Fifteen Flowers on The Wall

di Osage_No_Onna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Like an open book ***
Capitolo 2: *** Keeping Secrets, Hiding Pain ***
Capitolo 3: *** Think Twice ***
Capitolo 4: *** Dewdrops of Happiness ***
Capitolo 5: *** Take a walk to trust ***
Capitolo 6: *** A voice nearby ***
Capitolo 7: *** Just along the road ***
Capitolo 8: *** All the perks of being a kiddie ***
Capitolo 9: *** Waiting for new blossoms ***
Capitolo 10: *** Usual Ways, Untrodden Feelings ***
Capitolo 11: *** A gentle place to stay ***



Capitolo 1
*** Like an open book ***


Fifteen Flowers on the Wall

 

01: Like an open book

 

Le aveva lasciato un amarillide sul muretto che delimitava il giardino di casa sua.
Non appena aveva visto quei fiori aveva subito pensato a lei e non gli era apparso affatto strano: con quegli steli imponenti, la cui altezza massima sfiorava i novanta centimetri, ed i loro bulbi velenosi erano proprio delle immagini di fierezza come gli era parsa “Black Diamond” a suo tempo. Tuttavia i loro colori erano così delicati che non sembravano nemmeno essere naturali, tinte così le aveva viste solo in rari, bellissimi quadri.
Gli avevano sommerso il cuore di una strana felicità senza nome, esattamente la stessa sensazione che aveva provato quando, dopo migliaia di tentativi di attaccare bottone andati miseramente a vuoto e qualche scaramuccia nel quadro generale di freddo rispetto, lui aveva buttato lì che aveva alcuni fiori di rododendro argenteo a casa sua, nella lontana Kangmar, e lei gli aveva sorriso.
Non era però uno di quei banali sorrisi di circostanza a lei tanto comuni, senza sentimenti né valore, di cui faceva sfoggio nelle più svariate occasioni, ma un sorriso aperto e dolcissimo che gli aveva mozzato il fiato e tolto le parole di bocca. Le graziose fossette che si erano formate ai lati delle sue gote arrossate, poi, avevano giocato decisamente a suo sfavore.
La ragazza in questione era un perfetto connubio di fierezza e dolcezza: era per questo che, non appena aveva visto quei fiori, i cui steli gli sfioravano la cintola, li aveva subito associati a lei.
Non erano di stagione, poco ma sicuro, puzzavano di serra da un miglio di distanza, ma per la loro bellezza aveva dovuto fare un’ eccezione: quei fiori erano troppo belli per restare ad appassire in un vivaio.
La fioraia, una signorina gentile e filiforme come la maggior parte delle piante che vendeva, non si era mostrata indiscreta quando lui aveva dichiarato che avrebbe acquistato solo un fiore, ma in compenso aveva avvolto lo stelo del suo amarillide (ottanta centimetri!) con un nastro rosso di rafia, con tanto di orribile fiocco da pacco regalo e consegnandogli persino un bigliettino.
Attenzioni inutili.
I fiori sono perfetti così come sono, pensava lui, specie quelli singoli, e così gliel’ avrebbe consegnato: nudo nella sua bellezza.
Rafia e fiocco potevano benissimo restare a prendere la polvere in un armadio, di buttarli non se ne parlava proprio: potevano sempre ritornare utili.
Il biglietto, invece, era caduto proprio a fagiolo: non era certo che lei conoscesse a fondo il linguaggio europeo dei fiori, ma l’argomento le interessava, quindi sarebbe stato meglio lasciare qualche indizio sulle proprie intenzioni.
Non avrebbe potuto parlarle come avrebbe voluto perché lei aveva una visita medica e lui lezione di violino, per cui non si sarebbero rivisti prima del giorno dopo, durante il quale sarebbero stati troppo presi da ulteriori impegni, ed i messaggi erano stati praticamente scartati perché il suo cellulare era a secco sia di carica che di credito e gli seccava moltissimo aspettare un giorno o forse più  che suo padre gli facesse la ricarica.
Inoltre l’ idea di prendere in mano una penna sotto sotto gli sorrideva parecchio. Non era mai stato un romanticone, ma la vista di fiore e biglietti disposti ad arte sul muro lo fece arrossire, mentre un sorriso fugace sbocciava sulle labbra sottili.
Pensò molto a cosa scrivere: nulla di pomposo, voleva parole semplici e spontanee come una sorgente d’ acqua cristallina, tuttavia la paura di spaventarla era tanta e non voleva fare passi falsi.
Era così riservata! Ma dietro a quel muro di ghiaccio, lui lo sapeva bene, c’era un uragano di sentimenti che non aspettavano altro che di venire allo scoperto.
Proprio per questo le precauzioni da prendere erano maggiori, perché quell’ anima, come il suo corpo sottile, era ancora molto fragile e le bastava un nonnulla per farla chiudere nuovamente in sé stessa.
Non era altrettanto facile farle riacquisire fiducia negli altri, specie dopo quello che aveva passato, e questo aggravava ancora di più la situazione.
Quando ebbe ricopiato tutto il testo in bella con la sua grafia non proprio eccelsa, sospirò: aveva scritto tutto quel che sentiva davvero nei suoi confronti, nient’ altro che la verità e non poteva sapere se, nonostante quelle parole a suo parere forse un po’ troppo dolci e rassicuranti, avrebbe gradito quel messaggio o l’ avrebbe considerato una seccatura o, peggio ancora, uno scherzo. Sperava proprio che non accadesse.
Mentre usciva dalla sua stanza e percorreva il tratto di strada che lo separava dal fatidico muretto si augurò mentalmente di farcela e, mentre deponeva il suo piccolo tesoro, fino ad allora tenuto stretto al cuore, si chiese con una punta di malinconia cosa avrebbe potuto dire sua madre vedendolo fare questo, se solo fosse stata viva.
 
 
“Ti ricordi di quando mi hai raccontato delle tue sofferenze e poi ti sei interrotta bruscamente? Mi hai detto che era difficile per te essere come un libro aperto.
Prendi questo fiore come un invito ad esserlo, o quantomeno a provarci.
Se hai bisogno di parlare, cercami quando vuoi. Non sono uno psicologo ma mi piacerebbe provare a tirarti su il morale.
Staremo bene assieme, vedrai.

-X
PS: Qualche giorno fa mi hai chiesto che fiore fosse quello che avevi ritratto con la sanguigna, ma non ho saputo risponderti.
Ora posso dirtelo: è un tagete. Cerca il suo significato nel tuo libricino e capirai meglio cosa voglio dirti.”

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Capitolo 2
*** Keeping Secrets, Hiding Pain ***


02: Keeping Secrets, Hiding Pain

 
Aveva trovato il fiore sul muro non appena era ritornata a casa dal solito studio medico che accompagnava e scandiva lentamente due pomeriggi a settimana da un mese e più.
Ora faceva la sua bella figura in un vaso di vetro opportunamente riempito d’ acqua e spostato nella sua cameretta, ed era incredibile quanto il rosa delicato dei petali spiccasse contro l’azzurro pastello delle pareti: faceva proprio un bell’ effetto, cosa che la rincuorò enormemente mentre balzava sul letto e cominciava a dondolare le gambe, la mente in subbuglio.
Girava e rigirava il bigliettino tra le sue mani smorte, valutando il da farsi: aveva capito subito chi fosse il mittente, perché nessuno dei ragazzi suoi amici (e, ad onor del vero, erano pochini) nutriva una tale passione per i fiori, né tantomeno s’ era interessato tanto a quello schizzo che lei definiva “malriuscito” e che aveva abbandonato in fondo ad un cassetto.
Come rispondergli? L’ aveva conosciuto da poco: era fisicamente molto carino, ma certi lati del suo carattere non riusciva proprio a mandarli giù. Talvolta si pizzicavano, burle da niente, ma quelle sottili prese in giro… non le erano mai andate a genio, e non perché fosse permalosa (… forse un pochino sì, dai): non le tollerava chiunque fosse il destinatario, s’ intristiva insieme a lui.
All’ idea che a qualcun’ altro potesse toccare quel che aveva patito anche lei le ribolliva il sangue, era come se rigirassero il coltello nella piaga facendola stare ancora più male.
Talvolta si chiedeva se fosse egoista a pensare questo.
Ancora immersa in quelle riflessioni, alzò lo sguardo su un altro suo disegno, recentemente fatto incorniciare, che troneggiava glorioso tra tante altre sue opere: il soggetto raffigurato in quell’ acquerello, risalente all’ estate scorsa, era un cespuglio di convolvoli.
Quei piccoli fiori dai petali delicati, la cui forma ricordava quelli della campanula, e dal colore che, seppur freddo e un po’ spento, riusciva a risaltare vivacemente contro il verde uniforme delle foglie; quei fiori così discreti, così sconosciuti ai più e così trascurati erano stati per lei un prezioso monito: non per niente erano un simbolo di fermezza.
Secondo sua madre era quella la virtù che faceva e aveva fatto sì che non fosse totalmente collassate nonostante tutti i recenti guai, ma lei non ne era troppo sicura.
Preferiva credere che a mantenerla viva, in quei mesi terribili, fosse stata la convinzione di dover andare avanti a scapito degli ostacoli che si sarebbe trovata davanti, come del resto accadeva sempre, ma sapeva bene che sua madre aveva ragione, perché per quanto nobile potesse essere un proponimento non si può portarlo a termine se non c’è fermezza nel farlo.
La sua, però, s’ era mutata molto spesso in ostinazione e se rammaricava spesso, per non parlare degli ultimi giorni, durante i quali il suo proposito di non fare parola a nessuno del dolore che l’ affliggeva si era sciolto come neve al sole.
Proprio ferma, pensò con un sospiro.
Ed ora arrivava questo bigliettino in cui le si chiedeva di aprirsi di più. Un fulmine a ciel sereno.
Le era difficile essere come un libro aperto perché, anche volendo, sarebbe stato troppo difficile e troppo doloroso per lei raccontare tutto e rivivere l’agonia: il solo pensiero le faceva venire il magone. E poi che conforto le poteva recare lui?
Come avrebbe potuto far sparire quel groppo allo stomaco?
Faceva davvero troppo male e lei non aveva intenzione di farsene ancora di più, aveva deciso di tacere il suo dolore.
Non trovava alcun conforto nel raccontare agli altri le sue sciagure né riusciva a sopportare la vista di chi si preoccupava per lei e, incapace ed ormai stanca di dover rispondere a pressanti domande circa lo stato di salute ed il proprio umore e sentirsi addosso il peso di sguardi ansiosi, si era chiusa nel più stretto riserbo.
Il padre la chiamava ridendo “fortezza murata” e il nomignolo, a detta delle sorelle, le calzava a pennello: chi avrebbe mai potuto immaginare che dietro a quel corpo minuto e a quello sguardo neutro si celasse una grande energia? O chi avrebbe mai potuto capire quali fossero i sentimenti che si agitavano in quell’ animo apparentemente freddo e scostante, algido e perfetto?
Era una maschera che indossava da un po’ e riponeva solo in presenza di familiari. Recitare il ruolo della “Regina delle Nevi”, come diceva lei, non la entusiasmava, ma mettere a tacere certi elementi con un’occhiata severa o con una battuta gelida le procurava parecchia soddisfazione.
Si comportava allo stesso modo anche con gli estranei, cortese ma fredda, e molti non ne capivano il perché.
Una volta, in un vivaio, una pallida signorina dal viso affilato e una grande massa di capelli neri nascosti in un foulard a farfalle aveva detto di lei che, in termini di linguaggio dei fiori, era un Sigillo di Salomone coi fiocchi.
La fioraia non poteva certo immaginare che lei avesse sentito quella frase, né che avesse passato ore su Internet per documentarsi in maniera appropriata, sviscerando anche il manualetto di giardinaggio della nonna materna.
All’ inizio quei fiorellini piccoli e quasi insignificanti non le avevano detto proprio niente. Anzi, li aveva scambiati per frutti. Erano bianchi, scialbi, anonimi, nulla a che vedere con i tulipani che tanto amava o altri fiori come il croco, l’iris, la calla: non c’era da stupirsi se nessuno li conosceva, pensava, ma ne apprezzava la disposizione ordinata sul grande stelo e le foglie lucide dal colore acceso.
Mano a mano che s’ informava, però, le riusciva sempre più gradito, fino a diventare, poco a poco, un suo simbolo. Qualche settimana prima era corsa a prenderne un mazzolino e, nemmeno a farlo apposta, a servirla era stata proprio la signorina alta che aveva fatto quel commento, ma stavolta le aveva indirizzato un sorriso luminoso ed un’occhiata gentile dietro gli occhialetti a mezzaluna.
I fiorellini non si erano seccati, per fortuna, ma l’ idea di continuare a recitare stava perdendo il suo smalto: s’ era ripetuta spesso che sarebbe stato bello trovare degli amici con cui smettere di fingere ed ora la vita glieli aveva offerti.
Meglio prendere al volo l’ occasione.
Afferrò al volo una penna ed un bigliettino fatto di carta di riso e, dieci minuti dopo, ripose fiore e messaggio nello stesso punto in cui aveva trovato quelli destinati a lei.
Al sopraggiungere di una brezza gentile, i petali dei Sigilli cominciarono ad ondeggiare.



“Ti ringrazio per il messaggio gentile. Quando sentirò il bisogno di confidarmi con qualcuno, ti chiamerò.
Ti chiedo solo di trattenere la lingua su quanto ti dico, ma se mi assicuri che lo faranno anche gli altri potrai parlarne con loro.
-Y


 
 

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Capitolo 3
*** Think Twice ***


03: Think Twice

 
Il ragazzo squadrava il rametto di fiori con aria critica, del tutto ignaro dell’ombra che il profilo elegante del vaso proiettava contro le pareti bianche.
La risposta floreale che aveva ricevuto lo aveva letteralmente lasciato senza parole: non aveva mai visto prima un Polygonatum multiflorum, nome scientifico del Sigillo di Salomone, ed era solo in virtù della grande enciclopedia compilata anno dopo anno da sua madre, il suo abbecedario del linguaggio dei fiori, se era riuscito a decifrare il messaggio.
La natura aveva letteralmente messo radici nelle più intime fibre dell’ anima di quella donna: non era un caso, pensava lui, che il suo nome, Midori, significasse “verde” in giapponese, così come il suo cognome da nubile, Tanaka, “vicino al campo di riso”.
Era stata lei a dargli un nome tipico della terra del Sol Levante, ad averlo amorevolmente guidato per i primi dieci anni della sua vita e soprattutto ad avergli insegnato ad amare la Grande Madre Terra insieme a tutti i suoi figli.
E solo grazie a lei, in quel momento, poteva pianificare attentamente la prossima mossa da fare e decidere quale pezzo della scacchiera muovere.
La differenza tra una vera partita e quella che lui stava affrontando era sostanzialmente molto semplice: lui non stava cercando di vincere. Anzi, non ci teneva affatto.
Era la sua avversaria fittizia a meritare la vittoria e lui poteva aiutarla: vietato lo scacco matto, avrebbe soltanto peggiorato la situazione. Doveva muoversi con cautela.
Discrezione.
Occultamento.

La mossa dell’opponente non era stata certo congeniale ai suoi piani e, se la parte iniziale del biglietto gli aveva concesso un briciolo di euforica speranza, la seconda aveva fatto piombare sul suo stomaco un grosso macigno che lo aveva indotto a riflettere.
Occultamento.
Gli aveva chiesto di mantenere il segreto su quanto avrebbe raccontato, qualora l’avesse fatto. E di farlo tenere anche agli altri, gli altri quattro componenti del gruppo.
Non voleva che le informazioni su di lei venissero divulgate e lui credeva di capire il perché: voleva evitare ulteriori rogne.
Sapevano entrambi benissimo quanto potesse pesare il giudizio altrui, specie se negativo, e come potesse essere spietato il branco giovanile: o ti adegui o sei fuori, o sei forte o sei una mammoletta.
Se non corrispondi ai loro standard di “giusto” l’isolamento è il male minore. Lei aveva già sperimentato sulla propria pelle alcuni dei mali peggiori, diventando sempre più diffidente con l’aumentare dei disagi che provocavano.
Aveva imparato presto a dubitare di tutto e tutti e lui non poteva proprio darle torto.
Ma voleva anche spingerla a confidarsi: aveva già avuto a che fare con persone simili, che lui definiva “pentole a pressione”, e quindi sapeva come muoversi. Orgogliose e solitarie, tenevano i dispiaceri in un angolino della loro anima come se fossero dei pericolosi criminali e quando ne avevano accumulati troppi si sfogavano o con il pianto o con la violenza, ma l’ostinazione a non voler parlare rimaneva invariata. Lei apparteneva al primo tipo, ossia a coloro che annegavano la frustrazione nelle lacrime.
L’ aveva vista rannicchiata su sé stessa, le spalle scosse dai singhiozzi e il volto bagnato da lacrime provenienti da occhi e cielo.
Sembrava, anzi era, un pulcino bagnato: come si poteva rimanere indifferenti davanti ad una ragazza piangente e grondante pioggia, nascosta dietro ad un cespuglio in riva ad un fiume per non “arrecare disturbo con i suoi piagnistei”, a voler ripetere le sue parole?
C’era voluto un po’ per convincerla a rientrare al college e, mentre la guidava verso la sua stanza, il suo cuore era crollato sotto i colpi dei suoi singhiozzi. Vedere la sua figuretta tremante rifugiarsi sotto una coperta in una disperata ricerca di protezione e calore era stato proprio il colpo di grazia.
Quando però tutti gli altri erano corsi a recarle un po’ di conforto e molte domande ma le risposte ottenute erano state elusive lui, nel profondo del suo animo, si era un po’ risentito.
Perché quella ragazza non faceva nemmeno lo sforzo di muovere un passo verso il loro cuore, di imparare a fidarsi, pur avendo ormai constatato che loro non l’ avrebbero delusa.
Il mondo, ai suoi occhi, era marcio persino nella bontà.
Qualcuno doveva dimostrarle il contrario. Fu proprio mentre assisteva a quella mancata conversazione, composta da lunghi ed ansiosi interrogativi e risposte monosillabiche, che decise di mostrarle il lato buono di cose e persone, lui compreso.
Il loro branco era diverso.
Ci sarebbe riuscito, ne era più che sicuro.
Guardò fuori dalla finestra ed assistette ad un’ effimera pioggia di petali: i fiori di quegli alberi di ciliegio, che nascevano da terre mediterranee e si stagliavano con tutta la maestà di uno strano binomio contro il cielo azzurro, fino alla sera prima ancora in boccio, avevano portato a termine la loro breve esistenza ed ora, come soffice e delicata neve, ritornavano al luogo che aveva dato loro la vita.
Poco lontano, su un terreno che aveva da poco scoperto essere acido, si alternavano arbusti e piante singole di camelie ai quali poco prima aveva avuto l’ ardire di portare via un fiore con delle cesoie da giardiniere trafugate ad una donna dal viso affilato.
Prima o poi gliele avrebbe rese.
C’era tempo.
Camelie japonicae molto tardive, considerò con un risolino, nel pieno del loro splendore proprio quando ormai avrebbero essere sfiorite e i loro fiori caduti integri.
Era proprio per questa peculiarità che questo fiore bellissimo era, nel suo paese, simbolo della devozione tra innamorati… e le donne sposate superstiziose, stando una credenza secondo la quale portare una camelia tra i capelli avrebbe ritardato la loro gravidanza, le evitavano come la peste.
In Giappone, invece, avevano il ben più triste significato di “vita spezzata” per il medesimo motivo. Lei lo sapeva? Probabilmente sì, quindi avrebbe dovuto scrivere il biglietto focalizzandosi sul messaggio che voleva dare lui.
Fiducia e speranza, i colori della vita.
Ciò che a lei mancava, proprio a lei che aveva una stanza piena di matite colorate e acquerelli con i quali creava meraviglie.
Si era ripromesso di donarglieli, ma sarebbe stato all’altezza di quel compito?
Sarebbe riuscito a mutare quella smorfia triste in un sorriso luminoso, a far scintillare quegli occhi che si erano spenti troppo presto?
Lo sperava proprio.
Ed anche se avesse dovuto attendere a lungo, sarebbe stata comunque una gran gioia.
Meglio tardi che mai
, si disse infine stringendo la corolla bianca dai bordi rosa mentre camminava lungo strade insolitamente quiete.
Ce l’ avrebbe messa tutta, senza mai cedere.


“Puoi fidarti di me: non rivelerò i tuoi segreti ad anima viva.
Ma vorrei che sia tu a farlo: tutti noi vogliamo provare a renderti felice e se tu ci dicessi cosa ti affligge potremo certamente capire meglio e venirti incontro.
Che ne dici ci incontrarci, solo noi due, un giorno di questi?
-X”


 






 

 

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Capitolo 4
*** Dewdrops of Happiness ***


04: Dewdrops of Happiness

 
I ciliegi di Toscana erano i soli testimoni e spettatori di uno spettacolo singolare nella sua frequenza. Era la loro bellezza effimera a renderlo unico, diverso dai mille casi simili che in quello stesso giorno erano già accaduti, si stavano svolgendo o sarebbero arrivati.
Sotto di loro non c’ erano salme di valorosi samurai morti coraggiosamente del cui sangue assumere il colore rosato, ma una semplice ragazzina esile e leggermente sottopeso che, con la schiena curva per i singhiozzi, piangeva.
Di gioia.
Erano lacrime determinate dalla consapevolezza di aver vissuto per un bel po’ in una prigione tutt’ altro che dorata senza aver mai fatto nulla per uscirne, sprecando giorni interi a veder passare ore e minuti che inesorabilmente scorrevano, quieti ed inutilizzati, verso la loro fine, e di aver finalmente trovato la chiave di platino per uscirne.
Probabilmente i sorrisi spezzati della ragazza non erano degni dei “pugnaloni” creati in onore del ciliegio che rifiorì ad Acquapendente[1], nel Lazio, ma se i tronchi di quegli alberi fiorentini avessero potuto percepire coscientemente la realtà attorno a loro avrebbero segnato quel momento nei loro annali vegetali.
La poverina si alzò sulle sue gambe tremanti e si risiedette, qualche metro più avanti, sulla riva di un fiumicello incredibilmente limpido, la cui riva erbosa era ancora punteggiata di gocce di rugiada.
Era uno dei suoi luoghi di meditazione preferiti: di mattina presto, quando i dintorni erano ancora deserti, vi andava spesso, ora per passeggiare, ora per sdraiarsi sull’ erba e dimenticare tutti i suoi guai e, quasi quell’ angolino di verde avesse in sé una qualche strana magia bianca, ne ritornava sempre, se non più serena, quantomeno rifrancata.
Laddove il flusso di persone ed auto s’ interrompeva, ponendo una breve fine al ciclo della caotica vita cittadina, prendeva vita il flusso dei suoi pensieri.
Sola, isolata, poteva abbandonarsi completamente a quella che da un po’ era la sua attività preferita.
Negli ultimi tempi si era sentita come la fata della canzone, alla quale avevano bruciato ali e trine del vestito[2]. Nonostante avesse voluto volare con tutta la sua anima non avrebbe più potuto farlo, per cui passava mesta il suo tempo a leggere giornali e a contare le ore… E proprio quando sembrava aver dimenticato tutto lo stropiccio dei moncherini bruciati che aveva sulla schiena la riportava alla tragica realtà.
Tuttavia c’era sempre un paio di braccia amiche pronto a consolarlo.
Ora, finalmente, lo aveva anche lei: braccia promettenti che sprizzavano simpatia, una certa dose di ironia e confortante calore umano. Eh sì che da lui non se lo sarebbe aspettato proprio! Eppure…
Cosa lo aveva spinto a fare tutto questo per lei?
Il desiderio di rendersi utile? Pietà? Benevolenza? Un certo interesse nei suoi confronti? Empatia?
Quel ragazzo, al contrario delle altre quattro simpaticissime new entries, continuava a rimanere un’ incognita.
La lasciava perplessa, talvolta la irritava, eppure lo trovava, in un certo qual senso, affascinante: la attiravano l’ inconsapevole disinvoltura con cui indossava i costumi popolari, le movenze fluide ed agili da gazzella, il sorriso spontaneo che sembrava quasi fiorire sulle labbra sottili, il modo in cui catturava i problemi semplicemente sfiorandoli senza che essi intaccassero il suo buonumore ed il suo spirito. E, inevitabilmente, i capelli castani che ricadevano poco sopra le spalle come una cascatella, le iridi azzurre incastonate negli occhi dal taglio allungato e nel viso orientale, il colorito dorato della sua pelle avevano riacceso qualcosa in lei.
Tra un po’ avrebbe capito come mai quei poeti e quelle poetesse tanto amati da suo padre descrivevano l’ amore come una bestia dolceamara, una scarica di fulmini, un fabbro crudele oppure un bambino capriccioso che gioca a dadi con i litigi[3].
Per ora si sentiva solo infinitamente grata verso quel ragazzo, dal quale mai si sarebbe aspettata anche solo un minimo segno di comprensione, per averlo liberata da quel macigno che da troppo tempo gravava su di lei.
Semplicemente ascoltandola.
Aveva dimenticato quanto conforto potesse recare un orecchio ben attento.
L’ aveva letteralmente spiazzata chiedendole di incontrarlo nella saletta in cui era solita sonnecchiare prima dell’ inizio del campus alle sei di mattina.
La cosa la seccava enormemente perché da un po’ soffriva d’ insonnia e talvolta, a quell’ orario, non aveva nemmeno chiuso occhio. Eppure, la sera prima, aveva dormito profondamente ed era riuscita a svegliarsi prima senza problemi.
Alle sei, puntuale come un orologio svizzero, era entrata nella stanza immersa nella semioscurità ed aveva trovato l’amico sorridente e fresco come una rosa.
Le guance di lui si erano leggermente imporporate quando era giunta e, dopo l’imbarazzo iniziale, le aveva posto titubante alcune domande.
Lei pensava che sarebbe stato molto difficile rispondergli, ma tutto era fluito dalle sue labbra con estrema facilità e, sotto la guida delle parole dell’ interlocutore, aveva raccontato tutto.
Di come s’ era sentita male sotto le continue provocazioni dei bulli, degli stupidi insulti (che si susseguivano, a varie riprese, dalle elementari) che talvolta degeneravano in violenza fisica, dell’ ansia dei familiari, dei loro sguardi che non riusciva più a sopportare, della sua decisione di tacere.
E, non appena ebbe finito di parlare, lui le aveva sorriso e le aveva detto: “È stata una scelta davvero stupida.”
Com’ era vero.
Si sentiva una stupida ad averlo realizzato solo allora.
Grazie…”sussurrò felice tra sé, volgendo i pensieri all’ amico.
La sua idea era stata… provvidenziale e piacevole, come la cascata di petali di scilla che aveva visto un volta a casa sua, in Giappone.
Sorrise all’ infiorescenza di maonia che aveva acquistato poco prima: era incredibile come, nel linguaggio dei fiori europeo, esprimessero concetti basilari ma tanto importanti. Al contrario di quanto era accaduto con i Sigilli di Salomone, quei piccoli fiori gialli le erano piaciuti subito… forse per la doppia serie di piccoli petali o per il colore acceso, che infondeva gioia solo a guardarli.
Quando aveva visto quell’ arbusto per la prima volta, dalla fioraia filiforme, era rimasta sinceramente impressionata: dal basso del suo metro e mezzo di statura e poco più era sentita davvero minuscola di fronte a quella pianta che la sovrastava, estendendosi cinquanta centimetri sopra di lei. In mezzo a tutti quei fiori che cercavano senza successo di sopravvivere facendo affidamento soltanto sull’ acqua le radici ben piantate nel terreno, pur trovandosi in un vaso, erano decisamente fuori posto e molto più belle.
Inoltre il colore grigiastro della corteccia era decisamente compensato dalle belle foglie verdi, che ai suoi occhi inesperti erano sembrate molto simili a quelle delle felci, e dal giallo delle tante infiorescenze.
Ridacchiò pensando a quel momento, risalente a nemmeno una settimana fa.
Ondeggiando lentamente nella gonna blu della divisa, arrivò al muretto di casa sua.
Vi lasciò fiore e biglietto, come da procedura, sperando che il ragazzo sarebbe passato di lì “per caso” come faceva sempre, altrimenti glielo avrebbe fatto capire lei.
Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e, respirando a pieni polmoni l’ aria frizzante del primo mattino, sorrise, per la prima volta dopo tanto tempo, al mondo.
 
 
“Questi fiori si riferiscono a quanto ho detto prima. A tutto.
Ma quel che ho dimenticato scioccamente di dire è GRAZIE.
Grazie davvero.
Scusami se non trovo altro da dire, ma mi hai consigliato di non forzare i miei sentimenti almeno durante le confidenze ed io ci sto provando.
Per cui, grazie ancora per tutto.
-Y”
 
 
 
[1]: Nel 1166 ad Acquapendente, nel Lazio, due contadini video rifiorire un ciliegio ormai secco. L’ evento fu considerato di buon auspicio e gli abitanti, armatisi di attrezzi da lavoro, insorsero contro il dominio di Federico Barbarossa e lo scacciarono. I “Pugnaloni” sono mosaici realizzati con foglie e fiori.
[2]: Riferimento alla canzone “La fée” di Zaz.
[3]: Le parole qui citate provengono dai frammenti di Saffo, Anacreonte e Mimnermo, poeti greci del periodo ionico (VII-VI secolo a.C.).


   
  



 






 
 

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Capitolo 5
*** Take a walk to trust ***


05: Take a walk to trust



Decisamente brutte, le giornate uggiose d’ estate.
Soprattutto se fino al giorno prima la temperatura si era mantenuta gradevole nonostante le medie insopportabili di fine giugno in Italia. Quand’ era bel tempo, durante le ore di spacco concesse ai partecipanti al campus, poteva uscire fuori dai confini della stanza che condivideva con l’australiano, Hawkeye, per andare a correre nel boschetto antistante il castello seguendo il corso del fiume, studiare flora e fauna locali oppure per rifugiarsi tra i cespugli e, accarezzato dal sole pomeridiano, addormentarsi e dimenticare tutto per un po’.
Ora invece poteva solamente fissare i grandi cumulonembi plumbei che gravavano sulle loro teste o seguire con lo sguardo le prevedibili traiettorie delle gocce di pioggia sui vetri delle finestre.
Si sentiva insolitamente fiacco e triste.
Sei meteoropatico” continuava a ripetergli suo padre, quasi fosse una colpa. Lui non ci vedeva nulla di male: semplicemente il tempo influenzava il suo umore, questo non lo rendeva uno psicopatico.
Rivolse la sua attenzione agli uccellini che saltellavano sugli alberi, quasi ignari di tutta quella pioggia: perché non si mettevano al riparo? Avrebbero potuto saltellare sotto i fiori purpurei della magnolia: erano talmente spessi che lì l’acqua di certo non avrebbe potuto bagnarli. Non c’ erano nemmeno i soliti passanti avvolti nei loro anonimi impermeabili neri o grigi a gettare loro, involontariamente, briciole dei loro spuntini, per cui il ragazzo non seppe davvero spiegarsi perché quelle minute bestiole continuassero a bagnarsi in tal modo.
Riuscì a trovare una risposta solamente quando vide di sfuggita l’ombra di lei attraversare velocemente la strada che fiancheggiava il negozio in cui lui, approfittando degli squarci di bel tempo di quella strana giornata, era appena entrato: talvolta la vita ti pone davanti degli ostacoli e tu devi saper andare avanti, o almeno provarci con tutte le tue forze.
Non ci aveva mai pensato fino ad allora: la sua vita era sempre stata tranquilla e, se non sempre felice, quantomeno facile, tutta su di un piano, non aveva dovuto fronteggiare burroni, ma solo lievi declivi. L’ unica sua macchia era già quasi del tutto sbiadita perché non c’ erano molti ricordi ad acuirne il dolore.
Lei invece aveva già un’idea, anche se probabilmente ancora parecchio vaga, di quanto potessero far male le spine di ogni rosa, e di quanto il valore di esse scemasse una volta che si resta feriti: improvvisamente i petali cadono, le foglie avvizziscono.
Nulla sembra più contare più contare e di quel fiore bellissimo non sarebbe rimasto che lo stelo nudo. Eppure esso, tenace, avrebbe continuato a trarre il suo nutrimento dal terreno e a rimanere saldo, fin quando una forza misteriosa non ne avrebbe strappato le radici.
E finché questo non fosse accaduto, nuove gemme avrebbero potuto nascere a rinnovarne la bellezza.
Non importa quanto la vita possa essere crudele, bisogna sempre trovare il modo di resistere.
Anche al costo di sacrificare qualcosa.
Lei aveva scelto di privarsi dei sentimenti, o almeno così gli era parso; di indossare una maschera.
Una maschera che, lo vedeva chiaramente, mano a mano cadeva in pezzi: dietro a quegli sguardi duri e indifferenti si nascondevano giorni di lacrime e improvvise scintille di speranza e felicità.
Non poteva essere altrimenti, lui lo sapeva bene, e se in un primo momento ne aveva dubitato, l’ ultimo fiore e l’ ultimo messaggio ricevuto, insieme a quell’ incontro, avevano reso salda questa certezza.
Lei probabilmente ne era rimasta sorpresa, perché con un lieve sorriso e le guance rosse di vergogna gli aveva detto: “Ad essere sincera… da te non me lo sarei proprio aspettato.”.
Non le aveva fatto una buona impressione. A dire tutta la verità era stato lo stesso anche per lui, ma stava cercando, passo dopo passo, di arrivare il suo cuore: ora anche a lei toccava fare lo stesso, le forze andavano calibrate.
Lui glielo avrebbe solo fatto capire, mettendola così alla prova: se la sua riconoscenza verso di lui era genuina anche lei gli sarebbe venuta incontro, così come lui stava facendo sin dall’ inizio.
Mentre rimuginava questi pensieri una mano pallida e delicata gli sfiorò la spalla: era una filiforme inserviente dagli occhialetti a mezzaluna e il viso delicato incorniciato da lunghi capelli neri che, vedendolo girovagare per il negozio senza una meta precisa, gli chiese cosa desiderasse.
Il poveretto non poté proferire parola e lei, divertita e quasi intenerita, gli portò un manuale in cui erano segnati tutti i significati dei fiori. Troppo grato per chiedersi se quel gesto fosse stato dettato da una semplice coincidenza o meno, il ragazzo gettò l’occhio sulla pagina che aveva davanti.
Achillea, recitava la didascalia: “guarigione”.
Sì, era quello che voleva per lei, ma al momento non era quello il suo scopo.
Un biancore repentino solleticò i suoi occhi e, attratto da quella fugace visione, si ritrovò di fronte ad una nuvola di piccoli fiori bianchi, riuniti in un’ infiorescenza che gli ricordava vagamente quella delle ortensie. Il cartellino posto al di sotto del vaso gli venne in aiuto indicandogli il nome della pianta.
Pyracantha, comunemente conosciuta come agazzino.
Pyracantha. Mai sentita prima. Scorse velocemente le pagine fino a trovare quella desiderata, sulla quale alcune note a matita gli rivelarono l’origine greca di quel nome: “pyr” stava a significare “fuoco” ed “anthos” “fiore”[1].
Si chiese perplesso il perché di quella scelta fino a quando non lesse che erano i piccoli frutti autunnali ad avere il colore del fuoco. Quei fiorellini a stella, modesti dal profumo inebriante, non avevano niente a che fare con quella forza distruttrice: sembravano fiori da matrimonio.
Erano perfetti, anche il loro significato era “non badare alle apparenze”.
Si diresse al bancone preparandosi psicologicamente ad estenuanti lotte per portare via da quell’ arbusto disordinato dalle piccole foglie coriacee uno solo dei suoi rametti in fiore, invece la stessa gentile signorina che gli aveva prestato il suo libro gliene consegnò uno bello verdeggiante senza battere ciglio. “Per stavolta farò un’eccezione.” gli aveva sussurrato complice strizzando l’occhio.
Dopo aver pagato rametto ed un bigliettino su cui aveva frettolosamente ricopiato parole premeditate ed aver constatato con un certo sollievo che il sole era tronato a splendere, uscì dal negozio sentendosi un paggetto e si diresse a cuor leggero verso il solito muretto, i passi che sembravano voler fargli spiccare il volo.
 
“Bastano questi fiori a recarti il mio messaggio.
Puoi muovere anche tu qualche passo avanti in mio favore?
Ti prego, dimmi di sì.
In due il cammino sarà meno difficoltoso.
-T
(dato che ora sai chi sono)”
 







[1]: Ho volutamente traslitterato le lettere greche in alfabeto latino in modo da facilitare la comprensione di queste parole. Classicisti… non odiatemi, vi prego!
   

 



  
 




 




 

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Capitolo 6
*** A voice nearby ***


06: A voice nearby



Le ultime note di una dolcissima canzone d’ amore e tristezza si dissolsero nell’ aria serena e sonnolenta del primo pomeriggio quando la ragazza decise di afferrare le sue matite colorate per preparare uno schizzo a colori dei fiori che aveva davanti agli occhi.
Niente di esotico o misconosciuto: non erano che piccole petunie di un viola molto chiaro, quasi lilla, che aveva acquistato poco tempo prima. La loro fioritura quell’ anno era stata particolarmente copiosa, per cui i giardinieri si stavano già preparando alla drastica potatura che, presto o tardi, avrebbero dovuto fronteggiare.
Mentre la punta di grafite colorata tracciava morbida i contorni dei petali una voce maschile, calda ed emozionale, cominciò a modulare dolci parole di fiducia e consolazione: la breve canzone precedente, dal ritmo monotono e testo insulso, s’ era dissolta nelle sue orecchie come neve al sole, ma quest’ ultima l’ avrebbe impressa nella sua memoria e ne avrebbe fatto tesoro, in modo da creare, a partire da essa, qualcosa di bellissimo, proprio come i valenti scultori che tanto amava erano riusciti a creare opere immortali a partire da un semplice blocco di marmo.
La canzone procedeva, la matita imprimeva fluida le sue linee sul mare bianco del foglio di carta e i pensieri tristi che le avevano attanagliato la mente fino alla settimana precedente cedevano finalmente il posto ad altri, più allegri e colorati, che alla stregua di un raggio di sole che squarcia le nubi le donavano felicità.
Mano a mano il testo e la melodia del brano che stava ascoltando, il movimento armonioso della sua mano pallida e le sue riflessioni si fusero in un unico vortice di ordinata serenità, mentre la coscienza dell’ atto del disegno quasi si annullò in esso.
“Io provo ad essere freddo, ma la verità è che sei sempre nella mia menteProvo solo dolore se non sei al mio fianco[1].”
Mai parole furono più vere. Grazie a quel ragazzo la sua maschera di ghiaccio si stava poco a poco frantumando, anzi sciogliendo, per fare gradualmente posto ad un nuova vera identità.
“Nuova” perché quelle dolorose esperienze avevano lasciato una traccia indelebile nel profondo della sua anima, talmente profonda da non poterla ignorare: difficilmente avrebbe potuto ritornare quella di un tempo.
Stava subendo una metamorfosi volontaria, da bruco a farfalla: lei non aveva niente a che vedere con Narciso, Dafne, Mirra o Ferhad[2]. Semplicemente si era presa una pausa, durante la quale disegni ignoti si stavano formando a creare trama e ordito delle sue nuove ali.
Una delle immagini che avrebbe sicuramente visto sarebbe stata una mano tesa.
Una mano tesa, deliziosamente dorata.
Quella di lui.
Suo malgrado, il cuore aumentava i suoi battiti quando le si avvicinava e si rasserenava quando parlava con lui. Quando, una mezz’ oretta prima, le si era fatto incontro per proporre altri incontri con voce allegra e quasi noncurante, cercando di dissimulare il rossore sulle sue guance, aveva capito di aver cullato la speranza di questa proposta da quando si erano salutati qualche giorno prima, quando si era ritrovata piangere di felicità sotto al ciliegio.
Incredibile come certi sentimenti, certe emozioni nascessero spontaneamente e, come l’ edera, quasi inviluppassero le loro radici intorno al cuore.
Ancora più incredibile il modo in cui quelle radici non soffocassero l’ anima, ma la stringessero in un caldo abbraccio, rendendola più bella. Quella fragile ma potente piantina traeva tutto il suo vigore… dalla speranza.
Spes ultima dea a morire, certo, ma la prima a rinascere.
Anzi, a rifiorire.
Ovviamente quel processo nel suo caso non era ancora completo, ma nulla le impediva di agire concretamente, prima dell’effettiva fine, per raggiungere uno spiraglio di felicità. Se le si era presentata anche quest’ opportunità, perché non coglierla al volo?
Lui le chiedeva di fare nei passi avanti in suo favore e lei li avrebbe fatti. Gli era talmente riconoscente che questa richiesta, in confronto a quel che lei avrebbe voluto fare, le parve davvero una bazzecola a volerla portare a termine.
Ma cosa avrebbe dovuto fare di preciso?
Qual era il suo volere? Poteva accontentarlo in talmente tanti modi!
In un primo momento ella pensò che il ragazzo avesse voluto alludere alla sua riservatezza e che un modo per rendere felice non solo lui, ma anche tutto il resto della combriccola, avrebbe potuto essere metterla da parte e far sentire più spesso la propria voce, in tutti i sensi.
Davvero gli piaceva così tanto fare il buon samaritano?
Non riusciva a capirlo, ma lo ammirava.
Possibile che non avesse i suoi piccoli guai, come tutti?
Possibile che fossero tanto insignificanti da far sì che anteponesse quelli degli altri ai propri? Se così fosse, sarebbe davvero straordinario, continuava a pensare tra sé la ragazza.
Non aveva mai visto un tale altruismo, un tale spirito d’ abnegazione. Anche a lei sarebbe piaciuto possederli, ma non poteva perché in un mondo come quello in cui aveva sempre vissuto essere troppo buona e altruista equivaleva a scavarsi la fossa con le proprie mani.
E anche se non si riteneva un’ egoistaccia di certo non si sapeva mostrare empatica quanto lui di fronte al dolore altrui: i suoi sentimenti celati in questi casi erano quasi sempre freddezza, fastidio e disagio.
Quando ci ripensava non poteva fare a meno di sentirsi male: era dunque questo ciò che era diventata, un machiavellico mostro che sapeva solo dissimulare e simulare i propri sentimenti a piacimento?
Beati i puri di cuore.
Beato lui, che conosceva il segreto per continuare a danzare sulle note del suo vero io senza essere minimamente ferito.
Chissà se avrebbe potuto insegnarglielo… O forse aveva frainteso tutto sin dal principio?
Magari quei fantomatici passi in avanti con i sentimenti non avevano nulla a che fare e consistevano in qualcosa di materiale. Non ci sarebbe stato nulla di strano e lei si sarebbe stupita di meno.
La rilettura del messaggio però le tolse ogni dubbio: l’ipotesi valida era la prima.
Con un sorriso di soddisfazione depose le matite e squadrò l’opera compiuta, che –strano a dirsi- le piacque subito: non succedeva quasi mai. Vuoi per il dannato spirito autocritico che, spingendola a cogliere i singoli difetti, bollava impietosamente la stragrande maggioranza dei suoi disegni come “mediocre”; vuoi per la sua poca dimestichezza con il medium usato, raramente era soddisfatta delle sue creazioni.
Considerano che quasi non si era concentrata nel disegno in sé, quel gradimento poteva essere il preludio di una svolta.
Sì, c’ era davvero qualcuno che l’attendeva dietro l’angolo e non poteva permettersi d’ indugiare: stavolta avrebbe mosso lei i primi passi, fiduciosa nei disegni sconosciuti delle sue elitre e di ciò che invece stava prendendo vita su quelle dell’ amico.
Aveva ragione lui: i ricordi sono importanti, ma non dobbiamo vivere ancorati ad essi.
Talvolta bisogna lasciarseli alle spalle.
Del resto le piante, nonostante ricavino il loro nutrimento dalla terra, crescono verso l’ alto, verso la luce.
La ragazza ripulì il foglio, prese fiori e biglietto, abbandonò la fidata scrivania e, con portamento fiero e rinnovata fiducia, si diresse verso l’ amato muro di casa.
La figura pronta ad abbracciare la fata ora aveva anche una voce: una voce gentile sempre pronta a dire che, dietro alle nubi, il sole continua a splendere.
 


“Mi hai chiesto di aiutarti ed io lo farò.
Con questo ringraziamento ti lascio anche una proposta: ti va di vederci, tra domani e dopodomani, sotto gli alberi di ciliegio del giardino del campus, durante le ore di spacco pomeridiane?
Ci sono così tante cose che dovrei dirti…

-Y
PS: Nel caso ti stessi chiedendo il perché del ringraziamento… È perché non ti sei arreso e, tentativo dopo tentativo, mi stai pian piano ridonando la vita.”

           
   

 


  
 



 






 
 
[1] Frase tratta da “I miss you no 3 meters”, ending theme dell’anime “Binan KouKou Chikyuu Bouei-bu LOVE!”. Idealmente, la canzone menzionata all’ inizio del capitolo è invece “Eblouie par la nuit” dell’artista francese ZAZ.
[2] Riferimento ad un mito arabo sulla nascita dei tulipani: Ferhad e Shirin sono fidanzati, ma il ragazzo (Shirin) viene mandato in guerra e lei, molto tempo dopo, si mette in viaggio per ritrovarlo. Quando, ormai stanca e stremata, Ferhad realizza che non potrà mai più rivedere il suo amato, si lascia cadere su delle rocce acuminate ed il suo sangue, mischiato alle sue lacrime, dà vita a dei fiori meravigliosi.

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Capitolo 7
*** Just along the road ***


07: Just along the road

 
Nella sua ingenuità il ragazzo non si era mai capacitato della strana abilità che certe persone hanno di mascherare le proprie emozioni: l’aveva sempre trovata innaturale e tuttora, pur comprendendola meglio, pensava che in essa ci fosse una sorta di contraddizione di fondo.
Se è vero che le emozioni rappresentano la parte più autentica di ogni individuo, allora come mai a nasconderle sono proprio coloro che, da esse soffocate, cercano solo la possibilità di esprimerle appieno per migliorare la propria condizione?
Lui non s’ era mai fatto problemi nell’ esternarle, eppure… la piccola gioia interiore, nascosta al resto del mondo, che in quel momento stava provando era di gran lunga più intensa di tutti i sentimenti che avesse provato fino ad allora.
E stranamente non sentiva il bisogno di manifestarla.
Era la gioia per il raggiungimento di un piccolo traguardo, che poteva essere condivisa solo con la persona insieme alla quale aveva affrontato questo lungo cammino.
La gioia per la loro piccola vittoria.
Era stata una strada lunghetta e alquanto tortuosa, quella su cui avevano dovuto camminare, ma la loro meta era molto vicina e lui era certo che, con un altro piccolo sforzo, sarebbero riusciti a raggiungerla.
Decisamente, ne era valsa la pena.
Non che pensasse che la strada per la felicità fosse completamente dritta e spianata: se anche lui, che poteva affermare di non aver mai avuto particolari problemi, si era ritrovato a doversi togliere le spine sotto le piante dei piedi poteva solo significare che bisogna lottare per essere felici.
Lo sforzo non è però uguale per tutti: i più fortunati ci rimettono poco, ma c’è persino chi vi muore.
Per ingiustizia, lui ne era profondamente convinto.
Che lei avesse avuto la sua dose di dolori era innegabile, ma alla fin fine non erano tali da rimetterci addirittura la vita: con il tempo e l’ aiuto di buone persone avrebbe potuto superarli senza grossi problemi. Un po’ per il suo carattere e un po’ per la sua sfortuna (o la mancanza d’ intraprendenza?) si era ritrovata per un bel po’ in bilico, sospesa in uno stato d’ incertezza nel quale le emozioni potevano far perdere il già precario equilibrio.
Era Montale, l’unico poeta italiano di cui avesse una vaga conoscenza, ad aver scritto “Felicità raggiunta, si cammina/ per te su fil di lama”?
Non c’era da stupirsi, allora, se lei l’ amava tanto.
Lui però stimava che quel giochetto da equilibristi fosse durato fin troppo: era ormai giunto per lei il momento di poggiare finalmente i piedi per terra e percorrere non angusti budelli, ma strade più larghe e agevoli.
Non poteva garantirle che non avrebbe più trovato ostacoli e di ciò si rammaricava, ma qualora avesse voluto chiedere aiuto a qualcuno, oppure semplicemente cercare un confidente, lui ci sarebbe stato.
Certo, lei aveva superato il suo periodo di crisi, grazie alle sue qualità (non gliene mai avrebbe mai attribuite così tante se non l’ avesse conosciuta così bene) avrebbe certamente fatto tesoro di questa esperienza e, ritornando a percorrere il cammino della propria vita, avrebbe proceduto a testa alta, eppure… lui non poteva soffrire l’ idea di vederla camminare tutta sola.
Gli sembrava di vederla mentre si allontanava lentamente lungo una via un po’ troppo tortuosa, con uno zaino troppo pesante issato sulle spalle, mirabilmente sorretto da una schiena incredibilmente esile ma forte nonostante la sua magrezza.
Una creatura delicata ed orgogliosa, ma piena di bellezza, che spiccava sullo sfondo di squallido grigiore verso il quale si dirigeva.
Qual era la sua meta?
Il picco di un monte altissimo, pieno d’ asperità, brillava minaccioso tra mille altre cime decisamente più dolci. Eppure, chissà perché, quella roccia scolorita e aguzza era di gran lunga la più solida e stabile: ospitava grosse radici di alberi frondosi che offrivano ai passanti non solo la loro ombra, ma anche piccoli fiori dai petali giallini.
Eccoli lì, i calicanti, fugace visione di un tenero piccolo idillio.
Vi aveva riconosciuto, il ragazzo, le prime manifestazioni di un sogno d’ amore latente?
Forse no, o almeno in quel momento non avrebbe potuto dare una definizione a quel sentimento sconosciuto nemmeno se avesse voluto. Riusciva a percepire con chiarezza solo un vago tepore senza nome, lo stesso che gli invadeva il cuore quando vedeva la sua figuretta sottile avvicinars
i  oppure lei gli parlava, gli sorrideva, gli lanciava sguardi d’ intesa.
Voltò lentamente la testa verso i fiori poggiati sull’ erba alla sua destra: già, Calycanthus praecox, ripeté sorridendo tra sé e sé.
Cosa ci facevano sotto il sole cocente di fine luglio?
Il nome della loro specie d’ appartenenza, Chimonanthus, non avrebbe potuto essere più chiaro di quanto già lo fosse: “fiore d’ inverno”.
E difatti il calicanto era un arbusto tipico del suo paese natale (lui non ne aveva nel suo giardino, ma se ne vedevano a profusione dalla finestra della stanza che un tempo era stata di sua madre), ma che in Italia si vedeva di rado e che probabilmente in pochi conoscevano.
Visto completamente spoglio non aveva peculiarità: era una pianta “disordinata”, con vari fusti eretti e tantissimi rami che finivano spesso per creare un ingarbugliatissimo intrico di legno. Solo durante e dopo la fioritura s’ imparava a conoscerlo: i piccoli fiori bianchi o gialli, i cui petali sembravano di cera data la loro consistenza, nascevano dal legno vecchio tra febbraio e marzo, precedendo di gran lunga l’arrivo delle foglie lanceolate.
Era forse per questo che veniva attribuito loro il significato di “conforto” e “protezione”?
Chi avrebbe mai potuto dirlo?
Al ragazzo, però, piaceva credere che fosse proprio così.
Mentre poggiava la schiena contro il tronco del ciliegio si chiese se anche il suo interesse per lei fosse come quei fiorellini: forse, in un certo qual senso, imprevedibile, inaspettato, ma foriero di gioia… Non lo ricordava con chiarezza.
Il sonno che gli chiuse le palpebre gli impedì di trovare la risposta.
Al suo risveglio non seppe dire quanto ebbe dormito. Il sole continuava a picchiare imperterrito su teste e tetti di tutta la città e il giardino era ormai semivuoto. I pochi ragazzi che continuavano ad aggirarsi al suo interno, inoltre, erano fortunatamente quelle persone gentili e discrete, dai passi silenziosi, in linea di massima riservate ma dall’ anima cristallina che ancora guardava al mondo con occhi fiduciosi.
L’ amico ideale, insomma.
Il genere di persona che lei era stata e che nonostante tutto voleva continuare ad essere.
Quel genere di persona che vorresti sempre avere accanto.
Sfiorando la tasca dei pantaloni di tanto in tanto, anche quella volta il ragazzo arrivò al muretto di cinta.
Indugiò nel lasciare il biglietto: avrebbe voluto almeno per una volta aspettarla, seduto lì, per parlarle, ma non era possibile.
Mentre percorreva la strada a ritroso sperò di poterla rivedere presto e di poter camminare, un giorno, con lei, mano nella mano.



“Mi ha fatto davvero piacere rivederti, la volta scorsa.
Ma, soprattutto, il mio cuore ha fatto un balzo nel vedere i tuoi miglioramenti… Spero che presto la ferita si cicatrizzi completamente.
Sappi inoltre che se in futuro avrai bisogno di una spalla io ci sarò.
Te lo prometto.

 
-T”
 




   

 


  
 



 






 
 

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Capitolo 8
*** All the perks of being a kiddie ***


08: All the perks of being a kiddie



Alla fine il tanto sospirato momento era arrivato.
Finalmente era guarita.
La sua ferita si era chiusa e non avrebbe più permesso che fosse riaperta.
Sorrise all’ archetto del suo violino, con il quale stava componendo le note di uno dei tanti brani del Rondò Veneziano. Aveva sempre amato quella musica che sapeva librarsi leggera ma solenne nell’ aria, creando meravigliosi arabeschi e disegni di un’epoca ormai andata ma che sembravano così vivi.
Quando l’ascoltava i suoi occhi brillavano e le dita dei piedi fremevano: la tentazione di volteggiare leggera per la sala seguendo il ritmo della melodia era sempre fortissima, ma anche in quel momento avrebbe dovuto trattenersi a scapito della sua gioia.
Pazienza” pensò con una scrollata di spalle “mi rifarò più tardi”.
Con la felicità le braccia parvero rinvigorirsi, la testa s’ alzò di scatto, le palpebre si abbassarono sulle iridi marroni sfumate d’ azzurro e le dita cominciarono a guidare più speditamente l’ archetto.
La ragazza e il suo strumento divennero una cosa sola e la musica divenne espressione non solo della sua gioia, della quiete dopo la tempesta, ma anche di quei pensieri che, troppo concentrata sui suoi atti per poterli esternare immediatamente, le scaldavano l’ anima.
Era scoppiata in riconoscenti singhiozzi di gioia quando, la sera prima, accoccolatasi sul letto nella stanza del campus, aveva terminato di leggere le parole gentili dell’ amico, che avevano avuto il potere di farle realizzare appieno che era finalmente uscita dal torpore in cui era caduta pochi mesi prima.
Come aveva fatto, lei, a non accorgersene?
Il processo di “guarigione” era stato lento, graduale, un po’ come lo sbocciare placido di un fiore, e lo stato di tranquillità a cui aveva portato poteva essere paragonato all’ atterraggio aggraziato, ma decisamente rallentato, di un’ abile ginnasta dopo lunghi esercizi sulla trave: talmente naturale da sembrare scontato, ma la sensazione del terreno solido al di sotto delle piante dei piedi era strana e liberatoria, foriera di una singolare pace.
Sarebbe stata finalmente spianata, la strada che s’ avviava verso l’ orizzonte? E quale paesaggio si sarebbe presentato ai suoi occhi che brillavano di una nuova, determinata luce?
Non lo sapeva ancora, ma era decisa a scoprirlo e il suo cammino era appena iniziato: non le importava affatto del numero d’ ostacoli che avrebbe trovato, li avrebbe superati anche a costo di ulteriori graffi e sbucciature.
Mai più avrebbe permesso di essere abbattuta in quel modo.
E lui, in tal senso, aveva avuto un ruolo determinante, doveva riconoscerlo.
Se era vero che “l’ apparenza inganna”, lei ne aveva avuto la prova definitiva:  quando l’ aveva conosciuto l’ aveva lapidariamente etichettato “ragazzino”, l’ ultimo tipo di persona con cui avrebbe voluto avere a che fare. Allegro, noncurante, fin troppo burlone, di quelli che fanno battute a sproposito in momenti decisamente inopportuni.
Inutile perder tempo con persone così, aveva pensato con un sospiro, e aveva rivolto la sua attenzione alla compagna di stanza fiorentina, tranquilla e studiosa quanto basta per discutere per ore di arte e letteratura, e al timido afroamericano “nerd” con il quale aveva condiviso varie maratone notturne di videogiochi e confidenze sbucate fuori all’ improvviso da momenti apparentemente fin troppo silenziosi.
Era solo grazie al tempo che avevano passato insieme che aveva potuto appurare che anche quel tibetano sbarazzino aveva delle qualità: la sua allegria talvolta risultava decisamente utile, specie se la tensione era troppo alta, e aveva un acuto spirito d’ osservazione nonché una vasta conoscenza, per la sua giovane età, nel campo dell’ etologia e della botanica.
Celava inoltre una sensibilità fuori dal comune, che veniva allo scoperto solo quando aveva a che fare con piante, fiori ed animale, inoltre in fondo alle sue iridi azzurre spiccava una piccola macchia grigia, ancora non del tutto sbiadita, che lo rendeva talvolta più malinconico e riflessivo.
Una macchia che, nonostante l’ intensità del colore, non aveva quasi alterato la sua allegria: lui non sentiva affatto il peso di quel fardello a lei sconosciuto e procedeva a passi spediti e leggeri. Probabilmente, se lo avesse voluto, avrebbe potuto superare con un solo slancio la distanza che lo separava dal suo paese natio, alla stregua di Mercurio o della bella Iride, la messaggera dell’arcobaleno.
Era la sua gioia a tenerlo sempre vivo, al impedire che sprofondasse nella palude della disperazione, come invece era successo a lei. Era un dono che non le era stato concesso e che avrebbe disperatamente voluto avere, alla luce dei fatti, ma evidentemente le virtù non venivano distribuite in egual misura.
Al contrario di quanto capitava a lui, lei non riusciva affatto a prendere tutto con leggerezza: se aveva un obiettivo da perseguire, spendeva tutte le proprie forze per ottenere il miglior risultato possibile; non riusciva a digerire facilmente né dolori né offese. Quanti affanni inutile avrebbe potuto risparmiarsi!
Lui ne veniva sfiorato appena e lei aveva la certezza che se quella macchia, in passato, poteva averlo profondamente scosso, da quell’ avvenimento nulla più avrebbe potuto turbarlo.
Ma come poteva esserne così sicura non lo sapeva bene nemmeno lei. Avrebbe voluto approfondire la questione, ma probabilmente la cosa migliore da fare era tacere ancora per un po’: non voleva certo ferire il suo angelo.
Sì, angelo, lo vedeva così perché davvero il loro incontro era stato provvidenziale e lui era stato il messaggero del cambiamento[1].
E da quell’ angelo voleva imparare a tornare bambina, a trovare la gioia nelle piccole cose, a correre sulla spiaggia al tramonto con il vento tra i capelli per poi crollare esausta sulla sabbia, a non aver paura di parlare a voce alta e di far capire chiaramente cosa provasse, a ridere anche quando non era il momento di farlo.
Voleva imparare a rinascere.
Perché, a volte, “purificare” vuol dire anche “ricominciare”.
Accostò i due bicchieri che teneva sulla scrivania e fissò, con aria inconsapevolmente sognante e beata, i fiori al loro interno: l’ iris blu che una fioraia dal viso conosciuto le aveva regalato quella mattina aveva decisamente riacquistato forze e aveva un che d’ ipnotico ma rassicurante, con quei petali segnati da venature scure e quella grossa macchia gialla che dalla base s’ allungava verso il centro come una fiammella.
L’ issopo poi, nonostante quei fiori piccolini che pure si trovano in antesi[2], riuscì a strapparle un sorriso decisamente più luminoso del solito. Quella pianticella all’ apparenza tanto insignificante le era molto cara, non solo perché le ricordava casa sua, ma anche per i suoi svariati usi: non era solo ottima come pianta ornamentale e sacra per la religione di suo padre, poteva anche essere usata per facilitare la digestione e curare tosse e raffreddori!
E lei che si era chiesta a cosa potesse mai servire quello steluccio alto poco più di mezzo metro!
Inebriata dal suo profumo, sfiorò con timore quasi reverenziale i sepali azzurri e i pochi pistilli ribelli che osavano farsi notare e poi, stando bene attenta a non lasciar cadere gocce d’ acqua sul pavimento, estrasse lo stelo dalla parte legnosa, dalla base.
Era giunto il momento di consegnare il messaggio.
Quando, con un risata fugace, varcò il portone d’ ingresso del campus, le campane suonarono le cinque del pomeriggio.
 
 
“Ancora un ringraziamento, stavolta per avermi aiutato a purificarmi. Forse per te è stata una cosa da niente, ma io ti sono debitrice, davvero.
Ti prego inoltre di insegnarmi la tua arte.
Fammi ritornare bambina.
Qual è il tuo segreto?
-Y”
 
[1] Tutta la frase gioca sul significato originario della parola "angelo", che in greco antico significa, appunto, “messaggero”.
[2] Antesi: piena fioritura.

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Capitolo 9
*** Waiting for new blossoms ***


09: Waiting for new blossoms
 

 
L’ alba stava incespicando sui tetti rossi delle case, camminando rasoterra tra l’asfalto e l’ erba illuminata dalla rugiada, quando il ragazzo sollevò le palpebre e offrì alle sue pupille l’ immagine inconsueta di un mondo che ancora si stiracchiava, mezzo insonnolito, alla ricerca della giusta carica per affrontare l’ ennesima giornata.
Il cielo aveva un non so che di tenero, con quelle sue striature rosee ed aranciate, e certi uccelli forse fin troppo mattinieri cominciarono a cinguettare appena in tempo per dare il buongiorno a quella figuretta snella che si muoveva in punta di piedi per non svegliare il compagno, che ronfava ancora della grossa.
Lo schermo a cristalli liquidi della sveglia sul comodino segnava le sei.
Un raggio audace del sole nascente illuminò l’ infiorescenza di Corydalis cava sulla scrivania di legno, facendone risaltare il colore violetto dei piccoli petali.
“Cosa ci fai tu qui?” pensò il ragazzo con un sorriso non appena volse lo sguardo vivido verso di essa. “Sei decisamente fuori posto.”
Un fuori posto, quello della piantina, decisamente inconsueto, assolutamente positivo.
Il luogo, infatti, che più le si confaceva erano le pendici di qualche monticello degli Appennini centro-settentrionali o, meglio ancora, gli altopiani della Turchia e della Persia, sui quali cresceva spontaneamente. Inoltre il periodo di fioritura era già passato da molto tempo, visto che andava grossomodo da marzo a maggio.
Grazie al cielo esistevano le serre, altrimenti gran parte del loro rapporto epistolare-floreale sarebbe stato stroncato sul nascere oppure rimpiazzato da sterili disegni che, per quanto belli potessero essere, non possedevano certo la vita e la vividezza dei fiori reali.
I sepali gualciti gli ricordarono la negligenza della sera prima e, con un piccolo tuffo al cuore, vuotò una bottiglietta d’ acqua in un bicchiere di vetro, nel quale pose il rametto fiorito.
Fu alquanto deluso dalla mancata ripresa di vividezza dei fiorellini, ma era il giusto prezzo da pagare per la sua disattenzione.
E poi nessuno aveva decretato che non potessero rifiorire in seguito.
Le gemme verdi si trovavano anche tra i rami secchi: bisogna solo armarsi di pazienza e perseveranza per vederle poi sbocciare meravigliosamente in primavera, anche tra la terra ripulita dalle erbacce.
E anche se nessuno avesse provveduto a liberare il terreno, esse sarebbero cresciute lo stesso, forse un po’ più deboli o forse no.
Perché in fondo alla morte s’ accompagna la vita, e la risalita è la conseguenza naturale di una caduta: una volta toccato il fondo, non si può che spiccare il volo.
Era il principio del Tao, come aveva potuto dimenticarlo?
Non sapeva nemmeno lui come facesse ad essere così stupido, certe volte.
Nelle settimane passate si era scoperto ad immaginarsi un paladino, uno di quelli che per amore della sua donna affrontava imprese grandiose, titaniche, a suo sommo onore:
Ma la realtà era tutt’ altra cosa.
Finalmente aveva realizzato che lui non stava salvando proprio nessuno: semmai la stavano aiutando tutti assieme, nessuno escluso.
E lei non era così debole come aveva voluto credere.
Il pianto non era stato sinonimo di debolezza, ma del suo essere stata forte troppo a lungo; così come quella fase di transizione che lui aveva accompagnato con i suoi fiori non era stata una momentanea resa, ma solo un naturale passaggio di quiete prima della rifioritura.
Lei era forte.
Come aveva potuto essere così cieco?

Anche e soprattutto la “maschera di vetro” era stata un segno della sua voglia di sopravvivere, di non cedere.
La gambestorte di Osaka, tra l’ altro sua carissima amica, aveva frainteso tutto rimproverandole bonariamente la sua presunta debolezza. Era arrivata addirittura ad appiopparle di nomignolo di “Kamenko”[1] che, per quanto fosse stato accolto con una risata dalla diretta interessate, a rifletterci su era graziosamente e subdolamente irrisorio.
Quasi a voler dire: “Sei una buona a nulla perché in questo mondo marcio te la sei squagliata come tutti, scegliendo di mascherarti, io invece sono rimasta me stessa anche nel mondo della televisione che è persino più crudele.”
O, più semplicemente, quella ragazzina fin troppo zuccherosa, come lui in un primo momento, non aveva compreso appieno la situazione: non credeva affatto che quell’ Aoki tanto ingenua potesse avere un animo così meschino.
Si ripromise di spiegarle come stesse davvero la cosa, ora che sentiva di aver capito, ma solo dopo aver chiesto conferma della sua ipotesi.
Ora aveva capito che proprio l’ indossare, per così lungo tempo, quella famigerata maschera era un segno di somma forza: nessun uomo sceglie spontaneamente di avere un cuore in negativo andando contro la sua stessa indole e, se sceglie di farlo, alla lunga si stanca. (Queste erano le sue convinzioni e non sapeva se fossero uguali a quelle di lei.)
Doveva a voleva prendere un po’ di coraggio, ammettere il suo fallo e scusarsi con lei, per poi cercare di esporle la situazione dal suo punto di vista: gli sembrava di averle fatto un torto reputandola tanto debole e la cosa strana era che, razionalmente parlando, non aveva proprio nessun motivo di sentirsi tanto in colpa.
I pregiudizi sono inevitabili e spesso si rivelano sbagliati, ma a conti fatti quel vedersi così scornato (e positivamente) gli faceva sentire un groppo in una zona indistinta tra gola e stomaco.
Alquanto a disagio, deglutì rumorosamente e, dopo aver distrattamente risposto al “buongiorno” impastato di sonno del suo compagno di stanza, volse altrettanto distrattamente lo sguardo oltre i vetri della finestra.
Ormai il sole era sorto e la sua luce era cambiata: era più bionda e ancora gentile sotto la volta tersa del cielo, ancora tiepida, ma nel giro di poche ore avrebbe brillato così intensamente da accecare e sarebbe stata talmente calda da prosciugare tutte le loro energie.
Al suo stato attuale, ancora così timida, in punta di piedi seppur ben dritta con la schiena, le ricordava un po’ lei.
Il giorno precedente l’ aveva vista nel giardino, intenta ad una gouache, mentre litigava con la tempera. Ancora con ci aveva preso la mano, ma non per questo lavorava meno alacremente sulla sua tela: la sua figuretta minuta, eppure così concentrata sul suo lavoro, destava nei passanti che si voltavano a guardarla un tenero sorriso di piacere.
Lui le si era avvicinato e, gettando un’occhiata al paesaggio dipinto, si accorsa che non era il giardino del campus con i suoi ciliegi, le panchine e le strade lastricate; ma le rovine della Valle dei Templi, ad Agrigento, inondate da una luce soffusa che, a giudicare dalla posizione, avrebbe potuto benissimo essere quella di un primo pomeriggio autunnale.
Al suo stupore lei aveva risposto con insolita loquacità, raccontandogli di come era rimasta colpita da quei pezzi di storia tutti ammassati, di come le era sembrato che avessero una loro dignitosa maestosità anche se incompleti, come le colonne.
Solo in un secondo momento lui s’ era accorto della foto appuntata alla tela.
In un altro scatto, conservato nel blocchetto degli schizzi, lei rideva di un solare riso aperto proprio accanto alle rovine, e in un altro ancora sorrideva inginocchiata accanto all’ Icaro caduto.
Forse le piacevano così tanto perché, in fondo, assomigliavano al suo animo in quel momento: per quanto potesse essere ancora ferita, il peggio era passato e le sue ferite si erano quasi del tutto cicatrizzate.
A lui invece quelle rovine avevano fatto tornare in mente l’ immagine dei “suoi” alberi durante i primi giorni di marzo: erano ancora spogli, ma presto, con l’ avvicinarsi della primavera e poi dell’ estate, si sarebbero riempiti prima di fiori e poi di foglie e frutti. Per quanto il colore marroniccio-grigio della corteccia nuda non fosse esattamene piacevole da guardare (ed era vero: di fronte all’ esplosione di colori di giugno o luglio faceva una figura alquanto miserella) a lui piaceva comunque fermarsi a guardarli per un po’, poiché degustava già la prossima fioritura.
Era uno dei suoi momenti preferiti della solitamente noiosa routine quotidiana, perché sedersi sull’ erba del giardinetto di sua madre o accanto alla finestra per guardare gli alberi gli infondeva tranquillità.
Che era esattamente la stessa sensazione che provava osservando anche lui che, non più cupa come le prime volte, suonava, rideva e scherzava con gli altri.
Presto anche lei si sarebbe rivestita di nuovi boccioli.
Doveva solo aspettare.
Vestito con colori più sgargianti del solito, il ragazzo uscì nel mattino di sole e, costeggiando muretti, cancelli e palizzate, si ritrovò in men che non si dica al solito punto.
Anche quella volta indugiò un pochino nell’ ammirare il modesto spettacolo dei fiori di Colombina cava e del cartoncino che aveva ornato con petali secchi e lilla sottratti ad un innocente plumbago.
Solo il suono delle campane che battevano le sette lo face ritornare sui propri passi.


 
“Un piccolo fiore dal grande significato: serenità.
Mai abbinamento fi più calzante: è grazie alle piccole cose che ho notato il tuo importante cambiamento.
È proprio vero che certe cose si apprezzano appieno solo dopo averle ritrovate… o no?
Continua così!
-T
PS: Cerca il significato del plumbago: parlerà per me.”  
 
[1] “La bambina della maschera”, da “Kamen”, “maschera”.

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Capitolo 10
*** Usual Ways, Untrodden Feelings ***


10: Usual ways, untrodden feelings
 

Sotto il cielo rannuvolato e grigio del primo pomeriggio il parchetto era deserto.
Spirava un vento leggero e fresco che sollevava nella sua corsa bianchi pollini e qualche seme di tarassaco che volteggiava leggero, quasi ad imitare la danza di un’abile ballerina.
Solo un’altalena di quelle classiche, con il sedile di gomma un po’ mangiucchiato da fantasmi burloni, ancora oscillava lentamente a segnalare la presenza, almeno fino a poco tempo prima, di qualcuno: una personcina di sesso femminile, seminascosta dal tronco di un albero, seduta sulla felpa che era solita tenere in vita e dagli occhi a mandorla che dolci e pensosa fissavano il vuoto e non le mani, come si poteva credere.
Giugno era agli sgoccioli, il mese di Giulio avrebbe presto bussato alle loro porte, quell’ idillio presto sarebbe finito: cosa ne aveva ottenuto lei?
Avrebbe aggiunto qualcosa al computo dei guadagni, come sperava, oppure quel campus, a conti fatti, non era stato che un altro analgesico inefficace?
Era cambiata? E se sì, in meglio?
Nonostante avesse almeno la metà delle risposte già pronte, amava comunque riordinare quel turbine di sentimenti che le vorticava dentro, fare chiarezza dentro di sé e cercare di capirsi.
Era l’effetto benefico delle sedute dalla psicologa: presto le avrebbe desto arrivederci, lo sapeva bene, ma per gli addii c’era ancora tempo.
La solitudine l’ aiutava e anche quando cercava ispirazione aveva bisogno d’ isolarsi almeno un po’: non sapeva nemmeno lei come mai, ma gli stimoli esterni, distraendola, le impedivano di portare a termine i compiti che si era prefissata oppure ne ritardavano l’ esecuzione.
Allora, cosa poteva dire?
C’era stato un miglioramento?
Sì, impossibile negarlo e anche non notarlo: le sue guance avevano ripreso colorito e lei forze e allegria, ora rideva e scherzava come non faceva più da tempo (nonostante non avesse mai avuto un’ indole troppo incline al divertimento) e aveva stretto delle amicizie che la lontananza non avrebbe scalfito… o almeno sarebbero durate per un po’.
Quindi no, non era stato inutile quel campus musicale.
E poi quel nuovo sentimento che stava bussando alle porte del suo cuore: si poteva già definire con quella parola di cinque lettere che suona “amore”?
Bella domanda.
Di certo era molto più di un semplice interesse, certo s’ era evoluto in una grande amicizia, ma ancora non era totalizzante e sconvolgente “come il vento che dalla montagna si abbatte sulle querce[1].
Parole dell’ immortale Saffo, quelle, che avevano fatto innamorare suo padre di quella Decima Musa, in gioventù, e che lei aveva apprezzato anche se non le erano piaciute particolarmente. Chissà se avrebbe imparato a capirle, prima o poi.
Le aveva sempre lette con il distacco di chi ha la mente lucida, non turbata né dall’ amore né da qualsivoglia altro sentimento intenso: mente da scienziato, l’aveva definita lei.
C’ era stata dunque comprensione, ma non piena, né tantomeno empatia: le uniche emozione che aveva provato in quei giorni erano tristezza e rabbia.
Aveva pianto, e tanto. Il suo spirito era diventato gelido, aveva avuto bisogno di una scossa.
Era arrivata.
Lei era rifiorita.
Ora era felice e forse anche qualcosa in più. Sperava molto in questo qualcosa, in quest’ indefinito che voleva prendesse corpo, germe d’ una novità ancora chiusa in sé stessa.
Un po’ come i semi e i bulbi a cui lui dedicava tante cure anche e nonostante i quattromila metri d’ altezza e che fiorivano meravigliosamente al suo tocco, rivelandosi come serratulae alpine, bucaneve, tulipani.
Cosa stava facendo, lui?
Poteva immaginarlo, perfettamente a suo agio nel giardino del campus, che dedicava tutte le sue attenzioni a quei poveri fiori negletti, calpestati dai passanti distratti, poveri tapinelli, ignorati per la sola colpa di non essere abbastanza grandi o vistosi, come quei bei piselli odorosi in fondo al vialetto che nessuno si prendeva la briga di ammirare.
Durante una delle loro passeggiate lui le aveva detto che teneva molto alle piantine insignificanti perché, nonostante le loro mancanze, erano belle ed utili proprio come quelle più note: bastava un po’ di buona volontà per imparare a conoscerle e ad amarle, nonché la costanza per seguirle passo passo, incoraggiarle.
Ricordava anche come il suo sorriso si fosse allargato quando si era accorto che uno dei fiori, una campanula bianca che appena una settimana prima era sul punto di appassire, aveva ripreso vigore e colore. Era un riso allegro e ristoratore, il suo, che aveva causato anche in lei un’insolita allegria: si erano poi ritrovati a discorrere amabilmente proprio di flora e giardinaggio ai piedi di un grosso ciliegio.
Ma, nel ripercorrere quei ricordi ancora così nitidi, le passarono davanti agli occhi tutte le corolle dei fiori che si erano scambiati fino a quel momento: erano in massima parte molto modesti, dai petali piccoli o dai colori freddi.
Come mai non si era accorta prima di quel dettaglio?
Presa com’ era dalla ricerca dei significati aveva finito per trascurare la loro forma esteriore.
Non poteva dirsi completamente stupita della sua disattenzione, già da un po’ di tempo privilegiava il contenuto alla confezione ed era successo anche per lui; ma ora quel particolare le parve cruciale: aveva involontariamente scelto dei fiori semplici, proprio come lui diceva di amarli.
Di certo non l’aveva fatto volontariamente, non aveva certo avuto l’intenzione di sedurlo in qualche modo, anzi poteva benissimo dire d’ averli presi per moto spontaneo, per una subitanea simpatia che avevano suscitato nel suo animo che poco a poco andava risanandosi.
Non c’era nulla di cui stupirsi, dunque, se lui s’ era sentito in qualche modo attratto da lei: perché in fondo anche lei era una pianticella di scarso valore, tutta raccolta in sé stessa e talmente impegnata ad edificarsi e a brillare solo all’ interno da comparire sciatta e priva d’ interesse a chi guardava da fuori.
Un tremito l’ attraversò tutta: voleva forse dire che non era forte come aveva sperato e come lui aveva creduto?
Ma cosa ci si poteva aspettare, dopotutto, da chi arrossiva violentemente anche per un bacio leggero e fugace come una carpa in un laghetto?
Già, era così che lui l’ aveva salutata dopo l’ ultimo incontro, prima di fuggire via rapido come una folata di vento all’ inseguimento di un pettirosso che aveva sentito trillare, e subito lei s’ era sentita avvampare, mentre il suo stomaco compiva una piccola capriola.
Era davvero caduta così in basso da farsi turbare da un gesto così semplice?
Ricordò le sue parole, lì sotto l’ albero, circondato dalle margherite selvatiche.
“Per quanto possano essere trascurate queste piante, sappi che non hanno proprio nulla da invidiare a nessuna delle loro colleghe. Non sempre la mancanza è un difetto, anzi spesso ha una compensazione.
Un po’ ti assomigliano.”
Poi le aveva anche parlato della sua “teoria”, come la chiamava lui, ovvero la riflessione sulla maschera che lei si era creata, il nomignolo di Makiko e l’anima in negativo.
Ma, se da un lato quanto lui aveva cercato di provare (ovvero che era stato un segno di estrema forza, mascherarsi e tirare avanti come se nulla fosse successo) la lusingava, dall’ altra avrebbe voluto alzarsi in piedi e strillare che erano tutte menzogne, che stava solo cercando d’ indorarle la pillola perché davvero non c’era nulla di valoroso nel voltare le spalle alla realtà e vivere perennemente in bilico in quello spazio indefinito tra illusione e realtà che lei stessa aveva creato, né tantomeno nello schivare le frecce per paura di essere colpita di nuovo, perdendo così l’ occasione di fortificarsi.
E invece nulla, era rimasta buona buona ad ascoltarlo mentre un fremito le attraversava la schiena e gli aveva risposto, una volta finito il discorso, con un banalissimo “Ci penserò su.”.
E meno male che si era ripromessa di non nascondergli nulla… come sapeva svanire in fretta, la sua tanto decantata fermezza, proprio quando ne aveva più bisogno!
Un ghigno amareggiato attraversò il suo viso: doveva assolutamente comunicargli tutti quei pensieri; aveva deciso che sarebbe stata franca con lui e non voleva affatto mancare di parola.
E poi le piaceva parlare con lui, la faceva sentire meglio, più leggera, quasi pronta a spiccare il volo, più incline al riso.
Insomma, la rendeva felice: sarebbe stato triste dirsi arrivederci, alla fine del campus.
Camminando in fretta lungo le strade semiabbandonate del primo pomeriggio, rese più cupe dal colore plumbeo del cielo, raggiunse in fretta il negozietto di fiori diventatole ormai familiare.
L’ accolsero simultaneamente il grazioso tintinnio di una campanella dorata e lo sguardo curioso di una commessa dagli occhialetti a mezzaluna, alla quale chiese di fiori che stessero a indicare la felicità.
Mentre quella camminava in lungo e in largo per la sala sui tacchi alti, l’ attenzione della ragazza fu catturata da alcuni fiorellini gialli i cui petali erano disposti a croce.
La fioraia, accortasene, cominciò ad enumerare le numerose virtù della celidonia minore, dal suo utilizzo per la cura delle verruche a quella dell’ asma, ma anche della sua potenziale pericolosità date le sue componenti tossiche.
La donna sembrava però amare particolarmente quella pianta alta poco meno di un metro: la guardava con tenerezza ricordando gli scrittori che ne avevano parlato, come Dioscoride o William Wordsworth.
Quella passione contagiò anche la ragazza, che ne acquisto alcuni rametti e uscì dal negozio gongolando.
Alzando gli occhi al cielo si accorse, grazie alla luce bionda che colpì le sue pupille, che era ritornato di quel blu che aveva a lungo atteso e che ora pareva sorriderle ed incoraggiarla.
Sopra i tetti volava veloce un carosello di rondini.
Proprio da quegli uccelli così rapidi ed amati traevano il loro nome i semplici fiorellini che aveva in mano, e vedendole volare anche lei avrebbe voluto farlo.
E invece continuò a camminare verso il muretto di casa a passo più spedito, chiedendosi quali altri doni il cielo le avrebbe elargito[2].
 
 
Ricordi quell’ ode di Orazio[3] che mio padre mi aveva dato da leggere e che declamai di fronte a voi?
Ho deciso di fare un conteggio anch’ io, ma della mia situazione attuale: posso finalmente comunicarti/vi che la felicità è arrivata. O, se non l’ha ancora fatto, lo farà al più presto.
Con questi fiori, ancora una volta, ci sono i miei ringraziamenti e la speranza che questa non sia la fine.
Ti voglio bene.

 

-Y


PS: Appena puoi raggiungimi. Ho cose importanti da dirti.”  
 
 

 


[1] Saffo, fr. 47 Voigt.

[2] Frase che gioca sul possibile etimo del nome “celidonia”: potrebbe tanto derivare da “rondine” in greco antico (χελιδών, chelidon), quanto dalla locuzione latina “coeli donum”.

[3] Odi; 1,9.

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Capitolo 11
*** A gentle place to stay ***


11: A gentle place to stay


Il tramonto, proprio come la sorella mattiniera, stava tingendo il cielo di tenui sfumature di rosa e arancio; ma gli occhi attenti di un osservatore acuto come il ragazzo sapevano cogliere benissimo anche i sette colori dell’iride che s’ erano distribuiti lungo tutto la larghezza della volta celeste, dall’ effimera striscia di rosso che quasi svaniva a contatto con le cime dei palazzi al violetto sbiadito che giocava bizzarro con i cirri.
Ma nelle iridi azzurre del giovane scorrevano nitide anche le immagini della giornata al mare da poco trascorsa.
La loro insegnante si era dimostrata soddisfatta dei progressi che avevano fatto nell’ uso degli strumenti ad arco ed aveva voluto premiarli così. Li aveva condotti ad una spiaggetta libera ed appartata, bellissima nella sua civilizzata solitudine e punteggiata di arbusti e gigli di mare, così i ragazzi si erano goduti una meritata giornata di riposo sotto i benevoli occhi cerulei della violoncellista austriaca.
Si erano divertiti molto, certo, avevano persino improvvisato un concertino per la gioia delle orecchie dei passanti, ma lui era stato travolto da un’emozione completamente nuova.
C’era anche lei, la custodia del violino sulle spalle che non pareva più così grande ed un sorriso sul volto ovale che gli allargò il cuore. La gonna a tubino dalle fantasie etniche e la semplice canotta azzurra evidenziavano la natura mediterranea del suo corpo, con quei fianchi che si stavano allargando a scapito del petto ma che le donavano una graziosa femminilità. Nella capiente borsa di stoffa che teneva su una spalla, oltre al portafogli e a tutto l’occorrente per una serena giornata in spiaggia, c’ erano il suo amatissimo I-pod, uno sketchbook dalla copertina zebrata arancione e una giacchetta, di tessuto leggerissimo e dalla foggia orientale.
L’ aveva indossata quando, verso le cinque, l’aveva invitato a fare una passeggiata lungo la battigia. Spirava un venticello fresco ed il sole non batteva poi così forte, per cui aveva accettato di buon grado. Avevano percorso più di un chilometro, senza fretta, evitando solo pochi altri viandanti ed alcuni podisti dalla pelle brunita, parlottando del più e del mendo e ridacchiando di tanto in tanto.
La luce del sole pomeridiano, finalmente alto dopo lunghi mesi di buio, filtrava attraverso alcuni arbusti e i pochi alti alberi immediatamente prima della spiaggia, quelli già colonizzati da formiche ed amache, i soli compagni dell’ozioso girovagare dei gatti della zona.
Venti minuti dopo, seduti sulla battigia accanto ad alcuni scogli ribelli che creavano piccole pozze d’ acqua talvolta più calda talvolta più fredda di quella marina, lui le stava raccontando del proprio cane, delle corse in bici dopo scuola, della meravigliosa gru dal collo nero che da bambina aveva visto fuggire via durante un’escursione e delle feste del villaggio, quando all’ improvviso le era squillato il cellulare.

Era la sorella minore, Valentina, troppo giovane per il loro corso di musica e dunque rimasta a Napoli, che le raccontava di un’ altra escursione, sul Vesuvio e, stando alle parole della ragazza, in toni particolarmente entusiastici. Nemmeno il tempo di riporre il cellulare nella borsa che erano arrivati, tramite MMS, scatti di momenti rubati a quella gita: in uno di essi la ragazzina, il carré castano legato in due code sbarazzine e tuta informe che le ricadeva addosso con il tipico effetto-sacco, si reggeva ad un cespuglio di ginestre.
Pulizia” aveva ridacchiato la sua amica, mentre i suoi occhi venivano attraversati da un lampo fugace di tenerezza, e poi aveva digitato veloce un messaggio al padre per chiedergli quale fosse stato il poeta che aveva scritto di quei fiorellini gialli. La risposta era prontamente arrivata e probabilmente lei gliel’ aveva anche riferita, ma lui non ricordava nulla se non una subitanea visione di un manto macchiato.
Mancava qualche minuto alle sei quando finalmente avevano fatto ritorno dagli amici, e fu proprio allora che i venti ragazzi si sedettero in cerchio sulla sabbia, a gambe incrociate; tra chiacchiere, stecche e risate cominciarono a suonare e, da allora fino al momento in cui si alzarono per fare ritorno al pullmann, fu tutto perfetto.
Anche lei aveva cantato.
Dopo una “Le long de la route[1] praticamente sconosciuta a tutto l’ uditorio ma che aveva riscosso ampio consenso al suo finale, cantato in un francese acuto e di certo non eccelso ma quanto meno orecchiabile; era passata a “21 guns”, di certo eseguita con miglior pronuncia e maggior sentimento.
E lui, nel sentirla modulare una per una quelle parole, aveva sussultato. In un attimo si ricordò di quando lui ed il suo biondo compagno pianista l’avevano invitata nella loro stanza. Era stata un’idea dell’australiano, che la conosceva meglio e sapeva come consolarla: lui al momento non se n’ era curato, ma nel riascoltare quella canzone aveva desiderato ardentemente di essere stato lui a muovere quei primi passi. Era stato uno o due giorni dopo la riflessione scaturita dal Polygonatum, quindi sarebbe stato più che naturale, oltre che giusto, da parte sua.
Eppure era andata così.
Dopo l’iniziale rimorso era subentrata la speranza, una di quelle frammiste a felicità e dubbi che per un po’ ti mozza il fiato, ma che una consapevolezza nuova: era guarita.
Il miglioramento che aveva notato non era transitorio, ora che la guardava attentamente non c’ erano più occhiaie a cerchiare i suoi occhi; né i suoi movimenti erano bruschi ed esitanti; non si ingobbiva più, anche se il suo stare dritta pareva in qualche modo forzato.
Era buffo: le era stato vicino per poco tempo per tutti quei giorni ed aveva notato dei piccoli passi in avanti, ed ora che l’aveva avuta sotto gli occhi per tutto questo tempo non era riuscito a stilare immediatamente una diagnosi, ma aveva dovuto prima mettere assieme tutti i frammenti del puzzle?!
Com’è strana la mente, sospirò scrollando le spalle.
E, visto che era guarita, perché aveva scelto, tra le migliaia di canzoni che sicuramente conosceva, di cantare proprio quella?
Cosa aveva voluto dire?
E c’era davvero un significato nascosto, dietro a quella scelta?
Era stato solo un caso?
Aveva voluto chiudere un ciclo, prepararsi all’ avvenire?
Era un avviso, un incoraggiamento che aveva voluto farsi o darsi, un promemoria?
O semplice gratitudine?
Cosa c’era dietro agli sguardi che gli rivolgeva mente cantava?
Era talmente preso da questo turbinio di interrogativi che, mentre tutti cantavano allegramente assieme a lei, lui era rimasto muto in uno stato di mutismo per quasi tutta la durata del brano, e quando si era unito al coro era ormai troppo tardi.
Fortunatamente, l’ inevitabile scroscio di risate era stato messo a tacere dal virtuosismo (era proprio il caso di dirlo) di un tale Atsushi Kotomi, un vecchio compagno di classe di lei -che per chissà quale oscuro motivo aveva dei freddissimi occhi azzurri-, che era riuscito chissà come ad eseguire sulla viola un brano complicatissimo come “L’ Orientale” del Rondò Veneziano.
Gli era sembrato, nonostante l’ ottima tecnica (non una nota sbavata), che gli mancasse un po’ di pathos. Lei, nel frattempo, si era spellata le mani per gli applausi.
Tempo altri due-tre brani e l’ insegnante aveva suonato la ritirata, erano le sette meno un quarto.
C’ erano stati movimenti goffi di rialzo, chiacchiere miste a sbuffi ed esclamazioni di delusione e la mandria di ragazzi e ragazze si era avviata al pullman, ancora ebbra della bella giornata.
Si erano seduti insieme e, dopo un’ iniziale esitazione intervallata da alcuni sbadigli, avevano ricominciato a parlare di argomenti vari (musica, il sapre del tè tibetano che lui aveva nel thermos, il canto perpetuo degli uccelli durante tutta quella giornata), godendosi un’ altra sana mezz’ oretta di confidenze che lei aveva chiuso con un “Sono felice”.
Lui, nell’ ordine, aveva tirato fuori dalle corde vocali una delle sue solite risposte scanzonate; si era maledetto mentalmente e poi, arrossendo violentemente, l’ aveva guardata di sottecchi, ma lei non se n’ era accorta. Come suo solito in un qualsiasi mezzo semovente, guardava fuori dalla finestra.
Lui non aveva capito mai capito perché ci tenesse tanto a farlo, ma lei diceva che era un ottimo allenamento.
Per il disegno o cosa?
Mistero.
E poi, in un lampo, la realizzazione.
Che scemo sono, io la amo!”
Complimenti per esserci arrivato soltanto ora, genio!” lo aveva schernito la sua coscienza. “Perché credi di averla aiutata per tutto questo tempo, allora?”
Dunque non era “solo” dispiacere per il suo vecchio stato? E nemmeno pietà?
Boh.
Era partito da un’ incognita ed era arrivato a… questo.
Quindi non è solo la mia mente ad essere complicata, aveva pensato con un altro sospiro.
Si era voltato di nuovo a guardarla ed aveva deciso tra sé e sé che con le guance rosse era ancora più carina del solito, peccato solo per quelle chiazze di pelle arrossata, arrivati a casa le avrebbe suggerito una crema da spalmarvi su.
Se non era amore questo, avrebbe potuto essere il suo inizio, il suo bocciolo, la cui fioritura o morte prematura solo il tempo avrebbe potuto decretare.
Ma lui di certo non se ne sarebbe rimasto con le mani in mano.
Così, mentre stavano ritornando a piedi verso i loro alloggi al campus musicale, aveva approfittato di un momento di stallo dei venti adolescenti stanchi e, infilatosi nel negozio di fiori all’ angolo, aveva chiesto alla solita signorina filiforme, in una spiegazione impacciata e balbettata, un fiore che facesse al caso suo.
Quella, senza pensarci due volte, lo aveva portato di fronte ad una fragrante infiorescenza di lillà.
I fiori avevano sempre la capacità di stupirlo ed era infatti rimasto, anche questa volta, imbambolato davanti ai bellissimi seppur piccolissimi fiori a stella che, sotto ai suoi occhi, sembravano fare a gara per rendere più inebriante il loro profumo. Ce n’ erano in tantissimi colori e varietà ed infatti varie volte si era sentito chiamare da quella con i petali color crema appena dietro di lui, ma alla fine chissà perché era uscito dal negozio con un mazzetto tra il lilla e il viola, chiedendosi come mai proprio a quella specie fosse stato attribuito il significato di “primi sentimenti d’ amore”:
Per la piccolezza, il loro bisogno di sole nonostante la posizione a mezz’ ombra o per la facile diffusione dei semi?
Ancora adesso, affacciato alla finestra, giocherellava con quelle foglioline verde chiaro senza aver cavato un ragno dal buco, ma la cosa non aveva più importanza.
Anche la consegna di fiori e bigliettino era rimandata al giorno successivo: ora voleva solo scaldare il proprio cuore con quelle bellissime immagini, rivivendole ancora e ancora, con la brezza estiva che gli accarezzava i capelli e quella, seppure malinconica, dolcissima canzone giapponese che risuonava dalla stanza accanto.

 
 
Forse questa è la prima volta in cui il biglietto non ha nulla da aggiungere ai fiori.
Cosa ti dice il tuo cuore?

-T

 
[1] Dell’ artista francese ZAZ.

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