza chiederle niente, suo padre la portò nella sua stanza e la adagiò sul letto, sistemandole il cuscino ed aprendole la zip della tuta.
  • Vuoi restare sola? – le chiese, seduto sul bordo del materasso.
Annuì, guardandolo, mostrandogli una calma che non provava. Dentro di lei il cuore stava ancora cercando di uscirle dal petto ma, per avere un momento per sé, doveva far credere a tutti che fosse tranquilla. Dopo averle carezzato il viso, suo padre si alzò e prima di uscire socchiuse la porta. Mentre Don’t finiva e lasciava spazio ad un’altra canzone, riuscì a sentire la voce di suo fratello, poi si perse nella contemplazione della sua “vecchia” stanza. Il cobalto delle pareti e le mille cianfrusaglie che aveva posato sulle mensole bianche le ricordavano lunghe notti insonni, giorni di studio intenso, momenti di allegria e disperazione. Pochi minuti dopo si addormentò, esausta.
Doveva aver saltato il pranzo, perché aveva fame quando si svegliò. Una coperta le teneva le gambe al caldo, l’odore di polvere dei suoi peluche le solleticò il naso e un senso di malessere generale la intorpidiva. Restare a letto – in quella realtà che aveva tristemente riconosciuto subito – sembrava essere il modo migliore per evitare chiunque fosse presente in quella casa, ma doveva andare al bagno. Riuscì a sfilarsi dalle coperte, riportando immediatamente le cuffie all’orecchio, ma non era in grado di alzarsi da sola. Pur di non chiamare i suoi, si sforzò di girarsi sul fianco per spingere sulle braccia con tutta la forza che aveva. Attaccata al comò, si alzò in piedi. Era la prima volta che lo faceva da sola. Scalza, arrivò alla porta, ma dovette fermarsi data la distanza tra la porta della sua stanza e quella del bagno, proprio di fronte eppure così irraggiungibile.
Le voci dei suoi genitori erano vicine, ma il pensiero di chiamarli era inconcepibile. Fissò l’ingresso alla sua destra, riflettendo sul da farsi, ma suo fratello le spuntò alle spalle, facendola sobbalzare.
  • Ti accompagno io?
Il suo viso di adolescente le ricordò la sua reale età. Quei 18 anni – non 22 – le presero una mano e la portarono fino al bagno, senza proferire altre parole. La aspettò fuori.
  • La prossima volta mandami un messaggio. – le disse, mentre la riportava nella sua stanza, dandole il braccio come ad una vecchietta.
  • Sara! – entrambi si immobilizzarono. – Non puoi ancora alzarti da sola!
Sua madre si avvicinò a grandi passi, isterica come sempre, e senza pensarci due volte la prese per l’altro braccio. La voce dolce che risuonava nelle cuffie non si addiceva allo spintone che Sara diede a sua madre. Lo aveva fatto senza pensarci, per istinto. Non le dispiacque.
Tirò suo fratello e rientrò in camera sua, sul letto. I passi di suo padre sopraggiunsero a consolare la moglie.
Sara non sapeva per quanto tempo avrebbero avuto pazienza con lei, ma infondo non le importava, non le riguardava. Qualsiasi cosa non riguardasse Edward o la sua voce o la sua presenza, le scivolava addosso. Sapeva di essere stata cattiva e che poteva farci?
Potevano pretendere qualcosa, da lei?
Potevano rifiutarsi di capire?
La rabbia che cominciava a provare nei confronti del mondo, accoccolata accanto al suo dolore, deformava la sua personalità.
Nel pomeriggio un fisioterapista si presentò a casa e le fece fare degli esercizi per tornare ad essere autonoma, ma facevano male. Ogni muscolo le doleva. E il suo cellulare si scaricava troppo spesso.
I suoi giorni cominciarono a scorrere tra il silenzio, il letto, i messaggi che mandava a suo fratello per aiutarla ad alzarsi, la musica e la fisioterapia. L’unica sua àncora di salvezza era Olga. Suo padre la prendeva e la riportava all’ospedale tutti i giorni, scortandola fino al reparto. Quando fu in grado di camminare con le stampelle, gli impose di aspettarla fuori. Quello era il suo unico momento da essere umano, lontano da docce acrobatiche, da ascensori troppo stretti per la carrozzina, vestiti troppo larghi nell’armadio, la voce di sua madre. Quel tragitto dalla macchina allo sportello era percorso da Sara De Amicis, non da ciò che gli altri credevano fosse rimasto di lei. Era il momento in cui nessuno le ricordava che Edward non esistesse. Non che qualcuno ne avesse fatto parola, ma la pietà che leggeva negli occhi di chiunque fosse andata a trovarla era insostenibile. Credevano che fosse pazza, era ovvio, credevano che ormai avesse perso tutte le rotelle per via di quell’Ed Sheeran. Allora aveva cominciato a contare i minuti ogni giorno, fino al momento in cui lasciava tutti e attraversava l’ospedale per raggiungere Olga. Mostrò il pass ed entrò nella stanza.
  • Permesso. – disse, come d’abitudine.
  • Entra pure, Sara. – la sua voce proveniva dallo studio di fianco, poi la sua figura si materializzò nella stanza. – Allora, oggi avevo proprio voglia di proporti qualcosa di interessante.
Sara si accomodò sul vecchio divano di quella stanza ricreativa e poggiò le stampelle di fianco a lei. Passandosi una mano tra i capelli a caschetto, sciogliendo i ricci, si chiese di cosa si trattasse, ma non tolse comunque la cuffia dall’orecchio. Afire Love.
  • Credo che tu sia pronta per parlarne. – disse la donna che ormai aveva perso qualsiasi velo di professionalità ai suoi occhi. – Se te la senti, chiaramente.
  • Ne stiamo già parlando…no? – Darling hold me in your arms the way you did last night… - Tutti i giorni. È quello che voglio.
Nonostante le sedute giornaliere, la sua voce era ancora atona e tagliente, graffiata dalla rabbia e lieve per il dolore. Ma quello era il solo modo che aveva per restare con lui: raccontarlo. Cercarlo nei vividi ricordi di quella follia. E inconsciamente, sperare.
  • Certo, ma non mi hai mai raccontato tutta la storia. – si alzò i capelli con una matita. – Potrebbe essere il momento giusto per cominciare. Hai fatto un bel progresso da quando ti sei svegliata, sei riuscita ad accettare la realtà abbastanza in fretta, ma sappiamo benissimo entrambe che non sei ancora convinta di quello che sta succedendo…vero?
Sara non capì subito cosa volesse dirle Olga, lasciò che le sue parole si sedimentassero nella mente per cercare di afferrare il concetto. Non aveva accettato la realtà, si sbagliava, non poteva ancora togliere le cuffie dalle orecchie. Non appena lo faceva il silenzio la divorava e gli attacchi di panico le abbreviavano la vita. Aveva ben più di una batteria di riserva per il cellulare, ancora quello col vetro spaccato e rovinato che aveva tirato fuori il giorno che lo aveva conosciuto. Proprio come se il tempo si fosse fermato.
Con gli occhi troppo aperti e le gambe tirate al petto, tornò a parlare.
  • Dove vuoi arrivare? – chiese, quasi sfidandola. – Non mi rassegnerò mai.
  • Nessuno ti sta chiedendo di farlo, ho solo voluto farti notare che riesci ad affrontare la cosa in modo meno traumatico rispetto al tuo risveglio. – Gli occhi della sua paziente si ridussero a due fessure, fissandola. Stava studiando la sua prossima mossa, come un animale.
  • Qual è la tua proposta? – chiese alla fine, pronta a prendersi ogni briciola di speranza da quell’opportunità. Avrebbe valutato attentamente le sue parole.
  • Che ne dici di scrivere?
Olga aveva una voce particolarmente morbida, non era fastidiosa, tantomeno notabile, eppure quella volta le sue parole arrivarono più chiare che mai. Scrivere?
Non capiva.
Cosa c’entrava la scrittura con Edward? Voleva che tenesse un diario, come per quelle terapie psicoterapeutiche da film?
  • Io voglio parlare di Edward. – precisò, senza aspettare oltre.
  • Ed è proprio quello che voglio. – le sorrise, fiduciosa. – Hai un bel modo di raccontare le cose, potresti scrivere la vostra storia. Sarebbe anche un ottimo esercizio per la tua memoria, potrebbe aiutarti a stare meglio. Rielaborare.
  • Dovrei scrivere… - And we’re set alight, we’re afire love. - …di noi?
  • Ti piacerebbe?
Era seria.
  • Cioè, devo scrivere un diario? – chiese, mostrando scetticismo.
  • No, no…non un diario. Lo so che non sarebbe all’altezza nemmeno come terapia. Io intendevo qualcosa tipo un racconto. Una cosa come un libro. Mettere ogni evento nero su bianco. – Olga cercò di studiare la sua reazione ad una proposta che sapeva essere allettante per lei. Di certo un semplice diario di flashback non sarebbe bastato per quella paziente, un libro invece poteva risultare di un certo spessore. Era il meglio che poteva proporle in quel momento.
  • Tutto?
  • Tutto ciò che vorrai.
Non che non ne fosse capace, ma come poteva? Come poteva mettere nero su bianco anni della sua vita e pretendere di rendere ogni cosa così come l’aveva vissuta? Come poteva raccontare solo di sé? Lei e Edward avevano sempre condiviso ogni cosa, progetti, desideri, pensieri, canzoni. Come poteva scrivere di loro, senza di lui?
  • Non posso. – sentenziò.
  • Pensi che non sia abbastanza? – chiese Olga, con lo sguardo aggrottato, chiaramente deluso dalla sua reazione.
  • Senza di lui non posso. Racconterei solo di me. Sarebbe un monologo, non un racconto.
  • Vuoi dirmi che il tuo romantico Ed non ti ha mai raccontato cosa abbia pensato quando ti ha conosciuta o la prima volta che avete condiviso qualcosa? – quasi rideva. – Avanti, tutte le coppie si raccontano dei propri sentimenti. Sarete stati sdolcinati proprio come il resto di noi.
Sara ostentò freddezza, ma quella lì l’aveva colpita in un punto veramente sensibile.
  • Non avete mai parlato dei vostri sentimenti?
Sì.
Ne avevano parlato eccome.
Probabilmente, se solo avesse voluto, avrebbe potuto scrivere un’intera serie narrata dal punto di vista di lui, senza mai esitare.
Aveva sempre saputo cosa pensasse, non glielo aveva mai nascosto e – in ogni caso – era sempre stato dannatamente leggibile. Spesso le bastava guardarlo negli occhi, senza porre domande.
  • Non sarebbe come inventare?
  • Beh… - quella alzò gli occhi, riflettendo. – Fin’ora mi hai sempre detto di conoscerlo meglio di chiunque altro, quindi no. Se è vero quello che dici, non hai bisogno di inventare.
  • E allora che devo fare?
  • Scrivi quello che sai. Scrivi delle cose che ti ha detto, che vi siete detti.
La psicologa del reparto l’aveva incastrata. Non aveva modo di rifiutarsi o forse non voleva. Non era una di quelle con l’autostima bassa, tantomeno pensava di non conoscere abbastanza Edward. Forse aveva solo paura di smettere di sperare, di uscire da quel limbo che la teneva con un piede nella favola e l’altro nell’abisso. Aveva il terrore che scrivere la aiutasse a lasciarlo andare e non voleva.
Però…
Però.
Quella proposta, oltre alla sua playlist riprodotta all’infinito, restava l’unico modo per non perderlo definitivamente. Per fissare quelle poche verità che le erano rimaste su qualcosa di materiale, che la gente potesse vedere e toccare.
In un certo modo, lo avrebbe reso vivo.
Lo avrebbe riportato indietro.
Vide Olga alzarsi dalla sua vecchia sedia da ufficio, chiedendole se volesse anche lei del tea, ma aveva capito che si fosse allontanata per lasciarla riflettere. Il suo camicie bianco aveva le tasche stracciate, penzolavano e ondeggiavano insieme al resto della stoffa.
Non sapeva decidersi e la pressione non era qualcosa che riusciva a tollerare negli ultimi tempi, ma era così tentata.
Quando quella tornò con la tazza calda tra le mani, il vapore che si avviluppava su se stesso la riportò a troppe delle mattine piovose di Londra, quando il cielo bianco illuminava la stanza e rendeva visibile ogni singola lentiggine sul viso di Edward, che si stagliava dietro la sua tazza di tea.
Avrebbe potuto riprodurre quell’immagine in qualunque momento, tanto era nitida.
  • Puoi pensarci. – Olga interruppe i suoi pensieri. – Non sei obbligata a farlo.
Sara annuì, scavando a fondo negli occhi castani della donna che aveva davanti, alla ricerca del trucco, del tranello che l’avrebbe ingannata e tirata fuori da quella storia. Lei rappresentava la guarigione.
Un traguardo che non voleva tagliare.
Quando Sara uscì dalla stanza per tornare a casa, ripercorse il corridoio con una certa tensione.
Cosa doveva fare?
Scavare così a fondo in se stessa e tirare tutto fuori, significava mettere in discussione ogni cosa, ogni ricordo, verità, convinzione. Scoprire vecchie ferite, rivivere brutti momenti, capire cose che aveva preferito seppellire ed ignorare. Svegliarsi. Anche dentro.
Le stampelle facevano rumore più del solito a causa dell'agitazione e dovette costringersi a rallentare il passo, perché stava affannando, la mente vorticava tra i pro e i contro di quella decisione. Sapeva che avrebbe amato scrivere quella storia, avrebbe trovato una pace che aveva provato solo da incosciente, ma sarebbe stato terribilmente doloroso.
Quando tornò in macchina da suo padre, non sfilò le cuffie dalle orecchie, ignorando i suoi tentativi di conversazione. Non sapeva quanta angoscia le aveva provocato quell'incontro con Olga, forse più del dovuto. Quel nuovo sentimento che le occludeva il petto riusciva ad allungare le mani fino alla sua gola, stringendola in un pugno di emozione e paura: la felicità che il solo parlare di lui le donava e il terrore che tirandolo via dalla sua mente sarebbe svanito per sempre.
Quello era il mese che nella sua testa corrispondeva alla sua prima convivenza post-coma con lui, ma l'aria di ottobre della sua città, si disse, era ben diversa da quella che aveva respirato a Central Park con lui, nello stesso momento ma in un mondo parallelo. La ricordava benissimo, ma gli altri come potevano percepirne la differenza senza mai averla provata?
A casa, sua madre le aveva preparato qualcosa di caldo e dopo averne ingerito appena metà tornò nella sua stanza e si accostò - dopo mille indecisioni - alla sua scrivania. Il computer non veniva acceso da secoli, eppure ricordava di averci scritto la tesi. Aveva paura di accenderlo e non trovarci nulla. Perché era sicura che fosse così, infondo. E come poteva non esserlo quando il suo cellulare squillava di continuo, mostrandole il nome del suo fidanzato?
Erano diversi giorni che provava a chiamarla, ma non aveva mai risposto. Aveva paura che prima o poi si sarebbe presentato a casa.
Attese che la chiamata terminasse, poi tornò a fissare il suo riflesso smunto. Nel vetro lucido, si guardò negli occhi e si disse che non voleva farlo, eppure doveva.
Tese la mano e accese il computer.
Non importava se avrebbe dovuto incollarsi alla scrivania e ignorare il mondo, ignorare Dario, avrebbe scritto finché le dita non si sarebbero consumate o la sua mente non si sarebbe rifiutata.
Non aveva aperto i social che ancora le segnalavano i migliaia di messaggi, ma quando avrebbe finito e sarebbe stato il momento, avrebbe ripreso in mano quella parte della sua vita che la voleva convincere che Edward non esistesse. E li avrebbe fatti ricredere, uno ad uno, avrebbero sentito Edward come mai si aspettavano.
Un vecchio sfondo illuminò lo schermo e le mostrò tutte le cianfrusaglie che usava tenere sul desktop.
Sfiorò il mouse con cautela, come se potesse scottare e lo sentì poco familiare sotto le dita, ma non si fece frenare. Il cursore finì su Word ed aprì un nuovo documento, la pagina bianca era quasi troppo luminosa per i suoi occhi, chiaramente troppo vuota. Tese le mani sulla tastiera ed esitò, poiché il nitido ricordo della proposta di matrimonio di Edward si insinuò tra lei e le parole che voleva scrivere: “La mia vita è come un romanzo a metà, il resto delle sue pagine sono ancora bianche.” – Will your mouth still remember the taste of my love? - “Vuoi scriverle con me?”.
Non avrebbe potuto fermare le lacrime. Non poteva non piangere. Non poteva rifiutare il lutto. Credere di poter dimenticare.
Ma non sarebbe rimasta con le mani in mano, non avrebbe ignorato quel dovere, avrebbe provato in ogni modo a non perderlo.
Il segno di Edward non poteva essere cancellato.
Lo avrebbe riportato indietro.



 
14 Ottobre 2014
 
Aveva battuto la prima parola con una scoordinazione impressionante, non riusciva a scrivere velocemente, doveva pensare alle lettere una alla volta, tuttavia non si tirò indietro. Scrivere a mano era ancora più faticoso per lei, i muscoli ancora intorpiditi.
Comunque non aveva concluso granché, aveva scritto e cancellato centinaia di parole, non riuscendo a decidere da dove cominciare. Avrebbe voluto scrivere di lui molto di più che del momento in cui si erano incontrati, ma avrebbe finito per scrivere una biografia. Allora si lasciava guidare dalle immagini che le affollavano prepotentemente la memoria, cercando di tradurle in parole, ma sembrava non cogliere mai il giusto evento da cui iniziare quel racconto. Poi, quando i suoi cominciarono ad osservarla poco discretamente dalla porta, spense il computer e rinunciò.
Mentre raccontava ad Olga di quei particolari, lei prendeva appunti sulla sua cartellina, una cosa che non aveva mai fatto e che la mise un po' in soggezione.
  • Non lo so fare. - le disse, più agitata del solito.
  • Non è vero. - rispose quella. - Tua madre mi ha detto che scrivi bene, probabilmente ti sei caricata di troppe aspettative. Pretendevi da te stessa di prendere un foglio e buttare giù qualcosa di perfetto.
Ed era ovvio che fosse così, avrebbe voluto dirle. Perché Edward meritava quell'attenzione ed altre ancora.
  • Non so da dove cominciare. Mi sembra sempre troppo o troppo poco, ho paura di dimenticare qualcosa. – Si tormentava la pelle arida delle mani, ripensando alla nitidezza dei suoi ricordi, alle pieghe di quelle mani chiare e calde e prepotenti, che la rincorrevano e la cercavano sulle rive di Sorrento.
  • E anche se fosse? – interruppe i suoi pensieri. – Quando ti verrà in mente la aggiungerai. Non è una tragedia. – disse Olga sorridendo. – Non sovraccaricarti di qualcosa di così difficile da sostenere, datti tempo.
  • Ma io voglio scrivere, subito. - era quasi sicura che la sua voce fosse meno decisa del solito, ma la stretta sulla stoffa della sua felpa arancione suggeriva impazienza.
  • Allora perché non ti lasci andare? Smettila di pensare e butta tutto fuori.
Prese un profondo respiro, cercando di placarsi e spegnere quel nervosismo come se fosse un incendio. Con la cuffietta nell’orecchio, non riusciva a pensare ad altro se non alla voce di Edward che cantava per lei, finendo ancora nel baratro. Doveva riprovare? Perché lo stava facendo? Perché voleva lasciarsi seppellire da quell’angoscia? Perché lo faceva per gli altri e non per se stessa?
Non riusciva ancora a lasciarsi scivolare addosso gli sguardi della gente, non poteva accettare di essere considerata una folle. Quelle persone calpestavano i suoi sentimenti quasi con disprezzo e con quale diritto? Cosa avrebbero fatto se fosse stata lei ad infierire, ficcando il naso nei loro problemi?
Voleva riscattarsi e riprendersi tutto il diritto di amare che le stavano togliendo.
Anche quel giorno lasciò il reparto con un certo malessere e tornò a casa senza dire una parola. Le fisioterapie cominciavano a fare effetto, riusciva a mangiare sempre qualcosa in più a pranzo e a cena, agli occhi degli altri sembrava sempre più vicina alla normalità. Si lavava da sola, non parlava più di Edward con nessuno. Restava solo la cuffietta nell’orecchio. Quella non la toglieva mai. Anche quando tornò in camera sua, la musica continuava a tenerla stabile mentre si accomodava alla sua scrivania e cominciava a far girare la sedia su se stessa. La panoramica a 360 gradi della sua stanza la aiutava a studiarne i dettagli, cercando inconsciamente le prove che Edward fosse passato di lì, ma non si era mai spinta oltre. Tuttavia, ora che il suo cervello si sforzava di trovare il modo di cominciare a raccontare, si faceva sempre più strada in lei il desiderio di risentire la sua presenza in quegli ambienti. Di guardare il suo divano e rivederlo lì, senza scarpe, i capelli spettinati dalle montagne russe e la t-shirt blu che sembrava tingersi dei suoi occhi. A volte riusciva ad immaginarlo e a vederlo percorrere ancora via Roma con lo sguardo perso nelle vetrine. Riusciva a vederlo scendere dall’aereo che lo aveva portato in Italia, senza sapere che l’avrebbe incontrata entro il pomeriggio e che si sarebbero innamorati. Le sensazioni erano così nitide, i ricordi così vividi di sensazioni e sentimenti, che mai, neanche Dio si presentasse ai suoi occhi, avrebbe potuto considerare l’idea che quel rimembrare fosse solo una scritta da lasciar cancellare dal mare. Era piuttosto uno scoglio di inchiostro indelebile.
Si alzò e aprì il suo armadio: le sue converse bianche erano ancora lì, impolverate, le sue ballerine rosse subito di fianco. Il giubbotto di jeans aveva ancora i risvolti alle maniche, ma accanto a quello, la felpa blu che le aveva regalato non c’era e le si formò un nodo alla gola. A volte la realtà la colpiva troppo forte. Le mostrava quell’assenza in ogni modo possibile. Senza pietà.
Non riusciva nemmeno a pensare che lui non fosse stato in quella stanza. Lo aveva visto con i suoi occhi, ora pieni di lacrime torbide di insofferenza. Quella sua vita le scorreva via dagli occhi, andando persa sulle sue guancie ogni giorno e continuava a vederla sprecarsi solo lei. Continuava ad avere concretezza solo nella sua mente. Nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito. Eppure, guardando il suo corpo allo specchio, avrebbe saputo indicare ogni angolo del suo corpo che era stato sfiorato da quelle labbra. La sua pelle, le sue vene, i suoi polmoni, avrebbero voluto rigurgitare ogni residuo di quel contatto: era ora che lasciasse le sue dita correre su quella tastiera, perché non avrebbe potuto sopportare un altro giorno senza sentirlo ancora una volta accanto a sé.
E tutti, dal primo all’ultimo, si sarebbero ricreduti.
Passandosi una mano sugli occhi, con l’altra riaccese il computer. Poco dopo il cursore lampeggiava sul documento vuoto.
Aveva le mani gelate.
 
  • Hai fame?
La voce di sua madre la fece sobbalzare, tirandola fuori dall’immagine che si era formata nella sua mente. Edward, così come le aveva raccontato quella volta a New York, aveva appena preso il treno per arrivare a Napoli. Davide cominciava il suo discorso sulla Camera dei Segreti. Aveva immaginato quella scena mille volte, riuscendo a vederlo sorridere.
  • No. – disse, senza ammettere obiezioni. – Dove sono i miei occhiali?
Le facevano male gli occhi a causa della luminosità troppo alta dello schermo, ma era troppo persa nel suo mondo per potersi preoccupare di regolarla. L’orologio che segnava le 21:30 e l’assenza di luce, significavano che aveva scritto ininterrottamente per 4 o 5 ore. Si era completamente isolata dal mondo ed era entrata in quello in cui Edward era con lei. Di parola in parola, la stava andando a prendere.
Sua madre si avviò nella sua direzione, arrivando giusto dietro di lei, alla ricerca degli occhiali nascosti da qualche parte in quella libreria piena delle sue cose dell’università. Un po’ di frastuono la infastidì, poi Anna le porse gli occhiali, cercando di sbirciare tra le parole che vedeva sul monitor. Sara nascose la finestra e prese il cofanetto rosso e nero dalle sue mani.
  • Domani devo tornare al lavoro.  – cominciò sua madre. – Sarai sola fino a pranzo. Vuoi che faccia venire la nonna o…Dario?
  • Starò benissimo. – rispose con gli occhiali sul naso, un nodo alla gola nel sentir pronunciare quel nome.
  • Prima o poi dovrai vederlo.
Lo sapeva, si disse mentre sua madre la lasciava da sola ed ancora sentì repulsione nei suoi confronti. Si chiese come potesse non capire che non doveva forzarla, sarebbe stato solo peggio. Era tutta la vita che provava a trasformarla in una sua copia, a prendere decisioni per lei. Stavolta non glielo avrebbe permesso.
Continuò a scrivere finché non le fecero male le dita, poi andò a dormire con l’immagine del suo primo incontro con Edward stampata nella mente.
Ricordava esattamente il modo in cui i suoi occhi scavarono nella sua anima, non appena sfilò gli occhiali.

Azzurri.

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Capitolo 4
*** III ***


CAPITOLO III
 







25 Ottobre 2014
 
Aveva dormito male, troppo impaziente di continuare a raccontare quella giornata al parco divertimenti. Voleva rivivere l’emozione di quel giorno ancora e ancora, distinguendo chiaramente la sete che aveva di quel bacio che non le aveva dato. Poteva sentire ancora il brivido delle montagne russe e la calura che le ardeva la gola. Durante quei dieci giorni in cui si era attaccata al computer, non aveva pensato ad altro se non a scrivere, a ricordare e soprattutto a nascondere a chiunque ciò che stesse facendo. Sua madre, sua nonna, persino suo padre, le chiesero cosa facesse tutto il giorno alla tastiera, ma aveva sempre risposto con “Niente”, nonostante fosse evidente che si trattasse di qualcosa che assorbiva tutta la sua attenzione, tanto da farla sentire meglio.
Non aveva rivelato nulla nemmeno ad Olga. Se non lo sapeva nessuno, si sentiva più libera di continuare, di esprimere tutta se stessa senza remore. Così, quando andava al reparto ed entrava nella stanza col vecchio divano, si limitavano a chiacchierare della sua salute, dei suoi rapporti sociali inesistenti, di Edward, di lui sempre.
Da un paio di pomeriggi il fisioterapista, un uomo di mezza età, le faceva fare qualche esercizio in meno, canticchiando di tanto in tanto le canzoni che ascoltava con l’altoparlante, non potendo tenere le cuffie alle orecchie. La cosa quasi l’aveva fatta sorridere, ma era stato solo un attimo.
Durante le sue mattinate a casa, da sola, si spostava per le stanze sedendosi dove Edward era passato, continuando a scrivere col portatile. Qualche volta piangeva, altre rideva. Non importava cosa, ciò che più era importante era che si sentisse viva. Quando la sera spegneva il computer, tornava a morire nel silenzio della sua casa buia, cullata solo da One, ormai la sua ninna nanna e il suo risveglio ogni giorno.
Quella mattina, quando la luce l’aveva ridestata, si diresse in cucina senza pensarci due volte e mise su il caffè. Nell’attesa uscì fuori, a piedi scalzi, il solito panorama di vecchie case era vagamente illuminato dall’alba, uno scorcio di mare azzurro e liscio in lontananza. Si disse che faceva piuttosto freddo per essere Luglio, così rientrò e fece colazione. L’orologio segnava le 7:00. Entro un’ora Ed sarebbe passato a prenderla e lei doveva ancora preparare il pranzo al sacco. Avrebbe avuto sicuramente fame dopo la visita al cratere e agli scavi archeologici, quindi sarebbe stato meglio abbondare con le provviste. Aprì il frigo, si assicurò che ci fosse il necessario per preparare qualcosa, poi si diresse al bagno per gettarsi sotto la doccia. Canticchiò vagamente Lego House, ricordando la sua voce che rimbombava nel bagno dell’hotel, due giorni prima. Una volta asciutta, sentì sua madre dirigersi in cucina per fare colazione e tornò in camera sua per prendere i vestiti ed avvertire Ed che probabilmente avrebbe fatto un po’ tardi.
Un brivido la percorse, camminando in biancheria, ma pensò prima ad inviargli quel messaggio. Aprì la rubrica, scorse i contatti fino alla E e cominciò a cercare, ma dovette fermarsi subito, perché il primo nome elencato non era alfabeticamente corretto: Elena. Doveva stare dopo “Ed”, non prima. Continuò a scorrere l’elenco, ma il suo nome non comparve mai. Ci riprovò, guardò meglio, scrisse il suo nome nella barra delle ricerche, ma non ottenne alcun risultato. Per un momento pensò che sua madre avesse cancellato il suo numero per dispetto e per un attimo la rabbia la prese. Stava per chiamarla, col viso già rosso per la collera, ma alzando lo sguardo verso la sua stanza, vide le stampelle e le parole le morirono in gola.
La parola “mamma” si fermò a metà sulle sue labbra e Sara smise di respirare. Letteralmente. Un intenso brivido la percorse, ma non la smosse. Non vedeva altro che le stampelle. Non riusciva più a pensare. Era solo cosciente del fatto di aver sbagliato mese. Di aver sbagliato mondo. Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre si portava le mani alla bocca, ma tremava fin troppo visibilmente. Il cellulare cadde a terra.
Il tonfo richiamò l’attenzione di Anna dalla cucina.
Sara non sentì la sedia stridere sul pavimento, poteva percepire solo il dolore lancinante al petto, il senso di vomito, la sensazione che a momenti sarebbe svenuta, tutto il resto non esisteva. Si lasciò andare allo stipite della porta, con le gambe molli. Si portò le mani ai capelli, aprendo la bocca per respirare, ma soffocò non appena ci provò. Il suo viso divenne pallido, il viso si contrasse in una smorfia e le lacrime cominciarono a lasciare i suoi occhi. Guardò il piumino pesante sul letto: un altro pugno nello stomaco. Quando finalmente l’aria le sibilò in gola, urlò e si accasciò a terra.
Non sentiva nulla. Le mani di sua madre non erano su di lei. Suo padre non si era alzato dal letto. Non sentiva nemmeno le sue grida. Un insopportabile fischio le faceva scoppiare la testa ed era sicura che a momenti sarebbe morta, privata dell’aria. Strinse più forte i capelli che aveva tra le mani, dilatò gli occhi e dopo poco, come se qualcuno le avesse conficcato un coltello nello stomaco, il dolore spense qualsiasi cosa alla sua vista. Era sicura di essere morta.
 
Era evidente che il sonno fosse una delle tecniche di autodifesa più efficaci per il suo corpo, perché quando aprì gli occhi vide la sua stanza buia. Sentì il suo respiro lento e piacevole sul cuscino caldo, una vecchia coperta addosso. Dalla porta aperta giungevano le voci di qualcuno.
  • Deve restare a riposo…
In un attimo ricordò cosa fosse accaduto. Il ricordo della vista delle stampelle si ripropose ai suoi occhi con un flash, poi vide ancora il buio. E sentì il silenzio.
Il silenzio.
Niente musica. Non aveva le cuffie alle orecchie. Scattò, ritirando le gambe e spingendo contro il materasso per alzarsi. Già sentiva lo stomaco aggrovigliarsi e la paura divorarla, mentre volava giù dal letto e cominciava a cercare per la stanza, spostando vestiti ed oggetti lasciati in giro. Aprì i cassetti e scrutò la scrivania, respirando affannosamente, ma non le trovava. Non trovava nemmeno il suo cellulare. Voleva scoppiare a piangere, ma non lo fece. Non voleva stare ancora male.
Un secondo flash le ricordò del racconto che stava scrivendo, ma lo ignorò.
Respirava l’aria d’autunno inoltrato a grandi boccate, cercando di mantenere la calma. Edward le trovava sempre tutte le cose che perdeva. Dove avrebbe cercato, lui?
Ripercorse la sua stanza da cima a fondo, ma non c’erano. Stava per arrivare al limite. Non era mai rimasta tanto tempo senza musica e quando era capitato, al suo risveglio, le faceva male persino l’anima. Sospirò, insofferente, e guardò alla porta pensando di non avere altra scelta che chiedere a sua madre. La luce della cucina illuminava per diffusione anche il corridoio, richiamandola. Con i pugni stretti, mise da parte l’orgoglio e le paure e con passo pesante si diresse nella direzione da cui proveniva la sua voce. Qualsiasi cosa per riavere la musica. L’unica cosa rimasta di Edward.
Decisa come mai prima di quel momento, entrò in cucina senza esitazioni e strizzò gli occhi per la luce troppo forte. Distinse chiaramente il medico di famiglia, seduto al tavolo, che parlava con sua madre. Si voltarono entrambi a guardarla senza sapere bene cosa fare, probabilmente non si aspettavano di vederla. Non attese che dicessero qualcosa, fu diretta.
  • Dove sono il mio cellulare e le mie cuffie?
Sua madre assorbì lentamente le parole, riflettendo chiaramente su qualcosa. I secondi sembravano secoli e i suoi occhi castano-verdi vagavano nel vuoto, scavando nella memoria.
  • Non hai mal di testa? – le chiese. Tutto quel tempo per elaborare quella domanda.
  • Dove sono?! – insistette impaziente. Cosa le importava del mal di testa?
  • Li ho messi nella tua borsa. – rispose Anna, con un tono indistinguibile tra la stizza e il timore.
Sara girò i tacchi, avendo individuato l’oggetto con la mente e filò via, sotto gli occhi del medico perplesso. Sentiva sua madre spiegare il motivo della sua fretta e la cosa la infastidì, ma la ignorò presto. Dietro la porta della sua camera era appesa, ad un vecchio attaccapanni, la sua borsa di cuoio e sacco, raggrinzita dal tempo ma ancora bella come quando l’aveva comprata al mercato. Era convinta di averla buttata, dopo tanti anni – anni che non erano mai trascorsi – e invece era ancora lì. Quella borsa aveva visto lei ed Edward incontrarsi e innamorarsi. La prese con delicatezza, lasciandosi prendere dai ricordi, e tornò a sedersi sul letto. Dentro, il cellulare e le cuffie se ne stavano in mezzo a tante cianfrusaglie. Prima di guardare il resto, infilò le cuffie e fece partire la playlist: Tenerife Sea. Quando finalmente la melodia le entrò in circolo e il suo cuore decelerò, rimise le mani nella borsa e cominciò a scavare: un accendino, il suo porta-tabacco, dei fazzoletti, le sue chiavi di casa, qualche moneta e delle cartacce e solo alla fine, la sua agendina. Quella fiorata che Edward aveva portato con sé a New York. Quella su cui aveva scritto Photograph. Fece per aprirla, ma esitò. Sapeva che al suo interno non avrebbe trovato quella scrittura un po’ disordinata, anche se aveva visto la penna scorrere su quelle pagine più di una volta. Sapeva che non c’era alcun testo, ma aveva paura di avere la conferma materiale che avesse ragione. Carezzò il dorso e sfiorò l’elastico con la punta delle dita, ricordando quante volte lui l’avesse usata per scrivere. I fogli che dovevano essere gonfi per l’eccessivo uso, erano ben stirati e piatti tra la copertina e il retro. Lentamente la aprì, cominciando dalla prima pagina.
26.07.2013, un vecchio disegno in penna blu del protagonista del suo film preferito. All’epoca doveva essere il meglio che riuscisse a fare e non era granché. Di seguito tentativi simili, sempre più curati.
16.08.2013, il disegno stilizzato di un tramonto tra le onde era accompagnato dalla frase “Il valore dei luoghi dipende dal valore delle persone”. Ricordava bene che quello fosse il giorno in cui tornava dalle vacanze. Doveva essere stata davvero felice.
5.09.2013, un disegno di Dario, poco riuscito. Voltò immediatamente pagina.
14.10.2013, “Le colonne del tempio si ergono distanti”, un aforisma sulle relazioni che l’aveva molto colpita al corso di Psicologia della famiglia.
Di seguito ritratti, disegni e frasi che riguardavano film e canzoni, avvenimenti e ricordi e solo dopo diverse pagine, si fermò a contemplare.
27.11.2013, il testo di Thinking Out Loud scritto in diverse grafie, contornato da una cornice. Tristemente, pensò, ricordava esattamente il momento in cui l’aveva scritto, all’università. Un altro pugno nello stomaco. Voltando pagina, il primo disegno che aveva fatto di Edward, i versi delle sue canzoni:
We can all be loved the way that God made us
Put your open lips on mine and slowly let them shut, for they’re designed to be together
Should this be the last thing I see, I want you to know it’s enough for me, ‘cause all that you are is all that I’ll ever need
14.01.2014 Un nuovo ritratto di Edward. L’ultimo. Le pagine seguenti erano bianche.
Un anno della sua vita, quello prima di incontrarlo, era racchiuso in quelle pagine di scarabocchi e appunti, poi il nulla. Lì, dove doveva esserci il testo di Photograph, di Give me Love, di One, c’erano solo pagine vuote. E solo allora si rese conto, sentendole risuonare nella sua mente, che quelle canzoni, prima di lei, prima della sua comparsa nella vita di suo marito, esistevano già. Non una sola parola, non un solo verso era stato scritto per lei. Non una di quelle canzoni avrebbe avuto più lo stesso significato.
Il cuore le vibrava atrocemente.
L’amore di cui si nutriva la sua anima, la fonte della sua felicità, non era che fumo effimero. Un nodo di nuvole. Inconsistente. Un fenomeno avvenuto solo nella sua mente.
La carta ruvida, a righe, le grattava via i sogni dalle dita.
Una lacrima ebbe la meglio quando capì che da quel momento la sua unica certezza – ciò che legava lei ed Edward – era definitivamente crollata. E non avrebbe più ascoltato quelle canzoni provando lo stesso dolore. La aspettava qualcosa di molto più buio e profondo: la consapevolezza che lui non l’avesse mai amata. I suoi stessi sentimenti erano vani, nulla di ciò che aveva fatto, detto o pensato aveva più senso. La sua stessa precaria identità aveva perso significato, oramai. Era appena passata da una secchiata d’acqua gelida al cadere in un lago ghiacciato, dal lutto per l’abbandono all’incommensurabile dolore della cosciente e reale perdita. Rinnegata dalla sua stessa esistenza.
Quell’amara vita di falsi ricordi e stenti era appena diventata il cancro che l’avrebbe consumata fino alla vera e profonda follia.
L’attacco di panico che seguì quel suo risveglio interiore l’aveva consumata a fondo, tenendola prigioniera di una catena invisibile per ore che le sembrarono anni. Aveva urlato, coscientemente, ma senza controllo. Si era lasciata andare alla disperazione come mai prima di allora. Nemmeno quando aveva saputo di Henry, il presunto figlio di Edward, era stata così male. Un’altra pugnalata. Avrebbe voluto trovare un interruttore e spegnersi il cervello ogni volta che la sua mente faceva riferimento agli avvenimenti che ricordava, come se fossero esperienze concrete e in realtà erano solo fantasie. Fantasie che le avevano cancellato l’identità, certo, ma l’avevano anche resa quella che era. Nel suo coma era maturata e se ne rendeva conto. Quel suo grande dolore era dovuto anche all’innegabile consapevolezza di aver amato davvero l’uomo che aveva sognato. Ma, giunti ad un tal punto, chi era Edward?
Mentre il suo corpo perdeva ogni controllo e facoltà, la sua mente delirava, troppo turbata dalla verità. Quella che aveva cercato di negare con tutta se stessa.
E non era ancora finita.
 
1 Novembre 2014
 
Il rombo dei tuoni preannunciava una tempesta. Doveva provenire dal mare. Riusciva a sentire il profumo della salsedine ogni volta che sua madre apriva il balcone. O magari stava sognando anche quello, perché ormai chi sapeva dire se fosse in un sogno o nella realtà. Chi sapeva dire se sarebbe mai riuscita ad alzarsi dal letto o si sarebbe fossilizzata lì, sotto la coperta, fino a data da destinarsi. Il cibo aveva ancora meno sapore tra le lenzuola, la luce era una lama da schivare ogni giorno. Il computer la fissava dalla scrivania, restituendole il suo riflesso stropicciato.
Le cuffie erano appendici del suo corpo, inseparabili e in costante attività. Il cuore pulsante che la teneva ancora in vita. Non aveva rinunciato alla musica solo perché ormai aveva capito di essere folle, era ancora l’unico mezzo che le consentisse di restare lucida e levigare ogni giorno le sbarre della prigione invisibile in cui la sua psiche l’aveva rinchiusa.
Era a letto da sei giorni, troppo spaventata dal mondo – troppo spaventata da sé – per poter lasciare l’unico luogo sicuro che conoscesse, eppure ancora riusciva a leggere nelle note di Multiply qualcosa di così familiare e rassicurante, quelle sfaccettature che credeva di conoscere solo lei, i dettagli dell’anima di un uomo di cui aveva esplorato ogni centimetro. Poteva ancora analizzare quei testi e quelle melodie traendone le stesse conclusioni. Come se fossero uno specchio puntato sempre nella stessa direzione, restituendo in eterno lo stesso riflesso. Ogni volta Edward si materializzava davanti ai suoi occhi e la naturalezza con cui accadeva stava diventando inconcepibile. Avrebbe dovuto imparare a lasciarlo andare e a pensare a lui esattamente come faceva pochi mesi prima: il cantante di fama mondiale. Qualcuno per cui avrebbe potuto avere una cotta e niente di più. Non lo conosceva. Non lo avrebbe conosciuto.
Strinse di più le lenzuola tra le dita tiepide, fissando la parete cobalto, e provò a ripetere quel concetto più volte nella sua mente, credendo che prima o poi sarebbe diventata una certezza. Dando le spalle alla porta, in posizione fetale, arricciò le dita dei piedi ancora freddi e si convinse che avrebbe dovuto lasciare che quel dolore la ferisse.
Sì – si disse – devo lasciarlo fare.
Se si fosse data la possibilità di soffrire fino in fondo, forse nel suo cuore si sarebbe creato un nuovo spazio, un angolino da dedicare alla rassegnazione.
Avrebbe lasciato scivolare via almeno le sensazioni. I ricordi – le immagini della sua finta vita – non sarebbero mai svaniti.
Si tirò su, sedendosi al centro del letto. Il buio avvolgeva l’ambiente illuminato solo dalla vecchia lampada sul comò, davanti a lei il panorama della sua stanza: lo stesso mercatino delle pulci che era sempre stato, solo mancante di qualche foto e biglietto del cinema che non aveva mai conservato. Le sue palpebre si mossero impercettibilmente e per un attimo si trovò di nuovo in quella mattina di Luglio in cui fissava il soffitto e la sua stanza, ancora troppo incredula per poter dormire serenamente.
Il rombo di un nuovo tuono, più dirompente del precedente, mise fine a quella visione e riattivò tutte le sue percezioni: le lenzuola calde, il rumore dell’aspirapolvere, il profumo del pranzo proveniente dalla cucina, la sensazione che si prova quando arriva una tempesta e tu sei al sicuro. Era in casa sua e si sentiva così spaesata. Avrebbe voluto far scorrere il tempo più velocemente e lasciarsi tutto alle spalle, chiudere quel libro e dimenticare quella storia per sempre, eppure – si rese conto, alzandosi – ne avrebbe percepito la mancanza, avrebbe percepito il vuoto che resta dopo aver letto un magnifico romanzo. Sapeva che le sarebbe mancato. Non poteva dire cosa, con esattezza, ma avrebbe sofferto la nostalgia di quella grande avventura. Avrebbe sentito la malinconia per l’unica vita in cui era stata felice. Avrebbe sempre inevitabilmente misurato la sua reale felicità sull’illusione del coma, probabilmente senza mai riuscire a sentirsi davvero appagata.
Il parquet caldo e liscio sotto i piedi la guidò automaticamente al balcone. La serranda si alzò per la prima volta dopo una settimana, la corda ruvida sotto le mani era il pizzico che serviva a risvegliarla dal suo torpore. Il vetro le mostrava il suo riflesso, ancora.
Alzò gli occhi chiari ad osservare il cielo grigio e la luce cupa le colpì il viso pallido. I capelli spettinati e annodati le solleticavano il collo mentre pensava a cosa avrebbe detto Edward se l’avesse vista in quelle condizioni. Probabilmente l’avrebbe sgridata, chiedendosi che fine avesse fatto la donna forte che era diventata. A quel pensiero il cuore perse un battito, poiché forte lo era stata. Anche se si trattava di un sogno, aveva dovuto affrontare le proprie paure, fronteggiare situazioni in cui non avrebbe mai voluto trovarsi, vivere esperienze che avevano modificato il suo modo di pensare e di prendere decisioni. Lo stesso che quella mattina l’aveva fatta alzare dal letto.
E come poteva negare che quella riflessa nel vetro del balcone fosse una donna diversa da quella che era pochi mesi prima? Come poteva negare l’amore che aveva ricevuto e che ancora la stava trasformando? 
Strinse ancora la mano attorno alla corda ruvida, si appoggiò al muro lì accanto e lasciò gli occhi inumidirsi. Avrebbe lasciato che il dolore la ferisse, ma non avrebbe sprecato quell’amore. Non avrebbe gettato via tutto ciò che di bello conoscesse al mondo, tutto ciò che l’aveva resa concretamente felice, più di quanto fosse prima del coma. Non avrebbe rinnegato i suoi sentimenti, poiché quelli – che l’universo lo volesse o no – erano reali. E sopravvivevano.
La prima pioggia precipitava sulla ringhiera, tintinnando e cambiando il tono del suo colore. Ben presto svanì ogni traccia di polvere ed insieme ad essa le esitazioni di Sara.
Prese un profondo respiro, sentendo in gola il fermentare dei suoi sentimenti e lentamente si scostò dal balcone per voltarsi alla sua destra e fronteggiare la scrivania. Il legno di rovere, che le aveva sempre ricordato il miele quando veniva colpito dal sole, portava i graffi dei suoi anni di studio e disegno, dei suoi gomiti poggiati sullo spigolo mentre lavorava a qualche nuovo racconto. La tastiera bianca dai tasti sottili era consumata per il troppo digitare. Quasi aveva dimenticato di averla usata a lungo nei giorni precedenti, ancora troppo lontana dalla realtà per poter incidere ricordi nitidi di quelle ore di scrittura. In quel momento, invece, la sua mano spingeva il tasto di accensione registrando ogni immagine, quasi divorando il presente. Stava firmando un contratto con se stessa.
La luce dello schermo era meno abbagliante e spaventosa di quanto ricordasse, come se fino a quel momento fosse stato solo un ostacolo davanti al quale fermarsi.
Forse quella volta sarebbe riuscita a rispondere alle chiamate di Olga, che ormai non aveva notizie di lei da troppo tempo e non voleva che interrompesse le sedute, dati i recenti avvenimenti. Forse sarebbe riuscita a dirle che stava scrivendo.
Una volta accomodatasi alla scrivania, inforcò gli occhiali rossastri e tirò vagamente su le maniche del suo pigiama, per poi poter guardare fuori ed incidere nella memoria il nuovo primo ricordo della sua vita: la pioggia che profuma l’aria vaporosa di novembre.
8 Novembre 2014
Quando sua madre la vide in piedi non osò dire una parola. Si era immobilizzata davanti alla porta, ancora di passaggio, la fissò insistentemente e poi andò via. Forse il suo sguardo era troppo vuoto e vacuo o – forse – era ancora troppo pieno di tutto quello che stava rigettando sulla pagina luminosa. Forse alla fine aveva riconosciuto la presenza di un sentimento che non c’entrava nulla con tutti i film mentali che aveva sicuramente elaborato sulla sua salute mentale. L’aveva ignorata e aveva continuato a raccontare del loro primo litigio in hotel, del giorno in cui Edward aveva scritto Photograph sulla sua agenda. Quando, stesi sul letto, sembrava che non esistesse nulla se non il millimetro che separava ancora le loro labbra.
Ogni tanto temeva che non avrebbe potuto sopportare oltre quell’amore, che avrebbe ceduto e avrebbe lasciato quel mondo, che non le tornasse più il respiro. Di tanto in tanto piangeva, lasciando che dopo averla ferita quel male uscisse e la lasciasse libera.
Quei giorni di pioggia erano trascorsi nel più totale silenzio, lasciando spazio solo al film che stava andando in onda nella sua testa poi, un pomeriggio, il suo cellulare squillò ancora, facendola precipitare di nuovo nel mondo in cui era in cura da una psicologa, il mondo senza Edward.
Aveva esitato un momento, tenendo il cellulare sospeso a mezz’aria senza sentirne il peso, poi le aveva risposto. La sua pseudo-confidente aveva esordito con un semplice “Come stai?”, una domanda di cortesia che voleva solo nascondere le intenzioni mediche di Olga oltre che l’imbarazzo che anche una professionista come lei prova.
Sara le aveva risposto come si fa con una conoscente, tornando a poggiare la schiena sulla sua sedia bianca per rilassare i muscoli. Non si sentiva turbata da quella telefonata, l’anima troppo intorpidita dalla prima volta in cui le labbra di Edward avevano avvolto le sue. Dal momento in cui le slaccia il costume. Dalla sua voce che le canta Afire Love.
La voce di Olga che le chiedeva di raggiungerla alla clinica per prendere un tea insieme era come una carezza se paragonata al ricordo della loro ultima notte in albergo, un pugnale conficcato a fondo nel cuore.
Aveva guardato lo schermo luminoso e aveva pensato che ormai non aveva nient’altro da perdere, le restava a stento il suo riflesso nello schermo. Non ebbe esitazioni: le assicurò che sarebbe andata da lei ed interruppe la telefonata.

«Con gli occhi chiusi, senza curarsi di una sua possibile reazione, le baciò il collo e poi le spalle, minimizzando qualsiasi distanza ci fosse tra loro. Soltanto quando le sue dita ebbero sbottonato anche i suoi pantaloncini, la fece voltare non riuscendo più a rimandare il contatto con la sua bocca. Sentire le sue mani sul petto, sulle sue spalle, nei capelli, lo mandò in una confusione tale da non riuscire a sbottonarle il reggiseno, ma fu lei stessa ad aiutarlo e a tirarlo sul letto. Sorrise, labbra a labbra con lei, rendendo quel sesso quasi un gioco a chi osava di più nonostante il tremore. Arrivò secondo quando lei, seduta a cavalcioni su di lui, gli prese il viso tra le mani e, carezzandolo con i pollici, lo guardò dritto negli occhi. Fu intenso. Gli venne la pelle d’oca. Gli baciò il naso, gli zigomi, gli occhi e per la prima volta, probabilmente in tutta la sua vita, si sentì sinceramente amato per la persona che era nel privato. La amò con tutto il fervore che aveva in corpo e prima di dormire, la strinse a sé, pregando che quella notte fosse eterna.»

Le avrebbe dimostrato che nulla di ciò che le aveva raccontato fosse finto. Le avrebbe dimostrato che non una sola goccia di quei sentimenti fosse frutto di una fantasia. Che nulla avrebbe lasciato il suo cuore senza prima lasciare una profonda incisione.
L’avrebbe portata nel mondo di carta più concreto che avesse mai visto, esponendola alla fiamma viva dell’anima di Edward.














Note dell'autrice:

Riproviamoci.

 

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Capitolo 5
*** IV ***


CAPITOLO IV
 
 


14 Novembre 2014

In effetti non ci era andata immediatamente da Olga. Tentava di giustificarsi dicendo a se stessa che non voleva prendere freddo o che non aveva voglia di chiacchierare, ma sapeva che non le avrebbe creduto nemmeno il suo misero alterego, quello che la attendeva alla fine di quel lungo tunnel per ricondurla nel mondo reale. Nemmeno quella parte di sé avrebbe creduto che fosse per il mal di testa che non fosse ancora tornata dalla sua psico-confidente. Poi, finalmente, riuscì ad ammettere che forse l’unico vero problema fosse la vergogna. Quella pudicizia che aveva messo da parte per risentire morbide e possenti le mani di Edward sul suo corpo. Non ci aveva pensato, in effetti, al fatto che chiunque avesse letto quelle pagine avrebbe avuto accesso al suo intimo database sessuale e a quello del suo “partner”. Aveva rimandato più che poteva l’incontro con Olga, fin quando non si arrese alla necessità di confrontarsi con lei sui risvolti psicologici che quella stesura stava provocando.
Mise il punto al ventunesimo capitolo, prendendo un sospiro di sollievo. La sua mente si era fermata al loro addio all’aeroporto Capodichino di Napoli, quando scioccamente – adesso lo sapeva – credeva che non l’avrebbe mai più rivisto, per poi ritrovarsi nel suo appartamento di New York. Avrebbe potuto proiettare al mondo intero le immagini dettagliate di quella casa. Il riflesso della luce sui mobili laccati. La consistenza dei cuscini. Le impronte delle loro dita sulla grande vetrata. Così realistico da provocarle ultimamente degli stati di confusione prolungati e conseguenti attacchi di panico talvolta brevi, talvolta no…
Si rendeva conto, ormai, che le veniva sempre più difficile distinguere il momento illusorio da quello reale, talvolta scambiandoli e ritrovandosi a litigare con i suoi per delle cose inesistenti, come l’assenza della sua fede sulla mensola o di una maglietta che non aveva mai comprato in realtà. Quando poi si risvegliava e piombava nel panico, il processo di stabilizzazione era sempre più lungo della volta precedente, nonostante suo fratello avesse imparato a mostrarle le prove materiali dell’assenza di Edward con la calma di cui aveva bisogno. L’agenda fiorata con le pagine bianche, l’assenza della sua cicatrice sulla fronte, il giorno e l’ora esatti alla televisione. Sapeva da sola che non poteva andare avanti in quel modo, eppure non riusciva a smettere di scrivere, non riusciva ancora a distaccarsi dalle cuffie. La dipendenza dalla sua stessa narrazione si sommava al quel moto di rifiuto incessante che aveva provato dal momento in cui aveva aperto gli occhi in ospedale. Non poteva disfarsene, nemmeno se avesse voluto, ma voleva dominarli. Riappropriarsi della capacità di respirare e di soffrire senza che qualcuno dovesse intromettersi nel suo dolore per sopravvivere.
Così, privacy o no, decise che fosse giunto il momento di tornare da Olga, conscia di essere in uno stato depressivo non trascurabile.
  • Era ora che ti facessi vedere – era seduta sulla sua sedia con lo stesso camice sfatto di sempre – credevo di doverti venire a trascinare fuori dalla tua stanza.
  • Ho bisogno che mi insegni ad evitare le crisi.
Glielo disse così cupamente da interdire il suo sguardo sereno. Persino il vapore del tea parve avere un tremito. Sgangherata e vestita con gli stessi abiti da una settimana, la fissò senza tregua, finché Olga non sembrò cogliere l’urgenza della sua richiesta.
  • Per questo non volevo che saltassi gli incontri che avevamo programmato. Doveva essere un processo graduale, ma tu vuoi sempre saltare le tappe. Spero che adesso ti sia chiaro che non può funzionare in questo modo. – disse con quel tono professionale che riservava per i momenti borderline, tra la terapia e la confidenza.
  • Non l’ho fatto di proposito. – cominciò Sara – Credo che ci sia qualcosa che non va, che funziona male. – e lanciò il malloppo di fogli sul tavolo. Olga gettò l’occhio sulle pagine, carpendo parole sufficienti da capire che fosse il racconto che stesse scrivendo.
  • Qual è il problema, secondo te?
  • Comincio a non saper più distinguere il sogno dalla realtà. Mi alzo al mattino riprendendo a vivere dall’ultima parola che ho scritto la sera precedente. Gli attacchi di panico sono più frequenti – e si sentì sprofondare tra i cuscini del divano – e qualche volta mi sembra di non riuscire a tornare lucida…
Continuò per diversi minuti, rigettando violentemente le sue perplessità nella stanza, senza che Olga proferisse alcuna parola. Quando finalmente il flusso di pensieri sembrò terminare, aggiunse la considerazione che più la spaventava.
  • Ho paura che la mia cura stia diventando il mio veleno.
  • Ma non vuoi smettere di scrivere, vero? – Non attese nemmeno che Sara annuisse, prendendo i fogli dal tavolo. – Il problema è che ti sei sempre rifiutata di riprendere i contatti con la realtà. La tua mente, chiusa nella tua stanza, non ha gli stimoli necessari per distinguere ciò che è reale da ciò che conserva la tua memoria. Se tu cominciassi anche solo a trascorrere più tempo con i tuoi genitori…
  • Non voglio.
  • Beh – la guardò con aria di rimprovero – allora dovrai imparare a convivere con tutto ciò che mi hai raccontato. E persino il tuo Edward comincerà a farti male, fino anche ad odiarlo se il tuo inconscio lo riterrà necessario.
Sara, mortificata dalla veridicità delle sue parole, dalla consapevolezza che quelle fossero le uniche risposte giuste, si immobilizzò come una bambina che ha combinato un gran pasticcio. Era corsa lì sperando di imparare una tecnica scientifica e invece ancora una volta non le fu somministrata nient’altro che la verità.
  • Ti prescrivo – cominciò Olga, senza distogliere lo sguardo dal racconto – l’uscita dalla tua camera quotidianamente e dalla tua casa a giorni alterni. Puoi farti accompagnare da chi vuoi. 
  • E se dovessi avere un attacco di panico?! – alzò gli occhi sgranati, già prevedendo il futuro. – Ogni volta che mi spingo oltre uno dei miei limiti, finisco sempre per inciampare in una prova materiale che…
Non riusciva nemmeno a dirlo. 
  • Che Edward non esista?
Fu doloroso come sentirlo per la prima volta. Un pizzicotto dato con cattiveria, ma meritato. Eppure era stata lei stessa a propinarsi quella piccola verità come un sussurro, quando doveva uscire dal panico. Eppure, lei l’aveva capito da sola. Perché, perché mai continuava a fare così male? Perché non era in grado di darsi una possibilità?
  • Vedi, Sara… - continuò, puntando lo sguardo sulle sue cuffie consumate e poi nei suoi occhi – in questo momento la tua mente sta cercando di autodifendersi, rendendosi in un certo senso indipendente dalla tua volontà, perché ha bisogno di trovare una dimensione stabile a cui fare riferimento. Non sarà il racconto a guarirti, tantomeno a farti ammalare definitivamente. Riappropriarti della tua testa è una cosa che dipende soltanto dalla tua volontà di smettere di illuderti. 
Sara, per la prima volta, mise in pausa il brusio della musica e la ascoltò.
  • Non c’è bisogno che io legga ogni riga di questa storia per sapere che i tuoi sentimenti siano reali e ti assicuro che mai penserò il contrario. Per quanto mi riguarda, puoi viverli, riviverli e lasciarti divorare da loro fino all’osso, purchè ciò serva a farti amare il tuo dolore.
Si alzò dalla sedia e la raggiunse sul divano, sfogliando ancora le pagine fitte.
  • Quindi, cosa devo fare? – rispose fissando le sue stesse parole.
  • Esci, anche solo per fare una passeggiata. Vai a trovare le tue amiche. Passa del tempo con altre persone.
Con altre persone. Altre persone reali. Persone che sentiva di non conoscere più.
  • Vivi. Abbi il coraggio di vivere. E se non sei disposta a farlo per te stessa, fallo per la persona che ami. Che essa esista o meno.
 
Tornava a casa con l’anima in subbuglio più di quanto lo fosse prima di varcare la soglia di quello studio. Si sedette di nuovo davanti al computer, per proseguire la storia e liberarsi l’anima. Quella sera si perse nel dolore del distacco, rivivendo il suo ritorno in Italia e il vuoto che sentiva incolmabile al pensiero che Edward avesse un figlio. Prima di dormire, però, il suo cellulare si illuminò insistentemente, mostrandole il nome della sua migliore amica sullo schermo. Non rispose e si voltò verso il muro per crogiolarsi nella gioia che avrebbe raccontato nei successivi capitoli.
Il mondo sembrava sempre più inconsistente.
Svaniva la realtà ad ogni capitolo.

 
30 Novembre 2014

Aveva terminato la storia. Era arrivata al momento in cui lui finalmente le sbottonava il corpetto. L’ultima volta che lo aveva visto.
Per qualche giorno fu come se fosse tornata in ospedale, rivivendo ancora e ancora quel distacco così brutale dalla sua vita. Poi, rilesse. Rilesse e rilesse senza sosta ogni parola, ubriacandosi di musica e ricordi, sentendosi quasi felice.
Ma quella illusoria serenità era strettamente legata alla materia scritta e alla musica che ne accompagnava la lettura. Oltre quello, un baratro di risentimento e imbarazzo.
Rispettò forzatamente le prescrizioni del medico e si sforzò di trattenersi in ambienti diversi dalla sua camera, sotto lo sguardo indagatorio di sua madre.
Dario continuava a chiamarla incessantemente e Sara cominciava a chiedersi quale speranza credesse ancora di avere, quale spiegazione pensasse di poter ricevere. L’empatia non era ancora tornata ad essere una sua abilità e probabilmente ci sarebbe voluto ancora del tempo.
Aveva rispettato gli appuntamenti con Olga per quelle due settimane e le aveva letto ad alta voce tutto ciò che aveva scritto. Avevano persino commentato le vicissitudini come se stessero spettegolando di qualcuno, risero di Edward e asciugarono lacrime bollenti dal viso di Sara. Il tempo sembrava scorrere un po’ più velocemente.
  • Certo che un uomo così è davvero difficile da trovare. – commentò Olga.
  • Beh, lui è… - Sara cominciò la frase sorridendo, poi si rese conto che era inutile aggiungere altro. A cosa serviva...? Il suo sorriso si spense.
  • Perfetto. – considerò la sua psicologa, con le dita sul mento e gli occhi a cercare parole invisibili. – Incredibilmente perfetto. Dolce, premuroso, intelligente, talentuoso, ricco e un amante formidabile! – puntò il dito in aria.
Sara divenne rossa in un nanosecondo, riflettendo su quell’elenco di aggettivi, in particolare l’ultimo, il dettaglio che più l’aveva tormentata, in quanto il più nitido tra i suoi ricordi.
  • Non ho mai incontrato qualcuno così, a meno che tu non abbia volontariamente omesso i suoi difetti.
  • Sono stata terribilmente fedele. Non ho tralasciato nulla.
  • Allora abbiamo qualcosa su cui riflettere questa settimana. – strizzò l’occhio Olga.
Non aveva mai notato questa assenza di “difetti”, per lei era scontato e normale che Edward fosse così…perfetto. Certo, avevano avuto dei battibecchi e delle incomprensioni, ma se qualcuno le avesse chiesto di parlare dei lati negativi di Ed, probabilmente non avrebbe saputo rispondere…
Questa riflessione ebbe un certo impatto sulla sua mente, come se di punto in bianco i suoi occhi vedessero un po’ più chiaramente.
  • Devo dire che tua madre aveva ragione quando mi ha detto che sei una brava scrittrice.
  • Non sono certo da classifica internazionale. – considerò atona Sara, ancora intenta a contemplare la reazione precedente.
  • Forse no, ma credo che la gente lo apprezzerebbe. Perché non lo fai leggere a qualcuno?
 
 
E a chi? Avrebbe voluto dirle. In macchina, scorreva mentalmente un elenco virtuale di conoscenti e parenti che avrebbero potuto leggere il racconto. C’era forse qualcuno che non l’avrebbe giudicata? Che non avrebbe pensato che fosse imbarazzante tutta quella storia? Si rimproverava e si dava man forte a momenti alterni, perché d’altronde non si riteneva una dall’amicizia facile. Conosceva tante persone, ma di amici ne aveva davvero pochi ed erano tutti apparsi sullo schermo del suo cellulare negli ultimi giorni. Era troppo dura con loro. Qualche volta le mancavano.
Proprio in quel momento, la foto di Federica si illuminò sul display, facendo vibrare il cellulare. Non rispose. Subito dopo le arrivò un messaggio che aprì automaticamente, senza pensarci.

| So che ti avrò già chiamata un milione di volte, ma io sono più testarda di te!|

Le scappò una risata che suo padre non mancò di notare. Stava meglio, lo sapeva, ma non voleva ammetterlo.

 
|Vorrei sapere come stai e se posso fare qualcosa per te. Mi piacerebbe venire a trovarti, ma vorrei farlo col tuo consenso, quindi vedi di sbrigarti a rispondermi! Ti voglio bene.<3|
 
Un barlume di affetto si ripresentò nel suo petto. Come se per un secondo, uno soltanto, avesse dimenticato ogni cosa. Eccolo lì il suo aggancio alla realtà, insistente e cocciuto come pochi, che non si era ancora arreso. Schiacciò il display per digitare un nuovo messaggio, ma non sapeva assolutamente cosa le avrebbe detto. Dopotutto lei non era più la stessa persona. Federica avrebbe dovuto imparare a conoscere la nuova Sara, la Sara che aveva conosciuto Edward.
Non si rese conto che, con quel pensiero, si era appena data una possibilità.
 

5 Dicembre 2014

Sua madre quella mattina le aveva fatto trovare i libri del suo prossimo esame sulla scrivania, forse sperando che lo studio potesse risultare una distrazione per lei. Li aveva sfogliati con esitazione, ricordando le ultime esperienze universitarie mentre un’altra canzone diffondeva le ultime note nell’aria. In preda alla nausea che ne era scaturita, cominciò a rovistare nell’armadio, come alla ricerca di qualcosa che la riportasse ai suoi giorni felici, ma ne ricavò soltanto frustranti flashback della sua storia con Dario. Una miriade di regali e foto erano finiti sul pavimento della sua stanza, finchè non si ritrovò tra le mani la sua macchina fotografica. Funzionava ancora e l’ultimo scatto la ritraeva al compleanno di Federica, in un giardino. Sorridente. Spensierata. Senza pesi sullo stomaco.
Continuando a scorrere le immagini, si soffermò più volte sul volto di lei.

 
|Quando avrai voglia, potremmo prenderci un caffè.|
 
Era stata la sua risposta comprensiva al messaggio atono che le aveva mandato. Posò la macchina fotografica e si alzò nervosamente dalla sedia, in perenne lotta con se stessa. Guardava fuori dalla finestra alla ricerca di ciò che in quella stanza non riusciva più a trovare, una ventata di qualcosa che la aiutasse a smettere di pensare ininterrottamente a Edward.
Era sola in casa. Non aveva voglia di mangiare o di fare altro. Non avrebbe riletto ancora Afire Love nascosta sotto le coperte, fino allo sfinimento, per finire poi a gestire da sola un attacco di panico, come l’ultima volta. Senza pensare, prese la borsa e ci infilò dentro la macchina fotografica, una rabbia nel petto quasi inspiegabile. Ora basta.
Ora.
Basta.
L’aria era claustrofobica mentre infilava il primo paio di jeans che aveva pescato dall’armadio e chissenefregava del fatto che facesse freddo e lei fosse ancora immunodepressa. Afferrò il cappotto e si diresse alla porta. Con la mente assente si infilò nell’ascensore, con la tentazione di prenderne a calci la porta, ma quando poi arrivò all’ingresso del palazzo ebbe un attimo di esitazione. Col fiato corto e la voglia di piangere, fece il primo passo all’esterno come se qualcuno la stesse tirando con forza.
Il secondo, il terzo, il quarto passo. Più avanzava più era confusa e stava cominciando a spaventarsi di quella sfuggente lucidità. Le lacrime cominciarono a scorrerle sul viso, ma non si fermò, svoltò nei vicoli che aveva sempre percorso per accorciare la strada verso il centro e prese a salire. Non appena si rese conto di essere circondata da centinaia di persone le si strozzò il respiro e si tirò il cappuccio in testa come se qualcuno potesse riconoscerla. Ecco che ricominciava a confondere il sogno e la realtà. Proseguì senza sosta senza capire dove stesse andando, mentre i rombi delle moto che passavano la facevano sussultare e voltare di continuo. Non vide mai la moto di Edward accostare accanto a lei e prese a piangere più forte, ma in silenzio.
  • Signorina, sta bene?
Una donna che l’aveva incrociata si era fermata a parlarle.
  • Ha bisogno di aiuto?
Evitò la mano che cercava di confortarla e corse via, scavalcando chiunque fosse sul suo cammino. Non sapeva più perché fosse uscita, non sapeva più cosa dovesse fare. Correva all’impazzata, senza fiato, verso la parte alta della città, fino alla stazione della circumvesuviana, lì dove lei e Edward erano stati insieme.
E infatti eccolo lì, che obliterava il biglietto.
Ma perché non la aspettava? Gli corse dietro, chiamandolo a squarciagola, con un’urgenza nel petto che non sapeva spiegarsi.
  • Ed! Aspetta, sono qui!
Tirò fuori l’abbonamento annuale dal portafogli e quasi trascinò con sé i tornelli. I suoi capelli rossi erano lì che svoltavano l’angolo per la banchina, scese le scale di corsa e si fiondò nel treno, proprio dietro di lui. Ma dove stava andando senza di lei?
  • Edward!
Urlò ancora, con gli occhi rossi e il viso sconvolto, entrando nell’ultimo vagone, ma lui non si voltava. Le persone la fissavano, senza capire. Quando lui si voltò e si accomodò su un sedile vuoto, Sara si pietrificò sotto l’uscio della carrozza.
Quello non era il suo Edward, no di certo. Non respirava più mentre il treno faceva il suo ingresso nella stazione di Ercolano.
 
Era in stato confusionale, ma probabilmente non se ne rendeva conto. Scese a Portici, seguendo un qualche istinto e camminò in silenzio fino al bosco in cui avevano pranzato. Vi si inoltrò nonostante il cielo si stesse coprendo.
Quando giunse al grande prato, che ricordava fiorito e ricoperto di sole, le sembrò di star calpestando la sua stessa memoria, come entrata in un ricordo ormai decadente e poco credibile, grigio. Il freddo pungente era sufficiente a mantenerla sull’attenti, abbastanza da farle notare che il salice, quel meraviglioso salice ombroso che li aveva protetti dalla calura, non ci fosse. Camminò fin dove lo ricordasse innalzarsi, ma da quel punto del terreno non sorgeva che un piccolo arbusto, magro e spoglio, come sempre più spoglio sentiva il suo cuore.
Quell’albero non c’era e probabilmente non era mai esistito. Si accasciò sull’erba e rimase ferma lì, schiaffeggiata dal vento e dalla verità, per diverse ore.
Non pranzò.
Non rispose al telefono.
Non pensò a nulla.
Si limitò, forse per scongiurare il definitivo crollo nervoso, a fotografare il mare che si vedeva in lontananza.
 
Ore 17:22
Era spaesata. Non sapeva se stesse camminando nella direzione giusta, ma l’indicazione stradale puntava Torre del Greco da quella parte. Guardava quella strada periferica e malridotta credendo di riconoscerla, ma con quale certezza poteva affermare ciò?
Il suo telefono continuava a squillare e quasi non si rese conto che quello fosse proprio il suo telefono. Però…adesso che camminava senza meta, adesso che aveva appurato nuovamente che Edward non esistesse, che non aveva mai davvero vissuto quel pomeriggio tachicardico con lui, si sentiva un po’ più libera. Forse un piccolo angolo nel suo cuore cominciava a fare posto alla rassegnazione. Dopo un paio di chilometri il suo cellulare si spense e nelle sue orecchie rimbombò soltanto l’eco delle auto. Se ne accorse non appena sentì le lacrime salirle agli occhi. Poi un’auto inchiodò di fianco a lei e il viso di Olga spuntò dal finestrino.

Ore 18:15
Sua madre urlava da già troppi minuti, mentre suo padre cercava di contenere la rabbia. I telefoni di tutti squillavano senza sosta, il poliziotto relegato nell’angolo della cucina non osava proferire parola.
Olga le stava collegando il cellulare al caricatore per scongiurare una crisi che avrebbe potuto provocare dei danni seri. Infondo era stata lei a dirle di uscire.
  • PERCHE’ NON HAI RISPOSTO AL CELLULARE?
  • POTEVI PERDERTI, ESSERE INVESTITA!
  • DOVEVI LASCIARE UN BIGLIETTO, AVVERTIRE QUALCUNO!
Il suo corpo cominciava a muoversi da solo, scaricando la tensione nei muscoli. Olga la guardò col terrore che potesse avere una crisi epilettica o svenire. Ma ormai per Sara quelle voci erano solo un vorticare insensato di suoni, completamente estranei.
Si alzò, guardando con indifferenza il poliziotto che probabilmente aveva dovuto cercarla.
Aveva perso solo tempo.
Tanto, a lei non importava.
Sentiva solo un dolore e una confusione che nessuno poteva comprendere.
Guardò i suoi genitori e con totale apatia, parlò.
  • Sono andata a fare una passeggiata. Adesso vado in camera mia. La prossima volta lascerò un biglietto.
Andò via, portando con sé il cellulare e lasciando il resto nelle mani di Olga. Non si sarebbe autodistrutta solo perché i suoi non erano in grado di capirla. Quel giorno era stato faticoso, ma fondamentale. Era uscita, da sola, confusa, ma aveva salito un altro scalino verso la libertà. Pensò ancora una volta a Edward e le si infiammò il petto. Avrebbe rinunciato a qualsiasi vita se fosse servito a tornare da lui, ma non le restava altro che morire.
Sperò solo che la fuga di quella mattina non fosse che un tentativo inconscio di farla finita.

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Capitolo 6
*** V ***


CAPITOLO V
 
 



7 Dicembre 2014
 
Sembrava fosse accaduto un miracolo. Non appena le aveva scritto si era fiondata a prendere il primo treno e l’aveva raggiunta. Aveva preparato dei regali per lei ma li aveva dimenticati per la fretta. Non importava. Adesso erano sedute lì, l’una di fronte all’altra, e sembrava abbastanza tranquilla.
Quando aveva fatto per abbracciarla, si era ritratta, aveva esitato sui suoi passi e alla fine l’aveva salutata con un lieve sorriso.
Sedute al bar più vicino finalmente riuscì ad osservarla: magra, pallida, senza trucco e con i capelli scompigliati. Quelle occhiaie coprivano l’azzurro dei suoi occhi e ne nascondevano la luce che conosceva. C’era il sole quella mattina, ma lei sembrava confusa a volte, guardava il cellulare come per controllare l’ora. Non aveva ancora tolto le cuffie.

 
  • Mi sei mancata tantissimo. – cominciò col suo solito entusiasmo. – Ho tante cose da dirti, ma voglio prima sapere di te.
Sara la guardò come non sapendo da dove cominciare. Forse si stava sforzando di mantenere un comportamento normale o almeno era ciò che sembrava osservando i suoi movimenti.
 
  • F-forse è meglio che sia tu a farmi delle domande, io… - fece un breve sospiro – a volte non so…
  • Va bene! – le sorrise – Allora la prima cosa che voglio sapere è come stai. Ma come stai davvero.
Federica non si faceva molti scrupoli. Si stava comportando come sempre e non le avrebbe fatto sentire in alcun modo la differenza tra il passato e il presente. Era sempre Sara. Lo sapeva.
 
  • I-io sto…bene. Cioè, sono uscita dal coma. – rise quasi istericamente. – Sono solo un po’ confusa, a volte.
  • Non mentire. – le disse immediatamente. – Si vede lontano un miglio che non stai bene. Sputa il rospo.
Lo vide che si stesse chiedendo cosa fare. Lesse nei suoi occhi l’incertezza e la paura, cercando una posizione magica sulla sedia di metallo.
 
  • Non provare a dirmi che non c’è niente che non vada, donna! – glielo disse sorridendo. – Sono tutta orecchie. Partiamo dal perché non togli quelle cuffie dalle orecchie.
Un sonoro sospiro. Si fissarono e le sembrò che Sara si stesse arrendendo a lei.
 
  • I-io non posso toglierle. – cominciò titubante. – Mi servono a…evitare gli attacchi di panico. Se le tolgo, sto male.
  • Scommetto che stai ascoltando Ed! – disse Federica, sperando di agganciarla ad un argomento piacevole.
  • B-beh certo! Chi altri pensavi che fosse?! – rispose, con tono sgarbato e carico di rabbia. L’espressione si fece buia e Federica rimase senza fiato dinanzi a quella reazione. – Oh…scusa. Non volevo risponderti così, è solo che…io a volte non distinguo la realtà.
  • Ok…pensavo ti piacesse ancora Ed Sheeran. – il suo sguardo diventava sempre più contratto, chiedendosi dove avesse sbagliato.
  • Fede, io… - le si incresparono le labbra, cercando di trattenere il pianto. - …durante il coma…ho fatto un sogno. Un sogno davvero molto reale e … - tirò su col naso.
Federica la guardava sconvolta. Era così felice di rivederla e invece adesso stava piangendo davanti a lei, ma non la interruppe.
 
  • Ho sognato che Edward fosse…qui, con me e che…
Non ce la fece più e si fermò. Federica si avvicinò a lei, trascinandosi la sedia e la abbracciò. Non riusciva ancora a capire cosa c’entrasse Ed Sheeran con lei. Senza preavviso, Sara si scostò, trattenendo i singhiozzi e le porse una pila di fogli. Le sue mani erano rovinate, le punte delle dita martoriate dai denti.
 
  • Vorrei che tu la leggessi. – si asciugò le lacrime – Poi potremmo parlarne e potresti dirmi cosa pensi davvero…
Federica lesse il titolo scritto in rosso.
 
Afire Love
 
Sapeva benissimo che quello fosse il titolo di una canzone di Ed Sheeran, ma quando cominciò a leggere capì che si trattasse di un racconto.
 
  • Vorresti dirmi che questo è il tuo sogno?! – le disse con gli occhi strabuzzati, in quella smorfia di sorpresa che solo lei sapeva fare. I suoi capelli lunghi sembrarono rizzarsi sentendo le consistenza del malloppo.
  • Lo è. – rispose Sara – Ma a volte io non so cosa sia reale, capisci?
Si guardarono per diversi secondi, cercando l’una le risposte nell’altra.
 
  • Sei sicura che possa leggerlo?
  • Sei la mia migliore amica. – fece Sara – Non saprei a chi altro farlo leggere. Io, credimi – e quasi la supplicò in quel momento – sono dispiaciuta di non averti risposto. Ma adesso penso che posso uscirne, se lo leggi anche tu. Forse sei l’unica persona di cui mi fidi veramente, in questo momento.
Federica sapeva che Sara stesse parlando senza pensare davvero. Come se avesse inserito l’autopilota. Era evidente la confusione nei suoi occhi, così come era evidente che a volte perdesse la lucidità. Ma l’avrebbe aiutata comunque, senza pensarci neanche un secondo. Capì che quell’ennesima occhiata al cellulare servisse a ricordare la data solo il quel momento e stentava a credere che davvero fosse a un tal punto. Con sempre più curiosità, guardò il volume e cominciò a leggere, finché lei non la interruppe.
 
  • Fede… - forse fu l’unica volta che la vide completamente lucida – vuoi venire a dormire da me? Potremmo guardare un film oppure… - le dita intrecciate nei fili consumati delle cuffie.
  • Non vedevo l’ora che me lo chiedessi.
 
Ore 21:00
Ce l’aveva fatta. Era stata seduta su quella sedia più di venti minuti buoni e non aveva perso del tutto il controllo. Certo, la musica nelle orecchie non si era interrotta, ma Federica l’aveva aiutata a restare in sé il più a lungo possibile. Era incredibile come le avesse tenuto di proposito la mente attiva, come avesse già capito che ogni tanto dovesse controllare che giorno fosse. Mentre tornavano a casa, le aveva fatto delle domande sul coma, sul motivo scatenante gli attacchi di panico. Lei si limitò a dirle che era stato come risvegliarsi in un corpo non suo, su un pianeta diverso. Che aveva perso l’amore della sua vita e solo adesso stava cominciando ad accettare che tutto ciò fosse solo una proiezione della sua mente.
Mentre ripensava alle sue reazioni così pacate, la vide voltare l’ultima pagina, dopo ore intense di lettura silenziosa, quasi pudica. Federica la guardò, con gli occhi lucidi, sospesa tra l’entusiasmo spietato e la profonda compassione che nutriva verso la sua amica.
 
  • Tu vorresti davvero dirmi che ti sei svegliata da tutto questo? – le chiese, alzando il racconto con la mano destra.
  • Come se quella fosse sempre stata la mia vita. – Federica sembrò immedesimarsi in lei, che si dondolava sul suo letto. – Ho cercato in qualsiasi modo di rifiutare la realtà, cercando prove di un complotto o del suo passaggio nella mia vita. Ogni volta che scoprivo la verità, avevo una crisi. Edward non esiste.
Sembrava assurdo, eppure lo chiamava col suo nome per esteso con una tale disinvoltura…
 
  • La mia psicologa mi ha consigliato di scrivere quel racconto ed io l’ho fatto…ma a volte non so quale delle due Sara sono.
  • Sei indubbiamente la persona che ha scritto questa cosa così bella. – si alzò dal materasso gonfiabile posato accanto al suo letto, per sedersi davanti a lei. – Ti rendi conto della bellezza di questa storia? Soltanto leggendo le tue emozioni ho potuto capire quanto sia importante per te questo momento e mi sono emozionata davvero tanto. Anzi – continuò, sorridendo con malizia – sono quasi invidiosa!
Risero di gusto, spintonandosi a vicenda, mentre la voce di Ed riscaldava l’ambiente.
 
  • Sul serio, dovresti prendere questa storia e farla leggere al mondo. – riprese Federica, cercando di inquadrare l’utilità catartica di quella specie di diario. – Se vuoi davvero che tutti i tuoi sentimenti non vadano persi, devi condividerli. Conosco un sito su cui molte ragazze pubblicano i loro racconti, te lo faccio vedere…
Tirarono fino a notte fonda cercando di creare un account del tutto anonimo su un certo “EFP Fanfiction” e riuscirono a pubblicare i primi capitoli della storia. Federica non si arrese alla stanchezza solo perché sapeva che se si fossero fermate Sara si sarebbe tirata indietro. Invece, fino alle 3:00 del mattino, rimasero sveglie a discutere di tutta la vicenda, come avrebbero fatto in qualsiasi altra situazione.
Sara era rimasta lucida fino alla fine.
I suoi occhi sembravano splendere di nuovo nel buio della stanza e il suo cuore assorbì l’amore di Federica come se fosse l’ultima speranza che le restasse per vivere.
 
 
21 Dicembre 2014
 
Era finita che Federica era rimasta da lei per tre giorni, durante i quali aveva avuto un solo attacco di panico. Fu terribile risentire quella sensazione, ma la presenza della sua amica risultò fondamentale, quando quella della sua famiglia sembrava ancora così sgradevole. Come se le avessero fatto un torto irreparabile. Non voleva sentirsi così. Voleva di nuovo volere bene a sua madre e abbracciare di nuovo suo padre, andare al mare con suo fratello. Aveva raccontato tutto a Olga, nei minimi dettagli, camminando avanti e indietro per la stanza. Non sfiorò il divano nemmeno per un minuto.
 
  • Sia ringraziato il cielo, esiste Federica! – rise di gusto la psicologa, mentre la ascoltava esterrefatta.
  • E poi mi ha aiutato a rispondere alle recensioni che ho ricevuto, sai, delle persone che hanno letto, io non pensavo che qualcuno avrebbe davvero letto la storia e invece adesso sono a 589 letture solo del primo capitolo-
  • Sara! – la fermò – Devi respirare tra una frase e l’altra.
  • Da quando ci siamo viste mi sembra quasi che mi stia risvegliando da un altro coma, sai come quando dormi profondamente e ti risvegli intontito e poi tutto d’un tratto sei pieno di energie. Non posso ancora credere di averlo fatto, le persone stanno leggendo di Edward, Olga, tu riesci a crederci?! È praticamente come dire che…
Che Edward esiste.
Era quello il punto in realtà. Solo quello. Come se adesso tutto il mondo avesse un motivo per crederle.
 
  • Sono davvero felice di vederti così. – si intromise Olga. – Magari avrai un gran successo e ti chiederò un autografo. – la risata di Sara si sovrappose alla sua. – Bene! Continuiamo così e vedrai che in breve tempo potrai dimenticarti delle crisi e dei malesseri. Hai preso la strada giusta, Sara, andrà tutto bene.
Sara le sorrise, senza sapere davvero se sentirsi bene o male. Guardò il display del cellulare, con una foto di Edward come sfondo che non le aveva di certo mostrato.
 
  • Per questo Natale ti prescrivo una bella dose di amici e famiglia e anche di passeggiate. Magari non da sola.
Si congedò da lei con una sensazione del tutto nuova nel petto. Non sapeva spiegare cosa fosse, ma la nausea era sparita e aveva cominciato a prendersi più cura di se stessa. Federica aveva forse questo potere magico di guarire le persone?
Non lo sapeva, si sentiva solo felice di averla nella sua vita. Felice che fosse l’amica che tutti meriterebbero di avere.
Natale stava arrivando e le sue cugine sarebbero arrivate insieme a lui. Non vedeva l’ora di abbracciarle e raccontargli tutto ciò che aveva vissuto.
 
 
25 Dicembre 2014
 
L’ultimo Natale che aveva vissuto felicemente era stato nel 2018, quattro anni nel futuro, a casa della famiglia di Edward, nel Suffolk. Ricordava ancora l’aria uggiosa e la bruma che aleggiava nel giardino. Il fuoco acceso nel camino e un profumo di cannella e zenzero particolarmente intenso. Edward che parlava con suo fratello, cercando di decidere quale fosse il giro di accordi migliore per la sua nuova canzone. Il suo viso cominciava a sbiadire, ma non la sensazione delle sue labbra calde mentre la baciava, seduti al tavolo con i suoi parenti. Esplodeva nel petto, quell’emozione.
 
  • È incredibile. – Ilaria, sua cugina, la fece tornare con i piedi per terra. – In così poco tempo è stata letta da così tante persone!
Era riuscita a confidarsi con lei e a non farsi sovrastare troppo dalle sue crisi. Non era divenuta improvvisamente in grado di evitarle, si stava solo terribilmente sforzando di non perdere se stessa e le persone che amava. Era faticoso, così tanto che la sera crollava esausta, prosciugata di tutte le energie. Ma ne era valsa la pena, perché Ilaria l’aveva compresa. Come aveva fatto anche solo a pensare che l’avrebbe giudicata o presa in giro? Nei momenti di maggiore calma, non poteva non chiederselo. Non poteva non attribuire il merito a Federica.
 
  • Devo assolutamente suggerire alle mie amiche di leggerla!
L’anonimato che riusciva a conservare in quel modo, era rassicurante. Nessuno sapeva chi fosse Sea, a parte Federica, Olga e Ilaria. Voleva solo che quella vita ritrovasse nutrimento nelle menti dei lettori, così che forse, un giorno, anche lei sarebbe stata in grado di voltarsi indietro con malinconia. Senza alcuna sofferenza.
Ancora, l’immagine di Edward, si ripropose ai suoi occhi, meno chiara. Sembrava non voltarsi di proposito. Sembrava che fosse lui a lasciarla andare lentamente.
L’odore del pranzo di Natale le invase le narici.
 
  • Oh, guarda! – Ilaria la tirò a sé, facendole finire il viso nei suoi capelli ricci e scuri. – Credo che ti sia appena arrivato un messaggio.
  • Un messaggio?! – Sara rispose più a se stessa che a sua cugina.
Portò il cursore sull’icona della casella di posta ed entrò nei messaggi in arrivo. Da una certa Nir..Niria?!
Uno strano nickname che non riuscì a leggere di primo impatto, poi aguzzò gli occhi insieme a Ilaria, quasi più curiosa di lei. Un lungo testo, fitto e con pochi capoversi, si proponeva alla loro lettura.

 
Da Nirai1235 a te (25/12/14, ore 12:14)

Oggetto : Grazie

Testo del messaggio:

Ciao... Innanzi tutto ti chiedo scusa se ti scrivo qui ma mi dispiaceva non scriverti quello che penso su "Afire Love" perché sono parole che mi escono davvero dall'anima. Ho scoperto la tua storia pochi giorni fa, quattro per la precisione e sei diventata la mia droga, sei diventata la mia fissazione, l'unica cosa che volevo fare era leggere dei sentimenti di Sara, dei pensieri di Ed e di come sarebbe andata a finire. Non puoi immaginare quante volte mi hai spinta sull'orlo delle lacrime. All'inizio ero titubante nel continuare perché mi sembrava la solita storia da fangirl e invece dopo si è evoluta in una delle migliori ff che io abbia mai letto. Non ti ringrazierò mai abbastanza per averla condivisa su efp. Non so come hai fatto ma sei riuscita a scatenare in me sentimenti veri, come se quello che leggevo lo vivessi in prima persona, hai un talento immenso. Sono allibita dalla perfezione delle descrizioni dei gesti, delle espressioni, delle emozioni che provano i protagonisti... È perfetta. Senza parlare dello stile! Non usi la prima persona, che è una cosa rara quanto difficile, quindi ti faccio tantissimi complimenti. Il modo in cui scrivi non risulta mai pesante, mai prolisso e ogni parola che usi è indispensabile per trasmettere l'infinità di sentimenti che racconti. Sono davvero esterrefatta da questa fanfiction, giuro che non ho mai letto niente che mi abbia toccato così tanto nel profondo... Grazie.
E le descrizioni delle scene in cui fanno l'amore? Di quando Ed vede Sara come una sua "proprietà"? Cielo... Da tachicardia! Adoro quelle parti perché non sei troppo spinta e affronti la situazione dal punto di vista sentimentale senza tralasciare quello fisico: un mix esplosivo. Sto finendo questi capitoli, al momento sono al 21 ma non resistevo a finire senza dirti quello che penso e senza ringraziarti dal profondo del mio cuore per avermi emozionato così tanto! So già che prima della fine scoppierò a piangere perché già per l' "addio" a Napoli è stato difficilissimo trattenersi... Hai un talento immenso davvero. Il tuo è davvero un dono e ti invidio molto per questo. Mi sei di ispirazione e cercherò in te l'ispirazione per poter a mia volta trasmettere quello che sento nelle mie storie.
Sei fantastica... Grazie infinite...
Corro a finire gli ultimi capitoli. Un grandissimo abbraccio.
 

Wow.
Cosa era appena accaduto?
Sara, con un turbinio di sensazioni che scorrevano veloci nelle sue vene, guardò Ilaria, senza sapere cosa fare. Sempre che ci fosse davvero qualcosa da fare. Riusciva solo a distinguere una scintilla di entusiasmo farsi spazio nel suo petto.
 
  • Che carina! – commentò Ilaria, con un tono mieloso nella voce. – Devi risponderle!
Risponderle?
Il format della risposta era già lì, poco sotto le ultime parole di quella ragazza.
“Sono allibita dalla perfezione delle descrizioni dei gesti, delle espressioni, delle emozioni che provano i protagonisti.”
Quindi lei lo aveva sentito. Aveva sentito.
Mai come in quel momento credette che allora il suo Edward fosse da qualche parte, che la attendeva. Solo per un momento, finché quella nuova sensazione prese il sopravvento.
Spostò il cursore sul messaggio di risposta e lasciò che le dita scorressero sulla tastiera, imprimendo quel flusso di pensieri sullo schermo. Senza nemmeno rileggere ciò che aveva scritto, schiacciò il tasto Invia risposta.
 

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Capitolo 7
*** VI ***


CAPITOLO VI
 






28 Dicembre 2014
 
Si erano scambiate molti messaggi, finché non decisero di aggiungersi su FaceBook e proseguire la loro conversazione in una live chat. Lo straordinario interesse che le aveva suscitato quella ragazza la tenne incollata al computer per ore, raccontandosi la vita senza sosta. Incredibilmente sorpresa da se stessa, Sara non riusciva più a farsi inutili problemi sull’anonimato e sulla privacy, si stava aprendo a quella fantastica ragazza senza freni, per qualche motivo. Ne parlò a lungo con Olga, come per assicurarsi che quel suo comportamento potesse esserle concesso, come se avesse ancora bisogno di autorizzarsi ad essere felice. Ad essere reale. La sua psicologa non fece altro che incoraggiarla, ricamando su quell’entusiasmo così inaspettato, ma positivo. Tuttavia, si era accorta che ci fosse un alone di preoccupazione sul viso della sua giovane paziente, come se stesse tentando di giungere al punto senza riuscirci. Poi si decise.
 
  • Arianne – così si chiamava quella ragazza che sembrava averle dato una martellata in testa – mi ha detto che le piacerebbe se ci incontrassimo di persona.
  • Beh – la vide fermarsi improvvisamente al centro della stanza, impaurita da chissà cosa – non mi sembra una cattiva idea. Magari un giorno potreste darvi un appuntamento.
  • Già, è che lei… - continuò sempre più insicura – non è di queste parti. Abita in un paesino vicino a Reggio Emilia.
Olga sembrò capire il percorso mentale che spingeva Sara a dubitare. Sicuramente non sarebbe stato facile convincere i suoi genitori a lasciarla andare, ma…
 
  • Capisco. Magari potrebbe accompagnarti qualcuno. – cercò di incoraggiarla, con un cenno di positività nella voce. Come se potesse rendere le cose più semplici attraverso le parole. – Sono sicura che Federica sarebbe felice di farti compagnia!
  • Pensi davvero? – sembrò riprendere il respiro – E pensi che vada bene chiederglielo subito?
 
29 Dicembre 2014
 
L’anno volgeva al termine e Olga non credeva si sarebbe fatta trascinare così tanto in quella situazione, era poco professionale da parte sua. Eppure eccola lì, con tutta la famiglia De Amicis seduta in vari punti dello studio che la fissavano con sguardo torvo, o forse incredulo, mentre spiegava che nella sua opinione Sara potesse fare questo passo: andare a Reggio Emilia insieme a Federica a conoscere una ragazza conosciuta sul web, spuntata dal nulla. Sara stringeva, dopo giorni, le cuffie tra le mani, di nuovo.
 
  • Anna – cominciò Federica – per me non è di alcun peso accompagnarla. Non preoccuparti, io e la Dott.ssa Olga siamo già organizzate per non perdere mai i contatti.
  • Signora De Amicis, la prego di incoraggiare sua figlia. È indispensabile sfruttare al massimo questo suo momento di crescita emotiva, senza impedirle di esprimere le sue abilità sociali finalmente riprese.
Lo sguardo dei suoi genitori non prometteva niente di buono. Arianne, dall’altra parte di uno schermo, assisteva alla seduta familiare, ormai parte integrante del processo. La montatura dorata dei suoi occhiali spiccava, nascondendo il lieve tremore.
 
  • Signora, non si preoccupi! – tentò di dire – La mia famiglia aspetta Sara a braccia aperte!
Un lungo silenzio avvolse la stanza, ma Sara ascoltava ininterrottamente Photograph, senza aver udito una sola parola.
 
  • Se non la guidiamo attivamente in questo processo adesso, potremmo fare diversi passi indietro e dover ricominciare da capo. È il momento giusto. – continuò Olga. – So che sembra una situazione rischiosa, ma le assicuro che con le giuste persone al suo fianco, Sara saprà autoregolarsi. E io, dal mio canto, mi assumo la responsabilità di qualsiasi cosa dovesse accaderle.
Sara non aveva sentito neanche questo, ma Federica sì. Aveva ascoltato la voce ferma di quella donna assumersi la responsabilità della felicità di Sara. Davvero inaspettato per lei, meno per Sara, forse, che le aveva parlato di Olga come se ormai fosse una sua cara amica, più che la sua psicologa.
I genitori di Sara, dopo lunghe ore di discussione, si arresero alla volontà della loro figlia. La lasciarono andare, promettendo che non avrebbero proferito parola fino al giorno della sua partenza. Il 4 Gennaio 2015.
 
 
4 Gennaio 2015
 
Il nuovo anno la stava trascinando fuori dalla sua casa per la prima volta con un sorriso sul volto.
I biglietti.
I numeri di emergenza.
La borsa.
Le cuffie.
Era tutto al suo posto, persino il suo cuore, sospinto dalla forza di Federica su quella carrozza del treno ad alta velocità. Prossima fermata: Reggio Emilia AV.
Le ore che le separavano da Arianne sfumavano via tra la musica, le foto e le chiacchiere. Era così bello sentirsi normali. Era così bello riuscire a controllarsi. Riuscire a pensare a Edward senza piangere. Così bello crogiolarsi nei suoi ricordi. A volte le sembrava di riuscire a fondere le sue vite, come se il fantasma di Edward le tenesse la mano ogni momento. Non c’era, eppure lo sentiva sempre dentro, prepotente. Rassicurante.
 
  • Stiamo facendo una cosa assurda, comunque. – disse Federica, ridacchiando – Stiamo andando a casa di una ragazza che non abbiamo mai visto e tutto grazie ad un sogno.
Rise anche lei, riflettendo sulla percentuale di probabilità che una cosa del genere accadesse alle persone.
 
Siamo in arrivo a: Reggio Emilia (Mediopadana). Invitiamo i signori viaggiatori a…
 
Neanche stavano ascoltando più, si alzarono dai loro posti e recuperarono i bagagli. Olga aveva già telefonato e lo stesso sua madre, quindi finalmente sarebbero state tranquille per qualche ora e avrebbero potuto godersi quel momento.
Il treno frenò, fischiando. Il sibilo della porta le fece aumentare il battito e seguì Federica fuori dal convoglio, come se stesse sognando. Si voltarono entrambe nel sentire un urlo in lontananza.
Arianne, quella ragazza con gli occhi nocciola e i capelli all’altezza delle spalle, gli corse incontro facendo diradare la nebbia intorno a sé.
Sara non urlò, come avrebbe fatto se tutta quella storia non fosse mai accaduta, ma riuscì ad accoglierla nel suo abbraccio senza avere paura di rimanere intrappolata in quella dimensione.


Ore 11:45
L’interno di quella macchina sembrava una bomba pronta ad esplodere, con tutte quelle parole che vorticavano insieme nell’abitacolo, contro i finestrini. Sara, Federica e Arianne non avevano smesso di parlare un solo secondo, dirette al McDonald’s più vicino per rifocillarsi. Se ci fosse stato Edward…
Il panorama dell’Emilia scorreva dal finestrino, insolito per quelle due ragazze campane, eppure così familiare agli occhi di Sara, che non poteva non ricordare le vaste pianure degli Stati Uniti. Certo, non c’era la nebbia, ma il suo cuore ebbe comunque un sussulto, per un attimo.
 
  • Non posso ancora credere che siate qui. – disse Arianne, senza distogliere lo sguardo dalla strada. – Ho così tante cose da chiederti, Sara.
  • Grazie per ospitarci a casa tua. – rispose lei, dal posto passeggero.
  • Ci mancherebbe altro! Mia madre non vede l’ora di conoscerti e mia nonna sta già preparando la pasta all’uovo per domani, sarà gran festa questo week-end!
Si riempirono la pancia e rimasero sedute a quel tavolo per ore, senza accorgersi che il tempo scorresse via, così prima che calasse il buio, Arianne le portò a visitare il centro storico di Reggio Emilia, ancora illuminato dalle decorazioni natalizie. Mentre passeggiavano, esauriti gli argomenti base, passarono ad una conversazione più personale.
 
  • Fede, come lo vedi questo Ed Sheeran? – chiese Arianne. – Ti piacerebbe davvero?
  • Sai, non lo so, in realtà. – Sara studiava attentamente le sue parole – Credo che potrebbe risultare un po’ diabetico se fosse davvero come dice lei.
  • Secondo me l’hai sognato anche un po’ più magro! – rise Arianne, rivolta a Sara.
  • A volte credo davvero di aver partorito il principe azzurro, ma bello era bello! – rispose lei, sognante.
  • Ma com’è stato? – fece Arianne, con tono più pacato – Svegliarsi senza ricordare nulla?
Un attimo di silenzio.
 
  • Credo che sia stato come svenire. – rifletté lei – Come risvegliarsi da un’incoscienza così profonda da sentirsi disorientati. Ti è mai capitato di alzarti dal letto senza ricordare che giorno fosse o dove ti trovassi?
Federica e Arianne la guardarono, come se stesse rispondendo di proposito con superficialità.
 
  • Ecco, è così. Poi alla fine ti ricordi tutto e ti alzi senza problemi, solo che io ci sto mettendo qualche mese in più.
  • Adesso stai molto meglio, vero? Si vede dal tuo viso. – aggiunse Federica sorridente.
  • Però – si intromise Arianne – credo che sia meno facile dimenticare lui, vero? – Sara la guardò come se temesse l’arrivo di quella domanda, in imbarazzo per essere stata scoperta così in fretta.
  • È come…se fosse morto, adesso.
E con quella considerazione che le aleggiava nella mente, si perse nella descrizione di quella sensazione di accettazione sempre più assaporabile.
I primi due giorni di vita emiliana trascorsero tra fiumi di parole e foto ricordo, telefonate ricorrenti con Olga e i suoi genitori, pattinate sul lungo Po e visite ai musei. La famiglia di Arianne era davvero fantastica. Si rese conto che aveva del tutto dimenticato le cuffie e non se ne era accorta. Andava tutto alla grande, si sentiva incredibilmente bene rispetto a soli pochi giorni prima. Poi una sera Arianne la convinse a conoscere i suoi amici. Federica si era accorta che era nato un cenno di esitazione nella sua amica.
 
  • Cosa ti preoccupa? – le chiese. – In questi giorni hai già conosciuto tutta la famiglia di Arianne.
  • Ma no, non sono preoccupata per quello, è solo che… - sospirò – non ho niente di carino da mettermi.
  • HAHAAAAAAA!
Arianne si fiondò nella stanza con fare provocatorio, ridendo a crepapelle con Federica mentre insinuava che sicuramente avrebbe fatto colpo sul suo amico. Voleva sprofondare in un qualsiasi punto del pavimento, ma non poteva, le sue guance illuminarono di rosso tutta la piccola stanza di Arianne. In effetti era un’eternità che non parlava con un uomo, non si ricordava nemmeno come fosse. Un moto di repulsione le prese lo stomaco, all’idea di tradire Edward.
Finirono per recuperarle qualcosa che le piacesse dall’armadio dell’una e dalla valigia dell’altra, la rimisero in sesto definitivamente col trucco e il parrucco e quando Sara si guardò allo specchio quasi stentò a riconoscersi. La Sara nello specchio somigliava terribilmente alla Sara che Giuseppe aveva preparato per la sua magica serata. Batté le palpebre e un secondo dopo, invece, vide solo una ragazza carina, che usciva con le sue amiche. Sentì il fantasma di Ed seguirla fuori dalla porta del caldo appartamento. Aveva cominciato a nevicare.
 
 
Ore 19:50
  • Incontreremo Beatrice, Luca ed Emanuele. Lui lavora nel mondo dello spettacolo. – cominciò Arianne, mentre uscivano dall’auto.
  • È un attore?
  • No, è un gobbista. A volte svolge anche altri ruoli, ma magari sarà lui a raccontarvelo.
Non si era accorta che la persona di cui stesse parlando Arianne fosse ormai davanti a lei.
 
  • Volentieri!
Un ragazzo più alto di lei, occhi e capelli di un castano scuro, un bel sorriso sul volto. Doveva essere Emanuele. Per qualche motivo deglutì.
 
  • Tu devi essere la famosa Sara. – continuò, dopo aver stretto la mano a Federica.
  • … - qualcuno le diede una gomitata per farle uscire le parole di bocca. – P-piacere!
Si strinsero la mano e si presentò anche a Beatrice e Luca.
 
  • Com’è andato il viaggio? Ti piace l’Emilia? – disse lui, rivolgendosi direttamente a Sara, mentre entravano all’interno del locale.
  • L’avevo detto, io. – disse sottovoce Arianne, senza curarsi troppo di non essere ascoltata. Federica rise, cercando di trattenersi.
  • Cosa? – Emanuele non aveva colto il suo tono canzonatorio.
  • NIENTE!
Sara voleva scomparire. In qualche modo finirono per farla sedere accanto a lui, che continuava a farle mille domande, sempre più dirette, sempre più personali. Scoprì che non le dispiaceva rispondergli, ma dovette fare in modo da evitare qualsiasi accenno alla salute o alla scrittura. Quando capì che lui fosse all’oscuro di tutto, quasi riuscì a godersi il suo sorriso. La neve fuori cominciava ad attecchire.
 
  • Sai – disse lui, mentre prendeva una boccata di fumo dalla sigaretta. Lo aveva accompagnato all’esterno, più curiosa del paesaggio innevato che altro. – mi dispiace che andiate via così presto. È bello parlare con te.
Sara osservò i suoi occhi allegri che la guardavano da qualche centimetro più in alto. Per un momento vi sovrappose quelli di Edward.
 
  • Già, anche a me dispiace. Sto…davvero bene qui. – disse lei, distogliendo lo sguardo, ripensando a casa sua.
  • Devi assolutamente lasciarmi il tuo numero. – le porgeva già il cellulare, notò le sue dita nodose e la pelle olivastra nonostante fosse pieno inverno. Le sue origini siciliane erano evidenti.
Un brivido le percorse le gambe lasciate scoperte dalla gonna che indossava, le mani vibravano spuntando dalle maniche del cappotto mentre afferrava il suo telefono. Scrisse il suo numero e lui subito le fece uno squillo, per lasciarle il proprio.
Non osò prendere il cellulare, per non mostrarne lo sfondo.
 
  • Magari qualche volta potrei portarti sul set di qualche film. Ti piacerebbe. Arianne dice che ti piace scrivere. – un’altra nuvola di fumo.
  • Si, beh, diciamo che se ne ho voglia, scrivo molto.
  • E di recente?
  • Di recente nulla, mi dispiace… - abbassò lo sguardo come per simulare un imbarazzo improvviso, utile solo a nascondere la sua espressione carica di tensione.
  • Peccato. – gesticolò per accentuare quel dispiacere. Il suo accento romagnolo era piuttosto buffo. – E dimmi…sei fidanzata?
  • S-
 
Si fermò in tempo. “Sono sposata” era di certo la più grossa bugia che avrebbe potuto dirgli. Deglutì, mandando giù quel boccone così amaro.
 
  • No… - cercò di simulare un semplice lapsus. – E tu?
  • Fortunatamente no.
Per qualche motivo sorrise vedendo quel luccichio nei suoi occhi. E non riuscì a smettere. Che strana sensazione. Che strana confusione che sentiva.
Continuarono a parlare fino a che gli altri li raggiunsero fuori, guardandoli come se li avessero colti in flagrante. In effetti Sara doveva ammettere a se stessa che parlare con quel ragazzo le aveva messo un buon umore che le sembrava di provare per la prima volta.
Federica e Arianne ringraziarono il cielo che quel tentativo di lasciarla sola con qualcuno che non conoscesse fosse andato a buon fine e non mancarono di informare Olga tramite un messaggio, per tenerla aggiornata di quelle cose che sembravano essere importanti per la guarigione di Sara.
Ovviamente la presero in giro per diverse ore prima di dormire, sottolineando quante volte gli occhi di lui fossero finiti sulle sue gambe lunghe. Persino la mattina dopo, quando lui si presentò a casa di Arianne con la colazione, non si risparmiarono di punzecchiarli entrambi, lasciandoli ancora una volta soli. La sorte volle, chiamatela fortuna o sfortuna, come volete, che la madre di Arianne rientrasse in casa. Salutò calorosamente Emanuele e commentò allegramente l’averli trovati lì, insieme, seduti sul divano a chiacchierare.
 
  • Sara – cominciò Monica, la madre di Arianne – volevo proprio parlare con te.
Sara la guardò chiedendosi cosa mai avesse da dirle Monica, mentre Arianne e Federica facevano capolino nella stanza. Emanuele distolse da lei lo sguardo, incontrando il sorriso sbilenco della sua amica, ma il suo viso magro e colorito passò in secondo piano per un po’.
 
  • Dimmi pure – e si alzò dal divano per sedersi al tavolo poco distante.
  • Ho letto con attenzione il tuo lavoro. – Quale lavoro? Si chiese Sara, spaesata – e trovo che sia davvero ben fatto. Avrei solo un paio di appunti.
Guardava il suo viso decorato dai capelli corti spettinati, senza capire, ma forse Arianne avrebbe saputo chiarire quella situazione.
 
  • Mamma…dici sul serio? – come se lei avesse già capito dove volesse andare a parare.
  • Mi piacerebbe – riprese Monica – proporti al mio capo redattore. Per una pubblicazione.
  • U-una pubblicazione? – rispose Sara, automaticamente, senza quasi scomporsi.
  • Mia madre lavora per una casa editrice come revisore dei testi e credo che una copia della tua storia mi sia accidentalmente scivolata di mano qualche giorno fa.
Arianne disse quella frase tutta d’un fiato, tutta presa dall’eccitazione per quella piccola monelleria. Federica la guardava sconvolta. Nessuna delle due aveva idea di quale fosse il lavoro di Monica. Anche Emanuele tirò su la testa e tese le orecchie per ascoltare meglio.
 
  • Stai parlando di Afire Love? – si rivolse direttamente a lei.
  • Certo. Credo che non ci sia motivo di aspettare oltre. – cominciò a spiegare – Sono già sicura che la cosa andrà in porto. Ho mandato una copia in lettura a Marco, questa mattina, sperando proprio di incontrarvi a casa.
  • Ma… - guardò Federica in cerca di una risposta giusta.
  • Sara! – disse lei, di rimando, con i lunghi capelli intrecciati e gli occhi sgranati. – Ci stai anche pensando?!
  • Sarà un successo. – aggiunse Monica. Emanuele cercava di mettere insieme i pezzi.
Le squillò il telefono proprio in quel momento, sua madre chiamava per il loro aggiornamento orario. Le rispose con calma, gli occhi persi nella stanza.
 
  • Mamma?
Silenzio.
 
  • Sto per pubblicare un libro.
Udendo quelle parole, il sorriso si fece spazio sul volto di Emanuele come un raggio di sole dopo una notte di tempesta.

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Capitolo 8
*** VII ***


CAPITOLO VII
 
 

Ancora una volta a Nirai1235 e FaithBoss

e all'amicizia sincera che

hanno saputo sempre

donarmi

.




 
7 Gennaio 2015
 
  • Mi fido molto del parere di Monica, quindi non mi aspettavo qualcosa di diverso.
Marco Berrettoni, capo redattore della casa editrice Exemple, le illustrava i suoi pareri sulla storia e sulla narrazione dal retro di una grossa scrivania di legno, stracolma di fascicoli e cartelline. Una grossa pila sembrava volesse precipitare al suolo da un momento all’altro, ma lui doveva essere troppo indaffarato per occuparsene o magari si trattava solo dei racconti di quei poveri autori scartati.
 
  • Sicuramente è una storia che può vendere bene nelle librerie italiane, quindi è assolutamente necessario che tu la rimuova immediatamente dalla piattaforma sulla quale l’hai svenduta. – continuò. Le sue sopracciglia erano folte e nere, si accostavano male ai capelli brizzolati.
  • Certo, lo faremo non appena saremo rientrate. – rispose Monica per lei.
Federica e Arianne erano rimaste nel corridoio, poiché la firma del contratto e il contratto stesso dovevano rimanere segrete e non essere divulgate. Come se poi lei non sarebbe corsa da loro a raccontare tutto. Certo.
 
  • Il contratto è più che chiaro, mi sembra. Ha qualche dubbio in proposito?
  • Sì, signor Berrettoni.
  • Mi dica cosa la lascia perplessa.
  • I diritti d’autore, signore.
  • Mi sembra che i suoi proventi siano più che vantaggiosi! – una voce quasi da tenore.
  • Non i miei, signore.
Sara non aveva smesso di tormentarsi un solo secondo da quando aveva fatto quella ricerca su Google. Era chiaro che per citare le canzoni di Edward e il suo stesso nome fossero necessari dei permessi, senza badare al fatto che sarebbe stato davvero imbarazzante fare i conti con gli sguardi delle persone. Il suo nome, dopotutto, sarebbe stato scritto nero su bianco in cima alla copertina.
 
  • Quelli del…cantante, signore. – continuò – Vorrei sapere come funziona, in questi casi. Lui – deglutì – avrà informazione diretta di questa pubblicazione?
  • Necessariamente, sì. Chiunque venga citato in una pubblicazione che non riporti fatti reali, bensì di fantasia, soprattutto personaggi pubblici come il cantante Ed Sheeran, viene messo al corrente delle pubblicazioni che contengono il proprio nome. È una prassi che di solito non crea alcun tipo di problema, se ne vedono tanti di scritti come questo. Quindi non si preoccupi, lei di certo non rischia niente.
Era facile a dirsi per lui. Il vero Edward Christopher Sheeran avrebbe saputo in qualche modo della sua esistenza e - cosa per fortuna meno probabile - avrebbe letto quel racconto. Sperò che la notizia lo sfiorasse soltanto. Che ne restasse del tutto indifferente. Che vergogna.
 
  • Domani mando il libro in stampa. Trentamila copie dovrebbero bastare per coprire le prime vendite, sei d’accorto Monica? – lo disse come se fosse una stima anche troppo al di sotto delle sue aspettative.
  • Speriamo non bastino, signor Berrettoni! – rise Monica.
  • Ha qualche richiesta particolare per la copertina? – ora si rivolgeva direttamente a lei.
  • Ecco… - era pur sempre la sua vita, quella. – Sarebbe perfetto, secondo me, un tramonto.
Come quelli che avevano acceso cieli, occhi, cuori e momenti indimenticabili di quella vita.
 
“Di quel giorno le sarebbe rimasto un colore, quello dei capelli di Ed illuminati.
Probabilmente perché ad esso associava quel suo enorme, vasto, infinito sentimento.
Come un sole rosso acceso.”
 
  • Lo trovo adeguato, sì. – il modo in cui marcava le S la riportò in quella stanza. – Monica, che fortunatamente può fungere da nostro assistente alla comunicazione, la terrà informata sull’avanzamento della stampa. Adesso devo salutarla, Sign.ina De Amicis.
Si strinsero la mano con decisione, non sapeva nemmeno dove l’avesse presa tutta quella forza.
 
  • È stato un piacere fare affari con lei.
  • Anche per me.
 
Uscì dalla stanza con i capelli elettrici, come se fosse appena scesa da una montagna russa. Federica e Arianne si alzarono, in attesa degli aggiornamenti.
Monica parlò per lei.
 
  • Il libro va in stampa domani. – disse sorridendo.
Le urla bambinesche delle sue amiche colmarono il silenzio di quelle laboriose stanze e la scortarono fuori dall’edificio, per festeggiare. 
 
  • Allora, hai chiesto quella cosa a Marco? – chiese subito Arianne.
  • Sì… - cominciò – Lui lo saprà. Che vergogna!
Si portò le mani al viso, sconvolta. Stava per pubblicare con il suo vero nome quella storia. Tutta l’Italia avrebbe ficcato il naso nel suo più intimo segreto. Si chiese come avrebbero reagito le persone, come avrebbe reagito lui, che da qualche parte, in quel momento, stava probabilmente suonando una chitarra, senza avere il minimo sospetto della sua esistenza. Senza sapere nulla di ciò che era stato. Chissà…chissà se il vero Ed Sheeran somigliava almeno un po’ all’uomo che aveva conosciuto e che aveva amato al punto di desiderare di morire.
 
Le prime ore trascorsero al telefono, in mezzo alla neve che non accennava a sciogliersi. Si sgolò per raccontare tutto a Olga e per rassicurare sua madre.
Si guardò nel riflesso di una delle vetrine dei negozi che Federica e Arianne stavano per svaligiare. I suoi capelli ricci si stavano allungando e le guance erano più rosee. Stava bene. Si guardava e capiva che stava bene. Si trovava bella e stava per pubblicare un libro. Non un solo secondo della sua sofferenza era andato sprecato. Non uno solo dei suoi sentimenti era sfiorito. Sarebbe cresciuto ancora e a dismisura grazie agli occhi di chi avrebbe letto le sue parole.
Mentre la portavano a festeggiare, a sera inoltrata, si chiese cosa mai sarebbe accaduto ancora se soltanto nell’ultimo mese la sua vita era cambiata a tal punto. Si chiese, carezzandosi l’anulare sinistro, se Edward sarebbe stato fiero di lei.
Si chiese se anche lei fosse riuscita a renderlo eterno.
Inchiodato per sempre in un libro così come lo era nel suo cuore.
 
  • E così – la portiera della macchina si spalancò. – mi hai mentito!
Emanuele. La sua inconfondibile voce allegra. L’accento buffo.
 
  • Sto scherzando. – rispose gentilmente, al suo sguardo interdetto.
Le porse la mano per aiutarla a scendere dall’auto in mezzo alla neve. Fu contenta di aver accettato, perché nel tragitto dall’auto al locale rischiò di scivolare ben più di una volta. Si accomodarono ad un tavolo e ordinarono da bere. Per lei, che non beveva da troppo tempo, una corona sale e limone. La stessa che aveva bevuto pochi mesi prima allo Swinging Blues, ballando tra le sue braccia. Il sapore sulla lingua fu una tortura. Sentì quasi il suo respiro sulle labbra, finché la voce di Emanuele non la riportò indietro.
 
  • Stai bene? – le chiese. – Vuoi un fazzoletto?
Si sfiorò gli occhi, scacciando via quell’unica lacrima che era sfuggita e cercò di dissimulare, riprendendo il controllo della sua mente. Non avrebbe più sfiorato la birra.
 
  • Sì, scusa – disse subito – mi era andato qualcosa nell’occhio.
  • Allora, niente di recente, eh? – la rimbeccò, con sguardo da malandrino.
  • È una storia piuttosto lunga, non volevo annoiarti. – alzò la mano per chiamare il cameriere e ordinare una Coca Cola.
  • Non mi annoio quando parliamo – rispose, sporgendosi verso di lei dal lato opposto del tavolo, i loro amici che li guardavano di sottecchi. – Sono curioso. Davvero.
  • Ecco… - si sentì in difficoltà, ma ormai che differenza faceva. – è il sogno che ho fatto durante il coma. Tutto qui.
Sembrò colpito. Non sapeva se dal sogno o dal coma.
 
  • Wow. Ed è così bello da venir pubblicato con così tanta fretta?
  • Pare di sì. – fece spallucce. Sperò che non lo acquistasse.
  • Perché non me lo racconti tu?
Se Edward fosse stato lì avrebbe cominciato a fare tutti quei gesti demarcatori che metteva in campo quando si ingelosiva. Le avrebbe messo la mano sulla gamba in modo plateale e l’avrebbe baciata lanciando un’occhiataccia al malcapitato. Ma lui non c’era, quella volta.
 
  • Insisto. – riprese Emanuele. I suoi capelli ben spazzolati erano fin troppo perfetti.
  • La faccio breve. – sospirò pesantemente, roteando gli occhi per cercare di non diventare prolissa. – Ho sognato di incontrare una persona…famosa, ecco. Che ci innamorassimo e vissero tutti felici e contenti.
La sommerse di domande e non smise quando le chiese di accompagnarla fuori per la sua sigaretta.
 
  • Ne vuoi una? – le chiese. Non si aspettava che la prendesse. – E tu…sei ancora innamorata di lui? Ci soffri ancora?
  • Hm… - sputò fuori il fumo con naturalezza, godendosi quella sensazione di calore nel petto che non sentiva da chissà quanto. - …sono in terapia da una psicologa, ma adesso sto cercando di voltare pagina. – il suo tono era aspro.
  • Mi dispiace. – rispose sinceramente. – Non pensavo ci fosse tutto questo dietro il tuo libro. Però sono anche contento.
  • Di cosa? – lo guardò come se stesse per scoprire il vaso di Pandora.
  • Che quel dolore ti abbia portato qui.
 
Arianne spuntò alle loro spalle senza lasciargli il tempo di concludere il discorso. Emanuele non smise di guardarla, quasi con un certo imbarazzo sulle gote. Affondò il viso nel cappotto fin quando non giunsero di nuovo a casa.
 
|Domani passo a salutarvi prima che partiate. Buonanotte |
 
  • È Ema, vero? – disse Arianne dal suo letto, nel buio.
  • Come fai a saperlo? – rispose Sara, contemplando quel messaggio, per poi posare il cellulare.
  • Lo conosco da così tanto tempo che sapevo che si sarebbe preso una cotta per te da prima che vi incontraste.
Federica rise a crepapelle del fatto che Emanuele sembrava essersi dimenticato di essere con gli amici, quella sera e prese in giro Sara per la sua poca perspicacia.
Ma lei si era accorta. Se n’era accorta subito. Solo non voleva ammettere di poter interessare a un altro uomo. E soprattutto non voleva ammettere che un altro uomo potesse interessarle.
 
 
8 Gennaio 2014
 
Il libro era in stampa e il suo treno era in partenza. Lei e Federica avevano già caricato il bagaglio a bordo, non restava che salutarsi.
 
  • Allora alla prossima. Chiamami se hai voglia di parlare.
Emanuele la abbracciò e per qualche motivo lei ricambiò, con già un pizzico di nostalgia. Il bacio che le diede sulla guancia, con quegli occhi così scuri, la turbò solo per un attimo.
Le sfuggì una lacrima quando salutò Arianne. Proprio non sapeva come avrebbe mai potuto ringraziarla.
In fondo, pensò osservandola dal finestrino del treno, le aveva salvato la vita.
Le sue amiche le avevano salvato la vita.
Se non fosse stato per loro forse a quest’ora la sua anima sarebbe stata perduta per sempre.

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Capitolo 9
*** VIII ***


CAPITOLO VIII
 
 


 


Stuck in her daydream
Bloccata nel suo sogno ad occhi aperti

Been this way since eighteen
È così da quando aveva diciotto anni

But lately her face seems
Ma ultimamente il suo viso sembra

Slowly sinking, wasting
Affondare lentamente, logorarsi

Crumbling like pastries
Sbriciolarsi come pasticcini

And they scream
E urlano

The worst things in life come free to us
Le cose peggiori nella vita vengono a noi gratuitamente

'Cause we're just under the upper hand
Perchè siamo sotto la mano del Signore








29 Gennaio 2015
 
Il suo ritorno a casa era stato turbolento, tra tutte le domande e tutte le fissazioni di sua madre riguardo al fatto che avesse pubblicato qualcosa di così personale, ma infondo cosa le importava? Non riguardava di certo lei, tantomeno i suoi sentimenti. Si chiese perché il loro rapporto dovesse essere così, se mai sarebbero riuscite a trovare un modo di comunicare. Forse, si disse di nascosto, in un angolo profondo, non era stata abbastanza nemmeno la convinzione di averla persa per sempre. Sperò che non fosse così.
 
Quei lunghi ventuno giorni li aveva affrontati per lo più insieme a Olga, che la stava guidando nel suo percorso di accettazione della perdita. Talvolta le erano servite le cuffie per affrontare la concretezza di quegli avvenimenti, di quelle sensazioni, ma cominciava ad ammettere a se stessa che il peggio fosse passato e che probabilmente nessuno avrebbe creduto che quel racconto la riguardasse così da vicino: una scemenza da ragazzine, una fanfiction scritta mediocremente buona per le vendite. Il 21 Gennaio Monica l’aveva informata che il lavoro di stampa fosse terminato e che per la successiva settimana si sarebbe provveduto alla distribuzione. Poi, come uno schiaffo in pieno viso, le disse che avrebbe dovuto fare una presentazione per promuovere il libro.
Una presentazione. Che prevedeva la presenza di persone. Alla quale non aveva il coraggio di invitare nessuno dei suoi parenti o amici.
 
  • Eppure è una cosa che fanno tutti gli scrittori. – disse Olga – Credo che tu sia pronta per questo. Se sei riuscita a instaurare un rapporto di confidenza con Emanuele, puoi anche presentare il tuo libro.
  • Lo so, – rispose Sara – il punto è che devo tenerla domani e non so nemmeno a quanto possa servire questo sforzo. Devo proprio farlo?
Edward nel tempo aveva dovuto abituarsi a tenere interviste che a volte sembravano sottospecie di interrogatori, suonava dinanzi a milioni di persone, nonostante in fondo fosse un ragazzo schivo e riservato. Lei stessa – forse – aveva dovuto sperimentare quella tortura mediatica, ci aveva addirittura preso la mano dopo il ricovero e il ritorno negli States, ma…
Era davvero lei quella persona che per la prima volta le sembrava una proiezione di ciò che semplicemente avrebbe voluto essere?
Per la prima volta, in quei giorni di frenesia, si sentiva come se stesse cominciando a distaccarsi dal sogno e a rifugiarsi nella realtà.
 
  • Vuoi tirarti indietro? – la sfidò Olga, i suoi occhi stanchi ammiccarono dietro gli occhiali.
No. Ma non voleva nemmeno affrontare gli occhi indagatori di coloro che avrebbero partecipato. Occhi reali.
Occhi troppo spesso giudicanti.
 
 
30 Gennaio 2015
 
Federica le teneva la mano con la circolazione probabilmente in tilt e le nocche sbiancate. I suoi genitori se ne stavano defilati in un angolo con un gruzzoletto di parenti, un gruzzoletto piuttosto corposo, ma erano pur sempre la sua famiglia. La intenerì il fatto che fossero tutti lì, cugini, zii, persino sua nonna se ne stava seduta tutta impettita per l’orgoglio.
Poi, uno dopo l’altro, i suoi amici varcarono la soglia di quella piccola libreria della sua città, d’altronde ambientazione primaria della storia. Ventuno, ventidue, ventitré…aumentavano a vista d’occhio. Le persone che passavano dinanzi alla vetrina si fermavano incuriosite, finendo per entrare. Qualche ragazzina faceva dei selfie con una copia tra le mani. Smise di contare o le sarebbe venuta una crisi.
Senza Federica sarebbe già scappata.
Il banchetto dietro al quale sedeva, con un microfono davanti, le metteva la stessa ansia che aveva quando andava a scuola il giorno dell’interrogazione. Il tramonto spiccava sulla copertina del libro, in contrasto col bianco dell’ambiente e delle suppellettili.
 
  • Bevi un po’ d’acqua. – e lo fece.
  • Guarda solo me. – e lo fece.
  • Fai un profondo respiro e poi parla.
E lo fece.
Federica le suggeriva qualche parola con le labbra, gesticolava con le braccia per incitarla.
 
  • Buonasera. – l’eco del microfono fu una terrificante scoperta. – Grazie a tutti…
Ancora seguì le labbra della sua amica, come fossero il Vangelo.
 
  • …per essere venuti. – il suo sospirò vibrò nel microfono e nella stanza, mentre cercava di respirare. – Non mi aspettavo di vedere tante persone.
E più parlava, più ne accorrevano.
 
  • Q-questo racconto…ehm – grazie al cielo esisteva Federica – è la trasposizione di un fenomeno sociale che negli ultimi anni sembra dilagare tra i giovani. Le fanfiction sono…
Tutte balle. Continuò a parlare ma erano tutte balle. Aveva considerato la possibilità di dire la verità, anche solo per rendere la cosa più seria e affascinante, ma non riuscì a convincersi e decise con Olga di optare per i paroloni.
Quando distolse gli occhi dallo sguardo di Federica, scoprì che un centinaio di persone aveva ormai affollato quel cubicolo. Mariasole le sorrise dalla terza fila di sedie, mostrandole i pollici in su. Continuò finché finalmente giunse il momento delle domande.
Perché hai scelto di usare questa formula narrativa invece della racconto romanzato?
Il dialetto ha avuto effettivamente un’influenza nella narrazione?
Perché non ambientare la storia in una grande città, più verosimile rispetto alle fasi della vicenda?
Pensa che ci sarà un seguito?
Ma la gente non aveva altro da fare? Federica intervenne quando fu chiaro che Sara fosse sull’orlo del crollo, invitando le persone ad acquistare una copia del libro e ringraziandole per l’attenzione.
Molti si misero in fila per un suo autografo e le sorrisero dirigendosi in cassa. Li guardava come fossero alieni, mentre scriveva con sempre più fretta il suo nome sulla prima pagina. Tutto quello stava succedendo davvero. Chissà che faccia avrebbe fatto Edward, se l’avesse vista.
Quando finalmente l’ultimo cliente andò via, i suoi parenti e amici più cari poterono salutarla, dandole pacche sulla spalla e abbracci a volte un po’ troppo stretti.
Come in un sogno, li vide lentamente congedarsi, credette che finalmente lei e Federica potessero fare il loro esercizio di respirazione, ma le squillò il telefono.
Arianne.
 
  • Pronto Ari! – si tirava la gonna nera verso le ginocchia, chiedendosi perché mai l’avesse indossata sapendo fosse così scomoda.
  • Vai immediatamente su FaceBook, Instagram, Twitter, qualsiasi cosa!
  • Che succede? – aggrottò lo sguardo, chiamando in silenzio Federica.
  • La tua presentazione è ovunque, con l’ashtag #afirelove, #edsheeranbook e altre decine come questi!
Federica ascoltava ormai dal vivavoce e sgranava sempre più gli occhi ad ogni ricerca che faceva. Persino sulle fanpage trovava decine di post di ragazze che stavano acquistando il libro.
 
  • Qualcuno ha addirittura avviato delle dirette, è incredibile!
Non passarono cinque minuti che Monica le chiese di fare un’altra presentazione due giorni dopo, perché il trend delle vendite era più che positivo.
Il gestore della libreria la informò che aveva terminato le 50 copie che aveva ricevuto per la presentazione.
 
  • Ho già 24 nuove prenotazioni. – aggiunse. – Complimenti.
Si portò una mano alla fronte, chiedendosi perché mai si fosse cacciata in quel guaio.
 
 
***
 
 
Erano trascorsi poco più di cinque mesi da quando aveva riaperto gli occhi e raramente ricordava quelle giornate terribili in cui le sembrava che il mondo le fosse crollato addosso. Meno raramente pensava ancora a Edward. A quanto cominciasse a mancarle, nel modo in cui ti manca qualcuno che hai capito non potrai vedere mai più. Morto.
Il successo mediatico di Afire Love l’aveva distratta a sufficienza da poter guardare all’assenza come qualcosa di sostenibile, colmabile dalle ingerenze della vita, da tutte quelle giornate trascorse ad entrare e uscire dalle librerie, rispondere a domande, firmare copie. Non si aspettava certo che sarebbe andata in quel modo quando aveva controfirmato il contratto editoriale sotto il nome di Marco Berrettoni, pensando che fosse roba da poco, che lei e il suo Edward sarebbero rimasti nell’ombra alla fine. Come se soltanto i sentimenti potessero avere successo. Ma il mondo non andava così, lo aveva capito, era tutto un ingranaggio che girava intorno alla vita di coloro che avevano i soldi o la fama. O entrambi. Se dentro quel libro non fosse apparso il nome di Ed Sheeran, non avrebbe riscosso tutto quel successo. Semplicemente.
Milano era uggiosa, l’aria ancora fredda di Marzo sfiorava il viso di Federica, mentre si dirigevano in stazione per spostarsi a Venezia. Erano giorni che si spostavano dal sud al nord Italia, portando con sé sempre più stanchezza, sempre più perplessità.
Ormai la sua amica era diventata la sua migliore sicurezza, praticamente gestiva l’intero tour di promozione come se fosse la sua manager. E il signor Berrettoni non poteva esserne più felice, visto il numero di copie vendute solo nel primo mese, nel paese: 67.561, senza contare quelle che si stavano vendendo nella settimana ancora in corso e all’estero, con una traduzione da lei accuratamente controllata e approvata.
Un numero che le sembrava sempre più irrealistico se rifletteva su come era nata quella storia. Certo, non eguagliava le vendite di suo marito, ma la distribuzione a livello internazionale stava dando i suoi frutti. Intanto i social media continuavano a far rimbalzare foto, recensioni, un meccanismo di passaparola così potente da far spuntare su internet la fanfiction della fanfiction. Olga la chiamava ormai ogni 2-3 giorni, sua madre aveva allungato il periodo di aggiornamento alle 4 ore. Sembrava che stare lontane gli facesse solo bene.
Emanuele alla fine aveva comprato il libro e le stava più addosso del solito, insistendo per raggiungerla qui o là per passare del tempo insieme, per poter parlare a quattr’occhi dopo mesi di messaggistica a volte un po’ ambigua. Non era ancora riuscita ad ammettere che le piacesse e che un po’ le mancassero le sue iridi scure, perché ogni volta l’immagine delle spalle di Edward le offuscava i sensi. Quelli reali.
 
  • Sara – la chiamò Federica dal posto di fronte al suo, mentre il treno sfrecciava verso est. – ho appena ricevuto una mail dalla redazione di Exemple. – disse, senza staccare lo sguardo dal pc.
  • Cosa dicono? Va tutto bene? – si spostò i capelli sempre più lunghi dal viso, come per ascoltare meglio.
  • Vogliono vederci tra una settimana alla sede di Reggio Emilia per un meeting. – continuò. – Non saprei dirti se è tutto a posto, ma non vedo il motivo per cui debba essere il contrario.
  • Magari chiamo Monica, che ne pensi?
Il telefono squillò a lungo prima che rispondesse.
 
  • Tranquilla – si sentì dire – è solo una riunione di preparazione per le prossime decisioni editoriali. Come stanno andando le presentazioni?
La conversazione non si dilungò troppo, ma tanto il segreto professionale avrebbe impedito a Monica di dire qualsiasi cosa. Le gallerie interruppero il segnale prima che potesse salutare Arianne. Si sentì sufficientemente tranquilla da aggiungere quella tappa al calendario, l’ultima prima di tornare a casa, senza preoccuparsi di richiamarla subito. Federica appuntò tutto sulla sua agenda tipicamente lilla. Quando arrivarono a Venezia, il cellulare le vibrò di nuovo in tasca.
 
|Ho saputo che passerete da queste parti! Potrei passare a prendervi in stazione, che ne pensi? ;)|
 
  • Ormai è completamente andato. – commentò Federica, leggendo il messaggio di Emanuele.
La guardò e rise sotto i baffi, cercando di aiutarla a sistemare le valigie nel piccolo spazio della loro camera d’albergo.
Federica stava rinunciando a molto del suo tempo per lei, a molte delle sue possibilità, non vedeva il fidanzato da almeno un mese e tutto ciò che le stava dando in cambio era un tour veloce per l’Italia. Un giorno forse avrebbe saputo ricambiare quell’amore. Un giorno forse avrebbe saputo ricambiare anche quello del ragazzo dall’accento buffo.
 
|Ne sarei felice. |
 

***


L’urlo di Arianne era sempre lo stesso e preannunciava il fatto che Emanuele, sempre per fortuna o per sfortuna, come volete, non fosse venuto da solo. Lo vide da lontano, alzando lo sguardo dai capelli di Arianne. Si salutarono a distanza, per qualche strana tensione.
  • Dai, restate qualche giorno! – disse Arianne – Anche se sono al lavoro potete stare a casa!
  • Fede? – fece Sara, pensando che forse lei volesse tornare a casa prima possibile.
  • Ma si, ormai, giorno più, giorno meno. – rise, trovando complicità negli occhi dell’emiliana.
Emanuele strinse gli occhi sperando di attutire il suono che gli percuoteva i timpani mentre guidava. Sbirciò l’espressione di Sara dallo specchietto retrovisore, per poi incontrare i suoi occhi. Le stava accompagnando in redazione e forse era meglio tenere d’occhio la strada, altrimenti avrebbe finito per uscire dalla corsia con tutto quell’azzurro.
 
  • Ema, tu devi lavorare? – fece Arianne.
  • Ehm – cercò di darsi un tono. – Non lo so ancora per certo, sto aspettando che mi confermino un nuovo incarico in questi giorni, ma per ora direi che sono libero.
  • Di che si tratta stavolta?
  • Mi piacerebbe saperlo, ma spero di non dover fare il microfonista di nuovo. Finisco sempre per far entrare le aste nelle inquadrature.
Parcheggiarono e scesero di corsa dall’auto, il ritardo del treno si era trasposto sul loro appuntamento. Erano fuori tempo già di 20 minuti e Sara sperò che il signor Berrettoni non si arrabbiasse. 
Monica le attendeva al pian terreno, raggiante come sempre, le scortò fino al terzo piano e si infilò insieme a loro in una sala riunioni. Il tavolone di ciliegio al centro della stanza era usurato per l’utilizzo ma aveva un che di affascinante mentre il signor Berrettoni vi si trovava a lavorare, scrutando grafici e documenti.
 
  • Ah bene, siete arrivate. – cominciò, con la sua voce da tenore.
  • Scusi il ritardo. – rispose Federica, stringendogli la mano e Sara subito dopo di lei.
  • Non preoccupatevi, siete in tempo. – tese il braccio ad indicargli due posti liberi di fianco a lui, un grosso telo bianco all’estremità opposta del tavolo.
Monica le affiancò e non proferì parola mentre altre persone facevano il loro ingresso e prendevano posto al tavolo.
 
  • Vi ho convocato qui, autrice e manager, per fare il punto della situazione ed esplorare le nuove prospettive che si stanno aprendo in questi giorni per il futuro dell’opera. – i suoi cadetti preparavano il tavolo e la sala, come se non fossero ancora al completo. Due sedie erano rimaste vuote.
  • Bene, ci dica pure. – Federica aprì il pc e l’agenda come una vera professionista del settore.
  • Raccontatemi della promozione intanto.
  • Il tour promozionale è terminato ieri a Bologna e – espose Federica – troviamo aumentati sia il numero di accorrenti sia il numero di persone al firmacopie, tanto che spesso abbiamo dovuto trattenerci una o due ore in più. I social hanno sicuramente contribuito alla propaganda e abbiamo creato un profilo su quelli più famosi, per postare le nostre foto degli eventi.
  • Monica mi ha ben mostrato il vostro lavoro, molto bene. Mi complimento con lei per l’ottima gestione, signorina Petrone. – e lei sorrise, in imbarazzo. – Ma veniamo a noi.
Il proiettore mostrò il grafico delle vendite con una bellissima retta ascendente che si innalzava tra i mesi di Febbraio e Marzo.
 
  • Abbiamo dovuto ordinare una nuova ristampa dell’edizione italiana per il prossimo mese, mentre il numero di copie per la distribuzione internazionale è stato preventivamente aumentato vista la positività del trend, ma affinché il fenomeno non muoia prima che giunga la sua giusta fine, dobbiamo considerare una serie di iniziative che possano giovare alla nostra collaborazione, come editore e autore.
Sara cominciò a fissarlo, in attesa che queste proposte la schiaffeggiassero.
 
  • Una di queste, la più allettante a mio parere, è quella di – e alzò le sopracciglia in modo eloquente – realizzare un film.
Sara e Federica rimasero in silenzio, cercando di registrare la voce di Berrettoni nelle loro menti, mentre il resto dei collaboratori mormorava commenti.
 
  • Un film. – disse Federica, atona, guardando lui e Sara a momenti alterni, per carpirne le reazioni.
  • Esatto, un film! Vi aspettavo più entusiaste vista la vostra giovane età. – rise quasi lui, eccitato da quell’occasione così succulenta.
  • Raramente succede che un libro in esordio venga considerato per realizzare un lungometraggio. – intervenne Monica, come per sottolineare l’importanza di quella proposta.
  • E da chi verrebbe prodotto? Chi ha avanzato la proposta? – chiese Federica, cercando di risvegliare Sara con un sonoro calcio sotto al tavolone. Il suo cellulare cominciò a vibrare sul tavolo, il nome di Arianne sullo schermo. Dovette ignorare la chiamata ripetutamente.
Sara, dal canto suo, era in iperventilazione. Era perfettamente cosciente, solo non era pronta a quella sberla. Era ovvio che un film fosse una grande opportunità per il libro e per lei come autrice, ma era il colpo di grazia per la sua psiche. Avrebbe dovuto necessariamente parlare con Olga, perché già sentiva le gambe rammollirsi. Tutta la sua vita su uno schermo, non più soltanto immaginabile, ma concretamente visibile.
Proprio mentre il signor Berrettoni prendeva fiato per spiegare la cosa, qualcuno busso alla porta della sala.
 
  • Ah ecco, devono essere arrivati. Prego! – alzò il tono per farsi sentire.
Un uomo di grossa stazza si affacciò all’interno, con un cappellino in testa, il viso arrossato per il freddo. Per un attimo le sembrò di conoscerlo, ma non sentì gli occhi di Federica puntarsi su di lei con urgenza.
Un secondo dopo, dietro di lui fece capolino una figura che le fece precipitare il cuore nello stomaco. Le girava la testa.
Edward era appena entrato nella stanza.
 
Non fece in tempo ad afferrare la mano di Federica.
Svenne.

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Capitolo 10
*** IX ***


CAPITOLO IX
 



 
  • Sara!
Ecco, non era nemmeno entrato che qualcosa andava storto. Sentì un forte rumore di sedie e passi scalpitanti dirigersi verso di lui, ma non erano fan acclamanti. Sembrava che ci fosse qualcosa di particolarmente interessante sul pavimento, mentre lui e Stuart si facevano da parte.
 
  • Chiamate immediatamente il 118!
Riuscì a comprendere solo in parte quelle parole, ma sembrò che quella ragazza fosse particolarmente allarmata.
 
  • Mi chiamo Monica Frattini e mi trovo a via Gualtieri 117, sede di Exemple Editore. Una ragazza è svenuta. No, dovete venire subito, pochi mesi fa è stata in coma, non sappiamo cosa fare!
La signora con i capelli corti né il resto delle persone presenti li avevano salutati, poi vide il gruppo diradarsi e il volto di una donna pallido in terra.
Che fosse lei?
I grafici proiettati al muro catturarono la sua attenzione, il numero scritto in rosso in alto a destra doveva riguardare certamente le vendite di quel libricino che gli avevano fatto leggere. Incredibile quanto il suo nome potesse fare la differenza e non si negò un momento di vanagloria. La stessa che lo aveva portato fino a quella misera redazioncina italiana per far riprendere un po’ i suoi singoli in classifica.
 
  • She doesn’t recover. – gli disse Stuart, quasi preoccupato.
Era sempre troppo buono, ma lui non aveva voglia di starsene lì, in piedi, imbambolato in attesa che qualcuno facesse qualcosa. Sbuffò apertamente.
 
  • How rude! – commentò ancora il suo manager, dandogli una gomitata.
Qualcuno spalancò la porta per far entrare i soccorritori, che circondarono quella donna in pochi secondi.
 
  • Mr Sheeran! – finalmente qualcuno si degnava di parlargli. Con sguardo freddo, squadrò quell’uomo dalla testa ai piedi cercando di capire quale fosse il suo ruolo lì dentro. – Mi scusi per il trambusto. I’m Mr Berrettoni, chief editor of the Exemple Publishing House. Please, come with me.
 
Si sentì prendere per il braccio per essere guidato fuori dalla sala, insieme alle altre persone. Perché mai dovessero toccarlo, non lo capiva.
Al di fuori della porta una ragazza bassa piangeva, consolata dalla persona che aveva chiamato i soccorsi. Quelle lacrime poteva risparmiarle per lui, pensò. Voleva fumare una sigaretta, ma fu costretto ad entrare nell’ufficio del capo.
 
  • Sono molto dispiaciuto per l’accaduto. – cominciò.
  • Lei sta bene? – chiese Stuart in un distorto italiano.
  • Spero di sì, sa la ragazza ha avuto dei problemi di recente, per questo ci siamo allarmati.
O magari era svenuta alla sua vista. Non riuscì a trattenere un ghigno.
Ed non sapeva ancora quanto in realtà avesse ragione a pensarla in quel modo, ma non sapeva nemmeno quanto si stesse comunque sbagliando.
 
  • Lei è l’autrice del libro, Mr Sheeran. – proseguì Berrettoni, a cui non era sfuggito quel particolare. – Sono sicuro che saprà apprezzarla, è una donna molto capace.
  • Sure! – rispose, simulando un entusiasmo che proprio non poteva nascere in lui in quel momento.
Si continuarono a sentire le voci dei soccorritori per diversi minuti, ma il trambusto finì per calare in breve tempo. Il signor Berrettoni si allontanò per controllare lo stato delle cose. Federica, che aveva vissuto uno dei momenti più brutti della sua vita, sull’uscio dello studio spiegava che Sara si fosse svegliata già da qualche minuto e stava mangiando qualcosa.
 
  • Non abbiamo pranzato. – disse.
Ed finì per incontrare i suoi occhi confusi, ma la guardò senza alcuna esitazione. Non seppe dire cosa stesse pensando, si limitò a reggerne lo sguardo.
Federica, dal canto suo, era piuttosto preoccupata non solo per Sara, che era chiaramente svenuta perché non si aspettava di vedere proprio Ed Sheeran varcare la porta, ma anche perché non sapeva ancora quali fossero le condizioni cui avrebbero dovuto acconsentire per girare il film e non sapeva se e come sarebbero riuscire a dire no a quella proposta, se Sara avesse manifestato quella volontà.
Dopo quasi mezz’ora, Ed e Stuart furono ricondotti nella sala riunioni.
Stavolta, varcando la soglia, non svenne nessuno e Ed riuscì a godersi il momento di celebrità assorbendo il piccolo applauso che la congrega gli riservava. Ormai aveva imparato a fingere così bene che pensò che un film non sarebbe stato difficile da girare.
Si voltò verso la ragazza che era collassata, ma lei non lo stava guardando, fissava un punto indistinto del tavolo. Il volto era ancora pallido.
 
  • Thank you very much. – disse con la solita nonchalance, sedendosi sull’ultima sedia rimasta vuota, di fronte a lei.
La fissò di proposito, per il puro gusto di punzecchiarla. Ragazzina.
 
  • Di nuovo benvenuti alla nostra redazione, è un onore ricevervi. – Berrettoni riprese a parlare, sistemandosi la cravatta, per riprendere il suo tono professionale. – Stavamo giusto discutendo con la nostra autrice del momento, Sara De Amicis – e la indicò – e la sua manager Federica Petrone, che hanno appena concluso il tour promozionale italiano.
Federica prese la mano di Sara sotto al tavolo e la costrinse a voltarsi. Una scena piuttosto patetica, ma Ed non infierì ulteriormente, limitandosi a guardarla. Lei si voltò con una lentezza esasperante e vide finalmente la sua espressione atona, quasi pungente. Gli occhi azzurri erano vuoti.
 
  • È un piacere conoscerla. – disse Federica, sperando che Sara la seguisse a ruota.
  • Piacere. – fece lei.
Fu l’unica parola che disse, per poi voltarsi nuovamente. Il tremore era evidente.
 
  • Dunque, signorina Petrone, come le dicevo poco fa, si è presentata l’occasione di trasporre il libro in sceneggiatura. Noi della redazione siamo pronti a sostenere lei e la signorina De Amicis, manca soltanto il vostro consenso. – e guardò Sara come intravedendo la sua titubanza.
  • Siamo certamente onorate della proposta – cominciò Federica, tenendo d’occhio la sua amica. – ma prima di accettare vorremmo conoscere i dettagli della sceneggiatura e conoscere i nomi dei componenti del cast.
Ed la guardò con saccenza, chiedendosi secondo lei lui cosa ci facesse lì. E poi tutta quella formalità non serviva, era solo una storiella d’amore nata intorno alla sua figura. Quasi scontata. Lo aveva pensato ben prima di terminare di leggere la copia tradotta del libro.
 
  • La sceneggiatura è stata redatta dai collaboratori di Mr Sheeran, che hanno provveduto a portarne una copia alla vostra lettura questa mattina, per illustrarci la loro visione cinematografica della vicenda.
Stuart si sedette meglio sulla sedia, stretto tra Ed e Monica, mentre la traduttrice si poneva dietro di lui per fornire la chiarezza che gli sarebbe mancata.
 
  • La nostra squadra di professionisti – le due voci si sovrapponevano – ha rielaborato la trama soltanto in alcuni punti…hm…Ci piacerebbe ambientare tutta la prima parte della storia a Roma e…
Vide finalmente l’autrice voltarsi alle parole di Stuart. Il suo tremore si interruppe bruscamente e le mani si poggiarono sul bordo del tavolo. Continuava a non guardarlo e se ne sentì infastidito. Ultimamente non sopportava non sentirsi al centro della scena. Continuava a richiamare la sua attenzione con movimenti poco pensati, solo perché lei gli mostrasse l’appagante emozione della fan innamorata.
 
  • …che il protagonista maschile guidasse un’auto, invece di una moto. – la traduttrice si fermò, mentre Stuart voltava la pagina di quel piccolo fascicolo. – Inoltre, pensiamo che alcuni dialoghi vadano rivisti, ad esempio…quelli che riguardano la parte sentimentale potrebbero essere ridotti per dare maggiore spazio alla musica dell’artista.
Il signor Berrettoni sembrava pendere dalle labbra del suo agente e si sentì già sicuro della sua approvazione. Guardò il resto dei membri della redazione e vide sui loro volti lo stesso sorriso vuoto. Dondolò sulla sedia in attesa che Stuart continuasse, giocando con i suoi braccialetti, ma dovette riportare lo sguardo verso quella De Amicis.
 
  • Allora no. – la sentì dire. La sua manager la fissava quasi spaventata. – La risposta è no.
Il tono di quella mocciosetta era perentorio per essersi appena ripresa da un collasso. Stuart sembrò sorpreso quanto il signor Berrettoni, che già si agitava sul posto chiedendosi cosa avesse nella testa quella donna. C’erano in gioco centinaia di migliaia di euro.
 
  • Penso che – cercò di chiarire Federica – la signora De Amicis intenda dire che forse queste modifiche sono eccessive.
  • Rispetto a cosa? – chiese Berrettoni.
  • Rispetto alla natura della storia, sicuramente. – rispose Federica – Potremmo trov-
  • Se queste sono le modifiche richieste, non accettiamo. – ribadì Sara, ormai rossa in viso, interrompendo la sua amica.
Berrettoni voleva evidentemente sprofondare e Stuart si fermò a ragionare su quale fosse la mossa giusta, guardando il suo pupillo. Ed lo guardò a sua volta, con indifferenza, aveva già perfettamente espresso la sua opinione in merito a quell’idea e non era certo positiva. Lo avrebbe fatto solo alle sue condizioni, non voleva fare l’attoruncolo da commedia per adolescenti. L’Edward di Twilight era già sufficiente ad occupare quella carica.
 
  • Signorina De Amicis – riprese la traduttrice per Stuart – c’è un modo in cui possiamo accordarci?
  • Ce n’è solo uno, signor Camp – rispose Sara, senza degnare Ed di uno sguardo, ma rendendosi conto che il manager di Edward non si chiamasse J. – ed è non modificare nulla. – i suoi capelli sembravano gonfiarsi per la rabbia.
  • Ma signorina… - provò Berrettoni, senza sapere cosa stesse accadendo nella mente e nel corpo di Sara.
  • Signor Berrettoni, come redattore di una casa editrice – incalzò Federica, che ormai aveva capito le intenzioni di Sara – concorderà con noi che dei cambiamenti così radicali non si addicano ad un’opera così sentita.
Non ne poteva già più di tutta quella sceneggiata. Si passò una mano nei capelli rossi, per darsi una mossa ed alzarsi e in quel momento se ne accorse: lo stava guardando, finalmente. Perché proprio in quel momento, non lo sapeva. Ricambiò quello sguardo truce e spaesato a momenti alterni e si alzò godendosi la sensazione del suo effetto su quella ragazza. Uscì dalla porta mentre il capo continuava a blaterare.
La maniglia fredda lo svegliò dal torpore dovuto al viaggio e una volta fuori da quel posto sospirò. Una vasta pianura si stendeva davanti a lui, desolante. Le balle di fieno decoravano vagamente le immense distese intorno ai ruderi e ai casali rossi. Mise la sigaretta in bocca, ma si accorse troppo tardi che il suo accendino non funzionasse. Si guardò intorno, stringendo gli occhi per quella luce biancastra dovuta alla foschia e individuò due persone nel parcheggio.
 
  • Guys! – si diresse verso di loro correndo. – D’you have a lighter?
Il ragazzo moro davanti a lui lo guardò e gli porse il suo accendino senza rispondere. La ragazza invece sembrava trattenere a stento un sorriso. L’aveva riconosciuto.
 
  • Thank you.
Alzò una mano per ringraziare e si allontanò, riposizionandosi all’ingresso dell’edificio. Quello lì continuava a guardarlo male, ma lo ignorò, bastava che gli avesse fatto accendere.
 
  • Sei qui, testa di cazzo! – Stuart lo trovava sempre alla fine.
  • Sono qui.
  • Ma che ti viene in mente?! Alzarti e uscire in quel modo! Vuoi perdere anche questa chance? – lo rimproverò, rosso in viso.
  • Mi stavo annoiando. – rispose, guardandolo di sbieco. – Poi le trattative spettano a te.
  • Ascoltami bene, Ed, questa occasione non è da buttar via, per niente. Dobbiamo cedere alle richieste dell’autrice, altrimenti addio film, addio successo, addio Ed Sheeran World Tour 2016.
 
Sapeva che avesse ragione, ma non voleva scendere a compromessi. Di nuovo. Dopo tutti i passi avanti che aveva fatto negli ultimi anni, era stanco di correre dietro alle persone, era stanco di subire le loro decisioni. E Stuart sapeva quanto ne avesse sofferto. Sapeva quanto Nina lo avesse demolito con i suoi maledetti compromessi. Era esausto e sentiva l’anima ruvida come la lingua di un gatto al pensiero di cedere ancora a desideri che non fossero i suoi.
 
  • Ed – riprese Stuart – ti chiedo un ultimo sforzo. Poi ti assicuro che sarai tanto famoso da poter decidere anche cosa mangerà la regina a colazione.
Lo guardò pensando di mostrargli la sua peggiore espressione da duro, ma aveva i lineamenti troppo dolci e lo sapeva. Senza di lui non sarebbe stato lì, si ricordò.
 
  • Fa come vuoi. – e si girò di nuovo a guardare il paesaggio, fumando.
  • Vedrai che ne varrà la pena.
Stuart si dileguò all’interno. Ed cominciò a non riuscire a star fermo sui piedi, rimuginando su tutte le sensazioni negative che provava, mentre il suo agente si faceva in quattro per aiutarlo. Avrebbe dovuto impegnarsi, come aveva sempre fatto, cercare di vomitare fuori la sua rabbia e tornare sulla vetta. Guardò le sue scarpe rosse spegnere la sigaretta esausta e gettò il capo all’indietro, chiudendo gli occhi.
Un ultimo sforzo – si disse e rientrò nell’edificio.
 
Non appena rimise piede nella stanza Stuart si preparò a contrattare. La manager della ragazza l’aveva seguito con lo sguardo, con un moto di delusione negli occhi. L’autrice, invece, nuovamente non si degnò di guardarlo. Fastidiosa.
 
  • Io e il signor Sheeran – riprese la traduttrice – ci siamo confrontati e abbiamo ritenuto che le rimostranze della signora De Amicis fossero comprensibili…il signor Sheeran, hm, riconosce la natura dell’attaccamento all’opera e ha deciso di accettare le condizioni.
  • Bene! – esordì il signor Berrettoni – Ne siamo lieti!
  • Condizioni che dobbiamo ancora definire signor Camp. – si intromise Federica.
  • I’m listening. – sbottò Ed, senza sapersi trattenere, il tono grave della sua voce risuonò.
Eccola. Lo guardava finalmente, così spostò lo sguardo dalla manager a Sara, senza curarsi del fatto che non fosse lei ad elencare le condizioni.
 
  • L’intera sceneggiatura deve restare totalmente fedele allo scritto, in ogni suo punto: personaggi, ambientazioni, avvenimenti e dialoghi.
Continuò a fissarla notando le sue gote rosse e una certa tristezza negli occhi. Dondolò sulla sedia e cominciò a strofinarsi il collo lasciato nudo dal maglione per provocarla.
 
  • La stessa sceneggiatura sarà supervisionata dall’autrice, così come le riprese del film. Vi seguiremo costantemente e saremo parte attiva nella produzione. E con questo intendo dire che se per l’autrice una scena va cambiata, voi la cambiate.
Si leccò le labbra sperando di vedere una grinza sul suo volto, ma non servì a nulla. Quasi fu lui a sentirsi per un attimo catturato da quella sua aura scura.
 
  • E inoltre saremo noi a scegliere i nomi del cast durante le selezioni.
  • Mr Sheeran will be himself in the movie and it’s done.
  • Allora siamo d’accordo. – concluse Federica.
Quella frase spezzò il loro contatto visivo.
Si sentiva improvvisamente confuso mentre guardava di nuovo altrove, osservando il suo manager stringere la mano alla sua agente.
Come di consueto, si alzò anche lui per ricambiare la stretta, ma quando si tese nella direzione di lei, la vide voltarsi e andare via, lasciando Federica alla stesura e alla firma del contratto.
Ed vide i suoi ricci scivolare fuori dalla porta. Per un solo secondo pensò di seguirla per chiederle che problema avesse e poi sbatterla al muro, infilare le mani sotto quel maglione per farla arrossire come nella sua storiella.
Tutta quella tensione lo aveva eccitato ma, tirandosi su i pantaloni, fu costretto a rispondere al caporedattore che gli rivolgeva la parola.
Mocciosa.

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Capitolo 11
*** X ***


CAPITOLO X





 
Erano già venti minuti che se ne stava in quella macchina, senza giacca, senza scarpe, ad urlare nel petto di Emanuele. A piangere in un modo che somigliava troppo a quel 3 Ottobre in cui aveva riaperto gli occhi in ospedale.
 
  • Vado a chiamare Olga. – disse stremata Arianne, che non sapeva più cosa dirle per aiutarla a tranquillizzarsi. Federica era ancora intrappolata all’interno, insieme a Ed  Sheeran e Stuart Camp.
Non la sentì allontanarsi con quel fischio continuo nelle orecchie. Non sentiva niente, non voleva sentire più niente. Mantenere il controllo per tutto quel tempo era stato terribile. Era svenuta. Era svenuta ed era arrivata l’ambulanza, si disse cercando di tenere a mente i fatti. Perché Edward – e si sarebbe autopunita per averlo pensato – era entrato nella stanza.
Quando aveva riaperto gli occhi aveva creduto di essere tornata indietro, solo le domande del soccorritore l’avevano fatta rinsavire.
Come ti chiami?
Quanti anni hai?
Dove ti trovi?
Aveva dato tutte le risposte sbagliate. Un pugno nello stomaco. Il conato di vomito. L’assenza delle cuffie.
E poi tutte quelle assurde pretese. Come avevano osato? Come si erano permessi di contrattare sulla sua vita? Come?
Proprio quel viso così familiare l’aveva guardata con quella freddezza.
 
  • Shhhh. – Emanuele continuava a carezzarle il capo, abbracciandola, seduto sui sedili posteriori con lei da un tempo che gli sembrò infinito. – Cerca di respirare con me.
E chi pensava di essere lui andandosene via nel mezzo della discussione? Lo sentì come uno sputo sulla sua anima.
Quello non era Edward. C’era il suo corpo, le sue spalle, i suoi occhi, ma quello non era Edward. Lui non l’avrebbe mai guardata con quegli occhi sudici, approfittando della sua instabilità. Non avrebbe fatto lo sbruffone.
Quello non era Edward. Era solo Ed Sheeran. Qualcuno che, si rese conto, non somigliava a suo marito e nemmeno all’idea che si era fatta del cantante famoso. Continuava a farselo rimbombare nella testa per restare aggrappata al presente. Forse l’unica cosa sensata che avesse fatto quella mattina, fu proprio l’averlo guardato dritto negli occhi per distinguere il sogno dalla realtà.
Se solo le persone avessero saputo la verità, non l’avrebbero mai fatto arrivare fin lì. Se solo avessero saputo, tutti i suoi sforzi non sarebbero stati vanificati.
Si maledisse mentre stringeva più forte il maglione di Emanuele, ormai fradicio delle sue lacrime. Ancora una volta pensò che la sua cura stesse diventando il suo veleno, ma non avrebbe permesso a nessuno, tantomeno a quella copia malfatta di Edward, di sfiorare quel libro. A costo di infliggersi la punizione di partecipare a tutte le riprese.
La sensazione che aveva provato, vedendolo davanti a sé, reale, su quella sedia, le trapassò ancora una volta il cuore.
 
  • Vieni qui – riprese a parlare Emanuele – appoggiati a me.
  • Io non capisco… - rispose Sara, nel mezzo di un singhiozzo.
Le mise la sua giacca sulle spalle e se la portò definitivamente al petto, stringendola più che poteva. Poggiò le sue labbra calde sulla fronte di Sara e sospirò.
Sentiva i suoi singhiozzi costanti e ogni tanto stringeva gli occhi, sentendola urlare. Dopo una lunga ora di dondolii e lacrime riuscì a farla calmare, costringendola a guardarlo negli occhi per tutto il tempo necessario a riagganciarsi alla realtà, fronte contro fronte. Avrebbe costretto il suo viso con le mani finché non gli si sarebbero addormentate le braccia. Non sopportava di vederla in quello stato.
Alla fine si addormentò, sfinita.
Arianne li scortò a casa, portando con sé anche Federica. Sussurrarono in auto pregando di non svegliarla e quando Emanuele riuscì a metterla a letto, sciogliendo quelle braccia dal suo collo, si chiusero in cucina per discutere seriamente di quella situazione.
 
 
 
  • Solo in quel momento ho capito perché mi stessi chiamando.
Federica descrisse lo spavento che aveva provato quando Sara si era accasciata a terra, battendo la testa. Arianne ripeteva che né lei né sua madre sapevano che Ed Sheeran sarebbe stato presente al meeting. Emanuele fumava sul balcone, esausto. Confuso.
Non aveva capito quanto fosse difficile quella situazione fin quando non se l’era ritrovata addosso nel parcheggio, confermando le preoccupazioni della sua amica.
Sentiva quel dolore addosso e non riusciva a scrollarlo via.
Arianne e Federica parlarono a lungo con Olga, mentre Sara dormiva, spiegando i dettagli di quella mattinata fino all’eccesso, cercando di capire come avrebbero dovuto comportarsi.
 
  • Ha avuto la forza di riprendersi e continuare la riunione e questo è un segno molto positivo, - commentò Olga, con la sua voce serena e tranquillizzante attraverso il telefono – non siate troppo spaventate dalla reazione successiva. Soltanto due mesi fa non sarebbe stata in grado nemmeno di restare nell’edificio.
Spiegò che quella forte presa di posizione che Sara aveva manifestato durante la contrattazione era il segno che fosse giunta ad una svolta nel suo percorso. La rabbia con cui aveva partecipato e la schiettezza delle sue parole erano la prova finale che sarebbe stata in grado di uscire da quel limbo.
 
  • Se era davvero arrabbiata come dite, - continuò – sono sicura che andrà tutto bene. Ha reagito. Questa è la cosa che conta. Se Emanuele è stato d’aiuto, gli chiederei di restare con voi, se fosse possibile.
Diede chiare istruzioni alle due ragazze per gestire le successive giornate e le istruì per bene - compagnia costante, attività sociali, confronti aperti sull’argomento film. Per non allarmare i genitori di Sara, che sicuramente avrebbero chiamato e avrebbero voluto notizie dell’incontro, lei stessa li avrebbe avvertiti e preparati.
Chiusero la chiamata e si guardarono entrambe, quasi rincuorate dalle parole della giovane psicologa.
Siete la sua unica sicurezza, vi chiedo di non tirarvi indietro proprio adesso. Sara conta su di voi e voi potrete contare su di lei, statene certe. Vi vuole davvero bene.
 
  • Quindi andrete avanti. – commentò con un tono di risentimento Emanuele.
  • È stata Sara a deciderlo. – sospirò Federica. – Nemmeno io ci avrei scommesso.
  • Forse…è meglio che sia così. Avete sentito Olga. – l’assecondò Arianne. – Forse tutta questa storia non potrà farle che bene.
Federica sapeva che quei mesi sarebbero stati lunghi e sfiancanti. Sapeva che non sarebbe tornata a casa, ma forse quella lunga lontananza la stava aiutando a crescere e a pensare di più a se stessa. Il destino la stava portando sui binari di Sara e credette che ci fosse un motivo. Così, cercando di organizzare le ore successive, Federica si rese conto che il giorno dopo sarebbe cominciata la stesura della sceneggiatura ed entro una settimana avrebbero cominciato le selezioni del cast. Bisognava stringere i denti.
Mentre riguardava la copia del contratto, con la firma di Ed Sheeran, quel cantante che aveva tanto apprezzato negli anni, sentì la porta dietro di lei aprirsi e si voltarono tutti.
 
  • Ben svegliata! – tentò Arianne, posando la teiera bollente sulla tavola.
Sara li guardò con lo sguardo chiaramente confuso. Li squadrò uno ad uno, senza muovere un muscolo, scalza e scompigliata. Il ricordo del viso di Edward le annebbiava la mente. Riconobbe Emanuele, che non osò muovere un muscolo alla sua vista, limitandosi a simulare un sorriso. Subito dopo fissò Arianne, come cercando di ricostruire i passi che l’avevano portata da lei.
 
  • Dov’è Edward? – chiese flebilmente.
Federica sentì il cuore perdere un battito a quelle parole, mentre già vedeva il suo volto oscurarsi. Ma si fece coraggio e fece esattamente ciò che le aveva detto Olga: si alzò e la condusse gentilmente al tavolo, porgendole una tazza di tea.
 
  • Edward non c’è, Sara, ricordi? – la sua voce doveva sembrare serena.
  • E dov’è andato? – chiese lei, con lo sguardo corrucciato.
Emanuele la guardava sconvolto.
 
  • Non esiste, tesoro. – Federica le poggiò una mano sul braccio. – Oggi è il 25 Marzo 2015 e siamo a Reggio Emilia per il tuo libro.
Sembrò che i suoi occhi tornassero a vedere la realtà. Che cominciasse a ricordare. Fece un profondo respiro che nella stanza suonò come un rullo di un tamburo.
 
  • Stamattina ti sei sentita poco bene, - continuò Arianne. – ricordi il motivo?
  • Perché… - e guardò Emanuele come per costringersi a restare cosciente. – Edward…
E sospese per un attimo il fiato del ragazzo.
 
  • Cioè, Ed…è venuto alla riunione. – si portò una mano alla testa, per cercare la sua cicatrice. – Non era Edward, vero?
Fissò gli occhi in quelli di Federica, che annuiva a quella domanda, confermandole che ancora una volta aveva sognato.
 
  • Come ti chiami? – chiese Federica.
  • Sara De Amicis.
  • Quanti anni hai?
  • 22.
  • Che giorno è oggi?
  • Il 25 Marzo 2015. – la sua voce si incrinò.
  • Dove ci troviamo e perché?
  • A Reggio Emilia per decidere di girare un film.
Annuivano insieme ad ogni risposta corretta. Respirare sembrava una gran fatica.
 
  • Chi sono loro due?
  • Arianne ed Emanuele. – li guardò entrambi come per accertarsi di aver risposto bene.
Quando finalmente tornò in sé si vergognò di quella scena. Così nuda e così fragile e così sciocca davanti a tutti loro, che erano ancora lì a doverla svegliare.
 
  • Bravissima! – rise Arianne, abbracciandola di soprassalto, per stemperare un po’ la tensione.
Federica raccontò a Sara della telefonata con Olga, mentre facevano merenda seduti intorno al tavolinetto. Le spiegò i motivi della loro tranquillità per incoraggiarla e che quando avrebbe chiamato sua madre sicuramente sarebbe andato tutto bene. Già ascoltando quei discorsi Sara tornava a respirare regolarmente. Guardò Emanuele sperando che la sua gratitudine trasparisse dai suoi occhi. Sdrammatizzarono a lungo, facendola ridacchiare, delle reazioni del signor Berrettoni e della sua stessa caparbietà durante l’incontro.
 
  • Giuro che pensavo li avrebbe picchiati! – rise senza fiato Federica, ripensando a freddo a quella scena.
  • Ema invece ha pensato a trucidare Ed Sheeran con lo sguardo per tutto il tempo in cui è stato fuori. – insinuò con malizia Arianne, mentre il suo amico la fulminava con lo sguardo cercando di deviare il discorso.
  • Mi dispiace per la crisi che ho avuto dopo. – sospirò Sara. – Ma sono sicura, voglio farlo. Fede… - la guardò negli occhi con serietà. – Tu va a casa. Io saprò cavarmela, vedrai.
  • Ma sei impazzita? – si sentì rispondere – Io voglio restare!
Federica le argomentò quella sua scelta, tenendo bene a mente quelle sensazioni positive che quel viaggio le procurava.
 
  • Io invece – disse Arianne – vorrei propormi come tua sceneggiatrice.
  • Sarebbe fantastico! – sorrise finalmente Sara. – E poi, chi meglio di voi come squadra?
Si commosse mentre lo diceva e le abbracciò. Stabilì, senza accettare obiezioni, che entrambe avrebbero ricevuto il 25% dei suoi guadagni, a testa.
Firmò quel contratto come se sotto i suoi piedi avesse una incrollabile montagna. Ce l’avrebbe fatta. Avrebbe onorato la memoria del vero e unico Edward che conoscesse e avrebbe fatto capire a quel ragazzo che gli somigliava soltanto nell’aspetto che i suoi sentimenti meritavano rispetto e né la sua fama né i suoi soldi avrebbero potuto sminuirli.
 
Emanuele la portò a passeggiare, mentre Federica e Arianne cominciavano ad occupare il bagno per rinfrescarsi. Con i loro capelli lunghi e folti avrebbe dovuto aspettare un’eternità. Una sigaretta le fumava tra le dita mentre percorrevano il lungo Po di Guastalla, discutendo di come avrebbe gestito le sue crisi da quel momento in avanti.
 
  • Grazie – gli disse – per quello che hai fatto. Mi rendo conto che possa essere scomodo trovarsi in mia compagnia, a volte.
  • Non dirlo neanche. Spero solo di non vederti più in quel modo.
Si accomodarono su una panchina che dava sul largo fiume, il buio ormai stava per avvolgerli. Emanuele le mise un braccio intorno alle spalle e giocava con i suoi ricci, in silenzio, quando il telefono gli squillò. Lo ascoltò rispondere ad un collega.
 
  • Sei serio? – l’accento buffo. – Non posso crederci. Sì, è una mia amica. Quindi ci vediamo tra una settimana in studio. Già. La sceneggiatura verrà scritta questa settimana. Va bene, a presto.
Sara lo guardò con la sua stessa consapevolezza negli occhi. Era incredibile che stesse accadendo.
 
  • Sarò il gobbista per il tuo film. – le disse. – Dovrò studiarmi per bene la sceneggiatura. – osservò.
Dopo un attimo di assenza, finirono per sorridersi. Emanuele si sporse verso di lei e la abbracciò. Sarebbero stati insieme, tutti loro. Sara De Amicis doveva essere davvero fortunata.
Si guardarono, prima di sciogliere definitivamente le braccia. Lui la guardò come in cerca di un suggerimento che gli occhi di Sara non gli davano. Titubante, fece per baciarla, avvicinando le dita e le labbra al suo viso, il suo odore sembrò sentirsi più forte, ma con dispiacere lesse troppa paura nel suo sguardo. Il cuore di Sara si fermò per un istante, mentre lo stomaco le si accartocciava. Quell’oscurità incombente la rendeva semicosciente, nel buio non sapeva se stesse per baciare Edward o Emanuele. Soltanto il suo profumo le assicurava che non fosse la sua testa rossa. Non capiva cosa stesse provando.
Emanuele si fermò, interrompendo il contatto visivo e si limitò a baciarle la fronte. Si decise a tenerle la mano ad ormai pochi metri dall’auto.
Tornarono a casa per dare la notizia a Federica e Arianne.
I loro occhi continuarono a cercarsi fin quando lui non dovette tornare a casa.
 
 
A diversi chilometri di distanza, Ed Sheeran se ne stava brontolante nella SPA del suo hotel a 5 stelle. Stanza all’ultimo piano, come sempre. Stuart gli stava facendo il lavaggio del cervello riguardo i risvolti positivi di quell’esperienza, ma non riuscì a convincerlo che sarebbe andato d’accordo con quelle persone. Con quella ragazza. Una che si era presa una cotta per lui senza nemmeno conoscerlo e che sapeva scrivere decentemente.
Si massaggiò la fronte lentigginosa, sfiorandosi i capelli chiari, pensando a quanto si sarebbe rotto a sentirla protestare per ogni singola scena, perché l’aveva capito che fosse una rompi coglioni. Come tutte quelle che fanno le santarelline innamorate e invece pensano solo al loro tornaconto. Lei non era certamente diversa. Era persino svenuta quando l’aveva visto.
 
  • Eddai, è stata in coma! – lo rimproverò Stuart, nella vasca idromassaggio. – Dovresti cercare di essere un po’ più compassionevole.
  • Come se me ne importasse qualcosa. – ribadì lui, aspro.
  • Beh, per tua fortuna è viva e ha scritto quel libro.
Bleah. Sarebbero stati mesi terribili. Sperò solo che terminassero presto di girare per cominciare il nuovo tour e riprendere la sua vita.
Si ritirò nella sua stanza e si masturbò ripensando a quello sguardo torvo e a quelle gote rosse. Negò - subito dopo - di aver pensato di spogliarla.
In fondo che interesse poteva provare lui verso una donna così superficiale?
Altro che storielle d’amore e filmetti mediocri.
Lui era Ed Sheeran.







Note dell'autrice:

Mi auguro che questo nuovo anno possa essere per tutti migliore. A me ha regalato di nuovo quella voglia di perdermi nei sogni che negli anni scorsi e nel 2020 avevo perso. Spero che questo ritorno sia gradito e che la lettura vi abbia fatto compagnia, in questi giorni di festa. :)
Dopo l'uscita di Afterglow non ho potuto non rileggere Afire Love e riaprire il file di questa storia abbandonato da tempo. Riprendo a scriverla come una persona molto diversa da quella che aveva cominciato nel 2015, ma spero che questo abbia portato solo miglioramenti alla narrazione.
Fatta questa premessa, volevo dire che - riprendendo il lavoro in questi giorni - non so quando e quanto spesso aggiornerò la storia, mi auguro di riuscire ad inserire almeno un capitolo la settimana, magari estendendoli in lunghezza, ma giuro che stavolta non mollo.
La finirò e mi divertirò un sacco.
Che voi possiate goderne altrettanto.
Intanto, al prossimo capitolo. :)

S.

PS:

FaithBoss mi ha convinto a provare ad usare altre piattaforme/social per diffondere la storia e creare un luogo virtuale in cui condividerla con voi, ma vi avverto che non so quanta pazienza avrò nel gestire questa cosa. XD
Trovate il mio profilo su

Wattpad, su cui sto attualmente caricando Afire Lovehttps://www.wattpad.com/user/SeaOfficial0

Instagram:@SeaOfficial0


 

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Capitolo 12
*** XI ***


CAPITOLO XI






 
Mi chiamo Sara De Amicis.
Ho 22 anni.
Mi trovo a Reggio Emilia.
Devo lavorare alla sceneggiatura del mio libro.
Quel ragazzo non è Edward.
Avevano cominciato quella mattina all’alba, quando tutte e tre si erano alzate dal loro mini accampamento e si preparavano per andare al lavoro. Arianne si era licenziata dal suo posto di guida turistica e aveva messo in sospeso gli esami all’università e quella mattina, nella penombra delle 7:03 di quel 26 Marzo, la aiutava a ripetere il suo mantra.
Infondo più ci ripensava più odiava l’idea che proprio lui fosse la versione reale del suo Edward. Non c’era niente di lui in quello sguardo. Così si sentì più pronta quando varcò la soglia di Exemple con le sue ormai collaboratrici, manager e sceneggiatrice.
Si erano messe in tiro per qualche motivo, come se simulare quella professionalità che le mancava potesse colmare il divario con l’esperienza del team di Ed Sheeran.
Lei aveva preferito non indossare tacchi o gonne. I suoi stivaletti e i suoi jeans andavano più che bene.
 
  • What a pleasure to see you! – disse Stuart Camp quando le vide entrare.
  • Il piacere è mio, signor Camp. È sempre così gentile. – rispose Sara, di proposito. – Conosce già la mia manager, Federica Petrone, lei invece è Arianne Musi, la mia sceneggiatrice.
Federica e Arianne si sedettero ai suoi lati, al tavolo usurato del signor Berrettoni. Strinsero la mano agli uomini che avevano di fronte, tre quella mattina, e seppero mantenere una lucidità impressionante. Ed ricambiò la loro stretta, pensando che lei gli stesse dichiarando guerra aperta ignorandolo di proposito di fronte ai presenti. Non lo aveva degnato di uno sguardo, evitando persino la stretta di mano formale. Quella sua determinazione lo fece tornare alla notte precedente, ma non cambiò il suo temperamento. Gli era ancora antipatica e superficiale. 
 
  • This is Maximillian Burn, our screenwriter.
Cominciarono a discutere della sceneggiatura. Sara sganciò Arianne come se fosse la sua arma segreta, ma d’altronde lo era davvero. Lei si lanciò dritta sulle parti fondamentali della storia e presentò una bozza delle prime scene alla quale aveva lavorato quella notte.
 
  • Sono sicura che le troverete sufficientemente pubblicitarie per il signor Sheeran, nonostante siano rispettose della natura dello scritto.
Maximilian, un ragazzo piuttosto giovane, gli occhi e i capelli scuri che ricordavano il sud, leggeva quella copia tradotta della bozza con scrupolo, mentre Ed non la degnò di uno sguardo, troppo impegnato a dondolare sulla sedia, per mostrare la sua noia.
 
  • Cosa ne pensa, signor Burn? – Arianne poggiava le mani intrecciate sul tavolo.
  • Chiamami Max. – rispose quello, sbiascicando l’italiano. – Mi sembra sufficiente.
Non era ironico, sembrava gli piacesse davvero.
 
  • A me non piace. – disse allora Ed, solo per fare il bastian contrario.
  • Non l’ha nemmeno letta, signor Sheeran. – gli rispose a tono Federica, stringendo gli occhi in due fessure.
Stuart gli diede una plateale gomitata, mentre Sara lo fissava, approfittando della sua distrazione. Eppure sembrava proprio lui. Quella postura, quel portarsi le mani alla bocca, quel dondolarsi sulla sedia. Com’era possibile che li avesse sognati così vividamente?
D’un tratto lui la guardò, senza aspettarsi di trovare i suoi occhi. Un bel tono di azzurro sembrava illuminarle il viso quella volta. Solo pochi secondi e furono interrotti – in qualche modo.
 
  • Magari potremmo cambiare solo queste parole. – riprese Max, sporgendosi verso di loro per indicare il passo a cui si riferiva.
  • Sara, che ne pensi? – Arianne si rivolse direttamente a lei.
  • Non ne vedo il motivo. – e tornò al suo posto.
Li mise alla prova, incrociando le braccia, per stabilire una volta per tutte chi comandasse. Ci teneva proprio, pensò Ed, a quella storia. Come faceva a comportarsi come se fosse l’ultimo premio Nobel per la letteratura? Pensò che l’unico che in quella stanza sapesse davvero scrivere fosse lui.
L’intera mattinata scivolò via per mettere giù la sceneggiatura fino al quarto giorno. Avevano lasciato tutto nelle mani di Arianne e Maximillian, ma la sua amica comunicava con lei anche solo con lo sguardo, troppo veloci per lasciare margine di risposta. Lei sapeva già quali fossero le mosse da fare.
Ed guardava lo schermo di quel pc proiettato sul telo bianco che si riempiva di parole in italiano che stava imparando a comprendere, dopo la sua settimana di lezioni online. Quanto miele in quella storia, abbastanza da risultargli stomachevole. Sperò che l’attrice che avrebbero scelto fosse più bella di lei, almeno avrebbe avuto qualcosa a cui pensare.
La guardava di sottecchi ormai, alternando lo sguardo tra lei e lo schermo, fingendo disinteresse. Era più o meno come se l’era immaginata leggendo Afire Love, forse un po’ più alta e meno in carne di quanto pensasse, ma di certo non poteva incolparsi di averla immaginata allegra e accondiscendente se pensava al libro. Invece era davvero schiva. Notò che ogni tanto controllasse il cellulare, ma senza nemmeno sbloccarlo.
Non si aspettava di vederla alzarsi e dirigersi fuori, con il lavoro in corso.
 
  • Quindi signor Sheeran, sembra che abbiamo trovato un buon accordo. – gli disse Federica, cogliendolo di sorpresa.
  • Sembra anche che Miss De Amicis voglia fare tutto da sola. – commentò, allora.
  • Ha delle ottime ragioni, mi creda. – fece lei – Sicuramente lei non sarebbe contento se prendessimo il suo prossimo album e glielo smantellassimo canzone per canzone.
Stuart rise, cercando di tornare in sé più velocemente che poteva.
Federica si era sfogata e dentro di lei montò un moto di gloria, vedendo la reazione sul suo viso. Gli serviva una lezione, cantante preferito o no.
Ed, con la bile alla gola, si alzò e si allontanò dalla sala, diretto dritto a fumare quella sigaretta che aveva in tasca da ore. Quando voltò l’angolo che precedeva l’uscita qualcuno andò a sbattergli contro, ci volle un nanosecondo a capire che fosse lei.
Azzurri.
In un primo momento si ritrasse, pensando di evitarla, ma fu lei a guadarlo con la tensione sul viso e a scavalcarlo in fretta.
 
  • Why are you so mad at me? – le disse, guardandola andare via.
Non sapeva nemmeno perché diavolo l’avesse detto. Forse era rimasto troppo deluso dal non trovarla in quella redazione scalpitante e felice di conoscerlo, come si aspettava, ma non lo avrebbe mai ammesso. Lei si fermò, come se volesse rispondergli, ma riprese a camminare.
Se non aveva intenzione di girarsi da sola, l’avrebbe fatta girare lui. Gli bastarono poche falcate per raggiungerla, le afferrò il braccio e la costrinse a voltarsi. Di nuovo aveva le gote rosse e gli occhi tristi. Diavolo.
 
  • Why are you so mad at me? – ripeté, a pochi centimetri da lei. In fondo era lei che aveva scritto quella cosa su di lui.
Era troppo vicino perché lei potesse rispondere. Quando Sara sentì il suo odore si congelò in quella posizione, una miriade di ricordi - che non potevano davvero scaturire da quel profumo - le tornarono in mente e le viaggiavano negli occhi.
Come avrebbe potuto spiegargli che lo detestava perché non era ciò che si aspettava?
Si liberò dalla stretta della sua mano, un’ustione si nascondeva sotto al suo maglione blu.
Mi chiamo Sara De Amicis.
Ho 22 anni.
Mi trovo a Reggio Emilia.
Questo ragazzo non è Edward.
 
  • Vuoi che ti faccia un disegnino? – gli rispose.
Ci mise tutta se stessa per rendere il suo tono sprezzante e sembrò avesse funzionato, perché lui si voltò e se ne andò senza dire una parola. La sua andatura era così morbida. Ma in fondo era meglio così, meglio che le stesse lontano o avrebbe rischiato, prima o poi, di scambiarlo davvero per Edward.
 
Soltanto un’ora dopo, superato l’imbarazzo di vederlo rientrare nella sala, stavano discutendo – piuttosto litigando – sul tagliare o non tagliare dal film la prima parte del quinto giorno.
 
  • NON MI INTERESSA! – urlava e non se ne rendeva conto, guardandolo dritto in faccia.
  • QUEL MALEDETTO CAPITOLO NON SERVE A NIENTE! – rispose lui, più per non dargliela vinta. I suoi occhi erano taglienti. – PERCHE’ DOVREMMO PERDERE TEMPO A PARLARE DI TE CHE FAI IL BAGNO E PIAGNUCOLI?
  • FORSE PERCHE’ E’ UNA SCENA IMPORTANTE QUANTO QUELLE IN CUI CI SEI TU! – rispose Sara, sconvolta, sbattendogli volontariamente in faccia quel suo ego spropositato. Federica e Arianne la guardavano preoccupate.
Ed non si rendeva conto di aver preso sul personale la questione, sottolineando ad ogni occasione la sua assenza in quella scena.
 
  • LE PERSONE ANDRANNO A VEDERE IL FILM PERCHE’ PARLA DI ME, NON PERCHE’ PARLA DI TE! – continuò, cercando volontariamente di ferirla.
Fu allora che Federica si allarmò, così come Stuart, che si portò una mano al viso pensando che sarebbe saltato tutto.
 
  • Tu… - ormai Sara aveva perso del tutto le staffe. Si alzò dalla sedia, con gli occhi lucidi per la rabbia e gli puntò il dito contro. – TU NON SEI NEMMENO L’OMBRA, NEMMENO LA COPIA FASULLA DELL’UOMO CHE DEVI LIMITARTI AD INTERPRETARE.
Ed si alzò a sua volta, dall’altro lato del tavolo, esattamente dinanzi a lei.
 
  • RAGAZZINA, NON SONO VENUTO FIN QUI PER FARE IL TUO PRINCIPE AZZURRO! – allargò le braccia, il viso arrossato. – MA CHI PENSAVI CHE FOSSI?
Sara non mascherò la sua definitiva delusione sul suo volto, mentre arretrava, tornando in posizione eretta. Il silenzio permeò la stanza, Ed ritirò le braccia.
 
  • Forse un uomo migliore.
Prese la sua borsa e il suo cappotto e fece cenno a Federica e Arianne di non seguirla. Non voleva che perdessero tempo con lei.
L’urlo di Ed, che sbatteva violentemente la bozza sul pavimento, si sentì fino all’uscita, dove Sara stava aprendo la porta per incamminarsi verso casa.
 
Mentre Federica e Arianne rimasero con Max per continuare il lavoro, chiarendo che quella scena avrebbe dovuto esserci, Stuart portò Ed in una stanza in disuso e lo fece sedere forzatamente su una sedia. Gli fece una lunga e straziante ramanzina, cercando di capire quale fosse il suo problema con quella ragazza che poteva essere il suo ultimo colpo di fortuna.
 
  • Non sono io che ho un problema con lei, è il contrario! Non vedi? Non mi saluta nemmeno!
  • Qui l’unico che sembra avere un problema sei tu, Ed, e mi chiedo per quanto ancora tu voglia continuare! Tutti quei commenti fuori luogo, quell’atteggiamento da strafottente. Cosa diamine ti importa che non ti saluti, smettila solo di fare lo scemo!
 
Ed si alzò e gli diede le spalle, lasciando cadere la testa in avanti, stanco e arrabbiato.
Quando si voltò, Stuart lo guardava ancora con le braccia incrociate.
 
  • Forse ho capito qual è il punto… - alzò un dito, indicandolo – ti aspettavi che lei si gettasse tra le sue braccia e invece non lo ha fatto…! - i suoi occhi erano accesi per l’intuizione.
  • Stronzate.
  • Stronzate un corno. – e si avvicinò – Già non riesco a credere che ti stia comportando come un bambino capriccioso e che il libro non ti sia piaciuto, con tutto il valore che quella donna ha dato alla tua musica, ma questa proprio non me la bevo, Ed Sheeran.
Abbassò lo sguardo, colto nel sacco. Il suo ego e la sua vanità erano feriti a morte. E poi lei…
Lei gli aveva mostrato qualcosa che non voleva accettare.
 
  • Se non la smetti di fare l’idiota e cominci a collaborare, giuro che ti mollo in tronco. – lo minacciò. – Ti scuserai con lei e continueremo a lavorare.
  • Non lo farò. – nemmeno se lo avessero pagato senza dover girare una sola scena.
  • Vedremo. – lo sfidò. – Vedremo.
 
 
Sara continuò a camminale lungo quella statale per oltre venti minuti, lungo il tragitto che in auto percorrevano in così poco. Le auto le sfrecciavano di fianco.
Respirava in modo da non perdere il controllo e aveva ripetuto il suo mantra senza sosta.
Idiota. Deficiente. Cretino. Egocentrico sbruffone! Non riusciva a credere che quello fosse davvero Ed Sheeran, come diavolo avrebbero fatto a girare quel film, non lo sapeva. Con quel suo tono da pallone gonfiato le aveva fatto rizzare i capelli in testa, non poteva proprio sopportarlo.
La rabbia e la delusione si facevano spazio nel suo petto, mentre continuava a camminare, dominando completamente la sua mente. Il pensiero di Edward era così lontano in quel momento. Si sentì in colpa per Arianne e Federica, che erano rimaste a lavorare. Pensò di tornare indietro, ma prima che potesse anche solo pensare di voltarsi, un’auto frenò di fianco a lei. Emanuele scese dal veicolo e la raggiunse in un secondo.
  • Stai bene? – era evidentemente preoccupato. – Arianne mi ha chiesto di venire a cercarti.
  • Sto bene, tranquillo. – rispose senza esitazioni, poggiando le braccia sulle sue.
La fece entrare in macchina per toglierla dallo stradone e riprese la marcia, chiedendole cosa fosse accaduto. Non gli sembrò confusa. Gli raccontò dell’ultimo scambio di battute col rosso, lasciandolo atterrito per la rabbia che sentiva trasparire dalle sue parole. Emanuele già rifletteva su come rintracciarlo e dargliene di santa ragione, leggendo la delusione sul viso di Sara. Si chiese cosa diamine volesse da lei quello lì, che non gliel’aveva contata giusta già il giorno prima.
 
  • Però stai bene. – osservò lui, senza farsi problemi.
  • Sì. Forse questa discussione è stata addirittura utile. – sapeva che lui avrebbe capito cosa intendesse.
  • Almeno a qualcosa serve ‘sto qua. Se ti da fastidio, dimmelo che-
  • Me la caverò. – rispose. – Ormai non ho più motivo di preoccuparmi.
La portò a mangiare qualcosa, poi la riaccompagnò alla Exemple. Entrarono insieme nell’edificio e si diressero alla sala riunioni, facendo capolino dalla porta. Stavolta lo guardò dritto in faccia, per dimostrargli che forse non aveva ancora capito con chi avesse a che fare. Si scusò per l’assenza e posò sul tavolo un vassoio con il pranzo.
 
  • Ho portato da mangiare.
Posò le bibite e si riaccomodò al suo posto, Emanuele di fianco a Federica.
 
  • Sta bene, non preoccuparti. – le disse sottovoce. – E’ solo incazzata nera.
  • Meglio così. – sospirò Federica, addentando il suo panino.
Emanuele guardò Ed con durezza, pensando che lui non sapesse ancora che se lo sarebbe ritrovato a suggerirgli le battute. Solo dopo che si furono detti qualcosa con lo sguardo, Ed guardò Sara. La vide conversare serenamente con la sua sceneggiatrice. Niente. Non lo considerava. Perché non lo considerava?
Non toccò nulla di ciò che aveva portato e quando il suo stomaco cominciò a brontolare, mise il broncio, senza cedere alla fame. Si passò una mano tra i capelli ed ecco che lei lo guardò ancora, per poi rigirarsi con disprezzo. Sembrava cogliere alcuni particolari movimenti.
Erano ancora molti i giorni che avrebbero dovuto trascorrere insieme, sarebbe riuscito a scovare tutti i suoi punti deboli e sarebbe riuscito a vedere la stessa ragazza che aveva conosciuto nel libro.
Il ricordo di loro due che facevano sesso lo fulminò. Accavallò le gambe per coprire l’imbarazzo.
 
  • A che punto siete arrivati? – la sua voce lo colse di sorpresa.
  • Al settimo giorno, ormai. – disse Arianne con soddisfazione.
Significava che praticamente non avevano cambiato nulla. Il lavoro era già fatto.
 
  • La signora Arianne è molto talentuosa. – osservò Max. – Sicuramente finiremo molto presto.
Sembravano tutti soddisfatti lì dentro, tranne lui, che continuava a starsene seduto scomposto sulla sedia.
Solo quando si alzarono per prendere il caffè si accorse che quel ragazzo e la manager di Sara fossero rimasti seduti al tavolo con lui.
Il primo lo guardò truce e poi si alzò, salutando la ragazza. Lei invece, non si mosse dal suo posto.
 
  • Prova di nuovo a farla incazzare così e straccio il contratto.

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Capitolo 13
*** XII ***


CAPITOLO XII
 





 
Anna non poteva essere più felice di sentire sua figlia demolire pezzettino per pezzettino quell’Ed Sheeran che le aveva distrutto la vita. La ascoltava dar sfogo a tuttala frustrazione che aveva accumulato nel corso di quella settimana di lavoro. Per lei, d’altronde, l’unica consolazione era che avrebbero girato nella loro città e non a svariati chilometri lontano dalla famiglia.
 
  • …insopportabile sottuttoio! – concluse Sara, sentendo finalmente il silenzio della stanza in cui si era rifugiata.
Ormai avevano terminato di stendere l’interezza della bozza, gli sceneggiatori dovevano solo curarne i dettagli e smussare gli angoli ancora grezzi, ma era stata una guerra. Con cadenza regolare Ed aveva qualcosa di negativo da dire riguardo al libro, al film, alla storia in sé ed era stata dura per lei non rispondere alle sue provocazioni. Le passeggiate serali con Emanuele e le giornate con al fianco due guerriere come le sue amiche, erano l’unico calmante efficace. Per tutto il tempo aveva evitato di uscire quando anche lui fosse fuori dalla sala o di rivolgergli direttamente la parola. Ormai pranzavano in stanze separate, messe a disposizione da Berrettoni per il quieto vivere dell’intera redazione. Quella mattina si erano nuovamente scontrati sul fatto che lui non si sarebbe mai inginocchiato su un palco per chiederle di sposarla.
 
  • Nemmeno se fossi la donna della mia vita! – le aveva detto, con la chiara intenzione di prenderla in giro.
Fortunatamente i loro agenti, al contrario, avevano raggiunto un ottimo margine di collaborazione. Federica si faceva insegnare da Stuart, un uomo così simpatico e disponibile rispetto a Ed Sheeran, a tenere aggiornati i canali social nei momenti giusti, a scegliere la foto adatta e avevano cominciato una campagna promozionale online per attirare la grossa fetta degli spettatori. Una foto scattata da Stuart ritraeva la squadra al lavoro intorno al tavolo, l’unica foto in cui il rosso sorrideva. Solo per le telecamere ovviamente. I suoi video su instagram su quel “fantastico progetto segreto” avevano attirato già centinaia di migliaia di persone. L’aveva taggata e ringraziata. Ridicolo. Apprezzò decisamente di più il post di Stuart Camp, che aveva insistito per fare una foto con lei e metterla in evidenza nelle sue stories.
“The real one!”, aveva scritto nella didascalia. Già. Lei era proprio “Quella vera”.
Per fortuna Federica era molto più capace di lei nel gestire quel genere di cose, Sara non avrebbe saputo nemmeno come creare un nuovo account dedicato al film.
 
Quando rientrò nella sala, Ed smanettava col suo cellulare, rispondendo a qualche messaggio, mentre Arianne e Max, ormai in perfetta sintonia, erano seduti e lavoravano gomito a gomito. Max la guardava di sottecchi e l’unica a non essersene accorta era proprio la sua sceneggiatrice. Lei e Federica, con quella certa delicatezza che sapevano di doverle riservare, la incoraggiavano a non limitarsi al rapporto puramente professionale, perché era chiaro che Max avesse una cotta per lei. Arianne, come se loro non potessero accorgersene, aveva cominciato ad imbellettarsi anche più del solito, prima di andare in redazione.
 
  • Buongiorno a tutti! – i suoi pensieri furono interrotti dal signor Berrettoni. – Spero che il lavoro stia proseguendo bene.
  • Yeah, like we’re all best friends! – commentò Stuart, con una palpabile ironia.
  • Volevo mostrarvi il nuovo grafico di questa settimana.
Ed lo guardò sedersi e caricare le immagini sul proiettore, con un luccichio negli occhi. Osservò le retta curioso di carpirne i numeri reali. Ormai la stima veniva fatta a livello mondiale. Sicuramente grazie a lui, pensò. Sogghignò, per poi scuotere la testa, ridendo internamente di quella combriccola eccitata.
Commentarono allegramente il successo che la collaborazione tra Federica e Stuart stava procurando e per la prima volta la vide sorridere. Abbracciava quella che chiaramente era un’amica senza badare minimamente al fatto di essere in guerra con lui.
 
  • Well, don’t thank me. – sussurrò, scoraggiato da quel clima.
Stuart fu l’unico a dargli una pacca sulla spalla. Due ore dopo, stappavano una bottiglia per festeggiare la fine della stesura entro i tempi previsti. Ingoiò quello spumante in un solo sorso, per poi riprendere la bottiglia per sé. Si versò un’altra dose e si chiese quando sarebbero partiti per quella insulsa città a girare le prime scene del film.

 
***
 

Aveva dimenticato che prima avrebbero dovuto scegliere il cast. Si ritrovarono due giorni dopo in un capannone gelido e malridotto per incontrare tutti coloro che nella settimana precedente si erano candidati, dilettanti e professionisti. Nessuno dei suoi conoscenti aveva accettato il suo invito, nemmeno Taylor. Dietro un lungo bancone, con il cappotto ancora addosso, dovette sedersi di fianco a lei, per consentire ai loro manager di scattare foto e girare video per il backstage. Ai loro lati, gli sceneggiatori.
Lei stringeva una tazza fumante tra le mani e guardava solo dinanzi a sé. Si voltò ad osservarla senza farsi problemi, con il gomito sul tavolo a reggere la sua testa stanca, mentre continuava a chiedersi perché mai non fosse come se l’era immaginata.
 
  • Se devi dire qualcosa, dilla adesso. – disse lei, cogliendolo di sorpresa.
  • Vorrei un’attrice che fosse più bella di te.
  • Sempre che lei ti trovi decente. – fece Arianne, che non aveva saputo resistere.
Sara rise sotto i baffi, tuffando la testa in quella tazza di tea. Doveva ammettere che quando non parlava e puntava gli occhi su di lei, si sentiva ancora instabile. Non era certo felice di quella situazione, dannarsi l’anima non rientrava tra le sue aspettative, ma poteva farcela. Poteva affrontare quella giornata.
Quando il primo attore si presentò, per il ruolo di suo padre, cominciò a sentire tutta l’ansia che aveva messo da parte salirle alla testa. Era davvero difficile scegliere qualcuno per la sua recitazione e non per il suo aspetto, ma non poteva nemmeno pretendere che il sosia di suo padre si presentasse al provino.
 
  • Io l’ho immaginato così. – le disse Ed, al trentesimo attore.
Rimase stupita di quel suo intervento e per la prima volta riuscirono a guardarsi senza ringhiare.
 
  • Ha gli occhi azzurri. – aggiunse, mentre fissava i suoi.
  • Beh… - rispose lei, come in attesa della battutaccia della giornata. – In effetti potrebbe andare.
Dopo averlo osservato recitare con figure di supporto, si decisero per lui.
I ruoli secondari furono scelti più velocemente e più silenziosamente di quanto immaginasse, fin quando non fu il turno di scegliere “Quella immaginaria”.
Osservava quelle ragazze troppo magre e troppo belle per essere lei, ignorando i commenti e gli sguardi di Ed più che poteva. Una era troppo bassa, una aveva le spalle troppo piccole, una aveva gli occhi scuri e si chiese perché mai si fosse presentata.
 
  • Ecco, lei mi piace, è perfetta. – esordì Ed, ancora una volta, dinanzi alla stangona di turno, più truccata e pettinata di Barbara D’Urso.
  • Ma non mi somiglia neanche un po’!
  • E chi se ne importa. – rispose lui, portandosi le mani dietro la testa per godere meglio di quella vista. – E’ bellissima.
  • Sara non è bellissima. – puntualizzò allora. – E’ una ragazza normale, come tante.
  • Un motivo in più per scegliere lei. – rise.
  • Può andare signorina. – disse, senza ricevere l’autorizzazione di nessuno.
L’ultima ragazza sembrò arrivare davanti ai suoi occhi come una grazia ricevuta, ultima speranza di trovare qualcuno di adatto a quel ruolo. Non le importava se il pubblico si aspettasse una donna bellissima. Quella ragazzina che se ne stava quasi tremante davanti a lei, era perfetta. Lei e Arianne si scambiarono uno sguardo d’intesa.
 
  • Sufficientemente alta, occhi chiari, capelli corti… - cominciò Arianne.
  • …spalle larghe e una 44. – terminò Sara. – E’ perfetta.
 
***

 
Non le importava che non avesse mai recitato in vita sua, la scelse e ignorò le proteste palesi del co-protagonista.
 
Ed continuava a seguirla all’interno della redazione.
 
  • You hate me, that’s the truth!
Continuava a ripeterle quella frase senza sosta, mentre ricevevano il cast per fare uno studio approfondito dei personaggi, cosa che la terrorizzava. Significava parlare di sé e di Edward e di tutte le persone che gli erano state vicino, con sincerità. Perché era quello che voleva dal film, in fondo.
Ed si sedette accanto a lei, senza neanche pensarci, dando un’occhiata al suo sedere mentre si accomodava. Quando lei cominciò a parlare, partì dai personaggi marginali, forse per prendere la mano con quel discorso che sembrava metterle ansia. Si tirò giù le maniche del maglioncino sottile e si fermò ad osservare il suo viso. Notò che non guardasse nessuno negli occhi e sembrava pesare fin troppo le parole. Il piede sotto al tavolo si muoveva senza sosta.
 
  • Il personaggio di Massimo… - la sentì dire, facendo poi passare in secondo piano la sua voce.
Le si inumidirono gli occhi e lui ebbe un attimo di rimorso, cogliendo quel dettaglio. Forse non era così tosta come voleva mostrargli. Le aveva dato del filo da torcere, in quei giorni, ma non riusciva a smettere, continuava a tormentarla senza sosta. Persino in quel momento fu tentato di trovare un modo per ferirla, prenderla in giro, dare una rinfrescata a quel sentimento frustrante che non riusciva a reggere da solo. Poi arrivò ai personaggi principali, i co-protagonisti, il che significava che avrebbe dovuto parlare direttamente con lui.
 
  • Sara – disse lei, la voce incrinata solo per un istante. – è una ragazza che ha sempre vissuto la sua vita programmando e progettando ogni cosa, dallo studio, al lavoro, alle amicizie. Una tipa metodica, precisa, a volte pignola,  - si guardava le mani, giocando con gli anelli, senza guardare nessuno - ma che fa solo quello che vuole fare davvero. Sofia – si rivolse all’attrice che l’avrebbe impersonata. – tu le somigli davvero molto, fisicamente, e sarà sicuramente un vantaggio per te, perché Sara conosce bene il suo corpo, ma teme di mostrarlo.
  • Sì, avevo colto questo particolare.
  • La sua determinazione è sempre accompagnata da mille incertezze, ricordatelo. Infatti la sua più grande paura è amare fino in fondo, perché le richiede di mettere da parte tutte le sue certezze. È un grande sforzo per lei. Raramente si sente all’altezza della situazione e questo deve trasparire, in particolare nel segmento di Sorrento.
Ed si disse che c’era molto più di quello da sottolineare.
 
  • Sara è anche gentile e onesta. Cerca sempre di non ferire gli altri. – commentò.
Tutti lo guardarono come se fosse un alieno, come se avesse bestemmiato nel bel mezzo di una messa. Si pentì di aver aperto bocca, perché in realtà non gli piaceva essere considerato alla stregua di un maleducato.
 
  • È vero. – gli rispose Arianne, per mettere fine a quel silenzio.
  • Tieni sempre a mente – riprese Sara rivolgendosi a Sofia, facendo finta di non averlo sentito. – che l’unica cosa che Sara desidera durante l’intero racconto è che Edward sia felice e che si senta amato, nonostante faccia delle scelte sbagliate per la loro relazione. Edward è il suo sole.
Calò nuovamente il silenzio, tutti consapevoli che fosse rimasto da discutere soltanto di lui, Ed Sheeran, che fino a quel momento non aveva dato a nessuno la possibilità di costruire qualcosa di sentito per quel film.
Non parlò, nonostante avrebbe potuto fare uno dei suoi commenti.
 
  • Edward…
La sentì cominciare senza alcuna esitazione, ma non lo guardava. Ed abbassò lo sguardo per nascondere le eventuali emozioni che potessero manifestarsi sul suo viso.
 
  • Edward è solo un ragazzo. Un ragazzo molto spaventato e arrabbiato. Viene da una fase della sua vita veloce e frenetica che lo ha reso esausto e senza fantasia. Sa di essere una persona molto in vista e di poter riscuotere tutto il successo che merita, ma non si sente davvero felice. Ha bisogno di potersi esprimere a pieno, di riuscire a tirare fuori ciò che sente autenticamente e sentirsi compreso. Per questo fugge via dagli schemi che gli vengono imposti, per questo si lascia trascinare così tanto dalla vita. Lui voleva solo…essere felice. Sentirsi amato veramente. Non per ciò che vedevano gli altri, piuttosto per ciò che non potevano vedere.
In fondo Edward potrebbe rappresentare i desideri più reconditi di quella persona che Sara vorrebbe essere.
 
“Gli baciò il naso, gli zigomi, gli occhi e per la prima volta, probabilmente in tutta la sua vita, si sentì sinceramente amato per la persona che era nel privato.”
 
  • E loro… - concluse – Sara e Edward volevano solo consentirsi la felicità.
Non mosse un muscolo. Non lasciò in alcun modo intendere che la sua visione l’avesse colpito davvero. La voglia di dare un calcio al tavolo l’avrebbe scaricata una volta rimasto solo, perché il quel momento era intrappolato in un limbo nel quale né l’essere compresi né l’essere ignorati andasse bene. Era solo arrabbiato e quelle parole non potevano estinguere quella fiamma. Federica lo guardò e guardò poi Sara con gli occhi lucidi, chiedendosi perché la sorte fosse così crudele, a volte. La sua amica si sedette nel silenzio della sala e vederla accanto a quell’uomo con i capelli rossi le sembrò incredibile. Stava succedendo tutto così in fretta. Eppure Federica lo vide, quel movimento degli occhi e delle mani di Ed mentre lei poggiava la schiena allo schienale, più vicina a lui. Lo vide e le parve chiaro che Ed Sheeran non la contava giusta a nessuno.
Quando finalmente gli attori riuscirono a porgere delle domande, Ed si sentì chiamato in causa fin troppe volte, rispondendo troppo chiaramente ai dubbi sulla trama e sulle scelte del protagonista. Aveva saputo spiegare persino perché Edward avesse deciso di tenere entrambi i caschi quella mattina e il modo in cui Sara gli stava dietro, confermando le sue teorie, lo spaventò solo quando si rese conto che non stessero più litigando.
Quando uscirono dalla redazione lei, come sempre, non lo degnò di un saluto e sull’uscio la vide correre incontro a quel ragazzo che gli aveva prestato l’accendino. Lo stava abbracciando e lui la sollevava da terra. Si scoprì di nuovo nervoso pochi secondi dopo e si defilò, senza sapere che lei lo stava seguendo con lo sguardo, chiedendosi cosa fosse cambiato.
 
Il giorno dopo sarebbero partiti alla volta di Roma, per girare quella breve scena di lui che scendeva dall’aereo e prendeva la malsana decisione di andare a Torre del Greco, esattamente come avrebbero fatto loro.
 

 
***
 

Stuart gli aveva procurato un pullman adeguato alle loro esigenze e partirono in piena notte, portando con sé anche lei e la sua piccola squadra, perché viaggiare con treni e aerei era diventato troppo rischioso anche per loro. Non pensava che Stuart le avrebbe invitate nonostante tutto, eppure eccole lì, tre ragazzine che non sarebbero arrivate da nessuna parte se non fosse stato per lui. Era l’unico ancora sveglio a bordo, a parte i conducenti che chiacchieravano per tenere gli occhi aperti, l’intero abitacolo illuminato solo dalle luci autostradali che filtravano dalle tende scure. Annoiato, girò la sua poltrona verso il retro e si perse nei respiri dei passeggeri. Lei si era nascosta dietro un posto libero, le gambe tirate sul doppio sedile per dormire meglio. Aveva addosso i suoi jeans, ma aveva tolto le scarpe, la testa appoggiata al finestrino e le cuffie alle orecchie. La sua figura sembrava così piccola vista da quel punto. Chissà cosa stava ascoltando. Verificò uno ad uno che i presenti dormissero davvero, soprattutto le ragazze. Si alzò senza far rumore e si accomodò sul poco spazio libero che lei aveva lasciato sul sedile e vide le sue mani abbandonate sul ventre. Si sporse – impazzito – verso le sue orecchie per cogliere una nota, ma carpendo prima il suo odore di pulito. Bastò poco per capire che stesse ascoltando Multiply, distinse chiaramente le note di Afire Love vibrarle nelle orecchie.
Guarda tu se quella ragazzina doveva prenderlo per il culo fino a quel punto! Prima lo evitava come la peste, poi la scopriva ad ascoltare le sue canzoni. Non che fosse particolarmente sorpreso per i gusti musicali, era la sua incoerenza ad essere intollerabile.
 
  • Are you kidding me?! – sibilò senza voce, più che altro mimando le parole con le labbra.
Il suo viso si contrasse per la sorpresa e le diede una spintarella per cercare di svegliarla senza allarmare tutti.
 
  • Hey! – sussurrò, ma lei non poteva sentirlo. Le sfilò una cuffietta e riprovò a richiamarla. – Hey!!
  • Edward…
Gli si gelò il sangue ascoltando il suo stesso nome.
 
  • Why are you still awake?
Bofonchiava. Stava ancora dormendo.
Solo troppi secondi dopo si rese conto che gli avesse risposto in inglese con la stessa naturalezza della Sara che aveva conosciuto in Afire Love. Ebbe paura di quel dettaglio. Se era così immedesimata in quella storia, perché lo aveva detestato fin dal primo momento?
 
  • I can’t sleep. – le rispose allora, pensando di non dover perdere quell’occasione. – Why do you hate me?
  • Honey, I don’t hate you…come back to sleep. – lei lo afferrò per un bracciò, costringendolo ad assecondarla e ad avvicinarsi.
  • So…you’re not mad at me? – le chiese, sentendo il suo braccio aderirle al petto.
 
Non ricevette risposta e restò immobile per qualche secondo, riflettendo sulla confusione che quella sorta di conversazione gli aveva procurato. Lentamente si sfilò dalle sue mani, rimettendole la cuffia nell’orecchio con le dita tremanti.
Tornò al suo sedile e contemplò la sua vita per il resto della notte.

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Capitolo 14
*** XIII ***


CAPITOLO XIII
 
 



 
  • And cut!
Sara fissava quell’aereo come se fosse ancora intrappolata nei suoi sogni e non riuscisse ad uscirne. La nitidezza di ciò che aveva sognato la tormentava e rendeva quello il giorno meno adatto per cominciare le riprese.
Si erano ritrovate all’aeroporto di Fiumicino all’alba e tempo un paio d’ore il set era stato allestito, mentre lei, Federica e Arianne se ne stavano incollate al regista. Un nome mai sentito, un uomo di mezza età dall’aria severa e dalle maniere sgarbate, ma Federica se l’era corteggiato a sufficienza da rientrare nelle sue grazie, mentre Stuart continuava a scattare e a filmare il backstage con la sua crew. Per ora sembrava andare tutto bene, le riprese erano fedeli alla sceneggiatura. Forse fin troppo. Emanuele, con i suoi grossi cartelloni da gobbista e le cuffie microfonate, l’aveva salutata prima che arrivasse l’intera troupe, per non dare nell’occhio.
Magari tra qualche giorno riusciremo a trovare un attimo per stare da soli
Non aveva mai smesso di scriverle e lei non aveva mai smesso di parlare con lui, valvola di sfogo in molte occasioni. Vederlo quella mattina, così raggiante, la fece arrossire. Aveva sempre un sorriso per lei, sempre un bacio nascosto sull’angolo delle labbra. Prima che Edward uscisse dal camerino, la abbracciò a lungo, lasciandole uno sguardo carico di tensione.
Sara, dal canto suo, si sentiva così accaldata e confusa dopo quell’incontro. Era bastato scendere di poche centinaia di chilometri per sentire l’aria più tiepida, perché sicuramente si trattava di quello e non dello sguardo cupo di Ed che sembrava seguirla ad ogni ciak.
Lui non era Edward, si ripetè con insistenza. Solo quella sera, dopo una tappa a Roma Termini e una cena consumata in una trattoria da camionisti, si rimisero in viaggio verso Napoli.
Ed guardò il panorama scivolare dal vetro, lasciando la tenda aperta. Era la seconda notte di viaggio che non chiudeva occhio e la makeup artist lo avrebbe rimproverato di nuovo. Il panorama che si godeva dall’hotel, in cui si ritirarono in piena notte, fu il suo unico sedativo, ripensando a quanto quella situazione lo disturbasse profondamente. Non era nato per quello, non era nato per fare il sex symbol, eppure era lì, intrappolato in quel film come se lo stessero trattenendo con la forza. Tutta colpa di quella ragazzina e delle sue fantasie incoerenti. Trovare il giusto distacco sembrava essere la soluzione più efficiente, ma la strada della rabbia era più facile da imboccare. Rivide il suo viso coperto dagli occhiali e non riuscì ad evitare la collera. E dire che, per un momento, si era sentito felice di essere arrivato in quella città che aveva visto attraverso i suoi occhi.
 

 
***

 
Quella stazione era sudicia e c’era troppa gente per potersi davvero concentrare. Continuava a sbagliare il percorso da seguire per arrivare alla metro.
 
  • Ed! – esclamò Emanuele per l’ennesima volta. – Devi andare a destra, non a sinistra! – e si portò una mano alla fronte.
  • Lo sta facendo di proposito. – commentò Sara seduta accanto a lui, esausta già al quindicesimo ciak. – Vi prego, fate qualcosa.
  • Questo posto è un maledetto labirinto! – le rispose il rosso, che sembrava essere tornato al suo temperamento abituale. – Potresti anche evitare di commentare ogni scena!
Lei, di tutta risposta, si alzò di scatto dalla sedia e lo raggiunse, non tollerando ulteriormente quell’espressione di disprezzo. Non seppe trattenersi. Emanuele ghignò, cogliendo quell’attimo d’ira per il suo diretto rivale. 
 
  • Senti… - e si fermò dinanzi a lui – nessuno ti sta chiedendo di andare a Mordor e distruggere l’anello del potere, quindi vedi di finirla! – tagliente.
  • Questa scena potevamo tagliarla, ma no! La signorina deve girare anche ciò che non serve! – cominciava ad alzare il tono – Non posso farci niente se questa stazione è stata progettata da un idiota!
  • L’unico idiota, qui, sei tu che non riesci a seguire le indicazioni! – e indicò il cartello a fondo giallo che riportava la scritta… - CIR-CUM-VE-SU-VIA-NA! È SCRITTO IN CARATTERI CUBITALI!
  • ENOUGH! 
L’intera troupe atterrì al suono della voce del regista, John Webber, che col megafono rivolto verso di loro aveva messo fine a quella sceneggiata.
 
  • Se non la smettete vi licenzio!
Scorse Ed tirare la testa nelle spalle, inaspettatamente intimorito da quella minaccia. Lo vide alzare una mano in segno di scuse, per poi passarsela maledettamente tra i capelli. La sua espressione mutò in collerica non appena tornò su di lei. Lo stava facendo di proposito a sbagliare direzione, lo leggeva su quella faccia da schiaffi, le mani infilate in tasca con indifferenza.
 
  • Va’ a destra. – gli disse con occhi infuocati e il dito puntato nella direzione giusta.
Ed la vide tornare accanto al regista con passo pesante e la detestò. Rimproverato da quella…quella…ragazzina.
 
Federica ringraziò il cielo che fossero finalmente a Torre del Greco, perché quel momento segnava il termine della prima faticosa, snervante, fase del film. Se non fosse stato per Arianne, che sembrava così abituata a quel tipo di situazioni, sarebbe fuggita alle Hawaii. Sara aveva fibrillato incollata al finestrino finché non furono accompagnati in un hotel vicino al porto, il suo parco abitato invaso da curiosi e fan che speravano di incontrare il mitico Ed Sheeran. I suoi avevano cambiato il nome sul citofono per disperazione. Il giorno successivo le parve strano camminare di nuovo per le vie della sua città, barricata dietro le transenne insieme a quelle persone, piuttosto che in compagnia dei suoi amici. Una volta terminata la sequenza di scene che lo vedevano vagare da solo, per Ed giunse il momento più temuto: incontrare “Sara” su quella strada del centro, invischiarsi definitivamente nella serie di snervanti litigi che sarebbero sorti ad ogni scena da quel momento.
A primo impatto la città gli era sembrata mediocre, un paesotto di provincia, con gente di provincia. Avevano dovuto chiamare i rinforzi per la sicurezza, data la mole di persone che si era recata sul set e fuori dai loro alloggi. Giusto prima di girare quella scena, riuscì a vederla salutare da lontano delle persone per poi distaccarsi dal mondo e tornare a sedersi accanto a Webber, senza neanche avere con sé una copia della scenografia. In fondo non le serviva.
Le comparse si riposizionarono ai margini dell’inquadratura, con i loro abiti estivi fuori luogo per quella brezza aprilina.
Al ciack, dopo aver lanciato un’occhiataccia ai cartelloni di “Ema” – e nella sua mente pronunciò quel nome con disgusto – cominciò a camminare distrattamente guardando le vetrine tirate a lucido di proposito, sentendosi terribilmente osservato dalle persone che insistevano a restare sulla scena. Lasciò che Sofia gli sbattesse contro.
 
  • Scusa, non ti avevo visto. – lui stesso sentì la sua voce suonare terribilmente in italiano.
  • Non preoccuparti, è colpa mia, non guardavo dov-
  • STOP!
Ecco, sentiva l’odore del primo litigio da lontano. Si voltò palesemente scocciato verso di loro, regista, autrice e sceneggiatori.
Vide Max discutere con Arianne con troppa tranquillità, non si stava impegnando molto quel ragazzo.
 
  • Rifacciamola!
  • What’s the problem this time?! – allargò le braccia, osservando la sceneggiatrice avvicinarsi.
  • Non sei abbastanza concentrato! – disse lei, con la montatura dorata che luccicava al sole. – Cerca di immergerti nel personaggio, devi sentirti come lui.
Sbuffò e riprovarono da capo. Ciak, scontro, Scusa non ti avevo visto.
 
  • STOP! – stavolta la voce di Webber non era rassicurante. Lo sapeva che non fosse un attore?
  • Non puoi parlare con quella sicurezza. – era lei. Non l’aveva vista arrivare, occupato a puntare gli occhi al cielo per l’esasperazione. – Ricordati che hai paura, sei spaesato, sei alla ricerca di te stesso.
I suoi occhi azzurri lo trapassavano, come carichi di quelle stesse sensazioni.
 
  • How boring. – commentò – I’m not insecure.
  • Beh, Edward sì. – sempre quel tono rabbioso.
  • But I’m not him! I’m not an actor! – le rispose, con altrettanta rabbia, attirando lo sguardo degli spettatori che la sicurezza non riusciva ad allontanare del tutto.
Stuart gli fece cenno di darci un taglio, troppi occhi stavano assistendo a quella scena.
 
  • PER ME POSSIAMO ANCHE TROVARE QUALCUN ALTRO!
Federica, affranta, diede una testata contro la sceneggiatura, coprendosi il viso.
 
  • Io li ammazzo. – borbottò.
Stuart parve averla sentita, perché le si accostò e si sedette al posto di Sara.
 
  • Unless I do it first.

 
***

 
Alle idi di Aprile, concluse le riprese del tour a Napoli ed ora rinchiusi in quell’hotel, pensavano di impazzire. Federica era tornata a casa per una sera, per vedere finalmente il suo fidanzato e salutare la sua famiglia. Arianne e Max si erano rifugiati nella SPA, per scaricare la tensione di quei primi giorni, Sara aveva rifiutato l’invito. Aveva bisogno solo di silenzio e riposo, ma preferì lasciarli soli. Aveva parlato per più di un’ora con Olga, cercando di farsi dare un consiglio concretamente applicabile a quella situazione, ma ottenne solo un “vivi e lascia vivere”. Era pignola, lo sapeva, ma non riusciva a considerarlo un difetto.
Era scesa nella hall per andare a prendere quella birra con Emanuele che, non riconoscibile, avrebbe potuto raggiungerla fin lì dagli alloggi della troupe, ma non era ancora arrivato. Nel suo jeans, si diresse comunque verso il bar, pensando di attenderlo lì, ma si trovò faccia a faccia con Ed all’ingresso del saloon.
Lo guardò, non poteva più far finta di non averlo visto. Si fermò davanti all’entrata come per farlo passare per primo, ma lui non si mosse. Aveva uno di quei suoi pantaloni a quadri e gli occhiali, la fissava da dietro le lenti senza alcuna esitazione o ripensamento, come sempre. Non sapeva cosa fare.
 
  • How come you’re here? – le chiese poi. – You drink?
Lei esitò a rispondere, riflettendo sulla possibilità di ignorarlo comunque e andare via.
 
  • Let me get you something.
Sapeva benissimo che lo capisse, nonostante il suo inglese, quindi varcò la soglia e si avviò al bancone del bar, senza voltarsi. Ordinò due birre, per lei una corona sale e limone.
Sara finì per sedersi sullo sgabello di velluto rosso accanto a lui, confusa da quella improvvisa gentilezza. Quando vide la birra non frenò quello sguardo contratto che le sfuggì.
 
  • Proprio questa… - gli disse.
  • I thought you liked it. – fece spallucce, come per negare che avesse ricordato quel dettaglio del racconto.
Lei prese il primo sorso evitando di approfondire il discorso, riuscendo a percepire i suoi occhi studiarla di nascosto. Ed la guardava con un’inusuale calma, trattenendosi dal tornare sui suoi passi.
 
  • We have to talk. – e la vide immediatamente allarmarsi. – About the film.
  • Se devi ripetere il tuo disprezzo verso il libro, puoi anche risparmiartelo, vado via subito. – rispose Sara, già con un’ombra negli occhi, già abbandonando la birra sul bancone.
  • Per quanto non possa nascondere il disinteresse, c’è qualcosa che devi sapere. – prese il suo telefono dalla tasca e lo appoggiò davanti a lei.
Un articolo in inglese riportava un titolo inequivocabile. Ed e Sara litigavano visibilmente in una foto. Le corse un brivido lungo la schiena a quell’immagine, non perché timorosa per la sorte del film, ma per ciò che sapeva potessero fare i giornalisti. Ed la guardò come se lei non potesse comprendere la gravità del fatto.
 
  • Stuart l’ha trovato poco fa. – un sorso dalla bottiglia scura – Dice che dobbiamo smetterla di litigare.
  • Non che io abbia mai avuto intenzione di litigare! – lo rimbeccò lei.
  • Ecco, vedi?  - e battè il fondo della bottiglia sul bancone – Devi sempre rispondermi con quel tono!
  • Sei tu che ti ostini a mantenere un comportamento infantile!
  • MA ADESSO STO CERCANDO DI CURARE I NOSTRI INTERESSI. – sgranò gli occhi per emanare più frustrazione possibile. – Ti sto chiedendo una tregua, santo cielo.
Sara non riusciva a fidarsi delle sue parole, già convinta che alla prima occasione avrebbero litigato ancora, per una battuta o per un’espressione poco convincente, ma doveva per forza accettare quella proposta, altrimenti sarebbe finita dalla parte del torto.
 
  • E come pensi che potremo andare d’accordo? – gli chiede allora, un tono di scetticismo nella voce.
  • Pensavo… - e distolse lo sguardo, per non farsi leggere. – che potresti aiutarmi a provare le battute. – un altro sorso.
  • Davvero…?
Notò comunque la sorpresa nei suoi occhi chiari, nonostante fissasse un punto dinanzi a sé. Si sentì tremendamente instabile nel tentativo di lasciare spazio ad una sola delle emozioni che provava, la rabbia verso quella costrizione o la sensazione che forse potessero davvero provare a conoscersi meglio. Lei, forse impietosita dalla sua figura così ricurva sulla sedia, espulse la voglia di vendetta attraverso un sospiro, troppo spaventata da ciò che sarebbe accaduto se non avessero smesso di litigare in pubblico.
 
  • Va bene. Ti aiuterò. – rispose, allora – Ma dovrai ascoltarmi, senza protestare.
Finalmente si voltò e annuì in silenzio, la voce morta in fondo alla gola per lo sforzo adattivo. Tanto per cominciare, riprese il suo cellulare, posizionò le loro birre una vicina all’altra e gli scattò una foto, per poi pubblicarla sui social con la dicitura “A very good beer with a very good writer”. L’aveva taggata e aveva aggiunto Afire Love come sonoro della story.
Il messaggio di Federica le fece vibrare il cellulare non appena Emanuele la chiamò dall’ingresso del bar.
 
 
***

 
Diverse ore dopo si rese conto che non aveva cominciato col piede giusto andandosene non appena Emanuele l’aveva chiamata. Qualcosa era scattato in lui quando capì che volevano restare soli. Emanuele lo aveva guardato con quell’aria provocatoria che gli riservava sempre più spesso e si chiese chi credesse di essere. Non voleva certo soffiargli la ragazzina. Si era dato dello sciocco e aveva lasciato perdere quel testo che aveva cominciato a scrivere, decidendo che quella stanza di 20 metri quadri fosse claustrofobica. Non avvertì Stuart che stesse uscendo e quando finalmente l’aria marina gli rinfrescò le narici, riuscì a rilassare per un attimo l’addome contratto per la tensione. Col cappuccio in testa, si avviò verso il porto a passo svelto sperando di non incontrare nessuno a quell’ora. A pochi passi si ritrovò al bar dove Edward e Sara avevano fatto quella triste colazione e imboccando le scalette che sbucavano sul canale d’ingresso al porto, ripensò agli occhi di lei, così confusi e così tristi, mentre giravano quelle scene. Nemmeno la rabbia o i litigi avevano mascherato quel velo scuro. Lui, invece, non aveva provato niente guardando Sofia che gli recitava davanti, solo un vago senso di confusione, come spaesato.
Quelle scale sporche e puzzolenti lo avevano portato su una strada altrettanto sudicia, finchè oltre la curva non scorse di nuovo i pescherecci e le barchette colorate dondolare nello specchio d’acqua calma. Risalì la muraglia e una carezza del vento lo fece voltare verso il panorama. Non c’era nessuno, solo il silenzio e lo scrociare delle onde sotto alla scogliera. Il panorama lo lasciò senza fiato, brillava in lontananza. Continuò a camminare nella penombra di quella passerella non illuminata e ascoltò i rumori della notte del porto, fino alla statua del Cristo. La leggera risata che sentì librarsi nell’aria lo fece trasalire e poi voltare verso quelli che sembravano due ragazzi, seduti sullo scoglio dove avevano girato pochi giorni prima. Col cappuccio ancora sui capelli, fece per andarsene, ma la voce di Sara era inconfondibile. Strinse i pugni.
Non capì cosa dicessero, ma quello che si sporgeva a baciarla nel buio era sicuramente il gobbista. Le sue labbra si distorsero per la stizza e il sangue gli salì alla testa. I suoi piedi scattarono e lo trascinarono via, ripercorrendo i loro stessi passi.
Quella sensazione di sconforto, quella folle idea di tradimento, quella brusca sberla che lo stava facendo rinsavire, spinsero la sua mente a replicare all’infinito quella scena finchè non si convinse che la Sara di Afire Love non esistesse e che la donna che aveva conosciuto non le somigliasse che nell’aspetto. Tutta quella storia, si disse accendendo una sigaretta nonostante l’affanno, era solo una buona strategia commerciale per lui e un buon modo di guadagnare per lei.
D’altronde, l’uomo seduto su quello scoglio, proprio quello, non era lui e questo era tutto ciò che in quel momento contasse.
 
 

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Capitolo 15
*** XIV ***


 
CAPITOLO XIV
 


 
A tutti i sogni in cui

riusciamo a conoscere

e ritrovare

noi stessi.





La notte era trascorsa lenta e l’alba aveva illuminato la stanza risvegliandola da quel torpore.
“Posso provare a baciarti?”
Quelle parole le avevano fatto girare la testa e non aveva saputo respingerle. Emanuele aveva poggiato le labbra sulle sue. Quella sensazione e quel sapore ancora le scuotevano i sensi, presa dal senso di serenità che lui sapeva donarle. Aveva impresso nella mente quel momento e lo aveva ripercorso senza sosta, cercando di mettere da parte quel pizzico sgradevole che sentiva pensando a Edward.
 
  • Devi ammettere che c’è del tenero!
La voce di Federica, tornata all’hotel di primo mattino, la riportò indietro al tavolo della colazione, solo diversi secondi dopo si rese conto che non stesse parlando con lei.
 
  • Forse sì, forse no… - Arianne bevve un sorso del suo tea. – Ma non ho intenzione di impegnarmi, voglio prima realizzare i miei progetti.
  • Puoi realizzarli con lui. – Federica era ormai una fan di quella coppia non dichiarata.
Arianne, come ci si aspettava da lei, fece la finta tonta continuando a ridere sotto i baffi. Sembrava che nessuna delle due fosse al corrente di ciò che fosse successo la sera prima, quindi le informò del suo accordo con Ed, guadagnandosi due sguardi perplessi, a metà tra la sorpresa e il sospetto.
 
  • Non fare quella faccia, continua a non starmi simpatico! – disse allora ad Arianne, che già aveva gli occhi luccicanti al pensiero che la cosa potesse avere risvolti un po’ scontati.
  • Quale faccia? – le rispose con finta innocenza. – Non ho mica insinuato che finirete per andare d’accordo e innamorarvi come tutti si aspettano!
Federica trattenne a stento una risata.
Si diressero insieme alla troupe a casa sua, per registrare quelle ultime scene dei primi giorni che dovevano ambientarsi in quella casa. Fu così strano rientrare nel suo salotto insieme a quelle persone. Mentre le luci e le telecamere venivano sistemate, si chiese ancora perché Ed quella mattina non l’avesse guardata nemmeno da lontano. Era silenzioso, la sua espressione atona mentre si sedeva sul suo divano, facendole riaprire le vecchie ferite. Non disse nulla, ascoltandolo recitare quelle poche battute. I suoi jeans e quella maglietta blu sembravano esattamente quelli che ricordava lei, eppure quell’uomo non era Edward.
Federica, forse più cosciente di lei riguardo i suoi sentimenti, le prese la mano mentre Ed avvicinava le sue labbra a quelle si Sofia. Non poteva credere di non essere lei su quel divano. Il ricordo delle labbra di Emanuele, però, si ripresentò alla sua mente come infiammato. Non mosse un muscolo finché la scena non fu conclusa e gli operatori iniziarono a spostare le attrezzature. Solo in quel momento, per un solo istante, vide gli occhi di Ed incontrare i suoi, per poi tornare a guardare altrove. 
Ed si era alzato quella mattina senza più sapere cosa aspettarsi da quell’esperienza. La sua rabbia verso il film era diventata un denso fumo che invadeva la sua mentre, non permettendogli di distinguere chiaramente i pensieri e le sensazioni. Capì solo, immergendosi in quella scena sul divano, come si fosse sentito Edward mentre tendeva il viso verso Sara. Quella forte spinta verso di lei, ancora così incomprensibile e spaventosa, era diventata il pensiero prevalente da quando l’aveva vista baciare quel ragazzo. Non riusciva a guardarla senza farsi prendere dalla gelosia, così l’aveva evitata per tutta la mattina, ma avrebbe dovuto onorare la sua parola quella sera, provando con lei le battute delle prossime scene. L’aveva guardata pensando a come sarebbe stato, ma non riuscì a sostenere il suo sguardo triste per più di un secondo. Forse era più spaventato dal riconoscersi nel suo stesso personaggio che dalla cupa malinconia che scorgeva nella fievole luce dei suoi occhi.
 
Emanuele l’aveva raggiunta nella sua stanza, che ancora una volta aveva trovato così come l’aveva lasciata: un bizzarro mercatino delle pulci stracolmo di ricordi e sogni. Non aveva avuto la forza di vedere Ed entrare lì dentro e vi si era rifugiata solo a telecamere spente.
 
  • Ciao. – la voce morbida e gentile, come il suo sorriso.
  • Ciao. – ricambiò spontaneamente.
  • Come sta oggi la mia scrittrice preferita? – le si avvicinò, poggiandole le mani sui fianchi.
Era così strano sentirgli dire quella frase, considerando cosa avesse scritto. Non ci badò più di tanto e si sporse a baciarlo, fuggendo dai suoi ricordi. Con le mani sul suo viso liscio, per un momento dimenticò tutto e sentì solo Emanuele stringerla più forte e con più desiderio di quanto si aspettasse. Il suo corpo rispose istintivamente, alimentando quel fuoco sopito che si portava dentro. I suoi abiti da lavoro sembrarono improvvisamente inutili, ma dovevano stare attenti. Non potevano lasciare intendere niente a nessuno. Infatti lui forzò il distacco, sentendo dei passi avvicinarsi e fece finta di parlare normalmente con lei. Anna entrò nella stanza e gli rubò in chiacchiere tutto il tempo che era rimasto della pausa, finchè non dovettero salutarsi con lo sguardo ancora pieno di desiderio. Quella sera parte della troupe i sarebbe spostata a Napoli e loro li avrebbero raggiunti soltanto il giorno successivo.
 
|Non vedo l’ora di rivederti.|
 
 
***
 
 
  • Va’ tu da lei.
Stuart lo aveva detto una decina di volte, ma lui si era convinto già alla seconda. Irrequieto, aveva camminato senza sosta su e giù per la stanza di Stuart cercando di capire cosa fare. Voleva andarci e non voleva andarci nello stesso momento, l’anima troppo tesa verso di lei, ma troppo incatenata da quel mal di cuore che lo aveva colto neanche 24 ore prima.
Le battute della loro gita a Ercolano e della prima stesura di Photograph erano poche e semplici, le aveva già imparate, ma il Quinto Giorno lo faceva sentire teso come una delle corde della sua chitarra. Si vergognava terribilmente.
Il suo flusso di pensieri fu bruscamente interrotto dalla grossa mano di Stuart che, senza aggiungere una parola, lo trascinò fuori dalla sua stanza e gli chiuse la porta in faccia. I suoi capelli sottili furono smossi dalla potenza del gesto. Il corridoio dell’hotel, bianco e ben stuccato, sembrava un segmento di labirinto, tanto era drogato della sua stessa confusione. I suoi piedi si mossero con propria volontà e lo trascinarono al piano di sotto, fino alla camera 55. Bussò con troppa insicurezza e quando la sentì giungere all’uscio si irrigidì. Ancora i suoi capelli furono smossi dall’apertura della porta, ma stavolta con un moto di risucchio da cui si sentì quasi trascinato all’interno. Il viso di lei non nascondeva lo stupore.
 
  • Non pensavo saresti venuto.  – gli disse.
  • Why?
  • Niente. – e si avviò all’interno della stanza.
Entrò e si richiuse la porta alle spalle, notando che sul letto il suo pc mostrava un file carico di parole, fitte e illeggibili da quella distanza. Il suo profumo si mescolava con quello della salsedine che filtrava dal balconcino.
Indossava una tuta troppo grande per lei e i suoi capelli cominciavano ad essere davvero troppo lunghi per sembrare la sua coprotagonista.
 
  • Accomodati. – e si avviò sul balconcino, lo scirocco riscaldava la serata.
Si sedette sulla sedia di fronte a lei, senza poggiare le spalle allo schienale. Posò la sceneggiatura sul tavolino, non sapendo da dove cominciare. Per un momento la rabbia che provava gli velò i pensieri.
 
  • Se non hai voglia, possiamo lasciar perdere.
Non si era accorto di essere rimasto troppo a lungo in silenzio. Il tono di Sara era freddo eppure incerto. La guardò.
 
  • No, io…ci posso provare. – e riprese il copione.
  • Come posso aiutarti? – tirò le gambe sulla sedia, l’anima ancora distante.
  • Il quinto giorno è molto strano. Io, cioè Ed prova così tante emozioni diverse. – cominciava a lasciar trasparire il suo imbarazzo con quelle sue dita tremanti.
  • E non le capisci?
  • Le capisco benissimo. – netto. – Solo è difficile esprimerle.
Sara gli prese il copione dalle mani, riflettendo sulla inusuale tranquillità che c’era intorno mentre erano nella stessa stanza. I suoi occhi sfilarono sulle prime battute, sentendo così chiari sul suo viso i segni di quelle sensazioni che lui non sapeva comunicare.
 
  • Beh, la parte in cui discuti con il produttore dovrebbe essere facile per te. – e glielo restituì – Sei già arrabbiato a sufficienza.
  • Quando lui – e deglutì, mandando giù quella frecciatina – descrive Sara alla sarta…
  • Non sei mai stato innamorato? – così, a bruciapelo. La guardò, chiedendosi se lo fosse mai stato davvero.
  • Sì. – rispose con incertezza e vergogna, ma senza distogliere lo sguardo.
  • Descrivi Sara come se fosse la donna che ami. Prova. Io faccio la sarta.
Guardò il testo e pronunciò la battuta con un’apatia sconcertante. Non era certo un attore, lei invece aveva recitato le battute senza bisogno del copione.
 
  • Cosa ti spaventa? – gli chiese Sara, con esplicita curiosità. – Ancora. Se vuoi, prova a girarti di spalle.
Non aspettò che lo dicesse due volte e girò la sedia di 180° sospirando per il sollievo.
 
  • Lasciati andare.
  • “Lei è alta poco meno di me, magra, slanciata, spalle un po’ larghe. Capelli scuri e corti. Occhi azzurri.” – Una pausa troppo lunga per passare inosservata – “Bellissima.”
  • “Intendevo come persona.” – rise proprio come avrebbe fatto la donna – “Che abito le vedresti indosso?”
  • “Un abito blu.”
  • Come ti sei sentito? – gli chiese, cercando davvero di capire cosa pensasse. Quella sua calma la turbava più dei loro litigi.
 
Ed non sapeva spiegare quella sensazione di profonda comprensione che provava verso il personaggio che interpretava. Senza guardarla, riusciva quasi ad apprezzare la sua presenza alle sue spalle, la sua presenza sul pianeta. In fondo, lei stava riuscendo a rimetterlo in contatto con se stesso.
 
  • È difficile spiegare. – cominciò. – Ma capisco. Io lo capisco.
Si riferiva a Edward e Sara, quella vera, lo sapeva.
 
  • Andiamo avanti. – disse lei, fissando senza espressione la sua nuca che veniva fuori dalla felpa. Era così familiare. – Passiamo al momento in cui andiamo allo Swinging Blues, ci tengo molto a quel capitolo.
  • Parli come se fossimo davvero noi, quei due.
Sara sentì il cuore fermarsi nel petto, il sangue gelarsi nelle vene. Non se ne era accorta. Così come non si accorse che lui stava tornando a guardarla, rigirando la sedia.
 
  • “Stamattina ho parlato col mio produttore” – cominciò. Lei sembrò non riuscire a far vibrare le corde vocali. Le tremavano le mani.
  • “C-com’è andata?” – quel ragazzo non era Edward. Ma i suoi occhi…
  • “Gli ho risposto male.” – non sapeva come stesse facendo a pronunciare quelle parole, come se davvero fosse felice di vederla, come se fossero davvero i complici che aveva raccontato. – “Voleva cambiare le parole della canzone, ma io non voglio.”
  • “E ora non sei nei guai?” – finalmente sentiva di aver stabilito un contatto con lui.
  • “No e sai perché?” – sorrise così spontaneamente, che la battuta successiva sembrò venire direttamente dal suo sistema nervoso. – “Perché loro hanno bisogno di me, non io di loro.”
Sara non riuscì a trattenere un sorriso vedendolo canticchiare quella canzone davanti ai suoi occhi. 
 
  • Ecco, è così. – fece lei, con una certa luce negli occhi – Questo è l’Edward che conosco.
La dolcezza nella sua voce risuonò nell’aria come una melodia.
Il sorriso che Ed guardava, per la prima volta rivolto a lui, smosse qualcosa nella sua anima che gli strinse la gola. Compreso. Amato. La parte più autentica di lui stava finalmente assestando un duro colpo a quella rabbia.
La sentì proseguire alla battuta successiva e assecondò quell’intraprendenza senza esitazione, uscendo dalla semicoscienza. Proseguirono fino all’incontro con Angelo, che non potè fare a meno di sostituire con una versione malvagia di Emanuele. Così, mentre Ed respingeva la gelosia verso quella figura che a lei sembrava così cara, Sara tentava di scacciare i sensi di colpa dovuti a quella così bella e familiare sensazione che stava provando con lui, quella sera, in quella stanza.
  • “Ha detto che si capisce che siamo solo amici, allora facciamogli credere il contrario!” – continuò lui, ormai senza paura.
  • “Come?”
  • “Ti fidi di me?”
Ancora una volta il silenzio li avvolse per troppi secondi. Ed sentiva di essere in un’altra dimensione e guardandola, gli sembrò davvero che lui fosse Edward e lei fosse Sara. O forse erano soltanto “quelli reali” che si incontravano davvero per la prima volta. Solo quando scorse quella concretezza anche negli occhi azzurri di lei, continuò.
  • “Mi lascerai fare, senza ribellarti?” 
E lo lasciò fare davvero, aprendogli le porte della sua anima, mentre proseguivano con l’immaginazione fino all’alba del sesto giorno, quando per la prima volta avrebbero affrontato davvero il discorso della partenza. La tristezza negli occhi di Sara sembrava aggrapparsi alle sue ciglia, deformandole l’espressione.
Ancora una volta si chiese quale connessione legasse le due donne che aveva incontrato, perché quella ragazza che aveva davanti sembrava entrare e uscire da quel libro come se fosse davvero parte della sua storia cronologica.
 
  • “Buonanotte. A domani.” – cercò di trovare la lucidità nei suoi occhi.
  • “A domani, Ed.” – non la trovò.
Si sporse verso di lei e la baciò sulla guancia arrossata per davvero, mosso dai fili invisibili del suo inconscio. Quando sentì quella lacrima bagnargli le labbra, tornò con i piedi per terra. La vera Sara De Amicis piangeva davanti a lui, mostrandogli le sue ferite aperte, senza che lui potesse comprenderle o curarle.
Non osò sfiorarla ancora, si alzò e con un groppo in gola si avviò alla porta. La ringraziò con la voce spezzata e uscì.
Si sentì una vera carogna, pensando a quanto dolore dovesse averle provocato in quelle settimane e quanta frustrazione e quanta rabbia avrebbe potuto evitare se solo avesse saputo ammettere che quella sconosciuta l’aveva beccato in pieno, risvegliando quei desideri nascosti nel profondo.
Solo quando fu in camera sua, con le mani a strofinare via quelle immagini dagli occhi, riuscì a frenare le lacrime che volevano a tutti i costi lavare via la finzione dalla sua vita.

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Capitolo 16
*** XV ***


CAPITOLO XV
 
 




Avevano lasciato l’hotel di buon mattino per terminare le riprese ambientate in quella città e fare tappa sul Vesuvio e per fortuna la giornata prometteva bene, soltanto il fresco non ancora esattamente primaverile poteva essere un freno. Avrebbero seguito esattamente l’itinerario descritto nel libro, per poi traslocare a Napoli e concludere anche le riprese del quinto giorno. Arianne sapeva che avrebbero dovuto fare in fretta, accontentarsi in qualche modo, cosa che non le andava molto a genio, vista la sua precisione, ma si sarebbe contenuta. Sperava solo che Ed e Sara avrebbero collaborato e che nessun contrattempo li avrebbe intralciati. I furgoncini li trasportarono fin sul vulcano, mentre il sole cominciava ad accorciare le ombre degli alberi e a riscaldare quell’aria così fresca e profumata di resine. Il vento che filtrava dal finestrino lasciato aperto coccolò Federica nel silenzio pacifico di quella mattina. Solo il rombo del motore invadeva l’abitacolo in cui lei, Sara e Arianne contemplavano la stanchezza e la perplessità. Davanti a loro, Ed Sheeran e Stuart Camp sembravano assonnati. Sara e Ed si erano scambiati un vago buongiorno prima di salire a bordo, dipingendo curiosità e sospetto sui volti di chi li accompagnava. Quando giunsero alla biglietteria del Parco Nazionale del Vesuvio, Ed lasciò che scendesse per prima, facendole un cenno di cortesia con la mano. Non aveva certo lasciato da parte l’imbarazzo che si era abbondantemente guadagnato la sera prima, ma non riusciva nemmeno ad essere arrabbiato e per qualche motivo, se ne vergognava. Quando li raggiunse, il panorama colpì prepotente i suoi occhi, desiderando per un attimo di sedersi lì e stare in silenzio ancora un po’, ma la voce del regista li richiamava severa, troppo poco era il tempo a disposizione. Sentì le pietre ruzzolargli sotto le suole di gomma di quelle Converse mentre raggiungeva Sofia sul set della prima scena. Si accostò alla moto che avrebbe dovuto saper guidare e attese il ciak. Sentiva tutti gli occhi puntati su di lui, ma scorse solo quelli di Sara abbandonati su quell’inquadratura.
Sembrò così semplice, per lei, fingere indifferenza quel giorno, forse per la natura meno sentimentale delle riprese o forse perché troppo stanca per punirsi ancora. Li seguì con lo sguardo finché poté, ma non le fu consentito di andare sul cratere insieme ad Arianne e al regista. La prima ora trascorse lenta, mentre Federica le domandava se fosse accaduto qualcosa.
 
  • Abbiamo provato insieme le battute, ieri sera. – cominciò, tirandosi giù le maniche della grossa felpa grigia – Non sembrava neanche lui.
  • Se non ti va, non devi farlo. – il calore della sua mano le avvolse il braccio, per rassicurarla.
  • No, va bene così. – rispose, consapevole che fosse giunto il momento di abituarsi alla cosa. – Sembra che sia d’aiuto, quindi va bene.
Quando scesero dalla montagna, furono scaraventati nuovamente nei furgoni, diretti agli Scavi di Ercolano. Erano stati piuttosto veloci, pensò Sara osservando distrattamente Ed. Quando anche lui la guardò, quegli occhi che prima erano così taglienti, fu colta dalla calda sensazione di imbarazzo che aveva provato quando l’aveva sfiorata la sera prima. Una sensazione allo stomaco fin troppo riconoscibile, che la stava lasciando spiazzata e incredula. Strinse le mani nelle tasche, sperando che non fosse così evidente. Il calore accogliente e familiare di quello sguardo, il colore acceso di quei capelli, quelle labbra così colorite e sottili…era completamente avvolta. Lesse in qualche modo sul suo viso gli stessi pensieri. Ed, dall’angolo opposto dell’abitacolo, accoglieva quella placida sensazione di calma che emanava la figura di lei, mentre rifletteva su quanti giorni ancora avrebbero trascorso in quel modo, a guardarsi da lontano senza riuscire a dirsi nulla. Aveva voglia di prenderle la mano e farle capire che sarebbe andato tutto bene. Che ormai si erano capiti. Si erano trovati. Non voleva più tornare alla rabbia.
Il fischio dei freni li distolse da quel contatto e furono nuovamente trascinati fuori. Questa volta gli occhi di Sara seguirono le riprese scena per scena, attraverso i meandri degli scavi polverosi, senza accorgersi che gli occhi malinconici di Emanuele desideravano un suo segno, qualcosa che non gli dicesse che l’aveva già persa. Sara era troppo presa dall’osservare quanto quell’Ed stesse cominciando a somigliare all’uomo di cui si era innamorata. Quando furono all’uscita degli scavi, due dita picchiettarono sulla sua spalla: si voltò e riconobbe immediatamente quel profumo.
 
  • Stai bene? – le iridi scure erano più spente del solito, ma lei gli sorrise.
  • Sì, sono solo un po’ stanca. – abbassò lo sguardo.
  • Sicura che non ti abbia dato fastidio? – le chiese ancora una volta, dopo i mille messaggi della notte precedente.
  • Sono sicura. Voglio solo approfittare di questa calma per finire di girare.
Emanuele non poté baciarla o abbracciarla, ma la guardò carico di gelosia e dubbi, le labbra incurvate. Vide sparire i suoi capelli mossi dietro la porta scorrevole del van, incontrando gli occhi di Ed prima che si chiudesse. Strinse le dita intorno alle sue board, tornando al team con l’amaro in bocca.
Il bosco di portici li avvolse con le sue fronde antiche e brillanti, il profumo di terra umida e erba tagliata punse le narici di Sara, che l’ultima volta l’aveva assaporato con incertezza e paura. Ed ora lo vedeva lì, davanti a lei, che avanzava davvero su quel sentiero con quelle scarpe e quei jeans e quella andatura morbida, insieme a Sofia, sempre più somigliante a quella se stessa che aveva sognato. I suoi piedi proseguivano senza comando verso il prato verde, con Federica che si affiancava a lei con occhi preoccupati. Le mise un braccio intorno alle spalle e la strinse senza fermarsi, la baciò sulla guancia e la superò subito dopo, non appena il regista gridò stop. Scavalcò lei, Arianne e Max, il regista e quei capelli rossi fino all’inizio del manto erboso, carico di fiori e margheritine bianche. Il salice che avevano fatto piantare ondeggiava al sole. Doveva essere la prima a vedere quel posto, con i suoi occhi nuovi, prima che le telecamere lo contaminassero. Il mare spuntava all’orizzonte ovest.
 
  • It’s beautiful.
La sua voce grave e senza tono la fece sussultare. Lo guardò, senza essere ricambiata, la pelle chiara e le lentiggini spruzzate sul viso, la forma del suo naso una linea morbida e non inaspettata. Solo prima che li raggiungessero, Ed si girò come per dirle qualcosa, ma nulla venne fuori dalle sue labbra socchiuse. Le sue dita piccole sfiorarono quella mano fredda che Sara aveva lasciato scoperta.
 
  • Ed!
La voce di Sofia gli ghiacciò i nervi, come colto nel sacco. La raggiunse chiedendosi cosa diamine stesse pensando, con l’intera troupe ad osservare ogni loro mossa, i paparazzi probabilmente nascosti dietro qualche cespuglio. Riuscì a scorgerla tornare indietro, ma non si guardarono. Vide molte domande apparire sul viso della ragazza che recitava con lui, ma si forzò di far finta di niente. Solo quando terminarono le riprese, quel giorno, riuscì a darsi il permesso di sperare che quella sera l’avrebbe rivista.
 
***
 
  • Quindi domani mattina dobbiamo andare di nuovo in centro storico.
Cercava di parlarle senza lasciar trasparire l’agitazione che gli aveva fatto tremare le gambe, quando l’aveva vista spuntare sull’uscio della sua porta. Non credeva che sarebbe stata lei a presentarsi, quella volta, eppure aveva bussato appena dopo cena, quando ormai il resto della troupe si era dileguato. Il piccolo albergo nel cuore di Napoli aveva terminato le stanze per accogliere appena la metà di loro, il suo “Ema” si trovava in un’altra struttura. Forse quello era l’unico motivo che l’aveva spinta a presentarsi, ma non si soffermò troppo su quel pensiero.
Sara annuiva, mentre incrociava le gambe sulla poltroncina della stanza, questa volta il profumo del mare non la stordiva mentre lui si portava di fianco a lei, trascinandosi una sedia.
 
  • Il quinto giorno è stato già girato per metà, manca solo la parte allo Swinging Blues, quindi non ci metteremo molto.
Ed osservava il copione cercando di inquadrare subito le scene che lo avrebbero messo in difficoltà con lei, non fu difficile trovare subito un paio di punti caldi. Lei non lo guardava proprio per questo, sapevano entrambi che le cose cominciavano a riscaldarsi da quel giorno in poi.
 
  • You know I can’t dance. – osservò, immaginandosi la scena.
  • Lo so ed è giusto che sia così. – quasi rise.
  • E non avrei nemmeno resistito così tanto a baciarti. – continuò con lo stesso tono casuale, dando libero campo ai suoi pensieri.
Solo pochi secondi dopo si rese conto di quanto fosse fraintendibile quella frase alle orecchie di Sara, ma non seppe come rimediare. La guardò, aspettandosi una reazione negativa a quella che sembrava una provocazione, ma lei non disse nulla. Le sue guance parlavano da sé.
 
  • Edward sì. – disse soltanto, con calma. – Passiamo al sesto giorno.
  • Secondo te…sarò convincente?
Il suo sguardo le chiedeva una sincerità che non si era mai risparmiata di riservargli, ma questa volta pareva preoccupato. Come se non si sentisse all’altezza del suo personaggio.
 
  • In fondo, cosa importa? – rispose Sara, cercando di non pensare a quelle sempre più evidenti somiglianze – La gente andrà comunque al cinema per vederti.
  • E per te? – continuò con esitazione – Sarò convincente?
Eppure quel ragazzo non era Edward, lo sapeva. Non era davvero parte di quel sogno così vivido che l’aveva portata in quella stanza, insieme a lui. Si chiese cosa pensasse davvero, ponendole quella domanda così inaspettata. Forse voleva solo essere incoraggiato, forse anche lui aveva paura come tutti loro.
 
  • Penso di sì. – rispose allora.
Sul suo viso si increspò un lieve sorriso, frutto di quell’imbarazzo che da 24 ore li seguiva senza sosta. Sara lesse la prima battuta, precipitando ancora inesorabilmente in quel suo limbo di ricordi limpidi. Ed rimaneva sempre sorpreso di quell’empatia così spiccata, come se ci fosse qualcosa di più profondo in quelle parole, qualcosa che non riusciva a comprendere, ma che aveva sempre più voglia di scoprire. Così cercò di essere ancora di più quel se stesso che lei tanto cercava con gli occhi durante le riprese e non riuscì ad evitare di toccarla quando, in piedi al centro della stanza, immaginarono di essere in quella stanza d’hotel con gli accappatoi indosso, diretti verso la spa.
 
Ed aveva le guance arrossate dal sole ed era così bello in quel momento che non riuscì a non sistemargli il collo spesso dell’accappatoio, in cerca di una scusa per toccarlo.
  • Non dovevi organizzare tutto questo, sei sempre eccessivo. – disse allora, quando il suo sorriso la imbarazzò troppo. Si accorse di adorare il suo naso.
  • E tu non devi aggiustarmi il colletto se hai voglia di toccarmi. – e le sfiorò la mano.
Le risate quasi spontanee di quei giochi sulla sabbia piombarono sul fondo del loro petto, mentre le loro mani entravano in contatto. Per un attimo sembrò che quelle prove fossero terminate, ma Sara si distaccò, voltandosi, proprio come scritto sulla sceneggiatura, così Ed, desideroso di proseguire, continuò a seguire quelle che non sembravano più battute da copione.
  • Ehi – disse allora – Scusa, ho esagerato.
  • Non è quello. – rispose lei, guardandosi i piedi.
  • Cosa, allora? – cercava una risposta.
  • È quel tuo modo di provocarmi, nonostante tutto. Sembra che tu lo faccia a posta.
Rimase un attimo in silenzio, riflettendo sulle sue parole.
  • Scusa, non so trattenermi. – forse lei non sapeva quanto fosse imbarazzato nel rivelarle quel dettaglio. Per spezzare la tensione, la prese a braccetto. – Andiamo.
Mai come in quel momento, si sentì esattamente la persona che lei aveva incontrato. Attratto da quella ragazza che sapeva non avrebbe saputo trovare negli occhi di Sofia. Perso in quella storia come non avrebbe mai saputo essere quando le telecamere lo avrebbero inquadrato.
La confusione che vide sul suo volto lo fece tornare a quel giorno in redazione, seduto dinanzi a lei senza capire cosa le passasse per la mente.
 
  • Adesso è meglio che vada. – fece lei, lasciando il suo braccio con una certa fretta.
  • Ok. – disse soltanto.
Uscì dalla porta sussurrandogli la buonanotte, lasciandolo lì, in piedi da solo, a contemplare quei sentimenti nebbiosi.
Sara, tornando nella sua stanza buia, si chiese ancora una volta in quale delle sue vite fosse, ma la sensazione di quelle mani calde sulle sue le fece vibrare l’anima nel presente di quella lunga notte.
 

 
***

 
La luce soffusa, generata in modo impeccabile quella mattina dalla troupe, le nascondeva lo sguardo triste che Emanuele si trascinava sul set, contrariato sempre più da quella evidente complicità che aveva notato tra l’autrice e il protagonista. Sicuramente tutti avevano colto che quella mattina avevano scambiato due chiacchiere imbarazzate prima che le telecamere si accendessero, Federica e Arianne l’avevano già interrogata davanti alle brioche, cercando di capire se stesse bene, se ci fosse qualcosa che potessero fare per lei.
Forse è solo diverso da come lo avevamo inquadrato. Le parole di Arianne le rimbombavano nella testa mentre lo osservava ballare con Sofia, con quel sorriso radioso e quella luce negli occhi che conosceva così bene. La musica era bassa, tanto l’avrebbero montata in seguito, ma questo rendeva solo più evidenti i dettagli dei loro movimenti. Al primo stop, i loro occhi si ritrovarono, le loro menti già proiettate allo stacco successivo, alla comparsa di Angelo, a quel loro cercarsi senza fine. Ed guardava Sofia sperando di trovare in lei la stessa dimensione ultraterrena in cui lo facevano perdere gli occhi di Sara.
Ciak.
Sofia era immobile dinanzi a un ragazzo che somigliava ben poco ad Angelo in realtà, ma andava bene. Ed intervenne, la difese e in pochi minuti tornarono al bancone del vero Swinging Blues con due analcolici versati nelle bottiglie di birra. Poco dopo, al centro della scena, trasportati da quella canzoncina di Pitbull, cominciarono le prime rigidità. Ed faticava a fingere quella disinvoltura, avvicinandosi a Sofia, avrebbe voluto chiudere gli occhi quanto Sara che li osservava dal fianco del regista, stordita da quella sensazione sgradevole. Più lui si avvicinava a lei, più stretta diveniva la morsa nella sua bocca. Quando le mani di Ed finirono sotto quella gonna, dovette resistere dall’alzarsi e andare via. Fin troppa luce scorgeva negli occhi della ragazza mentre ballavano su Sing, bravina ad imitarla, ma troppo…vicina. Troppo vicina.
Quelle mani le sentiva scivolare sul suo corpo come se fosse esattamente lì, tra le sue braccia, appoggiata al suo petto. Le labbra ad un centimetro dalle sue. Cominciò a sudare. A capire che fosse terribilmente gelosa di Ed, ma senza sapere di quale dei due. Quando finalmente tagliarono la scena, dovette allontanarsi, uscire da quel buco e prendere aria e luce. Il cielo azzurro rischiarò la sua mente offuscata da troppe sensazioni, le veniva quasi da vomitare, un disgusto che aveva provato troppo di recente. Accese una sigaretta, camminando su e giù per il viottolo, cinque passi alla volta, tirando dentro il fumo come se potesse lavarle il petto.
 
  • Sara. – Federica l’aveva seguita. – Stai bene?
  • Sì, devo solo prendere un po’ d’aria.  – rispose continuando a guardare altrove. Lei si avvicinò.
  • Di quale dei due sei gelosa?
Si fermò e la vide in piedi accanto a lei con le braccia incrociate, pronta ancora una volta a fare chiarezza nella sua mente. Credette di non sapere la risposta.
 
  • Non lo so. – rispose sinceramente. – Non so nemmeno se si tratta di lui o di lei.
  • Sai bene che non siete paragonabili. – Arianne sembrava sempre spuntare dal nulla – Io dico che è quello vero.
  • Perché mai dovrei essere gelosa di lui? – si stizzò, più con se stessa che con loro. – Non è Edward.
  • Appunto. – le rispose Federica, la sua saggezza sempre pronta all’uso. – Lui non è Edward e lo sai benissimo. È proprio di Ed che sei gelosa.
  • Ma… - stava già prendendo una seconda sigaretta. – Lui…è insopportabile!
  • Stai solo cercando di convincertene. Ammettilo, ti piace.
  • No, io devo allontanarmi da lui. – la accese – Devo…
Il silenzio che sentì piombare intorno le fece alzare lo sguardo, la figura di Ed sembrava paralizzata in quel punto del vicoletto, come se avesse colto qualche parola di troppo. Federica e Arianne si dileguarono, nonostante i suoi occhi imploranti.
 
  • Are you ok? – le chiese, un velo di preoccupazione sul suo viso.
  • S-sì. – provò a dissimulare inutilmente. – Non preoccuparti.
  • Ho fatto qualcosa di sbagliato? – si avvicinava a lei a piccoli passi, dondolando in precario equilibrio su ognuno di essi.
  • No, sei andato benissimo. – un’altra boccata.
  • Non volevo ferirti.
Quelle parole le pugnalarono il petto senza un motivo apparente e lo stesso Ed non sapeva perché le fosse corso dietro, né perché si stesse scusando, ma anche lui aveva sentito quel brivido, immaginando il suo viso durante quella finzione.
 
  • Tu non hai fatto niente, sta tranquillo. – gettò via il secondo mozzicone.
Se lo trovò più vicino di quanto pensasse. La sua altezza la sovrastava quanto bastasse ad intimidirla. Struccata, con gli occhi gonfi e stanchi, cercò di capire perché fosse lì, la mossa meno attesa fino a quel momento. Ed le posò una mano sull’avambraccio e la guardò.
 
  • Io… - cominciò dubbioso, come se non riuscisse a pensare lucidamente. Scese fino alla sua mano, stringendola.
Avrei voluto che fossi tu.
Ma quelle parole non lasciarono le sue labbra. Gli occhi di Sara, confusi e persi sul suo viso, sembrarono comunque cogliere quel significato. Aggrottò lo sguardo cercando una qualsiasi conferma di quel pensiero, strinse le labbra in bilico tra la totale sincerità e la sommessa indifferenza.
Gli occhi di Emanuele, nascosti nella penombra dell’ingresso, assorbirono quell’immagine.

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Capitolo 17
*** XVI ***


CAPITOLO XVI
 




Erano stati interrotti da Stuart che, ignaro di cosa stesse facendo, l’aveva richiamato all’interno. L’aveva lasciata sull’orlo di un precipizio e se ne dispiacque, non voleva infierire. Lei era rimasta distante per il resto delle riprese, forse persa in quel vicolo alla ricerca delle risposte che lui non aveva saputo darle.
Sara, senza preoccuparsi delle conseguenze, troppo fiduciosa delle sue amiche, si era allontanata, rifugiandosi tra i vicoli di quella città così cara, così casa, così consolante nella sua semplicità. Aveva fatto ritorno solo quando Emanuele aveva cominciato a telefonarle con insistenza. Quello stesso pomeriggio si spostarono a Sorrento, mentre una piccola parte della troupe si sarebbe trattenuta in città per riprendere la controfigura di Ed guidare sui tornanti della costiera sorrentina.
Avevano viaggiato fino all’Hotel Victoria in un silenzio di tomba, i loro occhi non si erano sfiorati nemmeno nel pensiero e abbandonarono il veicolo con altrettanta indifferenza. Ed si era catapultato fuori e si era diretto all’interno della struttura per primo, quel loro breve soggiorno era un suo personale contributo alle riprese che la sua agenzia da sola non avrebbe potuto permettersi per quel film. Un piccolo regalo per Stuart che, quel giorno, festeggiava il suo compleanno, ancora una volta lontano dalla sua famiglia, per aiutarlo. Camera all’ultimo piano, come sempre.
La stanza era esattamente come lei l’aveva descritta nel libro, ampia ed elegante, all’italiana. Il mare luccicava davvero sul fondo dello strapiombo. Il tramonto cominciava a colorare l’orizzonte, illuminando il vulcano, ormai lontano, di un arancio intenso. Il profumo dell’estate sorrentina cominciava a presentarsi nell’aria.
Poggiato sul parapetto, udì la sua voce provenire da un punto troppo vicino, facendolo trasalire. Si voltò, scorgendo solo il suo riflesso nel vetro della portafinestra, poi affinò i sensi e seguì quel suono fino al terrazzamento inferiore al suo. Si sporse quanto bastava a scorgerne i capelli arruffati e le Vans sporche. Le dita si strinsero alla ringhiera quando capì che non fosse sola.
 
  • Scusa, è che sono davvero molto stanca. – chiedeva perdono. – Non vorrei mai ferirti, lo sai.
  • So che per te è difficile, ma lo è anche per me. – la voce di Emanuele sembrava fin troppo decisa. – Cosa siamo io e te? Non so cosa pensare, cosa aspettarmi.
  • Ema, non lo so. – eccola, l’esasperazione. – Non posso risponderti adesso, ma ci tengo a te!
Un lungo silenzio sospese la conversazione e fece per allontanarsi, ma si fermò quando lui le rispose.
 
  • Io mi sono innamorato di te. Non so quanto riuscirò a sopportare questa situazione.
Nient’altro gli giunse all’orecchio, nemmeno i passi di Sara che si trascinavano fino al letto.
Tornò all’interno chiedendosi se quell’istinto di raggiungerla potesse essere davvero di aiuto a qualcuno.
 
 
Sara fu investita in pieno da una valanga di sensi di colpa che non sapeva se si sarebbe mai sciolta. Gettata sul suo letto, attendeva solo che Arianne e Federica arrivassero da lei per prepararsi a quella serata che non si aspettava di dover subire.
Ammettilo, ti piace.
Non volevo ferirti.
Quelle parole maledettamente reali, lontane da qualsiasi suo sogno, le traversavano il cervello in un circolo vizioso. Lui non l’aveva ferita. Le aveva solo risvegliato quei sentimenti che pensava di aver ormai domato e non sapeva come avrebbe fatto ad incontrarlo quella sera. 
La sensazione delle lenzuola tiepide sotto la sua guancia svanì quando le sue amiche bussarono alla porta.
 
  • Ho incontrato Ema, non sembrava molto contento. – fece Arianne. – Cosa succede tra voi?
  • Non lo so. – sospirò, sedendosi accanto a lei dinanzi alla toeletta illuminata. – Mi dispiace averlo trascinato in tutto questo, non vorrei mai che soffrisse.
  • Quindi – cominciò Federica, applicandosi il mascara – ti piace?
Non si riferiva ad Emanuele e questo era chiaro persino a lei.
 
  • No. – rispose netta – Lui non è Edward. – continuò a cercare di rendere il suo viso presentabile.
  • Ti crederò solo quando smetterà di piacerti.
Le infilarono un vestito nero e la obbligarono a mettere il rossetto. La trascinarono fino alla porta e poi fino alla sala che già risuonava di musica e voci. Non si sentiva a suo agio, non voleva incontrare né Ed né Emanuele, se avesse potuto li avrebbe cancellati dalla lista degli invitati. Con un nodo allo stomaco e le gambe tremanti, seguì Federica all’interno della stanza, le luci soffuse nascondevano molte delle sue paure a chi la osservava, stranamente vestita in modo decente e truccata. Non potè non sorridere a Stuart, augurandogli buon compleanno, il suo abbraccio le ricordò fin troppo quello di J a New York. La festa sembrava cominciata da un po’, a giudicare da quanti barcollavano col bicchiere in mano, ma non riuscì a vedere Edward. Emanuele l’aveva adocchiata seduto su un divano con i suoi colleghi, un bicchiere stretto tra le dita. Non si avvicinò a lei, né la salutò, ma non poteva biasimarlo.
Il buffet l’aveva distratta a sufficienza da non accorgersi che Ed la fissasse dal bancone del free bar, al quale lui, Stuart e Max brindavano già da troppo tempo. Si sentiva sempre più confuso da quel clima di festa che stonava col suo animo in subbuglio, travolto dalle parole che aveva udito con quella malata intenzione che strisciava e si avvolgeva attorno al suo cuore. Il sapore di quell’alcolico gli bruciò la gola, ma non quanto il viso di lei bruciava nella sua mente. Aveva colto il suo disagio e non aveva osato avvicinarla, ma sapeva che prima o poi avrebbe ceduto e sarebbe andato a parlarle. Il dj cominciò a mandare brani più coinvolgenti e lasciò che anche Stuart venisse trascinato via dal divertimento, senza muoversi dal suo sgabello. Quel mucchio di gente al centro della sala ondeggiava riportando alla sua mente le riprese allo Swinging Blues.
 
  • Un Gin Tonic per me e una birra per la mia amica. 
La voce di Federica l’aveva fatto sobbalzare e si voltò, percependo chiaramente – fin troppo – la figura di Sara accostata al bancone a poco più di un metro dal suo corpo. Quelle sue dita sottili afferrarono la bottiglia, lo sguardo divertito dall’esuberanza di Federica si spense non appena incrociò il suo. Finalmente si erano incontrati. I capelli inaspettatamente raccolti per il caldo lasciavano ben visibile la curva del suo collo bianco. Un brivido lo percorse, chiedendosi cosa fare.
 
  • Ciao Ed! – ancora una volta Federica lo colse di sorpresa. – Bella festa!
Il coinvolgente gaudio del suo volto lo fece sorridere, dandogli la spinta necessaria a guardare Sara con più serenità.
 
  • Vi state divertendo? – chiese, per spezzare ulteriormente la tensione.
  • Sì, ci voleva questa serata!
Federica guardò Sara cercando la sua approvazione, ma lei continuava a mantenere quell’espressione imbarazzata, come se si stessero incontrando per la prima volta, due perfetti sconosciuti.
 
  • Federica ha già preso la mano col free bar. – commentò, vedendola ballare sul posto col bicchiere già mezzo vuoto.
  • Andiamo a ballare!
Non era un invito, piuttosto un ordine perentorio, tanto che ingurgitò il resto del Gin Tonic e li prese entrambi per un braccio, trascinandoli verso la pista affollata. Ed riuscì appena a mollare il bicchiere sul bancone e guardò Sara terrorizzato. Non sapeva ballare e lei sembrò spaventata quanto lui all’idea di trovarsi lì in mezzo, ma non riuscirono a fermare Federica, troppo carica e divertita da quella situazione che stava accuratamente costruendo. Li lasciò solo quando furono circondati dagli altri e Arianne fu abbastanza vicina da poterla raggiungere e lasciarli soli. Sorrise a Sara senza badare al suo sguardo trucidatore e la lasciò sola con lui. In piedi, ancora fermi, si guardarono senza sapere cosa fare. Impietriti. Non riuscivano a muovere un solo muscolo. Quando le gomitate della gente cominciarono a sballottarli, furono costretti a schiodarsi da quel punto del pavimento. Stuart piombò accanto a Ed praticamente infilandogli la cannuccia del suo drink tra le labbra, ridendo senza fiato insieme a Max. Arianne, che aveva chiaramente organizzato quella incursione, fece lo stesso con lei. Sara non riuscì a non ridere di quella situazione, voleva urlarle che aveva capito esattamente cosa stessero combinando, ma fu trascinata dalle loro braccia in una danza ridicola e infantile. La loro presenza riuscì a farla rilassare abbastanza da ballare su Don’t come avrebbe fatto ad una qualsiasi festa. Riuscivano sempre a tirarle fuori il coraggio di continuare a vivere nonostante tutto e Ed lesse quella spensieratezza nei suoi occhi ogni volta che si incontravano tra la gente. Federica tornava troppo spesso dal bancone con bicchieri e bottiglie piene e lei, che non avrebbe mai e poi mai retto l’alcol, cominciò a sentire la testa girare e i pensieri scivolare via dalla mente con la fluidità dell’acqua. Lo guardava. Lo guardava troppo spesso perché lui non se ne accorgesse. Quella sua camicia non riusciva a nascondere la forma delle sue spalle e l’alcol non riusciva a nascondere quella scintilla nei suoi occhi. In fondo cosa aveva da perdere? Si lasciò andare e dimenticò tutto il resto della sua vita, lasciandosi guardare in quel modo. Ed, che invece l’alcol lo reggeva, non seppe ignorarla e ne rimase catturato, quella donna era la Sara che aveva incontrato in Afire Love e se ne sentì definitivamente ammaliato. Quella sua illeggibilità quando era del tutto sobria lo aveva spinto fino a quel punto e ora che aveva abbassato le sue maschere e abbattuto i suoi muri, non poteva fare a meno di lasciarsi trascinare verso di lei. Si avvicinò e le porse il suo bicchiere, già abbastanza vicino da sentire il suo respiro. Lei ne prese un sorso e contrasse il viso in una smorfia, scuotendo la testa per il sapore del drink, ma poi sorrise e continuò a ballare davanti a lui. Ed rise e la seguì, alzando il bicchiere e gridando un brindisi a Stuart a cui lei fece eco insieme al resto delle persone. Entrambi si chiesero, fissandosi, se il giorno dopo avrebbero ricordato qualcosa e nella speranza che non fosse così, continuarono a ballare e a cercarsi finché non gli mancò il fiato. Non esistevano più quei due che si erano incrociati per via di un libro, le mani si cercavano e si trovavano ogni volta che la coscienza di Sara si annebbiava e con la scusa delle troppe persone, si avvicinarono quanto bastava a demolire definitivamente la lucidità. Così vicini da smettere di respirare.
Centinaia di occhi li osservavano, centinaia di bocche commentavano quel loro sorriso e quel loro magnetismo, ma Ed non era in grado di vederli, solo di trascinarla con sé per riempire di nuovo il bicchiere. Strinse le sue dita attraverso la folla, fino al bancone e ordinò due bottiglie ghiacciate mentre lei rideva ancora, con una mano a coprire l’imbarazzo sul suo viso. Solo allora sciolse le loro mani e la invitò a sedersi per riprendere a respirare normalmente.
 
  • Alla tua! – disse, guardandola, prima di prendere un sorso dalla bottiglia.
  • Penso che vomiterò. – gli rispose Sara, cercando di controllare il riso mentre guardava la bottiglia.
  • In effetti sono sempre stato io quello che regge l’alcol.
Risero entrambi, facendo finta di non aver notato quanto quella frase fosse una porta su quel mondo parallelo.
 
  • Pare che tu abbia fatto caso a molte cose! – gli rispose allora lei, senza più freni inibitori.
  • Beccato! – un altro sorso, un’altra risata, gli occhi liberi da ogni oscurità. – A volte mi chiedo come tu abbia fatto.
  • A fare cosa? – chiese, non cogliendo il senso delle sue parole.
  • A immaginare il tuo libro.
Troppo distratto dalla frescura della birra, non vide l’esitazione sulle sue labbra. La musica manteneva intatta quella bolla di inusuale concordia.
 
  • Questo significa che in realtà ti è piaciuto? – cercò di sdrammatizzare, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
  • No, davvero. Come hai fatto? – si asciugò la bocca col dorso della mano, gli occhi curiosi.
  • Non vorrai che ti sveli i miei segreti da scrittrice!
In quel momento si accorse della vibrazione distorta della sua risata, gli occhi cominciavano a vagare altrove, ma erano ancora appannati e sereni.
 
  • Se vuoi ti svelo i miei. – e la malizia balenò in quello sguardo così luminoso nella penombra.
Arianne a Max gli passarono di fianco, ubriachi e barcollanti, diretti sicuramente in un luogo nascosto agli occhi degli altri.
 
  • Sono sicura che non si somiglino molto, i miei sono certamente più originali. – lo istigò, seguendo un istinto al quale fino a quel momento aveva resistito.
  • Adesso sono ancora più curioso. – si avvicinò a lei tirando lo sgabello con una mano, gli occhi stretti adesso in due fessure, un sorriso provocante e sbilenco sul viso.
Sara prese un lungo sorso dalla bottiglia, cercando di spegnere i sensi e ignorare i suoi capelli rossi, le sue spalle di nuovo troppo vicine. Non sapeva cosa stava facendo e sicuramente si sarebbe pentita per il resto della sua vita, ma non riusciva più a trattenersi, le parole spingevano nella sua gola per sfociare dalle sue labbra, rivelando finalmente quella verità che era sempre appartenuta a entrambi, ma che aveva avuto paura si disperdesse per sempre nell’aere una volta pronunciata.
 
  • Beh. – si sporse verso di lui, come per non farsi sentire da nessuno, ricambiando quella sua malizia. – Se ci tieni a saperlo, è stato tutto un sogno.
  • A dream?! – non riuscì a nascondere la sorpresa e le mille domande dal suo viso, nonostante continuasse a sorridere come se lei lo stesse beffando. – You’re kidding. How is it possible?
  • È la verità. – rispose, puntandogli un dito sul petto, spingendolo via.
  • Vorresti dirmi che una sera ti sei addormentata e hai sognato metà della tua vita? – continuavano a bere.
Era proprio quello che gli stava dicendo, o quasi.
 
  • Sono stata in coma e per nove mesi, – la testa le girava sempre di più – ben nove mesi, ho sognato metà della mia vita.
Quasi rivendicava il diritto ad affermare quella verità, come se la possibilità che lui non le credesse potesse ferirla. Ed la guardò, cercando di capire se stesse scherzando o se fosse seria come sembrava, ma quell’improvviso velo di malinconia negli occhi non lasciava alcun dubbio.
 
  • In…coma? – rispose allora, riguadagnando un minimo di lucidità. Cominciava a capire tante cose, tanti avvenimenti, tante parole. Lei annuì, prendendo l’ultimo sorso dalla bottiglia. – E cosa è accaduto quando ti sei svegliata?
  • Ho dovuto lasciarti andare.
Una freccia trapassava entrambi i loro cuori a quelle parole, gli occhi di Sara fissavano ormai il fondo della bottiglia. Ed deglutiva a fatica quel sorso, realizzando che forse lei…ci aveva creduto. Aveva assunto per vero ogni giorno vissuto dall’altra parte. Quando lei si voltò a guardarlo, forse per cogliere i suoi pensieri, capì che Sara cercava in lui quella persona che aveva raccontato in Afire Love e che non sapeva ancora fosse esattamente dinanzi a lei.
 
  • Quindi – provò a cercare una conferma dei suoi pensieri – tutto ciò che hai scritto, per te è come accaduto davvero.
  • Ogni cosa. – il sorriso era svanito dal suo viso.
  • Anche…i sentimenti. – osò, sperando che lei non andasse via.
  • Anche i sentimenti. – un ghigno amaro. – Ma poi l’ho capito.
Fissava il suo viso ancora incredulo e sotto shock, ripercorrendo molti dei momenti del libro che lo avevano colpito per la reale corrispondenza tra sé e quel se stesso: pensieri, emozioni, reazioni. Come aveva fatto a sopportare la realtà? Come aveva fatto ad indovinarlo in quel modo? Ora più che mai se lo chiedeva, proprio come si domandava come avesse potuto farsi catturare da Sara De Amicis senza sapere che fosse esattamente dinanzi a lui.
 
  • What?
  • L’ho capito che non sei Edward. Puoi stare tranquillo.
Un altro colpo. La definitiva conferma che per lei lui non fosse altro che un riflesso distorto dell’uomo che aveva amato.
 
  • Mi dispiace. – attirò la sua attenzione. – Se lo avessi saputo, io…
  • Non dovevi saperlo.
  • …te lo avrei detto prima, senza vergogna.
Sara cercò di assorbire le sue parole per dargli un significato sensato.
 
  • Che forse sono davvero l’Edward che speravi.
Non impedì ai suoi occhi di trasmetterle quanto ardore avesse scatenato in lui dal primo momento. Quanto volesse tornare ad essere Edward e lasciarsi alle spalle Ed.
Ancora l’adrenalina gli annebbiava la mente, amplificando l’effetto dell’alcol, riflettendo su quella notizia mentre si avvicinava di più a lei. Sara socchiuse gli occhi, studiando l’uomo che aveva davanti, cercando nei suoi movimenti la prova della veridicità delle sue parole. Uno spillo di dolore le punse la gola ed espirando poggiò la fronte contro la sua, sentendo l’odore dell’alcol uscire dalle sue labbra.
L’Edward che speravi.
La sola idea che quella potesse essere l’occasione di ritrovarlo che tanto aveva agognato, poi nascosta in un cassetto, le sconvolgeva l’animo. Sentì la sua mano cercare la propria e non la rifiutò. Ascoltò le vibrazioni provenienti dal suo corpo, fidandosi per una volta del suo cuore, lasciandolo entrare. Aveva paura, ma neanche per un secondo credette che lui non fosse sincero.
I troppi occhi che li osservavano, un cenno da lontano di Stuart, lo convinsero a mettere di nuovo un po’ di distanza tra loro, ma non le lasciò la mano. Attese che la sala si svuotasse e con l’unica mano che aveva a disposizione bevve un altro bicchiere, passandole come per osmosi l’ubriacatura che sentiva sempre di più. La sua mente continuava a percorrere la strada tra le sue parole e i suoi occhi, facendosi risucchiare da tutta l’ovvietà che da quel momento permeava tutti i momenti che avevano condiviso.
“Tu non sei nemmeno l’ombra, nemmeno la copia fasulla dell’uomo che devi limitarti ad interpretare.” Ormai era tutto chiaro: la rabbia, il rifiuto, la tristezza negli occhi, l’empatia spropositata verso quelle persone di carta.
Con l’ultimo sorso ancora in gola, si alzò e la accompagnò alla sua porta, lei portava le scarpe in mano, camminando scalza lungo i corridoi fino all’ascensore. Chiusi in quella cabina di velluti rossi e cornici d’oro, fu tentato di assalire le sue labbra, ma le porte si aprirono troppo presto. Quando lei aprì la sua stanza, lasciò le sue dita e la guardò. Non avrebbe approfittato del tasso alcolico nel suo sangue, anche se avrebbe voluto spingerla dentro e spogliarla. Quei suoi sentimenti, quelli scritti nero su bianco, vorticavano nel suo cuore e gli arrossavano le guance.
Poggiò una mano sul suo fianco foderato di nero e le sciolse i capelli. Un bacio sulla guancia, come quella sera sul balcone, per trattenersi dall’abbracciarla.
Sara, forse troppo pronta a cedere alla tentazione, ricambiò.
Si scivolarono via dalle mani e prima che la sua porta si chiudesse del tutto, assorbì una sua ultima domanda.
 
  • E tu? – gli occhi negli occhi. – Tu sei la Sara che speravo?

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Capitolo 18
*** XVII ***


CAPITOLO XVII
 





E tu?
 
Il fragore del mare era sorprendentemente tranquillizzante, quasi ipnotico quella mattina. I postumi della sbornia le risucchiavano i pensieri mentre osservava Ed giocare con Sofia davanti alle telecamere, ricolorando gli sbiaditi eppur così vibranti ricordi di quel giorno.
 
Tu sei la Sara che speravo?
 
Si erano a malapena salutati, fingendo di non ricordare nulla di quella conversazione, ma nei suoi occhi chiari baluginava ancora una fiammella: sapeva benissimo che ricordasse ogni cosa. Tuttavia quelle immagini sembravano appartenere a quei sogni che avevano rischiato di ucciderla e un primo sintomo della paura, del terrore di ricadere in quel baratro, si era manifestato non appena aveva riaperto gli occhi dinanzi a Federica che tentava di svegliarla. Per la prima volta, dopo mesi, aveva dovuto ripetere il suo mantra, fissare la data sul cellulare e fare il sunto della sera precedente.
Emanuele la stava volontariamente ignorando. Come poteva non capire la sua sofferenza? Prima o poi avrebbe trovato il modo di scusarsi con lui.
Seguiva i movimenti delle telecamere con troppa costanza perché Ed non se ne accorgesse e infatti, ad ogni stop, lui cercava di raggiungerla con lo sguardo, senza voltarsi apertamente. La teneva d’occhio, cercando di capire se fosse cosciente della realtà e se stesse pensando a quel giorno che lui stava vivendo per la prima volta. Senza maglietta, accaldato, giocava con Sofia sforzandosi di catapultarsi dall’altra parte, per non cedere alla stanchezza e mollare l’entusiasmo. L’acqua era gelida, per fortuna, ma non copriva il suo imbarazzo nello stare a petto nudo dinanzi a tutte quelle persone. Ma non dinanzi a lei, che invece pareva conoscere ogni angolo del suo corpo.
Le riprese all’interno della struttura furono una tortura in piena regola, considerando che la tensione nel suo costume fosse difficile da controllare ogni volta che lei lo fissava pensando che non se ne accorgesse. Quando pronunciò le battute di quella scena in camera, non sbagliò una parola: ripercorreva ogni secondo delle loro prove private, pensando già a quanto sarebbe stato difficile quella sera guardarla negli occhi e fingere di fingere. Eppure non vedeva l’ora. Non vedeva l’ora di tornare ad essere Edward anche per lei.
Quando finalmente gli diedero una pausa, sperò che la troupe si disperdesse per raggiungerla e assicurarsi che andasse tutto bene, anche se era chiaro anche negli occhi di Arianne e Federica che lei non fosse in equilibrio. Cercò di comunicare con loro senza parlare e parvero cogliere immediatamente il suo messaggio, allontanandosi da Sara senza dire una parola. Federica gli lanciò un ultimo sguardo, come per pregarlo di non deluderla. Si alzò con l’accappatoio addosso, sentendolo improvvisamente stretto mentre muoveva i primi passi nella sua direzione. Quella sedia da regista sembrava un precario rifugio che non riuscì a raggiungere a causa dell’ostacolante presenza di Emanuele. Gli era apparso davanti in meno di un secondo, nemmeno si era accorto fosse ancora nella stanza ed ora gli sbarrava apertamente la strada verso quegli occhi confusi. Era più alto di lui, un ecosistema di colori completamente opposto al suo, un’espressione controversa che non riusciva a decifrare. Incrociò le braccia finendo per urtarlo, tanto era vicino, ma non lo scavalcò, attese che facesse la sua mossa. Di certo lui non capiva.
 
  • Come va? – non era certo una domanda cortese. I capelli spazzolati erano quasi fastidiosi.
  • Meglio che a te. – rispose, senza riflettere un nanosecondo sulle conseguenze. – Hai bisogno di qualcosa?
  • Ho bisogno che la lasci in pace. – lo aveva detto tra i denti, per non farsi sentire da alcuno. – Non vedi che la confondi?
Per un attimo si sentì colpito e affondato, ma si rifiutava in ogni modo di pensare che potesse ferirla. Non l’avrebbe fermato, nemmeno in quella vita. Aveva bisogno di raggiungerla.
 
  • Non sono cose che ti riguardano.
Lo superò senza attendere una sua risposta, vedeva già i suoi capelli arruffati, ma ancora Emanuele lo costrinse a fermarsi.
 
  • La farai soffrire ancora.
E quelle parole così prive di equivoci gli assestarono il secondo colpo. Si fermò un momento esattamente dov’era, a un passo da lui e a mille anni luce da lei, che digitava forsennatamente sulla tastiera. La gravità lo assorbì e lo spinse al suolo al pensiero di addolorarla. Si guardò le mani per cercare quella fermezza che credette di non avere, ma non fece in tempo a convincersi che Webber tornò a sedersi, richiamando la troupe. Aveva perso la sua occasione. Forse non aveva davvero tutto il coraggio di Edward.
La guardò un’ultima volta chiudere il pc, poi la voce di Sofia lo assalì.
 
  • Ti va di prendere un caffè più tardi?
 
***
 
La stoffa le scorreva ruvida sotto le dita, il luccichio le balzava sulla pelle con un riverbero delicato. La morbidezza della gonna richiamava consistenze riconoscibili. La sua memoria fibrillava.
Era esattamente come lo aveva sognato. L’abito che Edward le aveva regalato per la loro cena al chiaro di luna pendeva da una stampella bianca in quel camerino. La sarta che lo aveva confezionato la scrutava con fervente sospetto, attendendo di ascoltare forse una critica, ma non ne aveva.
Era esattamente come lo aveva sognato.
Sofia era seduta davanti allo specchio, facendosi sistemare fino all’ultimo riccio e all’ultima sfumatura di trucco. Sorrideva raggiante e sembrava piacersi, contrariamente a lei, che si era sentita così inadatta alle cure di Giuseppe. La osservò indossare quell’abito e capì: se una parte di Sara, della sua proiezione parallela, era ancora aggrappata alla sua anima, il restante garbuglio di carattere e iniziativa era rimasto sepolto al buio dei suoi sogni. Non si sentiva più all’altezza di quella donna avvolta dal blu che cercava il coraggio di amare, quello che Edward aveva sempre cercato di donarle e che Ed continuava a cercare in lei. Sofia fece un giro su se stessa e Arianne la guardò per capire se fosse tutto come desiderava. Annuì, trattenendo le lacrime e forzando un sorriso, stringendo i pugni nel tascone della felpa. Stava di nuovo fasciandosi la testa prima di rompersela, ma non lo sapeva.
Tu sei la Sara che speravo?
Aveva paura di no. Forse non lo era mai stata e forse non lo sarebbe stata mai.
Probabilmente Sofia, che aveva già scorto osservarlo a lungo, con brama, era ben più adatta ad essere la Sara che Ed sperava. L’avrebbe lasciata prenderselo.
 
  • Vado a fare una nuotata. – disse d’impulso. – Stai molto bene.
Portò via con sé il falso sorriso e lo sguardo crucciato di Arianne.
Indossando il suo costume in camera, pensò per un attimo di non raggiungere più la spiaggia, ma la luce del tramonto era così invitante e l’acqua così cristallina che la brezza fresca non la preoccupò. Magari avrebbe portato via quell’alone di tristezza che le appesantiva gli occhi.
 
 
Aveva bussato alla sua porta prima che Stuart lo chiamasse per cenare insieme, sperando invece di chiudersi lì dentro con lei e ordinare qualcosa di buono da condividere, ma non c’era. Aveva insistito, senza ricevere risposta. Sospirò per tutto il tempo, vagando per l’hotel alla ricerca di quelle Vans e di quegli occhi, in giardino, sul terrazzo panoramico, in piscina, aveva chiesto di lei alla spa, ma non c’era. Max era già con Arianne e Federica gli giurò di non averla vista e che, anzi, la stava aspettando già da un po’, che forse aveva dimenticato il loro appuntamento. Fu tentato di fermarsi a farle compagnia, gli era sembrata un po’ sola, ma lei rifiutò il suo invito prima che lo pronunciasse.
 
  • Va’ a cercarla. Io chiamerò il mio ragazzo. – lo salutò e gli chiese di farle avere notizie, nel caso qualcosa non andasse.
Rientrò nella sala dove avevano festeggiato la sera prima e non era nemmeno lì. Dove si era ficcata? Che fosse uscita da sola? O con…Emanuele.
Infilò le mani in tasca e ciondolando per la stanza si chiese cosa avrebbe fatto Sara De Amicis in quel momento, dove sarebbe andata a rintanarsi. L’odore della salsedine gli solleticò le narici e, sconsolato, decise che forse non era destino che si incontrassero quel giorno. Avrebbe fatto una passeggiata e se ne sarebbe tornato in camera a riposare.
Si passò una mano tra i capelli, afferrò una birra dal frigo del bar che li aveva ubriacati e dopo pochi minuti poggiò i piedi sulla sabbia. Lasciò le scarpe all’ingresso, rifiutò gli infradito monouso che il cameriere gli offriva e si avviò sulla battigia a piedi nudi, assaporando la bellezza di quelle luci evanescenti all’orizzonte.
La spiaggia era davvero piccola e le fila ordinate di ombrelloni bianchi curvavano secondo il senso della baia, creando una prospettiva quasi illusoria. Il blu di un asciugamano poggiato su una sdraio attirò la sua attenzione, pensando di non essere solo come credeva. Si guardò intorno senza scorgere nessuno, finché un movimento dell’acqua non gli rimbombò nelle orecchie e attrasse il suo sguardo. C’era qualcuno in mare, ma le luci lontane annerivano la sua identità.
 
  • Ed.
La riconobbe immediatamente, nonostante non vedesse chiaramente i suoi lineamenti. Ecco dov’era. Come aveva fatto a non pensarci.
 
  • Ciao. – si sforzò di dire, senza ricevere risposta.
Se ne stava ferma lì, sommersa dall’acqua fino al collo. Probabilmente stava congelando, eppure non usciva.
 
  • Ti prenderai un raffreddore. – le disse. – Perché non esci?
Perse un battito al pensiero di osservarla avanzare in costume.
 
  • C-come mai sei qui? – la luce sbiadiva e i suoi contorni diventavano più chiari.
  • Ti ho cercato, per le prove, ma non ti ho trovata, così… - le mostrò la bottiglia mezza vuota di birra, cercando di mantenere un’espressione statica.
  • Ah, scusa, non pensavo… - iniziò – credevo fosse presto.
  • Non hai freddo? – come se sottolinearlo potesse accelerare il tempo.
  • L’acqua è splendida. Dovresti provare.
Si era voltata a guardare il mare aperto, forse per dar tregua al suo viso teso. Ed espirò senza farsi sentire, gettando fuori quell’agitazione e riflettendo su cosa dire. Ora che l’aveva trovata non sapeva cosa fare, ma era evidente che si fosse sbagliato sul destino ed ora stava a lui decidere se assecondarlo o no. L’acqua gli bagnò i piedi e si sentì trascinato da quel moto di ritorno verso di lei. Ormai distingueva la sua pelle bianca, l’ultima luce era svanita, ma lei continuava a non muoversi. Al diavolo tutto. Inspirò tutta l’aria che poté e lasciò la birra tra la sabbia, si sfilò i vestiti, scompigliandosi i capelli e i pensieri e fece il primo passo verso il mare. Era così caldo che l’acqua gelida lo distrasse poco dal suo profilo. Solo quando fece abbastanza rumore, Sara si voltò e aprì la bocca vedendolo entrare in mare, intirizzito e pallido. Cercò di non tremare quando si fece sommergere sopra l’ombelico, ormai a due passi da lei. La trasparenza dell’acqua gli fece scorgere la sua figura fino al fondo, prima che diventasse troppo buio, poi finalmente la guardò dritto negli occhi. Aveva atteso quel momento con impazienza e finalmente erano di nuovo soli, mezzi nudi, in mare, ad Aprile. Sentì colorirsi le guance non appena vide le sue riprendere il rossore.
 
  • Come stai? – le chiese, cercando di non pensare al resto.
  • Bene. – sfuggì lo sguardo solo per un attimo. – Tu come stai?
  • Avevo bisogno di parlarti. – e fece un altro passo verso di lei – Volevo sapere se fosse tutto a posto. Sai…dopo ieri.
  • Ti preoccupi troppo, Ed. – gli avrebbe mostrato la sua rassegnazione. – Piuttosto, sono io che devo disilluderti.
Capì a cosa si riferisse, quindi non esitò nel prenderle una mano. Era gelida.
 
  • Non credo sia possibile. – le rispose.
  • In fondo non mi conosci. Non sai niente di me, se non quello che ti ho lasciato vedere. – il respiro sempre più pesante.
  • Eppure a me sembra di conoscerti da sempre. – ormai aveva le sue mani nelle proprie e la trascinò con sé più in basso. Sperava che il suo viso trasmettesse più di quanto riuscissero le sue parole.
  • Quella non sono io, lo sai bene. È solo quello che avrei voluto essere. Te lo avevo già detto, ricordi?
Sara cominciava ad essere distratta dal suo viso che si rifletteva sullo specchio d’acqua, la luce dei suoi occhi unico faro nella tempesta che aveva dentro. Il cuore sembrava esploderle nel petto.
 
  • Pensavo a te in questo modo già quel giorno. – le confessò. Forse non se ne era reso neanche conto, troppo preso dalla lettura della sua espressione.
  • Noi non ci conosciamo affatto. – ribadì lei, cercando di non farsi ipnotizzare definitivamente. Si chiese perché si comportasse in quel modo, quale intenzione lo avesse guidato in acqua.
  • Eppure sono sicuro di essere io quello che hai descritto – sentì il viso corrucciarsi, chiedendosi perché lei non vedesse quella verità – e vedo in te quella donna che ho incontrato nel tuo libro. E se anche fosse come dici, non mi importa. Tu…
Davvero non gli importava che si conoscessero da pochi mesi, sentiva solo che quella ragazza davanti a lui aveva avuto la capacità di entrargli nella mente prima ancora che la vita li facesse incrociare. E così, mentre osservava quei dubbi, non poteva non provare quella sensazione di intimità, di complicità che poteva appartenere solo a due persone che si erano già donate. Sentiva una connessione con lei che non sapeva spiegare se non in quel modo. Sara, ormai quasi arresa a quei suoi occhi così persi, sentì chiaramente in gola quella sete che aveva ossessionato le sue notti. Lui non era Edward, eppure…si sentiva in quel modo.
 
  • Cosa? – ormai un sussurro.
  • Tu mi fai tornare me stesso. E… - fece scivolare le sue mani verso i suoi fianchi, attirandola sempre più vicino, ormai schiavo della sensazione di stordimento che gli dava l’averla ad un soffio.
  • E…? – ormai era già troppo tardi. La calamita si era attivata, inspiegabile proprio come la sera prima.
  • E mi fai sentire…
Amato.
Ma non terminò quella frase, ancora una volta. Ormai ad un passo dalla sua bocca, il braccio tatuato accostato alla sua vita, percorse quell’ultimo soffio e la baciò, la mente persa in un vuoto che sapeva di lei. L’intero universo non esisteva più, nient’altro aveva importanza se non quel contatto.
Gli si era mozzato il fiato.
La circondò, sentendo quei brividi sulla sua schiena e le spostò i capelli dal viso, accorgendosi che non si fosse tirata indietro. Nessuno dei due era in grado di comprendere perché fossero lì, eppure non avevano potuto evitarlo, avevano finito per cedere a quella inspiegabile attrazione che lei non riusciva ad attribuire ad un loro fatidico essere predestinati. Nonostante tutto Sara era lì e sentire quelle labbra morbide e sottili, senza pensare a quelle di Edward, le appiccava un incendio nel petto inconfondibile. Il suo basso ventre non mentiva. Non si oppose ai movimenti del suo corpo, lasciò che le sue braccia gli circondassero il capo e che lui la prendesse in braccio.
La mano di Ed la spinse con più veemenza contro la sua bocca, infilandosi tra i capelli bagnati. Quel sapore, quel corpo, quell’uomo e la sua mente, sembravano purificare ogni angolo della sua anima dal catrame che l’aveva macchiata. Non poteva crederci. Non poteva credere che Ed fosse l’Edward che si aspettava. Forse semplicemente non aveva voluto accettarlo fino a quel momento.
Niente di ciò che stava accadendo era chiaro, a nessuno dei due. Chiunque poteva aspettarselo, ma non loro, che ancora non riuscivano a distaccarsi dal sogno e considerarsi realtà.
L’aria era così elettrica che nemmeno il buio riuscì a distoglierli, troppo concentrati ad aggrapparsi l’uno all’altra e constatare di essere veri, che lui fosse Ed e lei fosse Sara e nonostante tutti quei giorni trascorsi nella rabbia erano lì. Si chiedevano se in fondo stesse accadendo davvero. I sospiri troppo pronunciati suggerivano di sì.
Ed, con ancora quel pensiero sospeso tra il suo cuore e la sua mente, si chiese cos’altro lo frenasse dal trascinarla via. Ormai aveva le sue gambe intorno al bacino e i boxer non erano più in grado di nascondere nulla. Sentiva caldo in quell’acqua gelida, il fuoco tra le loro labbra bruciava vigoroso, spingendosi sul collo, sulle spalle, guidato dalle sue mani sapienti, che gli aprivano la strada e lo spingevano negli angoli giusti.
Si guardarono ormai al buio, nessuno poteva vederli, e prima che riuscissero a dirselo, impazziti e senza ragione, i pezzi di troppo furono sfilati. Soltanto i loro respiri erano udibili mentre Ed finalmente la faceva sua, senza riuscire a staccare gli occhi da quelli di Sara. 
Il tempo avrebbe potuto fermarsi lì.
Si strinsero, tremanti, ferventi, e le loro labbra si cercarono finché non seppero arrestare il piacere, nascosti dall’acqua buia. Le labbra di Sara inghiottirono quei gemiti e nascosero i suoi, al culmine.
Le diede un bacio e la strinse al petto.
Il mare avrebbe custodito per sempre quel momento.

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Capitolo 19
*** XVIII ***


CAPITOLO XVIII
 


 
17 Febbraio 2021

Buon compleanno,
Edward.






È spaventoso accorgersi di quanto può persistere un sentimento. Ti rendi conto di essere prigioniero, sempre in balia di te stesso. Non puoi controllarti. Non sei tu a comandare. Qualcosa al di fuori di te aggancia il tuo cuore a quello di qualcun altro e non puoi decidere di tagliare quel filo.
Siamo perennemente soggiogati dai nostri sentimenti.
Siamo vittime consapevoli dei nostri legami.
Non siamo liberi di smettere di amare, solo di rendercene conto.
 
Quel pensiero maturava nella mente di Sara mentre lo osservava rifugiarsi nei vestiti, al buio. Davanti ai suoi occhi, forse per la prima vera volta, si materializzava l’immagine di Ed Sheeran, un essere umano concreto quanto lei, di carne, di pensieri. Lo osservava e si convinceva che ci fosse qualcosa di più potente di un sogno, che era rimasto inghiottito dal mare. Altrimenti non si spiegava la brace che si alimentava ogni volta che erano insieme.
 
  • Andiamo, - e la prese sotto braccio, per riscaldarla come poteva. – ti ammalerai sul serio.
Quasi non sentì quel bacio sfuggente che le aveva dato, avviandosi sulla spiaggia, troppo presa dall’elaborare la sensazione chiara e spiazzante del suo calore e del suo profumo.
La luce accecante dell’ingresso la fece sentire come appena svegliata da un lungo sonno, l’accappatoio che lui la aiutava ad indossare non faceva che acuire quelle sensazioni. Come rinata. Come cosciente per la prima volta. La afferrò e la trascinò via da lì prima che qualcuno li vedesse, prima che Emanuele venisse a sapere che erano stati insieme fino a quel momento, ma quel pensiero svanì quando le porte dell’ascensore si chiusero e riuscirono a guardarsi in faccia senza sentirsi osservati.
Aveva un’espressione distesa, quasi sorridente, ma vedeva nei suoi occhi chiari che ci fosse quell’inevitabile dose di isterismo. Sara lo fissò, assorbendo ogni dettaglio di quella figura, i capelli umidi, le lentiggini, quel vago sorrisetto che gli accendeva le iridi. Quella vicinanza così eccitante. Aprì la bocca senza nemmeno accorgersene, ancora sconvolta dalle sue pulsioni e Ed ne approfittò senza indugio.  Di nuovo sentì quelle labbra incerte ma così accoglienti, assorbì dalla sua lingua tutti i dubbi che voleva esprimere e la accompagnò fino alla sua stanza. Non sapeva cosa fare, avrebbe voluto restare con lei, ma i suoi occhi suggerivano un bisogno di solitudine incontrovertibile. Non gli piacque quella sensazione.
 
  • Stai bene? – le chiese, mostrando apertamente quella preoccupazione.
  • Sì, solo che – deglutì – non me lo aspettavo.
  • Nemmeno io, ma ne sono felice.
Ed sorrise, sperando di contagiarla e cancellare quel cruccio dal suo viso, ma non servì a niente. D’un tratto sembrarono sprofondare entrambi in una fossa di domande senza risposta, come se avessero commesso un efferato delitto di cui pentirsi, come se fosse già un errore.
 
  • Perché l’hai fatto? – le chiese, Sara lo guardò con espressione interrogativa – Se non ti ha reso felice, perché non ti sei allontanata da me?
  • No, Ed, non è questo. – cominciava ad evitare i suoi occhi, mentre lui le lasciava lentamente la mano.
  • Cosa, allora? – cercò di restare calmo e cominciava a sentirsi un po’ ridicolo a chiederle spiegazioni come un’adolescente innamorata.
  • Sono confusa, non capisco perché… - quasi non riusciva a parlare, una vergogna inspiegabile. Ed la guardava imperterrito, carico di aspettative. – perché sia successo.
Un velo scuro calò sullo sguardo dell’uomo che aveva davanti e la brutta sensazione che ne scaturì le annodò la gola, già bloccata dalla confusione e dalla vergogna. Voleva spiegarsi ma non ci riusciva.
 
  • Aspetta, - afferrò il suo braccio, per evitare di perderlo – non fraintendermi.
Riguadagnò la sua attenzione, ma per quella luce negli occhi sembrava già troppo tardi.
 
  • Intendo dire che io e te non…non siamo davvero quelli di Afire Love. Non capisco cosa ci leghi.
  • Forse il tuo cuore è già troppo impegnato per vederlo.
Vide i suoi occhi viaggiare in direzione di qualcuno alle sue spalle e quando si voltò, la figura di Emanuele le spaccò lo stomaco definitivamente. Sara li guardò entrambi, nel panico, cercando di capire cosa dire, cosa fare, come scusarsi. I capelli bagnati erano l’unica cosa che riusciva ancora a tenerla lucida, ma non servirono ad ammorbidire l’espressione di Emanuele.
 
  • Bene. – Emanuele stringeva i pugni lungo i fianchi, ancora indeciso su cosa fare. – Adesso è tutto chiaro. – la guardò.
  • Ema…aspetta, io… - ormai Sara non riusciva più a controllare le sue emozioni, si sentiva annegare nella sua stessa paura. Le mancava il respiro. Una sensazione terribile.
  • Non c’è bisogno di aggiungere altro. – le rispose.
Avanzò verso di loro e si fermò davanti a Ed, lo guardò negli occhi, quasi sul punto di mollargli un cazzotto, ma lui alzò le mani in segno di resa, ridicolmente bagnato e deluso.
 
  • È tutta tua. – gli disse – A quanto pare mi sono sbagliato.
Sara sentì la terra mancargli sotto i piedi dinanzi a quella scena, udendo quelle parole. Riuscì solo a far entrare nei polmoni l’aria necessaria a sopravvivere, senza poter allungare le braccia per fermare Ed che se ne andava, senza neanche guardarla un’ultima volta. La sua figura che si rimpiccioliva nel corridoio la terrorizzò del tutto. Troppo simile alle sue più profonde paure.
 
  • Non credevo sarebbe andata così. – la voce di Emanuele la risvegliò – Pensavo che ci tenessi a me.
  • Ma io… – non riuscì più a trattenere le lacrime. – Scusa, è tutta colpa mia.
Si portò le mani al viso, per nascondersi dalla vita. Sentì i suoi passi allontanarsi, rimanendo definitivamente sola. In qualche modo entrò nella sua stanza e rimase al buio, come per far credere al mondo che non esistesse e che quelle emozioni non la ferissero.
 
Non aveva cenato e non ne aveva intenzione. Era rimasta sotto la doccia a sufficienza da arrossarsi la pelle e farsi calare la pressione, per poi sedersi sul letto, chiedendosi cosa avrebbe fatto da quel momento, come sarebbe riuscita ad arrivare alla fine di quel viaggio ancora così lungo senza sistemare le cose. Ancora in accappatoio, sentì qualcuno bussare alla porta.
 
  • Sono io.
La voce vellutata di Federica arrivava in suo soccorso, ma si sentiva terribilmente in colpa anche con lei. Quelle ore avevano fatto emergere tutti i suoi peccati. La invitò ad entrare.
 
  • Come stai? – avanzava verso di lei come se sapesse già ogni cosa.
Non appena fu seduta accanto a lei sul letto, scoppiò a piangere. Di nuovo.
 
  • Lo so. Vi ho visti discutere prima, ma ho pensato che forse avevi bisogno di stare un attimo da sola.
La morbidezza di quella pelle e il suo profumo familiare erano un balsamo insostituibile, Federica era l’unica persona da cui si sentiva compresa sempre, inequivocabilmente.
 
  • Però vorrei sapere cosa è successo, esattamente.  – le disse, cercando di interrompere il pianto e aiutarla a verbalizzare i sentimenti. Aveva sempre funzionato con Sara.
  • D-dov’è Arianne? – chiese soltanto, asciugandosi con la manica bianca.
  • Da Emanuele. Ci raggiungerà più tardi.
  • Mi dispiace. – cominciò, la voce ancora incrinata, gli occhi gonfi. – Mi avrai aspettato per ore.
  • Ho incontrato Ed, sapevo che ti avrebbe trovato. Ho approfittato per chiamare Simone. – le sorrise, sempre troppo buona con lei.
Federica si alzò e azionò il bollitore per preparare quella magica tazza di tea che risolveva sempre qualunque problema.
 
  • Sono tutta orecchie. – e si appoggiò allo scrittoio, in attesa che l’acqua si scaldasse.
Sara abbassò lo sguardo, chiedendosi da dove cominciare. Non era neanche sicura di cosa fosse accaduto. La moltitudine di pensieri non riusciva a trovare una strada sicura per venire espressi.
 
  • Abbiamo fatto sesso.
La bocca di Federica si aprì lentamente, man mano che decifrava le parole. Non si aspettava di sentire quella frase, non si aspettava che sarebbe accaduto così presto e soprattutto non se lo aspettava da Sara. Aveva capito che ci fosse in ballo qualcosa di interessante, ma non di quella portata.
 
  • DOVE? – riuscì a dire – QUANDO? – il corpo proteso in cerca di informazioni.
  • Prima…in mare. – si portò le mani al viso, sperando di coprire l’imbarazzo e i ricordi. Un brivido la percorse inevitabilmente.
  • E com’è stato?
Forse non era la domanda che si aspettava o forse non era la domanda a cui voleva rispondere. Il silenzio avvolse la stanza finché non riuscì a deglutire e a ingoiare la verità.
 
  • Magnifico. – ammise, senza guardarla negli occhi.
  • Ma…? – la incoraggiò Federica.
  • Ma…lui non, insomma, lui non è Edward, io non sono quella Sara, non capisco. Perché? – e finalmente la guardò, sperando che la sua amica sapesse rispondere a quelle domande. – Perché è successo?
  • Evidentemente lo volevi. – fece spallucce – Devi solo accettare che lui ti piaccia così com’è.
  • Ma io non sono la donna che crede. – disse, forse riuscendo ad inquadrare il problema. – Non sono la Sara che si aspettava.
  • Hai mai pensato che invece per lui non sia così? – eccola che cominciava a sbatterle in faccia l’ovvietà – Hai mai pensato che invece tu sia esattamente quella donna?
Era faticoso da accettare. Era faticoso avere fiducia in se stessa. Era faticoso concedersi la felicità, anche quella volta. Con la tazza di tea tra le mani, fece pulizia nella sua mente e cominciò a digerire il fatto che già il ricordo di quei momenti le facesse battere il cuore.
Quando Arianne arrivò riuscì solo a guardarla mortificata, in cerca del suo perdono per aver ferito il suo amico.
 
  • Sono cose che succedono a chiunque. – le disse – Non devi fartene un cruccio, sono sicura che prima o poi riuscirete a chiarirvi e lui riuscirà a perdonarti. Dagli tempo.
Le ore successive scorsero via nell’analisi approfondita di quella situazione e dei suoi sentimenti. Più parlava con le sue amiche, più riusciva ad ammettere che forse avevano sempre avuto ragione: Ed le piaceva. Anche se non era Edward. Anche se in realtà aveva scorto in lui quella stessa anima.
 
Ed si era nascosto nella sua stanza, aveva ordinato qualche birra e aveva fatto entrare Sofia, che aveva bussato alla sua porta poco dopo il suo rientro, facendogli per un attimo credere che Sara fosse tornata per parlargli. Purtroppo il colore azzurro degli occhi della ragazza, era quello sbagliato. In realtà non voleva nessuno tra i piedi, ma non riuscì a dirle di no, vedendola col copione tra le mani, aperto alla pagina del settimo giorno.
Cercava di seguire il filo della loro conversazione, ma la sua mente vagava lontana dalle sue occhiatine e dai suoi tentativi di sfiorarlo, riusciva a pensare soltanto alla delusione che gli appesantiva il petto.
 
  • Qualche volta potremmo uscire a fare una passeggiata insieme.
Disse di sì a quel sorriso sempre meno innocente senza riflettere, mentre lei si accostava più vicina a lui, sommergendolo di parole.
Era evidente che Sara fosse troppo impegnata con Emanuele per poterlo guardare con occhi diversi, senza contare che per lei lui non fosse altro che una copia malfatta. Aveva creduto, mentre la stringeva, di essere l’Edward che si aspettava, che lei fosse la donna che aveva incontrato dall’altra parte e che aveva intravisto sul fondo dei suoi occhi. Per lei non era così. Avrebbe dovuto farsene una ragione e tentare di ignorare la sua esistenza e quella di Emanuele. Tuttavia quei tentativi di autoconvincersi sprofondavano ogni volta che risentiva le sue labbra.
Si chiese se assecondare quelle moine lo avrebbe aiutato a voltare pagina, magari la sana ripicca poteva fungere da palliativo, d’altronde cosa altro poteva fare oltre a ubriacarsi e cercare altre labbra, altri corpi? Mentre studiava la mano di Sofia, poggiata sulla sua gamba, si rese conto che il pensiero di approfittare di quella disponibilità lo disgustasse. Forse doveva solo accettare quella delusione e lasciare che facesse il suo lavoro. Concedersi di soffrire.
 
  • Ed. – la voce di Sofia lo ridestò dai suoi pensieri – Hanno bussato alla porta.
Gliela indicava col dito, come se si fosse accorta che fosse altrove. Guardò il legno lucido e pensò che forse…ma sicuramente era Stuart che era venuto a cercarlo.
Si alzò, portando con sé la birra e posò la mano sul pomello, aprendo l’uscio senza esitazione.
Riconobbe quegli occhi in troppo poco tempo, come se fosse riuscito a intravederli già attraverso il legno ed erano proprio come se li aspettava: tristi e azzurri. Della tonalità che aveva sperato di guardare già diverse ore prima.
 
  • Ciao. – la sua voce era un sibilo, i suoi leggins troppo aderenti.
Non riuscì a rispondere vedendo già il suo sguardo posarsi su Sofia.
 
  • Scusa, non fa niente.
Il tono così apatico della sua voce gli fece quasi male. Non poteva fraintendere, non adesso, non mentre stava finalmente per darsi una seconda possibilità, così non appena la vide fare il primo passo per allontanarsi, la afferrò per un braccio. Non riusciva a sentire la sua stessa espressione, ma sapeva che fosse piena di paura.
 
  • Wait! – la tirò con prepotenza verso di sé, ma gli occhi di lei viaggiarono di nuovo verso Sofia. – Aspetta. Perché sei venuta?
  • Non ha alcuna importanza. – i suoi occhi si riempivano di oscurità ad ogni secondo.
  • Per me ce l’ha. – sospirò, senza trattenersi. – Dammi un secondo.
La lasciò sperando che non andasse via e con una fretta troppo evidente chiese a Sofia di sloggiare. La accompagnò alla porta praticamente trascinandola e non badò all’occhiata che si scambiarono le due donne sotto l’uscio, pensava solo al momento in cui avrebbe richiuso la porta.
 
  • Come in. – fece un passo indietro e la osservò entrare, senza mollare un attimo lo sguardo dal suo corpo.
Sara cominciò a credere che fosse stato un errore tornare da lui, che forse avrebbe dovuto aspettarsi di essere ripagata con la stessa moneta, eppure non era riuscita ad andarsene davvero. Vide le bottiglie di birra sul tavolino e deglutì, chiedendosi quanto fossero stati vicini Ed e Sofia prima che lei bussasse a quella porta. Non riusciva a parlare.
 
  • Perché sei venuta? – il ricordo di quella scena in corridoio non gli permise di avvicinarsi troppo.
  • Volevo – cominciò tremante, dondolava da un piede all’altro cercando di controllare l’ansia e i sensi di colpa – s-solo dirti che mi dispiace.
  • Di cosa, esattamente? – non poté trattenere quell’espressione fredda.
La piccola dose di coraggio che aveva messo da parte in quelle ore per cercare di sistemare le cose, si consumava velocemente in quello sguardo di ghiaccio.
 
  • Di aver fatto sesso con me o di esserti dimenticata di essere impegnata con un altro?
  • Non si tratta di questo. – doveva sforzarsi di continuare a guardarlo.
Ed ammutolì, aspettando una spiegazione che non riusciva a prevedere. Sara avrebbe voluto che esistesse un modo per farlo affacciare nei suoi pensieri senza dover dire una parola.
 
  • Non sono pentita di quello che è successo, anzi… - e pronunciando quella frase risentì ancora la sete. – Se potessi tornare indietro, lo rifarei. – arrossì senza poterci fare niente e rivide nei suoi occhi l’ultima luce del tramonto ancora accesa.
  • SCUSA, MA LA TUA FACCIA SUGGERIVA IL CONTRARIO. – un ruggito così inaspettato. – IN FONDO STAI CON UN’ALTRA PERSONA, NO?! DOVEVO ASPETTARMELO!
  • Emanuele non c’entra niente, tra noi non ha mai funzionato davvero. – il suo respiro era affannoso, i muscoli bloccati.
  • Lui pensava il contrario. – non riusciva a non essere perentorio.
  • Gli parlerò, ma non posso dargli quello che lui desidera.
  • Forse avresti dovuto dirglielo prima! – allargò le braccia, perdendosi in quel discorso senza capo né coda. – E forse avresti dovuto dirlo anche a me!
Non capiva dove lei volesse arrivare, la ferita che gli bruciava dentro non gli permetteva di capire nemmeno ciò che fosse evidente.
 
  • MI DISPIACE! – la vide esplodere d’un colpo, il viso corrucciato da un pianto che sembrava non riuscire a frenare oltre. – Non volevo ferire nessuno!
Ed sospirò quasi spazientito. Non sapeva cosa stesse accadendo, cosa lei stesse cercando di dirgli. Se ne stava lì, in piedi davanti a lui, a dondolare e trattenere le lacrime senza essere chiara e questo forse lo feriva più di tutte le illusioni.
Si avvicinò di scatto, lasciando la birra sul primo piano disponibile, per guardare meglio i pensieri nascosti in quelle pieghe e capire finalmente chi avesse di fronte. La prese per le braccia per costringerla a guardarlo senza fuggire.
 
  • Perché non ti sei allontanata da me? – cercò di controllare il tono della voce. – Perché abbiamo fatto sesso in quel modo e un minuto dopo sembravi pentita?
  • È solo che io – non poté asciugare le lacrime – io non sono la persona che pensi, Ed! Non sono lei!
Lasciò lentamente la presa assorbendo la verità implicita che si nascondeva dietro quelle parole. Si allontanò di un passo.
 
  • E io non sono il tuo Edward, giusto? – un senso di disprezzo che non aveva scelto di usare. – Sono solo la copia fasulla.
  • No! Non sei Edward, ma non è questo il punto!
  • E ALLORA COSA?! – gridò, senza pensare a quanti li avrebbero sentiti. – NON E’ LUI, NON SONO IO, QUAL E’ IL PROBLEMA?
  • IL PROBLEMA È CHE TU TI SEI LASCIATO PRENDERE DA QUEL LIBRO QUANTO ME! – gesticolava – CERCA DI RIFLETTERE, ED, COSA DIAVOLO SIAMO NOI?! CI CONOSCIAMO A MALAPENA!
  • PENSAVO DI AVERLO LETTO! CHE CE LO FOSSIMO DETTI POCO FA!
  • Sto solo cercando di dire che non capisco cosa ci leghi, se il mio sogno o qualcos’altro!
  • BENE! – era incazzato nero – VEDO CHE ABBIAMO FATTO PROGRESSI NELL’ULTIMO QUARTO D’ORA! – riprese fiato – IO PENSAVO DI SAPERE CHI AVESSI DI FRONTE E INVECE MI RITROVO A DISCUTERE DEL PERCHE’ ABBIAMO FATTO L’AMORE MENTRE TU SEI IMPEGNATA CON UN ALTRO!
  • Non posso lasciarti credere che io sia quella Sara, non posso illuderti! – ormai singhiozzava e la voce le si spegneva in gola.
  • Bugiarda. – rispose.
E stavolta si sentì deluso davvero. Non dalla sua insicurezza, non dalle circostanze, ma dalla sua incapacità di accettare quello che cominciavano appena ad essere, di accettare che potessero esistere anche in questo mondo, perché in fondo forse non lo voleva. Sentì una crepa farsi strada sul sottile filo che li univa e che a lungo era rimasto invisibile anche a lui.
 
  • Sei una bugiarda. – ripeté, guardandola ancora negli occhi con evidente disprezzo.
  • Ed, aspetta- la interruppe bruscamente.
  • Quando sarai in grado di dirmi la verità, ti ascolterò. – disse – Fino ad allora, lasciami in pace e goditi pure il tuo ragazzo.
Aprì la porta per invitarla ad andarsene, ma lei non si mosse. Si chiese ancora come facesse a non vedere ciò che vedeva lui. L’istinto di baciarla e tentare di infonderle quel calore fu demolito dal suo orgoglio.
 
  • Non vuoi capire. – una inaspettata punta di rabbia, mentre si avviava verso il corridoio vuoto – Ero solo venuta a dirti che io…
Non riuscì a guardarlo negli occhi, pensando a quanto patetica dovesse sembrargli. Non era riuscita a spiegare i suoi sentimenti fino in fondo e adesso aveva solo creato più distanza tra loro. Evidentemente si era sbagliata su come sarebbero potute andare le cose, ma di una cosa era ormai certa.
 
  • …avrei voluto essere la Sara che ti aspettavi.

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Capitolo 20
*** XIX ***


CAPITOLO XIX
 




Ridondavano ancora nella sua mente, dopo una notte di sudori e vaneggiamenti, quelle parole che non era in grado di comprendere. Aveva provato a mettere da parte la rabbia, lo sconforto, per capire davvero cosa significasse per lei quel discorso assurdo, ma più ci rifletteva, più ripercorreva quei minuti, meno chiari erano quei sentimenti.
Cosa diamine significava quell’ “io non sono lei”? E cosa aveva a che fare con ciò che erano loro due? Non che lui fosse riuscito a dare una definizione chiara a quel loro incatenamento, ma almeno era certo che qualcosa lo fossero. Che Sara non fosse Sara per lui era impossibile, poiché ancora una volta, quel giorno, la intravide in ogni movimento, in ogni piega dell’espressione, persino nella tensione che permeava l’aria da quando si erano accese le luci del set. Cercava di lasciar perdere l’idea che fosse innamorata di Emanuele, perché se lei era in grado di mentire a se stessa, lui non era capace di farlo con se stesso quando si trattava di lei, così cominciò davvero a credere che Sara avesse paura – più di quanta ne avesse avuta lui – di accettare di essere quella donna che aveva sepolto nella sua mente. Eppure nemmeno questo spegneva il suo risentimento: se non era in grado di accettare i suoi sentimenti, nemmeno loro due avrebbero mai avuto alcun senso. E questo faceva rabbia. Esattamente come in Afire Love che, ci crediate o no, lui sentiva così reale e così vicino al presente da avere talvolta paura si esserne vittima. Tuttavia sentiva ancora quel nodo allo stomaco ogni volta che la guardava, quel filo danneggiato che lo strattonava verso di lei. Era spaccato a metà, proprio come lei che se ne stava seduta accanto a Webber col caffè tra le mani e il peso di un mondo invisibile sulle spalle.
Per fortuna non era ancora il suo momento di essere sotto i riflettori, quella mattina giravano la preparazione di Sara alla magica serata a Sorrento, in attesa che le forze dell’ordine preparassero la città alle telecamere. Guardava Sofia sforzarsi di essere triste dinanzi a quello specchio, ma era evidente che invece si sentisse a proprio agio, forse fin troppo, infatti al terzo ciak Arianne si diresse dall’attrice per darle qualche consiglio.
Ne approfittò per dirigere lo sguardo verso di lei, nascosta nella penombra: i suoi pantaloncini e quel maglioncino di filo bianco si accostavano perfettamente al suo pallore. Non smetteva di fissare Sofia.
Il quarto, il quinto, il sesto ciak. Prima ancora che il regista desse lo stop alle riprese, Sara si alzò e invase l’inquadratura. L’intera troupe ammutolì e persino Webber rimase in silenzio. Doveva far capire a quella ragazzina che aveva sbagliato momento per sentirsi una super star, quella scena era forse la più preziosa del film: il momento in cui Sara ammetteva a se stessa di non sentirsi abbastanza, il momento in cui accettava che Edward fosse per lei qualcosa di più. Il momento in cui sceglieva di mettere in gioco il suo cuore.
 
  • Sofia – non era certo un tono amichevole – hai capito qual è lo stato d’animo da interpretare, vero?
Lo sguardo di saccenza che ebbe in risposta la sorprese, ma non fu sufficiente a farle dimenticare dove si trovasse la sera precedente.
 
  • Certo. – rispose – Non capisco cosa ci sia di sbagliato nella mia espressione.
  • Di certo non ti ho scelta per la tua recitazione. – il mormorio che aveva preso piede nella sala si spense – Ma potresti evitare di ghignare allo specchio quando invece dovresti sentirti devastata dai tuoi stessi sentimenti.
  • Non ti pare un po’ eccessivo interrompere la scena per questo?
Quella ragazza la stava apertamente sfidando davanti a tutti, senza riflettere sul fatto che lì dentro il capo fosse lei. Rivide lo sguardo che le aveva lanciato la sera prima, ostile e provocatorio, ma non ci stava: non le avrebbe permesso di mancarle di rispetto in quel frangente.
 
  • Magari la prossima volta mettiti a studiare invece di perdere tempo in giro.
Non aggiunse altro e se ne tornò al fianco di Webber, senza averle lasciato alcun margine di risposta. Il pensiero di lei e Ed chiusi in quella stanza cercava di forarle il petto ed entrare nel suo cuore, ma avrebbe fatto in modo che non accadesse. D’altronde un solo sentimento in più avrebbe potuto annientarla.
  • << No, Giuseppe. Non va tutto bene. >>
  • << Perché non provi a goderti il momento? >>
  • << Perché dopo non ci sarà più nulla ed io sono la persona sbagliata nel posto sbagliato. Soprattutto la persona sbagliata. Lunedì mi sveglierò di nuovo nel mio letto di periferia e tornerò alla mia vita, fingendo di aver fatto solo un bel sogno. Come posso godermi il momento? Tutto questo…è solo una farsa. >>
Quelle parole.
Quelle parole che l’avevano tormentata.
Finalmente le sentiva uscire dalla bocca di Sofia così come le aveva pronunciate a Giuseppe e fece male proprio come allora, proprio come se le avesse dette in quel presente. Era tutto racchiuso in quel pensiero.
Ed, rimasto immobile e in silenzio durante il loro battibecco, ora pareva scorgere almeno l’ombra del significato che quella scena avesse per Sara. Eppure – pensò – non era riuscita a capire che anche in quel mondo lei fosse ancora quella persona. Era Sara e non se ne rendeva conto. La guardò osservare la scena e desiderò ancora, ardentemente, di poterle aprire gli occhi.
 
Emanuele aveva evitato il suo saluto e continuava a lavorare come isolato da tutta quella storia. Non aveva la forza di ignorarlo, ma non aveva nemmeno la forza di affrontarlo. Il tessuto di jeans degli shorts che indossava era fastidioso in quella posizione, rannicchiata com’era sulla sedia, in mezzo alle sue amiche, che avevano una forza d’animo invidiabile in quel momento. La sopportavano con una pazienza che lei non avrebbe avuto e si sentì di nuovo in colpa, di nuovo troppo egocentrica. Alla chiusura del settimo ciak, che l’aveva lasciata quasi in frantumi, vide Sofia andare dritta da Ed e le ribollì il sangue al vedere quel sorrisetto vendicativo che le riservava mentre si accostava a lui con una confidenza quasi squallida. Ed sembrava troppo stanco per darle retta, non abbastanza da seguire gli occhi dell’attrice fino a lei. Non sfuggì ai suoi occhi. Si chiese cosa avrebbe scorto sul suo viso in quel lunghissimo secondo.
 
Erano le 18:00 e la sera era per loro fortuna già giunta, ricoprendo la città di un’atmosfera di irrealtà. Sofia aveva bussato alla porta del suo camerino con indosso quell’abito per chiedergli come le stesse, ma non poté fare a meno di immaginare Sara avvolta da quella stoffa e chiedersi dove fosse, a cosa stesse pensando. Aveva pensato di cercarla, ma con quale scopo? Magari era con Emanuele da qualche parte o stava facendo ancora i conti con i suoi dubbi. Le mani di Sofia che gli aggiustavano il colletto della camicia furono una buona alternativa a quel pensiero.
Si diressero insieme all’entrata dell’albergo, dove la troupe aveva già messo a punto il set e il regista era già seduto sulla sua sedia, che discuteva con Max e Arianne, visibilmente stanchi e sfatti. Vide Federica parlare con Stuart, osservavano insieme lo schermo di un pc, probabilmente al lavoro per pubblicizzare il film. Emanuele era già ai margini della scena, impegnato con il microfonista. Sara non c’era. Che avesse deciso di non presentarsi?
 
  • Certo che siamo proprio belli, insieme! – ridacchiò Sofia, prendendogli il braccio.
  •  – rispose, cercando di non darle troppa corda – Questi abiti sono ben fatti.
Ma il suo gilet parve restringersi attorno al torace quando la vide rientrare dall’esterno, gli stessi abiti di quella mattina, la macchina fotografica appesa al collo, i capelli legati. 
Per un momento, forse a causa della preoccupazione di non averla vista al suo posto, non sentì più la rabbia, era solo sollevato che lei fosse lì. Non appena i loro occhi si incontrarono Sara si fermò e impallidì, come se avesse visto un fantasma. L’immagine di Ed vestito in quel modo l’aveva colta alla sprovvista e per un momento il suo cuore si era fermato, proprio come se Edward fosse apparso per soccorrerla, come faceva sempre. Capì che Ed avesse letto i suoi pensieri quando vide le sue labbra incurvarsi verso il basso, fuggendo dall’ombra di se stesso che viveva nella mente di Sara come un’entità del tutto distaccata da lui. Lui che non era Edward. Fu solo un attimo quello di esitazione che l’aveva paralizzata, passò indifferente agli occhi di tutti, per poi riprendere il passo verso Webber, che le rivolse la parola non appena la ebbe accanto.
 
  • In posizione. – lo chiamò Max.
Sfilò il braccio dalle mani di Sofia e si posizionò davanti alle telecamere, pregando di riuscire a ricordare le battute. Sara fissava il copione solo per sfuggire ai suoi occhi.
Cominciarono a girare.
I movimenti delle telecamere lo inibivano in modo insolito mentre passeggiava avanti e indietro in attesa che Sofia si presentasse, il cartellone con l’input della battuta sembrava minacciarlo, ma riuscì a proseguire fino all’esterno dell’hotel senza sbagliare. Seguiti dai cameramen, giunsero alla seconda postazione di regia, dove Webber e Sara già li attendevano. Sapeva che lei ci tenesse a quel capitolo, ma questo non fece che renderlo ancora più nervoso, mentre cominciava quella litigata con Sofia.
 
  • << Scusa. >> – per un momento si sentì davvero dall’altra parte.
  • << Per cosa? >>
  • << Per non riuscire a capirti. Se vuoi, torniamo indietro. >>
Se non fosse stato per il vociare della piazza, sarebbe riuscito a sentire il rumore dei pensieri di Sara, immobile, terrorizzata. Sarebbe riuscito a vederla in quella calda sera di luglio di un anno già trascorso.
  • << Ed, il vestito è bellissimo, ma cosa pensavi di fare conciandomi così? >>
  • << Pensi che avessi delle intenzioni particolari? Volevo solo farti passare una serata diversa, tutto qui. >>
  • << Per farmi assaggiare il miele e poi portarmelo via? >>
Cos’era quel tono malizioso? Webber sembrò leggerle nel pensiero, interrompendo le riprese. Quella ragazza doveva essere impazzita e Ed non sembrava in forma, aveva pronunciato quella battuta con una fiacca insolita. Lasciò che intervenisse Arianne per lei, prima che litigassero ancora. Ed sembrò innervosirsi, lo vide voltare il capo altrove, senza guardare nessuno. Un movimento delle sue spalle le fece percepire il suo sconforto. Se ne sentì schiacciata eppure non riusciva a scacciare l’orgoglio.
Rifecero la scena, ma era evidente che lui si stesse sforzando e lei stesse sottovalutando il personaggio. 
 
  • << Pensi che io ti stia facendo vivere una favola per poi toglierti tutto, per il puro sfizio di farlo? >>
  • << Questo non è il mio mondo, Ed. Non è questo vestito a fare di me una persona all’altezza del tuo stile di vita da camera all’ultimo piano. >>
  • << Non ti ho mai chiesto di adeguarti. Non intendevo cambiarti, volevo solo…non lo so, ma non questo! Lo so che lunedì devo partire, basto io a ricordarmelo, ma non mi importa. Io sono qui, adesso e non ho intenzione di piangermi addosso. Perché interpreti sempre tutto in modo così negativo? Perché pensi che io voglia farti del male? >>
Come avrebbe voluto poterla guardare negli occhi per dirle davvero quelle parole, in tutto il loro significato, pur non riuscendo ad esprimersi come voleva, ma più Sara assisteva alla scena più si chiedeva se volessero prenderla in giro o cosa. Come facevano a non capire? Come potevano non prendere seriamente la cosa? Come osavano infangare i suoi sentimenti in quel modo?
Ed! – pensò – Proprio tu. Proprio tu che avevi capito, proprio tu che dicevi di essere l’Edward che speravo. Si era illusa che potesse davvero essere così.
 
  • STOP!
E fu proprio lei a urlarlo, senza aver consultato nessuno, senza dar retta a quella briciola di ragione che le era rimasta, troppo avvolta dalle fiamme della collera, troppo coinvolta dalla sua stessa vita, passata e presente. Gli occhi erano puntati tutti su di lei. Ed non sembrava sorpreso della sua reazione.
 
  • Ma cosa vi prende? – disse, avvicinandosi a loro – Avete dimenticato cosa sta succedendo?
  • Cosa c’è? – chiese Sofia, cercando appoggio negli occhi degli altri. – Non siamo abbastanza tristi?
  • FALLA FINITA! – le disse, ormai ad un passo da loro. Webber, che forse si era affezionato a lei, la lasciò fare. – Non è questione di tristezza, stai cambiando il personaggio e non puoi farlo!
Poi guardò Ed negli occhi, volendo dirgli la stessa cosa senza doversi ripetere, ma lui era rimasto impassibile, un muro di gomma sul quale era inutile infierire.
Erano così vicini dopo un tempo che era sembrato un’eternità e lei non riusciva ancora a parlargli direttamente. Cosa pretendeva? Cosa si aspettava di sentire? Se non era il suo Edward nella realtà, perché si aspettava di ritrovarlo in quella scena? Si stava comportando esattamente come si era sentito rileggendo quel capitolo e ora non le andava bene nemmeno quello.
 
  • Ed, dille qualcosa! – insistette Sofia.
  • Io non sto cambiando niente. – la guardava negli occhi – E poi non sono certo l’Edward che aspettavi di incontrare. – una frecciatina che non passò inosservata a nessuno.
  • Bugiardo. – gli disse, facendogli rivivere quel momento. – Sei un bugiardo.
Sofia li osservò cercando di carpire più informazioni possibili, ma dovette fare i conti con l’autrice del suo ruolo.
 
  • Sara in questa scena vive il momento che farà evolvere tutta la storia, non puoi farla cadere nella malizia! Non sta cercando di abbordarlo! – disse, indicando Ed.
  • Perché non lo fai tu, allora? – le rispose lui, aveva alzato la voce a sufficienza da lasciar trasparire il suo rancore – Prova tu ad essere Sara!
Sbiancò. Non si aspettava quella sua risposta così calcolata, così tagliente. Non si aspettava una sfida che rischiava di divenire sanguinosa. Rimase zitta per diversi secondi, senza smettere di fissarlo, riflettendo su quella sleale provocazione. I loro problemi non dovevano finire sotto gli occhi di tutti, cosa diamine stava combinando? Un nodo allo stomaco teneva dentro tutta la frustrazione che voleva sgorgare, ma non poteva tirarsi indietro, non davanti all’espressione beffarda della sua controfigura che ancora si preoccupava di punzecchiarla invece di non perdere il lavoro. Tutto quello era ridicolo.
 
  • Non c’è problema. – gli rispose, vedendo immediatamente un malcelato stupore sul suo viso. – Forse una lezione di empatia tornerà utile.
Sofia, offesa, sembrò esitare ma alla fine si spostò dal centro della scena e andò a protestare da Max e Arianne. Sara e Ed erano ancora fermi in quel punto, comunicando con gli occhi tutto ciò che in quel momento non potevano dirsi, rivelando forse troppo dei loro reali sentimenti. Gli occhi di Sara strabordavano di ardore, rabbia e desiderio. Di positivo c’era che tutta quella collera gli permetteva di vedersi per ciò che erano veramente, due persone indipendenti da qualsiasi invenzione, qualsiasi sogno, per quanto realistico potesse essere. Forse quella continuità d’occhi era il loro principale modo di conoscersi, l’unico momento in cui Sara riusciva a guardarlo senza avere dubbi sulla sua identità.
 
  • Action! – Webber lo gridò come se la scena fosse quella ufficiale.
Non mollarono lo sguardo e Sara si sentì improvvisamente stupida, ma ormai era in ballo. Continuò quella commedia, quantomeno per dare una lezione a Sofia. Ed, intrappolato tra due mondi, sperò che quel suo atteggiamento non fosse altro che un modo di cancellare i suoi dubbi.
  • << Scusa. >>
  • << Per cosa? >>
Per un momento la squadra che li seguiva da mesi si fermò davvero ad osservare la ripresa, tralasciando il fatto tecnico e assorbendo l’aura di sofferente malinconia che circondava quelle due figure così antitetiche. Proprio come se fossero tutti precipitati in quel libro. Proprio come avevano sempre immaginato di vedere Sara e Edward.
Emanuele smise di suggerire le battute. Ed, col cuore sotto le suole di quelle scarpe eleganti, schiacciato da quel miscuglio di attrazione e rifiuto, non se ne preoccupò.
  • << Per non riuscire a capirti. Se vuoi, torniamo indietro. >>
  • << Ed, il vestito è bellissimo, ma cosa pensavi di fare conciandomi così? >> - si muoveva e parlava con una naturalezza senza precedenti. Era davvero lei.
  • << Pensi che avessi delle intenzioni particolari? Volevo solo farti passare una serata diversa, tutto qui. >> - e quando anche Ed cominciò a risponderle come se fosse davvero lui, si resero conto che non stessero più recitando.
  • << Per farmi assaggiare il miele e poi portarmelo via? >>
Federica, immobile, riuscì solo ad assorbire la freccia di dolore che trapassava il cuore di Sara e che si era tradotta sul suo volto con una smorfia che avrebbero dovuto distendere.
  • << Pensi che io ti stia facendo vivere una favola per poi toglierti tutto, per il puro sfizio di farlo? >> - la giacca gli stava davvero stretta o forse era solo il bisogno di liberarsi.
  • << Questo non è il mio mondo, Ed. >> - e diceva sul serio. Letteralmente. - << Non è questo vestito a fare di me una persona all’altezza del tuo stile di vita da camera all’ultimo piano. >> - gli occhi le si riempirono di lacrime.
  • << Non ti ho mai chiesto di adeguarti. Non intendevo cambiarti, volevo solo…non lo so, ma non questo! >> - ne vide una solcarle lo zigomo arrossato. 
Avrebbe voluto che sparissero tutti.
 
  • << Lo so che lunedì devo partire, basto io a ricordarmelo, ma non mi importa. Io sono qui, adesso e non ho intenzione di piangermi addosso. Perché interpreti sempre tutto in modo così negativo? Perché pensi che io voglia farti del male? >>
Gesticolava, davvero troppo coinvolto, sordo al silenzio che li aveva circondati, cieco agli sguardi allibiti di coloro che li conoscevano meglio. Ma cosa importava? Stavano finalmente comunicando, stavano finalmente parlando per se stessi, non più per i loro alterego. Sentiva che stessero riuscendo a capirsi. A perdonarsi.
  • << Ultimamente non facciamo altro che fraintenderci, quando non c’è nulla di ambiguo. Non voglio cambiarti, non voglio metterti in difficoltà, faccio solo ciò che mi sento di fare. Questo sono io. >> - si indicò, con le mani al petto, indicando il vero Ed, l’unico Edward che potesse aspettarsi. - << Se non vuoi nemmeno venire al ristorante con me perché hai troppa paura o ti senti inadeguata, io non posso farci niente. È una tua scelta. Io ho fatto la mia. >>
Non si voltò come previsto dal copione, ma si passò quella mano esasperata tra i capelli attendendo una sua reazione. Non udì un fiato, non scorse un movimento, finché Sara non mosse un passo verso di lui, quanto bastasse a permetterle di appoggiare la fronte sul suo petto e nascondere quel dolore. Espirò, terribilmente sollevato e tentato di abbracciarla e allontanarsi da lì, ma lei stava ancora seguendo la sceneggiatura.
 
  • << Scusa. >> - le disse sottovoce, abbassando il capo verso di lei e rispettando la battuta per una volta corrispondente alla sua reale volontà. Le prese la mano, in un ultimo moto di speranza.
  • And stop.
La voce di Webber ruppe il vetro in mille frantumi, sgretolando quella bolla in cui si erano rinchiusi senza che lo avessero calcolato. Il suono di un applauso solitario, lento e quasi ironico, prese il posto del silenzio e dell’immobilità lampante di Sara. Quando Ed alzò lo sguardo vide solo il regista battere le mani con espressione soddisfatta, il resto della troupe ancora ammutolita.
Sara alzò il viso dal suo petto e sperò di incontrarne gli occhi, ma lei lasciò di scatto la sua mano e si defilò prima che potesse formulare un qualsiasi pensiero. La vide procedere a grandi falcate verso l’interno, sgomitando tra le persone presenti, fino a dileguarsi. Qualcuno la seguì con lo sguardo, qualcuno cercò di fermarla, senza successo. L’elettricità che avevano rilasciato nell’aere risvegliò i suoi sensi: sentì di nuovo un ago pungergli il cuore, istigando quella ferita a sanguinare di nuovo. L’aveva finalmente messa davanti alla verità e non era bastato. Capì che non sarebbero andati al ristorante e non avrebbero  ballato dinanzi al panorama del golfo, non si sarebbero permessi nemmeno di sognarlo. Eppure, pensò, l’unica cosa che entrambi volevano era concedersi la felicità. Risentì la sua voce pronunciare quelle stesse parole.
Nonostante nessuno osasse fiatare, non riuscì a sentire Stuart commentare a bassa voce:
 
  • She’s the real one.
E solo Federica lo guardò.
 
  • The only one.

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Capitolo 21
*** XX ***


CAPITOLO XX




 
 
Mi chiamo Sara De Amicis.
Ho 22 anni.
Mi trovo a Sorrento.
Quel ragazzo non è Edward.
Era già troppo tempo che se lo ripeteva, ma non aveva avuto l’effetto sperato. Da quando aveva lasciato il set, un’angoscia pari solo a quella del suo risveglio le aveva affollato il petto e insisteva, resisteva, senza lasciar fluire via un grammo della sua potenza.
Non aveva più rimesso piede sulla strada, se n’era stata seduta sulla riva fino a notte fonda, pregando che nessuno andasse a cercarla. Ora che il suo telefono era scarico e le luci delle camere erano tutte spente, riusciva finalmente a muoversi e a trascinarsi via dalla battigia umida, oltrepassando i cancelli dell’hotel per uscire in piazza.
Quel punto dell’asfalto era ancora contaminato dalle loro figure stonate.
Mi chiamo Sara De Amicis.
Ho 22 anni.
Mi trovo a Sorrento.
Ed non è Edward.
E ancora non funzionava. Rendersene conto era ancor più spaventoso del doversi risvegliare.
I suoi shorts inumiditi trovarono posto sul bordo del marciapiede. Il silenzio della città era quasi assordante, lo scrosciare lontano del mare le riportava alla mente quelle notti di partenze estive, quando l’aria aveva un sapore tutto particolare, che sapeva riconoscere ogni volta con grande emozione. Aria di frescura, di liberazione, di ignoto. Aria di partenza. Una compagna così rassicurante eppure così spaventosa: il viaggio che stava affrontando era costellato di bui tunnel e ponti pericolanti, che la conducevano ad una meta ancora sconosciuta e imprevedibile. Tanta segreta rassicurazione e tanta malcelata paura in un’unica familiare sensazione.
Gli hotel e i ristoranti che circondavano lo spiazzo erano silenti, le persiane richiuse dal sonno. Non c’era un’anima. I ricordi di quei momenti, di tutti i giorni trascorsi in sua presenza, fiorivano dall’asfalto come ologrammi impalpabili, riusciva a osservarli da quel punto come se non le appartenessero e si rese conto che tutto quello era accaduto davvero, ogni cellula del suo corpo era in grado di risentire il profumo, la pelle, la stoffa della giacca sulla fronte. Quel corpo contro il proprio. I sospiri. Il piacere. Ogni cosa si era resa indelebile perché accaduta e non riusciva a sradicare la figura di Ed dai suoi occhi.
Era tutto così reale.
Il grumo d’angoscia le annodò la gola nel formulare quel pensiero, nel seguire la sua mente che si perdeva negli anfratti di tempo in cui erano stati vicini. Solo quando vide il primo bagliore dell’alba dietro le montagne riuscì ad ammettere che le mancasse. Che l’unica cura che volesse farsi somministrare era la sua vicinanza. Il suo orgoglio arretrò al pensiero della dolcezza di quegli occhi. In fondo stava solo prendendosi in giro, come se non avessero mai fatto l’amore, come se non sentisse anche lei quell’inspiegabile legame, come se non fosse tornata da lui per cercare di riconciliarsi. 
Ma poi tornava sempre quel pensiero a erigere nuovi muri: Ed non era Edward. Continuava a ripeterselo convinta che il problema fosse ancora l’essersi persa nei suoi sogni, quando tutto ciò che c’era da ammettere era solo che durante quella scena non aveva mai perso i sensi, non aveva mai smesso di guardare Ed, non aveva mai ricostruito su di lui l’immagine di Edward. Così come non aveva mai smesso, per un solo istante, di essere se stessa pur sentendo propri i sentimenti della Sara che aveva raccontato. Fino a quel momento non era stata in grado di rendersene conto, ma ora che la luce del nuovo giorno cambiava l’odore dell’aria, riuscì a vedere l’univoca corrispondenza tra Edward, l’uomo che aveva sognato, e Ed. L’uomo nel quale quell’anima si era reincarnata e che ogni giorno veniva sempre più allo scoperto. Le immagini dei due mondi finalmente si sovrapponevano, pur non fondendosi. Forse, si disse lasciando nell’aria un lungo sospiro, aveva solo paura di perderlo di nuovo, di poterlo riabbracciare e poi risvegliarsi miseramente in un mondo che non contemplava la sua esistenza. Forse aveva paura, di nuovo, di concedersi la felicità.
Prova tu ad essere Sara.
E lo era stata senza alcuno sforzo, senza doverci nemmeno pensare. Così come lui era stato Ed e Edward, come se l’uno non fosse altro che il riflesso diretto dell’altro.
Le venne da piangere comprendendo quanto fosse stata cieca, quanta confusione dovesse aver provato Ed dinanzi a quel nodo che voleva aiutarla a sciogliere.
Il primo raggio di sole la colpì e il cinguettio degli uccelli svegliava la città. Il cielo limpido e il tepore dell’aria promettevano una primavera di rinascita, buoni presagi e libero respiro, ma ormai aveva rovinato tutto.
Quando le saracinesche cominciarono a sbadigliare, si alzò e si diresse nella sua stanza prima che qualcuno la vedesse. Ora che la notte aveva curato i suoi dubbi, il giorno ne faceva risvegliare di nuovi, ai quali non sapeva come rispondere.
Si vergognava.
Il solo pensiero di rivederlo era una stilettata dritta al cuore, eppure si tramutò presto in un desiderio vicino all’inesaudibile.
 
 
 
 
  • È senza dubbio la soluzione migliore.
La voce di Webber risuonò di primo mattino sulle pareti della sua stanza, urtando ancora di più quella sensibilità che stava cercando di nascondere.
Avevano terminato le riprese senza di lei, autorizzati da Federica e Arianne che non avevano mollato le telecamere un solo istante, per vigilare sul film in sua vece. Lei era sparita. Nessuno aveva avuto sue notizie, nemmeno Stuart – mandato in avanscoperta – aveva ricavato un ragno dal buco: le sue amiche non avevano idea di dove fosse andata e non avevano insistito nel cercarla, ritenendo che ormai Sara fosse in grado di restare da sola e affrontare i suoi demoni. Se ne avesse avuto bisogno, sarebbe tornata – avevano detto. Non era andato a cercarla perché era sicuro che l’avrebbe trovata, ma aveva vegliato la spiaggia dal suo balcone fino a tarda notte.
 
  • Ed – Stuart lo stava interpellando, incapace di opporsi senza il sostegno della sua diretta volontà. – tu che ne pensi?
  • Mr Sheeran concorderà con me. – ormai gli occhi erano tutti su di lui. – Lei stesso ammetterà che la signorina De Amicis porterebbe la recitazione ad un livello molto più alto.
Non aveva fatto in tempo nemmeno a lavarsi i denti che gli stavano già chiedendo di fare delle scelte. Il suo pigiama a quadri rossi e neri distorceva la visione dello spazio e gli impediva di aprire del tutto gli occhi, ma il pensiero di recitare con Sara lo fece rinsavire.
 
  • Sta dicendo che vuole licenziare Sofia? – chiese, cercando di arrivare alle radici del problema.
  • Sto dicendo che Sofia Moretti non è in grado di interpretare questo ruolo – disse, cercando una complicità nei suoi occhi che non credeva di potergli concedere. – e che Sara De Amicis è in grado di elevare anche la sua recitazione, Mr Sheeran.
  • Ma la gente si accorgerà che non si tratta della stessa attrice. – Stuart aveva subodorato la sua inquietudine.
  • Non se giriamo da capo il film.
Quando capì che Webber fosse fin troppo serio nella sua proposta, provò a proiettare nella sua mente le conseguenze di un tale accordo. Riusciva perfettamente ad immaginarla muoversi sulla scena al posto di Sofia, poteva persino vedere le sue espressioni e i baci che sarebbero stati immortalati sulla pellicola. Gli vennero i brividi pensando a quanto sarebbe stato incredibile…e difficile. Come già era difficile in quel momento pensare di proseguire le riprese dopo gli ultimi due giorni. Il tonfo del suo cuore che precipitava nello stomaco al ricordo del suo viso risuonò nella stanza, inudito a causa degli interessi materiali delle parti in causa. Avrebbero potuto davvero farlo? Era pronto? E lei…
 
  • Lei ha accettato? – chiese cupo, cercando una risposta alle sue domande.
  • Lei non lo sa! – chiarì Stuart, guardandolo con eloquenza, le mani perse in un gesto di ovvietà.
  • Se le proponiamo la questione insieme, credo non avrà altra scelta. – osservò Webber con l’aria del regista visionario, pronto a tutto pur di produrre l’opera secondo i suoi desideri.
Contemplò la possibilità di dirsi d’accordo prima ancora che Sara venisse coinvolta e non riuscì a trarre delle conclusioni positive o incoraggianti. Sentiva in cuor suo che lei avrebbe rifiutato.
 
  • Non credo che accetterà. – commentò, lasciando trasparire una sicurezza che loro non potevano permettersi. – Glielo chieda pure, ma lei non accetterà.
  • Non penso che Sara sia preoccupata per la signorina Moretti. – quel barlume di confidenza, che voleva lasciar intendere che anche lui ormai la conoscesse a sufficienza, non bastò a convincerlo.
  • Non si tratta di questo. – rispose allora – E lei lo sa bene.
Stuart restò a fissarli nel silenzio in attesa che qualcosa accadesse, che Webber si rassegnasse al fatto che Ed avesse ragione. Quel ragazzo, ancora seduto sul suo letto, i capelli rossi distorti dai pensieri, aveva ragione più di tutti. Negli anni aveva capito che fosse più sensibile di quanto desse a vedere e in quel frangente si era lasciato coinvolgere più di quanto lui stesso si aspettasse.
 
  • Allora andrò direttamente a chiederglielo.
Webber si voltò e si fiondò fuori dalla stanza. Ci mise troppo a capire che stesse andando da lei, nel momento sbagliato e nel modo sbagliato. Lui e Stuart si guardarono e in un momento furono entrambi nel corridoio ad inseguire quel pazzo che stava per mandare all’aria tutto il lavoro fatto fino a quel giorno. Lo raggiunsero appena in tempo nell’ascensore, ma nel breve tragitto di un piano non riuscirono nemmeno a riguadagnare la sua attenzione. Webber uscì di fretta, ma doveva trovare il modo di fermarlo, non per il film, ma per lei: quella proposta l’avrebbe allontanata ancora di più, non l’avrebbe accolta come una sfida stimolante, piuttosto come una minaccia. Forse lui e Federica erano gli unici a capire la delicatezza che il momento aveva per Sara.
 
  • Chiama Federica! – disse a Stuart, il suo telefono era rimasto in camera. – Subito!
Armeggiò col cellulare e sentirono la suoneria della manager che squillava lì vicino.
Stuart la chiamò fino a vederla spuntare da dietro l’angolo, evidentemente diretta alla camera di Sara proprio come loro.
 
  • Che succede? – chiese, rendendosi conto che Ed fosse in pigiama e che Webber fosse inseguito da entrambi.
Si incontrarono fuori da quella porta, un luogo infausto che richiamava pensieri negativi. Non fece in tempo a parlare che Webber bussò alla porta. Federica lo guardò allarmata.
  • Si può sapere cosa succede, signor Webber? – era già spazientita.
  • Signorina De Amicis? – non la degnò di uno sguardo – Sono Webber!
  • Stuart, ti prego, spiegami. – disse, prima che accadesse l’irreparabile.
  • Il signor Webber vorrebbe che Sara prendesse il posto di Sofia nelle riprese e girare il film da capo, dalla prima scena!
Federica, nei suoi jeans, l’aria ancora da ragazzina, alzò un sopracciglio lasciando intendere che quella proposta fosse assurda.
 
  • Signor Webber – si rivolse a lui – non crede che avrebbe dovuto parlarne prima con me?
  • Signorina De Amicis! - quello bussò ancora.
Federica guardò Ed cercando che cogliesse le sue parole senza che ci fosse bisogno di pronunciarle.
 
  • Io non c’entro niente. – disse lui allora, lasciando trasparire la sua stessa preoccupazione.
Il baccano che stavano facendo nel corridoio fece sì che quella porta finalmente si aprisse, l’ultimo tocco delle nocche di Webber fluttuò nel vuoto e la figura di Sara, scalza e mezza svestita, fece capolino. La guardò, senza riuscire a dire una sola parola in più notando le occhiaie violacee che le contornavano lo sguardo. La grossa maglietta nera che indossava la copriva a sufficienza da considerarla vestita, eppure trovarsela davanti lo pietrificò.
 
  • Buongiorno, scusa se ti disturbiamo a quest’ora. – ma Webber non catturò la sua attenzione.
Prima Federica, con cui si scambiò un’occhiata d’intesa, poi Stuart e alla fine posò gli occhi su di lui, che forse non si aspettava di vedere altrettanto scalzo e in pigiama. Riuscì appena a nascondere la sorpresa e l’imbarazzo, ma non aveva evitato i suoi occhi.
 
  • Cosa succede? – chiese semplicemente, tornando a Webber.
  • Sara – intervenne Federica – se vuoi ripassiamo più tardi.
Cercò di cogliere il messaggio in quegli occhi scuri, ma non ci riuscì e Webber parlò prima che lei riuscisse a rispondere.
 
  • Ho urgente bisogno di parlarti! – si fiondò direttamente nella stanza senza attendere il permesso.
Lo lasciò passare e attese sull’uscio di capire cosa avrebbero fatto gli altri. Federica entrò per forza di cose, ma Stuart e Edward esitarono. La guardò, di nuovo quello sguardo triste che lo aveva incatenato il giorno che si erano incontrati. Era chiaro che avesse paura quanto lui, ma non richiuse la porta.
 
  • Entrate pure. – disse, un tono fin troppo pacato e dolce.
Stuart si fece subito strada verso la discussione, Ed entrò dopo di lui, fermandosi dinanzi a lei per comunicare in silenzio. Sara non resse a lungo i suoi occhi, distolse lo sguardo per dirigerlo sul pavimento dopo pochi secondi. Non riusciva a guardarlo con quel viso confuso e i capelli ancora spettinati, troppa intimità richiedeva quel contatto, ma Ed – forse ancora schiavo del torpore – la fissò con eloquenza, abbastanza vicino da sentire il suo profumo di shampoo e salsedine. Per un attimo aveva dimenticato il motivo per cui si trovasse lì, ma la voce di Webber non tardò a ricordarglielo, attirando l’attenzione di entrambi sul balconcino ventilato.
 
  • Le premesse ci sono tutte! – disse, indicandoli – Sono perfetti e produrremo un capolavoro!
  • Signor Webber, lei deve essere impazzito! – rispose Federica – La signora De Amicis non accetterà!
  • Cosa non dovrei accettare?
Disse, muovendo il primo passo verso di loro, seguita da Ed come un magnete. La sua presenza era paradossalmente rassicurante.
 
  • Lei prenderà il posto di Sofia Moretti. – sentenziò Webber, col sorriso sul volto.
  • Il posto…? – non colse immediatamente il senso di quella frase, ma la sua intuizione cominciò a formulare un’ipotesi assurda.
  • Certo! È evidente che questo film possa essere interpretato solo da lei e da Mr Sheeran.
Ed la vide voltarsi verso di lui, che intanto si portava una mano alla fronte, affranto da quella situazione. Le disse con lo sguardo che non aveva idea di cosa fare.
 
  • Sono venuta a sapere di questa iniziativa solo due minuti fa. – chiarì Federica, incrociando i suoi occhi confusi.
L’iniziale confusione che aveva tappezzato la stanza sembrò dissolversi, filtrata dalla sua mente, in pochi secondi. Elaborò le parole e lo sguardo entusiasta di Webber senza alcuna preoccupazione, il suo cuore ancora troppo affollato dalle macerie dei giorni precedenti.
Erano passati solo due giorni da quando si erano incontrati sulla spiaggia, ma sembrava un decennio dinanzi a quelle figure così materiali, concrete. Non avrebbe procurato altre grane.
 
  • Chi ha avuto questa idea? – conosceva già la risposta.
  • Io, naturalmente. L’interpretazione di ieri è stata folgorante! – quell’uomo dall’aria severa aveva un sorriso così radioso che le dispiaceva doverlo smorzare.
  • John, mi dispiace, non posso accettare. – disse, il volto sereno in contrasto con l’atmosfera – Non sono in grado.
Sentì quegli occhi correrle lungo la schiena. Avrebbe voluto voltarsi e assicurarsi che fosse davvero ancora lì, ma non era il momento del coraggio.
 
  • Sai bene che non ci sono paragoni tra te e Sofia Moretti. Insisto che accetti! – cercò di incoraggiarla, quasi forzando ulteriormente il sorriso.
  • Ti ringrazio per la fiducia, ma davvero non posso.
La sua sentenza sfumò nell’aria lasciando solo l’odore della sua scia. Rimase ferma dov’era, osservando di sottecchi la figura di Federica, evidentemente scocciata da quella situazione. Vedendola vestita e pettinata, si sentì a disagio nel suo magliettone nero, a piedi scalzi, poi la voce di Edward le ricordò di non essere l’unica in quella situazione.
 
  • Gliel’avevo detto. – disse soltanto, il tono di chi voleva rimarcare l’inadeguatezza di quella proposta.
  • John – fece tornare gli occhi del regista su di sé – sono sicura che andrà bene anche così.
Sorrise lievemente, sperando che non si fosse offeso, ma confidava che avrebbe capito ogni cosa una volta svanito l’entusiasmo del momento.
 
  • Credo sia il caso di andare a prepararsi. – Stuart si avviò alla porta, incoraggiando tutti loro a lasciarla sola. Lo ringraziò con lo sguardo.
  • Sono sicura che se avessi chiesto prima a Federica, non avresti dovuto perdere tempo con me.
Lo aveva detto ridendo, ma non poteva non sottolineare il fatto che non avesse minimamente coinvolto la sua manager. Si avviò alla porta, dando un bacio veloce a Federica che si sarebbe diretta alla sala della colazione, mentre lei avrebbe preso la strada del letto per riprendere le forze e ritemprare lo spirito, ma sapeva benissimo che lui non fosse ancora uscito. Se ne stava alle sue spalle in silenzio, lasciandola in bilico. Attese accanto alla porta aperta per qualche secondo, senza guardarlo, fin quando non fu lui a tendere la mano e a chiudere l’uscio.
Improvvisamente l’aria si fece pesante, almeno quella che fluiva nei suoi polmoni sembrò irrespirabile. Perché era rimasto?
Dovette trovare la forza di voltarsi, ma non fu sufficiente a poterlo guardare in quel momento.
 
  • Non so se ho la forza di perdonarti. – la voce tiepida, massacrata dall’agitazione che aveva riservato a quel momento.
Fissava i suoi pantaloni colorati senza sapere cosa dire, sapeva che poco più in alto ci fossero quelle spalle e quello sguardo ferito che non avrebbe retto. Restò in silenzio, senza riuscire a scusarsi né a rispondere in altro modo.
Si vergognava.
 
  • Guardami.
Si vergognava di essere la Sara che si aspettasse, ora che aveva deluso davvero le sue aspettative.
 
  • Guardami, ho detto.
Quella rabbia non la aiutava certo a farlo, strinse gli occhi al pugno che diede contro la porta.
Si vergognava e aveva paura.
 
  • Dio, mi farai impazzire! – i toni diventavano più duri ad ogni sillaba – Cosa devo fare per farti parlare?
Le parole non volevano uscirle dalla gola, pietrificata come una bambina all’interrogazione senza aver studiato una sola pagina.
 
  • Allora è così? – incalzò, sempre più esasperato – Sai parlarmi solo quando divento Edward sul set?
  • No! – esclamò, col poco fiato che aveva, ma con tutta la convinzione.
  • Allora che significava quella sceneggiata di ieri?
Le sensazioni di quei momenti in cui aveva aperto le porte a quella parte di sé che aveva sbattuto fuori e rinnegato, la convinsero a guardarlo. Le piegature profonde del suo sguardo la ferirono, forse per la rabbia o forse per la delusione che esprimevano.
 
  • N-non era una sceneggiata. – le tremavano le mani, dovette stringersi le dita per non farglielo notare.
Le accuse che pendevano su di lei sembrarono alleggerirsi.
 
  • No. – rispose, distendendo il viso per la prima volta – Non lo era.
Ed si avvicinò a lei e riuscì a scorgere quel tremito, provò ad allungare una mano per sfiorarla, per risanare quel filo così malridotto, ma lei distolse di nuovo lo sguardo. Proprio come Sara, pensò. Proprio come quella che non ammetteva di essere, ma che le trasudava da ogni centimetro di pelle. La mano che era rimasta sospesa, finì tra i suoi capelli rossi, spazzolando via quel briciolo di speranza che era rinata pochi minuti prima.
 
  • Almeno siamo d’accordo su questo.
Non serviva a niente insistere. Non serviva a niente chiederle qualcosa che non poteva dargli.
Aprì la porta, la sua mano seguita dai suoi occhi fino alla fine. Richiuse l’uscio e si avviò di nuovo alla sua stanza.
Le spalle più pesanti di quando vi era uscito.
L’animo più stropicciato di qualsiasi altro giorno.
Forse era giunto il momento di arrendersi.

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Capitolo 22
*** XXI ***


CAPITOLO XXI



 
 
Che ci crediate o no, era rimasta chiusa nella sua stanza a dormire fino a che la luna non sorse ancora e la notte calò nuovamente sulla città. Il riflesso argenteo sullo specchio del mare e la pace che le procurava in quel silenzio, le erano mancati in modo indicibile. Il pensiero che Ed fosse sopra la sua testa, dormiente tra le lenzuola bianche, intaccava quella serenità crepandola del nero delle sue paure. Eppure quel sole notturno era così godibile dopo le lunghe ore di sonno, che persino la tensione di quella mattina le sembrò sciocca e inutile. Sapeva di essere l’unico ostacolo alla loro riconciliazione, così come sapeva di esserne l’unica speranza. Avrebbe dovuto trovare il modo di affrontarsi e demolire quelle paure che agli occhi degli altri sembravano così infantili. Forse era il caso di chiamare Olga, ma non voleva ricadere nella dipendenza dal suo consiglio. Il rombo del mare agitato dallo scirocco vibrò sotto i suoi piedi, riportandola all’Hotel Victoria. Scalza, ancora quella maglietta addosso, gli occhi finalmente sgonfi e lo stomaco che brontolava. Se non fosse stato per la fame, sarebbe rimasta lì fino all’alba a godersi la salsedine curativa.
Rientrò di malavoglia, allontanandosi dall’unico punto del mondo in cui volesse trovarsi, per chiamare la reception e ordinare qualcosa da mangiare. Le luci giallastre della sua stanza la aiutarono a godersi la sua pizza seduta su una poltrona che aveva trascinato fino all’uscio del balcone, dove il vento non la investiva, ma il mare si vedeva in alta definizione. Quando ormai furono le 5:00, decise di infilare le sue cose in valigia e mettersi qualcosa di decente per trovare il coraggio di presentarsi di nuovo sul set. Il suo abbigliamento non era certo modaiolo, si era portata dietro quelle poche cose che le sembravano comode o che si addicevano al suo stato d’animo degli ultimi tempi: jeans, felpe, maglioncini sfilati e qualche t-shirt. Il vento caldo che sollevò la tenda di lino le ricordò che avrebbe cominciato a fare caldo entro un paio di settimane e lei non avrebbe avuto nulla da indossare. Forse poteva andare a comprare qualcosa con le sue amiche, un giorno. Magari anche un paio di scarpe nuove, un rossetto. Potevano fare una passeggiata e andare a visitare un museo.
Si voltò a guardare il suo riflesso nello specchio sullo scrittoio alla ricerca di qualcosa che la aiutasse a sentirsi nuova, libera. Qualcosa che segnasse l’inizio di una svolta. Che desse vita a una Sara De Amicis in grado di sostenere l’onere e l’onore di reincarnare le sue precedenti anime senza schiacciare la propria.
Indossò il suo jeans e le sue Vans nere, indossò il top e il maglioncino più decenti che aveva e alle 7:00, fresca di doccia e sensazioni, si diresse a passo sicuro verso la sala parrucchieri dell’albergo.
L’avevano usata come set per le riprese per poche ore il giorno prima, eppure le sembrò di rivederla dopo tanto tempo, per la prima volta. A volte si chiedeva come fosse possibile ricordare tanti luoghi che in realtà non aveva mai visto, tanti dettagli che non avevano mai sfiorato il suo sguardo, eppure…le toelette illuminate, le poltrone rosse, il profumo di quello shampoo così inebriante, li conosceva e li riconosceva.
 
  • Ci vuole decisamente la mia mano, cara!
Quasi sobbalzò, credendo di essere sola, ma era evidente che fosse rimasta imbambolata per troppo tempo. Si voltò verso quella voce per rispondere con autoironia, ma la figura di Giuseppe la pietrificò. Quelle stanze, quei luoghi, poteva averli visti su qualsiasi cartolina o pubblicità, ma il viso di quel ragazzo non poteva averlo incontrato da nessuna parte se non lì dentro.
 
  • Virginia, tesoro, prepara la maschera! – e si avvicinò a lei col suo portaspazzole nero che ballonzolava sulla vita sottile. – Credo che la signorina abbia bisogno di una buona coccola.
I suoi occhi castani e il suo accento erano inconfondibili.
 
  • Giuseppe… - le uscì dalle labbra senza che se ne accorgesse.
  • È un piacere ricevere la visita della scrittrice del momento! – sorrise quasi in modo eccessivo. – E che piacere che conosca il mio nome!
Capì che lui non la conoscesse davvero, quindi si impegnò a simulare una casuale cortesia.
 
  • Come posso aiutarti, cara?
  • Ecco, io… - sorrise distorcendo le labbra per l’impreparazione – vorrei fare qualcosa ai capelli.
La scortò fino al lavatoio e le mise due fette di cetriolo sugli occhi mentre le lavava i capelli.
 
  • Quindi sei qui col famoso Ed Sheeran! – cominciò a chiacchierare come se nulla fosse, mentre nella sua testa vorticavano i ricordi. – Com’è?
  • Beh, è una persona come tante. – provò, sperando che cambiasse discorso.
  • Suvvia, dovrà avere qualcosa di speciale se sei arrossita così tanto! – lo sentì ridacchiare. – Attenta alla maschera, cara!
Le allontanò le mani che aveva portato al viso per coprirsi.
 
  • È davvero un ragazzo comune, te lo assicuro. – insistette.
  • Non vuoi scucirti, eh? – esalò – Non mi aspettavo questa visita, come mai sei venuta proprio adesso?
Era ficcanaso esattamente come lo ricordava, lesse la curiosità nei suoi occhi dallo specchio della toeletta alla quale l’aveva fatta accomodare.
 
  • Ho di nuovo bisogno di te. – sospirò, travolta dalla nostalgia che verniciava quelle pareti.
  • Di nuovo? – chiese, alzando un sopracciglio. – Ci siamo già visti?
  • N-no! – ridacchiò, capendo di essersi data la zappa sui piedi – E’ solo c-che sembri uscito dal mio libro.
  • In effetti sembri avere la stessa cera che avevi in quella storia. – commentò, osservando le ciocche sciupate dei suoi capelli troppo cresciuti. – Ho letto Afire love, ma non pensavo che la scelta del mio nome fosse voluta!
Si sforzò dannatamente di sorridere come se nulla fosse, ma lui insisteva a non cambiare argomento. Si era cacciata nei guai da sola e non sapeva come uscirne. Si impegnò fin troppo ad asciugare quella maschera dal viso.
 
  • Chèri, sei sicura che vada tutto bene?
Quelle parole la trafissero nel punto più sottile del suo cuore, terrorizzandola al pensiero di essere finita di nuovo nei suoi sogni. Come allora, sentì montare la confusione e la tristezza fino al margine delle sue palpebre.
 
  • No. – sussurrò – No, Giuseppe. Non va tutto bene.
  • Dovresti sentirti fortunata, sei diventata famosa! – provò a sorriderle ancora, preparando gli strumenti del mestiere – Perché non provi a goderti il momento?
Per un attimo credette che la stesse prendendo in giro. Poteva aver letto quel capitolo la sera prima e ricordare ancora quelle battute, ma sembrava così tranquillo nel pronunciarle che non riuscì a dubitare della sua genuinità. Forse era solo il destino che le stava dando un’altra occasione per concedersi la felicità, attraverso le parole di quel ragazzo che era stato una cenerentola tutta la vita.
 
  • Perché sono la persona sbagliata. Non sono la Sara che si aspettava. – abbassò lo sguardo, contemplando quella bugia – Non voglio che tutto questo sia una farsa.
  • Hai provato a combattere per questo?
Si convinse, mentre tagliava di netto la prima ciocca, che quella non fosse una coincidenza. Doveva essere la sua vita che tentava di rinascere dalle sue ceneri, venendole in soccorso con dei residui di passato.
 
 
La volontà di Webber di girare di nuovo alcune scene del sesto giorno aveva tenuto tutti inchiodati a Sorrento, ritardando le riprese di un giorno intero e facendo slittare tutti i loro spostamenti di almeno 12 ore, voli e treni compresi. Un bel casino, considerato quanti soldi avessero investito, ma nessuno era riuscito a far tornare la ragione nella mente del regista, ancora impuntato sul volere Sara come protagonista del film. Dunque, la giornata che lei aveva passato lontano dal set, loro l’avevano trascorsa a ripetere quelle battute decine di volte finché il sole non calò e John si rassegnò a doversi accontentare di quei risultati. Forse era stato un bene che Sara non avesse assistito, la sua assenza lo aveva riportato in una condizione neutra sufficiente a non rimuginare sulla storia e a non sbattere la testa contro i suoi muri.
Quella mattina dovevano spostarsi a Paestum e nessuno di loro aveva idea di quando sarebbe arrivata, troppo stanchi persino per chiederglielo. Seduto al suo tavolino, nella sala colazione, scrutava Federica e Arianne stanche e silenziose che sorseggiavano il caffè. Il suo americano fumava già da diversi minuti, lasciato raffreddare solo per percepire meglio il trascorrere del tempo.
 
  • Tu non l’hai vista, vero?
Trasalì. Emanuele gli stava inaspettatamente rivolgendo una domanda e ancora più incredibile, una domanda su di lei.
 
  • Sembra che tu sia l’unico che possa averne un’idea.
Non era vero. Glielo fece intendere senza bisogno di parlare.
 
  • Se vuoi sapere se è stata con me, la risposta è no. – rispose allora – Non so dove sia.
Se ne andò senza aggiungere altro e sicuramente era meglio concludere quella conversazione così, ma sopraggiunsero Federica e Arianne che sembravano ubriache di caffeina e zuccheri.
 
  • Arriverà, vedrai. – cominciò l’emiliana – Aveva solo bisogno di stare da sola.
  • È un po’ lenta a riprendersi, ma poi torna. – aggiunse Federica.
  • Perché siete venute a dirmi queste cose? – chiese, senza nascondere lo sconforto conquistato l’ultima volta che si erano visti.
  • Perché non vogliamo che tu ti arrenda. – osservò con nonchalance Arianne – Non farti ingannare dalle sue resistenze.
  • È cotta di te. – concluse l’altra, socchiudendo gli occhi per prendere un altro sorso.
Sospirò, sforzandosi di credere a quelle parole e di cercare di comprendere quelle dinamiche che loro sembravano conoscere bene. In fondo, pensò, lui non era nessuno per giudicare quelle debolezze e quelle ferite che la rallentavano.
In ogni caso, prima o poi avrebbe dovuto farsi viva, sicuramente non poteva restare al Victoria oltre la permanenza stabilita.
 
  • Volete dell’altro caffè? – chiese, una confidenza che difficilmente concedeva in quelle circostanze.
Annuirono e si alzò per andare ad afferrare la caraffa piena al buffet. Versò il liquido nero e l’aroma gli invase la mente. I suoi tatuaggi spiccavano sullo sfondo bianco della tovaglia, mettendo in risalto quel piccolo spazio di pelle immacolata che attendeva solo la traccia permanente di quell’esperienza cinematografica. I suoi pensieri si sopirono per l’improvviso silenzio che permeò la stanza. Si voltò per osservare gli altri commensali per capire cosa avesse provocato quella tensione, ma quando incontrò gli occhi di qualcuno dei presenti si rese conto che fossero puntati tutti su di lui. Non fece in tempo a corrucciare il viso per quella stranezza che…
 
  • Buongiorno.
Non si era accorto. Quella ragazza di fianco a lui poteva essere una qualsiasi ospite dell’albergo. D’altronde quella chioma di capelli mossi e castani che di solito gli faceva da riferimento, non c’era più. Al suo posto, a circondare gli occhi azzurri che ora lo incontravano, una cornice spettinata e corta evidentemente tagliata di fresco. Qualche capello giaceva ancora sul suo collo, superstite.
 
  • Posso sedermi anche io al tuo tavolo?
La stava fissando nel silenzio che lentamente veniva sopraffatto dai sussurri della gente, osservando quei capelli così corti e quegli occhi che sembravano avvolti da una luce nuova. Erano privi di tristezza, forse per la prima volta.
Stava ancora attendendo il suo consenso.
 
  • Certo… - disse allora, osservandola precederlo con una tazza fumante e una fetta di torta tra le mani.
Gli sembrò di metterci troppo a seguirla. Una risata spezzò la sua angoscia.
 
  • Non posso crederci! – Federica non le staccava gli occhi di dosso – Tu sei pazza!
  • Dovevamo aspettarci di rivederla con qualche nuova bizzarria. – osservò Arianne.
  • Non vi piacciono?
Si accomodò dov’era prima, accanto a Stuart e di fronte a lei, passando le tazze di caffè alle ragazze ormai assorbite da quella novità. A quel punto era più curioso di approfondire il discorso che stavano intavolando poco prima, ma ormai avrebbe dovuto attendere e analizzare da solo quella sensazione pulita che fluiva alla sua vista.
 
  • Non è che l’hai fatto solo per evitare di recitare, vero? – rise Stuart, ormai a suo agio in quella compagnia. – Abbiamo tutte le parrucche che servono!
  • No! – era così allegra – Avevo bisogno di un cambiamento e così sono andata da Giuseppe prima di venire qui.
  • Giuseppe? – fece Federica – Vuoi dire che il parrucchiere dell’hotel si chiama davvero…
  • Giuseppe. – concluse per lei – Immagina la mia faccia!
Quella situazione sembrava quasi surreale, era l’unico a quel tavolo che non riusciva a rilassarsi e a ridere delle circostanze. Notò che lei lo guardasse di sottecchi e non evitò il contatto, ma non riusciva a nascondere lo spaesamento.
 
  • È ora di andare, i pullman sono all’entrata!
Quella voce provocò uno stridio di sedie che annullò le loro voci. La sala si svuotava e insieme alla troupe anche i suoi commensali si alzarono. Tutti, tranne loro due. Non ci furono occhiate o messaggi in codice, semplicemente quei tre si alzarono e si dileguarono senza dire una parola. Emanuele li guardò dall’uscio prima di essere richiamato dai colleghi.
 
  • Stai molto bene. – riuscì a dire, ma senza sorridere.
  • Grazie. – lei invece sembrò teneramente imbarazzata.
  • Cosa ti sei lasciata alle spalle insieme ai capelli?
Stava cogliendo la serietà della sua domanda, distendendo il viso. Si sentiva confuso, stretto nella sua camicia, dinanzi a quella donna che sprigionava vitalità. Quasi non la riconosceva.
 
  • Tutto ciò di cui non avevo bisogno, immagino. – rispose.
  • Anche la persona che volevo incontrare? – non se lo risparmiò. Non le avrebbe dato tregua per il taglio di capelli.
  • Lei ha deciso di restare.
Per un attimo credette di aver sentito male, ma quella luce rendeva chiara ogni parola. Si portò le mani intrecciate sotto al mento e cercò di parlarle con lo sguardo. Era difficile credere che avesse compreso davvero e così in fretta ciò che aveva cercato di dirle per giorni, eppure…
Non riuscì a trattenere oltre il sorriso davanti a quelle fossette che si facevano largo sulle sue guance. Forse le cose sarebbero andate nel verso giusto.
 
  • Stai davvero molto bene.
Avrebbe voluto alzarsi e stringerla anche solo per qualche secondo, ma un discreto colpo di nocche di Stuart alla porta gli ricordava che stessero aspettando solo loro.
Si alzarono. La raggiunse. Voleva così tanto baciarla.
Ma avrebbe aspettato.
Avrebbe atteso tutto il tempo necessario a conoscerla davvero.
 
Il pullman lasciò Sorrento alle 8:15 del 1 Maggio 2018.
Ed Sheeran cominciava a pensare che Sara De Amicis fosse una persona ancora tutta da scoprire.




Note dell'autrice:

Innanzitutto mi auguro che la storia continui ad avere un senso. Non potendo scrivere con assiduità, a volte ho l'impressione di perdermi qualche pezzo, anche se Faithboss mi ha già rincuorato sulla cosa. Fatemi sapere cosa ne pensate e se secondo voi la narrazione è sufficientemente coerente. :)

Vi lascio questa nota per dirvi che, nonostante l'impegno, le vicende della vita quotidiana e del lavoro stanno molto riducendo il mio tempo libero e la forza di sfruttarlo per portare a termine Guiding Light. Di fatto, questo è l'ultimo capitolo che ho pronto per la pubblicazione. Da adesso, non so quando riuscirò a concludere e pubblicare il prossimo capitolo, quindi vi chiedo di avere pazienza e attendere tempi migliori. Cercherò comunque di pubblicare nei weekend, qualora riuscissi a stendere un altro capitolo.

Per oggi vi lascio questo, nella speranza che sia rappresentativo di una rinascita per tutti.
Tenete duro e non perdete la speranza.
Tutto, ad un certo punto, andrà meglio.

Vi auguro tanta serenità.



S.

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Capitolo 23
*** XXII ***


CAPITOLO XXII
 




Lo scirocco diffondeva l’odore di resine e salsedine per tutta la pineta, quasi un incenso in quello che era stato un tempio, nell’altro mondo. Avevano cominciato a girare due ore dopo il loro arrivo, la preparazione di telecamere e luci, per non parlare di trucco e parrucco, era stata più complessa in un luogo così spartano, ma quella quiete e quello specchio di mare risparmiato dalle onde che gridavano a largo, gli dava una quiete inusuale. Aveva deciso di non affannarsi più a capire, ma di godersi quei giorni che sembravano riservare molte sorprese. Lui e Sofia, ormai abituati a condividere la scena, proseguivano quel ciack senza troppi problemi, ma la voce di Webber continuava a rimbombargli nella testa: dovrai essere più che convincente. Tutti sapevano che quel capitolo fosse il più atteso di tutto il film, ma questo non lo faceva sentire motivato. Se Sara fosse stata la coprotagonista – rifletté – forse non avrebbe dovuto affatto preoccuparsi della sua recitazione, ma a quanto pareva non era destino che toccasse ancora le sue labbra. Se ne stava sulla sua sedia, come al solito, accanto a Webber, a fissare le riprese senza battere ciglio.
Ad ora di pranzo avevano finito la prima parte. Lo aveva guardato per tutto il tempo, sentendo nelle viscere di voler essere al posto di Sofia che più tardi lo avrebbe accarezzato e baciato così come lei aveva raccontato. Avrebbe resistito solo per poterlo guardare di nuovo negli occhi ad ogni pausa e sentire quelle farfalle nello stomaco. Adesso sì, lo sentiva quel filo. Prepotentemente agganciato al proprio petto, apriva la strada verso il suo.
Era tutto così nuovo ai suoi sensi che si sentiva quasi elettrizzata, come se fosse il primo giorno di scuola, come se fosse il primo giorno che metteva piede sul set. Si aggirava per i tavoli di legno imbastiti di cibo e bevande per il pranzo e riuscì a scambiare qualche parola con quelle persone che fino a poco tempo fa quasi non esistevano per lei. Riusciva a ridere con le sue amiche, succhiano la cola dalla cannuccia come una bambina. Non si aspettava di vedere coperta la figura di Ed, così sorridente quella mattina, dalla presenza di Emanuele.
 
  • Certo che hai avuto coraggio. – le disse, in piedi con un piatto tra le mani.
  • Oh, ciao Ema. – Arianne non nascose la sorpresa.
Lo guardarono tutte e tre in attesa di capire come sarebbe evoluta quella situazione.
 
  • Dici a me? – gli chiese, indicandosi.
  • Sei l’unica donna con dei capelli così corti, o sbaglio? – quasi rise, ma non si lasciò andare del tutto.
  • Non mi dispiacciono. – commentò allora, chiedendosi quali fossero le sue reali intenzioni.
Per un momento piombò il silenzio tra loro, Arianne e Federica fecero per andarsene, ma le trattenne fisicamente.
 
  • Volevi dirmi qualcosa?
  • No. – disse lui – Solo che stai molto bene.
  • Grazie. – gli sorrise.
  • Magari… - vide i suoi occhi vagare nel dubbio – una volta possiamo fare due passi.
  • Certo.
Non lasciò nulla all’interpretazione, fu chiara e trasparente: aveva risposto come avrebbe fatto una sua qualsiasi amica. Non voleva procurargli altre preoccupazioni, piuttosto sarebbe stata contenta di chiarire ogni cosa nel modo più civile e amichevole possibile.
Quando la lasciarono sola, in missione a recuperare del caffè, seduta su una di quelle panchine, poté perdersi nella contemplazione di quel ragazzo. Così inspiegabilmente familiare, così incredibilmente reale. Sentiva chiaramente il desiderio di restare da sola con lui e parlare, parlare, parlare. Come si spiegava quella sensazione? Come si spiegava che, ogni volta che si guardavano da lontano, leggesse anche nei suoi occhi quella connessione?
Si alzò, ormai decisa a raggiungerlo, senza distaccare lo sguardo dal suo, ma al secondo passo il suo cammino fu interrotto. Qualcuno la tratteneva per un braccio.
 
  • Quasi non ti riconoscevo. – la voce di Sofia. – Alla fine ti sei ripresentata.
  • Non vedo perché non avrei dovuto.
Non avrebbe ceduto un solo istante. L’istinto di differenziarsi da lei era esponenzialmente aumentato dopo le ultime vicende. Purtroppo non le era più molto simpatica e non l’avrebbe nascosto.
 
  • Io non ne avrei avuto il coraggio. – ghignò. Era chiaramente venuta ad attaccar briga.
  • Certo, non ne dubitavo. – rispose allora, con sicurezza – Hai bisogno di me?
  • In effetti avrei bisogno di un favore. – ma il suo viso suggeriva solo ostilità. – Sta alla larga da Ed.
Dovette impegnarsi non poco per non battere ciglio e riuscì – pensò – a mantenere un’espressione neutra e impassibile, ma dentro di lei qualcosa esplose. Cosa diamine volesse quella ragazza da lei, non lo capiva. Notò che anche i suoi capelli si stessero allungando troppo per il film.
 
  • E tu me lo staresti chiedendo in qualità di… - disse, impaziente di sentirle dire la prossima bugia. Le maniche corte non nascosero i brividi che le correvano sulle braccia.
  • Beh, è da qualche mese che io e Ed…sai… - sorrise fingendosi imbarazzata, lasciando alla sua interpretazione il resto – Non voglio che tu lo infastidisca.
L’immagine di lui e Sofia chiusi in quella stanza non tardò a ripresentarsi ai suoi occhi. Le bottiglie vuote, il loro litigio. Il pensiero che stesse dicendo la verità la ferì. Fu tentata di voltarsi a guardarlo, ma trattenne gli occhi in quelli di Sofia, alla ricerca del trucco.
 
  • Cosa c’è? – disse ancora – Non dirmi che non lo sapevi! Ormai tutti se ne sono accorti, anche se siamo molto discreti.
  • C’è qualcosa che non va? – Federica aveva fatto ritorno.
Aveva intravisto la scena da lontano e aveva preceduto Arianne per controllare cosa accadesse, dato che intorno a loro la tensione era quasi palpabile.
 
  • Sai, - disse allora alla sua amica – Sofia è così discreta che è venuta ad informarmi di avere una relazione con Ed. – atona e indifferente.
Colta nel sacco grazie alla presenza di Federica, che era onnipresente e onnivedente sul set, Sofia si limitò ad un verso di disprezzo e si allontanò in silenzio, nel suo accappatoio.
Federica la guardò allontanarsi, pronta a negare quelle parole dinanzi a Sara, ma lei parve già altrove. La vide voltarsi a guardare Ed, probabilmente cercando di capire quanta verità fosse nascosta in quelle parole. Quando anche lui la guardò e lesse nel suo sguardo quella rabbia, fece per raggiungerla, ma Sara gli voltò le spalle e trascinò Federica con sé lontano dal buffet.
Sapeva che Sofia volesse solo provocarla, ma quel ricordo non riusciva ad abbandonare la sua mente. Si chiese perché mai non avesse un attimo di tregua.
 
Sembrava che la sedia su cui giaceva potesse sciogliersi da un momento all’altro al calore della sua rabbia. Mentre procedevano con le riprese dell’attesissima scena, ogni secondo pareva poter essere fatale per le loro vite. L’unica persona che sembrava concentrata era proprio Sofia, che stentava a trattenere il suo sguardo languido, cavalcandolo sulla sabbia. Ed invece doveva sforzarsi di rimanere lucido nonostante quegli occhi di fuoco puntati sulla schiena. Sentiva chiaramente che qualcosa fosse andato storto, ma non sapeva cosa. Intanto era costretto a continuare a recitare, altrimenti avrebbero tardato ulteriormente e provocato altri problemi. Il vento caldo di scirocco gli sfiorava la pelle mentre faceva correre le mani sul corpo di Sofia, sforzandosi di immaginarsi dall’altra parte.
 
  • Stop. – la voce di Webber più stanca del solito.
Sofia sospirò pesantemente, mostrando al regista tutto il suo spazientirsi, all’oscuro del fatto che a quell’ora poteva non esserci lei sul set.
 
  • Sofia – fu lui a parlare prima che intervenissero altri – forse devi andarci più piano.
  • Come se la gente volesse vedere tutto quel miele. – borbottò lei, in risposta.
Dovette alzarsi e guardare verso di loro per ricevere le indicazioni che sicuramente volevano dare a entrambi e la vide ancora seduta, Arianne che si avvicinava a parlare con Sofia. Ancora una volta, non incontrò il suo sguardo. Si passò una mano tra i capelli, confuso, ma percepì ancora quel sussulto che le sfuggiva ogni volta che faceva quel gesto. Stava per avvicinarsi, ma fu richiamato all’azione. Riprese a muoversi, giocando con Sofia sulla sabbia, fino a farla ricadere su di sé. Leggeva nei suoi occhi qualcosa che non poteva corrispondere. Il suo bacino però continuava ad insistere su di lui, provocandolo apertamente. Si sentì in imbarazzo.
 
  • STOP! – Webber stavolta era furioso. – Miss Moretti! What the hell are you doing!?
  • COSA?
Stavolta fu lui a prenderla di peso e spostarla da quel punto del suo corpo, aveva bisogno di una pausa. Si alzò senza badare a lei e si diresse verso le telecamere, ma vide Sara avanzare verso di lui. Finalmente, pensò, ma ancora lei non lo guardò. Era tentato di afferrarla e trascinarla via, la detestava quando faceva così, ma si fermò per capire cosa volesse fare. La vide accostarsi a Sofia.
 
  • Devi andarci piano! – le disse – Non devi strofinarti in quel modo!
  • Oh, abbiamo toccato un tasto dolente! – Sofia rispose con derisione.
Non gli sfuggì quel commento acido, ma era sicuro che lei non fosse al corrente di ciò che era successo in spiaggia, poteva al massimo averlo immaginato. Fece per avvicinarsi.
 
  • Non fare la stupida, stai girando un film! – fece Sara.
  • Sei solo gelosa.
  • Di cosa?
Il suo intervento lasciò entrambe spiazzate. Si intromise fisicamente tra loro per impedire che scattasse una rissa, ma ancora di più voleva capire cosa stesse succedendo. Qualcosa non lo convinceva e quella sensazione non svaniva dal suo stomaco.
 
  • Di te, ovvio. – ghignò Sofia – Credo che Sara si sia presa una cotta per te, ma-
  • E allora? – le rispose freddamente.
Sofia si pietrificò sotto i suoi occhi chiari, così impose la sua presenza senza esitare. Si sentì più alto di un metro, ponendosi davanti a Sara.
 
  • Lei è l’autrice, ti suggerisco di seguire i suoi consigli, altrimenti non ci sbrigheremo mai.
Sentì la sua presenza sulla pelle della schiena, infervorata come poche volte.
 
  • Vacci piano. – disse Sara, per poi tornare al suo posto.
La afferrò prima che andasse via, per poterla guardare negli occhi. Lesse chiaramente che qualcosa la turbasse, così come sentì infuocarsi il suo viso a quel contatto. Ma la lasciò andare. Non era quello il momento di discutere.
Al terzo ciack costrinse l’attrice a tenere a freno i suoi bollenti spiriti, al punto da doversi impegnare a respingerla fisicamente sperando non si notasse. Quando finalmente lei andò via e rimase solo fuori da quella casupola, gli diedero una pausa per montare il set all’interno e girare le scene individuali. Fu allora che finalmente indossò un accappatoio e riuscì a raggiungerla. Voleva solo sincerarsi che stesse bene, non voleva tornare a quei giorni di angoscia. Le prese la mano prima ancora che si voltasse, al diavolo la presenza degli altri. Sentì le sue dita stranamente fredde, ma le sorrise spontaneamente. Per un momento vide quella rabbia dissolversi nelle iridi chiare, i capelli corti la rendevano ancora più particolare. Si sentiva così bene, in quel momento e gli sembrò che persino lei potesse sentire il cuore palpitargli nel petto. Stavano ricominciando tutto da capo ed era contento che si trovassero proprio lì.
 
  • Non sei con la tua ragazza? – gli lasciò la mano.
  • Ragazza? – esitò, distratto da quel gesto, ma riuscì a capire. – No, ti sbagli.
Lei mise il broncio e distolse lo sguardo da lui, ma Ed seguì il suo viso, distorcendo il capo.
 
  • Non è la mia ragazza. – disse con una serenità tale da non essere frainteso. – Cosa te lo ha fatto credere?
  • Pronti a girare!
La voce di Webber lo richiamò con urgenza, ormai il tramonto era cominciato ed era l’ultima possibilità che avevano per concludere il settimo giorno. Dovette voltarsi e lasciarla con un ultimo sguardo.
Sofia trepidava sulla scena, ma lui avrebbe volentieri fatto a meno di affiancarla dopo quella breve conversazione. Avrebbe voluto almeno che Sara non guardasse.
Gridarono azione prima che realizzasse di essere di nuovo sul set. Quando aprì quella porta e non vide i suoi occhi gli venne quasi il voltastomaco, sapendo che quelli invece lo osservassero alle sue spalle. Non era per niente concentrato, non sapeva nemmeno se stesse procedendo nel modo giusto, ma pregò che terminassero presto. Al di là dell’imbarazzo di trovarsi in quella situazione, sapeva che lei non sarebbe rimasta impassibile a quell’immagine. Quando alla fine unì le sue labbra a quelle di Sofia e lasciò che lei liberasse la sua libido poco celata, sapeva che lei non fosse più lì. Lo sentì. La foga della donna che stava baciando, anche se freddamente, pungeva sul suo cuore come uno spillo su un palloncino. Per un solo istante ripensò a quel momento estatico che li aveva uniti, quella sera. Lasciò che quelle sensazioni lo guidassero. Pregò che Webber non li interrompesse. L’urgenza di mettere fine a quella scena e raggiungerla ormai traboccava.
 
***
 
  • Va’.
Stuart sapeva leggergli nella mente come nessun altro al mondo.
 
  • Al resto penso io.
Indossò la prima maglietta che trovò e si avviò verso il suo alloggio, convinto di poterla trovare a scrivere o a fotografare l’ambiente. Quelle infradito non erano il massimo per camminare nella pineta, gli aghi gli pungevano le dita ad ogni passo, ma se ne dimenticò presto, troppo occupato a cercare la sua casetta tra i pini profumati d’estate. Ancora, la sensazione di aver sbagliato mondo lo colse alla sprovvista. Talvolta riusciva a capirla più di quanto credesse. Riconobbe le sue scarpe lasciate all’esterno e quando bussò alla sua porta trattenne il fiato. Non ricevette risposta. Provò ad aprirla, ma era chiusa a chiave.
Bastò un secondo per capire dove andare, ma avrebbe dovuto fare il giro lungo per evitare di incontrare chiunque. Si destreggiò tra le case e gli alberi fino ad arrivare alla spiaggia. Vi avanzò volgendo lo sguardo su tutto il litorale alla ricerca della sua figura. Una sagoma in lontananza, ormai quasi del tutto oscurata dall’arrivo della sera, attirò la sua attenzione e si incamminò a passo svelto, ma dopo pochi metri si rese conto che non fosse sola. Anzi, erano due le persone con lei. Immaginò che fossero le sue amiche, ma quando fu abbastanza vicino si rese conto che Emanuele fosse seduto accanto a lei e che Sofia, ancora in accappatoio, stesse parlando con loro. Prima di fare la sua comparsa, approfittò della prima oscurità per defilarsi di nuovo tra i pini e capire cosa stesse accadendo. La presenza di Sofia, più che quella di Emanuele, non gli faceva pensare a niente di buono.
 
  • Si può sapere cosa sei venuta a fare? – Sara stava mantenendo la calma.
  • Volevo solo dirti che la scena è andata benissimo, ho notato che te la sei persa.
Emanuele guardava Sara per capire cosa stesse accadendo, ma Ed cominciava a collegare tutti i fili di quel groviglio provocato da Sofia. Quel che non capiva era perché Emanuele fosse di nuovo accanto a lei, così…vicino.
 
  • Ne sono felice. – le rispose – Altro? – prese un sorso dalla bottiglia di birra che non riusciva a scorgere del tutto.
  • No. – ghignava, lo capiva persino senza cogliere del tutto le sue espressioni da quella distanza. – Siete davvero molto carini voi due. Vi lascio soli.
Se ne andò prima che potessero risponderle, così li vide restare in silenzio. Quasi gli mancava il respiro pensando che in effetti li stesse spiando. Si sentiva uno sciocco, l’ansia che aveva nel petto era del tutto inutile: poteva sbucare fuori in qualsiasi momento, senza che scoprissero di essere stati osservati di nascosto. Eppure, attese. Attese di sentire e vedere cosa sarebbe accaduto, nonostante non fosse giusto.
 
  • Ema. – gli venne un colpo ascoltando la sua voce pronunciare quel nome – Scusami per tutto. Davvero.
  • Non fa niente. – il suo braccio le cinse le spalle, sotto i capelli corti – La vita riserva sempre brutti scherzi, ma io…
  • No. – il sollievo nel vedere quella mano fermarlo – Non posso. Scusa.
Lui sembrò esitare, come sul punto di provare di nuovo ad avvicinarsi alle sue labbra.
 
  • È per lui? – chiese soltanto. Un guizzo di piacere lo fece vergognare.
  • È per te. Ti voglio davvero bene e forse, in un’altra situazione, non ti avrei rifiutato, ma adesso non voglio illuderti. – un lungo momento di silenzio.
  • Posso…baciarti un’ultima volta?
Sapeva di non doversi trovare lì. Sapeva di non doverla spiare. Sapeva di non dover sapere e sapeva che lei non gli dovesse alcuna attenzione, in quel senso. Tuttavia, il suo corpo gli impose la volontà del suo cuore prima ancora che se ne rendesse conto. Uscì dalla pineta e fece i primi passi sulla sabbia sottile con una fretta insensata ed espirò per il sollievo quando si accorse che entrambi lo avevano notato. Aveva ottenuto quello che voleva: li aveva fermati. Anche se non avrebbe mai saputo come sarebbe andata in sua assenza.
 
  • Ed. – non tardò a riconoscerlo più di un secondo.
  • Hey. – nemmeno l’ostilità del suo tono era coscientemente voluta.
  • Cosa ci fai qui?
Si avvicinò ancora, guardando soltanto lei.
 
  • Se cerchi Sofia, è appena andata via. – lo fissava dal basso, mentre il braccio di Emanuele la lasciava lentamente, per qualche motivo.
  • Cercavo te. – ritirò le mani nelle tasche del costume.
Era ovvio che volesse restare solo con lei, ma solo quando Sara guardò Emanuele autorizzandolo ad andare, poté sedersi anche lui sulla sabbia. Ovviamente lui non si risparmiò di guardarlo in modo truce e riservargli una spallata. Quando se lo lasciarono alle spalle, inaspettatamente Sara gli offrì la bottiglia e non la rifiutò.
 
  • Sei andata via. – cominciò, prendendo un sorso.
  • Avresti preferito che guardassi? – il suo tono era decisamente ambiguo.
  • No. – la guardò.
  • Perché mi cercavi? – posò la testa sulle ginocchia piegate al petto.
  • Volevo accertarmi che stessi bene. Oggi mi sembravi un po’… - fece spallucce – arrabbiata.
La ascoltò sospirare, mentre rialzava il capo.
 
  • Guarda che Sofia non è la mia ragazza. – chiarì, sapendo a cosa stesse pensando.
  • Ma lei-
  • Non darle ascolto. – continuò, cercando di ammorbidire lo sguardo e la voce. Non riusciva più a tenerle il muso e si passò una mano tra i capelli – Ti sta solo provocando.
  • In fondo lo sapevo, ma non potevo restare sul set. – disse, rilassata come mai prima di allora.
Sara lo guardò e riconobbe la sincerità dei suoi occhi. Era ancora così leggibile che non dovette aggiungere una parola di più. I suoi capelli ancora spettinati la intenerirono.
 
  • Perché? – le chiese di proposito. Aveva voglia di ascoltare quella risposta, forse perché non aveva il coraggio di chiederle di Emanuele.
  • Avanti, lo sai perché. – il broncio di una bambina.
Sorrise sotto i baffi e si avvicinò un po’ di più.
 
  • No, non lo so. – ormai sorrideva. Si sentiva così bene mentre anche lei arrossiva.
  • Non avrei sopportato di vederti…con lei.
  • E io non sopporto di vederti con lui. – vomitò fuori quella frase, liberandosi.
  • Dovremmo sapere entrambi che la gelosia non porta mai nulla di buono. – disse, contemplando quella loro conversazione.
  • Voi due… - ma non riuscì a continuare.
  • Te l’ho già detto. In questo momento Emanuele non è la persona per me.
Voleva tornare a fidarsi di lei con tutto se stesso, ma il morso della gelosia aveva ben conficcato le zanne nel suo cuore. Si sforzò di ripensare alle parole che gli aveva detto poco prima. I loro sorrisi erano svaniti, ma stavano finalmente incontrandosi.
 
  • Che ne dici di andare a cena? – disse lei, ritrovando la serenità.
Si alzò, sistemandosi i capelli corti con le mani e attese che anche lui si alzasse.
Ed puntò i piedi nella sabbia e si innalzò accanto a lei, quei pochi centimetri di differenza attivavano quell’attrazione così incontrollabile. Entrambi rimasero fermi, senza osare avvicinarsi troppo, anche se nessuno dei due voleva veramente trattenersi, a quel punto.
Avrebbero potuto approfittare dell’oscurità e rientrare solo quando tutti si sarebbero ritirati, ma Sara, inaspettatamente, lo prese sotto braccio e cominciò a camminare verso le luci in lontananza. Uno spicchio di luna sorgeva dalle montagne, il mare continuava ad ululare a largo.
Ed, per quanto ammaliato, fu felice di quel gesto.
Proseguì sulla sabbia con lei e cominciò a farle delle domande, alcune di quelle che avrebbe voluto porgerle già prima di incontrarla.
Dietro di loro, solo le impronte di un passato che svaniva all’ombra del vento.

 

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Capitolo 24
*** XXIII ***


CAPITOLO XXIII



 
 
Per tutta la sera non avevano fatto altro che osservarsi da lontano, mentre cenavano insieme al resto della troupe. Webber l’aveva agganciata non appena era rientrata dalla spiaggia, da un sentiero diverso da quello di Ed, per non destare sospetti. Solo Emanuele e le sue amiche sapevano dove fosse stata, persino Sofia non li aveva visti, quindi erano al sicuro. Se la notizia di una loro ‘relazione’ fosse trapelata, sarebbe stato davvero un problema. Non che fosse una bugia madornale o fosse controproducente per il film – anzi, il contrario – ma avrebbe significato avere a che fare con i giornalisti. E non era una buona cosa. Lo sapevano entrambi. La cena era trascorsa tra i discorsi di John, che tentava ancora di convincerla a recitare, e il loro cercarsi tra la gente. Ogni volta che i loro occhi si incontravano, qualcosa nello stomaco di Sara si aggrovigliava e qualcosa nel petto di Ed si accendeva. Si erano persino imbambolati a guardarsi, davanti a tutti. Sara aveva dovuto smettere di mordersi il labbro ad una gomitata di Arianne.
Tuttavia, la notte trascorse serenamente, erano tutti troppo stanchi. Quella mattina fecero ritorno a Torre del Greco.
 
  • John, potevamo girare questa scena ben prima di oggi, quando abbiamo registrato i primi giorni in città. – Sara non aveva pensato di doversi trovare di nuovo a contemplare la sua fotocopia che spogliava Ed in quella camera d’albergo - Non capisco perché tu abbia voluto rimandarla, potremmo già essere in aeroporto a quest’ora.
  • Non potevo infangare una scena tanto satura con la loro inesperienza iniziale. – spiegò – Adesso sono un po’ più abituati alla telecamera, quindi è giusto che venga girata oggi!
Davvero non trovava il senso di quella scelta, in fondo i primi sette giorni erano tutti egualmente importanti, almeno per lei. Se ripensava a quei sogni, non riusciva ancora a trattenere i brividi.
 
  • E poi – tornò con gli occhi su di lui, precipitando nel presente – non ti sembrerà importante, ma girare secondo il ritmo reale della sceneggiatura aiuta gli attori ad immedesimarsi meglio nel personaggio, soprattutto quando si tratta di principianti.
Sapendo quanto John ci tenesse al film e a lei, come persona, non riuscì a controbattere. Stava solo facendo il suo lavoro e stava mostrando di capire realmente il peso che quei momenti avevano avuto per lei. Quella volta, però, non poteva scappare. Nessuna spiaggia l’avrebbe accolta. Avrebbe dovuto assistere alla scena e la faccia da schiaffi di Sofia non fece altro che convincerla a restare. Una ripicca davvero di basso livello, ma forse era il momento anche per lei di imparare a sopportare.
 
  • Ci siamo. – Federica si accostò a lei – Sei sicura di voler restare?
La abbracciò, grata per quell’amore incondizionato. Le diede un bacio sulla fronte e annuì. Si sentì ancora una volta una stupida. Si stava facendo tutti quei problemi da ragazzina per una scena di recitazione. Incontrò gli occhi di Ed, che la fissavano nel corridoio subito fuori dalla stanza, infuocati. Deglutì, senza mollare il contatto.
Lo vide mimare qualche parola con le labbra, ma non riuscì a capirlo. Aggrottò lo sguardo per chiedergli di ripetere, ma lui si limitò a sorriderle e a seguire John che lo chiamava.
Gli avrebbe chiesto cosa avesse detto alla prima occasione, perché il suo viso luminoso le suggeriva che fosse qualcosa di davvero bello. Magari importante.
 
  • Action!
Smise di respirare. Ed e Sofia si muovevano con naturalezza, entrando nella stanza seguiti dai cameramen. Lei, Webber e gli sceneggiatori si intrufolarono in religioso silenzio. Il profumo di Ed riempiva tutta la stanza, chissà se gli altri se ne accorgevano. Lo guardava posare le mani sui fianchi di Sofia, il suo naso correva sul collo e le spalle. Le venne da vomitare quando lei si voltò e lo baciò con quella prepotenza che non le apparteneva. Strinse i pugni, cercando di fermare il fremito che l’aveva presa. Cominciò a tormentare le ciocche più lunghe dei capelli con le dita, ma non riuscì a scaricare la tensione che esplose dentro di lei quando finirono sul materasso.
Le spalle di Edward.
Si morse la lingua quando lo pensò. Le parve di assistere al suo peggiore incubo.
Non si era accorta di non respirare da quando avevano cominciato e non riusciva a far entrare l’aria nei polmoni. Espirò tutto ciò che aveva trattenuto non appena si riaccesero le luci, ché per fortuna non avevano inserito l’intera sequenza, rimasta privata nella sua memoria. Le parve di ridestarsi da uno stato di trans sentendo il brusio dei tecnici intorno a lei, ma non riusciva a scollare gli occhi da Ed, che adesso si sfilava dalle lenzuola e si dirigeva verso di lei. L’allarme che doveva aver dipinto in viso doveva essere fin troppo evidente, perché era riflesso anche sul suo. Che sciocca che era. Farsi prendere in quel modo per una recita.
 
  • Respira.
Le prese le mani e se le portò vicino al petto nudo, fissandola negli occhi. Respirò con la volontà, forzando i polmoni. Si sentiva il viso in fiamme, i capelli corti dritti in testa, gli shorts opprimenti in vita. Federica li osservava da lontano, senza intromettersi.
 
  • Good. – le disse, ancora serio – Stai bene? Forse era meglio se…
  • Sto bene! – annuiva troppo – Davvero!
I capelli rossi la tranquillizzarono, ma le sue spalle erano in quel senso controproducenti. 
 
  • Coraggio, sloggiamo!
Quella voce li richiamò entrambi, facendoli voltare verso la troupe che smontava il set in fretta e furia, così anche lui dovette congedarsi. La guardò col volto più sereno e le diede un bacio veloce e impercettibile sulla mano destra, prima di lasciarla.
Non appena le voltò le spalle, Federica andò a recuperarla per trascinarla con la forza fino al pullman. Doveva essersi definitivamente rammollita.
 
In effetti, se lei fosse stata al suo posto e l’avesse vista fingere di fare sesso con un altro, neanche lui sarebbe rimasto indifferente. Era riuscito per un momento a mettersi nei suoi panni e non era stato piacevole, quando poi l’aveva vista paonazza in quell’angolo si era preoccupato che stesse per avere una crisi. Adesso che erano in aeroporto, le luci e le telecamere rimontate in tempo zero, dovevano affrontare un altro capitolo difficile.
Guardava Sofia cinguettare in giro per il set, mentre lui e Sara rimanevano in religioso silenzio insieme al regista, consapevoli del momento di dolore che stavano per immortalare. Quando aveva letto quel capitolo per la prima vola, aveva immaginato quella bellissima luce diffondersi nell’ambiente e sperò che sarebbe apparsa anche sulla pellicola, perché quel sole rosso acceso significava più di quanto gli altri potessero immaginare. Se lo sentiva ancora bruciare dentro, mentre si guardavano.
Gli indicarono i 60 secondi all’azione e chiuse gli occhi, tentando di ricostruire l’immagine di Sara dinanzi a sé. Sentì che le lacrime non avrebbero faticato a salirgli agli occhi, se avesse mantenuto quel ricordo così intenso ben presente nel cuore.
Quando aprì gli occhi, infatti, riuscì quasi ad illudersi che Sara fosse dinanzi a lui. 
Ignorò volontariamente l’espressione troppo poco turbata di Sofia, restando concentrato sulla presenza di Sara sul set.
 
“La sentì scoppiare in lacrime e dovette forzarsi a non lasciarsi andare anche lui. Singhiozzava tra le sue braccia, mentre cercava di controllare il tremore e riusciva a pensare soltanto che no, non era giusto, non poteva lasciarla lì. Non avrebbe più potuto fare niente, per lei.
Strinse gli occhi e pregò che il suo petto non scoppiasse. Le carezzava i capelli, per consolarla o forse per consolare se stesso. Non seppe quanto tempo rimasero così, ma dovette arrivare il momento di distaccarsi. Il suo cuore si era spezzato.
Sara lo guardò con gli occhi e il naso rossi, tenendogli le mani.”
  • Ciao. – sentiva gli occhi diventare lucidi, pensando a come si stesse sentendo Sara, in quel momento.
  • Ciao.
Posò le mani sul viso di Sofia, ricordando la pelle di Sara umida e salata che aveva assaggiato l’ultima volta. Baciò quella ragazza e non sentì il sapore delle labbra giuste. Avrebbe preferito – pensò – girare l’intero film dall’inizio.
 
"Si baciarono per la vera ultima volta, cercando di trattenersi con le mani.
Il sole filtrava dalle pareti di vetro, battendo direttamente su di loro e quando Sara si distaccò da lui, con gli occhi appannati dalle lacrime, vide i suoi capelli rossi accendersi alla luce.
Ed riprese i bagagli e lasciò la sua mano definitivamente, costretto ad allontanarsi da lei con un nodo alla gola. La sua pelle scivolò via dai suoi polpastrelli.
Mentre camminava sotto il fascio di luce, continuava a salutarla con la mano, finché non voltò l’angolo e sparì, mandandole un bacio. Sara abbassò la mano sventolante e se la pose sulle labbra tremanti."
 
La vista di quel bacio, di quegli occhi lucidi, di quell’espressione così contrita, fecero sentire Sara – ancora una volta – come ad un funerale. Guardava le labbra incurvate di Ed e si sentì esattamente come quando lo aveva sognato, come se lo stesse perdendo di nuovo. L’anima di Edward traboccava da quella figura in modo così evidente che si chiese come avesse fatto a non intravederla prima. Asciugò la lacrima che aveva versato prima che qualcuno la vedesse, ma avrebbe voluto correre da lui e dirgli di non andare. Di non lasciarla. Gli occhi luminosi di Ed la imploravano di nuovo di non dimenticarlo.
Non appena sparì dietro l’angolo, il suo cuore precipitò e smise di palpitare. Arianne e Federica le stringevano le mani, ma la luce che filtrava dalle finestre, generata artificialmente, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Le era rimasto negli occhi il riflesso di quei capelli.

 
“Di quel giorno le sarebbe rimasto un colore, quello dei capelli di Ed illuminati. Probabilmente, perché ad esso associava quel suo enorme, vasto, infinito sentimento.
Come un sole rosso acceso.”
  • Stop.
La voce di Webber le sembrò quella di un angelo. Ancora qualche secondo e non sarebbe riuscita a trattenere le lacrime. La presa delle sue amiche allentò e lentamente la lasciarono per organizzare il prossimo spostamento. Lei rimase sulla sedia, tremante, sperando di passare inosservata grazie alla fretta di ripartire, poi Ed tornò allo scoperto e cercò immediatamente i suoi occhi. Quella volta non si avvicinò. Rimase in piedi sotto quella luce che lo faceva brillare come un fantasma, tutti i suoi dettagli messi in risalto: le spalle morbide, le lentiggini chiare, i lineamenti dolci, la tristezza nello sguardo.
Per un momento i loro spiriti precipitarono in un passato che non avevano mai realmente condiviso, eppure quelle sensazioni erano così reali da destabilizzarli.
Ed mosse un passo verso di lei, quasi convinto di volersene fregare dei giornalisti e della troupe, ma l’ingombrante presenza di Sofia lo tenne ancora lontano da Sara.
Si chiese se avesse capito cosa aveva cercato di dirle quella mattina e in fondo sperò di no. Che forse quelle parole avrebbe voluto fargliele sentire con ogni vibrazione della sua voce.

 
***


Era stato strano atterrare a Lamezia Terme invece che salutare quella cittadina da un treno o dalla sua auto, quasi non fosse vero che stessero raggiungendo Capo Vaticano. Mentre scendevano le scalette, assonnati, pregustava la sensazione di quiete che la vista di quel posto le avrebbe dato. Forse raggiungere il suo campeggio era la cura più veloce per la sua anima, la prima cosa a cui avrebbero dovuto pensare quando si era svegliata dal coma. Beh, ormai.
Le strade tortuose della costa verso Zambrone e poi Tropea cullavano già la sua mente, il senso di pace era già masticabile ad ogni chilometro, ad ogni tamerice che profumava l’aria marina e alla fine, eccolo lì. Il promontorio guardiano della sua infanzia e delle sue estati più belle, della sua libertà e della sua obliqua appartenenza, sbucava dall’ultimo stretto tornante in discesa verso il campeggio. Pianse. Stava tornando al suo posto sulla terra.
La montagna piegava la sua imponenza gradualmente verso il mare, lasciando orme di scogli intorno al punto in cui terra ed acqua si incontravano. Il faro sorvegliava la scogliera sottomarina da sempre, la macchia mediterranea profumava di campagna e salsedine in un connubio che avrebbe inebriato persino il padre eterno. Dall’alto, la trasparenza del mare e i viali vuoti di vacanzieri e roulotte stonavano particolarmente rispetto ai suoi ricordi di compagnie immense e senso di comunità. Quando finalmente il viottolo addossato alla parete montuosa ebbe fine, fecero il loro ingresso al Villaggio Camping La Scogliera.
  • “Questa è la scogliera che cercate” – Arianne lesse ad alta voce quella scritta all’ingresso, mentre oltrepassavano il cancello elettrico rosso.
Si fermarono accanto al vecchio ulivo che aveva visto lei e i suoi amici crescere. Scese dall’auto per farsi riconoscere e non tardarono ad accoglierla come si aspettava.
Ed la osservava conversare con due persone, una donna insieme ad un uomo di colore che le sorridevano e le stringevano la mano con confidenza. Federica la seguì poco dopo, anche lei con quell’aria felice che non comprendeva. Rimase in auto, nonostante volesse sgranchirsi le gambe, osservando l’ambiente. I primi appartamenti tinteggiati di bianco si ergevano intorno a lui, diramandosi tra alberi di fico, viti, buganvillae e banani. Un campetto da calcio, decisamente trascurato, dormiva inutilizzato alla sua destra e i bagni comuni si presentavano alla sua sinistra. Non il massimo, pensò, per chi visita il posto per la prima volta. Quando l’auto si mosse, si accorse che il guardiano avesse aperto la sbarra automatica e si stessero addentrando nel campeggio. Centinaia di roulotte coperte e in attesa dell’estate si stendevano a perdita d’occhio, addossate alla montagna per l’inverno e dopo di loro, un vasto spazio ombreggiato da teli rudimentali lasciava intravedere la fine dei terreni, fino alla roccia granitica. Si fermarono fuori alla reception, una casetta in cemento e tettoia di legno davvero poco moderna, le trecce di cipolla e peperoncino appese alle travi, il profumo di paglia e un cane che dormiva accanto ad una scrivania lasciata fuori. Scesero, richiamati da Federica.
  • Biagio! – la sentì dire, non appena scese dall’abitacolo.
La guardò avanzare in shorts e maglietta a maniche corte verso un anziano che se ne stava seduto al sole, poco distante da lui. Un uomo piccolo e rugoso, un cappello all’italiana in testa.
  • È il proprietario del posto. – spiegò loro Federica.
  • Si conoscono così bene? – chiese allora.
Ebbe in risposta solo un sorriso carico di tenerezza. La guardò abbracciare il vecchio con affetto e accarezzare il cane con sicurezza, accovacciata sul cemento. Sembrava così felice.
Gli fecero fare un giro del posto, passando per l’estremo nord, sul quale si affacciava un parcheggio stracarico di roulotte chiuse, fino all’estremo sud, che dava su un vero paradiso tropicale. La spiaggia di granito bianco rendeva l’acqua così chiara e traslucente da abbagliare tutti col suo azzurro. Lo scroscio del mare in quel silenzio sembrava un sogno. I terrazzamenti erbosi che si sarebbero popolati in estate, affacciavano direttamente sulla spiaggia alla quale si accedeva scendendo pochi gradini di legno. Al centro del villaggio, accanto alla reception, c’era una terrazza in cemento, probabilmente illegale, ma che offriva uno spettacolo senza pari: la vista del profilo del capo a sinistra, immerso nelle acque cristalline, e lo spettacolo di Stromboli proprio davanti a loro. Un pennacchio di fumo si ergeva dalla bocca del vulcano, mostrandogli uno spettacolo che non aveva mai ammirato prima.
Persero la mattinata stringendo mani e sistemando bagagli, finché non fu finalmente l‘ora di pranzare. Li fecero accomodare ad un lungo tavolo ombreggiato dalla tettoia del bar e gli servirono l’impossibile. Assaggiò cipolle, peperoncini, ‘nduja, insaccati e portate di ogni tipo, osservando Sara che sembrava così a suo agio da perdere ogni velo di incertezza o inquietudine. Sedeva e conversava con Federica e quelle due persone che scoprì essere la nipote del capo e suo marito. Alla fine del pasto, sorseggiando quel caffè ristretto, si concesse di alzarsi dal tavolo e accendersi una sigaretta accanto a lei, intromettendosi in una conversazione che sicuramente non comprendeva.
  • Complimenti, è un posto meraviglioso. – disse – Vivete in un vero paradiso.
  • Ed, questi sono Alice e Gaston, gestiscono loro la struttura per Biagio. – rispose lei, con una serenità insolita.
  • È un piacere ospitare Sara per il film, ci conosciamo da così tanto tempo!
La luce che brillava negli occhi di Sara, appoggiata alla balaustra di legno, sembrava riflettere l’azzurro del Mediterraneo cristallino alle sue spalle.
Si era fermato a conversare con loro per un’oretta. Non si aspettava di trovarselo vicino e invece non aveva esitato a raggiungerla. Da quando aveva messo piede lì dentro sentiva di essere tornata allo status quo, serena e tranquilla come non si sentiva da un anno.
  • Io devo andare, - gli disse, quando furono soli sull’affaccio – devo sistemare casa con Federica e Arianne.
  • Dove vi hanno sistemate? – le aveva chiesto.
  • Oh, useremo la mia roulotte.
Gliel’aveva indicata col dito, posizionata nella sua piazzola preferita, in prima fila davanti al mare, spalle al capo per evitare il sole battente. Lui l’aveva guardata con disappunto, probabilmente chiedendosi perché alloggiare in una roulotte.
  • Non riuscirei a stare in un appartamento, qui. – spiegò al suo sguardo dubbioso – Ho bisogno di svegliarmi e vedere il mare. Ti piacerebbe.
Aveva afferrato la sua borsa, gli aveva sorriso raggiante e lo aveva mollato lì, troppo impaziente di mettersi al lavoro, ma pochi minuti dopo se lo ritrovò davanti, curioso di osservarle lavorare. Sara si limitò a guardarlo un momento, poi tornò a dirigere Federica e Arianne che la aiutavano a mettere su la veranda. Quando fu il momento di allungare il paletto centrale per dare la classica forma spiovente, sentì le sue mani correrle in soccorso. Il suo profumo si mischiava con quello della salsedine. Sentì più prepotente l’erbetta fresca sotto i piedi, mentre lo guardava negli occhi, così vicini.
Non c’era cosa che potesse andare storta, ora che si trovavano lì, non c’era sentimento negativo che avrebbe potuto oscurarle il cuore. Sentiva che sarebbe andato tutto bene. Che quel posto, ancora una volta, avrebbe fatto la sua magia e avrebbe riparato la sua anima a suon di mare e di tranquillità.
Intanto gli addetti del campeggio sistemavano le roulotte per le riprese del giorno dopo e la troupe organizzava il sistema di telecamere incastrando fili e materiali su quel terreno spartano che sapeva di casa.
Che sapeva di felicità.

 

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