Thunders and Gentle Fall of Rain

di arangirl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Clarke posò il pestello sul tavolo di fronte a lei, ripetendo mentalmente la ricetta della pomata che stava preparando. Non era nulla di complicato, solo qualche erba curativa per i dolori muscolari che dei contadini del villaggio lamentavano, eppure era stata una buona scusa per saltare i servizi mattutini. Non che Clarke non amasse pregare, assolutamente, ma pensava che persino per un convento lì si facessero troppe preghiere, e lei era sempre stata una ragazza pratica.
 



Aveva capito abbastanza in fretta che nonostante la sua posizione sociale non indifferente, il suo patrigno era un duca dopotutto, non le sarebbe stato permesso di imparare un bel niente di ciò che più l’appassionava. Voleva essere una guaritrice, aiutare la gente, ma da una damigella come lei nessuno pretendeva nulla di più che un matrimonio di convenienza e la procreazione, perciò nella sua mente si erano distinte fin da subito due possibilità.
 



Rendere felici i suoi genitori sposando un qualche conte dall’aspetto sgradevole, essere moglie e madre devota, vivere nell’ignoranza com’era tipico della sua categoria e non farsi troppi problemi. Oppure, e per quanto all’inizio l’idea la infastidisse si era rivelata la soluzione migliore, fingere la chiamata divina e supplicare la madre di essere mandata in convento.
 



Ora, Clarke era sempre stata una buona cristiana, così le era stato insegnato, ma non le era mai passato per la mente di farsi suora. Almeno finché non si era imbattuta, durante uno dei suoi viaggi con la madre, in un convento che ospitava una biblioteca vastissima, e in cui alle donne, nonostante la legge lo vietasse, veniva insegnato a leggere. Da quel momento rinunciare ai suoi titoli e futuri doveri matrimoniali non era stata una decisione molto difficile e, nonostante le proteste della madre, Clarke era riuscita a convincere il patrigno a mandarla a vivere lì, in quel paesino sperduto sulla costa orientale del Wessex.

 


Non era poi così male, Clarke ne era convinta. Era molto più libera in quel convento di quanto lo fosse stata nel suo castello; le era permesso leggere, imparare l’arte della medicazione, parlare con i paesani che andavano a trovare lei e le consorelle in cerca di aiuto, persino passeggiare vicino alla spiaggia nei momenti liberi: effettivamente Clarke poteva considerarsi fortunata.
 



O almeno, così si era considerata, finché quella mattina non sentì il sordo rumore delle campane del villaggio suonare a più non posso, indicando una e un’unica cosa: i vichinghi.
 



Clarke aveva sentito parlare dei barbari da dei mercanti provenienti dal sud, ma nessuno si sarebbe mai aspettato che arrivassero così lontano per depredare un villaggio piccolo come il loro. Clarke abbandono le sue medicazioni e corse nella piccola chiesa, trovando le sue sorelle in preda al panico: persino dei selvaggi come i vichinghi sapevano che i tesori più preziosi che un villaggio possedeva erano tenuti nascosti nella chiesa, per quanto umile potesse essere la loro comunità.
 



Non c’era posto per nascondersi, e nei volti delle donne che Clarke aveva iniziato a considerare come una piccola famiglia poteva leggere solo disperazione: se fossero state catturate, le aspettava il peggio. Il nodo alla gola che Clarke sentiva da quando le campane erano risuonate intorno a lei si strinse ancora di più, bloccandole il fiato.
 



Il portone della chiesa era stato sprangato, ma non sarebbe stato sufficiente a fermare l’orda barbarica che, Clarke ne era sicura, stava per abbattersi su di loro. Passò solo qualche minuto infatti prima che la porta cominciasse a cigolare, impiegata in una battaglia persa contro chissà quale arma d’assedio, e Clarke sentì il cuore battere all’impazzata all’idea di cosa sarebbe successo dopo: sarebbe morta, trafitta da una spada? O l’avrebbero catturata, violentata, venduta come schiava? Al pensiero della seconda opzione, Clarke capì che avrebbe preferito morire.
 



Il legno cigolò tristemente un’ultima volta prima di spezzarsi, e le grida delle sue sorelle rimbombarono nella mente di Clarke come una tempesta: era finita. Chiuse gli occhi, preparandosi ad affrontare il peggio, ma quando sentì le grida intorno a lei ammutolirsi di colpo si fece coraggio e guardò, spalancando gli occhi quando riuscì a vedere cosa aveva ammutolito le sue compagne.
 



Non c’era nessuna orda, non visibile almeno, ma solo una donna davanti a ciò che restava dell’ingresso della chiesa. Era una donna alta, dall’aspetto terribile e minaccioso, i capelli chiari raccolti in una treccia, il viso colorato di pittura bianca che le circondava i penetranti occhi marrone chiaro. Portava una semplice corazza di cuoio, che le lasciava scoperte le braccia, decorate da tatuaggi tribali che Clarke si ritrovò, nonostante tutto, ad ammirare.
 



La donna portava in mano un pezzo di tela bianco invece di brandire la spada che portava al fianco e Clarke pensò con curiosità che doveva essere venuta in pace, cosa del tutto inaspettata. La donna fece un passo avanti, scrutando con sguardo penetrante e vagamente disgustato lo spettacolo davanti a lei. Quando parlò lo fece nella loro lingua, e nonostante il forte accento, Clarke riuscì a capire benissimo le sue parole.
 



“Veniamo in… pace. Ci è stato detto che ci sono guaritori qui. Abbiamo bisogno di aiuto, il nostro Jarl è gravemente ferito.”
 



 A Clarke per poco non mancò il respiro; per quanto ne sapeva, erano solo in due a conoscere le arti mediche nel convento: lei e il parroco, che le aveva insegnato senza troppo impegno quello che sapeva, lasciando che lei concludesse la sua istruzione sui libri. L’uomo in questione si fece avanti, e Clarke ammirò il suo coraggio.
 



“Lei… lei è la nostra guaritrice.” L’uomo la indicò con mano tremante e Clarke lo guardò sconvolta. Altro che coraggioso, quell’uomo era un verme. La donna la fissò con intensità disturbante e Clarke si ritrovò a tremare dalla testa ai piedi di fronte al suo sguardo. Il fatto che fosse una donna non sembrava renderla meno letale, anzi. Si avvicinò a lei con passi decisi, squadrandola con interesse.
 



“Vieni con me.” Non era una domanda, questo era chiaro, e Clarke non capì cosa le fosse preso quando si sentì rispondere “E se non volessi?”
 



La donna, che si era già girata per tornare sui suoi passi, tornò a guardarla con una scintilla di divertimento negli occhi e le si avvicinò con un sorriso “Se non vieni con me, se mi disobbedisci, se lasci morire il mio Jarl, i miei uomini daranno fuoco al tuo piccolo villaggio. Con tutti i tuoi amici dentro.” La donna pronunciò quelle parole con la semplicità di chi discuteva del raccolto dell’anno precedente, e un brivido freddo percorse Clarke da capo a piedi.
 



“Lasciami prendere le mie medicine. Poi ti seguirò dove vorrai.” La donna rimase in silenzio per un attimo prima di annuire e Clarke tirò un sospiro di sollievo. Non era morta, non ancora.
 
 
*
 
 

La donna vichinga camminava con passo veloce e deciso, fin troppo per Clarke, che con la lunga veste riusciva a malapena a stare al passo “Muoviti! Il mio Jarl sta molto male.”
 



Non si era nemmeno girata per dirlo, e Clarke cercò di accelerare il passo; la donna non sembrava intenzionata a farle del male, ma era sempre meglio non rischiare. “Cos’è uno Jarl?” Clarke si morse la lingua, ma quella domanda le ronzava in testa da quando aveva sentito per la prima volta quel termine.
 



La donna si fermò per un attimo, guardandola con uno sguardo di fuoco, ma poi riprese il passo, scuotendo la testa “E’ come il vostro Lord. E’ il nostro capo, il nostro comandante.”
 



Clarke annuì, si era aspettata una cosa del genere. Si domandò per un attimo chi osasse dare ordini ad una donna così minacciosa, provando un brivido al solo pensiero di cosa la stesse aspettando più avanti. “E cos’è successo al vostro Jarl?” La donna si fermò di nuovo, la mano sull’elsa della spada “Fai troppe domande, suora.” Disse l’ultima parola come un insulto, e Clarke sentì la rabbia montare dentro di lei. Per quanto minacciosa fosse, quella donna non aveva nessun diritto di trattarla così.
 



“Il mio nome è Clarke, e non pensi che potrò curare meglio il tuo prezioso Jarl se mi dici cosa gli è successo?” La donna sembrò davvero sul punto di sguainare la spada, di colpirla, ma sembrò trattenersi “Sei fortunata che mi servi viva. Lo Jarl è stato colpito da una freccia giorni fa. La ferita non sembrava grave, ma si è infettata, e ora è in preda alla febbre. Abbiamo perso il nostro guaritore nell’ultima battaglia, e nessuno di noi è stato in grado di fare qualcosa.”
 



Clarke annuì, sperando in cuor suo che non fosse troppo tardi per salvare l’uomo; lei probabilmente era morta comunque, ma almeno avrebbe potuto salvare il villaggio. Ripresero a camminare in silenzio, scendendo sempre di più verso la baia, e Clarke capì che i vichinghi dovevano avere il loro campo vicino alle loro navi. Aveva sentito dire che i vichinghi erano un popolo arretrato, barbaro, ma che in quanto a navigazione non erano secondi a nessuno.
 



Clarke si era resa conto che per il momento era al sicuro, visto che alla donna serviva viva e vegeta, quindi cercò di sfruttare quell’occasione meglio che poteva “Quindi qual è il tuo nome?” La donna disse qualcosa nella sua lingua, qualcosa che Clarke interpretò come un’imprecazione “Non stai mai zitta?”
 



“Potrebbe servirmi. Se dovessi chiederti una mano mentre curo il tuo Jarl, saprò che nome chiamare.” La donna la fissò con evidente fastidio prima di scuotere la testa “Il mio nome è Anya.”
 



Clarke annuì e si sorprese nel pensare che nonostante tutto quel rapimento fosse la cosa più eccitante che le fosse successa in tutta la sua vita. “E dimmi Anya, è normale che tra voi barbari le donne combattano?” A quella domanda il volto di Anya si rilassò in un piccolo sorriso “Le donne vichinghe non sono deboli come le donne inglesi. Possiamo fare tutto quello che fanno gli uomini, e lo facciamo meglio.”
 



Clarke pensò per un attimo a come sarebbe potuta essere la sua vita se fosse nata tra i vichinghi invece che in Inghilterra. Sarebbe potuta diventare una guerriera, come Anya, una guaritrice vera e propria, o qualsiasi altra cosa. Immaginò per un attimo di poter essere padrona della sua vita, libera di essere ciò che desiderava, e provò un fiotto di gelosia per la donna che camminava accanto a lei.
 



I suoi pensieri furono interrotti dal nuovo scenario che si aprì davanti a lei: erano arrivate all’accampamento. Anya le strinse il braccio con decisione, guardandola negli occhi “Spero che tu sia brava nella medicazione come lo sei nel blaterare, suora. Altrimenti sarà un vero piacere per me staccarti la lingua.”
 



Questo zittì Clarke completamente per il resto del tragitto, e la ragazza si preparò mentalmente a ciò che l’aspettava. Avrebbe dovuto esaminare la ferita prima di tutto, cercare di capire quanto grave fosse l’infezione, sperando che non avesse già corrotto il sangue. Anya la portò verso la tenda più grande del piccolo accampamento, e Clarke sentì addosso gli occhi di tutti gli uomini e le donne che lo abitavano.
 



La sua mente lavorava velocissima, cercando di escogitare un modo per guarire lo Jarl e riuscire ad andarsene intera dall’accampamento, ma ogni suo pensiero fu bruscamente interrotto quando entrò nella tenda del suo paziente. Si era aspettata un uomo possente, un vichingo minaccioso, ma quello che aveva davanti non era nulla di tutto ciò.
 



Sul letto improvvisato al centro della tenda c’era una ragazza, non molto più vecchia di Clarke, dall’aspetto malconcio. La pelle era sudata e pallida,
tipici sintomi della febbre, e tremava visibilmente anche sotto i vari strati di pelli che qualcuno aveva posato su di lei. L’unica parte che sembrava viva del suo volto emaciato erano gli occhi, di un verde intenso e splendente, che si posarono su Clarke non appena mise piede nella tenda.
 



Anya andò verso il letto e s’inginocchiò, lo sguardo improvvisamente preoccupato. Le due si scambiarono qualche parola nella loro lingua, poi la ragazza ritornò a guardare lei, un’espressione curiosa in volto che stonava con le sue condizioni di salute.
 



“Benvenuta.” Il suo accento era meno marcato di quello di Anya, la voce sottile ma sicura allo stesso tempo e Clarke si ritrovò  ad avvicinarsi per poterla sentire meglio “Anya mi ha detto che tu puoi aiutarmi.” Clarke annuì, nonostante potesse vedere che le condizioni della donna non erano le migliori “Posso provarci. Farò del mio meglio…”
 



“Ti conviene riuscirci…” Anya la guardò in cagnesco, ma la donna le posò una mano tremante sulla spalla “Non ascoltare Anya, so bene che le mie condizioni non sono le migliori. Anya mi ha promesso che se dovessi morire ti riporterà al tuo villaggio sana e salva.”
 



Clarke non sapeva se fidarsi o meno delle parole della donna, ma che motivo aveva per dirglielo ora, ancora prima che la esaminasse, così da toglierle i timori di una possibile ripercussione del suo fallimento su di lei o sul villaggio? “Devo esaminare la ferita.”
 



La donna annuì, cercando di sedersi con l’aiuto di Anya, e Clarke le andò vicino, aspettando di vedere il motivo per cui era lì. La donna si tolse le pelli che la coprivano, rivelando una fasciatura malconcia sulla spalla destra.  Clarke appoggiò la borsa accanto al letto, e Anya si spostò malvolentieri per lasciarle esaminare la ferita.
 



La donna dovette accorgersi dell’espressione preoccupata di Clarke nel vedere la ferita vera e propria, perché sospirò profondamente “E’ messa molto male?” La ferita emanava un odore terribile, e i lembi di pelle che avrebbero dovuto ricongiungersi per chiuderla erano ancora separati, di colore grigiastro che stonava con il rossore e il gonfiore del resto della spalla. Il tutto era ricoperto da quello che doveva essere pus e sangue coagulato e Clarke si ritrovò a storcere le labbra per il disgusto. Era una delle ferite più brutte che avesse mai visto.
 



“E’ messa male. In questo punto la pelle sta marcendo. Devo lavarla tutto e togliere tutto il tessuto infetto. L’infezione non sembra ancora essersi diffusa, questo è un bene. Ma dobbiamo agire in fretta. Anya, portami dell’acqua calda con del sale, o del vino se ne avete e delle bende pulite.”  Anya si alzò senza ribattere, ma la voce di Clarke la fermò poco prima che uscisse dalla tenda “E una lama. Portami una lama affilata.”
 



Anya uscì di corsa e Clarke rimase sola con la sua paziente, che la osservava con interesse “Sarà doloroso.” Clarke sapeva che era un eufemismo, sarebbe stato terribile. La donna annuì “Ti ringrazio…” La guardò con curiosità e Clarke ammirò la sua forza d’animo; come poteva essere così calma di fronte alle prospettive che una ferita del genere le dava? “Clarke… mi chiamo Clarke.”
 



“Clarke…” Lo disse in modo strano, accentuando la k nell’accento tipico della loro terra, e Clarke provò un brivido prima di riuscire a fermarlo “Il mio nome è Lexa. Jarl Lexa.”
 


“Bene Jarl Lexa, proviamo a farti restare viva fino a domani.”
 
 
*
 
 

Ci vollero un paio di ore a Clarke per finire il lavoro, lasciando la ferita di Lexa, ora pulita e dall’aspetto più sano, fasciata saldamente con garze pulite. Clarke era rimasta allibita dalla forza di Lexa,  che era rimasta a guardarla pulire la ferita senza quasi battere ciglio, nonostante il dolore che doveva causarle. Era svenuta più tardi, quando Clarke aveva iniziato a eliminare i lembi di carne infetta attorno alla ferita con una lama rovente, e lei ne era stata felice; faticava a lavorare con quegli occhi verdi che la fissavano intensamente. Aveva cercato di chiudere la ferita meglio che poteva, cospargendola di unguento, sperando che quello e le erbe che aveva consegnato in precedenza ad Anya bastassero a farle passare la febbre.
 


Le passò una mano sulla fronte, che ora sembrava meno calda, e sperò che non fosse solo un’impressione dettata dal desiderio di uscire incolume da quella situazione. Per quanto le parole di Lexa l’avessero rincuorata, non era sicura che Anya le avrebbe eseguite.
 



“Non può morire.” La voce di Anya alle sue spalle la fece sobbalzare, non si era resa conto di essere osservata. “Non adesso, non dopo tutto quello che abbiamo sacrificato per arrivare fino a qui. Lo sai perché ha lasciato che la ferita s’infettasse?”
 



Clarke scosse la testa, rimanendo in silenzio per timore che la donna smettesse di parlare “Finita la battaglia voleva andare personalmente da re Wallace per discutere i termini di pace. Non ha sentito ragioni. E quando siamo tornate al campo stava già male… Maledetta testarda. Se muore qui sarà la fine per la nostra pace con gli inglesi, e il caos scenderà sulle nostre terre. Era solo lei a mantenere in vita le alleanze con gli altri clan…” Anya alzò lo sguardo su di lei, come se la notasse davvero per la prima volta “Non so nemmeno perché ti sto dicendo tutto questo. Probabilmente speri che muoia, come tutti noi barbari.”
 



Clarke la guardò negli occhi, sostenendo a lungo il suo sguardo “Potrei dirti di sì, ma non è vero. E non perché temo per la mia incolumità, ma perché è mio dovere aiutare chiunque ne abbia bisogno. A prescindere da chi essi siano, o su che lato del campo di battaglia decidano di morire. Ho fatto tutto il possibile per aiutarla, ora è nelle mani di Dio.”
 



Anya sbuffò scuotendo la testa, anche se a Clarke sembrò di vedere un lampo di rispetto nei suoi occhi “Essere nelle mani del tuo dio per un vichingo è peggio della morte ragazzina. Se vuoi pregare qualcuno affinché la protegga, prega Eir.”
 



Clarke rimase in silenzio allora, guardando Anya con curiosità, senza osare aprir bocca di nuovo, ma la donna sembrò capire la sua domanda inespressa, perché riprese a parlare “Eir è una delle nostre dee. E’ una valchiria con il potere della guarigione… dicono che possa resuscitare i morti, ma speriamo di non dover arrivare a tanto con Lexa. E’ lei che ha trasmesso alle donne l’arte della guarigione e…”
 



“Aspetta un momento, tra i vichinghi anche le donne possono essere guaritrici? E non le bruciate per stregoneria?” Clarke non era riuscita a trattenersi “Solo le donne possono esserlo. Non ho idea di cosa sia quella parola, non conosco benissimo la vostra lingua.” Anya la guardava come se fosse una cosa ovvia, e Clarke sospirò “Credo che mi sarebbe piaciuto essere una vichinga.”
 



Anya la guardò per un attimo “Sei una strana donna, suora. Spero che Lexa sopravviva, così non sarò costretta ad ammazzarti.” Clarke non riuscì a capire se stesse scherzando o meno, ma a quel punto Anya si alzò, lasciandola sola nella tenda, in compagnia del respiro regolare di Lexa. Clarke sapeva che aveva una lunga notte davanti a sé, e cominciò seriamente a pregare per la vita di quella donna vichinga; per sicurezza, pregò anche questa Eir.
 
 
*
 


“Sta ancora dormendo” Clarke si alzò dal luogo in cui era rimasta a controllare Lexa tutta la notte per andare incontro ad Anya che era entrata nella tenda assieme ai primi raggi del sole. “A un certo punto ha avuto la febbre alta stanotte, e ha cominciato a delirare.” Era stato davvero terribile, Clarke aveva creduto più di una volta che Lexa fosse morta, ma incredibilmente era ancora tra loro “Adesso la febbre si è abbassata, sono riuscita a farle bere qualcosa, sembra che l’infuso stia funzionando. Penso che ora abbia solo bisogno di cure e riposo.”
 



Anya incrociò le braccia al petto e la guardò con sollievo “Molto bene, ti ringrazio Clarke.” Era la prima volta che usava il suo nome, e lei non riuscì a trattenere un moto di orgoglio, per quanto assurdo potesse sembrare. “Purtroppo non potrà godere di molto riposo, è arrivato ora un messaggero del nostro villaggio, dobbiamo fare ritorno il prima possibile, partiamo adesso.”
 



Clarke aprì la bocca sconvolta “Ho appena passato una notte intera a tenere il tuo dannatissimo Jarl in vita, non la puoi portare su una nave e sperare che non peggiori! Te l’ho detto, le servono cure e riposo.”
 



Anya non sembrava minimamente preoccupata dello sfogo di Clarke, perché si limitò a sorriderle maliziosamente “Ho capito. Per questo visto che non possiamo darle il riposo, avrà le migliori cure che possiamo darle. Tu vieni con noi.”
 



Tutto il fuoco che aveva animato Clarke fino a qualche secondo prima sparì improvvisamente mentre la ragazza sentiva la terra aprirsi in un baratro ai suoi piedi “Io… cosa?”






Note: Ciao a tutti e benvenuti al mio ennesimo sclero letterario XD! Questo doveva essere un one-shot ma purtroppo non sembro essere capace di scrivere cose corte, quindi andrà avanti per circa 5-6 capitoli. Ho già scritto i primi quindi aggionerò in modo abbastanza regolare, cercando di finire entro Aprile come vuole il contest! Le informazioni storiche di questo AU potrebbero essere sbagliate, mi baso soprattutto sul telefilm Vikings (sì, il titolo è una citazione di Athelstan) quindi non prometto niente, invece i fatti mitologici che inserirò sono tutti esatti (la mitologia nordica è la migliore!). Spero che il prio capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere! Alla prossima 

Ps: ragazzi com'è possibile che Anya non sia ancora nell'elenco dei personaggi? Fate qualcosa per favore, le mancano solo 9 voti! Io la amo troppo, deve esserci!

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


“Clarke”


 
Clarke si svegliò di soprassalto, notando con estremo disappunto che si trovava ancora sulla nave vichinga; no, non era stato solo un brutto sogno. Aveva passato la giornata precedente a vomitare, scossa dal mal di mare; la cosa sembrava aver fatto morire dal ridere tutti i suoi compagni d’imbarcazione, ed era sfinita.
 


La sua stanchezza però lasciò posto allo stupore quando vide chi le stava parlando: Lexa. Dopo aver dormito ininterrottamente per quasi un giorno, ora sembrava lucida e riposata mentre la guardava dalla brandina che Anya aveva fatto costruire ai suoi uomini prima di partire, ogni segno della febbre svanito.
 


“Sai, per un po’ la mia mente ha pensato che fossi una valchiria, venuta a prendermi per portarmi nel Valhalla…” Clarke arrossì involontariamente e le sorrise “Sono contenta che tu sia reale.” Rimasero a fissarsi per qualche secondo, finché Lexa non sembrò accorgersi del luogo in cui si trovavano “Siamo in mare?”
 


“Si… siamo partiti ieri.” Clarke stava cercando di non pensarci troppo, onde evitare un’altra ondata di vomito “E come mai sei ancora qui? Non sei tornata al tuo villaggio?” Lexa sembrava onestamente preoccupata, e Clarke scoppiò a ridere “Ci sarei tornata se il tuo cane da guardia non mi avesse rapita.”
 


Il viso di Lexa si aprì in un’espressione stupita “Anya!” La donna, seduta poco distante da loro, si alzò immediatamente nel sentire la voce di Lexa “Lexa, era ora che ti svegliassi…” Nonostante il tono canzonatorio, Clarke notò sollievo e gioia negli occhi di Anya “Clarke mi ha detto che l’hai costretta a seguirci…” Anya lanciò un’occhiataccia a Clarke prima di rispondere “Eri ancora incosciente… Era la cosa migliore che potessi fare.”
 


Lexa cominciò a parlare nella loro lingua madre e Anya le rispose in modo sempre più seccato; aldilà dei loro ruoli, sembrava esserci un rapporto profondo tra le due donne, che permetteva ad Anya di rivolgersi a Lexa come se non fosse il suo comandante. Dopo qualche altro scambio di battute tra le due, Anya se ne andò irritata e Lexa si lasciò andare sulla branda, evidentemente sfinita da quel minimo sforzo.
 


“Sai… Anya è mia cugina.” Clarke la guardò sorpresa “Mio padre e sua madre erano fratelli, suo padre era un mercante di seta, proveniente da un paese dell’est così sperduto che nessuno ne conosceva il nome, sparito ancora prima di sapere che si stava lasciando un figlio alle spalle. Siamo cresciute insieme, come sorelle.”
 


“E’ per quello che ti parla come se non fossi il suo… Jarl?” Lexa rise “Si dice Jarrrrl.” Accentuò l’erre e a Clarke venne da ridere, stava veramente prendendo lezioni di vichingo da un signore della guerra? Era incredibile come in una situazione in cui si sarebbe dovuta sentire spaventata, in pericolo, riuscisse a sentirsi così a suo agio. “E sì, è anche per questo… Ma più che altro perché abbiamo sempre combattuto fianco a fianco… E’ una donna impetuosa, ma leale.”
 


“Lei sarebbe impetuosa? Ho sentito dire che ti sei presentata di fronte a Re Wallace con la freccia ancora conficcata nella spalla.” Clarke osservò leggermente compiaciuta il vago rossore che apparve sulle guance di Lexa “Chi combatte più di chiunque altro dovrebbe riconoscere il valore della pace. Io lo so bene, non potevo rischiare…”
 


“Scommetto che devi aver fatto una gran bella impressione sul vecchio Re Wallace” Clarke se lo ricordava vagamente da uno dei suoi viaggi alla corte con sua madre e il suo patrigno, era un uomo anziano e tranquillo, ma dallo sguardo malizioso di chi ne aveva viste, e fatte, tante. Clarke si ricordava soprattutto di suo figlio, il principe Cage, che aveva cercato di convincerla ad accompagnarlo nelle sue stanze più volte, nonostante lei all’epoca avesse appena quattordici anni.
 


“L’hai conosciuto?” L’espressione di Lexa sembrava più sorpresa che curiosa e Clarke annuì “Non sarai per caso una principessa?” Il tono della donna era scherzoso, ma il suo sorriso vacillò nel vedere l’espressione di Clarke “Sono una duchessa… O almeno, lo sarei dovuta diventare.” Il viso di Lexa diventò improvvisamente cupo “Anya!” esclamò di nuovo, e la donna le raggiunse in un attimo, un’espressione infastidita in volto.
 


“Poco meno di un giorno dopo aver stretto una fragile alleanza con un potente nemico, rientriamo nel suo territorio, allarmiamo la gente di uno dei suoi villaggi e rapiamo una delle loro nobili? Come ti è saltato in mente?” Lo sguardo di Anya si fece più allarmato mentre passava da Lexa a Clarke “Lei non è una nobile… E’ una suora, l’ho trovata in un convento.”
 


“Sono la figliastra del Duca Kane, che sovraintende la parte orientale del Wessex per conto del re. E sono anche una suora, quella parte è vera.” Clarke guardò Lexa reagire con curiosità a quelle parole “E perché mai una duchessa dovrebbe voler diventare una suora?”
Anya pronunciò qualcosa nella loro lingua e Clarke vide Lexa arrossire mentre distoglieva gli occhi da lei “Cos’hai detto?” Anya la guardò con un sorriso sornione “Ho detto allo Jarl che le suore non possono fare sesso… Non è vero?” Clarke si sforzò di non arrossire a sua volta senza troppi risultati, e si limitò ad annuire.
 


“Sei stata obbligata?” La voce di Lexa era gentile, e Clarke dovette ricordarsi per l’ennesima volta in pochi minuti che stava parlando con quella che era a tutti gli effetti il comandante di un’orda di barbari, un popolo che le era stato insegnato a temere ed odiare, non un’amica. “No. Ho scelto di entrare in convento per poter studiare.” Clarke non aveva riflettuto molto all’epoca su cosa potesse significare la sua scelta per la sua vita sentimentale, non che ne avesse mai avuta una aldilà degli spasimanti che si presentavano al suo patrigno per chiederle la mano. Lei gli aveva sempre respinti tutti, non provando alcun desiderio per loro, per non parlare di sentimenti.
 


“Quindi per gli inglesi non è possibile fare sesso e studiare nello stesso momento?” “Anya…” “Cosa? Sono curiosa!” Lexa le lanciò uno sguardo di fuoco e la donna lo prese come un giusto segnale per andarsene di nuovo, ma Lexa la fermò con un gesto della mano “Speriamo di non dover affrontare un esercito inglese arrivato per riprendersi la loro duchessa… in quel caso sarai tu a doverli fermare, Anya.”
 


Anya si allontanò sbuffando e Clarke, nonostante stesse cercando di concentrarsi sulla vastità del mare attorno a lei, riuscì a sentire lo sguardo penetrante di Lexa su di sé.  C’era qualcosa di lei che l’attirava, una specie di aura che la circondava, rendendola diversa da tutte le altre persone che Clarke aveva incontrato nella sua vita. All’apparenza sembrava calma e ponderata, ma Clarke aveva notato più volte la tempesta di emozioni che si nascondevano nei suoi occhi, e lei ne era intrigata.
 


Cercò di scacciare quel pensiero, ammirando l’ambiente intorno a lei, così nuovo e vasto. Il mare era calmo attorno a loro, avvolgendo qualsiasi cosa che l’occhio di Clarke riuscisse a sfiorare. Non era mai stata su un’imbarcazione così a lungo, mai si era avventurata così lontano da non riuscire più a scorgere la terraferma. Il vento soffiava leggero gonfiando la vela azzurra come il cielo sopra di lei, e poco distante da loro poteva vedere le vele delle altre imbarcazioni che le seguivano leggere sull’acqua.
 


“Sei stata molto coraggiosa a fare quello che hai fatto.” Clarke la guardò senza capire, e Lexa piegò le labbra in un accenno di sorriso “Hai rinunciato alla tua posizione sociale per qualcosa che ami… Non è da tutti… deve essere difficile per una donna come te vivere secondo le loro regole.”
 


Clarke la guardò leggermente sorpresa “Sembri saperne molto sulle nostre regole… e la nostra lingua. Posso chiederti come mai?” Lexa si alzò leggermente allora, cercando di appoggiarsi allo scuro legno della nave “E’ merito di una donna in realtà. Il suo nome è Indra. Molti anni fa fu catturata dai francesi durante le guerre contro i mori per il controllo della Spagna, quando era ancora una ragazza, dopo che la sua tribù nomade fu completamente distrutta. Fu venduta a un nobile inglese, che la portò a Londra, dove passò metà della sua vita… Quando noi vichinghi cominciammo a compiere scorrerie in Inghilterra, fu catturata di nuovo e venduta come schiava nel mio villaggio, dove mio padre la comprò.” Clarke ascoltava rapita la storia di Lexa, non riuscendo nemmeno a immaginare come doveva essere stato per Indra avere una vita del genere.
 


“Tuo padre era uno Jarl?” Lexa scosse la testa “Mio padre era un contadino. Ma sapeva riconoscere il valore delle persone, e non trattò mai Indra come un oggetto. Capì subito che era una donna piena di risorse, così le disse di insegnarmi la lingua inglese, pensando che mi sarebbe tornata utile nel momento in cui fossimo andati a coltivare le terre inglesi, come il vecchio Jarl aveva promesso. Per questo motivo so la tua lingua Clarke, e Anya come me, e molti altri dei miei uomini… Ho voluto che la imparassero; conoscere il tuo nemico è il primo passo verso la vittoria.”
 


“Ma ora hai stretto una pace con il nostro re… perché?” Lexa fissò a lungo l’orizzonte prima di risponderle “Abbiamo combattuto per anni contro la tua gente, abbiamo distrutto villaggi, rubato i vostri tesori, arricchito il nostro villaggio… Ma io voglio di più per la mia gente. Mio padre mi ha insegnato a riconoscere una terra fertile quando ci cammino sopra, e la vostra terra… è qualcosa che noi possiamo solo sognarci. Voglio che la mia gente possa prosperare, anche nel vostro territorio. I miei generali credevano che il modo migliore di conquistare i territori fosse quello di combattere…”
 


“Ma tu hai stretto un’alleanza con Wallace, promettendogli la fine degli assalti in cambio di un territorio in cui stabilirvi.” Lexa annuì, compiaciuta nel vedere che la mente di Clarke lavorava alla stessa velocità della sua “Esattamente. Wallace ha acconsentito alle mie richieste, e molto presto saremo pronti a trasferire alcune delle nostre comunità.”
 


Clarke rimase in silenzio a lungo, la mente in balia di mille pensieri riguardo quello che Lexa le aveva appena raccontato;  alla fine, cercando di spezzare il silenzio tra di loro, fece la domanda che le ronzava in testa dal momento in cui Lexa aveva parlato, anche se temeva di conoscerne già la risposta, trapelata involontariamente dagli occhi luminosi di Lexa “Cos’è successo al vecchio Jarl?”
 


La ragazza di fronte a lei alzò lo sguardo per fissarlo nel suo con tanta intensità che per un attimo Clarke non riuscì a prendere fiato “L’ho ucciso.”
 


La nave ondeggiò più forte sotto di loro, e Clarke sentì la nausea assalirla nuovamente: sarebbe stato un lungo viaggio.
 
 
*
 


Lexa guardò Clarke dormire a lungo quella notte, quando la ragazza era finalmente riuscita a prendere sonno nonostante i movimenti violenti delle onde attorno a loro. Non era un caso che l’avesse scambiata per una valchiria durante i suoi deliri febbricitanti, i biondi capelli lunghi e i grandi occhi azzurri le ricordavano le descrizioni delle nobili guerriere vichinghe di cui suo padre amava raccontare quando era ancora una bambina.
Il suo viso era sereno nel sonno, anche se Lexa notò con interesse che ogni tanto il corpo della ragazza era scosso da tremiti, come se stesse sognando. Clarke doveva essere più giovane di Lexa di qualche anno, una ragazza più che una donna, eppure Lexa aveva avuto modo di notare quanto fosse matura, con uno spirito forte che raramente aveva trovato, anche tra la sua gente.
 


 Avevano parlato poco dopo la confessione di Lexa, come se sentendole raccontare della sua ascesa al potere Clarke si fosse ricordata di dove, e in compagnia di chi, si trovava. Lexa era rimasta sorpresa quando Clarke le aveva rivolto la parola di nuovo, dicendole che era il momento di cambiarle nuovamente le bende della ferita. Clarke era stata metodica e meticolosa nella procedura, cercando di non far male a Lexa più del necessario, ma più che per il dolore, Lexa era preoccupata per il modo in cui il suo corpo reagiva al tocco della ragazza. Erano anni che Lexa non aveva contatti del genere con qualcuno, e nonostante la sua mente sapesse quanto era inopportuno, il suo corpo traditore non le impediva di sentire un brivido ogni volta che la sua pelle e quella di Clarke si sfioravano.
 


“Dovresti dormire invece di fantasticare sulla nostra piccola suora…” Lexa sobbalzò nel sentire la voce della cugina, distogliendo lo sguardo da Clarke per incontrare l’espressione divertita di Anya “Anche se devo ammettere che è carina, per essere un’inglese…”
 


Lexa alzò le spalle, fingendo indifferenza, cambiando argomento “Non mi hai ancora detto perché siamo ripartiti in fretta e furia… Avevamo pianificato di restare in Inghilterra almeno un’altra settimana.” L’espressione di Anya si fece seria, e Lexa capì che doveva essere successo qualcosa di grave “Stavo aspettando il momento giusto per dirtelo. La notte in cui Clarke ti ha curata… E’ arrivato un messaggero da Polis, portando cattive notizie.”
 


Lexa chiuse gli occhi, inspirando profondamente “E’ Nia, vero?”
 


Anya annuì “Suo figlio Roan e i suoi uomini hanno conquistato la città e ammazzato tutti gli uomini che avevamo lasciato a proteggerla. Nia è arrivata qualche giorno dopo, dichiarandosi il nuovo Jarl… Gustus è riuscito a fuggire con alcuni uomini e ha mandato un messaggero ad avvisarci, ma la situazione è grave… Dobbiamo riprenderci la città prima che organizzino delle difese efficaci.”
 


Lexa annuì, incapace di parlare, la rabbia che le chiudeva la gola “Raven?” Anya scosse la testa, l’espressione preoccupata “Il messaggero di Gustus ha detto che non l’hanno più vista dall’attacco.” Lexa alzò il braccio è appoggiò la mano su quella della cugina, stringendola brevemente “Ci riprenderemo Polis Anya… Nia non la passerà liscia, non questa volta.”
 


Anya annuì “Spero solo che il vento continui a favorirci. Non abbiamo un minuto da perdere.”
 
 
*


Ci misero quasi una settimana ad arrivare in vista del villaggio di Lexa e, per quanto Clarke avrebbe voluto, non riuscì a mantenere il silenzio quasi tombale che si era imposta più a lungo del giorno successivo alla sua discussione con Lexa, quando la curiosità ebbe la meglio su di lei e cominciò a fare domande su qualsiasi cosa le venisse in mente.
 


Una parte di lei faceva fatica a conciliare l’idea che si era fatta di Lexa, quella di una persona calma e ponderata, con quella di una guerriera assetata di sangue. Eppure sapeva che per essere arrivata così in alto, le mani di Lexa non potevano che essersi macchiate di sangue. E per quanto gli uomini di Lexa fossero stati gentili con lei durante la sua permanenza sulla nave, sapeva benissimo di cosa potevano essere capaci. Aveva sentito le storie della distruzione e dei massacri che avevano perpetrato per anni sulla sua terra, e non poteva permettersi di abbassare la guardia, per nessun motivo.
 


Nonostante questi pensieri risuonassero sempre chiari nella sua mente, non essendosi mai trovata in una situazione simile, Clarke lasciò che la sua curiosità avesse la meglio sul timore che provava verso questa gente, e visto che Lexa sembrava disposta a dissipare ogni suo dubbio, ne approfittò.
 


Mai in vita sua aveva immaginato quale profonda e ricca cultura potesse nascondersi dietro quel popolo che lei e la sua gente chiamava semplicemente barbari e, restando seduta su quella nave in un punto indefinito del mare, diretta verso chissà dove, comprese che forse non tutte le voci che aveva sentito riguardo ai vichinghi erano vere.
 


Ascoltò incantata mentre Lexa e occasionalmente Anya, anche se fingeva di non interessarsi a lei, le raccontava di Odino e di suo figlio Thor, e di come la sua ira facesse tremare la terra con lampi e tuoni, degli inganni di Loki, di Freya e del suo carro trainato da gatti delle nevi (a questo Clarke aveva riso, questa religione sembrava molto più bizzarra della sua), delle fanciulle dello scudo, di come combattevano al pari degli uomini, come Lexa e Anya, di Yule e delle celebrazioni rituali con cui ogni primavera benedivano il raccolto.
 


C’era qualcosa di molto simile alle vecchie leggende che popolavano la sua terra, secoli prima che il cristianesimo arrivasse anche lì, in un luogo così lontano dalla Terra Santa, leggende che Clarke aveva sentito sussurrate nelle fredde notti d’inverno dalle vecchie che lavoravano nelle cucine. C’era un’aura di magia, parola allora impronunciabile nel suo villaggio, che adornava tutto quello che Lexa le raccontava, che adornava Lexa stessa. C’era qualcosa nel suo sguardo, nei suoi modi di fare, che la rendevano più simile a una degli eroi delle sue storie che a una semplice donna.
 


Ogni giorno Clarke le puliva la ferita, che lentamente stava guarendo, e con il passare dei giorni Clarke si rendeva conto di desiderare che quel momento arrivasse, solo per poterla toccare ancora. Certo, non era la prima volta che trovava attraente una donna, anche se non l’aveva mai confidato a nessuno, aveva sentito di persone finite al rogo per molto meno, ne era consapevole; ma con Lexa era diverso. Non sapeva nulla di lei, tranne che era una guerriera, un astuto comandante, ma tutto questo, e il timore che Clarke avrebbe dovuto provare, veniva mitigato dalla calma espressione negli occhi di Lexa, dalla sua voce gentile, dal leggero tremore della sua pelle ogni volta che Clarke la toccava.
 


“L’inverno sta arrivando” Lexa guardò le scogliere di roccia scura stagliarsi di fronte a loro, alte e imponenti come Clarke non ne aveva mai viste mentre le imbarcazioni si dirigevano verso il fiordo che, Lexa le aveva confermato poco prima, ospitava il suo villaggio.
 


Guardò Lexa, senza capire bene cosa intendesse. Lexa osservò la sua espressione dubbiosa per un secondo prima di riprendere a parlare “Gli inverni qui da noi non sono gentili come in Inghilterra. Dobbiamo riprendere la città prima che il gelo si abbatta su di noi, altrimenti rischio di perdere tutti i miei uomini.”
 


Clarke provò un brivido freddo al pensiero di quello che gli aspettava una volta sbarcati; Lexa non le aveva detto molto, solo che avrebbero dovuto combattere per riprendersi il suo villaggio che era stato occupato da un altro clan. “Questa Nia… la conosci?” Clarke chiese più che altro per curiosità, ma si rese conto di aver fatto un errore quando vide l’espressione negli occhi di Lexa, puro e semplice odio.
 


“Abbiamo una lunga storia alle spalle.  Suo marito… suo marito era lo Jarl di cui ti ho parlato.” Clarke annuì, ricordando perfettamente la conversazione che avevano avuto qualche giorno prima.
 


“Loro… loro non vedevano di buon occhio mio padre, e le voci che spargeva nel villaggio. Si era lamentato più volte delle tasse che la loro famiglia esigeva per organizzare una spedizione in Inghilterra, senza però fare nulla. C’era qualcosa di losco nel loro modo di gestire gli affari, commerciavano in schiavi, cosa che mio padre non trovava giusta, facevano sparire denaro e mercanzie, per motivi ignoti, e lui cercò di opporsi. Come risposta a tutto ciò la famiglia di Nia trovò giusto bruciare la mia fattoria, con la mia famiglia dentro.”
 


Lexa tenne gli occhi fissi sul mare davanti a loro per tutto il tempo, ma a Clarke non sfuggì il tremore nella sua voce “Io, Indra e Anya ci siamo salvate perché in quel momento eravamo a nord a combattere contro un clan rivale. Quando sono tornata della mia casa non era rimasta che cenere… Ho seppellito le ossa dei miei cari e sono andata a sfidare lo Jarl a duello. Era forte… ma non forte come il mio desidero di vendetta. Lo uccisi e il titolo divenne mio.”
 


Lexa si girò in quel momento, guardando Clarke negli occhi “Non ho mai desiderato essere più di quello che ero… Ma non ho avuto scelta.” Clarke riusciva a capire molto bene cosa provava Lexa in quel momento, la consapevolezza di dover prendere scelte disperate pur di raggiungere i propri obiettivi “Perché non hai ucciso Nia allora?”
 


Lexa scosse la testa, come se si fosse posta quella domanda più e più volte “Lei non sembrava essere coinvolta nei piani del marito, non a quel tempo almeno… Mi dissero poi che era stata lei stessa a ordinare la morte dei miei genitori. Ma a quel tempo mi supplicò di risparmiare lei e suo figlio e… per quanto tu possa credermi una selvaggia Clarke, non provo nessuna gioia nell’uccidere, anche quando si rivela necessario.”
 


Clarke distolse lo sguardo, imbarazzata “Non l’ho mai detto.” “Anya mi ha detto che ci consideri barbari… Posso capirlo dopo il modo in cui sei stata strappata dalla tua casa. Mi dispiace molto per ciò che ti è accaduto… Noi siamo vichinghi, e le nostre leggi ci dicono di prendere ciò che vogliamo.”
 


“E tu pensi che sia giusto?” la nota di disappunto nella sua voce non passò inosservata a Lexa, che però rimase impassibile “Non è importante. E’ il nostro modo di vivere.”  “Quindi ora manderai i tuoi uomini a morire in battaglia solo perché questo è il vostro modo di vivere? Hai stretto un accordo di pace con Wallace per non sacrificare vite inutilmente, ma ora sei disposta a farlo nella tua casa? Contro uomini che appartengono alla vostra stessa comunità? Non può esserci una soluzione migliore?”
 


Clarke aveva parlato impulsivamente, senza riflettere troppo sulle sue parole, e sperò di non aver tirato troppo la corda, ma Lexa si limitò a fissarla a lungo, come se stesse ponderando attentamente quello che le aveva detto; incapace di sostenere ancora il suo sguardo, Clarke abbassò gli occhi. “Non questa volta Clarke. Nia ha bruciato la mia casa, le persone che amavo, si è presa il mio trono. Il sangue esige altro sangue.”
 


Quella frase rimase impressa nella mente di Clarke, così come l’espressione minacciosa degli occhi di Lexa mentre la pronunciava. Avrebbe voluto ribattere, dire qualcosa, ma nulla avrebbe potuto fare cambiare idea a Lexa in quel momento. La donna si girò a fissare la spiaggia a cui si stavano avvicinando velocemente, e la sua espressione cambiò nel vedere la figura solitaria che faceva ampi gesti con le braccia nella loro direzione  “E’ Gustus, uno dei miei generali… Lui saprà dirci di più sui piani di Nia.”






Note: Ciao a tutti, eccoci con il secondo capitolo! Per prima cosa volevo ringraziarvi per la super risposta al primo, mi ha fatto davvero molto piacere ricevere le vostre recensioni e i vostri consigli, spero che anche questo vi sia piaciuto perché nonostante non ci sia molta azione, vengono trattati argomenti fondamentali per la trama! Volevo fare un ringraziamento particolare alle mie coinquiline, che nonostante non abbiano mai visto The 100 o letto una fanfiction, hanno insistito per sentirmi leggere la storia, volendo capire cosa faccio tutto il giorno invece di studiare... (ho riso per tutto il pomeriggio: Ma quindi Clarke è una donna?, Leila... Leica... Lexa, Ah ma sono lesbiche?, Oddio, Clarke Kent e Lexa Luthor! Ah... la serie non è quella su Supergirl?, Potresti scrivere una fanfiction sui nostri professiori...).
Come sempre fatemi sapere cosa ne pensate, alla prossima!

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Sbarcarono con velocità impressionante per un numero così grande di persone, e quando Clarke toccò di nuovo il terreno per poco non scoppiò a piangere dalla gioia, non credeva potesse mancarle così tanto avere qualcosa di solido sotto i piedi. Anya la guardò divertita mentre si sedeva sulla sabbia fine e umida con espressione sognante, e pronunciò qualcosa nella sua lingua che Clarke aveva già sentito prima, il giorno in cui Anya l’aveva portata via dal convento “Se ti stessi domandando cosa vuol dire, suora, è il nostro modo di dire idiota.”
 
 

Gustus era un uomo gigantesco, con una folta barba nera e tatuaggi minacciosi che ricordarono a Clarke quelli che aveva visto sulle braccia di Anya, linee e cerchi tribali dall’aspetto esotico. Nonostante incutesse timore a prima vista quando si rivolse a Clarke lo fece in tono  gentile “Anya mi ha detto che hai salvato la vita di Lexa. Te ne sono grato.” Aveva un tono di voce profondo e un accento molto marcato che Clarke trovò quasi esilarante, ma si limitò a sorridergli e annuire, sperando che l’aver salvato la vita di Lexa fosse abbastanza da tenerla al sicuro.
 
 

Camminarono a lungo nella foresta, Lexa era sparita, probabilmente a farsi aggiornare sulla situazione, e Clarke si ritrovò improvvisamente da sola in mezzo a uomini e donne sconosciuti, in una foresta che non aveva nulla a che fare con quelle della sua infanzia, in una terra straniera che poteva esserle fatale. Tutto intorno a lei era verde, gli alti alberi che accompagnavano il sentiero, il muschio scuro sulle rocce, le foglie che ricoprivano il terreno.
 
 

Dopo quella che le sembrò un eternità, le sue gambe si erano abituate agli stretti spazi della nave, arrivarono in vista di quello che le ricordava il campo vichingo che aveva visto sulle spiagge del Wessex quella che sembrava un’eternità prima. C’erano parecchie tende dall’aspetto improvvisato, fatte di tessuto scuro e dall’aspetto resistente o da pelli intrecciate insieme, grossi fuochi disposti davanti ad alcune di esse, davanti ai quali parecchi uomini stavano consumando la loro cena.
 
 

“Clarke, stammi vicina” Lexa era spuntata alle sue spalle come per magia, e Clarke sobbalzò nel sentire la sua voce sussurrata così vicino, ma non se lo fece ripetere due volte, e s’incamminò con Lexa e Anya verso il centro dell’accampamento. Come le era già successo prima, si sentì osservata da tutti mentre camminava tra le tende, la tonaca monacale grigia e lunga così diversa dai vestiti che portavano tutti gli altri, ma cercò di non farsi intimidire, non poteva permetterselo.
 


Notò all’improvviso una donna dalla pelle scura avvicinarsi a loro con passo deciso, i lineamenti del viso duri e l’espressione seria e preoccupata, seguita da un uomo alto, calvo e muscoloso dalla pelle leggermente più chiara, ma dalla stessa tonalità scura che Clarke aveva visto poche volte nella sua vita, alla corte di Re Wallace. Dietro di loro camminava una ragazza dal viso dipinto con la stessa pittura di guerra che Clarke aveva visto addosso ad Anya, lo sguardo minaccioso e i capelli scuri che le incorniciavano il viso, vestita con una rudimentale corazza di pelle.
 


La donna e Lexa si strinsero il braccio in un saluto più formale che affettuoso, ma Clarke riuscì a intravedere un sorriso nel volto duro di quella che, secondo lei, non poteva essere che la famosa Indra di cui Lexa le aveva parlato . Le due donne parlarono per qualche minuto, finché la nuova arrivata non sembrò accorgersi di Clarke, osservandola con curiosità e sospetto.
 
 

Lexa passò all’inglese allora, cosa che aumentò la sorpresa nello sguardo dell’altra donna “Indra, lei è Clarke del Wessex…” Indra la squadrò da capo a piedi con espressione vagamente minacciosa “Ti sei portata dietro una suora…” Lexa la guardò negli occhi e continuò imperterrita “E’ una guaritrice e mi ha salvato la vita mentre eravamo in Inghilterra… Tutti noi le siamo debitrici, perciò cerca di essere gentile.” A quelle parole l’ostilità di Indra sembrò calare leggermente, ma non quella della ragazza dietro di lei, che sputò a terra “Inglesi bastardi…”
 
 


Clarke provò un brivido nel vedere l’odio negli occhi della giovane, ma Lexa riprese a parlare con voce rassicurante “Clarke, come avrai immaginato questa è Indra, lui è Lincoln, suo figlio.” Il ragazzo alto la guardò con espressione gentile che stonava rispetto a quelle delle due donne e Clarke cercò di sorridergli meglio che poteva “E l’incantevole creatura alle sue spalle è Octavia, sua moglie. Stai tranquilla, non ti darà nessun fastidio, vero Octavia?” La ragazza abbassò lo sguardo borbottando qualcosa che Clarke non riuscì a cogliere.
 
 


“Anya!” Una ragazza era spuntata da una delle tende, interrompendo la loro conversazione, e camminava verso di loro con un sorriso in volto nonostante zoppicasse malamente. Clarke vide il volto di Anya cambiare completamente alla vista della ragazza, l’espressione rigida e autoritaria che di solito portava sostituita da un misto di sollievo e gioia così grande che Clarke fece quasi fatica a riconoscerla. La ragazza si gettò letteralmente tra le braccia di Anya e lei la strinse a sé, per poi baciarla con tanto trasporto che Clarke fu costretta a distogliere lo sguardo per non arrossire ulteriormente; aveva trovato un’altra cosa molto diversa rispetto alla sua cultura.
 
 


Lexa si schiarì la gola e le due donne si staccarono mal volentieri , Anya che continuava a guardare l’altra come se fosse uscita da un sogno “Mi avevano detto che eri dispersa… Temevo di non rivederti.”  La ragazza strinse la mano di Anya e le sorrise “Durante l’attacco sono stata ferita, e mi hanno catturata… Ma Octavia era ancora nel villaggio ed è riuscita a liberarmi insieme ad un altro paio di uomini. Quando siamo arrivati all’accampamento il messaggero di Gustus era già partito.”
 
 


“Per fortuna sei salva Raven, eravamo molto preoccupate, soprattutto Anya.” Il volto di Anya arrossì lievemente a quell’affermazione “Non ero per niente preoccupata.” Lexa scosse la testa “Clarke, lei è Raven, la compagna di mia cugina.” Clarke si voltò per osservare meglio la ragazza, notando come la sua carnagione fosse simile a quella di Lincoln, solo leggermente più chiara. Gli occhi scuri della ragazza brillarono d’interesse nel vederla “E’ un piacere conoscerti, Clarke. Grazie di avermela riportata viva, Lexa” Raven scosse il braccio di Anya divertita e la guerriera le passò una mano tra i capelli corvini, stringendola a sé.
 
 


Gustus arrivò in quel momento, il fiato corto e l’espressione preoccupata “Nia ha saputo del tuo arrivo, sta preparando i suoi uomini a difendere la città.”Lexa annuì e guardò gli altri attorno a lei, in attesa di ordini “Gustus, dì agli uomini di prepararsi, dobbiamo partire subito se vogliamo sfruttare quel poco di sorpresa che ci è rimasta. Anya, tu guiderai la prima linea, Lincoln, tu pensa a organizzare gli arcieri. Attaccheremo da sud, dove le difese sono più deboli, mentre Indra e i suoi uomini si muoveranno a est. Octavia, tu rimarrai qui nel campo con una decina di uomini, in caso Nia decida di fare qualche brutto scherzo.”
 
 


Octavia guardò Lexa con espressione furiosa “Non puoi tagliarmi fuori dalla battaglia!” Ma l’espressione di Lexa rimase impassibile “Nelle tue condizioni non posso portarti in battaglia Octavia, lo sai, non ti ho voluta in Inghilterra per quello.” Solo in quel momento Clarke si rese conto del perché delle parole di Lexa: Octavia era incinta. Lincoln le toccò la spalla sussurrandole qualcosa che Clarke non riuscì a capire, e la ragazza sembrò calmarsi leggermente.
 


“Ti affido Clarke e Raven finché io sarò in battaglia…” “Tu cosa?” Clarke e Octavia parlarono all’unisono, guardandosi poi confuse “Non farò da balia a un’inglese. Può morire qui per quanto mi riguarda.” Clarke non capiva cosa potesse mai aver fatto a Octavia per meritarsi tanto odio a prima vista, ma in quel momento aveva qualcosa di più importante a cui pensare “Lexa, non puoi combattere nelle tue condizioni. Devi restare qui.”
 
 


Nel sentire le sue parole tutti si zittirono attorno a loro, e Clarke temette di aver esagerato, lo sguardo di Lexa calò su di lei, severo e impassibile “Non è una cosa che ti riguarda Clarke. Io sono il comandante e guiderò i miei uomini in battaglia.” A quelle parole Clarke sentì un moto d’ira salirle dentro “Non mi riguarda? Ho passato una notte da incubo a cercare di tenerti in vita con una minaccia di morte sulla testa se non ci fossi riuscita, mi avete strappata dal mio villaggio, costretta a seguirvi aldilà del mare, tutto per passare una settimana a vomitare e cercare di non far infettare la tua maledetta ferita su quella nave sporca di Dio solo sa cosa e adesso mi dici che non mi riguarda? Che ho fatto tutto per niente, perché tu non puoi stare in disparte per una volta? Non rimarrò qui a guardarti morire.”
 
 


Clarke concluse il suo discorso senza fiato, domandandosi per un momento perché in fondo le importasse tanto della salute di Lexa; certo, lei era l’unica sicurezza di salvezza che aveva in mezzo a quel popolo sconosciuto, e Clarke non voleva pensare a cosa le sarebbe successo se Lexa fosse morta. Ma una parte di lei, una parte che non riusciva ad ammettere con se stessa, era davvero preoccupata per il destino di Lexa.
 
 


“Allora questo è un addio, Clarke.” La voce di Lexa risuonò fatale e definitiva tra loro e, per quanto Clarke volesse ritirare le sue affermazioni, il suo orgoglio era troppo forte per tirarsi indietro in quel momento “Quando la ferita si riaprirà e s’infetterà di nuovo, non venire da me in cerca d’aiuto.” Con quelle parole se ne andò, lasciando tutti allibiti, non prima di sentire Indra che si faceva una risata “Ha coraggio, devo ammeterlo…”
 
 


Clarke continuò a camminare finché non raggiunse un angolo deserto dell’accampamento, il cuore pesante e l’animo perso, e sentì una lacrima scorrerle in viso al pensiero di tutto quello che le era successo . Era sola e sperduta in una terra straniera, piena di persone che odiavano lei e la sua gente e soprattutto,ammise a se stessa con riluttanza, quella poteva essere l’ultima volta che vedeva Lexa. Cercò di scacciare il pensiero dalla mente, chiudendo gli occhi e rifugiandosi nelle preghiere che conosceva ormai a memoria; non le restava altro che pregare, e aspettare che la battaglia finisse.
 
 
*


Lexa osservò la schiera di uomini davanti a lei con estremo disappunto. Riconosceva alcuni di loro, uomini della vecchia guardia che avevano servito il precedente Jarl, e che evidentemente avevano risposto alla chiamata di Nia quando si era mossa contro di lei.
 


I suoi uomini erano in formazione, pronti alla carica, ma Lexa cercava un volto particolare nella folla dei nemici; quando lo trovò, sentì l’ira che aveva trattenuto fino a quel momento montarle dentro. Roan, il figlio di Nia, si dirigeva a passi lenti verso di lei, camminando vicino alla linea di scudi dei suoi uomini. Se lo ricordava ancora qualche anno prima, in ginocchio davanti a lei dopo che aveva ucciso suo padre, mentre la madre implorava per la sua vita. Roan aveva provato a colpirla dopo che lei aveva vinto il duello, ma i suoi uomini l’avevano protetto; era stata Anya a buttarlo a terra davanti a lei, colpendolo al braccio con la sua spada.
 


Ora sorrideva, guardandola con espressione minacciosa. Lexa impugnò la spada, e gridò a pieni polmoni ai suoi uomini di partire all’attacco. Le spade cominciarono a sbattere contro gli scudi mentre i suoi uomini intonavano un canto di guerra, e Lexa sentì il cuore batterle al ritmo di quegli improvvisati tamburi di guerra. Intuendo le intenzioni del suo nemico, Lexa lasciò cadere lo scudo a terra, in uno scontro diretto l’avrebbe solamente intralciata.
 


Roan, sguainò la spada e s’incamminò verso di lei, i lunghi capelli intrecciati dietro la schiena, le braccia scoperte con più tatuaggi di quanti Lexa si ricordasse. Aveva messo della pittura bianca in due strisce regolari che gli tagliavano verticalmente gli occhi. Gli uomini di Lexa cominciarono a correre attorno a lei, diretti verso i soldati nemici, ma Lexa e Roan sembravano essere immuni al caos intorno a loro, troppo concentrati l’uno sull’altra.
 


Lexa non distolse lo sguardo nemmeno per un attimo dagli occhi di lui, intuendo qualche secondo prima il momento in cui lui iniziò a correre verso di lei, la spada sguainata. Lexa parò il colpo e il clangore delle armi riecheggiò nelle sue orecchie. Roan roteò su se stesso, mirando alle sue gambe, ma Lexa si mosse velocemente, evitando il colpo e calando la spada sul braccio esposto dell’uomo.
 


Roan si tolse appena in tempo per evitare di perdere il braccio, ma Lexa riuscì comunque a ferirlo. L’uomo imprecò tra i denti e si scagliò di nuovo su di lei, mirando al petto; Lexa indietreggiò e deviò il colpo, cercando di colpirlo di nuovo al braccio ferito, ma Roan, nonostante la corporatura possente, era incredibilmente veloce, e questo poteva esserle fatale visto il braccio compromesso che cominciava già a farsi sentire. Si osservarono per un attimo, girandosi intorno con il fiato pesante, e l’uomo le sorrise “Questa volta sei mia, Lexa.”
 


Lexa non fece in tempo a rispondere che lui caricò di nuovo, con un colpo che, se fosse andato a segno, avrebbe potuto tagliarla in due. Lexa parò di nuovo il colpo, questa volta sentendo distintamente i punti che Clarke aveva messo sulla ferita aprirsi con un colpo secco, e trattenne a stento un gemito. Roan sembrò capire che qualcosa non andava e cercò di approfittarne per colpirla ancora, ma prima che potesse farlo una nube di frecce calò su di loro, colpendo Roan alla gamba destra. L’uomo urlò di dolore e Lexa esitò per un secondo di troppo.
 


Uno degli uomini di Nia calò su di lei e la spinse via, aiutando Roan a rimettersi in piedi, trascinandolo verso le loro file. Lexa fece per seguirlo, ma c’erano ancora troppi uomini sulla sua strada; riprese lo scudo e lanciando un urlo di esasperazione si gettò nuovamente nella battaglia. Il terreno sotto i suoi piedi cominciava a farsi scivoloso per il sangue, e le linee nemiche cominciavano a vacillare; alle sue spalle gli uomini guidati da Lincoln continuavano a lanciare frecce  sul nemico, e in lontananza Lexa poteva sentire gli uomini di Indra combattere; la battaglia per la riconquista di Polis era appena iniziata.
 

 
*
 

Lexa si asciugò il sudore dalla fronte con un gesto lento e calcolato, cercando di sprecare meno energie possibili. C’erano solo caos e confusione attorno a lei, uomini feriti che gridavano, il clangore delle lame sugli scudi, il sibilo delle frecce che sferzavano l’aria. Combattevano ormai da ore, e Lexa e i suoi uomini erano riusciti a farsi strada fino alla piazza principale del villaggio: era quasi finita.
 
 


Avevano vinto, questo era palese, gli uomini di Nia che si disperdevano verso il bosco gridando la ritirata, ma Lexa aveva ancora un conto in sospeso. Questa volta non si sarebbe fatta piegare dalla clemenza, doveva trovare Roan e Nia e catturarli, eliminarli per sempre dalla faccia della terra.
 
 


Un uomo le andò incontro con l’ascia sguainata, pronto ad attaccarla, e lei alzò lo scudo. Parò il colpo, cercando di ignorare il tremore che riverberò nel suo corpo, e alzò la spada, approfittando del momento di debolezza dell’uomo. Il braccio destro era un unico fascio di dolore, che le partiva dalla spalla irrorando il braccio fino alla punta delle dita; anche in quel momento Lexa poteva sentire dei caldi fiotti di sangue scenderle sul braccio, ricamando disegni oscuri sulla sua pelle.
 
 


La sua spada squarciò il petto dell’uomo senza trovare ostacoli, e lui si accasciò a terra, morto. Lexa liberò la spada con un movimento che la fece tremare di dolore, ma strinse i denti e continuò ad avanzare. Doveva trovare Nia, doveva fargliela pagare per ciò che si era permessa di fare al suo villaggio.
 
 


Corse verso la sala principale di quella che era a tutti gli effetti la sua casa, seguita da un manipolo dei suoi soldati, ma quando arrivò si rese conto che la peggiore delle ipotesi si era già verificata. Sua cugina era in piedi davanti al trono, il suo trono, la fronte tagliata da un graffio non troppo profondo che le faceva precipitare piccole gocce cremisi sul volto “E’ troppo tardi. Non c’è più nessuno qui.”
 
 


Lexa scagliò lo scudo a terra, in un gesto di frustrazione che non le apparteneva “Torneranno. Quella maledetta donna non si arrenderà mai.” Anya annuì “Se lo aspettava, il nostro ritorno. Ha fatto distruggere quasi tutte le nostre riserve di cibo per l’inverno… Tornerà in primavera con un nuovo esercito. Era il suo piano fin dall’inizio.”
 
 


Lexa avrebbe voluto urlare, distruggere qualsiasi cosa a portata di mano, invece rimase immobile, cercando di calmarsi, di riprendere il controllo di sé. “Stai sanguinando… Clarke aveva ragione, quella ragazzina sa il fatto suo.” Il pensiero di Clarke si accese nella sua mente, portando chiarezza tra le nubi d’odio e rancore che si erano accumulate dentro di lei “Adesso dovrò implorarla di curarmi…”
 
 


Anya le passò accanto con un sorriso divertito, toccandole la spalla in un gesto rincuorante “Spero non decida di ucciderti lei per fartela pagare…” Lexa sorrise al pensiero “E dire che dovrebbe prendersela con te, sei stata tu a rapirla.” Anya alzò le spalle mentre puliva con disinvoltura la spada dal sangue accumulato durante la battaglia “Non sono io a piacerle…” Lexa si sentì arrossire involontariamente, e distolse lo sguardo “Non so di cosa tu stia parlando.”
 
 


“Lexa, non resterò qui a guardarti morire…” Anya cercò di imitare la voce di Clarke senza troppo successo, ma Lexa rise comunque “Sei un’idiota...”  Anya le sorrise e Lexa fu improvvisamente grata di averla al suo fianco, sempre pronta a sostenerla in qualsiasi battaglia si fosse imbarcata, mai gelosa del potere che Lexa aveva ottenuto in così poco tempo, nonostante fosse la maggiore tra le due, Anya sapeva sempre cosa dire per tirarle su il morale.
 
 


“Almeno io non ho una suora arrabbiata che mi aspetta al campo…” S’incamminarono insieme verso il resto dei loro uomini, e Lexa sospirò pensando nuovamente a Clarke; il peggio per lei doveva ancora arrivare.
 
 


La trovò qualche ora più tardi intenta ad accudire i feriti che venivano trasportati nel campo per le prime cure, seguita da una riluttante Octavia che fungeva da traduttrice per Clarke, senza sembrare molto entusiasta del suo compito. Lexa si prese un momento per guardarla lavorare, la tunica che aveva indossato per tutto il viaggio sostituita da un loro abito, un vestito verde fin troppo lungo per lei e un grembiule di pelle che doveva aver visto giorni migliori, facendola sembrare quasi una di loro.
 

 

Il volto di Clarke era concentrato e serio mentre curava i suoi uomini, le mani e le vesti sporche di sangue, il viso accaldato di chi non si è fermato un minuto per ore. C’era ammirazione nell’animo di Lexa, ma non solo, qualcosa che Lexa non riusciva del tutto a decifrare. Nessuno da quando era diventata Jarl aveva osato parlarle nel modo in cui Clarke le aveva parlato poco prima, ma questo non aveva fatto altro che aumentare il rispetto che Lexa aveva nei suoi confronti.
 
 


Clarke finì di sistemare l’osso rotto di un ragazzo, legandogli la gamba a un paio di bastoni usati come stecche di fortuna e si alzò da terra, incrociando il suo sguardo. Lexa riuscì a leggerci un’espressione piena di sollievo prima che la ragazza si girasse di scatto, camminando nella direzione opposta alla sua. Lexa s’incamminò dietro di lei, cercando di raggiungerla senza muovere troppo il braccio dolorante.
 
 


“Clarke…” “La ferita si è riaperta, vero?” Clarke non si era nemmeno girata a guardarla, e la sua voce era di ghiaccio “Sì… Ma non mi pento di quello che ho fatto Clarke. Devo guidare i miei uomini in battaglia, ne va della mia credibilità, della fiducia che hanno nei miei confronti. Quella donna ha usurpato la mia casa, dovevo essere io a punirla.” Clarke si fermò allora, girandosi a guardarla negli occhi “E l’hai fatto?”
 
 


Lexa distolse lo sguardo “E'scappata prima che potessi prenderla.” Clarke rise scuotendo la testa “Puoi ricucirti la tua ferita da sola, grande Jarl.” Fece per andarsene, ma Lexa la trattenne, stringendole delicatamente il polso “Non volevo sminuire quello che hai fatto per me Clarke. Ti devo la vita. E ho ancora bisogno di te.”
 
 


Gli occhi di Clarke scivolarono per un attimo sul suo polso, dove la loro pelle si sfiorava, e Lexa si pentì del suo gesto, ritirando la mano come se fosse stata in fiamme. Clarke rimase in silenzio per qualche secondo prima di sospirare profondamente e fare cenno a Lexa di sedersi vicino al fuoco.
 
 


Rimasero in silenzio mentre Clarke puliva e ricuciva la sua ferita, ignorando i leggeri tremiti di Lexa quando ci passava sopra con troppa energia, finché Clarke non diede voce a quello che, Lexa pensò, doveva ronzarle in testa da molto tempo “Suppongo che dopo questo potrò fare ritorno a casa…”
 
 


Lexa la guardò negli occhi, capendo che non c’era motivo di mentirle “Purtroppo l’inverno è alle porte Clarke…” La ragazza la guardò senza capire “Presto inizieranno le tempeste di neve, non posso rischiare di mandare te e i miei uomini per mare ora, ho bisogno di loro qui per cercare di accumulare il cibo che abbiamo perduto… e non voglio rischiare inutilmente la tua incolumità.” Il viso di Clarke si fece sconvolto mentre realizzava l’implicazione dietro le parole di Lexa.
 
 

“Dovrai restare qui fino alla prossima primavera.”








Note: Ciao a tutti, eccoci tornati dopo la pausa Pasquale con il terzo capitolo! Vi avviso già che purtroppo per problemi di tempo il prossimo/i prossimi due capitoli, in cui racconterò dell'inverno che Clarke passerà tra i vichinghi sarà più che altro una raccolta di momenti più che una narrazione continua. Avendo poco tempo prima della fine di Aprile e avendo anche poco tempo materiale per scrivere questa è, secondo me, l'opzione migliore per inserire più scene possibili e permettere alla storia di avere un senso continuativo senza eccessivi salti temporali. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, come sempre fatemi sapere cosa ne pensate, e grazie mille ancora per leggere la storia e per le recensioni che mi lasciate! Alla prossima! 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Clarke aveva impiegato quasi tre giorni per superare il suo orgoglio e la sua rabbia e decidersi a parlare di nuovo con Lexa, che nel frattempo si era mantenuta saggiamente in disparte. Era stata Anya, infatti, a mostrarle la piccola casa vicino alla baia in cui sarebbe vissuta in quei mesi, lasciandole cibo a sufficienza per alcuni giorni. Lei era rimasta immobile per ore a osservare i fiocchi della prima neve cadere sullo specchio d’acqua davanti a lei.

 
 
Un milione di domande le avevano attraversato la mente, sentendosi sola e disperata così lontana da casa, senza riuscire a pensare ad un futuro per lei in quella terra. Certo, nessuno le aveva creato problemi fino a quel momento, nonostante l’evidente fastidio che molti provavano nello scoprire le sue origini inglesi, ma era solo perché Lexa aveva ordinato loro di non farlo. E se lo Jarl avesse cambiato idea? Non era riuscita a leggere Lexa in nessun modo nonostante il tempo passato insieme, e temeva che la sua situazione potesse cambiare da un momento all’altro.
 
 

Improvvisamente sentì la mancanza di sua madre, nonostante loro due non fossero mai andate molto d’accordo, il carattere troppo simile per risultare compatibile. Si chiese se Abby fosse stata informata della sua sorte, se la stesse piangendo adesso, credendola morta o venduta come schiava; Clarke si ritrovò a pensare che forse sarebbe stata comunque quella la sua sorte.
 
 

Stanca di trascinarsi quegli oscuri pensieri addosso, si presentò in quella che le era stata indicata come la casa di Lexa, visibilmente più grande rispetto agli altri edifici, e trovò la donna che ultimamente aveva disturbato le sue notti e i suoi giorni nel cortile davanti alla casa, intenta a fare qualcosa che non si sarebbe mai aspettata: Lexa stava allattando una capretta.
 
 

Clarke rimase allibita per qualche secondo, e prima che potesse dire qualcosa, la voce di Lexa ruppe il silenzio, anche se i suoi occhi non lasciarono mai il piccolo animale tra le sue braccia “Clarke, mi fa piacere vedere che sei ancora con noi.”
 
 

“Come…” Lexa alzò lo sguardo e le sorrise “Nessun altro mi si avvicina con così tanta esitazione.” Clarke si avvicinò piano al punto in cui Lexa era seduta a terra e Lexa immerse il piccolo telo che aveva in mano nella tinozza del latte accanto a lei, posandolo delicatamente sul piccolo muso del capretto, che cominciò a succhiare avidamente “Sua madre è morta durante il parto, il piccolo era prematuro… Sto aspettando che un’altra capra partorisca per vedere se si può prendere cura anche di questo piccolino.”
 
 

“Così… la stai sfamando tu?” Gli occhi di Lexa brillarono divertiti nel vedere l’espressione sorpresa di Clarke “E chi altri? Tutti i miei uomini stanno riparando i danni che abbiamo riportato durante la battaglia ed io… io sono inutile con la mia ferita.”  Clarke alzò gli occhi al cielo, mordendosi la lingua per non iniziare nuovamente un discorso inutile “Vuoi aiutarmi?”
 
 

Clarke rise “Io? Non so… non so come fare.” Lexa le sorrise e si alzò, passandole con un gesto veloce il piccolo capretto in braccio, e Clarke si ritrovò a ridere mentre la piccola bestiola cercava di succhiarle avidamente le dita. Lexa le mise la stoffa in mano, guidandola delicatamente sul musetto dell’animale. La mano di Lexa era incredibilmente calda sulla sua, il suo sguardo luminoso mentre la guardava sfamare il capretto come se stesse facendo qualcosa di unico al mondo.
 
 

“Voglio che m’insegni” disse improvvisamente, e Lexa sembrò come svegliarsi dall’incantesimo che l’aveva intrappolata “Insegnarti… a badare alle capre?” Clarke cercò di non ridere, di ricordarsi che doveva essere arrabbiata con Lexa, che avrebbe dovuto odiarla per tutto quello che stava succedendo “Se davvero devo stare qui per i prossimi quattro mesi, vorrei imparare la vostra lingua, così almeno capirò quando qualcuno mi insulta.”
 
 

“Nessuno t’insulta Clarke…” “Anya m’insulta” “Anya insulta tutti!” Lexa le sorrise ma Clarke riprese il discorso “Lexa, sono seria… Vorrei saperne di più sulla vostra lingua, la vostra società… Non voglio risultare un’estranea per tutto il tempo.”
 
 

“Va bene Clarke, possiamo iniziare quando vuoi.” Clarke pensò di iniziare subito, ma il capretto stava ancora succhiando avidamente il piccolo pezzo di stoffa che aveva in mano, il sole pallido di mezzogiorno rendeva piacevole il clima nonostante la neve dei giorni precedenti, il cielo era limpido e Clarke non si sentiva ancora pronta a interrompere quel momento.
 
 

Lexa rimase accanto a lei a osservarla, l’ombra di un sorriso in volto.
 
 
*
 
 

Clarke bussò timidamente alla porta di legno davanti a lei, sentendo dei passi decisi avvicinarsi in fretta. La porta si aprì lentamente, e Anya la squadrò dalla testa ai piedi con curiosità “Cosa ti porta nella mia casa suora?”
 
 

Clarke cercò di trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo, per Anya sembrava quasi impossibile rivolgersi a lei con il suo nome “Heya Anya…Ha yu?” Il volto di Anya si aprì in un’espressione piena di stupore “Heya a te Clarke. Mi fa piacere che tu ti sia decisa a imparare la lingua dei civili” Clarke scosse la testa “Purtroppo ho imparato solo qualche frase… Non è semplice.”
 
 

“Non è una lingua per stolti come quella di voi inglesi… Cosa ti porta qui Clarke?” “In realtà volevo vedere Raven… Lexa mi ha detto che la sua gamba le fa ancora male, le ho portato una pomata.” Anya sembrò ancora più sorpresa della sua affermazione “Entra pure”.
 
 

Raven era seduta vicino al focolare centrale della casa, intenta a scolpire con precisione un pezzo di legno “Clarke… è davvero gentile da parte tua, ma non devi preoccuparti, è solo un graffio.” Raven appoggiò il piccolo pezzo di legno e le fece spazio sulla panca accanto a lei, e Clarke si sedette volentieri. Nonostante quello che aveva appena detto, Clarke aveva capito anche senza l’aiuto di Lexa che Raven doveva ancora provare molto dolore al ginocchio, semplicemente osservandola camminare nel villaggio.
 
 

“Sei davvero brava” Clarke indicò la piccola statuina, che stava lentamente assumendo le sembianze di un lupo e Raven sorrise “Mi piace costruire oggetti… Di solito preferisco fare le cose più in grande ma Anya mi tiene bloccata qui…” Anya sbuffò leggermente “Non salirai su nessuna nave finché non sarò sicura che stai bene, e la tua gamba non è ancora pronta.”
 
 

“Salire sulle navi?” Clarke guardò Raven con curiosità; dall’aspetto non le era sembrata una guerriera “Faccio il carpentiere, aiuto a costruire le navi del villaggio.” “In realtà Raven avrebbe dovuto solo aiutare a decorare le navi… Ma ha deciso che la nostra cultura arretrata non poteva rinunciare al suo genio, e si è messa a progettare delle nuove navi.”
 
 

Raven alzò gli occhi al cielo e prese la stampella che aveva appoggiato accanto alla panca facendo cenno a Clarke di seguirla fuori dalla porta “Andiamo Clarke, meglio che muova un pochino questa gamba finché c’è ancora il sole… E ho bisogno di una pausa dalla mia balia.” Clarke rise nel vedere l’espressione offesa di Anya, che però non disse nulla, lasciandole uscire. Nonostante avesse nevicato la notte precedente il sole era alto in cielo e si stava bene all’aperto, mentre un lieve vento soffiava da sud.
 
 

“Quindi… tu ed Anya?” Clarke sapeva che probabilmente doveva sembrare una domanda invadente, ma era curiosa di saperne di più sul rapporto tra lei e la guerriera vichinga. Raven la guardò con un piccolo sorriso in volto “Io e Anya… scommetto che non si vedono molte cose del genere dalle tue parti.”
 
 

“Diciamo pure nessuna… Ho sentito delle voci, in convento… Ma sono cose proibite.” Raven annuì continuando a camminare verso la spiaggia “Diciamo che… i vichinghi hanno una mentalità più aperta per certe cose.” Clarke scosse la testa “Sembra che le donne qui siano libere di fare quello che vogliono.”
 
 

Raven si fermò per un attimo, osservando il mare che si apriva davanti a loro “Attenzione Clarke, le donne come Lexa e Anya sono libere di fare quello che vogliono, di prendersi quello che vogliono… Loro si sono conquistate la loro posizione, e il diritto di sfruttarla, ma per tutte le altre la storia non cambia rispetto al tuo mondo. Lexa ha bandito la schiavitù nel suo villaggio, ma è una delle poche… ed io lo so bene, sono arrivata qua come schiava.”
 
 

Clarke rimase per un attimo zitta, ponderando le parole di Raven con attenzione “Quindi Anya… Anya ti ha comprato?” Per quanto potesse trovare minacciosa ed indisponente la guerriera vichinga, Clarke non riusciva ad immaginarla compiere un atto del genere, e fu lieta di sentire Raven ridere e scuotere la testa “No, Anya non lo farebbe mai. Sono figlia di una prostituta, e sono stata venduta e comprata più volte nel corso della mia vita… Ti risparmio la storia delle mie vicissitudini, farebbero deprimere l’uomo più felice della terra.” Raven rise, ma Clarke vide benissimo la tristezza nei suoi occhi; le era sembrata così giovane, non doveva essere molto più vecchia di lei, ma i ricordi che portava con sé in quel momento sembravano invecchiarla di cento anni.
 

 
“Alla fine sono arrivata qui … sono stata comprata da uno dei guerrieri del vecchio Jarl, uno dei padroni tra i più terribili che io abbia mai avuto. Non era un grande guerriero, e sfogava le sue umiliazioni su di me… certe volte mi ha picchiata così tanto che pensavo di morire. Un giorno Anya lo vide colpirmi con un bastone, e decise di intervenire a modo suo…”
 
 

“Che cosa fece?” Per quel poco che conosceva Anya, Clarke aveva già intuito la risposta; gli occhi di Raven brillarono al ricordo “Si avvicinò a noi e gli conficcò la sua ascia da guerra nel cranio. Poi mi guardò con quel suo dannato sorrisino e mi disse che ero diventata di sua proprietà.”
 
 

Raven riprese a camminare, e Clarke la seguì con interesse crescente “Ma non diceva sul serio. Finì nei guai per aver ucciso il mio vecchio padrone, ma visto che era una delle migliori guerriere del villaggio se la cavò con poco. Lo Jarl la mandò a combattere da qualche parte al nord, e lei mi chiese di prendermi cura della sua casa mentre era via… e mi trovò un lavoro, come assistente del carpentiere. L’uomo ci mise poco a capire che ero portata per il lavoro, e diventai la sua apprendista.”
 
 

Raven si sedette stancamente sulla sabbia, poco distante dalle onde che scivolavano dolcemente verso di loro, e Clarke si mise accanto a lei, chiudendo gli occhi per un attimo, godendosi il rumore del mare “Quando Anya tornò dalla guerra pensai che mi rivolesse come sua schiava e ne ero terrorizzata. Non mi ero mai sentita così felice, così libera come in quei mesi passati a costruire navi. Ma lei mi disse che ero una donna libera, e che potevo fare quello che più mi rendeva felice… In quel momento compresi due cose: volevo continuare a costruire navi, e volevo Anya. Il caso volle che lei la pensasse allo stesso modo.”
 
 

Clarke sorrise al pensiero di Anya innamorata, eppure l’aveva vista con i suoi occhi, l’emozione inequivocabile nel suo volto quando aveva visto Raven sana e salva nell’accampamento, qualche settimana prima “Quindi Anya è…” Raven la guardò e scosse la testa “Non dirlo, non dire niente. Se scopre che ti ho raccontato questa storia mi uccide.”
 
 

Le due risero insieme e Clarke sentì qualcosa nel suo animo sbloccarsi, come se per la prima volta da quando era arrivata in quel villaggio potesse veramente sentirsi a suo agio, parlare con un’amica “Grazie Raven, io… è dura per me, non conosco nessuno qui e Lexa… Lexa è incredibile, ma mi sento sempre in soggezione di fronte a lei. E’ stato bello parlare con te.”
 
 

Raven le sorrise e le strinse la mano “Clarke, noi straniere dobbiamo fare fronte comune in questo paese di vichinghi. E poi mi sei simpatica, mi è piaciuto come hai tenuto testa a Lexa prima della battaglia; non l’avevo mai vista così frustrata.” Clarke rise di nuovo, non prima di notare un’espressione maliziosa negli occhi di Raven “Quindi… Lexa è incredibile eh?”
 
 

Clarke cercò invano di non arrossire, sfuggendo allo sguardo di Raven, cercando di concentrarsi sulle sfumature del cielo terso di fronte a loro.
 
 
*
 
 

“Battuta di caccia?” Clarke guardò allibita Lexa, che le stava porgendo un arco dall’aspetto rudimentale “Non capisco… a cosa posso servirvi io?” Anya spuntò da dietro Lexa con espressione divertita “Sono giorni che mangi a nostre spese, è ora che tu contribuisca in qualche modo, ti useremo come esca.”
 
 

Lexa scosse la testa “Non ascoltare Anya… Purtroppo prima di andarsene Nia ha bruciato una parte delle nostre scorte… Ho mandato alcuni dei miei uomini nei villaggi vicini a comprare del cibo, ma ci vorranno giorni prima del loro ritorno, quindi… andiamo a caccia. Ho pensato che potesse interessarti imparare questa parte della nostra cultura.”
 
 

Lexa sorrise in un modo che insospettì Clarke, era evidente che lo Jarl si stava divertendo a sue spese, e Clarke non aveva nessuna intenzione di darle questa soddisfazione; prese l’arco dalle mani di Lexa e si incamminò con gli altri uomini, raggiungendo Lincoln, che camminava a passo spedito verso la foresta.
 
 

“Ciao Clarke!” Lincoln le sorrise in modo cordiale, e Clarke notò con sorpresa che aveva un taglio piuttosto evidente sulla fronte “Lincoln… cosa ti è successo?” Lincoln alzò le spalle “Octavia non l’ha presa molto bene quando le ho detto che non poteva partecipare alla caccia. Mi ha tirato una delle nostre sedie addosso.”
 
 

Clarke impallidì al pensiero di Octavia, l’aveva vista di rado dopo la battaglia, e ne era stata contenta “Oh non farti una brutta idea su di lei Clarke, è una splendida persona, ma sono mesi che non la lasciamo più fare nulla di pericoloso a causa della gravidanza, e visto che le cose pericolose sono le sue preferite, è diventata un pochino nervosa.”
 

 
Clarke annuì “Dovrebbe mancarle poco ormai…” Lincoln annuì “Qualche settimana, un mese al massimo. Non vediamo l’ora.” Lincoln sorrise e a Clarke si scaldò il cuore nel vederlo così felice; da quando era arrivata, lui era sempre stato gentile con lei, l’aveva aiutata a trovare tutte le cose che le servivano nei primi giorni, mostrandole il mercato.
 
 

“Quindi devo attribuire il suo odio verso di me alla gravidanza, oppure ci sono altri motivi?” Lincoln evitò il suo sguardo per un attimo, fissandolo sul sentiero davanti a lui. La neve aveva iniziato a ricoprire qualsiasi cosa, bianca e lucente, e Lexa le aveva detto che quelli erano gli ultimi giorni disponibili per andare a cacciare; molto presto non avrebbero più potuto avventurarsi al di fuori del villaggio.
 
 

“Non è che odia te in particolare Clarke… Octavia prova odio e risentimento verso tutti gli inglesi.” “E perché mai?” Lincoln strinse le labbra per un momento prima di ricominciare a parlare “Octavia aveva un fratello, Bellamy. La loro madre morì quando Octavia era ancora piccola ed è stato Bellamy a occuparsi di lei, a insegnarle a combattere… Quando Lexa organizzò il primo raid in Inghilterra Bellamy fu il primo a proporsi, era uno dei nostri guerrieri più forti. Ma era anche incauto e spesso si faceva guidare dal suo istinto più che dalla ragione.”
 
 

Clarke ascoltava attentamente, iniziando a farsi un quadro più chiaro della situazione “Un giorno decise di andare da solo in avanguardia per cercare un villaggio, e venne catturato… Trovammo il suo cadavere giorni dopo, crocefisso e martoriato, e Octavia… Octavia impazzì di dolore. Non l’ho mai vista così furiosa in tutta la mia vita.”
 
 

Clarke chiuse gli occhi, inorridita al pensiero che la sua stessa gente fosse stata capace di un atto del genere. Per anni avevano chiamato i vichinghi barbari, ma come potevano considerarsi migliori se poi compivano atti del genere, così lontani dal messaggio d’amore che Gesù Cristo aveva insegnato loro? “Da quel momento Octavia non può sopportare la vista di nessun inglese… era furiosa quando Lexa gli ha detto della sua tregua. Penso che la sua parte razionale comprenda che è la cosa migliore da fare, ma nel suo cuore… non può perdonare chi gli ha strappato il fratello.”
 
 

Clarke scosse la testa “Mi dispiace...” Lincoln le sorrise di nuovo “Non è colpa tua Clarke. Volevo solo che tu sapessi che non hai fatto niente di male. Sono sicuro che con il tempo anche Octavia imparerà ad apprezzarti. Nel villaggio non hanno parlato d’altro per giorni dopo che hai messo Lexa al suo posto durante la battaglia.”
 
 

Clarke arrossì, leggermente sorpresa “Non ho fatto niente” Lincoln rise “Credimi, conosco Lexa da quando sono nato, e a lei piace avere l’ultima parola su tutto. Ma tu, tu l’hai battuta… mi aspettavo che fosse furiosa con te, invece mi è sembrata piuttosto intrigata.”
 
 

Clarke fece per chiedergli che cosa intendeva, quando il soggetto della loro discussione spuntò accanto a loro con una faretra in mano “Clarke, eri così pronta a cacciare che ti sei dimenticata le tue frecce.” Le aveva parlato nella sua lingua, e Clarke realizzò con soddisfazione di averla capita “Mochof Lexa. Contavo sul fatto che me le portassi tu.”
 
 

Lexa arrossì leggermente e Lincoln rise mentre insieme s’incamminavano verso l’entroterra.
 
 
 
 


“Adesso Clarke, prendi la mira e ascolta il vento. Ricordati di respirare.” Clarke pensava che fosse un’impresa quasi impossibile mentre sentiva il respiro di Lexa solleticarle i capelli, le labbra così vicine al suo orecchio che per poco non si sfioravano, le sue mani sulle spalle, indicandole la postura da tenere mentre scoccava il colpo.
 
 

Avevano passato tutta la giornata immersi nel bosco, in un silenzio quasi assoluto, mentre i cacciatori facevano il loro lavoro. Avevano preso tre grossi cervi, cinque lepri e persino un paio di cinghiali che Anya era riuscita a stanare e ammazzare, facendosi quasi portare via una mano.
 
 

Lexa l’aveva raggiunta alla fine della giornata, portandola in disparte e cercando di insegnarle come prendere la mira, come lanciare la freccia più dritta possibile, cercando di non scoppiare a ridere ai primi vani tentativi di Clarke di lanciare, conclusi con la freccia a pochi centimetri da lei.
 
 

Ora, dopo quelli che le erano sembrati infiniti tentativi, nei quali Clarke era costantemente migliorata, erano fianco a fianco, immerse nel silenzio della radura, e Clarke cercava di concentrarsi il più possibile sul cervo davanti a lei, mentre la sua mente tornava costantemente al respiro lento e regolare di Lexa, al suo profumo di cuoio e pioggia che sembrava avvolgere completamente i suoi sensi.
 
 

Si stava facendo buio, ma Clarke riusciva ancora a vedere chiaramente gli occhi dell’animale davanti a lei, intento a cibarsi di qualche germoglio, ignaro del pericolo che incombeva su di lui, e lei per un attimo esitò.
 
 

“Adesso Clarke” persino il suo nome le sembrava migliore se era Lexa a pronunciarlo, e lei provò un brivido a quell’ennesimo sussurro, e al pensiero dell’effetto che Lexa stava avendo su di lei. Lasciò andare la freccia, che scivolò veloce come una serpe dalle sue dita, penetrando senza rumore nel punto esatto in cui Lexa le aveva detto di mirare, il collo dell’animale.
 
 

Il cervo emise un lamento sordo prima di muovere qualche passo barcollante nella direzione opposta alla loro, ma Clarke riusciva già a vedere sul suo manto chiaro il sangue sgorgare dalla ferita che lei gli aveva inferto, scuro e inarrestabile. L’animale mosse un ultimo passo prima di accasciarsi a terra, e Lexa si staccò da lei, camminando velocemente verso la loro preda.
 
 

“E’ morto… Sei stata brava Clarke, un colpo preciso, non ha sofferto.” Lexa sembrò capire le sue preoccupazioni, perché quello era stato il suo primo pensiero. Guardò il corpo ormai immobile dell’animale, provando una fitta di rimorso “E’così bello… Io… non avevo mai fatto una cosa del genere. Mi dispiace…” Accarezzò il pelo morbido dell’animale, sentendo su di lei lo sguardo di Lexa.
 
 

“Avevo dieci anni quando mio padre m’insegnò a cacciare. Uccisi una lepre il mio primo giorno… Era così piccola e morbida… piansi in silenzio per mezz’ora cercando di non farmi vedere da lui, pensando che non mi avrebbe mai più portato a cacciare.”  Lexa sorrise al ricordo, un sorriso dolce che Clarke non le aveva mai visto in volto “Ma lui mi disse che era normale… Che l’animale che avevo ucciso non era una vita che mi apparteneva, che io l’avevo presa per sopravvivere, ma che non dovevo mai dimenticarne l’importanza. Non uccidiamo per divertimento, lo facciamo perché è necessario per vivere e allo stesso tempo dobbiamo onorare l’animale che uccidiamo, perché con la sua morte ci dona la vita. E faremo in modo che questo dono non sia sprecato. Ogni parte di questo cervo avrà uno scopo Clarke.”
 
 

I loro sguardi s’incrociarono e Clarke riuscì a leggere la sincerità nel volto di Lexa, così disarmante che per poco non la lasciò senza fiato. “Vuoi pregare con me Lexa?” Lexa la guardò stupita “Pregare? Il tuo Dio?” Clarke si sentì stupida per averle fatto una proposta del genere, e si morse il labbro prima di continuare “Lo faccio sempre quando sono triste, mi aiuta a calmarmi, mi dà sicurezza. E’ una cosa stupida, mi dispiace…”
 
 

Fece per alzarsi e andarsene, ma Lexa le strinse la mano, facendola voltare “No, perdonami Clarke, voglio farlo. Ma non conosco nessuna delle vostre preghiere.” Clarke s’inginocchiò nuovamente accanto a Lexa, cercando di evitare di pensare a come la facevano sentire gli sguardi di lei, che continuava a fissarla con un misto di meraviglia e stupore, congiungendo le mani in preghiera “Allora ripeti dopo di me…”
 
 

 
 

Lexa osservò il fuoco davanti a lei a lungo, osservando le fiamme danzare davanti a lei, cercando di rimettere in ordine i suoi pensieri. L’inverno era sempre un periodo di tranquillità nel suo villaggio, ma era consapevole che quella stagione sarebbe stata diversa. Aveva mille cose a cui pensare, le provviste per il villaggio, la ricostruzione dopo la battaglia, Nia che proiettava l’ombra della sua minaccia su di loro, pronta ad attaccarli. Eppure erano giorni,settimane, che l’unico pensiero che sembrava restarle in mente era Clarke.
 
 

La ragazza inglese era entrata nella sua vita con delicatezza, come una pioggia leggera, eppure stava causando un caos nella sua mente degno di una tempesta creata da Thor. A Lexa risultava impossibile non sentirsi affascinata da lei, incline a concederle qualsiasi cosa volesse come non si era mai sentita con nessun altro. Aveva acconsentito a insegnarle la loro lingua, la loro cultura, aveva messo da parte il suo orgoglio per lei, aveva persino pregato un dio che le era stato insegnato a disprezzare, e come se non bastasse, Lexa l’avrebbe fatto ancora.
 
 

Sembrava essere l’unica cosa a interessarle, passare del tempo con Clarke, vederla sorridere nonostante la precaria situazione in cui si trovava. Aveva espressamente detto ai suoi uomini di trattarla con assoluto rispetto, ma Lexa sapeva benissimo che Clarke doveva ancora sentirsi persa in quel mondo tanto diverso dal suo.
 
 

Si ricordava benissimo di uno dei primi giorni di Clarke nel villaggio, quando aveva assistito ad una delle zuffe tra i suoi uomini, al modo in cui era rimasta sconvolta quando lei le aveva detto che era così che loro risolvevano i problemi; i due uomini alla fine erano ridotti abbastanza male, e Clarke si era messa a curare le loro ferite esasperata, come se non riuscisse a capire come potessero essere così incivili. Forse lo erano davvero, pensò Lexa, ma quello era sempre stato il modo di vivere della sua gente, e non era mai stato un problema per lei, almeno fino a quel momento, finché non aveva visto negli occhi di Clarke quello sguardo che le ricordava tanto lo sguardo con cui re Wallace e la sua corte l’avevano guardata quando si era presentata da loro.
 
 

Poteva sopportare di essere vista come una creatura barbara e inferiore da loro, della loro opinione non si curava, ma di quella di Clarke, cominciava a pensare che le importasse di quella più che di qualsiasi altra. L’oggetto dei suoi pensieri decise che era quello il momento giusto per interromperli,  sedendosi accanto a lei davanti al fuoco con un sospiro pieno di stanchezza “Ho medicato la mano di Anya e un altro paio di ferite di altri uomini, ma non ho tutte le mie erbe con me. Domani al villaggio dovrò finire il lavoro.”
 
 

Lexa annuì, evitando il suo sguardo “Era troppo buio per tornare indietro… e poi non fa ancora così freddo da non poterci permettere una notte all’aperto.” Clarke sbuffò, formando una nuvola nella cristallina aria invernale “Parla per te.”
 
 

Lexa la guardò meglio a quelle parole, notando il viso pallido e le unghie che cominciavano ad apparire di un insano colore bluastro. Si tolse il mantello di pelliccia che aveva addosso e lo appoggiò sulle spalle di Clarke, che sospirò con sollievo “Non aspettarti che te la ridia indietro”
 
 

Lexa sorrise e il suo cuore perse un battito nel vedere Clarke ridere a sua volta: era un suono meraviglioso “Una volta tornati al villaggio dirò al conciatore di farti un vestito con la pelle del tuo cervo, ti terrà più al caldo che la semplice stoffa.” Clarke rabbrividì per un attimo al pensiero “E questa pelliccia? E’ un tuo trofeo di caccia?”
 
 

Le labbra di Lexa si sollevarono in un sorriso malizioso “Apparteneva a uno degli orsi più grossi che io abbia mai visto, ma non aveva scampo contro di me.” Clarke la guardò negli occhi, scettica, e Lexa rise di nuovo “Mi ha quasi ucciso, ma ne è valsa la pena per quella pelliccia… che oggi temo di aver perso per sempre.”
 
 

Clarke annuì “Hai davvero un talento nel rischiare la morte Lexa…”  il tono di Clarke voleva essere scherzoso, ma a Lexa non sfuggì la nota di preoccupazione nella sua voce “Se dovessi morire Clarke, saresti la prima a saperlo.” Lexa non poteva negare che il pensiero della sua morte l’avesse sfiorata più di qualche volta, ma lei era una vichinga, la morte faceva parte della sua vita da sempre.
 
 

“E perché mai?” non c’era più nessun sorriso sul volto di Clarke, come se temesse davvero per sua vita, e questo le scaldò per un attimo il cuore. Sapeva che Clarke era una straniera, una suora, che non si trovava lì per sua volontà, eppure nel suo cuore c’era ancora la speranza che lei potesse considerarla qualcosa di più che lo Jarl colpevole di averla trascinata in quel luogo “Perché saresti accanto al mio cadavere per sgridarmi di aver fatto l’ennesima stupidaggine.”
 
 

Clarke rise e la tensione che si era creata attorno a loro si spezzò, solo per essere sostituita da un lungo silenzio. Dopo qualche minuto Lexa pensò di dire qualcosa, ma sentì la voce di Clarke nuovamente, nonostante fosse poco più che un sussurro “Mochof  Lexa, grazie… per oggi, per avermi parlato di te e di tuo padre. Mi ha aiutato molto, e so quanto deve essere dura parlare di lui.” “Perché dici questo?”
 
 

“Perché è morto… perché qualcuno te l’ha portato via prima del tempo. Com’è successo a mio padre.” Lexa riuscì a intravedere una lacrima nel volto di Clarke, splendente davanti al riflesso del fuoco. “Tuo padre?” Lexa sapeva che Clarke aveva un patrigno, ma di suo padre non aveva mai parlato.
 
 

“Era un uomo incredibile… Mi ha sempre permesso di inseguire i miei sogni, le mie speranze… Avevo dieci anni quando gli dissi che volevo imparare a dipingere come i monaci facevano nei libri… Amavo i colori, nonostante non capissi nulla delle lettere scritte. E’ proibito per una donna anche solo toccare quei libri, ma a lui non importava… mi regalò delle polveri colorate per il mio compleanno, di quelle che vengono dall’oriente e si pagano a peso d’oro. E’ stato il giorno più bello della mia vita.”
 
 

Lexa aspettò che il racconto continuasse, ma era come se un’ombra cupa fosse calata su Clarke, togliendole il sorriso che tanto aveva ammirato qualche minuto prima. Forse avrebbe dovuto lasciar correre, ma capiva, sentiva il bisogno di Clarke di continuare a parlare “Che cosa successe a tuo padre?”
 
 

“Morì in battaglia. Avevo solo dieci anni... ma mi ricordo ancora quando riportarono il suo corpo a casa, anche se non sembrava più lui. Non poteva essere lui, capisci?” Clarke scosse la testa, mentre un sorriso amaro le passava sul viso “Per anni ho pensato che sarebbe tornato, tornato a prendermi per portarmi via dal grigiore e dalla monotonia  delle mie giornate. Mia madre… lei mi ha sempre voluto bene, ma non ha mai compreso il mio desiderio di scoperta,di conoscenza. Per lei il massimo a cui potevo aspirare era un buon matrimonio. Così ho aspettato per anni che mio padre tornasse a salvarmi, che mi portasse lontano, a vivere mille avventure con lui… poi sono cresciuta, e ho capito che dovevo salvarmi da sola.”
 
 

Lexa alzò la mano, desiderando più di ogni cosa di poter stringere quella di Clarke, ma si bloccò a mezz’aria, attanagliata dal dubbio che non fosse ciò che Clarke voleva “Mi dispiace davvero tanto Clarke. Ma penso che lui sarebbe stato fiero di te per le decisioni che hai preso.”
 
 

A Clarke non era passato inosservato il gesto di Lexa, perché alzò lentamente la mano e strinse quella di Lexa, intrecciando le loro dita, prima di asciugarsi il volto “Lo spero Lexa, lo spero tanto.”





Note: Ciao a tutti! Volevo fare una piccola precisazione su questo capitolo, perché purtroppo non sono riuscita completamente nel mio intento, ovvero quello di far passare gradualmente Clarke dalla lingua sassone a quella vichinga (in questo caso la lingua Triku, quella che parlano in The 100). Per un problema di tempo più che altro non sono riuscita a cercare tutte le parole che mi servivano (sono poche quelle che si trovano, nonostante ci siano dei siti molto belli!) quindi in questo capitolo trovate qualche vocabolo, ma nel prossimo con un altro salto temporale sarà Clarke comincerà a parlare solo la loro lingua, e quindi non ci saranno più differenze! Lo so che è poco realistico e mi dispiace un sacco, però sono già in super ritardo e altrimenti non avrei finito la storia in tempo! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, come sempre fatemi sapere cosa ne pensate! Un abbraccio, alla prossima! 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Clarke aveva appena finito il suo giro di visite serale, ormai un’abitudine che si portava appresso da quasi un mese, da quando gli abitanti del villaggio si erano resi conto che di lei ci si poteva fidare nonostante fosse una straniera. Alcuni degli anziani del villaggio la facevano chiamare più spesso, oppure gli agricoltori arrivavano con qualche ferita dovuta al loro lavoro che, fortunatamente, con l’inverno sembrava meno pesante. Oppure arrivavano uomini che si erano azzuffati tra loro, sorreggendo i loro compagni di lotta fino alla sua porta, e lei curava tutti con metodica precisione, richiamando le conoscenze che aveva imparato dai libri del monastero, facendo nuove esperienze che mai avrebbe potuto fare nel suo piccolo convento.


 
 
Si sedette stancamente vicino al fuoco dopo aver sistemato l’ultima delle sue pomate, riorganizzando mentalmente la lista di erbe che avrebbe dovuto cercare l’indomani. Alcune delle piante erano diverse da quelle della sua terra, ma con l’aiuto di Lexa era riuscita a conoscerle meglio, a imparare a usarle come sostituite delle sue vecchie erbe officinali.
 
 


Si trovava nel villaggio dei vichinghi da quasi due mesi ormai, e, nonostante le prime settimane piene di difficoltà, il tempo sembrava essere volato. Andava da Lexa ogni volta che gli impegni dello Jarl glielo permettevano, imparando nuovi vocaboli e frasi della loro lingua che le era sempre meno sconosciuta. La compagnia di Lexa le era diventata sempre più piacevole, mentre le giornate si accorciavano e l’inverno si abbatteva con tutte le sue forza su di loro, Clarke aveva trovato rifugio nel timido sorriso di Lexa, nei suoi modi gentili, nelle sue parole confortanti.
 
 


Aveva quasi dimenticato il timore che lei e Anya le avevano instillato dentro nei primi giorni in cui le aveva conosciute, il senso di pericolo che Lexa emanava dopo la battaglia, la corazza sporca del sangue dei suoi nemici. La neve sembrava aveva coperto ogni cosa, raffreddando persino gli animi dei temibili guerrieri vichinghi, portando un senso di pace che aveva avvolto anche lei.
 
 


Ancora profondamente immersa in quei pensieri, quasi non si accorse del rumore della sua porta che si spalancava, almeno finché non vide Raven davanti a lei, il viso pieno di preoccupazione “Clarke, devi venire subito!”
 
 


Clarke si alzò in piedi, il senso di pace che stava contemplando poco prima completamente perduto “Che cosa succede?” Raven s’incamminò verso la porta e Clarke la seguì con la sua borsa, e la pelliccia di Lexa sulle spalle “E’ Octavia… è entrata in travaglio ma qualcosa è andato storto… sta sanguinando molto e il bambino non nasce.”
 


 
“Maledizione… perché non mi avete chiamato subito?”Clarke urlò mentre camminavano tra la neve verso la capanna di Lincoln e Octavia, il vento si era alzato e intorno a loro c’era solo il rumore della neve che turbinava nell’aria. Raven scosse la testa “Io gliel’avevo detto, ma Octavia non voleva! Sono riuscita a convincere Lincoln quando lei stava già male, spero non sia troppo tardi.”
 
 


Entrarono nella casa senza bussare, e Clarke fu sorpresa nel vedere Lexa, Anya e Lincoln vicino al fuoco, che si girarono nel vederle “Clarke… ti prego fai qualcosa.” Il volto di Lincoln era una maschera di dolore e preoccupazione, mentre dall’altra stanza si sentivano le grida di Octavia.
 
 


Clarke entrò nella camera, dove Octavia, pallida come la neve, si contorceva in preda al dolore sul letto pieno di sangue. Indra era accanto a lei e le stringeva la mano, lo sguardo preoccupato. Il volto di Octavia era madido di sudore quando lo alzò per vedere chi era appena entrato e, nonostante l’evidente sofferenza riuscì comunque a fare un’espressione disgustata nel vederla “Vattene, non ti voglio vicino al mio bambino!”
 
 


Indra la guardò senza sapere cosa fare, ma Clarke non aveva tempo per sciocchezze del genere. Si avvicinò a letto e spostò le lenzuola ormai intrise di sangue, e prese con forza il polso di Octavia “Ascoltami bene, so che mi odi e non puoi sopportare di vedermi, ma non permetterò a te e all’opinione che hai della mia gente di mettere in pericolo la tua vita e quella del tuo bambino. Adesso ti aiuterò, e se sarai ancora viva quando avremmo finito potrai odiarmi quanto vorrai; fino a quel momento stai zitta e ascoltami.”
 
 


Octavia sembrò sul punto di replicare, ma un’altra contrazione la fece tremare di dolore, e Indra prese la parola “E’ da quasi un’ora che sono iniziate le contrazioni, continua a spingere ma il bambino non esce, temo non sia nella posizione giusta.” Clarke sentì il sangue gelarsi al solo pensiero; aveva visto una cosa simile nel suo villaggio, poche settimane dopo essere entrata in convento, e la madre e il bambino erano morti entrambi senza che potessero fare nulla.
 
 


Clarke liberò l’addome di Octavia dalla veste sottile che indossava, cercando di sentire in che posizione si trovasse il bambino; la testa era troppo in alto, poteva sentirla chiaramente facendo una leggera pressione sull’addome gonfio della ragazza. Clarke rimase immobile per qualche secondo, la mente che correva veloce come il vento, cercando di escogitare un modo per salvare Octavia.
 


“Avete provato a farla camminare?” Indra annuì “E’ rimasta in piedi finché è riuscita, ha perso troppo sangue.” Clarke costatò che l’emorragia di Octavia era ancora in atto, e decise che doveva cercare di far diminuire almeno quella prima di fare qualsiasi altra cosa.
 
 


“Anya, Lexa, portatemi dei teli puliti e dell’acqua calda. Indra, prendi la boccetta più piccola che trovi nella mia borsa e fai un infuso con le erbe che ci sono dentro, Octavia ha bisogno di liquidi.” Tutti si misero in azione attorno a lei, mentre Clarke cercava di fermare l’emorragia tamponando con forza “Dobbiamo far girare il bambino.”
 
 


Indra era tornata con l’infuso, e mentre Octavia ne beveva qualche sorso con difficoltà Lexa arrivò accanto a lei con quello che le aveva chiesto “Pensi che si possa fare qualcosa?” La sua voce era ridotta ad un sussurro, e Clarke la guardò negli occhi, senza mentire “Non lo so. Se mi aveste chiamato prima magari… Adesso Octavia è debole, e non so se riuscirò a far girare il bambino.”
 
 


Lexa rimase il silenzio, lo sguardo pieno di angoscia “Farò il possibile Lexa, te lo prometto…” Clarke si alzò e andò a posizionarsi vicino all’addome di Octavia, cominciando a fare pressione sulla testa del bambino, cercando di spingerlo nella posizione esatta “Octavia, lo so che è difficile, ma devi cercare di non spingere.”
 
 


Octavia lanciò un gemito di dolore quando l’ennesima contrazione la colpì in pieno “Non ci riesco!” Clarke imprecò mentre le sue mani bagnate di sangue scivolavano sull’addome di Octavia senza sortire alcun effetto sul bambino. Clarke si fermò per un attimo, la fronte piena di sudore “Anya, Indra, aiutate Octavia a mettersi in piedi…” Lincoln entrò nella stanza, il volto pieno di disperazione “Ci penso io!”
 
 


Octavia si lamentò quando lui la alzò dal letto con facilità e la tenne in piedi mentre Clarke, aiutata dalla verticalità della posizione, cercava di far muover il bambino. “Clarke ti prego… salva Octavia…” La voce di Lincoln era rotta dal pianto, le lacrime che gli cadevano sul volto come le piccole gocce di sangue cadevano dal ventre di Octavia per finire a terra. Clarke alzò lo sguardo, incrociando i suoi occhi “Non m’importa del resto, ma non farla morire.”
 
 


Octavia lanciò un altro grido di disperazione e Clarke tornò a concentrarsi su quello che stava facendo, pensando al significato dietro le parole di Lincoln; se doveva scegliere, doveva salvare la vita ad Octavia piuttosto che al suo bambino non ancora nato, e Clarke sperò che non fosse ormai troppo tardi per tutti e due.
 
 


Il tempo sembrò dilatarsi all’infinito mentre lavorava sull’addome di Octavia, cercando di far muovere una creatura che sembrava testarda quanto la madre, i muscoli del braccio le dolevano, e non aveva idea per quanto ancora avrebbe potuto resistere. Con l’ennesima contrazione, Octavia spinse di nuovo nonostante le parole di Clarke e questa volta lei cercò di adeguarsi al suo movimento. Lasciò andare un urlo di gioia quando sentì finalmente la testa del bambino muoversi verso il basso, girandosi nella posizione giusta.
 
 


“Bene Octavia, adesso quando sentirai la prossima contrazione devi spingere più forte che puoi, d’accordo?” Era da molto che andavano avanti, e Clarke non era sicura che il bambino fosse ancora in vita, ma almeno Octavia non sarebbe morta per quello, sempre che l’emorragia si fosse fermata dopo il parto. Si preparò con uno dei teli a prendere il bambino, e quando Octavia spinse per l’ultima volta uscì senza fatica, cadendo tra le braccia di Clarke.
 
 


Il suo respirò si bloccò per un attimo mentre esaminava il piccolo corpicino immobile, tremendamente silenzioso per un neonato. Lincoln aveva posato di nuovo Octavia sul letto, e la ragazza la stava chiamando, chiedendole come stava il bambino, ma Clarke era troppo concentrata mentre cercava di sentire se il cuore del bambino stava ancora battendo.
 
 


Cominciò a massaggiarli delicatamente il petto, e dopo interminabili secondi di angoscia il neonato si mosse, gridando a pieni polmoni il suo primo pianto. Clarke emise un sospiro di sollievo che non si era resa conto di aver trattenuto, e tutto intorno a lei sembrò rianimarsi. Improvvisamente si rese conto del tremito che la pervadeva, dal calore soffocante della stanza, degli occhi di tutti puntati su di lei.
 
 


Alzò lo sguardo sugli occhi speranzosi di Octavia e sorrise mentre la piccola stanza si riempiva dei gemiti del neonato “E’ un maschietto.” Octavia sorrise tra le lacrime che già le avevano percorso il volto, e Lincoln la strinse forte a sé, piangendo a sua volta dalla gioia. Clarke si alzò e pulì delicatamente il neonato dagli strati di sangue e liquido amniotico che l’avevano circondato fino a quel momento prima di depositarlo al sicuro tra le braccia di Octavia, che iniziò ad allattarlo.
 
 


Privata del peso del piccolo fagottino che aveva tenuto stretto a sé fino a quel momento, Clarke si sentì vacillare, come se avesse perduto l’equilibrio; fece un passo all’indietro, e trovò le mani di Lexa, pronte a sorreggerla stringendosi delicatamente sui suoi fianchi “Sei stata magnifica Clarke”
 
 


“Sì… Clarke, io non so come ringraziarti.” Lincoln la guardava con lo sguardo pieno di gratitudine, e lei si limitò a sorridergli. “Allora, che nome diamo a questo bambino?” disse Anya sorridendo e Octavia e Lincoln si scambiarono uno sguardo d’intesa prima che la ragazza parlasse “Bellamy… vogliamo chiamarlo Bellamy.”
 
 


Indra annuì con un sorriso, e strinse la spalla di Clarke “Birra per tutti, sono diventata nonna!” Tutti fecero per andarsene, ma Clarke rimase al suo posto “Resterò qui ancora un po’. Voglio, controllare che l’emorragia di Octavia si fermi come dovrebbe, è sempre meglio essere prudenti.” Lexa annuì con un sorriso, e lasciò Clarke da sola con Octavia e il bambino, che si era calmato e stava poppando avidamente il latte della madre.
 
 


Il sangue aveva smesso di scorrere con la stessa forza di prima e, Clarke era speranzosa, si sarebbe fermato definitivamente entro poco tempo, quindi si limitò a sedersi e a osservare la madre e il figlio accanto a lei, sfinita oltre ogni immaginazione per lo sforzo e la tensione.
 
 


Quasi non si accorse che lo sguardo di Octavia si era spostato da suo figlio a lei, e fu sorpresa di non leggerci più alcuna traccia di astio “Ti ringrazio Clarke” la voce di Octavia era rauca per le grida di poco prima, ma Clarke riuscì a capirla benissimo. “Sono stata ingiusta con te, e mi dispiace… Pensavo che fossi come tutti gli altri inglesi. Ma tu… tu hai salvato il mio bambino, hai salvato me, nonostante il modo in cui ti ho trattata…” Octavia distolse lo sguardo, quasi imbarazzata da quella confessione “Da questo giorno in poi, proverò ad esserti amica, se tu lo vorrai.”
 
 


Clarke annuì, felice “Mi farebbe molto piacere Octavia. Anche se mi sarei accontentata di non dover essere vittima della tua spada.” Octavia sorrise nonostante l’evidente stanchezza dipinta in volto “Se ti avessi voluto uccidere Clarke, saresti già morta.”
 
 


Clarke rimase a guardarla finché sia lei che il bambino non si addormentarono, l’emorragia completamente finita, e pensò di tornare alla sua capanna. Ma il tepore del fuoco e la stanchezza del lavoro appena compiuto ebbero la meglio su di lei, e si lasciò scivolare nel sonno.
 
 
*
 
 

“Octavia, ti prego, basta!” Clarke cercò di rialzarsi da terra, ma le ginocchia le tremavano e non riusciva a rimettersi in piedi, complice anche la neve che le aveva bagnato ormai completamente i pantaloni. Octavia la guardò dall’alto al basso con espressione diverta, muovendo la spada a pochi centimetri dal suo volto “Come basta? Abbiamo appena iniziato… mi hai detto che volevi imparare a difenderti.”
 
 


Clarke aveva avuto la malsana idea di chiedere a Octavia, appena tornata alle sue normali attività qualche settimana dopo il parto, di aiutarla a imparare qualche mossa con la spada. Quello che non si era aspettata era stata l’improvvisa decisione di Octavia di trasformarla in una guerriera degna del Valhalla, allenandola senza sosta per giorni, lasciandole lividi ovunque e i muscoli doloranti. “Penso di sapermi difendere abbastanza adesso, non ho alcun desiderio di diventare una guerriera esperta come te.”
 
 


“Non avresti alcuna possibilità…” Octavia alzò gli occhi al cielo “Ma suppongo che per la tua legittima difesa quello che ti ho insegnato possa bastare…”
 
 


“Vorrei verificare.” La voce di Lexa le fece sobbalzare entrambe, nessuna delle due aveva sentito arrivare lo Jarl, e Lexa sorrise “Se non ti dispiace Octavia...” Lo sguardo di Octavia passò per un attimo da Lexa a Clarke, poi annuì “Ma certo mia signora. Dovevo andare a controllare Bellamy in ogni caso.”
 
 


Octavia salutò Clarke con un cenno del capo prima di andarsene, e lei si rimise in piedi, osservando Lexa con calcolata attenzione “E’ da quasi una settimana che non ti vedo”.Ormai parlavano quasi solamente nella loro lingua, e Clarke era felice di riuscire finalmente a capire quello che tutti le dicevano al villaggio. Certo, parlare era ancora difficile per lei, ma trovava ogni giorno più semplice dialogare in quella lingua che inizialmente le era sembrata così diversa dalla sua.
 
 


“Ti sono mancata?” La voce di Lexa suonava canzonatoria, e Clarke le sorrise “Abbiamo perso qualche lezione…” Lexa alzò le spalle “Mi dispiace, sono stata impegnata con i preparativi per Yule. Verranno qua persone da tutta la regione per le celebrazioni.”
 
 


“E’ come il nostro Natale…” “Natale?” Lexa incrociò le braccia, lo sguardo pieno di curiosità “E’ la celebrazione della nascita del figlio di Dio, Gesù Cristo.” Lexa annuì “E Gesù sarebbe il dio di cosa esattamente?” Clarke la guardò confusa “In che senso?”
 
 


“Thor è il figlio di Odino, ed è il dio dei fulmini, il signore delle tempeste… Gesù cosa controlla?” Clarke rise “Non funziona esattamente così per noi… C’è un unico Dio, che controlla tutto quello che ci circonda, quello che siamo. Gesù e Dio sono la stessa entità.”
 
 


Lexa la guardò ancora più confusa “Come fanno a essere la stessa persona se sono padre e figlio?” Clarke scosse la testa “Temo sia un argomento troppo complicato per una suora e uno Jarl vichingo.” “Quindi ti consideri ancora tale?” la voce di Lexa calò improvvisamente, tanto che Clarke fece fatica a sentirla, e la guardò senza aver compreso la sua domanda “Ti consideri ancora una suora Clarke?”
 
 


Quella domanda la lasciò spiazzata, incapace di rispondere immediatamente; certo, erano sempre più radi i momenti in cui si ritrovava a pregare, più per abitudine che per altro. Gli abiti da monaca con cui era arrivata nel villaggio a lungo dimenticati, così come le severe regole del convento. Eppure in cuor suo non aveva mai pensato che avrebbe potuto smettere di essere una suora, non fino a quel momento “Io… sì. Ho fatto un giuramento. Mi sembra che sia l’unica cosa che ancora mi lega alla mia vita.”
 
 


Lexa si limitò ad annuire, ma a Clarke non passò inosservata l’ombra di tristezza nel suo sguardo, come se avesse sperato in una risposta diversa, e Clarke fece per chiederle il perché di quella domanda, ma Lexa cambiò bruscamente discorso “Quindi come festeggiate il Natale?”
 
 


Clarke sorrise al pensiero delle festività che aveva passato nella sua casa, soprattutto quando suo padre era ancora vivo “C’erano grandi banchetti, e gente che suonava nella sala grande del palazzo fino all’alba dopo la messa di mezzanotte. Si bruciava un enorme ceppo di abete, il più grande che si trovava nella foresta e c’erano i regali, e i canti… era così bello. Quando sono entrata in convento però era tutta un’altra cosa, di solito ci limitavamo a pregare più intensamente del solito.”
 
 


“Credo che ti piacerà Yule allora. A noi vichinghi piace fare festa.” Clarke annuì, ricordando come al banchetto precedente che Lexa aveva organizzato al loro ritorno dall’Inghilterra, Anya avesse sfidato Gustus a una gara di lancio dell’ascia dopo parecchie pinte di birra, sfida di cui entrambi portavano ancora i segni dopo che Clarke gli aveva ricuciti.
 
 


Clarke, immersa nei suoi pensieri, non si accorse del modo in cui Lexa la stava fissando, i grandi occhi verdi puntati su di lei, pieni di un’emozione che Clarke non sapeva bene come collocare. Certo, erano mesi che osservava Lexa durante i loro incontri, e qualche volta di nascosto, quando Lexa non se ne accorgeva, ma in quel momento c’era qualcosa in lei che Clarke non riuscì a riconoscere. Era bella, bellissima, con i capelli intrecciati che le scivolavano sulle spalle, dello stesso color nocciola della foresta, tra i quali Clarke avrebbe tanto voluto passare le dita. Lo sguardo di Clarke cadde sulle sue labbra, rosse per il vento freddo che continuava a soffiare intorno a loro, e per un attimo si chiese come doveva essere sentirle sulle sue, come doveva essere baciare Lexa e sentirla vicina, lasciarsi andare nel verde dei suoi occhi e perdersi completamente in lei; Clarke era tentata e terrorizzata allo stesso tempo all’idea.
 
 

 

Cercò di bloccare quei pensieri prima di arrossire eccessivamente, prima di rendere evidente a Lexa e al mondo intero quello che stava pensando; certo, Lexa era stata sempre gentile con lei, ma nulla di più, e Clarke temeva che fosse solo un modo per ricambiarla per averle salvato la vita.
 
 


“Clarke… allora, vogliamo cominciare?” Lexa la guardò con un sorriso, e Clarke registrò solo in quel momento che l’altra ragazza aveva sguainato la spada, pronta a combattere. Clarke alzò la sua arma, lieta di poter finalmente pensare ad altro, e incrociò la lama con quella di Lexa.
 
 
*
 


Yule arrivò con una velocità sorprendente, insieme alle carovane di viaggiatori dai paesi più piccoli e dalla campagna intorno a loro, portando vitalità e gioia al villaggio nonostante l’inverno ancora rigido attorno a loro. Clarke scoprì suo malgrado che la lingua che ormai pensava di aver padroneggiato cambiava leggermente per ogni paese vichingo e Anya si divertiva a prenderla in giro ogni volta che cercava di conversare con qualcuno da fuori del villaggio.
 
 


Sembrava essersi sparsa la voce della miracolosa guaritrice di Polis, e nei giorni precedenti alla festa Clarke si ritrovò più indaffarata che mai. Raven aveva accettato con gioia di farle da assistente visto che era ancora a riposo e insieme, Clarke ne era convinta, formavano una coppia incredibile, salvo alcuni incidenti.
 
 


“Raven, hai detto tu al maniscalco che posso ricostruirli il dito che ha perso sei anni fa?” Raven alzò le spalle, fingendo indifferenza “Forse potrei aver esagerato un pochino le tue capacità mediche.” “Raven!” La ragazza rise “Clarke, Anya va in giro a dire che riesci a trasformare l’acqua in vino!” Clarke si portò le mani al volto, incredula “Lo sapevo che non dovevo raccontarvi la storia di Gesù…”
 
 


Lexa si faceva vedere di rado, impegnata più che mai nell’accoglienza degli altri capi delle tribù vicine e nei suoi doveri di Jarl, ma Clarke aveva avuto modo di osservarla nel suo ruolo, così rigida e composta rispetto alla Lexa che Clarke aveva conosciuto nei mesi passati a Polis. Non era riuscita a non ammirarla per il modo in cui riusciva sempre a mediare la situazione quando era necessario, o come allo stesso tempo era in grado di assumere il comando, con la glaciale compostezza di un vero comandante.
 
 


Finalmente arrivò la sera delle celebrazioni, e Clarke aveva appena finito di vestirsi con uno dei vestiti da festa che Octavia le aveva prestato, dicendole che non era il caso di presentarsi all’avvenimento più importante dell’anno con la veste sporca del sangue del suo ultimo paziente. S’incamminò con Octavia, Lincoln e il piccolo Bellamy verso il centro della piazza, dove una grande folla si era già assiepata per assistere alla cerimonia. Quando Clarke vide quello che aveva catturato l’attenzione di tutti restò come folgorata, la bocca spalancata, incapace di parlare: Lexa era al centro della folla, su un piccolo palco rialzato, completamente vestita di bianco.
 
 


Portava i capelli raccolti in un modo che Clarke non aveva mai visto, con trecce elaborate e poteva vedere intrecciate in essi quelle che dovevano essere foglie fatte di oro puro, che brillavano grazie al riflesso delle fiaccole attorno a loro. Accanto a Lexa c’era una grossa vacca, per nulla impaurita dalla folla attorno a lei, ignara del destino a cui stava andando incontro.
 
 


Lexa alzò le mani e ogni brusio intorno a lei si spense, tutti gli occhi rivolti a lei “Stanotte, siamo qui per pregare gli dei.” La voce di Lexa risuonò chiara e cristallina nella notte, forte come il rumore del tuono “Stanotte, siamo qui per onorare i nostri morti, che siedono nel Valhalla, accanto a nostro padre Odino.” “Odino!” La folla gridò come una sola voce attorno a lei, facendole venire la pelle d’oca; c’era qualcosa di magico, di oscuro in tutto questo, ma Clarke non riusciva a non provare un fascino misterioso per ciò a cui stava assistendo.
 


 
“Stanotte ringraziamo gli dei per le nostre vittorie, e gli preghiamo affinché ci aiutino nelle nostre nuove battaglie.” Clarke pensò a Nia, la cui ombra ancora occupava i pensieri di tutti “Stanotte celebriamo ciò che è stato e ciò che sarà, quello che finisce e quello che inizia. Ringraziamo gli dei per quello che ci hanno preso, e per quello che ci hanno donato.” A quelle parole gli occhi di Lexa trovarono i suoi, e il brivido che sentì Clarke non aveva nulla a che fare con il vento che soffiava leggero quella notte.
 
 


Anya arrivò dietro Lexa, portando una grossa spada lucente, depositandola nelle mani dello Jarl “Possa la nostra tavola essere sempre piena, possa la nostra terra rinascere grazie al sangue dei nostri nemici, possano le stelle guidarci alla conquista di nuovi regni, possa il vento sempre soffiare sulle nostre vele. Per Odino!”
 
 


“Odino!” la folla ruggì nuovamente, e Lexa calò la lama sulla gola della bestia davanti a lei, che si lacerò senza opporre resistenza davanti all’arma affilata.  Un fiotto di sangue rosso si riversò sulla veste bianca di Lexa e sul suo volto, e Clarke sentì il respiro fermarsi. Provò disgusto per un attimo, paura, ma allo stesso tempo le era impossibile distogliere lo sguardo dallo spettacolo che aveva di fronte.
 


 
Anya iniziò a raccogliere il sangue che sgorgava dalla bestia con una bacinella, per poi usarlo per bagnarsi a sua volta il volto, passandolo poi alla folla intorno a sé. Clarke vide Octavia e Lincoln fare lo stesso, bagnando persino il volto del piccolo Bellamy con qualche schizzo ancora caldo del sangue dell’animale. Lincoln passò la bacinella a Clarke, che la tenne tra le mani, percependo il calore che emanava. Vide il suo riflesso nel sangue, il volto distorto da continue piccole onde che scuotevano il liquido nella bacinella, l’odore metallico che le ricordava il suo lavoro. Esitò per un momento, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare; alzò lo sguardo, incrociando nuovamente gli occhi di Lexa, che la fissava intensamente.
 


 
Clarke sostenne il suo sguardo mentre, con mani tremanti, passò la bacinella all’uomo accanto a lei senza sporcarsi di sangue, per poi fuggire, sparire in mezzo alla folla, senza voltarsi indietro.
 
 
*
 

Clarke sentì la porta della sua casa aprirsi qualche ora più tardi, e nonostante desse le spalle al nuovo venuto, capì chi era prima ancora che aprisse bocca. “Clarke…” la voce di Lexa era un sussurro “La cerimonia è finita.” Clarke si girò, osservando Lexa, la figura immutata rispetto a quando l’aveva lasciata, il sangue ormai secco che ancora le macchiava il viso. Doveva essere corsa da lei non appena la cerimonia era finita, e Clarke provò una fitta al cuore al pensiero.
 
 


“Mi dispiace se quello che hai visto ti ha turbata… Io non pensavo…” Clarke scosse la testa, interrompendo il discorso di Lexa “Non lo so se mi ha turbata, non lo so cosa ho provato in quel momento… era semplicemente troppo.” Lo sguardo di Lexa si addolcì mentre si avvicinava a lei, ma Clarke fece un passo indietro “Dovrei temere tutto questo, dovrei provare paura, rinnegare queste cerimonie pagane, dovrei sentirmi oltraggiata e maledire te il tuo villaggio e io… io non ci riesco, e non so più cosa provo, non so più chi sono.” Le parole le uscirono dalle labbra come un fiume in piena, rivelando una verità che a lungo Clarke aveva nascosto anche a se stessa. Nonostante avesse imparato ad apprezzare i vichinghi e le loro tradizioni, lei era cresciuta come una cristiana, e c’era una parte della sua mente che rivedeva Satana in quei riti mistici, nel culto del sangue, nei sacrifici.
 
 


Lexa rimase in silenzio per un attimo, poi si avvicinò a lei, e questa volta Clarke non ebbe la forza di tirarsi indietro “Hai paura di me Clarke?” Clarke la guardò negli occhi e non riuscì più a mentirle “Tu mi terrorizzi, Lexa. E non per i motivi per cui dovresti, ma perché…” Prese un respiro profondo prima di completare la frase “Perché non riesco a capire cosa mi stai facendo.”
 
 


Lexa restò immobile per un momento prima di alzare la mano e accarezzarle il volto, avvicinandolo delicatamente al suo, dandole il tempo di tirarsi indietro, ma Clarke non riuscì a fermarsi, l’attrazione che provava per Lexa troppo forte per essere contrastata da un qualsiasi pensiero coerente.
 
 

Lexa le sfiorò le labbra con le sue, lasciando a lei il prossimo passo, e Clarke le circondò le spalle con le braccia, stringendosi a lei, non sopportando per un minuto di più di non averla vicina. Lexa la strinse a sua volta, le mani nei suoi capelli, e mentre il bacio si faceva più profondo i sensi di Clarke si mescolarono, mentre il profumo di Lexa, la morbidezza delle sue labbra, il sapore del sangue, diventavano una cosa sola, insieme al misto di emozioni che le turbinavano dentro.
 
 


Le mani di Lexa scesero a stringerle i fianchi, le dita affusolate che premevano sulla sua pelle con possessività, reclamandola come sua. E per un attimo Clarke si perse in quel bacio, non desiderando altro che essere sua veramente, completamente; la sua lingua sfiorò quella di Lexa e la donna emise un gemito soffocato che sembrò risvegliare in Clarke sensazioni che non aveva mai provato prima, un fuoco che non sapeva di avere dentro.
 
 


 
Era troppo per lei, troppo tutto insieme, e per un attimo si sentì soffocare. Si staccò da Lexa bruscamente, indietreggiando sotto lo sguardo preoccupato dell’altra, coprendosi il volto con le mani, sentendo gli occhi farsi lucidi, il respiro spezzato “Non posso Lexa… Io non posso.”
 
 


Sentiva troppo caos dentro di sé, troppa confusione, e il pensiero di aver quasi rotto anche l’ultimo giuramento fatto, l’ultimo barlume di ciò che era stata, la fece quasi crollare a pezzi. Lexa la guardò senza capire, con un’espressione distrutta in volto che spezzò il cuore di Clarke, ma rimase in disparte, senza avvicinarsi a lei “Clarke… io…”
 
 


Clarke la bloccò prima che potesse dire altro, e scosse la testa “No, ti prego. Non ci riesco, non posso… Lasciami sola.” Una parte di lei sperò che Lexa non lo facesse, che la prendesse nuovamente tra le braccia, che lottasse contro di lei, ma sapeva che Lexa era troppo rispettosa per fare una cosa del genere. La guardò per un’ultima volta, il volto spezzato dal rimorso, e poi uscì, lasciandola sola con i suoi demoni.








Note: Ciao a tutti! Aggiornamento super rapido perché Aprile sta per finire! Vi informo già che ho praticamente finito di scrivere la storia, quindi pubblicherò il prossimo capitolo venerdì e l'ultimo domenica per finire in tempo. Qualche precisazione sul capitolo, prima di tutto ho fatto qualche ricerca sulle gravidanze podaliche dell'epoca prima di scrivere la scena del parto ed è stato tipo l'orrore (ci sono strumenti da film horror, povere donne), in ogni caso quello che ho appurato è che la quasi totalità dei parti difficili finiva con la morte della madre o del bambino, se non quella di tutti e due e che il cesareo veniva praticato solo come gesto estremo per salvare il bambino se la madre era già morta. Quindi il fatto che Octavia e il bambino siano sopravvissuti è vagamente poco realistico, ma c'è già abbastanza dolore nella serie tv, non mi piace uccidere i personaggi, quindi per questa volta perdonatemi. Questo non vuol dire che non mi piaccia l'angst, e la scena finale era quella che aspettavo di scrivere da quando ho iniziato la storia! Spero che vi sia piaciuta e che soprattutto si capisca il dramma interiore di Clarke (aka tendo ad essere troppo introspettiva quando mi metto) come al solito fatemi sapere, apprezzo tantissimo tutti i vostri commenti e il supporto che mi date! Alla prossima!

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Clarke si asciugò distrattamene la fronte dal sudore mentre raccoglieva le ultime erbe della mattinata, il sole di febbraio alto nel cielo. Era passato più di un mese da Yule, e la vita di Clarke nel villaggio vichingo non era cambiata molto apparentemente, ma lei si sentiva profondamente diversa, come se una cascata d’acqua fredda l’avesse risvegliata dal sonno in cui sembrava essere calata dal giorno del suo arrivo.
 
 


Lexa non le aveva più parlato del loro incontro, ma si era tenuta a distanza, annullando le loro lezioni di vichingo completamente, senza avvicinarsi mai a lei se era da sola. Una parte di Clarke ne era contenta, perché solo l’idea di Lexa sembrava portare il caos nei suoi pensieri, eppure non riusciva a smettere di pensare a lei. Le mancava, le mancava terribilmente e si malediva ogni volta per il modo in cui aveva reagito al bacio.
 
 


Il solo pensiero di quella notte la faceva arrossire ancora, pensando a come aveva assolutamente perso il controllo, a come avrebbe felicemente perso se stessa tra le braccia di Lexa. Raven aveva cercato di iniziare un discorso su quello che era successo, non era sfuggito a nessuno il cambio di dinamiche tra lei e lo Jarl, ma Clarke l’aveva zittita; non riusciva a pensarci, meno che meno a parlarne. Era comunque quasi primavera.
 
 


Il pensiero la colpì come uno schiaffo, realizzando con quanta accuratezza avesse evitato di pensarci fino a quel momento, ignorando l’allungarsi delle giornate, i fiori che iniziavano a sbocciare nei campi, la neve che si faceva più rada nel villaggio. Inevitabilmente pensò a come sarebbe stato tornare a casa, lasciare gli amici che si era fatta, la libertà che aveva assaporato, lasciare Lexa…
 
 


“Clarke!” La voce preoccupata di Anya interruppe i suoi pensieri, e si alzò di scatto nel vedere il volto cupo della guerriera “Anya, cosa succede?”
 
 


“Lexa mi ha mandato a prenderti, gli uomini di Nia si stanno avvicinando al villaggio. Non è prudente per te essere qui.” Clarke prese il cesto con le ultime erbe che aveva raccolto e seguì Anya verso il villaggio, in una corsa che le ricordò quella che avevano fatto insieme mesi prima, quando Anya l’aveva portata via dal suo convento.
 
 


“Che cosa sta succedendo? Ci sta attaccando?” Anya scosse la testa “I miei esploratori hanno detto che Nia in persona si sta avvicinando con un gruppo dei suoi uomini, lasciando indietro il resto dell’esercito. Penso voglia parlare con Lexa, ma solo gli dei sanno cos’ha in mente quella strega.”
 
 


Clarke provò una fitta al cuore al pensiero della battaglia imminente, l’idea che la morte poteva essere così vicina per lei e le persone che era arrivata a considerare quasi una famiglia.
 
 


Quando arrivarono al villaggio, Clarke si rese conto di come la notizia dell’arrivo di Nia avesse messo tutti in agitazione. I paesani stavano radunando i pochi averi che possedevano, pronti alla fuga, i guerrieri imbracciavano le armi e indossavano le corazze, pronti a combattere fino all’ultimo respiro. Anya portò Clarke nel salone della casa di Lexa, gremito di soldati e lo sguardo di Clarke vagò per la stanza, alla ricerca degli occhi verdi che aveva evitato per tutto quel tempo.
 
 


Fu Lexa, però, a trovarla per prima, avvicinandosi a lei e stringendola per un momento tra le braccia, mentre Clarke sentiva ogni fibra del suo essere rilassarsi nel suo abbraccio, come se non avesse aspettato altro per settimane “Quando mi hanno detto che eri nel bosco ho temuto il peggio.” Lo sguardo di Lexa era ancora pieno di preoccupazione quando si staccò da lei e Clarke le sorrise “Sto bene, Anya mi ha portato via prima che arrivassero.”
 
 


“Ti ringrazio Anya…” Lexa guardò sua cugina con gratitudine e l’altra scosse la testa “Clarke mi ha ricucito così tante volte ormai che penso di doverle due vite. Vado a prepararmi, se quella megera vuole la guerra, sarò più che felice di staccarle la testa con la mia ascia.”
 
 


Anya se ne andò, lasciandole sole “Che cosa pensi che stia facendo, venendo qua senza il suo esercito?” A Clarke non sfuggì l’espressione preoccupata di Lexa “Temo di saperlo.” Clarke fece per chiederle di cosa stesse parlando, quando furono interrotte da un rumore di zoccoli nel cortile. “Sono qui” Lexa portò la mano all’impugnatura della spada “Clarke, resta vicina a Octavia. Qualsiasi cosa accada non temere, sei al sicuro.” C’era qualcosa di sottointeso in quella frase, nello sguardo che Lexa le lanciò prima di andare verso il portone che dava nel cortile, qualcosa che le diceva che Lexa avrebbe fatto di tutto pur di proteggerla.
 
 


La grande porta di legno si aprì e, per la prima volta, Clarke fu in grado di vedere la famigerata Nia; era una donna non più giovane, a Clarke ricordò per un attimo la madre, il volto segnato dal tempo, ma quello era forse l’unico dettaglio che lasciava trapelare l’età della donna. Il portamento regale, lo sguardo acceso e attento, la facevano sembrare più temibile di qualsiasi altra guerriera Clarke avesse incontrato, fatta eccezione per Lexa.
 
 


Lo sguardo di Nia saettò nella sala, fino a incontrare gli occhi di Lexa, e un sorriso malevolo le illuminò il volto “Jarl Lexa… Ci rivediamo.” Clarke non riusciva a vedere il volto di Lexa, ma percepì chiaramente la tensione della ragazza dai movimenti delle spalle “Speravo non fosse necessario Nia, sono stata abbastanza chiara durante il nostro ultimo incontro. Ho risparmiato te e tuo figlio a patto che voi spariste da Polis per sempre. E tu hai ricambiato la mia generosità scatenando contro di me e il mio villaggio una guerra.”
 
 


La risata di Nia rimbombò in tutta la sala, aspra e senza alcuna gioia “Generosità? Hai ucciso mio marito di fronte ai miei occhi Lexa, hai usurpato il trono che spettava a me di diritto, rubato il mio villaggio e la metà dei miei uomini…” “E avrei dovuto uccidere anche te.” Lexa sputò le parole addosso alla donna con un tono di disprezzo che Clarke non le aveva mai sentito usare.
 
 


“Sì, avresti dovuto.” Nia le sorrise, e lasciò vagare lo sguardo sulla sala, incrociando per un attimo gli occhi di Clarke “Allora è vero quello che mi hanno riferito… Che la piccola Lexa si è portata a casa un ricordino dall’Inghilterra.” Clarke arrossì violentemente sotto lo sguardo della donna, ma non abbassò gli occhi “Una suora Lexa, che pessimo gusto… Sei diventata debole, ti sei fatta piegare dal Dio cristiano sottoforma di una bella biondina.” Un sussurro percorse la sala a quelle parole, e la sicurezza di Lexa sembrò vacillare.
 
 


“La mia pazienza si sta esaurendo Nia…. Che cosa vuoi?” La donna spostò nuovamente lo sguardo su Lexa “Voglio quello che è mio di diritto Lexa, il tuo titolo. E ho un esercito pronto ad aiutarmi a conquistarlo… Ma speravo che si potesse evitare una battaglia. Come te, non ho alcun interesse nel sacrificare le vite dei miei uomini, o nel distruggere il mio villaggio.”
 
 


“E come pensi che andrà? Che ti lasceremo il villaggio senza combattere? Sei folle Nia!” Anya aveva preso la parola dal suo posto accanto a Lexa, ma Nia non la guardò nemmeno “Dovresti insegnare ai tuoi cani a non abbaiare in presenza di ospiti Lexa.” Anya fece per andare contro di lei, e gli uomini di Nia dietro di lei sguainarono le spade, ma Lexa la trattenne con il braccio “Basta Anya!”  Lexa si girò a guardare la cugina, e lei sembrò calmarsi, facendo un passo indietro.
 
 
 
 

“Forza Nia, fai la tua proposta, sappiamo entrambe quello che vuoi.” Lexa aveva parlato con tono basso, inevitabile, e il sorriso di Nia si fece più trionfante “Sono venuta a portati la sfida di mio figlio Roan. Un duello all’ultimo sangue per decretare chi sarà il nuovo Jarl di Polis, il Comandante dell’alleanza dei clan.”
 
 


Clarke trattenne il fiato a quelle parole, anche se dentro di sé sapeva già cosa stava per succedere; conosceva Lexa troppo bene, più di quanto avrebbe ammesso con se stessa.
 
 


“Accetto.”
 
*
 

“Sei impazzita?” Anya camminava su e giù per la sala del trono, ora libera dai soldati, mentre Lexa le dava le spalle. Gustus e Indra sembravano voler sostenere Anya, ma quando Lexa si girò si zittirono tutti “Sono forse impazzita se desidero preservare la vita della mia gente?”
 
 


Clarke, in disparte rispetto a loro, era immobile, incapace di prendere parte alla discussione, il cuore in preda ad un tumulto inimmaginabile. Lexa stava per combattere, e c’era un’alta probabilità che morisse, e la sola idea faceva tremare Clarke dalla testa ai piedi.
 
 


“Lexa, abbiamo quasi il doppio dei suoi uomini…” Gustus cercò di farla ragionare, ma Lexa scosse la testa “Quanti moriranno se ci attaccherà direttamente? Quante morti potrei evitare?” “Con la tua?” Indra scosse la testa “Non puoi morire Lexa…” La voce della donna suonava spezzata, come se avesse già intuito che le sue parole erano come fumo al vento.
 
 


“Voi non capite…” Lexa scosse la testa “Quella serpe ha messo in giro voci… su di me e Clarke.” Sentendosi nominare Clarke alzò lo sguardo, incrociandolo con quello di Lexa, pensando a come le voci non fossero completamente infondate “Tutti sanno che ti piace Clarke, Lexa!” Anya aveva quasi gridato “L’hai vista? Tre quarti del villaggio darebbe una mano per portarsela a letto. Questo non vuol dire niente!” Clarke arrossì violentemente, ma Lexa rimase impassibile “Non è per quello. Ha detto che mi sto convertendo al cristianesimo, ha minato la mia autorità davanti ai miei uomini… se rifiuto la sua sfida, è probabile che metà dei nostri soldati cambi schieramento durante la battaglia!”
 
 


Clarke comprese in quel momento le preoccupazioni di Lexa, e si sentì terribilmente in colpa “Mandami via.” La sua voce sorprese tutti, persino se stessa “Mandami via, rinnegami, puniscimi davanti al villaggio per il mio credo, qualsiasi cosa facciate voi vichinghi…” Lexa la guardò negli occhi “Non potrei mai rischiare la tua vita Clarke.”
 
 


Anya guardò entrambe con stupore comprendendo in quel momento quanto fosse profondo il legame che si era formato tra di loro “Maledizione Lexa…”
 
 


Lexa chiuse gli occhi per un attimo prima di guardare la cugina “La mia decisione è presa. Non appena Roan sarà qui combatteremo, e gli dei decideranno chi tra noi è il più degno di essere Jarl. Adesso vorrei parlare con Clarke da sola per un momento, se non vi dispiace… Sarò da voi tra poco.”
 
 


Anya lanciò un ultimo sguardo a Lexa prima di andarsene seguita da Gustus e Indra, e Clarke rimase sola con lei per la prima volta da quando si erano baciate, quella che le sembrava un’eternità prima. “Lexa…” Clarke sentì gli occhi riempirsi di lacrime al pensiero di perderla, nonostante fosse stata lei prima di qualsiasi altra cosa ad allontanarla.
 
 


La maschera impassibile che Lexa aveva mantenuto fino a quel momento crollò per un attimo, e si gettò tra le braccia di Clarke, stringendola a sé “Non farlo Lexa, ti prego…” Sussurrò tra i suoi capelli, cercando di stringerla più forte che poteva, come se avesse potuto proteggerla da quello che stava per accadere.
 
 


Lexa sembrò ritornare in sé, e si staccò da lei, per guardarla negli occhi “Se dovessi morire Clarke…” “Non dirlo…” “Se dovessi morire… Anya ti riporterà in Inghilterra, te lo prometto.” Clarke cercò di fermare i singhiozzi, ma le sembrava impossibile trattenere le lacrime “Mi dispiace Lexa… Mi dispiace tanto per quello che ho fatto, per il tempo che ho perso… non mi ero resa conto…”
 
 


Lexa scosse la testa “Non hai colpa di nulla Clarke.” E invece ne aveva, ora se ne rendeva conto. Lexa l’aveva aspettata in silenzio, lasciandola prendere il suo spazio, il suo tempo, e lei aveva rovinato tutto, per le sue insicurezze, per i suoi dubbi, che ora sembravano così stupidi, così inutili di fronte alla possibilità di perderla.
 
 


Clarke prese tra le mani il volto di Lexa e la baciò, mentre le sue lacrime bagnavano il volto della donna, e sentì Lexa ricambiare il bacio con passione disperata, consapevole che poteva essere l’ultimo.
 
 


Si staccò da lei con fiato corto, l’ombra di un sorriso tra le labbra “Devo andare…” Clarke annuì suo malgrado “Non osare morire Lexa… Torna da me.” Lexa annuì, senza sembrare troppo convinta “Prega il tuo Dio per me Clarke. Avrò bisogno di tutto l’aiuto possibile.”
 

*
 

Clarke camminò come in un sogno verso il piccolo recinto che era stato adibito ad arena per l’occasione, e per poco non le mancò il fiato quando vide per la prima volta l’avversario di Lexa. Roan era un uomo possente, dall’aspetto minaccioso e terribilmente forte. Ogni tratto del suo viso emanava sicurezza e calma, come se il pensiero di perdere, e quindi morire, non lo sfiorasse nemmeno.
 
 


Lexa era al lato opposto del recinto, l’espressione indecifrabile mentre osservava il suo avversario. Clarke non aveva mai visto Lexa combattere, e sperò con tutto il cuore che la reputazione che aveva nel villaggio fosse veritiera. Raven si materializzò improvvisamente accanto a lei, e Clarke fu felice di vederla “Clarke… Non hanno ancora iniziato?”
 
 


Clarke scosse la testa, e Raven fissò i due contendenti davanti a loro “Ho visto Roan combattere quando suo padre era ancora vivo… è una furia. Ma anche Lexa… anche Lexa è forte.” Raven sembrò dirlo più per rassicurarla “Nia ha detto che se vincerà Roan lascerà vivere tutti gli abitanti del villaggio… Ma dubito intenda mantenere la promessa. Non con Anya almeno, o Indra, Gustus, Lincoln, Octavia… te… Chiunque sia abbastanza vicino a Lexa è destinato a seguirla nella tomba.”
 
 


Clarke deglutì a fatica, il nodo che sentiva alla gola soffocante più che mai al pensiero di quello che la morte di Lexa poteva causare, a come le loro vite, così diverse e agli antipodi non appena qualche mese prima, ora fossero legate indissolubilmente. Poco prima, al pensiero di vederla per l’ultima volta, non aveva resisto, lasciando che i muri che si era costruita attorno cercando di difendere gli ultimi barlumi della sua vita passata, cadessero ai suoi piedi, schiacciati dai sentimenti che provava per Lexa.
 
 


Non si era resa conto quanto fosse diventata importante per lei la presenza di Lexa nella sua vita, e in quel momento, vedendola così indifesa di fronte ad un nemico tanto potente, ogni dubbio che aveva avuto riguardo al suo giuramento di suora, alla religione, alla differenza tra le loro culture, tutto quello che aveva creduto fino a quel momento, era crollato. Ora voleva solo che Lexa vincesse, che non l’abbandonasse, quella era l’unica cosa che le interessava.
 
 


Gustus alzò le mani e la folla che si era radunata attorno al recinto si zittì di colpo. Nia, dietro al figlio, osservò Clarke con un sorriso malevolo, e Clarke pensò di non aver mai provato tanta repulsione per una persona in tutta la sua vita. Nia incuteva timore, sembrava nata per governare, ma c’era qualcosa in lei di subdolo, viscido, che la sua figura non riusciva a non emanare.
 
 


Un grido squarciò l’aria mentre lo sguardo di Clarke scivolava da Nia ai due contendenti: il duello era iniziato.
 

*
 

Roan iniziò lo scontro gettandosi addosso a lei, facendo leva sulla sua invidiabile forza fisica, e Lexa capì subito che l’unica scelta possibile per lei era quella di sfruttare la sua agilità; doveva solo aspettare che Roan si stancasse, sperando sempre che lo facesse prima di lei. Alzò lo scudo e parò il fendente dell’uomo, cercando di avvicinarlo alla sua lama mentre la spada di lui era ancora conficcata nel suo scudo.  Il suo avversario però non era uno stolto, e liberò l’arma con un movimento fluido, allontanandosi di qualche passo da lei, studiandola con l’occhio di un guerriero esperto. Lexa a sua volta cercò di individuare dei punti deboli nell’avversario, e come aveva già notato prima,  vede che Roan tendeva a lasciare scoperto il fianco sinistro quando attaccava: avrebbe dovuto approfittarne.
 
 


La loro danza continuò per qualche minuto, mentre le loro lame continuavano a incrociarsi, incapaci di ferirsi veramente. La spada e lo scudo cominciarono a pesare tra le braccia di Lexa, e lasciò andare quest’ultimo, più un intralcio che altro. Roan approfittò del suo momento di distrazione per lanciare a sua volta lo scudo addosso a lei, e Lexa non riuscì a evitarlo.
 
 


Il suo gemito di dolore si perse tra i ruggiti della folla quando lo scudo la colpì in pieno petto, scaraventandola a terra. L’aria sembrò abbandonare completamente i polmoni di Lexa, ma non c’era tempo per riprendersi; rotolò di lato appena in tempo per evitare la spada di Roan, che si conficcò a terra poco distante dalla sua testa, e lei ne approfittò per conficcare la lama della sua spada nel polpaccio dell’avversario, che gridò di dolore.
 
 


Roan cadde in ginocchio mentre lei si rialzava, colpendo violentemente Roan in viso con il suo stesso scudo, rompendogli il naso. La folla dalla sua parte dell’arena ruggì entusiasta mentre l’uomo cadeva a terra, lasciando la presa sulla sua spada e Lexa vide finalmente una possibilità di vittoria. Alzò la spada, pronta a finire il suo avversario immobile, ma troppo tardi comprese che lui l’aveva ingannata.
 
 


La mano dell’uomo si alzò da terra e le gettò in volto del terriccio, oscurandole per un attimo la visuale. Lexa perse l’equilibrio e non poté evitare l’elsa della spada di Roan che calò sulla sua testa, colpendola in pieno. Per un attimo il mondo si fece completamente buio, e Lexa riuscì a registrare solo il suolo su cui era malamente caduta. Sentiva una voce in lontananza gridare il suo nome, e per un attimo non capì a chi appartenesse; poi un lampo di chiarezza le attraversò la mente: Clarke.
 
 


Si costrinse ad aprire gli occhi, ritornare alla realtà, cercando di ignorare il dolore che provava alla testa. Roan si avventò nuovamente su di lei, e questa volta l’unico modo in cui Lexa riuscì a parare il suo colpo diretto al cuore fu cercare di fermarlo a mani nude. La spada tagliò la mano sinistra, sacrificata da Lexa per non perdere la sua spada, e per un attimo fu come se l’intero braccio di Lexa andasse a fuoco.
 
 


Roan ritirò la spada con un ruggito pieno di collera e Lexa cercò di rimettersi in piedi, la testa che le girava all’impazzata mentre il mondo si colorava del rosso del suo sangue. Roan l’attaccò di nuovo mentre era in ginocchio, e questa volta Lexa capì che era la sua ultima occasione. Piegò la testa come per sottomettersi all’inevitabile fine che l’attendeva, e fortunatamente, Roan reagì esattamente come aveva previsto. Impugnò la lama con entrambe le mani, preparandosi a colpirla con tutta la forza che gli rimaneva, puntando a decapitarla davanti ad entrambi i loro eserciti. Lexa sapeva che tutto dipendeva dalla sua velocità e da quella di Roan, la linea tra la vita e la morte più sottile che mai mentre si giocava l’ultima chance di uscire viva da quello scontro.
 
 


La spada di Roan si avvicinò al suo collo, pronta a finirla, e in quel momento lei si lanciò in avanti, verso il suo avversario. Sentì la lama tagliare l’aria appena sopra di lei, ma in quel momento non importava. Roan aveva nuovamente esposto il fianco, e Lexa conficcò la sua lama con tutta la forza che le restava nell’addome dell’avversario, trapassandolo da parte a parte.
 
 


L’uomo emise un gemito, guardandola con incredulità prima di accasciarsi al suolo accanto a lei, il sangue che usciva copioso dalla ferita, bagnando il terreno circostante. Quello che successe dopo, Lexa lo vide quasi come in un sogno. La testa le pulsava, un unico, grande centro di dolore, le grida degli uomini di Nia si alzarono verso il cielo mentre estraevano le armi e attaccavano i suoi uomini.
 
 


Lexa cercò di parlare, di muoversi, ma era come se il suo corpo fosse diventato di pietra, incapace di rispondere ai suoi ordini. Inerme, vide Nia avvicinarsi a lei con lo sguardo pieno d’odio, la spada sguainata con il chiaro intento di eliminarla definitivamente. Lexa avrebbe voluto reagire, difendersi, ma sentiva già la sua mente scivolare verso l’oblio; mentre la sua vista si oscurava, vide la spada di Nia calare su di lei, e capì che era finita. L’ultima cosa che vide fu un’altra spada comparire nella sua visuale, fermando quella di Nia appena prima che la colpisse, poi non sentì più niente.
 
 
* 
 

Clarke parò il colpo di Nia pochi attimi prima che colpisse Lexa, e la donna alzò lo sguardo sconcertato su di lei, non si era resa conto che si stava avvicinando. Quando Lexa aveva ucciso Roan si era scatenato il caos attorno a loro, e gli uomini di  Nia, seguendo gli ordini che dovevano essere stati impartiti prima che lo scontro iniziasse, avevano attaccato i soldati di Lexa, bloccando chiunque avrebbe potuto mettersi tra Nia e la sua vendetta.
 
 


Clarke aveva visto Anya impegnata a combattere due uomini nello stesso momento, Gustus mulinare l’ascia da guerra cercando di raggiungere Lexa, Octavia calare la spada su un nemico dopo l’altro, e aveva capito che nessuno avrebbe raggiunto Lexa in tempo per salvarla.
 
 


Aveva scavalcato il recinto davanti a lei senza badare alle grida di Raven, rimasta alle sue spalle, e si era precipitata al fianco di Lexa, raccogliendo la spada di Roan dal terreno, alzandola in difesa dello Jarl giusto in tempo per fermare il colpo di Nia.
 
 


“Che cosa stai cercando di fare, ragazzina?” gli occhi della donna fecero tremare di paura Clarke, ma rimase immobile, sostenendo il suo sguardo “La sfida è finita, hai perso, ferma i tuoi uomini e vattene.” Nia rise, un suono secco e terribile “Adesso ti ucciderò, e poi ucciderò anche Lexa e mi prenderò il suo titolo e la sua casa, come lei ha fatto con me.” Nia spostò la spada, liberandola da quella di Clarke, e si rimise in guardia. Clarke cercò di mantenere la calma, provando a ricordare le lezioni che aveva avuto con Octavia ma, nonostante l’età, Nia si dimostrò un avversario temibile.
 
 
 


Il suo primo fendente le aprì un taglio profondo nel braccio, facendola arretrare verso il corpo immobile di Lexa e il secondo, che riuscì a bloccare per miracolo, per poco non la trapassò da parte a parte. Clarke non si era mai sentita a suo agio con un’arma in mano, e in quel momento si pentì di non aver chiesto a Octavia di addestrarla più a lungo.
 
 


Nia avanzò ancora verso di lei, decisa a finire quel duello più in fretta possibile, e Clarke capì che stava esaurendo il suo tempo; si era lanciata al soccorso di Lexa senza pensare, ma ora se voleva sopravvivere, se voleva che Lexa non morisse, doveva farsi venire in mente un piano. Quando la donna cercò di colpirla ancora Clarke si lanciò su di lei con tutta la forza che aveva, e le due finirono per rotolare nel fango, avvinghiate in una lotta terribile.
 
 


Nia la colpì più volte con l’elsa della spada sulla schiena, facendola gridare di dolore, ma non mollò la presa. Cercò di graffiare il volto della donna con la mano libera, l’altra mano ancora impegnata nel cercare di colpirla con la spada, troppo lunga per esserle utile in un corpo a corpo del genere. Nia abbandonò la spada e portò le mani al collo di Clarke, cercando di strozzarla.
 
 


Clarke cercò di ribellarsi alla presa mortale della donna, ma riusciva a sentire che le forze la stavano abbandonando e la poca aria che riusciva a respirare bruciava come fuoco nei suoi polmoni. La sua vista cominciò a oscurarsi, il ghigno di vittoria di Nia l’unica cosa che riusciva a vedere davanti a lei, quando improvvisamente la pressione sul suo collo svanì, e il corpo di Nia le cadde addosso con tutto il suo peso.
 
 


Clarke tossì violentemente più volte prima di riuscire a sollevarsi, togliendosi il peso della donna di dosso, e vide Raven in piedi davanti a lei, mentre il pugnale che la ragazza era solita usare per le sue decorazioni spuntava tra le scapole della donna, ormai priva di vita.
 
 


“Clarke, stai bene?” Raven l’aiutò a rimettersi in piedi, e insieme guardarono gli uomini di Nia, che ancora stavano combattendo, rendersi conto che la loro signora era morta.
 
 


“Basta!” Anya urlò al di sopra del clangore delle armi “Nia è morta, smettete di combattere!” Lo sguardo di Anya passò da lei a Raven, un’espressione leggermente incredula in volto. “Lexa…” Clarke si avvicinò di corsa al corpo immobile dello Jarl, cercando di capire se era ancora viva.
 
 


Quando sentì il debole ma regolare battito del cuore di Lexa Clarke emise un singhiozzo pieno di sollievo, e la strinse a sé. “Clarke, stai sanguinando…” Raven era accanto a lei, l’espressione preoccupata “Non è niente, devo pensare a Lexa prima… Aiutami a portarla dentro.” Furono raggiunte quasi subito da Gustus che, ora che la battaglia era finita, trasportò senza problemi Lexa fino al suo letto, dove Clarke si mise subito all’opera per bloccare il sangue che usciva ancora copioso dalle sue ferite.
 
 


Decise di rimanere accanto a Lexa tutta la notte e, mentre sentiva Anya e Indra nella sala principale discutere un nuovo impegno di pace con quelli che fino a poche ore prima erano i generali dell’esercito di Nia, si addormentò sulla sedia accanto al letto senza accorgersene.






Note: Ciao a tutti! Eccoci con il penultimo capitolo... Volevo fare una piccola precisazione perché alcuni mi hanno fatto notare che la storia potrebbe essere più sviluppata, e hanno ragione, però devo finirla entro Aprile quindi per problemi di tempo sono stata costretta ad accorciare alcune cose! Altra piccola nota, a me piace molto il personaggio di Roan (sarà che amavo l'attore in Black Sails) e mi è dispiaciuto farlo morire, ma non aveva senso che Lexa lo lasciasse in vita dopo quello che era successo, mancando nella storia i presupposti che ci sono in The 100! Infine spero che il capitolo vi sia piaciuto, come sempre fatemi sapere se avete dubbi/consigli/opinioni a riguardo e grazie mille a tutti per leggere la storia! Alla prossima!

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


“Clarke… Clarke.” Clarke alzò la testa, svegliandosi lentamente da un sogno che scappò dalla sua mente, lasciandola non appena aprì gli occhi; la realtà era ancora meglio pensò, incrociando il suo sguardo con quello di Lexa.
 
 


“Cosa ci fai qui Clarke?” Lexa le sorrise, e Clarke scosse la testa “Sai, volevo essere al tuo capezzale, pronta a sgridarti per aver fatto l’ennesima stupidaggine.” Lexa rise nel sentire Clarke rievocare le sue parole, ma quando il suo sguardo cadde sul suo braccio la sua espressione s’incupì.
 
 


“Cos’è successo dopo che sono svenuta? Chi ti ha fatto questo?” Clarke si era ricucita la ferita con l’aiuto di Raven la sera prima, ma non aveva ancora avuto modo di lavarsi il sangue di dosso, e il suo braccio non aveva un aspetto molto gradevole.
 
 


“E’ stata Nia…” Gli occhi di Lexa scintillarono pieni di rabbia “Com’è possibile che ti abbia raggiunto?” “Veramente è stata la nostra Clarke a correrle incontro.” Entrambe sussultarono nel sentire la voce di Anya, che sorrideva sulla porta “E’ un piacere vederti di nuovo tra noi mio Jarl…” Lexa ignorò il tono canzonatorio di Anya “Che cosa intendi per correrle incontro?”
 
 


“Quando Clarke ha visto Nia dirigersi verso di te con la spada sguainata si è gettata nell’arena con lo spirito di una vera vichinga e l’ha affrontata.” Lexa guardò Clarke negli occhi, mentre una luce del tutto diversa da quella di prima li animava “Hai ucciso Nia per me?” Prima che Clarke potesse risponderle Raven arrivò dietro Anya, un sorriso irriverente in volto “No, Clarke ha fatto schifo! Senza offesa Clarke… Stava per farsi ammazzare, poi sono arrivata io e ho salvato la situazione.”
 
 


“Non ho fatto schifo!” Clarke arrossì e Raven le andò vicino, stringendole la spalla “Va bene, sei stata brava per tipo… dieci secondi. Almeno hai evitato che la vecchia pazza uccidesse Lexa.” Lexa le sorrise “Mi hai salvato la vita… di nuovo. Smetterò mai di essere in debito con te, Clarke?”
 
 


“Non sono sicura… ma puoi provarci.” Il loro sguardo s’incontrò di nuovo, e questa volta Clarke provò solo un’infinita gioia nel vederla viva e vegeta, accanto a lei. “Anya… forse è il caso di andare.” Raven prese l’altra donna per mano, e sparirono insieme dalla stanza.
 
 


La mano di Lexa scivolò verso quella di Clarke, e lei non esitò a intrecciare le loro dita “Penso che dovremmo parlare…” “Sì” Clarke annuì “Ma non adesso. Adesso voglio solo starti vicino.” Lexa annuì e si spostò, lasciando spazio a Clarke nel letto. Clarke si sdraiò accanto a lei, appoggiando la testa sulla spalla di Lexa, facendo attenzione a non toccare nessuna delle sue ferite, e rimasero a lungo in silenzio, semplicemente felici di essere insieme.
 
*
 

“Sei sicura di farcela Lexa?” Lexa annuì, incamminandosi verso il bosco “E’ una settimana che tu e Raven mi tenete a letto, non vedevo l’ora di uscire.” Il sole era alto nel cielo e la giornata limpida e luminosa, e Clarke respirò a pieni polmoni l’aria fresca che profumava già di primavera. Seguì Lexa, e insieme camminarono fianco a fianco alla ricerca delle erbe di cui Clarke aveva bisogno. Dopo la brusca interruzione della settimana prima, Clarke aveva bisogno di nuove scorte e, quando aveva chiesto a Lexa di accompagnarla, la donna aveva accettato volentieri.
 
 


La ferita alla testa di Lexa le aveva impedito di alzarsi per qualche giorno, ma Clarke voleva essere sicura che stesse bene, che le ferite non s’infettassero e che si rimettesse completamente. Il villaggio era ancora in subbuglio per gli ultimi avvenimenti, e Lexa aveva bisogno di riposo. A Clarke non era dispiaciuto passare nuovamente del tempo con Lexa da sola, anche se entrambe avevano evitato di parlare degli eventi della notte che le aveva allontanate, come se aspettassero il momento giusto per affrontare l’argomento.
 
 


Come se le avesse letto nel pensiero, Lexa iniziò a parlare mentre camminavano una accanto all’altra nel sentiero “Clarke… quello che è successo tra noi, non deve per forza essere così, non volevo obbligarti a fare nulla…” Clarke la bloccò, stringendole la mano “Non mi hai obbligata a fare nulla Lexa. Io… io volevo baciarti.” Il solo pensiero del loro bacio la fece arrossire “Ma non ero pronta. Per tutta la vita mi è stato insegnato che provare i sentimenti che provo per te è sbagliato…” Lexa sembrò trattenere il respiro per un momento dopo la sua affermazione “E tu pensi che abbiano ragione?”
 
 


Clarke la guardò negli occhi mentre cercava di mettere in ordine tutti i pensieri che le occupavano la mente “Non riesco a credere che ci sia qualcosa di sbagliato in quello che provo per te.” Clarke spostò lo sguardo, chiudendo gli occhi per un momento “Ma non è facile per me… Tutto quello che era la mia vita sembra essere stato spazzato via. Non sono mai stata così libera come lo sono stata qui, così felice…” Clarke spostò di nuovo lo sguardo su Lexa, che le sorrise “E nonostante sia quello che ho sempre desiderato, mi fa paura. Perché sento di non essere più la persona che ero all’inizio di questo viaggio e… temo di non sapere più chi sono.”
 
 


“Posso dirti chi sei per me Clarke.” Lexa si fermò, la mano ancora stretta nella sua “Sei la donna che mi ha salvato la vita, nonostante io fossi un nemico, sei la persona che ha aiutato il mio villaggio nonostante ti avessimo rapito, e ancora hai salvato me, eliminando la minaccia più grande che io abbia mai affrontato, la donna che ha distrutto la mia famiglia… Sei curiosa, intraprendente, generosa… la persona più coraggiosa che io conosca, e la più testarda…” Clarke sorrise nonostante sentisse gli occhi diventare lucidi; le parole di Lexa le stavano riempiendo il cuore “Sei la persona che vorrei al mio fianco.”
 
 


Lexa sussurrò le ultime parole, accarezzando il volto di Clarke, e lei le sorrise; per la prima volta da quando era arrivata a Polis, Clarke si sentì veramente a casa. “Lo so che è quasi primavera, e se vorrai tornare a casa, non ti fermerò… Ma speravo che tu…” Clarke tolse Lexa dall’impaccio di finire la frase, baciandola con delicatezza “Voglio restare. Quando ti ho visto a terra durante lo scontro con Nia, l’idea di perderti… “ Clarke scosse la testa “Voglio restare con te.”
 
 


Lexa la strinse a sé, un sorriso meraviglioso in volto, e la baciò di nuovo, una mano immersa nei suoi capelli mentre con l’altra le cingeva la vita. Il bacio lasciò Clarke senza fiato, tanta era la passione che sentiva per Lexa, il desiderio che si era vietata di provare in precedenza, nascondendolo in un angolo della sua mente. Si staccò da lei, guardandola negli occhi “Forse dovremmo tornare…” L’espressione raggiante di Lexa calò per un istante “Certo, scusami io non volevo esagerare e…” Clarke le appoggiò un dito sulle labbra, zittendola “Intendevo dire che forse è meglio andare in un posto più appartato. Pensa se ci vedesse qualcuno… tipo Anya, ci prenderebbe in giro per il prossimo secolo.”
 
 


Lexa rise e si staccò da lei, prendendola per mano e incamminandosi a passo sicuro verso il villaggio “Ho come l’impressione che lo farà comunque.”
 
 
*
 
 

Sdraiata sul letto di Lexa, coperta solo da alcune pellicce, ascoltando il suono regolare del respiro della donna accanto a lei, Clarke pensò di non essersi mai sentita così felice. Prima di Lexa tutte le esperienze che aveva avuto con altre persone erano stati un paio di baci che si era scambiata con uno dei paggi del suo patrigno, anni prima, che non potevano minimante essere paragonati ai baci di Lexa.
 
 


Quando Lexa aveva iniziato a toglierle i vestiti con delicatezza i dubbi morali che l’avevano fermata la volta precedente furono sostituiti da dubbi di altro genere; e se Lexa non l’avesse trovata abbastanza bella? O capace? Clarke non aveva mai visto Lexa in compagnia di altre donne o uomini, ma doveva per forza essere più esperta di Clarke. Però, quando aveva visto lo sguardo di Lexa, aveva capito che non aveva nulla di cui preoccuparsi.
 
 


Si era resa conto in quel momento che Lexa l’aveva sempre guardata così, con quel misto di ammirazione e meraviglia negli occhi, questa volta accompagnati da un desiderio che Lexa non si premurava più di nascondere. Si era concessa di toccare Lexa a sua volta, esplorando con mani tremanti la pelle di lei, le morbide curve del suo corpo che solitamente nascondeva dietro una corazza. Più il tempo passava, più si era sentita audace nei suoi movimenti,  trovandosi a tracciare con la punta delle dita le cicatrici di Lexa ora che anche lei si era liberata dai vestiti.
 
 


Quando aveva toccato la cicatrice sulla spalla destra della donna, Lexa aveva sorriso “E’ la mia cicatrice preferita.” Clarke aveva posato un bacio al centro della ferita, per poi sorriderle “E perché mai?” Lexa l’aveva sollevata da terra e portata nel letto, lasciandola per un attimo senza fiato “Mi ci sono affezionata, è quella che ci ha messo più tempo a guarire…” Gli insulti che stavano per uscire dalle labbra di Clarke furono interrotti da quelle di Lexa, e da quel momento in poi Clarke aveva perso completamente la percezione della realtà intorno a lei.
 
 


Ripensandoci in quel momento si ricordava tutto quello che riguardava Lexa con precisione assoluta, i baci che aveva lasciato sul suo corpo, il tocco delle sue mani, il suo profumo, i suoi capelli, il momento in cui era entrata in lei, togliendole il respiro, il modo in cui l’aveva stretta tra le braccia per tutto il tempo, per farle capire che non era più sola… Del resto del mondo sembrava essersi dimenticata, tanto da non riuscire più a capire che ora fosse in quel momento.  
 
 


Lexa le sfiorò il collo con un bacio, riportandola alla realtà, e si girò per incontrare il suo sguardo assonnato. I capelli di Lexa erano in disordine, le trecce di solito curate e perfette erano state scompigliate dalle mani di Clarke, e ora ciuffi di capelli ribelli cadevano sul volto del temibile Jarl di Polis. Clarke le sorrise e le diede un leggero bacio sulle labbra mentre le sue mani tracciavano i contorni del tatuaggio che Lexa portava sul braccio destro “Hai dormito bene?” Oh, quindi era mattina.
 
 


Clarke si sistemò meglio tra le braccia di Lexa, cercando più contatto possibile con la pelle nuda di lei “Non ricordo di aver dormito molto…” Clarke fece per catturare di nuovo le labbra di Lexa con le sue, ma furono interrotte dal rumore di pugni sulla porta. Lexa non fece in tempo a parlare che la porta si aprì, e Anya entrò nella stanza senza essere invitata.
 
 


Clarke si coprì con una delle pelli, e Lexa alzò gli occhi al cielo “Anya… nessuno ti ha insegnato che è sgarbato entrare senza permesso…” L’espressione cupa di Anya la fece fermare a metà della frase “Lexa… Abbiamo un problema.”
 
*
 

Lexa osservò l’uomo davanti a lei con un misto di rabbia e timore. Temeva che quel giorno sarebbe arrivato, ma aveva abbandonato il pensiero in un angolo della sua mente, fingendo che il problema non esistesse, che nulla avrebbe potuto disturbare la fragile serenità che aveva tanto faticato a costruirsi.
 
 


L’uomo, i folti capelli lunghi ancora sporchi dal viaggio, la veste che lasciava intendere nobili natali, le parlò con espressione dura “Sono venuto qui dal Wessex, e porto un messaggio da Re Wallace.” Lexa annuì, cercando di non far trasparire i suoi sentimenti dal tono della voce “Siete il benvenuto nella mia casa. Prego, riferitemi il messaggio del vostro sovrano.”
 
 


L’uomo si schiarì la voce, guardandola con diffidenza “Il mio sovrano vi ha concesso dei territori nella nostra regione come offerta di pace…”
 
 


“E’ stato costretto a offrirceli, stavamo per decimare il suo esercito.” Anya interruppe il messaggero con espressione infastidita, ma Lexa alzò una mano nella sua direzione “Lascialo parlare Anya.” L’uomo riprese, guardando Lexa negli occhi “Il mio sovrano ha accettato in buona fede i vostri accordi, pensando di poter finalmente porre fine alle controversie che da anni ci sono tra i nostri due popoli. Ma solo alcuni giorni dopo la vostra trattativa di pace, siamo venuti a sapere che voi e i vostri uomini avete attaccato uno dei nostri villaggi, e rapito una delle nobili figlie della corte del Re.”
 
 


Lo stomaco di Lexa si chiuse al pensiero di Clarke, ma cercò di restare impassibile “L’inverno ci ha impedito di raggiungervi prima, ma ora il mio sovrano v’impone la restituzione della ragazza in piena salute, oppure il vostro popolo non sarà più il benvenuto nelle nostre coste, e saremo costretti a dichiararvi guerra.”
 
 


Lexa annuì, cercando di ignorare il peso che sentì caderle addosso a quelle parole “Per prima cosa volevo dirvi che mi dispiace sinceramente per ciò che è successo con Cl… la ragazza.” L’espressione dell’uomo si aprì leggermente nel sentire l’errore di Lexa “Ero stata gravemente ferita nell’ultima battaglia, e mi serviva un guaritore. La vostra nobile era la mia ultima possibilità di sopravvivere, e mantenere in vita la fragile pace che avevamo appena stretto. Il vostro sovrano sa bene che sono una dei pochi capi vichinghi incline alle trattative.”
 


 
L’uomo annuì “Proprio per questo il mio re mi ha mandato per cercare di risolvere la cosa in modo pacifico prima di ricorrere alle maniere forti. Sembra che voi conosciate bene Clarke dunque…” Lexa prese un respiro profondo “E’ rimasta ospite del mio villaggio per questi mesi. Avevamo intenzione di riportarla a casa non appena l’inverno fosse finito.” La voce di Lexa tremò leggermente nel finire la frase, le parole che si erano dette il giorno prima ancora vive nella sua mente.
 
 


L’uomo sembrò rilassarsi visibilmente a quell’affermazione “Vorrei vederla…” Lexa annuì, facendo un cenno con il capo ad Anya, che tornò verso le sue stanze, per prendere Clarke, lanciandole uno sguardo dubbioso. Lexa pensò a come l’aveva lasciata, ancora nuda nel suo letto, il sorriso luminoso che le aveva rivolto al suo risveglio, a come Lexa si era sentita nell’averla accanto, nell’addormentarsi e svegliarsi tra le sue braccia.
 
 


Lexa scosse la testa, cercando di allontanare quei pensieri; non poteva permettersi distrazioni in una situazione così delicata. “Eravamo tutti molto preoccupati.” La voce dell’uomo la riportò al presente “La madre di Clarke era distrutta al pensiero della figlia persa tra…” L’uomo non finì la frase, ma Lexa capì cosa intendeva: persa tra un mucchio di barbari incivili. “Io credo invece che voi siate un capo molto capace” continuò l’uomo, cogliendola di sorpresa “Sono rimasto molto colpito dal discorso che avete rivolto al mio re durante i trattati di pace, della vostra conoscenza della nostra lingua e cultura. Ero certo che ci fosse qualcosa dietro al rapimento di Clarke, sono felice di non essere stato smentito.”
 
 


Lexa fece per rispondere, ma fu interrotta dall’arrivo di Clarke, che spalancò gli occhi nel vedere il loro ospite “Marcus!” L’uomo le rispose con un sorriso pieno di sollievo e Clarke si gettò letteralmente tra le sue braccia. Lexa sentì un moto di gelosia nel vedere il modo in cui gli occhi di Clarke brillavano mentre abbracciava il messaggero di re Wallace, nel modo in cui lui la stringeva a sé; che ci fossero cose su cui Clarke le aveva mentito?
 
 


Ma Clarke si girò a guardarla, il sorriso ancora vivo in volto “Lexa, questo è il duca Marcus Kane, il mio patrigno.” L’uomo spalancò gli occhi dallo stupore nel sentire Clarke parlare la loro lingua, e Lexa annuì, sollevata dalla rivelazione, ora tutto aveva più senso. “E’ un piacere conoscervi duca Kane. Come potete vedere, Clarke è in perfetta salute.” Marcus annuì e strinse il braccio di Clarke “Sono davvero contento di vederti Clarke… Tua madre sarà così felice di sapere che stai bene, era distrutta all’idea di quello che poteva esserti successo.”
 
 


“Lei sta bene?” L’uomo annuì, per poi guardare Clarke più attentamente, i vestiti e i capelli portati come volevano i loro costumi “Vedo che hai rinunciato alla tonaca…” Clarke arrossì leggermente “Non ne avevano di ricambio qui, stranamente. Era più comodo svolgere il mio lavoro vestita così.”
 
 


“Lavoro?” Lo sguardo di Marcus passò da Clarke a Lexa, e Lexa annuì “Clarke è stata essenziale per noi quest’inverno. Ha salvato molti dei miei uomini diventando la nostra guaritrice.” Clarke le sorrise, e Lexa cercò di non pensare a ciò che sarebbe successo da lì a poco.
 
 


“Ottimo Clarke, hai sempre desiderato imparare le arti mediche, vero? Sono sicuro che potrai continuare a farlo anche a casa.” Il sorriso di Clarke si spense all’istante, come se non avesse compreso a pieno fino a quel momento le implicazioni che la presenza del patrigno comportavano. “A casa?”
 
 


“Certo, ora che il mare è di nuovo percorribile non c’è motivo per te di rimanere qui. Tua madre ti aspetta.” Clarke abbassò lo sguardo per un attimo, per poi rivolgerlo a Lexa con espressione confusa. Lexa cercò di parlare, ma nessun suono uscì dalle sue labbra.
 
 


“Ma io sono felice qui.” La frase di Clarke ruppe il silenzio, e l’espressione di Marcus si fece più confusa che mai “Felice? Clarke… questo non è il tuo posto. Devi tornare in convento, o a casa con me e tua madre se hai avuto dei ripensamenti riguardo alla tua vocazione.” Aveva detto l’ultima frase in modo conciliatorio, come se pensasse fosse quella la ragione dell’esitazione di Clarke.
 
 


“No Marcus io… io voglio restare qui.” Marcus spostò lo sguardo su Lexa con espressione irata “Che cosa le avete fatto?” Ma prima che Lexa potesse parlare Clarke rispose per lei “Lei non ha fatto niente. Sono io che voglio restare qui. Ho degli amici, dei pazienti che contano su di me… Ho… qualcosa d’importante qui.”
 
 


Il respiro di Lexa si bloccò a quell’affermazione, sapeva che Clarke si stava riferendo a lei; come se non bastasse, la ragazza spostò il suo sguardo dal patrigno a lei, pregandola con intensità disarmante di prendere le sue parti, di dire qualcosa in suo favore. Ma Lexa rimase come bloccata, incapace di pronunciarsi al pensiero della fragile pace che era diventata la posta in gioco di quell’incontro. Una parte di lei avrebbe voluto chiamare i suoi uomini e ordinare loro di portare Marcus e tutti gli inglesi dritti alla loro barca, rispedendoli a casa senza Clarke, intimandogli di non venire mai più sulle loro sponde ad ordinare ad uno Jarl cosa fare.
 
 


Presa dai suoi pensieri, non si era accorta che Marcus aveva ripreso a parlare “Anche se volessi Clarke, non potrei lasciarti qui, non dipende da me. Il Re in persona ha ordinato il tuo ritorno nel Wessex… Il principe Cage mi ha persino chiesto di prenderti in moglie Clarke. Non devi accettare, sai che non ti forzerei mai, ma pensa, potresti diventare regina.” Il viso di Marcus si era illuminato all’idea, mentre il volto di Clarke si era fatto pallido come se la sola prospettiva di quello che il patrigno le aveva detto l’avesse uccisa sul colpo. Lexa strinse le mani sui poggioli del suo trono, tanto da farsi male, al pensiero di Clarke data in sposa a un altro, ma ancora rimase in silenzio, incapace di prendere una posizione.
 
 


Fu Anya a farlo per lei allora, in modo sorprendentemente diplomatico “Duca, vi ringraziamo per essere venuto fino a qui per parlarci, ma comprenderete che le vostre notizie necessitano di essere ponderate, potreste lasciarci qualche minuto per discuterne?” L’uomo annuì, prendendo la mano di Clarke “Forza Clarke, nel frattempo potrai raccontarmi dei mesi passati qui…”
 
 


“Credo che Clarke dovrebbe rimanere, infondo è della sua vita che stiamo parlando.” La voce di Anya si fece più dura, come a indicare che non avrebbe accettato un no come risposta. Marcus guardò Clarke come per chiedere conferma e lei annuì. Lui e i suoi uomini lasciarono la stanza in silenzio, uscendo nel sole primaverile, e Lexa si ritrovò sola con Anya e Clarke, che ora la guardava con sguardo di fuoco.
 
*
 

Clarke si era sentita morire all’idea di sposare il principe Cage e aveva guardato Lexa nuovamente, sperando in una sua reazione. Lexa invece fissava il nulla, il volto spento e distante, e Clarke si era sentita tradita; quello che era successo tra loro valeva forse nulla per lei? Clarke le aveva dato tutta se stessa, e così veniva ricambiata, con quella fredda indifferenza?
 
 


Non appena il patrigno uscì dalla stanza, Clarke non riuscì più a trattenersi “Come hai potuto Lexa? Stare lì senza far niente... una parola, bastava una parola.” Un no dello Jarl avrebbe fatto correre il patrigno alla nave senza guardarsi indietro, Clarke ne era sicura.
 
 


Lexa alzò lo sguardo su di lei, e Clarke riuscì finalmente a leggerci la sofferenza che era riuscita a nascondere fino a quel momento. “Non capisci Clarke?” Era stata Anya a parlare, lo sguardo triste, il suo solito tono canzonatorio svanito “Non è una richiesta quella che ci hanno inviato, è un ordine. Re Wallace ha promesso di scendere in guerra se non ti rimandiamo indietro.”
 
 


Clarke si bloccò, capendo finalmente il perché dell’esitazione di Lexa “Ma perché… io non valgo tanto, sono solo una suora.” Anya scosse la testa “Re Wallace non vuole apparire debole agli occhi dei suoi sudditi e degli altri Re… E’ solo una questione di principio.” Clarke chiuse gli occhi mentre il mondo intorno a lei sembrava collassarle addosso; non aveva via di scampo.
 
 


“Anya” Lexa aveva finalmente parlato “Lasciaci sole per favore.” Anya uscì dalla stanza guardandole entrambe, affranta, e Lexa si alzò dal suo trono, camminando verso di lei. Per la prima volta da quando il suo patrigno era arrivato, la guardò direttamente negli occhi, uno sguardo pieno di dolore che Clarke non le aveva mai visto in volto. Le sfiorò il viso con la mano, avvicinandosi a lei finché le loro fronti non si sfiorarono “Sai che se dipendesse solo da me, avrei già rispedito il tuo patrigno a casa.” Gli occhi verdi di Lexa la guardarono così intensamente da penetrarle l’anima “Maledizione, gli avrei tagliato la gola per aver solo proposto di farti sposare un altro.”
 
 


Clarke rabbrividì al pensiero, scossa dalla luce feroce nello sguardo di Lexa “Ma sai bene che io non decido solo per me. La mia gente conta su di me… io non…” Clarke la bloccò, scuotendo la testa “Lo so Lexa… lo so.”
 
 


“Io ti amo Clarke.” La voce di Lexa risuonò  spezzata nell’aria come l’animo di Clarke nel sentire quelle parole; il pensiero di tutto quello che avrebbero potuto essere le rendeva impossibile respirare. “Penso di averti amata dal momento in cui sei comparsa al mio fianco come un’apparizione, e ogni giorno che abbiamo passato insieme dal quel momento non è stato che una conferma… Ma devo lasciarti andare.”
 
 


Una lacrima solitaria scese a bagnare la guancia di Lexa e Clarke la raccolse con la punta delle dita. In quel momento mille emozioni attraversarono l’animo di Clarke, il desiderio di urlare, di colpire Lexa per quello che le stava facendo, nonostante sapesse che non era colpa sua, di baciarla e stringerla a sé, pregarla di non lasciarla andare. Alla fine chiuse gli occhi, respirando profondamente, cercando di bloccare il tremito nella sua voce  “Capisco Lexa… va bene.”
 
 


Sentì le mani di Lexa stringersi sulle sue braccia, mentre il suo sguardo si faceva più cupo, come se quella non fosse la risposta che si era aspettata “Come puoi essere così calma? Clarke… dimmi che vuoi restare, dimmi di tenerti qui… ti prego.” Tutta la sicurezza che aveva visto in Lexa crollò in quel momento, e Clarke capì che le sarebbe bastata una sua parola per rinunciare ai suoi intenti e tenerla lì, proteggerla da chiunque avesse voluto riportarla in Inghilterra, fossero essi duchi, re o Dio stesso.
 
 


“Non te lo chiederò Lexa… Perché ti amo anch’io. E non posso farti questo.” Gli occhi di Lexa si spalancarono per un attimo, pieni di stupore e quella che avrebbe potuto essere gioia, e Clarke sentì le lacrime caderle dagli occhi, e si staccò da Lexa prima di perdere gli ultimi residui di forza che le erano rimasti. “Devo andare a preparare le mie cose… Lascerò le mie erbe a Raven, potrà sostituirmi lei finché non troverete un altro guaritore.”
 
 


“Aspetta… ho qualcosa per te.” Lexa cercò di sorriderle e sparì per un attimo, diretta nella sua stanza, per tornare subito dopo, portando con sé una piccola scatola di legno, depositandola nelle mani di Clarke “Volevo dartela a Yule… Perché mi hai detto che è tra le vostre tradizioni farvi dei regali. Dopo quello che è successo ho aspettato un momento migliore e ora…” Ora non ci sarà più nessun momento, pensò Clarke con disperazione crescente.
 
 


Aprì la scatola con mani tremati, osservandone il contenuto con muta meraviglia; c’erano sei piccole boccette di vetro, piene fino all’orlo di polveri colorate. “Quando mi hai detto del regalo di tuo padre, ho pensato che ti sarebbe piaciuto…” Clarke, che ora stava piangendo apertamente, non sentì il resto, troppo impegnata a stringere Lexa con tutte le forze che aveva. Ci volle tutto il suo coraggio e tutto l’amore che sentiva per la donna davanti a lei per non dire le parole che Lexa le aveva chiesto poco prima, per non implorarla di farla restare.
 
 


Rimasero abbracciate a lungo, senza che nessuna delle due riuscisse a trovare la forza necessaria per separarsi definitivamente.
 
*
 

“Mi mancherai, Clarke.” Raven l’abbracciò con forza, e Clarke ricambiò l’abbraccio; tra tutte le persone che aveva conosciuto nel villaggio, Raven era quella che più di tutti le era stata vicina, fino a diventare la migliore amica che Clarke avesse mai avuto. La ragazza si staccò da lei e le passò una delle piccole statuette che Clarke l’aveva vista scolpire; era un cervo, uno dei lavori migliori di Raven che Clarke avesse visto “Così non ti dimenticherai di me…” Clarke la ringraziò con un sorriso “Mi mancherai tanto anche tu Raven. Grazie di tutto.”
 
 


Abbracciò Lincoln, che la strinse in una morsa feroce “Ovunque tu sarai Clarke, ricordati che ti devo più della mia vita. Parleremo al piccolo Bellamy di te…” Octavia annuì, mentre le stringeva il braccio, in un saluto meno espansivo di quello del marito, ma non per questo meno significativo per lei “Grazie Clarke. Noi tutti ti dobbiamo la vita del nostro Jarl, le nostre vite. Questo villaggio sarà sempre una casa per te.”
 
 


Clarke sentì gli occhi cominciare a pizzicarle nuovamente, e cercò di resistere, sapendo bene che se avesse cominciato di nuovo a piangere non sarebbe più riuscita a fermarsi. Gustus e Indra la salutarono con una stretta di mano, ringraziandola nuovamente per aver salvato la vita di Lexa, e Clarke si limitò a sorridere, incapace di parlare ancora.
 
 


Il molo era assiepato di persone, tutti gli abitanti del villaggio sembravano aver sospeso le loro attività giornaliere per venire a salutarla, ma tra quelle Clarke non era ancora a vedere Lexa. Quando vide Anya camminare verso di lei alla fine dei saluti, Clarke pensò che avesse più che senso che lei fosse l’ultima: con lei aveva iniziato quella storia, e con lei doveva finirla.
 
 


“Bene suora, è venuto finalmente il momento di salutarci.” Non c’era alcuna traccia di astio nel vecchio soprannome che Anya non usava da tempo, solo un sorriso triste che le passò brevemente tra le labbra. Clarke alzò il braccio per una stretta di mano, ma Anya, cogliendola di sorpresa, l’abbracciò con trasporto “Grazie Clarke, so quanto debba essere dura per te… Le hai salvato la vita due volte, ma questa volta sei riuscita a salvarle l’anima.” Anya si staccò da lei, stringendole la spalla “Mai avrei pensato che l’avrei detto in vita mia, ma sono onorata di poterti considerare mia amica. Addio, e cerca di essere felice.”
 


 
“Addio Anya. Prenditi cura di lei.” Clarke fece un passo indietro, e s’incamminò verso l’imbarcazione, dove il suo patrigno la stava aspettando. Cercò con tutte le forze di non fermarsi, di non guardarsi indietro mentre le lacrime che era riuscita a trattenere fino a quel momento sgorgavano dai suoi occhi, offuscandole la vista. Cedette solo alla fine, un piede ormai nella nave, girandosi verso il villaggio; fu allora che la vide. Distante rispetto al resto della folla, Lexa la guardava da lontano, un muto addio nello sguardo che bruciò nel cuore di Clarke più di qualsiasi altra parola.
 
 


“Clarke, è incredibile… sono tutti venuti qui per te?” Il suo patrigno la guardava incredulo, mentre il suo sguardo passava da lei alla folla davanti a loro. Clarke annuì,  sentendo un moto di fierezza nell’animo “Ho aiutato molti di loro quest’inverno. Non sono come tutti gli altri dicevano… sono un popolo incredibile e… ed io mi sentivo davvero a casa con loro.” Clarke cercò di mantenere un tono di voce adeguato, ma era impossibile.
 
 


Marcus la osservò a lungo, come ponderando chissà quale pensiero “Mi piange il cuore nel vederti triste Clarke. Lo sai che ti amo come una figlia.” Clarke annuì, l’uomo era sempre stato gentile e amorevole nei suoi confronti, sin da quando sua madre si era risposata “So che non è colpa tua. Ma non sposerò mai Cage Wallace…” Clarke scosse la testa “Non appena torneremo in Inghilterra, rientrerò in convento. E’ quello il mio posto adesso.” Clarke pronunciò le ultime parole con freddezza, senza che corrispondessero minimamente alla verità. Il suo posto era il villaggio davanti a lei che stava per abbandonare, accanto alla donna che amava, a cui stava rinunciando per sempre.
 


 
Il patrigno annuì, poi qualcosa cambiò nel suo sguardo, come se un pensiero gli avesse improvvisamente attraversato la mente “Clarke… questa gente si fida di te, non è vero?” Clarke lo guardò confusa, ma annuì “E il loro Jarl… mi sembra che tenga in alta considerazione la tua opinione.” Clarke annuì di nuovo, senza capire dove il discorso del patrigno potesse andare a parare.
 
 


“Mi domando se forse… se forse non potresti essere più utile al re restando qui.” Non appena il patrigno pronunciò quelle parole, la speranza sgorgò dal cuore di Clarke prima che riuscisse a fermarla “Che cosa vuoi dire?”
 
 


Il patrigno la guardò con un sorriso “E’ chiaro che c’è qualcosa, o qualcuno che ti tiene legata a questo posto… Il re mi ha ordinato di riportarti indietro, ma forse possiamo trovare un modo di evitarlo, per il momento.” Clarke gli strinse il braccio con forza “Sono disposta a qualsiasi cosa.”
 
 


L’uomo annuì “Potrei tornare a corte senza di te, ma con una lettera da parte dello Jarl che attesta che tu hai ottenuto una posizione nel suo palazzo come ambasciatore del nostro regno. Pensa a quanto potresti fare per entrambi i popoli durante la transizione della loro gente nei nostri territori… Sai la loro lingua, conosci i loro costumi… tutto questo è troppo prezioso per lasciarcelo sfuggire. Sono sicuro che il re lo capirà.”
 
 


“E se non dovesse farlo? Se ti uccidesse per avergli disobbedito Marcus?” Il pensiero del pericolo che correvano il patrigno e la madre le impedì di realizzare appieno quello che stava succedendo, ma l’uomo scosse la testa “Wallace non è così stupido da mettersi contro chi comanda metà del suo esercito. Ha bisogno del mio aiuto per le sue guerre in Inghilterra… Clarke non preoccuparti per me. Tu voi davvero restare a Polis?”
 
 


“Con tutto il cuore.” L’uomo le sorrise, e Clarke si sentì così felice che non riusciva a credere che quel momento fosse reale “Allora vai a chiedere allo Jarl se è disposta a scrivere una lettera per me.”
 
 


Clarke non se lo fece ripetere due volte. Saltò fuori dalla nave e corse a perdifiato verso Lexa che, incredula, si avvicinava a lei con sguardo confuso. Clarke sorrise e si lanciò tra le sue braccia, senza preoccuparsi di tutte le persone che le stavano guardando, delle domande che Lexa le sussurrava all’orecchio mentre la stringeva a sé. Sarebbe andato tutto bene.
 
*
 

Clarke osservò con un sorriso mentre gli uomini caricavano le ultime casse sulle navi, pensando che mai in vita sua aveva visto una flotta così grande. C’erano voluti mesi per prepararsi a quel giorno, ma finalmente erano pronti a salpare.
 


 
Sentì i passi di Lexa avvicinarsi e quando la donna la strinse a sé appoggiò istintivamente la testa sulla sua spalla “Siamo quasi pronti a partire. Anya ci ha messo più del solito nel decidere quale ascia da guerra porterà con sé questa volta.” Clarke la guardò con un sorriso “E perché mai dovrebbe servirle?” Lexa alzò le spalle “Sai com’è Anya… Le piace bruciare cose, disturbare la quiete, attaccare conventi e rapire belle suore bionde…”
 
 


Lexa aveva parlato seriamente, ma l’angolo delle sue labbra si alzò in un sorriso e Clarke scosse la testa “Sì, credo di aver presente. Ma sono sicura che Raven riuscirà a tenerla a bada.” Lexa rise “E chi terrà a bada me?”
 
 


“In quanto tuo dottore personale e ambasciatrice, ho il dovere di preoccuparmi della tua salute mentale e fisica…” Lexa sorrise “Puoi occuparti della mia salute fisica quando vuoi…” Clarke arrossì e si staccò da lei, fissando l’alba che sorgeva luminosa su quel nuovo giorno “Pensavo dovessimo partire…” Lexa scosse la testa “Sono lo Jarl, decido io quando partire…”
 
 


Raven spuntò in quel momento da una delle barche, urlando nella sua direzione “Forza Lexa, o perderemo la marea! Tu e Clarke potete fare le innamorate anche sulla nave.”
 


 
“Come non detto…” Lexa sospirò e prese la mano di Clarke “Sei pronta a tornare a casa?” Clarke la strinse a sua volta, guardando Lexa negli occhi “Sono già a casa.”
 
 


S’incamminarono insieme verso la nave, e Clarke sentì dentro di sé un senso di pace che non aveva mai provato nella sua vita. Certo, davanti a lei il futuro era sempre incerto, il destino dell’impresa di Lexa sospeso a un filo in balia di forze misteriose, ma lei non riusciva a preoccuparsene, non in quel momento. Mentre la flotta vichinga salpava verso l’Inghilterra, Clarke tenne lo  sguardo puntato all’orizzonte, il cuore pieno di speranza, pensando a tutto ciò che era stata, a tutto ciò che l’aveva portata lì, e a tutto quello che sarebbe stata da quel momento. Lasciò che il vento le scompigliasse i capelli, che il profumo del mare la circondasse completamente mentre una preghiera le attraversava spontaneamente i pensieri. Clarke sorrise, alcune abitudini erano dure a morire, ma a lei andava bene anche così. Aveva trovato un suo equilibrio, era riuscita a cambiare la sua vita e in quel momento nulla avrebbe potuto spaventarla.
 
 


Qualsiasi cosa le stesse aspettando nel Wessex, lei e Lexa l’avrebbero affrontato insieme.  







Note: Ciao a tutti! Eccoci alla fine di questa piccola avventura che mi ha tenuta occupata per tutto Aprile! Ci tenevo a dire che questa storia che all'inizio doveva essere solo una one-shot è diventata molto importante per me, e mi sono affezionata molto a tutti i personaggi che ho scritto, per questo sto valutando, come qualcuno di voi mi ha scritto nelle recensioni, di continuare a scrivere in questo AU, magari con una raccolta di one-shot ambientate durante la storia... ma per ora questa è la fine! So che può sembrare un pochino semplicistica, soprattutto la risoluzione finale, ma con il tempo a disposizione ho fatto del mio meglio (l'ultima parte l'ho scritta in aereo, lol) e soprattutto ho un debole per gli happy endings. Spero comunque che la conclusione vi sia piaciuta, fatemi sapere cosa ne pensate e cosa ve ne pare ora della storia conclusa, mi farebbe molto piacere sentire la vostra opinione! Come al solito grazie a tutti quelli che hanno letto e commentato i miei capitoli, grazie al gruppo su facebook che mi ha dato l'idea per la storia e un grazie speciale al mio amore che ha letto con pazienza infinita tutti i miei deliri. Un abbraccio a tutti e, come sempre, alla prossima!
 

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