Tell me how to feel.

di herflowers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Tell me how to feel.

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Presente.
 
Non si era mai ritrovato in una posizione del genere, nemmeno una volta, e tutto gli sembrava così dannatamente strano da arrivare a confonderlo e spaventarlo al tempo stesso. Gli faceva male il petto per le lacrime che si rifiutava di versare, non aveva senso piangere in quelle circostanze, nonostante sentisse che sotto c’era di più, che stava cambiando ed era proprio questo a fargli paura, a farlo imbestialire tanto da alzare la voce e chiedere delle risposte a Harry, che osservava, seduto su quel vecchio divano verde.
Più volte l’aveva visto portarsi le mani tra i capelli e tirarli appena mentre lacrime disperate miste alla frustrazione gli scorrevano sul viso ben definito: le labbra gonfie e umide, gli occhi chiusi talmente forte che pensava potessero fargli male, e le nocche bianche. Gli aveva chiesto più volte di smettere di urlare, di calmarsi e cercare di capire come potesse sentirsi, che nemmeno lui era abituato a tutto quello, che nonostante lo stato in cui si trovava stesse cercando di trovare una risposta a quella confusione e a quell’incertezza che gli impedivano di capire veramente cosa volesse, chi fosse davvero.
Coi capelli ancora tra le dita ripeteva, più a se stesso che al ragazzo in piedi davanti a lui, che non era pronto psicologicamente a quello che era successo nell’ultimo periodo, ai sentimenti soffocanti che lo schiacciavano giorno dopo giorno e a tutte quelle domande nella sua testa che lo perseguitavano anche di notte.
“Sono confuso. Continuo a sentirmi come se stessi crollando sempre più ogni giorno che passa, e non credo di riuscire a reggere questa discussione in questo momento, Matty. Non con la piega che ha preso, almeno.”, gli aveva detto, Harry, alzandosi dal divano e mettendosi davanti a lui.
“Capiscimi quando ti dico che è tutto nuovo per me, che non è affatto semplice e che vorrei davvero rendere le cose facili per entrambi, ma ho bisogno di tempo per riflettere, di pensare alle conseguenze e di come cambierò, perché cambierò. Prima di te ero un’altra persona, pensaci.”
Si abbassò appena per guardarlo meglio coi suoi occhi verdi, bagnati dalle lacrime che gli impedivano di vedere la figura del ragazzo nitidamente, e osservò attentamente il suo viso, pallido e contratto. Matthew deglutiva a fatica e taceva: voleva evitare quello sguardo supplicante e disperato che gli veniva rivolto, e cercava di comprendere le parole di quel ragazzo dai capelli troppo lunghi e dalla fissa per camice orribili che solo lui avrebbe potuto indossare con fierezza, ma quello non era affatto il momento di pensare a quanto gli piacessero le sue camice, col suo profumo, nonostante le trovasse ridicole.
“Non riesco a capire chi sono, non so più nulla se non che sto cercando di ignorare la tua lontananza da me, ma non penso di riuscirci. Ho bisogno di te più di quanto pensassi, e questo mi spaventa.” Harry continuò a parlare, sospirò più volte e si asciugò i palmi delle mani sui pantaloni ormai sgualciti che indossava dalla sera prima. Vedeva nello sguardo di Matthew il risentimento, capiva che fosse ferito, e capiva che non era il solo a star affrontando quel cambiamento, ma aveva bisogno della sua comprensione e del suo appoggio. Nelle ultime due ore aveva provato emozioni così forti che non era mai riuscito a tirare fuori in passato.
La situazione era diventata ridicola, Matthew lo sapeva e avrebbe continuato ad urlare, avrebbe voluto ribattere qualcosa per non sembrare uno stupido, ma la sua vicinanza lo destabilizzava e da così vicino non ci sarebbe mai riuscito: invece avrebbe voluto prendergli il viso tra le mani e baciarlo con rabbia e rancore, asciugare le lacrime che bagnavano quelle sue fottutissime labbra – oh, e come gli piacevano - una volta per tutte per poi andarsene e schiarirsi le idee, per capire le parole che Harry gli aveva detto tremando.
Voleva solo che ammettesse a sé quello che lui stesso aveva capito e preso a due mani, che aveva affrontato e accettato per lui.
Voleva solo che non dovessero più nascondere tutto sotto un tappeto sporco sul quale tutti camminavano, e poter essere loro stessi senza più mascherare i loro sguardi, senza dover stare attenti a tutto quello che si dicevano; desiderava solo che Harry ricambiasse il suo stesso sentimento, che si accorgesse che nel volere bene in quel modo a qualcuno non ci sarebbe mai stato nulla di male, e che lo amasse tanto quanto lo amava lui in quel preciso istante. 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


Tell me how to feel.
 
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11 ottobre 2014.
 
Un forte odore di fondo di caffè, misto a quello zuccherino di brioche e dolci, impregnava le pareti di tutto il corridoio al piano terra che conduceva alla caffetteria interna dell’università; quello a cui Harry pensava in quel momento era infatti il caffè nero che avrebbe preso, come quasi tutte le mattine.
 
La giornata sarebbe iniziata meglio se non si fosse dimenticato di puntare la sveglia la sera prima, svegliandosi così in ritardo e perdendo le prime due lezioni: si era passato nervosamente una mano tra i capelli nell’alzarsi dal letto, maledicendo quell’aggeggio ormai vecchio nonostante fosse consapevole che la colpa fosse la sua, ma così avrebbe alleviato il senso di fastidio che provava da quando aveva messo gli occhi sull’ora segnata in rosso sul piccolo display.
Sbuffò e, tenendo stretti tra le dita un libro e l’agenda sulla quale prendeva appunti, cominciò ad uscire dall’appartamento raggiungendo le scale per incamminarsi verso la caffetteria a grandi falcate, nonostante la calma che metteva nello spostare un piede davanti all’altro.
Da dove abitava lui, in un condominio non molto lontano dall’università, il tempo che impiegava tutte le mattine per andare a lezione era poco più di un quarto d’ora; preferiva di gran lunga vivere per conto suo, coi suoi spazi e solo la sua roba da sistemare, nonostante l’affitto da pagare ogni mese.
 
A pochi passi dalle vetrate della caffetteria intravide l’amica, Jocelyn, seduta in disparte con gli auricolari nelle orecchie e un giornale davanti, le gambe accavallate come ogni volta. Entrando all’interno del locale, venne avvolto completamente dall’odore dolce e forte, dal calore della macchina del caffè e dal vociare di persone intente a fare una pausa prima dell’inizio della lezione successiva; chi di fretta, chi si prendeva il suo tempo, Harry passò tra le persone in piedi e le sedie occupate per raggiungere l’amica. I lunghi capelli castani erano raccolti frettolosamente con un elastico viola; alcune ciocche le ricadevano sul viso, incorniciandolo e facendolo sembrare delicato, l’opposto di come era la ragazza in realtà.
Si conobbero circa due anni prima allo stesso corso di matematica quando il professore si concesse un minuto per bere un sorso d’acqua dopo quasi due ore di quella che doveva sembrare la spiegazione di un argomento, ma che in realtà divenne un continuo biascicare di parole incomprensibili. Successivamente formò gruppi da cinque studenti, Harry e Jocelyn si ritrovarono nello stesso, fino a crearne uno composto solamente da loro due, vista la compatibilità e la simpatia che c’era tra loro, aiutandosi a vicenda.
 
Mise la sua roba sul tavolino rovinato, sedendosi alla sinistra della ragazza che, vedendolo, appoggiò il giornale e tolse un auricolare. Harry cominciò a guardarla divertito con la curiosità che formicolava sotto pelle e la fatidica domanda che gli ronzava in testa, pregando di essere posta ad alta voce, ma Jocelyn lo precedette:
“Non mi chiederai com’è andata ieri sera e, se avevi l’intenzione di farlo, sappi che non ti risponderò.”
“Non sto pensando a nulla se non a quanto sembri… carina, questa mattina.” Harry sorrise di nuovo, portandosi le dita della mano sinistra alle labbra curvate in un sorriso divertito, troppo per i gusti di Jocelyn, che lo guardò di traverso alzando gli occhi al cielo, spostando poi da una parte del tavolino il giornale.
“E’ stato orribile.” Jocelyn sbuffò, portando una mano sulla guancia, chiusa a pugno, e appoggiandosi al tavolo sistemando l’altro braccio, leggermente piegato, appena sotto il seno; portò lo sguardo in quello dalle iridi verdi e le ciglia lunghe di Harry. “Credimi, non so come possa avermi convinta a fare una cosa del genere, ma prometto che non uscirò mai più con un esaltato della squadra di pallacanestro.”
“Suppongo sia una cosa positiva, dopotutto tu odi la pallacanestro.”
Una donna col grembiule rosso allacciato in vita arrivò interrompendo il discorso, poggiando davanti a loro l’ordine fatto dalla ragazza poco prima che Harry arrivasse in caffetteria. L’odore del caffè amaro che usciva dalle due tazze bianche e una brioche vuota, per Harry, vicino ad una alla marmellata, per Jocelyn, fecero tacere i due, che provarono una sorta di piacere nel sentire il liquido caldo e forte inondare le papille gustative.
Dopo un morso alla sua brioche, Jocelyn esordì:
“Non ci trovo nulla di speciale, e posso risparmiarmi partite noiose. Andiamo, io e Joe non siamo fatti l’uno per l’altra anche per questioni di statura. Se solo volessi baciarlo, ipoteticamente parlando s’intende, mi servirebbe una scaletta di mezzo metro, cosa che dovrei comprare e portarmi dietro costantemente.”
“Amori che finiscono ancora prima di cominciare, che peccato”, rise, Harry. Addentò la sua brioche e bevve un sorso di caffè, tutto guardando Jocelyn con lo sguardo perso nel vuoto, sorridendo.
“A me non dispiace affatto, invece”, sentenziò lei, guardandolo e storcendo il naso. Harry rise portandosi una mano sulla pancia e appoggiandosi alla sedia, coinvolgendo anche l’amica.
 
_____
 
L’angolo del lenzuolo sfiorava il naso di Matthew dandogli quel leggero senso di fastidio, e i capelli, ricci e lunghi, erano una massa spettinata e inguardabile sparsa sulla fronte corrugata. Emetteva qualche lamento, l’amico al suo fianco aveva un braccio buttato fiaccamente sul petto di Matthew e una gamba incrociata alle sue. Matthew non riusciva proprio a dormire se aveva caldo ai piedi e, come in quel momento, si rigirava e lamentava nel sonno come in preda ad un incubo. Aprì gli occhi lentamente, quel poco necessario per notare i colori dell’alba riflessi sul soffitto; spostò gli arti del ragazzo senza tante preoccupazioni, si alzò e barcollò assonnato con le mani tra i capelli verso la porta del bagno. Odiava quel tipo di risveglio. Odiava sentirsi infastidito di prima mattina, di sentirsi frastornato e ancora stanco; avrebbe fatto un bagno e sarebbe tornato nel suo appartamento, dopo aver chiamato un taxi. Nel passargli accanto, prese un pacchetto di sigarette sopra il comodino, accendendosene una. Inspirò, trattenne la boccata di fumo, godendosela, prima di buttare tutto fuori, e aprire l’acqua calda nella vasca. Aveva quella strana abitudine di fumare solo mezza sigaretta per poi “buttare via l’eccesso”, dopo solo cinque boccate bruciare. Avrebbe fatto in tempo, si disse. Si sedette sul coperchio abbassato dl water portandosi il filtro alle labbra secche.
Meno due, si disse.
Aspettando l’acqua calda cominciò a pensare alla serata precedente, inspirando e bruciando altra nicotina:
Aveva bevuto tanta vodka – forse troppa –, l’aveva mischiata al rum e ad un bourbon scadente comprato al mini market a pochi metri dall’appartamento dell’amico. Si erano passati qualche spinello mentre cantavano tutti i coro una vecchia canzone rock, sparsi per il salottino. Ricordava qualche parola, un ricordo confuso, ma cominciò a canticchiarne la melodia pensando “Meno tre”, espirando. Si avvicinò alla vasca e chiuse lo scarico con l’apposito tappo, poco dopo si ritrovò con l’acqua calda che gli ricopriva il corpo nudo, arrivandogli alle scapole: il braccio sinistro era steso lungo la coscia, i polpastrelli che sfioravano il fondo liscio della vasca, e quello destro immerso per metà, indice e medio che reggevano la sigaretta accesa.
Mentre si toglieva i vestiti era arrivato alla quarta boccata di fumo, che trattenne mentre si accingeva a immergere un piede all’interno dell’acqua.
Non capiva come fosse arrivato a fare in quel modo tutte le volte, da cosa fosse nata quell’abitudine, ma stava già pensando “Cinque” quando si portò la sigaretta alla bocca, chiudendo gli occhi e rilassando completamente i muscoli. Forse era nato tutto dal ricordo dei genitori che fumavano, dal pensiero di lui bambino che credeva appunto che ogni tiro bruciato accorciasse di un minuto in più la loro vita, ma non aveva fatto lo stesso ragionamento nei suoi confronti, tanto che cominciò a fumare anche lui.
Gli piaceva fumare, nonostante non ci fosse divertimento, nonostante non ci fosse una qualche soddisfazione o dell’appagamento. Fumando passava il tempo, riempiva momenti vuoti e noiosi; lo faceva per non fermarsi, per trovare una scusa e prendersi un minuto all’aria aperta. Non si chiedeva realmente il perché, fumava e basta, e gli piaceva.
 
“Capisco che sei a corto di soldi e vuoi risparmiare, ma l’acqua calda a casa tua ce l’hai. Non capisco il senso di occupare il mio bagno, Healy.” L’amico dai capelli biondi, che lo aveva abbracciato nel sonno, si avvicinò al lavandino con ancora gli occhi chiusi, strofinando i palmi delle mani sul petto nudo e caldo.
“Mi piace la tua vasca.”
“Questo lo dici ogni volta, amico. Cambia repertorio.” Il ragazzo si bagnò il viso emettendo un grugnito, sospirando profondamente. Matthew espirò e guardò il fumo avvolgere le proprie dita e l’involucro che reggevano, per poi sparire.
Si sentiva terribilmente solo, ecco perché tardava il più possibile il rientro all’appartamento. Adorava abitare per conto suo, solo che c’erano giorni sì e giorni no, e quello era difatti un giorno no. Preferiva sentire l’odore che aveva la casa di qualcun’altro, invece che sempre lo stesso solito odore che apparteneva alle sue mura.
“Ti va di fare colazione in caffetteria?”, chiese Matthew, spostando lo sguardo sull’amico intento a sbadigliare.
“Alza il culo dalla mia vasca e và un po’ a casa. Dormi, stasera devi essere carico, e magari possiamo cenare tutti insieme prima dell’esibizione, ma ora devo uscire per delle commissioni.”
“Nonna Ronnie chiede la presenza del suo Georgie?”, Matthew rise al ricordo del nomignolo che l’anziana usava ogni volta con l’amico, immergendo quel poco la sigaretta, in attesa di sentire quel leggero sfrigolio della cenere contro l’acqua.
“Dieci minuti, non un minuto di più”, lo avvertì, George, uscendo dal bagno e accostando la porta.
“Salutami la dolce nonna Ronnie, Georgie!”, rise, affondando verso il basso.
Sarebbe andato via solo una mezz’ora dopo, come sempre, preparandosi con calma e lasciando l’appartamento vuoto dell’amico in completo silenzio, chiudendosi la porta blindata alle spalle.





 
Ciao a tutti, dopo una bel periodo di nulla totale sono tornata con una storia completamente diversa dal mio genere, ed ecco la mia prima fanfiction slash *partono le stelle filanti*.
Sono la prima a dire che la prima parte non c'entri molto, diciamo che serve da passaggio e il vero pov di Harry ci sarà nel secondo capitolo. Il pov di Matty, invece, lo introduce appena e mette in evidenza piccolezze a cui magari nessuno farebbe caso, ma eccole qui.
Se siete arrivati fino alla fine del capitolo e state òeggendo questo mio piccolo (si fa per dire) commento di fine capitolo, grazie mille per la lettura e spero che il prologo - il quale ho versato lacrime su lacrime - e questo primo capitolo vi siano piaciuti, o almeno che vi abbiano incuriosito quel tanto da dire "ma sì, la continuo anche solo per sapere come procede", e spero di ricevere consigli utili a migliorare la storia. Se trovate qualcosa che non vi convince, non esitate a chiedere! (sempre se qualcuno leggerà questa "cosa" xD)

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. ***


Tell me how to feel.
 
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Harry.
 
Una cosa che Harry sapeva perfettamente era che se una giornata cominciava male, di conseguenza finiva male. Dopo la caffetteria tornò a casa in compagnia di Jocelyn, che decise di saltare un paio di lezioni e tornare in facoltà in tempo per l’ultima ora di laboratorio di fotografia. Per strada si fermarono a prendere qualcosa da mangiare per pranzo, poi tirarono dritto per la loro strada fino alla palazzina dove abitava Harry che, arrivando al suo pianerottolo, notò una busta bianca infilata sotto la porta. Era curioso, non si aspettava una lettera da nessuno, e di conseguenza non aspettò per aprirla e leggerne il contenuto. Era in quel preciso momento, leggendo le parole dell’affittuario, che la curiosità di Harry passò a incredulità e poi in disperazione. Quel foglietto, strappato da un’agenda in maniera frettolosa, diceva che, anche se con dispiacere, avrebbe dovuto aumentare la quota mensile dell’affitto. Non si parlava di una cifra esagerata, certo, e avrebbe potuto fare qualche ora in più al lavoro, ma ci sarebbero stati degli scompensi per quanto riguardava l’università. Non poteva rischiare di perdere la borsa di studio, non doveva. Sognava da tutta una vita di potersi laureare in ingegneria, e il pensare di poter perdere tutto per un piccolo problema… no, era fuori discussione.
Harry lavorava in una caffetteria facendo turni pomeridiani e serali, quando capitava qualche serata dedita alla musica dal vivo, letture di poesie o serate cabaret. Ce l’avrebbe fatta, dopotutto tirava avanti così da due anni ormai, e si trovava bene nel suo continuo ripetersi delle stesse azioni. Aveva programmato e provveduto a tutto, ma non avrebbe mai pensato che un giorno le spese sarebbero aumentate, e ciò stava a dire che avrebbe dovuto trovare una soluzione al più presto, o ci avrebbe rimesso, in qualche modo.
“Potresti cercarti un secondo lavoretto, magari come tutor”, gli aveva suggerito l’amica, seduta sul divano intenta a sfogliare una rivista.
“E dove lo trovo il tempo? Le lezioni devo frequentarle, poi ho il lavoro che mi occupa la maggior parte della giornata. Potrei prendere in considerazione questa idea, comunque.” Harry sospirò e si appoggiò al piccolo tavolo in cucina, portando la testa sui palmi delle mani. Si stropicciò gli occhi con forza, cercando di far funzionare il cervello per poter trovare una soluzione. Quella che gli aveva appena proposto l’amica non era affatto male, nemmeno troppo impegnativa a dire il vero, ma non aveva il tempo necessario.
“Magari potresti fare un’ora di ripetizione dopo le lezioni, lasciandoti il tempo di riposare la mente e di mangiare un boccone. Potrebbe andare, secondo me. Se vuoi posso darti una mano, potremmo dare ripetizioni entrambi a due gruppetti di tre, o quattro persone alla volta, e la mia parte la darei a te. Che ne dici?”
“Non ho la minima intenzione di chiederti soldi, Joss.”, sbuffò Harry, alzandosi e avvicinandosi al frigo.
“Non me li chiederesti, te li darei di mia spontanea volontà, Harry, e sai che non si tratta di questo, comunque.”, rispose secca, Jocelyn. Si alzò e appoggiò la rivista dove era seduta poco prima, avvicinandosi all’entrata del cucinotto. “Oppure puoi sempre accettarli e far finta che sia tu a dare ripetizioni al secondo gruppo, o un regalo da parte di un ammiratore segreto. Avanti, Harry!”, sorrise lei, cercando di smorzare l’aria pesante e agitata che li circondava.
“No. Joss, assolutamente no.” Harry fece il giro del tavolo e uscì dalla cucina con una bottiglietta di acqua fredda tra le mani, della quale svitò il tappo velocemente per berne un lungo sorso. In vent’anni di vita non aveva mai chiesto soldi a nessuno e di certo non avrebbe cominciato in quel momento, c’era una soluzione a tutto e l’avrebbe trovata. Jocelyn sbuffò seguendo l’amico e sedendosi nuovamente sul divano verde pisello che vedeva come un brutale pugno nell’occhio e cominciò a fissare i piedi di Harry portarlo avanti e indietro lungo il perimetro della stanza.
“Okay, senti”, disse, fermandosi e guardando l’amica, la mano sotto il mento e l’altro braccio stretto al petto. “Potrei tranquillamente ricavare un’ora dopo le lezioni, come hai detto tu; fare ripetizione a un gruppetto di cinque persone, magari dello stesso anno sarebbe la cosa migliore, tornare a casa, riposarmi e prepararmi per il turno alla caffetteria. Dormirò di più la notte, comunque. Credo potrebbe andare.” Riprese a camminare avanti e indietro esaminando per bene la possibilità di cambiare le sue abitudini. “Poi non sempre ho la mattinata piena fino l’ora di pranzo. Sì, posso farcela.”
“Perfetto, allora. Se credi di poter reggere, è tutto risolto; non ci rimane che preparare qualche foglio da appendere alle bacheche e spargere la voce. E, Harry… il mio aiuto è sempre valido. Guadagneresti di più, pensaci.”
“Posso farcela da solo, grazie lo stesso, Joss.” Le sorrise, un sorriso nervoso, ma avrebbe visto tutto più fattibile e semplice già dal giorno dopo. Si rilassò appena, raggiunse Jocelyn sul divano e l’abbracciò. Non si erano mai scambiati tanti gesti affettuosi, ma in quel momento Harry sentiva che Jocelyn voleva cercare di farlo sentire meglio, e ci riusciva. Harry sospirò e rilassò i muscoli, ancora tra le braccia piccole di Jocelyn. Quando si raddrizzarono, Jocelyn chiese, poggiando una mano sullo stomaco:
“Allora, cosa mangiamo, Styles?”
 
 
Era passata una settimana da quando aveva iniziato a pensare a dare ripetizioni e tre giorni da quando aveva cominciato a tutti gli effetti. Jocelyn lo aveva aiutato coi volantini e presto aveva ricevuto diverse chiamate da studenti del primo anno, alcuni del secondo che frequentavano i suoi stessi corsi; avevano organizzato buona parte del programma, si ritrovavano tutti in biblioteca ed era lì che Harry prendeva le vesti di un ipotetico docente, gli occhiali dalla montatura rettangolare sul naso e una matita tra le dita. Il primo ripasso fu discreto, la timidezza e l’insicurezza gli pesavano sulle spalle, ma la seconda volta andò meglio. Alcune facce erano conosciute ed Harry si sentì molto più sicuro di sé; il programma era stato ben definito la volta prima, gli schemi fotocopiati e le parole seguivano un filo logico ben costruito. Se tutto fosse continuato in quel modo molto probabilmente ce l’avrebbe fatta senza problemi, ma il carico di studio aumentava e i turni cominciavano a cambiare per coprire dei buchi qua e là.
 
Arrivato davanti la caffetteria sfilò le mani fredde dalle tasche del giubbino di jeans ed entrò, spingendo con forza la porta in vetro.
Poco prima di uscire di casa, dove aveva lasciato l’amica, aveva dato un’occhiata al notiziario dove dissero che sarebbe arrivata la pioggia: il sole stava calando, il vento soffiava e le nuvole si spostavano in massa sopra la cittadina. Nonostante sapesse del cattivo tempo, Harry era uscito di casa rimboccando la bretella dello zaino nero sulla spalla sinistra e aveva salutato Jocelyn, lasciando l’ombrello chiuso nell’armadio e indossando un giubbino leggero, indifferente.
Andò ad appendere il giubbino all’appendi panni che usavano solitamente, messo in un angolo della zona riservata al personale, e lo zaino sul pavimento. Prese il suo grembiule e lo allacciò in vita, stringendolo troppo come sempre e abbassandolo un po’ sui fianchi; si legò i capelli castani velocemente e prese posto dietro al bancone dove cominciò ad asciugare i bicchieri bagnati, ancora nel carrellino della lavastoviglie. Quella sera ci sarebbe stata musica live: avrebbe suonato una band del posto, anche se non molto conosciuta, di cui ricordava vagamente alcune canzoni.
Ci sarebbe stato un livello di clientela medio – alto, serate come quella piacevano parecchio, cioè molto lavoro e tante consumazioni, e tutto ciò voleva dire più mance.
Appoggiando il bicchiere asciutto sul bancone, alzò lo sguardo ed incontrò quello del collega, Adrian, al quale accennò un saluto. Adrian sorrise, ricambiando nello stesso modo; era un ragazzo simpatico, Harry si trovava bene quando era in sua compagnia anche se non conosceva poi tanto di lui: sapeva che veniva dal sud, che aveva sperato di poter trovare di meglio, trasferendosi lì, ma era arrivato a fare i doppi turni in quella caffetteria, e conosceva la sua età.
Tornò al suo lavoro concentrandosi sul vetro che teneva tra le mani, pensando a quando avrebbe avuto il gruppo di studio e se sarebbe riuscito a ricavare qualche minuto per dare una letta veloce agli appunti che aveva nello zaino. Sospirò, spostando il peso del colpo dalla gamba sinistra all’altra, e tornò ad alzare lo sguardo. Adrian lo stava raggiungendo con un piccolo block notes tra indice e medio, lo sguardo impegnato a leggere qualcosa sul cellulare. Non appena gli fu davanti, Harry sentì il profumo del ragazzo arrivargli addosso, impregnargli le narici e sconvolgergli i sensi: sapeva di sapone, quello buono e fresco, e di nicotina. Sapeva che nella tasca interna del suo giubbotto aveva il necessario per farsi le sigarette da solo, lo aveva visto, e durante i turni metteva il tabacco e qualche cartina nella tasca del grembiule che aveva allacciato in vita.
“In questo modo ne faccio una ogni tanto. Spesso non ho molta voglia di farle, con le mani fredde non ci riesco nemmeno, quindi fumo meno e risparmio.” Glielo aveva detto una sera, uscendo dalla caffetteria, mentre si accendeva la sigaretta di fine turno cominciando ad aspettare l’autobus che lo avrebbe portato a casa.
 
Se lo trovò davanti in pochi secondi, ancora col sorriso sulle labbra mentre lo guardava e parlava.
“Le persone cominciano già ad arrivare.” Infilò il cellulare nella tasca del grembiule velocemente e si appoggiò al bancone, Harry appoggiò l’ennesimo bicchiere e cominciò a guardarlo, pensando a cosa rispondere.
“I più furbi si prendono i tavoli migliori,” lasciò lo strofinaccio arancione davanti a sé. “farei così anche io, ma sono un dipendente e nonostante tutto ho la postazione migliore di tutte”, fece un cenno con il capo verso il palco per poi allargare le braccia come ad indicare il bar alle sue spalle. Adrian sorrise, annuendo, ed incrociò le braccia al petto, spostando il peso del corpo sulla gamba destra.
“Con l'università va tutto bene?
 Da quando lavorava lì, Harry non si era mai sentito fare una domanda del genere, tutti tendevano a rispondere alle domande quando gli venivano poste e a ricambiare se si sentivano in dovere di farlo - in realtà senza il minimo interesse. Rimase fermo a guardare le sue mani appoggiate sul ripiano da lavoro per qualche secondo prima di alzare lo sguardo e sorridere, grato e sorpreso:
Tutto bene, grazie. Dopotutto la situazione non era critica, le cose andavano bene e procedevano regolarmente senza problemi. Sospirò prendendo un altro bicchiere, cominciando ad asciugarlo. Avrebbe ricambiato di rimando, ma non sapeva cosa chiedere, non conosceva nulla di quel ragazzo, però si buttò ugualmente, lo sguardo basso sul bancone. "Tu, invece?
Il ragazzo sospirò accennando un sorriso tirato, appoggiandosi al bancone con ancora le braccia incrociate, evitando lo sguardo di Harry. Era evidente come cercasse qualcosa da dire, qualcosa con il quale avrebbe evitato di addossare i propri problemi alle persone che lo circondavano, non gli piaceva piangere sulle spalle degli altri.
E' tutto a posto, solo ci sono giorni no, ma niente che non si possa risolvere sorrise brevemente, lo sguardo che lasciava intravedere del dispiacere e quello che sembrava un monologo interiore con il quale Adrian si diede dell'idiota per aver detto una cosa come quella. Si sentiva stupido, chi mai si sarebbe espresso in quella maniera? Uno debole, in cerca di pietà, ecco chi. Harry, accorgendosi della sua espressione, si voltò e prese due bicchierini dal ripiano dei bicchieri, allungando il braccio sinistro verso le mensole alle sue spalle, prendendone una bottiglia. Poggiò i bicchierini davanti alle braccia di Adrian e tolse il tappo alla bottiglia di vodka.
Tempo al tempo, intanto carichiamoci come si deve per il turno. Versò la stessa quantità ad entrambi, appoggiò la bottiglia per prendere il suo bicchierino e lo alzò dicendo un semplice "Cin", guardando il ragazzo negli occhi. Entrambi portarono il bicchierino alle labbra bevendo lo shottino, poggiandolo successivamente sul legno del bancone con un po’ troppa forza.
Adrian rise e si passò il dorso della mano sulle labbra, rosse e carnose.

Grazie, ne avevo bisogno, disse Adrian, tastando la tasca del grembiule in cerca del block notes. Vado a prendere gli ordini ai tavoli, ci vediamo dopo.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Tell me how to feel.
 
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Matthew.
 
Lo sguardo fisso sulla superficie del tavolo in legno, il braccio sullo schienale della sedia e le gambe accavallate. Matthew aspettava la sua birra: avevano appena finito di suonare, chiamato Adrian e ordinato quattro chiare medie. Cominciarono a parlare del più e del meno, aggiungendo qualche aneddoto piccante tra un discorso e l’altro. George parlava di una ragazza incontrata qualche settimana prima con la quale aveva fatto sesso più di una volta, raccontando l’incontro casuale con lei al supermercato, la chiacchierata e il «Ti va di venire a casa mia?» di lei mentre si avviava verso la cassa, osservandolo come da bambini si guardano i dolci in vetrina.
Matthew sospirò e appoggiò la testa sulla spalla di Ross, amico e bassista del loro gruppo; quella sera non era in vena di festeggiare - o qualsiasi cosa avrebbero fatto - quindi si sarebbe bevuto la sua birra fredda e se ne sarebbe tornato dritto a casa. Si sentiva strano, più stanco del solito e quando gli altri gli chiesero di uscire a fumare una sigaretta con loro lui rimase seduto dov’era, la schiena dritta e gli avambracci appoggiati sul bordo del tavolo, il cellulare davanti a sé.
La voglia di chiamare Grace e invitarla al suo appartamento era tanta, il voler anche solo dormire con qualcuno accanto, con lei, senza fare sesso faceva sì che Matthew ciondolasse nell’incertezza per qualche minuto, fino a quando un ragazzo col grembiule nero avvolto in vita si avvicinò al suo tavolo per appoggiarvi un vassoio con le loro quattro birre. Sentì un “Ecco qui le vostre birre” così basso che Matthew alzò le sopracciglia e spalancò appena le palpebre, incrociando lo sguardo del ragazzo. Matthew sorrise impercettibilmente, dicendo: “Grazie.”
Continuò a osservare il ragazzo, che nel frattempo aveva raccolto il suo vassoio e aveva cominciato ad avviarsi verso il bancone del bar, notando i capelli legati in un codino quasi inesistente e una camicia bianca dalla stampa bizzarra. Lo squadrò da capo a piedi notando quanto le gambe lunghe lo slanciassero - avvolte in pantaloni scuri e attillati -, e che la vita sottile risaltava le spalle larghe; la sua schiena era rigida, Matthew riusciva a capirlo dal modo in cui il ragazzo si muoveva.
La mano di George sulla spalla di Matthew lo fece sussultare e si voltò verso l'amico, sedutosi alla sua sinistra, che prese la propria birra per poi passarne un'altra a lui.
"Tutto a posto, Matt?", chiese George, dopo aver bevuto dal proprio bicchiere. “Ti sei perso una scena incredibile.” Gli amici presero a raccontare il fatto accaduto davanti alla caffetteria mentre si fumavano le loro sigarette, ridendo e sbattendo i pugi sul tavolo, ma Matthew - decisamente poco concentrato sull'argomento - tornò a voltarsi per guardarsi intorno e scorgere dietro al bancone il ragazzo che lo aveva servito al tavolo. Lo aveva visto altre volte, quella non fu sicuramente la prima, ma non ci avevano mai scambiato due parole perchè era sempre stato Adrian a servirli, mentre lui rimaneva dietro al bancone a preparare gli ordini. Raramente succedeva che fosse proprio lui a portare le ordinazioni ai tavoli, proprio come quella volta. Notò Adrian avvicinarsi al bancone e porgere al ragazzo un'altra ordinazione. Ci si appoggiò sul fianco e incrociò le braccia al petto, dicendogli qualcosa che scatenò la sua risata: schiuse le labbra mettendo in mostra denti bianchi e perfetti, che trattenevano una gomma da masticare, e abbassò il viso, guardando poi Adrian di sfuggita e ridere ancora di più, scuotendo leggermente la testa; lo vide raddrizzarsi e voltarsi per prendere due boccali medi e avvicinarsi allo spillatore. Matthew rimase a fissarli per altri pochi secondi prima di voltarsi e passare lo sguardo su ogni viso presente al suo tavolo, allungando la mano verso la sua birra e bevendone un sorso. Prese a seguire il filo del discorso, intervenendo qualche volta, fino a quando non si ritrovò a raccontare un inedito di qualche settimana prima coi ragazzi interessati e impazienti di conoscere il punto forte della storia.
 
Passò un'ora, Matthew stava infilando il cellulare nella tasca dei jeans, pronto ad avviarsi alla porta della caffetteria. Aveva mandato un messaggio a Grace, che gli aveva risposto poco dopo, dicendole di raggiungerlo a casa sua di lì a breve. L'avrebbe baciata, presa tra le braccia e respirato il suo profumo, nascondendo la testa nell'incavo del suo collo: si ritrovava a fare così quando si sentiva esattamente come quella sera, bisognoso di affetto. Lei sapeva che il loro era un rapporto strano, non come tutte le persone che si piacciono e decidono di fare coppia fissa; certo, Matthew non era quel tipo di persona che abbordava una ragazza diversa ogni sera, lui aveva Grace, così come lei aveva Matthew, ma più del fantastico sesso e delle coccole non ci sarebbe stato di più. Entrambi non si sentivano in grado di iniziare una storia seria, anche se Grace qualche volta si chiedeva come dovesse essere avere tutto di Matthew, poter sentire quella connessione totale con lui. Ad ogni modo, entrambi erano d'accordo sul tenere il loro rapporto su un certo livello e andava bene così, tanto che Grace era già salita sul primo taxi dando all'autista l'indirizzo di Matthew.
Si fermò davanti al bancone del bar per pagare le sue birre, lo sguardo rivolto in basso verso il portafoglio, cercando una banconota da venti e aspettando che qualcuno lo prendesse in considerazione. Guardò le varie bottiglie di alcolici sistemate sulle mensole, i bicchieri puliti e sistemati con ordine sul ripiano che affiancava il piccolo lavello. Aspettò ancora qualche minuto appoggiato al bancone con le braccia incrociate e una ciocca di capelli che cadeva davanti agli occhi, poi arrivò il barista sconosciuto.
“Ciao.” Grazie alla poca distanza tra loro, Matthew notò il colore degli occhi del ragazzo, puntandovi il proprio. Il suo viso era giovane, non dimostrava più di venticinque anni, ed era rilassato. Le sopracciglia ebbero uno scatto verso il basso quando il ragazzo tirò leggermente su col naso, appoggiandosi al bancone con un braccio e spostando il peso su una gamba mentre l'altra veniva piegata, o almeno così immaginò Matthew.
Arricciando le sopracciglia e facendo mente locale, Matthew schiuse le labbra e disse: "Devo pagare due medie bionde." Raddrizzò la schiena, sospirando; all'interno della caffetteria si stava bene anche solo con le maniche lunghe, come quelle che indossava Matthew, ma dando un'occhiata al tempo fuori non sarebbero bastate.
"Due medie bionde...", sussurrò il barista, portandosi una mano ai capelli e spostando un ciuffo scappato dall'elastico dalla fronte. "In tutto sono dodici - disse, prendendo la banconota da venti del cliente, dandogli poi scontrino e resto - ecco a te." Matthew ringraziò e salutò, saluto che venne ricambiato con un semplice e formale "Arrivederci" seguito da un sorriso.
Matthew lo guardò ancora qualche secondo, mentre portava il portafoglio nella tasca posteriore dei jeans, prima di fare un qualsiasi passo verso la porta. In quell’istante Adrian si avvicinò nuovamente al bancone e vide Matthew voltarsi, e prima che fosse troppo tardi lo andò a salutare. Una mano sulla spalla fece fermare e voltare Matthew, il quale alzò le sopracciglia.
“Già te ne vai?”, sorrise Adrian. Riportò il braccio lungo il suo fianco e spostò il peso su una gamba, in attesa della risposta dell’altro. Matthew sospirò e notò che Adrian aveva un buon odore, forse grazie a uno di quei profumi che era solito comprare alle bancarelle del mercato la domenica mattina; accennò un sorriso e annuì, spiegando poi che era stanco e che sarebbe andato a casa. Adrian tornò a sorridergli, cosa di cui Matthew non capì il senso vero e proprio. Che bisogno c’era di sorridere sempre, lui proprio non lo capiva; capiva che molti lo facevano per cercare di colmare – anche se di poco - il silenzio imbarazzante venutosi a creare, altri per timidezza, e lo si capiva dalla loro espressione, ma Adrian gli sorrideva con quella luce negli occhi che Matthew aveva già ben inquadrato. Lo vedeva anche lui che il ragazzo provava interesse nei suoi confronti, esplicito o implicito che fosse, ed era evidente. Aveva notato anche le occhiate che mandava al collega dietro al bancone, solo che lui non se ne rendeva conto, impegnato com’era a fare avanti e indietro. Comunque, tutto quel sorridere e annuire senza un’apparente motivazione lo infastidiva, in un certo senso.
“In ogni caso – disse Adrian, facendo qualche passo all’indietro e sporgendosi verso il bancone per passare un biglietto al suo collega – Harry, questa è per il tavolo undici.”
Il corpo di Matthew si voltò completamente verso Adrian, puntando però lo sguardo sulla figura di Harry. Quel volto allora aveva un nome, nome che oltretutto gli donava. Lo vide annuire mentre guardava in direzione del tavolo in questione, prima di chinarsi per prendere una bottiglia dal frigorifero sotto al bancone.
“Allora ci vediamo, Matt!” esclamò, Adrian. Quella volta fu Matthew ad annuire, distratto, muovendo un passo all’indietro verso la porta principale, prima di voltarsi e uscire definitivamente dalla caffetteria.
 
Le dita fredde di Matthew scorrevano poco a poco sulla pelle pallida di quel corpo così piccolo e seducente, tra i capelli castani, morbidi e profumati, passando a sfiorarle il viso, incantevole e imperlato di sudore.
Lei percepì l’estrema delicatezza con la quale lui l’accarezzava sulle labbra gonfie, gli zigomi, il collo esposto; vedeva la passione negli occhi di lui, nel modo in cui schiudeva le labbra, la sentiva nel suo respiro.
La trafiggeva lentamente, s’insinuava sotto la pelle facendola formicolare, scorreva nelle vene sommessamente aumentando il battito cardiaco.
Matthew si stava prendendo tutto di lei: voleva sentire il proprio nome sussurrato tra i gemiti di piacere, i loro corpi rabbrividire per la tanta eccitazione, il fiato caldo sulle labbra impazienti.
 
Le mura di quella camera avevano un odore differente, Matthew lo respirò a pieni polmoni prima di girarsi sulla schiena, svegliandosi, e aprendo gli occhi per guardare il soffitto. C’era silenzio, con le coperte che coprivano il suo corpo nudo fino alle spalle, così stava bene, anche se la presenza femminile al suo fianco, stesa a pancia in giù con le braccia esili incrociate sotto al cuscino, bloccava la visuale dell’ora impressa sul display della sveglia. 
Finalmente, quel posto, dopo troppi giorni, aveva un odore differente dal suo; sentiva il profumo zuccherino di Grace sulle lenzuola, l’odore di shampoo fresco tra i capelli e quello di sudore sulla pelle. Prese una ciocca di capelli della ragazza, li arrotolò delicatamente attorno al dito e li portò al viso, respirandone il profumo prima che sparisse per chissà quanto ancora.
 
Gli tornò in mente l’immagine di lui, la sera prima, che sollevava il tessuto sottile della maglietta di lei delicatamente, assaporando ogni centimetro della sua pelle.
A Matthew piaceva scoprire quel corpo, osservare come quei nei piccoli le ricoprivano il ventre piatto, passandoci poi l’indice sopra come stesse creando nuove costellazioni che solo loro conoscevano, fino ad arrivare al seno, proporzionato e sodo; ricordò la risata di Grace dopo aver visto la sua espressione beata, baciandole il ventre e pizzicandole leggermente i fianchi.
 
Sospirò e lasciò cadere i capelli di Grace sulle lenzuola per alzarsi e raggiungere la sedia di legno nell’angolo opposto della stanza. Infilò una delle sue camicie e un paio di boxer, si avvicinò alla porta della camera e si fermò proprio sotto lo stipite per osservare le labbra imbronciate di lei.
La conosceva bene ormai, e gli piaceva guardarla. Era una ragazza affascinante, forse una delle più belle che avesse conosciuto, e ogni volta che si fermava un secondo ad osservarla trovava sempre qualcosa di nuovo da memorizzare e dimenticare subito dopo perché Matthew non se ne faceva nulla del ricordo di quei piccoli dettagli: le persone arrivavano e se ne andavano così come il loro ricordo, e lui non era una persona che si attaccava al passato, figuriamoci all’immagine che lui aveva di loro.
Prese la solita sigaretta dal pacchetto e l’accese, dirigendosi vero il bagno, e sussurrò: “Meno uno.” 

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